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LETTERATURA ITALIANA

PRIMO SEMESTRE 2021


di Manuela Denise D’Alessandro
no_reply@example.com

LEZIONE 1- BUZZATI E LA MODERNITÀ

Analisi alla luce della categoria del modernismo e del fantastico.

Discorso di natura metodologica partendo da un testo fondamentale della modernità


letteraria in relazione alla letteratura fantastica di Todorov. Importante perché va a
terrorizzare i motivi conduttori del fantastico che possiamo riassumere come un genere
letterario che mette in scena un tipo di soprannaturale particolarmente inquietante e
perturbante. Tipo di fantastico ascrivibile all’800 e i primi anni del 900 (Buzzati poi lo
teorizza in pieno più in là) che si differenzia dalla tradizione romantica ottocentesca che
intendeva il fantastico in senso soprannaturale e diverso, fatto di castelli, catene cigolanti,
fantasmi. Tutto questo scompare nell’universo modernista e soprattutto Buzzatiano del
fantastico e viene messa in crisi la coerenza del nostro paradigma di realtà a causa di
eventi inspiegabili, sconcertanti e che ci fanno dubitare di noi stessi in relazione al mondo.
ed è questo che perturba che spaventa di più, cioè la nostra rottura della realtà Rispetto a
ciò che ci circonda. Ecco la grande metafora del Covid che può essere ascritta a questo tipo
di fantastico: qualcosa che avrebbe avuto poche possibilità di succedere e che invece è
accaduto comunque e che perturba, spaventa proprio perché rompe i paradigmi della
realtà, è un'altra rappresentazione di noi stessi rispetto al mondo che conosciamo. è
sicuramente interessante per questo tipo di teoria ma dobbiamo affiancargli senz'altro un
altro grande critico del fantastico, questa volta francese, Roger Caillois, che definisce il
fantastico novecentesco con una parola chiave che è scandalo, tecnicamente una
lacerazione insolita nel mondo reale. Poi sostanzialmente sono due riflessioni molto vicine
che la dicono lunga sull’alienazione a cui l’uomo moderno è sottoposto (l’abbiamo visto con
pirandello, svevo, magritte). anche il 700 e l’800 sono stati secoli caratterizzati da
cambiamenti epocali (rivoluzione francese e industriale, ma anche le motivazioni
ideologiche sottese in questa epoca), pensiamo al barocco e all’elemento del
soprannaturale, in senso più mortuario e visto nella declinazione del Don Giovanni, e a
partire da questo snodo dei secoli arriviamo alla definizione del fantastico novecentesco
come lo intendono Todorov, Caillois e Buzzati. Il confine tra reale e soprannaturale diventa
sempre più oscillante e anche il concetto di realismo, basato sul principio di causa ed
effetto, assume la connotazione del realismo magico. Sembra un po’ una contraddizione,

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ma è questo che Buzzati vuole fare: parlarci di una storia potenzialmente reale inserendo
dei motivi magico-fantastici (l’universo Buzzatiano in particolare è pieno di elfi, gnomi… ma
che hanno un loro perché all’interno del paradigma di realtà) perché tutto è possibile nello
spazio, dentro e fuori di noi.

Ne consegue che nulla è sicuro (il fantastico non è una fiaba) perché niente è più fantastico,
paradossalmente, della realtà. Ricordiamoci ancora Pirandello quando nella nota posposta
ne “Il fu Mattia Pascal” nelle avvertenze ci dice che la realtà supera tutte le fantasie. I
concetti di realtà e verità, che sembrerebbero concetti all’apparenza assoluti, si associano
alla fantasia, che risulta più verosimile della realtà stessa.

I surrealisti ne hanno fatto un perno della loro corrente artistica, mettendo su tela
l’incongruo, in modo artistico, per esprimere l’incertezza e l’assurdità, l’alienazione
dell’uomo. Non c’è più la convenzione del lieto fine: Buzzati sposta il baricentro della
narrazione alla mente umana, ai meccanismi della paura, di un terrore che è sempre in
agguato ma soprattutto dentro di noi.

Il teatro (mondo deputato a mettere in scena in fantasmi dell’inconscio, come con


Pirandello) di Buzzati, così come la sua narrativa (B. è un autore estremamente versatile, è
stato un giornalista del Corriere della sera, si è occupato anche di sport, di cronaca nera, è
stato anche scrittore e ha scritto anche opere teatrali) è fatto di segnali premonitori, ombre
ingannevoli, voci, suoni, rumori, si pensi all’opera teatrale “Il caso clinico” che in realtà viene
da un racconto chiamato “Sette piani”, scritto per una circostanza autobiografica, in quanto
Buzzati, sofferente di una mastoidite (infiammazione alla mascella) che gli fu mal
diagnosticata come un tumore, racconta che durante una visita in uno studio medico si
affacciò alla finestra, vide un palazzo di 7 piani e immaginò questa scena, poi trasferita
nell’opera teatrale. Qui, un grande capitano d’industria -possiamo notare il trionfo
dell’alienazione di questo magnate alle prese con il suo lavoro febbrile- che avverte una
situazione strana, delle ombre, delle voci e ha anche paura a dirlo, non può essere distolto
dal suo lavoro e finisce in una clinica per curare quello che sembra un disturbo di lieve
entità ma inquietante in cui i personaggi sono collocati in 7 piani, al primo piano ci sono i
moribondi e quindi più si scende di piano più sono gravi le condizioni dei pazienti che vi si
trovano. La gravità della malattia è dovuta da questo scendere di piano in piano, quasi
come una discesa agli inferi, a volte con delle motivazioni molto astruse, molto bizzarre.
Questo personaggio quasi sano, che si colloca al settimo piano, si ritrova dunque divorato,
suo malgrado, dagli ingranaggi perfetti e impassibili di una clinica di sette piani in cui i
pazienti sono disposti a seconda della gravità del male, attraverso un percorso discendente
che lo porterà rapidamente dalla frenetica vita dei sani agli inferi della malattia e della
morte. Si percepisce qui quella tendenza della letteratura modernista (che abbiamo visto
anche in Pirandello e Svevo) della malattia, della medicina, della letteratura che diventa
quasi una sorta di strumento per accogliere tutto il patologico e che, grazie alle ricerche
scientifiche nel campo psichiatrico, nel 900 acquisiscono enfasi. Quindi in Buzzati,
Pirandello e Svevo c’è un punto di segreta convergenza tra letteratura e medicina, anche se
in Buzzati vi è una chiarissima impronta autobiografica che ha anche confermato lui ma

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tantissimi racconti di B sono incentrati sulla malattia, che viene declinata in tutto il suo
terrore. Vi è un racconto, congruo al periodo che stiamo vivendo, che ha un titolo
emblematico, “una cosa che comincia per L” che sta per lebbra, una malattia che
addirittura non si può comunicare in quanto terribile e anche qui vediamo questa
dicotomia, questa separazione tra l’uomo e la società, nel nostro caso un commerciante di
legno piuttosto volgare che all’improvviso scopre di essere contagiato e viene pian piano
isolato dalla società, con esiti evidentemente terrificanti, al punto che lui che si è sempre
imposto con grande forza e cattiveria adesso sta a compatire un po’ di conforto, un po’ di
compagnia, cosa che non è assolutamente possibile data la tipicità della malattia.

Su questo si possono fare anche altri esempi, alcuni sono anche declinati in chiave ironica,
come ad esempio un medico costringe un paziente ad abusare di alcol e cibi molto poco
sani per strapparlo dai suoi pensieri ossessivi mortuari ma questo è soltanto uno degli esiti
più comici, presenti poco in Buzzati.

Facciamo quindi entrare Buzzati in questo trittico tra Pirandello e Svevo su questo
macrotema tutto moderno -perché la malattia è un tema tipico del modernismo insieme
all’inettitudine e alla vecchiaia- Svevo lo declina più nella dicotomia vecchiaia -malattia
mentre Buzzati ne dà un registro a parte.

Nel fantastico, dunque, sono abbandonate quasi sempre tutte le convenzioni del lieto fine
perché fa leva non tanto sull’angoscia e sul terrore ma sulla perdita totale dell’armonia con
noi stessi e con il mondo. Il fantastico restituisce fino alla fine il sentimento di smarrimento,
di minaccia delle nostre abitudini anche grazie ad eventi straordinari. La caratteristica di
Buzzati è quella di raccontare fenomeni soprannaturali, dagli alluvioni alle situazioni più
angosciose proprio nella loro piccolezza. Ad esempio, nel brevissimo racconto “alla goccia”
un signore di sveglia nel cuore della notte sentendo grondare nel lavandino una goccia dal
rubinetto. Si alza e scopre che quella goccia in realtà è sale, evento perturbante soprattutto
di notte. Questo è uno dei simboli del fantastico Buzzatiano, ma un altro elemento facile da
riconoscere - analizzato in pirandello- è quello della follia e della crisi/frantumazione dell’io.

Altri aspetti inscrivibili nella categoria del fantastico sono la sensazione del deja vu, le
impressioni strane e sconcertanti (aspetti completamente diversi da quelli che abbiamo
visto nel romanticismo, non possiamo neanche averne la nostalgia perché non c'è un
tempo prima del fantastico. Il fantastico ha questa caratteristica cioè di annullare la
dimensione spazio temporale e inquieta e ingloba il futuro). A proposito del fantastico,
Buzzati rilascia una lunghissima intervista allo scrittore francese Yves Panafieu in cui dice
“io racconto una cosa di carattere fantastico e quando lo faccio devo cercare di essere allo
stesso tempo plausibile ed evidente (due concetti che sembrano ossimorici), bisogna
cercare di raccontarlo nel modo più vicino alla cronaca. Fa l'esempio di Dante che quando
va all’inferno non ha incontrato anime astratte ma gente che ha realmente conosciuto nella
Firenze della sua epoca e ha cronicizzato questa fantasia nel concetto di follia.

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In questo senso, la scrittura del fantastico non può che essere assolutamente semplice e
lineare come un racconto giornalistico in modo che il lettore possa essere lasciato attonito
dall’assurdità dell’accaduto ma allo stesso tempo c’è la possibilità di puntare sull’ironia e
sullo scherzo per stemperare questa paura/incertezza, come in Svevo. Fondamentale
prendere atto che presenze fantasmatiche e fantastiche sono figure usate nella modernità
letteraria.

Esistono diverse declinazioni del fantastico in Buzzati, un’altra caratteristica sono infatti i
fantasmi, non ottocenteschi ma strane creaturine che si pongono quasi come a contrastare
l'alienazione della modernità. Ad esempio, palazzi, grattacieli, quartieri avveniristici hanno
spento quella fantasia (arte poetica che viene uccisa, come in Ilse sbranata nei giganti della
montagna in Pirandello). I fantasmi sono gli ultimi avamposti della salute mentale rispetto
alla modernità, i palazzi e i grattacieli che rendono tutto alienante, i fracassi, i rumori. ad
esempio, ne “le notti difficili” B dice che le stelle in cielo (piuttosto che i fantasmi?) non
possono più essere ritrovati a causa della televisione, il traffico e il caos etc. tre cose
moderne che spengono le antenne della fantasia nella sua accezione più ampia. C’è un
altro racconto molto bello, chiamato Velocità della luce, in cui corre voce che metteranno
una ferrovia in Val Rita e questi casolari che fumano non fanno più vedere le bellezze dei
boschi; la ferrovia è smania degli uomini pazzi, qualcosa succederà: chissà cosa faranno gli
spiriti della montagna, capricciosi e dispettosi spiriti capaci di combinare anche loro
qualche disastro. è evidente che questi spiritelli sono creature assolutamente positive che
possono insediare ciò che Buzzati mette in evidenzia, ossia tutti i paradossi della
modernità. Paradossalmente però non c’è neanche più tempo di fantasmi perché la follia
degli uomini ha reso obsoleti anche i luoghi destinati a loro, tema tra i più attuali (Buzzati
ha saputo assolutamente declinare la follia e le catastrofi ambientali, c’è un bellissimo
racconto che si chiama Elefantiasi che parla dell’ingombro della plastica, dello scoppio di
tutta la plastica presente sulla terra, con esiti catastrofici).

LEZIONE 2 - I RACCONTI DI BUZZATI


Vediamo i rapporti con le letterature straniere. In particolare, il nostro autore è stato
associato esagerando a kafka, un piccolo kafka e gli è costato parecchio perché si vedeva in
lui il narratore di quelle atmosfere particolarmente perturbanti ma sicuramente che
Buzzati ha una cifra originale rispetto a Kafka nella scrittura del processo, le metamorfosi,...
il suo fantastico è tipicamente inteso come una categoria mai scollegata dagli elementi
della realtà, riesce a far percepire i grandi temi della vita e della morte e in questo ha dato
una cifra assolutamente originale tant’è che a proposito di letterature europee la francia gli
ha dato un ruolo di prima importanza: ha creato una serie di studi buzzatiani che vanno
sotto il nome di cahiers. C’è stato quindi un grande interesse nella narrativa francese nei
confronti di Buzzati, e così anche nel teatro francese.

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Il sogno
La vera novità di Buzzati sta nel fatto che ha dato uno sguardo di rilievo alla vita misteriosa
e ineffabile, al discorso sulla coscienza -lo strato conscio dell’inconscio-, che è di grande
importanza negli autori moderni (si pensi alla coscienza di Zeno) e anche a quello del
sogno. In un’intervista al Corriere della sera, B dice che per lui il sogno è “un segno di
nutrimento”, che la notte sogna moltissime cose che riguardano per lo più la montagna
(Buzzati di fatto è sempre stato affascinato dal paesaggio bellunese) e questi sogni a volte
sono così perfetti da venire utilizzati nei racconti.

Era proibito
Un’altra questione che Buzzati affronta che abbiamo visto anche in Pirandello è la difficoltà
di fare letteratura/arte/poesia nella società di massa (massificata); in tal senso, fa una
bellissima riflessione in un racconto, “Era proibito”. Qui si narrano le vicende di uno stato in
cui viene proibita la poesia ed è possibile cogliere l’atteggiamento ironico dello scrittore nei
confronti di una ideologia materialistica totalitaria, in cui sembra contare solo la
produttività. In questo racconto, da quando è stata proibita la poesia, la vita è più semplice
perché è più facile andare sui meccanismi del consumo e della produzione; anzi, non si
riesce a capire come per millenni l’umanità abbia ignorato questa verità fondamentale.
“Può essere utile-” dice Buzzati “fare riferimento alla poesia per qualsiasi pena della
società”, conclude questo racconto dicendo “si può mettere che in questo mondo, legato
alle opere concrete, lo spirito possa ancora avere spazio, ci possano essere ancora
esaltazioni anche se non hanno un’estensione pratica ma che contribuiscono all’esistenza”.

La paura
Altri aspetti importanti della letteratura di Buzzati sono i meccanismi della paura, intesa
come qualcosa di estremamente pervasivo, che non si può toccare e allo stesso tempo può
portare a due tipi di soluzione/ manifestarsi in due modi:

● vi è la paura primaria, che blocca e paralizza;


● la paura secondaria, che dà la possibilità di azione. L’esito è ugualmente nefasto
rispetto allo scenario di paura ma almeno c’è una controspinta attiva;

Tra i racconti più significativi in tal senso vi è “qualcosa era successo”, una storia molto
inquietante perché si racconta di un treno che solitamente arresta il suo tragitto a ogni
fermata ma quel giorno non lo fa. Fatto già di per sé singolare, quel treno fila velocissimo
anche davanti alle stazioni presso cui si dovrebbe fermare, non si capisce dove stia
andando e questo treno impazzito spaventa i passeggeri. Ad un certo punto, succede un
episodio talmente infinitesimale che Buzzati ha bisogno di cucirlo più volte all’interno del
tessuto del racconto: una folata di vento fa entrare un foglio di giornale all’interno di uno
scompartimento del treno e si leggono solo quattro lettere “IONE”, nient'altro. Senza
parole, una signora che aveva preso questo frammento di carta prova a immaginare cosa

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possa essere successo -un alluvione? per via di IONE-e finalmente il treno si ferma. Tutti
corrono verso l’uscita per capire cosa fosse capitato e sentono urlare una donna che chiede
aiuto che non fa capire il perché. La vicenda è molto inquietante e il racconto mette bene in
evidenza quello che possiamo definire come l’accadibilità dell’indecifrabile,
dell’improbabile, determina situazioni da thriller psicologico e paure di eventi dei quali non
ci si potrà mai difendere. Da qui scattano l’angoscia -tema cardine del modernismo- ma
anche la solitudine, come nel caso della signora che resta sola nel terrore poiché nessuno
capisce le ragioni della sua richiesta di aiuto.

Un parallelo possibile con Pirandello: i lettori, per P, non devono tornare a casa con delle
certezze, non con il punto fermo ma con il punto interrogativo, ed è più o meno anche la
poetica di Buzzati, anche se con lui siamo su un livello più alto di incertezza e di dubbio,
poiché scatta direttamente l’angoscia.

Un’altra caratteristica della letteratura di Buzzati è data dall’unione della dimensione


cronachistica con quella quasi fiabesca (vicende tipiche dello statuto della fiaba). In tal
senso possiamo citare raccolta che contiene una serie di racconti (questo accade quando la
storia è talmente emblematica da dare il titolo a tutta la raccolta: si racconta la storia di
questo adolescente a cui è stato proibito dal padre di andare per mare a causa di un
mostro marino, il Colombre (inteso come meccanismo persecutorio), che secondo una
vecchia profezia lo avrebbe ucciso una volta andato per mare. Alla morte del padre, il
ragazzino va per mare e cerca di scansare questo Colombre, finché poi si svela il vero
significato: questo mostro rincorreva questo ragazzino per dargli una perla di inestimabile
valore che gli avrebbe garantito felicità e armonia. Paradossalmente quindi questo ragazzo,
ormai adulto, ha vissuto sempre nella paura e viene fuori il tema di una felicità
assurdamente scansata a causa della paura e la rivelazione avviene quando è troppo tardi,
cioè quando il rimpianto dell’errore è compiuto. Il destino assurdo di questo personaggio
che si chiama Stefano è quello di non capire quale sia il destino migliore per la propria vita
e intestardirsi a fuggirlo, scansarlo per cercare chissà dove la felicità per poi accorgersi
all’ultimo di aver sbagliato tutto sulla propria esistenza. Questo perché la vita è una serie di
scelte sbagliate. occasioni perdute, arrivi in ritardo agli appuntamenti con la grande
occasione e il senso dell’attesa, che abbiamo visto anche in Pirandello, non nasce da una
fede incondizionata in un ideale irrazionale e irrealizzabile ma da un processo di
suggestione alla cui radice vi sono delle forze che agiscono sulla psiche dell’individuo.

LEZIONE 3 - TEMI E MODULI BUZZATIANI


Viaggio all’interno del mondo Buzzatiano.

Al discorso del Colombre (differire la felicità per paura) si affianca a pieno titolo anche un
altro aspetto, ossia che ci siano delle suggestioni, intese come forze misteriose che

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agiscono sulla psiche dell’individuo. Del resto l’abbiamo visto anche con la Coscienza di
Zeno, quindi qual è la novità di Buzzati?

Ci dice molto di lui un suo stesso articolo, comparso sul Corriere della sera, dal titolo molto
emblematico, “Ma la scienza dice no”. In questo articolo, estremamente moderno a
proposito di scienza, ci dice che esiste un mondo inesplorato, dove ci sono energie, flussi e
corrispondenze che sfuggono alla possibilità di controllo dell'individuo -del resto tutto il
meccanismo della paura buzzatiana si basa su questo. Si direbbe che una invisibile barriera
circondi il mondo, attraverso questa frontiera arrivano però messaggi a noi con tale
evidenza che non è più possibile dubitarne. Qui sono nascosti dei segreti che senza alcun
dubbio verranno cifrati, non nel presente ma in un futuro molto prossimo, in modo da
contribuire a favorire le scoperte del secolo.

Dio
C’è una visione sicuramente progressista, anche se è molto forte la cifra dello scrittore
Buzzati che evidenzia sempre e comunque le situazioni che non hanno via di sbocco, una
condizione assurda che di per sé non ha possibilità di aperture. L’assurdità della condizione
umana, secondo Buzzati, è esasperata anche dall’uomo stesso per il disaccordo che ha
creato tra sé e il mondo. Citiamo nuovamente Elefantiasi, un accumulo di plastica che ha
causato una vera e propria catastrofe ed è uno dei tanti esempi della frattura tra l’uomo e
l’ambiente. Questa tragedia è acuita anche dalla mancanza di un credo divino, come si
legge ancora in un’intervista da lui rilasciata: c’è un vuoto spaventoso, la vera tragedia del
mondo contemporaneo (ricordiamoci che neanche Pirandello e Svevo hanno incontrato
Dio, seppur nella lettura di Lazzaro abbiamo visto che alla fine della vita Pirandelliana c’è
questo flato di un credo che però non è trascendente, ma della fratellanza, un credo più
francescano che è ben esemplificato nella personalità di Lucio, che lascia prima gli abiti
talari per imposizione paterna e poi li riprende perché realmente convinto che non è la
fede il dogma, incerto per eccellenza, vivificato dalla fede stessa, ma è il fare bene quaggiù
a essere significativo). Per Buzzati, se in altre epoche esisteva una coscienza religiosa
collettiva e non si conosceva il vuoto, ora non è più così: il vuoto spaventoso esiste -la vera
tragedia del mondo contemporaneo- ed esiste in relazione al fatto che debba essere
riempito. Anche qui, lo scrittore dice una cosa estremamente moderna, cioé che le grosse e
potentissime organizzazioni americane dovrebbero mettere a disposizione tutti i mezzi
pubblicitari televisivi, radiofonici e cinematografici per fare una grande campagna che
convinca gli uomini almeno a dire che Dio esiste e che è presente almeno dentro/fra di noi.

In realtà Buzzati non incontra Dio, ma spera che questo vuoto possa essere colmato
almeno da un che di divino. Forse proprio per questo motivo si spiega che nel Colombre,
all’uomo capita di non poter oltrepassare il confine angusto delle proprie scelte e anche qui
è evidente che viene fuori la situazione più tipica dell’intellettuale borghese del ‘900 per il

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quale l’esistenza si riduce a una serie di eventi inesplicabili che, assieme all’occulto, fa sì che
l’uomo perda il controllo del suo destino.

La morte
Un altro tema pervasivo dell’opera di Buzzati è quello della morte, che paradossalmente
rispetto al tema viene curvato con esiti ironici (non umoristici perché sappiamo la valenza
che ha l’umorismo soprattutto in senso Pirandelliano). Si pensi a un’opera teatrale in
particolare, chiamata “Piccola passeggiata” -più che un’opera teatrale è un racconto
scenico- in cui sullo sfondo di un’astratta città si snoda una vicenda contrassegnata da una
certa ironia per via dei personaggi: il cavalier Folletti (nel nome c’è sempre questo
fantastico buzzatiano, sia nel folletto che nella follia), un signore piuttosto anziano ingenuo
e un tale professore -non si sa di cosa- che è una signorile incarnazione della morte, che da
diverso tempo fa visita a quest’uomo in attesa di portarlo via con sé. Tutti hanno capito chi
si nasconde dietro le sembianze di questo professore tranne la vittima stessa, con cui
intrattiene un dialogo piuttosto serrato e fa delle passeggiate. Questo suo coraggio di stare
a braccetto con il professore/morte gli procura una sorta di rinvio/differita rispetto alla
chiamata finale e fatale. Omofonia di folletto/folle non è casuale, il professore rimane
diverso rispetto a quegli uomini che palesano una mentalità utilitaristica e materialistica;
questo personaggio sembra anzi desunto dal mondo delle fiabe.

L’ironia indulgente con cui il cavalier Folletti tratta il professore nasce da un equivoco di
fondo, perché lo scambia per un amico del fratello che è venuto a fargli visita, per questo
motivo gli riserva un trattamento piuttosto accogliente e affettuoso fino a suscitare il
disappunto del professore, che contrariamente alle sue aspettative (sa di essere
l’incarnazione della morte e sa che anche gli altri lo sanno) si ritrova a far ribaltare il
rapporto tra carnefice e vittima e l’immagine del feroce professore -in quanto
rappresentativo della crudeltà della morte- sarà smontata in un percorso di umanizzazione
che lo rende addirittura imbarazzato e impacciato di fronte al cavalier Folletti.

La passeggiata con la morte tra i viali della memoria è un modo per rivisitare tutte le tappe
più significative della vita e trasformarle in una ricerca sul senso remoto dell’esistenza.
Essere felici significa comprendere la propria impotenza e Folletti rappresenta proprio, con
tutti i paragoni del caso, la Ilse pirandelliana e quindi il simbolo supremo dell’arte inteso
come anti profitto, anti produttività: colui che incarna il concetto della fantasia e della
poesia in contrapposizione alla razionalità e alla tecnocrazia.

La vita può essere solo un’illusione (ricordiamoci Pirandello, “illudersi è bello ma del troppo
illudersi si piange sempre la frode”, frase contenuta nel saggio L’umorismo) ma in Piccola
passeggiata Buzzati ci dice un’altra cosa, ossia che l’arte, nel suo significato più ampio, è una
realtà imperitura e persino la morte la risparmia. Il lettore si sente in posizione di giudice

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tra il seduttore e il sedotto e anche la morte viene disarmata da questo uomo,
all’apparenza insignificante ma che è riuscito a ribaltare, è il caso di dirlo, un copione.

A proposito della morte dilazionata e differita, va senz’altro ricordato un altro racconto che
riguarda lo scienziato Albert Einstein: è incentrato sulla vicenda della morte, nella
fattispecie di un uomo nero, che va a trovare Einstein dicendogli che di lì a poco lo
chiamerà. Lo scienziato chiede una dilazione dell’appuntamento fatale perché sta per
portare a termine una scoperta importantissima per l’umanità e si danno appuntamento
dopo un po’ di tempo. Quando Einstein ha ultimato la scoperta arriva di nuovo la morte e si
scopre che in realtà è stato tutto un modo per costringere lo scienziato a lavorare più
velocemente e accorciare i tempi, visto che l’uomo rimarrà sulla terra ancora tanto tempo.

Troviamo, dunque, due immagini estremamente significative, quelle di Folletti e Einstein


che rappresentano sia la dilazione con la morte che avere la meglio sulla stessa, scacco
matto sulla morte che invece non accade nel caso del magnate di “Sette piani” perché qui,
anche a causa di vari meccanismi narrativi, la morte avrà la meglio. Quando il magnate
d’industria si va a ricoverare in clinica, entrando da quasi sano e uscendo da morto, pur
sapendo che la sua permanenza durerà poco -dalla valigia piccola che porta l’uomo- ci
accorgiamo da subito di tante spie mortuarie: il suo essere claustrofobico, dato dal fatto
che la clinica è cinta, raccolta, da moltissimi alberi particolarmente alti, lo spazio è
delimitato come se fosse una prigione e addirittura le finestre dell’ospedale sono
ermeticamente sprangate. Queste sono solo alcune delle spie narrative tipiche dei grandi
romanzieri, dei particolari che possono apparire insignificanti nell’economia del racconto
ma che invece sono delle spie per farci capire altro, nel nostro caso la presenza pervasiva
mortuaria sin dall’inizio del racconto, pur essendo il paziente quasi sano. Anche l’atmosfera
gaia del settimo piano è anomala, perché c’è una lucina molto fioca -dice Buzzati- per
leggere al “capezzale” (invece di comodino), termine fortemente anticipatore che fa
intendere il suo destino da moribondo.

Abbiamo detto che Buzzati ha patito molto il confronto con Kafka (diceva “mi si paragona a
Kafka anche se leggessi l’elenco del telefono”); tra i due ci sono molte differenze, anche dei
punti di aggancio, ma hanno entrambi dato degli esiti notevoli e originali. Per quanto ci
siano tipiche movenze kafkiane (perché il protagonista in Sette piani è “condannato” senza
appello e senza speranza di salvezza, qui con la “pena” -destino nefasto- ci si rifà a Kafka e
all’incipit de “Il processo” che senza aver fatto nulla di male una mattina fu arrestato). La
clinica sanatoria rappresenta anche una critica al burocratismo automatico che non tiene
conto dell’elemento umano ma procede inesorabile e ci riporta anche a Thomas Mann e
all’opera “Montagna incantata”, dove il protagonista Hans entra da sano in un sanatorio per
far visita al cugino malato di tubercolosi, prima di ripartire si sottopone ad una visita e
scoprirà di avere anche lui la tubercolosi. Qui vi rimarrà per sette anni e anche da guarito,
per una serie di ragioni rifiuterà di lasciare la clinica.

A questo proposito si cita un altro racconto di Buzzati, “Questioni ospedaliere”, una storia
assurda e quasi cruenta di un uomo che sta aiutando una donna, grondante sangue, a

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portarla in ospedale e trova l’accesso sbarrato ogni volta che prova ad entrare per eccesso
di burocrazia. Una volta gli si contesta di non avere il foglio di accettazione, un’altra di
essere entrato dal cancello sbagliato, un’altra di dover andare a destra e non a sinistra… il
tutto mentre portava in braccio una donna grondante sangue. Una scena che rimanda
anche un po’ a un’altra de “Il fu Mattia Pascal”, una delle più truci di Pirandello, quella del
casinò di Montecarlo in cui vi è un morto suicida. Emerge qui il concetto della crudeltà e
della salvezza impossibile per eccesso di burocrazia e tecnicismo, rappresentando una
battaglia tipicamente buzzatiana.

Tornando a Sette piani, vi è un’alternanza di tragico e patetico, l’angoscia alla fine si diluisce
nell’elegia. Questo racconto finisce tragicamente, perché il protagonista muore, con la
madre -l’unica ad aver capito il dramma del figlio- che lo abbraccia e lui ritorna quasi in una
situazione fetale, un abbraccio di bambino. La morte ha mietuto la sua vittima, a differenza
di Piccola passeggiata, non c’è dilazione che tenga e la cifra patetica, la cifra più artistica, è
data dal rapporto madre-figlio.

L’elaborazione teatrale di Sette piani (abbiamo detto che c’è il racconto e poi l’elaborazione
teatrale) produce una dilatazione della storia grazie alla creazione di nuovi ambienti: il
racconto si apre con l’ingresso del protagonista nella misteriosa clinica, la commedia scava
invece a ritroso nella vita del protagonista per mostrare la sua febbrile attività, il suo piglio
leonino, la sua famiglia -totalmente arida e fredda, tanto la moglie tanto la figlia che
vogliono sono spillargli denaro-, e per lasciare che lo spettatore possa udire la “voce”
(elemento tipico del fantastico), ossia il terribile il richiamo della morte, che si manifesta in
ufficio sotto le sembianze di una donna sconosciuta, poi in una figura che cuce «con
estrema rapidità» nascosta dentro l’armadio di casa, infine nelle misteriose e indecifrabili
ombre che compaiono in sogno. Proprio questa voce indurrà Giovanni Corte ad andare in
clinica, e da lì avrà inizio il surreale calvario descritto nella novella.

La clinica
Le cliniche, dunque, in Sette piani, Questioni ospedaliere e Un caso clinico sono i ritratti di
ciò che il mondo è diventato grazie alla civiltà industrializzata: Corte è l’eroe della malattia
di cui soffre il borghese negli anni ‘50 e ne costituiscono la quintessenza proprio queste
due figure, la moglie e la figlia, da immaginare come due sanguisughe completamente
distaccate e interessate solo a prendergli denaro. Gli avanzamenti tecnologici, che
avrebbero dovuto rendere la vita più appagante, al contrario hanno catapultato l’uomo
dentro un vuoto (concetto che ritorna), in una situazione assurda, isterica, innaturale.

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LEZIONE 4 - CALVINO, LEGGEREZZA Ⅰ
Affrontiamo Calvino dal punto di vista delle Lezioni americane, in particolar modo
soffermandoci sulla leggerezza. Le Lezioni americane rappresentano un ciclo di 6 lezioni
tenute ad Harvard nel 1985:

● la leggerezza
● la rapidità, per Calvino intesa come cercare di riprodurre la vivacità dei processi
mentali, mettendo in evidenza la velocità fisica e mentale;
● l’esattezza, cercare di rendere precisa una realtà che per sua tendenza rende tutto
indeterminato
● la visibilità, facoltà di far nascere delle immagini dalle parole, caratteristica tipica
degli scrittori (abbiamo visto come Pirandello rende questo concetto “fluttuando
all’interno della corrente espressionista”)
● la molteplicità, tentare di spiegare quanto sia complessa la vita in senso lato e di
ogni essere in particolare;
● la coerenza (quest’ultima solo progettata)

Nella lezione sulla leggerezza, Calvino si pronuncia a favore di questa qualità e ci spiega in
cosa consista, ovvero una sottrazione di peso. La leggerezza ci libera dal peso schiacciante
della fisicità corporea, che condiziona la nostra vita e le nostre scelte, entrambe che si
rivelano spesso ingombranti. In realtà la leggerezza di Calvino va inscritta in un più
generale circuito novecentesco, infatti nel 900 la leggerezza è declinata anche all’arte e i
soggetti in questione sono numerosi: acrobati, ballerine, artisti, pagliacci… che sembrano
ignorare la legge della gravità e danno un senso di leggerezza. C’è un dipinto di Chagall
chiamato “La passeggiata” e rappresenta una donna che vola tenuta per mano dal suo
uomo. Qui la leggerezza è declinata nel senso di frattura che si crea tra la città che si
lasciano alle spalle e la natura, addirittura si intravede una tovaglia da pic nic e si oscilla
molto tra le tinte del verde e rosa. Ancora Palazzeschi, nel poema “Chi sono?” pubblicato
nel 1909 offre l’immagine di un poeta paragonato a un saltimbanco (dice “chi sono? sono il
saltimbanco dell’anima mia). Vi è una celebrazione del mito del pagliaccio da parte di
numerosi artisti, che ha una caratteristica particolare: rappresenta il folle, colui che apre
una breccia e porta un vento di inquietudine, è portatore del non senso mettendo in
dubbio le certezze e ha un lato serio che stravolge nel comico. Introduce sicuramente un
elemento di incoerenza perché ha a che fare con la legge della gravità e del vuoto, infatti si
ride della sua leggerezza (n.b. hai scritto pesantezza prima). La figura del pagliaccio va oltre
il puro divertimento proprio per il suo mettere in scena questo vuoto: Charlie Chaplin si
presenta come esempio dell’artista maldestro e leggero (di fatti sono celebri i suoi salti), ed
è un comico che al di là del riso e del divertimento che suscita assume su di sé il compito di
rovesciare l’ordine prestabilito. La leggerezza è dunque una poetica tipica del ‘900 e c’è in
essa un senso di tragico, sia pure declinato in senso comico.

