ARGOMENTARE
EDIZIONE DIGITALE
2013
VERSIONE A STAMPA EDITA DA BRUNO MONDADORI – CON TESTI DI FABIO GRIGENTI E ANTONIO DA RE
M015 COS’È LUOMO E QUAL È IL SUO BENE?
Il primato assunto dalla domanda su natura e ruolo dell’uomo segna la nascita dell’età moderna.
L’Umanesimo, in questo senso, appare come un’erma bifronte. Per un verso, esso tira le fila della
speculazione medioevale ponendosi, rispetto a essa, in una posizione nuova non per gli elementi
concettuali sui quali gli umanisti agiscono, bensì per la posizione speculare, rispetto ai medioevali, dalla
quale li considerano; è, questo il carattere rilevante (che abbiamo considerato nel volume dedicato al
Medioevo) della ripresa, da parte di Marsilio Ficino (1433-1499) e di Pico della Mirandola (1463-1494),
della prospettiva platonica del rapporto fra macrocosmo e microcosmo. D’altro lato, l’Umanesimo apre,
alla riflessione immediatamente successiva, un orizzonte effettivamente nuovo, dove appaiono
elementi che non trovavano spazio nel quadro concettuale precedente : ciò accade
attraverso la messa in luce dell’insufficienza di quest’ultimo, della sua contraddittorietà e della necessità
di fornire nuove fondamenta concettuali alle esigenze che l’Umanesimo avanza.
Cartesio (1596-1650) individua questo fondamento nella ragione; è quest’ultima, infatti, a dar conto
del primato dell’uomo rispetto alle altre realtà del creato. La ragione costituisce, altresì, la frontiera
invalicabile che separa l’uomo dall’animale: l’animale rappresenta l’essere determinato, nei suoi
comportamenti, dalle dinamiche intrinseche alla corporeità, mentre l’uomo, proprio in virtù della
ragione, può trascendere la dimensione meccanicista e determinista che è propria della materialità. In
quanto costituita sul fondamento della ragione, la specificità dell’essenza umana, nella sua irriducibile
differenza rispetto a quella dell’animale, appare, dunque, come un’articolazione del dualismo cartesiano
di res extensa e res cogitans.
Del dualismo cartesiano fra dimensione spirituale e dimensione corporea, che si ripercuote nella
definizione dell’essenza dell’uomo, Blaise Pascal (1623-1662) e Thomas Hobbes (1588-1679)
rappresentano i due corni. La scelta di Pascal assume la realtà spirituale come caratteristica definitoria
dell’essenza umana, e propone anzi nella sfera spirituale un dualismo ulteriore, quello tra fede e
ragione: la ragione dimostrativa non esaurisce la realtà umana, che si estende fra l’evento del peccato e
la possibilità della redenzione, alla quale l’uomo può pervenire soltanto in virtù della fede, frutto di una
scelta che rappresenta, per l’uomo, l’esercizio più alto del libero arbitrio.
Il secondo corno del dualismo cartesiano è incarnato, invece, dalla posizione di Hobbes. Nel suo
rigoroso sistema meccanicista, l’antropologia non è altro se non una sezione della fisiologia, e
quest’ultima una sezione della fisica. La risposta alla domanda che chiede che cosa sia l’uomo viene
offerta, da Hobbes, attraverso un’indagine che comporta la riduzione dell’essenza umana e del suo
manifestarsi alla risultante di un complesso di movimenti di corpi materiali.
A partire dalla fondazione dualistica cartesiana della differenza specifica dell’uomo nei confronti del
resto del mondo creato, nonché avanzando lungo i due percorsi che da essa si diramano (l’uno centrato
sull’elemento spirituale, l’altro su quello materiale), nell’età moderna vengono riprese, in chiave
antropologica, questioni che la riflessione medioevale già conosceva, ma come pertinenti a una
dimensione ultraterrena e al problema della sua conoscibilità: il problema del rapporto tra fede e
ragione, per esempio, che da questione relativa al rapporto dell’uomo con Dio diventa questione
inerente all’essenza della ragione umana; oppure, il problema del rapporto fra libertà e necessità, che
da questione relativa all’azione di Dio nel mondo diventa questione che definisce l’essenza del volere
umano, in quanto sospeso fra la spontaneità della ragione e la passività della sensazione.
In questo modo, tuttavia, i termini della domanda su che cosa sia l’uomo subiscono, rispetto a come
essi emergevano nella riflessione dei secoli precedenti, un mutamento così radicale da comportare una
dissoluzione della domanda stessa. Data per acquisita la prospettiva antropocentrica, infatti, per gran
parte della riflessione del Settecento e dell’Ottocento non si tratterà tanto di prendere le mosse
dall’indagine sull’essenza dell’uomo e sulla specificità che lo distingue dagli altri enti, quanto, piuttosto,
di esaminare i problemi posti dal conoscere, dal volere e dall’agire umano, dando per scontata quella
1 Con testi di Fabio Grigenti, per la parte antropologica, e Antonio da Re per quella etica.
stessa specificità. Detto altrimenti: fino alla filosofia dell’esistenza del ventesimo secolo, la questione di
che cosa sia l’uomo risulterà riformulata nella domanda su come l’uomo conosca, voglia, agisca. Questo
è il frutto di come la domanda sull’uomo viene posta dalla riflessione filosofica nel periodo fra
Cinquecento e Seicento, che ci apprestiamo a considerare.
L’uomo occupa, dal punto di vista metafisico, una posizione centrale all’interno del cosmo:
essere intermedio fra l’àmbito sensibile e quello sovrasensibile ma, anche, immagine del
Creatore nonché microcosmo, ovvero immagine, sebbene in scala minore, del macrocosmo, cioè
della totalità dell’universo.
Nel passaggio dalla prospettiva medioevale a quella umanistica cambia l’angolo visuale dal
quale sono riguardati il rapporto fra l’uomo e Dio, e quello fra l’uomo e il mondo . Se per
Agostino, così come per Bonaventura e per Tommaso, il punto focale dell’indagine consiste nella
spiegazione della realtà di Dio e di quella del cosmo, all’interno della quale l’uomo trova la propria
natura e il proprio ruolo, per gli Umanisti il punto focale dell’indagine è specularmente opposto, il
percorso della ricerca inverso e il fuoco dell’indagine spostato. E’ a partire dal microcosmo, cioè dalla
realtà dell’uomo, che è possibile spiegare quella dell’universo e di Dio, e proprio per questo la realtà
dell’uomo diventa meritevole di essere indagata di per sé stessa, in quanto autonoma.
L’Umanesimo non rappresenta tanto un fenomeno esclusivamente filosofico quanto, più in generale, un
fenomeno di carattere culturale. Esso consiste, per il suo tratto fondamentale, nell’affermarsi di una
visione del mondo che pone al centro del proprio interesse e della propria prassi l’uomo :
anche laddove quest’ultimo sia concepito, anzitutto, come ente creato e, in quanto tale, come parte
dell’universo, la sfera dell’umano diventa, infatti, il centro focale dell’indagine.
Pur prendendo le mosse dall’interpretazione, di ascendenza neoplatonica, del rapporto fra uomo e
mondo come rapporto fra cosmo e microcosmo, nella riflessione dell’Umanesimo la relazione fra i due
termini risulta riformulata: incentrandosi sul microcosmo, l’indagine ne sottolinea la “dignità”, e apre
così la strada perché il microcosmo sia considerato una realtà autonoma rispetto alla sfera del divino,
inaugurando una prospettiva che si imporrà con l’età moderna,.
Dal punto di vista più propriamente filosofico, risulta dunque decisiva, per la soluzione umanistica al
problema dell’uomo, la distinzione fra macrocosmo e microcosmo, nei termini in cui essa è delineata dal
platonismo ma, soprattutto, da Bonaventura: la lettura che Bonaventura dà di tale distinzione attraverso
la lente del dualismo aristotelico di materia e forma, insistendo sul carattere di realtà da attribuirsi
all’unità dell’una e dell’altra (unità che si realizza appunto, in modo esemplare, nell’uomo), costituisce la
premessa decisiva per la considerazione umanistica dell’uomo come realtà degna di essere posta quale
oggetto privilegiato dell’indagine.
evidente debolezza, su questo piano, nei confronti degli altri animali; egli partecipa anche dell’essenza
del divino, cioè della sfera spirituale, ma ciò non genera in lui, rispetto alla beatitudine delle forme
angeliche, altro che inquietudine, fintanto che l’anima sia prigioniera di quell’“oscuro carcere” che è la
“mole inerte” del corpo. D’altra parte, proprio questa posizione intermedia entro la topografìa del reale
nella quale l’uomo si colloca costituisce anche il motivo del suo primato: la posizione intermedia si rivela
essere una centralità, il qualificarsi “intermedio” dell’uomo si rivela come un valore.
Pico della Mirandola (1463-1494) sottolinea il primo dei due aspetti ricordati, cioè il primato che, nel
contesto dell’indagine, deve essere assegnato all’uomo in quanto compartecipe di tutti gli elementi e le
qualità attribuiti, nell’universo, alle altre creature. Creando per ultimo l’uomo, dichiara Pico, Dio stabilì
“che a colui cui nulla poteva dare di proprio fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato
agli altri”. Quella che in Ficino è presentata ancora come una carenza dell’uomo diventa, in Pico, il
motivo della sua “dignità”; Dio colloca l’uomo “nel mezzo del mondo” perché, di lì, egli possa “scorgere
tutto ciò che è nel mondo”. In breve: la posizione intermedia dell’uomo lo pone, secondo Ficino, al di
sopra degli altri enti creati, perché gli consente di trascendere questa stessa posizione verso la
dimensione spirituale del divino, e in questo trascendere sta l’“eccellenza” della natura umana; per Pico,
invece, la “dignità” dell’uomo consiste proprio in questa posizione, non nell’oltrepassarla.
Già il Sommo Padre, Dio creatore, aveva foggiato, secondo le leggi di un’arcana sapienza, questa dimora
del mondo quale ci appare, tempio augustissimo della divinità. […]
Senonché, recato il lavoro a compimento, l’artefice desiderava che ci fosse qualcuno capace di afferrare
la ragione di un’opera sì grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità. Perciò, compiuto ormai il
tutto, come attestano Mosé e Timeo, pensò da ultimo a produrre l’uomo. Ma degli archetipi non ne
restava alcuno su cui foggiare la nuova creatura, né dei tesori uno ve n’era da largire in retaggio al
nuovo figlio, né dei posti di tutto il mondo uno rimaneva in cui sedesse codesto contemplatore
dell’universo. […]
Stabilì finalmente l’ottimo artefice che a colui cui nulla poteva dare di proprio fosse comune tutto ciò
che aveva singolarmente assegnato agli altri. Perciò accolse l’uomo come opera di natura indefinita e,
postolo nel cuore del mondo, così gli parlò: “Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un
aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu
desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è
contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il
tuo arbitrio alla cui potestà ti consegnerai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi
tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te
stesso quasi libero e sovrano ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai
degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose
superiori che sono divine”.
O somma liberalità di Dio Padre, somma e ammirabile felicità dell'uomo! Al quale è dato di poter avere
ciò che desidera, ed essere ciò che vuole. I bruti nascendo, assorbono dal seno materno ciò che
possederanno. Gli spiriti superiori furono invece, sin dall'origine, o poco di poi, ciò che saranno
eternamente. Il Padre infuse all'uomo, sin dalla nascita, ogni specie di semi e ogni germe di vita. Quali di
questi saranno da lui coltivati cresceranno e daranno i loro frutti: se i vegetali, sarà come pianta, se i
sensuali, diventerà simile a un bruto, se i razionali, da animale si trasformerà in celeste; se
gl'intellettuali, diverrà angelo e figlio di Dio. E se di nessuna creatura rimarrà pago, rientrerà nel centro
della sua unità, e lo spirito, fatto uno con Dio, verrà assunto nell'umbratile solitudine del Padre che
s'aderge sempre al di sopra di ogni cosa. Chi ammira questo nostro camaleonte, o, anzi chi altri può
ammirare di più?
Pico della Mirandola, De hominis dignitate, Vallecchi, Firenze 1942, pp. 105-109.
Il rapporto tra Marsilio Ficino e Pico della Mirandola appare come esemplificativo della
trasformazione che segna il passaggio, nella soluzione del problema dell’uomo, dalla
prospettiva medioevale a quella umanistica : nel contesto di un’interpretazione che colloca
l’uomo, quale microcosmo, sullo sfondo del suo rapporto con l’universo, nonché di quello con il suo
Creatore, l’accento si sposta sempre più sulla sfera dell’umano, fino a legittimarla come
dimensione autonoma della realtà. Al termine del Medioevo, la risposta degli Umanisti alla
domanda che chiede che cosa sia l’uomo rappresenta, oltre che la loro eredità concettuale più
importante, il gesto filosofico e culturale che inaugura l’età moderna.
