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vita buona
e virtù
Saggio di filosofia morale
BIBLIOTECA DI SCIENZE RELIGIOSE
83
GIUSEPPE ABBÀ
FELICITÀ
VITA BUONA E VIRTÙ
Saggio di filosofia morale
LAS - ROMA
Ai miei educatori e maestri
Anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite:
Siamo servi inutili, abbiamo fatto quanto dovevamo fare (Le 17,10)
Trascorro la mia vita come desidero, e cosl piaccia a Dio che i miei desideri
siano buoni (TOMMASO MoRO, Lettera del 1501 a fohn Holt)
La felicità? Quella farfalla che vola via appena stai per acchiapparla? ...
Però la vera felicità c'è anche su questa terra! (mia Madre)
14100
Capitolo IV: Virtù e condotta . . .... .. .. .. .. .... .. . . ... .. .... .......... .. .. .. . . .. .. . . .... . . .. .. . . ....... .. . . . 151
I. Dalle pratiche alla condotta . . . . . . . . . . . . . . . :. . .. .. . . . ... ......... ........ ..... .. .. . . .. .. ..... . . 151
II. Dinamica della condotta umana
..... ... : . ..........:..... ....................... . ... ....... 155
III. Le virtù nella condotta umana ................ . .... ...... ..... ....... .... .............. ...... 162
Capitolo VI: Virtù e saggezza pratica . . .. .. .... ... .. .. .. .. .. .... .. . . . .. . ... .. .. .. . . .... .. .. .. . .... .. ... .. 226
I. Saggezza pratica e concezione sapienziale del mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. 227
6 Sommario
II. Saggezza pratica e norme .. ..... .... .. .. .. .. .. .... .. .. .. . .. .... .. .. .. .. .... .. .... ... .. .. .. .... .. 232
III. Saggezza pratica, giudizio e virtù.. .. .. .... .... ... .. .. .. .... .. ..... .... .. .... ... .... ... .. .. . 244
Capitolo VII: La pratica delle virtù ....................... ........... ........ ......................... 255
I. La vita morale previrtuosa .... .... .... .. .... .. .. ... ... . .... .. .. ... ... .. .. .. .. .. ..... .. .. ... .... 256
Il. L'acquisizione delle virtù ... ... ....... ... ... .. .... ... ........ .......... ......... ...... .. . ..... .. 260
III. Condizioni esterne per l'acquisizione delle virtù ................................... 266
Conclusione........................................................................................................... 271
Bibliografia .. .. . . ... . . .. .. ... ... . ... . . . ... .. . .. ... . .. . .. . ... . .. . .. . . . . . ... . .. .. . .... .. .. . . .. ... .. . ... . . . . .. . .. . . .. . . . . . 277
Indice degli Autori . . .. .. . .. . ... . . . ... .. . . . . .. . .. . .. . . . . . .. . .. . . .. .. .. .. . . .. .... .. . . . . .. ... .. . ... . . . . .. . ... . .. . . .. . 287
Indice analitico.......................................... ..... ...................................... .............. 291
Indice generale . .. . ... .. ... .... .. . ... . .. . . .. . . .. . .. . ... ... . .. . .. .. .. . . .. . .. . .. . ... . . . . .. . . ... .. . ... . .. . .. .... . .. . .. . . 295
INTRODUZIONE
La storia della teoria etica, sia filosofica sia teologica, non cessa di sorpren
dere. Gli studi di S. Pinckaers, 1 per quanto solo in forma di sondaggi, met
tono in luce la profonda trasformazione che ha subito la teologia morale, pas
sando da una concezione centrata sulla felicità e sulla virtù, tipica di s. Tom
maso d'Aquino, a una concezione centrata sulla legge, sulla còscienza, sull'ob
bligazione, tipica della teologia morale postridentina. Negli anni posteriori al
Concilio Vaticano II lo scenario della teologia è quello tipico dei lavori in
corso; ma pur nella diversità di proposte, di metodi, di posizioni, la direzione
generale non sembra andare verso una riscoperta dei temi della felicità e della
virtù, salvo qualche proposta isolata.
Nell'etica filosofica il libro di A. Maclntyre2 ha costituito un evento negli
ultimi anni per le tesi ivi sostenute e per il dibattito suscitato. Per Maclntyre
l'etica filosofica, da quando, nell'epoca moderna, ha abbandonato i concetti
aristotelici di telos della vita umana e di virtù, è andata incontro ad un inevita
bile naufragio, dal quale non potrà riprendersi se non rinnovando i concetti
aristotelici di vita buona e di virtù. Diversamente da quanto succede nella teolo
gia morale, presso i filosofi morali è in ripresa da qualche decennio a questa
parte un interesse per la felicità e soprattutto per la virtù, che si confronta con
i concetti tipici dell'etica moderna: dovere, diritti, regole.
Ciò che può sembrare ancora più strano è che presso i filosofi morali la teo
ria di gran lunga la più studiata, anche da parte di chi si rifà a I. Kant o a J.
Stuart Mili, è l'etica aristotelica, con i suoi concetti di vita buona, di virtù, di
saggezza pratica. Sono studi che frequentemente uniscono l'interesse esegetico
e storico a quello teoretico. Invece è rarissimo trovare, sia presso i filosofi sia
presso i teologi e per ragioni differenti3 - chi si rifaccia al pensiero etico
di Tommaso d'Aquino. In questo modo persiste un altro fenomeno strano
della storia del pensiero morale: l'opera che ha segnato la nascita della teologia
morale con una originale e grandiosa sintesi non è entrata nella storia del pen-
' Cf. Servais (Th.) PrNCKAERS, OP, Les sources de la morale chrétienne. Sa méthode, son con
tenu, son histoire, Fribourg/Suisse - Paris 1985.
2 Alasdair MACINTYRE, After Virtue. A Study in Mora! Theory, Notre Dame/IN 198 1 .
' Presso i teologi il disinteresse è dovuto soprattutto alla frenesia d i cambiamenti interve
nuta nel postconcilio; presso i filosofi è dovuto a un inveterato pregiudizio contro la filosofia dei
teologi medievali.
8 Introduzione
4 Cf. Theo G. BELMANS, O. Praem., Le sens objectif de l'agir humain. Pour relire la morale
conjugale de Saint Thomas, Città del Vaticano 1980; Giuseppe ABBA, Lex et virtus. Studi sull'evolu
zione della dottrina morale di san Tommaso d'Aquino, Roma 1983 ; Martin RHONHEIMER, Natur als
Grundlage der Mora!. Die personale Struktur des Naturgesetzes bei Thomas van Aquin: eine Aus
einandersetzung mit autonomer und teleologischer Ethzk, lnnsbruck - Wien 1987; Livio MELINA, La
conoscenza morale. Linee' di riflessione sul Commento di san Tommaso all'Etica Nicomachea, Roma
1987; Eberhard SCHOCKENHOFF, Bonum hominis. Die anthropologischen und theologischen Grund
lagen der Tugendethik des Thomas van Aquin, Mainz 1987.
Introduzione 9
La teoria etica che in questo saggio vado delineando è, per dirla con un os
simoro, una novità antica. Essa è nuova perché introduce nel dibattito odierno
idee e tesi che suonano nuove agl'interlocutori; è antica perché li riprende da
un teologo medievale, il quale a sua volta raccoglie in una sintesi originale l'ere
dità d'una secolare tradizione di pensiero pagano e cristiano.
La proposta che faccio è di costruire l'etica come filosofia pratica della con
dotta umana.
1) A differenza di varie figure di etica, filosofica e teologica, moderna, con
centrate sulla determinazione e giustificazione di norme d'azione corretta, alle
quali deve moralmente attenersi il soggetto nelle sue decisioni, la filosofia pra
tica della condotta umana considera le scelte non come semplici decisioni iso
late, sorta di monadi psichiche nelle quali la libera volontà opta per un'alterna
tiva; né come espressioni periferiche e categoriali d'un'opzione centrale, tra
scendentale, fondamentale; ma come concretizzazioni diverse d'uno stesso
scopo ultimo; concretizzazioni delle quali il soggetto è autore in forza della sua
capacità di determinare liberamente in azioni concrete uno scopo generale, ul
timo, che accomuna tutte le scelte e le costituisce in condotta: questo scopo è
la felicità, la vita buona.
2) La filosofia pratica della condotta umana pone come principio dell'or
dine pratico la felicità, non nel senso ch'essa costituisce un criterio normativo,
ma nel senso ch'essa costituisce il principio che fa possibile l'ordine pratico e
fornisce il senso alle norme ed alla prassi.
3) Distinguendo tra vera e falsa felicità e identificando come componente
essenziale della vera felicità la vita vissuta secondo la regola della ragion pra
tica, regola che è ispirata ad un ideale di perfezione umana, la filosofia pratica
della condotta umana richiede necessariamente un appropriato concetto di
virtù. Le virtù vengono richieste come potenziamenti delle facoltà operative
dalle quali emana la condotta, potenziamenti che le abilitano a perseguire gli
ideali della perfezione umana e a realizzarli in azioni saggiamente adattate alle
situazioni.
Questa figura di teoria etica come filosofia pratica della condotta umana
verrà sviluppata secondo il seguente piano.
Il capitolo I5 ha carattere programmatico, panoramico e sintetico. Esso mo
stra la necessità di costruire l'etica come filosofia pratica della condotta
umana, e quindi prova la centralità del concetto di felicità. Procede poi a svi
luppare una nozione di felicità, a situare nell'ambito della felicità la vita moral
mente buona e a indicare la funzione della virtù nella realizzazione della feli
cità. Essendo panoramico e sintetico, il capitolo I sorvola su problemi che ver
ranno ripresi nei capitoli seguenti, accontentandosi di situarli in una visione
d'insieme.
6 Esso riprende, in forma invariata, salvo qualche aggiornamento bibliografico, il mio arti
colo: Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito, in Salesianum 49 ( 1987) 421-484.
Introduzione 11
tici per ritornare a conclusioni panoramiche. Uno stesso concetto può ritor
nare più volte in diversi contesti, per far percepire le sfumature e la comples
sità della dottrina. Con la parola " complessità" ho indicato la preoccupazione
principale di questa teoria: se qualcosa insegna Tommaso d'Aquino ai suoi stu
diosi è la capacità di percepire la complessità della realtà, la necessità di for
mare diversi concetti per rappresentarla adeguatamente e l'urgenza di pensare
sempre un concetto in connessione con gli altri. La trascuranza di queste esi
genze si paga a caro prezzo: si perde la possibilità di capire l'esperienza mo
rale.
Capitolo I
FELICITÀ E VIRTÙ
NELLA FILOSOFIA PRATICA DELLA CONDOTTA UMANA
(1 ) Gli autori d'una rassegna sulla recente letteratura filosofica circa il con
cetto di felicità concludono così il loro studio: «Dobbiamo aggiungere che, a
nostro modo di vedere, i problemi e le tendenze parallele riscontrate nella teo
rizzazione classica e contemporanea riflettono le difficoltà concettuali di affer
rare con esattezza le complessità dell'esistenza umana. Le teorie della felicità
avranno bisogno d'una costante riconsiderazione non solo perché quelle com
plessità possono fornire nuovi candidati come componenti della felicità, ma
anche perché le teorie della felicità, riteniamo, cominceranno sempre più a pro
fittare delle varie branche e scuole di filosofia». 1 Sono, per l'appunto, queste
le ragioni che mi hanno suggerito di riconsiderare il tradizionale problema del
rapporto tra virtù e felicità. Negli ultimi vent'anni si registra una rinnovata at
tenzione al tema della felicità e al tema del rapporto tra felicità e moralità da
parte di cultori di diverse discipline, appartenenti a diverse correnti di pen
siero: nuove definizioni e nuove distinzioni, nuove tesi e nuove argomenta
zioni inducono a un confronto critico e ad avvalersi dei nuovi contributi.
(2) Il tema della felicità, per secoli oggetto della filosofia, trascurato poi da
essa come non adatto per una filosofia scientifica, era stato ricuperato sotto di
versi nomi da diverse discipline;2 da circa un ventennio esso è tornato alla ri
balta in riviste, convegni, nena saggistica e finalmente ha riscosso di nuovo l'at
tenzione di filosofi e teologi.3
1 Douglas DEN UYL - Tibor R. MACHAN, Recent Work on the Concept o/ Happiness, in Ame
Giinther HEMTRICH, Ermutigung zum Gliick. Sieben klassische Modelle gliicklich zu leben von Bud
dha bis Hegel, Freiburg - Base! - Wien 1979; Gertrud HOHLER, Das Gliick. Analyse einer Sehnsucht,
Diisseldorf - Wien 198 1 .
Per l a filosofia cf. l a rassegna citata alla n . 1 sulla filosofia anglosassone. Nell'area tedesca: Wil
helm KAM LAH, Philosophische Anthropologie. Sprachkritische Grundlegung umi Ethik, Mannheim -
Wien - Ziirich 1973 ; Otfried HbFFE , Strategien der Humanitat. Zur Ethik offentlicher Entscheidungs
prozesse, Freiburg - Miinchen 1975; Giinther BIEN (Hrsg.), Die Frage, cit.; Heinz Helmuth FREY
TAG, Gliick und Hochster Wert. Widerspruch und Ausgleich, Sankt Augustin 1982; Emi!
ANGEHRN, Der Begrzff des Gliicks und die Frage der Ethik, in Philosophisches Jahrbuch 92 ( 1985) 35-
52; Norbert HINSKE, Lebenserfahrung und Philosophie, Stuttgart - Bad Canstatt 1986, 49-85 : Zwi
schen fortuna und felicitas. Gliicksvorstellungen im Wandel der Zeiten e Gliick und Enttauschung.
Sta lavorando per un trattato filosofico di etica eudemonista Hans KRAMER; qualche risultato l'ha
anticipato in tre articoli: Prolegomena zu einer Kategorienlehre des richtigen Lebens, in Philosophi
sches ]ahrbuch 83 ( 1976) 71-97; Selbstverwirklichung, in G. BIEN (Hrsg.), o.e. 2 1 -44; Antike und
moderne Ethtk?, in Zeitschrift fiir Theologie und Kirche 80 ( 1983) 184-203 ; Pladoyer fiir eine Reha
bilitierung der Individualethik, Amsterdam 1983 ; Zum Problem einer hedonistischen Ethik, in Allge
meine Zeitschri/t fiir Philosophie 9 ( 1984) 1 1-30; Nuove vie dell'etica filosofica, in Filosofia 36
( 1985) 135-148. Dei recenti contributi dell'area tedesca al dibattito sul rapporto tra felicità e virtù
fa una rassegna critica Antonio DA RE, L'etica tra felicità e dovere. L'attuale dibattito sulla filosofia
pratica, Bologna 1986, 49-84: l'Autore documenta come vari studiosi vanno mostrando che la con
cezione aristotelica della felicità si sottrae alla critica kantiana, qualora si proceda - come più
sotto farò - a una chiarificazione semantica del termine felicità che si orienti a intendere la feli
cità come autorealizzazione. Nell'area spagnola: Carlos DIAZ, Eudaimonia. La Jelicidad como uto
pia necesaria, Madrid 1987.
Per la teologia: Helmut RbHRBEIN, Der Himmel auf Erden. Pladoyer fiir eine Theologie des
Gliicks, Frankfurt am Main 1978; A. ZIEGLER, Das Gliick ]esu cit.; Rafael LARRANETA OLLETA,
Una mora! de felicidad, Salamanca 1979; Gisbert GRESHAKE, Gliick oder Heil?, in Io., Gottes Heil
- Gliick des Menschen. Theologische Perspektiven, Freiburg - Base! - Wien 1983, 159-206; Helen
OPPENHEIMER, The Hope o/ Happiness. A Sketch /or a Christian Humanism, London 1983; John
M. FINNIS, Practical Reasoning, Human Goods and the End o/Man, in Proceedings o/ the American
Catholic Philosophical Association 58 ( 1984) 23-36; Joseph OWENS, C.Ss.R., Human Destinity.
Some Problems /or Catholic Philosophy, Washington, D.C. 1985; Wilhelm KORFF, Die Frage nach
dem Gliick als Frage nach einer humanen Ethtk, in Io., Wie kann der Mensch gliicken? Perspektive
der Ethik, Miinchen - Ziirich 1985, 9-32.
4 Rassegna nell'a . c. di DEN UYL - MACHAN .
' Donald ZEYL, Socratic Virtue and Happiness, in Archiv fiir Geschichte der Philosophie 64
14 Capitolo I
( 1982) 225-238 ; Maximilian FoRSCHNER, Epikurs Theorie des Glucks, in Zeitschri/t fiir Philosophi
sche Forschung 36 ( 1982) 169-188; Werner BEIERWALTES, Regio Beatitudinis. Zu Augustins Begri/f
des gliicklichen Lebens, Heidelberg 198 1 ; John LANGAN, Beatitude and Mora! Law in St. Thomas,
in ]ournal o/ Religious Ethics 5 ( 1977) 183- 195; David W. ARDAGH, Aquinas on Happiness: a De
fence, in The New Scholasticism 53 ( 1979) 428-459; R.Z. FRIEDMAN, Virtue and Happiness. Kant
and the Three Critics, in Canadian ]ournal o/ Philosophy 1 1 ( 1981 ) 95- 1 10 ; Daniel O'CONNOR,
Kant's Conception o/ Happiness, in The ]ournal o/ Value lnquiry 16 ( 1982) 189-206; Norbert
FISCHER, Tugend und Gliickseiligkeit. Zu zhrem Verhi:iltnis bei Aristoteles und Kant, in Kant-Stu
dien 74 ( 1983) 1-2 1 ; Wolfgang FREISING, Kritische Philosophie und Gliickseligkeit. Kants Auseinan
dersetzung mit dem Eudi:imonismus seiner Zeit, Liineburg 1983; Jiirgen-Eckardt PLEINES, Eudaimo
nia zwischen Kant und Aristate/es. Gliickseligkeit als hOchstes Gut menschlichen Handelns, Wiirz
burg 1984; Ursula SCHNEIDER, Grundziige einer Philosophie des Gliicks bei Nietzsche, Berlin - New
York 1983 ; Paulus ENGELHARDT (Hrsg.), Gluck und gegliicktes Leben. Philosophische und theolo
gische Untersuchungen zur Bestimmung des Lebensziels, Mainz 1985.
6 DEN UYL - MACHAN, a.e. 132.
(5) Uno dei punti su cui più si concentra la discussione degli odierni stu
diosi dell'eudaimonia aristotelica è se essa debba essere concepita come fine do
minante o come fine inclusivo. Nel primo senso l'eudaimonia comporta la su-
11 Ivi 8.
12 Ivi 135.
13 Cf. BIEN, a.e. : «Zwei philosophische Gli.icksbegriffe also sind zu unterscheiden: derjenige
der alteren klassischen Tradition und derjenige der neuzeitlichen Gli.ickseligkeitslehren oder des
aufgeklarten Eudamonismus und Utilitarismus» (XIV).
14 Cf. H. KRAMER, Antike; Friedo R!CKEN, Kann die Moralphilosophie auf die Frage nach dem
«Ethischen» verzichten?, in Theologie und Philosophie 59 ( 1984) 161- 177: sostiene che per fornire
una motivazione alla condotta morale occorre un ricupero del tema della virtù; intende appunto
mostrare che un ricupero dei temi della felicità e della virtù per la filosofia morale vanno di pari
passo.
" Trascuratezza già denunciata da G.E.M. ANSCOMBE, Modern Mora! Philosophy, in Philo
sophy 33 ( 1958) 1 - 19.
16
Cf. Friedrich KAULBACH, Ein/iihrung in die Philosophie des Handelns, Darmstadt 1982;
Michael H. ROBINS, Promising, Intending, and Mora! Autonomy, Cambridge 1984.
1 7 Sir W. David Ross, The Psychology o/ Mora! Action, in Io., Foundations o/ Ethics, Oxford
1939, 192-207; N.].H. DENT, The Mora! Psychology o/ the Virtues, Cambridge 1984.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 17
18
Cf. la rassegna citata di DEN UYL - MACHAN 1 17- 120.
19 Ivi 12 1 - 123.
20
Ivi 120.
21
Cf. Stuart HAMPSHIRE, Morality and Conflict, Oxford 1983, 34-36. 39-4 1 . 140-169.
22
Ivi 40. 43 .
23
Ivi 40.
18 Capitolo I
Tuttavia Hampshire dimostra che «a) non vi può essere una cosa come il
bene umano completo; né b) vi può essere armonia tra tutte le virtù essenziali
in una vita completa; né c) possiamo inferire che cosa sia universalmente il mi
glior corso di vita da proposizioni circa la natura umana».24
Da queste tesi risulta « l'impossibilità dell'umana perfezione e della piena
realizzazione di tutte le potenzialità umane».25
Su questa distinzione Hampshire fonda la tesi che nella vita morale i con
flitti sono inevitabili e che essi non possono essere razionalmente superati. Ma
la distinzione può servire anche, come vedremo, a illustrare i rapporti tra virtù
·
e felicità.
(7) Indipendentemente dalle tesi sostenute dagli autori che hanno messo a
punto le distinzioni menzionate, queste ultime servono egregiamente a dipa
nare il complesso problema della natura della felicità e dei suoi rapporti con la
virtù e sono da recepire.
Non così ritengo per alcune posizioni sostenute da questi autori.
a) Gli autori anglosassoni che teorizzano sulla felicità si occupano prevalen
temente o esclusivamente della felicità edonica (happiness nel senso moderno e
corrente della parola) ; tutto l'ampio studio di Tatarkiewicz, per citare un caso
tipico, è esclusivamente dedicato alla felicità in senso soggettivo.
Connessa a questa prevalente o esclusiva attenzione alla felicità in senso og
gettivo è la tesi che rifiuta la distinzione tra vera e falsa felicità dal momento
che non vi sarebbero criteri oggettivi per fondarla. Per dirla con G.H. Von
Wright, il giudizio soggettivo della persona che stabilisce se essa è felice o no
« è ultimo, qualunque cosa pensiamo che dovremmo dire noi se fossimo nelle
stesse circostanze, perché ogni uomo è il giudice migliore e più competente
sulle proprie prospettive di felicità».26 Questa è anche la posizione di Tatarkie
wicz, di W. Schneider, di Telfer, e con maggiori sfumature, di ]. Kekes e R.
Kraut.
Per Kekes i criteri di felicità sono ontologicamente soggettivi ed epistemo
logicamente oggettivi: non vi sono cioè criteri ontologicamente validi per giudi
care gli ideali in cui un individuo si impegna e realizzando i quali egli si sente
felice; ma si può giudicare oggettivamente il suo sentirsi felice a partire ap
punto dai suoi ideali, verificandone la realizzazione.27
R. Kraut, confrontando le due concezioni della felicità, oggettivista e sog-
24 Ivi 155.
2' Ivi 160.
26
Cf. H.G. VON WRIGHT, The Varieties o/ Goodness, London 1963, 99.
2' Cf. J. KEKES, Happiness, in Mind 91 ( 1982) 358-376.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 19
gettivista, sfuma ancor più la loro differenza: mentre l'oggettivista dice che una
persona non è felice se essa è molto distante dal condurre la miglior vita di cui
è capace, il soggettivista dice semplicemente che tale persona è felice, sebbene ·
28
Cf. Richard KRAUT, Two Conceptions of Happiness, in Philosophical Review 88 ( 1979) 167-
197.
29 TELFER, o.e. 135.
3° Cf. Prolegomena 7 1-73.
JI TATARKIEWICZ, Happiness 347.
20 Capitolo I
(1 1 ) Sia la virtù sia la felicità hanno importanza somma nella vita umana.
« Noi siamo capaci di essere felici e capaci di essere miserabili, e questo fatto
non è irrilevante per la moralità ma le è centrale»,36 osserva H. Oppenhei
mer, che apre il suo saggio sulla speranza di felicità con un capitolo di risposta
alla domanda: è importante essere felici? Orbene, la morale riguarda proprio
ciò che è più importante nella vita umana.
Tra virtù e felicità vi dev'essere dunque stretta connessione. La difficoltà
nello stabilirla deriva innanzitutto dalla complessità semantica e concettuale
32 Ivi 337-356.
" TELFER, o.e. 107-135.
" DEN UYL - MACHAN, a. e. 130.
35 L. cit.
'6 H. OPPENHEIMER, The Hope of Happiness, London 1983, 15.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 2l
del termine felicità e dalla concezione della moralità e della virtù che viene
messa in opera. Tale complessità è accresciuta dal fatto che nella storia del pen
siero occidentale è awenuta una frattura nella concezione sia della felicità sia
della moralità. Proprio questa frattura e innovazione hanno creato seri pro
blemi a Kant e l'hanno costretto a cercare un nuovo rapporto tra virtù e feli
cità. Per quanto molteplici e divergenti fossero le posizioni della filosofia an
tica e cristiana sulla natura della felicità, esse concordavano generalmente nel
fatto di essere concezioni eudemoniste, secondo le quali la felicità consiste nel-
1' esercizio eccellente delle migliori facoltà umane e, aggiungono i filosofi cri
stiani, rispetto al miglior oggetto. In tale concezione la virtù entra di diritto. La
frattura awiene nel secolo dell'illuminismo, il secolo che, secondo gli studi di
Corrado Rosso, vede la più abbondante produzione letteraria filosofica e uto
pica sulla felicità. Ora per felicità si viene a intendere il piacere che deriva
all'uomo dalla soddisfazione dei suoi bisogni, desideri, interessi.
Kant percepisce subito la difficoltà che pone alla morale simile concetto di
felicità e ne percepisce anche il carattere utopico. Nel mondo empirico essa
non è realizzabile. « La natura nel suo senso cosmico non ha garantito all'uomo
la possibilità di realizzare ciò che egli desidera realizzare e ciò che egli ha da
realizzare in virtù della stessa forza della natura».37
D'altra parte, e proprio soprattutto ad opera di Kant, il quale porta alle
estreme conseguenze una concezione della morale germinata nel nominalismo
e sviluppata nella seconda Scolastica e nel razionalismo tedesco,38 si modifica
profondamente la concezione della vita morale: in essa si tratta di conformare
le decisioni del libero arbitrio ai precetti d'una legge notificati al soggetto
agente dal giudizio di coscienza. Tra le varie conseguenze di questa nuova con
cezione vi è appunto la perdita d'interesse da parte dei filosofi e teologi morali
per il tema del fine ultimo, della felicità e dell'habitus virtuoso, perdita che si
registra ancora nei più recenti manuali di morale cristiana.39
Una riconsiderazione del rapporto tra virtù e felicità deve tener conto di
questa vicenda storica; altrimenti si corre il rischio di riproporre una morale di
" Nathan ROTENSTREICH, PractiGe and Realization. Studies in Kant's Mora! Philosophy, The
Hague - Boston - London 1979, 47. Tutto il II capitolo (pp. 3 1-53) studia le difficoltà che pone a
Kant il nuovo concetto di felicità e la soluzione mediante il concetto di « rendersi degni di essere
felici» ed il postulato utopico di un mondo «ove ogni corso di azione otterrà la sua consumazione
in totale armonia» (50).
'8 Cf. gli articoli di Servais PINCKAERS, La théologie morale au déclin du Moyen-Age: le no
minalisme, in Nova et Vetera 52 ( 1977) 209-22 1 ; La théologie morale à l'époque moderne, ivi 269-
287: i due articoli sono ristampati in Io., Les sources de la morale chrétienne. Sa méthode, son con
tenu, son histoire, Fribourg/Suisse - Paris 1985, 244-282; Susanna DEL BocA, Kant e i moralisti te
deschi: Wolff, Baumgarten, Crusius, Napoli 1937; Joseph SCHMUCKER, Die Urspriinge der Ethik
Kants in seinen vorkritischen Schri/ten und Re/lexionen, Meisenheim am Glan 196 1 ; André de
MURALT, Kant, le dernier occamien. Une nouvelle définition de la philosophie moderne, in Revue de
Métaphysique et de Morale ( 1975) 32-53.
39 Cf. Handbuch der christlichen Ethzk, Freiburg - Giitersloh 1978-1982; Bernhard HARING,
Liberi e fedeli in Cristo. Teologia morale per preti e laici, Roma 1979- 198 1 .
22 Capitolo I
40 Alludo all'opera di R LARRANETA OLLETA, Una mora! de /elicidad, Salamanca 1979; cf. la
mia recensione in Salesianum 42 ( 1980) 946. Del resto l'Autore ignora del tutto la recente lettera
tura sul tema della felicità.
41 Michael G. GREEN nella sua recensione al libro citato di Telfer in Ethics 93 ( 1983)
395-397 osserva: «The result is not dispassionate inquiry, but scholastic tedium. Much of this te
dium may be attributed to a grand failure of method. The author, practising some version of lin
guistic philosophy, pretends to a strict distinction between conceptual and empirica! theses,
though there are few subjects in philosophy so ili suited as hers to bear the burden of this distinc
tion. This posture requires her to ask and answer a series of uninteresting questions about neces
sary and sufficient relationships». E conclude: «The deeper, and more exciting, questions about
Felicità e virtù nella filosofia pratica 23
human happiness are never raised. The author is unruffied by such matters because they would in
terfere with her approach. Indeed, it is a cr�dit to the depth of Telfer's commitment to her ap
proach that, in addressing a topic which cries out for both imagination and wisdom, she shows no
embarrassment at having written a book without a trace of either».
42 Ancora a proposito del libro di Telfer osserva Julia ANNAS nella sua recensione in Mind
9 1 ( 1982) 287s: «To be fair, Telfer tries to make Kantian sense of the conflicts between an agent
centred morality based on one's own happiness or eudaimonia, and the claims of others, which
she takes to demand an impartial morality. But the results are puzzling and unsatisfactory, and sug
gest very strongly that if happiness and eudaimonia are to be studied properly in mora! philo
sophy, they cannot just be pushed into line with kantian prods like duty and obligation. We must
not only raise but face squarely the problems involved in theories that make happiness and eudai
monia centra! mora! concepts; and we must ask whether these theories cast doubt on kantian as
sumption that the notions of duty and obligation are the fondamenta! notions in morality».
43 Cf. N. FrsCHER, Tugend und Gliickseligkeit. Zu ihrem Verhaltnis bei Aristate/es und Kant,
in Kant-Studien 74 ( 1983) 1-2 1.
'4 Ivi 16. 19.
24 Capitolo I
45 Ivi 2 1 .
Felicità e virtù nella filosofia pratica 25
(1 5) 1) Per quanto diverse siano le teorie morali che sono state espresse
nella filosofia e nella teologia moderna e contemporanea, è identico in molte
di esse lo schema secondo cui viene concepita la vita morale: si tratta sempre
di un'azione che la persona umana decide con libertà e responsabilità e che
dev'essere conforme ai dettami d'una legge (divina o statale, naturale o conven
zionale) universale o generale. Questo schema mette in rapporto tre concetti
fondamentali, primordiali: la libertà concepita come potere di decidere un'a
zione a partire da una totale indeterminazione; la legge o la norma che pres
crive o vieta un tipo di azione; l'obbligazione o dovere della libertà di confor
marsi alla norma o di decidere in ragione della norma.47
46 Non è questa la sede per mostrare la fondatezza di queste affermazioni; con esse prolungo
una linea di pensiero che mi pare abbia i suoi principi nel concetto tomista di teologia quale pro
pongo nel mio studio Lex et virtus. Studi sull'evoluzione della dottrina morale di san Tommaso d'A
quino, Roma 1983, 89- 141.
4 7 Cf. gli articoli di S. PINCKAERS citati sopra alla n. 38; inoltre Io., La nature de la moralité:
26 Capitolo I
morale casuistique et morale thomiste, in Saint Thomas d'Aquin, Somme théologique, Les actes hu
mains, Tome deuxième, Paris - Tournai - Rome 1966, 2 14-276. Cf. anche la critica alla moderna
etica delle regole da parte di Alasdair MAclNTYRE, After Virtue, Notre Dame/IN 198 1 .
48 È l a posizione d i Bruno ScHOLLER, Der menschliche Mensch. Au/satze zur Metaethik und
zione originaria del soggetto umano nel mondo e dal rapporto che tale sog
getto intende stabilire col mondo.49 Il soggetto umano infatti è originaria
mente collocato in un mondo costituito da realtà (Dio, persone, cose, eventi,
storie, istituzioni, ecc.) nelle quali egli riconosce dei beni (che chiameremo
beni sostanziali) , di diverso valore, con i quali egli può entrare in rapporto me
diante sue attuazioni (che chiameremo beni operabili) . D'altra parte il soggetto
stesso non è indifferente di fronte al mondo, ma del mondo e dei possibili rap
porti da stabilire con esso egli si fa una concezione ed una valutazione in fun
zione sia d'inclinazioni, di bisogni, di appetiti sia di ideali, di piani, di pro
getti. Nell'azione (bene operabile: bene perché perfeziona il soggetto, opera
bile perché la specificazione e l'esercizio dell'azione sono opera del soggetto au
tore) il soggetto mira a stabilire una corrispondenza tra lui e il mondo, uno
stato di cose, modificando sia se stesso sia il mondo secondo un certo criterio.
Fa parte della situazione pratica originaria, com'è testimoniata dall'esperienza
morale, il fatto che i criteri secondo cui i soggetti agiscono nel mondo, benché
possano essere molti e diversi, non siano tuttavia equivalenti, · ma su di essi si
pronuncino giudizi di approvazione o disapprovazione, di doverosità o d'inde
gnità, di rettitudine o di scorrettezza (giudizi morali).
( 1 8) 2) Solo in parte questa è la situazione presupposta da altre teorie mo
rali variamente denominate: utilitariste, consequenzialiste, proporzionaliste, te
leologiche. Secondo esse supremo- e unico criterio di retta azione, e quindi
delle eventuali norme (utilitarismo della norma), è la produzione di una situa
zione che dia al soggetto agente e ai soggetti coinvolti o interessati in quell'a
zione il massimo benessere possibile o massimizzi i valori. In queste teorie la fe
licità, intesa in senso edonico, diventa principio supremo di rettitudine e di
norma.
Dal punto di vista che qui interessa, la critica fondamentale che si deve
fare a queste teorie è la considerazione già fatta da Aristotele e da Kant, e cioè
che il concetto di felicità è talmente indeterminato da non offrire alcun criterio
di retta condotta; di fatto l'utilitarismo non riesce a far posto al concetto di di
ritto incondizionato della persona, e pertanto nemmeno al concetto di bene do
veroso. D'altra parte è imprescindibile dal concetto di felicità una qualche valu
tazione morale: di fatto si può dire che una certa persona sembra felice, ma
che in realtà non lo è veramente. Abbia o non abbia senso la distinzione tra fe
licità apparente o falsa e felicità reale o vera, il fatto è che in qualche modo la
felicità stessa è suscettibile di valutazione.
O dovere che prescinde dalla felicità, o felicità che prescinde dal dovere: in
entrambi i casi si ha a che fare con un concetto di filosofia morale che non
rende conto della complessità della condotta umana.
49 Qui recepisco e sviluppo la tesi sostenuta da H.H. FREYTAG, Gluck und Hochster Wert.
\Yliderspruch und Ausgleich, Sankt Augustin 1982, 10-13.
28 Capitolo I
Le attuazioni esistenziali a loro volta hanno una loro complessità che pro
viene dal modo discorsivo con cui ragione pratica e volontà operano nella pro
duzione di libere scelte. Le scelte infatti non costituiscono una successione cao
tica di atti non riferiti l'uno all'altro, ma nella loro varietà individuale dipen
dono da intenzioni più generali, soggiacenti, più o meno coordinate a formare
un piano di vita o uno stile di vita. Per esprimere questa relativa continuità
soggiacente alla diversità delle scelte particolari usiamo i termini condotta o
vita morale.
La stessa continuità è riscontrabile nelle attuazioni esperienziali, che nella
loro molteplicità e diversità soddisfano a inclinazioni generali e costanti dei sog
getti umani. Per esprimere questa continuità usiamo il termine vita in senso
ampio (in senso stretto il termine vita designa la condotta) .
(21 ) Orbene, la filosofia morale, se diventa comprensiva e, più che concen
trarsi esclusivamente sulle singole azioni, si applica a studiarle in quanto costi
tuiscono la condotta umana, non può a meno di riconoscere che la condotta ri
cava la sua variegata unità e il suo senso da uno scopo generale e ultimo, che con
venientemente designamo con il termine «felicità».
La condotta infatti non comporta soltanto né principalmente che il sog
getto soddisfi razionalmente i desideri (inclinazioni, interessi, bisogni, ten
denze, appetiti) che si trova ad avere o per natura o per apprendimento; que
sta razionalità funzionale non costituisce ancora l'azione vera e propria. Azione
si ha quando l'inclinazione che sta all'origine del comportamento è prodotta
dal soggetto stesso; egli la produce in se stesso come consenso o interessa
mento a ciò che egli stesso giudica che sia un bene (designerò come «bene in
telligibile» il bene giudicato e voluto come tale) .50 L'azione umana è costituita
tale non perché mira al soddisfacimento razionale dei desideri che l'uomo si
trova ad avere in vista d'una felicità edonica, ma perché mira, grazie ad un vo
lere prodotto dal soggetto, ad un bene che è giudicato e compreso come tale
dal soggetto stesso.
Decisivo è dunque nella costituzione dell'azione umana il bene intelligibile.
La ragione per cui l'uomo, nell'azione, si rapporta alle realtà del mondo, è che
egli giudica e vuole sia le realtà sia le azioni a titolo di bene, o bene in sé (fine)
o bene in quanto media il fine (mezzo). «Bene», sostanziale od operabile, de
signa una realtà che per la sua attualità, la ricchezza di essere che dispiega nel
l'esistere secondo una propria natura, è in grado di attuare una qualche poten
zialità del soggetto. Ciò che fa del rapporto tra soggetto e mondo un'azione è
il fatto che il soggetto ne è principio, e ciò grazie alla capacità che egli ha, me
diante l'intelligenza, di pronunciare sulle realtà e sulle azioni un giudizio di
bontà o di valore (giudizio pratico) . In funzione del bene che il giudizio per-
'" Criticando la riduzione dell'etica ai desideri che la natura umana si trova ad avere, John
FINNIS, Fundamentals of Ethics, Oxford 1983, ripropone il concetto aristotelico e tomista di bene
intelligibile come oggetto della volontà.
30 Capitolo I
(23) 5 ) L a teoria etica che prende le mosse dalla situazione pratica origina
ria è comprensiva, e non riduttiva, non solo nel senso che riconosce la comples
sità dell'azione e la sua finalizzazione alla felicità, ma anche nel senso che, pro
prio in connessione con la felicità, può render conto del dovere morale e della di
stinzione tra buona e cattiva condotta, tra azioni moralmente giuste e sbagliate,
e del criterio secondo cui nell� nostra esperienza morale operiamo tale distin
zione.
Se infatti la distinzione tra bene e male morale riguarda la condotta in
quanto essa ha il suo principio in un volere razionale, se il volere si specifica in
base al suo scopo e se scopo naturale della volontà è la felicità, vuol dire che
tale distinzione riguarda innanzitutto, nella volontà, lo scopo stesso cui la vo
lontà intende, nel senso ch'essa può intendere ad una felicità giusta, degna, do
verosa, oppure ad una felicità non giusta, indegna, sconveniente; vi può esser
cioè una felicità vera ed una felicità falsa.
Sicché, come il problema pratico per l'uomo non è solo cercare la felicità,
ma cercare la felicità degna e doverosa, così la filosofia pratica della condotta
umana, che prende avvio dalla situazione pratica originaria e dall'esperienza
morale, deve spiegare sia in che senso la felicità è lo scopo della condotta
umana, sia in che senso e con quale criterio si possa parlare di felicit'à vera,
degna e doverosa.
In questa filosofia morale il problema del « che cosa devo fare» non è di
stinto dal problema del « che cosa posso fare, come posso vivere», come, se
condo l'ispirazione kantiana, propone W. Kamlah per ricuperare all'etica il pro
blema della felicità.51 Le due questioni vanno invece congiunte: che cosa
posso fare, secondo le mie reali possibilità individuali, per realizzare la condi
zione ottimale, degna, doverosa per l'uomo? Con buona pace di Kant, la pru
denza, in questa filosofia, cessa di essere semplicemente pragmatica, comé arte
di soddisfare razionalmente i bisogni per massimizzare la felicità edonica; essa
ritorna ad essere quello che era per Aristotele e per Tommaso d'Aquino, la
virtù cardine e principale del governo della vita umana, virtù che regola il
modo di realizzare nei limiti dell'individuo la condizione ottimale e degna o do
verosa per l'uomo; non una qualsiasi felicità, ma la felicità vera.
Ciò che ho tracciato è semplicemente un programma, uno schizzo di filoso
fia morale come filosofia pratica della condotta umana o del governo della vita
umana; ho proposto delle tesi ma senza sostenerle con argomentazioni; ambi
guità e problemi li ho sorvolati. In questo capitolo mi soffermo a chiarire la no
zione di felicità, il senso della distinzione tra vera e falsa felicità, il ruolo della
virtù nella vera felicità. Nei capitoli seguenti mi soffermerò sulla componente
esistenziale della felicità, la condotta o vita morale, per spiegare più diffusa
mente il criterio in base al quale si distingue tra buona e cattiva condotta, in
52 I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, sez. II, a cura di Vittorio Mathieu, Mi
lano 1982, l lOs.
53 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, I, 4, a cura di Claudio Mazzarelli, Milano 1979, 87s.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 33
54 «Happiness is the most suitable [word] to begin with, as it can cover anything from get
ting what I want at the moment to entering into eterna! life. It not imply approva! or disapprova!,
nor require any mora! or philosophical point of view. It can span the whole range of the greater
and the less, the intense and the calm, the earthly and the heavenly. So we can use it with mini
mum of confusion to ask questions about the meaning of !ife» (OPPENHEIMER, The Hope 2).
55 Etica Nicomachea, I, 7= Mazzarelli 102.
56 Ivi I, 8
= Mazzarelli 102.
57 Critica della ragion pratica, p. I, I. II, c. II, 5
= Mathieu 340.
58 KRAUT, Two Conceptions 187.
61
Ivi 86.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 35
•2 Ivi 94.
63 Ivi 95.
36 Capitolo I
costituzione della felicità è perciò determinante l'oggetto buono con cui il sog
getto entra in rapporto.
(28) b) Non è però ancora sufficiente che il soggetto sia in rapporto con un
oggetto buono perché tale rapporto realizzi la felicità. Infatti attribuiamo la fe
licità solo a soggetti che non siano semplicemente senzienti, ma anche co
scienti, intelligenti, capaci di scelta. Perché ci sia felicità è necessario che la
bontà dell'oggetto sia scoperta, riconosciuta e compresa come tale: è il tipo di
conoscenza che designamo come intelligenza; ed è necessario che la bontà del-
1' oggetto, svelata dall'intelligenza, sia apprezzata, voluta, cercata, amata e go
duta come tale: questo tipo di interessamento designamo come volontà.
(29) e) La categoria fondamentale della vita felice in quanto rapporto tra
soggetto e mondo è quella dell'eutychia : la disponibilità del mondo (2• catego
ria) e l' eupraxia del soggetto (3" categoria) suppongono tutte che qualcosa sia
dato o accada o si dia il caso che ci sia: « Il momento eutychico è congiunto a
ogni disponibilità ed opera nella riuscita di qualunque eupraxia. D'altra parte
si può - eupraticamente provocare l'indisponibile, esponendosi consape
volmente ad esso. Per cui nella prassi le categorie cooperano costantemente e
si modificano vicendevolmente».64
Se si tiene presente che tra le realtà del mondo con cui il soggetto entra in
relazione il posto principale lo occupano le persone e ancor più Dio, inteso
come persona che è principio trascendente creatore d'ogni altra realtà, emerge
un aspetto necessario della struttura della felicità che di solito è trascurato
nelle teorie della felicità. Generalmente la felicità viene considerata, seguendo
l'impostazione data da Platone e da Aristotele, solo dal punto di vista dell'atti
vità del soggetto. Essa invece è anche funzione dell'attività e dell'atteggiamento
delle altre persone e di Dio stesso nei riguardi del soggetto; è la categoria che
designerò come eudokia. La sua possibilità balenò appena nella mente di Ari
stotele, senza ch'egli la prendesse seriamente in considerazione: « Se dunque
c'è qualche altra cosa che sia dono degli dèi agli uomini, è ragionevole che
anche la felicità sia un dono divino, tanto più che essa è il più grande dei beni
umani».65
La felicità è costituita anche dall'atto benevolo delle persone e di Dio verso
il soggetto e dalla sua capacità di accogliere il loro atto. Atto altrui che il sog
getto non può produrre in nessun modo, ma che dipende dalla libera atten
zione e benevolenza altrui verso il soggetto, e che è accolto dal soggetto come
dono, come favore, come grazia. Non che il soggetto non vi possa contribuire
in nulla con la sua volontà; ma qui si tratta di liberi rapporti personali che ob
bediscono alla logica della benevolenza e dell'amore.
Di più: nella misura in cui ogni realtà dipende dal libero principio crea-
64 Ivi 88s .
. 65 Etica Nicomachea, I, 9 = Mazzarelli 103.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 37
ad interessarsi ai beni nel modo doveroso e degno per l'uomo. È qui, come ve
dremo, che interviene la virtù, intesa come elevazione delle capacità umane
all'altezza delle azioni richieste dalla felicità vera e doverosa.
(32) La nozione inclusiva di felicità che ho delineato è essenziale alla filosofia
morale concepita come filosofia pratica del governo della vita umana. Tale no
zione infatti esprime il senso della condotta umana: se agire è per il soggetto en
trare in rapporto con le realtà del mondo, la nozione inclusiva di felicità es
prime che il senso dell'azione sta nello stabilire un rapporto ottimale tra il sog
getto ed il mondo, rapporto nel quale in qualche modo il soggetto aggiusta se
stesso al mondo e in qualche modo aggiusta il mondo a se stesso, secondo una
misura di doverosa convenienza. Dal punto di vista pratico l'uomo è un ricerca
tore di felicità. Il significato di questa affermazione ha tuttavia bisogno di es
sere accuratamente stabilito, dal momento che esistono delle difficoltà per af
fermare che la felicità è il fine ultimo, naturalmente e necessariamente perse
guito da ogni uomo nella condotta della propria vita.
68 Compendio i risultati delle analisi condotte da N.J.H. DENT, The Mora! Psychology o/ the
Virtues, Cambridge 1984, 106-120, il quale si ispira ai concetti aristotelici di boulesis e prohairesis.
69 Ivi 107.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 39
Questa capacità di avere delle ragioni per agire, grazie alla quale l'uomo è
costituito agente vero e proprio, dipende: 1 ) da una concezione « di come uno
farebbe bene a vivere la propria vita»; 70 2) da un interesse affinché la con
dotta della vita realizzi tale concezione.
N.J.H. Dent mostra che simile concezione e simile interesse si danno effet
tivamente nell'uomo e che tale interesse costituisce un principio di azione di
verso dal desiderio passionale. Qui voglio prolungare le sue analisi in un'altra
direzione.
Sono veramente principio della mia condotta quando: 1 ) sono io che giu
dico circa la convenienza di un'azione a realizzare la vita buona; 2) sono io che
produco in me un interesse o desiderio per l'azione così giudicata, per l'azione
proprio perché è compresa e intesa come idonea a contribuire alla vita buona.
Tale interesse o desiderio lo denominiamo volontà per distinguerlo dal deside
rio passionale.
(34) Ciò che è significativo allo scopo della presente indagine è che i giu
dizi sulle azioni deliberate e scelte hanno un termine di riferimento comune, co
stante, universale, l'idea appunto d'una vita buona, e che il soggetto produce
in se stesso un interesse o desiderio o volontà di tali azioni proprio in ragione
di questo loro riferimento alla vita buona; che è quanto dire che all'origine
delle deliberazioni e delle scelte sta una motivazione originaria, pure essa co
mune, costante, universale, e cioè l'interesse (volontà) per una vita buona.
Quest'affermazione non sminuisce per nulla la complessa psicologia dei de
sideri umani, addotta da Tatarkiewicz per mostrare l'inconsistenza dell'edoni
smo psicologico e dell'eudemonismo psicologico:71 resta vero che « pratica
mente ognuno desidera non solo avere qualche esperienza (come sarebbe il
caso se l'edonismo fosse corretto) , ma anche possedere qualcosa o essere qual
cuno »;72 è vero che gli uomini desiderano conoscere, essere attivi, vivere, e
altro ancora. Ma non si può concludere come Tatarkiewicz: « Gli uomini perse
guono differenti obiettivi, mentre l'universale ricerca della felicità è solo una
teoria costruita al fine di includere vari proseguimenti in una formula. Non è
vero che gli uomini fanno della felicità il loro fine e scelgono i mezzi per otte
nerla. Ciò che può sembrare mezzo per un fine è in realtà l'unico fine».73 Un
oggetto comune, costante, universale della conoscenza pratica e della volontà è
necessario per rendere possibile la deliberazione e la scelta non solo all'interno
dei mezzi per il fine, ma anche tra fini.
Senza una motivazione 'originaria per la vita buona non avrebbe senso par
lare del governo della propria vita; mancherebbe una continuità ed un'identità
e l'esistenza sarebbe spezzata in segmenti sconnessi; ogni azione ed ogni corso
d'azione sarebbe isolato e l'uomo non potrebbe dare un senso alla propria
vita.
Senza una motivazione originaria per la vita buona non ci potrebbe nem
meno essere l'azione, in quanto verrebbe a mancare il principio dell'esercizio o
dell'efficienza. Infatti una totale indifferenza della volontà verso ogni oggetto
non potrebbe spiegare come mai il soggetto può decidersi all'azione; invece
un'originaria attrattiva o interesse per la vita buona può spiegare perché il sog
getto si decida ad agire: tale interesse infatti costituisce il presupposto perché
il soggetto possa dare a se stesso una ragione per agire. Non può esistere,
come vorrebbe invece B. Schiiller,74 una decisione pura, che non sia né puro
arbitrio né preferenza. B. Schiiller ritiene che una decisione così radicale come
quella per la moralità non sia una preferenza, basata cioè sulla ragione che una
vita nella moralità soddisfa meglio il desiderio della felicità; in questo caso la fe
licità costituirebbe una ragione per essere morali. Invece la decisione per la mo
ralità sarebbe una decisione pura, fonderebbe se stessa, in quanto chi si decide
così, anche se non ha una ragione nella felicità, tuttavia sa per che cosa vuol de
cidersi, e perciò la sua decisione non è arbitraria ma razionale. La domanda
giusta non sarebbe: « Perché devo essere morale?», ma: « Per che cosa voglio
decidermi? ». « La domanda: " Perché essere morali?", avrebbe senso se una de
terminata forma dell'eudemonismo fosse giustificata ».75 Questo modo d'inten
dere la decisione non spinge l'analisi fino al principio che la fa possibile: se in
fatti so per che cosa mi voglio decidere, è perché sulla moralità pronuncio un
giudizio di bontà e di convenienza, la ritengo idonea e necessaria per una vita
buona, giudico che proprio nella moralità con�iste la vita buona.76
(35) 2) Occorre pertanto spingere più a fondo l'analisi che fa N.].H. Dent
del desiderio razionale, dell'interesse per un'azione voluta precisamente perché
è giudicata confacente ad una vita buona. In tale desiderio (volontà) vi è qual
cosa di prodotto o causato dal soggetto e qualcosa di previo, di dato, di natu
rale. Il desiderio razionale o volontà è prodotto quanto alla determinazione con
creta di agire e di agire in questo modo; è previo, dato, originario, naturale
quanto alla motivazione formale, e cioè l'interesse per la vita buona, felice
mente riuscita.
Un desiderio naturale per la vita buona è necessario perché ci sia un princi
pio all'azione e una continuità nella condotta, per cui si possa parlare di una
vita buona. Ma è anche necessario che tale desiderio vada alla vita buona come
tale, sia puramente formale, indeterminato rispetto ad oggetti od azioni con-
74 Cf. Bruno SCHÙLLER, Der menschliche Mensch. Au/siitze zur Metaethik und zur Sprache
der Mora!, Diisseldorf 1982, 82-85. Cf. sopra n. 48.
75 Ivi 85.
76 Con ciò non voglio intendere che una decisione per la moralità come tale si possa dare
nella vita umana; ma questo è un altro problema. Alcuni spunti critici contro la teoria d'un'op
zione fondamentale per la moralità o la ragionevolezza in ]. FINNIS, Fundamentals o/ Ethics,
Oxford 1983, 142- 144.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 41
crete, affinché esso possa costituire il principio d'un processo di libera autode
terminazione, di concentrazione voluta su un'azione concreta. Il desiderio natu
rale della vita buona non è perciò un atto di scelta, ma il principio che fa pos
sibile la scelta; non è un atto compiuto, ma il principio di atti compiuti; non è
un atto empiricamente verificabile, ma la loro condizione di possibilità. La vita
buona, felice, riuscita, non è una delle tante cose volute dall'uomo, ma la ra
gione per volere tutto ciò che vuole.
(36) Conviene ora precisare ulteriormente l'oggetto formale di questa moti
vazione originaria o volontà naturale, perché anche qui la complessità concet
tuale e la polisemia del termine felicità introducono delle difficoltà.
Vi può benissimo essere, e sovente di fatto vi è nel soggetto umano, un de
siderio per il piacere sensoriale o un desiderio per soddisfare una qualche pas
sione; come tali essi non sono desideri razionali. Ciò che distingue il desiderio
razionale è che esso va a un oggetto per la precisa ragione che esso è giudicato
un bene per il soggetto: un bene, cioè qualcosa che attualizza le potenzialità
del soggetto e pertanto contribuisce alla vita buona. Simile desiderio razionale
può anche posarsi sul piacere sensoriale, ma per la precisa ragione che proprio
il piacere sensoriale è giudicato un bene per il soggetto. Fulcro della motiva
zione originaria è pertanto l'interesse per tutto ciò che può essere giudicato un
bene per il soggetto e, in quanto bene, atto a render buona la vita.
Ma la nozione di bene non è sufficiente, da sola, ad esprimere il movente
originario dell'azione volontaria. « Bene» infatti si dice sia di ciò che è bene in
ragione di se stesso (fine, bene in sé) sia di ciò che è bene in ragione di qual
cos'altro (mezzo, bene relativo al fine). È chiaro che il movente principale è
solo il bene che è fine. D'altra parte la nozione di bene è nozione aperta ad
un'intensificazione massimale, nel senso che ammette gradi di perfezione; sic
ché la volontà inclinata al bene è inclinata anche al massimo di perfezione, ad
un fine ultimo che è bene supremo. A questo punto ritroviamo la nozione in
clusiva di felicità: se bene, nel senso di bene sostanziale, sono le realtà del
mondo in quanto arrecano perfezione al soggetto, e nel senso di bene opera
bile sono le azioni con cui il soggetto entra in rapporto con le realtà del
mondo, e se pertanto bene è quella condizione del soggetto nel mondo che ar
reca perfezione al soggetto, allora bene supremo è la condizione ottimale del
soggetto nel mondo, nella quale il soggetto, con le migliori azioni entra in rap
porto con le migliori realtà.
Perciò l'interesse naturale per la vita buona è un interesse complesso e arti
colato: esso va ai beni relativi al fine in ragione di quei beni in sé che sono
fini; esso va, come al suo oggetto generale, alle realtà del mondo e alle azioni
nelle quali il soggetto entra in rapporto con esse (nelle azioni consiste propria
mente la vita buona) ; esso infine va, come al suo oggetto principale, alla condi
zione ottimale del soggetto nel mondo, cioè alla felicità in senso inclusivo. La
felicità così intesa, cioè in senso inclusivo e formale, è un fine naturalmente e ne
cessariamente voluto da ogni uomo, nella misura in cui egli esercita nell'azione
l'intelligenza e la volontà.
42 Capitolo I
77 Riferendosi alla happiness (felicità edonica) , ha ragione Telfer: «In this essay I have ar
gued that happiness in our normai modem sense of the word. is an attitude to our lives which can
be pursued but is not necessarily pursued, either as a sole end or as one among severa! ends, or
even necessarily wanted by everyone» (Happiness 135).
Felicità e virtù nella filosofia pratica 43
(40) 2 ) Per determinare che cosa s'intende significare con l'espressione « fe
licità vera», mi pare che il metodo più opportuno sia sottoporre a critica i si
gnificati comunemente intesi:
a) felicità vera è la felicità ideale, perfetta, che realizza le seguenti condi
zioni: non è dovuta a soddisfazione di cattivi desideri; non comporta inganno o
ignoranza; è stabile e non passeggera; comporta l'apprezzamento per le cose
più elevate nella vita, per cui « attribuire vera felicità è implicitamente valutare
una persona, giudicare se il suo stile di vita è degno di imitazione e ammira
zione»;82
b) felicità vera è quella che soddisfa i reali bisogni dell'uomo, le sue inclina
zioni naturali;
e) felicità vera è quella conforme alle leggi di sviluppo dell'essere umano;
d) felicità vera è quella che realizza il fine per cui l'uomo è fatto, per cui è
creato, il fine assegnato all'uomo dal Creatore.
I significati b) e) d) hanno un limite comune: essi non fanno riferimento a
un criterio decisivo per distinguere tra vera e falsa felicità. Infatti, se si consi
dera l'uomo dal punto di vista pratico della condotta, il soggetto non ha altro
modo di stabilire se un bisogno è reale o no, se un'inclinazione è naturale o
no, e perciò se sono o non sono da soddisfare nella condotta, tranne il ricorso
al giudizio della ragion pratica. Ugualmente è dal giudizio della ragion pratica
che si può venir a conoscere quali siano le leggi di sviluppo dell'essere umano
o quale sia il fine per cui la natura umana è fatta. La conoscenza del criterio
per distinguere vera e falsa felicità non parte dalla natura umana per conclu
dere ad una retta direttiva di condotta, ma parte dall'autonomo giudizio della
ragion pratica sui beni da perseguire per concludere alle potenzialità della na
tura umana che appunto soltanto dal punto di vista della ragion pratica si sve
lano. 83 Pertanto è la ragion pratica il criterio decisivo per la distinzione tra
vera e falsa felicità, e a partire da questo criterio si possono ora spiegare gli
altri significati intesi con tale distinzione.
