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Università degli Studi di Perugia

Facoltà di Lettere e Filosofia


Corso di Laurea in Filosofia

I. SVEVO: CRISI DEL SOGGETTO ED ESTETICA


DELLA CRISI

LAUREANDA RELATORE
Nicoletta Donati Prof.ssa Anna Giannatiempo

Anno Accademico
1999/2000
INDICE

Indice p. 2

INTRODUZIONE. Estetica debole e soggettività infranta: la rappresentazione 3

alla prova del limite.

CAP. 1. Il soggetto tra inettitudine e “volontà di vita” 12

§ 1.1. Alienazione e conflitto nel primo Svevo 12

§ 1.2. Inettitudine e senilità alla prova dell’esistenza 31

CAP. 2. Malattia ontologica e salute sociale 54

§ 2.1. Malattia e salute esistenziali 54

§ 2.2. Malattia e salute apparenti 67

CAP. 3. Il soggetto “debole” tra ironia e scacco della 88

rappresentazione

§ 3.1. Vita e rappresentazione della vita 88

§ 3.2. Il soggetto disperso nell’esperienza della rappresentazione 112

Bibliografia 129

2
I NT R ODUZ I ONE

ESTETICA DEBOLE E SOGGETTIVITÀ INFRANTA: LA RAPPRESENTAZIONE ALLA


PROVA DEL LIMITE

“Wie scheint doch alles


Werdende so krank…”
(G. Trakl)

3
Che cosa resta all’uomo dopo che è stato studiato, catalogato,

dissezionato in ogni suo aspetto e che la spontaneità nei confronti della

vita è oramai lontana? Nulla, risponde Svevo, se non l’attesa di una

“catastrofe inaudita, prodotta dagli ordigni” 1 che sola può far ritornare

alla salute. “Dio è morto” 2 dice Nietzsche. “L’uomo è malato”,

risponde Svevo, di una malattia nuova e curabile soltanto con se

stessa: “E’ malato chiunque rifletta, i ricercatori della verità che per la

paura dell’oscurità si fingono una vita assoluta nell’elaborazione del

sapere dicono: dolce il conoscere, sono già vinti dall’oscurità, sono già

fuori dalla vita ”. Il vero rimedio è dunque il “vivere” senza il

“conoscere”, opportunità impossibile per chiunque sia davvero malato:

il vero rimedio è la lontananza dalla malattia.

Malattia epistémica è quella che Svevo annota e riferisce,

avendola ereditata da un secolo edificato sulla epistéme. “All’inizio di

questo secolo le ricerche psicoanalitiche, linguistiche e poi etnologiche

hanno spossessato il soggetto delle leggi del suo piacere, delle forme

della sua parola, delle regole della sua azione, dei sistemi dei suoi

discorsi mitici” 3 .

1
I. SVEVO, La coscienza di Zeno, in Opere, a cura di B. Maier, Dall’Oglio, Milano 1964, pag.953.
2
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, tr.it. a cura di S. Giametta, Fabbri, Milano 1996, p.28.
3
M. FOUCAULT, Due risposte sull’epistemologia, tr.it. di A. Fontana, Lampugni Nigri, Milano 1971,
p.20.

4
Tra esperienza autobiografica e arte narrativa, Svevo lascia i

suoi personaggi al folle tentativo di ordinare l’esistenza, di sottrarla

agli eventi imperscrutabili del caso tentando di dare una spiegazione

logica agli accadimenti: attraverso una continua elaborazione di

sistemi e teorie, che verranno puntualmente smentiti, essi cercano

infine rifugio, quello della rappresentazione, della ri-scrittura della

vita. Così emerge a poco a poco la disperante condizione degli uomini

e di tutti quanti gli esseri che non hanno chiesto di vivere ma che si

sono trovati, “per errore, perché l’uomo forse non vi appartiene” 4 , a

lottare per la sopravvivenza. La vita si consuma tra dolore e noia,

come Schopenhauer, che Svevo conosceva bene, aveva sostenuto, e

tertium non datur ; così l’uomo malato cerca conforto nella letteratura,

in esercizi di “igiene quotidiana” 5 , perché vuole illudersi di avere

qualche possibilità di decidere, interpretando, in merito alla propria

condotta, per scoprire alla fine che “non sei niente altro che la tua

vita” 6 .

Il soggetto in Svevo è frantumato, è testimone della

indecidibilità del proprio agire, ma “il testimone è ridotto egli stesso a

puro sintomo” 7 . “L’uomo si è messo al posto degli alberi e delle bestie

4
I. SVEVO, La coscienza di Zeno, in Opere, cit., p.867.
5
I. SVEVO, Il vecchione, in Opere, cit., p.1073.
6
J.P. SARTRE, Porta chiusa, tr.it. di G. Lanza, Bompiani, Milano 1995, p.163.
7
G. VATTIMO, Le avventure della differenza, Garzanti, Milano 1988, p.54.

5
ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio” 8 – sostiene Svevo;

l’uomo ha intasato lo spazio necessario per garantirsi la vita e lo ha

fatto imponendogli una pienezza colma di presenza riflessa, quella

della propria ostinata interpretazione. L’uomo moderno ha vinto le

pretese dell’ontologia con una ermeneutica dell’ininterpretabile, del

vissuto esistenziale; ha mediato l’immediatezza, ma “la vita è

l’origine non rappresentabile della rappresentazione” 9 e così si è

precluso la via per una reale e consapevole interpretazione.

Alfonso, Emilio, Zeno e tutti gli altri piccoli e grandi

pseudonimi di Ettore Schmitz sono personaggi in cerca di vita,

all’inseguimento di una soggettività che è distrutta proprio nel

momento della presunta affermazione. “L’io del soggetto

dell’enunciazione (…) compare (…) quando un’enunciazione lo

enuncia” 1 0 e l’enunciazione finisce per sovrastare l’enunciante in un

gioco di continue rincorse e sostituzioni nel quale l’ io e l’altro, il

soggetto e l’oggetto, restano sempre senza una posizione da occupare.

Zeno è prossimo ad Ulrich, “l’uomo senza qualità” di Robert

Musil: anch’egli è un ottimo teorico, capace solo di misurarsi con i

suoi schemi mentali e non con la realtà, testimone di un tempo nel

quale il disincanto fa tutt’uno con il frammentarsi della coscienza,


8
I. SVEVO, La coscienza di Zeno, in Opere, cit., p.791.
9
J. DERRIDA, La scrittura e la differenza, tr.it. di G. Pozzi, Einaudi, Torino 1990, p.301.
10
T. TODOROV, Il gioco dell’alterità, in F. DOSTOEVSKIJ, Ricordi dal sottosuolo, tr.it. di L. Landolfi,
SE, Milano 1993, p.142.

6
ridotta a provvisorio aggregato di relazioni psichiche. L’indagine

introspettiva di tutti i personaggi sveviani si risolve dunque in un

inutile tentativo di sistematizzare la vita, che non fa altro che portarli

ancor più verso il disagio e l’estraneità a sé e al mondo. Appurato che

non c’è nessuna logica razionale da cercare nel passato e che lo

colleghi con il presente, tanto meno con il tempo a venire, questo

scavarsi dentro allontana l’individuo da un rapporto immediato con gli

altri e con le cose, lo sottrae alla vitalità naturale. Ecco il vizio

dell’autocoscienza, che diventa irrinunciabile, come il fumo, per Zeno:

lo scrivere diventa un pharmacon, ma allo stesso tempo è anche un

sintomo della malattia, perché “la descrizione della vita, una grande

parte della quale, quella di cui tutti sanno e non parlano, è eliminata, si

fa tanto più intensa della vita stessa” 1 1 , più intensa, come una febbre,

appunto.

11
I. SVEVO, Racconti, saggi e pagine sparse, Dall’Oglio, Milano 1969, p.137.

7
La malattia, oscillante tra la possibilità dell’inettitudine e quella

della senilità, resta un mistero fitto come quello della scelta. E’

probabilmente un’alternativa all’angoscia, vero cuneo conficcato nel

nuovo secolo. L’individuo è in totale balìa del caso, retaggio anonimo

della Volontà schopenhaueriana, “come se le vie familiari (…)

potessero condurre tanto alle prigioni che ai sonni innocenti” 1 2 e

soltanto nella rappresentazione sembra possibile ricostruire un’ombra

di solidità pro-gettuale. Anche il “buon vecchio”, uno dei più tardi

esiti della narrativa sveviana e forse il più estremo, si ostina a

riordinare la sua condotta tramite la scrittura e, anzi, intraprende la

stesura di un saggio che dovrebbe contenere i fondamenti della morale

e del vivere correttamente. Ma “Nulla!” è la sola frase che annoterà

sopra i tanti fascicoli accatastati in attesa di una conclusione: la

letteratura non dà risposte, è impotente e muta, come per Kafka è muto

il cielo; illude di poter ovviare ai dissidi dell’uomo, ma non fa altro

che ingannare.

12
A. CAMUS, Lo straniero, tr.it. di A. Zevi, Bompiani, Milano 1997, p.119.

8
La letteratura, come scrittura del già vissuto, è cosa da

“vecchioni”, per i quali, non esistendo futuro, il passato e il presente

sono da giudicarsi nella loro “vera e grande oggettività”; la

rappresentazione dovrebbe ri-ordinare la vita, ma non fa che riprodurla

come morta, “oggettivamente” vitale, ma morta nell’uomo. “Continuo a

dibattermi tra il presente e il passato, ma almeno fra i due non viene a

cacciarsi l’ansiosa speranza del futuro...”, 1 3 e la fatica della lotta lascia

il posto ad un sorriso ironico, di chi osserva con il distacco della

prossima ed inevitabile “dissoluzione”.

Vita e rappresentazione della vita, scrivere e vivere sono

possibilità che si elidono, “io sono assente perché sono il narratore” 1 4

sembra dire Zeno e la sua stessa biografia pare rispondergli: “Tu sei

colui che scrive e che è scritto” 1 5 . La pace, l’ordine e il senso impartiti

alla vita possono soltanto essere l’effetto della distanza, dell’arbitraria

assunzione di un punto prospettico che consente la fittizia

composizione del caos; ma “caos è il nome che indica un peculiare pre-

oggetto del mondo nella sua totalità e del signoreggiare cosmico” 1 6 , e,

proprio nel momento in cui sembra sottostare alla ordinazione umana,

rivendica un pre-ordinare che per l’individuo diventa un invalicabile

muro intorno alla propria coscienza illusa: “Che differenza corre tra
13
I. SVEVO, Il vecchione, in Opere, cit., p.138.
14
E. JABÈS, Il libro delle interrogazioni, tr.it di C. Rebellato, Marietti, Genova 19953, p.79.
15
Ivi, p.6.
16
M. HEIDEGGER, Nietzsche, II, tr.it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1995, p.566.

9
scegliere ed essere scelto quando non possiamo fare altro che

sottometterci alla scelta?” 1 7 .

17
E. JABÈS, Il libro delle interrogazioni, cit., p.43.

10
“E queste cose immobili avevano un’importanza enorme: l’anello

di matrimonio, tutte le gemme e i vestiti, il verde, il nero, quello da

passeggio che andava in armadio quando si arrivava a casa e quello di

sera che in nessun caso avrebbe potuto mettere di giorno” 1 8 ; Zeno

rimprovera alla moglie l’attaccamento a cose e fatti insensati, dall’alto

del suo disincanto. D’altra parte “la capacità di comprendere la propria

vanezza è l’unico privilegio dell’uomo sui bruti. Lustro e inganno tutto

il resto, le trovate dell’ingegno, le indagini del pensiero, le

affermazioni della fede” 1 9 , ma davvero il disincanto è la soluzione, la

tanto agognata salute? In realtà lo stesso disinganno affoga nella

labilità della rappresentazione, poiché per esso la vita diviene

sostanzialmente memoria di qualcosa che si svuota man mano che

viene illuminata dalla riflessione. “Le monde – scrive Deleuze – n’est

ni vrai, ni réel, mais vivant” 2 0 , il che, tradotto da Zeno, significa: “La

vita non è né bella né brutta, ma è originale…” 2 1 . Ciò che

dell’esistenza resta all’uomo è la sola successione di fatti,

propriamente viventi e del tutto originali, ma cercarne il senso

significa perdere anche quel poco che si ha in mano.

18
I. SVEVO, La coscienza di Zeno, in Opere, cit., p.724.
19
M. LAVAGETTO, L’impiegato Ettore Schmitz e altri saggi su Svevo, Einaudi, Torino 1986, p.173.
20
G. DELEUZE, Nietzsche et la philosophie, Gallimard, Paris 1970, p.211.
21
I. SVEVO, La coscienza di Zeno, in Opere, cit. p.792.

11
In Svevo la rappresentazione è destinata a restare incompiuta,

oscura, non sistematizzata: la parola è caricata da un’enorme tensione,

perché le viene richiesto di coincidere con l’esistenza, di estrarne

l’essenza e di salvarla dalla distruzione che investe la filosofia.

L’estetica dovrebbe raccogliere i cocci della filosofia, ma è anch’essa

un’estetica debole per troppa potenza, per eccesso di socratismo.

Dall’inettitudine, alla senilità, alla malattia della

rappresentazione: un destino ontologico ed esistenziale tracciato in

modo netto, che non lascia spazio a speranze di uno scenario nel quale

l’uomo e la sua individualità non siano votati alla crisi e alla

distruzione. Nella rappresentazione, canto del cigno della vitalità

“naturale”, appare la violenza di un evento che si produce senza

tuttavia essere. “Dire una cosa è troppo poco, le cose bisogna

viverle” 2 2 . Alla fine resta la denuncia nei confronti della ragione

dominatrice e razionalizzante, che ha ridotto tutto a sistema e ha

preteso di indagare e incasellare l’animo e la spontaneità delle persone.

Tolta ogni trascendenza emerge il vuoto, la distanza tra gli uomini e

tra gli uomini e le cose, perché il limite al quale si doveva sottostare è

stato profanato: quasi una torre di Babele che cade perché ha preteso di

assurgere al divino, di penetrare l’essenza della vita, di carpirne i

G. JANOUCH, Colloqui con Kafka, in F. KAFKA, Confessioni e diari, tr.it. a cura di E. Pocar,
22

Mondadori, Milano 19834, p.1121.

12
segreti. La soluzione per continuare a vivere la propria sfuggente

rappresentazione è quella che Zeno Cosini può, infine, proporre ad

Alfonso Nitti: l’ironia di una filosofia spinta al limite e poi, senza

rimpianti, abbandonata. “Fumati una sigaretta. Farai tu il primo,

un’altra volta” 2 3 .

23
C. PAVESE, Temporale d’estate, in Racconti, I, Mondadori, Milano 1970, p.152.

13
C API T OL O PR I MO

IL SOGGETTO TRA INETTITUDINE E VOLONTA ’ DI VITA

§ 1.1 A L I E N A Z I O N E E C O NF L IT T O NE L P RIMO S VE VO

14
“A una data età nessuno di noi è quello a cui madre natura lo

destinava; ci si ritrova con un carattere curvo come la pianta che

avrebbe voluto seguire la direzione che segnalava la radice, ma che

deviò per farsi strada attraverso pietre che le chiudevano il

passaggio” 2 4 . Con queste parole Italo Svevo denuncia la stridente

antinomia che esiste fra l’assetto economico e burocratico finalizzato

al principio utilitaristico dell’efficienza, e l’individuo prigioniero del

feroce ingranaggio della società. E’ un tema comune agli scrittori

mitteleuropei che si trovano a vivere la crisi dei valori della civiltà

positivista e naturalistica. Questa crisi, che sfocerà di lì a poco nella

prima guerra mondiale, raggiunge il suo apice negli imperi austro-

ungarico e guglielmino. Ad acuirla sono infatti le pressioni dei gruppi

etnici che la politica imperiale cerca di contrapporre per preservare

l’unità politica, a partire dai sussulti irredentistici di slavi e italiani.

24
I. SVEVO, Un individualista, in Opere, cit., pp.602-606.

15
La smisurata fiducia nella ragione, nella possibilità di trovare

risposte nella scienza e nella tecnica, dopo che l’uomo è diventato

capace di dominare la natura, si trova spiazzata da un senso di

alienazione e di solitudine che appare sempre più irrimediabile. Questo

è il quadro di fondo della narrativa di Svevo, che da un piano più

superficiale di analisi sociologica, passa ad una prospettiva ontologica,

pervenendo a una piena interiorizzazione della crisi che sconvolge la

civiltà europea.

I primi racconti, Elio, Una lotta , L’assassinio di via Belpoggio ,

che precedono la stesura di Una vita, parlano di emarginazione sociale,

descrivono la difficoltà di adattarsi ai clichés e di riconoscersi in certi

valori, quelli del denaro e del prestigio: del resto, sono gli ultimi

baluardi, le sole sicurezze che si danno ora che l’uomo, frantumato nel

corso del progressivo articolarsi in classi, non sa e non può più imporsi

come individuo. La vita intima e sentimentale è sacrificata al sistema

“tendente a fare di noi…utili cittadini, parti di una cosa, mai la cosa

stessa” _ L’unico obiettivo della persona sembra sia quello di “lasciarsi

strutturare nella più feroce collettività” 2 5 - osserva Svevo.

25
Ibid.

16
Elio è il suo primo abbozzo narrativo, una pagina sola scritta

dopo la morte del fratello. Lo scrittore si accusa di pensare

intensamente a lui “attraverso la poesia, anche attraverso la

filosofia” 2 6 . La vita vera si esilia dal reale per rifugiarsi nella

microanalisi della realtà, nella riflessione su se stessa: Svevo denuncia

la propria aridità, ma intravede già, seppure vagamente, la grandiosa

intuizione dei suoi anni più tardi, secondo la quale “nell’alienazione

universale l’unica autenticità possibile è quella riflessa e relativa” 2 7 .

I. SVEVO, Elio, in Opere, cit., p.145.


26

27
C. MAGRIS, Italo Svevo: la vita e la rappresentazione della vita, in “Italo Svevo oggi”, Atti del
Convegno Firenze 1979, Vallecchi, Firenze 1980, p.81.

17
In Una lotta e ne L’assassinio di via Belpoggio i protagonisti

sono degli incapaci, inetti, in quanto non riescono a conformarsi ai

modelli sociali. Non hanno un posto da occupare perché privi di quelle

qualità che li renderebbero uomini stimati, votati al riconoscimento e

all’ascesa economica. Il protagonista di Una lotta, il poeta Arturo

Marchetti, sognatore dalla fervida immaginazione, ingaggia una

singolare tenzone con Ariodante Ghigi, uomo povero di fantasia ma

disincantato, esperto delle cose del mondo, e che per questo riesce ad

acquistare i favori della bella Rosina. Anche il protagonista de

L’assassinio di via Belpoggio , Giorgio, è un emarginato che uccide

perché si trova in stato di stretta necessità e per riuscire così ad

impossessarsi del denaro dell’amico. Il disincanto del mondo, la

desacralizzazione operata dal sapere, il dominio della scienza e della

tecnica conducono, secondo Svevo, ad un’alienazione sociale, ma

soprattutto di tipo esistenziale. Attraverso la divisione del lavoro

imposta dal sistema capitalistico, si determina una necessaria

“autoalineazione degli individui che devono modellarsi anima e corpo,

secondo le esigenze dell’apparato tecnico” 2 8 . Il dramma costante in cui

si dibatte il personaggio sveviano è quello dell’individuo inetto a

vivere, condannato all’impotenza nel disumanizzante mondo borghese.

28
R. GENOVESE, Per una rilettura della “Dialettica dell’Illuminismo”, “Aut Aut” 1991, p.43.

18
Da una parte c’è il mondo borghese con le sue false certezze e i suoi

ottusi rituali, dall’altra ci sono i testimoni del dubbio e della crisi, gli

apostoli di qualche idea o del nulla, per dirla con Svevo, gli esiliati

dalla vita dei borghesi “perché cercano la vita degli uomini” 2 9 . Per uno

scrittore come Svevo la coscienza dell’esclusione è nel contrasto tra il

mondo familiare borghese, dalle superficiali esigenze dello spirito e il

suo mondo interiore, fatto di idee ma anche di alienazione intellettuale.

29
Ibid.

19
“La casa è quel frammento solido che l’uomo ha strappato dallo

spaventoso infinito dello spazio; è il suo primo rifugio dal caos che

minaccia sempre di travolgerlo. È il suo focolare che deve essere

diviso soltanto con le persone a lui più prossime e più care” 3 0 ; Svevo si

è lamentato di “non aver trovato nessuno ma nessuno che pigli

interesse a quanto pensi e a quanto fai” 3 1 . Un tema radicato e sentito

dagli scrittori mitteleuropei, che considerano come “la famiglia diventa

una istituzione convenzionale e quindi soffocante, che non potenzia ma

tarpa l’individuo” 3 2 . Si pensi al disagio di Franz Kafka, il quale, come

e più di Svevo, vive l’esperienza della frattura tra la realtà e il proprio

disumano mondo interiore. Il senso di distacco dell’individuo da un

fuori “oggettivo” e tremendamente potente non fa che acuire la

percezione d’opposizione e di alterità resasi inconciliabile in epoca di

post-idealismo. Svevo non fa che rendere tale alterità l’indiscusso

fondamento della propria scrittura.

30
E.A. GUTKIND, Comunità ed ambiente, tr.it. di G. De Benedetto, Comunità, Milano 1960, pp. 8-9.
31
I. SVEVO, Una vita, in Opere, cit., p.157.
32
C. MAGRIS, Lontano da dove, Einaudi, Torino 1972, p. 281.

20
In Una vita l’antinomia tra il singolo e la comunità è

inconciliabile: Alfonso Nitti tenta, senza risultato, di adattarsi

all’ambiente bancario, rispetta le regole che gli sono imposte dal vacuo

quanto ambizioso mondo dei “cittadini”. Intende farsi strada con le sue

doti intellettuali, arroccato in una superiorità di pensiero che usa come

alibi alle sue manchevolezze nella vita pratica. Anche se compie un

enorme sforzo a restare in città, sempre in balia del ricordo e della

nostalgia per il paese più a misura d’uomo, non si dà per vinto. Accetta

di lavorare duramente, costringendosi a compiti poco stimolanti che gli

sono attribuiti. Alfonso si nutre di saggi e scritti filosofici per sottrarsi

per qualche ora alle triste realtà: ”Dopo quell’ora passata con gli

idealisti tedeschi, gli sembrava sulla via che le cose lo salutassero” 3 3

ma è un rifugio oramai anacronistico, un vano tentativo quello di

cercare valori e sicurezze in cui nemmeno lo stesso protagonista crede

davvero. Da tale condizione di resa deriva anche il tema dello

sdoppiamento tra un’etica pubblica e un’etica privata dell’individuo.

Doppio comportamento sotto cui si cela l’insicurezza, l’incapacità di

saldare il destino individuale a quello storico; “il personaggio esiliato,

sradicato da se stesso e dalle sue origini sbaglia sempre i tempi del suo

intervento pubblico. Ruolo buffo ma doloroso al tempo stesso” 3 4 .

