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Capitolo 1 – INTRODUZIONE
La microbiologia degli alimenti è la branca della microbiologia che studia il ruolo svolto dai microrganismi
nella produzione, alterazione e conservazione degli alimenti e le malattie microbiche trasmesse attraverso
essi.
Solo a partire dal 1676 si cominciò ad ipotizzare il possibile ruolo dei microrganismi nelle alterazioni e
fermentazioni alimentari, e nel 1800 queste relazioni fra alimenti e microrganismi furono stabilite in
maniera scientifica.
I successivi sviluppi delle biotecnologie e le migliori conoscenze sulla fisiologia, sul metabolismo e la
genetica dei microrganismi coinvolti nei processi fermentativi hanno consentito di evidenziare molti
attributi fisiologici degli stessi che possono contribuire al controllo di microrganismi indesiderati, sia
alterativi che patogeni, così come assicurare il conseguimento di specifici obiettivi industriali e contribuire al
miglioramento della salute umana.
Le aree di interesse della microbiologia degli alimenti sono molteplici: fermentazioni alimentari
(produzione, conservazione e miglioramento degli alimenti tramite microrganismi), malattie microbiche
trasmesse attraverso gli alimenti, alterazioni microbiche degli alimenti, controllo qualità e sicurezza
microbiologica degli alimenti, metodi di analisi microbiologica degli alimenti.
Possiamo distinguere i microrganismi rinvenibili negli alimenti in utili, dannosi e indifferenti. Tra quelli utili
vanno ricordati gli agenti di trasformazione e conservazione alimentare, e i microrganismi probiotici
(promuovono la salute umana), mentre tra quelli dannosi ricordiamo i patogeni alimentari e i
microrganismi alterativi degli alimenti.
I microrganismi sono praticamente ubiquitari. Le caratteristiche chimico-fisiche degli alimenti permettono
la colonizzazione e lo sviluppo microbico; ogni alimento possiede una microflora strettamente legata alle
materie prime e all’ambiente in cui esse vengono prodotte, nonché alle condizioni di trasformazione,
conservazione e consumo. Nel corso della loro lavorazione, gli alimenti possono essere nuovamente
contaminati negli ambienti di lavorazione e conservazione, ma anche nelle successivi fasi di magazzinaggio,
trasporto, distribuzione e consumo. Lo specifico processo tecnologico a cui verrà sottoposto l’alimento ne
determina, inoltre, variazioni quanti-qualitative della microflora presente.

La colonizzazione di un alimento da parte di microrganismi dipende dalle condizioni ecologiche che si


realizzano nell’alimento stesso. Il comportamento dei microrganismi negli ecosistemi alimentari è alla base
delle operazioni a livello microbiologico effettuate sugli alimenti.
Gli ecosistemi sono costituiti dall’ambiente e dagli organismi che vi vivono. I fattori ecologici che
influenzano il comportamento dei microrganismi negli alimenti sono:
-fattori intrinseci: riguardano le caratteristiche proprie dell’alimento (acqua libera, composizione chimica
ecc..)
-fattori estrinseci: riguardano le condizioni esterne applicate nell’alimento (temperatura, umidità,
atmosfera di conservazione)
-fattori di processo: includono le procedure applicate all’alimento nel processo di trasformazione
-fattori impliciti: comprendono le relazioni che si instaurano tra i microrganismi che hanno colonizzato
l’alimento. Le popolazioni di microrganismi colonizzanti possono esercitare azioni sinergiche o antagoniste.
Manipolando questi fattori è possibile controllare i microrganismi presenti in un alimento.
I microrganismi negli alimenti si moltiplicano secondo una cinetica paragonabile a quella che si realizza nei
sistemi di coltura chiusi discontinui. Nelle condizioni ottimali di sviluppo, se riportiamo il log del numero di
cellule per g o ml di substrato si ottiene una curva caratterizzata da una serie di fasi:
1) FASE LAG (di latenza): il numero di cellule rimane costante in quanto in questa fase i microrganismi
mettono in atto meccanismi di adattamento all’ambiente;
2) FASE LOG (esponenziale): le cellule incominciano a moltiplicarsi mediante divisione binaria, per cui il
numero di batteri raddoppia ad ogni successiva divisione. Questa fase può essere descritta dall’equazione
N=N0e^(µt) dove N0 ed N rappresentano la popolazione iniziale e la popolazione al tempo t;
3) FASE STAZIONARIA;
4) FASE DI DECLINO (morte): il numero di cellule diminuisce.

I microrganismi che causano cambiamenti desiderati negli alimenti sono in genere detti “protecnologici”.
Questi processi di trasformazione furono molto probabilmente scoperti per caso ed erano praticati senza
conoscerne le basi fermentative. Il riconoscimento da parte di Pasteur nel 1857 della natura microbica delle
fermentazioni portarono all’impiego nel 1890 della prima coltura starter per la produzione di formaggi,
aprendo la strada per l’industrializzazione delle fermentazioni alimentari. Sebbene lo scopo originale delle
fermentazioni alimentari era quello di prolungare il tempo di conservazione dei prodotti, le colture starter
sono state introdotte in alcuni settori dell’industria alimentare per iniziare la fermentazione e assicurare
l’esito tecnologico del processo produttivo. I microrganismi coinvolti nella preparazione di alimenti
fermentati appartengono a gruppi diversi come i batteri lattici, i lieviti, le muffe, le Micrococcaceae, i
propionibatteri ed altri ancora. Tra questi, i batteri lattici trovano largo impiego nella produzione di una
grande varietà di alimenti fermentati, contribuendo in vari modi nel determinare le loro caratteristiche e la
loro stabilità.
Per le colture starter hanno importanza maggiore le attività metaboliche di interesse tecnologico, mentre
per le colture protettive sono molto più importanti le funzioni antimicrobiche. Una buona coltura protettiva
non deve alterare le qualità organolettiche dell’alimento. La maggior parte dei batteri lattici risulta innocua
per la salute umana (GRAS): l’assenza di rischi è il prerequisito fondamentale per l’utilizzo di una coltura
starter o protettiva.
Negli ultimi anni si pone molta più attenzione al binomio alimento-salute, facendo crescere l’interesse per
quei cibi che, oltre al valore nutrizionale, apportano benefici per la salute umana (alimenti funzionali). I
microrganismi vivi che una volta ingeriti apportano benefici alla salute del consumatore sono detti
probiotici (i ceppi più comunemente utilizzati appartengono all’eterogeneo gruppo dei batteri lattici:
Lactobacillus, Bifidobacterium ed Enterococcus).

Il numero e i tipi di microrganismi presenti in un alimento possono essere usati per giudicare la qualità e la
sicurezza microbiologica di quel prodotto. L’assenza di microrganismi patogeni e delle loro tossine
determinano tali qualità e sicurezza. Per accertare sia la qualità microbiologica che la sicurezza di un
alimento si fa ricorso alla ricerca di organismi in grado di indicare una situazione potenzialmente pericolosa.
Tali microrganismi o gruppi di microrganismi sono detti Organismi marker e sono distinti in due gruppi:
organismi index e organismi indicatori. Fanno parte dei microrganismi indicatori i seguenti gruppi di
microrganismi: microrganismi aerobi mesofili, famiglia delle Enterobacteriaceae, coliformi ed Escherichia
coli, streptococchi fecali (enterococchi) e clostridi solfito-riduttori.

I microrganismi che causano modificazioni in un alimento tali da renderlo inaccettabile per il consumo
umano sono detti alterativi. Tutti gli alimenti vanno incontro ad alterazioni di varia natura, che
determinano una perdita delle loro qualità. Le alterazioni di natura biologica possono essere imputate ai
processi di degradazione (idrolisi e ossidazioni) a carico dei lipidi, delle proteine e degli aminoacidi, dei
carboidrati, degli alcoli ecc., catalizzate da enzimi costitutivi dell’alimento (di origine animale o vegetale) o
da enzimi prodotti da microrganismi che contaminano l’alimento. I danni economici, sia per l’industria
alimentare sia per il consumatore, derivanti dall’alterazione microbica degli alimenti sono inestimabili. Per
questo motivo, la produzione di alimenti stabili nei confronti delle alterazioni è stato un obiettivo e
un’esigenza via via crescente nella storia dell’uomo.

Le malattie causate da alimenti contaminati da microrganismi infettivi e tossinogeni rappresentano un


problema ancora molto diffuso. Tra i vari agenti causali, i batteri risultano quelli più incidenti (70%). I batteri
che causano malattie alimentari (infezioni o tossinfezioni) sono così classificati: 1) batteri che causano le
classiche infezioni; 2) batteri che causano le classiche intossicazioni; 3) batteri che pur causando tipiche
infezioni, devono prima colonizzare le cellule epiteliali del tratto gastro-intestinali per produrre la tossina;
4) batteri tipicamente infettivi che producono tossina senza interagire con le cellule epiteliali dell’intestino.
Purché insorga la malattia, devono verificarsi contemporaneamente una serie di circostanze relative alla
presenza, alla proliferazione e al rilascio della tossina da parte dei microrganismi. Per ogni microrganismo,
inoltre, esiste una Dose Infettiva Minima (DIM) che dipende principalmente dalla virulenza del
microrganismo e dall’età e stato generale di salute delle persone colpite. L’insorgenza, la diffusione e la
persistenza di episodi di malattie alimentari è strettamente correlata con i fattori che contribuiscono alla
contaminazione degli alimenti (tra questi, la diffusione della ristorazione collettiva e l’aumento del turismo,
gli scambi di derrate alimentari, le tecniche di produzione, le abitudini alimentari). E’ demandato alle
autorità sanitarie competenti il compito di mettere in atto programmi di sorveglianza e vigilanza al fine di
individuare episodi epidemici di malattie associate al consumo di alimenti. Si possono così in futuro
prevenire casi analoghi di malattie alimentari, informando gli addetti alla preparazione di alimenti delle
circostanze che hanno causato l’episodio e fornendo suggerimenti su come evitare il ripetersi di incidenti; si
potranno infine avere utili informazioni sui pericoli e sui punti critici di controllo di un particolare processo
produttivo e sui metodi appropriati per il loro controllo per la corretta applicazione dell’HACCP.

L’applicazione dell’HACCP (Hazard Analysis and Critical Control Points) rappresenta un utile strumento per
garantire la sicurezza igienica degli alimenti. L’applicazione di tali principi mira a identificare i pericoli
associati alle singole fasi produttive, valutandone i rischi, le conseguenze e le misure e i mezzi per il loro
controllo. Il regolamento CE 852/2004 sancisce l’implementazione del sistema HACCP; tale regolamento
suggerisce alle aziende di applicare il GMP (good manifacturing procedures) e di predisporre manuali di
corretta prassi igienica.

Risulta di fondamentale importanza conoscere in maniera dettagliata tutto ciò che è oggetto del proprio
lavoro (apparecchiature, operazioni da compiere, organismi e sostanze da manipolare ecc.), dei possibili
pericoli che lo caratterizzano e delle relative norme messe in atto per evitarli o prevenirli.
L’analisi microbiologica degli alimenti, cioè la determinazione del numero e/o della presenza di specifiche
popolazioni microbiche e/o di uno specifico microrganismo e/o di specifici metaboliti microbici trova la sua
maggiore efficacia quando è intesa e utilizzata come strumento di supporto per i sistemi di gestione della
qualità e della sicurezza microbiologica degli alimenti. Il controllo microbiologico degli alimenti dovrebbe
essere orientato a valutare le reali condizioni igieniche di produzione di un alimento al fine di identificare le
fasi del processo in corrispondenza delle quali si verificano i rischi maggiori di contaminazione. A differenza
dell’analisi chimica degli alimenti (in cui le sostanze dannose sono distribuite uniformemente e sono
costanti nel tempo) l’analisi microbiologica di un alimento deve tener conto dell’ecologia microbica dello
stesso. Infatti, la distribuzione dei microrganismi negli alimenti è imprevedibile e nella maggioranza dei casi
essi sono distribuiti in maniera casuale, con stratificazioni microscopiche e spaziali. Queste considerazioni
richiedono una scelta adeguata del piano di campionamento. L’analisi microbiologica degli alimenti mira
fondamentalmente ad accertare che l’alimento rispetti specificati criteri microbiologici. Un criterio
microbiologico stabilisce i limiti della presenza o assenza di specifici microrganismi o loro tossine negli
alimenti. I criteri microbiologici sono strettamente connessi al piano di campionamento. Infatti, quando si
esamina un alimento per la presenza di un microrganismo, i limiti che esso deve rispettare fanno
riferimento ad un campione rappresentativo del lotto produttivo; di conseguenza, i criteri microbiologici da
rispettare dettano anche il piano di campionamento da adottare.

L’accertamento del numero di organismi presenti nelle materie prime, negli intermedi di lavorazione, negli
ambienti di processo e nei prodotti alimentari pronti per il consumo, viene largamente impiegato per il
controllo della qualità microbiologica nelle industrie alimentari. I metodi maggiormente utilizzati sono:
-conteggio standard di cellule vitali su piastra (Standard Plate Counts, SPC);
-metodo del numero più probabile di microrganismi (Most Probable Number, MPN) per la determinazione
statistica delle cellule vitali;
-conteggio diretto microscopico, per cellule vitali e non;
-tecniche che sfruttano la riduzione di coloranti per stimare il numero di microrganismi che possiedono
capacità riduttive.

I risultati vanno interpretati tenendo conto di una serie di fattori, quali:


-il metodo di campionamento e sottocampionamento;
-la distribuzione e dinamicità dei microrganismi nel campione;
il tipo e la natura dell’alimento e della microflora in esso presumibilmente presente;
-la storia analitica dell’alimento;
-il metodo di analisi, il tempo, la temperatura e l’atmosfera di incubazione, la composizione, il pH, l’attività
dell’acqua (aw), il potenziale di ossido-riduzione (Eh) del diluente e del terreno nutritivo utilizzato.

I metodi colturali di numerazione dei microrganismi prevedono queste fasi:


a. Preparazione del campione e delle diluizioni seriali (scelta del diluente);
b. Semina in o su terreno nutritivo agarizzato o liquido;
c. Incubazione alla temperatura e per tempi appropriati alla microflora da numerare;
d. Conteggio delle colonie o del MPN e interpretazione dei risultati.

L’analisi microbiologica fa ricorso all’impiego di substrati nutritivi selettivi e differenziali che favoriscono
elettivamente la crescita dello specifico organismo, facilitando al tempo stesso il suo isolamento dalla
restante popolazione microbica che inevitabilmente contamina l’alimento. La ricerca o analisi qualitativa
dei patogeni negli alimenti, avviene attraverso l’applicazione di una serie di fasi sequenziali:
1)Omogeneizzazione del campione (in genere 25 g in 225 ml di brodo di prearricchimento o di
arricchimento)
2)Resuscitazione o prearricchimento non selettivo
3)Arricchimento selettivo
4) Piastramento o isolamento su substrato selettivo e differenziale
5)Conferma dell’isolato e sua identificazione
Capitolo 2- PRINCIPALI CARATTERISTICHE DEI MICRORGANISMI
ASSOCIATI AGLI ALIMENTI
La microbiologia comprende lo studio della morfologia, della struttura molecolare, delle modalità di
riproduzione, della fisiologia e del metabolismo, dell’ecologia e dell’identificazione dei microrganismi.
I microrganismi sono organismi cellulari di dimensioni infinitamente piccole. Essi comprendono batteri,
funghi, microalghe, actinomiceti, micoplasmi, protozoi e virus (quest’ultimi non sono cellulari). Il mondo dei
microrganismi comprende 2 tipi di cellule, le procariotiche e le eucariotiche.
La cellula è l'unità fondamentale della vita. Esse possono essere considerate allo stesso tempo macchine
chimiche e strumenti codificanti. Quando si trova nelle condizioni ambientali ottimali, una cellula vivente
cresce e si divide per formare due cellule ciascuna delle quali deve essere dotata di tutte le strutture della
cellula progenitrice e contenere tutte le informazioni genetiche necessarie. I microrganismi possono
svolgere ruoli sia benefici sia dannosi nei vari ambienti in cui sono diffusi. Essi possono essere agenti di
malattie che colpiscono sia vegetali sia animali o essere causa di deterioramento degli alimenti; per contro
possono svolgere ruoli positivi come quello di essere coinvolti nella produzione di alimenti e nella loro
stabilizzazione e conservazione.
I procarioti comprendono organismi con struttura cellulare semplice ed un nucleo primitivo non separato
da alcuna vera membrana dal citoplasma.
Gli eucarioti sono caratterizzati da una cellula avente un nucleo delimitato da una membrana che lo separa
dal citoplasma, organelli interni e complessi di membrane.
In ogni modo tutte le cellule microbiche sono dotate di strutture che comprendono la membrana
citoplasmatica, i ribosomi, il genoma e, nella maggior parte dei casi, la parete cellulare.

Comparando le sequenze dell'RNA ribosomale sono stati identificati tre domini evolutivi: Batteri, Archea ed
Eukarya. I Batteri (Eubatteri) e gli Archea appartengono al Regno Monera. Il dominio Bacteria comprende
organismi procarioti generalmente unicellulari. La maggior parte presenta il peptidoglicano nelle pareti
cellulari. Il dominio Archaea comprende procarioti distinti dai Bacteria per diversi aspetti: sequenze
caratteristiche dell'RNA ribosomiale; pareti cellulari senza peptidoglicano; lipidi di membrana caratteristici;
sono più strettamente correlati agli eucarioti di quanto non lo siano con i Batteri. La maggior parte delle
specie popolano ambienti caratterizzati da condizioni di vita estreme.
Il dominio Eukarya comprende il Regno dei Protisti (alghe unicellulari, muffe mucillaginose e protozoi), il
Regno dei Fungi (muffe mucillaginose, lieviti unicellulari), il Regno Animalia e il Regno Plantae.
Infine vi sono i Virus, entità unicellulari che si replicano invadendo una cellula ospite; hanno dimensioni
inferiori rispetto a tutti gli altri microrganismi e sono responsabili di molte patologie riscontrate in
organismi vegetali e animali. La loro natura di organismi viventi è molto discussa: in realtà non possono
essere considerati organismi viventi poiché privi della capacità di mantenere la propria integrità fisica.

L’unità di misura usata per i microrganismi é il micrometro (µm, 10-6 m). Per osservarli, si fa ricorso al
microscopio. Il microscopio ottico utilizza la luce visibile emessa da una sorgente luminosa, e tramite un
sistema di lenti rende visibile l’oggetto. Esistono diverse tipologie di microscopi ottici. Quelli più diffusi
sono: il microscopio in campo chiaro, in campo scuro, a ultravioletto, a fluorescenza e a contrasto di fase.
Il microscopio comprende una parte di sostegno detta stativo e una serie di lenti (obiettivi ed oculari). Gli
obiettivi sono gli elementi ottici del microscopio da cui dipendono le sue principali caratteristiche. Un
obiettivo è costituito da lenti convergenti che raccolgono la luce proveniente dall’oggetto da osservare
focalizzandola sul piano focale dando origine ad una immagine ingrandita dell’oggetto. Gli obiettivi sono
montati su una struttura girevole a revolver in grado di ospitarne più di uno a diverso ingrandimento. Sulle
lenti sono indicati il potere d’ingrandimento, l’apertura numerica (potere di risoluzione dell’obiettivo) e
spessore del vetrino copri-oggetto.
Esistono 2 tipi di obiettivi, a secco (tra le due lenti c’è aria) e a immersione (tra il preparato e la lente
frontale è interposta una goccia di olio di cedro).
L’oculare (lente oculare) ha la funzione di ingrandire l'immagine che si forma nel piano focale dell'obiettivo:
è dunque focalizzata sul piano focale dell’obiettivo. L’ingrandimento totale dell’immagine osservata al
microscopio ottico è il risultato del prodotto tra potere di ingrandimento dell’obiettivo e quello dell’oculare.
La risoluzione del microscopio dipende dalla qualità delle lenti (apertura numerica), dall’indice di rifrazione
dei mezzi interposti fra campione e lente e dalla lunghezza d’onda della luce impiegata.
Il limite di risoluzione di un microscopio indica la minima distanza (d) alla quale due punti possono essere
visti come separati; può essere calcolato con la formula: d= 0,5L / Nsenα dove: L è la lunghezza d’onda
della sorgente di luce utilizzata (espressa in nanometri, nm); N è l’indice di rifrazione del mezzo interposto
fra lente e preparato e α è il semi-angolo della lente dell’obiettivo. Al diminuire di d la risoluzione aumenta.

CARATTERISTICHE DEI BATTERI


I batteri presentano due forme fondamentali: bastoncellare e coccica. Sia cocchi che batteri dopo la
divisione possono presentare cellule aggregate. In particolare sono definiti diplococchi i batteri costituiti da
due cellule cocciche mentre sono definiti strepotococchi i batteri le cui cellule si aggregano a formare
catene di cocchi. Le aggregazioni di cellule cocciche in grappoli danno origine alla forma stafilococcica.
Nell’ambito dei batteri con forma bastoncellare, le aggregazione di cellule riguardano i diplobatteri (due
cellule bastoncellari) e gli streptobatteri (due o più cellule in catena). Altri batteri bastoncellari possono
presentare una forma curva tipica dei vibrioni, mentre altri possono assumere forme spiraliformi detti
spirilli.

La cellula batterica è una cellula procariote, in cui è possibile distinguere, partendo dall’esterno verso
l’interno, capsula, parete cellulare, membrana citoplasmatica. Non tutti i batteri producono la capsula.
La parete cellulare ha una composizione chimica diversa a seconda che si tratti di un batterio Gram – o
Gram +. Nel citoplasma sono presenti il materiale nucleare, i plasmidi, i ribosomi e i granuli di riserva. Molti
batteri possono produrre spore e strutture adibite al movimento come i flagelli. Altri batteri sono dotati di
pili che intervengono nei fenomeni di scambio di materiale genetico e di riconoscimento e adesione a siti
specifici di altre cellule.

La PARETE CELLULARE è una struttura rigida che circonda la membrana plasmatica. Conferisce rigidità e
porosità alla cellula, la protegge dai danni meccanici e dalla lisi osmotica e rappresenta il sito di azione di
numerosi antibiotici. Nei batteri Gram + la parete è molto spessa (fino a 40 strati di peptidoglicano, 30-70%
del peso) e con un singolo tipo di molecola; ne Gram – è multistratificata e più complessa.
Il peptidoglicano è costituito dalla sequenza alternata di acido N-acetil muramico (NAM) e N-acetil
glucosammina (NAG). Le unità del disaccaride sono unite da legami β-1,4. Il NAM porta legato al carbonio 3
una molecola di acido lattico. Il gruppo carbossilico del gruppo lattico del NAM si lega ad una catena di
quattro aminoacidi (tetrapeptide): L-alanina; acido D-glutammico, D-alanina e L-Lisina nei batteri Gram-
positivi e acido meso-diamminopimelico nei batteri Gram-negativi. Non tutti i residui di NAM sono legati a
un tetrapeptide e quindi le maglie della strutture risultano più larghe.
Nei Gram + sono intercalati nel peptidoglicano gli acidi teicoici (polimeri di glicerolo o ribitolo legati a
gruppi Fosfato) che rappresentano fino al 10-15% del peso della parete. Gli acidi teicoici contenenti un
acido grasso sono detti acidi lipoteicoici; le loro funzioni sono di contribuire a stabilizzare la struttura della
parete, di facilitare l’assunzione di cationi e di intervenire nei meccanismi di patogenicità.
Nei Gram – la parete risulta più complessa, costituita da una membrana esterna, dal periplasma e da
peptidoglicano. La membrana esterna è costituita da un doppio strato fosfolipidico, mentre il
peptidoglicano (2,5% del peso) si trova tra due strati di spazio periplasmatico (strato gelatinoso contenente
numerosi enzimi idrolitici, rappresenta il 20-40% del volume cellulare). La membrana esterna della parete
cellulare dei batteri Gram-negativi è una complessa ultrastruttura costituita dal lipopolisaccaride (LPS,
costituito da antigene O, nucleo polisaccaridico e Lipide A/endotossina), da fosfolipidi, da lipoproteine e
da proteine. Il passaggio di piccole molecole attraverso la membrana è consentito da proteine dette
PORINE, organizzate in trimeri in modo da formare dei canali.
La parete cellulare degli Archebatteri non presenta peptidoglicano e mancano di D-aminoacidi (tipici nei
batteri). La composizione è variabile tra le specie. La parete più comune è nota come S-layer o strato S. E’
una struttura cristallina a varie simmetrie (esagonale, tetragonale) di proteine o glicoproteine.

