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La disciplina
Dal punto di vista della descrizione del settore disciplinare, si considera letteratura
italiana contemporanea quella che si occupa della produzione letteraria italiana dalla
Rivoluzione Francese in avanti. Parlare di modernità e di contemporaneità evoca
sempre una cesura (benché si tratti per lo più di fenomeni manualisticamente comodi,
ma difficilmente si tratta di cesure totali).
Strumenti1
• Sbn, Apcn (per l’individuazione bibliografica)
• Italinemo (per la ricerca bibliografica recente)
• AlmaRE (per la consultazione online)
• Bibliografie dei Meridiani2 (generalmente esaustive e raffinate per ampiezza e
accuratezza)
Il corso
Pasolini fu una figura centrale da tutti i punti di vista: letterario, culturale, mediatico, una
cosa a metà tra un intellettuale e una rock star. Tuttavia, il centenario dalla sua nascita,
se da una parte è stato occasione per approfondire le ricerche sulla sua figura, ha
anche provocato una cannibalizzazione degli spazi, dei luoghi, delle risorse,
marginalizzando altre figure altrettanto importanti, benché fossero già di per sé
personaggi forse meno di spicco: sei di questi, che quest’anno sono altrettanto segnati
dal centenario o dal centodecimo anniversario dalla nascita, saranno i protagonisti del
corso (anche se non sono tutti allo stesso livello di notorietà o di oblio), raggruppati in due
macrosezioni, giocando su una contrapposizione che, pur essendo didatticamente utile,
va tenuta a mente solo come abbozzo di uno schema.
ATTENZIONE: la lettura di più recensioni vicine alla data di pubblicazione di un testo ci dà una
buona visuale di quella che poteva essere l’istantanea del contraccolpo che quest’opera suscitò
a suo tempo
1. Realismo e sperimentalismo
La prima opposizione vede protagonisti due gruppi:
Manieristi, sperimentalismo3 Realismo, neorealismo, sperimentalismo
- Manganelli legato al neorealismo4
- Morselli - Fenoglio
- Ceresa - Morante
- Meneghello
A partire da questi due gruppi ci si muoverà poi in molte differenti direzioni, tenendo
conto di due diverse prospettive, quella di lungo termine (ricordiamo l’inizio della
letteratura contemporanea trecento anni fa) e quella di breve termine.
2. Lingua e dialetto
Si potrebbe dare però anche un’altra suddivisione, tra lingua e dialetto, che è
intrinsecamente legata alla nostra storia italiana.
Moltissimi autori della nostra storia letteraria hanno scritto in una lingua che non era la
loro; per secoli la nostra è stata una letteratura quantomeno bilingue (latino e volgare).
La lingua italiana è esistita mentre la l’Italia non esisteva ancora; Gianfranco Contini ha
asserito che la letteratura italiana per secoli ha parlato una lingua fantasma che si è
concretizzata realmente solo con de Sanctis; al contrario, il dialetto è sottinteso alla
lingua stessa (pensate al processo di pulitura dei Promessi Sposi).
Gli autori con cui ci confronteremo da una parte manifestano tutti una ricerca relativa
alla lingua, che è centrale, ma ciascuno lo fa secondo le sue necessità e aspirazioni, o la
sua cultura, e che non riescono del tutto a svincolarsi dalle questioni concrete (cioè
creare un prodotto avulso dalla realtà).
3. Storia e non-storia
Un’altra doppia bipartizione potrebbe essere storia e non storia/menzogna/invenzione:
se la questione della storia rimanda apparentemente al realismo, quella della invenzione
ci rimanda di più all’affabulazione (la libertà affabulatoria del racconto si tiene in piedi
con la sua stessa forza e scavalca tutti gli steccati tra vero e non vero, non è legata a
queste categorie).
Le questioni che analizzeremo a partire da questi testi vanno molto al di là delle singole
etichette che cerchiamo di dare!
Tempi e luoghi
I tempi
Se tentiamo di definire una cronologia, osservando le pubblicazioni saremmo tentati di
circoscriverla tra ’63 e ’79, ma è illusoria, perché molti di questi testi fanno i conti
soprattutto con la stagione della Seconda Guerra Mondiale, e con essa si rapportano
molte opere (tre in modo esplicito).
I luoghi
• GEOGRAFIA E STORIA DELLA LINGUA ITALIANA , D IONISOTTI (1967)
Raccolta di saggi in cui forse per la prima volta con un metodo molto lucido e molto
chiari si iniziano a mostrare i rapporti tra luoghi e produzioni letterarie:
- la forza produttiva di certi luoghi è diversa rispetto ad altri, pensiamo a quelle città
che catalizzano l’editoria
- l’Italia che ha voluto credere di avere una tradizione legata alla lingua (e non
legata all’unità politica) ha differenze locali estremamente marcate che non si
cancellano con la creazione di uno Stato nazionale. Quella realtà federale che
qualcuno nel XIX secolo aveva immaginato, era qualcosa che pensava un’unità
articolata nella differenza. La differenza locale è molto più marcata che in altri
paesi d’Europa, anche forse perché hanno avuto più tempo per omogeneizzare
la propria tradizione. Parlare di letteratura italiana non vuol dire nascondersi dietro
un’etichetta, ma cercare di ragionare sulle tensioni, sulle relazioni tra i luoghi, tra
generale e particolare
Es. Pasolini: nasce a Bologna, molto della sua vita è influenzata dalla sua esperienza
friulana, a cui segue una lunga e importante esperienza romana.
Roma è sicuramente uno dei poli di attrazione più potenti della nostra società,
soprattutto nel Novecento (non è un’ovvietà, in altri periodi sono stati più attraenti altre
città: Napoli, Milano, Firenze); Pasolini non cerca solo la società culturale, che in realtà si
trovava più a Milano, ma cerca a Roma un mondo più genuino, più indenne dai disastri
della modernità, in virtù della sua periferia, cresciuta così rapidamente e miseramente.
Per questo si recherà anche in parti del mondo che le rassomigliano (India).
2. Guido Morselli
Uno dei due outsider del centenario, nasce nel 1912, ma del suo centenario non si sono
accorti in molti. Anche lui nasce a Bologna, e come Pasolini è più legato a degli altrove;
avrà sostanzialmente una vita da isolato di lusso, e allo stesso tempo sofferente.
Uomo misantropo, tormentato e (s)favorito dal benestare del padre, che gli concesse un
vitalizio tale da permettergli di dedicarsi alla letteratura. Per queste ragioni visse molto a
Nord, nei dintorni di Varese (Gavirate), in una zona non troppo distante dalla Svizzera. Il
suo percorso è per molti versi opposto a quello di tanti altri che si muovono verso il centro
sud: Morselli si allontana, tende a isolarsi, finisce la sua vita in un luogo molto solitario. Il
misantropo è, non a caso, uno dei personaggi della sua letteratura.
Alla fine della sua vita si suicida, il 31 luglio 1973 i suoi libri sono quasi tutti pubblicati
postumi da Adelphi, e si riscopre questo autore che precedentemente tutti gli editori
avevano rifiutato.
3. Giorgio Manganelli
Nasce nel 1922 a Milano, ma, sebbene molto attento ai problemi della cultura lombarda
(parliamo di quella Lombardia che per tanto tempo è stata il faro dell’Illuminismo,
dell’imprenditoria, culla di Carlo Cattaneo, il cui credo traeva forza dal progresso e dalla
crescita economica), diventa sostanzialmente autore romano5, e in questo segue le
tracce molto da vicino del più significativo scrittore lombardo della prima metà del
Novecento, cioè Carlo Emilio Gadda, milanese romanizzato come lui. La loro vicinanza è
talmente forte nei percorsi e negli esiti stilistici che Gadda a un certo punto pensa
addirittura che Manganelli gli stia facendo la parodia con Hilarotragoedia, tanto sono
simili le loro scritture.
Questa questione che ho affacciato parlando di Gadda è utile perché vorrei cercare,
con il discorso dei territori (che non sono paesaggi ma ambienti culturali), di abituarvi a
concepire la letteratura come un reticolo, per capire dove vanno e da dove vengono le
cose di cui parliamo. Muore a Roma nel 1990.
4. Alice Ceresa
Nasce a Basilea nel 1923, in Svizzera, e vive per un po’ a Bellinzona, poi a Zurigo, dove
conosce una serie di intellettuali italiani sfollati ed esuli, come Silone, che la invita a
lavorare con lui alla rivista Tempo presente a Roma. Alice si sposta verso la capitale,
dove vivrà, senza essere però attirata, ad esempio, dal cinema o dal panorama
letterario. Vive di giornalismo e letteratura, seppur in modo un po’ isolato. Muore a Roma
nel 2001.
5Le ragioni di Manganelli, di Pasolini e di Gadda sono tra loro diverse, ma i movimenti ci sono, e
vale la pena tenerne conto.
5. Giuseppe Fenoglio
Nasce nelle Langhe nel 1922, e non percorre un itinerario particolare (a causa della
brevissima durata della sua vita): anche lo scarso o nullo movimento di un autore ha un
valore all’interno del campo letterario. Partigiano, viticoltore, si ritaglia spazi per scrivere.
Il suo scarso movimento, dicevamo, ha un’immediata ripercussione sulla sua opera, che
è estremamente legata ai luoghi e ai tempi da lui esperiti (la vita dura della realtà rurale,
collinare, agricola, e la ancor più dura vita partigiana): questo è il mondo che racconta,
anche se con uno sguardo lungimirante.
Fenoglio guarda con passione, ammirazione e dedizione alla cultura inglese; guarda
verso un mondo remoto rispetto al suo. Il fascismo, quella realtà oppressiva, asfissiante
con cui Fenoglio e molti altri hanno avuto a che fare, poteva essere superato guardando
alla letteratura inglese. Fenoglio guarda meno di altri all’America, concentrandosi
sull’Inghilterra; più che guardarla, la ascolta: a Fenoglio interessa molto la lingua; e quella
bipolarità tra lingua colta e dialetto italiani si complica estremamente e ulteriormente
per il contatto con il mondo anglofono.
6. Luigi Meneghello
Fa quasi la stessa cosa di Fenoglio, ma si reca di persona in Inghilterra. Innanzitutto,
grazie alla sua lunga vita (1922-2006) e ad altre occasioni: dopo l’esperienza di studi tra
Vicenza e Padova e quella da partigiano, accetta una borsa di studi al di là della
Manica, che si evolve fino a diventare una scelta di vita, e vi rimane dal 1947/48 fino alla
fine della sua vita; un personaggio di una realtà provinciale, ma che invece di rimanerci,
dispatria (come il titolo di una sua opera): anche nel suo caso però la dialettica tra
lingua e dialetto si arricchisce dal contatto con l’inglese, benché, differentemente da
Fenoglio, questo contatto sia di natura più orale che letteraria.
Il 23 settembre 1948 Meneghello sposa, con rito civile a Milano, Katia Bleier, un'ebrea
jugoslava di lingua ungherese, internata con la famiglia nel campo di sterminio di
Auschwitz nella primavera del 1944. Katia fu l'unica liberata dagli inglesi nell'aprile 1945 e
quando, nel 1947, viene a sapere che la sorella maggiore Olga si era salvata e
sopravviveva a Malo, da clandestina entra in Italia.
Manierismo e realismo
• Manierismo
Il termine manierismo è sicuramente legato al mondo dell’arte, è un termine che
richiama una pratica in base alla quale un artista, dopo aver appreso la maniera di un
grande predecessore, si apprestava a riprodurla, ma complicandola, sporcandola,
traendo conseguenze inattese: dalla perfezione lo straniamento, dall’eleganza il
virtuosismo nevrotico. Gli artisti recuperano la presunta classicità e vi iniettano dosi
massicce di imperfezione e deformazione; una pratica che certamente richiede una
grande abilità tecnica, ma non rappacificata dal punto di vista formale. Per questo
manierismo è oggi tradotto come sterilità, autosabotaggio, autolesionismo.
Cosa intendiamo per manierismo in letteratura del Novecento? È buona norma citare
Gustave Renè Hocke, autore molto letto soprattutto per Maniera e mania nell’arte, dove
si investigano le relazioni tra l’età manieristica e le sue inquietudini e il XX secolo.
L’arte è una risposta simbolica, che non può pretendere di avere effetti concreti sulla
realtà, ma a volte è l’unica risposta possibile. È un’arte che non teme di ricadere nella
propaganda, perché appunto non si illude di incidere sul reale: è un’arte potente, che
offre una soluzione simbolica, che agisce su un piano diverso, e può avere una sua
efficacia, attraverso l’influenza su un immaginario comune. Una risposta simbolica che
può avere ricadute reali.
• Sperimentalismo
È una parola che ha una vicenda curiosa: ci vuole poco a percepirne il significato,
eppure le sue origini ci appaiono rispondere a una definizione esattamente opposta.
Potremmo dire che è una forma letteraria che cerca di lavorare sulla forma del romanzo
tirando i confini della sua definizione; senonché, Il romanzo sperimentale di Zola è una
sorta di manifesto del naturalismo francese nella sua fase più rigorosa, in cui si proclama
appunto la necessità di una rappresentazione aderente fino all’estremo alla realtà e ai
fatti per come sono.
Libera nos a malo, nasce da una scommessa, da Una questione privata invece
una memoria privata di un paesello di provincia, e è il tentativo di riprodurre una
che non è fatta solo dalla coloratura affettuosa forma quasi da poema
tipica delle memorie infantili, ma anche da un cavalleresco, collocato ai
andamento saggistico: non è un romanzo in senso giorni nostri; la storia di un
stretto, è quasi un saggio sulla realtà di quel paese. eroe quasi ariostesco.
6 stagione fine anni ’40/anni ’50, predominata dal racconto della guerra e percepita come
esaurita dalla fine degli anni ’50, e che ha dato soprattutto esiti alti nel cinema
7 idea di arte legata al mondo sovietico, che sottoponeva e sottometteva l’arte all’ideologia, a
regole estetiche e tematiche molto precise; idea che Vittorini stigmatizzava ironicamente come
piffero della rivoluzione
22 SETTEMBRE 2022 – LEZIONE 3
- Riviste che spesso hanno ospitato la prima pubblicazione di testi che poi sono
diventati libri
- Riviste accademiche parallele a quelle che ospitavano pubblicazioni e fornivano
un importante apporto alla critica
Non ci rendiamo nemmeno conto della loro incidenza sul panorama letterario.
es. La cognizione del dolore e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Carlo Emilio
Gadda: il primo esce nel ‘63 come libro, ma su Letteratura era già uscito a puntate nel
primo dopoguerra, e così anche il secondo.
Questa distanza cronologica tra pubblicazioni va tenuta presente, per alcuni motivi:
• Un libro che esce in un certo anno non per forza è un libro di quell’anno: un libro
può essere non solo precedente, ma noto già in precedenza. A volte facciamo
fatica a capire quanta eco potesse avere una pubblicazione su rivista perché non
conosciamo più questo universo.
• Non sempre si tratta di una semplice transizione da un mezzo a un altro: spesso
c’è un lavoro di riscrittura, aggiunta, ritaglio.
Es. La cognizione del dolore e il Pasticciaccio editi in volume non sono gli stessi che
su rivista, anzi, sono quasi due libri differenti.
• Quando quell’articolo/capitolo/brano esce su rivista, non è l’unico contenuto
della rivista: cosa c’è intorno? La rivista è un luogo di elaborazione collettiva, un
articolo viene messo all’interno di quell’insieme di eventi e azioni consanguinee
che lo hanno accompagnato nella sua formazione. Svincolarlo da questo
contesto condiziona, in bene o in male, la lettura del testo.
La questione delle riviste è una vicenda fortemente interconnessa con lo sviluppo delle
opere letterarie. L’osservazione delle riviste ci permette davvero di storicizzare un autore,
un libro, uno stile, più di quello che potrebbe fare un’attenta analisi della parabola
dell’autore in sé.
- Di tagliare i costi
- Di accelerare la circolazione
27 SETTEMBRE 2022 – LEZIONE 4
Es. è qui che esce nel 1939-1940 una delle prime pubblicazioni del Finnegans Wake di
James Joyce tradotto in italiano (che esce in volume solo nel 1941); abbiamo interi
numeri dedicati al surrealismo, da sempre percepito politicamente orientato verso
l’estrema sinistra.
Benché il provincialismo della cultura italiana negli anni del fascismo sia un dato,
Prospettive costituisce l’altra faccia della medaglia.
Questo esempio di Prospettive mi serve a farvi capire che non sempre c’è una
contrapposizione così ben definita tra chiusura e apertura, si direbbe tra sovranismo e
cosmopolitismo. A proposito della censura cui accennavamo, lo stesso Malaparte
diceva che i censori erano troppo stupidi e troppo ignoranti per rendersi conto del valore
della sua rivista: e fu per questo che riuscì a sopravvivere, tanto che fu la guerra, e non il
regime, a fermarlo.
8 Non esiste solo Italinemo: possiamo cercare Circe, un altro catalogo informato delle riviste
culturali europee, e soprattutto contiene riviste storiche. Questo strumento è importante perché
vedere una rivista ci fa capire molte cose del suo gusto e della sua tendenza.
9 Cfr. Vittorini, 1600 pagine di monumento alla cultura americana ostacolata dal regime
2. La Feltrinelli
Feltrinelli era un editore relativamente piccolo ma molto agguerrito negli anni ’60, un
editore che ha alle spalle una grande fortuna economica personale, ma allo stesso
tempo ha coraggio e una certa spigliatezza, quasi una mancanza di scrupoli, che gli fa
seguire quei fenomeni che generalmente chiamiamo di sperimentalismo e avanguardia,
prodotti di autori meno digeribili e ricercati.
Feltrinelli diventa dunque l’editore di molti rifiutati o esclusi della letteratura, finendo così
per conquistarsi una fetta di mercato, un pubblico con delle idee, tendenzialmente
giovane, cittadino, dotato di un livello culturale alto: è una scommessa sul futuro. Quasi
tutti gli autori del gruppo 63, che hanno interesse a inserirsi sul panorama letterario con
desiderio di non allineamento, trovano da Feltrinelli la porta aperta (vale anche per
poesia e saggistica).
Dall’altra parte, Feltrinelli (che sa che una casa editrice è anche un’impresa, che deve
far tornare dei conti) sa che le scommesse non sono solo di natura letteraria, ma ci
volevano anche soldi freschi e immediati: consapevole della necessità finanziaria, mette
a segno molti colpi geniali:
10 Sono colpi che, se lo mettono in una posizione favorevole nei confronti del grande pubblico, lo
mettono però in discussione sul panorama politico: pubblicare la storia di un perseguitato dal
regime sovietico significa non andare a genio dal partito comunista, potente negli anni ’60.
11 Es. Cortazar, Rayuela: il gioco del mondo (I ed. italiana di Einaudi, 1969): è un perfetto esempio
La collana vuole per questo pubblicare libri di autori poco noti, nel tentativo di dare una
risposta simbolica a delle problematiche reali, attraverso stili rappresentativi del presente
e del nuovo. Sono testi scelti, selezionati, che siano frutto del lavoro di intellettuali che
hanno una precisa idea di cosa sia la cultura.
C’è un aspetto interessante se guardiamo l’elenco completo dei testi e dei titoli: 58 titoli,
tra cui salta subito all’occhio che 41 sono italiani e 8 sono stranieri (4 francesi, 3 anglo-
americani, 1 argentino), è un dato interessante perché indica una volontà precisa, che
potrebbe sembrare in contrapposizione con l’apertura internazionale come reazione alla
chiusura e alla xenofobia fascista: ma non è una scelta nazionalista perché va
interpretata nell’ottica della ricostruzione di un canone nazionale; scrittori e scrittrici che
vengono a raffigurare le nuove tendenze della scrittura italiana per come le interpreta
Vittorini. All’interno di questa storia ci sono tre nomi che vanno evidenziati:
• Franco Lucentini
La collana dura molto poco, una decina d’anni, e pubblica solo una sessantina di libri, di
cui il primo è il suo I compagni sconosciuti: un romanzo molto segnato dalla guerra e dal
contesto neorealista-resistenziale, pubblicato nel 1951 ma scritto tempo prima.
Lucentini potrebbe essere considerato uno degli intellettuali più singolari del secondo
Novecento italiano, straordinario poliglotta e traduttore. Per molto tempo è stato
traduttore, consulente editoriale e scopritore di talenti, o se non altro riconoscitore di essi.
Fu lui lo scopritore di Borges e suo traduttore italiano. Ma fu anche uno scrittore delle
macerie.
• Beppe Fenoglio
È uno degli autori che con più voce interpreta questa volontà di innovare staccandosi in
modo evidente da ciò che preesisteva, e da questo punto di vista è singolare che
proprio su Fenoglio l’operazione singolare che Vittorini compie nel pubblicare il secondo
libro di Fenoglio, La malora12, cosa che ferì molto Fenoglio: scrisse un quarto di copertina,
un’introduzione (era un’attività molto diffusa da parte dei curatori della collana) in cui
criticava l’eccessiva volontà di sperimentare di questi giovani.
Fenoglio ci rimane molto male, quelle righe gli risultano vulneranti, benché rimarrà come
autore uno dei meno in vista di quelli pubblicati dalla collana (cfr. Calvino). Sarà il ’68 a
renderlo un autore imprescindibile per i nostri canoni con Il partigiano Johnny.
