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Novella di Nunzio

La differenza tra il concetto di inettitudine e il concetto di senilità


nell’opera di Italo Svevo

1. Ipotesi interpretativa e premessa metodologica


Riassumere in un solo capoverso l’intero quadro ermeneutico di un autore è un’impresa
impossibile e che non può avere nessuna pretesa di esaustività. Tuttavia, pur consapevole di questi
limiti e del rischio di estrema sintesi che ne consegue, ritengo che nell’ambito della critica sveviana
sia comunque possibile individuare una certa tendenza comune, quella cioè a intendere l’opera di
Italo Svevo come un continuum, con Una vita, Senilità e La coscienza a costituire i capitoli di una
storia sostanzialmente unica, e, in modo parallelo, con Alfonso Nitti, Emilio Brentani e Zeno Cosini
a rappresentare le incarnazioni progressive di uno stesso personaggio modello, che diventa così
un'entità trans-testuale dal raggio d'esistenza le cui tappe, giovinezza, età adulta e maturità,
combacerebbero con quelle dei tre romanzi1. Un approccio di questo genere ha poi determinato
l’idea che l’inettitudine e la senilità vadano considerate due voci perfettamente corrispondenti, e
dunque l’espressione di uno stato psicologico ed etico identico2.
Al contrario, l’ipotesi da me sostenuta è che nella poetica sveviana l’inettitudine e la senilità
non rimandino ad uno stesso referente, e che anzi tra esse sia possibile individuare una certa
distanza ideologica, oltre che semantica. La concezione lineare e progressiva solitamente offerta
dell’opera di Svevo andrebbe dunque modificata a favore di una maggiore discontinuità3: in base
alla distinzione ora proposta, risulterebbe più convincente attribuire ai tre romanzi di Svevo un
andamento almeno bipartito, che leghi Una vita alla Coscienza e ponga Senilità su un altro piano.
Infatti, rispetto ad Alfonso Nitti e Zeno Cosini, nei quali è lecito individuare le realizzazioni
narrative di un'idea di inettitudine che, con le dovute cautele, può tuttavia considerarsi analoga,
Emilio Brentani presenta un'identità intellettuale dissimile e che rientra appunto nel campo della
senilità.
Con ciò non voglio sottintendere un’involuzione di Senilità rispetto a Una vita, ma solo
rilevare tra queste due opere una differenza quanto a intenti da parte dell’autore; differenza che il
confronto con La Coscienza mette particolarmente in risalto. Il duplice obbiettivo qui perseguito
sarà allora da una parte quello di analizzare la distanza che intercorre tra il tema dell’inettitudine e il
tema della senilità nell’opera di Svevo, e dall’altra quello di dimostrare come Alfonso Nitti presenti
maggiori affinità con Zeno Cosini piuttosto che con Emilio Brentani.

2. Cedimento al caos, logica doppia e potenziale vittoria dell’inetto


Nell’universo sveviano, la dicotomia tra inetto e adatto a vivere corrisponde ad un’altra
dicotomia, di derivazione schopenhaueriana: quella tra sognatore e lottatore. Si tratta di un tema per
il quale Svevo mostra subito uno spiccato interesse, assumendolo a oggetto di riflessione sin dal
primo testo narrativo, il racconto Una lotta, pubblicato sull’“Indipendente” nel 1888, e
riproponendolo poi negli ultimi due articoli che chiudono la sua collaborazione decennale con il

1 Un caso esemplare di questo sguardo unitario è offerto da Giacomo Debenedetti, il quale anzi può esserne
considerato il fautore, avendo coniato nel 1929 una formula, quella del “trino e uno protagonista dei tre romanzi di
Svevo” (1990, 43), che ha poi avuto una lunga fortuna critica. Ma si pensi anche, tra gli altri, agli studi di Maryse
Jeuland Meynaud (1985) e di Giuseppe Antonio Camerino (1981; 2002), il quale ha inoltre confermato la sua lettura
unitaria dei tre romanzi sveviani proprio in occasione del convegno internazionale “Italo Svevo and his lagacy”,
tenutosi a Oxford il 16 e il 17 dicembre 2011.
2 Si consideri per esempio il volume di Guido Baldi del 1998, Le maschere dell’inetto. Lettura di Senilità, in cui,
come risulta chiaro sin dal titolo, il concetto di inettitudine viene utilizzato in perfetta sinonimia con quello di senilità.
3 Un’interpretazione della narrativa sveviana meno unitaria, anche se basata su criteri diversi da quelli qui seguiti,
è proposta da Mario Sechi (2000).