Se l'aggettivo vero significa una conformità o una corrispondenza della
realtà che esso qualifica con un qualche criterio o metro di giudizio, allora si
può tracciare il seguente quadro dei significati dell'espressione « vera felicità»:
a) Vera felicità è quella conforme al giudizio della ragion pratica che giu
dica quali beni l'uomo debba incondizionatamente perseguire o realizzare. Fe
licità vera è allora quella che dev'esser cercata, doverosa, degna, legittima, giu
sta.
b) La felicità vera nel senso a) è più felicità che non la felicità indegna. Il
concetto di felicità è di quelli che ammettono una graduazione di realizzazione
85 «Le bonheur n'est pas un lot suspendu au sommet de quelques miìt de cocagne et qu'il
48 Capitolo I
norma sono appunto i giudizi della ragion pratica circa il bene e circa il male.
Per avere un senso praticabile, l'espressione « sii ciò che tu sei» non può rife
rirsi a ciò che tu sei né secondo la natura empiricamente intesa, troppo ambi
gua, né secondo la natura metafisicamente intesa, troppo generica, ma secondo
la natura quale si esprime nei dettami della ragion pratica.86
Proprio perché è la ragion pratica che svela la natura umana e i suoi reali
desideri, la felicità doverosa può esser detta vera anche nel senso che non in
ganna, non smentisce né delude le profonde aspirazioni dell'uomo.
(45) 4) Ammettendo che abbia un senso la distinzione tra vera e falsa feli
cità, la posizione che qui sostengo è da qualificare, con Kraut, una concezione
oggettivista della felicità. Oggettivista è «la concezione secondo cui un soggetto
non dev'esser considerato felice se egli non s'approssima ragionevolmente a vi
vere la miglior vita di cui è capace [ . . . ] . Non spetta a voi determinare dove stia
la vostra felicità; ciò è stabilito dalla vostra natura, ed il vostro compito è sco
prirlo ». 87 L'oggettivista « propone che noi abbandoniamo i nostri correnti stan
dard soggettivi di felicità, e che giudichiamo invece ogni persona con un crite
rio più severo ed oggettivo ».88 Per cui, anche se un individuo soddisfa i suoi
più profondi desideri, l'oggettivista sostiene che la sua vita potrebbe non es
sere conveniente alla sua natura.89 Per essere felice, una vita deve ragionevol
mente avvicinarsi all'ideale, e le concezioni oggettiviste possono differire nel
modo più o meno inclusivo di concepire tale ideale.
La nozione di felicità vera comporta certamente il riferimento ad un ideale
di felicità, di vita buona, riuscita, degna, doverosa. Tuttavia esso non è argui
bile a partire dalla natura, bensì è posto dalla ragion pratica, e solo partendo
da qui si può arguire per che cosa sia fatta la natura dell'uomo. Se standard og
gettivi di felicità vi sono, essi non sono da desumere dalla natura, né empirica
mente né metafisicamente intesa, bensì dai dettami della ragion pratica. Per
questa via si può rispondere alle difficoltà mosse da Kraut alla concezione
d'una vita ideale.90
a) Secondo lui non sarebbe possibile determinare che cosa debba essere in
cluso e che cosa escluso dalla vita ideale. Ritengo che questo sia possibile se si
esplicitano i presupposti impliciti nei ragionamenti pratici. « Quando la que-
faut décrocher au prix d'efforts acrobatiques. Signe de la saine croissance de l'etre conformément
à sa loi, il convient d'interpréter ce signe et d'en traduire !es symptòmes par un diagnostic sur»
(QUONIAM, o.e. 45) ; «Le bonheur est un signe, signe de la saine croissance de notre fare et de l'é
closion normale de ses puissances» (ivi 53).
86 Cf. le pertinenti critiche alla concezione scolastica delle leggi della natura umana da parte
di Germain GRISEZ, The Way o/ the Lord Jesus, I: Christian Mora! Principles, Chicago 1983, 103-
105.
87 KRAur, Two Conceptions 180s.
88 Ivi 186.
89 Ivi 187.
'0 Ivi 189- 192.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 49
stione è perché fare qualcosa, la deliberazione presto arriva a un bene che non
è semplicemente un mezzo per un fine, ma esso stesso un aspetto del compi
mento personale individuale e comunitario ».91 L'insieme dei fini, compresi
nella loro bontà, che forniscono le ragioni ultime per agire costituiscono l'i
deale della vita felice.
b) Kraut esige che l'oggettivista spieghi perché la vita ideale è realmente
ideale. Rispondo: lo è perché, a titolo di fine ultimo posto dalla ragion pratica
alla condotta, costituisce la ragione ultima per agire.
e) Kraut chiede all'oggettivista di dimostrare che chi si orienta alla vita
ideale trova maggior gratificazione, e chi se ne allontana deve pervenire a rim
piangere la sua decisione. Orbene, se la gratificazione è tanto maggiore quanto
maggiore è la riuscita, la vita ideale o felicità vera costituisce l' ultimum pOten
tiae, il massimo delle possibilità operative dell'uomo, mentre l'allontanarsene
costituisce un fallimento, un vero peccato.
d) Kraut chiede che si mostri che cosa muove le persone a preferire la vita
ideale; con Aristotele si può rispondere: è necessario fermarsi nella ricerca dei
motivi; la vita ideale è per se stessa motivo primo per agire e principio degli
altri motivi, in ragione del bene che essa è per l'uomo.
e) Kraut è anche disposto ad ammettere che in principio una teoria della
vita ideale è possibile. La sua difficoltà decisiva è che «presentemente non ab
biamo un metodo difendibile per scoprire la distanza di ciascuna persona dalla
vita ideale»,92 per cui è necessario ricorrere a criteri soggettivi. Questa diffi
coltà nasce dal considerare la vita ideale come perfettamente definita e termi
nata, quando invece, come vedremo, è piuttosto una direzione che orienta la
condotta ma alla quale non è possibile assegnare un termine a cui ci si avvi
cini; dà alla crescita della persona il senso, non il traguardo.
Inoltre le differenze tra gli individui nel condurre la vita orientandosi se
condo l'ideale di vita buona non sono differenze di grado su una stessa scala,
bensl differenze nel modo di realizzare la vita buona, in funzione di capacità,
circostanze, situazioni, opportunità del tutto singolari ed irrepetibili. Lo stesso
Kraut ammette questo oggettivismo modificato: d'oggettivismo sarebbe una
dottrina più umana qualora valutasse la vita di ogni persona con uno standard
che riflettesse le sue 'inalterabili capacità e circostanze».93
È questo il senso dell'ideale di felicità vera che andrò delineando. Prima
però occorre spiegare in che modo la ragion pratica costituisce il criterio per la
determinazione della vera felicità.
94 Cf. G. GRISEZ, Christian Mora! Principles, Chicago 1983, 103- 105 con bibliografia. Fonte
principale per questo tipo di teoria è il De legibus ac de Deo legislatore di Francisco Suarez. Per
un'ampia e illuminante critica alla teoria scolastica della legge naturale e per una riscoperta del
concetto aristotelico e tomista di ragion pratica cf. Martin RHONHEI!v!ER, Natur als Grundlage der
Mora!, Innsbruck - Wien 1987, 24-42.
95 Cf. la critica di N. ROTENSTREICH, Practice and Realization. Studies in Kant's Mora! Philo
sophy, The Hague 1979.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 51
motivazione alla condotta, occorre che la ragione sia resa pratica dal fatto di es
sere originariamente in grado di apprendere e di valutare il valore di bontà sia
dei beni sostanziali del mondo, sia delle azioni, o beni operabili, con le quali il
soggetto stabilisce rapporti col mondo e che costituiscono la vita buona.
(47) Con ciò però la ragion pratica non è ancora costituita regola per discri
minare tra azioni rette e azioni scorrette moralmente, giacché ogni azione, sia
essa retta o scorretta, in quanto è azione, è motivata dall'apprensione d'un
bene. La ragion pratica diventa regola di buona condotta solo quando consi
dera e valuta i beni per l'uomo non ciascuno singolarmente, ma nel loro in
sieme, in quanto tutti integrano il compimento umano, e li ordina in modo da
formare l'ideale della perfezione umana. Svilupperò più avanti, nel capitolo V,
questa concezione della ragion pratica. Per ora è sufficiente rilevare che la ra
gion pratica discrimina tra vera e falsa felicità proprio perché essa stessa, sulla
base della sua apprensione dei beni umani, concepisce originariamente un
ideale di perfezione umana che dà alla felicità come scopo formale della con
dotta non solo una figura determinata, ma la figura degna e doverosa per
l'uomo.
Alla luce di questo ideale da essa originariamente concepito la ragion pra
tica pronuncia giudizi di bontà umana, degna, vera, doverosa, sui rapporti
che, nella condotta, il soggetto stabilisce col mondo; e dunque su tutto ciò che
contribuisce alla condotta: le inclinazioni e i loro fini, le intenzioni, i piani di
vita, le passioni e gli affetti, le scelte a lungo o a corto raggio, le azioni, le circo
stanze.
(48) Il modo più ovvio e corrente d'intendere quest'attività giudicatrice
della ragion pratica è di rappresentare la ragione subito e immediatamente
come legislatrice e precettrice, e quindi di rappresentarsi la vita morale come
un esercizio di conformazione delle scelte ai precetti o norme della ragion pra
tica. È questo il modo più ovvio e più corrente perché costituisce il primo sta
dio della genesi della coscienza morale negli individui ed è il modo a cui gene
ralmente gli individui restano fissati per il seguito della loro vita. È questo
stesso lo schema fondamentale che soggiace alla maggior parte delle teorie filo
sofiche e teologiche. Ma l'attività primaria della ragion pratica non può consi
stere nel formulare precetti che servano da criterio per il giudizio sulla rettitu
dine delle scelte. Un precetto infatti ha senso ed è accettabile dal soggetto
umano solo se si fonda su un concetto del bene degno e doveroso per l'uomo;
d'altra parte i precetti hanno un limite insuperabile: sono poco pratici, non
sono sufficienti a regolare la condotta umana nella complessità e variabilità
delle situazioni, sia quando essi sono troppo generali, sia quando sono formu
lati in maniera molto dettagliata. L'attività legislatrice e precettrice della ragion
pratica è utile e necessaria, ma non è l'attività primaria.
La ragione è invece originariamente pratica per il fatto che comprende il va
lore di bontà dei beni sostanziali e dei beni operabili. Essa stessa diventa re
gola morale discriminante tra bene e male, tra vera e falsa felicità per il fatto
52 Capitolo I
che da se stessa essa, sulla base della valutazione dei beni, concepisce un or
dine intenzionale dei beni umani in modo da costituire l'ideale della perfezione
umana; stabilisce cioè il modo con cui il soggetto deve volere, intendere, sce
gliere i beni umani operabili, e attraverso essi i beni sostanziali. Concependo
possibili atti di volontà regolati in quel modo, la ragion pratica concepisce l'i
deale di vita morale buona come parte integrante dell'ideale e perfetto rap
porto tra soggetto e mondo, parte integrante della vera felicità o, se si vuole,
componente soggettiva esistenziale della vera felicità.
(49) Tuttavia la concezione originaria, da parte della ragion pratica regola
trice, della vera felicità o ideale di perfezione u.mana e, al suo interno, la conce
zione originaria d'un ordine intenzionale secondo cui devono esser voluti i
beni umani sono, a questo livello, ancor solo schematiche. Più che atti con
creti e circostanziati di volere, la ragion pratica, a questo livello, concepisce
tipi generali di atti, ancora relativamente indeterminati. Invece gli atti concreti
sono assolutamente determinati e particolareggiati. È ancora la ragion pratica
che, ispirata dall'ideale di perfezione umana, cerca, escogita, inventa, costrui
sce saggiamente possibilità di azioni, scelte globali e dettagliate, forme e piani
di vita, azioni particolari che realizzino concretamente l'ideale, nei limiti del
possibile. A questo livello, che è quello dell'applicazione, la ragione è pratica
nel senso che, orientata dall'ideale di perfezione umana e dall'interesse natu
rale della volontà per realizzarlo, essa costruisce una condotta che realizzi nel
modo migliore, praticamente possibile nelle situazioni concrete, l'ideale di vita
moralmente buona e, attraverso essa, l'ideale della vera felicità.
In questo processo di applicazione la ragion pratica valuta le azioni sia in
base alle loro conseguenze, sia in base a delle norme, ma in entrambi i casi il
criterio regolatore è costituito dall'ideale di perfezione umana. Essa valuta le
conseguenze dell'azione, non iri quanto incidono su un bene-non-morale mag
giore o un . male-non-morale minore da prodursi in uno stato di cose, ma in
quanto incidono sull'ordine intenzionale secondo il quale devono esser voluti i
beni ed evitati i mali. La valutazione delle conseguenze non segue un criterio
pre-morale, ma morale. Analogamente procede la ragion pratica nell'uso delle
norme: essa valuta saggiamente la loro applicazione alla luce dell'ideale di per
fezione umana. Di ciò parlerò più ampiamente nel capitolo VI.
Per ora è importante rilevare che la ragion pratica, quando non è impedita
ed ostacolata dall'influsso di qualche passione, ma è lasciata libera & valutare
le azioni secondo i propri criteri, valuta né in funzione di desideri che di fatto
il soggetto si trova ad avere né in funzione d'una libertà concepita come auto
nomia della ragione dalle inclinazioni della natura sensibile, bensì in funzione
d'un ideale di perfezione ch'essa assegna come scopo alla condotta umana; e
ciò, non nel senso ch'essa ordini la vita moralmente buona come mezzo per
conseguire qualche altro scopo, fosse pure la felicità, ma nel senso ch'essa sta
bilisce che lo scopo formale della condotta umana, la felicità, si realizza vera
mente, quanto alla sua componente soggettiva esistenziale, solo nella vita mo-
Felicità e virtù nella filosofia pratica 53
ralmente buona. Sicché la vita moralmente buona è il vero scopo ultimo della
condotta umana, o meglio la componente soggettiva esistenziale del vero scopo
della vita umana, della vera felicità.
(50) Abbiamo visto che la ragion pratica concepisce questo scopo dap
prima in modo ancor solo schematico e relativamente indeterminato; in seguito
procede alla sua determinazione concreta in scelte circostanziate. Perciò distin
guiamo due momenti nella ragion pratica: il momento del principio generatore
e il momento dell'elaborazione d'una figura concreta e particolareggiata di con
dotta. Ciò per cui la ragione si costituisce pratica è il fatto di concepire origina
riamente un ordine di fini umani,. un ideale di vita buona e di felicità vera. La
ragione, in quanto teoretica, può scoprire nell'uomo inclinazioni e fini; ma essa
diventa pratica quando, da se stessa, comprende e giudica che certi fini e beni
sono umanamente degni e doverosi. A questo livello la concezione dei fini
umani è sommamente generica: costituisce un'idea ispiratrice che cerca un
modo concreto e circostanziato di realizzazione.
Così si origina il secondo momento: la ricerca ragionata, deliberata, saggia,
di piani di vita, corsi d'azione, azioni circostanziate e dettagliate che realizzino
il complesso di fini umani, genericamente concepiti, che integrano l'ideale pra
tico di vita buona e veramente felice. È il momento della saggezza pratica,
della phronesis aristotelica, della prudentia tomista.
In entrambi i momenti la ragion pratica determina la figura della vera feli
cità; ma nel primo momento la sua concezione ideale è costituita da un ordine
di fini concepiti in modo generico e quindi valido per ogni soggetto umano;
nel secondo momento l'idea pratica di bene umano o di vera felicità diventa in
dividualizzata e quindi unica e irrepetibile, diversa da un individuo all'altro.
Quest'analisi della ragion pratica permette d'individuare i criteri per la di
stinzione tra vera e falsa felicità. A livello universale, valido per ogni uomo,
tali criteri sono costituiti dalle originarie, intuitive, immediate convinzioni della
ragion pratica che comprende come umanamente buoni, degni e doverosi certi
fini generali della condotta umana. A livello individualizzato, valido solo per il
singolo individuo, tali criteri sono costituiti dai ragionati e deliberati giudizi
prudenziali sull'azione da intraprendere, in quanto costituisce per l'individuo,
hic et nunc, il modo concreto di realizzare la vera felicità, possibile nella situa
zione, idoneo e appropriato ai suoi limiti insuperabili.
La figura di vera felicità che cercherò di delineare corrisponde al livello
universale; se ne capisce ora il perché ed il senso.
5. La vera felicità
(51 ) Impostato in questo modo, il discorso sulla vera felicità diventa assai
complesso. L'Etica Nicomachea di Aristotele e la Secunda Pars della Summa
Theologiae di Tommaso d'Aquino non mirano ad altro che ad analizzare le com-
54 Capitolo I
ponenti di quella complessa grandezza che è la vera felicità per l'uomo. In en
trambi i casi il grandioso affresco è preparato da un breve preliminare ab
bozzo: « È certo infatti che bisogna prima buttar giù un abbozzo e poi, in se
guito, svilupparlo. Si può ritenere che chiunque è in grado di portare avanti e
di delineare nei particolari gli elementi che si trovano ben impostati nell' ab
bozzo, e che il tempo conduce a ritrovarli o comunque è un buon aiuto ».96 Il
mio intento è dunque ora tracciare un abbozzo della vera felicità per l'uomo;
non è questa la sede per procedere a svilupparlo. Dovrò invece soffermarmi a
chiarire alcune difficoltà che pone il fatto che la vera felicità per l'uomo pre
senta una struttura molto complessa.
98 Sulla sapienza come bene umano cf. le belle pagine di Luigi LOMBARDI-VALLAURI, Corso
difilosofia del diritto, Padova 198 1 , 399-43 1 .
Felicità e virtù nella filosofia pratica 57
100
Per questa via si scopre una profonda connessione tra filosofia morale come filosofia
pratica della condotta umana e pensiero utopico, giunto al massimo della fioritura proprio nei se
coli in cui la filosofia morale cessava di occuparsi del problema della felicità e della vita buona.
Cf. Frank E. MANUEL - Fritzie P. MANUEL, Utopian Thought in the Western World, Cambridge/
Massachussets 1979.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 59
dole, servendosene, dando loro un nuovo ulteriore fine, le può far diventare
espressioni d'amore. Quest'amore, saggiamente regolato, è il principio che fa
possibile l'armonia e la pace, frutti ultimi della vera felicità. 101
Nella misura in cui il vero amore è principio di eupraxia, si apre una via,
caratterizzata dalla logica dell'amore, per trovare il rapporto tra eupraxia ed eu
dokia, tra l'opera e il dono per la realizzazione in assoluto della vera felicità.
Il fatto che la vera felicità ha per principio il vero amore per le persone e
per termine l'armonia universale tra le persone, con la natura e con Dio, com
porta che la vera felicità sia la massima fioritura della vita personale e comuni
taria e costituisca un ideale di vita tanto per le persone quanto per le comunità
di persone. Nella vera felicità le persone pervengono alla perfezione massima
della vita personale, in quanto attuano i beni umani in virtù d'una scelta perfet
tamente ordinata. Ma proprio la perfetta e ordinata adesione ai beni umani,
nei quali le persone comunicano e ai quali partecipano, costituisce il personale
contributo al bene comune e alla vera felicità delle altre persone. Sicché l'i
deale della vera felicità è regolatore sia della condotta personale sia del go
verno delle comunità umane, benché sia realizzabile sempre solo limitata
mente, imperfettamente, provvisoriamente e sia realizzabile in diverso modo e
con diversi mezzi nella vita personale, nella vita delle comunità e nella vita
della società politica.
Questo abbozzo della figura della vera felicità per l'uomo può costituire il
principio del lungo discorso della filosofia morale come filosofia pratica della
condotta umana. In questa sede mi devo limitare solo a chiarire alcune diffi
coltà che pone la struttura complessa della vera felicità.
102 Per quanto ricco di considerazioni sull'esistenza umana, un libro come quello del padre
della psicologia esistenziale americana Rollo MAY, L'uomo alla ricerca di sé. Come far fronte all'in
sicurezza di questo nostro tempo e trovare un centro di/orza in noi stessi, tr. it. Roma 1983, non per�
viene a mostrare come solo nella ricerca del vero bene per l'uomo si possa trovare un centro di
forza in noi stessi.
10'
Un buon saggio di filosofia morale che illustra abbondantemente come lo sviluppo della
persona umana non sia possibile senza un orientamento verso i valori morali è costituito dal libro
di Marce! GILLET, L'homme et sa structure. Essai sur !es valeurs mora/es, Paris 1978, specialmente
pp. 439-488. Sulla stessa linea di pensiero si muove Ernest BECKER, Il rifiuto della morte, tr. it.
Roma 1982, mostrando che l'uomo può realizzare la sanità psichica solo acconsentendo a entrare
in rapporto di sottomissione e di offerta verso il Creatore.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 61
104
Un'accurata analisi del desiderio sensitivo per il piacere e della trasformazione che esso
subisce quando è consapevolmente assunto nella vita buona, perché giudicato bene importante, è
fornita da N.J.H. DENT, The Mora! Psycholog;y of the Virtues, Cambridge 1984, 35-63. 130-15 1.
105
Joseph BUCKLEY, Man's Last End, St. Louis - London 1950.
106
Cf. G. GRISEZ, Man, Natural End of, in New Catholic Encyclopedia, voi. IX ( 1967) 133-
138.
62 Capitolo I
107
«In the absence of any determinate, concrete good as the supreme principle of order,
the human mind knows of no last end for man in the natural order other than happiness accor
ding to right reason. This may be said to be concrete, inasmuch as it connotes concrete goods,
but it is not at the same time determinate, because it does not connote any supreme good or
goods in which it is fully realized. lt denotes the formai end rather than the objective end. Men's
continua! reference to happiness as their end rather than to a specific objective is itself an indica
tion of their failure to perceive a determinate objective end. Even in the order of forma! end (as
opposed to objective) , happiness is rather the forma! character of end (ratio Jormalis finis) than
the end itself (td in quo finis ultimi ratio invenitur); it does not specify the type or concrete charac
ter of the happiness. So, while it does serve after the manner of a last end (I act for happiness in
all that I do, determined in each case but fully realized in none), it is not; so far as it is terminative
and architectonic, both determinate and concrete» (BUCKLEY, o.e. 173-174).
'08
Mi pare che questo possa essere una buona chiave di lettura per intendere il senso del
trattato sulla beatitudine nella Summa Theologiae di s. Tommaso d'Aquino: il fine soprannaturale
che Dio intende nel governo della vita umana è piuttosto incongruo rispetto a quello che l'uomo
può costruire con le sue capacità naturali; e allora: come Dio deve intervenire nella povera vita
umana, nel governo delle faccende umane, per poterlo realizzare?
Felicità e virtù nella filosofia pratica 63
4) Fine e mezzi
(59) La complessità della vera felicità per l'uomo, concepita come fine inclu
sivo, permette di vedere quanto sia semplicistica e riduttiva l'applicazione del
binomio « fine/mezzi» alla ricerca della felicità, come se la felicità fosse un
obiettivo concreto, oggetto di intenzione, e tutti i beni sostanziali e operabili
(esperienziali ed esistenziali) esauriscano la loro bontà solo nel fatto di essere
strumento per procurarsi la felicità.
Nella condotta umana la felicità non è un obiettivo concreto, che possa co
stituire oggetto d'intenzione, ma ragione formale per cui possono essere perse
guiti obiettivi concreti. Se essa è detta fine ultimo non è perché costituisca l'ul
timo della serie dei fini concreti, ma perché costituisce la ragione ultima per
cui è possibile a un uomo perseguirli.
Gli obiettivi concreti che sono oggetto d'intenzione non costituiscono per
tanto mezzi per il raggiungimento della felicità, quanto modi concreti di realiz
zarla nella vita umana. Le attuazioni eccellenti che integrano la figura della
vera felicità umana sono piuttosto parti di essa e insieme costituiscono la me
diazione concreta in cui si realizza la felicità.
Tali attuazioni hanno valore di bonum honestum, cioè di bene che è tale in
ragione di se stesso e per se stesso è desiderato. Qualora nel corso individuale
di vita i beni ch'esse realizzano siano organizzati in un certo ordine, assumono
il valore di fini intermedi, mai di mezzi.
In nessun modo dunque le attuazioni eccellenti dell'uomo, e le virtù che le
fanno possibili, sono da considerare mezzi per la felicità; esse sono piuttosto' il
modo in cui la vera felicità si realizza nella vita umana.
Può quindi avere senso legittimo sia il dire che si cerca la virtù per la feli
cità, sia che si cerca la virtù per se stessa; ma può avere anche senso illegit
timo. Se cerco la virtù per la felicità edonica distruggo la virtù; se cerco la virtù
per se stessa, nel senso di fedeltà al dovere per il dovere, e non come un modo
di vero amore per le persone, distruggo la virtù. Se invece cerco la virtù come
quella che fa possibile la commisurazione ottimale tra soggetto e mondo ed il
vero amore per le persone, allora la cerco per se stessa, perché proprio questo
la definisce. La vita morale non si riduce ad un'arte pragmatica di felicità edo
nica, ma resta quello che è: arte del bene umano, arte del vero bene delle per
sone, arte d'amare, per dirla con E. Fromm.
(60) La figura di vera felicità per l'uomo costituisce un ideale che nel corso
della vita umana può esser realizzato solo frammentariamente, provvisoria
mente, successivamente, con accentuazioni individuali assai diverse. Tuttavia
ha senso mantenere la vera felicità come ideale, e più esattamente come idea re
golatrice, poiché in questo modo si ha una chiave per decifrare il significato
64 Capitolo I
109
Questo concetto di individuazione svolge un ruolo decisivo nella morale della Secunda
Pars della Summa Theologiae di s. Tommaso; ne ho detto nel mio libro Lex et virtus. Studi sull'evo
luzione della dottrina morale di san Tommaso d,'Aquino, Roma 1983, 190-194. Vi ritornerò più
avanti, v. sotto V 35.
11°
Cf. KRAUT, Two Conceptions 194-195; v. sopra n. 93.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 65
Per render conto di questa esperienza occorre un concetto di virtù più ade
guato.111
(62) La vera felicità per l'uomo non è un bene dato, ma da costruire con in
ventiva, sagacia, saggezza. Il soggetto umano, considerato dal punto di vista
del suo compimento nella vera felicità, non è confrontato con il problema pra
tico di decidere pro o contro la norma, di scegliere tra alternative previamente
ben definite, ma di trovare una via, inventare un corso d'azioni che realizzi la
vera felicità possibile nelle situazioni.
Di fronte a quest'arduo compito le capacità operative dell'individuo, così
com'esse si trovano ad essere per dotazione naturale, non sono preparate né a
livello di natura specifica né a livello di natura individuale. Grazie alla natura
umana specifica la ragione umana ha a disposizione convinzioni originarie circa
la regola morale e una naturale inclinazione a vivere secondo tale regola. Ma
convinzioni e inclinazioni sono solo il seme da cui può svilupparsi la vita mo
rale, e così come sono non sono sufficienti a condurre la vita veramente
buona. La vita veramente buona infatti consta di azioni concrete e particolareg
giate, diverse di volta in volta secondo le situazioni, e che hanno da esser rego
late in tutti gli aspetti moralmente rilevanti; ciò richiede una conoscenza mo
rale ben più sviluppata e articolata di quella, assai generica e indeterminata,
fornita dalle primordiali convinzioni naturali. Inoltre l'inclinazione naturale a
vivere secondo la regola morale non è inclinazione necessitante come lo è l'in
clinazione naturale alla felicità intesa in senso inclusivo e formale. Essa è natu
ralmente a disposizione della libera volontà, ma ha bisogno di esser confermata
in libere scelte; anch'essa è ancor solo generica, nel senso che è inclinazione a
vivere secondo i principi generali della regola morale, ma ha bisogno di esser
liberamente determinata verso azioni particolari e di adeguarsi alla regola mo
rale dettagliata. Qui essa può entrare in conflitto con le passioni e le inclina
zioni della natura individuale. Infatti grazie alla sua natura individuale, coartata
dall'individuazione, il soggetto umano dispone d'inclinazioni verso l'uno o l'al
tro tipo di azione e di comportamento; ma anch'esse sono insufficienti, da
sole, a produrre la vita veramente buona: sono sconnesse tra loro, possono in
clinare ad azioni buone o ad azioni cattive, ad alcune azioni buone e non ad
altre; sono prive di discernimento e impreparate ad adattarsi alle diverse richie
ste morali delle situazioni.
(63) Lasciato così, un individuo non riuscirà mai a governare una vita estre
mamente complessa per realizzare il compimento umano, la vera felicità. Oc
corre allora, mediante l'educazione, la formazione e la disciplina provocare un
ampliamento delle capacità operative individuali, una loro crescita ed eleva
zione, un potenziamento che le renda idonee a realizzare il vero bene per
111
Per delineare questo concetto di virtù mi ispiro alle idee di Tommaso d'Aquino secondo
l'interpretazione che ne dò nel mio libro citato. Lo svilupperò ampiamente nei capitoli seguenti.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 67
l'uomo. Occorrerà maturare una saggezza pratica che sappia inventare e conce
pire vie di condotta che concretizzino i fini umani; occorrerà evocare un inte
resse della volontà e dell'affettività per il bene non solo come esso viene generi
camente concepito a livello di fini, ma come viene concretamente escogitato
dalla saggezza morale a livello di mediazioni circostanziate dei fini.
È questa la funzione principale della virtù: essa è una buona disposizione
delle facoltà operative, che le eleva e potenzia in modo che siano adeguate alla
realizzazione concreta della felicità vera e doverosa. La stabilità e la fermezza
non sono il suo effetto principale: queste avvengono con il radicamento della
virtù nelle facoltà operative che le dispone sempre più verso il bene umano con
cretamente definito. La facilità e la piacevolezza nell'esercizio dell'azione
buona sono anch'esse effetto più del radicamento o della crescita intensiva
della virtù, che della virtù stessa. L'effetto formale primo e proprio della virtù
è l'abilitazione delle facoltà operative a concretizzare la felicità vera e doverosa
nel corso di vita.
Da tutto ciò si comprende che una filosofia morale avverte la necessità di
dare alla virtù il ruolo portante nella vita morale nella misura in cui:
1) trova il senso della vita morale nella costruzione della felicità;
2) vede nell'aspetto eudemonico (attuazioni eccellenti) della vera felicità il
punto cruciale di tale costruzione;
3) concepisce l'azione morale più in termini di condotta e di governo della
vita che di singole decisioni;
4) considera l'uomo come principio consapevole e libero di tale costru
zione, governatore della propria vita;
5 ) tien conto del profondo iato tra il fine da realizzare e la dotazione natu
rale, specifica ed individuale, di capacità operative nell'individuo umano, sog
getto attivo della costruzione.
Spiegata in questo modo la necessità della virtù per la vera felicità, s'affac
ciano ora i problemi più difficili e più importanti nel rapporto tra virtù e feli
cità. In che modo la virtù contribuisce alla vera felicità, dal momento che le vi
cende della vita sembrano suggerire e addirittura provare il contrario? Ha
senso dire che è veramente felice chi soffre l'ingiustizia senza venir meno alla
sua coscienza? È sufficiente la virtù a realizzare la vera felicità?
amare le persone con amore retto, degno, doveroso, che anima, ispira, assume
le attuazioni virtuose nei diversi settori della vita umana, è già di per sé qual
cosa di felicitante per l'uomo, almeno secondo l'aspetto eudemonico esisten-.
ziale della vera felicità.
Ma la felicità della vita virtuosa non è tutta la felicità di cui l'uomo è natu
ralmente capace. La vera felicità richiede anche un buon stato di cose corri
spondente alla buona volontà, e questo comprende, nel suo aspetto eudemo
nico, i beni operabili esperienziali e, nel suo aspetto agatologico, il possesso
dei beni sostanziali. La riuscita della vita relativamente a questi beni non di
pende solo dalla scelta del soggetto, ma anche dalla buona sorte. Inoltre la
vera felicità, in quanto commisurazione ottimale tra soggetto e mondo, soprat
tutto mondo delle persone, comporta anche l'ottimale atteggiamento delle altre
persone e di Dio nei confronti del soggetto. Fa veramente felici non solo
amare di amore vero, ma essere amati di amore vero; non solo essere benevoli
e donare, ma anche essere oggetto di benevolenza e ricevere un dono dalle
altre persone e da Dio. La riuscita felice della vita nei beni esperienziali e nei
beni sostanziali dipende non solo dalla buona sorte, ma anche dalla libera eu
dokia delle persone e di Dio. La vera felicità non è solo una conquista; è forse
ancor più un dono.
Qui il problema del rapporto tra virtù e felicità giunge al nodo decisivo: la
buona volontà del soggetto, la buona sorte, il buon volere altrui, la benevo
lenza di Dio sono tutti principi di felicità vera. Sono principi disparati, senza
alcun rapporto tra loro? Se sono principi disparati, anche la vita virtuosa perde
il suo senso. Amare una persona di amore vero può essere felicitante per il sog
getto, ma ha senso solo se si hanno ragioni per credere che l'amore vero in de
finitiva è il più forte e può ottenere effettivamente la vera felicità per la per
sona amata; non si può amare senza una qualche speranza; altrimenti la vita sa
rebbe tanto più tragica quanto più l'amore è bello.
A questo punto il principio eutychico della felicità viene relativizzato e su
perato dal principio dell' eudokia divina, giacché anche la sorte rientra nel vo
lere del Creatore universale. D'altra parte se il buon volere delle altre persone
dipende dalla loro libera scelta, la riuscita benefica di tale buon volere dipende
anch'essa dalla possibilità in assoluto che la vera felicità integrale si realizzi, e
si è così rimandati al volere del Creatore. Si dovrà ripetere con Freud che « nel
piano della creazione non è contenuta l'intenzione che l'uomo sia felice» ?
Come N . Fischer ha osservato studiando la risposta aristotelica e quella kan�
tiana, 1 12 qui la filosofia pone un problema che non ha la possibilità di risol
vere. Direi piuttosto che la filosofia pagana o laica, in quanto ignora la rivela
zione, non può risolvere questo problema. Ma non è necessario alla filosofia es
sere pagana o laica; può anche essere cristiana nel senso che ho spiegato
sopra, e quindi ragionare sul senso della vita umana non esclusivamente a par-
112
Cf. sopra n. 42-45.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 69
1 1'
Nel mio citato libro Lex et virtus 142-173 ho interpretato la Secunda Pars della Summa
Theologiae proprio come discorso teologico su Dio che opera nell'uomo in quanto principio della
propria condotta.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 71
Innanzitutto si capisce perché la virtù possa esigere una rinuncia alla feli
cità. Certamente il virtuoso rinuncia a false felicità, ma anche a forme ed
aspetti della felicità vera. Vi sono situazioni in cui la corrispondenza tra virtù e
buon stato di cose è precaria, fragile, incompleta; a volte anzi tale corrispon
denza non si dà affatto e lo stato di cose è addirittura opposto alla buona vo
lontà. In tali situazioni si deve esser disposti a perder tutto tranne l'amore
vero, non si deve deflettere dalla buona volontà per nessuna ragione al
mondo, anche a rischio di perdere altri beni preziosi. È una rinuncia che ha
senso proprio in vista della realizzazione della vera felicità. Chi resta fedele
all'amore vero di fronte all'ingiustizia subita, alla sofferenza, alla morte, vuole
fermamente e con tutto il cuore che il mondo sia governato secondo la regola
del vero bene. La stessa sofferta privazione degli altri beni purifica le inten
zioni virtuose da ogni attaccamento disordinato, sicché il soggetto vuole il vero
bene solo più perché Dio lo vuole e come Dio lo vuole; la volontà umana di
venta più conforme alla volontà divina, e con tale conformità si rende idonea e .
degna di ricevere in dono proprio ciò che essa ha voluto sopra tutto, la vera fe
licità in Dio.
Egli può esser detto felice e può sentirsi felice nel tormento: « Zenja cara,
Lei ha agito secondo coscienza. Creda, è la cosa migliore che è data all'uomo.
[ . . . ] La nostra disgrazia principale è che noi non viviamo come ci detta la co
scienza. Non diciamo ciò che pensiamo. Sentiamo una cosa e ne diciamo un'al
tra. [ . . . ] Privare l'uomo del diritto alla coscienza è orribile. E se l'uomo trova
in sé la forza di fare quello che gli detta la coscienza, allora prova un impeto
di felicità». 11 4 Felice è attualmente il giusto tormentato proprio per la gioia e
la pace che dà l'amore vero. Felice egli è in speranza: con l'amore vero egli ha
in sé il principio, il pegno della felicità vera completa a cui l'eudokia divina in
tende portare le persone e di cui l'amore vero rende capaci e degni. Soffrire
l'ingiustizia restando nell'amore vero è « meglio» nel senso che: 1 ) realizza il
bene del vero amore nel giusto tormentato, bene in se stesso sommamente im
portante ed eccellente; 2) colloca il soggetto nella rete di rapporti personali
con Dio che fa possibile la felicità vera completa. A causa di questa connes
sione che il vero amore ha con la volontà di Dio, esso è l'unica via efficace per
realizzare la vera felicità.
lii. CONCLUSIONE
114
Vasilij GROSSMAN, Vita e destino, tr. it. Milano 1982, 694. Più volte in Arcipelago
Gulag A. Solzenicyn riferisce di questo «impeto di felicità» in coloro che tra la vita e la coscienza
scelgono la coscienza.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 75
morali? », e non si trova una risposta. La filosofia morale ridotta ha perso l'inte
resse per la felicità e per il senso della vita umana. Ricuperando alla filosofia
morale il tema della condotta e del governo della vita si ha modo di ridare im
portanza alla felicità e di percepire la sua interna connessione con la virtù, non
senza una rielaborazione critica del concetto di felicità e di virtù.
La virtù rende buono il soggetto in quanto principio di scelta; fa sì che
quando egli sceglie scelga da prudente, giusto, forte, temperante, ecc.; in ul
tima analisi fa sì che egli scelga da amante di amore vero le persone. L'essere
così e l'operare così è già vera felicità per l'uomo; ma non è tutta la vera feli
cità; è solo la sua componente eudemonica esistenziale.
L'ordine pratico non si riduce alla virtù e alle azioni virtuose. L'ordine pra
tico esiste in quanto vi è un'originaria, naturale, necessaria volontà di compi
mento felice del soggetto in un'ottimale commisurazione col mondo. Le azioni
costituiscono una condotta proprio perché mirano a realizzare tutte in qualche
modo quel fine ultimo. Si tratta d'un fine di non poco conto: esso concerne il
senso ultimo della realtà. Solo se la felicità è possibile e realizzabile, la vita ed
il mondo hanno un senso.
Proprio qui la virtù ha un'importanza decisiva: rendendo capace di amore
vero il soggetto, essa lo rende atto e degno di vivere in armonia con le persone
e con Dio, sapendo stare alla loro presenza, comunicare con loro, ricevere da
loro quei beni esperienziali e sostanziali, i quali, oltre ad essere apprezzabili e
desiderabili per se stessi, lo sono ancor più quando sono doni d'un amore vero
tra le persone e da parte di Dio, e sono compresi, apprezzati, voluti come tali.
Per questa via la virtù colloca il soggetto in una rete di rapporti con gli altri e
con Dio che fa possibile la felicità vera completa in tutti i suoi aspetti.
Di qui il senso della condotta morale dell'individuo nel tempo. La sua situa
zione contingente può essere più o meno felice in partenza; le sue potenzialità
ed opportunità più o meno ridotte, coartate, stroncate; la sua vicenda più o
meno travagliata. Il compito della vita (compito in rapporto al fine dell'ordine
pratico; compito in rapporto all'intenzione e alla volontà del Creatore) è realiz
zare il meglio possibile nella situazione individuale e contingente l'amore vero;
educarsi, nel proprio frammento di esistenza umana, a voler vivere e ad amar
vivere nell'armonia universale, condividendo la volontà del Creatore sulle crea
ture.
Perché essere morali? Perché è l'unico modo di trovare ciò che cerchi, di
realizzare il fine in ragione di cui agisci. Vale la pena essere virtuosi? Sì, perché
sei pagato proprio con la moneta che vuoi e che ha valore per te; sì, perché ot
tieni ciò che ami.
Capitolo I l
VIRTÙ E DOVERE:
VALUTAZIONE DI UN RECENTE CIBATTITO
(2) Virtue and Medicine ; Virtue: Public and Private: i titoli di queste due re
centissime pubblicazioni hanno di che stupire più d'un lettore. 1 La pratica me
dica e la convivenza civile non sembrano il luogo più adatto per fare una rifles
sione sulle virtù, quanto invece sembrano richiedere lesatta determinazione di
leggi, di regole di comportamento, di diritti, di doveri, di obblighi. La virtù, se
mai, sarà qualcosa di cui ci si occupa privatamente, come un ideale personale,
del tutto soggettivo, relativo alle proprie convinzioni religiose o sapienziali, a
sostegno del quale non possono essere fornite argomentazioni pubbliche, va
lide intersoggettivamente.
Tuttavia le due menzionate pubblicazioni non spuntano improwise: sono
l'espressione d'un dibattito che da circa trent'anni è in corso presso gli stu
diosi di etica. Esso awiene nelle aree angolosassone e tedesca e passa del tutto
inosservato in altre aree linguistiche. Esso non suscita lo scalpore che suscitano
altri dibattiti (come quello relativo alla fondazione deontologica o teleologica
delle norme, o come il confronto tra teorie utilitariste e teorie della giustizia e
dei diritti) , tranne l'unica eccezione di A/ter Virtue di Alasdair Madntyre di
cui dirò.
Il dibattito in corso costituisce un fenomeno del tutto nuovo nella secolare
2 Di questo tipo sono invece l'articolo di Maria de la Luz GARCÌA ALONSO, Sobre las virtu
des mora/es, in Sapientia 35 (1980) 455-472, e generalmente gli articoli di vari dizionari che illu
strano la voce virtù.
3 La rassegna di Gregory E. PENCE, Recent Wo�k on Virtues, in American Philosophical
Quarterly 2 1 ( 1 984) 281-297, comprende anche contributi che si occupano della definizione di sin
gole virtù, cosa che cade fuori dall'interesse del presente studio; per altro è più limitata di quella
che presento, in quanto comprende solo contributi di filosofi, non di teologi, e solo dell'area anglo
americana, non di quella tedesca; inoltre trascura gli studi che muovono critiche ali' etica mo
derna.
Al contrario le poche pagine di Hans GLEIXNER, Tugend wieder ge/ragt. Das neuerwachte Inte
resse an der Tugend aus theologischer Sicht, in Zeitschri/t fiir katholische Theologie 108 ( 1986) 255-
265, si occupano solo dell'area tedesca e solo della teologia morale cattolica; nemmeno entro que
sti limiti tengono conto di tutti i più recenti contributi.
Non ho potuto tener presenti in questa rassegna tre importanti libri recentissimi, pervenuti
troppo tardi; in essi la teoria della virtù è condotta ad ampi e fecondi sviluppi. Sono: D.J. HUT
CHINSON, The Virtues o/ Aristotle, London - New York, Routledge and Kegan Paul 1986; Stephen
D. HUDSON, Human Character and Morality. Re/lections /rom the History o/ Ideas, Boston - Lon
don - Henley, Routledge and Kegan Paul 1986: cf. [66) e [86) ; Lawrence C. BECKER, Reciprocity,
London - New York, Routledge and Kegan Paul 1986: cf. [4] . Tuttavia li utilizzerò, nella misura
in cui sono rilevanti, nei capitoli seguenti. Mi è rimasto sinora inaccessibile il libro di Edmund L.
PINCOFFS, Quandaries and Virtues. Against Reductivism in Ethics, Lawrence/KS, University Press
of Kansas 1986: cf. [3].
Ventisei pagine di Selected Bibliography sulla teoria della virtù chiudono il libro curato da Ro
bert B. KRUSCHWITZ Robert C. ROBERTS, The Virtues. Contemporary Essays on Mora! Character,
-
78 Capitolo II
2. Breve rassegna
a) da parte di filosofi:
[ 1 ] G.E.M. ANSCOMBE, Modern Mora! Philosophy, in Philosophy 33 ( 1958) 1-19; ripubblicato
in The Collected Philosophical Papers o/ G.E.M. Anscombe, III: Ethics, Religion and Politics.
Oxford, Basil Blackwell 1981, 26-42.
[2] Iris MURDOCH, The Sovereignty o/ Good. New York, Schocken Books 1970.
Belmont I California 1987, 237-263: la bibliografia comprende ben più contributi di quanti siano
rilevanti per il tema che qui intendo affrontare e, benché vasta ed estesa a filosofi e teologi, si li
mita all'area di lingua inglese. Il libro ristampa vari articoli, tra cui quelli di STOCKER [5] ,
LOUDEN [36], uno di quelli raccolti nel libro di MURDOCH [2] .
4 Non è questa l a sede per argomentare a favore di questa posizione, intervenendo in u n an
noso e complicato dibattito. Qualcosa di più ne ho detto in un precedente studio: I «Christian
Mora! Principles» di G. Grisez e la «Secunda Pars» della «Summa Theologiae», in Salesianum 48
( 1986) 656-658; v. sopra I 13- 14.
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 79
[3] Edmund PINCOFFS, Quandary Ethics, in Mind 80 ( 1971) 552-57 1 ; ripubblicato in Revi
sions [ 1 1 ] 92- 1 12 .
[4] Lawrence C. BECKER, The Neglect o/ Virtue, in Ethics 8 5 ( 1975) 1 10- 122.
[5] Michael STOCKER, The Schizophrenia o/ Modern Ethical Theories, in ]ournal o/ Philo
sophy 73 ( 1976) 453-466.
[6] Bernard WILLIAMS, Persons, Character and Morality, in Amelie O. RORTY (ed.), The
Identities o/ Persons. Berkeley, University of California Press 1976; ripubblicato in J3. WIL
LIAMS, Mora! Luck, Cambridge, Cambridge University Press 198 1 , 1 - 19.
[7] Philippa Four, Virtues and Vices and Other Essays in Mora! Philosophy. Berkeley, Uni
versity of California Press 1978, ppb Oxford, Basil Blackwell 198 1 : soprattutto: [a] Morality
as a System o/ Hypothetical Imperatives ( 157-173) già pubblicato nel 1972; [b] Introduction
(XI-XIV); [c] Virtues and Vices ( 1 - 18) pubblicato per la prima volta.
[8]- , William Frankena's Carus Lectures, in The Monist 64 ( 1981) 305-3 12.
[9]- , Utilitarianism and the Virtues, in Mind 94 ( 1985) 196-209.
[ 10] Alasdair MAcINTYRE, A/ter Virtue: A Study in Mora! Theory. Notre Dame I IN, Univer
sity of Notre Dame Press 1 198 1 ; 2 1984. 5
' Questa è la pubblicazione di gran lunga più importante non solo all'interno del dibattito
tra etica del dovere ed etica della virtù, ma anche nell'intera area degli studi storici e teoretici sul
l'etica negli ultimi anni. Tale importanza non emerge tanto dal consenso, quanto dalla discussione
da esso suscitata a livello internazionale e al di là dei confini delle singole correnti: v'intervengono
filosofi e teologi rinomati e di ogni estrazione, in recensioni ampie e critiche, in simposi, in studi
che vanno dalla nota critica, all'articolo, al libro. Ne dò una rassegna: all'uno o all'altro degl'inter
venti farò riferimento al momento opportuno.
Recensioni e note critiche in: International Philosophical Quarterly 22 ( 1982) 2 15-219 (Christo
pher W. GOWANS) ; The New Scholasticism 56 (1982) 385-390 (Russell HITTINGER), Teaching Phi!o
sophy 5 ( 1982) 245-246; The Thomist 46 ( 1982) 3 13-322 (Stanley HAUERWAS, Paul WANDELL) ;
Ethics 93 ( 1983) 579-587 (William K. FRANKENA); The Philosophical Review 92 ( 1983) 443.-447 (Sa
muel SCHEFFLER); Australasian ]ournal o/ Philosophy 61 ( 1983) 450-454 (Gary MACKENZIE); ]our
nal o/ the History o/ Philosophy 2 1 ( 1983) 426-429 (Abraham EoEL, Elisabeth FLOWER) ; Revista de
Filosofia 6 ( 1983) 3 15-322 (José MONTOYA SAENZ); Nederlands Theologisch Tijdscri/t 37 ( 1983)
136-149 (A. VAN DEN BELO); Neue Zeitschrtft /iir systematische Theologie und Religionsphiloso
phie 26 (1984) 256-275 (Jeffrey STOUT); Mind 93 ( 1984) 1 1 1 - 124 (D.Z. PHILLIPS); International
]ournal o/ Applied Philosophy 2 ( 1984-85) n. 2, 97-107 (Donald SHERER) ; Philosophische Rund
schau 32 ( 1985) 1-7 (H.G. GADAMER); Philosophisches ]ahrbuch 92 ( 1985) 43 1-436 (Benedikt
HALLER); The ]ournal o/ Value Inquiry 19 ( 1985) 13-26 (Steven L. Ross ) ; Revue Thomiste 86
( 1986) 137- 141 (Servais PINCKAERS); Erkenntnis 25 (1986) 61-76 (Bruce N. WALLER) ; The South
ern ]ournal o/ Philosophy 24 ( 1986) 307-320 (Susan FELDMAN) .
A varie critiche dei suoi recensori h a risposto Macintyre nella I I edizione d i A/ter Virtue
( 1984), pp. 264-278: Postscript to the second Edition.
La rivista Inquiry 26 ( 1983) n. 4 ha pubblicato i contributi di un simposio su A/ter Virtue con
interventi di: Onora O'NEILL, Kant After Virtue, 387-405; Raimond GAITA, Virtues, Human
Good, and the Unity o/ a Li/e, 407-424; Stephen R.L. CLARK, Morals, Moore, and Macintyre, 425-
445 ; chiude il fascicolo una replica di MACINTYRE, Mora!, Rationality, Tradition, and Aristotle: a
Reply to Onora O'Neill, Raimond Gaita, and Stephen R.L. Clark, 447-466. Inoltre: Marx W. WAR
TOFSKY, Virtue Lost or Understanding Macintyre, in Inquiry 27 (1984) 235-250; replica
MAcINTYRE, «A/ter Virtue» and Marxism: A Response to Warto/sky, ivi 25 1 -254.
La rivista Man and World 18 ( 1985) 461-467 riferisce di un Colloquium on Narrative, Charac
ter, Community and Ethics in cui si è discusso su Macintyre e su Hauerwas.
Articoli: Alan GEWIRTH, Rights and Virtue, in Review o/ Metaphysics 38 ( 1984-85) 739-762; Ri
chard J. Mouw, Alasdair Macintyre on Re/ormation Ethics, in ]ournal o/ Religious Ethics 13 (1985)
243-257; Kai NIELSEN, Critique o/ Pure Virtue: Animadversions on a Virtue-based Ethics, in
80 Capitolo II
SHELP (72] 133- 150; ].B. SCHNEEWIND, Virtue, Narrative, and Community: Maclntyre and Mora
lity, in ]ournal of Philosophy 75 ( 1982) 653-664; replica MACINTYRE, Intelligibility, Goods and
Rules, ivi 663-665; Susan FELDMAN, Objectivity, Pluralism and Relativism. A Critique of Maclnty
re's Theory of Virtue, in The Southern ]ournal of Philosophy 24 ( 1986) 307-3 19; Xavier O. MONA
STERIO, On Maclntyre, Rationality, and Dramatic Space, in Proceedings of the Am. Cath. Philos.
Assoc. 58 (1984) 150- 164.
Il libro di Ursula WOLF Das Problem des moralischen Sollens, Berlin - New York, Walter de
,
Gruyter 1984, è un'impegnativa argomentazione per difendere l'etica moderna liberale contro gli
attacchi di Maclntyre.
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 81
a) da parte di filosofi:
[ 42] Georg Henrik VON WRIGHT, The Varieties o/ Goodness. London, Routledge and Kegan
Paul 1963.
[ 43] Peter A. BERTOCCI - Richard M. MILLARD, Personality and the Good. Psychological and
Ethica! Perspectives. New York, David McKay Company 1963.
[44] William K. FRANKENA, Prichard and the Ethics o/ Virtue: Notes on a Footnote, in The
Monist 54 (1970) 1-17.
82 Capitolo II
[45] - , Ethics. Englewood Cliffs I NJ, Prentice-Hall 2 1973 ; utilizzo la traduzione italiana a cura
di Maurizio MORI: Etica. Una introduzione alla filosofia morale. Milano, Edizioni di Comu
nità 1981 .
[46] Bernard GERT, The Mora! Rules. A New Rational Foundation /or Morality. New York,
Harper and Row 1966. Utilizzo la traduzione tedesca a cura di Walter ROSENTHAL: Die Mora
lischen Regeln. Eine neue rationale Begrnndung der Mora!. Frankfurt a.M., Suhrkamp 1983.
[47] - , Virtue and Vice, in SHELP [72] 95-109.
[48] Eugen FREEMAN (ed.), Virtue and Mora! Goodness, in The Monist 54 ( 1970) n. 1 .
[ 49] G .J. WARNOCK, The Object o/ Morality. London, Methuen 1971.
[50] R.E. EWIN, Cooperation and Human Values. A Study o/ Mora! Reasoning. Brighton I
Sussex, The Harvester Press 198 1 .
6 La vicenda del concetto di virtù nella teologia morale cattolica è molto strana ed attende
ancora il suo storico. La teoria tomista della virtù costituisce un caso unico nella storia del pen
siero, per la sua ampiezza, originalità e livello scientifico di elaborazione. Ma non è unica nella sco
lastica medievale: essa torreggia su altre cime minori non prive d'interesse. Tuttavia essa ha aperto
un alveo in cui si è sviluppata la successiva tradizione di teologia morale: quanto però tale tradi
zione abbia perso dell'originaria ispirazione tomista lo mostra lo schizzo storico di Servais (Th.)
PrNCKAERS, OP, Les sources de la morale chrétienne. Sa méthode, son contenu, son histoire, Fri
bourg/Suisse - Paris 1985. Nella manualistica fino alla neoscolastica era diventato un luogo co
mune sia tramandare uno schema convenzionale di teoria della virtù, sia distribuire la materia mo
rale secondo il catalogo delle virtù. Ciò che i manuali che cito dicono sulla virtù o si rifà allo
schema convenzionale o teqta una rifusione in chiave psicologica, che però non è essenziale alla
teoria morale di volta in volta messa in opera. Ma sono altrettante, se non di più, le recenti tratta
zioni cattoliche di morale fondamentale che sulle virtù tacciono del tutto. La cosa è tanto più
strana in quanto il richiamo alla teoria tomista della virtù viene effettuato al di fuori della tradi
zione cattolica, da parte di un teologo protestante (S. Hauerwas) e di una filosofa laica (Foot: «lt
is my opinion that the Summa Theologica is one of the best sources we have far mora! philosophy,
and moreover that St. Thomas' ethical writings are as useful to the atheist as to the Catholic or
other Christian believer»: Virtues and Vices [7c] 2). A dire il vero però, così come il riferimento
del cattolico all'opera tomista è ormai puramente nominale, anche quel che sia Foot (o.e.) sia Mac
lntyre ([ 10] 166-168) ne dicono è ben lungi dal render giustizia alla teoria tomista e svela una let
tura assai superficiale.
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 83
[59] Marciano VIDAL, Mora! de actitudes. I: Mora! /undamental. Madrid, Editoria! Perpetuo
Socorro 1975; ' 1981.
[60] Bernhard HARING, Liberi e fedeli in Cristo. Teologia morale per preti e laici. I: Cristo ci
ha liberati perché restassimo liberi (Gal 5,1). Roma, Edizioni Paoline 1979.
[61] Tullo GOFFI - Giannino PIANA, Il vissuto virtuoso, in T. GOFFI - G. PIANA (a cura di),
Corso di Morale. Il: Diakonia (Etica della persona). Brescia,'Queriniana 1983, 9-56.
[62] Germain GRISEZ, The Way o/ the Lord Jesus. I: Christian Mora! Principles. Chicago,
Franciscan Herald Press 1983.7
7 Quale concetto si faccia Grisez della virtù, quale funzione l e assegni nella vita morale e
quanto diverga dalla concezione tomista l'ho mostrato nel mio studio I «Cristian Mora! Princi
ples» .
8 Lo studio di Endres [25] individua le ragioni teoriche per cui l'etica protestante di questo
secolo ha rifiutato il concetto di virtù. Herms [23) lamenta precisamente che l'etica protestante
abbia trascurato il tema della virtù, dopo la considerazione ch'essa ha avuto nella tradizine prote
stante: si pensi alla Tugendlehre di Schleiermacher. Gli studi di Meilaender [75-77] documentano
il rifiuto e l'accoglienza che la virtù ha nel pensiero di Lutero·e mostrano il senso teologico di que
sta dialettica.
9 Per una critica alla sua concezione del carattere cf. Richard BONO!, The Elements o/ Cha
racter, in fournal o/ Religious Ethics 1 1 ( 1984) 201-2 18.
84 Capitolo II
[75) Gilbert C. MEILAENDER, The Theory and Practice o/ Virtue. Notre Dame I IN, Univer
sity of Notre Dame Press 1984.
[76) -, The Virtues: A Theological Analysis, in SHELP [72) 15 1 - 1 7 1 .
[77) -, Virtue in Contemporary Religious Thought, i n NEUHAUS [73) 7-29.
[79] R.B. BRANDT, Traits o/ Character: A Conceptual Analysis, in American Philosophical Quar
terly 7 ( 1970) 23-37.
[80) Gabriele TAYLOR - Sybil WOLFRAM, Virtues and Passions, in Analysis (1971) 76-83.
[81) James WALLACE, Excellence and Merit, in Philosophical Review 83 ( 1974) 182- 199; ri
preso in [63 ].
[82] N.].H. DENT, The Mora! Psychology o/ the Virtues. Cambridge, Cambridge University
Press 1984.
[83] Lester HUNT, Character and Thought, in American Philosophical Quarterly 15 ( 1978)
177- 186.
[84] Jennifer ]ACKSON, Virtues with Reason, in Philosophy 53 ( 1978) 229-246.
[85) John Mc DOWELL, Virtue and Reason, in The Monist 62 ( 1979) 33 1-350.
[86) Stephen D. HUDSON, Character Traits and Desires, in Ethics 90 ( 1980) 539-549.
[87) M.E. HAWKESWORTH, Freedom and Virtue. The Covert Connection, in Cogito 2 ( 1984)
I, 73- 106.