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Come riesce Calvino a comunicarci leggerezza?
Per parlare di leggerezza bisogna fare riferimento a una caratteristica della scrittura di
Calvino che è di evidenziare la dimensione ludica e fiabesca della sua opera, ossia il
divertimento inteso nella sua fattispecie letteraria anche nel senso etimologico del suo
termine latino, “Volgere altrove”, deviare, prendere un’altra direzione. Per Calvino
allontanarsi dalla realtà significa entrare, grazie alla letteratura, in una dimensione
fiabesca; mette in evidenza anche un processo di conoscenza, che la fiaba ha in sé, ma è
anche un piacere intellettuale da parte di chi scrive (?) La leggerezza, diceva, è una
sottrazione di peso ma anche segno di una particolare volontà dello spirito di rovesciare l’ordine
stabilito.

Calvino quando ci parla della leggerezza ci dice che questa ha ragione di esistere perché il
mondo appare pesante: “mi sembra che tutto stia diventando di pietra” (Presto mi sono accorto
che tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l’agilità scattante e
tagliente che volevo animasse la mia scrittura c’era un divario che mi costava sempre più sforzo
di superare. Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo:
qualità che s’attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle. In certi momenti
mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto pietra: una lenta pietrificazione più o meno
avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della
vita. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa.” Per
spiegare questo concetto si serve quindi del mito di Perseo, colui che ha ucciso Medusa, ossia
una delle tre sorelle gorgoni che trasformatasi in mostro poteva pietrificare qualsiasi cosa e
qualsiasi essere. Perseo ebbe la fortuna di essere aiutato da due potenti dei dell’Olimpo, Ermes
e Atena che per sconfiggere il mostro gli regalarono rispettivamente dei sandali alati uno scudo
di bronzo munito di spada, grazie ai quali riuscì a vedere Medusa senza rimanere pietrificato e a
tagliarle la testa di Medusa. Alla fine del mito, grazie ai sandali alati Perseo si sostiene in aria,
tra vento e nuvole, esclamando “cosa c’è di più leggero del volo?” e dal sangue di Medusa
nasce un meraviglioso cavallo alato, Pegaso. Da questo mito, Calvino ci spiega che la
pesantezza della pietra viene rovesciata nel suo contrario, quindi la forza e l’astuzia di
Perseo stanno proprio nel fatto che evita l’azione diretta: viene evocata un’immagine di grande
bellezza riferita alla leggerezza, quella in cui Perseo stende sul terreno dei ramoscelli e vi
depone la testa della medusa, dando un senso di delicatezza dell’eroe nei confronti di questo
mostro e rivelandoci quanta delicatezza d’animo ci debba essere per essere un vincitore di
mostri, un Perseo. Non un eroe crudele e freddo, dunque, ma un eroe forte/astuto e delicato.
Quei ramoscelli, infine, si trasformano in corallo e accorrono le ninfe ad adornarsene.

Questo mito antico ci permette di comprendere come dal dolore possa scaturire anche bellezza
e leggerezza, grazie ad un atteggiamento delicato come quello di Perseo: si pensi ai ramoscelli
trasformati in corallo e il cavallo alato Pegaso. C’è anche da dire che Calvino non rifiuta la realtà
che lo circonda, non va soltanto nella dimensione fiabesca della leggerezza ma si serve di una
modalità diversa, cioè della fantasia, dell’allegoria e della fiaba, per affrontare la bruttura del
mondo in cui gli è toccato vivere.

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Non è certo un caso che questa lezione nasconda in filigrana pesanti esperienze, come il
ventennio fascista, la guerra appena finita, come se anche attraverso le immagini così forti della
guerra il mondo si stesse pietrificando, esattamente come sotto lo sguardo della medusa.
Calvino cerca di alleggerire il peso di questo carico e cerca di trasmettere la sua esperienza,
non solo di scrittura di scrittore ma anche di partigiano in un mondo che egli sentiva più
congeniale.

La lezione si snoda su una serie di esempi: oltre a Perseo, Calvino si pone questione di come
possiamo sperare di salvarci se abbiamo tutti delle fragilità e per farlo si serve di Milan Kundera,
in particolare l’insostenibile leggerezza dell’essere, e dice che essa è la diretta conseguenza
della pesantezza del vivere. Per quanto riguarda l’interpretazione di quest’ultimo concetto,
nell’autore ci sono dei punti in comune con Pirandello, infatti Calvino mette in evidenza “la fitta
rete di costruzioni pubbliche e private che finisce per avvolgere ogni essere esistente con nodi
esistenza con nodi sempre più stretti”, riprendendo il concetto più ampio pirandelliano di “forma”
e in particolare la contrapposizione tra “vita” e “forma”. Per Calvino, però, tutto ciò che sembra
leggero prima o poi inizierà a rivelare il proprio peso; qui l’autore ci fornisce l’antidoto: la mobilità
e la vivacità dell’intelligenza sfuggono infatti a questa condanna (la mobilità dell’intelligenza
vista in Pirandello declinata nel passaggio “amo le anime sconclusionate e inquiete, quasi in
uno stato di fusione continua che si sdegnano di rapprendersi e di irrigidirsi in questa o quella
forma determinata”, si pensi alla carriola). Calvino fa, inoltre, un esempio tratto da Shakespeare,
ovvero “la capacità dell’animo lieve di muoversi nel mondo come danzando”, citando in
particolare Mercuzio in Romeo e Giulietta, personaggio irriverente, scontroso, che si sottrae alle
regole, alle insidie della materia, crede fermamente nei sogni e nell’allegria sfrenata. Mercuzio
può essere associato anche ad un altro personaggio citato da Calvino: Cavalcanti che a parere
di Boccaccio (anche lui citato nella lezione, esempi che ci fanno capire cosa intende Calvino per
leggerezza) si muove leggerissimo, facendo un balzo da una parte all’altra. In questo senso è
molto interessante analizzare questi personaggi: il ribelle Mercuzio, Cavalcanti -che potrebbe
essere inteso come una figura di filosofo, austera- che, peraltro, viene preso in giro da
un’allegra comitiva di giovani e fa un balzo felino, allontanandosi da quella superficialità e
dimostrando tutta la sua leggerezza, la sua sottrazione di peso.

Il barone rampante

Un altro personaggio che possiamo far rientrare all’interno della leggerezza è sicuramente il
Barone Cosimo di Rondò. In questo caso facciamo una piccola digressione parlando del
Barone rampante, che anche lui è una sorta di esteta della leggerezza:

● è un personaggio molto bizzarro e la leggerezza affidata in primo luogo al fatto che il


protagonista vive sugli alberi, sottraendo, quindi, il suo corpo alla pesantezza della terra,
dall’essere inchiodato al suolo, e la scelta di andare a vivere sugli alberi (e organizzare
tutta la sua esistenza in tale direzione) deriva dalla ribellione verso i genitori, emblema
dell’attaccamento ai valori tradizionali;

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● Cosimo che viene definito ammiratore della rivoluzione francese e dell’Illuminismo,
sogna per sé un destino diverso. Possiamo notare un ritorno alla figura del saltimbanco,
difatti Cosimo di Rondò riesce a stare in equilibrio sugli alberi e muove il suo corpo in
modo completamente naturale, in uno spazio che ovviamente non appartiene all’uomo,
spazio che suo fratello Biagio, narratore, considera difficilmente possedibile (“Quel
bisogno d’entrare in un elemento difficilmente possedibile che aveva spinto mio fratello a
far sue le vie degli alberi”). Salire sugli alberi costituisce per lui un focus privato, non solo
perché sfugge alla legge dell’attrazione terrestre rimanendo distaccato dalla terra ma vi
organizza la propria vita, spostandosi d’albero in albero. L’aria è libera, leggera per
eccellenza, e così anche lui è liberato; la sua leggerezza altro non è che una reazione al
peso del vivere;
● nonostante lui viva distaccato dalla società -nel vero senso della parola-, ciò gli
impedisce di partecipare alle vicende degli umani e di aiutare gli abitanti del villaggio.
Anzi, il suo focus e il suo essere distaccato gli consentono di vedere gli altri con
maggiore obiettività e ad apportare un aiuto serio. Se vogliamo riassumere questo
atteggiamento, possiamo dire che Cosimo è leggero perché è riuscito a liberarsi dal
peso del proprio corpo e ha raggiunto la condizione più adeguata per un migliore
intendimento del mondo.

Calvino propone una morale molto chiara: chi vuole guardare bene la terra deve tenersi a
distanza necessaria. Un riferimento va fatto ai genitori e, quindi, al grande tema del vedere i
genitori assenti o autoritari (si cita anche la situazione dell’orfano di cui parla Di Benedetti). Qui,
i genitori rappresentano la generazione decaduta, la nobiltà, con tutti i suoi falsi valori tramontati
e l’atto di ribellione di Cosimo fa capire come questi valori, insieme a quelli
dell’autorità/autoritarismo, siano profondamente. C’è, infatti, proprio una frattura fra lo spazio
pieno di convenzioni -es. Pater familias (vista anche in Pirandello soprattutto con “Lazzaro”)-
dentro il quale vive questa famiglia banale e pesante e quello in cui si sprigiona l’energia
giovanile di Cosimo, nel suo distaccarsi dal suolo e liberarsi nell’aria.

LEZIONE 5 - CALVINO, LEGGEREZZA ⅠⅠ

Riprendiamo la nostra relazione sulla leggerezza mettendo in evidenza la caratteristica di


Calvino di procedere per esempi, ritorniamo oggi a quelli prima citati di Cavalcanti e di
Mercuzio.

Calvino e Cavalcanti
Per Calvino, quella di spiegarsi per esempi, di spiegarsi bene, è una caratteristica
importante: vuole sempre risultare chiaro e, soprattutto, tenere sempre a mente che la sua
definizione di leggerezza non costeggia la frivolezza, ma è una leggerezza della pensosità; è,

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dunque, una leggerezza pensosa, pensante, che affonda nel pensiero ed è reale, mentre la
frivolezza è sentita come pesante e opaca da Calvino. Parlando di Guido Cavalcanti, nel
Decameron di Boccaccio lo vediamo fronteggiarsi con un’allegra brigata di giovani,
appartenenti alla gioventù dorata della Firenze del tempo. Egli, anziché scendere alla loro
provocazione, fa una sorta di balzo felino “sì come colui che leggerissimo era, prese un
salto e fussi gittato dall'altra parte, e sviluppatosi da loro se n'andò”. L’immagine del
filosofo che scappa, grazie alla sua leggerezza, da questi molestie è molto significativa e ci
dimostra come in un’apparenza austera e -anche associata alla pesantezza, se pensiamo
alla figura del filosofo- si nasconde invece una leggerezza sia corporale che mentale e sono
i cavalieri ad essere associati alla pesantezza e alla frivolezza. “Ciò che ci colpisce è
l'immagine visuale che Boccaccio evoca: Cavalcanti che si libera d'un salto "sì come colui
che leggerissimo era". Se volessi scegliere un simbolo augurale per l'affacciarsi al nuovo
millennio, sceglierei questo: l'agile salto improvviso del poeta- filosofo che si solleva sulla
pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza,
mentre quella che molti credono essere la (falsa) vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva,
scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d'automobili
arrugginite.”

La leggerezza è anche associata alla precisione e alla determinazione (non significa quindi
l’abbandono al caso, il vago) tutto ciò che è leggero è, infatti, anche preciso e determinato.
Per dare più senso e vigore a questa affermazione, Calvino sceglie un verso del poeta
francese Paul Valéry, che inserisce testualmente all’interno della lezione: “Il faut être léger
comme l'oiseau, et non comme la plume” (Si deve essere leggeri come l'uccello che vola,
e non come la piuma). Entrambi hanno evidentemente un punto di connessione, il volo,
che però è un volo diverso: il volo dell’uccello è leggero, perché non è mai abbandonato al
caso, sa usare il vento per volare, mentre invece la piuma si può appoggiare senza seguire
una traiettoria precisa e senza avere un senso determinato. Il caso, quindi, è la piuma e
l’uccello la leggerezza.

Calvino e Mercuzio
Per quanto riguarda Mercuzio di Shakespeare, l’associazione ancora più netta in quanto
proprio Calvino a rivelare che se avesse potuto essere un personaggio famoso di un
romanzo o di un’opera avrebbe voluto proprio essere Mercuzio, poiché dice di ammirare
soprattutto la leggerezza e la saggezza di questo personaggio, un Don Chisciotte che sa
benissimo cosa è sogno che cosa è realtà e li vive entrambi con occhi aperti. Con
Shakespeare, Calvino cita il punto in cui Mercuzio entra in scena: “You are a lover; borrow
Cupid’s wings and soar with them above a common bound” (Tu sei innamorato: fatti
prestare le ali da Cupido e levati più alto d’un salto). Mercuzio contraddice subito Romeo
che ha appena detto: “Under love’s heavy burden do I sink” (io sprofondo sotto un peso
d’amore). In questo senso, la sua leggerezza non appesantisce ma al contrario si mostra
nella sua dimensione.

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Calvino e Palazzeschi
Un’altra caratteristica della leggerezza la troviamo declinata in un altro scrittore,
Palazzeschi, che ci parla della leggerezza in una maniera simile a Calvino: egli considera la
leggerezza “la condizione alla quale approda l’animo approda l’anima dopo un faticoso
viaggio introspettivo e a ritroso per liberarsi del fardello dei rimorsi, dei ricordi dolorosi”. Lo
dice in un’opera del 1908, “Riflessi“ in cui afferma anche che la saggezza corrisponde al riso
che deriva dalla conoscenza attraverso il dolore (un riso che abbiamo visto anche in
definizioni a vario titolo, come in Pirandello nell’umorismo, in Svevo l’ironia, etc.), qui c’è un
riferimento al riso, in quanto leggero, come conoscenza attraverso il dolore. È opportuno,
per meglio comprendere questo concetto, citare anche una frase di un’opera di Foscolo,
non tra le più note, “Ragguaglio di un’adunanza dell’Accademia de’pitagorici”; si tratta di
scritti di critica e polemica in cui Foscolo dice una cosa molto simile a Palazzeschi, ossia “i
figli di Eva e Adamo sono nati ora per piangere, ora per ridere: ridiamo perché le lacrime
che ci hanno insegnato la verità hanno bisogno di un sorriso che la consoli”. In questo
senso, la leggerezza di Palazzeschi può diventare l’unico antidoto a fronte dell’affannarsi
degli uomini, anche se a volte può non bastare, come ad esempio nel caso della guerra (che
abbiamo visto a vario titolo declinata negli autori presi in esame) che non può essere
stemperata soltanto con l’antidolorifico del riso. Si può però imboccare un’altra via, la via
mistica, la strada che indica nella carità e nell’amore le armi da contrapporre alla violenza
bestiale.

Un’altra immagine che spiega questa leggerezza connessa al riso si trova in “Allegoria di
novembre”, un testo che mette in evidenza una giovinezza turbata quasi disperata “tale
fu-”, dice Palazzeschi, “la mia vita fino al giorno che questa disperazione e questo
turbamento, come in un incantesimo al quale io stesso non saprei dare una spiegazione, si
risolsero in allegria”. Palazzeschi si serve del senso del riso intendendolo come
“contro-dolore” e utilizza a tale proposito un’immagine estremamente suggestiva: la nostra
terra è un campo diviso in due da una fittissima macchia di pruni, in cui da una parte vi è
l’umanità dolente, dall’altra il regno dell’allegria; per raggiungere questo secondo regno,
l’uomo deve attraversare la macchia dei pruni, poiché solo così è possibile ridere dal dolore
che è stato sperimentato, attraversato e superato. questi doppi regni ci fanno capire come
per Palazzeschi non si può effettivamente ridere e -quindi essere leggeri- se non dopo aver
fatto un lavoro di scavo nel dolore umano.

E cosa intende Palazzeschi per leggerezza lo evinciamo in un’altra opera che si chiama
“Codice per la Perelà” che possiamo definire come il simbolo della leggerezza: il
protagonista è un uomo di fumo che abbandonata la sommità del camino scende al mondo
per annunciare il suo messaggio di liberazione. Anche lui è un po’ come Cosimo di Rondò di
fronte alla pesantezza delle cose terrene e imbocca la strada della leggerezza. Dopo aver
visto tutti i mali della città, esce fuori dalla porta della città, sede di una vita insopportabile,

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e si allontana con leggerezza, scompare nel cielo sotto forma di una nuvola di fumo. È
proprio un uomo di fumo che la leggerezza porta in alto, dice infatti “io sono leggero... un
uomo leggero... tanto leggero" proprio a sottolineare la diversità rispetto agli altri uomini.
Saltella a ogni passo, cerca di spiegare come lui abbia conosciuto la pesantezza e abbia
provato a portare questo messaggio di liberazione, che rappresenterebbe una sorta di
rivoluzione del mondo della pesantezza, tanto più che cambiare non è facile perché l’istinto
di conservazione ostacola ogni trasformazione. Questo messaggio però non viene capito e
quindi lui ritorna nel suo regno, quello della leggerezza. La leggerezza di Palazzeschi è un
inno alla vita; la leggerezza di Calvino è difesa e tutela dal frastuono della vita, sentita come
confusa dispersione, come caos. La leggerezza di Palazzeschi è trasgressiva rispetto al
mondo che lo circonda […] la leggerezza di Calvino è pacificatrice […] Dietro la leggerezza
palazzeschiana s'intravedono il piacere di vivere, la speranza e la fiducia in un mondo
migliore. Dietro il gioco postmoderno di Calvino s'intravedono lo scetticismo della ragione,
il tragico disincanto di chi osserva con sgomento la vertigine del vuoto. S'avverte 'il senso di
un mondo precario, in bilico, in frantumi', mentre lampeggiano improvvisi bagliori 'd'un
mondo pericolante'

Calvino e Kafka
Ultimissimo riferimento alla leggerezza di Calvino lo si trova in un racconto piuttosto oscuro
di Kafka, “Der Kübelreiter” (Il cavaliere del secchio), un breve racconto in prima persona,
scritto nel 1917 e il suo punto di partenza è evidentemente una situazione ben reale in
quell’inverno di guerra, il più terribile per l’impero austriaco: la mancanza di carbone. Il
narratore esce col secchio vuoto in cerca di carbone per la stufa. Per la strada il secchio gli
fa da cavallo, anzi solleva l’uomo all’altezza dei primi piani e lo trasporta ondeggiando come
sulla groppa d’un cammello. La bottega del carbonaio è sotterranea e il cavaliere del
secchio è troppo in alto; stenta a farsi intendere dall’uomo che sarebbe pronto ad
accontentarlo, mentre la moglie non lo vuole sentire. Lui li supplica di dargli una palata del
carbone più scadente, anche se non può pagare subito. La moglie del carbonaio si slega il
grembiule e scaccia l’intruso come caccerebbe una mosca. Il secchio è così leggero che vola
via col suo cavaliere, fino a perdersi oltre le Montagne di Ghiaccio. La lezione che ne viene
fuori è: se il carbone gli fosse stato dato, il secchio sarebbe stato pesante e non si sarebbe
potuto liberare. Ancora una volta, il fatto di essere andato alla ricerca è un indizio già di per
sé di leggerezza (a prescindere dal fatto che si possa trovare o meno), anche molto
evidente, poiché la ricerca rende la vita degna di essere vissuta e rappresenta anche una
propensione al miglioramento.

È opportuno citare come Calvino chiude questo racconto: “MA l’eroe di questo racconto di
Kafka, non sembra dotato di poteri sciamanici né stregoneschi; né il regno al di là delle
Montagne di Ghiaccio sembra quello in cui il secchio vuoto troverà di che riempirsi. Tanto
più che se fosse pieno non permetterebbe di volare. Così, a cavallo del nostro secchio, ci
affacceremo al nuovo millennio, senza sperare di trovarvi nulla di più di quello che saremo

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capaci di portarvi. La leggerezza, per esempio, le cui virtù questa conferenza ha cercato
d’illustrare.”

LEZIONE 6 - SVEVO, IL TEATRO


Dopo aver visto l’opera-romanzo, ci occupiamo del teatro di Svevo tenendo presente che ci
sono stati dei giudizi troppo severi sul suo teatro e che è stato definito come genere
letterario “sgabello” dell’opera narrativa e forse per questo motivo poco presente sulle
scene italiane. Questa prima annotazione critica segna un punto di forte divergenza
rispetto al teatro Pirandelliano, pensato assolutamente per le scene, con precise scelte
drammaturgiche, ad esempio attraverso il carteggio, (abbiamo parlato anche di Ruggero
Ruggeri e del ruolo fondamentale di Marta Abba) o le condivisioni con gli attori dei copioni
per rendere quanto più efficace possibile la sua opera teatrale.

C’è stato, tuttavia, un interesse -seppur tardivo- nei confronti di Svevo: grande amante del
teatro, scrisse ben 14 commedie dal 1891 al 1928, segno che, considerato il lungo lasso di
tempo entro il quale si snodano queste opere, gli stia a cuore mantenere un impegno
costante nella stesure delle opere teatrali, al pari dei romanzi, se non addirittura
correggere qualche incongruenza e vizio di forma presente nell’originale matrice testuale.
Questo è un dato letterario molto importante da un punto di vista drammaturgico che
all’epoca però non riusciva ad andare al di là dei giudizi troppo severi, soprattutto in vista
del fatto che pochi registi italiani si erano cimentati con la messinscena dei suoi drammi,
poiché il suo teatro era sentito più come teatro di lettura e non come strategia
drammaturgica (un po’ come abbiamo visto nella forma del teatro di Musset); in Italia viene
a considerato a tutti gli effetti un teatro di salotto. In realtà, spostandoci a Parigi, ci
rendiamo conto il teatro sveviano viene suscita molto interesse, soprattutto quello dello
scrittore Camus, interessato molto anche a un altro autore italiano definito come poco
rappresentabile come Buzzati (ricordiamoci che poi un caso clinico è stato rivisitato da
Camus in “Un cas intéressant). Lo stesso Camus riteneva di sicuro fascino e di sicuro
interesse la rappresentazione di quei conflitti che il teatro di Svevo metteva bene in
evidenza e che di lì a poco quasi contestualmente Freud si accinse a scandagliare con
l’occhio dello scienziato psicanalista. Per riannodare l’interesse francese di Camus (quello di
ieri) con quello di oggi, vale la pena di ricordare che dagli anni ‘90 fino al 2000 sono state
rappresentate con successo opere di Svevo quali “La verità” e “Un marito”; La verità è stata
portata in scena nel 1986 al teatro dell’Odeon dal un regista italiano Enrico d’Amato,
mentre Un marito era stato portato in scena da Jacques Lassalle al Teatro nazionale nel
1991. C’è anche una pregevole raccolta di fotografie che fa da bozzetto preparatorio che ci
fa capire l’interesse di francesi per il teatro di Svevo. Ci soffermiamo sulla pièces La verità, in
quanto è l’opera che meglio si presta a un gioco di specchi sia con la drammaturgia del
Nord (pensiamo a Svevo in rapporto a Ibsen e Strindberg in particolare) sia in un gioco di

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rimandi pirandelliani. A proposito della drammaturgia nordica, la drammaturgia di Svevo è
stata inserita nel medesimo cerchio di Ibsen Schnitzler, Strindberg e accostato a Pirandello
per quanto riguarda il teatro italiano, non per scelta drammaturgica ma per comunanza di
temi. Vediamo, per l’appunto, un tema nordico molto testato nella drammaturgia borghese
del Nord, in particolare Ibsen, quello delle crisi matrimoniali su cui si incunea una vera e
propria ossessione che è il riverbero di un motivo autobiografico. L’autore Svevo quasi
letteraturizza il suo matrimonio, che è un punto fermo della sua vita in quanto gli consente
una circolazione affettiva sicura e di dedicarsi alla scrittura senza dimenticare gli affari di
famiglia, nella fattispecie nella fabbrica di famiglia. Questo tema della crisi familiare
presente nella trama de “la verità” è una tematica simile a quella del microcosmo familiare
e al cosiddetto dramma dei matrimoni infelici che abbiamo visto a più riprese in Pirandello
e anche in Strindberg; in tale direzione, il teatro molto più della narrativa si rivelava il
genere più adatto ad accogliere tensioni, nevrosi e infedeltà poiché la luce del palcoscenico
meglio investe tanto i sostenitori convinti della tranquillità emotiva quanto quei personaggi
disposti a tutto pur di uscire da quella asfittica gabbia matrimoniale, primo fra tutti lo
abbiamo visto ne “Il giuoco delle parti” in cui Silia cerca di uscire dal carcere della famiglia
salvo poi non essere soddisfatta neanche nell’adulterio.

Analogie con Pirandello


Ci sono ancora altri punti di convergenza tra Pirandello e Svevo per ciò che che attiene alla
maschera, alle lacerazioni interiori, a quella assonanza tra l’inetto Sveviano e i personaggi
pirandelliani (in Pirandello è inopportuno parlare di inettitudine perché i suoi personaggi
fanno parte della categoria dei disaiutati, ma sono figure che convergono in qualche
punto. Per non parlare poi di un altro tema a cui Pirandello accenna ma che in Svevo
troverà sicuramente esiti molto più compiuti, quello della paura di invecchiare e di morire.
Altro punto di contatto anche il tema della superstizione e della magia che gli autori
condividono, che era stata in realtà anche la deriva del positivismo il tramonto della fiducia
nella scienza e nel progresso e, quindi. lo spiritismo come ramo distorto del positivismo. C’è
un aneddoto che vale la pena ricordare tra Pirandello e Svevo, in particolare un rammarico
di Svevo nel non avere ricevuto risposta da Pirandello all’invio del romanzo “La coscienza di
Zeno” con tanto di dedica, peraltro risolto in quanto la critica ritiene sia sopraggiunta
un’implicita riappacificazione nei giorni successivi al 22 novembre 1926, quando a Trieste ci
fu la rappresentazione pirandelliana “Così è (se vi pare)”.

Analogie con Strindberg


Per quanto riguarda le analogie con Strindberg, è noto che Svevo lo apprezzasse molto,
anche perché di certo aveva assistito a Trieste alla rappresentazione di alcune sue opere, e
vi sono molti punti di contatto con questo autore, soprattutto sulla falsariga della

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donna-mostro, la donna-vampiro e il sogno quale generatore di incubi (abbiamo infatti
visto abbondantemente quanto è importante la sfera onirica, alla luce dei nove sogni
seminati qua e là nel romanzo “La coscienza di Zeno”). Strindberg scrive, inoltre, un ciclo di
novelle dall'emblematico titolo, “Sposarsi”, quasi tutte con esito negativo, il cui motore
narrativo è, per l’appunto, un matrimonio infelice.

In questo senso, notiamo come vi sia un’eredità molto forte che permea nelle opere
sveviane, seppur queste acquisiscano una declinazione del tutto particolare e originale. Si
può dire anche che ci sono delle scene/opere che evidenziano come il teatro sia stato per
lui qualcosa di interessante e che non lo si possa definire come scontato o appartenente al
sottogenere: lo vediamo in questo dramma teatrale, “La verità”, presumibilmente datato
1921 -anche se abbiamo un’altra opera teatrale che in qualche maniera anticipa questa
piéces, “La parola” del 1901- si basa su un gioco di equivoci: un marito adultero, Silvio,
convincere sua moglie Fanni della propria innocenza dopo sarebbe stato sorpreso in
flagrante adulterio. La motivazione che attribuisce all’essere stato colto in flagrante
adulterio è quella di una malattia dei nervi (sappiamo quanto importanza abbia il tema
della malattia e soprattutto dei nervi in Svevo, lo vediamo nel caso del nevrotico Zeno) che
lo ha costretto all’improvviso a stenderti sul letto stando al fianco di una sconosciuta.

Il tessuto narrativo
Prima di addentrarci nella trama del tessuto narrativo di quest’opera, facciamo un
riferimento a Pirandello che scrive una omonima novella che si chiama La verità. Non c’è
che leghi queste due opere tranne alcune analogie in tema di retorica, di eloquenza, in
particolare di capacità di tirarsi fuori dagli impacci attraverso l’uso sapiente della parola. La
verità di Pirandello è incentrata su un contadino analfabeta che uccido sua moglie colta in
flagrante adulterio (anche questo un fil rouge tra le due opere) staccandole la testa con un
colpo d’accetta (il linguaggio di Pirandello nelle novelle è piuttosto esplicito) e il suo
avvocato difensore sta cercando di evitargli la condanna mortale. A primo acchito è difficile
immaginare una diretta affiliazione con il motivo sveviano -per quanto ci siano comunque
delle somiglianze- ma di sicuro agiscono simili meccanismi narrativi: il gioco
dell’eloquenza e della parola, poiché tutta La verità sveviana ruota intorno al fatto che il
marito deve convincere la moglie di non aver commesso ciò che ha commesso,
esattamente come ne La verità pirandelliana in cui un avvocato deve convincere la Corte
d’assise.

In entrambi i casi le situazioni hanno a che fare con la parola e con la verità: l’avvocato di
Pirandello è abituato a giocare con la parola per questioni giudiziarie, mentre Silvio è un
letterato, quindi anche lui pratico nel fare leva con la verbosità (ricordiamo anche il Claudio
di Musset che deve fare leva sulla retorica). È molto evidente che l’eccesso di pomposità
verbale e di eloquenza finisce per sfociare nel paradosso o nell’ironia: la motivazione di
Silvio, infatti, non sta per niente in piedi. Citiamo un meccanismo narrativo comune nella

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Coscienza di Zeno, cioè quello della verità e della menzogna, in cui la moglie dice al marito
dimmi la verità a forza di dirmi bugie e poi a un certo punto il marito le rimprovera
dicendole che eri dicendole tu disprezzi tuo marito perché ti dice la verità e invece pensi
che io non lo dica. ???? Si crea un cortocircuito tra verità e menzogna da cui è difficile uscire.

Per estrapolargli una confessione scritta, fa pressione su suo fratello per fargli da tramite e
vedere se riesce ad estorcergli la verità. Silvio ricorre a veri e propri espedienti da avvocato,
addirittura si procura come testimone Emilia, la cognata con cui ha avuto una relazione
adulterina, e fa credere alla moglie che sia stato ordito un piano contro di lui in ragione di
un estromissione dalla famiglia, fino a stordirla con la parola, l’enfasi e la retorica che rende
sua moglie persino dubbiosa su ciò che ha visto con i suoi occhi. La menzogna, quindi, sta
diventando verità.

L’immaginazione e il confine tra verità e bugia


È evidente il gioco di equivoci nell’opera, dato dal fatto che la moglie si ritrovi casualmente
nello stesso palazzo in cui il marito sta commettendo l’adulterio, usato come espediente
narrativo e quindi a favore di trama (come nel caso dei 4 spadaccini ubriachi che, invece di
entrare a casa della prostituta Pepita, vanno da Silia). La didascalia ci informa che quando
Silvio stordisce sua moglie con questo suo eccesso di verbosità, ella si accascia su un
divano per via del surplus di eloquenza a cui Silvio l’ha sottoposta facendo leva
sull’immaginazione. C’è una scena molto bella in cui dice dice testualmente “a voi manca
l’immaginazione per vedere come le varie circostanze ai quattro poli possano riunirsi in un
dato luogo, in un dato tempo sulla testa di un disgraziato per ucciderlo”, ecco perché Silvio
immagina sia stato un complotto contro di lui. Si tratta di un’affermazione molto
importante, perché l’immaginazione per Svevo ha una patina di determinismo e di fatalità,
contrariamente alla presa di posizione pirandelliana in cui l’immaginazione è un eccesso
che porta alla disillusione. Quella che è l’immaginazione per Svevo, è l’illusione di
Pirandello, “illudersi può essere bello, ma poi del troppo illudersi si piange sempre la
frode”.

Si può dire che Silvio abbia una certa raffinatezza di eloquenza, anche se usata non a fin di
bene: si vuole tirare fuori dai guai perché se divorziasse sarebbe estromesso da una
famiglia molto facoltosa e perderebbe tutti gli agi finora erogati. Ne deriva che l’eccesso di
verbosità, vuoto e retorico, produce il risultato sperato sulla moglie ingenua, tradita e
beffata. Si vede qui un’ironia umana che analizza il sottile confine tra verità e menzogna, un
motivo molto pervasivo anche nella Coscienza di Zeno e i confini della verità sono talmente
labili che si può andare da essa al suo contrario, rendendo i dati da soggettivi ad ambigui,
esattamente come avviene ne “La verità” di Pirandello. Nell’opera sono dispiegati tutti i
mezzi della retorica giudiziaria e addirittura si può passare da trent’anni di reclusione
all’assoluzione solamente se ha una domanda si risponde sì o no. Per Svevo, la bugia, già
analizzata a proposito della Coscienza di Zeno, qui è un orologio che funziona alla

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perfezione, mentre in Pirandello ha un ingranaggio sottile e delicato che è facile si possa
inceppare. Basta infatti una semplice incertezza dell’imputato, che rivolgendosi all’avvocato
gli chiede se deve dire di sì o di no. Alla fine il contadino viene condannato mentre
l’orologio sveviano della verità non si inceppa.