1
periodico triestino: Sogni di natale, uscito il 25 dicembre 1889, e Il fumo, uscito il 17 novembre
1890. È in particolare su quest’ultimo che si vuole porre l’attenzione.
Ne Il fumo Svevo offre un’immagine del mondo divisa tra due opposte categorie, i fumatori
e i non fumatori, interpretando tale divisione come una variante sinonimica proprio
dell’opposizione tra sognatori e lottatori: “il fumatore, si afferma infatti, è prima di tutto un
sognatore” (Svevo 2004b, 1088). Stabilita questa equivalenza, Svevo passa poi a individuare nella
figura del fumatore-sognatore la rappresentazione di un tipo specifico di intellettuale, del quale
vengono riferiti i tratti esistenziali e l’esperienza gnoseologica e narrativa.
In prima analisi il fumo, e dunque l’attitudine al sogno, ostacolano il lavoro pratico,
prerogativa principale del lottatore. Afferma infatti Svevo: “è di certo un’asserzione erronea di dire
che il fumo faciliti il lavoro. Anzi, semplicemente lo interrompe. Lo faciliterà a chi non è vero
fumatore, ma il vero fumatore quando fuma non fa altro”. Al contrario, “il fumatore dilettante non
guarda dietro al fumo che spira. Se ne libera. Lo dimentica e ritorna al suo lavoro” (Svevo 2004b,
1087-8).
Il fumo e l’attitudine al sogno esercitano poi un’azione inibente anche sull’atto della
scrittura:

il fumatore è […] un sognatore terribile che si logorerà l’intelligenza in dieci sogni e si


ritroverà con l’aver notata una sola parola. I sogni saranno arditi e geniali, ma lascieranno
una traccia sproporzionatamente piccola in confronto al loro volume; sarò stato sognato
un mondo e tracciata una nube, sognato una tragedia o un’epopea e fissato un verso
(Svevo 2004b, 1088).

Inoltre, il fumo e il sogno distruggono la congruenza dei pensieri e degli atti, caratterizzando
ulteriormente la distanza della fisionomia intellettuale del sognatore rispetto a quella del lottatore:
“il sognatore non è mai conseguente a se stesso perché il sogno porta lontano e non in linea retta
mentre la persona conseguente a se stessa si move in uno spazio più ristretto e simetrico”. Ne deriva
l’eliminazione della linearità della logica comune a favore di una più complessa e destabilizzante
logica doppia: “il vero sognatore […] fa sempre una doppia vita e tutt’e due equivalenti per
intensità. Così la sua ispirazione ha due fonti: Pura osservazione e sogno, sogno disordinato da
nervi corrotti” (ibidem).
Infine, come risulta chiaro anche da quest’ultima citazione, il fumo e l’attitudine al sogno
sono considerati una malattia, una nevrosi, e ciò porta a un ulteriore arricchimento semantico
dell’opposizione tra sognatori e lottatori, che si identifica in opposizione tra malati e sani. Ora,
secondo una tendenza che risulterà poi centrale in tutta la sua opera, specie in quella più matura,
Svevo menziona i concetti di salute e malattia attraverso un ribaltamento che ne invalida il
significato abituale, e lungo questa via arriva poi a formulare per la prima volta in modo esplicito
l’idea che la malattia, la nevrosi, l’inclinazione al sogno, e quindi l’inettitudine possano costituire
non solo un’alternativa alla logica comune, ma anche una scelta vincente. Apparentemente
sottomesso nella lotta per la vita, il fumatore-sognatore presenta nella propria imperfezione un
potenziale di vittoria sul lottatore, la cui salute, e cioè la linearità della logica che gli è propria, si
rivela meno adeguata ad una vera comprensione della complessità del reale:

ci saranno quelli che […] asseriranno semplicemente che visto che il fumo produce la
nevrosi […] preferiscono una mente chiara, sana, atta a osservare le malattie altrui,
piuttosto che una mente offuscata e occupata da un male proprio. Ma discutere così
sarebbe cosa troppo facile e vi sarebbe anche un po’ di malafede a dimenticare, per avere
ragione, tutta la forza che dà ad un cervello l’esperienza fatta sul proprio organismo di
una malattia o almeno di uno stato anormale. E di più è pur troppo cosa confessa che la
finezza nervosa quasi mai si ritrova nella persona perfettamente sana e robusta e quel

2
detto che ai nostri padri dava tanta fiducia e calma: Mente sana in corpo sano sembra
alquanto antiquato (Svevo 2004b, 1086-7).

