Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Saggi Giardina Schiavone - Salvaterra
Saggi Giardina Schiavone - Salvaterra
ARCAICA E
REPUBBLICANA
1. LA CITTA’ RIFORMATA
Carmine Ampolo
La lente deformante delle fonti
L’età arcaica in generale non presenta una grandissima quantità di fonti archeologiche e più che altro basiamo le
nostre opinioni sul lavoro di ricostruzione compiuto nelle opere storiche e negli autori antiquari, in particolar
modo dalle opere di Livio, Dionigi di Alicarnasso e Varrone o Festo.
Per il periodo che Ampolo analizza, ossia quello tra la seconda metà del VII secolo e la nascita della repubblica
(509 ac), abbiamo tuttavia la fortuna di poter confrontare i racconti storico-mitici con delle epigrafi e delle fonti
archeologiche, che talvolta smentiscono le interpretazioni degli antichi (come nel caso del Lapis Niger) e talvolta le
confermano. Bisogna tener presente, scrive l’autore, dell’importante rapporto tra fonti archeologiche e epigrafiche
perché solamente laddove siano in accordo esse sono utili ai fini della ricostruzione storica. Di contro, le sole
fonti archeologiche, esattamente come quelle letterarie, sono passibili di diverse interpretazioni.
Un caso (abbastanza unico) in cui tutte le fonti si intersecano e si possono confrontare è quella della Tomba
Francois di Vulci del VI secolo. I protagonisti dello scontro raffigurato sono i Vibenna (le cui imprese erano note
ad antiquari romani e anche all’imperatore Claudio, che li nomina in un celebre discorso) e la figura di Mastarna,
spesso dalla tradizione identificato come Servio Tullio. Alcuni elementi e personaggi – come Aulo Vibenna,
Tarquinio, ecc. – ne garantiscono la storicità:
Il processo di mitizzazione
Il processo di confronto tra le fonti – qui esemplificato dal caso dei Vibenna – ci ha dimostrato come nelle fonti
letterarie ci sia comunque un fondo di realtà storica, che bisogna indagare e ricercare con molta attenzione
tentando di riconoscere e scartare le invenzioni, gli anacronismi e le mitizzazioni.
- sia nell’ottica del periodo regio complessivo, dal momento che la durata dei singoli regni sembra
spropositatamente lunga e poco realistica
- sia perché il terzultimo e il penultimo re (i due Tarquini) sono oggetto di confusioni nelle fonti e
scambi di avvenimenti attribuiti all’uno o all’altra, oltre che di assimilazioni (es. sono stati assassinati
entrambi) o normalizzazioni (es. l’ultimo regno si è interrotto bruscamente per la vicenda di Lucrezia).
- Perché già gli antichi si erano resi conto del fatto che Tarquinio il Superbo non poteva essere figlio di
Tarquinio Prisco, per l’intervallo troppo lungo (44 anni) intercorso tra i due regni. Eppure, anche
Fabio Pittore, uno dei primi storici romani, seguiva questa versione.
Ampolo si preoccupa dunque non tanto di ricostruire eventi storici che purtroppo si
basano su una cronologia fragile e mal documentata, ma pensa alle grandi
trasformazioni, a fenomeni storici come l’avvento di condottieri e signori che si basano
su testimonianze epigrafiche sicure, su dati archeologici e monumentali.
L’introduzione di una serie di diritti come lo ius connubii o migrationis che vennero introdotti all’indomani della
guerra contro Veio dimostra l’apertura e il desiderio di integrazione di una comunità che ancora non faceva
coincidere idea di cittadinanza con domicilio fissato.
3. La cavalleria
Inoltre, è probabile che esistesse già un sistema collaudato di cavalleria all’interno delle centurie e collegato alle
originarie tribù istituite, secondo la tradizione, da Romolo (Tities, Ramnes, Luceres): doveva trattarsi di sei
centurie, due per tribù, divise in priores e posteriores.
La mitizzazione delle iniziative di riforma attribuite a Servio
In sostanza il VI secolo è un periodo di riorganizzazione e progresso sotto diversi aspetti:
Tutto ciò forma un quadro «moderno» che s'inserisce molto bene nel contesto italiano e mediterraneo dell'epoca.
L’età dei Tarquini e Servio Tullio è quindi l’età delle riforme, la maggior parte delle quali viene attribuita al
secondo. Chiaramente molte di queste riforme attribuitegli sono frutto di tendenze modernizzanti e
anacronistiche della tradizione successiva.
Ampolo scrive che il sistema centuriato, dalla tradizione attribuito a Servio Tullio (VI secolo), viene descritto in
realtà da Cicerone, Livio e Dionigi di Alicarnasso con caratteristiche tali da non poter risalire all’età regia:
- sia per la scala dei censi previsti, troppo complessa per l’epoca
- sia per il numero di centurie, che corrisponderebbe a una popolazione troppo elevata rispetto
all'estensione del territorio di Roma
- sia perché un'articolazione politico-militare così complessa sembra anacronistica per l'epoca arcaica.
- Unità di censo politico: in base al censo e alla forza militare si avevano più o meno diritti politici.
centuria 1
centuria 2
centuria 3
I ...
centuria 80 (fanteria pesante)
classe + altre 18 centurie di cavalleria
centuria 1
centuria 2
centuria 3
II classe ....
centuria 20
centuria 1
centuria 2
centuria 3
III classe ...
centuria 20
centuria 1
centuria 2
centuria 3
IV classe ...
centuria 20
centuria 1
centuria 2
centuria 3
V classe ...
centuria 30
centuria 1
centuria 2
centuria 3
classe dei capite censi centuria 4
centuria 5
1 centuria = 1 voto
1. prima classe di censo, detta classis (dal provvedimento militare che comprende gli opliti, che possono
permettersi l’armamento). Secondo Richards, in realtà sarebbe più corretto ipotizzare che l’esercito fosse
costituito dai membri appartenenti a più di una classe di censo, dal momento che le fonti parlano di
classes clipeatae, al plurale
2. Una classe di cavalleria
3. Tutte le altre classi, dette collettivamente infra classem e costituite da individui armati alla leggera perché
meno abbienti.
Ampolo riporta poi due ipotesi di come potesse essere formato l’esercito di opliti di età arcaica:
a) Freccaro. Gli opliti corrispondono agli iuniores delle prime tre classi (40+10+10), destinate a restare la
struttura base della legione romana. In questo modo si individuerebbe una struttura che rimase inalterata
anche quando le centurie iniziarono a raccogliere molto meno di 100 uomini.
b) Richard. L’esercito è un’unica classis, di soli quattromila uomini, corrispondenti a 40 centurie della
prima classe da 100 uomini ciascuno, affiancati dagli infra classem. Il vantaggio di questa ricostruzione
sta nel supporre un minor numero di opliti e di far coincidere il criterio numerico di base delle 40 centurie
con le quattro tribù urbane create secondo gli antichi da Servio Tullio.
Sono ricostruzioni convincenti anche se non è necessario supporre per forza una consistenza effettiva delle centurie
ammontante a 100 uomini.
Momigliano ha avanzato l'ipotesi che Servio Tullio «abbia introdotto in effetti la tattica oplitica a Roma mentre si
sforzava di mettere un freno alle tendenze anarchiche dell'aristocrazia romano-etrusca». Servio rafforzò le
strutture della giovane città-stato romana anche sul piano politico-militare, coinvolgendo il piu possibile i
membri della comunità romana, estendendo a tutti coloro che ne avevano i mezzi la tattica oplitica greca ed
etrusca, che fino allora era stata impiegata da aristocratici e gruppi gentilizi e condottieri, che peraltro continuarono
a usarla anche successivamente.
Ma dobbiamo anche supporre che, come compagni e clienti erano indispensabili agli eserciti non cittadini, cosi
anche la partecipazione militare di ceti meno abbienti (fossero semplici ausiliari armati alla leggera o soldati con
parziale armamento oplitico) era altrettanto fondamentale: le stesse secessioni della plebe del v secolo hanno un
chiaro carattere di sciopero militare, impensabile se i meno abbienti avessero avuto scarso peso in guerra.
Roma nel VI secolo era la più grande città del Lazio e dell'Etruria e una delle più notevoli d'Italia, con una
popolazione massima di 35 ooo abitanti e 285 ettari, una dimensione enorme per gli standard dell’epoca, e grande
espansione territoriale significava anche grande potere. È sul piano dell'edilizia e delle costruzioni di templi
che dati delle fonti e testimonianze archeologiche offrono un panorama convergente nella sostanza, e che conferma
l'immagine di una Roma arcaica come città potente. Si è parlato giustamente di ampia circolazione di maestranze
dall'Etruria al Lazio e a Roma, del resto già testimoniata dalle fonti letterarie. Nella Roma arcaica hanno però
lavorato anche maestranze elleniche e le stesse esperienze romane sono state esportate nel Lazio. Grosso impegno
nell’edilizia pubblica: sia per edifici di culto sia politici (Regia, Comitium).
- Alcuni attribuiscono la costruzione delle mura a Servio Tullio, altri ai Tarquini: è dunque verosimile
pensare che risalgano all’incirca al VI secolo.
- Pasquali guarda e studia le terrecotte architettoniche: vi era un’ampia circolazione fra Etruschi, Latini
e Roma; dunque, ciò fa pensare ad una grande mobilità di merci e uomini. Le terrecotte romane
testimoniano un grande impegno nell’edilizia pubblica perché si orientano verso la sfera del pubblico,
manifestando così un’evoluzione della civitas.
- Molti edifici di culto vengono eretti in seguito a vittorie militari; dunque, c’è la volontà insieme di
abbellire la città e di celebrare le imprese militari. Un esempio sono i templi del Foro Boario nell’area
sacra di Sant’Omobono: sono state ritrovate statue fittili della vicenda di Eracle e Minerva, quando cioè
l’eroe viene assunto in cielo e divinizzato.
2. DALLE ARISTOCRAZIE GENTILIZIE ALLA
NASCITA DELLA PLEBE
PAT capo e padrone dell'unità produttiva costituita dal possedimento terriero sfruttato
ER
FAM privatamente
ILIA
S
FAM
nucleo sociale di base
ILIA
GEN
insieme di familiae fondato sul culto comune di dei condivisi
S
CUR
luoghi di riunione di vires appartenenti a più gentes (CVRIA <-- COVIRIA)
IA
L’introduzione dei rapporti clientelari (IX-VIII secolo)
Le gentes sono fin dall'origine matrice di forme diseguali di
accumulazione e di contrastanti comportamenti sociali
La crescita delle famiglie più fortunate in termini produttivi e di forza lavoro creò le prime disuguaglianze,
facendo della singola gens il primo gruppo aristocratico di Roma1:
Da qui la gens si estese al di là di legami di parentela, a discapito di comunità vicine: il legame di dipendenza che
avrà più fortuna nella storia di Roma è il rapporto cliens-patronus, vincolo basato su di una mutua fiducia tra chi
assicura protezione e assistenza, il patronus, e chi promette obbedienza, il cliens; il vincolo è sancito dalla fides,
garanzia reciproca che viene a regolare anche l'intero quadro dei rapporti sociali.
Dal punto di vista urbanistico, si verifica l’estensione degli abitati privati in rapporto all’instaurarsi del
dominio di comunità e di gruppi gentilizi su altri
Si modifica il modo di combattere: il cliens combatte attivamente al fianco del suo patronus (vedi episodio
gens Fabia). Il fatto che poi il lessico della clientela presenti molti riferimenti all’ambito militare (es. deditio in
fidem) è forse dovuto alle origine del fenomeno clientelare stesso, che deve essere rimandato ad antiche forme
di “conquista”: non a caso l’affiorare delle aristocrazie si verifica in contemporanea con l’espansione
territoriale, e guerre e sottomissioni sono lo scenario arcaico da cui l’istituto clientelare è emerso.
Dal punto di vista religioso, il cliens deve venerare esclusivamente i Lares (divinità degli antenati) del
patronus2.
Dal punto di vista economico-sociale il vincolo della clientela lega ancora più strettamente cliens e patronus: il
cliens è colui che presta cure alle terre e agli armenti del patronus e
Dal punto di vista politico, la nuova mentalità delle aristocrazie gentilizie, oltre a modificare le strutture di
insediamento e quelle economico-sociali, modifica anche le forme politiche primitive:
- i clientes sono cittadini e come tali possono possedere beni e partecipare in assemblea; tuttavia, a partire
dal V secolo in poi, viene loro richiesto di parteggiare per il patronus in sede assembleare
- Si attribuisce a Tullo Ostilio la creazione di curiae novae dotate di nomi gentilizi, accanto alle antiche
curiae veteres che ne erano invece sprovviste, segno del grande potere delle aristocrazie gentilizie nel VII
secolo e testimoniato dalle fonti archeologiche (soprattutto nuove tombe monumentali e le nuove residenze
gentilizie).
1
Nb. Non si deve pensare però che questo fenomeno sia l’unica componente in gioco nel contesto dello sviluppo
urbano!
2
Dal momento che è la componente cultuale che costituisce il presupposto dell’esistenza stessa di una gens ed
elemento unificatore delle varie familiae
- da tali conflitti interni ai ceti dirigenti3: la diffusione dei sodales riplasma le strutture gentilizie originarie
- dalle accresciute dimensioni del popolo urbano
- da quelle individualità che ingrossano le file dei ceti intermedi e mossi dalla necessità di protezione o
condizioni di vita migliori ricercate dunque all’interno della città
Torelli apre una parentesi archeologica e descrive i due palazzi meglio conservati, simbolo del potere e dello stile
di vita della classe dominante.
1) Palazzo di Murlo, vicino Siena: ricostruito nel 580 sulla base delle palazzine orientali, decorazioni fittili che
descrivono benissimo l’ideologia dell’aristocrazia gentilizia di età arcaica (sfilata lunghissima degli antenati della
gens), diversi fregi che corrispondevano alle stanze dove si svolgevano le azioni descritte da essi (es. banchetti,
gineceo etc). All’interno del cortile il sacello, recinto con altare, sorta di tempietto.
2) Palazzo di Acquarossa, vicino Viterbo: risale circa al 530 e mostra il declino del potere assoluto delle gentes e
i forti cambiamenti dal punto di vista sociale e politico intervenuti nella società arcaica. Diversa rappresentazione
degli antenati, non più dèi ma eroi, e soprattutto il tempio è fuori dal palazzo.
Tra i due palazzi cronologicamente si collocano la monarchia etrusca di Tarquinio Prisco e le riforme serviane:
si modifica sia la monarchia arcaica sia le strutture gentilizie, impegnate sempre più in guerre private e conquiste
effimere di regni da parte di condottieri (Vibenna, Porsenna etc.).
3
Il fenomeno dei sodales: i conflitti interni tra le varie gentes divennero in questo periodo sempre più frequenti;
si tentò di adottare la tecnica oplitica per contrastarli; ma mentre in un primo momento l’aristocratico si era visto
padrone del suo esercito di opliti, iniziò successivamente a dover fare i conti con le difficoltà economiche dovute al
costo dell’armamento, troppo alto anche per i gentilizi più potenti. Nacquero quindi in questo periodo gruppi di
sodales, uomini legati da più blanda relazione di fides rispetto a quella che legava cliens e patronus, una sorta di
forma di rispetto che poteva però tranquillamente vacillare e contribuire alla formazione di nuovi clan.
4
es. tombe che rappresentano la realtà economica, sociale e culturale dei nuovi ceti intermedi
5
Mentre in precedenza si valutava in base alla ricchezza immobiliare
6
Esempi:
La nascita della plebe stricto sensu
Osserviamo quindi una notevole mobilità nel corso del VI secolo, alla quale possiamo attribuire una parte di
rilievo nella trasformazione urbana e nel progressivo attenuarsi del controllo gentilizio. Tale mobilità fu:
- Orizzontale: gruppi gentilizi o modellati come tali (es. sodales) vennero portati ad insediarsi in altre città,
su cui esercitavano il proprio dominio gentes diverse. Questo fenomeno permetteva che venissero
mantenute le strutture sociali interne ma si verificasse un mutamento delle forze in gioco nei vari
contesti geografici.
- Verticale: rientra in questa tipologia quel mutamento sociale che porta determinati ceti, individui o gruppi
di individui arrivano a godere di un peso politico superiore nel contesto di arrivo rispetto a quello di
partenza.
- Mobilità dei ceti subalterni e degli stranieri: la città tende ad autorappresentarsi come totalità dell’ethnos
(30 curie = 30 popoli latini delle origini).
In una prima fase della storia di Roma, si era cercato di reintegrare nella società queste figure, ma successivamente
questo tentativo ebbe a fallire con la crescita esponenziale a cui il gruppo andò incontro soprattutto alla luce della
copiosa affluenza di mercanti, artigiani e tecnici stranieri alla ricerca di fortuna presso le classi gentilizie (e
abbienti) della Roma arcaica.
Ciò che preme a questo punto sottolineare è che l’ente preposto all’assorbimento di questa frangia di
popolazione fu rappresentato dai santuari extraurbani, luoghi capaci di garantire al forestiero forme di asilia e
forme di scambio più libere dal controllo del princeps¸ con le relative guarentigie di protezione.
Ciò sta a dimostrare la fine del controllo gentilizio su tutte queste attività e su quanti le
esercitano.
Agli stranieri si aggiungono poi i clientes e i servi fuggiaschi. Viene così a formarsi un nuovo ceto che vive però
delle briciole del grande banchetto dell'opulenza aristocratica, e la cui esistenza funzionale all'intero assetto della
produzione e allo sviluppo apparentemente illimitato del modello economico gentilizio. Un ceto, dunque, in
condizione perennemente precaria:
Finché, nel V secolo, non si danno i primi segni di malcontento, enorme crisi sociale ed economica a motivo
dell’instaurazione di regimi oligarchici che negano i consumi opulenti e riaffermano la centralità del modello
aristocratico basato sulla gens.
È questo momento di crisi che dà quindi vita alla plebe, gruppo residuale di un ciclo
economico concluso, costretto dalla dura necessità alla ricerca del mezzo elementare di
sussistenza, la terra, e alla difesa della propria libertà dalla minaccia del nexum.
3. IL MODELLO DELLA CITTA’ STATO
Francesco De Martino
Il concetto di città-stato
Si usa parlare di città-stato per indicare un modo di organizzazione dello Stato, concetto quest’ultimo molto
ambiguo nel mondo romano: i romani ricorrevano al termine respublica (civitas indica invece la condizione
giuridica del cittadino), che però in origine esprimeva qualcosa di concreto, una res populi in contrapposizione ad
una res privata.
Il concetto di respublica si trova già in Nevio e Plauto, ma colui che ne ha dato l’elaborazione teorica è sicuramente
Cicerone che la definisce appunto come res populi, intendendo il populus come una comunità legata insieme
“iuris consensu et utilitatis communione”: dunque, tenuta insieme da un diritto a cui si acconsente, non elargito
da un monarca.
Tra gli storici moderni colui che pone le premesse del concetto di città-stato è De Coulanges, che sottolinea il ruolo
dominante della città: la città-stato è quindi una città sovrano, che ha sconfitto altre città, e che si distingue dalle
circostanti unità civiche per una esclusività di governo e di culto, perdendo una delle quali componenti, secondo
De Coulanges, la città-stato cessava di esistere. De Martino mette in luce, però, alcune contraddizioni:
LIBERTA'
CITTA'
complesso
EDILIZIO di
abitazioni e
strutture
istituzionali
La definizione di città secondo le fonti
Dell’età arcaica sappiamo poco:
La prima testimonianza la offre Catone, citato in Cicerone, che considera la repubblica romana come opera
collettiva fondata da più generazioni, e non certo opera di un singolo. Ciò che importa sottolineare è l’idea di
collettività che pervade la filosofia dell’età repubblicana fino all’età della crisi, quando tenderà alla sparizione
per l’affermarsi di più decisive.
Ci permette di farci un’idea delle forme di governo di età repubblicana anche Polibio7. Egli descrive, dopo
averla lodata, il declino della costituzione mista romana: si tratta, però, di una lettura della situazione che
rientra nel tentativo di collocare la situazione attuale all’interno del quadro della teorizzazione polibiana dei
cicli storici (anankuklosis). Polibio sostiene, infatti, che la forza della costituzione romana risieda nella
compresenza di tutti gli organi politici (miktè politeia, consitutio mixta), ma De Martino dimostra che in
realtà a Roma non c’era un equilibrio di fondo nell’ambito delle istituzioni politiche, e che il popolo,
rappresentato dai comizi, non godeva certo delle stesse libertà degli aristocratici. De Martino critica Polibio:
non c’era a Roma un’effettiva forma di democrazia. L’interpretazione storica di Polibio, quindi, non è da
attribuire alla percezione di effettivi elementi di quella crisi sociale che comunque di lì a poco avrebbero
portato allo sviluppo delle guerre servili, sociali e agli scontri nell’età graccana.
