Sei sulla pagina 1di 306

Felicità

vita buona
e virtù
Saggio di filosofia morale
BIBLIOTECA DI SCIENZE RELIGIOSE

83
GIUSEPPE ABBÀ

FELICITÀ
VITA BUONA E VIRTÙ
Saggio di filosofia morale

LAS - ROMA
Ai miei educatori e maestri

Anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite:
Siamo servi inutili, abbiamo fatto quanto dovevamo fare (Le 17,10)

Il tuo aiuto, Signore, ci renda sempre lieti nel tuo servizio,


perché solo nella dedizione a Te, fonte di ogni bene,
possiamo avere felicità piena e duratura (Messale Romano, XXXIII settimana)

Trascorro la mia vita come desidero, e cosl piaccia a Dio che i miei desideri
siano buoni (TOMMASO MoRO, Lettera del 1501 a fohn Holt)

La felicità? Quella farfalla che vola via appena stai per acchiapparla? ...
Però la vera felicità c'è anche su questa terra! (mia Madre)

14100

© Marzo 1989 by LAS - Libreria Ateneo Salesiano


Piazza dell'Ateneo Salesiano, 1 - 00139 ROMA
ISBN 88-2 13-0 183 -4

Fotocomposizione: LAS o Stampa: Tip. Giammarioli, Via E. Fermi 8-10 - Frascati


SOMMARIO

Introduzione . . . . . .. . . .. . . . . . . .. . .. . .. . .. . . . . . . . . . . . . . . . . .. ..... . . . .. . . . . . . ..... . .. . .. ... . . ... . . . . . . . . ... . . ... . . ... . . . . 7

Capitolo I: Felicità e virtù nella filosofia pratica della condotta umana . . . . . . . . . . . . . . . . 12


I. Ragioni per riconsiderare il problema ...... .. .... .. .. . .... .... .... ........ .... .. .... .. .. 12
II. Premesse per una riconsiderazione del problema . . .. .... .. ...... .. . . .. . . .. .. .. . .. 22
III. Verso una rinnovata concezione del rapporto tra virtù e felicità . . . . . . . . . . 32
IV. Conclusione . . . .. . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 74

Capitolo II: Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . 76


I. Novità d'un recente dibattito ...... . . ............................... ....................... ... 76
II. I punti del dibattito .. .. ...... .... .... .. ... .. . .. .. .. .. .. .. ........ .. .. .. .. .. .. .... ...... .. .. .. .. .. . 87
III. Verso una più adeguata teoria della virtù ..... ......................................... 130

Capitolo III: Requisiti della teoria della virtù . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 133


I. Significato dei termini relativi ai tratti di carattere . . .... ..... . . .. .... .. .. .. .. .... . 134
II. Significato dei termini relativi alle virtù e ai vizi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 136
III. Dall'esperienza morale alla teoria della virtù . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 144

Capitolo IV: Virtù e condotta . . .... .. .. .. .. .... .. . . ... .. .... .......... .. .. .. . . .. .. . . .... . . .. .. . . ....... .. . . . 151
I. Dalle pratiche alla condotta . . . . . . . . . . . . . . . :. . .. .. . . . ... ......... ........ ..... .. .. . . .. .. ..... . . 151
II. Dinamica della condotta umana
..... ... : . ..........:..... ....................... . ... ....... 155
III. Le virtù nella condotta umana ................ . .... ...... ..... ....... .... .............. ...... 162

Capitolo V: Virtù e vita buona . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .


. . 169
I. Concetto identico, concezioni diverse della vita buona ........... .............. 170
II. Il primo principio della moralità, criterio della vita veramente buona . 173
III. La vita veramente buona è doverosa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 180
IV. La regolazione richiesta dalla vita veramente buona ............................. 191
V. La regolazione secondo massime virtuose: gli scopi virtuosi .. .. .. ...... .... . 198
VI. La vita veramente buona come scopo da concretizzare ...... ........ . ......... 210
VII. Vita veramente buona e virtù . . . . .. .. .. ... ......... . . .. .. . .... .... .. .. .. .. . .. .. ... .... .. .. ... 213

Capitolo VI: Virtù e saggezza pratica . . .. .. .... ... .. .. .. .. .. .... .. . . . .. . ... .. .. .. . . .... .. .. .. . .... .. ... .. 226
I. Saggezza pratica e concezione sapienziale del mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. 227
6 Sommario

II. Saggezza pratica e norme .. ..... .... .. .. .. .. .. .... .. .. .. . .. .... .. .. .. .. .... .. .... ... .. .. .. .... .. 232
III. Saggezza pratica, giudizio e virtù.. .. .. .... .... ... .. .. .. .... .. ..... .... .. .... ... .... ... .. .. . 244

Capitolo VII: La pratica delle virtù ....................... ........... ........ ......................... 255
I. La vita morale previrtuosa .... .... .... .. .... .. .. ... ... . .... .. .. ... ... .. .. .. .. .. ..... .. .. ... .... 256
Il. L'acquisizione delle virtù ... ... ....... ... ... .. .... ... ........ .......... ......... ...... .. . ..... .. 260
III. Condizioni esterne per l'acquisizione delle virtù ................................... 266

Conclusione........................................................................................................... 271

Bibliografia .. .. . . ... . . .. .. ... ... . ... . . . ... .. . .. ... . .. . .. . ... . .. . .. . . . . . ... . .. .. . .... .. .. . . .. ... .. . ... . . . . .. . .. . . .. . . . . . 277
Indice degli Autori . . .. .. . .. . ... . . . ... .. . . . . .. . .. . .. . . . . . .. . .. . . .. .. .. .. . . .. .... .. . . . . .. ... .. . ... . . . . .. . ... . .. . . .. . 287
Indice analitico.......................................... ..... ...................................... .............. 291
Indice generale . .. . ... .. ... .... .. . ... . .. . . .. . . .. . .. . ... ... . .. . .. .. .. . . .. . .. . .. . ... . . . . .. . . ... .. . ... . .. . .. .... . .. . .. . . 295
INTRODUZIONE

La storia della teoria etica, sia filosofica sia teologica, non cessa di sorpren­
dere. Gli studi di S. Pinckaers, 1 per quanto solo in forma di sondaggi, met­
tono in luce la profonda trasformazione che ha subito la teologia morale, pas­
sando da una concezione centrata sulla felicità e sulla virtù, tipica di s. Tom­
maso d'Aquino, a una concezione centrata sulla legge, sulla còscienza, sull'ob­
bligazione, tipica della teologia morale postridentina. Negli anni posteriori al
Concilio Vaticano II lo scenario della teologia è quello tipico dei lavori in
corso; ma pur nella diversità di proposte, di metodi, di posizioni, la direzione
generale non sembra andare verso una riscoperta dei temi della felicità e della
virtù, salvo qualche proposta isolata.
Nell'etica filosofica il libro di A. Maclntyre2 ha costituito un evento negli
ultimi anni per le tesi ivi sostenute e per il dibattito suscitato. Per Maclntyre
l'etica filosofica, da quando, nell'epoca moderna, ha abbandonato i concetti
aristotelici di telos della vita umana e di virtù, è andata incontro ad un inevita­
bile naufragio, dal quale non potrà riprendersi se non rinnovando i concetti
aristotelici di vita buona e di virtù. Diversamente da quanto succede nella teolo­
gia morale, presso i filosofi morali è in ripresa da qualche decennio a questa
parte un interesse per la felicità e soprattutto per la virtù, che si confronta con
i concetti tipici dell'etica moderna: dovere, diritti, regole.
Ciò che può sembrare ancora più strano è che presso i filosofi morali la teo­
ria di gran lunga la più studiata, anche da parte di chi si rifà a I. Kant o a J.
Stuart Mili, è l'etica aristotelica, con i suoi concetti di vita buona, di virtù, di
saggezza pratica. Sono studi che frequentemente uniscono l'interesse esegetico
e storico a quello teoretico. Invece è rarissimo trovare, sia presso i filosofi sia
presso i teologi e per ragioni differenti3 - chi si rifaccia al pensiero etico
di Tommaso d'Aquino. In questo modo persiste un altro fenomeno strano
della storia del pensiero morale: l'opera che ha segnato la nascita della teologia
morale con una originale e grandiosa sintesi non è entrata nella storia del pen-

' Cf. Servais (Th.) PrNCKAERS, OP, Les sources de la morale chrétienne. Sa méthode, son con­
tenu, son histoire, Fribourg/Suisse - Paris 1985.
2 Alasdair MACINTYRE, After Virtue. A Study in Mora! Theory, Notre Dame/IN 198 1 .
' Presso i teologi il disinteresse è dovuto soprattutto alla frenesia d i cambiamenti interve­
nuta nel postconcilio; presso i filosofi è dovuto a un inveterato pregiudizio contro la filosofia dei
teologi medievali.
8 Introduzione

siero successivo con la sua originaria ispirazione. Soprattutto il suo concetto


principale, il concetto di virtù, non ha avuto influsso storico predominante
sulla teologia morale.
Eppure, come i filosofi morali trovano qualcosa di permanentemente valido
nell'etica aristotelica, così si può ritrovare qualcosa di perennemente valido,
oltre che di straordinaria originalità, nell'etica tomista. Qualche studio recente
lo dimostra. 4
Con il presente saggio intendo introdurre come interlocutore nel dibattito
filosofico e teologico odierno sui concetti fondamentali dell'etica appunto l'au­
tore della Secunda Pars della Summa Theologiae, e come interlocutore valido,
che ha qualcosa da dire per rispondere ai problemi oggi dibattuti. Perciò non
sarà questo uno studio di esegesi tomista, né un'introduzione alla lettura dei
testi o alla dottrina morale di Tommaso. Gli studi appena citati servono egre­
giamente a questo scopo, per il lettore interessato. In questo saggio pertanto
non starò ad appoggiare con dettagliate citazioni di testi tomisti le idee che
andrò sviluppando e che ad essi s'ispirano. Il conoscitore dei testi sarà da solo
in grado di riconoscerli sullo sfondo delle mie argomentazioni; per il non cono­
scitore un continuo rimando ad essi non servirebbe che ad appesantire l'esposi­
zione, ingarbugliando ancor di più il filo d'un'argomentazione che è già com­
plessa.
Intendo invece proporre un saggio di teoria etica che riprende da Tom­
maso, e più precisamente dalla II Pars, l'impostazione generale dello stesso pro­
blema etico e le idee e le tesi principali a riguardo della felicità, della dinamica
dell'atto umano, della ragion pratica, della natura e della funzione delle virtù.
Le riprendo per mostrarne la fondatezza e per dare con esse una risposta ai
problemi che sulla felicità, sulle virtù, sulla ragion pratica oggi sono dibattuti.
Ciò facendo il saggio dovrà anche sviluppare la teoria tomista in funzione dei
nuovi contributi che il dibattito è venuto fornendo o su punti in cui essa è
piuttosto reticente, dal momento che sono imposti da problematiche tipica­
mente moderne e contemporanee.
Ovviamente tutto ciò accade sotto la responsabilità dell'autore di questo
saggio, giacché qui si affrontano con idee tomiste problemi nuovi. Il saggio
può pertanto esser valutato sia dal punto di vista della sua coerenza con la dot­
trina tomista, sia dal punto di vista della validità e della pertinenza della teoria
ch'esso propone per rispondere ai nuovi problemi. Non dovrà invece esser va­
lutato come saggio d'interpretazione dei testi tomisti.

4 Cf. Theo G. BELMANS, O. Praem., Le sens objectif de l'agir humain. Pour relire la morale
conjugale de Saint Thomas, Città del Vaticano 1980; Giuseppe ABBA, Lex et virtus. Studi sull'evolu­
zione della dottrina morale di san Tommaso d'Aquino, Roma 1983 ; Martin RHONHEIMER, Natur als
Grundlage der Mora!. Die personale Struktur des Naturgesetzes bei Thomas van Aquin: eine Aus­
einandersetzung mit autonomer und teleologischer Ethzk, lnnsbruck - Wien 1987; Livio MELINA, La
conoscenza morale. Linee' di riflessione sul Commento di san Tommaso all'Etica Nicomachea, Roma
1987; Eberhard SCHOCKENHOFF, Bonum hominis. Die anthropologischen und theologischen Grund­
lagen der Tugendethik des Thomas van Aquin, Mainz 1987.
Introduzione 9

La teoria etica che in questo saggio vado delineando è, per dirla con un os­
simoro, una novità antica. Essa è nuova perché introduce nel dibattito odierno
idee e tesi che suonano nuove agl'interlocutori; è antica perché li riprende da
un teologo medievale, il quale a sua volta raccoglie in una sintesi originale l'ere­
dità d'una secolare tradizione di pensiero pagano e cristiano.
La proposta che faccio è di costruire l'etica come filosofia pratica della con­
dotta umana.
1) A differenza di varie figure di etica, filosofica e teologica, moderna, con­
centrate sulla determinazione e giustificazione di norme d'azione corretta, alle
quali deve moralmente attenersi il soggetto nelle sue decisioni, la filosofia pra­
tica della condotta umana considera le scelte non come semplici decisioni iso­
late, sorta di monadi psichiche nelle quali la libera volontà opta per un'alterna­
tiva; né come espressioni periferiche e categoriali d'un'opzione centrale, tra­
scendentale, fondamentale; ma come concretizzazioni diverse d'uno stesso
scopo ultimo; concretizzazioni delle quali il soggetto è autore in forza della sua
capacità di determinare liberamente in azioni concrete uno scopo generale, ul­
timo, che accomuna tutte le scelte e le costituisce in condotta: questo scopo è
la felicità, la vita buona.
2) La filosofia pratica della condotta umana pone come principio dell'or­
dine pratico la felicità, non nel senso ch'essa costituisce un criterio normativo,
ma nel senso ch'essa costituisce il principio che fa possibile l'ordine pratico e
fornisce il senso alle norme ed alla prassi.
3) Distinguendo tra vera e falsa felicità e identificando come componente
essenziale della vera felicità la vita vissuta secondo la regola della ragion pra­
tica, regola che è ispirata ad un ideale di perfezione umana, la filosofia pratica
della condotta umana richiede necessariamente un appropriato concetto di
virtù. Le virtù vengono richieste come potenziamenti delle facoltà operative
dalle quali emana la condotta, potenziamenti che le abilitano a perseguire gli
ideali della perfezione umana e a realizzarli in azioni saggiamente adattate alle
situazioni.
Questa figura di teoria etica come filosofia pratica della condotta umana
verrà sviluppata secondo il seguente piano.
Il capitolo I5 ha carattere programmatico, panoramico e sintetico. Esso mo­
stra la necessità di costruire l'etica come filosofia pratica della condotta
umana, e quindi prova la centralità del concetto di felicità. Procede poi a svi­
luppare una nozione di felicità, a situare nell'ambito della felicità la vita moral­
mente buona e a indicare la funzione della virtù nella realizzazione della feli­
cità. Essendo panoramico e sintetico, il capitolo I sorvola su problemi che ver­
ranno ripresi nei capitoli seguenti, accontentandosi di situarli in una visione
d'insieme.

5 Esso riprende con importanti chiarimenti, approfondimenti e correzioni il mio articolo:


Virtù e felicità nella filosofia della condotta umana, in Salesianum 47 ( 1985) 7 1 - 127.
10 Introduzione

Il capitolo II6 riprende, all'interno della sintesi prospettata nel capitolo I,


il problema della natura e della funzione della virtù nella vita moralmente
buona. Lo riprende inserendosi nel vivo d'un recente dibattito suscitato dal ri­
sveglio d'interesse da parte di parecchi filosofi e di alcuni teologi per il con­
cetto di virtù. Lo scopo del capitolo è valutare dal punto di vista tomista le po­
sizioni degl'interlocutori, introdurre come interlocutore la teoria tomista e mo­
strare a quali problemi essa intendeva rispondere e quale risposta può dare ai
problemi di oggi. Ciò che il capitolo II avanza come abbozzo d'una aggiornata
teoria tomista della virtù, i capitoli successivi lo sviluppano dettagliatamente.
Il capitolo III mostra che una teoria della virtù è richiesta dall'esperienza
morale che sta alla base d'ogni teoria etica, e indica a quali requisiti debba ri­
spondere una teoria della virtù che voglia essere adeguata all'esperienza mo'­
rale: indica cioè che la virtù dev'essere definita in riferimento alla condotta, al­
l'ideale di vita buona e alla regola della ragion pratica. Secondo questi requi­
siti viene elaborata la teoria della virtù nei capitoli seguenti.
Il capitolo IV situa la virtù nella dinamica psichica della condotta umana.
Il capitolo V definisce l'oggetto specificante delle virtù, cioè l'ideale di vita
moralmente buona e le richieste che tale ideale pone all'autore della condotta.
Il capitolo VI spiega in quale momento della gestazione delle scelte e del
processo del ragionamento morale le virtù diventano assolutamente necessarie,
e precisamente sia come virtù del carattere, o morali, sia come virtù della ra­
gion pratica, o saggezza pratica.
Il capitolo VII chiude con alcune considerazioni sulla formazione delle virtù
e sulle condizioni che la favoriscono.
Il presente saggio si mantiene nei limiti d'una teoria generale delle virtù e
non s'inoltra nell'analisi specifica delle singole virtù. Inoltre la teoria generale
ch'esso elabora è esclusivamente filosofica, e non s'addentra in difficili con­
fronti interdisciplinari. Competenza dell'autore ed esigenze oggettive spiegano
questo limite: il dibattito filosofico odierno presenta molti studi di dettaglio,
·

ma non una teoria generale come qui viene proposta.


Anche questa teoria generale è ancor solo in divenire: questo spiega even­
tuali sproporzioni tra le parti: a volte presento appena spunti costruttivi o cri­
tici, altre volte mi estendo in sviluppi ampi o in critiche dettagliate. Particolar­
mente i capitoli III e VII sono appena tentativi e indicano la direzione in cui
mi sembra opportuno procedere. Infine, essendo questo solamente un saggio e
non un trattato, manca di un'indagine sulla vicenda storica della teoria della
virtù e d'un ampio confronto con altre figure di etica.
Nel delineare questa figura di teoria etica la mia preoccupazione principale
è quella di mettere in chiaro le connessioni tra i vari concetti in vista di una sin­
tesi. Perciò sovente il discorso procede da sguardi panoramici a sviluppi anali-

6 Esso riprende, in forma invariata, salvo qualche aggiornamento bibliografico, il mio arti­
colo: Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito, in Salesianum 49 ( 1987) 421-484.
Introduzione 11

tici per ritornare a conclusioni panoramiche. Uno stesso concetto può ritor­
nare più volte in diversi contesti, per far percepire le sfumature e la comples­
sità della dottrina. Con la parola " complessità" ho indicato la preoccupazione
principale di questa teoria: se qualcosa insegna Tommaso d'Aquino ai suoi stu­
diosi è la capacità di percepire la complessità della realtà, la necessità di for­
mare diversi concetti per rappresentarla adeguatamente e l'urgenza di pensare
sempre un concetto in connessione con gli altri. La trascuranza di queste esi­
genze si paga a caro prezzo: si perde la possibilità di capire l'esperienza mo­
rale.
Capitolo I

FELICITÀ E VIRTÙ
NELLA FILOSOFIA PRATICA DELLA CONDOTTA UMANA

I. RAGIONI PER RICONSIDERARE IL PROBLEMA

(1 ) Gli autori d'una rassegna sulla recente letteratura filosofica circa il con­
cetto di felicità concludono così il loro studio: «Dobbiamo aggiungere che, a
nostro modo di vedere, i problemi e le tendenze parallele riscontrate nella teo­
rizzazione classica e contemporanea riflettono le difficoltà concettuali di affer­
rare con esattezza le complessità dell'esistenza umana. Le teorie della felicità
avranno bisogno d'una costante riconsiderazione non solo perché quelle com­
plessità possono fornire nuovi candidati come componenti della felicità, ma
anche perché le teorie della felicità, riteniamo, cominceranno sempre più a pro­
fittare delle varie branche e scuole di filosofia». 1 Sono, per l'appunto, queste
le ragioni che mi hanno suggerito di riconsiderare il tradizionale problema del
rapporto tra virtù e felicità. Negli ultimi vent'anni si registra una rinnovata at­
tenzione al tema della felicità e al tema del rapporto tra felicità e moralità da
parte di cultori di diverse discipline, appartenenti a diverse correnti di pen­
siero: nuove definizioni e nuove distinzioni, nuove tesi e nuove argomenta­
zioni inducono a un confronto critico e ad avvalersi dei nuovi contributi.

1 . Rinnovata attenzione al tema

(2) Il tema della felicità, per secoli oggetto della filosofia, trascurato poi da
essa come non adatto per una filosofia scientifica, era stato ricuperato sotto di­
versi nomi da diverse discipline;2 da circa un ventennio esso è tornato alla ri­
balta in riviste, convegni, nena saggistica e finalmente ha riscosso di nuovo l'at­
tenzione di filosofi e teologi.3

1 Douglas DEN UYL - Tibor R. MACHAN, Recent Work on the Concept o/ Happiness, in Ame­

rican Philosophical Quarterly 20 ( 1983) 132.


2 Cf. Gi.inther BIEN, Die Philosophie und die Frage nach dem Gliick, in ID. (Hrsg.), Die Frage
nach dem Gliick, Stuttgart - Bad Canstatt 1978, XIV; DEN UYL - MACHAN, a.e. 1 15 .
' Qualche indicazione in Albert ZIEGLER, Das Gliick Jesu, Stuttgart 1978, 30-32. 102. Per la
saggistica: Wolf SCHNEIDER, Gliick - was ist das? Traum und Wirklichkeit, Mi.inchen - Zi.irich
1978; Théodore QUONIAM, Bonheur et salut. Un combat pour la conquete de l'etre, Paris 1979;
Felicità e virtù nella filosofia pratica 13

La recente discussione filosofica sulla felicità si caratterizza oltre che per la


diversità di scuole (filosofia analitica a sfondo empirista nell'area angloameri­
cana; fenomenologia in Hans Kramer; ripresa critica delle tesi kantiane in
Heinz Helmuth Freytag; scuola costruttiva di Erlangen in Wilhelm Kamlah;
etica comunicativa in Otfried Hoffe), anche per lo studio del pensiero filoso­
fico del passato sul problema della felicità; sovente anzi studio storico, con­
fronto critico e riconsiderazione teorica del problema vanno di pari passo. Ciò
succede con i due pensatori ai quali più frequente è il riferimento nell'attuale
discussione: Aristotele e John Stuart Mill,4 in quanto tipici esponenti di due
concezioni della felicità che oggi sono a confronto. Accanto ad essi riscuotono
oggi l'attenzione degli studiosi Socrate, Epicuro, s. Agostino, s. Tommaso d'A­
quino, Kant, Nietzsche.5 Quest'intreccio di riferimento ai pensatori del pas-

Giinther HEMTRICH, Ermutigung zum Gliick. Sieben klassische Modelle gliicklich zu leben von Bud­
dha bis Hegel, Freiburg - Base! - Wien 1979; Gertrud HOHLER, Das Gliick. Analyse einer Sehnsucht,
Diisseldorf - Wien 198 1 .
Per l a filosofia cf. l a rassegna citata alla n . 1 sulla filosofia anglosassone. Nell'area tedesca: Wil­
helm KAM LAH, Philosophische Anthropologie. Sprachkritische Grundlegung umi Ethik, Mannheim -
Wien - Ziirich 1973 ; Otfried HbFFE , Strategien der Humanitat. Zur Ethik offentlicher Entscheidungs­
prozesse, Freiburg - Miinchen 1975; Giinther BIEN (Hrsg.), Die Frage, cit.; Heinz Helmuth FREY­
TAG, Gliick und Hochster Wert. Widerspruch und Ausgleich, Sankt Augustin 1982; Emi!
ANGEHRN, Der Begrzff des Gliicks und die Frage der Ethik, in Philosophisches Jahrbuch 92 ( 1985) 35-
52; Norbert HINSKE, Lebenserfahrung und Philosophie, Stuttgart - Bad Canstatt 1986, 49-85 : Zwi­
schen fortuna und felicitas. Gliicksvorstellungen im Wandel der Zeiten e Gliick und Enttauschung.
Sta lavorando per un trattato filosofico di etica eudemonista Hans KRAMER; qualche risultato l'ha
anticipato in tre articoli: Prolegomena zu einer Kategorienlehre des richtigen Lebens, in Philosophi­
sches ]ahrbuch 83 ( 1976) 71-97; Selbstverwirklichung, in G. BIEN (Hrsg.), o.e. 2 1 -44; Antike und
moderne Ethtk?, in Zeitschrift fiir Theologie und Kirche 80 ( 1983) 184-203 ; Pladoyer fiir eine Reha­
bilitierung der Individualethik, Amsterdam 1983 ; Zum Problem einer hedonistischen Ethik, in Allge­
meine Zeitschri/t fiir Philosophie 9 ( 1984) 1 1-30; Nuove vie dell'etica filosofica, in Filosofia 36
( 1985) 135-148. Dei recenti contributi dell'area tedesca al dibattito sul rapporto tra felicità e virtù
fa una rassegna critica Antonio DA RE, L'etica tra felicità e dovere. L'attuale dibattito sulla filosofia
pratica, Bologna 1986, 49-84: l'Autore documenta come vari studiosi vanno mostrando che la con­
cezione aristotelica della felicità si sottrae alla critica kantiana, qualora si proceda - come più
sotto farò - a una chiarificazione semantica del termine felicità che si orienti a intendere la feli­
cità come autorealizzazione. Nell'area spagnola: Carlos DIAZ, Eudaimonia. La Jelicidad como uto­
pia necesaria, Madrid 1987.
Per la teologia: Helmut RbHRBEIN, Der Himmel auf Erden. Pladoyer fiir eine Theologie des
Gliicks, Frankfurt am Main 1978; A. ZIEGLER, Das Gliick ]esu cit.; Rafael LARRANETA OLLETA,
Una mora! de felicidad, Salamanca 1979; Gisbert GRESHAKE, Gliick oder Heil?, in Io., Gottes Heil
- Gliick des Menschen. Theologische Perspektiven, Freiburg - Base! - Wien 1983, 159-206; Helen
OPPENHEIMER, The Hope o/ Happiness. A Sketch /or a Christian Humanism, London 1983; John
M. FINNIS, Practical Reasoning, Human Goods and the End o/Man, in Proceedings o/ the American
Catholic Philosophical Association 58 ( 1984) 23-36; Joseph OWENS, C.Ss.R., Human Destinity.
Some Problems /or Catholic Philosophy, Washington, D.C. 1985; Wilhelm KORFF, Die Frage nach
dem Gliick als Frage nach einer humanen Ethtk, in Io., Wie kann der Mensch gliicken? Perspektive
der Ethik, Miinchen - Ziirich 1985, 9-32.
4 Rassegna nell'a . c. di DEN UYL - MACHAN .
' Donald ZEYL, Socratic Virtue and Happiness, in Archiv fiir Geschichte der Philosophie 64
14 Capitolo I

sato e di riconsiderazione critica del problema è tipico della filosofia: perciò


« ogni serio tentativo di cogliere la natura della felicità trarrà beneficio da, e di
fatto esige, una considerazione delle discussioni storiche e contemporanee».6
Il presente studio si colloca in questa linea: utilizzando nuove distinzioni
vuole confrontarsi con alcune tesi recenti sulla natura della felicità e sul suo
rapporto con la virtù prolungando una linea di pensiero che si rifà a Tommaso
d'Aquino.

2. Nuovi apporti grazie a nuove distinzioni

1) Complessità semantica e concettuale

(3) La recente discussione filosofica si caratterizza innanzitutto per un'espli­


cita consapevolezza che il problema della felicità è reso molto complesso dalla
pluralità di significati che il termine felicità ha acquisito nella storia del pen­
siero; dal fatto che il significato dei termini che la designano nelle diverse lin­
gue (greco, latino, inglese, tedesco, francese, italiano, spagnolo) non coincide
perfettamente e ingenera ambiguità; dalla natura stessa del fenomeno, qual­
siasi esso sia, designato col termine felicità. «Forse da questo fatto consegue
che in divergenti teorie sulla felicità non vien detto qualcosa di diverso su una
stessa realtà, bensl si è parlato di volta in volta di cose diverse sotto uno stesso
nome».7 Questa situazione comporta, osserva Tatarkiewicz,8 che sulla felicità
si possono fondatamente sostenere le tesi più contrarie e più paradossali e che
« in tema di felicità è possibile provare qualsivoglia asserzione».
Opportunamente lo stesso Tatarkiewicz apre il suo vasto studio sulla feli­
cità con quattro capitoli9 dedicati a illustrare la complessità semantica del ter­
mine felicità, distinguendo innanzitutto quattro nozioni:

( 1982) 225-238 ; Maximilian FoRSCHNER, Epikurs Theorie des Glucks, in Zeitschri/t fiir Philosophi­
sche Forschung 36 ( 1982) 169-188; Werner BEIERWALTES, Regio Beatitudinis. Zu Augustins Begri/f
des gliicklichen Lebens, Heidelberg 198 1 ; John LANGAN, Beatitude and Mora! Law in St. Thomas,
in ]ournal o/ Religious Ethics 5 ( 1977) 183- 195; David W. ARDAGH, Aquinas on Happiness: a De­
fence, in The New Scholasticism 53 ( 1979) 428-459; R.Z. FRIEDMAN, Virtue and Happiness. Kant
and the Three Critics, in Canadian ]ournal o/ Philosophy 1 1 ( 1981 ) 95- 1 10 ; Daniel O'CONNOR,
Kant's Conception o/ Happiness, in The ]ournal o/ Value lnquiry 16 ( 1982) 189-206; Norbert
FISCHER, Tugend und Gliickseiligkeit. Zu zhrem Verhi:iltnis bei Aristoteles und Kant, in Kant-Stu­
dien 74 ( 1983) 1-2 1 ; Wolfgang FREISING, Kritische Philosophie und Gliickseligkeit. Kants Auseinan­
dersetzung mit dem Eudi:imonismus seiner Zeit, Liineburg 1983; Jiirgen-Eckardt PLEINES, Eudaimo­
nia zwischen Kant und Aristate/es. Gliickseligkeit als hOchstes Gut menschlichen Handelns, Wiirz­
burg 1984; Ursula SCHNEIDER, Grundziige einer Philosophie des Gliicks bei Nietzsche, Berlin - New
York 1983 ; Paulus ENGELHARDT (Hrsg.), Gluck und gegliicktes Leben. Philosophische und theolo­
gische Untersuchungen zur Bestimmung des Lebensziels, Mainz 1985.
6 DEN UYL - MACHAN, a.e. 132.

' BIEN, Die Philosophie XI.


8 Wladyslaw TATARKIEWICZ, Analysis o/ Happiness, The Hague - Warszawa 1976, 23.
9 lvi 1-36.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 15

1) felicità come esperienza sommamente fortunata;


2) felicità come soddisfazione circa la propria vita presa come un tutto;
3) felicità come successo, buona sorte, buona fortuna;
4) felicità come eudaimonia o beatitudine, e cioè possesso del più grande
bene accessibile all'uomo.
Dopo aver scelto e precisato la seconda nozione come tema del proprio stu­
dio, egli distingue ancora questo concetto dalle sue varianti:
1) felicità nel senso di fenomeno concreto, individuale, o nel senso di idea
astratta;
2) felicità nel senso soggettivo (soddisfazione permanente, completa e giusti­
ficata circa la vita) e nel senso oggettivo (una vita che procura soddisfazione
permanente, completa, giustificata) ;
3) felicità come stato d'animo momentaneo o permanente;
4) felicità reale (imperfetta, propria dei mortali) e felicità ideale (perfetta,
propria della divinità) ;
5 ) felicità come soddisfazione di ogni bisogno o come soddisfazione sol-
tanto dei bisogni materiali;
6) felicità dovuta a soddisfazioni ordinarie o a soddisfazioni profonde;
7) felicità che viene da se stessa o felicità che richiede da noi uno sforzo;
8) felicità attraverso la tranquillità o attraverso la lotta.
Il problema è ulteriormente complicato dalle variazioni storiche del signifi­
cato e del concetto di felicità, considerate brevemente da Tatarkiewicz in un ap­
posito capitolo.
Una teoria della felicità deve recepire tale complessità semantica e concet­
tuale e possibilmente renderne conto, anche se inevitabilmente privilegerà
l'uno o l'altro significato, l'una o l'altra componente concettuale.

2) Felicità edonica e felicità eudemonica

(4) Tra le quattro nozioni di felicità menzionate da Tatarkiewicz due sono


fondamentali e di più grande significato per la storia del pensiero e per una teo­
ria della felicità. La presenza di queste due nozioni introduce nel significato
del termine « felicità» l'ambiguità più carica di conseguenze. Alludo alla distin­
zione tra felicità come soddisfazione circa la propria vita presa come un tutto e
felicità come eudaimonia o possesso del più grande bene accessibile all'uomo.
Tatarkiewicz accenna alla distinzione; poi trascura del tutto la seconda no­
zione, tipica della filosofia antica e cristiana, e si applica esclusivamente allo stu­
dio delle prima nozione, tipica della filosofia moderna e contemporanea.
Recependo esplicitamente tale distinzione, E. Telfer1 0 la sviluppa sistema-

10 Elisabeth TELFER, Happiness, New York 1980.


16 Capitolo I

ticamente sotto il binomio happiness ed eudaimonia, intendendo per happiness


( = felicità edonica) « a state of being pleased with one's life as a whole», 11 e
per eudaimonia «the life which is worth living or good in itself»; 12 studia sepa­
ratamente le due forme di felicità e stabilisce i rapporti che esse possono avere
tra loro e con la moralità.
La vicenda storica della filosofia della felicità ha reso tale ambiguità e tale
distinzione ormai inevitabile. È stato proprio il sorgere del moderno concetto
di felicità edonica nel secolo dell'illuminismo che ha provocato una trascura­
tezza da parte della filosofia seria del tema della felicità, troncando così la seco­
lare tradizione della filosofia come scienza della felicità. 13 Ora però che la filo­
sofia ricupera per se stessa il tema della felicità, la distinzione dev'essere critica­
mente recepita. Dell' eudaimonia i filosofi anglosassoni parlano in confronto
critico con Aristotele, ma gran parte dei saggi teoretici sono dedicati all'analisi
linguistica e psicologica della felicità edonica.
Un recupero della felicità eudemonica per una teoria della felicità è perciò
senz'altro poco conforme all'orientamento filosofico odierno, ma può esser ri­
chiesto da una revisione del concetto di filosofia morale resa necessaria dalle ri­
strettezze in cui questa si è venuta a trovare, le più gravi delle quali sembrano
essere un deficit nella capacità di motivare la condotta morale14 e una trascu­
ratezza nei riguardi dell'analisi dell'azione, 15 trascuratezza a cui si sta comin­
ciando a rimediare con le odierne teorie dell'azione 16 e con la psicologia mo­
rale.17

3) Fine dominante e fine inclusivo

(5) Uno dei punti su cui più si concentra la discussione degli odierni stu­
diosi dell'eudaimonia aristotelica è se essa debba essere concepita come fine do­
minante o come fine inclusivo. Nel primo senso l'eudaimonia comporta la su-

11 Ivi 8.
12 Ivi 135.
13 Cf. BIEN, a.e. : «Zwei philosophische Gli.icksbegriffe also sind zu unterscheiden: derjenige

der alteren klassischen Tradition und derjenige der neuzeitlichen Gli.ickseligkeitslehren oder des
aufgeklarten Eudamonismus und Utilitarismus» (XIV).
14 Cf. H. KRAMER, Antike; Friedo R!CKEN, Kann die Moralphilosophie auf die Frage nach dem
«Ethischen» verzichten?, in Theologie und Philosophie 59 ( 1984) 161- 177: sostiene che per fornire
una motivazione alla condotta morale occorre un ricupero del tema della virtù; intende appunto
mostrare che un ricupero dei temi della felicità e della virtù per la filosofia morale vanno di pari
passo.
" Trascuratezza già denunciata da G.E.M. ANSCOMBE, Modern Mora! Philosophy, in Philo­
sophy 33 ( 1958) 1 - 19.
16
Cf. Friedrich KAULBACH, Ein/iihrung in die Philosophie des Handelns, Darmstadt 1982;
Michael H. ROBINS, Promising, Intending, and Mora! Autonomy, Cambridge 1984.
1 7 Sir W. David Ross, The Psychology o/ Mora! Action, in Io., Foundations o/ Ethics, Oxford
1939, 192-207; N.].H. DENT, The Mora! Psychology o/ the Virtues, Cambridge 1984.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 17

bordinazione di tutta la condotta, di tutte le virtù, di tutti i beni ad un unico


fine, quale potrebbe essere la contemplazione; nel secondo senso l'eudaimonia
comporta l'armonica ricerca di più beni che sono fini in sé, indipendenti l'uno
dall'altro. 18
Un'analoga discussione è in corso per l'interpretazione del concetto di feli­
cità di J. Stuart Mill . 19 In entrambi i casi gli studiosi si orientano per la conce­
zione della felicità come fine inclusivo. « Il tema tocca alcuni punti basilari che
devono essere considerati in ogni concezione della felicità: siamo noi creature
con una natura duale, una parte della quale trascende gli interessi pratici della
vita umana? In che misura la ragione stessa è polivalente, contemplativa e pra­
tica? Le ambiguità, i paradossi o le contraddizioni di Aristotele sono un ri­
flesso di ambiguità, paradossi o contraddizioni nella natura umana?».20 La
complessità della concezione aristotelica dell'eudaimonia si trasmette alle con­
cezioni successive, essendo essa inerente allo stesso problema della felicità pos­
sibile per una natura cosl complessa come quella umana.

4) Felicità come ideale astratto e corso di vita dell'individuo

(6) Si è visto che Tatarkiewicz menziona appena la distinzione tra felicità


nel senso di fenomeno concreto individuale e felicità nel senso di idea astratta.
Questa distinzione è sfruttata a fondo da S. Hampshire,21 rifacendosi all'i­
deale aristotelico dell'eudaimonia o della vita buona: altro è «l'ideale astratto,
il bene per l'uomo in una vita perfetta», «l'ideale etico astratto, la vita perfetta
e più desiderabile per un uomo in circostanze ideali», altro è « il corso di vita
relativamente specifico e limitato scelto dagli individui in determinate congiun­
ture storiche».22 Solo a proposito dell'ideale sono possibili affermazioni ogget­
tive « nel senso che la validità e la rilevanza delle argomentazioni che le sosten­
gono non variano col variare delle circostanze in cui esse sono addotte, ma
sono universali e indipendenti da ogni particolare punto di vista o da partico­
lari premesse».23
Hampshire spinge a fondo la distinzione sostenendo che la diversità dei
concreti e individuali corsi di vita è una caratteristica essenziale della specifica
natura umana; esigenze morali rigorosamente universali ve ne sono, ma sono
altamente generiche. Ciò non significa scadere nel relativismo: l'umana natura
comporta determinazioni oltre le quali un concreto corso di vita non costitui­
sce un bene per l'uomo.

18
Cf. la rassegna citata di DEN UYL - MACHAN 1 17- 120.
19 Ivi 12 1 - 123.
20
Ivi 120.
21
Cf. Stuart HAMPSHIRE, Morality and Conflict, Oxford 1983, 34-36. 39-4 1 . 140-169.
22
Ivi 40. 43 .
23
Ivi 40.
18 Capitolo I

Tuttavia Hampshire dimostra che «a) non vi può essere una cosa come il
bene umano completo; né b) vi può essere armonia tra tutte le virtù essenziali
in una vita completa; né c) possiamo inferire che cosa sia universalmente il mi­
glior corso di vita da proposizioni circa la natura umana».24
Da queste tesi risulta « l'impossibilità dell'umana perfezione e della piena
realizzazione di tutte le potenzialità umane».25
Su questa distinzione Hampshire fonda la tesi che nella vita morale i con­
flitti sono inevitabili e che essi non possono essere razionalmente superati. Ma
la distinzione può servire anche, come vedremo, a illustrare i rapporti tra virtù
·

e felicità.

3. Alcune recenti posizioni

(7) Indipendentemente dalle tesi sostenute dagli autori che hanno messo a
punto le distinzioni menzionate, queste ultime servono egregiamente a dipa­
nare il complesso problema della natura della felicità e dei suoi rapporti con la
virtù e sono da recepire.
Non così ritengo per alcune posizioni sostenute da questi autori.
a) Gli autori anglosassoni che teorizzano sulla felicità si occupano prevalen­
temente o esclusivamente della felicità edonica (happiness nel senso moderno e
corrente della parola) ; tutto l'ampio studio di Tatarkiewicz, per citare un caso
tipico, è esclusivamente dedicato alla felicità in senso soggettivo.
Connessa a questa prevalente o esclusiva attenzione alla felicità in senso og­
gettivo è la tesi che rifiuta la distinzione tra vera e falsa felicità dal momento
che non vi sarebbero criteri oggettivi per fondarla. Per dirla con G.H. Von
Wright, il giudizio soggettivo della persona che stabilisce se essa è felice o no
« è ultimo, qualunque cosa pensiamo che dovremmo dire noi se fossimo nelle
stesse circostanze, perché ogni uomo è il giudice migliore e più competente
sulle proprie prospettive di felicità».26 Questa è anche la posizione di Tatarkie­
wicz, di W. Schneider, di Telfer, e con maggiori sfumature, di ]. Kekes e R.
Kraut.
Per Kekes i criteri di felicità sono ontologicamente soggettivi ed epistemo­
logicamente oggettivi: non vi sono cioè criteri ontologicamente validi per giudi­
care gli ideali in cui un individuo si impegna e realizzando i quali egli si sente
felice; ma si può giudicare oggettivamente il suo sentirsi felice a partire ap­
punto dai suoi ideali, verificandone la realizzazione.27
R. Kraut, confrontando le due concezioni della felicità, oggettivista e sog-

24 Ivi 155.
2' Ivi 160.
26
Cf. H.G. VON WRIGHT, The Varieties o/ Goodness, London 1963, 99.
2' Cf. J. KEKES, Happiness, in Mind 91 ( 1982) 358-376.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 19

gettivista, sfuma ancor più la loro differenza: mentre l'oggettivista dice che una
persona non è felice se essa è molto distante dal condurre la miglior vita di cui
è capace, il soggettivista dice semplicemente che tale persona è felice, sebbene ·

avrebbe potuto essere ancora più felice.28


Ancora della felicità in senso soggettivo o felicità edonica Telfer argomenta
per mostrare che essa « può essere perseguita ma non è necessariamente perse­
guita, sia come unico fine sia come uno tra vari altri fini, né è necessariamente
desiderata da ciascuno».29
(8) b) Della felicità eudemonica si occupano gli autori anglosassoni esclusi­
vamente in riferimento critico ad Aristotele; tutta la ripresa dell'eudaimonia da
parte del pensiero cristiano sotto il nome di beatitudine è semplicemente igno­
rata: è una carenza comune agli ambienti filosofici che ritengono filosofico solo
il pensiero antico e moderno, con esclusione di quello medievale.

(9) c) Da più parti, come nota H. Kramer,3° vi sono tendenze a superare


l'etica kantiana con la domanda più ampia - e di origine aristotelica - circa
il « tetto vivere». Così W. Kamlah riprende l'etica eudemonista dei beni; i pro­
motori del rinnovamento della filosofia pratica (W. Hennis, J. Habermas, P.
Lorenzen, M. Riedel...) ripropongono la domanda circa i fini dell'azione e
della vita; da economisti come J.K. Galbraith viene ai filosofi lo stimolo a riflet­
tere sulla « qualità della vita»; sia il freudomarxismo (W. Reich, E. Fromm, H.
Marcuse) sia gli psicologi umanisti (A.H. Maslow, Ch. Biihler, K. Goldstein,
C. Rogers . . . ) si rifanno ad Epicuro o ad Aristotele per una concezione dei fini
della vita.
(1 0) d) Una teoria della felicità ha da prender posizione anche sul pro­
blema del rapporto tra felicità e virtù. Su questo punto sarà più forte l'inci­
denza della complessità semantica e concettuale del termine felicità e del ter­
mine moralità che oggi costituisce - invece del termine virtù il secondo
polo della relazione. Tatarkiewicz, facendo una rassegna completa delle posi­
zioni sul tema, osserva: « Secondo un'interpretazione del termine happiness, la
moralità è qualcosa di più che uno dei suoi fattori; secondo un'altra, essa non
è nemmeno un fattore. La felicità, nel senso dato al termine dai pensatori scola­
stici e dai filosofi dell'antichità ( eudaimonia, beatitudine), è identica alla vita
morale, mentre la felicità nel senso di piacere intenso non ha alcuna relazione
con la moralità. Esso può essere sperimentato altrettanto bene da coloro che
vivono una vita immorale e da coloro che conducono una vita morale».3 1
Coloro che teorizzano sulla felicità secondo l'orientamento empirista della

28
Cf. Richard KRAUT, Two Conceptions of Happiness, in Philosophical Review 88 ( 1979) 167-
197.
29 TELFER, o.e. 135.
3° Cf. Prolegomena 7 1-73.
JI TATARKIEWICZ, Happiness 347.
20 Capitolo I

filosofia analitica anglosassone e sostengono una posizione soggettivista sulla


natura della felicità (Von Wright, Kekes, Kraut) prescindono completamente
dal problema stesso o ammettono rapporti molto labili tra felicità e moralità.
Tuttavia questa estrema posizione comincia a ricevere critiche da più parti:
nella determinazione del concetto di felicità non si può prescindere dall'aspetto
valutativo e perciò l'attenzione si sposta dal concetto di felicità edonica a
quello di felicità eudemonica, nella quale la moralità svolge un ruolo necessario
ed importante se non esclusivo: in questo senso si muovono le puntigliose ana­
lisi di Tatarkiewicz32 e di Telfer.33
Nel corso della loro rassegna Den Uyl e Machan suggeriscono una linea di
soluzione che ha ritenuto la mia attenzione e che cercherò di recepire nel mio
saggio. Se si abbandona il soggettivismo ontologico di Kekes e di Kraut, si può
sostenere un'intima connessione tra la felicità e una moralità oggettivamente
vera. « La felicità è considerata come una funzione della vita moralmente
buona, se non sempre, almeno in circostanze normali, non catastrofiche».34
Ciò è possibile se il giudizio sulla felicità si basa « sul modo tipicamente umano
di azione qual è manifestato nella vita di individui che aderiscono a uno stan­
dard di eccellenza per quel modo di azione». Per cui « la vita virtuosa con
molta probabilità assicurerebbe la vita felice all'essere umano ».
Si può condividere in certa misura, ma superandolo, il soggettivismo di
Kekes e di Kraut ritenendo che il modo tipicamente umano di azione può rea­
lizzarsi in innumerevoli forme, benché non esclusive l'una dell'altra. Ciò che è
possibile per esseri umani è « soltanto la miglior vita attualmente realizzabile
per persone individuali».35 Si noterà come questa suggestione si avvicina alla
distinzione di S. Hampshire tra felicità come ideale astratto e felicità come con­
creto corso di vita individuale.

4. Intenzione e limiti di questo saggio

(1 1 ) Sia la virtù sia la felicità hanno importanza somma nella vita umana.
« Noi siamo capaci di essere felici e capaci di essere miserabili, e questo fatto
non è irrilevante per la moralità ma le è centrale»,36 osserva H. Oppenhei­
mer, che apre il suo saggio sulla speranza di felicità con un capitolo di risposta
alla domanda: è importante essere felici? Orbene, la morale riguarda proprio
ciò che è più importante nella vita umana.
Tra virtù e felicità vi dev'essere dunque stretta connessione. La difficoltà
nello stabilirla deriva innanzitutto dalla complessità semantica e concettuale

32 Ivi 337-356.
" TELFER, o.e. 107-135.
" DEN UYL - MACHAN, a. e. 130.
35 L. cit.
'6 H. OPPENHEIMER, The Hope of Happiness, London 1983, 15.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 2l

del termine felicità e dalla concezione della moralità e della virtù che viene
messa in opera. Tale complessità è accresciuta dal fatto che nella storia del pen­
siero occidentale è awenuta una frattura nella concezione sia della felicità sia
della moralità. Proprio questa frattura e innovazione hanno creato seri pro­
blemi a Kant e l'hanno costretto a cercare un nuovo rapporto tra virtù e feli­
cità. Per quanto molteplici e divergenti fossero le posizioni della filosofia an­
tica e cristiana sulla natura della felicità, esse concordavano generalmente nel
fatto di essere concezioni eudemoniste, secondo le quali la felicità consiste nel-
1' esercizio eccellente delle migliori facoltà umane e, aggiungono i filosofi cri­
stiani, rispetto al miglior oggetto. In tale concezione la virtù entra di diritto. La
frattura awiene nel secolo dell'illuminismo, il secolo che, secondo gli studi di
Corrado Rosso, vede la più abbondante produzione letteraria filosofica e uto­
pica sulla felicità. Ora per felicità si viene a intendere il piacere che deriva
all'uomo dalla soddisfazione dei suoi bisogni, desideri, interessi.
Kant percepisce subito la difficoltà che pone alla morale simile concetto di
felicità e ne percepisce anche il carattere utopico. Nel mondo empirico essa
non è realizzabile. « La natura nel suo senso cosmico non ha garantito all'uomo
la possibilità di realizzare ciò che egli desidera realizzare e ciò che egli ha da
realizzare in virtù della stessa forza della natura».37
D'altra parte, e proprio soprattutto ad opera di Kant, il quale porta alle
estreme conseguenze una concezione della morale germinata nel nominalismo
e sviluppata nella seconda Scolastica e nel razionalismo tedesco,38 si modifica
profondamente la concezione della vita morale: in essa si tratta di conformare
le decisioni del libero arbitrio ai precetti d'una legge notificati al soggetto
agente dal giudizio di coscienza. Tra le varie conseguenze di questa nuova con­
cezione vi è appunto la perdita d'interesse da parte dei filosofi e teologi morali
per il tema del fine ultimo, della felicità e dell'habitus virtuoso, perdita che si
registra ancora nei più recenti manuali di morale cristiana.39
Una riconsiderazione del rapporto tra virtù e felicità deve tener conto di
questa vicenda storica; altrimenti si corre il rischio di riproporre una morale di

" Nathan ROTENSTREICH, PractiGe and Realization. Studies in Kant's Mora! Philosophy, The
Hague - Boston - London 1979, 47. Tutto il II capitolo (pp. 3 1-53) studia le difficoltà che pone a
Kant il nuovo concetto di felicità e la soluzione mediante il concetto di « rendersi degni di essere
felici» ed il postulato utopico di un mondo «ove ogni corso di azione otterrà la sua consumazione
in totale armonia» (50).
'8 Cf. gli articoli di Servais PINCKAERS, La théologie morale au déclin du Moyen-Age: le no­

minalisme, in Nova et Vetera 52 ( 1977) 209-22 1 ; La théologie morale à l'époque moderne, ivi 269-
287: i due articoli sono ristampati in Io., Les sources de la morale chrétienne. Sa méthode, son con­
tenu, son histoire, Fribourg/Suisse - Paris 1985, 244-282; Susanna DEL BocA, Kant e i moralisti te­
deschi: Wolff, Baumgarten, Crusius, Napoli 1937; Joseph SCHMUCKER, Die Urspriinge der Ethik
Kants in seinen vorkritischen Schri/ten und Re/lexionen, Meisenheim am Glan 196 1 ; André de
MURALT, Kant, le dernier occamien. Une nouvelle définition de la philosophie moderne, in Revue de
Métaphysique et de Morale ( 1975) 32-53.
39 Cf. Handbuch der christlichen Ethzk, Freiburg - Giitersloh 1978-1982; Bernhard HARING,
Liberi e fedeli in Cristo. Teologia morale per preti e laici, Roma 1979- 198 1 .
22 Capitolo I

felicità nella quale, per insufficiente considerazione storica ed avvedutezza cri­


tica, si usa un concetto edonistico di felicità poco compatibile con l'ideale cri­
stiano.40
Con il presente saggio intendo proporre una concezione della felicità e del
suo rapporto con la virtù che superi la posizione soggettiva e soggettivista, man­
tenga la specificità del bene morale senza escludere la felicità come motiva­
zione necessaria e naturale dell'azione umana, superando la ristretta conce­
zione moderna di vita morale. A tale scopo mi ricollego alla concezione tomi­
sta di felicità, rinnovata ed approfondita tenendo conto degli apporti delle re­
centi discussioni. Intendo questo saggio come un profilo di sintesi, di visione
globale e coordinata dei diversi elementi che entrano in gioco, superando la
concentrazione analitica su un solo aspetto (o solo la virtù, o solo la felicità, e
questa considerata solo nell'uno o nell'altro dei suoi significati) . Ciò andrà a
scapito della dettagliata argomentazione a sostegno delle tesi che andrò propo­
nendo, ma avrà il vantaggio di ricuperare una visione d'insieme che non si
trova nella recente letteratura filosofica.
La mia attenzione andrà principalmente alle seguenti questioni:
1) Perché la filosofia morale deve ancora occuparsi della felicità?
2) Qual è il posto della felicità nella motivazione della condotta umana?
3) Ha senso la distinzione tra vera e falsa felicità?
4) Esistono criteri oggettivi per determinare la vera felicità?
5 ) Perché la vera felicità esige la virtù?
6) Qual è la funzione della virtù per la vera felicità?

Il. PREMESSE PER UNA RICONSIDERAZIONE DEL PROBLEMA

( 1 2) Tra i fattori che rendono storicamente e teoreticamente complesso il


problema della Jelicità e del suo rapporto con la virtù vi è anche la diversità
delle concezioni della filosofia stessa. Il modo in 'cui si concepisce la filosofia
ed il suo metodo di argomentazione influisce sulla risposta che si dà alle que­
stioni filosofiche, e sovente sul modo stesso di porre le questioni. La prima ra­
dice della differenza tra la concezione eudemonica antica e cristiana e la conce­
zione edonica moderna di felicità sta nella diversa concezione di filosofia 41 e

40 Alludo all'opera di R LARRANETA OLLETA, Una mora! de /elicidad, Salamanca 1979; cf. la

mia recensione in Salesianum 42 ( 1980) 946. Del resto l'Autore ignora del tutto la recente lettera­
tura sul tema della felicità.
41 Michael G. GREEN nella sua recensione al libro citato di Telfer in Ethics 93 ( 1983)
395-397 osserva: «The result is not dispassionate inquiry, but scholastic tedium. Much of this te­
dium may be attributed to a grand failure of method. The author, practising some version of lin­
guistic philosophy, pretends to a strict distinction between conceptual and empirica! theses,
though there are few subjects in philosophy so ili suited as hers to bear the burden of this distinc­
tion. This posture requires her to ask and answer a series of uninteresting questions about neces­
sary and sufficient relationships». E conclude: «The deeper, and more exciting, questions about
Felicità e virtù nella filosofia pratica 23

di filosofia morale42 che viene messa in opera. La concezione della felicità e


del suo rapporto con la virtù che intendo sostenere trova la sua prima giustifi­
cazione nel concetto di filosofia e di filosofia morale che ritengo di dover adot­
tare.

1 . Un problema di filosofia cristiana

(1 3) Uno studio e un confronto di due tra i più significativi tentativi nella


· storia della filosofia di stabilire un rapporto tra virtù e felicità, e cioè quello di
Aristotele e quello di Kant, mostra che si tratta di un problema la cui solu­
zione dipende dal concetto di filosofia che viene messo · in opera. Norbert Fi­
scher, in un articolo ove studia le somiglianze e le differenze della soluzione
aristotelica e di quella kantiana, 43 conclude lo studio della soluzione aristote­
lica osservando che « nell'Etica Nicomachea falliscono tutti i tentativi di indi­
care la via d'una felicità dell'uomo che sia realizzabile e al tempo stesso
piena». Aggiunge poi: «Ciò non dev'essere inteso come giudizio sulle tesi ari­
stoteliche, poiché deve pur essere sempre lasciata aperta la possibilità che un
tale fallimento - almeno in una filosofia che misura la verità secondo la sua
scientificità - corrisponda alla natura delle cose e sia perciò inevitabile; o in
altre parole, che una teoria etica che consapevolmente si limiti alla vita terre­
stre ante Christum natum non possa fornire qualcosa di più».44
Anche l'analisi della soluzione kantiana ne mostra i limiti insuperabili.
Kant, come Aristotele, osserva che una felicità la quale compia i desideri
umani, benché legittima, tuttavia di fatto, dal punto di vista della pratica che
ha per agente il soggetto umano, natura razionale finita, resta irrealizzata.
Kant, come Aristotele, se pur in modo diverso, vede una soluzione nel riferi­
mento alla trascendenza, a Dio. Perciò « né Aristotele né Kant riescono a pro­
porre una soluzione filosoficamente giustificabile del rapporto di tensione tra

human happiness are never raised. The author is unruffied by such matters because they would in­
terfere with her approach. Indeed, it is a cr�dit to the depth of Telfer's commitment to her ap­
proach that, in addressing a topic which cries out for both imagination and wisdom, she shows no
embarrassment at having written a book without a trace of either».
42 Ancora a proposito del libro di Telfer osserva Julia ANNAS nella sua recensione in Mind
9 1 ( 1982) 287s: «To be fair, Telfer tries to make Kantian sense of the conflicts between an agent­
centred morality based on one's own happiness or eudaimonia, and the claims of others, which
she takes to demand an impartial morality. But the results are puzzling and unsatisfactory, and sug­
gest very strongly that if happiness and eudaimonia are to be studied properly in mora! philo­
sophy, they cannot just be pushed into line with kantian prods like duty and obligation. We must
not only raise but face squarely the problems involved in theories that make happiness and eudai­
monia centra! mora! concepts; and we must ask whether these theories cast doubt on kantian as­
sumption that the notions of duty and obligation are the fondamenta! notions in morality».
43 Cf. N. FrsCHER, Tugend und Gliickseligkeit. Zu ihrem Verhaltnis bei Aristate/es und Kant,
in Kant-Studien 74 ( 1983) 1-2 1.
'4 Ivi 16. 19.
24 Capitolo I

virtù e felicità. [ . . . ] . Caratteristico è che entrambi, in simile questione, anche se


a partire da diversi punti di vista e in diverso modo, vengono a confluire in un
campo .che non offre più alcuna giustificazione filosofica e che è trascendente
rispetto alla filosofia».45
(1 4) Queste considerazioni di Fischer sono pertinenti se per filosofia s'in­
tende una riflessione razionale, metodicamente condotta, che si limita a quelle
conoscenze che si possono acquisire esclusivamente mediante la ragione. Ora,
se questo è il concetto moderno di filosofia, non corrisponde però al modo con
cui di fatto i filosofi, anche quelli moderni, fanno filosofia. Giacché ogni filoso­
fia è opera di riflessione su conoscenze che sono acquisite per via pre- ed extra­
filosofica e che appartengono alla tradizione culturale dei popoli. In ogni
epoca vi sono state filosofie che, in nome della scientificità o della razionalità o
del metodo, hanno operato non solo criticamente ma anche più o meno ridu­
zionisticamente rispetto alla tradizione culturale prefilosofica, contraddicendo
così alla curiosità che sta all'origine del filosofare e che per principio è univer­
sale e senza preclusioni. È con questo criterio che si può distinguere una filoso­
fia pagana, una filosofia cristiana e una filosofia laica o secolare. La filosofia pa­
gana riflette su una tradizione culturale che ignora l'insegnamento cristiano ma
conosce la tradizione mitica; la filosofia cristiana riflette sulla tradizione cultu­
rale includendo l'insegnamento cristiano e considerandolo proprio così
com'esso si propone e afferma di essere, cioè rivelazione divina; la filosofia
laica o secolare riflette sovente anche sull'insegnamento cristiano, ma evitando
di considerarlo così com'esso si propone, e dunque operando riduzionistica­
mente rispetto a esso.
In conseguenza di ciò, una fondamentale differenza tra filosofia pagana, cri­
stiana e laica è che le prime due, per rispondere alle domande ultime circa la
realtà ed il senso della vita umana, contano su una ragione nutrita o dal mito o
dall'insegnamento cristiano; la terza conta esclusivamente sulla capacità della
ragione umana. In questa l'uomo è primo, ed è accolta come verità solo quella
che può essere rigorosamente e positivamente dimostrata dalla ragione umana.
La filosofia pagana si pronuncia sul senso ultimo consapevole dei limiti della ra­
gione umana di fronte al mondo ed alla divinità, limiti che sarebbe hybris voler
superare. La filosofia cristiana accetta di riflettere sulle domande ultime consi­
derando anche ciò che su di esse ha da dire la rivelazione cristiana; in essa
l'uomo è secondo; è prec�duto, nella sua indagine e prima che egli ponga do­
mande, dalla parola che in qualche modo Dio gli rivolge; egli perciò accoglie
come verità anche quella che, senza poter essere dimostrata positivamente, può
tuttavia esser mostrata come non assurda o verosimile.
Non si può dire che la filosofia pagana o laica sia più filosofia che quella
cristiana, perché questa affermazione presuppone una previa presa di posi­
zione che accetta come filosofico solo ciò che la ragione può dimostrare. La le-

45 Ivi 2 1 .
Felicità e virtù nella filosofia pratica 25

gittimità di questa presa di pos1z1one è altrettanto indimostrabile quanto


quella, opposta, che accetta come filosofico tutto ciò che in qualche modo
l'uomo può venire a sapere sul senso ultimo della realtà e della vita umana.
Anzi, il presupposto della filosofia pagana e cristiana corrisponde meglio all'e­
sigenza di curiosità senza preclusioni che sta all'origine del filosofare.
D'altra parte ogni risposta alla domanda circa il senso, che dal punto di
vista della filosofia pagana o laica è considerata ultima, è, dal punto di vista
della filosofia cristiana, errata, appunto perché nel migliore dei casi può essere
solo penultima. Non c'è alcuna ragione per considerare meno filosofica una fi­
losofia che, volendo rispondere a domande ultime sul senso della realtà e della
vita, riflette proprio su un insegnamento che si propone come risposta ultima a
tali domande.
Se questa filosofia cristiana può esser detta teologia, lo è solo perché il suo
oggetto, la realtà che essa studia, è Dio in quanto parla di se stesso nella rivela­
zione; ma essa resta riflessione esclusivamente razionale; il lume infuso della
fede non incide sullo statuto epistemologico di questa disciplina, ma sull' atteg­
giamento del soggetto posto davanti a un insegnamento che si propone come
rivelazione divina. 46
Queste considerazioni permettono di capire perché affermo che il luogo ap­
propriato per affrontare il problema della felicità e del suo rappotto con la
virtù è quello della filosofia cristiana. Si tratta infatti di un problema sul senso
ultimo, e nessuna risposta può essere vera se ignora o riduce ciò che la rivela­
zione cristiana dichiara sul senso ultimo; tanto più che la tradizione cristiana
ha dato molto rilievo al tema della felicità e della virtù.

2. La filosofia morale come filosofia pratica della condotta umana

(1 5) 1) Per quanto diverse siano le teorie morali che sono state espresse
nella filosofia e nella teologia moderna e contemporanea, è identico in molte
di esse lo schema secondo cui viene concepita la vita morale: si tratta sempre
di un'azione che la persona umana decide con libertà e responsabilità e che
dev'essere conforme ai dettami d'una legge (divina o statale, naturale o conven­
zionale) universale o generale. Questo schema mette in rapporto tre concetti
fondamentali, primordiali: la libertà concepita come potere di decidere un'a­
zione a partire da una totale indeterminazione; la legge o la norma che pres­
crive o vieta un tipo di azione; l'obbligazione o dovere della libertà di confor­
marsi alla norma o di decidere in ragione della norma.47

46 Non è questa la sede per mostrare la fondatezza di queste affermazioni; con esse prolungo
una linea di pensiero che mi pare abbia i suoi principi nel concetto tomista di teologia quale pro­
pongo nel mio studio Lex et virtus. Studi sull'evoluzione della dottrina morale di san Tommaso d'A­
quino, Roma 1983, 89- 141.
4 7 Cf. gli articoli di S. PINCKAERS citati sopra alla n. 38; inoltre Io., La nature de la moralité:
26 Capitolo I

Interessandosi esclusivamente alla correttezza dell'azione, questo schema fi­


nisce per identificare tutta la vita morale con i rapporti di giustizia tra gli indi­
vidui liberi e razionali. In questo schema diventa impossibile introdurre la feli­
cità come motivazione finale e generale della condotta umana, giacché una mo�
tivazione diretta alla felicità, intesa come benessere o soddisfazione del sog­
getto, rende per definizione impossibile una motivazione morale, dove per mo­
rale s'intende altruista, rivolta al doveroso e obbligatorio rispetto del diritto al­
trui. In una morale della legge, del dovere, non si riesce a far posto alla consi­
derazione della felicità.
(1 6) Per quanto ovvia sia ritenuta ancor oggi questa concezione della vita
morale, vanno crescendo oggi coloro che, rifacendosi soprattutto ad Aristo­
tele, rilevano la ristrettezza e povertà di tale schema e tornano invece ad inte­
ressarsi della vita morale come vita buona per l'uomo, . vita degna di esser vis­
suta. Gli è che in tale schema sorge una domanda curiosa e nuova: perché es­
sere morali? La risposta non può essere trovata se si resta in quello schema. La
norma morale non può trovare una connivenza in un soggetto la cui libertà sup­
pone una totale indifferenza, per cui loriginaria decisione di essere morali non
trova alcuna motivazione: è un'opzione radicale che può esser considerata re­
sponsabile e razionale solo perché il soggetto sa che cosa decide quando dicide
di essere morale.48 Questo deficit nella motivazione è la ragione per cui H.
Kramer sta lavorando a una rielaborazione della teoria della felicità.
Inoltre una morale delle norme non può spiegare le norme stesse. Le
norme infatti sono sensate quando hanno un principio, ossia un fine, un bene
in vista del quale esse regolano la condotta; ora tale fine non può essere sem­
plicemente la libertà di vivere e di autodeterminarsi secondo norme razionali.
Se il loro fine è il rispetto della persona come soggetto libero e autonomo, al­
lora con ciò si indica un bene in sé, e tra le ragioni per cui una persona è un
bene in sé non vi è solo la sua capacità di autodeterminazione ma anche la sua
capacità di compimento e di felicità. Le norme morali non sono dunque fini a
se stesse, ma derivano il loro senso dal loro principio che è il bene della per­
sona umana; la necessità ed il senso della legge si scoprono quando si desidera
un bene superiore alla legge stessa.
(1 7) A questo punto però occorre rivedere lo schema, ritenuto ovvio, che
sta alla base di tante teorie etiche normative e riscoprire la complessità della si­
tuazione pratica originaria, dalla quale riceve senso lazione umana e sulla quale
deve riflettere la teoria etica. L'azione umana non è semplicemente decisione li­
bera conforme o no a norme di dovere; essa invece riceve senso dalla colloca-

morale casuistique et morale thomiste, in Saint Thomas d'Aquin, Somme théologique, Les actes hu­
mains, Tome deuxième, Paris - Tournai - Rome 1966, 2 14-276. Cf. anche la critica alla moderna
etica delle regole da parte di Alasdair MAclNTYRE, After Virtue, Notre Dame/IN 198 1 .
48 È l a posizione d i Bruno ScHOLLER, Der menschliche Mensch. Au/satze zur Metaethik und

zur Sprache der Mora!, Diisseldorf 1982, 80-85.


Felicità e virtù nella filosofia pratica 27

zione originaria del soggetto umano nel mondo e dal rapporto che tale sog­
getto intende stabilire col mondo.49 Il soggetto umano infatti è originaria­
mente collocato in un mondo costituito da realtà (Dio, persone, cose, eventi,
storie, istituzioni, ecc.) nelle quali egli riconosce dei beni (che chiameremo
beni sostanziali) , di diverso valore, con i quali egli può entrare in rapporto me­
diante sue attuazioni (che chiameremo beni operabili) . D'altra parte il soggetto
stesso non è indifferente di fronte al mondo, ma del mondo e dei possibili rap­
porti da stabilire con esso egli si fa una concezione ed una valutazione in fun­
zione sia d'inclinazioni, di bisogni, di appetiti sia di ideali, di piani, di pro­
getti. Nell'azione (bene operabile: bene perché perfeziona il soggetto, opera­
bile perché la specificazione e l'esercizio dell'azione sono opera del soggetto au­
tore) il soggetto mira a stabilire una corrispondenza tra lui e il mondo, uno
stato di cose, modificando sia se stesso sia il mondo secondo un certo criterio.
Fa parte della situazione pratica originaria, com'è testimoniata dall'esperienza
morale, il fatto che i criteri secondo cui i soggetti agiscono nel mondo, benché
possano essere molti e diversi, non siano tuttavia equivalenti, · ma su di essi si
pronuncino giudizi di approvazione o disapprovazione, di doverosità o d'inde­
gnità, di rettitudine o di scorrettezza (giudizi morali).
( 1 8) 2) Solo in parte questa è la situazione presupposta da altre teorie mo­
rali variamente denominate: utilitariste, consequenzialiste, proporzionaliste, te­
leologiche. Secondo esse supremo- e unico criterio di retta azione, e quindi
delle eventuali norme (utilitarismo della norma), è la produzione di una situa­
zione che dia al soggetto agente e ai soggetti coinvolti o interessati in quell'a­
zione il massimo benessere possibile o massimizzi i valori. In queste teorie la fe­
licità, intesa in senso edonico, diventa principio supremo di rettitudine e di
norma.
Dal punto di vista che qui interessa, la critica fondamentale che si deve
fare a queste teorie è la considerazione già fatta da Aristotele e da Kant, e cioè
che il concetto di felicità è talmente indeterminato da non offrire alcun criterio
di retta condotta; di fatto l'utilitarismo non riesce a far posto al concetto di di­
ritto incondizionato della persona, e pertanto nemmeno al concetto di bene do­
veroso. D'altra parte è imprescindibile dal concetto di felicità una qualche valu­
tazione morale: di fatto si può dire che una certa persona sembra felice, ma
che in realtà non lo è veramente. Abbia o non abbia senso la distinzione tra fe­
licità apparente o falsa e felicità reale o vera, il fatto è che in qualche modo la
felicità stessa è suscettibile di valutazione.
O dovere che prescinde dalla felicità, o felicità che prescinde dal dovere: in
entrambi i casi si ha a che fare con un concetto di filosofia morale che non
rende conto della complessità della condotta umana.

49 Qui recepisco e sviluppo la tesi sostenuta da H.H. FREYTAG, Gluck und Hochster Wert.
\Yliderspruch und Ausgleich, Sankt Augustin 1982, 10-13.
28 Capitolo I

(1 9) 3) Sia le teorie di etica normativa sia quelle di metaetica hanno come


presupposto, considerato ovvio, che la morale consiste essenzialmente nella de­
terminazione della retta azione in base a principi o norme o in base alla valuta­
zione delle conseguenze; può aggiungervisi la considerazione del motivo (una
volontà che compie il dovere per amore del dovere) e dei problemi inerenti
alla realizzazione o esecuzione dell'azione retta. Designo questa concezione del
problema morale, che, come vedremo nel capitolo II, è tipica dell'etica mo­
derna, come concezione riduttiva, perché, se la determinazione o l'esecuzione
dell'azione retta per motivo del dovere può essere un bene o un fine in sé,
qualcosa che ha in sé e non in altro di che attrarre l'intenzione del soggetto,
non può essere tuttavia il fine ultimo ed esclusivo né il senso ultimo e perciò
globale della condotta umana. Non può essere il fine cui ultimamente ed esclu­
sivamente il soggetto intende, perché ciò che attrae il volere dell'uomo non è
ultimamente il dovere come tale, ma il bene; non può essere il senso ultimo e
globale, cioè l'effettiva realizzazione o conseguimento del fine cui s'intende,
perché il dovere eseguito non satura da solo i desideri che stanno ali'origine
dell'azione. Designo come comprensiva una concezione del problema morale
che lo consideri nel contesto più ampio della situazione pratica originaria, nella
quale il soggetto agisce in rapporto col mondo in vista d'un fine ultimo, cioè
per stabilire una corrispondenza tra sé e il mondo che sia buona, arrecante com­
pimento al soggetto; inoltre, nella situazione pratica originaria qual è attestata
dall'esperienza morale, il soggetto non può eludere la questione del criterio re­
golatore dei suoi fini e delle sue azioni: il compimento ch'egli cerca può essere
giusto o sbagliato, vero o falso e le azioni che lo realizzano possono essere
rette o scorrette. Nella concezione comprensiva né la felicità prescinde dal do­
vere, né il dovere prescinde dalla felicità, ma tra i due vi è una necessaria con­
nessione che è compito della teoria etica non sopprimere, ma spiegare.
(20) 4) In questa concezione comprensiva dell'etica, richiesta dalla situa­
zione pratica originaria, all'azione umana è riconosciuta la sua complessità più
di quanto non sia riconosciuta nelle concezioni riduttive.
L'azione umana consiste, in prima approssimazione, in un qualche rappor­
tarsi da parte del soggetto agente con le realtà del mondo; mediante essa egli
s'inserisce in una rete di rapporti con le cose, con le persone, con Dio. In
quanto il rapportarsi col mondo è operato dallo stesso soggetto agente, nell'a­
zione umana son distinguibili due tipi di attuazioni: le attuazioni volitive od
esistenziali e le attuazioni esecutive od esperienziali.
Le prime consistono nell'esercizio stesso della libera volontà e nell'esercizio
della ragione pratica e degli appetiti passionali in quanto intervengono con la
volontà a produrre le libere scelte. Le seconde consistono nell'esercizio di tutte
le altre facoltà che, in dipendehza dalla libera volontà, eseguono le libere scelte
dando origine a diverse esperienze del soggetto col mondo e producendo uno
stato di cose nel mondo (attuazioni di conoscenza, di gioco, di espressione arti­
stica, ecc.) .
Felicità e virtù nella filosofia pratica 29

Le attuazioni esistenziali a loro volta hanno una loro complessità che pro­
viene dal modo discorsivo con cui ragione pratica e volontà operano nella pro­
duzione di libere scelte. Le scelte infatti non costituiscono una successione cao­
tica di atti non riferiti l'uno all'altro, ma nella loro varietà individuale dipen­
dono da intenzioni più generali, soggiacenti, più o meno coordinate a formare
un piano di vita o uno stile di vita. Per esprimere questa relativa continuità
soggiacente alla diversità delle scelte particolari usiamo i termini condotta o
vita morale.
La stessa continuità è riscontrabile nelle attuazioni esperienziali, che nella
loro molteplicità e diversità soddisfano a inclinazioni generali e costanti dei sog­
getti umani. Per esprimere questa continuità usiamo il termine vita in senso
ampio (in senso stretto il termine vita designa la condotta) .
(21 ) Orbene, la filosofia morale, se diventa comprensiva e, più che concen­
trarsi esclusivamente sulle singole azioni, si applica a studiarle in quanto costi­
tuiscono la condotta umana, non può a meno di riconoscere che la condotta ri­
cava la sua variegata unità e il suo senso da uno scopo generale e ultimo, che con­
venientemente designamo con il termine «felicità».
La condotta infatti non comporta soltanto né principalmente che il sog­
getto soddisfi razionalmente i desideri (inclinazioni, interessi, bisogni, ten­
denze, appetiti) che si trova ad avere o per natura o per apprendimento; que­
sta razionalità funzionale non costituisce ancora l'azione vera e propria. Azione
si ha quando l'inclinazione che sta all'origine del comportamento è prodotta
dal soggetto stesso; egli la produce in se stesso come consenso o interessa­
mento a ciò che egli stesso giudica che sia un bene (designerò come «bene in­
telligibile» il bene giudicato e voluto come tale) .50 L'azione umana è costituita
tale non perché mira al soddisfacimento razionale dei desideri che l'uomo si
trova ad avere in vista d'una felicità edonica, ma perché mira, grazie ad un vo­
lere prodotto dal soggetto, ad un bene che è giudicato e compreso come tale
dal soggetto stesso.
Decisivo è dunque nella costituzione dell'azione umana il bene intelligibile.
La ragione per cui l'uomo, nell'azione, si rapporta alle realtà del mondo, è che
egli giudica e vuole sia le realtà sia le azioni a titolo di bene, o bene in sé (fine)
o bene in quanto media il fine (mezzo). «Bene», sostanziale od operabile, de­
signa una realtà che per la sua attualità, la ricchezza di essere che dispiega nel­
l'esistere secondo una propria natura, è in grado di attuare una qualche poten­
zialità del soggetto. Ciò che fa del rapporto tra soggetto e mondo un'azione è
il fatto che il soggetto ne è principio, e ciò grazie alla capacità che egli ha, me­
diante l'intelligenza, di pronunciare sulle realtà e sulle azioni un giudizio di
bontà o di valore (giudizio pratico) . In funzione del bene che il giudizio per-

'" Criticando la riduzione dell'etica ai desideri che la natura umana si trova ad avere, John
FINNIS, Fundamentals of Ethics, Oxford 1983, ripropone il concetto aristotelico e tomista di bene
intelligibile come oggetto della volontà.
30 Capitolo I

mette di assumere come oggetto di intenzione, il soggetto produce in sé un'in­


clinazione nuova, un volere razionale, definito proprio dal suo nuovo oggetto,
che è il bene intelligibile. È questo volere razionale che è principio dell'azione.
(22) Proprio perché il principio dell'azione e della condotta sta nell'intelli­
genza e nella volontà del bene come bene si deve dire che ilfine ultimo dell'a­
zione e della condotta è la felicità. Da una parte infatti la nozione di bene è
massimale: se il soggetto umano è autore di condotta in quanto capace di vo­
lere tutto ciò che può essere giudicato un bene, il desiderio naturale della sua
volontà avrà un'apertura indefinita non solo verso diversi tipi di bene, ma
anche verso ciò che è maggiormente bene, e al limite è bene in modo ottimale.
D'altra parte se definiamo la felicità facendo riferimento alla situazione pratica
originaria, potremo dire (in prima approssimazione e in attesa delle analisi che
seguiranno) eh' essa è da intendere come condizione ottimale del soggetto nel
mondo. Se «bene» designa una realtà, esistente od operabile, che è in grado
di compiere o perfezionare le potenzialità del soggetto, ottimale sarà la condi­
zione del soggetto nel mondo che dia al soggetto il massimo di perfezione in
proporzione alle disponibilità del mondo e alle capacità del soggetto; detto in
altro modo, la condizione nella quale il soggetto entra in rapporto con i beni
del mondo più perfetti a lui accessibili (beni sostanziali) mediante le attuazioni
(beni operabili esistenziali ed esperienziali) più perfette a lui possibili.
Della felicità così intesa diciamo ch 'essa è fine ultimo della condotta umana,
in quanto non vi è altra ragione che si possa assegnare alle azioni umane e che
le accomuni, se non il fatto ch'esse procedono tutte da una volontà che desi­
dera naturalmente la felicità.
Proprio nella felicità come fine ultimo, e quindi globale, sta la ragione per
cui le azioni umane non si succedono casualmente ma formano una condotta
ove azioni tese a fini più globali spiegano e integrano azio11i tese a fini più par­
ticolari e nel loro insieme costituiscono una via alla realizzazione della condi­
zione ottimale o felice per l'uomo. Owiamente una condotta ultimamente ispi­
rata alla felicità, qual è la condotta umana, ha senso solo se tale realizzazione è
assolutamente possibile e riesce di fatto.
A causa di questa complessità della condotta, nella quale il soggetto è im­
pegnato a conseguire la condizione ottimale in un contesto assai complesso di
realtà del mondo e di desideri del soggetto, è molto più appropriato concepire
la vita morale non come �secuzione di norme o realizzazione di valori o calcolo
razionale per la felicità edonica, ma come governo del proprio comportamento
per realizzare la condizione ottimale per l'uomo.
In una filosofia morale concepita come filosofia pratica della condotta o del
governo della vita umana il concetto di felicità svolge perciò una funzione cen­
trale. È essa che, in quanto fine ultimo, definisce la condotta umana e le dà
senso; l'uomo, dal punto di vista pratico, è principalmente un ricercatore di fe­
licità, di una condizione ottimale nel mondo, da realizzare nel governo della
propria vita.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 31

(23) 5 ) L a teoria etica che prende le mosse dalla situazione pratica origina­
ria è comprensiva, e non riduttiva, non solo nel senso che riconosce la comples­
sità dell'azione e la sua finalizzazione alla felicità, ma anche nel senso che, pro­
prio in connessione con la felicità, può render conto del dovere morale e della di­
stinzione tra buona e cattiva condotta, tra azioni moralmente giuste e sbagliate,
e del criterio secondo cui nell� nostra esperienza morale operiamo tale distin­
zione.
Se infatti la distinzione tra bene e male morale riguarda la condotta in
quanto essa ha il suo principio in un volere razionale, se il volere si specifica in
base al suo scopo e se scopo naturale della volontà è la felicità, vuol dire che
tale distinzione riguarda innanzitutto, nella volontà, lo scopo stesso cui la vo­
lontà intende, nel senso ch'essa può intendere ad una felicità giusta, degna, do­
verosa, oppure ad una felicità non giusta, indegna, sconveniente; vi può esser
cioè una felicità vera ed una felicità falsa.
Sicché, come il problema pratico per l'uomo non è solo cercare la felicità,
ma cercare la felicità degna e doverosa, così la filosofia pratica della condotta
umana, che prende avvio dalla situazione pratica originaria e dall'esperienza
morale, deve spiegare sia in che senso la felicità è lo scopo della condotta
umana, sia in che senso e con quale criterio si possa parlare di felicit'à vera,
degna e doverosa.
In questa filosofia morale il problema del « che cosa devo fare» non è di­
stinto dal problema del « che cosa posso fare, come posso vivere», come, se­
condo l'ispirazione kantiana, propone W. Kamlah per ricuperare all'etica il pro­
blema della felicità.51 Le due questioni vanno invece congiunte: che cosa
posso fare, secondo le mie reali possibilità individuali, per realizzare la condi­
zione ottimale, degna, doverosa per l'uomo? Con buona pace di Kant, la pru­
denza, in questa filosofia, cessa di essere semplicemente pragmatica, comé arte
di soddisfare razionalmente i bisogni per massimizzare la felicità edonica; essa
ritorna ad essere quello che era per Aristotele e per Tommaso d'Aquino, la
virtù cardine e principale del governo della vita umana, virtù che regola il
modo di realizzare nei limiti dell'individuo la condizione ottimale e degna o do­
verosa per l'uomo; non una qualsiasi felicità, ma la felicità vera.
Ciò che ho tracciato è semplicemente un programma, uno schizzo di filoso­
fia morale come filosofia pratica della condotta umana o del governo della vita
umana; ho proposto delle tesi ma senza sostenerle con argomentazioni; ambi­
guità e problemi li ho sorvolati. In questo capitolo mi soffermo a chiarire la no­
zione di felicità, il senso della distinzione tra vera e falsa felicità, il ruolo della
virtù nella vera felicità. Nei capitoli seguenti mi soffermerò sulla componente
esistenziale della felicità, la condotta o vita morale, per spiegare più diffusa­
mente il criterio in base al quale si distingue tra buona e cattiva condotta, in

" Cf. W. KAMLAH, Philosophische Anthropologie.


. Sprachkritische Grundlegung und Ethzk,
Mannheim - Wien - Ziirich 1973.
32 Capitolo I

che senso la condotta buona è anche doverosa, e quale funzione svolgono le


virtù nella buona condotta.

lii. VERSO UNA RINNOVATA CONCEZIONE DEL RAPPORTO TRA VIRTÙ E


FELICITÀ

1 . Una concezione inclusiva della felicità

(24) 1) Ogni discorso sulla felicità incappa in un groviglio di difficoltà. In­


fatti «il concetto della felicità è un concetto così indeterminato che, sebbene
ogni uomo desideri giungere ad essa, nessuno tuttavia è in grado di dire deter­
minatamente e coerentemente che cosa, in verità, desideri e voglia». 52 D'altra
parte « SU che cosa sia felicità [sia la massa sia le persone distinte] sono in di­
saccordo, e la massa non la definisce allo stesso modo dei sapienti».53 La
realtà stessa designata col termine felicità è così complessa che occorrono vari
termini per designarla, sovente intraducibili da una lingua all'altra: compi­
mento, épanouissement, Erfullung, ful/illment, flourishing ; vita buona, riuscita,
degna d'esser vissuta, piena di significato; realizzazione di sé; perfezione, inte­
grazione, identità; qualità della vita; benessere della persona, Wohlbe/inden,
wellbeing. Il termine stesso felicità è carico d'un' ambiguità semantica alla quale
ha dedicato particolare attenzione Tatarkiewicz.
Ora questo che potrebbe sembrare un grosso inconveniente del termine e
del concetto di felicità potrebbe anche rivelarsi come un grande vantaggio. Vi
deve essere infatti una ragione di tanta indeterminatezza, disparità di opinioni,
ambiguità, sinonimia e polisemia, e la ragione potrebbe essere la straordinaria
complessità di quella realtà che designamo come felicità, ma una complessità
tale per cui i molteplici elementi che la costituiscono hanno una interna con­
nessione che spiega come il significato del termine felicità possa fluttuare dal­
l'uno all'altro e dia origine a espressioni paradossali: « ha sacrificato la sua feli­
cità», « ha cercato nel sacrificio di sé la sua felicità». In un senso la felicità è
ciò che t�tti necessariamente desiderano, in un altro è ciò che può o deve es­
sere sacrificato.
Se la diversità dei discorsi sulla felicità ha per fondamento la complessità
della realtà stessa designata con questo termine, allora sarà più adeguata la no­
zione difelicità che sarà più inclusiva, e cioè che sarà capace di accogliere e giusti­
ficare i diversi significati del termine e le diverse realtà che in diverso modo con­
tribuiscono a integrare la felicità. A significare nel linguaggio questa nozione in­
clusiva dovrà essere scelto fra i tanti a disposizione quel termine che per l' ela­
sticità del suo significato meglio si presta a esprimere la diversità delle realtà

52 I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, sez. II, a cura di Vittorio Mathieu, Mi­
lano 1982, l lOs.
53 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, I, 4, a cura di Claudio Mazzarelli, Milano 1979, 87s.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 33

che integrano il tutto inclusivo e a connotare la loro interna connessione. Tale


è appunto il termine /elicità.54
(25) Non è il caso di fare qui una rassegna critica anche solo delle princi­
pali nozioni di felicità prodotte nella storia del pensiero. Ai fini della ricerca
d'una nozione inclusiva di felicità è sufficiente cogliere alcuni spunti e valutarli
prendendo come punto di riferimento la situazione pratica originaria, nella
quale un soggetto con sue concezioni, sue inclinazioni, suoi desideri e interessi
si confronta con un mondo di beni ricco di disponibilità. Se la felicità è lo
scopo ultimo della pratica, essa deve consistere in una certa corrispondenza tra
il soggetto, la sua condotta o vita morale, le sue esperienze da un lato, il
mondo, i suoi beni, il suo stato di cose dall'altro. Orbene a questa corrispon­
denza accennano, benché diversamente, sia la concezione aristotelica sia la con­
cezione kantiana della felicità, tanto per citare le due concezioni predominanti
nella storia del pensiero filosofico. Aristotele sostiene che «il bene dell'uomo
consiste in una attività dell'anima secondo la sua virtù, e se le virtù sono più
d'una, secondo la migliore e la più perfetta».55 Poi aggiunge: «È manifesto
tuttavia che essa [la felicità] ha bisogno, in più, dei beni esteriori».56 Ciò si­
gnifica che la felicità non può consistere solo in un'attività del soggetto, ma
comporta una qualche relazione tra soggetto e mondo. Questa presenza del
mondo è connotata anche dalla definizione kantiana, che pure accentua l'a­
spetto soggettivo: « Felicità è la condizione di un essere razionale nel mondo, a
cui, nell'intera sua esistenza, tutto va secondo il suo desiderio e volere».57 La
relazione tra soggetto e mondo è esplicitamente formulata in un'osservazione
che Kraut fa quasi di passaggio, purtroppo senza sfruttarla a fondo: «La feli­
cità richiede una convenienza tra la natura di una cosa e il suo ambiente, e poi­
ché i nostri desideri formano una parte importante della nostra natura, noi non
possiamo essere felici se essi non sono realizzati».58 Proseguendo in questa di­
rezione mi pare che la nozione più inclusiva sia quella proposta e sviluppata da
H. Kramer: « La vita qualificata si realizza essenzialmente nella relazione tra
l'uomo e ciò che gli sta di fronte»;59 «la vita qualificata implica quindi una re­
lazione col mondo, e perciò ogni sua categoria articola un determinato atteggia­
mento verso il mondo e una situazione fondamentale dell'uomo nel mondo, sia
nella forma di mondo dei beni sia nella forma di mondo sociale».60

54 «Happiness is the most suitable [word] to begin with, as it can cover anything from get­
ting what I want at the moment to entering into eterna! life. It not imply approva! or disapprova!,
nor require any mora! or philosophical point of view. It can span the whole range of the greater
and the less, the intense and the calm, the earthly and the heavenly. So we can use it with mini­
mum of confusion to ask questions about the meaning of !ife» (OPPENHEIMER, The Hope 2).
55 Etica Nicomachea, I, 7= Mazzarelli 102.
56 Ivi I, 8
= Mazzarelli 102.
57 Critica della ragion pratica, p. I, I. II, c. II, 5
= Mathieu 340.
58 KRAUT, Two Conceptions 187.

59 KRAMER, Prolegomena 80.


" 0 Ivi 8 1 .
34 Capitolo I

(26) 2) Riprendendo le analisi di Kramer e integrandole ove mi sembrano


lacunose, delineo questa relazione tra soggetto e mondo che designamo come
felicità.
Non qualsiasi relazio_ne tra soggetto e mondo costituisce la felicità, ma
quella che è ottimale, cioè conveniente sia al soggetto sia al mondo; al sog­
getto, in funzione delle possibilità di rapporto col mondo che gli sono offerte
dalla sua natura; al mondo, di cose e di persone, in funzione delle disponibilità
che esso può offrire secondo la natura delle realtà che lo costituiscono:
A tale relazione di convenienza s'accompagna nel soggetto una reazione
emotiva di gratificazione e soddisfazione che costituisce l'aspetto soggettivo
della felicità, o felicità edonica. Ciò che Kramer non rileva è che, perché la rea­
zione emotiva possa esser qualificata come felicità, occorre che la relazione ot­
timale tra il soggetto e il mondo sia conosciuta e voluta dal soggetto;
Infine là relazione di convenienza, perché possa dirsi felice, non deve consi­
stere in una massimizzazione assoluta e incondizionata di ogni soddisfazione
possibile all'uomo; la convenienza felice comporta una misura, una propor­
zione tra le possibilità che la natura specifica e individuale fornisce al soggetto
e le disponibilità del mondo secondo la natura delle realtà che lo costitui­
scono.
La relazione tra soggetto e mondo assume tre forme fondamentali, che Kra­
mer denomina categorie della vita buona o qualificata:
a) Eutychia - atychia, dystychia: è l'inatteso, il casuale; il lungamente deside­
rato, sperato o temuto che finalmente accade; suscita il sentimento di essere og­
getto di favore, di grazia, di accoglienza o di rifiuto e condanna; quindi la rico­
noscenza o l'angoscia e la disperazione. È una categoria insostituibile, fonda­
mento delle altre; la sua eliminazione mediante l'autarchia o la pianificazione
totale non è possibile né desiderabile «poiché essa offre le più forti possibilità
di felicità, che non possono essere sostituite da una felicità programmata».61
b) Disponibilità - indisponibilità: la vita buona è sostenuta dalla consapevo­
lezza della disponibilità che offre il mondo e delle possibilità della propria na­
tura specifica e individuale; è essa che permette la determinazione del fine e
del senso della vita, l'elaborazione di un progetto e di un corso di vita, la li­
bertà di scelte preferenziali.
e) Eupraxia - apraxia, dyspraxia: è l'attuazione d'una potenzialità del sog­
getto e della relativa disponibilità del mondo. Tale attuazione avviene nelle
azioni ed è di tipo sia esistenziale (attuazioni della volontà: intenzioni, scelte) ,
sia di tipo esperienziale (esecuzione di scelte mediante l'esercizio delle altre fa­
coltà operative). In quanto è nell'azione che si attua il rapporto tra soggetto e
mondo, la categoria dell'eupraxia è principale nella costituzione della felicità,
in quanto in essa si dà la felicità in atto.

61
Ivi 86.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 35

A queste tre categorie del rapporto di convenienza tra soggetto e mondo


occorre aggiungere, a causa della temporalità dell'esistenza umana, la categoria
del bilancio temporale: essendo la qualità della vita anche funzione di un giudi­
zio sulla vita vista come un tutto, nel quale passato e futuro misurano il giudi­
zio sul presente, « il bilancio temporale è definibile come valutazione della vita
nel suo corso temporale sulla base del suo riuscire o del suo fallire».62 Esso
comprende alcune sottocategorie, che articolano la connessione tra temporalità
e qualità della vita:
a) minimun eudemonico: «il grado di giustezza e bontà della vita, che è ne­
cessario perché una vita riesca a lungo termine»;
b) eukairia - akairia: la possibilità di rapporto col mondo in funzione delle
opportunità offerte dallo scorrere del tempo; per cui «la vita come un tutto è
riuscita nel modo più felice quando sono state sfruttate tutte le singole possibi­
lità man mano che si presentano »;63
c) ritmo di variazione e di costanza;
d) accrescimento o diminuzione delle disponibilità del mondo, delle potenzia­
lità del soggetto, della proporzione del loro incontro. L'accrescimento delle po­
tenzialità del soggetto è costituito da un perfezionamento delle facoltà opera­
tive al modo di habitus.
A causa di questa complessa struttura è giustificabile che nel linguaggio or­
dinario, o letterario, o filosofico, o religioso, o delle scienze umane, il termine
felicità passi a designare ora l'uno ora l'altro dei suoi aspetti o dei suoi ele­
menti o dei suoi momenti. Inoltre proprio in ragione di questa sua struttura in­
terna è ovvio che la figura concreta di felicità possa variare da individuo a indi­
viduo e nel corso della vita d'uno stesso individuo; conseguentemente nell'esi­
stenza temporale degli individui umani la felicità non si realizza mai in modo
perfetto, ma ammette diversi modi di realizzazione e diversa stabilità.
(27) 3 ) Questa nozione inclusiva di felicità che ho delineato seguendo l' ab­
bozzo fenomenologico di H. Kramer esige ancora alcune considerazioni grazie
alle quali sarà possibile comprendere il rapporto tra felicità e virtù.
a) Il rapporto di convenienza tra soggetto e mondo può esser compreso
come felicità solo se le disponibilità del mondo sono in grado di attuare le po­
tenzialità del soggetto. Ora questo è possibile perché le realtà che stanno di
fronte al soggetto esercitano o dispiegano, esistendo, una attualità e un valore
c�e è definito dalla loro natura. È questa attitudine degli esseri che vogliamo
esprimere quando diciamo che essi sono dei beni per il soggetto. Prendendo
questi beni come oggetto della sua conoscenza, della sua attenzione, del suo in­
teressamento e della sua attività, il soggetto attualizza le sue potenzialità. Nella

•2 Ivi 94.
63 Ivi 95.
36 Capitolo I

costituzione della felicità è perciò determinante l'oggetto buono con cui il sog­
getto entra in rapporto.
(28) b) Non è però ancora sufficiente che il soggetto sia in rapporto con un
oggetto buono perché tale rapporto realizzi la felicità. Infatti attribuiamo la fe­
licità solo a soggetti che non siano semplicemente senzienti, ma anche co­
scienti, intelligenti, capaci di scelta. Perché ci sia felicità è necessario che la
bontà dell'oggetto sia scoperta, riconosciuta e compresa come tale: è il tipo di
conoscenza che designamo come intelligenza; ed è necessario che la bontà del-
1' oggetto, svelata dall'intelligenza, sia apprezzata, voluta, cercata, amata e go­
duta come tale: questo tipo di interessamento designamo come volontà.
(29) e) La categoria fondamentale della vita felice in quanto rapporto tra
soggetto e mondo è quella dell'eutychia : la disponibilità del mondo (2• catego­
ria) e l' eupraxia del soggetto (3" categoria) suppongono tutte che qualcosa sia
dato o accada o si dia il caso che ci sia: « Il momento eutychico è congiunto a
ogni disponibilità ed opera nella riuscita di qualunque eupraxia. D'altra parte
si può - eupraticamente provocare l'indisponibile, esponendosi consape­
volmente ad esso. Per cui nella prassi le categorie cooperano costantemente e
si modificano vicendevolmente».64
Se si tiene presente che tra le realtà del mondo con cui il soggetto entra in
relazione il posto principale lo occupano le persone e ancor più Dio, inteso
come persona che è principio trascendente creatore d'ogni altra realtà, emerge
un aspetto necessario della struttura della felicità che di solito è trascurato
nelle teorie della felicità. Generalmente la felicità viene considerata, seguendo
l'impostazione data da Platone e da Aristotele, solo dal punto di vista dell'atti­
vità del soggetto. Essa invece è anche funzione dell'attività e dell'atteggiamento
delle altre persone e di Dio stesso nei riguardi del soggetto; è la categoria che
designerò come eudokia. La sua possibilità balenò appena nella mente di Ari­
stotele, senza ch'egli la prendesse seriamente in considerazione: « Se dunque
c'è qualche altra cosa che sia dono degli dèi agli uomini, è ragionevole che
anche la felicità sia un dono divino, tanto più che essa è il più grande dei beni
umani».65
La felicità è costituita anche dall'atto benevolo delle persone e di Dio verso
il soggetto e dalla sua capacità di accogliere il loro atto. Atto altrui che il sog­
getto non può produrre in nessun modo, ma che dipende dalla libera atten­
zione e benevolenza altrui verso il soggetto, e che è accolto dal soggetto come
dono, come favore, come grazia. Non che il soggetto non vi possa contribuire
in nulla con la sua volontà; ma qui si tratta di liberi rapporti personali che ob­
bediscono alla logica della benevolenza e dell'amore.
Di più: nella misura in cui ogni realtà dipende dal libero principio crea-

64 Ivi 88s .
. 65 Etica Nicomachea, I, 9 = Mazzarelli 103.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 37

tote, il momento eudokico della felicità è comprensivo di tutti gli altri, ne è il


principio ed il termine. Se dunque l'eupraxia del soggetto contribuisce alla rea­
lizzazione della felicità, non tutto nella felicità dipende da essa e sarà neces­
sario studiare i rapporti tra eupraxia ed eudokia.
Per questa via la felicità della vita umana è strutturalmente aperta ad una
comunicazione personale di Dio nella forma d'una rivelazione e d'una grazia so­
prannaturale quali sono insegnate dal Cristianesimo.
(30) d) Alla felicità come relazione tra soggetto e mondo è essenziale la pro­
porzione, la commisurazione,66 che si oppone alla massimizzazione incondizio­
nata della soddisfazione di qualsiasi bisogno o desiderio. Ora la commisura­
zione suppone un metro, un criterio di misura ed una capacità regolatrice. È
questo il contributo della ragion pratica nella realizzazione della felicità, un
contributo che si effettua secondo quattro funzioni:67
1) indicare l'azione più appropriata per un fine;
2) confrontare, valutare, soppesare, deliberare tra diverse possibilità di
azione;
3 ) stabilire regole, principi, norme;
4) esigere la doverosa attenzione al supremo valore.
Di queste quattro funzioni la principale è la quarta, giacché indicando il va­
lore supremo la ragion pratica fornisce anche il criterio secondo cui si valutano
moralmente i fini e le azioni che li realizzano e si stabiliscono principi, regole e
norme. La funzione d'indicare il valore supremo non può essere estranea alla
felicità, se è vero che la felicità è lo scopo ultimo della condotta umana. Indi­
cando il valore supremo e richiedendo doverosa attenzione ad esso, la ragion
pratica non fa che determinare una figura concreta di felicità e definisce quale
felicità in concreto, mettendo l'uomo in rapporto con il valore supremo, è feli­
cità degna, giusta, doverosa, conveniente all'uomo.
In questo modo la ragion pratica discrimina tra vera e falsa felicità e forni­
sce un criterio e una regola in conformità alla quale deve (nel senso di dovere
morale) prodursi la commisurazione ottimale tra soggetto e mondo.
(31 ) e) Rispetto alle potenzialità che il soggetto si trova ad avere grazie alla
sua natura specifica ed individuale, la realizzazione della felicità secondo il
modo doveroso regolato dalla ragion pratica esigerà da lui che egli educhi ed
elevi le sue capacità per essere in grado di rapportarsi ai beni sostanziali e di
realizzare i beni operabili non in qualsiasi modo, ma come è doveroso per lui
in quanto uomo e come è dovuto al valore di tali beni, specialmente quando si
tratta delle altre persone o di Dio. Vi è dunque nella vita umana una felicità ac­
cessibile, non immediatamente, ma solo in forza d'un potenziamento, d'una ele­
vazione, d'uno sviluppo delle capacità operative che le porta ad apprezzare e

66 Kramer parla di «Angemessenheit».


67 Attingo da H.H. FREYTAG, Gluck 37-67.
38 . Capitolo I

ad interessarsi ai beni nel modo doveroso e degno per l'uomo. È qui, come ve­
dremo, che interviene la virtù, intesa come elevazione delle capacità umane
all'altezza delle azioni richieste dalla felicità vera e doverosa.
(32) La nozione inclusiva di felicità che ho delineato è essenziale alla filosofia
morale concepita come filosofia pratica del governo della vita umana. Tale no­
zione infatti esprime il senso della condotta umana: se agire è per il soggetto en­
trare in rapporto con le realtà del mondo, la nozione inclusiva di felicità es­
prime che il senso dell'azione sta nello stabilire un rapporto ottimale tra il sog­
getto ed il mondo, rapporto nel quale in qualche modo il soggetto aggiusta se
stesso al mondo e in qualche modo aggiusta il mondo a se stesso, secondo una
misura di doverosa convenienza. Dal punto di vista pratico l'uomo è un ricerca­
tore di felicità. Il significato di questa affermazione ha tuttavia bisogno di es­
sere accuratamente stabilito, dal momento che esistono delle difficoltà per af­
fermare che la felicità è il fine ultimo, naturalmente e necessariamente perse­
guito da ogni uomo nella condotta della propria vita.

2. La felicità come fine ultimo naturalmente e necessariamente voluto dal­


l'uomo

(33) 1) Le difficoltà per affermare che la felicità è il fine universale e neces­


sario della condotta umana provengono dalla complessità concettuale e dalla
polisemia del termine felicità, per cui si può dire che uno sacrifica la propria fe­
licità per compiere il dovere, o che trova nel compimento del dovere la pro­
pria felicità, o che vede nel compimento del dovere l'unica via alla propria feli­
cità; si può dire che l'uomo cerca in ogni azione la propria felicità, o che
l'uomo può avere molti altri obiettivi oltre la propria felicità.
Per fare chiarezza su questo punto conviene partire da un'analisi della deli­
berazione e della scelta, nelle quali l'uomo esercita il dominio sulle proprie
azioni e sulla condotta della propria vita; infatti quando si dice che l'uomo
cerca in ogni cosa la propria felicità, ci si riferisce all'uomo proprio in quanto
è autore di condotta, di deliberazione e di libera scelta.
Ora il comportamento deliberato e scelto dal soggetto differisce dal com­
portamento dettato dall'impulso delle passioni per il fatto che nella delibera­
zione e nella scelta il soggetto ha una ragione per perseguire un certo fine o
per fare qualcosa.68 Avere una ragione per agire significa ritenere che un'a­
zione concreta e individualizzata o una linea di condotta è giudicata come ido­
nea a realizzare in qualche modo « ciò che è davvero la forma conveniente ed
appropriata o l'ordine che la propria vita dovrebbe avere»69 per poter essere
detta buona.

68 Compendio i risultati delle analisi condotte da N.J.H. DENT, The Mora! Psychology o/ the

Virtues, Cambridge 1984, 106-120, il quale si ispira ai concetti aristotelici di boulesis e prohairesis.
69 Ivi 107.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 39

Questa capacità di avere delle ragioni per agire, grazie alla quale l'uomo è
costituito agente vero e proprio, dipende: 1 ) da una concezione « di come uno
farebbe bene a vivere la propria vita»; 70 2) da un interesse affinché la con­
dotta della vita realizzi tale concezione.
N.J.H. Dent mostra che simile concezione e simile interesse si danno effet­
tivamente nell'uomo e che tale interesse costituisce un principio di azione di­
verso dal desiderio passionale. Qui voglio prolungare le sue analisi in un'altra
direzione.
Sono veramente principio della mia condotta quando: 1 ) sono io che giu­
dico circa la convenienza di un'azione a realizzare la vita buona; 2) sono io che
produco in me un interesse o desiderio per l'azione così giudicata, per l'azione
proprio perché è compresa e intesa come idonea a contribuire alla vita buona.
Tale interesse o desiderio lo denominiamo volontà per distinguerlo dal deside­
rio passionale.
(34) Ciò che è significativo allo scopo della presente indagine è che i giu­
dizi sulle azioni deliberate e scelte hanno un termine di riferimento comune, co­
stante, universale, l'idea appunto d'una vita buona, e che il soggetto produce
in se stesso un interesse o desiderio o volontà di tali azioni proprio in ragione
di questo loro riferimento alla vita buona; che è quanto dire che all'origine
delle deliberazioni e delle scelte sta una motivazione originaria, pure essa co­
mune, costante, universale, e cioè l'interesse (volontà) per una vita buona.
Quest'affermazione non sminuisce per nulla la complessa psicologia dei de­
sideri umani, addotta da Tatarkiewicz per mostrare l'inconsistenza dell'edoni­
smo psicologico e dell'eudemonismo psicologico:71 resta vero che « pratica­
mente ognuno desidera non solo avere qualche esperienza (come sarebbe il
caso se l'edonismo fosse corretto) , ma anche possedere qualcosa o essere qual­
cuno »;72 è vero che gli uomini desiderano conoscere, essere attivi, vivere, e
altro ancora. Ma non si può concludere come Tatarkiewicz: « Gli uomini perse­
guono differenti obiettivi, mentre l'universale ricerca della felicità è solo una
teoria costruita al fine di includere vari proseguimenti in una formula. Non è
vero che gli uomini fanno della felicità il loro fine e scelgono i mezzi per otte­
nerla. Ciò che può sembrare mezzo per un fine è in realtà l'unico fine».73 Un
oggetto comune, costante, universale della conoscenza pratica e della volontà è
necessario per rendere possibile la deliberazione e la scelta non solo all'interno
dei mezzi per il fine, ma anche tra fini.
Senza una motivazione 'originaria per la vita buona non avrebbe senso par­
lare del governo della propria vita; mancherebbe una continuità ed un'identità
e l'esistenza sarebbe spezzata in segmenti sconnessi; ogni azione ed ogni corso

'0 Ivi 108.


71 Cf. TATARKIEWICZ, Analysis 294-3 15.
72 Ivi 3 12.
" Ivi 308.
40 Capitolo I

d'azione sarebbe isolato e l'uomo non potrebbe dare un senso alla propria
vita.
Senza una motivazione originaria per la vita buona non ci potrebbe nem­
meno essere l'azione, in quanto verrebbe a mancare il principio dell'esercizio o
dell'efficienza. Infatti una totale indifferenza della volontà verso ogni oggetto
non potrebbe spiegare come mai il soggetto può decidersi all'azione; invece
un'originaria attrattiva o interesse per la vita buona può spiegare perché il sog­
getto si decida ad agire: tale interesse infatti costituisce il presupposto perché
il soggetto possa dare a se stesso una ragione per agire. Non può esistere,
come vorrebbe invece B. Schiiller,74 una decisione pura, che non sia né puro
arbitrio né preferenza. B. Schiiller ritiene che una decisione così radicale come
quella per la moralità non sia una preferenza, basata cioè sulla ragione che una
vita nella moralità soddisfa meglio il desiderio della felicità; in questo caso la fe­
licità costituirebbe una ragione per essere morali. Invece la decisione per la mo­
ralità sarebbe una decisione pura, fonderebbe se stessa, in quanto chi si decide
così, anche se non ha una ragione nella felicità, tuttavia sa per che cosa vuol de­
cidersi, e perciò la sua decisione non è arbitraria ma razionale. La domanda
giusta non sarebbe: « Perché devo essere morale?», ma: « Per che cosa voglio
decidermi? ». « La domanda: " Perché essere morali?", avrebbe senso se una de­
terminata forma dell'eudemonismo fosse giustificata ».75 Questo modo d'inten­
dere la decisione non spinge l'analisi fino al principio che la fa possibile: se in­
fatti so per che cosa mi voglio decidere, è perché sulla moralità pronuncio un
giudizio di bontà e di convenienza, la ritengo idonea e necessaria per una vita
buona, giudico che proprio nella moralità con�iste la vita buona.76
(35) 2) Occorre pertanto spingere più a fondo l'analisi che fa N.].H. Dent
del desiderio razionale, dell'interesse per un'azione voluta precisamente perché
è giudicata confacente ad una vita buona. In tale desiderio (volontà) vi è qual­
cosa di prodotto o causato dal soggetto e qualcosa di previo, di dato, di natu­
rale. Il desiderio razionale o volontà è prodotto quanto alla determinazione con­
creta di agire e di agire in questo modo; è previo, dato, originario, naturale
quanto alla motivazione formale, e cioè l'interesse per la vita buona, felice­
mente riuscita.
Un desiderio naturale per la vita buona è necessario perché ci sia un princi­
pio all'azione e una continuità nella condotta, per cui si possa parlare di una
vita buona. Ma è anche necessario che tale desiderio vada alla vita buona come
tale, sia puramente formale, indeterminato rispetto ad oggetti od azioni con-

74 Cf. Bruno SCHÙLLER, Der menschliche Mensch. Au/siitze zur Metaethik und zur Sprache
der Mora!, Diisseldorf 1982, 82-85. Cf. sopra n. 48.
75 Ivi 85.
76 Con ciò non voglio intendere che una decisione per la moralità come tale si possa dare
nella vita umana; ma questo è un altro problema. Alcuni spunti critici contro la teoria d'un'op­
zione fondamentale per la moralità o la ragionevolezza in ]. FINNIS, Fundamentals o/ Ethics,
Oxford 1983, 142- 144.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 41

crete, affinché esso possa costituire il principio d'un processo di libera autode­
terminazione, di concentrazione voluta su un'azione concreta. Il desiderio natu­
rale della vita buona non è perciò un atto di scelta, ma il principio che fa pos­
sibile la scelta; non è un atto compiuto, ma il principio di atti compiuti; non è
un atto empiricamente verificabile, ma la loro condizione di possibilità. La vita
buona, felice, riuscita, non è una delle tante cose volute dall'uomo, ma la ra­
gione per volere tutto ciò che vuole.
(36) Conviene ora precisare ulteriormente l'oggetto formale di questa moti­
vazione originaria o volontà naturale, perché anche qui la complessità concet­
tuale e la polisemia del termine felicità introducono delle difficoltà.
Vi può benissimo essere, e sovente di fatto vi è nel soggetto umano, un de­
siderio per il piacere sensoriale o un desiderio per soddisfare una qualche pas­
sione; come tali essi non sono desideri razionali. Ciò che distingue il desiderio
razionale è che esso va a un oggetto per la precisa ragione che esso è giudicato
un bene per il soggetto: un bene, cioè qualcosa che attualizza le potenzialità
del soggetto e pertanto contribuisce alla vita buona. Simile desiderio razionale
può anche posarsi sul piacere sensoriale, ma per la precisa ragione che proprio
il piacere sensoriale è giudicato un bene per il soggetto. Fulcro della motiva­
zione originaria è pertanto l'interesse per tutto ciò che può essere giudicato un
bene per il soggetto e, in quanto bene, atto a render buona la vita.
Ma la nozione di bene non è sufficiente, da sola, ad esprimere il movente
originario dell'azione volontaria. « Bene» infatti si dice sia di ciò che è bene in
ragione di se stesso (fine, bene in sé) sia di ciò che è bene in ragione di qual­
cos'altro (mezzo, bene relativo al fine). È chiaro che il movente principale è
solo il bene che è fine. D'altra parte la nozione di bene è nozione aperta ad
un'intensificazione massimale, nel senso che ammette gradi di perfezione; sic­
ché la volontà inclinata al bene è inclinata anche al massimo di perfezione, ad
un fine ultimo che è bene supremo. A questo punto ritroviamo la nozione in­
clusiva di felicità: se bene, nel senso di bene sostanziale, sono le realtà del
mondo in quanto arrecano perfezione al soggetto, e nel senso di bene opera­
bile sono le azioni con cui il soggetto entra in rapporto con le realtà del
mondo, e se pertanto bene è quella condizione del soggetto nel mondo che ar­
reca perfezione al soggetto, allora bene supremo è la condizione ottimale del
soggetto nel mondo, nella quale il soggetto, con le migliori azioni entra in rap­
porto con le migliori realtà.
Perciò l'interesse naturale per la vita buona è un interesse complesso e arti­
colato: esso va ai beni relativi al fine in ragione di quei beni in sé che sono
fini; esso va, come al suo oggetto generale, alle realtà del mondo e alle azioni
nelle quali il soggetto entra in rapporto con esse (nelle azioni consiste propria­
mente la vita buona) ; esso infine va, come al suo oggetto principale, alla condi­
zione ottimale del soggetto nel mondo, cioè alla felicità in senso inclusivo. La
felicità così intesa, cioè in senso inclusivo e formale, è un fine naturalmente e ne­
cessariamente voluto da ogni uomo, nella misura in cui egli esercita nell'azione
l'intelligenza e la volontà.
42 Capitolo I

È un fine comune, costante, universale, e dunque il fine ultimo. Dicendo


<< Ultimo» si vuol esprimere il fatto che esso è insuperabile per l'uomo, costitui­
sce l'interesse proprio dell'uomo quando egli, nell'azione, si rapporta al
mondo; dà il senso alla sua condotta e al governo della vita umana. In rap­
porto a Dio Creatore la felicità costituisce il supremo modo di partecipazione,
creata e naturale, alla perfezione divina.
(37) 3 ) Questa maniera di intendere la felicità come fine ultimo natural­
mente e necess�riamente voluto dall'uomo permette di superare alcune diffi­
coltà provocate dalla complessità concettuale e dalla polisemia del termine feli­
cità.
a) Si può sacrificare la propria felicità per non venir meno a un dovere, ad
un impegno di fedeltà, ad un'amicizia. L'espressione ha senso se riferita ad al­
cune componenti o forme comprese nella nozione inclusiva di felicità e che
nel linguaggio corrente catturano il termine felicità ; si tratta o di qualche pia­
cere, o della possibilità di trascorrere una vita piacevole o della soddisfazione
di qualche desiderio particolarmente intenso o coltivato o ritenuto importante.
La felicità così intesa non è certamente fine ultimo della condotta umana. 77
Tuttavia, intendendo la felicità in senso inclusivo e formale, si può anche affer­
mare che è precisamente in ragione della felicità che una persona preferisce il
dovere, la fedeltà ad un impegno oneroso, ad un'amicizia, in quanto tale per­
sona avverte che questo corso d'azione è l'unico modo per lei di dar senso alla
vita, di condurla bene.
b) Motivare il dovere e in generale ogni azione moralmente buona con il ri­
ferimento alla felicità non è necessariamente distruggere il bene morale. Qui
gioca molto la polisemia del termine felicità. Se con esso si designa, come so­
vente accade nel linguaggio corrente e in certe filosofie che si rifanno all'illumi­
nismo e all'empirismo utilitarista, la ricerca di una vita piacevole o più in gene­
rale la soddisfazione delle proprie preferenze come criterio di condotta, allora
la motivazione della felicità è incompatibile con la ricerca del bene morale.
Questo però è un significato molto ridotto del termine felicità. Intesa nel suo
senso inclusivo e formale la felicità non solo è compatibile con il bene morale,
ma anzi, come vedremo, il bene morale contribuisce alla vera felicità. Infatti
nella nozione inclusiva di felicità il fulcro è costituito dal bene: che un oggetto
dell'azione sia giudicatQ come un bene costituisce la ragione formale per cui
esso è voluto; che esso sia un bene del soggetto non è la ragione per cui è vo­
luto, ma la condizione perché possa esser voluto dal soggetto. La nozione inclu­
siva e formale di felicità non comporta necessariamente né egoismo né altrui­
smo, ma è aperta a qualsiasi possibilità.

77 Riferendosi alla happiness (felicità edonica) , ha ragione Telfer: «In this essay I have ar­
gued that happiness in our normai modem sense of the word. is an attitude to our lives which can
be pursued but is not necessarily pursued, either as a sole end or as one among severa! ends, or
even necessarily wanted by everyone» (Happiness 135).
Felicità e virtù nella filosofia pratica 43

Qui raggiungiamo il nucleo del problema che ci sta occupando: l'espe­


rienza morale attesta che l'uomo, costituito per natura ricercatore di felicità,
può cercare rapporti con il mondo sia in modo degno, retto, giusto, doveroso,
sia in modo indegno, ingiusto, errato, da evitare. Ciò si esprime sovente ricor­
rendo al binomio vero/falso, reale/apparente: l'uomo può realizzare nella vita
in qualche modo una felicità vera e reale oppure solo falsa e apparente. Il crite­
rio per una tale distinzione non è certamente la felicità; ma la felicità come fine
ultimo dà il senso a tale distinzione: la distinzione tra bene e male in senso mo­
rale, retto ed errato, giusto e ingiusto, ha senso perché indica all'uomo la via
per la vera felicità.
Ora però la distinzione tra vera e falsa felicità è esplicitamente negata dai
sostenitori della tesi soggettivista, per i quali non esistono standard ontologica­
mente oggettivi di felicità, ma ciascuno è giudice insindacabile della propria fe­
licità. I recenti teorici della felicità, di orientamento analitico empirista, vanno
tutti in questa direzione. In confronto critico con essi intendo mostrare quale
sia il senso della distinzione tra vera e falsa felicità.