2. Manganelli
Manganelli e Morselli sono entrambi pubblicati attualmente da Adelphi, ma la loro
vicenda è molto diversa.
Manganelli esce pubblicato negli anni ’60 da Feltrinelli (di cui segue le vicende editoriali),
segue una fase con Rizzoli negli anni ’70 per finire poi con Adelphi.
3. Ceresa
Ceresa pubblicata per la prima volta nella Serie rossa di Einaudi, senza grande successo.
4. Morselli
Morselli invece nasce con Adelphi, e nonostante in vita venga rifiutato da tutti, non
smette di scrivere fino al suicidio. Anche se in una forma non compiuta per tutte le sue
opere, Adelphi decide di pubblicare i libri principali (di cui il primo è Roma senza Papa),
e questo è il segno del riconoscimento di una forza di scrittura, di una originalità, di una
non incasellabilità che gli permette di essere prediletto da Adelphi, editore notoriamente
orientato a scelte originali ed esclusive. L’idea alla base di Adelphi era quella di
pubblicare titoli che rappresentavano una sorta di unicum, con una volontà di
costruzione molto precisa14.
Ed è la stessa ragione che porterà poi Manganelli a pubblicare con Adelphi: Manganelli non ha
14
paragoni, anche se questo passaggio a Adelphi coincide con la fine della sua vita.
5. Fenoglio
Nella sua terra si trova la sua casa editrice, che è Einaudi (Torino). Einaudi quando nasce
è un piccolo editore antifascista che a stento sopravvive all’ingerenza fascista; poi nel
dopoguerra diventa uno degli editori principali d’Italia, lavora su politiche di eccellenza
e di marcato posizionamento ideologico (anni 50/70). Alla fine degli anni ’70 la parabola
feltrinelliana si conclude.
L’opera di Fenoglio è un caos pazzesco, forse il caso filologico più complesso del nostro
Novecento (contrariamente a quello dell’ordinato Morselli): possiamo dire che Il
partigiano Johnny, libro più famoso di Fenoglio e molto lungo, esce postumo nel ’68 in
una versione ricomposta dai filologi: non esiste, del suo libro più acclamato, una versione
approvata da Fenoglio. È curioso che il libro sia ripartito in due sezioni nettamente
separate proprio a causa di due diverse stesure che sono state accordate dai filologi nel
tentativo di ricostruire una trama.
6. Morante
Anche nel suo caso il tema del romanzo è focalizzato sul prima e sul dopo del Secondo
conflitto mondiale. Sul caso della Morante volevo affrontare un’altra questione, relativa
alle motivazioni della sua scelta come punto finale del corso: secondo me segna un
punto di svolta nel panorama culturale, letterario e editoriale italiano.
Una delle tendenze che abitano questa fase storica degli anni ’60-’70 è stata definita da
alcuni come fase di riattualizzazione del romanzo storico, ma se ci riflettiamo la
definizione romanzo storico non è così immediata come potrebbe sembrare: Il
Gattopardo non è banalmente un romanzo che si basa su fatti storici e li guarda a
posteriori: è qualcosa di più e di diverso.
Uno dei testi più importanti riguardo al tema della riattualizzazione del romanzo storico è
proprio il saggio sul romanzo storico di Lukacs16: venne pubblicato negli anni ’30 ed è
sempre citato come punto di partenza per le riflessioni sul romanzo storico del
Novecento:
16 Uno degli studiosi più importanti del Novecento, di notevolissimo spessore e le cui opere a testo
integrale sono pubblicate sul suo sito italiano.
30 SETTEMBRE 2022 – LEZIONE 6
La letteratura post-risorgimentale
Se il romanzo storico trova nuova fioritura negli anni 50-60 del Novecento è anche
perché tre grandi scrittori patriottici raccontano da parte loro l’impresa dei Mille.
1. Italo Calvino
Ippolito Nievo: libro cruciale per Calvino, che torna su questo libro con una Prefazione
importantissima nel 1964, e anche Calvino entra in questo clima di ripensamento del
romanzo storico attraverso il filtro garibaldino per rileggere la vicenda partigiana
2. Luciano Bianciardi
Anche di lui si festeggia il centenario. Grossetano come Bandi17, riceve il suo libro in
regalo da giovane; lo definiva il suo Salgari. Ne farà, come altri, un elemento di
confronto: la delusione storica dei garibaldini come quella della Seconda Guerra
Mondiale.
Matura quasi subito un’ostilità verso la realtà in cui vive e si riconosce sempre di più in
un’immagine di intellettuale attivo. Nella sua vita si appassiona in veste di reporter alla
realtà dei minatori; assiste personalmente al gravissimo disastro della miniera di Ribolla.
Costituisce una sorta di dramma personale a cui Bianciardi non riesce quasi mai a
trovare giustificazione; nasce in lui una sorta di cieco livore verso questo sistema che
sfrutta e uccide, e il desiderio di andarsene.
• cura un’edizione de I mille di Bandi, che diventa un atto politico molto marcato:
ricordare i Mille non per nostalgia ma come veri esempi di uno spirito che ha
avuto la possibilità di liberarsi.
• Lavora per Feltrinelli; conosce benissimo l’inglese, letterario e parlato (unitosi alle
truppe durante la guerra); pertanto lavora come traduttore, sono sue le traduzioni
di Henry Miller. La traduzione brucia completamente il testo originale.
• Pubblica nel 1962 La vita agra, il suo romanzo più noto, dove tematizza la vita da
schiavi degli operai, tanto delle miniere quanto dei dipendenti delle aziende di cui
lui stesso è rappresentante all’interno della Milano iperproduttiva. È il rovescio
della medaglia del boom. Ebbe un successo quasi inaspettato, non era facile né
consolatorio, soprattutto per l’epoca.
18Tognazzi era all’epoca una delle figure più rappresentative della commedia italiana: il regista
del film ispirato al libro sceglie di seguire sicuramente la lettura più edulcorata del film, si verifica
uno spostamento dal nichilismo alla comicità: nello specifico caso c’è sicuramente una volontà di
smorzare gli aspetti più duri del film. Non possiamo attribuirlo necessariamente a una pressione
politica esplicita di cui non sappiamo; ma comunque se consideriamo che all’epoca il cinema
faceva anche scelte coraggiose, capiamo che avrebbe potuto essere realizzato anche in questo
caso in modo diverso.
• Uno degli ultimi libri di Bianciardi è Aprire il fuoco, pubblicato nel 1969, quando la
parabola di autodistruzione attraverso l’alcol e la televisione spazzatura è già
iniziata. L’immagine di lui che si autodistrugge però oscura il fatto che sia rimasto
un autore e traduttore valido fino alla fine della vita. È un romanzo in cui i due
corni della sua narrazione si fondono in modo assolutamente imprevisto; un ibrido
stranissimo, una sorta di esperimento ucronico19. Il punto di partenza di questa
idea è raccontare di un’insurrezione avvenuta a Milano simile alle Cinque
giornate del Quarantotto, che diedero l’idea di potersi liberare dall’invasore, ma
trapiantate nel 1959: mette insieme personaggi ottocenteschi e la Milano degli
anni 60. L’elemento però di maggiore interesse per noi è che il narratore della
storia è qualcuno che ha vissuto da dentro i giorni eroici ed euforici di questa lotta
di popolo e che mestamente ha visto il ritorno al potere degli austriaci. È un esule
che vive tra Toscana e Liguria di lavoro culturale a distanza, nella paura costante
che le polizie lo vengano a prendere, una sorta di esule terrorista. In questo
vediamo fortemente il sogno di far saltare in aria il palazzo della Montecatini20:
vediamo in controluce il protagonista de La vita agra.
3. Emilio Tadini
Una delle realtà cittadine con cui Bianciardi si relaziona a Milano è la zona di Brera: oggi
si configura come una zona estremamente viva, piena di lusso, di locali, di centri culturali
(Pinacoteca, Accademia delle Belle Arti, Scala di Milano). Non dobbiamo però
immaginarcela così negli anni ’60: era un luogo caratterizzato da una vita artistica
fervente, ma molto meno chic; un quartiere di non grandi pretese.
Nella scena intellettuale-culturale di Brera una figura fondamentale era quella di Emilio
Tadini. Nel 1963 pubblica Le armi l’amore, primo romanzo vero e proprio di un autore già
famoso come pittore. È un romanzo che si imposta su un episodio secondario del nostro
Risorgimento, e capiamo che la seconda opera di Bianciardi non nasce dal nulla, ha un
precedente ben preciso risalente all’anno prima; nell’introduzione a La Battaglia Soda
Bianciardi scrive un passo in cui strizza l’occhio a Tadini per far capire che percepisce il
legame che sta intessendo con la sua opera.
19 Modalità narrativa tipica della fantascienza in cui si immaginano dei futuri alternativi a un fatto
storico
20 Responsabile della distruzione della miniera di Ribolla: stesso sogno del protagonista della Vita
agra
Le armi e l’amore
Tadini nello scriverlo vuole sottolineare che l’impresa di Pisacane di cui narra abbia
costituito l’estrema propaggine di un desiderio di riscatto già presente in nuce nella
gioventù meridionale di fine XIX secolo. Quando esce, il tema del romanzo era percepito
come molto lontano da quello della situazione attuale. Sembra una scelta
straordinariamente inattuale, ma che nella sua inattualità contiene due elementi di forte
novità e progettualità:
1. In questo momento storico particolare ancora una volta lo sguardo rivolto a fatti del
passato è archeologico nel senso buono del termine: guardare alla storia come a un
frammento opaco attraverso cui guardare il presente. Un archeologia che lavora su
quello che è rotto, non su un’ipotesi di ricostruzione, che è sempre illusoria. Bisogna
sempre interrogare i vuoti.
2. L’impianto narrativo è completamente impostato su tre tempi e modi verbali che
sono molto remoti dalla narrativa tradizionale: futuro, futuro anteriore e condizionale.
Questo significa che quel meccanismo perfettamente metabolizzato che il lettore si
aspetta come marca della finzione narrativa che è il passato remoto viene da Tadini
completamente abolito e invertito: il fatto è storia, e su quello non ci si può giocare;
Tadini può invertire la logica, e tutti gli avvenimenti semplicemente sono di là da
venire, in tre direzioni:
- quello che sta per avvenire
- Quello che potrebbe avvenire in conseguenza
Questo flusso è indubbiamente debitore dello stile di William Faulkner (uno dei più
importanti autori americani dopo Hemingway): più che l’uso dei verbi, insegna a Tadini
l’uso di frasi lunghe, che si aprono in divagazioni ed incisi, con un ritmo cullante e ottica
onirico-allucinatoria.
L'indagine storica deve presupporre la comprensione dei modi in cui la natura umana si
piega e si adatta alla società. La storia non si giustifica da sola per il semplice motivo che
è l'espressione di un'azione umana, che per natura è contraddittoria. Questa
conflittualità che rivela il cuore umano si riflette nella dimensione storica e in una società,
caratterizzata da una vitalità che produce contraddizioni e contrasti. Comprendere la
storia significa quindi comprendere le ragioni dell'animo umano. Manzoni si rende conto
che la storia non si è mai occupata di coloro che hanno subito la storia, senza viverla.
Occorre dunque spostare lo sguardo su quella massa di quelle persone che hanno
attraversato la storia senza lasciare traccia. Bisogna tentare di dar voce, anche per un
atto di giustizia, ai "desideri, i timori, i patimenti, lo stato generale dell'immenso numero
d'uomini" che non ebbero "parte attiva in quell'avvenimento, ma che ne provarono gli
effetti". E proprio la mancanza di testimonianze sullo stato delle popolazioni latine
durante la dominazione dei Longobardi induce Manzoni a questa riflessione sul compito
della storia. Manzoni prende spunto dalla polemica contro la storiografia laica e
giurisdizionalista, che aveva fatto della Chiesa la responsabile della mancata formazione
di uno spirito nazionale italiano. Manzoni, con intento apologetico, vuole dimostrare la
falsità di questa tesi, ma anche che la Chiesa si era posta a tutela dei Latini, assoggettati
dai Longobardi. Nella parte iniziale dell'opera, Manzoni si esprime sulla società umana a
proposito della questione dei rapporti tra Longobardi e Latini.
Nel 1827 viene pubblicata la prima edizione del romanzo, dopo essere stata modificata:
esce quindi nel periodo acuto del successo del romanzo storico, e riceve le prime
opinioni per mezzo di epistole e recensioni giornalistiche. Quello che a questa edizione
manca è la Storia della colonna infame, che non viene pubblicata perché già nel ’23
Manzoni si rende conto della straordinaria ingiustizia di questo processo, reso possibile da
un insieme di pressioni operate dal potere ai danni dei poveracci, che avrebbe rubato la
scena alle vicende dei due promessi: di qui la scelta di farne un’appendice autonoma.
Manzoni aveva già capito che c’era un problema di coesistenza tra storia reale e fittizia.
A questa edizione arrivano tre risposte:
a. Streffus (?): recensione ai Promessi Sposi molto evidentemente guidata, nel senso che
dietro di lui c’è la voce di Goethe. Manzoni lo capisce e ne è generalmente
lusingato: è una recensione tutto sommato positiva, ma c’è un’obiezione relativa al
finale del terzo tomo: la porzione storica fa perdere di vista il romanzo, si perde
l’equilibrio complessivo. Se in un romanzo storico è la Storia a fare problema, un
autore deve rifletterci.
b. Lamartine: secondo lui la parte migliore del romanzo è la parte storica: “Fai della
storia un genere nuovo”.
c. Niccolò Tommaseo: italiano benché di origini dalmate, si profonde il lusinghe ma
aggiunge un’obiezione relativa allo status sociale dei protagonisti. È l’espressione di
una censura molto forte e importante.
La ragione delle riedizioni successive è anche questa (non solo la questione della lingua
che molti gli criticano, troppa patina lombarda): le successive pubblicazioni sono il
tentativo di recuperare, riscritta e ripensata, la Storia della colonna infame, come una
sorta di appendice, ma fondamentale per il complesso del romanzo: la parola Fine è
dopo l’appendice, non dopo il XXXVIII capitolo. Fino a poco tempo fa gli editori la
tagliavano, gravissimo!
In realtà non è il frutto della vecchiaia di Manzoni, soprattutto perché non c’è traccia al
suo interno di menzioni di qualsiasi tipo ai Promessi Sposi: e questo perché Manzoni non
aveva nessuna intenzione di sconfessare il romanzo storico per come generalmente è
percepito. Semplicemente, secondo Manzoni, il romanzo storico non serve più:
1. Perché è stata una moda. Il tempo passa, e la letteratura e le sue forma sono
sottoposte a questo incedere.
2. Perché la concezione stessa di storia influenza l’evoluzione di questo genere: la
storia è più appassionante del romanzo, di per sé non ci sarebbe bisogno del
romanzo per renderla avvincente; e più un lettore si appassiona alla storia, meno
guarderà al romanzo. Quel romanzo era fatto così per la vicenda narrata, ma va
superata; sempre di più Manzoni si convince della necessità di dedicarsi alla
storiografia pura e semplice. Il romanzo storico è una costruzione geniale in cui
storia e fantasia sono giocati l’uno contro l’altro.
Luigi Meneghello
Un autore che colloquialmente si definisce bravo è uno scrittore che sintetizza un alto
controllo e dominio delle risorse formali e che supera la tecnica, raggiungendo esiti che
non sono semplicemente la risultante degli artifici formali e dell’elaborazione stilistico-
narratologica; uno scrittore che ha fatto un’accademia, che generalmente non è privo
di conoscenza e linguaggio, anche se non si limita a questo. Quello di Meneghello21 è un
caso interessante: è certamente di sconcertante bravura, ma non si riesce facilmente a
definire tale bravura. A volte pensiamo che essa dipenda dal talento, che per certi versi
è un mito, ma di certo ne aveva. È uno scrittore appassionato, e facilmente capisce
grazie anche al percorso scolastico che la scrittura è nelle sue corde.
21Attenzione: le note dei libri di Meneghello di solito sono d’autore, e sono parte integrante del
testo, ne costituiscono i rivoli ulteriori.
Lingua, scrittura e oralità
In un passo fondamentale de I piccoli maestri22 Meneghello recupera una citazione
illustre di Verlaine (conosce bene sia Verlaine che Montale) scrivendo:
• L’incontro non solo con l’inglese scritto e insegnato (accademico) lo colpisce per
una sorta di atteggiamento volto alla comunicazione: che non significa che sia un
inglese sciatto, banale o senza profondità; la prima impressione che si ha
leggendo Meneghello della seconda formazione è di un uomo che si esprime con
estrema serietà ma che ha grande rispetto della comunicazione, senza arricciarsi
o nascondersi dietro a una certa solennità. L’oscurità e la solennità non sono più
sinonimo di prestigio: l’Italia, in termini di tradizione retorica, con il Risorgimento,
con il fascismo, con il postfascismo, invece, questo vizio ce lo aveva abbastanza
radicato. Per Meneghello andare in Inghilterra significa scoprire che c’è un modo
diverso di parlare. La distanza fisica e sentimentale di Meneghello dal suo paese
di origine ha all’incirca lo stesso effetto che ha negli scrittori soprattutto siciliani,
cioè di richiamare, rievocare, ristabilire una nostalgia.
• L’italiano di Meneghello se da una parte è depurato dall’inglese, dall’altra è però
contaminata dal dialetto, che riemerge tanto più aumenta la distanza nel tempo
e nello spazio con questo modo di esprimersi.
22 Tradotto in inglese Outlaws: funziona nel mercato inglese, non nella prospettiva italiana
In Meneghello ci sono due aspetti che stimolano l’interazione linguistica:
23L’opera di Meneghello non è mai continua in sé, non è completa senza le note, e la lettura delle
note ci obbliga inevitabilmente alla lettura discontinua. Non è molto diverso da quello che
faceva Gadda, il testo non riesce a rimanere dentro la pagina, si dilata in diverse direzioni.
12 OTTOBRE 2022 – LEZIONE 8
Le opere
Abbiamo detto che nei libri di Meneghello sono presenti dinamiche molto complesse:
provincialismo, rappresentato da quella adesione fascistissima che è tipica della
formazione, e cosmopolitismo, la cui breccia è aperta da Giuriolo, professore che ai
Piccoli maestri che attorno a lui si costituiscono presta libri sul Risorgimento, su Pisacane,
ecc. A Giuriolo è dedicata tutta una parte di Fiori italiani.
Meneghello dichiara molto spesso che il suo impegno italiano è quello di restituire un
resoconto fedele della sua esperienza, ma ricordiamoci che tutto passa da un prisma; il
concetto di prismaticità è un concetto che Meneghello utilizza in un suo passo e che
sintetizza tutta la sua opera (la quale ha sempre una importantissima dimensione
autobiografica, anche se in essa non si esaurisce):
“Una parte della luce passa, mentre altra viene rifratta […] così le cose che
mi sono successe attraversano questo prisma, e ne escono come
intensificate, e allo stesso tempo alterate, modificate.
Guardando quel prisma ci si rende conto che le cose hanno subito delle modificazioni,
delle deformazioni, e appaiono più belle di come sono state effettivamente. La sincerità
di Meneghello non implica mai che quello che racconta sia effettivamente andato così;
le cose non vengono però mai modificate per ingannare. Tutti i libri raccontano di
episodi avvenuti molti anni prima, perché è necessaria la sedimentazione (anche per
tenere a bada la commozione, soprattutto se si tratta di materia incandescente come
quella della guerra civile), e pertanto tra racconto narrato ed esperienza vissuta si
inseriscono delle variazioni. Il racconto di Meneghello è frutto di un continuo travaso di
materia (tra-, è appropriato per la materia di Meneghello).
Libera nos a malo è Fiori italiani, che esce Ci sono altre Altre Spor.
una ricerca per Rizzoli, migrando pubblicazioni pubblicazioni Raccontare lo
etnografico- da un editore all’altro intermedie, poi intermedie, e sport, tra il limite
linguistica. Pur come già successe dieci anni dopo poi il Dispatrio, e l'assoluto, con
contenendo molti per Pomo Pero, è un esce Jura (non testo dedicato testi inediti: scritti
elementi drammatici, libro sul tema della incasellabile in non a cosa che
li trova descritti con scolarizzazione, che nessuna significa costituiscono
una penna molto per lui si verifica in due categorizzazione) espatriare, ma una parte fino a
lieve, lascia implicita fasi, prima in Italia e - collana dei dispatriare. poco fa dispersa
la durezza della poi in Inghilterra. In Saggi Blu di Inaugura la del suo lavoro
situazione che pur Fiori italiani Garzanti24, una cosiddetta ma ora emersi
emerge. Il fil rouge Meneghello racconta collana di saggi materia inglese, come frammenti
delle morti, di una prova vera e propria. per cui quattro di una
soprattutto dei sostenuta nel ’36 per Esperienze anni dopo esce autobiografia,
bambini, è sempre qualificarsi ai Vittoriali lavorative di La materia di come sempre:
presente. Spesso del ’40 (chiamata docente e Reading e altri tentativo di
troviamo Agonali). In questo scrittore reperti. recuperare la
un’espressione saggio si lamenta la confluiscono in bellezza dello
contemporanea delle mancanza di idee, questa riflessione sport
prospettive del non l’indottrinamento, sul linguaggio depurandosi da
Meneghello bambino che era parte che si concentra quell’aura mitica
e adulto, si crea una normale della propria sul breve periodo di cui il fascismo
frizione tra diverse età. Cos’è ‘45-47, tra la fine lo aveva
visioni. Esce con l’educazione, come della IIGM e la avvolto, nelle
Feltrinelli nel 63. attraverso di essa e scelta di migrare sue linee
oltre ad essa si all’estero. essenziali e
Pomo Pero costruisce positive.
rappresenta un un’identità? C’è sia
tentativo di l’imparare che il
dissodamento di quel disimparare per
linguaggio di Malo imparare il nuovo.
che era già nel libro di
esordio, spingendosi
rispetto ad esso più
avanti e più indietro
(un’infanzia prima del
linguaggio)
La lingua
“Questo libro è scritto da un mondo dove si parla una lingua che non si scrive”
Cosa ci dice questa frase? Che il libro non è un nastro registrato, è un libro scritto in
Inghilterra, da un autore che ci vive da tanti anni, che normalmente pratica l’inglese, ma
che decide di scrivere un libro sul dialetto.