33
I. SVEVO, Una vita, in Opere, cit., p. 181
34
G. A. CAMERINO, Svevo e la crisi della Mitteleuropa, cit., p. 79.

21
L’estraneità dell’uomo alle cose è il prezzo che si deve pagare

alla razionalità scientifica: la vera e propria tecnicità come dominio si

nutre non tanto di enti e oggetti quanto di coscienze 3 5 . L’ansia di

conoscere al fine di poter trarre dei vantaggi ha reso l’individuo

schiavo di un altro individuo, spinto dal conseguimento dell’utile. Così

il sentimento autentico di Alfonso per Annetta viene visto solo come

un facile sistema per avere accesso alle alte sfere dell’economia e del

sistema bancario, e la stessa giovane dimostra quanto poco valesse la

sua affezione per il Nitti. L’interiorità non conta, l’importante è fare in

modo che tutto sia riordinato dall’autorità paterna 3 6 , vero e unico

potere dis-ponente, che affronta le questioni personali con lo stesso

distacco di affari pubblici. Il privato, l’intimo non sono in fondo che il

debole riflesso della manifesta attività pubblica; il soggetto resta

impotente rispetto a ciò che sembra determinarne non solo il contenuto

ma persino la struttura. L’individuo deve oggettivarsi per restare

soggetto, deve offrirsi al mondo per tutelare la validità sociale del

proprio agire.
35
La successiva riflessione heideggeriana, in particolare quella più tarda, non fa che confermare ed
approfondire un motivo sostanzialmente kierkegaardiano e poi decadente: la impossibile conciliazione
di esistenzialità ed entità in un presunto oggettivo. L’Essere è dimenticato esattamente nel distacco
tecnico tra soggetto e oggetto. Tutto ciò che si presenta all’individuo come “altro” deve fare i conti con
ciò che di “Altro” vi è nei bisogni della coscienza. La crisi delle coscienze divise, come quella di
Svevo, è conseguentemente di natura ontologica, dato che ogni ente e quindi il “mondo” si presentano
nella loro estraneità.
36
Anche questo è un motivo non casualmente ricorrente nella letteratura anti-idealistica: Leopardi e
Kafka hanno proprio nel padre il primo gradino dell’alterità negativa, e l’autorità paterna, lungi
dall’essere semplicemente respinta, è avvertita come lontana, inaccessibile e imperturbabile: figura
della potenza demiurgica e oggettiva.

22
Adorno nei Minima Moralia parlerà proprio del carattere di

negatività che appartiene al moderno rapporto esistente tra l’uomo e il

mondo, nonché tra individuo e individuo. In primo luogo, a partire dal

disincantamento scientifico della natura, non è più possibile nessun

rapporto diretto con la vita, la tradizione e il mondo. Tale rapporto

deve infatti essere mediato dal lavoro, dalla coscienza, dal linguaggio.

In secondo luogo, il rapporto tra l’uomo e il suo mondo è caduto

vittima di uno sconvolgimento profondo, dovuto al fatto che i rapporti

produttivi sono autonomi rispetto al lavoro “vivente”. E la reificazione

e lo sfruttamento della natura si ritorcono inevitabilmente contro

l’uomo, che deve porsi il problema di dare “l’alt all’estremo male” 3 7 .

37
T. W. ADORNO, Minima Moralia, tr.it di R. Solmi, Einaudi, Torino 1994, p.285

23
Svevo avverte il senso del negativo come un peso incombente

derivante sostanzialmente dal basso, dal puro ontico: è il sartriano

“pratico inerte” che sovrasta l’uomo e ne mina la possibilità di

giudizio. La negatività risiede proprio nella smisurata potenza che

l’inessenziale assume in un’esistenza resa per se stessa inessenziale

alla totalità, tanto da riuscire a mascherarsi da “coscienza sociale” o da

valore comune. Intendere la alterità sociale sul piano ideale, ossia sul

piano della costruzione teorica, significa in realtà dedurla e negativo,

ossia come il rovescio possibile della cattiva sostanza, del mondo

alienato. Ma l’idea di una possibile conciliazione deve collocarsi alla

fine del processo dialettico, che obbliga a prendere coscienza che il

“tutto” è il “non vero”.

“Tutti i progressi della civiltà sono regressi dell’individuo. Ogni

progresso nella tecnica istupidisce per quella parte il corpo

dell’uomo…Così ai nostri giorni sono istupiditi ad esempio i fabbri,

che un tempo da un blocco di ferro sapevano a forza di fuoco, di

martello e di scalpello foggiare qual si volesse oggetto, che oggi sanno

appena adattare e congiungere con le viti pezzi fatti che arrivano dalle

fabbriche o dalle fonderie…E al loro posto sono subentrate le masse di

tristi e stupidi operai delle fabbriche che non sanno che un gesto, che

sono quasi l’ultima leva delle loro macchine” 3 8 .

38
C. MICHELSTAEDTER , La persuasione e la rettorica, Sansoni, Firenze 1958, pp. 110-112.

24
Se l’universo positivista fondava le sue certezze nell’assolutezza

dei concetti di spazio e tempo, di causa ed effetto, ora le nuove teorie

relativistiche e psicanalitiche rimettono tutto in discussione. I vecchi

schemi della cultura positivistica sono distrutti e totale è il ripudio dei

miti consolatori dell’Ottocento. Il disagio delle masse, la povertà e la

frustrazione di quanti lavorano nelle industrie, non consente più di

credere alle costruzioni idealistiche di Hegel, che fa della storia la

manifestazione dello spirito assoluto. Marx, che si fa interprete dei

malesseri del suo tempo mostra come la persona si sia trasformata in

lavoratore, considerata solo “una bestia da soma con la finalità del

guadagno” 3 9 . E’ un uomo alienato, quello intrappolato nell’ingranaggio

della società capitalistica, appiattito dalla logica dell’avere. “Conobbi

un grande uomo d’affari. Tutta la sua vita è stata dedicata agli affari,

tanto che l’uomo in lui non trovò altra espressione di vitalità che

nell’immaginare continuamente nuovi mezzi per accumulare denari.

Intorno a lui causa tale fenomenale attività, dilagò molta felicità; i

figlioli, la moglie, furono portati addirittura in una classe

superiore…” 4 0 . La riappropriazione di sé consiste nel recupero di un

rapporto pieno fra uomo e natura come fra uomo e uomo; è recupero

della totalità dell’individuo, di tutti i suoi sensi, fisici e spirituali, che

39
C. MARX, Opere filosofiche giovanili, tr.it. di G. Della Volpe, Editori Riuniti, Roma 1963, p.200.
40
I. SVEVO, Sulla teoria della pace, in Opere, cit. p. 662.

25
non si esaurisce nel possedere e nell’avere. E’ dunque la vita che

determina la coscienza e, in questo senso, si può dire che la morale, la

metafisica, la religione, non conservano che una parvenza di

autonomia. La coscienza porta la maledizione di essere infetta dalla

materia.

26
Svevo nei suoi primi scritti lascia trapelare delle simpatie di

carattere politico, che scompaiono del tutto nei successivi romanzi, a

partire da Una vita. Ben lungi, dunque, da interpretare la condanna del

mondo borghese con teorie di stampo marxistico, secondo quanto

asserisce la critica di stampo comunista applicando la teoria del

rispecchiamento, essa va letta piuttosto come una dichiarazione di

impegno ideologico. Ne La tribù, unico racconto in cui la prospettiva e

il tema sono dichiaratamente politici, lo scetticismo dell’autore nei

confronti delle teorie politiche in generale e del socialismo scientifico

risulta evidente. A suo parere l’egoismo personale di ogni uomo

basterebbe ad inficiare una dottrina tanto utopica e astratta. Lo

scrittore non ritiene possibile che gli uomini, in futuro, vivano liberi e

uguali grazie a mutate condizioni economiche: l’impulso della

“volontà” schopenhaueriana che vuole se stessa è tale da impedire un

assetto in cui tutti abbiano uguali diritti e uguale libertà. Del resto di

ideologie, di valori universali si servono le classi più potenti per

mantenere il loro predominio sulle altre: un pensiero che si deduce dal

comportamento di Achmed, il giovane della tribù nomade che

dell’Arabia, dopo aver assimilato i sistemi dell’economia occidentale,

vorrebbe imporli al suo gruppo convertendolo ad una produzione

industriale, per potersi arricchire per primo. Ma il saggio Hussein

comprende la catastrofe a cui andrebbe incontro e lo fa cacciare.

27
Nel sistema capitalistico la cosa domina sull’uomo, il prodotto

sul produttore, non sono i mezzi di produzione ad essere utilizzati, ma

l’operaio da essi. Di qui l’alienazione, perché la cosa viene

personificata e la persona reificata. Si pensi al modo in cui Alfonso

Nitti viene trattato al momento della morte, allorchè viene trovato

suicida nella sua camera: egli viene trattato alla stregua di una cosa,

tanto che nessuno si preoccupa di riferire della sua morte in paese, ma

con un semplice telegramma la questione viene risolta. Del resto il

compito dell’operaio, come quello di Alfonso, è solo quello di mediare

il lavoro della macchina, nel caso del protagonista di riscrivere ciò che

i superiori gli ordinano. Il lavoro, così, non è più espressione di un

sapere, che invece è incorporato nella macchina; non sta più all’inizio

del processo produttivo e di trasformazione, ma alla fine.

Profondo esaminatore della crisi che si sviluppa tra i due secoli,

Freud, altro riferimento del retroterra sveviano, dedica un intero

saggio al “disagio della civiltà”, in cui si spiegano le motivazioni della

sofferenza umana, costretta a reprimere le pulsioni vitali. La

rivoluzione della teoria psicanalitica, infatti, consiste nella

acquisizione della perdita di centralità della coscienza e infligge una

profonda ferita narcisistica al sapere fino ad ora sistematizzato.

28
La dimensione dell’inconscio distrugge l’illusione di essere

padroni della propria interiorità: la coscienza e la razionalità umane

sono costantemente insidiate da emozioni e passioni che ne

relativizzano il ruolo. Ma per vivere in società occorre inibire certe

pulsioni sessuali e aggressive, sublimandole in mete e oggetti diversi

da quelli originari. In questo modo l’individuo cerca di dominare e

trasformare la realtà al fine di rendere la vita della collettività sempre

più sicura e per certi versi appagante. Svevo trae dalla psicanalisi uno

stimolo e una maniera più sicura di addentrarsi nei meandri dell’Io, ma

non si lascia condizionare e travolgere. In alcuni passi de La coscienza

di Zeno egli resta fedele alla dottrina freudiana, ma in linea di massima

è solo una chiave esegetica globale che consente di vagliare meglio il

suo “realismo critico”. Freud, pertanto, è un pretesto per riaffermare la

malattia dell’uomo, per descriverla e comprenderla meglio, tanto che

quando le teorie psicanalitiche non gli sono più utili, se ne sbarazza

con pungente ironia, quella che pervade tutta l’analisi del paziente

Zeno. Ma la malattia di cui è colpito Zeno e con lui tutta la civiltà

occidentale è anche una “malattia storica”, nel senso usato da

Nietzsche. L’uomo è stato ridotto a contenitore di coscienza storica,

passivo spettatore degli eventi, incapace di vivere il presente. Il sapere

non fine a se stesso, ma preludio dell’utile, la storia che grava sulle

29
spalle della società moderna, vanno combattuti perché impediscono

all’uomo di “fissarsi sulla soglia dell’attimo” 4 1 .

Il singolo è una enciclopedia ambulante, ha perso il contatto con

sé, con la sua interiorità, indossa l’abito logoro delle convenzioni e

dell’imitazione. “Dio è morto” 4 2 , proclama Nietzsche, operando un

totale azzeramento di valori che decreta il rifiuto assoluto di ogni

ideale e valore su cui la civiltà ha costruito per secoli la propria regola

di comportamento. L’irruzione del nichilismo tradisce il nulla che ne

era il fondamento nascosto; la terra si snatura e va verso la sua

decadenza: se Dio è morto non ha più senso parlare di bene e di male,

di giusto e di ingiusto, la verità stessa è labile, perché chi dovrebbe

conoscerla o constatarla ha perso il potere di ri-conoscerla e fissarla

come contenuto di coscienza. Lo constateremo con il cinico quanto

disilluso Zeno che non sa più vivere ma si osserva vivere, perché ha

perso per sempre la spontaneità nel rapportarsi alla vita e ha

smascherato l’ipocrisia e l’egoismo che soli dominano incontrastati.

41
F. NIETZSCHE, Così parlo Zarathustra, cit., p.28.
42
Ivi, p. 167.

30
Ma Zeno è solo l’ultimo gradino della disillusione, talmente

inoltrato nella crisi da non distinguersi da essa. Alfonso Nitti è invece

un giovane povero di un paesino del Carso che si reca in città, a

Trieste, per trovare fortuna: “Alfonso era venuto in città apportandovi

un grande disprezzo per i suoi abitatori; per lui essere cittadino

equivaleva ad essere fisicamente debole e moralmente rilasciato, e

disprezzava quelle ch’egli riteneva fossero le loro abitudini sessuali,

l’amore alla donna in genere e la facilità dell’amore” 4 3 . Alfonso vive di

slanci ideali, lontano dalle invidie e dalle gelosie che si agitano nel

posto di lavoro. E la sua alienazione viene proprio dal non poter

trovare all’esterno uno sbocco alle sue ambizioni. ”Stanchezza?

Somigliava piuttosto a nausea. Lentamente il suo lavoro di giorno in

giorno aumentava, ma in qualità di poco o nulla mutava. In un’intiera

giornata egli aveva da costruire uno o due periodi; aveva invece da

copiare innumerevoli cifre, ripetere innumerevoli volte la stessa

frase” 4 4 . Ha una interiorità complessa, mista di egocentrismo e

pavidità, voglia di imporsi socialmente e desiderio di rifugiarsi in un

mondo sicuro, quello degli ideali, che legge sui libri. E’ costretto a

scendere al compromesso più volte accettando i rimproveri dei capi e

le esteriorità borghesi. Il disagio appare in tutta la sua forza nella

43
I. SVEVO, Una vita, in Opere, cit., p. 181.
44
Ibid.

31
lettera che invia alla madre. Dalle parole del Nitti traspare il suo stato

d’animo dominante: l’insofferenza verso la città e i cittadini, “il

disgusto e il rovello per la meschina e grigia esistenza quotidiana che

contrasta con le sue attitudini di letterato, i suoi sogni di successo, le

sue chimere e i suoi generosi slanci ideali” 4 5 . Alfonso si pone degli

interrogativi, riflette sulla morale, sull’amore, sulla morte, pensieri

che non interessano più nessuno se non nel loro aspetto pratico, come

delle norme che la società Leviatano impone per regolare e garantire la

convivenza tra gli uomini. Vuole cercare la verità, quella che si è persa

dietro un sapere che ha solo uno scopo funzionale, che ha reso il

pensiero estraneo a sé. “Gli uomini pagano l’accrescimento del loro

potere con l’estraniazione da ciò su cui lo esercitano. L’estraniazione

degli uomini dagli oggetti dominati non è il solo prezzo pagato per il

dominio: con la reificazione dello spirito sono stati stregati anche i

rapporti interni fra gli uomini, anche quelli di ognuno con se stesso” 4 6 .

45
S. DEL MISSIER, Italo Svevo, cit., p. 66.
46
M. HORKHEIMER; T.W. ADORNO, La dialettica dell’illuminismo, tr.it. di L. Vinci, Einaudi, Torino
1966, p. 193.

32
Attraverso la sua trasformazione in epistéme che mira al

dominio, il pensiero fa violenza a se stesso, smarrisce la sua vera

essenza. Alfonso cerca di recuperare quelle verità che nulla hanno a

che fare con l’utile o con il profitto e progetta addirittura un libro: “Il

titolo intanto: l’idea morale nel mondo moderno e la prefazione in cui

dichiarava lo scopo del suo lavoro. Era uno scopo teorico senza veruna

utilità pratica…” 4 7 . Anche in questo caso dovrà però fare i conti con la

realtà, più precisamente con il desiderio di successo di Annetta a cui si

vede costretto a sacrificare la sua inventiva e i suoi propositi per un

romanzo ciarliero e dai contenuti scialbi. “Ella rimase sempre ferma al

suo primo giudizio, che Alfonso bensì disponesse di un maggior

numero di idee elevate, ma che non sapesse unirle a farne un buon

romanzo. Era troppo greve e troppo grigio. Prima o poi si sarebbe

conquistato un bel nome con qualche buona opera filosofica, ma con un

romanzo no, era cosa troppo leggera per lui” 4 8 . Ma per amore, perché

lui crede che “una donna è la dolce compagna dell’uomo, nata piuttosto

per essere adorata che abbracciata” 4 9 , si rimette ai desideri di Annetta,

per vederla entusiasta e desiderosa di incontrarlo. Non considera che

lui è un subalterno, che ci potrebbero essere difficoltà perché lei è

ricca ed è la figlia del principale. Macario, cugino della Maller, lo

47
I. SVEVO, Una vita, in Opere, cit., p.202.
48
Ibid.
49
Ibid.

33
redarguisce: “Che cosa ci ha da fare il cervello? E lei che studia, che

passa ore intere a tavolino a nutrire un essere inutile! Chi non ha le ali

necessarie quando nasce, non gli crescono più. Chi non sa piombare a

tempo debito sulla preda non lo imparerà giammai e inutilmente starà a

guardare come fanno gli altri” 5 0 .

Alfonso non ha le ali e nemmeno desidera averle. Semplicemente

decide di non scegliere. Sta in questa inerzia la sostanziale inettitudine

del personaggio, in balia di rimorsi e di una continua girandola di

pensieri. L’individuo incapace rifiuta lo sforzo e ricerca il mito, non

come piacere estetico ma come esperienza morale e drammatica, come

tentativo di preservarsi da ogni forma di indebolimento, di

degradazione e di annientamento.

Il malessere di Alfonso ha anche un risvolto sociale, perché si

trova in continuo conflitto con la borghesia di cui vede i limiti e che

qualche volta lo seduce tanto da desiderare di essere integrato: “Era

stata una felicità strana….vedere gli altri tutti in lotta per il denaro e

per gli onori e lui rimanere tranquillo, soddisfatto al sentirsi nascere

nel cervello la genialità, nel cuore un affetto più gentile di quello che

di solito gli umani sentono…Ora invece questi lottatori che egli

50
Ivi, p. 181.

34
disprezzava lo avevano attirato nel loro mezzo e senza resistenza egli

aveva avuto il loro desideri, adottato le loro armi” 5 1 .

51
Ivi, p.297.

35
Sono i superiori che dimostrano di saper vivere, di assolvere con

naturalezza al proprio ruolo raggiungendo il loro scopo di ascesa

sociale, a sottolineare l’estraneità, l’emarginazione e la lacerazione tra

mondo privato ed esperienza pubblica di chi non riesce ad essere

realmente integrato. A riguardo commenta l’impiegato Nitti: “Non

poco aumenta i miei dolori la superbia dei miei colleghi e dei miei

capi. Forse mi trattano dall’alto in basso perché vado vestito peggio di

loro. …Se mi dessero in mano un classico latino lo commenterei tutto,

mentre essi non ne sanno nemmeno il nome” 5 2 . Ma ben presto si

accorgerà che le sue doti, per la verità più supposte che reali, non gli

servono e che è incapace di mettersi al passo con la vita degli altri. Il

signor Maller, Macario, la stessa Annetta e persino Gustavo Lanucci

rappresentano gli antagonisti vincenti, la possibilità accertata di far

valere le proprie ragioni, di imporsi sugli uomini e sulle circostanze.

Sono persone “pratiche”, che non sanno di essere solamente degli

ingranaggi nella macchina produttiva e che quindi lo sono meno di

Alfonso, capaci di gioire nonostante i compromessi, l’ipocrisia, senza

bisogno di voli idealistici o fughe nel sogno. “Alfonso non ha preso

nulla: è stato preso; può accettare questa sorte, non può volerla per sua

libera scelta. Potrebbe amare Annetta se lei volesse amarlo, se lei

accettasse una parte in qualche modo subalterna nella loro vita

52
Ivi, p. 132.

36
comune, ma in nessun modo può ora rinunciare a vederne i difetti, in

nessun modo gli riesce di intravvedere la possibilità di una sua

condizione di principe consorte” 5 3 . Solo i cittadini, i superiori, gli

altri possono scegliere, perché non ne hanno bisogno. Come funzionari

di un apparato kafkiano essi semplicemente vivono per la parte che è

concessa loro: in Svevo, in Alfonso, nella filosofia, questo è

insopportabile.

§ 1.2. I N E T T I T U D I NE E SE NIL IT À AL L A P RO VA DE L L ’ E SIST E NZ A

53
I. SVEVO, Carteggio con Eugenio Montale, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1976, p.127

37
“Una vita” è il ritratto di un inetto. Ciò significa che Alfonso

Nitti diventa l’emblema di un particolare rapporto dell’uomo con la

vita. Il Nitti è un sognatore, con un “forte, irriducibile scompenso tra

le facoltà pratiche, fra la sovrabbondanza della vita interiore (analisi

costante di sé e dei propri stati d’animo, fantasticherie, impulsi

generosi, ambizioni letterarie e filosofiche) e la scarsezza o

l’inconsistenza della vita esteriore, a contatto diretto con la realtà” 5 4 .

Alfonso è fiero della propria cultura e crede che prima o poi le sue doti

intellettive gli consentiranno di ottenere consenso e stima. Ma si

sbaglia. Il suo è un animo romantico fuori tempo, infatuato dalla

letteratura, a cui si aggiunge il potere di credersi diverso da quello che

è: tra accenni di superomismo (che Svevo condanna in quanto

immorali) e segreta voluttà di pianto, il protagonista rinuncia piano

piano alla vita che sa dirigere solo nel suo pensiero, nei suoi astratti

sistemi da buon teorico. Appare come un impiegato di scarso

rendimento, cosa che per lui è fonte di dispiaceri, continue umiliazioni

e trasferimenti da un incarico all’altro. La coscienza di questa

debolezza conduce da un lato al rifiuto sempre più radicale del mondo

esterno, al rifiuto costituzionale della lotta e dell’impegno pratico, e

dall’altro a un tormentato sentimento di inferiorità.

54
B. MAIER, Italo Svevo, Mursia, Milano 1980, p.37.

38
Non migliore è il suo ingresso in casa Maller, quando deve

sottostare alle umiliazioni e alle beffe di Annetta, che altro non fanno

se non acuire il suo senso di inadeguatezza. Quando poi la conquista,

egli si illude che la notte d’amore trascorsa con la ragazza sia il

risultato della sua azione, del suo temerario ardire. Nella scena della

seduzione egli invece mostra la sua indole di spettatore passivo: è

freddo, ragionatore, non riesce ad abbandonarsi alla gioia dell’attimo,

pensa a fare congetture e a comportasi secondo quanto ha letto sui libri

in merito ai cerimoniali d’amore (risponde al saluto di Annetta

agitando il cappello; prima di andarsene sa che è suo dovere

consolarla). Il suo candore, che lo rende ridicolo di fronte alle

maliziose asserzioni dei colleghi, gli suggerisce di cercare una resa con

i Maller, accettando la proposta di allontanarsi per qualche tempo da

Trieste. Quando Francesca lo ammonisce di non partire, perché così

per lui sarebbe stato tutto perduto, egli al contrario si acquieta

sentendo scomparire i sensi di colpa e i rimorsi. “Era una soluzione

felice perché, mentre gli aveva temuto di venir costretto a fare lui la

parte di traditore, tutto ad un tratto diveniva il tradito e non gli restava

altro compito che di dare generosamente il suo perdono, cosa facile e

aggradevole” 5 5 . “L’inettitudine è il riflesso dell’inazione, dello stato di

rinuncia e di quiete e della lontananza dalla lotta. È la rinuncia alla

55
I. SVEVO, Una vita, in Opere, cit., p.306.

39
lotta a determinare l’inettitudine in Svevo, mai viceversa; è un punto

di arrivo e mai di partenza e il suicidio non è che l’approdo ultimo di

questa concezione, perché rinuncia definitiva all’azione” 5 6 .