3. Senso della distinzione tra vera e falsa felicità

(38) 1) È ammissibile che nessuno possa giudicare se un soggetto si sente fe­


lice se non il soggetto stesso. La tesi soggettivista che nega o ignora qualsiasi
standard ontologicamente oggettivo di felicità è plausibile se riferita alla felicità
in senso soggettivo o edonico. Ma la questione della felicità non finisce lì: al di
là delle possibili sensazioni di felicità vi è la questione dell'essere felici, del con­
durre una vita che sia veramente felice. L'esperimento mentale della « mac­
china delle esperienze», proposto da R. Nozick e ripreso da J. Finnis, aiuta a
comprendere che cos'altro sia rilevante, oltre il sentimento di gratificazione,
perché vi sia felicità. 78 La macchina è congegnata in modo tale che essa può
provocare, mediante stimolazione del cervello, in un soggetto immerso per
tutta quanta la vita in un fluido, tutte le esperienze che egli desideri. È deside­
rabile una simile esistenza di esperienze alle quali non corrisponde alcuna
realtà? Al soggetto è offerta una durata di soddisfazioni, non una vita di atti­
vità, riuscite, compimenti; è una durata che consiste nel non fare assoluta­
mente nulla, si tratta solo di fluttuare in un liquido connesso a una macchina
che provoca nel soggetto l'esperienza di qualsiasi soddisfazione egli desideri.
L'intrinseca insufficienza d'una simile esperienza di felicità appare solo se ci si
pone dal punto di vista pratico e ci si chiede se simile esistenza è degna d'esser
desiderata da un uomo. L'ovvia risposta negativa significa che all'uomo ciò che

78 Seguo l'argomentazione di J. FINNIS, Fundamentals 37-42, ove sviluppa le considerazioni


di Robert NOZICK, Anarchy, State and Utopia, Oxford 1968, 42-45, sull'esperimento mentale della
macchina delle esperienze.
44 Capitolo I

più importa non è avere esperienze e sentimenti gratificanti, ma reaJizzare una


vita che sia veramente buona e dia compimento alle proprie potenzialità. L'e­
sperimento mentale della macchina delle esperienze svela 1) che per l'uomo ha
importanza la stessa attività, l'attuare; 2) che per l'uomo è un bene mantenere
la propria identità; 3) che per l'uomo l'apparenza non è un buon sostituto
della realtà. Il soggettivismo assoluto è dunque insostenibile dal punto di vista
pratico della condotta umana, poiché « non dice nulla di come dobbiamo con­
durre la nostra vita».79
(39) Non dunque qualsiasi felicità è importante per l'uomo. Una distin­
zione s'impone, ed è sovente espressa nel linguaggio corrente e in quello filoso­
fico,80 tra forme autentiche e forme illusorie di felicità. Che la distinzione
abbia un senso legittimo Io si può mostrare attraverso due considerazioni. In­
nanzitutto la felicità, anche in senso soggettivo, è funzione dell'importanza che
un soggetto attribuisce a certi fini; ma la questione dell'importanza di certi fini
non è puramente soggettiva, e dunque sull'importanza si può avere un giudizio
vero o errato. Inoltre,81 non fa un uso errato del termine felicità colui che
vuol mostrare che la vita condotta da molti che si ritengono felici non è affatto
felice, o che il soggetto che s'inganna sui fini degni di esser perseguiti non può
esser considerato come uno che conduce una vita felice. Se questo uso del ter­
mine felicità, mirante a operare una rivalutazione, un ravvedimento, è legit­
timo, significa che vi è un senso a qualificare la felicità come vera o come
falsa.
La possibilità e la necessità di questa distinzione si rende manifesta se si man­
tiene la nozione inclusiva di felicità. Essa è una condizione ottimale del sog­
getto in rapporto col mondo molto complessa, e l'uomo, discorsivo e proce­
dente per aspetti e momenti nel suo volere come nel suo pensare, può orien­
tarsi diversamente e quanto alle componenti della felicità e quanto al loro or­
dine. La configurazione concreta della sua felicità dipende dalle sue scelte, e le
scelte possono essere giuste o sbagliate dal punto di vista di ciò che è degno
per l'uomo, pertanto possono contribuire ad una felicità vera o falsa.

79 KRAUT, Two Conceptions 192.


80
V. ad es. T. QUONIAM, Bonheur et salut. Un combat pour la conquete de l'etre, Paris
1979, 6 1 : « Qu'envient-ils donc au fond? Moins le bonheur que l'envers du bonheur, cette face
grossière et matérielle qui en masque l'essence et la corrompt: le bonheur-jouissance et non le bon­
heur-confiance; le bonheur-fébrile et non le bonheur-action; le bonheur-démission et non le bon­
heur-paix. Accueillants au bonheur-mollesse, ils se détournent du bonheur-force; séduits par le
bonheur-égo'isme, ils se détournent du bonheur-amour>>.
Riprendendo una distinzione suggerita da Kant, FREYTAG, Gluck, distingue tra Gluck e Gluck­
seligkeit: «Ghick ist die Sammelbezeichnung fiir eine erstrebte Gefi.ihlslage, die je nach Veranla­
gung und Weltanschauung die unterschiedlichsten Inhalte haben oder, genauer, auf die unter­
schiedlichsten Zustande zuri.ickgefiihrt werden kann» (5 1); « [Gliickseligkeit] das Gliicksgefiihl,
das die Erfiillung des Obersten Grundsatzes, d.i. die Erfiillung von Gottes Willen mit sich fiihrt»
(75).
"' Cf. KRAUT, Two Conceptions 183- 187.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 45

(40) 2 ) Per determinare che cosa s'intende significare con l'espressione « fe­
licità vera», mi pare che il metodo più opportuno sia sottoporre a critica i si­
gnificati comunemente intesi:
a) felicità vera è la felicità ideale, perfetta, che realizza le seguenti condi­
zioni: non è dovuta a soddisfazione di cattivi desideri; non comporta inganno o
ignoranza; è stabile e non passeggera; comporta l'apprezzamento per le cose
più elevate nella vita, per cui « attribuire vera felicità è implicitamente valutare
una persona, giudicare se il suo stile di vita è degno di imitazione e ammira­
zione»;82
b) felicità vera è quella che soddisfa i reali bisogni dell'uomo, le sue inclina­
zioni naturali;
e) felicità vera è quella conforme alle leggi di sviluppo dell'essere umano;
d) felicità vera è quella che realizza il fine per cui l'uomo è fatto, per cui è
creato, il fine assegnato all'uomo dal Creatore.
I significati b) e) d) hanno un limite comune: essi non fanno riferimento a
un criterio decisivo per distinguere tra vera e falsa felicità. Infatti, se si consi­
dera l'uomo dal punto di vista pratico della condotta, il soggetto non ha altro
modo di stabilire se un bisogno è reale o no, se un'inclinazione è naturale o
no, e perciò se sono o non sono da soddisfare nella condotta, tranne il ricorso
al giudizio della ragion pratica. Ugualmente è dal giudizio della ragion pratica
che si può venir a conoscere quali siano le leggi di sviluppo dell'essere umano
o quale sia il fine per cui la natura umana è fatta. La conoscenza del criterio
per distinguere vera e falsa felicità non parte dalla natura umana per conclu­
dere ad una retta direttiva di condotta, ma parte dall'autonomo giudizio della
ragion pratica sui beni da perseguire per concludere alle potenzialità della na­
tura umana che appunto soltanto dal punto di vista della ragion pratica si sve­
lano. 83 Pertanto è la ragion pratica il criterio decisivo per la distinzione tra
vera e falsa felicità, e a partire da questo criterio si possono ora spiegare gli
altri significati intesi con tale distinzione.
Se l'aggettivo vero significa una conformità o una corrispondenza della
realtà che esso qualifica con un qualche criterio o metro di giudizio, allora si
può tracciare il seguente quadro dei significati dell'espressione « vera felicità»:
a) Vera felicità è quella conforme al giudizio della ragion pratica che giu­
dica quali beni l'uomo debba incondizionatamente perseguire o realizzare. Fe­
licità vera è allora quella che dev'esser cercata, doverosa, degna, legittima, giu­
sta.
b) La felicità vera nel senso a) è più felicità che non la felicità indegna. Il
concetto di felicità è di quelli che ammettono una graduazione di realizzazione

82 V. Wayne DAVIS, A Theory of Happiness, in American Philosophical Quarterly 18 ( 1981)


l l ls.
8' Questa concezione del rapporto tra ragion pratica e natura è ben sviluppata, rifacendosi
ad Aristotele, da J. FINNIS, Fundamentals 1-25.
46 Capitolo I

da un minimo a un massimo. Parlando di vera felicità si vuol dire perciò che


la felicità degna e doverosa realizza meglio il concetto stesso di felicità, corri­
sponde cioè alla sua integra o ideale essenza, si avvicina di più alla condizione
ottimale, al massimo che l'uomo possa proporsi.
e) La felicità doverosa è certamente conforme alla volontà di Dio sul­
l'uomo, al fine per cui è fatta la natura umana; felicità vera è pertanto quella
che corrisponde al progetto di Dio sull'uomo.
d) Felicità vera è infine quella che corrisponde alla natura umana, alle sue
naturali inclinazioni, in quanto giudicate dalla ragion pratica.
Il significato di « vera felicità» è originariamente relativo al dover essere
dell'uomo; di lì si sviluppa il riferimento al poter essere e infine all'essere del­
l'uomo.
(41 ) 3) Ulteriori considerazioni sono necessarie per superare alcune diffi­
coltà inerenti a ciascuno dei quattro significati.
a) A prima vista potrebbe sembrare che il primo significato comporti una
contraddizione in termini: come si può parlare di felicità doverosa se felicità
comporta gradimento e dovere comporta obbligazione? Qui la difficoltà sorge
dall'ambiguità del termine dovere, il quale è diventato portatore di due signifi­
cati diversi ma bloccati in uno da una lunga tradizione di filosofia e teologia
morale che assegna il primato alla legge. Dovere può significare obbligazione in
senso stretto, cioè il debito di una persona verso un'altra (sovente di un infe­
riore verso un superiore) in forza di un atto (promessa, contratto, patto) e di
una situazione (sudditanza) ; è di tali obbligazioni che si occupa la legge. Ma
questo non può essere il significato primario del termine dovere, giacché il sog­
getto umano non può accondiscendere a simili obbligazioni se non in forza di
un giudizio che stabilisca che esse sono un bene per l'uomo, un bene che deve
essere p erseguito. Dovere significa allora, primariamente, un bene degno del­
l'uomo, un bene che dev'esser perseguito proprio perché è degno dell'uomo.
Felicità doverosa non significa allora felicità a cui si è obbligati in forza d'una
legge, ma felicità che, in ragione del bene che essa è, è degna di esser perse­
guita liberamente da un uomo. La felicità doverosa non è la sanzione con cui
si premia un soggetto che adempie gli obblighi della legge, ma è il bene o la
condizione ottimale, degna dell'uomo, nella quale egli deve porre la sua com­
piacenza e di cui deve rendersi capace mediante l'educazione virtuosa delle pro­
prie facoltà operative. ·

(42) b) La felicità vera, nel senso di degna e doverosa, costituisce la possibi­


lità estrema di compimento dell'uomo in quanto essere pratico, e dunque rea­
lizza al meglio la nozione stessa di felicità, l'essenza della felicità come condi­
zione ottimale di rapporto vicendevole tra il soggetto e il mondo delle cose e
delle persone. Giustamente si dice che è più felicità la felicità del buono e del
giusto che quella del cattivo e dell'ingiusto. La felicità doverosa infatti costitui­
sce il massimo di commisurazione tra soggetto e mondo, il massimo di presta-
Felicità e virtù nella filosofia pratica 47

zione e di attività da parte del soggetto, il massimo di gratificazione, diletto e


gioia. Anche in questo senso si dice che essa è vera felicità.
La vera e la falsa felicità non sono semplicemente due figure concrete dif­
ferenti che realizzano la stessa nozione formale di felicità, ma la vera felicità
realizza adeguatamente la nozione formale, mentre la falsa felicità la realizza di­
fettosamente. Il linguaggio corrente non esplicita sempre questa distinzione,
ma la sottintende quando usa il termine felicità in senso antonomastico, per
esempio quando si dice che il vizio non rende felici.
Ovviamente nella nozione inclusiva di felicità questa condizione ottimale è
funzione non solo di ciò che il soggetto può realizzare con la sua attuazione,
ma anche di ciò che le altre persone e soprattutto Dio possono realizzare nei
confronti del soggetto. La felicità doverpsa resta pertanto aperta, suscettibile
di un potenziamento che si può misurare non solo in base alle disponibilità
della natura umana (e di Dio in quanto Creatore della natura umana) , ma
anche a quelle della natura divina, attuabili solo mediante rivelazione e dono
soprannaturale di grazia. La felicità doverosa, a misura d'uomo, può esser ele­
vata a diventare beatitudine,84 condivisione per grazia della stessa vita di Dìo,
e della beatitudine si può dire in modo definitivo e insuperabile che essa è vera
felicità.
(43) e) Solamente a partire dalla felicità vera e doverosa, quale è prospet­
tata dalla ragion pratica come fine della condotta umana, si può parlare di feli­
cità vera come quella per cui è fatta o creata la natura umana, quella che corri­
sponde ai reali desideri dell'uomo, o alle sue inclinazioni naturali. Di che cosa
sia capace l'uomo in virtù della sua natura o quali siano le sue più profonde e
reali aspirazioni lo si può sapere solo appunto nell'esercizio della ragion pra­
tica che guida le scelte: dall'oggetto si conoscono gli atti, e dagli atti le facoltà
o potenzialità, e da queste la natura come loro principio. Il fatto, originario
nell'ordine pratico, che l'uomo non può prescindere, nella condotta scelta, dal
giudizio della ragion pratica circa il bene o il male, e quindi circa la felicità
vera e doverosa, getta luce sulla sua natura e sulle sue inclinazioni naturali:
egli è per natura un soggetto capace della felicità doverosa e che ha verso di
essa una naturale inclinazione, come suggeriscono le esperienze dello sdegno e
del pentimento davanti al male morale. La distinzione tra reali desideri e desi­
deri avventizi o illusori o. vani è possibile solo sulla base del giudizio della ra­
gion pratica circa il bene degno per l'uomo; è una distinzione che ha signifi­
cato morale e questa spiega come mai sia possibile che l'uomo non segua i
suoi reali desideri nelle scelte della sua condotta.
(44) d) Morale è anche il senso da attribuire all'espressione «leggi dell'es­
sere umano», « sviluppo normale delle sue potenze».85 Queste leggi e questa

84 Giustamente mantengono la distinzione concettuale tra felicità e beatitudine i dizionari fi­


losofici di A. Lalande, P. Foulquié R. Saint-Jean, N. Abbagnano.
-

85 «Le bonheur n'est pas un lot suspendu au sommet de quelques miìt de cocagne et qu'il
48 Capitolo I

norma sono appunto i giudizi della ragion pratica circa il bene e circa il male.
Per avere un senso praticabile, l'espressione « sii ciò che tu sei» non può rife­
rirsi a ciò che tu sei né secondo la natura empiricamente intesa, troppo ambi­
gua, né secondo la natura metafisicamente intesa, troppo generica, ma secondo
la natura quale si esprime nei dettami della ragion pratica.86
Proprio perché è la ragion pratica che svela la natura umana e i suoi reali
desideri, la felicità doverosa può esser detta vera anche nel senso che non in­
ganna, non smentisce né delude le profonde aspirazioni dell'uomo.
(45) 4) Ammettendo che abbia un senso la distinzione tra vera e falsa feli­
cità, la posizione che qui sostengo è da qualificare, con Kraut, una concezione
oggettivista della felicità. Oggettivista è «la concezione secondo cui un soggetto
non dev'esser considerato felice se egli non s'approssima ragionevolmente a vi­
vere la miglior vita di cui è capace [ . . . ] . Non spetta a voi determinare dove stia
la vostra felicità; ciò è stabilito dalla vostra natura, ed il vostro compito è sco­
prirlo ». 87 L'oggettivista « propone che noi abbandoniamo i nostri correnti stan­
dard soggettivi di felicità, e che giudichiamo invece ogni persona con un crite­
rio più severo ed oggettivo ».88 Per cui, anche se un individuo soddisfa i suoi
più profondi desideri, l'oggettivista sostiene che la sua vita potrebbe non es­
sere conveniente alla sua natura.89 Per essere felice, una vita deve ragionevol­
mente avvicinarsi all'ideale, e le concezioni oggettiviste possono differire nel
modo più o meno inclusivo di concepire tale ideale.
La nozione di felicità vera comporta certamente il riferimento ad un ideale
di felicità, di vita buona, riuscita, degna, doverosa. Tuttavia esso non è argui­
bile a partire dalla natura, bensì è posto dalla ragion pratica, e solo partendo
da qui si può arguire per che cosa sia fatta la natura dell'uomo. Se standard og­
gettivi di felicità vi sono, essi non sono da desumere dalla natura, né empirica­
mente né metafisicamente intesa, bensì dai dettami della ragion pratica. Per
questa via si può rispondere alle difficoltà mosse da Kraut alla concezione
d'una vita ideale.90
a) Secondo lui non sarebbe possibile determinare che cosa debba essere in­
cluso e che cosa escluso dalla vita ideale. Ritengo che questo sia possibile se si
esplicitano i presupposti impliciti nei ragionamenti pratici. « Quando la que-

faut décrocher au prix d'efforts acrobatiques. Signe de la saine croissance de l'etre conformément
à sa loi, il convient d'interpréter ce signe et d'en traduire !es symptòmes par un diagnostic sur»
(QUONIAM, o.e. 45) ; «Le bonheur est un signe, signe de la saine croissance de notre fare et de l'é­
closion normale de ses puissances» (ivi 53).
86 Cf. le pertinenti critiche alla concezione scolastica delle leggi della natura umana da parte
di Germain GRISEZ, The Way o/ the Lord Jesus, I: Christian Mora! Principles, Chicago 1983, 103-
105.
87 KRAur, Two Conceptions 180s.
88 Ivi 186.
89 Ivi 187.
'0 Ivi 189- 192.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 49

stione è perché fare qualcosa, la deliberazione presto arriva a un bene che non
è semplicemente un mezzo per un fine, ma esso stesso un aspetto del compi­
mento personale individuale e comunitario ».91 L'insieme dei fini, compresi
nella loro bontà, che forniscono le ragioni ultime per agire costituiscono l'i­
deale della vita felice.
b) Kraut esige che l'oggettivista spieghi perché la vita ideale è realmente
ideale. Rispondo: lo è perché, a titolo di fine ultimo posto dalla ragion pratica
alla condotta, costituisce la ragione ultima per agire.
e) Kraut chiede all'oggettivista di dimostrare che chi si orienta alla vita
ideale trova maggior gratificazione, e chi se ne allontana deve pervenire a rim­
piangere la sua decisione. Orbene, se la gratificazione è tanto maggiore quanto
maggiore è la riuscita, la vita ideale o felicità vera costituisce l' ultimum pOten­
tiae, il massimo delle possibilità operative dell'uomo, mentre l'allontanarsene
costituisce un fallimento, un vero peccato.
d) Kraut chiede che si mostri che cosa muove le persone a preferire la vita
ideale; con Aristotele si può rispondere: è necessario fermarsi nella ricerca dei
motivi; la vita ideale è per se stessa motivo primo per agire e principio degli
altri motivi, in ragione del bene che essa è per l'uomo.
e) Kraut è anche disposto ad ammettere che in principio una teoria della
vita ideale è possibile. La sua difficoltà decisiva è che «presentemente non ab­
biamo un metodo difendibile per scoprire la distanza di ciascuna persona dalla
vita ideale»,92 per cui è necessario ricorrere a criteri soggettivi. Questa diffi­
coltà nasce dal considerare la vita ideale come perfettamente definita e termi­
nata, quando invece, come vedremo, è piuttosto una direzione che orienta la
condotta ma alla quale non è possibile assegnare un termine a cui ci si avvi­
cini; dà alla crescita della persona il senso, non il traguardo.
Inoltre le differenze tra gli individui nel condurre la vita orientandosi se­
condo l'ideale di vita buona non sono differenze di grado su una stessa scala,
bensl differenze nel modo di realizzare la vita buona, in funzione di capacità,
circostanze, situazioni, opportunità del tutto singolari ed irrepetibili. Lo stesso
Kraut ammette questo oggettivismo modificato: d'oggettivismo sarebbe una
dottrina più umana qualora valutasse la vita di ogni persona con uno standard
che riflettesse le sue 'inalterabili capacità e circostanze».93
È questo il senso dell'ideale di felicità vera che andrò delineando. Prima
però occorre spiegare in che modo la ragion pratica costituisce il criterio per la
determinazione della vera felicità.

91 GRISEZ, o.e. 133.


92 KRAUT, a.e. 192.
93 Ivi 194: «By tailoring each person's ideai to fit his current limitations [ . ] objectivisin can
..

be a human outlook» (ivi 195).


50 Capitolo I

4. Criteri per la determinazione della vera felicità

(46) La felicità, intesa in modo inclusivo, costituisce la motivazione formale


ultima delle scelte, ma appunto per questo non può essere essa stessa criterio
di scelta retta né da essa si possono dedurre criteri di scelta retta: la felicità,
che è lo scopo formale della condotta, non può essere regola di condotta.
Il criterio primo e fondamentale per distinguere tra vera e falsa felicità, e
quindi tra condotta buona e cattiva, è da ricercarsi nella ragion pratica; ma in
che modo la ragione sia pratica e come fornisca tali criteri deve essere ulterior­
mente precisato, giacché la storia della filosofia morale conosce diversi modi
d'intendere la ragion pratica.
Non è sostenibile la nozione di ragion pratica propria della teoria scola­
stica, di matrice suareziana, della legge naturale.94 In questa concezione la ra­
gione è anzitutto speculativa, in quanto scopre le leggi della natura umana e
giudica, speculativamente, se un'azione da porre è conforme o no alla natura
umana. Diventa pratica la ragione quando trasmette il comando del legislatore
divino di realizzare simili azioni. Non è sostenibile tale concezione sia perché
la natura umana, largamente indeterminata rispetto alle azioni individuali, non
fornisce alcun criterio preciso di condotta; sia perché deduce il dover essere
dall'essere di fatto.
Nemmeno è sostenibile la roncezione kantiana di ragion pratica pura, che
prescinde cioè da ogni inclinazione della natura umana. Simile ragione intro�
duce un dualismo insanabile nell'individuo umano e nella sua condotta e ri­
sulta di fatto impraticabile.95 Inoltre essa non dispone d'un principio che la
renda pratica, non essendo sufficiente a renderla pratica l'interesse per la li­
bertà, concepita come autonomia dalle inclinazioni della natura sensibile. Tale
libertà infatti non ha in sé una motivazione che la smuova dall'indifferenza e la
inclini all'azione. Il principio che rende pratica la ragione e fornisce una moti­
vazione alla libertà può esser solo l'apprensione del bene come bene.
Tuttavia non è nemmeno sufficiente dire, secondo la concezione humeana
e naturalista, che la ragione è resa pratica dal fatto di essere a servizio dei desi­
deri e delle passioni che di fatto un soggetto si trova ad avere. Simile soggetto
infatti non potrebbe esser considerato autore della propria condotta, in quanto
non sarebbe nella possibilità di giudicare i propri desideri da un punto di vista
superiore e decidere, sulla base di tale valutazione, se seguirli o non seguirli.
Affinché il soggett0 possa essere autore di condotta ed abbia tuttavia una

94 Cf. G. GRISEZ, Christian Mora! Principles, Chicago 1983, 103- 105 con bibliografia. Fonte
principale per questo tipo di teoria è il De legibus ac de Deo legislatore di Francisco Suarez. Per
un'ampia e illuminante critica alla teoria scolastica della legge naturale e per una riscoperta del
concetto aristotelico e tomista di ragion pratica cf. Martin RHONHEI!v!ER, Natur als Grundlage der
Mora!, Innsbruck - Wien 1987, 24-42.
95 Cf. la critica di N. ROTENSTREICH, Practice and Realization. Studies in Kant's Mora! Philo­
sophy, The Hague 1979.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 51

motivazione alla condotta, occorre che la ragione sia resa pratica dal fatto di es­
sere originariamente in grado di apprendere e di valutare il valore di bontà sia
dei beni sostanziali del mondo, sia delle azioni, o beni operabili, con le quali il
soggetto stabilisce rapporti col mondo e che costituiscono la vita buona.
(47) Con ciò però la ragion pratica non è ancora costituita regola per discri­
minare tra azioni rette e azioni scorrette moralmente, giacché ogni azione, sia
essa retta o scorretta, in quanto è azione, è motivata dall'apprensione d'un
bene. La ragion pratica diventa regola di buona condotta solo quando consi­
dera e valuta i beni per l'uomo non ciascuno singolarmente, ma nel loro in­
sieme, in quanto tutti integrano il compimento umano, e li ordina in modo da
formare l'ideale della perfezione umana. Svilupperò più avanti, nel capitolo V,
questa concezione della ragion pratica. Per ora è sufficiente rilevare che la ra­
gion pratica discrimina tra vera e falsa felicità proprio perché essa stessa, sulla
base della sua apprensione dei beni umani, concepisce originariamente un
ideale di perfezione umana che dà alla felicità come scopo formale della con­
dotta non solo una figura determinata, ma la figura degna e doverosa per
l'uomo.
Alla luce di questo ideale da essa originariamente concepito la ragion pra­
tica pronuncia giudizi di bontà umana, degna, vera, doverosa, sui rapporti
che, nella condotta, il soggetto stabilisce col mondo; e dunque su tutto ciò che
contribuisce alla condotta: le inclinazioni e i loro fini, le intenzioni, i piani di
vita, le passioni e gli affetti, le scelte a lungo o a corto raggio, le azioni, le circo­
stanze.
(48) Il modo più ovvio e corrente d'intendere quest'attività giudicatrice
della ragion pratica è di rappresentare la ragione subito e immediatamente
come legislatrice e precettrice, e quindi di rappresentarsi la vita morale come
un esercizio di conformazione delle scelte ai precetti o norme della ragion pra­
tica. È questo il modo più ovvio e più corrente perché costituisce il primo sta­
dio della genesi della coscienza morale negli individui ed è il modo a cui gene­
ralmente gli individui restano fissati per il seguito della loro vita. È questo
stesso lo schema fondamentale che soggiace alla maggior parte delle teorie filo­
sofiche e teologiche. Ma l'attività primaria della ragion pratica non può consi­
stere nel formulare precetti che servano da criterio per il giudizio sulla rettitu­
dine delle scelte. Un precetto infatti ha senso ed è accettabile dal soggetto
umano solo se si fonda su un concetto del bene degno e doveroso per l'uomo;
d'altra parte i precetti hanno un limite insuperabile: sono poco pratici, non
sono sufficienti a regolare la condotta umana nella complessità e variabilità
delle situazioni, sia quando essi sono troppo generali, sia quando sono formu­
lati in maniera molto dettagliata. L'attività legislatrice e precettrice della ragion
pratica è utile e necessaria, ma non è l'attività primaria.
La ragione è invece originariamente pratica per il fatto che comprende il va­
lore di bontà dei beni sostanziali e dei beni operabili. Essa stessa diventa re­
gola morale discriminante tra bene e male, tra vera e falsa felicità per il fatto
52 Capitolo I

che da se stessa essa, sulla base della valutazione dei beni, concepisce un or­
dine intenzionale dei beni umani in modo da costituire l'ideale della perfezione
umana; stabilisce cioè il modo con cui il soggetto deve volere, intendere, sce­
gliere i beni umani operabili, e attraverso essi i beni sostanziali. Concependo
possibili atti di volontà regolati in quel modo, la ragion pratica concepisce l'i­
deale di vita morale buona come parte integrante dell'ideale e perfetto rap­
porto tra soggetto e mondo, parte integrante della vera felicità o, se si vuole,
componente soggettiva esistenziale della vera felicità.
(49) Tuttavia la concezione originaria, da parte della ragion pratica regola­
trice, della vera felicità o ideale di perfezione u.mana e, al suo interno, la conce­
zione originaria d'un ordine intenzionale secondo cui devono esser voluti i
beni umani sono, a questo livello, ancor solo schematiche. Più che atti con­
creti e circostanziati di volere, la ragion pratica, a questo livello, concepisce
tipi generali di atti, ancora relativamente indeterminati. Invece gli atti concreti
sono assolutamente determinati e particolareggiati. È ancora la ragion pratica
che, ispirata dall'ideale di perfezione umana, cerca, escogita, inventa, costrui­
sce saggiamente possibilità di azioni, scelte globali e dettagliate, forme e piani
di vita, azioni particolari che realizzino concretamente l'ideale, nei limiti del
possibile. A questo livello, che è quello dell'applicazione, la ragione è pratica
nel senso che, orientata dall'ideale di perfezione umana e dall'interesse natu­
rale della volontà per realizzarlo, essa costruisce una condotta che realizzi nel
modo migliore, praticamente possibile nelle situazioni concrete, l'ideale di vita
moralmente buona e, attraverso essa, l'ideale della vera felicità.
In questo processo di applicazione la ragion pratica valuta le azioni sia in
base alle loro conseguenze, sia in base a delle norme, ma in entrambi i casi il
criterio regolatore è costituito dall'ideale di perfezione umana. Essa valuta le
conseguenze dell'azione, non iri quanto incidono su un bene-non-morale mag­
giore o un . male-non-morale minore da prodursi in uno stato di cose, ma in
quanto incidono sull'ordine intenzionale secondo il quale devono esser voluti i
beni ed evitati i mali. La valutazione delle conseguenze non segue un criterio
pre-morale, ma morale. Analogamente procede la ragion pratica nell'uso delle
norme: essa valuta saggiamente la loro applicazione alla luce dell'ideale di per­
fezione umana. Di ciò parlerò più ampiamente nel capitolo VI.
Per ora è importante rilevare che la ragion pratica, quando non è impedita
ed ostacolata dall'influsso di qualche passione, ma è lasciata libera & valutare
le azioni secondo i propri criteri, valuta né in funzione di desideri che di fatto
il soggetto si trova ad avere né in funzione d'una libertà concepita come auto­
nomia della ragione dalle inclinazioni della natura sensibile, bensì in funzione
d'un ideale di perfezione ch'essa assegna come scopo alla condotta umana; e
ciò, non nel senso ch'essa ordini la vita moralmente buona come mezzo per
conseguire qualche altro scopo, fosse pure la felicità, ma nel senso ch'essa sta­
bilisce che lo scopo formale della condotta umana, la felicità, si realizza vera­
mente, quanto alla sua componente soggettiva esistenziale, solo nella vita mo-
Felicità e virtù nella filosofia pratica 53

ralmente buona. Sicché la vita moralmente buona è il vero scopo ultimo della
condotta umana, o meglio la componente soggettiva esistenziale del vero scopo
della vita umana, della vera felicità.
(50) Abbiamo visto che la ragion pratica concepisce questo scopo dap­
prima in modo ancor solo schematico e relativamente indeterminato; in seguito
procede alla sua determinazione concreta in scelte circostanziate. Perciò distin­
guiamo due momenti nella ragion pratica: il momento del principio generatore
e il momento dell'elaborazione d'una figura concreta e particolareggiata di con­
dotta. Ciò per cui la ragione si costituisce pratica è il fatto di concepire origina­
riamente un ordine di fini umani,. un ideale di vita buona e di felicità vera. La
ragione, in quanto teoretica, può scoprire nell'uomo inclinazioni e fini; ma essa
diventa pratica quando, da se stessa, comprende e giudica che certi fini e beni
sono umanamente degni e doverosi. A questo livello la concezione dei fini
umani è sommamente generica: costituisce un'idea ispiratrice che cerca un
modo concreto e circostanziato di realizzazione.
Così si origina il secondo momento: la ricerca ragionata, deliberata, saggia,
di piani di vita, corsi d'azione, azioni circostanziate e dettagliate che realizzino
il complesso di fini umani, genericamente concepiti, che integrano l'ideale pra­
tico di vita buona e veramente felice. È il momento della saggezza pratica,
della phronesis aristotelica, della prudentia tomista.
In entrambi i momenti la ragion pratica determina la figura della vera feli­
cità; ma nel primo momento la sua concezione ideale è costituita da un ordine
di fini concepiti in modo generico e quindi valido per ogni soggetto umano;
nel secondo momento l'idea pratica di bene umano o di vera felicità diventa in­
dividualizzata e quindi unica e irrepetibile, diversa da un individuo all'altro.
Quest'analisi della ragion pratica permette d'individuare i criteri per la di­
stinzione tra vera e falsa felicità. A livello universale, valido per ogni uomo,
tali criteri sono costituiti dalle originarie, intuitive, immediate convinzioni della
ragion pratica che comprende come umanamente buoni, degni e doverosi certi
fini generali della condotta umana. A livello individualizzato, valido solo per il
singolo individuo, tali criteri sono costituiti dai ragionati e deliberati giudizi
prudenziali sull'azione da intraprendere, in quanto costituisce per l'individuo,
hic et nunc, il modo concreto di realizzare la vera felicità, possibile nella situa­
zione, idoneo e appropriato ai suoi limiti insuperabili.
La figura di vera felicità che cercherò di delineare corrisponde al livello
universale; se ne capisce ora il perché ed il senso.

5. La vera felicità

(51 ) Impostato in questo modo, il discorso sulla vera felicità diventa assai
complesso. L'Etica Nicomachea di Aristotele e la Secunda Pars della Summa
Theologiae di Tommaso d'Aquino non mirano ad altro che ad analizzare le com-
54 Capitolo I

ponenti di quella complessa grandezza che è la vera felicità per l'uomo. In en­
trambi i casi il grandioso affresco è preparato da un breve preliminare ab­
bozzo: « È certo infatti che bisogna prima buttar giù un abbozzo e poi, in se­
guito, svilupparlo. Si può ritenere che chiunque è in grado di portare avanti e
di delineare nei particolari gli elementi che si trovano ben impostati nell' ab­
bozzo, e che il tempo conduce a ritrovarli o comunque è un buon aiuto ».96 Il
mio intento è dunque ora tracciare un abbozzo della vera felicità per l'uomo;
non è questa la sede per procedere a svilupparlo. Dovrò invece soffermarmi a
chiarire alcune difficoltà che pone il fatto che la vera felicità per l'uomo pre­
senta una struttura molto complessa.

1) Una figura umana di felicità

(52) 1 ) Dovendo delineare un abbozzo preliminare, è necessario determi­


nare che cosa si tratta esattamente di cercare. Il punto di partenza è costituito
dalla nozione inclusiva di felicità: questa consiste in una commisurazione otti­
male tra soggetto e mondo. Il soggetto si commisura col mondo mediante di­
verse attuazioni, le quali portano a compimento le potenzialità specifiche e in­
dividuali del soggetto stesso. Per dare la commisurazione ottimale non sono
sufficienti attuazioni qualsiasi; occorrono attuazioni eccellenti alle quali è neces­
sario che il soggetto sia reso e si renda idoneo mediante un processo di educa­
zione, di istruzione, di disciplina, di formazione. D'altra parte il mondo, se­
condo termine di commisurazione, comprende cose e persone ed il loro princi­
pio Creatore Dio: le persone e Dio a loro volta si rapportano col soggetto me­
diante loro attuazioni, e pure da queste dipende la vera felicità.
La domanda si pone allora in questi termini: quali attuazioni sono eccel­
ienti, ottimali, desiderabili, sia da parte del soggetto sia da parte delle altre per­
sone, affinché si possa dare vera felicità per l'uomo? Per rispondere a questa
domanda occorre tener presente che le attuazioni umane possono esser consi­
derate da due punti di vista, cioè dal punto di vista pratico e dal punto di vista
morale.97
Considerare le attuazioni dal punto di vista pratico significa domandarsi
quali beni in esse il soggetto umano mira a realizzare e costituiscono lo scopo e

96 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, I, 7 = Mazzarelli 99.


97 Per la distinzione tra punto di vista pratico e punto di vista morale e per l'interpretazione
del punto di vista morale come riferito all'insieme dei beni umani seguo Germain GRISEZ, Chris­
tian Mora! Principles, Chicago 1983, 178- 189. Per la nozione e la classificazione dei beni umani
m'ispiro allo stesso GRISEZ, o.e. 1 15-140; cf. inoltre Germain GRISEZ - Russell SHAW, Beyond the
New Morality. The Responsibilities o/ Freedom, Notre Dame - London 1977, 64-75; John FINNIS,
Natural Law and Natural Rights, Oxford 1980, 81-99; cf. infine le importanti precisazioni che G.
GRISEZ, Joseph BOYLE e J. FINNIS apportano a questa loro teoria nel loro articolo Practical Princi­
ples, Mora! Truth, and Ultimate Ends, in The American Journal of]urisprudence 32 ( 1987) 99- 15 1.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 55

la ragion d'essere di tali attuazioni. Considerare le attuazioni dal punto di vista


morale significa domandarsi con quale volontà il soggetto intende a questi
beni e sceglie le attuazioni che li concretizzano. Dal punto di vista pratico cia­
scuna attuazione è considerata in quanto realizza un proprio bene specifico, di­
verso da altri beni, pure desiderabili, senza considerare i diversi beni nel loro
insieme. Dal punto di vista morale si considera com'è disposta la volontà, im­
pegnata in ciascuna attuazione, nei riguardi di tutti i beni per l'uomo, in
quanto ordinati in modo da formare il bene totale della persona umana, il suo
compimento e la sua perfezione.
(53) 2) Considerare le attuazioni dal punto di vista pratico in ordine alla
vera felicità significa allora domandarsi quali sono i beni che l'uomo cerca di
realizzare nelle sue attuazioni e che considera ingredienti necessari della feli­
cità, ossia del rapporto ottimale col mondo. A questa domanda non si può
dare alcuna risposta se ci si sofferma ad indicare le attuazioni concrete: queste
sono indefinitamente variabili. Tuttavia è possibile ricondurle ad un certo nu­
mero di tipi. Le attuazioni umane infatti hanno la caratteristica di presentarsi
come concretizzazioni, o mediazioni concrete, circostanziate, indefinitamente
variabili, di alcuni fini che sono comuni e globali, perché concepiti originaria­
mente in forma ideale e generica. Si tratta dunque di cercare i fini generali che
danno senso alla condotta umana, più precisamente quei fini che, per la bontà
loro propria, forniscono al soggetto le ragioni ultime per agire, sono il princi­
pio delle deliberazioni e delle scelte.
Tali fini si scoprono analizzando i propri ragionamenti pratici: costitui­
scono infatti il punto in cui termina la ricerca delle ragioni per scegliere; si
tratta di beni di per sé desiderabili per l'uomo, compresi immediatamente
come tali e come tali fatti oggetto di intenzione.
La difficoltà nell'individuare questi fini deriva dal fatto che le filosofie mo­
rali generalmente peccano per riduzionismo, volendo ridurre ad uno solo il
bene fondamentale per l'uomo; oppure forniscono liste assai divergenti ed ap­
prossimative. Questa difficoltà è anche connessa con un'altra, che deriva delle
leggi semantiche del linguaggio: tali fini non possono essere designati che con
termini generici ed è inevitabile che, per la loro fluttuazione semantica, essi
parzialmente si ricoprano. D'altra parte questi fini possono comporsi l'uno con
l'altro e dare origine a nuovi fini: p. es. la conoscenza teoretica, l'amore e la re­
ligione possono comporsi nella contemplazione amorosa di Dio.
Fatte queste riserve, è possibile tentare un quadro dei fini umani, di quei
fini che la ragion pratica comprende originariamente ed immediatamente come
beni per l'uomo. Li chiameremo beni basilari per significare ch'essi costitui­
scono i generi supremi di tutti i beni concreti indefinitamente variabili che
l'uomo cerca di realizzare nelle �ue attuazioni. Li chiameremo beni operabili in
quanto sono appunto fini da realizzare nelle attuazioni, che sono opera del sog­
getto agente.
Le attuazioni, e i loro rispettivi beni basilari, possono essere distinte in due
56 Capitolo I

grandi generi, a seconda che l'attuazione consista o no nell'esercizio stesso


della libera scelta.
Designeremo come beni esperienziali le attuazioni che, pur potendo esser
causate da libera scelta, non consistono esse stesse nell'esercizio della libera vo­
lontà, bensì nell'esercizio di facoltà diverse dalla volontà.
Sono beni esperienziali per l'uomo:
a) in quanto soggetto corporale animato: la vita, da mantenere e curare o
da procreare ed allevare;
b) in quanto soggetto razionale: la conoscenza di ogni tipo98 e l'esperienza
del bello;
c) in quanto simultaneamente razionale e animale: il gioco, larte, il lavoro.
Designeremo come beni esistenziali le attuazioni che consistono in un eser­
cizio di volontà per superare qualche conflitto, personale o interpersonale, e
per realizzare varie forme di armonia:
d) armonia con le altre persone, nel gruppo, nella società, nell'amicizia;
e) armonia in se stessi tra la volontà, la ragione, le passioni (pace inte­
riore) ;
fJ armonia tra le proprie scelte e il proprio comportamento (autenticità o
coerenza) ;
g) armonia con una realtà sovrumana che è principio di valore e di signifi­
cato per il mondo e per l'uomo.
(54) 3) Dal punto di vista morale tutti questi beni possono essere realizzati
in attuazioni volontarie, nelle quali la volontà può esser diversamente disposta
nei confronti dei beni basilari considerati come un tutto. Essa, mentre mira ad
attuarne. qualcuno concretamente, può esser aperta a tutti gli altri beni per
tutte le persone o può esser preclusa ed avversa a qualche bene per qualche
persona. Questa distinzione nasce quando la ragion pratica considera i beni ba­
silari non solo più come beni diversi, ma come beni che insieme sono neces­
sari al compimento e alla perfezione delle persone. Ragionando secondo questo
punto di vista la ragione dà origine a un insieme. di proposizioni pratiche che
costituiscono la regola morale secondo la quale la volontà deve regolarsi nelle
intenzioni, nelle deliberazioni e nelle scelte; la volontà conforme a tale regola
vien detta buona volontà. È in questo modo che la ragion pratica discrimina tra
vera e falsa felicità. Le attuazioni eccellenti di cui consta la vera felicità sono per­
tanto le attuazioni che realizzano i beni basilari con buona volontà.
Nella vera felicità i beni basilari sono tutti importanti e necessari; essa non
può fare a meno di nessuno, anche se saranno concretizzati nella vita indivi­
duale variamente e con diversa proporzione.
Nella vera felicità essi sono tutti importanti, ma per diversa ragione. I beni
esperienziali costituiscono il presupposto per la realizzazione dei beni esisten-

98 Sulla sapienza come bene umano cf. le belle pagine di Luigi LOMBARDI-VALLAURI, Corso
difilosofia del diritto, Padova 198 1 , 399-43 1 .
Felicità e virtù nella filosofia pratica 57

ziali e quasi la materia su cui si esercitano le attuazioni esistenziali, il loro con­


tenuto. Tra i beni esperienziali la vita è il più importante dal punto di vista
della necessità; i beni esistenziali sono più importanti dal punto di vista della
dignità o nobiltà, ma sono compromessi se non è curata e protetta la vita
stessa dell'uomo.99
Non solo i beni esperienziali, ma anche i beni esistenziali possono essere
realizzati con buona o cattiva volontà. Vi sono modi moralmente scorretti di su­
perare i conflitti interiori, di stabilire amicizie, di vivere in società, di rappor­
tarsi con Dio.
Tra i beni esistenziali moralmente corretti ha un certo primato l'autenti­
cità, intesa come saggezza pratica che regola effettivamente il comportamento.
Da essa dipende la correttezza morale di tutte le altre attuazioni; essa costitui­
sce quella che anticamente si chiamava la felicità della vita attiva. Ma essa da
sola non costituisce tutta la vera felicità.
Ancora tra i beni esistenziali moralmente corretti i più eccellenti, e dunque
i più gratificanti per il soggetto che li sa apprezzare, saranno l'amicizia e la con­
templazione amorosa di Dio con la connessa meditazione sapienziale. Costitui­
scono i vertici del compimento delle potenzialità umane, ma nemmeno essi da
soli esauriscono il bene umano: un uomo non potrà trovare vera felicità senza
Dio, ma non può trovare vera felicità solo in Dio.
(55) 4) Siamo ora in grado di tracciare un abbozzo della vera felicità. Te­
nendo presente ch'essa è la commisurazione ottimale tra soggetto e mondo se­
condo la regola morale, contribuiscono a formare la vera felicità:
a) sul versante del mondo: i beni sostanziali (le cose, le persone, Dio, in
quanto beni che sono desiderabili e con i quali il soggetto vuol mettersi in rap­
porto attraverso le sue attuazioni) ; le attuazioni di eudokia, cioè di buona vo­
lontà, da parte delle altre persone e di Dio verso il soggetto: anch'esse sono de­
siderabili per il soggetto, e benché egli non le possa produrre, vi si può di­
sporre e le può accogliere;
b) sul versante del soggetto: le attuazioni (beni operabili, esperienziali ed esi­
stenziali), nelle quali il soggetto entra in rapporto con i beni del mondo; la
buona volontà, e con essa il retto ragionare, il retto giudicare, il retto sentire af­
fettivamente, che contribuiscono alla buona volontà.
Quando parliamo d'un buon stato di cose, intendiamo comprendere sia i
beni sostanziali, sia le attuazioni di eudokia, sia le attuazioni esperienziali. Affin­
ché esso risulti buono, cioè ordinato secondo la regola morale, è necessaria,
ma non è sufficiente la buona volontà del soggetto.
Quando parliamo di vita buona in senso ampio intendiamo le attuazioni del
soggetto; quando parliamo di vita veramente buona in senso ampio intendiamo
le attuazioni compiute con buona volontà. Esse sono la componente eudemo­
nica della vera felicità.
99 Illustra bene il diverso tipo di importanza dei beni umani Félicien ROUSSEAU, La crois­
sance solidaire des droits de l'homme. Un retour aux sources de l'éthique, Tournai - Montréal 1982.
58 Capitolo I

Quando parliamo di vita veramente buona in senso stretto, di buona con­


dotta, di prassi buona, intendiamo comprendere la buona volontà (con il retto
ragionamento pratico e il retto sentire affettivamente che contribuiscono a for­
marla) e le attuazioni esistenziali in cui essa si esprime.
Se la buona volontà è necessaria ma non sufficiente a produrre un buon
stato di cose per realizzare la vera felicità, occorrerà domandarsi a quali condi­
zioni è possibile realizzare con successo la vera felicità. È il problema che af­
fronteremo alla fine di questo capitolo, dove mostreremo come la virtù rende
veramente felici.
(56) 5) Questo abbozzo di vera felicità per l'uomo non sarebbe completo se
non si facessero alcune considerazioni sul suo principio e sul suo termine.
Nella misura in cui i soggetti umani realizzano i beni esperienziali ed esi­
stenziali in modo moralmente corretto, il frutto della loro eupraxia e dell'eudo­
kia umana e divina è la costruzione d'un ordine che può esser designato come
armonia o pace universale, nella quale gli individui, pervenendo al vertice delle
loro attuazioni, si relazionano nel giusto modo tra essi, col mondo, con Dio.
Un'armonia sempre frammentariamente e provvisoriamente anticipata nel pre­
sente, fatta oggetto della più ardita e bizzarra fantasia utopica 100 e che pone
il problema cruciale della buona condotta umana: la vera felicità, nel suo frutto
maturo di pace e armonia, o, kantianamente, di regno dei fini, è assolutamente
realizzabile? Solo se lo è, ha senso l'ardua fatica di governare la vita umana in
ordine alla vera felicità.
La costruzione della vera felicità dipende dalla rettificazione, da parte della
ragion pratica, del principio operativo fondamentale della condotta umana,
cioè l'amore. Principio di vera felicità è il vero amore. La condotta umana ha
il suo principio nell'interesse e nella compiacenza che il soggetto umano, a li­
vello di volontà e di affettività passionale, ha per un qualche bene concreto.
Ora l'amore, come la felicità, può assumere diverse forme, e anche ad esso può
essere sensatamente applicata la distinzione tra vero e falso, e con lo stesso cri­
terio. Amore vero è quello regolato dalla ragion pratica prudenziale. In virtù
di tale regolazione l'amore assume la forma buona, degna, doverosa, giusta per
l'uomo; essa può essere molto genericamente designata come volontà di bene,
e meglio ancora, come amore che va alle persone e per le persone vuole il vero
bene, la vera felicità.
L'amore vero non è. tutto nella condotta umana, ma può esserne il princi­
pio unificatore. Esso può assumere affetti ed azioni che non sono immediata­
mente e specificamente designabili come espressioni d'amore; ma assumen-

100
Per questa via si scopre una profonda connessione tra filosofia morale come filosofia
pratica della condotta umana e pensiero utopico, giunto al massimo della fioritura proprio nei se­
coli in cui la filosofia morale cessava di occuparsi del problema della felicità e della vita buona.
Cf. Frank E. MANUEL - Fritzie P. MANUEL, Utopian Thought in the Western World, Cambridge/
Massachussets 1979.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 59

dole, servendosene, dando loro un nuovo ulteriore fine, le può far diventare
espressioni d'amore. Quest'amore, saggiamente regolato, è il principio che fa
possibile l'armonia e la pace, frutti ultimi della vera felicità. 101
Nella misura in cui il vero amore è principio di eupraxia, si apre una via,
caratterizzata dalla logica dell'amore, per trovare il rapporto tra eupraxia ed eu­
dokia, tra l'opera e il dono per la realizzazione in assoluto della vera felicità.
Il fatto che la vera felicità ha per principio il vero amore per le persone e
per termine l'armonia universale tra le persone, con la natura e con Dio, com­
porta che la vera felicità sia la massima fioritura della vita personale e comuni­
taria e costituisca un ideale di vita tanto per le persone quanto per le comunità
di persone. Nella vera felicità le persone pervengono alla perfezione massima
della vita personale, in quanto attuano i beni umani in virtù d'una scelta perfet­
tamente ordinata. Ma proprio la perfetta e ordinata adesione ai beni umani,
nei quali le persone comunicano e ai quali partecipano, costituisce il personale
contributo al bene comune e alla vera felicità delle altre persone. Sicché l'i­
deale della vera felicità è regolatore sia della condotta personale sia del go­
verno delle comunità umane, benché sia realizzabile sempre solo limitata­
mente, imperfettamente, provvisoriamente e sia realizzabile in diverso modo e
con diversi mezzi nella vita personale, nella vita delle comunità e nella vita
della società politica.
Questo abbozzo della figura della vera felicità per l'uomo può costituire il
principio del lungo discorso della filosofia morale come filosofia pratica della
condotta umana. In questa sede mi devo limitare solo a chiarire alcune diffi­
coltà che pone la struttura complessa della vera felicità.

2) Felicità agatologica, eudemonica, edonica

(57) Nell'abbozzo di vera felicità che ho delineato i beni sostanziali, e cioè


le realtà del mondo (e tra esse soprattutto le persone e Dio), in quanto hanno
in sé un valore che attira le inclinazioni del soggetto e costituisce l'oggetto
delle sue attuazioni, svolgono un ruolo principale rispetto all'aspetto eudemo­
nico ed edonico della felicità. Principale significa che esse costituiscono, a ti­
tolo di beni, il principio che dà senso alle attuazioni del soggetto. I beni sostan­
ziali, in quanto già dati e presenti o in quanto costruiti dal soggetto nel
mondo, costituiscono quello che denomino aspetto o componente agatologica
della felicità, senza del quale non sono possibili l'aspetto eudemonico ed edo­
nico per un soggetto la cui felicità consiste in una commisurazione ottimale
col mondo.
101
In questo modo ricupero il ruolo essenziale dell'amore per le persone nella costituzione
della vera felicità, ruolo su cui esclusivamente si sofferma H. OPPENHEIMER, The Hope. Ma diffe­
risco dalla sua tesi in quanto sostengo che se l'amore per le persone è principio fondamentale di
vera felicità, non è tuttavia l'unico bene che entra a costituirla; anche quella di Oppenheimer è
una tesi riduttiva.
60 Capitolo I

Tale commisurazione consiste, da parte del soggetto, in attuazioni eccel­


lenti: è questo l'aspetto della felicità che designo come eudemonico. Per questa
via ricupero alla filosofia pratica della condotta umana un tema che era tradi­
zionalmente suo, e che solo con il sorgere della psicologia sperimentale da un
lato e la riduzione della filosofia morale ad una teoria delle norme o dei valori
dall'altro le è stato sottratto ed è ora dominio esclusivo della psicologia sotto
vari nomi: benessere psichico, salute mentale, integrazione della personalità,
maturità, felicità. Risultato di tale situazione è che la psicologia considera tale
condizione psichica come neutra dal punto di vista del bene morale o, come si
dice, dei valori. Il soggetto che è pervenuto a tale condizione ne può fare l'uso
che vuole dal punto di vista dei valori. 102 Ora invece un medico come H.
Baruk e psicanalisti come V.E. Frankl e I.A. Caruso hanno mostrato che il risa­
namento psicologico dell'uomo può avvenire solo mediante una terapia morale
o l'educazione che orienti il soggetto verso una consapevole ricerca del vero
bene per l'uomo. 103
La felicità nel suo aspetto eudemonico, consistendo nelle ottimali attua­
zioni del soggetto in rapporto al mondo, attuazioni che portano a compimento
le potenzialità del soggetto, fiorisce in quello stato della coscienza affettiva che
costituisce il significato principale del termine " felicità" nel linguaggio cor­
rente, e cioè lo stato di contentezza per il raggiungimento dei fini ritenuti vera­
mente importanti; di piacevolezza nell'esercizio delle attuazioni eccellenti; di
diletto nei beni sostanziali che, mediante le attuazioni, diventano beni del sog­
getto; di gioia nel fatto di amare le persone secondo il vero bene. È soprattutto
la gioia dell'amore per le persone, più che la pace della coscienza, a costituire
il frutto della condotta che mira a costruire il bene doveroso per l'uomo , o la fe-
licità vera.
Vera felicità che consta anche di un aspetto edonico; ma mentre questo è
l'aspetto unico o per lo meno principale nelle concezioni edoniste della feli­
cità, nella figura di felicità vera per l'uomo esso costituisce un tipo di bene, il
bonum delectabile, che è necessario nella vita di un essere senzien�e, doveroso
nella vita buona per l'uomo, ma la cui presenza è misurata dalla regolazione
della ragion pratica. Esiste nell'uomo un desiderio del piacere sensoriale come
tale; ma nel governo della vita buona questo desiderio è assunto, moderato, ini-

102 Per quanto ricco di considerazioni sull'esistenza umana, un libro come quello del padre
della psicologia esistenziale americana Rollo MAY, L'uomo alla ricerca di sé. Come far fronte all'in­
sicurezza di questo nostro tempo e trovare un centro di/orza in noi stessi, tr. it. Roma 1983, non per�
viene a mostrare come solo nella ricerca del vero bene per l'uomo si possa trovare un centro di
forza in noi stessi.
10'
Un buon saggio di filosofia morale che illustra abbondantemente come lo sviluppo della
persona umana non sia possibile senza un orientamento verso i valori morali è costituito dal libro
di Marce! GILLET, L'homme et sa structure. Essai sur !es valeurs mora/es, Paris 1978, specialmente
pp. 439-488. Sulla stessa linea di pensiero si muove Ernest BECKER, Il rifiuto della morte, tr. it.
Roma 1982, mostrando che l'uomo può realizzare la sanità psichica solo acconsentendo a entrare
in rapporto di sottomissione e di offerta verso il Creatore.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 61

bito secondo le circostanze in base a un giudizio riflesso che lo considera un


bene degno, giusto, doveroso per un uomo. Il fatto che il piacere possa essere
saggiamente cercato nella vita buona trasforma il senso che avrebbe tale ri­
cerca se fosse solo espressione non giudicata del desiderio sensitivo che va al
piacere come tale. Il piacere ·cercato nella misura in cui è giudicato un bene
degno per l'uomo non è più un piacere isolato, ma diventa segno che realizza a
suo modo la vera felicità e l'amore per le persone; esso è vissuto non come
nota isolata e stonata, ma come nota in una sinfonia; altro è godere il piacere
ciecamente, altro goderlo come significativa componente della vita buona, del-
1' amore per le persone, del rapporto con Dio Creatore della natura. 104

3 ) Fine inclusivo e fine dominante

(58) Le discussioni tra gli studiosi sulla concezione che Aristotele e J.


Stuart Mili si fanno della felicità umana si vanno orientando per attribuire ad
entrambi una concezione della felicità come fine inclusivo, non come fine do­
minante. Fine inclusivo è quello che consta della presenza di vari beni perfet­
tivi dell'uomo, irriducibili tra loro, tutti importanti, tutti originariamente
buoni e interessanti di per sé. Fine dominante è quello costituito da un unico
bene concreto, in funzione del quale vengono organizzati tutti gli altri, a titolo
di fini subordinati o di mezzi. D'altra parte nella storia del pensiero morale cat­
tolico, soprattutto in seguito alle discussioni sullo stato di natura pura, è diven­
tata di dominio corrente l'idea che la contemplazione amorosa di Dio, realiz­
zabile con le sole facoltà naturali nella vita terrena e ancor più in quella ultra­
terrena, possa costituire il fine ultimo corrispondente alle capacità naturali del­
l'uomo; fine ultimo nel senso di bene concreto e determinato che soddisfa esau­
stivamente il desiderio di felicità, termina e quieta il movimento della volontà,
riduce tutti gli altri beni basilari ad essere mezzi al suo servizio. Il fine ultimo
soprannaturale differirebbe da quello naturale solo per il diverso modo di cono­
scenza e di amore di Dio. Un ampio studio di J. Buckley ha mostrato l'inconsi­
stenza di tale concezione e la sua estraneità al pensiero di s. Tommaso d'A­
quino al quale i suoi sostenitori si rifacevano. 105 La posizione di Buckley è so­
stanzialmente condivisa da J. Maritain, G. Grisez, 106 J. Finnis.
Quello che gli studiosi di Aristotele designano come fine dominante, Buck­
ley designa come fine ultimo concreto determinato. Orbene, l'analisi del
modo razionale di conoscere e di volere, proprio dell'uomo, mostra che non è

104
Un'accurata analisi del desiderio sensitivo per il piacere e della trasformazione che esso
subisce quando è consapevolmente assunto nella vita buona, perché giudicato bene importante, è
fornita da N.J.H. DENT, The Mora! Psycholog;y of the Virtues, Cambridge 1984, 35-63. 130-15 1.
105
Joseph BUCKLEY, Man's Last End, St. Louis - London 1950.
106
Cf. G. GRISEZ, Man, Natural End of, in New Catholic Encyclopedia, voi. IX ( 1967) 133-
138.
62 Capitolo I

possibile, nell'ordine naturale come distinto dall'ordine soprannaturale, che la


volontà dell'uomo possa tendere ad un bene concreto e determinato a titolo di
bene in assoluto e sotto ogni aspetto, bene che termina insuperabilmente ogni
desiderio della volontà, bene che abbia funzione assolutamente architettonica
(dominante) rispetto ad ogni altro bene. Per cui l'unico fine dell'uomo, nell'or­
dine naturale, è la felicità secondo retta ragione; essa è fine concreto in quanto
consta di beni concreti, ma nessuno di essi la realizza in modo pieno e insupe­
rabile.107 Nemmeno la contemplazione amorosa di Dio, nell'ordine naturale,
può essere fine ultimo dominante, a causa del modo razionale di tale cono­
scenza. Essa è certamente il bene più importante, il bene principale, relativa­
mente architettonico; ma non può essere bene terminale e definitivamente quie­
tante, né può esser sufficiente, da solo, a dare all'uomo felicità piena e per­
fetta.
La vera felicità per l'uomo, possibile nei limiti della sua natura, è dunque
un fine inclusivo, costituito da beni sostanziali e da beni operabili irriducibili
tra loro e tutti importanti, realizzati con buona volontà. Ciò non toglie che nel
corso individuale della vita siano possibili diversi ordini di importanza, dipen­
denti soprattutto dalle diverse disposizioni individuali, e che pertanto nella vita
di un individuo vi possa essere un fine relativamente, benché non assoluta­
mente, dominante. D'altra parte il fine inclusivo comprende anche le piccole fe­
licità della vita, quelle più individuali, che l'individuo awerte come le sue, ma
le vive come segni della realizzazione per lui della vita buona, e dunque hanno
per lui grande importanza.
Un fine dominante vero e proprio è possibile solo nell'ordine soprannatu­
rale della grazia e della carità, ma la teologia dovrà faticare non poco per mo­
strare come esso sia possibile in una natura umana. 108

107
«In the absence of any determinate, concrete good as the supreme principle of order,
the human mind knows of no last end for man in the natural order other than happiness accor­
ding to right reason. This may be said to be concrete, inasmuch as it connotes concrete goods,
but it is not at the same time determinate, because it does not connote any supreme good or
goods in which it is fully realized. lt denotes the formai end rather than the objective end. Men's
continua! reference to happiness as their end rather than to a specific objective is itself an indica­
tion of their failure to perceive a determinate objective end. Even in the order of forma! end (as
opposed to objective) , happiness is rather the forma! character of end (ratio Jormalis finis) than
the end itself (td in quo finis ultimi ratio invenitur); it does not specify the type or concrete charac­
ter of the happiness. So, while it does serve after the manner of a last end (I act for happiness in
all that I do, determined in each case but fully realized in none), it is not; so far as it is terminative
and architectonic, both determinate and concrete» (BUCKLEY, o.e. 173-174).
'08
Mi pare che questo possa essere una buona chiave di lettura per intendere il senso del
trattato sulla beatitudine nella Summa Theologiae di s. Tommaso d'Aquino: il fine soprannaturale
che Dio intende nel governo della vita umana è piuttosto incongruo rispetto a quello che l'uomo
può costruire con le sue capacità naturali; e allora: come Dio deve intervenire nella povera vita
umana, nel governo delle faccende umane, per poterlo realizzare?
Felicità e virtù nella filosofia pratica 63

4) Fine e mezzi

(59) La complessità della vera felicità per l'uomo, concepita come fine inclu­
sivo, permette di vedere quanto sia semplicistica e riduttiva l'applicazione del
binomio « fine/mezzi» alla ricerca della felicità, come se la felicità fosse un
obiettivo concreto, oggetto di intenzione, e tutti i beni sostanziali e operabili
(esperienziali ed esistenziali) esauriscano la loro bontà solo nel fatto di essere
strumento per procurarsi la felicità.
Nella condotta umana la felicità non è un obiettivo concreto, che possa co­
stituire oggetto d'intenzione, ma ragione formale per cui possono essere perse­
guiti obiettivi concreti. Se essa è detta fine ultimo non è perché costituisca l'ul­
timo della serie dei fini concreti, ma perché costituisce la ragione ultima per
cui è possibile a un uomo perseguirli.
Gli obiettivi concreti che sono oggetto d'intenzione non costituiscono per­
tanto mezzi per il raggiungimento della felicità, quanto modi concreti di realiz­
zarla nella vita umana. Le attuazioni eccellenti che integrano la figura della
vera felicità umana sono piuttosto parti di essa e insieme costituiscono la me­
diazione concreta in cui si realizza la felicità.
Tali attuazioni hanno valore di bonum honestum, cioè di bene che è tale in
ragione di se stesso e per se stesso è desiderato. Qualora nel corso individuale
di vita i beni ch'esse realizzano siano organizzati in un certo ordine, assumono
il valore di fini intermedi, mai di mezzi.
In nessun modo dunque le attuazioni eccellenti dell'uomo, e le virtù che le
fanno possibili, sono da considerare mezzi per la felicità; esse sono piuttosto' il
modo in cui la vera felicità si realizza nella vita umana.
Può quindi avere senso legittimo sia il dire che si cerca la virtù per la feli­
cità, sia che si cerca la virtù per se stessa; ma può avere anche senso illegit­
timo. Se cerco la virtù per la felicità edonica distruggo la virtù; se cerco la virtù
per se stessa, nel senso di fedeltà al dovere per il dovere, e non come un modo
di vero amore per le persone, distruggo la virtù. Se invece cerco la virtù come
quella che fa possibile la commisurazione ottimale tra soggetto e mondo ed il
vero amore per le persone, allora la cerco per se stessa, perché proprio questo
la definisce. La vita morale non si riduce ad un'arte pragmatica di felicità edo­
nica, ma resta quello che è: arte del bene umano, arte del vero bene delle per­
sone, arte d'amare, per dirla con E. Fromm.

5) Idea regolatrice e concretizzazione individuale

(60) La figura di vera felicità per l'uomo costituisce un ideale che nel corso
della vita umana può esser realizzato solo frammentariamente, provvisoria­
mente, successivamente, con accentuazioni individuali assai diverse. Tuttavia
ha senso mantenere la vera felicità come ideale, e più esattamente come idea re­
golatrice, poiché in questo modo si ha una chiave per decifrare il significato
64 Capitolo I

dell'esistenza umana, il suo fascino, la sua drammaticità; la vita umana può


esser tragedia, gioco, sogno proprio perché è dominata dall'idea regolatrice
della vera felicità.
Il compito principale della filosofia morale intesa come filosofia pratica
della condotta umana non è stabilire e giustificare norme, ma sviluppare l'i­
deale della vera felicità in un' eidetica delle virtù, illustrare l' eidos che regola le
attuazioni eccellenti nei vari settori della vita umana; per questa strada ritro­
verà e giustificherà anche le norme.
Sia lo scarto tra l'ideale di felicità vera e le concretizzazioni individuali sia
la necessità d'un potenziamento virtuoso delle facoltà operative umane per rea­
lizzare la vera felicità hanno un'identica ragione, e cioè il fatto che gli indivi­
dui umani, proprio perché individui molteplici d'una stessa specie, non pos­
sono realizzare tutte le potenzialità specifiche della natura umana. 109 Ogni in­
dividuo umano non solo ha un rapporto molto limitato col mondo, ma si trova
ad avere fortemente coartate le potenzialità derivanti dalla natura specifica.
Altro è dunque l'ideale di vera felicità conveniente all'uomo in ragione della
sua natura specifica, altro è la felicità concreta possibile all'individuo in ra­
gione della sua natura individuale. Ogni individuo si riduce alla felicità possi­
bile nel corso individuale di vita e alla giusta misura praticamente possibile nel
contesto delle circostanze. L'eidos delle virtù può trovare solo qualche fram­
mentaria realizzazione nelle vicende della vita individuale. È qui che la conce­
zione oggettivista della felicità deve tener conto d'insuperabili limiti indivi­
duali 110 e vi è posto per standard soggettivi nell'ampio spazio lasciato aperto
dagli standard oggettivi della vera felicità.
Le possibilità per un individuo di realizzare la vera felicità sono assai limi­
tate e dipendenti dalla contingenza dell'individuazione e del contesto circostan­
ziato. Tuttavia l'individuo, nel confrontarsi con le possibilità della sua situa­
zione limitata e contingente, vi si impegna con una presa di posizione nei ri­
guardi del senso ultimo del mondo e della sua propria presenza nel mondo: ciò
a causa dell'apertura naturale della sua volontà alla felicità.
È tuttavia vero anche il contrario: cioè che l'individuo non può accedere
alla vera felicità se non dilatando e potenziando le sue capacità operative me­
diante le virtù. È giunto così il momento di determinare il ruolo della virtù
nella vera felicità.

109
Questo concetto di individuazione svolge un ruolo decisivo nella morale della Secunda
Pars della Summa Theologiae di s. Tommaso; ne ho detto nel mio libro Lex et virtus. Studi sull'evo­
luzione della dottrina morale di san Tommaso d,'Aquino, Roma 1983, 190-194. Vi ritornerò più
avanti, v. sotto V 35.
11°
Cf. KRAUT, Two Conceptions 194-195; v. sopra n. 93.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 65

6. Necessità della virtù per la vera felicità

(61 ) La felice commisurazione tra soggetto e mondo avviene mediante attua­


zioni (beni operabili esperienziali ed esistenziali) da parte del soggetto in rap­
porto ai beni sostanziali. Non qualsiasi attuazione, ma solo quella eccellente,
dà la commisurazione ottimale. È per far possibile le attuazioni eccellenti che
sono necessarie le virtù: esse sono pertanto principi operativi che danno al sog­
getto la capacità di compiere attuazioni felici. Ora però il concetto corrente di
virtù non è idoneo a spiegare la necessità della virtù per la vera felicità.
Questo concetto è tanto corrente quanto lo è la riduzione della filosofia mo­
rale a etica normativa: se la vita morale è ridotta ad un esercizio della libera vo­
lontà in conformità a principi, norme, leggi o precetti, è naturale che la virtù
venga concepita come determinazione o stabilizzazione della libera volontà,
concepita di per sé indifferente a qualsiasi decisione, a decidere secondo la
legge morale. Ciò che caratterizza la virtù è allora la fissità, permanenza, stabi­
lità di una decisione di osservare le norme morali, per lo più ridotte al campo
della giustizia nei rapporti tra individui; decisione motivata da un interesse per
il dovere o dal rispetto per le persone. La stabilità della virtù introduce una
consistenza o coerenza nel comportamento: scelte posteriori sono motivate da
scelte anteriori non revocate proprio a causa di questa stabilità.
Questo concetto di virtù esprime un aspetto del comportamento morale,
ma non l'aspetto principale e più interessante. È vero che appartiene alla virtù
una determinazione a prendere decisioni rette, che supera l'indeterminazione
della volontà; vi appartiene una stabilità che supera la mutabilità e l'arbitra­
rietà; una fermezza che supera le resistenze dell'affettività. Ma non può consi­
stere in questo il carattere principale della virtù. Questa concezione suppone
che il soggetto umano, ancora senza virtù, sia capace di concepire e di apprez­
zare le attuazioni eccellenti e di avere un interesse per esse; suppone che il
tutto della decisione morale consista nel decidere pro o contro una norma; che
le azioni da compiere siano già tutte ben definite, presenti alla mente.
È un modo di rappresentarsi la vita morale assai riduttivo rispetto all'espe­
rienza stessa della vita morale, la quale mostra che senza un'appropriata educa­
zione l'individuo non perviene a percepire l'attrattiva e l'interesse per attua­
zioni eccellenti. L'educazione morale non deve tanto piegare la libera volontà
in un senso piuttosto che in un altro, quanto invece evocare un interesse, susci­
tare una capacità, sviluppare una competenza di ordine conoscitivo, volitivo e
affettivo. È come se il livello di capacità operative in cui si trova l'individuo
per dotazione naturale non fosse sufficiente a garantire un buon governo della
vita umana, a costruire il vero bene umano; fosse perciò necessario potenziare
le capacità operative, elevarle a un livello superiore di conoscenza, di inte­
resse, di abilità operativa, al livello della saggezza morale, che sa escogitare pos­
sibilità nuove di azione per realizzare i fini umani, la vera felicità. L'educazione
mira a provocare questa crescita, quest'innalzamento delle capacità operative.
66 Capitolo I

Per render conto di questa esperienza occorre un concetto di virtù più ade­
guato.111
(62) La vera felicità per l'uomo non è un bene dato, ma da costruire con in­
ventiva, sagacia, saggezza. Il soggetto umano, considerato dal punto di vista
del suo compimento nella vera felicità, non è confrontato con il problema pra­
tico di decidere pro o contro la norma, di scegliere tra alternative previamente
ben definite, ma di trovare una via, inventare un corso d'azioni che realizzi la
vera felicità possibile nelle situazioni.
Di fronte a quest'arduo compito le capacità operative dell'individuo, così
com'esse si trovano ad essere per dotazione naturale, non sono preparate né a
livello di natura specifica né a livello di natura individuale. Grazie alla natura
umana specifica la ragione umana ha a disposizione convinzioni originarie circa
la regola morale e una naturale inclinazione a vivere secondo tale regola. Ma
convinzioni e inclinazioni sono solo il seme da cui può svilupparsi la vita mo­
rale, e così come sono non sono sufficienti a condurre la vita veramente
buona. La vita veramente buona infatti consta di azioni concrete e particolareg­
giate, diverse di volta in volta secondo le situazioni, e che hanno da esser rego­
late in tutti gli aspetti moralmente rilevanti; ciò richiede una conoscenza mo­
rale ben più sviluppata e articolata di quella, assai generica e indeterminata,
fornita dalle primordiali convinzioni naturali. Inoltre l'inclinazione naturale a
vivere secondo la regola morale non è inclinazione necessitante come lo è l'in­
clinazione naturale alla felicità intesa in senso inclusivo e formale. Essa è natu­
ralmente a disposizione della libera volontà, ma ha bisogno di esser confermata
in libere scelte; anch'essa è ancor solo generica, nel senso che è inclinazione a
vivere secondo i principi generali della regola morale, ma ha bisogno di esser
liberamente determinata verso azioni particolari e di adeguarsi alla regola mo­
rale dettagliata. Qui essa può entrare in conflitto con le passioni e le inclina­
zioni della natura individuale. Infatti grazie alla sua natura individuale, coartata
dall'individuazione, il soggetto umano dispone d'inclinazioni verso l'uno o l'al­
tro tipo di azione e di comportamento; ma anch'esse sono insufficienti, da
sole, a produrre la vita veramente buona: sono sconnesse tra loro, possono in­
clinare ad azioni buone o ad azioni cattive, ad alcune azioni buone e non ad
altre; sono prive di discernimento e impreparate ad adattarsi alle diverse richie­
ste morali delle situazioni.
(63) Lasciato così, un individuo non riuscirà mai a governare una vita estre­
mamente complessa per realizzare il compimento umano, la vera felicità. Oc­
corre allora, mediante l'educazione, la formazione e la disciplina provocare un
ampliamento delle capacità operative individuali, una loro crescita ed eleva­
zione, un potenziamento che le renda idonee a realizzare il vero bene per

111
Per delineare questo concetto di virtù mi ispiro alle idee di Tommaso d'Aquino secondo
l'interpretazione che ne dò nel mio libro citato. Lo svilupperò ampiamente nei capitoli seguenti.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 67

l'uomo. Occorrerà maturare una saggezza pratica che sappia inventare e conce­
pire vie di condotta che concretizzino i fini umani; occorrerà evocare un inte­
resse della volontà e dell'affettività per il bene non solo come esso viene generi­
camente concepito a livello di fini, ma come viene concretamente escogitato
dalla saggezza morale a livello di mediazioni circostanziate dei fini.
È questa la funzione principale della virtù: essa è una buona disposizione
delle facoltà operative, che le eleva e potenzia in modo che siano adeguate alla
realizzazione concreta della felicità vera e doverosa. La stabilità e la fermezza
non sono il suo effetto principale: queste avvengono con il radicamento della
virtù nelle facoltà operative che le dispone sempre più verso il bene umano con­
cretamente definito. La facilità e la piacevolezza nell'esercizio dell'azione
buona sono anch'esse effetto più del radicamento o della crescita intensiva
della virtù, che della virtù stessa. L'effetto formale primo e proprio della virtù
è l'abilitazione delle facoltà operative a concretizzare la felicità vera e doverosa
nel corso di vita.
Da tutto ciò si comprende che una filosofia morale avverte la necessità di
dare alla virtù il ruolo portante nella vita morale nella misura in cui:
1) trova il senso della vita morale nella costruzione della felicità;
2) vede nell'aspetto eudemonico (attuazioni eccellenti) della vera felicità il
punto cruciale di tale costruzione;
3) concepisce l'azione morale più in termini di condotta e di governo della
vita che di singole decisioni;
4) considera l'uomo come principio consapevole e libero di tale costru­
zione, governatore della propria vita;
5 ) tien conto del profondo iato tra il fine da realizzare e la dotazione natu­
rale, specifica ed individuale, di capacità operative nell'individuo umano, sog­
getto attivo della costruzione.
Spiegata in questo modo la necessità della virtù per la vera felicità, s'affac­
ciano ora i problemi più difficili e più importanti nel rapporto tra virtù e feli­
cità. In che modo la virtù contribuisce alla vera felicità, dal momento che le vi­
cende della vita sembrano suggerire e addirittura provare il contrario? Ha
senso dire che è veramente felice chi soffre l'ingiustizia senza venir meno alla
sua coscienza? È sufficiente la virtù a realizzare la vera felicità?

7. Come la virtù rende veramente felici

(64) 1) La virtù, intesa come potenziamento ed elevazione delle facoltà ope­


rative dell'individuo verso attuazioni eccellenti, è principio generatore di feli­
cità vera, ma non di tutte le componenti della felicità vera. La virtù rende ca­
paci di eccellenti attuazioni esistenziali, cioè di attuazioni che consistono in
scelte; essa conferisce alle scelte la loro tipica perfezione, cioè la rettitudine.
Queste attuazioni costituiscono già di per se stesse un compimento per
l'uomo, quindi una vera felicità. Il poter volere il vero bene proprio e il poter
68 Capitolo I

amare le persone con amore retto, degno, doveroso, che anima, ispira, assume
le attuazioni virtuose nei diversi settori della vita umana, è già di per sé qual­
cosa di felicitante per l'uomo, almeno secondo l'aspetto eudemonico esisten-.
ziale della vera felicità.
Ma la felicità della vita virtuosa non è tutta la felicità di cui l'uomo è natu­
ralmente capace. La vera felicità richiede anche un buon stato di cose corri­
spondente alla buona volontà, e questo comprende, nel suo aspetto eudemo­
nico, i beni operabili esperienziali e, nel suo aspetto agatologico, il possesso
dei beni sostanziali. La riuscita della vita relativamente a questi beni non di­
pende solo dalla scelta del soggetto, ma anche dalla buona sorte. Inoltre la
vera felicità, in quanto commisurazione ottimale tra soggetto e mondo, soprat­
tutto mondo delle persone, comporta anche l'ottimale atteggiamento delle altre
persone e di Dio nei confronti del soggetto. Fa veramente felici non solo
amare di amore vero, ma essere amati di amore vero; non solo essere benevoli
e donare, ma anche essere oggetto di benevolenza e ricevere un dono dalle
altre persone e da Dio. La riuscita felice della vita nei beni esperienziali e nei
beni sostanziali dipende non solo dalla buona sorte, ma anche dalla libera eu­
dokia delle persone e di Dio. La vera felicità non è solo una conquista; è forse
ancor più un dono.
Qui il problema del rapporto tra virtù e felicità giunge al nodo decisivo: la
buona volontà del soggetto, la buona sorte, il buon volere altrui, la benevo­
lenza di Dio sono tutti principi di felicità vera. Sono principi disparati, senza
alcun rapporto tra loro? Se sono principi disparati, anche la vita virtuosa perde
il suo senso. Amare una persona di amore vero può essere felicitante per il sog­
getto, ma ha senso solo se si hanno ragioni per credere che l'amore vero in de­
finitiva è il più forte e può ottenere effettivamente la vera felicità per la per­
sona amata; non si può amare senza una qualche speranza; altrimenti la vita sa­
rebbe tanto più tragica quanto più l'amore è bello.
A questo punto il principio eutychico della felicità viene relativizzato e su­
perato dal principio dell' eudokia divina, giacché anche la sorte rientra nel vo­
lere del Creatore universale. D'altra parte se il buon volere delle altre persone
dipende dalla loro libera scelta, la riuscita benefica di tale buon volere dipende
anch'essa dalla possibilità in assoluto che la vera felicità integrale si realizzi, e
si è così rimandati al volere del Creatore. Si dovrà ripetere con Freud che « nel
piano della creazione non è contenuta l'intenzione che l'uomo sia felice» ?
Come N . Fischer ha osservato studiando la risposta aristotelica e quella kan�
tiana, 1 12 qui la filosofia pone un problema che non ha la possibilità di risol­
vere. Direi piuttosto che la filosofia pagana o laica, in quanto ignora la rivela­
zione, non può risolvere questo problema. Ma non è necessario alla filosofia es­
sere pagana o laica; può anche essere cristiana nel senso che ho spiegato
sopra, e quindi ragionare sul senso della vita umana non esclusivamente a par-

112
Cf. sopra n. 42-45.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 69

tire dall'uomo come soggetto pratico, ma dall'uomo che è soggetto pratico in


un mondo che ha Dio per principio, e principio che in qualche modo ha rive­
lato se stesso, stando a quello che dichiara l'insegnamento cristiano. La filoso­
fia cristiana ragiona sulle possibilità pratiche dell'uomo tenendo presente che
l'uomo è, per dirla con K. Rahner, uditore della Parola e non solo amante
della sapienza.
Così situata, la filosofia cristiana è in grado di scorgere un rapporto tra la
vita virtuosa del soggetto e l'eudokia divina nella realizzazione della vera feli­
cità, e pertanto di scorgere il senso della vita virtuosa. Tale rapporto può es­
sere così espresso: data la natura dell'eudokia divina nei confronti dell'uomo, la
vita virtuosa è condizione necessaria perché possa realizzarsi la vera felicità, la
cui intenzione è contenuta nel piano della creazione. Cercherò di mostrare la ve­
rità di quest'affermazione.
(65) 2) La vera felicità per l'uomo comporta non solo l'eupraxia del sog­
getto ma anche l'eupraxia delle altre persone e di Dio nei confronti del sog­
getto. Anche questa consta di attuazioni esistenziali e di attuazioni esperien­
ziali. Nelle prime gli altri danno al soggetto riconoscimento, stima, onore,
lode, gloria come espressione d'un loro amore vero verso di lui. Nelle se­
conde, come effetto delle prime, esse beneficano il soggetto con quei beni espe­
rienziali e quei beni sostanziali che è in loro potere di procurare. Il rapporto
giusto, degno, degli altri verso di lui, necessario alla vera felicità, è costituito in
ultima analisi dall'amore benevolo e benefico, dall'eudokia.
In ordine alla possibilità di realizzazione della vera felicità l'eupraxia e l'eu­
dokia delle altre persone si trovano ad avere gli stessi limiti di efficacia che la
buona volontà del soggetto agente. Invece si trova in una condizione unica l'eu­
dokia divina e su di essa occorre fermare ora l'attenzione, richiamando, senza
poterlo qui dimostrare, ciò che la filosofia cristiana ha da dire su di essa.
Poiché fine dell'azione creatrice di Dio non può essere che Dio stesso, in
quanto possibile oggetto di conoscenza e di amore da parte delle creature razio­
nali, Dio governa il mondo e le azioni umane secondo un ordine sapienziale,
una legge eterna, che ha come principio di ordine lo scopo ultimo per cui Egli
crea e conserva le persone umane, cioè la loro vera felicità e perfezione in Dio
(in modo diverso nell'ordine naturale e nell'ordine soprannaturale) . L'eudokia
divina è pertanto la volontà di Dio in quanto vuole per l'uomo la vera felicità
in Dio e tutto ciò per cui essa è possibile.
In quanto Dio è principio creatore, e creatore di persone capaci d'inten­
dere e di volere, Egli fa partecipi le persone della stessa legge eterna con cui le
governa al loro fine, in modo tale che le persone stesse hanno una certa cono­
scenza del fine e dell'ordine cui intende il divino governatore. Tale conoscenza
è costituita proprio dalla regola morale che le persone sviluppano e articolano
sulla base di originarie convinzioni morali. Attenendosi nelle loro scelte alla re­
gola morale i soggetti umani collaborano al govenro di Dio affinché sia possi­
bile per le persone la vera felicità in Dio, con tutti i beni che l'integrano.
70 Capitolo I

Se l'effettivo successo della buona condotta in un felice stato di cose non


dipende dalla buona volontà umana, dipende però dalla volontà divina.
Avendo Dio costituito il soggetto umano come potenziale rispetto al suo com­
pimento e come capace di collaborare attivamente per realizzare la vera feli­
cità, l'eudokia del Creatore non sarebbe tale se non fosse già anche volontà di
compimento, volontà di vera felicità per l'uomo, volontà di governare il mondo
in modo che sia possibile la felicità vera in tutte le sue componenti. Grazie
all'eudokia divina si può dire perciò che nel piano della creazione è contenuta l'in­
tenzione che l'uomo sia felice e che la vera felicità è assolutamente realizzabile.
(66) 3 ) Ma tale compimento o felicità vera è di natura tale che non può es­
sere realizzato, non solo come conquista del soggetto ma anche come dono del
Creatore, se non è voluto dal soggetto stesso; è un compimento che non può
essere realizzato se non in un soggetto che lo ama. Infatti esso consiste nel vero
bene delle persone (bene complesso e inclusivo) ; se questo bene si chiama feli­
cità è proprio perché è riconosciuto e voluto come tale: sarebbe un bene nella
persona e non della persona se appunto la persona non lo amasse; amandolo,
diventa idonea a goderne. E questo proprio in ragione di ciò che la vera feli­
cità è: armonia nel mondo in funzione dell'armonia tra le persone e di queste
con Dio; e l'armonia tra le persone e Dio non si realizza se non in atti perso­
nali di riconoscimento e di amore.
Ora è proprio questa la funzione formale della virtù. Essa consiste in un po­
tenziamento, in un'elevazione, in una preparazione delle facoltà operative
umane tale che il soggetto sia capace di elicere l'amore per il vero bene, per le
persone, per Dio.
Nella costituzione della vera felicità eupraxia ed eudokia divina sono con­
nesse: l'eudokia divina creatrice dà la possibilità di eupraxia umana; l'eupraxia
umana rende l'uomo idoneo a ricevere dall'eudokia divina governatrice il com­
pimento della vera felicità integrale.
(67) 4) Ma questo modo di connessione non è ancora sufficiente a dare
senso alla condotta virtuosa. Questa infatti ha senso solo se la felicità vera è as­
solutamente realizzabile e se il soggetto è sicuro che con la condotta virtuosa
egli pone un principio di vera felicità che trova certa risposta nell'eudokia di­
vina. Non solo l'eudokia divina richiede l'eupraxia umana, ma in qualche
modo questa richiede quella. Ma ha senso parlare di benevolenza divina richie­
sta? Può una benevolenza esser dovuta? Può Dio dover qualcosa a qualcuno?
Di questo complesso e difficile problema devo limitarmi qui a dire ciò che
è rilevante per il mio tema. Per l'insegnamento cristiano anche le opere vir­
tuose sono grazia di Dio 1 13 e, coronando i nostri meriti, Dio corona i suoi

1 1'
Nel mio citato libro Lex et virtus 142-173 ho interpretato la Secunda Pars della Summa
Theologiae proprio come discorso teologico su Dio che opera nell'uomo in quanto principio della
propria condotta.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 71

doni. Qui è pertinente solo la questione se la condotta virtuosa richieda in


qualche modo che Dio risponda con la sua benevolenza per la realizzazione
della vera felicità.
È vero, come abbiamo appena detto, che se l'inizio (l'esistenza del soggetto
con le sue potenzialità e del mondo) è dovuto all'amore divino creatore, pro­
prio in tale amore saggio e giusto è la garanzia assoluta che l'amore divino go­
vernatore dà anche il compimento. Ma questo non dice nulla sui titoli dell'eu­
praxia umana. Qui ci viene in soccorso una delle convinzioni della ragion pra­
tica che regolano i rapporti tra persone. Un individuo può impegnarsi con
tutte le sue forze a raggiungere un obiettivo, e riuscirci esclusivamente con le
sue forze. Lo si loderà, ma non si dirà che si è meritato il conseguimento di
quell'obiettivo. Invece se un fidanzato ama veramente la sua fidanzata e questa
vi corrisponde accettando liberamente la proposta di matrimonio, si potrà dire
che il fidanzato se lo merita. Vi è nell'amore un'esigenza che la persona che
ama sia, abbia, ottenga veramente ciò che ama essere, ama avere, ama otte­
nere, un'esigenza che non può esser compiuta se non per l'intervento libero e
benevolo di altre persone, qualora la riuscita non sia in potere del soggetto
stesso. Vi è nell'amore una degnità alla libera risposta benevola di altre per­
sone.
Questa convinzione della ragion pratica non si può applicare ai rapporti
d'amore tra uomo e Dio se non si fa intervenire ancora una considerazione.
L'uomo che vive secondo virtù realizza una conformità della propria volontà
alla volontà divina; egli condivide per la propria vita e per i propri rapporti
col mondo la volontà divina; vuole se stesso, le persone, il mondo proprio
come Dio li vuole. Questa conformità non riguarda tanto ciò che è concreta­
mente voluto, giacché l'uomo non ha la possibilità di conoscere nei dettagli la
volontà di Dio. Essa riguarda il modo di volere, la ragione per volere, la regola
del volere. Misurando il proprio volere secondo la regola morale egli vuole pro­
prio nel modo con cui Dio vuole, giacché la regola morale costituisce il modo
proprio dell'uomo di partecipare alla sapienza divina e alla legge eterna che go­
verna il mondo. L'uomo virtuoso ama proprio ciò che Dio ama.
Nella buona volontà e nel vero amore, in quanto sono conformi alla vo­
lontà divina, è possibile scorgere una richiesta di successo, di effettivo conse­
guimento del felice stato di cose voluto, amato, cercato. Infatti da un lato l'or­
dinato stato di cose, l'effettivo compimento delle persone in Dio è qualcosa
che non solo può essere, ma deve essere; non solo può esser voluto, ma dev'es­
ser voluto, proprio perché è il fine voluto da Dio e perché è il fine appropriato
e conveniente alle persone umane. Perciò la volontà che lo vuole, deve aver
successo. Dall'altro lato, poiché è Dio stesso che, secondo la sua legge eterna, .
vuole per l'uomo la vera felicità, quando l'uomo condivide la volontà divina e
collabora con essa mediante la propria buona volontà, anch'essa resa possibile
da Dio, è congruo e conveniente che Dio dia successo alla buona volontà del­
l'uomo; non nel senso ch'egli debba qualcosa all'uomo e l'uomo possa aver di­
ritti nei confronti di Dio, ma nel senso che è proprio della giustizia divina por-
72 Capitolo I

tare ad effettivo compimento l'opera iniziata e per la quale richiede la collabo­


razione umana.
A causa di questo inserimento della buona volontà umana nella volontà di­
vina, vi è nella buona volontà umana una degnità, una congruità a ricevere da
Dio propri.o ciò che la benevolenza divina vuole darle ed essa cerca.
(68) 5) È possibile ora comprendere in che modo la virtù è condizione ne­
cessaria perché possa realizzarsi la vera felicità, la cui intenzione, grazie all'eudo­
kia divina, è contenuta nel piano della creazione. La virtù contribuisce efficace­
mente alla realizzazione della vera felicità in due modi:
a) in quanto dispone e potenzia le facoltà operative ad attuazioni esisten­
ziali eccellenti, essa è principio efficiente immediato della vera felicità nel suo
aspetto eudemonico esistenziale;
b) in quanto rende il soggetto idoneo e degno nei riguardi dell'amore bene­
volo degli altri, ma soprattutto di Dio, e quindi capace e degno di ricevere un
dono, essa è principio mediato della vera felicità in tutti i suoi aspetti.
La condotta virtuosa ha dunque senso: essa agisce efficacemente per la vera
felicità e per l'armonia e la pace universale, ed è anche l'unica via efficace per
questa realizzazione, ma solo in quanto inserisce il soggetto in un rapporto per­
sonale con Dio c;:aratterizzato dal vero amore. Il senso della buona condotta
umana è radicare nelle facoltà operative quelle virtù che mettono l'uomo in
condizione di volere ed amare il mondo, se stesso, le persone, Dio in quel
modo con cui Dio vuole e ama, secondo la sua sapienza e benevolenza; e di es­
sere così disposto, degno e capace di vivere in un mondo portato, per eudokia
divina, alla sua perfezione, al suo compimento nella felice armonia e pace uni­
versale.
(69) 6) Questa concezione del rapporto tra virtù e felicità comporta un
altro grosso problema che qui non è possibile trattare come si conviene: il pro­
blema della possibilità d'una vita oltre la morte e dell'immortalità dell'anima.
L'amore vero per Dio e per le persone, la felicità vera, esigono una perma­
nenza in qualche modo delle persone nonostante la morte; ma la possibilità e
realtà di tale permanenza non la si può provare a partire dall'amore vero e
dalla felicità vera, bensì dalla struttura metafisica della persona in quanto spiri­
tuale. D'altra parte questa permanenza non ha senso se consiste in un prolun­
gamento oltre la morte qell'esistenza discorsiva e temporale, in vista di un pro­
gresso all'infinito; in tal caso né la « santità» né la vera felicità potrebbero mai
diventare reali. Occorre invece un tipo di permanenza in cui la persona si iden­
tifica totalmente, definitivamente, irrevocabilmente in una scelta pro o conro
l'amore vero. Del resto già in questa vita terrena alcune esperienze di vera feli­
cità nell'amore o nella contemplazione o nella creazione artistica e giocosa pro­
ducono una specie di estasi dal tempo, mentre è penosa l'esperienza dello scor­
rere del tempo nella noia. Il che suggerisce che la pienezza della vita nella vera
felicità comporta un tipo di permanenza che non è più distribuita nel tempo.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 73

(70) 7) La concezione che ho delineato del rapporto tra virtù e felicità è


assai diversa da quella di Kant, proprio per il diverso concetto di virtù e di feli­
cità che metto in opera, e in ultima analisi per la diversa concezione di filosofia
e di filosofia morale. Per Kant la felicità, concepita edonicamente e illuministi­
camente come soddisfacimento dei bisogni e dei desideri dell'uomo, è data da
Dio in sanzione all'uomo che ha compiuto il dovere per il dovere, per il ri­
spetto della legge, e in questo senso è virtuoso. Ora questa concezione è defici­
taria per diverse ragioni. È vero, con Kant, che la speranza d'una simile felicità
ultraterrena non può motivare l'azione virtuosa: sarebbe una motivazione mer­
cenaria. Ma si deve anche aggiungere che una simile motivazione non è nem­
meno efficace: nessuno viene indotto ad affrontare le sofferenze e le difficoltà
della vita virtuosa semplicemente per la prospettiva di una piacevole vita ultra­
terrena in cui vengono soddisfatti tutti i suoi desideri. È significativo che nel-
1' Antico Testamento il pensiero dell'immortalità dell'anima e della risurrezione
è tardivo, ed emerge come. esigenza della comunicazione con Dio, d'una vita
vissuta nel servizio e nell'amore per Lui e di Lui: ciò che si desidera è non per­
dere nella morte quel Dio di cui si è tanto amanti, da cui si è tanto amati e il
cui servizio costituisce la delizia del credente. Motivazione efficace per la vita
virtuosa può essere solo l'amore vero per Dio e per le persone.
Ma allora non ha senso dare in premio ad una vita virtuosa una felicità edo­
nica in un mondo così organizzato da poter soddisfare tutti i desideri di un sog­
getto. A parte l'impossibilità d'un simile mondo per tanti soggetti con tanti in­
compatibili desideri, non è nemmeno questo che l'uomo virtuoso vuole. Ciò
che la volontà buona e l'amore vero rendono il soggetto degno e meritevole di
ricevere non è qualcosa di diverso da ciò che egli vuole ed ama, ma proprio la
realizzazione di ciò che egli vuole ed ama, cioè il vero bene e la vera felicità
per se stesso e per le persone; in funzione di esso egli ha disciplinato, mortifi­
cato, educato i propri desideri e li ha commisurati alla regola del vero amore e
della vita buona.
(71 ) 8) Il mio discorso sul rapporto tra virtù e felicità resta notevolmente in­
compiuto proprio dal punto di vista della filosofia cristiana. Sarebbe infatti ne­
cessario mostrare in qualche modo la verità dell'insegnamento cristiano circa la
beatitudine eterna: al di là della vera felicità di cui l'uomo è naturalmente ca­
pace Dio vuol donare all'uomo la felicità stessa di Dio, una beatitudine per­
fetta. Come ciò sia possibile e quali trasformazioni introduca nelle facoltà ope­
rative, nelle virtù, nella condotta morale, nella speranza e nell'amore; perché
mai la beatitudine perfetta non sia realizzabile per l'uomo se non attraverso la
via della croce per giungere alla risurrezione: tutto ciò non può esser trattato in
questa sede; ma ciò che qui è detto ne costituisce un « preambolo »: il discorso
più interessante resta ancora da fare!
Tuttavia ciò che ho detto permette di dare una risposta ad una delle più
gravi questioni della filosofia morale: è meglio commettere l'ingiustizia o su­
birla? in che senso è « meglio » subire l'ingiustizia che commetterla?
74 Capitolo I

Innanzitutto si capisce perché la virtù possa esigere una rinuncia alla feli­
cità. Certamente il virtuoso rinuncia a false felicità, ma anche a forme ed
aspetti della felicità vera. Vi sono situazioni in cui la corrispondenza tra virtù e
buon stato di cose è precaria, fragile, incompleta; a volte anzi tale corrispon­
denza non si dà affatto e lo stato di cose è addirittura opposto alla buona vo­
lontà. In tali situazioni si deve esser disposti a perder tutto tranne l'amore
vero, non si deve deflettere dalla buona volontà per nessuna ragione al
mondo, anche a rischio di perdere altri beni preziosi. È una rinuncia che ha
senso proprio in vista della realizzazione della vera felicità. Chi resta fedele
all'amore vero di fronte all'ingiustizia subita, alla sofferenza, alla morte, vuole
fermamente e con tutto il cuore che il mondo sia governato secondo la regola
del vero bene. La stessa sofferta privazione degli altri beni purifica le inten­
zioni virtuose da ogni attaccamento disordinato, sicché il soggetto vuole il vero
bene solo più perché Dio lo vuole e come Dio lo vuole; la volontà umana di­
venta più conforme alla volontà divina, e con tale conformità si rende idonea e .
degna di ricevere in dono proprio ciò che essa ha voluto sopra tutto, la vera fe­
licità in Dio.
Egli può esser detto felice e può sentirsi felice nel tormento: « Zenja cara,
Lei ha agito secondo coscienza. Creda, è la cosa migliore che è data all'uomo.
[ . . . ] La nostra disgrazia principale è che noi non viviamo come ci detta la co­
scienza. Non diciamo ciò che pensiamo. Sentiamo una cosa e ne diciamo un'al­
tra. [ . . . ] Privare l'uomo del diritto alla coscienza è orribile. E se l'uomo trova
in sé la forza di fare quello che gli detta la coscienza, allora prova un impeto
di felicità». 11 4 Felice è attualmente il giusto tormentato proprio per la gioia e
la pace che dà l'amore vero. Felice egli è in speranza: con l'amore vero egli ha
in sé il principio, il pegno della felicità vera completa a cui l'eudokia divina in­
tende portare le persone e di cui l'amore vero rende capaci e degni. Soffrire
l'ingiustizia restando nell'amore vero è « meglio» nel senso che: 1 ) realizza il
bene del vero amore nel giusto tormentato, bene in se stesso sommamente im­
portante ed eccellente; 2) colloca il soggetto nella rete di rapporti personali
con Dio che fa possibile la felicità vera completa. A causa di questa connes­
sione che il vero amore ha con la volontà di Dio, esso è l'unica via efficace per
realizzare la vera felicità.

lii. CONCLUSIONE

(72) La riduzione della filosofia morale a semplice etica normativa ha por­


tato la filosofia morale in un vicolo cieco: è sorta la domanda: « Perché essere

114
Vasilij GROSSMAN, Vita e destino, tr. it. Milano 1982, 694. Più volte in Arcipelago
Gulag A. Solzenicyn riferisce di questo «impeto di felicità» in coloro che tra la vita e la coscienza
scelgono la coscienza.
Felicità e virtù nella filosofia pratica 75

morali? », e non si trova una risposta. La filosofia morale ridotta ha perso l'inte­
resse per la felicità e per il senso della vita umana. Ricuperando alla filosofia
morale il tema della condotta e del governo della vita si ha modo di ridare im­
portanza alla felicità e di percepire la sua interna connessione con la virtù, non
senza una rielaborazione critica del concetto di felicità e di virtù.
La virtù rende buono il soggetto in quanto principio di scelta; fa sì che
quando egli sceglie scelga da prudente, giusto, forte, temperante, ecc.; in ul­
tima analisi fa sì che egli scelga da amante di amore vero le persone. L'essere
così e l'operare così è già vera felicità per l'uomo; ma non è tutta la vera feli­
cità; è solo la sua componente eudemonica esistenziale.
L'ordine pratico non si riduce alla virtù e alle azioni virtuose. L'ordine pra­
tico esiste in quanto vi è un'originaria, naturale, necessaria volontà di compi­
mento felice del soggetto in un'ottimale commisurazione col mondo. Le azioni
costituiscono una condotta proprio perché mirano a realizzare tutte in qualche
modo quel fine ultimo. Si tratta d'un fine di non poco conto: esso concerne il
senso ultimo della realtà. Solo se la felicità è possibile e realizzabile, la vita ed
il mondo hanno un senso.
Proprio qui la virtù ha un'importanza decisiva: rendendo capace di amore
vero il soggetto, essa lo rende atto e degno di vivere in armonia con le persone
e con Dio, sapendo stare alla loro presenza, comunicare con loro, ricevere da
loro quei beni esperienziali e sostanziali, i quali, oltre ad essere apprezzabili e
desiderabili per se stessi, lo sono ancor più quando sono doni d'un amore vero
tra le persone e da parte di Dio, e sono compresi, apprezzati, voluti come tali.
Per questa via la virtù colloca il soggetto in una rete di rapporti con gli altri e
con Dio che fa possibile la felicità vera completa in tutti i suoi aspetti.
Di qui il senso della condotta morale dell'individuo nel tempo. La sua situa­
zione contingente può essere più o meno felice in partenza; le sue potenzialità
ed opportunità più o meno ridotte, coartate, stroncate; la sua vicenda più o
meno travagliata. Il compito della vita (compito in rapporto al fine dell'ordine
pratico; compito in rapporto all'intenzione e alla volontà del Creatore) è realiz­
zare il meglio possibile nella situazione individuale e contingente l'amore vero;
educarsi, nel proprio frammento di esistenza umana, a voler vivere e ad amar
vivere nell'armonia universale, condividendo la volontà del Creatore sulle crea­
ture.
Perché essere morali? Perché è l'unico modo di trovare ciò che cerchi, di
realizzare il fine in ragione di cui agisci. Vale la pena essere virtuosi? Sì, perché
sei pagato proprio con la moneta che vuoi e che ha valore per te; sì, perché ot­
tieni ciò che ami.
Capitolo I l

VIRTÙ E DOVERE:
VALUTAZIONE DI UN RECENTE CIBATTITO

(1 ) La concezione della felicità che ho esposto nel capitolo precedente è


strettamente solidale d'una concezione della virtù, alla quale ho appena fatto
qualche cenno e che ora si tratta di sviluppare. Il concetto di virtù, ancor più
che quello di felicità, ha bisogno d'essere accuratamente analizzato, giacché il
tentativo di vari filosofi e di qualche teologo di reintrodurlo in etica, dopo una
lunga assenza, fa affiorare divergenze sia sul modo stesso d'intendere la virtù
sia sul rapporto tra il concetto di virtù e gli altri concetti principali dell'etica.

I. NOVITÀ D'UN RECENTE DIBATTITO

1 Nuova attenzione al concetto di virtù


.

(2) Virtue and Medicine ; Virtue: Public and Private: i titoli di queste due re­
centissime pubblicazioni hanno di che stupire più d'un lettore. 1 La pratica me­
dica e la convivenza civile non sembrano il luogo più adatto per fare una rifles­
sione sulle virtù, quanto invece sembrano richiedere lesatta determinazione di
leggi, di regole di comportamento, di diritti, di doveri, di obblighi. La virtù, se
mai, sarà qualcosa di cui ci si occupa privatamente, come un ideale personale,
del tutto soggettivo, relativo alle proprie convinzioni religiose o sapienziali, a
sostegno del quale non possono essere fornite argomentazioni pubbliche, va­
lide intersoggettivamente.
Tuttavia le due menzionate pubblicazioni non spuntano improwise: sono
l'espressione d'un dibattito che da circa trent'anni è in corso presso gli stu­
diosi di etica. Esso awiene nelle aree angolosassone e tedesca e passa del tutto
inosservato in altre aree linguistiche. Esso non suscita lo scalpore che suscitano
altri dibattiti (come quello relativo alla fondazione deontologica o teleologica
delle norme, o come il confronto tra teorie utilitariste e teorie della giustizia e
dei diritti) , tranne l'unica eccezione di A/ter Virtue di Alasdair Madntyre di
cui dirò.
Il dibattito in corso costituisce un fenomeno del tutto nuovo nella secolare

1 SHELP [72 ] , NEUHAUS [73 ] . I numeri tra [ ] si riferiscono alla rassegna di II 4 .


Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 77

storia dell'idea di virtù. In esso non vi è nulla della presentazione convenzio­


nale d'una dottrina tradizionale.2 Né i contributi del dibattito hanno qualche
rapporto con la linea di pensiero di Max Scheler, Nicolai Hartmann, Dietrich
van Hildebrand, Vladimir Jankélévitch, Maurice H. Mandelbaum, John Laird,
i quali diversamente costruirono una fenomenologia delle virtù; né con l'inter­
pretazione della teoria tomista delle virtù operata da Josef Pieper.
La novità dell'attenzione che nel recente dibattito si dà al concetto di virtù
consiste nel fatto che essa muove da una critica più o meno radicale all'etica
moderna e, rifacendosi alla teoria aristotelica delle virtù, si pone come alterna­
tiva alle teorie etiche moderne. Il termine etica moderna non viene qui usato in
senso storico, quasi a coprire tutte le teorie etiche a partire dal sec. XVII;
bensl in senso dottrinale: esso sta a significare uno schema di pensiero soggia­
cente a gran parte delle riflessioni etiche prodotte nei secoli moderni e designa
qualsiasi teoria etica, d'ispirazione kantiana o utilitarista, che intende il pro­
blema etico come problema della determinazione dell'azione giusta o corretta e
delle sue regole, e come problema della giustificazione del dovere o dell'ob­
bligo di compiere azioni giuste e di seguire le regole.
Una breve rasegna della letteratura in cui s'esprime questo dibattito fornirà
una prima informazione ed il quadro entro cui il presente studio intende si­
tuarsi. Essa sarà tanto più utile in quanto nessuno degli autori che interven­
gono nel dibattito ha cura di prendere in considerazione l'intero concerto di
voci.3

2 Di questo tipo sono invece l'articolo di Maria de la Luz GARCÌA ALONSO, Sobre las virtu­
des mora/es, in Sapientia 35 (1980) 455-472, e generalmente gli articoli di vari dizionari che illu­
strano la voce virtù.
3 La rassegna di Gregory E. PENCE, Recent Wo�k on Virtues, in American Philosophical
Quarterly 2 1 ( 1 984) 281-297, comprende anche contributi che si occupano della definizione di sin­
gole virtù, cosa che cade fuori dall'interesse del presente studio; per altro è più limitata di quella
che presento, in quanto comprende solo contributi di filosofi, non di teologi, e solo dell'area anglo­
americana, non di quella tedesca; inoltre trascura gli studi che muovono critiche ali' etica mo­
derna.
Al contrario le poche pagine di Hans GLEIXNER, Tugend wieder ge/ragt. Das neuerwachte Inte­
resse an der Tugend aus theologischer Sicht, in Zeitschri/t fiir katholische Theologie 108 ( 1986) 255-
265, si occupano solo dell'area tedesca e solo della teologia morale cattolica; nemmeno entro que­
sti limiti tengono conto di tutti i più recenti contributi.
Non ho potuto tener presenti in questa rassegna tre importanti libri recentissimi, pervenuti
troppo tardi; in essi la teoria della virtù è condotta ad ampi e fecondi sviluppi. Sono: D.J. HUT­
CHINSON, The Virtues o/ Aristotle, London - New York, Routledge and Kegan Paul 1986; Stephen
D. HUDSON, Human Character and Morality. Re/lections /rom the History o/ Ideas, Boston - Lon­
don - Henley, Routledge and Kegan Paul 1986: cf. [66) e [86) ; Lawrence C. BECKER, Reciprocity,
London - New York, Routledge and Kegan Paul 1986: cf. [4] . Tuttavia li utilizzerò, nella misura
in cui sono rilevanti, nei capitoli seguenti. Mi è rimasto sinora inaccessibile il libro di Edmund L.
PINCOFFS, Quandaries and Virtues. Against Reductivism in Ethics, Lawrence/KS, University Press
of Kansas 1986: cf. [3].
Ventisei pagine di Selected Bibliography sulla teoria della virtù chiudono il libro curato da Ro­
bert B. KRUSCHWITZ Robert C. ROBERTS, The Virtues. Contemporary Essays on Mora! Character,
-
78 Capitolo II

2. Breve rassegna

(3) Se la breve rassegna che segue comprende studi di filosofi e di teologi,


sia protestanti sia cattolici, questo è dovuto a due ragioni. Di fatto nel dibattito
le diverse voci s'intrecciano: discutono fra loro il teologo protestante Stanley
Hauerwas e il filosofo laico William Frankena; lo stesso Hauerwas collabora
con il filosofo laico Alasdair Maclntyre all'edizione del volume Revisions e le
loro teorie della virtù presentano alcuni tratti comuni; il teologo cattolico Phi­
lipp Schmitz sfrutta il contributo di vari filosofi laici e dello stesso Hauerwas
per delinerare una nuova via al concetto di virtù. La ragione principale è però
di ordine teorico: come filosofo cristiano ritengo che sia scorretto filosofare
senza tener conto della rivelazione cristiana; la teoria della virtù che andrò deli­
neando vuole proprio render conto, nella misura del possibile, della conce­
zione della moralità implicata nella rivelazione cristiana. D'altra parte ritengo
ugualmente scorretto che il teologo cristiano, nell'elaborare una filosofia cri­
stiana, non si confronti criticamente con i filosofi laici, valutandone le
istanze.4
L'andamento generale del dibattito può essere così riassunto: da più parti e
per diverse ragioni filosofi e teologi hanno mosso critiche radicali all'etica mo­
derna lamentando tra l'altro la sua trascuratezza per il tema delle virtù e propo­
nendo di riscoprire il concetto di virtù per rimediare alle carenze denunciate.
Queste critiche hànno suscitato varie reazioni, che vanno dalla denuncia di
altre carenze delle nuove proposte sulla virtù all'integrazione del concetto di
virtù nell'etica moderna. In connessione o no con questo dibattito vi sono filo­
sofi e teologi che hanno positivamente iniziato a lavorare per una nuova teoria
della virtù o da sola o nel contesto d'una teoria etica generale. Particolare at­
tenzione è stata data alla psicologia morale della virtù.
(4) Punto per punto presento la serie dei contributi in ordine cronologico:
.
1) Critica all'etica moderna e proposta per una teoria della virtù:

a) da parte di filosofi:
[ 1 ] G.E.M. ANSCOMBE, Modern Mora! Philosophy, in Philosophy 33 ( 1958) 1-19; ripubblicato
in The Collected Philosophical Papers o/ G.E.M. Anscombe, III: Ethics, Religion and Politics.
Oxford, Basil Blackwell 1981, 26-42.
[2] Iris MURDOCH, The Sovereignty o/ Good. New York, Schocken Books 1970.

Belmont I California 1987, 237-263: la bibliografia comprende ben più contributi di quanti siano
rilevanti per il tema che qui intendo affrontare e, benché vasta ed estesa a filosofi e teologi, si li­
mita all'area di lingua inglese. Il libro ristampa vari articoli, tra cui quelli di STOCKER [5] ,
LOUDEN [36], uno di quelli raccolti nel libro di MURDOCH [2] .
4 Non è questa l a sede per argomentare a favore di questa posizione, intervenendo in u n an­
noso e complicato dibattito. Qualcosa di più ne ho detto in un precedente studio: I «Christian
Mora! Principles» di G. Grisez e la «Secunda Pars» della «Summa Theologiae», in Salesianum 48
( 1986) 656-658; v. sopra I 13- 14.
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 79

[3] Edmund PINCOFFS, Quandary Ethics, in Mind 80 ( 1971) 552-57 1 ; ripubblicato in Revi­
sions [ 1 1 ] 92- 1 12 .
[4] Lawrence C. BECKER, The Neglect o/ Virtue, in Ethics 8 5 ( 1975) 1 10- 122.
[5] Michael STOCKER, The Schizophrenia o/ Modern Ethical Theories, in ]ournal o/ Philo­
sophy 73 ( 1976) 453-466.
[6] Bernard WILLIAMS, Persons, Character and Morality, in Amelie O. RORTY (ed.), The
Identities o/ Persons. Berkeley, University of California Press 1976; ripubblicato in J3. WIL­
LIAMS, Mora! Luck, Cambridge, Cambridge University Press 198 1 , 1 - 19.
[7] Philippa Four, Virtues and Vices and Other Essays in Mora! Philosophy. Berkeley, Uni­
versity of California Press 1978, ppb Oxford, Basil Blackwell 198 1 : soprattutto: [a] Morality
as a System o/ Hypothetical Imperatives ( 157-173) già pubblicato nel 1972; [b] Introduction
(XI-XIV); [c] Virtues and Vices ( 1 - 18) pubblicato per la prima volta.
[8]- , William Frankena's Carus Lectures, in The Monist 64 ( 1981) 305-3 12.
[9]- , Utilitarianism and the Virtues, in Mind 94 ( 1985) 196-209.
[ 10] Alasdair MAcINTYRE, A/ter Virtue: A Study in Mora! Theory. Notre Dame I IN, Univer­
sity of Notre Dame Press 1 198 1 ; 2 1984. 5

' Questa è la pubblicazione di gran lunga più importante non solo all'interno del dibattito
tra etica del dovere ed etica della virtù, ma anche nell'intera area degli studi storici e teoretici sul­
l'etica negli ultimi anni. Tale importanza non emerge tanto dal consenso, quanto dalla discussione
da esso suscitata a livello internazionale e al di là dei confini delle singole correnti: v'intervengono
filosofi e teologi rinomati e di ogni estrazione, in recensioni ampie e critiche, in simposi, in studi
che vanno dalla nota critica, all'articolo, al libro. Ne dò una rassegna: all'uno o all'altro degl'inter­
venti farò riferimento al momento opportuno.
Recensioni e note critiche in: International Philosophical Quarterly 22 ( 1982) 2 15-219 (Christo­
pher W. GOWANS) ; The New Scholasticism 56 (1982) 385-390 (Russell HITTINGER), Teaching Phi!o­
sophy 5 ( 1982) 245-246; The Thomist 46 ( 1982) 3 13-322 (Stanley HAUERWAS, Paul WANDELL) ;
Ethics 93 ( 1983) 579-587 (William K. FRANKENA); The Philosophical Review 92 ( 1983) 443.-447 (Sa­
muel SCHEFFLER); Australasian ]ournal o/ Philosophy 61 ( 1983) 450-454 (Gary MACKENZIE); ]our­
nal o/ the History o/ Philosophy 2 1 ( 1983) 426-429 (Abraham EoEL, Elisabeth FLOWER) ; Revista de
Filosofia 6 ( 1983) 3 15-322 (José MONTOYA SAENZ); Nederlands Theologisch Tijdscri/t 37 ( 1983)
136-149 (A. VAN DEN BELO); Neue Zeitschrtft /iir systematische Theologie und Religionsphiloso­
phie 26 (1984) 256-275 (Jeffrey STOUT); Mind 93 ( 1984) 1 1 1 - 124 (D.Z. PHILLIPS); International
]ournal o/ Applied Philosophy 2 ( 1984-85) n. 2, 97-107 (Donald SHERER) ; Philosophische Rund­
schau 32 ( 1985) 1-7 (H.G. GADAMER); Philosophisches ]ahrbuch 92 ( 1985) 43 1-436 (Benedikt
HALLER); The ]ournal o/ Value Inquiry 19 ( 1985) 13-26 (Steven L. Ross ) ; Revue Thomiste 86
( 1986) 137- 141 (Servais PINCKAERS); Erkenntnis 25 (1986) 61-76 (Bruce N. WALLER) ; The South­
ern ]ournal o/ Philosophy 24 ( 1986) 307-320 (Susan FELDMAN) .
A varie critiche dei suoi recensori h a risposto Macintyre nella I I edizione d i A/ter Virtue
( 1984), pp. 264-278: Postscript to the second Edition.
La rivista Inquiry 26 ( 1983) n. 4 ha pubblicato i contributi di un simposio su A/ter Virtue con
interventi di: Onora O'NEILL, Kant After Virtue, 387-405; Raimond GAITA, Virtues, Human
Good, and the Unity o/ a Li/e, 407-424; Stephen R.L. CLARK, Morals, Moore, and Macintyre, 425-
445 ; chiude il fascicolo una replica di MACINTYRE, Mora!, Rationality, Tradition, and Aristotle: a
Reply to Onora O'Neill, Raimond Gaita, and Stephen R.L. Clark, 447-466. Inoltre: Marx W. WAR­
TOFSKY, Virtue Lost or Understanding Macintyre, in Inquiry 27 (1984) 235-250; replica
MAcINTYRE, «A/ter Virtue» and Marxism: A Response to Warto/sky, ivi 25 1 -254.
La rivista Man and World 18 ( 1985) 461-467 riferisce di un Colloquium on Narrative, Charac­
ter, Community and Ethics in cui si è discusso su Macintyre e su Hauerwas.
Articoli: Alan GEWIRTH, Rights and Virtue, in Review o/ Metaphysics 38 ( 1984-85) 739-762; Ri­
chard J. Mouw, Alasdair Macintyre on Re/ormation Ethics, in ]ournal o/ Religious Ethics 13 (1985)
243-257; Kai NIELSEN, Critique o/ Pure Virtue: Animadversions on a Virtue-based Ethics, in
80 Capitolo II

( 1 1] Alasdair MACINTYRE - Stanley HAUERWAS (ed.), Revisions: Changing Perspectives in


Mora! Philosophy. Notre Dame I IN, University of Notre Dame Press 1983.
( 12] Nikolaus LOBKOWICZ, La filosofia pratica come dottrina della virtù. Tentativo per una ria­
bilitazione, in La Nottola 2 ( 1983) n. 3 -4, 5-22.
(13] Friedo RICKEN, SJ, Kann die Moralphilosophie auf die Frage nach dem «Ethischen» v�r­
zichten?, in Theologie und Philosophie 59 ( 1984) 161-177.
( 14] Richard TAYLOR, Ethics, Faith, and Reason. Englewood Cliffs I NJ, Prentice-Hall
1985.

b) da parte di teologi protestanti:


( 15] Stanley HAUERWAS, Toward an Ethics of Character, in Theological Studies 33 ( 1972) 698-715;
ripubblicato in Vision and Virtue ( 16] 48-67.
( 16] -, Vision and Virtue. Essay in Christian Li/e. Ethical Reflexion. Notre Dame I IN,
Fides - Claretian 1974.
( 17] -, Character and the Christian Li/e. A Study in Theological Ethics. San Antonio I TEX.,
Trinity University Press 1975.
( 18] -, Obligation and Virtue Once More, in ]ournal of Religious Ethics 3 ( 1975) I, 27-44, ri­
pubblicato in St. HAUERWAS with Richard BONDI and David B. BURRELL, Truthfullness and
Tragedy. Further Investigations in Christian Ethics. Notre Dame I IN, Notre Dame University
Press 1977, 40-56.
( 19] -, A Community of Character: Toward a Constructive Christian Socia! Ethics. Notte
Dame I IN, University of Notre Dame Press 198 1 .
(20] -, The Peaceable Kingdom. A Primer in Christian Ethics. London, SCM Press 1984.
(2 1] -, On Medicine and Virtue: A Response, in SHELP (72] 347-355.
(22] -, Virtue, in Kenneth VAUX (ed.), Powers That Make Us Human. The Foundations of
Medica! Ethics. Urbana and Chicago, University of Illinois Press 1985, 1 17- 140.
(23] Eilert HERMS, Virtue: A Neglected Concept in Protestant Ethics, in Scottish Journal of
Theology 35 ( 1 983) 481-495.

e) da parte di teologi cattolici:


(24] Philipp SCHMITZ, SJ, Tugend - der alte und der neue Weg zur inhaltlichen Bestimmung des
sittlich richtigen Verhaltens, in Theologie und Philosophie 54 ( 1979) 161- 182; ripreso in Ph.
SCHMITZ, Menschsein und sittliches Handeln. Vernachlassigte Begriffe in der Moraltheologie.
Wiirzburg, Echter 1980, 107- 132.
(25] Josef ENDRES, Tugend im Widerspruch, in Theologie der Gegenwart 26 ( 1983) 1 16- 126.