7
storico greco ostaggio a Roma nel circolo degli Scipioni, cosa che rende difficile distinguere quanto sia pensiero
suo e quanto dell’aristocrazia contemporanea attorno a cui Polibio orbitava
Il preteso equilibrio dei poteri nella costituzione mista
Polibio, elogiando la costituzione mista, si limita a mettere in evidenza cosa la classe
dirigente intendesse come stato ideale, ma è fondamentalmente incapace di guardare
con occhio critico la società e percepire i fattori di crisi
In generale non vigeva, quindi, il principio di uguaglianza nella partecipazione alla politica individuale; solo
gradualmente il popolo riuscì ad ottenere leggi a suo favore (es. lex Gabinia, diritto alla segretezza nel voto).
In uno Stato dove sin da subito vige il sistema censitario, ad esempio, il peso del voto è diseguale tra le classi
nell’ambito dei comizi centuriati.
Meno diseguali, ma comunque non paritarie, le votazioni in ambito di comizio tributo, se si considera che le
tribù erano formate da un numero diverso di iscritti, e che la regolamentazione della eventuale collocazione
dei nuovi iscritti era di competenza del governo romano.
Diseguale era anche la possibilità di accesso alle magistrature, dal momento che la candidatura era subordinata
alla condizione che l’aspirante avesse prestato dieci anni di servizio militare, requisito che richiedeva un
patrimonio di gran lunga superiore a quello della maggior parte dei cittadini
Anche le funzioni giudiziarie non erano attribuite a tutti, dal momento che furono per lungo tempo prerogativa
del solo ordo senatorio. Nel 70 a.C. si arrivò a concedere come requisito per la partecipazione un censo minimo
pari alla metà di quello tradizionalmente richiesto all’ordo equestris, ma comunque non fu mai minore di
questo.
Ad ogni modo, le innovazioni in termini di emancipazione delle classi meno abbienti sembrano, in
generale, rispondere ed essere motivate più da opportunità del momento che da piani organici di
vere e proprie riforme
La classe aristocratica dimostra bene come fosse da loro intesa la democraticità delle assemblee: cioè come la
possibilità per il popolo di esprimere la sua volontà, purchè sempre sotto il controllo dei grandi e dei potenti.
1. Cittadinanza
Limitazioni effettive e presunte ai diritti politici
È scorretto dire che i diritti politici potessero essere esercitati solo nella città di Roma, considerando che:
1. Il pomerium non consisteva in un territorio compreso entro limiti immutabili, ma i suoi confini potevano
essere ampliati per ragioni politiche.
2. Il campo di Marte, luogo di riunione per il comizio centuriato, era fuori dal pomerium
Lo dimostrano:
Secondo De Martino, però, a queste ragioni ne va aggiunta una quarta, e cioè la volontà di Roma di
mantenersi in una posizione di centralità rispetto al resto dei territori conquistati, in particolare
dell’Italia.
8
È probabile che sia corretta la tesi di Tibiletti secondo cui i censori omettevano di iscrivere alle liste gli aventi
diritto di voto qualora fossero loro sgraditi politicamente; inoltre, qualora fossero iscritti, non venivano create altre
tribù, ma aggiunti a quelle esistenti, lasciando pressocchè immutato il numero di partecipanti effettivi alle assemblee
(dal momento che il voto era indiretto – uno per ogni tribù e non pro capite)
9
La ottennero solo nell’89 a. C. Lex Plautia Papiria, post-guerra sociale
Il ruolo dei contrasti sociali nella crisi della costituzione repubblicana
Un certo filone di pensiero secondo cui la costituzione repubblicana sarebbe stata inadeguata a governare la
struttura statale venutasi a formare in seguito alle espansioni territoriali degli ultimi tre secoli a.C. deve essere
rivisto:
L’espansione romana poneva l’esigenza di organizzare il governo provinciale, ma questa poteva essere risolta
con le regolari strutture
Anche la gestione della componente militare del governo imperiale poteva essere assorbito dalla struttura
repubblicana preesistente
Dall’osservazione della crisi graccana risulta evidente come motivazioni sociali ed economiche debbano essere
necessariamente tenute in conto. Tiberio Gracco proponeva, infatti, di ridurre i possedimenti di terra e di
distribuire gli eccessi agli strati più poveri (riforma sociale). Tuttavia, si sviluppò parallelamente e
conseguentemente anche un programma politico, considerate le ripercussioni che tali proposte avrebbero apportato
anche alla struttura elettorale: a maggiori possedimenti assegnati al popolo sarebbe conseguito per forza di cose un
maggior potere alle assemblee popolari, che avrebbe indebolito quello del senato. Ne nacque quindi una
contesa tra democratici e conservatori, i quali opposero una accanita resistenza, accusando il popolo di aspirare al
regno, per poi ricorrere al senatus consultum ultimum10.
La crisi della Repubblica va quindi spiegata alla luce del contrasto tra democrazia e
reazione: ed è per questo che vi rientrato ragioni di ordine economico-sociale quanto
politico-costituzionale.
Molti autori moderni giudicano rivoluzionarie le proposte dei Gracchi perché avrebbero mirato a introdurre nella
società romana una vera e propria sovranità popolare, ritenuta il discrimine necessario a distinguere ciò che è
rivoluzione da ciò che non lo è. Tuttavia,
De Martino ritiene che si possa parlare di rivoluzione solo nel momento in cui si registra un
passaggio da un sistema economico a un altro. Pertanto, dal momento che questo prerequisito
non si riscontra nel caso della riforma graccana, De Martino evita di parlare di rivoluzione vera
e propria.
Il programma dei Gracchi non era di ordine sociale: tant’è che la questione schiavile, forse la più eclatante in
termini di disuguaglianze, non entrò mai nell’orizzonte delle riforme dei tribuni della plebe. Né De Martino ritiene
che il loro tentativo abbia violato le norme costituzionali repubblicane: l’unico scopo dei Gracchi era quello di
restituire alla plebe il suo antico potere tribunizio; e benché le proposte di riforma implicassero un mutamento
nella concezione di forme di governo, ma senza mai lasciare che il popolo, benché fosse una componente
fondamentale tra i romani, dotato di diritti e di doveri, acquisisse diritti sovrani.
Si tratta di una fase durante la quale non è facile definire il modello di città stato, cioè
di costituzione cittadina.
10
Decreto senatorio emesso come extrema ratio in caso di emergenza, tipico dell'ultima fase della Repubblica. Si
trattava di una delibera con cui, dai tempi dei Gracchi, la fazione aristocratica aveva emendato la costituzione
romana, introducendovi una clausola di stato di emergenza.
a. Rivolte servili: schiavi VS liberi. Si conclusero con un nulla di fatto.
b. Guerre sociali: romani civites VS italici socii. Per molto tempo nessuno si preoccupò che gli Italici fossero
cittadini romani a tutti gli effetti, per esempio, riuscendo ad entrare nelle cariche di governo. Solo gli
esponenti più in vista dei municipia, dove garantiva la massima autonomia comunale a scopo integrativo,
perché Roma fosse accettata e percepita come patria comune da tutti, riuscirono a salire al consolato (es.
Mario), supportati magari da famiglie romane di alto rango.
Il conflitto nacque quindi dal contrasto tra presupposti teorici per la partecipazione
democratica al governo di Roma e possibilità effettiva di prenderne parte.
La guerra sociale ebbe come merito ed effetto principale una più precisa regolamentazione dell’accesso
alle magistrature da parte dei membri delle varie località italiche, a seconda dello statuto di appartenenza
di queste ultime (municipia, coloniae, ecc): vennero introdotti organi locali, i prefetti iure dicudo, di dignità
e potere pari a quelli cui dava accesso la carriera politica a Roma nella carica di pretore, permettendo il
controllo di:
o Amministrazione cittadina
o Ambito giudiziario
Le altre questioni erano deputate al pretore vero e proprio (questioni di maggiore importanza e richiedenti
emanazione diretta di imperium).
L’idea di fondo era sempre basata sul rispetto della costituzione cittadina delle varie città e sull’introduzione di
un’amministrazione che rispecchiasse quella di Roma.
NB. La violenza nella politica
Dopo la crisi graccana si usò la violenza come arma di lotta politica. Molti storici (tra cui Mommsen) parlano di
questo fenomeno come di una rivoluzione che avrebbe avuto il culmine con Augusto e il suo impero, ma questa
deduzione riduttiva non esaurisce il problema.
Dire che l’esercito professionale introdotto da Mario (per scopi ben diversi) divenne lo strumento di lotta politica
non esaurisce né risponde alla domanda: perché i capi militari e i loro ufficiali fecero ricorso alla lotta armata?
Il potere militare era divenuto più forte di quello politico perché la classe dirigente non
era più in grado di dare espressione concreta alle necessità popolari, ma rimaneva
chiusa esclusivamente a una visione egoistica dei propri privilegi.
Date queste premesse, si può a buon diritto parlare di ambiguità, considerando che nell’arco di brevissimo tempo vi
furono a Roma due magistrati con la medesima titolatura ma prerogative a dir poco differenziate.
2. Libertà
Insieme alla cittadinanza, il concetto di libertà è il tratto tipico e più caratteristico della respublica; essa assumeva
maggior valore tanto più si stagliava su di un panorama di rapporti servili e schiavili.
Il concetto di libertà diventa chiaro se si pensa al suo contrario: a Roma la libertà non
significava pieni diritti o esenzione da un qualche potere, bensì libertà da un despota, da
padrone assoluto; condizione quest’ultima ravvisabile, ad esempio, nei sudditi delle
monarchie orientali.
Tuttavia, anche nel mondo romano vi erano sfumature diverse del concetto di libertà, e anche dal punto di vista
temporale la libertà dei primi secoli non è la stessa delle epoche successive o dell’età della crisi. Quello che è
certo è che l’idea della libertà come valore universale era sconosciuta alle teorie politiche repubblicane: essa era
piuttosto uno strumento di cui il vincitore o il detentore del potere, di volta in volta, si autorappresentava il garante e
il tutore.
Essa non coincide mai con l’indipendenza, ma riguarda piuttosto una qualche forma di
immunità: da tributi, da imposizioni, da costrizioni.
11
es. Nevio, incarcerato per aver attaccato velatamente Scipioni e Metelli
12
non ci sono giunti documenti che si schierino contro il governo, a dimostrazione dell’opera censoria e selettiva che
ha portato l’una o l’altra versione dei fatti a venire a galla
svolgimento e lo sviluppo in senso demagogico, affinché anche i plebei arrivassero, infine, a godere degli stessi
diritti dei patrizi.
Ciò spiega perché, al termine degli scontri per l’emancipazione dei plebei, l’unico effetto che si ebbe fu
un allargamento del ventaglio dei partecipanti ai diritti, e non un rivolgimento degli assetti economici,
che rimasero invece immutati.
I tribuni erano considerati sullo stesso piano dei magistrati della repubblica: potevano infatti bloccare la votazione
di provvedimenti che consideravano dannosi per gl’interessi da loro rappresentati oppure agire in difesa dei singoli
contro eventuali soprusi.
Tali istituzioni “rivoluzionarie” vennero gradualmente inglobate dalle strutture della repubblica,
attraverso una progressiva emancipazione dell’accesso alle magistrature.
445 a.C. vigilia di tutte le decisioni o attività più impegnative dal punto di vista
politico. Secondo i patrizi, la competenza in materia di auspici si
13
Ipotesi sullo sviluppo dello statuto dei plebisciti:
1) Un plebiscito poteva essere parificato a una legge, qualora avesse ottenuto l’auctoritas patrum, la ratifica del Senato,
che, in origine, era composto esclusivamente da patrizi.
2) Talvolta i plebisciti dei concilia potevano essere presentate all’assemblea del popolo e da essa approvate, quindi
trasformate in legge (es. XII tavole).
Questa carica, durata, con varie interruzioni, dal 444 al 394, e ininterrottamente dal
391 al 367, viene presentata dalle fonti come una magistratura aperta ai plebei e
ideata dai patrizi per dare qualche soddisfazione alla plebe senza perdere il
monopolio del consolato, magistratura suprema. Tuttavia, la natura e fini di tale
carica sono stati fraintesi.
Un’ipotesi crede che, anno per anno, il senato abbia deciso se il popolo dovesse eleggere:
a. due consoli, patrizi e idonei a prendere gli auspici
444 - 394 b. un collegio di tribuni consolari (in quantità variabili da 3 a 6, ma, poiché non si trattava di
consoli, nessuno di essi sarebbe stato abilitato a prendere gli auspici) che poteva essere:
a.C. e - interamente plebeo
- interamente patrizio
14
Ad esempio, il I tribuno militare plebeo con potestà consolare e il I magister equitum plebeo furono entrambi appartenenti alla
gens Licinia.
15
Tuttavia, essi non combattevano sotto i propri auspici e perciò non potevano celebrare il trionfo.
Istituzione dei tribuni
militum consulari
potestate
così pensando, dal 444 al 401 nessun plebeo sarebbe stato eletto alla nuova carica
Una ricostruzione di uno strato della tradizione più antico e meno alterato prevede invece che:
- In tutto il periodo 444 – 367 i Romani continuarono regolarmente a eleggere due consoli, sempre patrizi e
titolari degli auspici.
- Nel corso di questo periodo i compiti militari, amministrativi e giudiziari dei magistrati diventarono via via più
complessi e gravosi, e i consoli furono costretti a delegare alcune delle loro funzioni a propri collaboratori
scelti fra i tribuni militari, cioè tra gli ufficiali che, in numero di sei, componevano lo stato maggiore di
ciascuna legione16. Affinché i tribuni prescelti potessero svolgere gli incarichi assegnati veniva loro conferita
(dai consoli stessi, o dal senato, o forse dal popolo riunito in comizio) la potestà consolare.
E sebbene i plebei fossero ammessi al grado di tribuno militare da tempo immemorabile, nel periodo compreso fra
il 444 e il 401 la potestà consolare fu data solo a tribuni militum patrizi.
Per l’accesso alla magistratura suprema, ai plebei mancava ormai solo il diritto di
prendere gli auspici.
È possibile che, invece, con l’ammissione di alcuni plebei a tali cariche si sia avuta
409/400 come conseguenza principale la possibilità di partecipazione anche per essi al
Senato. Fino alla riforma costituzionale del 367, accanto alle cariche di console,
a.C. dittatore e magister equitum, esistevano soltanto quelle di tribuno consolare e
di questore; se i patrizi che le avevano rivestite entravano in senato, è difficile che
potessero esserne esclusi quei plebei che erano stati alla pari con loro come potestà
e come funzioni.
16
nel V e nel IV secolo, fino alle guerre sannitiche, l’esercito si articolava in due legioni, e i tribuni erano in tutto dodici (6 x 2 =
12
La conquista del consolato
Alla conquista del consolato si giunse per mezzo di un percorso più impervio:
Con l’invasione gallica, i il territorio confiscato a la guida della plebe fu due tribuni della plebe,
390 a.C.
387 a.C.
385 a.C.
376 a.C.
saccheggi e le Veio e a Capena venne assunta da Marco Gaio Licinio Stolone e
devastazioni, si ebbe un distribuito in piccoli Manlio Capitolino, già Lucio Sestio Laterano,
ulteriore aggravarsi del appezzamenti a cittadini console nel 392 ed si proposero d’indirizzare
disagio della plebe più romani che ne esponente dell’oligarchia il movimento di protesta
misera acquistarono la piena patrizia; Capitolino verso uno sbocco politico
proprietà; i cittadini propose di ridurre, o presentando 3 plebisciti
vennero quindi addirittura di
raggruppati in 4 nuove cancellare, i debiti che
tribù (Arnensis, provocavano la riduzione
Sabatina, Stellatina, in schiavitù di molti, e
Tromentina), per un con tale proposta fu
totale di 25 tribù romane. accusato di aspirare alla
La distribuzione fu di una tirannide, processato e
larghezza senza pari, dal condannato a morte.
momento che il senato Contro Manlio si erano
patrizio aveva percepito schierati il senato e i
la gravità della crisi tribuni della plebe: l’élite
sociale ed economica; plebea, infatti, non
tuttavia, il tentativo di aspirava ad abbattere la
fronteggiarla contribuì ad repubblica per favorire
accrescere Il benessere di l’avvento di un regime
alcune migliaia di personale, bensì a
cittadini dividere il potere col
patriziato.
1
riduzione dell'importo
dei debiti e introduzione
della possibilità di
rimborsi rateizzati;
3
eleggibilità dei plebei al
consolato vincolante
(ogni anno 1 patrizio e 1
plebeo)
La nuova fase del conflitto sarebbe durata dieci anni (376-367), perché:
da una parte, i patrizi riuscivano dall’altra, i due uomini venivano regolarmente rieletti, e a
sempre ad assicurarsi l’appoggio di loro volta, per cinque anni (375-371), avrebbero impedito
qualche tribuno della plebe che col loro veto l’elezione dei magistrati supremi, creando una
poneva il veto alle proposte di situazione di anarchia
Licinio e di Sestio;
(solitudo magistratuum),
366 a.C.
Secondo la testimonianza di Livio, fu creata in quell'anno la
carica di pretore per compensare i patrizi della perdita di un
Viene eletto un console plebeo, posto al consolato, con il compito di amministrare la giustizia
Lucio Sestio Laterano, insieme con il
patrizio Lucio Emilio Mamercino
Si stabilisce che gli edili curuli,
appena istituiti, fossero ad anni
alterni patrizi e plebei. Alcuni problemi di cronologia
Nascita della pretura Questo resoconto cronologico pone numerosi problemi, dal momento che
la tradizione risulta oltremodo confusa sulla successione degli eventi:
Durata dell’anarchia (solitudo magistratuum): è impossibile che Roma sia rimasta per tanto tempo senza
governo e l’esercito senza capi. Se si elimina o riduce al minimo l’anarchia (Diodoro la riduce a 1 anno solo),
allora la fase decisiva della lotta fra gli ordini si prolunga per 5/6 anni, ma non per 10.
Iter di approvazione delle Licinie Sestie: non è chiaro come esse siano diventate Leggi dopo essere state
approvate come plebisciti (quindi post 367). A riguardo sono diffuse 3 teorie principali:
1) i plebisciti sono presentati da un magistrato della repubblica al comizio centuriato (comitia),
l’assemblea popolare, e, approvati, sono trasformati in leggi.
2) i plebisciti acquisiscono validità ed efficacia giuridica in quanto ottengono l’auctoritas patrum.
3) Non c’è stata alcuna legge né ratifica dei patres, ma solo un accordo politico fra patrizi e plebei.
Autenticità delle rogazioni Licine Sestie: se il provvedimento in favore dei debitori è pienamente credibile, in
quanto si colloca senza problemi nel contesto della tradizionale tattica dei capi plebei di far leva sul
malcontento per rafforzare rivendicazioni politiche, è invece improbabile l’approvazione di un plebiscito de
modo agrorum che avesse già per il IV secolo una soglia di possesso terriero fissato a 500 iugeri, dal momento
che il territorio di Roma era ancora troppo poco vasto per poter dare credibilità alla verisimiglianza di una tale
regolamentazione. Sappiamo che una legge simile non era nuova nel 298 a.C. e risaliva al IV secolo (forse
proprio al 367), ma sicuramente vanno riviste le cifre che tradizionalmente ci sono state trasmesse per
quell’epoca.
La cronologia tradizionale circa l’accesso dei plebei al consolato: secondo tutte le fonti, nel 367 si decise che
ogni anno uno dei due consoli dovesse essere plebeo.
- Secondo Livio e Zonara, nel 342 un nuovo plebiscito decise che ambedue i consoli potessero essere plebei.
- Secondo i fasti consolari, nel venticinquennio 366-342 si ebbero ben 7 volte collegi consolari interamente
patrizi. Dal 342 al 170 circa furono eletti sempre un patrizio e un plebeo.
