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Economia del Diritto Costituzionale

La Costituzione italiana dedica ai «Rapporti economici» l'intero Titolo III della Parte I, e cioè gli artt. da 35 a
47. Questi - integrati da poche altre disposizioni (in particolare, dagli artt. 4, 53, 81 e 99 Cost.) -
comporrebbero secondo un indirizzo piuttosto diffuso la cosiddetta Costituzione economica. Con questa
espressione si possono intendere - e di fatto si intendono - almeno due cose. In una prima accezione, si usa
«Costituzione economica» (non a caso in genere tra virgolette...) solo come formula riassuntiva per
indicare sinteticamente ed allusivamente l'insieme delle norme costituzionali in materia economica. In
una seconda, per la verità poco fortunata nella dottrina italiana (che in genere dà «letture» più o meno
unitarie della Costituzione), si parla di Costituzione economica come di un complesso normativo in qualche
misura autonomo rispetto all'insieme della Costituzione, della quale peraltro sarebbe il nocciolo essenziale,
il dato realmente infungibile attorno al quale finiscono per ruotare i (viceversa) contingenti contenuti delle
disposizioni relative ai rapporti politici, sociali, ecc.

Né l'uno né l'altro di questi indirizzi può essere condiviso.

Le maggiori perplessità le suscita evidentemente il secondo, più netto e radicale dell'altro nelle sue
affermazioni. Anzitutto, è stato già osservato (1) che isolare una sfera dell'«economico» rispetto agli altri
contesti nei quali si esplicano le attività sociali dell'uomo è quantomeno problematico, e che
conseguentemente lo è ancora di più postulare un'autonomia delle disposizioni «in materia economica» (2)
all'interno di testi normativi come quelli costituzionali, che hanno l'ambizione di dettare le regole
fondamentali di un sistema sociale nella sua intierezza. È infine, per ciò che specificamente riguarda
l'esperienza italiana, in contrasto con il diritto positivo. Una «Costituzione economica» che aspirasse ad
essere realmente autonoma, infatti, dovrebbe ruotare attorno ad almeno un principio fondamentale
effettivamente «economico». E mentre questo, ad esempio, non manca nella Legge fondamentale della
Repubblica Federale di Germania (4) nulla di simile è riscontrabile da noi(6). Tutt'al contrario: sono proprio
quelle che dovrebbero fungere da norme-cardine della «Costituzione economica» - gli artt. 41 e 42 Cost. -
(7)che fanno riferimento a valori specificamente sociali (utilità sociale, fini sociali, funzione sociale) quali
condizioni e limiti (interni o esterni, non importa qui precisare) delle situazioni economiche di vantaggio.
Limiti che - come si vedrà in seguito - si ricollegano a quella disposizione evocativa di un progetto di
generale trasformazione sociale che è l'art. 3, comma 2, Cost.

Questi argomenti non possono evidentemente essere impiegati anche per la critica del primo
atteggiamento riscontrabile in dottrina(8). Questo, tuttavia, deve ritenersi egualmente pericoloso, o almeno
poco concludente. Pericoloso, perché si serve di un'espressione linguistica che è comunque fortemente
evocativa e può essere fraintesa. Poco concludente, perché se è vero - come è vero - che la Costituzione è
un tutto unitario(9), il riferimento alla Costituzione economica non ha alcun pregio euristico.
Parlare della disciplina costituzionale dell'« economia», dunque, si può solo se non si perde di vista
l'impianto unitario della nostra Costituzione; se non si postula un'autonomia di questo settore nei confronti
degli altri oggetti delle norme costituzionali(10); se non si dimentica che le interconnessioni fra la disciplina
del sottosistema economico e quella del sistema sociale nel suo complesso sono così profonde(11), che la
prima può essere isolata solo per comodità di analisi e - comunque - non altro che in prima
approssimazione.