E’ rovesciato il senso del rapporto fra macrocosmo e microcosmo. Per Agostino, il ripiegarsi
dello sguardo contemplativo nell’interiorità dell’anima umana deve servire a elevarla a Dio. Per Pico
della Mirandola è invece nell’uomo, nel quale sono riposti “semi d’ogni specie e germi d’ogni vita”, che
si trova la chiave dell’universo. In questo modo, la speculazione degli Umanisti apre la strada alla
considerazione della sfera dell’umano come realtà primariamente degna di essere indagata, ciò che
costituisce il tratto decisivo dell’età moderna.
L’orizzonte della risposta di Michel de Montaigne (1533-1592) alla domanda che chiede che cosa sia
l’uomo è circoscritto, da un lato, dall’ispirazione scettica, dall’altro dalla polemica con i sistemi metafisici
di ispirazione aristotelica e neoplatonica che avevano nutrito la posizione dell’Umanesimo
rinascimentale. Questa polemica non ha lo stesso valore nei due casi: mentre l’attacco ai sistemi
metafisici della Scolastica (condotto con gli strumenti forniti dallo scetticismo) non lascia spazio, in
Montaigne, ad alcuna forma di contiguità con essi, la disputa con l’interpretazione neoplatonica
dell’uomo come microcosmo, caratteristica della prima fase dell’Umanesimo, mette in luce, invece, una
assunzione di fondo che è comune a Montaigne e all’Umanesimo, con cui il filosofo francese polemizza:
la convinzione che la natura umana debba costituire l’oggetto privilegiato dell’indagine,
cioè il terreno dove nasce e si esercita la riflessione filosofica.
È forte, già nella prima metà del Cinquecento, l’influsso dello scetticismo di Sesto Empirico (200-250 d.
C.), utilizzato da molti pensatori per mettere in luce, a fronte delle incertezze della scienza umana, le
certezze della fede. Non è questo, tuttavia, l’orientamento di Montaigne: anche se non intende
attaccare le verità della fede, non intende neppure utilizzarle per la propria soluzione al problema
dell’uomo. L’assunzione della posizione scettica da parte di Montaigne non è dunque meramente
strumentale: la sua antropologia è effettivamente scevra da elementi e da obiettivi fideistici ed è
sviluppata con gli strumenti dell’introspezione e dell’autoriflessione.
argomentazione scettica che sostiene l’inconoscibilità degli oggetti per l’uomo, al di là delle apparenze
che essi gli mostrano: nel rapporto conoscitivo, l’uomo non può giudicare il termine estraneo (l’oggetto
«in sé») né, di conseguenza, l’adeguatezza, ad esso della propria conoscenza, in quanto egli dovrebbe
porsi, per ciò, al di fuori del rapporto stesso.
Questa argomentazione, abbattendo la pretesa di primato dell’uomo nei confronti delle altre creature,
vale, per conseguenza, anche contro quelle prospettive, di ascendenza platonica e neoplatonica, che
nella prima fase dell’Umanesimo concepivano l’uomo come microcosmo, cioè come contenente in sé le
potenzialità dell’universo creato e, in virtù di ciò, assegnavano all’uomo un ruolo centrale, per posizione
e per valore. Tuttavia, se all’uomo non può essere riconosciuto alcun primato in forza di una sua
presunta centralità metafisica, questo stesso primato, ovvero il suo costituire il centro di interesse per la
riflessione filosofica, gli deve venir assegnato in virtù del fatto che, di questa stessa riflessione, l’uomo
costituisce l’oggetto precipuo e, in ultima analisi il solo possibile, e dunque meritevole, di indagine. In
questo modo, la soluzione di Montaigne, pur attaccando la posizione dell’Umanesimo rinascimentale, ne
ripropone il presupposto di fondo.
TESTO MONTAIGNE
In questo brano, tratto dall’Apologia di Raimundo Sebonde, Michel de Montaigne attacca il primato che
il platonismo aveva conferito, nella prima fase dell’Umanesimo, all’uomo.
Consideriamo dunque, per ora, l’uomo solo, senza soccorso esterno, armato delle sue sole armi e
sprovvisto della grazia e della conoscenza divina, che è tutto il suo onore, la sua forza e il fondamento
del suo essere. Vediamo quanto egli possa resistere in questo bello stato. Che egli mi faccia capire, con
la forza del suo ragionamento, su quali basi ha fondato quei grandi privilegi che pensa di avere sulle altre
creature. Chi gli ha fatto credere che quel mirabile movimento della volta celeste, la luce eterna di
quelle fiaccole ruotanti così arditamente sul suo capo, i movimenti spaventosi di quel mare infinito siano
stati determinati e perdurino per tanti secoli per la sua utilità e per il suo servizio? È possibile
immaginare qualcosa di tanto ridicolo quanto il fatto che questa miserabile e meschina creatura, che
non è neppure padrona di se stessa ed è esposta alle ingiurie di tutte le cose, si dica padrona e signora
dell’universo, di cui non è in suo potere conoscere la minima parte, tantomeno di comandarla? E quel
privilegio che si attribuisce, di essere, cioè, il solo, in questa gran fabbrica, ad avere la facoltà di
riconoscerne la bellezza e le parti, il solo a poter rendere grazie all’architetto e a tener conto del bilancio
del mondo, chi gli ha conferito questo privilegio? Ci mostri le credenziali di questo bell’ufficio. […]
M. de Montaigne, Saggi, Lib. II, cap. XII.
Per la comprensione
L’argomentazione di Montaigne si sviluppa attraverso alcune tesi:
1. Per valutare l’essenza dell’uomo occorre considerarla a prescindere dal favore a esso accordato da
Dio.
2. Prescindendo dalla grazia di Dio, la pretesa che l’universo sia finalizzato all’uomo è indimostrabile.
3. In questa condizione, non è neppure dimostrabile che l’uomo sia il solo ad avere nozione
dell’universo e di Dio.
Riporta le parti di testo corrispondenti a queste tesi.
l’orizzonte antropocentrico così emerso dalla posizione di Montaigne, cercherà proprio questo
fondamento.
2.3 CARTESIO: LA DUPLICI TA’ DELL’UOMO FONDAM ENTO DEL SUO PRIMATO
Con Cartesio la prospettiva antropocentrica, che costituisce il tratto distintivo dell’età moderna,
impostosi nella cultura e nella filosofia occidentali grazie all’Umanesimo, riceve un fondamento
metafisico: il primato dell’uomo, all’interno del cosmo, deriva dal fatto che egli è il solo essere costituito
da materia e spirito.
TESTO CARTESIO
In questo brano, tratto dal Discorso sul metodo¸ Cartesio individua nel carattere universale della ragione
l’elemento che discrimina l’uomo dagli animali.
Mi ero qui fermato a far vedere in modo particolare che, se ci fossero macchine aventi organi e figura di
scimmia o di altro animale privo di ragione, noi non avremmo nessun mezzo per riconoscere la
differenza; mentre, se ve ne fossero che somigliassero al nostro corpo e imitassero le nostre azioni
quanto meglio fosse possibile, noi avremmo pure sempre due mezzi certissimi per riconoscere che esse
non sono affatto, nonostante ciò, dei veri uomini. Il primo è che non potrebbero mai valersi di parole o
di altri segni, componendoli come noi facciamo per esprimere agli altri i nostri pensieri: poiché si può
bene immaginare una macchina che profferisca delle parole, e anzi ne profferisca alcune riguardanti
azioni corporali che producano qualche alterazione nei suoi organi, come domandare qualcosa, se
toccata in una sua parte, o gridare che le si fa male se toccata in altra parte, e simili cose; ma non già che
essa disponga le parole diversamente per rispondere a tono a tutto quello che uno può dirle, come,
invece, saprebbe fare anche l’uomo più idiota. Il secondo mezzo è che, anche se facessero alcune cose
ugualmente bene e, anzi, meglio di noi, esse, inevitabilmente, sbaglierebbero in alcune altre, e si
scoprirebbe, così, che esse non agiscono per conoscenza, ma soltanto per una disposizione dei loro
organi. […] è cosa ben certa che non ci sono uomini così idioti e stupidi, o addirittura insensati, i quali
non sappiano combinare insieme diverse parole e comporre un discorso per farsi intendere; e che, al
contrario, non c’è un altro animale, per quanto perfetto e felicemente nato, che faccia similmente. E
questo non accade per difetto di organi […] E questo prova non soltanto che le bestie hanno meno di
ragione degli uomini, ma che non ne hanno affatto: poiché tutti vediamo che ne basta ben poca per
parlare.
R. Cartesio, Discours de la méthode, V, XIX-XX.
Per la comprensione
In rapporto al testo, ripercorri la tesi di Cartesio rispondendo alle seguenti domande:
Come si potrebbe riconoscere un autentico animale da un automa che ne imitasse perfettamente le
sembianze?
Quali sono i mezzi che permetterebbero di distinguere un uomo da un automa che ne imitasse
perfettamente le sembianze?
Quale è, secondo Cartesio, la prova del fatto che gli animali non hanno la ragione?
In breve: ciò che caratterizza l’uomo è il fatto che egli sia titolare di una facoltà che non
consiste in un automatismo, mentre l’animale (e l’uomo stesso, per ciò che concerne le funzioni
vitali, che egli condivide con gli animali) può essere equiparato, sostiene Cartesio, a una macchina; il
funzionamento meccanico è la proprietà che contraddistingue la corporeità, mentre la spontaneità della
ragione è prerogativa della res cogitans, cioè, nell’uomo, dell’anima. Secondo l’argomentazione
cartesiana, dunque, la presenza della facoltà spontanea è la prova dell’esistenza nell’uomo di
una duplice natura che è inderivabile dalla materia ed è , nondimeno, ad essa (almeno
finché l’uomo vive) molto più intimamente congiunta di quanto ritenesse Platone : in questo
modo, Cartesio ritiene di aver «descritto l’anima ragionevole e mostrato che essa non può, in alcun
modo, essere tratta dalla potenza della materia, […] che non basta che essa sia posta nel corpo umano
come un pilota sulla sua nave [così come riteneva, invece, Platone], se non, forse, per muovere le sue
membra, ma che occorre che essa sia congiunta e unita più strettamente con il corpo per avere, oltre a
ciò, dei sentimenti e degli appetiti simili ai nostri, e comporre, così, un vero uomo» (Discorso sul metodo,
V, XX). Si apre, in questo modo, un problema che inerisce più alla fisiologia che alla metafisica,
consistente nella domanda relativa a come possa l’anima, sostanza inestesa, influire e
determinare i movimenti del corpo, ovvero la questione relativa alla sede fisica dell’anima: la
risposta di Cartesio, offerta nel Trattato sull’uomo, menziona una parte del cervello, la cosiddetta
ghiandola pineale, come luogo privilegiato di attività dell’anima nel corpo.
1. La prima era di obbedire alle leggi e ai costumi del mio paese , serbando fede alla religione
nella quale Dio mi ha fatto la grazia di essere educato sin dall'infanzia, e regolandomi nel resto
secondo le opinioni più moderate, lontane da ogni eccesso, e comunemente seguite dalle persone
più assennate, con le quali dovevo vivere.[…]
2. La seconda massima era di esser fermo e risoluto, per quanto potevo, nelle mie azioni , e di
seguire anche le opinioni più dubbie, una volta che avessi deciso di accettarle, con la stessa
costanza come se fossero le più sicure. […]
3. La mia terza massima fu di vincere sempre piuttosto me stesso che la fortuna , e di voler
modificare piuttosto i miei desideri che l'ordine delle cose nel mondo; e in generale di assuefarmi a
credere che nulla all'infuori dei nostri pensieri è interamente in nostro potere, in modo che, quando
abbiamo fatto del nostro meglio riguardo alle cose che son fuori di noi, se qualcosa non ci riesce,
vuol dire ch'essa non dipende assolutamente da noi. […]
Dopo di essermi così assicurato di queste massime e averle messe da parte insieme alle Verità della fede
che sono state sempre le prime fra le mie credenze, ritenni di poter cominciare, per tutto il resto delle
mie opinioni, a disfarmene liberamente.”
Nonostante le intenzioni, Cartesio non arriverà mai a formulare una morale definitiva.
I suoi ultimi scritti vertono su questioni di carattere etico, come nel caso della sua ultima opera, Les
passions de l’âme (Le passioni dell’anima), scritta nell’inverno 1645-46. La redazione del trattato,
pubblicato poi nel 1649, si deve fondamentalmente alle sollecitazioni della principessa Elisabetta, figlia
di Federico V di Palatinato, che in una fitta e dotta corrispondenza con il filosofo francese si chiede come
sia possibile sottrarsi al condizionamento delle passioni e all’influsso del corpo; soprattutto la
principessa solleva un problema assai rilevante, una volta che si ammettano i presupposti del
cartesianesimo di una netta distinzione tra anima e corpo, tra res cogitans e res extensa: come può ciò
che non è dotato di estensione influire su ciò che è materia estesa? e il corpo, come può agire sull’anima
e influenzarla? (si veda a titolo d’esempio la lettera inviata da Elisabetta il 16. 5. 1643 e pubblicata
nell’edizione Adam e Tannery = AT III 660).