56
G. A. CAMERINO, Svevo e la crisi della Mitteleuropa, cit., p.90.

40
Alfonso, quindi, risolve di tornare al paese natio dove gli si

prepara un’altra sciagura: la madre è gravemente ammalata e in breve

tempo sopraggiungerà la morte. Le cose non andranno meglio al ritorno

a Trieste, dove l’accoglieranno solo il rifiuto e il disprezzo dei

superiori, fino alla sfida a duello di Federico Maller, per riscattare

l’onta subita. Sebbene più vicini alla sua condizione sociale, Alfonso

si sente distante anche dai Lanucci, incapace di condividerne i desideri

e le avversità quotidiane. Si improvvisa educatore di Lucia ma ben

presto si troverà di fronte al fallimento dei suoi sforzi perché la

giovane non ha le capacità per rispondere adeguatamente alle sue

aspettative. E lui dimostra di essere un insegnante poco attento e

affatto interessato a trasmettere il suo sapere, piuttosto, al contrario

bramoso di essere ammirato e adulato. Sarà proprio Lucia nella sua

qualità di scolara testarda e piagnucolosa a dargli un’ulteriore prova

del suo astrattismo, insinuando che non basta aver studiato per saper

insegnare. Ancora una volta è in scena la sua incapacità di vivere, di

capire il nocciolo della situazione e di agire di conseguenza. “Con

l’inazione o rifiuto dell’azione si vuole dunque evitare lo stato di

sofferenza e di disagio del singolo inserito nell’ingranaggio sociale

moderno…Come per l’ascesi di Schopenhauer il procedere casuale

dell’impassibile natura conferisce legittimità all’inazione e all’assenza

41
della vita” 5 7 : una estraneità alla vita che si traduce in disposizione alla

morte. Così il romanzo termina con il suicidio del Nitti, un gesto di

natura razionale, degno di un teorico qual egli è. Un atto che

“rappresenta il trionfo della ragione che punisce e doma per sempre un

organismo incapace di competere e lottare eppure irrimediabilmente

attratto dall’istinto della vita, causa prima della sua umiliazioni e delle

sue sciagure” 5 8 . Togliendosi la vita egli ricompone il suo dissidio

individuale, di cui è pienamente consapevole. Eppure non vi aderisce

con la tranquillità d’animo di chi compie una conquista spirituale, ma

dopo un procedimento deduttivo teorico e razionale: “No, egli

ragionava calmo! Schierava dinanzi alla mente tutti gli argomenti

contro il suicidio, da quelli morali ai predicatori, a quelli dei filosofi

più moderni; lo facevano sorridere! Non erano argomenti ma desideri,

il desiderio di vivere…Quella era la rinunzia che aveva sognata.

Bisognava distruggere quell’organismo che non conosceva la pace;

vivo avrebbe continuato a trascinarlo nella lotta, perché era fatto a

quello scopo ” 5 9 . In questo caso Svevo si distacca da Schopenhauer,

che sa che togliersi la vita non annulla la volontà, e considera la

differenza che intercorre tra l’individuo privato e quotidiano delle sue

storie e l’individuo filosofico di Schopenhauer. “Il suicidio, lungi

57
Ivi, p.85
58
Ivi, p.90.
59
I. SVEVO, Una vita, in Opere, cit., p.423.

42
dall’essere negazione della volontà…è un atto di forte affermazione

della volontà stessa…me deriva che la distruzione di un fenomeno

isolato è azione in tutto vana e stolta” 6 0 . Così il suicidio che non è

accettabile per l’uomo concepito dalla filosofia, deve invece essere

tollerato e perdonato all’uomo come singolo, come individuo concreto

e limitato. ”La morte è l’ammirevole liquidazione della vita. Quando il

filosofo amaro ghigna che il suicidio non è altro che un palliativo,

come tutti coloro che per vedere meglio s’innalzarono di troppo.

Vedono il paese, non l’albero, non la casetta. Il destino del singolo è

piccolo anche dinanzi alla morte. Per la morte il piccolo singolo

rientra privo di ogni responsabilità nella vita generale e vi si annulla.

Come non riconoscere che la morte cancella ogni dolore per le nostre

sventure, per le nostre debolezze e per i nostri errori? La debolezza è

memoria” 6 1 sembra ribattere Svevo proprio a Schopenhauer.

60
A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, tr.it. di A. Vigliani, Mursia, Milano
1982, p. 201.
61
I. SVEVO, Racconti, saggi e pagine sparse, in Opere, cit., p.840.

43
Nel Dialogo di Plotino e Porfirio di Leopardi il filosofo greco è

intento a dissuadere il suo discepolo Porfirio dall’intento di suicidarsi.

A Porfirio, che ha constatato l’assurdità del vivere, il maestro non

controbatte da una prospettiva filosofica o morale, ma in nome di quel

sentimento che fa sentire solidali con gli altri uomini costretti alla

stessa sventura. “Il destino dell’uomo è piccolo anche dinanzi alla

morte” sostiene Svevo, e in effetti il suicidio, una volta divenuto “il

solo autentico problema filosofico” 6 2 resta imbrigliato nelle miserie di

una soggettività ormai frantumata e non può trovare antidoti che nelle

stesse, non teorizzabili, debolezze umane.

62
A. CAMUS, L’uomo in rivolta, trad.it. di A. Borelli, Bompiani, Milano 1984, p. x.

44
Alfonso è la personificazione dell’affermazione

schopenhaueriana della vita tanto vicina alla sua negazione. “Gli

argomenti che il protagonista considera pro e contro il suicidio sono

l’estremo tentativo di ricomporre, su un piano razionale, la frattura fra

organismo fisico e volontà morale, tra desiderio istintivo di vita e il

rifiuto totale della vita e dell’azione” 6 3 . Solo con la morte l’individuo

cessa di essere in balia di dubbi e lotte perché l’esistenza del Nitti fino

all’ultimo è estranea al suo proprietario. Scrive Svevo: “E pensando

che quando morirò morrà con me il dubbio, la mia lotta con me stesso e

gli altri, tutta la mia curiosità e tutta la mia passione, io, davvero,

penso che il mondo avrà dalla mia morte una grande

semplificazione” 6 4 . Con la morte muore l’eccezione, il non-vivente

della vita e resta, a seguito del suicidio, non un vuoto nel mondo,

quanto la restituzione di quel pieno originario che un soggetto

tormentato non può coprire con la propria osservazione esclusiva e,

quindi, propriamente esclusa.

63
G.A. CAMERINO, Svevo e la Mitteleuropa , cit., p. 92.
64
I SVEVO, Racconti, saggi e pagine sparse, cit., pag.424.

45
“Era possibile che in quella casa qualcuno lo osservasse per

gioire del suo dolore. Era un’idea sciocca, nessuno più di lui si

occupava, neppure per fargli del male” 6 5 . Il mondo rivela, dietro

l’apparenza razionale del suo essere fenomenico (il mondo come

rappresentazione), una essenza, un fondo oscuro e irrazionale, non

coglibile con l’intelletto. Ogni decisione di Nitti sembra non avere gli

effetti sperati sulla realtà, che in verità sono sconnessi, e di caricarli di

significati diversi, più rassicuranti, che diano l’illusione di poter

dominare l’esistenza. Alfonso è sempre pronto a rimuginare, tenta di

rimettere ogni cosa al suo posto per poter rasserenare il suo animo.

65
I. SVEVO, Una vita, in Opere, cit., p.251.

46
All’inizio della sua avventura a Trieste è pieno di buoni

propositi, è certo che si imporrà all’attenzione della collettività, non

quale prezioso dipendente della banca Maller, ma come letterato. Sente

il desiderio di amare una donna anche se, da pavido, rinuncia alla

conquista appena scorge un piccolo segnale di insofferenza: dopo aver

avvicinato Maria e essere riuscito a fissare un appuntamento, non sa

risolversi ad abbandonare la biblioteca e perde l’occasione di

conoscerla. Nitti, dunque, è convinto di vivere in piena autonomia la

propria centralità di soggetto. Ma il suo animo, presto in dissidio con

ciò che è altro, non riesce mai a scegliere con serenità e chiarezza,

con adesione totale. “L’abboccamento era stato fissato per quelle ore e

all’ultimo momento egli aveva deciso di non andarci. Ebbe poi un

cocente rimorso della sua azione, ma non potè ripararvi perché non la

rivide mai più”. E’ la vita a determinare l’esistenza del Nitti, una

eventualità che detta ogni scelta e gesto e a cui egli cerca invano di

resistere. L’intelletto stesso, con la riflessione che smorza l’azione,

diventa servitore della vita, la quale non rivela scopi e finalità

passibili di una comprensione intellettiva, ma si offre cieca e

irrazionale, e non si propone altro scopo che la propria continuazione.

Proprio come la volontà di vita in Schopenhauer.

47
“Fenomeno è rappresentazione e nulla più; e ogni

rappresentazione , ogni oggetto di qualsiasi specie è fenomeno. Cosa in

sé è soltanto la volontà che a tal titolo non è affatto fenomeno, anzi ne

differisce toto genere…La volontà è la sostanza intima, il nocciolo di

ogni cosa particolare e del tutto; è quella che appare nella forza

naturale cieca, e quella che si manifesta nella condotta ragionata

dell’uomo…” 6 6 . Alfonso ne ha consapevolezza ma vorrebbe svincolarsi

da questa ferrea necessità, non riuscendo ad assecondarla come farà

invece Zeno, l’“uomo onda”: per questo motivo è uno sconfitto già in

partenza.

66
A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., p.148.

48
La volontà vuole se stessa, sfrutta ogni occasione per affermarsi,

senza avere di mira un fine ordinato e comprensibile nella logica

umana. L’unica soluzione che il protagonista pensa di aver trovato è

scegliere di non scegliere, intendendo sottrarsi a questa drammatica

lotta. “Si trovava, credeva, molto vicino allo stato ideale sognato nella

sue letture, stato di rinunzia e di quiete. Non aveva più neppure

l’agitazione che gli dava lo sforzo di dover rifiutare o rinunziare. Non

gli veniva più offerto nulla; con la sua ultima rinunzia egli si era

salvato, per sempre, credeva, da ogni bassezza a cui avrebbe potuto

trascinarlo il desiderio di godere” 6 7 . Credeva, sottolinea Svevo, perché

solo con la morte può cessare l’alternanza di dolore e noia; Alfonso

avverte spesso “quello stato di noia in cui le cose gli apparivano

grigie”. L’uomo tende al piacere, ma questo stimolo ha per condizione

uno stato di bisogno e quindi di dolore; poi, soddisfatto questo

desiderio, subentra la noia, fino ad un ulteriore stato di agitazione.

“…Un eterno divenire, una corsa senza fine, ecco la caratteristica con

cui si manifesta l’essenza della volontà. Di tal natura sono infine gli

sforzi e i desideri umani, che ci fanno brillare innanzi la loro

realizzazione come fosse il fine ultimo della volontà; ma non appena

soddisfatti, cambiano fisionomia; dimenticati, o relegati tra le

67
I. SVEVO, Una vita, in Opere, cit., p. 382.

49
anticaglie, vengono sempre, lo si confessi o no, messi da parte come

illusioni svanite” 6 8 .

68
A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., p. 203.

50
La legge naturale non è che l’esplicazione necessaria e

infallibile della forza: nel suo modo di manifestarsi la volontà si

presenta infatti lacerata da una insuperabile conflittualità. La natura, a

tutti i livelli, mostra uno spettacolo desolante di lotta e sopraffazione.

Alfonso ne avverte tutto il dolore quando si sente in colpa per lo stato

ansioso in cui è ridotto il collega Fumigi, a cui Annetta si è rifiutata

come sposa. Questa lotta per la sopravvivenza non è intesa

darwinianamente, perché chi ne esce vincitore non è il migliore, ma il

più furbo, il più scaltro, il tipico prodotto della società capitalistica, il

saccente Macario. “Il conflitto interno della volontà oggettivandosi in

tutte queste idee si manifesta nella implacabile guerra di sterminio che

si fanno a vicenda gli individui di quelle specie…Il teatro e l’oggetto

di questa lotta è la materia, di cui gli avversari cercano di strapparsi a

viva forza il possesso; è il tempo e lo spazio, la cui riunione nella

forma di causalità costituisce propriamente la materia” 6 9 . È la natura

matrigna di Leopardi, non portatrice di valori perché essa stessa per

prima è cinica e indifferente al dolore umano. “Il fine della natura

universale è la vita dell’universo, la quale consiste egualmente in

produzione, conservazione e distruzione dei suoi componenti” scrive il

poeta nello Zibaldone. La natura è nemica dell’uomo e dell’intero

universo, mossa da forze cieche e non si può dare spiegazione del

69
Ivi, p. 200.

51
dolore, della vita, dell’infelicità, del fine dell’esistenza. A suo modo

(senza le motivazioni apparenti che si danno all’intelletto, direbbe

Schopenhauer), ogni essere, anche inanimato, è inciso dalla sofferenza,

come unica e reale dimensione dell’esistere; allora il giardino descritto

ne “Il giardino del male”, dove tutto è dolore e sofferenza, appare la

metafora allegorica dell’universo e della nostra drammatica presenza.

52
Anche l’individuo descritto da Freud è destinato all’infelicità,

perché in lui agiscono le pulsione sessuali e quelle di realtà, che sono

sempre in contrasto. Le prime, riferibili al principio di piacere, hanno

quale finalità ultima la conservazione delle specie, mentre le altre si

propongono di assicurare la sopravvivenza dell’individuo; entrambe

sono mosse dalla medesima energia libidica che però è disponibile in

quantità finita. Ciò significa che il conflitto nasce per appropriarsi di

maggiori quantitativi possibili di energia; in altri termini, si tratta

dell’opposizione tra processo primario e secondario, l’uno legato al

pensiero inconscio, l’altro al preconscio e alla coscienza. Ma lo

scontro, la lacerazione del soggetto avviene anche in meccanismi che

regolano il funzionamento dell’apparato psichico. Alfonso è costretto a

sottostare alle pressioni della società che lo vorrebbe produttivo,

pratico, rapido, un mero esecutore di quanto gli viene ordinato. La

madre ha la funzione di un Super-Io, anch’essa protesa a vedere il

figlio ben inserito e con un solido stipendio. Il Nitti fatica non poco a

sottrarre qualche energia e convogliarla verso il suo Es, dando sfogo ai

suoi desideri, giusto il tempo riservato al sonno quando gli capita di

sognare l’incontro con Maria: “Sognò fantasticamente di Maria… Gli

diceva ch’ella già sapeva ch’egli all’appuntamento non aveva potuto

venire per forza maggiore. Lo scusava e l’amava” 7 0 .

70
I. SVEVO, Una vita, in Opere, cit., p. 194.

53
“Alfonso Nitti è un personaggio complesso e contraddittorio, in

cui convivono le sollecitazioni più contrastanti: pensa in un modo e

agisce in un altro, vuole e non vuole, crea e distrugge, è calcolatore e

disinteressato, timido e ardito, ha complessi di inferiorità e si sente al

di sopra degli altri, a volte goffo e sventato, a volte controllato nella

parola e nel gesto, ora sciocco e ingenuo, ora perspicace e scaltro, ora

indolente e privo di senso pratico, ora abile e intraprendente, ora

astratto sognatore, ora lucido ragionatore, c’è in lui un pizzico di

vittimismo e uno di titanismo” 7 1 . La sua interiorità è inconciliabile,

caratterizzata dall’incoerenza, dalla contraddizione, dal dubbio: non è

mai totalmente disinteressato o sognatore, né lucido e spietato; quando

sembra essersi risolto verso una condotta da adottare, quando c’è da

prendere posizione, non va mai fino in fondo. Non riesce ad essere

certo di nessuna cosa, è preda degli umori e degli accadimenti del

mondo, senza riuscire a farsi un’opinione di se stesso e dei suoi

sentimenti. “Sempre ancora egli si trovava nella sue azioni in

contraddizione con le sue teorie” 7 2 . Anche in questo caso emerge la

teoria schopenhaueriana della volontà che una, eterna, incausata, senza

scopo, troneggia sull’esistenza di ogni essere vivente, in modo

particolare sull’uomo che può diventare consapevole di quanto gli

71
S. DEL MISSIER, Italo Svevo, cit., p. 217.
72
I. SVEVO, Una vita, in Opere, cit., p. 260.

54
accade. Infatti, questa radice noumenica, che si oggettiva secondo

gradi ascendenti, dagli esseri inanimati all’uomo, trova proprio

nell’essere pensante il suo culmine, perché gli si manifesta

immediatamente nell’autocoscienza. Ma ciò che acquista in coscienza,

egli perde in sicurezza, perché la ragione guida della vita è meno

efficace dell’istinto e fa sì che l’essere umano risulti sempre un

animale malaticcio.

Il Nitti ha squarciato il velo Maya dell’illusione, non riesce più

ad ingannarsi godendo di momentanei piaceri o stati di benessere. Se

intorno a lui tutto sembra essere regolato da una precisa logica, egli si

accorge che non può condurre le sue scelte in modo libero: non solo le

pressioni sociali, ma l’inferno degli egoismi non lascia spazio ad alcun

sentimento di amore e di unione.

55
Emilio Brentani può essere considerato, a buon diritto, un

fratello maggiore di Alfonso Nitti, perché anche lui deve fare i conti

con la sua incapacità e debolezza. L’inettitudine in questo caso diventa

senilità perché non c’è più totale frattura tra individuo e società, ma

una soluzione di compromesso e intenzione di inserirsi nel flusso della

collettività: “la valenza del romanzo si sposta sempre di più sul terreno

ontologico, dell’essenza dell’individuo: malati e vecchi non sono che

gli uomini tutti in quanto tali” 7 3 .

Emilio è meno eroico e meno puro di Alfonso e dimostra

maggiore disponibilità di fronte all’esistenza, all’amicizia, all’amore.

Rimane il suo disagio esistenziale, il potere e abuso dell’introspezione,

una inconcludenza che gli impedisce di agire, acuita da profonda

autocritica. Anche Emilio, come Alfonso, appartiene alla schiera degli

uomini che pensano e non degli uomini che agiscono, “Ma

d’improvviso (…) ecco che l’Uno divenne Due” 7 4 : Emilio accetta lo

sdoppiamento e cerca di imparare dall’amico Balli a godere delle gioie

degli affari di cuore. Vincendo quella sua “debolezza del proprio

carattere, invero piuttosto sospettata che saputa” 7 5 , intraprende

un’avventura amorosa con la bella e sfrontata Angiolina Zarri, senza

comprendere il rischio a cui si espone. “Mi piaci molto ma nella mia


73
G.A. CAMERINO, Svevo e la Mitteleuropa, cit., p.113.
74
F. NIETZSCHE, Sils-Maria (Canzoni del principe Vogelfrei), in Opere,V, II, a cura di F. Masini,
Milano 1964, p.274.
75
I. SVEVO, Una vita, in Opere, cit., p.431.

56
vita non potrai essere giammai più importante di un giocattolo”, 7 6

questa è la misura con cui cerca di tutelare le sue certezze: non si

avvede di essere uno sprovveduto, privo di malizia e incapace di

nuocere agli altri se non involontariamente. Si viene così a creare una

situazione di tragico umorismo pirandelliano, perché a fronte del suo

autoinganno la stessa Angiolina si rivela sempre più astuta ed egoista,

desiderosa solo di ricevere attenzione e ammirazione da tanti uomini.

Il Brentani crede che, indossando la maschera del cinico e ispirandosi

all’amico artista potrà dominare gli eventi e sottrarsi alla sua

implacabile coscienza votata alla responsabilità e costituzionalmente

negata alla spensieratezza. È un modo, in fondo, non solo per vivere

almeno l’ultima parte di quella giovinezza che sta passando (ha 35

anni), ma soprattutto per dimostrare a sé che può vivere come gli altri,

che è normale. Inizia così la frequentazione di Angiolina, o Ange,

come lui da buon sognatore la chiama: ecco le notti di dolce

sentimento, che ben presto lasceranno il posto a inseguimenti e

dispiaceri. Infatti, Giolona, (come l’occhio più attento del Balli la

vede), manifesta sempre più apertamente il piacere di disporre appieno

della sua libertà ,di non rinunciare ai favori che le vengono accordati

perché intende trarre vantaggi da ogni situazione. L’intento di non

subire tante umiliazioni e di lasciar perdere la relazione resta teorico,

76
Ivi, p.431.

57
impraticabile, visto che Emilio, a dispetto delle sue stimate

precauzioni, si è innamorato di Angiolina. Dalla gioia al dolore, vede

trascinare nella sua storia anche il destino della sorella Amalia che

muore di cirrosi perché da tempo dedita all’alcol e lui troppo preso da

altro per accorgersene. “Lungamente la sua avventura lo lasciò

squilibrato, malcontento. Erano passati per la sua vita l’amore e il

dolore e, privato di questi elementi, si trovava ora col sentimento di

colui cui è stata amputata una parte del corpo… Anni dopo egli si

incantò ad ammirare quel periodo della sua vita, il più importante, il

più luminoso. Ne visse come un vecchio del ricordo della gioventù” 7 7 .

E’ questo atteggiamento senile, di distacco, che lo differenzia da

Alfonso, che è chiuso in sé, nella sua autentica singolarità, che vede

precluso qualsiasi rapporto dialettico con il mondo perché troppo

diverso dalla mentalità borghese. Invece Emilio è più aperto e meno

tragico e totalizzante, ha un vero amico, lo scultore Stefano Balli,

anche se costretto ad una posizione subalterna; è più saggio del Nitti,

quella saggezza dei vecchi che gli permette di salvarsi e di trovare

rifugio nell’evasione simbolica dalla realtà. “Una vecchiaia metafisica

quella di tali personaggi, alla quale essi sembrano essere giunti senza

aver conosciuto la giovinezza (ancorché anagraficamente giovani) e

alla quale sono perpetuamente legati, come il condannato alla propria

77
Ibid.

58
catena…Egli è meno unilaterale di Alfonso, in cui la dolente

consapevolezza di non saper vivere si trasforma in una tensione

disperata alla morte: la sua vicenda è più larga e aperta, come più ricca

e matura è la sua esperienza umana. Sicché dal naufragio del suo amore

non deriva per conseguenza diretta il fallimento della sua intera vita…

per quanto fuori dalla realtà il Brentani riesce a conseguire, nel tempio

segreto della coscienza, attraverso una intellettuale e volontaristica

evasione, la propria liberazione e il proprio riscatto” 7 8 .

78
B. MAIER, Italo Svevo, Mursia, Milano 1968, pag.85-86.

59
Una risoluzione, a conclusione del romanzo che chiarisce la

natura del sogno come strumento di verità morale, nettamente

superiore alla realtà e alle convenzioni borghesi. “La verità del singolo

è più autentica di quella della storia, anche se più fragile e difficile a

difendersi e ad amarsi e, in definitiva, meno reale” 7 9 . Al singolo malato

e inetto viene contrapposta la società moderna, intenta a conseguire il

mito ottimistico dell’evoluzione della specie, ma indifferente alla

crescita morale dell’uomo. I sintomi di disagio, le nevrosi, non vanno

rimossi, ammonisce Svevo, perché sono parte inalienabile della

sostanza individuale. Di contro alle teorie psicoanalitiche, che tentano

di rimuovere o reprimere i sintomi psichici o sostituirli con qualità il

più delle volte estranee alla vera natura del soggetto, attraverso il

raccoglimento interiore si devono acquisirli perché sono la

contraddizione della realtà più profondamente umana. Per lo scrittore

”non si tratta di reperire i sintomi di una malattia più o meno rara,

bensì di comprenderla e raffigurarla” 8 0 , perché dove per Freud

comincia la malattia per Svevo inizia la scoperta della verità.

79
G.A. CAMERINO, Svevo e la Mitteleuropa, cit., p.126.
80
S. BATTAGLIA, La coscienza della realtà nei romanzi di Svevo, “Filologia e letteratura”, III, (1964),
pag. 245

60
“La conoscenza è mentale, sovente oscilla tra errore e verità,

sebbene di regola venga sempre più a rettificarsi, se pure in grado

assai diverso, col procedere della vita” sostiene Schopenhauer ne Il

fondamento della morale , ed è proprio la mancata conoscenza di sé che

provoca nell’animo umano una scia di errori e di fallaci illusioni,

causa di tutti i dolori.