La forma degli oggetti del paese non cambia. Come sempre con Meneghello
dobbiamo prendere con le pinze: descrive la percezione di un paese come grande
luogo di giochi, come un luogo dove tutto è noto in modo rassicurante. Ma anche Malo
sta cambiando! In riferimento a questo, un passaggio di Libera nos a malo:
La cosa interessante è che qui sta adottando la prospettiva dello stanziale, ma in questo
caso è lui il nomade! Anche se Meneghello conosce benissimo entrambe le prospettive,
quella di chi resta (l’ha vissuto da bambino) e quella di chi se ne va e ogni tanto tona. È
una duplicità di prospettiva che per esempio Pavese non aveva anche se sono i temi
che anche in lui sono molto presenti.
25Film del 2002 di Marco Paolini, 3 incontri, chiacchierata/intervista e viaggio nelle parole di Stern,
Zanzotto e Meneghello.
Popolo e istituzioni
È proprio questa dicotomia linguistica il sintomo di una profonda divisione tra la realtà del
vissuto quotidiano del paese e la vita istituzionale:
Se da un lato il fascismo era un dato della natura, non della cultura, a maggior ragione
lo era il cattolicesimo. Il bambino che cresce in questo paese fa i conti con due realtà
che sono saldamente innervate nelle menti e nelle famiglie.
C’è come una sorta di doppio binario nei paesi: da una parte le regole,
dall’altra la realtà delle persone e dei comportamenti, molto differente
dall’ossequio formale.
Tutto quello che la Chiesa fa recitare ai suoi fedeli ci viene descritto come se fosse una
filastrocca tanto nota quanto ignara sia per quanto riguarda la retorica fascista, sia per
quanto riguarda il latino ecclesiastico delle preghiere.
Es. I bambini sono sempre dietro a compiere gli atimpuri, che li attraggono
per essere peccaminosi e indefiniti nel loro significato, e poi si confessano. È
il meccanismo base del cattolicesimo.
Secondo l’etica del paese, buono è significato di sciocco, mentre essere gran lavoratori
costituisce l’espressione del massimo grado di stima e rispetto che un membro della
comunità può vantare.
L’etica del paese è questo che comanda; molti termini del decalogo tutto formale del
cattolicesimo vengono ribaltati di segno nel corso del romanzo:
Esempi:
26 Agostino di Moravia adotta la stessa tecnica del filtro infantile, e descrive la scoperta della
sessualità da parte del bambino durante una vacanza al mare con la madre, e delle differenze di
classe: non solo attraverso il suo corpo si promuove questa scoperta, anche attraverso il rapporto
con gli altri bambini più poveri. La stessa cosa il Meneghello dei Piccoli maestri, dove quello delle
differenze di classe è uno dei sottotemi, la scopre nella relazione con i malgari.
27 Luogo esterno alla casa e deputato alla defecazione.
I piccoli maestri
È un Bildungsroman, la storia di uno studente che esce dalla dimensione familiare ed
entra in contatto con realtà nuove che lo fanno crescere28. Il personaggio di Meneghello
incontra solo sull’altipiano la vera durezza, anche se non è un personaggio
completamente estraneo a questa esperienza.
Rientra dentro questo buco dove dice di aver vissuto il momento più devastante della
sua vita, ma comunque rimane un po’ estranea questa esperienza, sembra una crisalide.
Comincia da questo ritornare a un momento che sembra spostato, e capisce la
necessità di ri-raccontare tutta la storia, di rimontare, di ricostruire, di reinventare tutta la
vicenda, al netto della fedeltà ai fatti realmente avvenuti, per capire se hanno avuto un
senso.
Solo la parola può darsi e avere un significato, non è mai solo la cosa in
sé, è importantissimo per Meneghello che i fatti in sé sono perduti, è la
parola a ricostruire e a restituire consistenza.
La pagina iniziale presenta una sorta di Nei I piccoli maestri uno dei
indicazione di scena teatrale, Si comincia con un concetti fondamentali del libro
temporale. Si comincia con un ritorno a casa, è la conclusione della prima
durante un ciclico ritorno dall’Inghilterra, il scena, quando il protagonista
temporale è una sorta di sottofondo costante, liquida la compagna che gli
come se quel suono fosse lì unico, come una chiede informazioni su cosa
camera acustica in cui l’impatto del suono con le fosse successo durante
vibrazioni crea un effetto inimitabile. Se ci fate l’esperienza partigiana,
attenzione c’è una subliminale impostazione che dicendo Noi non eravamo
ci fa capire che non è un fatto ma una buoni a fare la guerra. Come a
ricreazione mentale: lo scatto amnestico è dato dire, sarà l’ennesimo libro
dalla situazione che apre una memoria, un partigiano: ma non aspettatevi
ricordo, non è la realtà ad essere rimasta un libro retorico, di imprese.
immutata.
L’Altipiano, come Malo, non è descritto in italiano, ma secondo una lingua locale (cfr.
descrizione dei mughi31). Malo, provinciale o no? I luoghi sono molto importanti per
Meneghello per due motivi:
1. All’Altipiano sono dedicati alcuni dei suoi libri più famosi e non solo suoi. Una
caratteristica importante che ne ha fatto un luogo letterario non è solo il suo ruolo di
scenario di eventi di massa molto importanti per il primo conflitto mondiale, ma una
caratteristica che lo rende peculiare: il fatto che si offra a un colpo d’occhio umano, a
differenza dell’imponenza di molti altri paesaggi che sono eccessivamente ampi per
essere colti dalla prospettiva umana nella sua interezza. La piccolezza della figura
umana è comunque in grado di entrare in comunicazione con questo ambiente e con
i suoi dettagli.
2. Allo stesso tempo però è un paesaggio percepibile nei suoi dettagli: esempio dei
mughi, descrizione di come ci si deve comportare con le varie tipologie di cespuglio.
• Fenoglio racconta facendo morire i suoi personaggi, nel flusso di una Storia che però
continua nonostante le morti dei suoi autori.
• Meneghello invece sa che lui e i suoi compagni non erano buoni a fare la guerra, ma
non tutti erano come loro: l’ironia sta in questo. I piccoli maestri ha il finale più
anticlimatico che si potrebbe immaginare; si conclude con i due protagonisti che si
fanno riconoscere come partigiani dai liberatori, ma manca ogni tipo di enfasi
trionfalistica, anche se la vicenda è quella di una vittoria, non è mesto, legato alla
presunzione di una previsione del disfunzionante dopoguerra: l’obiettivo è quello di
contrastare una retorica che tenderebbe all’enfasi. Un finale antieroico e
antitrionfalistico.
30 NB. Gesualdo Bufalino: Museo d’ombre, con una serie di importanti fotografie di Giuseppe Lione
che mostrano il paese e lo mostrano come un paese fantasma: è un’angoscia di molti momenti e
molti luoghi tra il boom economico e gli anni successivi, non è solo di Meneghello.
31 Descritti da boscaioli: concretezza del linguaggio ma trasportato.
Dispatrio32
In quest’opera è contenuto un frammento di dialogo tra un membro del consolato e
l’autore, in cui il giovanotto dei visti storce il naso davanti all’indicazione della sua
destinazione, Reading, “the provinces”: Meneghello dice che the provinces è il posto
meno sgradevole del mondo, se pensa a Malo. Di sicuro Meneghello dagli inglesi ha
imparato un’ironia garbata, pacata.
E in effetti Meneghello scrive quasi subito un libro su Malo; nell’affermare che Malo non
sia provinciale sta dicendo che provincia è ciò che è segnato dalla distanza e
dall’inevitabile connotato di inferiorità. Meneghello è andato in un’Inghilterra dove
precocemente si è misurato con la modernizzazione postbellica, e ripensando a Malo
una delle cose di cui si rende nitidamente conto è che Malo è un paese a misura
d’uomo, che ha la forma delle cose fatte dagli uomini e dalle donne di Malo: lodarne la
bontà non è una presa di posizione strapaesana, va letta nella prospettiva dei tempi in
cui viene pubblicato il libro, il momento in cui sta arrivando la svolta della produzione
consumistica, di un’esistenza prodotta e trasportata dall’alto, di un meccanismo che
sicuramente civilizza, ma che per certi versi disumanizza (e non è la posizione del solo
Meneghello, ovviamente).
Es. frammento memoriale del 1947, pubblicato poi nel ‘93: colpito da una
celebrazione sottotono della Battle of Britain, per celebrare l’opposizione al
nazismo (erano praticamente gli unici a farlo all’epoca) e la messa in scacco
delle armate tedesche da parte della RAF (Royal Air Force); la prima vera
importante sconfitta dei nazisti inflitta in solitudine dagli inglesi viene celebrata,
quindi, a trionfo concluso e indubitabile, in modo estremamente sobrio: niente
discorsi, niente squilli di tromba. È colpito al punto da fissarlo sulla carta molti anni
dopo, quando già ha fatto tesoro di quello che ha vissuto e raccontato né I
piccoli maestri.
Facendo questi studi, mediati da una lingua diversa, Meneghello mette sempre più a
fuoco la possibilità (inedita) di raccontare la storia di un paese (cioè una comunità, non
un singolo) e di una realtà umile. Perché questo accadesse in Italia si dovette attendere
molti anni33. Diciamo che Meneghello è un precursore di questa tendenza grazie all’aria
che respira a Reading e al rapporto con i rapporti che vi intesse.
32 Racconto della trasferta a Reading, poi seguito da altri libri, esce nel 1993.
33 Microstoria, Carlo Ginzburg
Tra questi incontri uno dei più incisivi fu quello con il futuro direttore del dipartimento di
Reading, che nei testi meneghelliani viene nominato sir Jeremy34; una sorta di mentore e
guida per Meneghello.
Esempi:
Giorgio Manganelli
Manganelli nasce nel ’22 a Milano e muore nel 1990, dopo aver pubblicato molti libri.
Sembra essere stato principalmente un prosatore (a parte una rapida parentesi poetica
in giovinezza). Paradossalmente però ha pubblicato la stragrande maggioranza delle
opere post mortem. L’enorme mole di pubblicazioni postume è legata alla molteplicità
degli scritti, corpus corposamente variegato.
Il suo primo romanzo viene pubblicato con Feltrinelli nel 196437, Hilarotragedia: presenta
una copertina contenente l’immagine di un uomo, quella dell’autore. È una curiosa
scelta:
- Il fatto che ci sia la foto dell’autore non è scelta così pacifica, è rara anche per gli
autori più famosi.
- La foto ha dei tratti noir, ha un che di losco38
36 Manganelli segue Luciano Foà quando si stacca da Einaudi per fondare con Calasso Adelphi, e
da questi sarà poi pubblicato.
37 Sia Manganelli che Meneghello esordiscono a 41 anni, l’età a cui Fenoglio muore.
38 Parola che
Il percorso universitario
È un autore che fa i conti con la IIGM, che travolge la sua esistenza malgrado la sua
volontà. Alcuni dei giovani di questa epoca si laureano fortunosamente, alcuni39 si
laureano senza tesi; Manganelli non è costretto a interrompere gli studi, li compie subito
dopo la fine della guerra ma si laurea in un ambito diverso da quello aspettato, in
Scienze Politiche. La sua tesi di laurea è stata ripubblicata post mortem nel 1999, e si
intitola Contributo critico allo studio delle dottrine politiche del '600 italiano, pubblicata
da Quodlibet: perché?
Uno degli intellettuali più illustri e presenti del gruppo è Edoardo Sanguineti (sx), ritratto
nella foto con Enrico Filippini (dx), un germanista che aveva portato in Italia la nuova
letteratura tedesca del gruppo ‘47, che si proponeva di rifondare quest’ultima in maniera
laboratoriale43 tentando di salvare la letteratura dopo i disastro del conflitto mondiale.
41 Il gruppo ’63 non aveva un manifesto, il manifesto erano gli atti stessi dei loro convegni
42 Feltrinelli pubblicherà gli atti del convegno di questo gruppo.
43 Attraverso confronti reali e molto critici e vivaci relativamente alle opere reciproche
25 OTTOBRE 2022 – LEZIONE 13
La nevrosi e la psicanalisi
“[…] nella concezione junghiana i simboli dell’arte e della letteratura sono
«come ponti gettati verso una riva invisibile» […]” Andrea Cortellessa
Ernst Bernhard era lo psicanalista di Manganelli; con lui ebbe un rapporto fondamentale,
ne divenne una sorta di ispiratore. Adottava il metodo della Mitobiografia. L’importanza
del modello junghiano da lui adottato ha il merito, secondo Manganelli, di aver riportato
dignità alla frequentazione letteraria degli inferi, al momento infernale della cultura.
Secondo Manganelli, Freud era un pensatore troppo serio; Jung era un ciarlatano in una
certa misura, ma questo gli permetteva di compiere dei salti che rimanevano preclusi al
troppo serio e scientifico Freud.
44Manganelli fa spesso una cosa che se fossi psicanalista troverei allarmante: registra giorno, ora,
minuti in cui finisce il libro, e lo comunica ai genitori, ma i genitori sono morti: come se scrivesse
sempre in contatto con queste figure, pur detestate ed esecrate. Manganelli scrive parole feroci
verso la madre; eppure, è qualcosa che non lo abbandona mai.
Gli autori di Manganelli
1. Carlo Emilio Gadda
Abbiamo scelto i due testi di Manganelli, Hilarotragoedia e Nuovo commento, perché
sono particolarmente eloquenti della poetica di Manganelli. Per capire la letteratura di
Manganelli è fondamentale il rapporto con Carlo Emilio Gadda; quest’ultimo scambia
Hilarotragoedia con la parodia del suo stile e si arrabbia molto perché trova di cattivo
gusto che il suo proprio rapporto nevrotico con il linguaggio possa essere preso a
oggetto di parodia. In realtà non era nelle intenzioni di Manganelli, ma è tuttavia
innegabile che tra i due esista una linea di congiunzione molto forte.
Su Solaria, rivista molto importante, Gadda fa la sua apparizione iniziale45 nel 1927.
Nel 1931 pubblica un testo importantissimo che risponde a un’inchiesta che Solaria
aveva indetto (una sorta di questionario per gli autori) relativa alle tendenze
contemporanee della letteratura; molti rispondono46, ma Gadda lo fa con un testo che si
intitola Tendo al mio fine, che in qualche misura può essere considerata la sua
dichiarazione di poetica (non ha risposto per gli altri, ha risposto per sé, amaramente e
un po’ gaddianamente). Ovviamente si gioca sul doppio senso della parola fine, sia
come scopo che come compimento, che nella sua prospettiva è luttuosa e funerea: si
tende alla morte. Fin dalla prima frase assume una posizione di irrisione e distacco dalle
magnifiche sorti e progressive della letteratura. Gadda utilizza continuamente una
compresenza di registri che fanno cozzare l’aulico con il plebeo e il profano, creando un
linguaggio sofisticato ma aggressivo (non cortigiano, non retoricamente barocco):
Gadda diceva che era il mondo ad essere barocco, e serve la modalità espressiva
adatta a esprimerlo.
1. Carenza affettiva da parte dei genitori (in realtà tratto comune di una certa società
italiana otto-novecentesca, sia nel mondo popolare che altoborghese), che patisce
e manifesta molto apertamente
2. l’esperienza della IGM, vi si impiega come ufficiale e viene reso prigioniero dopo
Caporetto, che si traduce in una sconfitta e un’umiliazione personale. Di ritorno dalla
Guerra scopre poi che il fratello a cui era legatissimo è morto come ufficiale aviatore.
3. Teniamo conto poi di un evidente problema di orientamento sessuale che non
manifestava apertamente ma che accentuava la difficoltà di vivere dentro il suo
corpo.
45 L’apparenza frammentaria di certe opere spesso è legata alla loro natura di pubblicazione in
rivista.
46 alcune di queste inchieste sono poi diventate anche opere letterarie monografiche a sé
Per tutta la vita Gadda porterà con sé l’idea del disordine, del caos, il sentimento
di impreparazione: ha una sensibilità da ingegnere, che vuole che tutto funzioni,
ma che si scontra con una realtà in cui nulla è ben oliato, il che peggiora le sue
nevrosi. La nevrosi ha sempre un fondo di onestà, parla di qualcosa che c’è.
2. Samuel Beckett
Verso l’uso intelligente dei mezzi, del silenzio e di questo tipo di radicale esercizio di
destrutturazione del romanzo lo aveva già indirizzato Samuel Beckett: con la sua Trilogia
Beckett costruisce la più estrema contestazione del romanzo:
47 In verità qualcosa scrisse, un diario, pubblicato negli anni ’50 contro la sua volontà, ma è
privato, e il tentativo di trasformarlo in un’opera è abortito.
48 Problema familiare con la madre, ipersensibilità linguistica, anche lui aveva intrapreso un
tentativo di analisi della sua psiche attraverso una terapia psicanalitica (Gadda non lo aveva
fatto con uno specialista ma si era interessato all’argomento)
26 OTTOBRE 2022 – LEZIONE 14
4. Vladimir Nabokov
Un altro modello fondamentale è Vladimir Nabokov, non di tutte, ma di alcune pratiche
Manganelliane sì. Nabokov scrive prima in russo, poi in tedesco da rifugiato, poi in
inglese da esule in USA, e questo ne fa uno dei tratti interessanti per Manganelli.
come uno spazzacamino che cade dal tetto, e mentre cade vede un
cartellone pubblicitario con un errore di ortografia e pensa al perché
nessuno l’abbia corretto.
Cioè: siamo tutti destinati alla morte, ma durante la nostra caduta verso di essa, che è la
vita, ci capita di interessarci a cose di nessun conto in confronto a quello che sta per
succedere, come la letteratura. È interessante perché questo aneddoto raccontato da
Nabokov a Lezione negli USA Manganelli non poteva averlo conosciuto quando scrisse
quasi la stessa cosa in Centuria: secondo il prof è una perfetta poligenesi, non pensa che
ci siano stati contatti, anche nel caso di Calvino, che a sua volta recupera l’immagine:
nessuno di noi può più permettersi di fare come Thomas Mann50, che ha
potuto guardare la vita affacciato dalla ringhiera: noi lo guardiamo
precipitando dalla tromba delle scale
C’è chi dice che ha scritto come se la Rivoluzione russa non fosse mai esistita; secondo il
prof Nabokov scrive perché la Rivoluzione russa è esistita. Nabokov era trilingue in casa
sua (francese, russo, inglese; scrive in tedesco). Quando ormai da molti anni era esule in
America, a metà degli anni ’50, il suo percorso di scrittore si sta avvicinando a diventare
famoso nel mondo, si fa una domanda:
Come faccio in un paese con una lingua così piatta a fargli capire la
profondità e la poliedricità della lingua e della letteratura russa?
In parallelo alla scrittura di Lolita, che per molti ha oscurato il resto della sua produzione,
Nabokov si appresta alla traduzione personale dell'Evgenij Onegin di Puškin, all’interno di
cui poi lui stesso si perde: il criterio di traduzione è rigorosamente letterale, che però
produce una serie di distorsioni inevitabili, a cui per compensare correda milleduecento
note lunghissime che costituiscono un libro a parte.
Pubblica poi nel ’61-62 Fuoco pallido, che è la summa e la vetta dell’opera di Nabokov;
la sua costruzione è molto più interessante della sua trama.
I due autori immaginari nella finzione sono colleghi universitari, l’uno estimatore dell’altro,
morto un attimo prima di finire il suo poema: il commento spiega il testo nei simboli, nelle
immagini, ecc.; poi però ci aggiunge una serie di tratti biografici, aneddotici, e diventa
una sorta di diario di amicizia, una specie di messinscena di un io che diventa psicotico,
non più mosso da una stima ma da un desiderio di parlare di sé; la pratica del
commento inizia a deragliare e inizia a diventare aggressivo, una sorta di devastazione
postuma, tanto che il commentatore si mostra come l’assassino stesso del poeta. Questo
libro straordinario non finisce mai; potete leggerli, spezzati, insieme, uno dopo l’altro, una
volta, due volte, ecc. non finisce mai, e non finisce mai di stupirvi.
21 OTTOBRE 2022 – LEZIONE 12
Opere
A livello filologico, da una parte ci sono le varie stesure delle opere maggiori, e poi ci
sono Appunti critici (1948-1952), Zibaldone di Manganelli, sorta di raccolta di pensieri. Il
grosso del lavoro ancora da fare su Manganelli è la riesumazione degli scritti perduti.