In riferimento alla Fanny sveviana, vi è una contraddizione di fondo: lei vuole la verità ma a
un certo punto ha un ripensamento con sé stessa, dice “è preferibile la menzogna quando
questa salvaguarda un’unione”. La pièce si conclude con la risata di Silvio (abbiamo parlato
tanto della risata di Enrico IV, di Silia, risate drammatiche e non liberatorie) e la didascalia ci
illumina sul senso della risata definendola sgangherata. Il più classico dei triangoli amorosi
-moglie marito e amante- che in Strindberg e Ibsen raggiunge punte drammatiche, viene
stemperato da Svevo nell’ironia e nel paradosso che sono le più taglienti armi di Svevo.
L’andamento di questo atto unico, enfatizzato da veri e propri ricorsi alla retorica
giudiziaria, costituisce la cucitura dell’alibi che il marito crea su di sé per scagionarsi e si fa
riferimento a un fatto di cronaca che Silvio piega a suo uso (come in Mattia Pascal quando
su un foglio di giornale associano il corpo di un suicida a Mattia Pascal), cioè un uomo
preso a pugni dal portinaio che l’aveva scambiato per un ladro; Silvio finge di essere lui
quello preso a pugni dal portinaio e la didascalia all’inizio del dramma ci dice che nella
scena, in cui viene rappresentata la stanza di un ricco signore, c’è un tavolo con delle carte
e un cappello schiacciato. Questo sarà l’alibi costruito dal marito, presente già nella
didascalia all’inizio dell’opera e che all’apparenza risulta insignificante, ma ritorna in tutta la
sua funzionalità nel finale del dramma. Il meccanismo di silvio non fa una grinza e tutto si
gioca sul fatto che non è importante convincere che l’adulterio non ci sia stato ma che
non è possibile provarlo; questa donna alla fine cede, gli dice “io non desidero altro che
crederti” e si scorge una pesante contraddizione in quanto lei non vuole credere fino in
fondo a ciò che ha visto, dice proprio “io ti credo a condizione che tu mi convinca che non è
vero”, mettendo in evidenza quanto sono labili i confini tra verità e menzogna. Se questa
donna, Fanny, crede al marito e resta nella casa col marito, così non fa un’altra donna che
per una serie di bugie del marito lascia il tetto coniugale, ossia la Nora di “Casa di bambola”
di Ibsen. Ella va via perché il marito le ha mentito su una questione economica e
abbandona la famiglia, dopo aver cercato di aiutarlo in tutti i modi. Sono chiari tutti i
meccanismi della verità di Svevo e l’autore ci dice in un articolo del 1884 “l’amore per la
verità si manifesta nella vita in due modi: o affermando il vero e amandolo, oppure
negando il falso e odiandolo”. Che il vero e il falso possano scambiarsi è indubbio, ma se
si mantengono chiari i confini tra amore e odio tra verità e menzogna, si finisce ad amare
solo la verità. Ciò non accade con Silvio, la menzogna, in quanto costruzione creativa
dell’immaginazione, è sempre minacciata dalla verità ed è per questo che Silvio riesce nel
suo intento: non si confessa e continua a mentire ad oltranza fino alla risata sgangherata.

LEZIONE 7 - SVEVO E LA VECCHIAIA

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La vecchiaia è un tema strettamente intrecciato alla malattia, sia perché sono temi tipici del
modernismo, sia perché ci danno la misura della contaminazione tra lessici diversi. In
quest’epoca si verifica, anche nel caso di Pirandello, una sorta di mutuo scambio con le
coeve teorie scientifiche, in particolare dei neurologi francesi Charcot e Binet, e infatti il
grande tema della medicina entra nella riflessione sveviana (lo abbiamo visto con i
numerosi medici che popolano l'universo della Coscienza di Zeno, soprattutto Coprosich). Il
tema della medicina, in realtà, è sottilmente legato a un tema ben più importante, presente
anche nell’opera Senilità di Svevo, ossia a punto la dicotomia tra giovani/vecchi e
vecchi/giovani. Il racconto che forse meglio consente di illustrare questo tema ha un titolo
molto emblematico, “La novella del buon vecchio e della bella fanciulla”, ha infatti due
anagrafiche completamente agli antipodi.

Scritto nel 1926, il racconto lega il tema della vecchiaia della senilità al tema della malattia e
presenta tre personaggi principali: il buon vecchio, la fanciulla e un medico. è ambientata a
Trieste, in cui un uomo di affari ricco, anziano e vedovo prende come amante una giovane
fanciulla della classe operaia. La relazione viene presto interrotta a causa della malattia del
vecchio -una sorta di attacco di angina pectoris- e tutta la seconda parte di questo racconto
verte sui rapporti o generazionali tra giovani e vecchi, anche se ci sono molti i temi che si
intersecano, primo fra tutti quello dell’indicazione che viene data da parte della madre della
ragazza poiché la figlia è in vendita, poi si lascia sedurre molto facilmente in cambio di
denaro e cibi prelibati, peraltro difficili da trovare nella Trieste sconvolta dalla guerra. Il
vecchio le regala queste non precisate somme di denaro nel tentativo di sedurla,
comprandola e questo è il tema più importante e pervasivo, quello che concerne la
tipologia di amore tra giovani e vecchi. Si evince che l'amore dei vecchi è diverso, è infatti
commercio allo stato puro, anche se questo vecchio ci dà delle indicazioni diverse sul
“mercimonio” dell'amore in quanto finge (tema ricorrente nella produzione sveviana, è
molto facile trovare echi e rinvii temi già affrontati in altre opere) di pentirsi con la sua
coscienza e smussa questo senso di possesso e di commercio a favore di una crisi di
coscienza. Anche qui troviamo un'altra caratteristica tipica del racconto sveviano, il sogno
che ci mette in pieno nel lessico medico della vicenda e che segna l'importanza del medico
quale terza figura oltre ai protagonisti. Il sogno più importante è quello di un topo che gli
divora un braccio e giungendo fino al cuore, c'è poi un secondo sogno in cui si innesta il
motivo della gelosia, in quanto questa fanciulla si è concessa anche ad altri e poi anche un
terzo sogno che lo riporta di nuovo a questo attacco di cuore. allora giusto Lo ricorda di
nuovo diciamo questo attacco di cuore allora giusto per circoscrivere subito questa
sequenza Noi andiamo a leggere. in questa parte del racconto ci rendiamo conto della
precisione e dell’acutezza di Svevo nel descrivere una sintomatologia clinica, sempre a
sostegno del doppio binario tra letteratura e medicina.

Che ruolo ha la senilità e quale antidoto contrapporvi


I due personaggi sono presentati in maniera molto chiara, vengono ben definiti anche in
rapporto alla abbigliamento -il vecchio è vestito con grande accuratezza ed è conforme alla

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sua età, mentre la fanciulla viene descritta come una figurina “signorile e gradevole”- e
viene data un'indicazione importante, cioè che gli anni possono impedire l'amore. Questo
vecchio infatti dice “da molti anni non avevo più pensato a quello”, si era dato agli affari e
portava i suoi anni con superbia, con fierezza (un po' come Giovanni Malfenti della
Coscienza di Zeno) e l’avventura con questa fanciulla è la prima vera avventura dopo la
morte della moglie. Il fatto che la fanciulla sia molto giovane ci ripropone il tema della
paternità, un po’ anche per mitigare i neanche troppo velati i sensi di colpa, per evidenziare
che l’amore dei vecchi passa per la paternità, anche se questa evidentemente ambigua: è
infatti vero che dice di voler occuparsi della ragazza mosso da un affetto sincero e paterno
ma è anche vero che di fatto il suo è sesso mercenario a tutti gli effetti. La sua figura è
duplice, passa dall’essere un educatore a un corruttore. La fanciulla favorisce questo
rapporto chiedendo di essere adottata, cosa che fa scattare l'ira del vecchio, perché pare
proprio che questa fanciulla sia irrispettosa nei confronti del vecchio, nel senso che la
paternità è una cosa troppo seria. Non è su questo che si deve basare il rapporto, tant'è
che quando gli chiede essere adottata le dice come può sussistere un criterio di paternità e
adozione per una donna così maliziosa. Quando vede la fanciulla sente la giovinezza
ritornare, come una molla che muove i sensi intorpiditi e spinge la speranza di sentirsi più
giovane. Questo è il senso più pregnante della senilità sveviana, vedere fattispecie di
questa fanciulla la possibilità concreta di fare un tuffo nella giovinezza incarnata nel corpo
di una giovane, spesso tentatrice. l'amore diventa la misura stessa del tempo e infatti
questa dimensione temporale si rivela importante sin dall'inizio: il vecchio chiede ridendo a
un certo punto “ci conosciamo dunque da molto tempo?”, domanda molto ironica perché
Svevo commenta questo tipo di suggestione e sul fatto che la durata di un avVentura
contribuisce a dare più o meno un senso di serietà a una storia così improbabile. dopo
l'incontro, infatti, il vecchio si trova a ricordare un'esperienza analoga vissuta molti anni
prima e si illude di aver trovato, oltre che la giovinezza perduta, anche il vero amore. Ma
Questo assunto non è naturalmente condiviso dal medico che, quando entra in casa
specialmente per curare la sua condizione cardiaca che potrebbe anche derivare da un
surplus di eccitazione per la presenza di questa fanciulla. Dice infatti che per i giovani ogni
sentimento è disparato, mentre per i vecchi ogni sentimento ha il suo tempo, segno che la
dimensione del tempo è estremamente importante.

La presenza di questa donna della classe operaia non è un particolare di poco conto,
perché è proprio questa appartenenza che le conferisce un fascino maggiore, dato anche
dalla spregiudicatezza nel suo modo di vestirsi, dal suo essere evidentemente poco
formale; Incarna tutto il coraggio e la spregiudicatezza della vita contrapposta a chi ha
paura di morire per soli ed evidenti limiti anagrafici. Svevo è abile nel presentarci questa
fanciulla che ha una sorta di evoluzione nel racconto: in un primo momento è una
bambina, poi una fanciulla e alla fine addirittura sirena, poiché a un certo punto lui
rimprovera lei di averlo sedotto. C’è da questo punto di vista il contrattare quello che
voleva essere il suo alibi da figura paterna, perché questa donna si contraddistingue per il
suo fare seduttivo. Che sia forte l'aspetto legato al commercio, al mercimonio affettivo,
amoroso, erotico che dir si voglia è dovuto al fatto che si parla molto spesso di denaro,

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compravendita, paga, retribuzioni, etc tutto questo mescolato con il lessico medico. A un
certo punto il vecchio lascia la ragazza, non le dà più denaro e da quel momento in poi,
anche quando lei si lamenta di essere a corto di soldi, lui le risponde con stizza. Questo
mercimonio è stato anche stimolato dalla madre che insiste a dire che la famiglia disposta
ad accettare qualsiasi impiego per la figlia, creando una sorta di ambiguità in quanto si
comporta con fare protettivo ma allude a un fine sessuale nel dire che la figlia accetterebbe
qualsiasi impiego. Altro tema satellitare è quello della corruzione dei costumi, sia pure
favorita dalla miseria- che assume i tratti più eclatanti quando si evolve anche il suo modo
di vestire, perché passa da essere vestita con cenci e vestiti di poco conto all’indossare abiti
e cappelli alla moda e ricercati.

Dopo che il vecchio congeda la fanciulla si sente avvolto dalla solitudine e inizia a tirare le
somme: paragona la sua vita a un vaso vuoto e alla fiamma del camino e dice “tutto ciò che
poteva ardere era già ormai arso e l'avventura con la fanciulla era stata la fiamma più
bella”. Il vecchio tende sempre a eludere il suo vero problema personale, cioè la sua diretta
responsabilità nella corruzione della ragazza e anche per provare gelosia. Dicevamo di un
secondo sogno molto importante che poi trova riscontro anche nella realtà, infatti ne viene
suggestionato. Durante il giorno, il vecchio si affaccia la finestra e vedo un ragazzo che tira
per un braccio un un ubriaco che, dopo aver urtato un lampione, tira arrabbiato un calcio
al ragazzo, che cade a terra. Questo spettacolo ispira un sentimento di compassione
nell’uomo, tanto che il sogno che fa la stessa notte ci fa capire che il ragazzo che conduce
l'ubriaco è paragonato a lui stesso, è cioè il vecchio stesso che conduce la ragazza. Questo
sogno è funzionale per fargli provare senso di colpa nei confronti della ragazza per averla
corrotta.

La teoria della vecchiaia


A un certo punto elabora una teoria della vecchiaia molto originale, questo un libro per
dimostrare la necessità della presenza dei vecchi nella vita dei giovani: si può fermare il
tempo a beneficio dei vecchi e farli restare sani in mezzo ai giovani? Si può creare una
situazione extratemporale o addirittura essere di aiuto alla giovane generazione? Il vecchio
crede di sì e quindi comincia a vivere con questo scopo, diventando un vero e proprio
scrittore convinto di poter dare una lezione alla giovane generazione per vivere in maniera
più consapevole. questa è la parte più scopertamente filosofica, il tempo della scrittura e la
scrittura del tempo, in cui per scrivere occorre procedere lentamente, è un po' come la tela
di Penelope, disfa, scrive, butta via gli appunti, poi ricomincia, etc; però è proprio questo
lavoricchiare che gli consente di vincere il tempo. Il vero elisir di lunga vita non è affidato al
mercimonio o al rapporto con la fanciulla, ma alla scrittura. Questa è una profonda
convinzione di Svevo e, nei taccuini conservati dell’autore, egli afferma che “fuori della
penna non c'è salvezza”. Quando muore, il vecchio si rende conto di essersi aggrappato a
un’estate tardiva e fasulla e che la sua ricerca può produrre un esito positivo soltanto
quando riesce a dare questo tipo di senso alla sua vita e una morale ai giovani.

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Emblematica è la sua morte, in quanto lo trovano morto sulla scrivania con la penna in
bocca, sulla quale era passato l'ultimo suo respiro; si è ormai svuotata la ragione di vita che
ha sorretto il vecchio fino a quel momento, la morte arriva a mostrare la vanità del
rapporto con la fanciulla e la dignità di un'operazione di morale, un'operazione di scrittura,
che ha contribuito a un prolungamento della vita del vecchio. C’è anche un controvalore
sano, novelle come questa approfondiscono il discorso già inserito in “senilità” e ne “La
Coscienza di Zeno” a proposito della vecchiaia, che è sì una categoria anagrafica ma non di
meno esistenziale… Il sentimento del tempo che fugge e che, in qualche modo, alcuni
protagonisti riescono a recuperare, si pensi ad esempio anche al rinunciatario protagonista
di Senilità.

LEZIONE 8 - SVEVO E LA RIGENERAZIONE


Accanto al tema della vecchiaia, troviamo quello della rigenerazione, che trova la sua forma
più compiuta in due opere: “La rigenerazione”, una pièce teatrale, e il racconto “Lo specifico
del dottor Menghi”. La rigenerazione si lega al filone della vecchiaia in quanto si racconta la
vicenda di un settantenne, tale Giovanni Chierici, che si sottopone a un’operazione di
ringiovanimento, sulla falsa riga della novella de “Il buon vecchio e la bella fanciulla” e della
parte più scopertamente senile di “Senilità”. C'è una frase battuta pronunciata da Chierici
sul concetto di vivere fuori di posto, ossia “tutto è fuori di posto, ma poi ci si abitua a
stare fuori di posto e si vive come se a posto si fosse”.

Un grande studioso, Claudio Magris nel suo “Itinerari triestini”, un’opera che ricostruisce il
paesaggio urbano dove Italo Svevo visse e ambientò le sue opere scrive che “le cose non
sono mai a posto, ma scavandosi una nicchia nel nulla in cui vivere si cerca di
dimenticare che non lo sono”. Si tratta di una storia apparentemente comune, che però
viene indagata con una scrittura molto lineare, molto chiara, in modo che i lettori possano
accostarvisi in maniera efficace e diretta, ciò al netto di quella caratteristica tipicamente
sveviana della commistione tra bugia e verità, che conferisce all’opera uno stile di scrittura
facilmente decodificabile. La scrittura, per l’autore, è un modo per dare ordine al disordine,
quindi una scrittura logica, semplice ma mai banale, che ricompone l’ordine.

Cosa succede a Giovanni Chierici


Anche qui c’è la figura del medico, infatti tutte le opere teatrali sono dissiminate da medici,
in questo caso il giovane nipote di Giovanni Chierici, tale Guido (un nome che noi
conosciamo molto bene) è un aspriante medico che cerca di convincere a tutti gli effetti suo
nonno a fare questa operazione con il fine di spillarggli denaro. Non gli manca una certa
tenerezza nei confronti della senilità quando dice “un vecchio lo si vede procedere
tentennante poiché pare composto da mezza vita e mezzza morte; ciò che è vivo in lui
porta a spasso quello che è morto, perciò tentenna come se portasse un peso” è una
descrizione molto plastica ed efficace della senilità e c’è anche una certa empatia nei

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confronti dell’anziano Giovanni. Questo tipo di malattia riguarderebbe più gli anziani di
Pirandello, che ha un atteggiamento di grande partecipazione nei confronti della loro
sofferenza, cosa che non succede negli anziani sveviani, per lo più dediti ai vizi, agli eccessi
alimentari, del vino, etc. Possiamo menzionare a questo proposito anche il protagonista di
“Vino generoso”, che commette una scorrettezza nel regime alimentare, salvo poi passare
una notte infernale e pagare il prezzo di quella intemperanza nella sfera onirica.

Quest’opera è molto significativa perché sembra essere un affresco della volontà di Svevo
di fare una prova, una prova che non porta mai a nulla perché vive raccolto tra le amanti
con senso di colpa. La motivazione di Chierici di sottoporsi a un intervento di
ringiovanimento ce lo fa accostare idealmente allo Zeno giovane, Giovanni è infatti
l’evoluzione matura e senile di Zeno. Chierici vive con la moglie Anna e il nipote Guido, c’è
anche un altro nipotino chiamato Umbertino e una figlia da poco vedova. Emma.
Dell’aspirante medico si è tracciato già un ritratto negativo, ma anche la figlia ha un che di
mortuario: vedremo in seguito che sia la figura della moglie che della figlia è associata in
tutti i modi alla morte da cui a tutti i costi in tutti modi Giovanni Chierici intende fuggire.

L’operazione di ringiovanimento avviene, ma la falsificazione e la manipolazione della vita


non consentono felicità alcuna; Chierici va parte di quella schiera di personaggi che
mentono e ingannano ad oltranza, a cominciare da se stessi e compiendo assoluti prodigi
di malafede. Il protagonista è spinto a sottoporsi al ringiovanimento da un matrimonio
infelice, c’è infatti un battibecco con sua moglie sul loro disastro sentimentale, che però sua
moglie non vede.

Quest'opera, apparentemente ironica, è in realtà pervasa dalla morte poiché la vita


matrimoniale è una specie di morte. Giovanni rimprovera e incolpa della moglie della sua
infelicità coniugale e tenta di fare una sorta di generalizzazione su tutte le donne, anche le
donne che lui vuole concupire una volta ringiovanito dal punto di vista sensuale, che
devono essere prese nella loro totalità, nel loro insieme, così da essere sottoposte
all'immaginario maschile. L’operazione rivela subito il rovescio della medaglia: il
matrimonio non funziona, si percepisce il grigiore dell’aver provato felicità nel matrimonio
solo all’inizio e, peggio ancora, se non si fosse sposato ora sarebbe persino più libero di
fare ciò che gli pareva.

Ci sono altre donne satellitari nei confronti della moglie, come nel caso della cameriera
Rita, con cui Chierici crea un triangolo molto pittoresco e paradossale, in quanto Giovanni
la concupisce e lo fa addirittura con l’approvazione da parte della moglie, disposta a
chiudere un occhio su questa passioncella senile. L’insistenza data alla sessualità che si può
ritrovare attraverso questa operazione di ringiovanimento la dice tutta sul fatto che il sesso
viene qui visto come un terribile inganno, come qualcosa che complica la vita. Giovanni
dice testualmente “il danno viene tutto dal sesso”, che non porta vita o slancio ma, anzi,
riporta spie mortuarie - una sorta di controcanto mortuario.

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Ci sono, infatti, molte spie lugubri già all'inizio dell’opera, come il sole abbagliante che non
è però portatore di vita, gli uccellini morti, Emma vive questa situazione di profondo lutto,
tanto più che il marito sembrerebbe essere morto di invecchiamento precoce -il tema della
senilità è evidentemente parecchio pervasivo, come quello della morte- e da qui la
tendenza di Giovanni Chierici dal voler uscire da tutto questo. Si comprende bene che, viste
tutte queste spie mortuarie, la vita è costantemente messa a repentaglio dalla morte, tant’è
che anche il bambino Umbertino viene coinvolto in una spirale di morte, che tuttavia è
soltanto solo una visione allucinata. A un certo punto, infatti, il nonno esce con Umbertino
e si figura il suo nipotino coinvolto in un incidente stradale sotto i suoi occhi;
fortunatamente è soltanto un’allucinazione, poi ritorna a casa e tutto si ricompone.

L’opera è dunque particolarmente complessa e si ricollega all’immagine di essere “fuori di


posto”, poiché possono accadere cose completamente strane e bizzarre, e addirittura
persino i personaggi, non si capisce come, se per un eccesso di distrazione o di disordine,
vengono chiamati con nomi diversi: Giovanni nomina più volte queste donne in modo
diverso, nel caso di Rita la chiama Margherita o Renata, o la scambia spesso per una sua
antica fiamma. C’è quindi una confusione di nomi, ruoli e situazioni, visioni e proiezioni
della mente di Giovanni che trovano il loro culmine nel finale, in cui lui sogna di vangare un
pezzo di terra riportandoci all’incipit dell’opera, quando si era parlato della morte degli
uccellini.

Con questa operazione, Chierici sfida la natura per recuperare la giovinezza, trasgredendo
ai codici della famiglia, esattamente come fa un altro seduttore seriale più giovane in
un’altra opera teatrale, “L’avventura di Maria”, che corteggia l’amica della moglie e riesce a
tenere a posto (non fuori di posto) tanto la moglie quanto l’amante, come anche nel caso di
Silvio ne “La verità".

In Giovanni c’è una certa insistenza sulla morte che accompagna la vecchiaia e viene quasi
privato della sua identità, al punto da sentirsi estraneo nella propria famiglia. Qui c’è un
punto di divergenza con il buon vecchio, che si mette a scrivere nella speranza di poter
dare una morale ai giovani e poi muore. Qui succede invece una cosa molto diversa: verso
il finale dell'opera, si avverte l’impotenza di Giovanni di avere un ruolo autorevole
all'interno della sua famiglia e con la figlia, non però è più di tanto turbato dalla prepotenza
del nucleo familiare e per quanto venga lui relegato sulla scena, anche quando tenta di
imporsi, in fondo riesce a vivere una circostanza molto più piacevole nella vecchiaia, poiché
la vecchiaia è l’età in cui ci si può sottrarre alle regole, l'età in cui si è liberi di fare di tutto, “il
mondo è sempre scomposto” dice ancora verso il finale dell’opera. Proprio in questa
scomposizione, Giovanni riesce a ritagliarsi un pezzo di compostezza, seppur dettata da
una irrequietezza/inquietudine complicata, visto il discorso dell'operazione e della
rigenerazione che di fatto non gli ha dato assolutamente felicità.

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Lo specifico del dottor Menghi
Bisogna notare come Svevo abbia colto perfettamente tutti i segni della crisi della
borghesia e quanto è pervasivo anche il tema del nucleo familiare e dell’irrequietezza in
modo completamente diverso, seppur ricorrendo all’ironia/paradosso del ringiovanimento.
Quest’ultimo è un tema piuttosto cavalcato da Svevo, legandosi a filo doppio a quella che è
la temperie scientifica culturale del tempo. A questo proposito bisogna fare un cenno a
un'altra opera estremamente importante, “Lo specifico della dottor Menghi”, un racconto
del 1904 sulla storia di un fisiologo che avrebbe studiato l'effetto dei narcotici sul sistema
nervoso, in particolare modo per accelerare l'organismo (in Giovanni Chierici abbiamo
un’operazione di ringiovanimento), una sorta di elisir di lunga vita che, provocando
un'accelerazione parossistica (nel senso immediata e improvvisa) all'interno del corpo
umano, previene la degenerazione delle cellule. Una sostanza in realtà mostruosa, un siero
chiamato addirittura Annina in onore della madre Anna, che però ha un punto debole: è
vero che allungherebbe la vita oltre misura, ma questo tentativo di intensificarla la espone
grossi rischi.

Il dottor Menghi testa il siero sulla madre, ma è talmente mostruoso che questa donna
impone al figlio di distruggerlo; dice lei di aver provato una sorta di “sepoltura viva”, perché
il siero cristallizza il corpo umano, e afferma “io volevo muovermi, gridare e non potevo. Era
come se tutto rimanesse bloccato dentro”. L’Annina è portatore e acceleratore di morte,
altera in modo radicale la percezione della realtà, i cui dettagli assumono dimensioni
mostruose poiché una volta assunto, questo siero ha il massimo dell’accelerazione
possibile rispetto a un tempo che appare lineare. L’esito è naturalmente nefasto: Menghi
prova questo siero su di lui e la madre, che poi farà morire. Alla madre, colta da una
emorragia, verrà fatto assumere questo siero per poterle garantire una sorta di ancora di
salvezza, ma l’esperimento fallisce comunque.

Con Anna si ripropone lo stesso schema che abbiamo visto con il padre ne “La coscienza di
Zeno”, ovvero quello della madre che si sottrae all’affetto del figlio, avendo perduto i
sentimenti a causa del siero, che rimanda al padre di Zeno il cui ultimo gesto fu uno
schiaffo; Menghi, privato dell’estremo segno d’affetto dalla persona a lui più cara, soffre.
La caratteristica di uccidere è evidentemente tipica dei personaggi sveviani, in quanto lo
stesso Menghi si interroga su quanto sia stato uccidere sua madre: l’Annina è un alibi per
non essersi curato delle critiche condizioni di salute della madre, sulla quale ha
sperimentato il siero non perché addolorato ma perché sperava di aver successo? La
madre ha acconsentito al volere del figlio perché lo considerava un genio e si è offerta
come sacrificio per il progresso umano o lo credeva pazzo e, tristemente, non riusciva ad
opporvisi?

Oltre al filone della rigenerazione, a cui appartiene l'operazione di ringiovanimento di


Giovanni Chierici, questo racconto si inserisce in quello della mostruosità di una scienza
spinta al parossismo, non dominata dall'etica. Percepibile è l'influenza del Frankenstein di

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Mary Shelley e del Dottor Jekyll e Mr. Hyde, tutti volti a rappresentare, in proiezione
fantastica, gli inquietanti avanzamenti delle nuove frontiere scientifiche.

Passando dagli esperimenti elettromagnetici a quelli del campo medico-biologico, nel


racconto sveviano prende forma in maniera determinante il motivo scientifico della
manipolazione del corpo, attraverso una serie di procedimenti pseudoscientifici con il fine
di alterare il corso vitale, di perfezionare la specie.mL'invenzione, tuttavia, fallisce, segno
che trasformare completamente la realtà non è possibile e gli effetti devastanti dell’Annina
ci fanno capire le rivoluzioni scientifiche, portate all’estremo, si trasformano in poteri
mefistofelici e distruttivi.

Svevo va a esacerbare spesso questo motivo, lo abbiamo visto già nella Coscienza di Zeno:
la presenza di qualcosa che uccide, devasta e si rivela un terribile flagello,
ridimensionandola in chiave ironica per diluirne la cifra tragica ma che rimane comunque
altamente perturbante. È un modo per mettere in guardia dai rischi della scienza, della
tecnica e del progresso, un mondo a cui in realtà Svevo crede (è infatti meno
antiprogressista di Pirandello) di cui guarda però gli esiti più nefasti.

LEZIONE 9 - L’ILLUMINISMO Ⅰ
La cultura italiana in questo periodo è fortemente influenzata dal sapere che si organizza
intorno alle biblioteche, ai centri laici, alle scuole pubbliche e private. C’è un fermento di
idee che trova la sua culla ideale, se spostiamo idealmente le lancette della storia e della
letteratura, nel Rinascimento, di cui gli intellettuali che operavano nelle istituzioni laiche si
sentivano i diretti continuatori. La storiografia civile, la dottrina politica e le nuove idee
sono i principali i temi attorno ai quali si sviluppa un’idea di illuminismo, di “rischiaramento”
rispetto al passato. Tra i motivi principali vediamo affiorare un totale rifiuto dell’ideologia
religiosa ancora imperante, del potere ecclesiastico e dell’assolutismo principesco nel
nome di una tendenza a privilegiare la mondanità, il libero pensiero, l’atteggiamento critico
di fronte al dogmatismo. Tali temi presero piede soprattutto in Francia, in cui l’assolutismo
monarchico aveva favorito lo svuotamento del potere feudale, dei nobili e dell’economia
borghese e in cui l’autorità ecclesiastica doveva fare i conti con uno Stato geloso delle
proprie prerogative. Una nuova interpretazione, inoltre, è destinata a far sentire il suo
influsso sulla spiritualità europea, ossia il giansenismo, movimento religioso illustrato
attraverso la teoria del grande filosofo Blaise Pascal, conosciuto e riconosciuto all’interno di
numerose stratificazioni del romanzo di Pirandello “Il fu Mattia Pascal”. Questo spirito
giansenista recupera il tema agostiniano della salvezza mediante la grazia e rappresenta un
profondo richiamo alla spiritualità. Sulla riduzione del potere ecclesiastico nel nome di una
rinnovata spiritualità e attorno ai grandi temi del dibattito politico sulla storiografia, nasce il
movimento dell’illuminismo, che fa porta a una convergenza di diversi fenomeni a cui si
vanno ad aggiungere aspetti di indipendenza intellettuale rispetto al passato.

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Possiamo annoverare all’interno della temperie illuministica di rischiaramento anche un
obiettivo filosofico, che ha il medesimo fine di illuminare le tenebre della ignoranza e di
dissolvere i preconcetti su cui parevano reggersi le istituzioni oppressive del passato. A tale
obiettivo contribuirà la fiducia nella ragione come facoltà primaria dell’uomo e un maggiore
richiamo all’esperienza sensibile e tangibile. Allo stesso fine fu indirizzata la rivolta alla
morale tradizionale nel nome di un principio che va sotto il nome di “libertinismo”
(approfondito con Goldoni che aveva indicato come l’esprit fort degli intellettuali d’oltralpe,
in particolar modo nella commedia “La villeggiatura”), che andando a ritrovo ritroveremmo
in un dongiovannismo di matrice barocca.

Anche gli sforzi condotti sul piano legislativo hanno costituito un tema importante
all’interno del movimento illuminista, al fine di riorganizzare l’ordinamento civile, la vita
sociale e persino la vita economica. Non si tratta, dunque, soltanto di un movimento
letterario ma di un movimento che porta in sé una riflessione più generale sulla vita.

Una volontà riformatrice porta alla formazione di gruppi di intellettuali, approfondendo il


ruolo del letterato che orienta la vita attiva e che non solo si fa promotore dell’educazione
civile ma opera anche attivamente nell’amministrazione pubblica. Non scompare del tutto
la figura del letterato di corte, tipica figura rinascimentale, si percepisce, tuttavia, più forte
l’innovazione letteraria degli intellettuali ben inseriti nella società civile, di cui riescono a
cogliere gli slanci e i nuovi temi.

In questo periodo vengono coinvolti tutti gli organi civili attivi mediante la diffusione di
divulgazioni periodiche: nasce il giornalismo, non nell’accezione moderna del termine,
inteso come operazione culturale in grado di raccogliere gruppi di intellettuali e capace di
ragionare su temi di varia portata.

Un sempre crescente di diverse personalità -il giurista, il politico, il letterato- si riunisce


attorno al cenacolo del periodico “Il Caffè” per creare veri e propri centri di cultura,
superando anche in alcuni casi le barriere nazionali. Un fenomeno molto diffuso tra gli
intellettuali italiani è cercare anche fuori dai propri confini un approccio diverso a
determinate tematiche, nella fattispecie quella del progresso e della trasformazione della
vita culturale, del costume intellettuale, gli obiettivi del sapere vengono messi in
discussione, così come i loro contenuti, etc. Se il secolo precedente (‘600) era caratterizzato
dalle scoperte scientifiche, in quest’epoca il clima illuministico porta con sé una
consapevolezzza nuova della figura dell’intellettuale, considerato in grado di agire in modo
efficace e benefico all’interno del tessuto sociale con il fine di migliorarlo attraverso la
divulgazione di nuove prospettive progressiste. Con questo processo di miglioramento
della vita umana si sviluppa la convinzione della superiorità dei moderni rispetto agli
antichi e comporta un certo ottimismo sulla natura dell’uomo e la sua tendenza alla
perfezione, in particolare sulla capacità attiva dell’uomo rispetto alla concezione, ancora
presente, di caducità e miseria.

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L’obiettivo principale della cultura illuministica è quello di identificarsi sempre più con
l’utile, cioè il sapere -di conseguenza è importante il ruolo dell’intellettuale- deve essere
strettamente connesso al concetto di felicità terrena. La divulgazione del sapere e lo
sviluppo delle scienze, funzionali alla realizzazione del benessere, cambiano
completamente orizzonte, dando importanza all’economia e tutto ciò che dà un maggiore
senso di progresso e utile. Non si abbandonano i grandi temi della speculazione filosofica,
la scienza continua ancora le ricerche sui principi che regolano l’universo, ma le scoperte
fondamentali in questi campi sono già avvenute all’inizio del secolo, basti ricordare lo
straordinario avanzamento di Leibniz nel campo della matematica e della fisica e Newton
che scoprì la legge della gravitazione universale.