Le passioni sono definite da Cartesio nel suo trattato come “percezioni, o sentimenti, o emozioni
dell’anima” (art. 27;) e come tali vengono nettamente distinte dagli atti del pensiero e della volontà:
questi ultimi, infatti, indicano l’attività propria dell’anima, i sentimenti e le emozioni invece designano lo
stato di passività dell’anima (art. 28). Il concetto di passione è comunque strettamente correlato a
quello di azione (art. 1), di modo che se nel soggetto si manifestano delle passioni, a queste dovranno
corrispondere delle azioni. E da dove deriveranno le azioni? La risposta di Cartesio è chiara al riguardo:
nulla agisce più direttamente sull’anima del cor po a cui essa è unita (art. 2). Le azioni del
corpo quindi determinano il patire dell’anima.
Il problema che ora si pone è se si possa eliminare o anche solo correggere una passione
(per esempio la paura), vale a dire se si possa influire sulle azioni del corpo e sui processi somatici.
Innanzitutto Cartesio esclude che le passioni debbano (e possano) essere estirpate: chi ha una buona
conoscenza di esse, non ha motivo di preoccuparsi. Le passioni, infatti, a cominciare dalle sei
fondamentali (ammirazione, amore, odio, desiderio, gioia, tristezza) (art. 69), per finire con le altre che
da queste derivano, “per loro natura son tutte buone”, e noi dobbiamo solo “evitarne il
cattivo uso e l’eccesso” (art. 211). Più che all’eliminazione, si deve quindi ricorrere alla correzione o
alla moderazione; per l’anima questo compito è possibile, anche se non in forma diretta, proprio perché
si è visto come essa sia facilmente affetta dal corpo, si trovi quindi in uno stato di passività rispetto ai
processi somatici. L’anima però non si esprime solo attraverso le passioni; essa si esprime anche
attraverso le azioni, ovvero gli atti volontari, che sono completamente in suo potere (art. 28): “la volontà
– afferma Cartesio – è per sua natura talmente libera da non poter essere mai costretta” (art. 41).
Benché libera, la volontà non può sopprimere e neppure eccitare le passioni in modo diretto; può però
intervenire indirettamente, suscitando rappresentazioni adeguate alle passioni che si vuole avere e
contrarie a quelle che si vuole evitare (art. 45). La paura di morire, per esempio, può essere
ridimensionata se si smette di guardare alla morte come ad un male estremo, al quale ci si può sottrarre
solo con una fuga infamante. La volontà interviene formulando “giudizi saldi e precisi circa la
conoscenza del bene e del male” (art. 48); e le anime più deboli sono quelle che non si impegnano a
seguire i giudizi della volontà, le anime più forti quelle invece che si attengono ad essi (art. 49). Tuttavia,
anche le anime più deboli potrebbero esercitare un dominio sulle passioni se solo venissero educate e
guidate (art. 50).
In queste ultime indicazioni emerge con sufficiente chiarezza l’ideale stoico dell’uomo saggio,
riproposto da Cartesio, in sintonia del resto con ampi settori della cultura filosofica e letteraria del suo
tempo (tra tante testimonianze ci si può limitare a menzionare l’opera di Pierre Charron (1541-1603), La
saggezza, pubblicata nel 1601, che traccia le linee di una morale umanistica e razionale, richiamatesi allo
stoicismo antico, soprattutto romano): l’uomo saggio è l’uomo libero, che non si lascia
condizionare dagli eventi esterni, che sa affrontare la sventura con animo fermo, che sa
controllare e padroneggiare le passioni. E’ significativo che in una lettera (vedi testo) Cartesio
consigli a Elisabetta la lettura del De vita beata di Seneca (4 a.C.-65 d.C.) e proponga tre regole, che ben
delineano l’ideale stoico dell’autosufficienza:
1) cercare di servirsi sempre del proprio spirito, per sapere ciò che si deve fare in ogni circostanza;
2) avere un animo fermo e risoluto nel seguire ciò che la ragione consiglia, senza lasciarsi distogliere
dalle passioni e dagli appetiti;
3) considerare i beni che non possediamo come al di fuori del nostro potere, di modo che ci si abituerà
a non desiderarli.
La debolezza della morale cartesiana, almeno rispetto al progetto di rifondazione di tutto il sapere,
deriva dalla difficoltà a in cui si imbatte chi separa nettamente l’ambito della libertà umana
da quello del determinismo materiale, individuando, tuttavia, un sistema di costruzione
della conoscenza basato sulla matematica e sulla sua ricerca di evidenza, certezza e
necessità. L’orizzonte morale non si presta facilmente a descrizioni di tal genere: da qui la sostanziale
inconsistenza della morale cartesiana, che si appoggia al buon senso senza riuscire a fondare una nuova
etica (morale provvisoria) o al più recupera l’ideale storico del saggio capace di governare le passioni con
la forza della volontà e dell’intelletto.
Blaise Pascal (1623 – Parigi, 1662) fu un matematico, fisico, filosofo e teologo francese. Bambino
precoce, si occupò di scienze naturali e di scienze applicate. A sedici anni scrisse un trattato di geometria
proiettiva e, dal 1654 lavorò con Pierre de Fermat sulla teoria delle probabilità che influenzò fortemente
le moderne teorie economiche e le scienze sociali. Contribuì in modo significativo alla costruzione di
calcolatori meccanici e allo studio dei fluidi, chiarendo i concetti di pressione e di vuoto.
Ma la sua importanza non è minore nel campo filosofico e teologico. Portatore di una antropologia in cui
la grandezza dell’uomo è coniugata alla sua fondamentale miseria esistenziale, Pascal coniuga filosofia
moderna, scienza e teologia, in chiara antitesi al progetto cartesiano.
Rintracciando l’essenza dell’uomo nel primo dei due lati del dualismo cartesiano, quello spirituale, Pascal
reduplica, in esso, il dualismo: la specificità caratteristica dell’uomo, che resta sospeso fra la colpa
originaria e la speranza della salvezza, è quella di essere definito dalla scissione tra fede e ragione, e la
sua grandezza sta nella consapevolezza della propria pochezza all’interno del creato.
risolse quasi distrattamente uno dei maggiori problemi della geometria e scrisse dei pensieri che hanno
sia del divino che dell'umano. Il nome di questo genio è Blaise Pascal.»
(François-René de Chateaubriand, Il genio del Cristianesimo)
Il tema che costituisce magna pars dell’argomentazione di Pascal consiste in quella che egli definisce
come la «sproporzione dell’uomo» nei confronti dell’universo creato e del suo creatore. Il filosofo
francese giustifica così la propria tesi: «ecco dove ci conducono le conoscenze naturali. Se esse non sono
vere, non c’è verità nell’uomo; se, invece le sue conoscenze sono vere, in esse l’uomo troverà un grande
motivo di umiliazione, perché sarà costretto ad abbassarsi, in un modo o nell’altro». Infatti, «che cos’è
l’uomo nella natura? Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla, qualcosa di
mezzo fra il tutto e il nulla» (Pensieri, 223).
I toni, oltreché i concetti, di queste affermazioni sono montaigneani; di Montaigne, Pascal condivide la
critica all’antropocentrismo tipico della prima fase dell’Umanesimo, fondato sull’idea di una
proporzionalità tra macrocosmo e microcosmo. Pascal non è tenero con Montaigne: gli rimprovera
«parole lascive», «noncuranza per la propria salvezza», lo accusa di essere «credulo» e «ignorante»
(Pensieri, 48), ma l’insofferenza per lo scetticismo di Montaigne (in quanto non finalizzato, come è
invece in Pascal, all’apologia della fede) non può rimuovere la consonanza profonda che, in merito alla
concezione dell’uomo, si verifica fra i due pensatori.
Pascal attacca anche l’«inutile e incerto» Cartesio; a quest’ultimo Pascal dice di «non poter
perdonare» di aver voluto, «in tutta la sua filosofia, fare a meno di Dio; ma non ha potuto esimersi dal
fargli dare un colpetto per mettere in movimento il mondo; dopo di che, non sa che farsene di lui»
(Pensieri, 50-51). Del resto, come si è detto, proprio il dualismo cartesiano costituisce il presupposto
teorico della soluzione pascaliana al problema dell’uomo.
L’esito al quale perviene la soluzione pascaliana del problema dell’uomo consiste, dunque, in una
interpretazione strumentale della ragione umana, secondo la quale quest’ultima deve
cedere il passo alla fede: «ecco che cos’è la fede: Dio sensibile alle ragioni del cuore, e non alla
ragione», (Pensieri, 148), poiché «noi conosciamo la verità non soltanto con la ragione, ma anche con il
cuore. In quest’ultimo modo conosciamo i principi primi» (Pensieri, 144). La situazione di
autoannullamento della ragione nei confronti della fede («nulla è così conforme alla ragione come
questa sconfessione della ragione» (Pensieri, 140)), per cui essa, pur nella sua imprescindibilità, deve por
capo al proprio superamento, diventa dunque esemplificativa della posizione dell’uomo di fronte a Dio:
il primato dell’uomo, ovvero la sua posizione peculiare nell’universo, consiste nel poter
riconoscere la propria pochezza nei confronti d ell’universo e del suo creatore.
2.4.5. IL PARI
Il Pari, la scommessa, rappresenta uno delle tesi più famose di Pascal, molto discussa per la sua
originalità e la sua audacia. Il senso è chiaro: la fede coinvolge l'esistenza. E, a livello esistenziale, i
ragionamenti sono scarsamente efficaci: nessun argomento può essere convincente se chi ascolta non
vuole essere convinto. Ma la ragione può avere una funzione anche al di là del mondo delle certezze,
cioè nel campo del possibile e del probabile.
Il cavaliere di Méré, un libertino amante del gioco, aveva chiesto al suo amico Pascal di risolvere
problemi di probabilità legati alle puntate nel gioco d'azzardo: la risposta di Pascal è l'elaborazione di
una teoria della probabilità, fondata su calcoli matematici che, se applicati alla questione dell'esistenza
di Dio, possono risultare convincenti anche per coloro ai quali Dio non ha fatto il dono della fede. Nella
dialettica fra infinito e nulla l'uomo è costretto a sc egliere, e la scelta può voler dire
rischiare la vita eterna.
[…] Se c'è un Dio, è infinitamente incomprensibile, perché, non avendo né parti né limiti, non ha nessun
rapporto con noi. Siamo, dunque, incapaci di conoscere che cos'è né se esista. Cosí stando le cose, chi
oserà tentare di risolvere questo problema? Non certo noi, che siamo incommensurabili con lui.
[…] Esaminiamo allora questo punto, e diciamo: “Dio esiste o no?” Ma da qual parte inclineremo? La
ragione qui non può determinare nulla: c'è di mezzo un caos infinito. All'estremità di quella distanza
infinita si gioca un giuoco in cui uscirà testa o croce. Su quale delle due punterete? Secondo ragione, non
potete puntare né sull'una né sull'altra; e nemmeno escludere nessuna delle due. Non accusate,
dunque, di errore chi abbia scelto, perché non ne sapete un bel nulla.
“No, ma io li biasimo non già di aver compiuto quella scelta, ma di avere scelto; perché, sebbene chi
sceglie croce e chi sceglie testa incorrano nello stesso errore, sono tutte e due in errore: l'unico partito
giusto è di non scommettere punto”.
Sí, ma scommettere bisogna: non è una cosa che dipenda dal vostro volere, ci siete impegnato. Che cosa
sceglierete, dunque? Poiché scegliere bisogna, esaminiamo quel che v'interessa meno. Avete due cose
da perdere, il vero e il bene, e due cose da impegnare nel giuoco: la vostra ragione e la vostra volontà, la
vostra conoscenza e la vostra beatitudine; e la vostra natura ha da fuggire due cose: l'errore e l'infelicità.
La vostra ragione non patisce maggior offesa da una scelta piuttosto che dall'altra, dacché bisogna
necessariamente scegliere. Ecco un punto liquidato. Ma la vostra beatitudine? Pesiamo il guadagno e la
perdita, nel caso che scommettiate in favore dell'esistenza di Dio. Valutiamo questi due casi: se vincete,
guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete, dunque, senza esitare, che egli esiste.
Vediamo. Siccome c'è eguale probabilità di vincita e di perdita, se aveste da guadagnare solamente due
vite contro una, vi converrebbe già scommettere. Ma, se ce ne fossero da guadagnare tre, dovreste
giocare (poiché vi trovate nella necessità di farlo); e, dacché siete obbligato a giocare, sareste
imprudente a non rischiare la vostra vita per guadagnarne tre in un giuoco nel quale c'è eguale
probabilità di vincere e di perdere. Ma qui c'è un'eternità di vita e di beatitudine. Stando cosí le cose,
quand'anche ci fosse un'infinità di casi, di cui uno solo in vostro favore, avreste pure sempre ragione di
scommettere uno per avere due; e agireste senza criterio, se, essendo obbligato a giocare, rifiutaste di
arrischiare una vita contro tre in un giuoco in cui, su un'infinità di probabilità, ce ne fosse per voi una
sola, quando ci fosse da guadagnare un'infinità di vita infinitamente beata. Ma qui c'è effettivamente
un'infinità di vita infinitamente beata da guadagnare, una probabilità di vincita contro un numero finito
di probabilità di perdita, e quel che rischiate è qualcosa di finito. Questo tronca ogni incertezza:
dovunque ci sia l'infinito, e non ci sia un'infinità di probabilità di perdere contro quella di vincere, non
c'è da esitare: bisogna dar tutto. E cosí, quando si è obbligati a giocare, bisogna rinunziare alla ragione
per salvare la propria vita piuttosto che rischiarla per il guadagno infinito, che è altrettanto pronto a
venire quanto la perdita del nulla.