Questi dati ci confermano che la tradizione tende ad anticipare17 la data delle riforme costituzionali. Nel 367,
senza dubbio, la norma (o l’accordo) ammetteva che uno dei due consoli potesse essere plebeo; dal 342 la presenza
di un plebeo fu garantita, ma nessuno avrebbe allora contemplato l’idea di un collegio consolare che non
comprendesse un patrizio.
Solo nel 173 (per il 172) furono eletti per la prima volta due consoli plebei.
17
Livio interpreta tutto come il risultato di successivi compromessi fra patrizi e plebei, secondo una tendenza, propria degli
annalisti, a interpretare l’intera storia della politica interna romana fino al 287 come storia del conflitto tra i due ordini, quasi
la repubblica non avesse avuto altri problemi.
In un contesto del genere, la conquista del consolato costituì il primo anello di una
reazione a catena che aprì la strada progressivamente alle altre magistrature) da parte
dei plebei)
Dal 367 a.C. il panorama delle magistrature assume una struttura più articolata nell’ambito delle attività militari,
giudiziarie e amministrative: le competenze vengono distribuite fra vari collegi e magistrati, distinti per la
maggiore o minore potestas18. Dunque, il cittadino romano, che in origine era chiamato ad eleggere solo i due
magistrati supremi, e dal 447 in poi anche i questori, dal 367 eleggeva:
I plebei, inoltre, che erano la grande maggioranza dei cittadini, eleggevano inoltre i dieci tribuni e i due edili della
plebe.
18
il pretore, l’amministratore della giustizia, era conlega minor dei consoli
19
il collegio dei consoli e dei tribuni consolari si dividevano i compiti
N.b.: Quinto Publilio Filone
Quinto Publilio Filone fu una figura
365 a.C. dominante del periodo che va dalla guerra
latina (340-338) ai primi anni della seconda
guerra sannitica (326-304).
Viene designato per la Nella testimonianza che ci viene da Livio, egli ottenne la dittatura popularis
prima volta un dittatore (demagogica) proponendo 3 leggi «favorevolissime alla plebe» (legge Publilia),
plebeo, Gaio Marcio secondo le quali:
Rutilo.
1. Uno dei due censori avrebbe dovuto sempre essere plebeo, norma che da
quel momento in poi venne sempre rispettata.
2. Riduzione, nell’ambito dei comizi centuriati, del valore dell’auctoritas
senatoria20 a una pura formalità: i patres avrebbero dovuto concederla in
351 a.C. bianco, prima delle votazioni comiziali, per evitare che il Senato
impedisse la realizzazione della volontà popolare.
3. I plebisciti (delibere della plebe riunita in concilio) avrebbero dovuto
essere equiparate alle leggi deliberate dal popolo riunito in comizio
Gaio Marcio Rutilo In questo ultimo punto la legge Publilia (riportata solo da Livio) è identica
diventa anche primo
plebeo eletto alla censura alla legge Ortensia del 287 (documentata da numerose fonti): sembra strano
che la medesima norma sia stata votata due volte; pertanto, le ipotesi
addotte a spiegazione afferamno che:
dal 339 al
315 a.C.
20
approvazione del senato grazie alla quale le proposte dei comizi acquisivano forza di legge
Le fasi dell’evoluzione
Dall’analisi dei nomi gentilizi elencati nei Fasti Consolari, a partire dal IV secolo, emerge che:
si assistette a un rapido per sette anni vennero eletti nel 342 erano stati votati
rinnovamento dell’élite due consoli solo patrizi, per numerosi plebisciti relativi a
dominante, con dieci consolati un totale di 23 consolati dei un'ulteriore regolamentazione
plebei divisi fra sette diverse patrizi e 9 consolati plebei, fra del cursus honorum, che
gentes i quali non appare alcun condussero a un ampliamento
nome nuovo; pertanto, tutti gli della base di candidati a cui era
eletti appartengono alle concesso l'accesso alle
gentes affermatesi nella fase magistrature
precedente, anzi solo ad Uno di questi ammetteva che
alcune di esse ambedue i consoli potessero
essere plebei oppure si
limitava a imporre che uno dei
consoli fosse plebeo.
Un altro vietava che la stessa
persona rivestisse la stessa
magistratura prima che
fossero trascorsi dieci anni,
allo scopo di impedire carriere
eccezionali come quella di
Gaio Marcio Rutilo, e facilitare
il cursus dei leader plebei
meno forti.
Espansione e riforme
Notevole serie di eventi concentrati fra 343 e 334 che ebbero come conseguenza immediata l’espansione
territoriale/affermazione egemonica nel Mezzogiorno:
I principali sostenitori di una politica estera energica e intraprendente si adoperarono in questo periodo per emanare
pacchetti organici di riforme.
Il programma di Appio prevedeva l’inserimento di Roma nel mondo italiota e l’interesse per la cultura greca. Per
tal motivo molti anni dopo (nel 280, o più probabilmente nel 279), quando Pirro offriva la pace e molti senatori
erano disposti ad accettarla, rinunciando all’egemonia sul Mezzogiorno, Appio ottenne la continuazione della
guerra e la riconferma della politica egemonica.
Fu inoltre un politico che tendeva a promuovere i rapporti con quella parte d’Italia in cui si trovavano i centri
commerciali più importanti e più attivi, manifestando di voler favorire la forensis factio, classe costituita
prevalentemente dai mercanti che risiedevano in città.
21
Lo conferma il fatto che nel 358 Gaio Petelio varò un plebiscito (se è autentico) dove veniva sancito il divieto della
propaganda elettorale: un provvedimento adottata a pochi anni dopo l’ammissione dei plebei al consolato, favorendo, più che i
patrizi, quelle poche genti plebee che erano già riuscite ad affermarsi.
Appio fu un audace innovatore:
- nel redigere la lista dei senatori vi incluse anche personaggi estranei all’aristocrazia, mai eletti ad alcuna
magistratura.
- Rese libera la scelta della tribù a cui iscriversi, anziché vincolare gli individui a quella nel cui territorio
risiedevano o in cui avevano le proprietà. In tal modo gli abitanti di Roma, già molto numerosi, ma fino allora
relegati nelle 4 tribù urbane (e perciò sempre in minoranza rispetto ai contadini, che nel 312-311 disponevano
di 27 tribù su 31), avrebbero conquistato la maggioranza nei concilia tribunici (in cui si votava per tribù).
- introdotta forse su iniziativa di Appio, fu la pubblicazione delle formule che era obbligatorio usare nei
processi (legis actiones) e il calendario, tradizionalmente conservati dai pontefici nel loro archivio, La
conoscenza di tali informazioni garantiva ai suoi custodi una eccezionale autorità, che li rendeva unici
depositari del sapere giuridico.
- Una riforma duratura introdotta tra IV e III secolo, benché ci siano dei dubbi circa l’attribuzione di essa ad
Appio, fu anche la modifica dei criteri per il calcolo del censo dei cittadini: oltre la proprietà terriera e il
bestiame, diveniva ora determinante anche il capitale mobiliare. Così facendo anche un cittadino facoltoso,
sebbene non possidente, poteva in essere iscritto alla 1° classe e modificare in modo decisivo il sistema delle
votazioni delle centurie. Questa riforma è plausibilmente attribuibile ad Appio in quanto favorisce la forensis
factio, il ceto mercantile, che il censore aveva tentato di appoggiare modificando l’ordinamento delle tribù.
D’altra parte, Appio Claudio, nel 300, si oppose strenuamente al plebiscito Ogulnio, che sanciva l’ingresso dei
plebei nei collegi dei pontefici e degli auguri: Una ricostruzione capace di spiegare per quale motivo un patrizio le
cui aioni politiche tradiscono un disinteresse fondamentale verso i privilegi del proprio ordine si spenda a tal
punto per la difesa di una prerogativa simile è quella che suppone che egli volesse combattere determinati
personaggi non in quanto plebei, ma in quanto avversi alla sua politica, impedendo loro di acquistare prestigio e
potere. Infatti, fra coloro che, fallita ogni opposizione, furono cooptati nei due grandi collegi sacerdotali, si
trovavano vari esponenti di un gruppo a lui ostile: Publio Decio Mure, il futuro eroe della terza guerra sannitica, e
Quinto Fabio Rulliano, che durante il loro consolato nel 304 avevano ripristinato le due riforme introdotte da Appio
relative agli ordinamenti tribali e alle liste senatorie.
Dal censo dipendeva la loro iscrizione alle varie classi dell’ordinamento centuriato. all’aristocrazia stessa; il
plebeo Decio Mure, il patrizio Quinto Fabio Rulliano, suo collega nella censura del 304, e i loro amici non erano
certo contrari a un ammodernamento della repubblica; erano però schierati contro quella factio forensis (il
ceto mercantile) che Claudio sosteneva, e contro la politica di egemonia sul Mezzogiorno, mostrandosi invece
favorevoli piuttosto alla conquista di terre coltivabili da distribuire ai contadini22, e questo obiettivo poteva
essere raggiunto solo orientando l’espansione romana verso il Nord.
La secessione
Nel 287 la plebe giunge alla secessione: il plebeo Quinto Ortensio viene nominato dittatore per domare la crisi, e le
fonti, molto scarne, ci menzionano solo una legge Ortensia che portò alla ricomposizione dei conflitti, sulla base
della quale i plebisciti, pur votati da un’assemblea che non comprendeva i patrizi, sarebbero stati vincolanti per
l’intero popolo. Da questo momento la differenza tra leggi e plebisciti sta solo nella loro origine (le prime erano
proposte da un console, da un pretore o dal dittatore, all’assemblea delle centurie; i secondi da uno o più tribuni
all’assemblea della plebe), ma non nella loro efficacia. Spesso, perciò i plebisciti, già dagli autori antichi, sono
chiamati, con una certa inesattezza, leggi.
22
La società romana nel IV secolo e all’inizio del III a.C. si trova in permanente stato di miseria delle classi umili, oppresse
dai debiti. Le guerre sannitiche aggravavano ulteriormente la situazione
Nel 287, con la legge Ortensia, si conclude pertanto la lotta fra gli ordini; da allora in poi non si ha più notizia di
altre rivendicazioni plebee. Tuttavia, un’assoluta parità fra patrizi e plebei non fu mai raggiunta: ai patrizi
soltanto erano riservate l’auctoritas patrum e alcune cariche sacrali.
Diritto a un posto di console su due ogni anno (rispettato fino alle elezioni del 173)
Diritto a un posto di censore su due ogni cinque anni (fino al 131)
Diritto a quattro posti su nove nei collegi dei pontefici e degli auguri (fino a Silla.
Si trattava quindi sempre di una situazione di inestimabile vantaggio per le carriere dei patrizi, considerando che
essi costituivano solamente il 5% della cittadinanza romana totale, ed è degno di nota che l’élite plebea –
direttamente danneggiata dalla disparità dei diritti – abbia tollerato un tale stato di cose anche quando
disponeva di una larga maggioranza nel senato. La divisione della cittadinanza in due ordini fu ereditata dalla
società imperiale, sia pure in forma adulterata: mentre il vecchio patriziato, profondamente coinvolto nelle guerre
civili, si andava sempre più assottigliando, Cesare nel 44 e Ottaviano nel 29 crearono due serie di nuovi patrizi,
proclamati tali per legge; e il loro esempio fu seguito da molti imperatori. D’altra parte, il patriziato autentico,
prima di estinguersi, diede una singolare prova di vitalità: i primi sei principi furono tutti, per nascita (Tiberio,
Caligola, Claudio, Servio Sulpicio Galba), o per adozione (Augusto, Nerone), patrizi.
Tuttavia, le magistrature rimanevano sempre nelle mani delle stesse gentes o delle stesse famiglie; per gli uomini
nuovi era molto difficile farsi strada.
Gelzer: “L’oligarchia romana è una struttura stabile; non c’è evoluzione dal IV al I sec”
Afzelius: ”La formazione del regime oligarchico romano si è svolta in 2 fasi: dalla riforma del 367 fino
ai primi anni del II secolo, quando ancora permane una posizione di apertura; poi, la classe dominante
finisce per erigere barriere contro gli uomini nuovi.”
Nel cinquantennio 366-315 i plebei ottengono 43 consolati su 100, divisi fra 27 individui su 58, appartenenti a 19
genti diverse: ciò significa che dopo l’ammissione della plebe al consolato venne lasciato ampio spazio per nomi
nuovi; poi, dal 314 sino alla fine della repubblica i consoli non discendenti di consoli sono il 17%, senza grandi
oscillazioni intorno alla media.
La classe dirigente nel suo insieme (a cui appartenevano anche coloro che avevano rivestito solo le magistrature
inferiori) è quindi sì gruppo aperto, che rende accessibile il percorso alle prime tappe della carriera pubblica per chi
disponeva di un cospicuo patrimonio; ma l’aristocrazia delle ultime generazioni repubblicane si distingue da
quella più antica perché perde ogni contatto con i sentimenti e le esigenze del popolo; ne ignora o ne trascura gli
interessi, parla una lingua diversa ed elabora una cultura diversa. I consolari (e i loro discendenti) costituiscono un
gruppo chiuso, un’oligarchia dominante nell’ambito della classe politica.
L’aggettivo nobilis (gnobilis > co-gnosco)in origine «conosciuto, notorio, illustre» acquista il senso di
«aristocratico» in riferimento al rango sociale, all’esercizio del potere politico e alla ricchezza. Tuttavia, non
tutti coloro che hanno una genealogia rispettabile, non tutti gli uomini politici, non tutti i ricchi, sono considerati
nobili.
Che cosa intendevano dunque i Romani con questo titolo? Secondo Cassola, fino all’età
graccana o anche a Silla, la casta dei nobiles coincide con quella dei consoli, dei
pretori, e di coloro che discendevano in linea retta da un console e da un pretore23.
Dal momento che il titolo di nobilis era puramente onorifico, e il suo significato era definito dall’uso, non dalla
legge, nulla vieta di supporre che il mutamento della cerchia di individui da esso designati sia stato graduale.
Risemantizzazioni
Le etichette di nobilis e novus homo coprono solo in parte l’area della classe politica romana: v’è tra le due categorie
una specie di zona grigia cui appartengono i discendenti di quelli che son giunti solo alla pretura o ad altra
delle maggiori magistrature; c’è un «limbo» in cui si collocano i senatori non nobili ma discendenti da altri
senatori.
23
In una fase arcaica non si faceva differenza fra pretura e consolato. Dopo la riforma del 367, per oltre un secolo c’era stato
un solo posto di pretore ogni anno; dal 242 i pretori furono 2 all’anno, furono 4 dal 227, 6 dal 197, 8 da Silla a Cesare. il
prestigio della carica diminuiva man mano che i posti aumentavano.
Nobilis
Colui che per primo nella storia della sua famiglia otteneva una delle magistrature da cui dipendeva la nobilitas era
un nobilis.
L’ideale di vita dei nobili di rango senatorio sono stigmatizzati nell’elogio funebre pronunciato nel 221 da Quinto Cecilio
Metello ai funerali del padre Lucio Cecilio Metello, console nel 251 e nel 247, pontefice massimo dal 243 alla morte.:
Capacità militari
Eloquenza
Ricchezza guadagnata «in modo onorevole, onesto»24 (forse su questo punto l’opinione degli aristocratici non era univoca)
Molti figli (vs tasso di mortalità infantile, morte prematura dei figli, guerre) per non estinguere la famiglia patrizio-plebea
d’appartenenza.
Kalos kai agathos = prestanza fisica e valore/virtù
Le cariche ricoperte
La padronanza del diritto
Plebs
Il carattere composito della nobilitas fino al 300 si manifesta nei conflitti per l’accesso alle magistrature o ai
sacerdozi; ma le rivalità e le distinzioni di rango nell’ambito dell’aristocrazia erano poca cosa di fronte all’abisso
che divideva tutti i nobili, plebei compresi, dalla gente comune. Le iniziative dei tribuni per migliorare le
condizioni delle classi inferiori sono piuttosto rare:
- una serie di plebisciti votati intorno alla metà del IV secolo sul problema dei debiti,
- la legge Flaminia del 232, sulla distribuzione dell’agro piceno-gallico in piccole proprietà.
Di solito i tribuni collaborano con il senato nell’ordinaria amministrazione, oppure nell’interesse dell’una o
dell’altra fazione aristocratica cui appartenevano, o in quanto nobili o in quanto clienti di nobili. Al contrario, sono i
consoli a proporre alcune riforme importanti per i diritti e gli interessi delle classi inferiori:
326 a.C. Lex Petelia Papiria, che mitigò gli aspetti più odiosi della schiavitù per debiti
300 a.C. Lex Valeria, garante del diritto di appello al popolo contro la condanna a morte
Il termine plebs passò quindi a indicare quelli che non erano né patrizi, né nobili, né senatori, né cavalieri, né
grossi o medi commercianti, né medi proprietari: insomma, i poveri.
Homo novus
Il novus homo è quel cittadino romano che, non avendo senatori fra i suoi antenati, si dedica alla vita politica; è
tale non solo quando raggiunge il consolato ed entra nella nobilitas (Catone, Mario, Cicerone), ma già quando è ai
primi passi della carriera.
Nel III secolo il censo equestre minimo ammontava a 1 milione di assi, ovvero 10 volte il censo minimo della
prima classe; nel I secolo era il censo era calcolato in 400 000 sesterzi, che, dopo la riforma del sistema monetario,
valevano, anziché un milione, 1 600 000 assi. A causa di questo ordinamento, i cittadini di condizioni disagiate,
24
spartizione del bottino dopo le vittorie, allevamento, agricoltura e vendita dei prodotti agricoli. Non era onorevole la forma di
guadagno mercantile.
del tutto esclusi dalle cariche pubbliche, non avevano possibilità di emergere. Forse, nell’arco di una vita, era
possibile ascendere dalle classi della fanteria all’ordine equestre; ma per entrare nella classe politica occorrevano
gli sforzi consecutivi di più generazioni.
I novi homines erano tutti nati nell’ordine equestre, quindi erano self-made dal punto di vista politico, non certo
da quello economico.
2. La seconda difficoltà era costituita dalle clientele che si venivano a formare intorno agli uomini di
potere, che diventavano a loro volta strumenti di potere, e si trasmettevano come per eredità da una
generazione all’altra della stessa famiglia
L’uomo nuovo si trovava in una posizione di svantaggio, e per uscirne avrebbe dovuto conquistarsi da solo una
clientela paragonabile a quelle dei nobili. In pochi vi riuscirono; i più fecero carriera perché appoggiati da
esponenti della nobilitas stessa.
I posti di console non accaparrati dai nobili toccavano a personaggi che la stessa nobilitas aveva scelto: in pratica, il
gruppo dominante si accresceva per cooptazione.
5. L’IMPERIALISMO ROMANO
Emilio Gabba
Imperialismo Romano, fenomeno unitario
In senso geopolitico, il fenomeno dell’imperialismo romano è unitario, così come è in larga misura
contemporaneo; l’espansione nella Gallia Cisalpina, in Spagna e nell’Oriente ellenistico è di fatto una realtà
temporalmente non disgiunta, e come tale va considerata unitariamente. E tuttavia i modi nei quali si è venuta
attuando sono stati differenti (ad esempio, Roma in Oriente si trova ad affrontare realtà storiche e politiche duplici
e profondamente dissimili: da un lato gli stati greci tradizionali, poleis, etnie e leghe; dall’altro, le monarchie
ellenistiche).
Polibio
Oggetto della trattazione di Polibio25 sono i modi e le ragioni di un successo che appariva unico nella storia umana:
l’emergere e il consolidarsi del dominio romano in tutto il Mediterraneo26.
Secondo Polibio, a partire dalla battaglia di Zama, i Romani dovevano aver formulato e portato ad attuazione il
progetto unitario della conquista dell’egemonia mondiale. Il piano era andato realizzandosi compiutamente nel
corso di 53 anni, dal 220 al 167 a.C., dall’inizio della guerra annibalica alla distruzione del regno di Macedonia.
Attorno a Roma ora si realizza per la prima volta un plausibile programma una vera «storia universale», di cui
l’elemento unificante è rappresentato da quel seguito di graduali concatenazioni e di crescente consapevolezza e
volontà di dominio romane, che s’inseriscono in un quadro di necessità storica, dominato dai disegni della Tyche.
Polibio accetta l’antico schema tucidideo secondo cui la programmatica volontà espansionistica necessariamente è
inerente ad ogni potenza e indispensabile per sopravvivere ad acquistare ulteriore dominio.
L’importanza delle singole fasi di espansione, con le loro ragioni specifiche e occasionali, appare ridotta e
interpretata in relazione ai modi con cui la politica espansionistica romana viene concretamente realizzandosi.