Nel corso del secolo, la battaglia culturale è impegnata a sgomberare il terreno dalla
vecchia cultura e a ripulirla da tutti gli eccessi barocchi (che faceva leva sulla meraviglia,
sul senso dello stupore, su una scrittura particolarmente ricca e ridondante) e si crea uno
stile più sobrio e asciutto.

I grandi teorici dell’illuminismo


La potenza divulgativa e lo spirito critico rappresentano il cuore stesso dell’illuminismo e si
verifica un vero e proprio nuovo umanesimo. A questo proposito, va necessariamente
annoverato Voltaire, punto di riferimento nella polemica anticlericale contro la
superstizione e il razionalismo religioso. La sua opera è particolarmente incisiva poiché,
oltre a essere caratterizzata da uno stile brillante e sobrio, diviene un modello -talvolta
provocatorio- di critica sulla trascendenza religiosa e fanatismo ecclesiastico. L’intellettuale
sente la necessità di individuare e dimostrare quali sono stati gli errori del passato nel
nome del progresso umano, di un generale ottimismo lontano da una erudizione sentita
come antiquata e inutile.

Un altro nome noto è Montesquieu, che si dedicò allo studio storico sui costumi dei popoli,
ricordiamo in tal senso “lettere persiane”, una disamina effettuata con spirito critico dei
costumi europei al fine di coglierne le differenze: giungono a Parigi due persiani che,
sorpresi e stupiti, si guardano intorno con malcelata curiosità, rimarcando per iscritto le
particolarità dello stile di vita e di gestione dello stato francese, comparandolo con quanto
avviene in Persia.

Lo studio della società e della sua evoluzione si ha con Jean Jacques Rousseau: anche se le
contraddizioni del suo pensiero non possono renderlo un teorico della rivoluzione politica,
le sue idee trovano una larga accoglienza nella rivoluzione francese, per ciò che riguarda lo
stato di natura contrapposto ai mali della società e il concetto di contratto sociale. In
particolare, lo stato di natura, la condizione originaria del genere umano di innocenza e
felicità inconsapevoli, viene distrutto dall’egoismo dell’uomo; le conseguenze possono però

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essere evitate tramite il contratto sociale, un patto di associazione con cui gli individui
giungono consapevolmente e liberamente a costruire la società.

L’utilità e il danno, insiti nell’allontanamento dallo stato di natura, trovano in Rousseau una
soluzione politica attraverso una proposta pattizia della volontà popolare come
fondamento dell’organizzazione civile. Ciò comporta che la sovranità di uno stato
appartenga al popolo, a cui si riconoscono gran parte delle ideologie politiche successive.

Il senso critico è distruttivo nei confronti dell’attuale assetto politico e sociale, anche se
accompagnato da una prospettiva ottimistica e rivoluzionaria, che porta Rousseau a
interrogarsi sul discorso propriamente pedagogico nell’opera “L’Emile”, in cui si segue la
formazione umana di un ragazzo sottratto al condizionamento della società. Il
filantropismo, la tendenza ad agire in funzione del benessere dell’uomo, trova nelle opere
di Rousseau uno dei più chiari assertori.

L’encyclopédie
Senza dubbio, come abbiamo visto in Goldoni, uno dei fenomeni più importanti
dell’illuminismo riguarda l'encyclopédie, la diffusione del sapere tramite questo grande
dizionario che, come indicato anche nel sottotitolo, è ragionato per scienze, arti, mestieri.
L’opera, il cui primo volume uscì nel 1751 e fu pubblicata nel 1772 in 88 volumi, è
monumentale ed è un’esposizione aggiornata nel campo delle scienze umane. Il
promotore, come è noto, fu Diderot che si avvalse della collaborazione di d’Alembert e tra i
nomi compaiono i grandi autori Rousseau, Voltaire e Montesquieu. Nell’incontro e nello
scontro tra questi intellettuali si avverte la complessità dell’operazione, che consiste nel
sistematizzare tutto il sapere: Diderot accentua uno scetticismo di fondo e perviene a una
sorta di materialismo, occupandosi in particolar modo di biologia, mentre d'Alembert ha
una formazione matematica e privilegia l’esperienza sensibile, altri autori invece si
occupano dell'ambito politico, legislativo, letterario e filosofico.

Il dispotismo illuminato e Il Caffè


Mentre in Francia l'illuminismo giunge a forme di critica verso le istituzioni, non trova
generalmente accoglienza nella sfera del potere politico, cosa che invece si svolge in senso
rivoluzionario in altre regioni d’Europa, che ricevono la spinta verso quelle riforme che
caratterizzeranno il cosiddetto “assolutismo -o dispotismo- illuminato”. Nella fattispecie, gli
intellettuali incontrano i politici, come nel caso di Federico II di Prussia, amico di Voltaire,
che introdusse riforme amministrative ed economicamente significative grazie alle
riflessioni apportate dal filosofo. Di carattere amministrativo ed economico furono anche le
riforme introdotte in Austria e in alcuni Stati italiani per effetto di questa enorme
operazione intellettuale.

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Anche in Italia ci fu una forte influenza del movimento, soprattutto presso gli intellettuali
lombardi. L'illuminismo lombardo è un antesignano dell’età dei lumi e viene fatto
coincidere con la grande esperienza de Il Caffè, un periodico pubblicato sotto la direzione
di Verri che, per ragioni di prudenza e censura, veniva stampato a Brescia, ma le intenzioni
esplicite dei promotori erano in realtà quelle di svecchiare le istituzioni e razionalizzare
l'apparato statale. All'intellettuale illuminista, il giornale serve a stabilire un contatto agile
ed efficace con quell'opinione pubblica sempre più attiva e con quei gruppi di pressione
organizzata sufficientemente forti per avanzare le proprie istanze, soprattutto verso
problematiche di tipo economico, agricolo, legislativo e medico. Si predica anche un rifiuto
verso ogni forma di pedanteria, di conservatorismo culturale, e si cerca di diffondere le
idee degli enciclopedisti francesi. La novità de “Il Caffè” risiedeva nella forma giornalistica,
poiché si rifaceva a un esperimento inglese, il “The Spectator”, un giornale che affrontava
numerosi e attuali problemi: dall’osservazione dei costumi della società, alla diffusione
della filosofia come principio di saggezza (non di vita pratica). Il promotore della rivista,
Joseph Addison, aveva unito attorno a sé un club di diverse personalità (avvocati,
commercianti, militari, letterati, riservando al giornalista il ruolo imparziale di spettatore) al
cui centro della conversazione figuravano contrasti ideologici che imperversavano nella
società inglese. Nel caso de Il Caffé, un greco, tale Demelrio, aprì a Milano una bottega del
caffè, offrendo oltre alla gradevole bevanda anche riviste di matrice europea. Qui, si
discutevano vari argomenti dal punto di vista giornalistico e si raccoglievano le opinioni
ordinandole e dandole alle stampe. L’originaria forma del giornale ha una matrice
divulgativa, rispecchiava infatti la volontà di farsi leggere da un pubblico sempre più ampio
che riesce a realizzare una nuova forma di socialità grazie all'incontro di uomini e di ceti
diversi.

LEZIONE 10 - L’ILLUMINISMO ⅠⅠ
Cesare Beccaria
Cesare Beccaria si colloca all’interno delle temperie dell’illuminismo per aver partecipato
alle ferventi attività dell'Accademia dei Trasformati , per essersi dedicato agli studi filosofici
ed essere tra i più attivi collaboratori dell’encyclopédie e de Il Caffè. Egli avvertì
l’insofferenza dell’educazione tradizionale alla quale aveva dovuto sottostare durante la
fanciullezza e accolse le idee illuministiche come una liberazione dal fanatismo, si pone
infatti sulla stessa falsa riga di Voltaire, che aveva combattuto il fanatismo religioso. Allo
scioglimento della società Il Caffè, fu apprezzato molto, insieme all'amico Verri, dagli
intellettuali parigini, segno di un cosmopolitismo e di un’apertura degli intellettuali italiani
alla Francia e viceversa. Fu insegnante di economia politica, allora definita “Scienza
camerale”, e dal 1771 in poi si adattò alla carriera di funzionario dell’amministrazione dello
Stato, mentre si spegneva in lui lo slancio rinnovatore con cui aveva partecipato alla
battaglia illuminista, essendo lui uno di quegli intellettuali inserito nella vita amministrativa

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austriaca del tempo. Fu criticato per questo dagli amici (tra cui Pietro Verri), che gli
rimproveravano di essere diventato un burocrate. Egli confessò in uno scritto sui piaceri
dell’immaginazione il suo carattere inquieto, complesso, la tendenza alla tristezza e alla
solitudine e approfondì negli ultimi anni, attraverso il piacere dell’immaginazione (lo scritto)
un atteggiamento meno contraddittorio rispetto ai suoi studi e al suo periodo giovanile. I
suoi interventi in materia economica-giuridica-politica ebbero un’efficacia notevole, sia pe
rl’acutezza delle sue idee, sia per la chiarezza del suo ragionamento e per la forza
persuasiva del discorso. La sua scrittura va di pari passo rispetto alla materia, rimanendo
chiara pur affrontando dei temi giuridici di una certa complessità che predispongono delle
sottigliezze discorsive. Un suo studio sulla materia monetaria sarà la base della riforma
monetaria del 1777, segno di quanto sia utile la funzione degli intellettuali all'interno della
vita economica del paese.

Dei delitti e delle pene


Di lui si ricorda una grande opera di natura giuridica, “Dei delitti e delle pene”, scritto fra il
1763 e il 1764, che gli procurò una grande ammirazione assicurandogli una fama
ininterrotta. Quest’opera può essere considerata per molti versi un testo cardine
dell’illuminismo italiano, nasce infatti come conseguenza delle condizioni in cui versava il
sistema giudiziario, da una parte per la sovrapposizione tra diritto comune, diritto
ecclesiastico e diritto consuetudinario, e dall’altra -questa è la grande intuizione di Beccaria,
per la disumanità degli strumenti punitivi. Cesare Beccaria mette in evidenza la sua critica
radicale del sistema, proprio mettendo in evidenza l’umanitarismo nella sua filosofia
illuministica e la necessità di rifondare la giustizia su criteri di razionalità. Secondo Beccaria,
infatti, le leggi vigenti all’epoca erano da cancellare in quanto frutto delle vicissitudini dei
tempi. L’autore passa in rassegna il diritto romano, che a sua volta era passato attraverso
l’ordinamento giustinianeo creando un mescolamento di consuetudini di varia natura che
non corrispondono agli ideali morali e sociali di una nuova conoscenza giuridica rispetto al
passato. Da qui il motivo degli illuministi di rivendicare l’importanza dei moderni rispetto
agli antichi.

Il fondamento del diritto è quindi lo Stato, inteso come un contratto sociale, in cui l’autorità
statale e le sue leggi derivano da una rinuncia dei cittadini di parte della loro libertà per
realizzare la convivenza ed evitare il maggior male possibile. Accettando questo
presupposto di partenza, ne deriva che lo stato di polizia non ha ragione d'essere e lo
stesso criterio della punizione viene radicalmente avversato: è attraverso le leggi criminali
la società si difende, evitando che il reo possa continuare a nuocere, non esercitando una
vendetta pubblica, che risulta inutile oltre che disumana. Le pene vanno commisurate allo
scopo sociale della punizione, per cui l’eccesso di rigore diventa infruttuoso e addirittura
nocivo, di conseguenza la tortura e la pena di morte non riescono a frenare il crimine e
anzi, per molti versi lo acutizzano. Ogni pena deve essere rapportata al delitto; non si
possono punire l'omicidio e un reato minore con la stessa pena: se ne dedurrebbe una

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perdita di coscienza di quale fra i due reati sia il peggiore, e si esorterebbe il reo a
macchiarsi del più grave dei due, specie a parità di castigo. L’unico modo per ridurre la
criminalità è rappresentato, per Beccaria, dall’applicazione corretta delle leggi da parte dei
giudici e dalla certezza che il reo venga punito e l’innocente prosciolto. La tortura era
all’epoca usata come mezzo per estorcere la confessione, quindi contraria al principio
propugnato dall’intellettuale perché diretta contro chi non ancora risultava colpevole; tale
strumento infrangeva il patto sociale attraverso il quale gli uomini avevano fondato il
diritto, alla cui base vi era la garanzia che i cittadini non dovevano essere trattati come
colpevoli finché non fosse stata provata la loro colpa.

La ricerca sulla natura dello stile


La ricerca di Beccaria si concentra anche sulla natura dello stile, in cui mette in evidenza
idee già propugnate ed espresse in quel periodo dalla società “Il Caffè” e dà avvio alla
scoperta di tutto il vero, che non eccede ai limiti della nostra facoltà. Attraverso queste
ricerche intorno alla natura dello stile, intende sviluppare l’interpretazione filosofica del
buon gusto (lo stile), studiato non nei suoi modelli da ammirare e indicare, ma nei suoi
fondamenti naturali che sono le leggi invariabili, i procedimenti attraverso i quali l’uomo
compie del bene e ne rappresenta per mezzo dei segni. Per l’autore, che definì questo
fenomeno come psicologia, il problema dello stile, una volta riservato ai letterati, in realtà
va oltre i letterati stessi e interessa l’aspetto psicologico della comunicazione e
l’atteggiamento illuminista nei confronti della prospettiva letteraria tradizionale. (????)
Beccaria quasi si scusa di aver traviato dal cammino consueto -i cammini filosofici- per
affrontare lo studio delle belle lettere: si giustifica affermando che la scienza del bello,
esattamente come quella del bene e dell’utile, appartiene all’uomo e lo stile è un mezzo di
comunicazione delle idee. In questo senso, il bello ha un’utilità pubblica poiché non viene
disgiunto dal bene e dall’utile. L’interesse di Beccaria per lo stile è collegato all’attenzione
che l’autore dava alle forme artistiche della scrittura: si premura di formare l’eccellente
scrittore, dandogli una consapevolezza scientifica della sua arte; per quanto riguarda il
modo di scrivere, tra lo stile semplice, medio, sublime e alto, la preferenza di Beccaria va
allo stile medio, in quanto la lingua deve essere capace di assolvere alla sua funzione di
veicolo delle idee, arrivando all’armonia, alla chiarezza. La lingua non deve però essere
priva di vigore e di colore dal punto di vista ornamentale della retorica, ma bisognava
conferire alla parola la sua forza espansiva e penetrativa, la sua carica immaginifica, per
comunicare il bello e l’utile.

Pietro Verri
Un altro autore che si può annoverare tra gli illuministi italiani è senz’altro Pietro Verri, di
cui si mette in evidenza l’opera "Discorso sull'indole del piacere e del dolore” . Verri si era

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occupato di temi economici, ma concentrandosi su questo testo l’autore anticipa le istanze
romantiche. Verri avverte l’esigenza di studiare l’uomo nella sua dimensione naturale, cioè
come soggetto sensibile che si muove e vive in relazione agli stimoli che riceve a livello
psicologico. Attraverso il sensismo settecentesco, la dottrina che riduce l’uomo a un fascio
di sensazioni, viene recuperato il motivo antico dell’epicureismo, che fondava la
conoscenza e la morale sull’innata tendenza dell’animo di cercare il piacere e fuggire il
dolore. Verri propone due generi di sensazione in un duplice rapporto dialettico, facendo
di ognuno il risultato della presenza dell'altro (le due cose non vanno disgiunte). Il piacere
continuo si vanifica come tale trapassando facilmente nella noia -se ci fosse uno stato di
perenne piacere-, per tanto il dolore diventa l’elemento necessario affinché il piacere possa
essere percepito. L’importanza di questa definizione della condizione dell’uomo, che per
sua stessa natura è sospeso tra dolore e piacere, si può valutare tenendo presente che
Leopardi, a inizio ’800 (età romantica), ribadirà il senso tragico e svilupperà in forme
poetiche il tema del piacere quale “figlio di affanno”.

Il discorso di Verri accomuna nella medesima indagine la condizione della vita morale,
sociale e dell’arte (come Beccaria) e illumina il fenomeno della fruizione artistica, tramite
l’esempio del piacere che si prova, ad esempio, di fronte a un paesaggio naturale o nel
rapporto civile. Ecco perché l’immagine del piacere e del dolore non è disgiunta
dall’esperienza artistica o dal letterato -dice Beccaria- a proposito dello stile. Una scena
della natura procura un certo piacere e l’interruzione di questa piacevolezza, che può
coincidere con il dolore, ha l’effetto di rinnovare il piacere. Anche la gradevolezza del
comportamento umano non deve essere uniforme, deve esserci una discontinuità della
dolcezza, della compiacenza, da alternare con la durezza per evitare che essa, in uno stato
di perenne piacere, diventi noia. Nel campo dell’arte, Verri ci dice che il dolore è
rappresentato dalle dissonanze e dalla distanza che allontana le sensazioni piacevoli (un
principio che il romanticismo farà proprio: nell’impeto, nella passione e nel dolore c’è la
forma del piacere). La continuità del bello artistico genererebbe la noia ed è per tanto
necessaria l’oscurità, la reticenza, un principio che applica anche nella musica: anziché
stancare l’orecchio dell’ascoltatore, deve provocare dei momenti di dissonanza per
rinvigorire il piacere. Verri non solo riconduce il problema dell’arte nelle sue varie forme a
quella del sensismo, dell’uomo quale fascio di sensazioni, cogliendo sfumature importanti
per lo sviluppo del gusto, ma ci fa riflettere sul principio della disarmonia, sull’oscurità e del
silenzio che hanno una finalità artistica e che toccano l’immaginazione del fruitore
dell’opera d’arte. Queste vanno, quindi, a creare un principio di bilanciamento tra armonia
e disarmonia, al fine di evitare la noia e garantire un senso di piacere.

LEZIONE 11 - ALFIERI Ⅰ

Punto di partenza fondamentale: Alfieri non proviene da un’educazione letteraria regolare,


non era inserito in un determinato contesto culturale. Ciò fa un po’ strano, considerando

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che la lirica e la satira con Parini o la commedia con Goldoni si collocavano all’interno di un
alveo ben definito, in quanto Goldoni era pienamente integrato nella società veneziana del
suo tempo ed era cresciuto nella diretta esperienza del teatro comico, mentre il Parini, con
tutto il suo atteggiamento critico espresso con la satira, aveva vissuto in pieno tutti gli
stimoli della società culturale dell’illuminismo lombardo. Con l’Alfieri, questo non avviene,
che chiarisce la sua vocazione letteraria quando già l’illuminismo si avviava alla sua crisi e si
avvicinavano gli eventi rivoluzionari. Visse 54 anni ma ebbe il tempo di vedere la parabola
della rivoluzione francese, trascorse gran parte della sua vita in viaggio, cercando una
patria che corrispondesse alle sue ispirazioni piuttosto irrequiete (gli stava infatti stretta la
sua Asti in Piemonte). Discende da una nobile famiglia piemontese durante il regno di Carlo
Emanuele III, duca di Savoia, e questo momento politico condizione profondamente la
prima educazione e la vita dell’autore. Resta orfano di padre, trascorre i primi anni nella
casa del patrigno e fu poi inviato all’Accademia di Torino, dove i figli delle famiglie nobili si
preparavano alla carriera militare, ed eredita un cospicuo patrimonio che gli consentirà di
fare dei viaggi nelle principali capitali europee. Da lì in poi si registra un distacco dalla vita
piemontese verso il quale Alfieri concepì un vero e proprio rifiuto. Tutta questa dovizia di
particolari biografici è messa in evidenza poiché le trasformazioni di natura politica che
avvengono nella sua vita gli consentono di scrivere la cosiddetta “Vita scritta da esso”,
scritta da lui stesso. L’autobiografia, scritta a Parigi in età matura, ripercorre con sguardo
retrospettivo la sua formazione con una consapevolezza più matura (un po’ come abbiamo
visto in Goldoni, che scrive le Mémoires): Alfieri ci informa delle sue vicende, a volte minute,
altre volte dettagliate, della sua formazione, da cui si evince chiaramente come abbia
dovuto affrontare un cammino faticoso e drammatico, a causa di numerosi ostacoli su cui
l’autore insiste, in particolare sullo sforzo di liberazione dai vincoli posti, a suo dire, da una
vocazione sbagliata e da una condizione sociale che gli stava stretta. Ecco perché è
necessario conoscere la vita dell’autore prima di addentrarsi nelle sue opere, infatti i
numerosi viaggi e, soprattutto, il motivo della tirannide sono ascrivibili alla figura del
patrigno.

L’autobiografia e i contrasti
L’efficacia del racconto autobiografico ci consente anche di vedere la complessa personalità
dell’Alfieri, uno spirito forte che lottava per la sua affermazione, insofferente delle
costrizioni, sempre inquieto e pronto a vivere con entusiasmo le esperienze più varie. Era
votato alla contemplazione degli spettacoli della natura e, allo stesso tempo, impaziente di
agire. Alcuni aspetti del carattere ci evidenziano, inoltre, una particolare propensione alla
noia e alla depressione. Da quanto emerge dalla sua vita si nota come, sin dalla prima
fanciullezza, nella indole di Alfieri sorgano numerosi contrasti, da qui un concetto nella Vita
“di essere taciturno e placido, contemporaneamente molto loquace e vivace, caratterizzato
sempre da estremi contrari, dal timore di essere sgridato e di essere suscettibile di
vergognarsi fino all’eccesso”. Quello che ricorda analizzando la sua vita durante i primi

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viaggi aiuta a intendere l’aspetto psicologico di questa tensione, il percorso della presa di
coscienza e del superamento di alcuni suoi ostacoli personali: Alferi dice infatti di voler
obbedire ciecamente alla sua natura, di aver capito l'origine della sua infelicità -molti anni
dopo rispetto a quando la provava- e mette in evidenza la necessità di avere sempre il
cuore occupato da un degno amore e la mente occupata in qualche nobile lavoro (l’attività
letteraria). Quando viene a mancare uno dei due aspetti, l’autore si sente “sazio e
infastidito” oltre ogni dire, angustiato.

L’importanza dei viaggi


Parigi delude Alfieri, poiché vedendo la struttura urbanistica della città, non resta
piacevolmente colpito, anzi la definisce “umile e barbara”, mentre al contrario resta molto
impressionato dall’Inghilterra, sia per la sua struttura urbanistica che per l’ordinamento
politico, un ordinamento costituzionale in cui il governo è garante della libertà e giustizia.
L’orientamento politico di Alfieri è fondamentale nello sviluppo del concetto della tirannide:
caratterizzato da un modello di libertà che non porta a un dispotismo e conserva la propria
individualità. La libertà deve essere garantita, così come l’individualità del singolo, per cui è
contro ogni tipo di dispotismo monarchico. L’autore esaspera il disprezzo aristocratico per
gli ultimi re di Francia, considerati testualmente “plebei”, tant’è che in un primo momento
saluta con fervore lo scoppio rivoluzionario e l’abolizione della monarchia francese, salvo
poi disapprovare il tipo di sviluppo troppo democratico della rivoluzione. Siamo sempre su
due opposti, teme il dispotismo monarchico ma teme anche uno sviluppo troppo
democratico. Approfondisce delle letture molto utili per la sua formazione: Voltaire non lo
soddisfa affatto mentre sembra essere più attratto dalle opere di Montesquieu, che diede
grande importanza alla problematica politica e alle forme di governo studiate nelle loro
fondamenta, il motivo della libertà e del dispotismo incentrato sulla paura. Questa
sensibilità politica -anche personale- ci consente di immaginare Alfieri caratterizzato da un
forte “sentire”, come dicevamo a proposito di Goldoni, quasi in una sorta di filone dei
cosiddetti ésprits forts. La lettura di Plutarco, l'autore delle Vite parallele (storie di grandi
personaggi della storia greca e romana in cui si evidenziano alcuni aspetti drammatici delle
loro vite) offre un modello all’Alfieri per le sue opere. Afferma di essere rapito -“è come un
trasporto di gioia”- dall’opera di Plutarco, addirittura piange in preda al furore poiché quasi
percepiva la difficoltà di essere nato in Piemonte -troppo stretto e limitato- dinanzi alle vite
dei grandi del passato, provava quel forte sentire del suo temperamento.

L’individuazione del dispotismo come carattere delle attuali monarchie, che soffocano la
libertà individuale, viene sottolineata durante i suoi viaggi a Vienna, in Prussia e in Russia. I
suoi aneddoti di viaggio ci fanno comprendere quanto Alfieri fosse distante dal clima del
suo tempo: rinuncia, ad esempio, a conoscere Metastasio perché lo vede inchinarsi
servilmente dinanzi a Maria Teresa d’Austria, a Vienna, segno che la sua poesia è stata
venduta all’autorità dispotica. Va in Prussia e rimane anche qui inorridito dal regime
militare che gli sembrava una forma ancor più aggravata del clima piemontese; in Russia

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rimane deluso nello scoprire le false promesse di libertà fatte da Caterina II al suo popolo. I
suoi viaggi, il suo riflettere sulla forma di governo migliore, il suo concentrarsi sul concetto
del forte sentire e della libertà creano un’autobiografia molto ricca e frastagliata, utile per
comprendere le tragedie alfieriane nel dettaglio.

La scelta del genere letterario: la tragedia


Alfieri compone la sua prima tragedia , intitolata “Cleopatra”, in un momento molto
particolare: durante le lunghe ore di veglia presso la sua donna ammalata. Il loro è un
amore che lo avvilisce e, per questo, se ne libera una volta per tutte, decidendo di
affrontare seriamente l’impegno di letterato (scrittore). La tragedia di Cleopatra e l’episodio
della donna ammalata costituiscono la sua “epoca terza”, che segna la fine di un’immatura
giovinezza nel nome di un “inizio di virilità” -così lo definisce- dell’”epoca quarta”, in cui
predomina lo volontà di acquisire tutti gli strumenti necessari per compiere una vera e
propria missione, quella di poeta tragico, e abbracciare, quindi, la tragedia come genere
letterario. La composizione delle tragedie si protrae per diverso tempo, tra il 1774 e il 1789,
e al di là del primissimo esperimento letterario Cleopatra c’è da segnalare un altro
momento autobiografico importante, vale a dire l’incontro con Luisa Stolberg, moglie di
Carlo Edoardo Stuart pretendente al trono d'Inghilterra, alla quale, nonostante varie
vicissitudini, rimase legato tutta la vita. La segue a Roma, si distacca da lei, la rincontra in
Alsazia, vivono insieme a Firenze e infine a Parigi fino alla morte di lui avvenuta nel 1803.
All’inizio della storia con Luisa Stolberg, Alfieri lascia definitivamente il Piemonte, tronca i
rapporti con il ramo famigliare e la sua patria, cede addirittura alla sorella i suoi beni in
cambio di una pensione annua e vi trascorre a Parigi i primi anni della relazione con lei -nel
periodo che coincide con la rivoluzione. Questa permanenza gli fa sviluppare un
sentimento antifrancese della tirannide, tema attorno a cui ruoterà la sua poetica.

La tirannide
Il tema della tirannide si rifà al filone notevole della tragedia secentesca del periodo
barocco e si ricollega alla fortuna che aveva avuto lo scrittore latino Seneca, molto
recuperato a partire dal ‘500 in Italia. Le tragedie di Seneca sono contraddistinte da un
particolare compiacimento dell’orrido per i truci delitti, per il sangue, e possiedono quindi
una componente molto cruenta, particolarità che costituirà un modello per Alfieri.

Alfieri sviluppa infatti un gusto per le atroci vicende di odio, vendetta e sangue (scene) per
cercare di amplificare il dramma dei suoi personaggi e ottenere il massimo dell’effetto. La
tragedia che apre il ciclo della tirannide è “Il Filippo”, sottoposta a un lungo lavoro di
revisione e caratterizzata da un linguaggio molto forte. Anche lo stile della tragedia è,
dunque, in funzione di accrescimento del pathos: troviamo molto spesso il grido,
l’esplosione inconsulta dello stato d’animo, frasi spezzate (Alfieri termina di frequente con

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dei puntini di sospensione), la presenza massiccia di interrogative, esclamative. Sia il
linguaggio, sia la pregnanza delle scene orride conferiscono al dramma un andamento
molto forte.

Il Filippo

È una tragedia che attinge dalla storia moderna: si tratta delle vicende del Re Filippo II di
Spagna vissuto nella seconda metà del 500 (successore di Carlo V). La tragedia viene
inizialmente scritta in francese per essere poi tradotta anche in italiano. Alfieri si
documenta leggendo il romanzo Don Carlos del 1672 dello storico francese César Vichard
de Saint-Réal. Questo primo esempio di tiranno era divenuto, nel tempo, il prototipo della
ragion di Stato. Filippo simboleggia infatti la ragion di stato, un concetto che fa sì che coloro
che detengono il potere (regnanti) siano costretti, più o meno loro malgrado, a compiere
atroci misfatti per conservare il potere. Filippo ci viene presentato come personaggio
solitario, autoritario, cruento e soprattutto molto sospettoso nei confronti dei suoi familiari.
Una leggenda antica aveva inserito nella vicenda del Filippo l’amore del figlio Carlo per la
matrigna Isabella; Alfieri mette in luce questo aspetto, poiché l’amore che Isabella serba
nell’intimo per il principe la conduce al suicidio, lasciando Filippo inorridito della stessa
vendetta. Una catena di sangue e di delitti perché, sospettoso e preoccupato di perdere il
potere, toglie la sposa a suo figlio prendendola in moglie, fa uccidere l’amico, costringe
Isabella al suicidio. Dopo tutti questi crimini di cui è responsabile, essendo un personaggio
cruento e sospettoso di tutta la sua cerchia famigliare, una volta visto questo orrido
spettacolo è quasi paradossalmente felice di aver soddisfatto la sua violenza ed è
preoccupato soltanto di conservare il trono mantenendo segreti il più possibile questi
misfatti.

Lo stile di Alfieri fa sì che nelle sue tragedie vi siano due motivi fusi, quello politico della
tirannide e quello intimistico, lirico, domestico. A quest’ultimo fa capo la vicenda di Isabella,
ma fa solo da sfondo alla vicenda poiché il focus è incentrato sulla tirannide e
sull’incapacità di agire in modo non cruento. La figura del tiranno ha in sé qualcosa di quasi
astratto tanto è assoluta e lontana da qualsiasi moto di umanità. La vita del tiranno
coincide con il sospetto, il terrore, la trepidazione di rivelare i propri sentimenti e per
questo non si può neanche parlare di vincitori e vinti in quanto, all’interno delle tragedie
sulla tirannide, c’è solo la tragedia dello sconfitto. Anche Filippo che mantiene il suo regno
non riesce a gioirne poiché deve perennemente nascondere sé stesso, i suoi misfatti e le
sue male azioni per conservare ad oltranza il suo regno. Non ci sono vincitori, solo vinti
(TRAGEDIA DEL VINTO)

IN AGGIUNTA: Filippo è il primo grande tiranno spietato e con sete di potere, ma ha una propria
umanità perché consapevole che la ragione della sua infelicità è la solitudine di cui si circonda.
Questo pensiero, tuttavia, non è espresso se non nell'ultima battuta della tragedia, nella quale
Filippo si interroga se la morte che ha seminato lo abbia in qualche modo soddisfatto.

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La figura di Filippo domina nell'opera, al punto che la sua sola presenza in scena proietta una
sinistra ombra sugli astanti: la scelta del cattolicissimo monarca come protagonista dell'opera fu, per
l'Alfieri, il pretesto per un'invettiva, dal sapore del tutto massonico, non solo contro la tirannide ma
anche contro la religione, avvertita come serva del potere politico. Non a caso, del resto, Filippo
oppone, agli umani argomenti di Don Carlos, la ragion di stato, schermando i suoi reali sentimenti di
odio verso il figlio.
Don Carlos è il primo eroe alfieriano che trova la liberazione nella morte: secondo l'idea di
rinnovamento tragico propugnato dal drammaturgo, la morte non è, però, sublimata come vuole la
tradizione classicista francese, ma repentina e drammatica. Don Carlos non accompagna la scena
dalla morte al dialogo, utile a smorzare i toni dell'evento tragico in scena e a sublimare nel pathos un
atto estremo, ma si spegne in due soli versi, nei quali invita Isabella ad uccidersi a sua volta per
liberarsi della tirannide di Filippo.
Isabella di Valois è la prima figura femminile dell'Alfieri psicologicamente complessa e
contraddittoria. Inizialmente docile e di animo puro, diviene poi risoluta sovvertendo il proprio
personaggio: a dispetto di precedenti morti al femminile, che soggiungono tramite avvelenamenti,
ritenuti più adatti e nobili al gentil sesso poiché privi di sangue,[7] Isabella si dà la morte con il ferro
ed in maniera repentina, non dilungandosi in nessuna considerazione sul suo atto. Il suicidio, inoltre,
non è utilizzato in funzione religiosa, con l'intento di sottolineare un gesto che porta alla vita eterna
(e al martirio) come già il teatro barocco aveva fatto, ma come libera scelta dell'individuo e come atto
liberatorio.

LEZIONE 12 - ALFIERI ⅠⅠ
Seconda disamina sul teatro di Alfieri

Un’altra opera che attinge dal passato e fa parte del ciclo della tirannide è sicuramente il
Polinice, così come l’Antigone. La prima riprende il mito dei figli di Edipo e Giocasta,
destinati a morire per colpa dell’inconsapevole incesto dei genitori, mentre l’Antigone si
sviluppa su un tema tutto femminile di Antigone, che prova dei sentimenti nei confronti del
figlio del re Creonte, è una donna molto forte e non cede alla tirannia del re, andando
valorosa incontro alla morte.