1. Hilarotragoedia
Al convegno del gruppo ’63 tenutosi a Palermo nel 1965, Manganelli (e con lui Filippini)
proclama apertamente la «ripugnanza» per il romanzo, con la sua stolta pretesa di dire
verità rinunciando ai fasti della letteratura come artificio e menzogna; e solo Manganelli,
con Hilarotragedia, aveva buttato alle ortiche il romanzo in favore del trattato.
Di fatto, altro non si vuole dimostrare altro se non che l’uomo tende al suo fine51.
È in verità uno pseudotrattato, perché del trattato, nel momento in cui lo imita, contesta
l’organizzazione stessa: manca un’organizzazione limpida, chiara e consequenziale, la
dissesta completamente, utilizzando tutto ciò che del trattato ci aspettiamo, ma
facendolo declinando tali strutture in forme continuamente disordinate e disordinantesi.
Tutte le finestre che si aprono su questo mondo fingono un ordine ma in realtà lo
contestano continuamente; le false partenze e le false consequenzialità sono all’ordine
del giorno. Abbiamo un linguaggio totalmente non figurativo, e anzi giocato ostilmente,
un linguaggio pieno di bizzarrie, inarcature, figure retoriche che sembrano prolificare in
modo tumorale e verminoso, senza che obbediscano a logiche dimostrative. Una logica
del trattato che si spalanca in forme impreviste, non vuole incarnare un ruolo e un
personaggio prestabilito.
• Il titolo è oscuro, e funziona tanto più riesce a comunicare un effetto di mistero; non si
capisce altro se non che sono presenti due parti, tragica e ilare.
• Il tentativo è quello di manifestare un’alterità radicale attraverso la lingua, una lingua
piena di sgambetti e trappole. La strategia più adottata da Manganelli è per questo
l’ossimoro; ma lo utilizza sistematicamente rovesciando quella tensione che già si dà
nella figura retorica di per sé, ribaltandoli di segno (es. usa al positivo un ossimoro a
valenza negativa).
• Utilizza anche una sintassi particolarmente impervia, che rifiuta la scorrevolezza e la
perspicuità, un’architettura sintattica fortemente disorientante. È una lingua con cui
bisogna prendere confidenza per riuscire ad afferrarla.
Nb. Questo non significa che non ci sia un plot; in un saggio su Beckett Manganelli
afferma che l’autore inglese inizia avendo cose da dire, che è un inizio rovinoso: non
bisogna avere cose da dire; Beckett riesce solo quando si arrende a rinunciare alle cose
da dire.
2. Nuovo Commento
Nuovo commento si presta ad essere la prosecuzione, o meglio ispirato a Fuoco Pallido
di Nabokov, ma in modo radicalizzato. Qui Manganelli fa un passo ulteriore perché
manca completamente il testo: rimuove la ragion stessa d’essere del commento.
Appositamente manca; la prima nota commenta un testo che non c’è. È un passo avanti
consapevole e radicale di Pale fire.
52Pare che fosse uno degli obiettivi dichiarati della produzione letteraria del gruppo ’63. Non è
una posizione snobistica, il pericolo è che nel passaggio dalla carta al film l’opera fosse sviata e
deformata.
Questa copertina vuole essere un’esplosione e un τέμενος, luogo sacro che rimane
perché identificato come deputato al culto: ma poi si aggiunge che c’è come una
confluenza all’interno, e allora diventa un’implosione.
Quando Italo Calvino legge questa spiegazione della copertina manda una lettera
molto ammirata e attenta. È molto preziosa perché ci dice della stima letteraria tra i due
(umanamente troppo diversi per stimarsi): Calvino avverte una sorta di incompatibilità di
fondo: è affascinato dall’ordine, puntano verso il rintracciamento dell’ordine al di sotto
dell’infinita varietà del reale. Di fronte a un testo così, afferma di essersi messo al lavoro
per trovare un ordine, per poi rendersi conto che Manganelli non cerca questo, cerca di
costruire ordini continuamente disordinati. Sono radicalmente incompatibili, pur
ammirando la riuscita, il totale ribaltamento di ogni ordine,
che fa sì che in assenza di una narrazione, qualcosa deve
tenere in piedi il testo, e questo scheletro sono le
progressive metafore.
Le comparse televisive
Interviste impossibili54
25 NOVEMBRE 2022 – LEZIONE 22
Lezione Cortellessa
Lavora moltissimo per la radio, che è un luogo che gli è congeniale; scrive, cura e
realizza programmi per essa. Per esempio, questo programma contenuto nel libro (La
musica e i dischi di…) lo usa per dimostrare che la musica e la composizione sono
l’ambito a cui guarda con maggiore interesse. Manganelli decifra da par suo i brani che
sceglie, ma lo fa in modo tutto manganelliano, cioè posizionandosi nell’interlinea del
testo altrui. Quella di Manganello è una scrittura interlineare.
4. Salons
Libro d’arte, immagini d’arte, non semplicemente dipinti, ma oggetti di vario tipo
collegati e tenuti insieme.
Il grande inganno della letteratura è che siamo fatti per durare, mentre
tutto è fatto per corrompersi.
La letteratura è fantastica perché è il luogo in cui tutto è possibile, nel limite di una certa
coerenza. In letteratura si può maneggiare con libertà l’indistinzione tra vero e falso, non
perché ama il falso o ambisce all’inganno, ma perché è un mondo in cui quella tra vero
e falso non è una distinzione reale.
7. Esperimento con l’India
Moravia e Pasolini fecero un viaggio in India e lo raccontarono in due libri molto diversi
tra loro; dobbiamo pensare che Moravia si fosse mosso in quel paese come una
celebrità (Moravia era un reporter di professione, racconta l’India sociopolitica), mentre
Pasolini la racconta da un punto di vista più notturno, sensoriale e avventuroso.
Manganelli a sua volta viaggia nei libri e nei luoghi, anche lui verso l’India. Il viaggio è
sempre in cerca di una dimensione archetipica per l’esistenza, che a volte legge nei
testi, a volte negli oggetti.
La dottrina della setta degli antimorti, fondata da un monaco apostata che durante la
sua vita tenta in vari modi di mettersi in contatto coi morti, può essere riassunta così:
Alice Ceresa
Alice Ceresa è una scrittrice che sceglie, anche per inclinazione personale, un
posizionamento abbastanza defilato rispetto alla società intellettuale, anche se non va
inteso né come snobistico né come assenza di contatti.
Nasce nel 1923 in Svizzera in una famiglia di cultura italiana e parla tre lingue; si
garantisce una stabilità in quella Roma dove presto si trasferisce con lavori di natura
intellettuale. Uno dei primi lettori della Ceresa è Maria Corti, filologa e scrittrice, che
recensisce La figlia prodiga nel 1967; tra le due intercorre un interessante scambio di
lettere e si fonda su curiosità che la Corti rivolge alla scrittrice esordiente legate alla
lingua del suo libro. Maria Corti dice che il libro le sembra molto ciceroniano, con un uso
molto desueto di forme della retorica classica; nella prima lettera di risposta la Ceresa
dice che la sua lingua di base è l’italiano, parlava correntemente le altre lingue ma non
parlava il latino: la percezione che l’orecchio di letterata della Corti ha percepito viene
negata dall’autrice. Questo non conoscere il latino non significa non aver assimilato le
ricadute che lo stile degli oratori hanno trasferito in secoli di letteratura italiana.
Anche lei, come Meneghello e Manganelli, fa un esordio tardivo come romanziera, che
è segnato da una parte da cura e lentezza dell’autrice, dall’altra è qualcosa che nella
mente dell’autrice non è segnata da quella data.
Ceresa pubblica:
1. La figlia prodiga55
Tematica
L’ineguaglianza femminile è il tema principale de La figlia prodiga; nel vocabolario
italiano il termine prodigo ha un significato abbastanza positivo, in realtà la parabola
evangelica contiene il termine con accezione negativa. La Ceresa inizia il suo libro
dicendo che di figli prodighi ce ne sono stati tanti e il ritorno della pecorella smarrito è
segnato da gioia, non da punizione o rancore. È una storia al maschile, al femminile non
andrebbe alo stesso modo, perché la prodigalità di un soggetto femminile non sono non
sarebbe socialmente accettabile, ma non sarebbe perdonabile e non ci sarebbe il
ritorno gioioso.
- Il figlio della parabola usa delle ricchezze della famiglia a fini improduttivi
- è prodigo di sé anche nel senso del proprio corpo perché sperimenta i piaceri
della carne non nella forma autorizzata del matrimonio ma di una sessualità
occasionale, che non lascia segni sul corpo del maschio, mentre lo lascia sul
corpo della femmina.
La prodigalità più temibile per la donna non è quello dei beni, è quella del
proprio corpo, cioè la perdita della virtù e della verginità, quindi anche
quelle forme di esplorazione della sessualità.
Struttura
Esattamente come Manganelli, anche la Ceresa sceglie la strada del trattato, di una
trattazione che è logico-argomentativa. Tutto il libro è giocato sulla volatizzazione sia del
personaggio che delle attese del lettore; il libro continua a ruotare intorno a un centro
vuoto. Oltre a Maria Corti, uno dei primi che si accorge della scrittrice è Manganelli, che
riceve il libro in lettura. La Ceresa usa un linguaggio sintatticamente simile a quello di
Manganelli: ha un gran numero di incisi e questo approccio astratto alle questioni,
In questo testo l’impressione è quella di ascoltare una voce, che però presenta una sorta
di duplicità:
Nella Figlia Prodiga con la forma del trattato cerca di affrontare il tema della condizione
e differenza femminile; nel suo libro si cerca sempre di evitare di dire le cose, si lavora
sulla costruzione di personaggi sempre per sottrazione. Non è semplicemente anticipare
delle tematiche e poi eluderle; lo dice l’autrice in un’intervista del ‘67: la fisionomia del
personaggio è incisa in negativo.
La fisionomia è incisa in negativo perché quel poco che ci viene detto è sempre nel
segno della mancanza, dall’altra ciò che viene detto è dominato da una forma
espressiva del controllo e del potere, della maggioranza che è composta da un pensiero
maschile o anche se femminile è omologata. Allora l’essere scandalo del personaggio, il
suo non essere inscrivibile in ciò che è universalmente positivo, nasce dal contrasto tra la
voce che si fa sempre più negativa e questa esistenza che nega a tutto ciò che le sta
intorno di agire su di lei, si sottrae, e non ha paura di sottrarsi venendo etichettata come
degenere, ma, pur non avendo paura di farlo, è costretta alla dissimulazione. L’elemento
della dissimulazione è fondamentale, implica la malizia e la volontà di nascondersi; ci
sono difetti di natura e un difetto legato alla volontà. Il testo ci sta portando a vedere
come quella dissimulazione nella maggior parte dei casi è obbligata, perché quel
soggetto non è in grado di essere libero, è costretto alla dissimulazione. I difetti di natura
vanno interpretati come elementi che un certo sistema di valori addita come
inaccettabili, quindi espulsi dalla comunità. In gioco c’è una conflittualità tra un sistema
(patriarcale) e un soggetto femminile, che nasce in questa situazione di sottomissione,
che però non accetta di riconoscersi in quel sistema e l’unico modo per sottrarsi è la
dissimulazione.
Trafila editoriale
A chi le contesta l’incomprensibilità del suo libro, la Ceresa dice che quella lingua è
necessaria lì, ma nel corso del suo progetto si semplificherà: la seconda e la terza parte
hanno un linguaggio più astratto ma più comprensibile. Si verificano due rifiuti editoriali
per il libro, ma totalmente diversi;
Botteghe Oscure è una rivista molto importante negli anni ‘50 e Giorgio Bassani era una
delle menti della rivista; quando negli anni ‘50 arriva questo testo di una scrittrice
sconosciuta tratto da un’opera che si chiama Ratto delle Sabine, a Bassani il testo piace
e lo pubblica. Alla fine degli anni ‘50 Bassani riceve in lettura una delle prime versioni
della Figlia Prodiga da quella scrittrice che aveva già apprezzato, ma rimane molto
deluso dal libro e le scrive una lettera.
Il testo arriva anche in visione a Vittorini, che glielo rifiuta perché è un tipo di scrittura
troppo sperimentale per il panorama italiano di quel momento ma gli interessa,
potrebbe andare bene su rivista a puntate; Vittorini la incoraggia e la Ceresa appronta
una nuova stesura, probabilmente la terza
Nel 1965 esce il numero 8 del Menabò, momento di massima tangenza tra Vittorini,
Calvino e la neoavanguardia, perché lì dentro viene pubblicato un gran numero di testi
di autori simpatizzanti con il movimento ‘63 (Manganelli pubblica qui Difficoltà di parlare
coi morti). In questo numero c’è anche la Ceresa; La figlia prodiga è un riflettere su cosa
potrebbe essere un non allinearsi di una figura femminile in una società patriarcale.
Dopo il ‘65 riparte lo scambio epistolare con Vittorini, che aveva avuto un lungo
momento di sospensione. Il percorso editoriale e filologico di questi scambi segna la
valutazione in senso positivo di uno dei testi più ostici prodotti in quegli anni, ma è la
volontà di Ceresa che così come parla di una figura rimossa legata e negata in un
orizzonte patriarcale, anche da un punto di vista stilistico opera una scelta in
controtendenza con qualunque forma preesistente. È singolare che un libro così ostico
per materia e forma venga comunque riconosciuto da alcuni intellettuali.
Quella perplessità che aveva accompagnato Vittorini, con Calvino viene superata.
9 NOVEMBRE 2022 – LEZIONE 16
Manganelli e Giuliani
Durante il convegno, Manganelli prese una posizione molto netta sul tema: il romanzo
sperimentale è desueto e irriproducibile; di conseguenza il loro è un dibattito inutile.
Questa presa di posizione rappresenta uno dei filoni più estremi, anche se sono in molti
condividere, magari in forma più ridimensionata, questa opinione.
Giuliani in particolare sposa questa idea, e propone di pensare all’archetipo della nostra
letteratura non nei Canzonieri ma nella trattatistica; propone di pensare all’anima della
nostra letteratura come al Tesoretto di Brunetto Latini. Tra le righe Giuliani dice una cosa
che interessa molto anche a Manganelli: propone di sostituire l’impianto del romanzo
con quello del trattato; e il trattato, soprattutto quello medievale, è una struttura pensata
per essere molto articolata e logicamente percorribile.
56 Piccola casa editrice romana fondata da Marco Chianese e Lorenzo Flabb, laureato
dell’Unibo. Hanno portato in Italia molti autori sconosciuti al nostro paese come Annie Ernaux,
premio Nobel per la letteratura di quest’anno. Una serie di questa casa editrice si chiama
fuoriformato, che vogliono essere la rinascita di una collana che Andrea Cortellessa aveva
lanciato anni fa per Le Lettere. Il fuoriformato è una rappresentazione teatrale che ha una
estensione diversa dalla durata standard di uno spettacolo (es. 15 minuti o 12h): questo tipo di
spettacolo ovviamente si addice a un festival, non a una stagione teatrale di un teatro stabile.
Questo concetto applicato in letteratura Cortellessa vuole usarlo per restituire visibilità e
circolazione a testi di grande originalità, qualità e impegno ma che magari sono usciti una sola
volta, sono introvabili, ecc. Testi nati nel segno di una riottosità a inserirsi in una collana standard.
Cortellessa pubblica un numero importante di fuoriformato con Le lettere, ma l’editore decise di
tagliarla e la chiuse perché non si vendeva abbastanza (una collana che ha fallito il tentativo di
forzare l’editoria). Cortellessa dà allora una seconda chance a una casa editrice molto più
piccola, ma che condivide le premesse del progetto. Ad esempio, troviamo la raccolta poetica
completa di Emilio Villa.
A noi interessa perché questa casa editrice ha pubblicato gli atti del convegno del gruppo 63:
“Gruppo 63. Il romanzo sperimentale. Seguito da Col senno di poi”. L’orma ha deciso di
ripubblicare il libro aggiornandolo con una attualizzazione del dibattito sull’argomento: la
seconda parte del libro contiene interventi di critici che erano presenti al gruppo 63, oppure di
critici successivi. All’epoca della ripubblicazione Manganelli non era più vivo.
Umberto Eco
Nel ‘62 aveva pubblicato Opera aperta, ottenendo una grande eco e diventando una
celebrità, in cui offriva una sorta di messa in chiaro delle poetiche dell’indeterminazione
e della necessità della collaborazione del lettore nelle opere contemporanee: Eco
propone cioè un’opera dove non si dà una sistemazione unica e definitiva delle sue
componenti, ma al fruitore è offerta una significativa possibilità di interazione: non solo
nel fare arte, ma anche come segno di un impegno sulla realtà. E’ l’idea di un’opera
d’arte che costringe ad interagire con essa per essere fruita e non solo a consumarla,
creando un nuovo tipo di fruitore che non è passivo, e che può portare questo nuovo
modo di interagire con la realtà anche in campo politico. È un’opera che vuole formare
una categoria di soggetti critici e attivi.
Opera aperta era per questo diventato quasi immediatamente un manifesto del gruppo
nascente nel 1963 a Palermo, di cui Eco era appunto uno dei critici più illustri.
Eco sostiene che esista nella storia delle forme una dialettica inevitabile tra convenzione,
rottura della convenzione e nuova codificazione, e che quella rottura, a distanza anche
di poco tempo, diventa vecchia: aveva chiaro che i materiali estetici nel Novecento
invecchiano più velocemente; non ha torto quindi quando dice che ciò che sembrava
attivo tre anni fa ora ormai è vecchio.
Sarà Eco che, molti anni dopo i furori saggistici, inaugurerà una nuova stagione del
romanzo italiano col Il nome della rosa, che è un libro che funziona come esperimento di
straordinaria efficacia, facendo da una parte tesoro della cultura e competenza tecnica
di Eco, dall’altra si configura come oggetto straordinariamente leggibile: cioè, una forma
nuova di opera letteraria di avanguardia spendibile sul mercato. Le forme sono dotate di
maggiore leggibilità, anche se questo non significa “svendere” la qualità o concedersi al
mercato. Ad esempio, non è che Alice Ceresa scriva La morte del padre e Bambine
pentita de La figlia prodiga; sta solo facendo i conti con quello che la realtà impone.
Allo stesso modo, anche quello di Eco non è un percorso di pentimento: semplicemente,
va da un momento di massima rottura, violenta, dei codici, a un momento di
codificazione capace di sfruttare ampiamente le logiche del mercato.
Articolo di Umberto Eco pubblicato su «L’Espresso» del 26 giugno 1966
Risposta di Umberto Eco57 alla lettura pubblica di alcuni brani de La figlia Prodiga
durante un convegno del gruppo 63 a La Spezia nel 1966, poco prima della
pubblicazione del libro:
Ho sul tavolino tre libri e un fascicolo d’appunti, e tra i quattro testi corre come
un’aria di famiglia.
Secondo Eco, l’opera di Perniola offre una possibilità interpretativa che tiene insieme
tante risorse: identifica un nuovo genere, il metaromanzo, che riflette su di sé e sulla
possibilità di raccontare una storia.
- Alice Ceresa, già presentata da Vittorini sul “Menabò”, ha letto alcuni brani di
quel suo “La figlia prodiga” che altro non è che una puntigliosa, raziocinante
discussione sulle possibilità di cogliere narrativamente il personaggio del
romanzo, che sta sempre “al di qua” di una narrazione mai abbordata […]
- Dal canto suo, Roberto Di Marco ha letto un passo di un’operetta […] intitolata
“Telemaco”, in cui il principio del metaromanzo è portato all’estremo […]: il
racconto indugia su tutte le vie che potrebbe prendere, e le propone tutte al
lettore.
Così, attraverso le varie discussioni, a La Spezia s’è profilata come sempre più
probabile l’idea di una narrativa che, perduta nell’interrogazione di sé, si
presenti come matrice di tutti i romanzi possibili e perciostesso illeggibile,
come un sacrificio compiuto per portare a termine un destino... È certo che
una letteratura che si assume il compito di portare il romanzo alla negazione di
sé, deve essere pronta a intravvedere altre vie. O ritornare al romanzo leggibile
[…]
57Il dibattito di Palermo non fornisce una risposta unitaria alle possibili incarnazioni del romanzo
sperimentale, ma pone problemi e offre risposte individuali.
La scuola di Palermo: Di Marco (Fughe), Perriera, Testa
Fughe di Roberto Di Marco è un libro scritto da un intellettuale palermitano, scrittore e
saggista, uno dei fondatori del Gruppo '63, in seno al quale ha rappresentato, assieme a
Michele Perriera e a Gaetano Testa, la cosiddetta "Scuola di Palermo".
Eco è uno dei primi che porta in Italia lo strutturalismo, parlando di un insieme di relazioni
significanti: non è importante ciò che è contenuto, né contano i vari elementi della
struttura, ma è importante vedere come l’elemento A si lega all’elemento B, ecc.: allora
La morte del padre è un’operazione strutturalista, perché riflette sulle conseguenze
all’interno di una famiglia di un soggetto che ha incarnato una pratica e un’ideologia si
prolungava al di fuori di lui nella società. Ceresa ha fatto un’operazione differente
rispetto a La figlia prodiga: prima ha adottato un punto di vista che non è suo, qui smonta
la struttura che è la pietra angolare su cui si costruisce la famiglia patriarcale. In questo
rapporto non importa meramente il contenuto, ciò che è significativo è come viene
costruita questa storia, che mostra le relazioni significanti. Il semplificarsi della scrittura
non è un venire a patti con le consuetudini, né dei lettori né del mercato.