2. La Costituzione italiana e la materia economica.

Il modello di struttura economica disegnato in Costituzione è dunque intimamente legato al sistema


costituzionale dei rapporti sociali e politici. Quali ne sono, comunque, le linee fondamentali? Si scontrano,
in proposito, due linee interpretative(12). La prima - maggioritaria - rileva nella Costituzione la compresenza
di una molteplicità di ispirazioni ed ideologie economiche (segnatamente, la socialista, la cattolica e la
liberale), ciascuna delle quali è incapace di prevalere sulle altre(13), con cui deve invece armonizzarsi in
forme compromissorie(14). La seconda - che accusa l'altra di essere «oggetto di una stanca e trita
ripetizione» - afferma invece che «non vi sono disposizioni normative accolte nel testo della Costituzione le
quali... non possano essere con tutta naturalezza ricondotte nel quadro di un'accettazione piena del
modello economico della democrazia sociale», e cioè del modello dell'«economia mista»1(15).

3. Norme costituzionali in materia economica e valori sociali.

Lo stretto collegamento con gli interessi sociali che è presente in due norme centrali come gli artt. 41 e 42
Cost. è significativamente una costante nella gran parte delle norme costituzionali in materia economica.
Così come l'art. 41 richiama l'«utilità sociale» (e i «fini sociali») e l'art. 42 la «funzione sociale», infatti, l'art.
43 si riferisce all'«utilità generale» e all'«interesse generale» sottesi alle nazionalizzazioni e alle
collettivizzazioni(27); l'art. 44 agli «equi rapporti sociali» alla cui instaurazione deve mirare la
regolamentazione della proprietà terriera; l'art. 45 alla «funzione sociale» della cooperazione; l'art. 46 alla
«elevazione economica e sociale» del lavoro che dovrebbe derivare dalla partecipazione dei lavoratori alla
gestione delle aziende; l'art. 99 alla materia «economica e sociale» cui si estende la competenza del CNEL.

Questa insistenza della Costituzione nel richiamare interessi sociali nell'ambito della disciplina
dell'economia dà anzitutto quella preziosa indicazione in negativo che abbiamo già sottolineato, e cioè che
la normativa in materia economica non si ispira ad una logica autonoma e differenziata da quella che
caratterizza l'intera Costituzione nel suo complesso. In positivo, poi, essa sollecita la definizione di quale sia
la realtà cui la Costituzione si riferisce predicando della qualifica di «sociali» certi interessi che fanno sentire
il loro peso (anche) in materia economica.

1
Ma economia mista è termine vago, passabile di diverse interpretazioni.
A questo proposito, sembra anzitutto certo che la Costituzione intenda per «sociale» ciò che è proprio della
società tutta intiera (28) e non di una sua parte soltanto (29) o dello Stato e dei poteri pubblici(30). Inoltre,
la società i cui interessi sono posti dalla Costituzione al centro della disciplina dei rapporti economici non è
la società dell'«oggi costituzionale» (e cioè dal momento in cui la Costituzione veniva materialmente
redatta) e non è neppure la società del futuro, ma quella che è protagonista del processo di trasformazione
indicato dall'art. 3, comma 2(31). Così, sarà socialmente «utile» nella logica dell'art. 41 solo ciò che
corrisponderà alle esigenze della trasformazione (di quella trasformazione che è voluta dell'art. 3, comma
2); saranno «equi» ai sensi dell'art. 44, tra i rapporti sociali connessi all'assetto della proprietà terriera, non
tanto quelli che verranno ritenuti tali secondo la coscienza sociale d'oggi(32), quanto quelli la cui
instaurazione si mostrerà funzionale alle esigenze del processo ispirato dall'art. 3, comma 2, ecc. In altri
termini, l'efficienza economica non è, in sé, un valore(33), e la disciplina dell'economia che la
Costituzione vuole sia dettata dal legislatore ordinario, non può essere ispirata solo dall'intento di
perseguire scopi immediatamente economici (aumento della produzione, equilibrio finanziario, ecc.), ma
deve essere invece guidata dalla necessità di attivare e favorire il processo di trasformazione sociale le cui
grandi linee sono tracciate dall'art. 3, comma 2.

Il progresso economico, infatti, è - realisticamente - una condizione necessaria, anche se non sufficiente,
della rimozione degli «ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza
dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Non è meno evidente, però, che in
molti casi concreti le necessità del mero calcolo economico possono essere in contraddizione con il
raggiungimento degli obiettivi indicati dal citato comma 2 dell'art. 3 Cost.