SHELP (72] 133- 150; ].B. SCHNEEWIND, Virtue, Narrative, and Community: Maclntyre and Mora­
lity, in ]ournal of Philosophy 75 ( 1982) 653-664; replica MACINTYRE, Intelligibility, Goods and
Rules, ivi 663-665; Susan FELDMAN, Objectivity, Pluralism and Relativism. A Critique of Maclnty­
re's Theory of Virtue, in The Southern ]ournal of Philosophy 24 ( 1986) 307-3 19; Xavier O. MONA ­

STERIO, On Maclntyre, Rationality, and Dramatic Space, in Proceedings of the Am. Cath. Philos.
Assoc. 58 (1984) 150- 164.
Il libro di Ursula WOLF Das Problem des moralischen Sollens, Berlin - New York, Walter de
,

Gruyter 1984, è un'impegnativa argomentazione per difendere l'etica moderna liberale contro gli
attacchi di Maclntyre.
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 81

2) Risposta alle critiche, per un'integrazione del concetto di virtù nell'e­


tica moderna:
a) dibattito nel Journal o/ Religious Ethics:
[26] Frederick CARNEY, The Virtue-Obligation Controversy, in ]RE 1 ( 1973) I, 5 - 19.
[27] Arthur J. DYCK, A Umfied Theory o/ Virtue and Obligation, ivi 37-52.
[28] William K. FRANKENA, The Ethics o/ Love Conceived as an Ethics o/ Virtue, ivi 2 1-36.
- HAUERWAS [18].
[29] William K. FRANKENA, Conversation with Carney and Hauerwas, in ]RE 3 ( 1975) I, 45-62.
Cf. Wesley J. ROBBINS, Professor Frankena on Distinguishing on Ethic o/ Virtue /rom an Ethic
o/Duty, in ]RE 4 (1976) I, 57-62.
[30] David SCHENCK, Jr., Re-casting the "Ethics o/ Virtue I Ethics o/ Duty Debate", in ]RE 4
( 1976) II, 269-286.

b) Risposta ad Anscombe [ 1] , Foot [7], Stocker [5] , Williams [6] :


[3 1] Artur FLEMMING, Reviving the Virtues, in Ethics 90 (1980) 587-595 (critica anche WALLACE
[65]).
[32] Rodger BEEHLER, Critica! Notice of Philippa FooT, « Virtues and Vices », and ]ames D.
WALLACE, « Virtues and Vices», in Canadian ]ournal o/Philosophy 13 ( 1 983) 262-264.
[33] Marcia BARON, On De-Kantianizing the Per/ect!y Mora! Person, in The ]ournal o/ Value
lnquiry 17 ( 1983) 28 1-293.
[34] -, The Al!eged Mora! Repugnance o/ Acting /rom Duty, in The ]ourna! o/ Phi!osophy 8 1
( 1984) 197-220.
[35] -, Varieties o/ Ethics o/ Virtue, in American Philosophica! Quarterly 22 ( 1985) 47-53.
[36] Robert B. LOUDEN, On Some Vices o/ Virtue Ethics, in American Phi!osophica! Quar­
ter!y 21 ( 1984) 227-236.
[37] Janet SMITH, Can Virtue Be in the Service o/ Bad Acts? A Response to Philippa Foot, in
The New Scholasticism 58 ( 1984) 357-373.

e) altre critiche alla riabilitazione della virtù:


[38] Bruno ScHOLLER, Die vermiflten Tugenden, in ID., Die Begrundung sittlicher Urtei!e. Typen
ethischer Argumentation in der Moraltheologie. Diisseldorf, Patmos 2 1980, 299-305.
[39] -, Zu den Schwierigkeiten, die Tugend zu rehabilitieren, in Theo!ogie und Phi!osophie
58 (1983 ) 535-555.

d) altre proposte d'integrazione:


[ 40] Tom L. BEAUCHAMP, What's so Special About the Virtues?, in SHELP [72] 307-327.
[ 41] Gregory W. TRIANOSKY, Supererogation, Wrongdoing, and Vice: On the Autonomy o/
the Ethics o/ Virtue, in ]ournal o/ Philosophy 83 ( 1986) 26-40.

3) Trattazioni sulla virtù nell'ambito d'una teoria etica generale:

a) da parte di filosofi:
[ 42] Georg Henrik VON WRIGHT, The Varieties o/ Goodness. London, Routledge and Kegan
Paul 1963.
[ 43] Peter A. BERTOCCI - Richard M. MILLARD, Personality and the Good. Psychological and
Ethica! Perspectives. New York, David McKay Company 1963.
[44] William K. FRANKENA, Prichard and the Ethics o/ Virtue: Notes on a Footnote, in The
Monist 54 (1970) 1-17.
82 Capitolo II

[45] - , Ethics. Englewood Cliffs I NJ, Prentice-Hall 2 1973 ; utilizzo la traduzione italiana a cura
di Maurizio MORI: Etica. Una introduzione alla filosofia morale. Milano, Edizioni di Comu­
nità 1981 .
[46] Bernard GERT, The Mora! Rules. A New Rational Foundation /or Morality. New York,
Harper and Row 1966. Utilizzo la traduzione tedesca a cura di Walter ROSENTHAL: Die Mora­
lischen Regeln. Eine neue rationale Begrnndung der Mora!. Frankfurt a.M., Suhrkamp 1983.
[47] - , Virtue and Vice, in SHELP [72] 95-109.
[48] Eugen FREEMAN (ed.), Virtue and Mora! Goodness, in The Monist 54 ( 1970) n. 1 .
[ 49] G .J. WARNOCK, The Object o/ Morality. London, Methuen 1971.
[50] R.E. EWIN, Cooperation and Human Values. A Study o/ Mora! Reasoning. Brighton I
Sussex, The Harvester Press 198 1 .

b) da parte di teologi protestanti:


[5 1] James M. GUSTAFSON, Christ and the Mora! Li/e. New York, Harper and Row 1968.
[52] -, Christian Ethics and the Community. Philadelphia, Pilgrim Press 197 1 .
[53] -, Can Ethics B e Christian?. Chicago, University o f Chicago Press 1975.
[54] Gene H. OUTKA, Character, Conduct, and the Love Commandment, in Gene H. OuTKA
- Paul RAMSEY (ed.), Norm and Context in Christian Ethics. New York, Charles Scribner's
Sons 1968, 37-66.
[55] -, Agape. An Ethical Analysis. New Haven - London, Yale University Press 1972, 123-
152: Agape as a Virtue o/ the Agent.

e) da parte di teologi cattolici: 6


[56] Corso di Teologia Morale: Eraldo QUARELLO, L'amore e il peccato. Affermazione e negazione
dell'uomo. Bologna, EDB 197 1 .
[57] Anselm GONTHOR, Chiamata e risposta. Una nuova teologia morale. I: Morale generale.
Alba, Edizioni Paoline 1974.
[58] C. Henry PESCHKE, Christian Ethics. I: A Presentation o/ Genera! Mora! Theology in
the Light o/ Vatican II. Alcester - Dublin, Goodliffe Neale 1975; 2 1977.

6 La vicenda del concetto di virtù nella teologia morale cattolica è molto strana ed attende

ancora il suo storico. La teoria tomista della virtù costituisce un caso unico nella storia del pen­
siero, per la sua ampiezza, originalità e livello scientifico di elaborazione. Ma non è unica nella sco­
lastica medievale: essa torreggia su altre cime minori non prive d'interesse. Tuttavia essa ha aperto
un alveo in cui si è sviluppata la successiva tradizione di teologia morale: quanto però tale tradi­
zione abbia perso dell'originaria ispirazione tomista lo mostra lo schizzo storico di Servais (Th.)
PrNCKAERS, OP, Les sources de la morale chrétienne. Sa méthode, son contenu, son histoire, Fri­
bourg/Suisse - Paris 1985. Nella manualistica fino alla neoscolastica era diventato un luogo co­
mune sia tramandare uno schema convenzionale di teoria della virtù, sia distribuire la materia mo­
rale secondo il catalogo delle virtù. Ciò che i manuali che cito dicono sulla virtù o si rifà allo
schema convenzionale o teqta una rifusione in chiave psicologica, che però non è essenziale alla
teoria morale di volta in volta messa in opera. Ma sono altrettante, se non di più, le recenti tratta­
zioni cattoliche di morale fondamentale che sulle virtù tacciono del tutto. La cosa è tanto più
strana in quanto il richiamo alla teoria tomista della virtù viene effettuato al di fuori della tradi­
zione cattolica, da parte di un teologo protestante (S. Hauerwas) e di una filosofa laica (Foot: «lt
is my opinion that the Summa Theologica is one of the best sources we have far mora! philosophy,
and moreover that St. Thomas' ethical writings are as useful to the atheist as to the Catholic or
other Christian believer»: Virtues and Vices [7c] 2). A dire il vero però, così come il riferimento
del cattolico all'opera tomista è ormai puramente nominale, anche quel che sia Foot (o.e.) sia Mac­
lntyre ([ 10] 166-168) ne dicono è ben lungi dal render giustizia alla teoria tomista e svela una let­
tura assai superficiale.
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 83

[59] Marciano VIDAL, Mora! de actitudes. I: Mora! /undamental. Madrid, Editoria! Perpetuo
Socorro 1975; ' 1981.
[60] Bernhard HARING, Liberi e fedeli in Cristo. Teologia morale per preti e laici. I: Cristo ci
ha liberati perché restassimo liberi (Gal 5,1). Roma, Edizioni Paoline 1979.
[61] Tullo GOFFI - Giannino PIANA, Il vissuto virtuoso, in T. GOFFI - G. PIANA (a cura di),
Corso di Morale. Il: Diakonia (Etica della persona). Brescia,'Queriniana 1983, 9-56.
[62] Germain GRISEZ, The Way o/ the Lord Jesus. I: Christian Mora! Principles. Chicago,
Franciscan Herald Press 1983.7

4) Linee d'una teoria della virtù:


a) da parte di filosofi:
[63] Volker EID, Tugend als Werthaltung, in Humanum. Moraltheologie im Dienst des Menschen.
Hrsg. von Johannes GRDNDEL - Fritz RAUH - Volker EID. Diisseldorf, Patmos 1972, 66-83.
[64] P.T. GEACH, The Virtues. The Stanton Lectures 1973-74. New York, Cambridge Uni­
versity Press 1977.
- FOOT [7c].
[65] J.D. WALLACE, Virtues and Vices. lthaca - London, Cornell University Press 1978.
MACINTYRE [ 10].
[66] Stephen D. HuosoN, Taking Virtues Seriously, in Australasian Journal o/ Philosophy 59
( 1981) 189-202.
[67] Rudolf SCHOTTLAENDER, Die Tugendpragmatik im ethischen Relationsgefuge, in Philoso­
phisches Jahrbuch 90 ( 1983) 246-257.
[68] Michael SLOTE, Goods and Virtues. Oxford, Oxford University Press 1983.
[69] Mark VOROBEJ, Relative Virtue, . in The Southern Journal o/ Philosophy 22 ( 1984)
535-542.
[70] Gary WATSON, Virtues in Excess, in Philosophical Studies 46 ( 1984) 57-74.
- TAYLOR [14].
[75] Michael A. WEINSTEIN, Finite Per/ection. Re/lections on Virtues. Amherst, The University of
Massachussets Press 1985.
[72] Earl E. SHELP (ed.), Virtue and Medicine. Explorations in the Character o/ Medicine.
Dordrecht - Boston - Lancaster, D. Reidel Pu. Co. 1985.
[73] Richard John NEUHAUS (ed.), Virtue: Public and Private. Grand Rapids I Michigan,
William B. Eerdmans Pu. Co. 1984.

b) da parte di teologi protestanti: 8


HAUERWAS [ 15-22].9
[74] Donald EVANS, Struggle and Fulfillment. The Inner Dynamics o/ Religion and Morality. Phila­
delphia I PA, Fortress Press 198 1 .

7 Quale concetto si faccia Grisez della virtù, quale funzione l e assegni nella vita morale e
quanto diverga dalla concezione tomista l'ho mostrato nel mio studio I «Cristian Mora! Princi­
ples» .
8 Lo studio di Endres [25] individua le ragioni teoriche per cui l'etica protestante di questo

secolo ha rifiutato il concetto di virtù. Herms [23) lamenta precisamente che l'etica protestante
abbia trascurato il tema della virtù, dopo la considerazione ch'essa ha avuto nella tradizine prote­
stante: si pensi alla Tugendlehre di Schleiermacher. Gli studi di Meilaender [75-77] documentano
il rifiuto e l'accoglienza che la virtù ha nel pensiero di Lutero·e mostrano il senso teologico di que­
sta dialettica.
9 Per una critica alla sua concezione del carattere cf. Richard BONO!, The Elements o/ Cha­
racter, in fournal o/ Religious Ethics 1 1 ( 1984) 201-2 18.
84 Capitolo II

[75) Gilbert C. MEILAENDER, The Theory and Practice o/ Virtue. Notre Dame I IN, Univer­
sity of Notre Dame Press 1984.
[76) -, The Virtues: A Theological Analysis, in SHELP [72) 15 1 - 1 7 1 .
[77) -, Virtue in Contemporary Religious Thought, i n NEUHAUS [73) 7-29.

e) da parte di teologi cattolici:


- SCHMITZ [74).
[78) Bernhard STOECKLE, OSB, Recht/ertigung der Tugend heute, in Stimmen der Zeit 192
( 1974) 291-305.

5) Sulla psicologia morale della virtù:

[79] R.B. BRANDT, Traits o/ Character: A Conceptual Analysis, in American Philosophical Quar­
terly 7 ( 1970) 23-37.
[80) Gabriele TAYLOR - Sybil WOLFRAM, Virtues and Passions, in Analysis (1971) 76-83.
[81) James WALLACE, Excellence and Merit, in Philosophical Review 83 ( 1974) 182- 199; ri­
preso in [63 ].
[82] N.].H. DENT, The Mora! Psychology o/ the Virtues. Cambridge, Cambridge University
Press 1984.
[83] Lester HUNT, Character and Thought, in American Philosophical Quarterly 15 ( 1978)
177- 186.
[84] Jennifer ]ACKSON, Virtues with Reason, in Philosophy 53 ( 1978) 229-246.
[85) John Mc DOWELL, Virtue and Reason, in The Monist 62 ( 1979) 33 1-350.
[86) Stephen D. HUDSON, Character Traits and Desires, in Ethics 90 ( 1980) 539-549.
[87) M.E. HAWKESWORTH, Freedom and Virtue. The Covert Connection, in Cogito 2 ( 1984)
I, 73- 106.
[88) John HEIL, Thoughts on the Virtues, in The ]ournal o/ Value Inquiry 19 (1985)
27-34. 10

3. Prospettiva di questo studio

(5) Il dibattito in corso ha prodotto notevole quantità di studi, ma nessuna


nuova teoria della virtù completamente sviluppata e criticamente fondata; nem­
meno il libro di Maclntyre né i libri di Hauerwas, i due autori che più si sono
applicati ad articolare una concezione della virtù, superano lo stadio di ab­
bozzo. Inoltre, per quanto parecchi degli studi siano assai analitici, il loro
punto di vista è sempre parziale e limitato, forse perché i confini imposti dal­
!' articolo d'una rivista non permettono l'elaborazione d'una riflessione di più
ampio respiro. Sia i critici dell'etica moderna sia i suoi difensori non rivedono
a fondo i presupposti delle loro concezioni: gli uni rifiutano di definire il do­
vere in funzione della virtù, gli altri rifiutano di definire la virtù in funzione
del dovere; altri ancora introducono nella teoria etica sia la virtù sia il dovere;
solo il lavoro di Maclntyre cerca di rivedere a fondo i presupposti delle posi­
zioni a confronto.
Quest'operazione gli riesce nella misura in cui introduce un punto di vista

10 Critica la tesi di Mc Dowell [85 ) .


Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 85

nuovo, quello aristotelico. Egli può allora non limitarsi a collocare la virtù e il
dovere all'interno dell'etica moderna, ma rivedere i termini stessi in cui l'etica
moderna pone il problema morale. Quanto l'operazione gli riesca, lo verifiche­
remo più avanti; in ogni caso la sua riedizione dell'etica aristotelica è assai più
fedele all'originale di quanto non lo siano la riedizione di Wallace [65] o di
Ewin [50] , i quali ritagliano l'etica aristotelica per adattarla ad uno schema ad
essa estraneo, di matrice hobbesiana.
Anche se non perfettamente riuscita, loperazione di Maclntyre è tuttavia
assai istruttiva: riscoprendo il punto di vista aristotelico, egli ritrova l'ambiente
connaturale per una teoria della virtù: riscopre ciò che la virtù fu prima delle
riduzioni che essa subì per sopravvivere denaturata entro lo schema dell'etica
moderna.
(6) Questo studio intende fare un'operazione analoga con l'etica tomista,
più precisamente con la teoria della virtù costruita da s. Tommaso d'Aquino
nella Secunda Pars della Summa Theologiae. Così s'introduce nel dibattito una
novità assoluta: infatti l'ispirazione originaria della teoria tomista della virtù è
rimasta senza seguito storico. La figura convenzionale corrente nella tradizione
successiva della teologia cattolica conserva dell'originaria sintesi tomista solo
dei frammenti senza vita: per usare l'immagine di Maclntyre, sono relitti d'un
naufragio. Introducendo il punto di vista tomista nel dibattito, s'introduce un
punto di vista ignoto sia alla tradizione della manualistica cattolica, sia ancor
più alle odierne discussioni di teologia morale e di filosofia morale. Non è que­
sta la sede per addurre argomenti a favore dell'interpretazione della teoria to­
mista che adotterò; 11 cercherò invece di far fruttificare tale interpretazione
per proporre una valutazione del dibattito in corso.
Un'attenta lettura dei contributi sopra elencati, con alle spalle un'assidua
frequentazione dell'Etica Nicomachea e ancor più della II Pars, può far perce­
pire cose che passano del tutto inosservate agl'interlocutori del dibattito. Si av­
verte che oltre le due posizioni a confronto (o sostituire all'etica del dovere
un'etica della virtù o integrare l'etica del dovere con il concetto di virtù) ve ne
può essere una terza: rivedere a fondo i concetti di dovere e di virtù in fun­
zione d'un punto di vista nella costruzione della teoria etica che non è né
quello dell'etica moderna, né quello degli abbozzi odierni di teoria della virtù.
Introdurre questo nuovo punto di vista, quello tomista, mostrare quale diverso
concetto di dovere e di virtù esso comporti, quale rapporto tra i due esso stabi­
lisca, in che cosa diverga dalle posizioni degli odierni interlocutori, è il primo
intento di questo studio. Il secondo intento implica un rischio maggiore, un
coinvolgimento più personale e offre maggior fianco alla critica: il presente stu­
dio non solo cercherà di vedere le cose dal punto di vista tomista, ma cercherà

11 Sarebbe necessario un lungo studio analitico ed esegetico che solo in parte ho realizzato
nel mio libro: Lex et virtus. Studi sull'evoluzione della dottrina morale di san Tommaso d'Aquino,
Roma 1983.
86 Capitolo II

anche di giustificare tale punto di vista, mostrandone la validità e pertinenza


anche per l'odierno dibattito.
Queste considerazioni comandano il tema ed il metodo del presente stu­
dio. Sarò interessato esclusivamente al concetto di dovere e al concetto di virtù
e al loro rapporto in una teoria etica d'ispirazione tomista. Resteranno fuori
questioni relative alla distinzione e alla classificazione delle virtù, alla descri­
zione di singole virtù, alla pratica delle virtù (genesi, crescita e corruzione delle
virtù) .
(7) Procederò col metodo aristotelico del « salvare le apparenze».12 Fan
parte di queste apparenze le posizioni sostenute dagl'interlocutori del dibat­
tito, la stessa posizione aristotelica e quella tomista: di esse occorre percepire
le diversità e le ragioni delle diversità, in modo che emergano le istanze valide.
Il criterio di validità è costituito dall'esperienza morale, essa stessa la princi­
pale tra le apparenze: le istanze sono valide nella misura in cui esprimono
aspetti contrastanti dell'esperienza morale. È ovvio che tale esperienza non
può essere che quella in cui è cresciuto l'autore: essa è la sua esperienza, ma
anche quella della comunità e della tradizione culturale e religiosa che l'hanno
alimentata. Essa consta pertanto sia di pratica personale, sia di ethos sociale,
sia di ethos cristiano. Un'espressione privilegiata di tale esperienza si trova non
tanto nelle opere di filosofi e di teologi, quanto nella letteratura drammatica,
nella narrativa e nelle opere di esortazione o di guida morale e spirituale.13
Questo metodo dovrebbe consentire di elaborare una teoria della virtù ade­
guata all'esperienza morale e che renda giustizia alle diverse istanze sostenute
dagl'interlocutori, antichi e nuovi, del dibattito. Le diverse istanze sono esse
stesse espressioni di aspetti contrastanti dell'esperienza morale. Una teoria è
tanto più adeguata a tale esperienza, in quanto non trascura alcuno dei suoi
aspetti e cerca di render ragione di ciascuno di essi e della loro interdipen­
denza.

12 Un'eccellente e convincente illustrazione e applicazione di questo metodo è data dal capi­


tolo 8: Saving Aristotle's appearances, del magistrale libro di Martha C. NUSSBAUM, The fragility o/
goodness. Luck and ethics in Greek tradegy and philosophy, Cambridge 1986, 240-263.
" Sia il riferimento ad una comunità e alla sua tradizione sia il riferimento alla letteratura
drammatica o parenetica. non sono usuali nelle opere di etica. Tuttavia proprio una teoria della
virtù non può farne a meno:Maclntyre, nel suo schizzo di storia della virtù (A/ter Virtue [ 10] 1 14-
168), mostra bene che le virtù sono eccellenze riconosciute e coltivate in una comunità. Hauerwas
è andato sviluppando la sua teoria del carattere con la considerazione che la comunità con le sue
storie tramandate è il luogo della formazione del carattere. Non si può dunque teorizzare sulla
virtù se non muovendo da questo tipo di esperienza.
Ora però le storie d'una comunità sono soprattutto espresse nella sua letteratura: le teorie
della virtù aristotelica e tomista non si capiscono se non sullo sfondo d'un' abbondante letteratura
antica e medievale sulle virtù e sui vizi. Quanto sia feconda per la teoria etica la considerazione di
tale letteratura l'ha mostrato Nussbaum nel libro citato alla n. 12. Ma la cosa vale anche per la let­
teratura moderna e contemporanea: cf. After Virtue [ 10] 169-17 4; 222-226; John D. BARBOUR, Tra­
gedy as a Critique o/ Virtue. The Nove! and Ethical Re/lection, Chico I California 1984.
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 87

li. I PUNTI DEL DIBATTITO

(8) Non è possibile seguire il dibattito in tutte le sue minute espressioni ed


argomentazioni: esso può invece esser ricondotto ad alcune linee principali.
L'iniziativa è partita da più filosofi e da qualche teologo che, per lo più indi­
pendentemente l'uno dall'altro, hanno mosso forti critiche all'etica mo­
derna 14 e per lo più indicano come correttivo o come alternativa un'etica
delle virtù. L'iniziativa ha avuto un duplice effetto: da un lato ha provocato la
risposta a queste critiche mirante a integrare la virtù nello schema dell'etica mo­
derna; dall'altro ha dato origine all'elaborazione di varie teorie della virtù.

1 . Critiche all'etica moderna per una teoria della virtù

I.

1) Critica al concetto di dovere morale

(9) L'inizio del dibattito può essere fatto risalire all'articolo di Anscombe,
Modern Mora! Philosophy [ 1 ] , pubblicato nel 1958; ebbe l'effetto d'una dichia­
razione di guerra. Molti degl'interlocutori successivi si rifanno a tale articolo o
per proseguire nella stessa direzione o per parare il colpo e contrattaccare.
L'Autrice proponeva arditamente di cessare di costruire etiche finché non si
fossero risolte questioni previe di psicologia filosofica che permettessero di ca­
pire cos'è una virtù. Non si potrebbe infatti spiegare che cosa significa dire
che un'azione è giusta, coraggiosa, amichevole, generosa, se non si chiarisce
che cos'è un'intenzione e quale ruolo essa svolga nell'azione. D'altra parte,
come seconda tesi, ella proponeva di abbandonare, come concetti privi di
senso, i concetti di dovere morale e di qbbligazione morale cosi tipici dell'etica
moderna. Tali concetti sono sopravvissuti a un contesto che dava loro senso e
che è ormai perso per l'etica moderna. Di dovere morale e di obbligazione
aveva senso parlare quando_si riteneva che l'ordine morale fosse basato su Dio
legislatore, come avveniva e avviene nella tradizione giudeo-cristiana. Se però
l'etica moderna non ammette Dio legislatore, essa priva di significato i con­
cetti di dovere morale e di obbligazione, che pure continua a mantenere.
Quest'interpretazione della vicenda storica dei concetti di dovere e di ob­
bligazione è ampiamente sviluppata e illustrata nel libro di Taylor [ 14], pur
senza far riferimento all'articolo di Anscombe.
( 1 0) A esso si rifà invece esplicitamente Foot [7a] nel 1977 rifiutando l'im- 1

perativo categorico, e cioè l'idea d'un' obbligazione o d'un dovere morale asso-

14 Il volume Revisions [ 1 1 ] raccoglie parecchi studi che da diversi punti di vista, non tutti
pertinenti per il nostro tema, criticano l'etica moderna.
88 Capitolo II

luto e incondizionato. A sostegno di tale rifiuto Foot adduce argomenti che in­
tendono mostrare che non si riesce a spiegare che cosa significhi un dovere mo­
rale assoluto né perché l'imperativo morale debba essere categorico. Invece, in
linea con gli altri articoli raccolti in Virtues and Vices [7], ella sostiene che i giu­
dizi morali forniscono ragioni per agire, non in quanto prescrivono categorica­
mente un dovere, bensì in quanto esprimono interessi e desideri che un sog­
getto possiede, appunto gl'interessi virtuosi, come: interessarsi alla sofferenza
degli altri, identificarsi con essi, desiderare di aiutarli, essere interessati alla li­
bertà o dignità degli altri. Non è che un soggetto debba categoricamente avere
questi desideri: o li ha, e allora è già morale; o non li ha, e allora egli è immo­
rale, è guasto, anche se non è per questo necessariamente irrazionale.
(1 1 ) Per altra via, e indipendentemente da questi autori, Stocker [5] mo­
stra che le teorie etiche anglosassoni moderne provocano una schizofrenia nel
soggetto agente, una spaccatura tra motivi e ragioni per agire. Tra i vari
esempi di schizofrenia Stocker adduce il comportamento virtuoso [5, 462 ] :
uno è amico se, per amore o per stima d'un' altra persona, v a a visitarla mentre
è ricoverata in ospedale, anche a prezzo di notevoli incomodi. Questa è per lui
una ragione per agire. Ma tale ragione si trova in contrasto con qualsiasi mo­
tivo che le teorie etiche moderne assegnano al soggetto morale: il proprio mi­
glior interesse, il miglior interesse di tutti, o il dovere morale assoluto. L'in­
fermo ci starà male quando, ringraziando commosso l'amico che lo visita, si
sentirà rispondere: «Di nulla ! L'ho fatto semplicemente per dovere! ».
Per tutte queste ragioni conviene abbandonare il concetto di dovere mo­
rale, così caratteristico dell'etica moderna, e invece studiare le virtù, intese
come interessi o desideri per altre persone, per le loro necessità, per ciò che è
nobile ed elevato, per ciò che ha un valore e merita la nostra dedizione: i fini
delle virtù infatti « sono fini siffatti che suscitano devozione». 15 L'intenzione
delle virtù non è diretta al dovere, ma alle persone, a ciò che è bene per le per­
sone, a ciò che è amabile, apprezzabile, desiderabile. L'intenzione del dovere è
estranea alla virtù.

2) Critica alla concentrazione sulle azioni giuste

( 1 2) Ciò che l'etica moderna considera come moralmente obbligatoria è l'a­


zione giusta, in opposiz.ione all'azione sbagliata (wright, wrong) . Le teorie eti­
che divergono nei principi, nelle norme, nelle regole per stabilire l'azione giu­
sta, ma tutte concordano nella concentrazione sulle azioni giuste. Su tale con­
centrazione s'appunta la critica di altri autori.
Pochi anni dopo l'articolo di Anscombe, nel 1962, un altro vigoroso at­
tacco all'etica moderna venne da parte di una terza donna, Iris Murdoch. I tre

" FOOT [7a] 166.


Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 89

studi raccolti poi nel libro The Sovereignty of Good [2] mirano a ristabilire la
filosofia morale dopo le rovine dell'etica moderna, centrata su principi e regole
di azione esteriore giust:;t. Come Anscombe, anche Murdoch diagnostica come
causa di rovina un'insufficiente psicologia morale. Nell'etica moderna il sog­
getto morale è ridotto a un puro volere che decide secondo regole l'azione giu­
sta. Murdoch si appella a certe esperienze morali ed artistiche per richiamare
l'attenzione sulla vita interiore (si tenga presente che leiè anche scrittrice di
opere di narrativa) . Scopre allora che agire bene non è semplicemente decidere
secondo regole, ma è effetto della maturazione d'una «visione», cioè di un
modo di vedere cose e persone che docilmente cerca di scoprire e di ricono­
scere quel che veramente sono, il loro valore e la loro importanza. La visione è
indefinitamente perfettibile, e cresce mediante una disciplina del caotico
mondo interiore della fantasia e delle emozioni, disciplina che genera interessi
e attaccamento a tutto ciò che ha valore, è apprezzabile e desiderabile e con­
verge nell'idea di bene. Tali attaccamenti sono appunto le virtù.
(1 3) La concentrazione sul problema della determinazione dell'azione giu­
sta in base a regole deontologicamente o teleologicamente fondate ha come ri­
sultato quello che Pincoffs [3] chiama etica dei casi imbarazzanti (quandary
ethics), un modo di far etica che Pincoffs considera abbastanza recente, ma
che era già praticato dalla casuistica tipica della teologia morale cattolica. All'e­
tica dei casi imbarazzanti Pincoffs rimprovera di trascurare il carattere del sog­
getto agente; egli dimostra invece quanta importanza abbia il carattere. Innan­
zitutto solo un carattere virtuoso permette di osservare le regole stesse, quando
queste regole non sono prescrizioni specifiche o comandi, bensì ordini gene­
rali (p. es. aiuta la tal persona) . Analogo rilievo fa Becker [ 4, 1 14- 1 15] quando
dice che solo il carattere virtuoso può stabilire lo standard ofperformance di un
dovere come quello di assistere una persona. Inoltre, osserva Pincoffs, il carat­
tere può contribuire a determinare per un individuo dei doveri rigorosi che
non sono doveri universalizzabili. Ancora, la coscienziosità nell'osservanza di
regole è solo una delle qualità del carattere virtuoso; per quanto necessaria a
una vita sociale sempre più complessa, essa non esaurisce tutta la moralità: vi
sono virtù morali che non si possono ridurre alla coscienziosità. Infine il carat­
tere d'una persona viene formato in comunità particolari, in cui si condividono
ideali e valori che impongono ai membri della comunità doveri loro specifici,
che non hanno senso per i membri di altre comunità.
( 1 4) Su una linea analoga si muove Becker [4] per denunciare la trascu­
ranza del concetto di virtù nell'etica moderna. Egli analizza parecchie situa­
zioni in cui è rilevante il giudizio morale sul carattere d'una persona, giudizio
che può anche non coincidere con il giudizio sulle sue azioni. Vi può essere di­
vario tra azione giusta e carattere. Analoga tesi sostiene Trianosky [4 1 ] a propo­
sito di vizi e di azioni sbagliate.
(1 5) A diversi degli autori menzionati si rifà esplicitamente il teologo prote-
90 Capitolo II

stante Stanley Hauerwas. Egli raccoglie le osservazioni di Anscombe, di Foot e


di Pincoffs, soprattutto l'esigenza sostenuta da Murdoch di considerare la vita
morale più come il perfezionamento d'una « visione» che non come un pro­
cesso di decisione. Tutto ciò lo rielabora con vigore e ampiezza in una teoria
originale e suggestiva, audace nella critica e ricca di felici intuizioni nelle sue
proposte. Hauerwas è diventato l'interlocutore obbligato per ogni riflessione
sulla virtù.
Nei primi scritti [ 15- 17] egli prosegue sulla linea del suo maestro James Gu­
stafson [5 1 -53] per spostare l'attenzione dell'etica protestante dalle decisioni
agli atteggiamenti. Il suo bersaglio è l'etica della situazione allora dominante in
campo protestante. Nella sua dissertazione [ 17] egli fa riferimento ad Aristo­
tele e a Tommaso d'Aquino per rivalutare il concetto di carattere. Per conto
suo poi sviluppa tale concetto facendo ricorso alla filosofia anglosassone dell'a­
zione degli anni '60 e alla « visione» di Murdoch. La sua etica assume decisa­
mente come centrale il punto di vista del soggetto agente, principio della pro­
pria azione, non solo in quanto egli la fa essere, ma più ancora in quanto egli,
e solo egli, ne costruisce la descrizione. Nel dare la descrizione della sua azione
egli fa ricorso alle proprie intenzioni, alle proprie ragioni e credenze, alla pro­
pria « visione». Appunto questo complesso costituisce il suo modo di essere
soggetto agente, cioè il suo carattere.
Nelle opere successive questo nucleo originario viene sviluppato ed arric­
chito, soprattutto dando ampio sviluppo in A Community o/ Character [ 19] a
spunti già presenti nei primi scritti: il carattere è considerato come formato
dalla narrativa o dalle storie che sono tramandate all'interno d'una particolare
comunità. The Peaceable Kingdom [20] costituisce la sintesi organica di questi
ed altri elementi e definisce la figura di etica che Hauerwas propone. Qui l'e­
tica diventa la « visione» raccontata nella narrativa cristiana dalla comunità cri­
stiana, visione che forma il carattere del soggetto cristiano ed è il principio
delle sue virtù. Tutto ciò è sostenuto in forte polemica contro diversi bersagli.
Egli muove aspre critiche: all'etica liberale come quella che si riduce a stabilire
i limiti della libertà individuale dei membri d'una società; 16 alla concentra­
zione dell'etica moderna sulle regole e sulle decisioni;17 alla tradizione catto­
lica di teologia morale come quella che solo apparentemente è interessata alla
virtù, ma che in realtà è preoccupata di definire doveri; 18 all'idea d'una legge

16
« Our society seems generally to think that to be moral, to act in a responsible way, is to
pursue our desires fairly - that is, in a manner that does not impinge on anyone else's freedom.
We assume we can do as we want so long as we do not harm or limit anyone else's choices. A
good society is one that provides the greatest amount of freedom for the greatest number of
people» (The Peaceable [20] 9).
11
Cf. ivi 19-22; 122-124.
18
«Though it was often systemized in the language of the virtues, it evidenced little concern
for or analysis of the actual development of virtue but instead concentrated on the fulfillment of
specific duties. [ . ] In fairness it shoul be said that Catholicism included other ways of thinking
..

about the mora! !ife, for example, spiritual and ascetica! theology. Y et these forms of literature
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 91

naturale come insieme di norme universali su cui converge il minimo comune


consenso. 19
Diversi autori concordano dunque nel criticare la concentrazione su regole
di decisione, sull'azione giusta in casi imbarazzanti o nei rapporti tra membri
d'una società, sulla determinazione di doveri e di obblighi; essi concordano
nel richiamare l'attenzione sul carattere del soggetto agente non solo come un
fattore in più di cui tener conto nella situazione, ma come quello che definisce
la situazione stessa; l'etica dovrebbe essere elaborata secondo il punto di vista
del soggetto agente, il cui carattere è decisivo e principale per interpretare la
situazione.

3) Denuncia del fallimento dell'etica moderna

(1 6) Molte delle critiche sinora recensite si ritrovano nell Alter Virtue di


'

Maclntyre [ 10]. Qui l'attacco all'etica moderna è assai più radicale, la denun­
cia del suo fallimento assai più impegnativa per le argomentazioni teoretiche e
storiografiche con cui è sostenuta, l'alternativa proposta assai più intransi­
gente: o Nietzsche o Aristotele, non vi sono altre possibilità.
A/ter Virtue si apre con il desolante spettacolo d'un naufragio: le teorie eti­
che elaborate dall'illuminismo fino ad oggi non sono che frammenti residui
d'una concezione della vita morale che è andata distrutta e che invece aveva do­
minato nell'antichità greco-romana e nel medioevo cristiano con sostanziale
omogeneità pur compatibile con una pluralità di versioni. La prevalenza
odierna dell'emotivismo è il segno e lo sbocco finale di tale naufragio. Con il
termine emotivismo Maclntyre designa ogni teoria etica che, non trovando giu­
stificazione razionale alle norme morali, le riconduce a opzioni radicali della li­
bera volontà. Ritroviamo, sviluppata, la denuncia di Murdoch: il soggetto mo­
rale è ridotto al sé emotivista, cioè a una pura volontà che opta, senza ragioni, ·

per determinati principi.


L'emotivismo costituisce lo sbocco finale d'un problema originatosi nell'il­
luminismo, quando si abbandonò la razionalità aristotelica basata sul telos e
s'instaurò la razionalità del determinismo causale. Sorse allora il problema di
giustificare le credenze morali. Maclntyre passa in rassegna vari progetti mo­
derni di risposta e mostra non solo che sono falliti, ma che dovevano fallire. Il
fallimento è reso inevitabile dal fatto che, abbandonando il concetto aristote­
lico di telos della natura umana, ossia dela natura umana non come di fatto è,
ma come deve e può essere, si è perso il concetto funzionale di uomo, 20 e

were not consìdered " ethics" sìnce they did not deal wìth specific judgments of right and wrong.
Moreover, much of the ascetica! lìterature was devotìonal in character and, thus, was not meant as
a means to explore systematic issues» (ivi 5 1 )
1 9 Cf. ivi 10- 1 1 ; 55-62.
20
Tale concetto « is rooted in the forms of sodai life to which the theorìsts of the classica!
92 Capitolo II

quindi la base per spiegare il senso delle norme morali. Rimane solo più un
concetto fattuale privo di riferimento a valori, per il quale vale la legge di
Hume: dall'uomo com'è non si deducono norme sul come dev'essere. Perso il
telos, è persa ogni possibile ragione per le credenze morali, e l'emotivismo di­
venta inevitabile, fino alla sua più pura espressione in Nietzsche, dopo i pro­
dromi dell'Aut Aut di Kierkegaard. La vicenda della morale presenta pertanto
solo quest'alternativa: o la morale illuminista fino a Nietzsche o la morale di
tipo aristotelico.
La morale aristotelica è per Maclntyre l'espressione paradigmatica della mo­
rale della virtù della quale egli traccia la vicenda storica da Omero fino al me­
dioevo, per osservare poi a quale radicale metamorfosi va soggetto il concetto
di virtù nell'etica moderna.
Il principio d'intelligibilità della morale della virtù è costituito dal telos,
cioè da quei beni umani che conferiscono valore, pregio, bellezza, bontà alla
vita umana e che vengono realizzati in pratiche di vita nelle quali i membri
d'una comunità svolgono ruoli in cui possono eccellere. Il telos si realizza
quindi essenzialmente in una comunità, sia essa la polis o la civitas christiana,
ove si partecipa tutti del comune bene umano e si condividono le pratiche e
gli standard di eccellenza per la sua realizzazione. È una concezione della co­
munità che sta agli antipodi di quella liberale tipica dell'etica moderna.21
Il concetto di telos genera necessariamente il concetto di virtù. Nelle virtù
infatti, in quanto eccellenze delle pratiche, si realizza il bene umano che defini­
sce la comunità e che conferisce valore alla vita, la rende buona. Ora la virtù
comporta una capacità di giudizio che non è riducibile alla rutinaria applica­
.zione di regole.22 Anche il virtuoso deve applicare regole di giustizia, giacché
ogni comunità deve proibire assolutamente con leggi azioni incompatibili con
le virtù;23 ma anche tale applicazione chiede un giudizio assennato.24 In que-

tradition give espression. For according to that tradition to be a man is to fili a set of roles each of
which has its own point and purpose: member of a family, citizen, soldier, philosopher, servant of
God. lt is only when man is thought of as an individua! prior to and apart from ali roles that
" man" ceases to be a functional concept » (A/ter Virtue [ 10] 56).
21 « On this medieval view, as on the ancient, there is no room for the modem liberal distinc·­
tion between law and morality, and there is not room for this because of what the medieval king­
dom shares with the polis, as Aristotle conceived it. Both are conceived as communities in which
men in company pursue the human good and not merely as - what the modem liberal state takes
itself to be - providing the· arena in which individuai seeks his or her own private good» (ivi
160).
22 «The exercise of such judgment is not a routinisable application of rule» (ivi 141).
23 «So that an account of the virtues while an essential part of an account of the mora! life
of such a community could never be complete by itself. And Aristotle, as we have seen, recognises
that his account of the virtues has to be supplemented by some account, even if a brief one, of
those types of action which are absolutely prohibited» (ivi 143 ) .
24 « Knowing how t o apply the law is itself possible only fo r someone who possesses the vir­
tue of justice. [ ... ] Hence judgment has an indispensable role in the life of the virtuous man which
it does not and could not have in, for example, the life of the merely law-abiding or rule-abiding
man» (ivi 144).
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 93

sta morale, la virtù non viene definita, diversamente da quanto avviene nell'e­
tica moderna, come buona disposizione a osservare leggi o regole, bensì come
capacità di praticare con giudizio i beni umani che costituiscono il telos. Leggi
e regole sono a servizio della virtù, la quale ne fa applicazione giudiziosa.
Abbandonata nell'illuminismo l'idea del telos come coesivo d'una comu­
nità, questa si vede frantumata in tanti individui, ciascuno con le sue passioni
egoiste. Non v'è allora modo di salvare la convivenza se non con regole che im­
pongono l'altruismo: scompare la molteplicità delle virtù e fa la sua comparsa,
in corrispondenza a un nuovo concetto di moralità, la virtù come disposizione
a frenare l'egosimo per comportarsi secondo regole di altruismo.25 La radicale
metamorfosi del concetto di virtù è chiaramente documentabile in Hume, per
il quale la relazione della virtù alle regole è esattamente opposta a quella intesa
da Aristotele26 e le virtù scompaiono per lasciare il posto alla virtù, identifi­
cata ormai alla moralità e finalmente alla giustizia.
Il progetto di Maclntyre, dopo questa diagnosi spietata dell'etica moderna,
è di abbandonare Nietzsche per Aristotele e di proseguire la tradizione aristote­
lica, se non nella vasta società almeno in piccole comunità,27 liberandola però
dalla biologia metafisica cui essa si richiama per svilupparla secondo una teleo­
logia sociale: il telos non è più ciò per cui è fatto un essere vivente, ma il bene
comune umano realizzabile in pratiche sociali.

II.

(1 7) Si sarà notato che la critica all'etica moderna si è spinta sempre più a


fondo e che l'alternativa proposta è diventata sempre più radicale. Abbando­
nare il concetto di dovere morale assoluto come privo di senso e ritornare a
parlare delle virtù come interessi per certi beni o valori umani e per le per­
sone; abbandonare la concentrazione sulle azioni giuste e reintrodurre il punto
di vista del soggetto agente e del carattere; abbandonare i relitti dell'etica mo­
derna e riprendere la tradizione di tipo aristotelico, reintroducendo il telos e le
virtù in cui esso si realizza.

" «Either the virtues - or some of them - could be understood as expressions of the natu­
ral passions of the individua! or they - or some of them - could be understood as dispositions
necessary curb and to limit the destructive effect of some of those same natural passions. [ .. ] It
.

was in the seventeeth and eighteenth centuries that morality carne generally to be understood as
offering a solution to the problems posed by human egoism and that the content of morality carne
to be largely equated with altruism » (ivi 2 12).
26 « Virtues are indeed now conceived of not, as in the Aristotelian scheme, as possessing a
role and function distinct from, and to be contrasted with, that of rules or laws, but rather as
being just those dispositions necessary to produce obedience to the rules of morality» (ivi 2 16).
27 « What matters at this stage is the construction of loca! forms of community within which

civility and the intellectual and mora! !ife can be sustained through the new dark ages which are
already upon us» (ivi 245). È la stessa idea cara ad Hauerwas: le virtù, come espressioni del carat­
tere, possono esistere solo in particolari comunità.
94 Capitolo II

Le critiche testé menzionate pongono per lo meno due tipi di problemi:


sono esse teoricamente accettabili? in che misura lo potrebbero essere? Ma
anche: l'alternativa proposta è realisticamente praticabile o è piuttosto uto­
pica? Se il naufragio è così grave come Maclntyre lo denuncia, l'alternativa sem­
brerebbe allo stesso tempo desiderabile, per superare l'odierna babele morale,
e impossibile, dato che sia polis sia civitas christiana sono tramontate. I due
tipi di problemi sono connessi: se l'etica è filosofia pratica, essa non può solo
teorizzare, anche se validamente, sulla virtù; deve anche mostrare come un'e­
ventuale rinnovata teoria della virtù possa essere praticabile nella congiuntura
sociale odierna.
Vari autori hanno risposto a queste critiche: ma per valutare sia le critiche
sia le risposte conviene soffermarsi a verificare meglio la legittimità delle criti­
che. Da un lato sembra infatti esagerato abbandonare del tutto il concetto di
dovere, dall'altro sembra insufficiente limitarsi solo alla considerazione del ca­
rattere del soggetto agente; di questo stesso carattere poi sembra non si possa
render conto se non con una teoria più sviluppata del soggetto in quanto prin­
cipio agente, teoria di cui lamento la mancanza in questi critici e di cui invece
trovo un esemplare proprio nella II Pars della Summa Theologiae.
(1 8) Alcuni critici di Maclntyre hanno contrastato il suo attacco mostrando
che l'etica moderna nella sua versione liberale costituisce la risposta alla con­
giuntura sociale odierna.28 In una società complessa come quella odierna, so­
prattutto occidentale, ove dominano il pluralismo ed il conflitto nella conce­
zione dei valori e negl'interessi, l'unica via praticabile per una pacifica convi-

28
Cf. il libro di U. Wolf citato alla fine di n. 5. «Auch in der Moderne aber ist es moglich,
eine Ordnung zu entwerfen, in der jeder sein Charakterexperiment eigener Lebensgestaltung und
seine Giiter wagen kann, um Zustimmung werben und ihre Verniinftigkeit als Zumutbarkeit im of­
fentlichen "Gemeinsinn" priifen. Der demokratische Verfassungsstaat erfiillt - mehr oder weni­
ger - diese Aufgabe. Zwar gewahrleistet er nicht die Konfliktfreiheit moglicher Lebensformen.
Doch war das in einem hierarchischen Modell des guten Lebens nicht anders. Kontingent bleibt
es nun - aber das ist ein Zug von Freiheit -, ob man fiir seine Entwiirfe Interesse bei anderen
findet, und ob sie sich auf den Versuch einer gemeinsamen Praxis einlassen. Auch wo Zustim­
mung und gemeinsames Handeln nicht entstehen, lebt man im Recht mit allen anderen immerhin
in einer Ordnung, die das moralische Gut des Friedens und der gegenseitigen Anerkennung ver­
biirgt, und das ist mehr als die biirokratische, sinnlose Zwangseinheit, die Maclntyre darin sieht»:
B. HALLER, ree. a After Virtue, in Phil. Jahrb. 92 ( 1985) 434-435. « Liberal society and its distinc­
tive modes of public discourse are best viewed, I would argue, as the result of a manifest failure
to achieve agreement on a fully detailed conception of the good - as the arrangements and con­
ventions of people who contracted, in effect, to limit the damage of that failure by settling for a
thinner conception of the good more people could agree to, given the alternatives and until some­
thing better carne along. The notions of human rights and respect for persons, which are apt to
look like mere " fictions" when their Enlightenment interpretations are unmasked by a Maclntyre,
are better seen as conceptual expressions of institutions and compromises pragmatically justified
under historical circumstances where a relatively thin conception of the good is the most that
people can secure rational agreement on»: ]. STOUT, ree. a A/ter Virtue, in Neue Z f Th. u. Rei.
26 ( 1984) 2 7 1 . Riprenderò la questione nel capitolo VII 18-19, 2 1 .
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 95

venza sembra essere quella proposta dall'etica liberale: stabilire regole univer­
sali di convivenza, la cui doverosità assoluta è basata nei diritti delle persone, e
che servono a determinare le azioni giuste, obbligatorie, richieste, che qualsiasi
soggetto deve categoricamente realizzare indipendentemente dal suo carattere.
In una società di estranei, argomenta R. Veatch,29 è molto più necessario che
un medico sappia prendere la decisione giusta che non il fatto che egli sia vir­
tuoso; questo se mai avrà il suo peso all'interno d'una particolare comunità,
per i membri di tale comunità in quanto non sono estranei tra loro.
Tutto ciò si situa nella linea della legalità kantiana, cioè del dovere catego­
rico di porre certe azioni giuste, anche se non per il motivo del dovere, e con­
formi alle regole del diritto: in questo modo si garantisce la pacifica convivenza
di individui che hanno una libertà esteriore di azione, indipendentemente dal­
l'uso che ciascuno farà dello spazio di libertà che gli è garantito. Ma, come ha
mostrato O. Hoffe,30 per Kant la legalità, benché distinta dalla moralità o
virtù, è solo una parte della morale. In ciò egli prolunga la linea della filosofia
morale aristotelica, nella quale la giustizia legale è solo una delle virtù, e si­
nanco della teoria tomista, per la quale la giustizia legale ha un suo giusto
mezzo oggettivo, il medium rei.
Ciò che è errato nell'etica moderna, come rileva Pincoffs,31 è aver ridotto
a questo particolare aspetto tutta la morale, e aver ridotto le virtù alla coscien­
ziosità nell'osservare le regole sociali.
Se dunque il concetto di virtù esprime un aspetto dell'esperienza morale
che è misconosciuto nell'etica moderna, è anche vero che l'etica, riscoprendo
il concetto di virtù, non può trascurare il problema della pacifica convivenza
di individui che hanno diverse concezioni della vita e diversi interessi. Se può
esser vero che la formazione della virtù richiede comunità piccole e partico­
lari, come esigono Hauerwas e Maclntyre, è anche vero che tali comunità ri­
chiedono una società di diritto e democratica per poter sussistere: resta per­
tanto aperto il problema se, nell'odierna società, la legge possa ancora esser fi­
nalizzata a formare uomini virtuosi, com'era richiesto da Aristotele, Cicerone,

29 Robert VEATCH, Against Virtue: A Deontologica! Critique o/ Virtue Theory in Mediai

Ethics, in SHELP [72) 329-345.


'° Cf. Otfried HùFFE, Introduction à la philosophie pratique de Kant. La morale, le droit et la
religion, Albeuve/Suisse 1985, 60-61 ; 175-177.
31 Nell'etica dei casi imbarazzanti « the suspect notion that there is an essence of morality is
confused with the defensible idea that some mora! rules are socially essential». Qualsiasi virtù o
ideale gli uomini abbiano, «it is socially essential that they should be rule-responsible». Ma ciò
non significa che tale virtù sia lessenza della moralità « in that all other mora! character traits can
be reduced to or derived from some form of this one». Anche dal punto di vista amministrativo
sono necessarie altre virtù, senza le quali vi è caos. La necessità sociale non esclude che «indivi­
duals may, and perhaps should, give focus to their mora! lives by centring them around some par­
ticular virtues, for example sensitivity to suffering, or honesty». Né esclude la distinzione «bet­
ween virtues which are essential, to a certain degree, in all or some men, to the very existence of
any socia! order, and those which are essential to the continued existence of a particular socia!
order» ([3] 108-109).
96 Capitolo II

Tommaso d'Aquino,32 o se debba esser finalizzata alla pacifica convivenza di


individui estranei l'uno all'altro.

1) Circa il concetto di dovere

(1 9) Ammesso che l'etica debba essere rinnovata per riabilitare il concetto


di virtù, sarà perciò da abbandonare il concetto di dovere?
A prima vista sembrano aver ragione i critici del dovere: sembra impossi­
bile decifrare l'enigmatico significato di «dovere morale» (Foot) ; un'azione,
come la visita all'amico infermo, fatta per dovere, sembra meno virtuosa che la
stessa azione fatta per amicizia (Stocker) ; infine sembra che per render conto
del concetto di dovere morale occorra rifarsi all'idea d'un legislatore divino,
ma allora l'idea di dovere può sussistere solo all'interno dell'etica giudeo-cri­
stiana che tale legislatore riconosc� (Anscombe, Taylor) .
La cosa non è cosi semplice. L'idea di dovere, pur se non tematizzata, è già
presente nell'Etica Nicomachea,33 benché non vi sia cenno d'un legislatore di­
vino. D'altra parte proprio il virtuoso non solo, come vuole Pincoffs,34 ricono­
sce per sé doveri a cui non ritiene obbligati altri; ma proprio il virtuoso può av­
vertire ancor più la doverosità d'una certa azione: l'amico può avere tale amore
e stima per I' amico infermo che egli sente di dovergli assolutamente far visita.
Il dovere qui esprime una necessità morale che può avvertire solo chi è vir­
tuoso, chi proprio per la sua virtù non sa resistere all'attrattiva del bene; chi è,
come vuole Foot, tutto interessato e dedito ai beni umani e alle persone, e tut­
tavia avverte che il suo consenso è sovranamente libero.35
Ciò induce a ritenere che la critica al concetto di dovere non opera i discer­
nimenti necessari. Da una parte la virtù non elimina, anzi accentua il dovere
morale; ma allora bisogna trovare un senso intelligibile al termine dovere mo­
rale, che non dev'essere confuso con l'obbligazione derivata da una legge di-

·
" La tesi tradizionale venne difesa, adattandola alle condizioni odierne, da Robert E.
RODES, Jr., On Law and Virtue, in NEUHAUS, [73) 30-42, ma fu vivacemente criticata nel dibattito
che seguì (ivi 74-8 1). Qualcosa ne dirò nel capitolo VII 2 1 .
3 3 Cf. René Antoine GAUTHIER - Jean Yves ]OLIF, L'Ethique à Nicomaque. III: Commen­
taire. Deuxième Pattie. Livres VI-X. Louvain - Paris 1959, 563-578: vi si documenta la presenza
di tale idea nell'Etica Nicomachea e si ipotizzano le ragioni per cui essa non è tematizzata. Tuttavia
è vero che nella teologia morale della seconda scolastica e nelle sue derivazioni storiche, l'etica
laica razionalista e la teologia morale postridentina, i concetti di obbligazione e di dovere assu­
mono un'importanza del tutto nuova, per le ragioni e nel modo esposto da S. PINCKAERS, Les
sources 197-300. Uno studio sulle radici storiche dell'etica moderna e dell'importanza che in essa
ha il concetto di dovere, radici da ricercarsi nella seconda scolastica, resta ancora da fare.
34 «A man's character is likely to exhibit itself in his making obligatory for himself what he
would not hold others obliged to do» (PINCOFFS [3] 104).
" Una fine analisi della necessità morale avvertita dal virtuoso è elaborata, sulla base del
Gorgia platonico, degli scritti di Simone Weil e di pagine di letteratura, da Ilham DILMAN, Mora­
lity and the Inner Li/e. A Study in Plato's «Gorgias», London 1979, 153 - 169.
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 97

vina. Dall'altra parte è pur vero che il concetto classico di virtù non si lascia ri­
durre al concetto moderno di virtù come disposizione a osservare delle regole
di pacifica convivenza, o ad agire secondo principi di moralità, o a eseguire vo­
lentieri doveri e azioni giuste definite indipendentemente dalla virtù.
Il concetto di virtù non esclude il dovere: in un certo senso del termine
«dovere», la virtù si definisce in funzione del dovere; in un certo altro senso è
la virtù che definisce il dovere. Delle distinzioni semantiche sono necessarie.
D'altra parte il concetto classico di virtù esprime aspetti dell'esperienza morale
che sono trascurati dall'etica moderna e dal concetto moderno di virtù: più pre­
cisamente esprime una complessa e fine psicologia del soggetto agente, per la
quale può esser vero sia dire che il virtuoso agisce per dovere, sia dire che chi
agisce per dovere non è ancora virtuoso. Anche qui delle distinzioni semanti­
che circa l'agire per sono necessarie. Il concetto classico di virtù intendeva arti­
colare proprio la psicologia morale del soggetto agente.

2 ) Il punto di vista del soggetto agente

(20) 1 ) È già significativo il fatto che oggi, per indicare ciò che Aristotele o
s. Tommaso vollero esprimere con la loro teoria della virtù, si debba parlare
di psicologia morale36 e si abbia cura di elaborarla indipendentemente dalla
cosiddetta etica normativa. Sia questo nuovo stato di cose, sia la principalità
dei concetti di dovere e di obbligazione nell'etica moderna, sia la concentra­
zione sull'azione giusta che porta a trascurare la « visione» ed il carattere, sia
ancora l'emarginazione del concetto di virtù o la sua metamorfosi dal concetto
classico al concetto moderno, sono tutti effetti connessi tra loro che possono
essere ricondotti ad un'unica causa.
Individuando questa causa, individuiamo il tratto discriminante che segna
la frattura tra etica antica o medievale ed etica moderna. È una frattura che in­
troduce nel significato dei principali termini etici un'insanabile equivocità, per
cui è tanto difficile al moralista moderno entrare nell'universo dell'etica aristo­
telica o tomista, quanto resterebbero disorientati Aristotele e l'Aquinate di
fronte al discorso del moralista moderno. La frattura ha fatto cadere i pro­
blemi che per loro erano familiari e importanti ed ha introdotto problemi che
essi pressoché ignorarono.
Il discriminante è dato da uno spostamento del punto di vista principale se­
condo cui viene elaborata l'etica: lo designeremo come sostituzione dell'antico
punto di vista della prima persona o del soggetto agente con il moderno punto
di vista della terza persona o dell'osservatore, del giudice, del legislatore. L'iden­
tificazione di questo discriminante la si trova operata da almeno cinque degli
autori che intervengono nel nostro dibattito e costituisce l'acquisizione più im­
portante del dibattito stesso.

36 Cf. DENT [82).


98 Capitolo II ·

La prima chiara enunciazione di questa sostituzione la troviamo espressa


già nel 1949 da Stuart Hampshire, il cui articolo è significativamente ristam­
pato in Revisions [ 1 1 ] : egli osserva che mentre nell'Etica Nicomachea si stu­
diano i ragionamenti pratici che fa il soggetto agente per delineare e per sce­
gliere, sull'analogia delle riflessioni pratiche dell'artista-artigiano, negli autori
moderni si adotta il punto di vista dell'osservatore che critica e valuta le azioni
compiute da altri.37 Pincoffs individua in Hobbes l'autore di questo sposta­
mento d'attenzione:38 perciò parleremo anche di punto di vista hobbesiano, di
etica di tipo hobbesiano, di problema hobbesiano. Stocker individua nel punto
di vista del legislatore una causa per cui l'etica moderna comporta una schizo­
frenia.39 Hauerwas attribuisce a questo spostamento del punto di vista sia il
disinteresse per il carattere e per la virtù, concetti che hanno invece la loro im­
portanza dal punto di vista del soggetto agente;40 sia la concentrazione sull'ob-

37 «If one reads the Nichomachean Ethics after reading the works (for example) of Profes­
sor G.E. Moore or Sir David Ross or Professor Stevenson, one has the impression of confronting
a wholly different subject. The first point of difference can be tentatively expressed by saying that
Aristotle is almost entirely concerned to analyse the problems of the moral agent, while most con­
temporary mora! philosophers seem to be primarily concerned to analyse the problems of the
mora! judge or critic. Aristotle describes and analyses the processes of thought, or types of argu­
ment, which lead up to the choice of one course of action, or way of !ife, in preference to another,
while most contemporary philosophers describe the arguments (or lack of arguments) which lead
up to the acceptance or rejection of a moral judgment about actions. Aristotle's Ethics incidentally
mentions the kinds of arguments we use as spectators in justifying sentences which espress mora!
praise and blame of actions already performed, while many contemporary mora! philosophers scar­
cely mention any other kind of argument. Aristotle's principal question is: What sort of arguments
do we use in practical deliberation about policies and courses of action and in choosing one kind
of !ife in preference to another? What are the characteristic differences between mora! and theore­
tical problems? The question posed by most contemporary mora! philosophers seems to be: What
do we mean by, and how (if at all) do we establish the truth of, sentences used to express mora!
judgments about our own or other people's actions? » (Revisions [ 1 1] 52).
38 Per l'etica dei casi imbarazzanti i problemi sorgono solo quando vi è conflitto di regole o
di principi: «The argument that there is a need for such rules and principles is inevitably a Hob­
besian one. But it was precisely the source of the discomfort with Hobbes that he approached
ethics from this administrative point of view. He abandoned the cultivated mora! self and insisted
on reducing ethics to a code of minimal standards of behaviour: standards which cannot be igno­
red without socia! disaster» (PINCOFFS [3] 107).
39 « In conclusion, it might be asked how contemporary ethical theories come to require ei­

ther a stunted mora! !ife or' disharmony, schizophrenia. [ ... ] [This preeminence of duty, rightness,
and obligation in these theories] also fits naturally with a major concern of those philosophers: le­
gislation. When concerned with legislation, they were concerned with duty, rightness, obligation.
[ . . . ] When viewing morality from such a legislator's point of view, taking such legislation to be the
model, motivation too easily becomes irrelevant. The legislator wants various things done or not
done; it is not important why they are done or not done; one can count on and know the actions,
but not the motives » (STOCKER [5] 465).
40 «The kind of concern represented by this idea of character is more important morally
from the point of view of the agent than of the mora! judge. This constrast is illustrated by the im­
mense disparity of concerns that one feels when we contrast Aristotle's ethics with modern mora!
philosophy» (Character [17] 3 1 ) . «The lack of interest among mora! philosophers in the problems
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 99

bligazione;4 1 sia la riduzione dell'etica a etica difensiva dei requisiti minimi


per il funzionamento d'una società.42 Infine Hudson attribuisce all'adozione
del punto di vista del legislatore la concentrazione dei filosofi postkantiani su
regole e doveri. 43
Un analogo spostamento del punto di vista potrebbe essere osservato nella ·
tradizione della teologia morale cattolica. Già nella seconda scolastica assume
preponderanza il punto di vista di Dio legislatore e delle leggi fino a ricevere le
enormi proporzioni del De legibus di Suarez. Nella manualistica postridentina
s'aggiunge il punto di vista del giudice, del confessore che deve giudicare gli
atti confessati dal penitente. Questi fattori, congiuntamente ad una nuova con­
cezione dell'atto umano basata sul concetto di libertà d'indifferenza, contribui­
scono a concentrare l'attenzione sull'azione esteriore giusta o sbàgliata. Il
punto di vista del soggetto agente, che era dominante nella II Pars della
Summa Theologiae, scompare per lasciare il posto al punto di vista delle richie­
ste poste al soggetto da Dio. Conseguentemente awiene o l'eliminazione o la
metamorfosi del concetto di virtù. Essa viene concepita o come motivazione ad
osservare le norme morali; o come effetto dell'osservanza nella psiche del sog­
getto, per cui l'osservanza diventa costante, facile, piacevole; o come decisione
fondamentale (Grundhaltung) della libera volontà ad agire secondo i principi
morali. In nessun caso si ha la benché minima idea del concetto tomista di
virtù.44

of character and virtue can be almost completely attributed to this concentration on the specta­
tor's point of view as the mora! point of view» (ivi 33).
4 1 «The difference between an ethics of virtue and obligation is not the activity of reason gi­
ving, but rather the kinds of reasons that are seen to count as " rational" . [ . . ] A stress on obliga­
.

tion tends to characterize " reasons" as those that only an impartial spectator would give to explain
an agent's discrete acts» (Obligation [ 18] 38).
42 «It is, however, unwarranted to declare this aspect of our mora! existence [defensive
ethics] to be the whole of morality in distinction to the virtues and ideals we know to be essential
to being human. To do so places ethical reflection too much at the service of the mora! judge
whose interests are what are minimally required for the functioning of society. Ethics must also be
concerned with suggesting those images, and ideals that encourage human flourishing» (Obliga­
tion [18] 4 1 -42).
43 «According to such [post-kantian] philosophers the main task of the mora! theorist is to
catalogue our mora! duties and obligations; they think of themselves, as mora! theorists, on the
model of legislators who are to provide a system of rules and principles which will guide the con­
duct of individuals by dictating what is to be done in any situation that falls under the rules and
principles of the system. So, when confronted with the importance of virtuous acts, they merely as­
similate them to obligations and duties. Por instance, they will say that someone ought to give a
particular charity or ought to be grateful, and that this is no different from saying that the person
has an obligation to give to this charity or a duty to be grateful. Often enough, though, it will quick­
ly be added that these are " special" duties or " imperfect" duties. Thus they would make the dis­
tinction between meritorious acts which are non-obligatory and non-duteous from those that are
by inflating the category of the Requirements of Morality to include the former» (HuosoN [66]
194-195).
44 È questa la concezione della virtù che si ritrova nei manuali cattolici di teologia morale
100 Capitolo II

È vero che l'esigenza di porgere più attenzione al soggetto agente viene av­
vertita sempre di più dai moralisti cattolici, e questo porta a ridare importanza
a concetti come virtù, atteggiamenti, opzione fondamentale.45 Ma queste inte­
grazioni lasciano intatto il punto di vista dominante, che resta quello della
terza persona.
(21 ) 2) Il passaggio dal punto di vista della prima persona a quello della
terza persona non costituisce solo il tratto discriminante tra etica antica ed
etica moderna, ma segna anche una decadenza nella storia dell'etica: poiché l'e­
tica non solo non può fare a meno del punto di vista del soggetto agente, ma
deve tenerlo come punto di vista principale ; se lo trascura, perde la possibilità
di dare risposte a domande che il punto di vista della terza persona pone inevi­
tabilmente.
Ogni etica della terza persona infatti si preoccupa di dare principi e regole
per determinare l'azione giusta: se è un'etica utilitarista, l'azione è giusta
quando produce il maggior benessere delle persone interessate; se è un'etica
della giustizia, l'azione è giusta quando non lede lo spazio di libertà d'azione
cui ciascuno ha diritto ed entro il quale può soddisfare i propri desideri. L'e­
tica della terza persona mira a creare un assetto sociale ove l'uomo come sog­
getto di desideri o l'uomo come soggetto autonomo possa fare ciò che vuole
senza danneggiare altri, o danneggiandoli solo per un miglior risultato. Di ciò
che poi ciascuno fa per soddisfare i propri desideri o dell'uso che ciascuno fa
dei propri spazi di libertà l'etica moderna si rifiuta di parlare; sarebbe una que­
stione puramente privata e soggettiva; ognuno la vita se la gestisce come
vuole. In questo modo però il sistema dei principi e delle norme è tacitamente
a servizio degl'interessi e dei desideri dei singoli soggetti liberi, per i quali si
vuol garantire la possibilità di soddisfazione e la miglior soddisfazione. Il che
equivale a riconoscere che l'importanza dei soggetti, della loro libertà e dei
loro desideri, è principale. Ma proprio sul senso della vita dei soggetti liberi si
tace. Eppure, se non si tematizza tale senso, resta senza risposta la domanda:
perché essere morali? perché cioè osservare regole utilitarie o di giustizia?46

[56-62]. Per la Grundhaltung cf. SCHOLLER [38]; ne parlerò più avanti, II 45. Per uno sviluppo
maggiore e più documentato di tutte queste sommarie osservazioni cf. Servais PINCKAERS, La na­
ture de la moralité: morale casuistique et morale thomiste, in Saint Thomas d'Aquin. Somme Théolo­
gique. Les actes humains. Tome Deuxième: f'-2"', Questions 18-2 1 , Paris - Tournai - Rome 1966,
2 15-272; cf. inoltre Io., Les sources; Io., La question des actes intrinsèquement mauvais et le «pro­
portionnalisme». La morale catholique après le Conci/e et après l'encyclique «Humanae Vitae», in
Revue Thomiste 82 ( 1982) 181-2 12 : qui Pinckaers riscontra nell'odierna teologia morale la stessa
concentrazione sull'azione giusta che era già tipica della morale casuista. Un eloquente esempio di
questa concentrazione è il libro di Garth L. HALLETT, Christian Mora! Reasoning: An Analytic
Guide, Notre Dame - London 1983, specialmente p. 19-28: pèr determinare l'azione giusta oc­
corre un procedimento razionale che prescinda da ogni interesse o motivazione del soggetto
agente.
4' Cf. [56-62].
4 6 «La questione decisiva emerge infatti proprio quando i suddetti spazi di libertà sono stati
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 101

Né si può sottrarre al discorso filosofico la questione del senso della vita


personale adducendo per motivo che è impossibile il consenso sulla risposta da
dare a tale questione; da sempre esistono insanabili divergenze sul senso della
vita umana. Gli è che eliminando la questione non è eliminato il dissenso sulle
norme dell'azione giusta, e proprio con lo spettacolo di tale insanabile dissenso,
si apre A/ter Virtue.
Il principio d'intelligibilità d'un'etica normativa di terza persona ha da es­
sere rintracciato nell'etica di prima persona. La condotta umana infatti, in
quanto costruita e prodotta dal soggetto agente, contiene un sapere pratico ori­
ginale, non riducibile al sapere del legislatore, del giudice o del critico; un sa­
pere operativo che ha una sua propria logica. Fu proprio questo sapere pratico
che Aristotele nelle sue Etiche e l'Aquinate nella II Pars intesero esplicitare.
Tale sapere pratico è centrato sul problema del senso da dare alla propria vita.
(22) 3) Per ricuperare all'etica il punto di vista pratico della prima persona
non è sufficiente riscoprire l'importanza del carattere; occorre andare più a
fondo e ricercare come il soggetto agente possa essere autore della propria con­
dotta. 47 Emergono allora domande nuove nel rispondere alla quali si ritrova il
luogo originario e appropriato del concetto di virtù.
Di fatto il luogo che il concetto di virtù ha nell'etica moderna non le è ap­
propriato: la virtù entra in scena troppo tardi, quando tutto è già stato detto
sull'azione giusta e il legislatore la prescrive a un soggetto che ne ha la respon­
sabilità48 e che al massimo pone l'azione giusta con l'intenzione giusta, cioè
con l'intenzione di effettuare un'azione giusta perché è giusta; in tal caso l'a­
zione è retta oggettivamente ed anche buona soggettivamente. Nulla è detto
del processo che ha portato il soggetto a quell'azione: tale processo è irrile­
vante per l'osservatore, ma è decisivo per l'agente, e proprio in tale processo
egli può esibire eccellenze o difetti, virtù o vizi.
Delle virtù diventa necessario e ovvio parlare se si cerca di dare una rispo­
sta alle domande nuove che pone il punto di vista del soggetto agente:

assicurati: che C:osa ne faccio della mia vita? Qual è la risposta adeguata a questa libertà che mi
viene offerta? » (LOBKOWICZ [ 12] 20).
47 È ciò che ha tentato HAUERWAS nel capitolo centrale di Character [ 17] 83-128; tuttavia la
sua teoria dell'azione è lungi dal presentare la profondità e complessità del de actibus humanis
della II Pars (I-Il, 6-48). Lo stesso MAcINTYRE [ 10] 191-203 abbozza una teoria del soggetto
agente come unità narrativa, ma non penetra nel processo di gestazione della condotta da parte
del soggetto agente; per cui egli concepisce la virtù più come eccellenza in una pratica sociale che
come eccellenza del soggetto agente come tale.
48 Si deve far risalire al punto di vista dell'osservatore il fatto che nei manuali di teologia mo­
rale e di filosofia morale neoscolastici la trattazione si concentri soprattutto sulla volontarietà e sui
suoi condizionamenti (è questo che interessa al giudice), mentre l'ampia considerazione fatta da s.
Tommaso sul processo di gestazione della scelta viene o trascurata o ridotta ad uno schema con­
venzionale di cui s'ignora la ragion d'essere. Perdendo l'interesse per la gestazione della scelta, si
perde il presupposto per capire la teoria tomista della virtù, che è tutta elaborata in funzione della
teoria tomista dell'azione.
102 Capitolo II

(23) a) Innanzitutto il soggetto agente è autore non di singole azioni sepa­


rate, ma di una condotta. Il termine condotta serve a esprimere il fatto che il
soggetto approda ad azioni diverse sì, ma considerate da lui come esemplifica­
zioni successive, complementari, variate di interessi permanenti, di intenzioni
generali, che a loro volta articolano per lui la sua concezione di vita buona e la
sua volontà di realizzarla.49 Il punto di vista del soggetto agente apre necessa­
riamente la domanda circa la vita buona, ignorata invece dall'etica di terza per­
sona.50 Ora proprio per rendere buona la vita sono richieste le virtù.
Si noti inoltre che l'interesse per la vita buona soggiace a tutti gli atti liberi
dell'uomo, atti che sono liberi proprio nel senso che è il soggetto che li des­
crive autorevolmente come esemplificazioni o concretizzazioni per lui hic et
nunc dell'ideale di vita buona. Perciò l'etica non ha da limitare il suo interesse
solo alle azioni di giustizia o alle azioni verso gli altri, come succede nell'etica
moderna, ma deve estenderlo a tutti gli atti liberi, in quanto tutti hanno la loro
condizione d'intelligibilità nell'originaria idea di vita buona e nell'originario in­
teresse per realizzarla.
Sulla domanda circa la vita buona tornerò più avanti, a proposito di A/ter
Virtue. Qui invece occorre osservare che tale domanda ne apre un'altra.
(24) b) Il fatto che il soggetto agente è autore d'una condotta che realizza
la vita buona induce a considerare le azioni non semplicemente dal punto di
vista della loro correttezza intrinseca, ma dal punto di vista dell'intento che in
esse mette il soggetto agente. La questione della qualità della volontà e dei de­
sideri ch'essa esprime o assume diventa principale rispetto alla questione del­
l'effetto che l'azione produce in uno stato di cose. Su quest'ultimo invece si
concreta l'etica moderna: possono essere diversi i criteri secondo cui si defini­
sce un buon stato di cose (il miglior interesse di tutti o il rispetto del diritto

49 V. sopra I 10-2 1, 33-35, ove compendio i risultati delle analisi condotte da DENT [82] 106-
120, il quale sviluppa i concetti aristotelici di boulesis e di prohairesis.
'0 « [Per i Greci l'etica] e la filosofia pratica non erano tanto teorie fondative delle prescri­
zioni a cui dobbiamo sottometterci o di ciò che possiamo permetterci, ma costituivano piuttosto
una riflessione sul tipo di vita più consono al nostro essere uomini: questione, questa, che conduce
inevitabilmente a quelle riguardanti il nostro dovere e la liceità o meno di questo o di quello, ma
il cui nucleo essenziale è costituito, come dicevo, dal tipo di vita che maggiormente rende perfetto
l'uomo» (LOBKOWICZ [ 12] 14)'. « Quando infatti il problema decisivo non è se sono obbligato a
fare questo o se è lecito fare quest'altro, bensì come debbo impostare la mia vita per meglio realiz­
zare il fine che mi è proprio come uomo, le singole azioni, pur non diventando insignificanti, ven­
gono poste tuttavia in un contesto più ampio. Esse contribuiscono a costruire o a distruggere gli
atteggiamenti che potrebbero favorire o rendere più difficile lo stile di vita più conforme al fine
che ognuno di noi ha in se stesso» (ivi 15). Recentemente ha sostenuto l'esigenza di riprendere la
domanda circa la vita buona, con forte critica all'etica moderna, Bernard WILLIAMS, Ethics and the
Limits o/Philosophy, London 1985. La vita buona è l'oggetto dell'antologia Ways o/Wisdom. Read­
ings on the Good Li/e, edited by Steve SMITil, Lanham - London 1983; e della miscellanea The
Good Li/e and its Pursuit, edited by Jude P. DoUGHERTY, New York 1984. S'interessano alla vita
buona anche vari autori che studiano il tema della felicità, soprattutto Hans Kramer: v. sopra I 9.
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 103

degli altri), ma è identico in tutte le etiche moderne il concetto hobbesiano di


moralità, intesa come sistema per migliorare i difetti rovinosi della condizione
umana. Il punto di vista del soggetto agente induce a dare rilievo all'intenzione
del desiderio (Aristotele) o della volontà (Kant)51 non semplicemente come
qualcosa che s'aggiunge all'azione giusta, ma come qualcosa da cui il soggetto
prende le mosse per concludere all'azione giusta. Qui nuovamente trova il suo
luogo proprio la virtù: la capacità di eccellere nella realizzazione della vita
buona è principalmente capacità di desiderare o di volere in un certo modo, se­
condo una certa regola della vita buona: la virtù non mira a un buon stato di
cose se non con volontà buona.
(25) c) La virtù rende buona la volontà; ma se ci limitassimo a considerare
nel soggetto, in quanto autore dell'azione, solo la pura volontà otterremmo il
concetto stoico, non quello aristotelico-tomista di virtù. Secondo il concetto
stoico non esistono le virtù ma la virtù, ossia un principio unico, semplice, in­
divisibile di azione, consistente in un atteggiamento dell'animo a conformarsi
alla legge morale. Proprio il concetto stoico di virtù rivive nel concetto mo­
derno, secondo il quale la virtù è decisione fondamentale, atto di puro volere,
a comportarsi secondo principi, regole o leggi morali, o, come si dice, a esser
morali. È ancora Maclntyre52 che rileva la permanenza del concetto stoico di
virtù nell'etica moderna. Nella misura in cui Hauerwas concepisce la capacità
attiva del soggetto come capacità di determinare la descrizione della propria
azione secondo una sua «visione», egli stesso è ancora vicino al concetto stoico
di virtù; tant'è vero che preferisce parlare, invece che delle virtù, solo del carat­
tere come qualifica radicale del soggetto agente presupposta alle virtù.53
Orbene il concetto stoico di virtù non può render conto della complessità
del soggetto umano, il quale costruisce la sua azione mediante l'esercizio di ra­
gione pratica, libera volontà e passioni. Questi sono principi attivi irriducibili
tra di loro, con funzioni diverse e specifiche; ciascuno di essi è diversamente
orientabile e tra di loro essi sono diversamente coordinabili.54 Inoltre ciascuno
di essi è, per disposizione naturale, diversamente preparato, a volte anzi del

51 V. sopra alla n. 30: Hoffe mostra che per Kant la filosofia morale comprende sia la mora­
lità (o dottrina della virtù o della buona volontà) sia la legalità (o dottrina del diritto). Cf. inoltre
GRISEZ [62] 55-56; 154- 155: criticando il proporzionalismo 'di parecchi teologi moralisti odierni,
mostra in maniera straordinariamente chiara la differenza tra il concetto proporzionalista di mora­
lità, come sistema per produrre efficientemente uno stato di cose (concetto di matrice hobbe­
siana), e il concetto cristiano di moralità, come regola del volere prima che del fare (concetto a
cui Kant dà la dovuta importanza) .
5 2 Cf. [5] 157-159. «The pages devoted to the role o f Stoicism in modem ethics are some of
the most thought provoking in the entire book»: Russell HITTINGER, ree. a After Virtue, in The
New Scholasticism 56 ( 1982) 386.
" Cf. Character [17] 35- 128. Si sarà notato che il concetto stoico di virtù è quello adottato
da Kant.
54 Cf. I-II, 49, 4.
104 Capitolo II

tutto impreparato, al compito di contribuire, in coordinazione con gli altri, alla


costruzione della condotta buona.55
Non solo il soggetto agente è più complesso di quanto lo rappresenti la con­
cezione stoica o moderna; ma nella gestazione della scelta e dell'azione i suoi
principi attivi hanno diverso peso. L'azione infatti è del tutto circostanziata e
individualizzata, ma è prodotta in forza di un'intelligenza e di una volontà che
la elaborano a partire da valutazioni e da intenzioni ancora generiche. Ora, nel
concreto ove l'azione si situa, le considerazioni generiche hanno meno peso
delle passioni dell'individuo, che sono invece molto più legate alle realtà con­
crete: 56 nel concreto l'individuo valuta e decide secondo le sue disposizioni af­
fettive e passionali.57
Stando così le cose, l'individuo agente non produrrà buone scelte se i suoi
principi attivi non sono stati potenziati, perfezionati, preparati dalle virtù: e
precisamente da molteplici virtù, diverse tra loro, con funzioni diverse, ma• con­
nesse tra loro e operanti in sinergia.
La considerazione del soggetto agente in quanto individuo complesso apre
nuove domande per rispondere alle quali è necessario il concetto aristotelico, e
ancor più quello tomista, di virtù. Secondo quest'ultimo concetto le virtù non
sono principalmente l'effetto prodotto nel carattere del soggetto dall'esercizio,
in ordine al quale il soggetto sarebbe già naturalmente preparato; bensì sono
potenziamenti dei suoi principi attivi, che elevano la loro naturale capacità di
prestazione al livello dell'azione buona, in ordine alla quale l'individuo non è
naturalmente preparato.58
Da questo concetto . di virtù resta lontanissimo quello moderno; mentre il
concetto moderno di virtù non è essenziale all'etica moderna, di terza persona,
il concetto tomista è essenziale all'etica tomista, non solo etica di prima per­
sona, ma <li una prima persona concepita come individuo complesso, fragile,
mutevole e impreparato al compito di realizzare la vita buona e le attuazioni ec­
cellenti in cui essa consiste.
Su questo compito, cui abbiamo già accennato, dobbiamo ora spendere
una parola per valutare la denuncia e la proposta di Maclntyre.

55 Cf. I-II, 5 1 , l; 63, 1. Questi testi sono di capitale importanza per capire la teoria tomista
della virtù e su di essi ritornerò più avanti: v: sotto V 33-38.Qualcosa ne ho detto in Lex et virtus
184-196.
56 «Actus et electiones hominum sunt circa singularia. Unde ex hoc ipso quod appetitus sen­
sitivus est virtus particularis, habet magnam virtutem ad hoc quod per ipsum sic disponatur
homo, ut ei aliquid videatur sic ve! aliter, circa singularia» (I-II, 9, 2, 2m).
57 « Qualis unusquisque est, talis finis videtur ei» (I-II, 9, 2c). Questa sentenza aristotelica
(EN III 5 = 1 1 14 a 32) ha grande peso nella teoria tomista della virtù: cf. Lex et virtus 207-208.
58 Cf. Lex et virtus 187-196: I «Christian Mora! Principles» 667-672.
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 105

3 ) La questione della vita buona

(26) Adottando il punto di vista del soggetto agente abbiamo scoperto che
non solo si apre necessariamente la domanda circa la vita buona, ma che tale
domanda costituisce la domanda principale, giacché dal concetto di vita buona
ricavano senso la condotta umana, le virtù, le norme, i doveri. Questa do­
manda è del tutto disattesa, o per lo meno trattata marginalmente, nell'etica di
terza persona;59 essa invece era la domanda centrale nell'etica antica e medie­
vale e non ha perso nemmeno oggi il suo interesse.60
Abbiamo osservato come anche Maclntyre ritrovi la funzione di principio
architettonico, che il concetto di vita buona ha, per la costruzione dell'etica.
Egli non solo denuncia il fallimento necessario di ogni progetto moderno di
giustificazione delle norme, ma indica la causa di tale fallimento nell'abban­
dono del concetto aristotelico di telos della natura umana e considera Niet­
zsche lo sbocco finale di quest'avventura moderna. L'unica alternativa a Niet­
zsche è per lui l'etica di tipo atistotelico, ma ripresa in maniera critica.
Maclntyre infatti ritiene che il concetto aristotelico di telos della natura
umana, che starebbe alla base della sua etica, è legato ad una biologia metafi­
sicà ormai insostenibile; ma ritiene anche che tale legame non è necessario: si
può ricuperare il telos non come fine per cui è fatta la natura umana, ma come
bene comune di una società. Esso consiste in una molteplicità di beni umani,
che costituiscono lo scopo immanente di altrettante pratiche più o meno istitu­
zionalizzate. Ciascun membro della società trova la sua identità nei ruoli che
esso svolge per la realizzazione del bene comune della sua società attraverso
pratiche diverse. I concetti di telos sociale e di ruolo funzionale permettono l' e­
laborazione e la giustificazione di norme, che in alcuni casi di particolare im­
portanza sono espresse nelle leggi della società.
(27) Per evitare un concetto biologico Maclntyre approda a un concetto
funzionale di uomo. Ma così facendo egli non è veramente aristotelico, perché
l'Etica Nicomachea non adotta né l'uno né l'altro concetto di uomo, e ne ha in­
vece un terzo che Maclntyre non percepisce a pieno, il concetto cioè di uomo
come autore razionale. Spieghiamoci. L'idea che l'Etica Nicomachea sia basata
su una biologia teleologica, della natura umana è molto diffusa e radicata, ma
non corrisponde alla realtà storica. Gauthier ha mostrato ch'essa è estranea
all'etica aristotelica ed è invece di derivazione stoica. 61 D'altra parte, Rist ha

59 WARNOCK [ 49] 89-91 scarta questa domanda dalla sua etica di tipo hobbesiano come do­
manda priva di senso o, se senso essa ha, come priva di risposta, in ogni caso come domanda cui
l'etica non può dare risposta.
60
V. sopra n. 50. L'inesauribilità e la ricchezza del tema della vita buona spiega la varietà
di sviluppi che esso può avere: due recenti esempi li troviamo nel filosofo WEINSTEIN [71] e nel
teologo protestante EVANS [74], che delineano una figura di vita buona sulla base d'un sistema di
virtù.
61
«La nature, fondement ultime de la moralité, voilà donc bien un thème " aristotélicien" ty-
106 Capitolo II

mostrato che, benché nell'etica aristotelica il bene per l'uomo sia molto dipen­
dente dal buon funzionamento della società, tuttavia né per Aristotele né per
alcun filosofo antico l'individuo vale in quanto funzione della società;62 nem­
meno è riscontrabile presso di loro il concetto, di origine cristiana, del valore
della persona. Semplicemente, per loro, l'individuo vale in quanto sa farsi va­
lere; per Aristotele egli sa farsi valere nella misura in cui è razionale.
La risposta aristotelica alla domanda circa la vita buona che si pone l'indi­
viduo agente sta nello scoprire il ruolo della ragion pratica.63 Ma il concetto
aristotelico di ragion pratica è diverso sia da quello di Hume, per il quale la ra­
gione è pratica solo in quanto ragiona per trovare il modo di soddisfare desi­
deri dati;64 sia da quello di Kant, per il quale la ragione è pratica in quanto da
se stessa prescrive di regolarsi secondo massime universalizzabili senza contrad­
dizioni.
La ragione aristotelica è resa pratica dal fatto che essa percepisce la deside­
rabilità di certi beni umani, il loro valore e la loro idoneità a costituire, come
fini da essere perseguiti nella prassi, gl'ingredienti della vita buona; conseguen­
temente la ragione può regolare saggiamente la loro realizzazione nelle azioni
concrete e contingenti.65 È proprio questo concetto di ragion pratica che
sfugge a Maclntyre, almeno nella sua funzione architettonica, e per saperne di
più occorre attendere il libro da lui promesso ([ 10] 242) sulla razionalità pra­
tica.
Sicché nemmeno Maclntyre riesce a raggiungere il punto di vista del sog­
getto agente; facendo leva su un concetto funzionale di uomo non rende giusti­
zia all'individuo come autore di condotta; identificando l'uomo con i suoi
ruoli nelle pratiche sociali della vita buona egli resta ancora nell'ambito dell' e­
tica moderna di terza persona. Per quanto valida possa essere la sua critica, la
sua proposta resta ancora a mezza strada: della vita buona si può parlare nel

pique. Mais ce thème " aristotélicien" , c'est en vain que nous le chercherions dans l'Ethique à Nico­
maque. [ ... ] En tout cas, il est certain que ce n'est pas sur sa doctrine de la finalité de la natura
qu'Aristote fonde son éthique» (René Antoine GAUTHIER, L'Ethique à Nicomaque, Tome I, Pre­
mière pattie: Introduction, Louvain - Paris 1970, 243).
62
« For Aristotle ali men, apart from the contemplatives, are necessarily lessened in value if
they do not live in the sort of society which enables them to function " morally" » (John M. RIST,
Human Value. A Study in Ancient Philosophical Ethics, Leiden 1982, 89). Tuttavia: «There is in
the philosophy of antiquity no higher morality of the state» (ivi 97) ; «As a result of our contempo­
rary attitude to the state, we have greatly overestimated its role in ancient thought» (ivi 98). Tutto
il libro di Rist documenta che il concetto di valore della persona è estraneo alla filosofia pagana e
appare solo con il Cristianesimo.
63 «Ce qui est propre à Aristate, ce qui définit sa morale, c'est l'effort qu'il fait pour réduire
le kalon, comme le déon, à n'etre que les manifestations d'une régle qu'énonce la sagesse, vertu de
la raison pratique» (GAUTHIER, o.e. 289).
64 DENT [82] sviluppa ampiamente il concetto aristotelico di ragion pratica criticando quello

di Hume.
6' Per una buona illustrazione del concetto aristotelico di ragion pratica cf. John FINNIS,
Fundamentals o/ Ethics, Oxford 1983, 1-25.
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 107

modo più appropriato solo in un'etica di prima persona, giacché un'autentica


comunità, o amicizia, già per Aristotele, non è possibile se non tra soggetti vir­
tuosi che sanno condurre con giudizio una vita di valore, buona e bella, nobile
e degna.
(28) Questa valutazione delle critiche all'etica moderna per un'etica della
virtù, operata adottando come punto di riferimento l'esperienza morale inter­
pretata dall'etica aristotelica e tomista, può concludere in un provvisorio bilan­
cio: le critiche all'etica moderna sono apparse legittime ma insufficienti. Non
si può ridurre l'etica al concetto di dovere, ma non lo si può nemmeno abban­
donare: delle distinzioni sono necessarie. Non si possono trascurare il carattere
e la «visione», ma nemmeno è sufficiente riportarli alla radice della condotta
morale; occorre invece risalire al soggetto agente e considerare ch'egli è un au­
tore di condotta assai complesso. Occorre reintrodurre il concetto di vita
buona come telos della condotta, ma riprendendo anche il concetto aristotelico
e tomista di ragion pratica e di saggezza come misura delle attuazioni eccel­
lenti dell'individuo agente.
Con queste prime acquisizioni passiamo ora a considerare la risposta che le
critiche hanno avuto da parte di rappresentanti dell'etica moderna.

2. Risposta alle critiche, per un'integrazione del concetto di virtù nell'etica


moderna

(29) La maggior parte delle risposte alle critiche può essere ordinata attorno
a due nuclei.
Un primo nucleo è costituito dalla discussione pubblicata nel ]ournal o/Re­
ligious Ethics: un fascicolo del 1973 raccoglie tre contributi, di Carney [26],
Dyck [27], Frankena [28], che propongono in modo diverso un'integrazione
dei concetti di virtù e di dovere nell'etica. A Frankena risponde poi Hauerwas
[ 18] sostenendo la principalità della virtù sul dovere; controbatte Frankena
[29] sostenendo la principalità del dovere sulla virtù. Conclude la discussione
Schenck [30] correggendo la definizione che Frankena dà del punto di vista
morale con istanze desunte dalle critiche di Hauerwas.
Un secondo nucleo è costituito dalle risposte date da Flemming [3 1 ] , Beeh­
ler [32 ] , Baron [33 ; 35] , Louden [36] e Smith [37] alla proposta di Ans­
combe [l] e di Foot [7] di abolire il concetto di dovere morale e dalla rispo­
sta di Baron [34] all'obiezione mossa da Stocker [5] e da Williams [6] contro
la motivazione del dovere come incompatibile con la virtù.
In margine a questi due nuclei sono da prendere in considerazione soprat­
tutto uno studio di Beauchamp [ 40] che propone un'equivalenza tra virtù e do­
veri; inoltre due studi di Schi.iller [38-39] sul posto da assegnare alla virtù nel-
1' etica normativa che stabilisce i principi secondo cui si ha da determinare la
giustezza o correttezza delle azioni. L'articolo di Trianosky [ 4 1 ] rileva il diva-
108 Capitolo II

rio che può esserci tra giudizio sull'azione sbagliata e giudizio sul motivo sba­
gliato.
Per evitare ripetizioni e per percepire più chiaramente lo status quaestio­
nis sarà conveniente recensire questi studi in un ordine più sistematico.

1) L'etica richiede sia il dovere sia la virtù

(30) 1 ) La risposta di Louden [36] ad Anscombe [ l ] e a Foot [7] fa leva


sulla complessità dell'esperienza morale per rilevare le lacune dell'etica della
virtù come viene proposta da loro e da altri (Becker, Maclntyre) , sicché essa è
altrettanto riduzionista quanto lo è, in modo opposto, l'etica del dovere. L'e­
sperienza morale presenta aspetti e problemi di cui l'etica delle virtù non
rende conto: la necessità di risolvere casi imbarazzanti, l'eventualità di errori •

tragici, la necessità di regole che proibiscano azioni assolutamente intollerabili,


i possibili mutamenti di carattere, la possibilità di mancanze occasionali o mar­
ginali. Tutto ciò induce a sostenere che le azioni talvolta hanno più importanza
che il soggetto agente. Inoltre l'avvocato della virtù si trova in difficoltà a indi­
viduare quale soggetto sia virtuoso, trascura l'importanza dell'effetto prodotto
dall'azione in uno stato di cose e cade in un ingenuo utopismo se mira a far
prendere corpo all'etica della virtù nella nostra odierna società. 66
Le carenze riscontrate nell'etica della virtù, considerata alla luce dell'espe­
rienza morale,67 inducono pertanto a pensare che l'etica non possa ridursi né
alla sola virtù, né al solo dovere, né alle sole regole, né alle sole azioni giuste; in-

66
«The last vice I shall mention has a more socio-historical character. lt seems to me that
there is a bit of utopianism behind the virtue theorist's complaints about the ethics of rules. Su­
rely, one reason there is more emphasis on rules and regulations in modem society is that things
have gotten more complex. Our mora! community (insofar as it makes sense to speak of " commu­
nity" in these narcissistic times) contains more ethnic, religious, and class groups than did the
mora! community which Aristotle theorized about. Unfortunately, each segment of society has not
only its own interests but its own set of virtues as well. There is no generai agreed upon and signi­
ficant expression of desirable mora! character in such a world. Indeed, our pluralist culture prides
itself on and defines itself in terms of its alleged value neutrality and its Jack of allegiance to any
one mora! tradition. This absence of agreement regarding human purposes and mora! ideals seem
to drive us (partly out of Jack of alternatives) to a more legalistic form of morality. To suppose
that academic theorists can alter the situation simply by reemphasizing certain concepts is illu­
sory. Our world lacks the sort of mora! cohesiveness and value unity which traditional virtue theo­
rists saw as prerequisites of viable mora! community» (LOUDEN [36] 234-235).
67 «The shortcomings described are not esoteric - they concern mundane features of

mora! experience which any minimally adequate mora! theory should be expected to account for.
While I do think that contemporary virtue theorists are correct in asserting that any adequate
mora! theory must account for the fact of character, and that no ethics of rules, pure and unsup­
plemented, is up to this job, the above analysis also suggests that no ethics of virtue, pure and un­
supplemented, can be satisfactory» (ivi 235).
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 109

vece essa deve coordinare tutti questi aspetti irriducibili se vuol essere ade­
guata ali' esperienza morale. 68
(31 ) 2) Proprio questo rispetto alla complessità dell'esperienza morale mi
.
fa ritenere che la proposta di Louden sia più ragionevole e soddisfacente che
non il tentativo di Schiiller [39) di neutralizzare la riabilitazione della virtù. Le
sue meticolose analisi semantiche intendono mostrare che non la virtù è andata
persa nell'etica moderna, ma solo la terminologia della virtù: ciò che ad esem­
pio un tempo si diceva sotto il titolo prudenza lo si dice oggi sotto il titolo for­
mazione della coscienza. Sicché i tentativi di riabilitare la virtù si risolverebbero
in un inutile tentativo di ripristinare un linguaggio arcaico.
Vedremo più sotto che Schiiller ha della virtù non il concetto tomista,
bensì quello moderno stoicizzante e legge nella II Pars solo ciò che questo con­
cetto gli permette di leggere. Perciò egli può scorgere solo una mutazione di
vocabolario e non anche una perdita reale: la teoria tomista della virtù espri­
meva aspetti dell'esperienza morale che non si ritrovano più considerati in nes­
sun' etica moderna, tanto meno nell'etica normativa di Schiiller.
(32) 3) Analizzando alcune storie e alcuni caratteri riferiti nella letteratura
biblica, Carney [26) cerca di mostrare « che cosa noi possiamo dire in etica con
la nozione (o le nozioni) di virtù che non possiamo dire (o dire ugualmente
bene) con la nozione (o le nozioni) di obbligazione» ( [26) 6) . Con il concetto
di virtù s'intende esprimere ben più che un comportamento attuato per il mo­
tivo del dovere contro dure tentazioni o con ferma disposizione a compiere
atti giusti. Nel caso del buon samaritano il concetto di virtù vuol esprimere «la
sua disposizione a discernere [i bisogni umani] e ad essere toccato da essi in
una maniera che va al di là delle percezioni e delle risposte ordinariamente pre­
supposte nelle nozioni di obbligazione» ( [26) 1 1) .
Non è ancora tutto, ma è già un buon inizio. Ma Carney non procede
oltre. Gli preme invece rilevare, contro Anscombe [ l ] , che l'etica, special­
mente quella cristiana, se non può prescindere dalla virtù, non può nemmeno
prescindere dall'obbligazione, qualora si sappia distinguere l'obbligazione dalla
costrizione e s'intenda l'obbligazione come « esser sotto esser legati dall'im­
pegno per una norma o standard] uno standard che serva (a) come ragione
per fare l'azione x e (b) come base su cui il soggetto o altri può criticare (ap­
provare o disapprovare) il fare o il permettere l'azione X» ( [26) 13 ) .
Nemmeno qui Carney procede oltre: gli basta aver suggerito che l'etica

68
«My own view (which can only be stated summarily here) is that we need to begin efforts
to coordinate irreducible or strong notions of virtue along with irreducible or strong conceptions
of the various act notions into our conceptual scheme of morality.[ ... ] The theoretician's quest for
conceptual economy and elegance has been won at too great a price, for the resulting reductionist
definitions of the mora! concepts are not true to the facts of mora! experience. lt is important now
to see the ethics of virtue and the ethics of rules as adding up, rather than as cancelling each other
out» (ivi 235).
1 10 Capitolo II

deve adottare sia il concetto di virtù sia quello di obbligazione per esprimere
adeguatamente l'esperienza morale cristiana riferita nella letteratura biblica.
Come l'integrazione debba avvenire egli non lo spiega.
(33) 4) Una figura d'etica ove sono integrati i concetti di virtù, di dovere,
di diritti è proposta da Beauchamp [40] . Egli costruisce un parallelismo tra
virtù, doveri, diritti abbastanza flessibile da poter riflettere la complessità dell'e­
sperienza morale e della sua espressione linguistica. Le virtù sono guide d'a­
zione altrettanto quanto lo sono i principi o regole del dovere e quanto i di­
ritti. A seconda del contesto ricorriamo alle une o agli altri.69 L'importanza
delle virtù sta nel rendere rutinario l'adempimento dei doveri.70
Questo tipo d'integrazione è però possibile a caro prezzo: l'avvocato della
virtù inorridisce al vedere ridotta la virtù ali' adempimento rutinario dei do­
veri. Ma è questo uno degli sfregi che la virtù è destinata a subire in un'etica
'
di tipo hobbesiano qual è dichiaratamente quella di Beauchamp. Schierandosi
con Hume, ]. Stuart Mili, R.M. Hare, G.]. Warnock [ 49] e un Aristotele frain­
teso, egli assegna alla moralità il compito di . fornire un sistema di regole che
migliori la miserabile e precaria condizione umana assicurando risultati deside­
rabili e impedendo quelli indesiderabili.71 In questo congegno il soggetto è ri­
dotto a un ingranaggio che è reso capace di funzionare bene (cioè di contri­
buire a produrre risultati desiderabili in un buon stato di cose) da disposizioni
rutinarie sulle quali la terza persona può fare affidamento. Siamo a mille miglia
dal punto di vista del soggetto agente, dalla vita buona e dal concetto classico
di virtù, secondo il quale un'identica virtù può esprimersi saggiamente e giudi­
ziosamente in opposti doveri concreti.

69 «In those contexts in which reliance on a person of good character is most likely to
achieve the mora! ends we desire, then a theory of the virtues may be the superior account. [ . . . ]
On the other band, the person of virtue may often be perplexed about what sould be done, or
which course of action is the right one. Indeed, the person of good character may be the first to
know that his or her character is insufficient to yield the answer. Hence, a discussion of duty,
right, or the morality of actions may seem in some contexts to be more important than a doctrine
of the virtues for achieving our ends. In stili other contexts where the prod of duty or the protec­
tion of rights best achieves our objectives, these mora! standards will surpass appeals to virtue»
([ 40] 325).
'0 «One important objective of the cultivation of virtue is to render fulfillment of duty a rou­
tine matter, rather than a continuous struggle to do one's duty, and this is one reason why Aristo­
tle's ethics rightly has a grearer appeal to some - myself included - than Kant's. Aristotle's is a
more realistic and appealing picture of the human condition, because morality flows from cultiva­
ted or natural habit rather than a powerful struggle against inclinations in the attempt to emulate
the habits of a holy .will - a goal one can approximate but never achieve» (ivi 309). Perciò: «A
morality of principles of duty should enthusiastically recommend settled dispositions to act in ac­
cordance with that which is morally required, and a proponent of virtue ethics should encourage
the development of principles that express how one ought to act. It is a defect in any theory to
overlook all of these ways of expressing what is important in the mora! !ife» (ivi 3 10).
71 « Mili knew that the purpose of generai mora! standards - whether in the form of vir­
tues, duties, or rights - is to achieve certain desirable outcomes and to avoid certain undesirable
outcomes» (ivi 322).
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 111

Rivelatasi fallimentare questa proposta d'integrazione, proviamo a interpel­


lare altri interlocutori: troveremo un forte manipolo arroccato sulla principalità
del dovere ed un audace aggressore che combatte per la principalità della
virtù.

2 ) È principale il concetto di dovere o il concetto di virtù?

(34) 1 ) W.K. Frankena è l'autore che con più finezza analitica e sensibilità
alla complessità dell'esperienza morale cerca di rendere giustizia al concetto di
virtù entro una concezione della moralità tipicamente moderna. Già nella
prima edizione ( 1963) della sua Etica [ 45] egli faceva posto al concetto di
virtù; nella seconda edizione ( 197 3) aggiunge ampliamenti sull'etica della virtù
nell'apposito capitolo.72 La posizione ivi raggiunta viene da lui difesa in un
primo articolo sul Journal o/ Religious Ethics [28], nel quale si confronta con
l'etica dell'amore costruita come un'etica della pura virtù; in un secondo arti­
colo [29] contro le critiche mossegli da Hauerwas [ 18].
La concezione che Frankena ha della moralità si rifà a Kant e a Prichard
[ 44] . Quest'ultimo distingue tra moralità e virtù. La prima è basata sull'obbli­
gazione, la seconda no. La prima consiste nell'interesse per ciò che è moral­
mente retto e nel sistema di principi e di regole per determinarlo; la seconda
consiste nell'interesse per ciò che è intrinsecamente buono, ma senza alcun
senso dell'obbligazione. Così intesa la moralità si distingue dalla prudenza (o
ricerca del proprio interesse), dal costume, dal diritto, dalla religione e in certa
misura dalla vita buona o beata.
Nella moralità così concepita Frankena sostiene che le virtù sono neces­
sarie. Le virtù sono da lui intese « come cose che includono disposizioni o ten­
denze ad agire in un certo modo in certe circostanze» ([ 45] 143 ) : sono disposi­
zioni a fare le azioni moralmente giuste. La moralità del dovere e dei principi
ha bisogno delle virtù: a) perché forniscono le motivazioni interne, e non solo
esterne e fortuite, alle azioni giuste; b) perché permettono di risolvere i con­
flitti tra principi di doveri prima facie in un modo conforme non tanto alla let­
tera quanto allo spirito della legge; c) perché esse stesse sono obbligatorie in
quanto consentono «di scoprire quale sia la cosa giusta e di farla se possibile»

72 « Sin dagli anni sessanta Frankena ha mostrato un notevole interesse per il tema della

virtù, e ha contribuito in maniera rilevante al suo approfondimento quando ancora l'argomento ri­
ceveva scarsa considerazione. Se si considera la vivace discussione che, negli ultimi anni, è in atto
sul concetto di virtù, si deve osservare che, ancora una volta, Frankena ha indicato la strada »
(Maurizio MORI, Introduzione a Etica [45] 3 0 ) . M. Mori è l'unico autore italiano, a mia cono­
scenza, che è al corrente del dibattito in corso sulla funzione della virtù nell'etica, almeno fino al
1980: cf. il suo Recenti sviluppi nella filosofia pratica di lingua inglese, in Rivista di filosofia 7 1
( 1980) 139- 156: alla n. 19 d i p. 149 menziona però solo alcuni dei contributi che sto conside­
rando.
1 12 Capitolo II

( [45] 144- 145) .73 Pertanto nell'etica del dovere proposta da Frankena i prin­
cipi deontici sono una guida per sapere che cosa fare o non fare e servono
inoltre a stabilire quali tratti sono virtuosi; 74 le virtù assicurano affidabilità e
prontezza nell'esecuzione dell'azione giusta: « per parodiare un famoso detto
di Kant, sono propenso a credere che i principi senza i tratti di carattere siano
impotenti, e i tratti di carattere senza i principi siano ciechi» ( [45] 143 ) . In­
vece in un'etica della virtù (nella quale la virtù non è definita a partire dal do­
vere) « le virtù hanno un duplice ruolo: devono non soltanto indurci a fare
quel che facciamo, ma anche dirci che cosa fare» ( [45] 145 ) .
Prolungando questa linea di pensiero nell'articolo The Ethics o/ Love Con­
ceived as an Ethics o/ Virtue [28] Frankena descrive come dovrebbe configu­
rarsi un'etica dell'amore che fosse concepita come un'etica della pura virtù,
cioè come un'etica in cui il principio « ama» non faccia alcun riferimento al do­
vere e riguardi l'atteggiamento, il carattere, il motivo del soggetto agente prima
che le sue azioni. A proposito di tale principio le minuziose analisi di Frankena
pervengono ad una conclusione simile a quella cui perviene Foot [7a] a propo­
sito del dovere categorico: non si riesce a spiegarne il significato ! 75
A tale figura di etica dell'amore concepita come etica della pura virtù Fran­
kena muove parecchie critiche. Essa non è biblica, in quanto non fa riferi­
mento ad una legge. Inoltre « love without moralism is not really even a virtue»
( [28] 32); nell'esperienza morale è innegabile il fatto dell'obbligazione; oltre l'a­
more vi sono altre virtù come la giustizia. Insomma un'etica della pura virtù
senza riferimento al dovere è impossibile, e Frankena ritorna a proporre la sua
etica del dovere come possibile alternativa.

73 Questo modo d'intendere la necessità delle virtù come esse stesse obbligatorie in un'etica
che si rifà ugualmente a Prichard e a Frankena è sviluppato da DYCK [27 ) : egli sostiene che anche
se non vi è obbligo per certe azioni eroiche o sante, vi è tuttavia l'obbligo di avere disposizioni per
tali azioni. Egli applica questo principio a virtù che egli designa come mora! perceptivity e mora! te­
nacity. Esse sono obbligatorie perché essenziali alla permanenza e alla fioritura della vita morale.
74 <& difficile capire come una moralità dei principi possa avere solide radici se non attra­
verso lo sviluppo delle disposizioni ad agire secondo i principi. Se così non fosse tutte le motiva­
zioni a seguire i principi dovrebbero essere di tipo ad hoc: o prudenziale o impulsivamente altrui­
stico. Inoltre la moralità non può accontentarsi della mera conformità alle norme, per quanto
pronta e consapevole, a meno che non abbia alcun interesse per lo spirito della legge ma solo per
la lettera. D'altra parte non si possono concepire i tratti di carattere se non come cose che inclu­
dono disposizioni o tendenze ad agire in uti. certo modo in certe circostanze. Odiare comporta es­
sere disposti ad uccidere o a danneggiare, essere giusti comporta la tendenza a compiere atti giu­
sti (atti che si conformano al principio della giustizia) quando l'occasione lo richiede. Anche qui, è
difficile capire come potremmo sapere quali tratti vadano incoraggiati o inculcati se non aderis­
simo a principi, per esempio al principio di utilità, o a quelli di benevolenza e di giustizia» ([ 45)
143).
7 5 Taie amore è tendenza o disposizione a essere attuato «by a straightout desire or concern
for the good of others as such (and not as something one ought to feel or to promote) » ( [28) 29).
Se esso è disposizione ad agire «not from a sense of obligation to do so, but from a sense of the
virtuousness (not-moral goodness in the Kant-Prichard sense) of doing so» (ivi 30), allora è diffi­
cile dire in che cosa esso consista.
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 1 13

Rispondendo alle critiche mossegli da Hauerwas [ 18], Frankena [29] cerca


di mettere in chiaro la diversa nozione di virtù che essi adottano: per Frankena
la virtù è disposizione a discernere e a compiere ciò che è moralmente giusto e
doveroso; per Hauerwas la virtù sarebbe disposizione a. discernere e a com­
piere ciò che è bene per le persone, ciò· che promuove la libertà, ciò che sol­
leva le pene e le miserie, ecc.76 Egli ribadisce che la virtù, così come lui la con­
cepisce, è complemento essenziale dell'etica del dovere e che i giudizi relativi
ai doveri sono principali rispetto ai giudizi aretaici, giacché non si riesce a dire
che cosa possa essere o fare una persona moralmente virtuosa se ci si limita a
dire quale azione desiderabile essa farebbe se fosse ben illuminata; occorre in­
vece pervenire a · dire che cosa è necessario che essa faccia dal punto di vista
morale ( [29] 5 1) .
(35) 2) La posizione di Frankena rappresenta il massimo di quanto possa
dire a favore della virtù colui che si mantiene, come lui, arroccato al suo con­
cetto tipicamente moderno di moralità. Che sia un concetto troppo angusto e
che sia necessario correggerlo e integrarlo con elementi che accolgono legit­
time istanze d'una teoria della virtù come quella di Hauerwas, è quanto ha vo­
luto dimostrare Schenck [30] . Secondo questo autore, per convincere un sog­
getto ad adottare il punto di vista morale non basta supporre, come fa Fran­
kena, un minimo di capacità a ragionare con coerenza ed una disposizione ad
esser chiaro, oggettivo, logico, imparziale; la fede illuminista e liberale di Fran­
kena nella ragionevolezza trascura troppo ·il fatto dell'egoismo. Perciò bisogna
far appello ad esperienze del soggetto in cui questi riscontri la presenza di sen­
timenti e interessi per le persone e chiedergli quale istituzione sociale esprime­
rebbe meglio e sistematicamente tali sentimenti. Conseguentemente si devono
completare gli elementi che secondo Frankena integrano il punto di vista mo­
rale: a) non solo fare giudizi normativi (Frankena), ma anche desiderare di ac­
crescere il bene non-morale e di diminuire il male non-morale degli esseri sen­
zienti (Schenck) ; b) disponibilità a universalizzare (Frankena) ; e) i fatti riguar­
danti il bene non-morale e il male non-morale degli esseri senzienti e che costi­
tuiscono le ragioni a sostegno dei giudizi normativi (Frankena) sono riscon­
trati sia per via empirica sia per via di intuizione (Schenck) . In questo modo
Schenck introduce nel punto di vista morale sia gl'interessi o desideri cui si ri­
chiamano gli avvocati della virtù; sia la «visione» che permette di riscontrare
fatti riguardanti il bene o il male non-morale per altra via che quella empirica,
p. es. ricorrendo ad una fede religiosa. Tuttavia, a correzioni fatte, nel punto
di vista morale resta ancora principale il concetto di dovere e le virtù vi rien­
trano in quanto obbligatorie; almeno le virtù morali. Schenck ricorda che vi
sono altre virtù non morali, anche se moralmente rilevanti.
(36) 3) Un moralista cattolico, B. Schiiller [38], che ha molta dimestichezza

76 Citando FOOT [7a] FRANKENA ([29] 48) forza il pensiero di Hauerwas nel senso di Foot.
1 14 Capitolo II

con i filosofi e conosce il pensiero di Frankena, propone una leggera variante


di questo salvataggio del concetto di virtù nel sistema morale da lui costruito
come sistema per determinare l'azione giusta in senso teleologico, cioè l'azione
che produce il miglior bene non morale per le persone interessate. Salvo la va­
riante teleologica, siamo ancora nell'ambito della moralità in senso moderno,
all'interno della quale appunto il procedimento teleologico si oppone a quello
deontologico, sostenuto tra gli altri da Frankena. Schi.iller non ha molto da
dire sulla virtù e forse non ne direbbe affatto se non dovesse rispondere ai cri­
tici che lamentano che la concentrazione sulle azioni giuste porta a trascurare
il carattere, gli atteggiamenti, le intenzioni del soggetto agente.
Nell'etica normativa che si occupa di determinare quali azioni siano giuste
e quali no, le virtù, o meglio la virtù è presto ricuperata: il termine «virtù» in­
fatti si riferisce a una freie Entschlossenheit o Grundhaltung, una decisione fon­
damentale di principio che ha per oggetto proprio ciò di cui si occupa l'etica
normativa, cioè i Verhaltensmuster o le Handlungsweisen o tipi di azione mo­
ralmente giusta o doveri; la decisione è di principio (grundsiitzlich, prmzipiell),
in quanto mira all'azione giusta proprio per la ragione che essa è giusta. Virtù
è dunque sinonimo di buona volontà, di volontà che vuole il dovere per il mo­
tivo del dovere; « tutte le virtù particolari, in quanto decisioni fondamentali,
sono semplicemente aspetti dell'unica buona volontà» ( [38] 304).
(37) 4) Con l'accenno al motivo del dovere tocchiamo il culmine della posi­
zione che assegna al concetto di dovere la principalità sul concetto di virtù.
Baron infatti, rispondendo a Foot [7a] , sostiene [33 ; 35] che se non vi è la mo­
tivazione del dovere non vi è nemmeno un agente morale e, rispondendo a
Stocker [5] , sostiene [34] che la.motivazione del dovere è compatibilissima con
l'interesse virtuoso per l'amico ammalato.
Il bersaglio di Baron è quella varietà di etica della virtù che è sostenuta da
Foot e che « concepisce la persona buona come quella che fa ciò che è retto
perché lo desidera, indipendentemente da ogni pensiero circa ciò che è moral­
mente doversoso fare» ( [33] 282). Il difetto che Baron vede in tale concezione
è che essa elimina il soggetto agente. Infatti, affinché un soggetto sia principio
della propria azione non è sufficiente che egli segua dei desideri lodevoli per
dei fini buoni. Il soggetto è agente solo quando si distanzia dai suoi desideri,
anche buoni, e li valuta da un punto di vista superiore, in riferimento a uno
scopo superiore e generale della sua vita. Allora i fini buoni, che sono oggetto
dei suoi desideri, non solo sono di fatto desiderati, sono anche valutati come
degni di essere desiderati, come fini che devono assolutamente essere deside­
rati. Il punto di vista superiore, che permette al soggetto di agire in base ad
una propria valutazione, potrebbe essere, kantianamente, quello della corret­
tezza morale o, aristotelicamente, quello d'una concezione della vita buona.
Mancando questo punto di vista non si riesce a discernere se ciò che si desi­
dera è anche degno di essere desiderato, se l'atto di benevolenza o di amicizia·
è anche un atto moralmente retto e doveroso. Invece il soggetto valuta in senso
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 1 15

forte (strong evaluator) non quando valuta in bas� ai propri desideri, ma, aristo­
telicamente, quando valuta in base ad una propria concezione della vita
buona. Perciò contro l'etica della virtù tipo Foot è da affermare un'etica del
dovere <� la quale sostiene che la persona perfettamente morale è governata
nelle sue azioni da una concezione di ciò che è moralmente richiesto o racco­
mandato. Il che può assumere la forma d'una concezione della vita buona,
della persona ideale, o della retta condotta» ( [33] 290).77
(38) Non vi è dunque virtù senza senso del dovere. Sembrerebbe che siamo
rientrati in pieno in quel clima dell'etica moderna che è così irrespirabile per la
virtù, o per lo meno la costringe a penose metamorfosi. Tuttavia la riabilita­
zione del soggetto agente mediante il ricorso al concetto aristotelico di vita
buona suggerisce che stiamo camminando sulla buona strada. Di fatto Baron,
nell'articolo The alleged moral repugnance o/ acting /rom duty [34], procede a
mirabili analisi di psicologia morale per mostrare come proprio il motivo del
dovere conferisca a un atto di amicizia o di qualsiasi virtù quello splendido in­
teresse per i fini buoni e per le persone che tanto affascina Foot.
Intanto il motivo del dovere non dev' esssere inteso in senso minimalista,
come se chi agisce per il senso del dovere (who acts /rom duty) non avesse ri­
guardo per le persone, ma adempisse i suoi doveri solo per fare il minimo ri­
chiesto, la buona azione quotidiana del boy-scout. Pensarla così è attenersi al
senso colloquiale della parola dovere; secondo tale senso chi agisce per dovere,
lo fa per non avere guai, oppure si attiene solo a ciò che è moralmente richie­
sto senza spingersi a ciò che è moralmente raccomandato, oppure si limita ai
« doveri» richiesti convenzionalmente dai ruoli sociali. Ma vi è anche un senso
più nobile della parola dovere, secondo il quale la persona che agisce per do­
vere «è mossa sia da considerazioni di ciò che è moralmente richiesto, sia da
considerazioni di ciò che è moralmente raccomandato. Inoltre, essa è impe­
gnata o dedita (committed) a esser mossa da entrambe le considerazioni» ( [34]
201).
Contro Stocker [5] e Williams [6] Baron fa vedere che agire così non è af­
fatto alienante, cioè non costituisce un atteggiamento sbagliato od offensivo o
poco pertinente nei riguardi delle altre persone. La storpiatura ci sarebbe se

77 Questa posizione di Baron è affine a quella aristotelica sviluppata da DENT [82] 106-120;
v. sopra I 33-35. BARON [35] sviluppa la stessa tesi. La sua critica si basa sull'intuizione, condivisa
da tutti coloro che non sono estremi soggettivisti, « che vi è distinzione tra valutare e desiderare»
(ivi 48) . Per cui la difficoltà dell'etica della pura virtù, tipo Foot, è questa: «As long as one merely
wants to be courageous, and thus eschews certain courses of action, one is not stepping outside of
one's de facto desires and evaluating them accordingly. One is only evaluating the desires or the
desiderata in light of other desires one has, without any reason for letting these rather than those
desires be one's vantage point. Simply to favor certain of one's desires over others, and to evaluate
one's aims and desires by reference to the favored ones is not yet engage in strong evaluation.
Strong evaluation must demand more than this if the notion is to do justice to the intuition that
there is a difference between desiring and valuing» (ivi 50).
1 16 Capitolo II

agire per dovere comportasse necessariamente carenza d'interesse per le per­


sone oppure narcisismo morale, concentrazione sul proprio carattere. Ma non
vi è tale necessità. Baron si applica soprattutto a mostrare come proprio il
senso del dovere comporta un interesse per le persone.
Visitare l'amico malato per dovere di amicizia sembrerebbe fare a pugni
con l'amicizia stessa se il motivo del dovere significasse necessariamente che
non vi è inclinazione a fare ciò che si ritiene doveroso fare. Ma agire di mala­
voglia esibendo solo una correttezza formale è tutt'altra cosa che agire per do­
vere: significa anzi che non si ha affatto idea di quale sia il proprio dovere o se
ne ha un'idea sbagliata.
Invece il motivo del dovere è compatibilissimo con il motivo dell'amicizia a
tre condizioni: a) se per dovere non s'intende solo ciò che è moralmente richie­
sto, ma anche ciò che è moralmente raccomandato; b) se il motivo del dovere
non è concepito come motivo necessariamente ed esplidtamente pensato per
ogni singola azione; e) soprattutto e principalmente se il motivo del dovere non
è primario (cioè immediatamente motivante ogni singola azione, senza sup­
porto d'inclinazione o contro l'inclinazione), ma secondario (cioè motivo « rife­
rito non primariamente ad azioni individuali ma alla condotta, al come uno
vive, e solo in maniera derivata ad azioni singole» ( [34] 209) ; motivo consi­
stente in un impegno, a lungo termine, di ampia portata, che governa tutto ciò
che fa, a determinare quale sia il proprio dovere e a compierlo) .78
Descritto cosl, il motivo del dovere non solo convive con il motivo dell'ami­
cizia, ma s'intreccia con esso, lo protegge contro tentazioni devianti e lo corro­
bora inducendo a sviluppare tutte le disposizioni che costituiscono una bella
amicizia.
Con queste illuminanti distinzioni sembrerebbe che il problema abbia final­
mente trovato la sua soluzione e che la principalità debba essere assegnata defi­
nitivamente al concetto di dovere sul concetto di virtù. Ma le critiche del pu­
gnace Hauerwas [ 18] inducono a procedere con cautela.
(39) 5) Hauerwas non sostiene un'etica della pura virtù, come Foot [7a],
bensl un'etica in cui vi è posto per i concetti di dovere e di obbligazione, ma è

78 «Once we break from the idea that acting from duty primarily concerns isolated actions,
there is no temptation to suppose that one must ask before each action whether one ought to do
what one is proposing to do. But once we break from that idea (an no longer ask the typical "How
often is one supposed to act from duty? Is acting from duty being advocated only for a certain
range of actions? If so, which?"), we see the vita! role of the sense of duty as a secondary motive.
On my view, one should (ideally) always act from duty, but this is only to say ali of one's conduct
should be governed by one's unconditional commitment to doing what one morally ought to do.
To say that one should always act from duty is not to say that one should always act from duty as
a primary motive. One's sense of duty will serve generally as a limiting condition and at the same
time as an impetus to think about one's conduct, to appraise one's goals, to be conscious of one­
self as a selfdetermining being, and sometimes to give one the strenght one needs to do what one
sees one really should do» ( [34] 209).
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 1 17

un posto secondario rispetto al posto principale assegnato al concetto di virtù.