Tratto da http://www.francescocaranti.net/opzioni/rf10-blaise-pascal-e-la-scommessa-di-dio
[…] “Sta bene. Ma io ho le mani legate, e la mia bocca è muta; sono forzato a scommettere, e non sono
libero; non mi si dà requie, e sono fatto in modo da non poter credere. Che volete, dunque, che faccia?”
È vero. Ma riconoscete almeno che la vostra impotenza di credere proviene dalle vostre passioni, dacché
la ragione vi ci porta, e tuttavia non potete credere. Adoperatevi, dunque, a convincervi non già con
l'aumento delle prove di Dio, bensí mediante la diminuzione delle vostre passioni. Voi volete andare alla
fede, e non ne conoscete il cammino; volete guarire dall'incredulità, e ne chiedete il rimedio: imparate
da coloro che sono stati legati come voi e che adesso scommettono tutto il loro bene: sono persone che
conoscono il cammino che vorreste seguire e che son guarite da un male di cui vorreste guarire. Seguite
il metodo con cui hanno cominciato: facendo cioè ogni cosa come se credessero, prendendo l'acqua
benedetta, facendo dire messe, ecc. In maniera del tutto naturale, ciò vi farà credere e vi impecorirà.
E perché? che cosa avete da perdere? Ma, per dimostrarvi che ciò conduce alla fede, sappiate che ciò
diminuirà le vostre passioni, che sono i vostri grandi ostacoli.
Fine di questo discorso. Ora, qual male vi capiterà prendendo questo partito? Sarete fedele, onesto,
umile, riconoscente, benefico, amico sincero, veritiero. A dir vero, non vivrete piú nei piaceri pestiferi,
nella vanagloria, nelle delizie; ma non avrete altri piaceri? Vi dico che in questa vita ci guadagnerete; e
che, a ogni nuovo passo che farete in questa via, scorgerete tanta certezza di guadagno e tanto nulla in
quanto rischiate, che alla fine vi renderete conto di avere scommesso per una cosa certa, infinita, per la
quale non avete dato nulla.
Se questo discorso vi piace e vi sembra valido, sappiate che è fatto da un uomo che si è messo in
ginocchio prima e dopo, per pregare quell'Essere infinito e senza parti, al quale sottomette tutto il suo
essere, affinché si sottometta anche il vostro, per il vostro bene e per la sua gloria, e che, quindi, la sua
forza si accorda con questa umiliazione.
(B. Pascal, Pensieri, a cura di P. Serini, Einaudi, Torino, 1967, pagg. 65-71)
Per Pascal ci sono due possibili forme di conoscenza, che partono da fondamenti diversi: la prima è data
dal cosiddetto "spirito di geometria" ("esprit géométrique"), ed è appunto la conoscenza scientifica e
analitica, ottenuta con procedimenti perfettamente geometrici e razionali, seppur lontani dall'uso
comune. L'altra forma di conoscenza è quella data dallo "spirito di finezza" (esprit de finesse), ed è la
conoscenza esistenziale dell'uomo, dei moti della sua anima, dei principi che governano la sua sfera
spirituale; è di tipo sintetico, si rivolge ai principi e fenomeni di "uso comune" e riesce a coglierli nella
loro interezza e complessità.
Pascal dice che lo "spirito di geometria" non è sufficiente per comprendere la realtà, poiché non arriva a
capire i fondamenti dell'esistenza umana, ed è così limitato; infatti, ogni scienza che non consideri
l'uomo è una scienza inutile, se non addirittura dannosa. Per comprendere i temi esistenziali dell'uomo
si ha invece bisogno del "cuore", che per Pascal non è nulla di romantico o irrazionale, ma è il centro
pulsante dell'interiorità umana, lo strumento dello "spirito di finezza".[21] Famosa è la sua frase:
« Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce [...]. Io dico che il cuore ama l'Essere universale
naturalmente, e ama se stesso naturalmente, [...] e s'indurisce contro l'uno o l'altro, a sua scelta. [...] »
(Blaise Pascal, Pensieri, 277)
debolezza della nostra ragione, e non come essi pretendono, l’incertezza di tutte le nostre conoscenze.
Infatti, la cognizione dei primi principî come l’esistenza dello spazio, del tempo, del movimento, dei
numeri, è altrettanto salda di qualsiasi di quelle procurateci dal ragionamento. E su queste conoscenze
del cuore e dell’istinto deve appoggiarsi la ragione, e fondarvi tutta la sua attività discorsiva. (Il cuore
sente che lo spazio ha tre dimensioni e che i numeri sono infiniti; e la ragione poi dimostra che non ci
sono due numeri quadrati l’uno dei quali sia doppio dell’altro. I principî si sentono, le proposizioni si
dimostrano, e il tutto con certezza, sebbene per differenti vie). Ed è altrettanto inutile e ridicolo che la
ragione domandi al cuore prove dei suoi primi principî, per darvi il proprio consenso, quanto sarebbe
ridicolo che il cuore chiedesse alla ragione un sentimento di tutte le proposizioni che essa dimostra, per
indursi ad accettarle. Questa impotenza deve, dunque servire solamente a umiliare la ragione, che
vorrebbe tutto giudicare, e non a impugnare la nostra certezza, come se solo la ragione fosse capace
d’istruirci. Piacesse a Dio, che, all’opposto, non ne avessimo mai bisogno e conoscessimo ogni cosa per
istinto e per sentimento! Ma la natura ci ha ricusato un tal dono; essa, per contro, ci ha dato solo
pochissime cognizioni di questa specie; tutte le altre si possono acquistare solo per mezzo del
ragionamento.
Ecco perché coloro ai quali Dio ha dato la religione per sentimento del cuore sono ben fortunati e ben
legittimamente persuasi. Ma a coloro che non l’hanno, noi possiamo darla solo per mezzo del
ragionamento, in attesa che Dio la doni loro per sentimento del cuore: senza di che la fede è puramente
umana, e inutile per la salvezza.
146 Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce: lo si osserva in mille cose. Io sostengo che il
cuore ama naturalmente l’essere universale, e naturalmente se medesimo, secondo che si volge verso di
lui o verso di sé; e che s’indurisce contro l’uno o contro l’altro per propria elezione.
Pensieri [282, 277], pp. 58-59.
Tutta la nostra dignità sta, dunque, nel pensiero. In esso dobbiam cercare la ragione per elevarci, e non
nello spazio e nella durata che non potremmo riempire. Lavoriamo, quindi, a ben pensare: ecco il
principio della morale.
378 Canna pensante. Non nello spazio devo cercare la mia dignità, ma nell’uso ben regolato del mio
pensiero. Non avrei nessuna superiorità, se possedessi delle terre: per lo spazio, l’universo mi
comprende e m’inghiotte come un punto; con il pensiero, lo comprendo.
795 [...] Tutti i corpi, il firmamento, le stelle, la terra e i suoi reami non valgono il minimo tra gli spiriti,
perché questo conosce tutto ciò e se stesso; e i corpi, nulla. [...]
Pensieri [347, 348, 793], pp. 161-62, 342.
La riduzione hobbesiana del dualismo cartesiano sul versante della sostanza corporea costituisce il più
conseguente tentativo per dar conto, in una prospettiva meccanicista e materialista, della specificità
dell’uomo nei confronti degli altri esseri.
Identificando la filosofia con la scienza del corporeo, Hobbes distingue tra la scienza dei corpi naturali (la
filosofia della natura) e la scienza del corpo artificiale, cioè lo stato (filosofia politica); a sua volta, la
prima, cioè la scienza dei corpi, si divide in scienza dei corpi fisici e scienza del corpo umano. La
soluzione hobbesiana al problema dell’uomo, dunque, trova posto all’interno di un sistema che presenta
l’antropologia come parte della fisiologia e quest’ultima come parte della fisica .
TESTO HOBBES
Questo brano è tratto dal trattatello Of Liberty and necessity, composto nel 1646 e pubblicato (senza il
consenso dell’autore) nel 1654, nel quale Hobbes replica alle obiezioni mossegli dal vescovo arminiano
(un indirizzo della riforma anglicana non lontano, tuttavia, dalle posizioni scolastico-tomiste) John
Bramhall.
In primo luogo, io ritengo che quando viene in mente a un uomo di compiere o tralasciare una
determinata azione, se egli non ha il tempo per deliberare, il compimento o l’astensione seguono,
necessariamente, il pensiero presente che egli ha della buona o cattiva conseguenza che gliene possono
derivare. […]
In secondo luogo, io penso che quando un uomo delibera se debba fare una cosa o non farla, egli si
riduca a considerare se sia meglio, per lui, farla o non farla. […]
In terzo luogo, io penso che in tutte le deliberazioni, vale a dire in tutte le successioni alternate di
appetiti contrari, l’ultimo è quello che noi chiamiamo volontà, e viene immediatamente appena prima
del compimento dell’azione, o appena prima che il suo compimento diventi impossibile. […]
In quarto luogo, penso che le azioni che un uomo è detto fare su deliberazione sono dette volontarie e
compiute su scelta ed elezione; cosicché un’azione volontaria e un’azione proveniente da scelta sono la
medesima cosa e di un agente volontario è tutt’uno dire che è libero e dire che non ha posto fine alla
deliberazione.
In quinto luogo, penso che la libertà sia rettamente definita in questo modo: la libertà è l’assenza di tutti
gli impedimenti all’azione, che non siano contenuti nella natura e nella qualità intrinseca dell’agente. […]
In sesto luogo, penso che nulla tragga inizio da se stesso, bensì dall’azione di qualche altro agente
immediato al di fuori di sé. […] Cosicché, dal momento che è fuori discussione che la volontà sia la causa
necessaria delle azioni volontarie e, per ciò che si è detto, la volontà è anche causata da altri fattori, dei
quali essa non dispone, ne consegue che le azioni volontarie hanno, una per una, cause necessarie e
sono, quindi, necessitate.
In settimo luogo, sostengo che causa sufficiente è quella alla quale non manca nulla perché sia
necessaria alla produzione dell’effetto. […]
Da ultimo, io ritengo che la definizione consueta di libero agente, secondo la quale libero agente è ciò
che, quando sono presenti tutti gli elementi necessari a produrre l’effetto, può nondimeno non
produrlo, implichi una contraddizione e sia priva di senso, come se si dicesse che la causa può essere
sufficiente, cioè necessaria, eppure l’effetto non ne seguirà.
T. Hobbes, Libertà e necessità, in Thomas Hobbes. Logica, libertà e necessità, a cura di A. Pacchi,
Principato, Milano 1969, pp. 122-124.
Per la comprensione
In rapporto al testo, ripercorri lo sviluppo del ragionamento di Hobbes rispondendo alle seguenti
domande:
Quale criterio seguono le deliberazioni?
In che cosa consiste la volontà?
Che cos’è la libertà?
Che rapporto intercorre fra un’azione volontaria e una libera?
È possibile che un’agente compia azioni spontanee, cioè che abbiano nell’agente medesimo il loro
movente e la loro origine?
È dunque il problema dell’uomo esaustivamente risolto, con l’espunzione della libertà quale sua nota
caratteristica, nella dimensione materiale della meccanica dei corpi, che è l’unico orizzonte possibile
dell’indagine, contro il dualismo cartesiano? È negata, con ciò, la specificità dell’essere umano nei
confronti degli altri viventi? Le due domande coincidono e la risposta, a entrambe, pare debba essere
negativa: l’essere umano (come risulta, peraltro, dalla stessa partizione hobbesiana) gode,
nei confronti degli altri esseri viventi, di una sua specificità, la quale risiede propr io
nell’arbitrio.
In breve: dopo aver negato, nel trattatello del 1646 Of Liberty and Necessity ( Testo 4), il libero
arbitrio, Hobbes lo rimette in gioco, nel 1658, nel De homine, aprendo una falla nel proprio riduzionismo
materialista: infatti, per ipotizzare l’esistenza, quale prerogativa caratteristica dell’essere umano, del
libero arbitrio, Hobbes reintroduce, per definire l’essenza dell’uomo, il dualismo di materia e spirito di
ascendenza cartesiana. L’occasione in cui ciò avviene è offerta dalla discussione dell’essenza del
linguaggio che è, da Hobbes, attribuito agli uomini e negato agli animali. Le motivazioni sono simili a
quelle di Cartesio, in quanto esse riguardano l’arbitrio dell’uomo di utilizzare o meno, in determinati
contesti, determinate voci, laddove gli animali vi sono costretti dalle circostanze meccanicamente, «per
la necessità della loro natura, sotto la pressione di quelle stesse passioni» (De homine, X, 1). Analoga a
quella di Cartesio è anche l’utilizzazione che Hobbes fa di questa argomentazione, che viene finalizzata a
sostenere l’assenza dell’intelligenza negli animali, in quanto prerogativa dell’uomo.