Nell'ineguale bilanciamento fra le ragioni del calcolo economico e quelle (connesse ma come detto talora
confliggenti) dello sviluppo sociale, sta dunque quell'originalità della Costituzione italiana

Questa ispirazione di fondo della Costituzione si riverbera con particolare nettezza sul regime delle
situazioni economiche di vantaggio. Qui, a prima vista, la Costituzione sembra soffrire di una strisciante
contraddizione. Da un lato, infatti, le situazioni economiche di vantaggio, in quanto elemento costitutivo
della struttura che assicura il progresso economico che è funzionale alla trasformazione sociale, paiono così
intimamente collegate a questa da non potere e dovere essere limitate allo scopo di favorirla. Dall'altro, in
quanto espressione delle diseguaglianze di fatto che la Costituzione si propone di eliminare, paiono il più
ovvio dei candidati a subire limiti in funzione del raggiungimento degli obiettivi costituzionali. La
contraddizione, però, è solo apparente. Abbiamo già detto, infatti, che le esigenze del puro progresso
economico sono spesso in disarmonia con quelle di sviluppo e crescita sociale che in teoria dovrebbero
esserne invece favorite. Ove ciò avvenga, s'è pure visto, sono le seconde a dover comunque prevalere, e
conseguentemente a potersi affermare (sia pure nei limiti dei principi di non eccessività e proporzionalità) a
spese non solo delle esigenze «oggettive» del sistema economico, ma anche di quelle soggettive dei titolari
delle singole situazioni di vantaggio(37). La chiave di lettura essenziale della disciplina di queste ultime è
dunque obbligata: la misura delle loro garanzie e dei loro limiti è data soltanto dalla corrispondenza o meno
con le esigenze costituzionali della trasformazione, sicché - pure esclusa ogni «funzionalizzazione» delle
libertà economiche - le une e gli altri in tanto si giustificano, in quanto siano preordinati al perseguimento di
quelle esigenze. Questo è un punto molto importante, perché qui si chiarisce non solo che le situazioni
economiche di vantaggio possono essere compresse in funzione della protezione dei valori costituzionali
ricordati, ma anche che sono proprio e soltanto questi (e gli altri di volta in volta menzionati quali valori-
guida del campo di attività di ciascuna situazione economica di vantaggio o con esso interferenti)(38), i
fattori che giustificano l'imposizione dei limiti nei confronti di quelle situazioni(39).

4. Le situazioni economiche di vantaggio.

E perciò molto importante definire l'ambito di operatività delle due disposizioni (art. 41 e 42), identificando
le situazioni soggettive che ne sono - rispettivamente - oggetto.

Chi volesse, a questo proposito, valersi delle indicazioni offerte dalla giurisprudenza costituzionale,
resterebbe deluso. Sin dalle sue più vecchie decisioni, infatti, la Corte costituzionale ha lasciato indistinte la
sfera degli atti di esercizio di iniziativa economica e quella degli atti di mero godimento della proprietà,
sovrapponendo le indicazioni normative degli artt. 41 e 42 Cost. ed evocando di volta in volta le une
piuttosto che le altre sulla base di opzioni lasciate ad un sostanziale empirismo.

Questo sembra vero soprattutto per ciò che riguarda l'analisi del concetto di iniziativa economica privata.
Come è noto, la dottrina è, su questo punto, assai divisa. Così, mentre alcuni affermano che l'iniziativa si
identifica con qualunque atto che esprime l'intento di raggiungere un fine economicamente rilevante(44),
altri ritengono che sia soggetto attivo di vera iniziativa economica solo chi esercita attività di impresa(45),
ed altri infine - ed è posizione in certo senso intermedia - che l'iniziativa economica di cui parla l'art. 41
Cost. sia solo quella di colui che promuove un'attività di produzione (e non di mera erogazione) finalizzata
allo scambio(46). La giurisprudenza costituzionale, per suo canto, ha mostrato di aderire sostanzialmente
alla prima di queste tesi, ma come premesso l'ha fatto in modo piuttosto disattento.