La parete cellulare assicura la protezione osmotica della cellula. Le cellule alle quali viene rimossa la parete
cellulare sono dette Protoplasti. Nei batteri Gram-negativi sono in genere chiamati Sferoplasti. I protoplasti
presentano le seguenti caratteristiche:
a) qualunque sia la forma dalla quale provengono presentano sempre forma rotondeggiante;
b) non sono in grado di riprodursi;
c) vanno incontro a lisi quando sono sospesi in soluzioni ipertoniche o ipotoniche.
Una volta rimossa la parete cellulare ad un batterio, se lo sferoplasto è in soluzione ipotonica, l’ingresso di
acqua causa rigonfiamento e lisi osmotica; se lo sferoplasto è in soluzione ipertonica, l’uscita di acqua
determina plasmolisi; se lo sferoplasto è in soluzione isotonica non avviene nulla.

La MEMBRANA CITOPLASMATICA è una struttura a doppio strato fosfolipidico formato da estremità


idrofile esterne (teste polari dei fosfolipidi) e uno strato interno idrofobico (code idrofobiche dei fosfolipidi)
che avvolge il citoplasma separandolo dall’ambiente esterno. Ha uno spesso di circa 8 nm. Nel doppio
strato sono immerse proteine integrali anfipatiche (70-80% delle proteine di membrana, struttura ad
alpha-elica), mentre sulla superficie sono associate proteine periferiche (20-30% delle proteine di
membrana, legate debolmente alla superficie di membrana). A differenza della membrana eucariotica, non
sono presenti steroli, bensì composti policiclici con funzioni simili. La struttura della membrana è detta a
mosaico fluido.
Le membrane degli Archebatteri sono simili alle membrane batteriche ma con una diversa composizione
chimica. Sono infatti composte da lipidi unici, noti come dieteri e tetraeteri del glicerolo. Alcune sono
monostratificate, cioè con un singolo strato di tetraeteri di glicerolo. Quelle a doppio strato sono costituite
da due foglietti di isoprenoidi uniti al glicerolo con legami etere (dieteri di glicerolo).
La membrana citoplasmatica svolge, dunque, numerose funzioni, tra cui:
-barriera osmotica;
-confine meccanico (dà rigidità);
-sede di proteine di trasporto (permeasi);
-sede di sistemi di produzione d’energia (catena di trasporto elettronica, citocromi, ATPasi);
-sede di enzimi di sintesi;
-sede di pompe ioniche per il mantenimento del potenziale di membrana.
La membrana può formare delle invaginazioni, dette mesosomi, associati al materiale nucleare batterico e
alla sua replicazione e a processi enzimatici.
Alcuni batteri producono una struttura esterna alla parete cellulare, di spessore e composizione variabile,
detta capsula. Essa è una struttura protettiva che rappresenta anche materiale di riserva in condizioni
estreme ed è un importante fattore di virulenza.
Alcuni batteri possono produrre altri strati esterni, quali strato mucoso (polimeri ben organizzati),
glicocalice (rete di polisaccaridi, tipica dei Gram +) o strato S (tipico degli Archeobatteri).
Le fimbrie sono corte e sottili appendici di natura proteica, diffuse nei batteri patogeni, dove consentono
l’adesione alle cellule e particolari tipi di motilità (scivolamento o per contrazione).
I pili sono più lunghi, più spessi e meno numerosi delle fimbrie. Essi sono necessari per l’accoppiamento nel
processo di coniugazione (scambio di DNA tra 2 batteri) e presentano siti recettori di alcuni batteriofagi.
I flagelli sono appendici usate dai batteri per il movimento attivo (50 µm/s). Sono tipici dei bacilli, dei
vibrioni e degli spirilli, e a seconda del numero e della loro disposizione sulla cellula, distinguiamo i batteri
in:
-monotrichi (un flagello);
-flagello polare (un flagello all’estremità);
-amfitrichi (un flagello ad ogni polo cellulare);
-lofotrichi (un gruppo di flagelli ad uno o entrambi i poli cellulari);
-peritrichi (flagelli diffusi sull’intera superficie cellulare).
I flagelli sono formati da 3 parti, un filamento (composto da flagellina), un uncino (organo di ancoraggio del
filamento al corpo basale) e il corpo basale (anelli immersi nella membrana e nella parete che fanno
funzionare il motore flagellare).
I flagelli sono sintetizzati tramite “autoassemblaggio”; la flagellina è sintetizzata a livello dei ribosomi vicino
la membrana e viene assemblata all’apice. L’allungamento è dunque apicale.
I batteri monotrichi e peritrichi si muovono in avanti grazie alla rotazione antioraria dei flagelli.
Un’inversione di rotazione determina una “capriola” della cellula e il cambiamento di direzione.
Il movimento flagellare è legato ad un meccanismo di flusso protonico che avviene tra i 2 anelli S e M.
I batteri e altri procarioti possono muoversi in maniera direzionale grazie ai flagelli. Tali movimenti
direzionali sono:
-CHEMIOTASSI = movimento verso un composto chimico attraente o allontanamento da un composto
repellente, la cui concentrazione è rilevata da chemiorecettori;
-FOTOTASSI = movimento verso zone dove il tipo di luce è ottimale per il metabolismo cellulare;
-MAGNETOTASSI = capacità di orientarsi nel campo magnetico terrestre. Tale movimento è dovuto alla
presenza di magnetosomi (membrane proteiche contenenti composti ferrosi);
-AEROTASSI = movimento verso zone dove la concentrazione di O2 è ottimale per il metabolismo cellulare.

All’interno del CITOPLASMA sono presenti organuli e inclusioni di materiale di riserva. Le inclusioni cellulari
sono accumuli di sostanze che possono funzionare da depositi di materiali di riserva o di energia (sono usati
per la sintesi delle strutture cellulari). Tra i più importanti ricordiamo i granuli di poli-β-idrossibutirrato e i
granuli di glicogeno.
Nei Cianobatteri sono presenti:
-carbossisomi: organi di accumulo delle carbossilasi, sono il sito principale di fissazione della CO 2;
-vacuolo gassoso: conferiscono galleggiabilità alle cellule;
-magnetosomi: organuli sensoriali tipici dei batteri magnetotattici.
Nel citoplasma è presente una regione, il NUCLEOIDE, adibita ad ospitare il cromosoma procariotico. In
E. Coli il cromosoma è lungo 1400 µm ed è ripiegato a formare anse e avvolto su se stesso per adattarsi alle
dimensioni della cellula.
Molti microrganismi presentano DNA circolare nel citoplasma, i cosiddetti plasmidi.
I RIBOSOMI sono strutture comuni a cellule procariotiche ed eucariotiche, su cui avviene la sintesi proteica.
Sono formati essenzialmente da RNA e proteine.

Le ENDOSPORE BATTERICHE sono strutture altamente resistenti a fattori ambientali, prodotte da alcuni
batteri Gram +. Sono dotate di resistenza a numerose condizioni ambientali quali calore, radiazioni,
composti chimici, disidratazione, e garantiscono la sopravvivenza del batterio. Possono avere forma sferica
o ellittica. La spora presenta tali strutture:
-esosporio: residuo dello sporangio di natura fosfolipo-proteica;
-tunica: ricca di proteine, lipidi e peptidoglicano;
-cortex: formato da peptidoglicani;
-parete sporale: simile a quella della cellula vegetativa;
-cellula sporale o core: a scarso contenuto d’acqua, presenta membrana citoplasmatica, citoplasma,
nucleoide e ribosomi.
La resistenza dell’endospora è dovuta alla presenza di Ca (stabilizza il DNA), di proteine acido-solubili
(legano il DNA e lo rendono resistente alla T), alla disidratazione osmotica del core, ai rivestimenti sporali e
alla presenza di enzimi di riparazione del DNA.
La formazione della spora è detta sporogenesi ed è un processo a più stadi, che inizia quando c’è scarsità di
nutrienti per la cellula, e procede con la replicazione del DNA (cromosoma) e successiva formazione del
setto sporale, della prespora e poi dell’esosporio. Vengono poi sintetizzate le altre componenti e infine vi è
la lisi della cellula madre con rilascio della spora. Quando la spora si trasforma in cellula vegetativa si ha la
GERMINAZIONE, suddivisa in 3 fasi (ATTIVAZIONE, GERMINAZIONE ed ESOCRESCITA), che coincide con
l’attivazione dei processi metabolici, diminuzione della resistenza e sintesi di macromolecole.

ENERGIA E METABOLISMO MICROBICO


Le cellule, per moltiplicarsi e svolgere le funzioni vitali, hanno bisogno di energia e nutrienti, che assimilano
dai vari substrati attraverso la membrana plasmatica. Al proprio interno trasformano le molecole per
ricavarne energia utile a sintetizzare altro materiale cellulare. Le fonti di energia principali sono costituite
dalla luce (organismi fototrofi) o da molecole organiche e inorganiche (organismi chemiorganotrofi o
chemiolitotrofi), e questa energia viene immagazzinata in molecole ad alta energia quali l’ATP.
Il metabolismo è la somma di tutti i processi di produzione, conservazione e impiego dell’energia, in cui
intervengono anche proteine con funzione di catalizzatori (enzimi). Distinguiamo il catabolismo (produzione
d’energia per degradazione di molecole, esoergonico) e l’anabolismo (utilizzo dell’energia per la sintesi di
macromolecole, endoergonico).

ENERGIA = capacità di compiere lavoro, misurata in Joule (J) o in chilocalorie (kcal).


ENERGIA LIBERA DI GIBBS (G) = energia liberata in una reazione, disponibile a svolgere lavoro utile per la
cellula batterica. Il cambiamento di energia libera è indicato con ΔG 0 in condizioni standard. Quando tale
variazione è positiva, la reazione non è spontanea ed è endoergonica; quando è negativa, la reazione è
spontanea ed esoergonica.
ENZIMA = biocatalizzatore di natura proteica, accelera le reazioni diminuendo l’energia di attivazione, senza
essere consumato, quindi non compare né tra i reagenti né tra i prodotti. Il meccanismo di azione degli
enzimi si basa sull’interazione ENZIMA-SUBSTRATO. Per indicare un enzima si aggiunge il suffisso -asi al
nome della reazione catalizzata.
ENERGIA DI ATTIVAZIONE = energia necessaria affinchè una reazione avvenga. Il suo abbassamento tramite
gli enzimi avviene con l’accoppiamento di una reazione esoergonica ad una endoergonica, aumentando di
fatto la velocità di reazione.
CARATTERISTICHE DEI FUNGHI
La cellula eucariotica (tipica degli organismi del dominio Eukarya) presenta un nucleo interno in cui è
contenuto il materiale genetico. Questo nucleo è delimitato da una membrana nucleare selettivamente
permeabile. Il DNA a doppia elica è organizzato in strutture complesse e compatte dette cromosomi. Nelle
cellule eucariotiche sono contenuti anche i mitocondri, organuli che svolgono i processi energetici della
cellula e che presentano una singola molecola di DNA circolare a doppi elica. Nelle cellule vegetali sono
presenti anche i cloroplasti (adibiti alla fotosintesi) che, come i mitocondri, hanno il loro materiale genetico
circolare. Le cellule eucariotiche hanno dimensioni maggiori e morfologia più complessa delle cellule
procariotiche, e sono tipiche di funghi, alghe, protozoi, piante e animali.

Il regno dei Funghi comprende organismi eucarioti e viene suddiviso in 4 Phyla:


-Chytridiomycota: presentano micelio con ife non settate e si riproducono o asessualmente mediante
zoospore o sessualmente mediante oospore;
-Zygomycota: presentano micelio non settato, la riproduzione asessuata avviene mediante sporangiospore,
quella sessuata mediante zigospore;
-Ascomycota: micelio con ife settate che producono conidiospore per la riproduzione asessuata e acospore
per la riproduzione sessuata;
-Basidiomycota: micelio settato che produce basidiocarpi a supporto dei basidi, che rilasciano basidiospore
per la riproduzione sessuata.
Ogni phylum è a sua volta suddiviso in classi (desinenza –mycetes), ordini (-ales), famiglie (- aceae), generi e
specie. I funghi possono essere unicellulari o multicellulari. Sono eterotrofi, aerobi, mesofili e/o psicrotofici.
Molte muffe sono in grado di crescere o tollerare ambienti con bassa umidità (xenofili), con alto contenuto
di sali o zuccheri (osmofili e osmotolleranti) e con basso pH (acidofili e acidotolleranti).

Le MUFFE sono funghi multicellulari con struttura vegetativa detta micelio, le cui cellule possono
organizzarsi in filamenti detti ife; le ife possono essere non settate, settate uninucleate o settate
multinucleate. L’ifa può essere vegetativa o riproduttiva; in quest’ultimo caso è responsabile della
produzione di esospore libere o sporangi, che rilasciano le spore che andranno a formare nuove ife (e
nuovo micelio) con la germinazione.
Le muffe sono molto diffuse nell’ambiente e sono molto importanti dal punto di vista alimentare, sia
perché rappresentano causa di alterazione per gli alimenti, sia perché possono essere usate nella
produzione di particolari cibi quali i formaggi. Altre ancora possono essere patogeni per l’uomo (producono
micotossine).

I LIEVITI sono funghi unicellulari che si riproducono prevalentemente per gemmazione (produzione di una
protuberanza detta gemma che quando è matura si separa dalla cellula madre), ma a volte anche per
scissione, o sessualmente mediante formazione e fusione di spore. Sono aerobi o microaerofili. In
condizioni anaerobiche la loro crescita è inibita e il loro metabolismo è di tipo fermentativo. La maggior
parte dei lieviti è mesofila. L’habitat ottimale per i lieviti sono le superfici dei vegetali. Come le muffe,
hanno grande importanza dal punto di vista alimentare, sia in quanto causa di alterazioni, sia in quanto
strumenti di produzione di alcuni cibi. I lieviti di interesse alimentare sono tutti ascomiceti.

ORGANISMI ASSOCIATI CON GLI ALIMENTI


Batteri, lieviti e muffe svolgono ruoli diversi negli alimenti, dove sono in grado di moltiplicarsi. Le
associazioni che questi microrganismi hanno nella produzione, trasformazione, conservazione e consumo
degli alimenti è legato alla trasmissione di malattie alimentari, alle alterazioni degli alimenti, alle
fermentazioni alimentari e alla produzione di enzimi, biomasse e additivi alimentari. I virus non sono in
grado di moltiplicarsi negli alimenti, ma possono sopravvivere al loro interno e dunque essere trasmessi con
l’ingestione; da qui il pericolo di trasmettere malattie all’uomo. Inoltre, i batteriofagi (virus che hanno come
ospite un batterio) determinano spesso il fallimento delle fermentazioni nella produzione di prodotti
lattiero-caseari.
Possiamo distinguere i microrganismi rinvenibili negli alimenti in utili (agenti di trasformazione e
conservazione degli alimenti), dannosi (patogeni e alterativi) e indifferenti.

-MICRORGANISMI PROTECNOLOGICI= microrganismi che causano cambiamenti desiderati negli alimenti


(batteri lattici, lieviti, muffe, propionibatteri ecc…);
-MICRORGANISMI ALTERATIVI= microrganismi che causano alterazioni degli alimenti tali da renderli
inadeguati al consumo umano. Tutti gli alimenti, con poche eccezioni, seguendo le fasi del processo
produttivo vanno incontro ad alterazioni di varia natura che comportano una perdita delle loro qualità (con
velocità differenti in base all’alimento e ai processi).
-MICRORGANISMI PATOGENI= microrganismi presenti negli alimenti che causano malattie nell’uomo
(infezioni o tossinfezioni). Tra gli agenti causali, i batteri rappresentano la causa del 70% degli episodi
infettivi.
-MICRORGANISMI MARKER= microrganismi la cui presenza nell’alimento indica una situazione
potenzialmente pericolosa.

CONTAMINAZIONE MICROBICA DEGLI ALIMENTI


Le caratteristiche chimiche e chimico-fisiche degli alimenti sono tali da permettere la colonizzazione e lo
sviluppo di un gran numero di microrganismi.
Inizialmente le materie prime possono essere contaminate da microrganismi provenienti dall’aria,
dall’acqua, dal suolo, dalla superficie di vegetali e animali (contaminazione primaria). Nel corso della loro
trasformazione, gli alimenti possono essere nuovamente contaminati da microrganismi derivanti dagli
ambienti di lavorazione e conservazione, dalle superfici, dagli utensili e attrezzature, dal personale
impegnato nelle attività produttive. Inoltre, lo specifico processo tecnologico cui l’alimento è sottoposto,
determinerà variazioni quanti-qualitative della microflora presente naturalmente o aggiunta. Infine,
l’alimento potrà subire contaminazioni e/o variazioni del contenuto microbico nelle successive fasi di
magazzinaggio, trasporto, distribuzione e consumo.
Le fonti di contaminazione più importanti sono le seguenti:
-Acqua e terreno: La maggior parte dei microrganismi che contaminano gli alimenti di origine vegetale e
animale provengono dall’acqua e dal suolo con i quali questi prodotti vengono in contatto durante la loro
produzione e allevamento.
-Aria e polvere: veicolano numero microrganismi, soprattutto batteri sporigeni, micrococchi e spore di
muffe.
-Superfici di vegetali e animali: ricche di microrganismi che provengono dall’acqua, dal terreno o dalle feci.
-Tratto gastro-intestinale: . rappresenta una importante fonte di contaminazione, soprattutto di batteri
patogeni come Salmonella e altre Enterobacteriaceae.
-Ambienti di lavorazione: superfici, ambiente, attrezzature, personale coinvolto nella produzione, depositi
di stoccaggio, il trasporto e la distribuzione rappresentano spesso importanti nuove fonti di contaminazione
microbica degli alimenti.
-Fasi di preparazione casalinga e consumo: fonte di contaminazione soprattutto di batteri patogeni.
-Contaminazione crociata: legata al trasferimento dei microrganismi da alimenti contaminati ad altri che
non lo sono.

Capitolo 3 – ECOSISTEMI ALIMENTARI E MICRORGANISMI


La colonizzazione di un alimento da parte di microrganismi dipende strettamente dalle condizioni
ecologiche che si realizzano nell’alimento stesso. La comprensione e l’applicazione dei principi dell’ecologia
microbica ai sistemi alimentari è di fondamentale importanza per il controllo della loro qualità e sicurezza
microbiologica. Gli ecosistemi sono costituiti dall’ambiente e dagli organismi che vivono in esso. Ecco
alcune definizioni importanti:
-HABITAT: insieme delle caratteristiche abiotiche che contraddistinguono un certo ambiente;
-NICCHIA: comunità biologica dotata di una propria attività metabolica che si sviluppa all’interno di un
habitat ben definito;
-POPOLAZIONE MICROBICA: gruppi di individui della stessa specie o genotipo in un’area ben definita;
-COMUNITA’ MICROBICA: insieme di popolazioni di un dato habitat.
L’ecologia microbica studia dunque ambienti e microrganismi, con particolare attenzione alle interazioni tra
questi 2 fattori, tra microrganismi e altri microrganismi e tra i fattori che caratterizzano l’ambiente.
La distribuzione dei microrganismi negli alimenti è imprevedibile e casuale, con carattere dinamico,
potendo aumentare o diminuire di numero in base alle condizioni ecologiche che si verificano nell’alimento
o ai processi produttivi cui l’alimento è sottoposto. La comunità microbica iniziale può essere sostituita da
nuove comunità in funzione di fattori estrinseci, intrinseci, tecnologici e impliciti. Nel corso della
produzione, trasformazione, trasporto, conservazione e consumo di un alimento, i microrganismi che lo
contaminano possono crescere, sopravvivere o morire in funzione dell’azione esercitata dai vari fattori
ecologici.

Mentre i batteri si moltiplicano per scissione binaria, i lieviti hanno una crescita che può essere più o meno
esponenziale. I batteri e i lieviti del genere Shizoaccharomyces si moltiplicano secondo una cinetica
paragonabile a quella che si realizza nei sistemi di coltura chiusi discontinui. Una coltura microbica
(microrganismo + terreno nutritivo + recipiente) rappresenta un sistema chiuso in cui i componenti
essenziali non possono ne entrare ne uscire. Dunque, dopo un certo periodo di tempo, i nutrienti si
esauriscono e allo stesso tempo si accumulano metaboliti secondari che possono inibire lo sviluppo
microbico. Questa combinazione di eventi porta prima ad una riduzione e poi all’azzeramento della velocità
di crescita della biomassa.

CINETICA DELLO SVILUPPO MICROBICO


La cinetica dello sviluppo microbico si esprime in una curva caratterizzata da una serie di fasi:
-FASE LAG: fase di adattamento delle cellule all’ambiente, per cui il numero di cellule resta costante. Se
preleviamo una coltura in fase logaritmica di crescita, la inoculiamo nello stesso terreno nutritivo e la
incubiamo alla stessa temperatura da cui proviene, la fase lag potrebbe mancare o essere di brevissimo
tempo;
-FASE LOG: fase di crescita esponenziale, in cui le cellule si moltiplicano per FISSIONE BINARIA (o scissione
binaria) raddoppiando il proprio numero ad ogni successiva divisione;
-FASE STAZIONARIA: fase in cui morte e moltiplicazione delle cellule si equiparano, per cui il numero di
cellule resta invariato, a causa di condizioni colturali non favorevoli;
-FASE DI MORTE: fase in cui la velocità di morte è maggiore di quella di moltiplicazione, causata da una
serie di fattori sfavorevoli.
Considerando una popolazione microbica (N0) all’inizio della crescita (t0), e che raddoppia n (numero di
generazioni) volte fino ad una popolazione Nt, avremo questa equazione per descriverne la cinetica:
Nt = 2n N0
Trasformando l’equazione in forma logaritmica possiamo calcolare l’equazione che descrive n:
n = log Nt – log N0 / 0,3010
Da cui possiamo dedurre il tempo di raddoppiamento (o tempo medio di generazione), uguale al rapporto
tra il tempo di crescita e il numero di generazioni:
G = t (0,3010/ log Nt – log N0) = t/n
Conoscendo il tempo medio di generazione possiamo calcolare il numero di generazioni per ora, ovvero la
velocità di crescita costante K, pari all’inverso del tempo medio di generazione
k = 1/G = 1/t 0,3010/ log Nt – log N0

Se volessimo descrivere la cinetica dello sviluppo microbico in relazione al tasso di crescita (m), avremo:
Nt = N0 emt
m = ln Nt – ln Nt/t
m = 2,3 (log Nt – logN0 )/t

FATTORI ECOLOGICI
INTRINSECI= aw – pH - Potenziale redox - Nutrienti e Strutture biologiche Antimicrobici
ESTRINSECI= Temperatura – Umidità - Composizione gassosa dell’atmosfera
IMPLICITI= Sinergismo - Antagonismo - Tasso di crescita
PROCESSO= Modificazioni della composizione della microflora come conseguenza dei trattamenti
tecnologici applicati: calore, sostanze chimiche, ecc.

La manipolazione di questi fattori permette un controllo dei microrganismi negli alimenti; la maggior parte
delle procedure di conservazione si basano su questi fattori, e hanno come obiettivo principale quello di
ritardare o inibire la crescita dei microrganismi.
L’approccio moderno della conservazione degli alimenti è detto “multiple hurdle technology”, ovvero
tecnologia delle barriere multiple, e si basa sull’applicazione di diverse tecnologie ad intensità minore
rispetto all’applicazione si un singolo metodo di ostacolo allo sviluppo microbico, il che determina un
minore impatto sulle caratteristiche organolettiche e nutrizionali degli alimenti. La preservazione della
qualità e sicurezza microbiologica di un alimento implica, dunque, la creazione di un ambiente ostile ai
microrganismi indesiderati ma allo stesso tempo in grado di supportare la crescita e le attività metaboliche
di quelli utili. Naturalmente il successo di questi sistemi di produzione e conservazione è strettamente
associato ai continui sviluppi delle conoscenze che emergono dalla ricerca applicata ad ogni specifico
sistema alimentare.