[88) John HEIL, Thoughts on the Virtues, in The ]ournal o/ Value Inquiry 19 (1985)
27-34. 10
nuovo, quello aristotelico. Egli può allora non limitarsi a collocare la virtù e il
dovere all'interno dell'etica moderna, ma rivedere i termini stessi in cui l'etica
moderna pone il problema morale. Quanto l'operazione gli riesca, lo verifiche
remo più avanti; in ogni caso la sua riedizione dell'etica aristotelica è assai più
fedele all'originale di quanto non lo siano la riedizione di Wallace [65] o di
Ewin [50] , i quali ritagliano l'etica aristotelica per adattarla ad uno schema ad
essa estraneo, di matrice hobbesiana.
Anche se non perfettamente riuscita, loperazione di Maclntyre è tuttavia
assai istruttiva: riscoprendo il punto di vista aristotelico, egli ritrova l'ambiente
connaturale per una teoria della virtù: riscopre ciò che la virtù fu prima delle
riduzioni che essa subì per sopravvivere denaturata entro lo schema dell'etica
moderna.
(6) Questo studio intende fare un'operazione analoga con l'etica tomista,
più precisamente con la teoria della virtù costruita da s. Tommaso d'Aquino
nella Secunda Pars della Summa Theologiae. Così s'introduce nel dibattito una
novità assoluta: infatti l'ispirazione originaria della teoria tomista della virtù è
rimasta senza seguito storico. La figura convenzionale corrente nella tradizione
successiva della teologia cattolica conserva dell'originaria sintesi tomista solo
dei frammenti senza vita: per usare l'immagine di Maclntyre, sono relitti d'un
naufragio. Introducendo il punto di vista tomista nel dibattito, s'introduce un
punto di vista ignoto sia alla tradizione della manualistica cattolica, sia ancor
più alle odierne discussioni di teologia morale e di filosofia morale. Non è que
sta la sede per addurre argomenti a favore dell'interpretazione della teoria to
mista che adotterò; 11 cercherò invece di far fruttificare tale interpretazione
per proporre una valutazione del dibattito in corso.
Un'attenta lettura dei contributi sopra elencati, con alle spalle un'assidua
frequentazione dell'Etica Nicomachea e ancor più della II Pars, può far perce
pire cose che passano del tutto inosservate agl'interlocutori del dibattito. Si av
verte che oltre le due posizioni a confronto (o sostituire all'etica del dovere
un'etica della virtù o integrare l'etica del dovere con il concetto di virtù) ve ne
può essere una terza: rivedere a fondo i concetti di dovere e di virtù in fun
zione d'un punto di vista nella costruzione della teoria etica che non è né
quello dell'etica moderna, né quello degli abbozzi odierni di teoria della virtù.
Introdurre questo nuovo punto di vista, quello tomista, mostrare quale diverso
concetto di dovere e di virtù esso comporti, quale rapporto tra i due esso stabi
lisca, in che cosa diverga dalle posizioni degli odierni interlocutori, è il primo
intento di questo studio. Il secondo intento implica un rischio maggiore, un
coinvolgimento più personale e offre maggior fianco alla critica: il presente stu
dio non solo cercherà di vedere le cose dal punto di vista tomista, ma cercherà
11 Sarebbe necessario un lungo studio analitico ed esegetico che solo in parte ho realizzato
nel mio libro: Lex et virtus. Studi sull'evoluzione della dottrina morale di san Tommaso d'Aquino,
Roma 1983.
86 Capitolo II
I.
(9) L'inizio del dibattito può essere fatto risalire all'articolo di Anscombe,
Modern Mora! Philosophy [ 1 ] , pubblicato nel 1958; ebbe l'effetto d'una dichia
razione di guerra. Molti degl'interlocutori successivi si rifanno a tale articolo o
per proseguire nella stessa direzione o per parare il colpo e contrattaccare.
L'Autrice proponeva arditamente di cessare di costruire etiche finché non si
fossero risolte questioni previe di psicologia filosofica che permettessero di ca
pire cos'è una virtù. Non si potrebbe infatti spiegare che cosa significa dire
che un'azione è giusta, coraggiosa, amichevole, generosa, se non si chiarisce
che cos'è un'intenzione e quale ruolo essa svolga nell'azione. D'altra parte,
come seconda tesi, ella proponeva di abbandonare, come concetti privi di
senso, i concetti di dovere morale e di qbbligazione morale cosi tipici dell'etica
moderna. Tali concetti sono sopravvissuti a un contesto che dava loro senso e
che è ormai perso per l'etica moderna. Di dovere morale e di obbligazione
aveva senso parlare quando_si riteneva che l'ordine morale fosse basato su Dio
legislatore, come avveniva e avviene nella tradizione giudeo-cristiana. Se però
l'etica moderna non ammette Dio legislatore, essa priva di significato i con
cetti di dovere morale e di obbligazione, che pure continua a mantenere.
Quest'interpretazione della vicenda storica dei concetti di dovere e di ob
bligazione è ampiamente sviluppata e illustrata nel libro di Taylor [ 14], pur
senza far riferimento all'articolo di Anscombe.
( 1 0) A esso si rifà invece esplicitamente Foot [7a] nel 1977 rifiutando l'im- 1
perativo categorico, e cioè l'idea d'un' obbligazione o d'un dovere morale asso-
14 Il volume Revisions [ 1 1 ] raccoglie parecchi studi che da diversi punti di vista, non tutti
pertinenti per il nostro tema, criticano l'etica moderna.
88 Capitolo II
luto e incondizionato. A sostegno di tale rifiuto Foot adduce argomenti che in
tendono mostrare che non si riesce a spiegare che cosa significhi un dovere mo
rale assoluto né perché l'imperativo morale debba essere categorico. Invece, in
linea con gli altri articoli raccolti in Virtues and Vices [7], ella sostiene che i giu
dizi morali forniscono ragioni per agire, non in quanto prescrivono categorica
mente un dovere, bensì in quanto esprimono interessi e desideri che un sog
getto possiede, appunto gl'interessi virtuosi, come: interessarsi alla sofferenza
degli altri, identificarsi con essi, desiderare di aiutarli, essere interessati alla li
bertà o dignità degli altri. Non è che un soggetto debba categoricamente avere
questi desideri: o li ha, e allora è già morale; o non li ha, e allora egli è immo
rale, è guasto, anche se non è per questo necessariamente irrazionale.
(1 1 ) Per altra via, e indipendentemente da questi autori, Stocker [5] mo
stra che le teorie etiche anglosassoni moderne provocano una schizofrenia nel
soggetto agente, una spaccatura tra motivi e ragioni per agire. Tra i vari
esempi di schizofrenia Stocker adduce il comportamento virtuoso [5, 462 ] :
uno è amico se, per amore o per stima d'un' altra persona, v a a visitarla mentre
è ricoverata in ospedale, anche a prezzo di notevoli incomodi. Questa è per lui
una ragione per agire. Ma tale ragione si trova in contrasto con qualsiasi mo
tivo che le teorie etiche moderne assegnano al soggetto morale: il proprio mi
glior interesse, il miglior interesse di tutti, o il dovere morale assoluto. L'in
fermo ci starà male quando, ringraziando commosso l'amico che lo visita, si
sentirà rispondere: «Di nulla ! L'ho fatto semplicemente per dovere! ».
Per tutte queste ragioni conviene abbandonare il concetto di dovere mo
rale, così caratteristico dell'etica moderna, e invece studiare le virtù, intese
come interessi o desideri per altre persone, per le loro necessità, per ciò che è
nobile ed elevato, per ciò che ha un valore e merita la nostra dedizione: i fini
delle virtù infatti « sono fini siffatti che suscitano devozione». 15 L'intenzione
delle virtù non è diretta al dovere, ma alle persone, a ciò che è bene per le per
sone, a ciò che è amabile, apprezzabile, desiderabile. L'intenzione del dovere è
estranea alla virtù.
studi raccolti poi nel libro The Sovereignty of Good [2] mirano a ristabilire la
filosofia morale dopo le rovine dell'etica moderna, centrata su principi e regole
di azione esteriore giust:;t. Come Anscombe, anche Murdoch diagnostica come
causa di rovina un'insufficiente psicologia morale. Nell'etica moderna il sog
getto morale è ridotto a un puro volere che decide secondo regole l'azione giu
sta. Murdoch si appella a certe esperienze morali ed artistiche per richiamare
l'attenzione sulla vita interiore (si tenga presente che leiè anche scrittrice di
opere di narrativa) . Scopre allora che agire bene non è semplicemente decidere
secondo regole, ma è effetto della maturazione d'una «visione», cioè di un
modo di vedere cose e persone che docilmente cerca di scoprire e di ricono
scere quel che veramente sono, il loro valore e la loro importanza. La visione è
indefinitamente perfettibile, e cresce mediante una disciplina del caotico
mondo interiore della fantasia e delle emozioni, disciplina che genera interessi
e attaccamento a tutto ciò che ha valore, è apprezzabile e desiderabile e con
verge nell'idea di bene. Tali attaccamenti sono appunto le virtù.
(1 3) La concentrazione sul problema della determinazione dell'azione giu
sta in base a regole deontologicamente o teleologicamente fondate ha come ri
sultato quello che Pincoffs [3] chiama etica dei casi imbarazzanti (quandary
ethics), un modo di far etica che Pincoffs considera abbastanza recente, ma
che era già praticato dalla casuistica tipica della teologia morale cattolica. All'e
tica dei casi imbarazzanti Pincoffs rimprovera di trascurare il carattere del sog
getto agente; egli dimostra invece quanta importanza abbia il carattere. Innan
zitutto solo un carattere virtuoso permette di osservare le regole stesse, quando
queste regole non sono prescrizioni specifiche o comandi, bensì ordini gene
rali (p. es. aiuta la tal persona) . Analogo rilievo fa Becker [ 4, 1 14- 1 15] quando
dice che solo il carattere virtuoso può stabilire lo standard ofperformance di un
dovere come quello di assistere una persona. Inoltre, osserva Pincoffs, il carat
tere può contribuire a determinare per un individuo dei doveri rigorosi che
non sono doveri universalizzabili. Ancora, la coscienziosità nell'osservanza di
regole è solo una delle qualità del carattere virtuoso; per quanto necessaria a
una vita sociale sempre più complessa, essa non esaurisce tutta la moralità: vi
sono virtù morali che non si possono ridurre alla coscienziosità. Infine il carat
tere d'una persona viene formato in comunità particolari, in cui si condividono
ideali e valori che impongono ai membri della comunità doveri loro specifici,
che non hanno senso per i membri di altre comunità.
( 1 4) Su una linea analoga si muove Becker [4] per denunciare la trascu
ranza del concetto di virtù nell'etica moderna. Egli analizza parecchie situa
zioni in cui è rilevante il giudizio morale sul carattere d'una persona, giudizio
che può anche non coincidere con il giudizio sulle sue azioni. Vi può essere di
vario tra azione giusta e carattere. Analoga tesi sostiene Trianosky [4 1 ] a propo
sito di vizi e di azioni sbagliate.
(1 5) A diversi degli autori menzionati si rifà esplicitamente il teologo prote-
90 Capitolo II
16
« Our society seems generally to think that to be moral, to act in a responsible way, is to
pursue our desires fairly - that is, in a manner that does not impinge on anyone else's freedom.
We assume we can do as we want so long as we do not harm or limit anyone else's choices. A
good society is one that provides the greatest amount of freedom for the greatest number of
people» (The Peaceable [20] 9).
11
Cf. ivi 19-22; 122-124.
18
«Though it was often systemized in the language of the virtues, it evidenced little concern
for or analysis of the actual development of virtue but instead concentrated on the fulfillment of
specific duties. [ . ] In fairness it shoul be said that Catholicism included other ways of thinking
..
about the mora! !ife, for example, spiritual and ascetica! theology. Y et these forms of literature
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 91
Maclntyre [ 10]. Qui l'attacco all'etica moderna è assai più radicale, la denun
cia del suo fallimento assai più impegnativa per le argomentazioni teoretiche e
storiografiche con cui è sostenuta, l'alternativa proposta assai più intransi
gente: o Nietzsche o Aristotele, non vi sono altre possibilità.
A/ter Virtue si apre con il desolante spettacolo d'un naufragio: le teorie eti
che elaborate dall'illuminismo fino ad oggi non sono che frammenti residui
d'una concezione della vita morale che è andata distrutta e che invece aveva do
minato nell'antichità greco-romana e nel medioevo cristiano con sostanziale
omogeneità pur compatibile con una pluralità di versioni. La prevalenza
odierna dell'emotivismo è il segno e lo sbocco finale di tale naufragio. Con il
termine emotivismo Maclntyre designa ogni teoria etica che, non trovando giu
stificazione razionale alle norme morali, le riconduce a opzioni radicali della li
bera volontà. Ritroviamo, sviluppata, la denuncia di Murdoch: il soggetto mo
rale è ridotto al sé emotivista, cioè a una pura volontà che opta, senza ragioni, ·
were not consìdered " ethics" sìnce they did not deal wìth specific judgments of right and wrong.
Moreover, much of the ascetica! lìterature was devotìonal in character and, thus, was not meant as
a means to explore systematic issues» (ivi 5 1 )
1 9 Cf. ivi 10- 1 1 ; 55-62.
20
Tale concetto « is rooted in the forms of sodai life to which the theorìsts of the classica!
92 Capitolo II
quindi la base per spiegare il senso delle norme morali. Rimane solo più un
concetto fattuale privo di riferimento a valori, per il quale vale la legge di
Hume: dall'uomo com'è non si deducono norme sul come dev'essere. Perso il
telos, è persa ogni possibile ragione per le credenze morali, e l'emotivismo di
venta inevitabile, fino alla sua più pura espressione in Nietzsche, dopo i pro
dromi dell'Aut Aut di Kierkegaard. La vicenda della morale presenta pertanto
solo quest'alternativa: o la morale illuminista fino a Nietzsche o la morale di
tipo aristotelico.
La morale aristotelica è per Maclntyre l'espressione paradigmatica della mo
rale della virtù della quale egli traccia la vicenda storica da Omero fino al me
dioevo, per osservare poi a quale radicale metamorfosi va soggetto il concetto
di virtù nell'etica moderna.
Il principio d'intelligibilità della morale della virtù è costituito dal telos,
cioè da quei beni umani che conferiscono valore, pregio, bellezza, bontà alla
vita umana e che vengono realizzati in pratiche di vita nelle quali i membri
d'una comunità svolgono ruoli in cui possono eccellere. Il telos si realizza
quindi essenzialmente in una comunità, sia essa la polis o la civitas christiana,
ove si partecipa tutti del comune bene umano e si condividono le pratiche e
gli standard di eccellenza per la sua realizzazione. È una concezione della co
munità che sta agli antipodi di quella liberale tipica dell'etica moderna.21
Il concetto di telos genera necessariamente il concetto di virtù. Nelle virtù
infatti, in quanto eccellenze delle pratiche, si realizza il bene umano che defini
sce la comunità e che conferisce valore alla vita, la rende buona. Ora la virtù
comporta una capacità di giudizio che non è riducibile alla rutinaria applica
.zione di regole.22 Anche il virtuoso deve applicare regole di giustizia, giacché
ogni comunità deve proibire assolutamente con leggi azioni incompatibili con
le virtù;23 ma anche tale applicazione chiede un giudizio assennato.24 In que-
tradition give espression. For according to that tradition to be a man is to fili a set of roles each of
which has its own point and purpose: member of a family, citizen, soldier, philosopher, servant of
God. lt is only when man is thought of as an individua! prior to and apart from ali roles that
" man" ceases to be a functional concept » (A/ter Virtue [ 10] 56).
21 « On this medieval view, as on the ancient, there is no room for the modem liberal distinc·
tion between law and morality, and there is not room for this because of what the medieval king
dom shares with the polis, as Aristotle conceived it. Both are conceived as communities in which
men in company pursue the human good and not merely as - what the modem liberal state takes
itself to be - providing the· arena in which individuai seeks his or her own private good» (ivi
160).
22 «The exercise of such judgment is not a routinisable application of rule» (ivi 141).
23 «So that an account of the virtues while an essential part of an account of the mora! life
of such a community could never be complete by itself. And Aristotle, as we have seen, recognises
that his account of the virtues has to be supplemented by some account, even if a brief one, of
those types of action which are absolutely prohibited» (ivi 143 ) .
24 « Knowing how t o apply the law is itself possible only fo r someone who possesses the vir
tue of justice. [ ... ] Hence judgment has an indispensable role in the life of the virtuous man which
it does not and could not have in, for example, the life of the merely law-abiding or rule-abiding
man» (ivi 144).
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 93
sta morale, la virtù non viene definita, diversamente da quanto avviene nell'e
tica moderna, come buona disposizione a osservare leggi o regole, bensì come
capacità di praticare con giudizio i beni umani che costituiscono il telos. Leggi
e regole sono a servizio della virtù, la quale ne fa applicazione giudiziosa.
Abbandonata nell'illuminismo l'idea del telos come coesivo d'una comu
nità, questa si vede frantumata in tanti individui, ciascuno con le sue passioni
egoiste. Non v'è allora modo di salvare la convivenza se non con regole che im
pongono l'altruismo: scompare la molteplicità delle virtù e fa la sua comparsa,
in corrispondenza a un nuovo concetto di moralità, la virtù come disposizione
a frenare l'egosimo per comportarsi secondo regole di altruismo.25 La radicale
metamorfosi del concetto di virtù è chiaramente documentabile in Hume, per
il quale la relazione della virtù alle regole è esattamente opposta a quella intesa
da Aristotele26 e le virtù scompaiono per lasciare il posto alla virtù, identifi
cata ormai alla moralità e finalmente alla giustizia.
Il progetto di Maclntyre, dopo questa diagnosi spietata dell'etica moderna,
è di abbandonare Nietzsche per Aristotele e di proseguire la tradizione aristote
lica, se non nella vasta società almeno in piccole comunità,27 liberandola però
dalla biologia metafisica cui essa si richiama per svilupparla secondo una teleo
logia sociale: il telos non è più ciò per cui è fatto un essere vivente, ma il bene
comune umano realizzabile in pratiche sociali.
II.
" «Either the virtues - or some of them - could be understood as expressions of the natu
ral passions of the individua! or they - or some of them - could be understood as dispositions
necessary curb and to limit the destructive effect of some of those same natural passions. [ .. ] It
.
was in the seventeeth and eighteenth centuries that morality carne generally to be understood as
offering a solution to the problems posed by human egoism and that the content of morality carne
to be largely equated with altruism » (ivi 2 12).
26 « Virtues are indeed now conceived of not, as in the Aristotelian scheme, as possessing a
role and function distinct from, and to be contrasted with, that of rules or laws, but rather as
being just those dispositions necessary to produce obedience to the rules of morality» (ivi 2 16).
27 « What matters at this stage is the construction of loca! forms of community within which
civility and the intellectual and mora! !ife can be sustained through the new dark ages which are
already upon us» (ivi 245). È la stessa idea cara ad Hauerwas: le virtù, come espressioni del carat
tere, possono esistere solo in particolari comunità.
94 Capitolo II
28
Cf. il libro di U. Wolf citato alla fine di n. 5. «Auch in der Moderne aber ist es moglich,
eine Ordnung zu entwerfen, in der jeder sein Charakterexperiment eigener Lebensgestaltung und
seine Giiter wagen kann, um Zustimmung werben und ihre Verniinftigkeit als Zumutbarkeit im of
fentlichen "Gemeinsinn" priifen. Der demokratische Verfassungsstaat erfiillt - mehr oder weni
ger - diese Aufgabe. Zwar gewahrleistet er nicht die Konfliktfreiheit moglicher Lebensformen.
Doch war das in einem hierarchischen Modell des guten Lebens nicht anders. Kontingent bleibt
es nun - aber das ist ein Zug von Freiheit -, ob man fiir seine Entwiirfe Interesse bei anderen
findet, und ob sie sich auf den Versuch einer gemeinsamen Praxis einlassen. Auch wo Zustim
mung und gemeinsames Handeln nicht entstehen, lebt man im Recht mit allen anderen immerhin
in einer Ordnung, die das moralische Gut des Friedens und der gegenseitigen Anerkennung ver
biirgt, und das ist mehr als die biirokratische, sinnlose Zwangseinheit, die Maclntyre darin sieht»:
B. HALLER, ree. a After Virtue, in Phil. Jahrb. 92 ( 1985) 434-435. « Liberal society and its distinc
tive modes of public discourse are best viewed, I would argue, as the result of a manifest failure
to achieve agreement on a fully detailed conception of the good - as the arrangements and con
ventions of people who contracted, in effect, to limit the damage of that failure by settling for a
thinner conception of the good more people could agree to, given the alternatives and until some
thing better carne along. The notions of human rights and respect for persons, which are apt to
look like mere " fictions" when their Enlightenment interpretations are unmasked by a Maclntyre,
are better seen as conceptual expressions of institutions and compromises pragmatically justified
under historical circumstances where a relatively thin conception of the good is the most that
people can secure rational agreement on»: ]. STOUT, ree. a A/ter Virtue, in Neue Z f Th. u. Rei.
26 ( 1984) 2 7 1 . Riprenderò la questione nel capitolo VII 18-19, 2 1 .
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 95
venza sembra essere quella proposta dall'etica liberale: stabilire regole univer
sali di convivenza, la cui doverosità assoluta è basata nei diritti delle persone, e
che servono a determinare le azioni giuste, obbligatorie, richieste, che qualsiasi
soggetto deve categoricamente realizzare indipendentemente dal suo carattere.
In una società di estranei, argomenta R. Veatch,29 è molto più necessario che
un medico sappia prendere la decisione giusta che non il fatto che egli sia vir
tuoso; questo se mai avrà il suo peso all'interno d'una particolare comunità,
per i membri di tale comunità in quanto non sono estranei tra loro.
Tutto ciò si situa nella linea della legalità kantiana, cioè del dovere catego
rico di porre certe azioni giuste, anche se non per il motivo del dovere, e con
formi alle regole del diritto: in questo modo si garantisce la pacifica convivenza
di individui che hanno una libertà esteriore di azione, indipendentemente dal
l'uso che ciascuno farà dello spazio di libertà che gli è garantito. Ma, come ha
mostrato O. Hoffe,30 per Kant la legalità, benché distinta dalla moralità o
virtù, è solo una parte della morale. In ciò egli prolunga la linea della filosofia
morale aristotelica, nella quale la giustizia legale è solo una delle virtù, e si
nanco della teoria tomista, per la quale la giustizia legale ha un suo giusto
mezzo oggettivo, il medium rei.
Ciò che è errato nell'etica moderna, come rileva Pincoffs,31 è aver ridotto
a questo particolare aspetto tutta la morale, e aver ridotto le virtù alla coscien
ziosità nell'osservare le regole sociali.
Se dunque il concetto di virtù esprime un aspetto dell'esperienza morale
che è misconosciuto nell'etica moderna, è anche vero che l'etica, riscoprendo
il concetto di virtù, non può trascurare il problema della pacifica convivenza
di individui che hanno diverse concezioni della vita e diversi interessi. Se può
esser vero che la formazione della virtù richiede comunità piccole e partico
lari, come esigono Hauerwas e Maclntyre, è anche vero che tali comunità ri
chiedono una società di diritto e democratica per poter sussistere: resta per
tanto aperto il problema se, nell'odierna società, la legge possa ancora esser fi
nalizzata a formare uomini virtuosi, com'era richiesto da Aristotele, Cicerone,
·
" La tesi tradizionale venne difesa, adattandola alle condizioni odierne, da Robert E.
RODES, Jr., On Law and Virtue, in NEUHAUS, [73) 30-42, ma fu vivacemente criticata nel dibattito
che seguì (ivi 74-8 1). Qualcosa ne dirò nel capitolo VII 2 1 .
3 3 Cf. René Antoine GAUTHIER - Jean Yves ]OLIF, L'Ethique à Nicomaque. III: Commen
taire. Deuxième Pattie. Livres VI-X. Louvain - Paris 1959, 563-578: vi si documenta la presenza
di tale idea nell'Etica Nicomachea e si ipotizzano le ragioni per cui essa non è tematizzata. Tuttavia
è vero che nella teologia morale della seconda scolastica e nelle sue derivazioni storiche, l'etica
laica razionalista e la teologia morale postridentina, i concetti di obbligazione e di dovere assu
mono un'importanza del tutto nuova, per le ragioni e nel modo esposto da S. PINCKAERS, Les
sources 197-300. Uno studio sulle radici storiche dell'etica moderna e dell'importanza che in essa
ha il concetto di dovere, radici da ricercarsi nella seconda scolastica, resta ancora da fare.
34 «A man's character is likely to exhibit itself in his making obligatory for himself what he
would not hold others obliged to do» (PINCOFFS [3] 104).
" Una fine analisi della necessità morale avvertita dal virtuoso è elaborata, sulla base del
Gorgia platonico, degli scritti di Simone Weil e di pagine di letteratura, da Ilham DILMAN, Mora
lity and the Inner Li/e. A Study in Plato's «Gorgias», London 1979, 153 - 169.
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 97
vina. Dall'altra parte è pur vero che il concetto classico di virtù non si lascia ri
durre al concetto moderno di virtù come disposizione a osservare delle regole
di pacifica convivenza, o ad agire secondo principi di moralità, o a eseguire vo
lentieri doveri e azioni giuste definite indipendentemente dalla virtù.
Il concetto di virtù non esclude il dovere: in un certo senso del termine
«dovere», la virtù si definisce in funzione del dovere; in un certo altro senso è
la virtù che definisce il dovere. Delle distinzioni semantiche sono necessarie.
D'altra parte il concetto classico di virtù esprime aspetti dell'esperienza morale
che sono trascurati dall'etica moderna e dal concetto moderno di virtù: più pre
cisamente esprime una complessa e fine psicologia del soggetto agente, per la
quale può esser vero sia dire che il virtuoso agisce per dovere, sia dire che chi
agisce per dovere non è ancora virtuoso. Anche qui delle distinzioni semanti
che circa l'agire per sono necessarie. Il concetto classico di virtù intendeva arti
colare proprio la psicologia morale del soggetto agente.
(20) 1 ) È già significativo il fatto che oggi, per indicare ciò che Aristotele o
s. Tommaso vollero esprimere con la loro teoria della virtù, si debba parlare
di psicologia morale36 e si abbia cura di elaborarla indipendentemente dalla
cosiddetta etica normativa. Sia questo nuovo stato di cose, sia la principalità
dei concetti di dovere e di obbligazione nell'etica moderna, sia la concentra
zione sull'azione giusta che porta a trascurare la « visione» ed il carattere, sia
ancora l'emarginazione del concetto di virtù o la sua metamorfosi dal concetto
classico al concetto moderno, sono tutti effetti connessi tra loro che possono
essere ricondotti ad un'unica causa.
Individuando questa causa, individuiamo il tratto discriminante che segna
la frattura tra etica antica o medievale ed etica moderna. È una frattura che in
troduce nel significato dei principali termini etici un'insanabile equivocità, per
cui è tanto difficile al moralista moderno entrare nell'universo dell'etica aristo
telica o tomista, quanto resterebbero disorientati Aristotele e l'Aquinate di
fronte al discorso del moralista moderno. La frattura ha fatto cadere i pro
blemi che per loro erano familiari e importanti ed ha introdotto problemi che
essi pressoché ignorarono.
Il discriminante è dato da uno spostamento del punto di vista principale se
condo cui viene elaborata l'etica: lo designeremo come sostituzione dell'antico
punto di vista della prima persona o del soggetto agente con il moderno punto
di vista della terza persona o dell'osservatore, del giudice, del legislatore. L'iden
tificazione di questo discriminante la si trova operata da almeno cinque degli
autori che intervengono nel nostro dibattito e costituisce l'acquisizione più im
portante del dibattito stesso.
37 «If one reads the Nichomachean Ethics after reading the works (for example) of Profes
sor G.E. Moore or Sir David Ross or Professor Stevenson, one has the impression of confronting
a wholly different subject. The first point of difference can be tentatively expressed by saying that
Aristotle is almost entirely concerned to analyse the problems of the moral agent, while most con
temporary mora! philosophers seem to be primarily concerned to analyse the problems of the
mora! judge or critic. Aristotle describes and analyses the processes of thought, or types of argu
ment, which lead up to the choice of one course of action, or way of !ife, in preference to another,
while most contemporary philosophers describe the arguments (or lack of arguments) which lead
up to the acceptance or rejection of a moral judgment about actions. Aristotle's Ethics incidentally
mentions the kinds of arguments we use as spectators in justifying sentences which espress mora!
praise and blame of actions already performed, while many contemporary mora! philosophers scar
cely mention any other kind of argument. Aristotle's principal question is: What sort of arguments
do we use in practical deliberation about policies and courses of action and in choosing one kind
of !ife in preference to another? What are the characteristic differences between mora! and theore
tical problems? The question posed by most contemporary mora! philosophers seems to be: What
do we mean by, and how (if at all) do we establish the truth of, sentences used to express mora!
judgments about our own or other people's actions? » (Revisions [ 1 1] 52).
38 Per l'etica dei casi imbarazzanti i problemi sorgono solo quando vi è conflitto di regole o
di principi: «The argument that there is a need for such rules and principles is inevitably a Hob
besian one. But it was precisely the source of the discomfort with Hobbes that he approached
ethics from this administrative point of view. He abandoned the cultivated mora! self and insisted
on reducing ethics to a code of minimal standards of behaviour: standards which cannot be igno
red without socia! disaster» (PINCOFFS [3] 107).
39 « In conclusion, it might be asked how contemporary ethical theories come to require ei
ther a stunted mora! !ife or' disharmony, schizophrenia. [ ... ] [This preeminence of duty, rightness,
and obligation in these theories] also fits naturally with a major concern of those philosophers: le
gislation. When concerned with legislation, they were concerned with duty, rightness, obligation.
[ . . . ] When viewing morality from such a legislator's point of view, taking such legislation to be the
model, motivation too easily becomes irrelevant. The legislator wants various things done or not
done; it is not important why they are done or not done; one can count on and know the actions,
but not the motives » (STOCKER [5] 465).
40 «The kind of concern represented by this idea of character is more important morally
from the point of view of the agent than of the mora! judge. This constrast is illustrated by the im
mense disparity of concerns that one feels when we contrast Aristotle's ethics with modern mora!
philosophy» (Character [17] 3 1 ) . «The lack of interest among mora! philosophers in the problems
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 99
of character and virtue can be almost completely attributed to this concentration on the specta
tor's point of view as the mora! point of view» (ivi 33).
4 1 «The difference between an ethics of virtue and obligation is not the activity of reason gi
ving, but rather the kinds of reasons that are seen to count as " rational" . [ . . ] A stress on obliga
.
tion tends to characterize " reasons" as those that only an impartial spectator would give to explain
an agent's discrete acts» (Obligation [ 18] 38).
42 «It is, however, unwarranted to declare this aspect of our mora! existence [defensive
ethics] to be the whole of morality in distinction to the virtues and ideals we know to be essential
to being human. To do so places ethical reflection too much at the service of the mora! judge
whose interests are what are minimally required for the functioning of society. Ethics must also be
concerned with suggesting those images, and ideals that encourage human flourishing» (Obliga
tion [18] 4 1 -42).
43 «According to such [post-kantian] philosophers the main task of the mora! theorist is to
catalogue our mora! duties and obligations; they think of themselves, as mora! theorists, on the
model of legislators who are to provide a system of rules and principles which will guide the con
duct of individuals by dictating what is to be done in any situation that falls under the rules and
principles of the system. So, when confronted with the importance of virtuous acts, they merely as
similate them to obligations and duties. Por instance, they will say that someone ought to give a
particular charity or ought to be grateful, and that this is no different from saying that the person
has an obligation to give to this charity or a duty to be grateful. Often enough, though, it will quick
ly be added that these are " special" duties or " imperfect" duties. Thus they would make the dis
tinction between meritorious acts which are non-obligatory and non-duteous from those that are
by inflating the category of the Requirements of Morality to include the former» (HuosoN [66]
194-195).
44 È questa la concezione della virtù che si ritrova nei manuali cattolici di teologia morale
100 Capitolo II
È vero che l'esigenza di porgere più attenzione al soggetto agente viene av
vertita sempre di più dai moralisti cattolici, e questo porta a ridare importanza
a concetti come virtù, atteggiamenti, opzione fondamentale.45 Ma queste inte
grazioni lasciano intatto il punto di vista dominante, che resta quello della
terza persona.
(21 ) 2) Il passaggio dal punto di vista della prima persona a quello della
terza persona non costituisce solo il tratto discriminante tra etica antica ed
etica moderna, ma segna anche una decadenza nella storia dell'etica: poiché l'e
tica non solo non può fare a meno del punto di vista del soggetto agente, ma
deve tenerlo come punto di vista principale ; se lo trascura, perde la possibilità
di dare risposte a domande che il punto di vista della terza persona pone inevi
tabilmente.
Ogni etica della terza persona infatti si preoccupa di dare principi e regole
per determinare l'azione giusta: se è un'etica utilitarista, l'azione è giusta
quando produce il maggior benessere delle persone interessate; se è un'etica
della giustizia, l'azione è giusta quando non lede lo spazio di libertà d'azione
cui ciascuno ha diritto ed entro il quale può soddisfare i propri desideri. L'e
tica della terza persona mira a creare un assetto sociale ove l'uomo come sog
getto di desideri o l'uomo come soggetto autonomo possa fare ciò che vuole
senza danneggiare altri, o danneggiandoli solo per un miglior risultato. Di ciò
che poi ciascuno fa per soddisfare i propri desideri o dell'uso che ciascuno fa
dei propri spazi di libertà l'etica moderna si rifiuta di parlare; sarebbe una que
stione puramente privata e soggettiva; ognuno la vita se la gestisce come
vuole. In questo modo però il sistema dei principi e delle norme è tacitamente
a servizio degl'interessi e dei desideri dei singoli soggetti liberi, per i quali si
vuol garantire la possibilità di soddisfazione e la miglior soddisfazione. Il che
equivale a riconoscere che l'importanza dei soggetti, della loro libertà e dei
loro desideri, è principale. Ma proprio sul senso della vita dei soggetti liberi si
tace. Eppure, se non si tematizza tale senso, resta senza risposta la domanda:
perché essere morali? perché cioè osservare regole utilitarie o di giustizia?46
[56-62]. Per la Grundhaltung cf. SCHOLLER [38]; ne parlerò più avanti, II 45. Per uno sviluppo
maggiore e più documentato di tutte queste sommarie osservazioni cf. Servais PINCKAERS, La na
ture de la moralité: morale casuistique et morale thomiste, in Saint Thomas d'Aquin. Somme Théolo
gique. Les actes humains. Tome Deuxième: f'-2"', Questions 18-2 1 , Paris - Tournai - Rome 1966,
2 15-272; cf. inoltre Io., Les sources; Io., La question des actes intrinsèquement mauvais et le «pro
portionnalisme». La morale catholique après le Conci/e et après l'encyclique «Humanae Vitae», in
Revue Thomiste 82 ( 1982) 181-2 12 : qui Pinckaers riscontra nell'odierna teologia morale la stessa
concentrazione sull'azione giusta che era già tipica della morale casuista. Un eloquente esempio di
questa concentrazione è il libro di Garth L. HALLETT, Christian Mora! Reasoning: An Analytic
Guide, Notre Dame - London 1983, specialmente p. 19-28: pèr determinare l'azione giusta oc
corre un procedimento razionale che prescinda da ogni interesse o motivazione del soggetto
agente.
4' Cf. [56-62].
4 6 «La questione decisiva emerge infatti proprio quando i suddetti spazi di libertà sono stati
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 101
assicurati: che C:osa ne faccio della mia vita? Qual è la risposta adeguata a questa libertà che mi
viene offerta? » (LOBKOWICZ [ 12] 20).
47 È ciò che ha tentato HAUERWAS nel capitolo centrale di Character [ 17] 83-128; tuttavia la
sua teoria dell'azione è lungi dal presentare la profondità e complessità del de actibus humanis
della II Pars (I-Il, 6-48). Lo stesso MAcINTYRE [ 10] 191-203 abbozza una teoria del soggetto
agente come unità narrativa, ma non penetra nel processo di gestazione della condotta da parte
del soggetto agente; per cui egli concepisce la virtù più come eccellenza in una pratica sociale che
come eccellenza del soggetto agente come tale.
48 Si deve far risalire al punto di vista dell'osservatore il fatto che nei manuali di teologia mo
rale e di filosofia morale neoscolastici la trattazione si concentri soprattutto sulla volontarietà e sui
suoi condizionamenti (è questo che interessa al giudice), mentre l'ampia considerazione fatta da s.
Tommaso sul processo di gestazione della scelta viene o trascurata o ridotta ad uno schema con
venzionale di cui s'ignora la ragion d'essere. Perdendo l'interesse per la gestazione della scelta, si
perde il presupposto per capire la teoria tomista della virtù, che è tutta elaborata in funzione della
teoria tomista dell'azione.
102 Capitolo II
49 V. sopra I 10-2 1, 33-35, ove compendio i risultati delle analisi condotte da DENT [82] 106-
120, il quale sviluppa i concetti aristotelici di boulesis e di prohairesis.
'0 « [Per i Greci l'etica] e la filosofia pratica non erano tanto teorie fondative delle prescri
zioni a cui dobbiamo sottometterci o di ciò che possiamo permetterci, ma costituivano piuttosto
una riflessione sul tipo di vita più consono al nostro essere uomini: questione, questa, che conduce
inevitabilmente a quelle riguardanti il nostro dovere e la liceità o meno di questo o di quello, ma
il cui nucleo essenziale è costituito, come dicevo, dal tipo di vita che maggiormente rende perfetto
l'uomo» (LOBKOWICZ [ 12] 14)'. « Quando infatti il problema decisivo non è se sono obbligato a
fare questo o se è lecito fare quest'altro, bensì come debbo impostare la mia vita per meglio realiz
zare il fine che mi è proprio come uomo, le singole azioni, pur non diventando insignificanti, ven
gono poste tuttavia in un contesto più ampio. Esse contribuiscono a costruire o a distruggere gli
atteggiamenti che potrebbero favorire o rendere più difficile lo stile di vita più conforme al fine
che ognuno di noi ha in se stesso» (ivi 15). Recentemente ha sostenuto l'esigenza di riprendere la
domanda circa la vita buona, con forte critica all'etica moderna, Bernard WILLIAMS, Ethics and the
Limits o/Philosophy, London 1985. La vita buona è l'oggetto dell'antologia Ways o/Wisdom. Read
ings on the Good Li/e, edited by Steve SMITil, Lanham - London 1983; e della miscellanea The
Good Li/e and its Pursuit, edited by Jude P. DoUGHERTY, New York 1984. S'interessano alla vita
buona anche vari autori che studiano il tema della felicità, soprattutto Hans Kramer: v. sopra I 9.
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 103
51 V. sopra alla n. 30: Hoffe mostra che per Kant la filosofia morale comprende sia la mora
lità (o dottrina della virtù o della buona volontà) sia la legalità (o dottrina del diritto). Cf. inoltre
GRISEZ [62] 55-56; 154- 155: criticando il proporzionalismo 'di parecchi teologi moralisti odierni,
mostra in maniera straordinariamente chiara la differenza tra il concetto proporzionalista di mora
lità, come sistema per produrre efficientemente uno stato di cose (concetto di matrice hobbe
siana), e il concetto cristiano di moralità, come regola del volere prima che del fare (concetto a
cui Kant dà la dovuta importanza) .
5 2 Cf. [5] 157-159. «The pages devoted to the role o f Stoicism in modem ethics are some of
the most thought provoking in the entire book»: Russell HITTINGER, ree. a After Virtue, in The
New Scholasticism 56 ( 1982) 386.
" Cf. Character [17] 35- 128. Si sarà notato che il concetto stoico di virtù è quello adottato
da Kant.
54 Cf. I-II, 49, 4.
104 Capitolo II
55 Cf. I-II, 5 1 , l; 63, 1. Questi testi sono di capitale importanza per capire la teoria tomista
della virtù e su di essi ritornerò più avanti: v: sotto V 33-38.Qualcosa ne ho detto in Lex et virtus
184-196.
56 «Actus et electiones hominum sunt circa singularia. Unde ex hoc ipso quod appetitus sen
sitivus est virtus particularis, habet magnam virtutem ad hoc quod per ipsum sic disponatur
homo, ut ei aliquid videatur sic ve! aliter, circa singularia» (I-II, 9, 2, 2m).
57 « Qualis unusquisque est, talis finis videtur ei» (I-II, 9, 2c). Questa sentenza aristotelica
(EN III 5 = 1 1 14 a 32) ha grande peso nella teoria tomista della virtù: cf. Lex et virtus 207-208.
58 Cf. Lex et virtus 187-196: I «Christian Mora! Principles» 667-672.
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 105
(26) Adottando il punto di vista del soggetto agente abbiamo scoperto che
non solo si apre necessariamente la domanda circa la vita buona, ma che tale
domanda costituisce la domanda principale, giacché dal concetto di vita buona
ricavano senso la condotta umana, le virtù, le norme, i doveri. Questa do
manda è del tutto disattesa, o per lo meno trattata marginalmente, nell'etica di
terza persona;59 essa invece era la domanda centrale nell'etica antica e medie
vale e non ha perso nemmeno oggi il suo interesse.60
Abbiamo osservato come anche Maclntyre ritrovi la funzione di principio
architettonico, che il concetto di vita buona ha, per la costruzione dell'etica.
Egli non solo denuncia il fallimento necessario di ogni progetto moderno di
giustificazione delle norme, ma indica la causa di tale fallimento nell'abban
dono del concetto aristotelico di telos della natura umana e considera Niet
zsche lo sbocco finale di quest'avventura moderna. L'unica alternativa a Niet
zsche è per lui l'etica di tipo atistotelico, ma ripresa in maniera critica.
Maclntyre infatti ritiene che il concetto aristotelico di telos della natura
umana, che starebbe alla base della sua etica, è legato ad una biologia metafi
sicà ormai insostenibile; ma ritiene anche che tale legame non è necessario: si
può ricuperare il telos non come fine per cui è fatta la natura umana, ma come
bene comune di una società. Esso consiste in una molteplicità di beni umani,
che costituiscono lo scopo immanente di altrettante pratiche più o meno istitu
zionalizzate. Ciascun membro della società trova la sua identità nei ruoli che
esso svolge per la realizzazione del bene comune della sua società attraverso
pratiche diverse. I concetti di telos sociale e di ruolo funzionale permettono l' e
laborazione e la giustificazione di norme, che in alcuni casi di particolare im
portanza sono espresse nelle leggi della società.
(27) Per evitare un concetto biologico Maclntyre approda a un concetto
funzionale di uomo. Ma così facendo egli non è veramente aristotelico, perché
l'Etica Nicomachea non adotta né l'uno né l'altro concetto di uomo, e ne ha in
vece un terzo che Maclntyre non percepisce a pieno, il concetto cioè di uomo
come autore razionale. Spieghiamoci. L'idea che l'Etica Nicomachea sia basata
su una biologia teleologica, della natura umana è molto diffusa e radicata, ma
non corrisponde alla realtà storica. Gauthier ha mostrato ch'essa è estranea
all'etica aristotelica ed è invece di derivazione stoica. 61 D'altra parte, Rist ha
59 WARNOCK [ 49] 89-91 scarta questa domanda dalla sua etica di tipo hobbesiano come do
manda priva di senso o, se senso essa ha, come priva di risposta, in ogni caso come domanda cui
l'etica non può dare risposta.
60
V. sopra n. 50. L'inesauribilità e la ricchezza del tema della vita buona spiega la varietà
di sviluppi che esso può avere: due recenti esempi li troviamo nel filosofo WEINSTEIN [71] e nel
teologo protestante EVANS [74], che delineano una figura di vita buona sulla base d'un sistema di
virtù.
61
«La nature, fondement ultime de la moralité, voilà donc bien un thème " aristotélicien" ty-
106 Capitolo II
mostrato che, benché nell'etica aristotelica il bene per l'uomo sia molto dipen
dente dal buon funzionamento della società, tuttavia né per Aristotele né per
alcun filosofo antico l'individuo vale in quanto funzione della società;62 nem
meno è riscontrabile presso di loro il concetto, di origine cristiana, del valore
della persona. Semplicemente, per loro, l'individuo vale in quanto sa farsi va
lere; per Aristotele egli sa farsi valere nella misura in cui è razionale.
La risposta aristotelica alla domanda circa la vita buona che si pone l'indi
viduo agente sta nello scoprire il ruolo della ragion pratica.63 Ma il concetto
aristotelico di ragion pratica è diverso sia da quello di Hume, per il quale la ra
gione è pratica solo in quanto ragiona per trovare il modo di soddisfare desi
deri dati;64 sia da quello di Kant, per il quale la ragione è pratica in quanto da
se stessa prescrive di regolarsi secondo massime universalizzabili senza contrad
dizioni.
La ragione aristotelica è resa pratica dal fatto che essa percepisce la deside
rabilità di certi beni umani, il loro valore e la loro idoneità a costituire, come
fini da essere perseguiti nella prassi, gl'ingredienti della vita buona; conseguen
temente la ragione può regolare saggiamente la loro realizzazione nelle azioni
concrete e contingenti.65 È proprio questo concetto di ragion pratica che
sfugge a Maclntyre, almeno nella sua funzione architettonica, e per saperne di
più occorre attendere il libro da lui promesso ([ 10] 242) sulla razionalità pra
tica.
Sicché nemmeno Maclntyre riesce a raggiungere il punto di vista del sog
getto agente; facendo leva su un concetto funzionale di uomo non rende giusti
zia all'individuo come autore di condotta; identificando l'uomo con i suoi
ruoli nelle pratiche sociali della vita buona egli resta ancora nell'ambito dell' e
tica moderna di terza persona. Per quanto valida possa essere la sua critica, la
sua proposta resta ancora a mezza strada: della vita buona si può parlare nel
pique. Mais ce thème " aristotélicien" , c'est en vain que nous le chercherions dans l'Ethique à Nico
maque. [ ... ] En tout cas, il est certain que ce n'est pas sur sa doctrine de la finalité de la natura
qu'Aristote fonde son éthique» (René Antoine GAUTHIER, L'Ethique à Nicomaque, Tome I, Pre
mière pattie: Introduction, Louvain - Paris 1970, 243).
62
« For Aristotle ali men, apart from the contemplatives, are necessarily lessened in value if
they do not live in the sort of society which enables them to function " morally" » (John M. RIST,
Human Value. A Study in Ancient Philosophical Ethics, Leiden 1982, 89). Tuttavia: «There is in
the philosophy of antiquity no higher morality of the state» (ivi 97) ; «As a result of our contempo
rary attitude to the state, we have greatly overestimated its role in ancient thought» (ivi 98). Tutto
il libro di Rist documenta che il concetto di valore della persona è estraneo alla filosofia pagana e
appare solo con il Cristianesimo.
63 «Ce qui est propre à Aristate, ce qui définit sa morale, c'est l'effort qu'il fait pour réduire
le kalon, comme le déon, à n'etre que les manifestations d'une régle qu'énonce la sagesse, vertu de
la raison pratique» (GAUTHIER, o.e. 289).
64 DENT [82] sviluppa ampiamente il concetto aristotelico di ragion pratica criticando quello
di Hume.
6' Per una buona illustrazione del concetto aristotelico di ragion pratica cf. John FINNIS,
Fundamentals o/ Ethics, Oxford 1983, 1-25.
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 107
(29) La maggior parte delle risposte alle critiche può essere ordinata attorno
a due nuclei.
Un primo nucleo è costituito dalla discussione pubblicata nel ]ournal o/Re
ligious Ethics: un fascicolo del 1973 raccoglie tre contributi, di Carney [26],
Dyck [27], Frankena [28], che propongono in modo diverso un'integrazione
dei concetti di virtù e di dovere nell'etica. A Frankena risponde poi Hauerwas
[ 18] sostenendo la principalità della virtù sul dovere; controbatte Frankena
[29] sostenendo la principalità del dovere sulla virtù. Conclude la discussione
Schenck [30] correggendo la definizione che Frankena dà del punto di vista
morale con istanze desunte dalle critiche di Hauerwas.
Un secondo nucleo è costituito dalle risposte date da Flemming [3 1 ] , Beeh
ler [32 ] , Baron [33 ; 35] , Louden [36] e Smith [37] alla proposta di Ans
combe [l] e di Foot [7] di abolire il concetto di dovere morale e dalla rispo
sta di Baron [34] all'obiezione mossa da Stocker [5] e da Williams [6] contro
la motivazione del dovere come incompatibile con la virtù.
In margine a questi due nuclei sono da prendere in considerazione soprat
tutto uno studio di Beauchamp [ 40] che propone un'equivalenza tra virtù e do
veri; inoltre due studi di Schi.iller [38-39] sul posto da assegnare alla virtù nel-
1' etica normativa che stabilisce i principi secondo cui si ha da determinare la
giustezza o correttezza delle azioni. L'articolo di Trianosky [ 4 1 ] rileva il diva-
108 Capitolo II
rio che può esserci tra giudizio sull'azione sbagliata e giudizio sul motivo sba
gliato.
Per evitare ripetizioni e per percepire più chiaramente lo status quaestio
nis sarà conveniente recensire questi studi in un ordine più sistematico.
66
«The last vice I shall mention has a more socio-historical character. lt seems to me that
there is a bit of utopianism behind the virtue theorist's complaints about the ethics of rules. Su
rely, one reason there is more emphasis on rules and regulations in modem society is that things
have gotten more complex. Our mora! community (insofar as it makes sense to speak of " commu
nity" in these narcissistic times) contains more ethnic, religious, and class groups than did the
mora! community which Aristotle theorized about. Unfortunately, each segment of society has not
only its own interests but its own set of virtues as well. There is no generai agreed upon and signi
ficant expression of desirable mora! character in such a world. Indeed, our pluralist culture prides
itself on and defines itself in terms of its alleged value neutrality and its Jack of allegiance to any
one mora! tradition. This absence of agreement regarding human purposes and mora! ideals seem
to drive us (partly out of Jack of alternatives) to a more legalistic form of morality. To suppose
that academic theorists can alter the situation simply by reemphasizing certain concepts is illu
sory. Our world lacks the sort of mora! cohesiveness and value unity which traditional virtue theo
rists saw as prerequisites of viable mora! community» (LOUDEN [36] 234-235).
67 «The shortcomings described are not esoteric - they concern mundane features of
mora! experience which any minimally adequate mora! theory should be expected to account for.
While I do think that contemporary virtue theorists are correct in asserting that any adequate
mora! theory must account for the fact of character, and that no ethics of rules, pure and unsup
plemented, is up to this job, the above analysis also suggests that no ethics of virtue, pure and un
supplemented, can be satisfactory» (ivi 235).
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 109
vece essa deve coordinare tutti questi aspetti irriducibili se vuol essere ade
guata ali' esperienza morale. 68
(31 ) 2) Proprio questo rispetto alla complessità dell'esperienza morale mi
.
fa ritenere che la proposta di Louden sia più ragionevole e soddisfacente che
non il tentativo di Schiiller [39) di neutralizzare la riabilitazione della virtù. Le
sue meticolose analisi semantiche intendono mostrare che non la virtù è andata
persa nell'etica moderna, ma solo la terminologia della virtù: ciò che ad esem
pio un tempo si diceva sotto il titolo prudenza lo si dice oggi sotto il titolo for
mazione della coscienza. Sicché i tentativi di riabilitare la virtù si risolverebbero
in un inutile tentativo di ripristinare un linguaggio arcaico.
Vedremo più sotto che Schiiller ha della virtù non il concetto tomista,
bensì quello moderno stoicizzante e legge nella II Pars solo ciò che questo con
cetto gli permette di leggere. Perciò egli può scorgere solo una mutazione di
vocabolario e non anche una perdita reale: la teoria tomista della virtù espri
meva aspetti dell'esperienza morale che non si ritrovano più considerati in nes
sun' etica moderna, tanto meno nell'etica normativa di Schiiller.
(32) 3) Analizzando alcune storie e alcuni caratteri riferiti nella letteratura
biblica, Carney [26) cerca di mostrare « che cosa noi possiamo dire in etica con
la nozione (o le nozioni) di virtù che non possiamo dire (o dire ugualmente
bene) con la nozione (o le nozioni) di obbligazione» ( [26) 6) . Con il concetto
di virtù s'intende esprimere ben più che un comportamento attuato per il mo
tivo del dovere contro dure tentazioni o con ferma disposizione a compiere
atti giusti. Nel caso del buon samaritano il concetto di virtù vuol esprimere «la
sua disposizione a discernere [i bisogni umani] e ad essere toccato da essi in
una maniera che va al di là delle percezioni e delle risposte ordinariamente pre
supposte nelle nozioni di obbligazione» ( [26) 1 1) .
Non è ancora tutto, ma è già un buon inizio. Ma Carney non procede
oltre. Gli preme invece rilevare, contro Anscombe [ l ] , che l'etica, special
mente quella cristiana, se non può prescindere dalla virtù, non può nemmeno
prescindere dall'obbligazione, qualora si sappia distinguere l'obbligazione dalla
costrizione e s'intenda l'obbligazione come « esser sotto esser legati dall'im
pegno per una norma o standard] uno standard che serva (a) come ragione
per fare l'azione x e (b) come base su cui il soggetto o altri può criticare (ap
provare o disapprovare) il fare o il permettere l'azione X» ( [26) 13 ) .
Nemmeno qui Carney procede oltre: gli basta aver suggerito che l'etica
68
«My own view (which can only be stated summarily here) is that we need to begin efforts
to coordinate irreducible or strong notions of virtue along with irreducible or strong conceptions
of the various act notions into our conceptual scheme of morality.[ ... ] The theoretician's quest for
conceptual economy and elegance has been won at too great a price, for the resulting reductionist
definitions of the mora! concepts are not true to the facts of mora! experience. lt is important now
to see the ethics of virtue and the ethics of rules as adding up, rather than as cancelling each other
out» (ivi 235).
1 10 Capitolo II
deve adottare sia il concetto di virtù sia quello di obbligazione per esprimere
adeguatamente l'esperienza morale cristiana riferita nella letteratura biblica.
Come l'integrazione debba avvenire egli non lo spiega.
(33) 4) Una figura d'etica ove sono integrati i concetti di virtù, di dovere,
di diritti è proposta da Beauchamp [40] . Egli costruisce un parallelismo tra
virtù, doveri, diritti abbastanza flessibile da poter riflettere la complessità dell'e
sperienza morale e della sua espressione linguistica. Le virtù sono guide d'a
zione altrettanto quanto lo sono i principi o regole del dovere e quanto i di
ritti. A seconda del contesto ricorriamo alle une o agli altri.69 L'importanza
delle virtù sta nel rendere rutinario l'adempimento dei doveri.70
Questo tipo d'integrazione è però possibile a caro prezzo: l'avvocato della
virtù inorridisce al vedere ridotta la virtù ali' adempimento rutinario dei do
veri. Ma è questo uno degli sfregi che la virtù è destinata a subire in un'etica
'
di tipo hobbesiano qual è dichiaratamente quella di Beauchamp. Schierandosi
con Hume, ]. Stuart Mili, R.M. Hare, G.]. Warnock [ 49] e un Aristotele frain
teso, egli assegna alla moralità il compito di . fornire un sistema di regole che
migliori la miserabile e precaria condizione umana assicurando risultati deside
rabili e impedendo quelli indesiderabili.71 In questo congegno il soggetto è ri
dotto a un ingranaggio che è reso capace di funzionare bene (cioè di contri
buire a produrre risultati desiderabili in un buon stato di cose) da disposizioni
rutinarie sulle quali la terza persona può fare affidamento. Siamo a mille miglia
dal punto di vista del soggetto agente, dalla vita buona e dal concetto classico
di virtù, secondo il quale un'identica virtù può esprimersi saggiamente e giudi
ziosamente in opposti doveri concreti.
69 «In those contexts in which reliance on a person of good character is most likely to
achieve the mora! ends we desire, then a theory of the virtues may be the superior account. [ . . . ]
On the other band, the person of virtue may often be perplexed about what sould be done, or
which course of action is the right one. Indeed, the person of good character may be the first to
know that his or her character is insufficient to yield the answer. Hence, a discussion of duty,
right, or the morality of actions may seem in some contexts to be more important than a doctrine
of the virtues for achieving our ends. In stili other contexts where the prod of duty or the protec
tion of rights best achieves our objectives, these mora! standards will surpass appeals to virtue»
([ 40] 325).
'0 «One important objective of the cultivation of virtue is to render fulfillment of duty a rou
tine matter, rather than a continuous struggle to do one's duty, and this is one reason why Aristo
tle's ethics rightly has a grearer appeal to some - myself included - than Kant's. Aristotle's is a
more realistic and appealing picture of the human condition, because morality flows from cultiva
ted or natural habit rather than a powerful struggle against inclinations in the attempt to emulate
the habits of a holy .will - a goal one can approximate but never achieve» (ivi 309). Perciò: «A
morality of principles of duty should enthusiastically recommend settled dispositions to act in ac
cordance with that which is morally required, and a proponent of virtue ethics should encourage
the development of principles that express how one ought to act. It is a defect in any theory to
overlook all of these ways of expressing what is important in the mora! !ife» (ivi 3 10).
71 « Mili knew that the purpose of generai mora! standards - whether in the form of vir
tues, duties, or rights - is to achieve certain desirable outcomes and to avoid certain undesirable
outcomes» (ivi 322).
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 111
(34) 1 ) W.K. Frankena è l'autore che con più finezza analitica e sensibilità
alla complessità dell'esperienza morale cerca di rendere giustizia al concetto di
virtù entro una concezione della moralità tipicamente moderna. Già nella
prima edizione ( 1963) della sua Etica [ 45] egli faceva posto al concetto di
virtù; nella seconda edizione ( 197 3) aggiunge ampliamenti sull'etica della virtù
nell'apposito capitolo.72 La posizione ivi raggiunta viene da lui difesa in un
primo articolo sul Journal o/ Religious Ethics [28], nel quale si confronta con
l'etica dell'amore costruita come un'etica della pura virtù; in un secondo arti
colo [29] contro le critiche mossegli da Hauerwas [ 18].
La concezione che Frankena ha della moralità si rifà a Kant e a Prichard
[ 44] . Quest'ultimo distingue tra moralità e virtù. La prima è basata sull'obbli
gazione, la seconda no. La prima consiste nell'interesse per ciò che è moral
mente retto e nel sistema di principi e di regole per determinarlo; la seconda
consiste nell'interesse per ciò che è intrinsecamente buono, ma senza alcun
senso dell'obbligazione. Così intesa la moralità si distingue dalla prudenza (o
ricerca del proprio interesse), dal costume, dal diritto, dalla religione e in certa
misura dalla vita buona o beata.