In realtà, isolare l'iniziativa economica della quale parla il comma 1 dell'art. 41 Cost. entro l'insieme
indifferenziato degli atti economicamente rilevanti sembra tanto corretto quanto inevitabile. Corretto sul
piano teorico, perché non farlo significa ottundere le diversità che intercorrono fra atti che - pur se tutti
«economici» - sono incomparabili dal punto di vista dei loro contenuti. Inevitabile sul piano del diritto
positivo, perché è la stessa Costituzione a differenziare entro la (non più unitaria) sfera dell'«economico»,
distinguendo fra attività ricollegabili all'iniziativa economica in senso proprio, attività di prestazione di
lavoro subordinato o d'opera intellettuale, attività di godimento della proprietà privata. E siccome
ciascuna di queste attività gode di garanzie e soffre di limiti suoi propri, la distinzione fra l'una e l'altra
assume un rilievo non solo teorico, ma anche ricco di riflessi pratici.

Non meno divisa è la dottrina costituzionalistica italiana in riferimento alla risposta da offrire al quesito sul
rapporto fra commi 1 e 2 dell'art. 41 Cost. Se alcuni, infatti, ritengono che l'oggetto di entrambi sia identico,
essendo impossibile distinguere fra l'«iniziativa» cui si riferisce il comma 1 ed il suo «svolgersi» che è invece
disciplinato dal secondo(48), altri vanno in esattamente opposto avviso, ritenendo che una cosa sia
l'oggetto della garanzia di cui al comma 1, e un'altra l'oggetto dei limiti previsti dal secondo(49). In questo
caso, la giurisprudenza costituzionale si è mostrata più decisa, ed ha abbracciato con chiarezza la prima
delle due opinioni appena descritte(50). Questa sembra tuttavia da respingere, dimentica com'è dei dati
costituzionali testuali e del fatto che - ove altrimenti si ritenesse - il secco riconoscimento della «libertà»
dell'iniziativa non avrebbe senso. È proprio la distinzione fra atto di impulso di un'attività economica volta
alla produzione (51) e atti di svolgimento di quella stessa attività, che può infatti dar ragione dei diversi
accenti del comma 1 e del comma 2 dell'art. 41 Cost. e della imparagonabilità dei limiti dei secondi rispetto
ai limiti del primo.

Ed infatti, mentre lo svolgimento dell'attività economica privata può essere anche oggetto di limiti
positivi, e cioè di veri e propri obblighi di «facere», lo stesso non può accadere per l'atto di iniziativa(52):
proprio in virtù della garanzia apprestata dal comma 1 dell'art. 41 Cost., infatti, nessuno può essere tenuto
ad investire capitali per intraprendere un'attività produttiva contro la propria volontà o a mantenere in vita
un'attività economica se ciò non risponde più al suo vantaggio.

Più meditata e consapevole - anche se non per questo più condivisibile - è stata la giurisprudenza
costituzionale in riferimento alla nozione costituzionale di proprietà. Certo, quella giurisprudenza non
esprime un modello di proprietà che sia originale e identificato da contorni ben definiti(53). Essa, tuttavia,
indica almeno quali sono gli strumenti sulla scorta dei quali la Corte pensa che un modello del genere possa
essere costruito. Sin dalle storiche sentt. nn. 6 del 1966 e 55 e 56 del 1968(54), infatti, il giudice
costituzionale ha ritenuto che la Costituzione garantisse la proprietà in quanto istituto e proteggesse allo
stesso tempo il suo contenuto essenziale. In particolare la sent. n. 55 del 1968, poi, chiariva - come già
anticipato -(55)che tale contenuto essenziale era da ritenersi coincidente con quello ascritto alla proprietà
dalla coscienza sociale prevalente: il contenuto essenziale della proprietà sarebbe stato infatti offerto solo
da ciò che «è connaturale al diritto dominicale, quale viene riconosciuto nell'attuale momento storico»
dallo stesso ordinamento giuridico.