Di questa figura intellettuale, Alfonso Nitti costituisce esattamente la prima realizzazione


letteraria. In modo analogo al fumatore-sognatore, infatti, il protagonista di Una vita presenta, più
che una vera e propria incapacità, una resistenza al lavoro pratico, il quale viene ostacolato da una
prepotente inclinazione al sogno:

verso sera la mano, l’unica parte del suo corpo veramente stanca, si fermava,
l’attenzione non stimolata si distraeva e qualche volta doveva gettare la penna e lasciare il
lavoro, per una nausea da persona che ha preso di troppo di un solo cibo. Non era mai a
giorno con i suoi lavori e al suo malessere si aggiungeva l’inquietudine (Svevo 2004a,
68).

una visione dominava sempre, monotona, e gli toglieva la facoltà di prender parte al
presente, di udire ed esaminare la parola altrui. Sanneo, dopo che per lungo tempo gli
aveva dato delle istruzioni, con voce mutata gli chiedeva: – Ha capito? – Quel
mutamento di voce strappava Alfonso alle sue fantasticherie e diceva di si tanto per venir
lasciato più presto in pace e ripiombare nei suoi sogni. Ma non aveva capito niente. Non
aveva udito nulla e non era capace neppure d’inquietarsene. Se ne andava lento al suo
posto con passo piccolo per guadagnare tempo e interrompere le care visioni il più tardi
possibile (Svevo 2004a, 85-6).

Inoltre, essendo un impiegato bancario addetto alla corrispondenza, la mansione principale


di Alfonso è la scrittura, ed è dunque in particolar modo su questa che egli sperimenta l’azione
inibente del sogno, registrando così un ulteriore punto di contatto con la figura del fumatore-
sognatore:

Miceni gli disse di scrivere rapidamente la prima lettera perché doveva servire poi di
copia agli altri scrivani, ma Alfonso non sapeva scrivere presto. Gli toccava rileggere più
volte prima di saper trascrivere una frase. Fra una parola e l’altra lasciava correre il suo
pensiero ad altre cose e si ritrovava con la penna in mano obbligato a cancellare qualche
tratto che nella distrazione gli era venuto fatto disforme dall’originale (Svevo 2004a, 14).

Ancora più significativo risulta poi il blocco che l’inclinazione al sogno esercita sull’altra
attività scrittoria in cui è coinvolto Alfonso, estranea al mondo spersonalizzante del lavoro bancario
e dunque maggiormente autentica: il progetto di scrivere un’opera di filosofia morale. Anche in
questo caso in modo del tutto affine al fumatore-sognatore, che, come si è visto, nel passaggio dal
sogno alla scrittura si caratterizza per una forte disparità tra vastità dell’immaginazione e
limitatezza dei risultati, Alfonso da una parte “faceva sogni da megalomane” (Svevo 2004a, 70),
immaginando che “avrebbe lui fondato la moderna filosofia italiana”, e dall’altra “lavorava poco”,
“ricorreva troppo di spesso col pensiero all’opera completa quando le frasi che ne aveva fatte si
potevano contare sulle dita”, riuscendo a portare a termine solo “quelle tre o quattro paginette di
prefazione ove prometteva di fare e di provare ma ove nulla era fatto o provato” (Svevo 2004a, 93-
4).
Ancora, parallelamente alla non consequenzialità del fumatore-sognatore contro la linearità
del lottatore, Alfonso presenta un atteggiamento di cedimento al caos in contrapposizione all’ordine
altrui:

alle sei sonate Luigi Miceni depose la penna e s’infilò il soprabito corto corto, alla
moda. gli parve che sul suo tavolino qualche cosa fosse fuori di posto. Fece combaciare i
margini di un pacchetto di carte esattamente con le estremità del tavolo. Ci diede ancora

3
una guardatina e trovò che l’ordine era perfetto. In ogni casella le carte erano disposte con
regolarità che le faceva sembrare libretti legati; le penne accanto al calamaio erano poste
tutte alla stessa altezza. Alfonso, seduto al suo posto, da una mezz’ora non faceva nulla e
lo guardava con ammirazione. A lui non riusciva di portar ordine nelle sue carte. Qua e là
era visibile il tentativo di regolarle in alcuni pacchetti riuniti, ma le caselle erano in
disordine; l’una era riempita di troppo e disordinatamente, l’altra invece vuota. Miceni gli
aveva spiegato il sistema per dividere le carte secondo il loro contenuto o la destinazione
e Alfonso lo aveva capito, ma per inerzia, dopo il lavoro della giornata non sapeva
adattarsi ad altra fatica non assolutamente necessaria (Svevo 2004a, 8).