Nella moralità così concepita Frankena sostiene che le virtù sono neces
sarie. Le virtù sono da lui intese « come cose che includono disposizioni o ten
denze ad agire in un certo modo in certe circostanze» ([ 45] 143 ) : sono disposi
zioni a fare le azioni moralmente giuste. La moralità del dovere e dei principi
ha bisogno delle virtù: a) perché forniscono le motivazioni interne, e non solo
esterne e fortuite, alle azioni giuste; b) perché permettono di risolvere i con
flitti tra principi di doveri prima facie in un modo conforme non tanto alla let
tera quanto allo spirito della legge; c) perché esse stesse sono obbligatorie in
quanto consentono «di scoprire quale sia la cosa giusta e di farla se possibile»
72 « Sin dagli anni sessanta Frankena ha mostrato un notevole interesse per il tema della
virtù, e ha contribuito in maniera rilevante al suo approfondimento quando ancora l'argomento ri
ceveva scarsa considerazione. Se si considera la vivace discussione che, negli ultimi anni, è in atto
sul concetto di virtù, si deve osservare che, ancora una volta, Frankena ha indicato la strada »
(Maurizio MORI, Introduzione a Etica [45] 3 0 ) . M. Mori è l'unico autore italiano, a mia cono
scenza, che è al corrente del dibattito in corso sulla funzione della virtù nell'etica, almeno fino al
1980: cf. il suo Recenti sviluppi nella filosofia pratica di lingua inglese, in Rivista di filosofia 7 1
( 1980) 139- 156: alla n. 19 d i p. 149 menziona però solo alcuni dei contributi che sto conside
rando.
1 12 Capitolo II
( [45] 144- 145) .73 Pertanto nell'etica del dovere proposta da Frankena i prin
cipi deontici sono una guida per sapere che cosa fare o non fare e servono
inoltre a stabilire quali tratti sono virtuosi; 74 le virtù assicurano affidabilità e
prontezza nell'esecuzione dell'azione giusta: « per parodiare un famoso detto
di Kant, sono propenso a credere che i principi senza i tratti di carattere siano
impotenti, e i tratti di carattere senza i principi siano ciechi» ( [45] 143 ) . In
vece in un'etica della virtù (nella quale la virtù non è definita a partire dal do
vere) « le virtù hanno un duplice ruolo: devono non soltanto indurci a fare
quel che facciamo, ma anche dirci che cosa fare» ( [45] 145 ) .
Prolungando questa linea di pensiero nell'articolo The Ethics o/ Love Con
ceived as an Ethics o/ Virtue [28] Frankena descrive come dovrebbe configu
rarsi un'etica dell'amore che fosse concepita come un'etica della pura virtù,
cioè come un'etica in cui il principio « ama» non faccia alcun riferimento al do
vere e riguardi l'atteggiamento, il carattere, il motivo del soggetto agente prima
che le sue azioni. A proposito di tale principio le minuziose analisi di Frankena
pervengono ad una conclusione simile a quella cui perviene Foot [7a] a propo
sito del dovere categorico: non si riesce a spiegarne il significato ! 75
A tale figura di etica dell'amore concepita come etica della pura virtù Fran
kena muove parecchie critiche. Essa non è biblica, in quanto non fa riferi
mento ad una legge. Inoltre « love without moralism is not really even a virtue»
( [28] 32); nell'esperienza morale è innegabile il fatto dell'obbligazione; oltre l'a
more vi sono altre virtù come la giustizia. Insomma un'etica della pura virtù
senza riferimento al dovere è impossibile, e Frankena ritorna a proporre la sua
etica del dovere come possibile alternativa.
73 Questo modo d'intendere la necessità delle virtù come esse stesse obbligatorie in un'etica
che si rifà ugualmente a Prichard e a Frankena è sviluppato da DYCK [27 ) : egli sostiene che anche
se non vi è obbligo per certe azioni eroiche o sante, vi è tuttavia l'obbligo di avere disposizioni per
tali azioni. Egli applica questo principio a virtù che egli designa come mora! perceptivity e mora! te
nacity. Esse sono obbligatorie perché essenziali alla permanenza e alla fioritura della vita morale.
74 <& difficile capire come una moralità dei principi possa avere solide radici se non attra
verso lo sviluppo delle disposizioni ad agire secondo i principi. Se così non fosse tutte le motiva
zioni a seguire i principi dovrebbero essere di tipo ad hoc: o prudenziale o impulsivamente altrui
stico. Inoltre la moralità non può accontentarsi della mera conformità alle norme, per quanto
pronta e consapevole, a meno che non abbia alcun interesse per lo spirito della legge ma solo per
la lettera. D'altra parte non si possono concepire i tratti di carattere se non come cose che inclu
dono disposizioni o tendenze ad agire in uti. certo modo in certe circostanze. Odiare comporta es
sere disposti ad uccidere o a danneggiare, essere giusti comporta la tendenza a compiere atti giu
sti (atti che si conformano al principio della giustizia) quando l'occasione lo richiede. Anche qui, è
difficile capire come potremmo sapere quali tratti vadano incoraggiati o inculcati se non aderis
simo a principi, per esempio al principio di utilità, o a quelli di benevolenza e di giustizia» ([ 45)
143).
7 5 Taie amore è tendenza o disposizione a essere attuato «by a straightout desire or concern
for the good of others as such (and not as something one ought to feel or to promote) » ( [28) 29).
Se esso è disposizione ad agire «not from a sense of obligation to do so, but from a sense of the
virtuousness (not-moral goodness in the Kant-Prichard sense) of doing so» (ivi 30), allora è diffi
cile dire in che cosa esso consista.
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 1 13
76 Citando FOOT [7a] FRANKENA ([29] 48) forza il pensiero di Hauerwas nel senso di Foot.
1 14 Capitolo II
forte (strong evaluator) non quando valuta in bas� ai propri desideri, ma, aristo
telicamente, quando valuta in base ad una propria concezione della vita
buona. Perciò contro l'etica della virtù tipo Foot è da affermare un'etica del
dovere <� la quale sostiene che la persona perfettamente morale è governata
nelle sue azioni da una concezione di ciò che è moralmente richiesto o racco
mandato. Il che può assumere la forma d'una concezione della vita buona,
della persona ideale, o della retta condotta» ( [33] 290).77
(38) Non vi è dunque virtù senza senso del dovere. Sembrerebbe che siamo
rientrati in pieno in quel clima dell'etica moderna che è così irrespirabile per la
virtù, o per lo meno la costringe a penose metamorfosi. Tuttavia la riabilita
zione del soggetto agente mediante il ricorso al concetto aristotelico di vita
buona suggerisce che stiamo camminando sulla buona strada. Di fatto Baron,
nell'articolo The alleged moral repugnance o/ acting /rom duty [34], procede a
mirabili analisi di psicologia morale per mostrare come proprio il motivo del
dovere conferisca a un atto di amicizia o di qualsiasi virtù quello splendido in
teresse per i fini buoni e per le persone che tanto affascina Foot.
Intanto il motivo del dovere non dev' esssere inteso in senso minimalista,
come se chi agisce per il senso del dovere (who acts /rom duty) non avesse ri
guardo per le persone, ma adempisse i suoi doveri solo per fare il minimo ri
chiesto, la buona azione quotidiana del boy-scout. Pensarla così è attenersi al
senso colloquiale della parola dovere; secondo tale senso chi agisce per dovere,
lo fa per non avere guai, oppure si attiene solo a ciò che è moralmente richie
sto senza spingersi a ciò che è moralmente raccomandato, oppure si limita ai
« doveri» richiesti convenzionalmente dai ruoli sociali. Ma vi è anche un senso
più nobile della parola dovere, secondo il quale la persona che agisce per do
vere «è mossa sia da considerazioni di ciò che è moralmente richiesto, sia da
considerazioni di ciò che è moralmente raccomandato. Inoltre, essa è impe
gnata o dedita (committed) a esser mossa da entrambe le considerazioni» ( [34]
201).
Contro Stocker [5] e Williams [6] Baron fa vedere che agire così non è af
fatto alienante, cioè non costituisce un atteggiamento sbagliato od offensivo o
poco pertinente nei riguardi delle altre persone. La storpiatura ci sarebbe se
77 Questa posizione di Baron è affine a quella aristotelica sviluppata da DENT [82] 106-120;
v. sopra I 33-35. BARON [35] sviluppa la stessa tesi. La sua critica si basa sull'intuizione, condivisa
da tutti coloro che non sono estremi soggettivisti, « che vi è distinzione tra valutare e desiderare»
(ivi 48) . Per cui la difficoltà dell'etica della pura virtù, tipo Foot, è questa: «As long as one merely
wants to be courageous, and thus eschews certain courses of action, one is not stepping outside of
one's de facto desires and evaluating them accordingly. One is only evaluating the desires or the
desiderata in light of other desires one has, without any reason for letting these rather than those
desires be one's vantage point. Simply to favor certain of one's desires over others, and to evaluate
one's aims and desires by reference to the favored ones is not yet engage in strong evaluation.
Strong evaluation must demand more than this if the notion is to do justice to the intuition that
there is a difference between desiring and valuing» (ivi 50).
1 16 Capitolo II
78 «Once we break from the idea that acting from duty primarily concerns isolated actions,
there is no temptation to suppose that one must ask before each action whether one ought to do
what one is proposing to do. But once we break from that idea (an no longer ask the typical "How
often is one supposed to act from duty? Is acting from duty being advocated only for a certain
range of actions? If so, which?"), we see the vita! role of the sense of duty as a secondary motive.
On my view, one should (ideally) always act from duty, but this is only to say ali of one's conduct
should be governed by one's unconditional commitment to doing what one morally ought to do.
To say that one should always act from duty is not to say that one should always act from duty as
a primary motive. One's sense of duty will serve generally as a limiting condition and at the same
time as an impetus to think about one's conduct, to appraise one's goals, to be conscious of one
self as a selfdetermining being, and sometimes to give one the strenght one needs to do what one
sees one really should do» ( [34] 209).
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 1 17
79 «lt is the primary concern of an ethics of virtue to form our interests in a manner that we
will do our duty; but more fundamentally, that we will be able to see what duties we have exactly
because we are the kind of person we are» ([ 18] 32).
8° Cf. [18] 4 1 -42 cit. alla n. 42.
1 18 Capitolo II
81
V. sopra II 19-28.
82
Per una minuziosa critica del naturalismo dei desideri e per un'ampia argomentazione a
sostegno della tesi qui adottata cf. E.J. BOND, Reason and Value, Cambridge 1983; per un'argomen
tazione di tipo aristotelico cf. DENT [82] 106-120; J. FINNIS, Fundamentals 26-55; v. sopra I
46-49.
8'
Questo passaggio è ben sviluppato, in connessione con il de beatitudine della II Pars, da
John FINNIS, Practical Reasoning, Human Goods and the End o/Man, in New Blackfriars 66 ( 1985)
438-45 1 .
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 1 19
, malum vitandum, principio che svilupperei così: deve sempre esser voluta per
le persone la realizzazione dei beni umani basilari e mai voluta la privazione di
essi.84 Questo primo principio è ulteriormente sviluppato in altri principi in
termedi e in norme ancora più specifiche, secondo le quali il soggetto agente
determina l'azione giusta. La teoria etica non può prescindere, in nome del ca
rattere e della virtù, da un sistema di norme per determinare l'azione giusta.
Ma, nell'etica di prima persona, questo sistemà normativo della ragion pratica
costituisce solo un aspetto della produzione della buona condotta che realizza
la vita buona. Prima di osservare che cos'altro interviene, occorre soffermarsi
sul « deve» che ha fatto la sua comparsa.
Quel « deve» non è enigmatico: ha un suo significato, che mi pare possa es
sere raggiunto in questo modo. Ciò che è eccellente e nobile è laudabile, vene
randum, admirandum, ecc.;85 vale a dire: la lode, la venerazione, l'ammira
zione sono la reazione appropriata a tali oggetti da parte di un essere intelli
gente. Analogamente si può dire: di fronte ai beni umani basilari, in quanto
sono beni per persone, la reazione o la risposta appropriata da parte d'un es
sere dotato di libera volontà (cioè di un interesse generale per la vita buona e
capace di dare liberamente particolari determinazioni a tale interesse) è l'ade
sione libera; di fronte ai mali è l'avversione libera. Più brevemente: la vera vita
buona, o la vera felicità, sono beni tali che l'atto più appropriato che verso di
essi può avere una persona capace di volere è la libera adesione: tale tipo di
adesione, cioè libera, è dovuta a tale tipo di bene.86
(43) Con questo concetto di dovere si può spiegare ciò che sostiene Baron
[34], e cioè che l'intenzione del dovere si situa a livello dei criteri generali di
condotta, e non riguarda necessariamente le singole azioni. Nell'applicarsi con
tutto il cuore e con tutto l'interesse a realizzare i beni umani per le persone, il
soggetto procura di volere e di fare nel modo dovuto, conforme cioè ai prin
cipi della moralità. Proprio questa intenzione protegge e intensifica l'interesse
per i beni; e più uno è interessato ai beni della vera vita buona, più vivo ha il
senso del dovere. Così si spiega che proprio il virtuoso, lungi dal non avere più
il motivo del dovere, ce l'ha più intenso87 e che proprio per questo ha quell'in
teresse cordiale per l'amicizia, la giustizia, i bisogni e le pene degli altri, ecc.,
che Foot e Stocker richiedono per la virtù. ·
Al livello in cui lo stiamo considerando, il concetto di dovere suppone sì un
interesse nel soggetto, come richiedono Hauerwas e Foot, ma solo l'interesse
naturale e generale per la vita buona; non precisamente nel senso d'una ipo-
84 Sin qui faccio uso della teoria tomista (I-II, 94, 2) secondo gli sviluppi di GRISEZ [62] 1 15-
140; 173-204, e di John FINNIS, Natural Law and Natural Rights, Oxford 1980, 81-133; v. sopra I
52-54, sotto V 4-14.
'' Utilizzo una suggestione che ho trovato in Hans DREXLER, Begegnungen mit der Wert
ethtk, Gottingen 1978, 87; 149.
86 Circa il problema della vera felicità mi sono spiegato diffusamente sopra I 38-56.
87 V. sopra II 19.
120 Capitolo II
tesi: se vuoi la vita buona, devi seguire i principi della moralità; ma nel senso
d'un'esigenza incondizionata: l'atto appropriato che un soggetto dotato di li
bera volontà può emettere nei riguardi della vera vita buona è solo e sempre
l'adesione libera. Cercare la vita buona è naturale alla volontà; ma cercare
quella vera, cioè conforme ai principi della moralità, è libero ed è assoluta
mente doveroso.
Pertanto solo l'interesse naturale della volontà per la vita buona è princi
pale rispetto al concetto di dovere; gli altri interessi più particolari per beni
particolari nei modi stabiliti dai principi morali, cioè gl'interessi virtuosi, sup
pongono il concetto di dovere e si definiscono in funzione di tale concetto.88
In questo senso tutte le virtù sono doverose (Dyck) e si spiega la corrispon
denza tra virtù e doveri, tra virtù e principi (Frankena, Beauchamp, Schiiller).
(44) 3 ) Ma la corrispondenza tra virtù, doveri, principi finisce qui. Ben
altro interviene nella produzione della buona condotta che realizza la vita vera
mente buona; qualcosa che sfugge a Frankena [ 45] quando concepisce la virtù
come disposizione a decidere secondo principi, e a Schiiller [38] quando la
concepisce come decisione fondamentale (Grundhaltung), per principio (grund
séitzlich) , a favore di certi tipi di azione (Handlungsweise).
a) Innanzitutto i principi non hanno la loro ragion d'essere in se stessi, ma
nei beni umani basilari nei quali le persone trovano il loro compimento e prati
cando i quali realizzano la vita buona. Essi non sono semplicemente principi
di ordinata convivenza, come i principi di giustizia e di beneficenza ai quali
Frankena riconduce tutta la moralità. Sono invece principi di realizzazione
della vita buona per il soggetto agente stesso e per le persone coinvolte nella
sua condotta.
Inoltre non sono solo principi del fare, ma prima ancora del volere: dicono
in che modo si deve voler fare. Non qualsiasi buon stato di cose si deve voler
realizzare, ma quello che può essere voluto senza che questa volontà comporti
anche il volere in qualche modo la lesione di qualche bene umano per qualche
persona. Infatti il concetto di bene umano e il concetto di persona, in quanto
capace di beni umani, implicano una doverosità: quando si sceglie, si deve sce
gliere qualche esemplificazione concreta e circostanziata dei beni umani per le
persone senza che questa scelta comporti anche il volere qualche male o la le
sione di qualche bene umano per qualche persona.89
Perciò l'espressione «tlisposizione a decidere secondo principi» pronun
ciata dall'avvocato dell'etica del dovere o dei principi dell'azione giusta non
dice quel che essa può contenere quando è pronunciata dall'avvocato della
virtù.
88
Cosl accolgo l'istanza legittima di Foot, ma rifiuto il suo concetto di pura virtù, che non
comporta dovere.
89 V. sopra n. 84. Questo è il senso della mia affermazione di Il 24: «La virtù non mira a un
buon stato di cose se non con volontà buona».
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 12 1
90 O. Hoffe, uno studioso che conosce bene sia l'etica aristotelica sia quella kantiana, ha rile
stio ad adottare una metafisica delle facoltà operative come quella tomista.
122 Capitolo II
(49) Nella disamina che segue non potrò prendere in considerazione quei
contributi al dibattito che sono principalmente dedicati al problema della di
stinzione e della classificazione delle virtù e alla descrizione di specifiche virtù:
sono problemi complessi che esigono un'inchiesta a parte. Per la stessa ra
gione non mi occuperò dei quei contributi che trattano problemi particolari di
psicologia morale delle virtù. Mi soffermerò invece su quei contributi che spie
gano la funzione propria ed irriducibile della virtù nella morale al di là del pro
blema, testé trattato, del rapporto della virtù con il dovere.
Una premessa s'impone subito: dovremo fare una selezione, giacché esi
stono tante nozioni di virtù quanti sono gli autori che intervengono. Uno
sguardo ai contributi raccolti da Shelp [72] e da Neuhaus [73 ] 96 dà un'idea
della divergenza: disposizione a compiere il proprio dovere, ad andare oltre il
dovere, ad atti santi ed eroici, ad andare oltre la morale ordinaria, a fare ciò
che è richiesto dalla morale ordinaria, a vivere secondo moralità, a osservare le
regole morali, ad andare oltre le regole morali, a compiere azioni giuste, ad
avere motivi giusti, a decidere ove non sono possibili regole precise o doveri
determinati. Neppure il termine disposizione è univoco: per alcuni la disposi
zione è di tipo cognitivo, per altri di tipo emotivo, per altri ancora è di tipo vo
litivo. Una delle bellezze della filosofia è che si mira a un consenso ben sa
pendo che è impossibile arrivarci e che il giorno in cui ci si arrivasse cesse
rebbe la filosofia.
In questo variegato panorama mi limiterò a considerare tre tipi di teorie
della virtù: 1 ) la virtù come qualità necessaria ad una migliore convivenza; 2 ) la
virtù come qualità del carattere; 3 ) la virtù come eccellenza nelle pratiche della
vita buona. Si tratta di posizioni o più rappresentate o più sviluppate teorica
mente.
(50) Per quanto divergenti siano le teorie cui sto per accennare, esse pos
sono tuttavia esser considerate varietà d'una stessa specie; sono tutte infatti teo
rie di tipo hobbesiano,97 cioè teorie che concepiscono la moralità come si
stema per ovviare ai mali della condizione umana; come tali sono un tipo di
etica della terza persona. Vi accenno perché tutte quante assegnano una fun
zione importante alle virtù e ne propongono un'articolata teoria.
96 « After further definitional wrangling, there was generai agreement that it is probably re
flective of our " cultura! crisis" that half-way through a conference on virtue there was no certain
agreement on what is meant by virtue» (NEUHAUS [73] 61).Tra l'agenda di questioni lasciate
aperte nel libro Virtue and Medicine, Hauerwas mette al primo posto: «What is virtue? What is a
virtue»?»: ( [72] 350).
97 Secondo GERT ( [46] 13) Hobbes è « der beste klassische Moralphilosoph».
124 Capitolo II
Gert la sviluppa in Virtue and Vice [47] coerentemente alla sua teoria delle
Mora! Rules [46] . Egli riduce la moralità a dieci regole che prescrivono di evi
tare altrettanti mali, regole che ogni uomo razionale difenderebbe pubblica
mente. Le virtù sono introdotte a servizio di queste regole, come disposizioni a
seguirle che ciascun uomo razionale è pronto a richiedere pubblicamente da
altri. Le virtù che non hanno riferimento a queste regole non sono virtù mo
rali, ma ideali personali, come lo sono la felicità o il summum bonum. Non mi
soffermo su un tipo di teoria i cui vari presupposti ho già sottoposto a critica.
La menziono perché da essa si distanziano altri autori che pur si attengono
all'impostazione hobbesiana, ma rilevando l'insufficienza delle regole sono in
dotti ad assegnare un ruolo centrale alle virtù.
(51 ) Warnock [49] dedica un ampio capitolo a dimostrare che in una situa
zione di tipo hobbesiano le regole non sono sufficienti a giudicare se un'azione
sia giusta o sbagliata, cioè se contribuisca a migliorare o a peggiorare la condi
zione umana. Per raggiungere questo scopo sono invece necessarie alcune
virtù morali che neutralizzano i limiti di simpatia tra le persone e le dispon
gono ad andare oltre il proprio interesse.98
(52) Quest'impostazione hobbesiana del problema morale e questa dimos
trazione della necessità di alcune virtù morali si ritrovano sostanzialmente in
Wallace [65], per quanto egli cerchi di ampliare la prospettiva ricorrendo ad
Aristotele. L'uomo, come ogni essere vivente, ha una sua funzione propria che
consiste nel vivere secondo le convenzioni sociali (l'analogo del vivere secondo
ragione di Aristotele) . Sono eccellenze o virtù le capacità operative che permet
tono all'individuo di svolgere bene la sua funzione sociale. Secondo questo cri
terio devono essere considerate virtù morali molte qualità che non sono consi
derate virtù morali nell'etica delle regole o dei doveri. La vita secondo conven
zioni sociali richiede una giudiziosità che non può essere esaustivamente formu
lata in regole.
(53) Il tentativo di raggiungere un'etica aristqtelica e addirittura kantiana a
partire dall'impostazione hobbesiana è ripreso con grande impegno argomenta
tivo da Ewin [50]. I fatti della natura e della condizione umana sono tali che
se non vi è collaborazione tra gl'individui umani non è possibile per nessuno·
sopravvivere. Dati certi fatti relativi alla natura umana e date le esigenze della
collaborazione si può dedurre e giustificare la moralità non tanto come sistema
di regole, alla maniera di Hobbes, ma come sistema di tratti di carattere. Ewin
dedica tre ampi capitoli all'analisi dei vari tipi di regole e alla dimostrazione
della loro utilità e dei loro limiti, concludendo che la moralità non richiede
tanto regole quanto virtù, intese come propensioni degl'individui ad operare se
condo le esigenze della collaborazione.
98 Occorrono « good dispositions - that is, some readiness on occasion voluntarily to do de
sirable things which not ali human beings are just naturally disposed to do anyway, and similarly
not to do damaging things» (WARNOCK [49] 76).
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 125
(56) Sorte migliore non tocca alla virtù nemmeno presso coloro che la con
siderano dal punto di vista del soggetto agente, come tratto del carattere. Ben
ché essi forniscano soltanto degli abbozzi, tuttavia è ricorrente in essi una dif
ficoltà che palesa chiaramente come il concetto di virtù da essi proposto non è
quello aristotelico, ed è molto lontano da quello tomista.
Foot ha voluto delineare una concezione della virtù [7a] proprio rifacen
dosi a Tommaso d'Aquino. Poiché Foot fonda la moralità non sul dovere cate
gorico ma sugl'interessi e desideri del soggetto, ella introduce le virtù o come
correttivo dei desideri passionali o come acquisizione di interessi nuovi, di cui
il soggetto agente non dispone per dotazione naturale. È questo l'unico punto
di avvicinamento alla teoria tomista. Quando infatti procede a descrivere il com
portamento che è effetto della virtù, Foot contraddice apertamente tesi tomi
ste, adottando invece tesi oggi largamente condivise da altri avvocati della
virtù. Ella ammette che una stessa disposizione possa a volte essere virtuosa, a
volte possa anche essere principio di azioni cattive, cosa inammissibile per s.
Tommaso.
Gli è che anche a Foot manca un preciso criterio per distinguere virtù da
vizio, criterio che invece era fornito dalla recta ratio aristotelica e tomista.99 Il
coraggio, ad esempio, non è solo capacità di resistere al timore (impavidità),
bensl capacità di resistere al timore per compiere l'azione giusta secondo il giu
dizio della saggezza pratica. Chi è capace di dominare i suoi timori per un mo
tivo sbagliato o per un'azione sbagliata, può non esserlo per il motivo giusto e
per l'azione giusta; per cui il coraggio del malfattore non è la stessa disposi
zione che è virtuosa nell'onesto. Chi è coraggioso nel male deve acquisire un
nuovo tipo di coraggio per diventare onesto.
A Foot manca un'analisi del fine buono cui la virtù è interessata; questa la
cuna consente uno scollamento tra virtù e saggezza pratica che è inconcepibile
nella teoria tomista.
(57) Analogo scollamento è riscontrabile nell'articolo di Hudson [66] . Egli
sostiene che un'etica che prende le virtù sul serio non si occupa solo di doveri
richiesti e dei principi e delle regole che li determinano, bensì anche di doveri
consigliati dalla saggezza morale, molti dei quali riguardano la vita personale
del soggetto agente. A questi abilitano le virtù, le quali pertanto forniscono
principi morali differenti dai principi del dovere richiesto e concernenti più
99 SMITH [3 7] sviluppa sottili analisi per dimostrare l'insostenibilità della tesi di Foot e la
sua incompatibilità con la teoria tomista.
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 127
l'essere dell'agente che le sue azioni. Essendo tra loro eterogenee queste due
classi di principi possono entrare in conflitto difficilmente risolvibile anche con
la saggezza morale. .
Anche in questa concezione, che si avvicina molto di più a quella aristote
lica, manca, come del resto manca in Aristotele stesso, un'elaborata teoria delle
norme della ragion pratica, che permetta di risolvere un conflitto senza violare
necessariamente una virtù o un dovere. È invece tesi corrente sia presso gli av
vocati del dovere sia presso quelli della virtù che un conflitto non possa esser
risolto senza assumersi la responsabilità di violare un dovere, una norma o una
virtù. Su questo punto è abissale la distanza tra l'etica tomista, per la quale le
virtù sono tutte connesse ed i conflitti possono essere risolti senza violarne al
cuna, e le odierne etiche sia del dovere sia delle virtù, per le quali può acca
dere che si debba violare un dovere per adempierne un altro e per le quali né
le virtù sono connesse, né la virtù produce solo atti buoni.
(58) L'autore che con più accuratezza elabora una concezione della virtù è
senza dubbio Maclntyre. Nella seconda parte di A/ter Virtue [ 10], dopo aver
tracciato la vicenda storica del concetto di virtù, egli propone una definizione
della virtù in tre momenti, nei quali i posteriori suppongono gli anteriori ed in
troducono un punto di vista nuovo.
In un primo momento . la virtù è considerata come eccellenza delle prati
che. Per pratica egli intende un'attività umana cooperativa, socialmente stabi
lita, nella quale si realizzano beni immanenti all'attività stessa secondo regole e
standard di eccellenza che definiscono l'attività stessa. 100 Ogni pratica rea
lizza il bene ad essa immanente in modi sempre più eccellenti grazie alle virtù
che consentono l'attività cooperativa: la veracità, la giustizia, il coraggio. 101
Poiché certe pratiche possono essere cattive e poiché pratiche anche
buone possono entrare in conflitto, il primo momento della definizione della
virtù dev'essere completato con un secondo, che introduce il concetto di vita
buona come telos. Questo concetto suppone però che la vita possa esser consi
derata come un tutto con una sua identità e continuità; concepire così la vita
non è possibile se non si concepisce il soggetto agente non come autore di
100
«By a " practice" I am going to mean any coherent and complex form of socially establi
shed cooperative human activity through which goods internal to that form of activity are realised
in the course of trying to achieve those standards of excellence which are appropriate to, and par
tially definitive of, that form of activity, with the result that human powers to achieve excellence,
and human conceptions of the ends and goods involved, are systematically extended» ([10] 175).
101
«A virtue is an acquired human quality the possession and the exercise of which tends
to enable us to achieve those goods which are internal to practices and the lack of which effecti
vely prevents us from achieving any such goods» (ivi 178).
128 Capitolo II
azioni isolate, ma come autore d'una storia di vita che ha una sua unità narra
tiva, dalla quale le singole azioni ricavano il loro significato. Ora però il telos
che conferisce unità alla vita non è determinato in partenza; che cosa sia la vita
buona è continuamente da cercare. Qui intervengono le virtù come quelle che
sostengono la ricerca della vita buona e che rendono buona la vita proprio in
quanto essa è ricerca di vita buona. 102
Simile ricerca sarebbe senza senso se non si disponesse già in partenza di
un qualche criterio di vita buona. Tali criteri sono forniti dalla tradizione
d'una particolare comunità, espressa nelle storie ch'essa tramanda. In funzione
della tradizione si definisce il terzo momento del concetto di virtù: le virtù
sono a questo punto qualità che sostengono la tradizione e le impediscono di
deteriorar�i. 103
(59) È visibile la matrice aristotelica di questa nozione di virtù ed è visibile
pure lo sforzo di svincolarla da presupposti teoretici o culturali superati per
renderla capace di esistere in nuovi contesti.
Nelle recensioni e nelle note critiche ad After Virtue gli autori si soffer
mano per lo più sull'interpretazione della storia, sul rapporto tra filosofia e sto
ria, sulla critica all'etica moderna, sulla poca viabilità della sua concezione
della virtù nella società moderna; la tripartita definizione di virtù è invece rela
tivamente poco considerata, se non per rilevare che Maclntyre non fornisce
criteri per la determinazione della vita buona, 104 e cade così nel relativismo.
In questo modo però il punto focale di After Virtue viene disatteso: esso
sta proprio nella proposta d'una concezione di virtù viabile anche dopo il nau
fragio storico diagnosticato da Maclntyre. Proprio la concezione proposta pre
senta però notevoli difetti.
Per quanto Maclntyre dica cose interessanti, nuove, da sfruttare, sul sog
getto agente come autore d'una narrativa, tuttavia il suo punto di vista resta so-
102 « The virtues therefore are to be understood as those dispositions which will not only sus
tain practices and enable us to achieve the goods internal to practices, but which will also sustain
us in the relevant kind of quest for the good, by enabling us to overcome the harms, dangers, temp
tations and distractions which we encounter, and which fournish us with increasing self-know
ledge and increasing knowledge of the good. [. .. ] We have then arrived at a provisional conclu
sion about the good !ife for man: the good !ife for man, and the virtues necessary for the seeking
are those which enable us t0 understand what more and what else the good !ife for man is» (ivi
204).
103 « The virtues find their point and their purpose not only in sustaining those relationships
necessary if the variety of goods internal to practices are to be achieved and not only in sustaining
the form of an individuai !ife in which that individuai may seek out his or her good as the good of
his or her whole !ife, but also in sustaining those traditions which provide both practices and indi
viduai lives with their necessary historical context» (ivi 207).
'04 Cosl W.K. Frankena, G. MacKenzie, C.W. Gowans, S.L. Ross (v. sopra n. 5); K. NIEL
SEN; in SHELP [72] 133- 150. Lo stesso Maclntyre nel postscritto alla seconda edizione appena chia
risce il senso dei tre momenti della sua nozione di virtù, poi subito passa a difendersi dall'accusa
di relativismo.
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 129
ciale, e non quello della prima persona. Egli non analizza la complessa dina
mica della condotta umana; il suo concetto di pratica è più centrato sulla col
laborazione che non sull'autorità del soggetto agente: non è proprio la collabo
razione la preoccupazione principale dei filosofi della situazione hobbesiana?
Per questa ragione nemmeno Maclntyre spiega che cosa sia la virtù nella psico
logia morale del soggetto agente.
Conseguentemente egli si preclude la possibilità di fornire criteri per la de
terminazione della vita buona. Questi criteri infatti si ricavano dall'analisi della
deliberazione del soggetto agente, dalla quale analisi viene alla luce che il prin
cipio dell'azione sta nella valutazione dei beni umani basilari doverosi. Anche
alla virtù di Maclntyre manca pertanto il sostegno della ragion pratica e dei
suoi principi morali. Il risultato è che anche il virtuoso di Maclntyre può tro
varsi nella situazione tragica di violare un dovere in caso di conflitto ( [ 10] 167-
168).
Infine Maclntyre, non disponendo d'un ragguaglio sulla ragion pratica, non
può spiegare con quale procedimento una tradizione può esser interpretata,
mantenuta viva in contesti nuovi, riformata, confrontata con altre tradizioni;
sicché nemmeno la tradizione, da sola, fornisce criteri per distinguere le virtù
dai vizi. Forse occorre attendere il suo promesso libro sulla razionalità.
(62) Se una teoria etica viene valutata in base alla sua capacità di salvare le
apparenze, cioè di render conto della complessità dell'esperienza morale e di
render giustizia alle diverse istanze avanzate da altre teorie etiche, allora cia
scuno degl'interlocutori intervenuti nel recente dibattito svela un suo lato de
bole. Questo fallo è difficilmente visibile se si resta all'interno dei problemi e
dell'arsenale concettuale che caratterizzano l'etica moderna; diventa invece visi
bilissimo se si accosta l'etica moderna dopo aver frequentato l'etica aristotelica
e l'etica tomista: allora si scopre che non tutte le apparenze son salvate nelle
teorie etiche moderne e· che d'altro lato queste aprono problemi e focalizzano
temi che non riscuotorio uguale attenzione presso Aristotele o presso s. Tom
maso. La divergenza che per prima colpisce l'occhio del visitatore può esser
epitomata nell'opposizione tra virtù e dovere: Aristotele e s. Tommaso hanno
un concetto di virtù che non si riesce a ritrovare nelle etiche moderne e queste
hanno un concetto di dovere che non c'era nelle etiche dei due.
D'altra parte, il fatto che soprattutto ad Aristotele molti interlocutori si ri
facciano dimostra ch'egli ha qualcosa da dire di tuttora valido e interessante, e
che effettivamente l'etica moderna, trascurando o deformando il concetto ari-
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 13 1
(1 ) Nella valutazione del dibattito tra avvocati della virtù e avvocati del do
vere ci siamo attenuti al metodo aristotelico del salvare le apparenze. 1 Ciò è
dovuto alla natura stessa del discorso filosofico: esso infatti sorge sempre come
secondo rispetto ad una originaria esperienza prefilosofica del mondo e ri
spetto a precedenti interpretazioni filosofiche della stessa esperienza. Il com
pito della riflessione filosofica è trovare un logos che renda intelligibile l'espe
rienza, permetta di render conto dei suoi aspetti contrastanti e renda giustizia
nei limiti del possibile alle divergenti interpretazioni filosofiche.
Ltt principale tra le apparenze che il filosofo deve salvare è lesperienza del
mondo, nel nostro caso l'esperienza morale prefilosofica. Essa si presenta
molto complessa, con aspetti contrastanti e costituisce il criterio in base al
quale si giudica l'adeguatezza d'una filosofia morale. Proprio l'esperienza mo
rale nel corso del dibattito precedente ci ha indotto a una teoria etica che non
trascuri né la virtù né il dovere. 2 Ora dobbiamo analizzare quest'esperienza
più da vicino, in una delle sue molteplici espressioni, quella del linguaggio mo
rale. Esso costituisce lespressione più vicina al nucleo dell'esperienza morale
stessa, cioè alla ragion pratica. Dell'esperienza morale è nucleo la ragion pra
tica nel senso che essa è l'aspetto dell'esperienza immediatamente accessibile
alla ragione filosofica; gli altri aspetti sono raggiungibili dalla riflessione filoso
fica solo a partire dalla ragion pratica, di cui la filosofia morale costituisce un
prolungamento.
Vedremo che proprio l'analisi del linguaggio morale rende necessaria una
teoria della virtù. D'altra parte la stessa analisi ci permetterà di mettere ordine
tra le diverse nozioni di virtù che sono in corso e che pure fan parte delle ap
parenze da salvare, in quanto avanzano istanze da recepire criticamente. Ciò
consentirà di mettere a punto quella nozione di virtù che più converrà adottare
come oggetto della teoria da elaborare.
In quest'analisi del linguaggio morale n0n sono condotto da interessi metae
tici. Semplicemente intendo fornire i dati su cui la teoria dovrà riflettere e che
non possono essere trascurati da una teoria etica che voglia essere adeguata al
i'esperienza morale.
(3) Mentre nelle regole di condotta il soggetto logico è costituito dalla de
scrizione di un'azione ed il predicato logico qualifica l'azione da un punto di
vista · normativo, i termini relativi ai tratti di carattere si riferiscono sia a certe
qualità generiche che si ritrovano in azioni che nella loro concretezza sono di
verse tra loro, sia al soggetto agente cui è da attribuire il comportamento e lo
qualificano esattamente in quanto è autore di quel comportamento. Non qual
siasi qualità del soggetto agente è tuttavia designabile come tratto di carattere,
ma solo quelle che si contraddistinguono con le seguenti note:
a) I tratti di carattere designano qualità stabili e non semplicemente occasio
nali. Per poter qualificare in un certo modo una persona osserviamo se un suo
modo di comportarsi si verifica più volte, in circostanze diverse. Allora ·conclu
deremo, per esempio, che una persona non solo si è comportata nella tal occa
sione con insolenza o generosità, ma che essa è insolente o generosa.
b) La stabilità comporta quella che è la nota più saliente cui si riferiscono i
tratti di carattere, cioè l'uniformità. Con i termini saggezza, equilibrio, sfronta
tezza, arroganza, parsimonia, discrezione, ottusità, dolcezza, riferiti al comporta
mento, non intendiamo designarlo nella sua concretezza e singolarità, ma rile
vare una qualità che può essere comune a più azioni singolari. Se l'uniformità
riguarda soltanto il comportamento esteriore, che appare ripetitivo, parleremo
di abitudine, per esempio di abitudine del bere, del fumare, di arrivare in ri
tardo. Se invece l'uniformità riguarda solo qualche aspetto dell'azione, come il
suo scopo, la sua regola, la sua intenzione, che possono manifestarsi in azioni
concrete assai diverse, allora parleremo di attitudine (da actitudo; in spagnolo
Requisiti della teoria della virtù 135
(4) Sebbene i tratti di carattere non facciano parte della natura specifica
del soggetto agente, ma designino attualizzazioni delle potenzialità della natura
specifica in una delle sue possibili direzioni, essi tuttavia qualificano il soggetto
secondo un criterio normativo che è costituito appunto dalla natura specifica e
dalle sue capacità di prestazione. Le qualità o disposizioni designate dai tratti
di carattere attualizzano le potenzialità del soggetto agente o in modo con-
136 Capitolo III
forme alla sua natura specifica o in modo ad essa contrario. Nel primo caso
parliamo di eccellenze o doti, nel secondo caso parliamo di deficienze o difetti.
Questo punto di vista valutativo è messo in opera sia per i tratti attitudi
nali sia per i tratti morali. Le eccellenze attitudinali vengono significate con ter
mini che designano destrezze o maestrie (skills), le deficienze attitudinali con
termini che designano inettitudini. Il soggetto può esibire le une o le altre nel
comportamento fisico, nella vita affettiva o passionale, nell'esercizio dell'intel
ligenza, nelle tecniche, nelle arti e nelle pratiche.
Dal punto di vista morale le eccellenze o le deficienze vengono invece desi
gnate con termini che significano virtù o vizi. Il soggetto esibisce le une o gli
altri nella sua condotta e in quelle facoltà che intervengono nella gestazione
della condotta da parte del soggetto agente, cioè nella volontà principalmente,
nell'intelligenza pratica e nelle passioni in quanto intervengono con la volontà
a produrre le libere scelte, di cui è costituita la condotta.
Questo quadro concettuale, che è significato dai termini relativi ai tratti di
carattere, è ora ulteriormente da precisare per quanto riguarda le virtù e i vizi.
(7) Riferiti alle azioni, i termini di virtù designano una qualità di esse per
formulare la quale occorre una massima dellf.l ragion pratica; riferiti al soggetto
autore di simili azioni, essi designano qualità che lo concernono precisamente
in quanto è autore volontario di simili azioni.
a) La qualità designata dai termini di virtù è una qualità stabile. Occorre
però distinguere due tipi di stabilità. Vi è una stabilità che chiameremo estrin
seca, acquisita con il ripetuto esercizio e che introduce nel soggetto un'inclina
zione difficilmente amovibile. Vi è anche una stabilità intrinseca al tratto vir
tuoso, la quale consiste nel fatto che il soggetto si rende conto del valore vir
tuoso dell'azione e aderisce volontariamente a tale valore non solo material
mente, come condottavi per caso da considerazioni ad esso estranee, bensì
anche formalmente, come condottavi precisamente dalla ragione per cui esso è
valore, ragione ad esso intrinseca e di esso costitutiva. Simile comprensione e
simile adesione hanno una loro stabilità intrinseca, giacché consentono al sog
getto di continuare a porre azioni che sono solo virtuose né mai lo condur
ranno a porre azioni che non lo siano. La carenza di tale comprensione e di
tale adesione è l'opposto della virtù, è il vizio, anch'esso intrinsecamente sta
bile, dato che, operando precisamente con tale carenza, il soggetto produrrà
solo azioni viziate.
b) Dalla stabilità intrinseca deriva la nota più caratteristica significata dai
138 Capitolo III
(8) Il fatto che i tratti virtuosi siano molti, siano relativi alla volontà, alla ra
gion pratica, ai desideri e agli affetti o appetiti passionali, siano connessi in
qualche modo tra di loro, suggerisce che il punto di vista valutativo che essi
comportano ha una portata assai ampia; più ampia di quella a cui è limitata l'e
tica che si concentra sulle azioni giuste o sui doveri di giustizia o sui doveri so
ciali. Con i termini di virtù qualifichiamo non solo modi di agire nei rapporti
sociali, ma anche nella sfera individuale; non solo modi di agire, ma anche
modi di decidere, di tendere a uno scopo, di ragionare e di pensare in ordine
alla condotta, di sentire emotivamente e passionalmente; inoltre qualifichiamo
questi modi in dipendenza gli uni dagli altri e principalmente in dipendenza
dal volere. Per includere tutto ciò in un'unica espressione parleremo di vita
buona: i termini di virtù comportano una valutazione dal punto di vista della
vita buona.
Questo punto di vista è il più globale possibile; considera le tecniche, le
arti e le pratiche, non ciascuna secondo il suo bene proprio e le sue regole pro
prie, ma secondo il loro ordine e il loro valore nella vita umana considerata
come un tutto. Si considera la vita umana come un tutto quando si concepisce
un ordine dei beni umani, perseguiti nelle rispettive pratiche, e in funzione di
questa concezione si procede a costruire le proprie scelte e le proprie azioni vo
lontarie, secondo dei criteri di regolazione che emanano dalla concezione che
si ha dell'ordine da assegnare ai beni umani perché la vita risulti buona. Il
modo di concepire l'ordine tra i beni umani in vista della vita buona costitui
sce il principio regolatore di tutti gli atti volontari, non solo delle azioni, ma
anche degli affetti; non solo della condotta sociale, ma anche di quella perso
nale.
Con i termini di virtù si designano appunto eccellenze, e con i termini di
vizio deficienze, della volontà, della ragion pratica, dei desideri passionali, in or
dine alla vita buona.
(9) Non qualsiasi concezione della vita buona è tuttavia adatta a discrimi
nare tra virtù e vizi. Nelle loro concezioni della vita buona gli uomini brillano
per una straordinaria diversità, che da sempre ha offerto esca allo scetticismo.
Tuttavia il fatto che essi argomentano tra di loro sulle questioni morali signi
fica che essi ritengono che ci sia una verità ed una falsità morale, e che mirano
a individuare qual è la concezione vera della vita buona, e che la concezione
vera è quella che più soddisfa il criterio della ragionevolezza. La concezione
più ragionevole infatti sarebbe quella che meno si presta a critiche.
140 Capitolo III
(1 O) Tra le apparenze che una teoria etica deve salvare la principale è costi
tuita dall'esperienza morale; osservandola così com' essa è espressa nel linguag
gio, essa suggerisce che una teoria etica non è adeguata all'esperienza stessa se
essa non comprende anche un ragguaglio sulle virtù.
A questo punto incappiamo in una difficoltà: tra le apparenze che in qual
che modo sono da salvare vi sono pure le nozioni di virtù elaborate da filosofi
morali; benché esse siano diverse, sono tuttavia da prendere in considerazione,
giacché colgono l'una o l'altra delle istanze emergenti dall'esperienza.
( 1 1 ) Nella rassegna del capitolo precedente abbiamo incontrato una pres
soché generale convergenza a intendere le virtù come disposizioni, interessi,
propensioni, tendenze, senza che questi concetti siano accuratamente analiz
zati. Al più vengono intesi come habit, cioè come disposizione che rende ruti
nario l'adempimento dei doveri: così da parte di Beauchamp [40] .3 Becker,4
12 V. sopra II 36.
" V. sopra II 34.
14 Per Gert le virtù morali sono da distinguere dalle virtù personali: queste hanno per og
getto non il dovere (la sua è una concezione speciale della moralità), bensì altri ideali o valori per
sonali.
" V. sopra II 33 per Beauchamp e II 50 per Gert.
16 V. sopra II 5 1 .
1 7 V . sopra II 52.
Requisiti della teoria della virtù 143
tutte queste concezioni appaiono riduttive rispetto alla nozione suggerita dall'e
sperienza. Secondo questa le virtù sono più attegiamenti che habits, 18 né si ri
ducono ad una decisione fondamentale. 19 Nel corso della nostra valutazione
del dibattito recente abbiamo visto che virtù e dovere non si escludono, ma si
richiamano a vicenda; che il dovere non si riduce ai doveri sociali, ma si
estende a tutta la vita buona;20 che la virtù s'interessa a realizzare un buon
stato di cose, ma con volontà buona,21 cioè regolata secondo la ragionevolezza
pratica, e che questa permette di distinguer la virtù dal vizio, dalle false virtù,
dalle virtù impropriamente dette.22
( 1 8) Una considerazione a parte merita la nozione di virtù elaborata da Mac
Intyre in After Virtue [ 10] : esse sarebbero eccellenze nelle pratiche della vita
buona regolata secondo una tradizione criticamente recepita. Ma anche in essa
abbiamo riscontrato dei limiti: non si colloca nella prospettiva del soggetto
agente, non fornisce criteri per la ricerca di ciò in cui consiste la vita buona e
per la critica della propria tradizione.23
(1 9) L'esperienza morale suggerisce invece di adottare una nozione inclu
siva e massimale di virtù: inclusiva, cioè che non trascuri alcun aspetto dell'e
sperienza e renda conto di tutti essi, accogliendo criticamente le istanze avan
zate dalle nozioni filosofiche; massimale, giacché se la virtù è eccellenza, occor
rerà considerarla nella sua capacità massima di prestazione; osservandola da
questo punto di vista si potrà render conto delle prestazioni minimali.
Tale nozione inclusiva e massimale può essere cosl compendiata: le virtù
sono disposizioni stabili e uniformi (a livello di atteggiamento), che introducono
una determinazione nei principi operativi della condotta volontaria, in modo tale
che questa eccelle nel realizzare la vita veramente e doverosamente buona, con
forme alla regola della ragionevolezza pratica.
(20) Per trovare una nozione filosofica di virtù che soddisfi ai requisiti di
essere inclusiva, massimale, adeguata all'esperienza, occorre risalire ad Aristo
tele e a Tommaso d'Aquino. La nota definizione aristotelica suona cosl: « La
virtù è uno stato abituale che dirige la decisione, stato consistente in un giusto
mezzo relativo a noi, la cui norma è la regola morale, vale a dire quella che gli
darebbe il saggio ».24 Nel contesto dell'Etica Nicomachea questa nozione ap-
18
V. sopra III 3b, 7b.
19
Per la critica alla concezione di Schiiller v. sopra Il 45.
20
V. sopra II 19, 40-48.
21
V . sopra Il 24, 44.
22
V. sopra II 55, 56, 60.
" V. sopra II 58-59.
24 Etica Nicomachea II, 6 1 106 b 36 - 1 107 a 1. Seguo la traduzione di R.A. GAUTHIER -
=
].Y. ]OLIF, L'Éthique à Nicomaque. Tome I, Deuxième pattie: Traduction, Louvain - Paris 1970,
45. La traduzione di C. MAZZARELLI (ARISTOTELE, Etica Nicomachea, Milano 1979, 133) suona
cosl: « La virtù, dunque, è una disposizione concernente la scelta, consistente in una medietà in rap
porto a noi, determinata in base a un criterio, e precisamente al criterio in base al quale la deter-
144 Capitolo III
tratti di carattere che chiamiamo virtù e vizi: i modi di ragionare in vista delle
scelte e delle azioni sono in qualche misura determinati o qualificati da quei
tratti di carattere che introducono una determinazione nei principi operativi
della condotta volontaria.
(22) 2) A questo punto, se si vuole spiegare il rapporto tra esercizio diretto
della ragion pratica e tratti virtuosi del carattere, occorre considerare con
somma attenzione un problema che solitamente sfugge alle teorie etiche o non
viene considerato in tutti i suoi aspetti.
L'oggetto o materia su cui verte l'esercizio diretto della ragion pratica è co
stituito dall'azione in quanto è da porre (operabile) in un contesto circostan
ziato e singolare (particolare) . Orbene, la ragion pratica può occuparsi del par
ticolare operabile in due modi: o secondo una prospettiva ancora universale (in
universali), o precisamente in quanto sono operabili particolari e contingenti
(in particularz) .27 La prima prospettiva è quella adottata dall'etica normativa e
fa possibile la scienza morale: a questo livello di astrazione si elaborano norme
di condotta che sono logicamente universali, perché in esse l'azione da com
piere non è descritta in tutte le sue circostanze singolari, ma solo quanto al suo
intento principale e specificante. La seconda prospettiva è quella propria del
l'individuo che ha da agire hic et nunc: costui giudica l'azione secondo le sue
circostanze singolari, ma soprattutto in funzione della convenienza eh' essa ha
con le proprie disposizioni affettive e appetitive. Queste ultime sono rilevanti
anche più delle circostanze, giacché caratterizzano l'individuo concreto che ha
da porre una sua azione, un'azione cioè conveniente a lui così com' esso è hic et
nunc.
27 Questa distinzione l'introduce (non è richiesta dalla lettera del testo aristotelico) Tommaso
d'Aquino nel suo commento all'Etica Nicomachea: «Contingentia dupliciter cognosci possunt: uno
modo secundum rationes universales, alio modo secundum quod sunt in particulari. Universales
quidem igitur rationes contingentium immutabiles sunt, et secundum hoc de his demonstrationes
dantur et ad scientias demonstrativas pertinet eorum cognitio; [ . . ] . Alio modo possunt accipi con
.
tingentia secundum quod sunt in particulari, et sic variabilia sunt [ ... ] ; sic autem accipit hic Philo
sophus contingentia, ita enim cadunt sub consilio et operatione (Sententia Libri Ethicorum VI, 1
Haec autem = Ed. leonina XLVII, 334 b 190-2 14). Tutto il successivo commento al libro VI
spiega la phronesis-prudentia in funzione di questa distinzione. Lo sviluppo proprio che Tommaso
fa della teoria della prudenza nella 1-11 della Summa Theologiae, contemporanea del commento
all'Etica Nicomachea, è basato sulla stessa distinzione tra recta ratio agtbilium in universali (livello
della scienza pratica) e in particulari (livello della prudenza) : cf. 1-11, 58, 5c. Nell'esegesi che di
questo testo faccio in Lex et virtus 207-2 13 dimostro che l'espressione in particulari si riferisce non
solo alle circostanze dell'azione, ma anche e ancor di più alle disposizioni affettive dell'individuo
agente.
La q. 6 del De Malo, di poco anteriore, fa ricorso alla stessa distinzione: «Obiectum mouens
uoluntatem est bonum conueniens apprehensum. Unde si aliquod bonum proponatur quod appre
hendatur in ratione boni, non autem in ratione conuenientis, non mouebit uoluntatem. Cum autem
consilia et electiones sint circa p articularia, quorum est actus, requiritur quod id quod apprehendi
tur ut bonum et conueniens, apprehenditur ut bonum et conueniens in particulari et non in
uniuersali tantum » (De Malo 6c). Dal seguito del corpus risulta che l'individuo agente giudica circa
la convenienza in particulari anche in funzione delle proprie disposizioni virtuose o viziose.
146 Capitolo III
nito astraendo dalle circostanze. Nella situazione concreta però gli elementi ri
levanti sono ben più numerosi e diversi tra loro, e nessuna norma può aiutare
a scorgerli: qui interviene l'intelligenza del soggetto. Intervengono anche le sue
disposizioni affettive, giacché una circostanza che è rilevante per un desiderio
passionale può non esserlo per un'altra, e qui il soggetto ha da pronunciare un
giudizio di convenienza proprio in rapporto alle sue disposizioni affettive.
Qui la ragion pratica non funziona più come scienza di norme universali e
di fini definiti genericamente, bensl come saggezza pratica. Funziona inoltre in
reciproca connessione con le disposizioni affettive del soggetto. Stando cosl le
cose, il soggetto non perverrà a un giudizio pratico ultimo moralmente corretto
se non dispone di virtù sia nella ragion pratica, sia negli appetiti. Qui appare
quella connessione tra l'esercizio diretto della ragion pratica e i tratti virtuosi o
viziosi del carattere che abbiamo osservato nell'esperienza morale.
Quando dunque la teoria etica si spinge a studiare l'esercizio diretto della
ragion pratica in particulari, essa deve studiare la ragion pratica in quanto con
nessa con gli altri principi operativi della condotta volontaria, e precisamente con
le disposizioni virtuose o viziose.
Ovviamente questo studio costituisce un esercizio riflesso della ragion pra
tica; non è esso stesso saggezza pratica, tuttavia studia i principi o fattori o con
dizioni che fanno possibile la saggezza pratica.
(25) Se le teorie etiche non si spingono fino a questa considerazione in par
ticulari, è per varie ragioni. L'etica utilitarista e l'etica d'ispirazione kantiana
adottano per la ragion pratica un modello di razionalità che non si addice alla
saggezza morale. È un modello che s'ispira alla razionalità giuridica oppure al
l'ideale d'un sistema completo, coerente, rigoroso di norme, nella convinzione
che la moralità si riduca alla razionalità. 28 Interviene certamente anche il fatto
che nei secoli moderni si è acuito sempre più il dissenso sulle norme stesse e
sul modo di giustificarle. Cosl però è andato perso per la filosofia morale un
problema che continua ad essere urgente nell'esperienza morale e che è stato
accaparrato dalla psicologia; in essa tuttavia il problema si trova spogliato del
suo carattere morale e si riduce al problema della costruzione della persona
lità. Si tratta del problema circa le condizioni che fanno possibile la buona
scelta e la buona condotta da parte d'un soggetto agente come quello umano.
Solo spingendosi fino a questo problema la teoria etica trova la prospettiva
giusta entro cui render conto della nozione di virtù che l'esperienza morale sug
gerisce.
(26) 4) Sviluppando ora le implicanze di questa prospettiva (la considera
zione in particulart) perverremo a stabilire i requisiti della teoria della virtù.
Se la considerazione in universali è tipica delle etiche della terza persona, la
28 Per una critica ali' applicazione di qu_esto modello di razionalità al ragionamento morale
cf. Stephen D. HUDSON, Human Character and Morality. Re/lections /rom the History o/Ideas, Lon
don 1986, 1-27; Stuart HAMPSHIRE, Morality and Conflict, Oxford 1983.
148 Capitolo III
considerazione in particulari sorge solo dal punto di vista della prima persona:
studia infatti le condizioni che consentono al soggetto agente di pervenire a
buone scelte.
Di qui un primo requisito della teoria della virtù: essa deve studiare il sog
getto in quanto autore della propria condotta e deve studiare il modo con cui in
tervengono le virtù nei principi operativi volontari a determinarli in vista della
condotta.
Il concetto di condotta, considerato dal punto di vista della prima persona,
richiede necessariamente, come abbiamo visto,29 il concetto di vita buona. La
condotta infatti, in quanto procede per via di deliberazioni e di scelte, sup
pone un criterio universale di valutazione che è fornito da una concezione
della vita buona e suppone un interesse naturale per realizzarla. Inoltre la di
versità delle concezioni della vita buona pone il problema della loro verità e
del criterio di tale verità. Non si troverà risposta se non in un'analisi della ra
gion pratica che mostri su quali principi essa si basi nel regolare la condotta.
Con tali principi si potrà distinguere tra concezioni vere e concezioni false
della vita buona e riconoscere la doverosità delle concezioni vere. I concetti di
vita buona e di regola della ragion pratica consentono di render conto della
virtù dal punto di vista valutativo: ciò che fa l'eccellenza della virtù è appunto
il fatto ch'essa dispone i principi operativi volontari a produrre una condotta
che realizza la vera e doverosa vita buona, conforme alla regola della ragion
pratica. Otteniamo così un secondo requisito della teoria della virtù: essa deve
considerare la virtù dal punto di vista della vita buona e della regola della ragion
pratica. È qui che potrà avvenire l'integrazione tra virtù e dovere.
Infine, come abbiamo appena visto, la ragion pratica sarà da considerarsi in
particulari: in questa prospettiva apparirà la connessione tra virtù e saggezza pra
tica. Questa considerazione cOstituisce un terzo requisito della teoria della
virtù.
Secondo questi requisiti articolerò i tre successivi capitoli in cui andrò svi-
luppando lo schizzo in una teoria. ''
(27) 5) Nella teoria della virtù, che si spinge fino alla considerazione in par
ticulari e che pertanto risponde a questi tre requisiti, la virtù viene introdotta
come principio di buone scelte, di buona condotta, nella quale si realizza la
vita buona secondo la regola della ragion pratica. Questi principi virtuosi, in
quanto tratti di carattere,. definiscono l'identità del soggetto considerato come
autore di condotta. Nei principi operativi volontari, con i quali il soggetto pro
duce le scelte e la condotta, le virtù introducono determinazioni al modo di at
teggiamenti, di cui le scelte e le azioni costituiscono concretizzazioni circostan
ziate.