Sia Alfonso che Emilio soffrono perché vittime degli “astratti

pensieri: sono questi che spesso ci gravano insopportabilmente e

creano pene, di fronte alle quali assai piccole sono tutte le sofferenze

della animalità” 8 1 . Il Brentani non riesce subito a capire che Angiolina

è diversa da ciò che lui pensa, non sa di avere proiettato in lei le

proprie illusioni, spinto dalla volontà di vivere. Ma poi comprende che

può aggrapparsi alla finzione che lui stesso ha creato.

Angiolina subisce allora una strana metamorfosi: conserva

inalterata la sua bellezza, ma acquista anche tutte le qualità di Amalia,

che in lei muore una seconda volta. Se, dunque, Emilio non è sano e

forte come Stefano, ha trovato un metodo di difesa, un escamotage per

sopravvivere, rifugiandosi nel conforto della memoria e del sogno. Una

senilità che non solo è destino, ma rifugio nella rinuncia, nell’inerzia,

nella dolente e rassegnata accettazione della sconfitta.

81
A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., p.164.

61
“Angiolina, una bionda dagli occhi azzurri, grandi, alta e forte,

ma snella e flessuosa, il volto illuminato dalla vita, un colore giallo di

ambra soffuso di rosa da una bella salute, camminava accanto a lui, la

testa china da un lato dal peso di tanto oro che la fasciava…” 8 2 .

Angiolina aderisce con immediatezza e senza riserve alla vita, ha una

psicologia elementare priva di complicazioni. La sua esistenza è

improntata all’azione e all’istinto, abbandonata alle sollecitazioni

dell’imprevisto, ed è caratterizzata da passeggeri stati d’animo. Le sue

esperienze si fondano sulle emozioni sensoriali, sono abbassate a quel

livello, tanto che i soli problemi che la toccano sono quelli della moda

e del denaro. Non si ferma a riflettere sul senso della vita, non le

interessa dare una impronta personale alle proprie scelte, bensì opera

nel tempo presente, nell’immediatezza delle situazioni. Il suo carattere

è schietto e solare, gioviale, di popolana poco astuta anche nell’arte

della seduzione e rappresenta l’emblema della salute, del vivere bene,

in armonia con sé e gli altri. È una creatura “sana, infingarda, bugiarda

per difendere a oltranza la propria libertà di tradimento, volgare, bella,

imperturbabile, scaltra e infantile al tempo stesso, sensibile al denaro e

al chiaro vigore del rapporto amoroso” 8 3 , che dichiara compiacente e

orgogliosa di stare sempre bene e che, per tale motivo, le è impossibile

82
I. SVEVO, Una vita, in Opere, cit., p. 432.
83
G. PAMPALONI, Italo Svevo in AA.VV., Storia della letteratura italiana, IX, Garzanti, Milano 1969,
p.510.

62
comprendere la sofferenza degli altri. Una ragazza “già perduta nel

ventre della madre” 8 4 , che sa adattarsi e affrontare con ottimismo la

sua miseria, la pochezza del padre e dell’intera famigliola.

“In Angiolina c’è “uno sfibrante prevalere dell’irrazionale,

trionfalmente incarnato nella sensualità dell’animale sano di fronte al

cocciuto, patetico, scolastico ragionare di Emilio, è la sostanza poetica

del romanzo” 8 5 . Non la sfiorano i disagi e le problematiche connesse

all’era industriale, sia di tipo sociale che esistenziale; non ha

coscienza di quanto accade intorno e, anzi, al generoso sogno

umanitario di giustizia, proprio di Emilio, fa riscontro l’angusto

utilitarismo plutocratico della Zarri, “tanto che la figlia del popolo

teneva dalla parte dei ricchi”. Un personaggio creato per dare risalto

alla figura di Emilio, vittima della potenza vitale e crudele della realtà.

84
I. SVEVO, Senilità, in Opere, cit., p.432.
85
B. MAIER, Italo Svevo, cit., p. 96.

63
Un quarto personaggio, Amalia, sorella di Emilio, debole e

sognatrice come suo fratello, umile e grigia, costituisce un altro

importante elemento dialettico nella struttura del romanzo: Amalia ed

Emilio da una parte (malattia, senilità, contemplazione, non vita), Balli

a Angiolina dall’altra (salute, giovinezza, azione, vita). Al tripudio di

colori e di luci con cui viene rappresentata Angiolina, corrispondono le

tinte sobrie, quasi ascetiche, del bianco, del grigio e del nero : “la

signorina Amalia non era stata mai bella. Lunga, secca, incolore - il

Balli diceva che era nata grigia - di fanciulla non le erano rimaste che

le mani bianche, sottili, tornite meravigliosamente, alle quali ella

dedicava tutte le sue cure” 8 6 . Ha due anni meno di Emilio, quindi 33

anni, ma il suo destino di infelicità e di morte sembra già tracciato. La

sua esistenza è indissolubilmente legata a quella del fratello, ha quasi

la funzione di rafforzarla: il volto pallido e smunto, discreta, pronta al

sacrificio di sé per vederlo sereno, anche lei in balia del malessere.

“Amalia diventa una metafora di Emilio: la malattia dell’una

corrisponde alla progressiva decadenza dell’altro, il delirio in lei

corrisponde ai sogni e al comportamento di lui”.

86
I. SVEVO, Senilità, in Opere, cit., p.433.

64
Fin dal primo capitolo Amalia è scossa dalla relazione di Emilio

con Angiolina, perché teme, come in effetti avverrà, che le saranno

sottratte anche le attenzioni che egli le riservava, unico ad interessarsi

di lei. Allo stesso tempo, però, si sente affascinata da un’emozione

nuova, quella dell’amore, che adesso veniva a scuoterla: fratello e

sorella entravano nella medesima avventura. Vive in modo schivo,

piena di pudore, avvolta da una atmosfera silenziosa e limbale; è la

figura anti-romazesca per eccellenza, visto che nessun tratto e nessun

gesto attirano su di lei l’attenzione del lettore. Il colore bianco

predomina e caratterizza sia la figura fisica, dal pallore del volto al

candore delle mani sottili e fragili, che lo spessore morale: denota

l’assenza dalla vita, la sofferenza, ma anche una tranquilla

rassegnazione e volontà di dissolvimento e di morte.

Nell’accudire Emilio, Amalia trova l’oscuramento del proprio

egoismo, una dedizione assoluta la sottrae alla ricerca del piacere e al

desiderio di volere. Quando si innamora del Balli non rivela niente a

nessuno, ciò che spera segretamente rimane celato, tanto che il fratello

lo scopre perché ascolta mentre parla nel sonno. Poi, disillusa in

questa aspettativa, trovando una risposta nell’assenza dello scultore,

che smette quasi del tutto di frequentare la casa, cerca di sopprimere i

sogni di gioia nell’alcool, fino alla fine ultima, la morte. “L’eterna

65
giovinezza è impossibile. Anche se non ci fossero altri impedimenti,

l’osservazione di se stessi la renderebbe impossibile” 8 7 .

C API T OL O SE C ONDO

M ALATTIA ONTOLOGICA E SALUTE SOCIALE

87
F. KAFKA, Diari, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 1993, p.613.

66
§ 2.1. M A L A T T I A E SA L UT E E SIST E NZ IAL I

67
“Un giovane educato in un collegio religioso si volge per

reazione a tutto quanto sa di ribelle alle leggi umane, e matura il

cervello nelle speculazioni della psiche dell’uomo e del mistero della

natura. Egli troppo vede e nel suo animo amareggiato la fonte del

sentimento inaridisce. Egli lo sente e ne prova dolore, vuole perciò

lanciarsi nella vita per eccitarne con le sensazioni più forti le fibre

paralizzate dell’animo suo. E lo fa. Ma non può riacquistare la

spontaneità perduta e si accorge d’essere sempre il medesimo. E con la

crudele, abituale sincerità verso se stesso, esamina il proprio intento,

lo analizza, quindi con calma e ragionata risoluzione si uccide

restituendo alla madre terra le energie che in lui combattono inutili” 8 8 .

Michelstaedter è un esempio di partecipazione totale alla vita e alla

morte, aderendo senza scollature alla sua teoria filosofica che indica

l’impossibilità di trovare un terreno di compromesso tra la realtà e

l’idea. Ne Il dialogo della salute egli parla dell’uomo sano come di

colui che vive e muore senza compromessi, che accetta il proprio

essere, il mondo e gli altri senza illusioni, senza aspettarsi nulla, senza

temere nulla. La maggior parte degli uomini si autoinganna invece con

falsi ideali che li rendono malati. “S’affannano a parlare, e con la

parola si illudono di affermare l’individualità che loro sfugge. Ma gli

altri vogliono parlare e non ascoltare, così l’un l’altro macella e

88
C. MICHELSTAEDTER, Il dialogo della salute, Sansoni, Firenze 1958, p.630.

68
contraddice. Non importa loro che la cosa sia detta, ma ad ognuno

importa d’essere lui ad averla detta. E’ ben perciò che le particelle

introduttive del discorso hanno preso le armi e sono venute

avversative” 8 9 . La lingua, le “parole nella nebbia” riflettono le

limitazioni , la malattia dell’uomo nel descrivere “il mondo elementare

della realtà congiunta”. Michelstaedter fornisce un’immagine

significativa che Svevo avrebbe potuto fare propria in quella inesausta

polemica contro il soggetto, descritta ne La coscienza di Zeno . “Se

dico è malato chiunque rifletta. Non ho attuati questi riferimenti, ma la

necessità inerente al riflettere per la quale mi riferisco a tutte queste

persone… I ricercatori della verità che per la paura dell’oscurità si

fingono una vita assoluta nell’elaborazione del sapere dicono: dolce il

conoscere, sono già vinti dall’oscurità, sono già fuori dalla vita e della

qualunque salute del loro organismo già non hanno più la dolcezza

d’alcun sapere… La loro coscienza non è più un organismo vivo, una

presenza della cose nell’attualità della propria persona, ma una

memoria” 9 0 . In sostanza, “ è male certo a ognuno l’essere nato” e

l’unica soluzione è “uscire dal mondo senza conoscere la morte… La

vita è il bisogno, la morte la negazione del bisogno... La morte appare

inesorabile a chi vive, soltanto perché gli appare come coscienza senza

89
Ivi, p. 343.
90
I. SVEVO, La coscienza di Zeno, in Opere, cit., p.790.

69
bisogno… la morte mi darà la libertà, la mancanza di bisogni, la

pace…”. È evidente l’influsso di Schopenhauer anche in Carlo

Michelstaedter, che parla dell’uomo sempre in balia dei bisogni, mai

libero, mai felice. Ma egli ammette la morte come unica cura, come

affermazione autentica e possibile della individualità, se ad essa si

perviene dopo aver assaporato la nausea di “te stesso che sei e non

sei”; non si tratta di darsi la morte per pietà di sé, per sottrarsi ai

dolori, per bisogno del riposo, ma per affermare il valore del non

valore (visto che i valori sono vane illusioni create dalla mente

dell’uomo). Anche in Svevo la malattia è la vita e la salute coincide

con la morte: “a differenza della altre malattie la vita è sempre

mortale. Non sopporta cure”. Se in Michelstaedter è presente la

possibilità di guarigione, di raggiungere l’autenticità, la “persuasione”,

anche se invero in modo piuttosto utopico (con l’individuo che possa

essere persuaso e persuadere, avere nel possesso del mondo il possesso

di se stesso), in Svevo non c’è alcuna via d’uscita. Al termine de La

coscienza di Zeno egli preannuncia una catastrofe inaudita, che

riporterà la salute. Mentre l’evoluzione darwiniana può spiegare il

progresso nel regno animale, l’uomo è andato verso l’involuzione, il

regresso. È una malattia ontologica, determinata dalla società moderna,

dall’alienazione, dal fatto che “l’uomo si è messo al posto degli alberi

70
e delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio” 9 1 .

Zeno Cosini non crede in nulla, non ha valori da affermare perché ha

capito che niente ha senso, è un “uomo onda” che si lascia trasportare

con totale disimpegno; ha raggiunto (a differenza degli altri

protagonisti) la consapevolezza che nell’esistenza “l’originalità della

vita”, cioè la sua costante problematicità, è dovuta alla sua sostanziale

imprevedibilità e quindi alla sua mancanza di scopo, alla sua realtà di

malattia.

91
Ivi, p.791.

71
Nell’ultimo romanzo è raggiunta la consapevolezza che l’uomo

non può essere sano, proprio perché malato alla radice. “Ogni

pessimismo tragico, ogni ingenuo ottimismo, ossia posizione

angustamente passionale o polemica, sono annullate e superate in ben

diversa idea dalla realtà, e cioè nella consapevolezza disincantata,

obiettiva, che la vita è una ridevole farsa, nella quale ogni uomo è

chiamato a recitare una parte…”. Infatti, non è in grado di

autodeterminarsi, non è libero; è espressione e manifestazione della

necessità; ogni uomo si crede presente in ciascuno dei suoi attimi,

s’immagina di potere ad ogni momento iniziare un nuovo tenore di

vita, cioè diventare un’altra persona. “Soltanto a posteriori, dopo

l’esperienza, s’accorge con sua meraviglia che non è libero, ma

soggetto alla necessità: che a dispetto di tutti i suoi propositi e di tutte

le sue riflessioni, non può cambiare la sua condotta, che dalla culla

alla tomba è costretto a svolgere un carattere da lui stesso condannato,

e a compiere fino alla fine il compito che ha sulle spalle” 9 2 . Zeno ha

raggiunto questa consapevolezza e con sorriso ironico si assesta sulla

piatta mediocrità della realtà borghese, conscio che è inutile lottare,

cercare una elevazione nei cieli dell’ideale.

92
I. SVEVO, La coscienza di Zeno, in Opere, cit., p. 789.

72
“La vita non è né bella né brutta, ma è originale…Se l’avessi

raccontato a qualcuno che non fosse stato abituato e fosse perciò privo

del nostro senso comune, sarebbe rimasto senza fiato dinanzi

all’enorme costruzione priva di scopo…” 9 3 . La vita, senza più la

possibilità di un progettare proficuo, resta come un complicato e

inutile affaccendarsi, visto che non è in potere dell’uomo dirigerla a

suo parere. Unica conseguenza possibile è il pessimismo umoristico, la

tendenza a “ridere delle cose più serie”, o almeno apparentemente tali,

e un atteggiamento di disimpegno morale e, più in generale,

esistenziale.

93
Ivi, p.792.

73
La malattia è dunque il vero status ontologico di tutte le creature

pensanti, e la coscienza diventa, per dirla con Michelstaedter, una

pura memoria di vita senza possibilità di vera appercezione riflessa.

Anzi, è proprio l’iperattività di pensiero e di riflessione che manifesta

la totale balìa della coscienza al dominio dell’evento. E nell’evento,

mai veramente compreso dall’uomo, ma soltanto subìto o accettato, si

trova l’unico briciolo di salute; questo perché il mondo “esterno” al

soggetto è morto senza quell’unico punto di vista indagatore che

dovrebbe essere il soggetto. La salute è la morte, e solo morendo, in

vita o fuori dalla vita, si può essere sani. Zeno, adattandosi, sceglie di

morire così come Alfonso, morendo, aveva preferito la vita. Eppure la

malattia ha anche origini storiche, nel cammino cioè che l’umanità ha

percorso a ritroso, sulla via dell’inconsapevolezza.

74
Svevo inizia la sua analisi della crisi parlando del dissidio tra

l’individuo e la società, e conclude affermando che oramai l’uomo è

malato nel suo essere, che non può guarire perché giunto ad un punto

di non ritorno: “Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non

può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello

del proprio organismo…Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa ordigni

fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventa,

quasi sempre manca in chi li usa” 9 4 . Non si tratta più del singolo che è

inetto e non sa e non vuole agire, ma la situazione di tracollo ora è

generale e estesa a tutta l’umanità. Anzi, Zeno, e di riflesso anche

Emilio e Alfonso, sono gli ultimi baluardi che pongono l’individuo

come singolo, considerato come contraddizione positiva al monolitismo

della collettività. La loro inerzia, la non condivisione dell’attivismo

borghese, testimoniano che è preferibile la malattia agli alibi della

moderna società, che pretende di vivere con ideali e valori da essa

dettati.

94
Ivi, p.953

75
I personaggi sveviani guardano a fondo in sé e nel mondo che li

circonda e scorgono solo desolazione e perdita di salute, quella

anteriore alla ragione che domina sulle cose e sulle persone alterando

incontrovertibilmente l’equilibrio e la possibilità di guarigione. “A

differenza della borghesia affaristica i personaggi sveviani sono dei

borghesi irregolari che preferiscono la contemplazione al mondo

competitivo degli affari… Attraverso la vergogna di mostrare agli

estranei i sintomi della personalità singola si finisce per trasformare

gli stessi in piaghe o colpe da nascondere… La ricerca della propria

singolarità si incontra in altri termini con l’esigenza di autodifesa

individuale” 9 5 . La natura diventa a questo punto un inevitabile

accidente nel destino umano, ma ha anche una forte significazione di

autodifesa, estremo mezzo per “l’autodifesa del singolo nei riguardi

della famiglia borghese e, in senso più generale, della vita pubblica” 9 6 .

95
G.A. CAMERINO, Svevo e la Mitteleuropa, cit., p.122.
96
Ivi, p.126.

76
Il destino dell’umanità è dunque in declino e per Svevo non si

tratta unicamente di destino sociale particolare ma anche e soprattutto

di una effettiva condizione umana. La poetica di Svevo diviene

l’interprete assoluta della dissoluzione di ogni valore universalizzato,

espressione del crollo assoluto di una struttura economica che si

localizza nella impossibilità di costruire la propria storia, nella

disperazione individuale di fronte ad una condizione generalizzata.

Oramai assumono significato soltanto i frammenti validi della

dimensione interiore, i riflessi del passato e l’eco di un futuro

impossibile nella riflessione concreta del presente. La possibilità

astratta prevale sulla possibilità concreta e la autoriflessione, il

momento interiore, si fa sistema consapevole, unico elemento

accessibile all’uomo per stabilire la propria presenza. Ciò che conta

ora per Svevo è il mistero dell’individuo, il mistero della sua

solitudine, della sua fallita socialità. La sua condanna, il tragico senso

del proprio tempo si fanno interpreti di una disperazione universale e

si storicizzano proponendosi come sintomi efficaci ed irripetibili di

tutto un mondo giunto alla sua liquidazione.

77
Se è vero che l’uomo ha perso la spontaneità verso le cose, una

freschezza nel vivere che il troppo conoscere ha precluso, dall’altra

parte la società stessa non offre altro che falsità, conformismo e

assenza di ideali, di moralità. Da un lato sta dunque l’individuo e

l’incapacità di avere un contatto autentico e assoluto con sé, con il

mondo, perché non c’è scienza che possa penetrare nelle strutture più

intime della coscienza, dall’altro canto, invece, la società borghese

tende a identificare la salute con il successo e non fa che aggravare la

malattia mortale.

78
L’inetto Alfonso, giovane e passionale, non può trovare altra via

d’uscita se non la morte; Emilio si rifugia nell’ideale, nel sentimento

contemplativo della senilità; da ultimo Zeno, che è totalmente

disincantato e consapevole della situazione e con sguardo ironico e

distaccato sopravvive al relativismo di valori in cui è inserito. Svevo

passa progressivamente dal considerare la malattia riducibile e

circoscrivibile a un’epoca e a una classe sociale, alla presa di

coscienza che si tratti invece di una patologia ontologica. Zeno aspetta

l’imminente catastrofe che libererà il mondo da ogni parassita e da

tutte le malattie e di lì prenderà il via un nuovo ciclo vitale. La ragione

indagatrice ha mostrato la realtà dei fatti e l’ineluttabilità di un destino

che pare segnato.

79
Zeno non si cura di lavorare, di seguire i suoi affari, ma non si

cura nemmeno delle sue vicende personali. Egli è pervaso da una

superiore consapevolezza, di cui gli altri personaggi sono all’oscuro: è

il caso che domina gli eventi e per quanto ci sforziamo di indirizzarli

in una certa direzione, essi volgeranno sempre in modo inaspettato: “In

fondo io sono l’uomo del presente e non penso al futuro quando esso

non offuschi il presente con ombre evidenti” 9 7 . Anche quando viene

respinto da Ada, che andrà sposa a Guido Speier, Zeno non se la

prende e va avanti nel suo proposito di prendere moglie, chiedendo la

mano di Alberta ed infine della brutta Augusta, senza pensare a che

cosa questa scelta potrebbe portare. È un distacco dalle passioni, che il

caso premia quasi a voler ridere di tanti che si affaccendano credendo

di poter essere artefici del proprio destino. Infatti, Ada si troverà

presto in crisi con Guido, che la tradisce con la domestica e il marito

poi verrà sommerso dai debiti e sull’orlo del fallimento. Al contrario,

Zeno riesce a trovare pace e serenità accanto ad Augusta e, nonostante

la sua incuria verso i propri affari, riesce ad ottenere ragguardevoli

successi. “Bastava ricordare tutto quello che noi uomini dalla vita s’è

aspettato per vederla tanto strana da arrivare alla conclusione che forse

l’uomo vi è stato messo dentro per errore e che non vi appartiene” 9 8 . È

97
I. SVEVO, La coscienza di Zeno, in Opere, cit., p. 684.
98
Ivi, p.867.

80
chiaro che si tratta di un caso di derivazione schopenhaueriana: è la

volontà di vita irrazionale che fa dell’esistenza un “gioco a cui noi

diamo troppa importanza” 9 9 . Ciò significa, in altre parole, che ogni

pessimismo tragico e ogni ingenuo ottimismo, ossia ogni posizione

angustamente passionale o polemica, sono annullate e superate in una

ben diversa idea della realtà, e cioè nella consapevolezza amara,

disincantata, obiettiva che la vita è una risibile farsa nella quale “ogni

uomo è un giocattolo in mano di forze sregolate della natura” 1 0 0 o di

“un oscuro enigma, un caso dove tutto può accadere, dove ogni

soluzione, anche la più strana e imprevedibile, non può mai a priori

essere esclusa” 1 0 1 . Di conseguenza, le teorie e i miti della società

borghese, che vuole definirsi “la società della salute” altro non sono

che “sogni di questa specie di nuovi profeti, che alligna sotto il nome

di scienziati” 1 0 2 . Una curiosità che investe anche la morale allorchè

Zeno si sorprende nel provare non più odio nei confronti di Guido,

come quando era stato geloso di Ada, ma anzi, con un gesto di

generosità cerca di riscattarlo dopo la morte: “Io invece ricordai che in

quel luogo l’avevo voluto uccidere, e confrontando i miei sentimenti di

allora con quelli di adesso, ammiravo una volta di più l’incomparabile

99
Ibid.
100
B. MAIER, I. Svevo, cit., p.118.
101
Ibid.
102
I. SVEVO, Le teorie del conte Alberto, in Opere, pag. 63

81
originalità della vita” 1 0 3 . Il destino invece gioca una triste beffa a

Guido che, nel simulare una seconda volta il suicidio, muore davvero

per il ritardo del medico: “La vita più intensa è raccontata in sintesi

dal suono più rudimentale, quello dell’onda del mare che, dacchè si

forma, muta ad ogni istante finchè non muore! M’aspettavo perciò

anch’io di divenire e di disfarmi…come l’onda” 1 0 4 . Zeno ha intuito che

l’arbitrio del caso ama sovvertire le pretese finalistiche dell’uomo e

che è votato allo scacco chi pretende di regolare a suo piacere gli

impulsi del possibile. Questa convinzione diviene a poco a poco

certezza, e attraverso la ricapitolazione degli eventi capitati a lui e ai

conoscenti si convince che la mancanza di un punto fermo, di un

qualsiasi ideale, l’instabilità di propositi, l’incapacità di

autodeterminarzione e di scelta, invece di essere sintomi di malattia,

sono la sua vera e unica forza, in una vita “originale”, né bella né

brutta. “E’ ben questo l’eterno sarcasmo del destino che fa i suoi

giochi con la nostra fame, che ci alletta nei suoi cerchi e di noi

ingannati si fa ludibrio; ma per sempre ci tiene per la nostra fame in

sua balia” 1 0 5 . “Ma ci avviene a nostra maraviglia di vedere come, per

più tornar che facesse a ciò che lo trastullava, non si sia più

103
I. SVEVO, La coscienza di Zeno, in Opere, cit., p.867.
104
Ibid.
105
C. MICHELSTAEDTER, Il dialogo della salute, cit., p.350.