FATTORI ECOLOGICI INTRINSECI


-pH
La conservazione degli alimenti mediante la variazione del pH, e quindi dell’acidità, è praticata sin dai tempi
più antichi.
L’acqua, quando ionizza, produce uguali concentrazioni di ioni H+ e OH-. Il pH è il logaritmo negativo della
concentrazione idrogenionica di una soluzione acquosa (-log [H+] ). Una soluzione è definita acida quando
ha valore di pH inferiore a 7, basica quando il pH è maggiore di 7, neutra per valori di pH pari a 7.
Per gli alimenti, oltre al pH è utile conoscere il pKa che descrive lo stato di dissociazione di un acido.
All’equilibrio, il pKa rappresenta il pH a cui le concentrazioni di acidi dissociati e indissociati sono uguali.
Abbassando il pH di un alimento aumenta l’efficacia antimicrobica di un acido organico.
I microrganismi hanno valori di pH minimi, massimi e ottimali di crescita. Generalizzando si possono
indicare i range di pH per i vari gruppi di microrganismi. Muffe (4-6) e lieviti (3,5-5) crescono a pH inferiori a
quelli dei batteri (6,5-7); i batteri gram-negativi sono in generale più sensibili ai bassi pH dei gram-positivi.
Il pH interno delle cellule presenta valori prossimi alla neutralità e le membrane cellulari sono impermeabili
agli ioni H+ e OH- .
Quando una cellula si trova in un ambiente i cui valori di pH sono a livelli sub-ottimali, gli ioni H + e OH-
influenzano il pH esterno senza alterare il pH interno della cellula, alterando così l’equilibrio di cariche tra
esterno e interno della membrana citoplasmatica. Ciò causa conseguenza a queste attività:
-funzionamento delle permeasi deputate al trasporto di nutrienti all’interno della cellula;
-produzione e attività di enzimi extracellulari;
-meccanismi di produzione di ATP a livello della membrana.

Quando una cellula si trova in un ambiente i cui valori di pH sono lontani dagli optimum di crescita, la
membrana viene danneggiata e gli ioni H + e OH- possono penetrare nella cellula, causando:
-denaturazione delle proteine e degli acidi nucleici;
-morte cellulare.

Come detto precedentemente, i valori di pH minimi e massimi per la crescita dei microrganismi dipendono
dal tipo di acido presente e dal suo grado di dissociazione: gli acidi forti si dissociano completamente, quelli
deboli restano in equilibrio con la forma dissociata e indissociata. A pH acido l’equilibrio si sposta verso la
forma indissociata che essendo solubile entra all’interno della cellula, viene dissociata (a causa del pH
neutro della cellula) abbassando il pH cellulare e determinando la denaturazione delle proteine e degli acidi
nucleici, con conseguente morte cellulare.

E’ possibile fare una classificazione degli alimenti in base al loro pH:


-alimenti non acidi (pH tra 5,5 e 7,0) = carne bovina, pollame, pesce e vegetali. Possono crescere la maggior
parte dei microrganismi;
-alimenti a media acidità (pH tra 4,5 e 5,5) = supportano la crescita di molti microrganismi, anche patogeni;
-alimenti acidi (pH tra 3,7 e 4,5) = possono supportare la crescita di molti microrganismi, anche patogeni e
acidurici;
-alimenti molto acidi (pH < 3,7) = possono supportare la crescita soltanto dei microrganismi più acidurici;
-alimenti alcalini (pH > 7 fino a 11) = sono rari, ad esempio il bianco d’uovo.
Il pH può variare in funzione dell’azione di alcuni microrganismi, basti pensare all’acidificazione del latte
operata dai batteri lattici.
I valori di pH minimi e massimi non sono assoluti, anzi, sono fortemente dipendenti da altri fattori di
crescita. Essi vengono determinati in laboratorio dove i valori degli altri fattori di crescita vengono tenuti ai
loro livelli ottimali. Quando altri fattori di crescita sono inibitori, il pH minimo di crescita si alza. Ad esempio,
prendendo in considerazione pH e T ottimale, noteremo che l’intervallo di pH di crescita aumenta alla
temperatura ottimale, mentre si restringe a temperature non ottimali.

-attività dell’acqua
Per crescere e svolgere le proprie attività metaboliche, i microrganismi hanno bisogno di acqua. In un
alimento la quantità totale di acqua (umidità) è presente sia in forma libera (utilizzabile dai microrganismi)
che legata a componenti dell’alimento stesso. L’acqua legata è indisponibile per i microrganismi, perché
può contenere soluti disciolti come sali o zuccheri, può essere cristallizzata sotto forma di ghiaccio, può
essere assorbita dalle superfici o essere presente come acqua di idratazione. Dunque solo l’acqua libera
consente la crescita microbica, per cui bisogna conoscerne il valore. L’attività dell’acqua (aw) è, appunto, la
misura della quantità di acqua libera, presente in un ambiente, per lo svolgimento delle funzioni biologiche
dei microrganismi. Essa è definita dal rapporto tra la pressione di vapore dell’acqua nell’alimento e la
pressione di vapore dell’acqua pura.
aw = p/p0
La pressione di vapore, misurata in mmHg, dipende strettamente dalla temperatura. L’attività dell’acqua
può assumere solo valori compresi tra 0 e 1, ma mai uguali ai due estremi. L’umidità relativa all’equilibrio
(ERH), ovvero il contenuto di acqua nell’atmosfera sopra un alimento, è correlata all’attività dell’acqua
tramite l’equazione ERH = aw x (100)

L’attività dell’acqua può essere calcolata mediante la legge di Raoult: aw = n2 / n1 + n2


dove n2 e n1 sono rispettivamente il n° di molecole di solvente e il n° di molecole di soluto.
Attualmente esistono strumenti in grado di misurare in maniera precisa e veloce l’aw di un alimento
mediante la misura della pressione del vapore d’acqua sopra l’alimento.
Come per il pH, la crescita dei microrganismi ha dei valori minimi, massimi e ottimali di acqua libera,
sempre in relazione ai valori assunti dagli altri fattori ecologici.
Alcuni gruppi di microrganismi sono particolarmente specializzati in ambienti con bassi valori di attività
dell’acqua o contenenti sale.
La maggior parte degli alimenti freschi ha valori di a w tali da permettere lo sviluppo della maggior parte
degli organismi. In generale più è bassa l’aw più è limitata la varietà di microrganismi che possono crescere,
anche se molti possono sopravvivere per lunghi periodi. Alimenti con alti valori di attività dell’acqua sono
soggetti a rapida alterazione, mentre quelli con valori inferiori a 0,61 sono stabili da un punto di vista
microbiologico.
E’ possibile classificare gli alimenti in base al valore dell’attività dell’acqua:
-alimenti ad altissima aw (0,99-0,95) = alimenti freschi o poco processati, carne, latte, pollame, uova,
vegetali e formaggi freschi;
-alimenti ad alta aw (0,95-0,90) = alimenti processati come formaggi e salami fermentati, prosciutto, pane;
-alimenti ad intermedia aw (0,90-0,61) = alimenti trattati con processi di essiccazione (aggiunta di sale o
zuccheri), prosciutto, formaggi stagionati, frutta secca, marmellate;
-alimenti a bassa aw (>0,61) = latte in polvere, cioccolato, vegetali disidratati, miele, pasta, crackers,
zucchero.

Combinando i valori di pH e aw è possibile classificare alcune conserve alimentari. Una conserva è un


prodotto che, dopo essere stato chiuso termicamente nel recipiente, viene sottoposto a sterilizzazione per
la distruzione di tutti gli enzimi, delle forme vegetative e delle spore microbiche di microrganismi patogeni
e non. Va ricordato che il pH influenza il tipo di trattamento termico da applicare.

Al di sotto dei valori minimi di aw, il comportamento dei microrganismi dipende molto da come l’acqua
viene rimossa. Quando è rimossa rapidamente (liofilizzazione) dalla cellula microbica, quest’ultima può
sopravvivere per lunghi periodi. Quando viene rimossa con l’aggiunta di sale o zucchero, le cellule
microbiche sono soggette a fenomeni osmotici che ne causano una morte più rapida, per plasmolisi.
I batteri possono adattarsi a variazioni di aw nel range dei valori che ne consentono lo sviluppo mediante
accumulo di soluti fisiologicamente compatibili (non tossici) che ristabiliscono le condizioni osmotiche
ottimali. Tali soluti possono essere sintetizzati dalla cellula (batteri gram-positivi, lieviti e muffe) oppure
sono presi dall’ambiente di crescita (tutti i microrganismi). In particolare i batteri possono accumulare ioni
K+ e amminoacidi, mentre lieviti e muffe accumulano K+ e, a seconda della specie, trealosio, saccarosio,
glucosio e glicerolo.

-potenziale di ossido-riduzione e O2
I microrganismi, in base alla loro crescita in presenza o in assenza di ossigeno libero, sono classificati in:
-AEROBI: richiedono ossigeno per produrre l’energia necessaria per la loro crescita. L’ossigeno funge da
accettore finale di elettroni durante la respirazione aerobica che coinvolge la glicolisi, il ciclo di Krebs e il
sistema di trasporto degli elettroni (es. Pseudomonas, Bacillus, molti funghi e alcuni lieviti);
-MICROAEROFILI: richiedono ossigeno per produrre l’energia necessaria per la loro crescita, ma in
concentrazione minore di quello presente nell’aria (20%) (es. Campylobacter);
-ANAEROBI FACOLTATIVI: possono crescere sia in presenza che in assenza di ossigeno. In presenza di
sufficienti quantità di ossigeno generano energia come gli aerobi. In assenza di ossigeno utilizzano composti
organici come accettori finali di elettroni (es. lieviti, Enterobacteriaceae, Staphylococcus);
-ANAEROBI OBBLIGATI: crescono solo se non è presente ossigeno libero che risulta tossico per la cellula.
Traggono energia dai processi di fermentazione (es. Clostridium botulinum);
-OSSIGENO-TOLLERANTI: possono crescere sia in presenza che in assenza di ossigeno producendo la stessa
quantità di energia e di prodotti metabolici in entrambe le condizioni. Sono quindi indipendenti
dall’ossigeno (batteri lattici).

Quando l’ossigeno viene assorbito dalle cellule, viene ridotto, producendo sostanze tossiche per le cellule
stesse, in particolare il radicale superossido e il perossido di idrogeno, i quali possono ossidare le
componenti vitali delle cellule provocandone la morte.
Molti microrganismi possiedono particolari enzimi in grado di proteggerli dall’azione tossica dell’ossigeno. I
batteri aerobi, gli anaerobi facoltativi e i batteri lattici hanno l’enzima SUPEROSSIDO DISMUTASI che
catalizza la conversione del superossido in perossido di idrogeno e di ossigeno. Il perossido di idrogeno è
rimosso dall’azione di un altro enzima: la CATALASI, che è presente nei batteri aerobi, negli anaerobi
facoltativi e nei microaerofili. I batteri lattici non possiedono la catalasi e scindono il perossido di idrogeno
per mezzo dell’enzima PEROSSIDASI. I batteri anaerobi obbligati non hanno gli enzimi catalasi e superossido
dismutasi, per cui in presenza di ossigeno muoiono.

Il potenziale di ossido-riduzione (Eh) è la misura della tendenza di un composto ad acquisire elettroni


(riducendosi) o a cedere elettroni (ossidandosi). Una reazione redox è una reazione accoppiata in cui una
sostanza si ossida (agente riducente) e un’altra si riduce (agente ossidante).
Il potenziale redox è misurato in unità elettriche espresse in milliVolt (mV) con un elettrodo standard di
riferimento (E0) di platino circondato da H a pressione atmosferica. Sostanze ossidate producono corrente
con un valore positivo (+mV), mentre quelle ridotte producono corrente con valore negativo (-mV).
Il potenziale redox di un materiale può assumere valori che vanno da -421 a +816 mV.
Il potenziale redox di un alimento è determinato da una serie di fattori:
i) Eh presentato in origine dall’alimento;
ii) dalla concentrazione (tensione) di ossigeno dell’atmosfera circostante;
iii) dal grado di accesso dell’atmosfera nell’alimento;
iv) dai processi di trasformazione a cui l’alimento è sottoposto;
v) dal metabolismo microbico;
vi) dalla capacità dell’alimento di resistere a cambiamenti di Eh;
vii) dal pH dell’alimento (la riduzione di 1 unità di pH comporta un aumento dell’Eh di 58 mV).
I tessuti in vita (animali o vegetali) hanno Eh negativo in conseguenza alla loro attività respiratoria. Inoltre,
le superfici degli alimenti a contatto con l’aria hanno un Eh positivo, mentre i tessuti interni possono avere
Eh negativi. Tali valori sono fortemente influenzati dalle operazioni tecnologiche a cui l’alimento è
sottoposto e dalla presenza di sostanze naturali riducenti. Molti alimenti contengono naturalmente
sostanze riducenti (o antiossidanti) come l’acido ascorbico nei vegetali e nella frutta; gli zuccheri riduttori in
frutta; i gruppi -SH associati alle proteine della carne. Gli antiossidanti possono anche essere aggiunti come
agenti conservanti. Il POR degli alimenti influenza la crescita dei microrganismi:
-aerobi: da +300 a -500 mV;
-anaerobi facoltativi: da +300 a -100 mV;
-anaerobi: da +100 a -400 mV;
Questi valori variano in funzione della presenza di antiossidanti e dalla presenza di ossigeno. Si deve infine
rilevare che in un alimento uno o più microrganismi possono modificare l’Eh favorendo lo sviluppo di specie
che normalmente non si sviluppano ai valori di Eh inizialmente presenti.

-contenuto di nutrienti
I microrganismi per crescere negli alimenti hanno bisogno di una sorgente d’energia per le loro attività
cellulari e di una sorgente di composti chimici per la biosintesi dei componenti cellulari. La maggior parte
dei microrganismi di interesse alimentare sono CHEMIOETEROTROFI, cioè utilizzano composti organici
come sorgente di energia e di carbonio per la biosintesi dei componenti cellulari. In genere gli alimenti
hanno caratteristiche chimiche tali da soddisfare le esigenze nutritive di un gran numero e specie di
microrganismi, per cui la crescita dei microrganismi che contaminano un alimento raramente è limitata dal
loro contenuto in nutrienti. In generale i batteri Gram-positivi sono, dal punto di vista nutrizionale, più
esigenti dei batteri Gram-negativi, ed entrambi i gruppi sono più esigenti dei lieviti e delle muffe.

-strutture biologiche degli alimenti


Alcuni alimenti, specialmente allo stato fresco, sono provvisti di strutture esterne che rappresentano una
barriera efficace contro la penetrazione dei microrganismi proteggendoli dalle alterazioni; la raccolta, la
macellazione e i trattamenti tecnologici a cui sono sottoposte le materie prime diminuiscono o eliminano
l’efficacia di queste barriere.

-costituenti antimicrobici degli alimenti


Molti alimenti possiedono naturalmente delle sostanze dotate di attività antimicrobica in particolare i
vegetali, ricchi di costituenti antimicrobici, come gli oli essenziali, i tannini, i glicosidi e le resine. Altri
antimicrobici naturali dei vegetali sono rappresentati dalla fitoalessine e dalle lectine (proteine in grado di
legarsi specificamente a diversi polisaccaridi, tra i quali le glicoproteine della superficie delle cellule
microbiche, esercitando pertanto un’azione antimicrobica indiretta). Purtroppo le concentrazioni in cui
sono presenti questi composti antimicrobici negli alimenti rende la loro azione lieve, anche se ,combinata
con altri fattori ecologici, aiuta a stabilizzare gli alimenti. Anche alimenti di origine animale possiedono
naturalmente sostanze con azione antimicrobica. Alcuni esempi sono rappresentati dal sistema
lattoperossidasico presente nel latte bovino e dal lisozima nelle uova. Inoltre, durante l’applicazione di
alcuni trattamenti tecnologici agli alimenti, possono essere prodotte alcune sostanze antimicrobiche. Ad
esempio durante l’affumicatura si producono sostanze, come i fenoli, che oltre ad avere effetti
antimicrobici, abbassano il pH superficiale dell’alimento. sostanze antimicrobiche sono prodotte da
microrganismi, in particolare dai batteri lattici, nei processi di fermentazione degli alimenti. Tra queste
sostanze ricordiamo soprattutto le batteriocine.

FATTORI ECOLOGICI ESTRINSECI


La crescita dei microrganismi negli alimenti è influenzata da parametri che fanno parte dell’ambiente di
conservazione dell’alimento, come la temperatura, l’umidità e il tenore dei gas dell’atmosfera
dell’ambiente di conservazione.

-temperatura e comportamenti dei microrganismi


I vari gruppi di microrganismi sono capaci, potenzialmente, di crescere a temperature che vanno da un
minimo di -18°C a temperature superiori ai 100°C (a questi valori estremi la crescita è molto limitata).
Ogni microrganismo presenta un intervallo di temperature entro cui può crescere, determinato dalla
temperatura alla quale sia gli enzimi che la membrana possono svolgere le proprie funzioni. Si possono
individuare tre limiti di temperatura che sono:
-temperatura minima: al di sotto non vi è più crescita in quanto le proprietà della membrana sono alterate
non consentendo più il trasporto di nutrienti all’interno;
-temperatura ottimale: massimo tasso di crescita;
-temperatura massima: : temperatura al di sopra della quale non vi è più crescita in quanto gli enzimi sono
denaturati e le proteine e i lipidi di membrana sono danneggiati. Nel considerare il comportamento di un
microrganismo in un alimento, oltre alla temperatura, diventa cruciale il tempo di conservazione o shelf-
life, ovvero il periodo di tempo che va da quando l’alimento è prodotto a quando viene consumato. E’,
dunque, il tempo durante il quale un alimento si mantiene stabile sia da un punto di vista organolettico che
microbiologico, tanto da renderlo ancora accettabile per il consumo.

In base alla temperatura massima, minima e ottimale di crescita distinguiamo 5 classi di microrganismi:
-PSICROFILI: crescono a basse temperature (0-25°C, temperatura ottimale: 20-25°C). La crescita dei
microrganismi anche a basse temperature trova spiegazione nel fatto che i lipidi di membrana contengono
un’alta percentuale di acidi grassi insaturi i quali, abbassando il punto di solidificazione, consentono alla
membrana citoplasmatica di svolgere le proprie funzioni di assorbimento e trasporto dei nutrienti anche a
bassa temperatura.
-MESOFILI:  crescono a temperature intermedie (20-45°C, temperatura ottimale 30-37°C). Sono molto
comuni nell’ambiente e si sono adattati a vivere sull’uomo e sugli animali a sangue caldo. Molti dei batteri
patogeni trasmessi con gli alimenti sono mesofili
-TERMOFILI: crescono ad alte temperature (47-70°C, temperatura ottimale: 50-55°C). La crescita ad alte
temperature sembra essere dovuta al fatto che i microrganismi termofili hanno membrane cellulari ricche
di acidi grassi saturi e, inoltre, enzimi, proteine e ribosomi sono stabili al calore.

Le temperature minime e massime di crescita di un microrganismo dipendono strettamente dai valori degli
altri fattori ecologici e sono valide quando questi ultimi sono ai loro valori ottimali.

La conservazione degli alimenti tramite processi basati sul controllo della temperatura è uno dei metodi più
usati nelle industrie alimentari.
Refrigerazione: è la conservazione degli alimenti a temperature comprese tra -1- 0°C fino a 5-10°C.
Permette un allungamento della shelf-life rispetto alla temperatura ambiente, in quanto alle temperature
di refrigerazione vi è un allungamento della fase LAG, una diminuzione del tasso di crescite dei batteri
psicrofili e allo stesso tempo l’inibizione della crescita dei batteri mesofili. I tempi di conservazione
dipendono da una serie di fattori, tra i quali sono determinanti il livello iniziale di contaminazione,
soprattutto di psicrofili, la natura dell’alimento e l’impiego combinato con altre tecnologie di conservazione.
Il tempo di conservazione ottimale si ottiene a temperature quanto più vicine a quelle di congelamento.
Congelamento: con il congelamento, generalmente si abbassa la temperatura dell’alimento a valori di -
18°C, al di sotto della quale nessun microrganismo è in grado di moltiplicarsi. Il congelamento determina un
abbassamento dell’attività dell’acqua (a -18°C aw=0,841) e una concentrazione dei solidi disciolti, che
influenzano l’attività dei microrganismi. Una parte della popolazione microbica subisce danni irreversibili
dovuti alla formazione di cristalli di ghiaccio che determinano la rottura della parete cellulare e lisi della
cellula. Molti microrganismi possono resistere a tale trattamento, per esempio i batteri Gram-negativi sono
più sensibili dei Gram-positivi, mentre le spore sono altamente resistenti. Sulla distruzione microbica da
congelamento gioca un ruolo fondamentale la velocità di congelamento stessa: maggiore è la velocità,
minore è la letalità, in quanto i cristalli di ghiaccio che si formano sono di dimensioni più piccole e
provocano dunque meno danni cellulari. Inoltre, un congelamento rapido causa meno danni dal punto di
vista strutturale all’alimento. Anche la fase di scongelamento è importante per la letalità del trattamento:
uno scongelamento lento a seguito di un congelamento veloce determina un aumento di volume dei
cristalli di ghiaccio e, quindi, una maggiore letalità, mentre uno scongelamento rapido a seguito di un
rapido congelamento causa meno danni alle cellule microbiche.
Alte temperature: il trattamento degli alimenti a temperature superiori a quelle massime per la crescita dei
microrganismi determinano una loro più o meno rapida morte. A seconda della temperatura e della durata
del trattamento e dunque della sua efficacia, possiamo distinguere diversi trattamenti termici, ad esempio:
-blanching: 100° C circa, ha lo scopo di inattivare gli enzimi e ridurre il numero di microrganismi
contaminanti;
-termizzazione: 60-65° C per pochi secondi, non assicura la distruzione totale dei microrganismi ma riduce
notevolmente la popolazione microbica;
-pastorizzazione: tra 60° e 80° C e con un tempo variabile in base alla T, ha lo scopo di risanare
igienicamente un alimento. Mira all’eliminazione di tutte le forme vegetative dei patogeni non sporigeni. Le
coppie tempo/temperatura sono stabilite sulla base della eliminazione delle forme vegetative dei patogeni
più termoresistenti, quali Mycobacterium tubercolosis, Salmonella spp., Brucella e Coxiella burnetti. Gli
obiettivi sono quelli di inattivare enzimi, quali esterasi e poligalatturonasi e di uccidere lieviti e muffe
alterative.
-sterilizzazione: temperature superiori ai 100° C, ha l’obiettivo di eliminare sia le forme vegetative che le
spore di patogeni e alterativi. Per rendere sicuri questi tipi di alimenti, i trattamenti termici minimi devono
comportare 12 riduzioni decimali (12D) delle spore del patogeno; questo implica trattamenti a 121°C per
almeno 2,5 min.

Per poter utilizzare una coppia tempo/temperatura efficace bisogna conoscere l’effetto della temperature
sui microrganismi.
Il tempo di riduzione decimale D è il tempo necessario, ad una data temperatura, a ridurre la popolazione
microbica del 90% o di un logaritmo, o, che è la stessa cosa, a ridurre ad 1 decimo la popolazione iniziale.

D=t/logN0-logNt
dove N0 è il numero di microrganismi presenti prima del trattamento, N t è il numero di microrganismi
presenti dopo un tempo t di trattamento termico. I valori di D (e quindi la resistenza termica) dei
microrganismi variano considerevolmente e sono influenzati da una serie di fattori quali: la resistenza
intrinseca, le condizioni ambientali durante la crescita della cellula o spora (età, temperatura, pH, aw,
terreno di crescita, ecc.) e durante il trattamento termico (composizione del mezzo, pH, aW, temperatura).
Le spore dei batteri termofili sono le più resistenti, con valori di D a 121° C che possono arrivare anche a 5-6
minuti. Le cellule vegetative, comprese quelle dei batteri sporigeni, dei lieviti e delle muffe sono meno
termoresistenti e presentano valori di D65,5 compresi tra 0,02 e 3 minuti. In genere trattamenti a 80°C per
10 minuti sono sufficienti ad uccidere tutte le forme vegetative. In generale si può dire che le cellule in fase
stazionaria di crescita sono più termoresistenti di quelle che si trovano in fase esponenziale, inoltre, a pH
prossimi a quelli ottimali di crescita i microrganismi sono più termoresistenti che a pH non ottimali. La
termoresistenza è influenzata anche dalla composizione chimica dell’alimento, per cui maggiore è il
contenuto in grasso e/o proteine, maggiore risulta la termoresistenza.
Un altro importante parametro per esprimere la cinetica della morte microbica è rappresentato dalla
costante di resistenza termica z, che esprime la relazione tra la temperatura del trattamento e il tasso di
morte e descrive la resistenza termica delle spore batteriche. Il valore di z è definito come l’incremento di
temperatura necessario per ridurre del 90% o di un ciclo logaritmico il valore di D.
z = T2 - T1/logDT1 - logDT2
dove T1 e T2 sono le temperature più bassa e più alta dei trattamenti termici applicati, DT 1 e DT2 i rispettivi
valori di D.
Il tempo di morte termica F indica il tempo necessario per ridurre ad un valore stabilito una popolazione di
microrganismi o di spore. In genere è espresso come multiplo di D.