In questo modo la teoria della virtù risponde a tre tipi di domande cui
ogni teoria etica deve rispondere:
« 1 . Che cosa rende una condotta retta o scorretta? buona o cattiva? lode
vole o biasimevole?
2. Che cosa rende buona o cattiva una persona? lodevole o biasimevole?
3 . In che consiste la vita moralmente buona? Come una persona deve vi
vere la sua vita? Che connessione vi è tra una vita buona e una vita fe
lice?».30
Nella teoria della virtù che andremo sviluppando la domanda circa la con
dotta retta o scorretta appare come quella che porta a concretezza la domanda
circa la vita buona; a sua volta la domanda circa la vita buona appare come
quella che decide il carattere della persona.
Ciò che rende giuste le azioni è quella stessa regola che rende la vita vera
mente buona. Ma la vita veramente buona non consta solo di azioni giuste,
bensì anche di modi di ragionare e di sentire passionalmente; sia le azioni, sia
le passioni, sia le deliberazioni e i giudizi pratici esibiscono atteggiamenti del
carattere, che definiscono l'identità morale del soggetto agente. D'altra parte la
regola delle azioni giuste e della vita veramente buona non vien considerata
dal punto di vista della terza persona, del legislatore che la impone ai sudditi o
della comunità ideale che la impone ai membri; bensì dal punto di vista della
prima persona, come regola che il soggetto agente trova . in se stesso, nella pro
pria ragion pratica; regola soggettiva ma oggettivamente vera e perciò intersog
gettiva; regola che il soggetto riconosce come sua nella produzione delle pro
prie buone scelte.
In questo modo la teoria della virtù rifiuta la concentrazione sulle azioni
giuste e sui doveri richiesti rimproverata all'etica moderna, sia utilitarista sia li
berale,31 senza tuttavia trascurare né azioni né doveri. D'altra parte essa rende
giustizia all'istanza avanzata da Hauerwas e in parte da Hudson:32 cioè che vi
è rapporto tra l'essere un certo tipo di persona e la determinazione dei propri
·
doveri.
(28) 6) Poiché tra le teorie etiche quella tomista meglio risponde ai tre re
quisiti, essa può essere prolungata per rispondere ai problemi suscitati dal di
battito recente. La teoria che sto per sviluppare costituisce pertanto una ri
presa critica di quella tomista.
Essa vuol anche essere il superamento della teoria di Maclntyre, che tra
quelle odierne è la più sviluppata. Si ricorderà che Maclntyre propone una con
cezione della virtù in tre momenti: 33 come eccellenza nelle pratiche che realiz
zano beni a esse immanenti; come sostegno nella ricerca della vita buona;
come qualità che sostengono la tradizione della propria comunità e le impedi-
VIRTÙ E CONDOTTA
1 . Le pratiche
(2) Le azioni in cui si esplica la nostra vita non sono del tutto isolate né in
dipendenti tra di loro; esse si possono ricondurre a pratiche diverse, come la
pratica dello sport, della ·ricerca scientifica, della religione, della medicina,
d'una professione, del matrimonio, ecc. Per pratica, seguendo Maclntyre
( [ 10] 175 ) , intendiamo « ogni forma coerente e complessa di attività umana coo
perativa socialmente stabilita, attraverso la quale beni interni a quella forma di
attività sono realizzati cercando di raggiungere quegli standard di eccellenza,
che sono appropriati a, e parzialmente definitori di, quella forma di attività;
con il risultato che le capacità umane di raggiungere l'eccellenza, e le conce
zioni umane dei fini e dei beni coinvolti, sono sistematicamente estese».2
Col termine pratica designamo l'attività umana con connotazioni differenti
da quelle significate dai termini lavoro od occupazione. Il termine lavoro de-
2. La condotta
(4) 1 ) Una pratica riguarda qualcuno dei beni umani da realizzare in coope
razione; poiché i beni umani basilari sono molti, e ancor di più sono le loro
specificazioni, anche le pratiche sono molte. Tuttavia nelle pratiche è sempre
impegnato l'identico soggetto, impegnato con la sua volontà razionale a realiz
zare nelle pratiche i beni per l'uomo. Questa universale presenza della volontà
razionale nelle molteplicità delle pratiche introduce un nuovo punto di vista,
quello dell'unità della vita umana.
In questo nuovo punto di vista è rilevante non solo il successo della pratica
nel realizzare il bene ad essa interno, ma anche e ancor di più la qualità del vo
lere con cui il soggetto s'impegna nelle pratiche. Tale qualità è definita non
dal fatto che il soggetto s'impegna nella pratica d'un bene umano considerato
separatamente dagli altri, ma dalla concezione che il soggetto si fa dell'ordine
che intercorre tra tutti i beni umani, e cioè dalla concezione del bene umano in
tegrale. Inoltre, poiché i beni sono sempre beni per delle persone, la qualità
del volere è definita anche dalla considerazione che il soggetto fa delle per
sone, in quanto partecipi degli stessi beni umani.
Poiché determinata da una concezione dell'ordine tra i beni umani e da
u1ia considerazione delle persone, la qualità del volere è essenzialmente una in
tenzione, secondo la quale il soggetto s'impegna nelle pratiche.
Siamo passati da un punto di vista settoriale, interno a ogni pratica isolata
mente presa, a un punto di vista globale o generale: quello della vita umana
come un tutto, dell'ordine secondo cui i beni umani devono esser voluti per
realizzare la vita buona, della regola di vita derivante dal bene umano inte
grale. È il passaggio operato da Aristotele dal bene cui mira ciascuna prassi al
bene supremo di tutte le prassi; è il passaggio operato da Maclntyre dalle pra
tiche alla vita buona e alla tradizione che la definisce. Ma il nostro approdo va
oltre il loro. Aristotele si ferma al genere di vita che fa la vita buona, dove per
genere s'intende l'occupazione predominante di individui maschi adulti liberi
che hanno assicurato il sufficiente per vivere. Maclntyre si ferma alla vita
buona come impresa comune. Noi invece abbiamo considerato il bene umano
integrale in quanto scopo che qualifica l'intenzione della volontà razionale in
ogni atto volontario, di qualsiasi persona in qualsiasi occupazione in cui essa
s'impegni volontariamente. È l'approdo cui perviene Tommaso d'Aquino.5
Siamo approdati al punto di vista morale, nel quale si considera non cia
scuna pratica isolatamente, ma la pratica generale della vita buona: per desi
gnarla useremo il termine condotta. Questo termine permette di significare non
soltanto, come il termine azione, il fatto che essa è prodotta in forza d'una vo-
' «Subiectum moralis philosophiae est operatio humana ordinata in finem ve! etiam homo
prout est voluntarie agens propter finem» (Sententia Libri Ethicorum I, 1
= Ed. leon. XLVII, 4,
5 1-54).
154 Capitolo IV
10
Per esprimere con una parola sola l'espressione aristotelica ta pros to telos o quella tomi
sta ea quae sunt ad finem.
1 1 V. sotto V 47, 53.
158 Capitolo IV
12 V. sopra I 34-36.
13 V. sopra I 20-2 1 .
14 V. sopra IV 3-4.
Virtù e condotta 159
(13) 1) Il termine scelta, più che il termine decisione, connota che il soggetto
agente ha una ragione per scegliere e che giudica la convenienza dell'azione in
base a quella ragione. La scelta è atto volontario, ma ragionato, e la ragione
opera nella scelta emettendo un giudizio che chiameremo giudizio pratico ul
timo. In esso l'azione è giudicata in particulari; il soggetto ritiene che hic et
nunc, nelle circostanze concrete l'azione x è l'azione conveniente a lui, quest'in
dividuo concreto, con queste convinzioni, con queste disposizioni, con questi
desideri, con queste intenzioni. Con la scelta il soggetto assume questo giudizio
come suo, come quello che hic et nunc esprime ciò che egli vuol essere.
Ciò facendo egli ratifica definitivamente una certa intenzione, preferendola
ad altre concorrenti, e la rende efficace. L'intenzione non è ancora la scelta, ne
è il principio; la prepara, non la termina. L'oggetto dell'intenzione è l'azione,
non in quanto circostanziata e conveniente a lui hic et nunc, ma in quanto,
ancor solo genericamente, essa può realizzare lo scopo cui il soggetto intende e
che costituisce la sua ragione per scegliere.
Anche quando l'intenzione stessa fosse a sua volta scelta in forza di un'in
tenzione superiore più generale, l'intenzione inferiore, più particolare, non è an
cora scelta compiuta e dettagliata, ma solo preparazione per essa. Questo è il
caso degl'impegni basilari, delle opzioni di principio e, come vedremo, 15 delle
intenzioni che mirano allo scopo virtuoso. Dall'intenzione preparatoria alla
scelta compiuta il tragitto è periglioso e facilmente il soggetto può fare naufra
gio, per le cause che ora vedremo.
( 1 4) 2) La concretizzazione dell'intenzione nella scelta è opera complessa e
non se ne può dare spiegazione se non ricorrendo alla distinzione, almeno con
cettuale, di diverse facoltà. 16 Siamo nel momento della deliberazione, più o
meno articolata ed esplicita, più o meno attuale o virtuale.
Essa è principalmente opera della ragion pratica, la quale valuta l'idoneità di
possibili corsi d'azione a realizzare nelle circostanze concrete la concezione che
il soggetto ha della vita buona e le intenzioni in cui essa s'articola. Se la valuta
zione è moralmente corretta, essa valuta l'idoneità delle possibili azioni a realiz
zare i beni umani basilari secondo la regola morale. Nemmeno in questo caso
però la ragione valuta indipendentemente dai desideri razionali e passionali e
dalle disposizioni caratteriali che il soggetto ha: qui infatti siamo nella considera
zione in particulari, ove occorre stabilire non solo la correttezza morale d'un' a
zione, ma anche la sua convenienza al soggetto concreto. 17 Quale azione sia
1'
V. sotto IV 16; V 47, 58 e sopra II 45.
16
La questione della distinzione reale delle facoltà tra di loro e dall'anima non è di spet
tanza dell'etica: cf. Etica Nicomachea I = 1 102 a 28-30; Sententia Libri Ethicorum I, 19 Deinde =
Ed. leon. XLVII, 69, 105-120.
17 V. De Malo 6c, cit. sopra cap. III, n. 28.
160 Capitolo IV
��
1 8 V. sopra II 25, n. 56 e 57; II 45 per il peso che ha nella teoria tomista il defro ;;j� t�
lico: «Qualis unusquisque est, talis finis videtur ei» (Etica Nicomachea III, 5 = 1 1 14 a 32; I-II, 9,
2c).
19 Cf. I-II, 9, 2, 2m.
Virtù e condotta 161
20
Per un'esposizione ed una critica, da altri punti di vista, delle teorie del!' opzione fonda
mentale, cf. GRISEZ, Christian Mora! Principles 382-390; Alberto GALLI, L'opzione fondamentale, in
Sacra Doctrina 28 ( 1983) 46-66; Io., L'opzione fondamentale esistenzialistica ed il peccato, ivi 30
( 1985) 2 13 -239.
21
Cf. De Malo 6.
162 Capitolo IV
ticolari o dettagliate, sono periferiche nella vita della persona. Esse anzi la qua
lificano moralmente in quanto ratificano o smentiscono definitivamente le sue
intenzioni ed esprimono la sua concezione della vita buona. Sicché proprio per
garantire la loro difficile, precaria, mutabile rettitudine sono necessarie le
virtù.
22
V. sopra III 3b, 7b.
Virtù e condotta 163
2' «Hoc nomen habitus ab habendo est sumptum. A quo quidem nomen habitus dupliciter
derivatur: uno quidem modo, secundum quod homo, ve! quaecumque alia res, dicitur aliquid ha
bere; alio modo, secundum quod aliqua res aliquo modo se habet in seipsa ve! ad aliquid aliud» (I
II, 49, le) .
24 « Sed contra est quod Augustinus dicit, in libro de Bono Coniugali, quod habitus est quo
aliquid agitur cum opus est. Et Commentator dicit, in III de Anima, quod habitus est quo quis agit
cum voluerit» (1-11, 49, 3 sed contra). Al detto di Averroè ricorre sovente Tommaso.
2' V. sopra III 7a.
164 Capitolo IV
26 V . sotto V 34-36.
Virtù e condotta 165
(21 ) La struttura psicologica della virtù appare dunque complessa. Essa è una
perfezione del carattere che implica sempre ragione, volontà e appetito passio
nale. Essa perfeziona la volontà e gli appetiti passionali in ordine agli scopi che
la ragione naturalmente prescrive circa la vita veramente buona e in ordine alle
azioni concrete che la ragione saggia giudica e comanda; la virtù perfeziona la
ragione in ordine alle rette intenzioni, a servizio delle quali e mossa dalle quali
essa diventa pratica in particulari, cercando, giudicando e comandando le
azioni giuste e la misura giusta con cui gli appetiti passionali devono interve
nire nella condotta.
Per quanto intima sia la connessione dei diversi aspetti della virtù, è tut
tavia conveniente mantenere la distinzione, almeno concettuale, dei diversi
aspetti e parlare d'una molteplicità di virtù specificamente distinte. Distingue
remo da un lato la saggezza pratica come virtù della ragion pratica che conferi
sce perfezione formale alle altre virtù; dall'altro lato le virtù morali o del carat
tere o degli appetiti, che muovono la prudenza a servizio dei loro scopi e rice
vono da essa, nel comando dell'azione giusta o della giusta misura, la loro per
fezione formale.
Siamo ora in grado di comprendere perché le virtù siano disposizioni, cioè
ordine tra parti. Innanzitutto esse dispongono le une verso le altre le facoltà
operative della condotta volontaria. Inoltre esse dispongono ciascuna facoltà
operativa riducendo l'indeterminatezza delle potenzialità.
(22) 3) Abbiamo awertito27 che le intenzioni e le scelte, in quanto sono de
terminazioni che il soggetto dà a se stesso, definiscono il suo carattere, la sua
qualità morale come autore di condotta; che, inoltre, intenzioni e scelte, anche
quando sono cessate, lasciano nelle facoltà operative una traccia, una propen
sione a intenzioni e scelte dello stesso tipo. Esattamente queste propensioni o
disposizioni sono le virtù.
Le virtù pertanto qualzficano moralmente il carattere morale dell'autore di
condotta, definiscono chi egli è, non a livello ontologico, ma al livello delle at
tuazioni volontarie; determinano l'essere morale, che si manifesta nell'agire.
(23) Il rapporto tra l'essere morale del soggetto agente' e le sue espressioni
nella condotta non viene però rappresentato in modo adeguàto alla nostra espe
rienza delle scelte quando si concepisce l'atteggiamento virtuoso come « la par
zializzazione dell'opzione fondamentale in qualche campo dell'esistenza» mo
rale, e conseguentemente si concepisce l'atto morale come « la manifestazione
(il segno: in quanto significazione e contenuto) della opzione fondamen
tale».28 Questa rappresentazione è comune a quei teologi moralisti che adot
tano la teoria dell'opzione fondamentale. Secondo tale rappresentazione la de-
27 V. sopra IV 12.
28 Marciano VIDAL, Mora! de actitudes. Tomo primero: Mora! fundamental, Madrid ' 1975,
238.
166 Capitolo IV
cisione che qualifica definitivamente il soggetto morale non awiene nelle scelte
dettagliate, periferiche, categoriali, ma in una decisione di principio che
orienta la persona come un tutto pro o contro Dio, pro o contro la moralità.
Di questa opzione fondamentale sono specificazioni gli atteggiamenti virtuosi;
le scelte minute scaturiscono spontaneamente dall'opzione fondamentale e ne
sono il segno.
Questa teoria si presta a critiche sia quanto al modo con cui viene esposta,
sia quanto agli argomenti su cui si basa, sia quanto alla sua verità. Da quest'ul
timo punto di vista interessa qui rilevare che essa deforma il nostro modo di
fare le scelte e quindi di definire la nostra identità morale. Le nostre scelte non
fluiscono spontaneamente da supposte decisioni di fondo,29 ma sono la conclu
sione d'una ricerca esitante nella quale il soggetto sente in ogni caso la forza
degli appetiti passionali; nel migliore dei casi, se è anche virtuoso, awertirà l'at
trattiva delle azioni che concretizzano la vita veramente buona secondo la re
gola morale. Solo nella scelta compiuta e circostanziata egli risolve l'esitazione
e decide non solo che cosa fare, ma anche per quale ragione farlo, ratificando
l'una o l'altra intenzione. Pertanto la definizione di chi si vuol essere come au
tori di condotta avviene nelle scelte minute, che sono tutt'altro che peri/eriche.
Gli atteggiamenti virtuosi definiscono l'essere del soggetto agente non perché
parzializzino l'opzione fondamentale, ma perché dispongono e preparano il
soggetto a definirsi moralmente bene nelle scelte minute e nelle azioni con
crete, mettendogli a disposizione rette intenzioni come ragioni sue per sce
gliere e per agire moralmente bene.
(24) 4) Sin qui abbiamo spiegato la nozione inclusiva e massimale di virtù
dal punto di vista psicologico; ma l'esperienza morale ci ha fatto riscontrare
anche un punto di vista valutativo.30 In ordine alla vita veramente e doverosa
mente buona, conforme alla regola della ragion pratica, le virtù sono eccel
lenze, i vizi sono deficienze. Spiegheremo nei prossimi capitoli che cosa signifi
cano vita veramente buona e regola della ragion pratica. Qui invece dobbiamo
spiegare in che modo le virtù sono eccellenze e i vizi sono deficienze.
La spiegazione che abbiamo dato della dinamica delle scelte ha messo in
chiaro che le scelte cadono su azioni circostanziate in quanto in esse si realizza
un intento. Entrambi gli aspetti sono rilevanti per la vita buona ed hanno una
relazione con la regola morale. L'intento, ciò che il soggetto si propone di rea
lizzare nell'azione e che è. la sua ragione per agire, è una specificazione della
sua concezione della vita buona. Le circostanze influiscono nel determinare che
questa azione hic et nunc e non un'altra è conveniente al soggetto agente: ca
dono perciò sotto la sua responsabilità. Abbiamo anche osservato3' che a sua
29 Cf. Alberto GALLI, Morale della legge e morale della spontaneità, in Sacra Doctrina 19
( 1974) 457-497.
30 V. sopra III 8-9.
31 V. sopra IV 1 1.
Virtù e condotta 167
volta l'intento può essere articolato, essere cioè esso stesso considerato come
una mediazione particolare d'un intento più generale. Per esprimere questa ar
ticolazione distingueremo tra intento prossimo e fine ulteriore. Entrambi sono
propositi del soggetto agente, ma il primo conferi�ce all'azione la sua specie im
mediata e particolare, il secondo la sua specie principale: infatti è in ragione
del fine remoto (per esempio, farsi un buon nome) che il soggetto adotta un in
tento particolare (per esempio, soccorrere un bisognoso) . Se si giudica l'azione
dal punto di vista dell'osservatore, l'azione è specificata dall'intento immediato
ed il fine remoto appare come una circostanza, magari la circostanza principa
lissima; se si giudica l'azione dal punto di vista dell'autore allora il fine remoto
conferisce all'azione una specie che sta alla specie conferita dall'intento come
forma a materia: il fine remoto si serve dell'intento prossimo per realizzarsi.
Quest'importanza del fine ulteriore lo rende particolarmente rilevante per la
vita buona e richiede che anch'esso sia valutato secondo la regola morale.
Stando cosl le cose, la bontà morale delle scelte che esemplificano la vita ve
ramente buona è una qualità complessa, alla quale contribuiscono la bontà mo
rale del fine, dell'intento, delle circostanze. Poiché questi tre elementi sono
tutti oggetto di libera volontà, tutti e tre la qualificano moralmente. Devono
perciò essere retti tutti e tre affinché la scelta sia moralmente buona. La bontà
morale delle scelte è dunque una perfezione, un'eccellenza, che può esser rovi
nata da parecchi difetti. Vivere la vita veramente buona richiede non solo di
compiere azioni giuste quanto all'intento, ma anche nelle circostanze giuste e
per i fini giusti. Solo le scelte che sono attuazioni eccellenti esemplificano la vita
veramente buona, la vera felicità.
Per le ragioni che abbiamo già visto e per quelle che vedremo ancora,32 il
soggetto umano non è naturalmente preparato a porre simili attuazioni eccel
lenti: abbisogna di virtù. In quanto le virtù dispongono le facoltà operative del
soggetto ad operare coordinatamente per la produzione di attuazioni eccellenti
(scelte ed azioni moralmente rette) , sono esse stesse eccellenze, principio di
vita veramente buona e di vera felicità.
(25) L'analisi della condotta umana che ho sviluppato permette d'iniziare a
capire perché nella condotta umana siano possibili e necessarie eccellenze del
tipo di habitus virtuosi. Il seguito della teoria mostrerà altre ragioni. Per in
tanto abbiamo acquisito che la condotta umana, a causa della discorsività della
ragione umana e della volontà che ne dipende e a causa della diversità delle fa
coltà operative che intervengono, è assai complicata, mobile, fragile. Lo scopo
ultimo che è la vita veramente buona, realizzata in scelte ordinate secondo la
regola della ragion pratica ci apparirà come assai elevato e complesso; la regola
solo in minima parte è data, per buona parte ci apparirà come da elaborare da
parte dello stesso soggetto. In queste condizioni condurre rettamente la vita
perché riesca veramente buona è impresa ardua. Vedremo che il soggetto
" Il carattere spirituale degli habitus è bene spiegato da dom Placide DE ROTON, Les habi
tus. Leur caractère spirituel, Paris 1974.
" Cf. Servais PINCKAERS, Habitude et Habitus, in Dictionnaire de spiritualité VII, Paris
1969, 2- 1 1 ; Io., La vertu est toute autre chose qu'une habitude, in Nouvelle Revue Théologique 82
( 1960) 387-403, riprodotto in Io., Le renouveau de la morale, Tournai 1964, 144-164.
Capitolo V
(2) 1) Il concetto di vita buona ci è stato necessario per render conto della
condotta umana: il soggetto è autore di azioni nella misura in cui egli valuta le
ragioni per agire; questa valutazione richiede un criterio ultimo, che sia unico e
universale per tutte le azioni, altrimenti si perde l'identità e la continuità del
l'autore. La vita buona costituisce tale criterio: il soggetto è autore di condotta
perché giudica le sue azioni come atte a esemplificare per lui quello scopo ge
nerale e ultimo che è la vita buona; scopo che è immanente alle azioni e che in
troduce in esse una continuità per cui formano una condotta.2
In quanto il concetto di vita buona contiene la necessaria condizione di
possibilità della condotta umana, esso è identico per ogni persona umana.3
Varia invec:e da persona a persona la concezione della vita buona, vale a dire
ciò in cui il concetto si realizza.4 Sviluppo dapprima il conetto di vita buona;
spiegherò poi in che cosa si riscontra la diversità delle concezioni.
(3) 2 ) Rifacciamoci alla situazione pratica originaria: il soggetto umano è in
serito in un ambiente, in un mondo, costituito da realtà, personali o imperso
nali, distinte da lui, con le quali egli si mette in rapporto mediante l'azione in
funzione di valutazioni, concezioni, inclinazioni, desideri, volontà eh'egli ha in
sé per natura o per educazione o per formazione propria.5 Egli mira, nelle
azioni, a stabilire una corrispondenza ottimale tra sé e il mondo, corrispon
denza che abbiamo denominato felicità in senso inclusivo. La corrispondenza
{
beni sostanziali
Vita buona,
eudaimonia
bem
. ·
. .
operabili
. . .
esper1enz1ah
} .
stato di cose
6 V. sopra I 55.
7 M'ispiro a GRISEZ, Christian Mora! Principles 178- 184.
8 V. sopra I 53.
172 Capitolo V
alcuni generi supremi di beni pratici, che costituiscono i beni basilari per
l'uomo: la vita fisica, la conoscenza, l'esperienza del bello, l'attività produttiva,
l'attività ludica, l'armonia interiore, la socialità, il rapporto con la divinità. Cia
scuno di questi beni e ciascuna delle sue specificazioni costituiscono l'oggetto
immanente di altrettante pratiche. 9
Nel punto di vista pratico ciascun bene umano basilare è valutato semplice
mente secondo la propria ragione intrinseca di bontà. Ciascun bene basilare,
valutato e compreso come bene desiderabile, diventa il principio d'una pra
tica, nella quale il soggetto regola i suoi impulsi, i suoi desideri, le sue azioni
per il conseguimento di quel bene. S'introduce il punto di vista morale quando
i beni basilari sono valutati, non più ciascuno isolatamente, ma nel loro in
sieme, come beni che integrano il compimento d'una persona umana. Questa
valutazione globale è necessaria perché i beni, essendo molti e potendo essere
realizzati solo limitatamente in singole azioni e pratiche, danno origine a con
flitti nei quali è praticamente possibile violare qualche bene per qualche per
sona al fine di perseguire qualche altro bene per qualche altra persona: ad esem
pio violare la vita di persone per il progresso della scienza. A queste situazioni
la ragion pratica reagisce introducendo un ordine tra i beni umani in modo
che insieme costituiscano il compimento umano integrale. È un ordine pensato
dalla ragion pratica e che definisce, in rapporto all'insieme dei beni umani, l'in
tenzione con la quale dev'esser voluta e perseguita la realizzazione d'un bene
umano in uno stato di cose.
Dal punto di vista morale la vita buona, nel senso di prassi buona, consiste in
atti di volontà il cui intento è realizzare qualcuno dei beni pratici basilari se
condo un ordine dei beni nel loro insieme, pensato dalla ragion pratica. La vita
buona, nel senso morale, comprende anche gli atti della ragion pratica con i
quali l'ordine è pensato e gli atti degli appetiti sensitivi con i quali l'ordine è
sentito passionalmente. La vita buona consta non solo di azioni, ma anche di
pensieri e di passioni; non solo di azioni in rapporto ad altre persone, ma
anche di azioni relative alla propria persona; insomma, di ogni atto interiore vo
lontario che vuole per sé e per gli altri i beni umani secondo l'ordine pensato e
stabilito dalla ragion pratica.
(5) 4) A questo punto l'identico concetto di vita buona dà origine a diverse
concezioni della vita buona. La diversità nasce dai criteri con cui il soggetto sta
bilisce l'ordine tra i beni umani e quindi si raffigura il compimento delle per
sone. Secondo la diversità dei criteri si danno diverse concezioni della vita
buona e diversi generi di vita.
Da sempre questa diversità ha suscitato le discussioni morali. Ma il senso
delle discussioni è di far emergere o prevalere una concezione della vita buona
che attiri il consenso, che sia in qualche modo vera. Non si discuterebbe se
non si mirasse a stabilire qual è la vita veramente buona.
9 V. sopra IV 2.
Virtù e vita buona 173
(6) 1) È inevitabile il punto di vista morale per ogni soggetto capace di vo
lere e di agire in base ad una valutazione razionale; nel punto di vista morale il
soggetto stabilisce un certo ordine tra i beni umani basilari e le loro specifica
zioni in base a un certo criterio. Stiamo appunto cercando qual è il criterio giu
sto in base al quale il soggetto deve ragionare praticamente, volere, sentire af
fettivamente in relazione ai beni umani considerati nel loro insieme. Taie crite
rio designamo come principio primo della moralità.
(7) 2) La giustezza di tale criterio si desume dalla sua razionalità pratica,
cioè dalla sua coerenza con la nozione di bene, che è la nozione fondante del
l'ordine pratico. La ragione infatti è costituita originariamente pratica dall'ap
prensione del bene, cioè dal fatto di valutare che una certa realtà del mondo e
una certa azione possibile del soggetto nei confronti di questa realtà costitui
scono per il soggetto un perfezionamento desiderabile. È principio di moralità
quel criterio di ordine tra i beni umani che è il più coerente con la nozione di
bene, la quale è una nozione massimale, nel senso che bene è sempre quel che
è più bene. Ciò significa che il principio della moralità stabilisce, come criterio
di ordine tra i beni umani, che essi costituiscano nel loro insieme non un com
pimento qualsiasi, ma un compimento ottimale.
Il primo principio della moralità dev'essere perciò un principio della ra
gione pratica; non può essere un desiderio o un interesse che il soggetto si
trova ad avere. Qui raggiungiamo la critica di Baron [33-35] alla tesi neonatura
lista di Foot [7] . 10 Baron osserva che se un soggetto agisce solo in base a desi
deri che di fatto egli si trova ad avere, egli non è persona perfettamente mo
rale, non è veramente autore della propria condotta, perché gli manca un
punto di vista superiore in base al quale valutare i propri desideri eventuali. Il
principio della moralità che stiamo cercando deve consentire al soggetto di es
sere strong evaluator, capace di valutare in senso forte i suoi desideri dal punto
di vista superiore d'una concezione vera della vita buona. Conseguentemente
dovremo identificare la virtù non con desideri - di fatto lodevoli per dei
fini - di fatto buoni, come vuole Foot [7] ; ma con degli interessi che il sog
getto liberamente produce in se stesso a partire da una concezione vera della
vita buona, interessi che il soggetto è in grado di valutare come buoni di di
ritto.
(8) 3 ) Nella ragion pratica il principio della moralità è appunto un princi
pio. Come tale esso non può essere dimostrato, ma è il presupposto per ogni
10
V. sopra II 37-38. Cf. anche la critica alla tesi naturalista da parte di DENT [82] 106-120 e
di E.J. BONO, Reason and Value, Cambridge 1983.
17 4 Capitolo V
argomentazione morale che miri a giustificare norme o giudizi morali. Può es
sere solo identificato attraverso un'induzione che mostri il fondamento ultimo
dei giudizi morali. La sua evidenza è immediata, nel senso che il soggetto l' af
ferra appena comprende il significato dei termini. Ma egli non arriva a tale com
prensione se non attraverso un'astrazione che parte dalle proposizioni morali
che egli incontra nella propria esperienza morale, nell'ethos del gruppo cui ap
partiene, nella tradizione della propria comunità. Qui raggiungiamo e al tempo
stesso superiamo le posizioni di Macintyre e di Hauerwas. Per Madntyre
( [ 10] 207) 1 1 qualche criterio iniziale di vita buona è fornito dalla tradizione
della propria comunità, espressa nelle storie ch'essa tramanda. Per Hauerwas
( [20] 55-62 ) 12 il carattere che determina il genere di vita del soggetto agente è
formato dalla narrativa che è tramandata all'interno d'una particolare comunità
e che costituisce la sua visione. Con ciò egli s'oppone all'idea d'una legge natu
rale come insieme di norme universali su cui converge il minimo comune con
senso.
Questa posizione mi sembra legittima in quanto indica nella tradizione il
luogo d'origine e di formazione dei giudizi morali. Tuttavia essa non offre uno
strumento per l'assimilazione critica della tradizione e per il confronto fra tra
dizioni diverse. Lo strumento può essere costituito solo da principi che sono
operanti nelle tradizioni e che si basano su un identico principio fondamen
tale. Ciò non significa ridurre le norme morali a un minimo su cui possa con
vergere il consenso comune. Significa invece identificare il principio che con
sente di sviluppare una «visione» coerente circa il modo di condurre la vita e
di operare il confronto critico, per via di argomentazione, con altre visioni.
(9) 4) Il primo principio della moralità dev'essere unico, altrimenti si am
mette la possibilità, in linea di principio, di conflitti irrisolvibili tra norme, tra
virtù e tra doveri. Irrisolvibili sarebbero quei conflitti in cui non è possibile
compiere un'azione moralmente buona (conforme a una norma, a una virtù o a
uri dovere) senza voler violare contemporaneamente un'altra norma, un'altra
virtù, un altro dovere. Questa tesi è oggi condivisa da quei filosofi che s'oppon
gono a una concezione razionalista della moralità: Frankena, Hampshire, Hud
son.13
Ora però ammettere una pluralità di principi irriducibili che possa dare ori
gine a conflitti irrisolvibili è introdurre la contraddizione all'interno del bene
morale stesso, giacché si .darebbe il caso che non si possa avere una volontà
buona senza che sia anche simultaneamente cattiva. Se per compiere un'azione
moralmente buona mi è consentito compiere un'azione moralmente cattiva,
11
V . sopra II 58.
" V. sopra II 15. .
FRANKENA [45] 124-125; S. HAMPSl-IlRE, Morality and Conflict, Oxford 1983; S.D.
u
HUDSON, Human Character and Morality. Re/lections /rom the History o/ Ideas, Boston - London -
Henley 1986, 15- 16, 30, 109 - 1 10.
Virtù e vita buona 175
perdo ogni ragione per compiere l'azione buona e perde ogni importanza la di
stinzione tra bene e male morale.
(1 O) 5) La contraddizione sorgerebbe perché il principio della moralità ri
guarda principalmente la volontà e secondariamente uno stato di cose. Se esso
riguardasse solo uno stato di cose, la possibilità di conflitti irrisolvibili sarebbe
ammissibile, giacché in questo mondo anche un buon stato di cose può com
portare inevitabilmente dei mali fisici. Ma è impossibile che il principio della
moralità riguardi uno stato di cose senza riguardare prima e principalmente
anche la volontà con la quale esso è voluto. Infatti il principio della moralità è
costitutivo per la ragione, nel senso che i suoi giudizi pratici particolari non
possono prescindere dall'essere o no coerenti con tale principio; e poiché la vo
lontà è per definizione l'appetito il cui oggetto è il bene così com'è giudicato
dalla ragione, nemmeno la volontà può prescindere dal fatto che le sue inten
zioni e le sue scelte, sempre specificate da un giudizio pratico, siano o no con
formi con il principio della moralità. Se dunque il principio della moralità ri
guarda principalmente la volontà, la possibilità di conflitti irrisolvibili è inam
missibile. In uno stato di cose un bene fisico può esser compatibile con un
male fisico, giacché lì i beni umani sono considerati ciascuno per conto suo. In
vece alla volontà i beni umani sono presentati dalla ragione come costituenti
nel loro insieme e con un certo ordine il compimento ottimale dell'uomo, com
pimento pensato dalla ragione e proposto all'intenzione della volontà. È
quindi impossibile per la volontà volere e non volere contemporaneamente que
st'insieme e quest'ordine; perciò è impossibile per la volontà un conflitto mo
rale irrisolvibile.
Né si può annullare l'importanza dell'intenzione della volontà verso i beni
umani concepiti nel loro insieme e ridurre la moralità alla produzione d'un
buon stato di cose. Ciò sarebbe privare il soggetto della sua autorità, della sua
capacità di volere in funzione d'una strong evaluation. Infatti lo stato di cose sa
rebbe valutato come buono solo in riferimento ai desideri che i soggetti coin
volti si trovano ad avere, senza che questi stessi desideri siano valutati da un
punto di vista superiore. Se invece il soggetto è autore, egli sarà autore moral
mente buono solo se mira a un buon stato di cose con buona volontà, 14 cioè
con volontà conforme al primo principio della moralità.
( [62] 183 - 189) : «Agendo volontariamente per i beni umani ed evitando ciò
che s'oppone ad essi, uno deve scegliere (o volere in qualche altro modo)
quelle e solo quelle possibilità, il volere le quali è compatibile con una volontà
rivolta al compimento umano integrale».
Tale formula rapporta il volere operante nelle scelte a un ideale di compi
mento umano integrale, un ideale che consiste in una comunità di persone in
cui ciascuna può crescere in tutti i beni umani. I beni umani sono considerati
tutti importanti, tutti necessari e incommensurabili tra loro. Nelle scelte con
crete la realizzazione dei beni umani è sempre limitata a qualche bene per
qualche persona; il principio della moralità prescrive che nelle scelte l'azione
sia ordinata in modo che la volontà in atto di scegliere non sia preclusa agli
altri beni umani e alle altre persone, ma si mantenga aperta, eviti limitazioni
non necessarie. L'ideale del compimento umano integrale non è una meta rag
giungibile, ma uno scopo sempre limitatamente realizzabile nelle singole
scelte.
( 1 2) 2) Nella formulazione di Grisez sono due i criteri coinvolti: i beni
umani e le persone; nelle scelte la volontà dev'essere sempre aperta a tutti i
beni umani per ogni persona. Benché questi criteri siano necessari, non mi sem
brano tuttavia sufficienti. È possibile ed è necessario introdurre un terzo crite
rio che non contraddice questi due, ma li completa.
Mi pare infatti che la formulazione di Grisez trascuri un aspetto dell'agire
umano che invece è essenziale ed è l'aspetto principale su cui Tommaso d'A
quino lavora nelle qq. 1-5 della I-II per costruire la sua teoria della beatitu
dine. Tale aspetto è costituito dal fatto che nell'agire volontario è necessaria
mente coinvolto un fine ultimo, e che il fine ultimo è necessariamente uno. Un
fine ultimo è necessariamente coinvolto, perché una subordinazione infinita di
fini non darebbe origine ad una volontà definita; uno e unico dev'essere il fine
ultimo ogni volta che vi è un atto di volere definito: la volontà può volere
molti beni, ma solo uno come ultimo fine; la pluralità di beni come tale con
traddice al concetto di fine ultimo.
Ora è indubitabile che l'uomo tende a molti beni e che molti beni sono ne
cessari al compimento umano integrale. Per salvare questa molteplicità e al
tempo stesso rendere conto dell'unicità del fine ultimo bisogna introdurre un
ordine, e l'unico criterio di ordine coerente con la nozione di bene, che è fon
damentale e primordiale per la ragion pratica, è il criterio della perfezione. Il
concetto di perfezione infatti esplicita una nota presente nel concetto di bene.
L'idea di perfezione non contraddice affatto all'incommensurabilità dei
beni umani sulla quale giustamente Grisez insiste tanto. Infatti l'ordine ch'essa
introduce tra i beni umani non è un ordine di mezzi relativi a fini, dove la
bontà dei mezzi è derivata dalla bontà dei fini. Nell'ordine di perfezione ogni
bene mantiene il suo specifico valore, irriducibile a quello degli altri beni e in
commensurabile con esso nella sua specificità; ma riceve una nuova dignità
dalla sua ordinabilità a un bene più eccellente e più nobile, perché più per-
Virtù e vita buona l 77
fetto. L'ordine tra i beni non significa che si può trascurare il meno eccellente
per il più eccellente; ma che i beni meno eccellenti devono essere coltivati
nella loro specificità proprio perché solo così essi fanno possibile l'accesso ai
beni più eccellenti: in ciò sta la loro dignità e la ragione ultima della loro invio
labilità.
Se si considerano i beni umani dal punto di vista dell'eccellenza e della per
fezione, la lista dei beni da prendere in considerazione non coincide con la
lista dei beni basilari che per Grisez costituiscono il compimento umano inte
grale. Questi ultimi sono per Tommaso i beni cui tende naturalmente la vo
lontà perché senza di essi non è realizzabile il bene perfetto. 15 Invece se si con
siderano i beni dal punto di vista dell'eccellenza e della perfezione, entrano in
conto quei beni che sembrano avere qualche caratteristica del bene per
fetto: 16 il piacere, le ricchezze, l'amore, la fama, il potere, la scienza, Dio.
Procedendo secondo questo punto di vista Tommaso perviene a stabilire
che il bene perfetto dell'uomo consiste in Dio. Però poi subito aggiunge che
alle capacità naturali dell'uomo non è consentito un rapporto perfetto con Dio
mediante un atto di perfetta conoscenza e di perfetto amore. Alle capacità natu
rali dell'uomo non è consentito che un rapporto imperfetto col bene perfetto.
Questo rapporto imperfetto può consistere sia in una conoscenza imperfetta
di Dio mediante la ragione, sia in un ordinamento volontario della vita, delle
azioni relative ai beni umani, in modo tale che la volontà intenda a che sia pos
sibile a tutti coltivare il rapporto con Dio.
Per questa via ritorniamo al compimento integrale di Grisez, ma con un'ac
quisizione in più, cioè la fondazione della sua assoluta inviolabilità e doverosità
nell'ordine del compimento umano a Dio, bene perfetto dell'uomo. Né porre
in Dio il bene perfetto dell'uomo equivale ad affermare che per le capacità na
turali dell'uomo Dio possa essere fine ultimo concreto e determinato capace di
terminare insuperabilmente ogni desiderio della volontà e in grado di svolgere
una funzione architettonica rispetto ad ogni altro bene.17 L'uomo resta discor
sivo anche nella sua volontà; perciò, nell'ordine naturale, con Dio non può che
avere un rapporto imperfetto e per il proprio compimento richiede tutti i beni
basilari.
( 1 3) 3) Proprio a causa della sua razionalità discorsiva l'uomo non può sem
pre intendere, nelle sue scelte, a tutto lordine dei beni umani e al bene per
fetto. È sufficiente che egli scelga le azioni che coinvolgono qualcuno dei beni
umani in modo tale che la sua volontà in tale azione e per tale bene resti di
" Cf. I-II, 10, le; 2, 3m; 94, 2c. Grisez sviluppa la lista di Tommaso per formulare il con
cetto di compimento umano integrale. Ma questa lista è elaborata da Tommaso dal punto di vista
della necessità e della naturalità con cui la volontà umana è inclinata a questi beni, non dal punto
di vista del bene perfetto.
1• Cf. I-II, 2-5; 69, 4.
17 V. sopra I 58.
178 Capitolo V
18
V. sopra V 3 .
Virtù e vita buona 179
zione alla persona umana, ma non in Dio. Le concezioni diverse sono invece
difettose, non garantiscono la perfezione alla persona umana e perciò non si
può dire che la vita in esse rappresentata sia semplicemente buona, solo che di
versa da quella rappresentata nella concezione vera; è invece una vita semplice
mente cattiva; se è detta buona, è detta in senso soltanto metaforico.
Quest'affermazione apparirà sensata in base alle seguenti considerazioni.
Per la ragione pratica è inevitabile e costitutivo disporre del principio della mo
ralità per giudicare le scelte. Tale principio è evidente di per sé non appena la
ragion pratica apprenda il concetto di bene come perfezione desiderabile per
una persona. Poiché i beni sono molti e la persona è una, è inevitabile che la
ragione pensi a un ordine dei beni e che tale ordine miri alla perfezione della
persona. Il principio della moralità, ponendo tale perfezione in un compimento
umano integrale ordinato a Dio, è il più coerente con la nozione originaria di
-bene che è il principio della ragion pratica, e quindi il principio della moralità
è il più razionale. In esso la ragione si esprime pienamente, senza riduzioni,
senza preclusioni, senza privazioni. Benché anche un'azione moralmente cat
tiva abbia una sua razionalità pratica, è questa tuttavia una razionalità pre
clusa, ridotta; diremo che è una razionalità irragionevole, mentre quella che si
esprime in azioni moralmente buone è una razionalità ragionevole.
A livello del principio della moralità e delle sue più immediate specifica
zioni la ragion pratica è inevitabilmente ragionevole, è costituzionalmente
retta. Quando essa ragiona in particulari, cioè in vista del particolare opera
bile, essa continua a essere retta qualora ragioni coerentemente al principio
della moralità. 19 In questo caso avremo una vita pienamente razionale, ragio
nevole, non preclusa, ordinata alla perfezione in Dio. La vita cosl vissuta può
esser detta propriamente e semplicemente buona; la felicità ch'essa realizza
può esser detta semplicemente felicità; l'amore che ne è l'anima può esser
detto semplicemente amore; una vita così realizza semplicemente la libertà, l'u
nità.
Quando invece la ragione in particulari non è più retta, la vita che ne
segue, la felicità, l'amore, la libertà, l'unità sono difettose. Alle realizzazioni in
tegre questi termini si applicano per antonomasia, o in senso vero e proprio;
alle realizzazioni difettose questi termini si applicano in senso improprio o me
taforico. Per esprimere la differenza dei due sensi noi ricorriamo ai binomi
«vero-falso », « reale-apparente».
Sicché la vita, nel senso di prassi, o è conforme al principio della moralità,
e solo allora è buona; o non lo è, ed allora è cattiva.
(1 7) 3 ) Alla vita (veramente) buona, a pensare, volere, sentire affettiva
mente in modo conforme al principio della moralità abilitano le virtù. Anche
per il termine virtù valgono le considerazioni testé fatte. In quanto il termine
virtù designa disposizione ad attuazioni eccellenti, può esser considerata virtù,
1 . Il dovere di giustizia
(1 9) Poiché la ratio debiti è più evidente nei doveri di giustizia che non
negli altri doveri morali, per spiegare il dovere morale conviene partire dai do
veri di giustizia.23 Nei rapporti di giustizia il soggetto agente è confrontato
20
BARON ( [34] 199-201) per poter sostenere che e in quale senso il dovere sia il motivo ri
chiesto affinché un agente sia perfettamente morale, e per non ridurre alla moralità i doveri di giu
stizia, distingue atti moralmente richiesti e atti moralmente raccomandati; entrambi i tipi di atti sa
rebbero moralmente doverosi. Ad analoga distinzione ricorre BEAUCHAMP [ 40] per poter soste
nere la corrispondenza tra virtù e doveri; i diritti corrisponderebbero soltanto ai doveri richiesti.
Così anche HuosoN ( [66] 190-193) include negli atti che dobbiamo moralmente compiere non
solo gli atti richiesti dalla moralità (obbligazioni, doveri), ma anche atti supererogatori e atti meri
tori (atti delle virtù). Tutto il capitolo III del suo Human Character and Morality critica la ridu
zione della moralità ai doveri di giustizia e argomenta perché siano considerate altrettanto essen
ziali alla moralità le virtù.
2 1 Specialmente ANSCOMBE [ l ] , FOOT [7a], TAYLOR [ 14].
22 V. sopra II 9 - 1 1 , 19, 30-48, specialmente 40-43; v. anche I 4 1 .
2 3 Nella spiegazione dei doveri d i giustizia m'ispiro a Jean TONNEAU, Devoir e t morale, in
Virtù e vita buona 181
con altri individui che compartecipano agli stessi beni umani. In quanto sono
persone, questi altri individui sono in grado di partecipare attivamente e re
sponsabilmente ai beni umani. Ma anche il soggetto agente è persona, e come
tale potrebbe sfruttare per se stesso le altre persone; egli le riconosce come per
sone solo se le riconosce come altre da se stesso e riconosce per esse, in quanto
altre, i beni che sono loro necessari e che appartengono ad esse in virtù di ciò
che esse sono per natura o per funzione nel corpo sociale. Tali beni costitui
scono ciò che è giusto, vale a dire ciò che, posseduto, le eguaglia a tutte le per
sone in quanto compartecipano agli stessi beni umani. Tali beni esse li vo
gliono, ma li possono avere solo per intervento della volontà di altri, nel caso
il soggetto agente, il quale si trova così a essere debitore. Le volontà del credi
tore e del debitore, per ipotesi rette, concordano nell'oggetto conveniente; ma
il creditore vuole ciò che conviene a sé, il debitore vuole ciò che conviene
all'altro. Le due volontà non sono sullo stesso piano: la prima domina, la se
conda serve, perché si vuole a servizio dell'altro e del suo bene, è regolata dal
bene conveniente e appartenente all'altro. Il termine dovere esprime, in questa
situazione, la necessità morale che viene alla libera volontà del debitore dal
fatto di esser regolata dal bene conveniente all'altro, al creditore. Questo bene
gli è dovuto perché, benché gli appartenga, può essergli dato solo dalla libera
volontà del debitore in quanto regolata dallo stesso bene conveniente all'altro.
Nei doveri di giustizia la ratio debiti è più evidente sia perché i beni dovuti
sono più necessari all'esistenza autonoma dell'altro, la salvaguardano e la favo
riscono; sia perché per questo tipo di beni la misura dovuta (il medium ret) è
più facilmente determinabile, e quindi può cadere sotto la formulazione d'una
legge positiva; perciò questo tipo di debito si chiama debito legale (Tommaso
d'Aquino) o dovere perfetto (Kant) .24
(20) Tuttavia i doveri di giustizia non possono essere l'unico tipo di doveri.
Essi infatti assicurano a ciascun membro della comunità ciò che gli appartiene,
ciò che è suo, in quanto richiesto dalla sua esistenza autonoma come persona.
Ma questi doveri lasciano aperta la questione del senso e del valore d'una esi
stenza autonoma; a tale questione non si risponde sufficientemente dicendo
che negli spazi lasciati liberi dai rapporti di giustizia ciascuno è libero di ge
stirsi la vita a suo piacimento, secondo le sue preferenze. Questa risposta, ti
pica delle etiche liberali o utilitariste, che riducono la moralità alla giustizia, è
insufficiente sia praticamente sia teoreticamente. Praticamente, perché senza
una disciplina personale nella vita, le passioni inducono a violare i doveri di
giustizia. Teoreticamente, perché se a ogni persona è dovuto ciò che le appar-
tiene per giustizia, ciò trova la sua giustificazione non nell'arbitrio con cui a cia
scuno sarebbe consentito gestire la sua vita, bensì nella possibilità che una so
cietà giusta lascia ai suoi membri di condurre una vita veramente buona nella
ricerca del compimento umano integrale e della perfezione in Dio.25 Se alle
persone è dovuta giustizia, è affinché sia possibile a esse perseguire lo scopo
della condotta umana, la vita veramente buona e la vera felicità.
Bisogna allora riconoscere un altro tipo di doveri che Kant (modificando
una distinzione risalente a Grazio e a Pufendorf tra diritti perfetti, in quanto
esigibili per via legale o con la forza, e diritti imperfetti, non così esigibili) ,
chiamò doveri imperfetti, non perché fossero meno doverosi, ma perché sono
meno determinabili con esattezza.26 Sono i doveri delle virtù diverse dalla giu
stizia: essi sono necessari non all'esistenza autonoma delle persone, ma alla loro
perfezione e alla loro eccellenza, dalle quali ricavano il loro senso i doveri di
giustizia: questi sono in ragione e in vista di quelli.
Ora la perfezione delle persone o la loro eccellenza nella vita veramente
buona non sono scopi che si possano o no coltivare a piacimento; sono invece
scopi che devono esser coltivati dalle persone, secondo una doverosità morale
che va oltre i doveri di giustizia e che spiega sia i doveri di giustizia sia i do
veri delle altre virtù: è la doverosità morale della vita veramente buona.
2. Il dovere morale
(21 ) Che esista una doverosità morale e in che cosa essa consista, è possibile
ricavarlo per via di riflessione sulla nostra esperienza morale. Adottando un'il-
" V. sopra II 2 1 .
26
Cf. HUDSON, Human Character 32. Dopo aver citato un testo di Pufendorf ove costui
spiega che « there is a diversity in the rules of this Iaw, some of which conduce to the mere exi
stence of society, others to an improved existence» (De ]ure Naturae et Gentium Libri Octo, tr. 01-
dfather and Oldfather. Oxford, Clarendon Press 1934, reprint of 1688 edition, 1 18), Hudson com
menta: «This idea that virtues like gratitude, kindness, generosity, charity, and friendship are the
" extras" which make socia! !ife rich, not the ingredients that make socia! !ife possible, that they
are secondary, not basic, that they are merely the ornamentation of the pillars of the socia! edifice,
goes, I think, to the heart of the matter. For what is at issue is not how these virtues are named,
but an assessment of their mora} importance, of the scope they have in our mora! !ife». Mi pare
che, se questo modo di considerare le virtù diverse dalla giustizia non corrisponde al pensiero kan
tiano, corrisponde però all'etica utilitarista e liberale. GERT [ 46] ad es. considera queste virtù non
come virtù morali, ma come valori personali. Quanto a Kant, egli «ne signale pas seulement des
obligations envers autrui, mais également des obligations envers soi-meme. La morale ne peut se
réduire à une morale sociale, et l'ensemble des vertus ne saurait se résumer à l'une d'entre elles, la
vertu de justice (personnelle). Kant contredit ainsi de façon exemplaire l'utilitarisme - de mème
qu'Aristote et sa tradition -, mais il adhère aux conceptions stoidennes et chrétiennes. Pour
Kant c'est la perfection personnelle qui est le principe de toute obligation envers soi-mème, c'est-à
dire la culture des facultés intellectuelles, émotionelles et physiques ainsi que la culture de la mo
rale, le bonheur d'autrui étant le principe des obligations sociales» (HOFFE, Introduction 103 ) .
Virtù e vita buona 183
27 Cf. Martin RHONHEIMER, Natur als Grundlage der Mora!. Bine Auseinandersetzung mit au
tonomer und teleologischer Ethik, Innsbruck - Wien 1987, 43, 48-49, specialmente 63-66. Rhonhei
mer sviluppa una distinzione tra ragion pratica in actu exercito e ragion pratica in actu signato
esplicitata da Caietano (In I-II, q. 58, a. 5, Comm. VIII, Ed. leonina) .
28
La distinzione tra proprios actus et fines e debitum actum et finem è enunciata da Tom
maso in I-II, 9 1 , 2c: «Manifestum est quod omnia participant aliqualiter legem aeternam, inquan
tum scilicet ex impressione eius habent indinationes in proprios actus et fines. Inter cetera autem,
rationalis creatura excellentiori quodam modo divinae providentiae subiacet, inquantum et ipsa fit
providentiae particeps, sibi ipsi et aliis providens. Unde et in ipsa participatur ratio aeterna, per
quam habet naturalem inclinationem ad debitum actum et finem». L'attenzione sul senso della di
stinzione tra finis proprius e finis debitus è richiamata da RHONHEIMER, o.e. 72-74, 79-80.
29
V. sopra II 37.
184 Capitolo V
Alla libera volontà la ragion pratica propone i beni da essa valutati come
debiti, doverosi, al modo d'un precetto: questo è l'unico modo possibile per la
ragione di esercitare il suo influsso su una volontà che è libera.
Per via di riflessione descrittiva sull'atto diretto precettivo della ragion pra
tica abbiamo individuato quella situazione in cui è necessario parlare di dovere
morale ed è possibile spiegare in che cosa esso consista. Nell'atto precettivo la
ragion pratica comanda che i beni umani siano voluti non in qualsiasi modo
(per esempio, seguendo solo desideri che il soggetto si trova ad avere o pas
sioni dell'appetito sensitivo) e che siano voluti per le persone non in qualsiasi
modo (per esempio, discriminando) , ma che siano voluti secondo il principio
della moralità. I beni che la ragion pratica comanda di volere in questo modo
sono azioni, beni operabili, cioè che attendono di essere realizzati da parte
d'una libera volontà. Il che equivale a dire che la ragion pratica comanda certe
azioni rappresentandole come richieste da un ideale pratico di perfezione per
le persone umane (la vita veramente buona, la vera felicità) . Una siffatta rappre
sentazione da parte della ragione precettiva è l'unico modo possibile di mo
zione esercitabile su una libera volontà; un oggetto così rappresentato, valu
tato, è per la volontà un /aciendum et prosequendum, dove il gerundio significa
non solo che l'azione attende di esser posta, ma che deve assolutamente esser
posta da una volontà libera e razionale.
(22) Qui il termine dovere significa un tipo di necessità che è possibile solo
quando entrano in rapporto un oggetto rappresentato dalla ragion pratica
(retta) e una volontà libera e razionale. Tale necessità consiste in una appro
priatezza o convenienza tra ·l'oggetto rappresentato dalla ragion pratica (un'a
zione richiesta dall'ideale di perfezione umana) e la volontà in quanto libera e
razionale. Tale appropriatezza è reciproca.30
In primo luogo all'ideale di perfezione umana e alle azioni rappresentate
dalla ragione come richieste di questo ideale è appropriata, s'addice, si confà
solo la libera adesione d'una volontà razionale, che si concretizza in intenzioni
e in scelte. La ragione di questa convenienza è che tale ideale per natura sua è
realizzabile solo in atti liberi; inoltre, in quanto presentato dalla ragione, non
può muovere se non un appetito che per definizione va ai beni secondo come
sono presentati dalla ragione. Si noti che la libera adesione è dovuta a tale og
getto proprio perché la volontà è libera. Qui, con buona pace di Kant, l'even
tuale contrarietà delle passioni non c'entra affatto. L'ideale della perfezione
umana non è semplicemente attraente per un appetito razionale; in quanto la
voIOntà resta libera (non necessitata come lo è dal concetto formale di vita
buona e di felicità), l'ideale presentato dalla ragion pratica è degno di esser per
seguito da una volontà razionale, è prosequendum. Ovviamente tale dignità e do
verosità è concepibile che si eserciti solo su una volontà che ha un interesse na-
'0 Nel cap. II 42 ho menzionato solo l'appropriatezza della libera adesione all'oggetto pre
turale per i beni umani, per la vita buona, per la felicità. Non potrebbe eserci
tarsi su una volontà che fosse concepita come radicalmente e totalmente indif
ferente: non è sufficiente concepire, kantianamente, la volontà come indipen
dente dalle inclinazioni naturali e passionali per render conto della doverosità
morale.
In secondo luogo solo l'ideale di perfezione umana, e solo le azioni rappre
sentate dalla ragion pratica come richieste di questo ideale, possono costituire
l'oggetto appropriato, conveniente, che s'addice a un appetito come la volontà
razionale. La ragione di questa convenienza è che la vera felicità, in quanto è
un ideale non ridotto, ma ottimale di felicità, s'addice a un appetito natural
mente inclinato alla felicità; inoltre la vera felicità, in quanto è un ideale piena
mente razionale, s'addice a un appetito naturalmente inclinato al bene com'è
valutato dalla ragione.
(23) Il dovere morale suppone una volontà naturalmente inclinata alla feli
cità; tuttavia non è riducibile a un imperativo ipotetico: se vuoi essere piena
mente felice, devi volere secondo il principio della moralità. Questo modo d'e
sprimersi considera l'ideale della perfezione umana semplicemente come il più
attraente. Ma in questo modo gli si attribuisce una causalità sul volere che sop
prime la libertà della volontà. Per quanto attraente sia l'ideale della perfezione
umana, esso costituisce sempre un bene particolare che non necessita la vo
lontà come la necessita il concetto formale della felicità. Ma allora, se la vo
lontà non è radicalmente indifferente, l'unico modo di rendere conto della cau
salità esercitata sulla volontà dall'ideale di perfezione umana è considerarla
come una causalità originale, nella linea del prestigio, della dignità, del de
coro, del bonum honestum. Sicché il dovere morale è un dovere assoluto, che
s'esprime nell'imperativo categorico: devi volere essere pienamente, veramente
felice.