Il problema da cui parte Kant è fondare (cioè trovare le condizioni di possibilità”) l’atto etico,
che per lui consiste nell’esercizio della libertà umana. Il problema secondario che gli interessa risolvere è
spiegare la tensione dell’intelletto umano verso la metafisica, cioè verso l’incondizionato.
Il suo obiettivo è descrivere le caratteristiche di un Regno dei fini (noumenico) dove la
ragione basta a muovere la volontà.
I presupposti da cui muove i questo approccio sono i seguenti:
1. L’uomo deve avere una volontà libera
2. L’atto etico è diverso dall’atto teoretico
3. Un’etica deve prescrivere universalmente
4. La ragione prescrive la forma pura dell’etica
2 Questo paragrafo è tratto da Sini, I filosofi e le opere, L’età moderna, Principato ed., Milano 1979, pp. 258-261, con variazioni.
In questa prospettiva il progetto di Kant consiste nel realizzare una morale che non parta dal
contenuto (ciò che è bene) ma dalla forma che deve assumere un atto per dirsi morale.
Il rovesciamento di rapporto, che porta quindi a considerare il bene in funzione della legge morale, si
giustifica con il cosiddetto formalismo (Analitica, cap. I, Teorema III): il motivo che determina la
volontà morale non può essere secondo la materia, non può cioè fondarsi sulla ricerca del
proprio interesse, sul piacere, su un qualche desiderio, ma deve essere secondo la forma
della legge, ovvero secondo l’universalità che è propria della legge stessa . Nel primo caso,
quando il movente della volontà è rappresentato da una qualche materia, i principi pratici sono
meramente soggettivi ed empirici, dipendono dagli individui e dalle esperienze particolari di ciascuno
e per questo non possono essere universalizzati; nel secondo caso, quando il movente della volontà è
costituito dalla forma della legge, si hanno delle leggi pratiche, ovvero dei principi pratici che in quanto
leggi devono valere per ogni essere razionale, dei principi cioè che sono oggettivi, universali, a
priori, e per questo sono anche morali.
Kant distingue infatti fra massime e imperativi. Le massime sono prescrizioni di carattere puramente
soggettivo (es. vendicarsi delle offese subite), invece gli imperativi sono prescrizioni di carattere
oggettivo.
Essi sono generalmente ipotetici, cioè obbediscono alla formula « se vuoi a fai b ». Tali imperativi,
meramente pratici e utilitaristici, non consentono tuttavia un giudizio morale. Quest'ultimo fa invece
valere un imperativo del tutto incondizionato e categorico: esso non propone dei «se», ma esige
semplicemente che si compia il proprio dovere, senza altro fine se non il dovere per il dovere. La
presenza in noi di tale imperativo è, secondo Kant, un fatto di ragione; noi, cioè, ce ne troviamo forniti di
fatto, come dimostrano i nostri giudizi morali.
Ciò significa allora che l'imperativo categorico pretende che noi agiamo come se fossimo liberi, cioè non
condizionati dal mondo fenomenico al quale apparteniamo. Ciò che ci è inibito sul piano del conoscere,
si manifesta invece sotto la forma dell'imperativo morale. Esso pretende da noi una condotta quale è
possibile solo a esseri liberi, o destinati a raggiungere all'infinito tale libertà (cioè immortali), secondo
una finalità ideale di cui solo Dio potrebbe esser garante.
Va notato che è possibile stabilire un parallelismo tra le strutture dell’etica e la classificazione dei giudizi:
- “Agisci in modo che la tua volontà possa istituire una legislazione universale”. Questa formula è il
riconoscimento dell'autonomia della morale: è la volontà razionale che diviene la "legislatrice
universale".
- “Agisci in modo da trattare l'uomo, così in te come negli altri, sempre anche come fine e non mai solo
come mezzo.”
Kant porta l’esempio di un bene (potrebbe essere una somma di denaro) che mi viene dato
in deposito e il cui proprietario muore senza lasciare al riguardo nulla di scritto. Di fronte a me si
aprono due possibilità, che si possono esemplificare attraverso due massime, ovvero due principi pratici
soggettivi, che guidano la mia azione: a) restituisco il deposito, perché non mi appartiene; b) lo tengo
con me, sapendo che nessuno potrà mai provare che non mi appartiene. Ora la massima b) non è
morale perché non può ricevere la forma della legge pratica, ossia non può essere universalizzata; il
principio “nega di avere un deposito nel caso in cui nessuno possa provare il contrario” non può essere
universalizzato, altrimenti si annullerebbe come principio, perché nessuno di arrischierebbe più di
lasciare in deposito una data somma. La massima a) al contrario può essere universalizzata e fungere da
legge pratica.
L’imperativo categorico infatti è un test di universalizzazione del comportamento morale: se considero
una mia azione possibile per chiedermi se è morale compierla, allora devo trasformare la mia azione in
una massima e poi generalizzarla, quasi fossi il legislatore universale (I formulazione dell’imperativo
categorico) facendo in modo che la norma derivante dalla mia azione diventasse legge per tutti gli
uomini in ogni tempo. Se, facendo così, la mia azione non diventa contraddittoria, particolare o tale da
ledere il valore dell’uomo (III formulazione) allora la mia azione è morale, cioè segue la legge morale.
Kant è pienamente consapevole della radicale novità introdotta, tant’è che egli parla di “paradosso del
metodo di una Critica della ragion pratica”. Il paradosso consiste nel fatto che “il concetto del bene e
del male non deve essere determinato prima della legge morale”, ma solamente dopo e
mediante essa Prima quindi si dà la legge morale, la quale costituisce il centro della vita morale e della
riflessione morale, e solo in un secondo momento si può determinare il bene, a partire da quel che
comanda la legge morale.
.
Per ciò che i latini chiamano con una sola parola bonum, [la lingua tedesca] ha due concetti assai diversi,
e anche due altrettanto diverse espressioni. Per bonum essa ha Gute e Wohl; per malum, Böse e Übel o
Weh: sicché sono due giudizi assai diversi, se in un'azione consideriamo il Gute e il Böse di essa, oppure il
nostro Wohl e il nostro Weh (Übel). (…) Wohl o Übel significano sempre soltanto una relazione al nostro
stato di piacere o dispiacere, di contentezza e di dolore; e, se noi perciò desideriamo un oggetto, o lo
detestiamo, ciò accade solo in quanto esso vien riferito alla nostra sensibilità, e al sentimento del
piacere o del dispiacere che esso produce. Ma Gute o Böse significano sempre una relazione alla
volontà, in quanto questa è determinata mediante la legge razionale a far di qualcosa il suo oggetto;
perché essa non è mai determinata immediatamente mediante l’oggetto e la sua rappresentazione, ma
è una facoltà di farsi di una regola della ragione la causa determinante di un’azione (mediante la quale
un oggetto può diventar reale). Gute o Böse sono dunque propriamente riferiti ad azioni, non allo stato
sensibile della persona; e se qualcosa dovesse esser semplicemente (e sotto ogni rispetto e senz'altra
condizione) gut o böse o esser ritenuto tale, sarebbe soltanto il modo d'agire, la massima della volontà,
e quindi la persona stessa agente come uomo buono o cattivo [guter oder böse Mensch], ma non una
cosa che potrebbe esser chiamata tale.
Ecco qui il luogo di spiegare il paradosso del metodo di una Critica della ragion pratica: che cioè il
concetto del bene e del male [des Guten und Bösen] non deve esser determinato prima della legge
morale (a cui esso in apparenza dovrebbe esser posto a base), ma soltanto (come anche qui avviene)
dopo di essa e mediante essa. Cioè, anche se, non sapessimo che il principio della moralità è una legge
pura a priori che determina la volontà, pure dovremmo, per non ammettere dei princìpi del tutto
gratuiti (gratis), lasciar indeterminato, almeno inizialmente, se la volontà abbia solo motivi determinanti
empirici, o anche puri a priori; poiché è contro tutte le regole fondamentali del procedimento filosofico
ammettere come già risolto ciò che si deve ancora risolvere. Posto che ora volessimo cominciare dal
concetto del bene, per far derivare da esso le leggi della volontà, questo concetto di un oggetto (come
buono) darebbe nello stesso tempo quest'oggetto come l’unico motivo determinante della volontà. Ora,
siccome questo concetto non avrebbe nessuna legge pratica a priori per sua regola; così la pietra di
paragone del bene o del male non potrebbe consistere in altro che nella concordanza dell’oggetto col
nostro sentimento del piacere e del dispiacere, e l’uso della ragione potrebbe consistere solo in questo,
nel determinare questo piacere o dispiacere nella connessione completa con tutte le sensazioni della
mia esistenza, e così, pure i mezzi di procurarmi l’oggetto di esso.
I. Kant, Critica della ragion pratica, trad. it. di F. Capra, rivista da E. Garin, Laterza, Roma – Bari 19894,
pp. 74 s., 78 s.
Per la comprensione
1. Quali sono le espressioni utilizzate per definire il bene e il male di tipo sensibile (Wohl-übel)?
2. Quali sono le espressioni utilizzate per definire il bene e il male di tipo morale (Gute-Böse)?
3. In cosa consiste il paradosso del metodo della Critica della ragion pratica?
4. a) La legge morale comanda il bene. b) E’ bene ciò che la legge morale comanda. Quale di queste
due proposizioni è conforme alla teoria di Kant?
Il primato assegnato alla legge (formale) sul bene spinge Kant a rivolgere una critica a tutti i
sistemi morali del passato, che hanno misconosciuto tale primato e che per questo hanno concepito
materialmente il movente della volontà, identificandolo, per esempio, con la ricerca della propria felicità
o con il piacere.
Da http://cmapspublic2.ihmc.us/rid=1226946931656_215489927_18171/2-%20La%20critica%20della%20ragion%20pratica.cmap
1) La libertà. La ragione pratica la esige come presupposto. Sarebbe infatti impossibile la morale se
non esistesse la libertà.
2) L'immortalità dell'anima. Per capire questo postulato è necessario rifarsi al concetto kantiano di
virtù, di felicità, di sommo bene. La virtù, dice Kant, è il bene supremo; tuttavia, per essere tale deve
essere unita alla felicità. Ora, poiché nel mondo felicità e infelicità dipendono da cause naturali e non
sono commisurate ai meriti e demeriti, deve esistere un'altra vita dove la felicità sia necessariamente
connessa con la virtù.
Inoltre: la natura razionale invita l'uomo ad una perfetta conformazione della volontà alla legge morale;
tale conformazione è ciò che chiamiamo "santità". Tale perfezione è però irraggiungibile attualmente e
potrà essere trovata solo in un "progresso infinito" verso quella compiuta conformazione. Ma questo
progresso infinito è possibile solo sotto il presupposto d'una "persistenza infinita, come personalità"
dello stesso essere razionale (ciò che si dice "immortalità dell'anima").
3) L'esistenza di Dio. E’ postulata relativamente al nesso tra felicità e virtù. Il mondo fenomenico nel
suo meccanismo causale è cieco alle esigenze spirituali: ci vuole un Essere sovrasensibile che sia il
garante di una giusta corrispondenza tra virtù e felicità. Da parte umana, la sola cosa da fare per essere
felici è diventarne degni, creare cioè le condizioni per cui Dio faccia corrispondere alla virtù vissuta la
felicità. Occorre diventare “degni della felicità”.
Per agire moralmente l'uomo deve unicamente uniformarsi alla voce della sua libera ragione; è caso mai
essa a legittimare le autorità esterne, riconoscendole consone all'imperativo categorico, e non
viceversa. Di qui deriva la posizione di Kant nei confronti della religione: ogni pratica esterna, dogma o
imposizione è insignificante, dal punto di vista religioso, e negativo dal punto di vista morale. La
religione è un fatto di fede interiore, una speranza del sentimento, che, invero, non aggiunge nulla alla
certezza del tutto autonoma dell'imperativo categorico. Nella definizione della fede come fatto interiore
e nel rigorismo della morale kantiana è stata varie volte indicata l'influenza del pietismo.
3. CONCLUSIONI
Qual è il senso del percorso che, fra Cinquecento e Seicento, la riflessione filosofica compie nel trapasso
dall’età dell’Umanesimo a quella dei sistemi razionalisti? La definitiva acquisizione della
prospettiva antropocentrica: l’acquisizione, cioè, della prospettiva che dà per scontata, se non la
centralità ontologica dell’uomo, almeno il fatto che esso costituisca l’oggetto privilegiato dell’indagine.