In questo modo, la Corte costituzionale operava un ancoraggio del contenuto essenziale della proprietà al
diritto positivo e non ad una pretesa nozione (ideo!)logica di appartenenza privata, rifuggendo così da
qualunque tentazione di impronta giusnaturalistica.
Secondo alcuni(58), il giudice costituzionale sarebbe passato invece, con la giurisprudenza successiva, da
una concezione funzionale ad una concezione strutturale della proprietà, e cioè da una concezione nella
quale la comprensione della disciplina costituzionale ruota attorno al concetto di funzione sociale, ad
un'altra in cui ciò che conta è la «natura» del diritto di proprietà in sé e per sé. L'osservazione, pur acuta,
può essere condivisa soltanto per ciò che attiene alla sua seconda parte: infatti, per quanto la
giurisprudenza della fine degli anni '60 fosse stata poco sensibile al fascino della nozione di proprietà intesa
sub specie aeternitatis, fu nondimeno anche poco attenta al rapporto tra funzione sociale e diritto
dominicale, sicché il ruolo della prima restò anche allora sullo sfondo. In altre parole, quella giurisprudenza
non seguì né la via della concezione funzionale, né quella della concezione strutturale, ma si limitò -
tacendo sostanzialmente sull'una e sull'altra - ad elaborare una serie di garanzie formali e procedimentali
del diritto di proprietà nei confronti dell'intervento dei poteri pubblici (rispetto della riserva di legge,
obbligo di disciplinare i beni privati per categorie e non singulatim, ecc.). Certo, è chiaro che il ruolo svolto
dal principio della funzione sociale poteva essere più libero ed incisivo all'interno della logica di quella
giurisprudenza piuttosto che di quella successiva. Ciò non toglie, però, che neppure la prima seppe fare ciò
che davvero andava fatto: sciogliere il nodo del concetto di funzione sociale e chiarire in che modo questa si
rapportasse al diritto di proprietà.

5. Gli strumenti del governo pubblico dell'economia secondo la Costituzione.

La misura delle garanzie e la sostanza dei limiti delle situazioni economiche di vantaggio sono date, dunque,
dal modo in cui esse si raccordano con il progetto costituzionale di trasformazione sociale. È quanto ci
indicano tutti gli elementi esaminati in precedenza, ed è quanto conferma anche la protezione accordata dal
comma 2 dell'art. 41 - oltre che alla «sicurezza» ed alla «libertà» - alla «dignità umana». Il riferimento ad
essa, infatti, non può non valere da richiamo dell'analogo concetto di «dignità sociale» presente nell'art. 3,
che rappresenta un po' la cerniera fra commi 1 e 2 di quell'articolo(60), epperciò funge da raccordo fra le
garanzie delle libertà individuali tradizionali e le garanzie del (realistico svolgersi del) disegno
costituzionale di trasformazione.

Oltre queste indicazioni sostanziali, però, la Costituzione sembra volerne offrire altre anche in riferimento
alle modalità in cui il potere pubblico può, governando i processi economici, inverare il disegno dell'art. 3,
comma 2, Cost. La disposizione-chiave, in proposito, sembra l'art. 41, comma 3, a tenor del quale «la legge
determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere
indirizzata e coordinata a fini sociali». Questa disposizione mostra chiaramente che la Costituzione ritiene
necessario un «governo» pubblico dell'economia: il mercato, da solo, non è ritenuto in grado di assicurare
il pieno affermarsi dei valori costituzionali. E la regolamentazione pubblica, a sua volta, può e deve avere
ad oggetto qualunque «attività economica pubblica e privata», senza essere limitata soltanto ad alcuni
settori economici (come potrebbero essere ad esempio quelli indicati dall'art. 43 Cost.).
Gli strumenti attraverso i quali il governo pubblico dell'economia può essere esercitato sono i più vari, come
dimostra l'impiego di un termine così generico ed onnicomprensivo come «controlli». Cionondimeno, la
Costituzione menziona espressamente e vede con favore particolare il ricorso a quello strumento organico
di governo dell'economia che sono i «programmi».

Anzitutto, è da dire che l'uso del plurale «programmi» in luogo dei singolari «piano» o «programma» o
«programmazione » non ha alcuno specifico significato normativo(61). È infatti la stessa reciproca stretta
interdipendenza dei fenomeni economici, che reclama una loro visione unitaria e consente che essa sia
oggettivata in un non meno unitario documento anziché in più documenti settoriali(62). I «programmi», poi,
sono funzionalizzati al raggiungimento dei «fini sociali», e poiché quei fini - in quanto «sociali» nel senso
fatto proprio dall'art. 3, comma 2, Cost. - convergono tutti nell'obiettivo primario e unificante di costruire
una società «in progress», è logico che possano (e forse debbano) essere perseguiti con l'ausilio di
strumenti non disarticolati.