-composizione dell’atmosfera di conservazione degli alimenti


Il confezionamento degli alimenti in imballaggi di varia natura, oltre a proteggerli da alterazioni di natura
chimica, fisica e biologica, consente di controllare il tipo di atmosfera che circonda l’alimento stesso,
influenzando così lo sviluppo microbico. Utilizzando imballaggi in materiale impermeabile o con
permeabilità selettiva a diversi gas, è possibile sostituire l’aria della confezione con concentrazioni note di
ossigeno, anidride carbonica e azoto. L’effetto dell’ossigeno sui microrganismi è stato trattato a proposito
dell’Eh. La CO2 a concentrazioni elevate è tossica per i microrganismi, come conseguenza del fatto che
determina un abbassamento, anche se lieve dei valori di pH, con conseguente acidificazione del citoplasma,
alterazioni della membrana citoplasmatica, alterazioni di alcune attività metaboliche ed effetti sulla stabilità
delle proteine. Ha effetto fungistatico e batteriostatico. Molto sensibili alla CO 2 sono i batteri psicrofili, con
un allungamento della fase lag di crescita. I batteri anaerobi sono invece molto tolleranti alla CO2. Infine,
l’azoto è inerte e non ha nessun effetto sui microrganismi. Anche il confezionamento sottovuoto, con
imballaggi impermeabili, in cui vi è assenza di gas, può essere considerata una forma di atmosfera
modificata, in quanto rallenta notevolmente lo sviluppo microbico. La conservazione in atmosfera
modificata o protettiva consente l’allungamento della shelf life di molti alimenti (carne, vegetali, ecc.),
migliorando inoltre la presentazione del prodotto e l’igienicità delle confezioni.

FATTORI ECOLOGICI IMPLICITI


Espressione dei fenomeni di interazione che si instaurano tra le diverse popolazioni microbiche che
colonizzano un alimento, nelle condizioni dettate dall’azione dei fattori intrinseci ed estrinseci. Quando due
microrganismi non si influenzano mai vicendevolmente si parla di neutralismo. E’ detto invece
commensalismo l’interazione tra due microrganismi in cui uno dei due produce metaboliti che sono utili per
la crescita dell’altro, che se ne avvantaggia. Quando nell’associazione tra due microrganismi, uno produce
metaboliti che sono dannosi per l’altro, senza trarne vantaggi diretti, si parla di amensalismo. Si parla di
mutualismo, invece, quando entrambi i componenti dell’associazione ricavano vantaggi, in quanto
producono sostanze che stimolano la crescita dell’altro pur senza vivere a diretto contatto. Nella simbiosi
mutualistica i componenti dell’associazione vivono invece in stretta associazione tra di loro. La
competizione è sicuramente il tipo di interazione più frequente tra i microrganismi; i microrganismi con
tasso di crescita più elevato in definite condizioni ecologiche, normalmente diventano la microflora
dominante. La microflora dominante di un alimento dipende anche strettamente dal livello di
contaminazione iniziale del particolare microrganismo. Un microrganismo presente ad alte concentrazioni
in un alimento sarà normalmente dominante anche se il suo grado di competizione è basso.

La capacità dei microrganismi di moltiplicarsi in un alimento è determinata dall’azione combinata dei fattori
ecologici, che agiscono contemporaneamente nel determinare il destino dei microrganismi. Pertanto i
valori minimi, massimi e ottimali di ogni fattore ecologico che abbiamo preso trattato nelle pagine
precedenti, non devono essere considerati in termini assoluti in quanto essi sono fortemente dipendenti
dai valori degli altri fattori di crescita. In ultima analisi, l’azione reciproca tra i vari fattori determinerà quale
microrganismo o popolazione microbica crescerà e dominerà quello specifico alimento.

Capitolo 4 – I BATTERI LATTICI: ECOLOGIA, FISIOLOGIA E TASSONOMIA


I batteri lattici, sia naturalmente presenti sulle materie prime, sia aggiunti agli alimenti come componenti di
colture starter e/o protettive, trovano largo impiego nella produzione di una grande varietà di alimenti
fermentati, contribuendo in vari modi nel determinare le loro caratteristiche e la loro stabilità.
I batteri lattici sono considerati generalmente sicuri per la salute umana, cioè organismi GRAS (generally
recognised as safe). La qualità di grado alimentare e l’assenza di rischi per la salute sono le prime due
caratteristiche che i ceppi selezionati devono possedere per far parte di una coltura starter o protettiva.
Altre caratteristiche riguardano i loro effetti benefici apportati al prodotto come l’adattamento al substrato,
la capacità di competere con la microflora naturalmente presente e la produzione di metaboliti ad attività
antimicrobica. Molte specie di batteri lattici rappresentano i principali microrganismi dotati di proprietà
probiotiche e dunque in grado di contribuire positivamente al mantenimento e al miglioramento della
salute dell’uomo.

Dare una definizione inequivocabile dei batteri lattici risulta abbastanza difficile. Una definizione generale,
che pure con alcune limitazioni è largamente accettata è la seguente: batteri gram-positivi con morfologia
bastoncellare, coccica o cocco-bacillare, catalasi negativi, non sporigeni, privi di citocromi, anaerobi
aerotolleranti, esigenti nutrizionalmente, acido-tolleranti e con metabolismo strettamente fermentativo.
Ecco alcune proprietà che vanno espletate:
-non posseggono citocromi e una catena di trasporto degli elettroni, in quanto traggono energia solo dalla
fosforilazione a livello del substrato nel corso della fermentazione degli zuccheri;
-sono incapaci di sintetizzare gruppi porfirinici (gruppi eme) e sono, dunque, sprovvisti di una vera catalasi.
Una pseudocatalasi, non eme-dipendente, può essere prodotta da alcune specie di lattobacilli e
pediococchi. In presenza di ematina o emoglobina producono una vera catalasi;
-crescono anaerobicamente, anche se tollerano la presenza di ossigeno;
-non producono spore (tranne Sporolactobacillus, che produce endospore);
-hanno esigenze nutrizionali complesse (aminoacidi, purine, primidine e vitamine);
-sono distinti in due gruppi in base ai prodotti di fermentazione, omofermentanti (producono acido lattico)
ed eterofermentanti (producono acido lattico, etanolo/acido acetico e CO 2).

Per una corretta collocazione tassonomica dei batteri lattici, attualmente uno degli strumenti diagnostici più
affidabile è rappresentato dallo studio delle caratteristiche molecolari degli acidi nucleici, come il contenuto
in percentuale di guanina e citosina del DNA (G+C mol%), l’ibridazione DNA-DNA, nonché lo studio della
struttura e della sequenza del DNA ribosomiale. Attraverso l’analisi comparativa della sequenza del gene
16S rDNA è stato possibile dividere i diversi gruppi batterici in 16 “phyla”: i batteri Gram positivi si dividono
in due grandi phylum in base al contenuto in %mol G+C genomico: phylum Firmicutes che comprende i
batteri che hanno un contenuto molare in G+C del loro DNA inferiore al 55% e phylum Actinomycetes che
include batteri con un %mol G + C superiore al 55%. I batteri lattici appartengono al phylum Firmicutes,
Classe I (Bacilli), Ordine II (Lactobacillales). L’ordine Lactobacillales comprende sei famiglie: Aerococcaceae,
Carnobacteriaceae, Enterococcaceae, Lactobacillaceae, Leuconostocaceae e Streptococcaceae.

I batteri lattici ottengono l’energia necessaria tramite la fosforilazione al livello del substrato nel corso della
fermentazione degli zuccheri. Gli esosi (glucosio, mannosio, fruttosio) ) sono fermentati secondo due vie
principali, la via glicolitica di Embden-Meyerhof (EM) e la via del 6-fosfogluconato-fosfochetolasi. Gli
zuccheri possono essere trasportati all’interno della cellula microbica in due modi: o come zuccheri liberi,
che vengono poi attivati con la fosforilazione mediata da una fosfotrasferasi ATP-dipendente; o come
derivati fosforilati, mediante l’intervento di una fosfotrasferasi dipendente dal fosfoenolpiruvato
(accumulato endogenamente), che forma il sistema di trasporto fosfoenolpiruvato-fosfotrasferasi (PEP-PT).
Ad eccezione delle specie del genere Leuconostoc, Oenococcus, Weissella e del gruppo III degli
eterofermentanti obbligati di Lactobacillus, tutti i batteri lattici fermentano il glucosio secondo la via di EM.

Fermentazione omolattica: il glucosio, attivato da una glucochinasi ATP-dipendente è trasformato in


fruttosio-1,6-difosfato che a sua volta è idrolizzato in due triosi, la 3-fosfogliceraldeide e il
diidrossiacetonefosfato dall’enzima fruttosio-1,6-difosfoaldolasi. La successiva sequenza metabolica porta
alla formazione di piruvato e di ATP mediante fosforilazione a livello del substrato. La riduzione del
piruvato ad acido lattico, mediante l’intervento di una lattico deidrogenasi-NAD dipendente, consente di
ristabilire il bilancio redox attraverso la riossidazione del NADH formato durante l’ossidazione della 3-
fosfogliceraldeide a 1,3-difosfoglicerato. Da una molecola di esoso sono prodotte due molecole di acido
lattico e due molecole di ATP.

Fermentazione eterolattica: il glucosio dopo fosforilazione è ossidato a 6-fosfogluconato che a sua volta è
decarbossilato a ribulosio 5-fosfato. Quest’ultimo, dopo trasformazione in xilulosio 5-fosfato, è scisso in
gliceraldeide 3-fosfato e acetil fosfato, per mezzo dell’enzima fosfochetolasi. La gliceraldeide 3-fosfato è
metabolizzata ad acido lattico secondo la via glicolitica, mentre l’acetil fosfato è ridotto ad acetaldeide e
quindi ad etanolo. Da una molecola di esoso sono prodotti una molecola di acido lattico, una di CO2, una di
etanolo (o acido acetico) e una di ATP.

Altri zuccheri esosi, come mannosio e fruttosio, seguono la via omolattica. Il galattosio, invece, quando è
trasportato all’interno della cellula per mezzo di una permeasi specifica come zucchero libero, è fermentato
secondo la via di Leloir, mentre quando è trasportato come Galattosio 6P mediante PTS (fosfotrasferasi) è
fermentato secondo la via del D-Tagatosio-6P.

Tra i disaccaridi, il metabolismo fermentativo che meglio conosciamo è quello del lattosio. Esso viene
trasportato nella cellula batterica come zucchero libero tramite permeasi. Nel citoplasma è idrolizzato
dall’enzima ß-galattosidasi in glucosio e galattosio. Il glucosio è metabolizzato secondo la via EM, mentre il
galattosio è fermentato secondo la via di Leloir. r. Il lattosio può essere inoltre trasportato e fosforilato per
mezzo di un sistema specifico PEP-PT. In tal caso lo zucchero è fosforilato a lattosio 6P che, all’interno della
cellula, per mezzo di una P-ß-galattosidasi, è scisso in galattosio 6P e glucosio che sono fermentati,
rispettivamente, attraverso la via del D-tagatosio-6P e la via EM.
I pentosi come D-ribosio, D-arabinosio e D-xilosio sono fosforilati, dopo trasporto all’interno della cellula
da parte di permeasi specifiche e quindi convertiti, mediante epimerasi o isomerasi, a ribulosio 5P o a
xylulosio 5P. Questi zuccheri sono quindi fermentati secondo la via del tagatosio 6P. Nella fermentazione
dei pentosi non viene prodotta CO2 e l’acetil fosfato derivante dalla trasformazione dello xilulosio 5-
fosfato per mezzo dell’enzima fosfochetolasi, viene trasformato da una acetatochinasi, in acido acetico e
ATP.

Durante le fermentazioni appena discusse, le diverse specie di batteri lattici, in funzione della
stereospecificità della lattico-deidrogenasi (LDH)-NAD+ dipendente presente nelle cellule, possono
produrre esclusivamente L(+)- lattato o D(-)-lattato o entrambe le forme in eguale quantità (miscela
racemica) o con predominanza di una delle due forme. L’isomero L(+)-lattato è prodotto dai generi
Aerococcus, Carnobacterium, Enterococcus, Lactococcus, Tetragenococcus, Streptococcus e Vagococcus. I
generi Leuconostoc e Oenococcus producono D(-)-lattato. I generi Lactobacillus, Pediococcus e Weissella
possono produrre L(+)- lattato, D(-)-lattato e l’isomero DL in funzione della specie.
Il piruvato può essere usato in maniera alternativa per produrre altre componenti quali acetato, formiato,
etanolo, diacetile, acetaldeide, acetoino o 2,3-butanediolo. o. Una via metabolica alternativa del piruvato,
di grande interesse tecnologico, è quella che porta alla formazione di diacetile ed acetoino/2,3-
butanediolo.

I batteri lattici possono usare una serie di composti proteici per soddisfare le proprie esigenze in
amminoacidi. Tali esigenze sono ceppo-dipendenti e variano da 4 a 14 diversi amminoacidi. Nel late, per
esempio, sono soddisfatte tutte le esigenze in quanto le caseine contengono tutti gli amminoacidi necessari
alla crescita dei batteri lattici. E’ possibile individuare i seguenti componenti del sistema proteolitico (che
scinde le componenti proteiche) dei batteri lattici:
-proteinasi: localizzate a livello della parete cellulare, scindono le proteine in peptidi che vengono
trasportati all’interno della cellula da un sistema di trasporto degli oligopeptidi. Il tipo P I degrada la β-
caseina (C terminale, prolina) e meno specificamente la k-caseina, mentre il tipo P III degrada la β -caseina (N
terminale), αs1- e k-caseina. I vari tipi di proteasi dipendono dal ceppo batterico;
-peptidasi: sia extra- che intra-cellulari, idrolizzano i peptidi in amminoacidi;
-carriers: sistemi enzimatici di membrana che trasportano peptidi e amminoacidi all’interno della cellula.

-IL GENERE LACTOBACILLUS


Comprende microrganismi Gram +, di forma bastoncellare, catalasi negativi e non sporigeni. Di solito sono
immobili e la rara mobilità è legata alla presenza di flagelli peritrichi. Su terreno nutritivo solido, le colonie
si presentano molto piccole (2-5 mm), con margini ben definiti, convesse, lisce, lucide od opache senza
pigmenti, anche se in rari casi sono pigmentate in giallo o rosso. Quando fatti crescere in substrati liquidi, si
possono notare sedimenti omogenei, difficilmente granulosi o viscosi, inoltre non si osserva alcuna
formazione di pellicole. Sono molto esigenti dal punto di vista nutrizionale, richiedendo oltre ai tipici
nutrienti (carbonio, azoto, composto solforati e fosforati) anche fattori di crescita quali vitamine,
amminoacidi ed oligoelementi. Le richieste nutrizionali sono soddisfatte quando il terreno colturale
contiene carboidrati fermentiscibili, peptoni, estratto di carne o di lievito; inoltre, alcune sostanze come il
succo di pomodoro, il manganese sono considerati stimolatori di crescita; l’acido pantotenico, l’acido
nicotinico e la riboflavina sono richiesti da tutte le specie, la tiamina è necessaria per la crescita dei
lattobacilli eterofermentanti.
I lattobacilli sono largamente distribuiti in natura, potendosi ritrovare associati con molti habitat differenti,
quali la cavità orale e il tratto intestinale umano e animale, le superfici dei vegetali, l’acqua, gli insilati, il
letame, i cereali ecc…
Possono crescere in un range di temperatura compreso tra 5°C e 53°C con valori ottimali di 30-40°C. Sono
acidurici, con un pH ottimale di crescita di 5,5-5,8 potendo anche crescere a pH<5.

Le specie di Lactobacillus sono suddivise in 3 gruppi in base alla presenza o assenza degli enzimi deputati
alla fermentazione (fruttosio-1,6- difosfato aldolasi e la fosfochetolasi):
GRUPPO I: lattobacilli omofermentati, che fermentato gli esosi esclusivamente ad acido lattico (tramite la
via di Embden-Meyerhof) e che sono incapaci di fermentare pentosi e gluconato. Il gruppo contiene le
specie più acidificanti e le più termofile, di forma generalmente allungata, con cellule isolate o disposte in
catene lunghe o a spirale.
GRUPPO II: lattobacilli eterofermentanti facoltativi, che fermentano gli esosi tramite la via di Embden-
Meyerhof o glicolisi e producono esclusivamente acido lattico; in presenza limitata di glucosio, producono
lattato, acetato, etanolo o acido formico. Sono in grado di fermentare i pentosi a lattato ed acetato tramite
fosfochetolasi. Sono mesofili, formati generalmente da cellule corte, tozze o curvate, disposte spesso in
catene molto lunghe. Hanno come habitat preferenziale vegetali o carni fermentate.
GRUPPO III: lattobacilli eterofermentanti obbligati, che fermentano gli esosi a lattato, acetato (o etanolo) e
CO2 attraverso la via del fosfogluconato; fermentano i pentosi a lattato ed acetato tramite fosfochetolasi.
Hanno scarso potere acidificante e producono composti aromatici volatili. Sono formati da cellule molto
corte, dritte e generalmente isolate. Preferiscono habitat in cui sono presenti altri microrganismi,
preferenzialmente alimenti fermentati e tratti digerenti.

L’eterogeneità filogenetica del genere Lactobacillus è dimostrata da altre importanti caratteristiche come la
diversità della composizione del peptidoglicano, dei vari corredi enzimatici e delle vie metaboliche. Inoltre,
anche il contenuto in mol% di G + C varia molto da una specie all’altra. Il sequenziamento dei geni 16S e 23S
del’rDNA costituisce il metodo più valido per rivelare le relazioni naturali esistenti tra le varie specie
microbiche. Collins et al. (1991) e Schleifer e Ludwig (1995) hanno proposto la seguente suddivisione delle
specie appartenenti al genere Lactobacillus in base al sequenziamento del 16S rDNA:
1) gruppo Lactobacillus delbrueckii, in cui la percentuale di omologia del 16S rRNA varia dal 90,8% al
99,3%, comprende la specie Lb. delbrueckii (con le tre sottospecie) e le specie del gruppo Lb. acidophilus;
2) gruppo Lactobacillus casei-Pediococcus, il più grande e il più eterogeneo e in cui la percentuale di
omologia del 16S rRNA varia dal 90,3% al 99%. Esso comprende 37 specie di Lactobacillus e 5 specie di
Pediococcus;
3) gruppo Leuconostoc, comprendente specie assegnate al genere Weissella, Oenococcus oeni e
Lactobacilli sensu stricto eterofermentanti obbligati.

Molti degli alimenti che noi consumiamo sono prodotti mediante l’intervento dei lattobacilli, utilizzati da
soli o in combinazione con altri batteri lattici. I lattobacilli trovano impiego nella produzione di formaggi e
latte fermentati, di insaccati carnei fermentati, di prodotti lievitati da forno e di vegetali fermentati. Inoltre,
ceppi di lattobacilli, opportunamente selezionati per la loro capacità di apportare benefici alla salute
umana, trovano impiego nella produzione di alimenti fermentati probiotici, ai quali sono aggiunti per
contribuire a specifiche proprietà funzionali degli stessi.

Alcune specie possono essere responsabili di gravi alterazioni degli alimenti, soprattutto in condizioni di
ridotta concentrazione di ossigeno. Ad esempio, Lb. buchneri, Lb. casei e Lb. plantarum, grazie alla loro
capacità di moltiplicarsi a pH 3,5 e alla temperatura di 10°C, possono crescere in succhi di frutta, con
conseguenti alterazioni dovute alla produzione di gas e intorbidamento. In alcuni formaggi, ceppi di Lb.
brevis, di Lb. casei e di Lb. bifermentans, possono produrre quantità eccessive di anidride carbonica dalla
fermentazione del citrato, con conseguenti gonfiori indesiderati che alterano la struttura del prodotto. In
bevande fermentate come vino e birra, grazie alla capacità dei lattobacilli di metabolizzare gli acidi organici
(acido malico, citrico e tartarico) possono produrre eccessi di sostanze aromatiche (diacetile da citrato) che
impartiscono sapori e odori anomali; inoltre, grazie alla loro capacità di tollerare i bassi valori di pH di questi
ambienti, determinano la comparsa di torbidità indesiderata.

-IL GENERE CARNOBACTERIUM


Comprende 10 specie di forma bastoncellare, Gram +, catalasi e ossidasi negative, anaerobie facoltative. Si
tratta di un gruppo di microrganismi in grado di crescere anche a 0°C e a pH 9,5; non crescono a pH acido e
fermentano il glucosio secondo la via glicolitica con produzione lieve e ritardata di anidride carbonica
(omofermentanti atipici). Hanno come habitat principale carne, pollame e pesce e spesso sono associati a
fenomeni di alterazione di questi prodotti.

-IL GENERE WEISSELLA


Al genere appartengono 15 specie, classificate nella Famiglia Leuconoconostocaceae di forma sia bacillare
che coccica, Gram +, catalasi negative ed eterofermentanti obbligate. Alcune specie sembrano essere
associate con la carne dove possono svilupparsi anche a bassa temperatura.

-IL GENERE LEUCONOSTOC E IL GENERE OENOCOCCUS


Il genere Leuconostoc comprende microrganismi di forma coccica o lenticolare (coccobacilli) disposti in
coppia o in catene. Sono Gram +, catalasi negativi, non sporigeni, ossigeno tolleranti. Hanno un
metabolismo strettamente eterofermentante obbligato, producendo dagli esosi acido lattico D(-), CO2 e
etanolo o acido acetico. Sono stati isolati da diversi habitat quali vegetali e derivati fermentati, latte e
derivati, carne e derivati, bevande alcoliche. In genere non sono considerati patogeni per l’uomo e gli
animali, anche se alcuni ceppi sono stati isolati da reperti clinici. Trovano applicazione nella produzione di
vegetali fermentati come crauti e olive e, grazie alla loro capacità di produrre diacetile da citrato, sono
impiegati come colture starter, in associazione con lattococchi, nella produzione di burro, di creme
fermentate e di alcuni formaggi freschi. I Leuconostoc possono crescere tra 15 e 37°C, con una temperatura
ottimale di crescita di 25- 30°C.
La specie Leuconostoc oenos, che per la sua capacità di trasformare l’acido malico in acido lattico (L(+)
trova larga applicazione nella fermentazione malo-lattica dei vini, in seguito a studi filogenetici è stato
riclassificato nel nuovo genere Oenococcus, assumendo la designazione di Oenococcus oeni. Tale specie
presenta una elevata tolleranza agli acidi e all’etanolo (sviluppa bene a pH 4,2-4,8 e cresce tra 10 e 35°C).

-IL GENERE PEDIOCOCCUS


Vi appartengono 11 specie di forma sferica che sono unite a formare tetradi o, più raramente, coppie. Sono
Gram +, non sporigeni ed hanno un metabolismo omofermentante, producendo acido lattico DL o L(+) dalla
fermentazione degli esosi. Sono privi di catalasi, ma le specie Pc. acidilactici e Pc. pentosaceus possono
produrre una pseudocatalasi in grado di idrolizzare l’H 2O2. Presentano una temperatura ottimale di crescita
compresa tra 25 e 30°C. Il genere comprende specie di importante interesse alimentare: Pc. acidilactici e
Pc. pentosaceus sono impiegate come colture starter per la produzione di insaccati carnei fermentati; Pc.
damnosus è il principale organismo alterativo della birra, con produzione di acetoino/diacetile di sostanze
viscose che danno alla birra sapori e aspetto indesiderati. Gli habitat principali sono rappresentati da
vegetali, insilati, vino, birra, formaggi, salumi fermentati.

-IL GENERE STREPTOCOCCUS


Comprende microrganismi Gram +, di forma coccica, raggruppati in catene, catalasi e ossidasi negativi. Sulla
base di caratteristiche morfologiche, fisiologiche e biochimiche vengono divisi in 3 gruppi:
-streptococcus sensu strictu (piogeni e viridans)
-Lactococcus ed Enterococcus (streptococchi lattici e fecali)
Attualmente al Genere Streptococcus appartengono 78 specie suddivise, sulla base delle sequenze del gene
16S rRNA, in sei gruppi-specie principali: anginosus, bovis, mitis, mutans, pyogenic e salivarius.
Il gruppo dei piogeni contiene importanti batteri patogeni (S. pneumoniae ecc…), il gruppo degli
streptococchi orali contengono sia microrganismi presenti nei tratti orali e respiratori dell’uomo, sia
microrganismi patogeni opportunisti. A quest’ultimo gruppo appartiene Streptococcus termophilus, unico
streptococco di interesse alimentare, in quanto usato come coltura starter per la produzione di formaggi. S
thermophilus cresce a 45°C fino ad un massimo di 50°C ma non a 10°C, è relativamente termoresistente
(60°Cx15-30 min), è omofermentante e idrolizza il lattosio mediante una beta-galattosidasi, con produzione
di acido lattico L(+). Cresce in presenza del 2,5% di NaCl ma non in presenza del 4%.