82
trastullato; come anzi ciò che prima gli era argomento di trastullo gli

divenisse poi insipido” 1 0 6 .

È l’uomo che tenta di dare ordine ad una serie slegata di eventi,

che cerca di rassicurarsi con le costruzioni razionali che vi fa sopra.

Alfonso prova continuamente di incasellare ciò che gi accade, di

ridurlo a una medesima linea logica, finchè si accorgerà che non è un

fine a guidare la volontà, ma un cieco e irrazionale impulso, che non

segue nessuna regola. Emilio si rifugerà nel mito immobile e puro di

Angiolina, in cui può, per un attimo, sottrarsi al caso e allo scorrere

degli eventi. Infine, Zeno, perché ne ha coscienza, irride al suo destino

con superiore distacco; proprio per questo, ironia della sorte, ne uscirà

vincitore.

§ 2.2. M A L A T T I A E SA L UT E APP ARE NT I

106
Ivi, p. 350.

83
84
“Ma nell’organismo umano in generale c’è già il germe della

malattia. E’ un germe il quale sorvegliato razionalmente produce una

virtù; occorrono certe condizioni speciali acciocchè produca la

malattia” 1 0 7 . In Una vita la malattia ha una connotazione per certi versi

naturalistica: la signora Carolina, madre di Alfonso, muore per una

affezione cardiaca che viene descritta in tutte le sue manifestazioni. Il

corpo piagato, i turbamenti del sistema nervoso, un organismo divenuto

incapace persino di provare dolore: attraverso questi particolari lo

scrittore parla di come la morte prende possesso dell’anziana donna.

Ma il gusto del dettaglio non ha funzione descrittiva, bensì è il riflesso

esterno delle vicende interiori di Alfonso e sottolinea la sua

inettitudine. Al capezzale della madre egli trova il pretesto per

autocompiangersi; dopo aver sedotto Annetta si ritrova febbricitante

mentre è travagliato da dubbi e pensieri. Ancora più palese è il

contrasto malattia-salute in Senilità , con Emilio e Amalia simbolo di

senilità e malattia e Angiolina e Stefano ritratto di giovinezza e salute.

Già in questa opera, però, parlando di Angiolina che ha mal di denti e

che indica il punto dolente, Svevo ci avverte che la perfetta salute

umana è impossibile. Ma è ne La coscienza di Zeno che il circolo si

chiude, con una malattia che è propria di ogni uomo e che presto,

preconizza Svevo, dominerà senza possibilità di soluzione.

107
G.P. BIASIN, L’ultima bomba di Svevo, in Malattie letterarie, Bompiani, Milano 1976, p.99.

85
La malattia assume nel romanzo tre precise forme:

psicoanalitica, sociologica e ontologica. Tutti gli acciacchi del

protagonista, dalla bronchite all’insonnia, sono di carattere

psicosomatico, il riflesso del suo vero male che è di carattere psichico

e nervoso. Però, è una malattia che non si lascia definire ed esaurire

nell’analisi psicoanalitica, perché trova riscontro nella vita sociale e

nello stesso essere del protagonista.

86
Svevo è inserito in un contesto borghese imprigionato nei suoi

stessi ingranaggi, in una società reificata nella quale, come dice

Lukacs, “i rapporti sociali sono sfuggiti al controllo degli uomini

stessi assumendo la forma di cose” 1 0 8 . Similmente, Montale aveva

scritto “Come poeta della nostra borghesia, si può considerare Svevo

un continuatore di Verga, che ci ha dato l’epica di una borghesia in

crescita, ormai prossima alla dissoluzione” 1 0 9 . “Nella letteratura

italiana contemporanea c’è un altro autore che forse più degli altri può

servire a spiegare Svevo in rapporto alla funzione metaforica e

sociologica del patologico, Paolo Volponi. Egli invertendo i termini

della situazione in cui Svevo aveva ritratto Zeno (perché il suo

protagonista è realmente ammalato di tubercolosi), rende evidente il

significato strutturale del patologico, quel significato che era stato

colpito in termini critici da Auerbach e Lukacs” 1 1 0 . In questo contesto

si capovolge il rapporto salute-malattia e spesso accade che l’unico

davvero sano ci sembra Zeno, che almeno vive con consapevolezza il

non senso di tanti sforzi per raggiungere l’agiatezza economica ed il

prestigio sociale. “In Svevo il ceto sociale e i suoi limiti sono alla fine

diventati simboli di una condizione umana ontologica dalla quale non

c’è verso di uscire, tanto meno quando si è stati così lucidi da capire a
108
G. LUKACS, Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, tr.it. di A.Scarponi, Guerini, Milano
1990, p.90.
109
E. MONTALE, Scritti su Svevo, Mondadori, Milano 1976, p.143.
110
G.P. BIASIN, L’ultima bomba di Svevo, cit., p.99.

87
fondo come stanno le cose” 1 1 1 . Inizia la parabola narrativa in cui Zeno

espone le sue considerazioni di saggio che lo portano ad affermare che

“la vita è malattia e la vera salute è in realtà la morte(…) E’

importante per me ricordare di aver rintracciata la malattia dove un

dotto vedeva la salute e che la mia diagnosi si sia poi avverata” 1 1 2 .

111
S. MAXIA, Letteratura di Italo Svevo, Liviana, Padova 1965, p.175.
112
I. SVEVO, La coscienza di Zeno, in Opere, cit., p.608.

88
Tutto il romanzo di Zeno altro non è che la trascrizione di ciò

che la sua coscienza registra, delle sue riflessioni su quanto accade,

della malattia psicosomatica e ontologica del protagonista, ora

autocosciente. Ciò non gli consente di prendersi sul serio: passa dagli

studi di legge a medicina e poi a chimica senza raggiungere la laurea;

si interessa poco degli affari di famiglia; vive con distacco il

matrimonio, non ponendosi questioni cruciali sull’amore provato nei

confronti di Augusta e moralmente è sempre disimpegnato, poco fedele

ad ogni proposito. Un relativismo assoluto domina la sua esistenza,

tanto che si distingue nettamente dagli altri per questa condotta, visto

che tutti quelli che gli ruotano accanto sembrano perseguire

determinati fini e adeguarsi a precise norme etiche e sociali. Zeno, al

contrario di Emilio, è blando nel pentimento, deciso e previdente

nell’accalappiare la bella preda, la giovane Carla. In realtà Zeno ha

compreso che la vita è essenzialmente e per sua natura assurda e non

riesce ad illudersi che qualcosa abbia ancora senso di per sé, a

prescindere dai punti di vista e dalle aspettative che vi si proiettano:

sono lontani i tempi degli eroi romantici che lottavano per la patria,

per difendere un amore oppure per la conquista della libertà.

89
Nessuno è libero e il Cosini lo sa, ogni condizione è precaria e

ogni stabilità solo temporanea e apparente. Di qui il suo cinismo,

anche spietato, nel formulare le sue considerazioni, un’amarezza

dovuta alla perdita di spontaneità, perché era meglio non sapere per

poter continuare a vivere. “Svevo prende atto che il centro del mondo

si è reso irreperibile, ma ne prende atto con dolore, sia pure

dissimulato nell’ironia” 1 1 3 . Zeno è un uomo dalla morbosa sensibilità,

acuita da un instancabile demone autocritico che lo costringe a

sezionarsi impietosamente e a demistificare ogni idolo della tribù,

ovvero ogni giustificazione idealistica del comportamento proprio ed

altrui, dietro il quale egli scopre un invariabile e poco edificante

impulso egoistico.

C. MAGRIS, Italo Svevo: la vita e la rappresentazione della vita, in Italo Svevo oggi, Atti del
113

Convegno di Firenze (1979), Ed. Vallecchi, Firenze 1980, p.73.

90
Avido di esperienze, curioso e soggetto ai più mutevoli umori,

Zeno in potenza è dotato di molte, addirittura troppe qualità, al punto

da risultarne affatto privo. Malgrado ciò egli resta un inetto, sia pure

di stampo diverso dai suoi predecessori Alfonso ed Emilio: inetto per

troppa grazia, si potrebbe dire, perché non si sente di sacrificare

nessuna delle sue attitudini per realizzarsi appieno in una sola

direzione, non riuscendo a sottrarsi ad alcuna sollecitazione che la vita

gli offre. Un aut-aut a cui non vuole dare risposta, che lo lacera al

punto da preferire la non scelta, la perenne indecisione. Una “scheggia

nelle carni”, come la definisce Kierkegaard, di chi sente in sé le

possibilità annientatrici e terribili che ogni scelta decisiva prospetta.

91
L’impossibilità di ridurre la propria vita a un compito preciso,

di scegliere tra le alternative opposte, di riconoscersi e attuarsi in una

possibilità unica, getta l’uomo nell’angoscia e nella malattia mortale,

la vita non vissuta. È l’immediatezza con cui si affronta la vita a

salvare quel poco di genuinità che vi è rimasta, a permettere di vivere

con tranquillità: ne è un esempio il ritratto del padre, in aperto

contrasto con le caratteristiche di Zeno: “Un uomo forte e sano,

pratico, mai sfiorato dal dubbio, pago di poche e salde certezze, di

poche letture insulse e morali, la cui coscienza si acquietava

nell’adesione sincera alla virtù”, tratto che ritroviamo in tutti i

personaggi che svolgono il ruolo di antagonisti nella dialettica

debolezza-forza, malattia-salute. Ne sono indice i sentimenti

ambivalenti di avversione e affetto che si erano instaurati fra lui e il

genitore e che si ritrovano nei confronti del suocero Giovanni, un

vecchio dalla vitalità rozza ed esuberante, e il cognato Guido, pieno di

fascino e ammirato da tutti. Si tratta di sottrarsi alla “rettorica” per

diventare persuasi, perché non esiste altra via d’uscita oltre queste due

soluzioni, afferma Michelstaedter: “O l’uomo prende consapevolezza

del limite intrinseco alla propria condizione e affronta con animo

intrepido il peso del suo dolore, o è condannato a sfuggire se stesso

come un nemico, a chiudere gli occhi di fronte all’immagine che uno

specchio impietosito per caso gli rifletta, ad abbrancarsi allo strumento

92
della qualunque alienazione come all’unica ancora di salvezza….il

dilemma di Michelstaedter si configura nei termini di un’opposizione

irriducibile: o la persuasione o la rettorica, e tertium non datur …Allo

sfaldarsi della coscienza in una successione di momenti irrelati,

corrisponde infatti, secondo l’analisi michelstaedteriana, un tentativo

di composizione surrettizia da parte dell’uomo. Questi adatta al suo

volto la maschera offertagli da qualsiasi contingenza, preoccupandosi

unicamente di ciò che è utile al suo sussistere” 1 1 4 . Per il filosofo non è

dunque possibile sottrarsi a questa realtà di fatto, perché prima o poi

“un inciampo fa cessare il triste gioco… quando la trama dell’illusione

s’affina, si disorganizza, si squarcia, gli uomini, fatti impotenti, si

sentono in balia di ciò che è fuori della loro potenza, di ciò che non

sanno: temono senza sapere di che temano. Si trovano a voler fuggire

la morte senza più avere la via consueta che finge cose finite da

fuggire, cose finite cercando” 1 1 5 .

Dalla conoscenza della vita, quale ci appare nello stato di

inettitudine di Alfonso, si passa dunque alla vita senza conoscenza,

quella accettata da Zeno e Augusta, che vince la malattia con le sue

stesse armi, quelle della casualità e dell’affaccendarsi.

114
S. CAMPAILLA, Pensiero e poesia di Carlo Michelstaedter , Patron, Bologna 1973, pp. 22-23; 26.
115
C. MICHELSTAEDTER, La persuasione e la rettorica, Sansoni, Firenze 1958 , pp. 15; 22.

93
Augusta, ossia la donna comune, così come uomo comune è Zeno

Cosini; antieroina, come antieroe è lui; e tuttavia modello di saggezza

e di sollecitudine nello sbrigare le faccende domestiche e nell’allevare

i figli, esempio di senno pratico e di affettuoso attaccamento alla

famiglia, sì da suscitare, per le sue doti di buona moglie, la reticente

ammirazione di Zeno. E poi Augusta, col suo “occhio sbilenco e la sua

figura di balia sana”, è la salute personificata: la donna senza

complessi e senza sofisticazioni, tutta espressa nel gesto e nella parola,

conscia dei propri limiti, ma anche delle sue, se non eccezionali, certo

apprezzabili virtù. La figura di Augusta è indubbiamente la più felice e

originale del romanzo, l’unica che possa essere collocata accanto a

quella di Zeno, ed è insieme incarnazione e simbolo di una concezione

conformisticamente borghese dell’esistenza, con la sua tranquilla

convinzione, mai sfiorata dall’ombra del dubbio, che “ci siano alcune

cose indiscutibili, alcune cose assolutamente certe e sicure nella vita:

la famiglia, il marito, i figli, le brighe domestiche, i legami con i

parenti, e ancora la fiducia nello stato, nella giustizia, nelle medicine,

nella fede religiosa” 1 1 6 .

116
B. MAIER, Italo Svevo, cit., pp.128-129.

94
Le cose e il mondo in generale appaiono negli scritti sveviani

molto lontani dalle persone che dovrebbero modificarli e agire su essi,

alle volte si ha l’impressione che l’individuo sia impotente di fronte ad

essi e non riesca ad imporsi perché dominato invece che dominatore.

Non si tratta solo di una reificazione di carattere sociale, dovuta al

modo produttivo capitalistico che ha ridotto anche gli uomini a

prodotti, ma è chiaro che il malessere deriva dal troppo indagare e

rimuginare, dal fatto che si è preteso di razionalizzare e

concettualizzare tutto.

La meraviglia, lo stupore, la spontaneità nei rapporti e

soprattutto nel proprio sentire hanno lasciato il posto ad un sistematico

pensare, accomodare, rimuginare, che toglie il gusto e il sapore ad ogni

situazione. “Io sto analizzando la sua salute [della moglie Augusta] ma

non ci riesco perché m’accorgo che, analizzandola, la converto in

malattia (…), la salute non analizza se stessa e neppure si guarda nello

specchio. Solo noi malati sappiamo qualcosa di noi stessi” 1 1 7 , si legge

in un passo che è esplicativo del pensiero dell’autore. “E’ questo il

punto cruciale della Coscienza di Zeno: la consapevolezza che solo il

malato può conoscere se stesso e che comporta la revisione,

tipicamente sveviana, del concettto di malattia” 1 1 8 .

117
I. SVEVO, La coscienza di Zeno, in Opere, cit., pp.724; 728.
118
G.A. CAMERINO, Svevo e la Mitteleuropa, cit., p.145.

95
“Il Malfenti aveva allora circa cinquant’anni, una salute ferrea,

un corpo enorme grande e grosso del peso di un quintale e più. Le

poche idee che gli si movevano nella grossa testa erano svolte da lui

con tanta chiarezza, sviscerate con tale assiduità, applicate

evolvendole ai tanti nuovi affari di ogni giorno, da divenire sue parti,

sue membra, suo carattere” 1 1 9 , dice Zeno a proposito del suocero. E

ancora: “Io amavo la sua parola semplice, io, che come aprivo la bocca

svisavo cose o persone perché altrimenti mi sarebbe sembrato inutile di

parlare. Senz’essere un oratore, avevo la malattia della parola. La

parola doveva essere un avvenimento a sé per me e perciò non poteva

essere imprigionata da nessun altro avvenimento” 1 2 0 , afferma Zeno,

denunciando la perduta immediatezza anche nel dialogo, visto che di

ogni cosa si è cercata la motivazione e il perno, una giustificazione

trascendente, anche di quelle che non ne hanno, servendosi di

spiegazioni pretestuose.

119
I. SVEVO, La coscienza di Zeno, in Opere, cit., p. 646.
120
Ivi, p.657.

96
È un chiaro monito all’hegelismo che pretende di giustificare

tutto attraverso un astratto formalismo e una sistematizzazione che, se

poteva aderire a una determinata realtà storica e culturale, adesso

manifesta i suoi limiti. “Mi pareva di gridare che io non avevo voluto

uccidere e mi pareva anche di gridare che non era colpa mia se non

avevo saputo farlo. Tutto era colpa della mia malattia e del mio

dolore…” 1 2 1 . Il fondamento lascia il posto ad un totale sfondamento

decostruito in mille lembi di senso, ciascuno contraddittorio per

l’altro.

121
Ivi, p.715.

97
“La salute spinge all’attività” 1 2 2 dice Zeno costringendosi ad

assecondare le richieste di Augusta di visitare i musei e i negozi

durante il viaggio di nozze. Egli preferisce l’inazione: “vivevo in una

simulazione di attività. Un’attività noiosissima” 1 2 3 , ma del resto

“bisogna moversi. La vita ha dei veleni, ma poi anche degli altri veleni

che servono di contravveleni. Solo correndo si può sottrarsi ai primi e

giovarsi degli altri. La mia malattia fu un pensiero dominante, un

sogno, e anche uno spavento. Deve aver avuto origine da un

ragionamento: con la designazione di perversione si vuole intendere

una deviazione dalla salute, quella specie di salute che ci accompagnò

per un tratto della nostra vita. Ora sapevo cosa fosse stata la salute di

Ada” 1 2 4 . Solo correndo si può sottrarsi ai primi, dice Zeno; bisogna

“secondare la vita” 1 2 5 , dice Kafka. In entrambi i casi la malattia può

essere aggirata (mai sconfitta) attraverso la via del divertissement . Il

problema è che non tutti riescono ad accettare il frutto della vita senza

aver colto il frutto della conoscenza; i personaggi di Svevo sono, tra

questi, i più ostinati contestatori.

122
Ivi, p.726.
123
Ivi, p.734
124
Ivi, p.856
125
F.KAFKA, Quaderni in ottavo, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano, p.87.

98
Zeno si ammala perché troppo fermo, statico, perché sceglie di

essere passivo spettatore di quanto gli accade e si limita a

dissezionarlo. E poi si accorge che “in verità, (…) col suo aiuto (del

dottor S.), a forza di studiare l’animo mio, vi abbia cacciato dentro

delle nuove malattie. Sono intervenuto a guarire della sua cura. Evito i

sogni ed i ricordi. Per essi la mia povera testa si è trasformata in modo

da non saper sentirsi sicura sul collo” 1 2 6 , finché giunge alla

considerazione finale che capovolge le cose. Tutti gli uomini sono

malati e ammette che “per avere la persuasione della salute il mio

destino dovette mutare e scaldare il mio organismo con la lotte e

soprattutto col trionfo” 1 2 7 , al genere umano non resta che una

catastrofe per poter ritornare alla salute.

126
I. SVEVO, La coscienza di Zeno, in Opere, cit., p.938.
127
Ivi, p.951.

99
“Quello che insomma Svevo vuol dirci è che nella nostra

moderna società non c’è più nulla di naturale. e non c’è neppure

motivo di affligersene. Noi possiamo essere perfettamente felici,

parlare, fare l’amore, concludere degli affari, fare la guerra, scrivere

romanzi, ma niente di tutto questo si potrà più fare senza riflettervi

sopra, come si respira. Ciascuna delle nostre azioni si riflette su se

stessa e si grava di interrogativi. Sotto il nostro sguardo, il semplice

gesto che noi facciamo per stendere la mano diviene bizzarro,

maldestro; le parole che sentiamo pronunciare suonano false

all’improvviso; il tempo del nostro spirito non è più quello degli

orologi e la scrittura del romanzo, a sua volta, non può essere

innocente” 1 2 8 .

128
A. ROBBE-GRILLET, La coscienza malata di Zeno in Un nuovo romanzo, Les edition de minuit,
Parigi, 1963, pag.77; 81.

100
Zeno è l’emblema del disimpegno, della vita trascorsa trovando

pretesti e passatempi per non sforzarsi seriamente in niente perché per

nessuna cosa vale la pena di prendersela e lottare, perché anche ciò

che consideriamo serio non lo è per nulla. Risolto il contingente

problema del denaro, visto che il padre gli ha lasciato una cospicua

eredità e un bravo amministratore, si lascia sedurre prima dalla

passione per la psicanalisi, per poi passare le sue lunghe giornate alla

ricerca di storie passeggere con belle donne, non tanto per il desiderio

o la volontà di tradire Augusta, “quanto piuttosto per una strana forma

di filantropia mista a sensualità” 1 2 9 . Ecco, allora, con la stessa valenza,

il vizio del fumo e della difficoltà di liberarsene, che costituisce il filo

conduttore di un intero capitolo, con il protagonista che cerca di

corrompere l’infermiera mentre una cocente quanto infondata gelosia

lo fa evadere dalla casa di cura.

129
B. MAIER, Italo Svevo, cit., p.122.

101
“Adesso che son qui ad analizzarmi, sono colto da un dubbio:

che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter ravvisare su di

essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io

sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale

dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere

quello di credersi grande di una grandezza latente. Io avanzo tale

ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa

convinzione. Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche

cosa da me, passo tuttavia da sigaretta a proposito, e da proposito a

sigaretta. Che cosa significano oggi quei propositi? Come

quell’igienista descritto dal Goldoni, vorrei morire sano dopo di esser

vissuto malato tutta la vita?” 1 3 0 . E’ una chiara confessione di questo

vizio dell’autocoscienza, di chi si per mascherare la propria abulia.

130
I. SVEVO, La coscienza di Zeno, in Opere, cit., p.604.

102
La sigaretta non è che un misero pretesto formulato dalla sua

cattiva coscienza, come la paura del tradimento di Augusta mentre lui

è chiuso in clinica. “Parlandomene mia moglie ora sorrideva ed ora

clamorosamente rideva. La divertiva l’idea di farmi rinchiudere…il suo

sorriso che io amavo tanto mi parve una derisione e fu proprio in

quell’istante che nel mio animo germinò un sentimento nuovo che

doveva far sì che un tentativo intrapreso con tanta serietà dovesse

subito miseramente fallire…Una folle, amara gelosia per il giovine

dottore. Lui bello e libero!” 1 3 1 . In questo modo, Zeno si fornisce una

scusa per scappare e non provare rimorso, tanto che la usa anche con la

moglie per spiegare la sua fuga inaspettata. Ma non una diversa radice

hanno, al di fuori dei motivi accennati e svolti rispettivamente nei

capitoli “Il fumo”, “La morte di mio padre”, “Storia del mio

matrimonio”, “La moglie e l’amante” e “Storia di un’associazione

commerciale”, i continui propositi non mantenuti di Zeno, le sue

intenzioni mai tradotte in realtà, gli scompensi fra le sue aspirazioni e

i risultati raggiunti, le autogiustificazioni e gli autoinganni, i cavilli e

i pretesti escogitati per approvare anche moralmente le sue azioni di

fronte al tribunale della coscienza e, soprattutto, la sua strana malattia,

131
Ivi, p.612.

103
insieme fisica e psichica, “misteriosa come la colpa del protagonista

del processo di Kafka” 1 3 2 .