In realtà, la tesi secondo la quale la Costituzione non conferirebbe diritto di cittadinanza ad un piano
economico generale e nazionale, ma solo a piani settoriali e/o territorialmente definiti, pare nascondere il
timore che si verifichi - in caso contrario - uno slittamento verso forme di più o meno intenso dirigismo(63).
Ma si tratta di un timore ingiustificato, perché da un lato i lavori preparatori, dall'altra lo stesso testo della
Costituzione, dimostrano che la programmazione cui essa pensa è una programmazione anzitutto
democratica e partecipata nella fase della definizione dei suoi obiettivi, ed in secondo luogo volta
soprattutto a promuovere ed indirizzare l'attività dei privati

La natura democratica della programmazione disegnata dall'art. 41 Cost. e la fondamentalità delle scelte di
programma in materia economica, danno infine solido fondamento alla tesi secondo la quale il riferimento
alla «legge» ha qui ad oggetto anzitutto la legge parlamentare, prima che gli atti normativi del Governo ad
essa «equiparati»(67). Con la conseguenza che - conformemente alla logica generale del sistema -(68)il
Parlamento deve predeterminare almeno i principi della normazione e della azione del Governo(69).

6. La giurisprudenza costituzionale e il sistema economico.

L'inesistenza di una protezione, in Costituzione, dell'interesse allo sviluppo o all'equilibrio economico in sé e


per sé, che si è mostrata in precedenza, emerge con minore nettezza nella giurisprudenza della Corte
costituzionale, nella quale è avvertibile qualche incertezza e qualche ambiguità. Va notato, infatti, che a
fronte di una numerosa giurisprudenza sull'art. 41 Cost. che fa esattamente rientrare nel concetto di utilità
sociale soprattutto interessi correlati alla crescita della società nel suo complesso piuttosto che all'efficienza
dell'economia qua talis, si collocano alcune decisioni più sensibili alla protezione di interessi puramente
economici(70), le quali fanno dubitare che la Corte abbia saputo avvertire che il sistema economico
disegnato in Costituzione non è autosufficiente ed autocentrato, ma ruota attorno a (ed è definito nei suoi
contorni da) valori ad esso esterni(71). Nonostante queste oscillazioni, comunque, è senz'altro l'indirizzo più
corretto, che si rivela prevalente. Stanno a testimoniarlo non solo, direttamente, le decisioni che assumono
quali parametri gli artt. 41 e 42 Cost., ma anche e soprattutto quelle (già ricordate) (72)sui diritti sociali. Va
poi sottolineata l'assenza, nella giurisprudenza costituzionale, dell'idea - essenziale come visto perché si
abbia vera «Costituzione economica» - del riconoscimento in Costituzione di un saldo principio-guida di
politica economica fondato appunto sulle sole ragioni dell'economia. Lo mostra con chiarezza
l'interpretazione che la Corte ha offerto dell'art. 81, comma 4, Cost., in ordine alla politica della spesa
pubblica, «che deve essere contrassegnata non già dall'automatico pareggio del bilancio, ma dal
tendenziale conseguimento dell'equilibrio tra le entrate e la spesa»(73). Ed è proprio l'incertezza di
contenuto di quel «tendenziale equilibrio», esattamente notata dalla dottrina(74), che apre le porte ad una
vasta pluralità di scelte di politica della spesa (ivi compresa quella del disavanzo)(75), eliminando perciò in
radice qualunque «principio» autonomo di pur minimale governo dell'economia.

Questi indirizzi giurisprudenziali avrebbero dovuto portare evidentemente ad una svalutazione da parte
della Corte delle esigenze strutturali del sistema economico ed alla loro subordinazione alle altre, diverse
(politiche, sociali, ecc.), positivizzate in Costituzione. Con essi sembra perciò in contraddizione l'altra, non
meno nota e consolidata giurisprudenza che vuole la Corte particolarmente cauta nell'adozione di decisioni
che non siano «kostenlose», almeno nei momenti storici in cui la contingenza economica non è florida. Tutti
sanno, a questo proposito, che la giurisprudenza è stata sempre assai sensibile nei confronti dei periodi di
crisi economica. Un'intera stagione della giurisprudenza costituzionale, addirittura, è stata profondamente
segnata dall'emergenza economica(76), che ha indotto un vistoso appannamento della tutela dei diritti
sociali (77).