Polinice e Antigone
Nell’Antigone alfieriana, viene messo in scena il conflitto finale tra un padre che applica la
"ragion di stato" (che costringe a punire chi, come Antigone, viola le leggi della città) e un figlio
che ama la donna che il padre ha messo a morte. Bisogna notare come il rapporto tra padre e
figlio venga sapientemente sovrapposto a quello tra re e suddito. Creonte non riesce a
ragionare se non come uomo di potere: per lui, essere re ed essere padre sono la stessa cosa

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e ogni atto di insubordinazione nei confronti del re equivale a una mancanza di rispetto nei
confronti del padre.

Eteocle e Polinice, i due figli di Edipo, lottano per il dominio di Tebe e si uccidono a vicenda.
Il primo è un tiranno senza scrupoli, il secondo è più mite e incline alla giustizia, anche se
su entrambi domina la stessa brama. Queste tragedie tratte dal passato, come abbiamo
visto con Filippo, -a tutti gli effetti politiche, hanno però anche la componente famigliare-
rafforzano l’idea che i detentori del potere o smaniosi di possesso vanno incontro alla loro
rovina. Ciò accade anche in un’altra tragedia, l’Agamennone, in cui si avverte ancor più il
condizionamento del fato, inteso come forza assoluta e irresistibile che agisce nelle vite e
nelle passioni degli uomini, impedendo una qualsivoglia soluzione positiva, qualcosa che in
maniera incontrovertibile di abbatte sul protagonista. La legge del fato veniva definita dai
tragici greci Ananke (Ἀνάγκη), la necessità inalterabile che non ha possibilità di non avvenga.

L’Oreste
L’Oreste è considerata da Alfieri la sua tragedia più riuscita in quanto, attraverso il doppio
dramma politico e familiare, l’autore ha la possibilità di evidenziare la fatale sventura
dell’uomo, infelice anche quando riesce ad abbattere l’oppressore. L’opera è una sorta di
saga familiare in cui Oreste deve vendicare suo padre ucciso dalla madre per questioni
politiche di regno, deve per forza commettere un matricidio e allo stesso tempo non può
che morire anche lui per mano del nuovo marito della madre, Egisto, un tiranno. Anche
Oreste è un eroe-vittima senza alcuna colpa, ha ucciso sua madre per vendicare suo padre,
il suo è un impeto di vendetta e di essere il giusto e legittimo successore al trono; infatti
non la uccide solo per una ragione familiare, ma anche perché la madre si accompagna al
tiranno Egisto, l’usurpatore del regno che per discendenza apparterrebbe a Oreste.
L’uccisione della madre è frutto di un annebbiamento della mente e l’eroe di fronte al
delitto non può gioire in quanto un’azione disumana e a proposito del fato, di questo
destino infelice e incontrovertibile, commenta “dura d'orrendo fato inevitabil legge!”
(atto quinto, battuta finale dell’Oreste).

Bruto secondo e Bruto primo


Il contrasto tra i sentimenti privati e l’aspetto politico della tirannide è al centro di un’altra
opera “Bruto secondo”, incentrata sull’uccisore di Cesare. Il loro rapporto va oltre l’amicizia
che lo lega a Cesare, in quanto scopre di essere suo figlio alla vigilia dell’attentato. Il
cesaricidio avviene, quindi, malgrado il vincolo di sangue, Bruto va fino in fondo alla
missione di uccidere colui che stava diventando un dittatore, al fine garantire al popolo la
sua legittima libertà. Cesare, che all’inizio aveva dimostrato una certa moderazione, stava
prendendo una deriva sempre più assolutistica, motivo per il quale venne ucciso da Bruto
che voleva difendere le libertà del popolo romano.

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Una situazione simile si verifica in un'altra opera, con un titolo quasi omonimo, “Bruto I”,
dedicata "al chiarissimo e libero uomo il generale Washington", il "liberator dell'America". In
questa tragedia però il protagonista è Lucio Giunio Bruto, un console romano (non
l’uccisore di Cesare) che non esitò a condannare a morte i propri figli, colpevoli di aver
sostenuto il tentativo tiranno di Tarquinio. Qui, la presenza popolare è molto importante
poiché il popolo assiste e interviene a commentare l’azione dei grandi, sottolineando
l’orrore del padre che manda i figli al supplizio per una ragion di stato. Il tiranno fa quindi
tutto ciò che può per mantenere il potere, anche a costo di macchiarsi di crimini efferati. In
questo caso, Alfieri ha la possibilità, attraverso il duplice binario della tragedia politica e
familiare, di evidenziare l’infelicità dell’uomo. Giunio Bruto, che ha mandato i suoi figli a
morire, dice “io sono l’uomo più infelice che sia nato mai”, riconoscendo la sua infelicità
proprio nel momento in cui viene acclamato come il dio della città.

Alfieri concepisce una varietà di situazioni tragiche sullo sfondo della tirannide da una
parte -e tutte le forze che vi si oppongono- e dall’altra il principio di libertà, cioè la
rivendicazione dei diritti dell'uomo a esistere e a non essere oppresso. Tale principio gli sta
molto a cuore, anche a causa della sua esperienza biografica. La situazione è talmente
grave che non c’è mai via di uscita, né per il tiranno né per il suo oppositore, sicché è
proprio questo lo scontro che ad Alfieri interessa mettere in luce: Bruto è distrutto dallo
sforzo che ha dovuto compiere per tenere desta la libertà, Oreste è distrutto dal matricidio,
etc. L’autore mette la vicenda tragica politica nel cuore dei personaggi, ne consegue lo
sviluppo di un conflitto interiore molto drammatico che conduce a infrangere un vincolo,
una norma -come quello di sangue tra madre/padre e figlio-, e quindi tanto l’oppressore
quanto l’oppresso si ritrovano in una situazione di infelicità.

Alfieri accoglie il principio secondo cui la tragedia si può concepire solo con personaggi
grandi e famosi, che spiccano per statura, uomini e donne che nutrono passioni smisurate
e che vanno incontro alla tragedia perché incapaci di mediazione, accettazione. Per
paragonare il concetto (anche se non totalmente paragonabili alle tragedie perché di
un’altra epoca) ricordiamo Enrico IV di Pirandello, di cui abbiamo messo evidenza come non
scenda a patti con il comune sentimento amoroso, lui è il portatore di un amore troppo
assoluto e contrario alla mediocrità borghese che vede negli occhi di Matilde Belcredi.
Entrambi i personaggi hanno una statura gigantezza perché incapaci di provare mediocrità
o mediazione. C’è un contrasto molto forte negli affetti e nella gestione della politica, dato
da una brama smisurata; La smisuratezza -l’ampiezza del sentimento tragico- può essere
definita propriamente romantica (nel romanticismo si trovano le passioni smodate) ma
questa esasperazione del forte sentire (ricordiamo sempre gli esprits forts di cui parlava
Goldoni, seppur in ambito comico) fa di Alfieri un apripista del romanticismo.

Della tirannide

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Il tema della tirannide, di tutte le tragedie ne sono permeate, viene affrontato dal punto di
vista politico in un trattatello diviso in due libri che si intitola “Della tirannide”. In
quest’opera, Alfieri spiega la sua visione politica: come è possibile che un popolo si mostri
passivo e servile nei confronti dell’autorità? come è possibile che il tiranno sia, per sua natura,
duplice, sospettoso e attento a mantenere il potere? come è possibile che si possa instaurare il
regime della tirannide? Alfieri dimostra, attraverso questo trattatello, che la tirannide si crea
quando vi è di base un atteggiamento immorale, un costume degradato, una forma di
disumanità che ormai sta prendendo piede (pensiamo ai regimi dittatoriali attuali).
L’immoralità e la disumanità fanno sì che si possa impiantare la tirannide, ossia quella
forma di governo in cui le leggi vengono fatte, distrutte e infrante a seconda degli umori e
dei capricci di un tiranno, rappresentato da chiunque detenga il potere. Ne deriva che ogni
società che ammette una tirannide fa sì che il popolo ne sia schiavo, una sorta di concorso
di colpa: La tirannide si instaura per motivi di disumanità, allo stesso tempo però non c’è
uno slancio da parte del popolo che possa contrastarla. Questo pensiero di Alfieri tocca da
vicino anche la visione di Montesquieu, secondo la quale chi governa si senta al di sopra
delle leggi, non è condizionato dalle leggi ma addirittura le può mutare a proprio arbitrio. In
questo trattato, l’autore mette in luce i meccanismi perversi del governo (gli stessi che
caratterizzano le sue tragedie) e afferma che anche le congiure -le vediamo nell’opera “le
congiure dei pazzi”-, che servono a far cadere la tirannide, mostrano tutta la loro fallacia. Il
trattatello è dunque un testo attraversato da un grande pessimismo di fondo.

La congiura de’ Pazzi


Anche in Italia si avverte la speranza di vedere realizzata una repubblica con un popolo
capace di contrastare i regimi assolutistici, cosa che però non avviene. Questa situazione
spinge Alfieri a fare un’altra riflessione sulla tirannide antica e quella moderna: quella
antica era truce, violenta e sanguinosa, si prestava ad essere estinta solo con la violenza,
mentre quella attuale è apparentemente più moderata. Quest’ultima non uccide
apertamente ma inganna, soprattutto rende fiacchi gli uomini liberi. La prospettiva di Alfieri
è sconsolata, c’è la speranza di vedere un’Italia repubblicana ma il problema politico
sembra insormontabile, poiché anche le rivoluzioni dell’epoca sono destinate a fallire.
Questo concetto lo troviamo espresso nell’opera incentrata su Lorenzo de Medici, intitolata
la “Congiura de’ Pazzi”, in cui si parla di LDM che instaura una tirannide medicea, è un
moderno tiranno che usa l’arma dell’umiliazione contro i suoi possibili concorrenti e
avversari. La congiura, portata avanti da Raimondo de Pazzi, figlio del prudente Guglielmo
che accetta la tirannide, non riesce e i danni si abbattono sia sugli oppressi, sia sugli
oppressori.

L’america liberata e il mecenatismo

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Altra opera importante è “L’America libera”, che non è una tragedia bensì un poema, in cui
affronta il tema della libertà politica. Composto da più odi, una di queste è dedicata a
George Washington, definito uomo libero, capace di esprimere la delusione di vedere con
atteggiamento economico una lotta -la recente rivoluzione americana- che doveva
rispondere a un’esigenza ben più ampia. Travolto dall’ardore rivoluzionario, l’autore resta
sempre un critico attento, tanto da mostrare, nella quinta e ultima ode, un certo distacco
verso il nuovo governo americano: i grandi ideali rivoluzionari si scontrano inevitabilmente
con le forme di potere che ne conseguono, nello stesso modo in cui, pochi anni più tardi,
sarebbe accaduto a Parigi dopo la presa della Bastiglia.

Alfieri vive nell’età moderna, in cui la passione di libertà, propria degli antichi, ormai non
può più esistere. Da qui si sviluppa la critica del mecenatismo, quel sistema secondo cui il
signore di una corte fa sì che vi sia una politica di consenso all’interno del suo operato.
Lorenzo il magnifico viene visto come un illuminato circondatosi di intellettuali che lo
elogiano, pur essendo invece un “tiranno”. Alfieri denuncia il patto tra il regime tirannico e
gli intellettuali che sostengono il regime tirannico, in quanto smorza la lotta e annulla la
missione del letterato di promuovere la libertà. Come per Calvino, l’intellettuale deve
essere un militante, deve agire attivamente nel tessuto della società e, secondo Alfieri, gli
intellettuali sono chiamati a mantenere desti gli spiriti della libertà contro le oppressioni e
contro quella forma larvata di potere assoluto che fiacca gli animi degli uomini liberi.

LEZIONE 13 - ALFIERI ⅠⅠⅠ


Il motivo della tirannide si propaga nelle tragedie di stampo antico, sia di stampo moderno.
Accanto a questo macrotema, a cui si lega la riflessione alfieriana il trattatello “Della
tirannide” che esamina nel dettaglio la tirannide antica in contrapposizione a quella
moderna, si rapporta anche la tragedia del singolo individuo. Una tragedia sicuramente più
intimistica, famigliare, lirica rispetto alle tragedie di stampo politico con delle note
sentimentali. In tal senso sono esemplari le tragedie “Saul” e “Mirra”. Prima di arrivare a
loro, bisogna dire che le tragedie dell’individuo possono essere ispirati sia ad argomenti
storici prevalentemente moderni (ad esempio Maria Stuarda) sia antichi (come l’Ottavia,
tema che riprende Seneca in quanto scrittore di tragedie in cui predomina la trucità).
Nell’Ottavia viene ripresa una tragedia di Seneca: Ottavia è la moglie dell’imperatore
Nerone, bandita dal marito e poi sottoposta a vessazioni di ogni tipo. Una vittima innocente
che preferisce togliersi la vita (si avvelena) piuttosto che subire un’atroce condanna. Alfieri
si compiace nel creare situazioni al limite della crudeltà e dell’inverosimile, ad esempio nel
Don Garzia, altra sua tragedia in cui riprende un tema della Firenze de’ Medici, ossia la
leggenda storica di Cosimo I de’ Medici, trattata in chiave orrida. Nella fattispecie, Cosimo
uccide suo figlio Garzia, sospettato di nutrire spiriti di libertà, tirando fuori il tema della
ragion di stato. Allo stesso modo la “Rosmunda” amplia a tinte fosche le poche notizie che
abbiamo della moglie del re Longobardo Alboino, che si macchia di atroci delitti dopo aver

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ucciso il re. La più famosa di queste tragedie è la Maria Stuarda, tema molto diffuso già nel
500 che tratta la vicenda della Regina di Scozia, vittima innocente di uno scontro di potere e
costretta a pagare colpe non sue. Se questo genere di tragedie corrisponde al gusto di
Alfieri per i delitti cruenti, in quest’opera ancora non si riesce a cogliere la condizione
tragica universale dell’uomo, si sottolinea però come la brama di regno e la smania di
potere calpestino gli affetti familiari, nonché i vincoli di sangue e di amicizia. Queste
atrocità non avvengono in scena, esiste infatti una convenzione tragica secondo cui scene
particolarmente cruente non vengono rappresentate ma soltanto raccontate.

Per cercare di spiegare le motivazioni dietro la composizione delle sue tragedie, Alfieri
oppone all’edizione delle tragedie i cosiddetti pareri (come con Goldoni “l’autore a chi
legge”) consente cioè di dare la possibilità di dare una migliore interpretazione di ciò che
accade al lettore o spettatore. Nei pareri, espone innanzitutto le sue intenzioni (cosa ha
intenzione di evidenziare) e soprattutto spiega sempre di mettere in scena conflitti per dare
maggiore enfasi all’urto, al contrasto e alle contraddizioni. Tali componenti si trovano
soprattutto nelle sue due tragedie più mature e meglio riuscite “Saul” e “Mirra”,
rispettivamente datate 1782 e 1784. Le due opere approfondiscono la dimensione tragica
dell’uomo e, in particolare, con loro Alfieri arriva all’affinamento dell’arte drammatica: si
discosta dal tema della tirannide, sempre al centro della sua ricerca teatrale, e mette in
luce i sentimenti più intimi e familiari. Alfieri non abbandona ancora il concetto di fato,
preponderante nelle tragedie di stampo politico, ma cerca di mantenersi all’interno di un
contesto più razionalistico.

Saul
Saul è grande nella sua generosità, altrettanto grande nella sua intolleranza: ama il suo
popolo, prova un grande affetto verso i figli e David, suo genero, anche se vede in lui una
possibile minaccia di usurpazione del regno. Tormentato dal pensiero che Dio lo abbia
abbandonato e che voglia contrapporgli David, è pronto a farsi assalire dal sospetto e dalla
gelosia e fa sì che gli eventi precipitino. Fuggito David, i filistei sconfiggono il suo esercito e
Saul si uccide pur di non darsi vinto al nemico. Conosce nella sua sconfitta l’inesorabile
vendetta di Dio, uccidendosi infatti pronuncia le parole quasi di sdegno “Sei paga
d’inesorabil Dio terribil ira?”. Nella sfera del potere si inserisce l’aspetto intimistico
dell’immagine dei figli e di David, ma non è una visione consolatrice quella affettiva, poiché
è proprio lì che si annida il sospetto che gli si possa venir usurpato il regno. Questo urto fra
il suo sospetto interiore e la sua bontà, tolleranza e intolleranza, amore e odio, non può
che far precipitare gli eventi, portando al suicidio di Saul quasi imprecando dio.

Mirra

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Nonostante la diversità del tema, anche la Mirra sviluppa un’intima contraddizione: la
consapevolezza di un destino ineluttabile e di una condizione risolvibile solo con la morte.
Mirra, personaggio femminile, è diversa da Saul, non è priva di fermezza eroica come altre
donne alfieriane e in lei predomina una femminilità particolarmente delicata. Ella è
destinata alla solitudine poiché dominata dalla vergogna di un amore ingiusto, sacrilego,
che non può rivelare a nessuno, neanche a sé stessa, quello per il padre. Nel suo intimo si
sviluppa il contrasto tra passione insana e incestuosa e il senso di colpa che non le
permette di esternare il suo dramma. La tragedia è a tutti gli effetti un dramma famigliare,
c’è la coppia marito-moglie e loro figlia, che sembra essere esclusa dai due, un po’ come
nella Vita scritta da esso, in cui Alfieri parla della figura del patrigno che lo sottraeva dalle
attenzioni della madre, facendolo sentire estraneo, anche nei confronti della sorella che fu
mandata in convento. Questo dramma riproduce quel tipo di conflitto, nel quale i genitori
di Mirra appaiono come una coppia di bellissimi che, tanto presi dalla loro passione,
sembrano quasi dimenticarsi della figlia. Lei ha un ruolo marginale nella loro vita, l’unica
figura materna affettuosa che sta vicino a Mirra è la nutrice, che segue l’andamento
drammatico della sua crescita e degli eventi che la porteranno alla morte. Anche il padre,
che prova affetto per la figlia, non riesce a comprendere le ragioni del suo male oscuro,
soprattutto quando Mirra è in procinto di sposarsi. Durante le nozze la giovane spera di
poter vincere la sua passione, ma proprio durante la cerimonia nuziale si ribella e
pronuncia parole di odio contro la madre. Un tema familiare molto forte e caratterizzato da
contrasti, cifra distintiva delle tragedie alfieriane. Dopo le nozze, non consumate,
l’andamento dell’opera è dato dai tentativi falliti di Mirra per conservare il più possibile il
suo segreto incestuoso verso suo padre, che non riesce a consolare la sua inspiegabile
tristezza. A un certo punto, la struttura della tragedia porta al precipitare degli eventi: Mirra
è costretta a confessare la sua passione, sguaina la spada del padre e si trafigge. Il suicidio
di Mirra non è una liberazione, quanto più l’accettazione di un destino ineluttabile, il
prendere una giusta posizione di fronte a un fato nefasto. Mirra muore perché non può
sopportare la vergogna dopo aver rivelato il suo segreto e la sua morte, apparentemente
eroica, è in realtà una morte “vigliacca”. Alla fida nutrice la giovane rivolge le ultime parole
“Quand'io... tel... chiesi,...darmi... allora,... Euriclèa, dovevi il ferro...io moriva... innocente;...
empia... ora... muoio…”, rimproverandole di non averle procurato una spada prima che
confessasse al padre il suo iniquo amore. La morte è la conclusione di un’azione
drammatica che non può avere alcuno sviluppo, alcuna risoluzione poiché l’urto, la
contraddizione di questa fanciulla, è stato rivelato.

Sia Saul che Mirra si uccidono, hanno la stessa tipologia di morte, lo stesso urto -l’uno per
la tematica del regno in cui si fonde quella intimistica, l’altra per l’incesto”. A differenza delle
altre tragedie, in queste due opere c’è sì un precipitare degli eventi, ma la passione, più
lenta che nelle altre tragedie, sembra essere un indugio all’evento conclusivo del dramma,
il suicidio. Si avverte sin da subito dalle prime battute -lente, infatti sono più che altro
destinate alla lettura che alla rappresentazione- l’arrivare dell’evento inesorabile, racchiuso
nell’animo dei protagonisti come ultima possibilità per trovare pace.

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Le rime
Il motivo amoroso, che nelle tragedie è in parte presente, trova spazio anche in un’altra
opera, le “Rime”, in quanto Alfieri, oltre che drammaturgo, è anche un poeta lirico. Le Rime
sono il frutto di un’azione tragica, ma concepita come una sorta di meditazione privata, un
diario intimo (-quasi- vicine alla riflessione autobiografica nella Vita scritta da esso). In
queste rime l’autore recupera in particolar modo Petrarca (visto a lezione relativamente
alle lettere sui viaggi), facendo percepire tutta la grazia, l’idillio, la forma elegante e
decorosa del discorso. Non è però soltanto una ripresa di Petrarca, poiché Alfieri, sulla
base di questi “sentimenti petrarcheschi”, inserisce l’angoscia inconsolabile del presente e
la malinconia, caratteristiche che troviamo espresse anche nelle tragedie e che aumentano
il pathos, la passione che anima queste rime. Così come Petrarca aveva messo in luce
l’amore lacerante per Laura, Alfieri viveva dei sentimenti contrastanti, causati da ripartenze,
riconciliazioni, addii, con Luisa Stolberg.

Le satire
Accanto alla produzione lirica e a quella tragica, si colloca un Alfieri anche satirico: si dedica
alla satira negli ultimi anni della sua vita, sicuramente a causa della delusione per la
rivoluzione francese e per la storia. L’autore pubblica, in tale direzione, le “Satire”, in cui
evidenzia il servilismo degli oppressi e la superbia degli oppressori. In questo periodo si
allontana da Parigi, amareggiato dagli esiti negativi della rivoluzione, e aveva visto con
sdegno il trattato di Campoformio, in cui Napoleone contrattava con l’Austria disponendo
di alcune regioni italiane, facendo precipitare l’Italia in un clima di servitù.

La commedia
Il disinganno alfieriano, la delusione per gli inganni politici e l’incapacità di agire da parte
degli italiani trovano riscontro anche in una bizzarra commedia (poco si conosce l’Alfieri
comico), “Finestrella”, ambientata negli inferi dove, per un espediente trovato da Mercurio
per guardare nel cuore degli esseri umani nell’aldilà, si crea una finestrella nel petto che
rivela il movente egoistico persino dei personaggi più nobili. Un’altra commedia, “Il
divorzio” prende di mira la pratica del cicisbeismo, visto con Goldoni, che stava prendendo
sempre più piede. Alfieri non si sbilancia in sottili analisi, non elabora teorie, ripercorrendo
il meccanismo di disvelamento di una società che, senza nemmeno nascondersi più di
tanto, mostra il proprio lato più meschino, il servilismo e l’interesse economico; a partire da
un’istituzione, quella del matrimonio, che in quanto tale riflette la condizione sociale di
un’epoca.

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Concludendo l’itinerario su Alfieri, che attraversa l’illuminismo facendo proprie le idee di
Montesquieu -in particolare quelle sulla politica- e la riflessione circa la difficoltà di
approdare a una forma di governo che possa tutelare la repubblica. Si rende conto infatti
che anche le spinte rivoluzionarie, come nel caso de La congiura de’ Pazzi, non riescono e si
vanno a connotare addirittura come ulteriore guaio, tanto per gli oppressori quanto per gli
oppressi. La disillusione più grande sta nel fatto che la tirannide moderna è talmente
pervasiva da non essere quasi più riconoscibile, in quanto ammantata di buone maniere, e
il popolo rimane comunque oppresso e angustiato. A differenza della tirannide antica,
sanguinolenta e truce, la tirannide moderna è più addolcita ma non per questo meno
pericolosa.

Alfieri riesce a padroneggiare tutti i generi -tragedia, autobiografia, rime, satire e


commedie-: l’autore ha la capacità sia di servirsi di un lessico colorito, quasi caricaturale in
alcune circostanze, sia di passare da un registro stilistico più basso (comico burlesco) allo
stile elevato della tragedia, in cui predomina un linguaggio spezzato, ricco di interrogative
ed esclamative, con il fine di garantire il massimo del contrasto possibile vissuto dai
personaggi.

LEZIONE 14 - IL ROMANTICISMO
Per parlare di romanticismo dobbiamo servirci di due parole fondamentali, “Sturm und
Drang”, ossia impeto e assalto, che possiamo considerare i motivi fondamentali del
romanticismo: l’impulso all’affermazione del sé e la creatività dell’uomo rispetto alle regole
e alla tradizione. La critica fatta a partire dai grandi teorici del romanticismo viene fatta
contro gran parte della letteratura tedesca moderna, a vantaggio della letteratura
medievale, considerata la più genuina dal popolo germatico in quanto all’inizio della storia
della sua nazione. Lo sturm und drang mette in evidenza lo spirito della natura e della
passione che si può riscontrare soltanto nelle forme genuine di arte romantica. Agli albori
del romanticismo si riscontra l’attenzione alla poesia medievale e l’abbandono della
mitologia classica (vista ad esempio in Alfieri) per costruire una poesia che, rifacendosi
sicuramente anche alle istanze del moderno, recupera l’autenticità e lo spirito genuino
della poetica medievale, che fa prevalere il sentimento soggettivo, l’interiorità del
poeta/scrittore.

(a proposito di arte e soggettività si può fare un parallelo, il soggettivo l’abbiamo visto con
l’espressionismo, come l’urlo di Munch, che punta sull’interiorità, e l’oggettivo con
l’impressionismo, quegli artisti che dipingono en plein aire soggetti oggettivi come un
ruscello, una scena di folla a Parigi), la ripresentazione della natura, la coscienza
dell'individuo del proprio sé e della propria libertà, l’accentuazione dell’io sono i soggetti
cardine del romanticismo.

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Troviamo qui temi caratteristici dello spirito più forte del romanticismo, come il motivo
della sofferenza interiore, del turbamento che fa desiderare la morte, la potenza
dell’immaginazione che consente di superare il dolore (vedremo con Leopardi il concetto di
infinito indefinito). Il termine romantico assume diverse connotazioni oltre a quella appena
elencata, si colora di diverse sfaccettature: il gusto per gli aspetti selvaggi della natura,
l’emozione che si prova di fronte a uno spettacolo particolarmente forte della natura.

In Francia Rousseau aveva contribuito all’affermazione di questa tendenza, poiché anche lui
aveva messo in evidenza la potenza della natura, tema che ricorre sia nell’arte che nella
letteratura romantica. Vi è ancora, all’interno della temperie del romanticismo, il gusto per
il cosiddetto “nordico”, in riferimento a una sequela di componimenti che si ispirano a
leggende medioevali, prediligendo i paesaggi nordici particolarmente tetri, cupi e
imponenti, quasi sepolcrale (lo vediamo in Foscolo con la poesia sepolcrale Il motivo
nordico si trova alla base della poesia sepolcrale per i suoi paesaggi notturni e rappresenta
il ritorno alla natura).

Il romanticismo, quindi, si appropria di tante caratteristiche, si parte dallo sturm und drang,
si passa per la predilezione per la genuinità del sentimento medievale, alla tendenza al
soggettivo, agli spettacoli della natura particolarmente travolgenti e i suoi aspetti più tetri e
nordici. In questo senso, possiamo citare il personaggio chiave del romanticismo Lord
Byron che unì a una vita avventurosa, sempre in viaggio, passioni particolarmente violente,
una sensualità spiccata e sogni libertari. Sia da un punto di vista amoroso, sensuale, storico
e politico, Lord Byron, un po’ come il Don Giovanni del barocco o come i cosiddetti esprits
forts del settecento, rappresenta la summa dei movimenti e degli aspetti del romanticismo.
Come avveniva negli stessi anni in Germania, la tematica romantica richiama ad alcune
forme di classicismo: il recupero della natura avviene attraverso il mito della bellezza
ideale, seppur si tratti di una natura particolarmente misteriosa e sfuggente. Il
romanticismo, quindi, recupera dall’antichità il culto delle forze intime e misteriose della
natura e i simboli più sfuggenti della realtà.

In Francia si percepisce una sensibilità ancora dominata dal rispetto del classicismo, infatti
non si forma un vero e proprio movimento romantico, tuttavia il poeta Andrea Chénier,
(noto anche perché il nostro compositore foggiano Umberto giordano ha composto un
dramma in suo onore e memoria) rivoluzionario ghigliottinato, riconosceva che i versi
antichi nascondevano il senso romantico della propensione ad accogliere l’aspetto
selvaggio della natura, la malinconia e la nostalgia.

Questo movimento non può essere relegato a una sola definizione, poiché comprende
tantissime sfaccettature, tra cui, come abbiamo detto, una particolare propensione per
l’immaginazione. Quest’ultima nell’illuminismo veniva considerata tra le facoltà nobili
dell'uomo ma tenuta a un livello inferiore rispetto alla ragione, che faceva da guida, mentre
la tendenza ad accentuare le forme artistiche prodotte dall’immaginazione apre la strada a
una fantasia più ampia che scardina la gerarchia dell’illuminismo. Altre caratteristiche

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importanti sono l’individuazione delle sensazioni complesse, la predilezione per gli stati
d’animo *indomiti* e l’ideale etico e sociale della felicità (inteso nel suo aspetto più
sentimentale, la ricerca della felicità).

La ricerca della natura nel romanticismo si propone come scoperta della campagna in
opposizione alla città, nel momento in cui l’attività industriale rilanciava il primato della vita
cittadina. Anche Pirandello aveva messo in evidenza il grande dilemma città-campagna: lì la
città è sinonimo di progresso che aliena e la natura rigenera, mentre nel romanticismo la
natura dà anche la possibilità di esternare il sentimento, l’immaginazione, la passione.

Ulteriore aspetto del periodo romantico è il ritorno alla religione tradizionale, che va visto
come riferito a forme mistiche e irrazionali, in cui prevale la fiducia nella provvidenza, il
senso dell’ignoto, andando contro quel principio illuministico che dava eccessivo rilievo alla
sola ragione. Quella romantica è una religione fondamentalmente laica, interpretata cioè
nel suo aspetto irrazionale, fondata sul senso dell’ignoto, la trascendenza e nella fiducia
nella provvidenza (temi intrecciati l’un l’altro).

I romantici aspirano a evadere dalla realtà, percepita come una prigione che li
spinge a cercare i valori assoluti: Dio, l’amore passionale, gli ideali sublimi della
patria e dell’umanità, e assumono atteggiamenti da eroi che lottano contro tutto e
tutti, pronti a violare ogni norma.

LEZIONE 15 - FOSCOLO Ⅰ

I grandi poeti italiani del ‘700 Parini e Alfieri avevano assistito agli eventi rivoluzionari in
Francia e alle ripercussioni della rivoluzione francese in Italia (Alfieri viene deluso dalle
istanze troppo democratiche della rivoluzione e aveva contestato la monarchia).
L'illuminismo, prima punto di riferimento culturale, entra in crisi. Tale crisi viene percepita
nella formazione di Foscolo, anche se si risente comunque dell’influenza di Parini e
soprattutto Alfieri nella sua produzione artistica. Rispetto ai letterati della generazione
precedente, Foscolo si distingue per una giovanile adesione alla rivoluzione e per la
partecipazione attiva alle vicende della guerra in quegli anni, assistendo alla crisi dei
modelli dell’illuminismo.