Hauerwas considera non riuscito il tentativo fatto da Frankena d'integrare il
concetto di virtù in un'etica dell'obbligazione; non riuscito a causa d'un'insuf­
ficiente psicologia morale. «Un agente non è rapportato alla sua azione come
una causa ad un effetto, ma piuttosto come un agente la cui propria descri­
zione continua a determinare ciò che egli ha fatto» ( [ 18) 32). Perciò né l'a­
zione né i doveri possono essere descritti indipendentemente dalle intenzioni
dell'agente, intenzioni che esprimono il suo carattere, cioè la sua «visione»
della realtà e i suoi interessi. Poiché sono le virtù che plasmano il carattere, il
dovere non può essere definito se non in riferimento a unà previa «visione» e
a previ interessi del soggetto agente.
Più precisamente, il concetto stesso di dovere comporta un riferimento a in­
teressi del soggetto. Sembrerebbe la tesi esattamente opposta a quella di Baron
e affine a quella di Foot: il concetto di dovere ha senso se è basato su un desi­
derio! Infatti un giudizio di dovere non trova eco nel soggetto se egli non ha
determinate caratteristiche. Le ragioni del dovere non sono semplicemente le
ragioni « che uno spettatore imparziale darebbe per spiegare le singole azioni
d'un agente» ( [ 18) 38), ma sono sempre funzione del tipo di persona che l'a­
gente è diventato a causa del suo carattere formato secondo la tradizione d'una
comunità.
Conseguentemente anche la determinazione del contenuto del dovere è fun­
zione del carattere con i suoi interessi: 79 le virtù non sono cieche, ma sono
guide dell'azione.
Infine gl'interessi che per Hauerwas costituiscono il carattere non si riferi­
scono al minimo richiesto per il funzionamento della società, bensl si riferi­
scono a ogni ideale umano della vita buona.80

3 ) Verso un 'integrazione tra dovere e virtù

(40) Il dibattito è appassionante perché le parti opposte adducono argo­


menti persuasivi: ciascuno dei concetti messi a confronto esprime un aspetto im­
prescindibile dell'esperienza morale, la quale è così complessa da non lasciarsi
ridurre a un solo concetto. Se tuttavia le parti sono così opposte è proprio per­
ché non sfuggono alla seduzione di semplificare le cose; non riescono a dire
qualcosa senza trascurare qualcos'altro. Discernere quali sono le istanze legit­
time, quali i limiti e mirare a non trascurare nulla conduce ad una teoria com­
plessa e difficile da tenere insieme, ma è l'unico modo di render conto dell'e­
sperienza morale.

79 «lt is the primary concern of an ethics of virtue to form our interests in a manner that we

will do our duty; but more fundamentally, that we will be able to see what duties we have exactly
because we are the kind of person we are» ([ 18] 32).
8° Cf. [18] 4 1 -42 cit. alla n. 42.
1 18 Capitolo II

Proseguendo nella linea delle precedenti valutazioni81 e utilizzando un in­


terlocutore nuovo, cioè la teoria elaborata da s. Tommaso nella II Pars, pre­
sento un abbozzo d'integrazione, che riprenderò e svilupperò nel capitolo V 2 1 -
24, 27-3 1 .
(41 ) 1 ) Hauerwas ha ragione di collocarsi dal punto di vista del soggetto
agente, ma non si riesce a render conto dell'autorità della prima persona se
non la si considera, come vuole Baron, quale capace di valutare in senso forte
(strong evaluator) . Valutare in senso forte significa non già valutare secondo in­
teressi o desideri preesistenti, come vuole Foot, bensì poter afferrare la dignità
di certi valori ad essere amati, desiderati, perseguiti, ad essere oggetto di nuovi
desideri che il soggetto produce in se stesso in seguito a tale valutazione.82
Ma valutare così non è possibile se non in quanto si ha un'idea, ancora solo
formale, di vita buona, cioè di vita di valore, pregiata, eccellente, degna (wor­
thwhile, valuable) . 83 È proprio quest'idea che rende il soggetto capace di
esser lui l'autore della descrizione della propria azione, come è richiesto da
Hauerwas.
Ma perché il soggetto possa essere lui l'autore non solo della descrizione,
ma anche dell'esercizio dell'azione, occorre che, in connessione con tale idea
originaria dell'intelligenza pratica, vi sia in lui, previamente ad ogni decisione,
un interesse naturale per la realizzazione della vita buona, interesse che chiame­
remo volontà naturale di bene. Qui troviamo la parziale ragione di Schenck;
ma l'interesse che qui richiediamo è più vasto di quello richiesto da lui, e cor­
risponde al concetto tomista di volontà.
(42) 2) Nel contesto dell'idea di vita buona fa la sua comparsa il concetto
di dovere. Abbiamo visto che esso. è imprescindibile, ma non si risponde ad Ans­
combe e a Foot finché non se ne spiega il significato. Questo non si spiega ri­
correndo semplicemente, come accade in Frankena, a principi di azione giu­
sta, quale il principio della giustizia ed il principio della beneficenza. Occorre
spiegare perché si deve decidere secondo tali principi, e questa spiegazione non
è data fin tanto che non si ricorre al concetto di vita buona.
Per non dilungarmi, qui posso solo presentare l'abbozzo d'una teoria che
svilupperò nel capitolo V. La vita buona consiste: a) nella realizzazione dei
beni umani basilari in azioni che b) sono scelte e decise secondo una volontà
conforme al primo principio morale: bonum est /aciendum et prosequendum, et

81
V. sopra II 19-28.
82
Per una minuziosa critica del naturalismo dei desideri e per un'ampia argomentazione a
sostegno della tesi qui adottata cf. E.J. BOND, Reason and Value, Cambridge 1983; per un'argomen­
tazione di tipo aristotelico cf. DENT [82] 106-120; J. FINNIS, Fundamentals 26-55; v. sopra I
46-49.
8'
Questo passaggio è ben sviluppato, in connessione con il de beatitudine della II Pars, da
John FINNIS, Practical Reasoning, Human Goods and the End o/Man, in New Blackfriars 66 ( 1985)
438-45 1 .
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 1 19

, malum vitandum, principio che svilupperei così: deve sempre esser voluta per
le persone la realizzazione dei beni umani basilari e mai voluta la privazione di
essi.84 Questo primo principio è ulteriormente sviluppato in altri principi in­
termedi e in norme ancora più specifiche, secondo le quali il soggetto agente
determina l'azione giusta. La teoria etica non può prescindere, in nome del ca­
rattere e della virtù, da un sistema di norme per determinare l'azione giusta.
Ma, nell'etica di prima persona, questo sistemà normativo della ragion pratica
costituisce solo un aspetto della produzione della buona condotta che realizza
la vita buona. Prima di osservare che cos'altro interviene, occorre soffermarsi
sul « deve» che ha fatto la sua comparsa.
Quel « deve» non è enigmatico: ha un suo significato, che mi pare possa es­
sere raggiunto in questo modo. Ciò che è eccellente e nobile è laudabile, vene­
randum, admirandum, ecc.;85 vale a dire: la lode, la venerazione, l'ammira­
zione sono la reazione appropriata a tali oggetti da parte di un essere intelli­
gente. Analogamente si può dire: di fronte ai beni umani basilari, in quanto
sono beni per persone, la reazione o la risposta appropriata da parte d'un es­
sere dotato di libera volontà (cioè di un interesse generale per la vita buona e
capace di dare liberamente particolari determinazioni a tale interesse) è l'ade­
sione libera; di fronte ai mali è l'avversione libera. Più brevemente: la vera vita
buona, o la vera felicità, sono beni tali che l'atto più appropriato che verso di
essi può avere una persona capace di volere è la libera adesione: tale tipo di
adesione, cioè libera, è dovuta a tale tipo di bene.86
(43) Con questo concetto di dovere si può spiegare ciò che sostiene Baron
[34], e cioè che l'intenzione del dovere si situa a livello dei criteri generali di
condotta, e non riguarda necessariamente le singole azioni. Nell'applicarsi con
tutto il cuore e con tutto l'interesse a realizzare i beni umani per le persone, il
soggetto procura di volere e di fare nel modo dovuto, conforme cioè ai prin­
cipi della moralità. Proprio questa intenzione protegge e intensifica l'interesse
per i beni; e più uno è interessato ai beni della vera vita buona, più vivo ha il
senso del dovere. Così si spiega che proprio il virtuoso, lungi dal non avere più
il motivo del dovere, ce l'ha più intenso87 e che proprio per questo ha quell'in­
teresse cordiale per l'amicizia, la giustizia, i bisogni e le pene degli altri, ecc.,
che Foot e Stocker richiedono per la virtù. ·
Al livello in cui lo stiamo considerando, il concetto di dovere suppone sì un
interesse nel soggetto, come richiedono Hauerwas e Foot, ma solo l'interesse
naturale e generale per la vita buona; non precisamente nel senso d'una ipo-

84 Sin qui faccio uso della teoria tomista (I-II, 94, 2) secondo gli sviluppi di GRISEZ [62] 1 15-
140; 173-204, e di John FINNIS, Natural Law and Natural Rights, Oxford 1980, 81-133; v. sopra I
52-54, sotto V 4-14.
'' Utilizzo una suggestione che ho trovato in Hans DREXLER, Begegnungen mit der Wert­
ethtk, Gottingen 1978, 87; 149.
86 Circa il problema della vera felicità mi sono spiegato diffusamente sopra I 38-56.
87 V. sopra II 19.
120 Capitolo II

tesi: se vuoi la vita buona, devi seguire i principi della moralità; ma nel senso
d'un'esigenza incondizionata: l'atto appropriato che un soggetto dotato di li­
bera volontà può emettere nei riguardi della vera vita buona è solo e sempre
l'adesione libera. Cercare la vita buona è naturale alla volontà; ma cercare
quella vera, cioè conforme ai principi della moralità, è libero ed è assoluta­
mente doveroso.
Pertanto solo l'interesse naturale della volontà per la vita buona è princi­
pale rispetto al concetto di dovere; gli altri interessi più particolari per beni
particolari nei modi stabiliti dai principi morali, cioè gl'interessi virtuosi, sup­
pongono il concetto di dovere e si definiscono in funzione di tale concetto.88
In questo senso tutte le virtù sono doverose (Dyck) e si spiega la corrispon­
denza tra virtù e doveri, tra virtù e principi (Frankena, Beauchamp, Schiiller).
(44) 3 ) Ma la corrispondenza tra virtù, doveri, principi finisce qui. Ben
altro interviene nella produzione della buona condotta che realizza la vita vera­
mente buona; qualcosa che sfugge a Frankena [ 45] quando concepisce la virtù
come disposizione a decidere secondo principi, e a Schiiller [38] quando la
concepisce come decisione fondamentale (Grundhaltung), per principio (grund­
séitzlich) , a favore di certi tipi di azione (Handlungsweise).
a) Innanzitutto i principi non hanno la loro ragion d'essere in se stessi, ma
nei beni umani basilari nei quali le persone trovano il loro compimento e prati­
cando i quali realizzano la vita buona. Essi non sono semplicemente principi
di ordinata convivenza, come i principi di giustizia e di beneficenza ai quali
Frankena riconduce tutta la moralità. Sono invece principi di realizzazione
della vita buona per il soggetto agente stesso e per le persone coinvolte nella
sua condotta.
Inoltre non sono solo principi del fare, ma prima ancora del volere: dicono
in che modo si deve voler fare. Non qualsiasi buon stato di cose si deve voler
realizzare, ma quello che può essere voluto senza che questa volontà comporti
anche il volere in qualche modo la lesione di qualche bene umano per qualche
persona. Infatti il concetto di bene umano e il concetto di persona, in quanto
capace di beni umani, implicano una doverosità: quando si sceglie, si deve sce­
gliere qualche esemplificazione concreta e circostanziata dei beni umani per le
persone senza che questa scelta comporti anche il volere qualche male o la le­
sione di qualche bene umano per qualche persona.89
Perciò l'espressione «tlisposizione a decidere secondo principi» pronun­
ciata dall'avvocato dell'etica del dovere o dei principi dell'azione giusta non
dice quel che essa può contenere quando è pronunciata dall'avvocato della
virtù.

88
Cosl accolgo l'istanza legittima di Foot, ma rifiuto il suo concetto di pura virtù, che non
comporta dovere.
89 V. sopra n. 84. Questo è il senso della mia affermazione di Il 24: «La virtù non mira a un
buon stato di cose se non con volontà buona».
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 12 1

(45) b) In secondo luogo la decisione fondamentale non è ancora la scelta


compiuta: questa avviene solo in contesti singolari e circostanziati; quella è se
mai una remota preparazione, una premessa per la scelta individuata e com­
piuta, a titolo di ragione per scegliere in un certo modo. La decisione fonda­
mentale decide ancor solo provvisoriamente: esprime l'intenzione di realizzare
i beni umani secondo qualche principio morale. Ma questo è solo il polo fisso
della virtù; vi è poi il polo mobile, e cioè la concretizzazione singolare dello
scopo virtuoso. Qui sorgono importanti problemi trascurati dal concetto stoico­
kantiano di virtù adottato da Schiiller, Frankena e tanti altri; un concetto che
riduce l'agente umano a pura capacità di decidere liberamente secondo prin­
cipi.90 Sono invece i problemi cui la II Pars della Summa Theologiae dedica la
massima attenzione e per risolvere i quali escogita la sua complessa teoria della
virtù.
È relativamente facile prendere una decisione di principio; i problemi sor­
gono quando un soggetto così complesso e fragile come il soggetto umano
cerca una via di realizzazione nelle complicate e variabili situazioni concrete.
Sorgono problemi per la ragione, che deve cercare, prevedere, ricordare, inven­
tare, tener conto di tante circostanze rilevanti e prima ancora scorgerle, giudi­
care ed elaborare una direttiva precisa; problemi per la volontà che deve emet­
tere nuovi desideri ed interessi, superando preclusioni, inclinazioni preesi­
stenti, indifferenza; problemi per gli appetiti passionali, che qui hanno molto
peso: 91 docilità a lasciarsi incentivare o frenare, a modificare i propri oggetti,
a piegarsi alle esigenze di criteri superiori.
Questo, ove le decisioni fondamentali facilmente crollano, è il luogo pro­
prio della virtù; la virtù pertanto è ben più che una Grundhaltung.
(46) e) Un'azione concreta è ben più che un tipo di azione (Handlungs­
weise) ; fermarsi ai tipi di azione è ancora ragionare nell'astratto. Un'azione
concreta ha da esser contemporaneamente saggia, giusta, forte, temperante,92
e non lo può esser di volta in volta senza il contributo diverso di diverse capa­
cità operative del soggetto umano.93 Ecco perché la II Pars parla sia di moltis­
sime virtù sia della loro connessione. Ridurre le virtù a diversi aspetti della
Grundhaltung secondo i diversi principi morali significa semplificare stoica­
mente e kantianamente il soggetto agente.

90 O. Hoffe, uno studioso che conosce bene sia l'etica aristotelica sia quella kantiana, ha rile­

vato che « Kant a négligé la théorie de l'action et de sa détermination historique» (Introduction


96).
9 1 V. sopra n. 56.
92 È vero, come vuole ScHOLLER [38), che le virtù si definiscono in funzione delle azioni giu­
ste. Ma un'azione giusta è più che un tipo di azione: essa comporta un'operazione esteriore, delle
passioni, un sapere pratico, delle intenzioni, dei desideri: l'aggiustamento di tutto ciò richiede ben
di più che una Grundhaltung, richiede almeno qualcosa di simile all'arte di comporre sinfonie.
93 Il libro di DENT [82) dimostra che può adottare questa teoria della virtù anche chi è re­

stio ad adottare una metafisica delle facoltà operative come quella tomista.
122 Capitolo II

(47) 4) Altro è dunque la convinzione generale del dovere, altro è la deter­


minazione dei doveri concreti; altro è descrivere a grandi linee, secondo i prin­
cipi morali, una figura di vita veramente buona, altro è descrivere azioni con­
crete moralmente giuste.
Per il livello astratto l'individuo ha ordinariamente delle predisposizioni na­
turali. Ma lungi dal considerarle virtù formate e compiute, s. Tommaso le con­
sidera germi di virtù.94 Per il livello concreto occorrono, se si vuole, un carat­
tere e una «visione», ma non si rende conto dell'esperienza morale se non si
concepiscono carattere e visione, tomisticamente, come un complesso e deli­
cato organismo di virtù diverse, ciascuna con la sua specifica funzione, ma
tutte connesse tra di loro.
Se dunque rispetto al concetto generale di virtù è principale il concetto di
dovere, quando si tratta della determinazione concreta dei doveri ha ragione
Hauerwas nel sostenere che solo la virtù può discernere che cosa dobbiamo
fare e inclinarci a farlo. Ma tale virtù, formata e compiuta, non è naturale, è da
acquisire; suppone i principi generali della moralità, ma produce le norme cir­
costanziate e soprattutto l'ultimo giudizio pratico; non è decisione monolitica,
ma organismo integrato da parti diverse. Queste cose però sfuggono ad Hauer­
was e mi sembra che ciò sia dovuto al fatto che anche a lui manca una svilup­
pata psicologia morale. Il suo concetto di soggetto agente resta ancora quello
di tipo stoico-kantiano, benché corretto con il concetto di carattere.
(48) 5) Concludiamo questa discussione registrando che l'integrazione tra
virtù e dovere proposta dagl'interlocutori del dibattito è ancora insufficiente.
Qualcosa dell'esperienza morale è andato perso, qualcosa che invece era es­
presso nella teoria tomista della II Pars, e che riguarda il concetto di dovere e
di vita buona e la concezione del soggetto agente.
Del concetto di dovere non si può fare a meno in morale, ed è un concetto
principale. Ma è andato perso il suo significato. Per s. Tommaso tale signifi­
cato era talmente ovvio da non aver bisogno di essere tematizzato. Esso aveva
a che fare con la vita buona delle persone umane; ma il connubio tra dovere e
vita buona è andato dissolto e tuttavia esso è richiesto dall'esperienza morale.
La psicologia morale del soggetto agente è andata impoverendosi sempre
più, e lo stesso ricupero di Hauerwas è ancora insufficiente. Il grandioso svi­
luppo che le diede s. Tommaso è andato perso, ed è invece anch'esso richiesto
dall'esperienza morale, riflessa nella grande letteratura narrativa e drammatica
e vissuta nella prassi educativa.95
Alla luce di questo consuntivo ci resta ancora da vedere brevemente che
cosa le odierne teorie della virtù riescono a dire e che cosa no.

94 Cf. I-II, 5 1 , 1; 63, 1.


95 Cf. David ISAACS, La educaci6n de las virtudes humanas, 2 voll., Pamplona 1980; trad. it.
del I voi.: L'educazione delle qualità umane, Firenze 1980.
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 123

3. Teorie della virtù

(49) Nella disamina che segue non potrò prendere in considerazione quei
contributi al dibattito che sono principalmente dedicati al problema della di­
stinzione e della classificazione delle virtù e alla descrizione di specifiche virtù:
sono problemi complessi che esigono un'inchiesta a parte. Per la stessa ra­
gione non mi occuperò dei quei contributi che trattano problemi particolari di
psicologia morale delle virtù. Mi soffermerò invece su quei contributi che spie­
gano la funzione propria ed irriducibile della virtù nella morale al di là del pro­
blema, testé trattato, del rapporto della virtù con il dovere.
Una premessa s'impone subito: dovremo fare una selezione, giacché esi­
stono tante nozioni di virtù quanti sono gli autori che intervengono. Uno
sguardo ai contributi raccolti da Shelp [72] e da Neuhaus [73 ] 96 dà un'idea
della divergenza: disposizione a compiere il proprio dovere, ad andare oltre il
dovere, ad atti santi ed eroici, ad andare oltre la morale ordinaria, a fare ciò
che è richiesto dalla morale ordinaria, a vivere secondo moralità, a osservare le
regole morali, ad andare oltre le regole morali, a compiere azioni giuste, ad
avere motivi giusti, a decidere ove non sono possibili regole precise o doveri
determinati. Neppure il termine disposizione è univoco: per alcuni la disposi­
zione è di tipo cognitivo, per altri di tipo emotivo, per altri ancora è di tipo vo­
litivo. Una delle bellezze della filosofia è che si mira a un consenso ben sa­
pendo che è impossibile arrivarci e che il giorno in cui ci si arrivasse cesse­
rebbe la filosofia.
In questo variegato panorama mi limiterò a considerare tre tipi di teorie
della virtù: 1 ) la virtù come qualità necessaria ad una migliore convivenza; 2 ) la
virtù come qualità del carattere; 3 ) la virtù come eccellenza nelle pratiche della
vita buona. Si tratta di posizioni o più rappresentate o più sviluppate teorica­
mente.

1) Le virtù come qualità sociali

(50) Per quanto divergenti siano le teorie cui sto per accennare, esse pos­
sono tuttavia esser considerate varietà d'una stessa specie; sono tutte infatti teo­
rie di tipo hobbesiano,97 cioè teorie che concepiscono la moralità come si­
stema per ovviare ai mali della condizione umana; come tali sono un tipo di
etica della terza persona. Vi accenno perché tutte quante assegnano una fun­
zione importante alle virtù e ne propongono un'articolata teoria.

96 « After further definitional wrangling, there was generai agreement that it is probably re­
flective of our " cultura! crisis" that half-way through a conference on virtue there was no certain
agreement on what is meant by virtue» (NEUHAUS [73] 61).Tra l'agenda di questioni lasciate
aperte nel libro Virtue and Medicine, Hauerwas mette al primo posto: «What is virtue? What is a
virtue»?»: ( [72] 350).
97 Secondo GERT ( [46] 13) Hobbes è « der beste klassische Moralphilosoph».
124 Capitolo II

Gert la sviluppa in Virtue and Vice [47] coerentemente alla sua teoria delle
Mora! Rules [46] . Egli riduce la moralità a dieci regole che prescrivono di evi­
tare altrettanti mali, regole che ogni uomo razionale difenderebbe pubblica­
mente. Le virtù sono introdotte a servizio di queste regole, come disposizioni a
seguirle che ciascun uomo razionale è pronto a richiedere pubblicamente da
altri. Le virtù che non hanno riferimento a queste regole non sono virtù mo­
rali, ma ideali personali, come lo sono la felicità o il summum bonum. Non mi
soffermo su un tipo di teoria i cui vari presupposti ho già sottoposto a critica.
La menziono perché da essa si distanziano altri autori che pur si attengono
all'impostazione hobbesiana, ma rilevando l'insufficienza delle regole sono in­
dotti ad assegnare un ruolo centrale alle virtù.
(51 ) Warnock [49] dedica un ampio capitolo a dimostrare che in una situa­
zione di tipo hobbesiano le regole non sono sufficienti a giudicare se un'azione
sia giusta o sbagliata, cioè se contribuisca a migliorare o a peggiorare la condi­
zione umana. Per raggiungere questo scopo sono invece necessarie alcune
virtù morali che neutralizzano i limiti di simpatia tra le persone e le dispon­
gono ad andare oltre il proprio interesse.98
(52) Quest'impostazione hobbesiana del problema morale e questa dimos­
trazione della necessità di alcune virtù morali si ritrovano sostanzialmente in
Wallace [65], per quanto egli cerchi di ampliare la prospettiva ricorrendo ad
Aristotele. L'uomo, come ogni essere vivente, ha una sua funzione propria che
consiste nel vivere secondo le convenzioni sociali (l'analogo del vivere secondo
ragione di Aristotele) . Sono eccellenze o virtù le capacità operative che permet­
tono all'individuo di svolgere bene la sua funzione sociale. Secondo questo cri­
terio devono essere considerate virtù morali molte qualità che non sono consi­
derate virtù morali nell'etica delle regole o dei doveri. La vita secondo conven­
zioni sociali richiede una giudiziosità che non può essere esaustivamente formu­
lata in regole.
(53) Il tentativo di raggiungere un'etica aristqtelica e addirittura kantiana a
partire dall'impostazione hobbesiana è ripreso con grande impegno argomenta­
tivo da Ewin [50]. I fatti della natura e della condizione umana sono tali che
se non vi è collaborazione tra gl'individui umani non è possibile per nessuno·
sopravvivere. Dati certi fatti relativi alla natura umana e date le esigenze della
collaborazione si può dedurre e giustificare la moralità non tanto come sistema
di regole, alla maniera di Hobbes, ma come sistema di tratti di carattere. Ewin
dedica tre ampi capitoli all'analisi dei vari tipi di regole e alla dimostrazione
della loro utilità e dei loro limiti, concludendo che la moralità non richiede
tanto regole quanto virtù, intese come propensioni degl'individui ad operare se­
condo le esigenze della collaborazione.

98 Occorrono « good dispositions - that is, some readiness on occasion voluntarily to do de­

sirable things which not ali human beings are just naturally disposed to do anyway, and similarly
not to do damaging things» (WARNOCK [49] 76).
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 125

(54) I contributi cui ho accennato sono assai più significativi di quanto


lasci trasparire il punto di vista da cui li sto considerando e per rendere loro
giustizia dovrò ritornare su di essi. Per ora notiamo che l'etica della situazione
hobbesiana, sollecitata dall'etica aristotelica, dapprima introduce le virtù; poi
dimostra l'insufficienza delle regole e diventa un'etica, ancora hobbesiana, ma
nella quale il concetto di virtù diventa principale e oltre alla giustizia vengono
riconosciute altre virtù morali.
Tuttavia il recupero di Aristotele in un ambiente hobbesiano dà come risul­
tato più un'adulterazione di Aristotele che una trasformazione di Hobbes. Se è
vero che la vita in società richiede più virtù che regole, allora si deve abbando­
nare il punto di vista della terza persona e adottare il punto di vista della
prima persona, e analizzare i principi della deliberazione e della decisione del
soggetto agente.
Ma allora non è più sufficiente fondare la moralità su certi fatti della na­
tura umana e sulle esigenze della collaborazione, trascurando come irrilevanti i
desideri, gl'interessi, le concezioni del soggetto agente. Occorrerà partire da
beni o valori valutati e riconosciuti come fini desiderabili e dalla loro funzione
nella vita buona. Questo punto di vista comporta però varie conseguenze.
(55) Innanzitutto l'analisi del senso della vita buona permette di relativiz­
zare la concentrazione, da parte di questi autori, sui buoni risultati in uno stato
di cose e di ridare la considerazione principale alla buona volontà. Diversa­
mente le virtù invocate saranno sempre solo opportuniste: non retrocederanno
davanti alla prospettiva di commettere un torto per salvare la pelle. Una mo­
rale a base esclusivamente empirica come quella di tipo hobbesiano o non dà
senso al sacrificio della vita, della salute, del benessere economico, della posi­
zione sociale, per non commettere un torto, o lo esclude, relativizzando oppor­
tunisticamente tutte le virtù. Ora se virtù mai si dà, è quella di chi affronta
anche questi sacrifici; l'etica di tipo hobbesiano non li spiega.
In secondo luogo, mancando della prospettiva della vita buona, l'etica hob­
besiana, anche riformata, non accoglie come virtù morali parecchie virtù rico­
nosciute nell'esperienza morale, come la castità, la modestia, la magnanimità,
ecc. Quelle riconosciute sono ancor sempre virtù sociali: o la giustizia o virtù
che servono alla giustizia.
Terzo, l'etica di tipo hobbesiano non fornisce alle virtù un preciso criterio
di distinzione dal vizio. Manca in essa una teoria della ragion pratica come mi­
sura della virtù; se è vero che non sono sufficienti le regole, è anche vero che
occorre giudizio; ma i criteri del giudizio non sono forniti sin tanto che non si
sa distinguere il coraggio del malfattore dal coraggio dell'onesto.
Quarto, le virtù richieste da Ewin e da Wallace, più che virtù formate e com­
piute secondo la misura della ragion pratica, sono solo disposizioni naturali
che per lo più gl'individui sani posseggono, e che per l'Aquinate sono semplice­
mente germi di virtù.
Pertanto il tentativo di salvare le virtù aristoteliche in contesto hobbesiano
126 Capitolo II

risulta un'adulterazione delle virtù aristoteliche. Restando nella prospettiva


della terza persona qualcosa di prezioso va irrimediabilmente perso.

2) Le virtù come tratti di carattere

(56) Sorte migliore non tocca alla virtù nemmeno presso coloro che la con­
siderano dal punto di vista del soggetto agente, come tratto del carattere. Ben­
ché essi forniscano soltanto degli abbozzi, tuttavia è ricorrente in essi una dif­
ficoltà che palesa chiaramente come il concetto di virtù da essi proposto non è
quello aristotelico, ed è molto lontano da quello tomista.
Foot ha voluto delineare una concezione della virtù [7a] proprio rifacen­
dosi a Tommaso d'Aquino. Poiché Foot fonda la moralità non sul dovere cate­
gorico ma sugl'interessi e desideri del soggetto, ella introduce le virtù o come
correttivo dei desideri passionali o come acquisizione di interessi nuovi, di cui
il soggetto agente non dispone per dotazione naturale. È questo l'unico punto
di avvicinamento alla teoria tomista. Quando infatti procede a descrivere il com­
portamento che è effetto della virtù, Foot contraddice apertamente tesi tomi­
ste, adottando invece tesi oggi largamente condivise da altri avvocati della
virtù. Ella ammette che una stessa disposizione possa a volte essere virtuosa, a
volte possa anche essere principio di azioni cattive, cosa inammissibile per s.
Tommaso.
Gli è che anche a Foot manca un preciso criterio per distinguere virtù da
vizio, criterio che invece era fornito dalla recta ratio aristotelica e tomista.99 Il
coraggio, ad esempio, non è solo capacità di resistere al timore (impavidità),
bensl capacità di resistere al timore per compiere l'azione giusta secondo il giu­
dizio della saggezza pratica. Chi è capace di dominare i suoi timori per un mo­
tivo sbagliato o per un'azione sbagliata, può non esserlo per il motivo giusto e
per l'azione giusta; per cui il coraggio del malfattore non è la stessa disposi­
zione che è virtuosa nell'onesto. Chi è coraggioso nel male deve acquisire un
nuovo tipo di coraggio per diventare onesto.
A Foot manca un'analisi del fine buono cui la virtù è interessata; questa la­
cuna consente uno scollamento tra virtù e saggezza pratica che è inconcepibile
nella teoria tomista.
(57) Analogo scollamento è riscontrabile nell'articolo di Hudson [66] . Egli
sostiene che un'etica che prende le virtù sul serio non si occupa solo di doveri
richiesti e dei principi e delle regole che li determinano, bensì anche di doveri
consigliati dalla saggezza morale, molti dei quali riguardano la vita personale
del soggetto agente. A questi abilitano le virtù, le quali pertanto forniscono
principi morali differenti dai principi del dovere richiesto e concernenti più

99 SMITH [3 7] sviluppa sottili analisi per dimostrare l'insostenibilità della tesi di Foot e la
sua incompatibilità con la teoria tomista.
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 127

l'essere dell'agente che le sue azioni. Essendo tra loro eterogenee queste due
classi di principi possono entrare in conflitto difficilmente risolvibile anche con
la saggezza morale. .
Anche in questa concezione, che si avvicina molto di più a quella aristote­
lica, manca, come del resto manca in Aristotele stesso, un'elaborata teoria delle
norme della ragion pratica, che permetta di risolvere un conflitto senza violare
necessariamente una virtù o un dovere. È invece tesi corrente sia presso gli av­
vocati del dovere sia presso quelli della virtù che un conflitto non possa esser
risolto senza assumersi la responsabilità di violare un dovere, una norma o una
virtù. Su questo punto è abissale la distanza tra l'etica tomista, per la quale le
virtù sono tutte connesse ed i conflitti possono essere risolti senza violarne al­
cuna, e le odierne etiche sia del dovere sia delle virtù, per le quali può acca­
dere che si debba violare un dovere per adempierne un altro e per le quali né
le virtù sono connesse, né la virtù produce solo atti buoni.

3 ) Le virtù come eccellenze nelle pratiche della vita buona

(58) L'autore che con più accuratezza elabora una concezione della virtù è
senza dubbio Maclntyre. Nella seconda parte di A/ter Virtue [ 10], dopo aver
tracciato la vicenda storica del concetto di virtù, egli propone una definizione
della virtù in tre momenti, nei quali i posteriori suppongono gli anteriori ed in­
troducono un punto di vista nuovo.
In un primo momento . la virtù è considerata come eccellenza delle prati­
che. Per pratica egli intende un'attività umana cooperativa, socialmente stabi­
lita, nella quale si realizzano beni immanenti all'attività stessa secondo regole e
standard di eccellenza che definiscono l'attività stessa. 100 Ogni pratica rea­
lizza il bene ad essa immanente in modi sempre più eccellenti grazie alle virtù
che consentono l'attività cooperativa: la veracità, la giustizia, il coraggio. 101
Poiché certe pratiche possono essere cattive e poiché pratiche anche
buone possono entrare in conflitto, il primo momento della definizione della
virtù dev'essere completato con un secondo, che introduce il concetto di vita
buona come telos. Questo concetto suppone però che la vita possa esser consi­
derata come un tutto con una sua identità e continuità; concepire così la vita
non è possibile se non si concepisce il soggetto agente non come autore di

100
«By a " practice" I am going to mean any coherent and complex form of socially establi­
shed cooperative human activity through which goods internal to that form of activity are realised
in the course of trying to achieve those standards of excellence which are appropriate to, and par­
tially definitive of, that form of activity, with the result that human powers to achieve excellence,
and human conceptions of the ends and goods involved, are systematically extended» ([10] 175).
101
«A virtue is an acquired human quality the possession and the exercise of which tends
to enable us to achieve those goods which are internal to practices and the lack of which effecti­
vely prevents us from achieving any such goods» (ivi 178).
128 Capitolo II

azioni isolate, ma come autore d'una storia di vita che ha una sua unità narra­
tiva, dalla quale le singole azioni ricavano il loro significato. Ora però il telos
che conferisce unità alla vita non è determinato in partenza; che cosa sia la vita
buona è continuamente da cercare. Qui intervengono le virtù come quelle che
sostengono la ricerca della vita buona e che rendono buona la vita proprio in
quanto essa è ricerca di vita buona. 102
Simile ricerca sarebbe senza senso se non si disponesse già in partenza di
un qualche criterio di vita buona. Tali criteri sono forniti dalla tradizione
d'una particolare comunità, espressa nelle storie ch'essa tramanda. In funzione
della tradizione si definisce il terzo momento del concetto di virtù: le virtù
sono a questo punto qualità che sostengono la tradizione e le impediscono di
deteriorar�i. 103
(59) È visibile la matrice aristotelica di questa nozione di virtù ed è visibile
pure lo sforzo di svincolarla da presupposti teoretici o culturali superati per
renderla capace di esistere in nuovi contesti.
Nelle recensioni e nelle note critiche ad After Virtue gli autori si soffer­
mano per lo più sull'interpretazione della storia, sul rapporto tra filosofia e sto­
ria, sulla critica all'etica moderna, sulla poca viabilità della sua concezione
della virtù nella società moderna; la tripartita definizione di virtù è invece rela­
tivamente poco considerata, se non per rilevare che Maclntyre non fornisce
criteri per la determinazione della vita buona, 104 e cade così nel relativismo.
In questo modo però il punto focale di After Virtue viene disatteso: esso
sta proprio nella proposta d'una concezione di virtù viabile anche dopo il nau­
fragio storico diagnosticato da Maclntyre. Proprio la concezione proposta pre­
senta però notevoli difetti.
Per quanto Maclntyre dica cose interessanti, nuove, da sfruttare, sul sog­
getto agente come autore d'una narrativa, tuttavia il suo punto di vista resta so-

102 « The virtues therefore are to be understood as those dispositions which will not only sus­
tain practices and enable us to achieve the goods internal to practices, but which will also sustain
us in the relevant kind of quest for the good, by enabling us to overcome the harms, dangers, temp­
tations and distractions which we encounter, and which fournish us with increasing self-know­
ledge and increasing knowledge of the good. [. .. ] We have then arrived at a provisional conclu­
sion about the good !ife for man: the good !ife for man, and the virtues necessary for the seeking
are those which enable us t0 understand what more and what else the good !ife for man is» (ivi
204).
103 « The virtues find their point and their purpose not only in sustaining those relationships
necessary if the variety of goods internal to practices are to be achieved and not only in sustaining
the form of an individuai !ife in which that individuai may seek out his or her good as the good of
his or her whole !ife, but also in sustaining those traditions which provide both practices and indi­
viduai lives with their necessary historical context» (ivi 207).
'04 Cosl W.K. Frankena, G. MacKenzie, C.W. Gowans, S.L. Ross (v. sopra n. 5); K. NIEL­
SEN; in SHELP [72] 133- 150. Lo stesso Maclntyre nel postscritto alla seconda edizione appena chia­
risce il senso dei tre momenti della sua nozione di virtù, poi subito passa a difendersi dall'accusa
di relativismo.
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 129

ciale, e non quello della prima persona. Egli non analizza la complessa dina­
mica della condotta umana; il suo concetto di pratica è più centrato sulla col­
laborazione che non sull'autorità del soggetto agente: non è proprio la collabo­
razione la preoccupazione principale dei filosofi della situazione hobbesiana?
Per questa ragione nemmeno Maclntyre spiega che cosa sia la virtù nella psico­
logia morale del soggetto agente.
Conseguentemente egli si preclude la possibilità di fornire criteri per la de­
terminazione della vita buona. Questi criteri infatti si ricavano dall'analisi della
deliberazione del soggetto agente, dalla quale analisi viene alla luce che il prin­
cipio dell'azione sta nella valutazione dei beni umani basilari doverosi. Anche
alla virtù di Maclntyre manca pertanto il sostegno della ragion pratica e dei
suoi principi morali. Il risultato è che anche il virtuoso di Maclntyre può tro­
varsi nella situazione tragica di violare un dovere in caso di conflitto ( [ 10] 167-
168).
Infine Maclntyre, non disponendo d'un ragguaglio sulla ragion pratica, non
può spiegare con quale procedimento una tradizione può esser interpretata,
mantenuta viva in contesti nuovi, riformata, confrontata con altre tradizioni;
sicché nemmeno la tradizione, da sola, fornisce criteri per distinguere le virtù
dai vizi. Forse occorre attendere il suo promesso libro sulla razionalità.

4) Vere e false virtù

(60) La disamina delle menzionate teorie della virtù ha riscontrato in esse,


pur nella loro diversità, un tratto che le accomuna e che costituisce un discri­
minante ragguardevole rispetto alla teoria tomista: in tutte fa difetto un preciso
criterio di distinzione tra virtù e vizio. Sin tanto che si ammette che la virtù
come tale può peccare e che il coraggio del malfattore non è di tipo diverso
dal coraggio dell'onesto, il discorso sulla virtù non potrà render conto del mar­
tire o dell'innocente che soffre ingiustamente, ma non commette ingiustizia. Se
si vuole mantenere al termine «virtù» la pluralità di significati che esso ha
presso gl'interlocutori del dibattito e nel linguaggio corrente, allora occorrerà
un criterio per distinguere non solo la virtù dal vizio, ma anche le disposizioni
naturali alla vita morale (per s. Tommaso germi o incoazioni di virtù) dalle
virtù formate e compiute; le esibizioni straordinarie di qualche capacità opera­
tiva dalle eccellenze nella vita veramente buona; in una parola, i vizi o le virtù
improprie o le false virtù dalle virtù vere e proprie. Questo criterio è fornito,
nella teoria aristotelica e ancor più in quella tomista, dalla recta ratio.
(61 ) Una teoria della virtù non può esser elaborata senza un'articolata teo­
ria della ragion pratica. Sembrerebbe che con ciò ricadiamo nell'etica norma­
tiva dei principi, delle regole, dei doveri; invece no.
Alla teoria della virtù occorre una ragion pratica che non sia quella delle
etiche del dovere, delle regole, delle azioni giuste, ma si estenda a tutte le attua-
130 Capitolo II

zioni (operazioni, passioni, intenzioni) in cui consiste la vita buona, e quindi a


tutti gli atti liberi. Direi: il compito principale della ragion pratica si situa all'in­
terno dello spazio definito dalle norme che vietano o che prescrivono, e consi­
ste nell'inventare e definire l'attuazione che nel contesto circostanziato esempli­
fica la vita veramente buona. Sulla funzione normativa o legale ha principalità
la funzione di saggezza pratica: quella è a servizio di questa, come la gramma­
tica è a servizio dell'arte di scrivere.
Alla teoria della virtù occorre una ragione che fornisca quei principi gene­
rali di dovere, in funzione dei quali si definisce la virtù; ma al tempo stesso
una ragione che non riesce da sola a misurare le attuazioni circostanziate senza
l'intervento delle virtù stesse. Se da un lato la virtù è regolata secondo i prin­
cipi generali della moralità, dall'altro essa, sia come virtù intellettuale sia come
virtù morale, contribuisce a generare le norme specifiche e circostanziate, i giu­
dizi morali singolari adottati in una scelta. In questo senso la virtù ha una sua
funzione normativa, che la ragion pratica da sola non ha.
In questo modo abbiamo ritrovato il St'tz im Leben delle virtù vere e pro­
prie: esse hanno il loro luogo appropriato in un individuo umano, complesso e
fragile, e tuttavia autore della propria condotta e, in essa, delle proprie azioni e
della loro descrizione; in un individuo siffatto, che è posto di fronte al compito
doveroso di esemplificare in ogni suo atto libero l'ideale di vita buona secondo
la regola e la misura della ragion pratica, una regola solo in parte data, quanto
ai principi generali, ma in buona parte, quanto ai giudizi singolari, da costruire
di volta in volta.

lii. VERSO U NA PIÙ ADEGUATA TEORIA DELLA VIRTÙ

(62) Se una teoria etica viene valutata in base alla sua capacità di salvare le
apparenze, cioè di render conto della complessità dell'esperienza morale e di
render giustizia alle diverse istanze avanzate da altre teorie etiche, allora cia­
scuno degl'interlocutori intervenuti nel recente dibattito svela un suo lato de­
bole. Questo fallo è difficilmente visibile se si resta all'interno dei problemi e
dell'arsenale concettuale che caratterizzano l'etica moderna; diventa invece visi­
bilissimo se si accosta l'etica moderna dopo aver frequentato l'etica aristotelica
e l'etica tomista: allora si scopre che non tutte le apparenze son salvate nelle
teorie etiche moderne e· che d'altro lato queste aprono problemi e focalizzano
temi che non riscuotorio uguale attenzione presso Aristotele o presso s. Tom­
maso. La divergenza che per prima colpisce l'occhio del visitatore può esser
epitomata nell'opposizione tra virtù e dovere: Aristotele e s. Tommaso hanno
un concetto di virtù che non si riesce a ritrovare nelle etiche moderne e queste
hanno un concetto di dovere che non c'era nelle etiche dei due.
D'altra parte, il fatto che soprattutto ad Aristotele molti interlocutori si ri­
facciano dimostra ch'egli ha qualcosa da dire di tuttora valido e interessante, e
che effettivamente l'etica moderna, trascurando o deformando il concetto ari-
Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito 13 1

stotelico di virtù, ha perso qualcosa di prezioso e di rilevante. Né è però possi­


bile assumere l'etica aristotelica della virtù nell'etica moderna del dovere, né le
odierne teorie della virtù riescono a render giustizia a tutti gli aspetti della teo­
ria aristotelica.
(63) Se nel dibattito ho introdotto un nuovo interlocutore, s. Tommaso d'A­
quino, è perché, frequentando la sua opera, vi ho riscontrato qualcosa che non
ho più ritrovato da nessun'altra parte e che non ho trovato adeguatamente rico­
nosciuto nemmeno presso coloro che a lui si rifanno. La II Pars costruisce un'e­
tica della virtù che non è più quella aristotelica e non ha uguali in tutta la tra­
dizione del pensiero morale filosofico e teologico. Saccheggiata senz'essere stu­
diata nella sua ispirazione originaria, essa attende ancora di essere riconosciuta
e introdotta come validissimo interlocutore nel dibattito.
Ora la teoria tomista della virtù vive solo nel delicatissimo equilibrio ecolo­
gico della II Pars. Per tenerla viva occorre connetterla con vari altri fattori am­
bientali, e cioè con la teoria della beatitudine, della condotta umana, delle pas­
sioni, della ragion pratica, dell'individuazione, della legge, della grazia. Cia­
scuna di queste teorie riceve un conio originale nella II Pars, per cui non è pos­
sibile qui nemmeno richiamarle a grandi linee.
Possiamo tuttavia indicare quali operazioni bisognerebbe fare per risco­
prire ciò che la II Pars ha scoperto e restituirgli la dovuta considerazione nel
dibattito odierno.
1) Non si entra negli edifici dell'etica aristotelica � dell'etica tomista se non
adottando il punto di vista del soggetto agente e ponendosi il problema pratico
come Aristotele e Tommaso se lo pongono. Benché il punto di vista della terza
persona non sia da scartare, tuttavia esso è secondario rispetto a quello della
prima persona. Qui l'etica moderna deve operare una conversione ancora più
radicale di quella proposta da Maclntyre e che solo in parte riesce ad operare
Hauerwas.
2) Nella prospettiva del soggetto agente vi è un problema che riguarda
tutti i suoi atti liberi, nel loro momento interiore ed esteriore, e non solo le
azioni giuste o sbagliate, richieste o proibite. Nella misura in cui l'etica si con­
centra solo su queste, perde la possibilità di percepire il senso di queste azioni
e sfocia nella domanda strana: perché essere morali?
3 ) Il problema posto dagli atti liberi è il problema della vita buona: come
concepirla, come realizzarla. Non è il problema hobbesiano di come migliorare
la condizione umana né il problema liberale di come limitare la libertà d'a­
zione degl'individui; tuttavia questi sono compresi e assunti in quello. Si badi
che il problema della vita buona è, già in Aristotele e ancor più in s. Tom­
maso, un problema inscindibilmente personale e comunitario, giacché i beni
umani si realizzano solo nella collaborazione. Ma è una collaborazione che solo
quanto alle condizioni esterne viene garantita dal legislatore; in realtà non esi­
ste collaborazione se non tra individui capaci di condotta personale buona. È
1.32 Capitolo II

dunque necessario, ma secondario, conformare le azioni alla legge; è invece ne­


cessario, ma principale, consentire doverosamente ai beni umani secondo la re­
gola della ragione pratica.
4) La vita buona infatti comporta una regolazione o misurazione che è for­
nita innanzitutto dalla ragione pratica del soggetto agente: ragione che è resa
pratica dal fatto di percepire e riconoscere l'attrattiva dei beni umani e la loro
doverosa realizzazione nelle persone, il soggetto stesso e gli altri. La ragion pra­
tica costituisce il primum cognitum dell'etica. Ma è una ragione né teleologica
né deontologica nel senso odierno dei termini. Benché essa presenti dei prin­
cipi di dovere, essi sono fondati sui beni umani; benché essa additi beni
umani, li addita come beni che devono esser voluti assolutamente e le cui priva­
zioni o violazioni non devono assolutamente mai esser volute per nessuna per­
sona.
5) Ciò che per s. Tommaso rende assolutamente necessarie le virtù è l'im­
preparazione naturale dell'individuo agente a realizzare la vita buona nel modo
prescritto dalla ragion pratica. Le sue capacità operative razionali, volitive, pas­
sionali devono esser potenziate, portate a un livello superiore di prestazione,
mediante habitus operativi che operando in sinergia, ciascuno col suo ruolo
specifico, permettono al soggetto agente di produrre attuazioni eccellenti circa
i beni umani e di realizzare così la vita veramente buona, personale e comunita­
ria.
Sono queste, a grandi linee, le operazioni da effettuare per riscoprire la teo­
ria tomista della virtù. Nel seguito di questo saggio intendo appunto delinerare
una teoria della virtù che riprenda quella tomista avvalendomi delle istanze
emerse nell'odierno dibattito.
(64) Un'etica elaborata secondo queste linee ha i titoli in regola per salvare
le apparenze: in essa infatti si ritrova spiegata quell'esperienza morale che ci
presenta la vita come fascino, avventura e tragedia; come ricerca, vittoria e faL
limento; come degenerazione o come pentimento e rigenerazione; una vita ove
individui agenti vivono personalmente eppure comunitariamente; ove la mi­
glior impresa è quella di riuscire il meglio possibile nella vita buona con mate­
riale scadente; ove l'ideale della vita buona e delle attuazioni eccellenti per­
mette sovente di scoprire più perdite e sconfitte che riuscite e vittorie e con i
suoi presagi di felicità .alimenta incessantemente una speranza messa ogni
giorno a dura prova.
Capitolo l i i

REQUISITI DELLA TEORIA DELLA VIRTÙ

(1 ) Nella valutazione del dibattito tra avvocati della virtù e avvocati del do­
vere ci siamo attenuti al metodo aristotelico del salvare le apparenze. 1 Ciò è
dovuto alla natura stessa del discorso filosofico: esso infatti sorge sempre come
secondo rispetto ad una originaria esperienza prefilosofica del mondo e ri­
spetto a precedenti interpretazioni filosofiche della stessa esperienza. Il com­
pito della riflessione filosofica è trovare un logos che renda intelligibile l'espe­
rienza, permetta di render conto dei suoi aspetti contrastanti e renda giustizia
nei limiti del possibile alle divergenti interpretazioni filosofiche.
Ltt principale tra le apparenze che il filosofo deve salvare è lesperienza del
mondo, nel nostro caso l'esperienza morale prefilosofica. Essa si presenta
molto complessa, con aspetti contrastanti e costituisce il criterio in base al
quale si giudica l'adeguatezza d'una filosofia morale. Proprio l'esperienza mo­
rale nel corso del dibattito precedente ci ha indotto a una teoria etica che non
trascuri né la virtù né il dovere. 2 Ora dobbiamo analizzare quest'esperienza
più da vicino, in una delle sue molteplici espressioni, quella del linguaggio mo­
rale. Esso costituisce lespressione più vicina al nucleo dell'esperienza morale
stessa, cioè alla ragion pratica. Dell'esperienza morale è nucleo la ragion pra­
tica nel senso che essa è l'aspetto dell'esperienza immediatamente accessibile
alla ragione filosofica; gli altri aspetti sono raggiungibili dalla riflessione filoso­
fica solo a partire dalla ragion pratica, di cui la filosofia morale costituisce un
prolungamento.
Vedremo che proprio l'analisi del linguaggio morale rende necessaria una
teoria della virtù. D'altra parte la stessa analisi ci permetterà di mettere ordine
tra le diverse nozioni di virtù che sono in corso e che pure fan parte delle ap­
parenze da salvare, in quanto avanzano istanze da recepire criticamente. Ciò
consentirà di mettere a punto quella nozione di virtù che più converrà adottare
come oggetto della teoria da elaborare.
In quest'analisi del linguaggio morale n0n sono condotto da interessi metae­
tici. Semplicemente intendo fornire i dati su cui la teoria dovrà riflettere e che
non possono essere trascurati da una teoria etica che voglia essere adeguata al­
i'esperienza morale.

1 V. sopra II 7, 62, 64.


2 V. sopra II 7, 18, 19, 28, 30, 3 1 , 40, 48, 62, 64.
134 Capitolo III

I. SIGNIFICATO DEI TERMINI RELATIVI Al TRATTI DI CARATTERE

(2) L'espressione più eloquente dell'esperienza morale è da ricercarsi non


nei libri di filosofia morale, ma nei libri di letteratura narrativa e drammatica e
nei libri di storia, particolarmente nelle biografie. In essi non si troveranno
norme di condotta, bensì descrizioni di caratteri. Uno degl'interessi delle vi­
cende narrate sta nel mettere in luce il carattere dei personaggi che in esse agi­
scono e si esprimono.
Questo interesse della narrativa per i caratteri spiega perché si faccia volen­
tieri ricorso a essa nei libri di letteratura parenetica, che mirano appunto a for­
mare il carattere. La letteratura spirituale o moralistica fa più volentieri uso di
termini che significano tratti di carattere, virtù o vizi, che non di regole di con­
dotta; e anche queste mirano a descrivere in quale comportamento si esprime
una virtù o un vizio. Le analisi che seguono mirano a catturare il significato
dei termini relativi ai tratti di carattere.

1 . I termini relativi ai tratti di carattere significano qualità del soggetto in


quanto autore di comportamento

(3) Mentre nelle regole di condotta il soggetto logico è costituito dalla de­
scrizione di un'azione ed il predicato logico qualifica l'azione da un punto di
vista · normativo, i termini relativi ai tratti di carattere si riferiscono sia a certe
qualità generiche che si ritrovano in azioni che nella loro concretezza sono di­
verse tra loro, sia al soggetto agente cui è da attribuire il comportamento e lo
qualificano esattamente in quanto è autore di quel comportamento. Non qual­
siasi qualità del soggetto agente è tuttavia designabile come tratto di carattere,
ma solo quelle che si contraddistinguono con le seguenti note:
a) I tratti di carattere designano qualità stabili e non semplicemente occasio­
nali. Per poter qualificare in un certo modo una persona osserviamo se un suo
modo di comportarsi si verifica più volte, in circostanze diverse. Allora ·conclu­
deremo, per esempio, che una persona non solo si è comportata nella tal occa­
sione con insolenza o generosità, ma che essa è insolente o generosa.
b) La stabilità comporta quella che è la nota più saliente cui si riferiscono i
tratti di carattere, cioè l'uniformità. Con i termini saggezza, equilibrio, sfronta­
tezza, arroganza, parsimonia, discrezione, ottusità, dolcezza, riferiti al comporta­
mento, non intendiamo designarlo nella sua concretezza e singolarità, ma rile­
vare una qualità che può essere comune a più azioni singolari. Se l'uniformità
riguarda soltanto il comportamento esteriore, che appare ripetitivo, parleremo
di abitudine, per esempio di abitudine del bere, del fumare, di arrivare in ri­
tardo. Se invece l'uniformità riguarda solo qualche aspetto dell'azione, come il
suo scopo, la sua regola, la sua intenzione, che possono manifestarsi in azioni
concrete assai diverse, allora parleremo di attitudine (da actitudo; in spagnolo
Requisiti della teoria della virtù 135

actitud) o meglio di atteggiamento (per distinguerlo da attitudine nel senso di


aptitudo), inteso come caratteristica fondamentale del comportamento e del
soggetto in quanto ne è l'autore.
e) Con questa uniformità i tratti di carattere introducono nel soggetto una
determinazione che attua in un modo ben definito una potenzialità disponibile
a determinazioni diverse. Il tratto di carattere non fa parte della natura speci­
fica del soggetto agente (la razionalità non è un tratto di carattere per l'uomo
ma una nota della sua natura specifica), ma attualizza le potenzialità della na­
tura specifica in una delle possibili direzioni.
d) La determinazione introdotta dal tratto di carattere comporta il coordi­
namento di differenti principi di condotta: la tenacia è un atteggiamento com­
plesso, in cui intervengono una valutazione, una decisione, un'abilità a domi­
nare certe passioni come la noia o lo scoraggiamento. Perciò diremo che i
tratti di carattere consistono in disposizioni, intendendo per disposizione un
coordinamento funzionale di differenti principi di comportamento.
e) Attribuiti al soggetto agente, i tratti di carattere si possono distinguere in
due specie, a seconda che essi lo qualifichino formalmente in quanto soggetto
capace di libere decisioni oppure lo qualifichino dal punto di vista di qualche
attuazione che non consiste in libere scelte, come le attuazioni dell'intelligenza
o le passioni. I primi sono i tratti morali, come la golosità o la sobrietà, la gene"
rosità o l'avarizia; i secondi sono i tratti attitudinali (da aptitudo), come la per­
spicacia, l'acutezza dell'intelligenza o la timidità, l'affabilità, la suscettibilità, la
meticolosità.
/) I tratti di carattere possono trovarsi nel soggetto o per nascita o per suc­
cessiva acquisizione (per apprendimento, per addestramento, per esercizio ripe­
tuto).
Sin qui abbiamo spiegato il valore descrittivo dei termini relativi ai tratti di
carattere. Ma questo non è l'unico loro valore: con questi termini infatti si
vuole gettare credito o discredito sul soggetto agente, si vuole connotare una
sua perfezione o un suo difetto. Occorre ora considerarli da questo secondo
punto di vista.

2. I termini relativi ai tratti di carattere comportaoo una valutazione

(4) Sebbene i tratti di carattere non facciano parte della natura specifica
del soggetto agente, ma designino attualizzazioni delle potenzialità della natura
specifica in una delle sue possibili direzioni, essi tuttavia qualificano il soggetto
secondo un criterio normativo che è costituito appunto dalla natura specifica e
dalle sue capacità di prestazione. Le qualità o disposizioni designate dai tratti
di carattere attualizzano le potenzialità del soggetto agente o in modo con-
136 Capitolo III

forme alla sua natura specifica o in modo ad essa contrario. Nel primo caso
parliamo di eccellenze o doti, nel secondo caso parliamo di deficienze o difetti.
Questo punto di vista valutativo è messo in opera sia per i tratti attitudi­
nali sia per i tratti morali. Le eccellenze attitudinali vengono significate con ter­
mini che designano destrezze o maestrie (skills), le deficienze attitudinali con
termini che designano inettitudini. Il soggetto può esibire le une o le altre nel
comportamento fisico, nella vita affettiva o passionale, nell'esercizio dell'intel­
ligenza, nelle tecniche, nelle arti e nelle pratiche.
Dal punto di vista morale le eccellenze o le deficienze vengono invece desi­
gnate con termini che significano virtù o vizi. Il soggetto esibisce le une o gli
altri nella sua condotta e in quelle facoltà che intervengono nella gestazione
della condotta da parte del soggetto agente, cioè nella volontà principalmente,
nell'intelligenza pratica e nelle passioni in quanto intervengono con la volontà
a produrre le libere scelte, di cui è costituita la condotta.
Questo quadro concettuale, che è significato dai termini relativi ai tratti di
carattere, è ora ulteriormente da precisare per quanto riguarda le virtù e i vizi.

Il. SIGNIFICATO DEI TERMINI RELATIVI ALLE VIRTÙ E Al VIZI

(5) Il linguaggio in cui s'esprime la ragion pratica in quanto regola di con­


dotta comprende sia proposizioni prescrittive sia termini di virtù o di vizi. Dal-
1'analisi precedente ricaviamo che i termini di virtù o di vizi non designano le
scelte o le azioni nella loro concretezza, bensl secondo una loro qualità gene­
rica, che può esemplificarsi in svariate azioni concrete; nella loro concretezza
esse possono essere differenti, ma sono uniformi dal punto di vista della qua­
lità generica che esse esibiscono. Tale qualità generica delle azioni getta credito
o discredito sul soggetto che ne è autore, sicché anch'egli vien qualificato se­
condo le rispettive qualità generiche delle sue azioni. In quanto i termini di
virtù e di vizi designano qualità generiche, essi si collocano a un certo livello .
di astrazione, corrispondente non all'azione nella sua concretezza, ma al tipo
di cui essa è esemplificazione.
Il linguaggio della ragion pratica comprende anche proposizioni prescrit­
tive, nelle quali il soggetto logico è costituito dalla descrizione d'un'azione ed
il predicato logico qualifica l'azione da un punto di vista morale. La descri­
zione dell'azione, che fa da soggetto logico alla proposizione prescrittiva, può
essere più concreta e circostanziata o più astratta e generica, sicché le proposi­
zioni prescrittive possono appartenere a diversi livelli di astrazione. Secondo
tali livelli si distinguono varie specie di proposizioni prescrittive, come i prin­
cipi primi o generalissimi, i principi intermedi, le norme più o meno specifi­
che. A un certo livello di astrazione il soggetto logico delle proposizioni pres­
crittive descrive l'azione esattamente nel modo che corrisponde ai termini di
virtù o di vizi, cioè rilevando una qualità generica che può esser esemplificata
in azioni concrete differenti. Chiameremo massime le proposizioni prescrittive
Requisiti della teoria della virtù 13 7

che corrispondono al livello di astrazione cui appartengono i termini di virtù o


di vizi. Pertanto questi termini designano le azioni, ed il soggetto che ne è au­
tore, a un livello di astrazione per formulare il quale bisogna ricorrere a una
massima.
(6) Se il significato dei termini di virtù e di vizi si esaurisse qui, ci sarebbe
perfetta equivalenza a parlare di norme o di virtù e non avrebbe senso la di­
scussione tra gli awocati delle virtù e gli awocati dei principi, delle regole,
delle norme. Ma il significato di tali termini non si esaurisce qui. Benché in
esso sia inclusa una massima della ragion pratica, tuttavia i termini di virtù de­
notano più che una massima. Essi denotano caratteristiche del soggetto agente
e della sua condotta che hanno a che fare con le massime della ragion pratica.
Sono caratteristiche che riguardano il soggetto umano proprio in quanto è au­
tore di condotta. Non si coglie il significato dei termini di virtù fintantoché non
ci si colloca dal punto di vista della prima persona, giacché tali caratteristiche
sono esibite dal soggetto umano proprio nell'atto di produrre scelte e azioni.
Richiamandoci alla precedente analisi dei tratti di carattere, ora precisiamo
meglio il significato dei termini di virtù dai punti di vista descrittivo e valuta­
tivo.

1 . I termini di virtù significano capacità di prestazione del soggetto agente

(7) Riferiti alle azioni, i termini di virtù designano una qualità di esse per
formulare la quale occorre una massima dellf.l ragion pratica; riferiti al soggetto
autore di simili azioni, essi designano qualità che lo concernono precisamente
in quanto è autore volontario di simili azioni.
a) La qualità designata dai termini di virtù è una qualità stabile. Occorre
però distinguere due tipi di stabilità. Vi è una stabilità che chiameremo estrin­
seca, acquisita con il ripetuto esercizio e che introduce nel soggetto un'inclina­
zione difficilmente amovibile. Vi è anche una stabilità intrinseca al tratto vir­
tuoso, la quale consiste nel fatto che il soggetto si rende conto del valore vir­
tuoso dell'azione e aderisce volontariamente a tale valore non solo material­
mente, come condottavi per caso da considerazioni ad esso estranee, bensì
anche formalmente, come condottavi precisamente dalla ragione per cui esso è
valore, ragione ad esso intrinseca e di esso costitutiva. Simile comprensione e
simile adesione hanno una loro stabilità intrinseca, giacché consentono al sog­
getto di continuare a porre azioni che sono solo virtuose né mai lo condur­
ranno a porre azioni che non lo siano. La carenza di tale comprensione e di
tale adesione è l'opposto della virtù, è il vizio, anch'esso intrinsecamente sta­
bile, dato che, operando precisamente con tale carenza, il soggetto produrrà
solo azioni viziate.
b) Dalla stabilità intrinseca deriva la nota più caratteristica significata dai
138 Capitolo III

termini di virtù, cioè l'uniformità. Ma non è l'uniformità dell'abitudine che


porta a ripetere uno stesso comportamento concreto, bensl l'uniformità dell'at­
teggiamento. Essa riguarda appunto il criterio regolatore che resta identico in
comportamenti concreti che possono variare. Con i termini di virtù si designa
pertanto una specie di bontà morale, formulata mediante massime, che descri­
vono l'azione astraendo dalle variabili circostanze singolari ed indicandone sol­
tanto lo scopo morale, cioè un modo di regolazione morale che il soggetto ha di
mira nel!'azione.
c) Poiché i tratti di carattere designati con i termini di virtù presentano sta­
bilità intrinseca e uniformità d'atteggiamento, essi introducono nel soggetto in
quanto autore volontario una determinazione che orienta la volontà in un
modo ben preciso, conforme alla massima. E tuttavia è una determinazione
che non diminuisce la libertà del volere né la coscienza. È una determinazione
nella volontà, nella ragione o negli appetiti passionali che sta a disposizione
del volere e di cui il soggetto può far uso quando vuole. Perciò essa non dimi­
nuisce, ma anzi accresce la possibilità di scelta, in quanto mette a disposizione
nuove idoneità che diversamente resterebbero fuori conto.
d) I termini di virtù sono molti: alcuni relativi alla ragione (saggezza, dili­
genza, docilità, ecc.) , altri alla volontà (giustizia, obbedienza, gratitudine, ri­
spetto) ecc.) , altri alle passioni (coraggio, mitezza, castità, sobrietà, ecc.). Tut­
tavia i loro significati sono in qualche modo connessi, nel senso che per spie­
garne uno si deve far ricorso a vari altri: cosl ad esempio il vero coraggio non è
a servizio di scopi iniqui e richiede saggezza. Ciò significa che i termini di virtù
designano delle disposizioni, nelle quali principi di comportamento differenti
sono tra loro coordinati. È tipico dei termini di virtù richiamare l'attenzione
sulla complessità dei principi operativi d'una buona condotta.
e) I tratti di carattere designati con i termini di virtù non sono tratti attitu­
dinali, ma morali. Essi servono a qualificare il soggetto agente precisamente in
quanto autore che costruisce liberamente la propria condotta. Essi perciò sono
relativi principalmente alla libera volontà; conseguentemente alla ragion pra-
1 tica e agli appetiti passionali in quanto volontariamente esercitati per costruire

l'azione. Quando i termini di virtù si riferiscono a modi di ragionare o a modi


di sentire passionalmente, vi si riferiscono sempre come a modi dipendenti
dalla libera volontà. In ciò i tratti virtuosi differiscono dai tratti attitudinali.
fJ I tratti virtuosi possono trovarsi nel soggetto o per nascita o per succes­
siva acquisizione mediante esercizio; ma anche quando vi si trovano per na­
scita, l'esercizio apporta loro un perfezionamento ulteriore.
Benché la nostra attenzione vada prevalentemente ai termini di virtù, tut­
tavia essi sono opposti ai termini di vizio. Il che significa ch'essi comportano
una valutazione morale, sulla quale dobbiamo ora soffermarci.
Requisiti della teoria della virtù 139

2. I termini di virtù comportano una valutazione morale


1 ) In riferimento alla vita buona

(8) Il fatto che i tratti virtuosi siano molti, siano relativi alla volontà, alla ra­
gion pratica, ai desideri e agli affetti o appetiti passionali, siano connessi in
qualche modo tra di loro, suggerisce che il punto di vista valutativo che essi
comportano ha una portata assai ampia; più ampia di quella a cui è limitata l'e­
tica che si concentra sulle azioni giuste o sui doveri di giustizia o sui doveri so­
ciali. Con i termini di virtù qualifichiamo non solo modi di agire nei rapporti
sociali, ma anche nella sfera individuale; non solo modi di agire, ma anche
modi di decidere, di tendere a uno scopo, di ragionare e di pensare in ordine
alla condotta, di sentire emotivamente e passionalmente; inoltre qualifichiamo
questi modi in dipendenza gli uni dagli altri e principalmente in dipendenza
dal volere. Per includere tutto ciò in un'unica espressione parleremo di vita
buona: i termini di virtù comportano una valutazione dal punto di vista della
vita buona.
Questo punto di vista è il più globale possibile; considera le tecniche, le
arti e le pratiche, non ciascuna secondo il suo bene proprio e le sue regole pro­
prie, ma secondo il loro ordine e il loro valore nella vita umana considerata
come un tutto. Si considera la vita umana come un tutto quando si concepisce
un ordine dei beni umani, perseguiti nelle rispettive pratiche, e in funzione di
questa concezione si procede a costruire le proprie scelte e le proprie azioni vo­
lontarie, secondo dei criteri di regolazione che emanano dalla concezione che
si ha dell'ordine da assegnare ai beni umani perché la vita risulti buona. Il
modo di concepire l'ordine tra i beni umani in vista della vita buona costitui­
sce il principio regolatore di tutti gli atti volontari, non solo delle azioni, ma
anche degli affetti; non solo della condotta sociale, ma anche di quella perso­
nale.
Con i termini di virtù si designano appunto eccellenze, e con i termini di
vizio deficienze, della volontà, della ragion pratica, dei desideri passionali, in or­
dine alla vita buona.

2 ) In riferimento alla ragionevolezza pratica

(9) Non qualsiasi concezione della vita buona è tuttavia adatta a discrimi­
nare tra virtù e vizi. Nelle loro concezioni della vita buona gli uomini brillano
per una straordinaria diversità, che da sempre ha offerto esca allo scetticismo.
Tuttavia il fatto che essi argomentano tra di loro sulle questioni morali signi­
fica che essi ritengono che ci sia una verità ed una falsità morale, e che mirano
a individuare qual è la concezione vera della vita buona, e che la concezione
vera è quella che più soddisfa il criterio della ragionevolezza. La concezione
più ragionevole infatti sarebbe quella che meno si presta a critiche.
140 Capitolo III

Con questo criterio non si è guadagnato molto al fine di pervenire a un con­


senso; tuttavia senza questo criterio non sarebbe possibile la discussione, e l'al­
ternativa alla discussione è la violenza.
Sicché non si è ancora detto tutto quando si dice che i termini di virtù com­
portano una valutazione dal punto di vista della vita buona; bisogna aggiun­
gere: dal punto di vista della vita veramente buona, della vita buona conforme
alla ragionevolezza pratica, della vita buona che perciò è doveroso perseguire.
Con i termini di virtù designamo qualità d'una retta volontà, d'una retta ra­
gione, d'una retta affettività in quanto operano per la realizzazione della vera
vita buona, del vero bene umano, dove il criterio di verità è l'ordine più ragio­
nevole dei beni umani concepito dalla ragion pratica.
Il punto di vista della vita veramente buona unifica le virtù; tuttavia esse re­
stano molteplici e diverse per via della complessità dei principi operativi dell'a­
gente umano che intervengono nella produzione della vita veramente buona.

3. Diverse nozioni di virtù

(1 O) Tra le apparenze che una teoria etica deve salvare la principale è costi­
tuita dall'esperienza morale; osservandola così com' essa è espressa nel linguag­
gio, essa suggerisce che una teoria etica non è adeguata all'esperienza stessa se
essa non comprende anche un ragguaglio sulle virtù.
A questo punto incappiamo in una difficoltà: tra le apparenze che in qual­
che modo sono da salvare vi sono pure le nozioni di virtù elaborate da filosofi
morali; benché esse siano diverse, sono tuttavia da prendere in considerazione,
giacché colgono l'una o l'altra delle istanze emergenti dall'esperienza.
( 1 1 ) Nella rassegna del capitolo precedente abbiamo incontrato una pres­
soché generale convergenza a intendere le virtù come disposizioni, interessi,
propensioni, tendenze, senza che questi concetti siano accuratamente analiz­
zati. Al più vengono intesi come habit, cioè come disposizione che rende ruti­
nario l'adempimento dei doveri: così da parte di Beauchamp [40] .3 Becker,4

' V. sopra II 33.


4 Cf. Lawrence C. BECKER, Reciprocity, London - New York 1986, 42-43, 327-328. «A dispo­
sition, as I shall use the term, 'is a persistent readiness to respond and a propensity to act. lt is a
trait of character or personality. lt may be innate or acquired, resistant to change or malleable,
weak or strong in relation to competing impulses and obstacles, capable of a rich variety of expres­
sions or not. lt may be triggered only by subliminal stimuli, or only by the most blatantly obvious
ones. lt may operate entirely below the level of consciousness. [ ... ]. Some dispositions operate
only when we are paying dose attention, both to the stimulus and the response the disposition pro­
duces. [ . . . ]. A disposition may produce pure motor responses, or kinesthetic ones, affective, cogni­
tive, or decisional ones. lt may produce a complex array of such responses, simultaneously or in se­
ries. lt may produce hesitation, alertness, anticipation. lt may produce action, emotional reaction,
or rejection. lt may (and this is more to the point here) propel people to assess their circumstan­
ces in terms of particular aims, and then to . act for those aims» (42-43 ) .
Requisiti della teoria della virtù 141

adottando il concetto di disposizione elaborato da Gordon W. Allport, v'in­


clude abitudini e atteggiamenti, ma non distingue tra tratti attitudinali e tratti
relativi alla produzione volontaria di scelte e di azioni. Unicamente Schiiller
[38] non parla di disposizioni, ma intende la virtù come decisione fondamen­
tale di principio (jreie Entschlossenheit, Grundhaltung).5
( 1 2) Notevoli divergenze sorgono quando si tratta di indicare l'oggetto che
specifica le disposizioni virtuose. Per Prichard [ 44] e per Foot [7] l'oggetto
delle disposizioni virtuose non comporta alcun riferimento al dovere; esse sono
interessi per certi beni desiderabili e per le persone, disposizioni a discernere e
a compiere ciò che è bene per gli uomini, ciò che promuove la libertà, ciò che
solleva le pene e le miserie, ecc.6 Per Hauerwas [ 18] la virtù non esclude il ri­
ferimento al dovere, ma questo riferimento non è principale. Ciò a cui la virtù
è principalmente interessata è ogni ideale umano della vita buona, ogni valore
che nobilita la vita; valori e ideali sono ingredienti d'una «visione» del mondo
e della vita umana, in funzione della quale sono poi definiti anche i doveri.7 In­
fine per Carney [26] la virtù è disposizione a superare il dovere, « a discernere
[i bisogni umani] e ad essere toccato da essi in una maniera che va al di là
delle percezioni e delle risposte ordinariamente presupposte nelle nozioni di ob­
bligazione» ( [26] 1 1) . 8
( 1 3) Per gli altri autori considerati nella rassegna del capitolo precedente
l'oggetto che specifica le disposizioni virtuose è costituito dal dovere. Le diver­
genze sorgono secondo il criterio in base al quale viene definito il dovere. Con­
viene, con Becker,9 distinguere due tipi di concezioni della moralità: la conce­
zione generale e varie concezioni speciali.
Secondo la concezione generale, adottata da Becker, «i giudizi morali sono
giudizi riguardanti ciò che gli agenti razionali devono fare o devono essere
punto e basta»; « essi sono giudizi che si fanno sulla base del tutto conside­
rato» . 10 Tali giudizi sono pronunciati sui tratti di carattere, prima ancora che
sulla condotta o sull'assetto sociale; la teoria morale deve dunque individuare i
tratti di carattere che contraddistinguono l'agente morale ideale, « colui che
può sempre fare, ed effettivamente sempre fa, ciò che è meglio tutto conside­
rato »; sono i tratti « richiesti per il compito generale di fare ciò che è meglio
tutto considerato». 1 1 Anche la concezione di Schiiller [38] può esser classifi­
cata come concezione generale della moralità: la decisione fondamentale, alla
quale egli riduce la virtù, ha per oggetto i tipi di azione moralmente giusta o

' V. sopra II 36.


6 V. sopra II 19, 34, 56.
7 V. sopra II 39.
8 V. sopra II 32.
9 BECKER, Reciprocity 16-28.
IO
Ivi 17.
11
Ivi 48.
142 Capitolo III

doveri (Verhaltensmuster o Handlungsweisen), che sono definiti con metodo te­


leologico, cioè mediante calcolo dei beni.12
( 1 4) Le concezioni speciali della moralità considerano i doveri come uno
degli elementi da tener in conto nel giudizio morale, a fianco di altri che appar­
tengono ad altre sfere della vita (l'interesse personale, le buone maniere, la reli­
gione, l'estetica, ecc.) . In questa concezione i doveri riguardano solo il compor­
tamento d'una persona verso altre persone: sono doveri sociali o di altruismo.
Per Frankena [ 45] essi sono definiti dai principi deontologici di beneficenza e
di giustizia. Questo è l'oggetto ch'egli assenga alle virtù morali, le quali forni­
scono motivazioni interne, e non solo esterne o fortuite, a compiere le azioni
doverose; permettono di risolvere i conflitti tra principi di dovere prima facie
in un modo conforme non tanto alla lettera quanto allo spirito della legge; con­
sentono « di scoprire quale sia la cosa giusta e di farla se possibile» ( [45]
145 ) . 1 3
( 1 5) Altri autori definiscono i doveri sociali con procedimento più teleolo­
gico, in funzione della situazione hobbesiana. Essi differiscono per il diverso
rapporto che stabiliscono tra regole e virtù. Per Beauchamp [ 40] e per Gert
[ 46, 47] i doveri sono adeguatamente definiti da regole: a tali doveri inclinano
rutinariamente le virtù morali. E poiché per Gert regole morali sono quelle
che ogni uomo razionale difenderebbe pubblicamente, per lui le virtù mo­
rali14 sono disposizioni (a seguire tali regole) che ciascun uomo razionale è
pronto a richiedere pubblicamente da altri. 15
( 1 6) Per altri i doveri sociali non sono adeguatamente definiti dalle regole,
ma richiedono una giudiziosità che è possibile solo in persone che posseggono
buone disposizioni. Per Warnock queste inducono ad andare oltre il proprio
interesse, neutralizzano i limiti di simpatia e consistono ( [ 49] 76) in una « pron­
tezza, all'occasione, di fare volontariamente cose desiderabili che non tutti gli
esseri umani sono naturalmente disposti a fare in ogni caso, e similmente a non
fare cose dannose».16 Per Wallace [65] le virtù sono capacità operative che
permettono all'individuo di eccellere nello svolgimento della sua funzione so­
ciale. Per Ewin [50] esse sono propensioni degl'individui a operare secondo le
esigenze della collaborazione in un mondo come di fatto è il nostro, tra uo­
mini come di fatto siamo noi. 17
(1 7) Messe a confronto con l'esperienza morale espressa nel linguaggio

12 V. sopra II 36.
" V. sopra II 34.

14 Per Gert le virtù morali sono da distinguere dalle virtù personali: queste hanno per og­
getto non il dovere (la sua è una concezione speciale della moralità), bensì altri ideali o valori per­
sonali.
" V. sopra II 33 per Beauchamp e II 50 per Gert.
16 V. sopra II 5 1 .
1 7 V . sopra II 52.
Requisiti della teoria della virtù 143

tutte queste concezioni appaiono riduttive rispetto alla nozione suggerita dall'e­
sperienza. Secondo questa le virtù sono più attegiamenti che habits, 18 né si ri­
ducono ad una decisione fondamentale. 19 Nel corso della nostra valutazione
del dibattito recente abbiamo visto che virtù e dovere non si escludono, ma si
richiamano a vicenda; che il dovere non si riduce ai doveri sociali, ma si
estende a tutta la vita buona;20 che la virtù s'interessa a realizzare un buon
stato di cose, ma con volontà buona,21 cioè regolata secondo la ragionevolezza
pratica, e che questa permette di distinguer la virtù dal vizio, dalle false virtù,
dalle virtù impropriamente dette.22
( 1 8) Una considerazione a parte merita la nozione di virtù elaborata da Mac­
Intyre in After Virtue [ 10] : esse sarebbero eccellenze nelle pratiche della vita
buona regolata secondo una tradizione criticamente recepita. Ma anche in essa
abbiamo riscontrato dei limiti: non si colloca nella prospettiva del soggetto
agente, non fornisce criteri per la ricerca di ciò in cui consiste la vita buona e
per la critica della propria tradizione.23
(1 9) L'esperienza morale suggerisce invece di adottare una nozione inclu­
siva e massimale di virtù: inclusiva, cioè che non trascuri alcun aspetto dell'e­
sperienza e renda conto di tutti essi, accogliendo criticamente le istanze avan­
zate dalle nozioni filosofiche; massimale, giacché se la virtù è eccellenza, occor­
rerà considerarla nella sua capacità massima di prestazione; osservandola da
questo punto di vista si potrà render conto delle prestazioni minimali.
Tale nozione inclusiva e massimale può essere cosl compendiata: le virtù
sono disposizioni stabili e uniformi (a livello di atteggiamento), che introducono
una determinazione nei principi operativi della condotta volontaria, in modo tale
che questa eccelle nel realizzare la vita veramente e doverosamente buona, con­
forme alla regola della ragionevolezza pratica.
(20) Per trovare una nozione filosofica di virtù che soddisfi ai requisiti di
essere inclusiva, massimale, adeguata all'esperienza, occorre risalire ad Aristo­
tele e a Tommaso d'Aquino. La nota definizione aristotelica suona cosl: « La
virtù è uno stato abituale che dirige la decisione, stato consistente in un giusto
mezzo relativo a noi, la cui norma è la regola morale, vale a dire quella che gli
darebbe il saggio ».24 Nel contesto dell'Etica Nicomachea questa nozione ap-

18
V. sopra III 3b, 7b.
19
Per la critica alla concezione di Schiiller v. sopra Il 45.
20
V. sopra II 19, 40-48.
21
V . sopra Il 24, 44.
22
V. sopra II 55, 56, 60.
" V. sopra II 58-59.
24 Etica Nicomachea II, 6 1 106 b 36 - 1 107 a 1. Seguo la traduzione di R.A. GAUTHIER -
=

].Y. ]OLIF, L'Éthique à Nicomaque. Tome I, Deuxième pattie: Traduction, Louvain - Paris 1970,
45. La traduzione di C. MAZZARELLI (ARISTOTELE, Etica Nicomachea, Milano 1979, 133) suona
cosl: « La virtù, dunque, è una disposizione concernente la scelta, consistente in una medietà in rap­
porto a noi, determinata in base a un criterio, e precisamente al criterio in base al quale la deter-
144 Capitolo III

pare come inclusiva e massimale. Massimale perché lo scegliere virtuosamente


è ciò in cui consiste la vita buona, è l' ergon proprio dell'uomo. Inclusiva per­
ché si riferisce ad un'elaborata teoria della disposizione, della scelta, dei prin­
cipi operativi (ragione, desideri passionali), della ragionevolezza pratica (phro­
nesis) .
Lo stesso deve dirsi per la nozione tomista nel contesto della teoria morale
tomista: la virtù è un habitus della mente (cioè dei principi operativi volontari)
grazie al quale si vive (nelle buone scelte) rettamente (secondo il vero fine
della vita umana, realizzando la vera felicità, conforme alla regola della ragion
pratica umana e della legge divina) e del quale nessuno può far cattivo uso.25
La nozione di virtù che abbiamo messo a punto è quella di cui ora dob­
biamo elaborare la teoria e che comanda i requisiti di questa.

lii. DALL'ESPERIENZA MORALE ALLA TEORIA DELLA VIRTÙ

(21 ) 1 ) L'esperienza morale prefilosofica, da cui prende avvio la teoria


etica, presenta, tra i tanti, un elemento che la rende immediatamente accessi­
bile alla riflessione filosofica: esso è costituito da quello che chiamo esercizio
diretto della ragione pratica. Diretto significa che, pur essendo un esercizio co­
sciente, tuttavia esso mira non a riflettere sul modo di ragionare pratico, bensl
mira a costruire la scelta e l'azione muovendo da vari principi di ragiona­
mento, come desideri dati, ideali, valori, norme, circostanze rilevanti, fini.
L'esercizio diretto della ragion pratica costituisce il primum cognitum che
rende l'esperienza morale accessibile alla teoria etica. Nella teoria etica l'eserci­
zio della ragion pratica diventa riflesso, mira cioè a spiegare l'esercizio diretto,
a esplicare metodicamente e scientificamente i principi che lo rendono intelligi­
bile e per questa via a perfezionare lo stesso esercizio diretto.
In questo compito di spiegazione riflessa la teoria etica deve restare ade­
guata all'esperienza morale, deve cioè salvaguardare tutte le connessioni che l' e­
sercizio diretto della ragion pratica ha con gli altri elementi dell'esperienza mo­
rale: gli affetti, gli atteggiamenti, le norme, la coscienza del dovere, l'aspira­
zione alla felicità, la capacità di libere scelte, ecc. L'esperienza morale è com­
plessa e la teoria etica deve rendere giustizia alle sue istanze contrastanti.26
Orbene, l'analisi del linguaggio morale, in cui s'esprime l'esperienza mo­
rale, ha indicato che l'esercizio diretto della ragion pratica è connesso a quei

minerebbe il saggio». Un'analisi approfondita ed aggiornata della nozione aristotelica è fornita da


D.S. HUTCHINSON, The Virtues o/ Aristotle, London 1986: attingendo a testi di tutto il corpus ari­
stotelico spiega che cosa Aristotele intenda per hexis e per disposizione; in che consista I'eccel­
lenza nella vita buona garantita dalla virtù; in che rapporto stia la virtù con la ragione, gli affetti, i
desideri, i piaceri e le pene; come essa sia principio di buone scelte.
25 La nozione è spiegata in I-II, 55,4.
26
V. sopra II 7.
Requisiti della teoria della virtù 145

tratti di carattere che chiamiamo virtù e vizi: i modi di ragionare in vista delle
scelte e delle azioni sono in qualche misura determinati o qualificati da quei
tratti di carattere che introducono una determinazione nei principi operativi
della condotta volontaria.
(22) 2) A questo punto, se si vuole spiegare il rapporto tra esercizio diretto
della ragion pratica e tratti virtuosi del carattere, occorre considerare con
somma attenzione un problema che solitamente sfugge alle teorie etiche o non
viene considerato in tutti i suoi aspetti.
L'oggetto o materia su cui verte l'esercizio diretto della ragion pratica è co­
stituito dall'azione in quanto è da porre (operabile) in un contesto circostan­
ziato e singolare (particolare) . Orbene, la ragion pratica può occuparsi del par­
ticolare operabile in due modi: o secondo una prospettiva ancora universale (in
universali), o precisamente in quanto sono operabili particolari e contingenti
(in particularz) .27 La prima prospettiva è quella adottata dall'etica normativa e
fa possibile la scienza morale: a questo livello di astrazione si elaborano norme
di condotta che sono logicamente universali, perché in esse l'azione da com­
piere non è descritta in tutte le sue circostanze singolari, ma solo quanto al suo
intento principale e specificante. La seconda prospettiva è quella propria del­
l'individuo che ha da agire hic et nunc: costui giudica l'azione secondo le sue
circostanze singolari, ma soprattutto in funzione della convenienza eh' essa ha
con le proprie disposizioni affettive e appetitive. Queste ultime sono rilevanti
anche più delle circostanze, giacché caratterizzano l'individuo concreto che ha
da porre una sua azione, un'azione cioè conveniente a lui così com' esso è hic et
nunc.

27 Questa distinzione l'introduce (non è richiesta dalla lettera del testo aristotelico) Tommaso

d'Aquino nel suo commento all'Etica Nicomachea: «Contingentia dupliciter cognosci possunt: uno
modo secundum rationes universales, alio modo secundum quod sunt in particulari. Universales
quidem igitur rationes contingentium immutabiles sunt, et secundum hoc de his demonstrationes
dantur et ad scientias demonstrativas pertinet eorum cognitio; [ . . ] . Alio modo possunt accipi con­
.

tingentia secundum quod sunt in particulari, et sic variabilia sunt [ ... ] ; sic autem accipit hic Philo­
sophus contingentia, ita enim cadunt sub consilio et operatione (Sententia Libri Ethicorum VI, 1
Haec autem = Ed. leonina XLVII, 334 b 190-2 14). Tutto il successivo commento al libro VI
spiega la phronesis-prudentia in funzione di questa distinzione. Lo sviluppo proprio che Tommaso
fa della teoria della prudenza nella 1-11 della Summa Theologiae, contemporanea del commento
all'Etica Nicomachea, è basato sulla stessa distinzione tra recta ratio agtbilium in universali (livello
della scienza pratica) e in particulari (livello della prudenza) : cf. 1-11, 58, 5c. Nell'esegesi che di
questo testo faccio in Lex et virtus 207-2 13 dimostro che l'espressione in particulari si riferisce non
solo alle circostanze dell'azione, ma anche e ancor di più alle disposizioni affettive dell'individuo
agente.
La q. 6 del De Malo, di poco anteriore, fa ricorso alla stessa distinzione: «Obiectum mouens
uoluntatem est bonum conueniens apprehensum. Unde si aliquod bonum proponatur quod appre­
hendatur in ratione boni, non autem in ratione conuenientis, non mouebit uoluntatem. Cum autem
consilia et electiones sint circa p articularia, quorum est actus, requiritur quod id quod apprehendi­
tur ut bonum et conueniens, apprehenditur ut bonum et conueniens in particulari et non in
uniuersali tantum » (De Malo 6c). Dal seguito del corpus risulta che l'individuo agente giudica circa
la convenienza in particulari anche in funzione delle proprie disposizioni virtuose o viziose.
146 Capitolo III

(23) Ora le teorie etiche si fermano al momento logicamente universale


della ragion pratica. A questo livello però le virtù non svolgono alcuna fun­
zione né sono necessarie. Si possono infatti elaborare e giustificare norme logi­
camente universali di condotta senza essere soggetti virtuosi. Poiché non si
tratta della mia azione hic et nunc, ma di azioni in generale, le mie disposizioni
affettive hanno ancora poco o nessun peso.
Se inoltre il passaggio dalla considerazione in universali alla considerazione
in particulari viene concepito secondo lo schema logico e giuridico della sussun­
zione (che riconduce un individuo nella sua specie o riporta una determinata
fattispecie nel caso generale previsto da una norma di legge), allora di nuovo le
virtù o sono irrilevanti, o tutt'al più contribuiscono a facilitare tale operazione,
neutralizzando i disturbi che possono provenire alla ragion pratica da parte
delle passioni, oppure ancora sono concepite come effetto prodotto dalla ripe­
tizione di simili operazioni negli appetiti e nelle passioni, dove si generano abi­
tudini a seguire o a non seguire le norme morali.
In questo modo però si ottiene una nozione di virtù che è riduttiva rispetto
a quella ottenuta dall'analisi dell'esperienza.
Alla considerazione in universali si fermano tutte le teorie etiche in cui è
principale il punto di vista della terza persona, dell'osservatore, del giudice,
del legislatore. Sono di questo tipo sia le etiche laiche moderne (utilitariste o li­
berali), sia la teologia morale cattolica postridentina e odierna. Proprio esse,
come abbiamo visto nel dibattito recente, o trascurano la virtù, o se ne for­
mano un concetto riduttivo. La considerazione in particulari sta invece alla
base delle teorie etiche aristotelica e ancor più tomista, le quali appunto per ri­
solvere i problemi che tale considerazione pone elaborano una concezione
della virtù più adeguata all'esperienza morale.
(24) 3 ) Se si considera il particolare operabile in particulari, sorgono pro­
blemi del tutto nuovi, per risolvere i quali occorrerà introdurre quel concetto
massimale e inclusivo di virtù che l'esperienza morale ci ha suggerito.
Infatti nella considerazione in particulari la ragion pratica perviene non più
solo a norme logicamente universali, ma a un giudizio pratico ultimo, perciò
del tutto individualizzato, nel quale l'azione, descritta secondo tutte le sue cir­
costanze concrete e singolari è decisivamente dichiarata dal soggetto agente con­
veniente a se stesso, questo individuo concreto con le sue disposizioni affettive
ed appetitive. È questo gfodizio pratico ultimo che viene effettivamente adot­
tato nella scelta.
Ora nell'esercizio diretto della ragion pratica il passaggio dalle norme logi­
camente universali al giudizio pratico ultimo e individualizzato non avviene
nel modo della sussunzione, bensl nel modo dell'applicazione d'una norma in­
determinata ad una situazione circostanziata di cui fa parte anche l'individuo
con le sue disposizioni affettive. Rispetto alla situazione concreta la norma è in­
determinata, perché in essa l'azione è descritta solo rilevando qualcuno dei
suoi elementi, come il fine definito in modo generico o l'oggetto-intento defi-
Requisiti della teoria della virtù 147

nito astraendo dalle circostanze. Nella situazione concreta però gli elementi ri­
levanti sono ben più numerosi e diversi tra loro, e nessuna norma può aiutare
a scorgerli: qui interviene l'intelligenza del soggetto. Intervengono anche le sue
disposizioni affettive, giacché una circostanza che è rilevante per un desiderio
passionale può non esserlo per un'altra, e qui il soggetto ha da pronunciare un
giudizio di convenienza proprio in rapporto alle sue disposizioni affettive.
Qui la ragion pratica non funziona più come scienza di norme universali e
di fini definiti genericamente, bensl come saggezza pratica. Funziona inoltre in
reciproca connessione con le disposizioni affettive del soggetto. Stando cosl le
cose, il soggetto non perverrà a un giudizio pratico ultimo moralmente corretto
se non dispone di virtù sia nella ragion pratica, sia negli appetiti. Qui appare
quella connessione tra l'esercizio diretto della ragion pratica e i tratti virtuosi o
viziosi del carattere che abbiamo osservato nell'esperienza morale.
Quando dunque la teoria etica si spinge a studiare l'esercizio diretto della
ragion pratica in particulari, essa deve studiare la ragion pratica in quanto con­
nessa con gli altri principi operativi della condotta volontaria, e precisamente con
le disposizioni virtuose o viziose.
Ovviamente questo studio costituisce un esercizio riflesso della ragion pra­
tica; non è esso stesso saggezza pratica, tuttavia studia i principi o fattori o con­
dizioni che fanno possibile la saggezza pratica.
(25) Se le teorie etiche non si spingono fino a questa considerazione in par­
ticulari, è per varie ragioni. L'etica utilitarista e l'etica d'ispirazione kantiana
adottano per la ragion pratica un modello di razionalità che non si addice alla
saggezza morale. È un modello che s'ispira alla razionalità giuridica oppure al­
l'ideale d'un sistema completo, coerente, rigoroso di norme, nella convinzione
che la moralità si riduca alla razionalità. 28 Interviene certamente anche il fatto
che nei secoli moderni si è acuito sempre più il dissenso sulle norme stesse e
sul modo di giustificarle. Cosl però è andato perso per la filosofia morale un
problema che continua ad essere urgente nell'esperienza morale e che è stato
accaparrato dalla psicologia; in essa tuttavia il problema si trova spogliato del
suo carattere morale e si riduce al problema della costruzione della persona­
lità. Si tratta del problema circa le condizioni che fanno possibile la buona
scelta e la buona condotta da parte d'un soggetto agente come quello umano.
Solo spingendosi fino a questo problema la teoria etica trova la prospettiva
giusta entro cui render conto della nozione di virtù che l'esperienza morale sug­
gerisce.
(26) 4) Sviluppando ora le implicanze di questa prospettiva (la considera­
zione in particulart) perverremo a stabilire i requisiti della teoria della virtù.
Se la considerazione in universali è tipica delle etiche della terza persona, la

28 Per una critica ali' applicazione di qu_esto modello di razionalità al ragionamento morale
cf. Stephen D. HUDSON, Human Character and Morality. Re/lections /rom the History o/Ideas, Lon­
don 1986, 1-27; Stuart HAMPSHIRE, Morality and Conflict, Oxford 1983.
148 Capitolo III

considerazione in particulari sorge solo dal punto di vista della prima persona:
studia infatti le condizioni che consentono al soggetto agente di pervenire a
buone scelte.
Di qui un primo requisito della teoria della virtù: essa deve studiare il sog­
getto in quanto autore della propria condotta e deve studiare il modo con cui in­
tervengono le virtù nei principi operativi volontari a determinarli in vista della
condotta.
Il concetto di condotta, considerato dal punto di vista della prima persona,
richiede necessariamente, come abbiamo visto,29 il concetto di vita buona. La
condotta infatti, in quanto procede per via di deliberazioni e di scelte, sup­
pone un criterio universale di valutazione che è fornito da una concezione
della vita buona e suppone un interesse naturale per realizzarla. Inoltre la di­
versità delle concezioni della vita buona pone il problema della loro verità e
del criterio di tale verità. Non si troverà risposta se non in un'analisi della ra­
gion pratica che mostri su quali principi essa si basi nel regolare la condotta.
Con tali principi si potrà distinguere tra concezioni vere e concezioni false
della vita buona e riconoscere la doverosità delle concezioni vere. I concetti di
vita buona e di regola della ragion pratica consentono di render conto della
virtù dal punto di vista valutativo: ciò che fa l'eccellenza della virtù è appunto
il fatto ch'essa dispone i principi operativi volontari a produrre una condotta
che realizza la vera e doverosa vita buona, conforme alla regola della ragion
pratica. Otteniamo così un secondo requisito della teoria della virtù: essa deve
considerare la virtù dal punto di vista della vita buona e della regola della ragion
pratica. È qui che potrà avvenire l'integrazione tra virtù e dovere.
Infine, come abbiamo appena visto, la ragion pratica sarà da considerarsi in
particulari: in questa prospettiva apparirà la connessione tra virtù e saggezza pra­
tica. Questa considerazione cOstituisce un terzo requisito della teoria della
virtù.
Secondo questi requisiti articolerò i tre successivi capitoli in cui andrò svi-
luppando lo schizzo in una teoria. ''

(27) 5) Nella teoria della virtù, che si spinge fino alla considerazione in par­
ticulari e che pertanto risponde a questi tre requisiti, la virtù viene introdotta
come principio di buone scelte, di buona condotta, nella quale si realizza la
vita buona secondo la regola della ragion pratica. Questi principi virtuosi, in
quanto tratti di carattere,. definiscono l'identità del soggetto considerato come
autore di condotta. Nei principi operativi volontari, con i quali il soggetto pro­
duce le scelte e la condotta, le virtù introducono determinazioni al modo di at­
teggiamenti, di cui le scelte e le azioni costituiscono concretizzazioni circostan­
ziate.
In questo modo la teoria della virtù risponde a tre tipi di domande cui
ogni teoria etica deve rispondere:

29 V. sopra II 23, 26-27.


Requisiti della teoria della virtù 149

« 1 . Che cosa rende una condotta retta o scorretta? buona o cattiva? lode­

vole o biasimevole?
2. Che cosa rende buona o cattiva una persona? lodevole o biasimevole?
3 . In che consiste la vita moralmente buona? Come una persona deve vi­
vere la sua vita? Che connessione vi è tra una vita buona e una vita fe­
lice?».30
Nella teoria della virtù che andremo sviluppando la domanda circa la con­
dotta retta o scorretta appare come quella che porta a concretezza la domanda
circa la vita buona; a sua volta la domanda circa la vita buona appare come
quella che decide il carattere della persona.
Ciò che rende giuste le azioni è quella stessa regola che rende la vita vera­
mente buona. Ma la vita veramente buona non consta solo di azioni giuste,
bensì anche di modi di ragionare e di sentire passionalmente; sia le azioni, sia
le passioni, sia le deliberazioni e i giudizi pratici esibiscono atteggiamenti del
carattere, che definiscono l'identità morale del soggetto agente. D'altra parte la
regola delle azioni giuste e della vita veramente buona non vien considerata
dal punto di vista della terza persona, del legislatore che la impone ai sudditi o
della comunità ideale che la impone ai membri; bensì dal punto di vista della
prima persona, come regola che il soggetto agente trova . in se stesso, nella pro­
pria ragion pratica; regola soggettiva ma oggettivamente vera e perciò intersog­
gettiva; regola che il soggetto riconosce come sua nella produzione delle pro­
prie buone scelte.
In questo modo la teoria della virtù rifiuta la concentrazione sulle azioni
giuste e sui doveri richiesti rimproverata all'etica moderna, sia utilitarista sia li­
berale,31 senza tuttavia trascurare né azioni né doveri. D'altra parte essa rende
giustizia all'istanza avanzata da Hauerwas e in parte da Hudson:32 cioè che vi
è rapporto tra l'essere un certo tipo di persona e la determinazione dei propri
·

doveri.
(28) 6) Poiché tra le teorie etiche quella tomista meglio risponde ai tre re­
quisiti, essa può essere prolungata per rispondere ai problemi suscitati dal di­
battito recente. La teoria che sto per sviluppare costituisce pertanto una ri­
presa critica di quella tomista.
Essa vuol anche essere il superamento della teoria di Maclntyre, che tra
quelle odierne è la più sviluppata. Si ricorderà che Maclntyre propone una con­
cezione della virtù in tre momenti: 33 come eccellenza nelle pratiche che realiz­
zano beni a esse immanenti; come sostegno nella ricerca della vita buona;
come qualità che sostengono la tradizione della propria comunità e le impedi-

'0 HUDSON, Human Character 1 .


" V . sopra I I 12-15.
32 Cf. HUDSON [66] dove abbozza la tesi ampiamente sviluppata nel suo libro Human Cha­
racter.
" V. sopra II 58.
150 Capitolo III

scono di deteriorarsi. Nella concezione che propongo l'attenzione si sposta


dalle pratiche alla condotta; per la ricerca della vita buona e per l'interpreta­
zione critica della tradizione fornisco dei criteri desunti dai principi della ra­
gion pratica. Ne risulterà la virtù come eccellenza del soggetto agente nella rea­
lizzazione della vita veramente buona secondo la regola della ragionevolezza pra­
tica.
Capitolo IV

VIRTÙ E CONDOTTA

( 1 ) La nozione massimale e inclusiva di virtù comprende tre concetti essen­


zialmente connessi: i concetti di condotta umana, di vita buona, di regola della
ragionevolezza pratica. Ci soffermiamo in questo capitolo sulla condotta
umana e sui suoi principi operativi.
Sulla scia di Aristotele e di Maclntyre raggiungeremo il concetto di con­
dotta a partire dal concetto di pratiche (I) . 1 Della condotta metteremo in luce
la dinamica psichica; in questo contesto apparirà la specificità della ragion pra­
tica. Supereremo così quella concentrazione sulle azioni singole e sulle deci­
sioni a cui si limitano le teorie etiche moderne (Il) . Questo ci consentirà d'indi­
viduare in quale momento della condotta intervengono le virtù e di conoscere
la loro complessa struttura psichica, cose che sfuggono del tutto alle teorie eti­
che moderne (III) .

I. DALLE PRATICHE ALLA CONDOTTA

1 . Le pratiche

(2) Le azioni in cui si esplica la nostra vita non sono del tutto isolate né in­
dipendenti tra di loro; esse si possono ricondurre a pratiche diverse, come la
pratica dello sport, della ·ricerca scientifica, della religione, della medicina,
d'una professione, del matrimonio, ecc. Per pratica, seguendo Maclntyre
( [ 10] 175 ) , intendiamo « ogni forma coerente e complessa di attività umana coo­
perativa socialmente stabilita, attraverso la quale beni interni a quella forma di
attività sono realizzati cercando di raggiungere quegli standard di eccellenza,
che sono appropriati a, e parzialmente definitori di, quella forma di attività;
con il risultato che le capacità umane di raggiungere l'eccellenza, e le conce­
zioni umane dei fini e dei beni coinvolti, sono sistematicamente estese».2
Col termine pratica designamo l'attività umana con connotazioni differenti
da quelle significate dai termini lavoro od occupazione. Il termine lavoro de-

1 Aristotele, nell'Etica Nicomachea I, 1, in connessione col Politico di Platone, parla di arte,


ricerca, scienza produttiva, capacità produttiva; Maclntyre ( [ 10] 175) parla più appropriatamente
di pratiche.
2 V. sopra II 58, n. 100.
152 Capitolo IV

signa l'attività umana in quanto mira a conseguire un risultato, a produrre


beni sostanziali, nel contesto d'un'organizzazione comandata da regole econo­
miche (circa il rendimento e circa il reddito) e giuridiche. Il termine occupa­
zione designa l'attività umana in quanto motivata da un interesse che assorbe
il tempo e l'attenzione. Il termine pratica designa l'attività umana in quanto rea­
lizza beni ad essa immanenti, e cresce nell'eccellenza di questa realizzazione
grazie all'esercizio e alla consuetudine.
Ciò che contraddistingue, definisce e specifica le pratiche è lo scopo che
esse perseguono. Nelle pratiche lo scopo non è un bene sostanziale da pro­
durre, ma un bene operabile, un'attuazione del soggetto stesso, un bene im­
manente all'attività stessa. Per quanto diversi e molteplici, i beni realizzati
nelle pratiche costituiscono specificazioni dei beni umani basilari, ai quali gli
uomini sono naturalmente inclinati e che costituiscono i necessari elementi del
compimento umano intregrale.3 Nelle pratiche lo scopo fornisce il principio in
base al quale sono elaborate le norme che regolano la pratica e la defini­
scono.4
Maclntyre accentua nelle pratiche il loro carattere cooperativo e istituzio­
nale; è un'accentuazione giustificata, giacché non possiamo realizzare i beni
umani se non in cooperazione. Tuttavia egli trascura di studiare le pratiche dal
punto di vista del soggetto agente; questa trascuratezza è ingiustificata, giacché
la cooperazione non è possibile senza soggetti attivi e capaci.
(3) Osservate dal punto di vista del soggetto agente le pratiche presentano
due caratteristiche: esse comportano da parte del soggetto l'esercizio ed il coor­
dinamento di più facoltà operative; inoltre esse constano di azioni ripetute, in
parte identiche (quanto allo scopo e alle regole generali), in parte diversificate
(quanto ai dettagli concreti, relativi alla situazione) .
Per il fatto che le pratiche constano di azioni siffatte, esse richiedono i con­
cetti di eccellenza o di deficienza. La pratica esige un'iniziazione ed è aperta a
un progresso che porta il soggetto ad eccellere nelle prestazioni richieste e ad
estendere i confini del bene immanente alla pratica. Ma può anche degradare
in prestazioni difettose che rendono il soggetto inetto e precludono la realizza­
zione del bene immanente alla pratica. Ad esempio, la pratica della ricerca
scientifica ha le sue destrezze (rigore metodologico, precisione, chiarezza, ecc.)
e le sue inettitudini (approssimazione, difetti di logica, confusione concettuale,
ecc.), le sue virtù (tenacia, diligenza, ordine, probità, lealtà, modestia, serietà,
ecc.) e i suoi vizi (vanità, suscettibilità, 'rivalità, preclusione, dilettantismo,
ecc.) .

' V . sopra I 53 e sotto V 4.


4 BECKER, Reciprocity 7- 16, spiega bene quali tipi di regole definiscono una pratica e quando
una pratica è esaustivamente o no definita dalle sue regole.
Virtù e condotta 153

2. La condotta

(4) 1 ) Una pratica riguarda qualcuno dei beni umani da realizzare in coope­
razione; poiché i beni umani basilari sono molti, e ancor di più sono le loro
specificazioni, anche le pratiche sono molte. Tuttavia nelle pratiche è sempre
impegnato l'identico soggetto, impegnato con la sua volontà razionale a realiz­
zare nelle pratiche i beni per l'uomo. Questa universale presenza della volontà
razionale nelle molteplicità delle pratiche introduce un nuovo punto di vista,
quello dell'unità della vita umana.
In questo nuovo punto di vista è rilevante non solo il successo della pratica
nel realizzare il bene ad essa interno, ma anche e ancor di più la qualità del vo­
lere con cui il soggetto s'impegna nelle pratiche. Tale qualità è definita non
dal fatto che il soggetto s'impegna nella pratica d'un bene umano considerato
separatamente dagli altri, ma dalla concezione che il soggetto si fa dell'ordine
che intercorre tra tutti i beni umani, e cioè dalla concezione del bene umano in­
tegrale. Inoltre, poiché i beni sono sempre beni per delle persone, la qualità
del volere è definita anche dalla considerazione che il soggetto fa delle per­
sone, in quanto partecipi degli stessi beni umani.
Poiché determinata da una concezione dell'ordine tra i beni umani e da
u1ia considerazione delle persone, la qualità del volere è essenzialmente una in­
tenzione, secondo la quale il soggetto s'impegna nelle pratiche.
Siamo passati da un punto di vista settoriale, interno a ogni pratica isolata­
mente presa, a un punto di vista globale o generale: quello della vita umana
come un tutto, dell'ordine secondo cui i beni umani devono esser voluti per
realizzare la vita buona, della regola di vita derivante dal bene umano inte­
grale. È il passaggio operato da Aristotele dal bene cui mira ciascuna prassi al
bene supremo di tutte le prassi; è il passaggio operato da Maclntyre dalle pra­
tiche alla vita buona e alla tradizione che la definisce. Ma il nostro approdo va
oltre il loro. Aristotele si ferma al genere di vita che fa la vita buona, dove per
genere s'intende l'occupazione predominante di individui maschi adulti liberi
che hanno assicurato il sufficiente per vivere. Maclntyre si ferma alla vita
buona come impresa comune. Noi invece abbiamo considerato il bene umano
integrale in quanto scopo che qualifica l'intenzione della volontà razionale in
ogni atto volontario, di qualsiasi persona in qualsiasi occupazione in cui essa
s'impegni volontariamente. È l'approdo cui perviene Tommaso d'Aquino.5
Siamo approdati al punto di vista morale, nel quale si considera non cia­
scuna pratica isolatamente, ma la pratica generale della vita buona: per desi­
gnarla useremo il termine condotta. Questo termine permette di significare non
soltanto, come il termine azione, il fatto che essa è prodotta in forza d'una vo-

' «Subiectum moralis philosophiae est operatio humana ordinata in finem ve! etiam homo
prout est voluntarie agens propter finem» (Sententia Libri Ethicorum I, 1
= Ed. leon. XLVII, 4,
5 1-54).
154 Capitolo IV

lontà razionale, ma anche, dicevamo,6 il fatto che il soggetto approda ad azioni


diverse sì, ma considerate da lui come esemplificazioni successive, complemen­
tari� variate e appropriate alle situazioni, di interessi permanenti, di intenzioni ge­
neralt; che a loro volta articolano per lui la sua concezione di vita buona e la sua
volontà di realizzarla. Anche la condotta, come le pratiche,7 consta di azioni ri­
petute, in parte identiche (quanto allo scopo e alle regole generali), in parte di­
versificate (quanto ai dettagli concreti, relativi alla situazione) .
(5) 2) Perciò anche la condotta, come le pratiche, ha le sue proprie eccel­
lenze e deficienze. Tuttavia la differenza tra il punto di vista morale e quello re­
lativo a ciascuna pratica introduce un'essenziale differenza tra le eccellenze
della condotta e quelle proprie delle pratiche, anche qualora vengano desi­
gnate con lo stesso termine. Una persona può essere onesta nella vita (o pra­
tica) intellettuale e non nella vita (o pratica) coniugale; coraggiosa nello sport e
non nell'affrontare i pericoli della confessione religiosa; premurosa e tenera
verso i familiari, crudele con le sue vittime; sagace nei propri affari, ottusa nel­
l'amicizia. Dovremo perciò distinguere nell'uso dei termini di virtù il signifi­
cato che essi hanno quando sono applicati alla condotta, e quello che hanno
quando sono applicati alle pratiche. Nel primo caso parleremo di virtù per an­
tonomasia o nel senso vero e proprio; nel secondo caso parleremo di virtù rela­
tivamente a qualche pratica o in senso più generico. Inoltre, la differenza tra i
punti di vista fa sì che nelle pratiche ci siano delle eccellenze che sono des­
trezze e deficienze che sono inettitudini, mentre nella condotta vi sono solo
virtù e vizi: vedremo più avanti (V 63 ) che anche le destrezze e le inettitudini .
della condotta sono virtù o vizi.
Nella condotta, come nelle pratiche, le eccellenze comportano un atteggia­
mento costante che si esemplifica in azioni circostanziate diverse.
(6) 3 ) I concetti di condotta e di eccellenze della condotta che abbiamo messo
a punto inducono ad elaborare quella psicologia dell'azione che è così trascurata
dall'etica moderna e che invece è richiesta da Anscombe [ 1] e da Hauerwas
come parte necessaria della teoria etica.
Da una parte infatti le azioni appaiono nella condotta non come isolate, ma
come espressione di intenzioni fondamentali permanenti; le eccellenze appa­
iono articolate in atteggiamenti costanti e azioni diversificate. Il che richiede
un'analisi della dinamica secondo cui il soggetto umano è autore delle proprie
azioni.
Dall'altra la teoria etica elabora necessariamente delle proposizioni pratiche
normative. In tutte il soggetto logico è costituito dalla descrizione di un'a­
zione, ma a diversi livelli di astrazione e di generalità. Non si riesce a rendere
conto di questo fatto senza una psicologia dell'azione che metta in luce gli ele-

6 V. sopra I 33-35 e II 23.


7 V. sopra IV 3.
Virtù e condotta 155

menti costitutivi dell'azione. Dall'interesse generale per la vita buona alle


azioni circostanziate il salto è considerevole e nella gestazione dell'azione inter­
vengono parecchi elementi. Le proposizioni normative variano in livello di as­
trazione e perciò in validità a seconda degli elementi dell'azione che vengono
rilevati in quella descrizione di essa che fa da soggetto logico alla proposizione
normativa: un'azione può esser descritta o rilevando solo la sua intenzione (e
allora la norma sarà più generale e più astratta) o rilevando più o meno circo­
stanze concrete (e allora la norma sarà più specifica e concreta) . Sicché la teo­
ria etica richiede proprio quella psicologia dell'azione a cui ci orientano i con­
cetti di condotta e di virtù. Se, come abbiamo visto,8 le virtù corrispondono a
quelle proposizioni normative che sono massime, sarà la psicologia dell'azione
a indicare quale elemento dell'azione è rilevato nelle massime e definisce la
virtù.
Inoltre, come abbiamo visto,9 la teoria etica non può fermarsi alla conside­
razione dell'azione (particolare operabile) in universali; deve spingersi alla con­
siderazione in particulari, nella quale le norme eleborate in universali sono ap­
plicate con una conoscenza pratica sui generis, la saggezza, della quale non si
riesce a render conto senza una psicologia dell'azione.
Ora una teoria simile, così richiesta, ma così trascurata, esiste già nel magi­
strale esemplare elaborato da Tommaso d'Aquino nelle qq. 6-2 1 della Prima Se.­
cundae; ma è ignorato dall'etica moderna e trascurato nella teologia morale: al
più se ne tramanda lo schema, senza che se ne percepisca il senso. Eppure è il
presupposto necessario per la teoria tomista della virtù. Nell'analisi della con­
dotta che segue m'ispiro al trattato tomista; essa fornirà le coordinate per una
psicologia della virtù.