In questo modo, la stessa domanda che chiede che cosa sia l’uomo, con la quale
l’Umanesimo, nella sua prima fase, aveva inaugurato l’età moderna, risulta riformulata e
riarticolata in nelle tre domande che chiedono c ome l’uomo possa conoscere, volere, agire.
È questo l’esito dell’imporsi della prospettiva umanistica che si compie, quasi paradossalmente, proprio
con il tramonto dell’Umanesimo, che di tale prospettiva era stato il sostenitore: nell’ultimo grande
erede della cultura umanistica, Montaigne, la critica alla pretesa di centralità dell’uomo si coniuga,
infatti, con l’accettazione dell’umano come orizzonte privilegiato della riflessione. In Montaigne,
dunque, il trionfo dell’antropocentrismo si manifesta come critica radicale della legittimità
e richiesta di un nuovo fondamento dello stesso antropocentrismo; il dualismo cartesiano,
che fa consistere l’essenza dell’uomo nel congiungersi della sostanza corporea e di quella
spirituale, rappresenta proprio il tentativo di fornire questo fondamento al primato
dell’uomo, dato, ormai, come acquisito.
Né lo sforzo pascaliano di porre in secondo piano il dualismo collocando l’essenza dell’uomo nella
dimensione spirituale e aprendola alla trascendenza, né il tentativo hobbesiano, all’opposto, di risolvere
il dualismo sussumendo la dimensione spirituale in quella corporea, pongono effettivamente in dubbio
la centralità dell’uomo e il suo primato come oggetto dell’indagine, non soltanto filosofica. Tale
centralità si manifesta infine nel pensiero kantiano, per il quale, alla fine, lo stesso formalismo dell’etica
non riesce a resistere all’esigenza di porre l’uomo come un valore in quanto tale, un fine e mai solo un
mezzo, come recita la terza formulazione dell’imperativo categorico.
Circa il tema del bene, la filosofia moderna lo elabora come un concetto nel contempo
problematico e indispensabile. E’ problematico perché una volta venuta meno la giustificazione in
chiave ontologica e finalistica presente nel pensiero antico e medievale, si tende a sottolinearne il
carattere parziale e relativo, fortemente dipendente dai desideri, dalle opinioni, dagli usi linguistici dei
diversi soggetti. E tuttavia, esso si presenta ancora come un concetto indispensabile, che non è facile
espungere dal lessico morale, neppure da parte di chi ne ha decretato la valenza strumentale, come
Spinoza, o ne ha rilevato l’intrinseca ambiguità semantica, come Kant. Vero è che ora, proprio perché si
coglie la precarietà di un simile riferimento concettuale nell’ambito dell’etica, si preferisce individuare
nella conservazione di sé o nel rispetto della legge morale il criterio della vita morale; resta il fatto
comunque che tali criteri vengono poi definiti “buoni” e quindi il riferimento al bene, sia pure in modo
indiretto, rispunta dà dove sembrava essere stato cancellato.
LABORATORIO DIDATTICO
2. Esponi il percorso argomentativo di Cartesio, inserendo, negli spazi bianchi, i termini opportuni fra
quelli indicati: l’anima, uomini, la ragione, il linguaggio, animali, il corpo, la parola.
Se ci fossero automi con sembianze perfette di 1………, non avremmo alcun mezzo per distinguerli dagli
2…………autentici, perché gli uni e gli altri non hanno 3………., che consiste nella capacità di adattare i
propri comportamenti alle diverse situazioni. Ciò dipende dalla assoluta differenza che esiste fra l’anima
e 4………., nonché dal fatto che gli animali non hanno 5………, che è, negli uomini, immortale, in quanto
essa, indipendente dal corpo, non può essere distrutta da null’altro.
3. Perché, secondo Pascal, l’uomo non può, per via della sola ragione, conoscere i princìpi che
governano l’universo? Indica, tra le risposte seguenti, quali siano quelle vere.
Perché la ragione umana è troppo debole.
Perché l’universo è infinito.
Perché non vi è corrispondenza proporzionale fra la realtà dell’universo e quella dell’uomo.
Perché la struttura dell’universo non è razionale.
Perché l’uomo è composto di natura e spirito.
Perché l’uomo non è un essere razionale.
Perché l’uomo non è artefice dell’universo.
6. Nell’opera De homine, discutendo la natura del linguaggio, qual è la caratteristica essenziale che
Hobbes gli attribuisce e che lo definisce quale prerogativa dell’uomo?
7. Che differenza intercorre fra il concetto di volontà del trattatello Of Liberty and Necessity e quello
del De homine?
8. Kant Nel linguaggio comune i termini “bene”, “buono” (e i corrispettivi “male”, “cattivo”) vengono
usati secondo una pluralità di accezioni. Essi possono rivestire un significato giuridico ed economico (si
parla al riguardo preferibilmente di “beni”, al plurale), o avere attinenza con il nostro stato di salute e di
benessere, oppure indicare l’adeguatezza di qualcosa rispetto a qualcos’altro o assumere una valenza
espressamente morale. Kant ha cercato di identificare quest’ultimo significato, distinguendolo
nettamente rispetto agli altri. Prova anche tu a rintracciare nelle locuzioni che seguono il significato
prettamente morale dei termini bene”, “buono”, “male”, “cattivo”, “malvagio”.
1. Dice un proverbio: “fa il bene e scordati, fa il male e pensaci”
2. Queste scarpe vanno bene d’estate, non quando fa freddo e per terra è ghiacciato
3. Uccidere un innocente indifeso: è un atto chiaramente e incondizionatamente malvagio
4. E’ una persona molto ricca: possiede una quantità enorme di beni mobili e immobili
5. Oggi mi sento proprio bene: potrei anche correre la maratona di New York!
6. Ho un terribile mal di denti
7. E’ bene dire sempre la verità
8. Ti va bene se ci incontriamo domani nel pomeriggio?
STRUMENTI FILOSOFICI
CONDIZIONE NECESSARIA E CONDIZIONE SUFFICIENTE
Una condizione necessaria per il darsi di un determinato evento è tale che in assenza di essa non può
verificarsi l’evento stesso. Per esempio, una condizione necessaria per conseguire il diploma di scuola
media superiore è quella di poter essere ammessi all’esame di maturità ed essere stati promossi negli
anni di studio precedenti. Tuttavia l’essere ammessi all’esame di maturità, benché necessaria, non è una
condizione sufficiente per poter conseguire il diploma: posso pur sempre essere bocciato all’esame!
Infatti, una condizione sufficiente per il darsi dell’evento è tale che l’evento si verifica ogni qual volta la
condizione viene soddisfatta. Nel caso specifico una condizione necessaria e sufficiente per conseguire il
diploma è superare l’esame di maturità; il punteggio finale è indifferente: l’importante è che esso sia
sufficiente per consentire il superamento dell’esame e quindi soddisfare la condizione richiesta.
Nelle pagine della Critica della ragion pratica dedicate al sommo bene ( → testo Kant ) Kant dichiara che
“nel mondo non si può attendere nessuna connessione necessaria e sufficiente per il sommo bene, della
felicità con la virtù, mediante l’osservanza esattissima della legge morale”. Di questa dichiarazione va
sottolineata soprattutto l’espressione iniziale “nel mondo”. Se infatti è del tutto scontato che la felicità
non possa essere mai considerata causa della virtù, non altrettanto si deve poter dire del rapporto tra la
virtù considerata come causa e la felicità come effetto. Come è stato anticipato nel testo al parag. 4.2.,
Kant esclude che in questo mondo la virtù possa essere causa della felicità; postulando però
l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio si può affermare che la virtù renda felici, ovvero che nell’al di
là si realizzi effettivamente il sommo bene.
Sulla base di queste considerazioni rispondi ora alle seguenti domande:
1) la felicità è una condizione necessaria della virtù?
2) la virtù è una condizione sufficiente del sommo bene?
3) la virtù è una condizione sufficiente del bene supremo?
4) la virtù è una condizione necessaria della felicità?
PIANO DI DISCUSSIONE
BIBLIOGRAFIA MINIMA
W. Dilthey, L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura. Dal Rinascimento al secolo XVIII, La Nuova
Italia, Firenze 1974.
K. Löwith, Dio, uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche, Morano, Napoli 1966.
F. Mignini, L’Etica di Spinoza. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 1995.
M. Mugnai, Introduzione alla filosofia di Leibniz, Einaudi, Torino 2000.
3
S. Landucci, La “Critica della ragion pratica” di Kant. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 2001 .
R. BODEI, Geometria delle passioni, Feltrinelli, Milano 1991.
S. VEGETTI FINZI (a cura di), Storia delle passioni, Laterza, Roma-Bari 1995.
C. CALABI, Passioni e ragioni. Un itinerario nella filosofia della psicologia, Guerini, Milano 1996.
Anima immortalità
Antropocentrismo immaterialità
Antropomorfismo dualismo
Bene razionalità
Condizione necessaria estensione
Condizione sufficiente definizione
Corpo principio
Determinismo realtà
Dimostrazione per essenza materia
Formalismo umanesimo
Immaginazione antropologia
Imperativo categorico - ipotetico
Innatismo
Ragione
Relativismo
Sillogismo
Sommo bene
Sostanza
Spirito
Uomo
TESTI AD INTEGRAZION E
1. MARSILIO FICINO
Dato che il genere umano, sia per l’inquietudine dello spirito, sia per la debolezza fisica, sia per
l’indigenza assoluta in cui si trova, vive sulla terra una vita più dura di quella di ogni altro essere vivente,
se la natura avesse fissato alla sua vita lo stesso limite che ha stabilito per la vita degli altri esseri nessun
animale sarebbe più infelice dell’uomo. […]
Appare chiara la necessità che i nostri spiriti, uscendo da questo carcere, vadano incontro a una qualche
luce che li attenda […]
Sciogliamo dunque, al più presto, questi duri ceppi che ci legano alla terra per essere pronti a volare,
liberi, verso la sede eterna, sollevati dalle ali platoniche e sotto la guida di Dio, verso quella sede ove,
appena giunti, potremo contemplare in beatitudine l’eccellenza della nostra natura. […]
In tale forma, gli antichi teologi posero la sede dell’anima razionale.
M. Ficino, Teologia platonica, Zanichelli, Bologna 1965, I, pp- 77-79.
2. MONTAIGNE
Consideriamo dunque, per ora, l’uomo solo, senza soccorso esterno, armato delle sue sole armi e
sprovvisto della grazia e della conoscenza divina, che è tutto il suo onore, la sua forza e il fondamento
del suo essere. Vediamo quanto egli possa resistere in questo bello stato. Che egli mi faccia capire, con
la forza del suo ragionamento, su quali basi ha fondato quei grandi privilegi che pensa di avere sulle altre
creature. Chi gli ha fatto credere che quel mirabile movimento della volta celeste, la luce eterna di
quelle fiaccole ruotanti così arditamente sul suo capo, i movimenti spaventosi di quel mare infinito siano
stati determinati e perdurino per tanti secoli per la sua utilità e per il suo servizio? È possibile
immaginare qualcosa di tanto ridicolo quanto il fatto che questa miserabile e meschina creatura, che
non è neppure padrona di se stessa ed è esposta alle ingiurie di tutte le cose, si dica padrona e signora
dell’universo, di cui non è in suo potere conoscere la minima parte, tantomeno di comandarla? E quel
privilegio che si attribuisce, di essere, cioè, il solo, in questa gran fabbrica, ad avere la facoltà di
riconoscerne la bellezza e le parti, il solo a poter rendere grazie all’architetto e a tener conto del bilancio
del mondo, chi gli ha conferito questo privilegio? Ci mostri le credenziali di questo bell’ufficio. […]
La presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. La più calamitosa e fragile di tutte le creature è
l’uomo, e al tempo stesso la più orgogliosa. Essa si sente e si vede collocata qui in mezzo al fango e allo
sterco del mondo, attaccata e inchiodata alla peggiore, alla più morta e putrida parte dell’universo,
all’ultimo piano della casa e al più lontano dalla volta celeste, insieme agli animali della peggiore delle
tre condizioni;3 e con l’immaginazione va ponendosi al di sopra del cerchio della luna, e mettendosi il
cielo sotto i piedi. È per la vanità di questa stessa immaginazione che egli si uguaglia a Dio, che si
attribuisce le prerogative divine, che trasceglie e separa se stesso dalla folla delle altre creature, fa le
parti agli animali suoi fratelli e compagni, e distribuisce loro quella porzione di facoltà e di forze che gli
piace. Come può egli conoscere, con la forza della sua intelligenza, i moti interni e segreti degli animali?
Da quale confronto fra essi e noi deduce quella bestialità che attribuisce loro?