-IL GENERE LACTOCOCCUS


Comprende cocchi in lunghe e corte catene, Gram +, non sporigeni, catalasi negativi, microaerofili e
omofermentanti. Crescono a 10°C ma non a 45°C; non crescono con il 6,5% di NaCl, gruppo sierologico N.
Al genere appartengono 7 specie, ma solo Lactococcus lactis (subspecie lactis e cremoris) sono usati come
colture starter nell’industria casearia. Lactococcus lactis subsp. cremoris si differenzia da Lactococcus lactis
subsp. lactis in quanto non è in grado di crescere a 40°C, in presenza del 4% di NaCl, in latte con lo 0,1% di
blue di metilene e a pH 9,2.

-IL GENERE ENTEROCOCCUS


Hanno forma di cocchi, riuniti in lunghe catene, sono Gram +, non sporigeni, catalasi e ossidasi negativi e
anaerobi facoltativi. Sono omofermentanti, producendo acido lattico L(+). Il lattosio e altri carboidrati sono
trasportati nella cellula mediante il sistema PEP-PTS. In generale possono crescere a 10° C e a 45°C, in
presenza del 6,5% di NaCl, del 40% di sali biliari, a pH 9,6 e possiedono il gruppo sierologico D, anche se
alcune delle nuove specie descritte possono non presentare tutte queste caratteristiche. Molti enterococchi
hanno come habitat naturale l’intestino dell’uomo e degli animali, i vegetali, acqua e suolo. Diverse specie
possono essere implicate in alcune patologie umane come endocarditi e infezioni del tratto urinario e
nosocomiali e come patogeni opportunisti. Alcune specie sono presenti in diversi formaggi e spesso sono
usate come colture starter per la loro produzione. Altre preparazioni di Enterococchi sono usate come
probiotici nel fronteggiare disordini intestinali.
Comprende le specie che appartenevano al gruppo degli Streptococchi fecali (di Sherman). Comprende 43
specie. Il genere risulta quindi formato dalle due specie classiche di streptococchi fecali, E. faecalis ed E.
faecium, a cui si sono aggiunte specie un tempo classificate come streptococchi del gruppo sierologico D,
come ad esempio E. durans, E. casseviflavus, E. avium e specie di nuova identificazione come E. raffinosus,
E. solitarius e altre.

-IL GENERE BIFIDOBACTERIUM


Appartengono alla Famiglia delle Bifidobacteriaceae, che comprende anche il genere Gardnerella. Si tratta
di bastoncini pleomorfi Gram-positivi, catalasi negativi (ad eccezione delle specie Bf. indicum e Bf.
asteroides che sono catalasi positivi quando fatte crescere in presenza di aria), immobili, non sporigeni e
anaerobi obbligati; crescono a una T ottimale di 35-39° C, , il pH ottimale di crescita è compreso tra 6,5-7.
Le cellule hanno una grande varietà di forme, coccica, allungata con protuberanze e biforcazioni, con
estremità a spatola. Sono disposti in catene a V o a palizzata. Sono chemiorganotrofi e presentano un
metabolismo di tipo fermentativo. Fermentano gli esosi secondo la via del fruttosio 6P-fosfochetolasi (F-
6P/PK). I bifidobatteri sono microrganismi non patogeni, ospiti naturali del tratto digerente dei vertebrati e
degli insetti; alcune sono presenti in cavità naturali dell’uomo, in particolar modo nel colon, nella vagina e
nella bocca. Alcune specie sono tipiche dell’intestino dei neonati: Bf. bifidum, Bf. breve, Bf. infantis e Bf.
pseudocatenulatum; altre sono specifiche di quello degli adulti: Bf. adolescentis, Bf. angulatum, Bf.
catenulatum, Bf. gallicum e Bf. longum. Il ruolo fondamentale di questi batteri nell’ecosistema digestivo è
quello di ristabilire l’equilibrio batterico intestinale dei neonati e degli adulti in seguito alla
somministrazione di antibiotici o al consumo di alimenti contaminati da microrganismi patogeni.

Capitolo 5 - BATTERI ACETICI, BATTERI PROPIONICI, MICROCOCCHI E


STAFILOCOCCHI

-I BATTERI ACETICI
Batteri con cellule ellittiche o corti bastoncini (a volte forme involutive sferiche, filamentose, allungate,
gonfie o curve), Gram – (o Gram variabili), ossidasi negativi, non sporigeni e mesofili (T ottimale di 25-30°
C), aerobi con metabolismo respiratorio. Di interesse alimentare sono i generi Acetobacter e Gluconobacter
che ossidano l’etanolo ad acido acetico (ossidazione incompleta dell’etanolo) o a CO2 e H2O (ossidazione
completa dell’etanolo). Sono acidofili (potendo crescere fino a pH 4) e psicrotrofi.
Le specie del genere Acetobacter sono mobili per flagelli peritrichi; quelle del genere Gluconobacter sono
mobili per ciglia polari o immobili. Vivono come saprofiti nel terreno, sulla frutta, nel miele e nell’aceto.
Sono gli agenti naturali della produzione dell’aceto; possono, inoltre, determinare alterazioni del vino, della
frutta e dei succhi di frutta.

-I BATTERI PROPRIONICI
Appartenenti alla specie Propionobacter, sono bastoncini irregolari, Gram +, catalasi positivi, non sporigeni,
mesofili (T ottimale di 25-40° C), anaerobi e immobili. Sono saprofiti di uomini, animali (pelle) e prodotti
lattiero-caseari. Producono acido propionico (più acetato e CO2) dalla fermentazione degli zuccheri e del
lattato. Alcune specie sono impiegate come colture starter nella produzione di alcuni formaggi con classiche
occhiature.

-I GENERI MICROCCUS E STAPHYLOCOCCUS

-genere Micrococcus
Classificato nella famiglia delle Micrococcaceae e comprende batteri di forma coccica, per lo più aggregate,
Gram +, catalasi positivi e aerobi. Utilizzano i carboidrati per via ossidativa e sono largamente distribuiti
nell’ambiente, essendo stati isolati dal terreno, dalle acque, da prodotti lattiero-caseari e dalla pelle di
umani e animali. In genere sono saprofiti e solo in alcuni casi possono comportarsi da patogeni
opportunisti. La maggior parte delle specie è mesofila e in grado di moltiplicarsi in ambienti con bassa
attività dell’acqua. Grazie alla loro attività proteolitica e lipolitica partecipano alla stagionatura di alcuni
formaggi. Alcune specie sono usate per la produzione di insaccati carnei.

-genere Staphylococcus
Classificato nella Famiglia delle Staphylococcaceae, ed annovera batteri di forma coccica in forma
aggregata, Gram +, catalasi positivi e ossidasi negativi e anaerobi facoltativi. Sono presenti nell’ambiente,
nelle vie nasali, sulle mani, nella gola, nelle feci, sui capelli, sulle ferite infette e su abrasioni della pelle.
Crescono a T comprese tra 7° C e 48° C (T ottimale di 37° C), a pH 4-10 e ad aW 0,83-0,89. Il genere
annovera oltre 50 specie, che sulla base della produzione dell’enzima coagulasi si distinguono coagulasi
positive e coagulasi negative. Tra i coagulasi positivi ci sono specie patogene e specie potenzialmente tali.
In particolare S. aureus subsp. aureus è un importante patogeno trasmesso con gli alimenti che produce
enterotossine termostabili. Le specie coagulasi negative sono considerate saprofite e solo raramente
possono essere patogene. La specie maggiormente ritrovata naturalmente nei salami e utilizzata come
coltura starter è S. xylosus. Ha cellule sferiche, singole, in paia, talvolta in tetradi. Ha esigenze nutritive
semplici, tanto che l’azoto organico non è richiesto essendo sufficiente il solo solfato ammonico. Produce
acidi da un numero elevato di carboidrati (glucosio, fruttosio, mannosio, xilosio, mannitolo e saccarosio). E’
anaerobio facoltativo, ma lo sviluppo è molto più agevole in condizioni aerobiche. Tutti i ceppi hanno un
optimum di temperatura fra 25°C e 35°C e prediligono pH neutri. S. xylosus non produce alcun tipo di
tossina, non è patogeno e non ha attività emolitica. E’ moderatamente alofilo e sviluppa bene a
concentrazioni saline del 10%. Inoltre riduce i nitrati a nitriti.

Capitolo 6 – MICRORGANISMI PROBIOTICI, COLTURE STARTER E PROTETTIVE

-MICRORGANISMI PROBIOTICI
Con il rafforzamento del binomio alimento/salute, è cresciuto sempre più l’interesse verso quegli alimenti,
detti alimenti funzionali, che, oltre agli effetti nutrizionali, esercitano effetti benefici su una o più funzioni
del corpo, migliorando lo stato di salute del consumatore.
Con il termine probiotici (dal greco “pro” e “bios”, ovvero a favore della vita) s’intendono “microrganismi
vivi che, ingeriti in un certo numero, esercitano effetti benefici sulla salute in aggiunta a quelli innati della
nutrizione generale”. E’ necessario che i microrganismi probiotici, quando assunti, siano vivi e vitali, non
inattivati e presenti in alto numero. Inoltre, è necessario che i benefici sulla salute siano dimostrati
scientificamente da studi clinici sull’uomo.
Il concetto di probiotica si è sviluppato di pari passo con gli studi di microbiologia intestinale; la complessa
popolazione microbica del tratto gastro-intestinale può essere considerata come un: “ecosistema aperto
comprendente un gruppo di popolazioni microbiche che coesistono in equilibrio in una definita regione
spazio-temporale”. Il numero di batteri presenti nel nostro organismo (10 14) è dieci volte maggiore rispetto
al numero di cellule umane presenti nei tessuti del nostro corpo (10 13). E’ inoltre stimato che nel nostro
intestino vivono più di 400 diverse specie e sottospecie di batteri appartenenti ad almeno 190 generi
diversi. Nell’intestino tali batteri, definiti probiotici, si nutrono di sostanze denominate prebiotici che ne
garantiscono la crescita. L’insieme dei batteri presenti nell’intestino umano costituisce quello che
comunemente è chiamato il microbiota intestinale. La colonizzazione batterica comincia dopo la nascita, e
già dopo pochi giorni si assiste a differenziazioni nel numero e nella composizione in specie, con il
raggiungimento di un equilibrio tra organismo e tali microrganismi.
I principali gruppi di microrganismi del microbiota intestinale comprendono:
1) batteri di forma bastoncellare Gram + (anaerobi obbligati come Bifidobacterium; anaerobi facoltativi
come Lactobacillus);
2) bastoncini Gram – (anaerobi obbligati come Bacteroides; anaerobi facoltativi come Enterobacteriaceae);
3) cocchi Gram + (anaerobi obbligati come Peptococcus; anaerobi facoltativi come Streptococcus);
4) cocchi Gram – (anaerobi obbligati come Veillonella).
Soprattutto nel colon si può notare come alcuni gruppi siano dominanti (soprattutto anaerobi stretti quali
Bifidobacterium e Eubacterium) e altri sub-dominanti (Lactobacillus, Streptococcus e Enterobacteriaceae).
Esistono molte difficoltà per lo studio della microflora del colon, soprattutto legate all’ottenimento di
campioni del contenuto intestinale. Comunque, il contenuto microbico delle feci sembra essere un buon
indicatore della microflora del colon terminale, pur non riflettendo la microflora dell’intestino e soprattutto
dell’intestino tenue. Molte specie non sono coltivabili, e quindi sono evidenziate con tecniche
batteriologiche convenzionali; con l’impiego di tecniche di biologia molecolare si può superare questo
problema di coltivabilità. In particolare il DNA che codifica per l’RNA ribosomale 16S (16S rDNA) contiene
regioni conservate in tutte le specie batteriche intervallate da regioni (da V1 a V9) in cui le sequenze
nucleotidiche sono variabili da una specie batterica all’altra. La comparazione delle similarità di sequenza
del 16S rDNA possono essere quindi usate per l’identificazione di specie batteriche e dunque per l’analisi di
comunità microbiche complesse.
Esiste una data successione di specie nel corso della vita di un individuo: al momento della nascita,
l’intestino è sterile; subito dopo la nascita, si rilevano specie come E. Coli e Streptococcus; dopo 4-7 giorni,
si sono create le condizioni che favoriscono lo sviluppo di anaerobi come Bifidobacterium. In base al tipo di
allattamento, poi, la speciografia cambia: con latte ricostituito, si ha una predominanza di Lactobacillus,
mentre col latte materno si ha una riduzione del numero di E. coli, Streptococcus, Bacteroides e di
Clostridium, con un alto numero di Bifidobacterium. All’inizio dello svezzamento aumentano gradualmente
le specie di anaerobie di Bacteroides e di cocchi Gram-positivi. Al completamento dello svezzamento si
delinea la normale microflora dell’adulto.
I fattori che influenzano la colonizzazione dell’intestino sono:
-fattori mediati dall’ospite: pH, secrezioni come immunoglobuline, bile, sali, enzimi, motilità intestinale
(velocità, peristalsi), fisiologia (compartimentalizzazione), cellule esfoliate, mucina, essudati tessutali;
-fattori microbici: adesione, mobilità, flessibilità nutrizionale, spore, capsule, enzimi, componenti
antimicrobici, tempo di generazione;
-interazioni microbiche: sinergia, antagonismo/competizione;
-dieta: composizione, fibre non digeribili, farmaci, etc;
La microflore intestinale svolge numerose funzioni necessarie al mantenimento della salute dell’ospite, le
cui alterazioni possono determinare condizioni patologiche differenti. Alcune delle più importanti funzioni
sono riassunte di seguito:
a. Fermentazione di residui della dieta non digeribili;
b. Crescita e differenziazione di cellule epiteliali;
c. Sintesi di vitamine;
d. Assorbimento di ioni;
e. Prevenzione della colonizzazione da parte di batteri patogeni (tramite antagonismo e competizione);
f. Stimolazione della risposta immunitaria: la microflora intestinale promuove (tramite la produzione di
fattori di crescita) citochine e molecole che regolano lo sviluppo del GALT (tessuto linfoide associato alla
mucosa intestinale), che è l’organo immunitario più grande del corpo umano, in cui sono presenti circa
l’80% delle cellule produttrici di immunoglobuline. La microflora intestinale sembra svolgere un ruolo
importante nella stimolazione dello sviluppo di tessuti linfoidi e nella stimolazione di produzione di
anticorpi.

Le attività probiotiche fino ad ora studiate sono legate ad un particolare ceppo di una definita specie
batterica appartenente ai generi Lactobacillus e Bifidobacterium. E’ ormai ampiamente riconosciuto che
l’assunzione di batteri probiotici possa essere utile nella cura e prevenzione di alcune malattie. Le attività
probiotiche fino ad ora studiate sono ceppo-specifiche e dunque i risultati degli studi non possono essere
estrapolati: i ceppi probiotici sono unici e diversi tra loro.
I criteri per selezionare un ceppo potenzialmente probiotico devono riguardare:
-specificità: origine umana; accurata identificazione tassonomica; sicurezza;
-competitività: capacità di sopravvivere, proliferare e di svolgere attività metaboliche in vivo a livello del
sito target; resistenza agli acidi; resistenza alla bile; capacità di adesione e potenziale capacità di
colonizzazione;
-attività funzionali che danno benefici sulla salute: prevenzione della colonizzazione da parte di batteri
patogeni; stimolazione della risposta immunitaria; produzione di sostanze antimicrobiche; attività
antimutagene e anticancerogene; produzione di composti bioattivi;
-proprietà tecnologiche: compatibilità con le tecnologie di produzione, di stoccaggio e di distribuzione;
stabilità delle caratteristiche desiderate nel corso della preparazione delle colture e dello stoccaggio;
caratteristiche di interesse tecnologico in riferimento allo specifico prodotto alimentare.
In ogni caso, il principale criterio di selezione e uso dei probiotici è la sicurezza per il consumatore. Un
batterio probiotico non deve essere né patogeno né tossinogeno e deve poter essere definito GRAS
(Generally Recognised As Safe).
Gli esperti FAO/WHO (Food and Agricolture Organization/World Health Organization) hanno stipulato delle
linee guida che riportano i criteri e le metodologie per la valutazione dei probiotici definendo i dati e le
informazioni necessarie per dimostrare la loro rivendicazione salutistica. Al fine di garantirne la sicurezza, i
probiotici dovrebbero essere saggiati almeno per le seguenti caratteristiche:
1) Patterns di resistenza agli antibiotici;
2) Accertamento di alcune attività metaboliche (produzione di D-lattato; deconiugazione dei sali biliari);
3) Accertamento di effetti collaterali negli studi su umani;
4) Sorveglianza epidemiologica dopo la commercializzazione;
5) Saggiare per la produzione di tossine i ceppi appartenenti ad una specie conosciuta come produttrice di
tossine;
6) Saggiare l’attività emolitica dei ceppi appartenenti ad una specie conosciuta come emolitica.

I PREBIOTICI sono ingredienti alimentari, capaci di generare effetti benefici sulla salute dell’ospite tramite la
stimolazione selettiva della crescita e/o attività di alcuni batteri nel colon (lattobacilli e bifidobatteri). Altri
requisiti per definire un prebiotico sono: indurre nel tratto gastrointestinale e/o a livello sistemico effetti
positivi per la salute del consumatore; non deve essere idrolizzato o assorbito nella parte superiore del
tratto gastrointestinale. Obiettivo principale dei prebiotici è dunque quello di “modulare il livello e le
attività di differenti gruppi di microrganismi endogeni intestinali”. La maggior parte dei prebiotici sono
oligosaccaridi, come Fruttooligossaridi (FOS), Galattooligossaridi (GOS), Inulina, Lattulosio,
(Iso)maltooligosaccaridi, Ciclodestrine, Raffinosio ecc.
Un alimento simbiotico è costituito dall’associazione di un alimento probiotico con alimenti prebiotici;
questi alimenti sfruttano le specifiche sinergie tra probiotici e prebiotici nel tratto gastrointestinale.
Attualmente sono prodotti diversi alimenti simbiotici. In particolare yogurt e altri derivati del latte e le
formule lattee di proseguimento. Possono dunque essere definiti alimenti funzionali.

-COLTURE STARTER
Poiché attraverso le fermentazioni spontanee, la costanza di qualità non sempre è raggiungibile, negli ultimi
anni si è accresciuto l’utilizzo di colture starter, le quali assicurano la standardizzazione delle caratteristiche
organolettiche, la riduzione del tempo di trasformazione, contribuiscono ad un miglioramento della
sicurezza igienica e garantiscono costanti livelli di “shelf-life”.
L’impiego delle colture starter è quello di isolare e identificare i germi responsabili di modificazioni
organolettiche desiderate ed aggiungerli alla materia prima per rafforzarle o riprodurle.
Le colture starter sono preparazioni che contengono microrganismi vivi e vitali che sono impiegate con
l’obiettivo di utilizzare il metabolismo microbico per il raggiungimento di specifici obiettivi tecnologici. E’
possibile distinguere le seguenti colture starter:
• Colture starter con ceppi misti: sono note anche come colture a composizione indefinita. In genere sono
costituite da substrati fermentati risultanti da lavorazioni precedenti
• Colture starter a singolo ceppo (una specie);
• Colture starter a ceppi multipli (più ceppi di una o più specie).
La scelta e la formulazione delle colture starter è basata soprattutto sulla capacità dei ceppi microbici di
svolgere i processi biochimici richiesti dalle varie tecnologie di trasformazione.
Una coltura starter o non starter di microrganismi in grado di esercitare azioni antimicrobiche nei confronti
di microrganismi indesiderati è detta coltura protettiva.
Le specie e i ceppi di batteri, lieviti e muffe che entrano nella composizione di una coltura starter o
protettiva devono soddisfare alcuni criteri di sicurezza e di efficacia tecnologica. Non meno rilevanti sono gli
aspetti economici: la propagazione degli organismi starter deve essere economicamente conveniente e la
loro manipolazione e impiego deve essere semplice. L’impiego di colture starter nella produzione di
formaggi e altri derivati del latte, del vino e della birra e dei prodotti da forno come il pane, è una pratica
ormai consolidata. Per i prodotti carnei fermentati, l’utilizzo delle colture starter ha incontrato resistenze
maggiori: la materia prima carne è molto disomogenea ed è solida per cui la dispersione del/dei
microrganismo/i inoculati è più difficile; la carne possiede una microflora autoctona competitiva molto
variabile quali-quantitativamente che non può essere eliminata tramite un trattamento di pastorizzazione,
come usualmente avviene con il latte. Una accurata selezione dei microrganismi starter ha fatto superare
allo stato attuale queste resistenze.
Le colture starter usate nelle industrie alimentari fanno riferimento a 2 tipologie principali:
1) starter naturali (latto-innesti e siero-innesti): normalmente sono composte da batteri lattici termofili e
mesofili appartenenti a generi e specie differenti. Durante il processo di caseificazione (dopo la sosta) o al
termine dello stesso, si preleva una quantità sufficiente di siero per le lavorazioni del giorno dopo,
travasandolo in un recipiente coibentato e chiuso. Il siero viene lasciato fermentare ad opera della
microflora naturale a temperature tali da selezionare le specie più idonee per la produzione della stessa
tipologia di formaggio. Il giorno successivo il siero-innesto è aggiunto al latte nella quantità di circa il 2-3%.
Le colture naturali in latte sono utilizzate per la produzione di alcuni formaggi molli e sono composte da
streptococchi, enterococchi e lattobacilli termofili. Per la loro preparazione, il latte crudo è termizzato (60-
65°C per 15-20 sec) per eliminare microrganismi indesiderati mesofili, selezionando in tal modo la maggior
parte dei batteri termofili e termoresistenti. Il latte, così trattato, è incubato per tempi e temperature
variabili in funzione della tipologia di formaggio da produrre.
2) starter selezionati (liquidi, in polvere liofilizzati o essiccati, e congelati): possono essere usati per inoculo
diretto in caldaia oppure previa loro propagazione progressiva in adatte fermentiere. Le colture selezionate
liquide, sono utilizzate per la produzione di formaggi e sono costituite da bacilli e streptococchi termofili;
sono preparate presso laboratori o centri specializzati e distribuite direttamente ai caseifici per
un’utilizzazione immediata o al massimo nel giro di due o tre giorni, previa conservazione a bassa
temperatura di 5-6°C. Sono aggiunte direttamente al latte in lavorazione. Il substrato generalmente usato
per la preparazione di queste colture è composto da miscele di siero e latte in polvere con eventuale
aggiunta di attivatori. Le colture selezionate disidratate, sono utilizzate sia per la preparazione di latti
fermentati sia di diverse tipologie di formaggi. Possono essere costituite da bacilli e streptococchi mesofili e
termofili, sia a ceppo singolo che multiplo. Sono preparate per liofilizzazione o mediante essiccazione spray.
Gli starter liofilizzati, prima di essere inoculati in caldaia, richiedono in genere una serie di passaggi di
riattivazione e moltiplicazione in latte sterile (propagazione). La preparazione delle colture selezionate in
forma congelata prevede una prima fase di produzione della biomassa microbica in fermentatori. Al
termine della fermentazione, le cellule sono separate per centrifugazione, risospese in un crioprotettivo e
quindi congelate in azoto liquido a -196°C o a -30°C.