1. Foscolo torna a Venezia quando viene instaurato il governo democratico e partecipa


agli eventi della sua città con un componimento, “A Venezia”, un sonetto in cui
condanna il regime interno e la politica di dominio degli aristocratici, auspicando
una vendetta antitirannica. Le sue prime opere sono quindi di matrice politica, così
come “A Bonaparte liberatore”, che riprende le componenti della canzone della
tradizione settecentesca. Foscolo rappresenta l’orizzonte italiano su cui ritorna
l’aurora, proprio a mettere in evidenza lo spettacolo di un’Italia che si rialza. Vedeva
incarnato in Napoleone una figura in grado di dare grandi spinte, grandi slanci, ma

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dopo il trattato di Campoformio, in cui il Veneto venne ceduto all’Austria, prova una
profonda disillusione nei confronti dell’imperatore. Esperienze politiche e
rivoluzionarie fanno di Foscolo una personalità pienamente inserita nella Venezia
del tempo e la sua produzione letteraria trova esiti vincenti grazie al romanzo
autobiografico in forma epistolare “le ultime lettere di Jacopo Ortis”.
2. Così come Luisa Stolberg con Alfieri, ad Antonietta Fagnani Arese invia un numero
cospicuo di lettere appassionate e tenere, piene di sconsolate riflessioni sulle
aspirazioni della sua vita e sulle delusioni. Ecco perché è un romanzo dalla forma
epistolare di matrice autobiografica. Un altro avvenimento pesa sulla vita
dell’autore, ossia la morte di suo fratello Giovanni, suicidatosi nel 1801 e che lascia
una traccia indelebile nei suoi componimenti più importanti -questo senso di morte,
sepolcrale che affiora nella molteplicità della sua esperienza letteraria-. Il
personaggio di Jacopo, nelle cui vicende lo scrittore combina e sviluppa esperienze
reali della sua vita, ricorda nel nome il fortunatissimo romanzo epistolare
autobiografico del Rousseau, Julie ou la Nouvelle Héloïse, che esaltava l’amore e
l’amicizia. Nel cognome invece riprende quello di uno studente padovano morto
suicida. Nell’opera, Jacopo invia delle lettere, molto meditative e profonde, all’amico
Lorenzo indirizzate a Teresa; nel romanzo vi sono anche delle parti narrative che
fungono da racconto, in modo che questo epistolario possa essere ben costruito e
unificato. Il romanzo ha una precipitosa conclusione quando Jacopo si avvia con
alcuni esuli in Francia, decide poi di ritornare in Italia ma non ha più la possibilità di
rivedere la donna amata. Prende quindi la scia della vita di Foscolo, caratterizzata da
uno spirito attivo e partecipativo alla politica e l’amore per la donna Teresa
rispecchia il motivo autobiografico della donna amata dal poeta. VI si presenta un
duplice tema: quello della passione politica e quello della passione d’amore, che
sembrerebbero il punto debole del romanzo in vista di un alternarsi troppo netto
tra l’uno e l’altro versante, tuttavia rimane in realtà piuttosto una contrapposizione
piuttosto armonica, specchio di vicende reali. Foscolo sceglie di strutturare il
romanzo in forma epistolare per conferire un approccio lirico maggiore nei
momenti più drammatici nella vita, sia politica che amorosa. I personaggi -Teresa,
Odoardo e Lorenzo- sono figure che consentono a Jacopo di far emergere la sua
passione, il suo spirito ed entusiasmi, allo stesso tempo però lo fanno sprofondare
nell’osservazione della realtà e dell’animo nelle forme dell’abbattimento più
sconsolato. Jacopo è quindi una figura duplice, caratterizzato da grandi fervori e da
grandi depressioni. Il tema del suicidio ci riporta al modello alfieriano, ricalca ad
esempio le parole di Saul (la tragedia dell’individuo insieme a Mirra) che quando
vede avvicinarsi la morte, a cui tende come una meta deciso ad affrontarla, trova
l’ipotesi del suicidio come unica soluzione alla sua esperienza infelice di patriota e di
amante. In Jacopo, la contraddizione interna non può che portarlo all’esito alfieriano
del suicidio. La riflessione filosofica, contenuta in una delle lettere prima del
definitivo ritorno in patria, evidenzia lo spirito alfieriano nella vicenda di Jacopo
Ortis: la morte non è eroismo, ma è l’unico estremo ripiego all'impossibilità di vivere
un’esistenza felice o, quantomeno, non tormentata. Questa possibilità è

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rappresentata nei due motivi tipicamente romantici, la patria e l’amore che si
intrecciano; Jacopo ricopre il ruolo di sventurato patriota e sventurato amante che,
proprio perché vede irraggiungibili le sue aspirazioni rispetto a una realtà avversa, è
costretto ad andare incontro alla morte. Ortis rivela la maturità della riflessione
foscoliana sui miti della poesia: nella forma dell’immaginazione e della passione si
intrecciano altri motivi, come la meditazione, la contemplazione dei paesaggi (libro),
al fiducia nella poesia che può consolare e la dimensione del sogno.
3. * in cui le aspirazioni non si sviluppano più in forme epiche come nel 600 e nel don
Giovanni (i romanzi postumi come il fu Mattia Pascal vedono l’individuo al centro
delle vicende esistenziali). Questa è una grande novità narrativa rispetto alle gesta
dei grandi: la storia di Jacopo è la storia di un uomo, non è neanche la storia di un
Oreste alfieriano, con tutte le sue vicissitudini felici e infelici.
4. Rispetto alle Odi, bisogna fare un riferimento al neoclassicismo, inteso come
principio di verità ideale e di bellezza. Le due odi sono strettamente collegate, sia
perché Foscolo le pubblica insieme, sia perché nella forma definitiva ci sono dei
ripensamenti connessi l’una con l’altra. La prima viene composta da Foscolo in
riferimento a questa sua amica rimasta sfigurata, allora 28enne; questa ode
asseconda il gusto della poesia mondana galante, mentre nella seconda è presente
l’eco della donna amata dal poeta Antonietta Fagnani Arese che si era ristabilita
dopo una lunga malattia. Foscolo rappresenta l’ideale della bellezza della donna, che
può anche eclissarsi ma torna a risplendere più bella di prima. Nella seconda ode, il
poeta la identifica con Venere, con la stella che sorge alla luce dell’alba, simbolo
stesso della bellezza. Vi è questa ammirazione per la donna che diviene simbolo
della bellezza universale, si trasforma quasi in divinità e diviene per il poeta una
musa ispiratrice. All'amica risanata mette in evidenza il tema della bellezza e l'ode si
conclude con il ricordo mitico della nascita di Venere, che secondo la tradizione
nacque dalle acque, acque che Foscolo individua anche nel sonetto A Zacinto , l’isola
in cui nascque, simbolo di bellezza e di fertilità. Il componimento verte sulla nascita
di Venere e si lega alla chiusura dell’ode All’amica risanata: in entrambi c’è il tema
della bellezza che non si arrende alla malattia o agli infortuni ma che anzi risplende
più di prima.
5. I sonetti pongono in luce diversi momenti della vita. Soprattutto in A Zacinto è
importante ricordare la connessione con Dante che, come Foscolo, fu esiliato e si
rende conto che la sua prima patria non potrà mai più essere toccata. Anche qui il
tema politico si fonde con quello intimistico poiché, nel sonetto successivo, Foscolo,
sullo sfondo del suicidio del fratello, si augura la morte e rammenta la lontananza
dalla patria. I sonetti hanno una loro concatenazione interna: il rimpianto per la
patria perduta, l’angoscia di non poter trovare requie da nessuna parte (mito di
Dante) e il paragone con il vagabondare di Ulisse, che a differenza di Foscolo però
riuscì a tornare a Itaca. IL PRESENTE SI MESCOLA AL PASSATO, COME E’ TIPICO
DELLA POESIA ROMANTICA ISTITUIRE DEI TERMINI DI CONTRASTO, costantemente
presenti nella poetica di Foscolo, PER SOTTOLINEARE IL DUPLICE PATHOS DI
NATURA PATRIOTTICA E DI NATURA SENTIMENTALE. Vale la pena ricordare a questo

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proposito il sonetto Alla sera che riflette sul grande tema dell’immaginazione, che
rasserena il poeta tormentato. Questa volta non va né nella dimensione del mito (A
Zacinto) né nella speranza di godere dell'affetto dei propri cari (IMDFG), ma c’è una
sorta di rassenerazione nell’oscurità serale che gli consente di superare il dolore e
guardarne il valore positivo, ossia la poesia stessa quale fonte di salvezza.

LEZIONE 16 - FOSCOLO ⅠⅠ
Il carme Dei sepolcri rimanda alla riflessione sul destino umano e si colloca come
affinamento artistico della poetica di Foscolo. LIBRO PRIMA PARTE La maggiore maturità
dell’opera è dovuta all’impegnarsi, da parte dell’autore, nella traduzione dell’Iliade e
dell’opera di Laurence Sterne “Viaggio sentimentale”, in cui Foscolo, celandosi sotto il nome
di un chierico, si conforma al modello del viaggio sentimentale, riflettendo sui propri stili di
vita. L’influenza di Sterne è forte, Foscolo inizia ad attenuare quella tendenza molto cupa
tragica presente nella sua meditazione autobiografica. Sterne lascia le sue tracce durante il
suo soggiorno a Milano e nel racconto di un Viaggio in Francia e Italia (ecco perché viaggio
sentimentale), interrotto dalla sua morte, aveva creato la figura del viaggiatore
sentimentale, un osservatore pacato e ironico delle esperienze più varie della vita e di
quelle bizzarre nelle quali era stato personalmente coinvolto. Foscolo, che pubblica il
Viaggio sentimentale sotto il nome di Didimo Chierico, che rappresenta un ideale di vita e
poesia improntato alla saggezza, onestà, sorriso, capace di avere passione delle colpe e dei
dolori degli uomini. Didimo Stesso esprime la concezione etica di Foscolo, “Era opinione del
reverendo Lorenzo Sterne che un sorriso possa aggiungere un filo alla trama
brevissima della vita; ma pare che egli inoltre sapesse che ogni lagrima insegna a' mortali
una verità” (è un personaggio sveviano ante litteram). Il contrasto interiore, visto nell’Ortis
nelle tinte accese del patriota e amante sventurato, adesso è diventato più pacato e
rasserenato. C’è sì la considerazione del dolore, ma c’è anche il superamento dello stesso
nell’ironia, nelle passioni, nella prospettiva dell’illusione che porta a una maggiore
socievolezza e predisposizione dei confronti degli altri. Il viaggio sentimentale di Sterne
viene quindi pubblicato sotto la forma di chierico, in cui Didimo, personaggio
autobiografico creato ad hoc, rappresenta l’ideale di questa nuova vita, più serena e saggia.

Il carme dei sepolcri si pone sulla caratteristica letteraria tipicamente romantica del
mortuario, cimiteriale ed è a tal proposito che Pindemonte scrisse un poema sui cimiteri,
sulla falsariga di questa poesia dal gusto sepolcrale nordico che attinge dalla realtà. LIBRO
parte editto napoleonico. Si fa riferimento all’editto di Saint Cloud del 1806 in cui si proibiva
di seppellire nei centri abitati e venivano dettate dalle norme per le epigrafi delle tombe.

1) La corrispondenza d’amorosi sensi

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L’interesse per il tema sepolcrale nasce anche dalla necessità da parte di Foscolo di
ripensare all’inutilità del sepolcro e al totale annullamento che crea la morte. L’autore tiene
a mettere in luce ciò che definisce la “corrispondenza di amorosi sensi”, l’utilità del sepolcro
nel rapporto tra chi c’è e chi non c’è più. Nel carme c’è l’affermazione della tomba come
tangibile segno della presenza dei morti nel ricordo dei vivi, principio fondamentale che
caratterizza tutto il poema. Il corpo dell’uomo è soggetto alle leggi della perpetua
trasformazione della materia, ma possiede in sé una tendenza all’eternità (non
trascendentale) che non può essere soddisfatta sul piano razionale scientifico. Tale
tendenza può essere appagata sul piano del sentimento, che permette alla vita dell’uomo
di continuare anche sottoterra “nella mente de’ suoi” . Foscolo contrappone alla scienza
naturale le ragioni del sentimento, valide nell’ambito umano. In questo senso, è possibile
creare una continuità tra vita e morte: la morte non può distruggere l’affetto, la gratitudine,
l’amore, valori che sopravvivono al decadimento del corpo.

2) Il tema dell’eroismo
Nei sepolcri, Foscolo definisce la tomba come “l’urne de’ forti”, coloro che hanno servito la
patria. A Firenze, la Chiesa di Santa Croce custodisce le ceneri dei grandi personaggi come
Machiavelli, Galilei, Alfieri, Dante, Petrarca, … C’è questo filone eroico, del culto della patria,
che si consacra alle presenze di questi grandi uomini del passato. La loro presenza diventa
perenne, “una testimonianza di vita perenne”. Nella parte centrale dei sepolcri vi è un inno
a Firenze, intesa come fulcro della civiltà italiana in quanto madre della lingua, della poesia,
dal clima temperato e dal paesaggio meraviglioso, culla dell’arte. L’inno a Firenze ha un
valore storico e simbolico poiché arricchisce il poema della dimensione patriottica:
nonostante le delusioni politiche, la nazione viene intesa come accumulo di storia, che fa
da contrappeso alla disillusione politica vissuta.

3) La funzione civile, politica e storica


Foscolo aveva maturato un particolare senso della storia, principalmente sul sorgere delle
istituzioni con le quali la vita dell’uomo acquisisce solidità e consistenza. L’autore si
richiama alla teoria di Giambattista Vico, che attribuisce l’origine dei sepolcri all’epoca in cui
“nozze e tribunali ed are”, le istituzioni, avevano reso più miti i costumi degli uomini e
avevano sottratto alla distruzione il corpo dei morti.

4) La funzione eternatrice della poesia


Anche Foscolo attribuisce grande sapienza poetica alla fantasia e ai primi grandi cantori
dell’umanità, Omero e Dante soprattutto, capaci di serbare il ricordo delle vicende
dell’umanità facendosi cantori sia della patria, sia della poesia (la distruzione di Troia ed
Ettore come difensore della patria, Dante e le difese della storia di Firenze). Per Foscolo,
Omero e Dante sono i fondatori di un processo di recupero della storia, intesa non come

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astratta ma in quanto fonte di insegnamento per i contemporanei. VEDI LIBRO Come
Alfieri, Foscolo è convinto che la funzione del letterato sia quella di creare valori umani: una
funzione civile, pedagogica, moraleggiante, esattamente come Dante, Alfieri, Parini e
Omero, insigni esponenti tanto della classicità quanto della modernità, posti come cantori
civili, scrittori in grado di divulgare un messaggio di grande portata etica. Per questo
motivo, è presente un carattere epico, come quando si parla di Aiace, eroe greco
ingiustamente defraudato delle sue armi da Achille, al quale la morte rese giustizia, o
ancora l'evocazione dell’antichissima battaglia delle Termopili, in cui morirono diversi
combattenti che salvarono però la Grecia.

In questo carme vi è una compresenza di temi, quello civile, patriottico, amoroso,... al suo
interno vi è anche l’esortazione degli italiani, “Italiani, io vi esorto alle storie” fondata sulla
convinzione che la storia può assicurare eternità al presente, la parola, intesa come
strumento di dialogo e collegamento tra i vivi e i morti, è la più alta facoltà dell’uomo, e la
poesia è il completamento della scienza. La polemica contro la cultura contemporanea, che
ha fatto decadere la bellezza della parola, fa nascere in Foscolo il desiderio di rilanciare la
parola come strumento di dialogo, di edificazione morale e civile e di poesia. Pirandello dirà
che la poesia è morta, l’arte è morta, per costruire uno stadio cinematografico. Persino
Foscolo si era reso conto che la parola (poesia, intelletto) era stata saturata nel suo
significato più profondo e occorreva rilanciarla come fondamento civile di dialogo della
società umana.

Le grazie
Se i sepolcri vanno nella direzione romantica, Le grazie seguono un modello neoclassicista.
Si articolano su tre inni, dedicati rispettivamente a Venere, Vesta e Pallade, simboli
mitologici della bellezza, del focolare domestico (le vestali) e delle arti. Nonostante
l’impostazione lirica poetica, il procedimento va a disegna una storia mitica dell’umanità: si
inizia con la nascita di Venere che porta la bellezza della natura, la gioia negli uomini e
dopo aver compiuto la sua missione torna in cielo, mentre le Grazie restano a confortare e
a dirigere la vita umana. L’inno a Vesta fa emergere la caratteristica foscoliana di puntare
sugli aspetti scenografici del rito, portando alla luce alcuni momenti storici. Ad esempio,
Vesta è il simbolo della purezza, della conservazione dei valori e Foscolo inserisce
nell’apparato mitico delle donne a lui care realmente vissute, come la fiorentina Eleonora
Nencini, suonatrice di arpa, la bolognese Cornelia Martinetti, che reca un favo e
rappresenta la poesia, e la milanese Maddalena Bignami, che porta un cigno e rappresenta
la danza. Immagini di grande bellezza, sia dal punto di vista mitologico che visivo. Il favo,
identificato con la poesia, l’arpa con la musica e il cigno con la danza, inseriti in un mondo
insidiato dalla violenza, è come se non possedessero momentaneamente più la loro
bellezza: le Grazie sono portatrici di grandi valori, come l’amore coniugale (terzo inno a
Pallade), l’armonia, la gentilezza, la compassione, l’amore materno, declinati in una chiave
di bellezza neoclassica, eterea e astratta. Sembra un’opera allegorica piuttosto distante

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dalla realtà, ma in realtà le Grazie si pongono come recupero della funzione educativa e
illuminante del mito: la storia contenuta nel poema è indicativa della decadenza dell’arte e
della necessità di attuare nel mondo l'armonia per mezzo di quelle arti che rendono
l'animo degli uomini più nobile, predisponendoli alla civiltà.

Pirandello tratta un tema già trattato da Foscolo, ma nell’autore romantico vi è ancora una
possibilità di incivilimento, mentre in Pirandello c’è un processo di decadimento dell’arte (di
cui abbiamo parlato nei giganti della montagna) e l’incivilimento non è più possibile.

LEZIONE 17 - LEOPARDI Ⅰ
Il romanticismo dà un’ottimistica visione della possibilità di un rinnovamento dell’assetto
nazionale. Il problema nazionale in Manzoni aveva rappresentato il punto di partenza della
sua narrativa e della sua riflessione, si pensi al tentativo di Murat di costituire un regno in
Italia pur non essendo un napoleonico. Al di là di questo aspetto, buona parte della
produzione è declinata in rapporto all’azione patriottica, cosa che accade anche in Foscolo.

Tra il 1815 e il 1816, Leopardi, appena diciassettenne, si affaccia alla ribalta della cultura
nazionale e diviene il più grande poeta lirico dell’età romantica. Già dai primi albori mostra i
segni di una profonda diversità dalla generazione del movimento romantico, anche dal
punto di vista della sua formazione intellettuale e del suo atteggiamento rispetto alla
tradizione classica e alle recenti istanze dell’illuminismo. —> LIBRO

1. esordisce prendendo le distanze dall’esperienza napoleonica della rivoluzione


francese -motivo importante visto in Alfieri, deluso dalla rivoluzione e dagli intenti
democratici di ripristinare un senso di libertà rispetto alla monarchia, (considera i
monarchi dei plebei). Una profonda intellettuale porterà Leopardi a recuperare
alcune istanze dell’illuminismo da un punto di vista filosofico e a far sì che dalla crisi
illuministica egli possa trovare una nuova esperienza poetica. Dalle ceneri
dell’illuminismo, spazzate via dal romanticismo insieme all’uso radicale della ragione
(così come il ‘700 spazza via il Barocco), Leopardi recupera gli aspetti filosofici
dell’illuminismo, usandoli come punto di partenza e fondendoli con il suo genio, con
la sua poetica del tutto originale.
2. Già dalla prima adolescenza si può trovare in lui un ampio raggio di
sperimentazione: scrive in latino, volgare, argomenti di natura classica, fa delle
traduzioni di Orazio -conosce benissimo l’antichità-, e addirittura un’opera intitolata
“Batracomiomachia”, attribuita forse a Omero. In Italia si era posto il problema delle
traduzioni, se si dovesse continuare a tradurre dalle lingue classiche e tenere conto
dei principali scrittori italiani o se ci si dovesse rivolgere principalmente agli scrittori
stranieri (ad esempio tradurre dal francese al’italiano). Rispetto a questa querelle
sulle traduzioni, Leopardi è contro le traduzioni degli scrittori stranieri, sostenendo
che l’originalità può sorgere anche dalla traduzioni dei classici. La poesia nasce dalla

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scintilla divina (illuminazione) e dall’osservazione personale che lo scrittore ha della
natura (quest’ultima caratteristica aveva reso grandi gli antichi). La poesia può
sorgere dall’imitazioni dei classici in particolare, che non deve essere pedante ma,
anzi, deve essere accresciuta dallo spirito creativo del poeta.
3. Matura in Leopardi la critica a certe forme troppo erudite -nonostante avesse
seguito un’adolescenza caratterizzata da studi piuttosto eruditi- e si assiste a un
recupero delle esigenze più profonde del romanticismo, attraverso un nuovo modo
di guardare ai modelli antichi e renderli originali. A tal proposito, scrive l’opera
“Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica”, in cui è contenuta la sua
riflessione più profonda sulla poesia: difende la tradizione letteraria italiana -la
tradizione più agreste della poesia- e rifiuta la poesia troppo trasformatrice della
società moderna. Leopardi scelse di cantare la modernità attraverso la natura e
non la civiltà urbana. Il discorso cerca di promuovere una poesia popolare
(naturale), pur essendo consapevole che alcuni contenuti possano risultare
incomprensibili al volgo. L’autore cerca di evitare tutti gli eccessi, le stravaganze
e l’esotico nella poesia e fa leva sulla naturale sensibilità umana. Nei suoi
componimenti cerca di scuotere gli animi meno sensibili dall’indolenza, dal torpore.
La sua è una poesia completamente nuova, particolare importanza è data
all’immaginazione, al sentimento della natura rispetto alla civiltà urbana e alla
semplicità espressiva. I COMPONIMENTI DI LEOPARDI SONO ESPRESSIVI PERCHÉ
LINEARI, SEMPLICI E DALLA POESIA SCATURISCE IL BELLO. Leopardi ritiene che negli
antichi, la poesia nasca grazie al contatto con la natura, pensiamo a Omero e ai forti
sentimenti degli eroi, immersi completamente del mondo naturale. (?)

Per coloro che non sono stati toccati dalla civiltà urbana, i campagnoli o i fanciulli, è
ancora possibile l’immaginazione in quanto conservano una sensibilità più raffinata,
dolce, sublime, e la poesia in grado di perdersi nell’immaginazione, toccando il
cuore dei sensibili. LIBRO

La opere politiche
Leopardi si interessò molto anche alla politica, il suo orientamento va in direzione
antifrancese e scrive nel 1815 l'orazione Agli italiani in occasione della liberazione del Piceno,
in cui critica l’imperialismo napoleonico e sente forte, come Alfieri, il sentimento patriottico.
Mentre Alfieri nelle sue opere compone una lotta antirannica, Leopardi, sia nell’orazione
che in altre canzoni dal contenuto civile-politico, “All’Italia” e “Sopra il monumento di
Dante”, afferma il motivo politico attraverso l’enfasi data all’antichità, un mondo di virtù e
poesia. Nelle due canzoni civili, Leopardi si rende conto che il presente politico è deludente,
vi è in atto una tirannide napoleonica con una conseguente caduta delle illusioni di cui si
nutrivano gli antichi. Sono opere attraversate da un grande pessimismo e la meditazione
politica, non diversa da quella dell’Alfieri o del Foscolo, è alla base del periodo definito “crisi
del 1819”, anno importante nella formazione di Leopardi. Durante l’anno, l’autore
approfondisce la lettura degli illuministi, privilegiando Rousseau, e riflette sulla condizione

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primitiva dell’uomo (l’essere tutt’uno con la natura) e quella di infelicità quando è a contatto
con la civiltà. La riflessione si concentra soprattutto su “il piacere che guida gli appetiti
dell’uomo civile”, che procura una certa assuefazione, una tendenza all’infelicità cronica che
lo rende talmente infelice da annullare la sua esistenza.

L’immaginazione e il recupero degli antichi


La condizione dell’infelicità umana, della “noia”, e la tematica del piacere caratterizzano la
crisi del ‘19 e, soprattutto, gli consentono di riflettere ulteriormente sull’ottimismo
illuministico, verso il quale non ha fiducia, e sullo spirito cristiano, che aveva animato
Manzoni ma considerato da Leopardi una mistificazione del vero.

Tutti questi aspetti causeranno in Leopardi una malattia agli occhi e una serie di altri
problemi fisici dovuti al suo essere gracile; le sue malattie diventano motivo di ispirazione
nel comporre una riflessione sull’infelicità umana, in cui la realtà e la ragione non possono
aiutarlo in nessun modo. Anche la ragione, pur quando intende superare i limiti della
malattia e dell’infelicità, è sempre fallace, perché promette una possibile felicità che però
non viene soddisfatta. Ecco perché ogni opera di Leopardi è caratterizzata dal piacere
dell’immaginazione, che rappresenta il modo in cui si può contrastare l’esperienza infelice
della realtà per andare in un mondo altro (parallelo con vita e forma di Pirandello, che
aveva visto nella natura una possibile consolazione dalla disperazione umana- immagine
del canarino e del tram ne Il fu Mattia Pascal). Leopardi ha un occhio riguardo al passato,
soprattutto all’azione eroica e alla poesia: tanto l’eroismo quanto la letteratura erano forme
di grande immaginazione. In questo senso si colloca l’opera “Ad Angelo Mai”, una canzone
su uno studioso che aveva scoperto il De Re publica di Cicerone andato perduto, un erudito
con gli occhi rivolti al classico, in cui si esalta la sua azione eroica che, ritrovando questi libri
perduti, aveva svelato un passato importante, ricco di immaginazione. A questo proposito,
cita autori antichi come Dante, Petrarca, Ariosto e soprattutto Tasso, che non sono esempi
di vita felice (Dante e l’esilio, Tasso e la malattia mentale, Petrarca e la condizione perenne
di inquietudine); l’infelicità degli autori è tuttavia sempre compensata dalla poesia e
dall’immaginazione, dalla fuga della realtà.

LEZIONE 18 - LEOPARDI ⅠⅠ
Il recupero dei valori antichi e la fuga nell’immaginazione come riscatto dal presente è
quindi una caratteristica importante nella poetica leopardiana. In altre due opere
importanti, “Nelle nozze della sorella Paolina” e “A un vincitore nel pallone” del 1821,
esorta a compiere nobili imprese. Nel primo, il ricordo della funzione educativa della donna
nell’antica grecia è rappresentato da Virginia, figlia del plebeo Lucio Virginio, uccisa dal
padre per essere salvata dalle voglie di Appio Claudio e citata come esempio di virtù che

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vive nell'eternità perché preferì la morte alla perdita della propria dignità. È un canto
patriottico rivolto alle donne, “Donne, da voi non poco la patria aspetta”, in cui il poeta si
concentra sull'educazione da impartire alle future generazioni.

Il secondo si concentra sull'esortazione della patria attraverso il tema dello sportivo, che
diventa simbolo di un eroismo che il poeta non vede più negli uomini del suo tempo; la
competizione sportiva è innalzata al rango di battaglia, infatti nella seconda strofa Leopardi
richiama la battaglia di Maratona, e l'atleta diventa il guerriero. Leopardi prefigura inoltre la
scomparsa della civiltà italiana e un paese in balìa dell'abbandono, e il vincitore nel pallone
rappresenta il rischio della morte come unico modo per sopportare la vita. Il motivo del
suicidio sul piano della riflessione esistenziale occupa non poco spazio nella poetica
leopardiana: i personaggi, sempre tratti dall’antichità, Bruto e Saffo sono i protagonisti di
due canti che giustificano il suicidio come unica soluzione di fronte all’impossibilità di una
vita soddisfacente, nella quale virtù e sentimento si rivelano vani. Le due opere, Bruto
Minore e L’ultimo canto di Saffo LEGGI SUL LIBRO

Nella sua condizione attuale, l’uomo è costretto alla solitudine in un mondo estraneo e che
non può essere in alcun modo confortato. Ecco perché Leopardi rievoca i personaggi
dell’antichità, soprattutto quelli di Omero che ha saputo cantare i miti attraverso la potenza
dell’immaginazione. Leopardi assume un atteggiamento simile nel canto Alla primavera, nel
quale le ninfee, Diana, lo sventurato caso di Eco e dell’usignolo e le favole rendono bella
l’età dei miti. Leopardi fotografa quelle favole che al suo tempo non sono possibili: esprime
la sua convinzione che, mentre si rinnova ogni anno la primavera nella natura (periodo di
fanciullezza nel mondo), non è possibile per il genere umano ritrovare quell'epoca -
l'antichità, primavera della storia - in cui godeva di un'immaginazione fervida e poteva così
cogliere presenze misteriose e divine in ogni aspetto naturale. Lo sviluppo della civiltà ha
portato la conoscenza del vero e la perdita di quella facoltà immaginativa. La poesia si
chiude con una supplica alla natura perché ascolti l'infelicità degli uomini, ma la domanda
retorica “Vivi tu, vivi, o santa Natura?” e la frase "se tu pur vivi" rivela come ormai Leopardi
non nutra più alcuna illusione.

In tale direzione possiamo citare l’opera “Inno ai patriarchi”, ambientata all’epoca dei
patriarchi biblici, nei quali è messo in evidenza il loro modo bucolico, agreste, quando non
c’era la civiltà portatrice di violenza e avidità. L’infelicità, spesso attribuita al fato,
all’indifferenza e alla natura “matrigna”, non benevola, turba la serena semplicità della
vita primitiva. Ambientare l’opera in un'epoca lontana come la bibbia ci fa comprendere la
lontananza dei tempi: la sola condizione felice è quella della società pastorale di Abramo,
situata alle origini stesse della storia umana. L’ideale della felicità non risiede più nell’antico
(nelle società greca e romana, che preserva le virtù e le illusioni benefiche), ma nel
primitivo, cioè in una società il più possibile arcaica, prossima alla condizione di natura. In
termini cronologici, lo spazio disponibile per la felicità sembra quindi essersi ridotto al
minimo: l’età dei patriarchi comincia appena, che già una serie di colpe e di errori
compromette la beatitudine originaria. Il poeta insiste sul fatto che questa caduta consiste
in una separazione dallo stato naturale e questo testo, in effetti, arriva nel pieno della

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stagione del “pessimismo storico”, nella quale Leopardi considera la negatività del presente
come il prodotto di una degenerazione dell’umanità, passata da una condizione antica
relativamente felice e naturale a una moderna infelice perché innaturale.

L’infinito e gli idilli


A partire da queste riflessioni sulla natura, Leopardi compone “L’infinito”, LEGGI PARTE
DELLA SIEPE SUL LIBRO Il poeta ci insegna a immaginare il sogno oltre la siepe, poetica del
vago—> vago è qualcosa che possiamo solo immaginare, sentimento bello. Assieme a
quello della poetica del vago, della memoria, assume una grande importanza l'infinito e
l'immaginario, ossia l’espressione stessa della poesia che, nell'infinito l’anima non ha
confini, né di tempo né di spazio, si perde. Il componimento L’infinito indica il desiderio di
mancanza di spazio e di tempo, di un luogo in cui può lavorare solo l’immaginazione, dove
non c’è più il reale e l’anima può immaginare ciò che non vede. Si pensi al sogno oltre la
siepe, funzionale per immaginare uno spazio più ampio, non raggiungibile se la vista non
fosse bloccata. Leopardi si dimostra particolarmente sensibile, confessa di avere sempre
tratto piacere dalle viste in parte limitate, che sollecitano l’immaginazione e la riflessione e
gli permettono di far vagare la mente (di perdersi) nell’immensità, in una dimensione priva
di spazio e tempo.

Alla luna, La sera del dì di festa, Il sogno e La vita solitaria

Un componimento che si accosta molto alla poetica del vago, dell’infinito e


dell’immaginazione è l’idillio “Alla luna”, in cui il chiarore dell’astro serve a mostrare al
poeta che l’infelicità dell’uomo è sempre forte e il conforto della luna è l’unica cosa che
possa consolare un’esperienza dolorosa. In tal senso, Leopardi approfondisce il tema della
solitudine, della mancanza degli affetti, della giovinezza consumata, la condizione di una
vita senza senso e infelice anche ne “La sera del dì di festa”, “Il sogno” e “La vita
solitaria”. Dice “dolce e chiara è la notte senza vento” e “nella mia cieca stanza il primo
albore” ,”la mattutina pioggia esulta nella chiusa stanza”, tutte immagini naturali
contrapposte al senso di chiuso, all’infelicità, al buio della notte. Queste riflessioni sono
sempre di doppia natura: da una parte rappresentano scene di vita pastorale, campagnola,
paesaggi benigni, dall’altra questi paesaggi sono calati in un’atmosfera sempre più
pervasiva di infelicità da parte dell’uomo.

Le operette morali
Il destino dell’uomo e la sua infelicità sono il tema delle “Operette morali”, definite come
uno sforzo sistematico di organizzare da un punto di vista teorico la condizione di vita
dell’uomo e della sua felicità, attraverso la forma della favola, dell’allegoria e del dialogo. Le
operette riprendono la saggistica del ‘700 come genere letterario, ma si conformano a un

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livello più antico di scrittura: alla base della composizione delle operette confluisce lo
studio di Platone, di ISOCRATE, Luciano (dissacratore dell’antichità) e Plutarco (come in
Alfieri), autori antichi che rappresentano un modello per Leopardi. A partire da questi
modelli sviluppa la sua riflessione, legandosi al concetto di “pessimismo cosmico”. Tornato
a Recanati dopo un soggiorno a Roma dagli zii, Leopardi definisce l’esperienza romana
come la più mortificante della sua vita, in quanto ha apportato un influsso negativo sul suo
carattere. Lo infastidisce la necessità di avere rapporti sociali con gli uomini e Roma è una
città piena di stimoli rispetto a Recanati: per un solitario timido come lui, l’esperienza lo
priva ancor di più dello spirito vitale tipico di un uomo della sua età. In “Discorso sullo stato
presente dei costumi italiani”, Leopardi riflette sulla società italiana che gli appariva
peggiore di quelle europee; in questo discorso sottolinea il venir meno delle illusioni di
gloria, di onore e come il carattere degli uomini sia dominato dalle cieche ambizioni,
dall’egoismo. A fronte del progresso della società civile, non si sono sviluppati legami di
fratellanza.

La storia del genere umano

Le operette morali sono molto importanti per comprendere il motivo delle illusioni e
dell’infelicità. LIBRO La fanciullezza e l'adolescenza scorrevano pieni di speranze, gli
uomini vivono compiacendosi insaziabilmente… e reputando il cielo e la terra bellissimi…
infiniti, fino a quando, giunti all’età ferma, incominciarono a essere insoddisfatti. Leopardi
ci fa prendere coscienza dell’incontentabilità e insaziabilità del genere umano; gli
uomini avvertono che speranze e diletti «non pareva loro di potere». Non provano più quella
vivacità iniziale, l’uomo si rende conto che la terra ha limiti certi e cresce il malcontento
ancor prima di passare dalla gioventù all’età ferma, quando già “fastidiosi” avevano
incominciato a mostrare insofferenza.
Allora gli dei, vedendo che lo stato di insofferenza e disperazione stava spingendo alcuni al
suicidio e meravigliandosi che gli uomini non tenessero in considerazione i doni dati loro,
sono spinti dalla pietà e Giove cerca di riportare loro la gioia. Leopardi continua
affermando che gli uomini si lamentassero che non ci fosse più grandezza, perfezione e
varietà e che pregavano di ritornare a quella fanciullezza iniziale priva di fastidio e
infelicità. Tale richiesta, però, non può essere soddisfatta perché contraria sia alle leggi
universali della natura sia ai decreti divini. L’introduzione di mali veri -malattie, fatiche e
patimenti- danno uno slancio alla vita umana e distraggono per un attimo dal malessere
interno. Giove, svegliato dal comportamento infelice degli uomini, li punisce inviando la
Verità -personificazione- e li priva di ogni illusione e speranza. Unico conforto è l’amore,
quello divino, che scende raramente dal cielo (anche se ci fosse questa consolazione,
sarebbe rara). Quando alberga nel cuore di qualche fortunato, sia pure per un brevissimo
arco di tempo, oltre che rarissimo si dimostra persino fallace. Ne deriva che la felicità è
sempre precaria, i valori morali e intellettuali che dovrebbero animare l’uomo non ci sono
più e la Verità è una condanna perché porta all’amarezza e all’avvilimento. L’amore è

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un'illusione possibile, un’immagine ingannevole: conforta l’uomo raramente e finisce per
svelare sempre il suo lato amaro.