Si consideri l’ironica considerazione che lo stesso protagonista

fa su di sé, prima di iniziare la relazione extraconiugale con Carla: “La

mia coscienza è tanto delicata che, con le mie maniere, già allora mi

preparavo ad attenuare il mio futuro rimorso” 1 3 3 e ancora ”Ella

(Augusta) mi ricordò che le avevo promesso di dirle la ragione del mio

malessere. Io finsi una malattia, quella malattia che doveva darmi la

facoltà di fare senza colpa tutto quello che mi piaceva” 134


. Se, però, si

indaga più a fondo, esaminando anche l’episodio della morte del padre

e dello schiaffo affibbiatogli in punto di morte, si rileva un aspetto

drammatico della personalità di Zeno, e cioè un diffuso senso di colpa

e di insicurezza nei confronti di chi, come il padre, ha vissuto con

decisione e coerenza. Zeno ha il sentimento della propria superiorità

intellettiva, ma teme di dover essere smentito qualora la mettesse in

pratica e gli è quindi preferibile lasciare tutto nell’ambito delle

possibilità. “Con uno sforzo supremo arrivò a mettersi in piedi, alzò la

mano alto, come se avesse saputo ch’egli non poteva comunicarle altra

forza che quella del suo peso e la lasciò cadere sulla mia guancia. Poi

scivolò sul letto e di là sul pavimento. Morto! Non lo sapevo morto,

132
B. MAIER, Italo Svevo, cit., p.123.
133
I. SVEVO, La coscienza di Zeno, in Opere, cit., p.744.
134
Ivi, p. 766.

104
ma mi si contrasse il cuore dal dolore della punizione ch’egli,

moribondo, aveva voluto darmi” 1 3 5 .

135
Ivi, p. 643.

105
“Augusta…dichiarò che ch’io non ero altro che un malato

immaginario… Malato immaginario? Ebbene, io preferisco di essere un

malato reale - disse il Copler - Prima di tutto un malato immaginario è

una mostruosità ridicola eppoi per lui non esistono dei farmaci mentre

la farmacia, come si vede in me, ha sempre qualche cosa di efficace per

noi malati veri!” 1 3 6 . Zeno non è un malato reale, alla maniera

dell’amico Copler, colpito da nefrite, e non ha nulla da spartire con la

cognata Ada che ha il morbo di Basedow , ma soffre di acciacchi fisici

che lo colgono in occasioni particolari: “Fu allora che conobbi la

malattia dolente, una quantità di sensazioni fisiche sgradevoli che mi

resero tanto infelice. S’iniziarono così. Alle una di notte circa,

incapace di prendere sonno, mi levai e camminai nella mite notte

finchè non giunsi ad un caffè di sobborgo nel quale non ero mai stato e

dove perciò non avrei trovato alcun conoscente, ciò che mi era molto

gradito perché volevo continuarvi una discussione con la signora

Malfenti, cominciata a letto…la signora m’aveva fatti dei rimproveri

nuovi…” 1 3 7 . Ma è solo la ripercussione dei suoi stati d’animo sul suo

fisico, tanto che la moglie e quanti lo conoscono non la giudicano una

vera patologia. Zeno, però, intende liberarsene e inizia così il suo

percorso di psicanalisi, alla ricerca di cause remote. Gli acciacchi da

136
Ivi, p. 735.
137
Ivi, p.678.

106
cui Zeno è colpito (irrigidimento del ginocchio perché un amico gli ha

parlato dei 54 muscoli della gamba) e di cui soffre per il resto dei suoi

giorni, sono di tipo psicosomatico, prodotti dalla sua cattiva coscienza

che crea una caterva di menzogne per non adeguarsi alle sue

responsabilità e, del resto, la salute che gli è contrapposta è quella

della bontà, della purezza, dell’innocenza e dell’armonia dell’anima di

Augusta. Egli sa che la medicina ha scarsa efficacia sui suoi malesseri,

in sostanza sulla sua proverbiale accidia, e già nei suoi primi appunti

dimostra di averne capito la natura: “la malattia è una convinzione ed

io nacqui con quella convinzione” 138


; egli ha perduto del tutto le

illusioni romantiche, ma non se costruisce altre, né approda alla

celebrazione compiaciuta delle sue raffinatezze e dei suoi immoralismi.

Non ha nemmeno una malattia esistenziale, un disagio vissuto perché

escluso dai favori della società borghese, visto che per nascita ha

acquisito prestigio e denaro. La sua crisi non dipende dalla mancata

adesione a un moto storico di trasformazione del mondo, ma dal fatto

che sa di potersi realizzare solo con l’ubbidienza incondizionata alle

imperscrutabili leggi dell’universo. Del resto, se la sua malattia è

apparente, non meno lo è la salute di quanti lo circondano.

138
Ivi, p. 605.

107
Zeno non condivide le sicurezze a cui tutti si ancorano, e le

smantella e le corrode con la sua pungente ironia; critica quelle che

appartengono ad una condotta borghese della vita, che svelano il loro

limite nelle incomprensioni e nelle ostilità covate all’interno di una

stessa famiglia. “D’altra parte, il fatto che nella Coscienza di Zeno

risulti soccombente la bella Ada, sfigurata dal male, tradita dal marito,

preoccupata per il modo disinvolto con cui egli tratta gli affari e per la

sua strana maniera d’impiegare il tempo libero, rimasta vedova con due

bambini, e presa dal rimorso di non aver amato abbastanza Guido e

dalla convinzione dolorosa che tutti in famiglia l’abbiano odiato, e che

sia invece la scialba e strabica Augusta a impersonare la salute e a

vivere, pur nella provvida ignoranza, dell’effettiva realtà e del suo in

apparenza pacifico, normale mondo familiare e borghese e in ispecie,

del vero rapporto di Zeno con lei, è una manifestazione ulteriore

dell’ironia dello scrittore, dell’arbitrario, immotivato, casuale

procedere dell’esistenza, e documenta una volta di più il messaggio

contenuto nel romanzo” 1 3 9 . Del resto, la stessa polemica di Svevo

contro l’istituzione medica si identifica strettamente con quella contro

le convenzioni e le mediocri certezze del mondo borghese di cui

Augusta Malfenti rappresenta la tipica figura di moglie per la quale

tutta la vita si regge su capisaldi indiscussi che hanno le rispettive basi

139
B. MAIER, Italo Svevo, cit., p.130.

108
sia su questa terra, sia fuori di essa. “C’era un mondo di autorità anche

quaggiù che la rassicurava. Intanto quella austriaca o italiana che

provvedeva alla sicurezza sulle vie e nelle case…Poi i medici, quelli

che avevano fatto tutti gli studi regolari per salvarci quando, Dio non

voglia, ci avesse a toccare qualche malattia…” 1 4 0 .

Non vale cercare rifugio in un gesto disperato ed estremo di

fiducia, “l’ancoraggio dell’uomo in crisi in un qualche terreno

materno; così la psicanalisi, come origine delle religioni, non trova

altro se non ciò che costituisce le malattie del singolo… e qui si vuol

curare?” 1 4 1 ; la sola consolazione che rimane è il pensiero della morte:

“Non si poteva vivere senza pensare alla fine. La natura dell’uomo lo

esigeva. Il pensiero della morte era quello che agli altri forniva la

religione. In lui non s’era evoluto. Era rimasta una religione accettata

e conservata come perfettamente corrispondente ad ogni bisogno…il

pensiero della morte mitigava tutto. L’ardore della lotta per la vita si

mitigava nella decisione di prepararsi alla morte” 1 4 2 .

140
I. SVEVO, La coscienza di Zeno, in Opere, cit., p. 730.
141
F. KAFKA, Quaderni in ottavo, cit., p.347.
142
I. SVEVO, La morte, in Racconti, saggi e pagine sparse, cit., p.253.

109
La morte diventa l’unica arma di superiorità concessa agli

esclusi, la “religione accettata e conservata come corrispondente a ogni

bisogno”, come rottura della volontà di vivere, senza più il rischio di

potersi inserire in un mondo di estranei, così estranea al mondo

borghese che cerca in qualunque modo di poterne sfuggire l’angoscia.

“Portare sui volti e sui corpi i segni della dissoluzione è un fatto

spirituale: significa che sono degli uomini perché sofferenti; che sono

autentici perché sono malati e rifiutano il sano mondo delle magnifiche

sorti progressive” 1 4 3 .

143
G.A. CAMERINO, Svevo e la crisi della Mitteleuropa, cit., p. 30.

110
C API T OL O T E RZ O

IL SOGGETTO “DEBOLE” TRA IRONIA E SCACCO DELLA

RAPPRESENTAZIONE

111
§ 3.1. V I T A E R A P P R E SE NT AZ IO NE DE L L A VIT A

Zeno tenta di dare ordine e di risolvere le contraddizioni della

sua esistenza e della sua coscienza nella memoria che consegna al suo

psicanalista, il dottor S., e si sforza di ricomporre in essa tutti i

tasselli delle sue esperienze tramite il ricordo; “Annoterò quello che

mi torna in mente” 1 4 4 . Ma ben presto si accorge che, quella che doveva

essere un’opera di ricomposizione e di ordine, per trovare il bandolo

della matassa, non fa che disgregare e scomporre. Tale è la letteratura

per Svevo, memoria dal sottosuolo.

144
F. DOSTOEVSKIJ, Ricordi dal sottosuolo, tr.it. di T. Landolfi, Rizzoli, Milano 1975, p.48.

112
Lo sforzo di catalogare e riunire è incessante: come il signor

Aghios in Corto viaggio sentimentale, Zeno si propone non solo di

fare ordine nelle sue tasche, ma anche di tenere in una di esse un bel

registro comprendente la pianta delle tasche con l’elenco degli oggetti

contenuti. È la denuncia dell’assurdità di ogni tavola classificatoria, è

lo svanire di ogni identità che si dissolve di continuo in sotto-unità

sempre più piccole. Il pensiero, lontano oramai dal compiere quella

“violenza metafisica che costringe e comprime le dolorose dissonanze

del mondo ed anche le sue diversità liberatorie nella compatta armonia

delle forma e del significato” 1 4 5 , non può e non vuole più risolvere in

una sua propria unità le contraddizioni del reale. “Esistono tre odori a

questo mondo: l’odore del padrone, l’odore degli altri uomini, l’odore

di Titì, l’odore di diverse razze di bestie…e infine l’odore delle

cose” 1 4 6 sostiene il cane Argo, tentando di fare ordine, ma dimostrando

che le categorie con le quali la narrazione e l’intelligenza cercano di

fare ordine nel mondo non sono più coerenti di quelle usate da un cane.

145
C. MAGRIS, Italo Svevo: la vita e la rappresentazione della vita, in Malattie letterarie, cit., p.70.
146
I. SVEVO, Argo e il suo padrone, in Racconti, saggi e pagine sparse, cit., p. 300.

113
Né il pensiero, né il linguaggio possono dare una gerarchia e un

senso alla vita e in Svevo è continuamente presente questa dialettica,

che pone vivere e scrivere ora in continuazione tra loro ora in totale e

assoluto contrasto. “La vita è una malattia della materia, un processo

infiammatorio che in un dato momento e chissà perché ha fatto

suppurare la materia morta e in un dato momento tornerà a spegnersi

nella purezza dell’inorganico e dell’inanimato” 1 4 7 . Come per Musil la

vita non dimora più nella totalità, un’anarchia dei singoli atomi

corrode le grandi unità del discorso e dell’esistenza, ogni particolare

acquista autonomia a spese del tutto.

L’ordine impartito e un possibile senso all’esistenza provengono

da un punto di vista che il singolo assume a propria difesa, ma resta

pur sempre arbitrario e fittizio; il soggetto si sente privato della sua

autonomia in quanto soggetto e, incapace di agire, si accorge di essere

un semplice anello della catena, immerso in un turbinio di caos e di

passioni che lo travolgono. Esemplare il sogno del signor Aghios

mentre si trova in treno: “Ogni nucleo, nell’atto che subiva tale

distruzione, pareva si spogliasse e tradisse l’esistenza entro di lui di

una testa, un grugno, un essere animato…” 1 4 8 .

147
C. MAGRIS, Italo Svevo: la vita e la rappresentazione della vita, in Italo Svevo oggi, cit., Ed.
Vallecchi, Firenze 1980, p. 78.
148
I. SVEVO, Corto viaggio sentimentale, in Racconti, saggi e pagina, cit., p. 254.

114
In Svevo la rappresentazione della vita, il romanzo, è destinato a

restare incompiuto, oscuro, non sistematizzato: la parola è caricata da

una enorme tensione perché le viene richiesto di coincidere con

l’esistenza, di estrarne l’essenza e di salvarla dalla distruzione che

investe la filosofia.

All’inizio del secolo la filosofia dimostra di non essere più

capace di comporre il mondo in unità di significato: già con Nietzsche,

con Marx e Freud sono crollate le fondamenta del sapere moderno,

sono essi i padri del decentramento della soggettività e della sovranità

dell’autocoscienza, di cui seguiranno le orme Foucault, Blanchot e

Derrida. Il postmoderno nasce proprio dalla frantumazione del soggetto

e dalla relativa fatica del pensiero a mantenersi epistèmico fino in

fondo. Estetica, letteratura, arte riescono ad accogliere i frammenti

residui della soggettività forte, ma lo fanno soltanto al prezzo di dover

sacrificare il proprio senso forte di ideazione strutturata e coerente.

Svevo rappresenta bene questo cambiamento e ne offre un cammeo di

lucida analisi estetica.

115
Ciò che gli affari furono per Zeno a livello narrativo, la

letteratura è per Svevo. L’autore si occupa del processo letterario, non

di quello psicanalitico: quest’ultimo, al massimo, potrebbe essere

(come infatti fu) un pretesto per il primo: “Il dottor S. non studiò che

la medicina e perciò ignora che cosa significhi scrivere in italiano per

noi che parliamo e non sappiamo scrivere il dialetto. Una confessione

in scritto è sempre menzognera. Con ogni nostra parola toscana noi

mentiamo. Se egli sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le

cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci

obbligherebbero di ricorrere al vocabolario! È proprio così che

scegliamo dalla nostra vita gli episodi da notarsi. Si capisce come la

nostra vita avrebbe tutt’altro aspetto se fosse detta nel nostro

dialetto…”. Le parole sono composte di lettere nello spazio e nel

tempo, i segni grafici, le parole scritte (sia pure in toscano)

contrapposte a quelle parlate (sia pure in dialetto), “tutto indica la

differenza fra la letteratura e la vita” 1 4 9 . Il dizionario contiene e

organizza in successione armoniosa, cioè alfabetica, tutte le parole

possibili, eccetto forse quelle che contano maggiormente: “Chi mi

avrebbe fornito il vero vocabolario?” 1 5 0 , chiede Zeno al dottor S. , e

del resto molti sono i riferimenti all’alfabeto. Da Ada a Zeno, la

149
C. MAGRIS, L’ultima bomba di Zeno in Malattie letterarie, cit., p. 116-117.
150
I. SVEVO, La coscienza di Zeno, in Opere, cit., p.935.

116
massima distanza possibile, ci sono tutti gli spazi tra e le vicende in

cui il protagonista cerca di mettere ordine, di dare un senso logico, ma

si renderà conto che è impossibile da trovare e che, quando sembra

esistere, si rivela irrimediabilmente spostato rispetto al disordine

irrazionale della vita. Per esempio, non vi è alcun rapporto logico tra

le due proposte di matrimonio, tra il desiderio di sposare Ada e il

matrimonio con Augusta. Come il dizionario e la grammatica, anche il

calendario cerca di organizzare il tempo, ma riesce solo a fissare il

vero disordine del tempo in un ordine solo apparente. L’università

procura a Zeno diversi saperi, dalla legge alla chimica ma è

sintomatico che sia impossibile per lui completarne almeno uno; il

dizionario, l’alfabeto, il calendario, l’università, sono elementi della

ricerca che l’uomo occidentale compie verso il sapere assoluto, di

un’impossibile totalità che alla fine viene definita soltanto dalla sua

assenza.

Derrida nota che tutta la cultura occidentale, basata su parole

scritte, fonetiche che non sono parola originale, parlata, e su un sapere

enciclopedico che è solo una parodia del sapere assoluto, dovrebbe

essere consapevole delle sue limitazioni e pronta a cercare diversi

modi di sviluppo: dovrebbe essere “ le livre ouvert”.

117
“L’unità e del pensiero e della poesia non risolvono la

lacerazione del reale, ma segretamente quel pensiero e quella poesia

desiderano ancora, vietandosi perfino di formulare tale desiderio per la

consapevolezza della sua impossibilità, l’unità e l’integrità del senso…

Il vento che si infrange sul muro di cinta reca ad Argo tanti odori

indistinti che gridano tutti insieme e il frastuono che lo fa impazzire gi

fa venire il desiderio di arrivare là sul muro, dove gli olezzi sono

ancora divisi” 1 5 1 . Del resto, la rappresentazione della vita che cerca il

suo ordine e la sua razionalità nella letteratura non può che offrire un

ombra di vita e per di più fissata in linee di fuga tutt’altro che naturali:

“Si può godere e amare, ma essa [la letteratura] ci rammenta

inesorabilmente di essere soltanto una rappresentazione, di essere lì in

rappresentanza e in supplenza della vita vera” 1 5 2 .

151
C. MAGRIS, L’ultima bomba di Zeno, in Malattie letterarie, cit., p.73.
152
Ivi, p. 82.

118
“Lo scrivere contrapposto al dire (spero che le mie carte

conterranno le parole che usualmente non dico) è chiaramente indicato

come qualcosa di diverso dalla vita, anzi, come qualcosa che dovrebbe

curare la vita, come una medicina. Lo scrivere diventa un pharmacòn:

serve come misura d’igiene, ma nello stesso tempo è anche un veleno o

una malattia in se stesso, perché la descrizione della vita, una grande

parte della quale, quella di cui tutti sanno e non parlano, è eliminata 1 5 3 ,

si fa tanto più intensa della vita stessa, dice Svevo” 1 5 4 .

153
“Immensi spazi vuoti vengono così respinti dalla vita perché nulla hanno lasciato nel ricordo” (A.
CAMUS, L’uomo in rivolta, tr.it. di L. Magrini, Bompiani, Milano 1994, p.291).
154
G.P. BIASIN, L’ultima bomba di Zeno, in Malattie letterarie, cit., p. 117- 118.

119
Ne Le confessioni del vegliardo , l’anziano protagonista capisce

che la sola cosa importante è la parte della sua vita che ha descritto e

che è divenuta tale in quanto egli l’ha fissata. Scrivere significa

trasformare la vita in passato, cioè invecchiare; liberarsi dal presente,

pieno di ostacoli, per trovare un altro presente, sospeso in un

trascorrere indeterminato: quello della vecchiaia e della scrittura. Nel

ciclo del Vecchione, che comprende una serie di racconti, dalla Novella

del buon vecchio e della bella fanciulla a Le confessioni di un

vegliardo , si riduce il tempo misto di passato e futuro, per lasciare il

posto ad un eterno presente. Nel tempo, il presente è privilegiato, un

presente che non è certo l’etere della metafisica, utilizzato solo perché

un tempo ultimo manca nella grammatica, ma fino a un certo punto

prevale su passato e futuro che costituiscono il tempo misto dell’uomo,

ineludibile, a cui non può sottrarsi che nella staticità della morte,

mentre “la grammatica ha invece i tempi puri che sembrano fatti per le

bestie le quali, quando non sono spaventate, vivono lietamente in un

cristallino presente” 1 5 5 .

E’ un presente contrastato, amato e dissacrato dallo stesso

autore, un tempo dell’ironia, perché “l’ironista non vuole appartenere

al suo passato” 1 5 6 se ne distacca per vederlo comprenderlo.

155
I. SVEVO, Racconti, saggi e pagine sparse, p.373.
156
I. STAROBINSKI, La relation critique, “Strumenti critici”, 1970, p.243.

120
I protagonisti che Svevo ci presenta nel ciclo dei racconti più

tardi sono la prosecuzione della figura di Zeno, uno Zeno

ultrasessantenne che trascorre le sue giornate di ozio a studiarsi

meticolosamente, a scavare nei propri ricordi, a raffrontare il passato

con un presente che si avvicina a passi rapidi all’estremo futuro della

morte. “Continuo a dibattermi tra il presente e il passato, ma almeno

fra i due non viene a cacciarsi la speranza, l’ansiosa speranza del

futuro” 1 5 7 .

La vecchiaia è già di per sé uno scacco alla malattia, perché si è

liberati dall’obbligo di conquistare e dominare ciò che mai in realtà si

può avere, cioè il futuro; è riduzione a ozio svuotato di doveri e di

significati. Nessuno si aspetta più niente dal vecchio, dalla sua vitalità,

dalle sue potenzialità; è libero dalla necessità di essere vitale, ha il

diritto di essere un debole. Così, non ha più bisogno di sublimare il

suo disagio nelle nevrosi, che permettono a Zeno di difendersi e di

trovare in esso un rifugio ed allo stesso tempo un rimedio. I vecchi di

Svevo sono intenti a scribacchiare giornalmente, come misura d’igiene

per preservare la salute: infatti scrivendo ci si libera dal caso del

passato e del presente, dalla mancanza di totalità e di senso. “Quando

la nostra memoria ha saputo levare dagli avvenimenti tutto quello che

157
I. SVEVO, Il vecchione, in Opere , cit., p.1072.

121
in essi poteva produrre sorpresa, spavento e disordine, si può dire che

essi si sono trasferiti nel passato” 1 5 8 .

La memoria è correzione della vita, colma il dissidio tra gli

eventi e li ricompone in una tranquilla e calma unità; anche la scrittura

serve a correggere la vita. Il vegliardo completa, scrivendola e

rileggendola, la sua esistenza, mettendo le cose al loro posto giusto:

ricordare e scrivere servono per arginare l’inettitudine, per reinventare

la propria esistenza e tentare, (solo dopo ci si può provare), di darle un

senso, una direzione, la decenza di un ordine, anche se solo

immaginario e frutto di costruzioni ipotetiche del pensiero.

Il vegliardo si augura che tutti “letturizzino” la propria vita, che

la si trascorra a scriverla e leggerla; una considerazione desolante, che

viene dalla amara consapevolezza della vita “orrida vera” che assesta

colpi e dolori in ogni istante del suo trascorrere. Ma anche la

possibilità di un insperato rifugio che protegge dalle insensate ferite,

che sottrae all’angoscia dell’attimo immediato in cui viene vissuta.

158
Ivi, p.1072.

122
La scrittura offre la possibilità di ripararsi dalle intemperie del

presente rifugiandosi nel disteso territorio del tempo già trascorso, nel

racconto, ossia nel ricordo, e nell’immagine, nella sicurezza che offre

l’irrealtà. “E ora che cosa sono io? Non colui che visse ma colui che

descrissi…Quando tutti comprenderanno con la chiarezza ch’io ho,

tutti scriveranno. La vita sarà letteraturizzata…E il raccoglimento

occuperà il massimo tempo che sarà così sottratto alla vita orrida

vera…Ognuno leggerà se stesso. E la propria vita risulterà più chiara o

più oscura, ma si ripeterà, si correggerà, si cristallizzerà” 1 5 9 .

Nella scrittura la vita appare attutita e purificata; soltanto

esiliandosi dall’immediatezza del presente Zeno riesce a cogliere la

bellezza dell’amore, perché mentre sta facendo queste esperienze è

troppo occupato dalle cure quotidiane e preso dall’ansia di vivere. “La

vita che sgocciola dalla penna è vita che si depura in teoria, come per

il signor Aghios che non conosceva Venezia ma la teoria su Venezia o

come la vita del buon vecchio, nella Novella del vecchio e della bella

fanciulla, si trasferisce, insieme col suo respiro, nella penna ch’egli

tiene in bocca mentre stende il trattato della sua avventura amorosa e

che finisce per succhiargli anche l’ultimo respiro” 1 6 0 .

159
I. SVEVO, Le confessioni del vegliardo, in Racconti, saggi e pagine sparse, cit., p. 531.
160
C. MAGRIS, Italo Svevo: la vita e la rappresentazione della vita, in Italo Svevo oggi, cit., p.79.