-COLTURE PROTETTIVE
L’utilizzo di colture starter e/o protettive per migliorare e garantire la qualità e sicurezza microbiologica
degli alimenti è definito bio-conservazione.
Le proprietà antagonistiche di una coltura protettiva, oltre che dalla capacità di colonizzare un alimento e
competere per i nutrienti presenti in esso, sono dovute alla produzione di uno o più metaboliti tra i quali i
più importanti sono gli acidi organici, il perossido di idrogeno, alcuni enzimi, alcuni metaboliti a basso peso
molecolare e le batteriocine. Analizzeremo di seguito le batteriocine prodotte da batteri lattici.
Attualmente, le batteriocine vengono definite come proteine biologicamente attive sintetizzate
ribosomialmente ed eventualmente modificate post-traduzionalmente o complessi proteici in grado di
esercitare attività battericida nei confronti di altre specie batteriche, ma non sul microrganismo produttore.
L’estensione dello spettro di azione delle batteriocine a microrganismi non appartenenti al solo ceppo
produttore è stata evidenziata dalla scoperta di nuove batteriocine e ceppi produttori da habitat diversi,
appartenenti a tutti i generi di batteri lattici, come Lactobacillus, Lactococcus, Leuconostoc, Pediococcus,
Streptococcus e Carnobacterium, e alcune specie di Enterococcus. Trattamenti come il congelamento o il
calore o l’impiego di acidi deboli o agenti chelanti, o di alte pressioni idrostatiche, che indeboliscono le
barriere cellulari facilitando così il contatto della batteriocina con la membrana citoplasmatica, rendono le
batteriocine efficaci anche contro batteri gram-negativi e batteri gram-positivi resistenti.
La membrana citoplasmatica sembra essere il bersaglio principale delle batteriocine, dal momento che le
azioni iniziano con alterazioni della permeabilità della membrana con fuoriuscita di ioni e costituenti
intracellulari, effetti questi ritenuti come una conseguenza della perdita della forza proton motrice, che
priva la cellula dei meccanismi di produzione di energia e quindi della sintesi di costituenti cellulari.
Nella maggior parte dei casi la produzione di batteriocine è associata con la presenza di plasmidi. Sono
inoltre segnalate evidenze di codificazione di batteriocine da elementi mobili come trasposoni, episomi, ma
anche codificazione cromosomica. I geni per la biosintesi delle batteriocine sono organizzati in strutture
operone-simili con il primo gene codificante per la proteina strutturale, seguito da geni addizionali
codificanti per proteine con ruoli di traslocazione, regolazione, immunità o ruoli ancora non ben definiti.
Le batteriocine sono classificate in 4 classi, in base allo spettro d’azione, al peso molecolare e a
caratteristiche biochimiche e genetiche, anche se la quasi maggioranza di quelle prodotte da batteri
associati con gli alimenti appartengono alla classe I e II:
-alla classe I appartengono batteriocine costituite da piccoli peptidi con massa < di 5 KDa, attivi a livello
della membrana del microrganismo target e contenenti residui di aminoacidi inusuali come lantionina e
βmetil-Lantionina e deidro residui come deidro-alanina e deidro-butirrina. Il rappresentante più importante
di questa classe è sicuramente la nisina, prodotta da vari ceppi di Lactococcus lactis subsp. Lactis. Si tratta di
un peptide contenente 34 aminoacidi (3354 Da) con 1 residuo di lantionina, 2 di deidroalanina, 1 di
deidrobutirrina e 4 di β-Metil Lantionina.
-la classe II comprende peptidi non lantibiotici con dimensioni inferiori a 10 KDa, termostabili, sempre attivi
a livello di membrana, che si caratterizzano per avere una sequenza leader N-Terminale corta di 16-21
aminoacidi con sito di processo in una regione conservata costituita da due residui di glicina presenti in
posizione (-2) e (-1) alla fine del C-terminale del peptide leader alla giunzione con il peptide secreto.
All’interno di questa classe è possibile individuare almeno 3 sottoclassi, di cui la sottoclasse IIa è la più
comune. Ad essa appartengono batteriocine come le pediocine, le sakacine, la leucocina, l’enterocina, la
termofilina, attive contro Listeria spp.

L’impiego delle batteriocine e/o dei microrganismi produttori è stato valutato nella maggior parte dei
sistemi alimentari, inclusi prodotti carnei, prodotti lattiero-caseari, vegetali, frutta e altri ancora. Esistono
diverse modalità di applicazione delle batteriocine negli alimenti. Esse possono essere aggiunte
direttamente all’alimento sotto forma di preparazioni purificate o semi-purificate. La batteriocina è in
questo caso un additivo alimentare e quindi il suo impiego deve essere regolamentato e autorizzato.
All’attualità solo la Nisina è riconosciuta come prodotto naturale non derivato da manipolazioni genetiche e
non contenente antibiotici o composti di ammonio quaternario e quindi come sostanza GRAS. L’uso della
Nisina come additivo alimentare è consentito in circa 50 paesi per aumentare i tempi di conservazione di
alimenti come latte e derivati, conserve vegetali, prodotti carnei sia freschi che fermentati e prodotti ittici.
L’uso della Pediocina è coperto da un brevetto Europeo; essa viene utilizzata, con funzione protettiva e
antilisterica, in prodotti carnei, insalate e formaggi.
Le batteriocine possono essere impiegate negli alimenti anche come preparazioni grezze ottenute facendo
crescere il microrganismo produttore in un substrato naturale come siero, latte o alimenti fermentati.
Questa modalità evita l’uso di un composto purificato, consentendo allo stesso tempo l’impiego di
preparazioni ad attività nota e costante.
Infine è possibile impiegare le colture pure e vitali dei microrganismi produttori di batteriocine, come
colture starter o protettive, sia in alimenti fermentati che non. Tale modalità di impiego, costituisce
sicuramente il modo più naturale per incorporare le batteriocine in un prodotto alimentare, vista l’ampia
diffusione di ceppi Bac+ che già inconsapevolmente ingeriamo con alimenti fermentati non sterili. Il
successo dipende dalla capacità del batterio lattico di crescere e produrre la batteriocina in quantità
sufficiente nelle condizioni di processo dell’alimento.

Capitolo 7 – MICRORGANISMI INDICATORI DELLA QUALITA’ E SICUREZZA


MICROBIOLOGICA DEGLI ALIMENTI – APPLICAZIONE DELL’HACCP
La qualità degli alimenti è determinata dalle esigenze, esplicite o implicite, del consumatore. Col passare del
tempo si è passati da una definizione di qualità relativa al solo prodotto finito, ad una definizione di qualità
estesa anche a tutto il processo produttivo (ogni singola fase produttiva). Ad oggi, parte integrante dei
sistemi di assicurazione della qualità è il sistema HACCP (analisi dei pericoli e punti critici di controllo), che
rappresenta un utile strumento per garantire la sicurezza igienica degli alimenti, basato sull’identificazione
dei pericoli associati ad ogni singola fase produttiva, valutandone i rischi e le relative conseguenze e
definendo, al contempo, i mezzi e le misure per il loro controllo. La NORMA UNI-ISO definisce la qualità
come “l’insieme delle proprietà e caratteristiche di un prodotto o di un servizio, che gli conferiscono la
capacità di soddisfare esigenze espresse o implicite”.
Gli attributi di qualità di un prodotto riguardano la qualità biologica, la qualità di servizio, la qualità di
sviluppo e la qualità igienica.

La qualità igienica è il prerequisito fondamentale che ogni alimento deve rispettare e possedere, ed è
definita come “assenza nell’alimento di qualsiasi elemento tossico, sia chimico che biologico capace di
indurre uno stato di malessere o di malattia nel consumatore”. La tutela della qualità igienica degli alimenti
deve riguardare il totale delle fasi di produzione, a partire dalla produzione delle materie prime fino al
consumo del prodotto finito.
La qualità microbiologica è il nucleo centrale della qualità e sicurezza igienica degli alimenti. Il concetto di
buona qualità microbiologica sottintende materie prime ricevute con un basso contenuto microbico,
operazioni di trasformazione condotte in condizioni igieniche adeguate e, infine, una conservazione del
prodotto in condizioni di temperatura e per tempi adeguati. Col passare del tempo si è passati da un
concetto di qualità inteso come costo aggiuntivo alla QUANTITA’, ad un concetto di qualità inteso come
strumento di vendita a supporto della quantità; le esigenze del consumatore, e quindi la capacità di
soddisfarle (tramite la qualità), diventa la chiave di lettura della produzione alimentare.
Questo nuovo approccio al problema della qualità, ovvero quello di assicurare sempre più la sicurezza e
l’igiene del prodotto finito, ha reso evidente la necessità di estendere il concetto di controllo della qualità
non solo al prodotto finito ma anche a tutto il processo produttivo.
Il controllo di qualità è definito come “le tecniche e le attività a carattere operativo messe in atto per
soddisfare i requisiti di qualità”. Per lungo tempo la qualità del prodotto era valutata con l’analisi del solo
prodotto finito, separando prodotti conformi dai non conformi.
Questo tipo di controllo non garantisce la sicurezza d’uso dell’alimento, in quanto, anche se un singolo
campione dell’alimento che non presenta microrganismi patogeni, ciò non assicura la loro assenza nel resto
del prodotto. L’analisi dei prodotti finiti presentano, dunque, dei limiti:
-i risultati dipendono fortemente dai limiti di campionamento;
-la non conformità prevede revisione del processo e quindi nuove analisi;
-elevata perdita del prodotto (analisi distruttiva);
-i risultati vengono evidenziati dopo che sono stati generati e quindi il prodotto potrebbe essere già stato
commercializzato/consumato;
-le responsabilità non vengono ben individuate, in quanto il personale addetto alle fasi produttive non
viene coinvolto;
-elevato costo.
I limiti del controllo del prodotto finito possono essere superati se a quest’analisi viene aggiunta l’analisi del
processo produttivo. L’assicurazione della qualità è definita come “L’assicurazione della qualità è definita
come “l’insieme delle azioni pianificate e sistematiche necessarie a dare adeguata confidenza che un
prodotto o servizio soddisfi determinati requisiti di qualità”. Il controllo di qualità è perciò solo una
componente di un sistema integrato di assicurazione della qualità.

-ORGANISMI MARKER
Per accertare sia la qualità microbiologica che la sicurezza di un alimento si fa ricorso alla ricerca di
organismi, detti marker, in grado di indicare una situazione potenzialmente pericolosa. Gli “organismi
marker” sono organismi in grado di indicare eventi potenzialmente pericolosi nel corso della produzione,
conservazione e distribuzione di un alimento. Essi sono distinti in due gruppi:
1) organismi INDEX: organismi patogeni la cui presenza indica la presenza di altri patogeni ecologicamente
correlati.
2) organismi INDICATORI: organismi non dannosi in se, ma in grado di dare informazioni sulle condizioni
microbiologiche del prodotto. A loro volta, gli organismi indicatori possono essere distinti in 2 gruppi:
a) organismi indicatori della qualità microbiologica (che risultano utili nella valutazione dell’idoneità delle
condizioni di processo e di conservazione di un alimento);
b) organismi indicatori della sicurezza microbiologica (suggeriscono la possibilità di un pericolo di natura
microbiologica che può compromettere la salute del consumatore).

-indicatori della qualità microbiologica


Sono organismi che possono essere usati per valutare la qualità del prodotto con indicazioni sulla idoneità
delle condizioni di processo e per predire la shelf life del prodotto e quindi avere indicazioni sulle condizioni
di conservazione. Gli indicatori ideali dovrebbero avere questi prerequisiti:
-essere presenti e rilevabili in tutti gli alimenti di cui si vuole accertare la qualità;
-la loro crescita e il loro numero dovrebbe essere correlato negativamente con la qualità del prodotto;
-dovrebbero essere rilevati e numerati facilmente e in tempi brevi ed essere distinguibili da altri
microrganismi;
-la loro crescita non dovrebbe essere influenzata dalla presenza di altri microrganismi della microflora.
Per ogni specifico prodotto si possono individuare uno o più microrganismi correlati con la qualità. Pertanto
è molto più pratico determinare il numero di gruppi di microrganismi che possono fornire informazioni
sullo stato microbiologico e sulle condizioni di processo dell’alimento. Questi gruppi di microrganismi sono
rappresentati dal numero di microrganismi aerobi MESOFILI e dalla famiglia delle Enterobacteriaceae.

La microflora potenzialmente presente in un alimento ha una composizione complessa, in cui sono presenti
microrganismi di natura diversa e con esigenze metaboliche differenti. Quando si usa un terreno nutritivo
per la coltura di microrganismi in laboratorio, non si possono soddisfare le esigenze di tutti i microrganismi
presenti; questo vuol dire che l’analisi tramite coltura è “preferenziale”, cioè valuta la presenza di
microrganismi scelti, per cui non si può parlare di analisi della microflora TOTALE. Ad esempio, quando si
parla di “Microflora aerobia totale” o di “Carica microbica totale”, in genere, si fa riferimento al numero
totale di microrganismi in grado di svilupparsi in aerobiosi e in mesofilia (30°C) in un adatto terreno
nutritivo. Modificando le condizioni di incubazione o del substrato nutritivo, è possibile usare il conteggio
per ricercare in maniera preferenziale alcuni gruppi di microrganismi; è utile, dunque, specificare il tipo o il
gruppo di microrganismi ricercati quando si effettua un’analisi microbiologica.
L’analisi più comune è quella del Conteggio Aerobico Mesofilo (CAM, anche detto “conteggio standard in
piastra”), che può fornire utili indicazioni sullo stato microbiologico di un alimento e sulla sua storia
produttiva. Questi dati aiutano a prevedere lo stato di conservabilità e la comparsa di potenziali fenomeni
alterativi, evidenziando quindi le condizioni di trasformazione e di conservazione. Quando si valutano i
risultati di un conteggio microbico di un alimento è necessario avere idea della popolazione microbica che
ci si aspetta nel punto del processo o della distribuzione in corrispondenza del quale il campione è raccolto.
Il conteggio aerobico mesofilo può dunque essere usato per:
i) valutare la qualità microbiologica di materie prime e di prodotti finiti;
ii) valutare il rispetto delle condizioni igieniche durante il processo di produzione;
iii) valutare se la temperatura a cui un alimento deve essere conservato e distribuito sono rispettate;
valutare i tempi di conservazione (shelf life) di un alimento; determinare i livelli di contaminazione degli
ambienti di processo.

La Famiglia delle Enterobacteriaceae è un gruppo di microrganismi indicatori delle condizioni di processo


cui un alimento è sottoposto. La quantificazione delle Enterobacteriaceae è particolarmente utile se usata
per alimenti che hanno subito trattamenti in grado di controllare i microrganismi patogeni, come
trattamenti termici, congelamento, fermentazioni, additivi. La loro presenza evidenzia dunque la non
corretta applicazione di questi trattamenti. Le caratteristiche generali della famiglia delle
Enterobacteriaceae sono le seguenti: bastoncini Gram - (0,3-1,0x1,6-6,0 µm); mobili per flagelli peritrichi o
immobili; non sporigeni; anaerobi facoltativi; catalasi positivi (ad eccezione di Shigella dysenteriae sierotipo
1); ossidasi negativi. Fermentano il glucosio secondo due vie metaboliche principali:
i) fermentazione acido-mista, con produzione di acido lattico, formico, acetico e succinico e etanolo e gas
(CO2 + H2);
ii) fermentazione butandiolica, con produzione di (acetoino), 2,3-butandiolo, acido lattico, formico e acetico
e etanolo e gas (CO2 + H2).
Possono essere divisi in 3 gruppi:
1) patogeni sensu stricto: germi invasivi ed enterotossici;
2) patogeni opportunisti: provocano malattia quando le difese dell’ospite si riducono;
3) indicatori della qualità e sicurezza alimentare.

-indicatori della sicurezza microbiologica


La loro presenza suggerisce la possibilità di pericolo microbiologico, ossia la presenza di microrganismi
enterici patogeni. Un buon indicatore di contaminazione risponde ai seguenti requisiti:
• dovrebbero essere consistentemente ed esclusivamente associati alla fonte del patogeno;
• dovrebbero essere presenti in numero sufficiente a fornire un’accurata stima della loro densità;
• dovrebbero essere facilmente rivelati e numerati e chiaramente distinguibili da altri microrganismi;
• dovrebbero presentare resistenza a stress ambientali e ai disinfettanti;
• dovrebbero essere sempre presenti quando il patogeno di interesse è presente.
I gruppi di microrganismi usati come indicatori sono i coliformi ed E. Coli, gli streptococchi fecali e i
clostridi solfito-riduttori.
Coliformi: li distinguiamo in 3 gruppi:
-coliformi TOTALI: Gram -, non sporigeni, catalasi positivi, ossidati negativi, capaci di fermentare il lattosio
con produzione di acido e gas in 48h e a temperature di 30-37° C;
-coliformi FECALI: stesse proprietà dei coliformi totali ma anche a temperature di 44,5° C;
-E. Coli: coliforme fecale che, quando saggiato per la capacità di produrre indolo da triptofano (I), per la
reazione al rosso-metile (M), per la reazione al test di Voges-Proskauer (V) e per la capacità di crescere sul
terreno Citrato agar (C), presenta le seguenti proprietà I(+) , M(+), V(-) e C(-).
A parte E. Coli, i coliformi hanno una vita prevalentemente saprofitaria ambientale; la loro presenza non
indica per forza contaminazione fecale o la presenza di microrganismi patogeni.
E. Coli è, invece, attualmente l’indicatore di contaminazione fecale più usato. Il presupposto è che data
l’origine intestinale del microrganismo, una sua presenza in un alimento o nell’acqua indica una
contaminazione appunto di tipo fecale, con possibile presenza di altri microrganismi patogeni. La presenza
di E. Coli denota una non appropriata applicazione della tecnologia o una ri-contaminazione post processo,
dettata da una mancata applicazione delle norme di corretta prassi igienica. Ad ogni modo, l’assenza di E.
Coli da un alimento non esclude la presenza di altri microrganismi patogeni enterici.
Streptococchi fecali: batteri di forma coccica, le cui cellule formano catene lunghe da due a decine di
elementi, Gram positivi, catalasi negativi, ossidasi negativi, non sporigeni, con metabolismo
omofermentativo e capaci di crescere in presenza di sali biliari. Al gruppo appartengono i generi
Streptococcus, Enterococcus e Lactococcus; sono classificato in gruppi dalla A alla O. Le specie fecali
appartengono al genere Enterococcus e al gruppo antigeno-specifico D. Altre caratteristiche di questi
microrganismi sono la loro capacità di svilupparsi in brodo incubato a 10 e a 45°C, la capacità di svilupparsi
in brodo contenente il 6,5% di NaCl e in brodo a pH 9,6.
Non si ritrovano solo nel tratto intestinale, ma sono molto diffusi per via della loro alta resistenza a
condizioni anche stressanti. Rappresentano un buon indicatore di potabilità dell’acqua, ma il loro impiego
come indicatore di contaminazione fecale per alimenti fermentati è discutibile. Accettabile resta il loro
impiego come indicatori di ri-contaminazione post processo (calore, essiccazione, congelamento
prolungato ecc.). Presentano alta resistenza ai trattamenti di sanificazione delle superfici e degli impianti;
da una buona resistenza all’acidità, alle T di congelamento e ai processi di essiccazione. Inoltre sono
termodurici, psicrotrofici e capaci di svilupparsi in presenza di concentrazioni di NaCl comprese tra 7 e 10%.
Clostridi solfito-riduttori: gruppo di batteri di forma bastoncellare, Gram positivi, sporigeni, anaerobi, in
grado di ridurre i composti ossidati dello zolfo (solfiti) a idrogeno solforato (solfuro). Crescono a T comprese
tra 0 e 50° C, e a pH esclusivamente superiore a 5. Si trovano comunemente nel suolo e nelle acque così
come nel tratto intestinale dell’uomo e di animali e nelle feci. Le spore sono molto resistenti ai trattamenti
tecnologici e possono sopravvivere nell’ambiente per lunghi periodi. La loro presenza, ed in particolare di C.
perfringens, negli alimenti e soprattutto nelle acque è indice di contaminazione fecale.

-IL SISTEMA HACCP


L’esigenza di garantire la sicurezza degli alimenti ha portato all’emanazione di norme a livello comunitario,
dovute alla necessità delle imprese produttive di individuare i possibili pericoli che si presentano durante
l’intero ciclo produttivo, evidenziando ogni fase che potrebbe rivelarsi critica per la sicurezza degli alimenti.
Le norme possono essere:
-a carattere verticale, ossia che disciplinano singoli prodotti o settori produttivi;
-a carattere orizzontale, ossia che regolano aspetti generali comuni a tutti i settori produttivi o a tutti i
prodotti.
Le finalità dei regolamenti CE sono quelle di garantire un alto livello di sicurezza e qualità alimentare
nell’ambito dell’Unione Europea e dei paesi terzi che esportano verso i paesi dell’UE.
REGOLAMENTO (CE) N. 178/2002 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 28 gennaio 2002 che
stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l'Autorità europea per la
sicurezza alimentare e fissa procedure nel settore della sicurezza alimentare;
REGOLAMENTO (CE) N. 183/2005 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 12 gennaio 2005 che
stabilisce requisiti per l’igiene dei mangimi;
REGOLAMENTO (CE) N. 852/2004 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 29 aprile 2004
sull’igiene dei prodotti alimentari;
REGOLAMENTO (CE) N. 853/2004 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 29 aprile 2004 che
stabilisce norme specifiche in materia di igiene per gli alimenti di origine animale;
REGOLAMENTO (CE) N. 854/2004 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 29 aprile 2004 che
stabilisce norme specifiche per l’organizzazione di controlli ufficiali sui prodotti di origine animale destinati
al consumo umano;
REGOLAMENTO (CE) N. 882/2004 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 29 aprile 2004
relativo ai controlli ufficiali intesi a verificare la conformità alla normativa in materia di mangimi e di
alimenti e alle norme sulla salute e sul benessere degli animali;
REGOLAMENTO (CE) N. 2074/2005 DELLA COMMISSIONE del 5 dicembre 2005 recante modalità di
attuazione relative a taluni prodotti di cui al regolamento (CE) n. 853/2004 del Parlamento europeo e del
Consiglio e all'organizzazione di controlli ufficiali a norma dei regolamenti del Parlamento europeo e del
Consiglio (CE) n. 854/2004 e (CE) n. 882/2004, deroga al regolamento (CE) n. 852/2004 del Parlamento
europeo e del Consiglio e modifica dei regolamenti (CE) n. 853/2004 e (CE) n. 854/2004;
REGOLAMENTO (CE) N. 2073/2005 DELLA COMMISSIONE del 15 novembre 2005 sui criteri microbiologici
applicabili ai prodotti alimentari.

Il Regolamento CE n. 852/2004 stabilisce norme generali in materia di igiene dei prodotti alimentari
destinate agli operatori del settore alimentare, tenendo conto in particolare dei seguenti principi:
a) la responsabilità per la sicurezza alimentare incombe agli operatori del settore;
b) la sicurezza va garantita lungo tutta la catena produttiva;
c) è importante il mantenimento della catena del freddo per gli alimenti che non possono essere
immagazzinati a temperatura ambiente;
d) le procedure dell’HACCP dovrebbero accrescere le responsabilità degli operatori;
e) l’importanza dei manuali di corretta prassi igienica;
f) valutazione scientifica nel determinare criteri microbiologici e di controllo delle temperature;
g) gli alimenti importati devono avere gli stessi requisiti di quelli prodotti nella CE.
Il regolamento si applica a tutte le fasi di produzione primaria, con cui si intende “tutte le fasi della
produzione, dell'allevamento o della coltivazione di prodotti primari, compresi il raccolto, la mungitura e la
produzione zootecnica precedente la macellazione e comprese la caccia e la pesca e la raccolta di prodotti
selvatici”.
Questo regolamento non si applica:
a) alla produzione primaria per uso domestico privato;
b) alla preparazione, alla manipolazione e alla conservazione domestica di alimenti destinati al consumo
domestico privato;
c) alla fornitura diretta di piccoli quantitativi di prodotti primari dal produttore al consumatore finale o a
dettaglianti locali che forniscono direttamente il consumatore finale.
d) ai centri di raccolta e alle concerie che rientrano nella definizione di impresa del settore alimentare solo
perché trattano materie prime per la produzione di gelatina o di collagene.

Gli operatori del settore alimentare predispongono, attuano e mantengono una o più procedure
permanenti, basate sui principi del sistema HACCP. L’HACCP è un approccio sistematico di identificazione e
valutazione dei pericoli e rischi associati con ogni fase della catena produttiva, con successiva definizione
delle misure di controllo. L’applicazione dell’HACCP a tutta la catena alimentare, consente un miglior uso
delle risorse disponibili, facilita l’ispezione da parte degli organi incaricati del controllo ufficiale e promuove
gli scambi commerciali.
Esso si basa sui seguenti principi:
1) Identificazione ed analisi delle condizioni di pericolo, misurandone la possibile gravità (severity) e la
probabilità di comparsa (risk);
2) Individuazione dei punti critici di controllo (Critical Control Points, CCP);
3) Specificazione dei criteri di prevenzione, cioè dei limiti critici entro i quali deve svolgersi l’operazione atta
ad assicurare che un CCP sia sotto controllo;
4) Specificazione delle procedure per effettuare il monitoraggio dei punti critici di controllo;
5) Specificazione e adozione delle azioni correttive da intraprendere quando i risultati del monitoraggio
individuano che un CCP non è più sotto controllo;
6) Specificazione delle procedure per la verifica che il sistema HACCP è effettivamente operante;
7) Definizione e specificazione della documentazione relativa a tutte le procedure adottate.