La condizione di cedimento al caos espressa nel brano ora citato, che costituisce l’incipit del
capitolo II e la prima presentazione di Alfonso condotta dall’esterno, viene più volte ripetuta nel
corso del romanzo. Più avanti, infatti, in chiusura dello stesso capitolo, il narratore afferma:
“[Alfonso] avrebbe ora potuto andarsene, ma una grande stanchezza lo fece rimanere. Si propose di
fare ordine sul suo tavolo ma rimase là inerte, seduto a sognare” (Svevo 2004a, 17). E ancora, nel
capitolo VI: “il povero peccatore se ne andava da Sanneo a udire una grande predica sul disordine,
la quale non lo migliorava perché non era la buona volontà che gli mancasse, era la capacità; il suo
era un difetto organico” (Svevo 2004a, 68). Come il fumatore-sognatore, Alfonso Nitti mostra di
seguire una logica alternativa a quella comune, doppia e quindi più complessa.
Il parallelo con il fumatore-sognatore si completa infine con l’individuazione anche in
Alfonso di uno stato morboso – è egli stesso a dichiararlo: “sono ammalato!” – che coinvolge la
sfera psicologica piuttosto che quella fisica, e che è dunque definibile proprio nei termini di una
nevrosi, come specifica chiaramente il narratore: “i suoi nervi erano indeboliti per modo che gli
davano persino qualità da pazzo” (Svevo 2004a, 68).
Ora, si è visto come ne Il fumo Svevo prospetti per la prima volta in modo esplicito la
possibilità di una vittoria del sognatore e della sua nevrosi sulla salute del lottatore. Il
riconoscimento in Alfonso di una figura narrativa corrispondente a quella del fumatore-sognatore
suggerisce allora l’ipotesi di individuare anche nel protagonista di Una vita un potenziale di vittoria,
e, di conseguenza, di attribuire all’inettitudine il valore di una scelta, di un’alternativa possibilmente
vincente nella lotta per la vita rispetto al modello esistenziale prospettato dal lottatore. In effetti,
questa ipotesi fornirebbe una chiave di lettura per l’ambiguità dei sentimenti e degli atti di Alfonso
nei confronti di Annetta, e dunque per il rifiuto dell’avanzamento sociale che la seduzione della
ragazza avrebbe invece comportato, permettendo di interpretare la fuga e la rinuncia dell’eroe come
un atto di ribellione contro la logica lineare comune e contro gli strumenti di vittoria del lottatore, e,
in definitiva, di individuare nell’inetto sveviano un esempio di intellettuale sovversivo che
attribuisce all’inettitudine il valore di un’arma antiborghese.

2.2. Repressione del caos, logica discreta e sconfitta del senile


Se alla luce di quanto detto sinora si passa a considerare la senilità, si nota come questa si
differenzi dall’inettitudine per una predisposizione alla chiusura e al conformismo, piuttosto che
all’apertura e al rifiuto della logica consueta. Ciò risulta chiaro sin dalla presentazione che il
narratore fa di Emilio Brentani all’inizio del capitolo I. Infatti, se il tema portante della
presentazione di Alfonso era l’incapacità di autogestione e il cedimento al caos, qui domina invece
una certa tendenza all’autoprotezione e alla repressione del disordine:

egli traversava la vita cauto, cauto, lasciando ai lati tutti i pericoli ma anche il
godimento, la felicità. A trentacinque anni si ritrovava nell’anima la brama insoddisfatta
di piaceri e di amore e già l’amarezza di non averne goduto, e nel cervello una grande
paura di se stesso e della debolezza del proprio carattere, invero piuttosto sospettata che
saputa per esperienza (Svevo 2004a, 403).

4
E se in Una vita, come si è visto, il tema del cedimento al caos torna di frequente a
caratterizzare la figura di Alfonso, in Senilità ad essere più volte ribadita è proprio la tendenza
opposta di Emilio al controllo del caos. Afferma infatti il narratore: “egli vedeva la propria vita
quale una via diritta, uniforme, traverso una quieta valle” (Svevo 2004a, 430); e poi ancora: “il
Brentani parlava spesso della sua esperienza. Ciò ch’egli credeva di poter chiamare così era qualche
cosa ch’egli aveva succhiato dai libri, una grande diffidenza e un grande disprezzo dei propri simili”
(Svevo 2004a, 409). Quando dunque, portato da Angiolina, il caos fa irruzione nella vita di Emilio
sotto forma di desiderio, questo stato di senilità in cui vive l’eroe determina una reazione di
chiusura repressiva che spinge a una continua opera di normalizzazione del disordine attraverso il
ricorso al conformismo, alla retorica e alla più scontata etica borghese.
Già al primo incontro con Angiolina, Emilio mostra esplicitamente di volersi allontanare da
ogni pericolo chiamando in causa obblighi familiari e sociali: “mi piaci molto, ma nella mia vita
non potrai essere giammai più importante di un giocattolo. Ho altri doveri io, la mia carriera, la mia
famiglia” (Svevo 2004a, 403). In seguito, di fronte alle numerose foto di altri uomini che ricoprono
i muri della stanza da letto della ragazza, e cioè ai primi segnali della libertà e della non univocità
con cui Angiolina vive l’amore, Emilio tenta di dominare la realtà caotica del tradimento attraverso
la religione: “oh! la dolce cosa ch’era la religione! Di casa sua e dal cuore d’Amalia egli l’aveva
scacciata […], ma ritrovandola presso Angiolina, la salutò con gioia ineffabile. Accanto alla
religione delle donne oneste, gli uomini sul muro gli parvero meno aggressivi” (Svevo 2004a, 429).
Per tutto il corso della sua avventura amorosa, Emilio ricorre poi con ottusa insistenza agli
strumenti dell’educazione, per attuare la quale utilizza luoghi comuni del mondo borghese, e
dell’idealizzazione romantica, al fine di esorcizzare quell’alterità femminile destabilizzante che
Angiolina rappresenta:

gli venne la magnifica idea d’educare lui quella fanciulla. In compenso all’amore che
ne riceveva, egli non poteva darle che una cosa soltanto: La conoscenza della vita, l’arte
di approfittarne. Anche il suo era un dono preziosissimo, perché con quella bellezza e
quella grazia, diretta da persona abile come era lui, avrebbe potuto essere vittoriosa nella
lotta per la vita. così, per merito suo, ella si sarebbe conquistata da sé la fortuna ch’egli
non poteva darle! Subito le volle dire una parte delle idee che gli passavano per il capo.
Cessò di baciarla e d’adularla e, per insegnarle il vizio, assunse l’aspetto austero di un
maestro di virtù […]. Per una sentimentalità da letterato il nome d’Angiolina non gli
piaceva. La chiamò Lina; poi, non bastandogli questo vezzeggiativo, le appioppò il nome
francese Angèle e molto spesso lo ingentilì e lo abbreviò in Ange (Svevo 2004a, 416-9).

Sullo stesso piano si posiziona anche la sublimazione dell’eros, grazie alla quale Emilio
cerca di controllare la dimensione caotica della sessualità:

egli aveva una soddisfazione completa dal possesso incompleto di quella donna e tentò
di procedere oltre solo per diffidenza, il timore di venir deriso […]. Ella si difese
energicamente: i suoi fratelli l’avrebbero ammazzata. Pianse una volta in cui egli fu più
aggressivo. Non le voleva bene se voleva renderla infelice. Allora egli rinunziò a quelle
aggressioni, quietato, lieto (Svevo 2004a, 430).

A differenza dell’inettitudine, dunque, che costituisce un’incapacità di gestione del caos cui
si reagisce attraverso la rinuncia all’azione, la senilità mostra invece una tendenza alla costrizione
della complessità del reale entro schemi prestabiliti, ciò che porta a un blocco piuttosto che a un
rifiuto dell’azione. Di Emilio si afferma infatti che appartiene alla schiera di “coloro che non
vivono” (Svevo 2004a, 415), mentre per Alfonso sembrerebbe più adeguata la schiera di coloro che
non sanno vivere.

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La differenza tra inettitudine e senilità è messa poi ancora più in evidenza se si confrontano
“le teorie fredde e complesse” (Svevo 2004a, 471) attraverso cui Emilio si approccia alla realtà, con
il sistema filosofico schopenhaueriano che Alfonso elegge a guida esistenziale, e che tenta
maldestramente di mettere in pratica. A differenza di quanto osservato per Emilio, infatti, nel caso
di Alfonso il ricorso all’astrazione non agisce sull’esterno, come strumento di repressione del caos,
ma va a condizionare il piano interiore dell’eroe, secondo una strada che, inversa rispetto a quella di
autoprotezione e di deformazione del reale perseguita da Emilio, porta Alfonso all’autodistruzione,
lasciando immutato il disordine esterno.
Ora, va notato che, come Alfonso, anche Emilio è indubbiamente un sognatore; tuttavia è
proprio questo elemento in comune che mette in luce in modo ancora più esplicito la differenza tra
le due figure, e dunque tra l’inettitudine e la senilità. Infatti, se nel caso di Alfonso l’inetto e il
sognatore si pongono sullo stesso piano, nel caso di Emilio la senilità e la tendenza al sogno
appaiono in un rapporto contraddittorio per cui l’una esclude l’altra: “e dire che poche ore prima
egli aveva pensato d’aver perduto la capacità di sognare. Oh! la gioventù era tornata! Correva le sue
vene prepotente come mai prima e annullava qualunque risoluzione che la mente senile avesse
fatta” (Svevo 2004a, 538). In presenza del sogno, dunque, la senilità scompare, trasformandosi in
giovinezza.
Alla differenza tra inettitudine e senilità in rapporto al sogno corrisponde poi una differenza
anche nell’entità del sogno stesso, per cui ancora una volta si nota l’opposizione tra l’orientamento
delle visioni di Alfonso, rivolte verso la propria persona con l’obiettivo di ampliarne sensibilmente
la portata, e l’orientamento delle visioni di Emilio, rivolte al mondo esterno con l’obiettivo di
limitarne il disordine. Di Alfonso si afferma infatti “centro dei suoi sogni era lui stesso, padrone di
sé, ricco, felice. Aveva delle ambizioni di cui consapevole a pieno non era che quando sognava”
(Svevo 2004a, 17). Invece per Emilio il sogno si concentra principalmente su Angiolina, e cioè
sull’altro da sé. Come il conformismo e il ricorso alle “fredde teorie”, allora, anche il sogno svolge
una funzione di contenimento del caos esterno, collaborando al processo di idealizzazione della
donna e di sublimazione dell’eros. Il sogno raccontato nel capitolo X risulta a tal riguardo
particolarmente significativo:

verso mattina il suo profondo turbamento s’era mitigato nella commozione sul proprio
destino. Non s’addormentò, ma cadde in uno stato singolare di abbattimento che gli tolse
la nozione del tempo e del luogo. Gli parve d’essere ammalato, gravemente, senza
rimedio e che Angiolina fosse accorsa a curarlo. Le vedeva la compostezza e la serietà
della buona infermiera dolce e disinteressata. La sentiva muoversi nella camera ed ogni
qualvolta ella gli si avvicinata, gli apportava refrigerio, toccandogli con la mano fresca la
fronte scottante oppure baciandolo, dandogli dei lievi baci fatti per non essere percepiti,
sugli occhi o sulla fronte. Angiolina sapeva baciare così? Egli si rivoltò pesantemente nel
letto e tornò in sé (Svevo 2004a, 537-8).

Il passaggio della funzione del sogno e del suo campo d’azione dal mondo interiore al
mondo esteriore comporta delle conseguenze che staccano il tipo di sognatore rappresentato da
Emilio dal tipo di sognatore descritto ne Il fumo e realizzato in Una vita. Come Alfonso, infatti,
anche Emilio è ostacolato nel lavoro pratico; tuttavia, l’ostacolo non è determinato da una tendenza
intrinseca alla fantasticheria, ma dall’amore per Angiolina, e cioè da un elemento concreto:

per il momento tutta la sua vita apparteneva a quell’amore; non sapeva pensare altro,
non sapeva lavorare, neppure corrispondere per bene ai suoi doveri d’ufficio. Ma tanto
meglio! Per qualche tempo la sua vita assumeva tutta un aspetto nuovo, e in seguito
sarebbe stato altrettanto divertente di ritornare alla calma di prima (Svevo 2004a, 430).

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Oltre che nel lavoro, Emilio è ostacolato anche nell’atto della scrittura, manifestando così un
altro punto di contatto con Alfonso. Infatti, come quest’ultimo fallisce il proposito di realizzare
un’opera di filosofia morale, così Emilio fallisce il proposito di scrivere un romanzo ispirato
all’avventura con Angiolina. Anche in questo frangente, però, si può constatare una differenza nella
natura dell’ostacolo: nel caso di Alfonso si tratta di un eccesso di grandezza immaginativa che
intralciare la scrittura, rallenta l’attività e non porta che alla realizzazione di poche righe. Nel caso
di Emilio il blocco nasce invece da una contraddizione tra l’identità della cosa in sé e i tentativi che
Emilio mette in atto, questa volta attraverso la letteratura, per ridurre il reale a un ordine
prestabilito. Non si tratta più allora di lentezza nello scrivere e di insufficienza quantitativa dei
risultati – anzi, a differenza di Alfonso, Emilio mostra una certa velocità di scrittura – ma di
un’effettiva impossibilità di portare avanti la resa narrativa della complessità del mondo:

riprese ora la penna e scrisse in una sola sera il primo capitolo di un romanzo. Trovava
un nuovo indirizzo in arte al quale volle conformarsi e scrisse la verità […]. Stanco e
annoiato, abbandonò il lavoro, contento di aver fatto in una sola sera tutto un capitolo. La
sera appresso si rimise al lavoro avendo nella mente due o tre idee che dovevano bastare
per una sequela di pagine. Prima però rilesse il lavoro fatto: – Incredibile! – mormorò.
L’uomo non somigliava affatto a lui […]. In quell’istante si sentì sconsolatamente inerte e
ne provò un’angoscia dolorosa. Depose la penna, rinchiuse il tutto in un cassetto e si disse
che l’avrebbe ripreso più tardi, forse già il giorno appresso. Questo proposito bastò a
tranquillarlo; ma non ritornò più al lavoro […]. Non sapeva più pensare con la penna in
mano. Quando voleva scrivere, si sentiva irrugginire il cervello e rimaneva estatico
dinanzi alla carta bianca, mentre l’inchiostro s’asciugava sulla penna (Svevo 2004a, 529-
30).