3. Bambine
Bambine comincia con un’ambientazione urbanistica e sta costruendo il sé del suo
racconto come un disegno che si riempie di pieni e di vuoti, sta mettendo in scena la
costruzione del suo ambiente, per poi mettere al centro dell’analisi una famiglia
patriarcale in cui si trovano ad essere gettate nel mondo due bambine. Il movimento
della scrittura non finge mai il realismo.
16 NOVEMBRE 2022 – LEZIONE 18
Giuseppe Fenoglio58
Fenoglio si dimostra fin da giovane un uomo curioso, a dispetto della sua posizione
sociale (condizione umile) viene iscritto al liceo classico, tradizionalmente frequentati da
borghesi che avrebbero avuto modo di dedicare la vita all’attività intellettuale, non
dovendosi dedicare al lavoro manuale, che invece avrebbe atteso Fenoglio. La famiglia
riconosce in Fenoglio le sue doti e da qui la scelta di iscriverlo al liceo classico di Alba.
La critica fenogliana
Fenoglio è molto studiato, a livello accademico il numero dei titoli pubblicati sono alti
(non Pasolini ma nemmeno Meneghello); ma se anche qui ordiniamo in senso
cronologico questa ricerca, notiamo che la critica si sta orientando sempre di più a un
Fenoglio minore; evidentemente il maggiore è quello che ha dato a sé e alla cultura
italiana grandi testi, non solo sulla letteratura partigiana, ma sicuramente è una bella
fetta. Per esiti, per quantità e per riconoscimento critico, dunque, chiamiamo il Fenoglio
della lotta partigiana il Fenoglio maggiore; anche se appunto notiamo un rivolgimento
interno alla critica: non per disconoscimento del Fenoglio maggiore, ma forse per la
riscoperta del valore di opere e testi che avevano un grado di finitura o di pubblicabilità
minore ma che comunque rappresenta parte dell’esperienza dell’autore.
I modelli di Fenoglio
Una parte della critica sta studiando la biblioteca di Milton (alter ego di Fenoglio, nome
parlante che dichiara una certa ascendenza); sto parlando di un procedimento
fondamentale per lo studio di un autore, non solo il compendio libresco effettivamente
posseduto dall’autore, ma anche e più significativamente la biblioteca mentale che ha
dato corpo alla sua fisionomia di scrittore e ai suoi testi.
Di Fenoglio abbiamo perso molto del suo caotico materiale durante un trasloco. Quando
ci rapportiamo a questo autore dobbiamo pensare a uno stato drammaticamente
caotico di questa impazienza, di questa vita che gli faceva cambiare progetto,
abbandonare scritture, eccetera. Il quadro dell’opera di Fenoglio dal punto di vista
filologico è estremamente complesso.
Ad es. Il partigiano Johnny ha cambiato forma più volte; fare i conti con questo autore
significa fare i conti con un uomo estremamente fluido
1. Il modello britannico
La letteratura inglese
Cime tempestose, come classico di letteratura romantica, è un libro che ha grande
successo fin da subito; ci consegna un’immagine memorabile, forse anche stereotipata,
del romanticismo; un testo incentrato su una storia d’amore totalizzante e in questo
sconvolgimento gioca un ruolo fondamentale il paesaggio inglese, caratterizzato da
elementi come fango, ghiaccio, neve, pioggia, vento.
È una delle letture scolastiche di Fenoglio, che quindi si colloca nella mente, nell’anima
sensibile e malleabile dell’autore. È un’opera che lascia traccia, un’impressione
precoce; vengono fatti anche dei film, che arrivano in Italia, in particolare tra il ’39 e il
’46, la cui impressione si somma alla prima, insieme a quella della rappresentazione
teatrale. Se ci può sembrare formato già all’esordio, Fenoglio procede per tentativi.
• La voce nella tempesta è un testo che Fenoglio giovane scrive dopo averlo letto; ci è
giunto in una copia posteriore del 1960, non sappiamo il momento preciso della sua
scrittura, ma è probabile che sia giovanile. È un esperimento, il saggio della Vatteroni
studia la relazione tra questo e Una questione privata.
- La tematica amorosa, dichiaratamente totalizzante, che colonizza anche lo
spazio esterno all’io
- Il racconto dell’esperienza partigiana, altrettanto assoluta e devastante
C’è però una differenza, una tonalità che diverge tra questo e gli scritti successivi:
a. La voce della tempesta mantiene una tonalità tragica tipica del romanticismo
b. Appunti partigiani invece si sposta più sull’eroicomico (che comunque non è
l’ironia meneghelliana)
La letteratura americana
• La paga del sabato, sembra costruito attorno a due personaggi che ricordano il
racconto di Steinbeck59 Uomini e topi (tradotto da Pavese come Moby Dick)
2. Il modello biblico
Il modello biblico nella sua manifestazione americana, puritana, protestante, è
fondamentale; la conoscenza precisa della bibbia nei testi americani è tangibile.
Evidente anche qui come il mondo di Fenoglio sia profondamente intriso delle
esperienze che lo hanno accompagnato.
Uno di questi generi poco frequentato è proprio il teatro. L’Edipo re è forse la tragedia
per eccellenza; osserviamo una questione privata: il testo è tutto incentrato sulla volontà
di conoscere una verità, è il motivo generatore del testo, solo che quella ricerca della
verità alla fine lo perde, lo fa sprofondare in una dimensione sempre più simile a quello
della cecità: è evidente il modello dell’Edipo Re. Il punto forte è che poi il protagonista
tragico non può sottrarsi al meccanismo tragico, anche quando Edipo scappa da
Corinto pensando di sfuggire al fato in realtà gli sta andando incontro. Il meccanismo
tragico non prevede vie d’uscita, in questo Una questione privata è assolutamente
sintonico.
59 Modello realista
4. Il modello cinematografico
Quando esce Primavera di Bellezza, il testo avrebbe dovuto far parte di un grandissimo
romanzo in progetto che però Fenoglio non pubblicò mai, su consiglio dell’editor di
Garzanti: il libro sarebbe diventato troppo lungo, stralcia le prime 80 pagine, aggiunge
una fine repentina dopo l’8 settembre e viene così pubblicato da Garzanti come testo
autonomo. Alla sua pubblicazione, il testo muove l’interesse di alcuni produttori
cinematografici; non aveva la eco che avrà in seguito ma comunque Fenoglio
confermava la qualità di un autore in crescita (F. comincia a scrivere nel ’52); riceve una
proposta da un produttore cinematografico (è un testo privo di connotazione partigiana
perché si ferma all’8 settembre, siamo nel ’59, il cinema italiano è in fase di racconto
della storia nazionale con esiti anche molto alti). Il progetto del film non va in porto ma
Fenoglio riconosce nella lettura del produttore qualcosa in sintonia con il suo lavoro:
Pavese, iniziatore di quello che più volte chiamiamo il culto dell’America, già guardava
con interesse alle narrazioni americane capaci di trasformarsi immediatamente (in
Hemingway, in Steinbeck) in una trasposizione filmica, per la loro asciuttezza. Di fronte a
questa proposta Fenoglio inizia a pensare a una sceneggiatura cinematografica, a un
testo che nasca direttamente per essere rappresentato su pellicola. Il salto verso il
cinema in quegli anni era un obiettivo comune a molti scrittori, voleva dire sicurezza
economica e celebrità; nel caso di Fenoglio non sono queste le ragioni ma più un
interesse per un certo linguaggio.
In parallelo con questa sceneggiatura, che comunque avrà come oggetto una
narrazione di tipo partigiana, ci sono L’imboscata60 (1960-1961) e Una questione privata61
(1962-1963): per i due libri prende quasi la stessa trama, ma introducendo alcuni
elementi che li modificano. Un’idea di letteratura molto alta ma che privilegi la parola
detta e agita: il cinema a questo scopo si prestava sicuramente, forse quasi più del
teatro, che in Italia in particolare aveva patito la stagione più naturalista e pirandelliana.
Ora parliamo dei tentativi successivi di adattamento cinematografico che in questi anni
sono stati fatti del Partigiano Johnny (2000) e Una questione privata (2017). Sono
riproduzioni piuttosto fedeli che fanno presupporre una certa confidenza con lo specifico
filmico:
Una quesitone privata secondo il prof è un bel film; l’attinenza alla trama è mediamente
alta: facciamo i conti con un autore con cui dobbiamo legittimamente percepire due
piani separati:
▪ Il lavoro sulla trama
▪ Il lavoro sulla lingua e sui significati che è nascosto dentro la sostanza del testo
Anche il Partigiano Johnny è molto fedele, si usa la camera a mano per dare vicinanza
alla prospettiva dell’attore, ma non ci si avvicina troppo all’esperienza reale; l’opera di
Fenoglio è molto più di questo. È un peccato perché il cinema non è un’arte
banalizzante, potrebbe attingere a certi livelli di profondità, ma in questi due film no.
60 Incompiuto, 30 capitoli previsti, ce ne sono solo 21, anche se sembra assolutamente compiuto
61 Ultimo libro
Il partigiano Johnny
Spesso la critica parla della resistenza in Fenoglio in termini di antieroico. Sicuramente
Fenoglio e Meneghello hanno toni diversi (Meneghello grazie alla sua ironia britannica
stempera un po’ la componente sublime ed eroica) ma raccontano entrambi di una
disillusione. Eppure, con una differenza: se l’ironia di Meneghello62 impedisce di
presentare qualunque racconto come eroico (non eravamo buoni a fare la guerra), in
Fenoglio in realtà dell’eroismo avvertiamo l’odore un po’ dappertutto. Non è uno scrittore
retorico, ma non è nemmeno autoironico. Ce n’è nei racconti di Fenoglio un che di
eroismo: la percezione dell’eroismo della resistenza (non tanto nei termini
dell’aggressività) in Fenoglio c’è. Allora dove sta la narrazione antieroica?
Spinazzola usa il termine epico anziché eroico, termine che ricorre spesso nei manuali;
ma perché allora le narrazioni di Fenoglio sono antiepiche? Perché la maggior parte dei
suoi scritti sono fatti di comunità che tendono a sfrangiarsi: e se ci pensate, ogni volta
che si parla di un’epica si parla del popolo; non si dà epica del singolo63. L’antiepica di
Fenoglio va contro l’epica della resistenza, raccontata come un fenomeno di gruppi
all’interno dei quali l’individuo contava poco. Uno dei motivi fondamentali per cui
Fenoglio e i suoi alter ego protagonisti sono antiepici è il fatto che l’esperienza che ha
fatto è più dura forse di Meneghello, l’esperienza di una impartecipazione.
62 Noi abbiamo in programma due autori, vicini ma lontani, Meneghello e Fenoglio, le cui
differenze abbiamo già intravisto. Entrambi fanno tesoro di una proficua interazione tra lingua
italiana, inglese, dialetto, ecc.; entrambi gli scrittori di grande qualità stilistica, che però si prestano
in modo molto diverso all’antologizzazione:
• Meneghello è un giardino di delizie, dovunque si ritagli si pesca bene, la sua pagina ha una
qualità iridescente, molteplice, ed è pertanto facilmente antologizzabile, da molti punti di
vista
• Fenoglio si presta meno all’antologizzazione, non perché sia meno bravo, ma è fatto così!
Hanno due modi diversi di costruire il loro testo, due modi diversi di usare gli strumenti retorici il
testo di Fenoglio funziona sulla lunga durata, anche sul piano metaforico.
Ad esempio, le metafore paesaggistiche a sfondo erotico potrebbero sembrare grevi o gratuite
se considerate nel loro particolare: sarebbe un errore di antologizzazione, perché si avrebbe
messo in eccessiva luce un dettaglio che trova la sua giustificazione solo nella lunghezza
dell’opera. Gli spostamenti, le modifiche, sono causate ovviamente da un tipo di vita come
quello partigiano: un mondo giovane tutto maschile, dove si percepisce una mancanza che si
traduce in allucinazione e visione. Fenoglio cerca di portarci il più vicino possibile ai personaggi,
facendoci entrare nella loro testa. In Fenoglio quasi sempre le cose ci arrivano come date, senza
spiegazione prima e dopo: cerca di calarci all’interno del presente, annullando le distanze
temporali. La sua scrittura è deforme, volontariamente sgangherata, punta verso il sublime.
Metafora e Menzogna, Weinrich: elabora il concetto di campo metaforico, che permette di
vedere una trama sottostante al testo, la trama del movimento di immaginazione, legato alla
contiguità, alla somiglianza che sono richiamati direttamente dalla metafora. Meccanismo
interno a un testo per cui le metafore in un autore sono legate a uno schema.
Charles Mauron, Dalle metafore ossessive al mito personale: testo emblematico di questo tema,
investigazione sul ritorno di certi elementi linguistici, che se presi singolarmente non ci dicono nulla
ma che possono dirci molto sull’autore se prese in relazione tra loro.
63 Epica di popolo non nel senso che tematizza la storia di un popolo, ma nel senso che l’epica
codifica l’idea che un popolo ha maturato di sé, o una serie di valori in cui si rispecchia.
Quando il giovane Fenoglio si unisce ai partigiani rossi non si trova bene, sono gruppi che
percepisce come eccessivi ed impartecibabili. Dopo un breve periodo nei gruppi
comunisti (rossi) si sposta nel gruppo dei badogliani (azzurri), più sintonici a lui dal punto
di vista ideologico, ma meno dal punto di vista del rigore e del metodo. La formazione di
Fenoglio (liceo classico) aveva contribuito a dargli un background culturale che in quegli
anni costituiva uno spartiacque sociale molto forte, una ideologia marcatamente
piccolo-borghese come quella dei badogliani; trova però con gli azzurri (che sente
anche forse più culturalmente arretrati) una faciloneria nei modi che lo irrita e lo disgusta
(in questo quella del partigiano Johnny è esattamente sovrapponibile all’esperienza
biografica di Fenoglio).
Fallimentari entrambe le esperienze, inverno del ’44 terrificante e durante cui le bande si
smembrano, le attività si fermano (come nelle guerre degli antichi). Qualcuno torna a
casa, altri restano nascosti, ma questo non voleva essere al sicuro. Fenoglio (e Johnny) lo
passano da soli nelle colline/montagne, senza niente da mangiare e scaldarsi. Questa
esperienza, assolutamente estrema, è quella raccontata nel libro di Johnny: una
solitudine totale ma allo stesso tempo la determinazione stoica a non mollare.
Non si può essere partigiano così o cosà, partigiano è una parola assoluta
Eppure, il libro mostra che di partigiani ce ne sono diversi tipi! Quella frase che in qualche
modo apre il libro è tanto una dichiarazione a cui Fenoglio rimane fedele tutta la vita,
ma il racconto è la dimostrazione di come quella dichiarazione si scontri con la realtà! È
un’idea che in sé rimane valida (Partigiano è chiunque si opponga al fascismo) ma che
si corrode nelle sue pratiche.
La dimensione assoluta, eroica, che non vuole cedere, si può tuttavia estrinsecare solo
nella solitudine, tragica, perché espone il personaggio a una serie di conflitti irresolubili:
- dimensione del partigiano Johnny quasi totalmente priva dell’eros nel senso di legami
affettivi, c’è solo l’eros fisico e l’amicizia insediata dalla morte e dal graduale sfibrarsi
di ogni gruppo: lo potremmo dire un libro senza amore e pieno d’odio
- Una questione privata, fortemente permeato dal tema, se si considera che la sua
declinazione della gelosia è capace di mettere in secondo piano anche i temi della
morte e dello scontro.
È un libro che mette in primo piano la tematica dell’amore, in modo molto fenogliano: i
tre protagonisti sono Milton, Fulvia e Giorgio, eppure due non li vediamo quasi mai se
non attraverso gli occhi di Milton stesso; sono sostanzialmente dei fantasmi, che hanno
una straordinaria vivacità ma che non vediamo mai. Tutto quello che è il tema del libro
noi lo scopriamo tra il primo e il secondo capitolo.
Il libro si apre con una contrapposizione tra presente e passato, che alterna fotogrammi
di una villa brutta e disabitata e lo stesso luogo visto prima della guerra, ancora vivo.
Dettaglio di Fulvia sul ciliegio; interessante passaggio:
L’unica cosa che non passa attraverso il filtro di Milton è il contenuto del racconto della
governante; il dolore dell’assenza non è infettato dalla gelosia fino a questo momento, se
non nel punto in cui all’interno del ricordo in cui Fulvia e Milton parlano, e, mentre lei
menziona le sue future nipoti, in Milton si affaccia il timore di non essere partecipe a
questa vita futura di lei. A metà del capitolo arriva questa voce dall’esterno che mette in
moto la trama.
Capitolo 11
Racconto di Matè della maestra fascista:
È una pena che ha un risvolto simbolico molto forte e legato alla sessualità, la
capigliatura lunga è una valenza erotica. È una castrazione simbolica, sul femminile, una
rimozione violenta di un tratto eroticamente connotato.
È tanto vero che, durante la scena di questa punizione raccontata da Matè si parla
proprio del fatto che questa maestra fascista.
• Riferimento alla visione delle gambe, perturbante: alla fine di questa scena c’è un
passo talmente breve che potrebbe passare inosservato ma è estremamente
emblematico di come queste punizioni avessero una connotazione sessuale: cosa
facevano? Dimmi cosa facevano? Si stanno masturbando, evidentemente: la
visione è talmente forte che necessita uno scaricamento, anche se non con uno
stupro di gruppo ma con la masturbazione
64Gadda, Eros e Priàpo, tentativo di applicare alla società del Novecento alcuni elementi della
cultura come il freudismo e la sociologia; testo sboccato, eccessivo, pieno di livore, espressionista,
perché sta scaricando sulla pagina una rabbia e un’ossessione, una frustrazione che viveva da
tempo, scaricata contro Mussolini e il fascismo. In questo saggio Gadda sviluppa l’idea presente
nella frase di Matè che allude alle fantasie sessuali femminili con il Duce. Quello di Gadda è un
saggio molto poco rigoroso, esprime idee misogine ma parla di questa ossessione del fallo di cui
la femminilità è succube con una dinamicità di scrittura senza pari anche se con poco rigore
scientifico, è molto idiosincratico.
Capitolo 12
Il capitolo è l’unico in cui la scena si sposta, non geograficamente, ma si abbandona il
focus dei pensieri di Milton, senza una dichiarata cerniera. Si presentano due ragazzini
prigionieri in una caserma fascista, che sarebbe azzardato anche definire partigiani.
Tutta la scena ha una sorta di doppia focalizzazione:
Questa contrapposizione di sguardi sulla realtà e su cosa può essere il futuro contiene
una fortissima carica di pathos non dichiarato (è l’unico punto in cui il pathos non è
estrinsecato, di solito ci viene comunicato attraverso il filtro del pensiero di Milton), ma
che comunque c’è. Si crea un pathos per integrazione da parte del lettore, è il lettore
che percepisce l’aberranza della scena anche se non viene esplicitato.
Milton trasgredisce alle regole per tutto il romanzo e si salvs, mentre i due ragazzini sono
la dimostrazione di come il rispetto di esse porti alla distruzione di sé. Uno degli episodi in
cui disubbidisce è l’episodio della cattura del fascista, venendo meno anche poi al
principio base dei partigiani del non uccidere: dimensione ludica ed emotiva che in
Milton è rappresentato nel voler agire a tutti i costi di testa sua, e dall’altro una
dimensione più globale dell’ufficiale fascista di cui Milton non si interessa perché la sua
questione privata prevale su tutto.
Cos’è la critica stilistica? Per come io la intendo, è stata applicata nel modo più
interessante da Leo Spitzer, che ha dato un contributo formidabile proprio al modo di
studiare la letteratura. Per come la intendeva Spitzer65, quella stilistica si concentra sullo
scarto dalla norma, cioè quella percentuale di differenza di un qualunque elemento di
linguaggio di uno scrittore, che lo differenzia dalla restante comunità dei parlanti; e
questo si può interpretare in molti modi
La bibliografia di Spitzer ha una tappa legata alla storia italiana: Lettere dei prigionieri di
guerra italiani. Spitzer si trova ad essere responsabile della censura in quest’epoca, ma
dopo la fine della guerra fa tesoro di questa esperienza che gli permise di studiare la
lingua dei semicolti o analfabeti che dettavano le lettere, e inizia a ragionare sugli scarti
dalla norma di questi semicolti (ancor più difficile che su un poeta). E questa lingua dei
semicolti, considerata spazzatura, ha una straordinaria vivacità, comunica in modo
molto potente. Queste osservazioni trovano una sorta di sintesi in quest’opera.
Lo scarto dalla norma è un modo per mostrare che io non potrei dire le cose in un
altro modo. Il dramma dei libri di oggi è che sono tutti scritti uguali, sono pensati
per farci sentir al sicuro e dire le cose esattamente come le diremmo noi. Lo
scarto dalla norma è esattamente il contrario di questo.