Il. DINAMICA DELLA CONDOTTA UMANA

1 . Azioni, scelte, intenzioni

(7) 1) Non tutto il nostro comportamento consta di azioni. Noi parliamo di


azioni vere e proprie quando della descrizione e dell'esercizio dell'azione è au­
tore il soggetto agente. Da questo punto di vista uno stesso comportamento fi­
sico può costituire azioni diverse: passar denaro ad una persona può essere
un'azione di soccorso fraterno e generoso, un'azione d'assolvimento d'un de­
bito, un'azio.ne di retribuzione, un'azione di corruzione, ecc. Ciò che fa sì che
le azioni siano azioni vere e proprie, umane, morali, responsabili è il fatto che
ad esse perviene il soggetto agente dandosele come oggetto delle proprie scelte:
egli se le costruisce come comportamento per via del quale egli realizza un pro­
prio intento. Pertanto l'azione è solo la componente esteriore d'un'attuazione
complessa, la cui componente interiore è costituita dall'atto della scelta.
8 V. sopra III 5 .
9 V . sopra III .22-24.
156 Capitolo IV

Qui i termini esteriore e interiore si riferiscono all'atto di scelta: interiore è


l'atto di scelta e ciò che lo prepara; esteriore è l'esecuzione della scelta me­
diante l'esercizio di qualsiasi facoltà umana, anche quando questo esercizio
non è osservabile (come, per esempio, l'azione di pensare a qualche problema
filosofico). In quanto l'azione esteriore è posta in virtù d'un impulso prove­
niente dall'atto interiore della scelta, si può dire ch'essa è comandata, cioè ese­
guita in forza d'una direttiva voluta (comando) che costituisce il prolunga­
mento della scelta: nella scelta il soggetto si determina per un'azione, vi dà il
consenso; nel comando il soggetto dirige e muove le facoltà operative all'esecu­
zione.
(8) 2) Nemmeno la scelta però è un atto semplice. Di solito la si designa
col termine decisione, ma si concepisce la decisione come verdetto d'una vo­
lontà sovranamente libera che si scuote da uno stato d'indifferenza, di neutra­
lità, d'indeterminatezza e si fissa su un'azione. La decisione sarà tanto più li­
bera in quanto priva di condizionamenti che provengono dalle passioni, dal ca­
rattere, da attrattive. Dal punto di vista morale la decisione così concepita ha
solo da confrontarsi con norme logicamente universali: il soggetto deve assolu­
tamente conformare la decisione alle norme per via di sussunzione dell'azione,
su cui cade la decisione, sotto la norma. In questo contesto la virtù o è ridotta
ad una propensione, abitudine, prontezza a osservare le norme o è ridotta ad
una decisione di principio ad osservare le norme.
Questa rappresentazione della decisione è però assai riduttiva rispetto all' ef­
fettiva dinamica delle nostre scelte. La decisione è solo un momento della
scelta; l'analisi che segue vuol richiamare l'attenzione su altri momenti che
sono trascurati in questa rappresentazione. Proprio tale analisi indurrà ad
adottare il concetto massimale ed inclusivo di virtù.
Partiamo da quell'attuazione che prepara la scelta, e cioè dalla delibera­
zione. Il soggetto che delibera non ha una volontà neutra nei confronti dei pos­
sibili corsi d'azione, ma al contrario sollecitata sia da desideri passionali di
ogni tipo, sia da interessi razionali. Egli ha da scegliere, prima ancora che tra
le azioni, tra le attrattive passionali o razionali. Una volta ch'egli ha dato il suo
consenso ad una di queste attrattive e l'abbia assunta nel suo volere, egli sce­
glierà l'azione concreta e circostanziata che realizzi in se stessa l'intenzione as­
sunta e proprio per la ragione che l'azione realizza la sua intenzione.
Vi è dunque una complessità nell'oggetto della scelta che richiede una com­
plessità nell'atto della scelta.
(9) 3 ) Nell'oggetto della scelta riscontriamo due aspetti: vi è ciò che è scelto
e vi è la ragione per sceglierlo. Ciò che è scelto è costituito dall'azione descritta
nella sua singolarità, in funzione delle circostanze concrete. La ragione per sce­
gliere è costituita da ciò in vista di cui si sceglie tale azione, cioè dallo scopo o
intento che il soggetto mette in tale azione. All'azione circostanziata il soggetto
perviene precisamente in quanto la scorge come idonea alla realizzazione dello
scopo o intento da .lui adottato.
Virtù e condotta 157

È questo intento che specifica e contraddistingue le azioni. L'azione di soc­


correre un bisognoso non è la stessa, dal punto di vista del soggetto agente, se
realizzata per senso di pietà, per impulso di generosità, per dovere di amicizia,
o per vanagloria.
Per esprimere il rapporto tra l'intento o scopo e l'azione circostanziata di
solito si fa ricorso al binomio fine/mezzi. Ma il binomio si presta ad ambi­
guità: lo studio è mezzo sia per raggiungere quel fine che è la laurea sia per rea­
lizzare quel fine che è la scienza. Nel primo caso parleremo di fine-meta e di
mezzo-strumento: qui il fine è esteriore al mezzo. Nel secondo caso parleremo
di fine-scopo e di mezzo-mediazione: 10 qui il fine è immanente alla media­
zione, realizzato o concretizzato o esemplificato in essa. Questa precisazione, ve­
dremo, 11 ha la sua importanza per comprendere il rapporto tra vita buona e
azioni virtuose, tra scopo virtuoso e azioni virtuose.
( 1 0) 4) Conseguentemente alla complessità nell'oggetto, vi è una comples­
sità nell'atto della scelta. In essa dovremo distinguere due atti parziali o inte­
granti: l'uno relativo allo scopo e lo chiameremo intenzione; l'altro relativo alla
mediazione concreta e lo chiameremo scelta vera e propria. L'intenzione va allo
scopo in quanto attende ancora la sua mediazione concreta ed è ragione per
cercarla e per sceglierla. La scelta va all'azione circostanziata per la precisa ra­
gione che essa è giudicata dal soggetto come mediazione concreta dello scopo
cui egli attualmente intende.
(1 1 ) 5) Questa distinzione tra intenzione e scelta dev'essere intesa in senso
puramente funzionale: essa designa il modo con cui la volontà si applica a
qualsiasi oggetto. Con questa precisazione possiamo ora richiamare l'atten­
zione su un'altra complessità dell'atto interiore. Io posso dare denaro a un bi­
sognoso proprio per soccorrerlo; ma soccorrendo i bisognosi io intendo realiz­
zare nella mia vita l'amore per Dio e per il prossimo. Ciò significa che vi pos­
sono essere nel soggetto agente più intenzioni subordinate l'una all'altra. Esse
differiscono per la loro portata, cioè per le scelte diverse che possono coman­
dare; detto in altro modo, per la generalità del loro oggetto. Distingueremo
pertanto intenzioni generali, intenzioni specifiche, intenzioni particolari. Questa
distinzione permette di rilevare che quelle intenzioni inferiori, che sono princi­
pio immediato di scelte dettagliate, a loro volta possono costituire il risultato
d'una scelta che ha assunto come principio un'intenzione superiore. Così le in­
tenzioni particolari possono essere scelte a partire dalle intenzioni specifiche, e
le intenzioni specifiche possono essere scelte a partire dalle intenzioni generali.
Questa considerazione permette di avvertire quanto grande sia la libertà
del soggetto agente nella produzione dell'atto interiore. Essa tuttavia incontra

10
Per esprimere con una parola sola l'espressione aristotelica ta pros to telos o quella tomi­
sta ea quae sunt ad finem.
1 1 V. sotto V 47, 53.
158 Capitolo IV

il suo limite, e la sua condizione di possibilità, in un'intenzione generalissima,


che dev'essere ultima (nell'ordine della nostra ricerca) o prima (nell'ordine
della genesi dell'atto) . Senza questa intenzione primordiale non si darebbero
atti interiori né azioni esteriori.
Ritroviamo qui quella volontà naturale di vita buona di cui parlavamo a pro­
posito della felicità.12 Infatti gli scopi che il soggetto adotta nelle sue inten­
zioni sono ragioni per scegliere e per agire in quanto rappresentano per lui un
modo di realizzare la vita buona o felice, verso la quale la sua volontà prova un
naturale interesse od una naturale inclinazione. La vita buona costituisce lo
scopo universale di tutte le attuazioni volontarie, in quanto è il fondamento ul­
timo di tutte le ragioni per agire che il soggetto si dà.
Di questo scopo universale abbiamo già detto e diremo ancora. Qui inte­
ressa situare le intenzioni e le scelte in rapporto a esso. Utilizzando il nostro bi­
nomio scopo/mediazioni, diremo che le intenzioni costituiscono specificazioni
sempre più particolari di quello scopo ultimo che è la vita buona; le scelte costi­
tuiscono mediazioni sempre più concrete e circostanziate di quello stesso scopo
universale. La vita buona è scopo universale che trova la sua realizzazione nelle
intenzioni e nelle scelte, è immaneNte a esse; della vita buona le intenzioni e le
scelte costituiscono l'esemplificazione concreta.
( 1 2) 6) Ciò dicendo si mette allo scoperto il principio che conferisce unità
alla condotta e continuità alle azioni variabili. 13 Le singole azioni, nella loro
diversità circostanziata, sono tra loro comunicanti nella misura in cui sono esem­
plificazioni diverse d'una stessa intenzione; ulteriormente le intenzioni diverse
sono tra loro comunicanti in quanto sono specificazioni della concezione e del­
l'interesse che il soggetto ha per la vita buona. Quella continuità nella diver­
sità, che abbiamo notato essere una caratteristica delle pratiche e della con­
dotta, 14 trova la sua spiegazione proprio nel fatto che le azioni esprimono in­
tenzioni e, ulteriormente, esprimono una volontà naturale di vita buona.
D'altra parte la volontà naturale e indeterminata di vita buona conferisce a
se stessa, nelle intenzioni e nelle scelte, una determinazione. Ciò equivale a
dire che, nelle intenzioni e nelle scelte, il soggetto agente definisce la propria
identità come autore volontario, determina chi egli intenda essere, si qualifica
moralmente. Inoltre questa determinazione persiste in lui come inclinazione ac­
quisita al di là della scelta e dell'azione momentanea, sicché può diventare
tratto di carattere virtuoso o vizioso. Incominciamo a individuare il luogo psico­
logico proprio della virtù; ma prima di dedicarvi esplicita considerazione, dob­
biamo soffermarci sulla dinamica che dalle intenzioni porta alle scelte e alle
azioni.

12 V. sopra I 34-36.
13 V. sopra I 20-2 1 .
14 V. sopra IV 3-4.
Virtù e condotta 159

2. Dalle intenzioni alle scelte

(13) 1) Il termine scelta, più che il termine decisione, connota che il soggetto
agente ha una ragione per scegliere e che giudica la convenienza dell'azione in
base a quella ragione. La scelta è atto volontario, ma ragionato, e la ragione
opera nella scelta emettendo un giudizio che chiameremo giudizio pratico ul­
timo. In esso l'azione è giudicata in particulari; il soggetto ritiene che hic et
nunc, nelle circostanze concrete l'azione x è l'azione conveniente a lui, quest'in­
dividuo concreto, con queste convinzioni, con queste disposizioni, con questi
desideri, con queste intenzioni. Con la scelta il soggetto assume questo giudizio
come suo, come quello che hic et nunc esprime ciò che egli vuol essere.
Ciò facendo egli ratifica definitivamente una certa intenzione, preferendola
ad altre concorrenti, e la rende efficace. L'intenzione non è ancora la scelta, ne
è il principio; la prepara, non la termina. L'oggetto dell'intenzione è l'azione,
non in quanto circostanziata e conveniente a lui hic et nunc, ma in quanto,
ancor solo genericamente, essa può realizzare lo scopo cui il soggetto intende e
che costituisce la sua ragione per scegliere.
Anche quando l'intenzione stessa fosse a sua volta scelta in forza di un'in­
tenzione superiore più generale, l'intenzione inferiore, più particolare, non è an­
cora scelta compiuta e dettagliata, ma solo preparazione per essa. Questo è il
caso degl'impegni basilari, delle opzioni di principio e, come vedremo, 15 delle
intenzioni che mirano allo scopo virtuoso. Dall'intenzione preparatoria alla
scelta compiuta il tragitto è periglioso e facilmente il soggetto può fare naufra­
gio, per le cause che ora vedremo.
( 1 4) 2) La concretizzazione dell'intenzione nella scelta è opera complessa e
non se ne può dare spiegazione se non ricorrendo alla distinzione, almeno con­
cettuale, di diverse facoltà. 16 Siamo nel momento della deliberazione, più o
meno articolata ed esplicita, più o meno attuale o virtuale.
Essa è principalmente opera della ragion pratica, la quale valuta l'idoneità di
possibili corsi d'azione a realizzare nelle circostanze concrete la concezione che
il soggetto ha della vita buona e le intenzioni in cui essa s'articola. Se la valuta­
zione è moralmente corretta, essa valuta l'idoneità delle possibili azioni a realiz­
zare i beni umani basilari secondo la regola morale. Nemmeno in questo caso
però la ragione valuta indipendentemente dai desideri razionali e passionali e
dalle disposizioni caratteriali che il soggetto ha: qui infatti siamo nella considera­
zione in particulari, ove occorre stabilire non solo la correttezza morale d'un' a­
zione, ma anche la sua convenienza al soggetto concreto. 17 Quale azione sia

1'
V. sotto IV 16; V 47, 58 e sopra II 45.
16
La questione della distinzione reale delle facoltà tra di loro e dall'anima non è di spet­
tanza dell'etica: cf. Etica Nicomachea I = 1 102 a 28-30; Sententia Libri Ethicorum I, 19 Deinde =
Ed. leon. XLVII, 69, 105-120.
17 V. De Malo 6c, cit. sopra cap. III, n. 28.
160 Capitolo IV

giudicata conveniente, quale intenzione sia da avvallare, quali circostanze ven­


gano avvertite o considerate rilevanti, dipende dallo stato appetitivo e affettivo
del soggetto.18 Orbene, nella considerazione in particulari, dove s'ha da giudi­
care dell'azione nella sua singolarità, « l'appetito sensitivo, proprio perché è
una facoltà che ha per oggetto ciò che è particolare, ha grande influsso nel di­
sporre l'uomo in modo tale che ciò che è singolare gli appaia in un modo o
nell'altro».19 Le disposizioni e le passioni dell'appetito sensitivo possono es­
sere corrette o no, conformi alla regola morale o no; possono pertanto favorire
od ostacolare l'esercizio della ragione pratica nell'applicazione della regola mo­
rale all'azione circostanziata.
La ragione deliberante non concluderebbe da se stessa a un giudizio pra­
tico ultimo: essa infatti può moltiplicare all'infinito la considerazione dei pro e
dei contro.
Per concludere la deliberazione occorre l'intervento della volontà razionale,
con la quale il soggetto assume un giudizio pratico particolare come suo pro­
prio e lo fa esser ultimo: è questo intervento che denominiamo scelta. In essa
il soggetto aderisce definitivamente a un'azione concreta così com' essa è valu­
tata nell'ultimo giudizio pratico.
L'esecuzione dell'azione però richiede l'intervento delle altre facoltà e sono
da superare nuove difficoltà, provenienti dalla facile mutabilità dell'individuo e
della situazione. Stando così le cose la scelta non produce I' azione senza una
direttiva voluta o comando (precetto della ragion pratica in particulari) e senza
che la volontà muova all'esecuzione le altre facoltà.
(1 5) 3) Con questa rappresentazione della scelta siamo ben lontani dall'idea
d'una decisione che emana da una libera volontà neutra e indifferente. Siamo
anche lontani da una concezione della ragion pratica che trascura di notare la
differenza tra considerazione in universali e considerazione in particulari. Nel
secondo momento la ragione non procede, come nel primo, per via di sussun­
zione d'un'azione data sotto una norma logicamente universale, né ha solo a
che fare con norme specifiche. In particulari la ragione stabilisce fini, valuta in
che modo le possibili azioni li concretizzano, rileva circostanze, inventa nuovi
corsi d'azione; tutto ciò in stretta dipendenza dalla volontà e dall'appetito sen­
sitivo. In questo contesto essa procede all'applicazione delle norme: operazione
più complessa che la semplice sussunzione, in quanto si tratta di adattare pro­
posizioni logicamente universali ad azioni singolari ben più complesse di
quanto siano descritte nel soggetto logico delle proposizioni normative.
Inoltre il processo che porta a concretizzare le intenzioni nelle scelte e pro­
lunga queste nelle azioni è suscettibile, proprio per la sua complessità, di

��
1 8 V. sopra II 25, n. 56 e 57; II 45 per il peso che ha nella teoria tomista il defro ;;j� t�­
lico: «Qualis unusquisque est, talis finis videtur ei» (Etica Nicomachea III, 5 = 1 1 14 a 32; I-II, 9,
2c).
19 Cf. I-II, 9, 2, 2m.
Virtù e condotta 161

grande mobilità e precarietà. In particulari le intenzioni della volontà razionale


possono cedere alle intenzioni avanzate dalle passioni; le passioni stesse, in
quanto sensitive e corporali e specificate da beni sensibili e particolari, sono di
una estrema mutabilità. Le circostanze che accompagnano una scelta possono
cambiare nel corso dell'esecuzione e richiedere di rinnovare la scelta in un
nuovo contesto. Stando così le cose, le facoltà coinvolte nella produzione della
scelta e d�ll'azione possono intervenire in rapporti diversi tra di esse: possono
prevalere le facoltà razionali o le facoltà passionali.
Questa situazione di mobilità e di precarietà rende manifesto che solo nelle
scelte compiute e particolari si mostrano il vigore o la fragilità morale del sog­
getto agente, le sue eccellenze o le sue deficienze morali, le sue virtù o i suoi
vizi. La laboriosa gestazione delle scelte concrete è il luogo proprio delle virtù.
(1 6) Quest'analisi permette di scoprire quanto inadeguata sia la teoria del­
l'opzione fondamentale oggi diffusa presso i teologi moralisti.20 Secondo que­
sta teoria la qualità morale della condotta non dipenderebbe dalle scelte detta­
gliate che hanno per oggetto azioni particolari circostanziate, bensì da una de­
cisione che vien chiamata fondamentale perché ha per oggetto la moralità
come tale o il rapporto con Dio. Questa opzione sarebbe effettuata a un livello
di coscienza che vien detto trascendentale, in opposizione a quello categoriale,
perché coinvolge la persona nella sua totalità e non solo nei suoi atti periferici.
Tra l'opzione fondamentale e le scelte categoriali o periferiche non vi è intima
connessione, sicché si possono effettuare scelte categoriali in contraddizione
con l'opzione fondamentale senza che quest'ultima sia revocata. Data la stabi­
lità dell'opzione fondamentale, essa viene identificata con un atteggiamento e
quindi, quando è retta, con la virtù.
Questa rappresentazione delle scelte e dell'opzione fondamentale si presta
a parecchie critiche. Qui rilevo solo quanto essa deformi la nostra esperienza
delle scelte. Il soggetto che emette l'opzione fondamentale non è il soggetto
umano che siamo noi: con la discorsività della nostra conoscenza razionale, sem­
pre parziale, noi non riusciamo a pervenire ad un'opzione assoluta, totale; con
la diversità delle nostre facoltà operative noi abbiamo difficoltà a realizzare le
nostre intenzioni in scelte compiute. È relativamente facile per noi prendere
una decisione di principio; ma essa non è ancora una scelta compiuta, bensl
solo una remota preparazione. Le battaglie della vita non avvengono a questo
livello; si vincono o si perdono nelle scelte compiute e dettagliate, sulle quali in­
fluiscono la variazione delle circostanze, le nostre disposizioni caratteriali, le no­
stre passioni, la discorsività d'una conoscenza che passa da una considerazione
particolare a un'altra.21 D'altra parte le scelte compiute, non perché sono par-

20
Per un'esposizione ed una critica, da altri punti di vista, delle teorie del!' opzione fonda­
mentale, cf. GRISEZ, Christian Mora! Principles 382-390; Alberto GALLI, L'opzione fondamentale, in
Sacra Doctrina 28 ( 1983) 46-66; Io., L'opzione fondamentale esistenzialistica ed il peccato, ivi 30
( 1985) 2 13 -239.
21
Cf. De Malo 6.
162 Capitolo IV

ticolari o dettagliate, sono periferiche nella vita della persona. Esse anzi la qua­
lificano moralmente in quanto ratificano o smentiscono definitivamente le sue
intenzioni ed esprimono la sua concezione della vita buona. Sicché proprio per
garantire la loro difficile, precaria, mutabile rettitudine sono necessarie le
virtù.

lii. LE VIRTÙ NELLA CONDOTTA UMANA

( 1 7) La psicologia dell'azione che ho delineato consente di render conto di


quella nozione inclusiva e massimale di virtù che l'esperienza morale ci ha sugge­
rito. Secondo tale nozione, ripetiamo, le virtù sono disposizioni stabili e uni­
formi (a livello di atteggiamento) , che introducono una determinazione nei
principi operativi della condotta volontaria, in modo tale che questa eccelle
nel realizzare la vita veramente e doverosamente buona, conforme alla regola
della ragionevolezza pratica. Lasciando per i capitoli seguenti la spiegazione
del concetto di vita buona e di ragionevolezza pratica, po.ssiamo ora spiegare la
struttura psicologica della virtù.
( 1 8) 1 ) In quanto sono atteggiamenti, le virtù introducono nelle azioni uni­
formità e continuità nella variazione: uniformità quanto al criterio regolatore
che resta identico in azioni diverse; variazione quanto alla configurazione con­
creta delle azioni.22 La psicologia dell'azione mostra che l'uniformità è relativa
allo scopo e alla corrispondente intenzione, mentre la variazione è relativa alle
azioni e alle corrispondenti scelte. La virtù pertanto ha una struttura psicologica
diversa dall'abitudine e non può esser ridotta all'habit. L'abitudine o habit in­
clina a ripetere un comportamento determinato indipendentemente dal variare
delle circostanze; inoltre non comporta una consapevolezza ragionata, né per­
tanto una scelta né una ragione per agire. Invece la virtù potenzia proprio la
consapevolezza del soggetto e pertanto la sua capacità di scegliere e di agire ih
base a delle ragioni. La virtù non inclina immediatamente ad azioni concrete
corrette, aggiungendo ad esse tutt'al più una motivazione pertinente, relativa
appunto alla rettitudine. La virtù raggiunge l'azione solo mediatamente, poten­
ziando le facoltà operative con cui il soggetto genera interiormente e volontaria­
mente l'azione. Essa influisce immediatamente sulle intenzioni, fissandole su
scopi moralmente giusti . (scopi virtuosi), che specificano la concezione della
vita veramente e doverosamente buona. Conseguentemente essa dispone a cer­
care e a scegliere azioni che concretizzino lo scopo virtuoso in modo appro­
priato alle circostanze, e a sceglierle proprio per questa ragione. Fissa nello
scopo, essa sarà in grado di adattarsi alla variazione delle circostanze e di pro­
durre azioni che nella loro configurazione concreta sono diverse. Essa cadr� su
azioni rette, ma vi cadrà non solo per amore di rettitudine, bensl percl:l.��esse

22
V. sopra III 3b, 7b.
Virtù e condotta 163

rappresentano la concretizzazione di intenzioni che definiscono chi è moral­


mente il soggetto autore di condotta.
Per designare senza equivoci questa struttura psicologica della virtù non vi
è di meglio che il termine habitus, intraducibile in italiano e il cui significato è
esattamente opposto a quello dell'inglese habit. Habitus connota sia possesso,
sia modo di esser disposto verso qualcosa.23 Sul concetto di disposizione dirò
tra poco. Preciso invece subito il modo con cui lhabitus costituisce un pos­
sesso per il soggetto agente. Esso introduce nelle facoltà operative della con­
dotta volontaria una determinazione stabile. La determinazione non dev'essere
intesa come opposta alla libertà di scelta, come se più determinazioni ci fos­
sero, minore sarebbe la libertà di scelta; ma come inclinazione che, senza dimi­
nuire la libertà di scelta, resta a disposizione del soggetto,24 gli fornisce una
preparazione che gli accresce le possibilità di scelta, in quanto lo rende idoneo
a scegliere anche in modo moralmente perfetto, idoneità che senza virtù egli
non avrebbe immediatamente a disposizione.
Quanto alla stabilità della determinazione introdotta dall'habitus, essa è per
lo meno intrinseca,25 nel senso che il soggetto che dispone dell'inclinazione
allo scopo virtuoso, possiede il principio che gli consente di produrre azioni
moralmente giuste: benché le azioni siano concretamente variabili, egli non vi
arriva per caso o per ragioni contingenti, ma perché le giudica quali esse sono,
concretizzazioni singolari d'una propria intenzione virtuosa.
( 1 9) 2 ) La concretizzazione delle intenzioni in scelte ed azioni è, come ab­
biamo visto, operazione complessa, nella quale sono all'opera ragione, volontà
e passioni in intima connessione. Perché questa operazione riesca moralmente
bene occorre che tutti questi principi operativi siano virtuosamente formati, la vo­
lontà e gli appetiti passionali in rapporto alla ragione, la ragione in rapporto a
sua volta alla volontà e agli appetiti passionali.
Abbiamo osservato infatti che gli scopi che sono oggetto delle intenzioni co­
stituiscono specificazioni della concezione che il soggetto ha della vita buona.
Scopi retti specificano la concezione retta. Ora, come vedremo nei capitoli se­
guenti (V 35; VII 8), la ragione è naturalmente capace di fornire i principi rego­
latori della vita veramente buona e quindi gli scopi che la articolano. A questo
livello essa non abbisogna di virtù vera e propria, ma ha una disposizione natu­
rale che nel vocabolario scolastico e tomista viene denominata sinderesi, l'habi­
tus che dispone ad apprendere i primi principi dell'ordine pratico.

2' «Hoc nomen habitus ab habendo est sumptum. A quo quidem nomen habitus dupliciter
derivatur: uno quidem modo, secundum quod homo, ve! quaecumque alia res, dicitur aliquid ha­
bere; alio modo, secundum quod aliqua res aliquo modo se habet in seipsa ve! ad aliquid aliud» (I­
II, 49, le) .
24 « Sed contra est quod Augustinus dicit, in libro de Bono Coniugali, quod habitus est quo
aliquid agitur cum opus est. Et Commentator dicit, in III de Anima, quod habitus est quo quis agit
cum voluerit» (1-11, 49, 3 sed contra). Al detto di Averroè ricorre sovente Tommaso.
2' V. sopra III 7a.
164 Capitolo IV

La virtù vera e propria incomincia ad essere necessaria per determinare vo­


lontà e passioni verso gli scopi retti. Vedremo più avanti le ragioni di questa ne­
cessità.26 Qui occorre riflettere sul fatto che sia l'appetito razionale o volontà,
sia l'appetito passionale richiedono il perfezionamento virtuoso. Abbiamo visto
infatti che nel momento in cui la ragion pratica considera i particolari opera­
bili in particulari le passioni hanno gran peso nel far apparire conveniente al
soggetto uno scopo piuttosto che un altro. Qui occorre virtù, non solo affinché
la volontà persista nell'intendere agli scopi retti prescritti dalla ragion pratica,
ma anche affinché gli appetiti passionali siano docili alla retta ragione e alla
retta volontà.
Non si renderebbe conto dell'esperienza morale se si trascurasse il ruolo
degli appetiti passionali nella condotta. Data la natura corporale animale, oltre
che razionale, delle persone umane, la condotta umana non è solo operazione
razionale, ma coinvolge anche il complesso mondo delle passioni. Benché que­
ste siano moti dell'appetito sensitivo relativamente autonomi dalla ragione, poi­
ché sono essenzialmente legati all'animalità e alla corporeità, tuttavia in certa
misura sono educabili dalla ragione; esse possono essere indotte ad assecon­
dare l'interesse per la vita veramente buona e per gli scopi virtuosi che la speci­
ficano. Vivere la vita veramente buona richiede non solo l'esercizio della ra­
gione e della libera volontà, ma anche l'esercizio di passioni educate. È vera­
mente buona la vita di quel soggetto che non solo sa scegliere rettamente, ma
partecipa emotivamente alla buona condotta, si appassiona per il bene e per il
male morale, lo desidera o lo rifugge anche passionalmente, per esso sente
amore od odio, piacere o tristezza, speranza o timore, ecc. Anche gli appetiti
passionali pertanto, nella misura in cui sono educabili, sono s'uscettibili di per­
fezione virtuosa.
(20) Gli scopi retti, cui le virtù morali inclinano volontà e appetiti passio­
nali, attendono però una loro definizione concreta in qualche azione circostan­
ziata. Qui interviene nuovamente la ragione, non più nella sua funzione sovrana
di prescrivere gli scopi virtuosi, ma in una funzione ancillare, a servizio delle
rette intenzioni. Mossa dalla retta volontà e da retti appetiti passionali, che in­
tendono a scopi virtuosi, essa cerca le vie di realizzazione concreta, operando
confronti, discernimento, prevedendo, consultando, inventando, osservando,
giudicando.
Il soggetto, ben dispos,to dalle rette intenzioni, fermerà liberamente la con­
siderazione della ragion pratica su un giudizio pratico ultimo, nel quale l' a­
zione è giudicata conveniente ai suoi retti e virtuosi desideri. Gli appetiti, razio­
nale e passionale, resi docili dalle virtù, saranno docili a ricevere la direttiva vo­
luta o comando che deriva dalla scelta. Per quest'opera di ricerca deliberante,
di giudizio pratico ultimo, di comando la ragione richiede un 'apposita virtù, la
saggezza pratica (phronesis, prudentia ) .

26 V . sotto V 34-36.
Virtù e condotta 165

(21 ) La struttura psicologica della virtù appare dunque complessa. Essa è una
perfezione del carattere che implica sempre ragione, volontà e appetito passio­
nale. Essa perfeziona la volontà e gli appetiti passionali in ordine agli scopi che
la ragione naturalmente prescrive circa la vita veramente buona e in ordine alle
azioni concrete che la ragione saggia giudica e comanda; la virtù perfeziona la
ragione in ordine alle rette intenzioni, a servizio delle quali e mossa dalle quali
essa diventa pratica in particulari, cercando, giudicando e comandando le
azioni giuste e la misura giusta con cui gli appetiti passionali devono interve­
nire nella condotta.
Per quanto intima sia la connessione dei diversi aspetti della virtù, è tut­
tavia conveniente mantenere la distinzione, almeno concettuale, dei diversi
aspetti e parlare d'una molteplicità di virtù specificamente distinte. Distingue­
remo da un lato la saggezza pratica come virtù della ragion pratica che conferi­
sce perfezione formale alle altre virtù; dall'altro lato le virtù morali o del carat­
tere o degli appetiti, che muovono la prudenza a servizio dei loro scopi e rice­
vono da essa, nel comando dell'azione giusta o della giusta misura, la loro per­
fezione formale.
Siamo ora in grado di comprendere perché le virtù siano disposizioni, cioè
ordine tra parti. Innanzitutto esse dispongono le une verso le altre le facoltà
operative della condotta volontaria. Inoltre esse dispongono ciascuna facoltà
operativa riducendo l'indeterminatezza delle potenzialità.
(22) 3) Abbiamo awertito27 che le intenzioni e le scelte, in quanto sono de­
terminazioni che il soggetto dà a se stesso, definiscono il suo carattere, la sua
qualità morale come autore di condotta; che, inoltre, intenzioni e scelte, anche
quando sono cessate, lasciano nelle facoltà operative una traccia, una propen­
sione a intenzioni e scelte dello stesso tipo. Esattamente queste propensioni o
disposizioni sono le virtù.
Le virtù pertanto qualzficano moralmente il carattere morale dell'autore di
condotta, definiscono chi egli è, non a livello ontologico, ma al livello delle at­
tuazioni volontarie; determinano l'essere morale, che si manifesta nell'agire.
(23) Il rapporto tra l'essere morale del soggetto agente' e le sue espressioni
nella condotta non viene però rappresentato in modo adeguàto alla nostra espe­
rienza delle scelte quando si concepisce l'atteggiamento virtuoso come « la par­
zializzazione dell'opzione fondamentale in qualche campo dell'esistenza» mo­
rale, e conseguentemente si concepisce l'atto morale come « la manifestazione
(il segno: in quanto significazione e contenuto) della opzione fondamen­
tale».28 Questa rappresentazione è comune a quei teologi moralisti che adot­
tano la teoria dell'opzione fondamentale. Secondo tale rappresentazione la de-

27 V. sopra IV 12.
28 Marciano VIDAL, Mora! de actitudes. Tomo primero: Mora! fundamental, Madrid ' 1975,
238.
166 Capitolo IV

cisione che qualifica definitivamente il soggetto morale non awiene nelle scelte
dettagliate, periferiche, categoriali, ma in una decisione di principio che
orienta la persona come un tutto pro o contro Dio, pro o contro la moralità.
Di questa opzione fondamentale sono specificazioni gli atteggiamenti virtuosi;
le scelte minute scaturiscono spontaneamente dall'opzione fondamentale e ne
sono il segno.
Questa teoria si presta a critiche sia quanto al modo con cui viene esposta,
sia quanto agli argomenti su cui si basa, sia quanto alla sua verità. Da quest'ul­
timo punto di vista interessa qui rilevare che essa deforma il nostro modo di
fare le scelte e quindi di definire la nostra identità morale. Le nostre scelte non
fluiscono spontaneamente da supposte decisioni di fondo,29 ma sono la conclu­
sione d'una ricerca esitante nella quale il soggetto sente in ogni caso la forza
degli appetiti passionali; nel migliore dei casi, se è anche virtuoso, awertirà l'at­
trattiva delle azioni che concretizzano la vita veramente buona secondo la re­
gola morale. Solo nella scelta compiuta e circostanziata egli risolve l'esitazione
e decide non solo che cosa fare, ma anche per quale ragione farlo, ratificando
l'una o l'altra intenzione. Pertanto la definizione di chi si vuol essere come au­
tori di condotta avviene nelle scelte minute, che sono tutt'altro che peri/eriche.
Gli atteggiamenti virtuosi definiscono l'essere del soggetto agente non perché
parzializzino l'opzione fondamentale, ma perché dispongono e preparano il
soggetto a definirsi moralmente bene nelle scelte minute e nelle azioni con­
crete, mettendogli a disposizione rette intenzioni come ragioni sue per sce­
gliere e per agire moralmente bene.
(24) 4) Sin qui abbiamo spiegato la nozione inclusiva e massimale di virtù
dal punto di vista psicologico; ma l'esperienza morale ci ha fatto riscontrare
anche un punto di vista valutativo.30 In ordine alla vita veramente e doverosa­
mente buona, conforme alla regola della ragion pratica, le virtù sono eccel­
lenze, i vizi sono deficienze. Spiegheremo nei prossimi capitoli che cosa signifi­
cano vita veramente buona e regola della ragion pratica. Qui invece dobbiamo
spiegare in che modo le virtù sono eccellenze e i vizi sono deficienze.
La spiegazione che abbiamo dato della dinamica delle scelte ha messo in
chiaro che le scelte cadono su azioni circostanziate in quanto in esse si realizza
un intento. Entrambi gli aspetti sono rilevanti per la vita buona ed hanno una
relazione con la regola morale. L'intento, ciò che il soggetto si propone di rea­
lizzare nell'azione e che è. la sua ragione per agire, è una specificazione della
sua concezione della vita buona. Le circostanze influiscono nel determinare che
questa azione hic et nunc e non un'altra è conveniente al soggetto agente: ca­
dono perciò sotto la sua responsabilità. Abbiamo anche osservato3' che a sua

29 Cf. Alberto GALLI, Morale della legge e morale della spontaneità, in Sacra Doctrina 19
( 1974) 457-497.
30 V. sopra III 8-9.
31 V. sopra IV 1 1.
Virtù e condotta 167

volta l'intento può essere articolato, essere cioè esso stesso considerato come
una mediazione particolare d'un intento più generale. Per esprimere questa ar­
ticolazione distingueremo tra intento prossimo e fine ulteriore. Entrambi sono
propositi del soggetto agente, ma il primo conferi�ce all'azione la sua specie im­
mediata e particolare, il secondo la sua specie principale: infatti è in ragione
del fine remoto (per esempio, farsi un buon nome) che il soggetto adotta un in­
tento particolare (per esempio, soccorrere un bisognoso) . Se si giudica l'azione
dal punto di vista dell'osservatore, l'azione è specificata dall'intento immediato
ed il fine remoto appare come una circostanza, magari la circostanza principa­
lissima; se si giudica l'azione dal punto di vista dell'autore allora il fine remoto
conferisce all'azione una specie che sta alla specie conferita dall'intento come
forma a materia: il fine remoto si serve dell'intento prossimo per realizzarsi.
Quest'importanza del fine ulteriore lo rende particolarmente rilevante per la
vita buona e richiede che anch'esso sia valutato secondo la regola morale.
Stando cosl le cose, la bontà morale delle scelte che esemplificano la vita ve­
ramente buona è una qualità complessa, alla quale contribuiscono la bontà mo­
rale del fine, dell'intento, delle circostanze. Poiché questi tre elementi sono
tutti oggetto di libera volontà, tutti e tre la qualificano moralmente. Devono
perciò essere retti tutti e tre affinché la scelta sia moralmente buona. La bontà
morale delle scelte è dunque una perfezione, un'eccellenza, che può esser rovi­
nata da parecchi difetti. Vivere la vita veramente buona richiede non solo di
compiere azioni giuste quanto all'intento, ma anche nelle circostanze giuste e
per i fini giusti. Solo le scelte che sono attuazioni eccellenti esemplificano la vita
veramente buona, la vera felicità.
Per le ragioni che abbiamo già visto e per quelle che vedremo ancora,32 il
soggetto umano non è naturalmente preparato a porre simili attuazioni eccel­
lenti: abbisogna di virtù. In quanto le virtù dispongono le facoltà operative del
soggetto ad operare coordinatamente per la produzione di attuazioni eccellenti
(scelte ed azioni moralmente rette) , sono esse stesse eccellenze, principio di
vita veramente buona e di vera felicità.
(25) L'analisi della condotta umana che ho sviluppato permette d'iniziare a
capire perché nella condotta umana siano possibili e necessarie eccellenze del
tipo di habitus virtuosi. Il seguito della teoria mostrerà altre ragioni. Per in­
tanto abbiamo acquisito che la condotta umana, a causa della discorsività della
ragione umana e della volontà che ne dipende e a causa della diversità delle fa­
coltà operative che intervengono, è assai complicata, mobile, fragile. Lo scopo
ultimo che è la vita veramente buona, realizzata in scelte ordinate secondo la
regola della ragion pratica ci apparirà come assai elevato e complesso; la regola
solo in minima parte è data, per buona parte ci apparirà come da elaborare da
parte dello stesso soggetto. In queste condizioni condurre rettamente la vita
perché riesca veramente buona è impresa ardua. Vedremo che il soggetto

32 V. sopra IV 19 e sotto V 34-36.


168 Capitolo IV

umano ne è naturalmente capace, ma non vi è naturalmente preparato. Sicché


per lo più la condotta sarà difettosa. L'attitudine a condursi bene è da appren­
dere. Per quel che abbiamo visto, quest'attitudine (da aptitudo) consisterà pre­
cisamente in habitus virtuosi che mettono a disposizione del soggetto rette in­
tenzioni, l'abilità a ragionare per realizzarle in scelte ben fatte, la docilità degli
appetiti al giusto comando della ragione. .
Questi habitus sono necessari precisamente nella libera volontà, nella ra­
gione e nelle passioni in quanto operano a servizio della libera volontà. Non
hanno nulla a che fare con gli habits e le disposizioni di cui parlano gli psico­
logi, in quanto non sono di ordine psicosomatico, ma spirituale;33 non sono
abitudini nel senso corrente della parola.34 Non sono l'effetto prodotto nel ca­
rattere da una vita moralmente retta, ma il principio che fa possibile una vita
morale perfetta, eccellente.
La natura delle virtù e le ragioni della loro possibilità e necessità solo in
parte sono affiorate dall'analisi della condotta. Una teoria della virtù, intesa se­
cdndo la nozione massimale e inclusiva, richiede ancora un'investigazione sulla
vita buona e sulla regola della ragion pratica.

" Il carattere spirituale degli habitus è bene spiegato da dom Placide DE ROTON, Les habi­
tus. Leur caractère spirituel, Paris 1974.
" Cf. Servais PINCKAERS, Habitude et Habitus, in Dictionnaire de spiritualité VII, Paris
1969, 2- 1 1 ; Io., La vertu est toute autre chose qu'une habitude, in Nouvelle Revue Théologique 82
( 1960) 387-403, riprodotto in Io., Le renouveau de la morale, Tournai 1964, 144-164.
Capitolo V

VIRTÙ E VITA BUONA

(1 ) Più volte abbiamo riscontrato che il concetto di condotta umana ri­


chiede il concetto di vita buona: le azioni volontarie d'un individuo umano co­
stituiscono una condotta, e non sono isolate tra di loro, per il fatto che il sog­
getto le concepisce come esemplificazioni e concretizzazioni d'una sua conce­
zione della vita buona e felice. D'altra parte, benché ognuno si faccia una sua
concezione della vita buona, il fatto che noi argomentiamo per criticare e giu­
dicare le diverse concezioni significa che non ogni concezione è ammissibile
dal punto di vista morale. Vi sono concezioni degne e indegne, encomiabili e
detestabili, ammirabili ed esecrabili. Entro certi limiti da definire ognuno è ar­
bitro della propria vita; oltre quei limiti ci sentiamo legati ad una concezione
doverosa (I) . S'impone pertanto una ricerca della concezione vera.
Questa ricerca è stata condotta solo in parte nel I capitolo: là abbiamo ap­
pena accennato al ruolo della ragion pratica nello stabilire qual è la vera feli­
cità. Proprio su questo ruolo dobbiamo ora soffermarci, giacché esso è essen­
ziale per comprendere la natura delle virtù e la loro funzione nella vita buona.
Ora, poiché la ragion pratica procede discorsivamente a porre giudizi pra­
tici sulla base di principi, dobbiamo accostarla, per dare di essa una spiega­
zione, innanzitutto al livello dei principi e ricercare quel primo principio della
moralità che costituisce il criterio della vita veramente buona (II) . Sulla base
di questo principio potremo spiegare come e perché la vita veramente buona è
doverosa ed operare quell'integrazione tra virtù e dovere che la nostra valuta­
zione del dibattito recente ha richiesto (III).
A questo punto, per imboccare la strada che porta alla nozione massimale
e inclusiva di virtù, la nostra ricerca deve operare una svolta originale: qui ci
discosteremo dalle teorie etiche correnti per seguire Tommaso d'Aquino in
quella manovra che lo ha indotto ad elaborare, nella II Pars della Summa Theo­
logiae, un'etica originale della virtù. La manovra consiste nel valutare le capa­
cità operative dell'individuo umano alla luce dell'ideale della vita veramente
buona e felice. Vengono alla luce sia idoneità naturali sia carenze naturali: in
ordine alla vita veramente buona le capacità operative umane fornite dalla na­
tura si rivelano scarse: l'individuo umano non è naturalmente preparato al suo
compito. Pertanto la vita veramente buona richiede all'individuo una regola­
zione della volontà e delle passioni a cui la natura non lo prepara adeguata­
mente (IV) .
170 Capitolo V

Detta regolazione avviene secondo la dinamica della condotta umana, che


va dall'intenzione d'uno scopo alle scelte dettagliate di azioni circostanziate.
Distingueremo pertanto il momento della regolazione relativo all'intenzione
dello scopo (V) e il momento della concretizzazione (VI) . Saremo allora in
grado di spiegare la funzione della virtù nella vita veramente buona, di svilup­
pare ciò che in germe avevamo incontrato nel I capitolo, 1 e di giustificare la
nozione massimale e inclusiva di virtù in rapporto alle altre nozioni (VII).
Nel capitolo VI riprenderemo più ampiamente ciò che in questo capitolo V
sarà rimasto appena abbozzato circa il rapporto tra la ragion pratica e la virtù,
situando la virtù nei confronti delle norme e della saggezza pratica.

I. CONCETTO IDENTICO, CONCEZIONI DIVERSE DELLA VITA BUONA

(2) 1) Il concetto di vita buona ci è stato necessario per render conto della
condotta umana: il soggetto è autore di azioni nella misura in cui egli valuta le
ragioni per agire; questa valutazione richiede un criterio ultimo, che sia unico e
universale per tutte le azioni, altrimenti si perde l'identità e la continuità del­
l'autore. La vita buona costituisce tale criterio: il soggetto è autore di condotta
perché giudica le sue azioni come atte a esemplificare per lui quello scopo ge­
nerale e ultimo che è la vita buona; scopo che è immanente alle azioni e che in­
troduce in esse una continuità per cui formano una condotta.2
In quanto il concetto di vita buona contiene la necessaria condizione di
possibilità della condotta umana, esso è identico per ogni persona umana.3
Varia invec:e da persona a persona la concezione della vita buona, vale a dire
ciò in cui il concetto si realizza.4 Sviluppo dapprima il conetto di vita buona;
spiegherò poi in che cosa si riscontra la diversità delle concezioni.
(3) 2 ) Rifacciamoci alla situazione pratica originaria: il soggetto umano è in­
serito in un ambiente, in un mondo, costituito da realtà, personali o imperso­
nali, distinte da lui, con le quali egli si mette in rapporto mediante l'azione in
funzione di valutazioni, concezioni, inclinazioni, desideri, volontà eh'egli ha in
sé per natura o per educazione o per formazione propria.5 Egli mira, nelle
azioni, a stabilire una corrispondenza ottimale tra sé e il mondo, corrispon­
denza che abbiamo denominato felicità in senso inclusivo. La corrispondenza

' V. sopra I 61-63.


2 V. sopra I 34-35; II 23, 26; III 26; IV 4, 1 1 .
' V . sopra I 33-36.
4 Tommaso d'Aquino formula la distinzione cosl: «De ultimo fine possumus loqui duplici­
ter: uno modo, secundum rationem ultimi finis; alio modo, secundum id in quo finis ultimi ratio in­
venitur» (I-Il, 1, 7c); oppure: « Beatitudo dupliciter potest considerari. Uno modo, secundum ratio­
nem beatitudinis. [ ] Alio modo possumus loqui de beatitudine secundum specialem rationem,
...

quantum ad id in quo beatitudo consistit» (I-II, 5, le).


5 V. sopra I 17.
Virtù e vita buona 171

viene realizzata in attuazioni del soggetto, pensate e volute da lui in rapporto


ai beni del mondo. Sicché della felicità in senso inclusivo fanno parte: i beni so­
stanziali del mondo, le azioni del soggetto o beni pratici, operabili, riconduci­
bili ai beni basilari: sia quelli esperienziali (conservazione e propagazione della
vita, conoscenza, esperienza estetica, attività poietica e ludica), sia quelli esisten­
ziali. Questi ultimi consistono in un modo di volere, di intendere, di scegliere,
nel quale sono coinvolti i desideri passionali e le concezioni e valutazioni della
ragion pratica; in esso il soggetto appete i beni esperienziali sia per se stesso,
sia per altri, in modo da realizzare l'armonia in se stesso, con le persone e con
Dio.
Di fronte al volere i beni sostanziali ed i beni operabili esperienziali in­
sieme costituiscono uno stato di cose che il volere intende realizzare. Di fronte
ai beni sostanziali del mondo i beni operabili esperienziali e gli atti interiori
della volontà (compresi gli atti della ragion pratica e degli appetiti passionali)
insieme costituiscono la vita buona del soggetto.6
In schema:

{
beni sostanziali
Vita buona,
eudaimonia
bem
. ·
. .
operabili
. . .
esper1enz1ah
} .
stato di cose

beni operabili esistenziali (atti interiori di volontà, di ragion pratica


e di appetiti passionali)

La vita buona rappresenta il contributo del soggetto alla felicità, o felicità


in senso eudemonico. Essa consta: 1 ) degli atti interiori della volontà, della ragion
pratica, degli appetiti passionali, che culminano nelle scelte; è la vita buona in
senso stretto, nel senso di buona prassi o di eupraxia: di essa ci occupiamo qui;
2) delle esperienze o azioni esteriori (lato soggettivo dello stato di cose) prodotte
dal volere e conformi al volere.
Nel capitolo I abbiamo studiato le condizioni che consentono la realizzazione
della corrispondenza ottimale tra volontà buona o virtuosa e lo stato di cose.
Qui ci soffermiamo sulle condizioni che consentono la realizzazione della vita
buona intesa come eupraxia o buona prassi.
Occorre innanzitutto chiarire in che senso è identico per tutti gli uomini lo
scopo di realizzare una prassi buona.
(4) 3) La prassi può essere considerata da due punti di vista: da un punto
di vista pratico e da un punto di vista morale. 7
Dal punto di vista semplicemente pratico la prassi buona consiste in atti di
volontà il cui intento è realizzare qualcuno dei beni pratici che sono basilari
per l'uomo.8 L'indefinita molteplicità dei beni pratici può essere ricondotta ad

6 V. sopra I 55.
7 M'ispiro a GRISEZ, Christian Mora! Principles 178- 184.
8 V. sopra I 53.
172 Capitolo V

alcuni generi supremi di beni pratici, che costituiscono i beni basilari per
l'uomo: la vita fisica, la conoscenza, l'esperienza del bello, l'attività produttiva,
l'attività ludica, l'armonia interiore, la socialità, il rapporto con la divinità. Cia­
scuno di questi beni e ciascuna delle sue specificazioni costituiscono l'oggetto
immanente di altrettante pratiche. 9
Nel punto di vista pratico ciascun bene umano basilare è valutato semplice­
mente secondo la propria ragione intrinseca di bontà. Ciascun bene basilare,
valutato e compreso come bene desiderabile, diventa il principio d'una pra­
tica, nella quale il soggetto regola i suoi impulsi, i suoi desideri, le sue azioni
per il conseguimento di quel bene. S'introduce il punto di vista morale quando
i beni basilari sono valutati, non più ciascuno isolatamente, ma nel loro in­
sieme, come beni che integrano il compimento d'una persona umana. Questa
valutazione globale è necessaria perché i beni, essendo molti e potendo essere
realizzati solo limitatamente in singole azioni e pratiche, danno origine a con­
flitti nei quali è praticamente possibile violare qualche bene per qualche per­
sona al fine di perseguire qualche altro bene per qualche altra persona: ad esem­
pio violare la vita di persone per il progresso della scienza. A queste situazioni
la ragion pratica reagisce introducendo un ordine tra i beni umani in modo
che insieme costituiscano il compimento umano integrale. È un ordine pensato
dalla ragion pratica e che definisce, in rapporto all'insieme dei beni umani, l'in­
tenzione con la quale dev'esser voluta e perseguita la realizzazione d'un bene
umano in uno stato di cose.
Dal punto di vista morale la vita buona, nel senso di prassi buona, consiste in
atti di volontà il cui intento è realizzare qualcuno dei beni pratici basilari se­
condo un ordine dei beni nel loro insieme, pensato dalla ragion pratica. La vita
buona, nel senso morale, comprende anche gli atti della ragion pratica con i
quali l'ordine è pensato e gli atti degli appetiti sensitivi con i quali l'ordine è
sentito passionalmente. La vita buona consta non solo di azioni, ma anche di
pensieri e di passioni; non solo di azioni in rapporto ad altre persone, ma
anche di azioni relative alla propria persona; insomma, di ogni atto interiore vo­
lontario che vuole per sé e per gli altri i beni umani secondo l'ordine pensato e
stabilito dalla ragion pratica.
(5) 4) A questo punto l'identico concetto di vita buona dà origine a diverse
concezioni della vita buona. La diversità nasce dai criteri con cui il soggetto sta­
bilisce l'ordine tra i beni umani e quindi si raffigura il compimento delle per­
sone. Secondo la diversità dei criteri si danno diverse concezioni della vita
buona e diversi generi di vita.
Da sempre questa diversità ha suscitato le discussioni morali. Ma il senso
delle discussioni è di far emergere o prevalere una concezione della vita buona
che attiri il consenso, che sia in qualche modo vera. Non si discuterebbe se
non si mirasse a stabilire qual è la vita veramente buona.

9 V. sopra IV 2.
Virtù e vita buona 173

Il. IL PRIMO PRINCIPIO DELLA MORALITÀ, CRITERIO DELLA VITA


VERAMENTE BUONA

1 . Alla ricerca del primo principio della moralità

(6) 1) È inevitabile il punto di vista morale per ogni soggetto capace di vo­
lere e di agire in base ad una valutazione razionale; nel punto di vista morale il
soggetto stabilisce un certo ordine tra i beni umani basilari e le loro specifica­
zioni in base a un certo criterio. Stiamo appunto cercando qual è il criterio giu­
sto in base al quale il soggetto deve ragionare praticamente, volere, sentire af­
fettivamente in relazione ai beni umani considerati nel loro insieme. Taie crite­
rio designamo come principio primo della moralità.
(7) 2) La giustezza di tale criterio si desume dalla sua razionalità pratica,
cioè dalla sua coerenza con la nozione di bene, che è la nozione fondante del­
l'ordine pratico. La ragione infatti è costituita originariamente pratica dall'ap­
prensione del bene, cioè dal fatto di valutare che una certa realtà del mondo e
una certa azione possibile del soggetto nei confronti di questa realtà costitui­
scono per il soggetto un perfezionamento desiderabile. È principio di moralità
quel criterio di ordine tra i beni umani che è il più coerente con la nozione di
bene, la quale è una nozione massimale, nel senso che bene è sempre quel che
è più bene. Ciò significa che il principio della moralità stabilisce, come criterio
di ordine tra i beni umani, che essi costituiscano nel loro insieme non un com­
pimento qualsiasi, ma un compimento ottimale.
Il primo principio della moralità dev'essere perciò un principio della ra­
gione pratica; non può essere un desiderio o un interesse che il soggetto si
trova ad avere. Qui raggiungiamo la critica di Baron [33-35] alla tesi neonatura­
lista di Foot [7] . 10 Baron osserva che se un soggetto agisce solo in base a desi­
deri che di fatto egli si trova ad avere, egli non è persona perfettamente mo­
rale, non è veramente autore della propria condotta, perché gli manca un
punto di vista superiore in base al quale valutare i propri desideri eventuali. Il
principio della moralità che stiamo cercando deve consentire al soggetto di es­
sere strong evaluator, capace di valutare in senso forte i suoi desideri dal punto
di vista superiore d'una concezione vera della vita buona. Conseguentemente
dovremo identificare la virtù non con desideri - di fatto lodevoli per dei
fini - di fatto buoni, come vuole Foot [7] ; ma con degli interessi che il sog­
getto liberamente produce in se stesso a partire da una concezione vera della
vita buona, interessi che il soggetto è in grado di valutare come buoni di di­
ritto.
(8) 3 ) Nella ragion pratica il principio della moralità è appunto un princi­
pio. Come tale esso non può essere dimostrato, ma è il presupposto per ogni

10
V. sopra II 37-38. Cf. anche la critica alla tesi naturalista da parte di DENT [82] 106-120 e
di E.J. BONO, Reason and Value, Cambridge 1983.
17 4 Capitolo V

argomentazione morale che miri a giustificare norme o giudizi morali. Può es­
sere solo identificato attraverso un'induzione che mostri il fondamento ultimo
dei giudizi morali. La sua evidenza è immediata, nel senso che il soggetto l' af­
ferra appena comprende il significato dei termini. Ma egli non arriva a tale com­
prensione se non attraverso un'astrazione che parte dalle proposizioni morali
che egli incontra nella propria esperienza morale, nell'ethos del gruppo cui ap­
partiene, nella tradizione della propria comunità. Qui raggiungiamo e al tempo
stesso superiamo le posizioni di Macintyre e di Hauerwas. Per Madntyre
( [ 10] 207) 1 1 qualche criterio iniziale di vita buona è fornito dalla tradizione
della propria comunità, espressa nelle storie ch'essa tramanda. Per Hauerwas
( [20] 55-62 ) 12 il carattere che determina il genere di vita del soggetto agente è
formato dalla narrativa che è tramandata all'interno d'una particolare comunità
e che costituisce la sua visione. Con ciò egli s'oppone all'idea d'una legge natu­
rale come insieme di norme universali su cui converge il minimo comune con­
senso.
Questa posizione mi sembra legittima in quanto indica nella tradizione il
luogo d'origine e di formazione dei giudizi morali. Tuttavia essa non offre uno
strumento per l'assimilazione critica della tradizione e per il confronto fra tra­
dizioni diverse. Lo strumento può essere costituito solo da principi che sono
operanti nelle tradizioni e che si basano su un identico principio fondamen­
tale. Ciò non significa ridurre le norme morali a un minimo su cui possa con­
vergere il consenso comune. Significa invece identificare il principio che con­
sente di sviluppare una «visione» coerente circa il modo di condurre la vita e
di operare il confronto critico, per via di argomentazione, con altre visioni.
(9) 4) Il primo principio della moralità dev'essere unico, altrimenti si am­
mette la possibilità, in linea di principio, di conflitti irrisolvibili tra norme, tra
virtù e tra doveri. Irrisolvibili sarebbero quei conflitti in cui non è possibile
compiere un'azione moralmente buona (conforme a una norma, a una virtù o a
uri dovere) senza voler violare contemporaneamente un'altra norma, un'altra
virtù, un altro dovere. Questa tesi è oggi condivisa da quei filosofi che s'oppon­
gono a una concezione razionalista della moralità: Frankena, Hampshire, Hud­
son.13
Ora però ammettere una pluralità di principi irriducibili che possa dare ori­
gine a conflitti irrisolvibili è introdurre la contraddizione all'interno del bene
morale stesso, giacché si .darebbe il caso che non si possa avere una volontà
buona senza che sia anche simultaneamente cattiva. Se per compiere un'azione
moralmente buona mi è consentito compiere un'azione moralmente cattiva,

11
V . sopra II 58.
" V. sopra II 15. .
FRANKENA [45] 124-125; S. HAMPSl-IlRE, Morality and Conflict, Oxford 1983; S.D.
u

HUDSON, Human Character and Morality. Re/lections /rom the History o/ Ideas, Boston - London -
Henley 1986, 15- 16, 30, 109 - 1 10.
Virtù e vita buona 175

perdo ogni ragione per compiere l'azione buona e perde ogni importanza la di­
stinzione tra bene e male morale.
(1 O) 5) La contraddizione sorgerebbe perché il principio della moralità ri­
guarda principalmente la volontà e secondariamente uno stato di cose. Se esso
riguardasse solo uno stato di cose, la possibilità di conflitti irrisolvibili sarebbe
ammissibile, giacché in questo mondo anche un buon stato di cose può com­
portare inevitabilmente dei mali fisici. Ma è impossibile che il principio della
moralità riguardi uno stato di cose senza riguardare prima e principalmente
anche la volontà con la quale esso è voluto. Infatti il principio della moralità è
costitutivo per la ragione, nel senso che i suoi giudizi pratici particolari non
possono prescindere dall'essere o no coerenti con tale principio; e poiché la vo­
lontà è per definizione l'appetito il cui oggetto è il bene così com'è giudicato
dalla ragione, nemmeno la volontà può prescindere dal fatto che le sue inten­
zioni e le sue scelte, sempre specificate da un giudizio pratico, siano o no con­
formi con il principio della moralità. Se dunque il principio della moralità ri­
guarda principalmente la volontà, la possibilità di conflitti irrisolvibili è inam­
missibile. In uno stato di cose un bene fisico può esser compatibile con un
male fisico, giacché lì i beni umani sono considerati ciascuno per conto suo. In­
vece alla volontà i beni umani sono presentati dalla ragione come costituenti
nel loro insieme e con un certo ordine il compimento ottimale dell'uomo, com­
pimento pensato dalla ragione e proposto all'intenzione della volontà. È
quindi impossibile per la volontà volere e non volere contemporaneamente que­
st'insieme e quest'ordine; perciò è impossibile per la volontà un conflitto mo­
rale irrisolvibile.
Né si può annullare l'importanza dell'intenzione della volontà verso i beni
umani concepiti nel loro insieme e ridurre la moralità alla produzione d'un
buon stato di cose. Ciò sarebbe privare il soggetto della sua autorità, della sua
capacità di volere in funzione d'una strong evaluation. Infatti lo stato di cose sa­
rebbe valutato come buono solo in riferimento ai desideri che i soggetti coin­
volti si trovano ad avere, senza che questi stessi desideri siano valutati da un
punto di vista superiore. Se invece il soggetto è autore, egli sarà autore moral­
mente buono solo se mira a un buon stato di cose con buona volontà, 14 cioè
con volontà conforme al primo principio della moralità.

2. Il primo principio della moralità

(1 1 ) 1) Poiché il punto di vista morale è quello in cui la ragione giudica


dei beni umani non singolarmente presi, ma nel loro insieme, in quanto costi­
tuiscono insieme il compimento delle persone umane, sembra conveniente
adottare la formulazione del primo principio della moralità proposta da Grisez

1 4 V. sopra II 24, 44, 63.3.


176 Capitolo V

( [62] 183 - 189) : «Agendo volontariamente per i beni umani ed evitando ciò
che s'oppone ad essi, uno deve scegliere (o volere in qualche altro modo)
quelle e solo quelle possibilità, il volere le quali è compatibile con una volontà
rivolta al compimento umano integrale».
Tale formula rapporta il volere operante nelle scelte a un ideale di compi­
mento umano integrale, un ideale che consiste in una comunità di persone in
cui ciascuna può crescere in tutti i beni umani. I beni umani sono considerati
tutti importanti, tutti necessari e incommensurabili tra loro. Nelle scelte con­
crete la realizzazione dei beni umani è sempre limitata a qualche bene per
qualche persona; il principio della moralità prescrive che nelle scelte l'azione
sia ordinata in modo che la volontà in atto di scegliere non sia preclusa agli
altri beni umani e alle altre persone, ma si mantenga aperta, eviti limitazioni
non necessarie. L'ideale del compimento umano integrale non è una meta rag­
giungibile, ma uno scopo sempre limitatamente realizzabile nelle singole
scelte.
( 1 2) 2) Nella formulazione di Grisez sono due i criteri coinvolti: i beni
umani e le persone; nelle scelte la volontà dev'essere sempre aperta a tutti i
beni umani per ogni persona. Benché questi criteri siano necessari, non mi sem­
brano tuttavia sufficienti. È possibile ed è necessario introdurre un terzo crite­
rio che non contraddice questi due, ma li completa.
Mi pare infatti che la formulazione di Grisez trascuri un aspetto dell'agire
umano che invece è essenziale ed è l'aspetto principale su cui Tommaso d'A­
quino lavora nelle qq. 1-5 della I-II per costruire la sua teoria della beatitu­
dine. Tale aspetto è costituito dal fatto che nell'agire volontario è necessaria­
mente coinvolto un fine ultimo, e che il fine ultimo è necessariamente uno. Un
fine ultimo è necessariamente coinvolto, perché una subordinazione infinita di
fini non darebbe origine ad una volontà definita; uno e unico dev'essere il fine
ultimo ogni volta che vi è un atto di volere definito: la volontà può volere
molti beni, ma solo uno come ultimo fine; la pluralità di beni come tale con­
traddice al concetto di fine ultimo.
Ora è indubitabile che l'uomo tende a molti beni e che molti beni sono ne­
cessari al compimento umano integrale. Per salvare questa molteplicità e al
tempo stesso rendere conto dell'unicità del fine ultimo bisogna introdurre un
ordine, e l'unico criterio di ordine coerente con la nozione di bene, che è fon­
damentale e primordiale per la ragion pratica, è il criterio della perfezione. Il
concetto di perfezione infatti esplicita una nota presente nel concetto di bene.
L'idea di perfezione non contraddice affatto all'incommensurabilità dei
beni umani sulla quale giustamente Grisez insiste tanto. Infatti l'ordine ch'essa
introduce tra i beni umani non è un ordine di mezzi relativi a fini, dove la
bontà dei mezzi è derivata dalla bontà dei fini. Nell'ordine di perfezione ogni
bene mantiene il suo specifico valore, irriducibile a quello degli altri beni e in­
commensurabile con esso nella sua specificità; ma riceve una nuova dignità
dalla sua ordinabilità a un bene più eccellente e più nobile, perché più per-
Virtù e vita buona l 77

fetto. L'ordine tra i beni non significa che si può trascurare il meno eccellente
per il più eccellente; ma che i beni meno eccellenti devono essere coltivati
nella loro specificità proprio perché solo così essi fanno possibile l'accesso ai
beni più eccellenti: in ciò sta la loro dignità e la ragione ultima della loro invio­
labilità.
Se si considerano i beni umani dal punto di vista dell'eccellenza e della per­
fezione, la lista dei beni da prendere in considerazione non coincide con la
lista dei beni basilari che per Grisez costituiscono il compimento umano inte­
grale. Questi ultimi sono per Tommaso i beni cui tende naturalmente la vo­
lontà perché senza di essi non è realizzabile il bene perfetto. 15 Invece se si con­
siderano i beni dal punto di vista dell'eccellenza e della perfezione, entrano in
conto quei beni che sembrano avere qualche caratteristica del bene per­
fetto: 16 il piacere, le ricchezze, l'amore, la fama, il potere, la scienza, Dio.
Procedendo secondo questo punto di vista Tommaso perviene a stabilire
che il bene perfetto dell'uomo consiste in Dio. Però poi subito aggiunge che
alle capacità naturali dell'uomo non è consentito un rapporto perfetto con Dio
mediante un atto di perfetta conoscenza e di perfetto amore. Alle capacità natu­
rali dell'uomo non è consentito che un rapporto imperfetto col bene perfetto.
Questo rapporto imperfetto può consistere sia in una conoscenza imperfetta
di Dio mediante la ragione, sia in un ordinamento volontario della vita, delle
azioni relative ai beni umani, in modo tale che la volontà intenda a che sia pos­
sibile a tutti coltivare il rapporto con Dio.
Per questa via ritorniamo al compimento integrale di Grisez, ma con un'ac­
quisizione in più, cioè la fondazione della sua assoluta inviolabilità e doverosità
nell'ordine del compimento umano a Dio, bene perfetto dell'uomo. Né porre
in Dio il bene perfetto dell'uomo equivale ad affermare che per le capacità na­
turali dell'uomo Dio possa essere fine ultimo concreto e determinato capace di
terminare insuperabilmente ogni desiderio della volontà e in grado di svolgere
una funzione architettonica rispetto ad ogni altro bene.17 L'uomo resta discor­
sivo anche nella sua volontà; perciò, nell'ordine naturale, con Dio non può che
avere un rapporto imperfetto e per il proprio compimento richiede tutti i beni
basilari.
( 1 3) 3) Proprio a causa della sua razionalità discorsiva l'uomo non può sem­
pre intendere, nelle sue scelte, a tutto lordine dei beni umani e al bene per­
fetto. È sufficiente che egli scelga le azioni che coinvolgono qualcuno dei beni
umani in modo tale che la sua volontà in tale azione e per tale bene resti di

" Cf. I-II, 10, le; 2, 3m; 94, 2c. Grisez sviluppa la lista di Tommaso per formulare il con­
cetto di compimento umano integrale. Ma questa lista è elaborata da Tommaso dal punto di vista
della necessità e della naturalità con cui la volontà umana è inclinata a questi beni, non dal punto
di vista del bene perfetto.
1• Cf. I-II, 2-5; 69, 4.

17 V. sopra I 58.
178 Capitolo V

per sé ordinabile al compimento umano e al suo coronamento nel bene per­


fetto. Questo significa avere una buona volontà: essa è qualificata da un ordine
intenzionale che ha per criterio il compimento umano integrale e la possibilità
del bene perfetto per ogni persona. Entro i confini stabiliti da tale ordine la
buona volontà mira a produrre un buon stato di cose.
( 1 4) 4) In seguito a queste considerazioni mi pare più adeguata la seguente
formulazione del principio della moralità, che completa quella proposta da
Grisez: agendo volontariamente per i beni umani ed evitando ciò che s'oppone
ad essz� uno deve scegliere (o volere in qualche altro modo) quelle e solo quelle
possibilità, il volere le quali è compatibile con una volontà intenta alla perfezione
in Dio per ogni persona umana.
In questa formula l'ideale di compimento umano integrale è implicito, giac­
ché una volontà rivolta ad esso non è preclusa a intendere alla perfezione in
Dio per ogni essere umano. Anche se l'ordine a Dio non è attualmente in­
tento, il modo di volere un bene umano in uno stato di cose dev'essere di per
sé ordinabile a Dio. La perfezione di ogni persona in Dio deve restare intenta
anche se essa non fosse realizzabile in uno stato di cose: per esempio, poiché è
ordinata a Dio, la vita d'un innocente è inviolabile, anche se tale ordine non po­
tesse essere realizzato in uno stato di cose, in una qualità di vita.

3. Il criterio della vita veramente buona

( 1 5) 1) La formula del principio di moralità fa riferimento solo al volere, e


giustamente, perché la volontà è il principio della condotta. Ma l'analisi che ab­
biamo fatto della condotta umana ha mostrato che le libere scelte sono opera
congiunta della volontà, della ragione pratica e degli appetiti passionali. In que­
sto modo raggiungiamo il concetto di vita buona nel senso di prassi. 18 Appli­
cando alla vita buona, o prassi buona, il principio della moralità, che contiene
i criteri secondo cui è definita la verità della vita buona (cioè i beni umani, la
perfezione, le persone), otteniamo questa concezione della vita veramente
buona: essa consiste negli atti della ragion pratica con i quali è pensato l'ordine
che garantisce la perfezione delle persone umane in Dio, negli atti della vo­
lontà che a tale ordine intendono, negli atti degli appetiti passionali con cui
tale ordine è passionalmente sentito, desiderato, goduto, sperato, ecc. La vita
veramente buona è pensare, volere, sentire affettivamente in modo da essere
aperti alla perfezione di ogni persona in Dio.
(1 6) 2 ) Abbiamo raggiunto la concezione vera di vita buona, ma il modo
come labbiamo definita induce a considerare le concezioni alternative non sem­
plicemente come diverse da essa, come se garantissero ugualmente una perfe-

18
V. sopra V 3 .
Virtù e vita buona 179

zione alla persona umana, ma non in Dio. Le concezioni diverse sono invece
difettose, non garantiscono la perfezione alla persona umana e perciò non si
può dire che la vita in esse rappresentata sia semplicemente buona, solo che di­
versa da quella rappresentata nella concezione vera; è invece una vita semplice­
mente cattiva; se è detta buona, è detta in senso soltanto metaforico.
Quest'affermazione apparirà sensata in base alle seguenti considerazioni.
Per la ragione pratica è inevitabile e costitutivo disporre del principio della mo­
ralità per giudicare le scelte. Tale principio è evidente di per sé non appena la
ragion pratica apprenda il concetto di bene come perfezione desiderabile per
una persona. Poiché i beni sono molti e la persona è una, è inevitabile che la
ragione pensi a un ordine dei beni e che tale ordine miri alla perfezione della
persona. Il principio della moralità, ponendo tale perfezione in un compimento
umano integrale ordinato a Dio, è il più coerente con la nozione originaria di
-bene che è il principio della ragion pratica, e quindi il principio della moralità
è il più razionale. In esso la ragione si esprime pienamente, senza riduzioni,
senza preclusioni, senza privazioni. Benché anche un'azione moralmente cat­
tiva abbia una sua razionalità pratica, è questa tuttavia una razionalità pre­
clusa, ridotta; diremo che è una razionalità irragionevole, mentre quella che si
esprime in azioni moralmente buone è una razionalità ragionevole.
A livello del principio della moralità e delle sue più immediate specifica­
zioni la ragion pratica è inevitabilmente ragionevole, è costituzionalmente
retta. Quando essa ragiona in particulari, cioè in vista del particolare opera­
bile, essa continua a essere retta qualora ragioni coerentemente al principio
della moralità. 19 In questo caso avremo una vita pienamente razionale, ragio­
nevole, non preclusa, ordinata alla perfezione in Dio. La vita cosl vissuta può
esser detta propriamente e semplicemente buona; la felicità ch'essa realizza
può esser detta semplicemente felicità; l'amore che ne è l'anima può esser
detto semplicemente amore; una vita così realizza semplicemente la libertà, l'u­
nità.
Quando invece la ragione in particulari non è più retta, la vita che ne
segue, la felicità, l'amore, la libertà, l'unità sono difettose. Alle realizzazioni in­
tegre questi termini si applicano per antonomasia, o in senso vero e proprio;
alle realizzazioni difettose questi termini si applicano in senso improprio o me­
taforico. Per esprimere la differenza dei due sensi noi ricorriamo ai binomi
«vero-falso », « reale-apparente».
Sicché la vita, nel senso di prassi, o è conforme al principio della moralità,
e solo allora è buona; o non lo è, ed allora è cattiva.
(1 7) 3 ) Alla vita (veramente) buona, a pensare, volere, sentire affettiva­
mente in modo conforme al principio della moralità abilitano le virtù. Anche
per il termine virtù valgono le considerazioni testé fatte. In quanto il termine
virtù designa disposizione ad attuazioni eccellenti, può esser considerata virtù,

19 Più avanti, V 4 7, troveremo un altro aspetto della ragione retta in particulari.


180 Capitolo V

ad esempio, la capacità di dominare qualsiasi paura (coraggio), di venire in soc­


corso ai bisognosi (misericordia) , di elargire beni economici (generosità), di ap­
plicarsi al culto (religione) , ecc. Tuttavia non si parlerà di virtù nel senso vero
e proprio della parola, di vere virtù, se non in riferimento all'eccellenza misu­
rata secondo il principio della moralità. Non qualsiasi coraggio, misericordia,
generosità, religione è (vera) virtù, ma solo quella che è conforme al principio
della moralità, e realizza perciò la vita (veramente) buona.
La virtù, nel senso massimale e inclusivo in cui ne parliamo qui, abilita a rea­
lizzare scelte moralmente perfette, eccellenti, nelle quali si esemplifica quello
scopo che è la vita veramente buona.

lii. LA VITA VERAMENTE BUONA È DOVEROSA

(1 8) La concezione della vita buona che ho proposto permette di recepire


un'istanza avanzata da alcuni interlocutori del recente dibattito su virtù e do­
vere, cioè che la moralità non venga ridotta ai doveri di giustizia, ma renda
conto anche di altri tipi di doveri.20 D'altra parte, riconoscendo il dovere mo­
rale di condurre una vita veramente buona, essa consente anche di rispondere
a coloro che non vedono che senso abbia parlare di dovere morale,21 e di spie­
gare in che consista la doverosità morale. Su questa base sarà possibile spie­
gare anche in che senso il dovere possa costituire un motivo per l'azione e in
che rapporto stia la virtù con il dovere morale. È questo il momento di ripren­
dere e sviluppare ciò che ho abbozzato nel capitolo II sull'integrazione fra
virtù e dovere. 22

1 . Il dovere di giustizia

(1 9) Poiché la ratio debiti è più evidente nei doveri di giustizia che non
negli altri doveri morali, per spiegare il dovere morale conviene partire dai do­
veri di giustizia.23 Nei rapporti di giustizia il soggetto agente è confrontato

20
BARON ( [34] 199-201) per poter sostenere che e in quale senso il dovere sia il motivo ri­
chiesto affinché un agente sia perfettamente morale, e per non ridurre alla moralità i doveri di giu­
stizia, distingue atti moralmente richiesti e atti moralmente raccomandati; entrambi i tipi di atti sa­
rebbero moralmente doverosi. Ad analoga distinzione ricorre BEAUCHAMP [ 40] per poter soste­
nere la corrispondenza tra virtù e doveri; i diritti corrisponderebbero soltanto ai doveri richiesti.
Così anche HuosoN ( [66] 190-193) include negli atti che dobbiamo moralmente compiere non
solo gli atti richiesti dalla moralità (obbligazioni, doveri), ma anche atti supererogatori e atti meri­
tori (atti delle virtù). Tutto il capitolo III del suo Human Character and Morality critica la ridu­
zione della moralità ai doveri di giustizia e argomenta perché siano considerate altrettanto essen­
ziali alla moralità le virtù.
2 1 Specialmente ANSCOMBE [ l ] , FOOT [7a], TAYLOR [ 14].
22 V. sopra II 9 - 1 1 , 19, 30-48, specialmente 40-43; v. anche I 4 1 .
2 3 Nella spiegazione dei doveri d i giustizia m'ispiro a Jean TONNEAU, Devoir e t morale, in
Virtù e vita buona 181

con altri individui che compartecipano agli stessi beni umani. In quanto sono
persone, questi altri individui sono in grado di partecipare attivamente e re­
sponsabilmente ai beni umani. Ma anche il soggetto agente è persona, e come
tale potrebbe sfruttare per se stesso le altre persone; egli le riconosce come per­
sone solo se le riconosce come altre da se stesso e riconosce per esse, in quanto
altre, i beni che sono loro necessari e che appartengono ad esse in virtù di ciò
che esse sono per natura o per funzione nel corpo sociale. Tali beni costitui­
scono ciò che è giusto, vale a dire ciò che, posseduto, le eguaglia a tutte le per­
sone in quanto compartecipano agli stessi beni umani. Tali beni esse li vo­
gliono, ma li possono avere solo per intervento della volontà di altri, nel caso
il soggetto agente, il quale si trova così a essere debitore. Le volontà del credi­
tore e del debitore, per ipotesi rette, concordano nell'oggetto conveniente; ma
il creditore vuole ciò che conviene a sé, il debitore vuole ciò che conviene
all'altro. Le due volontà non sono sullo stesso piano: la prima domina, la se­
conda serve, perché si vuole a servizio dell'altro e del suo bene, è regolata dal
bene conveniente e appartenente all'altro. Il termine dovere esprime, in questa
situazione, la necessità morale che viene alla libera volontà del debitore dal
fatto di esser regolata dal bene conveniente all'altro, al creditore. Questo bene
gli è dovuto perché, benché gli appartenga, può essergli dato solo dalla libera
volontà del debitore in quanto regolata dallo stesso bene conveniente all'altro.
Nei doveri di giustizia la ratio debiti è più evidente sia perché i beni dovuti
sono più necessari all'esistenza autonoma dell'altro, la salvaguardano e la favo­
riscono; sia perché per questo tipo di beni la misura dovuta (il medium ret) è
più facilmente determinabile, e quindi può cadere sotto la formulazione d'una
legge positiva; perciò questo tipo di debito si chiama debito legale (Tommaso
d'Aquino) o dovere perfetto (Kant) .24
(20) Tuttavia i doveri di giustizia non possono essere l'unico tipo di doveri.
Essi infatti assicurano a ciascun membro della comunità ciò che gli appartiene,
ciò che è suo, in quanto richiesto dalla sua esistenza autonoma come persona.
Ma questi doveri lasciano aperta la questione del senso e del valore d'una esi­
stenza autonoma; a tale questione non si risponde sufficientemente dicendo
che negli spazi lasciati liberi dai rapporti di giustizia ciascuno è libero di ge­
stirsi la vita a suo piacimento, secondo le sue preferenze. Questa risposta, ti­
pica delle etiche liberali o utilitariste, che riducono la moralità alla giustizia, è
insufficiente sia praticamente sia teoreticamente. Praticamente, perché senza
una disciplina personale nella vita, le passioni inducono a violare i doveri di
giustizia. Teoreticamente, perché se a ogni persona è dovuto ciò che le appar-

Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques 38 ( 1954) 233-252.


24 «Il existe d'une part des devoirs " parfaits" (des devoirs stricts ou étroits, rigoureux) qui
ne laissent aucune marge à la conduite, et d'autre part !es devoirs " imparfaits" (des devoirs larges,
méritoires) qui laissent une certaine marge, sans pour autant limiter la validité du devoir, par exam­
ple l'amour du prochain»: Otfried Hè'.>FFE, Introduction à la philosophie pratique de Kant, Albeuve
1985, 103 .
182 Capitolo V

tiene per giustizia, ciò trova la sua giustificazione non nell'arbitrio con cui a cia­
scuno sarebbe consentito gestire la sua vita, bensì nella possibilità che una so­
cietà giusta lascia ai suoi membri di condurre una vita veramente buona nella
ricerca del compimento umano integrale e della perfezione in Dio.25 Se alle
persone è dovuta giustizia, è affinché sia possibile a esse perseguire lo scopo
della condotta umana, la vita veramente buona e la vera felicità.
Bisogna allora riconoscere un altro tipo di doveri che Kant (modificando
una distinzione risalente a Grazio e a Pufendorf tra diritti perfetti, in quanto
esigibili per via legale o con la forza, e diritti imperfetti, non così esigibili) ,
chiamò doveri imperfetti, non perché fossero meno doverosi, ma perché sono
meno determinabili con esattezza.26 Sono i doveri delle virtù diverse dalla giu­
stizia: essi sono necessari non all'esistenza autonoma delle persone, ma alla loro
perfezione e alla loro eccellenza, dalle quali ricavano il loro senso i doveri di
giustizia: questi sono in ragione e in vista di quelli.
Ora la perfezione delle persone o la loro eccellenza nella vita veramente
buona non sono scopi che si possano o no coltivare a piacimento; sono invece
scopi che devono esser coltivati dalle persone, secondo una doverosità morale
che va oltre i doveri di giustizia e che spiega sia i doveri di giustizia sia i do­
veri delle altre virtù: è la doverosità morale della vita veramente buona.

2. Il dovere morale

(21 ) Che esista una doverosità morale e in che cosa essa consista, è possibile
ricavarlo per via di riflessione sulla nostra esperienza morale. Adottando un'il-

" V. sopra II 2 1 .
26
Cf. HUDSON, Human Character 32. Dopo aver citato un testo di Pufendorf ove costui
spiega che « there is a diversity in the rules of this Iaw, some of which conduce to the mere exi­
stence of society, others to an improved existence» (De ]ure Naturae et Gentium Libri Octo, tr. 01-
dfather and Oldfather. Oxford, Clarendon Press 1934, reprint of 1688 edition, 1 18), Hudson com­
menta: «This idea that virtues like gratitude, kindness, generosity, charity, and friendship are the
" extras" which make socia! !ife rich, not the ingredients that make socia! !ife possible, that they
are secondary, not basic, that they are merely the ornamentation of the pillars of the socia! edifice,
goes, I think, to the heart of the matter. For what is at issue is not how these virtues are named,
but an assessment of their mora} importance, of the scope they have in our mora! !ife». Mi pare
che, se questo modo di considerare le virtù diverse dalla giustizia non corrisponde al pensiero kan­
tiano, corrisponde però all'etica utilitarista e liberale. GERT [ 46] ad es. considera queste virtù non
come virtù morali, ma come valori personali. Quanto a Kant, egli «ne signale pas seulement des
obligations envers autrui, mais également des obligations envers soi-meme. La morale ne peut se
réduire à une morale sociale, et l'ensemble des vertus ne saurait se résumer à l'une d'entre elles, la
vertu de justice (personnelle). Kant contredit ainsi de façon exemplaire l'utilitarisme - de mème
qu'Aristote et sa tradition -, mais il adhère aux conceptions stoidennes et chrétiennes. Pour
Kant c'est la perfection personnelle qui est le principe de toute obligation envers soi-mème, c'est-à­
dire la culture des facultés intellectuelles, émotionelles et physiques ainsi que la culture de la mo­
rale, le bonheur d'autrui étant le principe des obligations sociales» (HOFFE, Introduction 103 ) .
Virtù e vita buona 183

luminante distinzione proposta da M. Rhonheimer,27 conviene distinguere


nella ragion pratica un momento diretto e un momento riflesso. Il momento di­
retto, originario, precettivo, è il momento dell'atto volontario moralmente
retto: qui la ragion pratica retta esercita un imperium, un praeceptum circa un
bene da essa valutato come bene conveniente all'uomo, ed il praeceptum, è prin­
cipio della prosecutio del bene nell'intenzione, nella scelta e nell'azione. Il mo­
mento riflesso, derivato, descrittivo, è il momento in cui la ragion pratica
prende se stessa e l'atto volontario come oggetto di conoscenza: in questo mo­
mento la ragione riflette sul suo modo di presentare i beni umani e sul rap­
porto che tale modo ha con la libera volontà. Nel momento diretto la ragione
comanda: Jac hoc; nel momento riflesso la ragione enuncia i principi e le
norme: hoc est Jaciendum, bonum est faciendum. È nel momento riflesso che
emerge il concetto di dovere.
Riflettendo infatti sull'atto precettivo della ragion pratica, osserviamo
ch'esso comanda un bene operabile, ma lo comanda presentandolo e valutan­
dolo in un certo modo. Non è la ragion pratica che inventa quali sono i beni
per l'uomo, specialmente i beni basilari. A essi il soggetto umano si ritrova
orientato per inclinazioni naturali. Ma le · inclinazioni naturali come tali, nel­
l'uomo come in qualsiasi essere, inclinano in proprios actus et fines senza che in­
tervenga una valutazione razionale. Quando questa interviene, non solo valuta
i beni basilari come desiderabili ciascuno per se stesso, ma li valuta come ordi­
nati in un insieme che fa la perfezione conveniente alla persona umana. Sorge
allora una naturale inclinazione ad debitum actum et finem.28 La ragion pra­
tica comanda di perseguire i beni umani non semplicemente come fini proprii,
ma come fini debiti, cioè secondo un ordine che stabilisce la loro funzione
nella perfezione umana.
In questo modo la ragion pratica opera quella valutazione (strong evalua­
tion)29 che è richiesta perché il soggetto sia autore di condotta e sia perfetto
agente morale. Grazie a essa il soggetto non segue semplicemente inclinazioni
e desideri dati, che di fatto possano essere buoni, ma è in grado di produrre in
sé un desiderio volontario che va a un bene operabile in quanto rappresentato
e valutato dalla ragion pratica alla luce dell'ideale di perfezione umana.

27 Cf. Martin RHONHEIMER, Natur als Grundlage der Mora!. Bine Auseinandersetzung mit au­
tonomer und teleologischer Ethik, Innsbruck - Wien 1987, 43, 48-49, specialmente 63-66. Rhonhei­
mer sviluppa una distinzione tra ragion pratica in actu exercito e ragion pratica in actu signato
esplicitata da Caietano (In I-II, q. 58, a. 5, Comm. VIII, Ed. leonina) .
28
La distinzione tra proprios actus et fines e debitum actum et finem è enunciata da Tom­
maso in I-II, 9 1 , 2c: «Manifestum est quod omnia participant aliqualiter legem aeternam, inquan­
tum scilicet ex impressione eius habent indinationes in proprios actus et fines. Inter cetera autem,
rationalis creatura excellentiori quodam modo divinae providentiae subiacet, inquantum et ipsa fit
providentiae particeps, sibi ipsi et aliis providens. Unde et in ipsa participatur ratio aeterna, per
quam habet naturalem inclinationem ad debitum actum et finem». L'attenzione sul senso della di­
stinzione tra finis proprius e finis debitus è richiamata da RHONHEIMER, o.e. 72-74, 79-80.
29
V. sopra II 37.
184 Capitolo V

Alla libera volontà la ragion pratica propone i beni da essa valutati come
debiti, doverosi, al modo d'un precetto: questo è l'unico modo possibile per la
ragione di esercitare il suo influsso su una volontà che è libera.
Per via di riflessione descrittiva sull'atto diretto precettivo della ragion pra­
tica abbiamo individuato quella situazione in cui è necessario parlare di dovere
morale ed è possibile spiegare in che cosa esso consista. Nell'atto precettivo la
ragion pratica comanda che i beni umani siano voluti non in qualsiasi modo
(per esempio, seguendo solo desideri che il soggetto si trova ad avere o pas­
sioni dell'appetito sensitivo) e che siano voluti per le persone non in qualsiasi
modo (per esempio, discriminando) , ma che siano voluti secondo il principio
della moralità. I beni che la ragion pratica comanda di volere in questo modo
sono azioni, beni operabili, cioè che attendono di essere realizzati da parte
d'una libera volontà. Il che equivale a dire che la ragion pratica comanda certe
azioni rappresentandole come richieste da un ideale pratico di perfezione per
le persone umane (la vita veramente buona, la vera felicità) . Una siffatta rappre­
sentazione da parte della ragione precettiva è l'unico modo possibile di mo­
zione esercitabile su una libera volontà; un oggetto così rappresentato, valu­
tato, è per la volontà un /aciendum et prosequendum, dove il gerundio significa
non solo che l'azione attende di esser posta, ma che deve assolutamente esser
posta da una volontà libera e razionale.
(22) Qui il termine dovere significa un tipo di necessità che è possibile solo
quando entrano in rapporto un oggetto rappresentato dalla ragion pratica
(retta) e una volontà libera e razionale. Tale necessità consiste in una appro­
priatezza o convenienza tra ·l'oggetto rappresentato dalla ragion pratica (un'a­
zione richiesta dall'ideale di perfezione umana) e la volontà in quanto libera e
razionale. Tale appropriatezza è reciproca.30
In primo luogo all'ideale di perfezione umana e alle azioni rappresentate
dalla ragione come richieste di questo ideale è appropriata, s'addice, si confà
solo la libera adesione d'una volontà razionale, che si concretizza in intenzioni
e in scelte. La ragione di questa convenienza è che tale ideale per natura sua è
realizzabile solo in atti liberi; inoltre, in quanto presentato dalla ragione, non
può muovere se non un appetito che per definizione va ai beni secondo come
sono presentati dalla ragione. Si noti che la libera adesione è dovuta a tale og­
getto proprio perché la volontà è libera. Qui, con buona pace di Kant, l'even­
tuale contrarietà delle passioni non c'entra affatto. L'ideale della perfezione
umana non è semplicemente attraente per un appetito razionale; in quanto la
voIOntà resta libera (non necessitata come lo è dal concetto formale di vita
buona e di felicità), l'ideale presentato dalla ragion pratica è degno di esser per­
seguito da una volontà razionale, è prosequendum. Ovviamente tale dignità e do­
verosità è concepibile che si eserciti solo su una volontà che ha un interesse na-

'0 Nel cap. II 42 ho menzionato solo l'appropriatezza della libera adesione all'oggetto pre­

sentato dalla ragion pratica.


Virtù e vita buona 185

turale per i beni umani, per la vita buona, per la felicità. Non potrebbe eserci­
tarsi su una volontà che fosse concepita come radicalmente e totalmente indif­
ferente: non è sufficiente concepire, kantianamente, la volontà come indipen­
dente dalle inclinazioni naturali e passionali per render conto della doverosità
morale.
In secondo luogo solo l'ideale di perfezione umana, e solo le azioni rappre­
sentate dalla ragion pratica come richieste di questo ideale, possono costituire
l'oggetto appropriato, conveniente, che s'addice a un appetito come la volontà
razionale. La ragione di questa convenienza è che la vera felicità, in quanto è
un ideale non ridotto, ma ottimale di felicità, s'addice a un appetito natural­
mente inclinato alla felicità; inoltre la vera felicità, in quanto è un ideale piena­
mente razionale, s'addice a un appetito naturalmente inclinato al bene com'è
valutato dalla ragione.
(23) Il dovere morale suppone una volontà naturalmente inclinata alla feli­
cità; tuttavia non è riducibile a un imperativo ipotetico: se vuoi essere piena­
mente felice, devi volere secondo il principio della moralità. Questo modo d'e­
sprimersi considera l'ideale della perfezione umana semplicemente come il più
attraente. Ma in questo modo gli si attribuisce una causalità sul volere che sop­
prime la libertà della volontà. Per quanto attraente sia l'ideale della perfezione
umana, esso costituisce sempre un bene particolare che non necessita la vo­
lontà come la necessita il concetto formale della felicità. Ma allora, se la vo­
lontà non è radicalmente indifferente, l'unico modo di rendere conto della cau­
salità esercitata sulla volontà dall'ideale di perfezione umana è considerarla
come una causalità originale, nella linea del prestigio, della dignità, del de­
coro, del bonum honestum. Sicché il dovere morale è un dovere assoluto, che
s'esprime nell'imperativo categorico: devi volere essere pienamente, veramente
felice.
Rispetto al dovere di giustizia il dovere morale non è un dovere in senso
metaforico, ma in senso proprio, benché analogico. Il senso metaforico pro­
cede da una personificazione della ragion pratica: il dovere da essa prescritto
sarebbe allora considerato alla stregua d'un dovere di giustizia, nel quale il sog­
getto passionale si sottomette al soggetto razionale come ad un altro da sé.31
Questa interpretazione trascura completamente il rapporto originale che inter­
corre tra i precetti della ragion pratica e la volontà razionale. Non c'è bisogno
di personificare la ragion pratica per cogliere il senso del dovere morale: esso
non esprime altro che quell'originale convenienza per cui sono reciprocamente
appropriati il bene morale prescritto dalla ragion pratica e la libera adesione
della volontà razionale.

" «En ce sens qui, répétons-le, est métaphorique, le devoir pour l'homme a la mème exten­
sion que le bien selon la raison, que le bien mora!» (TONNEAU, Devoir et morale 250). Nemmeno è
sufficiente affermare che il bene morale «est déja un dù aus sens large, en ce sens que son absence
serait une privation d'ètre»: ID., Absolu et obligation en morale, Montréal - Paris 1965, 125.
186 Capitolo V

(24) Questa concezione del dovere morale evita anche gl'inconvenienti


delle etiche deontologiche e delle etiche teleologiche. A differenza delle etiche
deontologiche questa concezione fonda il dovere morale nei beni umani e nel
compimento delle persone; a differenza delle etiche teleologiche considera non
solo la realizzazione dei beni in uno stato di cose che dia il maggior tasso di be­
nefici e il minor tasso di danni ontici; bensì prima ancora e principalmente con­
sidera il modo con cui devono esser voluti i beni umani secondo una regola
del volere che ha per scopo non uno stato di cose che realizza il beneficio pro­
porzionalmente maggiore o il danno proporzionalmente minore, ma un ideale
di perfezione umana che fornisce i criteri secondo cui deve assolutamente
esser voluto uno stato di cose. Nelle etiche deontologiche il dovere morale non
si fonda nei beni umani e nella perfezione delle persone in Dio; nelle etiche te­
leologiche il dovere morale scompare. Nell'etica eudemonista che ho delineato
rifacendomi ad Aristotele e a Tommaso d'Aquino al dovere morale è ricono­
sciuta la sua originalità, e tuttavia esso viene fondato nel bene umano.32

3. L'obbligazione morale

(25) Nella spiegazione testé proposta del dovere morale non s'è fatto ri­
corso né al concetto di legge, né al concetto di legge divina, né al concetto di
obbligazione. Tuttavia nel linguaggio corrente i termini dovere e obbligazione
vengono facilmente usati come sinomini: se si deve moralmente, vuol dire che
si è obbligati moralmente. Ma i termini dovere e obbligazione non sono sino­
nimi, anche se un'identica azione può essere moralmente doverosa e moral­
mente obbligatoria.
Che cosa si significhi col termine dovere, Io abbiamo spiegato. Resta da
spiegare il significato del termine obbligazione.
Secondo un'espressione di Tommaso obbligare significa vincolare una vo­
lontà, in modo tale che non possa tendere ad altro senza incorrere in una de-

32 Sono diffuse interpretazioni approssimative dell'etica aristotelica e tomista che le frainten­


dono e trascurano ciò che di più originale esse hanno. Ne sono un esempio tra i tanti le poche pa­
gine che vi dedica Guido GATTI, Il dualismo obbligazione-inclinazione in teologia morale, in Salesr'a­
num 48 ( 1986) 844-847. Nella presentazione che Gatti ne fa, Aristotele e Tommaso considerereb­
bero il bene morale come oggetto di inclinazioni naturali e Tommaso avrebbe perciò una « conce­
zione tendenziale della legge naturale» (p. 846). Ciò è inesatto. Nella concezione tomista le inclina­
zioni naturali in propn·os actus et fines non sono affatto la legge naturale che inclina in debitum
actum et /inem (v. sopra n. 28), benché non siano estranee alla legge naturale. Questa invece è
espressione della ragion pratica, la quale stabilisce l'oggetto morale e i fini delle virtù specificando
i principi della legge naturale. Sicché il controllo della ragione sulle inclinazioni non è né «un con­
trollo interno di autenticità», né «una specie di limite estrinseco », ma è una regolazione che as­
segna un ordo rationis alle inclinazioni naturali, ordo verso il quale le inclinazioni sono natural­
mente disponibili (non è interno a esse), ma che proviene sovranamente dalla ragione.
Virtù e vita buona 187

formità, così come chi è legato non può camminare.33 Ora questo effetto sulla
volontà non lo può produrre una regola come tale; la regola misura semplice­
mente il bene e il male. Ma essa non è efficace, se non è applicata, usata nel-
1' atto di volere; e per poter essere applicata dev'esser conosciuta. Quando il
soggetto non possiede da sé tale conoscenza né se la può dare da sé, egli la ri­
ceve da un altro che in questo caso lo governa, esercitando su di lui la mo­
zione caratteristica d'un signore su un suddito. Notificare una regola è l'unico
mezzo per un superiore di vincolare volontà umane. Questo awiene ogni volta
che un sovrano promulga una legge o un superiore dà un ordine a un suddito;
in questi casi «l'obbligazione attiva è l'atto con cui una volontà dominante fa
applicazione d'una regola d'azione alla volontà d'un esecutore subordi­
nato».34
In casi del genere bisognerà distinguere nel suddito il comando della sua
propria ragione pratica, che lo muove a un bene morale, dal fatto che la cono­
scenza di tale bene morale gli proviene da un superiore.35 Secondo la spiega­
zione del dovere morale che ho fornito bisognerebbe precisare: nei riguardi
del bene morale come tale la volontà del suddito deve una libera adesione; nei
riguardi del superiore la sua volontà è obbligata, per il fatto che da lui egli ri­
ceve la notifica d'una regola. L'obbligazione è relativa al superiore, precettore
o legislatore che sia, non al contenuto del precetto o della legge.
(26) Nel caso che il precettore o il legislatore siano umani, la legge o il pre­
cetto non sono coestensivi alla regola morale; sicché il soggetto può avere dei
doveri morali anche se non ha delle obbligazioni umane. Inoltre, poiché le vo­
lontà umane non sono attirate sempre e solo dal bene ragionevole, il legislatore
aggiunge alla notificazione della regola anche una costrizione mediante san­
zioni. Tale costrizione non dev'essere confusa con l'obbligazione né la rim­
piazza; semplicemente l'appoggia e la consolida.
Nel caso che il legislatore sia divino, la prima notifica ch'Egli fa della legge
è mediante la partecipazione della legge eterna al modo d'una legge naturale
della ragion pratica. Essa coincide con la regola morale, ma in quanto è legge
essa dice notifica da parte del legislatore divino. In questo caso dovere morale
e obbligazione sono coestensivi; ma coincidono solo materialmente, non for­
malmente. Il dovere morale resta un rapporto di convenienza tra il bene mo­
rale e la volontà razionale; l'obbligazione è il vincolo della volontà razionale al
legislatore divino, la cui legge è notificata all'uomo nella legge naturale e appli­
cata ai casi particolari dal giudizio di coscienza. In questo contesto è inesatto
dire che la regola morale ha carattere obbligatorio. « Si ha torto di dire confusa-

33 «Hoc est obligare, scilicet astringere voluntatem, ut non possit sine deformitatis nocu­
mento in aliud tendere, sicut legatus non potest ire» (Il Sent, d 39, q 3, a 3c). Nella spiegazione
dell'obbligazione m'ispiro a TONNEAU, Devoir et morale 243-245 e Absolu et obligation 98- 1 13.
34 TONNEAU, Devoir et morale 245.

35 Cf. Io., Absolu 103-105.


188 Capitolo V

mente che la regola obbliga o che la coscienza è una regola; in realtà la regola
non obbliga e la coscienza non regola niente, ma la coscienza che è la cono­
scenza della regola ci lega propriamente secondo la misura regolata».36
Data la coestensione tra dovere morale e obbligazione divina, è possibile
condurre tutta la vita morale in stile religioso, come espressione dell' apparte­
nenza e dell'obbligazione a Dio. In questo senso ogni atto di virtù può esser
vissuto dal soggetto come obbligatorio. Ma questo stile di vita morale, e una
teoria morale costruita sul concetto di obbligazione, presuppongono sempre
una morale del bene regolato secondo il principio della moralità, e quindi una
morale della felicità vera e doverosa.37

4. Il motivo del dovere

(27) Le spiegazioni che ho dato circa il dovere morale e l'obbligazione con­


sentono di fare chiarezza sulla convenienza o meno del motivo del dovere nella
condotta morale e circa il rapporto tra motivo del dovere e virtù. Riprendendo
e completando ciò che ho accennato nel capitolo IP8 al seguito delle analisi
di Baron [34], occorre distinguere nell'espressione « agire per dovere» un
senso colloquiale e un senso autentico della parola dovere.
Secondo il senso colloquiale della parola dovere, chi agisce per dovere:
a) agisce perché costretto: in questo caso si riduce il dovere all'obbliga­
zione e l'obbligazione alla costrizione: chi compie un'azione in questo modo,
non la compie perché è moralmente buona, ma perché vi è costretto; non agi­
sce in piena libertà;
b) compie solo le azioni richieste da rapporti di giustizia, trascurando ogni
altra specie di bene morale, oppure compie solo azioni richieste convenzional­
mente dai ruoli sociali: chi agisce così non ha interesse per le persone e per il
loro bene; cerca solo di evitare guai, esibendo una correttezza formale e atte­
nendosi al minimo richiesto;
e) agisce contro voglia, è spinto da desideri passionali ad agire contro ciò
che è moralmente doveroso, ma si attiene al dovere, benché senza vero amore
o senza partecipazione affettiva.
(28) Secondo il senso autentico della parola dovere, chi agisce per dovere ri­
sponde ai seguenti requisit.i:
a) Il motivo del dovere non è primario (cioè esplicitamente concepito per
ogni singola azione e immediatamente motivante, senza il coinvolgimento del
vero amore), ma secondario (cioè riferito non primariamente ad azioni indivi­
duali, ma alla condotta, o meglio ai criteri generali secondo cui il soggetto re-

36 Io., Devoir 243.


37 Cf. Io., Absolu 125.
38 V. sopra II 38.
Virtù e vita buona 189

gola la propria condotta) . Egli si attiene nelle proprie scelte alla regola morale,
come regola doverosa della vita veramente buona, e con tale criterio giudica
che cosa è conveniente fare di volta in volta.
b) Il motivo del dovere non comporta necessariamente la presenza d'incli­
nazioni contrarie. Anzi è più avvertito proprio quando queste sono assenti,
giacché è un motivo che può esercitarsi solo su una volontà libera, razionale,
naturalmente interessata alla vita buona.
e) Il motivo del dovere indica una motivazione intrinseca, non avventizia,
al bene doveroso. Il soggetto vuole il vero bene proprio perché esso è degno
d'esser voluto, è un amandum, un prosequendum, un /aciendum; non lo vuole
per motivi ad esso estranei (timore di spiacevoli conseguenze, prospettiva di
qualche vantaggio, ecc.) . Nel volere che va al dovere per il dovere, il soggetto
può accentuare la formalità del dovere (sceglie un'azione perché è quella giudi­
cata moralmente buona dalla ragione, vuole attenersi a criteri razionali, non al­
l'impulso delle passioni) oppure il contenuto del dovere (sceglie un'azione per­
ché essa è il vero bene per le persone ed egli ama il bene e ama le persone) .
d) Il motivo del dovere si riferisce a tutte le specie di bene morale, non solo
ai rapporti di giustizia, ma anche all'amicizia, alla generosità, alla fortezza, alla
temperanza, alla mansuetudine, ecc.
Concepito nel modo autentico, il motivo del dovere protegge e accresce l'a­
more per le persone e per il vero bene, in tutte le sue forme, sia del soggetto
agente, sia delle altre persone. Esso è allora non solo compatibile con le virtù,
ma necessario perché si possa p arlare di virtù.

5. Virtù e dovere

(29) Circa il rapporto tra virtù e dovere abbiamo visto emergere nel recente
dibattito istanze contrastanti.39 Da una parte W.K. Frankena, D. Schenck, B.
Schiiller, M. Baron avanzano l'istanza che non si può definire la virtù se non ri­
correndo a principi razionali di correttezza, deontologici o teleologici; per
Baron anzi il concetto di virtù suppone il concetto di dovere. Dall'altra S. Ha­
uerwas avanza l'istanza che solo un carattere virtuoso è in grado di definire i
propri doveri e che esso li definirà in funzione della propria «visione», delle
proprie intenzioni, dei propri interessi. Si potrebbe render giustizia a entrambe
le istanze se si distingue tra considerazione del dovere in universali e in particu­
lari. 40
(30) 1) In universali non si può render conto della natura della virtù senza
ricorrere al concetto di dovere morale. Lo scopo che definisce la virtù è preci­
samente la vita buona regolata secondo il principio di moralità, perciò il bonum

39 V. sopra II 34-39.
'0 V. sopra III 22, 24.
190 Capitolo V

honestum, il bene doveroso. Ciò che distingue la vera virtù da altre disposi­
zioni, è che essa non è una qualsiasi eccellenza, ma l'eccellenza nel realizzare il
bene doveroso, definito secondo il principio della moralità.
Quando Foot sostiene che è sufficiente definire la virtù come desiderio o in­
teresse per certi scopi morali che suscitano devozione, e che non è necessario
ricorrere al dovere enfatico, cioè al dovere morale,41 essa difetta per insuffi­
ciente analisi degli scopi morali che suscitano devozione. Gli scopi morali in­
fatti sono azioni nelle quali il soggetto agente realizza qualche bene umano non
in qualsiasi modo, ma con una volontà buona, cioè regolata secondo il princi­
pio della moralità e le norme specifiche che su di esso si fondano. È perfetta­
mente vero che tali scopi suscitano devozione, ma con la parola devozione si
dice esattamente quello che si vuol dire con la parola dovere morale, cioè che
tali scopi non semplicemente attirano l'interesse, ma che sono degni di esser
perseguiti, sono doverosi, sono bonum honestum. Sicché proprio lo scopo mo­
rale come l'intende Foot implica doverosità e definisce un desiderio come vir­
tuoso.
Le virtù sono esattamente disposizioni a compiere i proprii doveri, dove
per doveri s'intendono le scelte e le azioni nelle quali si esemplifica la vita vera­
mente buona, conforme al principio della moralità. Le virtù fanno compiere i
doveri morali (fanno realizzare in azioni gli scopi morali) precisamente perché
sono doveri morali, cioè beni di tal natura che meritano la libera adesione
d'una volontà razionale. Nella misura in cui le virtù crescono, radicandosi nelle
facoltà operative, esse fanno diminuire le inclinazioni resistenti al dovere, ma
fanno accrescere il senso del dovere. La doverosità morale è avvertita piena­
mente solo dal virtuoso, che proprio a causa della sua virtù sente che deve as­
solutamente compiere certe azioni di amicizia, di pietà, di solidarietà, di corag­
gio, di castità, di umiltà, ecc. Chi non possiede ancora le virtù, propriamente
non avverte la doverosità morale, ma al massimo l'obbligazione legale e ancor
di più la costrizione. Egli non ha sviluppato la conoscenza e l'interesse per il
vero bene proprio e delle altre persone; sarà possibilmente compito dell'educa­
zione aiutarlo a sviluppare il senso del dovere, cioè la conoscenza e l'interesse
per la vita veramente buona. 42

41 «A cause such as justice makes strenuous demands, but this is not peculiar to morality,
and men are prepared to toil to achieve many ends not endorsed by morality. That they are prepa­
red to fight so hard for moral ends for example, for liberty and justice - depends on the fact
that these are the kinds of ends that arouse devotion» ([7] 166).
42 Nel già menzionato articolo Il dualismo Gatti cerca di mostrare come ciò che è moral­

mente giusto possa essere anche attraente e soddisfacente per il desiderio, e trova la soluzione
nella « evincente [corsivo mio] desiderabilità di Dio» (p. 850), il quale attira e appaga il desiderio
ed è contemporaneamente «sorgente e misura ultima della rettitudine morale» (p. 849). Così però
egli non distingue tra amabilità come poter essere amato e amabilità come degno di essere amato e
interpreta l'amabilità nella linea della delectatio victrix. Che Dio sia, di fronte a una volontà umana
libera e razionale, amandus e prosequendus gli sfugge. Non percependo l'originalità della dovero­
sità morale, non riesce a concepire un dovere e un comando di amare («l'amore non si co-
Virtù e vita buona 191

(31 ) 2) Quando si passa dal ragionamento morale in universali al ragiona­


mento morale in particulari, allora ha pertinenza l'istanza avanzata da Hauer­
was [ 18]. Nell'identificazione da parte del soggetto agente dei propri doveri
morali diventano determinanti le virtù. In funzione di esse, delle loro inten­
zioni, della loro «visione», il soggetto virtuoso interpreta la situazione, di­
scerne le circostanze rilevanti, escogita una via d'azione, giudica ciò che è con­
veniente moralmente e anche ciò che è conveniente alle sue disposizioni, « im­
provvisa ciò che è richiesto », secondo un'espressione di Tucidide.43 In questo
momento del ragionamento pratico le virtù diventano normative e i doveri
sono definiti in riferimento agli interessi virtuosi del soggetto agente; ma a loro
volta gl'interessi virtuosi sono definiti dai doveri generali che il primo principio
della moralità richiede quando lo si applica a regolare azioni e passioni.