Un ulteriore punto di contatto e, allo stesso tempo, di differenza tra l’inetto Alfonso e il
senile Emilio riguarda il tema della malattia: anche Emilio si trova in uno stato morboso, ma si
tratta di una conseguenza dell’idealizzazione di Angiolina e della chiusura al caos, piuttosto che di
un’alterazione nervosa potenzialmente vincitrice sull’opposta condizione di salute del lottatore.
Alfonso infatti vive la propria condizione di “diverso” con un ambiguo senso di orgoglio e di
superiorità, come dimostra per esempio nel capitolo VIII, quando, incontrato Macario in biblioteca,
rivela un’intima consapevolezza della maggiore complessità della propria identità intellettuale:

Alfonso seppe ben presto come fosse fatta la coltura di Macario. S’accorse con
soddisfazione che ne veniva stimato tanto da indurlo a sottostare a qualche mal celata
fatica per portare il discorso su quanto meglio conosceva onde poter fare con lui buona
figura. Parò di naturalisti moderni […]. Macario era un adepto risoluto e il suo
entusiasmo bastò ad Alfonso per vagliare la sua mente. Così mentre Macario lo guardava
con certo sorriso derisorio significante “I miei pochi studi valgono i tuoi molti perché ho
buon naso”, l’aspetto di Alfonso serio, attento, da scolare che riceve una lezione, celava
la soddisfazione di sentirsi superiore (Svevo 2004a, 96-7).

Al contrario, la malattia di Emilio viene connotata in modo inequivocabilmente negativo,


com’è lo stesso personaggio, in un momento di estrema chiaroveggenza, ad affermare: “se egli
avesse voluto, voluto energicamente [Angiolina] sarebbe stata sua. Invece era stato solo intento a
mettere in quella relazione un’idealità che aveva finito col renderlo ridicolo anche ai propri occhi
[…]. Tutta la colpa era sua. Era lui l’individuo strano, l’ammalato, non Angiolina” (Svevo 2004a,
481-2) 4.

4 Va notato che anche Emilio nel corso del romanzo mostra spesso un certo senso di superiorità; si tratta però ancora
una volta di un alibi, piuttosto che di una convinzione vera e propria. Infatti, a differenza di Alfonso, che appare
tanto meno esplicito nelle dichiarazioni della propria superiorità quanto più intimamente convinto, Emilio da una

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Il confronto tra Alfonso ed Emilio fin qui effettuato permette di individuare nell’inetto e nel
senile l’azione di due logiche differenti: doppia per il primo, che attribuisce ai sogni e alla vita vera
pari dignità di esistenza, e discreta per il secondo, che distingue tra senilità e assenza di sogni da
una parte e gioventù e sogno dall’altra, e dunque può procedere solo per divergenze. Questo nega
alla senilità la carica sovversiva individuata nell’inettitudine: se nel comportamento di Alfonso è
possibile cogliere una sfida alla logica comune, con il potenziale di vittoria o di sconfitta che ne
deriva, in Emilio si nota piuttosto il ripiegamento verso un conformismo e una chiusura mentale che
non rappresentano strumenti di sfida, né hanno la possibilità di risultare vincenti nella lotta per la
vita.

3. Da Una vita alla Coscienza di Zeno: discontinuità della narrativa sveviana


Nel secondo frammento dell’Uomo e la teoria darwiniana, di dubbia datazione ma
generalmente fatto risalire agli anni della gestazione della Coscienza di Zeno, è possibile cogliere la
delineazione di un tipo di intellettuale affine a quello individuato ne Il fumo. Infatti, la dicotomia
esistenziale di derivazione schopenhaueriana espressa nell’articolo del 1890, nel quale, come si è
visto, il mondo veniva diviso tra fumatori e non fumatori, e cioè tra sognatori e lottatori, si
trasforma qui nella dicotomia tra non sviluppati e sviluppati; una dicotomia di derivazione
darwiniana, dunque, ma che si rivela semanticamente alquanto affine alla prima: tanto il sognatore
quanto l’uomo abbozzo, infatti, presentano una natura aperta e tendente al non consequenziale e al
non definito, distinguendosi in ciò dal lottatore, pienamente sviluppato e dunque ormai chiuso al
cambiamento. A tal riguardo, è rilevante notare come l’ipotesi di una paradossale superiorità nella
lotta per la vita del non adatto sull’adatto e del malato sul sano espressa ne Il fumo giunga qui,
riproposta nei termini di una superiorità del non sviluppato sullo sviluppato, alla sua massima
espressione teorica:

nella maggioranza degli uomini lo sviluppo per loro fortuna e per fortuna
dell’ambiente sociale, s’arresta. Lo sviluppo eccessivo di qualità inferiori, tutte quelle che
immediatamente servono alla lotta per la vita, non sono altro che un arresto di sviluppo
[…]. Io credo che l’animale più capace ad evolversi sia quello in cui una parte è in
continua lotta con l’altra per la supremazia, e l’animale ora o nelle generazioni future,
abbia conservata la possibilità di evolversi da una parte o dall’altra in conformità a quanto
gli sarà domandato dalla società di cui nessuno può ora prevedere i bisogni e le esigenze.
Nella mia mancanza assoluta di uno sviluppo marcato in qualsivoglia senso io sono
quell’uomo. Lo sento tanto bene che nella mia solitudine me ne glorio altamente e sto
aspettando sapendo di non essere altro che un abbozzo. Naturalmente quando
l’evoluzione avrebbe messo su quest’abbozzo degli organi più decisi, questi sarebbero per
quanto superiori a quelli che vengono richiesti oggi pur un arresto. Il presente può avere il
futuro in germe non in azione (Svevo 2004b, 849-50).