La difficoltà per lo storico moderno a comprendere la dinamica di un fenomeno storico così complesso, quale è
l’imperialismo romano fra III e II secolo a.C., consiste appunto:
- nell’intento e nel compito di trarre fuori da una storiografia come quella polibiana, così compatta e
impegnata, elementi e dati di fatto (ben coerenti a quel piano storiografico) per valutarli eventualmente
in direzione diversa.
- Oppure, di contrapporre a quella storiografia, per saggiarne la validità, i non molti dati tradizionali di
altra provenienza: è abbastanza ovvio che alla radice di questi tentativi stanno inevitabilmente concezioni
storico-politiche e canoni interpretativi che lo storico moderno ha ricavato dall’esperienza del suo
presente»
Storiografia ellenistica
Dalla fine del III secolo, quando Roma iniziò a dominare il mondo politico e culturale greco, in Magna Grecia e
Sicilia ogni manifestazione letteraria greca è collegata con gli eventi e le situazioni del cosiddetto imperialismo
romano. Altri storici, minori rispetto a Polibio, hanno considerato il suo stesso problema, da visuali più ridotte e
parziali, con interessi locali e antiquari, ma con chiara coscienza della nuova realtà del momento in cui vivevano.
Seppero connettere le loro ricerche, per lo più erudizione antiquaria, di cronologia, di storia locale, con le grandi
25
contemporaneo della fase finale di questo rapido processo storico
26
Polibio colloca la storia degli stati della Grecia continentale quasi come terzo momento fra Roma (e
Cartagine) e gli stati ellenistici, nel loro scontro decisivo.
problematiche legate alla presenza di Roma nel mondo greco e greco-orientale, assumendo atteggiamenti di
indipendenza politica e culturale: essi furono i rappresentanti di una pubblica opinione greca, che si manifestava
con le prese di posizione dei politici e con le manifestazioni letterarie. Lo storico greco (meglio, lo storico
ellenistico), erede di una lunga tradizione di storiografia politica, e oramai abituato a pensare la storia dei suoi
tempi entro parametri forniti dallo scontro continuo e mai volutamente risolutivo fra le monarchie
postalessandrine, con la complicazione rappresentata dalle città e dalle leghe arcaiche, può avere prima cercato di
inserire Roma in quel gioco, ma si sarà presto accorto che l’irrompere della potenza romana sconvolgeva tutte le
situazioni stabilite e i modi stessi tradizionali di pensare la politica e la storia: per questo Polibio si assumerà il
compito, politico e scientifico, di spiegare le ragioni di un successo altrimenti incredibile. Roma viene quindi
inserita come ultimo anello della catena della successione degli imperi che avevano aspirato all’egemonia
mondiale, e l’avevano più o meno parzialmente ottenuta, secondo un tentativo, non privo di futuro, di inquadrare la
potenza romana negli schemi tradizionali, pur rendendosi conto degli elementi di assoluta novità che essa recava con
sé27.
La classe dirigente romana era permeata dalla cultura greca dell’Italia meridionale ed era attenta a queste prese
di posizione dei ceti colti greci, e si può supporre che le idee che la storiografia del tempo esprimeva su Roma
fossero giunte a conoscenza della dirigenza romana, e abbiano potuto anche aver influito sul suo modo di pensare
e di agire, almeno fino al 146 a.C.
Le conoscenze reciproche fra mondo romano e mondo greco debbono essere state più ampie di quello che si crede
fin dagli inizi della fase espansionistica di Roma in Oriente, e saranno cresciute sempre più col tempo: certe idee e
teorie, presenti nella storiografia greca, e poi nel pensiero filosofico-politico greco, possono veramente riflettere
realtà storiche concrete e non essere soltanto riflessioni pur importanti di storici e filosofi.
- in un ideale superiore di giustizia, nella piena legittimità della guerra (bellum iustum)
- nella motivazione della
difesa degli alleati (salus ricerca del consenso
sociorum), che costituiva la attorno ad alcuni
saldi ideali
principale garanzia della
fides dei Romani verso i loro consapevolezza dei
soci Abitudine alla
vantaggi materiali
che la guerra
guerra
vittoriosa poteva
procurare
27
NB. Influenza probabilmente più diffusa e penetrante possono e debbono aver avuto sulla pubblica opinione comune
greca le varie forme di una produzione letteraria, che proprio fra III e II secolo a.C. e in relazione a Roma fu vivacissima,
specialmente nelle sue manifestazioni oracolari e sibillistiche, anche così rispondendo a quelle disposizioni della religiosità
comune, sempre più suggestionata e sospinta da esigenze e motivazioni irrazionali. Sia in senso filoromano, sia, e si direbbe
IMPERIALISMO
soprattutto, in senso contrario a Roma, questo materiale, che raggiunse toni di grande asprezza, deve aver conosciuto
un’amplissima diffusione e talora penetrò e influenzò la stessa storiografia “alta”, e fu accolto in essa anche con intenti di
propaganda politica. Atteggiamenti singolarmente anomali di taluni personaggi romani possono aver dato alimento a questa
“letteratura”, come per esempio la raffigurazione superumana e quasi divina di Scipione Africano, alimentata dallo stesso
interessato, della quale Polibio tenterà una razionalizzazione.
- in un ideale di difesa dei mercatores e negotiatiores
La presenza di una forte componente morale di fronte all’eventualità di una guerra risponde a un’esigenza di
sicurezza interna: la ricerca di pretesti morali che giustifichino l’avviamento di una campagna militare non sono
meri pretesti finalizzati all’ottenimento del consenso, ma rispondono a tutti gli effetti a motivazioni di natura di
legittimazione anche culturale.
Casi in cui ebbero un ruolo determinante (ma non esclusivo) motivazioni di ordine economico
Sabina fonte di ricchezza (terriera) prima impensata
Agrigento (conquistata bottino così ingente da costituire una svolta nelle ragioni stesse della guerra
durante la I punica)
Guerra dei mercenari ribelli Motivata da ragioni “economiche” (difesa di interessi di commercianti italici)
di Cartagine Guerra illirica
Intervento in Numidia contro Strage dei negotiatores italici a Cirta determinante nella decisione
Giugurta
Sicilia, 264 a.C. La classe contadina forzò quella senatoriale a superare le ragioni di coerenza e
di scrupoli morali e ad intervenire in nella speranza di ricavarne vantaggi
economici
Gallia Cisalpina La riconquista della schiuse la via a una progressiva colonizzazione che fu ad un
tempo diretta dal governo romano e anche spontanea; le grandi risorse della
regione favorirono un movimento di spostamento di masse umane attirate dal
miraggio, che diveniva realtà, di riacquistare nuova autonomia economica
Guerra annibalica costringendo i militi a un servizio militare continuato e spesso lontano dalla
propria terra (ad es. in Spagna), ne ridusse la libertà economica e ne modificò
anche la mentalità civile, avviando il processo di formazione del
professionalismo militare che si svilupperà nel corso del II secolo a.C.:
l’arricchimento come finalità del servizio militare, per cui ci si arruola come
volontari, è pertanto motivo presente anche nella letteratura e nella storiografia
contemporanea
Oriente greco sorge e si sviluppa il professionalismo militare, insieme con una mentalità
militaristica e combattentistica; vantaggi economici immediati che le masse
militari sapevano si potevano ricavare dalle guerre in quelle regioni = uno dei
motivi per arruolamento di volontari
Ideologia patriottica, strumento di costruzione del consenso
Questo fenomeno veniva sempre più a confondersi con una generale mentalità militaristica ed espansionistica,
sostenuta dalle masse stesse, che contribuì ad incentivare le tendenze imperialistiche della classe dirigente.
Quest’ultima, d’altra parte, era già da tempo riuscita a trasmettere la propria ideologia patriottica all’intero corpo
civico, costruendovi così la base del consenso.
- Ricorso alle cerimonie del trionfo e dei funerali delle grandi personalità come strumento
propagandistico di rafforzamento patriottismo cittadino
- il concetto della guerra giusta in quanto guerra difensiva
- la prospettiva del dominio mondiale, unita alla convinzione che esso fosse stato concesso al popolo
romano dalla benevolenza e la protezione divina come contraccambio per il rispetto (pietas) dimostrato
sempre dai Romani verso gli dèi
- è già stata sottolineata l’incidenza dei vantaggi economici e dell’entusiasmo imperialistico di massa
- la demonizzazione dell’avversario (nel caso dei Cartaginesi, non tanto dei Greci)
- il tentativo di coinvolgimento della comunità e il cointeressamento degli alleati italici, che andarono
crescendo nel corso del II secolo proprio in ragione del tradizionale sistema romano di richiedere ai soci
contingenti di truppe anziché la corresponsione di un tributo. Gli alleati, a livello delle masse che
servivano nelle truppe ausiliarie, erano di fatto equiparati ai Romani nella divisione del bottino e anche
erano inseriti nei programmi della colonizzazione: in questo modo, ci si garantiva l’adesione degli alleati
alla politica espansionistica romana, per le concrete ragioni sovracitate che consentivano ai ceti dirigenti
delle singole comunità di mantenere e rafforzare la propria posizione di predominio.
Sicilia
provincializzata
Le tappe dell’espansione
4. Gallia Cisalpina
Si protrassero lunghe guerre contro tribù galliche e liguri, allo scopo di realizzare un grandioso piano di conquista
territoriale e di colonizzazione per ottenere una valvola di sfogo per i cittadini romani e italici danneggiati dalla
guerra annibalica.
Anche se la vera e propria strutturazione come provincia della Gallia Cisalpina venne soltanto molto più tardi con
Silla, la presenza continuata di truppe, la vivace colonizzazione, gli insediamenti rappresentano di fatto
un’annessione, prima fino alla linea del Po, poi anche oltre.
Questo fenomeno non può non corrispondere a un programma o piano politico generale, quali che fossero il
grado di autonomia dei singoli comandanti nella conduzione delle operazioni militari e le possibilità di controllo del
Senato.
5. Spagna
C’era la necessità, per il governo romano, di mantenere il controllo militare della regione, per motivi di ordine:
- politico-militare, dovute alle operazioni militari in Spagna durante la II guerra punica, dal momento che
proprio la Spagna era stata la base militare principale per la potenza cartaginese e Annibale
- economico, dovute alla ricchezza della regione
L’occupazione militare comportava la presenza costante di truppe, con non lievi implicazioni sul sistema militare
romano e sulla concezione stessa del servizio: si ebbe in Spagna, per la prima volta nella storia di Roma, l’esempio
di un esercito stanziale.
Era da prevedere che si sviluppasse uno stato di guerra endemico, che portò, di fatto, a una certa forma di
annessione del territorio a Roma, anche se, di nuovo, la vera e propria provincializzazione in senso tecnico
avvenne solo in seguito, insieme con una sempre più precisa organizzazione dello sfruttamento economico
(produzione agraria e miniere) e del sistema fiscale. In Spagna si ebbe quindi una situazione analoga a quella della
Gallia Cisalpina, ma aggravata e complicata dalla lontananza della regione dal centro del potere.
radicamento il
luogo
organizzazione
formazione di organizzazione
dello sfruttamento
insediamenti territoriale
delle risorse
romano-indigeni
immigrazione
spontanea di
elementi romano
italici
Anche se si ammette che Roma si sia servita di strumenti diplomatici greci per inserirsi nel contesto culturale
orientale, quello che importa è capire l’intenzione politica che stava dietro quell’impiego, e basterà riflettere sul
fatto che con quella politica apparentemente indecisa, indifferente e di disimpegno, Roma garantiva una propria
presenza costante così come in Occidente.
L’aspirazione a un’egemonia mondiale, concepita nel quadro della politica degli stati
ellenistici, non doveva prevedere alcuna annessione territoriale in Oriente; Roma aveva
piuttosto l’interesse al mantenimento di un equilibrio politico generale, entro il quale le
potenze ellenistiche fossero rispetto a lei in posizione subordinata.
Le vittorie militari romane sono decisive per la realizzazione di un tale piano 28; per questo, nel pensiero di Polibio, e
greco in genere, la distruzione del regno di Macedonia dopo la vittoria di Pidna nel 167 a.C. rappresenterà la vera
svolta nella storia mondiale, anche se Roma non procederà ad alcuna annessione territoriale. Roma aveva maturato
una preziosa esperienza della politica greca, dei suoi modi e della mentalità che la dirigeva, attraverso il secolare
rapporto con la Magna Grecia e la Sicilia.
Polibio aveva messo in chiaro le ragioni sostanziali delle vittorie romane e la legittimità della loro egemonia. Roma
venne quindi a succedere alla Macedonia nella lista delle potenze detentrici di un’egemonia su scala mondiale,
ma nel paragone tra le due entità era sottintesa l’idea di una certa propaganda secondo cui anch’essa sarebbe poi a
sua volta decaduta come gli stati che l’avevano preceduta. Soltanto in età augustea e poi imperiale il confronto con
la Macedonia venne ad assumere valore decisamente filoromano, in considerazione dell’ampiezza, ma prima
raggiunta da altri, conseguita da Roma, e della sua durata nel tempo.
28
Es. L’intervento romano in Illiria e la vittoria erano stati accolti e giudicati con favore in ambito greco: nel 228
a.C., i Romani vennero ammessi ai Giochi Istmici come ringraziamento e riconoscimento.
a. Il filellenismo
Nei confronti degli stati greci tradizionali, la sostanziale politica filellenica di Roma si fondava su di una nozione
panellenica di libertà: la proclamazione della libertà greca nel 196 a.C. ha il suo valore politico in questo senso, e
riflette una sincerità di fondo; d’altronde, la garanzia esterna di Roma all’autonomia degli stati greci comportava
il mantenimento dei frazionamenti, e dei contrasti tradizionali. Roma applicava nella sua politica verso gli stati
greci la teoria e il metodo della clientela, per mezzo di patronati personali, nel mondo greco: la coerenza della
politica romana verso il mondo greco era dettata dalla coscienza della superiorità politica raggiunta, rafforzata da
motivazioni ideali e storiche (appoggio divino, mito troiano ed eneico), dalla suggestione esercitata sui magistrati
romani dagli onori e dai riconoscimenti dei quali erano oggetti in Grecia, e sostanziata da una conoscenza reale dei
problemi formatasi nella classe dirigente romana con l’esperienza politico-militare-diplomatica-culturale.
La tendenza filellenica a Roma testimoniata anche dalla letteratura del tempo si traducono in un atteggiamento
comportamentale, una disposizione culturale, spirituale e politica, che fu generalmente di riconoscimento e di
rispetto, anche con la precisa volontà di inserirsi storicamente in quel mondo, connettendo alla Grecia le origini
stesse della propria città.
L’aspetto principale della reazione politica greca ostile a Roma è la guerra. Le ostilità e la propaganda volta ad
alimentarle vanno ricondotte agli Etoli e ai Seleucidi, che si adoperano per:
Diffondere vaticinazioni oracolari che profetavano di un ritorno offensivo e vittorioso dell’Asia contro
Roma (a cui rispondevano vaticinazioni oracolari filoromane)
Ritrarre il re Antioco in Grecia come un liberatore, come si evince da una certa letteratura datata all’epoca
della guerra siriaca e ripresa poi in età mitridatica
Divulgare una certa letteratura romanzesca sull’esaltazione di Annibale, eroe antiromano per eccellenza
Su di un piano storiografico più seri, la polemica antiromana, iniziata nel II secolo, continuata poi in età
mitridatica e pur ripresa da storici filopartici sotto il regno di Augusto, veniva a toccare alcuni aspetti della storia di
Roma fondamentali per il modo di ragionare greco:
1. La non grecità, ovvero la barbarie romana (anche Polibio, che non accettava la tradizione troiana delle origini
della città, collocava i Romani in una posizione intermedia)
2. L’oscurità delle origini, non cronologicamente determinabili (in primo luogo della dirigenza romana)
3. La vittoria indegna di Roma sopra il mondo greco civile, motivato come dono della Fortuna e non come
frutto del valore e della virtù
Pur guardandosi dal rinnegare la vera legittimità del comando di Roma, che lo storico greco vede svolgersi come
pura necessità storica, Polibio non avverte mai la necessità di proporre nella sua opera una qualche
legittimazione morale o ideale dell’imperialismo.
Egli guarda con disincanto ai modi nei quali la conquista si attua concretamente;
le finalità di tale espansione sono descritte come puramente utilitaristiche, pur senza condanna esplicita
quei comportamenti, talora machiavellici, miranti soltanto al profitto immediato, prova di un cambiamento
nelle concezioni morali che fino allora avevano regolato l’azione politica della classe dirigente, e da cui
derivava la possibilità di personale corruzione per molti esponenti di quella classe, rispetto ai quali
Scipione Emiliano appare un’eccezione.
La teoria di stampo moralistico della “corruzione”, presente in larga parte della storiografia antica, è la
constatazione di un cambiamento nella società.
167 a.C.: Catone, con un’orazione, dissuade il Senato romano dal portare guerra a Rodi; una linea politica
moderata nell’esercizio della forza da parte della superpotenza, contro la tentazione, e la non nascosta volontà di
sopraffazione da parte del Senato, spinto anche da ragioni di puro interesse. Catone ammetteva che il desiderio di
libertà in quelle popolazioni era pienamente legittimo, e propugnava una politica di tolleranza, di fronte
all’opposta volontà di repressione manifestata da altri gruppi politici, che finirà per prevalere, e che sarà adottata
dallo stesso Catone più tardi, quando si tratterà di Cartagine.
È con il 167 a.C., dunque, che si innesca una svolta della politica romana nella direzione della violenza e della
repressione:
Questa politica del terrore applicata da Roma, che prevedeva la legittimazione della politica della violenza, si spiega
alla luce della necessità esperita da parte della potenza egemone di eliminare quelle forze che, per la loro crudeltà e
inumanità, si erano da se stesse poste fuori del consorzio civile.
Nella pubblica opinione greca crescevano le perplessità sull’esercizio romano del potere. La necessità che alla
base dell’esercizio di una politica imperiale vi fossero saldi principi di moralità generale, e non soltanto la gretta
ricerca dell’utile, spiega lo sforzo degli intellettuali greci, nella seconda metà del II secolo, volto a suggerire alla
dirigenza romana motivi di giustificazione politico-morale per il loro impero: suggerirono che era nell’interesse
dei più deboli essere sottoposti al giusto e benevolo comando dei «migliori» (non dei più forti), che i Romani erano
appunto tali.
Tiberio Sempronio Gracco, tribuno della plebe nel 133 a.C., fu un uomo che riconosceva la validità di una politica
tesa a un’ulteriore espansione, che Tiberio tuttavia vedeva con preoccupazione perché compromessa dal declino
del potenziale umano e militare, da cui la necessità della riforma agraria per ricostituirlo, e dal conseguente,
prevedibile esplodere dell’odio dei sottoposti. E’ dunque in funzione di un proseguimento della missione storica
romana che si chiedevano ai ceti abbienti i sacrifici economici indispensabili
Tiberio sapeva bene che il cittadino medio acquisiva tradizionalmente consapevolezza dei propri doveri, e si
identificava con la realtà concreta dello stato, e quindi anche con la politica di conquista, di “dominio del mondo”, in
quanto era interessato a difendere i propri beni e a fruire in qualche modo dai vantaggi delle conquiste; ma non
aveva previsto un declino sociale ed economico della mentalità alla base dello stato romano e del sistema militare,
capace di mettere in crisi quella consapevolezza della propria appartenenza a una patria: gli ideali prospettati
coincidevano sempre meno con la realtà e non servivano più a motivare la partecipazione dei cittadini alla
politica espansionistica.
- aspirazione all’egemonia mondiale, alla sua conservazione e alla sua ulteriore estensione
- rischio di ribellioni dei sottomessi e necessità di una forza militare adeguata a sedarle
- nessun bisogno di giustificazioni morali
- necessità di legare a sé gli alleati allargando sempre più la partecipazione ai vantaggi che derivavano
dallo sfruttamento dell’impero, in primo luogo economici.
Dopo il 146 a.C., anche in Grecia e in Africa venne introdotta la politica delle “annessioni” territoriali; nel 133 a.C.
venne acquisito, per mezzo testamentario, il regno di Pergamo: una svolta decisiva nel sistema dell’amministrazione
provinciale. Tiberio Gracco usò il tesoro di Attalo III per finanziare la sua riforma agraria.