IV. LA REGOLAZIONE RICHIESTA DALLA VITA VERAMENTE BUONA

(32) Giunti a questo punto della nostra analisi sulla vita veramente buona
occorre richiamare le prospettive entro cui si muove la presente ricerca. Stiamo
operando una riflessione sull'esperienza morale, più precisamente sulla ragion
pratica in atto di regolare la condotta d'un soggetto umano. La riflessione che
stiamo operando considera la ragion pratica dal punto di vista della prima per­
sona, cioè del soggetto umano in quanto autore della propria condotta. Da que­
sto punto di vista il principio esplicativo è costituito dallo scopo della con-

manda»: p. 850; cf. invece le illuminanti pagine di Joseph DE FINANCE, Devoir et amour, in Grego­
rianum 64 [ 1 983] 243-272). Del resto sia il termine agape sia il termine caritas connotano una
stima ed un apprezzamento per un bene nobile, degno di esser amato.
L'originalità della doverosità morale è compromessa anche nelle ripetute espressioni nelle
quali Gatti presenta la riconciliazione tra obbligazione e inclinazione: « È l'amore di Dio la ragione
vera della nostra libertà interiore, per cui facciamo le opere della virtù, mossi non dal peso di una
qualche costrizione esteriore ma dall'amore del bene, non perché obbligati ma in quanto inclinati,
non con tristezza, ma con gioia e prontezza » (p. 853) ; «A fare buona la decisione morale umana,
nella sua dimensione personale, non è il suo esser mossa dal senso del dovere o dall'intento di sot­
tomettersi a una legge, ma ... » (p. 853 ) ; «La legge diventa cosl per s. Paolo il simbolo d'una mo­
rale dell'obbligazione e del bene vissuto e operato per costrizione, per dovere» (p. 859); « Solo l'in­
gresso nel mondo della fede matura rende inutile la /unzione costrittiva del!'entità psicologica "do­
vere" » (p. 861 ) ; «Chi è buono in forza di una scelta globale che nasce dalla libertà fondamentale e
corrisponde all'intima propensione al bene di cui è costituita la libertà umana non ha più bisogno
di essere obbligato ai beni parziali dalla costrizione di una legge esteriore» (p. 83 1 ) .
H o abbondato nelle citazioni (nelle quali i l corsivo è mio) perché non s i potrebbe testificare
meglio una concezione della vita morale assai diffusa, nella quale va perso il concetto di dovere
morale e si confonde tra dovere, obbligazione, costrizione. Alla tetra immagine d'una morale del­
l'obbligazione viene contrapposta la luminosa immagine d'una morale della spontaneità; ma la mo­
rale vera e propria, con la legge della ragion pratica e la doverosità del bonum honestum è scom­
parsa. Per la mia critica alla morale della spontaneità v. sotto V 56.
43 «Autoschediazein ta deonta»: TUCIDIDE, Guerra del Peloponneso I, 138.
192 Capitolo V

dotta, la vita buona. La ragion pratica interviene già a questo livello, fornendo
i criteri in base ai quali si definisce la vita veramente buona e doverosa, degna
d'una persona razionale e libera. Grazie all'apprensione dei beni umani basi­
lari e al primo principio della moralità il soggetto umano è capace d'una valuta­
zione (strong evaluation) che lo rende padrone dei propri desideri.
Ora però il processo di autodeterminazione, che fruttifica in scelte con­
crete nelle quali si esemplifica quello scopo che è la vita veramente buona, è
un processo complesso e discorsivo. Il soggetto umano perviene a scelte con­
crete in forza di intenzioni generali che costituiscono per lui le sue ragioni per
scegliere. Inoltre nella gestazione delle scelte concrete intervengono la ragione
con deliberazioni, ragionamenti, giudizi; la volontà con la sua capacità di orien­
tarsi secondo la ragione, ma anche secondo gl'interessi e le disposizioni dell'in­
dividuo; le passioni soprattutto, più influenti quando si tratta di scendere al
concreto, con le loro sollecitazioni disparate, variabili, contingenti.
Realizzare in queste condizioni il compito della vita veramente buona e do­
verosa è, per il soggetto umano, un'impresa irta di difficoltà. Le situazioni cam­
biano, ogni scelta ha le sue nuove circostanze; il da farsi bisogna definirlo di
volta in volta; le passioni spingono in opposte direzioni; ciascuno giudica del
fine che gli conviene secondo le disposizioni affettive del momento.
È in un contesto simile che sorge il problema: dato che lo scopo è la vita
veramente buona secondo la regola della ragion pratica, dato che la condotta
umana è discorsiva e fragile, dato che vi intervengono facoltà diverse diversa­
mente disposte, a quali condizioni un soggetto come quello umano può realizzar(!
la vita veramente buona? Più precisamente: in quali condizioni di fatto si tro­
vano e in quali condizioni è necessario che si trovino le facoltà operative
umane di fronte allo scopo della vita veramente buona?
Gli studi che vado facendo sulla teoria tomista della virtù mi suggeriscono
che questo sia il problema che Tommaso s'è posto nel concepire la II Pars
della Summa Theologiae e che per risolvere proprio questo problema egli abbia
elaborato la sua originale teoria della virtù. Siamo dunque a una svolta decisiva
del nostro discorso. Se, seguendo Tommaso, proporrò una teoria della virtù
che non coincide con nessuna di quelle che sono in circolazione, è perché
cerco di pormi il problema della condotta umana nei termini in cui se l'è posto
lui. Trovo che il problema così posto abbia perfetto riscontro nell'esperienza
morale, della quale considera aspetti e recepisce istanze che sono trascurate
nelle altre teorie della virtù.
Esaminiamo più da vicino il problema: a quali condizioni il soggetto umano
è in grado di condurre la vita veramente buona?
Virtù e vita buona 193

1 . Il soggetto umano non è naturalmente preparato a condurre la vita buona


e doverosa

(33) 1 ) La condotta umana è un modo di volere, in connessione con un


modo di pensare ed un modo di sentire affettivamente, in relazione ai beni
umani. Nella condotta intervengono la ragione pratica, l'appetito razionale o
volontà e gli appetiti sensitivi o passionali; ma non intervengono allo stesso
modo. La condotta è caratteristicamente umana, morale, solo nella misura in
cui il soggetto agisce in virtù d'una sua valutazione razionale dei beni; la valuta­
zione sarà pienamente razionale solo quando sarà effettuata sulla base del prin­
cipio della moralità. La ragione dunque interviene nella condotta umana a ti­
tolo di regola e di misura. La volontà, in quanto appetito razionale, vale a dire
il cui oggetto è il bene valutato dalla ragione, interviene nella condotta come
principio di esercizio, ma riceve la sua specificazione dalla ragione; essa è dun­
que una facoltà regolata. Gli appetiti passionali di per sé vanno a beni e mali
non in quanto valutati riflessamente dalla ragione, ma in quanto valutati spon­
taneamente da una estimativa naturale; tuttavia tale valutazione spontanea è su­
scettibile di essere corretta dalla ragione; sicché anche gli appetiti passionali
possono intervenire nella condotta secondo una regolazione razionale. 44
Distingueremo pertanto nella condotta una regolazione attiva, da parte
della ragione, ed una regolazione passiva, una idoneità degli appetiti (volontà e
passioni) ad essere regolati dalla ragione.
(34) 2) In rapporto alle scelte moralmente perfette, nelle quali consiste la
vita veramente buona, sia la ragione sia gli appetiti si trovano ad essere in parte
determinati ed in parte indeterminati.
Quanto all'indeterminazione, essa si palesa nel fatto che la ragione è aperta
ad un'indefinita varietà di ragionamenti pratici e di giudizi concreti; essa può
ragionare rettamente o scorrettamente, giudicare bene o giudicare male; ana­
loga indeterminazione si riscontra nella volontà: essa può avere intenzioni rette
o no, può emettere scelte buone o scelte cattive, sia le une sia le altre in una in­
definita varietà. Gli appetiti passionali presentano maggior determinazione
nelle valutazioni spontanee che li specificano e negli oggetti cui tendono; tut­
tavia nei confronti della regolazione razionale sono anch'essi relativamente in­
determinati.
Data questa indeterminazione delle facoltà operative, esse possono collabo­
rare in diverso rapporto tra di loro. La ragione può giudicare più secondo i
propri principi o più secondo gl'impulsi passionali; la volontà può acconsentire
sia a un giudizio pratico pienamente razionale sia a uno irragionevole, può
muovere la ragione a ragionare sia a servizio di fini retti, sia a servizio delle pas-

44 M'ispiro alle analisi di DENT [82], che sviluppa concetti aristotelici. La teoria tomista va
nella stessa direzione.
194 Capitolo V

sioni. Le passioni possono sia asservire la ragione, sia essere regolate dalla ra­
gione. 45
Grazie a questa indeterminazione delle sue facoltà il soggetto umano può
adattare la sua condotta alle situazioni più diverse, ha uno sconfinato campo
di libera autodeterminazione, ma è anche più esposto a sbagliare, a fallire.
Tuttavia abbiamo anche osservato46 che le facoltà operative umane sono
suscettibili di ricevere una determinazione, un'inclinazione, una disposizione
proprio dagli atti che esse producono. Il soggetto umano è in parte indetermi­
nato, ma è determinabile, capace di essere disposto in un modo o in un altro.
Queste disposizioni possono anche diventare relativamente stabili e fornire al
soggetto una preparazione immediata a certo tipo di azioni.
(35) 3 ) L'indeterminazione delle facoltà operative della condotta non è però
tale da escludere che in esse vi siano per natura non già virtù compiute, bensì
appena incoazioni di virtù, attitudini (da aptitudo) ad acquisire le virtù.47
Per riscontrare tali attitudini occorre distinguere, con Tommaso, ciò che
l'individuo possiede per natura specifica e ciò che possiede per natura indivi­
duale. La distinzione tra questi due aspetti della natura umana è imposta dal
fatto d'esperienza che gli uomini sono tanti individui della stessa specie. Que­
sta condizione fa sì che gli uomini s'identifichino per certe proprietà specifiche
e si differenzino per certe proprietà individuali. Le proprietà specifiche sono
relative a ciò che è formale nella natura umana, alla natura in quanto è razio"
nale; le proprietà individuali sono relative a ciò che è materiale nell� natura
umana, alla natura in quanto è corporale. Di più, nessun individuo umano rea­
lizza nella sua natura individuale tutte le potenzialità che sono tipiche della sua
natura specifica. Poiché le proprietà specifiche hanno una certa ampiezza, ca­
pita che diversi gradi di esse convengano a diversi individui secondo la natura
individuale.
Ciò significa che nessun individuo umano è per natura preparato a condurre
la vita richiesta dalla sua natura specifica, cioè dalla ragion pratica. In ordine alla
vita veramente buona la natura umana, sia specifica sia individuale, fornisce ap­
pena delle capacità che sono incoazioni di virtù e che hanno bisogno di esser svi­
luppate fino a diventare virtù perfette.
Tali capacità incoative sono riscontrabili sia nella ragion pratica sia negli ap­
petiti.
Nella ragion pratica, � livello di natura specifica, sono presenti alcuni prin­
cipi del ragionamento pratico e morale (intellectus principiorum) ; a livello di na­
tura individuale vi sono disposizioni diverse nella ragion pratica secondo gl'in­
dividui: chi è più intuitivo, chi è più deliberativo; chi è più veloce, chi è più

" Cf. I-II, 49, 4 .


46 V . sopra IV 12.
47 Per la teoria qui esposta seguo da vicirio gl'importantissimi testi tomisti 1-11 51, 1; 63, 1.

Cf. Lex et virtus 184-195.


Virtù e vita buona 195

lento nel ragionamento; chi è più pronto a decidere, chi è più esitante; chi è
più meticoloso, chi è più sbrigativo, ecc.
Negli appetiti, a livello di natura specifica, vi è sia nella volontà sia nelle
passioni un'inclinazione ad agire secondo la retta ragione; a livello di natura in­
dividuale vi sono anche qui disposizioni diverse secondo gl'individui a qualche
virtù o a qualche vizio: chi è più timido, chi è più coraggioso; chi è più mode­
rato, chi è più sfrenato; chi è più individualista, chi è più solidale, ecc. La .::a ­
gion pratica trova nella volontà e negli appetiti passionali non disposizioni a
lei convenienti, ma maggior o minore docilità o resistenza.
L'insufficienza di queste incoazioni di virtù per condurre la vita veramente
buona appare dal fatto che tale vita richiede non la ripetizione di azioni con­
crete semprè identiche, ma azioni che sono identiche solo quanto a certi cri­
teri e a certi fini generali, sono invece diverse quanto agl'intenti immediati e
alle circostanze. Orbene, di fronte a queste richieste della vita doverosa le in­
coazioni fornite dalla natura specifica nella ragione e negli appetiti sono prin­
cipi ancor troppo generici, sono appena seminalia virtutum. Le incoazioni for­
nite dalla natura individuale hanno l'uniformità tipica delle inclinazioni natu­
rali: inclinano a comportamenti concreti ripetitivi, senza il discernimento richie­
sto per fare ciò che è doveroso secondo le circostanze: il mansueto sarà man­
sueto anche quando sarebbe doverosa la collera. Lasciate a se stesse, queste in­
clinazioni naturali individuali sono tanto più pericolose quanto più sono accen­
tuate, giacché o possono dare origine ad azioni moralmente sbagliate, o, se
danno origine ad azioni moralmente giuste, lo fanno per caso, non per libera
scelta.
Grazie a queste incoazioni di virtù il soggetto umano ha la capacità naturale
di condurre la vita veramente buona; ma a causa delle loro insufficienze e ca­
renze, egli non è preparato ai compiti della vita doverosa, cioè a scelte moral­
mente eccellenti.

2. La vita buona e doverosa richiede nel soggetto umano l'acquisizione di


habitus virtuosi

(36) 1) La diagnosi che, seguendo Tommaso, abbiamo fatto delle condi­


zioni in cui si trovano per natura le facoltà operative umane porta ad una con­
clusione piuttosto sconcertante: il soggetto umano non è per natura all'altezza
del suo compito. La vita veramente buona non è uno scopo che egli possa rea­
lizzare per disposizione naturale, le scelte eccellenti non sono alla sua imme­
diata portata. Occorre una preparazione che la natura non fornisce, ma che
può essere solo acquisita in qualche modo. Proprio tale preparazione forni­
scono gli habitus virtuosi.
Le virtù non possono essere naturali nel soggetto umano; possono essere
solo habitus acquisiti suscettibili di genesi, di crescita, di corruzione. La vita
moralmente buona sarà sempre nell'uomo precaria, perché non è espressione
196 Capitolo V

immediata delle sue disposizioni naturali, ma frutto di disposizioni che si pos­


sono acquisire o perdere, e acquisire grazie a un concorso di fattori non facili
da reperire e da coordinare.
(37) 2) Come debbano essere concepiti gli habitus virtuosi, lo abbiamo già
spiegato.48 Qui occorre precisare in che modo essi sono perfezionamenti con­
formi alla natura del soggetto umano.49 Secondo l'analisi tomista l'individua­
zione, per cui un'identica natura specifica viene diversamente partecipata in in­
dividui diversi, comporta una riduzione ed una coartazione del potenziale spe­
cifico nelle nature individuali. Gli habitus conformi alla natura colmano in
qualche modo le careqze individuali e completano la natura individuale ade­
guandola alla natura specifica.
Quando si tratta delle virtù, la natura specifica nella cui linea esse perfezio­
nano il soggetto è costituita esattamente dalla ragion pratica, dall'intellectus
principiorum e dall'inclinazione naturale degli appetiti a vivere secondo la ra­
gione. Le virtù mediano tra queste proprietà specifiche e la natura dell'indivi­
duo. Consentono all'ideale specifico, cioè la vita veramente buona e doverosa,
di trovare una realizzazione concreta appropriata alla condizione dell'individuo
e alle cangianti circostanze delle sue azioni.50 D'altra parte, completano, ele­
vano, perfezionano le disposizioni individuali affinché siano all'altezza del com­
pito specifico.51 La condotta virtuosa dell'individuo non esaurisce mai le pos­
sibilità dell'ideale specifico, ma non è nemmeno lasciata in balia delle disposi­
zioni individuali. Perciò le stesse virtù si realizzano diversamente in diversi in­
dividui e richiedono atti diversi: ciò che per uno è coraggio, per un altro po­
trebbe essere temerarietà, per un altro ancora pavidità; l'amabilità può esser
più rude in uno, più dolce in un altro.
(38) 3 ) Le scelte moralmente eccellenti, che realizzano la vita veramente
buona conforme alla natura umana specifica, non sono all'immediata portata
delle facoltà operative umane. Non corrisponde alla condizione in cui l'uomo
si trova per natura il concetto corrente di virtù, tipico anche dell'etica mo­
derna. Secondo questo concetto l'uomo sarebbe naturalmente in grado di pro­
durre buone scelte; le virtù non sarebbero richieste per mettere l'individuo in
condizione di produrre buone scelte, ma per abituare la volontà a scegliere con­
formemente alle norme morali; l'abitudine virtuosa introdurrebbe nella volontà
indifferente una determinazione che rende più facile, più piacevole, più stabile
la produzione delle buorie scelte.
Questo modo corrente di concepire la virtù non tien conto né delle condi­
zioni in cui si trova per natura l'individuo agente né delle esigenze della scelta

48 V. sopra III 7-9; IV 17-2 1 .


49 Che gli habitus siano perfezioni secondo l a natura lo illustrano sia Aristotele (cf. HUTCHIN­
SON, The Virtues o/ Aristotle, 2 1-34) sia Tommaso (cf. Lex et virtus 175 - 183).
'0 V. sopra I 60 e sotto V 50-5 1 .
5 1 V . sopra I 6 1-62.
Virtù e vita buona 197

moralmente buona. L'individuo dispone di facoltà che sono per natura impre­
parate al compito di produrre buone scelte, giacché le scelte moralmente
buone sono attuazioni rese eccellenti dal concorso di più fattori: dev'essere
scelta l'azione giusta per l'intenzione giusta nelle circostanze giuste; la produ­
zione di attuazioni così eccellenti richiede un coordinamento tra ragion pra­
tica, volontà e appetiti passionali e una disposizione in ciascuna di queste fa­
coltà che la natura non fornisce. Sono le virtù che introducono queste dispo­
szioni e questo coordinamento; esse non sono un semplice abbellimento della
condotta morale, per renderla più facile, più piacevole, più stabile. Sono invece
un potenziamento, un'elevazione delle facoltà operative dell'individuo per met­
terle in grado di produrre le scelte moralmente eccellenti conformi alle richieste
della natura specifica, cioè della ragion pratica. Esse innalzano le facoltà opera­
tive al massimo delle loro possibilità (ultimum potentiae) specifiche, colmando
le lacune e le carenze della natura individuale.
Le virtù apportano certamente alla condotta umana una stabilità, ma questa
stabilità è principalmente intrinseca.52 Essa consiste nel fatto che, grazie alle
virtù, il soggetto è capace di scelte nelle quali l'intento, il fine, le circostanze
sono giusti non per caso, o per ragioni estranee, ma per una coerenza intrin­
seca resa possibile da una corretta valutazione, da una volontà buona, da ap­
petiti passionali docili alla ragione.
Solo con la crescita della virtù, cioè col suo determinare sempre più le fa­
coltà operative superando deficienze e resistenze, è garantita anche una stabi­
lità estrinseca, e con essa una prontezza e una piacevolezza nella produzione
di buone scelte. Facilità, prontezza, piacevolezza sono non l'effetto formale e
principale delle virtù, ma l'effetto secondario, derivato non dalla natura delle
virtù, ma dalla loro crescita.
(39) 4) Poiché sono diverse e svolgono funzione diversa le facoltà che inter­
vengono nella produzione delle buone scelte, sono diverse anche le virtù. Oc­
corrono virtù che perfezionino la ragione pratica nella regolazione attiva e virtù
che perfezionino gli appetiti nella regolazione passiva. Tuttavia esse non for­
mano un aggregato eteroclito, bensì un organismo coerente, giacché le virtù
degli appetiti sono dipendenti dalle virtù della ragione, e queste abilitano a ra­
gionare in funzione di principi' che, per quanto molteplici, si fondano tutti sul
primo principio della moralità.
Con l'idea d'un organismo delle virtù raggiungiamo l'idea di carattere, ma
otteniamo del carattere una rappresentazione più complessa di quella che ne
fornisce Hauerwas [ 17]. Data la complessità della condotta e la complessità
del soggetto agente il carattere non si riduce a una «visione» o a una decisione
fondamentale, di principio. Esso invece consta dell'integrazione di più virtù,
diverse tra loro, ma tutte connesse. Definiscono il carattere sia una «visione»
della ragion pratica circa lo scopo vero della vita e circa i criteri della con-

" V. sopra III 7 a.


198 Capitolo V

dotta; sia una saggezza pratica che sa realizzare tale scopo con tali criteri nel
terreno accidentato delle azioni; sia un insieme di habitus della volontà e degli
appetiti passionali che inclinano a desiderare ciò che è richiesto dal compi­
mento umano integrale e dalla perfezione in Dio.
Concludendo: la vita veramente buona, per poter essere realizzata in una con­
dotta così complessa e fragile come quella umana, da parte di un soggetto agente
dotato per natura di/acoltà operative così deficienti e impreparate, richiede assolu­
tamente una regolazione delle azioni mediante virtù, virtù della ragion pratica
per la regolazione attiva, virtù degli appetiti per la regolazione passiva. La nostra
attenzione si concentra ora su questa regolazione, per indagare come essa si ef­
fettui attraverso le virtù.

V. LA REGOLAZIONE SECONDO MASSIME VIRTUOSE:


GLI SCOPI VIRTUOSI

(40) La vita veramente buona consta di scelte concrete regolate secondo il


principio della moralità. Data però la dinamica delle scelte e data l'imprepara­
zione in cui si trovano per natura le facoltà coinvolte nella produzione delle
scelte, la regolazione richiesta affinché la vita risulti veramente buona deve ef­
fettuarsi mediante virtù e virtù diverse. A questo punto bisognerebbe proce­
dere ad una definizione specifica delle singole virtù ed elaborare un' eidetica
delle virtù, cioè per ogni singola virtù definire I' eidos, il tipo di condotta che
essa induce a realizzare. In questa sede ciò può esser effettuato solo a grandi
linee. Dato che ogni virtù consiste in un'inclinazione regolata secondo ragione,
la definizione specifica delle virtù deve indicare sia il principio razionale se­
condo cui awiene la regolazione, sia il tipo d'inclinazione che da tale principio
risulta.

1 . Le massime virtuose

(41 ) Poiché la regolazione richiesta dalla vita buona awiene secondo un


unico principio morale fondamentale, i principi che regolano le singole virtù
costituiranno specificazioni del principio della moralità, nelle quali esso viene
relazionato alle facoltà operative per indicare in che modo esse devono attuare
al fine di produrre buone scelte. D'altra parte i principi regolatori delle virtù
non sono ancora norme specifiche: non descrivono azioni indicandone le circo­
stanze moralmente rilevanti e qualificandole dal punto di vista morale. Conten­
gono invece i criteri secondo cui awiene la valutazione morale delle scelte, cri­
teri nei quali il principio della moralità è riferito alle facoltà operative per indi­
care in che modo le facoltà devono essere regolate.
(42) 1 ) I principi regolatori delle virtù appartengono allo stesso livello di
Virtù e vita buona 199

astrazione e di generalità cui appartengono i modi di responsabilità proposti


da Grisez, ma non coincidono con essi, o meglio non sono formulati secondo
lo stesso metodo.
Uno dei contributi più originali e più illuminanti della teoria della ragion
pratica proposta da G. Grisez e da J. Finnis53 sta nella formulazione del
primo principio della moralità come principio della volontà di compimento
umano integrale e nella specificazione di questo principio in vari principi inter­
medi, denominati modi di responsabilità. « Le specificazioni primarie del primo
principio di moralità sono principi intermedi che stanno a mezza strada tra il
primo principio e le norme completamente specifiche che dirigono le scelte.
Qui questi principi sono chiamati " modi di responsabilità", perché essi for­
mano il volere in vista della responsabilità morale ad esso inerente. I modi di
responsabilità specificano - fissano - il primo principio morale escludendo
come immorali azioni che implicano certi specifici modi di volere che sono in­
compatibili con la volontà rivolta al compimento umano integrale».54
Grisez procede alla formulazione di otto modi di responsabilità indicando
in quali possibili modi la volontà può esser limitata a un compimento parziale
e inadeguato per l'interferenza di qualche passione. Ogni modo di responsabi­
lità esclude un limite.55
Grisez mette poi in relazione i modi di responsabilità con le virtù: le scelte
nelle quali la volontà s 'attiene ai modi di responsabilità contribuiscono a for­
mare l'identità esistenziale del soggetto, cioè l'atteggiamento del volere, e attra­
verso il volere le altre componenti della personalità umana; in questo modo si
forma un insieme coerente di virtù che integrano il carattere. In questo senso
le virtù incorporano i modi di responsabilità,56 e per ogni modo di responsa­
bilità Grisez indica le virtù corrispondenti.
Ho mostrato altrove la divergenza tra il concetto che Grisez ha di virtù ed
il concetto tomista.57 Per Grisez le virtù sono effetti posteriori alle buone
scelte; una volta acquisite esse facilitano la produzione di altre buone scelte.
Ma non vi è traccia nella teoria di Grisez di tutto ciò che, sulla scia di Tom­
maso, ha sinora costituito l'oggetto della nostra attenzione; Grisez non analizza
la laboriosa gestazione delle scelte ad opera dell'intervento congiunto, a di­
versi livelli, di ragion pratica, di volontà e di appetiti passionali; gli sfugge com­
pletamente il punto cruciale della teoria tomista della virtù, cioè l'imprepara­
zione in cui si trovano le facoltà operative umane, a causa dell'individuazione,
a realizzare la vita buona richiesta dalla natura umana specifica. Conseguente-

53 La teoria, esposta in varie loro opere, ha ricevuto la sua più recente formulazione in Chris-
tian Mora! Principles; a quest'opera mi riferisco.
,. Ivi 189, G2.

" Cf. ivi 191, G6.


56 Cf. ivi 192-193.
57 Cf. G. ABBA, I «Christian Mora! Principles» di G. Grisez e la «Secunda Pars» della
«Summa Theologiae», in Salesianum 48 ( 1986) 637-680.
200 Capitolo V

mente egli non awerte che le virtù sono assolutamente necessarie a monte
delle buone scelte, non semplicemente per facilitarne la produzione, ma per ga­
rantire che esse siano moralmente eccellenti, cioè rette quanto all'intento od og­
getto, al fine, alle circostanze. La facilità è un effetto secondario, e non della
virtù come tale, ma del suo radicamento nelle facoltà operative.
Perciò i modi di responsabilità servono alle virtù come le concepisce Gri­
sez, non come le concepisce Tommaso. Essi non specificano il modo con cui le
facoltà operative devono essere regolate, ma il modo con cui la volontà deve vo­
lere per restare aperta, nelle scelte, al compimento umano integrale, senza in­
terferenza od ostacolo da parte delle passioni.
(43) 2) Se invece si vogliono specificare i principi delle virtù in modo coe­
rente con la teoria tomista, bisogna indicare il modo con cui il principio della
moralità richiede che siano regolate tutte le .facoltà operative che intervengono
nella produzione della buona scelta: la volontà, gli appetiti passionali, la stessa
ragion pratica in quanto considera gli operabili in particulari. Ogni modo di re­
golazione definisce una virtù.
Per indicare la posizione che occupano i principi regolatori delle virtù nel­
l'insieme delle proposizioni pratiche e per evitare di confonderli con i modi di
responsabilità, trovo conveniente designarli come massime. Ciò facendo mi at­
tengo al concetto di massima che O. Hoffe ha messo a punto nella sua introdu­
zione alla filosofia pratica di Kant, sviluppando e integrando alcune indica­
zioni di Kant.58 Secondo Hoffe contribuiscono a definire una massima le se­
guenti note:
a) La massima è una determinazione della volontà, ha a che fare con la de­
terminazione ed il perseguimento di fini, non semplicemente con la regolarità o
la legalità di comportamenti esteriori.
b) « In quanto principi, le massime contengono, contrariamente a un volere
puramente contingente, arbitrario, originato solamente da una situazione mo­
mentanea, una uniformità che è da precisare. Esse non si applicano a casi
unici, ma a un gran numero di casi simili».59 Di qui una continuità tra azioni
diverse nella loro concretezza.

" O. HOFFE, Introduction à la philosophie pratique de Kant, Albeuve 1985, 82-94. Cf. anche
Onora Nel! O'NEILL, Kant A/ter Virtue, in Inquiry 26 ( 1983) 387-405, specialmente per il rap­
porto tra massime e virtù 392-397: in Kant le categorie della virtù sarebbero più fondamentali che
le categorie dell'azione retta. Le virtù corrispondono alle massime ed è alle massime che si applica
l'imperativo categorico. Ora una massima esprime « the underlying intention by which the agent
orchestrates his numerous more specific intentions» (p. 393). Perciò è errato «to think of them
[maxims] as adoptions of mora! rules, in the sense of rules that prescribe specific actions», le mas­
sime hanno a che fare «with the underlying mora! quality of person's !ife, or aspects of his !ife»
(p. 395). « Since maxims have to be diversely implemented in diverse situations it may be that even
if we can establish which maxims a person of virtue must adopt we will stil! not be able to estab­
lish that action of any specific sort is morally obligatory» (p. 396).
'9 HOFFE, o.e. 84.
Virtù e vita buona 201

e) Il soggetto dà a se stesso le massime come regola della propria volontà e


agisce secondo la loro rappresentazione. Esse non sono regole che il soggetto
di fatto segue, ma regole ch'egli intende seguire, regole ch'egli assume intenzio­
nalmente per se stesso.
d) Le massime, in quanto determinazione della volontà, non sono immedia­
tamente regole delle nostre azioni, anche volontarie, ma del nostro modo di vo­
lere.
e) In quanto propositiones maximae, esse non sono qualsiasi regola che uno
possa dare a se stesso; sono le proposizioni pratiche più elevate e più globali
all'interno d'una catena di sillogismi; sertrono a dedurre altre proposizioni
senza essere esse stesse dedotte all'interno di quella catena. In questo senso
sono principi ultimi di determinazione, principi fondamentali da cui dipen­
dono più regole pratiche. Il soggetto le adotta in ragione di esse stesse, non in
ragione di altri principi superiori. Esse sono a mezza strada tra i principi gene­
rali riguardanti tutta la condotta, e perciò vuoti di contenuto specifico, e le re­
gole più specifiche, nelle quali si introduce qualche circostanza del comporta­
mento. «In esse si esprime piuttosto il tipo di uomo che uno vuol essere: uno
che vive sanamente, un uomo delicato o brutale, vendicativo o magnanimo, ca­
ritatevole o insensibile» .60
« Rapportate a certi aspetti fondamentali, a situazioni tipiche generali dell'e­
sistenza: offesa, bisogno di soccorso, ecc., le massime danno i mezzi d'un do­
minio globale della vita. [ . ] Esse corrispondono a ciò che tradizionalmente si
..

chiamano virtù o vizi: orientamenti fondamentali ultimi d'una vita, nella mi­
sura in cui hanno a che fare, specificamente, con certi settori della vita reale, o
in cui si rapportano - ancora più specificamente dal punto di vista del conte-
nuto ad aspetti più particolari di tali orientamenti».61
j) Quanto al rapporto tra le massime e le regole più specifiche, occorre dire
· che una massima (per esempio, « sopportare un insulto senza vendicarsi»)62
« serve da regola a ogni volere e a ogni atto relativo all'insulto, senza che se ne
possa dedurre direttamente alcuna intenzione, azione o regola d'azione. La
massima si concretizza in diverse intenzioni e azioni, secondo il temperamento
e le possibilità momentanee di colui che subisce l'insulto. La massima indica
un atteggiamento della volontà che conferisce a numerose e diverse intenzioni
e azioni il senso del loro orientamento comune».63
«Mentre le massime si rapportano a un gran numero di situazioni diverse,
a tutto un settore dell'attività, e ne costituiscono il principio direttore norma­
tivo (per esempio, l'interessamento o l'indifferenza nei confronti di qualsiasi

60
Ivi 86.
61
Ivi 86-87.
62 KANT, Critica della ragion pura, § 1.
63 H6FFE, 0 , C. 88.
202 Capitolo V

miseria), le regole pratiche " che dipendono da una massima" trasferiscono il


principio direttore normativo in certi tipi di situazioni che si ritrovano regolar­
mente all'interno di quel settore della vita. Queste regole pratiche sono in rap­
porto alle condizioni cambianti dell'agente nella sua situazione specifica. Esse
rappresentano la concretizzazione, variabile secondo il tipo di situazione, delle
massime generali per certe circostanze. Le massime, al contrario, fanno astra-·
zione dalle circostanze particolari. Esse non sono determinate dalla situazione
data, ma possono esserle applicate. Esse sono il principio che dà criterio e
forma, secondo il quale si risponde, in ultima analisi, ad una situazione
data».64
Avviene così che « da una parte, una sola e medesima massima (quella del­
l'interessamento e dell'indifferenza, del riguardo o no verso altri, della ven­
detta o della magnanimità) esige in circostanze diverse regole di condotta dif­
ferenti. [ . . . ] Dall'altra parte, per una sola e medesima regola di condotta, si
può pensare a più massime».65
g) Quanto al rapporto tra le massime e l'azione individuale, le massime non
sono semplicemente proposizioni pratiche più generali, sono principi della vo­
lontà, validi indipendentemente dalle circostanze. Perciò, mentre la regola o
norma specifica media tra la massima invariabile e le circostanze sempre varia­
bili, la massima permette di « riconoscere il motivo della determinazione come
tale, senza essere sviati dai fattori cambianti della situazione».66 In questo
modo si evita la rigidità dogmatica delle regole.
Inoltre, « in quanto principi formulati e validi indipendentemente dalle cir­
costanze particolari e però destinati a una realizzazione che sia appropriata ad
esse, esse richiedono una competenza specifica d'applicazione».67 Per appli­
care le massime occorre ogni volta interpretare la situazione reperendo le circo­
stanze moralmente rilevanti. «È impossibile dire con precisione ed una volta
per tutte, senza tener conto della situazione, in che cosa un'azione è conforme
alla massima libera. Una massima abbraccia numerose azioni, in parte diverse,
che obbediscono differentemente a un principio secondo le diverse situazioni
nelle quali ci si trova collocati. [ . . . ] Non si trova in una massima né la descri­
zione esatta d'un'azione concreta né, tuttavia, un campo totalmente libero per
un'azione arbitraria».68

64 Ivi 89.
6' Ivi 90. Come esempio del primo caso Hoffe adduce la diversità di soccorso che ciascuno
può arrecare. E aggiunge: « C'est pourquoi, malgré des principes de jugements demeurant identi­
ques, à savoir des maximes, il faut qu'il y ait des normes différentes quant à leur application. La
forme qui convient à la philosophie de la morale n'est pas tout l'éthique fort répandue des règles
ou des normes que l'éthique des maximes» (ivi 90). Come esempio del secondo caso, la regola di
cantare tutti i giorni si rifà a massime diverse in contesti diversi.
66 Ivi 91.
67 Ivi 92.
68
Ivi.
Virtù e vita buona 203

Sicché il sapere morale contenuto nelle massime è, per dirla con Aristo­
tele,69 un sapere a grandi linee, per tipi. Le massime forniscono solo quello
che chiamerei I'eidos delle azioni: ton esse si forniscono le uniche possibili de­
finizioni concettuali esatte delle azioni giuste, lasciando libero il campo per la
loro applicazione al particolare storico e individuale. « Con ciò, l'agente è in­
dotto a trovare lui stesso ed ogni volta, con corrispondenti processi di giudi­
zio, le forme individuali dell'azione morale, e a dare alle proprie opere e gesta
il loro vero valore».70
Nel corso di questo processo di applicazione contestualizzante possono es­
sere formulate regole specifiche di condotta, che definiscono l'azione in ma­
niera circostanziata. Esse sono utili per preservare dalla parzialità o per facili­
tare una deliberazione troppo lunga. Ma esse sono sovente solo regole appros­
simative, di prima istanza, con valore non assoluto o universale, ma solo gene­
rale. Non dispensano da un'accurata indagine sulle circostanze, dalla quale po­
trebbe risultare che « riguardo a esse, delle eccezioni, o piuttosto dei giudizi in­
dividuali divergenti possono non soltanto essere permessi, ma essere pres­
critti». 71 Chi assolutizzasse tali regole specifiche darebbe prova d'immaturità
e incorrerebbe nel rigorismo morale.
L'importanza della nozione di massima per la teoria della virtù e la conver­
genza sostanziale su questo punto di Kant e di Aristotele, e al suo seguito di
Tommaso, richiedevano che su di essa ci si soffermasse alquanto. Ma per la teo­
ria della virtù la nozione di massima, pur necessaria, non è sufficiente. Occorre
mostrare da un lato in che modo si ha da procedere per specificare le massime
delle virtù, dall'altro che cosa aggiunge il concetto di virtù al concetto di mas­
sima.

2. La specificazione delle virtù

(44) Nell'ambito d'una teoria generale della virtù non è pertinente elabo­
rare una classificazione delle virtù che si spinga fino alle specie infime: la quan­
tità di problemi che sorgerebbero richiede un'apposita trattazione che ci disto­
glierebbe dall'obiettivo che ora stiamo perseguendo, cioè spiegare la necessità
e la natura delle virtù per la realizzazione della vita buona. Mi limiterò per­
tanto a specificare i generi supremi delle virtù.
D'altra parte una classificazione dettagliata delle virtù è sempre provvisoria
e suscettibile di modifiche e di ampliamenti, poiché le concretizzazioni dei
beni umani basilari sono variabili e possono dar origine a diversi assetti sociali,
a nuove possibilità, a nuovi rapporti tra le persone, a nuove istituzioni. Perciò

69 Etica Nicomachea I, 1 = 1094 b 20s.


10
Hè'>FFE, o.e. 93 .
11
Ivi 94.
204 Capitolo V

una classificazione stabile delle virtù è possibile solo per generi supremi e non
per specie infime.
Il criterio più appropriato per specificare le massime virtuose che defini­
scono i generi supremi delle virtù dev'essere desunto da ciò che siamo venuti
dicendo circa la funzione delle virtù nella vita buona: esse ci si sono presentate
come richieste dalle carenze dell'individuo agente nei confronti della vita rego­
lata secondo il principio della moralità; la regolazione richiesta per condurre la
vita veramente buona ha da avvenire nel modo di habitus virtuosi che elevino e
potenzino le facoltà operative dell'individuo al livello di prestazione richiesto
dalla natura specifica. Ciascuna virtù pertanto è specificabile in base al modo
di regolazione che è richiesto perché l'individuo umano possa condurre la vita
veramente buona.
Abbiamo visto che la vita buona consiste in un modo di ragionare, di vo­
lere e di sentire affettivamente e che nell'atto umano il volere ed il sentire sono
dipendenti dalla valutazione razionale. Dovremo quindi distinguere tra regola­
zione attiva, esercitata dalla ragione, e regolazione passiva, esercitata dalla vo­
lontà e dagli appetiti passionali.
Inoltre la regolazione diventa più urgente là dove l'individuazione della na­
tura umana nella materia introduce maggiori deficienze, maggior distanza tra
l'appetito e la regolazione razionale. Non sono le passioni come tali che richie­
dono la regolazione mediante virtù: alla passione infatti non ripugna l'essere di­
pendente da una corretta valutazione razionale. Se una regolazione mediante
virtù è richiesta, ciò è dovuto alle carenze che l'individuazione nella materia in­
troduce non solo nelle passioni, ma anche nella volontà e nella ragione. In base
a questo criterio dovremo distinguere con l'Aquinate tra virtù principali, o car­
dinali, e virtù che sono parti potenziali rispetto alle prime. Le virtù principali
differiscono dalle loro parti potenziali perché in esse la regolazione razionale
appare in modo particolarmente efficace e tipico, colmando lacune particolar­
mente gravi delle facoltà operative individuali.
Infine potrà essere necessario distinguere per talune virtù più complesse la
virtù come un tutto e le parti che la integrano, essendo aspetti parziali di essa.
(45) Adottando questi criteri si possono ottenere i seguenti generi supremi
di virtù:
a) La prudenza o saggezza pratica come virtù principale della regolazione at­
tiva. La sua massima potrebbe essere: ragionare per giudicare e prescrivere l'a­
zione che hic et nunc, secondo le circostanze, concretizza nella giusta misura
gli scopi delle altre virtù. Grazie alla prudenza la regolazione razionale si fa ap­
propriata al contesto circostanziato, applicando alla situazione concreta i prin­
cipi e le norme della moralità. La sua principalità è dovuta alla sua capacità di
comandare efficacemente l'azione giusta o la passione giusta, superando la di­
stanza tra ragione e appetito. Sue parti potenziali saranno la capacità di ben de­
liberare e di ben giudicare in vista del comando giusto. Suoi aspetti parziali
possono essere la memoria, l'esperienza, la docilità, la circospezione, la preveg­
genza, la diligenza, ecc.
Virtù e vita buona 205

b) Quanto alla regolazione passiva, essa si esercita secondo modi diversi a


seconda che si tratti della volontà o degli appetiti passionali. A causa dell'indi­
viduazione la volontà dell'individuo è naturalmente preparata a volere il vero
bene dell'individuo stesso; non è però naturalmente preparata a volere il vero
bene per gli altri individui. Per colmare questa lacuna occorre un modo di re­
golazione che inclini la volontà a volere il bene dell'altro in quanto è altro, di­
stinto dall'individuo agente; a volere il bene che è dovuto all'altro. In questo
modo di regolazione consiste la virtù della giustizia: grazie a essa l'individuo è
disposto a misurare le proprie azioni secondo le esigenze dell'altro (medium
rez) . Poiché la misura richiesta obbedisce a criteri diversi nelle commutazioni e
nelle distribuzioni, avremo due specie fondamentali di giustizia: la commuta­
tiva e la distributiva. Esse sono specie d'un genere di giustizia che potremmo
designare come giustizia particolare, da distinguere da un altro genere di giusti­
zia, la giustizia generale o legale, grazie alla quale l'individuo si regola secondo
le esigenze del bene comune. In generale la massima della giustizia sarà: ren­
dere a ciascuno il suo o ciò che gli è dovuto.
La giustizia principale o cardinale esercita questo modo di regolazione in
forma tipica quando dà ciò che è rigorosamente richiesto e lo dà in modo ade­
guato, possibile tra persone uguali. Quando invece l'individuo umano si trova
di fronte a persone che in qualche modo gli sono superiori, egli non potrà sod­
disfare adeguatamente il debito: avremo allora le forme potenziali di giustizia
come la religione, la pietà filiale, l'obbedienza. Infine, oltre il debito rigoroso e
legale, l'individuo dovrà moralmente ad altri particolari prestazioni: avremo al­
lora altre forme potenziali di giustizia come la gratitudine, la generosità, l'affa­
bilità, ecc.
e) Negli appetiti passionali la regolazione si esercita fondamentalmente in
due modi: quando l'appetito passionale è attratto da beni sensibili convenienti
all'individuo, la regolazione razionale consisterà nel moderare e frenare le pas­
sioni affinché l'individuo ricerchi i beni sensibili in modo compatibile col bene
razionale. Secondo questa massima avremo la virtù principale della tempe­
ranza, relativa alle passioni più lontane dalla ragione, come quelle riguardanti
il cibo e il sesso (sobrietà e castità) . Essa avrà come parti potenziali virtù quali
la mansuetudine, che modera l'ira; l'umiltà, che modera il desiderio della pro­
pria eccellenza, ecc.
Quando l'appetito passionale induce a rifuggire il bene razionale a causa di
mali o danni sensibili che ne provenisssero, mali che suscitano timore, fuga, tri­
stezza, perché ripugnanti all'individuo, la regolazione razionale consisterà nel­
.
l'incentivare l'aggressività secondo una giusta misura, affinché l'individuo sop­
porti i mali sensibili senza desistere dal bene razionale. Secondo questa mas­
sima avremo la virtù principale della fortezza, relativa ai timori più lontani
dalla ragione, come il timore riguardante i danni corporali o la morte. Essa
avrà come parti potenziali virtù quali la magnanimità, che inclina ad affrontare
le difficoltà per realizzare attuazioni grandi ed eccellenti nella vita.
206 Capitolo V

Per le virtù dell'appetito passionale la misura prescritta dalla regolazione


razionale sarà relativa alle disposizioni individuali naturali del soggetto agente
(medium rationis).
(46) È owiamente impossibile in questa sede far percepire la fecondità dot­
trinale di questa classificazione tomista delle virtù. È ben più urgente invece av­
vertire che essa è condotta secondo un criterio interno alla nozione stessa di
virtù umana. Tante critiche mosse alla classificazionne tomista, rimproverata
di non essere evangelica, di relegare la religione a esser parte della giustizia o
l'umiltà a esser parte della temperanza, mostrano di non aver compreso questo
punto decisivo. Tommaso ha un suo modo di render conto dell'importanza di
certe virtù nella vita umana e cristiana, mediante la teoria dell'influsso generale
d'una virtù sulle altre o in altri modi. Ma quando le classifica nella II Pars egli
adotta un criterio rigorosamente formale, cioè secondo il modo di regolazione
richiesto perché l'individuo agente possa condurre una vita veramente buona.
I doveri morali possono esser classificati in tanti modi: secondo aree di
vita, secondo i precetti del decalogo, secondo l'influsso delle virtù, secondo
che un dovere è prerequisito o conseguente, secondo un ordine di sviluppo,
ecc. Nella II Pars Tommaso classifica le virtù secondo le richieste che l'ideale
della vita buona e della perfezione in Dio pone alle facoltà operative del sog­
getto umano segnato dall'individuazione. Sicché, ad esempio, per quanto im­
portante sia la religione, essa è pur sempre, dal punto di vista dell'individuo
agente, un rapporto con un'altra persona, superiore, alla quale sono dovuti
certi atti umani, ma in modo che il debito non potrà mai essere adeguatamente
soddisfatto come lo può essere tra uguali. Classificare le virtù significa per Tom­
maso descrivere l'ideale di perfezione umana specifica secondo la regolazione
che richiede per il fatto che esso ha da essere concretizzato da un soggetto
agente individuato e dotato di facoltà operative diverse.

3. Gli scopi virtuosi

(47) 1) Le massime sono proposizioni pratiche che specificano le virtù e che


servono da principi per lelaborazione di norme specifiche di condotta. Le mas­
sime sono dunque necessarie alla definizione delle virtù, ma le virtù non sono
massime; sono invece inclinazioni, al modo di habitus, a pensare, a volere, a
sentire affettivamente secondo le massime.
Si può allora consentire con Frankena [45] 72 dicendo che i principi deon­
tici, per noi le massime, sono una guida per sapere che cosa fare o non fare e
servono inoltre a stabilire quali tratti sono virtuosi, sicché « i principi senza i
tratti di carattere sono impotenti, e i tratti di carattere senza i principi sono de-

72 V. sopra II 34, 44-46.


Virtù e vita buona 207

chi» ( [45] 143 ) . Si può consentire con Grisez,73 dicendo che le virtù incorpo­
rano i modi di responsabilità, per noi le massime di regolazione, e che i prin­
cipi morali servono a distinguere quali tratti di carattere sono virtuosi e quali
no.
Tuttavia esprimendosi così non si dice tutto circa la funzione dell'inclina­
zione virtuosa. Le virtù non sono solo inclinazioni ad eseguire le azioni cui il
soggetto si decide sulla base d'una massima; esse intervengono già nella gesta­
zione della decisione. Inoltre esse non si limitano a neutralizzare l'influsso
delle passioni affinché ragione e volontà restino indisturbate nel procedere a
giudicare sulla base di massime e affinché la decisione e l'esecuzione siano più
facili, più piacevoli, più ferme. Esse invece influiscono nella gestazione inte­
riore della decisione concreta in maniera positiva, cioè orientando l'attenzione
della ragione in funzione delle stesse inclinazioni virtuose. Infatti le decisioni
concrete avvengono non in universali, ma in particulari, cioè non solo sulla
base di principi e di norme, ma sulla base degli attuali desideri e disposizioni
dell'individuo agente,74 a causa dei quali qualis unusquisque est, talis finis vide­
tur ei.75 L'individuo agente decide per l'azione ch'egli giudica più appropriata
ai suoi attuali desideri, per l'azione ch'egli giudica conveniente a mediare con­
cretamente gli scopi ai quali egli intende attualmente.
Le virtù devono intervenire innanzitutto proprio qui, a livello di inten­
zioni, inclinando la volontà e gli appetiti passionali a intendere ad azioni o a
passioni regolate secondo massime moralmente corrette. Azioni o passioni cosi
regolate e che costituiscono l'oggetto o lo scopo cui tendono le intenzioni vir­
tuose le designeremo come scopi virtuosi.
Nella misura in cui sono solo oggetto d'intenzioni, gli scopi virtuosi sono
rappresentati dalla ragione in modo ancor solo generico o indeterminato, ap­
punto solo mediante massime. Essi attendono una determinazione circostan­
ziata in un'azione concreta regolata secondo una giusta misura o giusto mezzo
(sia medium rei sia medium rationis) . Tale determinazione è opera della sag­
gezza pratica o prudenza, virtù necessaria alla ragion pratica quando considera
gli operabili in particulari. A questo livello di considerazione la ragione non de­
libera e non giudica solo sulla base delle massime e delle norme già a lei note
in universali, ma sulla base delle intenzioni della volontà e degli appetiti passio­
nali. Non tanto le massime, quanto le intenzioni virtuose sono principio del ra­
gionamento prudenziale, perché in funzione di esse la saggezza pratica avverte
le circostanze rilevanti e giudica la convenienza dell'azione concreta. Grazie
alle intenzioni virtuose attualmente operanti il soggetto riconoscerà come con­
veniente a lui l'azione regolata secondo giusta misura e messa a punto dalla pru­
denza, perché tale azione gli apparirà come mediazione delle proprie inten­
zioni virtuose in atto.

73 V. sopra V 42, n. 56.


14 Cf. I-II, 58, 5c.
1' V. sopra III 22, 24; IV 14.
208 Capitolo V

Le virtù dell'appetito , o virtù morali vere e proprie (giustizia, fortezza, tem­


peranza) , sono dunque principi propri della prudenza, in quanto le forniscono
gli scopi virtuosi dei quali cercare la mediazione concreta. A sua volta la pru­
denza elabora e prescrive alle virtù morali l'azione che, regolata secondo giusta
misura, costituisce la mediazione concreta degli scopi virtuosi cui esse inten­
dono.
(48) 2 ) Quest'analisi tomista della gestazione dell'azione virtuosa sembra ec- ·

cessivamente complessa se confrontata con la rappresentazione corrente dell'a­


zione virtuosa, rappresentazione tipica dell'etica moderna, sia filosofica sia teo­
logica.
Secondo la rappresentazione corrente la virtù è semplicemente buona dispo­
sizione a realizzare azioni rette; poiché le azioni rette si determinano in base a
norme e a princpi, tutto l'interesse dell'etica detta normativa va alla determina­
zione e alla giustificazione delle norme e delle regole. La virtù non aggiunge
nulla di nuovo alla regolazione della condotta; essa si limita a introdurre la mo­
tivazione giusta per l'esecuzione di azioni rette, le quali allora diventano azioni
buone, in quanto compiute per il motivo giusto o con l'intenzione giusta.
Questa rappresentazione corrente ha l'inconveniente di trascurare l'autorità
del soggetto agente sulle proprie scelte e di ridurre le scelte a una libera deci­
sione pro o contro norme; è una rappresentazione tipica dell'etica della terza
persona. Invece la rappresentazione tomista risponde alla necessità di render
conto proprio delle condizioni richieste perché un individuo complesso e limi­
tato come quello umano sia preparato a produrre lui scelte buone. In tale rap­
presentazione non si richiede la virtù per aggiungere una motivazione perso­
nale a compiere azioni rette determinate secondo norme generali, ma perché
l'individuo umano sia in grado lui di giudicare e di scegliere l'azione giusta.
Questo giudizio e questa scelta, poiché avvengono in particulari e non in uni­
versali, non sono effettuati dalla ragione solo sulla base di norme, ma ancor più
sulla base di inclinazioni dell'appetito a scopi virtuosi; non la motivazione giu­
sta si aggiunge all'azione giusta, ma le motivazioni giuste (intenzioni virtuose)
consentono al soggetto di determinare e di scegliere lui le azioni giuste come
mediazioni concrete delle sue proprie intenzioni virtuose.
Inoltre le azioni giuste cui il soggetto perviene in questo modo non sono
tipi di azione (Handlungsweise),76 ma sono azioni singolari e circostanziate,
delle quali il soggetto può avvertire le circostanze e avvertirle come moral­
mente rilevanti solo percné la ragione prudenziale è resa attenta a esse dall'in­
sieme delle intenzioni virtuose che costituiscono il principio del ragionamento
pratico in particulari, essendo intenzioni di questo particolare individuo
agente. Nella considerazione in particulari della ragion pratica l'intenzione allo
scopo virtuoso ha principalità rispetto alle norme, perché grazie a essa la ra­
gione è resa attenta ad avvertire non solo le circostanze, ma anche le norme mo-

76 V. sopra II 44-46.
Virtù e vita buona 209

rali rilevanti hic et nunc, ad elaborarle in modo più specifico se è ncessario, a


escogitare nuove possibilità d'azione convenienti all'individuo che ha simili in­
teressi o intenzioni, a regolare secondo un giusto mezzo l'intervento degli ap- ·

petiti nell'azione.
(49) 3) Le intenzioni agli scopi virtuosi possono essere attuali ed efficaci
anche se il soggetto non ha esplicitamente presente alla coscienza la massima
che li definisce. La saggezza pratica non è la scienza morale e non ha da formu­
lare esplicitamente ogni massima. È sufficiente che gli scopi virtuosi siano im­
pliciti in qualche principio più generale come: tendere alla perfezione, amare le
persone, agire secondo coscienza, imitare un modello (per i cristiani, Cristo) ,
compiere l a volontà d i Dio, attenersi alla legge o alla parola di Dio, ecc. È com­
pito dell'educazione morale, che fa volentieri uso dei termini di virtù, suscitare
una più esplicita intenzione agli scopi virtuosi.
Nel linguaggio corrente si esprime questa esplicita intenzione agli scopi vir­
tuosi quando si parla di perseguire la virtù, di formarsi un carattere, di tendere
alla perfezione. Questo modo di parlare sta all'origine di un fatale fraintendi­
mento del concetto di virtù. Da un lato sembrerebbe che scopo delle virtù sia
l' autorealizzazione o il perfezionamento dell'individuo. 77 Dall'altro sembre­
rebbe che il concetto di virtù sia antropocentrico o individualistico. 78
Se si è ben capita la nozione di scopo virtuoso queste critiche appaiono
non pertinenti. Se si cura l'occhio è per aumentare la vista delle cose, non per­
ché l'occhio veda se stesso. Così se si cura l'intenzione virtuosa è per deside­
rare il compimento umano integrale e la perfezione in Dio secondo le massime
che specificano il primo principio della moralità. La virtù è un potenziamento
delle facoltà operative, ma non ha per scopo il potenziamento, bensì l'adesione
al bene umano per amore del bene umano; la virtù realizza le potenzialità del­
l'individuo agente, ma le realizza in quanto inclina il soggetto al vero bene per
sé e per le altre persone. Realizzare se stessi non è lo scopo della virtù, ma il
suo effetto formale: essa attua le facoltà operative preparandole e determinan­
dole a intendere alla vera felicità. Perseguire la virtù significa propriamente
perseguire il vero bene per le persone.
D'altra parte lo scopo virtuoso non è individualistico, ma comunitario: nel
vero bene infatti le persone possono comunicare e volendosi reciprocamente il
vero bene si amano. Ma simile amicizia non è realizzabile se non tra individui

77 GATTI, Il dualismo 844-848 conclude la sua esposizione dell'etica tomista: «Il concetto di
autorealizzazione (se non proprio la stessa parola) è implicito in tutto il discorso tomasiano e con­
geniale alla concezione morale cattolica» (p. 848).
78 « Sosehr die Bezogenheit der Tugend auf das handelnde Subjekt einem personalen Ver­
standnis christlicher Sittlichkeit dient, so fiihrt sie doch leicht zu einer individualistischen Veren­
gung des Personbegriffes. Die sitt!ichen Tugenden bleiben so letztlich doch anthropozentrisch
und vermogen den dialogischen Charakter des Personverstandnisses und die vielfaltigen Moglick­
keiten christlicher Lebensverwirklichung nicht geniigend zu erfassen»: J. GRONDEL, Tugend, in
Lexikon fur Theologie und Kirche X (2 1966) 399.
2 10 Capitolo V

virtuosi, resi dalla virtù idonei al vero amore. Il virtuoso opera personalmente
e comunitariamente per la vita beata o veramente buona di ogni persona, vita
beata che unisce le persone nella massima comunicazione. Se la teoria della
virtù è antropocentrica, non lo è nel senso che pone nell'uomo lo scopo della
vita umana, ma nel senso che studia quali condizioni fanno possibile all'indivi­
duo umano accedere alla vita che ha per scopo la piena comunione con le per­
sone e con Dio. Di questo scopo globale e ultimo della vita gli scopi virtuosi co­
stituiscono le prime specificazioni, che a loro volta hanno da essere realizzate
in azioni concrete.

VI. LA VITA VERAMENTE BUONA COME SCOPO DA CONCRETIZZAR E

(50) Con l a teoria delle massime e degli scopi virtuosi si ottiene una rappre­
sentazione della vita buona che consente di rispondere alle difficoltà sollevate
contro di essa da alcuni filosofi e all'istanza avanzata da Maclntyre.
Già abbiamo ricordato che G.J. Warnock scarta dalla sua etica la domanda
circa la vita buona come domanda priva di senso o, se senso essa ha, come
priva di risposta, in ogni caso come domanda cui l'etica non può dare rispo­
sta. 79 A sua volta K. Nielsen, criticando Maclntyre, rifiuta che si possano dare
criteri oggettivi per la determinazione della vita buona.80 Dal canto suo Macln­
tyre offre il fianco a questa critica perché non offre altro criterio per determi­
nare quale sia la vita buona se non la tradizione in cui uno vive; in essa «la vita
buona per l'uomo, e le virtù necessarie per cercarla, sono quelle che ci abili­
tano a capire che cosa ulteriormente e ancor di più è la vita buona per
l'uomo ».81
Ora, come abbiamo visto,82 il concetto di vita buona è imprescindibile
per dare unità alla condotta umana; è imprescindibile anche la distinzione tra
vita veramente buona e vita solo apparentemente buona. Vi sono perciò dei
criteri oggettivi per determinare qual è la vita veramente buona; ma sono cri-
. teri che consentono a ogni individuo di concretizzare la vita veramente buona
a suo modo, in funzione delle sue possibilità individuali e delle circostanze va­
riabili nel corso della sua vita.
Tali criteri sono costituiti appunto dalle massime virtuose e dagli scopi vir­
tuosi. Riferendosi a esse e a essi è possibile formulare il concetto di genere di
vita (way o/ !ife). Intendendo per vita la prassi, come modo di ragionare prati­
camente, di volere, di sentire affettivamente, un genere di vita è caratterizzato
da una regola di vita espressa soprattutto a livello di massime. Le massime vir­
tuose distinguono il genere di vita moralmente buona o virtuosa dai generi di
vita viziosa.
79 Cf. WARNOCK [ 49] 89-91; v. sopra II 26, n. 59.
8° Cf. NIELSEN, in SHELP [72] 133- 150; v. sopra II 59, n. 104.
• 1 MAclNTYRE [ 10] 204; v. sopra II 59.
'2 V. sopra V 2, 5.
Virtù e vita buona 211

Ma con le massime sole non si determina nessuna vita in concreto. Esse for­
niscono sì una prima e importante determinazione, ma essa è ancora aperta a
svariate esemplificazioni concrete in funzione delle circostanze. Le massime
non sono ancora norme specifiche o regole specifiche nelle quali si prescrive o
si proscrive un'azione già determinata secondo qualche circostanza. Le mas­
sime indicano solo lo scopo dell'azione, cioè che l'azione ha da esser regolata
in un certo modo per risultare giusta, forte, temperata, ecc. Ma questi scopi
universali non sono realizzabili univocamente in comportamenti concreti sem­
pre indentici: la configurazione concreta che un'azione deve avere per essere
giusta, forte, temperata, varia secondo le circostanze; uno stesso scopo virtuoso
può richiedere in circostanze diverse comportamenti concreti diversi. Lo scopo
virtuoso opera come un eidos che la saggezza pratica deve applicare diversa­
mente a un materiale variabile.
Pertanto la vita veramente buona è universalmente e oggettivamente deter­
minata solo a livello di massime virtuose; nella realizzazione concreta ad opera
della saggezza pratica essa si diversifica imprevedibilmente secondo le circo­
stanze. 83
(51 ) La vita veramente buona, definita da massime e da scopi virtuosi, è un
ideale che ammette diversità di concretizzazione sia a livello culturale sia a li­
vello individuale.
a) La concretizzazione delle massime e degli scopi virtuosi a livello cultu­
rale dà origine ai costumi che formano l'ethos d'un gruppo umano. In funzione
dell'assetto sociale ed economico, degli eventi della propria storia, delle tradi­
zioni, ogni gruppo umano dà origine a costumi, maniere, riti, istituzioni che
concretizzano per esso l'ideale della vita buona.
Per gl'individui appartenenti al gruppo questi costumi diventano principio
di ragionamento morale; benché siano principi di ordine diverso dal calcolo
dell'utilità o delle regole di giustizia, sono tuttavia anch'essi principi razionali,
in quanto sono impliciti in essi gl'ideali virtuosi, esplicitabili mediante mas­
sime.84
Nell'ambito dei gruppi religiosi, o più specificamente cristiani, si è soliti

83 V. sopra I 60. Stephen A. DINAN, The particularity o/ mora! knowledge, in The Thomist
50 ( 1986) 66-84, spiega bene che i principi morali universali (per noi le massime virtuose) sono ap­
plicabili a esemplificazioni concrete che variano secondo· le circostanze.
84 Nella sua critica al metodo utilitarista S. HAMPSHIRE, Morality and Conflict, rileva giusta­
mente che il calcolo razionale non può sostituire «the various imaginations, unconscious memories
and habits, rituals and manners, which have lent substance and content to men's mora! ideas, and
which have partly formed their various ways of !ife» (p. 100); «Conventions; moral perceptions
and feelings; institutions and loyalties; tradition; historical explanations - these are related featu­
res, and ineliminable features, of mora! thought about the conduct of !ife and about the character
and value of persons» (p. 166). Se tuttavia si riconosce che in questi aspetti del pensiero morale è
implicita una razionalità, in quanto in tali aspetti prendono forma concreta gl'ideali virtuosi, non
sarà necessario ricondurre il ragionamento morale a principi extra-razionali.
2 12 Capitolo V

parlare di spiritualità; ciò che è designato con questo termine è appunto


l'ethos del gruppo, ethos che consta di credenze, convinzioni, concezioni sa­
pienziali della vita e dell'uomo, tradizioni, costumi. Alla sua spiritualità il
gruppo attinge immediatamente le ragioni per indurre nei membri un certo ca­
rattere, una certa condotta. In quest'opera di formazione la letteratura spiri­
tuale fa volentieri uso dei termini di virtù e degli ideali virtuosi. La cosa è spie­
gabile se si interpreta la spiritualità come concretizzazione degli ideali vir­
tuosi. 85
Ancora in termini di ideali virtuosi si potrebbe spiegare lo spirito che
anima un gruppo, un movimento: anche qui si tratterebbe di concretizzazioni
culturali degli scopi virtuosi.
b) La concretizzazione diversificata degli scopi virtuosi giunge al massimo
nella condotta individuale ed è opera della saggezza pratica dell'individuo. Gra­
zie a essa l'individuo è in grado d'interpretare e di applicare criticamente la tra­
dizione e l'ethos dei gruppi cui egli appartiene e di pervenire a esemplifica­
zioni circostanziate diverse degli ideali virtuosi, appropriate alle sue possibilità
individuali.
Anche qui però si può formare un ethos individuale: nell'ambito d'un iden­
tico genere di vita, definito dalla regola morale e dall'ideale della vera felicità,
se si tratta di vita moralmente retta, sono possibili piani di vita diversi a se"
conda degl'individui. Poiché le scelte non hanno tutte ugual importanza, ma
alcune sono principali in quanto ne comandano parecchie altre, un piano di
vita è costituito innanzitutto dalle scelte principali, o impegni: in esse l'indivi­
duo concentra le sue preferenze su qualcuno dei beni umani basilari e si ap­
plica a coltivarlo secondo le sue possibilità individuali. Sorgono così le forme
di vita, dedite più alla contemplazione o più ali' azione, oppure definite da un
impegno come il matrimonio o altra promessa. Nella misura in cui l'impegno è
stabile esso dà origine a uno stato di vita.
In secondo luogo un piano di vita può esser costituito da mete, cioè da fini
a lungo termine che danno origine a un progetto di vita. La meta non è uno
scopo immanente alle scelte; è invece un traguardo in funzione del quale si or­
ganizzano le scelte.
Infine un piano di vita può esser caratterizzato dal fatto che una virtù spe­
cifica esercita un influsso generale su tutte le altre virtù, orientando i loro
scopi al proprio scopo; P.er Tommaso può esser questo il caso della religione, o
della giustizia legale, o della magnanimità. Sorgono così diversi stili di vita.
Vi è inoltre una diversità nel modo di concretizzare gli scopi virtuosi nelle

85 Intendendo la spiritualità in questo modo diventa possibile assegnare uno statuto scienti­
fico alla cosiddetta teologia spirituale. Essa sarebbe la stessa cosa che la teologia morale, qualora la
teologia morale tornasse a essere, tomisticamente, teologia del genere cristiano di vita e si appli­
casse allo studio degli scopi virtuosi che definiscono tale genere di vita. Della diversità delle spiri­
tualità si potrebbe render conto esaminando i fattori storici, piscologici, sociologici, letterari, che
inducono a concretizzare gli scopi virtuosi in modi differenti.
Virtù e vita buona 2 13

scelte che dipende dalle disposizioni che il soggetto ha dalla sua natura indivi­
duale e che fa sì che una identica virtù assuma fisionomie concrete diverse da
individuo a individuo.
In ogni caso questo adattamento dell'ideale specifico alle condizioni indivi­
duali è opera della saggezza pratica, il cui compito è di realizzare la miglior
vita possibile con il materiale, sovente scarso, che ognuno si trova ad avere a
disposizione e di sfruttare le opportunità di vita buona che si aprono nell'im­
prevedibile caos delle contingenze.

VII. VITA VERAMENTE BUONA E VIRTÙ

(52) Possiamo ora concludere questa lunga ricerca sulla funzione della virtù
nella vita buona raccogliendo in un ordinato consuntivo i risultati emersi: la
vita buona dev'essere concepita come esercizio delle virtù, ma richiede una con­
cezione della virtù notevolmente diversa dalle nozioni di virtù emerse nel dibat­
tito.86 In base ai risultati emersi siamo in grado di confermare, spiegare e pre­
cisare la nozione inclusiva e massimale di virtù.

1 . La vita veramente buona consiste nell'esercizio delle virtù

(53) Abbiamo visto che la felicità consiste in un rapporto ottimale tra sog­
getto e mondo. Il lato soggettivo, o eudemonico, della felicità è costituito dalla
vita buona in senso ampio, cioè come insieme delle attuazioni eccellenti nelle
quali il soggetto entra in rapporto con i beni del mondo. Tra queste attuazioni
sono principali quelle degli appetiti, razionale e passionale, e della ragione in
quanto regola degli appetiti. Sono queste che designamo come vita buona in
senso stretto o vita morale o prassi.87
Orbene la pq1ssi buona (eupraxia), o vita veramente buona, consiste nelle
attuazioni della volontà e degli appetiti passionali regolate dalla ragione confor­
memente al principio della moralità e alle massime virtuose che ne derivano.
La vita buona così intesa non è possibile in un individuo umano se le sue fa­
coltà operative non sono elevate e potenziate mediante virtù. Perciò la vita
buona è esercizio delle virtù; essa è uno scopo che si realizza e trova la sua me­
diazione concreta negli atti virtuosi.
Per ogni virtù morale il proprio atto virtuoso, in quanto è definito ancor
solo genericamente e idealmente mediante una massima virtuosa, costituisce lo
scopo virtuoso; esso può diventare concreto e circostanziato, regolato secondo
una giusta misura, solo grazie alla saggezza pratica che ragiona in particulari as­
sumendo come principi le intenzioni virtuose.

86 V. sopra III 10-18.


87 V. sopra V 3.
2 14 Capitolo V

Rispetto agli scopi virtuosi la vita buona è scopo generale, di cui gli scopi
virtuosi costituiscono specificazioni diverse. La vita buona (e con essa la vera
felicità) sta agli scopi virtuosi come scopo ultimo a scopi prossimi. La vita
buona è scopo ultimo, non nel senso di scopo ulteriore al quale si subordina lo
scopo virtuoso; per ogni virtù il proprio scopo virtuoso è scopo ultimo, a cui
termina l'intenzione virtuosa. Invece la vita buona è scopo ultimo nel senso di
scopo completo e integrale di cui gli scopi virtuosi sono parti potenziali specifi­
camente diverse tra di loro, ma tutte connesse.

2. Come dev'essere concepita la virtù perché sia principio di vita buona

(54) Un soggetto come quello umano, con facoltà operative diverse e coar­
tato nei limiti dell'individuazione non può essere autore di vita buona se non è
perfezionato da virtù. Poiché abbiamo incontrato diverse nozioni di virtù, dob­
biamo ora valutarle, raccogliendo le osservazioni sparse nel corso di questa ri­
cerca. Le valuteremo dal punto di vista della loro idoneità a risolvere il pro­
blema nei termini in cui ce lo siamo posto: cioè quali determinazioni nelle fa­
coltà operative sono richieste perché l'individuo umano sia preparato al com­
pito di condurre una vita veramente buona.

1 ) La virtù non è abitudine, ma habitus

(55) 1 ) Nel corso della nostra ricerca abbiamo incontrato una pressoché ge­
nerale convergenza a intendere le virtù come disposizioni, interessi, propen­
sioni, tendenze, senza che questi concetti siano accuratamente analizzati. Al
più si fa ricorso al concetto di habit proprio della psicologia sperimentale.88
Ora questo concetto comprende almeno due note: la ripetitività del comporta­
mento e la diminuzione della coscienza, e perciò della necessità di riflettere e
di deliberare. Per queste note il concetto di habit coincide con il concetto cor­
rente di abitudine: chi ha acquisito le virtù, intese come buone abitudini, com­
pie le azioni giuste in modo quasi inavvertito, come per istinto.89
Questo concetto corrente di abitudine non corrisponde alla dinamica delle

88
V. sopra III 1 1 .
89 U n esempio di quest'opinione corrente lo si trova in queste espressioni di Mario BIZ­
ZOTTO, La rinascita dell'etica, Torino 1987: «Per acquisire la virtù della giustizia ho bisogno d'una
ripetuta e vigile scelta di atti; successivamente è probabile che le mie singole scelte si compiano a
livello istintivo senza alcuno sforzo riflessivo. Tutto questo non sopprime la coscienza, ne riduce sem­
plicemente l'intensità; essa però riemergerebbe con le sue proteste non appena si derogasse dai
buoni abiti acquisiti. C'è una forma di conoscenza assiologica che pur presente non è però avver­
tita, e non perché non c'entri, ma semplicemente perché non ce n'è bisogno. Il comportamento
del virtuoso è corretto ugualmente, anche senza il continuo controllo della coscienza» (p. 150; cor­
sivo mio).
Virtù e vita buona 2 15

scelte umane e perciò considera le virtù non come potenziamento, ma come di­
minuzione delle facoltà operative propriamente umane. Le virtù infatti sono ri­
chieste nell'individuo umano non principalmente per abilitare a forme con­
crete di comportamento esteriore, ma precisamente per abilitare a generare
buone scelte. Orbene le scelte vengono generate come concretizzazioni circo­
stanziate di intenzioni ancor solo generiche, sicché una stessa intenzione retta
richiede scelte diverse, e azioni concrete diverse, in circostanze diverse. La
virtù abilita a buone scelte nella misura in cui abilita a realizzare diversamente
in funzione delle circostanze intenzioni identiche. Perciò quest'abilità è tutt'al­
tro che un'abitudine ripetitiva e, anziché diminuire la coscienza, la potenzia, in
quanto rende attenta la mente e gli appetiti sia agli scopi virtuosi sia alle circo­
stanze diverse. Se mai, ciò che la virtù fa diminuire non è la coscienza del
bonum rationis, ma la resistenza degli appetiti alla regola della ragione e la co­
scienza di tale resistenza. In questo modo però la virtù accresce la libertà dell'a­
desione allo scopo virtuoso e della scelta dell'azione che realizza lo scopo vlr­
tuoso in modo appropriato alle circostanze. Per comprendere questo tipo di
abilità non è adatto il concetto di abitudine; bisogna ricorrere al concetto tomi­
sta di habitus.90 L'habitus è una qualità spirituale,91 che perfeziona le facoltà
specificamente umane, spirituali, proprio nella linea della natura specifica, ren­
dendole preparate a generare con massima coscienza e libertà buone scelte.
(56) 2) Dovremo allora considerare la virtù come una disposizione che, di­
minuendo la resistenza delle passioni, abilita il soggetto a produrre azioni
buone in modo del tutto spontaneo? Il soggetto virtuoso produrrebbe azioni
buone non semplicemente per dovere, ma mosso dallo slancio spontaneo dell'a­
more per il bene. Anche questa concezione della virtù è assai corrente,92 ed in­
contra pure illustri sostenitori: per Lutero non le opere buone fanno buono
l'uomo, ma l'uomo, reso buono dalla fede e dalla giustificazione per grazia, pro­
duce spontaneamente opere buone, come l'albero produce frutti buoni;93 per
Kant la volontà assolutamente buona, o santa, segue la legge morale per in­
terna necessità, senza resistenza delle inclinazioni della natura sensibile, per
pura riverenza alle richieste della ragione: in questo Kant s'avvicina a Spinoza,

9° Cf. S. PINCKAERS, La vertù est toute autre chose qu'une habitude e Habitude et Habitus.
91 Cf. P. DE ROTON, Les habitus.

92 Di nuovo servano come esempio queste espressioni di M. BIZZOTTO, o.e. : « È giusto anzi­
tutto riconoscere la differenza tra un'azione compiuta per puro dovere da un'altra animata da uno
slancio affettivo: la prima risente d'una certa costrizione, sia pure di ordine interno, mentre la se­
conda è mossa da una movenza spontanea. Va però precisato che lo zelo non elimina il fatto del do­
vere, il quale persiste anche se non è awertito con le sue pesanti ingiunzioni, per cui l'individuo si
sente a suo agio nel guidare la sua azione in una forma sovrana» (p. 164; corsivo mio). Bizzotto
segue la concezione dell'«anima bella» di F. Schiller.
93 Per un'esposizione e una critica a questa concezione che si ritrova non solo in Lutero, ma
in molti teologi moralisti odierni che rifiutano il concetto di legge morale, cf. Alberto GALLI, Mo­
rale della legge e morale della spontaneità, in Sacra Doctrina 19 ( 1974) 457-497. Nella mora! de acti­
tudes dì M. Vidal dagli atteggiamenti morali fluiscono spontaneamente le azioni.
216 Capitolo V

per il quale la legge morale è di per sé descrittiva e diventa prescrittiva quando


la volontà è sollecitata dalle passioni.94 L'idea che la vita moralmente perfetta
sarebbe frutto d'un'emanazione spontanea dalla buona volontà o dall'amore si
ritrova nel concetto di anima bella di Schiller e nella morale aperta dell'aspira­
zione di Bergson.
Questa concezione del soggetto virtuoso come sorgente spontanea di opere
buone non corrisponde però né alla natura del bene morale né alla natura
della volontà umana. Il bene morale, in quanto bonum honestum e doveroso, è
sì attraente, ma d'un'attrazione che non è necessitante per la volontà umana.
L'unico oggetto che la volontà umana vuole necessariamente è la felicità intesa
in senso puramente formale; qualsiasi altro bene può esser voluto dalla volontà
umana solo per libera adesione, libera non solo nel senso di spontanea, ma
ancor più nel senso di libera autodeterminazione. Ora la virtù potenzia la vo­
lontà proprio nella linea di questa sua natura specifica e la prepara ad aderire
per libera autodeterminazione innanzitutto agli scopi virtuosi in ragione della
loro bontà degna e doverosa per l'uomo. Conseguentemente la virtù potenzia
la ragione a procedere alla deliberazione o, se una deliberazione non occorre,
in ogni caso al necessario discernimento prudenziale in vista della buona
scelta. Per quanto la virtù renda connaturale al soggetto quest'operazione, essa
resta sempre un'operazione specificamente umana, dunque una libera autode­
terminazione secondo la regola della ragione, che resta sempre prescrittiva e
non diventa mai semplicemente descrittiva. È dunque errato paragonarla al
comportamento spontaneo dell'istinto: a esso si può rassomigliare per la natura­
lezza, ma è la naturalezza di autodeterminarsi secondo la regola morale, se­
condo un bene valutato e giudicato come doveroso dalla ragione perfezionata
dalla saggezia pratica.
La morale delle virtù non è pertanto la morale di atteggiamenti da cui flui­
scono spontaneamente le buone azioni; è invece la morale dell'uomo che, ca­
pace per natura di essere autore di scelte ragionevoli, è potenziato e preparato
dalle virtù proprio in linea con questa capacità fino a poter <<improvvisare ciò
che è richiesto» e ad aderirvi con la volontà e con le passioni.
La teoria tomista conosce questa condizione di libertà perfetta, in cui
l'uomo giusto compie ciò che è bene per l'amore del bene. Secondo la teologia
tomista dell� legge e della carità l'uomo perfetto non è più sotto il regime della

94 Questo accostamento di Kant a Spinoza è suggerito da Jon WETLESEN, The Sage and the
Way. Spinoza's Ethics o/ Freedom, Assen 1979, 2 18: «Kant assumes that an autonomous will is en­
tirely determined from within, through a pure reverence for the requirements of reason. [ ] ...

When a person is motivated in this way, he will act according to reason by an internal necessity.
His deepest motivation is anchored in a feeling of value, and not in a feeling of obligation. I think
that Kant and Spinoza are pretty dose to each other here, except that Kant does not believe that
this kind of motivation is obtainable for men, although perhaps for angels. Anyway, at this leve!
the laws of reason are experienced as descriptive laws. I think Kant would have nothing against
Spinoza's calling them eternai and necessary truths».
Virtù e vita buona 2 17

legge, ma sotto la mozione della grazia divina egli compie ciò che è bene per
l'amore di carità e con suprema libertà.95 Tuttavia questa condizione di li­
bertà perfetta non può esser intesa come se si trattasse di semplice sponta­
neità, cioè d'una necessità interiore della volontà non impedita da resistenze
esteriori delle passioni. Questa spontaneità è propria dell'istinto e non ha nulla
di specificamente umano. Si tratta invece di perfetta libertà di autodetermina­
zione che consente, non tanto di fare opere buone mossi da un sentimento o
un desiderio spontaneo, fosse pure l'amore, quanto di scegliere l'azione giusta
e richiesta, di sceglierla con l'intenzione giusta. Proprio a generare scelte si­
mili abilita la virtù. Essa non è un semplice desiderio o buon sentimento, ma
attitudine a produrre buone scelte, anche senza laboriosa deliberazione ove sia
possibile. 96
(57) 3 ) Questa nozione di virtù come habitus che dispone a compiere
buone scelte abbisogna ancora d'una precisazione. È infatti opinione corrente
che la virtù disponga a compiere buone scelte con facilità, piacevolezza, fer­
mezza, prontezza.97 L'uomo avrebbe bisogno delle virtù non tanto per ren-

95 I testi classici al riguardo sono il cap. 22 del IV libro della Summa Contra Genti/es e le
questioni 106-108 della I-II sulla legge nuova. Questi testi sono ripresi da Jacques MARITAIN, La
philosophie morale. Examen historique et critique des grands systèmes, Paris 1960, 539-544: egli di­
stingue un regime della morale, caratterizzato dalla coscienza d'una legge che obbliga, e un regime
della sopra-morale, caratterizzato dalla mozione dello Spirito Santo sull'uomo reso docile dai doni
dello Spirito: « L'homme qui vit sous le régime des dons [ ... ] est entré dans la liberté d'autonomie
à laquelle nous aspirons tous, de si loin que se soit. Il n' est plus sous le régime de la loi; la loi ne
courbe plus son vouloir. Il accompli ce que la loi prescrit, et incomparablement mieux que ceux
qui n'ont pas franchi le seuil de la vie inspirée, mais il l'accomplit en suivant l'attrai! de son amour
et l'instinct méme da sa volonté, qui a cessé d'etre à lui, n'est plus qu'a celui qu'il aime. Il ne fait
plus que ce qu'il veut, ne voulant que ce que veut celui . qu'il aime» (p. 544; corsivo mio).
Gli stessi testi tomisti sono ancora ripresi da S. PINCKAERS, Les sources de la morale chré­
tienne 367-372, per spiegare l'ultima tappa dell'educazione morale, cioè l'età adulta e la maturità
della libertà: egli ricorre all'immagine evangelica dell'albero buono che produce frutti buoni per il­
lustrare come l'uomo perfettamente padrone delle proprie azioni esprima in esse la propria per­
sona; la sua « c'est une perfection dynamique qui procède du coeur et est propre à la personne par­
venue à la plénitude de ses facultés actives» (p. 369).
96 Seguendo Aristotele illustra bene questa nozione di virtù DENT [82] 2 1-24.
97 Un esempio di questa concezione corrente lo costituisconp queste espressioni con cui

GATTI, Il dualismo, riferisce il concetto tomista di virtù: « [La virtù] consiste in una vera e propria
" inclinazione naturale, o almeno quasi-naturale, a fare qualcosa" [I-Il, 58, 1]. Per questo essa per­
mette di fare il bene con facilità, prontezza e con una certa spontaneità o connaturalità per il bene
stesso. Questa spontaneità comporta quella particolare forma dì gioia nel fare il bene di cui par­
lava anche Aristotele, che è il distintivo della virtù giunta alla sua perfezione: "virtus in propriis de­
lectatur" ». Gatti fraintende il testo di I-II, 58, le, che dice, dopo aver distinto due significati del
termine mos: «Dicitur autem virtus moralis a more, secundum quod mos significat quandam incli­
nationem naturalem, ve! quasi naturalem, ad aliquid agendum». Con ciò però non vuol dire che la
virtù consiste in una vera e propria inclinazione naturale, o quasi-naturale, a fare qualcosa; ma
vuol arrivare a dire che si chiama morale non qualsiasi virtù, ma solo quella che ha sede nella fa­
coltà appetitiva, in quanto « inclinatio ad actum proprie convenit appetitivae virtuti». Che tipo d'in­
clinazione sia la virtù morale, il testo non lo dice, ma si deve ricavare dall'insieme del de habitibus
e; del de virtutibus della I-II.
2 18 Capitolo V

dere buone le scelte, quanto per rendere più facile . e più piacevole la produ-
zione di buone scelte.
In altra sede98 ho dimostrato, sulla base d'un' accurata esegesi, che questa
se mai è l'idea che Tommaso aveva di virtù nello Scriptum Super Sententiis, ma
che non corrisponde a quella da lui elaborata ex novo nella II Pars e alla quale
mi sono attenuto nel corso di questo saggio. Nello Scriptum Tommaso conside­
rava le virtù come forme infuse da Dio per riformare l'uomo decaduto e rista­
bilirlo nella rettitudine e si riferiva alle virtù acquisite come habitus che fanno
compiere facilmente e piacevolmente le opere buone. Nella II Pars Tommaso
studia l'uomo come autore delle proprie opere, ma autore la cui natura speci­
fica è coartata e ridotta nell'individuo a causa dell'individuazione mediante la
materia. Conseguentemente ha bisogno assoluto delle virtù, non solo per il me­
lius esse delle opere buone, ma ancor più per il loro esse simpliciter. Per na­
tura l'individuo umano non è preparato a compiere atti d'un certo tipo, cioè
moralmente buoni sia quanto all'oggetto, sia quanto al fine, sia quanto alle cir­
costanze. Le scelte buone sono a un livello superiore a quello delle disposi­
zioni della natura individuale. Come senza scienza semplicemente non posso
capire un certo oggetto, così, senza virtù, semplicemente non posso compiere
l'atto retto in tutti i suoi elementi. Perché riesca a compiere l'atto retto, la
buona scelta, ho bisogno delle virtù;99 la facilità e il diletto non sono l'effetto
formale della virtù, sono l'effetto della sua crescita, del suo radicamento nelle
facoltà.
Così è anche per la stabilità. La virtù fornisce all'atto una stabilità intrin­
seca, in quanto fine, oggetto e circostanze sono coordinati non per caso o per
altre ragioni estranee, ma per ragioni interne al bene morale. Solo il radica­
mento della virtù nella facoltà fornisce una stabilità estrinseca. 100

2) La virtù non è decisione fondamentale di principio

(58) Chiarito in che senso la virtù è habitus o disposizione stabile, occorre


liberare il campo da un'altra nozione di virtù, secondo la quale la virtù sarebbe
una decisione fondamentale di principio.10 1 Questa nozione sembra plausi­
bile, perché la virtù procede a buone scelte sulla base dell'adesione a un princi­
pio morale, che abbiamo chiamato massima.
Ma, come già abbiamo osservato, 102 l'adesione a una massima, o meglio a

98 Cf. Lex et virtus cap. I e VI.


99 « Facit autem virtus operationem ordinatam» (I-II, 52, 2, lm); «Omnis actus virtutis po­
test ex electione agi: sed electionem rectam agit sola virtus quae est in appetitiva parte animae» (I­
II, 58, 1, 2m).
100 V. sopra III 7a; V 38.
101 V. sopra III 1 1.
102 V. sopra IV 13; V 48.
Virtù e vita buona 2 19

uno scopo virtuoso, non è ancora una scelta compiuta: è sofo il principio di
scelte compiute. Le difficoltà intervengono proprio quando si deve pervenire a
scelte compiute e circostanziate. Qui non basta una decisione di principio: oc­
corre un discernimento razionale in particulari, e questo richiede ordinate incli­
nazioni non solo nella volontà, ma anche nelle passioni, giacché le scelte com­
piute sono ben più complesse per un individuo umano che non le decisioni di
principio.
Dalle decisioni di principio le scelte giuste non fluiscono spontaneamente,
né la battaglia si vince nelle decisioni di principio, ma, come già Aristotele
aveva insistito, nelle scelte concrete e nelle azioni circostanziate.
Pertanto la virtù che si richiede affinché un individuo umano sappia con­
durre la vita veramente buona consiste in habitus che inclinano gli appetiti agli
scopi virtuosi e alle loro concretizzazioni in scelte regolate secondo una giusta mi­
sura dalla saggezza pratica.
Per completare la nozione di virtù che qui sosteniamo e collocarla rispetto
alle altre nozioni, occorre richiamare, a titolo di consuntivo, ciò che siamo ve­
nuti dicendo circa l'oggetto che specifica le disposizioni virtuose.

3 ) La virtù è definita dal dovere

(59) Ci siamo ripetutamente soffermati sull'opinione, sostenuta da Foot


[7], secondo la quale le virtù non hanno alcun riferimento al dovere, giacché il
concetto di dovere sarebbe enigmatico. 103 Inoltre, per Stocker [5] , il motivo
del dovere introdurrebbe una schizofrenia nel soggetto morale. Sicché le virtù
sarebbero da concepire semplicemente come desideri o interessi buoni, rivolti
a certi beni o a certi Vl\lori, senza riferimento al dovere.
Seguendo una critica di Baron [33-35], abbiamo osservato che l'idea d'un
buon desiderio, privo di strong evaluation, sottrae al soggetto l'autorità sulle
proprie azioni; egli non sarebbe agente vero e proprio. 104 La virtù pertanto è
da concepire come inclinazione a beni valutati come doverosi, e doverosi sono
tutti gli atti conformi al principio della moralità.
Né il motivo del dovere introduce una schizofrenia; anzi protegge l'inte­
resse per i beni e per i valori 105 ed è inoltre tanto più avvertito quanto più vir­
tuoso è il soggetto, qualora si sappia distinguere tra dovere, obbligazione e co­
strizione e tra il senso colloquiale ed il senso morale della parola dovere.106

10' V. sopra II 10.


104 V. sopra II 37, 4 1 .
105
V . sopra I I 38, 43.
106
V. sopra V 27-28. Le distinzioni che ho proposto sfuggono evidentemente non solo a
Gatti (v. sopra n. 42), ma anche a BIZZOTTO, La rinascita, quando scrive: «Per il fatto che un indi­
viduo si determina a una scelta che comporta coraggio, lasciandosi trasportare dall'impeto del
cuore più che dall'imposizione del dovere, non significa che questo venga meno; è semplicemente
220 Capitolo V

Per questa stessa ragione si deve dire che, se la virtù «va al di là delle per­
cezioni e delle risposte ordinariamente presupposte nella nozione di obbliga­
zione», 107 questo è vero solo per le obbligazioni di giustizia o per le obbliga­
zioni convenzionali. La virtù dispone a tutto il bene moralmente doveroso,
cioè alla vita veramente buona.

4) La virtù è definita dal primo principio della moralità

(60) La vita veramente buona e doverosa a cui le virtù dispongono il sog­


getto umano ha un suo principio regolatore, cioè il primo principio della mora­
lità e le massime virtuose. Secondo tale principio sono moralmente buone le
scelte nelle quali la volontà resta aperta al compimento umano integrale e alla
perfezione in Dio.
Con questo principio abbiamo individuato un criterio secondo cui deve ef­
fettuarsi la valutazione morale. Tale criterio è assente nella concezione generale
della moralità proposta da Becker, secondo la quale egli poi definisce la
virtù. 108 Non è sufficiente dire che nella valutazione morale si considera tutto
ciò che si può o si deve considerare. Ciò che è meglio, tutto considerato, cam­
bia a seconda del criterio in base al quale si considera e si giudica. Se non si
danno altre indicazioni, è facile che s'infiltri surrettiziamente il criterio teleolo­
gico o proporzionalista proposto da Schiiller. 109 Secondo tale criterio è moral­
mente giusta l'azione che, tutto considerato, produce il maggior beneficio o il
minor danno ai soggetti interessati.
Ora il criterio proporzionalista soggiace a vari inconvenienti, 110 tra i quali
il seguente è qui rilevante: ciò che conta come beneficio o come danno viene
deciso ultimamente sulla base di desideri dati, che il soggetto o i soggetti si tro­
vano di fatto ad avere. Sicché nemmeno il proporzionalismo rende giustizia al
soggetto agente come strong evaluator.
Invece il criterio del compimento umano integrale e della perfezione in Dio
consente di valutare i desideri da un punto di vista superiore, secondo un
ideale di perfezione che è pienamente razionale e logicamente indipendente
dai desideri che il soggetto si trova di fatto ad avere. Non è dunque un criterio
teleologico né semplicemente deontologico, nel senso che ponga come primor-

non avvertito; ma la sua mancata presa di coscienza non determina la sua inesistenza» (p. 163; v.
anche sopra n. 92). Osservo: nel virtuoso l'impeto del cuore non è tanto spontaneo, quanto invece
comporta una perfetta libertà di autodeterminazione; inoltre ciò ch'egli non avverte non è tanto il
dovere morale (questo anzi lo avverte ancora di più), quanto invece la resistenza della passione e
il dovere nel senso colloquiale della parola.
107 CARNEY [26] 1 1; v. sopra III 12.
108 V. sopra III 13.
109 V. sopra III 13.
1 1° Condivido le critiche al proporzionalismo avanzate da GRISEZ, Christian Mora! Princi­
ples 141- 170.
Virtù e vita buona 22 1

diale il concetto di dovere. Ciò che è principale è il concetto di compimento


umano integrale e di perfezione in Dio; è questo bene perfetto e honestum che
è doveroso per una volontà razionale e libera, indipendentemente dal fatto che
vi siano o no passioni che oppongono resistenza.
(61 ) Lo stesso ideale del compimento umano integrale e della perfezione in
Dio costituisce il nucleo di quella «visione» che Murdoch, e al suo seguito
Hauerwas, 111 richiedono perché il soggetto sia in grado di discernere ciò che
deve fare. Non si dice a sufficienza della «visione» né essa può essere norma­
tiva, se non si esplicita che essa deve avere come nucleo principale un ideale
pratico, alla cui luce anche la storia della comunità (e, nel Cristianesimo, delle
gesta di Dio) e del singolo diventa moralmente significativa e rilevante, giacché
la storia è costituita da eventi in cui prende fisionomia concreta, o viene fal­
lito, l'ideale pratico. Senza ideale pratico la narrativa non sarebbe moralmente
rilevante.
(62) Con ciò si supera anche la difficoltà in cui incorre Maclntyre, 112
quando risolve la vita buona in una ricerca di ciò che fa la vita buona, ricerca
sostenuta nell'ambito d'una tradizione. A tale ricerca infatti manca un criterio
che consenta di valutare criticamente anche la tradizione e di adattarla alle
nuove situazioni. Il criterio è invece fornito dal principio di compimento
umano integrale e di perfezione in Dio e dalle massime virtuose che lo specifi­
cano. È tuttavia un criterio ancora estremamente generico, che non fissa per
sempre una forma concreta di vita buona, ma è aperto alla vicenda storica e
alla ricerca mai conclusa, tanto apprezzata da Maclntyre. Infatti il compimento
umano integrale consta di beni umani che son detti basilari appunto perché
sono aperti a indefinite realizzazioni, nelle quali ogni progresso fa possibile
altri progressi; inoltre gli scopi o ideali virtuosi richiedono di essere concretiz­
zati in azioni diverse, appropriate a situazioni diverse. Poiché il campo delle
azioni è il campo della contingenza, la ricerca non sarà mai conclusa né la sto­
ria mai finita.
(63) Con il criterio del principio della moralità e delle massime virtuose di­
venta possibile giustificare la distinzione tra vere virtù e false virtù, tra virtù e
destrezze (skills). Infatti, non qualsiasi eccellenza può esser detta virtù, ma solo
l'eccellenza regolata secondo i principi morali. Una prestazione può esser ec­
cellente nel suo genere, ma mancare di regolazione e di discernimento morale;
in tal caso non abbiamo una vera virtù, ma una falsa virtù.113

111
V. sopra II 12, 15 .
112
V. sopra III 18.
1 13
«Malum ebrietatis et nimiae potationis consistit in defectu ordinis rationis. Contingit
autem, cum defectu rationis, esse aliquam potentiam inferiorem perfectam ad id quod est sui gene­
ris, etiam cum repugnantia ve! cum defectu rationis. Perfectio autem talis potentiae, cum sit cum
defectu rationis, non posset dici virtus humana» (I-II, 55, 3, 2m). « Sicut perfectum, ita et bonum
dicitur metaphorice in malis: dicitur enim et perfectus fur sive latro, et bonus fur sive latro; ut
222 Capitolo V

Inoltre, con Kant, 114 occorre riconoscere che vi sono delle destrezze che
possono essere a servizio sia d'una volontà buona, sia d'una volontà cattiva:
l'avvedutezza, l'autocontrollo, il dominio delle paure, la furbizia, ecc. Per
Kant sono semplicemente proprietà del temperamento, non del carattere mo­
rale. Nella nostra terminologia occorre dire ch'esse sono destrezze, non virtù,
in quanto non sono di per sé regolate dai principi della moralità. Ma occorre
anche aggiungere e precisare che qui il nostro linguaggio è al corto di risorse.
Noi chiamiamo coraggio sia la destrezza sia la virtù; siamo perciò indotti a pen­
sare che la destrezza diventa vritù quando è posta al servizio d'una buona vo­
lontà. In realtà la virtù del coraggio è un habitus nuovo e diverso rispetto alla
destrezza del coraggio, in quanto la virtù del coraggio è un'inclinazione dell'ap­
petito secondo le movenze della regola razionale. Proprio questa inclinazione
manca alla destrezza.· Sicché il termine coraggio, applicato alla destrezza, non
ha lo stesso significato che quando è applicato alla virtù. Per rimediare all'in­
sufficienza della terminologia intendiamo il coraggio virtuoso quando usiamo
il termine coraggio tacitamente in senso antonomastico; esplicitando, parliamo
di vero coraggio. Per il passaggio dalla destrezza alla virtù del coraggio non è
sufficiente mettere la destrezza a servizio di fini buoni e della buona volontà;
occorre acquisire una nuovadocilità dell'appetito irascibile alla regola morale.

5 ) La virtù non è definita solo dai doveri di giustizia

(64) 1 ) Per coloro che adottano una concezione speciale della moralità i do­
veri morali sono solo i doveri sociali: sia i doveri di giustizia e di beneficenza
(Frankena), sia le azioni che contribuiscono a migliorare la situazione hobbe­
siana o favorendo la collaborazione (Ewin) o favorendo lo svolgimento delle
funzioni sociali (Wallace) o superando i limiti di simpatia (Warnock) . 115 Per
questi autori le virtù sono disposizioni a compiere simili doveri o simili azioni,
e sono necessarie a causa dell'insufficienza delle regole.
Già abbiamo visto che questa riduzione della moralità alla giustizia e all'al­
truismo non corrisponde all'esperienza morale.116 Inoltre l'identificazione del
principio della moralità e delle massime virtuose ci consente di spiegare perché
esistono altri doveri morali oltre quelli di giustizia e altre virtù morali oltre la
giustizia e le virtù sociali. Il compimento umano integrale e la perfezione in
Dio sono beni da voler<:'. doverosamente non solo per le altre persone, ma
anche per se stessi, e sono da volere con discernimento razionale e con parteci­
pazione passionale. Perciò richiedono altre virtù morali sociali oltre la giusti-

patet per Philosophum in V Metaphys. Secundum hoc ergo, etiam virtus metaphorice in malis di­
citur» (ivi 1 m).
114
Cf. Fondazione della metafisica dei costumi, sez. I.
"' V. sopra III 14-16.
11 6 V. sopra III 8.
Virtù e vita buona 223

zia: virtù come la riconoscenza, la deferenza, l'amicabilità, la generosità, l'a­


more fraterno, fanno buona la vita comunitaria e completano la virtù di giusti­
zia. Agli altri dobbiamo moralmente non solo ciò che è strettamente richiesto,
ciò che è determinabile per legge e può esser rivendicato per diritto, ma dob­
biamo anche ciò che è conveniente alla loro dignità e funzione, al loro contri­
buto al compimento comune. Queste virtù fanno possibile non solo la collabo­
razione o le funzioni sociali, ma la comunità e l'amicizia.
Inoltre il vero bene proprio e delle altre persone dev'esser coltivato anche
con certe passioni saggiamente misurate: un giusto vanto, una giusta aggressi­
vità ed una giusta paura, un saggio abbassamento di sé, fiducia, fermezza, dol­
cezza, mansuetudine, ecc. Anche i moti passionali saggiamente regolati costitui­
scono per un essere umano la vita veramente buona. Senza partecipazione pas­
sionale non è concepibile una vita umana. Essa pure è richiesta dall'ideale di
compimento umano integrale e di perfezione in Dio. Perciò sono necessarie
anche le virtù morali del genere della fortezza e della temperanza.
(65) 2) Ricuperando tutte le virtù morali, stiamo prendendo le virtù seria­
mente, come propone di fare S.D. Hudson [66] e com'egli dimostra che hanno
fatto sia Aristotele sia Hume.117 Prendere le virtù seriamente significhe­
rebbe, per Hudson, prenderle come guide di azione, guide che non si ridu­
cono ai doveri di giustizia. A causa della complessità della natura umana la mo­
ralità non può esser ridotta alla giustizia, ma richiede come guide di azione
anche le altre virtù. Hudson però procede oltre e considera la giustizia e le
altre virtù come due settori indipendenti della moralità, irriducibili a un princi­
pio comune. Tra essi è quindi facile che sorgano conflitti irrisolvibili.
In questo modo però egli va oltre il segno. Più sopra ho spiegato perché la
moralità richiede un unico principio e perché non è moralmente accettabile
che vi siano conflitti irrisolvibili. 1 18 Hudson ritiene che ricondurre la moralità
ad un solo principio sia tipico del razionalismo e che il ragionamento morale
presenti una complessità che non può esser ridotta al razionalismo utilitario.
Ora però il principio di compimento umano integrale evita gli opposti in­
convenienti: da un lato consente di evitare conflitti insolubili in linea di princi­
pio; dall'altro riesce a far spazio sia alla giustizia sia alle altre virtù morali, tutte
considerate come guide d'azione, benché diverse. Come vedremo (VI 24), la
giustizia consente una formulazione di regole e di norme che non è sempre
possibile per le altre virtù, per le quali più che norme è possibile dare consigli.

1 17
Questa dimostrazione e un'ampia argomentazione a favore della sua proposta sono espo­
ste nel suo libro Human Character.
1 1 8 V. sopra V 9-1 0.
224 Capitolo V

6) La virtù è regolata dalla saggezza pratica

(66) Il motivo per cui Warnock, Wallace, Ewin richiedono virtù là dove
altri, come Gert, fedeli a Hobbes richiedono regole, è che le regole non sono
sufficienti a guidare le azioni, ma si richiede una giudiziosità che è possibile
solo in persone che posseggono buone disposizioni. 1 19
Questa istanza è da accogliere pienamente. Ripetutamente abbiamo rilevato
che la realizzazione degli scopi virtuosi nelle azioni concrete richiede un discer­
nimento, una saggezza pratica che sappia trovare l'azione giusta, appropriata
alle circostanze e rispondente all'intenzione virtuosa. Di questo ci occuperemo
estesamente nel prossimo capitolo.
Intanto però, sulla base di questo rilievo, è possibile distinguere le virtù
dalle disposizioni naturali. La vita morale richiede un'avvedutezza, un'adattabi­
lità alle situazioni, una capacità di applicare lo stesso ideale virtuoso a circo­
stanze diverse, che non si ritrova nelle disposizioni naturali. Queste anzi, la­
sciate a se stesse, senza discernimento prudenziale, possono addirittura indurre
ad azioni moralmente sbagliate. 120 Le disposizioni naturali hanno bisogno di
esser formate dalla prudenza per diventare virtù; da sole più che virtù sono in­
coazioni di virtù.

7) Nozione di virtù

(67) Siamo ora in grado di determinare come dev'esser concepita la virtù af­
finché essa sia principio di vita veramente buona in un individuo umano. La
nozione di virtù che propongo riprende e spiega la nozione inclusiva e massi­
male di virtù suggerita dall'esperienza morale e recepisce le istanze valide delle
altre nozioni, eliminando ciò che in esse è insufficiente.
Secondo la nozione massimale ed inclusiva le virtù sono disposizioni stabili
e uniformi (a livello di atteggiamento) , che introducono una determinazione
nei principi operativi della condotta volontaria, in modo tale che questa eccelle
nel realizzare la vita veramente e doverosamente buona, conforme alla regola
della ragionevolezza pratica.
Precisando e spiegando, diremo che le virtù sono habitus che potenziano
le facoltà operative umane nella linea della natura umana specifica; le prepa­
rano cioè a scelte eccellenti inclinando l'appetito volitivo e passionale, rivolto
ai beni umani basilari, secondo le massime che specificano il principio del com-

1 19
V. sopra III 15- 16.
120
« Naturalis inclinatio ad bonum virtutis est quaedam inchoatio virtutis: non autem est vir­
tus perfecta. Huiusmodi enim inclinatio, quanto sit fortior, tanto potest esse periculosior, nisi
recta ratio adiungatur, per quam fiat recta electio eorum quae conveniunt ad debitum finem: sicut
equus currens, si sit caecus, tanto fortius impingit et laeditur, quanto fortius currit» (I-II, 58, 4,
3m).
Virtù e vita buona 225

pimento umano integrale e della perfezione in Dio; massime da applicare sag­


giamente in modo che la scelta risulti eccellente (cioè retta quanto all'intento,
al fine, alle circostanze) , e pertanto costituisca un'esemplificazione della vita ve­
ramente buona.
Capitolo VI

VIRTÙ E SAGGEZZA PRATICA

(1 ) Dalla precedente ricerca è risultato sinora che le scelte costituiscono


una condotta in quanto concretizzano una concezione della vita buona, e che
la vita veramente buona è quella conforme alla regola della ragion pratica. In
un soggetto agente come quello umano, individuato in una natura specifica, do­
tato di facoltà operative diverse, la vita veramente buona richiede il potenzia­
mento delle facoltà operative mediante habitus virtuosi. Le virtù dunque, neces­
sarie per condurre una vita veramente buona, sono principi operativi non indi­
pendenti dalla ragion pratica, ma definite dalla regola morale, in quanto prepa­
rano il soggetto agente a compiere scelte conformi a tale regola.
Ma i problemi relativi al rapporto tra virtù e regola della ragion pratica non
sono ancora finiti. Della ragion pratica sinora abbiamo considerato solo il prin­
cipio della moralità e le massime virtuose. Ma queste son proposizioni pratiche
ancor troppo generiche; la regolazione di scelte particolari e circostanziate, per
poter essere razionale, richiede proposizioni pratiche più specifiche, dette
norme nel linguaggio della filosofia europea continentale o regole nel linguag­
gio della filosofia di lingua inglese.
A questo punto sembra che incorriamo nuovamente nel concetto di cono­
scenza morale e di virtù tipico dell'etica moderna: la conoscenza morale sa­
rebbe perfettamente razionale qualora si riducesse a un rigoroso sistema di re­
gole univoche di azione e la virtù sarebbe la disposizione a decidere e ad agire
secondo tali regole.
(2) Tuttavia il dibattito tra avvocati del dovere e avvocati della virtù, non­
ché altri studi (che fra poco prenderemo in considerazione) sulla particolarità
della conoscenza morale mostrano che i moderni concetti di razionalità morale
e di virtù non corrispondono all'esperienza morale. Le critiche avanzate contro
di essi dai sostenitori della virtù e della phronesis aristotelica possono essere ri­
condotte alle tre istanze seguenti:
1) La conoscenza morale consta necessariamente di norme, ma non si ri­
duce alle norme, sia perché in certi settori della condotta norme specifiche non
sono possibili, sia perché, anche quando lo sono, non sono sufficienti da sole a
regolare il particolare operabile, più complesso e più variabile di quanto possa
venir espresso nelle norme.
2) Conseguentemente, per regolare in maniera moralmente giusta il partico­
lare operabile occorre, oltre le norme, un nuovo tipo di conoscenza, cioè un
Virtù e saggezza pratica 227

giudizio. Esso si basa sulle norme, ma non solo su di esse, bensì anche su una
concezione del mondo e dell'uomo che chiamerei sapienziale, in quanto valuta
cose, persone, eventi, dal punto di vista dell'ideale di perfezione umana. Or­
bene, alcuni autori, come vedremo, mostrano che tale concezione sapienziale,
tale «visione» non solo definisce quali atteggiamenti sono virtuosi e quali no,
ma si sviluppa proprio sotto l'influsso delle virtù.
3 ) Inoltre il giudizio, necessario per regolare in maniera moralmente conve­
niente le scelte, richiede non solo la capacità di ragionare sulla base di norme,
ma l'intelligenza che afferra e capisce la situazione e le sue componenti moral­
mente rilevanti, trova la scelta moralmente conveniente, regola la condotta lì
dove le norme non ci sono o non bastano. Anche questa intelligenza non solo
è necessaria per produrre la scelta virtuosa, ma sembra, come vedremo, che
essa stessa si sviluppi sotto l'influsso delle virtù.
Sicché la conoscenza morale appare ben più complessa di quanto non ap­
paia riducendola ad un ragionamento sulla base di norme. Sulla linea della
phronesis aristotelica e della prudentia tomista chiameremo saggezza pratica la
conoscenza morale, e l'habitus che dispone ad essa, in quanto consta d'un giudi­
zio circa le scelte (il particolare operabile) sulla base 1) d'una concezione sapien­
ziale del mondo, 2) di norme specifiche, 3) d'un 'intelligenza della situazione, e in
quanto non solo regola concretamente le virtù, ma dipende anche dal loro in­
flusso.
Procederemo ora all'analisi della saggezza pratica per mostrare in che rela­
zione stia con la concezione sapienziale del mondo, con le norme, con l'intelli­
genza pratica e in che relazione stia con le virtù, come cioè la saggezza di­
penda dalle virtù e le virtù dipendano dalla saggezza.

I. SAGGEZZA PRATICA E CONCEZIONE SAPIENZIALE DEL MONDO

(3) 1) Più sopra 1 abbiamo incontrato la critica che Iris Murdoch [2] ha lan­
ciato contro l'etica moderna, accusandola di aver perso la vita interiore del sog­
getto agente e di aver ridotto questo a un puro volere che si decide ad azioni
definite rigorosamente da regole. Richiamandosi all'esperienza morale, lettera­
ria ed artistica, ella vuol ricuperare la vita interiore del soggetto, che costituisce
la fonte della sua condotta morale. Ella scopre che la scelta si matura in un pro­
cesso di « visione» vera o distorta della realtà; la bontà morale della scelta è
connessa con la conoscenza, non quella scientifica, « ma con una fine e onesta
percezione di ciò che è realmente il caso, un paziente e giusto discernimento
ed esplorazione di ciò con cui il soggetto è a confronto, [una visione] che è il
risultato non semplicemente di aprire gli occhi, ma di un certo genere perfet­
tamente familiare di disciplina morale» ( [2] 38).

1 V . sopra II 12.
228 Capitolo VI

Murdoch ritiene che tale «visione» abbia per oggetto il Bene, una realtà
che trascende il soggetto, s'impone alla sua attenzione e la focalizza, unifica i
suoi vari interessi, è perfezione suprema ma indefinibile e misteriosa. Perse­
guendo questa perfezione il soggetto scopre il valore e l'ordine d'ogni realtà, so­
prattutto degli individui umani e della loro storia personale.
Infine la «visione» del Bene cresce nel soggetto grazie all'impegnativo eser­
cizio delle virtù. Per fare attenzione al Bene occorrono le virtù, soprattutto l'a­
more: nella loro connessione esse accrescono la consapevolezza dell'unità del­
l'ordine morale e del Bene. D'altra parte la «visione» stessa alimenta le
virtù,2 sicché l'azione sgorga spontanea, senza bisogno di scelta ( [2] 39-40),
dalla vita interiore del soggetto, cioè dalla connessione di «visione» e di attac­
camenti o interessi virtuosi.3
(4) Come abbiamo visto,4 il concetto di «visione» proposto da I. Murdoch
è raccolto da S. Hauerwas, il quale se ne serve per definire il concetto di carat­
tere e per ricuperare con esso l'autorità del soggetto agente sulle proprie
azioni. Anche Hauerwas polemizza contro la riduzione dell'etica a un puro vo­
lere che decide.5 Il soggetto non si limita a porre un'azione, ma la costruisce e
la descrive egli stesso, come egli stesso interpreta e definisce la situazione sulla
base d'una «visione» del mondo: sicché « l'etica non riguarda primariamente re­
gole e principi, piuttosto riguarda il modo come il soggetto dev'essere trasfor­
mato per vedere il mondo secondo verità» ( [20] 33).
In funzione della «visione» condivisa in una comunità e tramandata nelle
sue storie si definiscono l'identità della comunità, il carattere morale dei suoi
membri e conseguentemente le virtù che sono apprezzate in quella comunità.
(5) Richiamando l'attenzione sulla «visione», cioè sul modo di considerare
il mondo, le persone, gli eventi, prima Murdoch e poi ancor di più Hauerwas
ricuperano per l'etica qualcosa di quello che fa la vita interiore del soggetto
agente e che consente a questi d'interpretare la situazione e di descrivere auto­
revolmente la propria azione. Grazie alla «visione» il soggetto agente ridiventa
ben più che un puro volere che decide se porre o no azioni definite giuste
sulla base di regole impersonali; ridiventa autore che conferisce senso alla sua
azione. Ma a Murdoch e ad Hauerwas obietto che il soggetto non può essere
autore solo sulla base della <wisione»; di fatto sia Murdoch sia Hauerwas ten-

2 «Of course virtue is good habit and dutiful action. But the background condition of such
habit and such action, in human beings, is a just mode of vision and a good quality of consdous­
ness. It is a task to come to see the world as it is» (MURDOCH [2] 9 1 ) .
.i « We act rightly "when the time comes" not out of strenght of will but out of the quality
of our usual attachments and with the kind of energy and discernment which we have available.
And to this the whole activity of our consciousness is relevant» (MURDOCH [2] 92).
4 V. sopra II 15.
' Per la polemica contro regole e obbligazioni cf. HAUERWAS [20] 19-22; contro la riduzione
del soggetto a io trascendentale che decide cf. ivi 38-43.
Virtù e saggezza pratica 229

dono a concepire la produzione dell'azione da parte del soggetto sul modello


dell'espressione spontanea, ove la scelta diventa superflua.6
Abbiamo già notato come e perché tale modello è inadeguato ali'agire vir­
tuoso: 7 in tale modello il soggetto viene privato della sua autorità, in quanto
non agisce per autodeterminazione. Ora però lautodeterminazione non è pos­
sibile se non grazie alla rappresentazione, da parte della ragione, d'una possi­
bile azione come desiderabile e conveniente e, nel caso di azioni moralmente
giuste, come doverose, degne, honestae. Questa rappresentazione è compito
specifico della ragione in quanto pratica, cioè in quanto concepisce una possi­
bile azione come concretizzazione ed esemplificazione parziale d'un ideale di
perfezione e di vita buona da realizzare appunto mediante azioni.
Ora proprio sulla ragion pratica sono reticenti i nostri due sostenitori della
«visione». Per render conto dell'autorità del soggetto agente occorre allora re­
cepire entrambe le istanze. Occorre spiegare in che modo intervengono ragion
pratica e « visione» nella descrizione della propria azione da parte del soggetto
agente e in quale rapporto esse stiano con le virtù. È quanto intendo fare in
quel che segue.
(6) 2) La saggezza pratica che regola immediatamente le azioni in funzione
delle intenzioni virtuose dell'individuo e in funzione delle circostanze partico­
lari ha le sue fonti in due tipi di conoscenza morale:
a) Nella ragion pratica in universali, cioè nella ragione in quanto, prescin­
dendo ancora dalle attuali intenzioni dell'individuo, concepisce un ideale di
perfezione umana e di vita buona ed articola principi (massime) e norme speci­
fiche per determinare, in modo ancora generale, in quali tipi di azioni tale
ideale s'ha o non s'ha da realizzare. Questi principi di conoscenza pratica sono
concepiti originariamente dalla ragion pratica, sulla base d'una semplice valuta­
zione dei beni umani basilari. Non sono derivati da una concezione del
mondo, né da una conoscenza. della natura dell'uomo e delle cose.8
b) Una seconda fonte della saggezza pratica è da rinvenire in una «visione»
o concezione sapienziale del mondo. La dico sapienziale per distinguerla da
una concezione metafisica: mentre questa s'interessa alla struttura e ai principi
di possibilità della realtà, quella s'interessa al valore di bontà che le realtà esibì-

6 Cf. MURDOCH [2] 39-40: grazie alla visione « explicit choice seems now less important»; si
mira anzi a vedere il mondo in modo tale da non aver scelta, da obbedire a ciò che si vede, at­
tratti irresistibilmente come dall'ispirazione artistica. Cf. inoltre HAUERWAS [20] 42-43: «lt is cru­
da! to note, however, that the power of description that a narrative provides is not to be under­
stood only as an intellectual skill. For " description", while often verbal, is just as importantly a
matter of habit - indeed most verbal skills are also habits. [ ... ] For example, the refusal to use
violence for resolving disputes, or perhaps better, the attempt to avoid persistent violent situa­
tions, becomes for some so routine they never think about it. lt is simply "who they are" ».
7 V. sopra V 56.
8 V. sopra I 52-54; V 3-4, 8, 1 1-14.
230 Capitolo VI

scono, al loro ordine, alla loro incidenza nella perfezione ideale dell'agente
umano. Ad esempio, · l'affermazione «Dio esiste» non ha solo valore metafi­
sico, in quanto indica il fondamento ultimo della realtà, ma anche rilevanza mo­
rale, in quanto indica il supremo bene per l'uomo e, per il credente, un essere
personale agente le cui azioni, dichiarazioni, intenzioni hanno rilevanza per la
bontà della vita umana, per il compimento e la perfezione dell'uomo.
La concezione sapienziale s'interessa dunque alle azioni di Dio e delle per­
sone in ordine all'ideale di perfezione della vita umana. Se nel linguaggio teolo­
gico si afferma che l'imperativo morale deriva dall'indicativo concernente l'a­
zione e l'intervento di Dio nei riguardi dell'uomo, quest'affermazione può
esser logicamente consistente solo perché le opere di Dio e le opere dell'uomo
sono di per se stesse significative per l'ideale di perfezione; e lo sono in quanto
costituisce l'essenza stessa dell'azione l'essere posta per concretizzare un ideale
di perfezione.
(7) Questa rilevanza morale della concezione sapienziale del mondo per­
mette di situare la concezione stessa rispetto alla ragion pratica. I principi della
ragion pratica non derivano dalla concezione sapienziale del mondo, sono prin­
cipi primi nell'ordine pratico. Ma la concezione sapienziale del mondo contri­
buisce a dare contenuto concreto all'ideale di perfezione e alle norme morali
specifiche. Questo contributo è necessario dal momento che l'originaria situa­
zione pratica consiste nel fatto che l'uomo è soggetto agente, con i suoi bi­
sogni basilari e il suo ideale di perfezione, collocato in un mondo con le sue di­
sponibilità e i suoi beni,9 e dal momento che la felicità è costituita dal rap­
porto ottimale tra soggetto e mondo. In questa situazione, mentre la ragion pra­
tica fornisce l'ideale di perfezione, la concezione sapienziale fornisce una valu­
tazione dei beni sostanziali del mondo 10 che consente al soggetto agente di sta­
bilire quali tipi di azione realizzano il rapporto ottimale tra lui e il mondo.
(8) Spiegando in questo modo il rapporto tra ragion pratica e concezione
sapienziale del mondo, si riesce anche a render ragione della necessità di
quella che Hauerwas chiama etica qualtficata.11 Con quest'espressione egli in­
tende significare che non esiste un'etica neutra, sovratemporale, identica per
tutti gli uomini, ma che esistono solo etiche qualificate: cristiana, ebraica, isla­
mica, liberale, laica, ecc. L'istanza è da accogliere, qualora essa non implichi
che è impossibile il confronto tra etiche sulla base di principi comuni. Ma è
vero che i principi comuni sono in ogni etica interpretati secondo concezioni
sapienziali diverse, e danno perciò origine sovente a norme specifiche diverse.
In ogni caso, anche qualora etiche diverse coincidessero materialmente su
norme specifiche identiche, l'identità riguarderebbe solo l'azione esteriore, non
la descrizione interiore che presiede alla gestazione della scelta e che sfocia in
quell'azione esteriore.
9 V. sopra I 17.
10
V. sopra I 27a, 55a.
11
Cf. HAUERWAS [20] 17-34.
Virtù e saggezza pratica 23 1

(9) È qui che troviamo l'influsso della concezione sapienziale sulle virtù. Le
virtù infatti sono ordinate principalmente all'atto interiore, cioè alle scelte e
alla loro gestazione. È principalmente l'atto interiore che qualifica il soggetto
agente, definisce la sua identità esistenziale. La concezione sapienziale contri­
buisce pertanto, assieme ai principi della ragion pratica, a definire l'oggetto
specificante delle singole virtù e, attraverso esse, a dare il significato alle scelte
e alle conseguenti azioni esteriori. Anche se un cristiano, un ebreo, un laico
coincidessero nella stessa norma specifica e nella stessa azione esteriore giusta,
poiché vi pervengono a partire da concezioni sapienziali diverse, la loro scelta
ha significato esistenziale diverso, e per l'identità esistenziale della persona, per
la sua perfezione, è questo significato che principalmente conta.
In questo modo si può render conto del fatto che vi sia, ad esempio, un'e­
tica specificamente cristiana, e che tuttavia essa possa - non sempre por­
tare alle stesse azioni cui perviene chi agisce sulla base d'un' etica laica. Non sa­
rebbe esatto dire che ciò che conta è l'azione esteriore e che lo specifico dell'e­
tica cristiana consiste nell'apportare una propria motivazione. Non sarebbe
esatto, perché in un'etica della prima persona l'agente si qualifica per le sue in­
tenzioni e le sue scelte, cioè per il suo atto interiore. Ora l'atto interiore riceve
la sua specificazione non dall'azione esteriore considerata nella sua realtà com­
portamentale (esse naturae), ma dalla concezione che il soggetto, con la sua ra­
gion pratica e la sua «visione», si fa di tale azione (esse morzs). La saggezza pra­
tica è appunto l'habitus che rende la ragione idonea a concepire azioni sulla
base dei principi morali e della «visione». Le virtù dell'appetito a loro volta
sono specificate dalla concezione razionale: esse inclinano l'appetito all'azione,
non nella sua realtà comportamentale, ma precisamente e formalmente
com'essa è concepita dalla saggezza pratica.
C'è posto allora per virtù morali specificamente cristiane, che abilitano a
scelte specificamente cristiane, dalle quali è definita l'identità cristiana del sog­
getto. Se il comportamento cristiano coincide con quello del laico o del musul­
mano, questo o è solo per caso, o è perché i rispettivi agenti hanno in comune
qualche principio morale e qualche elemento della «visione» .
( 1 0) Sin qui ho mostrato come l a concezione sapienziale contribuisce a spe­
cificare le virtù, ma si deve anche ammettere un influsso delle virtù sulla conce­
zione sapienziale. Sia Murdoch sia Hauerwas hanno richiamato l'attenzione sul
fatto che la visione che perviene a vedere il mondo secondo verità richiede una
disciplina morale e che le virtù stesse influiscono sul modo con cui si «vede»
il mondo.
Quest'effetto delle virtù sulla «visione» si può spiegare tenendo presente
che la concezione sapienziale comporta una conoscenza apprezzativa ed estima­
tiva del valore di bontà delle cose, delle persone, di Dio e delle loro opere, del
loro carattere, della loro storia. Su questo tipo di conoscenza è possibile che ab­
biano influsso le virtù, in quanto esse introducono negli appetiti un'inclina-
232 Capitolo VI

zione che li rende connaturali al loro oggetto, e questa connaturalità consente


un più vero apprezzamento del valore dei beni del mondo. 12
( 1 1 ) Con questi chiarimenti sulla concezione sapienziale e sulla sua connes­
sione con le virtù siamo in grado di ricuperare all'etica e di spiegare il carattere
morale che definisce l'identità esistenziale del soggetto agente. I principi della ra­
gion pratica, le credenze e le valutazioni sul mondo, le inclinazioni virtuose
qualificano esistenzialmente il soggetto agente e gli consentono di essere lui a
interpretare e a definire il significato delle situazioni con cui si trova confron­
tato; forniscono alla sua saggezza pratica le coordinate entro cui deliberare,
escogitare l'azione conveniente, giudicare e scegliere personalmente.