M. de Montaigne, Saggi, Lib. II, cap. XII.
3. CARTESIO E L’UOMO
Mi ero qui fermato a far vedere in modo particolare che, se ci fossero macchine aventi organi e figura di
scimmia o di altro animale privo di ragione, noi non avremmo nessun mezzo per riconoscere la
differenza; mentre, se ve ne fossero che somigliassero al nostro corpo e imitassero le nostre azioni
quanto meglio fosse possibile, noi avremmo pure sempre due mezzi certissimi per riconoscere che esse
non sono affatto, nonostante ciò, dei veri uomini. Il primo è che non potrebbero mai valersi di parole o
di altri segni, componendoli come noi facciamo per esprimere agli altri i nostri pensieri: poiché si può
bene immaginare una macchina che profferisca delle parole, e anzi ne profferisca alcune riguardanti
azioni corporali che producano qualche alterazione nei suoi organi, come domandare qualcosa, se
toccata in una sua parte, o gridare che le si fa male se toccata in altra parte, e simili cose; ma non già che
essa disponga le parole diversamente per rispondere a tono a tutto quello che uno può dirle, come,
invece, saprebbe fare anche l’uomo più idiota. Il secondo mezzo è che, anche se facessero alcune cose
ugualmente bene e, anzi, meglio di noi, esse, inevitabilmente, sbaglierebbero in alcune altre, e si
scoprirebbe, così, che esse non agiscono per conoscenza, ma soltanto per una disposizione dei loro
organi. Soltanto la ragione, infatti, è uno strumento universale che può servire in ogni specie di
circostanze, e tali organi, invece, hanno bisogno di una particolare disposizione per ogni azione
particolare: sicché è come impossibile che ce ne siano tanti e così diversi in una macchina da farla agire
in modo occasionale nel modo che agiamo noi con la nostra ragione.
Ora bastano questi due mezzi per comprendere anche la differenza che c’è fra gli uomini e le bestie.
Poiché è cosa ben certa che non ci sono uomini così idioti e stupidi, o addirittura insensati, i quali non
sappiano combinare insieme diverse parole e comporre un discorso per farsi intendere; e che, al
contrario, non c’è un altro animale, per quanto perfetto e felicemente nato, che faccia similmente. E
questo non accade per difetto di organi […] E questo prova non soltanto che le bestie hanno meno di
ragione degli uomini, ma che non ne hanno affatto: poiché tutti vediamo che ne basta ben poca per
parlare.* E dal momento che fra gli animali, così come fra gli uomini, ci sono disuguaglianze, per cui
alcuni sono più facili da ammaestrare di altri, una scimmia o un pappagallo, che fossero fra i più perfetti
della loro specie, alla fine dovrebbero ben riuscire (se la loro anima non fosse del tutto diversa dalla
nostra) a uguagliare, in questo, perlomeno un fanciullo tra i più stupidi e, magari, insensato. […] dopo
l’errore di quelli che negano Dio, […] non ve n’è altro che allontani di più gli spiriti deboli dal diritto
cammino della virtù, che l’immaginare che l’anima delle bestie sia della stessa natura della nostra, e che
per conseguenza noi non abbiamo nulla da temere né da sperare dopo questa vita, non più che le
mosche e le formiche; mentre, quando si sa quanto esse differiscono, si comprendono molto meglio le
ragioni le quali provano che la nostra anima è di una natura interamente indipendente dal corpo e, per
conseguenza, che non è soggetta a morir con esso; e poi, siccome non si vedono altre cause che ne
possano determinare la distruzione, si è naturalmente portati a giudicare che essa sia immortale.
R. Cartesio, Discours de la méthode, V, XIX-XX.
La prima era di obbedire alle leggi e ai costumi del mio paese, serbando fede alla religione nella quale
Dio mi ha fatto la grazia di essere educato sin dall'infanzia, e regolandomi nel resto secondo le opinioni
piú moderate, lontane da ogni eccesso, e comunemente seguite dalle persone piú assennate, con le
quali dovevo vivere. Io avevo deciso, infatti, di prenderle tutte in esame, ma poiché dovevo cominciare a
non tener conto delle mie proprie, riconoscevo giusto di seguire intanto quelle dei piú assennati. E
benché fra Persiani e Cinesi ci siano forse uomini assennati quanto fra noi, mi pareva molto piú utile
regolarmi alla maniera di coloro con i quali dovevo condur la mia vita. Per saper poi quali fossero
veramente le loro convinzioni, pensavo che mi convenisse far attenzione piú alle loro azioni che alle loro
parole: non solo perché nella corruzione del costume pochi oggi vogliono dire tutto quello che pensano,
ma anche perché molti l'ignorano essi stessi. L'atto del pensiero, infatti, per cui si crede una cosa, è
diverso da quello per il quale si conosce di crederla: sí che l'uno non implica l'altro. E fra parecchie
opinioni ugualmente accolte sceglievo le piú moderate: sia perché in pratica sono sempre le piú comode
e verosimilmente le migliori, ogni eccesso essendo di solito cattivo; sia anche perché, prendendo la via
di mezzo, nel caso che avessi sbagliato, mi sarei trovato sempre meno lontano dal retto cammino che se
avessi preso uno dei partiti estremi. Tra gli eccessi ponevo, in particolare, tutte le promesse per le quali
si limita in qualche modo la propria libertà. Non già ch'io disapprovassi quelle leggi, che per rendere
duraturo qualche buon proposito se uno ha lo spirito debole, o anche soltanto per garantire il
commercio in cose di per sé indifferenti, permettono di far voti o contratti che obbligano a perseverarvi;
ma, non vedendo cosa alcuna al mondo durar sempre allo stesso stato, e poiché per conto mio mi
ripromettevo di perfezionare sempre piú i miei giudizi, e non già di renderli peggiori, dovevo considerare
come grave offesa al buon senso obbligarmi ad approvare sempre come buona una cosa quand'anche
cessasse di esserlo o io piú non la ritenessi tale.
La seconda massima era di esser fermo e risoluto, per quanto potevo, nelle mie azioni, e di seguire
anche le opinioni piú dubbie, una volta che avessi deciso di accettarle, con la stessa costanza come se
fossero le piú sicure: imitando in ciò i viaggiatori, i quali, se si trovano smarriti in una foresta, non
debbono aggirarsi ora di qua e ora di là, e tanto meno fermarsi, ma camminare sempre nella stessa
direzione, e non mutarla per deboli ragioni, ancorché l'abbiano scelta a caso, perché, cosí, anche se non
vanno proprio dove desiderano, arriveranno per lo meno alla fine in qualche luogo dove probabilmente
si troveranno meglio che nel fitto della boscaglia. E cosí, quando, come spesso accade nella vita, le azioni
non ammettono indugio, e non sia in poter nostro discernere le opinioni piú vere, non c'è dubbio alcuno
che dobbiamo seguire le piú probabili; e se pure non notiamo maggiore probabilità nelle une che nelle
altre, bisogna bene nondimeno determinarci per alcune, e considerarle perciò in séguito, praticamente,
non piú come dubbie, anzi come verissime e certissime, in quanto tale è la ragione che ce le ha fatte
preferire alle altre. Questa considerazione bastò a liberarmi, d'un tratto, dai pentimenti e rimorsi che
sogliono agitare la coscienza degli spiriti deboli e sempre oscillanti, i quali si lasciano andare, nell'agire, a
cose che lí per lí giudicano buone e subito dopo mal fatte.
La mia terza massima fu di vincere sempre piuttosto me stesso che la fortuna, e di voler modificare
piuttosto i miei desideri che l'ordine delle cose nel mondo; e in generale di assuefarmi a credere che
nulla all'infuori dei nostri pensieri è interamente in nostro potere, in modo che, quando abbiam fatto del
nostro meglio riguardo alle cose che son fuori di noi, se qualcosa non ci riesce, vuol dire ch'essa non
dipende assolutamente da noi. Questa considerazione mi parve sufficiente a impedirmi di nulla
desiderare per l'avvenire ch'io non potessi acquistare, e cosí a farmi contento. La nostra volontà, infatti,
non è portata naturalmente a desiderare se non le cose che l'intelletto le rappresenta come possibili:
per cui, abituandoci a riguardare tutti i beni che son fuori di noi come ugualmente lontani dal nostro
potere, non proveremo maggior rimpianto di venir privati senza nostra colpa di quelli che paion dovuti
alla nostra nascita, che di non possedere i regni della Cina o del Messico. E facendo, come suol dirsi, di
necessità virtú, non desidereremo di esser sani quando siamo malati, o d'esser liberi quando siamo in
prigione, piú di quanto non desideriamo ora di avere un corpo d'una materia cosí poco corruttibile come
il diamante o ali per volare come gli uccelli.
Confesso che c'è bisogno di un lungo esercizio e di una meditazione spesso ripetuta per abituarsi a
riguardare in questo modo tutte le cose; e credo che in questo principalmente consistesse il segreto di
quei filosofi che hanno potuto in altri tempi sottrarsi all'impero della fortuna e, malgrado i dolori e la
povertà, gareggiare in felicità con i loro dèi. I limiti prescritti all'uomo dalla natura erano a essi ognora
cosí presenti, che ciò solo bastava a dar loro la perfetta convinzione di non essere padroni di nulla se
non dei propri pensieri, e però di doversi staccare da tutte le altre cose per poter disporre di se stessi
assolutamente: non a torto, quindi, si stimavano piú ricchi e piú potenti, piú liberi e piú felici di tutti gli
altri uomini, che sforniti della loro filosofia, per quanto favoriti dalla natura e dalla fortuna, non erano in
grado di disporre di se stessi secondo la propria volontà.
In fine, a conchiusione di questa morale, mi proposi di fare una rassegna delle diverse occupazioni degli
uomini nella vita per scegliere quella che fosse la migliore per me. Ma, per tacere delle altre, vidi che la
migliore era per me quella in cui già mi trovavo. Dovevo, dunque, continuare in essa e impiegare tutta la
mia vita a coltivare la mia ragione e a progredire per quanto potessi nella conoscenza della Verità
secondo il metodo che mi ero prescritto. Da questo metodo, infatti, avevo ricavato già tali soddisfazioni
che non credevo potessero essercene di piú dolci e innocenti in questa vita; e via via che scoprivo per
mezzo suo verità importanti e comunemente ignorate dagli altri, la soddisfazione cresceva e mi riempiva
l'animo talmente che ogni altra cosa mi era indifferente.
Anche le tre massime precedenti, del resto, convergevano al mio proposito di continuare a istruirmi:
poiché, avendo Dio dato a ciascuno di noi qualche lume per discernere il vero dal falso, io non avrei
creduto di dovermi contentare mai delle opinioni altrui se non mi fossi insieme proposto di esaminarle
con la mia propria testa a suo tempo, e non mi sarei liberato di ogni scrupolo nel seguirle se ciò mi
avesse impedito di trovarne eventualmente di migliori. Ed in fine io non avrei saputo limitare i miei
desideri e contentarmi, se non col pensiero di seguire, cosí, un cammino sicuro per acquistare tutte le
conoscenze di cui ero capace, e però anche tutti i veri beni che fossero in mio potere. La nostra volontà,
infatti, per sé, non è portata a seguire o a fuggire cosa alcuna se non in quanto l'intelletto gliela presenta
buona o cattiva; e dunque basta giudicar bene per ben fare, e giudicare il meglio che si può per fare
anche in tutto il proprio meglio, ossia per acquistare tutte le virtú e insieme tutti gli altri possibili beni. E
non si può non essere contenti quando si è certi che è cosí.
Dopo di essermi cosí assicurato di queste massime e averle messe da parte insieme alle Verità della fede
che sono state sempre le prime fra le mie credenze, ritenni di poter cominciare, per tutto il resto delle
mie opinioni, a disfarmene liberamente. E sperando di venirne meglio a capo nella conversazione con gli
altri uomini che rimanendo piú a lungo rinchiuso nella stanza in cui avevo avuto questi pensieri, prima
ancora che finisse l'inverno mi rimisi in viaggio. Per tutti i nove anni seguenti non feci che vagare qua e
là per il mondo, cercando di essere piú spettatore che attore nelle commedie che vi si rappresentano:
facevo riflessione, cosí, particolarmente, in ogni materia, su le cose che la rendono sospetta, e possono
quindi piú facilmente trarre in inganno, e intanto sradicavo in tal modo dal mio spirito gli errori che vi si
erano prima potuti insinuare. Io non intendevo per questo d'imitare gli scettici, i quali dubitano per
dubitare e affettano d'esser sempre irresoluti nel giudizio; ché, anzi, tutti i miei propositi erano di
raggiungere la certezza, e se scansavo la terra mobile e la sabbia era solo per trovare la roccia o l'argilla.
E la cosa mi riusciva, pare, assai bene: tanto che, mentre cercavo di scoprire, non con deboli congetture,
ma con ragionamenti chiari e sicuri, la falsità o incertezza delle proposizioni prese in esame, non ne
trovavo mai di cosí dubbie che non potessi trarne qualche conclusione abbastanza certa: per lo meno,
questa, che non contenevano nulla di certo. E come nell'abbattere un vecchio edificio si serbano di
solito i materiali ancora utili alla costruzione di quello nuovo, cosí nel distruggere le mie opinioni che
ritenevo mal fondate, facevo parecchie osservazioni e acquistavo varie esperienze, utilizzate poi a
stabilire opinioni piú sicure.