Si insiste sul destino tragico dell’uomo e sull’incomunicabilità tra l’infinità divina e le


creature mortali. Giove cerca di riportare la gioia di vivere aumentando i confini del
creato, ingrandisce la terra, introduce il mare, interrompe il cammino umano,
rappresentando agli occhi – qui si coglie la concezione poetica leopardiana della
percezione della natura tramite i sensi – la similitudine dell’immensità.

Anche “Dialogo di Ercole e Atlante” scherza sulla leggerezza del globo terrestre, che non
costituisce più un peso per Atlante e può con un calcio disfarsene. Altra opera molto
particolare è “Dialogo della moda e della morte”, in cui moda è sinonimo di caducità, è
vista come anticipatrice di morte. LIBRO

In merito alla questione del progresso affrontata da Pirandello, l’opera “Proposta di premi
fatta dall'Accademia dei Sillografi” prende in giro la vanità del progresso, scherzando
sulla denominazione dell’età attuale, “l’età delle macchine” e immaginando un concorso per
la migliore invenzione di macchine automatiche capaci di sostituire l’uomo (motivo che
abbiamo visto in Pirandello con Serafino Gubbio operatore in particolare, tematiche già
anticipate da Leopardi).

La vanità degli uomini è al centro di altre operette, come Dialogo di un folletto e di uno
gnomo, che discute sulla pretesa che l’uomo sia il vero padrone della terra, o ancora
Dialogo della terra e della luna in cui, mentre viene mostrata la meccanicità del
movimento dei pianeti, si fa vedere di contro come sia del tutto irrilevante la presenza
dell’uomo sulla terra. Un’altra opera, La scommessa di Prometeo, smantella la perfezione
dell’unicità del genere umano. Prometeo è un personaggio dell’antichità punito per aver
portato il fuoco tra i mortali, fuoco come simbolo di progresso. Egli deve riconoscere che
non c’è nulla di più imperfetto dell’umanità, in quanto il progresso non riesce ad eliminare
l’infelicità e non viene premiato il suo tentativo di averlo portato tra gli uomini.

Tasso ha molto influito sulla poetica leopardiana ed è reso evidente nell’opera Dialogo di
Torquato Tasso e del suo genio familiare. Qui, lo sfortunato poeta, semi infermo
mentalmente e in prigione, riconosce di non poter definire cosa sia il piacere per non aver
mai avuto esperienza reale. Il piacere, infatti, o è sempre passato o è futuro, mai presente,
poiché il presente è caratterizzato dalla noia che occupa gran parte della vita. La vita stessa
oscilla tra il desiderio inappagato di felicità e il dolore, in mezzo ai quali non vi sono piaceri
e si colloca la noia.

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La noia è un tema fondamentale in Leopardi, è il male dal quale l’uomo sfugge cercando
degli antidoti, ad esempio il pericolo. Lo vediamo nel Dialogo di Cristoforo Colombo e
Pietro Gutierrez, in cui la noia i giorni e gli anni scorrono uguali mentre l’uomo si illude che
ci saranno anni migliori. A proposito della fine dell’anno, è interessante leggere anche
Dialogo di un venditore d’almanacchi e un passeggere, nel quale il venditore di almanacchi
propone delle fiducie rispetto al nuovo anno che di lì a qualche giorno arriverà e il
passeggere gli domanda, in modo abbastanza opposto rispetto alla poetica leopardiana “E
pure la vita è una cosa bella. Non è vero?” a cui il venditore risponde “Cotesto si sa”. Si
mette in evidenza la propensione verso l’anno che termina ad avere una visione ottimistica.
(?????)

LEZIONE 19 - LEOPARDI ⅠⅠⅠ


Dialogo della natura e di un islandese
Il rapporto tra infelicità dell’uomo e natura costituisce l’essenza del "Dialogo della natura
e di un islandese” LIBRO la vita dell’universo è un eterno circuito di produzione e
distruzione e paradossalmente nulla vale rimproverare la natura matrigna né chiedersi il
perché di questa infelicissima vita nell’universo.

Il cantico del gallo silvestre


L’essere delle cose, come detto nel “Cantico del gallo silvestre”, ha l’obiettivo di morire, gli
uomini conducono le loro giornate e la vita per concluderle nel sonno e nella morte.
L’universo, nel suo complesso, si conserva intatto e indifferente ai suoi simboli, l’autore
prende spunto dalla nuova dimensione dell’universo, scaturita dalla teoria copernicana
(Pirandello lo sa bene) che rivela la nullità del genere umano. L’esperienza copernicana è
presente anche in Svevo e la caratteristica comune tra questi autori distanti tra loro nel
tempo sta proprio nell’aver individuato in Copernico la nullità del genere umano.

Dialogo di Timandro ed Eleandro


Il carattere pessimistico che emerge nelle Operette morali fu consapevolmente
riconosciuto dallo stesso Leopardi che, nel “Dialogo di Timandro ed Eleandro”, identifica
con Eleandro il commiseratore dell’uomo e dichiara di non poter tollerare “né la
simulazione, né la dissimulazione”. Leopardi si trova in una posizione estremamente
scomoda, dichiara di essersi assunto il compito di smascherare gli uomini che tendono a
ingannarsi l’un l’altro e a nascondere a sé stessi l’infelicità. Il riso e il pianto sui mali
dell’umanità servono a evitare la noia e trovare conforto. L’autore scrive «Queste

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considerazioni io vorrei che facessero arrossire quei poveri filosofastri che si consolano
dello smisurato accrescimento della ragione, e pensano che la felicità umana sia riposta
nella cognizione del vero, quando non c’è altro vero che il nulla […]» e afferma il valore
positivo dell’immaginazione che dà pregio alla vita.

Dialogo di Plotino e Porfirio


Sullo sfondo di un totale pessimismo, il “Dialogo di Plotino e Porfirio”, anche questo
molto importante, parte della considerazione della vanità di ogni piacere e della noia che vi
subentra, per dimostrare come il suicidio non sia contrario alla natura, paradossalmente
sarebbe una scelta ragionevole se non ci fosse un’inattesa conclusione a favore della vita.
L’allievo Porfirio confessa al maestro che vuole suicidarsi per porre fine alle sofferenze
della vita. Infatti crede che solo grazie al suicidio si possano evitare i sentimenti vani della
vita. Per questo motivo non bisogna avere paura della morte, in quanto è l’unica medicina
per i mali dell’uomo. Benché unica soluzione al male, per Leopardi questa deve avvenire
spontaneamente in quanto il suicidio porta alla sofferenza di altre persone. Per questo
motivo è necessario confortarsi a vicenda tra gli uomini, in modo da affrontare la natura
nemica, la vera responsabile di questi mali.

Leopardi assume un atteggiamento distaccato e imperturbabile, gli antichi lo chiamavano


l'aprassia (?), l'assenza di turbamento, al fine rappresentare la situazione odierna sia
nell’esperienza lirica che in prosa (operette). Libri e studi che ha tanto amato e le grandi
speranze di gloria sono per lui cosa passata, si spegne qui quel senso polemico e critico che
aveva animato il progetto delle Operette morali.

Lo Zibaldone
La caratteristica delle Operette è quella di essere connotata da una molteplicità di temi che
si intrecciano al discorso poetico, che causa una mancanza di organicità per la varietà dei
toni e degli stati d’animo. Ne derivano pensieri e suggestioni differenti, contraddittori, ed è
per questa mancanza di organicità che Leopardi concepisce di dare ordine nello Zibaldone.

Pubblicato postumo, lo Zibaldone raccoglie per giorno le sue osservazioni: il poeta elabora
riflessioni precedentemente fatte. Come nelle Operette morali, si intravedono nello
Zibaldone alcuni punti tematici importanti: la natura matrigna ma benigna nel fornire “dolci
inganni”: la natura è selvaggia, indifferente alla sorte dell’uomo perché, se provvede alla
conservazione della specie, non provvede all’infelicità degli individui. La natura ha un che di
meccanico, non lo indirizza a un fine ma si preoccupa soltanto della propagazione della
specie. La colpa nasce dalla natura matrigna ma si riversa sull’uomo stesso, colpevole di
essersi allontanato con la ragione dalla natura, creando una frattura. La ragione LIBRO
piacere negato come realtà attuale.

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Le contraddizioni sono evidenti se rapportate a un’idea sistematica e organica di pensiero,
per questo Leopardi ha a cuore di illuminare il dato incontrovertibile dell’infelicità e
dissolvere le illusioni, riservandosi di opporre a questa realtà quella dell'immaginazione,
connaturata allo spirito della poesia primitiva. (?) ma che cazz non ho capito niente

Lo Zibaldone ha una dimensione privata, quasi come un diario, in cui predomina lo sfogo,
l’impulso, mentre le Operette morali sono, da un punto di vista letterario, più elaborate. Vi
è anche una tendenza a un discorso pacato, privo di tecnicismi filosofici, è una scrittura
agevole, possiede una declinazione ironica e a tratti di scherno.

Negli anni della grande polemica sull’uso corretto della lingua e sulla migliore scelta
linguistica, Leopardi è favorevole all’eleganza, intesa come scrittura limpida, sebbene
ricorra all’uso di termini più preziosi, scorrevole, allo stesso tempo elaborata, forbita, non
piegata alle inflessioni del parlato -non volgare. Il problema della lingua si pone in stretta
relazione con l’espressione poetica, in quanto con lo Zibaldone e le Operette morali,
Leopardi vuole approdare a un linguaggio poetico nuovo, tant’è che persino alcune sue
espressioni e vocaboli rientrano nel suo tentativo di novità linguistica. Questo tipo di
eloquenza che l’autore persegue, è presente nella lingua latina e greca: recupera il modello
antico, lo adatta alla lingua italiana e lo carica di significati originali. Il linguaggio
leopardiano difende la parola come massima espressione di poesia, deve essere cioè
diversa dalla lingua tecnica e scientifica; il linguaggio poetico deve essere vario perché deve
evocare sentimenti, memorie, sogni, immagini, difatti non è raro trovare un fraseggio più
solenne, più alto, per contrastare quel principio di assuefazione che si riverbera anche nella
scrittura e produrrebbe soltanto noia e volgarità. (Persegue un’ideale di naturalezza, la
fonda sui modelli della tradizione antica, trecentesca, quattrocentesca e cinquecentesca e
??)

Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie


L’opera che più si piega a un’imitazione degli antichi ma comunque caratterizzata per la sua
modernità si trova nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, che inizia con i versi
del canto dei morti e prosegue con un dialogo fra lo scienziato olandese Federico Ruysch e
le mummie che colleziona, che prendono improvvisamente vita. LIBRO introduce una
meditazione importante sul senso del trapasso: l’attesa serena della morte e lo stato
d’animo dei morti, che guardano alla vita standone al di fuori, crea un sentimento di pietà
verso gli uomini che soffrono, a volte anche ignari. Questa riflessione, che si collega anche
al problema della lingua -vi è un inizio in versi e un dialogo-, fa sì che venga assorbita sia
l’esperienza della prosa, sia quella del canto (lirica).

A Silvia e Le ricordanze

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Dal 1825 in poi, Leopardi si sposta a Milano, occupandosi di editoria (letteratura classica), si
dedica a ordinare delle antologie di testi, organizza la letteratura italiana grazie alla sua
perizia stilistica-linguistica. Frequenta un circolo di letterati e inizia una vita più attiva con la
rivista “Il conciliatore”. Il definitivo abbandono di Recanati costituisce un momento
importante, poiché entra in contatto con i grandi letterati del tempo e, a partire dal 1828,
inizia una nuova fase poetica. Da questo momento, si concentra sul tema della memoria, si
pensi al canto “A Silvia”, su cui agisce la memoria dell’adolescenza a Recanati. Tale
componimento mette in luce la fase della giovinezza, caratterizzata dalla speranza, dal
sentire che tutto sia possibile, e racconta la storia di una fanciulla morta nel fiore dei suoi
anni, rievocando la fallacia della vita. La contraddizione tra speranza dell’impossibile
giovinezza e morte nel fiore degli anni produce un senso di immaginazione, di memoria, di
capacità di fissare, seppur per un attimo, ciò che è irrimediabilmente morto. Tale capacità
viene sviluppate anche nelle “Ricordanze”: qui, la consapevolezza dell’irrealtà di ogni
illusione, i segni del disincanto e del disinganno, l’amarezza della terra natia si fatto più
sentiti, le fantasticherie della giovinezza sono ormai alle spalle. C’è un altro fantasma
amoroso femminile, tale Nerina, che conferisce al componimento un tono sentimentale.
Silvia rappresentava la speranza, Nerina invece “i tristi e cari moti del cor”, ma di entrambe
Leopardi afferma che non rimarrà che il ricordo.

Il passero solitario, La quiete dopo la tempesta e Il sabato nel villaggio

L’impossibilità della gioia, vista come illusione, è un altro tema che trova corrispondenza
nelle opere “Il passero solitario”, “La quiete dopo la tempesta” e “Il sabato nel villaggio”, in
cui vi è un’iniziale rappresentazione della gioia, descritta come se Leopardi stesse
dipingendo la scena, che subito si mostra illusoria. Il passero solitario si concentra in
particolare sul motivo della solitudine, a cui il poeta si è ridotto, ma tra l’uomo e l’animale
esiste però una differenza fondamentale: quel passero è solitario per natura, non
percepisce il suo dolore e non può provare che felicità; Leopardi, invece, potrà solamente
rimpiangere, una volta anziano, la sua gioventù deserta. La vita, che diviene bella e gradita
solo nell’attimo in cui questa riprende dopo la tempesta, nel giorno di festa al villaggio o
con il volo del passero. Piaceri percepiti come tali in quanto brevi attimi nei quali l’uomo è
ingannato da un’apparente felicità che porta con sé la dimensione della noia.

Canto notturno del pastore errante dell’Asia


La poetica leopardiana trova un punto di massima convergenza nel “Canto notturno del
pastore errante dell’Asia”: nell’opera, l’autore trasferisce la propria esperienza nella
situazione di un pastore che erra, percorre i deserti e intuisce l’inutilità costante persino del
movimento della luna -che sembra accompagnarlo durante il viaggio- e la mancanza di ogni

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senso della vita umana. Lo spunto del componimento deriva da un articolo letto su una
rivista del 1826 riguardante le abitudini e i canti malinconici dei pastori asiatici. Partendo da
tale suggestione, nella sua poesia più filosofica, Leopardi non parla in prima persona, come
avviene solitamente, ma affida le sue riflessioni a un pastore, un uomo semplice e ingenuo
proveniente da una terra lontana e non ben definita, il quale analizza filosoficamente la sua
infelicità e quella universale, facendosi portavoce del tedio e dello sgomento provati da
ogni uomo di fronte a un’esistenza dolorosa di cui non si comprende il significato. In questo
modo, tramite la scelta di un uomo umile e proveniente da terre lontane, gli interrogativi
acquistano una forza particolare, primordiale e assoluta, e l’infelicità si configura come una
caratteristica tipica dell’uomo di ogni tempo e di ogni condizione. La luna, tipica
interlocutrice di Leopardi, è ad un tempo, bella e così vicina da invitare al dialogo (come in
Alla luna), ma anche distante, gelida e muta, simbolo della natura matrigna e indifferente.
Questo canto rappresenta il punto più significativo della meditazione leopardiana
sull’esistenza, che non si risolve né nell’immaginazione, né nella natura benigna. La
situazione del pastore viene definita in termini di totale pessimismo: il pastore si interroga
sulla sua vita confrontandola con quella del suo gregge e domandandosi perché gli animali,
almeno in apparenza, non solo provino meno tormento, ma soprattutto non conoscano la
noia.
L’uomo, invece, vive nel dolore fin dalla nascita (tanto che l’atto migliore che un genitore
può fare nei confronti dei propri figli è consolarlo) ed è subito vinto dalla noia. Questa
insensatezza e questa inconcepibilità della vita fanno un passo oltre e travolgono tutto
ciò che circonda il pastore, che si domanda non solo che scopo possa mai avere l’esistenza
dell’uomo, ma quale senso possano mai avere il gregge o il moto degli astri.

Un ultimo lampo di speranza, per il pastore, è il pensiero del volo, che subito viene però
rovesciato, ribadendo che la nascita, per ogni creatura, non è altro che fonte di dolore.

Il pensiero dominante, Amore e morte, La ginestra


Un’ultima estrema riflessione sull’inganno della vita si trova in un canto intitolato “Il
pensiero dominante”, definito come “Dolcissimo, possente dominator di mia profonda
mente”; l’amore, prima che subentri la delusione estrema, è già un correre verso la morte,
è un sentimento negativo di rifiuto più che positivo godimento. A questo si collega un altro
canto, “Amore e morte” LIBRO, ma il componimento si conclude con un’invocazione alla
morte, attesa con serenità, come umile accettazione che mette fine alla sofferenza
amorosa. Tanto nel Pensiero dominante quanto in Amore e morte, la riflessione si fa più
romantica (nel senso di forte sentire), fino ad arrivare alla stretta finale data dal
componimento “La ginestra”. Leopardi vuole rappresentare nella desolazione dei luoghi,
un tempo distrutti dalla lava ai piedi del Vesuvio, il destino dell’umanità, soggetta ai
cataclismi della natura determinati dal caso. La soluzione proposta è la solidarietà umana,
quale unica difesa al male inesorabile della vita. La ginestra fotografa questo momento: la
desolazione dei luoghi distrutti dall’eruzione del Vesuvio e un sentimento possibile di

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riscatto dell’umanità dato dalla fratellanza degli uomini. Leopardi fa una descrizione molto
bella delle pendici del Vesuvio, allietate dalla bellezza dell’odorosa ginestra, un fiore che
spunta nei luoghi in rovina e che assume una grande valenza simbolica e immaginativa.
Mentre ricorda l’eruzione del vulcano e la distruzione della civiltà, si serve di
quest’immagine della natura a compensare la sventurata condizione dell’uomo. L’infinità
dell’universo è contrapposta all’infinita piccolezza del mondo, in cui l’uomo stoltamente
ritiene di poter intervenire (di poter fare qualcosa). La distruzione delle antiche città mostra
come la natura non abbia rispetto non solo dell’uomo, ma anche dell’arte, della civiltà,
evidenziando come l’avanzamento del progresso sia sciocco, basta poco per spazzare via
tutto. La natura diventa “madre di parto e di voler matrigna”, gli uomini aggraverebbero la
loro infelicità lottando tra loro, è necessario invece che si sostengano nella sventura
lottando tutti insieme. La fratellanza diventa il necessario rimedio alla debolezza dell’uomo,
l’unica possibilità per poter essere. C’è una sorta di eroismo nel componimento, uno slancio
morale che rende più sopportabile la vita: il modello eroico del fiore profumato che (con
slancio) con passione riesce a sbucare nei campi desolati. Il messaggio morale è quindi
molto forte, dà un senso di rinnovata pietà e fratellanza, che può compensare il travaglio
dell’esistenza dell’uomo.

LEZIONE 20- IL POSITIVISMO


Il romanticismo aveva alimentato il tema ideale dell’individuo quale creatore e soggetto
della storia, ma le teorie di Darwin (che abbiamo visto velocemente a proposito di Svevo)
sconvolgono la concezione del mondo: l’uomo è soggetto alle leggi della natura al pari di
tutti gli altri esseri. La storia dell'umanità è fatalmente legata a quella della natura e l’uomo
è uno strumento dell’evoluzione naturale. Questa situazione, che dovrebbe portare a un
stato di confusione, depressione e smarrimento, diventa invece una sicurezza interiore,
una forma di ottimismo, di positivismo (lo abbiamo visto nelle opere di Svevo attraverso la
lente di ingrandimento di Darwin). L’uomo sa che ci sono delle illusioni e degli inganni ed è
proprio questa verità che dà il coraggio di affrontare il mondo, torna infatti a essere
integrato nella vita del mondo e diventa protagonista attivo. Più conosce il mondo, più
prende coscienza di sé.

Il nuovo concetto di progresso prende le mosse dalla consapevolezza che quanto più
l’uomo progredisce, tanto più aumenta il suo grado di conoscenza. Il progresso non può
essere mai separato dalla realtà, non può essere astratto: scienza e conoscenza vanno di
pari passo. La filosofia, la psicologia, la sociologia, la politica (le cosiddette scienze umane)
non possono fare a meno di adeguarsi alla conoscenza della natura, la biologia in primo
luogo. Si tratta di fondare una vera e propria scienza della letteratura.

Già Saint-Simon aveva osservato l’organizzazione delle scienze matematiche (astronomia,


fisica, chimica, matematica, etc), che si era potuta effettuare partendo da un’osservazione

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analitica dei fatti; ne deriva che lo stesso principio che vale per le scienze vale anche per le
scienze umane.

Si elabora una filosofia positiva, intesa come la volontà di una riorganizzazione sociale
svolta in maniera organica da Auguste Comte, il quale ripropone nella scienza la possibilità
nell’uomo di rigenerarsi e il principio del suo dominio sulla natura. Comte sviluppa un’idea
di progresso attraverso la formulazione di una dottrina di natura sociologica a cui sono
subordinate tutte le altre scienze. Egli può essere considerato l’apripista del positivismo
sociale, che eserciterà una grande influenza sull’arte e sulla letteratura.

Accanto al positivismo sociale di Comte, vi è un’altra corrente che va sotto il nome di


“evoluzionismo” - non della specie- , filosofico e naturalistico. Dell’evoluzionismo filosofico il
fondatore è senza dubbio Spencer, secondo cui tutta la realtà è sottoposta alle leggi
dell’evoluzione, intesa come il processo del passaggio dalla incoerenza alla coerenza,
dall’indefinito al definito, dall’omogeneo dell'eterogeneo, dal semplice al complesso. Per
Spencer, l’evoluzionismo è un processo lento, graduale, per l’appunto un’evoluzione, che
investe la società e tutti i suoi istituti. L’evoluzione (gradualità dei passaggi) sarà un valido
strumento nelle mani dei progressisti moderati, per i quali un rinnovamento sociale può
verificarsi non come un rovesciamento improvviso dei valori o con una rivoluzione, ma
come un sistema filosofico che, nella sua gradualità e lentezza, può portare a un
cambiamento.

A Darwin invece si deve il merito per aver scoperto i fondamenti scientifici


dell’evoluzionismo, nel 1859 pubblica infatti il famosissimo testo “L’origine della specie” -per
mezzo della selezione naturale. Quest’opera fu talmente esplosiva da essere paragonata
per spirito a quella della teoria copernicana. Nella visione di Darwin, l’uomo appare
detronizzato, addirittura viene fatto derivare da una forma inferiore di vita (si trova
imparentato con la scimmia) e l’evoluzione era la conseguenza di una selezione naturale
secondo cui solo gli individui più agiati, quelli su cui agisce positivamente l’ambiente
circostante, possono garantire il susseguirsi delle generazioni e dare origine alla nuova
specie. Solo gli individui più adatti possono creare la nuova specie. Tutto ciò non avviene
secondo un programma prestabilito, ma è frutto del caso e della necessità naturale: la
materia è l’unica e sola realtà che conta. Questa teoria in realtà ebbe ostacoli di vario
genere, tuttavia si propagò rapidamente in tutta Europa, in Francia con ritardo in cui
assunse la nozione di trasformismo. In Inghilterra e Germania la teoria è stata approfondita
soprattutto con lo zoologo Heckel, che sosteneva di essere un profeta del darwinismo,
mentre in Italia la zoologia darwiniana fu introdotta da Filippo de Filippi, un professore di
zoologia di Torino celebre per aver pubblicato, a seguito di una conferenza, il suo “L’uomo e
la scimmia” (ci furono ovviamente molti scandali).

Il darwinismo finisce con l’identificarsi completamente con il positivismo, soprattutto


perché sembra dare basi scientifiche e materialistiche al suo pensiero. Inizia così a
cambiare la concezione del mondo e la posizione dell’uomo nell’universo, per cui la storia
dell’evoluzione è anche la storia della crisi di un modello che era rimasto per troppi secoli

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inalterato, fondato sulla convinzione della stabilità delle strutture naturali (montagne, gli
oceani, le stelle, le specie viventi). La risposta al perché di determinate forme veniva prima
cercata non all’interno della natura stessa ma in una visione trascendente (l’assegnazione
da Dio dei vari elementi naturali al momento della creazione -creatio ex nihilo-). Una
rivoluzione di questa portata causa polemiche, persino la città viene investita nel profondo
poiché si formano veri e propri schieramenti contrapposti: si crea un acceso dibattito tra il
fisiologo materialista Aleksandr Herzen, che aveva tenuto nel 1869 a Firenze una
conferenza dal titolo “Sulla parentela tra l’uomo e la scimmia”, e Niccolò Tommaseo,
difensore delle teorie spiritualistiche e dell’assetto providenziale dell’universo. Ci sono due
mondi completamente contrapposti, da una parte il romanticismo con il suo carattere
spiritualistico (visto anche in chi non si professa credente) e dall’altra il positivismo, con un
complesso dottrinario e un atteggiamento mentale dominato dalla realtà, intesa come pura
relazione di fatti e casi.

Il positivismo, nei suoi diversi indirizzi, arriva anche in Italia tra gli anni ‘60 e ‘80 del 1800 e
orienta il clima culturale. Alcuni centri, in particolare, si fanno promotori di diffusione
dell’aderenza alla realtà, in particolare l’Università di Torino, dove a diffondere le teorie del
materialismo era stata la delusione seguita agli ideali risorgimentali romantici (lo abbiamo
visto in Foscolo quanto sia stata forte la delusione per gli ideali patriottici, vedi Jacopo
Ortis). Il positivismo svuota la politica eroica del romanticismo, facendola apparire
d’impaccio alla realizzazione di programmi di tutt’altri valori.

Positivismo e letteratura
Nel romanticismo vi è un soggetto creatore, la realtà è frutto dell’idea dell’artista che si
lascia guidare dalla fantasia, l’espressione dei sentimenti e lo spirito dell’autore sono infatti
condizioni fondamentali delle opere romantiche. Anche quando l’autore non sembra
apparire in un’opera, è in realtà evidente la natura autobiografica, come in Leopardi e
Foscolo. L’opera letteraria è sempre basata sul punto di vista dell’autore, è un’arte
viziata da parzialità. Già a metà dell’800, però, in Francia sorge una tendenza di realismo
piuttosto polemica con il romanticismo, affermando l’importanza dell’imparzialità. Uno dei
più grandi scrittori del periodo, Gustave Flaubert, ebbe a dire “non è forse l’ora di
introdurre la giustizia nell’arte?”, intendendo per giustizia l’imparzialità della
rappresentazione che doveva avere la stessa precisione scientifica. Anche la letteratura,
quindi, deve sforzarsi di mantenere la stessa oggettività della scienza, priva di giudizi.
Arrivare alla precisione della scienza era un ideale a cui gli scrittori al quale gli scrittori
dovevano tendere, annullare ogni formulazione soggettiva nel nome di un’assoluta
impassibilità. Il realismo di Flaubert (e di Balzac) funge da apripista, non ha ancora un
apparato teorico vero e proprio che riesca a piegare la natura e le leggi delle arti; occorrerà
l’impegno dello storico Hippolyte Taine, cui deve molto l’affermazione del clima positivistico
in Francia. In particolare, a lui si deve l’aver fornito i principi scientifici al Naturalismo, la
tendenza ad applicare i principi positivisti in natura.

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LEZIONE 21 - LA SCAPIGLIATURA
Il letterato naturalista deve esaminare i sentimenti come un composto di un processo
meccanico, come farebbe un uomo di scienza di fronte a una formula chimica o un
fenomeno fisico. Una frase che ben descrive questo concetto è “i vizi e le virtù sono
prodotti come il vetriolo e lo zucchero”, secondo cui anche i fenomeni spirituali sono
prodotti della fisiologia umana e dell’ambiente in cui l’uomo vive (vizi e virtù sono prodotti
come il vetriolo e lo zucchero). Alla letteratura viene attribuito il compito di un’analisi
scientifica secondo i criteri della “razza” (il fattore ereditario), dell'”ambiente” (il contesto
socio-culturale) e del “momento storico” (determinato periodo storico). In questo senso,
Emile Zola è lo scrittore che dà la sistemazione più compiuta alle teorie naturaliste e che
riassunse quasi completamente nelle sue opere il movimento, ponendosi come
caposcuola. Nell’opera Therese Raquin, descrive gli effetti del sentimento del rimorso,
evitando considerazioni soggettive: il romanziere-scienziato ha il compito di osservare un
tipo di temperamento e porlo ad agire in determinate situazioni per verificare come le
sue passioni si sviluppino e come vengano modificate dall’ambiente.
Per Zola, in conclusione, il romanzo sperimentale ha il fine di impadronirsi dei meccanismi
psicologici dell’uomo per poi poterli dominare e dirigere. Zola mette a punto dei principi
metodologici nella cosiddetta “letteratura sperimentale, ed elaborare tra il 1870-1880 una
nuova poetica, esposta poi nel saggio Il Romanzo Sperimentale (1880), che darà vita al
movimento. Tra le caratteristiche da analizzare troviamo l’ereditarietà, ossia il fattore
genetico, e il determinismo sociale, vale a dire come un dato soggetto venga influenzato
dal contesto sociale.
Tale programma scientista di Zola ritrova nell’opera di un grande fisiologo, Claude Bernard,
i principi fondamentali del nuovo romanzo:
● Scientificità: Il romanzo deve essere una “tranche de vie”, realizzato con i
procedimenti propri della scienza sperimentale, cominciando dall’osservazione
analitica, guidata dalle conoscenze della realtà materiale, umana e sociale;
● Impersonalità: lo scrittore deve essere freddamente obiettivo, non far pesare sulla
narrazione il suo intervento personale. Al fine dell’impersonalità, lo scrittore
impiegherà il linguaggio proprio dei personaggi e ricorrerà, quando sia necessario,
al dialetto e al gergo;
● Funzione sociale: il romanziere è quasi come un medico e, in quanto tale, deve
correggere tutte le deviazioni, come quelle del carattere, modificarle e dirigerle.
L’arte, come la scienza, deve proporsi come fine il miglioramento della società,
attraverso la denuncia dei mali della società stessa.

Il romanzo diventa quindi il resoconto di un’esperienza scientifica esposto al pubblico.


L’aspetto sociale è una componente essenziale nel romanzo naturalista (o sperimentale),
basata sul presupposto che l’uomo vive nella società e che ogni analisi dell’uomo non può
prescindere dal contesto sociale. Secondo Zola, la solidarietà sociale è la premessa

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scientifica di ogni possibile intervento di trasformazione, sia nel romanzo e sia nell’assetto
sociale.
A partire dalle teorie di Taine, Zola e Bernard, il naturalismo si diffonde in tutta Europa e
anche in America. In Germania si manifesta soprattutto nella forma teatrale, in Europa del
Nord operano autori come Ibsen, Strindberg, Hamsun, che analizzano i vizi dell'uomo in
relazione alla società e al momento politico, in Inghilterra invece il movimento attecchisce
poco poiché la letteratura già appariva incanalata verso una forma specifica di realismo; in
Spagna fu forte la lezione di Zola e negli Stati Uniti diverse generazioni di scrittori sono
state influenzate dal Naturalismo, diventando in seguito anche un modello per la narrativa
contemporanea.

In Italia un movimento “figlio” delle istanze naturalistiche prende il nome di Scapigliatura.


Accanto al Verismo (Naturalismo italiano, il cui massimo esponente è Verga), si sviluppa
intorno il 1860 a Milano anche la corrente degli scapigliati, che prendono il nome dal
romanzo patriottico di Cletto Arrighi (anagramma di Carlo Righetti) “La Scapigliatura e il 6
febbraio”. Siamo nel 1862 e si narra la storia di sei giovani, nell’introduzione Arrighi fa il
ritratto di questa gioventù e chiarisce il senso della Scapigliatura: in tutte le grandi città del
mondo “incivilito”, esiste una grande quantità di individui, tra i 20 e i 35 anni (età anagrafica
ben definita) che appaiono pieni di ingegno, indipendenti "come le aquile delle alpi", pronti
al bene quanto al male, irrequieti, turbolenti e travagliati che meriterebbero di essere
classificati in una specifica suddivisione della grande famiglia sociale (come se fosse una
casta, una classe). In questa classe, si trova il “pandemonio del secolo”, vi si trova la
personificazione della follia fuori dai manicomi, il disordine, lo spirito di rivolta, di
opposizione a tutti gli ordini stabiliti. Tale spirito di ribellione viene definito, per l’appunto,
Scapigliatura. Non ha una connotazione negativa, si parla di giovani che possiedono un
personale ingegno, una personale originalità, seppur spesso bizzarri, vivono ai margini
della giustizia. Il movimento scapigliato passerà alla storia anche se è difficile individuare
contro cosa si ribellano i giovani ribelli scapigliati: manca una precisa finalità ma hanno una
loro dignità letteraria.
Il corrispettivo francese della Scapigliatura è la cosiddetta bohemien, movimento dalla
tendenza anticonformista, polemica e contestativa del costume borghese. Nonostante la
vivacità e la giustificazione morale di alcuni spiriti di ribellione, sia la Scapigliatura che la
bohemienne restano piuttosto circoscritte all’interno della letteratura, una stagione dalla
vita breve e velleitaria (non ci sono obiettivi chiari). Sul piano sociale la protesta si muove
contro la borghesia, ma non si pone una valida alternativa.