Inoltre, lo sviluppo dei commerci in Oriente e in Occidente testimoniava una larga presenza, in queste zone, di
elementi italici che, presto o tardi, finirono per rivendicare il diritto alla cittadinanza romana, dichiarandosi
compartecipi, con largo sacrificio di sangue, alla conquista dell’impero, e pertanto meritevoli di partecipare anche al
governo e allo sfruttamento di quello stesso impero
Le ragioni del dissenso: Posidonio
Il problema dell’amministrazione provinciale è al centro della storiografia di Posidonio, che prosegue le Storie di
Polibio fino alla prima guerra civile. Posidionio non discute la legittimità del dominio romano, ma si preoccupa della
cause della decadenza del ceto dirigente e di tutta la compagine sociale. Secondo Posidonio, la decadenza è
diretta conseguenza:
In Posidonio rivolte servili e proletarie, comportamenti arroganti verso gli alleati, depravazione morale dei giovani,
sfruttamento provinciale ad opera del ceto equestre e dei governatori corrotti, dissidio fra senatori e cavalieri sono
l’esito della corruzione del ceto dirigente. Vi sono comunque aspetti positivi messi in luce da Posidonio:
- alcune personalità esemplari (elogio di Claudio Marcello, personaggio politico di alta moralità)
- il Senato, depositario di una tradizione politica di saggezza
Nella storiografia di Posidionio era centrale la nuova dimensione imperiale assunta dall’economia romana, di
cui se ne osservavano le conseguenze politiche e sociali già alla metà del II secolo.
Roma diviene così il momento ultimo e definitivo nella successione degli imperi mondiali: si apriva così la via alla
collaborazione al livello più alto per le elitè di tutto l’impero.
Sintesi: le tappe della conquista in Oriente
Dopo il 202 a.C.
Le monarchie ellenistiche,
Macedonia e Siria, in fase di vivace
espansione, continuano la loro
tradizionale politica di guerre,
Cartagine viene battuta a conquiste, annessioni territoriali per
Zama da Roma: viene ottenere una posizione di prevalenza,
lasciata sussistere nella sua in un gioco politico senza fine e mai
autonomia, a un livello ridotto risolutivo, in cui sono coinvolti tutti
gli altri stati della Grecia
continentale.
A Roma approdano ambascerie e informazioni da tutto il mondo greco: i progressi macedonici suscitano
preoccupazioni come potenziale minaccia anche per l’Italia. Questo fu l’argomento decisivo per far decidere il
popolo romano riluttante a un intervento armato, che la dirigenza riteneva necessario.
Flaminino capì il valore del motivo della libertà per i Greci e cercò di agire di conseguenza:
- proclamando la libertà delle città greche ai giochi istmici del 196 a.C
- ordinando lo sgombero delle legioni romane dalla Grecia nel 194
Nel 196, dopo i giochi istmici, Antioco III è invitato ad abbandonare le città d’Asia Minore, già appartenute a Filippo o a
Tolemeo, e ad astenersi dall’Europa. Antioco III risponde che i Romani non devono occuparsi delle questioni dell’Asia, così
come Antioco non si interessava alle questioni dell’Italia. Antioco non si era reso conto che Roma non era una potenza sul piano
delle altre, con la quale ci si potesse spartire zone d’influenza. Dalla politica propagandistica di Antioco si deduce che:
- ostilità a Roma effettivamente vi erano tra i greci > il protettorato filellenico dei Romani viene presentato
come estraneo alle tradizioni
- il tema della libertà aveva sempre una forte presa emozionale e politica fra i Greci
Attorno alle due potenze prendono posizione i singoli stati greci. Gli Etoli sono i principali alleati di Antioco. Nel 192 Antioco
sbarca
Romain Grecia e si presenta
acquisisce comedell’Asia,
il dominio liberatore della
mentreGrecia. I Siriaci
il regno occupano Calcide in Eubea e poi passano in Tessaglia.
seleucidico
Il re Filippo sta con Roma
Continua quindi il solito dramma della “libertà” greca. L’esclusivismo geloso si scontrava certamente con il
protettorato filellenico di Roma, la quale, anche nel proprio interesse, cercava di imporre una convivenza pacifica
tra le parti con una estenuante opera di mediazione regionale e locale, che finiva per scontentare un po’ tutti.
Roma non ricavava nessun vantaggio pratico dai conflitti locali, dalle continue lotte fratricide, e impartiva il
mantenimento dell’ordine con una disciplina che finì sempre più per passare avanti alle tendenze filelleniche.
Nell’intervallo fra Magnesia e il 170 a.C., nel mondo greco, erano cresciute le ostilità verso Roma anche per un
acuirsi del contrasto sociale interno alle città (si trattava di un fenomeno non imputabile a Roma e di ben più
lontana origine, che tuttavia la politica romana, sostenitrice delle oligarchie, aveva esasperato). Inoltre, era
chiaro a tutti che si era giunti all’ultima fase dello scontro fra la potenza dell’Occidente e le monarchie
ellenistiche, con cui sarebbero scomparse le ultime vestigia dell’antico equilibrio mediterraneo
il regno di Macedonia viene diviso in 4 repubbliche autonome e con scarse connessioni economiche fra
loro, identificando nel centralismo monarchico il principio politico più pericoloso; anche in questo caso,
si era seguita una politica di libertà, eliminando le possibilità di accumulare risorse finanziarie per
eventuali future rivolte Nel 168, la svolta risolutiva: il
Q. Marcio Filippo, console del 169, console L. Anicio sconfigge il
171-170 a.C. Roma arranca nel
Sistemazione
primo biennio dipiù
passa dalla
pesante della Grecia.Macedonia
guerra. Roma Tessaglia
voleva nella
rivalersi
meridionale. mentre la
su tutti coloro cheregno
nelillirico,
corso mentre
dell’altro
conflitto
console, L. Emilio Paolo, punta
L'insuccesso romano favorisce lo
con Perseo erano flotta
stati dubbiosi o ostili macedone è impegnata verso la Macedonia centrale, e con
sviluppo di posizioni antiromane
nell’Egeo la battaglia di Pidna = crolla il
regno di Macedonia
- si favoriscono i frazionamenti
- Atene ricava dall’amicizia con Roma notevoli vantaggi La Lega Achea
- i responsabili politici per i quali si sospettavano trame con il re Perseo furono inviati a Roma per
esservi indagati e giudicati (+ di 1000, tra di essi Polibio), in Italia come ostaggi internati
Roma non poteva tollerare più nessuna parvenza di opposizione, come Rodi ed Eumene di Pergamo, i 2 principali
alleati asiatici di Roma. Roma entra in una fase nuova della sua politica egemone e deve necessariamente diffidare
anche degli alleati più fidi.
a. Catone interviene a moderare gli spiriti troppi accessi riguardo la questione rodia e a far valere motivi di
ragionevolezza politica; Roma opera un ridimensionamento del potere pergameno di Eumene (grande
freddezza romana verso il re) e pone Rodi in una condizione di sudditanza-
b. Presenza al potere negli stati greci di politici filo romani accentua la contrapposizione all’interno degli
stessi
Il declino demografico, sociale, economico della Grecia vede il suo aggravarsi dovuto al completo spostamento dei
traffici commerciali con l’Oriente verso l’Italia e Roma e i nuovi centri economici imperiali (Delo).
La politica romana cerca di mantenersi distaccata ed equanime nei soliti contrasti fra città e città
I contrasti dinastici in Egitto e in Siria = importanti dal momento che ne poteva derivare un qualche mutamento nella
politica di equilibrio subordinato stabilitosi nel bacino orientale del Mediterraneo > l’appoggio romano all’uno o
all’altro dei pretendenti poteva avere ripercussioni sugli interessi della stessa classe dirigente romana > nel 155 a.C.
Tolemeo Evergete, re di Cirene, nel contrasto con il fratello Tolemeo Filometore, redige un testamento, rimasto
senza effetto, con il quale lasciava il suo regno al popolo romano nel caso di sua morte senza eredi
Nb. Contemporaneamente, avviene la rivolta degli ebrei di Gerusalemme, iniziata nel 169 a.C. a seguito del
saccheggio del tempio da parte di Antioco IV > 161 a.C. Roma stipula un trattato con la comunità giudaica
Nel 150 a.C. tornano in patria i superstiti degli internati greci in Italia dopo il 167.
150-148 a.C.: Quarta guerra Macedonica
Nel 149 a.C. la situazione in Grecia muta all’improvviso, a causa degli equilibri precari escogitati per la
sistemazione della Macedonia
Andrisco insorge: da allora sembra sia stata fissata la presenza annuale, in Macedonia, di un governatore romano. Si
tratterebbe della prima organizzazione provinciale nella penisola greca.
Secondo Polibio, dopo gli avvenimenti in Macedonia, una follia investe le città della Lega Achea, anche per
l’ignoranza e la malvagità dei governanti (della Lega), i peggiori possibili, che tuttavia le masse rovinate seguivano.
Inizia così la guerra acaica, per decisione folle e insensata, ma di grande adesioni.
Antefatto: tentativo romano di porre fine alla contesa tra Lega Achea e Sparta sfocia in una ambasceria romana
inviata nel 147 a proporre di staccare dalla Lega la città di Sparta, Eraclea all’Eta, Argo, Corinto, Orcomeno, con un
drastico ridimensionamento della struttura politica della lega
Nel 146 a.C. Il console L. Mummio batte gli Achei sull’Istmo e conquista Corinto, che viene saccheggiata. Il Senato
decide la successiva distruzione di Corinto, dimostrando una dura ferocia repressiva immotivata contro il territorio
di Corinto, che diventa ager publicus del popolo romano. La Lega Achea viene ricostituita su basi ristrette.
La politica della libertà non fu in apparenza abbandonata, ma era ovvio che ormai aveva un significato ben diverso
rispetto a cinquant’anni prima.
Sintesi: le tappe della conquista in Occidente
L’espansione imperialistica In Occidente prende la forma di una prosecuzione nella conquista della penisola
iberica, dopo che i Romani vi si erano insediati durante la guerra annibalica per combattere i Cartaginesi. La
conquista non si realizzò nella sua completezza che in età augustea, e quindi quasi due secoli dopo il suo inizio, e fu
accompagnata da un processo, lento ma costante, di romanizzazione che incise profondamente sulla variegata
realtà locale, un graduale avanzamento della zona di dominio o controllo romano verso l’interno della penisola,
da oriente verso occidente e da sud verso nord, completata da Augusto con l’occupazione dell’estremo angolo
nord-occidentale della penisola.
La Penisola Iberica era una complessa e frazionata realtà tribale; società guerriere, rette da aristocrazie e da regole,
con strati di dipendenti devoti e legati ai capi, con i quali era possibile instaurare rapporti di personale clientela;
tribù dotate di scarsa sedentarietà, dedite alle incursioni ostili ricorrenti contro le aree più ricche, già pacificate e
avviate a uno sviluppo di civiltà urbana. Con i Romani si istituzionalizza la fornitura di truppe mercenarie da
parte delle tribù iberiche, come potente fattore di romanizzazione nella penisola dal II sec. a.C. La condotta
romana della guerra nella penisola iberica è profondamente diversa rispetto alle guerre nell’Oriente greco, contro gli
stati organizzati ellenistici: è una guerra ininterrotta, sfuggente, con fasi di politica fondata su accordi e
trattamenti pacifici alternati a momenti di durissima e inumana repressione, forieri a loro volta di nuove ribellioni.
Vi era necessità in Spagna di una forza militare stanziale composta da cittadini romani e alleati italici, nonché
da truppe ausiliarie indigene.
Per una definizione dell’organizzazione provinciale della Spagna bisogna attendere il 197 a.C., quando sembra
essere stata divisa in 2 province (Citeriore e Ulteriore), poiché nel 198 si tenne l’elezione di 2 nuovi pretori per
l’aumento delle province.
Nel 195 a.C. il comando in Spagna come console viene affidato a M. Porcio Catone;
nel 178 a.C. Tiberio Sempronio Gracco interviene in spagna con una politica di accordi con le tribù
domate, assegnando loro terre, cioè volgendole alla sedentarietà; ne consegue un ventennio di relativa
pace nella penisola iberica. Fonda per loro insediamenti “urbani” per controllarli meglio; impone i tributi
e fissa i contingenti di truppe da fornire Regolazione delle contribuzioni connessa alla stabilità degli
insediamenti e allo sviluppo dell’economia agricola, con assegnazioni di terre promesse e concesse come
mezzo per stroncare le incursioni e le azioni di guerriglia contro i territori pacificati: ampio processo di
romanizzazione che, a sua volta, sta alla base della partecipazione della Spagna alle guerre civili del I
sec. a.C.
Con il progredire dell’organizzazione provinciale, si sviluppano nuove forme di malgoverno: in Spagna gli abusi
dei magistrati ai danni delle popolazioni soggette assumono ampiezza e gravità inusitate 29.
Malgoverno e violazione dei patti concordati con Gracco provocarono nuove forme di violenta ribellione che
colpirono le province iberiche dal 154 al 133 a.C.: furono due grandi gruppi etnici ad alimentare le ostilità, i
Celtiberi e Lusitani, insieme ad altre entità tribali minori. A Roma le tendenze alla moderazione e all’accordo sul
modello di Gracco si scontrarono con posizioni più radicali e improntate ad azioni repressive.
29
Ad esempio, sono del 171 a.C. le accuse di popolazioni spagnole contro magistrati colpevoli di estorsioni che condussero
all’istituzione ad opera del senato di un tribunale speciale di recuperatores formato da senatori, presieduto dal pretore di Spagna e
accessibile ai provinciali tramite patroni romani tratti anch’essi dall’ordine senatorio
Nel 149 a.C. venne approvato, su proposta del tribuno della plebe L. Calpurnio Pisone Frugi, il tribunale
stabile per i processi di estorsione ai danni dei provinciali, la quaestio de repetundis, il tribunale
dell’impero.
La guerra lusitana dal 147 al 145 fece progressi sotto la guida dell’indigeno Viriato, paragonabile per
tenacia e valore a Vercingetorige.
Nel 145 e poi ininterrottamente dal 143 al 134 fu necessario inviare ogni anno in una delle province
spagnole un console.
Nel 139 Viriato venne ucciso a tradimento; nel 138 e 137 Decimo Giunio Bruto vinse i Lusitani
Il cuore della guerra celtiberica venne identificato con la capitale Numanzia, che si decise di prendere
d’assalto; i Numantini vennero sostenuti con successo per vari anni, sconfiggendo più volte i Romani,
finchè, nel 134 a.C., P. Cornelio Scipione Emiliano, il distruttore di Cartagine, viene eletto console per la
seconda volta (con una speciale dispensa dalla legge del 151 che vietava l’iterazione del consolato) e per
sua mano nel133 a.C. Numanzia cade per fame e viene distrutta: anche l’ultimo simbolo di libertà e di
resistenza che era stato necessario eliminare a ogni costo per poter pacificare tutta la penisola.
Roma e Cartagine
Il 149 a.C. fu l’anno dell’iniziativa di Cartagine contro il re di Numidia Massinissa, decisione interpretata come una
rottura dei patti del 201 a.C. e adottata come pretesto importante tanto per giustificare la dichiarazione di guerra di
Roma a Cartagine davanti al Senato quanto di fronte all’opinione pubblica greca.
Tensione crescente fra Massinissa e Cartagine per le continue pretese del re su porzioni del territorio cartaginese la
cui proprietà non era stata definita con chiarezza nei trattati di pace successivi alla 2° guerra punica. Il Senato
romano, chiamato ad arbitrare, si era sempre pronunciato a favore del re. A Cartagine si registravano tendenze
politiche contrapposte:
Era nell’interesse di Roma mantenere la tensione fra i due stati e favorire, fino a un certo punto, Massinissa.
Cartagine non poteva più rappresentare un pericolo reale per Roma nel senso della competizioni politica
(discorso in parte diverso potrebbe essere fatto a proposito della concorrenza commerciale), ma era chiara l’inerente
pericolosità di quello stato, economicamente prospero ed efficiente, per la possibilità di coagulare elementi di
disturbo generalmente diffusi: non si poteva essere del tutto sicuri invece della salute del regno di Massinissa,
oramai vecchissimo, e della sua saldezza, di fronte ai problemi della successione. Cartagine era un elemento di
fastidio da eliminare: la tendenza romana all’eliminazione di Cartagine è impersonata da Catone, la cui opinione
non va considerata come condivisa da tutti (ad esempio non da Publio Cornelio Scipione Nasica 30).
Difesa a oltranza di Cartagine tra 149 e 148, che diede scarsi risultati per i romani, finchè nel 147 Scipione Emiliano
venne eletto console, senza che egli avesse l’età richiesta, grazie alla pressione popolare che lo sosteneva a motivo
suoi meriti militari e dell’influenza esercitata sull’opinione popolare a Roma dal ricordo della vittoria del suo grande
avo L’Africano. Il comando militare in Africa viene affidato a Scipione per decisione popolare, e conduce a un
assedio severo, per terra e per mare, di Cartagine, protrattosi fino al146, quando Cartagine cade, viene incendiata e
rasa al suolo; i vinti furono venduti schiavi. Il territorio già appartenuto a Cartagine venne organizzato come una
nuova provincia, Africa.
30
Le argomentazioni di Nasica furono la pubblica opinione greca e il metus punicus.
6. IL PROCESSO DI INTEGRAZIONE
DELL’ITALIA
NEL II SECOLO
Emilio Gabba
Il mutamento dei rapporti nel II secolo a.C.
Rapporti esterni
II secolo a.C., secolo di diffidenza nei rapporti tra Roma e gli alleati italici: molti socii si erano staccati da Roma
ed erano defezionati ad Annibale durante la seconda guerra punica, finita la quale vennero imposte pesanti misure
punitive per essi: larghe porzioni di territorio alleato erano infatti divenute ager publicus Populi Romani
Altro aspetto fondamentale da considerare nella storia dei rapporti fra Roma e i suoi alleati italici nel corso del II
secolo è la completa trasformazione che l’alleanza stessa venne a subire in quanto la città egemone, Roma, non
era più soltanto a capo di un folto gruppo di staterelli nell’Italia centro-meridionale, ma era diventata già dalla
seconda metà del III secolo, e soprattutto dopo la vittoria di Zama, una potenza mondiale, anzi la principale potenza
del bacino mediterraneo. Era quindi inevitabile che la nuova realtà storica e politica impersonata da Roma
trascinasse con sé gli alleati italici:
- in imprese militari a livello extraitalico, e quindi li rendesse partecipi alle conquiste e ai vantaggi derivanti
dalle stesse
- nelle trasformazioni strutturali che si venivano realizzando all’interno della società romana (e quindi
romano-italica) sul piano politico ed economico.
Rapporti interni
1. La centralizzazione del potere
A tal proposito, vi sono alcuni aspetti fondamentali da tener presente:
- All’interno del sistema politico romano era in atto un processo di centralizzazione e di riorganizzazione
della decisione politica, di sempre più rilevante prevalenza del Senato.
- Non va esagerata la libertà di decisione e di iniziativa lasciata o acquisita dai magistrati, fuori del
controllo senatoriale, specialmente negli ambiti provinciali, anche se è indubbio che dalla metà del II
secolo si sia diffusa una tendenza alla “riappropriazione” del potere da parte del magistrato verso
Senato e popolo.
- Non si può poi negare un qualche ruolo della componente popolare nel quadro del sistema politico-
costituzionale romano, vista la necessità di tenere nel dovuto conto la pubblica opinione interna e di
convincere il popolo nei comizi con argomenti persuasivi.
Quindi, senza trascurare quest’ultimo e più tradizionale rapporto fiduciario fra massa e
classe dirigente, diverso dalla clientela e lento a venir meno pur nell’ampliarsi dello iato
sociale fra i due gruppi, pare chiaro che quel che contava era l’iniziativa politica
saldamente nelle mani della dirigenza e in accordo con i propri interessi.
Questa fase di centralizzazione si realizzò con una forma di amministrazione razionale e organizzata delle province,
legata a contingenze dovuto all’accentuarsi del divario tra i compiti che lo stato doveva affrontare e la capacità di
assorbimento delle strutture statali-cittadine.
Per quanto riguarda gli alleati italici e l’Italia, questi nuovi aspetti della politica romana si tradussero in
un’aumentata capacità, volontà e necessità di interventi del governo centrale nelle stesse realtà statuali
italiche, e non soltanto su di un piano di legalità, tale che il processo di omogeneizzazione avanzò enormemente
nel II secolo a.C. ed ebbe come primaria conseguenza l’unitarietà e la compattezza del sistema dell’alleanza italica.