-fasi preliminari all’applicazione del sistema HACCP


Prima dell’applicazione del sistema, è necessario costituire il gruppo di lavoro HACCP, formato sia da
personale coinvolto nei processi produttivi, sia da tecnici esterni con competenze riguardo i processi di
trasformazione. Il gruppo così costituito ha la responsabilità di redigere il piano HACCP per lo specifico
processo-prodotto. Successivamente, è necessaria una descrizione del prodotto, del metodo di
distribuzione e del suo uso finale, rispondendo a domande come nome comune, modalità di consumo, tipo
di confezionamento, tempo e condizioni di conservazione, dove viene venduto, come viene distribuito, da
chi viene consumato e come viene consumato.
Ultima fase preliminare è lo sviluppo di un diagramma di flusso relativo al processo di trasformazione del
prodotto, a partire dalle materie prime fino al consumo.
Il gruppo deve, inoltre, prendere in considerazione gli aspetti di carattere strutturale e gestionale
dell’azienda, verificando essenzialmente la rispondenza delle strutture aziendali a prescrizioni ben precise e
l’applicazione, nelle attività produttive, delle norme di buona fabbricazione.
Sono molto importanti corsi di addestramento ed educazione del personale coinvolto al fine di una loro
sensibilizzazione al problema dell’igiene. Il sistema HACCP deve essere sviluppato per ogni singola azienda.

-identificazione e valutazione del rischio


Iniziamo con alcune definizioni.
pericolo o elemento di pericolo: agente biologico, chimico o fisico contenuto in un alimento o mangime, in
grado di provocare un effetto nocivo sulla salute;
rischio: funzione della gravità e della probabilità di un effetto nocivo sulla salute, conseguente alla presenza
di un pericolo;
probabilità: possibilità che un evento negativo avvenga;
analisi del rischio: processo che comprende valutazione (individuazione, caratterizzazione ed esposizione al
pericolo; caratterizzazione del rischio), gestione (esaminare alternative d’intervento tenendo conto della
valutazione del rischio e compiendo adeguate scelte di prevenzione e controllo) e comunicazione del rischio
(lo scambio interattivo di informazioni e pareri riguardanti gli elementi di pericolo e i rischi, i fattori connessi
al rischio e la percezione del rischio).

L’identificazione e l’analisi dei pericoli costituisce la prima fase dell’applicazione dell’HACCP. Il pericolo è
qualsiasi sostanza o situazione che può compromettere la sicurezza di un alimento e quindi in grado di
causare danni alla salute del consumatore. L’analisi dei pericoli ha diverse finalità, tra cui l’individuazione
dei pericoli più significativi e delle misure preventive più idonee a controllarli, la modificazione di una fase,
di un processo o di un prodotto al fine di assicurare o migliorare la sicurezza dello stesso e l’utilizzo dei dati
acquisiti per individuare i punti critici di controllo. Le fonti dei pericoli sono varie, potendo derivare dalle
materie prime, dagli ingredienti e coadiuvanti tecnologici, dal personale, dalle tecnologie impiegate, dai
materiali per gli imballaggi ecc.. I pericoli possono essere di natura chimica, fisica o biologica.
Quindi l’analisi dei pericoli comincia con la loro identificazione, ovvero indicando qualitativamente i pericoli
potenziali associati con la produzione di un determinato alimento. Di questi pericoli vanno poi stimati il
rischio di comparsa di effetti indesiderati e la sua gravità, ovvero la grandezza delle conseguenze negative
sulla salute. Questi ultimi 2 criteri (rischio e gravità) permettono di classificare i pericoli in base alla loro
entità (alta, media e bassa). Sono richieste conoscenze approfondite sugli agenti causali e loro modalità di
trasmissione e comportamento negli alimenti.
L’identificazione di pericoli di natura biologica inizia con l’analisi dei dati epidemiologici, che danno
informazioni (relative ai pericoli) sulla frequenza di contaminazione di materie prime e prodotti finiti,
frequenza di casi epidemici legati a quello specifico sistema pericolo/alimento, e le condizioni che hanno
favorito l’episodio epidemico. Da questi dati è possibile compilare una lista di potenziali microrganismi
patogeni che sono stati responsabili di episodi di malattie alimentari. Nell’analisi dei pericoli è inoltre
necessario fare una valutazione di tutte le procedure connesse con la produzione, la distribuzione e l’uso
delle materie prime e dei prodotti allo scopo di individuare materie prime, ingredienti e alimenti
potenzialmente a rischio, individuare le fonti di contaminazione, determinare il modo in cui i microrganismi
sopravvivono e si sviluppano lungo le fasi produttive, accertare i rischi e la gravità dei pericoli identificati.
Grande importanza va data all’esame di tutti i fattori di contaminazione, sopravvivenza e crescita dei
microrganismi in relazione alle caratteristiche dell’alimento e alle condizioni di processo a cui è sottoposto.
L’ENTITA’ R di un rischio si può calcolare tramite il prodotto tra la probabilità che il rischio di verifichi P e la
natura delle conseguenze D
R=DxP
Per quantificare numericamente l’analisi dei rischi, si possono attribuire dei coefficienti sia all’entità che alla
frequenza di comparsa dei danni (alta, media o bassa).
Per facilitare l’identificazione di microrganismi potenzialmente dannosi, è conveniente per prima cosa
elaborare una lista di microrganismi conosciuti o sospettati come causa di malattie di origine alimentare,
selezionando quelli più rilevanti sulla base di tali considerazioni:
- patogeni che sono stati implicati in episodi tossi-infettivi in seguito al consumo di alimenti identici o simili
a quello in esame;
- microrganismi che possono essere presenti nelle materie prime e negli ingredienti usati;
- microrganismi patogeni per l’uomo che possono ricontaminare il prodotto finito.
Dalla lista di patogeni stilata si selezionano i microrganismi patogeni in base alle conoscenze sul loro
comportamento negli alimenti in condizioni di normale applicazione delle norme di corretta prassi igienica.
Una volta individuate le cause di contaminazione e proliferazione microbica, vanno stabiliti dei sistemi di
prevenzione documentati, volti a eliminare o ridurre la probabilità di insorgenza di un pericolo, fino a livelli
accettabili. La maggior parte delle cause di contaminazione diffusa o aspecifica possono essere controllate
con l’applicazione delle procedure di corretta prassi igienica, quali manutenzione, detergenza e disinfezione
delle strutture, degli impianti e delle attrezzature; igiene e formazione del personale; approvvigionamento
idrico e gestione dei rifiuti; lotta agli insetti e animali infestanti. Queste procedure (dette di autocontrollo)
sono documenti che descrivono le modalità di esecuzione di una specifica operazione o di una specifica
attività.

-individuazione dei punti critici di controllo (CCP)


Una volta identificati i pericoli, è necessario individuare i punti critici di controllo, ovvero le fasi o le
procedure del processo produttivo in cui è necessario e possibile attuare un’azione di controllo al fine di
prevenire o ridurre a limiti accettabili un pericolo relativo alla sicurezza dell’alimento. L’identificazione di
ogni CCP può essere facilitata impiegando l’albero delle decisioni. Analizzando il processo secondo tale
procedura, è possibile individuare la presenza di una fase, un punto o una operazione che consenta di
controllare un determinato pericolo individuato.
In genere vengono distinti due tipi di CCP: CCP1, per i quali le misure di controllo eliminano completamente
il pericolo; CCP2, per i quali le misure di controllo minimizzano il pericolo, senza garantire una sua
eliminazione. Non tutti i pericoli necessitano, però, di un sistema di controllo: molto spesso una misura di
controllo adottata a livello di un punto critico riduce o elimina la necessità di adottarne altre a livello di
punti precedenti del processo. Solo i pericoli potenziali che presentano una ragionevole probabilità di
causare malattia o danno per il consumatore in assenza di un loro controllo vanno considerati
nell’individuazione dei CCP. Pericoli per i quali il controllo è necessario ma non critico possono essere
agevolmente ed efficacemente controllati dalla puntuale applicazione delle norme di buona fabbricazione
(GMP). Aziende che producono alimenti simili possono differire nell’analisi dei pericoli e delle fasi che
possono essere considerate CCP. Per cui i punti critici di controllo vanno determinati per ogni singolo
stabilimento e processo e devono essere accuratamente documentati. Di conseguenza, ecco i requisiti per
definire una fase del processo come un CCP:
a) L’operazione deve essere tale che un’azione appropriata risulti in grado di prevenire, eliminare o almeno
di minimizzare uno o più pericoli;
b) La gravità delle conseguenze associate ad un pericolo deve essere considerata alta o almeno media;
c) I punti critici di controllo devono poter essere monitorati prima e durante le fasi del processo;
d) Misure appropriate devono poter essere prese quando i risultati del monitoraggio indicano che i criteri
specificati non sono stati soddisfatti.
-individuazione dei limiti critici
I limiti critici sono rappresentati dai valori estremi tollerabili (minimi e/o massimi) a cui un parametro di
natura biologica, chimica o fisica deve essere controllato per garantire la sicurezza del prodotto. Essi, infatti,
sono usati per distinguere tra condizioni operative sicure e insicure a livello di uno specifico CCP. I limiti
critici sono basati su parametri osservabili o misurabili, come i rapporti tempo/temperatura caratteristici
per i trattamenti termici, il pH, il tenore di acqua, il tenore di additivi, di conservanti, di sale, di attività
dell’acqua, di acidità titolabile, ecc. I valori dei limiti critici possono essere ricavati da varie fonti, come
riferimenti legislativi, dalla letteratura scientifica o da risultati sperimentali. Quando queste informazioni
mancano, i limiti critici vanno stabiliti dal gruppo di lavoro e verificati nella pratica, tramite i “challenge
test” (CT) e “storage test” (ST) microbiologici, che consentono di valutare il comportamento di
microrganismi patogeni o alterativi, mediante contaminazione dell’alimento, nelle condizioni in cui si svolge
il processo di produzione. E’ molto importante, inoltre, individuare preventivamente il/i responsabili addetti
al monitoraggio dei punti critici di controllo, che devono essere specificamente addestrati sulle operazioni
di cui sono responsabili. Nel programma di monitoraggio, contemporaneamente alle misure da accertare, è
necessario stabilire le azioni correttive da mettere in atto quando il monitoraggio indica che i limiti critici
specificati per tenere sotto controllo un CCP sono stati superati. Il superamento di tali valori indica che un
particolare CCP non è sotto controllo.
Le azioni correttive dovrebbero includere i seguenti elementi:
• determinare e correggere le cause di discordanza dai valori limiti prefissati;
• le azioni da intraprendere per assicurare che il CCP sia stato riportato entro i limiti critici;
• le misure da adottare per i prodotti fabbricati durante il periodo in cui la situazione è rimasta
incontrollata;
• la documentazione scritta dei provvedimenti presi.

-verifica
La verifica comprende l’insieme delle attività atte a determinare se il piano HACCP sviluppato funziona
correttamente e se consente di raggiungere gli obiettivi per i quali è stato implementato. Ciò comporta la
verifica di come e se tutti i pericoli per quel determinato prodotto-processo siano stati identificati e
analizzati e se possono essere controllati efficacemente; se i punti critici di controllo, i relativi limiti critici e
le procedure di monitoraggio siano concretamente in grado di tenere sotto controllo gli eventuali pericoli.
Verifiche del sistema HACCP impostato vanno effettuate ogni volta che c’è un cambiamento nelle
procedure o nei limiti critici impostati. Inoltre è buona norma sottoporre a revisioni periodiche l’intero
piano HACCP, anche in condizioni di efficace operatività del sistema. Le attività di verifica possono essere
fatte da personale interno all’azienda, da una terza parte o dalle autorità addette al controllo ufficiale.

-documentazione
L’efficacia del sistema HACCP impostato va dimostrata tramite documentazione scritta, costituita da schede
e registri dove sono riportate tutte le prescrizioni del sistema impostato, i risultati relativi alle operazioni di
monitoraggio, e lo stato generale dei locali in modo da poter rivedere i dati su base storica. La
documentazione deve essere a disposizione dei responsabili del Controllo Qualità e delle Autorità di
controllo.
L’applicazione dei principi dell’HACCP può essere facilitata, utilizzando come guida volontaria i manuali di
corretta prassi operativa. I manuali di corretta prassi costituiscono uno strumento prezioso per aiutare gli
operatori del settore alimentare nell'osservanza delle norme d'igiene a tutti i livelli della catena alimentare
e nell'applicazione dei principi del sistema HACCP. Detti manuali devono intendersi come documenti
orientativi e di indirizzo metodologico, generali per tipologia di prodotto e comprendenti le linee guida di
corretta prassi igienica per l’applicazione delle procedure di autocontrollo.
1) I manuali nazionali o comunitari dovrebbero contenere orientamenti per una corretta prassi igienica ai
fini del controllo dei rischi nella produzione primaria e nelle operazioni associate.
2) I manuali di corretta prassi igienica dovrebbero contenere informazioni adeguate sui pericoli che
possono insorgere nella produzione primaria e nelle operazioni associate e sulle azioni di controllo dei
pericoli, comprese le misure pertinenti previste dalla normativa comunitaria e nazionale o dai programmi
comunitari e nazionali. Tra tali pericoli e misure figurano ad esempio:
a) il controllo della contaminazione dovuta a micotossine, metalli pesanti e materiale radioattivo;
b) l'uso di acqua, rifiuti organici e prodotti fertilizzanti;
c) l'uso corretto e adeguato di prodotti fitosanitari e biocidi e loro rintracciabilità;
d) l'uso corretto e adeguato di prodotti medicinali veterinari e di additivi dei mangimi e loro rintracciabilità;
e) la preparazione, il magazzinaggio, l'uso e la rintracciabilità dei mangimi;
f) l'adeguata eliminazione di animali morti, rifiuti e strame;
g) le misure protettive volte a evitare l'introduzione di malattie contagiose trasmissibili all'uomo tramite gli
alimenti, nonché l'obbligo di informarne le autorità competenti;
h) le procedure, le prassi e i metodi per garantire che l'alimento sia prodotto, manipolato, imballato,
immagazzinato e trasportato in condizioni igieniche adeguate, compresi la pulizia accurata e il controllo
degli animali infestanti;
i) le misure concernenti la pulizia degli animali da macello e da produzione;
j) le misure concernenti la tenuta delle registrazioni.

Capitolo 8 – ALTERAZIONI MICROBICHE DEGLI ALIMENTI E ORGANISMI ANTI-


TECNOLOGICI E ALTERATIVI
L’alterazione di un alimento può essere definita come qualsiasi cambiamento che rende un prodotto
inaccettabile per il consumo umano. L’alterazione di un è dunque il risultato dell’attività microbica di una
grande varietà di microrganismi, il cui numero e composizione speciografica risulta strettamente
dipendente dalle caratteristiche del prodotto e dalle condizioni ecologiche che in esso si realizzano nel
corso della sua trasformazione e conservazione.
In genere soltanto una parte della popolazione totale di microrganismi in un alimento partecipa
all’alterazione. Questa microflora è denominata come Organismi Alterativi Specifici (Specific Spoilage
Organisms - SSO). Inizialmente gli SSO sono presenti in bassa concentrazione. Durante la conservazione gli
SSO crescono più rapidamente della restante microflora e producono odori e sapori anomali associati con
l’alterazione. Il numero di SSO alla comparsa dell’alterazione può essere definito come il livello minimo di
alterazione e i metaboliti prodotti potrebbero essere usati come indice chimico di alterazione dell’alimento.
La crescita di microrganismi negli alimenti è legata alla trasformazione di alcuni componenti dell’alimento
stesso, quali carboidrati, proteine, peptidi, composti azotati e lipidi. E’ possibile quindi dire che la natura
delle alterazioni di un alimento dipende da: quantità e tipi di nutrienti presenti; tipi di microrganismi capaci
di crescere nelle condizioni dell’alimento e tipo di metabolismo microbico. I cambiamenti imputabili ai
microrganismi riguardano:
• colore: produzione di pigmenti o ossidazione di composti naturali colorati;
• odore: produzione di composti volatili;
• struttura: degradazione di pectina nei vegetali per azione di pectinasi; rammollamenti dei tessuti della
carne per azione di enzimi proteolitici; coagulazione del latte per azione di proteinasi;
• produzione di gas (CO2, H2, H2S): mucillagine; accumulo di acqua.

-modificazioni a carico di proteine e amminoacidi


Azioni legate ai processi tecnologici: alte temperature, pH, essiccamento spinto, radiazioni ionizzanti,
trattamenti meccanici.
Denaturazione proteine: modificazione della struttura secondaria, terziaria e quaternaria (struttura
primaria intatta). I trattamenti termici sono la causa principale, in quanto determinano la rottura dei legami
che stabilizzano la forma nativa delle proteine. Altri trattamenti come il congelamento, essiccamento,
manipolazione meccanica, gli ultrasuoni, le radiazioni ionizzanti o i trattamenti meccanici come
l'impastamento e la laminazione possono denaturare le proteine. La denaturazione delle proteine
comporta una diminuzione della solubilità, aggregazione e coagulazione, variazione delle proprietà
elettrochimiche e di idratazione, maggiore sensibilità agli enzimi proteolitici.
Modificazione della catena laterale degli AA: desulfidrilazione di cisteina e costina con produzione di H2S;
deaminazione con produzione di NH3;
Reazione di Maillard: sapore di cotto e cambiamenti di colore (grigio) dovuto ad una glicazione delle
proteine;
Putrefazione (fermentazione): : processi anaerobici di natura microbica che comprendono l’idrolisi delle
proteine e la successiva degradazione degli amminoacidi. Si formano prodotti di cattivo odore, attraverso
processi chimici quali la produzione di indolo a partire dal triptofano, la produzione di NH3 per
deamminazione, la desulfidrilazione della cisteina e la decarbossilazione dell’arginina.

-modificazioni a carico dei lipidi


L’idrolisi comporta la rottura del legame estere con la conseguente liberazione di acidi grassi liberi. Le
reazioni avvengono in presenza di acqua e sono catalizzate da vari fattori quali: enzimi costitutivi o di
origine microbica; un ambiente acido o basico. L’irrancidimento di un grasso comporta la formazione di
odori e sapori sgradevoli che ne compromettono la qualità sia dal punto di vista sensoriale che nutrizionale.
L’irrancidimento ossidativo è una conseguenza di reazioni tra ossigeno atmosferico e acidi grassi, con
produzione di prodotti primari (idroperossidi) inodori, che possono decomporsi ulteriormente generando
composti più piccoli (aldeidi, chetoni, alcoli ecc…) responsabili dell’aroma di rancido.

-modificazioni a carico dei carboidrati


Fermentazioni: quando non guidate, possono rappresentare una forma di alterazione alimentare, con
formazione di odori e sapori sgradevoli.

-PRINCIPALI MICRORGANISMI ALTERATIVI


a) Batteri Gram-negativi: Pseudomonas spp., Xanthomonas spp., Shewanella spp., Famiglia
Enterobacteriaceae.
Pseudomonas: Sono bastoncini diritti o curvi, Gram-negativi, aerobi, catalasi e ossidasi positivi, non
sporigeni e generalmente mobili per flagelli polari. Hanno metabolismo respiratorio (mai fermentativo).
Sono tipici microrganismi psicrotrofici in grado di crescere a temperature comprese tra 4 e 43°C. Sono
largamente diffusi nel suolo e nelle acque e sulla superficie di piante e animali. Sono tra i più comuni agenti
alterativi degli alimenti, tra cui carne, latte e derivate, pesce e vegetali.
Xanthomonas: appartiene alla famiglia delle Pseudomonadaceae. Produce un pigmento giallo e colonie
mucose su agar, caratteristiche che aiutano a distinguerlo da Pseudomonas. Determina alterazioni di frutta
e vegetali.
Shewanella putrefaciens: bastoncino Gram-negativo e ossidasi positivo della famiglia delle
Pseudomonadaceae. Si trova in una grande varietà di alimenti (carne, pesce) dove causa alterazioni con
produzione di H2S e di odori e sapori sgradevoli.
Enterobacteriaceae: possono contaminare la maggior parte degli alimenti. Le alterazioni causate sono
strettamente legate al loro metabolismo con produzione di vari composti volatili (H2S, NH3, TMA, dimetil
sulfuro. diacetile, ecc.) e alla produzione di enzimi proteolitici. In carne e pesce, dalla decarbossilazione di
amminoacidi producono ammine biogene come putrescina, cadaverina e istamina. Dalla fermentazione del
glucosio producono acidi e gas determinando nei formaggi alterazioni di gonfiore precoce.

b) Batteri Gram-positivi sporigeni


Bacillus: Bastoncini sporigeni Gram-positivi, aerobi o anaerobi facoltativi, generalmente catalasi positivi.
Sono microrganismi largamente distribuiti nell’ambiente che contaminano la gran parte di alimenti vegetali
e animali. Alcune specie sono patogene (B. cereus, B. anthracis) o potenzialmente ritenute tali. Le principali
specie alterative includono B. licheniformis, B. pumilis, B. brevis, B.subtilis, B. coagulans, B. circulans. La loro
capacità di produrre alterazioni è dovuta alla produzione di enzimi proteolitici, lipolitici, pectinolitici e a
fosfolipasi. Le specie termofile (Bacillus - Geobacillus – stearothermophilus) e termofile facoltative (B.
coagulans) hanno una grande importanza nelle alterazioni di alimenti inscatolati. Il tipo di alterazione è
nota come flat sours (acidificazione piatta), dove si ha produzione di acidi (lattico, acetico, formico) senza o
con debole produzione di gas, accompagnata da odori e sapori sgradevoli. Le specie di Bacillus determinano
inoltre alterazioni di prodotti che hanno subito trattamenti termici non sufficienti ad eliminare le spore,
come latte pastorizzato e UHT, vegetali e carni. Un altro genere di batteri sporigeni anaerobi facoltativi è
Alyciclobacillus, che determina alterazione di prodotti con pH anche molto bassi (< a 3,8), come frutta e
succhi di frutta, impartendogli sapore di medicinali.
Clostridium: Bastoncini Gram-positivi sporigeni, mobili per flagelli peritrichi o immobili, anaerobi stretti e
catalasi negativi. Sono presenti come microflora naturale del terreno. L’alterazione è dovuta alle loro
attività saccarolitiche o proteolitiche e si manifesta attraverso la produzione di acidi, gas e odori sgradevoli.
I Clostridi saccarolitici sono non patogeni e/o tossinogeni e non putrefacenti. Operano fermentazioni
gasogene, e in presenza di acido acetico fermentano anche l’acido lattico. Cl. butyricum è responsabile di
alterazioni di formaggi, latte condensato e alimenti in scatola con pH>a 4,6. Può produrre acido butirrico nel
vino conferendogli sapore di rancido. Cl. tyrobutyricum è la principale causa dell’alterazione dei formaggi a
lunga stagionatura definita “gonfiore tardivo”.
I Clostridi proteolitici sono molto attivi sugli amminoacidi, alterando una vasta gamma di alimenti come
formaggi, carne cotta, e vegetali e pesce in scatola. I Clostridi proteolitici-saccarolitici (Clostridium
bifermentans) alterano gli alimenti con formazione di odori e sapori sgradevoli associati alla fermentazione
degli amminoacidi.

c) Batteri Gram-positivi non sporigeni: batteri lattici e Brochotrix thermosphacta.


Batteri lattici: Possono alterare una vasta gamma di alimenti. Nel vino determinano alterazioni del sapore e
della struttura come agrodolce, girato, filante. Nella carne conservata sottovuoto e in atmosfera modificata.
determinano sapori atipici di formaggio e di acido. In prodotti carnei come i salumi cotti determinano
inverdimento superficiale e inacidimento. Altre alterazioni possono riguardare fenomeni viscosità
superficiali, il rigonfiamento di prodotti in scatola , la produzione di sostanze mucillaginose.
Brochothrix thermosphacta: Bastoncino pleomorfo, catalasi positivo, anaerobio facoltativo in grado di
svilupparsi a basse temperature (0-30°C). Si ritrova nel terreno e nelle acque e su una vasta gamma di
prodotti alimentari. E’ considerato uno dei principali microrganismi alterativi di carne conservata sia
aerobicamente che in MAP. L’alterazione è imputabile alla produzione di diacetile e di acidi grassi dalla
utilizzazione aerobica del glucosio, che conferiscono agli alimenti odori e sapori di acido e burro.

-CONCLUSIONE
La conservazione dei prodotti alimentari deve essere basata sull’azione combinata e sinergica di diversi
trattamenti con l’obiettivo di ostacolare i microrganismi e ritardare la comparsa di alterazioni.