65 Spitzer ha una storia interessante con una tappa legata alla letteratura italiana; Lettere di
prigionieri di guerra italiani, libro che nasce dalla riflessione su questi epistolari, e inizia a lavorare su
questi scarti dalla norma (che consideriamo da un punto di partenza radicalmente differente
rispetto a quello che si può osservare in un testo d’autore). Si rende conto che la letteratura
considerata spazzatura, e questa lingua, ha una straordinaria vivacità, anche quando
inaccettabile.
La critica stilistica in Fenoglio
Nel testo di Fenoglio a un certo punto troviamo un passo oggettivamente sconcertante;
suppongo che questo passaggio sia il cuore del libro, senza affermarlo con certezza. Se
c’è qualcosa nel testo c’è un motivo, già Freud diceva che il caso non esiste, che c’è
sempre una spiegazione, nei lapsus, nelle parole sbagliate, idem nell’investigazione sui
testi: perché l’ha scritto? Non parliamo per strada, leggiamo un testo scritto, stampato.
Voleva dirci qualcosa anche se non lo sapeva.
Fine capitolo 4:
• Si morde il labbro, cosa vuol dire? Perché? Stringere i denti perché gli fa male?
Sofferenza e silenzio.
• Darsi il borotalco…: di cosa ci parla questa immagine se non di una cura del
corpo?
• Aveva avuto tutto l’agio di considerare il corpo, la pelle, il pelo: una intimità
sempre più analitica, e poi aposiopesi. Qui la questione privata arriva quasi al
livello della coscienza; quasi, perché poi c’è una censura.
Non voglio negare che nella finzione del romanzo Milton sia davvero innamorato di
Fulvia, ma credo ci sia anche questo elemento omoerotico. Forse c’è una reminiscenza
di una scena di Moby Dick? Potrebbe essere una tecnica per significare un accenno
all’omoeroticità in contesti in cui la pratica eterosessuale è preclusa. Il mondo di Fenoglio
è profondamente permeato sia da modelli classici che anglosassoni, Moby Dick lo ha
tradotto per la prima volta Cesare Pavese.
Non tenere conto di questo passo sarebbe più complesso che interrogarsi sul suo
significato.
L’imboscata66
L’imboscata comincia con un’insinuazione: un contadino si reca da un gruppo
partigiano a denunciare una maestra, che accusa di ricevere un ufficiale fascista.
Delazione e insinuazione: aggiunge chiaramente che la relazione sul piano sessuale c’è
sicuramente; ma se oltre a concedersi raccontasse anche qualcosa dei gruppi
partigiani? Non è una denuncia di costume, è una denuncia di un’azione in qualche
misura bellica. Il meccanismo è simile a quello della governante in Una questione
privata.
Se fosse solo una porca andrebbe anche bene; ma se fosse una spia?
1. Episodio della posta alla caserma. Più il nemico è pericoloso, più è importante
sconfiggerlo, ma l’espressione credo si presti anche a un’interpretazione altra, più
erotica: Averlo, averlo!
2. Prospettiva del barcaiolo che guarda Milton, che sembra colorarsi di omoeroticità,
era sensibile alla questione; i costumi e le sensibilità e le pratiche cambiano nel
tempo, anche all’interno di una stessa vita e di uno stesso periodo: Era un bel
ragazzo, e sì che ne aveva visti di bei ragazzi
3. Battibecco con Jack io vado per l’uomo. Forse anche qui traspare un’allusione
omoerotica? Non solo rifiuta la possibilità di stupro, ma specifica l’obiettivo, mentre
tutti sembravano impegnati dal pensiero della donna
66I nomi in questo libro sono gli stessi che in Una questione privata e Nel partigiano Johnny
67Cf. Erodoto, cosa fare con i Persiani? Creso chiede agli oracoli, Delfi risponde in modo
enigmatico ma fededegno; ritiene allora quello di Delfi come l’oracolo più ispirato dal divino, e
porge la domanda: andrai in guerra contro Ciro, distruggerai un grande regno. Pensa allora di
essere predetto vincitore, e invece il regno che viene distrutto è proprio il suo.
Cosa sappiamo di Milton de L’imboscata
• Quando si decide di mandare qualcuno a fare un sopralluogo e tenere d’occhio la
situazione, il nome di Milton appare per la prima volta sotto il segno negativo: ci viene
presentato come l’ultimo che dovrebbe essere coinvolto in questa storia, ma non
sappiamo perché. C’è anche un altro elemento polisemico:
68Nel testo sono presenti degli appunti di scrittura: tra la denuncia e il momento in cui Milton si
mette in testa di andare a investigare manca il momento in cui viene a sapere della situazione,
che ci viene descritto solo in un appunto, evidentemente non sviluppato. È un libro incompiuto.
29 NOVEMBRE 2022 – LEZIONE 23
Guido Morselli
Autore che presenta diversi gradi di apprezzamento, come altri che abbiamo osservato
in questo percorso; un grado di apprezzamento non ancora commisurato al suo valore,
autore poco conosciuto e poco letto, anche se Adelphi non soltanto ha pubblicato
postuma quasi tutta l’opera di Morselli (romanzi, saggi, articoli, ecc.), ma ha anche
sistematicamente ristampato: questo significa che non è un autore scomparso, è
abbastanza reperibile.
1. Intanto Morselli si sottrae alla regola del centenario: è nato nel 1912 a Bologna; il
suo centenario qualcosa ha riattivato, qualcosa ha prodotto, ma non c’è stato un
vero e proprio mutamento di rotta.
2. Il centro dove vive la parte principale della giovinezza però è Milano; non
facciamo troppo torto al vero se lo immaginiamo autore lombardo.
Ma oltre alla Lombardia (ambiente sociologico rilevante) ci sono altri due/tre luoghi
all’interno di una biografia non particolarmente ricca di eventi:
Prima di rinchiudersi però nella sua tana ai piedi delle Alpi, Morselli viaggia, raggiunge
un’ottima conoscenza della lingua inglese e sviluppa uno sguardo cosmopolita.
Scrivere un saggio su Proust nel ’43 indica una apertura mentale non
comune.
Realismo e fantasia
Il secondo saggio che pubblica nel ’47 si chiama Realismo e fantasia, inizialmente
proposto a Mondadori e viene pubblicato a pagamento con Bocca; se il primo è un
tentativo di critica letteraria, il secondo testo assume invece una forma autorevole e di
lunga fama come il dialogo, che qui diventa occasione di riflessione teorica sulla
polarità realismo-fantasia, due poli che in modo diverso e con gradazioni diverse
abitano tutte le operazioni del Morselli; potrebbe sembrare un’ovvietà, nell’epoca del
neorealismo, e invece si ricorda qui l’importanza dell’elemento
immaginativo/fantasioso/creativo.
Fede e critica
Anche Fede critica esce quando Adelphi pubblica tutto, ma questo è un saggio
ripubblicato da Adelphi. Emerge una delle questioni che dobbiamo tenere presente per
capire l’opera di morselli, legata all’opera meno letta e meno nota in assoluto: il
rapporto tra fede e critica.
Perché fede e critica? Saggio a metà tra storia della religione, metafisica e
autobiografia ideale, tentativo di mettere a fuoco con le armi della ragione alcune delle
domande più profondamente inafferrabili dell’uomo, che l’uomo ha da molto prima
della nascita del cristianesimo. Impianto speculativo-meditativo dichiarato,
autobiografico e teorico allo stesso tempo.
Es. I capitolo: perché si soffre. Immediatamente si offre come qualcosa che muove da
un’inquietudine generazionale (ma personale) allontanando la sostanza biografica e
l’incertezza del singolo, riportando invece la cosa su questioni teologiche. Morselli non è
filosofo, non è teologo e nemmeno cristiano convinto.
Nel momento in cui Adelphi sceglie di pubblicare il primo libro postumo (Roma senza
papa), immediatamente la critica sembra accorgersi di questo formidabile scrittore. È
sicuramente un caso letterario, che si contrappone a Dissipatio H.G, presentando al
panorama italiano una figura estremamente originale e non incasellabile nel quadro dei
dibattiti, delle polemiche degli anni precedenti: un esordiente singolare, che di lì a poco,
appena finiranno di uscire nel giro di qualche anno, si presenta con una variegatissima
produzione, tutta ad altissimo livello; si offre immediatamente alla scrittura come caso.
1. Uomini e amori (’49-54): Morselli è anche uno scrittore dalle stesure multiple, non
per l’urgenza scrittoria tipicamente fenogliana, ma perché spesso nell’attesa di
risposte e riscontri torna sui testi e li rivede.
2. Incontro col comunista: primo tentativo di una scrittura che riemergerà anche
successivamente
3. Un dramma borghese (‘60): si svolge in un albergo, quasi un esperimento da giallo.
Padre e figlia, e una relazione quasi patologica; piena di disfunzioni, errori, sbagli,
linguaggi che non si incontrano. È un testo che mette in scena una delle grandi
questioni morselliane, non ultima la compresenza di un bisogno radicale
dell’individuo di solitudine e quello delle relazioni. È un libro che indaga il rapporto
tra due generazioni, due corpi legati ma estranei, indagate con un’intelligenza
speculativa e una discrezione uniche
4. Il comunista (‘64): sembrerebbe parlare di tutt’altro, un esponente del PC che
deve fare i conti con l’adesione (assoluta e convinta) al partito e con un difficile
rapporto tra la sua vita privata e le regole dettate dagli esponenti del partito.
Nella metà degli anni 60 Morselli ha già scritto Un dramma borghese e Il comunista. Sono
romanzi quasi gemelli: se osserviamo le trame ci portano molto lontani l’uno dall’altro.
Entrambi presentano uno di quei temi costanti della letteratura morselliana: il rapporto tra
l’io (che deve sottostare alle regole) e gli altri. Il primo presenta al massimo tre
personaggi, il secondo ne presenta moltissimi. Una parte della passione politica di
Calvino fa velo a Morselli: come gli altri morselliani, anche questo libro viene rifiutato.
Roma senza Papa
Roma senza papa è un romanzo fantapolitico, scritto nel ‘66 ma ambientato negli anni
‘90. Tanto per darci un’idea di contesto, gli anni in cui viene scritto sono anche quelli
dell’onda lunga del Concilio Vaticano II, durante cui Giovanni XXIII cerca di afferrare per
la coda la modernità che sta andando per la tangente e riformulare alcune forme per
adattarla almeno in parte alle necessità e alle suggestioni di questa. Un’istituzione come
la Chiesa cattolica spesso intransigente si trova ora non più al centro, e capisce che la
chiusura non è la strada. Banalmente, un esempio per tutti, la concessione che i rituali
principali si potessero celebrare in italiano e non in latino.
Quando esce il romanzo, in un tempo in cui è attivo molto il dibattito sulla fantascienza,
sulla apocalisse (guerra fredda, problemi climatici, ecc.), si presenta come più
fortemente anticipatorio di quello che è il clima e il pensiero del momento. Ma se
guardiamo la vita di Morselli e ripensiamo a Fede e critica, capiamo che la questione tra
fede e riflessione sul senso della vita e della morte accompagnavano Morselli da
tantissimo tempo. La scelta di dedicare questo libro al tema è un tentativo di indagare il
rapporto tra fede e contesto, un mondo in cui il meccanismo fideistico rassicurante e
produttivo diventa sempre più obsoleto, eppure diventa sempre più essenziale, di cui si
sente ancora il bisogno. Si hanno ancora inquietudini, l’inganno del consumismo è quello
di far credere che lo shopping compulsivo serva a essere felice, ma è un inganno.
Morselli usa la fede per fare delle domande, proietta i dubbi e le luci del pensiero
religioso in un contemporaneo sempre più lontano da questa fede, e ne osserva il
confliggere, senza scegliere una o l’altra.
E badate, che prima di Roma senza papa, c’è Il comunista: che è l’altra fede assente,
ma che Morselli usa esattamente nello stesso modo! Sollecita i problemi, i dubbi, le
contraddizioni: è un libro scritto da un uomo che non ha mai fatto parte del PC, ma che
si è documentato in modo impressionantemente precisa sul linguaggio, sui modi, sulle
dinamiche di partito. Quando dicevo che lavora sodo per i suoi esperimenti, intendo
questo, questo romanzo può essere considerato una specie di guida al comunismo per
quanto è preciso e verosimile.
La scelta di far attendere per tutta la durata del romanzo un personaggio non è
invenzione di Morselli, è già conradiano. Per tutto il tempo pensiamo al protagonista del
libro, Kurtz70, lo attendiamo tutto il romanzo, eppure quando arriva pronuncia due
battute e muore.
Merita una riflessione un saggio di Visentini dove si parla di Roma senza papa.
Il prof ritiene che ci sia un errore: evidentemente pur lavorando su Morselli pare che il
romanzo non gli piaccia, e questo è normale! Ma c’è un problema di interpretazione:
• Protagonista appena abbozzato. Non è vero! Sappiamo tutto di lui, cosa pensa,
sappiamo cosa legge, mi sembra di un personaggio che al massimo può essere
criticato per eccesso di presenza, non di assenza!
• Sentenzioso e libresco? Non è un difetto! È fatto così, è il delinearsi di un
intellettuale, non è strano che pensi così. Sostiene che don Walter sia la
personificazione, l’alter ego della voce parlante in fede e critica. Sarebbe un
problema? Credo sia una ipotesi interessante, non problematica. Pone le stesse
questioni di Fede e critica perché sono quelle che gli interessano, è sperimentale
perché cerca di mettere a tema le stesse cose in modi diversi, con una coerenza
di fondo.
C’è una sorta di cortocircuito tra la critica e il gusto (il finale è guastato) del critico: è
vero che lascia l’amaro in bocca questa udienza attesissima durante il corso del
romanzo; si pensa spesso a questo papa, alle ragioni che ha avuto per fare quello che
ha fatto, ecc., di cui ci sono riportate le pochissime battute: il finale non è guastato, è
iscritto nell’essenza del romanzo.
Conservatorismo e innovazione:
1. Il protagonista, prete svizzero a Roma per lavoro nel ‘62, trent’anni prima, è giornalista
dentro un organo cattolico e professore di eloquenza e storia, fresco della
pubblicazione di un saggio sulla Difesa dell’Iperdulia, da cui si capisce quindi che è
un culto quello della Madonna non solo in via di smantellamento ma anche oggetto
di un dibattito molto acceso. Questo teologo di formazione rigorosa sostiene che uno
dei segni più forti della decadenza del suo tempo sia che le questioni essenziali siano
devolute al pubblico e non all’apparato degli esperti. Questo per dire perché il
Morselli nemico della folla non è mai l’unico elemento di decifrazione: l’altro
elemento è sempre il collettivo, il mondo nel suo insieme.
2. Questo prete guarda una Roma priva di una figura di riferimento, sempre più ridotta a
luna park, attrazione turistico, un luogo di consumo frenetico. Roma modificata non
solo dalla modernità, ma anche da questa scelta epocale e per certi versi
scioccante (Giovanni XIV non a caso) del papa di trasferirsi in provincia. È un uomo
che si è ritirato, non come Benedetto XVI per motivi di età, ma per motivi di
anonimato, in una sorta di resort altrettanto anonimo pur rimanendo la guida della
cristianità, con una scelta di autoesilio.
3. Un altro modo con cui Morselli si relazione con l’innovazione è l’introduzione
dell’IPPAC, l'Istituto di Promozione della Psichiatria Cattolica. Quella che si riporta è un
tentativo di contaminatio che don Walter registra con sconsolata rassegnazione, due
dimensioni apparentemente inconciliabili che si scontrano senza produrre catastrofe,
ma metamorfosi. Secondo il prof è una delle modalità dell’apocalisse71.
4. Un’altra delle questioni che non abbiamo toccato è ovviamente quella del celibato
dei preti, e insieme a questa ce ne sarebbero tante altre. Il celibato che è un tema
forte della cultura cattolica, legata ovviamente al rapporto problematico tra corpo-
peccato-piacere ecc. Ovviamente nel contesto di un allineamento della chiesa alla
modernità non poteva non contenere anche questo. Il ragionare è un passo e un
elemento continuo di questo romanzo.
5. Quando don Walter e gli altri undici della delegazione hanno avuto udienza, tutti i
rumori di Roma li assalgono, rumori da cui il papa è scappato. Ritornando nel luogo
del frastuono e dei segnali sovrapposti tempestivamente, l’uomo è arrivato sulla
Luna72 (non era difficile crederlo nel 66, a differenza del discorso sulle droghe; anzi
sbaglia perché lo ritarda troppo). Ma si immagina che il primo a raggiungere la luna
sia la Svizzera, né USA né Russia, quindi forse una possibilità distensiva dal punto di
vista politico, che rassegna la competizione tra i due blocchi.
71 de Martino:
• l’apocalisse del sé, ed è proprio da lì che si parte in Dissipatio. È interessante.
• l’apocalisse cristiana, l’unica rettilinea tra le concezioni circolari dell’antichità
• L’apocalisse etnografica, in ottica colonialista: la fine di una società
• L’apocalisse marxiana, il rapporto tra preistoria e storia
• L’apocalisse nella letteratura.
72 Saggio di Cortellessa Volevamo la Luna, ricostruisce le fasi del mito della Luna e delle sue
conseguenze in letteratura
La navicella sulla luna innesca altre meditazioni un po’ cupe e sconsolate, Walter
pensa che l’arrivo dell’uomo sulla luna non prometta granché di buono, non perché
annunci qualcosa di male, ma perché rappresenti un’azione che non cambierà in
nessun modo, perché non ha una azione con un potere effettivo sulla natura umana.
Questa percezione non è del solo Morselli. Il tema del raggiungimento della luna è
molto antico, ma finché era fantasia era una cosa, ma dopo il ’69 questa fantasia si è
trasformata in una realtà vissuta da molti non come una avventura, ma come una
violenza, una violazione a qualcosa che era stato simbolizzato ma mai toccato; e
anzi proprio in virtù della sua intoccabilità aveva sviluppato un suo statuto romantico.
Lo scetticismo è anche di Zanzotto, che lo equipara a uno stupro, a una violenza su
due livelli:
• Il piano oggettuale, il fatto che il satellite sia stato toccato e imbruttato dall’uomo
• Il piano ideale e simbolica: il raggiungimento del sogno svela l’arido vero (più
arido della Luna…) Leopardi sapeva molto bene che una volta che il vero si
impone non si può più cancellare, non poteva esimersi dal coglierne l’aspetto
deprimente.
Morselli aveva toccato quella questione con qualche anno di anticipo: e chi aveva
visto in questa contesa due attanti principali si vede spostare da Morselli l’attenzione
su un terzo attore, la Svizzera. Sposta la questione dall’aggancio politico! A lui sembra
auna sorta di evento epocale ma con i piedi d’argilla, le magnifiche sorti e
progressive.
1. In queste pagine si menziona un allievo che si trova al centro di una questione una
questione un po’ problematica: il GR6, una droga, nella finzione romanzesca. Il
monologo interiore di don Walter è fortemente radicato nella sua cultura di
ecclesiastico, ma tradisce anche l’indole di persona molto attenta al dibattito
contemporaneo; ne è un esempio questa discussione relativa a una droga
allucinogena di cui gli ecclesiastici fanno largo uso e su cui si discute, proprio su
articoli in rivista che esistono solo nella finzione narrativa. Si dà per scontata la
conoscenza di questi articoli, sta parlando con sé stesso, e quindi non ha bisogno di
ricapitolare il dibattito. Colpisce che la posizione dei gesuiti siano a favore dell’uso
della droga, ci stupisce perché siamo abituati a una posizione di repressione: in
questa Roma si osserva il difficile convivere tra qualcosa di molto contemporaneo e
di molto tradizionale.
Quello delle droghe, che sembra un elemento marginale di Roma senza papa, è in
realtà uno degli aspetti previsionali più interessanti. È interessante perché don Walter è
scettico, ma sta parlando di un dato di fatto; quindi, di una società che è
sistematicamente e capillarmente consumatrice di droghe, e in quella modernità che ha
ucciso il divino, il divino stesso sta rinascendo dalle sue stesse ceneri.
Siamo negli anni 60, le droghe sintetiche stanno arrivando: non era affatto una realtà
conosciuta come invece in America, anche se in Asia magari erano già fortemente in
uso da tempo. Le droghe sintetiche sono una novità, anche la riscoperta di altre sostanze
come i funghi allucinogeni fanno parte della fascinazione per dimensioni iperspirituali ed
esotiche in contrapposizione al laicissimo e consumistico mondo occidentale. Tutto
questo non era affatto così globalmente percepibile negli anni Sessanta, le droghe che
esistevano allora erano tutt’al più usate dai negri musicisti, sia marginali che giunti a
successo. Eroina e cocaina tutt’al più, ed erano usate da ricchissimi o quasi. Ricordiamo
Zabriskie Point (film), un film che fotografa una situazione che si è andata diffondendo
rapidissimamente.
In questo momento (fine anni Cinquanta, primi anni Sessanta) la fantascienza sta
facendo i conti con una rivoluzione molto forte: prima della new wave degli anni 80 c’è
quella degli anni Sessanta di Philip Dick e James Ballard:
1. James Ballard73
Secondo l’autore è dentro le teste degli uomini che ci sono i veri abissi, non possiamo più
parlare di guerre intergalattiche, dobbiamo esplorare la fantascienza da dentro l’uomo.