Gli stati alleati unificano funzioni e titolature di proprie magistrature con quelle romane, prima
nell’ambito militare e poi anche in quello civile
Si verifica un processo di assimilazione culturale e linguistica, specialmente in seno a larga parte delle
classi elevate italiche nel II secolo
Adozione, a fianco di quelle tradizionali, di nuove magistrature: per esempio, si registra la diffusione in
ambito italico, per imitazione di Roma, della censura, legata alle pratiche dei censimenti, sempre più
necessarie per fronteggiare organicamente le richieste di forniture militari e le correlate riscossioni
delle tasse locali
disponibilità a recepire spontaneamente l’attività legislativa romana
Roma aveva sempre avuto, e continuava ad avere, ogni interesse a garantire la consistenza sociale ed economica
e quindi il ruolo politico delle èlite alleate, sulle quali contava come sugli interlocutori validi nelle comunità
alleate.
Roma, con il suo sistema di alleanze fondato non sul pagamento di tributi ma sulla
fornitura di contingenti militari, cercava e favoriva il cointeressamento degli alleati
nelle guerre.
Questo fenomeno, però, innescò una reazione a catena che minacciava di cambiare l’identità dei corpi civici
stessi e risvegliò pertanto la preoccupazione delle classi dirigenti, dal momento che allo spopolamento coincideva
una forte difficoltà nell’adempiere ai doveri imposti dai trattati da parte delle singole comunità alleate, come:
Vennero quindi introdotti provvedimenti di espulsione da Roma e di rinvio dei migrati nelle loro sedi di origine,
ma ebbero effetto non realmente duraturo. D’altra parte, era lo stesso governo romano che aveva favorito, con la
colonizzazione nella Cisalpina, l’allontanamento di masse contadine dalle loro sedi nel Centro-Sud e aveva anche
concesso l’ammissione, specialmente nelle colonie latine del Nord, di elementi italici che portarono anche gli
indigeni residenti localmente ad esserne assimilati.
L’ampliamento dell’ager Romanus31 e dell’ager publicus dovuto alle conquiste territoriali romane nel corso del II
secolo provoca quindi una modificazione inevitabile del quadro sopra delineato; le maggiori disponibilità di terre
consentono un più rapido avviamento della colonizzazione e delle assegnazioni viritiane, con la creazione di
nuove, piccole aziende, e anche la possibilità di un diverso sfruttamento del suolo agricolo sull’ager publicus
con l’impianto di aziende di maggior estensione, nelle mani del ceto dirigente, per le quali si richiedevano spese di
impianto e di avviamento notevoli e impiego di manodopera schiavile ricavata dalle vittorie militari.
La situazione così delineata si accentua e si sviluppa enormemente a seguito della guerra annibalica e delle
grandi confische eseguite in territori italici32 come misura punitiva contro gli alleati che avevano defezionato.
La guerra, inoltre, durata a lungo nel sud Italia, aveva anche costretto molte famiglie di agricoltori a rifugiarsi
nelle città e specialmente a Roma, e certamente in parecchie casi le piccole aziende distrutte o economicamente
compromesse furono vendute a più solidi proprietari con denaro liquido a disposizione.
31
Nel caso dell’ager Romanus la nuova situazione sopra delineata si può collocare cronologicamente nel corso del III secolo
(dopo la conquista della Sabina e la prima guerra punica).
32
In parecchi casi i terreni sono rimasti in uso alle comunità alleate. In altri casi il terreno confiscato sarà subito servito per
assegnazioni viritiane, favorite anche dallo spopolamento conseguente alla guerra in molte aree; in altri casi ancora si sarà
sviluppata su di esso l’occupatio privata.
In sintesi, nei decenni di passaggio fra III e II secolo a.C. si verifica quindi l’introduzione della nuova struttura
agraria della villa rustica, forse per influenza di modelli greci e punici di Sicilia, che prevede una produzione mista,
cerealicola e di olivo e vino, e, data la sua ampiezza di alcune centinaia di iugeri, la produzione verrà avviata alla
commercializzazione sui mercati cittadini. Il proprietario della terra non vive su di essa, ma la sorveglia
attentamente; la conduzione è affidata a un vilicus schiavo, mentre il personale impiegato è schiavile, e
saltuariamente lavoratori liberi sono chiamati per impieghi stagionali. A seconda delle aree italiche questa struttura
si presenta con varianti legate alle diverse condizioni ambientali del terreno e delle possibili produzioni.
La nuova “economia” imperiale è quindi una conseguenza delle conquiste, che provocava una trasformazione
delle colture in Italia, data la minor richiesta sul mercato romano di cereali provenienti dall’Italia stessa e quindi
con un decrescere della cerealicoltura italica a favore di produzioni specializzate come l’olio e il vino, più
facilmente trasportabili e commercializzabili.
Al tipico e tradizionale modello della piccola proprietà contadina si affianca quindi in modo prepotente un secondo
tipo economico che
In certe aree del Centro-Sud questa coesistenza non potè essere mantenuta o realizzata per varie ragioni:
Erano che avevano risentito maggiormente degli effetti della guerra annibalica.
Venne accentuato lo spopolamento dovuto alle spinte emigratorie verso le più fertili terre della
Cisalpina/Transpadana e verso le città per differenti attività economiche
Per la maggior vicinanza alla capitale, i ceti alti, romani e italici, avevano impiegato i propri mezzi
finanziari nell’occupazione e nello sfruttamento in modo nuovo dell’ager publicus, vecchio o di recente
acquisizione, come per esempio la trasformazione di terreni prima destinati all’agricoltura in pascoli, vista
la dimensione “industriale” che andava assumendo l’allevamento transumante.
Un differente sfruttamento rispetto al passato dell’ager publicus, più redditizio anche per lo stato, ne metteva in
discussione l’antica funzione di complemento della piccola proprietà, e in tal modo la stessa piccola proprietà
entrava in crisi.
Una crisi naturalmente né globale né generalizzabile, né tanto meno interpretabile come precisa e intenzionale
volontà dei “ricchi” di cacciare i “poveri” dalle loro terre; e tuttavia non per questo meno reale, come linea di
tendenza.
Nel 167 a.C. ca venne quindi emanata la Lex de modo agrorum, con cui si regolavano e limitavano i danni che
venivano da un incontrollato sfruttamento privato dell’ager publicus. Essa suscitò malumori nelle classi alte, dal
momento che si prefiggeva forse lo scopo di favorire una diversa utilizzazione del terreno pubblico, benché non
proponessea questo fine alcuna soluzione particolare. Certamente essa cercava di impedire un completo
ribaltamento dei modi tradizionali di sfruttamento del medesimo.
Aspetto importante era il rapporto che era stabilito fra il nuovo indirizzo dell’agricoltura, qui considerato
sull’ager publicus con l’impiego di schiavi, e il declino della manodopera libera, non altrimenti interpretabile se
non come proletarizzazione di una parte del ceto dei piccoli proprietari contadini, dovuta alla trasformazione degli
indirizzi economici dell’agricoltura.
Il ceto contadino libero si era impoverito a fronte della larga disponibilità di schiavi, ed è per questo che il tema è al
centro della polemica dell’età graccana, dal momento che l’impoverimento delle classi contadine provocava
importanti ripercussioni sull’assetto politico-militare, e cioè una importante diminuzione della capacità di fornire
militi (difficoltà già messa in evidenza dai fenomeni emigratori nelle aree latine e alleate, che ora si ripresentava
con maggiore rilevanza nella stessa società romana).
Il governo romano non aveva che il solo strumento della regolamentazione dell’ager
publicus per rimediare a questa situazione, cercando di ricreare nelle zone declinanti
del centro-sud le originarie condizioni sociali ed economiche.
Fra IV e III secolo la grande colonizzazione latina era riuscita a valorizzare la conquista territoriale e anche a
risolvere la crisi sociale interna; il problema si presentava ora ben più complesso:
Mancava un provvedimento per affrontare la situazione, ma si aveva una proposta, alla base della quale stavano:
Intima contraddizione fra ricostituzione di piccole aziende unifamiliari e necessità per i nuovi
proprietari di abbandonare di lì a poco i loro campi per andare, o tornare, a combattere, situazione
che inevitabilmente avrebbe rimesso in atto quella stessa perversa spirale che già aveva contribuito a far
decadere la tradizionale piccola proprietà
Si riconosceva l’utilità di vendere porzioni di ager publicus soggette a contestazioni o di procedere ad
affitti destinando il ricavato al pagamento militare e alle spese di guerra (prospettando eventualmente
un’altra soluzione al problema della crisi militare)
Il miglior sfruttamento dell’ager publicus non derivava dalla sua parcellizzazione in piccole aziende, ma
dalla formazione su di esso di vaste aziende con possibilità di colture varie e importanti. L’indirizzo
economico vincente era quello rappresentato dalla villa catoniana.
Si riconosceva, in ogni caso, il motivo di fondo di una diminuzione delle capacità militari del corpo civico: il
declino del piccolo proprietario contadino, e quindi del servizio militare nelle sue idealità tradizionali e nelle
difficoltà degli arruolamenti, e il contrasto in atto fra liberi impoveriti e schiavi in continua crescita non sono motivi
senza rispondenza con la realtà. La rappresentazione offerta dai discorsi di Tiberio Gracco della plebe rurale, riferita
alle aree centro-meridionali della penisola, non era falsa.
Letture moderne
Queste riflessioni sono necessarie perché un indirizzo storiografico moderno mette in dubbio parecchie delle
premesse stesse dell’interpretazione antica della crisi nella seconda metà del II secolo a.C., e specialmente la
(supposta) carenza di disponibilità di uomini e quindi la ridotta capacità militare dello stato romano.
- Il continuo espandersi del territorio romano e la dispersione geografica dei cittadini rendevano le
operazioni di censimento e di leva molto più difficili che non nel III secolo a.C., quando la maggiore
concentrazione della popolazione nelle zone più prossime a Roma rendeva molto meglio utilizzabili ai fini
della milizia i dati dei censimenti. Era quindi più facile per Roma ottenere i contingenti militari dai
singoli stati alleati, latini e italici, erano tenuti a fornire, piuttosto che rincorrere alle migliaia di cittadini
romani dispersi in Cisalpina (e in Spagna). E’ proprio nelle aree centro-meridionali, relativamente più
prossime alla capitale, che erano state maggiormente soggette al processo di spopolamento, che poi i
Gracchi cercheranno di ricostituire il ceto contadino: perché era lì che tradizionalmente erano stati tratti
i militi.
- Ci sono anche dubbi, basati sulla documentazione archeologica, circa la visione antica di un declino della
piccola proprietà contadina. Secondo Gabba, essa deve essere intesa come una “tendenza”, riferibile a
certe aree, sempre nel Centro-Sud, ma né generale né facilmente localizzabile, anche perché in certe
zone questa antica struttura italica veniva soppiantata dalla grande azienda che produceva per il mercato,
mentre altrove dal pascolo e dall’allevamento in grande stile.
Vale meglio accettare, nelle loro linee generali, le spiegazioni presentate e argomentate dalle fonti antiche, che
riportano certamente le preoccupazioni e le riflessioni della classe dirigente romana contemporanea, e sono eco di
profonde esigenze delle classi inferiori.
In sintesi, la dirigenza romana, all’apice di una fortunata politica
espansionistica, constatava segni di degrado nell’apparto militare
dello stato, del quale identificava le cause in motivazioni sociali e
ideali. Connetteva quei sintomi, pur di fronte a una crescita
economica vistosamente presente nelle città e anche in taluni indirizzi
dell’agricoltura, a un declinare del ceto dei contadini piccoli
proprietari, pericolosamente opposto a una crescita degli schiavi; ed
era divisa sui possibili rimedi per ovviare a questo stato di cose
7. IL SISTEMA DI ALLEANZE ITALICO
Umberto Laffi
Alla vigilia della guerra annibalica il sistema dei rapporti di alleanza tra Roma e le comunità dell’Italia che non
erano incorporate nell’ager Romanus33, vale a dire le comunità latine e le comunità italiche, si presentava già da
tempo consolidato.
Questo sistema era imperniato su di una serie di rapporti bilaterali che legavano direttamente, in forme diverse, i
singoli stati a una sola potenza, quella romana. I partner di Roma
- Erano formalmente degli stati sovrani per quel che riguarda la sfera dei rapporti interni, ma non erano
degli stati indipendenti, in quanto non erano sovrani nel campo delle relazioni internazionali
- Tutti erano tenuti a fornire contingenti militari allo stato romano. L’entità di questi contingenti era
fissata unilateralmente da Roma ed era registrata, stato per stato, in un apposito prontuario, la formula
togatorum34.
Vennero introdotti gravi provvedimenti punitivi di Roma contro 12 colonie latine che nel 209 avevano rifiutato di
fornire l’aiuto militare che era loro richiesto, successivamente applicati nel 204, due dei quali a carattere
permanente e costituivano una forma di interferenza senza precedenti nella sovranità interna di stati alleati.
Partito Annibale dall’Italia, un dittatore romano e il suo magister equitum (una sorta di commissione d’inchiesta)
furono infatti incaricati, nel 203, di condurre indagini capillari a carico delle città dell’Italia che avevano
defezionato, per accertare i motivi e le condizioni in cui ciò era avvenuto, con il fine di infliggere punizioni
adeguate.
33
L’ a. romanus, esteso talvolta a indicare tutto il territorio romano di proprietà quiritaria, è in genere identificato con il più
antico territorio di Roma, verso la fine dell’età regia, e rimase pure in seguito la sola sede atta alla celebrazione di alcuni atti
solenni della vita pubblica. Per quanto concerne il territorio di Roma, si distingue fra a. privatus e a. publicus populi Romani.
L’ a. privatus è costituito dai terreni in piena proprietà privata
L’ a. publicus è invece il territorio appartenente allo Stato romano, in gran parte frutto delle confische a danno delle
popolazioni vinte; ai privati, ai quali è affidato lo sfruttamento, è impossibile acquisirne la piena proprietà, salvo espressa
autorizzazione legislativa.
34
Provvedimenti adottati da Roma durante e subito dopo la guerra annibalica.
Imposizione di un tributo di un Imposizione dell’obbligo di adottare
Imposizione per l’anno in corso di asse per mille, che doveva servire la formula del censimento romano e
una leva doppia rispetto al a pagare lo stipendium alle di trasmettere i dati relativi a Roma
massimo che era stato loro truppe sottoponeva il censimento della popolazione locale al
diretto controllo delle autorità romane Roma, pur senza
richiesto in un qualsiasi anno sottraeva alle colonie l’amministrazione sostituirsi del tutto agli organi amministrativi locali
(tributum ancora riscosso)
successivo all’ingresso di diretta del contingente imposto da Roma
Annibale in Italia
Ad ogni modo, il provvedimento più comunemente adottato ai danni di queste comunità fu la confisca di una
porzione del loro territorio (di regola la terza o la quarta parte), che avrebbe dovuto divenire ager publicus, anche
se in realtà gran parte del territorio confiscato restava nelle mani degli antichi proprietari, più o meno
legittimamente.
Inoltre, i cittadini di alcuni stati alleati non furono riammessi alla comunità d’armi con i Romani, vennero ma da
allora in poi coscritti come non combattenti per l’espletazione di umili mansioni al servizio dei magistrati romani.
Alcuni esempi:
143 a.C. La Lex Didia sumptuaria estese a tutta l’Italia quelle norme limitatrici del lusso che erano state
introdotte da una precedente lex Fannia (161 a.C.), alla quale però gli Italici non si ritenevano soggetti.
193 a.C. Il plebiscito Sempronio de pecunia credita estese ai rapporti tra Romani e alleati (non riguardava i
rapporti tra alleati e alleati) l’applicazione della disciplina che in tema di limiti delle usurae regolava i rapporti
tra i cives. Interesse di Roma = reprimere le frodi messe in atto dai prestatori romani per il tramite di agenti
latini e italici, che non erano soggetti al vincolo della normativa per i Romani.
La lex Appuleia e la susseguente lex Furia si applicavano «in Italia» (la prima anche nelle province).
Se queste leggi sono imposte solo ai cittadini romani abitanti nelle colonie italiche, non si tratta di un’imposizione
della legislazione romana a comunità alleate.
Ma la forza era tutta dalla parte di Roma e non sempre Roma era così riguardosa verso i suoi alleati; la città, infatti,
imponeva direttamente le sue leggi agli alleati quando erano in gioco i suoi superiori interessi.
ALTRI ESEMPI DI REPRESSIONE E INTERVENTO.
- Nel biennio 185 -184 il governo romano intraprende altre azioni repressive contro movimenti di rivolta di schiavi-
pastori che infestavano la stessa regione, l’Apulia, e che appaiono connessi con gli ultimi focolai del moto bacchico
interventi diretti del governo romano in Apulia 172 a.C.
- Intervento diretto del governo romano in Apulia in occasione di un’invasione di locuste le locuste non avranno fatto
questione di confini e il governo romano si sarà comportato di conseguenza
- editto consolare, autorizzato da un senatoconsulto, impose, nel 181 a.C., tre giorni di supplicationes e di feriae «per
totam Italiam», in seguito all’infierire di una pestilenza.
Viene affidato dal Senato ai consoli il mandato di condurre un’inchiesta straordinaria per la ricerca e l’arresto dei
sacerdoti e sacerdotesse del culto in tutto il territorio romano.
Doveva essere emanato un editto in Roma, da diffondere per tutta l’Italia, che sospendesse ogni riunione di iniziati al culto
per la celebrazione di riti e cerimonie religiose bacchiche.
Doveva essere attuata un’inchiesta per identificare chi si era riunito e aveva complottato per commettere atti di immoralità e
altri delitti. I consoli diedero disposizione agli edili curuli, agli edili plebei, a magistrati minori perché provvedessero,
nell’ambito delle rispettive competenze, all’attuazione di queste misure decretate dal Senato > furono attuate in tempi brevi
Molti cittadini romani furono condannati a morte, altri furono imprigionati > queste misure d’emergenza erano attuate da
magistrati romani, colpivano soprattutto i cittadini romani, ma anche nel resto dell’Italia si trepidava.
Un senatoconsulto diede mandato ai consoli di demolire tutti i luoghi di culto bacchici dapprima in Roma e poi in tutta
Italia , tranne quelli che contenevano un’antica ara o un’immagine consacrata.
Un altro senatoconsulto stabiliva che per il futuro non dovevano esserci luoghi di culto bacchici né a Roma né in Italia e
fissava le condizioni alle quali era consentita la continuazione del culto bacchico, che veniva comunque posto sotto il
controllo degli organi romani e minuziosamente regolamentato.
Chi trasgrediva le disposizioni contenute in questi senatoconsulti incorreva nella pena capitale.
Le decisioni del Senato dovevano essere rese note in tutta Italia, tra cui anche quelle che riguardavano le comunità alleate. Non
sappiamo se l’ager Teuranus facesse parte del territorio romano o di un qualche territorio alleato, e non possiamo quindi
precisare con sicurezza come le autorità romane abbiano proceduto nei confronti delle autorità delle comunità alleate. Anche le
autorità alleate erano direttamente coinvolte nella repressione. Su di esse doveva ricadere in ultima analisi la responsabilità della
pubblicazione e dell’applicazione delle decisioni del Senato e dell’imposizione della pena capitale per i trasgressori. Così
facendo, Roma interferiva gravemente nella sovranità interna delle comunità alleate, sia pure attraverso interventi
mediati dalle autorità locali. In altri casi tutto lascia ritenere che Roma sia intervenuta direttamente, senza cioè il tramite delle
autorità locali (magistrati romani intervennero a più riprese in Apulia, fino al 181 a.C., per completare la repressione del culto
bacchico).
2. Soprusi di singoli magistrati romani
* Questi episodi, che riguardano il comportamento di singoli magistrati, non rientrano nel quadro
delle relazioni ufficiali tra Roma e i governi alleati in Italia. *
Singoli magistrati romani, approfittando del loro potere, compiono atti di sopraffazione ai danni di cittadini di
stati alleati, latini e italici, estendendo all’Italia pratiche che erano divenute abituali nelle province d’oltremare.
Atti di sopraffazione senza avvallo del governo romano:
Vengono commessi dei saccheggi e dei furti sacrileghi a danno dei Locresi negli anni 205 e 200 a.C. Il
governo romano interviene con decisione, promuovendo inchieste, condannando i colpevoli e
indennizzando le vittime. Nell’adozione di questi provvedimenti influiscono in maniera determinante
motivazioni legate al gioco complicato delle lotte politiche interne.