Rispetto al dovere di giustizia il dovere morale non è un dovere in senso
metaforico, ma in senso proprio, benché analogico. Il senso metaforico pro
cede da una personificazione della ragion pratica: il dovere da essa prescritto
sarebbe allora considerato alla stregua d'un dovere di giustizia, nel quale il sog
getto passionale si sottomette al soggetto razionale come ad un altro da sé.31
Questa interpretazione trascura completamente il rapporto originale che inter
corre tra i precetti della ragion pratica e la volontà razionale. Non c'è bisogno
di personificare la ragion pratica per cogliere il senso del dovere morale: esso
non esprime altro che quell'originale convenienza per cui sono reciprocamente
appropriati il bene morale prescritto dalla ragion pratica e la libera adesione
della volontà razionale.
" «En ce sens qui, répétons-le, est métaphorique, le devoir pour l'homme a la mème exten
sion que le bien selon la raison, que le bien mora!» (TONNEAU, Devoir et morale 250). Nemmeno è
sufficiente affermare che il bene morale «est déja un dù aus sens large, en ce sens que son absence
serait une privation d'ètre»: ID., Absolu et obligation en morale, Montréal - Paris 1965, 125.
186 Capitolo V
3. L'obbligazione morale
(25) Nella spiegazione testé proposta del dovere morale non s'è fatto ri
corso né al concetto di legge, né al concetto di legge divina, né al concetto di
obbligazione. Tuttavia nel linguaggio corrente i termini dovere e obbligazione
vengono facilmente usati come sinomini: se si deve moralmente, vuol dire che
si è obbligati moralmente. Ma i termini dovere e obbligazione non sono sino
nimi, anche se un'identica azione può essere moralmente doverosa e moral
mente obbligatoria.
Che cosa si significhi col termine dovere, Io abbiamo spiegato. Resta da
spiegare il significato del termine obbligazione.
Secondo un'espressione di Tommaso obbligare significa vincolare una vo
lontà, in modo tale che non possa tendere ad altro senza incorrere in una de-
formità, così come chi è legato non può camminare.33 Ora questo effetto sulla
volontà non lo può produrre una regola come tale; la regola misura semplice
mente il bene e il male. Ma essa non è efficace, se non è applicata, usata nel-
1' atto di volere; e per poter essere applicata dev'esser conosciuta. Quando il
soggetto non possiede da sé tale conoscenza né se la può dare da sé, egli la ri
ceve da un altro che in questo caso lo governa, esercitando su di lui la mo
zione caratteristica d'un signore su un suddito. Notificare una regola è l'unico
mezzo per un superiore di vincolare volontà umane. Questo awiene ogni volta
che un sovrano promulga una legge o un superiore dà un ordine a un suddito;
in questi casi «l'obbligazione attiva è l'atto con cui una volontà dominante fa
applicazione d'una regola d'azione alla volontà d'un esecutore subordi
nato».34
In casi del genere bisognerà distinguere nel suddito il comando della sua
propria ragione pratica, che lo muove a un bene morale, dal fatto che la cono
scenza di tale bene morale gli proviene da un superiore.35 Secondo la spiega
zione del dovere morale che ho fornito bisognerebbe precisare: nei riguardi
del bene morale come tale la volontà del suddito deve una libera adesione; nei
riguardi del superiore la sua volontà è obbligata, per il fatto che da lui egli ri
ceve la notifica d'una regola. L'obbligazione è relativa al superiore, precettore
o legislatore che sia, non al contenuto del precetto o della legge.
(26) Nel caso che il precettore o il legislatore siano umani, la legge o il pre
cetto non sono coestensivi alla regola morale; sicché il soggetto può avere dei
doveri morali anche se non ha delle obbligazioni umane. Inoltre, poiché le vo
lontà umane non sono attirate sempre e solo dal bene ragionevole, il legislatore
aggiunge alla notificazione della regola anche una costrizione mediante san
zioni. Tale costrizione non dev'essere confusa con l'obbligazione né la rim
piazza; semplicemente l'appoggia e la consolida.
Nel caso che il legislatore sia divino, la prima notifica ch'Egli fa della legge
è mediante la partecipazione della legge eterna al modo d'una legge naturale
della ragion pratica. Essa coincide con la regola morale, ma in quanto è legge
essa dice notifica da parte del legislatore divino. In questo caso dovere morale
e obbligazione sono coestensivi; ma coincidono solo materialmente, non for
malmente. Il dovere morale resta un rapporto di convenienza tra il bene mo
rale e la volontà razionale; l'obbligazione è il vincolo della volontà razionale al
legislatore divino, la cui legge è notificata all'uomo nella legge naturale e appli
cata ai casi particolari dal giudizio di coscienza. In questo contesto è inesatto
dire che la regola morale ha carattere obbligatorio. « Si ha torto di dire confusa-
33 «Hoc est obligare, scilicet astringere voluntatem, ut non possit sine deformitatis nocu
mento in aliud tendere, sicut legatus non potest ire» (Il Sent, d 39, q 3, a 3c). Nella spiegazione
dell'obbligazione m'ispiro a TONNEAU, Devoir et morale 243-245 e Absolu et obligation 98- 1 13.
34 TONNEAU, Devoir et morale 245.
mente che la regola obbliga o che la coscienza è una regola; in realtà la regola
non obbliga e la coscienza non regola niente, ma la coscienza che è la cono
scenza della regola ci lega propriamente secondo la misura regolata».36
Data la coestensione tra dovere morale e obbligazione divina, è possibile
condurre tutta la vita morale in stile religioso, come espressione dell' apparte
nenza e dell'obbligazione a Dio. In questo senso ogni atto di virtù può esser
vissuto dal soggetto come obbligatorio. Ma questo stile di vita morale, e una
teoria morale costruita sul concetto di obbligazione, presuppongono sempre
una morale del bene regolato secondo il principio della moralità, e quindi una
morale della felicità vera e doverosa.37
gola la propria condotta) . Egli si attiene nelle proprie scelte alla regola morale,
come regola doverosa della vita veramente buona, e con tale criterio giudica
che cosa è conveniente fare di volta in volta.
b) Il motivo del dovere non comporta necessariamente la presenza d'incli
nazioni contrarie. Anzi è più avvertito proprio quando queste sono assenti,
giacché è un motivo che può esercitarsi solo su una volontà libera, razionale,
naturalmente interessata alla vita buona.
e) Il motivo del dovere indica una motivazione intrinseca, non avventizia,
al bene doveroso. Il soggetto vuole il vero bene proprio perché esso è degno
d'esser voluto, è un amandum, un prosequendum, un /aciendum; non lo vuole
per motivi ad esso estranei (timore di spiacevoli conseguenze, prospettiva di
qualche vantaggio, ecc.) . Nel volere che va al dovere per il dovere, il soggetto
può accentuare la formalità del dovere (sceglie un'azione perché è quella giudi
cata moralmente buona dalla ragione, vuole attenersi a criteri razionali, non al
l'impulso delle passioni) oppure il contenuto del dovere (sceglie un'azione per
ché essa è il vero bene per le persone ed egli ama il bene e ama le persone) .
d) Il motivo del dovere si riferisce a tutte le specie di bene morale, non solo
ai rapporti di giustizia, ma anche all'amicizia, alla generosità, alla fortezza, alla
temperanza, alla mansuetudine, ecc.
Concepito nel modo autentico, il motivo del dovere protegge e accresce l'a
more per le persone e per il vero bene, in tutte le sue forme, sia del soggetto
agente, sia delle altre persone. Esso è allora non solo compatibile con le virtù,
ma necessario perché si possa p arlare di virtù.
5. Virtù e dovere
(29) Circa il rapporto tra virtù e dovere abbiamo visto emergere nel recente
dibattito istanze contrastanti.39 Da una parte W.K. Frankena, D. Schenck, B.
Schiiller, M. Baron avanzano l'istanza che non si può definire la virtù se non ri
correndo a principi razionali di correttezza, deontologici o teleologici; per
Baron anzi il concetto di virtù suppone il concetto di dovere. Dall'altra S. Ha
uerwas avanza l'istanza che solo un carattere virtuoso è in grado di definire i
propri doveri e che esso li definirà in funzione della propria «visione», delle
proprie intenzioni, dei propri interessi. Si potrebbe render giustizia a entrambe
le istanze se si distingue tra considerazione del dovere in universali e in particu
lari. 40
(30) 1) In universali non si può render conto della natura della virtù senza
ricorrere al concetto di dovere morale. Lo scopo che definisce la virtù è preci
samente la vita buona regolata secondo il principio di moralità, perciò il bonum
39 V. sopra II 34-39.
'0 V. sopra III 22, 24.
190 Capitolo V
honestum, il bene doveroso. Ciò che distingue la vera virtù da altre disposi
zioni, è che essa non è una qualsiasi eccellenza, ma l'eccellenza nel realizzare il
bene doveroso, definito secondo il principio della moralità.
Quando Foot sostiene che è sufficiente definire la virtù come desiderio o in
teresse per certi scopi morali che suscitano devozione, e che non è necessario
ricorrere al dovere enfatico, cioè al dovere morale,41 essa difetta per insuffi
ciente analisi degli scopi morali che suscitano devozione. Gli scopi morali in
fatti sono azioni nelle quali il soggetto agente realizza qualche bene umano non
in qualsiasi modo, ma con una volontà buona, cioè regolata secondo il princi
pio della moralità e le norme specifiche che su di esso si fondano. È perfetta
mente vero che tali scopi suscitano devozione, ma con la parola devozione si
dice esattamente quello che si vuol dire con la parola dovere morale, cioè che
tali scopi non semplicemente attirano l'interesse, ma che sono degni di esser
perseguiti, sono doverosi, sono bonum honestum. Sicché proprio lo scopo mo
rale come l'intende Foot implica doverosità e definisce un desiderio come vir
tuoso.
Le virtù sono esattamente disposizioni a compiere i proprii doveri, dove
per doveri s'intendono le scelte e le azioni nelle quali si esemplifica la vita vera
mente buona, conforme al principio della moralità. Le virtù fanno compiere i
doveri morali (fanno realizzare in azioni gli scopi morali) precisamente perché
sono doveri morali, cioè beni di tal natura che meritano la libera adesione
d'una volontà razionale. Nella misura in cui le virtù crescono, radicandosi nelle
facoltà operative, esse fanno diminuire le inclinazioni resistenti al dovere, ma
fanno accrescere il senso del dovere. La doverosità morale è avvertita piena
mente solo dal virtuoso, che proprio a causa della sua virtù sente che deve as
solutamente compiere certe azioni di amicizia, di pietà, di solidarietà, di corag
gio, di castità, di umiltà, ecc. Chi non possiede ancora le virtù, propriamente
non avverte la doverosità morale, ma al massimo l'obbligazione legale e ancor
di più la costrizione. Egli non ha sviluppato la conoscenza e l'interesse per il
vero bene proprio e delle altre persone; sarà possibilmente compito dell'educa
zione aiutarlo a sviluppare il senso del dovere, cioè la conoscenza e l'interesse
per la vita veramente buona. 42
41 «A cause such as justice makes strenuous demands, but this is not peculiar to morality,
and men are prepared to toil to achieve many ends not endorsed by morality. That they are prepa
red to fight so hard for moral ends for example, for liberty and justice - depends on the fact
that these are the kinds of ends that arouse devotion» ([7] 166).
42 Nel già menzionato articolo Il dualismo Gatti cerca di mostrare come ciò che è moral
mente giusto possa essere anche attraente e soddisfacente per il desiderio, e trova la soluzione
nella « evincente [corsivo mio] desiderabilità di Dio» (p. 850), il quale attira e appaga il desiderio
ed è contemporaneamente «sorgente e misura ultima della rettitudine morale» (p. 849). Così però
egli non distingue tra amabilità come poter essere amato e amabilità come degno di essere amato e
interpreta l'amabilità nella linea della delectatio victrix. Che Dio sia, di fronte a una volontà umana
libera e razionale, amandus e prosequendus gli sfugge. Non percependo l'originalità della dovero
sità morale, non riesce a concepire un dovere e un comando di amare («l'amore non si co-
Virtù e vita buona 191
(32) Giunti a questo punto della nostra analisi sulla vita veramente buona
occorre richiamare le prospettive entro cui si muove la presente ricerca. Stiamo
operando una riflessione sull'esperienza morale, più precisamente sulla ragion
pratica in atto di regolare la condotta d'un soggetto umano. La riflessione che
stiamo operando considera la ragion pratica dal punto di vista della prima per
sona, cioè del soggetto umano in quanto autore della propria condotta. Da que
sto punto di vista il principio esplicativo è costituito dallo scopo della con-
manda»: p. 850; cf. invece le illuminanti pagine di Joseph DE FINANCE, Devoir et amour, in Grego
rianum 64 [ 1 983] 243-272). Del resto sia il termine agape sia il termine caritas connotano una
stima ed un apprezzamento per un bene nobile, degno di esser amato.
L'originalità della doverosità morale è compromessa anche nelle ripetute espressioni nelle
quali Gatti presenta la riconciliazione tra obbligazione e inclinazione: « È l'amore di Dio la ragione
vera della nostra libertà interiore, per cui facciamo le opere della virtù, mossi non dal peso di una
qualche costrizione esteriore ma dall'amore del bene, non perché obbligati ma in quanto inclinati,
non con tristezza, ma con gioia e prontezza » (p. 853) ; «A fare buona la decisione morale umana,
nella sua dimensione personale, non è il suo esser mossa dal senso del dovere o dall'intento di sot
tomettersi a una legge, ma ... » (p. 853 ) ; «La legge diventa cosl per s. Paolo il simbolo d'una mo
rale dell'obbligazione e del bene vissuto e operato per costrizione, per dovere» (p. 859); « Solo l'in
gresso nel mondo della fede matura rende inutile la /unzione costrittiva del!'entità psicologica "do
vere" » (p. 861 ) ; «Chi è buono in forza di una scelta globale che nasce dalla libertà fondamentale e
corrisponde all'intima propensione al bene di cui è costituita la libertà umana non ha più bisogno
di essere obbligato ai beni parziali dalla costrizione di una legge esteriore» (p. 83 1 ) .
H o abbondato nelle citazioni (nelle quali i l corsivo è mio) perché non s i potrebbe testificare
meglio una concezione della vita morale assai diffusa, nella quale va perso il concetto di dovere
morale e si confonde tra dovere, obbligazione, costrizione. Alla tetra immagine d'una morale del
l'obbligazione viene contrapposta la luminosa immagine d'una morale della spontaneità; ma la mo
rale vera e propria, con la legge della ragion pratica e la doverosità del bonum honestum è scom
parsa. Per la mia critica alla morale della spontaneità v. sotto V 56.
43 «Autoschediazein ta deonta»: TUCIDIDE, Guerra del Peloponneso I, 138.
192 Capitolo V
dotta, la vita buona. La ragion pratica interviene già a questo livello, fornendo
i criteri in base ai quali si definisce la vita veramente buona e doverosa, degna
d'una persona razionale e libera. Grazie all'apprensione dei beni umani basi
lari e al primo principio della moralità il soggetto umano è capace d'una valuta
zione (strong evaluation) che lo rende padrone dei propri desideri.
Ora però il processo di autodeterminazione, che fruttifica in scelte con
crete nelle quali si esemplifica quello scopo che è la vita veramente buona, è
un processo complesso e discorsivo. Il soggetto umano perviene a scelte con
crete in forza di intenzioni generali che costituiscono per lui le sue ragioni per
scegliere. Inoltre nella gestazione delle scelte concrete intervengono la ragione
con deliberazioni, ragionamenti, giudizi; la volontà con la sua capacità di orien
tarsi secondo la ragione, ma anche secondo gl'interessi e le disposizioni dell'in
dividuo; le passioni soprattutto, più influenti quando si tratta di scendere al
concreto, con le loro sollecitazioni disparate, variabili, contingenti.
Realizzare in queste condizioni il compito della vita veramente buona e do
verosa è, per il soggetto umano, un'impresa irta di difficoltà. Le situazioni cam
biano, ogni scelta ha le sue nuove circostanze; il da farsi bisogna definirlo di
volta in volta; le passioni spingono in opposte direzioni; ciascuno giudica del
fine che gli conviene secondo le disposizioni affettive del momento.
È in un contesto simile che sorge il problema: dato che lo scopo è la vita
veramente buona secondo la regola della ragion pratica, dato che la condotta
umana è discorsiva e fragile, dato che vi intervengono facoltà diverse diversa
mente disposte, a quali condizioni un soggetto come quello umano può realizzar(!
la vita veramente buona? Più precisamente: in quali condizioni di fatto si tro
vano e in quali condizioni è necessario che si trovino le facoltà operative
umane di fronte allo scopo della vita veramente buona?
Gli studi che vado facendo sulla teoria tomista della virtù mi suggeriscono
che questo sia il problema che Tommaso s'è posto nel concepire la II Pars
della Summa Theologiae e che per risolvere proprio questo problema egli abbia
elaborato la sua originale teoria della virtù. Siamo dunque a una svolta decisiva
del nostro discorso. Se, seguendo Tommaso, proporrò una teoria della virtù
che non coincide con nessuna di quelle che sono in circolazione, è perché
cerco di pormi il problema della condotta umana nei termini in cui se l'è posto
lui. Trovo che il problema così posto abbia perfetto riscontro nell'esperienza
morale, della quale considera aspetti e recepisce istanze che sono trascurate
nelle altre teorie della virtù.
Esaminiamo più da vicino il problema: a quali condizioni il soggetto umano
è in grado di condurre la vita veramente buona?
Virtù e vita buona 193
44 M'ispiro alle analisi di DENT [82], che sviluppa concetti aristotelici. La teoria tomista va
nella stessa direzione.
194 Capitolo V
sioni. Le passioni possono sia asservire la ragione, sia essere regolate dalla ra
gione. 45
Grazie a questa indeterminazione delle sue facoltà il soggetto umano può
adattare la sua condotta alle situazioni più diverse, ha uno sconfinato campo
di libera autodeterminazione, ma è anche più esposto a sbagliare, a fallire.
Tuttavia abbiamo anche osservato46 che le facoltà operative umane sono
suscettibili di ricevere una determinazione, un'inclinazione, una disposizione
proprio dagli atti che esse producono. Il soggetto umano è in parte indetermi
nato, ma è determinabile, capace di essere disposto in un modo o in un altro.
Queste disposizioni possono anche diventare relativamente stabili e fornire al
soggetto una preparazione immediata a certo tipo di azioni.
(35) 3 ) L'indeterminazione delle facoltà operative della condotta non è però
tale da escludere che in esse vi siano per natura non già virtù compiute, bensì
appena incoazioni di virtù, attitudini (da aptitudo) ad acquisire le virtù.47
Per riscontrare tali attitudini occorre distinguere, con Tommaso, ciò che
l'individuo possiede per natura specifica e ciò che possiede per natura indivi
duale. La distinzione tra questi due aspetti della natura umana è imposta dal
fatto d'esperienza che gli uomini sono tanti individui della stessa specie. Que
sta condizione fa sì che gli uomini s'identifichino per certe proprietà specifiche
e si differenzino per certe proprietà individuali. Le proprietà specifiche sono
relative a ciò che è formale nella natura umana, alla natura in quanto è razio"
nale; le proprietà individuali sono relative a ciò che è materiale nell� natura
umana, alla natura in quanto è corporale. Di più, nessun individuo umano rea
lizza nella sua natura individuale tutte le potenzialità che sono tipiche della sua
natura specifica. Poiché le proprietà specifiche hanno una certa ampiezza, ca
pita che diversi gradi di esse convengano a diversi individui secondo la natura
individuale.
Ciò significa che nessun individuo umano è per natura preparato a condurre
la vita richiesta dalla sua natura specifica, cioè dalla ragion pratica. In ordine alla
vita veramente buona la natura umana, sia specifica sia individuale, fornisce ap
pena delle capacità che sono incoazioni di virtù e che hanno bisogno di esser svi
luppate fino a diventare virtù perfette.
Tali capacità incoative sono riscontrabili sia nella ragion pratica sia negli ap
petiti.
Nella ragion pratica, � livello di natura specifica, sono presenti alcuni prin
cipi del ragionamento pratico e morale (intellectus principiorum) ; a livello di na
tura individuale vi sono disposizioni diverse nella ragion pratica secondo gl'in
dividui: chi è più intuitivo, chi è più deliberativo; chi è più veloce, chi è più
lento nel ragionamento; chi è più pronto a decidere, chi è più esitante; chi è
più meticoloso, chi è più sbrigativo, ecc.
Negli appetiti, a livello di natura specifica, vi è sia nella volontà sia nelle
passioni un'inclinazione ad agire secondo la retta ragione; a livello di natura in
dividuale vi sono anche qui disposizioni diverse secondo gl'individui a qualche
virtù o a qualche vizio: chi è più timido, chi è più coraggioso; chi è più mode
rato, chi è più sfrenato; chi è più individualista, chi è più solidale, ecc. La .::a
gion pratica trova nella volontà e negli appetiti passionali non disposizioni a
lei convenienti, ma maggior o minore docilità o resistenza.
L'insufficienza di queste incoazioni di virtù per condurre la vita veramente
buona appare dal fatto che tale vita richiede non la ripetizione di azioni con
crete semprè identiche, ma azioni che sono identiche solo quanto a certi cri
teri e a certi fini generali, sono invece diverse quanto agl'intenti immediati e
alle circostanze. Orbene, di fronte a queste richieste della vita doverosa le in
coazioni fornite dalla natura specifica nella ragione e negli appetiti sono prin
cipi ancor troppo generici, sono appena seminalia virtutum. Le incoazioni for
nite dalla natura individuale hanno l'uniformità tipica delle inclinazioni natu
rali: inclinano a comportamenti concreti ripetitivi, senza il discernimento richie
sto per fare ciò che è doveroso secondo le circostanze: il mansueto sarà man
sueto anche quando sarebbe doverosa la collera. Lasciate a se stesse, queste in
clinazioni naturali individuali sono tanto più pericolose quanto più sono accen
tuate, giacché o possono dare origine ad azioni moralmente sbagliate, o, se
danno origine ad azioni moralmente giuste, lo fanno per caso, non per libera
scelta.
Grazie a queste incoazioni di virtù il soggetto umano ha la capacità naturale
di condurre la vita veramente buona; ma a causa delle loro insufficienze e ca
renze, egli non è preparato ai compiti della vita doverosa, cioè a scelte moral
mente eccellenti.
moralmente buona. L'individuo dispone di facoltà che sono per natura impre
parate al compito di produrre buone scelte, giacché le scelte moralmente
buone sono attuazioni rese eccellenti dal concorso di più fattori: dev'essere
scelta l'azione giusta per l'intenzione giusta nelle circostanze giuste; la produ
zione di attuazioni così eccellenti richiede un coordinamento tra ragion pra
tica, volontà e appetiti passionali e una disposizione in ciascuna di queste fa
coltà che la natura non fornisce. Sono le virtù che introducono queste dispo
szioni e questo coordinamento; esse non sono un semplice abbellimento della
condotta morale, per renderla più facile, più piacevole, più stabile. Sono invece
un potenziamento, un'elevazione delle facoltà operative dell'individuo per met
terle in grado di produrre le scelte moralmente eccellenti conformi alle richieste
della natura specifica, cioè della ragion pratica. Esse innalzano le facoltà opera
tive al massimo delle loro possibilità (ultimum potentiae) specifiche, colmando
le lacune e le carenze della natura individuale.
Le virtù apportano certamente alla condotta umana una stabilità, ma questa
stabilità è principalmente intrinseca.52 Essa consiste nel fatto che, grazie alle
virtù, il soggetto è capace di scelte nelle quali l'intento, il fine, le circostanze
sono giusti non per caso, o per ragioni estranee, ma per una coerenza intrin
seca resa possibile da una corretta valutazione, da una volontà buona, da ap
petiti passionali docili alla ragione.
Solo con la crescita della virtù, cioè col suo determinare sempre più le fa
coltà operative superando deficienze e resistenze, è garantita anche una stabi
lità estrinseca, e con essa una prontezza e una piacevolezza nella produzione
di buone scelte. Facilità, prontezza, piacevolezza sono non l'effetto formale e
principale delle virtù, ma l'effetto secondario, derivato non dalla natura delle
virtù, ma dalla loro crescita.
(39) 4) Poiché sono diverse e svolgono funzione diversa le facoltà che inter
vengono nella produzione delle buone scelte, sono diverse anche le virtù. Oc
corrono virtù che perfezionino la ragione pratica nella regolazione attiva e virtù
che perfezionino gli appetiti nella regolazione passiva. Tuttavia esse non for
mano un aggregato eteroclito, bensì un organismo coerente, giacché le virtù
degli appetiti sono dipendenti dalle virtù della ragione, e queste abilitano a ra
gionare in funzione di principi' che, per quanto molteplici, si fondano tutti sul
primo principio della moralità.
Con l'idea d'un organismo delle virtù raggiungiamo l'idea di carattere, ma
otteniamo del carattere una rappresentazione più complessa di quella che ne
fornisce Hauerwas [ 17]. Data la complessità della condotta e la complessità
del soggetto agente il carattere non si riduce a una «visione» o a una decisione
fondamentale, di principio. Esso invece consta dell'integrazione di più virtù,
diverse tra loro, ma tutte connesse. Definiscono il carattere sia una «visione»
della ragion pratica circa lo scopo vero della vita e circa i criteri della con-
dotta; sia una saggezza pratica che sa realizzare tale scopo con tali criteri nel
terreno accidentato delle azioni; sia un insieme di habitus della volontà e degli
appetiti passionali che inclinano a desiderare ciò che è richiesto dal compi
mento umano integrale e dalla perfezione in Dio.
Concludendo: la vita veramente buona, per poter essere realizzata in una con
dotta così complessa e fragile come quella umana, da parte di un soggetto agente
dotato per natura di/acoltà operative così deficienti e impreparate, richiede assolu
tamente una regolazione delle azioni mediante virtù, virtù della ragion pratica
per la regolazione attiva, virtù degli appetiti per la regolazione passiva. La nostra
attenzione si concentra ora su questa regolazione, per indagare come essa si ef
fettui attraverso le virtù.
1 . Le massime virtuose
53 La teoria, esposta in varie loro opere, ha ricevuto la sua più recente formulazione in Chris-
tian Mora! Principles; a quest'opera mi riferisco.
,. Ivi 189, G2.
mente egli non awerte che le virtù sono assolutamente necessarie a monte
delle buone scelte, non semplicemente per facilitarne la produzione, ma per ga
rantire che esse siano moralmente eccellenti, cioè rette quanto all'intento od og
getto, al fine, alle circostanze. La facilità è un effetto secondario, e non della
virtù come tale, ma del suo radicamento nelle facoltà operative.
Perciò i modi di responsabilità servono alle virtù come le concepisce Gri
sez, non come le concepisce Tommaso. Essi non specificano il modo con cui le
facoltà operative devono essere regolate, ma il modo con cui la volontà deve vo
lere per restare aperta, nelle scelte, al compimento umano integrale, senza in
terferenza od ostacolo da parte delle passioni.
(43) 2) Se invece si vogliono specificare i principi delle virtù in modo coe
rente con la teoria tomista, bisogna indicare il modo con cui il principio della
moralità richiede che siano regolate tutte le .facoltà operative che intervengono
nella produzione della buona scelta: la volontà, gli appetiti passionali, la stessa
ragion pratica in quanto considera gli operabili in particulari. Ogni modo di re
golazione definisce una virtù.
Per indicare la posizione che occupano i principi regolatori delle virtù nel
l'insieme delle proposizioni pratiche e per evitare di confonderli con i modi di
responsabilità, trovo conveniente designarli come massime. Ciò facendo mi at
tengo al concetto di massima che O. Hoffe ha messo a punto nella sua introdu
zione alla filosofia pratica di Kant, sviluppando e integrando alcune indica
zioni di Kant.58 Secondo Hoffe contribuiscono a definire una massima le se
guenti note:
a) La massima è una determinazione della volontà, ha a che fare con la de
terminazione ed il perseguimento di fini, non semplicemente con la regolarità o
la legalità di comportamenti esteriori.
b) « In quanto principi, le massime contengono, contrariamente a un volere
puramente contingente, arbitrario, originato solamente da una situazione mo
mentanea, una uniformità che è da precisare. Esse non si applicano a casi
unici, ma a un gran numero di casi simili».59 Di qui una continuità tra azioni
diverse nella loro concretezza.
" O. HOFFE, Introduction à la philosophie pratique de Kant, Albeuve 1985, 82-94. Cf. anche
Onora Nel! O'NEILL, Kant A/ter Virtue, in Inquiry 26 ( 1983) 387-405, specialmente per il rap
porto tra massime e virtù 392-397: in Kant le categorie della virtù sarebbero più fondamentali che
le categorie dell'azione retta. Le virtù corrispondono alle massime ed è alle massime che si applica
l'imperativo categorico. Ora una massima esprime « the underlying intention by which the agent
orchestrates his numerous more specific intentions» (p. 393). Perciò è errato «to think of them
[maxims] as adoptions of mora! rules, in the sense of rules that prescribe specific actions», le mas
sime hanno a che fare «with the underlying mora! quality of person's !ife, or aspects of his !ife»
(p. 395). « Since maxims have to be diversely implemented in diverse situations it may be that even
if we can establish which maxims a person of virtue must adopt we will stil! not be able to estab
lish that action of any specific sort is morally obligatory» (p. 396).
'9 HOFFE, o.e. 84.
Virtù e vita buona 201
chiamano virtù o vizi: orientamenti fondamentali ultimi d'una vita, nella mi
sura in cui hanno a che fare, specificamente, con certi settori della vita reale, o
in cui si rapportano - ancora più specificamente dal punto di vista del conte-
nuto ad aspetti più particolari di tali orientamenti».61
j) Quanto al rapporto tra le massime e le regole più specifiche, occorre dire
· che una massima (per esempio, « sopportare un insulto senza vendicarsi»)62
« serve da regola a ogni volere e a ogni atto relativo all'insulto, senza che se ne
possa dedurre direttamente alcuna intenzione, azione o regola d'azione. La
massima si concretizza in diverse intenzioni e azioni, secondo il temperamento
e le possibilità momentanee di colui che subisce l'insulto. La massima indica
un atteggiamento della volontà che conferisce a numerose e diverse intenzioni
e azioni il senso del loro orientamento comune».63
«Mentre le massime si rapportano a un gran numero di situazioni diverse,
a tutto un settore dell'attività, e ne costituiscono il principio direttore norma
tivo (per esempio, l'interessamento o l'indifferenza nei confronti di qualsiasi
60
Ivi 86.
61
Ivi 86-87.
62 KANT, Critica della ragion pura, § 1.
63 H6FFE, 0 , C. 88.
202 Capitolo V
64 Ivi 89.
6' Ivi 90. Come esempio del primo caso Hoffe adduce la diversità di soccorso che ciascuno
può arrecare. E aggiunge: « C'est pourquoi, malgré des principes de jugements demeurant identi
ques, à savoir des maximes, il faut qu'il y ait des normes différentes quant à leur application. La
forme qui convient à la philosophie de la morale n'est pas tout l'éthique fort répandue des règles
ou des normes que l'éthique des maximes» (ivi 90). Come esempio del secondo caso, la regola di
cantare tutti i giorni si rifà a massime diverse in contesti diversi.
66 Ivi 91.
67 Ivi 92.
68
Ivi.
Virtù e vita buona 203
Sicché il sapere morale contenuto nelle massime è, per dirla con Aristo
tele,69 un sapere a grandi linee, per tipi. Le massime forniscono solo quello
che chiamerei I'eidos delle azioni: ton esse si forniscono le uniche possibili de
finizioni concettuali esatte delle azioni giuste, lasciando libero il campo per la
loro applicazione al particolare storico e individuale. « Con ciò, l'agente è in
dotto a trovare lui stesso ed ogni volta, con corrispondenti processi di giudi
zio, le forme individuali dell'azione morale, e a dare alle proprie opere e gesta
il loro vero valore».70
Nel corso di questo processo di applicazione contestualizzante possono es
sere formulate regole specifiche di condotta, che definiscono l'azione in ma
niera circostanziata. Esse sono utili per preservare dalla parzialità o per facili
tare una deliberazione troppo lunga. Ma esse sono sovente solo regole appros
simative, di prima istanza, con valore non assoluto o universale, ma solo gene
rale. Non dispensano da un'accurata indagine sulle circostanze, dalla quale po
trebbe risultare che « riguardo a esse, delle eccezioni, o piuttosto dei giudizi in
dividuali divergenti possono non soltanto essere permessi, ma essere pres
critti». 71 Chi assolutizzasse tali regole specifiche darebbe prova d'immaturità
e incorrerebbe nel rigorismo morale.
L'importanza della nozione di massima per la teoria della virtù e la conver
genza sostanziale su questo punto di Kant e di Aristotele, e al suo seguito di
Tommaso, richiedevano che su di essa ci si soffermasse alquanto. Ma per la teo
ria della virtù la nozione di massima, pur necessaria, non è sufficiente. Occorre
mostrare da un lato in che modo si ha da procedere per specificare le massime
delle virtù, dall'altro che cosa aggiunge il concetto di virtù al concetto di mas
sima.
(44) Nell'ambito d'una teoria generale della virtù non è pertinente elabo
rare una classificazione delle virtù che si spinga fino alle specie infime: la quan
tità di problemi che sorgerebbero richiede un'apposita trattazione che ci disto
glierebbe dall'obiettivo che ora stiamo perseguendo, cioè spiegare la necessità
e la natura delle virtù per la realizzazione della vita buona. Mi limiterò per
tanto a specificare i generi supremi delle virtù.
D'altra parte una classificazione dettagliata delle virtù è sempre provvisoria
e suscettibile di modifiche e di ampliamenti, poiché le concretizzazioni dei
beni umani basilari sono variabili e possono dar origine a diversi assetti sociali,
a nuove possibilità, a nuovi rapporti tra le persone, a nuove istituzioni. Perciò
una classificazione stabile delle virtù è possibile solo per generi supremi e non
per specie infime.
Il criterio più appropriato per specificare le massime virtuose che defini
scono i generi supremi delle virtù dev'essere desunto da ciò che siamo venuti
dicendo circa la funzione delle virtù nella vita buona: esse ci si sono presentate
come richieste dalle carenze dell'individuo agente nei confronti della vita rego
lata secondo il principio della moralità; la regolazione richiesta per condurre la
vita veramente buona ha da avvenire nel modo di habitus virtuosi che elevino e
potenzino le facoltà operative dell'individuo al livello di prestazione richiesto
dalla natura specifica. Ciascuna virtù pertanto è specificabile in base al modo
di regolazione che è richiesto perché l'individuo umano possa condurre la vita
veramente buona.
Abbiamo visto che la vita buona consiste in un modo di ragionare, di vo
lere e di sentire affettivamente e che nell'atto umano il volere ed il sentire sono
dipendenti dalla valutazione razionale. Dovremo quindi distinguere tra regola
zione attiva, esercitata dalla ragione, e regolazione passiva, esercitata dalla vo
lontà e dagli appetiti passionali.
Inoltre la regolazione diventa più urgente là dove l'individuazione della na
tura umana nella materia introduce maggiori deficienze, maggior distanza tra
l'appetito e la regolazione razionale. Non sono le passioni come tali che richie
dono la regolazione mediante virtù: alla passione infatti non ripugna l'essere di
pendente da una corretta valutazione razionale. Se una regolazione mediante
virtù è richiesta, ciò è dovuto alle carenze che l'individuazione nella materia in
troduce non solo nelle passioni, ma anche nella volontà e nella ragione. In base
a questo criterio dovremo distinguere con l'Aquinate tra virtù principali, o car
dinali, e virtù che sono parti potenziali rispetto alle prime. Le virtù principali
differiscono dalle loro parti potenziali perché in esse la regolazione razionale
appare in modo particolarmente efficace e tipico, colmando lacune particolar
mente gravi delle facoltà operative individuali.
Infine potrà essere necessario distinguere per talune virtù più complesse la
virtù come un tutto e le parti che la integrano, essendo aspetti parziali di essa.
(45) Adottando questi criteri si possono ottenere i seguenti generi supremi
di virtù:
a) La prudenza o saggezza pratica come virtù principale della regolazione at
tiva. La sua massima potrebbe essere: ragionare per giudicare e prescrivere l'a
zione che hic et nunc, secondo le circostanze, concretizza nella giusta misura
gli scopi delle altre virtù. Grazie alla prudenza la regolazione razionale si fa ap
propriata al contesto circostanziato, applicando alla situazione concreta i prin
cipi e le norme della moralità. La sua principalità è dovuta alla sua capacità di
comandare efficacemente l'azione giusta o la passione giusta, superando la di
stanza tra ragione e appetito. Sue parti potenziali saranno la capacità di ben de
liberare e di ben giudicare in vista del comando giusto. Suoi aspetti parziali
possono essere la memoria, l'esperienza, la docilità, la circospezione, la preveg
genza, la diligenza, ecc.
Virtù e vita buona 205
chi» ( [45] 143 ) . Si può consentire con Grisez,73 dicendo che le virtù incorpo
rano i modi di responsabilità, per noi le massime di regolazione, e che i prin
cipi morali servono a distinguere quali tratti di carattere sono virtuosi e quali
no.
Tuttavia esprimendosi così non si dice tutto circa la funzione dell'inclina
zione virtuosa. Le virtù non sono solo inclinazioni ad eseguire le azioni cui il
soggetto si decide sulla base d'una massima; esse intervengono già nella gesta
zione della decisione. Inoltre esse non si limitano a neutralizzare l'influsso
delle passioni affinché ragione e volontà restino indisturbate nel procedere a
giudicare sulla base di massime e affinché la decisione e l'esecuzione siano più
facili, più piacevoli, più ferme. Esse invece influiscono nella gestazione inte
riore della decisione concreta in maniera positiva, cioè orientando l'attenzione
della ragione in funzione delle stesse inclinazioni virtuose. Infatti le decisioni
concrete avvengono non in universali, ma in particulari, cioè non solo sulla
base di principi e di norme, ma sulla base degli attuali desideri e disposizioni
dell'individuo agente,74 a causa dei quali qualis unusquisque est, talis finis vide
tur ei.75 L'individuo agente decide per l'azione ch'egli giudica più appropriata
ai suoi attuali desideri, per l'azione ch'egli giudica conveniente a mediare con
cretamente gli scopi ai quali egli intende attualmente.
Le virtù devono intervenire innanzitutto proprio qui, a livello di inten
zioni, inclinando la volontà e gli appetiti passionali a intendere ad azioni o a
passioni regolate secondo massime moralmente corrette. Azioni o passioni cosi
regolate e che costituiscono l'oggetto o lo scopo cui tendono le intenzioni vir
tuose le designeremo come scopi virtuosi.
Nella misura in cui sono solo oggetto d'intenzioni, gli scopi virtuosi sono
rappresentati dalla ragione in modo ancor solo generico o indeterminato, ap
punto solo mediante massime. Essi attendono una determinazione circostan
ziata in un'azione concreta regolata secondo una giusta misura o giusto mezzo
(sia medium rei sia medium rationis) . Tale determinazione è opera della sag
gezza pratica o prudenza, virtù necessaria alla ragion pratica quando considera
gli operabili in particulari. A questo livello di considerazione la ragione non de
libera e non giudica solo sulla base delle massime e delle norme già a lei note
in universali, ma sulla base delle intenzioni della volontà e degli appetiti passio
nali. Non tanto le massime, quanto le intenzioni virtuose sono principio del ra
gionamento prudenziale, perché in funzione di esse la saggezza pratica avverte
le circostanze rilevanti e giudica la convenienza dell'azione concreta. Grazie
alle intenzioni virtuose attualmente operanti il soggetto riconoscerà come con
veniente a lui l'azione regolata secondo giusta misura e messa a punto dalla pru
denza, perché tale azione gli apparirà come mediazione delle proprie inten
zioni virtuose in atto.
76 V. sopra II 44-46.
Virtù e vita buona 209
petiti nell'azione.
(49) 3) Le intenzioni agli scopi virtuosi possono essere attuali ed efficaci
anche se il soggetto non ha esplicitamente presente alla coscienza la massima
che li definisce. La saggezza pratica non è la scienza morale e non ha da formu
lare esplicitamente ogni massima. È sufficiente che gli scopi virtuosi siano im
pliciti in qualche principio più generale come: tendere alla perfezione, amare le
persone, agire secondo coscienza, imitare un modello (per i cristiani, Cristo) ,
compiere l a volontà d i Dio, attenersi alla legge o alla parola di Dio, ecc. È com
pito dell'educazione morale, che fa volentieri uso dei termini di virtù, suscitare
una più esplicita intenzione agli scopi virtuosi.
Nel linguaggio corrente si esprime questa esplicita intenzione agli scopi vir
tuosi quando si parla di perseguire la virtù, di formarsi un carattere, di tendere
alla perfezione. Questo modo di parlare sta all'origine di un fatale fraintendi
mento del concetto di virtù. Da un lato sembrerebbe che scopo delle virtù sia
l' autorealizzazione o il perfezionamento dell'individuo. 77 Dall'altro sembre
rebbe che il concetto di virtù sia antropocentrico o individualistico. 78
Se si è ben capita la nozione di scopo virtuoso queste critiche appaiono
non pertinenti. Se si cura l'occhio è per aumentare la vista delle cose, non per
ché l'occhio veda se stesso. Così se si cura l'intenzione virtuosa è per deside
rare il compimento umano integrale e la perfezione in Dio secondo le massime
che specificano il primo principio della moralità. La virtù è un potenziamento
delle facoltà operative, ma non ha per scopo il potenziamento, bensì l'adesione
al bene umano per amore del bene umano; la virtù realizza le potenzialità del
l'individuo agente, ma le realizza in quanto inclina il soggetto al vero bene per
sé e per le altre persone. Realizzare se stessi non è lo scopo della virtù, ma il
suo effetto formale: essa attua le facoltà operative preparandole e determinan
dole a intendere alla vera felicità. Perseguire la virtù significa propriamente
perseguire il vero bene per le persone.
D'altra parte lo scopo virtuoso non è individualistico, ma comunitario: nel
vero bene infatti le persone possono comunicare e volendosi reciprocamente il
vero bene si amano. Ma simile amicizia non è realizzabile se non tra individui
77 GATTI, Il dualismo 844-848 conclude la sua esposizione dell'etica tomista: «Il concetto di
autorealizzazione (se non proprio la stessa parola) è implicito in tutto il discorso tomasiano e con
geniale alla concezione morale cattolica» (p. 848).
78 « Sosehr die Bezogenheit der Tugend auf das handelnde Subjekt einem personalen Ver
standnis christlicher Sittlichkeit dient, so fiihrt sie doch leicht zu einer individualistischen Veren
gung des Personbegriffes. Die sitt!ichen Tugenden bleiben so letztlich doch anthropozentrisch
und vermogen den dialogischen Charakter des Personverstandnisses und die vielfaltigen Moglick
keiten christlicher Lebensverwirklichung nicht geniigend zu erfassen»: J. GRONDEL, Tugend, in
Lexikon fur Theologie und Kirche X (2 1966) 399.
2 10 Capitolo V
virtuosi, resi dalla virtù idonei al vero amore. Il virtuoso opera personalmente
e comunitariamente per la vita beata o veramente buona di ogni persona, vita
beata che unisce le persone nella massima comunicazione. Se la teoria della
virtù è antropocentrica, non lo è nel senso che pone nell'uomo lo scopo della
vita umana, ma nel senso che studia quali condizioni fanno possibile all'indivi
duo umano accedere alla vita che ha per scopo la piena comunione con le per
sone e con Dio. Di questo scopo globale e ultimo della vita gli scopi virtuosi co
stituiscono le prime specificazioni, che a loro volta hanno da essere realizzate
in azioni concrete.
(50) Con l a teoria delle massime e degli scopi virtuosi si ottiene una rappre
sentazione della vita buona che consente di rispondere alle difficoltà sollevate
contro di essa da alcuni filosofi e all'istanza avanzata da Maclntyre.
Già abbiamo ricordato che G.J. Warnock scarta dalla sua etica la domanda
circa la vita buona come domanda priva di senso o, se senso essa ha, come
priva di risposta, in ogni caso come domanda cui l'etica non può dare rispo
sta. 79 A sua volta K. Nielsen, criticando Maclntyre, rifiuta che si possano dare
criteri oggettivi per la determinazione della vita buona.80 Dal canto suo Macln
tyre offre il fianco a questa critica perché non offre altro criterio per determi
nare quale sia la vita buona se non la tradizione in cui uno vive; in essa «la vita
buona per l'uomo, e le virtù necessarie per cercarla, sono quelle che ci abili
tano a capire che cosa ulteriormente e ancor di più è la vita buona per
l'uomo ».81
Ora, come abbiamo visto,82 il concetto di vita buona è imprescindibile
per dare unità alla condotta umana; è imprescindibile anche la distinzione tra
vita veramente buona e vita solo apparentemente buona. Vi sono perciò dei
criteri oggettivi per determinare qual è la vita veramente buona; ma sono cri-
. teri che consentono a ogni individuo di concretizzare la vita veramente buona
a suo modo, in funzione delle sue possibilità individuali e delle circostanze va
riabili nel corso della sua vita.
Tali criteri sono costituiti appunto dalle massime virtuose e dagli scopi vir
tuosi. Riferendosi a esse e a essi è possibile formulare il concetto di genere di
vita (way o/ !ife). Intendendo per vita la prassi, come modo di ragionare prati
camente, di volere, di sentire affettivamente, un genere di vita è caratterizzato
da una regola di vita espressa soprattutto a livello di massime. Le massime vir
tuose distinguono il genere di vita moralmente buona o virtuosa dai generi di
vita viziosa.
79 Cf. WARNOCK [ 49] 89-91; v. sopra II 26, n. 59.
8° Cf. NIELSEN, in SHELP [72] 133- 150; v. sopra II 59, n. 104.
• 1 MAclNTYRE [ 10] 204; v. sopra II 59.
'2 V. sopra V 2, 5.
Virtù e vita buona 211
Ma con le massime sole non si determina nessuna vita in concreto. Esse for
niscono sì una prima e importante determinazione, ma essa è ancora aperta a
svariate esemplificazioni concrete in funzione delle circostanze. Le massime
non sono ancora norme specifiche o regole specifiche nelle quali si prescrive o
si proscrive un'azione già determinata secondo qualche circostanza. Le mas
sime indicano solo lo scopo dell'azione, cioè che l'azione ha da esser regolata
in un certo modo per risultare giusta, forte, temperata, ecc. Ma questi scopi
universali non sono realizzabili univocamente in comportamenti concreti sem
pre indentici: la configurazione concreta che un'azione deve avere per essere
giusta, forte, temperata, varia secondo le circostanze; uno stesso scopo virtuoso
può richiedere in circostanze diverse comportamenti concreti diversi. Lo scopo
virtuoso opera come un eidos che la saggezza pratica deve applicare diversa
mente a un materiale variabile.
Pertanto la vita veramente buona è universalmente e oggettivamente deter
minata solo a livello di massime virtuose; nella realizzazione concreta ad opera
della saggezza pratica essa si diversifica imprevedibilmente secondo le circo
stanze. 83
(51 ) La vita veramente buona, definita da massime e da scopi virtuosi, è un
ideale che ammette diversità di concretizzazione sia a livello culturale sia a li
vello individuale.
a) La concretizzazione delle massime e degli scopi virtuosi a livello cultu
rale dà origine ai costumi che formano l'ethos d'un gruppo umano. In funzione
dell'assetto sociale ed economico, degli eventi della propria storia, delle tradi
zioni, ogni gruppo umano dà origine a costumi, maniere, riti, istituzioni che
concretizzano per esso l'ideale della vita buona.
Per gl'individui appartenenti al gruppo questi costumi diventano principio
di ragionamento morale; benché siano principi di ordine diverso dal calcolo
dell'utilità o delle regole di giustizia, sono tuttavia anch'essi principi razionali,
in quanto sono impliciti in essi gl'ideali virtuosi, esplicitabili mediante mas
sime.84
Nell'ambito dei gruppi religiosi, o più specificamente cristiani, si è soliti
83 V. sopra I 60. Stephen A. DINAN, The particularity o/ mora! knowledge, in The Thomist
50 ( 1986) 66-84, spiega bene che i principi morali universali (per noi le massime virtuose) sono ap
plicabili a esemplificazioni concrete che variano secondo· le circostanze.
84 Nella sua critica al metodo utilitarista S. HAMPSHIRE, Morality and Conflict, rileva giusta
mente che il calcolo razionale non può sostituire «the various imaginations, unconscious memories
and habits, rituals and manners, which have lent substance and content to men's mora! ideas, and
which have partly formed their various ways of !ife» (p. 100); «Conventions; moral perceptions
and feelings; institutions and loyalties; tradition; historical explanations - these are related featu
res, and ineliminable features, of mora! thought about the conduct of !ife and about the character
and value of persons» (p. 166). Se tuttavia si riconosce che in questi aspetti del pensiero morale è
implicita una razionalità, in quanto in tali aspetti prendono forma concreta gl'ideali virtuosi, non
sarà necessario ricondurre il ragionamento morale a principi extra-razionali.
2 12 Capitolo V
85 Intendendo la spiritualità in questo modo diventa possibile assegnare uno statuto scienti
fico alla cosiddetta teologia spirituale. Essa sarebbe la stessa cosa che la teologia morale, qualora la
teologia morale tornasse a essere, tomisticamente, teologia del genere cristiano di vita e si appli
casse allo studio degli scopi virtuosi che definiscono tale genere di vita. Della diversità delle spiri
tualità si potrebbe render conto esaminando i fattori storici, piscologici, sociologici, letterari, che
inducono a concretizzare gli scopi virtuosi in modi differenti.
Virtù e vita buona 2 13
scelte che dipende dalle disposizioni che il soggetto ha dalla sua natura indivi
duale e che fa sì che una identica virtù assuma fisionomie concrete diverse da
individuo a individuo.
In ogni caso questo adattamento dell'ideale specifico alle condizioni indivi
duali è opera della saggezza pratica, il cui compito è di realizzare la miglior
vita possibile con il materiale, sovente scarso, che ognuno si trova ad avere a
disposizione e di sfruttare le opportunità di vita buona che si aprono nell'im
prevedibile caos delle contingenze.
(52) Possiamo ora concludere questa lunga ricerca sulla funzione della virtù
nella vita buona raccogliendo in un ordinato consuntivo i risultati emersi: la
vita buona dev'essere concepita come esercizio delle virtù, ma richiede una con
cezione della virtù notevolmente diversa dalle nozioni di virtù emerse nel dibat
tito.86 In base ai risultati emersi siamo in grado di confermare, spiegare e pre
cisare la nozione inclusiva e massimale di virtù.
(53) Abbiamo visto che la felicità consiste in un rapporto ottimale tra sog
getto e mondo. Il lato soggettivo, o eudemonico, della felicità è costituito dalla
vita buona in senso ampio, cioè come insieme delle attuazioni eccellenti nelle
quali il soggetto entra in rapporto con i beni del mondo. Tra queste attuazioni
sono principali quelle degli appetiti, razionale e passionale, e della ragione in
quanto regola degli appetiti. Sono queste che designamo come vita buona in
senso stretto o vita morale o prassi.87
Orbene la pq1ssi buona (eupraxia), o vita veramente buona, consiste nelle
attuazioni della volontà e degli appetiti passionali regolate dalla ragione confor
memente al principio della moralità e alle massime virtuose che ne derivano.
La vita buona così intesa non è possibile in un individuo umano se le sue fa
coltà operative non sono elevate e potenziate mediante virtù. Perciò la vita
buona è esercizio delle virtù; essa è uno scopo che si realizza e trova la sua me
diazione concreta negli atti virtuosi.
Per ogni virtù morale il proprio atto virtuoso, in quanto è definito ancor
solo genericamente e idealmente mediante una massima virtuosa, costituisce lo
scopo virtuoso; esso può diventare concreto e circostanziato, regolato secondo
una giusta misura, solo grazie alla saggezza pratica che ragiona in particulari as
sumendo come principi le intenzioni virtuose.
Rispetto agli scopi virtuosi la vita buona è scopo generale, di cui gli scopi
virtuosi costituiscono specificazioni diverse. La vita buona (e con essa la vera
felicità) sta agli scopi virtuosi come scopo ultimo a scopi prossimi. La vita
buona è scopo ultimo, non nel senso di scopo ulteriore al quale si subordina lo
scopo virtuoso; per ogni virtù il proprio scopo virtuoso è scopo ultimo, a cui
termina l'intenzione virtuosa. Invece la vita buona è scopo ultimo nel senso di
scopo completo e integrale di cui gli scopi virtuosi sono parti potenziali specifi
camente diverse tra di loro, ma tutte connesse.
(54) Un soggetto come quello umano, con facoltà operative diverse e coar
tato nei limiti dell'individuazione non può essere autore di vita buona se non è
perfezionato da virtù. Poiché abbiamo incontrato diverse nozioni di virtù, dob
biamo ora valutarle, raccogliendo le osservazioni sparse nel corso di questa ri
cerca. Le valuteremo dal punto di vista della loro idoneità a risolvere il pro
blema nei termini in cui ce lo siamo posto: cioè quali determinazioni nelle fa
coltà operative sono richieste perché l'individuo umano sia preparato al com
pito di condurre una vita veramente buona.
(55) 1 ) Nel corso della nostra ricerca abbiamo incontrato una pressoché ge
nerale convergenza a intendere le virtù come disposizioni, interessi, propen
sioni, tendenze, senza che questi concetti siano accuratamente analizzati. Al
più si fa ricorso al concetto di habit proprio della psicologia sperimentale.88
Ora questo concetto comprende almeno due note: la ripetitività del comporta
mento e la diminuzione della coscienza, e perciò della necessità di riflettere e
di deliberare. Per queste note il concetto di habit coincide con il concetto cor
rente di abitudine: chi ha acquisito le virtù, intese come buone abitudini, com
pie le azioni giuste in modo quasi inavvertito, come per istinto.89
Questo concetto corrente di abitudine non corrisponde alla dinamica delle
88
V. sopra III 1 1 .
89 U n esempio di quest'opinione corrente lo si trova in queste espressioni di Mario BIZ
ZOTTO, La rinascita dell'etica, Torino 1987: «Per acquisire la virtù della giustizia ho bisogno d'una
ripetuta e vigile scelta di atti; successivamente è probabile che le mie singole scelte si compiano a
livello istintivo senza alcuno sforzo riflessivo. Tutto questo non sopprime la coscienza, ne riduce sem
plicemente l'intensità; essa però riemergerebbe con le sue proteste non appena si derogasse dai
buoni abiti acquisiti. C'è una forma di conoscenza assiologica che pur presente non è però avver
tita, e non perché non c'entri, ma semplicemente perché non ce n'è bisogno. Il comportamento
del virtuoso è corretto ugualmente, anche senza il continuo controllo della coscienza» (p. 150; cor
sivo mio).
Virtù e vita buona 2 15
scelte umane e perciò considera le virtù non come potenziamento, ma come di
minuzione delle facoltà operative propriamente umane. Le virtù infatti sono ri
chieste nell'individuo umano non principalmente per abilitare a forme con
crete di comportamento esteriore, ma precisamente per abilitare a generare
buone scelte. Orbene le scelte vengono generate come concretizzazioni circo
stanziate di intenzioni ancor solo generiche, sicché una stessa intenzione retta
richiede scelte diverse, e azioni concrete diverse, in circostanze diverse. La
virtù abilita a buone scelte nella misura in cui abilita a realizzare diversamente
in funzione delle circostanze intenzioni identiche. Perciò quest'abilità è tutt'al
tro che un'abitudine ripetitiva e, anziché diminuire la coscienza, la potenzia, in
quanto rende attenta la mente e gli appetiti sia agli scopi virtuosi sia alle circo
stanze diverse. Se mai, ciò che la virtù fa diminuire non è la coscienza del
bonum rationis, ma la resistenza degli appetiti alla regola della ragione e la co
scienza di tale resistenza. In questo modo però la virtù accresce la libertà dell'a
desione allo scopo virtuoso e della scelta dell'azione che realizza lo scopo vlr
tuoso in modo appropriato alle circostanze. Per comprendere questo tipo di
abilità non è adatto il concetto di abitudine; bisogna ricorrere al concetto tomi
sta di habitus.90 L'habitus è una qualità spirituale,91 che perfeziona le facoltà
specificamente umane, spirituali, proprio nella linea della natura specifica, ren
dendole preparate a generare con massima coscienza e libertà buone scelte.
(56) 2) Dovremo allora considerare la virtù come una disposizione che, di
minuendo la resistenza delle passioni, abilita il soggetto a produrre azioni
buone in modo del tutto spontaneo? Il soggetto virtuoso produrrebbe azioni
buone non semplicemente per dovere, ma mosso dallo slancio spontaneo dell'a
more per il bene. Anche questa concezione della virtù è assai corrente,92 ed in
contra pure illustri sostenitori: per Lutero non le opere buone fanno buono
l'uomo, ma l'uomo, reso buono dalla fede e dalla giustificazione per grazia, pro
duce spontaneamente opere buone, come l'albero produce frutti buoni;93 per
Kant la volontà assolutamente buona, o santa, segue la legge morale per in
terna necessità, senza resistenza delle inclinazioni della natura sensibile, per
pura riverenza alle richieste della ragione: in questo Kant s'avvicina a Spinoza,
9° Cf. S. PINCKAERS, La vertù est toute autre chose qu'une habitude e Habitude et Habitus.
91 Cf. P. DE ROTON, Les habitus.
92 Di nuovo servano come esempio queste espressioni di M. BIZZOTTO, o.e. : « È giusto anzi
tutto riconoscere la differenza tra un'azione compiuta per puro dovere da un'altra animata da uno
slancio affettivo: la prima risente d'una certa costrizione, sia pure di ordine interno, mentre la se
conda è mossa da una movenza spontanea. Va però precisato che lo zelo non elimina il fatto del do
vere, il quale persiste anche se non è awertito con le sue pesanti ingiunzioni, per cui l'individuo si
sente a suo agio nel guidare la sua azione in una forma sovrana» (p. 164; corsivo mio). Bizzotto
segue la concezione dell'«anima bella» di F. Schiller.