73 Suddito inglese abitante delle colonie durante l’infanzia, catturato e recluso in un campo di
concentramento giapponese; esperienza di trasformazione radicale della propria dimensione: un
giorno si vive da signore, il giorno dopo il mondo va in pezzi e sei recluso. Esperienza che genera
molte delle grandi domande di Ballard, nei cui libri spesso il singolo ha a che fare con dimensioni
climatiche apocalittiche, esplorazioni di catastrofi naturali (la sua Tetralogia degli elementi è
composta da Il vento dal nulla, Deserto d'acqua, Terra bruciata, Foresta di cristallo) che lasciano
pochi sopravvissuti aggirantesi in un mondo frantumata. La fantascienza di Ballard è psicologica.
2. Philip Dick
Il mondo di Philip Dick è un mondo ipertecnologizzato, pieno di comfort e benessere, ma
nevrotico e paranoico, e freneticamente consumista. Dick capisce molto bene
guardandosi intorno fino agli anni Cinquanta è che tutto quell’insieme di casette che si
rappresenta come l’età dell’oro nel momento stesso in cui si verifica è anche una realtà
che nasconde delle profonde inquietudini e malattie; l’alcolismo è solo una di queste,
perché è una realtà tutta competitiva. Se pensate alla cinematografia, uno dei motivi più
frequenti è quello del Rise and Fall, e sono numerosissime queste ricorrenze. Qual è
l’elemento aggiuntivo che permette a Dick di diventare il più amato autore di
fantascienza? Il rapporto tra capitalismo e droga: capisce che la droga è
rappresentazione perfetta del capitalismo! Uscite dalla metafora: la dimensione del
capitalismo è quella della produzione di qualcosa di cui non puoi fare a meno!
L’America è il maggior consumatore e allo stesso tempo la maggiore economia che
mette in moto tutte le narcoeconomie.
Divertimento 1889
Mentre lavora alle sue ultime scritture (Contro-passato porta via molto tempo) scrive
questo gioiellino, un’appendice fantastica, Divertimento 1889: cosa succede a un re
continuamente obbligato a rispettare obblighi di nobiltà, obblighi di politica, se si
prendesse una vacanza dalle sue responsabilità e dalla deferenza che tutti gli
dedicano?
Dissipatio H.G.
E cosa succede a un suicida che decide di sparire, ma poi non ha il coraggio di fare
quello che ha deciso di fare, e al suo ritorno tutti se ne sono andati? È l’ipotesi tra il
fantascientifico e l’esistenziale che sostiene Dissipatio H.G., ultimo bellissimo romanzo che
come vedete era pensato nel suo impianto.
74 Fino a Dissipatio H.G. i libri di Morselli sono quasi tutti pronti per la pubblicazione.
30 NOVEMBRE 2022 – LEZIONE 24
Studia presso il Collegio Astori, ma non era un gran studente, per cui si creano tensioni
con il padre che gli finanziava gli studi.
Berto è cresciuto con gli ideali dell’onore e della gloria, abbraccia gli ideali fascisti
durante gli anni ’30, anche se poco consapevole di cosa stesse facendo, si arruola per la
guerra in Abissinia; si laurea a Padova in lettere (perché era la laurea che costava meno)
prima di ripartire un’altra volta.
Solo che era stato fatto congedare per l’ulcera duodenale, e non può ripartire: può farlo
solo arruolandosi come camicia nera nelle milizie volontarie, quindi viene mandato in
Libia, dove viene però imprigionato e portato in Texas. Curiosamente, negli stessi anni
(43-47) anche Morselli è isolato in Calabria. In questa situazione si dà alla scrittura ma
poco convinto di aver esordito letterariamente, perché la letteratura del tempo aveva
dei parametri molto lontani dalla lingua normale. Lui aveva già scritto un articolo di
giornale ma non si pensava scrittore. A Hereford, quindi, inizia a scrivere con uno stile che
pensa sia adeguato ma molto diverso da quello propugnato dalla retorica fascista: in
sostanza, scrive in neorealista senza saperlo. Poi si converte completamente all’ideale
democratico e capisce che il fascismo era stato una fregatura.
Riesce a tornare in Italia, pubblica con Longanesi (che lo pubblicizza come libro sulla
resistenza scritto da un fascista) Il cielo è rosso nel 1947, che diventa un bestseller subito!
Partecipa anche al Premio Strega senza vincerlo.
Nel ’52 muore il padre, e lui non si presenta al capezzale, per il senso di colpa di aver
partecipato a una guerra dalla parte sbagliata.
Nel 1957 pubblica Il brigante con Einaudi, approvato da Natalia Ginzburg (che non
aveva simpatia per i fascisti), quindi anche se gli davano del fascista l’approvazione sua
e di Calvino erano dei lasciapassare.
Guerra in camicia nera, sull’esperienza in Libia: Domenico Scarpa scopre che era stato
accettato da Einaudi, ma aveva traslocato e non aveva ricevuto la lettera; disperato si
butta quindi su Garzanti.
Nel ‘59 circa viene distrutto e bloccato da una nevrosi (agorafobia, claustrofobia,
attacchi di panico, ecc.). Compra allora un piccolo pezzo di terra a Tropea, e lì rimane
abbagliato dalla bellezza del posto; inizia a costruire con le sue mani delle casette,
come Morselli a Gavirate faceva lavori di muratura e giardinaggio. Per farsi curare
sceglie di affidarsi a uno psicanalista, forse incontra il migliore (Nicola Perrotti, freudiano)
in un periodo in cui non era molto di moda farsi psicanalizzare. Non ci credeva
pienamente, inizia a crederci pian piano, e forte della cura inizia a scrivere racconti Un
po’ di successo.
Adesso che è guarito Perrotti gli suggerisce di non tornare sulla bozza di un romanzo che
non riusciva a finire, per cui cambia soggetto e scrive Il male oscuro (1964) che è la
storia della sua nevrosi, e per raccontarla riprende tutta la vita, secondo un flusso di
pensieri che è tipico della terapia psicanalitica, scrive senza utilizzare le virgole e
liberandosi di tutte le regole della scrittura. Nonostante faccia molta fatica a farsi
pubblicare, negli anni ’60 diventa una vera e propria voce.
A scopo meramente di lucro pubblica invece .La fantarca nel 1965: è un libro distopico,
scrive della questione meridionale, ancora non risolta, e i meridionali vengono spediti a
Saturno, ma poi scoprono che a metà strada c’è stata una catastrofe nucleare e
tornano sulla terra a ripopolarla.
Nel 1972 esce un film, Anonimo Veneziano, successo di cassetta che gli permettono di
mettere qualcosa da parte
1978 La gloria è la storia della Passione di Cristo dal punto di vista di Giuda, parla da
morto, da un aldilà moderno (cosciente della bomba atomica, cosciente della
psicanalisi, ecc.). Scrive da questo punto di vista perché il senso di colpa di Berto non
aveva miglior modo per esprimersi. Ma scrive perché senza il bacio di Giuda non ci
sarebbe stata redenzione, non ci sarebbe stato compimento delle Scritture. Giuda era la
vittima necessaria.
La poetica
L’esperienza di Berto è scandita da tre elementi;
- tutta la sua opera è scandita dalla sua vita, la sua vita è un sistema di riferimento
- la vergogna
- una forma di teodicea personale, una giustificazione al male. Perché il male
esiste? Espone la teoria del male universale: siamo tutti colpevoli, non possiamo
dare la colpa solo a chi sgancia la bomba; siamo tutti schiacciati da questo
mondo. Ma se siamo tutti colpevoli nessuno è colpevole. Lui cerca di giustificarsi
così.
Il rapporto con Morselli
Cosa c’entra Morselli in questo? ci sono punti di contatto con Berto
In Morselli è costante l’idea della necessità di trovare una terza via. Ma la terza via, la
sintesi, si trova sempre nella lotta, nello scontro di due estremi:
Non si rendono conto che non c’è progresso in natura senza concorrenza,
dico già in senso biologico: e non c’è concorrenza possibile senza
differenza. Differenza che dev’essere intrinseca, non puramente liturgica.
Dev’essere diverso il credo, non solo il rito. Forse il Socialismo Unico
s’imporrà alla fine dei tempi. Ma la fine del mondo ancora non è venuta, e
per ora i socialismi devono essere diversi. E tutti sperimentali.
Morselli faceva anche dei ragionamenti su come si costruiva il romanzo, sulla presenza o
meno di certi tempi verbali:
Dissipatio H.G. esce nello stesso anno di altri due libri, di fortuna molto minore ma
altrettanto importanti. I minori (perché l’opera è di un solo libro, o non sono stati
altrettanto letti) nondimeno possono avere dei valori che riemergono in orizzonti culturali
mutati e mutate le prospettive. Talvolta diventano anche necessari. Simone parlerà di
questa triade di scrittori.
Todorov afferma che con l’Ottocento il fantastico muore, viene messo al bando dalla
psicanalisi; è una delle cose che ha fatto discutere. Secondo Todorov alla fine
dell’Ottocento il fantastico ricopriva il ruolo sociale di decifrazione e rappresentazione
artistica dei tabù sociali, ruolo che dal Novecento è affidato alla psicanalisi.
Todorov non si limita al genere fantastico, ma investe anche altri ambiti. Però è
interessante notare che, nella prima metà del Novecento, una rivista statunitense che
ancora si pubblica inizia a trattare proprio di weird, anche se è una rivista paraletteraria.
Il tratto comune di weird e Eerie è un’ossessione per ciò che è strano; strano, non
raccapricciante. Il fascino che proviamo per essi non è sintetizzabile nell’idea che
ricaviamo piacere da ciò che ci spaventa, è un piacere che ha a che fare con
l’attrazione per l’esterno, per ciò va oltre la percezione e la conoscenza.
Idea molto interessante. In cosa il weird differisce dal fantastico? C’è una componente
psicologica più importante: incorpora elementi nuovi.
Il weird è ciò che è fuori posto, ciò che non torna […] la sua forma artistica più adeguata
è il montaggio, l’accostamento di elementi non coerenti tra loro
L’interesse verso ciò che è nuovo, che nessuna corrente artistica aveva
preso in considerazione come elemento di valore letterario, viene ora
tenuto in considerazione e preso a metro di valutazione.
Il weird non è definibile in quanto genere letterario, è più un modo letterario, e si sviluppa
verso di essi un interesse, importato anche in Italia75, dove il dibattito sul weird si sta
facendo sempre più vivace.
La tesi
Ho iniziato a chiedermi perché in ambito italiano il weird intensifica la sua presenza tra
anni 60-70. Nel canone di cui sopra, compaiono Dissipatio H.G. e Le venti giornate di
Torino di Giorgio di Maria (pubblicato da Il formichiere a spese dell’autore, per poi essere
tradotto per caso in inglese e ha avuto più successo in USA che in Italia), a cui aggiungo
Malacqua di Nicola Pugliese (privo anch’esso di successo, pubblicato dietro parere
positivo di Calvino per Einaudi negli anni 70, ma che non ebbe comunque molto
successo).
75Tra i vali tentativi di formazione del canone weird vorrei mostrarvi un tentativo di Carlo Mazza
Galanti, Il canone strano pubblicato su Not.
https://not.neroeditions.com/canone-weird-italiano/
La possibilità che questi libri esistano all’interno della cultura editoriale italiana ha due
origini diverse:
Negli anni Sessanta non c’è un vero e proprio successo per il fantastico, eppure c’è
interesse da parte di coloro che scrivono.
Malacqua
La Malacqua sono cinque giorni di pioggia, un’alluvione di quattro giorni a Napoli
osservata da un giornalista. Questa pioggia viene infatti percepita come strana, e nei
quattro giorni iniziano a verificarsi eventi strani. Muoiono persone e si ritrova una bambola
vicino ai cadaveri, e si ritrova anche nel Maschio Angioino. La narrazione è ondivaga e
irregolare, spesso e volentieri ci si sofferma sulle storie private degli abitanti delle città di
Napoli.
Il tema dell’attesa
La soprannaturalità che fa da sfondo a questi tre libri ci permette di collocarli in una
specie di aria comune: notiamo che spesso nei passaggi tra le scene ci sono giunture
che richiamano all’attesa; nell’idea di tutti i personaggi sembra che le vite dei
personaggi sarebbero di lì in poi cambiate. Perché questa attesa messianica?
Enrico Baj
Artista molto celebre e molto celebrato, Enrico Baj ha iniziato ad avvicinarsi al tema
apocalittico, opere messe in mostra e raccolte in un libro curato da Umberto Eco e da lui
firmato nell’introduzione. Vengono da lui individuate tre principali correnti:
• Le venti giornate di Torino vista come allegoria degli anni di Piombo (Torino fu una
delle città più colpite dal terrorismo di dx e sx); forze oscure che agitano queste
notti, le misteriose morte sono conseguenze tra scontri delle forze soprannaturali
che si lanciano gli abitanti di Torino. Giorgio di Maria ha iniziato a stare male subito
dopo la pubblicazione del testo, ma prima era molto attento alle tematiche civili
e cittadine, aveva anche militato tra i Cantacronanche.
• Malacqua contiene un senso di rinnovamento politico ed esistenziale della
concezione della società, si nota quello che scriveva Fischer: non c’è solo
inquietudine e orrorifico, ma c’è anche del comico (Pugliesi adotta diversi registri)
76 Il soprannaturale letterario
Elsa Morante
Non è centenaria ma centodecana, nasce nel 1912 ma per varie ragioni figura
importante e adeguata al corso, che lo chiudesse riaprendo diverse finestre. Tanto di
quello che si è detto precipita nell’opera di Morante.
Romana, figlia di una signora di origine ebraiche, riconosciuta dal marito ma non sua
figlia, figlia di un uomo che era padre anche dei fratelli. Stranezza familiare che non la
lasciò indifferente, così come la discendenza per parte di madre da una famiglia
ebraica, in un contesto governato secolarmente dal nemico degli ebrei, cioè il papato.
77panorama molto diverso da quello attuale; un autore può scrivere solo quattro opere di ampio
respiro e avere successo in ambito editoriale.
Piccolo manifesto dei comunisti (senza classe né partito)
Questo documento e la lettera aperta sono stati recuperati da Goffredo Fofi in un
librettino; è un testo interessante perché mostra come l’approccio alle questioni
(politiche o teoriche) di Morante sia sempre un approccio quasi opposto a quello di
Morselli:
• Morselli è o tenta di essere uno strenuo razionalista tanto più ha a che fare con
l’irrazionale e l’inspiegabile,
• Morante opta anche nelle sue scritture saggistiche per un atteggiamento che è
consapevolmente e polemicamente antirazionale; rifiuta la razionalità in senso
stretto, fa del ragionevole qualcosa che porta con sé il valore giustificativo.
Il contenuto di questo documento è complicato, provo a stringerlo: molti dei critici della
modernità (Horkheimer, Adorno, Bauman78) hanno osservato che dall’Illuminismo in
avanti (modernità) esiste una sorta di pericolosa bomba a orologeria, cioè la possibilità
di identificare la razionalità con un criterio positivo.
In anni postbellici, il rifiuto di una certa razionalità (intesa come astratta e legata al
dominio, troppo patriarcale) è una delle chiavi che servono per capire l’opera di
Morante: anche quando scrive saggi, movimenta consapevolmente dei processi di
pensiero non sempre riconducibili a ragioni condivise: ad esempio nella lettera alle BR si
lavora sul piano sentimentale-emotivo, cosa strana, le BR si consideravano in guerra con
lo stato, il dibattito con loro si impostava di solito su basi ideologico-politiche. Al limite sul
piano di militanza attiva. Solo a un soggetto viene in mente di muovere gli affetti: il Papa
durante il rapimento di Moro, che prende posizione.
78 Modernità e olocausto
13 DICEMBRE 2022 – LEZIONE 28
In questo scritto del ‘59 la Morante non sembra allineata con una o l’altra tendenza del
dibattito. Si pone non in modo anacronistico, non ha paura di essere nemmeno
etichettata come ingenua e astratta. La Morante ha a che fare con un altro tipo di
scandalo: Pasolini provocava i costumi morali, la Morante sembra condannare la storia,
ma anche un altro scandalo, che è quello già del ‘59: la volontà di assumere questa
postura di scrittrice che non si riconosce nelle questione politiche.
Garboli fa risalire questa dichiarazione di colpa ai primi anni settanta, che corrispondono
al periodo in cui Morante scrive la Storia.
Questo è il testo (con poche varianti) della conferenza nel mese di febbraio 1965:
[…] in poche, e ormai, del resto, abusate parole: si direbbe che l'umanità
contemporanea provi la occulta tentazione di disintegrarsi […]. Si potrebbe in teoria,
cioè senza arbitrio logico, leggere le Sacre Scritture di tutte le religioni nell'interpretazione
presunta che tutte, e non solo quella indiana, insegnino l'annientamento finale come
l'unico punto di beatitudine possibile. E difatti alcuni psicologi parlano di un istinto del
Nirvana nell'uomo. Però, mentre il Nirvana promesso dalle religioni si guadagna per la via
della contemplazione, della rinuncia a se stessi […] al suo maligno surrogato piccolo-
borghese […] si arriva appunto attraverso la disintegrazione della coscienza […]: esse, il
nostro tesoro atomico mondiale, non sono la causa potenziale della disintegrazione, ma
la manifestazione necessaria di questo disastro, già attivo nella coscienza. […] Eccola:
l'arte è il contrario della disintegrazione. E perché? Ma semplicemente […] il solo suo
motivo di presenza e sopravvivenza, o, se si preferisce, la sua funzione, è appunto
questa: di impedire la disintegrazione della coscienza umana, nel suo quotidiano, […].
Ma allora, bisognerà porsi una domanda: poiché l'arte non ha ragione se non per
l'integrità, quale ufficio potrebbe assumersi dentro il sistema della disintegrazione?
Nessuno. […] Forse lo scrittore si ritroverà ancora una qualche fiducia nella liberazione
comune, insieme con la certezza di essere lui stesso, ancora, salvo dal disastro, e capace
di resistergli. E in questo caso, non c'è più dubbio, la sua funzione di scrittore […] può
rappresentare quasi la sola speranza del mondo. In una folla soggetta a un imbroglio, la
presenza anche di uno solo, che non si lascia imbrogliare, può fornire già un primo punto
di vantaggio. […] Adesso non mi si fraintenda, per carità (anche questa, potrebbe
capitare!) arguendo, (o pretendendo di arguire) dalle mie parole, che lo specchio
dell'arte abbia da essere uno specchio ottimistico. Anzi, la grande arte, nella sua
profondità, è sempre pessimista, per la ragione che la sostanza reale della vita è tragica.
[…] La purezza dell'arte non consiste nello scansare quei moti della natura che la legge
sociale, per il suo torbido processo, censura come perversi o immondi; ma nel
riaccoglierli spontaneamente alla dimensione reale, dove si riconoscono naturali, e
quindi innocenti. La qualità dell'arte è liberatoria, e quindi, nei suoi effetti, sempre
rivoluzionaria. Qualsiasi momento dell'esperienza transitoria, diventa, nell'attenzione
poetica, un momento religioso. E in questo senso si può parlare di ottimismo. […]
Ma infine, che razza di romanzo o di poesia dovrà scrivere il Nostro per fare, come
dicono i giornali, la sua lotta? La risposta è semplice: scriverà, onestamente, “resta da
fare la poesia onesta”. Però, basterebbe dire la poesia; perché, se è poesia, non può
essere che onesta. […] Già, a proposito, e che sorta di linguaggio dovrà adoperare?
Dialetto, industria, quale koinè? […] Ma lasciatelo scrivere come gli pare, che tanto il
primo inventore dei linguaggi è stato sempre lui! […] Contro la bomba atomica non c'è
che la realtà. E la realtà non ha bisogno di prefabbricarsi un linguaggio: parla da sola.
Perfino Cristo ha detto: non preoccupatevi di quel che direte, o di come lo direte. E' la
realtà che dà vita alle parole, e non il contrario. […] E che è la realtà? Non ci mancava
altro! Se uno mi fa questa domanda, è chiaro che non è mio lettore […].
La Storia
Nel 2018 La storia della Morante vende 7/8000 copie l’anno; per un libro vecchio 50 anni
è un caso. Vediamo un picco di interessi senza precedenti per un testo letterario, e
vedere le sedi su cui questi contributi sono usciti, come i quotidiani, riviste di
intrattenimento, riviste che di letterario non hanno niente etc. È un volume che è una
fotografia di un anno cruciale della storia politica e culturale dell’Italia e permette di
mettere a fuoco un po’ meglio i termini della questione, del problema. La storia è un libro
che prevalentemente si concentra sulla Seconda guerra mondiale e che si sofferma su
figure come bambini, animali, persone anziane e malate. Un romanzo sulle violenze che
la storia perpetra sui più deboli. Da un atto di violenza prende le mosse il romanzo.
Il sottotitolo romanzo nella storia crea un ossimoro, un cortocircuito. Poi c’è la foto di un
soldato morto di Robert capa. Nel meridiano della Morante, dopo tutti i romanzi,
troviamo o Pro contro la bomba atomica e anche il saggio sul romanzo.