Il. SAGGEZZA PRATICA E NORME

1 . Necessità delle norme

( 1 2) 1) Nella nostra esperienza morale incontriamo persone moralmente ma­


ture, rette e sagge, che dimostrano di saper scegliere e di saper condurre la pro­
pria vita con una particolare conoscenza morale, con una caratteristica abilità
della ragion pratica, che chiamiamo saggezza pratica. È una conoscenza effet­
tivamente pratica, operante attualmente nelle scelte e nelle azioni. Se si vuol
render conto dell'esperienza morale in un'adeguata teoria etica, non si può evi­
tare la questione circa questa conoscenza morale, questo saper vivere bene,
questa saggezza pratica. La teoria etica non è saggezza pratica, ma deve riflet­
tere sulla saggezza pratica per spiegarne la natura, le condizioni di possibilità,
i fondamenti razionali.
A questo scopo occorre richiamare la distinzione tra conoscenza morale
precettiva e diretta e conoscenza morale descrittiva e riflessa. La prima è
quella effettivamente operante nel saggio, è la conoscenza attualmente pratica
che si esprime nelle direttive effettivamente adottate ed eseguite dal soggetto
agente. La seconda è una conoscenza riflessa, che ha per oggetto la conoscenza
morale del saggio, e ne fornisce una spiegazione in una teoria etica.
Nel corso di questa nostra riflessione sulla conoscenza morale del saggio e
del virtuoso abbiamo riscontrato che: 1 ) essa si fonda logicamente sul primo
principio della moralità e sulle massime virtuose che articolano l'ideale del com­
pimento umano integrale e della perfezione in Dio; si noti che i principi su cui
si fonda la saggezza sono esplicitati solo in sede di riflessione; nell'esercizio
stesso della saggezza possono restare anche impliciti. 2 ) Inoltre la saggezza si
fonda su una concezione sapienziale del mondo che comprende sia credenze
sui beni sostanziali del mondo, sul loro ordine, sul loro rapporto all'ideale

12
Per questo concetto di conoscenza per connaturalità resa possibile dalla virtù cf. I-Il, 45,
2.
Virtù e saggezza pratica 233

umano di perfezione, sia narrative circa azioni di Dio o dell'uomo che hanno
rilevanza per questo ideale. 3 ) Infine la saggezza è regola delle virtù, nel senso
che le virtù si definiscono appunto come disposizioni a compiere azioni così
come sono concepite dalla ragion pratica secondo una regola morale.
(1 3) 2 ) Con queste affermazioni però non sono esauriti tutti i problemi che
sorgono quando si vuol spiegare in una teoria etica la conoscenza morale del
saggio. Un ulteriore problema è posto dall'uso che il saggio fa di norme o re­
gole morali. La saggezza è sem pre coscienziosa, nel senso che applica all'azione
da compiere la regola morale così com'essa è esprimibile non solo in massime
virtuose, ma anche in norme morali specifiche.
Massime e norme sono entrambe proposizioni pratiche, ma differiscono
per il livello di astrazione. Nella massima virtuosa la descrizione dell'azione (de­
scrizione che fa da soggetto logico alla proposizione il cui predicato è un quali­
ficativo morale) si limita a indicare un modo di regolazione richiesto per la vo­
lontà o per gli appetiti passionali in certe situazioni tipiche. Così però non s'in­
dica nessuna azione in concreto; semplicemente si definisce la ratio virtutis,
l' eidos o ideale o scopo virtuoso. Ora ciò non è sufficiente ai fini della comuni­
cazione discorsiva operante nei rapporti sociali o nei rapporti educativi. In
ogni collettività e in ogni rapporto educativo vi è necessità di determinare in
modo più specifico quali azioni sono assolutamente da evitare, quali sono pre­
scritte, quali sono raccomandate perché si realizzi la ratio virtutis nella con­
dotta dei membri o dell'educando.
Sorgono così le regole o norme, proposizioni pratiche più specifiche, nelle
quali l'azione è descritta rilevando il suo intento o qualche sua circostanza, non
in termini puramente comportamentali (che non dicono nulla dal punto di
vista morale), ma in modo che appaia quale rapporto ha con l'ideale di perfe­
zione umana e con le massime virtuose la volontà coinvolta in quell'intento e in
quelle circostanze.
(1 4) A questo punto la nostra ricerca per spiegare la conoscenza morale
del virtuoso incappa in un problema. Per alcune teorie etiche infatti la cono­
scenza morale è esaustivamente risolvibile in norme; per altre essa è una cono­
scenza originale che solo limitatamente si esprime in norme. Il problema che
sorge ha la sua rilevanza per la teoria della virtù. Se infatti la conoscenza mo­
rale si esaurisce · in norme, le virtù si riducono alla virtù, e questa viene conce­
pita come disposizione a osservare le norme: otteniamo il concetto moderno
di virtù. Se la conoscenza morale, nel momento in cui diventa saggezza pra­
.
tica, ha una sua originalità, va oltre le norme e richiede un'intelligenza e un giu­
dizio per cui non esistono norme, sembra che dove vengono meno le norme si
richiedano le virtù come quelle che abilitano a giudicare il da farsi in situa­
zioni in cui le norme non bastano: otteniamo allora il concetto aristotelico e to­
mista di virtù.
(1 5) J ) A favore della prima alternativa vengono addotte almeno queste
234 Capitolo VI

due ragioni. La prima si richiama al fatto che le virtù si definiscono in riferi­


mento alle azioni e che la rettitudine o la scorrettezza delle azioni si determina
sulla base di principi e di regole. 13 Perciò le virtù non aggiungono nulla alle
norme quando si tratta di determinare l'azione giusta. Le virtù non forniscono
guida per l'azione; semplicemente sono disposizioni a seguire principi e regole
e a eseguire azioni giuste.
La seconda ragione deriva da un ideale di perfetta razionalità che sembra
dover caratterizzare la condotta affinché risulti pienamente umana. Secondo
questo ideale nella determinazione delle azioni giuste non devono intervenire
fattori irrazionali, come passioni, interessi individuali, opinioni convenzionali,
costumi, ecc., ma solo principi razionali sulla base dei quali è possibile artico­
lare, almeno in linea di principio, un sistema completo di regole o norme.
Questo modo di concepire la razionalità della conoscenza morale e conse­
guentemente questa riduzione della virtù alla disposizione a seguire regole
sono tipici dell'etica moderna, sia essa di matrice kantiana o di matrice utilitari­
sta. Maclntyre lo riscontra già in Hume, e in tutto il secolo XVIII e XIX;14
S.D. Hudson la ritrova e la critica in Sidgwick; 15 oggi la incontriamo in Fran­
kena [ 45] , in Gert [ 46] , in Schiiller [38] ; Hauerwas ( [20] 19-22) la riscontra
diffusa nelle teorie morali moderne.

2. Insufficienza delle norme

(1 6) 1) Negli ultimi anni da più parti sono sorte critiche contro questa ridu­
zione tipicamente moderna dell'etica a un sistema coerente e completo di
norme o a un procedimento perfettamente razionale per determinare l'azione
giusta.
Warnock ( [49] 53-68) si vede indotto a far ricorso alle virtù proprio per ri­
mediare all'insufficienza delle regole morali: egli rileva che le regole morali si
basano su qualifiche morali che sono intrinseche alle azioni, e pertanto l'esi­
stenza di regole non esime dall'analisi dell'azione stessa e di circostanze in esse
moralmente rilevanti non previste dalle regole. Similmente Ewin ( [50] 19-68)
s'estende a esaminare vari tipi di regole per criticare « l'idea che la moralità
può esser esaustivamente spiegata in termini di regole e che ogni giustifica­
zione morale dipenda da regole morali, o che la moralità consista ultimamente
in regole piuttosto che in ideali, virtù, nozioni o simili» ( [50] 2 1) . Egli osserva

" Cf. ScHOLLER [38].


14 « Virtues are indeed now conceived of not, as in the Aristotelian scheme, as possessing a

role and function distinct from and to be contrasted with, that of rules or laws, but rather as being
just those dispositions necessary to produce obedience to the rules of morality» (MAclNTYRE [10]
2 16). Quanto a Hume, occorre correggere l'interpretazione unilaterale data da Maclntyre con le
analisi più complete di HUDSON, Human Character 6 1-97.
15 HUDSON, o.e. 12-19.
Virtù e saggezza pratica 235

che un certo tipo di regole morali sono regole basate sull'esperienza pratica
(rules o/ thumb), nelle quali si qualifica moralmente un'azione in riferimento
alle circostanze in cui essa per lo più occorre; ma che esse sono inutili in circo­
stanze eccezionali, perché « ciò che rende eccezionale un caso è il fatto che le
circostanze che normalmente fanno della regola una buona guida non si realiz­
zano più» ( [50] 50). Un altro tipo di regole, quelle che definiscono istituzioni
o pratiche sociali, non hanno questo inconveniente; ma ciò è dovuto al fatto
che esse definiscono rapporti di giustizia necessari all'umana cooperazione.
( 1 7) Ma la critica alla riduzione della conoscenza morale alle regole pro­
viene anche da autori che si rifanno alla concezione aristotelica della phronesis.
Spiegando il concetto aristotelico di virtù, Maclntyre ( [ 10] 14 1 - 144) osserva
che «l'agente genuinamente virtuoso agisce sulla base d'un giudizio vero e ra­
zionale», ma che « l'esercizio di tale giudizio non è una rutinaria applicazione
di regole».
È vero che l'etica aristotelica della virtù richiede anche delle leggi per proi­
bire azioni che sono distruttive della comunità e assolutamente incompatibili
con la virtù, o per promuovere certe virtù necessarie al bene comune, come la
giustizia. Ma « conoscere come applicare la legge è possibile solo a chi possiede
la virtù di giustizia». Vi sono casi in cui nessuna formula è disponibile in prece­
denza e allora occorre agire katà tòn 6rthon l6gon. « Perciò il giudizio ha un
ruolo indispensabile nella vita dell'uomo virtuoso, ruolo che non ha e non può
avere, per esempio, nella vita dell'uomo che s'attiene a regole o a leggi».
( 1 8) Rifacendosi all'etica aristotelica nella sua critica all'utilitarismo S. Hamp­
shire spiega che la conoscenza morale non è sempre riducibile a un esplicito
ragionamento, ma che vi possono intervenire sentimento e percezione: « conven­
zioni; percezioni morali e sentimenti; istituzioni e appartenenze; tradizione;
spiegazioni storiche questi sono aspetti, connessi ed ineliminabili, del nor­
male pensiero sulla condotta della vita, sul carattere e sul valore delle per­
sone ».16
( 1 9) La spiegazione più precisa dell'insufficienza delle norme la fornisce
S.A. Dinan, 17 rifacendosi alla phronesis aristotelica per il tramite dell'interpre­
tazione gadameriana. Dinan muove dalla constatazione che « la conoscenza è
conoscenza morale solo in quanto guida le azioni umane, che sono sempre par­
ticolari. È ovvio pertanto che ogni teoria morale che pone standard morali uni­
versalmente validi, di qualunque ampiezza, deve riconoscere la necessità di ap­
plicare tali standard a situazioni particolari. Perciò la conoscenza di standard
morali universali è conoscenza morale solo in un senso incompleto; conoscenza
morale completa è la conoscenza di ciò che ha da esser fatto. Inoltre, come

16
HAMPSHIRE, Morality and Conflict 166.
17 Stephen A. DINAN, The Particularity o/ Mora! Knowledge, in The Thomist 50 ( 1986)
66-84.
236 Capitolo VI

Aristotele sapeva, conoscere ciò che è bene in generale non è sufficiente per sa­
pere che cosa fare in una situazione particolare». 18 Da questa constatazione
Dinan ricava la conseguenza che il significato degli standard morali universali
non è compreso a pieno finché non si comprende anche ciò che essi richie­
dono nella particolare situazione.
Dinan osserva poi che a questa definizione della conoscenza morale si può
muovere obiezione dall'esistenza necessaria e benefica di leggi e di regole uni­
versali. Ma respinge l'obiezione osservando che «la persona che vuol seguire
tali regole deve capire quali azioni concrete esse prescrivono o proibiscono, le
situazioni in cui queste azioni sono prescritte o proibite, e le circostanze in cui
le regole non si applicano. Noi sosteniamo, tuttavia, che tale conoscenza non
può essa stessa esser derivata da o ridotta a regole, ma richiede un'intelligenza
morale creativa circa la particolare situazione. Poiché anche se noi esprimiamo
i nostri principi in termini di regole, non esistono regole che possano specifi­
care tutte le condizioni che determinano se, e come, queste regole devono es­
sere applicate. L'applicazione di regole non può essa stessa esser fatta con re­
gole, ma solo con la ragion pratica dell'agente morale che ha di fronte a sé e ca­
pisce le richieste concrete della situazione».19
(20) Alla stessa conclusione, cioè alla necessità di intelligenza e di prudenza
nel senso tomista, pervengono alcune osservazioni di R. Henle:20 i principi ge­
nerali di cui disponiamo come guide per decidere possono bastare in casi sem­
plici, nei quali è possibile la deduzione; non bastano in casi complessi, giacché
i principi generali non sono sufficientemente determinati (sono open-ended) . In
questi casi i principi sono solo una parte del materiale cui si deve applicare l'in­
telligenza (insight) ; ma molti altri fattori devono esser presi in considerazione,
valutati e coordinati con intelligenza. In questi casi il processo intellettuale non
è deduttivo, e i principi, pur guidando, non possono determinare la decisione.
Qui occorre prudenza, <<Un'abilità acquisita di fare corrette decisioni intelli­
genti in casi individuali e concreti».21 Henle anzi va un passo più avanti:
«Come l'intelligenza in casi individuali può modificare l'applicazione di prin­
cipi, cosi gli stessi casi possono modificare i ·principi stessi».22 Qui si tratta di
applicare i casi ai principi (come è accaduto per le regole della guerra giusta,
della libertà religiosa, dell'usura) .
(21 ) Analoga riserva di fronte all'insufficienza delle norme è riscontrabile in
Tommaso d'Aquino,23 il quale osserva che più ci si avvicina al particolare più

18
Ivi 69.
1• Ivi 73.
20 Robert HENLE, SJ, Prudence and Insight in Mora! and Lega! Decisions, in Proceedings o/

the Am. Cath. Philos. Assoc. 56 ( 1982) 26-30.


2 1 Ivi 28.

" Ivi 29.


2' Cf. I-II, 94, 4.5.
Virtù e saggezza pratica 23 7

le conclusioni proprie della ragion pratica (diciamo qui le norme specifiche)


possono venir meno, a causa dell'intervento di qualche circostanza moralmente
rilevante non prevista nella norma generale. Sulla base di questa e di altre ri­
serve che Tommaso fa circa i precetti della legge naturale, ha ragione T.S.
Hibbs di concludere che «la teoria tomista della legge è solo un frammento
d'un tutto più vasto. La teoria aristotelica delle virtù fornisce ciò che manca.
Anche una superficiale conoscenza della virtù aristotelica della prudenza rivela
che essa rimedia ai difetti proprii d'un'etica legalista».24
(22) Da tutti questi rilievi sull'insufficienza delle norme possiamo ricavare
una caratteristica della conoscenza morale: essa è ben più estesa di quanto non
sia possibile formularla mediante norme. Tuttavia, là dove le norme sono insuf­
ficienti e occorre l'intelligenza del particolare, la conoscenza morale continua a
essere guidata, al di là e al di sopra delle norme, da ideali che Platone inter­
preta come forme, Aristotele e Tommaso come virtù (ratio virtutis), altri come
valori o come massime. Non è possibile esplicitare il contenuto della ratio virtu­
tis solo mediante regole, una, poche o tante, perché le circostanze concrete
sono indefinite e mutevoli e le norme ne possono contemplare solo alcune,
quelle più frequenti (ut in pluribus) . Applicare le norme con intelligenza, rive­
derle quand'è il caso, decidere ove norme non esistono, è possibile solo rifacen­
dosi alla ratio virtutis. È questa una delle ragioni per cui l'etica delle virtù è più
adeguata che l'etica delle norme.
(23) 2) Sinora abbiamo considerato la necessità e l'insufficienza delle
norme, quando esse esistono, per determinare qual è l'azione giusta nella situa­
zione particolare. Ma l'insufficienza delle norme diventa ancor più evidente
quando si consideri che le norme specifiche sono possibili solo in alcuni settori
della condotta umana, e che vi sono settori ove esse non sono possibili.
Prima di esaminare distintamente questi settori converrà richiamare all'at­
tenzione che esistono diversi tipi di proposizioni pratiche.
a) Vi sono proposizioni pratiche (prescrizioni, precetti) che non prescri­
vono alcuna azione specifica; semplicemente prescrivono uno scopo e lasciano
alla ragione del singolo di trovare le vie di determinazione. Sono quelle che
Pincoffs ([3] 435) chiama ordini generali, e tra le quali Kant annovera i do­
veri imperfetti, cioè non determinabili in norme specifiche. Di tale tipo sono le
massime virtuose; nel linguaggio corrente anch'esse son chiamate regole o
norme; ma per chiarezza conviene riservare a esse il nome di massime, e riser­
vare il nome di norme o di regole alle prescrizioni più specifiche. In quanto le
massime definiscono la ratio virtutis esse sono prescrizioni assolute.
b) Vi sono proposizioni pratiche (prescrizioni o proscrizioni, precetti) che

24 Thomas S. HIBBS, Principles and Prudence: The Aristotelianism o/ Thomas' Account of


Mora! Knowledge, in The New Scholasticism 61 (1987) 27 1-284; qui 279.
238 Capitolo VI

prescrivono o proibiscono azioni specifiche, nella cui descrizione entrano circo­


stanze concrete. Sono quelle che Pincoffs ( [3] 435) chiama comandi e tra le
quali Kant annovera i doveri perfetti, cioè determinabili in norme specifiche. A
queste conviene riservare il nome di regole o di norme. Tra esse vi sono norme
assolute (quelle che proibiscono azioni intrinsecamente cattive, nelle quali l'in­
tento è incompatibile con la ratio virtutis) e norme non assolute (rules o/
thumb, quelle che prescrivono o proibiscono forme concrete di comporta­
mento, prevedendo quelle circostanze moralmente rilevanti che per lo più, non
sempre, realizzano o violano la ratio virtutis) .
(24) Applicando queste distinzioni alle virtù, dovremo dire che tutte le virtù
sono descrivibili con massime, ma che non tutte le virtù sono descrivibili con
norme specifiche o regole circostanziate. Queste sono possibili solo per le virtù
del genere della giustizia; invece per le virtù del genere della fortezza e della
temperanza sono possibili al massimo norme negative assolute, che proibiscono
azioni incompatibili con la ratio virtutis; non sono invece possibili norme posi­
tive, che definiscono quali azioni concrete sono richieste da quelle virtù.
Questa differenza è dovuta al fatto che nelle virtù del genere della giustizia
il giusto mezzo è un mezzo oggettivo (medium rei), determinabile in riferi­
mento ad alterum, mentre per le virtù del genere della fortezza e della tempe­
ranza il giusto mezzo è un mezzo soggettivo (medium rationis), determinabile
solo in riferimento al soggetto stesso agente e alle sue passioni.
(25) Questa differenza inoltre fa sì che le teorie etiche, filosofiche o teologi­
che, che si dedicano esclusivamente alla determinazione delle norme e dei do­
veri, limitino la moralità esclusivamente al settore della giustizia; le altre virtù o
le trascurano del tutto o al massimo si contentano di determinare per esse le
norme assolute negative.
Poiché infine il settore della giustizia e delle norme specifiche negative è
l'unico in cui è possibile formulare leggi per una collettività, queste teorie eti­
che assumono facilmente le caratteristiche di teorie legali. In esse la condotta
umana è distinta in due zone, la zona degli obblighi e la zona libera (questa o
è lasciata all'arbitrio di ciascuno, o è considerata zona degl'ideali personali, o
zona della propria perfezione spirituale, della pratica supererogatoria delle
virtù) ; sul concetto di bonum honestum prevale il concetto di dovere e di obbli­
gazione; scompare l'indagine sul fine della vita umana e ci si limita a stabilire
le norme dell'ordinaria convivenza tra soggetti liberi, autonomi, portatori d'in­
teressi o di desideri; la virtù è ridotta a disposizione ad osservare le norme; pro­
liferano i problemi di casistica.
(26) Al contrario delle etiche concentrate sulle norme, l'etica centrata sulla
virtù riconoscerà non solo che le norme stesse non sono sufficienti da sole a de­
terminare quali azioni nella situazione particolare concretizzano conveniente­
mente gl'ideali virtuosi per i quali sono possibili e necessarie le norme; ma
anche che vi sono ideali virtuosi per i quali non è possibile formulare norme
Virtù e saggezza pratica 239

positive, e che tuttavia né sono facoltativi, né devono essere lasciati all'arbitrio


del singolo, né sono aree di perfezione supererogatoria, ma devono (per do­
vere morale) essere concretizzati in azioni concrete con saggia regolazione. L'e­
tica centrata sulle virtù riconoscerà anche che la saggezza pratica che regola
senza norme positive l'esercizio di queste virtù non è di genere differente da
quella che regola l'applicazione delle norme, ma è la stessa saggezza, a servizio
dell'unico scopo della vita umana, sulla base degli stessi principi o massime.
Non vi sono due zone della vita umana, l'una degli obblighi, l'altra del proprio
arbitrio o della perfezione supererogatoria, ma è l'unica vita umana che ri­
chiede saggia regolazione da parte dell'unica saggezza pratica secondo diversi
modi di regolazione.
(27) 3 ) Che la vita veramente buona richieda l'esercizio di tutte le virtù,
non solo di quelle appartenenti alla giustizia, lo abbiamo già mostrato;25 ab­
biamo anche testé osservato che nemmeno l'esercizio delle virtù, per le quali
sono possibili norme, è possibile senza intelligenza, giudizio, saggezza pratica; ora
mostriamo perché anche l'esercizio delle altre virtù non è possibile senza giudizio
e saggezza pratica.
La ragione è bene esposta in uno studio di Ch.E. Larmore: 26 le massime
(egli le chiama regole generali) di queste virtù sono formulabili soltanto in
modo schematico: «Doveri morali come il coraggio, la generosità e la benevo­
lenza sono doveri le cui regole appaiono troppo schematiche perché da sole
possano determinare quando questi doveri c'incombono e come essi debbano
essere soddisfatti in modo moralmente corretto. Per doveri di questo tipo il
giudizio morale è indispensabile».27 Detta schematicità può esser riscontrata,
ad esempio, nella massima del coraggio: « Si deve difendere o perseguire ciò
che è importante per noi [direi: il vero bene dell'uomo] di fronte a ostacoli
che lo rendono difficile o pericoloso, ma né futile né suicida». Questa massima
non definisce concretamente né le situazioni in cui è richiesto il coraggio (in
quali situazioni è in gioco il vero bene), né quale azione concreta lo realizzi
meglio. «li compito particolare che doveri come il coraggio presentano al giu­
dizio morale sorge dal carattere schematico delle regole associate con questi do­
veri. [ ... ] Il loro carattere schematico sembra consistere piuttosto nel fatto che
esse stabiliscono che la situazione dev'essere sufficientemente " significativa" o
" importante" e che la nostra azione dev'essere un modo " conveniente" di rea­
lizzare il nostro dovere».28
Larmore riconosce due caratteristiche al giudizio richiesto in tali situa­
zioni. Esso non dipende da alcuna norma previa, ma si fonda su ragioni che
« emergono solo in virtù del fatto che, avendo io valutato la situazione come

25 V. sopra V 64.
26
Cf. Charles E. LARMORE, Patterns o/ Mora! Complexity, Cambridge 1987, 5-13.
27
Ivi 5-6.
28 Ivi 7 .
240 Capitolo VI

l'ho valutata, trovo queste ragioni convincenti».29 In secondo luogo tale giudi­
zio è in speciale connessione con le virtù, giacché i doveri definiti in modo solo
schematico richiedono immaginazione, e l'immaginazione è segno di virtù:
<,Essa esprime un interesse per la vita morale assai più attivo e meditato di
quanto non lo richiede l'osservanza di regole morali pienamente determi­
nate».30
(28) La spiegazione che Larmore fornisce circa la connessione tra le virtù,
per le quali non sono possibili norme specifiche positive, e il giudizio consente
di comprendere perché queste virtù possano essere guide d'azione, e perciò
debbano esser prese sul serio, come vuole Hudson [66] . Esse possono essere
guide d'azione, non perché consistano in sentimenti per certi valori, che gui­
dino l'azione indipendentemente dalla ragione pratica; guidano invece l' a­
zione, sì indipendentemente da norme specifiche positive, ma non dalla ragion
pratica, dal momento che il loro scopo è definito appunto da una massima
della ragion pratica. Ma è una massima che richiede giudizio per poter deter­
minare l'azione concreta ad essa conveniente.
(29) Si comprende anche perché non si possa designare quest'azione se non
come quella che il virtuoso, o il saggio (il generoso, il coraggioso, il casto, ecc.)
farebbe, o, secondo Wallace ([65] 136) , come quella pienamente caratteristica
d'una virtù. Questa designazione non è oziosa, ma fornisce l'unica guida possi­
bile per certe azioni, in quanto designa la massima secondo cui dev'esser moti­
vato un soggetto agente per poter esercitare il giudizio che determina quale
azione concreta è conveniente. Poiché per queste azioni non sono possibili
norme specifiche, non si può far altro che designarle in base allo scopo vir­
tuoso - definito da una massima che guida il giudizio nel determinarle con­
cretamente.
Si potrebbe obiettare che è possibile un'azione quale il virtuoso farebbe,
ma senza che sia fatta con l'intenzione del virtuoso; Wallace la designerebbe
come azione caratteristica d'una virtù. In tal caso l'azione sarebbe definibile
mediante regole, prescindendo dallo scopo virtuoso. Si dovrà rispondere che
azioni simili sono possibili solo nel campo della giustizia, dove il giusto mezzo
è oggettivo; tali azioni sono realmente ed oggettivamente giuste, anche se non
sono compiute per il motivo della giustizia. Ma azioni simili non sono possibili
nel campo delle altre virtù, dove il giusto mezzo è soggettivo; un atto di corag­
gio o è pienamente caratteristico del coraggio o non è realmente un atto di co­
raggio, di vero coraggio: dicemmo sopra31 che qui il linguaggio corrente è al
corto di risorse e siamo costretti ad usare i termini reale, vero, per evitare le
sue ambiguità.
Nel campo delle virtù diverse dalla giustizia è possibile determinare specifi-

2' Ivi 8.
'0 Ivi 12.
' 1 V. sopra V 64-65.
Virtù e saggezza pratica 241

camente l'azione che il virtuoso eviterebbe; invece quella che egli farebbe o è
descrivibile solo con una massima schematica o altrimenti bisogna ricorrere a
esempi, narrazioni, ritratti, parabole. Essa può essere determinata concreta­
mente solo dal virtuoso.
(30) Questa considerazione permette di avvertire quale delicatissima posi­
zione occupi l'etica della virtù, e come facilmente possa scantonare in un'etica
dei doveri e delle norme semplicemente classificate secondo lo schema delle
virtù. Il che è accaduto per i manuali di teologia morale ispirati alla dottrina to­
mista. Gli è che sembra essere compito dell'etica determinare e giustificare
norme specifiche di condotta, che sono proposizioni pratiche logicamente uni­
versali e perciò scientificamente comunicabili. Invece sembra ozioso e inutile
dare guide di azione solamente schematiche per appellarsi poi al giudizio del
saggio; sembra che in questo modo l'etica non risponda alla domanda: che
cosa devo fare?
In questo modo però si dimentica che ove la teoria etica non può dare
norme di azione, può sempre stabilire le condizioni che fanno possibile al sog­
getto giudicare saggiamente, appunto studiando la connessione tra virtù e sag­
gezza pratica. Inoltre si dimentica l'avvertimento metodologico di Aristotele:
dalla teoria etica non ci si deve aspettare la precisione delle scienze esatte. Per­
ciò essa fa ricorso al ritratto là dove non sono possibili norme.
(31 ) È tipico del linguaggio morale che mira espressamente a indurre ad at­
teggiamenti virtuosi, senza addentrarsi in norme specifiche legate a contesti
particolari, limitarsi o a enunciare termini di virtù o a esemplificare le virtù con
parabole, descrizione di esempi, norme paradossali, o anche assurde se prese
alla lettera. Di questo tipo è l'insegnamento morale dei vangeli e delle lettere
neotestamentarie.
Lo scopo di questo procedimento è di attivare l'intelligenza dell'uditore a
capire la massima racchiusa in un modello, in un esempio, in una storia; a ca­
pire che nelle condizioni descritte la massima richiedeva quel comportamento;
a giudicare quale comportamento analogo la stessa massima richiede nella situa­
zione in cui si trova il soggetto agente.
(32) 4) A questo punto però il procedimento delle virtù diverse dalla giusti­
zia, per le quali non sono possibili norme specifiche positive, non è sostanzial­
mente diverso da quello richiesto dalla virtù di giustizia, per la quale le norme
sono possibili e numerose. In entrambi i cast� siano da applicare norme o sia da
concretizzare una massima schematica, si richiedono intelligenza e giudizio.
È nuovamente S.A. Dinan32 che spiega bene perché qualsiasi principio mo­
rale richiede intelligenza e giudizio. Egli osserva che nessun principio morale
universale riesce a determinare in maniera univoca e adeguata quale azione con­
creta realizza in una data situazione la giustizia, il coraggio, la cortesia, ecc.

32 Cf. DINAN, The Particularity 73-80.


242 Capitolo VI

Questo a causa del fatto che sono mutevoli e indefinitamente diverse le circo­
stanze da cui dipende che si possa qualificare un'azione concreta come giusta,
coraggiosa, cortese, ecc. Le azioni concrete giuste non sono semplicemente
casi distinti sussumibili identicamente sotto il concetto generale di giustizia.
Sono invece esemplificazioni diverse tra loro, sicché l'una non è l'esatta ripeti­
zione dell'altra; realizzano diversamente la nozione di giustizia. Le nozioni uni­
versali delle virtù non sono pertanto nozioni univoche, ma analoghe, e il loro
significato cambia di caso in caso.33
I principi morali (le massime virtuose) si trovano allora nella stessa situa­
zione delle norme e delle leggi: la loro applicazione concreta per l'azione fu­
tura può avvenire solo sulla base della conoscenza delle loro esemplificazioni
passate. Solo il ricorso a diverse esemplifica±ioni passate insegna al soggetto
agente a scorgere che cosa è rilevante hic et nunc per la realizzazione nuova
degli scopi virtuosi. « Questo scorgere è basato sullo sviluppo del carattere mo­
rale dell'agente attraverso la precedente esperienza. [. ] Ciò che lagente mo­
..

rale virtuoso e intelligente scorge è la somiglianza analoga tra un'azione pro­


spettata e altre risposte a situazioni morali nel passato. Tale comprensione ana­
loga ha successo nel guidare azioni perché impara dal passato, non cerca sem­
plicemente di ripetere il passato ».34 «In questo modo si spiega perché Aristo­
tele rileva che l'ultima norma o misura di ciò che dev'esser fatto è la ragion pra­
tica del phronimos, la persona che possiede virtù morale e intelligenza pra­
tica».35
(33) 5) L'insufficienza che sinora abbiamo riscontrato nelle norme e nelle
massime virtuose al fine di regolare convenientemente l'azione è un'insuffi-

" «The meaning of the universal itself differs somewhat from case to case. [ . . . ] The ends
which constitue justice, courage or kindness are themselves different from case to case» (ivi 78).
Preciserei che ciò che cambia di caso in caso non è il significato di questi universali espremibile in
una massima virtuosa, quanto invece il significato costituito dalle azioni concrete cui l'universale
si riferisce. Dinan stesso precisa che questi universali sono analoghi, « that is, the terms signifying
such universals designate things which differ formally from one situation to the next» (ivi) . È solo
per questo secondo significato che sarei d'accordo con Dinan nel dire ch'esso non può esser ca­
pito se non in dipendenza dalle esemplificazioni concrete: « Since mora! universals are exemplified
differently in different cases, we understands such universals in their particular instantiations. This
means our understanding of mora! universals depends upon the particular exemplifications we
have experienced, and changes·as it is applied to different kinds of cases» (ivi).
34 Ivi 80.

" Ivi. Questa caratteristica delle norme e delle massime virtuose e questa necessità d'intelli­
genza e di giudizio permettono di capire l'inesattezza d'una concezione corrente e diffusa che
detta espressioni come queste: « Kindness is not a virtue if is calculated. It requires a certain im­
mediate reaching out to help another, a certain Jack of reflection or calculation. The man who
does something, not simply because it will help ·another, but because he has worked out that he
ought to do it, is not being kind, though he might exhibit another virtue such as consciousness»
(EWIN [50] 177). Il cortese non avrà da deliberare sullo scopo virtuoso, ma avrà da deliberare, o
per lo meno discernere con accortezza,
' sull'azione più conveniente per realizzare lo scopo della
cortesia. V. sopra V 56.
Virtù e saggezza pratica 243

cienza che chiamerei logica: le norme e le massime sono proposizioni logica­


mente universali e schematiche e proprio per questo non sono sufficienti a de­
terminare adeguatamente l'azione concreta conveniente in circostanze partico­
'
lari variabili. Proprio per questo la conoscenza morale deve diventare intelli­
genza e giudizio. Con gli autori menzionati aggiungiamo anche che quest'intel­
ligenza pratica e questo giudizio sono possibili solo nel virtuoso. Resta però da
spiegare come le virtù facciano possibile intelligenza e giudizio pratici, e lo
spiegheremo fra poco. Per intanto resta acquisito che per regolare con sag­
gezza pratica le azioni particolari sono necessarie le virtù: solo chi è virtuoso s�
scorgere quali norme sono rilevanti nella situazione particolare, sa ulterior­
mente specificarle fino a pervenire a una norma circostanziata, ha nello scopo
virtuoso un criterio per l'applicazione intelligente e critica della norme.
Vi è tuttavia nelle norme e nei principi morali ancora un'insufficienza di
altro tipo, che chiamerei insufficienza pratica. Salvo ulteriori informazioni, la
trovo rilevata solo da Tommaso d'Aquino. È un'insufficienza che avverte solo
colui che si colloca dal punto di vista del soggetto agente e si domanda a quali
condizioni è possibile che sia moralmente corretto il giudizio pratico ultimo,
cioè il giudizio di scelta, il giudizio effettivamente adottato dal soggetto nella
sua scelta ed effettivamente direttivo dell'azione. Da questo punto di vista Tom­
maso distingue, come abbiamo visto,36 due tipi di conoscenza morale, la cono­
scenza in universali e la conoscenza in particulari. Ho già richiamato ciò che ho
dimostrato in altra sede,37 cioè che la differenza tra le due conoscenze non è
solo logica, nel senso che la prima s'esprima in proposizioni universali mentre
la seconda percepisca le circostanze particolari. La differenza tra le due è inol­
tre che la prima è solo potenzialmente pratica, mentre la seconda è attualmente
pratica, è l'esercizio della ragione nell'atto stesso della scelta.38 Per Tommaso
la conoscenza morale, anche circostanziata, non sufficit ad recte ratiocinandum
circa particularia. L'insufficienza consiste nel fatto che questa conoscenza, pur
posseduta dal soggetto, può esser da lui trascurata nell'atto di scegliere, essere
cioè una conoscenza che non riguarda lui come questo individuo, con questi
desideri, che ha da agire in questa situazione. Questa conoscenza, se non es­
prime ciò che l'individuo sta attualmente desiderando, resta inoperante, giac­
ché il principio dell'effettiva scelta e dell'azione sono i desideri attuali del sog­
getto. Sono questi che forniscono quella premessa particolare (nel senso di es­
primere ciò per cui quest'individuo è hic et nunc agente) che fa concludere il
ragionamento pratico nell'atto di scelta e nell'azione.
Affinché il giudizio di scelta risulti moralmente corretto è indispensabile
ch'esso esprima desideri attuali dell'individuo che siano moralmente corretti, e
tali sono se sono rettificati dalle virtù. Ecco perché le virtù sono necessarie alla
conoscenza morale in particulari.
'6 V. sopra III 22-24.
" Cf. Lex et virtus 207-2 13.
38 «Usus rationis . in particulari eligibili» (I-II, 58, 2c). l'espressione che cito subito sotto:
non su/ficit etc. si trova in I-II, 58, 5c.
244 Capitolo VI

(34) 6) Riassumendo, abbiamo visto perché la teoria etica non 'può fer­
marsi alle norme se vuol render conto della conoscenza morale. Le norme non
son sempre possibili, e anche se lo sono si richiede in ogni caso intelligenza e
giudizio; inoltre esse esprimono una conoscenza morale ancora in universali.
La teoria etica deve invece anche estendersi a studiare la conoscenza morale in
particulari. Non potrà essa stessa diventare quest'ultimo tipo di conoscenza;
tuttavia se vuol render adeguatamente conto dell'esperienza morale e se vuol
essere etica della prima persona, deve studiare quali condizioni fan possibile al
soggetto agente pervenire a quella conoscenza morale in particulari, a quella
saggezza pratica che fa sì che le sue scelte e le sue azioni siano effettivamente
rette, sotto ogni aspetto, eccellenti, ed esemplifichino la vita veramente buona.
Abbiamo visto che la saggezza pratica in particulari consiste in un'intelli­
genza, in un giudizio che è possibile solo in dipendenza dalle virtù. Resta da
spiegare la natura di questo giudizio pratico e in che modo le virtù lo fanno
possibile.

lii. SAGGEZZA PRATICA, GIUDIZIO E VIRTÙ

(35) 1) A ragione Ch.E. Larmore qualifica come puzzling la natura del giu­
dizio pratico.39 Dopo aver riscontrato che l'etica aristotelica « contiene vera­
mente poco circa il modo preciso in cui il giudizio è esercitato »,40 egli la­
menta l'oblio della nozione di giudizio nell'etica moderna dal sec. XVI alla
metà del sec. XX, quando esso viene riscoperto da Gadamer.
Ne trova qualche traccia in Adam Smith: « L'idea di Smith fu che noi pos­
siamo cogliere la natura del giudizio morale stesso esaminando il caratteristico
sentimento che, in aggiunta alla comprensione di qualche regola generale, mo­
tiva l'esercizio d'una particolare virtù». Tuttavia, quando si tratta poi di defi­
nire quel sentimento, Smith « tende a concepirlo come il riconoscimento sen­
tito della regola generale che gli è associata».41 Quanto a Gadamer, Larmore
richiama, còme abbiamo già visto fare da S.A. Dinan,42 che il giudizio per l'a­
zione futura si rifà alle diverse esemplificazioni avvenute nel passato.
Larmore conclude che l'inabilità di Aristotele, di A. Smith, di Gadamer di
dire qualcosa di più circa la natura del giudizio pratico, non è lamentabile, ma
esemplare. Essi danno descrizioni puramente negative: « L'attività del giudizio
va al di là (anche se ne dipende) di quanto è dato nel contenuto di regole mo­
rali, di sentimenti caratteristici, di tradizione e di apprendistato ».43 Dire di

39 LARMORE, Patterns 14.


40 Ivi 15.
41 Ivi 17.
42 V. sopra VI 19.
43 LARMORE, Patterns 19-20.
Virtù e saggezza pratica 245

più non è possibile; qui occorre riconoscere un limite della teoria etica che non
può dare, come la tecnica, istruzioni del tutto dettagliate su ciò che è da fare;
dà descrizioni negative del giudizio, rimanda all'esperienza, lo paragona ad
altri modi analoghi di giudizio. Se si volesse procedere oltre bisognerebbe ri­
volgersi alle grandi opere della letteratura, nelle quali troviamo esempi dell'e­
sercizio del giudizio morale.
(36) Penso invece che nella teoria tomista qualcosa di più si trovi. Ma
prima di portarla in campo conviene spendere una parola sulla sua utilizza­
zione recente da parte di alcuni autori. Nell'ambito della teologia il problema
del giudizio morale è stato più sentito che nell'ambito della filosofia. In campo
protestante una posizione estrema fu sostenuta da J. Fletcher nella sua etica
della situazione: 44 il giudizio morale non dipenderebbe da norme generali, ma
costituirebbe la risposta dell'amore a una situazione particolare unica. In
campo cattolico una posizione più moderata fu sostenuta da K. Rahner nella
sua etica esistenziale formale: 45 il giudizio morale si eserciterebbe non senza
norme, ma nell'area lasciata aperta dalle norme, da parte di un individuo che
si esprime nella sua unicità irripetibile attraverso un processo non discorsivo
di discernimento.
Ho menzionato queste due posizioni non per discuterle, ma perché forni­
scono il contesto entro cui si sono verificati recentemente richiami alla teoria
tomista della prudenza. Riprendendo una precedente critica all'etica esisten­
ziale di K. Rahner da parte di W.A. Wallace, il quale osservava che la teoria to­
mista della prudenza soddisfa molto meglio all'esigenza d'un giudizio indivi­
dualizzato, senza bisogno di ricorrere ai presupposti del neotomismo trascen­
dentale,46 Daniel M. Nelson ha opposto la prudenza tomista all'etica esisten­
ziale particolarmente su due punti. 47 Il primo concerne la differente conce­
zione della natura umana che oppone Rahner a Tommaso. Ci riguarda invece
il secondo, relativo al discernimento non discorsivo. Nelson rileva che Rahner
attribuisce a Tommaso una concezione deduttiva del ragionamento morale,
che non è di Tommaso ma della Scolastica postridentina. Nella teoria tomista
invece i principi della legge naturale non costituiscono una premessa per un ra­
gionamento deduttivo, ma una struttura entro cui la prudenza opera, impa­
rando per esperienza a determinare l'azione concreta che realizza i fini es­
pressi in modo solo generico nei principi della legge naturale. In questo modo
la prudenza da attenzione a ciò che è singolare, sia individui singolari sia circo­
stanze uniche. Non considera l'individuo solo come un caso dell'umanità in ge-

44 Cf. Joseph FLETCHER, Situation Ethics: The New Morality, Philadelphia 1966.
45 Cf. Karl RAHNER, Uber die Frage einer formalen Existentialethik, in ID., Schri/ten zur Theo­
logie, II, Einsiedeln - Zi.irich - Koln 1962, 227-246.
46 William A. WALLACE, OP, The Existential Ethics o/ Karl Rahner: A Thomistic Appraisal,
in The Thomist 27 ( 1963) 493-5 15.
47 Daniel M. NELSON, Kart Rahner's Existential Ethics: A Critique Based on St. Thomas' Un­
derstanding o/ Prudence, in The Thomist 5 1 ( 1987) 461 -479.
246 Capitolo VI

nerale, ma nemmeno conferisce autorità morale alla coscienza soggettiva auto­


noma di ciascun individuo, e considera le situazioni piuttosto come contin­
genti che come " casi" ».48
Né Wallace né Nelson approfondiscono ulteriormente la teoria tomista
della prudenza; tuttavia la loro critica ali'etica esistenziale mostra che è preferi­
bile la teoria tomista e ch'essa rende meglio conto del giudizio morale dell'indi­
viduo nella situazione.
(37) Invece una ripresa del concetto tomista di prudenza che apporta
nuove precisazioni viene operata da G. Grisez ([62] 261-262 ) . Gli preme so­
prattutto, contro l'etica della situazione, che il giudizio di coscienza adottato
nella scelta sia criticabile in maniera concludente, cioè che la rettitudine mo­
rale dell'azione, descritta in una norma specifica elaborata ad hoc in riferi­
mento alla situazione, non dipenda da determinanti morali che sfuggono all'in­
telligibilità, come sarebbero caratteristiche assolutamente individuali ineffabili.
Compito della prudenza sarebbe indagare su tutti i determinanti morali (cioè
su tutte le circostanze che incidono sull'atteggiamento che la volontà ha verso
i beni umani basilari) ; elaborare una norma specifica appropriata alla situa­
zione; giudicare che si è riflettuto a sufficienza, sicché un'ulteriore riflessione
non svelerebbe nuovi determinanti morali, salvo errori involontari. Da queste
premesse il ragionamento morale può ricavare la conclusione, ossia «il giudizio
della coscienza prudente, [che] dirige la scelta come un caso del genere carat­
terizzato dalla norma specifica che il soggetto ha sviluppato e che ora deve se­
guire». 49
In un articolo uscito successivamente al manuale di Grisez, J.M. Boyle Jr.,
uno dei collaboratori del manuale, riprende questa spiegazione e aggiunge ulte- .
riori chiarimenti.50 Essi riguardano la legittima possibilità che nel ragiona­
mento morale vi sia « un passo che comporta l'uso di sentimenti o d'intuizione
in un modo che non compromette il carattere essenzialmente razionale del pro­
cesso ».51 Ciò può succedere quando una norma specifica lascia aperte varie
possibilità di azioni, tutte moralmente corrette, come nel caso di scelte vocazio­
nali. «A questo punto è del tutto ragionevole considerare i proprii sentimenti
di fronte alle opzioni che si presentano, almeno nella misura in cui i proprii
sentimenti sono compatibili con la norma disgiuntiva a cui si è pervenuti. La
ragionevolezza dell'appello ai sentimenti a questo punto sta nel fatto che essi in­
dicano qualcosa del modo con cui la propria personalità è già determinata e
qualcosa della propria attitudine per un'alternativa piuttosto che per un'al­
tra».52

48 Ivi 478.
49 GRISEZ, Christian Mora! Prmciples 261.
5° Cf. Joseph M. BOYLE, Jr., Mora! Reasoning and Mora! Judgment, in Proceedings o/ the
Am. Cath. Philos. Assoc. 58 ( 1984) 37-49.
51 BOYLE, a.e. 40.
52 lvi 46.
Virtù e saggezza pratica 247

(38) Ciò che Grisez e Boyle dicono sul giudizio pratico è il massimo di
quanto si possa dire per evitare d'introdurre determinanti morali non intelligi­
bili e per ricuperare il ruolo della prudenza a partire da una concezione del ra­
gionamento morale che lo interpreta come sussunzione d'un caso sotto una
norma, pur se altamente specificata· e circostanziata. Orbene, in tale conce­
zione si perde lo specifico della teoria tomista della prudenza e se ne recepi­
scono solo dei frammenti. Gli è che la teoria della prudenza è concepita per un
ragionamento morale che procede non per sussunzione d'un caso sotto una
norma, bensì per applicazione d'una norma o d'un principio indeterminati ad
un'azione più determinata e più complessa di quanto sia possibile descriverla
mediante norme anche circostanziate.53 Tuttavia non si può negare che il mo­
dello della sussunzione non è estraneo al ragionamento morale. In casi più sem­
plici oppure qualora intervengano norme assolute il ragionamento morale può
procedere in questo modo.
Più chiarezza si può fare se si richiama la distinzione, introdotta più
sopra,54 tra piano precettivo pratico e piano descrittivo riflesso del ragiona­
mento morale. Sul piano precettivo, diretto, l'oggetto del ragionamento morale
è il bene e il suo effetto è la prosecutio del bene nell'intenzione e nella scelta;
sul piano descrittivo, riflesso, l'oggetto del ragionamento morale sono le
norme, i doveri. Il piano precettivo è quello in cui opera la prudenza, il piano
descrittivo è quello in cui operano la coscienza e la scienza morale. Perciò giu­
stamente osserva Rhonheimer55 che si può parlare di prudenza coscienziosa,
cioè di prudenza che nell'elaborare precetti tiene presenti anche le norme e i
giudizi di coscienza; ma non si può parlare (come fa Grisez) di coscienza pru­
dente, giacché la coscienza è semplicemente applicazione della scienza delle
norme a precetti e ad azioni prese ancor solo come oggetto di considerazione
riflessa; non è la conoscenza diretta che mira a realizzare il bene nelle inten­
zioni e nelle scelte, non è originariamente precettiva ed effettivamente pratica.
Il procedimento della sussunzione avviene a livello di coscienza, livello in
cui un precetto della prudenza, un'azione sçmo giustificati mediante la sussun­
zione come casi sotto una norma. Invece per la prudenza l'azione è ancora da
trovare, e da trovare mediante il confronto tra regola (principi, norme) e situa­
zione circostanziata; poiché la regola è necessariamente indeterminata e l'a­
zione ha da essere assolutamente determinata, il confronto va dalla situazione
alla regola e viceversa, mettendo in opera non solo un ragionamento, ma un'in­
telligenza sia dei principi sia delle circostanze della situazione.56 Nulla impedi­
sce che in tale applicazione della regola all'azione da trovare si faccia ricorso a

" John D. CAPUTO, Commentary: To Professor Boyle Prudential Insight and Mora! Reason­
ing, in Proceedings o/ the Am. Cath. Philos. Assoc. 58 ( 1984) 50-55, muove questa critica all'arti­
colo di Boyle cit. alla n. 50.
54 V. sopra III 2 1 ; V 2 1 ; cf. RHONHEIMER, Natur 63-66.
55 Ivi 64.
56 Cf. anche per quest'intervento dell'intelligenza la nota di J.D. CAPUTO cit. alla n. 53.
248 Capitolo VI

giudizi di coscienza, ma la coscienza dice, non decide l'azione. Per agire bene
non è sufficiente elaborare una norma specifica e giudicare che si è riflettuto
abbastanza. Occorre ancora si passi dalla considerazione in universali, tipica
della coscienza, alla considerazione in particulari, cioè a quella considerazione
in cui le premesse del ragionamento non sono semplicemente norme, pur se
specifiche e circostanziate, ma sono principalmente rette intenzioni dell'indivi­
duo agente, attuali inclinazioni della sua volontà e dei suoi appetiti passionali a
scopi virtuosi.57
(39) 2) Mediante la distinzione tra considerazione in universali e in particu­
lari la teoria tomista può dire qualcosa di più circa la natura del giudizio morale,
circa l'esercizio dell'intelligenza, circa il modo in cui influiscono le virtù sull'intel­
ligenza e sul giudizio.
Secondo la teoria tomista, finché il soggetto considera una possibile azione
particolare soltanto in se stessa, la sua considerazione resta ancora in univer­
sali, anche se è circostanziata e produce una norma specifica circostanziata. È
di questo tipo la considerazione della coscienza; concludere « questa è l'azione
che devo fare in questa situazione» è ancora un giudizio astratto, nel senso che
esprime una valutazione dell'azione considerata in se stessa, prescindendo dai
desideri attuali dell'individuo agente, desideri dai quali soltanto può scaturire
la scelta o l'azione dell'individuo.
La considerazione della ragion pratica diventa in particulari quando assume
come premesse proprio i desideri attuali dell'individuo agente e cerca il modo
di realizzarli nella situazione. L'intervento dei desideri attuali è necessario per­
ché solo essi possono rendere rilevante per l'individuo il giudizio pratico della
ragione; la ragione da sola può emettere soltanto giudizi che, pur se circostan­
ziati, possono valere per qualsiasi individuo; il giudizio di scelta invece vale
solo per l'individuo agente, il quale è reso agente effettivo proprio per il fatto
che desidera.
È questo modo di concepire la natura e la necessità d'una considerazione
in particulari che costituisce l'apporto originale e singolare della teoria tomista
della II Pars. Esso non si ritrova nelle altre teorie, che si fermano al livello
della scienza e della coscienza e al punto di vista della terza persona. Invece il
punto di vista della prima persona richiede di pervenire fin qui nella riflessione
sulla ragion pratica. Da questa differenza dipende la differenza nel concepire
la natura e la funzione della virtù e della saggezza pratica. Per condurre la ra­
gion pratica alla considerazione in particulari e al giudizio di scelta non sono
sufficienti la scienza morale delle norme, la coscienza, l'istruzione morale, la di­
sciplina, la legislazione; occorrono assolutamente le virtù.

57 Introducendo la distinzione tra i due piani del ragionamento morale, distinzione assai il­
luminante che ho trovato nello studio di Rhonheimer, correggo e approfondisco ciò che ho detto
nel mio articolo I «Christian Mora! Principles» 674-677: in quest'articolo non distinguevo tra i due
piani, perciò nemmeno tra coscienza e prudenza.
Virtù e saggezza pratica 249

(40) Senza virtù infatti i desideri attuali dell'individuo agente sarebbero i


desideri che egli di fatto si trova ad avere. Potrebbero essere sovente desideri
moralmente scorretti; potrebbero essere anche retti, ma solo di fatto, non in
virtù d'una valutazione del soggetto (strong evaluation) . Affinché siano desi­
deri volutamente corretti, occorre che le facoltà appetitive siano inclinate ad
azioni così come le rappresenta e le prospetta la ragion pratica pienamente ra­
gionevole. Appunto tali inclinazioni sono le virtù.
Ora però le inclinazioni dell'appetito ordinate secondo ragione s'adeguano
al modo con cui la ragione concepisce le azioni, e questo modo consiste nel
passare da una concezione generica, indeterminata ad una concezione specifica
determinata. La ragione procede da un concetto generale di azione giusta, co­
raggiosa, moderata (descrivibile mediante una massima virtuosa) a determinare
l'azione concreta che nella situazione realizza convenientemente quella nozione
generica e schematica.
Non basta. Per concludere al retto giudizio di scelta non è sufficiente che la
ragione parta dalla nozione o dal principio generale; deve partire dal desiderio at­
tuale d'un'azione giusta, coraggiosa, temperante. Il desiderio virtuoso (l'inten­
zione retta verso lo scopo virtuoso) si conforma alla rappresentazione della ra­
gione: è inizialmente desiderio generico di agire con giustizia, coraggio, tempe­
ranza. Diventa desiderio determinato e particolare di questa azione concreta
giusta, coraggiosa, temperante solo per l'intervento della ragione che delibera e
giudica; ma è un intervento provocato e pilotato dal desiderio generico, che
cerca in questo modo una via conveniente di realizzazione. Detto in altro
modo: l'individuo virtuoso affronta una situazione non solo dicendosi: « Qui ci
vuol coraggio», ma dicendosi: « Qui voglio agire con coraggio ». Sotto l'im­
pulso di questa intenzione virtuosa riflette e cerca per capire e giudicare quale
azione coraggiosa concreta è per lui quella richiesta nella situazione.
Per concludere all'azione concreta giusta il ragionamento morale dev'es­
sere tutt'altro che indipendente dai desideri del soggetto; dev'essere invece di­
pendente da desideri virtuosi che, diretti a uno scopo virtuoso, attendono dal
ragionamento morale in particulari la determinazione del giusto mezzo che
deve caratterizzare l'azione in cui lo scopo virtuoso trova la sua esemplifica­
zione.
(41 ) 3 ) L'intervento della virtù che rettifica l'intenzione del desiderio verso
uno scopo virtuoso consente di dire qualcosa di più sull'enigmatica natura del
giudizio morale concreto. Esso non decide soltanto che l'azione è buona e giu­
sta, ma che essa è conveniente al soggetto, cioè conforme e adeguata non solo
ai principi morali, non solo alla situazione, ma ai desideri attuali dell'individuo
agente, che sono desideri virtuosi.58 Il desiderio virtuoso costituisce il criterio

58 Per la teoria tomista è decisiva l'affermazione: « Si aliquod bonum proponatur quod ap­
prehendatur in ratione boni, non autem in ratione conuenientis, non mouebit uoluntatem»: De
250 Capitolo VI

individuale in base al quale la ragion pratica cerca, valuta, giudica le possibili


azioni orientandosi su quella che è connaturale all'individuo agente dati i suoi
attuali desideri virtuosi.
(42) 4) Se il giudizio morale concreto è giudizio di convenienza sulla base
d'una connaturalità, si potrà dire qualcosa di più anche circa il modo con cui le
virtù influiscono sull'intelligenza e sul giudizio.
Non sarà sufficiente dire che le virtù, disciplinando desideri e passioni, ri­
muovano l'ostacolo che impedirebbe alla ragione di riflettere in modo moral­
mente corretto e oggettivo sul da farsi. Può concepire in questo modo l'in­
flusso delle virtù colui che ritiene che da sola la ragione possa pervenire al giu­
dizio di scelta o colui che si ferma al giudizio di coscienza.
Invece le virtù esercitano un influsso positivo sulla ragion pratica; lungi dal
diminuire il livello di coscienza verso un comportamento rutinario, esse ren­
dono la ragione vigile, attenta, avvertita a percepire e a valutare ciò che è conve­
niente ai desideri virtuosi: sia le norme specifiche rilevanti sia le circostanze mo­
ralmente rilevanti. I determinanti morali sono tutti intelligibili (come giusta­
mente vuole Grisez), ma l'individuo li awerte in particulari solo se la sua ra­
gione è ispirata dalle intenzioni virtuose, perché solo allora essi toccano i suoi
attuali interessi. Altro è considerare un'azione in se stessa, altro è considerare
ciò che io devo scegliere. Nel primo caso sono sufficienti la scienza morale e la
coscienza; nel secondo è necessario che la scelta proceda con discernimento
ispirato da rette intenzioni. Questo discernimento è opera d'una prudenza o
saggezza pratica che è sia coscienziosa, in quanto riflette sulle norme e le ap­
plica al caso, sia virtuosa, in quanto la sua riflessione è resa awertita ed effi­
cace dai desideri virtuosi.
(43) Grazie all'influsso delle virtù, che rendono awertita, vigile, attenta la
ragion pratica in particulart� il soggetto virtuoso interpreta e definisce la propria
situazione in un modo diverso dal soggetto non virtuoso. Percepisce come rile­
vanti circostanze che ad altri sfuggono, scorge opportunità di azione che altri
non awertono, considera come rilevanti norme che altri trascurano, si propone
fini cui altri non pensano affatto. Poiché è soprattutto in particulari che vale il
detto di Aristotele cui Tommaso dà molta importanza: qualis unusquisque est,
talis /inis videtur ei,59 il virtuoso trova che sono a lui convenienti esattamente
i fini che sono moralmente giusti e degni; cerca l'azione ispirata al suo carat-

Malo 6c; v. sopra III 22, n. 27; cf. anche il mio commento in Lex et virtus 2 16. Qui appare ciò che
la teoria della virtù ha in proprio e che la rende necessaria: affinché il giudizio di scelta (e non solo
il giudizio di coscienza) sia retto non basta il riferimento a principi, ideali, norme, doveri, valori,
concetti tutti che restano propri della considerazione in universali; occorre il riferimento a virtù, in­
tese come attuali inclinazioni degli appetiti verso scopi virtuosi. Tali inclinazioni s'esprimono
anche in sentimenti, e ciò rende ragione a coloro che, come HUDSON, Human Character 25, riven­
dicano il ruolo del sentimento nella conoscenza morale.
59 V. sopra II 25, specialmente n. 57.
Virtù e saggezza pratica 25 1

tere, ed è l'azione moralmente giusta; produce lui stesso la norma adatta alla si­
tuazione e conveniente ai suoi desideri virtuosi; escogita nuove azioni, trova so­
luzioni che ad altri nemmeno passano per la mente, prende decisioni sagge che
possono lasciar sconcertati altri.60
Grazie all'influsso delle virtù sulla conoscenza il virtuoso considera le even­
tuali norme in modo diverso dal non virtuoso. Una norma specifica è per il non
virtuoso una norma esterna ch'egli non fa sua, se non per motivi poco perti­
nenti. È per il virtuoso una norma interna ai suoi interessi, eh'egli fa sua per il
motivo pertinente, come un'esigenza della sua adesione allo scopo virtuoso.
Nel primo caso il dovere è sentito come limitativo e costrittivo della libertà di
scelta, nel secondo caso è sentito come la necessaria opportunità di realizzare
una propria intenzione, opportunità degna e meritevole di libero consenso.
I determinanti morali dell'azione sono tutti intelligibili; ma indovinare o in­
ventare, e a volte improvvisare l'azione che non comporti alcun fattore di scor­
rettezza, lazione richiesta e moralmente eccellente, è operazione che non rie­
sce alla ragione se non sotto lattuale influsso dei desideri virtuosi. La norma
di quest'azione è la giusta misura, il giusto mezzo; ma la saggezza pratica riesce
a determinare il giusto mezzo sol perché, essendo essa mossa da intenzioni vir­
tuose, trova appetiti che sono resi docili al suo giudizio, alla sua regolazione,
proprio dalla presenza delle virtù. Gli è che la direttiva o precetto o comando
con cui la ragione impone alle virtù il giusto mezzo è un atto della prudenza
nel quale s'esprime un'efficace intenzione virtuosa, l'intenzione appunto delle
virtù di realizzare lo scopo virtuoso esattamente con quella giusta misura che la
prudenza assegna e comanda.
(44) Infine l'attuale influsso delle virtù sulla saggezza pratica spiega il parti­
colare modo con cui il giudizio morale ultimo può esser detto vero. Verum
autem intellectus practici accipitur per con/ormitatem ad appetitum rectum, af­
ferma Tommaso nella II Pars.61 Il giudizio morale può non esser perfetta­
mente adeguato alla situazione oggettiva. In situazioni complesse qualche deter­
minante morale può sfuggire all'attenzione, lazione scelta può non realizzare
al meglio il vero bene umano, perché l'individuo non può prevedere tutte le

60 È da recepire in questo modo l'istanza avanzata da Hauerwas, secondo la quale il carat­

tere virtuoso è decisivo e principale per interpretare la situazione, per determinare in concreto i do­
veri (v. sopra II 39); e l'istanza di HUDSON ([66] 200) secondo la quale il virtuoso determina l'a­
zione ispirata al suo carattere. Accolgo pienamente, ma spiegandola in questo modo, l'osserva­
zione di G. GRISEZ - R. SHAW, Beyond the New Morality: The Responsibilities o/ Freedom, Notre
Dame - London 1980, 40: «In determining ourselves through our commitments we shape our
lives. We establish our ways of looking at things. We determine the meaning of the experience we
will have. Thus, as we have seen earlier, we really create situations in a moral sense, because we
give the events of our lives and the facts of the world the unique meaning that they have /or us.
This is of course in sharp contradiction to the argument of so-called "situation ethics", which im­
plies that the meaning of a situation is something given, over which we have non control and
which we can only passively accept».
61
I-II, 57, 5, 3m. Cf. Lex et virtus 22 1 -222 e sopra V 16, n. 19.
252 Capitolo VI

conseguenze possibili, non può valutare con esattezza il carattere, le opinioni,


le reazioni delle persone, non sempre ha i mezzi e le capacità di realizzare l'a­
zione più conveniente.62 Al giudizio morale può dunque mancare la verità nel
senso di perfetta adeguazione alla situazione oggettiva; tuttavia il giudizio mo­
rale, in quanto emanato da una saggezza che è ispirata da intenzioni virtuose,
avrà infallibilmente una verità pratica, nel senso di conformità del giudizio
all'appetito retto costituito dalle intenzioni virtuose; il virtuoso cioè giudicherà
conformemente alla sua buona volontà, ai suoi buoni desideri, e non consen­
tirà che intervengano consapevolmente e volontariamente desideri disordinati a
influire sul suo giudizio. Fattori inconsci possono intervenire, ma nella misura
in cui sono inconsci sono involontari.
Questa nozione di verità pratica non comporta che il soggetto possa com­
piere un'azione intrinsecamente cattiva, che viola una norma valida e rilevante,
purché lo faccia con buona intenzione. L'intenzione virtuosa esclude questa
possibilità. Tuttavia, affinché un'azione sia moralmente eccellente, non è suffi­
ciente eh' essa sia conforme a una norma; deve invece realizzare il vero bene
umano nel modo più conveniente richiesto dalle circostanze; ed è qui che il giu­
dizio umano è irrimediabilmente limitato, qui è dove può venir meno l'adegua­
zione alla situazione, non alle norme. Senza violare alcuna norma rilevante
un'azione può esser inappropriata alla situazione e tuttavia può esser il mas­
simo consentito alle capacità morali dell'individuo e può esibire le sue virtù.
(45) 5) Sotto l'influsso delle intenzioni virtuose la ragion pratica diventa sag­
gezza o prudenza, essa stessa virtuosa. L'esercizio congiunto e connesso delle
virtù morali e della saggezza pratica rende moralmente eccellenti le scelte, rende
veramente buona e felice la vita. Le scelte sono moralmente eccellenti quando in
esse sono moralmente corretti sia il fine, sia l'intento od oggetto, sia le circo­
stanze. 63 Orbene le virtù morali rettificano l'intenzione delfine; sotto il loro in­
/lusso la saggezza pratica determina quale azione retta, sia nell'intento sia nelle
circostanze, realizza convenientemente il fine al quale va l'intenzione.
Per . la realizzazione delle buone scelte è dunque necessario che le virtù ope­
rino in reciproca connessione. Su questo punto la teoria tomista si trova all'op­
posizione rispetto alle teorie odierne, che non ammettono la connessione delle

62 Anche su questo punto NELSON, Karl Rahner's 479 avverte una differenza tra la prudenza

tomista e il discernimento rahneriano: «Along with his claims about the nature of the reality to
which existential ethics applies, Rahner introduces a claim about the certainty of its conclusions
that Thomas says is necessarily lacking, even with the assisfance of spiritual gifts, in human delibe­
rations about what is to be done. If one doubts the existence of (or at least the possibility of gain­
ing access to) the transcendental dimension of personhood that Rahner describes, if one shares
Thomas' scepticism in the sense of a reluctance to claim certain knowledge of God's will for speci­
fic human actions, and if one finds the discursive deliberations of prudence more reliable than the
non-discursive discernment of spirits, then existential ethics appears to be a particularly impru­
dent alternative to the account of moral decision-making provided by Thomas Aquinas».
6 3 V. sopra III 24.
Virtù e saggezza pratica 253

virtù, e conseguentemente ammettono la possibilità di conflitti insolubili tra le


virtù e la possibilità che le virtù diano origine ad azioni moralmente sba­
gliate.64
Orbene, conflitti insolubili tra virtù, o virtù che danno origine ad azioni mo­
ralmente sbagliate si danno, ma si tratta allora di quelle che Tommaso chiame­
rebbe virtù non formate, in quanto non guidate dalla saggezza pratica. Queste
sono le inclinazioni che il soggetto ha per natura individuale e ovviamente non
sono connesse. Ma Tommaso le considera appena incoazioni, abbozzi di virtù,
tanto più pericolose quanto meno regolate dalla discrezione della prudenza.
Invece le virtù formate sono connesse tra di loro. Com'è unico lo scopo gene­
rale ed ultimo della vita umana, com'è unico il principio della moralità, cosl è
unica la prudenza. Non vi è una prudenza nelle questioni di giustizia che sia
specificamente diversa dalla prudenza in questioni di fortezza o di tempe­
ranza. Controllare le passioni per compiere azioni ingiuste non è atto di virtù,
ma atto di vizio; proprio per questo l'esercizio del coraggio o della temperanza
non può richiedere la violazione della giustizia, giacché è nella definizione di
questa virtù che i loro atti non contraddicono alla giustizia. Tutte le virtù mo­
rali dunque richiedono l'esercizio d'un'identica prudenza, la quale risolve i con­
flitti apparenti esaminando la rilevanza delle norme, specificandole meglio, di­
stinguendo diversi modi di volontarietà (per esempio, tra intento della scelta ed
effetto collaterale previsto) , assegnando il giusto mezzo a ogni virtù.
D'altra parte però la prudenza può riuscire in questa regolazione solo se è
ispirata dalle intenzioni rette di tutte le altre virtù morali. Qualora nel ragiona­
mento morale s'infiltrasse un desiderio disordinato, verrebbe meno un princi­
pio corretto di deliberazione, e allora nascerebbero conflitti insolubili, giacché
un male morale può entrare in contraddizione non solo con un bene morale,
ma anche con altri mali morali, mentre il bene morale non può mai essere con­
traddittorio.65
Perciò se nella considerazione in particulari la ragion pratica deve diven­
tare essa stessa virtuosa, diventare saggezza pratica al servizio delle virtù mo­
rali, a loro volta le virtù morali devono diventare sagge per continuare ad es­
sere virtù, devono cioè recepire docilmentte le direttive della saggezza.
(46) 6) La teoria etica non può diventare saggezza pratica, ma può mos­
trare le condizioni che fanno possibile la saggezza pratica, può spiegare che
tipo di conoscenza morale è quella che regola effettivamente le scelte e le
azioni. Innanzitutto riconosce che la considerazione delle norme, la loro deter-

64 V. sopra II 60.
6' «Dicendum quod religio et pietas sunt duae virtutes. Nulla autem virtus alii virtuti contra­
riatur aut repugnat: quia secundum Philosophum, in Praedicamentis, bonum non est bono contra­
rium. Unde non potest esse quod pietas et religio se mutuo impediant, ut propter unam alterius
actus excludatur. Cuiuslibet enim virtutis actus, ut ex supra dictis patet [l-11, 18, 3 ], debitis circum­
stantiis limitatur: quas si praetereat, iam non erit virtutis actus, sed vitii. Unde ad pietatem perti­
net officium et cultum parentibus exhibere secundum debitum modum» (II-II, 101, 4c).
254 Capitolo VI

minazione e giustificazione, è ancor solo in universali, mentre la conoscenza


morale effettivamente pratica avviene in particulari. Inoltre spiega che a que­
st'ultimo livello la conoscenza morale è concepibile solo come conoscenza vir­
tuosa, cioè dipendente dalle virtù morali, mentre le virtù morali sòno concepi­
bili solo come regolate dalla saggezza pratica.
Fatto questo, la teoria etica ha pressoché esaurito il suo compito: dov'essa
non può più dare norme indica al soggetto agente le condizioni alle quali egli
stesso può regolare la propria condotta affinché la sua vita riesca veramente
buona, veramente felice. Queste condizioni, in un individuo come quello
umano, sono le virtù, virtù sia della ragione sia degli appetiti, virtù che ope­
rano al modo di habitus, virtù che sono da acquisire.
Capitolo VII

LA PRATICA DELLE VIRTÙ

(1 ) La teoria etica che stiamo sviluppando costituisce una riflessione sull'e­


sperienza morale e particolarmente sulla ragion pratica, che è l'aspetto dell'e­
sperienza morale più immediatamente accessibile alla riflessione filosofica. Ab­
biamo notato che la teoria etica può costituire essa stessa un esercizio ed un
perfezionamento della ragion pratica sin tanto che si tratta di ragionare in uni­
versali; quando invece si tratta di considerare il particolare operabile in quanto
possibile azione di questo individuo in questa situazione (considerazione in par­
ticulari) la teoria etica non può diventare saggezza pratica, o prudenza; deve li­
mitarsi a studiare le condizioni che fanno possibile la saggezza pratica e, con la
saggezza pratica, le scelte e le azioni effettivamente buone.
Della saggezza pratica abbiamo studiato nel capitolo precedente la neces­
sità e la costituzione interna. Ma proprio la teoria che abbiamo sviluppato sulla
necessità e sulla natura delle virtù e della saggezza pratica pongono un nuovo
problema, cui la teoria etica non può sottrarsi se vuole indicare le condizioni
che fanno possibili nella pratica la saggezza e le virtù morali da cui la saggezza
dipende e alle quali essa comanda: è il problema dell'acquisizione delle virtù.
Abbiamo visto infatti che solo il virtuoso sa regolare e produrre le scelte in
modo che siano moralmente eccellenti ed esemplifichino la vita veramente
buona; ma d'altra parte abbiamo visto anche che l'individuo, di fronte a questo
compito si trova ad avere sì delle capacità naturali, ma non la sufficiente prepa­
razione. 1 Perciò si sono dimostrate assolutamente necessarie le virtù. Questa
conclusione però non fa che rendere più complicato il problema dell'acquisi­
zione delle virtù. La risposta tradizionale, secondo la quale le virtù si acquisi­
scono con l'esercizio, non è sufficiente, e abbisogna di precisazioni importanti.
Infatti se è vero che solo le virtù dispongono a produrre scelte moralmente ec­
cellenti, le scelte compiute in assenza di virtù non possono essere moralmente
eccellenti e pertanto non possono generare le virtù. Sostenendo che l'individuo
non è naturalmente preparato a compiere scelte moralmente eccellenti, sembra
che la teoria renda impossibile la produzione di tali scelte e pertanto l'acquisi­
zione delle virtù.
(2) A voler dare una risposta esauriente a questo problema occorrerebbe
una trattazione a parte, sia per la complessità del problema in sé sia per la mol-

1 V. sopra V 34-38.
256 Capitolo VII

teplicità delle teorie con cui bisognerebbe confrontarsi. Il problema infatti coin­
volge le teorie dello sviluppo morale e dell'educazione, teorie nelle quali a loro
volta la ricerca sperimentale dipende da paradigmi filosofici assai diversi dalla
teoria della virtù che abbiamo sviluppato.2 Sicché il confronto con queste teo­
rie non può awenire senza impegnarsi in questioni epistemologiche. Ma il pro­
blema dell'acquisizione delle virtù coinvolge anche la filosofia della letteratura
e la filosofia politica, in quanto, come vedremo, da un lato la descrizione di ca­
ratteri e di azioni drammatiche e dall'altro l'ethos sociale, le leggi, le tradizioni
di piccole comunità, il pubblico dibattito tra diverse concezioni della vita svol­
gono un ruolo importante nella genesi delle virtù. Infine non si può trascurare
il fatto che il problema dell'acquisizione e della pratica delle virtù è anche un
problema teologico, in quanto l'uomo non può venire a capo della propria fal­
libilità morale e della fragilità della vita buona senza, per dirla in breve, l'aiuto
di Dio; sieché una teologia dell'agire virtuoso dovrebbe mostrare, sulla base
della rivelazione divina, come Dio opera per consentire all'uomo di agire vir­
tuosamente.
Di fronte a tali e tante implicanze le considerazioni che andrò facendo non
potranno apparire che come rudimentale abbozzo. Mi limiterò a presentare lo
specifico contributo che la teoria della virtù qui sviluppata può dare al pro­
blema dello sviluppo morale e dell'educazione morale visto come problema
dell'acquisizione delle virtù. Non potrò in questa sede nemmeno iniziare un
confronto con le recenti teorie psicologiche dello sviluppo morale,3 con le filo­
sofie dell'educazione, con la filosofia della letteratura, con la filosofia politica e
con la teologia propriamente dogmatica (anche se èiò che andrò dicendo costi­
tuisce un esercizio di filosofia cristiana) . Darò semplicemente i principi d'una
teoria filosofica dell'acquisizione delle virtù e dell'educazione alla virtù, che in­
dicano la direzione in cui va la teoria delle virtù qui sviluppata.

I. LA VITA MORALE PREVIRTUOSA

(3) Per risolvere la questione circa la genesi delle virtù occorre distinguere
vari tipi di vita morale: a parte la vita viziosa, vi è una vita morale che senza es­
sere virtuosa non è nemmeno viziosa, è semplicemente una vita morale previr­
tuosa. Poiché la vita morale consta di atti, conviene sfruttare una distinzione
circa ìl rapporto tra virtù e atti proposta, sulla scia di Aristotele, da J.D. Wal­
lace e da S.D. Hudson.4 Vi sono:

2 Una pertinente critica, dal punto di vista cristiano, ai paradigmi delle teorie psicologiche è
sviluppata da Mary STEWARD VAN LEEUWEN, The Person in Psychology. A Contemporary Christian
Appraisal, Leicester I England - Grand Rapids I Michigan 1985 .
., Circa i problemi che · questo confronto comporterebbe dice qualcosa John W. CROSSIN,
O.S.F.S., What Are They Saying About Virtue?, New York - Mahwah 1985.
4 Cf. Etica Nicomachea II, 4 = 1 105 a 3 1-35 : « Le azioni che traggono origine dalle virtù non
La pratica delle virtù 257

a) azioni caratteristiche o tipiche d'una virtù: le azioni che il virtuoso fa­


rebbe, ma fatte non nel modo in cui il virtuoso le farebbe;
b) azioni pienamente caratteristiche d'una virtù, motivate nel modo caratte­
ristico della virtù: sono le azioni giuste per il motivo giusto;
e) azioni che esibiscono una virtù, nel senso che provengono, come dice
Aristotele, « da un carattere fermo e immutabile».5
Secondo questa distinzione la virtù sarebbe presente e operante solo nelle
azioni che la esibiscono; ma essa sarebbe generata da azioni pienamente carat­
teristiche d'una virtù, le quali potrebbero essere compiute dal soggetto anche
prima di possedere la virtù e con la loro ripetizione genererebbero appunto la
virtù, intesa come disposizione ferma e stabile a compiere azioni pienamente
caratteristiche della virtù.
(4) A ben osservare però questa distinzione non rispecchia bene l'espe­
rienza morale e abbisogna di precisazioni.
È indubbiamente previrtuosa una vita in cui il soggetto compie azioni che
sono semplicemente caratteristiche d'una virtù, ma non le compie nel modo in
cui il virtuoso le compirebbe. È di questo tipo la vita morale che potremmo
chiamare convenzionale. Poiché l'individuo è inclinato, in forza della sua na­
tura specifica, a vivere ragionevolmente e possiede in forza della natura indivi­
duale alcune incoazioni di virtù, se ha la buona sorte di vivere in una famiglia
.
ed in un ambiente sociale sufficientemente ordinato può sviluppare certe
buone abitudini. Esse lo dispongono a compiere certe azioni tipiche della giu­
stizia, dell'onestà, della moderazione, dell'obbedienza, ecc. ; esse però sono solo
assuefazioni indotte dalla società e funzionano per certe buone azioni esteriori
in circostanze normali, ma sono facilmente smentite in situazioni di tentazione

basta che abbiano un determinato carattere per essere compiute con giustizia o con temperanza,
ma occorre anche che chi le compie le compia possedendo una certa disposizione: innanzitutto
deve conoscerle, poi deve sceglierle, e sceglierle per se stesse; infine, in terzo luogo, deve com­
pierle con una disposizione d'animo ferma ed immutabile» (tr. Mazzarelli, Milano 1979, 128);
James D. WALLACE, Excellences and Merit, in Philosophical Review 83 ( 1974) 182-199, ripreso
come II capitolo in WALLACE [65]; HUDSON [86] e Human Character 44-47.
' « Someone can perform an act fully characteristic of truthfulness, then, without possessing
the excellence, truthfulness. For an act to exhibit the excellence, truthfulness, however not only
must the action fulfill the three conditions above, but, to use Aristotle's phrase, "his action must
proceed from a firm and unchangeable character" ( 1 105 a 34-35) that is, the agent must have a
-

pretty firm resolve to teli the truth when he should, and he must have the strenght of will to hold
to his resolve even when his own interests or inclinations bid him to lie or to suppress the truth»
(WALLACE, a.e. 197). «We need a better account of what it is for an action to exhibit a character
trait. How, for example, should we differentiate an action that exhibits a person's character and
an action which is (only) characteristically motivated for that trait of character? Consider courage.
An action which is characteristically motivated for courage need not exhibit courage. What more
is necessary, if the act is to exhibit courage? As a first stab, we might offer that for an act to exhib­
it such a trait of character the agent must also be principled: he must bave a firm resolve to fol­
low the dictates of courage and must act accordingly, even when he has some reason not to do so
(as, e.g., when it would suit his own inclinations not to do so) » (HUDSON [86] 547).
258 Capitolo VII

o di forte provocazione. Questo perché sono compiute per motivi che, senza
esser cattivi, sono però estranei alla bontà morale: il vantaggio che se ne può ri­
cavare, il desiderio di esser riconosciuto e stimato, l'amor del quieto vivere, il
timore di spiacevoli conseguenze, il desiderio di restare integrato nel gruppo,
la paura di restare isolato o di apparire diverso, il comando d'un'autorità e la
prospettiva delle sanzioni, le attese degli altri, il prestigio delle opinioni domi­
nanti, ecc.
Tutti questi motivi, e le disposizioni su di essi fondate, sono intrinseca­
mente instabili, nel senso che, essendo estranei al valore morale, inducono ad
azioni corrette come per caso, ma, presentandosi le circostanze, possono anche
indurre ad azioni moralmente sbagliate.
In una condizione migliore, ma ancora previrtuosa, si trova il continente
cioè colui che compie le azioni moralmente giuste dettate dalla ragione, ma le
compie resistendo a forti passioni contrarie. Secondo l'analisi tomista,6 il con­
tinente compie sl azioni giuste, ma non in forza d'una scelta compiutamente
buona, giacché gli manca il retto appetito del fine, ossia la compiacenza dell'ap­
petito volitivo e passionale nel vero bene umano. Egli pone una scelta material­
mente buona giacché ciò eh'egli sceglie è bene, ma non ancora formalmente
buona, cioè per inclinazione al bene morale in quanto tale, bensl perché la co­
scienza gliela presenta come obbligatoria o perché egli sa che l'azione è coman­
data o proibita dalla legge morale o dalla legge divina.
Infine vi è la condizione di colui che potremmo chiamare il docile. Egli com­
pie le azioni giuste e le compie proprio perché sa che sono giuste e vuole com­
piere azioni giuste, ma lo sa per indicazione ricevuta dal genitore, o dall'educa­
tore. Egli non è ancora capace di giudicare personalmente ciò che è giusto né
di determinare personalmente l'azione secondo le circostanze: Anche la vita
del docile è ancora una vita previrtuosa, giacché egli non è ancora in grado di
determinare, di giudicare e di scegliere l'azione giusta come mediazione con­
creta d'una propria retta intenzione verso uno scopo virtuoso capito e voluto.
Il docile compie azioni giuste per motivi giusti, ma non ancora nel modo per­
fettamente giusto di chi sa determinare e scegliere l'azione giusta sulla base
d'una propria adesione agli scopi virtuosi.
(5) Se si tiene presente la distinzione tra l'azione del docile e l'azione di chi
sa scegliere personalmente nel modo giusto, e se si tiene presente tutto ciò che
abbiamo detto sulla gestazione della scelta a partire dalle intenzioni e sulla ra­
gione per cui sono necessarie le virtù per esser preparati a compiere buone
scelte, si capirà perché correggo la tripartizione sopra esposta circa le azioni
moralmente buone e.affermo che le azioni di chi sa scegliere personalmente nel

6 Il comportamento del continente è già studiato da Aristotele nell'Etica Nicomachea VII, 9


= 1 15 1 a 28 b 22 ; Tommaso d'Aquino approfondisce l'analisi in II-II, 155. L'interpretazione che
-

dò del continente poggia sull'importante testo di I-II, 58, 3, 2m: cf. il mio commento in Lex et vir­
tus 2 13-2 15.
La pratica delle virtù 259

modo giusto non solo sono pienamente caratteristiche della virtù, ma esibiscono
già la virtù, nel senso che non possono essere compiute se non in forza della
virtù.
Infatti le intenzioni rette verso gli scopi virtuosi, che stanno alla r�dice
delle scelte giuste, superano il livello delle capacità naturali che l'individuo ha
per natura specifica o per natura individuale e richiedono che le facoltà opera­
tive dell'individuo siano potenziate ed elevate per essere in grado di produrre
simili intenzioni e di ragionare a loro servizio.
In questa prospettiva il problema della genesi della virtù diventa molto più
difficile da risolvere. Infatti, secondo la tripartizione sopra esposta l'individuo
è naturalmente in grado di compiere le azioni giuste per il motivo giusto e
basta ch'egli ripeta azioni simili, pienamente caratteristiche della virtù, per ac­
quisire la disposizione stabile e ferma a produrle e per esibire la virtù. Qui la
virtù introduce solo fermezza e stabilità in azioni che erano pienamente carat­
teristiche della virtù anche prima che la virtù sorgesse.
Invece nel ragguaglio che sto dando la virtù introduce un salto di qualità
nel modo di agire: fa problema proprio il primo atto che esibisce la virtù. Bi­
sognerà studiare le condizioni che lo rendono possibile, condizioni interiori ed
esteriori all'individuo; per intanto basti osservare che, qualora tali condizioni
felicemente si realizzino, quando l'individuo compie il primo atto pienamente
caratteristico della virtù, egli è giunto ad avere la preparazione necessaria ed in·
tale atto egli esibisce già la virtù.
A differenza delle azioni previrtuose, le azioni che esibiscono la virtù go­
dono di una stabilità intrinseca, nel senso che, pur nella loro varietà dipen­
dente dalle circostanze, esse sono scelte dall'individuo come mediazioni con­
crete degli scopi virtuosi cui egli intende; ora l'inclinazione agli scopi virtuosi,
introdotta dalle virtù morali e regolata dalla saggezza pratica, non può dare ori­
gine ad azioni moralmente sbagliate, salvo errori involontari. Tuttavia tali
azioni possono avere un'instabilità o precarietà estrinseca, in quanto la virtù,
già acquisita, può non essere ancora radicata nelle facoltà operative.
Ciò che si acquisisce ripetendo azioni pienamente caratteristiche della virtù
non è la virtù stessa, bensì la sua crescita, il suo radicamento nelle facoltà ope­
rative. Questo radicamento produce una fermezza ed una stabilità che po­
tremmo chiamare estrinseca, in quanto riguarda non il rapporto, intrinseco alla
virtù, tra retta intenzione e retta scelta, bensì il rapporto tra la virtù e la facoltà
operativa in cui essa ha sede e ch'essa perfeziona.
(6) In seguito a queste spiegazioni occorre correggere nel modo seguente la
tripartizione delle azioni moralmente buone:
a) azioni caratteristiche o tipiche d'una virtù: le azioni del convenzionale,
del continente, del docile;
b) azioni pienamente caratteristiche della virtù e che esibiscono la virtù, in
quanto compiute nel modo giusto, intrinsecamente stabile, che solo la virtù fa
possibile;
260 Capitolo VII

c) azioni che esibiscono la virtù radicata, in quanto son compiute con fer­
mezza, facilità, piacevolezza, stabilità estrinseca.7
Nella spiegazione qui proposta diventa particolarmente urgente studiare le
condizioni che consentono la genesi delle virtù. Esamineremo dapprima le con­
dizioni interiori al soggetto agente e poi le condizioni a lui esteriori.

Il. L'ACQUISIZIONE DELLE VIRTÙ

1 . I germi naturali delle virtù

(7) 1) Se le virtù sono da acquisire è perché il soggetto non è naturalmente


preparato ai compiti della vita veramente buona; tuttavia se è possibile acqui­
sirle, è perché il soggetto ha per natura una radicale capacità di vita veramente
buona.
Il termine natura è riferito qui non a ciò che nell'uomo si distingue dalla
sua capacità d'intendere e di volere, ma proprio a questa sua capacità; significa
ciò di cui la ragion pratica, la volontà, gli appetiti passionali dispongono in or­
dine alla vita buona previamente al ragionamento e all'elaborazione delle inten­
zioni e delle scelte.
Poiché il modo di volere e di desiderare è determinato dal modo di valu­
tare, i germi naturali delle virtù sono da rintracciare prima nella ragion pratica
poi negli appetiti.
(8) 2) Quanto alla ragion pratica, essa è naturalmente capace di riflettere

7 La tripartizione delle azioni moralmente buone che qui propongo s'attiene al modo con
cui Tommaso interpreta il testo aristotelico citato sopra alla n. 4: «Et ideo dicit quod ad hoc quod
aliqua fiant iuste ve! temperate non sufficit quod opera quae fiunt, bene se habeant, sed requiritur
quod operans debito modo operetur. In quo quidem modo tria dicit esse attendenda. Quorum pri­
mum pertinet ad intellectum sive ad rationem, ut scilicet ille qui facit opus virtutis non operetur
ex ignorantia ve! a casu, sed sciat quid faciat. Secundo accipitur ex parte virtutis appetitivae, in
quo duo attenduntur; quorum primum est ut non operetur ex passione, puta cum quis facit ex ti­
more aliquod opus virtutis, sed operetur ex electione; aliud autem est ut electio operis virtuosi non
sit propter aliquid aliud, sicut cum quis operatur opus virtutis propter lucrum ve! propter inanem
gloriam, sed sit propter hoc, id est propter ipsum opus virtutis quod secundum se placet ei qui habet
habitum virtutis tamquam ei conveniens. Tertium autem accipitur secundum rationem habitus, ut
scilicet aliquis firme, id est constanter, quantum ad se ipsum, et immobiliter, id est a nullo exte­
riori ab hoc removeatur quin habeat electionem virtuosam et operetur secundum eam» (Sententia
Libri Ethicorum II, 4 = Ed. leonina XLVII, 87, 54-75).
L'espressione che ho messo in corsivo dimostra che per Tommaso gli atti pienamente caratte­
ristici della virtù esibiscono già la virtù. Qui Tommaso interpreta il testo aristotelico secondo la teo­
ria della virtù da lui elaborata nella II Pars. In I-II, 100, 9c, rifacendosi allo stesso testo aristote­
lico, esprime meglio ciò che qui s'intende con l'espressione secundum rationem habitus: la fer­
mezza e la stabilità procedono non tanto dall'habitus, quanto più precisamente ex habitu radicato:
«Et ista firmitas proprie pertinet ad habitum, ut scilicet aliquis ex habitu radicato operetur». Per
l'interpretazione di questo testo cf. Lex et virtus 246.
La pratica delle virtù 261

sull'esperienza della gratificazione dei bisogni e apprendere, senza bisogno di


ragionamento, sia la desiderabilità di vari generi di beni umani, sia la desidera­
b ilità d'un ideale di vita in cui i beni umani contribuiscono a formare un com­
pimento o una perfezione integrale.
In riferimento a questo ideale originario la ragion pratica ragiona in vista
della condotta, ma ragiona come guidata da certe convinzioni primordiali sulla
vita veramente buona, convinzioni che la riflessione filosofica formula nel
modo di principi generali di buona condotta, siano questi principi del tipo
delle massime o del tipo delle norme specifiche.
Nel confrontarsi con le situazioni e nel valutarle dal punto di vista dell'i­
deale di perfezione la ragion pratica riesce, ancor senza ragionamento, e sotto
l'influsso delle condizioni esteriori che vedremo, ad esplicitare e a specificare
le convinzioni primordiali dando così origine a un insieme di proposizioni pra­
tiche ancora generali, inizialmente implicite, ma che vanno esplicitandosi nel
corso dell'esperienza morale.
In questo modo la ragion pratica matura naturalmente la conoscenza degli
scopi virtuosi, cioè di azioni per le quali essa richiede certi modi diversi di rego­
lazione in vista dell'ideale di perfezione.
La conoscenza naturalmente acquisita degli scopi virtuosi è appunto un
germe di virtù. È solo un germe, in quanto, essendo generica e schematica,
non è appropriata alle esigenze morali delle diverse circostanze; e tuttavia è un
germe attivo ed efficace, in quanto è tale conoscenza che guida l'ulteriore ragio­
namento pratico prudenziale, nel corso del quale il soggetto interpreta la situa­
zione e delibera e giudica sull'azione circostanziata. La conoscenza degli scopi
virtuosi, in quanto matura senza ragionamento, non è ancora conoscenza pru­
denziale, che procede per via di ragionamento, ma è il germe da cui la pru­
denza può svilupparsi, il principio regolatore ch'essa applica e precisa in fun­
zione delle circostanze.
(9) 3 ) Quanto alla volontà ed agli appetiti passionali, nella misura in cui que­
sti sono regolabili dalla ragione, il loro modo di desiderare è dipendente dal
modo con cui la ragione rappresenta e valuta le possibili azioni. Perciò come
la ragione procede dal generico allo specifico e al particolare, così la volontà e
gli appetiti vanno al vero bene umano a partire da un desiderio generico e pro­
cedendo verso. desideri più specifici e più particolari.
Questa condizione della volontà e degli appetiti comporta in essi la pre­
senza d' inclinazioni naturali e l'attitudine a ricevere specificazioni, determina­
zioni, modificazioni da parte della ragion pratica.
È innanzitutto naturale nella volontà un interesse per la vita moralmente
buona, ragionevolmente regolata. Ma tale interesse naturale è solo un'inclina­
zione a vivere secondo i più generali principi morali; non è ancora specificato
secondo le più specifiche massime virtuose, tanto meno secondo le prescri­
zioni della prudenza. Attende dunque di essere ulteriormente determinato e ar­
ticolato secondo gli scopi virtuosi. Inoltre l'inclinazione naturale a vivere se-
262 Capitolo VII

condo l'ordine della ragion pratica non è un'inclinazione necessitante come ab­
biamo visto che è la volontà naturale della felicità intesa in senso inclusivo e
formale; è invece un'inclina·zione che è naturalmente a disposizione della vo­
lontà, ma che non diventa effettiva se non è liberamente ratificata e assunta
nelle intenzioni e nelle scelte. Ciò è dovuto al fatto che rispetto all'oggetto natu­
rale e necessario della volontà (cioè la felicità intesa in senso inclusivo e for­
male) l'ideale della vera felicità e della vita veramente buona costituisce già una
determinazione più particolare e più concreta, benché ancor solo generica ri­
spetto alle direttive della prudenza; pertanto esso non è necessariamente vo­
luto, ma può esser voluto solo in forza d'un processo di libera autodetermina­
zione da parte del soggetto.
Lo stesso deve dirsi per particolari inclinazioni verso qualche scopo vir­
tuoso che l'individuo possedesse grazie alla natura individuale. Anch'esse han
bisogno di esser educate dalla prudenza per adattarsi a ciò che è moralmente
richiesto nelle diverse situazioni, anch'esse sono inclinazioni che non diventano
effettive nella condotta volontaria se non sono liberamente assunte dalla vo­
lontà.
(1 O) Da queste considerazioni segue che l'inclinazione naturale a vivere se­
condo l'ordine della ragione e le inclinazioni della natura individuale verso
l'uno o l'altro degli scopi virtuosi non sono ancora habitus virtuosi, ma sempli­
cemente incoazioni di virtù; tuttavia sono esse che fanno possibile la genesi
delle virtù, in quanto abbozzano inclinazioni che possono diventare effettive
qualora il soggetto le assecondi nel processo di gestazione delle scelte buone.
Durante questo processo le inclinazioni naturali non solo vengono assunte,
ma ricevoQo anche specificazioni, determinazioni, modificazioni da parte della
ragion pratica. A ciò esse sono idonee in virtù d'un' originaria e naturale dipen­
denza degli appetiti da valutazioni della ragione. La volontà è originariamente
dipendente dalle valutazioni della ragione naturale; gli appetiti passionali sono
originariamente dipendenti .da valutazioni spontanee della ragione, non nella
sua funzione specificamente umana e morale, ma in quanto ragiona a servizio
dei bisogni dell'uomo come corpo animato. Intervenendo su queste valuta­
zioni naturali e spontanee la ragione, nella sua funzione specificamente mo­
rale, può modificarle e accordarle ai propri principi morali. Per questa via essa
può educare le passioni ad essere sensibili ai beni morali, a partecipare affetti­
vamente alle azioni richie&te dalla regola morale.8
(1 1 ) 4) Grazie all'influsso di questi germi naturali di virtù, qualora interven­
gano anche le condizioni esteriori di cui diremo più avanti, il soggetto è capace

8 Tutto lo studio di DENT sulla psicologia morale delle virtù è basato su questa concezione
delle passioni come dipendenti dalle valutazioni e sulla possibilità da parte della retta ragione d'in­
tervenire su di esse per modificarle e adeguarle ad una concezione della vita veramente buona.
Per questo verso il libro di Dent fornisce un completamento alla teoria della virtù qui esposta, in
quanto analizza in che modo awengono le scelte virtuose.
La pratica delle virtù 263

da un lato di sviluppare la ragione naturale fino a scoprire in modo esplicito e


specifico gli scopi virtuosi e a valutarli come desiderabili, degni, doverosi; dal-
1' altro egli è capace, in seguito a un previo esercizio di purificazione delle pro­
prie intenzioni estranee agli scopi virtuosi, di pervenire ad una libera adesione
agli scopi virtuosi, di maturare un proposito virtuoso. Nell'atto stesso di quest' a­
desione egli perviene a quel livello di prestazione nel quale per la prima volta
le sue facoltà operative diventano preparate e pronte ai compiti della vita vera­
mente buona; la sua libera adesione agli scopi virtuosi non solo è pienamente
caratteristica della virtù, ma esibisce già la virtù nata in quello stesso istante. Su
di essa fermiamo ora la nostra attenzione.

2. La formazione delle intenzioni virtuose

( 1 2) Rispetto alle motivazioni della vita previrtuosa l'adesione agli scopi vir­
tuosi rappresenta un salto di qualità. Esso è possibile qualora intervengano pa­
recchie condizioni: l'influsso di passioni disordinate dev'esser stato mitigato da
una forte disciplina imposta dagli educatori, che dia origine ad abitudini a com­
portarsi in modo ordinato, anche se non vi è ancora la capacità di essere au­
tori di condotta. D'altra parte però occorre che l'attenzione del soggetto sia
stata focalizzata sempre più sugli ideali virtuosi grazie all'istruzione morale e al­
!' esortazione morale e grazie ad esempi concreti di condotta virtuosa. L'in­
flusso congiunto di questi fattori contribuisce a che il soggetto arrivi a scoprire
che vi sono ideali virtuosi, a chiarificare in che cosa essi consistano, a far perce­
pire ed apprezzare la loro desiderabilità, il loro valore di bontà. Aiutato dall'in­
segnamento morale e dall'esortazione il soggetto impara a riflettere sulle pro­
prie ragioni per agire, a discernere quelle che sono estranee al valore morale, a
orientarsi sugli ideali virtuosi.
In questo modo i germi naturali di virtù possono svilupparsi in esplicite in­
clinazioni virtuose, in virtù vere e proprie, la cui prima espressione è la scelta
d'un ideale o scopo virtuoso.
Questa prima espressione della virtù può esser chiamata scelta in un senso
ancora limitato, in quanto cioè è frutto d'una libera autodeterminazione della
volontà naturale di felicità. Tuttavia non è ancora una· scelta compiuta, finita,
dettagliata e circostanziata; è ancor solo un preparativo per le scelte vere e pro­
prie, in quanto delimita il campo entro il quale il soggetto intende fare le sue
scelte e fornisce alle scelte compiute la loro ragione. Perciò preferisco denomi­
nare questo atto adesione agli scopi virtuosi (per indicare che è atto libero), op­
pure proposito o impegno virtuoso, corrispondente all'inglese commitment (per
indicare che tale atto definisce la direzione in cui il soggetto intende prose­
guire), oppure ancora intenzione virtuosa (per indicare che fornisce la ragione
per scegliere e per agire).
( 1 3) L'intenzione virtuosa va all'azione definita in modo ancor solo gene-
264 Capitolo VII

rico e schematico, relativo al modo di regolazione ed esprimibile in una mas­


sima di virtù; tuttavia questo contenuto dell'intenzione virtuosa ha già una sua
determinazione rispetto alla volontà naturale di felicità. Pertanto l'intenzione
virtuosa non è un'opzione trascendentale, che attende determinazioni catego­
riali. I concetti di trascendentale e di categoriale, usati nelle correnti teorie del-
1' opzione fondamentale, sono inadatti a esprimere la dinamica discorsiva della
scelta.
Nell'intenzione virtuosa la volontà va allo scopo virtuoso valutato nella sua
ragione di bontà. Perciò, se si vuole, l'intenzione virtuosa può esser detta
scelta di principio, in quanto si orienta su azioni particolari solo perché il sog­
getto le giudica atte a concretizzare scopi virtuosi. Lo scopo virtuoso è una ra­
gione per scegliere riconosciuta e voluta dal soggetto che a tale scopo intende.
Questa intenzione virtuosa definisce la qualità esistenziale della volontà, confe­
risce alla volontà la sua specificazione morale. 9 Se dunque lo scopo virtuoso
cade sotto scelta, vi cade non in quanto esso è ciò che viene scelto (id quod eli­
gitur) , bensì in quanto è ciò in ragione di cui si sceglie (id cuius gratia eligitur).
Tuttavia la qualifica esistenziale che, nell'intenzione virtuosa, la volontà ri­
ceve dallo scopo virtuoso è ancor solo provvisoria, nel senso che attende di
esser ratificata definitivamente nella scelta particolare, compiuta e circostan­
ziata. Con l'intenzione virtuosa resa possibile dalla virtù morale, una ragione
per agire è attualmente a disposizione del soggetto, ma avvicinandosi alle scelte
concrete essa entra in un campo di battaglia dove vi sono altre ragioni rivali e
concorrenti provenienti dalle passioni. Senza che l'intenzione virtuosa venga re­
vocata, essa può tuttavia esser smentita nella scelta conclusiva, quando in que­
sta il soggetto adotta un intento incompatibile con lo scopo virtuoso. In questo
caso non si dovrà dire che la scelta scorretta è solo un atto periferico e secon­
dario, relativo a dettagli, il quale però non modifica l'adesione di fondo agli
scopi virtuosi e perciò non modifica la qualifica esistenziale della volontà che
proviene da tale adesione. Tale qualifica infatti diventa definitiva e conclusiva
solo se l'intenzione virtuosa è attualmente ratificata nella scelta particolare: è in
questa che si vince o si perde la battaglia. Grazie alla virtù l'intenzione virtuosa
può restare ancora a disposizione del soggetto, ma nella scelta scorretta egli ha
ratificato altre intenzioni ed ha perso la battaglia incorrendo in una colpa. La
gravità della colpa non si misura in base alle buone intenzioni smentite, ma in
base alle cattive intenzioni ratificate.
9 Questo valore specificatore delle ragioni per agire è bene espresso da Ilham DILMAN, Mora­
lity and the Inner Li/e. A Study o/ Plato's «Gorgias», London 1979, 7 : «In the sphere of morality
and religion it is not just what we believe that is important, but also how we believe it; or rather
these two aspects of belief are logically inseparable here. For instance, if someone believes in
God, or in the immorta!ity of the soul, because it helps him to get over his disappointments in
!ife, and if someone else believes in it because he has found a new !ife in giving himself to certain
spiritual vafoes, then they do not believe in the same thing. For what part of oneself one gives to
such a belief determines in part what it is that one believes. If one's relation to the belief is not in­
formed by a spirit of truth, then whatever it is one believes in will Jack any spiritual dimension. In
Socrates' words: One will believe "not philosophically, but self-assertively" » .
La pratica delle virtù 265

( 1 4) L'intenzione virtuosa rappresenta il polo fisso della condotta virtuosa,


ma essa attende di trovare una sua mediazione concreta in azioni circostan­
ziate, che rappresentano il polo mobile della condotta virtuosa. La virtù mo­
rale non è completa finché non è docilità a ricevere dalla saggezza pratica o
prudenza direttive che indichino quale azione concreta nella situazione realizzi
gli scopi virtuosi. Tuttavia la virtù morale stessa contribuisce alla formazione e
all'opera della prudenza.

3. La formazione della prudenza

(1 5) Nel giovane che ha maturato intenzioni virtuose è facile riscontrare


una inettitudine a realizzarle in modo appropriato alle circostanze, in azioni re­
golate secondo il giusto mezzo. Manca ancora il discernimento prudenziale.
Alla sua formazione contribuisce però la stessa intenzione virtuosa. Qua­
lora essa venga assecondata, essa stessa ispira la ragione nel ragionamento pra­
tico in particulari, cioè nella ponderazione delle circostanze e delle alternative
d'azione, nel giudizio circa ciò che è rilevante e circa l'appropriatezza dell'a­
zione, nella scelta concreta, nella definizione d'una direttiva.
In questo campo vastissimo e senza confini la ragion pratica non impara se
non per via di esperienza a capire quali circostanze sono rilevanti e possono in­
tervenire, a valutare la loro incidenza nella realizzazione del vero bene umano,
a prevedere l'incidenza stessa delle proprie azioni. Ora questo tipo di espe­
rienza non è possibile solo sulla base d'una conoscenza in universali degli
ideali virtuosi; occorre che l'attenzione e la vigilanza della ragione siano soste­
nute e ispirate dall'attuale interesse per gli scopi virtuosi, cioè dalle rette inten­
zioni rese possibili dalle virtù morali. Con le rette intenzioni gl'ideali virtuosi
diventano scopi attualmente perseguiti dal soggetto agente e principi effettiva­
mente regolatori dei ragionamenti prudenziali. La prudenza è prudenza pro­
prio in quanto ragiona a esclusivo servizio delle intenzioni virtuose; non è essa
che scopre gli scopi virtuosi, ma essa ragiona a servizio di appetiti che aderi­
scono attualmente agli scopi virtuosi e cerca e stabilisce il giusto mezzo se­
condo cui gli scopi virtuosi han da essere realizzati.
In mancanza d'esperienza, come succede nel giovane, l'intenzione verso gli
scopi virtuosi rende docile la ragione ad osservare gli esempi concreti, vissuti o
letterariamente rappresentati, di persone virtuose; a studiare il rapporto che in
essi vi è tra ideale e circostanze e ad applicarlo analogicamente nella propria si­
tuazione; a chiedere avviso a persone sagge o di esperienza per imparare a com­
piere personalmente l'applicazione di ideali e di norme alle circostanze.
L'attenzione agli esempi, la docilità, la pratica personale, l'esame critico
della propria condotta contribuiscono a formare quell'esperienza che rende
possibile le diverse funzioni della prudenza: la deliberazione, il giudizio,
. la cir-
cospezione, la preveggenza, la precauzione, l'invenzione.
266 Capitolo VII

(1 6) Con la formazione della prudenza, che assegna alle virtù morali il giu­
sto mezzo per la concretizzazione delle intenzioni virtuose in scelte ed in
azioni, anche le virtù morali giungono alla loro perfetta formazione. Il ripetuto
esercizio di scelte che concretizzano le intenzioni virtuose contribuisce a radi­
care sempre più le virtù formate nelle facoltà operative, in modo che queste ri­
sultano sempre più determinate verso la condotta virtuosa, diminuisce la loro
indeterminatezza ed eventualmente la resistenza opposta all'ordine della ra­
gione. Crescendo e radicandosi le virtù apportano facilità all'azione virtuosa,
fermezza e piacevolezza.
Ma le virtù possono crescere solo con il costante esercizio. Qualora il sog­
getto cessi di esercitarle, a poco a poco riprendono vigore le passioni disordi­
nate e le inclinazioni individuali; alla prudenza vengono meno i principi parti­
colari, che sono le intenzioni virtuose, e le scelte risultano sempre più viziate.
Ora la cessazione dell'esercizio delle virtù può esser volontaria, quando il
soggetto sceglie senza far uso delle virtù, oppure involontaria, quando il depe­
rimento organico e psichico, causato dalla vecchiaia o dalla malattia, rende pre­
caria la vigilanza della ragione.
L'esistenza e l'esercizio delle virtù sono pertanto sempre precari in un sog­
getto umano: diminuendo o cessando la vigilanza della ragione prudenziale di­
minuisce il coordinamento delle facoltà operative, riprende l'anarchia. Essendo
un habitus, la virtù sarà sempre perfezione aggiunta alle facoltà operative, e
perfezione che può esser aggiunta solo se intervengono, per sorte felice, circo­
stanze esteriori favorevoli alla sua genesi e alla sua conservazione.

lii. CONDIZIONI ESTERNE PER L'ACQUISIZIONE DELLE VIRTÙ

1 . L'educazione morale

( 1 7) 1) I germi naturali di virtù non possono svilupparsi se non interven­


gono diverse condizioni esterne favorevoli. La crescita morale dell'individuo
umano verso la vita veramente buona presenta le caratteristiche dello sviluppo
d'un essere vivente, nel quale operano congiuntamente robusti principi inte­
riori e fragili condizioni esteriori, sotto la cura d'un coltivatore o d'un alleva­
tore.
Abbiamo visto che la conoscenza m9rale si sviluppa per via di esperienza e
in dipendenza dalle disposizioni affettive. 10 Essa pertanto può esplicitarsi,
chiarirsi, diventare efficace soltanto sotto la cura di educatori che forniscono la
base esperienziale ed il clima affettivo richiesto.
La base esperienziale è fornita da una disciplina che genera buone abitu­
dini. Le buone abitudini non sono virtù, ma consentono la genesi delle virtù

' 0 V. sopra VII 8, 12.


La pratica delle virtù 267

perché impediscono il prevalere di passioni disordinate, inducono a un com­


portamento esteriore corretto sul quale il soggetto può riflettere per venirne a
scoprire le ragioni di bontà.
Il clima affettivo è fornito dalla fiducia e dall'amore degli educatori, che
consentono al soggetto di fare affidamento sui buoni sentimenti e sui buoni de­
sideri e di seguirli nella propria condotta.
Su questa base e in questo clima l'intervento educativo deve diventare
anche esplicito insegnamento morale, l'insegnamento più difficile e delicato.
Esso deve operare su più fronti e in diverse direzioni. Una parenesi saggia e
fine può focalizzare l'attenzione del soggetto verso gli scopi virtuosi, farne per­
cepire la desiderabilità e farli apprendere nella loro specifica diversità; può in­
centivare la calma ponderazione, l'intelligente giudizio, l'inventiva mediante la
presentazione letteraria di azioni umane e di caratteri. La descrizione letteraria
consente un'analisi chiarificatrice dei sentimenti, dei pensieri, delle motiva­
zioni, delle difficoltà che la deliberazione, il giudizio e l'azione comportano;
analisi che non è possibile di fronte all'esempio vissuto fornito da qualche per­
sona. Questo esercita più attrattiva, l'esempio letterariamente descritto favori­
sce di più il discernimento.
Nel contesto della parenesi l'insegnamento morale deve inoltre indicare
azioni concrete che realizzano gl'ideali virtuosi; questo compito può esser ese­
guito fornendo all'educando regole specifiche di condotta; aiutandolo me­
diante il ragionamento e il dialogo a capirne il fondamento; addestrandolo alla
loro applicazione intelligente e appropriata alle circostanze; consigliandolo nei
casi più difficili, ov'egli manchi di esperienza; richiamando la sua attenzione
sulle circostanze rilevanti.
(1 8) 2) Tutti questi compiti dell'educazione alla virtù pongono però un pro­
blema. Sia Hauerwas sia Maclntyre hanno giustamente attirato l'attenzione sul
fatto che la genesi della virtù e l'educazione morale ch'essa richiede non sono
possibili se non in comunità umane unificate da una concezione della vita
buona, da una « visione», da proprie storie che fanno rivivere gli eventi che
hanno fondato la comunità e ne hanno definita l'identità, da una tradizione vi­
vente che mette a confronto gl'ideali tramandati con le nuove situazioni. I di­
versi compiti dell'educazione non possono essere adempiuti se non all'interno
di comunità omogenee.
Una teoria della virtù è dunque solidale d'una teoria dell'educazione mo­
rale in una comunità in cui i membri collaborano per un bene comune, un
ideale di vita buona sulla base d'una visione e d'una tradizione. In ragione di
questa connessione tra virtù e comunità sia Hauerwas sia Maclntyre si trovano
a polemizzare fortemente con l'etica liberale tipica della società moderna e oc­
cidentale. In tale etica infatti si rifiuta esplicitamente la possibilità d'una conce­
zione unificante della vita buona e d'una tradizione. Si parte invece dall'espli­
cita assunzione d'un pluralismo irriducibile di concezioni, di « visioni», di tra­
dizioni e ci si limita a stabilire i confini da assegnare allo spazio di libertà di in-
268 Capitolo VII

dividui e di gruppi, affinché diventino possibili sia questa libertà, sia una paci­
fica convivenza, sia un assetto sociale giusto. L'etica è così ridotta a regole e do­
veri di giustizia in una società di individui e di gruppi che sono liberi di muo­
versi come loro aggrada nello spazio loro assegnato.
Le critiche mosse ad Hauerwas e a Maclntyre vanno per lo più in questa
direzione: si rileva che l'ethos liberale e democratico è un'acquisizione irrinun­
ciabile per una società pluralista e che pertanto è utopico pensare ad una rivi­
viscenza delle virtù, le quali poterono esser coltivate in società più omogenee.
In queste società era possibile che la legge mirasse alla formazione delle virtù;
in una società pluralista e democratica la legge deve abbandonare questo com­
pito e limitarsi a garantire le condizioni d'una libera, pacifica, giusta convi­
venza.
( 1 9) Il problema sorge dal fatto che entrambe le opposte istanze sono giu­
stificate. Con Hauerwas, con Maclntyre e con parecchi altri, sulla scia di Ari­
stotele e di Tommaso d'Aquino, tutto questo studio si è mosso nella direzione
d'una teoria etica massimale; in essa si sostiene un ideale di perfezione e di com­
pimento umano che richiede la formazione di virtù in comunità fortemente
omogenee. D'altra parte è insuperabile il pluralismo delle concezioni di vita e
pertanto è irrinunciabile lethos liberale e democratico.
Mi sembra che una via di soluzione al problema potrebbe trovarsi in que­
sta direzione: è un errore ridurre tutta la morale all'ethos liberale e democra­
tico, abbandonando l'ideale della perfezione umana. D'altra parte proprio l'e­
tica della perfezione umana applicata ad una società pluralista richiede lethos
liberale e democratico, giacché per natura sua la perfezione umana o consiste
in attuazioni eccellenti che sono libere o non esiste affatto. Non è il caso allora
di opporre un'etica della perfezione, della virtù, della comunità a un'etica libe­
rale e democratica. È il caso invece di affermare che l'etica della perfezione
umana si applica diversamente all'interno delle comunità e all'interno della so­
cietà politica. Converrà distinguere nell'unica etica della perfezione umana l'e­
tica comunitaria e l'etica pubblica o politica. Le comunità e la società politica
hanno funzione diversa, ma sempre necessaria, nella realizzazione della perfe­
zione umana; altri sono i doveri della vita privata e comunitaria, altri sono i do­
veri della vita pubblica e politica, ma né la vita politica è indipendente dalla
morale, né la morale si riduce alla morale pubblica e politica.
Sviluppo questa linea di soluzione con alcune considerazioni sulla funzione
delle comunità e della società politica in ordine alla formazione delle virtù e
alla vita virtuosa.

2. La funzione delle comunità

(20) La prima comunità in cui possono realizzarsi le condizioni per la cre­


scita morale e che può svolgere un ruolo fondamentale nell'educazione morale
La pratica delle virtù 269

è la famiglia, in ragione dei membri che la compongono e in ragione dei rap­


porti che intercorrono tra di loro. L'intervento congiunto del padre e della
madre può indurre, mediante la disciplina, nell'educanda le buone abitudini
nel comportamento esteriore che prevengono il disordine delle passioni; la
cura e l'affetto della madre possono sviluppare la sensibilità affettiva verso gl'i­
deali virtuosi; l'intervento autorevole del padre può suscitare l'interesse per il
giudizio e per la decisione personale; la conversazione familiare è la condizione
ideale per addestrare alla riflessione, al ragionamento, all'esame critico prima e
dopo l'azione. La convivenza con fratelli e sorelle può favorire lo sviluppo
delle virtù sociali, dal rispetto dei diritti all'adempimento dei doveri al senso
della collaborazione. 1 1
Ma la famiglia stessa è favorita nella sua coesione e armonia dall' apparte­
nenza a comunità più vaste nelle quali è viva una sviluppata tradizione morale.
Comunità di questo tipo, che possono svolgere una funzione educante per
realizzare l'ideale della vita veramente buona, sono le comunità unificate da
una concezione sapienziale del mondo e da una tradizione vivente, cioè partico­
larmente le comunità di religione. In esse la conoscenza morale può pervenire
al massimo di sviluppo sia quanto alla pratica delle virtù sia quanto al supera­
mento del male morale.
In esse è possibile la tradizione, espressione tipica della conoscenza morale,
in quanto in essa ideali virtuosi permanenti vengono realizzati diversamente se­
condo il cambiamento delle situazioni e la conoscenza degl'ideali e delle loro
realizzazioni viene trasmessa ai membri. In esse è possibile l'autorità, intesa
come prestigio che proviene dall'esperienza e dalla saggezza; e l'autorità è indi­
spensabile per render docile alla verità e sviluppare il senso della verità nell'e­
ducanda. Infine in esse è possibile l'amicizia nella quale i membri, condivi­
dendo un ideale di vita e di perfezione, si aiutano e si sostengono nella vita vir­
tuosa. Nelle comunità possono maturare persone particolarmente riuscite nella
virtù, modelli concreti di vita virtuosa che favoriscono la stima e l'apprezza­
mento per gli ideali virtuosi e suggeriscono vie di saggia realizzazione.
Nelle comunità infine è possibile quella disciplina che protegge e previene I

da cattive esperienze e che costruisce l'ambiente in cui diventa possibile ed ef­
ficace la riflessione morale. !'1

3. La funzione della società politica 11·


!i
'

(21 ) L'ideale di vita veramente buona o si realizza in una condotta libera


I
ì
degl'individui e in un governo libero delle famiglie e delle comunità, o non si

u Per un approfondito studio del ruolo dei diversi membri della famiglia nell'educazione
morale cf. Nel NODDINGS, Caring. A Feminine Approach to Ethics cmd Mora! Education. Berkeley -
Los Angeles - London 1984; Stephan E. MùLLER, Personal-soziale Ent/altung des Gewissens im ]u­
gendalter. Eine moralanthropologische Studie, Mainz 1984.
270 Capitolo VII

realizza affatto. Libero qui significa che le scelte sono fatte in base ad una cono­
scenza morale il cui criterio è esclusivamente la verità pratica. Proprio perché
la vita buona richiede l'indipendenza del giudizio da ogni altro criterio che non
sia la verità, è inevitabile il pluralismo delle concezioni della vita buona, delle
concezioni sapienziali del mondo, delle tradizioni, e quindi il pluralismo delle
comunità.
Lo stesso ideale di vita buona che richiede la libertà di vita in una comu­
nità, richiede anche la libertà delle diverse comunità e la possibilità del libero e
critico confronto tra di esse. Mediante questo confronto ogni comunità ha la
possibilità d'interpretare criticamente la propria tradizione, di rinnovarla, di
correggerla, di adeguarla a nuove situazioni.
Garantire la libera, giusta, pacifica convivenza delle diverse comunità è uno
dei compiti propri della società politica. Lo strumento giuridico con cui essa in­
terviene non ha la possibilità di curare una completa educazione alle virtù.
Questo resta compito delle comunità e delle famiglie. Ma la società politica
deve procurare che questa possibilità ci sia. A tal fine essa interviene con la
legge soprattutto nel campo della giustizia; essa sanziona le più gravi violazioni
della libertà e della giustizia, che comprometterebbero l'esistenza stessa della
società civile e delle comunità. La legge della società politica non ha modo di
educare pienamente alle virtù, ma garantisce l'ordinata convivenza di persone
e di comunità, che è indispensabile all'educazione morale. 12
L'insuperabile pluralismo delle concezioni di vita e delle comunità fa sì che
non si possa più sostenere senza qualifiche la tesi aristotelica che la legge mira
alla formazione delle virtù, almeno la legge della società politica. Tuttavia la
legge non è estranea alle virtù, giacché garantisce le condizioni indispensabili
per la vita delle diverse comunità di virtù.
(22) Con tutto ciò le condizioni esterne per la formazione delle virtù sono
solo limitatamente efficaci, e la loro effettiva presenza rientra in quell' eutychia
che costituisce una categoria fondamentale della felicità in senso inclusivo.13
Ma al di là dell'eutychia la formazione delle virtù dipende dall'insondabile
mistero della collaborazione tra eudokia divina ed eupraxia umana, mistero su
cui la filosofia non può dire alcunché, se non quello che consente di dire la ri­
velazione stessa della grazia divina. Ma proseguire il discorso su questa linea
non è più compito della filosofia cristiana, quale vogliamo esercitare in questa
sede, bensì della teologia d�gmatica.