93 Per un'esposizione e una critica a questa concezione che si ritrova non solo in Lutero, ma
in molti teologi moralisti odierni che rifiutano il concetto di legge morale, cf. Alberto GALLI, Mo
rale della legge e morale della spontaneità, in Sacra Doctrina 19 ( 1974) 457-497. Nella mora! de acti
tudes dì M. Vidal dagli atteggiamenti morali fluiscono spontaneamente le azioni.
216 Capitolo V
94 Questo accostamento di Kant a Spinoza è suggerito da Jon WETLESEN, The Sage and the
Way. Spinoza's Ethics o/ Freedom, Assen 1979, 2 18: «Kant assumes that an autonomous will is en
tirely determined from within, through a pure reverence for the requirements of reason. [ ] ...
When a person is motivated in this way, he will act according to reason by an internal necessity.
His deepest motivation is anchored in a feeling of value, and not in a feeling of obligation. I think
that Kant and Spinoza are pretty dose to each other here, except that Kant does not believe that
this kind of motivation is obtainable for men, although perhaps for angels. Anyway, at this leve!
the laws of reason are experienced as descriptive laws. I think Kant would have nothing against
Spinoza's calling them eternai and necessary truths».
Virtù e vita buona 2 17
legge, ma sotto la mozione della grazia divina egli compie ciò che è bene per
l'amore di carità e con suprema libertà.95 Tuttavia questa condizione di li
bertà perfetta non può esser intesa come se si trattasse di semplice sponta
neità, cioè d'una necessità interiore della volontà non impedita da resistenze
esteriori delle passioni. Questa spontaneità è propria dell'istinto e non ha nulla
di specificamente umano. Si tratta invece di perfetta libertà di autodetermina
zione che consente, non tanto di fare opere buone mossi da un sentimento o
un desiderio spontaneo, fosse pure l'amore, quanto di scegliere l'azione giusta
e richiesta, di sceglierla con l'intenzione giusta. Proprio a generare scelte si
mili abilita la virtù. Essa non è un semplice desiderio o buon sentimento, ma
attitudine a produrre buone scelte, anche senza laboriosa deliberazione ove sia
possibile. 96
(57) 3 ) Questa nozione di virtù come habitus che dispone a compiere
buone scelte abbisogna ancora d'una precisazione. È infatti opinione corrente
che la virtù disponga a compiere buone scelte con facilità, piacevolezza, fer
mezza, prontezza.97 L'uomo avrebbe bisogno delle virtù non tanto per ren-
95 I testi classici al riguardo sono il cap. 22 del IV libro della Summa Contra Genti/es e le
questioni 106-108 della I-II sulla legge nuova. Questi testi sono ripresi da Jacques MARITAIN, La
philosophie morale. Examen historique et critique des grands systèmes, Paris 1960, 539-544: egli di
stingue un regime della morale, caratterizzato dalla coscienza d'una legge che obbliga, e un regime
della sopra-morale, caratterizzato dalla mozione dello Spirito Santo sull'uomo reso docile dai doni
dello Spirito: « L'homme qui vit sous le régime des dons [ ... ] est entré dans la liberté d'autonomie
à laquelle nous aspirons tous, de si loin que se soit. Il n' est plus sous le régime de la loi; la loi ne
courbe plus son vouloir. Il accompli ce que la loi prescrit, et incomparablement mieux que ceux
qui n'ont pas franchi le seuil de la vie inspirée, mais il l'accomplit en suivant l'attrai! de son amour
et l'instinct méme da sa volonté, qui a cessé d'etre à lui, n'est plus qu'a celui qu'il aime. Il ne fait
plus que ce qu'il veut, ne voulant que ce que veut celui . qu'il aime» (p. 544; corsivo mio).
Gli stessi testi tomisti sono ancora ripresi da S. PINCKAERS, Les sources de la morale chré
tienne 367-372, per spiegare l'ultima tappa dell'educazione morale, cioè l'età adulta e la maturità
della libertà: egli ricorre all'immagine evangelica dell'albero buono che produce frutti buoni per il
lustrare come l'uomo perfettamente padrone delle proprie azioni esprima in esse la propria per
sona; la sua « c'est une perfection dynamique qui procède du coeur et est propre à la personne par
venue à la plénitude de ses facultés actives» (p. 369).
96 Seguendo Aristotele illustra bene questa nozione di virtù DENT [82] 2 1-24.
97 Un esempio di questa concezione corrente lo costituisconp queste espressioni con cui
GATTI, Il dualismo, riferisce il concetto tomista di virtù: « [La virtù] consiste in una vera e propria
" inclinazione naturale, o almeno quasi-naturale, a fare qualcosa" [I-Il, 58, 1]. Per questo essa per
mette di fare il bene con facilità, prontezza e con una certa spontaneità o connaturalità per il bene
stesso. Questa spontaneità comporta quella particolare forma dì gioia nel fare il bene di cui par
lava anche Aristotele, che è il distintivo della virtù giunta alla sua perfezione: "virtus in propriis de
lectatur" ». Gatti fraintende il testo di I-II, 58, le, che dice, dopo aver distinto due significati del
termine mos: «Dicitur autem virtus moralis a more, secundum quod mos significat quandam incli
nationem naturalem, ve! quasi naturalem, ad aliquid agendum». Con ciò però non vuol dire che la
virtù consiste in una vera e propria inclinazione naturale, o quasi-naturale, a fare qualcosa; ma
vuol arrivare a dire che si chiama morale non qualsiasi virtù, ma solo quella che ha sede nella fa
coltà appetitiva, in quanto « inclinatio ad actum proprie convenit appetitivae virtuti». Che tipo d'in
clinazione sia la virtù morale, il testo non lo dice, ma si deve ricavare dall'insieme del de habitibus
e; del de virtutibus della I-II.
2 18 Capitolo V
dere buone le scelte, quanto per rendere più facile . e più piacevole la produ-
zione di buone scelte.
In altra sede98 ho dimostrato, sulla base d'un' accurata esegesi, che questa
se mai è l'idea che Tommaso aveva di virtù nello Scriptum Super Sententiis, ma
che non corrisponde a quella da lui elaborata ex novo nella II Pars e alla quale
mi sono attenuto nel corso di questo saggio. Nello Scriptum Tommaso conside
rava le virtù come forme infuse da Dio per riformare l'uomo decaduto e rista
bilirlo nella rettitudine e si riferiva alle virtù acquisite come habitus che fanno
compiere facilmente e piacevolmente le opere buone. Nella II Pars Tommaso
studia l'uomo come autore delle proprie opere, ma autore la cui natura speci
fica è coartata e ridotta nell'individuo a causa dell'individuazione mediante la
materia. Conseguentemente ha bisogno assoluto delle virtù, non solo per il me
lius esse delle opere buone, ma ancor più per il loro esse simpliciter. Per na
tura l'individuo umano non è preparato a compiere atti d'un certo tipo, cioè
moralmente buoni sia quanto all'oggetto, sia quanto al fine, sia quanto alle cir
costanze. Le scelte buone sono a un livello superiore a quello delle disposi
zioni della natura individuale. Come senza scienza semplicemente non posso
capire un certo oggetto, così, senza virtù, semplicemente non posso compiere
l'atto retto in tutti i suoi elementi. Perché riesca a compiere l'atto retto, la
buona scelta, ho bisogno delle virtù;99 la facilità e il diletto non sono l'effetto
formale della virtù, sono l'effetto della sua crescita, del suo radicamento nelle
facoltà.
Così è anche per la stabilità. La virtù fornisce all'atto una stabilità intrin
seca, in quanto fine, oggetto e circostanze sono coordinati non per caso o per
altre ragioni estranee, ma per ragioni interne al bene morale. Solo il radica
mento della virtù nella facoltà fornisce una stabilità estrinseca. 100
uno scopo virtuoso, non è ancora una scelta compiuta: è sofo il principio di
scelte compiute. Le difficoltà intervengono proprio quando si deve pervenire a
scelte compiute e circostanziate. Qui non basta una decisione di principio: oc
corre un discernimento razionale in particulari, e questo richiede ordinate incli
nazioni non solo nella volontà, ma anche nelle passioni, giacché le scelte com
piute sono ben più complesse per un individuo umano che non le decisioni di
principio.
Dalle decisioni di principio le scelte giuste non fluiscono spontaneamente,
né la battaglia si vince nelle decisioni di principio, ma, come già Aristotele
aveva insistito, nelle scelte concrete e nelle azioni circostanziate.
Pertanto la virtù che si richiede affinché un individuo umano sappia con
durre la vita veramente buona consiste in habitus che inclinano gli appetiti agli
scopi virtuosi e alle loro concretizzazioni in scelte regolate secondo una giusta mi
sura dalla saggezza pratica.
Per completare la nozione di virtù che qui sosteniamo e collocarla rispetto
alle altre nozioni, occorre richiamare, a titolo di consuntivo, ciò che siamo ve
nuti dicendo circa l'oggetto che specifica le disposizioni virtuose.
Per questa stessa ragione si deve dire che, se la virtù «va al di là delle per
cezioni e delle risposte ordinariamente presupposte nella nozione di obbliga
zione», 107 questo è vero solo per le obbligazioni di giustizia o per le obbliga
zioni convenzionali. La virtù dispone a tutto il bene moralmente doveroso,
cioè alla vita veramente buona.
non avvertito; ma la sua mancata presa di coscienza non determina la sua inesistenza» (p. 163; v.
anche sopra n. 92). Osservo: nel virtuoso l'impeto del cuore non è tanto spontaneo, quanto invece
comporta una perfetta libertà di autodeterminazione; inoltre ciò ch'egli non avverte non è tanto il
dovere morale (questo anzi lo avverte ancora di più), quanto invece la resistenza della passione e
il dovere nel senso colloquiale della parola.
107 CARNEY [26] 1 1; v. sopra III 12.
108 V. sopra III 13.
109 V. sopra III 13.
1 1° Condivido le critiche al proporzionalismo avanzate da GRISEZ, Christian Mora! Princi
ples 141- 170.
Virtù e vita buona 22 1
111
V. sopra II 12, 15 .
112
V. sopra III 18.
1 13
«Malum ebrietatis et nimiae potationis consistit in defectu ordinis rationis. Contingit
autem, cum defectu rationis, esse aliquam potentiam inferiorem perfectam ad id quod est sui gene
ris, etiam cum repugnantia ve! cum defectu rationis. Perfectio autem talis potentiae, cum sit cum
defectu rationis, non posset dici virtus humana» (I-II, 55, 3, 2m). « Sicut perfectum, ita et bonum
dicitur metaphorice in malis: dicitur enim et perfectus fur sive latro, et bonus fur sive latro; ut
222 Capitolo V
Inoltre, con Kant, 114 occorre riconoscere che vi sono delle destrezze che
possono essere a servizio sia d'una volontà buona, sia d'una volontà cattiva:
l'avvedutezza, l'autocontrollo, il dominio delle paure, la furbizia, ecc. Per
Kant sono semplicemente proprietà del temperamento, non del carattere mo
rale. Nella nostra terminologia occorre dire ch'esse sono destrezze, non virtù,
in quanto non sono di per sé regolate dai principi della moralità. Ma occorre
anche aggiungere e precisare che qui il nostro linguaggio è al corto di risorse.
Noi chiamiamo coraggio sia la destrezza sia la virtù; siamo perciò indotti a pen
sare che la destrezza diventa vritù quando è posta al servizio d'una buona vo
lontà. In realtà la virtù del coraggio è un habitus nuovo e diverso rispetto alla
destrezza del coraggio, in quanto la virtù del coraggio è un'inclinazione dell'ap
petito secondo le movenze della regola razionale. Proprio questa inclinazione
manca alla destrezza.· Sicché il termine coraggio, applicato alla destrezza, non
ha lo stesso significato che quando è applicato alla virtù. Per rimediare all'in
sufficienza della terminologia intendiamo il coraggio virtuoso quando usiamo
il termine coraggio tacitamente in senso antonomastico; esplicitando, parliamo
di vero coraggio. Per il passaggio dalla destrezza alla virtù del coraggio non è
sufficiente mettere la destrezza a servizio di fini buoni e della buona volontà;
occorre acquisire una nuovadocilità dell'appetito irascibile alla regola morale.
(64) 1 ) Per coloro che adottano una concezione speciale della moralità i do
veri morali sono solo i doveri sociali: sia i doveri di giustizia e di beneficenza
(Frankena), sia le azioni che contribuiscono a migliorare la situazione hobbe
siana o favorendo la collaborazione (Ewin) o favorendo lo svolgimento delle
funzioni sociali (Wallace) o superando i limiti di simpatia (Warnock) . 115 Per
questi autori le virtù sono disposizioni a compiere simili doveri o simili azioni,
e sono necessarie a causa dell'insufficienza delle regole.
Già abbiamo visto che questa riduzione della moralità alla giustizia e all'al
truismo non corrisponde all'esperienza morale.116 Inoltre l'identificazione del
principio della moralità e delle massime virtuose ci consente di spiegare perché
esistono altri doveri morali oltre quelli di giustizia e altre virtù morali oltre la
giustizia e le virtù sociali. Il compimento umano integrale e la perfezione in
Dio sono beni da voler<:'. doverosamente non solo per le altre persone, ma
anche per se stessi, e sono da volere con discernimento razionale e con parteci
pazione passionale. Perciò richiedono altre virtù morali sociali oltre la giusti-
patet per Philosophum in V Metaphys. Secundum hoc ergo, etiam virtus metaphorice in malis di
citur» (ivi 1 m).
114
Cf. Fondazione della metafisica dei costumi, sez. I.
"' V. sopra III 14-16.
11 6 V. sopra III 8.
Virtù e vita buona 223
1 17
Questa dimostrazione e un'ampia argomentazione a favore della sua proposta sono espo
ste nel suo libro Human Character.
1 1 8 V. sopra V 9-1 0.
224 Capitolo V
(66) Il motivo per cui Warnock, Wallace, Ewin richiedono virtù là dove
altri, come Gert, fedeli a Hobbes richiedono regole, è che le regole non sono
sufficienti a guidare le azioni, ma si richiede una giudiziosità che è possibile
solo in persone che posseggono buone disposizioni. 1 19
Questa istanza è da accogliere pienamente. Ripetutamente abbiamo rilevato
che la realizzazione degli scopi virtuosi nelle azioni concrete richiede un discer
nimento, una saggezza pratica che sappia trovare l'azione giusta, appropriata
alle circostanze e rispondente all'intenzione virtuosa. Di questo ci occuperemo
estesamente nel prossimo capitolo.
Intanto però, sulla base di questo rilievo, è possibile distinguere le virtù
dalle disposizioni naturali. La vita morale richiede un'avvedutezza, un'adattabi
lità alle situazioni, una capacità di applicare lo stesso ideale virtuoso a circo
stanze diverse, che non si ritrova nelle disposizioni naturali. Queste anzi, la
sciate a se stesse, senza discernimento prudenziale, possono addirittura indurre
ad azioni moralmente sbagliate. 120 Le disposizioni naturali hanno bisogno di
esser formate dalla prudenza per diventare virtù; da sole più che virtù sono in
coazioni di virtù.
7) Nozione di virtù
(67) Siamo ora in grado di determinare come dev'esser concepita la virtù af
finché essa sia principio di vita veramente buona in un individuo umano. La
nozione di virtù che propongo riprende e spiega la nozione inclusiva e massi
male di virtù suggerita dall'esperienza morale e recepisce le istanze valide delle
altre nozioni, eliminando ciò che in esse è insufficiente.
Secondo la nozione massimale ed inclusiva le virtù sono disposizioni stabili
e uniformi (a livello di atteggiamento) , che introducono una determinazione
nei principi operativi della condotta volontaria, in modo tale che questa eccelle
nel realizzare la vita veramente e doverosamente buona, conforme alla regola
della ragionevolezza pratica.
Precisando e spiegando, diremo che le virtù sono habitus che potenziano
le facoltà operative umane nella linea della natura umana specifica; le prepa
rano cioè a scelte eccellenti inclinando l'appetito volitivo e passionale, rivolto
ai beni umani basilari, secondo le massime che specificano il principio del com-
1 19
V. sopra III 15- 16.
120
« Naturalis inclinatio ad bonum virtutis est quaedam inchoatio virtutis: non autem est vir
tus perfecta. Huiusmodi enim inclinatio, quanto sit fortior, tanto potest esse periculosior, nisi
recta ratio adiungatur, per quam fiat recta electio eorum quae conveniunt ad debitum finem: sicut
equus currens, si sit caecus, tanto fortius impingit et laeditur, quanto fortius currit» (I-II, 58, 4,
3m).
Virtù e vita buona 225
giudizio. Esso si basa sulle norme, ma non solo su di esse, bensì anche su una
concezione del mondo e dell'uomo che chiamerei sapienziale, in quanto valuta
cose, persone, eventi, dal punto di vista dell'ideale di perfezione umana. Or
bene, alcuni autori, come vedremo, mostrano che tale concezione sapienziale,
tale «visione» non solo definisce quali atteggiamenti sono virtuosi e quali no,
ma si sviluppa proprio sotto l'influsso delle virtù.
3 ) Inoltre il giudizio, necessario per regolare in maniera moralmente conve
niente le scelte, richiede non solo la capacità di ragionare sulla base di norme,
ma l'intelligenza che afferra e capisce la situazione e le sue componenti moral
mente rilevanti, trova la scelta moralmente conveniente, regola la condotta lì
dove le norme non ci sono o non bastano. Anche questa intelligenza non solo
è necessaria per produrre la scelta virtuosa, ma sembra, come vedremo, che
essa stessa si sviluppi sotto l'influsso delle virtù.
Sicché la conoscenza morale appare ben più complessa di quanto non ap
paia riducendola ad un ragionamento sulla base di norme. Sulla linea della
phronesis aristotelica e della prudentia tomista chiameremo saggezza pratica la
conoscenza morale, e l'habitus che dispone ad essa, in quanto consta d'un giudi
zio circa le scelte (il particolare operabile) sulla base 1) d'una concezione sapien
ziale del mondo, 2) di norme specifiche, 3) d'un 'intelligenza della situazione, e in
quanto non solo regola concretamente le virtù, ma dipende anche dal loro in
flusso.
Procederemo ora all'analisi della saggezza pratica per mostrare in che rela
zione stia con la concezione sapienziale del mondo, con le norme, con l'intelli
genza pratica e in che relazione stia con le virtù, come cioè la saggezza di
penda dalle virtù e le virtù dipendano dalla saggezza.
(3) 1) Più sopra 1 abbiamo incontrato la critica che Iris Murdoch [2] ha lan
ciato contro l'etica moderna, accusandola di aver perso la vita interiore del sog
getto agente e di aver ridotto questo a un puro volere che si decide ad azioni
definite rigorosamente da regole. Richiamandosi all'esperienza morale, lettera
ria ed artistica, ella vuol ricuperare la vita interiore del soggetto, che costituisce
la fonte della sua condotta morale. Ella scopre che la scelta si matura in un pro
cesso di « visione» vera o distorta della realtà; la bontà morale della scelta è
connessa con la conoscenza, non quella scientifica, « ma con una fine e onesta
percezione di ciò che è realmente il caso, un paziente e giusto discernimento
ed esplorazione di ciò con cui il soggetto è a confronto, [una visione] che è il
risultato non semplicemente di aprire gli occhi, ma di un certo genere perfet
tamente familiare di disciplina morale» ( [2] 38).
1 V . sopra II 12.
228 Capitolo VI
Murdoch ritiene che tale «visione» abbia per oggetto il Bene, una realtà
che trascende il soggetto, s'impone alla sua attenzione e la focalizza, unifica i
suoi vari interessi, è perfezione suprema ma indefinibile e misteriosa. Perse
guendo questa perfezione il soggetto scopre il valore e l'ordine d'ogni realtà, so
prattutto degli individui umani e della loro storia personale.
Infine la «visione» del Bene cresce nel soggetto grazie all'impegnativo eser
cizio delle virtù. Per fare attenzione al Bene occorrono le virtù, soprattutto l'a
more: nella loro connessione esse accrescono la consapevolezza dell'unità del
l'ordine morale e del Bene. D'altra parte la «visione» stessa alimenta le
virtù,2 sicché l'azione sgorga spontanea, senza bisogno di scelta ( [2] 39-40),
dalla vita interiore del soggetto, cioè dalla connessione di «visione» e di attac
camenti o interessi virtuosi.3
(4) Come abbiamo visto,4 il concetto di «visione» proposto da I. Murdoch
è raccolto da S. Hauerwas, il quale se ne serve per definire il concetto di carat
tere e per ricuperare con esso l'autorità del soggetto agente sulle proprie
azioni. Anche Hauerwas polemizza contro la riduzione dell'etica a un puro vo
lere che decide.5 Il soggetto non si limita a porre un'azione, ma la costruisce e
la descrive egli stesso, come egli stesso interpreta e definisce la situazione sulla
base d'una «visione» del mondo: sicché « l'etica non riguarda primariamente re
gole e principi, piuttosto riguarda il modo come il soggetto dev'essere trasfor
mato per vedere il mondo secondo verità» ( [20] 33).
In funzione della «visione» condivisa in una comunità e tramandata nelle
sue storie si definiscono l'identità della comunità, il carattere morale dei suoi
membri e conseguentemente le virtù che sono apprezzate in quella comunità.
(5) Richiamando l'attenzione sulla «visione», cioè sul modo di considerare
il mondo, le persone, gli eventi, prima Murdoch e poi ancor di più Hauerwas
ricuperano per l'etica qualcosa di quello che fa la vita interiore del soggetto
agente e che consente a questi d'interpretare la situazione e di descrivere auto
revolmente la propria azione. Grazie alla «visione» il soggetto agente ridiventa
ben più che un puro volere che decide se porre o no azioni definite giuste
sulla base di regole impersonali; ridiventa autore che conferisce senso alla sua
azione. Ma a Murdoch e ad Hauerwas obietto che il soggetto non può essere
autore solo sulla base della <wisione»; di fatto sia Murdoch sia Hauerwas ten-
2 «Of course virtue is good habit and dutiful action. But the background condition of such
habit and such action, in human beings, is a just mode of vision and a good quality of consdous
ness. It is a task to come to see the world as it is» (MURDOCH [2] 9 1 ) .
.i « We act rightly "when the time comes" not out of strenght of will but out of the quality
of our usual attachments and with the kind of energy and discernment which we have available.
And to this the whole activity of our consciousness is relevant» (MURDOCH [2] 92).
4 V. sopra II 15.
' Per la polemica contro regole e obbligazioni cf. HAUERWAS [20] 19-22; contro la riduzione
del soggetto a io trascendentale che decide cf. ivi 38-43.
Virtù e saggezza pratica 229
6 Cf. MURDOCH [2] 39-40: grazie alla visione « explicit choice seems now less important»; si
mira anzi a vedere il mondo in modo tale da non aver scelta, da obbedire a ciò che si vede, at
tratti irresistibilmente come dall'ispirazione artistica. Cf. inoltre HAUERWAS [20] 42-43: «lt is cru
da! to note, however, that the power of description that a narrative provides is not to be under
stood only as an intellectual skill. For " description", while often verbal, is just as importantly a
matter of habit - indeed most verbal skills are also habits. [ ... ] For example, the refusal to use
violence for resolving disputes, or perhaps better, the attempt to avoid persistent violent situa
tions, becomes for some so routine they never think about it. lt is simply "who they are" ».
7 V. sopra V 56.
8 V. sopra I 52-54; V 3-4, 8, 1 1-14.
230 Capitolo VI
scono, al loro ordine, alla loro incidenza nella perfezione ideale dell'agente
umano. Ad esempio, · l'affermazione «Dio esiste» non ha solo valore metafi
sico, in quanto indica il fondamento ultimo della realtà, ma anche rilevanza mo
rale, in quanto indica il supremo bene per l'uomo e, per il credente, un essere
personale agente le cui azioni, dichiarazioni, intenzioni hanno rilevanza per la
bontà della vita umana, per il compimento e la perfezione dell'uomo.
La concezione sapienziale s'interessa dunque alle azioni di Dio e delle per
sone in ordine all'ideale di perfezione della vita umana. Se nel linguaggio teolo
gico si afferma che l'imperativo morale deriva dall'indicativo concernente l'a
zione e l'intervento di Dio nei riguardi dell'uomo, quest'affermazione può
esser logicamente consistente solo perché le opere di Dio e le opere dell'uomo
sono di per se stesse significative per l'ideale di perfezione; e lo sono in quanto
costituisce l'essenza stessa dell'azione l'essere posta per concretizzare un ideale
di perfezione.
(7) Questa rilevanza morale della concezione sapienziale del mondo per
mette di situare la concezione stessa rispetto alla ragion pratica. I principi della
ragion pratica non derivano dalla concezione sapienziale del mondo, sono prin
cipi primi nell'ordine pratico. Ma la concezione sapienziale del mondo contri
buisce a dare contenuto concreto all'ideale di perfezione e alle norme morali
specifiche. Questo contributo è necessario dal momento che l'originaria situa
zione pratica consiste nel fatto che l'uomo è soggetto agente, con i suoi bi
sogni basilari e il suo ideale di perfezione, collocato in un mondo con le sue di
sponibilità e i suoi beni,9 e dal momento che la felicità è costituita dal rap
porto ottimale tra soggetto e mondo. In questa situazione, mentre la ragion pra
tica fornisce l'ideale di perfezione, la concezione sapienziale fornisce una valu
tazione dei beni sostanziali del mondo 10 che consente al soggetto agente di sta
bilire quali tipi di azione realizzano il rapporto ottimale tra lui e il mondo.
(8) Spiegando in questo modo il rapporto tra ragion pratica e concezione
sapienziale del mondo, si riesce anche a render ragione della necessità di
quella che Hauerwas chiama etica qualtficata.11 Con quest'espressione egli in
tende significare che non esiste un'etica neutra, sovratemporale, identica per
tutti gli uomini, ma che esistono solo etiche qualificate: cristiana, ebraica, isla
mica, liberale, laica, ecc. L'istanza è da accogliere, qualora essa non implichi
che è impossibile il confronto tra etiche sulla base di principi comuni. Ma è
vero che i principi comuni sono in ogni etica interpretati secondo concezioni
sapienziali diverse, e danno perciò origine sovente a norme specifiche diverse.
In ogni caso, anche qualora etiche diverse coincidessero materialmente su
norme specifiche identiche, l'identità riguarderebbe solo l'azione esteriore, non
la descrizione interiore che presiede alla gestazione della scelta e che sfocia in
quell'azione esteriore.
9 V. sopra I 17.
10
V. sopra I 27a, 55a.
11
Cf. HAUERWAS [20] 17-34.
Virtù e saggezza pratica 23 1
(9) È qui che troviamo l'influsso della concezione sapienziale sulle virtù. Le
virtù infatti sono ordinate principalmente all'atto interiore, cioè alle scelte e
alla loro gestazione. È principalmente l'atto interiore che qualifica il soggetto
agente, definisce la sua identità esistenziale. La concezione sapienziale contri
buisce pertanto, assieme ai principi della ragion pratica, a definire l'oggetto
specificante delle singole virtù e, attraverso esse, a dare il significato alle scelte
e alle conseguenti azioni esteriori. Anche se un cristiano, un ebreo, un laico
coincidessero nella stessa norma specifica e nella stessa azione esteriore giusta,
poiché vi pervengono a partire da concezioni sapienziali diverse, la loro scelta
ha significato esistenziale diverso, e per l'identità esistenziale della persona, per
la sua perfezione, è questo significato che principalmente conta.
In questo modo si può render conto del fatto che vi sia, ad esempio, un'e
tica specificamente cristiana, e che tuttavia essa possa - non sempre por
tare alle stesse azioni cui perviene chi agisce sulla base d'un' etica laica. Non sa
rebbe esatto dire che ciò che conta è l'azione esteriore e che lo specifico dell'e
tica cristiana consiste nell'apportare una propria motivazione. Non sarebbe
esatto, perché in un'etica della prima persona l'agente si qualifica per le sue in
tenzioni e le sue scelte, cioè per il suo atto interiore. Ora l'atto interiore riceve
la sua specificazione non dall'azione esteriore considerata nella sua realtà com
portamentale (esse naturae), ma dalla concezione che il soggetto, con la sua ra
gion pratica e la sua «visione», si fa di tale azione (esse morzs). La saggezza pra
tica è appunto l'habitus che rende la ragione idonea a concepire azioni sulla
base dei principi morali e della «visione». Le virtù dell'appetito a loro volta
sono specificate dalla concezione razionale: esse inclinano l'appetito all'azione,
non nella sua realtà comportamentale, ma precisamente e formalmente
com'essa è concepita dalla saggezza pratica.
C'è posto allora per virtù morali specificamente cristiane, che abilitano a
scelte specificamente cristiane, dalle quali è definita l'identità cristiana del sog
getto. Se il comportamento cristiano coincide con quello del laico o del musul
mano, questo o è solo per caso, o è perché i rispettivi agenti hanno in comune
qualche principio morale e qualche elemento della «visione» .
( 1 0) Sin qui ho mostrato come l a concezione sapienziale contribuisce a spe
cificare le virtù, ma si deve anche ammettere un influsso delle virtù sulla conce
zione sapienziale. Sia Murdoch sia Hauerwas hanno richiamato l'attenzione sul
fatto che la visione che perviene a vedere il mondo secondo verità richiede una
disciplina morale e che le virtù stesse influiscono sul modo con cui si «vede»
il mondo.
Quest'effetto delle virtù sulla «visione» si può spiegare tenendo presente
che la concezione sapienziale comporta una conoscenza apprezzativa ed estima
tiva del valore di bontà delle cose, delle persone, di Dio e delle loro opere, del
loro carattere, della loro storia. Su questo tipo di conoscenza è possibile che ab
biano influsso le virtù, in quanto esse introducono negli appetiti un'inclina-
232 Capitolo VI
12
Per questo concetto di conoscenza per connaturalità resa possibile dalla virtù cf. I-Il, 45,
2.
Virtù e saggezza pratica 233
umano di perfezione, sia narrative circa azioni di Dio o dell'uomo che hanno
rilevanza per questo ideale. 3 ) Infine la saggezza è regola delle virtù, nel senso
che le virtù si definiscono appunto come disposizioni a compiere azioni così
come sono concepite dalla ragion pratica secondo una regola morale.
(1 3) 2 ) Con queste affermazioni però non sono esauriti tutti i problemi che
sorgono quando si vuol spiegare in una teoria etica la conoscenza morale del
saggio. Un ulteriore problema è posto dall'uso che il saggio fa di norme o re
gole morali. La saggezza è sem pre coscienziosa, nel senso che applica all'azione
da compiere la regola morale così com'essa è esprimibile non solo in massime
virtuose, ma anche in norme morali specifiche.
Massime e norme sono entrambe proposizioni pratiche, ma differiscono
per il livello di astrazione. Nella massima virtuosa la descrizione dell'azione (de
scrizione che fa da soggetto logico alla proposizione il cui predicato è un quali
ficativo morale) si limita a indicare un modo di regolazione richiesto per la vo
lontà o per gli appetiti passionali in certe situazioni tipiche. Così però non s'in
dica nessuna azione in concreto; semplicemente si definisce la ratio virtutis,
l' eidos o ideale o scopo virtuoso. Ora ciò non è sufficiente ai fini della comuni
cazione discorsiva operante nei rapporti sociali o nei rapporti educativi. In
ogni collettività e in ogni rapporto educativo vi è necessità di determinare in
modo più specifico quali azioni sono assolutamente da evitare, quali sono pre
scritte, quali sono raccomandate perché si realizzi la ratio virtutis nella con
dotta dei membri o dell'educando.
Sorgono così le regole o norme, proposizioni pratiche più specifiche, nelle
quali l'azione è descritta rilevando il suo intento o qualche sua circostanza, non
in termini puramente comportamentali (che non dicono nulla dal punto di
vista morale), ma in modo che appaia quale rapporto ha con l'ideale di perfe
zione umana e con le massime virtuose la volontà coinvolta in quell'intento e in
quelle circostanze.
(1 4) A questo punto la nostra ricerca per spiegare la conoscenza morale
del virtuoso incappa in un problema. Per alcune teorie etiche infatti la cono
scenza morale è esaustivamente risolvibile in norme; per altre essa è una cono
scenza originale che solo limitatamente si esprime in norme. Il problema che
sorge ha la sua rilevanza per la teoria della virtù. Se infatti la conoscenza mo
rale si esaurisce · in norme, le virtù si riducono alla virtù, e questa viene conce
pita come disposizione a osservare le norme: otteniamo il concetto moderno
di virtù. Se la conoscenza morale, nel momento in cui diventa saggezza pra
.
tica, ha una sua originalità, va oltre le norme e richiede un'intelligenza e un giu
dizio per cui non esistono norme, sembra che dove vengono meno le norme si
richiedano le virtù come quelle che abilitano a giudicare il da farsi in situa
zioni in cui le norme non bastano: otteniamo allora il concetto aristotelico e to
mista di virtù.
(1 5) J ) A favore della prima alternativa vengono addotte almeno queste
234 Capitolo VI
(1 6) 1) Negli ultimi anni da più parti sono sorte critiche contro questa ridu
zione tipicamente moderna dell'etica a un sistema coerente e completo di
norme o a un procedimento perfettamente razionale per determinare l'azione
giusta.
Warnock ( [49] 53-68) si vede indotto a far ricorso alle virtù proprio per ri
mediare all'insufficienza delle regole morali: egli rileva che le regole morali si
basano su qualifiche morali che sono intrinseche alle azioni, e pertanto l'esi
stenza di regole non esime dall'analisi dell'azione stessa e di circostanze in esse
moralmente rilevanti non previste dalle regole. Similmente Ewin ( [50] 19-68)
s'estende a esaminare vari tipi di regole per criticare « l'idea che la moralità
può esser esaustivamente spiegata in termini di regole e che ogni giustifica
zione morale dipenda da regole morali, o che la moralità consista ultimamente
in regole piuttosto che in ideali, virtù, nozioni o simili» ( [50] 2 1) . Egli osserva
role and function distinct from and to be contrasted with, that of rules or laws, but rather as being
just those dispositions necessary to produce obedience to the rules of morality» (MAclNTYRE [10]
2 16). Quanto a Hume, occorre correggere l'interpretazione unilaterale data da Maclntyre con le
analisi più complete di HUDSON, Human Character 6 1-97.
15 HUDSON, o.e. 12-19.
Virtù e saggezza pratica 235
che un certo tipo di regole morali sono regole basate sull'esperienza pratica
(rules o/ thumb), nelle quali si qualifica moralmente un'azione in riferimento
alle circostanze in cui essa per lo più occorre; ma che esse sono inutili in circo
stanze eccezionali, perché « ciò che rende eccezionale un caso è il fatto che le
circostanze che normalmente fanno della regola una buona guida non si realiz
zano più» ( [50] 50). Un altro tipo di regole, quelle che definiscono istituzioni
o pratiche sociali, non hanno questo inconveniente; ma ciò è dovuto al fatto
che esse definiscono rapporti di giustizia necessari all'umana cooperazione.
( 1 7) Ma la critica alla riduzione della conoscenza morale alle regole pro
viene anche da autori che si rifanno alla concezione aristotelica della phronesis.
Spiegando il concetto aristotelico di virtù, Maclntyre ( [ 10] 14 1 - 144) osserva
che «l'agente genuinamente virtuoso agisce sulla base d'un giudizio vero e ra
zionale», ma che « l'esercizio di tale giudizio non è una rutinaria applicazione
di regole».
È vero che l'etica aristotelica della virtù richiede anche delle leggi per proi
bire azioni che sono distruttive della comunità e assolutamente incompatibili
con la virtù, o per promuovere certe virtù necessarie al bene comune, come la
giustizia. Ma « conoscere come applicare la legge è possibile solo a chi possiede
la virtù di giustizia». Vi sono casi in cui nessuna formula è disponibile in prece
denza e allora occorre agire katà tòn 6rthon l6gon. « Perciò il giudizio ha un
ruolo indispensabile nella vita dell'uomo virtuoso, ruolo che non ha e non può
avere, per esempio, nella vita dell'uomo che s'attiene a regole o a leggi».
( 1 8) Rifacendosi all'etica aristotelica nella sua critica all'utilitarismo S. Hamp
shire spiega che la conoscenza morale non è sempre riducibile a un esplicito
ragionamento, ma che vi possono intervenire sentimento e percezione: « conven
zioni; percezioni morali e sentimenti; istituzioni e appartenenze; tradizione;
spiegazioni storiche questi sono aspetti, connessi ed ineliminabili, del nor
male pensiero sulla condotta della vita, sul carattere e sul valore delle per
sone ».16
( 1 9) La spiegazione più precisa dell'insufficienza delle norme la fornisce
S.A. Dinan, 17 rifacendosi alla phronesis aristotelica per il tramite dell'interpre
tazione gadameriana. Dinan muove dalla constatazione che « la conoscenza è
conoscenza morale solo in quanto guida le azioni umane, che sono sempre par
ticolari. È ovvio pertanto che ogni teoria morale che pone standard morali uni
versalmente validi, di qualunque ampiezza, deve riconoscere la necessità di ap
plicare tali standard a situazioni particolari. Perciò la conoscenza di standard
morali universali è conoscenza morale solo in un senso incompleto; conoscenza
morale completa è la conoscenza di ciò che ha da esser fatto. Inoltre, come
16
HAMPSHIRE, Morality and Conflict 166.
17 Stephen A. DINAN, The Particularity o/ Mora! Knowledge, in The Thomist 50 ( 1986)
66-84.
236 Capitolo VI
Aristotele sapeva, conoscere ciò che è bene in generale non è sufficiente per sa
pere che cosa fare in una situazione particolare». 18 Da questa constatazione
Dinan ricava la conseguenza che il significato degli standard morali universali
non è compreso a pieno finché non si comprende anche ciò che essi richie
dono nella particolare situazione.
Dinan osserva poi che a questa definizione della conoscenza morale si può
muovere obiezione dall'esistenza necessaria e benefica di leggi e di regole uni
versali. Ma respinge l'obiezione osservando che «la persona che vuol seguire
tali regole deve capire quali azioni concrete esse prescrivono o proibiscono, le
situazioni in cui queste azioni sono prescritte o proibite, e le circostanze in cui
le regole non si applicano. Noi sosteniamo, tuttavia, che tale conoscenza non
può essa stessa esser derivata da o ridotta a regole, ma richiede un'intelligenza
morale creativa circa la particolare situazione. Poiché anche se noi esprimiamo
i nostri principi in termini di regole, non esistono regole che possano specifi
care tutte le condizioni che determinano se, e come, queste regole devono es
sere applicate. L'applicazione di regole non può essa stessa esser fatta con re
gole, ma solo con la ragion pratica dell'agente morale che ha di fronte a sé e ca
pisce le richieste concrete della situazione».19
(20) Alla stessa conclusione, cioè alla necessità di intelligenza e di prudenza
nel senso tomista, pervengono alcune osservazioni di R. Henle:20 i principi ge
nerali di cui disponiamo come guide per decidere possono bastare in casi sem
plici, nei quali è possibile la deduzione; non bastano in casi complessi, giacché
i principi generali non sono sufficientemente determinati (sono open-ended) . In
questi casi i principi sono solo una parte del materiale cui si deve applicare l'in
telligenza (insight) ; ma molti altri fattori devono esser presi in considerazione,
valutati e coordinati con intelligenza. In questi casi il processo intellettuale non
è deduttivo, e i principi, pur guidando, non possono determinare la decisione.
Qui occorre prudenza, <<Un'abilità acquisita di fare corrette decisioni intelli
genti in casi individuali e concreti».21 Henle anzi va un passo più avanti:
«Come l'intelligenza in casi individuali può modificare l'applicazione di prin
cipi, cosi gli stessi casi possono modificare i ·principi stessi».22 Qui si tratta di
applicare i casi ai principi (come è accaduto per le regole della guerra giusta,
della libertà religiosa, dell'usura) .
(21 ) Analoga riserva di fronte all'insufficienza delle norme è riscontrabile in
Tommaso d'Aquino,23 il quale osserva che più ci si avvicina al particolare più
18
Ivi 69.
1• Ivi 73.
20 Robert HENLE, SJ, Prudence and Insight in Mora! and Lega! Decisions, in Proceedings o/
25 V. sopra V 64.
26
Cf. Charles E. LARMORE, Patterns o/ Mora! Complexity, Cambridge 1987, 5-13.
27
Ivi 5-6.
28 Ivi 7 .
240 Capitolo VI
l'ho valutata, trovo queste ragioni convincenti».29 In secondo luogo tale giudi
zio è in speciale connessione con le virtù, giacché i doveri definiti in modo solo
schematico richiedono immaginazione, e l'immaginazione è segno di virtù:
<,Essa esprime un interesse per la vita morale assai più attivo e meditato di
quanto non lo richiede l'osservanza di regole morali pienamente determi
nate».30
(28) La spiegazione che Larmore fornisce circa la connessione tra le virtù,
per le quali non sono possibili norme specifiche positive, e il giudizio consente
di comprendere perché queste virtù possano essere guide d'azione, e perciò
debbano esser prese sul serio, come vuole Hudson [66] . Esse possono essere
guide d'azione, non perché consistano in sentimenti per certi valori, che gui
dino l'azione indipendentemente dalla ragione pratica; guidano invece l' a
zione, sì indipendentemente da norme specifiche positive, ma non dalla ragion
pratica, dal momento che il loro scopo è definito appunto da una massima
della ragion pratica. Ma è una massima che richiede giudizio per poter deter
minare l'azione concreta ad essa conveniente.
(29) Si comprende anche perché non si possa designare quest'azione se non
come quella che il virtuoso, o il saggio (il generoso, il coraggioso, il casto, ecc.)
farebbe, o, secondo Wallace ([65] 136) , come quella pienamente caratteristica
d'una virtù. Questa designazione non è oziosa, ma fornisce l'unica guida possi
bile per certe azioni, in quanto designa la massima secondo cui dev'esser moti
vato un soggetto agente per poter esercitare il giudizio che determina quale
azione concreta è conveniente. Poiché per queste azioni non sono possibili
norme specifiche, non si può far altro che designarle in base allo scopo vir
tuoso - definito da una massima che guida il giudizio nel determinarle con
cretamente.
Si potrebbe obiettare che è possibile un'azione quale il virtuoso farebbe,
ma senza che sia fatta con l'intenzione del virtuoso; Wallace la designerebbe
come azione caratteristica d'una virtù. In tal caso l'azione sarebbe definibile
mediante regole, prescindendo dallo scopo virtuoso. Si dovrà rispondere che
azioni simili sono possibili solo nel campo della giustizia, dove il giusto mezzo
è oggettivo; tali azioni sono realmente ed oggettivamente giuste, anche se non
sono compiute per il motivo della giustizia. Ma azioni simili non sono possibili
nel campo delle altre virtù, dove il giusto mezzo è soggettivo; un atto di corag
gio o è pienamente caratteristico del coraggio o non è realmente un atto di co
raggio, di vero coraggio: dicemmo sopra31 che qui il linguaggio corrente è al
corto di risorse e siamo costretti ad usare i termini reale, vero, per evitare le
sue ambiguità.
Nel campo delle virtù diverse dalla giustizia è possibile determinare specifi-
2' Ivi 8.
'0 Ivi 12.
' 1 V. sopra V 64-65.
Virtù e saggezza pratica 241
camente l'azione che il virtuoso eviterebbe; invece quella che egli farebbe o è
descrivibile solo con una massima schematica o altrimenti bisogna ricorrere a
esempi, narrazioni, ritratti, parabole. Essa può essere determinata concreta
mente solo dal virtuoso.
(30) Questa considerazione permette di avvertire quale delicatissima posi
zione occupi l'etica della virtù, e come facilmente possa scantonare in un'etica
dei doveri e delle norme semplicemente classificate secondo lo schema delle
virtù. Il che è accaduto per i manuali di teologia morale ispirati alla dottrina to
mista. Gli è che sembra essere compito dell'etica determinare e giustificare
norme specifiche di condotta, che sono proposizioni pratiche logicamente uni
versali e perciò scientificamente comunicabili. Invece sembra ozioso e inutile
dare guide di azione solamente schematiche per appellarsi poi al giudizio del
saggio; sembra che in questo modo l'etica non risponda alla domanda: che
cosa devo fare?
In questo modo però si dimentica che ove la teoria etica non può dare
norme di azione, può sempre stabilire le condizioni che fanno possibile al sog
getto giudicare saggiamente, appunto studiando la connessione tra virtù e sag
gezza pratica. Inoltre si dimentica l'avvertimento metodologico di Aristotele:
dalla teoria etica non ci si deve aspettare la precisione delle scienze esatte. Per
ciò essa fa ricorso al ritratto là dove non sono possibili norme.
(31 ) È tipico del linguaggio morale che mira espressamente a indurre ad at
teggiamenti virtuosi, senza addentrarsi in norme specifiche legate a contesti
particolari, limitarsi o a enunciare termini di virtù o a esemplificare le virtù con
parabole, descrizione di esempi, norme paradossali, o anche assurde se prese
alla lettera. Di questo tipo è l'insegnamento morale dei vangeli e delle lettere
neotestamentarie.
Lo scopo di questo procedimento è di attivare l'intelligenza dell'uditore a
capire la massima racchiusa in un modello, in un esempio, in una storia; a ca
pire che nelle condizioni descritte la massima richiedeva quel comportamento;
a giudicare quale comportamento analogo la stessa massima richiede nella situa
zione in cui si trova il soggetto agente.
(32) 4) A questo punto però il procedimento delle virtù diverse dalla giusti
zia, per le quali non sono possibili norme specifiche positive, non è sostanzial
mente diverso da quello richiesto dalla virtù di giustizia, per la quale le norme
sono possibili e numerose. In entrambi i cast� siano da applicare norme o sia da
concretizzare una massima schematica, si richiedono intelligenza e giudizio.
È nuovamente S.A. Dinan32 che spiega bene perché qualsiasi principio mo
rale richiede intelligenza e giudizio. Egli osserva che nessun principio morale
universale riesce a determinare in maniera univoca e adeguata quale azione con
creta realizza in una data situazione la giustizia, il coraggio, la cortesia, ecc.
Questo a causa del fatto che sono mutevoli e indefinitamente diverse le circo
stanze da cui dipende che si possa qualificare un'azione concreta come giusta,
coraggiosa, cortese, ecc. Le azioni concrete giuste non sono semplicemente
casi distinti sussumibili identicamente sotto il concetto generale di giustizia.
Sono invece esemplificazioni diverse tra loro, sicché l'una non è l'esatta ripeti
zione dell'altra; realizzano diversamente la nozione di giustizia. Le nozioni uni
versali delle virtù non sono pertanto nozioni univoche, ma analoghe, e il loro
significato cambia di caso in caso.33
I principi morali (le massime virtuose) si trovano allora nella stessa situa
zione delle norme e delle leggi: la loro applicazione concreta per l'azione fu
tura può avvenire solo sulla base della conoscenza delle loro esemplificazioni
passate. Solo il ricorso a diverse esemplifica±ioni passate insegna al soggetto
agente a scorgere che cosa è rilevante hic et nunc per la realizzazione nuova
degli scopi virtuosi. « Questo scorgere è basato sullo sviluppo del carattere mo
rale dell'agente attraverso la precedente esperienza. [. ] Ciò che lagente mo
..
" «The meaning of the universal itself differs somewhat from case to case. [ . . . ] The ends
which constitue justice, courage or kindness are themselves different from case to case» (ivi 78).
Preciserei che ciò che cambia di caso in caso non è il significato di questi universali espremibile in
una massima virtuosa, quanto invece il significato costituito dalle azioni concrete cui l'universale
si riferisce. Dinan stesso precisa che questi universali sono analoghi, « that is, the terms signifying
such universals designate things which differ formally from one situation to the next» (ivi) . È solo
per questo secondo significato che sarei d'accordo con Dinan nel dire ch'esso non può esser ca
pito se non in dipendenza dalle esemplificazioni concrete: « Since mora! universals are exemplified
differently in different cases, we understands such universals in their particular instantiations. This
means our understanding of mora! universals depends upon the particular exemplifications we
have experienced, and changes·as it is applied to different kinds of cases» (ivi).
34 Ivi 80.
" Ivi. Questa caratteristica delle norme e delle massime virtuose e questa necessità d'intelli
genza e di giudizio permettono di capire l'inesattezza d'una concezione corrente e diffusa che
detta espressioni come queste: « Kindness is not a virtue if is calculated. It requires a certain im
mediate reaching out to help another, a certain Jack of reflection or calculation. The man who
does something, not simply because it will help ·another, but because he has worked out that he
ought to do it, is not being kind, though he might exhibit another virtue such as consciousness»
(EWIN [50] 177). Il cortese non avrà da deliberare sullo scopo virtuoso, ma avrà da deliberare, o
per lo meno discernere con accortezza,
' sull'azione più conveniente per realizzare lo scopo della
cortesia. V. sopra V 56.
Virtù e saggezza pratica 243
(34) 6) Riassumendo, abbiamo visto perché la teoria etica non 'può fer
marsi alle norme se vuol render conto della conoscenza morale. Le norme non
son sempre possibili, e anche se lo sono si richiede in ogni caso intelligenza e
giudizio; inoltre esse esprimono una conoscenza morale ancora in universali.
La teoria etica deve invece anche estendersi a studiare la conoscenza morale in
particulari. Non potrà essa stessa diventare quest'ultimo tipo di conoscenza;
tuttavia se vuol render adeguatamente conto dell'esperienza morale e se vuol
essere etica della prima persona, deve studiare quali condizioni fan possibile al
soggetto agente pervenire a quella conoscenza morale in particulari, a quella
saggezza pratica che fa sì che le sue scelte e le sue azioni siano effettivamente
rette, sotto ogni aspetto, eccellenti, ed esemplifichino la vita veramente buona.
Abbiamo visto che la saggezza pratica in particulari consiste in un'intelli
genza, in un giudizio che è possibile solo in dipendenza dalle virtù. Resta da
spiegare la natura di questo giudizio pratico e in che modo le virtù lo fanno
possibile.
(35) 1) A ragione Ch.E. Larmore qualifica come puzzling la natura del giu
dizio pratico.39 Dopo aver riscontrato che l'etica aristotelica « contiene vera
mente poco circa il modo preciso in cui il giudizio è esercitato »,40 egli la
menta l'oblio della nozione di giudizio nell'etica moderna dal sec. XVI alla
metà del sec. XX, quando esso viene riscoperto da Gadamer.
Ne trova qualche traccia in Adam Smith: « L'idea di Smith fu che noi pos
siamo cogliere la natura del giudizio morale stesso esaminando il caratteristico
sentimento che, in aggiunta alla comprensione di qualche regola generale, mo
tiva l'esercizio d'una particolare virtù». Tuttavia, quando si tratta poi di defi
nire quel sentimento, Smith « tende a concepirlo come il riconoscimento sen
tito della regola generale che gli è associata».41 Quanto a Gadamer, Larmore
richiama, còme abbiamo già visto fare da S.A. Dinan,42 che il giudizio per l'a
zione futura si rifà alle diverse esemplificazioni avvenute nel passato.
Larmore conclude che l'inabilità di Aristotele, di A. Smith, di Gadamer di
dire qualcosa di più circa la natura del giudizio pratico, non è lamentabile, ma
esemplare. Essi danno descrizioni puramente negative: « L'attività del giudizio
va al di là (anche se ne dipende) di quanto è dato nel contenuto di regole mo
rali, di sentimenti caratteristici, di tradizione e di apprendistato ».43 Dire di
più non è possibile; qui occorre riconoscere un limite della teoria etica che non
può dare, come la tecnica, istruzioni del tutto dettagliate su ciò che è da fare;
dà descrizioni negative del giudizio, rimanda all'esperienza, lo paragona ad
altri modi analoghi di giudizio. Se si volesse procedere oltre bisognerebbe ri
volgersi alle grandi opere della letteratura, nelle quali troviamo esempi dell'e
sercizio del giudizio morale.
(36) Penso invece che nella teoria tomista qualcosa di più si trovi. Ma
prima di portarla in campo conviene spendere una parola sulla sua utilizza
zione recente da parte di alcuni autori. Nell'ambito della teologia il problema
del giudizio morale è stato più sentito che nell'ambito della filosofia. In campo
protestante una posizione estrema fu sostenuta da J. Fletcher nella sua etica
della situazione: 44 il giudizio morale non dipenderebbe da norme generali, ma
costituirebbe la risposta dell'amore a una situazione particolare unica. In
campo cattolico una posizione più moderata fu sostenuta da K. Rahner nella
sua etica esistenziale formale: 45 il giudizio morale si eserciterebbe non senza
norme, ma nell'area lasciata aperta dalle norme, da parte di un individuo che
si esprime nella sua unicità irripetibile attraverso un processo non discorsivo
di discernimento.
Ho menzionato queste due posizioni non per discuterle, ma perché forni
scono il contesto entro cui si sono verificati recentemente richiami alla teoria
tomista della prudenza. Riprendendo una precedente critica all'etica esisten
ziale di K. Rahner da parte di W.A. Wallace, il quale osservava che la teoria to
mista della prudenza soddisfa molto meglio all'esigenza d'un giudizio indivi
dualizzato, senza bisogno di ricorrere ai presupposti del neotomismo trascen
dentale,46 Daniel M. Nelson ha opposto la prudenza tomista all'etica esisten
ziale particolarmente su due punti. 47 Il primo concerne la differente conce
zione della natura umana che oppone Rahner a Tommaso. Ci riguarda invece
il secondo, relativo al discernimento non discorsivo. Nelson rileva che Rahner
attribuisce a Tommaso una concezione deduttiva del ragionamento morale,
che non è di Tommaso ma della Scolastica postridentina. Nella teoria tomista
invece i principi della legge naturale non costituiscono una premessa per un ra
gionamento deduttivo, ma una struttura entro cui la prudenza opera, impa
rando per esperienza a determinare l'azione concreta che realizza i fini es
pressi in modo solo generico nei principi della legge naturale. In questo modo
la prudenza da attenzione a ciò che è singolare, sia individui singolari sia circo
stanze uniche. Non considera l'individuo solo come un caso dell'umanità in ge-
44 Cf. Joseph FLETCHER, Situation Ethics: The New Morality, Philadelphia 1966.
45 Cf. Karl RAHNER, Uber die Frage einer formalen Existentialethik, in ID., Schri/ten zur Theo
logie, II, Einsiedeln - Zi.irich - Koln 1962, 227-246.
46 William A. WALLACE, OP, The Existential Ethics o/ Karl Rahner: A Thomistic Appraisal,
in The Thomist 27 ( 1963) 493-5 15.
47 Daniel M. NELSON, Kart Rahner's Existential Ethics: A Critique Based on St. Thomas' Un
derstanding o/ Prudence, in The Thomist 5 1 ( 1987) 461 -479.
246 Capitolo VI
48 Ivi 478.
49 GRISEZ, Christian Mora! Prmciples 261.
5° Cf. Joseph M. BOYLE, Jr., Mora! Reasoning and Mora! Judgment, in Proceedings o/ the
Am. Cath. Philos. Assoc. 58 ( 1984) 37-49.
51 BOYLE, a.e. 40.
52 lvi 46.
Virtù e saggezza pratica 247
(38) Ciò che Grisez e Boyle dicono sul giudizio pratico è il massimo di
quanto si possa dire per evitare d'introdurre determinanti morali non intelligi
bili e per ricuperare il ruolo della prudenza a partire da una concezione del ra
gionamento morale che lo interpreta come sussunzione d'un caso sotto una
norma, pur se altamente specificata· e circostanziata. Orbene, in tale conce
zione si perde lo specifico della teoria tomista della prudenza e se ne recepi
scono solo dei frammenti. Gli è che la teoria della prudenza è concepita per un
ragionamento morale che procede non per sussunzione d'un caso sotto una
norma, bensì per applicazione d'una norma o d'un principio indeterminati ad
un'azione più determinata e più complessa di quanto sia possibile descriverla
mediante norme anche circostanziate.53 Tuttavia non si può negare che il mo
dello della sussunzione non è estraneo al ragionamento morale. In casi più sem
plici oppure qualora intervengano norme assolute il ragionamento morale può
procedere in questo modo.
Più chiarezza si può fare se si richiama la distinzione, introdotta più
sopra,54 tra piano precettivo pratico e piano descrittivo riflesso del ragiona
mento morale. Sul piano precettivo, diretto, l'oggetto del ragionamento morale
è il bene e il suo effetto è la prosecutio del bene nell'intenzione e nella scelta;
sul piano descrittivo, riflesso, l'oggetto del ragionamento morale sono le
norme, i doveri. Il piano precettivo è quello in cui opera la prudenza, il piano
descrittivo è quello in cui operano la coscienza e la scienza morale. Perciò giu
stamente osserva Rhonheimer55 che si può parlare di prudenza coscienziosa,
cioè di prudenza che nell'elaborare precetti tiene presenti anche le norme e i
giudizi di coscienza; ma non si può parlare (come fa Grisez) di coscienza pru
dente, giacché la coscienza è semplicemente applicazione della scienza delle
norme a precetti e ad azioni prese ancor solo come oggetto di considerazione
riflessa; non è la conoscenza diretta che mira a realizzare il bene nelle inten
zioni e nelle scelte, non è originariamente precettiva ed effettivamente pratica.
Il procedimento della sussunzione avviene a livello di coscienza, livello in
cui un precetto della prudenza, un'azione sçmo giustificati mediante la sussun
zione come casi sotto una norma. Invece per la prudenza l'azione è ancora da
trovare, e da trovare mediante il confronto tra regola (principi, norme) e situa
zione circostanziata; poiché la regola è necessariamente indeterminata e l'a
zione ha da essere assolutamente determinata, il confronto va dalla situazione
alla regola e viceversa, mettendo in opera non solo un ragionamento, ma un'in
telligenza sia dei principi sia delle circostanze della situazione.56 Nulla impedi
sce che in tale applicazione della regola all'azione da trovare si faccia ricorso a
" John D. CAPUTO, Commentary: To Professor Boyle Prudential Insight and Mora! Reason
ing, in Proceedings o/ the Am. Cath. Philos. Assoc. 58 ( 1984) 50-55, muove questa critica all'arti
colo di Boyle cit. alla n. 50.