Furti sacrileghi perpetrati ai danni del tempio di Era Lacinia nel Bruzio nel 173 a.C.: il Senato impone la
restituzione degli oggetti rubati, ma il magistrato colpevole viene lasciato impunito.
Corvé provocatoriamente imposte da un console di passaggio alle autorità cittadine di Preneste nel 173
a.C.: nessuna notizia di una reazione di disapprovazione da parte del Senato
Compositio
Abbiamo varie testimonianze di arbitrati deferiti a magistrati romani allo scopo di dirimere controversie di
confine tra stati alleati o tra una comunità romana e uno stato alleato. Roma rappresentava infatti per gli stati alleati
l’arbitro naturale.
In caso di richieste di soccorso o invio di una guarnigione in caso di aggressione di una potenza nemica, ma anche
in caso di contrasti politici interni (la richiesta poteva partire da privati), si chiedeva a Roma di ristabilire l’ordine.
Venne quindi adottata dal governo romano una serie di provvedimenti, omogenea e concatenata a carico di Latini e
Italici che si erano infiltrati nel corpo dei cittadini romani usando e abusando del ius migrationis, che consisteva
nell’affidamento, da parte del Senato, di un’inchiesta a uno dei pretori, con l’incarico di rimpatriare ogni
individuo che, sulla base dei documenti censuali allegati dalle autorità locali, fosse risultato censito, o il cui padre
fosse risultato censito, nella rispettiva comunità d’origine a partire dal 204 a.C. incluso.
Tale provvedimento, che ebbe come risultato l’espulsione di 12.000 Latini, era una vera e propria
violazione dello ius migrandi, tanto più grave in quanto il provvedimento era munito di effetto
retroattivo; ma Roma non doveva essere ritenuta responsabile di alcuna prevaricazione, nella misura in
cui la richiesta del rimpatrio partiva dalle stesse autorità locali, anche se è giusto riconoscere che tali
richieste rispondevano alle esigenze stesse della politica romana, interessata a salvaguardare la
consistenza demografica e quindi la stabilità degli stati alleati.
Il fenomeno si reiterò nel 177 a.C., e il governo romano fu costretto a emanare nuovi provvedimenti, poiché i
rappresentanti degli stati latini e di alcuni stati federati continuavano a lamentarsi per la perdita di numerosi altri
concittadini che continuavano a trasferirsi a Roma.
Gli alleati chiedevano quindi ai Romani di prendere un nuovo provvedimento di espulsione a carico di tutti gli
immigrati, e in più di emanare una legge che vietasse di acquistare e manomettere qualcuno con lo scopo di
fargli mutare la cittadinanza. Il Senato accolse senza obiezioni queste richieste, che erano sì lesive degli interessi
degli immigrati, ma che rispondevano agli interessi delle classi dirigenti locali e al contempo a quelli dello stesso
governo romano.
I rappresentanti convenuti a Roma avevano infatti denunciato una situazione per cui:
Alcuni si infiltravano direttamente nel corpo dei cittadini romani semplicemente immigrando a Roma e
iscrivendosi di nascosto nelle liste di censo.
Altri aggiravano fraudolentemente la legge che imponeva di lasciare nella comunità d’origine una
discendenza maschile a chi voleva conseguire legittimamente la cittadinanza avvalendosi dello ius
migrationis, e lo facevano in due modi.
1) Chi aveva un figlio da lasciare in patria, per non lasciarlo in patria lo alienava
mediante mancipatio35 a un cittadino romano, con l’accordo, fondato sulla fides,
che questi successivamente lo manomettesse, rendendolo libertino. Con questo
espediente ottenevano la cittadinanza romana, sia pure in tempi diversi, tanto il
genitori, che al momento di emigrare in Roma adempieva all’obbligo di lasciare in
patria una discendenza, quanto il figlio, che veniva successivamente manomesso.
2) Chi non aveva un figlio da lasciare in patria adottava un suo concittadino come
figlio
173 a.C. Uno dei consoli emana un editto che ordina che non
siano censiti a Roma quegli immigrati che avrebbero dovuto
Un senatoconsulto imponeva ai magistrati romani davanti ai quali lasciare la città in forza dell’editto del 177: a costoro si imponeva
dovevano essere compiuti gli atti della manumissio e della di farsi censire nelle rispettive città d’origine. Roma si faceva
vindicatio in libertatem di esigere dai manumittenti un garante della repressione degli illeciti denunciati dagli alleati per
giuramento cautelativo che garantisse che la manomissione non la parte che coinvolgeva direttamente la responsabilità dei suoi
aveva per scopo quello di far ottenere un mutamento di magistrati e dei suoi cittadini. Non poteva garantire che non
cittadinanza per il manumittendo. avvenissero finte adozioni nelle singole comunità: la
responsabilità della repressione di questa frode veniva lasciata ai
magistrati delle comunità interessate.
35
Il procedimento opposto rispetto alla emancipatio, cioè la liberazione dalla condizione di schiavo
Accettazione realistica dell’egemonia di Roma
Compartecipazione agli utili
La coesione dell’alleanza romano-latino-italica poggiava sulla forza e sul consenso e il consenso poggiava sulla
convenienza: la subordinazione degli stati alleati alla supremazia di Roma era infatti compensata dalla
compartecipazione a consistenti vantaggi politici ed economici:
8. LA DECISIONE POLITICA E L’
“AUCTORITAS” SENATORIA: POMPEO,
CICERONE, CESARE
Ettore Lepore
Optimates e populares: una distinzione aristocratica
Sono definiti optimates quei membri della nobilitas che si richiamavano alla tradizione degli avi e si
autodefinivano boni, ovvero gente dabbene, che cercava di ottenere l’approvazione dei benpensanti e si ritenevano
ispirati da buoni principi e solleciti verso il bene dello Stato. Erano fervidi sostenitori delle prerogative del
Senato.
Sono invece definiti populares quegli aristocratici che si consideravano difensori dei diritti del popolo, ovvero
quella frangia della società che conduceva un’esistenza misera e nei confronti della quale i populares predicavano la
necessità di riforme36.
nobilitas
36
La lex Gabinia de tabellariis, che regolava il voto segreto nelle assemblee, è un esempio di tali riforme
La Lex Manilia del 66 a.C. concedeva poi pieni poteri a Pompeo nella conduzione della guerra contro
Mitridate VI del Ponto, portata avanti fino a quel momento da Lucio Licinio Lucullo e anch’essa riuscì ad
essere promulgata soprattutto per l'aiuto politico di Cesare e Cicerone.
Cicerone
Sostenitore di Pompeo, cerca di giustificare i suoi pieni poteri ribadendone la necessità finalizzata alla salvezza
dell’impero. Soprattutto egli appoggiava Pompeo perché difendeva l’ordine equestre del quale Cicerone si faceva
portavoce.
Nb. Il resto della tradizione polemizzava contro Pompeo, in quanto eco delle polemiche contemporanee sollevate dalla potenza
dei comandi straordinari concessi a Pompeo e dalla conseguente politica che il generale portava avanti, nonchè dal timore di una
politica personale e di una sistemazione che permettesse a Pompeo di fruire di ulteriori clientele straniere: tutta l’azione di
Pompeo sconfessava infatti quella di Lucullo e perseguiva una logica di conquista di cui le fonti individuano con precisione i
fini personali e la “montatura” per giustificarla e legittimarla. Ad esempio, la provincia romana della Cilicia poteva garantire
una base logistica per le comunicazioni terrestri e marittime, oltre ad un punto di partenza per occupazioni rivolte verso
l’interno e in particolare verso la Siria. Le vittorie e conquiste di Pompeo avevano quindi dato a Roma ampio spazio in Asia, dal
Caucaso all’Eufrate e ai confini dell’Egitto, ma il successo ottenuto non sanava il timore che sulla base di questa occupazione
egli potesse giustificare e così assicurarsi un’analoga occupazione dell’Italia il potere sui Romani.
Cesare
Sostenitore di Pompeo in un primo momento, una volta tornato dalla questura in Spagna (68 a.C.): grazie alla sua
intercessione venne concessa a Pompeo l’approvazione della lex Gabinia e Manilia.
Crasso
Nel 66 a.C. diveniva censore, accanto a Quinto Lutazio Catulo. La sua figura viene alla ribalta anche nel contesto di
un complotto collocabile nell’inverno tra 66 e 65 a.C., quando venne progettato di sostituire i consoli designati con
due consoli ottimati; il sotterfugio, che vide tra le sue file anche la figura di Catilina, sebbene in misura di molto
secondaria rispetto a quella di Crasso, fallì miseramente, e vide quest’ultimo eclissarsi da Roma una volta per tutte.
Catilina
La tradizione antica, in particolare liviana, lega strettamente il ritorno di Pompeo e la scoperta della
congiura di Catilina, nobile della famiglia decaduta dei Sergi che nel 66 si candidò al primo consolato,
ottenendo la prima di una serie di ripetute sconfitte: Catilina aveva infatti intrapreso la sua carriera con
l’ottenimento della questura e dell’edilità; ma, dopo aver ricoperto la pretura (68 a.C.) e la propetura in Africa
(67-66 a.C.), ruppe il suo legame con il gruppo degli ottimati, candidandosi al consolato nel 65, per poi vedersi
rifiutata la stessa candidatura una volta scoperto il complotto dell’inverno di quell’anno. Catilina fu quindi
costretto a rimandare la candidatura al consolato di un anno, al 64 a.C. per il 63, stesso anno in cui si candidò
anche Cicerone. La sfida si concluse con la vittoria di quest’ultimo e la rinnovata sconfitta di Catilina.
Nb. E’ difficile parlare per Catilina di passaggio al partito popolare nel 64 a.C., dal momento che la scena politica del tempo
difficilmente è schematizzabile nella ideologia modernizzante che fa dello scontro tra individualità singole una lotta tra due
schieramenti definiti, quello dei populares e quello degli optimates Ad esempio, il comportamento e le posizioni stesse di
Crasso, per come sono state messe in luce dalla storiografia degli ultimi anni, si sono dimostrate strettamente dettate da
interessi personali più che da motivi di natura ideologica
1| Catone, nuovo esponente degli ottimati, cominciava a gestire la politica senatoria nel 66, diverrà figura di
primo piano con la congiura di Catilina nel 63 a.C.
La congiura di Catilina: dal distacco dagli optimates al processo
Rimane comprovata per Catilina una qualche forma di legame con gli optimates; ed è
fino al solo a partire dal 64-63 a.C. che
65
a.C.
Rimane nuovamente escluso dal consolato del 63 a.C., al quale furono invece eletti
Cicerone e Antonio
Si delineano con più precisione le istanze della politica catilinaria, non coincidenti però
con quelle dei populares: egli si pose infatti a capo dei miseri, cioè di quel proletariato
rurale rappresentato dai coloni sillani rovinati e dai contadini diseredati dalle
dal 64 espropriazioni stesse, oltre che dagli oppressi dai debiti, il cui numero raggiungeva nel
63 a.C. un picco mai visto prima nella storia di Roma, e nobili ambiziosi e indebitati.
a.C. All'esercito dei possidenti, Catilina opponeva il rabbioso colonorum Aretinorum et
Fesulanorum exercitus
Nel 63 a.C. il Senato proclamò infine lo stato di emergenza, concedendo pieni poteri ai consoli:
Catilina fu proclamato hostis in seguito alla sua fuga e alla resistenza organizzata da Manlio a Fiesole
i complici furono catturati e condannati a morte senza appello al popolo
i ribelli vennero repressi con le armi
Il 5 dicembre del 63 a.C. metteva sì fine alla crisi catilinaria, ma il dibattito accesosi apriva un
nuovo periodo, proprio quando si profilava il ritorno di Pompeo: un dibattito che rivelava
l’emergere di nuove figure politiche, come il giovane Catone, e la labilità di quella concordia
ordinum tra senatori e cavalieri su cui Cicerone stesso aveva riposto le maggiori speranze per
la riforma della prassi repubblicana.
Posizioni reciproche tra fazioni
La crisi catilinaria aveva creato degli squilibri e delle divergenze tra le forze in gioco;
alcuni dei principali processi che si tenenro in quegli anni dimostrano che la situazione e
la definizione degli schieramenti era tutt’altro che lineare e chiara.
Quando si svolse il dibattito in Senato per i provvedimenti contro i catilinari, in senato emersero:
le opinioni discordi di Catone e Cesare, il quale aveva una posizione all’interno del Senato ormai consolidata.
La vitalità dei populares, ai quali Cesare era vicino, esemplificata in particolare dalla serie di proposte
legislative che i tribuni della plebe avevano portato avanti nel 63.
Per esempio, la rogatio agraria di Publio Servilio Rullo, che prevedeva varie assegnazioni di lotti di agro pubblico
tratti dal suolo italico e dalle province, che non ebbe tuttavia approvazione per il veto di un tribuno e fu criticata da
Cicerone nella serie di orazioni della Legge agraria. A prescindere dalle interpretazioni che di tale proposta possono
essere fatte, essa dimostra soprattutto il legame con le proposte graccane e la revisione di Labieno37 dei
meccanismi elettorali tributi finalizzate allo scongiuro di corruzioni e pressioni oligarchiche nei comizi relativi,
come si era invece verificato nel caso del processo ai catilinari.
1. Il processo a Rabirio
Nel 63 a.C., Tito Labieno, tribuno della plebe, aveva accusato Gaio Rabirio, sostenitore degli ottimati e tra i
repressori del movimento riformista del tribuno della plebe Saturnino nel 100 a.C., di perduellio (l'alto
tradimento ed attentato all'ordine costituito dello Stato) per l'omicidio di Saturnino stesso.
L’obiettivo era forse di contestare l’uso del senatus consultum ultimum come
strumento giudiziario adottato dal Senato per sviare il ricorso allaprovocatio ad
populum e condannare qualsivoglia individuo
Cicerone aveva difeso Rabirio in quell’anno in vece di console, vedendo come suo dovere in qualità di capo di
Stato difendere un senatore da un'accusa.
Il tribu tribunale venne costituito da Labieno stesso mediante plebiscito, istituendone come giudici Gaio Giulio
Cesare e suo cugino Lucio, i quali lo condannarono a morte. Rabirio fece appello alla provocatio ad populum, e
grazie ad essa fu difeso da Quinto Ortensio Ortalo e da Marco Tullio Cicerone, (con la Pro Rabirio) e salvato dal
pretore Quinto Cecilio Metello Celere38.
37
Tito Labieno può essere considerato un “homo militaris” ovvero un “homo novus” che tenta la scalata sociale attraverso le
proprie capacità di soldato, Il Mommsen giudica Labieno una di quelle nature che al talento militare associano “la più crassa
ignoranza politica”.
38
con il ricorso a un mezzo ostruzionistico, cioè alla bandiera militare, calata la quale era norma che che tutte le attività pubbliche
dovessero essere sospese, tra cui il processo di Rabirio stesso.
3. Il processo a Murena
Quando poi si apprestò alla difesa di Murena, avversato dagli optimates e accusato di broglio dal deluso candidato
al consolato sostenuto dalla nobilitas romana e dallo stesso Catone, Cicerone portò a compimento il suo
cammino verso l’isolamento, considerato che solo poco tempo aveva invece manifestato la sua avversione per la
richiesta dei tribuni della plebe di restituire i diritti politici ai figli dei proscritti per il solo timore che questi ultimi
rappresentassero uno squilibrio troppo importante nel bilancio totale delle forze in gioco.
Nel 60 a.C. la situazione dei tra i senatori e gli equestri era peggiorata a causa di alcuni provvedimenti presi dal
Senato contro le giurie dei tribunali e i pubblicani d’Asia, compiti tradizionalmente riservati ai membri della classe
equestre. È pertanto probabile che già nel luglio del 60 a.C. l’alleanza privata (ancora segreta) del primo
triumvirato fosse stipulata e diretta soprattutto contro gli ottimati, tra le cui fila primeggiava, ad esempio, Catone,
per la puntigliosità del quale Cesare stesso aveva rinunciato al suo trionfo e si era recato a Roma a ratificare la
candidatura al consolato per il 59 a.C., cosa che Catone non avrebbe voluto concedergli a meno di essere presente a
Roma e non in Spagna.
Il consolato di Cesare
La tradizione antica sottolinea soprattutto gli atti del consolato di Cesare, e anche l’elezione di Clodio a tribuno
della plebe subito dopo il passaggio di quest’ultimo tra le file di Cesare viene connessa alla volontà e agli interessi
di lui39. Per il resto, il consolato di Cesare si occupò principalmente
1. di acquistarsi il favore degli equites, e in particolare della loro classe dirigente, trattando:
o di problemi inerenti alla formazione delle giurie dei tribunali e al loro voto per ordines
o lex Iulia de repetundis, contro le malversazioni e la corruzione perpetrata da ogni tipo di
magistratura
o Lex Iulia de publicanis, che prevedeva la riduzione di un terzo delle somme pattuite per l’appalto
delle imposte
2. Di ingraziarsi Pompeo con la Lex Iulia de actis Cn. Pompei conformandis per la ratifica delle sistemazioni
orientali
3. Promosse una riforma agraria, aspramente avversata da Catone ed emanata probabilmente in 2 provvedimenti,
con la quale si ripartiva tutto l’ager publicus residuo allo scopo di favorire i veterani di Pompeo e la gente
povera inurbata
Il tribuno Vatinio, fatto eleggere l’anno successivo per sostegno di Cesare stesso, gli assegnò con plebiscito la Gallia
cisalpina con un ausilio di 3 legioni, mentre la Gallia Narbonese gli fu assegnata fa un secreto Senatorio proposto da
Pompeo, insieme con un’altra legione.
Lo stesso Pompeo capiva che ora non si tornava più indietro, e che gli zoccoli duri della questione erano
rappresentati da lui e Cesare, da una parte, contro Catone dall’altra, un’opposizione ottimate che non ottenne però
mai alcun vantaggio.
39
Pare che si possa parlare di reciproco scambio di favori se si considerano alcuni eventi come il processo di empietà in cui
Clodio fu assolto per l’acquiescenza di Cesare stesso
Clodio, restauratore della democrazia
Quella causa popularis in nome della quale Cesare aveva ottenuto il
potere non suscitava ormai più su di lui alcuna attrattiva. Di essa si
fece portavoce invece un suo stretto seguace: Clodio.
Esponente dell'importante gens aristocratica dei Claudii, che vantava fra i propri antenati personaggi illustri come Appio Claudio
Cieco, si avvicinò, fin da giovane, alla politica della fazione dei populares, e si rese in più casi colpevole di atti di sovversione
e corruzione. In occasione della congiura di Catilina, nel 63 a.C., collaborò con il console Marco Tullio Cicerone, che tuttavia
testimoniò contro di lui nel 61 a.C., durante il processo per lo scandalo della Bona Dea, processo nel quale fu tuttavia assolto
perché i giurati che avrebbero dovuto emettere la decisione furono corrotti dal ricco e potente Crasso. Deciso a perpetrare la
propria vendetta, Clodio fu adottato da una famiglia plebea e così, effettuata la transitio ad plebem, poté essere eletto tribuno
della plebe per il 58 a.C. Fu dunque promotore di un'attività legislativa particolarmente intensa, propose e fece approvare
una serie di plebisciti che contribuirono nel complesso a indebolire il senato a favore delle assemblee popolari. Terminato il
tribunato clodiano, l'aristocrazia senatoria si adoperò per cancellarne gran parte delle realizzazioni, mentre attorno a Clodio si
radunarono gruppi di sostenitori, reclutati tra la plebe urbana, che diedero origine a numerosi disordini, contribuendo a creare
nell'Urbe un diffuso clima di tensione e violenza. Clodio, dunque, divenuto punto di riferimento del popolo romano, fu prima
edile, e si candidò poi alla pretura per il 52 a.C., deciso ad attuare un programma rivoluzionario. Pochi giorni prima dei comizi
elettorali, tuttavia, Clodio perse la vita in uno scontro tra i propri uomini e i seguaci di Tito Annio Milone, candidato al
consolato per il medesimo anno e suo nemico politico. La sua figura, tra le più importanti nello scenario della crisi della
repubblica romana, fu a lungo considerata come simbolo di corruzione e violenza, come appare in numerose opere di Cicerone.