123
Ogni capitolo scava il passato in un posto diverso, si pensi alla

Coscienza di Zeno : non solo è incentrata di volta in volta su un

segmento specifico della vita del protagonista, ma è scritta dal punto di

vista di un presente che si sposta sempre in avanti nella comprensione

e nell’elaborazione. Lo Zeno che ha scritto il primo capitolo si trova

ad essere ben diverso da quello che ha iniziato la narrazione. L’eroe

sveviano cerca dunque di cristallizzare non già uno stato inerte, bensì

una continua tensione sempre aperta. “Vecchiaia e scrittura sono la

corrosione anarchica di ogni organizzazione già definita dell’esistenza;

esse culminano non nel momento della realizzazione, ma in quello

della possibilità: nella disponibilità del vecchio sortita dall’inferno

familiare o nella felice attesa dello scrittore” 1 6 1 . Così lo scrittore

Mario Samigli, in Una burla riuscita , rivive grazie alla narrazione una

seconda infanzia, lontano da qualsiasi faticosa esperienza. Ecco che

appare chiaro l’intento di tutti i personaggi sveviani, votati alla non

scelta, all’inettitudine, al disimpegno: soltanto l’elusione della

decisione può permettere di sopravvivere più a lungo. Da perdenti

nella vita pratica, diventano gli unici a resistere contro l’appiattimento

delle molteplici vitalità nell’universo razionalizzato e reificato della

pianificazione borghese.

161
Ivi, p. 85.

124
Al culto del principio di realtà in ogni versione, hegeliana o

freudiana, viene opposto il senso della possibilità. Nel vecchio, questa

difesa diventa consapevole astuzia. “L’eroe sveviano non ha paura di

non essere amato, bensì di non amare; non teme che il suo desiderio

resti inappagato, ma che esso si spenga” 1 6 2 . Svevo ha compreso che

l’uomo contemporaneo si sente insidiato non soltanto nella sua

possibilità di essere felice, ma anche in quella di tendere alla felicità

ed è timoroso di venir leso alle radici stesse della vita e dell’istinto.

“Non è la ragione a venir minacciata, bensì l’inconscio, la profondità

del desiderio; l’umanissima ragione dei personaggi sveviani è intenta a

elaborare una strategia per bloccare o almeno per differire il pericolo

di non amare più, di non desiderare più” 1 6 3 .

162
Ivi, p.86.
163
Ibid.

125
“Bisogna crearsi artificialmente un gusto per la vita borghese e

le sue micrologie: amarla senza stimarla e, per quanto essa rimanga

così al di sotto dell’umano, goderla tuttavia poeticamente come

un’altra, diversa ramificazione dell’umano, così come si fa con le

rappresentazioni della vita che si incontrano nei romanzi” 1 6 4 . Così

spiega il limite della finzione narrativa Jean Paul, uno scrittore che

Svevo leggeva negli anni giovanili trascorsi nel collegio bavarese di

Segnitz. Il vecchio che spera di sanare i contrasti e le ferite della vita,

di risistemare e riorganizzare le vicende passate in una armonica unità,

a guardar bene non fa che illudersi, perché si sottrae alla lotta, che è

davvero dura, ma pur sempre reale, ontologicamente superiore.

164
J. PAUL, Scritti sul nichilismo, tr.it. di A. Fabris, Morcelliana, Brescia 1994, p.23.

126
L’esistenza prevale sull’essenza 1 6 5 , è questa che detta le regole,

che supera ogni enciclopedia della vita, fittiziamente e illusoriamente

compilata. “La penna non sembra più rappresentare la vita, bensì le

categorie, mobili e tortuose, che cercano invano di d’aver ragione della

vita crudele e inafferrabile” 1 6 6 , che cercano di riprodurre la mobilità

dell’esistenza nella possibilità, ma depurata dalle soffocanti pressioni

del reale. Il vecchio è il grande anarchico che gioca con la sua facciata

ed è l’unico a sapere che il contegno è l’abito della doppiezza; è

l’unico a tentare una tragicomica via d’uscita dall’ordine mentre gli

altri, i giovani, sono soltanto smaniosi d’integrarsi. Ma la

rappresentazione della vita è malattia essa stessa, perché sottrae il

confronto seppur penoso con il disagio vitale, impedisce l’autenticità

dei rapporti con le persone e le cose.

Il riso zarathustriano di Zeno si rivolge non solo verso le

convenzioni e la superficialità del modo borghese, ma anche contro se

stesso, contro l’ambiguità della propria intelligenza che affonda le

radici in quel medesimo inganno che essa pretende di smascherare.

165
Potremmo azzardare: l’esistenza annulla l’essenza; radice del dissolvimento del soggetto
epistémico, la crisi ontologica e gnoseologica dell’individuo mantiene a stento i caratteri definiti
dall’esistenzialismo. La figura d’uomo descritta da Svevo può dirsi così esistentiva, ma non certo
esistenzialista, a causa della carenza di rielaborazione mediata. In Svevo l’esistenziale si riduce
all’ontico e la coscienza alla memoria di coscienza: ciò che manca è la possibilità di riunire
nell’individuo passato e presente, mediatezza e immediatezza, anima e corpo; la frattura soggetto-
oggetto appare così soltanto una conseguenza di tale ben più radicale scissione.
166
C. MAGRIS, Italo Svevo: la vita e la rappresentazione della vita, in Italo Svevo oggi, cit., p.84.

127
Svevo è consapevole della differenza che intercorre fra la

letteratura e la vita, tuttavia il lettore non è ben sicuro di quale sia la

preferenza dell’autore. Perché certamente la vita è imprevedibile e

originale, ma senza la letteratura non è proprio completa: la letteratura

è l’espressione della vita ma ne è anche il completamento, il

supplemento. Se da una parte Svevo poteva scrivere nel dicembre 1902

“Io a quest’ora e definitivamente ho eliminato dalla mia vita quella

ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura” 1 6 7 , nel 1899, d’altra

parte aveva scritto “Insomma, fuori della penna non c’è salvezza” 1 6 8 e

nel 1928 fece scrivere al suo vecchione, al suo vegliardo Zeno: “Perciò

lo scrivere sarà per me una misura d’igiene cui attenderò ogni sera

prima di prendere il purgante. E spero che le mie carte conterranno

anche le parole che usualmente non dico, perché solo allora la cura

sarà riuscita. Un’altra volta io scrissi con lo stesso proposito di essere

sincero che anche allora si trattava di una pratica di igiene perché

quell’esercizio doveva preparami ad una cura psicanalitica. La cura

non riuscì, ma le carte restarono. Come sono preziose! Mi pare di non

aver vissuto altro che quella parte di vita che descrissi…Il tempo vi è

cristallizzato e lo si ritrova se si sa aprire la pagina che occorre. Come

in un orario ferroviario” 1 6 9 . Prendere in mano la penna è un sacrificio

167
I. SVEVO, Racconti, saggi e pagine sparse, cit., p.816-818.
168
Ivi, p.137.
169
Ibid.

128
determinato dall’incapacità di pensare in altro modo. Ma questo

sacrificio infrange immediatamente la regola: per guarirsi dal vizio di

scrivere Svevo deve capirsi meglio, trovare la radice malata; non può

farlo che scrivendo; deve rincarare la dose con la speranza di

autoimmunizzarsi. Contro la letteratura, allora ricorre quella forma

spuria che è il diario. Come sostiene Blanchot, il diario è un mezzo

ambiguo perché si serve sempre della parola scritta, ma composto nel

momento in cui si ha paura e angoscia di ciò che può venire dal

comporre un libro. Si tratta di contrapporre il diario, il frammento o la

lettera al romanzo, la letteratura alla letteratura 1 7 0 .

“Se percepiamo più facilmente l’idea nell’opera d’arte che nella

contemplazione diretta della natura e della realtà, ciò si deve al fatto

che l’artista, il quale non si fissa che nell’idea e non volge più l’occhio

alla realtà, riproduce anche nell’opera d’arte l’idea pura, distaccata

dalla realtà e libera da tutte le contingenze che potrebbero turbarla” 1 7 1 .

Così Schopenhauer considera come le diverse arti possano, secondo

gradi più o meno tendenti al totale distacco dal mondo, condurre verso

la liberazione dalla necessità e verso la noluntas .

170
Cfr. M. BLANCHOT, Lo spazio letterario, tr.it di G. Neri, Einaudi, Torino 1967, p.20.
171
A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., p. 234.

129
Mentre la conoscenza e la scienza sono irretite nelle forme dello

spazio e del tempo, e piegate ai bisogni della volontà, l’arte è in

Schopenhauer conoscenza libera e disinteressata, che si rivolge alle

idee, ossia alle forme pure, ai modelli eterni delle cose. Il soggetto che

contempla le idee diventa il puro occhio del mondo, e sfugge alle

esigenze pratiche della volontà, cogliendo gli aspetti universali della

realtà, l’essenza immutabile dei fenomeni. “Mentre per l’uomo comune

il proprio patrimonio conoscitivo è la lanterna che illumina la strada,

per l’uomo geniale è il sole che rivela il mondo” 1 7 2 . Per Svevo, invece,

lo scrivere non fa altro che aggravare la propria malattia, inserendola

in un circolo vizioso da cui è difficile uscire.

“Ricordo tutto ma non intendo niente” 1 7 3 dice Zeno mentre

compila l’autobiografia che dovrebbe condurlo alla salute. Il solo

risultato sarà la constatazione che “io sono sano, assolutamente. Da

lungo tempo io sapevo che la mia salute non poteva essere altro che la

mia convinzione e ch’era una sciocchezza degna di un sognatore

ipnagogico di volerla curare anziché persuadere…ammetto che per

avere la persuasione della salute il mio destino dovette mutare e

scaldare il mio organismo con la lotta e soprattutto col trionfo. Fu il

mio commercio che mi guarì e voglio che il dottor S. lo sappia” 1 7 4 .

172
Ibid.
173
I. SVEVO, La coscienza di Zeno, in Opere, cit., p. 599.
174
Ivi, p. 953.

130
La letteratura è vizio, prodotta dall’ozio morale dell’intellettuale

apatico, di cui gli scrittori francesi e russi, ben noti a Svevo, avevano

offerto illustri esempi. E’ l’ art pour l’art dei nuovi intellettuali

decadenti, che non sono più poeti vati, non sanno tracciare una

direzione sicura da seguire, visto che tutto è rimesso in discussione. “E

perché voler curare la nostra malattia? Davvero dobbiamo togliere

all’umanità quella che essa ha di meglio? Svevo parla per sé, per il

romanziere che si annida dentro di lui: in questo sembra pensare come

Saba e cioè che la guarigione completa equivarrebbe all’abbandono

della letteratura… Svevo si attacca alla propria malattia, ne riconosce

lucidamente tutti i possibili vantaggi: la letteratura è un compenso

troppo alto per rinunciarvi… per stabilire poi l’origine di quella

discutibile equazione tra malattia e letteratura, basterebbe guardarsi

intorno nel romanticismo; o magari, attenendosi alle letture certe di

Svevo, sfogliare la terza parte del Mondo come volontà e

rappresentazione . Le citazioni non mancherebbero” 1 7 5 . E infatti proprio

in Schopenhauer rinveniamo dei tratti che ben si addicono alle opere

dello scrittore triestino “Così nella tragedia vediamo le creature più

nobili rinunziare, dopo lunghi combattimenti e lunghe sofferenze, ai

fini perseguiti con accanimento, sacrificare per sempre le gioie della

vita, oppure sbarazzarsi liberamente con gioia del peso dell’esistenza

175
M. LAVAGETTO, L’impiegato E. Schmitz e altri saggi su Svevo, cit., p.48.

131
medesima…bisogna tenere bene a mente, se si vuol comprendere

l’insieme delle considerazioni presentate in quest’opera, che

quest’opera suprema del supremo genio poetico ha il fine di mostrare il

lato terribile della vita, i dolori senza nome, le angosce dell’umanità, il

trionfo dei malvagi, il poter schernitore del caso, la disfatta

irreparabile del giusto e dell’innocente; nel che si ha un indice

significativo della natura del mondo e dell’esistenza” 1 7 6 .

La funzione dell’opera d’arte, in Svevo, non è di catarsi e

liberazione dai lacci del mondo, bensì ne è essa stessa sintomo,

metafora del disagio e della malattia. La controversa definizione di

tragedia e di tragico fornita da Schopenhauer ben si addice ai romanzi

di Svevo perché questi sono tutto tranne che tragedie. Sono piuttosto

antefatti di tragedie, così come le vite degli eroi sveviani non sono vite

vere e proprie, sono prefazioni di vita.

“La poesia non vuole più essere un corposo ritratto della vita,

illusoriamente e fittiziamente fedele alla sua immediatezza naturale,

ma diventa un trattato dell’esistenza, una articolata enciclopedia della

vita, aperta e reattiva ai suoi fuggiti richiami sensibili ma ironicamente

persuasa di poterli afferrare o, meglio, di poterne afferrare l’eco e

176
A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., pp. 294-295.

132
l’esigua traccia, solo nello struggente catalogo che la penna inquieta

stende, di quegli echi e di quella traccia, sulla carta” 1 7 7 .

Zeno, con la penna in mano, crede di avere il potere di sintesi e

di raccolta incessante di tracce della sua vita passata. Taglia e

ricompone, sfronda e aggiunge, a seconda dell’importanza che

attribuisce a certi fatti. Alfonso credeva di poter davvero dare ordine

alla sua esistenza studiando e confrontandosi con i classici, per poi

applicarsi a lavori di suo pugno; Emilio è più concreto, e ben presto

capisce che la sua precarietà ontologica non è facilmente colmabile.

177
C. MAGRIS, Italo Svevo: la vita e la rappresentazione della vita, in Italo Svevo oggi, cit., p.83.

133
Zeno è disilluso e sa già che la sua malattia non va curata con la

sottile analisi di sé ma con la prassi, perché a niente vale il percorso a

ritroso e lo scritto che deve consegnare al dottor S. , “perché come si

può abbandonare un presente simile per andare alla ricerca di cose di

nessuna importanza?” 1 7 8 . Nella scrittura non è rintracciabile la

sincerità e la verità, e Zeno è costretto a confessarlo al suo medico che

non si è accorto che il paziente sta mentendo. “Il dottore presta fede

troppo grande anche a quelle mie benedette confessioni che non vuole

restituirmi perché le riveda” 1 7 9 dice Zeno. E ancora “è così che a forza

di correr dietro a quelle immagini, io le raggiunsi. Ora so di averle

inventate. Ma inventare è una creazione, non una menzogna. Le mie

erano invenzioni come quelle della febbre, che camminano per la

stanza perché le vediate da tutti i lati e che poi anche vi toccano… E il

dottore registrava” 1 8 0 . Kafka allo stesso modo dice: “Confessione e

bugia sono la stessa cosa. Per poter confessare, si mente. Ciò che si è

non lo si può esprimere, appunto perché lo si è; non si può comunicare

se non ciò che non siamo, la menzogna”. 1 8 1

178
I. SVEVO, La coscienza di Zeno, in Opere, cit., p. 944.
179
Ibid.

134
La ricerca che va scandagliando tra i meandri della memoria non

solo, dunque, non riporta le cose come stanno, perché mutate dalla luce

riflessa del presente, ma cerca di ricongiungerle attraverso una sola

logica, dando un assetto falsamente razionale. Così, mentre Zeno ha

rinunciato a calcolare le conseguenze delle sue azioni, affidandosi più

all’istinto che non all’intelletto, a considerazioni precise, intorno a lui

vede chiaramente che tutto viene perseguito secondo finalità

incomprensibili all’umano agire. Nonostante ciò, si affida all’illusione

di poter rimettere ordine al caos della sua vita, che ha prodotto il suo

malessere psichico, andando a sondare il suo animo. “Vedere la mia

infanzia? Più di dieci lustri me ne separano e i miei occhi presbiti

forse potrebbero arrivarci se la luce che ancora ne riverbera non fosse

tagliata da ostacoli di ogni genere, vere ed alte montagne. I miei anni e

qualche mia ora” 1 8 2 .

180
Ivi, pp. 928-929.
181
F. KAFKA, Diari, cit., p.531.
182
I. SVEVO, La coscienza di Svevo,in Opere, cit., p.600.

135
Sul segno grafico il pensiero si posa per lavorare alterandone a

piacere parte o tutto. Ecco che nella cura si cerca di mettere insieme

fatti rintracciando a fatica qualcosa che li accomuni profondamente, e

il protagonista ben presto si accorge di questa farsa e interrompe la

terapia; Zeno tra le righe è sempre alla ricerca di giustificazioni alla

inettitudine e alla mancanza di etica, le quali gli consentono di vivere

in funzione di se stesso e, addirittura, arriva a presentare la relazione

con Carmen come un favore fatto ad Ada. Né si può sperare di arrivare

a capire la trama dell’esistenza, perché ogni avvenimento non ha niente

a che fare con il successivo, a volte provoca risultati del tutto

inimmaginabili: “La causalità non può di per sé essere rappresentata in

modo intuitivo: simile rappresentazione non è possibile che per una

relazione causale determinata. D’altra parte, invece, ogni fenomeno

dell’idea, poiché assume, come tale, la forma del principio di ragione,

o del principium individuationis , deve manifestarsi nella materia e

come qualità della materia…” 1 8 3 .

183
A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., p. 253.

136
Il padre muore e colpisce Zeno con uno schiaffo: vendicarsi e

riparare il vuoto che si determina costituiscono i poli contrastanti in

cui si muove il Cosini. La sua preoccupazione, ora più che mai, è

quella di assolversi, cioè di trovare dei capi espiatori o dei

responsabili. Il modo che sceglie è di certo singolare, perché arriva a

costruirsi una malattia per legittimare le proprie azioni e per

infrangere liberamente il codice morale. Ecco che inizia la terapia con

il medico e redige il suo diario, con il palese intento di mettere al

sicuro la sua patologia, perché si rende conto che la diagnosi proposta

non ha colto nel segno e che il dottor S. non è capace di curarlo.

Scrivendo si dimostra malato ed espugna la sua coscienza da tutti i

tarli che lo assediano; ma i tentativi che compie per riordinare la

propria vita vengono smascherati dai sogni che gli capita di fare, che

rivelano la sua personalità complessa, “i punti che sfuggono alla sua

amministrazione di verità e del falso… vicino al ritratto ufficiale di

Zeno se ne delinea uno clandestino, ambiguo, che propone un’altra

storia. I due volti appaiono sovrimpressi…Non è il solo mezzo di cui

Svevo disponga per sottrarre il suo personaggio al destino che tenta di

costruirsi e di accreditare, per rendere dubbio il suo controllo delle

azioni, dei gesti, delle parole, della storia in genere che rivendica a

sé” 1 8 4 .

184
M. LAVAGETTO, L’impiegato E. Schmitz e altri saggi su Svevo, cit., pp.95-96.

137
Lo scrivere diventa per Zeno un vizio irrinunciabile, così come il

fumo, ed entrambi non sono che un miraggio, un misero alibi

escogitato dalla propria cattiva coscienza per mascherare la

inettitudine, la patologica abulia.

Zeno ha già vagamente intuito che il vizio del fumo è il frutto di

un istintivo antagonismo scatenatosi in lui, fin dalla più lontana

infanzia, nei confronti del genitore. Obbedendo ora ai dettami di un

impellente processo di associazione, egli orienta la sua inflessibile

autoinchiesta sul terreno dei difficili rapporti con quel padre che era il

suo esatto rovescio: un uomo forte e sano, pratico, mai sfiorato dal

dubbio, pago di poche e salde certezze, la cui coscienza si acquieta

nell’adesione alla virtù. Egli giunge per questa via alla conclusione

che l’insanabile conflitto caratteriale con il vecchio ha lasciato nel suo

animo un solco indelebile, un diffuso senso di colpa che è “la prima

radice della sua insicurezza ” 1 8 5 .

185
S. DEL MISSIER, I. Svevo, cit., pp.100-101.

138
Zeno associa il vizio del fumo alla sua prima infanzia, quando

sottraeva gli spiccioli dal taschino del panciotto del padre per

procurarsi le sigarette ed era costretto a mentire per non essere

sgridato. Poi, il proposito di liberarsene diventa l’inseparabile

compagno della sua esistenza, un altro pretesto, insieme all’analisi:

“Anzi, la mia antipatia per lo stile di Freud fu interpretata…come un

colpo di denti dato dall’animale primitivo che c’è anche in me per

proteggere la mia malattia” 1 8 6 . Del resto, “l’animale malato non lascia

guardare nei pertugi pei quali si potrebbe scorgere la malattia, la

debolezza” 1 8 7 . Tale debolezza della volontà si riscontra nel tentativo di

essere mascherata dalla letteratura e dalla vecchiaia, che hanno

addirittura il compito di giustificarla. Naturalmente, tutto è finzione e

gioco delle parti: significa procacciarsi a buon mercato l’indulgenza

per i propri vizi e le proprie debolezze, riservarsi come scrittore un

mezzo d’ironia dissacrante anche verso la più piccola e insignificante

delle proprie ambizioni.

186
I. SVEVO, Soggiorno londinese, in Racconti, saggi e pagine sparse, cit., p. 688.
187
I SVEVO, La coscienza di Zeno, in Opere, cit., p.627.

139
§ 3.2. I L SOGGETTO DISPERSO NELL ’ ESPERIENZA DELLA RAPPRESENTAZIONE

140
“La mutilazione per cui la vita perdette quello che non ebbe

mai, il futuro, rende la vita più semplice, ma anche tanto priva di

senso” 1 8 8 . Commenta così il “vecchione” che si confida ne Le

confessioni di un vegliardo , quando oramai vede sopraggiungere la fine

di ogni lotta, quando si libera dall’ansia dei doveri e si rifugia in un

sereno ricordo. Il vecchio si muove con la libertà e con il cinismo del

puro disimpegno, di chi riassume la vita nella contemplazione, nella

conoscenza, diventando un teorico a pieno titolo che non fa altro che

aggiungere qualche nuova scoperta alla sua già ricca esperienza. In

questa direzione agisce il protagonista de La rigenerazione, in cui

l’anziano protagonista, nonostante la prepotenza dei familiari, riesce a

sopravvivere grazie ad un istinto quasi “selvaggio”, perché connaturato

alla sua avanzata età. Allo stesso modo, il buon vecchio inizia la

frequentazione della bella fanciulla ponendosi alcune riserve morali,

ma ha già pronta la giustificazione per fare ciò che più gli piace: ha

diritto ad essere almeno per qualche anno felice, prima che la morte

cancelli tutto, ogni possibilità, per sempre.

188
I. SVEVO, Il vecchione, in Opere, cit., p.138.

141
“Quando vuole una donna ricorda re Davide che dalle giovinette

si aspettava la gioventù…quando, abbandonato l’ufficio, il vecchio,

per risparmiarsi l’attesa inerte in casa, andò a passeggiare lungamente

alla riva e al molo, vi fu nel suo petto un lieve sobbolimento morale,

che non passò senza lasciar traccia di sé nella sua anima. Non ebbe

però alcuna influenza sul corso delle cose perché egli, come tutti i

vecchi e i giovani, fece quello che gli piacque pur sapendo meglio” 1 8 9 ,

sottolinea Svevo con ironia. Avvalendosi di questa liceità il vecchio

soprassiede al proposito di ricoprire il ruolo solo di filantropo e

accetta con grande entusiasmo di vivere questa avventura, che, si

faccia attenzione, ha la pretesa di essere autentica perché “secondo il

linguaggio dei vecchi è vera un’avventura in cui c’entri anche il

cuore” 1 9 0 . Fa cadere ogni resistenza considerando che si tratta della

“prima avventura dopo la morte di mia moglie” anche se lo scrittore

subito annota “i vecchi quando amano passano sempre per la paternità

e ogni loro abbraccio è un incesto di cui ha l’acre sapore”. Così,

preoccupandosi che la sua avventura resti vera, collaborando

volenteroso alla falsificazione perché ama credere alla fanciulla che

dice di amarlo, vive intensamente quelle ore di felicità senza

preoccupazioni né rimorsi. Ben presto la relazione con la ragazza

189
I. SVEVO, Il buon vecchio e la bella fanciulla, in Opere, cit., pp.960; 962-963.
190
Ibid.

142
diventa per l’anziano un problema, perché il suo corpo debilitato non

sopporta di venire esposto a tanti vizi. Colto dal rimorso di aver

corrotto la giovane, cerca di riparare e di dare un’altra direzione alla

sua condotta: “Ed è proprio così che nei suoi tardi anni il mio buon

vecchio divenne scrittore. Quella sera scrisse solo degli appunti per la

conferenza ch’egli voleva tenere alla giovinetta… egli credette tutt’ad

un tratto di aver qualche cosa da dire e non mica alla sola

giovinetta” 1 9 1 . Dal tentativo di sedare la sua coscienza dal rimorso di

quanto ha fatto, soprattutto dal timore di averla corrotta, il vecchio

inizia la stesura di un manoscritto, prima con l’intento di ricondurre la

ragazza alla virtù, poi per educare il mondo intero alla legge morale.