54 V. sopra III 2 1 ; V 2 1 ; cf. RHONHEIMER, Natur 63-66.
55 Ivi 64.
56 Cf. anche per quest'intervento dell'intelligenza la nota di J.D. CAPUTO cit. alla n. 53.
248 Capitolo VI
giudizi di coscienza, ma la coscienza dice, non decide l'azione. Per agire bene
non è sufficiente elaborare una norma specifica e giudicare che si è riflettuto
abbastanza. Occorre ancora si passi dalla considerazione in universali, tipica
della coscienza, alla considerazione in particulari, cioè a quella considerazione
in cui le premesse del ragionamento non sono semplicemente norme, pur se
specifiche e circostanziate, ma sono principalmente rette intenzioni dell'indivi
duo agente, attuali inclinazioni della sua volontà e dei suoi appetiti passionali a
scopi virtuosi.57
(39) 2) Mediante la distinzione tra considerazione in universali e in particu
lari la teoria tomista può dire qualcosa di più circa la natura del giudizio morale,
circa l'esercizio dell'intelligenza, circa il modo in cui influiscono le virtù sull'intel
ligenza e sul giudizio.
Secondo la teoria tomista, finché il soggetto considera una possibile azione
particolare soltanto in se stessa, la sua considerazione resta ancora in univer
sali, anche se è circostanziata e produce una norma specifica circostanziata. È
di questo tipo la considerazione della coscienza; concludere « questa è l'azione
che devo fare in questa situazione» è ancora un giudizio astratto, nel senso che
esprime una valutazione dell'azione considerata in se stessa, prescindendo dai
desideri attuali dell'individuo agente, desideri dai quali soltanto può scaturire
la scelta o l'azione dell'individuo.
La considerazione della ragion pratica diventa in particulari quando assume
come premesse proprio i desideri attuali dell'individuo agente e cerca il modo
di realizzarli nella situazione. L'intervento dei desideri attuali è necessario per
ché solo essi possono rendere rilevante per l'individuo il giudizio pratico della
ragione; la ragione da sola può emettere soltanto giudizi che, pur se circostan
ziati, possono valere per qualsiasi individuo; il giudizio di scelta invece vale
solo per l'individuo agente, il quale è reso agente effettivo proprio per il fatto
che desidera.
È questo modo di concepire la natura e la necessità d'una considerazione
in particulari che costituisce l'apporto originale e singolare della teoria tomista
della II Pars. Esso non si ritrova nelle altre teorie, che si fermano al livello
della scienza e della coscienza e al punto di vista della terza persona. Invece il
punto di vista della prima persona richiede di pervenire fin qui nella riflessione
sulla ragion pratica. Da questa differenza dipende la differenza nel concepire
la natura e la funzione della virtù e della saggezza pratica. Per condurre la ra
gion pratica alla considerazione in particulari e al giudizio di scelta non sono
sufficienti la scienza morale delle norme, la coscienza, l'istruzione morale, la di
sciplina, la legislazione; occorrono assolutamente le virtù.
57 Introducendo la distinzione tra i due piani del ragionamento morale, distinzione assai il
luminante che ho trovato nello studio di Rhonheimer, correggo e approfondisco ciò che ho detto
nel mio articolo I «Christian Mora! Principles» 674-677: in quest'articolo non distinguevo tra i due
piani, perciò nemmeno tra coscienza e prudenza.
Virtù e saggezza pratica 249
58 Per la teoria tomista è decisiva l'affermazione: « Si aliquod bonum proponatur quod ap
prehendatur in ratione boni, non autem in ratione conuenientis, non mouebit uoluntatem»: De
250 Capitolo VI
Malo 6c; v. sopra III 22, n. 27; cf. anche il mio commento in Lex et virtus 2 16. Qui appare ciò che
la teoria della virtù ha in proprio e che la rende necessaria: affinché il giudizio di scelta (e non solo
il giudizio di coscienza) sia retto non basta il riferimento a principi, ideali, norme, doveri, valori,
concetti tutti che restano propri della considerazione in universali; occorre il riferimento a virtù, in
tese come attuali inclinazioni degli appetiti verso scopi virtuosi. Tali inclinazioni s'esprimono
anche in sentimenti, e ciò rende ragione a coloro che, come HUDSON, Human Character 25, riven
dicano il ruolo del sentimento nella conoscenza morale.
59 V. sopra II 25, specialmente n. 57.
Virtù e saggezza pratica 25 1
tere, ed è l'azione moralmente giusta; produce lui stesso la norma adatta alla si
tuazione e conveniente ai suoi desideri virtuosi; escogita nuove azioni, trova so
luzioni che ad altri nemmeno passano per la mente, prende decisioni sagge che
possono lasciar sconcertati altri.60
Grazie all'influsso delle virtù sulla conoscenza il virtuoso considera le even
tuali norme in modo diverso dal non virtuoso. Una norma specifica è per il non
virtuoso una norma esterna ch'egli non fa sua, se non per motivi poco perti
nenti. È per il virtuoso una norma interna ai suoi interessi, eh'egli fa sua per il
motivo pertinente, come un'esigenza della sua adesione allo scopo virtuoso.
Nel primo caso il dovere è sentito come limitativo e costrittivo della libertà di
scelta, nel secondo caso è sentito come la necessaria opportunità di realizzare
una propria intenzione, opportunità degna e meritevole di libero consenso.
I determinanti morali dell'azione sono tutti intelligibili; ma indovinare o in
ventare, e a volte improvvisare l'azione che non comporti alcun fattore di scor
rettezza, lazione richiesta e moralmente eccellente, è operazione che non rie
sce alla ragione se non sotto lattuale influsso dei desideri virtuosi. La norma
di quest'azione è la giusta misura, il giusto mezzo; ma la saggezza pratica riesce
a determinare il giusto mezzo sol perché, essendo essa mossa da intenzioni vir
tuose, trova appetiti che sono resi docili al suo giudizio, alla sua regolazione,
proprio dalla presenza delle virtù. Gli è che la direttiva o precetto o comando
con cui la ragione impone alle virtù il giusto mezzo è un atto della prudenza
nel quale s'esprime un'efficace intenzione virtuosa, l'intenzione appunto delle
virtù di realizzare lo scopo virtuoso esattamente con quella giusta misura che la
prudenza assegna e comanda.
(44) Infine l'attuale influsso delle virtù sulla saggezza pratica spiega il parti
colare modo con cui il giudizio morale ultimo può esser detto vero. Verum
autem intellectus practici accipitur per con/ormitatem ad appetitum rectum, af
ferma Tommaso nella II Pars.61 Il giudizio morale può non esser perfetta
mente adeguato alla situazione oggettiva. In situazioni complesse qualche deter
minante morale può sfuggire all'attenzione, lazione scelta può non realizzare
al meglio il vero bene umano, perché l'individuo non può prevedere tutte le
tere virtuoso è decisivo e principale per interpretare la situazione, per determinare in concreto i do
veri (v. sopra II 39); e l'istanza di HUDSON ([66] 200) secondo la quale il virtuoso determina l'a
zione ispirata al suo carattere. Accolgo pienamente, ma spiegandola in questo modo, l'osserva
zione di G. GRISEZ - R. SHAW, Beyond the New Morality: The Responsibilities o/ Freedom, Notre
Dame - London 1980, 40: «In determining ourselves through our commitments we shape our
lives. We establish our ways of looking at things. We determine the meaning of the experience we
will have. Thus, as we have seen earlier, we really create situations in a moral sense, because we
give the events of our lives and the facts of the world the unique meaning that they have /or us.
This is of course in sharp contradiction to the argument of so-called "situation ethics", which im
plies that the meaning of a situation is something given, over which we have non control and
which we can only passively accept».
61
I-II, 57, 5, 3m. Cf. Lex et virtus 22 1 -222 e sopra V 16, n. 19.
252 Capitolo VI
62 Anche su questo punto NELSON, Karl Rahner's 479 avverte una differenza tra la prudenza
tomista e il discernimento rahneriano: «Along with his claims about the nature of the reality to
which existential ethics applies, Rahner introduces a claim about the certainty of its conclusions
that Thomas says is necessarily lacking, even with the assisfance of spiritual gifts, in human delibe
rations about what is to be done. If one doubts the existence of (or at least the possibility of gain
ing access to) the transcendental dimension of personhood that Rahner describes, if one shares
Thomas' scepticism in the sense of a reluctance to claim certain knowledge of God's will for speci
fic human actions, and if one finds the discursive deliberations of prudence more reliable than the
non-discursive discernment of spirits, then existential ethics appears to be a particularly impru
dent alternative to the account of moral decision-making provided by Thomas Aquinas».
6 3 V. sopra III 24.
Virtù e saggezza pratica 253
64 V. sopra II 60.
6' «Dicendum quod religio et pietas sunt duae virtutes. Nulla autem virtus alii virtuti contra
riatur aut repugnat: quia secundum Philosophum, in Praedicamentis, bonum non est bono contra
rium. Unde non potest esse quod pietas et religio se mutuo impediant, ut propter unam alterius
actus excludatur. Cuiuslibet enim virtutis actus, ut ex supra dictis patet [l-11, 18, 3 ], debitis circum
stantiis limitatur: quas si praetereat, iam non erit virtutis actus, sed vitii. Unde ad pietatem perti
net officium et cultum parentibus exhibere secundum debitum modum» (II-II, 101, 4c).
254 Capitolo VI
1 V. sopra V 34-38.
256 Capitolo VII
teplicità delle teorie con cui bisognerebbe confrontarsi. Il problema infatti coin
volge le teorie dello sviluppo morale e dell'educazione, teorie nelle quali a loro
volta la ricerca sperimentale dipende da paradigmi filosofici assai diversi dalla
teoria della virtù che abbiamo sviluppato.2 Sicché il confronto con queste teo
rie non può awenire senza impegnarsi in questioni epistemologiche. Ma il pro
blema dell'acquisizione delle virtù coinvolge anche la filosofia della letteratura
e la filosofia politica, in quanto, come vedremo, da un lato la descrizione di ca
ratteri e di azioni drammatiche e dall'altro l'ethos sociale, le leggi, le tradizioni
di piccole comunità, il pubblico dibattito tra diverse concezioni della vita svol
gono un ruolo importante nella genesi delle virtù. Infine non si può trascurare
il fatto che il problema dell'acquisizione e della pratica delle virtù è anche un
problema teologico, in quanto l'uomo non può venire a capo della propria fal
libilità morale e della fragilità della vita buona senza, per dirla in breve, l'aiuto
di Dio; sieché una teologia dell'agire virtuoso dovrebbe mostrare, sulla base
della rivelazione divina, come Dio opera per consentire all'uomo di agire vir
tuosamente.
Di fronte a tali e tante implicanze le considerazioni che andrò facendo non
potranno apparire che come rudimentale abbozzo. Mi limiterò a presentare lo
specifico contributo che la teoria della virtù qui sviluppata può dare al pro
blema dello sviluppo morale e dell'educazione morale visto come problema
dell'acquisizione delle virtù. Non potrò in questa sede nemmeno iniziare un
confronto con le recenti teorie psicologiche dello sviluppo morale,3 con le filo
sofie dell'educazione, con la filosofia della letteratura, con la filosofia politica e
con la teologia propriamente dogmatica (anche se èiò che andrò dicendo costi
tuisce un esercizio di filosofia cristiana) . Darò semplicemente i principi d'una
teoria filosofica dell'acquisizione delle virtù e dell'educazione alla virtù, che in
dicano la direzione in cui va la teoria delle virtù qui sviluppata.
(3) Per risolvere la questione circa la genesi delle virtù occorre distinguere
vari tipi di vita morale: a parte la vita viziosa, vi è una vita morale che senza es
sere virtuosa non è nemmeno viziosa, è semplicemente una vita morale previr
tuosa. Poiché la vita morale consta di atti, conviene sfruttare una distinzione
circa ìl rapporto tra virtù e atti proposta, sulla scia di Aristotele, da J.D. Wal
lace e da S.D. Hudson.4 Vi sono:
2 Una pertinente critica, dal punto di vista cristiano, ai paradigmi delle teorie psicologiche è
sviluppata da Mary STEWARD VAN LEEUWEN, The Person in Psychology. A Contemporary Christian
Appraisal, Leicester I England - Grand Rapids I Michigan 1985 .
., Circa i problemi che · questo confronto comporterebbe dice qualcosa John W. CROSSIN,
O.S.F.S., What Are They Saying About Virtue?, New York - Mahwah 1985.
4 Cf. Etica Nicomachea II, 4 = 1 105 a 3 1-35 : « Le azioni che traggono origine dalle virtù non
La pratica delle virtù 257
basta che abbiano un determinato carattere per essere compiute con giustizia o con temperanza,
ma occorre anche che chi le compie le compia possedendo una certa disposizione: innanzitutto
deve conoscerle, poi deve sceglierle, e sceglierle per se stesse; infine, in terzo luogo, deve com
pierle con una disposizione d'animo ferma ed immutabile» (tr. Mazzarelli, Milano 1979, 128);
James D. WALLACE, Excellences and Merit, in Philosophical Review 83 ( 1974) 182-199, ripreso
come II capitolo in WALLACE [65]; HUDSON [86] e Human Character 44-47.
' « Someone can perform an act fully characteristic of truthfulness, then, without possessing
the excellence, truthfulness. For an act to exhibit the excellence, truthfulness, however not only
must the action fulfill the three conditions above, but, to use Aristotle's phrase, "his action must
proceed from a firm and unchangeable character" ( 1 105 a 34-35) that is, the agent must have a
-
pretty firm resolve to teli the truth when he should, and he must have the strenght of will to hold
to his resolve even when his own interests or inclinations bid him to lie or to suppress the truth»
(WALLACE, a.e. 197). «We need a better account of what it is for an action to exhibit a character
trait. How, for example, should we differentiate an action that exhibits a person's character and
an action which is (only) characteristically motivated for that trait of character? Consider courage.
An action which is characteristically motivated for courage need not exhibit courage. What more
is necessary, if the act is to exhibit courage? As a first stab, we might offer that for an act to exhib
it such a trait of character the agent must also be principled: he must bave a firm resolve to fol
low the dictates of courage and must act accordingly, even when he has some reason not to do so
(as, e.g., when it would suit his own inclinations not to do so) » (HUDSON [86] 547).
258 Capitolo VII
o di forte provocazione. Questo perché sono compiute per motivi che, senza
esser cattivi, sono però estranei alla bontà morale: il vantaggio che se ne può ri
cavare, il desiderio di esser riconosciuto e stimato, l'amor del quieto vivere, il
timore di spiacevoli conseguenze, il desiderio di restare integrato nel gruppo,
la paura di restare isolato o di apparire diverso, il comando d'un'autorità e la
prospettiva delle sanzioni, le attese degli altri, il prestigio delle opinioni domi
nanti, ecc.
Tutti questi motivi, e le disposizioni su di essi fondate, sono intrinseca
mente instabili, nel senso che, essendo estranei al valore morale, inducono ad
azioni corrette come per caso, ma, presentandosi le circostanze, possono anche
indurre ad azioni moralmente sbagliate.
In una condizione migliore, ma ancora previrtuosa, si trova il continente
cioè colui che compie le azioni moralmente giuste dettate dalla ragione, ma le
compie resistendo a forti passioni contrarie. Secondo l'analisi tomista,6 il con
tinente compie sl azioni giuste, ma non in forza d'una scelta compiutamente
buona, giacché gli manca il retto appetito del fine, ossia la compiacenza dell'ap
petito volitivo e passionale nel vero bene umano. Egli pone una scelta material
mente buona giacché ciò eh'egli sceglie è bene, ma non ancora formalmente
buona, cioè per inclinazione al bene morale in quanto tale, bensl perché la co
scienza gliela presenta come obbligatoria o perché egli sa che l'azione è coman
data o proibita dalla legge morale o dalla legge divina.
Infine vi è la condizione di colui che potremmo chiamare il docile. Egli com
pie le azioni giuste e le compie proprio perché sa che sono giuste e vuole com
piere azioni giuste, ma lo sa per indicazione ricevuta dal genitore, o dall'educa
tore. Egli non è ancora capace di giudicare personalmente ciò che è giusto né
di determinare personalmente l'azione secondo le circostanze: Anche la vita
del docile è ancora una vita previrtuosa, giacché egli non è ancora in grado di
determinare, di giudicare e di scegliere l'azione giusta come mediazione con
creta d'una propria retta intenzione verso uno scopo virtuoso capito e voluto.
Il docile compie azioni giuste per motivi giusti, ma non ancora nel modo per
fettamente giusto di chi sa determinare e scegliere l'azione giusta sulla base
d'una propria adesione agli scopi virtuosi.
(5) Se si tiene presente la distinzione tra l'azione del docile e l'azione di chi
sa scegliere personalmente nel modo giusto, e se si tiene presente tutto ciò che
abbiamo detto sulla gestazione della scelta a partire dalle intenzioni e sulla ra
gione per cui sono necessarie le virtù per esser preparati a compiere buone
scelte, si capirà perché correggo la tripartizione sopra esposta circa le azioni
moralmente buone e.affermo che le azioni di chi sa scegliere personalmente nel
dò del continente poggia sull'importante testo di I-II, 58, 3, 2m: cf. il mio commento in Lex et vir
tus 2 13-2 15.
La pratica delle virtù 259
modo giusto non solo sono pienamente caratteristiche della virtù, ma esibiscono
già la virtù, nel senso che non possono essere compiute se non in forza della
virtù.
Infatti le intenzioni rette verso gli scopi virtuosi, che stanno alla r�dice
delle scelte giuste, superano il livello delle capacità naturali che l'individuo ha
per natura specifica o per natura individuale e richiedono che le facoltà opera
tive dell'individuo siano potenziate ed elevate per essere in grado di produrre
simili intenzioni e di ragionare a loro servizio.
In questa prospettiva il problema della genesi della virtù diventa molto più
difficile da risolvere. Infatti, secondo la tripartizione sopra esposta l'individuo
è naturalmente in grado di compiere le azioni giuste per il motivo giusto e
basta ch'egli ripeta azioni simili, pienamente caratteristiche della virtù, per ac
quisire la disposizione stabile e ferma a produrle e per esibire la virtù. Qui la
virtù introduce solo fermezza e stabilità in azioni che erano pienamente carat
teristiche della virtù anche prima che la virtù sorgesse.
Invece nel ragguaglio che sto dando la virtù introduce un salto di qualità
nel modo di agire: fa problema proprio il primo atto che esibisce la virtù. Bi
sognerà studiare le condizioni che lo rendono possibile, condizioni interiori ed
esteriori all'individuo; per intanto basti osservare che, qualora tali condizioni
felicemente si realizzino, quando l'individuo compie il primo atto pienamente
caratteristico della virtù, egli è giunto ad avere la preparazione necessaria ed in·
tale atto egli esibisce già la virtù.
A differenza delle azioni previrtuose, le azioni che esibiscono la virtù go
dono di una stabilità intrinseca, nel senso che, pur nella loro varietà dipen
dente dalle circostanze, esse sono scelte dall'individuo come mediazioni con
crete degli scopi virtuosi cui egli intende; ora l'inclinazione agli scopi virtuosi,
introdotta dalle virtù morali e regolata dalla saggezza pratica, non può dare ori
gine ad azioni moralmente sbagliate, salvo errori involontari. Tuttavia tali
azioni possono avere un'instabilità o precarietà estrinseca, in quanto la virtù,
già acquisita, può non essere ancora radicata nelle facoltà operative.
Ciò che si acquisisce ripetendo azioni pienamente caratteristiche della virtù
non è la virtù stessa, bensì la sua crescita, il suo radicamento nelle facoltà ope
rative. Questo radicamento produce una fermezza ed una stabilità che po
tremmo chiamare estrinseca, in quanto riguarda non il rapporto, intrinseco alla
virtù, tra retta intenzione e retta scelta, bensì il rapporto tra la virtù e la facoltà
operativa in cui essa ha sede e ch'essa perfeziona.
(6) In seguito a queste spiegazioni occorre correggere nel modo seguente la
tripartizione delle azioni moralmente buone:
a) azioni caratteristiche o tipiche d'una virtù: le azioni del convenzionale,
del continente, del docile;
b) azioni pienamente caratteristiche della virtù e che esibiscono la virtù, in
quanto compiute nel modo giusto, intrinsecamente stabile, che solo la virtù fa
possibile;
260 Capitolo VII
c) azioni che esibiscono la virtù radicata, in quanto son compiute con fer
mezza, facilità, piacevolezza, stabilità estrinseca.7
Nella spiegazione qui proposta diventa particolarmente urgente studiare le
condizioni che consentono la genesi delle virtù. Esamineremo dapprima le con
dizioni interiori al soggetto agente e poi le condizioni a lui esteriori.
7 La tripartizione delle azioni moralmente buone che qui propongo s'attiene al modo con
cui Tommaso interpreta il testo aristotelico citato sopra alla n. 4: «Et ideo dicit quod ad hoc quod
aliqua fiant iuste ve! temperate non sufficit quod opera quae fiunt, bene se habeant, sed requiritur
quod operans debito modo operetur. In quo quidem modo tria dicit esse attendenda. Quorum pri
mum pertinet ad intellectum sive ad rationem, ut scilicet ille qui facit opus virtutis non operetur
ex ignorantia ve! a casu, sed sciat quid faciat. Secundo accipitur ex parte virtutis appetitivae, in
quo duo attenduntur; quorum primum est ut non operetur ex passione, puta cum quis facit ex ti
more aliquod opus virtutis, sed operetur ex electione; aliud autem est ut electio operis virtuosi non
sit propter aliquid aliud, sicut cum quis operatur opus virtutis propter lucrum ve! propter inanem
gloriam, sed sit propter hoc, id est propter ipsum opus virtutis quod secundum se placet ei qui habet
habitum virtutis tamquam ei conveniens. Tertium autem accipitur secundum rationem habitus, ut
scilicet aliquis firme, id est constanter, quantum ad se ipsum, et immobiliter, id est a nullo exte
riori ab hoc removeatur quin habeat electionem virtuosam et operetur secundum eam» (Sententia
Libri Ethicorum II, 4 = Ed. leonina XLVII, 87, 54-75).
L'espressione che ho messo in corsivo dimostra che per Tommaso gli atti pienamente caratte
ristici della virtù esibiscono già la virtù. Qui Tommaso interpreta il testo aristotelico secondo la teo
ria della virtù da lui elaborata nella II Pars. In I-II, 100, 9c, rifacendosi allo stesso testo aristote
lico, esprime meglio ciò che qui s'intende con l'espressione secundum rationem habitus: la fer
mezza e la stabilità procedono non tanto dall'habitus, quanto più precisamente ex habitu radicato:
«Et ista firmitas proprie pertinet ad habitum, ut scilicet aliquis ex habitu radicato operetur». Per
l'interpretazione di questo testo cf. Lex et virtus 246.
La pratica delle virtù 261
condo l'ordine della ragion pratica non è un'inclinazione necessitante come ab
biamo visto che è la volontà naturale della felicità intesa in senso inclusivo e
formale; è invece un'inclina·zione che è naturalmente a disposizione della vo
lontà, ma che non diventa effettiva se non è liberamente ratificata e assunta
nelle intenzioni e nelle scelte. Ciò è dovuto al fatto che rispetto all'oggetto natu
rale e necessario della volontà (cioè la felicità intesa in senso inclusivo e for
male) l'ideale della vera felicità e della vita veramente buona costituisce già una
determinazione più particolare e più concreta, benché ancor solo generica ri
spetto alle direttive della prudenza; pertanto esso non è necessariamente vo
luto, ma può esser voluto solo in forza d'un processo di libera autodetermina
zione da parte del soggetto.
Lo stesso deve dirsi per particolari inclinazioni verso qualche scopo vir
tuoso che l'individuo possedesse grazie alla natura individuale. Anch'esse han
bisogno di esser educate dalla prudenza per adattarsi a ciò che è moralmente
richiesto nelle diverse situazioni, anch'esse sono inclinazioni che non diventano
effettive nella condotta volontaria se non sono liberamente assunte dalla vo
lontà.
(1 O) Da queste considerazioni segue che l'inclinazione naturale a vivere se
condo l'ordine della ragione e le inclinazioni della natura individuale verso
l'uno o l'altro degli scopi virtuosi non sono ancora habitus virtuosi, ma sempli
cemente incoazioni di virtù; tuttavia sono esse che fanno possibile la genesi
delle virtù, in quanto abbozzano inclinazioni che possono diventare effettive
qualora il soggetto le assecondi nel processo di gestazione delle scelte buone.
Durante questo processo le inclinazioni naturali non solo vengono assunte,
ma ricevoQo anche specificazioni, determinazioni, modificazioni da parte della
ragion pratica. A ciò esse sono idonee in virtù d'un' originaria e naturale dipen
denza degli appetiti da valutazioni della ragione. La volontà è originariamente
dipendente dalle valutazioni della ragione naturale; gli appetiti passionali sono
originariamente dipendenti .da valutazioni spontanee della ragione, non nella
sua funzione specificamente umana e morale, ma in quanto ragiona a servizio
dei bisogni dell'uomo come corpo animato. Intervenendo su queste valuta
zioni naturali e spontanee la ragione, nella sua funzione specificamente mo
rale, può modificarle e accordarle ai propri principi morali. Per questa via essa
può educare le passioni ad essere sensibili ai beni morali, a partecipare affetti
vamente alle azioni richie&te dalla regola morale.8
(1 1 ) 4) Grazie all'influsso di questi germi naturali di virtù, qualora interven
gano anche le condizioni esteriori di cui diremo più avanti, il soggetto è capace
8 Tutto lo studio di DENT sulla psicologia morale delle virtù è basato su questa concezione
delle passioni come dipendenti dalle valutazioni e sulla possibilità da parte della retta ragione d'in
tervenire su di esse per modificarle e adeguarle ad una concezione della vita veramente buona.
Per questo verso il libro di Dent fornisce un completamento alla teoria della virtù qui esposta, in
quanto analizza in che modo awengono le scelte virtuose.
La pratica delle virtù 263
( 1 2) Rispetto alle motivazioni della vita previrtuosa l'adesione agli scopi vir
tuosi rappresenta un salto di qualità. Esso è possibile qualora intervengano pa
recchie condizioni: l'influsso di passioni disordinate dev'esser stato mitigato da
una forte disciplina imposta dagli educatori, che dia origine ad abitudini a com
portarsi in modo ordinato, anche se non vi è ancora la capacità di essere au
tori di condotta. D'altra parte però occorre che l'attenzione del soggetto sia
stata focalizzata sempre più sugli ideali virtuosi grazie all'istruzione morale e al
!' esortazione morale e grazie ad esempi concreti di condotta virtuosa. L'in
flusso congiunto di questi fattori contribuisce a che il soggetto arrivi a scoprire
che vi sono ideali virtuosi, a chiarificare in che cosa essi consistano, a far perce
pire ed apprezzare la loro desiderabilità, il loro valore di bontà. Aiutato dall'in
segnamento morale e dall'esortazione il soggetto impara a riflettere sulle pro
prie ragioni per agire, a discernere quelle che sono estranee al valore morale, a
orientarsi sugli ideali virtuosi.
In questo modo i germi naturali di virtù possono svilupparsi in esplicite in
clinazioni virtuose, in virtù vere e proprie, la cui prima espressione è la scelta
d'un ideale o scopo virtuoso.
Questa prima espressione della virtù può esser chiamata scelta in un senso
ancora limitato, in quanto cioè è frutto d'una libera autodeterminazione della
volontà naturale di felicità. Tuttavia non è ancora una· scelta compiuta, finita,
dettagliata e circostanziata; è ancor solo un preparativo per le scelte vere e pro
prie, in quanto delimita il campo entro il quale il soggetto intende fare le sue
scelte e fornisce alle scelte compiute la loro ragione. Perciò preferisco denomi
nare questo atto adesione agli scopi virtuosi (per indicare che è atto libero), op
pure proposito o impegno virtuoso, corrispondente all'inglese commitment (per
indicare che tale atto definisce la direzione in cui il soggetto intende prose
guire), oppure ancora intenzione virtuosa (per indicare che fornisce la ragione
per scegliere e per agire).
( 1 3) L'intenzione virtuosa va all'azione definita in modo ancor solo gene-
264 Capitolo VII
(1 6) Con la formazione della prudenza, che assegna alle virtù morali il giu
sto mezzo per la concretizzazione delle intenzioni virtuose in scelte ed in
azioni, anche le virtù morali giungono alla loro perfetta formazione. Il ripetuto
esercizio di scelte che concretizzano le intenzioni virtuose contribuisce a radi
care sempre più le virtù formate nelle facoltà operative, in modo che queste ri
sultano sempre più determinate verso la condotta virtuosa, diminuisce la loro
indeterminatezza ed eventualmente la resistenza opposta all'ordine della ra
gione. Crescendo e radicandosi le virtù apportano facilità all'azione virtuosa,
fermezza e piacevolezza.
Ma le virtù possono crescere solo con il costante esercizio. Qualora il sog
getto cessi di esercitarle, a poco a poco riprendono vigore le passioni disordi
nate e le inclinazioni individuali; alla prudenza vengono meno i principi parti
colari, che sono le intenzioni virtuose, e le scelte risultano sempre più viziate.
Ora la cessazione dell'esercizio delle virtù può esser volontaria, quando il
soggetto sceglie senza far uso delle virtù, oppure involontaria, quando il depe
rimento organico e psichico, causato dalla vecchiaia o dalla malattia, rende pre
caria la vigilanza della ragione.
L'esistenza e l'esercizio delle virtù sono pertanto sempre precari in un sog
getto umano: diminuendo o cessando la vigilanza della ragione prudenziale di
minuisce il coordinamento delle facoltà operative, riprende l'anarchia. Essendo
un habitus, la virtù sarà sempre perfezione aggiunta alle facoltà operative, e
perfezione che può esser aggiunta solo se intervengono, per sorte felice, circo
stanze esteriori favorevoli alla sua genesi e alla sua conservazione.
1 . L'educazione morale
dividui e di gruppi, affinché diventino possibili sia questa libertà, sia una paci
fica convivenza, sia un assetto sociale giusto. L'etica è così ridotta a regole e do
veri di giustizia in una società di individui e di gruppi che sono liberi di muo
versi come loro aggrada nello spazio loro assegnato.
Le critiche mosse ad Hauerwas e a Maclntyre vanno per lo più in questa
direzione: si rileva che l'ethos liberale e democratico è un'acquisizione irrinun
ciabile per una società pluralista e che pertanto è utopico pensare ad una rivi
viscenza delle virtù, le quali poterono esser coltivate in società più omogenee.
In queste società era possibile che la legge mirasse alla formazione delle virtù;
in una società pluralista e democratica la legge deve abbandonare questo com
pito e limitarsi a garantire le condizioni d'una libera, pacifica, giusta convi
venza.
( 1 9) Il problema sorge dal fatto che entrambe le opposte istanze sono giu
stificate. Con Hauerwas, con Maclntyre e con parecchi altri, sulla scia di Ari
stotele e di Tommaso d'Aquino, tutto questo studio si è mosso nella direzione
d'una teoria etica massimale; in essa si sostiene un ideale di perfezione e di com
pimento umano che richiede la formazione di virtù in comunità fortemente
omogenee. D'altra parte è insuperabile il pluralismo delle concezioni di vita e
pertanto è irrinunciabile lethos liberale e democratico.
Mi sembra che una via di soluzione al problema potrebbe trovarsi in que
sta direzione: è un errore ridurre tutta la morale all'ethos liberale e democra
tico, abbandonando l'ideale della perfezione umana. D'altra parte proprio l'e
tica della perfezione umana applicata ad una società pluralista richiede lethos
liberale e democratico, giacché per natura sua la perfezione umana o consiste
in attuazioni eccellenti che sono libere o non esiste affatto. Non è il caso allora
di opporre un'etica della perfezione, della virtù, della comunità a un'etica libe
rale e democratica. È il caso invece di affermare che l'etica della perfezione
umana si applica diversamente all'interno delle comunità e all'interno della so
cietà politica. Converrà distinguere nell'unica etica della perfezione umana l'e
tica comunitaria e l'etica pubblica o politica. Le comunità e la società politica
hanno funzione diversa, ma sempre necessaria, nella realizzazione della perfe
zione umana; altri sono i doveri della vita privata e comunitaria, altri sono i do
veri della vita pubblica e politica, ma né la vita politica è indipendente dalla
morale, né la morale si riduce alla morale pubblica e politica.
Sviluppo questa linea di soluzione con alcune considerazioni sulla funzione
delle comunità e della società politica in ordine alla formazione delle virtù e
alla vita virtuosa.
u Per un approfondito studio del ruolo dei diversi membri della famiglia nell'educazione
morale cf. Nel NODDINGS, Caring. A Feminine Approach to Ethics cmd Mora! Education. Berkeley -
Los Angeles - London 1984; Stephan E. MùLLER, Personal-soziale Ent/altung des Gewissens im ]u
gendalter. Eine moralanthropologische Studie, Mainz 1984.
270 Capitolo VII
realizza affatto. Libero qui significa che le scelte sono fatte in base ad una cono
scenza morale il cui criterio è esclusivamente la verità pratica. Proprio perché
la vita buona richiede l'indipendenza del giudizio da ogni altro criterio che non
sia la verità, è inevitabile il pluralismo delle concezioni della vita buona, delle
concezioni sapienziali del mondo, delle tradizioni, e quindi il pluralismo delle
comunità.
Lo stesso ideale di vita buona che richiede la libertà di vita in una comu
nità, richiede anche la libertà delle diverse comunità e la possibilità del libero e
critico confronto tra di esse. Mediante questo confronto ogni comunità ha la
possibilità d'interpretare criticamente la propria tradizione, di rinnovarla, di
correggerla, di adeguarla a nuove situazioni.
Garantire la libera, giusta, pacifica convivenza delle diverse comunità è uno
dei compiti propri della società politica. Lo strumento giuridico con cui essa in
terviene non ha la possibilità di curare una completa educazione alle virtù.
Questo resta compito delle comunità e delle famiglie. Ma la società politica
deve procurare che questa possibilità ci sia. A tal fine essa interviene con la
legge soprattutto nel campo della giustizia; essa sanziona le più gravi violazioni
della libertà e della giustizia, che comprometterebbero l'esistenza stessa della
società civile e delle comunità. La legge della società politica non ha modo di
educare pienamente alle virtù, ma garantisce l'ordinata convivenza di persone
e di comunità, che è indispensabile all'educazione morale. 12
L'insuperabile pluralismo delle concezioni di vita e delle comunità fa sì che
non si possa più sostenere senza qualifiche la tesi aristotelica che la legge mira
alla formazione delle virtù, almeno la legge della società politica. Tuttavia la
legge non è estranea alle virtù, giacché garantisce le condizioni indispensabili
per la vita delle diverse comunità di virtù.
(22) Con tutto ciò le condizioni esterne per la formazione delle virtù sono
solo limitatamente efficaci, e la loro effettiva presenza rientra in quell' eutychia
che costituisce una categoria fondamentale della felicità in senso inclusivo.13
Ma al di là dell'eutychia la formazione delle virtù dipende dall'insondabile
mistero della collaborazione tra eudokia divina ed eupraxia umana, mistero su
cui la filosofia non può dire alcunché, se non quello che consente di dire la ri
velazione stessa della grazia divina. Ma proseguire il discorso su questa linea
non è più compito della filosofia cristiana, quale vogliamo esercitare in questa
sede, bensì della teologia d�gmatica.
12
Per un'ampia argomentazione che, criticando Maclntyre, mostra che l'etica richiede sia le
virtù sia lethos liberale della società politica cf. C.E. LARMORE, Patterns o/Mora! Complexity, Cam
bridge 1987, 22-130.
13 V. sopra I 26a.
CONCLUSIONE
diverse, questo processo coinvolge ragione, volontà, passioni, in modo tale che
la concezione della ragione dà la direzione agli appetiti e gli appetiti seguono
la concezione della ragione dal generico al particolare, mirano cioè ad azioni
che la ragione prospetta inizialmente in modo solo generico e poi procede a de
terminare in modo circostanziato.
/) La concezione generica dell'ideale di perfezione si articola in diverse ri
chieste, cioè in diversi modi con cui volontà e passioni devono esser regolate
perché i loro moti siano conformi al principio del compimento umano inte
grale e della perfezione in Dio. Queste richieste sono formulabili in proposi
zioni pratiche del tipo delle massime, che definiscono altrettanti ideali o scopi
virtuosi ai quali vanno inizialmente corrispondenti inclinazioni degli appetiti,
cioè le virtù morali.
g) La concretizzazione degli scopi virtuosi in scelte ed azioni circostanziate
avviene mediante l'esercizio d'un ragionamento pratico che non è possibile
senza un apposito perfezionamento della ragion pratica, che la rende idonea a
ragionare alle dipendenze delle inclinazioni verso gli scopi virtuosi per cercare
le. vie della loro concretizzazione; è la prudenza o saggezza pratica.
h) In un soggetto come quello umano, segnato dai limiti dell'individua
zione, né le virtù morali né la prudenza sono capacità naturali, ma costitui
scono perfezionamenti delle facoltà operative che il soggetto deve acquisire me
diante l'esercizio.
t) Nel processo di concretizzazione verso scelte corrette la prudenza fa uso
di norme, qualora ve ne siano o siano possibili; ma le applica con intelligenza e
con giudizio. In quest'operazione essa è guidata dalle intenzioni verso gli scopi
virtuosi, fornite dalle virtù morali, ma a sua volta prescrive alle virtù morali il
giusto mezzo secondo cui le intenzioni devono esser realizzate in azioni.
!) Grazie alle virtù mora1i e alla prudenza il soggetto umano è reso idoneo
a compiere scelte eccellenti, cioè scelte che concretizzano ed esemplificano l'i
deale della vita buona in modo appropriato alle circostanze; in questo modo
egli realizza la componente eudemonica esistenziale della vera felicità, e si
rende idoneo a vivere, e degno di vivere, in un mondo che, per governo di
vino, realizzi effettivamente tutta la vera felicità.
dazione dell'etica sia quanto alla fondazione dei giudizi morali. 1 L'etica non è
fondata né su un benessere dell'uomo che prescinda da un intervento norma
tivo della ragion pratica che distingue vere e false forme di benessere; né su
principi normativi della ragion pratica che prescindano dai beni per l'uomo. Il
principio fondatore è un ideale di vera felicità, nel quale i beni per l'uomo
sono ordinati normativamente dalla ragion pratica sulla base del criterio della
perfezione umana.
A loro volta i giudizi morali concreti non sono fondati né su una valuta
zione comparativa di beni e mali ontici, provocati dalle conseguenze dell'a
zione; né su norme che siano sempre e solo assolute. Essi invece sono fondati
su u,n ragionamento prudenziale che osserva le norme assolute, quando ci
sono, e applica con intelligenza e giudizio le norme non assolute; in ogni caso
valuta l'azione non solo in base alle sue conseguenze, bensì anche in base al
suo intento; e valuta intento e conseguenze non dal punto di vista del bene an
tico maggiore o del male antico minore, bensì dal punto di vista dell'incidenza
ch'esse hanno sull'atteggiamento della volontà verso il compimento umano inte
grale e la perfezione in Dio.
b) Nemmeno, questa figura di etica, affida la condotta umana esclusiva
mente alla creatività della ragione umana autonoma, e resa autonoma proprio
da Dio. Invece essa affida la condotta umana ad una ragione pratica che ha
una sua propria natura costituita da Dio creatore e grazie alla quale essa parte
cipa alla legge eterna in modo da poter essere essa stessa legislatrice sulla base
di questa sua natura. Tale natura consiste nella capacità di apprendere e valu
tare come beni per l'uomo i fini delle inclinazioni naturali dell'uomo, trasfor
marli da fini propri in fini dovuti, e dovuti nella misura in cui integrano ordina
tamente un ideale di perfezione integrale dell'uomo in Dio. È precisamente
verso questo ideale che sono dirette le virtù, e dirette in modo da realizzarlo
così come la prudenza lo definisce concretamente nelle diverse situazioni.2
e) La figura di etica qui tracciata supera il riduzionismo, tipico delle etiche
filosofiche e teologiche moderne, che riduce il problema morale ad una dialet
tica tra decisioni e norme, tra decisioni e doveri. Essa ritrova il posto della de
cisione nella più complessa condotta umaria, nella quale operano congiunta
mente ragione, volontà, passioni; ritrova anche il posto necessario e limitato
delle norme, quali proposizioni pratiche che specificano nei limiti del possibile
gl'ideali virtuosi. Essa inoltre non elimina il dovere a favore d'una spontaneità
che sopprime le scelte, né riduce il dovere ai doveri di altruismo o di giustizia;
invece riconosce la doverosità propria dell'ideale di perfezione e delle sue arti
colazioni in tutti gl'ideali virtuosi.
' Cf. i lavori di Abraham J. MALHERBE, Mora! Exhortation. A Greco-Roman Sourcebook, Phi
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INDICE DEGLI AUTORI
Le cifre romane rimandano ai capitoli, le cifre arabiche in tondo ai paragrafi, quelle in neretto
ai paragrafi di trattazione più diffusa o più importante, quelle in corsivo alle note del rispettivo ca
pitolo.
Habermas ]. I 9 Laird ]. II 2
Haller B. II 5, 28 Langan J. I 5
Hallett G .L. II 44 Larmore C E. VI 27, 35; VII 12
.
Si menzionano solo quelle nozioni o quei luoghi che non possono essere reperiti attraverso
l'indice generale. Le cifre romane rimandano ai capitoli, le cifre arabiche in tondo ai paragrafi,
quelle in neretto ai paragrafi di trattazione più diffusa o più importante, quelle in corsivo alle note
del rispettivo capitolo.
Abitudine III 3, 7; IV 18, 25 Carattere II 13-15, 17, 25, 28, 47; III 2 ; IV
Amicizia V 49, 64; VII 20; Concl. 2d 22; V 39; VI 1 1
Amore: vero I 56, 59, 64-72; V 16, 49 tratto d i - II 56
per Dio I 70 Carità V 42
Analogia delle nozioni di virtù VI 3 1, 32; VII Circostanze IV 24; V 47-48, 55 ; VI 32
15 Comando IV 7, 14, 20-2 1 ; V 2 1, 25; VI 43
Applicazione III 24; IV 15; V 43g; VI 32 Commitment VII 12
Atteggiamento III 3, 7, 17, 27 Compimento umano integrale I 52, 54; IV 2 ,
Attitudine (da actitudo): v. Atteggiamento 4; V 4, 10, 11, 12- 15, 3 9 , 60-62; VII 8
Attitudine (da aptitudo) III 3 ; IV 25; V 35 Comunità I 56; II 15- 16, 18, 58, 63; V 49, 61,
Attuazione: volitiva od esistenziale I 20, 64; VI 4; VII 2, 18- 19, 2 1 ; Conci. 2d
48-49, 53, 64, 68 Condotta: Introd. ; I 18, 20, 22, 32-33, 35, 55 ;
esecutiva od esperienziale I 20, 53 II 22, 23, 28, 38; III 26-27; IV 4, 12; V 1 -
eccellente I 52, 54, 57, 59, 60-61, 64, 68; IV 2, 28, 33; VI 1
24; V 38, 53 ; VI 45 Conflitto morale II 57, 59; V 9-10, 65; VI 45
Autodeterminazione V 56; VI 5 Connaturalità VI 10, 41-42
Autorealizzazione V 49 Conoscenza morale VI 2, 12- 14, 18- 19, 22,
Autorità VII 20 34
Azione: concentrazione sull'- I 19 Consequenzialismo I 16, 49
concezione comprensiva dell' - I 20 Convenienza III 22, 24; IV 13- 14, 20; V 3 1,
analisi dell' - I 2 1 -22 47; VI 41-42
Corrispondenza tra soggetto e mondo I 17,
Beatitudine I 42, 7 1 ; I 108 19
Bene: nozione di - I 2 1 , 36; V 7, 12, 16 Coscienza VI 37-39, 42
attraente V 22-23, 30, 56; V 42 Coscienziosità II 13, 18
basilare I 53-54; II 42, 44; IV 2; V 3-4, 12, Costrizione V 26-27, 30, 59; V 42
2 1, 62
della persona umana I 16, 52 Debito legale V 1 9
sostanziale I 16, 2 1 -22, 27, 36, 46, 48, 55, Decisione: v . Opzione
57-59, 64-65 ; V 3; VI 7 Deficienze III 4, 8; IV 3, 5, 24
operabile I 16, 2 1-22, 36, 46, 48, 53, 55, 58- Deliberazione I 33-34, 53 ; IV 8
59; IV 2 ; V 3-4, 2 1 Destrezze III 4; IV 3, 5; V 63
esistenziale I 20, 22, 48, 53-55, 64-65; V 3 Determinazione delle potenzialità o delle facol-
esperienziale I 20, 22, 53-55, 64-65; V 3 tà III 3, 7; IV 12; V 34-35
intelligibile I 2 1 Dio: autore di rivelazione I 14, 64
perfetto I 36 come bene per l'uomo I 54-56, 58, 65; V
Bonum: delectabile I 57 12
honestum I 59; V 23, 30, 56, 60; V 42; VI eudokia di Dio I 29, 52, 55, 64-65
5, 25 creatore I 64-67, 72
292 Indice analitico
Legge I 1 1, 15- 16, 4 1 ; II 16, 18, . 26, 63 ; V 25- Pratica II 16, 26, 58; III 28; V 4
26; VII 18, 2 1 ; Concl. 3 Precetto IV 14
eterna I 65, 67; V 26 Progetto di vita V 5 1
naturale V 26 Proporzionalismo I 18; V 60
Letteratura I 7, 12, 32, 48; III 2 ; V 50; VI 35; Proposizioni prescrittive III 3, 5; IV 6, 15; VI
VII 2, 17 13, 23, 30, 33
Libertà d'indifferenza I 16, 34; II 20; IV 8; V Prudenza I 23, 50; V 45a, 47; VI 2, 20-21, 36-
22 38, 42-43, 45 ; VII 8-9, 13; v. anche Sag
Linguaggio morale III 1 ; VI 3 1 gezza pratica
Massima III 5-7, IV 6 ; V 47, 50, 60-63; VI 13, Ragion pratica 1 30, 40, 43-45, 46-50, 54; 11 27-
23-24, 27-29, 3 1 -32 28, 55, 59, 61, 63 ; III 1 ; V 7; V 32,
Mediazione dello scopo IV 9 - 1 1 34-35 ; VI 5, 7; VII 8
Medium rei, rationis V 45, 4 7 ; V I 24 esercizio diretto e riflesso della - III 2 1,
Modi di responsabilità V 42 24; V 2 1 ; VI 12, 38
Moralità· punto di vista morale I 47-48, 54; II in universali III 22, 23 ; V 29-30; VI 6, 33-
35; In 8-9; IV 4; V 4, 6, 1 1 34, 38-39, 46; VI 58; VII 1 , 15
perché esser.� morali? I 16, 34, 72; II 2 1, in particulari III 22-24, 25-26; IV 6, 13- 15,
63 ; II 5 1 19; V 16, 29, 3 1 , 33, 47-48, 53, 58; VI
Motivazione V 48 33-34, 38, 39-40, 42-43, 45-46; VII 1, 15
Ragione retta II 56, 60; V 16, 35
Narrativa II 15, 48, 58-59; II 13, 47; III 2; V Ragione per agire I 33; Il 10- 1 1 ; V 2
8, 6 1 ; VI 29, 3 1 Ratio virtutis VI 13, 22-23
Natura umana specifica I 62; V 35, 38 Razionalità pratica V 7, 12, 16, 22, 33; VI 15-
individuale I 62; 35 16
Norma I 15- 16, 30, 48, 60; II 26, 42, 57, 6 1 ; Regola morale I 54-55, 57, 62, 65, 67; III 26-
III 22, 2 4 ; IV 8; V 48, 5 0 ; VI 1-2 27; IV 14; V 25-26, 28; VI 1
circostanziata II 47; VI 3 7-39 Regolazione razionale V 33, 39, 41, 44-45
modi di - V 42, 44; VI 26
Obbligazione I 15, 4 1 ; II 19, 32, 34, 39; V 30, Regole II 16, 50-54; III 15-16; V 43 ; VI 13,
59; V 42 16
Opzione (decisione) per la moralità I 16, 34; Ritratto VI 29-30
II 26, 36, 44; III 1 1, 13, 17; IV 8 ; V 58 Rules o/ thumb VI 16, 23
fondamentale I 76; II 20; IV 16, 23; VII
13; Conci. 2c Sàggezza pratica I 49, 63; II 56; III 24, 26; IV
Ordine V 4-7, 12 6, 20-2 1 ; V 5 1 , 53 ; VI 26
intenzionale I 48-49, V 12, 13-14 Salute mentale I 57
Organismo virtuoso V 39 « Salvare le apparenze» I 7 ; II 62, 64; III 1 ,
10
Pace universale I 56, 68 Scelta I 33-34, 53 ; II 43
Parabola VI 29, 3 1 ; Concl. 3 gestazione della - II 23 ; II 48; IV 14; V 32,
Parenesi neotestamentaria: Concl. 3 47-48
Passioni I 33, 36; II 25, 45; III 3, 7-8, 23 ; IV Scopo IV 9, 19-20
14, 19; V 15, 32-35, 44-45, 47, 64; VII 9- virtuoso Il 45 ; III 7; IV 18, 20; V 30, 50,
10 53, 62 ; VI 29, 32; VII 8- 10, 13, 15
Perfezione I 36, 52, 54, 56; V 12, 13- 14, 49, libera adesione allo scopo virtuoso VII 1 1 -
60-62 ; Concl. 2d 12
Phronesis I 50; III 20; III 27; IV 20; VI 2, 17, Senso della vita I 64, 67-68, 72 ; II 2 1, 55
19 Sinderesi IV 19
Phronimos VI 32 Situazione pratica originaria I 17, 19, 22-23,
Piacere I 5 7 25; V 3; VI 7
Piano d i vita V 5 1 Società politica I 56
Praeceptum V 2 1 Sofferenza I 7 1 ; VII 19
Prassi I 55; V 3-4, 15, 50, 53 Soggetto agente Il 15, 19, 37, 41, 59; III
294 Indice analitico
.•
Sommario .............................................................................................................. 5
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . 7
Capitolo I: Felicità e virtù nella filosofia pratica della condotta umana ...... . 12
I . Ragioni per riconsiderare il problema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. 12
1. Rinnovata attenzione a l tema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . .. 12
2. Nuovi apporti grazie a nuove distinzioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. 14
1) Complessità semantica e concettuale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14
2) Felicità edonica e felicità eudemonica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15
3) Fine dominante e fine inclusivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16
4) Felicità come ideale astratto e corso d i vita dell'individuo . . . . . . . . . . . 17
3. Alcune recenti posizioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18
4. Intenzione e limiti di questo saggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20
II. Premesse per una riconsiderazione del problema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. 22
1. Un problema di filosofia cristiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . .. . . . .. . . . . . . . . . . . .. .. 23
2. La filosofia morale come filosofia pratica della condotta umana . . . . . . . . . . 25
III. Verso una rinnovata concezione del rapporto tra virtù e felicità . . . . . . . . .. 32
1. Una concezione inclusiva della felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32
2. La felicità come fine ultimo naturalmente e necessariamente voluto dal-
l'uomo . . . . . . . . . ... . . ... . . . . ... . . ... . . . . . . ... . . . . . . . . . . . . . . ... .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 38
3. Senso della distinzione tra vera e falsa felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43
4. Criteri per la determinazione della vera felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 50
5. La vera felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53
1) Una figura umana di felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. 54
2) Felicità agatologica, eudemonica, edonica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. 59
3) Fine inclusivo e fine dominante . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . : ........................ 61
4) Fine e mezzi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63
5) Idea regolatrice e concretizzazione individuale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63
6. Necessità della virtù per la vera felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. 65
7. Come la virtù rende veramente felici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67
IV. Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 74
2. Breve rassegna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
.... . . . .. .. . . .... . .. . . . .. .. . . ... .. .. . 78
3. Prospettiva di questo studio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ..
. .. . .. . .. . . . .... .. . . . 84
II. I punti del dibattito .... .. .. . . . . .. . . .. .. . . . . .. . . .. . . . . .... . . . . . . . . .. .. .. . . .. .. . ... . . . . . .. . . .. .. . . .. .
. 87
1. Critiche all'etica m�derna per una teoria della virtù .. . . . . . . . . . . . . . . .. . ... .. . .. 87
I. 1) Critica al concetto di dovere morale .. . . . . . . . . . . .. . . . .. . . . . . . . . .. . .. . .... .... 87
2) Critica alla concentrazione sulle azioni giuste . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . 88
3) Denuncia del fallimento dell'etica moderna . . .. . . . . . .. .. . . ... .. . . . . . . . . .. .. . . 91
II. 1) Circa il concetto di dovere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
.. . . ... . . . . ... .. . 96
2) Il punto di vista del soggetto agente . . . ... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ,...... ..... . . .. . . .. 97
3) La questione della vita buona . . .... . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . ... . . . ... . . . . . . . . . . . .. . . . . . . 105
2. Risposta alle critiche, per un'integrazione del concetto di virtù nell'etica
moderna .............................................................................................. 107
1) L'etica richiede sia il dovere sia la virtù . .... . . ........... .......... . ........... 108
2) È principale il concetto di dovere o il concetto di virtù? . . . . . . . . . . . .. 111
3) Verso un'integrazione tra dovere e virtù . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. ... ... . . . .. .... 117
3. Teorie della virtù ... . .. .. .... .. .... .. . . .. .. .. .. . . .. .. . . ... . .. .... .. .. . . .. .. .. . . .... . . . . ...... .. .
.. 123
1) Le virtù come qualità sociali . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
... ..... . . .. .. 123
2) Le virtù come tratti di carattere . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. .. . . .. . 126
3) Le virtù come eccellenze nelle pratiche della vita buona . .... . . .. . .. .. 127
4) Vere e false virtù . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . .. . . . . . . .. . . 129
III. Verso una più adeguata teoria della virtù . . ... . .. . . . . .. .. . ... .. .... . . . . .. . ... . . . . .. .. . . 130
Capitolo l i i : Requisiti della teoria della virtù ... ....... ....... . .... . ............................. 133
I. Significato dei termini relativi ai tratti di carattere . .. .. . . .. .. . . ... .. . . . . .. . . .. .. . . 134
1. I termini relativi ai tratti di carattere significano qualità del soggetto in
quanto autore di comportamento . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
.. . . . . . . . 134
2. I termini relativi ai tratti di carattere comportano una valutazione. .. . . . 135
II. Significato dei termini relativi alle virtù e ai vizi . . . ........... .... ... .......... ..... 136
1. I termini di virtù significano capacità di prestazione del soggetto agente . 137
2. I termini di virtù comportano una valutazione morale.... ....... .. ... ...... . 139
1) In riferimento alla vita buona . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . .. . . . . . .. . .. . .. . .. . . ... . . . .. . . 139
2) In riferimento alla ragionevolezza pratica . . . . . . . . . . . . . ... . . . . . ... . .. ... . . . .. . . 139
3. Diverse nozioni di virtù . . . . . . . . . . . . . ... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . .. . . . . .. . . .. . . .. 140
III. Dall'esperienza morale alla teoria della virtù . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. .. . .. . .. . 144
Capitolo IV: Virtù e condotta . :................ ...... ............. ............ ... ... ... ......... ..........
. 151
I. Dalle pratiche alla condotta . . .... . . .. .. .. .. .... . . . . . ... . .. .. . . .. . . . . . . . . .. . . . . .. . . . . . . . .. .. . . .. . 151
1. Le pratiche . . . . : . . . .................................... ...... .................. ...... ...............
.. 151
2. La condotta ............... .. .. :. . ............... . ... ... ....... ........................ ..... . ..... . ... 153
II. Dinamica della condotta umana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 155
1. Azioni, scelte, intenzioni.. .. .. .. .... ....... .. .. ... ... ... .. ... . .... ... . ... ....... . 155
2. Dalle intenzioni alle scelte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . .. . . . . . . 159
III. Le virtù nella condotta umana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 162
Indice generale 297
Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . .. . .. . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . .. . . . . . . . . . . .. . .. . . .
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EDITRICE LAS - Piazza Ateneo Salesiano, 1 - 001 39 ROMA Tel. (06) P,f 1 2 1 4C
Adriano Alessi
METAFISICA
(Biblioteca di Scienze Religiose - 81 ) , pp. 338, L. 25.000
Dal SOMMARIO:
I ntroduzione
Conclusione
LEX ET VIRTUS
Studi sull'evoluzione della dottrina morale di san Tommaso d'Aquino
Dal SOMMARIO:
I ntroduzione
Conclusione generale
Per diverse ragioni il saggio costituisce una novità. Esso introduce per la prima volta nelle
pubblicazioni italiane di etica filosofica e teologica l'interesse per i temi della felicità e della
virtù, attorno ai quali da circa un trentennio è in corso un vivace dibattito presso moralisti
tedeschi e angloamericani. Parecchi filosofi e teologi ripropongono infatti i concetti di fe
licità e di virtù per ovviare agli inconvenienti riscontrabili nell'etica moderna, di matrice sia
utilitarista, sia kantiana, sia liberale.
In particolare l'Autore opera per la prima volta in Italia un approfondito confronto con la
proposta di Alasdair Maclntyre nel suo After Virtue di riprendere la tradizione aristotelica
delle virtù.
Inoltre discute il progetto di Stanley Hauerwas di centrare l'etica teologica sul concetto di
carattere formato in una comunità. Da parte sua introduce nel dibattito un interlocutore
che, pur essendo antico, è nuovo, in quanto o ignorato o scarsamente sfruttato:· Tommaso
d'Aquino. Egli mostra non solo che la morale della virtù elaborata da Tommaso dice qual
cosa di assolutamente originale rispetto alle teorie etiche antiche, moderne e odierne, ma
anche che il suo contributo, opportunamente sviluppato per rispondere ai nuovi problemi,
resta valido e attuale.
Delinea così un'etica della virtù che, riprendendo quella tomista, integra i concetti di ragion
pratica (sfruttando la recente teoria di G. Grisez e di J. Finnis), di vita buona, di felicità,
di dovere e analizza i complessi rapporti tra virtù e norme, virtù e giudizio pratico. Soprat
tutto spiega la funzione delle virtù nella buona condotta di agenti umani complessi e fragili.
Termina con alcuni spunti circa l'educazione alle virtù.
Il saggio è filosofico, ma ha rilevanza anche per la teologia morale e spirituale e per una
teoria dell'educazione morale.
Giuseppe Abbà, salesiano, nato nel 1943, è docente di filosofia morale presso la Facoltà di Filosofia
dell'Università Pontificia Salesiana. Ha pubblicato Lex et virtus. Studi sull'evoluzione della dottrina
morale di san Tommaso d'Aquino. Roma, LAS 1983.