12
Per un'ampia argomentazione che, criticando Maclntyre, mostra che l'etica richiede sia le
virtù sia lethos liberale della società politica cf. C.E. LARMORE, Patterns o/Mora! Complexity, Cam­
bridge 1987, 22-130.
13 V. sopra I 26a.
CONCLUSIONE

1 . Tratti caratteristici della teoria etica proposta

Nel corso dell'esposizione l'argomentazione ha dovuto far fronte a tale mol­


teplicità di problemi che può esser risultato difficile seguire il filo principale
del discorso. Conviene perciò metterlo in evidenza in una serie ordinata di tesi
che facciano percepire chiaramente i tratti caratteristici della teoria etica che
ho proposto.
a) Per esser adeguata ali' esperienza morale la teoria etica dev'esser cos­
truita secondo il punto di vista della prima persona, cioè del soggetto umano
in quanto autore di condotta nel contesto della situazione pratica originaria;
più precisamente la teoria etica dev'esser costruita come riflessione filosofica
sulla conoscenza pratica che il soggetto mette ali'opera nella propria condotta.
b) L'analisi della condotta, e della conoscenza pratica che la guida, mette in
luce ch'esse hanno il loro principio nella concezione d'uno scopo generale
della condotta e in un naturale desiderio per realizzare tale scopo. L'intelli­
genza e il desiderio dello scopo generale mettono il soggetto in condizione di
determinare lui stesso e liberamente le realizzazioni concrete e circostanziate
dello scopo in scelte ed in azioni.
e) Dal punto di vista pratico lo scopo naturale e generale della condotta
umana è la felicità intesa in senso inclusivo e formale, cioè èome rapporto otti­
male tra soggetto e mondo; della felicità cosi intesa la vita buona costituisce il
versante o la componente soggettiva.
Dal punto di vista pratico integrale, propriamente morale o pienamente ra­
gionevole, lo scopo generale e naturale della condotta è naturalmente conce­
pito e inizialmente determinato come ideale di compimento umano integrale e
di perfezione in Dio, di cui la vita veramente buona, cioè conforme alle richie­
ste di questo ideale, costituisce la componente soggettiva. Tale ideale, con le
sue richieste, si presenta come doveroso e degno per una persona umana.
d) Il soggetto realizza l'ideale di perfezione in un processo delle facoltà ope­
rative che muove da un'iniziale concezione generica dell'ideale, articolata in ri­
chieste generali, e va verso una loro concretizzazione particolare.
e) Poiché il soggetto umano è autore di condotta grazie a facoltà operative
272 Conclusione

diverse, questo processo coinvolge ragione, volontà, passioni, in modo tale che
la concezione della ragione dà la direzione agli appetiti e gli appetiti seguono
la concezione della ragione dal generico al particolare, mirano cioè ad azioni
che la ragione prospetta inizialmente in modo solo generico e poi procede a de­
terminare in modo circostanziato.
/) La concezione generica dell'ideale di perfezione si articola in diverse ri­
chieste, cioè in diversi modi con cui volontà e passioni devono esser regolate
perché i loro moti siano conformi al principio del compimento umano inte­
grale e della perfezione in Dio. Queste richieste sono formulabili in proposi­
zioni pratiche del tipo delle massime, che definiscono altrettanti ideali o scopi
virtuosi ai quali vanno inizialmente corrispondenti inclinazioni degli appetiti,
cioè le virtù morali.
g) La concretizzazione degli scopi virtuosi in scelte ed azioni circostanziate
avviene mediante l'esercizio d'un ragionamento pratico che non è possibile
senza un apposito perfezionamento della ragion pratica, che la rende idonea a
ragionare alle dipendenze delle inclinazioni verso gli scopi virtuosi per cercare
le. vie della loro concretizzazione; è la prudenza o saggezza pratica.
h) In un soggetto come quello umano, segnato dai limiti dell'individua­
zione, né le virtù morali né la prudenza sono capacità naturali, ma costitui­
scono perfezionamenti delle facoltà operative che il soggetto deve acquisire me­
diante l'esercizio.
t) Nel processo di concretizzazione verso scelte corrette la prudenza fa uso
di norme, qualora ve ne siano o siano possibili; ma le applica con intelligenza e
con giudizio. In quest'operazione essa è guidata dalle intenzioni verso gli scopi
virtuosi, fornite dalle virtù morali, ma a sua volta prescrive alle virtù morali il
giusto mezzo secondo cui le intenzioni devono esser realizzate in azioni.
!) Grazie alle virtù mora1i e alla prudenza il soggetto umano è reso idoneo
a compiere scelte eccellenti, cioè scelte che concretizzano ed esemplificano l'i­
deale della vita buona in modo appropriato alle circostanze; in questo modo
egli realizza la componente eudemonica esistenziale della vera felicità, e si
rende idoneo a vivere, e degno di vivere, in un mondo che, per governo di­
vino, realizzi effettivamente tutta la vera felicità.

2. Confronto con altre teorie etiche

Se confrontata con altre, questa figura di etica fa la dovuta accoglienza alle


loro legittime istanze (legittime in quanto fondate sull'esperienza morale), e
cerca di evitare gli opposti riduzionismi.
a) Essa supera l'opposizione tra teleologia e deontologia sia quanto alla fon-
Conclusione 273

dazione dell'etica sia quanto alla fondazione dei giudizi morali. 1 L'etica non è
fondata né su un benessere dell'uomo che prescinda da un intervento norma­
tivo della ragion pratica che distingue vere e false forme di benessere; né su
principi normativi della ragion pratica che prescindano dai beni per l'uomo. Il
principio fondatore è un ideale di vera felicità, nel quale i beni per l'uomo
sono ordinati normativamente dalla ragion pratica sulla base del criterio della
perfezione umana.
A loro volta i giudizi morali concreti non sono fondati né su una valuta­
zione comparativa di beni e mali ontici, provocati dalle conseguenze dell'a­
zione; né su norme che siano sempre e solo assolute. Essi invece sono fondati
su u,n ragionamento prudenziale che osserva le norme assolute, quando ci
sono, e applica con intelligenza e giudizio le norme non assolute; in ogni caso
valuta l'azione non solo in base alle sue conseguenze, bensì anche in base al
suo intento; e valuta intento e conseguenze non dal punto di vista del bene an­
tico maggiore o del male antico minore, bensì dal punto di vista dell'incidenza
ch'esse hanno sull'atteggiamento della volontà verso il compimento umano inte­
grale e la perfezione in Dio.
b) Nemmeno, questa figura di etica, affida la condotta umana esclusiva­
mente alla creatività della ragione umana autonoma, e resa autonoma proprio
da Dio. Invece essa affida la condotta umana ad una ragione pratica che ha
una sua propria natura costituita da Dio creatore e grazie alla quale essa parte­
cipa alla legge eterna in modo da poter essere essa stessa legislatrice sulla base
di questa sua natura. Tale natura consiste nella capacità di apprendere e valu­
tare come beni per l'uomo i fini delle inclinazioni naturali dell'uomo, trasfor­
marli da fini propri in fini dovuti, e dovuti nella misura in cui integrano ordina­
tamente un ideale di perfezione integrale dell'uomo in Dio. È precisamente
verso questo ideale che sono dirette le virtù, e dirette in modo da realizzarlo
così come la prudenza lo definisce concretamente nelle diverse situazioni.2
e) La figura di etica qui tracciata supera il riduzionismo, tipico delle etiche
filosofiche e teologiche moderne, che riduce il problema morale ad una dialet­
tica tra decisioni e norme, tra decisioni e doveri. Essa ritrova il posto della de­
cisione nella più complessa condotta umaria, nella quale operano congiunta­
mente ragione, volontà, passioni; ritrova anche il posto necessario e limitato
delle norme, quali proposizioni pratiche che specificano nei limiti del possibile
gl'ideali virtuosi. Essa inoltre non elimina il dovere a favore d'una spontaneità
che sopprime le scelte, né riduce il dovere ai doveri di altruismo o di giustizia;
invece riconosce la doverosità propria dell'ideale di perfezione e delle sue arti­
colazioni in tutti gl'ideali virtuosi.

1 La distinzione tra fondazione dell'etica e fondazione dei giudizi morali è introdotta da A.


DA RE, L'etica tra felicità e dovere, Bologna 1986, 29-43.
' Le considerazioni delle lettere a) e b) compendiano le tesi dettagliatamente esposte e appro­
fonditamente dimostrate da RHONHEIMER, Natur; questo libro costituisce un completamento omo­
geneo e indispensabile alla teoria etica qui delineata.
274 Conclusione

Questa figura di etica non riduce nemmeno l'autore della condotta ad un


soggetto trascendentale che prende posizione globale in un'opzione fondamen­
tale, in rapporto alla quale le scelte categoriali perdono la loro importanza. In­
vece riconosce che l'autore della condotta, quale appare dall'esperienza mo­
rale, è soggetto complesso e discorsivo d'una condotta polarizzata tra inten­
zioni e scelte, dove le intenzioni danno valore alle scelte e le scelte danno effi­
cacia alle intenzioni nel campo di battaglia.
d) Infine questa figura di etica, proprio perché richiede le virtù per la realiz­
zazione dell'ideale di perfezione umana, che è ideale personale e comunitario,
non riduce la vita morale né solo alla ricerca della perfezione individuale né
solo alla partecipazione alla vita sociale. In quanto addita nella vera felicità un
bene nel quale le persone possono comunicare nella misura in cui crescono le
virtù, essa arricchisce l'amicizia del prezioso contributo d'un' elevata vita perso­
nale e arricchisce la vita personale dell'interesse per il vero bene delle persone
e delle comunità.

3. Rilevanza per la teologia morale

Poiché la figura di etica qui tracciata è esplicitamente espressione di filoso­


fia cristiana, converrà spendere una parola sulla rilevanza ch'essa può avere
per il suo completamento nella teologia morale, della quale essa non costitui­
sce che un preambolo.
Benché il Nuovo Testamento usi assai poco il termine virtù e non lo usi
nel senso della filosofia pagana, tuttavia la parenesi morale del Nuovo Testa­
mento segue più la logica tipica d'un'etica della virtù, che non la logica tipica
d'un' etica della legge. Innanzitutto la parenesi è rivolta a membri d'una comu­
nità per educarli a un genere di vita, cioè a un modo di pensare, di volere, di
sentire affettivamente, oltre che di agire. In ciò essa è simile alla parenesi delle
antiche scuole filosofiche, che erano appunto scuole di vita.3 Ora la parenesi a
un genere di vita non può esprimersi solo nel linguaggio delle regole, ma ri­
chiede il tipico linguaggio delle virtù.
Il linguaggio delle virtù non dà principalmente regole precise di condotta,
ma usa termini che si riferiscono ad atteggiamenti generali, propone esempi e
caratteri mediante parabok o affermazioni paradossali o indicazione di mo­
delli concreti da imitare. È appunto ciò che avviene nei testi evangelici e delle
lettere neotestamentarie: le beatitudini, il discorso della montagna, i cataloghi
di virtù e vizi, le parabole, l'inno alla carità, l'esortazione a imitare Cristo o l'A-

' Cf. i lavori di Abraham J. MALHERBE, Mora! Exhortation. A Greco-Roman Sourcebook, Phi­
ladelphia/PA 1986; Wayne A. MEEKS, The Mora! World o/ the First Christians, Philadelphia/PA
1986; Lewis R. DONELSON, Pseudoepigraphy and Ethical Argument in the Pastora! Epistles, Tiibin­
gen 1986.
Conclusione 275

postolo, ecc., mirano a formare un modo di pensare e di sentire che lascia a


ciascuno il compito di trovare le determinazioni concrete.
Anche l'etica veterotestamentaria è solo in parte un'etica della legge, nella
misura in cui la legge è richiesta per regolare la vita d'un popolo; ma nemmeno
la legge è concepita come rigoroso codice di norme, bensì come insieme di pre­
cetti ideali da applicare con saggia giurisprudenza.4 Vi è inoltre nell'etica vete­
rotestamentaria una fiorente tradizione di etica sapienziale, che mira, più che a
regolare la vita d'un popolo, a formare i membri della comunità a un genere
di vita e a sviluppare in essi un'intelligenza pratica. Essa è ancora operante in
Gesù e in Paolo.5
Il fatto che la parenesi neotestamentaria usi soprattutto il linguaggio tipico
delle virtù e tuttavia usi solo quattro volte il termine areté ha una sua spiéga­
zione. Il Nuovo Testamento non recepisce il concetto pagano di areté come
prestazione massima dell'uomo, ma concepisce la virtù in modo nuovo: la no­
vità consisterebbe nel fatto che la virtù è attribuita innanzitutto a Dio e nel
fatto ch'essa è dono comunicato agli uomini.6 La virtù pagana è impresa
umana; il genere cristiano di vita è impresa di Dio nell'uomo, ma è impresa
che tocca l'interiorità dell'uomo, la rigenera e la rende capace di produrre con
libertà e saggezza le opere buone, le opere delle beatitudini, della carità, dei
frutti dello Spirito Santo. Sotto _la mozione della grazia di Dio l'uomo diventa
autore d'una condotta cristiana.
Stando così le cose, il concetto di virtù appare il più appropriato per co­
struire una teologia della vita morale cristiana. Esso può render conto della fe­
condità della grazia divina nell'uomo autore di condotta: così tutta la vita mo­
rale appare come effetto della grazia divina che opera nelle facoltà umane. Il
concetto di virtù serve inoltre, più che quello di legge, che resta valido, a de­
scrivere gl'ideali che caratterizzano il genere cristiano di vita, continuando nella
direzione della parenesi neotestamentaria. Il concetto di virtù si applica al
modo di pensare, di volere, di sentire affettivamente, e perciò si presta meglio
per indicare da quale interiorità devono scaturire le opere buone prescritte
dalla legge. Infine il concetto di virtù permette di render conto dell'ascesi,
della purificazione, della rettitudine d'intenzione che la vita morale cristiana ri-
·

chiede.
Tramite il concetto di virtù può esser ritrovata l'unità originale della teolo-

4 Cf. Dale PATRICK, Old Testament Law, London 1985.


5 Cf. Eckhard J. SCHNABEL, Law and Wisdom /rom Ben Sira to Paul, Ti.ibingen 1985; J. BLEN­
KINSOPP, Wisdom and Law in the Old Testament. The Ordering o/ Li/e in Israel and Early Ju­
daism, Oxford 1983 ; Derek KIDNER, Wisdom to Live By, Leicester 1985; Ceslas SPICQ, OP, Con­
naissance et morale dans la Bible, Paris - Fribourg 1985; Graeme GOLDSWORTHY, Gospel and Wis­
dom. Israel's Wisdom Literature in the Christian Li/e, Exeter 1987.
6 P. DAUBERCIES, Les avatars de la vertu, in Mélanges de Sciences Religieuses 44 ( 1987)
89-107; la citazione è a p. 103. Tutto l'articolo è uno studio delle metamorfosi del concetto . di
virtù presso gli antichi scrittori pagani, giudaici (Filone) e cristiani.
276 Conclusione

gia morale, al di là della distinzione e della separazione tra teologia morale e


teologia spirituale. Infatti nella teoria della virtù l'attenzione via principalmente
all'atto interiore da cui deriva l'atto esteriore. Ora, se l'atto esteriore d'un cri­
stiano può esser materialmente identico a quello d'un non cristiano, lo speci­
fico della morale cristiana, oltre che in certi atti esteriori, sta principalmente
nell'atto interiore, e questo non può esser descritto se non nel linguaggio delle
virtù. Le virtù cristiane arrivano agli atti esteriori prescritti dalla legge morale
naturale, ma vi arrivano a partire da ragioni eterne, relative al mistero di Dio
rivelato in Cristo. Non si tratta d'una semplice motivazione cristiana aggiunta
ad un'azione prescritta dalla legge naturale; si tratta invece della qualità esisten­
ziale del soggetto agente nell'atto di produrre l'azione richiesta dalla legge natu­
rale. Qui, nelle virtù che s. Tommaso chiama infuse, sia teologali sia morali, è
lo specifico della morale cristiana; è il campo cui si è applicata la teologia spiri­
tuale, ma trascurando che le virtù infuse si esprimono materialmente negli atti
delle virtù umane, relative al bene umano che è personale e comunitario,
quindi anche sociale e politico.
La teoria della virtù si dimostra pertanto la più idonea per render conto
della vita morale cristiana, una splendida possibilità per la teologia morale, sco­
perta e sfruttata a pieno dall'autore della Summa Theologiae e che oggi attende
di essere riscoperta come la più opportuna per rispondere ai problemi del rin­
novamento della teoria etica filosofica e teologica.
BIBLIOGRAFIA

NB. I numeri tra [ ] posti dopo alcuni cognomi si riferiscono alla rassegna di II 4.

ABBA Giuseppe, I «Christian Mora! Principles» di G. Grisez e la «Secunda Pars» della «Summa
Theologiae», in Salesianum 48 ( 1986) 637-680.
-, Lex et virtus. Studi sull'evoluzione della dottrina morale di san Tommaso d'Aquino. Roma, Li­
breria Ateneo Salesiano 1983.
ANGEHRN Emi!, Der Begrtff des Gliicks und die Frage der Ethtk, in Philosophisches ]ahrbuch 92
( 1985) 35-52.
ANSCOMBE [1] G.E.M., Modern Mora! Philosophy, in Philosophy 33 ( 1958) 1 - 19; riprodotto in:
The Collected Philosophical Papers o/ G.E.M. Anscombe. III: Ethics, Religion and Politics.
Oxford, Basi! Blackwell 1981 , 26-42.
ARDAGH D.W., Aquinas on Happiness. A Defence, in The New Scholasticism 53 ( 1979) 428-459.
ARISTOTELE, Etica Nicomachea. Introduzione, traduzione e parafrasi di Claudio Mazzarelli. Mi­
lano, Rusconi 1979.

BARBOUR John D., Tragedy as a Critique o/ Virtue. Nove! and Ethical Re/lection. Chico/Cal., Scho­
lars Press 1984.
BARON [34] Marcia, The Alleged Mora! Repugnance o/ Acting /rom Duty, in The ]ournal o/ Philo­
sophy 8 1 ( 1984) 197-220.
- [33], On De-Kantianizing the Per/ectly Mora! Person, in The ]ournal o/ Value Inquiry 17 ( 1983)
281-293.
- [35], Varieties o/ Ethics o/ Virtue, in American Philosophical Quarterly 22 ( 1985) 47-53.
BEAUCHAMP [ 40] Tom L., What's so Special About the Virtues, in SHELP [72] 307-327.
BECKER Ernest, Il rifiuto della morte. Versione dall'inglese di Giacomo Gastone. Roma, Edizioni
Paoline 1982.
BECKER [4] Lawrence C., The Neglect o/ Virtue, in Ethics 85 ( 1975) 1 10- 122.
-, Reciprocity. London - New York, Routledge and Kegan Paul 1986.
BEEHLER [32] Rodger, Critica! Notice o/ Philippa Foot, « Virtues and Vices» and ]ames D. Wallace,
«Virtues and Vices», in Canadian Journal o/ Philosophy 13 ( 1983) 262-264.
BEIERWALTES Werner, Regio beatitudinis. Zu Augustins Begrif/ des gliicklichen Lebens. Heidelberg,
Universitatsverlag Cari Winter 198 1 .
VAN DEN BELO A . , Ethics and Virtue in Mac!ntyres's «A/ter Virtue», in Nederlands Theologisch
Ttjdschrt/t 37 ( 1983) 136-149.
BELMANS Theo G., O. Praem., Le sens objecttf de l'agir humain. Pour relire la morale conjugale de
Saint Thomas. Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana 1980.
BERTOCCI [ 43] Peter A. - Richard M. MILLARD, Personality and the Good. Psychological and Ethi­
cal Perspectives. New York, David McKay Co. 1963.
BIEN Giinther (Hg.), Die Frage nach dem< Gliick. Stuttgart - Bad Canstatt, Frommann-Holzboog
1978.
Brzzorro Mario, La rinascita dell'etica. Ethos, valori e doveri nel contesto della cultura contempora­
nea. Leumann (Torino) , Elle Di Ci 1987.
BLENKINSOPP J., Wisdom and Law in the Old Testament. The Ordering o/ Ltfe in Israel and Early
]udaism. Oxford, Oxford University Press 1983.
278 Bibliografia

BoND E.J., Reason and Value, Cambridge, Cambridge University Press 1983.
BONDI Richard, The Elements of Character, in The ]ournal of Religious Ethics 1 1 ( 1984) 201-2 18.
BOYLE Joseph M., Jr., Mora! Reasoning and Mora! ]udgment, in Proceedings of the Amer. Cath.
Philos. Assoc. 58 ( 1984) 37-49.
BRANDT [79] R.B., Traits of Character. A Conceptual Analysis, in American Philosophical Quar­
terly 7 ( 1970) 23-37.
BUCKLEY ]., SM, Man's Last End. St. Louis, Herder 1949.

CAPUTO John D., Commentary: To Professor Boy/e Prudential Insight and Mora! Reasoning, in Pro­
ceedings of the Amer. Cath. Philos. Assoc. 58 ( 1984) 50-55.
CARNEY [26) Frederick, The Virtue-Obligation Controversy, in The ]ournal of Religious Ethics 1
( 1973) 5 - 19.
CLARK Stephen R.L., Morals, Moore, and Maclntyre in Inquiry 26 ( 1983) 425-445.
CROSSIN John W., OSFS, What Are They Saying About Virtue?. New York, Paulist 1985.

DA RE Antonio, L'etica tra felicità e dovere. L'attuale dibattito sulla filosofia pratica. Bologna, EDB
1986.
DAUBERCIES P., Les avatars de la vertu, in Mélanges de Sciences Religieuses 44 ( 1987) 89-107.
DAVIS Wayne, A Theory of Happiness, in American Philosophical Quarterly 18 ( 198 1 ) 1 1 1 - 120.
DEL BOCA Susanna, Kant e i moralisti tedeschi. Wolff, Baumgarten, Crusius. Napoli, L. Loffredo
1937.
DEN UYL Douglas - Tibor R. MACHAN, Recent Work on the Concept of Happiness, in American
Philosophical Quarterly 20 ( 1983) 1 15- 134.
DENT [82] N.J.H., The Mora! Psychology of the Virtues. Cambridge, Cambridge University Press
1984.
DIAZ Carlos, Eudaimonia. La felicidad como utopia necesaria. Madrid, Encuentro Ediciones 1987.
DILMAN Ilham, Morality and the Inner Li/e. A Study in Plato's «Gorgias». London, Macmillan
1979.
DINAN Stephen A., The Particularity of Mora! Knowledge, in The Thomist 50 ( 1986) 66-84.
DONELSON Lewis R., Pseudoepigraphy and Ethical Argument in the Pastora! Epistles. Tiibingen,
].C.B. Mohr (Paul Siebeck) 1986.
DOUGHERTY ]ude P. (ed.), The Good Li/e and Its Pursuit. New York, Paragon House 1984.
DREXLER Hans, Begegnungen mit der Wertethik. Gottingen, Vandenhoeck und Ruprecht 1978.
DYCK [27) Arthur ]., A Uni/ied Theory of Virtue and Obligation, in The ]ournal of Religious
Ethics 1 ( 1973) 37-52.

Ero [63] Volker, Tugend als Werthaltung, in Humanum. Moraltheologie im Dienst des Menschen,
hrsg. von Johannes Griindel - Fritz Rauh - Volker Eid. Diisseldorf, Patmos 1972, 66-83.
ENDRES [25] Josef, Tugend im Widerspruch, in Theologie der Gegenwart 26 ( 1983) 1 16-126.
ENGELHARDT Paulus (Hg.), Gluck und geglucktes Leben. Philosophische und theologische Untersu­
chungen zur Bestimmung des Lebenszieles. Mainz, Matthias-Griinewald-Verlag 1985.
EVANS [74] Donald, Struggle and Fulfillment. The Inner Dynamics of Religion and Morality. Phila­
delphia/PA, Fortress Press 198 1.
EWIN [50) R.E., Cooperation and Human Values. A Study of Mora! Reasoning. Brighton/Sussex,
The Harvester Press 1981 .

FELDMAN Susan, Objectivity, Pluralism and Relativism. A Critique of Maclntyre's Theory of Virtue,
in The Southern ]ournal of Philosophy 24 ( 1986) 307-320.
DE FINANCE Joseph, SJ, Devoir et amour, in Gregorianum 64 ( 1983) 243-272.
FINNIS John, Fundamentals of Ethics. Oxford, Clarendon Press 1983.
-, Natural Law and Natural Rights. Oxford, Clarendon Press 1980.
-, Practical Reasoning, Human Goods and the End ofMan, in New Blackfriars 66 ( 1985) 438-45 1 ;
in Proceedings of the Amer. Cath. Philos. Assoc. 5 8 ( 1984) 23-36.
Bibliografia 279

FISCHER Norbert, Tugend und Gluckselt'gkez't. Zu ihrem Verhiiltnis bei Aristoteles und Kant, in
Kant-Studien 74 ( 1983) 1 -2 1.
FLEMMING [3 1 ] Arthur, Reviving the Virtues, in Ethics 90 ( 1980) 587-595.
FLETCHER ]oseph, Situation Ethics. The New Morality. Philadelphia, Westminster Press 1966.
FoOT [9] Philippa, Utilitarianism and the Virtues, in Mind 94 ( 1985) 196-209.
- [7], Virtues and Vices and Other Essays in Mora! Philosophy. Berkeley, University of California
Press 1978; Oxford, Basil Blackwell 1978, ppb 1981.
- [8], William Frankena's Carus Lectures, in The Monist 64 ( 1981) 305-3 12.
FORSCHNER Maximilian, Epikurs Theorie des Glucks, in Zeitschri/t /ur philosophische Forschung 36
( 1982) 169-188.
FRANKENA [45] William Klaas, Ethics. Englewood Cliffs/NJ, Prentice-Hall 1963, 2 1973; Etica.
Un'introduzione alla filosofia morale. Traduzione dall'inglese di Maurizio Mori. Milanp, Edi­
zioni di Comunità 198 1 .
- [28], The Ethics o/ Love Conceived as an Ethics o/ Virtue, in The ]ournal o/ Religious Ethics 1
( 1973) 2 1-36.
- [29], Conversations with Carney and Hauerwas, in The ]ournal o/ Religious Ethics 3 ( 1975) 45-
62.
- [44], Prichard and the Ethics o/ Virtue. Notes on a Footnote, in The Monist 54 ( 1970) 1 - 17; ri­
prodotto in K.E. GoODPASTER (ed.), Perspectives on Morality. Essays by William K. Frankena.
Notre Dame - London, University of Notre Dame Press 1976, 148- 160.
FREEMAN [48] Eugen (ed.), Virtue and Mora! Goodness, in The Monist 54 ( 1970) n. 1 .
FREISING Wolfgang, Kritische Philosophie und Gluckseligkeit. Kants Auseinandersetzung mit dem
Eudiimonismus seiner Zeit. Li.ineburg, Schmidt-Neubauer 1983.
FREYTAG Heinz Helmuth, Gluck und hochster Wert. Widerspruch und Ausgleich. Sankt Augustin,
Richarz 1982.
FRIEDMAN R.Z., Virtue and Happiness. Kant and the Three Critics, in Canadian ]ournal o/ Philo­
sophy 1 1 ( 1981) 95- 1 10.

GAITA Raimond, Virtues, Human Good, and the Unity o/ a Li/e, in Inquiry 26 ( 1983) 407-424.
GALLI Alberto, Morale della legge e morale della spontaneità, in Sacra Doctrina 19 ( 1974) 457-497.
-, L'opzione fondamentale, in Sacra Doctrina 28 ( 1983) 46-66.
-, L'opzione fondamentale esistenzialistica e il peccato, in Sacra Doctrina 30 ( 1985) 213-239.
GARCfA ALONSO Maria de la Luz, Sobre las virtudes morales, in Sapientia 35 ( 1980) 455-472.
GATTI Guido, Il dualismo obbligazione-inclinazione in teologia morale, in Salesianum 48 (1986) 8 15-
867.
GAUTHIER René Antoine - Jean Yves ]OLIF, L'Ethique à Nicomaque. I, 1 : Introduction, par René
Antoine GAUTHIER; I, 2 : Traduction; II, 1-2: Commentaire. Louvain, Publications Universitai-
.
res - Paris, Béatrice-Nauwelaerts 1 1958-59, ' 1970-7 1 .
GEACH [64] P.T., The Virtues. New York, Cambridge University Press 1977.
GERT [46] Bernard, The Mora! Rules. A New Rational Foundation /or Morality. New York, Har­
per and Row 1966; Die moralischen Regeln. Bine neue rationale Begrundung der Mora!. Ùber­
setzt van Walter Rosenthal. Frankfurt/M, Suhrkamp 1983.
- [ 47], Virtue and Vice, in SHELP [72] 95- 1 09.
GEWIRTH Alan, Rights and Virtues, in Review o/ Metaphysics 38 ( 1984-85) 739-762.
GILLET Marce!, L'homme et sa structure. Essai sur !es valeurs morales. Paris, Téqui 1978.
GLEIXNER Hans, Das neuerwachte Interesse an der Tugend aus theologischer Sicht, in Zeitschrrft /ur
katholische Theologie 108 ( 1986) 255-265.
GOFFI [61] Tullo - Giannino PIANA, Il vissuto personale virtuoso, in ID . (a cura), Corso di morale.
Il: Diakonia (Etica della persona). Brescia, Queriniana 1983, 9-56.
GOLDSWORTHY Graeme, Gospel and Wisdom. Israel's Wisdom Literature in the Christian Lrfe. Exe­
ter, The Paternoster Press 1987.
GRESHAKE Gisbert, Gluck oder Heil, in Christlicher Glaube in moderner Gesellschaft. Teilband 9.
Freiburg - Base! - Wien, Herder 198 1, 101- 146; riprodotto in ID., Gottes Heil - Gluck des Men­
schen. Theologische Perspektiven. Freiburg - Base! - Wien, Herder 1983, 159-206.
280 Bibliografia

GRISEZ Germain, Man, The Natural End o/, in New Catholic Encyclopedia IX ( 1967) 133- 138.
[62], The Way of the Lord ]esus. I: Christian Mora! Principles. Chicago, Franciscan Herald
Press 1983 .
GRISEZ Germain - Joseph BOYLE - John FINNIS, Practical Principles, Mora! Truth, and Ultimate
Ends, in The American ]ournal o/]urisprudence 32 ( 1987) 99-15 1 .
GRISEZ Germain - Russe! SHAW, Beyond the New Morality. The Responsibilities of Freedom. 2 d re­
vised edition. Notre Dame - London, University of Notre Dame Press 1980.
GùNTHOR Anselm, Chiamata e risposta. Una nuova teologia morale. I: Morale generale. Alba, Edi-
zioni Paoline 1974.
GUSTAFSON [53] James M., Can Ethics Be Christian? Chicago, University of Chicago Press 1975.
- [5 1], Christ and the Mora! Ltfe. New York, Harper and Row 1968.
- [52], Christian Ethics and the Community. Philadelphia, Pilgrim Press 197 1 .

HALLETT Garth L., Christian Mora! Reasoning. A n Analytic Guide. Notre Dame/IN, University of
Notre Dame Press 1983.
HAMPSHIRE Stuart, Morality and Conf!ict. Oxford, Basi! Blackwell 1983.
Handbuch der christlichen Ethik. Freiburg - Base! - Wien, Herder I Giitersloh, Gi.itersloher Verlags­
haus Gerd Mohn 1978-1982.
HA.RING [60] Bernhard, Liberi e fedeli in Cristo. Teologia morale per preti e laici. I: Cristo ci ha libe­
rati perché restassimo liberi (Gal 5, 1). Roma, Edizioni Paoline 1979.
HAUERWAS [ 17] Stanley, Character and the Christian Li/e. A Study in Theological Ethics. San Anto­
nio/Tex, Trinity University Press 1975.
- [ 19], A Community of Character. Toward a Constructive Christian Socia! Ethics. Notre Da­
me/IN, University of Notre Dame Press 198 1 .
- [ 18], Obligation and Virtue Once More, in The ]ournal of Religious Ethics 3 ( 1975) 27-44; ripro­
dotto in S. HAUERWAS - Richard BONO! - David B. BURRELL, Truthfulness and Tragedy. Fur­
ther Investigations in Christian Ethics. Notre Dame - London, University of Notre Dame
Press 1977, 40-56.
- [2 1], On Medicine and Virtue. A Response, in SHELP [72] 347-355.
- [20] , The Peaceable Kingdom. A Primer in Christian Ethics. London, SCM Press 1984.
- [15], Toward an Ethics of Character, in Theological Studies 33 (1972) 698-7 15 ; riprodotto in Io.
[16], Vision and Virtue 48-67.
- [22] , Virtue, in Kenneth VAUX (ed.), Powers That Make Us Human. The Foundations of Medi­
ca! Ethics. Urbana - Chicago, University of Illinois Press 1985, 1 17- 140.
- [16], Vision and Virtue. Essays in Christian Ethical Ref!exion. Notre Dame/IN, Fides/Claretian
1974.
HAWKESWORTH [87] M.E., Freedom and Virtue. The Covert . Connection, in Cogito 2 (1984)
73- 106.
HEIL [88] John, Thoughts on the Virtues, in The ]ournal of Value Inquiry 19 ( 1985) 27-34.
HEMTRICH Giinther, Ermutigung zum Gliick: 7 klassische Modelle gliicklich zu leben von Buddha
bis Hegel. Freiburg - Base! - Wien, Herder 1979.
HENLE Robert, SJ, Prudence and Insight in Mora! and Legai Decision, in Proceedings of the Amer.
Cath. Philos. Ass. 56 ( 1982) 26-30.
HERMS [23] Eilert, Virtue: A Negle.cted Concept in Protestant Ethics, in Scottish Journal of Theo­
logy 35 (1983) 481-495.
HIBBS Thomas S., Principles and Prudence. The Aristotelianism ofThomas's Account ofMora! Know­
ledge, in The New Scholasticism 61 (1987) 27 1-284.
HINSKE Norbert, Lebenserfahrung und Philosophie. Stuttgart - Bad Canstatt, Frommann - Holz­
boog 1986.
HbFFE Otfried, Introduction à la philosophie pratique de Kant. La morale, le droit et la religion. Al­
beuve/Suisse, Editions Castella 1985.
-, Strategien der Humanitat. Zur Ethik offent!icher Entscheidungsprozesse. Freiburg i.Br., Karl
Alber 1975.
HOHLER Gertrud, Das Gliick. Analyse einer Sehnsucht. Diisseldorf Wien, Econ-Verlag 198 1 .
-
Bibliografia 281

HUDSON [86] Stephen D., Character Traits and Desires, in Ethics 90 ( 1980) 539-549.
-, Human Character and Morality. Re/lections /rom the History o/ Ideas. London, Routledge and
Kegan Paul 1986.
- [66], Taking Virtues Seriously, in Australasian Journal o/ Philosophy 59 ( 1981) 189-202.
HuNT [83] Lester, Character and Thought, in American Philosophical Quarterly 15 ( 1978)
177- 186.
HUTCHINSON D.S., The Virtues o/ Aristotle. London, Routledge and Kegan Paul 1986.

ISAACS David, La educaci6n de las virtudes humanas. Pamplona, EUNSA 1980; L'educazione delle
qualità umane. Traduzione di Maria Cristina Varvaro. Firenze, Le Monnier 198 1 .

]ACKSON [84] Jennifer, Virtues with Reason, i n Philosophy 53 ( 1978) 229-246.

KAMLAH Wilhelm, Philosophische Anthropologie. Sprachanalytische Grundlegung und Ethik. Mann­


heim Wien - Zi.irich, Bibliographisches lnstitut 1973.
·

KANT lmmanuel, Fondazione della metafisica dei costumi Critica della ragion pratica. A cura di
·

Vittorio Mathieu. Milano, Rusconi 1982.


KAULBACH Friedrich, Ein/uhrung in die Philosophie des Handelns. Darmstadt, Wissenschaftliche
Buchgesellschaft 1982.
KEKES John, Happiness, in Mind 91 ( 1982) 358-376.
KIDNER Derek, Wisdom to Live By. Leicester, Inter Varsity Press 1985.
KORFF Wilhelm, Wie kann der Mensch glucken? Perspektiven der Ethtk. Mi.inchen Zi.irich, Piper
·

1985.
KRMIER Hans, Antike und moderne Ethtk?, in Zeitschrift /ur Theologie und Kirche 80 ( 1983) 184-
203.
-, Nuove vie dell'etica filosofica, in Filosofia 36 ( 1985) 135- 148.
-, Pladoyer /ur eine Rehabilitierung der Individualethik. Amsterdam, B.R. Gruner Pu.Co. 1983.
-, Prolegomena zu einer Kategorienlehre des richtigen Lebens, in Philosophisches Jahrbuch 83
( 1 976) 7 1-97.
-, Selbstverwirklichung, in G. BIEN (Hg.), Die Frage nach dem Gluck. Stuttgart Bad Canstatt,
·

Frommann - Holzboog 1978, 2 1 -44.


-, Zum Problem einer hedonistischen Ethik, in Allgemeine Zeitschrift /ur Philosophie 9 ( 1984) 1 1 -
30.
KRAuT Richard, Two Conceptions o/ Happiness, in Philosophical Review 88 ( 1979) 167-197.
KRUSCHWITZ Robert B. Robert C. ROBERTS, The Virtues. Contemporary Essays on Mora! Charac­
·

ter. Florence/Kentucky, Wadsworth Pu.Co. 1986.

LANGAN ]., SJ, Beatitude and Mora! Law in St. Thomas, in The Journal o/ Religious Ethics 5 ( 1977)
183- 195.
LARMORE Charles E., Patterns o/ Mora! Complexity. New York, Cambridge University Press
1987.
LARRANETA OLLETA Rafael, Una mora! de /elicidad, Salamanca, Editoria! San Esteban 1979.
VAN LEEUWEN Mary Stuart, The Person in Psychology. A Contemporary Christian Appraisal. Leice­
ster, Inter Varsity Press 1985.
LOBKOWICZ [ 12] Nikolaus, La filosofia pratica come dottrina della virtù. Tentativo per una riabilita­
zione, in La Nottola 2 ( 1983) 5-22.
LOMBARDI VALLAURI Luigi, Corso difilosofia del diritto. Padova, Cedam 198 1 .
LOUDEN [36] Robert B . , On Some Vices o/ Virtue Ethics, in American Philosophical Quarterly 2 1
( 1984) 227-236.

McDOWELL [85] John, Virtue and Reason, in The Monist 62 ( 1979) 33 1 -350.
MACINTYRE [ 10] Alasdair, A/ter Virtue. A Study in Mora! Theory. Notre Dame/IN, University of
Notre Dame Press 198 1, 2 1984.
-, After Virtue and Marxism. A Response to Warto/sky, in lnquiry 27 ( 1984) 25 1 -254.
282 Bibliografia

-, Intelligibility, Goods and Rules, in The ]ournal o/ Philosophy 79 ( 1982) 663-665.


-, Mora! Rationality, Tradition, and Aristotle. A Reply to Onora O'Neill, Raimond Gaita, and Ste-
phen R.L. Clark, in lnquiry 26 ( 1983) 447-466.
MAclNTYRE Alasdair - Stanley HAUERWAS (eds.) [ 1 1) , Revisions. Changing Perspectives in Mora!
Philo�ophy. Notte Dame - London, University of Notre Dame Press 1983.
MALHERBE Abraham J., Mora! Exhortation. A Greco-Roman Sourcebook. Philadelphia/PA, The
Westminster Press 1986.
MANUEL Frank E. - Fritzie P. MANUEL, Utopian Thought in the Western World. Cambridge/Mas­
sachussets, The Belknap Press of Harvard University Press 1979.
MARITAIN Jacques, La philosophie morale. Examen historique et critique des grands systèmes. Paris,
Gallimard 1960.
MAY Rollo, L'uomo alla ricerca di sé. Come far fronte all'insicurezza di questo nostro tempo e tro­
vare un centro di forza in noi stessi. Traduzione di Lella Magnano. Roma, Casa Editrice Astro­
labio - Ubaldini Editore 1983.
MEEKS Wayne A., The Mora! World o/ the First Christians. Philadelphia/PA, The Westminster
Press 1986.
MEILAENDER [75) Gilbert C., The Theory and Practice o/ Virtue. Notre Dame/IN, University of
Notre Dame Press 1984.
- [77), Virtue in Contemporary Religious Thought, in NEUHAUS [73) 7-29.
- [76), The Virtues. A Theological Analysis, in SHELP [72) 15 1 - 1 7 1 .
MELINA Livio, La conoscenza morale. Spunti di riflessione sul Commento di san Tommaso all'Etica
Nicomachea. Roma, Città Nuova 1987.
MONASTERIO Xavier O., On Maclntyre, Rationality, and Dramatic Space, in Proceedings o/ the
Amer. Cath. Philos. Assoc. 58 ( 1 984) 150-164.
MONTOYA SAENZ ]osé, A proposito del «After Virtue» de A. Maclntyre, in Revista de Filosofia 6
( 1983) 3 15-32 1 .
MORI Maurizio, Recenti sviluppi sulla filosofia pratica di lingua inglese, i n Rivista di Filosofia 7 1
( 1980) 139- 156.
MOLLER Stephan E., Personal-soziale Ent/altung des Gewissens im ]ugendalter. Eine moralanthropo-
logische Studie. Mainz, Matthias Griinewald 1984.
DE MURALT André, Kant, le dernier occamien. Une nouvelle définition de la philosophie moderne, in
Revue de Métaphysique et de Morale ( 1975) 32-53.
MURDOCH [2] Iris, The Sovereignity o/ Good. New York, Schocken Books 1970.
Mouw Richard J., Alasdair Maclntyre on Reformation Ethics, in The ]ournal o/ Religious Ethics 13
( 1985) 243-257.

NELSON Daniel M., Kart Rahner's Existential Ethics. A Critique Based on St. Thomas' Understand­
ing o/ Prudence, in The Thomist 5 (( 1987) 46 1-479.
NEUHAUS [73] R.J. (ed.), Virtue. Public and Private. Grand Rapids/Michigan, William B. Eerd­
mans 1986.
NIELSEN Kai, Critique o/ Pure Virtue. Animadversions on a Virtue-Based Ethics, in SHELP [72] 133-
150.
NODDINGS Nel, Caring. A Feminine A.pproach to Ethics and Mora! Education. Berkeley - Los Ange­
les - London, University of California Press 1984.
NozrcK Robert, Anarchy, State and Utopia. New York, Basic Books 1974.
NuSSBAUM Martha G., The Fragility o/ Goodness. Luck and Ethics in Greek Tragedy and Philo­
sophy. Cambridge, Cambridge University Press 1986.

O'CONNOR Daniel, Kant's Conception o/ Happiness, in The ]ournal o/ Value lnquiry 16 ( 1982) 189-
206.
O'NEIL Onora Nell, Kant After Virtue, in Inquiry 26 ( 1983) 387-405.
OPPENHEIMER Helen, The Hope o/ Happiness. A Sketch /or a Christian Humanism. London, SCM
Press 1983.
Bibliografia 283

OUTKA [55] Gene, Agape. An Ethical Analysis. New Haven - London, Yale University Press
1972.
- [54], Character, Conduct, and the Love Commandment, in Gene H. OUTKA - Pal,11 RAMSEY
(eds.), Norm and Context in Christian Ethics. New York, Charles Scribner's Sons 1968.
OWENS Joseph, CSsR, Human Destiny. Some Problems /or Catholic Philosophy. Washington D.C.,
The Catholic University of America Press 1985.

PATRICK Dale, Old Testament Law. London, SCM Press 1985.


PENCE Gregory E., Recent Work on Virtues, in American Philosophical Quarterly 21 ( 1984)
28 1-297.
PESCHKE [58] C. Henry, Christian Ethics. I: A Presentation of Genera! Mora! Theology in the
Light of Vatican II. Alcester - Dublin, Goodliffe Neale 2 1977; Etica cristiana. I: Teologia mo­
rale generale. Traduzione di Romeo Fabbri. Roma, Urbaniana University Press 1986.
PINCKAERS Servais (Th.), OP, Habitude et Habitus, in Dictionnaire de Spiritualité VII (Paris
1969) 2- 1 1 .
-, La question des actes intrinsèquement mauvais et le «proportionnalisme», in Revue Thomiste 84
( 1984) 6 18-624; riprodotto in Io., Ce qu'on ne peut jamais /aire. La question des actes intrinsè­
quement mauvais. Histoire et discussion. Fribourg/Suisse, Editions Universitaires - Paris, Edi­
tions du Cerf 1986, 67- 101.
-, Saint Thomas d'Aquin. La Somme Théologique. Les actes humains. I: la-2", Questions 6-17;
II: la-2", Questions 18-2 1 . Paris - Tournai - Rome, Desclée 1962 -1966.
-, Les sources de la morale chrétienne. Sa méthode, son contenu, son histoire. Fribourg/Suisse,
' Edi-
tions Universitaires - Paris, Editions du Cerf 1985.
-, La vertu est toute autre chose qu'une habitude, in Nouvelle Revue Théologique 82 ( 1960)
387-403; riprodotto in Io., Le renouveau de la morale. Tournai, Casterman 1964, 144-164;
repr. offset Paris, Téqui 1979.
PINCOFFS Edmund L., Quandaries and Virtues. Against Reductivism in Ethics. Lawrence/KS, Uni­
versity Press of Kansas 1986.
- [3] , Quandary Ethics, in Mind 80 ( 1971) 552-5 7 1 ; riprodotto in Revisions [ 1 1] 92- 1 12.
PLEINES Ji.irgen-Eckardt, Eudaimonia zwischen Kant und Aristate/es. Gliickseligkeit als bochstes
Gut menschlichen Handelns. Wi.irzburg, Verlag Konigshausen und Neumann 1984.

QUARELLO [56] Eraldo, L'amore e il peccato. Affermazione e negazione dell'uomo. Bologna, EDB
197 1 .
QUONIAM Théodore, Bonheur et salut. Un combat pour la conquéte de l'étre. Paris, ]osé Millas­
Martin 1979.

RAHNER Karl, Ober die Frage einerformalen Existenzialethik, in Io., Schriften zur Theologie, II. Ein­
siedeln - Zi.irich - Koln, Benziger Verlag 1962, 227-246.
RHONHEIMER Martin, Natur als Grundlage der Mora!. Die personale Struktur des Naturgesetzes bei
Thomas van Aquin: eine Auseinandersetzung mit autonomer und teleologischer Ethik. Inns­
bruck - Wien, Tyrolia-Verlag 1987.
RrCKEN [ 13 ] Friedo, SJ, Kann die Moralphilosophie auf die Frage nach dem «Ethischen» verzich­
ten?, in Theologie und Philosophie 59 ( 1984) 161-177.
RrsT John M., Human Value. A Study in Ancient Phtlosopfncal Ethics. Leiden, Brill 1982�
ROBBINS ]. Wesley, Professor Frankena on Distinguishing an Ethics o/ Virtue /rom an Ethics of
Duty, in The Journal o/ Religious Ethics 4 ( 1976) 57-62.
ROBINS Michael H., Promising, Intending and Mora! Autonomy. Cambridge, Cambridge University
Press 1984.
RooEs Robert E., Jr., On Law and Virtue, in NEUHAUS [73] 30-42. .
Rè'.>HRBEIN Helmut, Der Himmel aufErden. Pladoyer fiir eine Theologie des Gliicks. Frankfurt/a.M,
Knecht 1978.
Ross Steven L., Practice ( + Narrative Unity + Mora! Traditions) Makes Perfect: Alistair Mac!nty­
re's «After Virtue», in The Journal of Value Inquiry 19 ( 1985) 13-26.
284 Bibliografia

Ross William Davis, Foundations o/ Ethics. The G1/ford Lectures Delivered in the University o/
Aberdeen, 1 935-36. Oxford, Clarendon Press 1939.
ROTENSTREICH Nathan, Practice and Realization. Studies in Kant's Mora! Philosophy. The Hague,
Martinus Nijhoff 1979.
DE ROTON Placide, Les habitus. Leur caractère spirituel. Paris, Labergerie 1934.
ROUSSEAU Félicien, La croissance solidaire des droits de l'homme. Un retour aux sources de l'éthz�
que. Tournai, Desclée - Montréal, Bellarmin 1982.

SCHENCK [30] David, Jr., Re-casting the «Ethics o/ Virtue I Ethics o/ Duty Debate», in The ]ournal
o/ Religious Ethics 4 ( 1976) 269-286.
ScHERER Donald, The Human Quest /or the Good Li/e, in International ]ournal o/ Applied Philo­
sophy 2 ( 1984-85) 97-107.
SCHMITZ [24] Philipp, SJ, Tugend - der alte und der neue Weg zur inhaltlichen Bestimmung des sitt­
lich richtigen Verhaltens, in Theologie und Philosophie 54 ( 1979) 161- 182; ripreso in ID.,
Menschsein und sittliches Handeln. Vernachliissigte Begri/fe in der Moraltheologie. Wiirzburg,
Echter 1980, 107-132.
ScHMUCKER Joseph, Die Ursprunge der Eth1k Kants in seinen vorkritischen Schrzften und Re/lexio­
nen. Meisenheim am Gian, Verlag Anton Heim 1961.
SCHNABEL Eckhard J., Law and Wisdom /rom Ben Sira to Paul. Tiibingen, J.C.B. Mohr (Paul Sie­
beck) 1985.
SCHNEEWIND J.B., Mora! Crisis and the History o/ Ethics, in Midwest Studies in Philosophy 8
( 1983) 525-539.
-, Virtue, Narrative, and Community. Maclntyre and Morality, in The Journal o/ Philosophy 79
( 1982) 653-664.
SCHNEIDER Ursula, Grundzuge einer Philosophie des Glucks bei Nietzsche. Berlin - New York, Wal­
ter de Gruyter 1983.
SCHNEIDER Wolf, Gluck, was ist das? Traum und Wirklichkeit. Miinchen - Ziirich, Piper 1978.
ScHOCKENHOFF Eberhard, Bonum hominis. Die anthropologischen und theologischen Grundlagen
der Tugendethik des Thomas van Aquin. Mainz, Matthias-Griinewald-Verlag 1987.
SCHOTTLAENDER [67] Rudolf, Die Tugendpragmatik im ethischen Relationsgefuge, in Philosophi­
sches Jahrbuch 90 ( 1983) 246-257.
SCHULLER Bruno, Der menschliche Mensch. Aufsiitze zur Metaethik und zur Sprache der Mora!. Diis­
seldorf, Patmos 1982.
- [38] , Die vermi/Sten Tugenden, in ID., Die Begriindung sittlicher Urteile. Typen ethischer Argu­
mentation in der Moraltheologie. Diisseldorf, Patmos ' 1980.
- [39], Zu den Schwierigkeiten, die Tugend zu rehabilitieren, in Theologie und Philosophie 58
( 1983) 535-555.
SHELP [72] Earl E. (ed.), Virtue and Medicine. Explorations in the Character o/ Medicine. Dord­
recht - Boston - Lancaster, D. Reidel Pu.Co. 1985.
SLOTE [68] Michael, Goods and Virtues. Oxford, Oxford University Press 1983.
SM!TH [37] Janet, Can Virtue Be in the Service o/ Bad Acts? A Response to Philippa Foot, in The
New Scholasticism 58 ( 1984) 357-373.
SMITH Steve (ed.), Ways o/ Wisdom. Readings on the Good Li/e. Washington D.C., University
Press of America 1983.
SPICQ Ceslas, OP, Connaissance et morale dans la Bible. Paris, Editions du Cerf - Fribourg, Edi­
tions Universitaires 1985.
STOCKER [5] Michael, The Schizofrenia o/Modern Ethical Theories, in The Journal o/Philosophy 73
( 1 976) 453-466.
STOECKLE [78] Bernhard, OSB, Recht/ertigung der Tugend beute, in Stimmen der Zeit 192 ( 1974)
291-305.
STOUT Jeffrey, Virtue Among the Ruins. An Essay on Maclntyre, in Neue Zeitschrzft Jur systemati­
sche Theologie und Religionsphilosophie 26 ( 1984) 256-273.

TATARKIEWICZ Wladyslaw, Analysis o/ Happiness. The Hague, Martinus Nijhoff 1976.


Bibliografia 285

TAYLOR [80] Gabriele - Sybil WOLFRAM, Virtues and Passions, in Analysis ( 1971) 76-83.
TAYLOR [ 14] Richard, Ethics, Faith, and Reason. Englewood Cliffs/NJ, Prentice-Hall 1985.
TELFER Elizabeth, Happiness. New York, St. Martin's Press 1980.
sancti THOMAE DE AQUINO, Summa Theologiae. Albae - Romae, Editiones Paulinae 1962.
-, Quaestiones Disputatae de Malo (= Opera omnia iussu Leonis XIII P.M. edita, XXIII).
Roma, Commissio Leonina - Paris, Librairie Philosophique J. Vrin 1982.
-, Sententia Libri Ethicorum ( = Opera omnia iussu Leonis XIII P.M. edita, XLVII). R01 ne, Ad
Sanctae Sabinae 1969.
TONNEAU Jean, OP, Absolu et obligation en morale. Montréal, Institut des Etudes Médiévales ·

Paris, Vrin 1965.


-, Devoir et morale, in Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques 38 ( 1954) 233-252.
TRIANOSKY [4 1 ] Gregory W., Supererogation, Wrongdoing, and Vice. On the Autonomy of the
Ethics of Virtue, in The ]ournal of Philosophy 83 ( 1986) 26-40.

VEATCH Robert, Against Virtue. A Deontologica! Critique of Virtue Theory in Medica! Ethics, in
SHELP [72] 329-345.
VIDAL [59] Marciano, Mora! de actitudes. I: Mora! fundamental. Madrid, Editoria! Perpetuo So­
corro 1975, ' 198 1 ; L'atteggiamento morale. I: Morale fondamentale. Assisi, Cittadella 1976.
VOROBEJ [69] Mark, Relative Virtue, in The Southern ]ournal of Philosophy 22 ( 1984) 535-542.

WALLACE [81] James, Excellence and Merit, in Philosophical Review 83 ( 1974) 182-199; ripreso
in:
- [65], Virtues and Vices. lthaca - London, Cornell University Press 1978.
WALLACE William A., OP, The Existential Ethics of Karl Rahner. A Thomistic Appraisal, in The
Thomist 2 7 ( 1963) 493-515.
WALLER Bruce N., The Virtues of Contemporary Emotivism, in Erkenntnis 25 ( 1986) 61-76.
WARNOCK [49] Geoffrey James, The Object of Morality. London, Methuen 197 1 .
WARTOFSKY Marx W., Virtue Lost or Understanding Macintyre, in Inquiry 27 ( 1984) 235-250.
WATSON [70] Gary, Virtues in Excess, in Philosophical Studies 46 ( 1984) 57-74.
WEINSTEIN [7 1 ] Michael A., Finite Perfection. Reflections on Virtue. Amherst, The University of
Massachusetts Press 1985.
WETLESEN Jon, The Sage and the Way. Spinoza's Ethics of Freedom. Assen, Van Gorcum 1979.
WILLIAMS Bernard, Ethics and the Limits of Philosophy. London, Fontana 1985; L'etica e i limiti
della filosofia. Traduzione di Rodolfo Rini. Bari, Laterza 1987.
- [6], Persons, Character and Morality, in Amelie O. RORTY (ed.), The Identities ofPersons. Berke­
ley, University of California Press 1976.
VON WRIGHT [ 42] Georg Henrik, The Varieties of Goodness. London, Routledge and Kegan Paul
1963, ' 1972.

ZEYL Donald, Socratic Virtue and Happiness, in Archiv fiir Geschichte der Philosophie 64 ( 1982)
225-238.
ZIEGLER Albert, SJ, Das Gluck Jesu. Stuttgart, Katholisches Bibelwerk 1978.
INDICE DEGLI AUTORI

Le cifre romane rimandano ai capitoli, le cifre arabiche in tondo ai paragrafi, quelle in neretto
ai paragrafi di trattazione più diffusa o più importante, quelle in corsivo alle note del rispettivo ca­
pitolo.

Abbà G.: Introd. 4; I 46, 1 09, 1 1 1, 1 13 ; II 4, Burrell D.B. II 4[ 18]


7, 1 1, 55-58; III 27; V 4 7, 49, 57, 98; VI 3 7,
57, 58, 61 ; VII 6, 7 Caietano V 2 7
Agostino I 2 Caputo J.D. VI 53, 56
Allport G.V. III 1 1 Carney F. II 4[26], 29, 32; III 12; V 107
Angehrn E . I 3 Caruso I.A. I 57
Annas J. I 42 Cicerone II 18
Anscombe G.E.M. I 15; II 4[1], 9, 12, 15, 19, Clark S.R.L. II 5
29, 30, 32, 42; IV 6; V 21 Crossin J.W. VII 3
Ardagh D.W. I 5
Aristotele: Introd. ; I 2, 5, 8-9, 13, 16, 18, 23, Da Re A. I 3; Conci. 1
25, 29, 45, 5 1, 58; I 53, 83; II 5-6, 15- 16, 18- Daubercies P.: Concl. 6
21, 24, 26-27, 33, 52, 53-55, 57, 59-60, Davis W. I 82
62-63; III 20, 23; IV 1, 4; V 24, 43, 58, 65; V Del Boca S. I 38
32, 49, 96; VI 19, 22, 30, 32, 35, 43 ; VII 3, Dent N.}.H. I 33, 35; I 1 7, 68, 104; II 4[82 ] ;
19. II36, 49, 64, 77, 82, 93; V 1 0, 44, 96; VII 8
Den Uyl D. I 10; I 1, 2, 4, 6, 1 8
Barbour }.D. II 13 Dfaz C. I 3
Baron M. II 4[33-35], 29, 37-38, 39, 43 ; V 7, Dilman I. II 35; VII 9
27, 29, 59; V 20 Dinan S.A. V 83; VI 19, 32, 35
Baruk H. I 57 Donelson L.R.: Conci. 3
Beauchamp T.L. II 4[40], 29, 33, 43 ; III 1 1, Dougherty J.P. II 50
15; V 20 Drexler H. II 85
Becker E. I 1 03 Dyck A.}. II 4[27], 29, 43 ; II 73
Becker L.C. II 4[4], 13, 14, 30; III 1 1 , 13; V
60 Edel A. II 5
Beehler R. II 4[32] , 29 Eid V. II 4[63]
Beierwaltes W. I 5 Endres J. II 4[25 ] ; II 8
van den Beld A. II 5 Engelhardt P. I 5
Belmans T.: Introd. 4 Epicuro I 2, 9
Bergson H. V 56 Evans D. II 4[74] ; II 60
Bertocci P.A. II 4[43] Ewin R.E. II 4[50], 5, 53, 55; III 16; V 64; VI
Bien G. I 2, 3, 7, 13 16; VI 35
Bizzotto M. V 89, 92, 106
Blenkinsopp }. : Conci. 5 Feldman S. II 5
Bond E.J. II 82; V 1 0 de Finance ]. V 42
Bondi R . II 4[ 18]; I I 9 Finnis J. I 38, 58; I 3, 50, 76, 83, 97; II 65,
Boyle J.M. I 97; VI 37-38 82, 83, 84; V 42
Brandt R.B. II 4[79] Fischer N. I 13- 14, 64; I 5
Buckley ]. I 58 Flemming A. II 4[3 1 ] , 29
Biihler C. I 9 Fletcher J. VI 36
288 Indice degli Autori

Flower E. II 5 13, 27, 47, 96; III 12, 27; IV 6; V 8, 29, 3 1,


Foot P. II 4[7-9], 10, 15, 19, 29-30, 34, 39, 6 1 ; VI 4, 5, 8, 10, 15 ; VI 60; VII 18-19
37-39, 4 1 -43, 56; II 6, 15, 76; III 12; V 7, Hawkesworth M E. II 4[87]
.

30, 59; V 21 Heil ]. II 4[88]


Forschner M. I 5 Hemtrich G. I 3
Frankena W.K. II 3, 4[28-29, 44-45] , 29, 34, Henle R. VI 20
35-36, 39, 42-45 ; II 5, 1 04; III 14; V 9, 29, Hennis W. I 9
47, 64; VI 15 Herms E. II 4[23] ; II 8
Frankl V.E. I 57 Hibbs T.S. VI 2 1
Freeman E. II 4[48] von Hildebrand D . II 2
Freising W. I 5 Hinske N. I 3
Freud S. I 64 Hittinger R. II 5, 52
Freytag H.H. I 2; I 3, 49, 67, 80 Hobbes T. II 5, 20, 53, 54; II 97; V 66
Friedman R.Z. I 5 Hoffe O. I 2; I 3; II 18; II 51, 90; V 43; V 24,
Fromm E. I 9, 59 26
Hohler G. I 3
Gadamer H.G. II 5 ; VI 19, 35 Hudson S.D. II 4[66, 86] , 20, 57; II 3 ; III 27;
Gaita R. II 5 III 28; V 9, 64; V 20, 26; VI 15, 28; VI 1 4,
Galbraith J.K. I 9 58, 60; VII 3
Galli A. IV 20, 29; V 93 Hume D. I 46; II 16, 27, 33, 65; VI 15; VI
Garda Alonso M. II 2 14
Gatti G. V 32, 42, 77, 97 Hunt L. II 4[83]
Gauthier R.A. II 27; II 33, 63; III 24 Hutchinson D.]. II 3 ; III 24; V 49
Geach P.T. II 4[64]
Gert B. II 4[ 46-47], 50; III 15; V 66; V 26; VI Isaacs D. II 95
15
Gewirth A. II 5 JacksonJ. II 4[84]
Gillet M. I 103 Jankélévitch V. II 2
Gleixner H. II 3 Jolif ].Y. II 33; III 24
Goffi T. II 4[61]
Goldstein K. I 9 Kamlah W. I 2, 9, 23; I 3
Goldsworthy G.: Conci. 5 Kant I.: Introd.; I 2, 1 1, 13, 18, 23, 25, 46,
Gowans C.W. II 5, 104 70; I 52, 80; II 18, 24, 27, 34; II 53, 90; V 19·
Green M.J. I 4 1 20, 22, 43, 56, 63; V 26; VI 15, 23
Greshake G. I 3 Kaulbach F. I 1 6
Grisez. G. I 58; I 86, 91, 97; II 4[62 ] ; II 51, Kekes J. I 7, 10
84; IV 20; V 1 1 - 12, 42, 47; V 7, 1 1 0; VI 37
· Kidner D.: Concl. 5
38, 42; VI 60 Kierkegaard S. II 16
Grossman V. I 1 14 Korff W. I 3
Grazio U. V 20 Kramer H. I 2, 9, 16, 25·27; I 3, 14, 64, 66; II
Griindel ]. II 4[63 ] ; V 78 50
Giinthor A. II 4[57] Kraut R. I 7, 10, 25, 45; I 79, 81, 1 1 0
Gustafson ].M. II 4[5 1 -53] , 15 Kruschwitz R.B. II 3

Habermas ]. I 9 Laird ]. II 2
Haller B. II 5, 28 Langan J. I 5
Hallett G .L. II 44 Larmore C E. VI 27, 35; VII 12
.

Hampshire S. I 6, 10; II 20; III 28; V 9; V 84; Larrafieta Olleta R. I 3, 40


VI 18 van Leeuwen M.S. VII 2
Bare R.M. II 33 Lobkowicz N. II 4 [ 12 ] ; II 46, 50
Haring B. II 4[60] Lombardi-Vallauri L. I 98
Hartmann N. II 2 Lorenzen P. I 9
Hauerwas S. II 3, 4 [ 1 1 , 15-22], 5, 15, 20, 23, Louden R.B. II 4[36], 29, 30, 3 1
29, 34-35, 38, 39, 41, 43, 47-48, 63; II 5, 6, Lutero M . V 56
Indice degli Autori 289

McDowell J. II 4[85 ] ; II 10 Pleines J.-E. I 5


Machan T.R. I 10; I 1, 2, 4, 6, 18 Prichard H.A. II 34; II 73; III 12
Maclntyre A. : Introd. 2; I 47; II 2-3, Pufendorf S. V 20; V 26
4[10- 1 1] , 5-6, 16, 17- 18, 25, 26-27, 30,
58-59, 63; II 6, 13, 47; III 18, 28; IV 1-2, 4; Quarello E. II 4[56]
V 8, 50, 62 ; VI 15, 17; VII 18-19 Quoniam T. I 80, 85
MacKenzie G. II 5, 104
Malherbe A.J.: Conci. 3 Rahner K. I 64; VI 36; VI 62
Mandelbaum M.H. II 2 Ramsey P. II 4[54]
Manuel F.E. - Manuel F.P. I 100 Rauh F. II 4[63]
Marcuse H. I 9 Reich W. I 9
Maritain J. I 58; V 95 Rhonheimer M.: Introd. 4; I 94, V 2 1 ; V 28;
Maslow A.H. I 9 VI 38; VI 54, 57; Conci. 2
Mav R. I 102 Ricken F. I 14; II 4[13]
Me� ks W.A. : Conci. 3 Riedel M. I 9
Meilaender G.C. II 4[75-77] ; II 8 Rist J.M. II 27
Melina L.: Introd. 4 Robbins W.J. II 4[29]
Mili J.S.: Introd. ; I 2, 5, 58; II 33 Roberts R.C. II 3
Millard R.M. II 4[ 43] Robins M.H. I 1 6
Monasterio X.O. II 5 Rodes RE. II 32
Montoya Saenz J. II 5 Rogers C. I 9
Moore G.E. II 3 7 Rohrbein H. I 3
Mori M. II 72 Ross S.L. II 5, 104
Mouw R.J. II 5 Ross W.D. I 1 7; II 3 7
Miiller S.E. VII 1 1 Rosso C. I 1 1
de Muralt A . I 38 Rotenstreich N. I 3 7, 95
Murdoch I. II 4[2], 12, 15-16; II 3; V 6 1 ; VI de Roton P. IV 33; V 9 1
3, 4-5, 10 Rousseau F. I 99

Nelson D.M. VI 36; VI 62 Scheffler S. II 5


Neuhaus R.J. II 4[73], 49; II 1 Scheler M. II 2
Nielsen K. II 5, 1 04 ; V 50 Schenk D. II 4[30], 29, 35, 4 1 ; V 29
Nietzsche F. I 2 ; II 16, 26 Scherer D. II 5
Noddings N. VII 1 1 Schiller F. V 56; V 92
Nozick R. I 38 Schleiermacher F. II 8
Nussbaum M.C. II 12, 13 Schmitz P. II 3, 4[24]
Schmucker J. I 38
O'Connor D. I 5 Schnabel E.J.: Conci. 5
O'Neill O. II 5 Schneewind J.B. II 5
Oppenheimer H. I 1 1 ; I 3, 54, 101 Schneider U. I 5
Outka G.H. II 4[54-55] Schneider W. I 7; I 3
Owens J. I 3 Schockenhoff E.: Introd. 4
Schottlaender R. II 4[67]
Patrick D.: Conci. 4 Schi.iller B. I 34; I 48; II 4[38-39], 3 1 , 36, 43 -
Pence G.E. II 3 46; II 44, 92; III 1 1 , 1 3 ; III 1 9 ; V 29, 60; VI
Peschke C.H. II 4[58] 15 ; VI 13
Phillips D.Z. II 5 Shaw R. I 97; VI 60
Piana G. II 4[61] Shelp E.E. II 4[72], 49; II 1
Pieper J. II 2 Sidgwick H. VI 15
Pinckaers S.: Introd. 1 ; I 38, 47; II 5, 6, 33, Siate M. II 4[68]
44; IV 34; V 90, 95 Smith A. VI 35
Pincoffs E.L. II 4[3 ] , 13, 15, 18, 20; II 3; VI Smith J. II 4[37], 29; II 99
23 Smith S. II 50
Platone I 29; VI 22 Socrate I 2
290 Indice degli Autori

Solzenicyn A. I 1 14 Vaux K. II 4 [22]


Spicq C.: Conci. 5 Veatch R. II 28
Spinoza B. V 56 Vidal M. II 4[59]; IV 28; V 93
Stevenson C.L. II 3 7 Vorobej M. II 4[69]
Stocker M. II 4[5], 11, 19, 20, 29, 37-38, 43; V
59 Wallace ].D. II 4[65, 81], 5, 52, 55; III 16; V
Stoeckle B. II 4[78] 64, 66; VI 29; VII 3
Stout J. II 5, 28 Wallace W.A. VI 36
Suarez F. I 46; II 20 Waller B.N. II 5
Wandell P. II 5
Warnock G.]. II 4[ 49], 33, 51; II 59; III 16; V
Tatarkiewicz W. I 3, 6, 7, 10, 24, 34 50, 64, 66; VI 16
Taylor G. II 4[80] Wartofsky M.W. II 5
Taylor R. II 4[14], 9, 19; V 21 Watson G. II 4[70]
Telfer E. I 4, 7, 10; I 77 Weil S. II 35
Tommaso d'Aquino: Introd. I 2, 23, 58; I Weinstein M.A. II 4[75 ] ; II 60
1 1 1 ; II 6, 15, 18, 20-2 1 , 47-48, 55-56, 60, 62- Wetlesen J. V 94
63 ; III 23, 28; III 27; IV 4, 6; IV 1 6, 1 7, 18, Williams B. II 4[6], 29, 38; II 50
21 ; V 1 , 12, 19, 24-25, 32, 35-36, 42-43 , 46, Wolf U. II 5, 28
5 1 , 56-57; V 4, 28, 32, 49; VI 2 1-22, 33, 36, Wolfram S. II 4[80]
43-45; VII 19; VII 7 von Wright G.H. I 7, 10; II 4[42]
Tonneau }. V 23, 31, 33-37
Trianosky G. II 4[4 1 ] , 14, 29 Zeyl D. I 5
Tucidide V 3 1 Ziegler A. I 3
INDICE ANALITICO

Si menzionano solo quelle nozioni o quei luoghi che non possono essere reperiti attraverso
l'indice generale. Le cifre romane rimandano ai capitoli, le cifre arabiche in tondo ai paragrafi,
quelle in neretto ai paragrafi di trattazione più diffusa o più importante, quelle in corsivo alle note
del rispettivo capitolo.

Abitudine III 3, 7; IV 18, 25 Carattere II 13-15, 17, 25, 28, 47; III 2 ; IV
Amicizia V 49, 64; VII 20; Concl. 2d 22; V 39; VI 1 1
Amore: vero I 56, 59, 64-72; V 16, 49 tratto d i - II 56
per Dio I 70 Carità V 42
Analogia delle nozioni di virtù VI 3 1, 32; VII Circostanze IV 24; V 47-48, 55 ; VI 32
15 Comando IV 7, 14, 20-2 1 ; V 2 1, 25; VI 43
Applicazione III 24; IV 15; V 43g; VI 32 Commitment VII 12
Atteggiamento III 3, 7, 17, 27 Compimento umano integrale I 52, 54; IV 2 ,
Attitudine (da actitudo): v. Atteggiamento 4; V 4, 10, 11, 12- 15, 3 9 , 60-62; VII 8
Attitudine (da aptitudo) III 3 ; IV 25; V 35 Comunità I 56; II 15- 16, 18, 58, 63; V 49, 61,
Attuazione: volitiva od esistenziale I 20, 64; VI 4; VII 2, 18- 19, 2 1 ; Conci. 2d
48-49, 53, 64, 68 Condotta: Introd. ; I 18, 20, 22, 32-33, 35, 55 ;
esecutiva od esperienziale I 20, 53 II 22, 23, 28, 38; III 26-27; IV 4, 12; V 1 -
eccellente I 52, 54, 57, 59, 60-61, 64, 68; IV 2, 28, 33; VI 1
24; V 38, 53 ; VI 45 Conflitto morale II 57, 59; V 9-10, 65; VI 45
Autodeterminazione V 56; VI 5 Connaturalità VI 10, 41-42
Autorealizzazione V 49 Conoscenza morale VI 2, 12- 14, 18- 19, 22,
Autorità VII 20 34
Azione: concentrazione sull'- I 19 Consequenzialismo I 16, 49
concezione comprensiva dell' - I 20 Convenienza III 22, 24; IV 13- 14, 20; V 3 1,
analisi dell' - I 2 1 -22 47; VI 41-42
Corrispondenza tra soggetto e mondo I 17,
Beatitudine I 42, 7 1 ; I 108 19
Bene: nozione di - I 2 1 , 36; V 7, 12, 16 Coscienza VI 37-39, 42
attraente V 22-23, 30, 56; V 42 Coscienziosità II 13, 18
basilare I 53-54; II 42, 44; IV 2; V 3-4, 12, Costrizione V 26-27, 30, 59; V 42
2 1, 62
della persona umana I 16, 52 Debito legale V 1 9
sostanziale I 16, 2 1 -22, 27, 36, 46, 48, 55, Decisione: v . Opzione
57-59, 64-65 ; V 3; VI 7 Deficienze III 4, 8; IV 3, 5, 24
operabile I 16, 2 1-22, 36, 46, 48, 53, 55, 58- Deliberazione I 33-34, 53 ; IV 8
59; IV 2 ; V 3-4, 2 1 Destrezze III 4; IV 3, 5; V 63
esistenziale I 20, 22, 48, 53-55, 64-65; V 3 Determinazione delle potenzialità o delle facol-
esperienziale I 20, 22, 53-55, 64-65; V 3 tà III 3, 7; IV 12; V 34-35
intelligibile I 2 1 Dio: autore di rivelazione I 14, 64
perfetto I 36 come bene per l'uomo I 54-56, 58, 65; V
Bonum: delectabile I 57 12
honestum I 59; V 23, 30, 56, 60; V 42; VI eudokia di Dio I 29, 52, 55, 64-65
5, 25 creatore I 64-67, 72
292 Indice analitico

legislatore II 9, 20 come motivazione I 15


agente nella storia VI 6 come 5copo generale e ultimo della condotta
Diritto II 3 3 umana I 2 1 -22, 36, 59
Disciplina VII 12, 17, 20 come condizione ottimale del soggetto nel
Disposizione III 3, 7, 1 1 ; IV 2 1 mondo I 22, 25-32, 36, 39, 42, 52, 54,
Dovert> I 15, 1 8 23, 30-3 1 , 37, 40-41 57, 61, 64, 72; V 3, 53; VI 7
motivo del - I 19; II 38, 43; V 59; VI 43 vera e falsa I 18, 23, 30-3 1, 37, 47-48, 50;
concetto di - II 42-43 II 42; VI 24; V 16
perfetto V 19; VI 23 e virtù I 10, 72
imperfetto V 20; VI 23 edonica I 26, 38, 57, 59, 70
doverosa I 40-41
Eccellenze III 4, 8; IV 3, 5, 24; V 30 come ideale I 45, 50, 56, 60
Educazione morale I 6 1 , 63 ; II 48; V 49; VI come armonia I 56, 66, 68, 72 ; V 3
1 3 ; VII 2, 12 Filosofia: laica I 14, 64
E1dos I 60; V 40, 43, 50; VI 13 pagana I 14, 64
Emotivismo II 16 cristiana I 7 1 ; II 3 ; VII 22; Concl. 3
Esempio VI 29, 3 1 ; VII 15, 17, 20; Concl. 3 Fine: come principio delle norme I 16
Esortazione morale VII 12, 17 fine ultimo I 22, 36, 59; V 12, 53
Esperienza morale: Introd. ; I 17, 19, 23, 6 1 ; II fine ultimo naturale I 58
7, 12, 18-19, 28, 30-34, 40, 48, 55, 62, intermedio I 59
64; III 1, 10, 17, 19, 21, 23, 25 ; IV 19, Forme di vita V 5 1
24; V 2 1 , 32; VI 3, 12 ; VII 1 Fortezza V 45c, 64; VI 24
Ethos V 5 1 ; VII 2, 18-19
Etica: moderna II 2-3, 5, 9, 1 1- 12, 16-20, 24, Genere di vita V 50-5 1
34-35, 38, 62; V 38, 48; VI 1, 3, 15; Gioia I 57
Concl. 2c Giudizio pratico II 16, 47, 61; III 24; IV
liberale II 15- 16, 18, 2 1, 63 ; V 20; V 26; 13- 14, 20; VI 2, 14, 17, 27, 32-33, 41-42
VII 18-19 Giustizia I 15; II 18, 23, 54-55; V 18, 27-28,
teleologica I 18, 49; II 36, 63; III 13 ; V 24, 45b; VI 16, 24-25
.
60; Concl. 2a Governo della vita I 34, 63
deontologica I 49; II 63; III 14; V 24, 60; Grazia soprannaturale I 29, 42, 58, 67; VII 2;
Concl. 2a Concl. 3
della prima persona II 20, 21, 22, 25, 27,
54, 63 ; III 6, 26, 27; VI 34, 39 Habit III 1 1, 17; IV 18, 25 ; V 55
della terza persona II 20-2 1 , 25-26, 54-55, Habitus I 26; II 63 ; III 20; IV 18, 25 ; V
63 ; III 23 ; VI 39 36-37, 39, 44, 57-58, 63; VI 1; VII 16
qualificata VI 8 Happiness I 4, 7; I 77
specificamente cristiana VI 9; Concl. 3 Hobbesiano II 20, 24, 33, 50-5 1, 53-55, 63
autonoma: Concl. 2b
esistenziale formale VI 36 Ideale di perfeziona umana I 47-50
della situazione VI 36-37 Immortalità dell'anima I 69-70
Etica Nicomachea I 13, 5 1 ; I 53, 65; II 6, Imperativo categorico II 10; V 23
19-2 1, 27; III 20; III 27; IV �' 1 6, 18; V Inclinazioni naturali I 62; V 2 1 , 37; VII 9-10
69; VII 4, 6 Individuazione della natura specifica I 60; V
Eudaimonia I 4-5, 8, 1 1 , 55, 57, 64, 72; V 53 35, 37, 42, 44, 57
Eudokia I 29, 55-56, 64-68 Inettitudini III 4; IV 5
Eupraxia I 26, 29, 56, 65-67; V 3, 53; VII 22 Intellectus prmcipiorum V 35, 37
Eutychia I 26, 29, 64; VII 22 Intelligenza I 2 1, 28; II 41; VI 2, 19-20, 22,
32
Famiglia VII 20-2 1 Intento IV 9, 24
Felicità: complessità semantica 1 24,33, 36-37 Intenzione I 53; II 9, 11, 45; IV 4, 6; V 4, 10,
concezione soggettivista I 7, 1 1, 37-38, 60 32, 47-49; VI 40-41
concezione oggettivista I 7, 45, 60; V 50 Istruzione morale VII 12, 17
storia del concetto I 1 1
Indice analitico 293

Legge I 1 1, 15- 16, 4 1 ; II 16, 18, . 26, 63 ; V 25- Pratica II 16, 26, 58; III 28; V 4
26; VII 18, 2 1 ; Concl. 3 Precetto IV 14
eterna I 65, 67; V 26 Progetto di vita V 5 1
naturale V 26 Proporzionalismo I 18; V 60
Letteratura I 7, 12, 32, 48; III 2 ; V 50; VI 35; Proposizioni prescrittive III 3, 5; IV 6, 15; VI
VII 2, 17 13, 23, 30, 33
Libertà d'indifferenza I 16, 34; II 20; IV 8; V Prudenza I 23, 50; V 45a, 47; VI 2, 20-21, 36-
22 38, 42-43, 45 ; VII 8-9, 13; v. anche Sag­
Linguaggio morale III 1 ; VI 3 1 gezza pratica

Massima III 5-7, IV 6 ; V 47, 50, 60-63; VI 13, Ragion pratica 1 30, 40, 43-45, 46-50, 54; 11 27-
23-24, 27-29, 3 1 -32 28, 55, 59, 61, 63 ; III 1 ; V 7; V 32,
Mediazione dello scopo IV 9 - 1 1 34-35 ; VI 5, 7; VII 8
Medium rei, rationis V 45, 4 7 ; V I 24 esercizio diretto e riflesso della - III 2 1,
Modi di responsabilità V 42 24; V 2 1 ; VI 12, 38
Moralità· punto di vista morale I 47-48, 54; II in universali III 22, 23 ; V 29-30; VI 6, 33-
35; In 8-9; IV 4; V 4, 6, 1 1 34, 38-39, 46; VI 58; VII 1 , 15
perché esser.� morali? I 16, 34, 72; II 2 1, in particulari III 22-24, 25-26; IV 6, 13- 15,
63 ; II 5 1 19; V 16, 29, 3 1 , 33, 47-48, 53, 58; VI
Motivazione V 48 33-34, 38, 39-40, 42-43, 45-46; VII 1, 15
Ragione retta II 56, 60; V 16, 35
Narrativa II 15, 48, 58-59; II 13, 47; III 2; V Ragione per agire I 33; Il 10- 1 1 ; V 2
8, 6 1 ; VI 29, 3 1 Ratio virtutis VI 13, 22-23
Natura umana specifica I 62; V 35, 38 Razionalità pratica V 7, 12, 16, 22, 33; VI 15-
individuale I 62; 35 16
Norma I 15- 16, 30, 48, 60; II 26, 42, 57, 6 1 ; Regola morale I 54-55, 57, 62, 65, 67; III 26-
III 22, 2 4 ; IV 8; V 48, 5 0 ; VI 1-2 27; IV 14; V 25-26, 28; VI 1
circostanziata II 47; VI 3 7-39 Regolazione razionale V 33, 39, 41, 44-45
modi di - V 42, 44; VI 26
Obbligazione I 15, 4 1 ; II 19, 32, 34, 39; V 30, Regole II 16, 50-54; III 15-16; V 43 ; VI 13,
59; V 42 16
Opzione (decisione) per la moralità I 16, 34; Ritratto VI 29-30
II 26, 36, 44; III 1 1, 13, 17; IV 8 ; V 58 Rules o/ thumb VI 16, 23
fondamentale I 76; II 20; IV 16, 23; VII
13; Conci. 2c Sàggezza pratica I 49, 63; II 56; III 24, 26; IV
Ordine V 4-7, 12 6, 20-2 1 ; V 5 1 , 53 ; VI 26
intenzionale I 48-49, V 12, 13-14 Salute mentale I 57
Organismo virtuoso V 39 « Salvare le apparenze» I 7 ; II 62, 64; III 1 ,
10
Pace universale I 56, 68 Scelta I 33-34, 53 ; II 43
Parabola VI 29, 3 1 ; Concl. 3 gestazione della - II 23 ; II 48; IV 14; V 32,
Parenesi neotestamentaria: Concl. 3 47-48
Passioni I 33, 36; II 25, 45; III 3, 7-8, 23 ; IV Scopo IV 9, 19-20
14, 19; V 15, 32-35, 44-45, 47, 64; VII 9- virtuoso Il 45 ; III 7; IV 18, 20; V 30, 50,
10 53, 62 ; VI 29, 32; VII 8- 10, 13, 15
Perfezione I 36, 52, 54, 56; V 12, 13- 14, 49, libera adesione allo scopo virtuoso VII 1 1 -
60-62 ; Concl. 2d 12
Phronesis I 50; III 20; III 27; IV 20; VI 2, 17, Senso della vita I 64, 67-68, 72 ; II 2 1, 55
19 Sinderesi IV 19
Phronimos VI 32 Situazione pratica originaria I 17, 19, 22-23,
Piacere I 5 7 25; V 3; VI 7
Piano d i vita V 5 1 Società politica I 56
Praeceptum V 2 1 Sofferenza I 7 1 ; VII 19
Prassi I 55; V 3-4, 15, 50, 53 Soggetto agente Il 15, 19, 37, 41, 59; III
294 Indice analitico

26-27; IV 2, 25; V 48 e felicità I 59, 63, 68, 7 1


complesso e fragile II 45, 63 ; IV 15; V 32, effetto secondario della - I 61, 63; V 38,
54 42, 47, 57; VII 16
Sorte I 64; VII 16 effetto formale e principale della - I 63,
Spiritualità V 5 1 66; V 38, 49, 57
Spontaneità IV 23; V 56; V 42; VI 5 concetto stoico di - II 25, 3 1 , 45-47
Stabilità III 3 germi di - II 47, 55, 60; V 35
intrinseca ed estrinseca III 7; IV 18; V 38, nozioni di - II 49
57; VII 5-6 nozione corrente di - I 6 1 ; V 38; VI 14- 15
Stato di cose I 55, 64-65, 67, 71; II 24; V 3, connessione delle - II 57; VI 45
10, 13, 15 e vizi: II 53, 56, 59, 60
di vita V 5 1 vere e false - II 60; V 17, 63
Stile di vita V 5 1 nozione inclusiva e massimale di - III 19;
Strong evaluator, evaluation II 37, 4 1 ; V 7, 10, IV 8, 17, 24-25; V 1, 17, 52, 67
2 1 , 32, 59-60; VI 40 nozione aristotelica e tomista di - III 20;
Summa Theologiae. Secunda Pars: Introd. ; I VI 14
5 1 ; l 108, 1 09, 1 13 ; II 6, 17, 20, 3 1 , 40, cardinali V 44-45
45-46, 48, 63; II 4 7, 48, 54-57, 83, 84, parti potenziali delle - V 45
94; III 20; III 19, 27; IV 6; IV 23, 24; V e libertà V 55-56
1, 12, 32, 46, 57; V 4, 28, 45, 4 7, 74, 97, specificamente cristiane VI 9
99, 1 13, 120; VI 39; VI 12, 21, 38; VII 6, come guida d'azione VI 28
7; Concl. 3 atto di virtù VI 29; VII 3, 5-6
Sussunzione III 23; IV 8, 15; VI 32, 38 nel Nuovo Testamento: Conci. 3
Sviluppo morale VII 2 Visione II 12, 15, 28, 35, 39, 47; III 12; V 8,
29, 3 1 , 39, 61; VI 2-6, 9-10; VII 18
Telos II 16, 26, 28, 58 Vita: buona: Introd.; I 16, 33, 55 ; II 23, 58,
Temperanza V 45c, 64; VI 24 63 ; III 8, 26-27; V 3-4, 52
Teologia morale II 15, 20; II 6, 33, 48; III 23; buona come motivazione originaria
V 85; VI 30; Conci. 3 34-36; II 37, 4 1 ; IV 1 1
spirituale V 85; Concl. 3 veramente buona III 9 ; V 15
Tradizione II 58-59; II 13; III 38; V 8, 5 1 , 62; morale I 20, 22, 48-49; V 53
VII 18, 20 morale convenzionale, continente, doci­
le VII 4
Uniformità III 3, 7; IV 18; V 43b Volontà I 2 1 -22, 28, 33-36; II 4 1 ; III 7; IV 4; V
Utilitarismo I 18; II 2 1 ; VI 15, 18 33-34; VII 9- 10
buona I 54-55, 58, 64, 67, 70-7 1 ; II 24, 36,
Verità pratica VI 44 44, 55; V 10, 13
Virtù: come potenziamento I 3 1 , 60-61, 63, conforme alla volontà di Dio I 67, 7 1
66, 68; II 25, 63 ; V 38, 44, 49, 55, 56
INDICE GENERALE

.•

Sommario .............................................................................................................. 5

Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . 7

Capitolo I: Felicità e virtù nella filosofia pratica della condotta umana ...... . 12
I . Ragioni per riconsiderare il problema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. 12
1. Rinnovata attenzione a l tema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . .. 12
2. Nuovi apporti grazie a nuove distinzioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. 14
1) Complessità semantica e concettuale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14
2) Felicità edonica e felicità eudemonica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15
3) Fine dominante e fine inclusivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16
4) Felicità come ideale astratto e corso d i vita dell'individuo . . . . . . . . . . . 17
3. Alcune recenti posizioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18
4. Intenzione e limiti di questo saggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20
II. Premesse per una riconsiderazione del problema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. 22
1. Un problema di filosofia cristiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . .. . . . .. . . . . . . . . . . . .. .. 23
2. La filosofia morale come filosofia pratica della condotta umana . . . . . . . . . . 25
III. Verso una rinnovata concezione del rapporto tra virtù e felicità . . . . . . . . .. 32
1. Una concezione inclusiva della felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32
2. La felicità come fine ultimo naturalmente e necessariamente voluto dal-
l'uomo . . . . . . . . . ... . . ... . . . . ... . . ... . . . . . . ... . . . . . . . . . . . . . . ... .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 38
3. Senso della distinzione tra vera e falsa felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43
4. Criteri per la determinazione della vera felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 50
5. La vera felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53
1) Una figura umana di felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. 54
2) Felicità agatologica, eudemonica, edonica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. 59
3) Fine inclusivo e fine dominante . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . : ........................ 61
4) Fine e mezzi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63
5) Idea regolatrice e concretizzazione individuale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63
6. Necessità della virtù per la vera felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. 65
7. Come la virtù rende veramente felici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67
IV. Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 74

Capitolo I l : Virtù e dovere: valutazione di un recente dibattito . . . . . ............... . 76


I. Novità d'un recente dibattito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 76
1. Nuova attenzione al concetto di virtù . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. 76
296 Indice generale

2. Breve rassegna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
.... . . . .. .. . . .... . .. . . . .. .. . . ... .. .. . 78
3. Prospettiva di questo studio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ..
. .. . .. . .. . . . .... .. . . . 84
II. I punti del dibattito .... .. .. . . . . .. . . .. .. . . . . .. . . .. . . . . .... . . . . . . . . .. .. .. . . .. .. . ... . . . . . .. . . .. .. . . .. .
. 87
1. Critiche all'etica m�derna per una teoria della virtù .. . . . . . . . . . . . . . . .. . ... .. . .. 87
I. 1) Critica al concetto di dovere morale .. . . . . . . . . . . .. . . . .. . . . . . . . . .. . .. . .... .... 87
2) Critica alla concentrazione sulle azioni giuste . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . 88
3) Denuncia del fallimento dell'etica moderna . . .. . . . . . .. .. . . ... .. . . . . . . . . .. .. . . 91
II. 1) Circa il concetto di dovere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
.. . . ... . . . . ... .. . 96
2) Il punto di vista del soggetto agente . . . ... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ,...... ..... . . .. . . .. 97
3) La questione della vita buona . . .... . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . ... . . . ... . . . . . . . . . . . .. . . . . . . 105
2. Risposta alle critiche, per un'integrazione del concetto di virtù nell'etica
moderna .............................................................................................. 107
1) L'etica richiede sia il dovere sia la virtù . .... . . ........... .......... . ........... 108
2) È principale il concetto di dovere o il concetto di virtù? . . . . . . . . . . . .. 111
3) Verso un'integrazione tra dovere e virtù . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. ... ... . . . .. .... 117
3. Teorie della virtù ... . .. .. .... .. .... .. . . .. .. .. .. . . .. .. . . ... . .. .... .. .. . . .. .. .. . . .... . . . . ...... .. .
.. 123
1) Le virtù come qualità sociali . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
... ..... . . .. .. 123
2) Le virtù come tratti di carattere . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. .. . . .. . 126
3) Le virtù come eccellenze nelle pratiche della vita buona . .... . . .. . .. .. 127
4) Vere e false virtù . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . .. . . . . . . .. . . 129
III. Verso una più adeguata teoria della virtù . . ... . .. . . . . .. .. . ... .. .... . . . . .. . ... . . . . .. .. . . 130

Capitolo l i i : Requisiti della teoria della virtù ... ....... ....... . .... . ............................. 133
I. Significato dei termini relativi ai tratti di carattere . .. .. . . .. .. . . ... .. . . . . .. . . .. .. . . 134
1. I termini relativi ai tratti di carattere significano qualità del soggetto in
quanto autore di comportamento . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
.. . . . . . . . 134
2. I termini relativi ai tratti di carattere comportano una valutazione. .. . . . 135
II. Significato dei termini relativi alle virtù e ai vizi . . . ........... .... ... .......... ..... 136
1. I termini di virtù significano capacità di prestazione del soggetto agente . 137
2. I termini di virtù comportano una valutazione morale.... ....... .. ... ...... . 139
1) In riferimento alla vita buona . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . .. . . . . . .. . .. . .. . .. . . ... . . . .. . . 139
2) In riferimento alla ragionevolezza pratica . . . . . . . . . . . . . ... . . . . . ... . .. ... . . . .. . . 139
3. Diverse nozioni di virtù . . . . . . . . . . . . . ... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . .. . . . . .. . . .. . . .. 140
III. Dall'esperienza morale alla teoria della virtù . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. .. . .. . .. . 144

Capitolo IV: Virtù e condotta . :................ ...... ............. ............ ... ... ... ......... ..........
. 151
I. Dalle pratiche alla condotta . . .... . . .. .. .. .. .... . . . . . ... . .. .. . . .. . . . . . . . . .. . . . . .. . . . . . . . .. .. . . .. . 151
1. Le pratiche . . . . : . . . .................................... ...... .................. ...... ...............
.. 151
2. La condotta ............... .. .. :. . ............... . ... ... ....... ........................ ..... . ..... . ... 153
II. Dinamica della condotta umana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 155
1. Azioni, scelte, intenzioni.. .. .. .. .... ....... .. .. ... ... ... .. ... . .... ... . ... ....... . 155
2. Dalle intenzioni alle scelte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . .. . . . . . . 159
III. Le virtù nella condotta umana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 162
Indice generale 297

Capitolo V: Virtù e vita buona .. . . . .. . ... . . . . . . .. . . . . .. . . . . . . . ..... . . . .. . . . . . . .. . 169


I. Concetto identico, concezioni diverse della vita buona . . . . .. . . . . .. . . .... . .. .. .. . 170
II. II primo principio della moralità, criterio della vita veramente buona . 173
1. Alla ricerca del primo principio della moralità ..................................... 173
2. Il primo principio della moralità . . . . . . . . . . . .. . .. . . . . . . . . . . . . . .... . . . . . . . . . . . . . . 175
3. Il criterio della vita veramente buona .. .. .... . . .. .. . . .. .. .. .... . . .... . . .. . . . . .... . . .. . . 178
III. La vita veramente buona è doverosa . . .. . . . . .... . . .... . . . . .. . . .... . . .. . . . . . . .. ... . . .. .. . . 180
1. Il dovere di giustizia . . . . . . .. . . . . . .. . . . . . . . . . . .... . . .. . . . . . . . . . . . ... . . . . . . . .. . 180
2. Il dovere morale. . . . . . . . . . . .. . . . . ... . . . . . . . . . . . . .. .... .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 182
3. L 'obbligazione morale . . . . . ... . . .... . . . . . .. ..... . . . . . . . . . . . .. . .... . . . . . . . . . . 186
4. Il motivo del dovere . . . . . . . .. . . .. . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . .. . 188
5. Virtù e dovere . . . . .. .. . . .... .. .. . . ... . . .. . . . . .. .. . . .... .. .. .. .. .. .. .. . . .. .. . . . . .. . . . . .. . .. .. .... . . .. 189
IV. La regolazione richiesta dalla vita veramente buona . . .. . . . . . . . . .. . . . .. . . . . .. . . .. 191
1. Il soggetto umano non è naturalmente preparato a condurre la vita buona e
doverosa .............................................................................................. 193
2. La vita buona e doverosa richiede nel soggetto umano l'acquisizione
di habitus virtuosi ............................................................................... 195
V. La regolazione secondo massime virtuose: gli scopi virtuosi ... . . . . . . . . . . 198
1. Le massime virtuose . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . ... .. . .. . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . 198
2. La specificazione delle virtù . . . . ... .. . . . . . . . . . . . . . . .. .. .. . . . . . . . . ..... .. . . 203
3. Gli scopi virtuosi . . . .. .. . . . . . . . . . . . . . ... . . . . . . . . .. . .. . . .. . .. . . . . . . . .. . . . . 206
VI. La vita veramente buona come scopo da concretizzare . . . . . . .. . . . . . . . . . . 210
VII. Vita veramente buona e virtù . . . . .. . . . . . .. . . .. . . .. .. . . . . . .. . .. . . . . .. . . . . .. . . . . .. . . . .. .. .. . . .. . 213
1. La vita veramente buona consiste nel!'esercizio delle virtù . .. .. .... .. .... . . 213
2. Come dev'essere concepita la virtù perché sia principio di vita buona . . 214
1) La virtù non è abitudine, ma habitus . .. .. . . . . . . .. . .. ... . . . . . . .. . .. . 214
2) La virtù non è decisione fondamentale di principio ..................... 218
3) La virtù è definita dal dovere . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . .. . . . .. . . .. .. . . . . . . . . 219
4) La virtù è definita dal primo principio della moralità .................. 220
5) La virtù non è definita solo dai doveri di giustizia ....................... 222
6) La virtù è regolata dalla saggezza pratica ...................................... 224
7) Nozione di virtù ............................................................................ 224

Capitolo VI : Virtù e saggezza pratica .. .. .. .. .. .. .. . .. .. .. .... .. .. .... .. .. .. .. ... .. .. .. .. .. .. .... . .. . 226


I. Saggezza pratica e concezione sapienziale del mondo .. . .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. 227
II. Saggezza pratica e norme . . .... .. .. .. ... .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. ...... .. .. .. .. . 232
1. Necessità delle norme . . . . . . . . .. . ..... . . .. . . .. . .. . . . . . .. .. . .. . . .. . . . . . .. .. . 232
2. Insufficienza delle norme . .. .. .. .. .... . ... . . . . . . .. . ... . . .. .. . . .. . . . . . . . . . 234
III. Saggezza pratica, giudizio e virtù . . . .. .... .. .. .. .. .. .... .. .. .. ... .. .... .. .. .. .. ... .. .. .. .. . 244

Capitolo V I I : La pratica delle virtù ..................................................................... 255


I. La vita morale previrtuosa ...................................................................... 256
298 Indice generale

II. L'acquisizione delle virtù . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 260


1. I germi naturali delle virtù . . .... . ........ .. . . . . . . . . . . . . .
.................. .............. .. .. 260
2. La formazione delle intenzioni virtuose . . . . . . ... .. . .
... ...................... ... .. ... 263
3. La formazione della prudenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 265
III. Condizioni esterne per l'acquisizione delle virtù . ........................ . . ..
.. .. . 266
1. L'educazione morale . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 266
2. La /unzione delle comunità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 268
3. La funzione della società politica . . . . . . . .. . . .. . .. . . . . .. . . . . . . . . . . . . . .. . . .. . . . . .. . . . . . . . . .
. 269

Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. 271

1 . Tratti caratteristici della teoria etica proposta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 271


2. Confronto con altre teorie etiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 272
3. Rilevanza per la teologia morale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 274

Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . .. . .. . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . .. . . . . . . . . . . .. . .. . . .
. 277

Indice degli Autori . . . . . . . . . .. . . . . .. . . . . . . . . . .. . . . . . . . .. . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . .. . . . . . . . . . . .. . .. . . . . . .


. 287
Indice analitico ................................................................... ................................... 291
BI BLIOTECA DI SCIENZE RELIGIOSE
Volumi 6, 9 , 1 2 , 16, 1 9, 2 0 , 22-26, 3 3 , 5 0 : esauriti

1 . Miano V. (a cura), Corso introduttivo al mistero della salvezza, pp. 21 6, L. 1 5.000


2. Martin J.P., El Espfritu Santo en los orfgenes del Cristianismo. Estudio sobre I Clemente,
lgnacio, Il Clemente y Justino Martir, pp. 372, L. 25.000
3. Odorico L., Fonti per lo studio del ministero ecclesiastico. Testo e traduzione dei rapporti sui
negoziati d'unione tra anglicani e presbiteriani d'Inghilterra e di Scozia, pp. 340, L. 20.000
4. Galizzi M., Gesù nel Getsemani (Mc 1 4,32-42; Mt 26,36-46; Le 22,39-46), pp. XVl-320,
L. 20.000
5. Krilmer M., Das Ratsel der Parabel vom ungerechten Verwalter. Lk 1 6, 1 -1 3 . Auslegungs­
geschichte - Umfang - Sinn. Eine Diskussion der Problema und Lèisungsvorschlage der Verwal­
terparabel von den Vatern bis heute, pp. Xl l-304, L. 20.000
7. AA.VV., Problemi attuali di teologia. Puntualizzazione critica e prospettive, pp. 96, L. 6.500
8. Rosanna E., Secolarizzazione o trasfunzionalizzazione della religione? Rapporto critico su
una discussione attuale in sociologia della religione, pp. 1 28, L. 6.000
1 0 . AA.VV., La religione oggi, pp. 68, L. 5.000
1 1 . Aldazabal J., La doctrina eclesiol6gica del « Li ber Orationum Psalmographus » . Las colectas
de salmos del antiguo rito hispanico, pp. 356, L. 20.000
1 3. AA.VV., Un nuovo volto di Dio? Il processo al teismo nella teologia contemporanea, pp. 1 36,
L. 1 0.000
1 4. Moloney F., The Johannine Son of Man, pp. XVl-306, L. 20.000 (2• edizione)
1 5. Triacca A.M. • Pianazzi G. (a cura), Realtà e valori del Sacramento del Matrimonio, pp. XVl-
456, L. 20.000
1 7. Midali M. (a cura), Spiritualità dell'azione. Contributo per un approfondimento, pp. 304,
L. 20.000
1 8. Gallo LA., La concepci6n de la salvaci6n y sus presupuestos en M.-D. Chenu, pp. 360,
L. 20.000
21 . Bertone T., Il governo della Chiesa nel pensiero di Benedetto XIV, pp. 208, L. 1 5.000
27. Gemmellaro G., Crisi contemporanea e prospettiva umanistica e sociale cristiana, pp. 1 92,
L. 1 0.000
28. Quarello E., Morale cristiana e culture, pp. 1 40, L. 1 0.000
29. Quarello E. (a cura), Il mistero dell'aldilà, pp. 1 08, L. 6.500
30. Cerrato N., La catechesi di Don Bosco nella sua « Storia Sacra » , pp. 360, L. 20.000
31 . Felici S. (a cura), Cristologia e catechesi patristica, voi. 1 , pp. 264 + 8 tav. f.t., L. 25.000
32. Perrenchio F., Bibbia e Comunità di Base in Italia. Analisi valutativa di un'esperienza eccle-
siale, pp. 232, L. 1 5.000
34. Picca J.V., Romanos 1 3, 1 -7. Un texto discutido, pp. 224, L. 20.000
35. Amato A. · Zevini G. (a cura), Annunciare Cristo ai giovani, pp. 384 + 8 tav. f.t., L. 20.000
36. Boekholt P., Das Geheimnis der Eucharistie in der kirchlichen Rechtsordnung. Grundriss der
partikularen Gesetzgebung fOr die BistOmer in der Bundesrepublik Deutschland, pp. 1 92,
L. 1 5.500
37. Viola F., Introduzione alla filosofia politica. Per una filosofia politica d'ispirazione cristiana,
pp. 1 20, L. 6.500
38. Feuerbach L., Filosofia e cristianesimo. L'essenza della fede secondo Lutero. Introduzione,
traduzione e commento a cura di A. Alessi, pp. 254, L. 20.000
39. Facoltà di Filosofia UPS (a cura), Religione, ateismo e filosofia. Scritti in onore del prof. Vin­
cenzo Miano, nel suo 70° compleanno, pp. 238, L. 20.000
40. Accornero G., La formazione alla vita religiosa negli Istituti Femminili di voti semplici secondo
la legislazione postconciliare, pp. 232, L. 1 5.000
41 . Quarello E. (a cura), Argomenti morali in prospettiva di futuro, pp. 1 1 2, L. 1 0.000
42. Felici S. (a cura), Cristologia e catechesi patristica, voi. 2, pp. 200 + 8 tav. f.t., L. 20.000
43. Cantone C. (a cura), Le scienze della religione oggi, pp. 320, L. 20.000 (2• edizione)
44. Favale A. (a cura), Vocazione comune e vocazioni specifiche. Aspetti biblici, teologici e psico­
pedagogico-pastorali, pp. 534, L. 25.000
45. Calati B., Secondin B. e Zecca T.P. (a cura), Spiritualità. Fisionomia e compiti, pp. 264,
L. 20.000
46. Felici S. (a cura), Ecclesiologia e catechesi patristica. « Sentirsi Chiesa » , pp. 348 + 1 8 tav.
.
f.t., L. 30.000
47. Favale A. (a cura), Movimenti ecclesiali contemporanei . Dimensioni storiche, teologico-spiri­
tuali ed apostoliche, pp. 546, L. 25.000 (2" edizione)
48. Boekholt P., Eucharistie: Geheimnis des Lebens in der Gemeinde. Aktuelle Fragen der
pastoralen Praxis, pp. 2 1 2, L. 1 5.500
49. Midali M. - Tonelli R. (a cura), Chiesa e giovani. Dialogo per un itinerario a Cristo, pp. 262,
L. 1 8.000
51 . Heriban J., Retto Frone!n e Kenosis. Studio esegetico su Fil 2, 1 -5.6-1 1 , pp. 462, L. 30.000
52. Glanazza P.G., Paul Evdokimov cantore dello Spirito Santo, pp. 1 84, L. 1 5.000
53. Valentini D. (a cura), Dialoghi ecumenici ufficiali. Bilanci e prospettive, pp. 1 68, L. 1 5.000
54. Felici S. (a ·cura), Spirito Santo e catechesi patristica, pp. 304, L. 30.000
55. Gallo L. A. , Evangelizzare i poveri . La proposta del Documento di Puebla, pp. 1 66, L. 1 5.000
56. Abbà G., Lex et virtus. Studi sull'evoluzione della dottrina morale di S. Tommaso d'Aquino,
pp. 294, L. 25.000
57. Saldanha C., Divine Pedagogy, A Patristic View of non-christian Religions, pp. 1 92, L. 20.000
58. Bodem A. - Kothgasser A.M. (Hrsg.), Theologie und Leben. Festgabe tor Georg Soli zum 70.
Geburtstag , pp. 530, L. 50.000
59. Tonelli R., Gruppi giovanili e esperienza di Chiesa, pp. 96, L. 1 0.000
60. Felici S. (a cura), Catechesi battesimale e riconciliazione nei Padri del IV secolo, pp. 1 62 +
1 0 tav. f.t., L. 20.000
61 . Wong J . H . P., Logos-Symbol in the Christology of Karl Rahner, pp. 280, L. 25.000
62. Secondin B. - Zecca T. · Calati B. (a cura), Parola di Dio e spiritualità, pp. 204, L. 20.000
63. Midali M. · Tonelli R. (a cura), Giovani e riconciliazione, pp. 298, L. 20.000
64. Amata B., Problemi di antropologia arnobiana, pp. 1 72, L. 20.000
65. Valentini D., Il nuovo Popolo di Dio in cammino. Punti nodali per una ecclesiologia attuale,
pp. 1 96, L. 20.000
66. Felici S. (a cura), Morte e immortalità nella catechesi dei Padri del l i i - I V secolo, pp. 292,
L. 35.000
67. Alessi A. (a cura), La cultura europea tra crisi e speranza, pp. 1 56, L. 1 5.000
68. Carniti C., Il salmo 68. Studio letterario, pp. 1 22, L. 1 5.000
69. Mldali M., Teologia pastorale o pratica. Cammino storico di una riflessione fondante e scien­
tifica, pp. 382, L. 25.000
70. Riggi C., Epistrophe. Tensione verso la divina armonia. Scritti di filologia patristica raccolti in
occasione del LXX genetliaco a cura di B. Amata, pp. 992, L. 70.000
71 . Farina R., Metodologia. Avviamento alla tecnica del lavoro scientifico, pp. 350, L. 20.000
(4• edizione)
72. Toso M., Fede, ragione e civiltà. Saggio sul pensiero di Étienne Gilson, pp. 302, L. 30.000
73. Rezzaghi R., Il « Catecismo» di Leonardo De Marini nel contesto della riforma pastorale del
Card. Ercole Gonzaga, pp. 260, L. 25.000
74. Nordera L., Il catechismo di Pio X. Per una storia della catechesi in Italia, pp. 576, L. 30.000
75. Felici S. (a cura), Spiritualità del lavoro nella catechesi dei Padri del l i i-IV secolo, pp. 284 + 4
tav. f.t., L. 35.000
76. Mosetto F., I miracoli evangelici nel dibattito tra Celso e Origene, pp. 1 72, L. 20.000
77. Tonelli R. (a cura), Essere cristiani oggi. Per una ridefinizione del progetto cristiano, pp. 260,
L. 25.000
78. Felici S. (a cura), Crescita dell'uomo nella catechesi dei Padri (età prenicena), pp. 292+4 tav.
f.t., L. 35.000
79. Tonelli R., Pastorale giovanile. Dire la fede in Gesù Cristo nella vita quotidiana, pp. 240,
L. 1 8.000 (4• edizione)
80. Felici S. (a cura), Crescita dell'uomo nella catechesi dei Padri (età postnicena), pp. 328,
L. 35.000
81 . Alessl A., Metafisica, pp. 338, L. 25.000
82. Bartolomé J.J., El evangelio y su verdad. La justificaci6n por la te y su vivencia en comun.
Un estudio exegético de Gal. 2,5. 1 4, pp. 1 70, L. 20.000
83. Abbà G., Felicità, vita buona e virtù. Saggio di filofofia morale, pp. 298, L. 30.000

EDITRICE LAS - Piazza Ateneo Salesiano, 1 - 001 39 ROMA Tel. (06) P,f 1 2 1 4C
Adriano Alessi

METAFISICA
(Biblioteca di Scienze Religiose - 81 ) , pp. 338, L. 25.000

All'inizio della metafisica sta la consapevolezza della radicale insufficienza del


puro Vorhandensein. L'uomo non si accontenta cioè dei semplici « dati di fatto » .
La sua intelligenza non si lascia irretire dalla suggestione del panes et circenses,
ma coglie il fascino sottile dell'imperativo: « Non di solo pan e •> .
Reso inquieto dall'ansia d i comprendere s e stesso ed il mondo che l o circonda,
l'uomo si pone alla ricerca della verità: una ricerca esigente che lo porta da ultimo
ad indagare sullo stesso significato radicale dell'esistere.
Quest'ansia di comprensione non è tuttavia fine a se stessa. Essa non esaurisce
le sue potenzialità nella volontà di dare adito ad una « visione del mondo» o ad
una « concezione della vita» che sia teoreticamente appagante.
Le ambizioni dell'uomo sono più grandi di quelle del suo conoscere. L'intelletto
non è un valore a sé stante, così come del resto non lo è la prassi. Ragione e
volontà, capacità di comprensione e potenzialità trasformatrice sono al servizio
del medesimo uomo. È pertanto in nome dell'uomo e della sua promozione inte­
grale che viene effettuata la ricerca della verità: un uomo che è assetato di as­
soluto non meno che desideroso di giustizia, bisognoso di " ragioni ,, non meno
che di efficienza.
I n questo orizzonte esistenziale il volume ripercorre con vigore speculativo e pro­
fondità di pensiero i temi perenni concernenti la fondamentalità dell'esistere ed il
primato di ogni « esistente » in cammino verso la propria pienezza.

Dal SOMMARIO:

I ntroduzione

Cap. I: I lineamenti della ricerca metafisica


Cap. Il: L'esperienza ontologica fondamentale
Cap. lii: Il valore conoscitivo del concetto di essere
Cap. IV: Molteplicità, finitezza e contingenza dell'esistente
Cap. V: Il problema del divenire dell'esistente
Cap. VI: Le proprietà trascendentali dell'esistente
Cap. VII: Le leggi trascendentali dell'essere

Conclusione

Editrice LAS - Piazza dell'Ateneo Salesiano, 1 - 001 39 ROMA (Italia)


Tel.(06) 881 .21 .40 Telefax (06) 881 .20.57 - ccp. 57492001
-
Giuseppe Abbà

LEX ET VIRTUS
Studi sull'evoluzione della dottrina morale di san Tommaso d'Aquino

(Biblioteca di Scienze Religiose - 56), pp. 294, L. 25.000

Superando la tradizionale interpretazione secondo cui san Tommaso d'Aquino va


costruendo di opera in opera una sintesi dottrinale con u no sviluppo sostanzial­
mente omogeneo, l'Autore, docente di filosofia morale presso l'Università Ponti­
ficia Salesiana di Roma, propone un'interpretazione secondo la quale il pensiero
morale di san Tommaso va dapprima intessendo variazioni su un tema: la retti­
tudine divina (Scriptum super Sententiis), la verità eterna (De Veritate), la legge
divina (Summa contra Genti/es) costituiscono l'esemplare cui deve adeguarsi l'a­
zione umana per essere retta e vera. Nella Summa Theologire invece va ope­
rando una profonda rivoluzione: la Il Pars studia come l'uomo possa essere prin­
cipio della sua condotta, governatore del proprio mondo. La considerazione, del
tutto nuova in morale, dei limiti introdotti nella natura umana dall'individuazione,
svela l'insufficienza della legge divina a rettificare la condotta umana e fa assu­
mere un ruolo di primaria importanza ad un concetto di habitus virtuoso apposi­
tamente elaborato. Frutto di minuziose indagini testuali condotte sul filo cronolo­
gico delle opere è un'originale interpretazione della Il Pars e dell'intero piano della
Summa Theologire, che si discosta da quelle correnti proposte da affermati stu­
diosi (Chenu, Guindon, Lafont, Kluxen, Merks, Pesch), pur integrandone gli spunti
ritenuti validi.

Dal SOMMARIO:

I ntroduzione

Parte I: L 'uomo nel regime della legge

1 . Scriptum super Sententiis: La partecipazione della divina rettitudine


2. De Veritate: La comunicazione della divina verità
3. Summa contra Genti/es: La sottomissione alla legge divina

Conclusione della Parte I

Parte I l : L 'uomo nel regime della virtù

4. Summa Theologire: Una scienza nuova


5. La Secunda Pars nella Summa Theologire
6. La nuova concezione dell'habitus virtuoso
7. La nuova concezione del ruolo della legge nella condotta umana

Conclusione generale

Editrice LAS - Piazza dell'Ateneo Salesiano, 1 - 00 1 39 ROMA ( Italia)


Tel.(06) 88 1 .2 1 .40 Telefax (06) 881 .20.57 - ccp. 57492001
-
FELICITÀ, VITA BUONA E VIRTÙ
Saggio di filosofia morale

Per diverse ragioni il saggio costituisce una novità. Esso introduce per la prima volta nelle
pubblicazioni italiane di etica filosofica e teologica l'interesse per i temi della felicità e della
virtù, attorno ai quali da circa un trentennio è in corso un vivace dibattito presso moralisti
tedeschi e angloamericani. Parecchi filosofi e teologi ripropongono infatti i concetti di fe­
licità e di virtù per ovviare agli inconvenienti riscontrabili nell'etica moderna, di matrice sia
utilitarista, sia kantiana, sia liberale.
In particolare l'Autore opera per la prima volta in Italia un approfondito confronto con la
proposta di Alasdair Maclntyre nel suo After Virtue di riprendere la tradizione aristotelica
delle virtù.
Inoltre discute il progetto di Stanley Hauerwas di centrare l'etica teologica sul concetto di
carattere formato in una comunità. Da parte sua introduce nel dibattito un interlocutore
che, pur essendo antico, è nuovo, in quanto o ignorato o scarsamente sfruttato:· Tommaso
d'Aquino. Egli mostra non solo che la morale della virtù elaborata da Tommaso dice qual­
cosa di assolutamente originale rispetto alle teorie etiche antiche, moderne e odierne, ma
anche che il suo contributo, opportunamente sviluppato per rispondere ai nuovi problemi,
resta valido e attuale.
Delinea così un'etica della virtù che, riprendendo quella tomista, integra i concetti di ragion
pratica (sfruttando la recente teoria di G. Grisez e di J. Finnis), di vita buona, di felicità,
di dovere e analizza i complessi rapporti tra virtù e norme, virtù e giudizio pratico. Soprat­
tutto spiega la funzione delle virtù nella buona condotta di agenti umani complessi e fragili.
Termina con alcuni spunti circa l'educazione alle virtù.
Il saggio è filosofico, ma ha rilevanza anche per la teologia morale e spirituale e per una
teoria dell'educazione morale.

Giuseppe Abbà, salesiano, nato nel 1943, è docente di filosofia morale presso la Facoltà di Filosofia
dell'Università Pontificia Salesiana. Ha pubblicato Lex et virtus. Studi sull'evoluzione della dottrina
morale di san Tommaso d'Aquino. Roma, LAS 1983.

ISBN 88-213-183-4 L. 30.000

Potrebbero piacerti anche