Il fenomeno quindi resta isolato, ma gli esiti letterari possiedono una certa suggestione:
ricordiamo il più significativo autore della Scapigliatura Igino Ugo Tarchetti, il quale,
rifacendosi a Boito, Praga, Baudelaire e Routier, si muove nella direzione di una realtà
sensuale esasperata dai toni macabri, con elementi ironici e parodici. Scrive l’opera “Una
nobile follia”, in cui viene messa in scena una presa di posizione antimilitarista, con una
denuncia dei grandi mali della borghesia. Nel romanzo c’è la contestazione sia dell’attuale
assetto politico, sia dell’attuale assetto sociale, ma non si propongono delle soluzioni.

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Gli scritti di Igino Tarchetti e altri autori scapigliati italiani e francesi sono travolti da
un’atmosfera di incubi, di ossessive premonizioni, di mistero -sulla falsariga della tradizione
del fantastico buzzatiano- rendendo suggestivo il momento letterario della Scapigliatura.

Un altro autore da ricordare è Emilio Praga, che si serve delle stesse immagine scapigliate
già menzionate, ma sviluppa nelle sue opere la dimensione della natura incontaminata. Alla
descrizione di una realtà brutale si contrappongono esiti lirici, idealistici, un vago simil
romantico che crea una frattura con l’aspetto realistico.

Un personaggio importante da annoverare è Arrigo Boito, che evidenzia come gli scapigliati
abbiano una particolare affezione verso il deforme, il patologico (rivalutazione del brutto).
Tra le caratteristiche della Scapigliatura troviamo l’assoluzione di una lingua che,
avvalendosi di dialettismi, coglie con maggior immediatezza la realtà, anche quella più
torbida. Gli scapigliati inoltre pongono un principio importante, quello delle arti affini, un
rapporto di scambio con l’ambiente artistico (pittori, scultori, musicisti), un vero e proprio
sodalizio artistico. Sul dualismo tra natura e società, tra bene e male, tra reale e ideale,
nell’opera intitolata emblematicamente “Dualismo”, Boito fa una diagnosi della lotta del suo
animo tra angeli e demoni, tra cielo e terra, tra forze positive che lo portano a sognare
un’arte meravigliose e quelle negative che lo conducono a dipingere una realtà infima.
Boito è anche un librettista, per questo nell’autore vi è la compresenza di più generi
artistici: la componente musicale, più lirica ed eterea, si fonde a quella realistica che
caratterizza il movimento della Scapigliatura.

LEZIONE 22 - IL VERISMO
La scrittura e la pittura seguono una stessa parabola espressiva:

Giovanni Camerana cerca di trasferire il carattere macabro e misterioso, tipico della


Scapigliatura, nella pittura, conferendo alle atmosfere un senso di morte, attraverso una
puntuale scelta cromatica. Il poeta-pittore cerca di dare all’arte e alla poesia un simbolismo
carico di significati sopra sensoriali (la dimensione dell’allucinazione, del sogno, la
trasfigurazione della realtà. Così come Praga e la musica, tramite un fraseggio musicale
piuttosto cupo, questa caratteristica la si trova anche in Camerana e la pittura.

Altro esponente scapigliato è Carlo Dossi, che si distingue per la sua vena anticonformista
e la denuncia delle convenzioni e delle ipocrisie sociali. Anche la struttura del racconto
cambia, si ribella, la scrittura viene sconvolta nei suoi aspetti tradizionali, così come la
lingua: in Dossi è facile trovare la parola rara, illustre, neologismi (parole di nuova
formazione), il lessico dialettale -che rende il testo più vicino alla realtà. Di fronte alla critica
stilistica di un linguaggio oscuro, egli dice di essere intenzionato a scrivere per una élite di
iniziati, in particolare con una venatura umoristica e una deformazione ironica.

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Se la Scapigliatura si conclude in un breve arco di tempo, il movimento a cavallo dei secoli
in Italia è il Verismo.

L’ideale che aveva nutrito lo spirito e la natura del Risorgimento si era devitalizzato, ormai
rappresentava soltanto un movimento illusorio (ricorda Vecchi e giovani di Pirandello). In
Italia si avverte l’esigenza di un recupero di realtà in grado di compensare la disillusione
risorgimentale, nella fattispecie, dal punto di vista letterario, di offrire nuovi contenuti, una
nuova linfa narrativa. Il Positivismo fornisce un sostegno teorico valido cercando di
inquadrare la realtà in termini concreti, da una prospettiva meramente scientifica.

In Italia, il Positivismo scientifico è ormai in brandelli, non è possibile far andare la realtà di
pari passo con l’ideale e dalle ceneri dell’esperienza positivista si sviluppano il Verismo e il
ramo distorto dello spiritismo (neanche la scienza esatta riesce a spiegare la realtà, l’uomo
ha quindi bisogno di qualcosa di trascendente).

Nel Verismo, l’obiettivo fondamentale è la rappresentazione della realtà, attraverso la


cosiddetta “impersonalità” dell’autore rispetto alla vicenda narrata. Questa tecnica
l’abbiamo vista a metà degli anni con gli autori naturalisti, in particolare Balzac, Zola,
Flaubert, etc. La narrazione deve essere realizzata con la tecnica dell’impersonalità, il punto
di vista dell’autore, tipico di Manzoni, scompare e anche nella scelta tematica bisogna
riportare aspetti di vita VERA, non i mondi falsi, ipocriti della borghesia, ma quelli della
gente umile, emarginata, l’unica realtà fedele alla propria identità in un periodo simile. Il
Verismo si distingue in tal senso dal Naturalismo, poiché se quest’ultimo aveva fatto uso
massiccio della scienza, nella poetica degli autori veristi non attecchisce l’apparato
scientifico, quanto più l’osservazione delle classi vere, quelle umili. Una tematica del genere
ci pone di fronte a problemi di natura linguistica: il ricorso alla lingua nazionale sarebbe
suonato inverosimile per rappresentazione di una realtà umile, non era però facile
applicare neanche il linguaggio locale -i dialetti- che avrebbero reso la narrazione oscura a
chi non lo conosceva. La soluzione privilegiata fu quella di evitare ogni eccesso dialettale,
gergale, vernacolare (che altrimenti non sarebbe stato capito) e optare per un italiano
medio, familiare, e appena colorato dal folclore locale.

Il grande antesignano del Verismo italiano è il siciliano Verga. L’autore nasce a Catania che
però abbandona per sfuggire a un’epidemia di colera. si trasferisce con la famiglia a Vizzini,
luogo in cui conosce un’educanda che ispirerà l’opera Storia di una capinera. Presta
servizio presso la guardia nazionale (chiaro indizio dei suoi sentimenti patriottici e, nel
frattempo, inizia a collaborare a settimanali politici e riviste locali, quali il «Roma degli
italiani» e «L’Italia contemporanea», e, più avanti, «L’Indipendente». La prima svolta della
carriera verghiana arriva però quando lo scrittore, soggiornando per alcuni mesi a Firenze
(che era da poco divenuta capitale del Regno), viene introdotto nei salotti e nei circoli
letterari più noti; pubblica l’anno successivo il romanzo Una peccatrice dal sapore
autobiografico, trattando i suoi viaggi, spostamenti: si reca in Francia -dove conosce e
suggestionato da Zola- e a Londra. L’esperienza siciliana viene percepita molto in opere dal

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forte contenuto patriottico, come “Amore e Patria, “i Carbonari della montagna”e “Sulle
lagune”. Queste opere, dalla chiara matrice politica, pongono già l'attenzione al ceto degli
umili e dei diseredati, senza però considerare le loro virtù eroiche. Tali opere, per quanto
siano considerate scritti giovanili, possiedono già la tendenza al realismo: Verga come
narratore cerca di distanziarsi, quanto più possibile, dai fatti narrati.

Ne Una peccatrice e nel romanzo Eros, l’autore oltre a concentrarsi sugli umili, pone
l’attenzione agli ambienti patinati della Firenze e Milano del tempo. Verga viene infatti
influenzato dalla Scapigliatura, ma sia in questi romanzi, sia in quelli precedentemente
citati, appare importante la passionalità, patriottica e amorosa, facendo assumere all’opera
una connotazione sanguigna: Verga è l’autore dei duelli, della gelosia, dell’attaccamento ai
beni materiali. Tutte le passioni, intese anche come contraddizioni sono vissute
intensamente, intrise però di un pessimismo di fondo che, in seguito, si trasformerà in
disgusto per le situazioni rappresentate.

LEZIONE 23- VERGA Ⅰ


Analizzando la produzione giovanile, quella maggiormente influenzata dalla temperie
romantica e dalla sua esperienza a Firenze e Milano, l’opera Una peccatrice apre la
cosiddetta “Saga dei vinti”, (coloro che non hanno una possibilità di riscatto) ed è la storia
d’amore perseguitato e perseguito con delirio attraverso l’arte e che, una volta raggiunto,
manifesta tutto il suo vuoto e la vanità della sua essenza. Anche Storia di una capinera è una
storia d’amore impossibile, caratterizzata dalla disfatta e dalla morte, così come Tigre reale
presenta anch’essa una passione senza senso. Queste tre opere sono emblematiche
perché avvolte nel clima di una raffinata e monotona mondanità, per cui l’azione e la
passione non coinvolgono, se non polemicamente, lo spirito dell’autore. Il loro vero e più
profondo significato non è un’adesione al mondo mondano, sentito come frivolo, svuotato
e senza senso, ma la denuncia, mediante una trasposizione metaforica, di un’eclissi morale
e spirituale che sta investendo l’Italia. La posizione dell’autore è di rifiuto della mondanità
borghese e capitalistica, di quella menzogna e ipocrisia che pervadono questi ambienti e
sviliscono i sentimenti più sacri della natura umana, riducendoli a una parvenza effimera
nel piacere o nel benessere. (temi trattati anche nel modernismo) La civiltà si concentra
solo sul godimento materiale privo di senso, “viviamo in un’atmosfera di banche, imprese
industriali, e la febbre di piaceri e l’esuberanza della vita mostra tutto il suo controcanto
insensato. L’arte ha il compito di denunciare la vacuità di tali sentimenti”, è evidente quindi
la volontà di Verga di mostrare ciò che ha prodotto l'ipocrisia borghese e indicare i
sentimenti veri ormai calpestati. Il suo moralismo ribelle, così come la Scapigliatura, non
propone soluzioni, Verga riesce però ad esprimere un’alternativa sociale al degrado della
società: il suo modello di vita, pur nel riconoscimento dell’evoluzione delle derive della
classe borghese, è improntato al ritorno al passato. C’è da dire che il positivismo e in
particolare il Naturalismo, per il quale Verga aveva cominciato a simpatizzare, avevano

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portato a un’emancipazione sociale, ma quando Zola descrive un ambiente come quello dei
diseredati intende darci un quadro clinico, una diagnosi di una malattia che occorre
debellare. Con Rousseau abbiamo visto l’importanza del buon selvaggio, colui che è a
contatto con la natura e non è corrotto dal male; (?)

Verga, seppur influenzato da tali correnti, non ripone alcuna fiducia nella scienza e nel
progresso -come faranno anche i letterati moderni. Con l’originalità e acutezza delle sue
previsioni, l’autore avverte ancor prima della crisi del modello naturalista e positivista che
la scienza si pone al servizio dell'ideologia dominante, facendo prendere una piega
evolutiva diversa al cammino dell’uomo. Il progresso non comporta un ideale di felicità,
un’interiore sicurezza esistenziale e sociale, ma anzi la società delle banche e delle imprese
industriali crea una dimensione illusoria, artificiosa ed effimera, causando, secondo Verga,
l’appiattimento di ogni valore umano.

Il ciclo dei vinti

Con la raccolta Vita dei campi, novelle pubblicate nel 1890, inizia la stagione verista di
Verga. Sono 8 novelle, tra cui L’amante di Gramigna, La lupa (di cui abbiamo anche una
versione teatrale e cinematografica con Monica Guerritore), Rosso Malpelo, Pentolaccia,
incentrate sulle passioni più elementari: la lussuria, il possesso, il godimento, la roba, la
rabbia, per questo hanno sempre una conclusione tragica. Spicca la tematica di Rosso
Malpelo, storia di un ragazzo dagli emblematici capelli rossi perché è un diverso, selvaggio e
ribelle all’ambiente circostante, o ancora Guerra dei santi, un racconto corale basato sulla
superstiziosa religiosità popolare. Ne L’amante di Gramigna, espone i principi che hanno
ispirato il racconto, che ha il merito di essere un breve documento umano: si augura
l’avvento di un romanzo in cui la mano di un artista sia totalmente invisibile, come se
“L’opera si facesse da sé”, principio cardine del Verismo e derivato dal corrispettivo
francese. Il suo Verismo tende a una rappresentazione più neutrale, meno passionale e la
scelta sociale geografica non deve essere contaminata dalla civiltà del presente e dalle
convenzioni della società.

Questi motivi però presentano delle contraddizioni, poiché l’imparzialità è difficile da


ottenere e il tempo della narrazione non può non risentire del sentimento affettivo o
nostalgico, l’autore non può scomparire completamente. Non è possibile immaginare
l’esperienza della narrativa verghiana priva di queste connotazioni, ma è facile notare come
in tutte le opere, che siano del ciclo mondano o dei vinti, Verga metta in luce la crisi di una
società protesa a realizzare un programma capitalistico e borghese.

I Malavoglia
Nell’opera più importante di Verga, i Malavoglia, sono esposti i principi fondamentali della
sua narrativa: l’anima dell’autore si piega a un’affettuosa contemplazione degli ideali degli

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umili, la loro rassegnazione coraggiosa a una vita di stenti e l’attaccamento alla propria
terra, alla propria morale, i loro costumi. Nei Malavoglia appare chiuso tra due zolle, un
fazzoletto di terra molto stretto da cui, uscendoci, non si trova che rovina. Quando
qualcuno si stacca da questo micro meccanismo perché bramoso di novità o incuriosito
dall’ignoto, il mondo, un pesce vorace, inghiottisce lui e le persone che gli sono vicine. La
vicenda dei Malavoglia indica come la ricerca del benessere porti a una serie di tragedie
che colpiscono i più deboli: se il bene materiale è ciò che trionfa, chi non ne possiede è
inevitabilmente destinato a soccombere a quella lotta disperata per la vita, dettata dal solo
egoismo individuale (mors tua vita mea), ossia la Fiumana del Progresso. Con la Fiumana,
Verga si riferisce a quella condizione socio-economica italiana descritta nel Ciclo dei Vinti,
che emargina, senza sosta, coloro che non riescono a stare al passo con il progresso della
società, rendendo i vincitori di oggi i vinti di domani. La Fiumana travolge tutti quelli che per
volontà di una vita migliore o per il desiderio di qualcosa in più si distaccano dal mondo
d’appartenenza. A questo si ricollega anche l’ideale dell’ostrica, che si basa sulla
convinzione che per coloro che appartengono alla fascia dei deboli è necessario rimanere
legati ai valori della famiglia, al lavoro, alle tradizioni ataviche, per evitare che il mondo, cioè
il "pesce vorace", li divori. Finché i contadini, i braccianti, i pescatori vivono protetti
dall'ambiente che li ha visti nascere e crescere, finché credono e rispettano i valori in cui
hanno creduto e che hanno rispettato i loro padri, allora, anche se poveri, sono al sicuro. Il
problema nasce quando cominciano a provare il desiderio del cambiamento, il desiderio di
migliorare, di progredire. Come l'ostrica che vive sicura finché resta avvinghiata allo scoglio
dov'è nata, così l'uomo di Verga vive sicuro finché non comincia ad avere smanie di
miglioramento.

Una possibile soluzione nella semplicità di quel mondo è il cercare requie dal vagabondare,
costretti, nel turbine del fallace benessere. Paradossalmente, le inquietudini del falso
benessere sono persino peggiori di coloro che vivono una vita di stenti rassegnata ma in cui
regna la pace, capace di mantenere inalterate le generazioni che si susseguono. Uscire da
questo microcosmo causa la morte.

Il mondo di Aci Trezza, rappresentato in contrapposizione con il fallace mondo


aristocratico, torna nei Malavoglia: si racconta la vicenda di una famiglia di pescatori, i
Toscano detti Malavoglia, proprietari di una casa del "nespolo" e della barca
“Provvidenza”, che, preoccupati da questioni economiche, iniziano a sconvolgere
involontariamente il loro assetto famigliare. Capofamiglia è il vecchio padron 'Ntoni e con
lui vivono il figlio Bastianazzo con la moglie Maruzza, detta la "Longa", e i loro cinque figli
'Ntoni, Luca, Mena, Alessi e Lia. Il giovane 'Ntoni parte per il servizio militare e la famiglia
perde uno dei maggiori sostegni. Per questo, il vecchio 'Ntoni decide di prendere a credito
una partita di lupini che conta di rivendere. Durante il viaggio per mare la "Provvidenza"
naufraga: il carico si perde e Bastianazzo muore. Padron 'Ntoni, pressato dai debiti, è
costretto a vendere la casa del "nespolo". Una serie di sventure si abbatte così sui
Malavoglia troncando ogni speranza di riscatto. Luca, arruolatosi, muore in battaglia,
seguito poco dopo da Maruzza, vittima di un'epidemia di colera. L'inquieto 'Ntoni si dà al

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contrabbando e viene arrestato. Lia, compromessa per una presunta relazione col
brigadiere don Michele, lascia il paese e diventa una prostituta. Mena, per le difficoltà
familiari, non può sposare Alfio e, triste e sfiorita, invecchia precocemente. Alla morte del
vecchio 'Ntoni, che si spegne solo e disperato in un letto d'ospedale, il suo posto viene
preso da Alessi, che dopo essersi sposato, riscatta la casa del "nespolo" e riprende l'attività
del nonno. Una notte, scontata la pena, torna 'Ntoni, ma solo per dare l'addio definitivo a
una vita che non gli appartiene più.

Il romanzo è incentrato sul contrasto di padron ‘Ntoni e il nipote ‘Ntoni: il primo è il custode
di una concezione di vita basata sul sacrificio, l’accettazione rassegnata a certi meccanismi
anche del passato, che hanno un loro intrinseco benessere; il secondo caratterizzato dalla
brama di cambiare, di evadere dalla realtà in cui vive. Si crea uno scontro tra due filosofie
di vita, una rivolta al passato e all’immobilità degli antichi costumi, l’altra proiettata verso
un futuro che però produce catastrofe. Verga sembra simpatizzare per la filosofia del
vecchio, per cui condanna l’illusione del giovane ed evidenzia come l’avidità di ricchezza
porti alla perdita dei valori e alla morte, non soltanto biologica ma generazionale e
patrimoniale.

Nella prefazione, accanto all’immagine dei vinti, le vittime che hanno anche partecipato alla
lotta per la vita, travolti dalla Fiumana del progresso, Verga ci dice che solo l’osservatore,
travolto anche, guardandosi intorno può simpatizzare con i deboli: “Chi osserva questo
spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del
campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori
adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto
essere”.

Lo scrittore ha una concezione estremamente pessimistica della natura umana e, dal punto
di vista sociale e della specie, la sua narrativa è pervasa da un sentimento malinconico ma
intenerito per la vicenda di questi umili eroi che, di fronte alla sciagura inevitabile,
conservano intatta la loro fedeltà verso la vita, verso la famiglia, i loro semplici naturali
affetti, la casa, il lavoro e gli antichi costumi.

LEZIONE 24 - VERGA ⅠⅠ
Le tecniche narrative

Tipico delle poetiche naturalistiche è il passaggio, esplicitato da Verga, della nozione di


racconto: bisogna produrre un racconto che sia impersonale, che ci sia un’osservazione dei
meccanismi della passione, dalla famiglia alle sfere sociali, e conoscere bene quel mondo.
Lo scrittore può arrivare a questo sincero e spassionato modo di raccontare perché
conosce perfettamente il mondo siciliano, che ha vissuto e soprattutto osservato. Le
soluzioni stilistiche dei naturalisti francesi, che avevano incentrato sulla documentazione

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minuziosa e precisa dei fatti (tranche de vie), Verga le declina al racconto dialogato: lo
scrittore non descrive, ad esempio, la morte di Bastianazzo sulla Provvidenza, ma il
processo per cui questa morte diventa realtà per il villaggio, per sua moglie… vi è un
insieme di discorsi, gesti, attitudini dei membri della comunità che sono chiari e
riconoscibili proprio da chi viene da quel mondo.

La tecnica impersonale quindi, l’essere più oggettivi possibile, adotta il punto di vista della
voce narrante, che non è quello dell'autore ma quello della comunità stessa. Il narratore
esterno de I Malavoglia è come “un coro di parlanti popolari”, il narratore corale si
identifica infatti nella comunità dei paesani di Aci Trezza e la narrazione avviene attraverso
la rappresentazione di discorsi e gesti più che la descrizione di eventi e personaggi.

Il narratore di Verga è un “anonimo narratore popolare che appartiene allo stesso livello
sociale e culturale dei personaggi che agiscono nella vicenda ed è portatore della visione
caratteristica di un milieu subalterno, provinciale e rurale”, una sorta di “narratore
camaleontico” perché “non ha una sua fisionomia unitaria e coerente ma assume di volta in
volta la maschera di tutti coloro che entrano in scena, protagonisti, comprimari e comparse”.
La lingua, un impasto di dialettalità e italianità, aiuta a rappresentare gli ambienti rurali da
un punto di vista interno alla vicenda. Non quindi aulica, dal registro alto, è anzi
perfettamente comprensibile dalla realtà siciliana che ha deciso di rappresentare. (TECNICA
DELLA REGRESSIONE)

Le novelle rusticane
L’opera “Il marito di Elena” riprende in modo più approfondito l’indagine psicologica di quei
valori erotico-mondani su cui l’autore si era già soffermato. Ritorna poi al mondo rurale con
la raccolta Novelle rusticane, dominate da un altro aspetto importantissimo dell’opera
verghiana, quello della roba. Rispetto ai Malavoglia, l’atteggiamento di Verga si è
particolarmente incupito, vi è un più profondo stato tragico e disperato nella narrazione.
L’avidità della roba, intesa come possesso (non è sentita solo come avidità, terra e
possesso, ma anche mogli, figli, attrezzi, etc.), ha il potere di scomporre l’assetto patriarcale
delle comunità, sconvolge la psicologia individuale riducendo l’uomo a pura istintualità
aggressiva. In questa raccolta - dai tratti più ironici ma nel complesso più cupi rispetto alla
precedente - l’autore si ripropone di dar conto anche delle problematiche
socio-economiche della Sicilia del tempo, le quali gravano pesantemente sulle vite di coloro
che sono travolti dalla “fiumana del progresso”. Chi può far fronte agli imprevisti della
natura, ai mutamenti dell’assetto politico o alle dispute di paese è apparentemente chi può
accumulare nel corso della vita quanti più beni gli riesce, perché la legge del più forte,
espressa in Vita dei campi dai motivi dell’amore e della violenza, si esplica nelle Rusticane
soprattutto attraverso il possesso di terre e denaro (come per il personaggio di Mazzarò ne
La roba), o al limite, nella sventura, di un asino buono. D’altra parte la raccolta, aprendosi
alla realtà storica del secondo Ottocento, prosegue gli esiti tematici dei Malavoglia, in cui
l’intero microcosmo di Aci Trezza gravita attorno alla "casa del nespolo", simbolo supremo

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del valore della “roba” in un sistema patriarcale sempre meno rigido e messo in crisi anche
dalle novità imposte dall’Unità nazionale, quali la leva militare.

Mastro don Gesualdo


Questo ciclo di novelle anticipa l'opera Mastro don Gesualdo. La vicenda si svolge nel
catanese, a Vizzini, e ha come protagonista Gesualdo, un povero manovale che è molto
attaccato all’ideale della roba e desidera salire i gradini della scala sociale, sposando una
nobile decaduta, Bianca, costretta a prenderlo come marito per difficoltà economiche e
perché incinta di suo cugino Ninì. Il matrimonio però (come Pirandello) non dà che
amarezze, in quanto Bianca viene vista da Gesualdo come un’estranea, non è in grado di
appagare il suo affetto, e la bambina che nasce si distacca sempre di più dal padre. Il
matrimonio della figlia con un nobile decaduto, inoltre, sarà causa anche di dissipazione
del patrimonio di Gesualdo che, ammalato, solo e disprezzato da tutti (tranne che della
serva che gli resta fedele), viene portato a morire.

Mastro don Gesualdo è un personaggio complesso poiché mosso da diverse e


contraddittori stati d’animo: apparentemente cercherebbe soltanto il suo interesse, è un
uomo ossessionato dalla roba, ma non ha mai l’atteggiamento brutale ed egoistico di
Mazzarò. La roba diventa per lui un mezzo di affermazione della propria personalità, non è
puro possesso, l’ambizione a primeggiare, in ricchezza e posizione sociale, rispetto a chi lo
vuol escludere ed espellere e un desiderio prorompente di vita. La roba sostituisce per
molti versi l’idea di Dio, perché è come se MDG con questa volesse sentirsi onnipotente,
immortale. Quando è colpito dalla sorte che si abbatte (la Fiumana) sulle sue vicende e si
stacca dalle sue origini contadine, muore da vittima innocente lui che aveva creduto di
poter fare in fondo del bene. La solitudine degli ultimi giorni, la dissipazione della roba in
cui aveva riposto tutta la sua fiducia e l’imminenza della morte gli appaiono ingiuste.

Gesualdo era partito dall’attuazione di un programma economico ma avrebbe gradito


davvero degli affetti sinceri, più gli vengono negati più sente forte questa mancanza. Tutta
la sacralità del passato volge così alla rovina, alla disperazione e alla morte: la legge crudele
vista nel mondo dei Malavoglia colpisce anche la vita di MDG e, ancora una volta, gli eredi
di una nobiltà decaduta e corrotta distruggono tutti i sacrifici, tutto ciò che è stato fatto con
fatica e sudore.

Viene in mente l’immagine di Goldoni quando ci parlava, seppur con esiti comici, dei
cosiddetti matrimoni misti, quelli tra aristocrazia e borghesia (ricordiamo la famiglia
dell’antiquario) che si incontrano ma non si fondano.

Il pessimismo verghiano in MDG è molto spietato: dal punto di vista dello stile e della
narrazione tocca molte corde, quelle della satira, del grottesco, il mondo dei parassiti, i
cinici, i volgari. L’opera è lo specchio della Sicilia del suo tempo di cui Gesualdo rappresenta
colui che cerca di riscattarsi ma che rimane travolto anche lui dalla fiumana. In MDG
l’analisi della realtà è molto lucida, in cui si vedono tutti i segni della degenerazione della

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società italiana di cui ci parlerà di lì a poco anche Pirandello. Il Ciclo dei vinti non può non
trovare la sua esatta corrispondenza nella fine di questi ideali.

La lingua
Dopo i romanzi giovanili, abbastanza scoloriti se paragonati ai postumi, si assiste a una
svolta nella narrazione: Verga chiarisce la sua ricerca verista, attraverso un uso più
puntuale di una lingua parlata, estremamente essenziale, in linea con un mondo umile,
provinciale, schietto e semplice. L’uso del dialetto siciliano però non rende l’opera troppo
regionalizzante, per quanto ci siano i colori siciliani sicuramente quella di Verga è una
lingua ad ampio spettro, in grado di rendere comprensibili sia le sfumature dialettali che le
aperture semantiche dell’italiano parlato. Quella linguistica è una rivoluzione molto
importante, Verga infatti introduce la sicilianità per dare maggiore espressività ma la
struttura sintattica e stilistica è molto efficace poiché l’italiano è perfettamente dosato. Ne
deriva un linguaggio dialogato e semplice definibile ”antiletterario”, perfettamente
aderente alla rappresentazione di una comunità popolare rievocata nella semplicità dei
suoi sentimenti, nelle sue vicende e nei suoi costumi.

LEZIONE 25- METASTASIO


Nel 1700 si sente la necessità di riportare il buon gusto nella letteratura, nella musica e nel
melodramma. Il melodramma barocco, così come la letteratura barocca (rispetto a quella
dei lumi e il teatro goldoniano) è caratterizzato dall’eccesso, dalla pomposità, dal trionfo del
cattivo gusto, allietava facendo ricorso a scene ridicole, ad allestimenti sontuosi, faceva
riferimento a parti buffe; si avverte per questo l’esigenza di creare un melodramma che
fosse meno spettacolare, più sottile ed elegante, rispetto alla tradizione. La lingua italiana
era ancora molto diffusa in Europa grazie soprattutto al melodramma e ai libretti, che ne
costituivano l'elemento narrativo. La scrittura, distinta in recitativi (l'azione e il dialogo
vero e proprio) e arie (situazioni più liriche e musicali), esaltava il valore spettacolare e
fantasioso del testo scenico. La reazione illuministica, interessata ai valori morali e
comunicativi della parola, criticava il melodramma, tacciandolo di grossolanità
espressiva rispetto alle esigenze dello spettacolo e della musica.

Apostolo Zeno e Metastasio, entrambi operanti alla corte viennese di Carlo VI, sono i fautori
della riforma del melodramma barocco.

Apostolo Zeno appartiene alla generazione degli eruditi settecenteschi, dei letterati che si
radunano intorno al Giornale de’ letterati d’Italia che, occupandosi di ricerche di storia
veneziana e italiana, ci offrono preziose notizie sulla cosiddetta storiografia moderna.
Esattamente come si cercava di sistematizzare il piacere attraverso l'encyclopédie di
Diderot D'Alambert, ci sono questi storiografi, scrittori di storia, che danno notizie complete

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sulla storia veneziana e italiana e diventa di grande importanza l’eloquenza, lo stile, della
trattazione storiografica.

Apostolo Zeno nasce come erudito ma fa anche un’esperienza lirica, in particolare di


librettista per melodrammi (coloro che musicano un dramma). Nel suo melodramma
convivono sia la musica che la parola, “musica ancella della parola”, vi è una
preponderanza del modello eroico e un rapporto più equilibrato tra parti recitate e parti
musicate; fino ad allora, le arie venivano spesso considerate disarticolate rispetto alla
parola.

L’erudizione storica favorisce in Zeno l’adattamento di argomenti storici, magari poco noti,
alle esigenze del melodramma.

Nel libretto in musica, rinnovato rispetto al melodramma barocco, le arie sono di tre
tipologie: quelle in cui il personaggio canta quando entra in scena, quelle cantate a metà
dell’azione scenica e quelle in cui il personaggio esce di scena. Le scene conclusive sono
considerate le più importanti poiché considerate una sorta di sintesi dell’intero dramma e
possono essere paragonate al ruolo del coro nella tragedia greca, adibito a commentare “a
margine” le vicende attraverso la musica e la gestualità. Per molti versi, quindi, la riforma va
nella direzione classicista del modello greco, in cui la musica è ancillare rispetto alla parola
che ha il sopravvento.

La riforma di Metastasio riguarda piuttosto la tematica: la sua opera più famosa è la


“Didone abbandonata” e riprende il mito dell’Eneide in cui Enea lascerà la regina di
Cartagine che, distrutta dal dolore, si ucciderà. La ripresa dell’ elemento amoroso delle
vicende mitologiche la dice lunga sul tentativo di riforma di Metastasio, anche perché la
parte più intrigante, l’aspetto amoroso, era ben apprezzato dagli aristocratici di corte.

I temi di Metastasio sono gli stessi trattati da Zeno, con una particolare accentuazione
dell’aspetto eroico, mitologico, storico, tragico, si pensi anche all’opera “Catone in Utica”,
la storia della figlia di Catone che si innamora di Cesar in cui sono presenti sia l’elemento
storico, sia quello amoroso/patetico, il quale si inserisce perfettamente nel filone
senechiano/alfieriano dei drammi più truci e sanguinolenti. È possibile scorgere anche solo
dai titoli dei melodrammi del Metastasio, come “La clemenza di Tito”, l’”Attilio regolo”, temi
tratti dalla classicità modulati sulla nuova esigenza del melodramma. Il trasferire i temi
classici nella modernità trova riscontro anche con l’accompagnamento del clavicembalo, il
quale condizione fortemente il carattere della poesia grazie al suono particolarmente
melodico. La sua melodia cerca di stemperare, in toni sentimentali, i motivi troppo
drammatici.

Il melodramma di Metastasio ha il merito di aver trasferito al mondo eroico, idoleggiato nel


passato, dei motivi in cui l’attuale società poteva riconoscersi, commuoversi (preferisce
infatti aspetti teneri e patetici). La consapevolezza con cui Metastasio affronta il suo lavoro
si rileva nel suo commento alla poetica di Orazio e nelle osservazioni sul teatro greco: si
insiste che il poeta di teatro (scrittore di drammi) debba fare ricorso all'artificio senza però

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sembrare allo spettatore inverosimile. Occorre mantenere sempre la verosimiglianza ed
evitare toni che appaiono troppo tragici e distanti dalla realtà.

In questo senso, è molto utile l’ammistione di stili, il concentrare l’azione su pochi


personaggi essenziali, rendere gli intrecci sorprendenti ma mantenendo il dramma fluido,
equilibrare al meglio le arie e mantenere i recitativi, colonna portante del dramma in
musica, brevi, anche se numerosi, per non creare noia nell’animo di chi ascolta.

LEZIONE 26 - IL MELODRAMMA OTTOCENTESCO


La musica, sin dai poemi omerici, aveva l’usanza di accompagnare le azioni e le gesta degli
eroi, (in particolare gli aedi, i cantori, suonavano la lira).

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