È stato tuttavia rivalutato dalla storiografia recente, che ha veduto in lui ora un agente dei triumviri, ora un uomo dalle geniali
intuizioni politiche.
L’anno in cui Cesare lasciò Roma, Clodio venne eletto al tribunato: una figura trasmessaci dalla tradizione come
immorale e vicino alla pazzia, ma che da un punto di vista politico profittò dell’alleanza dei consoli cesariani e
dell’acquiescenza dei triumviri (soprattutto Pompeo, in temporaneo declino e costretto alla passività per il
compromesso con gli ottimati) per perseguire i propri personali obiettivi; primo tra tutti, il tentativo di risaldare la
propria base consensuale presso i ceti indigenti, mediante alcuni provvedimenti che si affiancavano alla legislazione
agraria di Cesare, diretta ad eliminare il malessere delle campagne italiche in atto dal decennio post-sillano, come:
- Lex de capite civis Romani, con cui si condannava all’esilio chi avesse giustiziato un cittadino senza
concedergli l’adrogatio ad populum Cicerone ne era il primo bersaglio
- Lex de censoria notione, legge che impediva al Senato di escludere individui dal senato senza unanimità
Lex Clodia frumentaria, rendeva gratuita la distribuzione frumentaria ai cittadini romani residenti a
Roma, con un progressivo aumento dei beneficiari dovuto alle immigrazioni in città e all’incremento delle
liberazioni degli schiavi
- Lex de collegiis, che ricostituiva la possibilità di riunirsi in collegia, ovvero in associazioni private con fini
religiosi e di mutuo soccorso che il senato aveva soppresso perché divenute pericoloso strumento di
mobilitazione delle masse urbane. Lo stesso Clodio sfruttò poi queste associazione per farne delle banda
armate al suo servizio e pronte alla sommossa.
Questo corpo di leggi, per lo più nella forma di plebisciti, che ne sottolineavano il carattere particolare, rappresentò
il tentativo non certo di organizzare esclusivamente un sottoproletariato, con cui non si identificava la plebe
urbana romana, ma di mettere al servizio della voluntas popularis tutta la serie di elementi che ne rappresentavano
le componenti, onde esercitare pressione nelle assemblee e adunanze informali fuori delle clientele ottimati e di
quelle, in verità scarse e fluide - a prescindere dai soldati - dei triumviri.
Clodio finalizzava le entrate imperiali (dalle conquiste di Pompeo all'annessione di Cipro) alle distribuzioni
gratuite di grano - contro l'arricchimento dei capi di eserciti nelle campagne di conquista, e dunque contro le
opes e potentia degli stessi triumviri; e l'organizzazione conseguente di pressioni violente sulle istituzioni
nell'interesse non dei singoli, ma delle masse cittadine, dinanzi alle quali si pubblicizzava l'azione magistratuale
L'utopia di Clodio, se la sua politica ne conteneva una, e la sua illusione era la fiducia in una possibile e residua
«rivoluzione della plebe» attuata con strumenti ed elementi ch'erano soprattutto quelli che oggi sappiamo poter
condurre soltanto a reiterate rivolte primitive.
Terminato l’anno del tribunato, Clodio era tornato privato cittadino, ma non aveva smesso di utilizzare le bande
armate come strumento di pressione rapidamente mobilitabile. Scatenò - nell'assenza tra le istituzioni romane di una
polizia incaricata dell'ordine pubblico - una vera e propria guerriglia urbana, con bande armate, cui presto si
contrapposero altre bande. Cosi dal 57 al 52 a. C., in cui Clodio fu ucciso, si susseguirono lotte nelle strade ed
arroventò il clima politico, prima che il Senato riuscisse, con l'aiuto di Pompeo, a ristabilire l'ordine e la sua autorità.
Inoltre, non potendo più opporre il veto, i suoi avversari riuscirono a imporre il ritorno di Cicerone e si
accordarono con Milone per fronteggiarlo ad armi pari. Nel frattempo, Pompeo si era pentito di non aver impedito
l’esilio di Cicerone, e ne aveva propiziato il ritorno. La rottura con Pompeo e con Cesare negli ultimi mesi di
carica venne a coincidere con la campagna del primo e con un rinato consenso degli ottimati, dell'ordine equestre e
di quelli che Cicerone chiamò gli omnes boni, per il suo richiamo e ritorno dall'esilio.
Il ritorno di Cicerone, l’antagonista richiamato da Pompeo una volta che ebbe rotto con
Clodio, sembrò sbloccare la paralisi senatoria e allargare nuove alleanze.
L’evoluzione del triumvirato
A questa situazione si andò, tuttavia, a intrecciare l'evoluzione del rapporto tra i triumviri, con:
- il rinnovato patto a Lucca, 56 a. C. e il suo sfaldamento, restando Cesare sempre assente - tranne brevi rientri
in Italia -, impegnato com'era nella conquista e suo consolidamento in Gallia, fino ai prodromi, allo scoppio e
svolgimento della guerra civile con Pompeo e gli ottimati.
- la residua azione - inizialmente efficace e mediatrice, ma presto sempre meno incidente - di Cicerone, da
questo momento accompagnata dalla sua produzione di pensiero politico
Il rientro di Cicerone dall'esilio era stato, come si è detto, preceduto e seguito dalla violenza armata delle bande alle
quali la presenza dei gladiatori conferisce ormai un carattere di organizzazione abbastanza avanzata e
specializzata, anche se non propriamente militare.
Alle formazioni armate si contrappose ormai quella di Pompeo, che era rimasto fino ad allora sempre più isolato e
privo di prestigio politico, esposto agli attacchi verbali o ad attentati di Clodio e seguaci nel Foro. L'intervento di
Pompeo riuscì a staccare dal tribuna l'altro console, Q. Metello Nepote, e a mobilitare, insieme agli amici di
Cicerone, di ogni ordine, l'opinione e la partecipazione ai comizi dei cittadini facoltosi o semplicemente abbienti
delle colonie, dei municipi di «tutta Italia», allargando la vecchia e decaduta solidarietà tra ottimati e cavalieri in un
consenso di tutti gli uomini «dabbene» (boni), anche i piu modesti (satis boni), come li chiamò poi Cicerone
Si discusse nelle città italiche un decreto senatorio sul ritorno di Cicerone, si ebbero manifestazioni a Roma
finché si consolidò una maggioranza, sia in Senato che nei comizi, e si giunse alla lex Cornelia (agosto 57 a. C.),
anche con la perorazione di Pompeo. Cicerone fu autorizzato al ritorno e reintegrato nei beni confiscatigli e
distruttigli. La serie di festeggiamenti e cerimonie in suo onore, le sue orazioni di ringraziamento al Senato e al
popolo, non evitarono tuttavia le manovre e le violenze di Clodio:
La questione egiziana
La difesa di Cicerone si trasformò in un manifesto politico, cosi come quella di Celio Rufo, figlio di un cavaliere di
Puteoli, che toccava tutti i retroscena della «questione egiziana», cioè della richiesta di Tolomeo XIII Aulete di
essere reinsediato sul trono contro le proteste degli Alessandrini, il cui capo delegazione Dione era stato assassinato
a Roma.
Il Senato aveva lasciato irrisolta la questione, non permettendo che il re fosse ricondotto con le armi, e lasciando che
tutto fosse poi compiuto da Gabinio, il console del 58, nemico di Cicerone e divenuto proconsole della provincia di
Siria
I processi di Sestio e di Celio avevano visto la riapparizione di Crasso, interessato anche alla «questione egiziana»,
non senza rivalità verso Pompeo e proposta conciliante fallita; alla fine del 56 a. C. Catone ritornava dalla
sistemazione dell'annessa Cipro, con il suicidio del re Tolomeo, fratello dell'egiziano.
Cicerone non gli aveva risparmiato allusioni per la sua arrendevolezza all'incarico ricevuto da Clodio e il suo
abbandono della lotta, con il consiglio a lui stesso di partire, anche nell'atmosfera piu lucida e nell'euforia del
ritorno; e l'accoglienza che Catone trovò da parte di Clodio, con polemiche sugli schiavi portati riapri ancora una
volta la lotta triangolare tra ottimati, populares e triumviri.
I primi credettero di poter ormai rifarsi contro Cesare, tentando di abrogare l'imperium e candidando a
console per il 55 il suo avversario L. Domizio Enobarbo, nonché attaccandone la legge agraria, con
proposte di revisione del tribuna P. Rutilio Lupo e il sostegno di Cicerone che cercò di connettere il
problema dell' ager Campanus alla necessità dell'annona e alla cura di Pompeo, per il quale operava in
Sardegna suo fratello Quinto e che egli sperava di staccare dal triumvirato. Questa volta fu anche Cicerone
a non saper aspettare la fine della tempesta.
Cesare, bene informato nei quartieri d'inverno della Cisalpina, non poteva lasciar passare gli attacchi
ottimati alla sua legge agraria e l'incrinatura del triumvirato che si profilava. Alla rottura preferì il
riconsolidamento, che gli avrebbe permesso di completare la conquista gallica e la sua piattaforma
imperiale e affrontare qualunque evenienza futura. Cosi a Lucca (aprile 56 a. C.) avvenne l'incontro dei
triumviri. Il primo effetto dell'accordo di Lucca sulla situazione a Roma fu la paralisi della sperata e
rinnovata funzione politica da parte di Cicerone,
Pompeo stesso tappò la bocca sulla legge agraria di Cesare e l' ager Campanus'. Egli continuò la sua attività
di avvocato in processi di rilievo politico e conservò inimicizie verso alcuni protetti dei triumviri, come
Vatinio, Gabinio e L. Pisone, e addirittura la distanza da Crasso, benché suo figlio gli fosse molto legato.
Promosse onori e prodigò elogi a Cesare, ma forse per sentimento patriottico riguardo ai successi romani
e sincera ammirazione per la razionalità organizzatrice (come per quella di Pompeo in Oriente)"'.
Fu, tuttavia, questa l'epoca in cui soprattutto si sviluppò in Cicerone la riflessione politica e teorica, con la
stesura del grande trittico di trattati (Dell'oratore, Della Repubblica, Delle leggi), tra il 55 stesso e il 52-51 a. C., che
fissò la sua attenzione sulla formazione e funzione dell'uomo politico, la sua capacità di iniziativa prioritaria,
propositiva o decisionale, nei confronti e in armonia con gli organi e le istituzioni, forse anche meditando
sull'esperienza pratica e i modelli contemporanei, ch'egli non accettò - non volendo mai che alcuno avesse potere
piu della comunità politica stessa
L'elezione di Pompeo e Crasso nel 55 al secondo consolato fu effettuata con la violenza, contrapponendo agli
ottimati addirittura soldati in licenza, capeggiati dal giovane Publio Crasso; e cosi passò la !ex Trebonia, che
assegnò, con comando straordinario quinquennale, a Pompeo la Spagna con quattro legioni, e a Crasso la Siria, nelle
prospettive maturate di una guerra partica, per le ambizioni del proconsolato di Gabinio (57-55 a. C.), inseritosi
anche negli affari egiziani"", riportandovi Tolomeo XIII Aulete.
Anche l'opposizione degli ottimati e di Catone non valse a nulla, e fu approvata anche una lex Pompeia Licinia
sul prolungamento dell' imperium a Cesare
Fu questo, indirettamente (ma nella polemica di Catone contro Pompeo già evidente'"), uno dei prodromi della
guerra civile: varata il I 0 marzo 55, la legge prorogava il quinquennio del comando di Cesare al I 0 marzo 50, nella
tesi di Pompeo che, riprendendola negli anni 52-51 a. C., non volle aggiungere i cinque anni al quinquennio della
legge Vatinia, non scaduto prima della fine del 54, in chiaro contrasto con quello suo stesso, valido fino al termine
del 50 stesso. Cesare, piu tardi, e la sua cerchia 142 sostennero infatti le scadenze o di fine 50, o addirittura di fine
49 a. C. (contando dal dicembre 54), come di fatto fini per fare.
Intanto la legislazione di quell'anno del consolato di Pompeo e Crasso si occupò di ritocchi alle
1. la morte di Giulia, figlia di Cesare e sposa di Pompeo, che era stato un legame di piu tra loro (settembre
54);
2. lo squilibrio a Roma per la partenza di Crasso e la sua guerra contro i Parti, che lo vide sconfitto a Carrhae
nel 53 a. C.,
3. la permanenza di Pompeo che mandò suoi legati Afranio e Petreo in Spagna, restando alle porte di Roma, e
in Italia per la cura annonae;
4. l' assunzione successiva da parte di Pompeo, per il continuare della lotta di bande a Roma tra Clodio e
Milone, del senatus consultum ultimum contro le vendette dei suoi seguaci, e la condanna del secondo, del
suo terzo consolato (52 a. C.), in deroga a un senatoconsulto sull'intervallo quinquennale tra la scadenza di
una magistratura e il conferimento della promagistratura e anzi ottenendo di conservare l' imperium maius e
averne una ulteriore proroga per cinque anni"'.
Poteva cosi iniziarsi la politica d'indipendenza da Cesare e di alleanza con gli ottimati (Bibulo e Catone
avevano proposto il consolato sine collega e ne avevano accettato tutte le condizioni), che sembrava realizzare gli
ideali ciceroniani, quello tramontato della concordia ordinum, e quello appena noto dai suoi primi trattati politici,
specialmente il Della Repubblica, nella topica del princeps.
Le leggi de vi e de ambitu liquidavano ormai le bande armate e prevenivano ogni reazione dei populares,
avviando processi rapidi e sommari, presenziati da forze armate, con condanne indiscriminate di amici e nemici,
salvo eccezioni di parzialità, come con il suocero Q. Cecilio Metello Scipione, creato collega, e restauratore dei
poteri censori, ridotti da Clodio.
La controversia contro l' imperium di Cesare era iniziata. Il ribadimento dell'intervallo tra magistratura e
promagistratura, e il divieto, già di Catone, della candidatura in absentia al consolato, prepararono il terreno.
Quando il dibattito si sviluppò sulla questione «di diritto», invocata da Cesare, di portare la scadenza del suo
imperium dal marzo al dicembre 50, la guerra civile poteva dirsi nell'aria. L'opposizione di un M. Claudio
Marcello rivela già come - al di là di ogni contingente salvaguardia della legalità- ci fosse l'antitesi tra due
concezioni «imperiali», quella senatoria e quella di Cesare, tra le quali Pompeo stesso sembrava aver dimenticato
una sua propria ratio, lontano ormai da tempo da comandi militari e amministrazione di province, e tutto preso dalla
autoidentificazione con il ristabilimento dell'ordine e l'auctoritas del Senato, da «ammirevole cittadino». Le sue
clientele, intanto, in Oriente e in Occidente, ne rappresentavano quelle contraddizioni che si estesero poi nella
guerra civile agli stessi ottimati. Lentamente l' «Italia tutta» sembrava prepararsi a trovare in Cesare- non piu
in Pompeo e in Cicerone- il suo patrono.
L'intimazione a Cesare, dopo il marzo 50 a. C., del console C. Claudio Marcello, cugino del predecessore,
di deporre il comando a una data arbitraria del novembre
il fallimento di ogni mediazione o controproposta del tribuna C. Scribonio Curione, poi di Cesare stesso,
che aveva ceduto anche due legioni richieste con il pretesto del disastro partico e stanziate invece a Capua,
e dei tribuni cesariani M. Antonio e Q. Cassio Longino, durante tutto l'anno;
il rifiuto a inizi 49 a. C. dell'ultimatum di Cesare che lui stesso e Pompeo lasciassero gli imperia, a una data
che gli garantisse di rinnovare la candidatura al consolato, non da privato
il senatus consultum ultimum che dichiarò Cesare hostis
Determinò il trasferimento della guerra fuori d'Italia, e il tentativo di bloccarla e affamarla dalle province orientali e
occidentali, provocando spaccature e risentimenti nel fronte stesso ottimate, e facilitando la conquista stessa di
Spagna, Sardegna e Sicilia da parte di Cesare:
Le vicende della guerra nella penisola balcanica, in Oriente, in Egitto e Africa non possono essere qui seguite nei
particolari m - la morte di Pompeo dopo la sconfitta di Farsalo (48 a. C.) e il rifugio presso Tolomeo XIII, i cui
consiglieri lo fecero uccidere, provocando la spedizione punitiva di Cesare e la sua sconfitta in favore di Cleopatra.
Mentre la guerra proseguiva nelle province di Africa e Spagna, ancora in mano agli ottimati e ai pompeiani, e contro
Farnace, che aveva cercato di riprendere il dominio in Oriente (47 a. C.)
Altrove si vedranno gli echi ideali e teorici della guerra civile e delle sue conseguenze, a trasformazione della
cultura politica della tarda e morente repubblica.
Qui resta solo, senza entrare in analisi particolari di valutare per un momento l'altro «falso principato» e la sua
fine: quello impersonato dalla dittatura decennale e poi vitalizia di Cesare e i suoi discussi ordinamenti e fini.
L'attentato delle idi di marzo troncò in verità una riforma della res publica attuata solo parzialmente e in
gran parte appena deIineata. La tradizione antica conosce progetti grandiosi di conquista, a cominciare dai Parti,
senza che si sia sicuri che essi rispondano a verità. Che egli tenesse veramente al titolo regale e se ne astenesse
solo per le reazioni suscitate dal tentativo di Antonio di imporgli il diadema durante la festa dei Lupercali con suo
ostentato rifiuto, è materia di discussione antica e moderna. Egli era certamente, ormai, l'uomo dotato di un
potere superiore alla res publica universa, e cioè alla comunità imperiale stessa, avendo ridotto i poteri del
Senato, con modificazione della sua compagine, aprendolo perfino a qualche provinciale, nonché delle
prerogative giurisdizionali dei magistrati, accrescendone il numero. La massa degli Italici e dei provinciali
vedevano in lui il creatore di un ordine nuovo nell'estensione degli ordinamenti municipali e responsabilizzazione
dei governatori, ma l'avvento della concordia tra schieramenti già confusi e del desiderio di pace, la sua stessa
clementia come superiore concessione e arbitrato individuale, a fondamento di un ordine ecumenico dettato dalle
esigenze e conseguenti influenze delle clientele provinciali, entrate accanto a quelle italiche a far parte delle nuove
classi politiche, trasformava se non estingueva la lotta politica in cui si realizzava la vita stessa della civitas,
togliendole l'essenza stessa del suo generarsi e la ragione di vivere.
La legislazione del 49 e del 47 a. C. fu diretta a spezzare, oltre le clientele gentilizie, la potenza del grande
capitale mobile delle societates equestri, dei grandi finanzieri e del ceto commerciale: la limitazione dei liquidi
tesaurizzabili, il controllo dei crediti e della moneta circolante, la rivalutazione dei possessi fondiari e l'obbligo
d'investimenti in terre italiche, i restaurati diritti doganali sulle importazioni nella penisola, non poterono non
ripercuotersi su un risollevamento dei ceti medi, con il recupero degli elementi italici antisillani o la creazione di
nuovi cittadini, non provocare una maggiore autonomia della piattaforma dalla politeia dei dirigenti equestri, ormai
allineati di nuovo con i senatori. Cosi si spiega la larga adesione o per lo meno l'atteggiamento neutrale che il
potere del dittatore incontrò in Italia- e non solo presso il proletariato e le milizie, ché anzi questi strati
manifestarono piu volte il loro dissenso per una politica che non rispondeva piu ai loro interessi. Di qui l'animosità
senatoria contro Cesare che portò alla coalizione complessa contro di lui e all'uccisione, di qui la condanna di
Cicerone e la sua opposizione dottrinaria, che provocò, nonostante il desiderio di tranquillità e otium, l'abbandono
stesso degli ideali del tota Italia e il privilegiamento della lotta per la libertas in stretto rapporto ormai con la civitas
universa "'. La mancata restaurazione della res publica come ordine costituzionale non permise a Cesare stesso
di godere di quella lunga vita, di cui quella sembrava essere all'antico regime garanzia, anche se l'ordine imperiale
da lui creato assicurò al suo nome fama lunga e universale, fuori tuttavia ormai della sede stabile e domicilio certo di
una urbs, dalle sue decisioni e istituti non piu salvaguardata"", negli schemi della nuova organizzazione. Ciascuno
dei contemporanei dovette, a sua volta, imitando il modello di Cesare o contrastandolo e variandolo, prendere le
sue decisioni, secondo un ordine morale e politico, sempre piu individuale, nella progressiva spoliticizzazione di
schieramenti e gruppi.