Perché questo comportamento? Anzitutto, dalla delicatezza della legittimazione della Corte costituzionale:
questa, non potendo essere la legittimazione tradizionale, va delicatamente costruita e costantemente
ricostruita(79), e la disinvoltura, l'audacia del giudice costituzionale in fasi storiche nelle quali la stessa
tenuta dei poteri democraticamente legittimati è messa a dura prova(80), poggerebbero su basi troppo
fragili. In secondo luogo, è presumibile che si rifletta qui, sull'agire della Corte, la relativa doppiezza
dell'atteggiamento della Costituzione stessa nei confronti dell'economia. Come abbiamo già visto, infatti, il
buon funzionamento del modo di produzione capitalistico accolto (nella forma dell'«economia mista») dalla
Costituzione, è inteso sia come condizione di fatto del progresso sociale (epperciò della realizzazione del
progetto disegnato dall'art. 3, comma 2, Cost.), sia come suo potenziale ostacolo, come quello che consente
la produzione di diseguaglianze di fatto che la Costituzione vorrebbe invece cancellare. La cautela della
Corte nei momenti di crisi economica, la sua parallela audacia in occasione di una contingenza favorevole,
potrebbero dunque essere interpretate anche come una spia del fatto che il bilanciamento (pur sempre
ineguale) fra le ragioni dello sviluppo economico e quelle dello sviluppo sociale è in qualche modo variabile,
e tende ad oscillare in favore delle prime, quando il loro sacrificio potrebbe essere troppo grave o
addirittura senza ritorno.

7. La disciplina costituzionale dell'economia alla prova del tempo.

A quarant'anni dalla loro entrata in vigore, le norme costituzionali in materia economica mostrano ancora
una discreta tenuta. Si possono formulare due ipotesi opposte, per spiegare le ragioni di questa perdurante
vitalità. Si può, così, ritenere che la normativa costituzionale in materia economica non rechi segni del
tempo troppo vistosi perché, a ben vedere, è stata sempre ai margini del concreto farsi dei fenomeni reali,
che hanno obbedito a logiche loro proprie, ben distanti da quella che mosse in origine la Costituzione(81).
Sarebbe perciò la sua stessa astrattezza e distanza dalla realtà che la renderebbe insensibile all'evolversi di
questa, assicurandone una tenuta che si risolve in effetti in debolezza e carenza di incisività. E si può, tutt'al
contrario, pensare che la tenuta delle norme costituzionali sia figlia della loro intrinseca duttilità, che le
pone al riparo dalle trasformazioni del loro oggetto, che sono comunque in grado di «governare».

Ma ciò che conta, soprattutto, è che la disciplina costituzionale dell'economia ha tenuto


soddisfacentemente proprio in virtù del suo collegamento con la Costituzione nel suo complesso;
collegamento imputabile specialmente al raccordo assicurato dall'art. 3, comma 2, Cost. La tenuta della
disciplina dell'economia, in altri termini, è la tenuta di tutta la Costituzione, e le sorti dell'una sono
largamente le sorti dell'altra.

Il problema, a questo punto, è dunque quello della vitalità della Costituzione nel suo complesso e della sorte
che sarà riservata ai tentativi di delegittimarla che da qualche tempo e da più parti vengono compiuti(83).

Nonostante questa complessiva vitalità, comunque, l'edificio costituzionale della disciplina dell'economia
presenta per non pochi aspetti crepe vistose. Per ricordare solo alcuni fra i punti principali, va anzitutto
sottolineata la mancanza di un chiaro principio costituzionale in materia di concentrazioni e di oligopoli
privati. È poi evidente la arretratezza dell'art. 47, comma 1, che abbandona l'attività creditizia e finanziaria
ad una quasi assoluta assenza di principi(87). Lo stesso può dirsi per l'art. 47, comma 2, che affronta in
modo alquanto approssimativo un tema così importante come quello del diritto all'abitazione. Anche la
normativa in materia tributaria meriterebbe, infine, qualche integrazione e puntualizzazione, soprattutto in
considerazione della notevole timidezza della giurisprudenza costituzionale, che tra l'altro non sembra
ancora avere offerto una definizione convincente del concetto-chiave di capacità contributiva, attorno al
quale ruota un po' tutto l'art. 53 Cost.

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