R. Descartes, Discorso sul metodo, Parte terza, in Opere, Laterza, Bari, 1967, vol. I, pagg. 144-149)
Considerando, successivamente, che cosa sia quod beatam vitam efficiat, ossia quali cose possano
darci questa sovrana contentezza, osservo che ve ne sono di due specie: cioè alcune che dipendono da
noi, come la virtù e la saggezza, e altre che non ne dipendono affatto, come gli onori, le ricchezze e la
salute. E’ certo infatti che un uomo bennato, che non sia malato, che non manchi di nulla, e che, inoltre,
sia anche saggio e virtuoso, rispetto ad un altro povero, malato e storpio, può godere di una contentezza
più perfetta. Tuttavia, come un piccolo vaso può esser completamente pieno, non meno di uno grande,
pur contenendo minor quantità di liquido, analogamente, prendendo la gioia di ciascuno come la
pienezza e il compimento dei suoi desideri regolati secondo ragione, io son sicuro che i più poveri, i più
perseguitati dalla fortuna o maltrattati dalla natura possono essere completamente felici e soddisfatti
quanto gli altri, anche se non hanno altrettanti beni. E solo di questo genere di felicità qui si discute;
dell'altra, che non è in nostro potere, sarebbe superflua ogni ricerca.
Ora mi sembra che ciascuno possa raggiungere da sé la felicità, senz'aspettarsi niente dal di fuori,
purché osservi tre cose, a cui si riferiscono le tre regole di morale che ho posto nel Discorso del metodo.
La prima è che cerchi di servirsi sempre, meglio che può, del proprio spirito, per conoscere quello che
deve fare in tutti i casi della vita.
La seconda, che abbia il fermo e costante proposito di far tutto ciò che la ragione gli consiglierà, senza
lasciarsene distogliere dalle proprie passioni o appetiti. Ed è la fermezza di questa risoluzione, che credo
si debba considerare virtù, benché io non sappia che alcuno l’abbia mai intesa così; la si è invece divisa
in molte specie, a cui si sono dati vari nomi a causa dei diversi oggetti a cui si riferisce.
La terza, che consideri, comportandosi così, quanto può, secondo ragione, che tutti i beni che non
possiede sono completamente fuori del suo potere; in tal modo egli si abitua a non desiderarli. Non vi è
infatti altro che il desiderio che possano impedirci di essere contenti; se noi invece facciamo sempre
tutto quel che ci detta la nostra ragione, non avremo mai alcun motivo di pentirci, anche se gli
avvenimenti dovessero farci vedere che ci siamo sbagliati, poiché ciò non sarebbe per colpa nostra. Noi
non desideriamo di avere più braccia o più lingue di quel che possediamo, mentre desideriamo più
salute o più ricchezze; orbene, ciò è dovuto soltanto al nostro immaginare che tali cose si potrebbero
ottenere con la nostra condotta, oppure che le une sono dovute alla nostra natura e non le altre. Di tale
opinione noi potremo liberarci se considereremo che, poiché noi abbiamo seguito sempre il consiglio
della nostra ragione, non,abbiamo tralasciato nulla di quel che era in nostro potere, rendendoci conto
che anche le malattie e le disgrazie sono naturali all'uomo non meno della prosperità e della buona
salute.
Del resto non tutti i desideri sono incompatibili con la beatitudine, ma solo quelli accompagnati da
impazienza e da tristezza. E neppure è che la nostra ragione sia sempre nel vero; basta che la coscienza
ci attesti che noi non abbiamo mai mancato di risoluzione e di virtù nell'eseguire quanto avevamo
giudicato essere il meglio; e così la virtù sola basta a renderci felici in questa vita. Tuttavia, poiché
allorquando essa non è illuminata dall’intelletto può essere falsa, ossia poiché la volontà e la risoluzione
di ben far possono portarci a un male da noi creduto bene, la soddisfazione che in tal caso ne deriva non
è solida. E poiché generalmente si suole opporre proprio tale virtù ai piaceri, agli appetiti e alle passioni,
è molto difficile metterla in pratica, laddove un retto uso della ragione, dandoci una esatta conoscenza
del bene, impedisce che la virtù sia falsa, ed accordandola con i piaceri leciti ne rende l'uso così agevole
e, facendoci conoscere la condizione della nostra natura, limita talmente i nostri desideri, che bisogna
confessare che la più grande felicità dell'uomo dipende da questo retto uso della ragione, e per
conseguenza, che lo studio che serve a conquistarla è la più utile occupazione possibile e, a un tempo,
senz'alcun dubbio, la più gradevole e la più dolce.
In conseguenza di ciò mi sembra che Seneca avrebbe dovuto insegnarci tutte le principali verità la cui
conoscenza è richiesta per facilitare l'uso della virtù, per regolare i nostri desideri e le nostre passioni e
godere così della beatitudine naturale. Questo avrebbe reso il suo libro il migliore e il più utile che un
filosofo pagano potesse scrivere. Ma questa è solo la mia opinione, che io sottopongo al giudizio
dell'Altezza vostra; e se essa mi fa il grande favore di avvertirmi delle mie manchevolezza, ne sarò
grandemente obbligato e correggendomi dimostrerò, Signora, che sono il molto umile ed obbediente
servitore dell'Altezza vostra
DESCARTES.
R. Cartesio, Lettere sulla morale, in Id., Opere filosofiche, vol. IV, ed. it. a cura di E. Garin, Laterza, Roma-
Bari 1986, pp. 147-150.
6. HOBBES
Il discorso o linguaggio è un contesto di vocaboli istituiti ad arbitrio degli uomini, per significare la serie
di concetti delle cose che pensiamo. Quindi il discorso sta al ragionamento come la parola sta all’idea,
cioè al concetto di una sola cosa. E sembra che sia proprio dell’uomo. Infatti, pur se alcuni animali bruti,
edotti dall’abitudine, concepiscono, grazie alle parole, ciò che vogliamo e comandiamo, non lo fanno,
tuttavia, grazie alle parole in quanto parole, ma in quanto sono segni; infatti ignorano con quale
significato siano state istituite dall’arbitrio degli uomini.
D’altra parte, il significato che si produce attraverso la voce di un animale, diretta a un altro animale
della medesima specie, non è un discorso, poiché le voci con le quali vengono significati la speranza, il
timore, la gioia e così via vengono espresse non ad arbitrio degli animali stessi, ma per la necessità della
loro natura, sotto la spinta di quelle stesse passioni […] poiché non sono state istituite per loro volontà,
ma scaturiscono per impulso naturale dal timore, dalla gioia, dal desiderio e dalle alte passioni di
ciascuno […] Quindi gli altri animali mancano anche dell’intelletto. Infatti l’intelletto è
un’immaginazione, ma che nasce dal significato istituito dalle parole.
T. Hobbes, De homine. Sezione seconda degli Elementi di filosofia, a cura di A. Pacchi, Laterza, Bari 1970,
pp. 139-140.
identiche, perchè allora per la prima non occorrerebbe nessun'altra massima che quella posta a base
della seconda; oppure quella connessione è posta per il fatto che la virtù produce la felicità come
qualcosa di diverso dalla coscienza della prima, a quella guisa che la causa produce un effetto.
Delle antiche scuole greche ve n'erano propriamente solo due che nella determinazione del concetto
del sommo bene seguivano bensì uno stesso metodo, in quanto non ammettevano la virtù e la felicità
come due elementi differenti del sommo bene, e quindi cercavano l'unità del principio secondo la regola
dell'identità; ma si separavano di nuovo nello scegliere differentemente il concetto fondamentale.
L'epicureo diceva che l'esser conscio della propria massima, che conduce alla felicità, è la virtù; lo stoico,
che l'esser conscio della propria virtù è la felicità. Pel primo la prudenza equivaleva alla moralità; pel
secondo il quale sceglieva una denominazione più alta per la virtù, la moralità soltanto era la vera
saggezza.
Si deve rimpiangere che l'acutezza di questi uomini (che però nello stesso tempo sono da ammirare
per il fatto che in tempi così antichi tentarono già tutte le vie possibili delle conquiste filosofiche) fosse
infelicemente impiegata a ricercar l'identità fra due concetti estremamente diversi, quello della felicità e
quello della virtù. Ma ciò era conforme allo spirito dialettico dei loro tempi; che anche ora talvolta
induce alcune menti sottili a cogliere nei principi differenze essenziali, e che non si possono mai
conciliare, cercando di mutarle in questioni di parole: e così, in apparenza, si produce artificialmente
l'unità del concetto semplicemente fra denominazioni differenti; e ciò riguarda comunemente casi in cui
la conciliazione di princìpi eterogenei è così profonda o così alta, oppure si richiederebbe una
trasformazione così completa delle dottrine d'altronde ammesse nel sistema filosofico, che si teme di
andar troppo innanzi nella differenza reale, e la si tratta piuttosto come disunione di semplici formalità.
Mentre tutt'e due le scuole cercavano con sottigliezza di scoprire l'identità dei príncípi pratici della
virtù e della felicità, non perciò erano concordi fra di loro nel modo di produrre quest'identità, ma si
separavano infinitamente l'una dall’altra, poiché l'una riponeva il suo principio nel lato sensibile, l'altra
nel lato logico; quella nella coscienza del bisogno sensibile, questa nell'indipendenza della ragion pratica
da tutti i motivi determinanti sensibili. Il concetto della virtù si trovava già, secondo l'epicureo, nella
massima di promuovere la propria felicità; il sentimento della felicità era invece, secondo lo stoico, già
contenuto nella coscienza della propria virtù. Ma ciò che è contenuto in altro concetto è bensì identico
con una parte del contenente, ma non con l'intero; e due interi possono, inoltre, essere specialmente
differenti l'uno dall'altro, benché siano composti della stessa materia, se cioè in essi le parti sono in
modo affatto diverso unite nell'intero. Lo stoico affermava che la virtù è tutto il sommo bene, e la
felicità è soltanto la coscienza del possessore di essa, e quindi appartiene allo stato del soggetto.
L'epicureo affermava che la felicità è tutto il sommo bene, e la virtù è solo la forma della massima per
procurarsela, cioè essa consiste nell'uso razionale dei mezzi per ottenerla.
Ma dall'analitica risulta chiaramente, che le massime della virtù e quelle della propria felicità sono
affatto differenti rispetto al loro principio pratico supremo, e ben lungi dall'esser concordi, benché
appartengano a un sommo bene e lo rendano possibile, nello stesso soggetto si limitano assai e si
recano pregiudizio. Dunque, la questione: com'è praticamente possibile il sommo bene, rimane ancor
sempre un problema insoluto, nonostante tutti i tentativi di composizione sin qui fatti. Ma ciò che lo
rende un problema diffìcile a risolvere, è dato nell'Analitica, e cioè che la felicità e la moralità sono due
elementi del sommo bene affatto diversi specificamente, ed il loro legame non può quindi esser
conosciuto analiticamente (quasi colui il quale cerca la sua felicità, in questo suo procedere si trovasse
virtuoso mediante la semplice soluzione dei suoi concetti, o colui che segue la virtù, nella coscienza di un
tale procedere si trovasse già felice ipso facto), ma è una sintesi di concetti. Poiché per altro questo
legame è conosciuto come a priori, quindi praticamente necessario, e perciò non come derivato
dall'esperienza, onde la possibilità del sommo bene non si fonda su nessun principio empirico, la
deduzione di questo concetto dovrà essere trascendentale. E’ necessario a priori (moralmente)
produrre il sommo bene mediante la líbertà della volontà; dunque anche la condizione della possibilità
di esso deve fondarsi soltanto su princìpi della conoscenza a priori.
perché riguarda un bene pratico, ossia ciò che è possibile mediante azione. Dunque, o il desiderio della
felicità dev'esser la causa movente per la massima della virtù, o la massima della virtù dev'esser la causa
efficiente della felicità. Il primo caso è assolutamente impossibile; perché (come si è dimostrato
nell'Analítica) le massime che pongono il motivo determinante della volontà nel desiderio della propria
felicità non sono affatto morali, e non possono fondare nessuna virtù. Ma il secondo caso è anche
impossibile, perché nel mondo ogni connessione pratica delle cause e degli effetti, come conseguenza
della determinazione della volontà, non si conforma alle intenzioni morali della volontà, ma alla
cognizione delle leggi naturali e al potere fisico di usarle per i propri fini, e quindi nel mondo non si può
attendere nessuna connessione necessaria e sufficiente pel sommo bene, della felicità con la virtù,
mediante l'osservanza esattissima della legge morale. Ora, siccome il promuovimento del sommo bene,
che contiene questa connessione nel suo concetto, è un oggetto necessario a priori della nostra volontà
ed è connesso inseparabilmente con la legge morale, così l'impossibilità di questo promuovimento deve
anche dimostrare la falsità della legge. Dunque, se il sommo bene è impossibile secondo regole
pratiche, anche la legge morale, che prescrive di promuoverlo, dev'essere fantastica e ordinata a fini
vani e immaginari e, quindi, in sé falsa.