191
Ivi, pp. 985-986.

143
“Non scriveva più per la giovinetta…egli credeva di scrivere per

la generalità e forse anche per il legislatore. Non ricercava egli una

parte importante delle leggi morali che, secondo lui, dovevano reggere

il mondo?” 1 9 2 . Ecco che la teoria dedicata ai “Rapporti fra vecchiaia e

gioventù” diventa la sua principale occupazione e sente di avere un

compito importante, un monito da lasciare alle generazioni future. La

sua esistenza si riduce alla sola scrittura, ad un’indagine serrata del

suo passato e delle sue responsabilità, di come avrebbe potuto agire ma

non lo ha fatto, fino alla grande scoperta: “Ciò significa soltanto che il

vecchio è debole. È infatti nient’altro che un giovine indebolito.

L’aveva trovata. Questa scoperta andava a far parte della sua teoria …

perché e acciocché la sua debolezza non si converta in malattia ha

bisogno di una morale ben solida…come si poteva credere che la

vecchiaia, che non era altro che la continuazione della gioventù, fosse

una malattia? Doveva pur essere intervenuto un altro elemento per

mutare la salute in malattia; quell’elemento il vecchio non sapeva

trovarlo” 1 9 3 .

192
Ivi, p.990.
193
Ivi, p. 993.

144
Il vecchio si illude di poter correggere la vita intera con questo

suo trattato anche se presto si moltiplicano i dubbi e la domande a cui

non sa trovare risposta. Anche il protagonista di Vino generoso ha

oramai abbandonato la lotta, il tentativo di sondare la vita e di trovarne

il senso: è giunto al termine dei suoi anni e non pesa più il fardello di

realizzarsi, di trovare la direzione giusta che possa conquistare la

salute. Oramai tutto è risaputo, e non c’è che il passato e il presente da

forgiare a piacimento, da riordinare e da considerare come unica

possibilità: il vecchio è il grande anarchico che può sovvertire gli

schemi e le convenzioni in modo libero, perché non è più oppresso

dall’ansia di vivere del giovane. Il suo sguardo rivolto a cose lontane

lo tiene distante dalle passioni, e lo fa essere un grande teorico, quello

che invano aveva sperato di divenire in tutta la sua vita.

145
Il mondo in cui si muove il vecchio protagonista degli ultimi

racconti è la famiglia, gli inferi domestici entro i quali si sviluppa un

tortuoso intreccio di affetto, sopraffazione, egoismo, inibizione,

reticenza, tenerezza…secondo una tipica ottica borghese la famiglia

appare un concentrato dell’universo, un labirinto di lacci e passioni,

fecondo e letale come le arterie che pulsano e si sclerotizzano: come

la vita, sveviana malattia della materia. “La famiglia è la borghesia

camuffata da universale-umano e tradotta in sentimenti e gesti

quotidiani. Il vecchio, guardando la moglie che dorme, riposando

ignara nel suo affetto (negli appunti intitolati Nietzsche), pensa che lei

s’era messa “nei lunghi anni fra me e la vera vita per interdirmela”…

eppure il vecchio sa che, accanto al suo odio, c’è per la moglie anche

pietà ed anche vero amore, amore per la vicinanza della lunga vita

insieme perduta” 1 9 4 . Con gli “occhi stanchi di sole” ed “incline

all’inerzia” il vecchione lascia che le cose arrivino a lui e vadano via

prive di senso, oramai scansa anche ogni tentativo di protesta contro

l’orrore della “vita orrida vera”. Egli è pronto ad ingaggiare una

autentica sfida con la morte: si prende un’amante per truffare la natura,

vista la debilitazione del suo organismo; trasforma l’inettitudine in

medicina, perché la sua debolezza diventa cautela che protegge la

salute. È l’unico a conoscere la verità, quella del sogno e

194
C. MAGRIS, Italo Svevo: la vita e la rappresentazione della vita, in Italo Svevo oggi, cit., p.91.

146
dell’inconscio che trascendono i limiti fittizi dell’io cosciente e infatti

è sempre alle prese con incubi che gli mostrano gli errori commessi e

lo riconducono alla retta via. La saggezza del vecchio, non in quanto

vecchio ma in quanto uomo, malato non perché vecchio ma perché

uomo, sta nel sapere che non c’è salvezza al di là dello scrivere, unico

luogo in cui ricercare l’autenticità morale: “Voglio soltanto attraverso

queste pagine arrivare a capirmi meglio. L’abitudine mia e di tutti gli

impotenti di non saper pensare che con la penna in mano…” 1 9 5

Zeno ha troppe qualità, tanto da risultarne privo perché non

riesce a scegliere, a determinarsi, le possibilità che gli si offrono lo

tengono nel dubbio e nell’incertezza, nell’impossibilità di dare una

risposta definitiva alla relatività del reale. Così appare anche Ulrich,

l’“uomo senza qualità” descritto da Musil, contraddittorio e

problematico, che non si lascia illudere dai bagliori della ricca classe

borghese.

195
I. SVEVO, La coscienza di Zeno, in Opere, cit., p. 927.

147
“Un uomo che vuole la verità, diventa scienziato; un uomo che

vuol lasciare libero gioco alla sua soggettività diventa magari scrittore;

ma che cosa deve fare un uomo che vuole qualcosa di intermedio fra i

due?” 1 9 6 . L’individuo immerso nel caos della vita crede di poter trovare

un ordine e una sequenza, un senso agli avvenimenti: “Quel che ci

tranquillizza è la successione semplice, il ridurre a una dimensione,

come direbbe un matematico, l’opprimente varietà della vita; infilare

un filo, quel famoso filo del racconto, di cui è fatto il filo della vita,

attraverso tutto ciò che è avvenuto nel tempo e nello spazio! (…)Quasi

tutti gli uomini sono dei narratori… a loro piace la serie ordinata dei

fatti perché somiglia a una necessità, e grazie all’impressione che la

vita abbia un corso si sentono in qualche modo protetti in mezzo al

caos” 1 9 7 . Anche Svevo avverte la stessa precarietà; una precarietà che

si fa esistenziale, che viene dissolta attraverso una pungente ironia.

Però, in Musil, il riso derisorio risparmia i valori che consentono

l’ordine a cui resta sempre attaccato. “La tecnica di Musil consiste

essenzialmente nello scrivere dappertutto ‘allorché’, ‘prima che’, e

‘dopo che’, ma è inserendo tanti ‘perché’ e ‘affinché’ che ciò che

questi avverbi esprimevano viene ad essere ironicamente annullato, che

il corso della vita viene a rivelarsi irrisorio” 1 9 8 e dietro di esso si

196
R. MUSIL, L’uomo senza qualità, Mondadori, Trento 1996, p. 245.

148
afferma la verità che “le stesse cose ritornano” 1 9 9 e non c’è protezione

contro il caos e l’assenza di significato.

“Idealità e morale sono i mezzi migliori per colmare il gran buco

che si chiama anima” 2 0 0 : se l’uomo seguisse solo ciò che gli detta la

sua anima, senza essere guidato da morale, filosofia e religione,

insieme ad una approfondita educazione borghese, commetterebbe

orribili efferatezze: “E poiché possedere delle qualità presuppone una

certa soddisfazione di constatarle reali, è lecito prevedere come a uno

cui manchi il senso della realtà anche nei confronti di se stesso, possa

un bel giorno capitare di scoprire in sé l’uomo senza qualità” 2 0 1 .

Ulrich, come Zeno, ha perduto il contatto diretto con la vita, le

cose, le persone, tutto impegnato a dissezionarle dopo che la scienza

ha consentito insperati progressi sulla via del dominio tecnico ed

epistemico. “E’ un uomo senza qualità - esplose Walter - ve ne sono

milioni oggigiorno. E’ il tipico prodotto del nostro tempo…ad

eccezione dei preti e dei cattolici, nessuno oggigiorno ha l’aspetto che

dovrebbe avere, perché noi adoperiamo la nostra testa ancor più

impersonalmente che le nostre mani” 2 0 2 .

197
Ivi, p. 630.
198
C. CASES, Introduzione a Musil, Mondadori, Trento 1996, p.18.
199
R. MUSIL, L’uomo senza qualità, Mondadori, Trento 1996, p. 77.
200
Ibid.

149
“La matematica però è il colmo, quella è ignara di se stessa come

in futuro gli uomini, che si nutriranno di pillole invece che di pane e di

carne, saranno ignari di prati, galline e vitelli! …Egli [Ulrich] è un

pericolo per te! Oggi quello che più ci è necessario è la semplicità, la

salute, lo star vicini alla terra… fare una passeggiata, scambiare

qualche parola coi vicini…la vita umana è questo!” 2 0 3 . La presenza

dell’anima costituisce infatti l’elemento perturbatore: “L’anima, che è

la prima causa di malcontento ed i insoddisfazione, è anche il motore

dello sviluppo umano…l’evoluzione dell’uomo non si arresta proprio

perché è condannato ad essere imperfetto, proprio perché il suo corpo

non raggiunge mai quell’assoluto equilibrio che renderebbe superflua

l’anima” 2 0 4 .

201
Ivi, p.14.
202
Ivi, p. 59.
203
Ibid.
204
M. LAVAGETTO, L’impiegato E. Schmitz e altri saggi su Svevo, cit., p.173.

150
“Quale bruciore! Aveva invaso nel mio organismo tutto un vasto

tratto che sfociava nella gola…ogni posizione sacrificava una parte del

mio corpo…della corsa avevo l’affanno e, anche, nell’orecchio, il

calpestio dei miei passi…” 2 0 5 . Il vecchio personaggio di Vino generoso

è afflitto da malattie fisiche, tanto che il dottore gli ha prescritto di

bere e mangiare con moderazione soltanto perché si trova al

matrimonio della nipote, ottiene di potersi liberare da qualche divieto.

Così inizia la sua ribellione contro l’opprimente moglie e la figlia che

tanto sono distanti da lui nel modo di sentire la vita, di avvertire le

situazioni. “Come potremo ottenere dai nostri figli il perdono di aver

dato loro questa vita? - Ma lei sempliciona - I nostri figliuoli sono

beati di vivere - La vita che io allora sentivo quale vera, la vita del

sogno, tuttavia m’avviluppava e volli proclamarla - Perché loro non

sanno niente ancora” 2 0 6 . Lo spostamento del disagio dalla coscienza ai

dolori reali, del corpo, ha un significato importante, che rinvia alla

favorevole condizione del vecchio, che vive nella vecchiaia “la

stagione più vicina al grande mutamento; l’inconscio che nel sogno del

vecchio emerge da profondità a lui ignote è - come la morte -

un’anticipazione dello scioglimento del suo io” 2 0 7 . Dopo aver avvertito

l’abisso e il dolore che si celano dietro le sicurezze della vita

205
I. SVEVO, Vino generoso, in Opere, cit., pp. 1006-1007.
206
Ivi, p. 1013.
207
C. MAGRIS, Italo Svevo: la vita e la rappresentazione della vita, in Italo Svevo oggi, cit., p.92.

151
borghese, “che diviene il velo steso ad occultare l’inesistenza di una

vita intensa e profonda” 2 0 8 , cessata la lotta che lo sottrae alle sue

aspettative, insieme al tormento di cercare la verità e affermarla,

adesso tutto quanto si poteva e doveva fare è stato fatto, è passato.

Non c’è più la premura del futuro e nel presente egli ha elaborato una

sottile tattica di accomodamenti con l’impossibilità di vivere. Senza

essere immerso nel turbinio dell’esistenza, il vegliardo può ora sentirsi

più libero anche della stessa paura di invecchiare, che tanto lo aveva

oppresso: ora è realtà, come prossima è la morte sentita in modo

ambivalente, a volte come liberazione, altre volte come tremenda

voragine che nullifica ogni tentativo di eternarsi: “Ebbi il sentimento

che se morissi non me ne importerebbe niente… io stavo a guardare me

come morivo ad occhio asciutto. Scomparivo e il mondo continuava…

io ebbi in quell’istante la completa sensazione della mancanza

d’importanza mia e anche di tutto il resto” 2 0 9 .

208
Ivi, p.93.
209
I. SVEVO, Nietzsche, in Racconti, saggi e pagine sparse, cit, p. 645.

152
I dolori del corpo fanno dimenticare il continuo arrovellarsi di

Zeno, riportano ad un presente oggettivo e impellente, ma la coscienza

continua implacabile a trasmettere i suoi messaggi attraverso il sogno:

ecco che l’elegante uomo sessantenne che seduce la fanciulla è più

volte scosso dalla sua colpa, dal fatto di averla corrotta, anche se in

ogni modo cerca un risarcimento alla propria condotta. Ma, purtroppo,

natura non vincitur , e sia il vecchio seduttore che Giovanni,

personaggio principale della Rigenerazione, soccombono di fronte al

proprio fisico debilitato: “Il medico disse che era sicuro che il male

non si sarebbe ripetuto a patto che il vecchio avesse saputo vivere in

riposo, prendere regolarmente ogni due ore una certa polveretta e si

fosse astenuto dal vedere l’oggetto del suo amore o anche pensarci” 2 1 0 .

E ancora si legge: “Orrenda macchina, questa nostra, quando è vecchia!

Se ho assistito allo sforzo di Augusta, pavento quello che incombe a

me e non raggiungo il sonno se non mi concedo una doppia dose di

sonnifero…essere vecchio il giorno intero, senza un momento di sosta!

E invecchiare ad ogni istante! M’abituo con fatica ad essere come sono

oggi, e domani ho da sottopormi alla stessa fatica per rimettermi nel

sedile che s’è fatto più incomodo ancora. Chi può togliermi il diritto di

parlare, gridare, protestare? Tanto più che la protesta è la via più breve

210
I. SVEVO, La novella del buon vecchio e della bella fanciulla, in Opere, cit., p.969.

153
alla rassegnazione” 2 1 1 . Se, dunque, la vecchiaia rende più inclini alla

rinuncia e alla pacifica accettazione dei dissidi interiori, sapendo che

oramai è “ora di dormire quieti”, nemmeno allora si può vedere la

propria esistenza ordinata, rimessa a posto. Allo stesso modo “Il

vecchione” (Zeno qualche anno più tardi), non riesce a ricostruire una

parte consistente della sua vita, al solo scontrarsi con la vita nella sua

manifestazione più chiara: la gioventù di una donna: “Al disordine del

presente si sostituì il disordine del passato…” 2 1 2 , e quest’ultimo finisce

per prendere possesso persino del residuo di vita che il presente

sembra lasciare.

211
I. SVEVO, Il vecchione, in Opere, cit., p. 1078.
212
Ivi, p. 1075.

154
“All’inizio di questo secolo le ricerche psicoanalitiche,

linguistiche e poi etnologiche hanno spossessato il soggetto delle leggi

del suo piacere, delle forme della sua parola, delle regole della sua

azione, dei sistemi dei suoi discorsi mitici” 2 1 3 . Già con la psicoanalisi,

lo storicismo integrale di Marx e la genealogia nietzschiana, sono

crollate le fondamenta del sapere moderno: il soggetto non è più

l’uomo ma, a seconda dei casi, la nevrosi, il sistema produttivo e la

genealogia della morale. “Il fatto paradossale è che proprio la passione

per la verità, la coscienza, nella sua ricerca del vero, è giunta a mettere

in crisi se stessa: ha scoperto, appunto, di essere solo una passione

come le altre” 2 1 4 .

213
M. FOUCAULT, Due risposte sull’epistemologia, cit., p.20.
214
G. VATTIMO, Le avventure della differenza, cit., pp. 52-53.

155
Non è il soggetto che parla nella nevrosi; piuttosto è la nevrosi

stessa che parla attraverso il soggetto. L’ironia sagace di Svevo nei

confronti del tentativo di incasellare la persona entro uno schema fisso

e prestabilito emerge in primo luogo nel rapporto Zeno - medico, ma

soprattutto negli ultimi scritti. “Ravvolse di nuovo le vecchie e le

nuove cartelle nel lenzuolo sul quale era scritta la domanda a cui non

sapeva rispondere. Poi affannosamente sotto a quella scrisse varie

volte la parola: Nulla!” 2 1 5 : il vecchio, e con lui Svevo, intuiscono che

la ricerca non approda ad una riposta definitiva, che la letteratura non

può fare altro che denunciare una invalicabile impotenza: “Sto per

parlare, e so dire, ma quale eco ostile mi interrompe?” 2 1 6 .

215
I. SVEVO, La novella del buon vecchio e della bella fanciulla, in Opere, cit., p.998.
216
M. BLANCHOT, L’infinito intrattenimento, tr.it. di R. Ferrara, Einaudi, Torino 1977, p. 404.

156
Niente si può asserire in modo definitivo, perché ogni cosa è

sottoposta alla relatività dei punti di vista. Così in De Saussure e Levi-

Strauss questo processo di decentramento del soggetto si esplica nella

nozione di struttura come sistema regolato da un ordine interno e da un

gruppo di trasformazioni possibili che la caratterizzano. Un procedere

che si propone di andare al di là dell’empirico e del vissuto, per essere

assolutamente oggettivo: studiare l’uomo dal di fuori e ripudiare i dati

della coscienza come via di accesso alla verità. In tal modo, però, la

sovranità del soggetto viene scossa dal profondo e rimossa: “L’uomo

non può darsi nella trasparenza immediata e sovrana di un cogito” 2 1 7 .

L’uomo stesso, che vorrebbe farsi padrone della verità e della sua

storia, viene mostrato come un oggetto epistemologico recente, una

piega dei saperi e dei linguaggi. Dal vuoto del soggetto emerge che,

anziché essere il fondamento degli enunciati, l’individuo ha solamente

una funzione enunciativa. Il soggetto non pre-esiste alle diverse

funzioni; non c’è un soggetto che pre-esista al suo essere chiamato e

nominato. Egli “è” in quanto viene indicato in tal modo dagli altri; il

suo essere soggetto si incarna in diversi modi che fanno parte del

sistema e costituiscono la stessa sostanza dell’essere soggetto. Così gli

enunciati di tipo ideologico, che l’individuo ritiene propri, fanno

invece parte di un apriori storico, di un sapere archeologico e

217
M. FOUCAULT, Le parole e le cose, tr.it. di P. Pasquino, Rizzoli, Milano 1967, p.120.

157
archivistico. “L’originario dell’autocoscienza, la continuità

trascendentale di una voce che dice la verità è tolta. E di fatto la stessa

filosofia è tolta, in quella che è stata sotterraneamente per millenni la

sua condizione di possibilità” 2 1 8 . A differenza di Pirandello, dunque,

non ci sono maschere da togliere per arrivare a se stessi, perché se

andiamo a fondo l’individualità è inesistente, tutto è struttura e sistema

e la coscienza non è portatrice di alcuna verità propria. Si potrebbe

affermare, con Blanchot, che l’uomo è spogliato di ogni verità poiché

uomo “è proprio ciò che nasconde in sé la verità non umana

dell’uomo” 2 1 9 .

218
C. SINI, Il soggetto e la voce nel pensiero francese contemporaneo, in La crisi del soggetto nel
pensiero contemporaneo a cura di A.Bruno, Francoangeli, Milano 1988, p.200.
219
M. BLANCHOT, L’infinito intrattenimento, cit., p.20.

158
Il soggetto non è più in grado di cogliere la domanda della

domanda e questo è il suo invalicabile limite. Dopo essersi interrogato

sulla morale, sull’alienazione dell’individuo moderno, sui percorsi

dell’anima, Svevo non lascia niente che documenti una linea da

seguire, un indizio certo che porti alla verità e alla salute. L’uomo non

conosce né l’ incipit né l’esitus della sua esistenza, il suo esserci è già

stato posto e non può coglierlo. Nel pensiero contemporaneo la crisi

del soggetto emerge all’interno di ogni domandare e rispondere della

parola. Infatti, tra la parola e le altre cose, tra locutore e uditore, si

insinua un distanza invincibile, che è data da questa ignoranza

incolmabile circa la sua origine e il suo fine. Il soggetto

autoconsapevole non scalfisce il mistero che si cela dietro tutte le

domande e che riguarda la loro provenienza.

Il problema dei soggetti è che essi parlano e la parola è la

maledizione dell’uomo: infatti tramite il linguaggio si illude di

riempire quella distanza incolmabile da tutte le cose e dagli altri, visto

che il suo fondamento è nel non avere fondamento. In tal modo sono

presi nella logica dell’altro, rinviati a un nulla di senso che è il fondo

stesso della sensatezza apparente del parlare. La crisi del soggetto, del

soggetto donatore e fondatore di senso, è al tempo stesso la crisi del

mondo: la ragione si perde nella impensabilità dell’origine e del senso.

159
Derrida parla del potere della voce come illusorio, perché

minacciato dall'estraneità del segno, della scrittura, che da sempre

abita dentro la parola, lavora nell’intimità del pensiero. Rifacendosi

alla differenza ontologica heideggeriana tra essere ed ente, egli

sostiene che l’essere è costitutivamente una differenza irriducibile ad

ogni identità originaria. In quanto differenza non presentificabile nel

linguaggio, l’essere risulta una sorta di assenza di cui non si danno

delle rappresentazioni, ma solo delle tracce. Per cui, al posto della

metafisica e del suo primato della voce, presenza, sulla scrittura,

assenza, Derrida difende il primato della scrittura sulla voce,

proponendo una nuova post-metafisica nella scienza della scrittura. La

stessa decostruzione che denuncia la crisi può solo percorrere il di

fuori delle parole, rappresentare la rappresentazione, senza potersene

affrancare. “Un giorno - scrive Svevo ne L’imperio - per una via di

campagna, egli vide una lumaca avanzare lentamente, rigando di bava

il cammino… se la lumaca avesse avuto coscienza, avrebbe presunto di

rettificare e beneficare il mondo con la qualità della sua bava;

l’esperienza, reciprocamente, insegnava all’uomo che tutta la sua

attività era altrettanto fruttuosa quanto quella dell’animale. Vide anche

le formiche e le api intente ad un‘opera più intelligente, ma vana del

pari…la capacità di arrivare a comprendere la propria vanezza era

l’unico privilegio dell’uomo sui bruti. Lustro e inganno tutto il resto;

160
le trovate dell’ingegno, le indagini del pensiero, le affermazioni della

fede” 2 2 0 . Dunque, tolta agli uomini la presunzione, cosa resta loro in

realtà? Cosa sanno del mondo, della prima origine delle cause,

dell’ultima fine di tutti gli effetti? “Nulla” 2 2 1 , nulla.

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220
M. LAVAGETTO, L’impiegato E. Schmitz, cit., p.202.
221
I. SVEVO, Il buon vecchio e la bella fanciulla, in Opere, cit., p.998.

161
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I D ., La coscienza di Zeno , in Opere, cit., pp.597-954.

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