1. L’onomastica
Barenghi79 dice che nel romanzo ci sono tantissimi personaggi, moltissimi hanno lo stesso
nome, altri nomi simili, ma una delle caratteristiche fondamentali di questi nomi è che
sono diminutivi, storpiati, deformati. Sono nomi che fanno in modo che il nome stesso
diminuisca i personaggi, tutti i personaggi inchiodati ad una condizione minoritaria
attraverso i loro nomi e l’uso dei loro nomi.
2. La voce narrante
Qui si affaccia l’altra questione. Se questi personaggi sono chiamati per nome
diminutivo, chi è che li chiama per nome? C’è una presenza di scambi dialogici tra la
voce del narratore e i personaggi, evidenziata in un passo, per esempio, il Buonanotte
biondino. C’è una voce che tratta i suoi personaggi come creature minori. La domanda
è: chi è che li chiama per nome?
79 Mario Barenghi: Tutti i nomi di Useppe, saggio sui personaggi della storia di Elsa Morante. Alcuni
elementi di forza di quest’ultimo saggio. L’importanza dei nomi per Barenghi la si vede da un altro
saggio, sui Promessi Sposi, Cognome nome Tramaglino Renzo. Dove potrebbe portarci questo
titolo? Che contesto vi fa immaginare? Un verbale di polizia, perché c’è questa inversione
cognome nome che è propria di particolari ambiti, come quello militare o giuridico. Nel suo studio
sui Promessi sposi Barenghi osserva che i personaggi, quando è in causa il loro cognome, sono
quasi sempre nei guai. Possedere un nome e un cognome ti rende perseguibile perché
identificabile. Nel mondo aristocratico quello che conta è il nome della casata, nel mondo
piccolo popolare quello del soprannome, il nesso nome cognome è un nesso che nello specifico
seicentesco manzoniano si prende interesse nei confronti del singolo.
L’onomastica letteraria è una tendenza della ricerca critica che non gode di particolare fortuna,
perché quelli che si interessano di onomastica sembrano un po’ degli appassionati da cruciverba,
ma non è solo questo il modo in cui si può usare. Questo saggio (quello sulla Morante) fa delle
osservazioni sul ricorrere e dell’affollarsi dei nomi. Il saggio però non si limita a fare osservazioni sui
nomi, ma attraverso queste ci offre una interpretazione interessante della Storia nel suo
complesso.
In una lettera che Calvino scrive alla Morante dice che non capisce come funziona la
voce narrante. In questo libro abbiamo un uso bizzarro, originale e imprevisto della
posizione del narratore che ondeggia tra diversi status che teoricamente sono
inconciliabili. La voce narrante, che parla di sé al femminile, ondeggia tra il più perfetto
status di onniscienza (in barba ad ogni principio di realismo) al completo
disinteressamento dello statuto di onniscienza e ricorre allo status della testimonianza
(quando lo ho conosciuto etc.) e anche qui oscilla tra cose che ha visto e cose che ha
ricostruito o sentite dire, e a volte dice di non poter sapere (in contrapposizione coi casi
in cui è onnisciente). Barenghi dice che una questione posta nel romanzo è legata alla
maternità in più modi:
3. La prospettiva evangelica
Mi è stato chiesto se alcune figure o se tutto l’impianto del romanzo possa essere letto in
chiave cattolica; io credo piuttosto evangelica, perché cattolico ha a che fare con un
certo assetto di dogmi, di gerarchie ecclesiastiche, di istituzioni, mentre evangelico ha a
che fare con il messaggio del libro sacro del Vangelo. Lo abbiamo solo alluso ma va
detto: l’inclinazione e la posizione naturale intellettuale della Morante è anarchica, di
rifiuto dei poteri istituzionali, di adesione all’individuo, alla singolarità, alla vittima.
Identificarsi in un’Italia cattolica era difficile per un’Elsa Morante; cattolicesimo quello
italiano che aveva manifestato non le sue componenti ecumeniche ma le sue
connotazioni di rigore e di chiusura verso la modernizzazione. L’aspetto evangelico è
sicuramente presente, l’aspetto cattolico molto meno. Il pensiero cattolico tradizionale
fa argine alle comunicazioni e alle eresie: il cattolicesimo non è una religione dialogante,
ha iniziato a tentare di farlo o a fingere di farlo solo quando si è ritrovata costretta a
farlo80. La Morante non è attratta dalla risposta metafisica, la dimensione cattolica era
una presenza ingombrante ma non ben vista. La ricerca della Morante non trova
appagamento nel cristianesimo, mentre fa i conti con sollecitazioni delle filosofie
orientali, e recupera allo stesso tempo aspetti interessanti del messaggio evangelico, il
cristianesimo nella sua componente più archetipica (che è un po’ la stessa cosa che
faceva Pasolini, interesse costante per San Paolo). La Morante tenta una sorta di
religiosità home made che però tenga insieme varie istanze. Mi sembra poi importante
sottolineare che, come Simone Weil, il pensiero di alcuni personaggi non allineati con le
tendenze ufficiali tende a essere sincretico, questo genere di apertura verso altre
religioni. Il Dio che perdona di matrice evangelica nel Novecento assume un’importanza
molto forte. Il pensiero rivolto alla fratellanza è qualcosa che sicuramente appartiene a
La storia.
80Fate la tara all’effetto Wojtila, che ha trasformato completamente l’immagine della Chiesa,
che in termini mediatici ha funzionato tanto, è difficile da sovrapporre all’immagine della Chiesa
negli anni ’60.
4. Gli antagonisti e il loro volto
L’osservazione che non esistano i malvagi potrebbe sembrare infondata, in realtà no: le
violenze che vengono esercitate in questo lungo spaccato di storia sembrano senza un
volto.
Quando invece il volto c’è, è un volto legato ad una condizione analoga a quella di chi
subisce la violenza.
Le critiche a La Storia
Angela Borghese dice che contro Morante cooperarono tre preconcetti:
1. Franco Fortini
Franco Fortini, uno degli intellettuali di maggior spicco degli anni Settanta, è un saggista
estremamente originale e molto prolifico; la sua assenza in un momento in cui tutti
partecipano al dibattito su La Storia non è legata a un disinteresse né da accidenti
particolari, ma da ragioni di dibattito interno. Non scrive un intervento su La Storia, tutto o
molto del rapporto di Fortini resta inedito.
Fortini non si accontentava né delle parole d’ordine delle ideologie dominanti né da altri
aspetti, è sempre stato un pensatore dinamico, ma davanti a questo libro ha una
reazione ambivalente: prevale il sì, ma ci sono anche forti ragioni del no. D’accordo con
l’operazione di Angela Borghesi vorrei ricostruire il dibattito interno di Fortini, perché
dentro l’intelligenza critica di costui vediamo messi a fuoco tutta una serie di elementi
utili a decifrare il caso La storia.
1. La sospensione di un giudizio
Quando il libro esce, tiene un seminario (cosa strana per l’epoca, l’università tendeva a
lavorare su valori assodati), parla in classe del libro all’Università di Siena e scrive quasi
subito una lettera di ringraziamento alla Morante e abbastanza presto alle orecchie di
Einaudi giunge notizia che sta lavorando sulla Morante, e anzi chiede proprio a Einaudi il
materiale: l’intenzione è quella di smontare il romanzo in forma quasi laboratoriale in
classe e sondare le possibilità di risposta alla domanda Perché questo libro sta vivendo
così tanto? Einaudi vuole fare un libro con i risultati dell’esperimento, questa cosa ha
anche un suo sviluppo, poi Fortini lascia perdere.
Perché il tentativo di lavoro sulla Storia viene abortito?
Per capire qualcosa rispetto a La Storia, questo tentativo abortito di lavorare sul
romanzo, leggiamo un brano di un suo articolo sul Dottor Zivago, saggio Rileggendo
Pasternak: Pasternak per la prima volta in assoluto esce in Italia e c’è un enorme dibattito
perché è un libro di grande potenza letteraria ma problematico dal punto di vista
ideologico, mescola il fascino della rivoluzione con il riconoscimento delle sue
conseguenze catastrofiche: nel ‘57 una consapevolezza del genere tocca dei nervi
scoperti, l’Italia era terra di confine tra due blocchi, aveva inventato il fascismo ma lo
aveva lottato, era il paese con più numeroso partito comunista all’epoca81.
Fortini aveva preso posizione su quello che era stato un bestseller mondiale che aveva
spianato la strada al premio Nobel, e crea un indiavolato dibattito simile a quello che ci
sarà su La Storia:
Facilissimo da fraintendere, facilissimo farsi sviare, e Fortini lo aveva chiaro già all’altezza
del Dottor Zivago, nel ‘58. Ma lo stesso vale per La Storia.
2. È un tema che ritorna, tipo nella lettera a Luperini il 16 ottobre 1974 in relazione al
romanzo della Morante:
Una sola rapida lettura non mi basta a un giudizio; d’istinto rifiuto il ricatto
strappalacrime e l’esplicito ideologismo di terz’ordine. Ma partecipo a
certe parti splendide, e al violento irrealismo di certe pagine, soprattutto
della seconda parte. Sospendo per ora qualsiasi giudizio critico a favore di
costatazioni sociologiche: ho l’impressione che la contesa ideologica sia,
come si è svolta, una testimonianza di arretratezza, e per questo mi sono
astenuto. Così a occhio sarei duro con il libro, e più duro, assai più duro con
tutta una specie di lettori che disprezzano il libro.
Fortini percepisce che il non assecondare alcune tendenze neorealistiche, non solo
ignorate dall’autrice, ma apertamente calpestate, sia un pregio.
Angela Borghesi osserva che l’appuntamento con la recensione eluso negli anni 70 si
risarcisce nell’83, con l’uscita di Aracoeli, di cui Fortini scrive:
81 Nello stesso periodo ci sono altri due libri che fanno parlare del rapporto tra storia e letteratura:
- La certosa di Parma, Stendhal
- Guerra e pace, Tolstoj
Rapporto non facile quello tra piccolo e grande, anche Tolstoj tende a privilegiare il singolo
rispetto all’universale, e che, come a Morante, gli venga attribuita una ideologia da terza media.
Fortini esplicita apertamente questa mancata presa di posizione rispetto alla Storia:
Col buono e col meno buono del suo lavoro tutti i temi e i luoghi dell’opera
di questa grande scrittrice sono qui82 raccolti e stravolti, virati verso un
ultravioletto di orrore83 […] Otto anni fa La storia divise la critica ma
soprattutto oppose la maggior parte dei critici al successo di pubblico. Non
volli allora scriverne anche perché c’erano amici che quasi ti toglievano il
saluto se avevi dubbi sulla qualità del libro; raccolsi però una gran quantità
di studi e ne feci un seminario in università: su questo libro ci sarà da
ripensare.
In così poche parole c’è la forza di una descrizione, e, se Aracoeli lascia il contesto
bellico, torna però a scavare le tematiche care a Morante in un altro contesto.
3. Lettera a Cesare Cases (aveva scritto una stroncatura feroce a La storia nel 1989): in
questa seconda lettura Fortini sta facendo i conti con la sua rielaborazione del giudizio
e con altre molteplici reazioni che si stanno generando.
Grazie del tuo pezzo con cui in sostanza sono d’accordo; a voce ti faccio
qualche osservazione di metodo: resta da spiegare perché valgono le
pagine che valgono; io sto rileggendo il romanzo per il seminario, e il libro
mi cade tra bacetti, micetti, uccelletti, massacri di infanti, massacri
infantili… ecco che cosa succede ad avere seguito la riforma, si arriva al
tao “è tutto uno scherzo”, si va dal sempre peccato al nemo peccato, e
all’idea da piacentino marxista qualsiasi che le peccatrici siano solo le
maiuscole.
Il doppio riferimento più critico che risentito è al ricatto strappalacrime, l’idea di una
dimensione religiosa che risolve in un manthra. È tutto uno scherzo, di origine mistico-
orientale: Fortini non lo sa a quest’altezza, ma era uno dei quattro titoli che la Morante
aveva pensato per il romanzo:
La Morante non vuole anteprime, deve uscire subito in versione economica per arrivare
a tutti, non solo per gli addetti ai lavori, anche a coloro che in genere non leggono. No
pubblicità, no lancio, il romanzo esce: entrare nel mercato editoriale all’epoca in
versione economica significava bollarsi in modo sospetto, un oggetto di poca
importanza, un libro di basse ambizioni. Einaudi sa che la scrittrice ha scritto poco fino a
quel momento, non è un personaggio presente sulla scena, ma allo stesso tempo di cui
tutti si ricordano e sanno, la cui assenza pesa. Di sicuro questo nuovo libro attira
l’attenzione.
Einaudi cerca perciò di aggirare il divieto e fa credere alla Ginzburg che la Morante
voglia una sorta di recensione da lei (amica della Morante), solo da lei, verso cui la
Ginzburg era anche molto in soggezione. Ginzburg riceve questa richiesta con una
reazione ansiogena, si dice abbia letto il libro in una notte e aggiunge alcune battute sul
testo in un articolo sul Corriere della sera; battute fortemente emozionate, che
contengono la definizione che sia “Il più importante romanzo del Novecento”, nonché la
menzione sulle lacrime. Frammenti come questi generano delle reazioni: quando
qualcuno (una stimatissima scrittrice in questo caso) si svela così tanto, mettendosi come
a nudo, la reazione di tanti è aggressiva, quasi sadica.
Circa un mese dopo la Ginzburg torna sull’articolo, scrivendo in modo più riposato e
riflessivo un passo che serve un po’ a chiarire il porsi del narratore in una prospettiva
cangiante, che fa arrabbiare chiunque legga La storia con gli occhi della narratologia: il
romanzo in questione sfugge alla categorizzazione in termini narratologici, perché il
narratore della storia è un po’ onnisciente, un po’ no, un po’ Elsa, un po’ no. Molto glielo
imputano come difetto, ma questo non è un libro abbozzato e non finito, anzi: ogni
scelta non è abbozzata ma consapevole.
Spossiamo immaginare un luogo da cui la voce narrante parla forse è l’aldilà: l’unico
luogo in cui può collocarsi; c’è un aldilà che comprende sia la partecipazione intensa
alla vita sia la capacità di guardare in modo unitario e parificato ogni realtà
dell’esistenza. È l’onniscienza data ai morti che si affaccia anche nella Commedia di
Dante.
3. Marino Sinibaldi
Marino Sinibaldi era un militante di Lotta continua, e identifica due pregiudizi che hanno
orientato le critiche negative alla Morante:
Questo genere di osservazioni taglia fuori ogni tentativo di esame critico, leggere il
prodotto del lavoro come difettoso del piano concettuale rimanda spesso a questa
macrodistinzione sessuale, anche in modo inconsapevole.
Nel momento in cui Morante mette insieme istanze diverse si mette contro uni e altri!
Sconta critiche sia gli amanti delle sue scritture fantastiche e oniriche, e la ritiene
incapace di realismo storico, non è capace di orecchio linguistico credibile, ecc., sia chi
richiede un approccio rigorosamente neorealista (come la credibilità della narrazione, e
della lingua, che sono però convenzioni e che evidentemente alla morante non
interessano!)
5. Giorgio Manganelli
Un altro elemento importante, lasciato indietro ma importante: Manganelli ha scritto a
proposito del successo di un libro o meno; senza dubbio, La storia è il libro più facile da
leggere ma allo stesso tempo uno dei più facili da fraintendere. E qui i concetti legati al
successo valgono anche per la facilità di lettura: malgrado mole e drammaticità non è
difficile, non richiede la decifrazione che Manganelli e Ceresa richiedono; ma è
altrettanto facile fraintenderlo. O comunque limitarsi a una percezione superficiale (di
vario tipo: adesione alla commozione, al patetico; un rifiuto, una insofferenza, un fastidio,
ecc.). vorrei cercare di superare queste impressioni e renderle più criticamente fondate.
16 DICEMBRE 2022 – LEZIONE 30
6. Italo Calvino
Da questo punto di vista una delle risposte più problematiche ma interessanti sia la
recensione di Calvino del ’74, con cui affronta la quesitone del romanzo popolare: la
Morante si volle confrontare con il genere del romanzo popolare ma con ambizione,
complessità e qualità altissime.
È necessario distinguere il romanzo popolare dal bestseller: mentre il primo è basato sul
funzionamento oggettivo dei meccanismi narrativi, il secondo invece si basa sulla
soggettività dell’autore che trabocca e si espande sulla pretenziosa umanità del
lettore.[…] Esso si basa su un errore di metodo che confina con la ruffianeria morale,
credere che passioni e sentimenti possano passare direttamente nella carta scritta. Un
romanzo così scritta può interessare tutt’al più i sociologi. Questa distinzione va fatta
perché è un romanzo popolare che Morante vuole fare […], una possibilità che a molti
autori è balenata in mente, ma che poi scartano perché vengono alla mente almeno
dieci o quindici ragioni storico-sociologiche per cui un esperimento simile non debba
essere fatto. Quello che va discusso sul libro della Morante è se veramente sia riuscita a
fare un romanzo popolare di oggi; un romanzo che fuori tempo massimo ancora torna
a ricapitolare la letteratura postbellica.
[In modo brutale parla di melassa di umanità, di sentirsi uguale dell’autore e del
lettore; poi con grande onestà intellettuale ammette che molti autori dovrebbero
iniziare a chiedersi per quale motivo far ridere o far paura possa avere la stessa
giustificazione letteraria che il far piangere. In sostanza secondo Calvino bisogna
chiedersi davvero come vada manipolato il pathos84.]
Il porsi della Morante come narratore onnisciente e un po’ non è una strategia per
avvicinare il lettore alla materia narrata, si può essere d’accordo o meno, così
come è una strategia un certo uso linguistico.
Il cinema e la tradizione italiana parlato romanesco almeno fino agli anni 70-80
appositamente per marcarsi popolare, riconosciuto tale anche da chi non è
romanesca! Se avessero dovuto parlare in teatro ovviamente si sarebbero ripuliti,
ma la radio, la tv, mantenevano patina dialettale appositamente per far
percepire vicinanza allo spettatore. La stessa cosa fa la Morante ma non sempre è
stata capita: una scelta assolutamente consapevole di scrivere un libro capace di
arrivare a tutti e di saltare l’ostacolo tra chi non legge affatto e chi legge. La
lingua di questo libro non è sciatta o banale, ma è semplice. Aggettivazione
molto intensa, a volte ridondante85, con una funzione coloristica-olfattiva-tattile.
84 Borghesi: i personaggi della storia ci inchiodano a un patetico che non è solo commiserazione
del proprio dolore, ma all’impossibilità di trascendere questo dolore. Ecco di nuovo l’osservare la
tragedia e la vita nella sua compresenza di orrore e di grazia.
85 l’esatto opposto di Manganelli che invece usa nessi spiazzanti per negare e ribaltare il termine
cui si riferisce
Cesare Garboli
All’inizio di Teorema di Pasolini c’è un uomo che intervista gli operai: è Cesare Garboli, e
ora approfondiamo il suo rapporto con la Morante86. Noi non prendiamo nemmeno in
considerazione che la saggistica possa essere stato uno dei generi letterari di maggior
successo e di maggior rilevanza per il Novecento; autori come Garboli nella saggistica si
distinguono per un’estrema qualità e venivano anche molto ascoltati.
Garboli aveva un approccio alla saggistica tutto suo, un approccio che in mano ad altri
sarebbe risultato quasi pericoloso: affermava di non riuscire a scrivere di nessun autore
che non conoscesse personalmente, il suo strumento di lavoro era l’amicizia. Spesso si
dice che biografia di un autore e produzione letteraria non vanno di pari passo, che non
è necessario conoscere le vicende personali dello scrittore per riuscire a interpretarne
l’opera; anzi, che talvolta il ricorso alle categorie biografiche può portare a fraintendere
l’intenzione e i motivi di un certo artista. Garboli però non era così determinista, aveva
bisogno di frequentarlo, non solo per quello che mi dice, ma per quello che fa. Garboli
non fa critica dell’aneddoto o dell’indiscrezione, ma scrive sempre su qualcuno che ha
conosciuto tenendo conto anche di quello che ha visto nella sua analisi letteraria.
I saggi di Garboli sono sempre molto preziosi. Questo suo lavoro di rapporto
ravvicinatissimo con la fonte da cui si sprigiona il testo letterario lui lo considerava come
un approccio servilistico, al contrario di quelli che credono che ritengono che quello di
Garboli fosse un approccio che metteva in primo piano il critico.
Giovanna Rosa:
86
Qual è la cosa intrigante? Inedito nel ’58, pubblicato nel ’69: è curioso che sia Garboli
che Morante usino la stessa formula, lei nel romanzo, lui parlando di Pasternach, e si
ritrovano nei dintorni della stessa frase. Ovviamente torna la questione dell’amicizia, la
frase potrebbe essere dell’uno o dell’altra e può essere emersa nel contesto di uno
scambio di idee; Angela Borghese dice che è impossibile risalire alla paternità di questa
affermazione, ma è importante perché questo dibattito che investiva le due religioni del
Novecento (cristianesimo, metafisico, e marxismo, materialista) diventa protagonista in
una società produttrice di domande a cui non riesce a dare le risposte; è ancora
possibile scrivere dopo Auschwitz? (Adorno). Pare che le risposte di entrambe le religioni
non siano capaci di resistere. E allora gli scrittori a volte si arroccano su una posizione
(politica, metafisica, ecc), altre volte lasciano aperto il dilemma e il dissidio: sia Pasternak
che la Morante fanno questo!