parte ostenta maggiore sicurezza, e dall’altra manifesta rassegnazione e una certa consapevolezza della propria
sconfitta, come viene espresso chiaramente nel capitolo VII: “il Leardi parlava già d’altro argomento, e poco dopo
Emilio lo lasciò. Per allontanarsi addusse di nuovo a pretesto un’improvvisa indisposizione, e il Leardi lo vide tanto
sconvolto che gli credette ed anzi gli dimostrò una partecipazione amichevole che costrinse il Brentani a dirgli una
parola di riconoscenza. Invece come sentiva d’odiarlo! Avrebbe voluto poter spiarlo almeno per quella giornata:
certo sarebbe finito con lo scoprirlo accanto ad Angiolina. Un’ira insensata gli fece digrignare i denti e subito dopo
si rimproverò quell’ira con amarezza e ironia. Chissà con chi Angiolina lo avrebbe tradito quel giorno. Forse con
delle persone ch’egli non conosceva neppure. Come era superiore a lui il Leardi, quell’imbecille privo di idee!
Quella calma era la vera scienza della vita. ‘Sì, – pensò il Brentani, e gli parve di dire una parola che avrebbe dovuto
far vergognare insieme a lui l’umanità più eletta – l’abbondanza d’immagini nel mio cervello forma la mia
inferiorità’” (Svevo 2004a, 497).

8
Se il fumatore-sognatore rappresenta la prefigurazione di Alfonso Nitti, parallelamente
nell’uomo abbozzo è possibile individuare la prefigurazione di Zeno Cosini. Considerando le
differenze prima rilevate tra Alfonso ed Emilio, si può notare dunque come il primo sia più affine al
modello intellettuale offerto da Zeno di quanto non lo sia il secondo. Da qui l’idea che, presa nel
suo complesso, l’opera sveviana presenti un percorso non lineare che da Una vita porta direttamente
alla Coscienza, riservando a Senilità una collocazione diversa.
Posta questa corrispondenza, va tuttavia notato come ciò che manca ad Alfonso e che sarà
invece acquisizione di Zeno, soggetto propriamente modernista, sia la trasformazione del cedimento
al caos in arma di vittoria autonoma. In altre parole, l’errore fondamentale di Alfonso, quello che lo
porterà alla sconfitta e alla condanna da parte del narratore, è di essersi costruito a regola
esistenziale un sistema filosofico serrato, e di aver individuato in questo l’unica soluzione possibile,
non sapendo far corrispondere al cedimento al disordine del mondo esterno un analogo
atteggiamento di apertura anche nei confronti della propria realtà interiore. In questo senso, il
passaggio da Una vita alla Coscienza mette in luce una delle specificità del modernismo dello
Svevo più maturo, e cioè l’annullamento del sovversivismo dell’inetto e la piena realizzazione del
potenziale di vittoria del malato sul sano. Zeno non ha più bisogno di essere un sovversivo come
Alfonso: le sue armi si sono trasformate in adattamento, mutevolezza, apertura e totale disponibilità
a un reale il cui stato di caos viene riconosciuto e definitivamente accettato.

Bibliografia

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1998 Le maschere dell’inetto. Lettura di Senilità, Torino, Paravia.
Camerino G.A.
1982, Italo Svevo, Torino, Unione tipografico-editrice torinese.
2002, Italo Svevo e la crisi della Mitteleuropa, Napoli, Liguori.
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1990 Saggi critici. Seconda serie, Venezia, Marsilio.
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1985 Zeno e i suoi fratelli. La creazione dei personaggi nei Romanzi di Italo Svevo,
Bologna, Patron.
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1983, From Sentimentaly to Senilità: Svevo’s Eighteenth Century Connection, in “Forum
Italicum”, vol. 17, n. 2.
Sechi M.
2000 Il giovane Svevo. Un autore mancato nell’Europa di fine Ottocento, Roma, Donzelli.
Svevo I.
2004a Romanzi e Romanzi e «continuazioni», edizione critica con apparato genetico e
commento di Nunzia Palmieri e Fabio Vittorini, Milano, Mondadori.
2004b Teatro e Saggi, edizione critica con apparato genetico e commento di Federico
Bertoni, Milano, Mondadori.
Tortora M.
2003 Nel laboratorio di Svevo: due note, in “Allegoria”, n. 45.

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