Capitolo 9 – MALATTIE MICROBICHE TRASMESSE CON GLI ALIMENTI


Una malattia trasmessa con gli alimenti può essere definita come “qualsiasi malattia che risulta
dall’ingestione di alimenti contenenti elementi tossici di natura chimica e/o biologica”.
Le malattie conseguenti all’ingestione di alimenti comprendono anche disordini alimentari quali allergie,
intolleranze e malattie nutrizionali le quali risultano dall’ingestione di alimenti normali da parte di persone
predisposte a tali disordini e quindi già malate. La lista delle malattie acute associate ad un vettore
alimentare è aumentata drammaticamente negli ultimi anni. Sostanze chimiche, virus, batteri e/o loro
tossine e parassiti possono tutti essere trasmessi con gli alimenti e possono determinare nell’uomo diverse
malattie acute come epatiti e malattie gastro-intestinali e respiratorie.
Le malattie più comunemente trasmesse attraverso gli alimenti possono essere classificate come
avvelenamenti e infezioni. E’ necessario rilevare come la maggior parte delle malattie trasmesse attraverso
gli alimenti possono anche essere trasmesse per altre vie, in particolare attraverso il contatto diretto
persona-persona. Le basi per poter determinare che una malattia è trasmessa con gli alimenti sono:
-il rilevamento dell’agente che causa la malattia in un campione dell’alimento che la persona colpita ha
consumato;
-la malattia colpisce un gruppo di persone che hanno in comune il fatto di aver consumato lo stesso
alimento;
-la trasmissione per via alimentare potrebbe essere dedotta dal fatto che la malattia causa disturbi a livello
gastro-intestinale (anche se non è per forza così);
-la trasmissione per via alimentare di una malattia potrebbe essere sospettata quando essa è nota come
essere normalmente trasmessa in questo modo.
L’impatto sociale ed economico delle malattie di origine alimentare può essere profondo; la sofferenza
della persona colpita può avere un impatto negativo sulla società in generale e le conseguenze delle azioni
di legge intraprese si ripercuotono negativamente sugli affari causando la perdita di considerevoli quantità
di alimenti; le perdite economiche possono essere notevoli, non solo per le industrie, ma anche per gli
organismi incaricati delle indagini epidemiologiche e per gli enti adibiti alla cura delle persone colpite.
L’insorgere di una malattia alimentare costituisce, inoltre, un rilevante problema di sanità pubblica, in
quanto le autorità sanitarie competenti devono attuare programmi di sorveglianza e vigilanza per
proteggere la popolazione da queste malattie.
I programmi di sorveglianza delle malattie provocate da alimenti hanno il fine di individuare episodi
epidemici di malattie associate al consumo di alimenti, ovvero un evento in cui due o più persone
presentano la stessa malattia in seguito all’ingestione dello stesso alimento.
Tali programmi sono condotti con una serie di fasi che comprendono l’individuazione degli alimenti
coinvolti, il rilevamento dei sintomi, la raccolta dei dati sugli agenti eziologici implicati, la determinazione
dei fattori di contaminazione, l’adozione di misure atte a circoscrivere l’episodio, la raccolta e l’elaborazione
di dati analitici, la preparazione del rapporto conclusivo e l’emanazione di regolamenti e leggi atte a
prevenire episodi simili.
Una volta individuato l’alimento coinvolto in un episodio alimentare, si possono prevenire nuovi casi,
bloccando la distribuzione e la vendita dello stesso alimento. I dati delle indagini sugli episodi vengono usati
a fini preventivi con l’emanazione di regolamenti e leggi che forniscono all’industria alimentare le
procedure più idonee da adottare durante tutte le fasi della produzione. Dai dati epidemiologici si potranno
infine avere informazioni sui pericoli e sui punti critici di controllo di un particolare processo produttivo e
sui metodi appropriati per il loro controllo. Dunque, tali dati sono di fondamentale importanza
nell’applicazione dell’HACCP nella produzione di alimenti simili a quelli che sono stati oggetto di indagine.

-INFEZIONI E INTOSSICAZIONI ALIMENTARI CAUSATE DA BATTERI


Oltre il 70% degli episodi di malattie alimentari è causato da batteri. Le malattie di origine batteriche
trasmesse con gli alimenti rappresentano dunque il problema principale della sicurezza degli alimenti.
Consideriamo i dati del 2013. La zoonosi più comune era la campylobatteriosi, e la carne di pollo
continuava ad essere la fonte principale di Campylobacter (mortalità dello 0,05%). Per quanto riguarda la
salmonellosi, la carne di pollame era quella maggiormente contaminata, seguita da carne di pollo, suino e
bovino. La mortalità risultava dello 0,05%. Per la listeriosi, L. monocytogenes è l’agente causale,
principalmente ritrovato negli alimenti pronti per il consumo. Nel 2013 la mortalità era del 15,6%. Nel
periodo 2009-2013 il numero di casi di yersiniosi diminuiva, con Yersinia enterocolitica come principale
specie. Gli alimenti maggiormente contaminati risultavano essere la carne di maiale seguita da quella di
bovino, il latte non pastorizzato per consumo diretto. La mortalità era bassa. Il numero di casi di infezioni
umane da Escherichia coli verocitotossici (VTEC), provenienti sia alimenti che da animali, aumentava nel
2013 rispetto agli anni passati. Il tasso di mortalità nell’UE era dello 0,36%.
Come già ricordato prima, le malattie alimentari sostenute da batteri e/o loro tossine sono classificate
come infezioni e intossicazioni. Le infezioni sono conseguenti all’ingestione di alimenti contaminati da
elevate quantità di microrganismi vivi e vitali che liberano le tossine al momento del loro passaggio nel
tratto intestinale, mentre le intossicazioni sono conseguenti all’ingestione di alimenti contenenti tossine
prodotte da microrganismi.
Le tossine possono essere classificate in vario modo tenendo conto della loro natura chimica, della
localizzazione nella cellula produttrice e del meccanismo della loro azione patogena. In generale esse sono
distinte in esotossine e endotossine. Le esotossine sono proteine sintetizzate metabolicamente nella cellula
e rilasciate nell’ambiente che la circonda. Sono prodotte da batteri Gram-positivi e Gram negativi e non
sono componenti strutturali delle cellule. Le endotossine, invece, sono lipopolisaccaridi (LPS) associati alla
membrana esterna della parete cellulare dei batteri Gram-negativi. La componente del LPS responsabile
della tossicità è il Lipide A. Essendo componenti strutturali della cellula, le endotossine sono rilasciate in
seguito alla lisi della cellula stessa.

Queste malattie sono in continuo aumento; infatti, solo l’1% dei casi viene riportato. Ciò è dovuto a scarsa
investigazione e alla scarsa importanza sotto il profilo psicologico che viene data a queste malattie.
La persistenza di queste malattie è dovuta a diversi fattori, tra cui:
a) diffusione del fenomeno della ristorazione collettiva;
b) rapida espansione dei viaggi turistici, con spostamenti nel mondo di grandi masse di persone;
c) allevamenti zootecnici intensivi di tipo industriale;
d) modificazioni tecnologiche di produzione, distribuzione e consumo;
e) import-export su scala internazionale.
L’insorgenza di tali malattie è collegata ovviamente ai fattori che contribuiscono alla contaminazione degli
alimenti. La conoscenza e l’individuazione di questi fattori risulta di particolare importanza nella valutazione
del rischio igienico durante le fasi di produzione degli alimenti, al fine di elaborare procedimenti e misure
preventive idonee ad ottenere alimenti sicuri.

-EFFETTI DELLE MALATTIE SUL TRATTO GASTRO-INTESTINALE


Il tratto GI o canale alimentare è un tubo che inizia dalla bocca e termina con l’ano. Il cibo dalla bocca passa
attraverso l’esofago e giunge nello stomaco e da questo all’intestino; i movimenti ritmici di contrazione
della muscolatura fanno sì che il cibo avanzi nel tratto GI. La principale funzione del tratto GI è
rappresentata dalla digestione del cibo e dall’assorbimento dei nutritivi. Il cibo, una volta masticato nella
bocca e miscelato alla saliva, passa attraverso l’esofago e giunge nello stomaco attraverso l’apertura di uno
sfintere, detto cardias. Lo stomaco funziona parzialmente come un contenitore di riserva per il cibo fino a
quando l’intestino non è pronto a riceverlo; esso ha la capacità di circa 1-2 litri sia di alimenti che di fluidi.
Le ghiandole che rivestono lo stomaco producono HCl e muco. Il muco ha funzione protettiva della mucosa
gastrica, mentre l’HCl attiva il pepsinogeno in pepsina che agisce sulle proteine trasformandole in peptoni.
Quindi il cibo mescolato a saliva subisce nello stomaco una predigestione ad opera del succo gastrico, in
particolare le proteine. La massa alimentare, detta chimo, passa, attraverso il piloro, un altro sfintere,
nell’intestino tenue. L’intestino tenue è il maggior sito di digestione del cibo e di assorbimento dei nutrienti.
Esso è costituito da tre parti: il duodeno, il digiuno e l’ileo. E’ lungo circa 7 metri. La digestione si ha
principalmente nel duodeno. La superficie interna della mucosa è costituita da tante pieghe disposte a
spirale con aspetto vellutato dovuto alla presenza dei villi intestinali che rappresentano l’unità elementare
dell’assorbimento. Il cibo così digerito passa come residui nell’intestino crasso (cieco e colon), dove avviene
ancora assorbimento di acqua ed elettroliti con concentrazione delle feci. I batteri presenti in questo tratto
dell’intestino sono anaerobi facoltativi e obbligati e producono importanti quantità di vitamina K e B. Le
sostanze tossiche o irritanti che entrano nello stomaco, inducono una peristalsi inversa che combinata alla
contrazione dei muscoli addominali provoca il vomito. Se le sostanze tossiche non sono eliminate con il
vomito, queste o i microrganismi che le producono passano nell’intestino e producono contrazioni, dolori
addominali e diarrea.

Quindi, il quadro clinico della maggior parte delle malattie causate da alimenti contaminati con agenti
chimici o biologici risulta costituito da diarrea, dolori addominali, vomito e a volte febbre. Consideriamo
adesso in maniera generale i meccanismi dell’azione patogena dei batteri responsabili di malattie gastro-
intestinali.

-meccanismo ENTEROTOSSICO
E’ svolto da enterotossine, cioè tossine a localizzazione intracitoplasmatica di natura proteica (esotossine)
che sono liberate in genere dopo lisi della cellula e che hanno un meccanismo d’azione sulle cellule
intestinali di tipo citotonico o citotossico.
Enterotossine citotoniche: determinano alterazione di attività enzimatiche delle cellule intestinali
(attivazione dell’adenilato-ciclasi) senza provocare lesioni. La sede elettiva è rappresentata dall’intestino
tenue, dove si ha una forte perdita di elettroliti.
Enterotossine citotossiche: sono tossine che inducono lesioni delle cellule della mucosa intestinale, che
sono indotte a perdere elettroliti (acqua e ioni sodio) e di conseguenza causano diarrea. La sede elettiva è il
colon dove vengono distrutte le cellule epiteliali.

-meccanismo ENTEROINVASIVO
Comporta la penetrazione del microrganismo all’interno delle cellule della mucosa intestinale. Si possono
distinguere questi due casi:
a) invasione della mucosa intestinale e proliferazione all’interno delle cellule epiteliali (intraepiteliale); la
sede elettiva è il colon con produzione di lesioni infiammatorie e ulcerative (enterotossine citotossiche).
b) invasione della mucosa e proliferazione nella lamina propria; la sede elettiva è il colon, in cui si può avere
una possibile diffusione nei linfonodi oppure diffusione nel circolo sanguigno, con infezione generalizzata.
Sebbene la maggior parte delle tossine coinvolte in avvelenamenti alimentari siano delle enterotossine,
altre tossine possono essere coinvolte, come quelle neurotossiche prodotte da Clostridium botulinum.
Quando la neurotossina è ingerita con l’alimento, passa attraverso la mucosa intestinale nel circolo
sanguigno, diffondendosi in tutto il corpo. La tossina si lega quindi alla parte terminale del neurone con
blocco del processo di accoppiamento tra acetilcolina e stimolo nervoso con conseguente paralisi.
Affinchè si verifichi la malattia, è necessario che si verifichino una serie di circostanze
contemporaneamente: la presenza nell’alimento di batteri in concentrazione sufficiente; la moltiplicazione
dei batteri nell’alimento fino ad un numero sufficiente a determinare la malattia o a produrre tossine in
quantità tale da determinare la malattia; è necessario che venga consumata una quantità sufficiente di
alimento contenente batteri o tossine. Per ogni microrganismo esiste una Dose Infettiva Minima (DIM), che
rappresenta il numero minimo di microrganismi ingeriti in grado di determinare i tipici sintomi della
malattia alimentare. La DIM dipende principalmente dalla virulenza del microrganismo e dall’età e stato
generale di salute delle persone colpite.

Capitolo 10 – BATTERI PATOGENI TRASMESSI CON GLI ALIMENTI


-ESCHERICHIA COLI ENTEROVIRULENTI
Bastoncino Gram (-), catalasi (+), ossidasi (-), fermentazione del lattosio con produzione di CO 2 e di acidi,
IMVC (+ + - -), è la specie della Famiglia delle Enterobacteriaceae più comunemente ritrovata nella flora
intestinale dell’uomo e degli animali. I ceppi di E. coli possono essere differenziati tra di loro
sierologicamente sulla base di antigeni somatici (O), flagellari (H) e capsulari (K). La presenza negli alimenti
e nell’acqua viene usata come un indicatore di possibile contaminazione fecale, in quanto abitano
principalmente il tratto gastro intestinale. La malattia gastrointestinale provocata da E. coli è detta
generalmente “malattia diarroica” che risulta dall’ingestione di un grande numero (10 6 -109) di ceppi
enterovirulenti del microrganismo. I ceppi di E. Coli sono classificati in gruppi detti virotipi, di cui i più
importanti sono EPEC (Enteropatogeni), ETEC (Enterotossinogeni), EIEC (Enteroinvasivi) e EHEC-VTEC
(Enteroemorragici-Verotossici).

E. Coli enteropatogeni (EPEC): E. coli diarrogeni appartenenti a sierogruppi epidemiologicamente


incriminati come patogeni, ma il cui meccanismo di azione patogena non è stato provato essere correlato
ad enterotossine o a processi invasivi, per cui è ancora controverso il meccanismo attraverso il quale essi
determinano malattia. I sierotipi maggiormente associati a questo gruppo sono O55, O86, O111, O119,
O125, O126, O127, O128, O148.
E. Coli enterotossinogeni (ETEC): Rappresentano la maggiore causa di diarree infantili nei paesi in via di
sviluppo e della diarrea dei viaggiatori in molti paesi sviluppati. Gli ETEC si limitano a colonizzare l’intestino
tenue (duodeno, digiuno e ileo) e l’attacco alle pareti intestinali avviene per mezzo di fimbrie che
rappresentano un fattore di virulenza. Gli ETEC possono produrre almeno due enterotossine, differenziabili
in base alla loro tolleranza ad un trattamento termico a 60°C per 30 min e al loro meccanismo di azione:
-tossina termolabile
-tossina termostabile
E. Coli enteroinvasivi (EIEC): Invadono la mucosa intestinale localizzandosi nelle cellule epiteliali e nella
lamina propria del colon, dove si moltiplicano producendo infiammazioni e ulcerazioni causando febbre,
dolori addominali, diarrea acquosa con sangue e muco. Gli EIEC causano malattia solo quando vengono
ingeriti a livelli di 106 -108 cellule.
E. Coli entereomorragici-verotossici (EHEC-VTEC): A questo virotipo appartengono ceppi enteroemorragici
(EH) e produttori di verocitotossine (VT). Le verocitotossine sono in grado di indurre alterazione citotossica
nei confronti di linee cellulari VERO (cellule di rene di scimmia verde africana). I ceppi VTEC sono correlati
alla colite emorragica e alla sindrome uremica emolitica umana. I sintomi sono rappresentati da diarrea
acquosa seguita da abbondante emissione di sangue con complicazioni a livello renale. I principali sierotipi
che causano la malattia sono: O157:H7, O26:H11, O111:H8; 0103:H2; O111:H- (H significa che il ceppo è
immobile). Particolare importanza assume il sierotipo O157:H7, perché è stato associato a numerosi episodi
epidemici in cui sono risultati implicati soprattutto alimenti carnei.

-E. Coli O157:H7


E’ uno dei patogeni umani trasmesso con gli alimenti. La maggior parte degli episodi di malattia causati da
questo microrganismo sono risultati dall’ingestione di prodotti carnei (non cotti a sufficienza). Esso produce
due tossine Shiga-simili: Le tossine SLT1 e SLT2, note come Verotossine VT1 e VT2, per il loro effetto
citotossico su cellule di rene di scimmia verde africana. Entrambe le tossine sono proteine di 70000 dalton
appartenenti al gruppo delle tossine A-B (Active-Binding: Attiva-legante), formate da una subunità A e 5
subunità B. Le subunità B si legano specificamente al recettore Gb3 (globotriosilceramide), favorendo
l’ingresso della subunità A nelle cellule, dove agisce bloccando la sintesi proteica. La capacità di produrre
SLT da parte di E. coli 0157:H7 è sotto il controllo di geni batteriofagici; i due geni strutturali di SLT1 e SLT2
hanno una omologia di sequenza del DNA del 58%. La presenza del gene cromosomiale eae (Escherichia
attaching and effacing gene; adesione ed eliminazione), che codifica per una proteina di 94-97 KDa,
l’INTIMINA, associata alla membrana esterna del microrganismo, è responsabile dell’adesione del batterio
alle cellule epiteliali dell’intestino. I ceppi E. coli O157:H7 sono correlati con una varietà di manifestazioni
cliniche, sia a localizzazione intestinale che sistemica, che vanno dalla colite emorragica fino alla sindrome
uremica emolitica umana e la porpora trombotica-trombocitopenica.

I bovini rappresentano il serbatoio e il veicolo principale del microrganismo, il quale sembra essere ben
adattato alle condizioni di pH del rumine, dove sopravvive e viene escreto con le feci. Le carni possono
essere contaminate durante le varie fasi della macellazione e la trasmissione del microrganismo all’uomo
avviene attraverso il consumo delle carni non cotte sufficientemente. Altri animali possono ospitare il
microrganismo.
E. Coli O157:H7 cresce a temperature comprese tra 8° e 44° C (T ottimale 35-37° C) e pH compreso tra 4 e
8 (pH ottimale 7), a valori di aW = 0,995. E’ in grado di sopravvivere per lunghi periodi in alimenti acidi. Il
microrganismo reagisce agli stress ambientali soprattutto quando si trova in fase stazionaria, attraverso la
sintesi di proteine protettive (cross-protection). E’ ucciso dai trattamenti di pastorizzazione (72°Cx15 sec) e
a 51,7° C ha un valore di D (tempo di riduzione decimale) di 78,2, mentre a 64,5° C la D è 0,16.

Gli alimenti contaminati da persone infette rappresentano la via più comune di diffusione, anche se è
possibile la diffusione da animali infetti.
Per prevenire e controllare la diffusione di E. Coli enterovirulenti bisogna:
• applicazione di sistemi di autocontrollo e HACCP;
• igiene ed educazione del personale addetto alla manipolazione degli alimenti;
• approvvigionamento idrico nel rispetto delle norme di igiene;
• prevenzione della contaminazione di alimenti di origine animale: stalle, macelli, macellerie;
• cottura adeguata degli alimenti carnei;
• refrigerazione controllata degli alimenti.

-isolamento ed identificazione di E. Coli (EPEC, ETEC, EIEC)


Sospendere 25 g di campione in 225 ml di brodo BHI e omogeneizzare. Far decantare l’omogenato per 10
minuti a temperatura ambiente, quindi travasare il surnatante in un contenitore sterile e incubare per 3 ore
a 35°C, in modo da recuperare cellule eventualmente danneggiate sub-letalmente. Trasferire il brodo
arricchito in 225 ml di brodo Triptone Fosfato a doppia concentrazione e incubare a 44°C per 20 ore.
Strisciare su piastre di Agar Levine Eosin-Methylene Blue e Mac Konkey agar. Incubare a 35°C per 20 ore. Le
colonie tipiche isolate sui terreni selettivi vengono sottoposte ad una serie di saggi biochimici e fisiologici
per identificare gli isolati a livello di specie. Questi saggi includono: Gram-reazione; morfologia, motilità;
ossidasi; il test IMVC (produzione di indolo, rosso Metile, Voges-Proskauer, crescita su Citrato Agar);
riduzione dei nitrati; produzione di H2S; produzione di CO2 da glucosio; produzione di acido da: lattosio,
mannitolo, arabinosio, adonitolo, cellobiosio, sorbitolo ed altri; ONPG; lisina decarbossilasi.

-isolamento ed identificazione E. Coli O157:H7


1) Arricchimento selettivo: In un sacchetto sterile aggiungere 25 g di campione e 225 ml mTSB (Trypticase
Soy Broth modificato con aggiunta di 20 mg/l di novobiocina); Omogeneizzare per 1-2 min in Stomacher.
2) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare a 37°C per 6 ore
3) Isolamento su terreno selettivo e differenziale: Strisciare con ansate del brodo di arricchimento piastre
di CTSMAC (Sorbitol MacConkey Agar con Cefixime e Tellurito di potassio).
4)Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare le piastre a 37° C per 20 ore.
5) Selezione di colonie tipiche e loro isolamento in coltura pura: Annotare la comparsa di colonie sospette
(tipiche) che siano incolori per mancata fermentazione del sorbitolo. Prelevare almeno 3-5 colonie tipiche e
strisciarle su piastre contenenti un terreno nutritivo non selettivo (ad esempio Agar nutritivo; TSA; BHI
agar). Incubare le piastre a 35-37° C per 24 ore.
6) Identificazione (Conferma dell’isolato): Accertata la purezza delle colonie trapiantate, gli isolati
presuntivi devono essere identificati come appartenenti ad E. coli O:157:H7 attraverso i seguenti test:
-Morfologia delle cellule: l’osservazione microscopica deve rilevare la presenza di corti bastoncini.
-Gram-reazione: L’osservazione microscopica deve rilevare la presenza di corti bastoncini Gram negativi
(colorati in rosso).
-Catalasi: il test deve rilevare lo sviluppo di effervescenza (sviluppo di gas) che indicherà la presenza
dell’enzima.
-Ossidasi: il test deve rilevare il mancato sviluppo di colorazione viola che indicherà l’assenza dell’enzima.
-Prove biochimiche: Reazioni su Kliger Iron Agar (acido da lattosio con produzione di gas; mancata
produzione di H2S); Test IMVC: (+ + - -); Impiego di sistemi di identificazione multitest specifici per
Enterobacteriaceae; Ricerca dell’enzima beta-glucuronidasi: assente; Test di agglutinazione rapida su
vetrino con anticorpi specifici; Produzione di tossine VT: saggio su cellule VERO. Ricerca di geni specifici
mediante PCR: tossine ST1 e ST2; emolisina; eae.

-SALMONELLA
Oggi sono riconosciute due specie: Salmonella enterica e S. Bongori. Sono bastoncini Gram - (0,3-1,0x1,6-
6,0 µm); mobili per flagelli peritrichi o immobili; non sporigeni; anaerobi facoltativi; catalasi positivi (ad
eccezione di Shigella dysenteriae sierotipo 1); ossidasi negativi. Fermentano il glucosio.
I batteri del genere Salmonella sono caratterizzati da vari componenti antigenici: antigene somatico O;
antigene capsulare K; antigene flagellare H. Si conoscono oltre 3000 sierotipi di Salmonella. Circa il 99% dei
sierotipi di origine umana appartengono alla subspecie enterica (Typhi, Choleraesuis, Parathyphi A,
Enteritidis ecc…). Una volta ingerito con gli alimenti, raggiunge il lume intestinale, aderisce alla cellule della
mucosa e penetra all’interno delle cellule epiteliali dove si moltiplica. Le endotossine sono liberate dopo lisi
della cellula, determinando alterazione citotonica delle cellule intestinali con conseguente diarrea (sintomi
dopo 5-72h dall’ingestione).
Le salmonelle possono causare nell’uomo due tipi fondamentali di malattie:
a) Febbre tifoide e paratifoide: sierotipi typhi e paratyphi A. Dette salmonelle maggiori, i sintomi principali
sono rappresentati da: malessere, anoressia, mal di testa, febbre, diarrea. Si ha invasione della mucosa con
proliferazione nella lamina propria. Si ha passaggio nel circolo sanguigno con infezione generalizzata.
L’infezione è molto grave, soprattutto quella causata dal sierotipo Typhi e la dose minima infettiva può
essere anche molto bassa.
b) Gastroenterite acuta: sierotipi typhimurium, enteritidis, infantis ecc. Sono dette “salmonelle minori” e
sono ubiquitarie. I sintomi sono rappresentati da: diarrea, dolori addominali, nausea, vomito, febbre.

Salmonella typhi, essendo l’uomo l’unico serbatoio, è trasmessa prevalentemente per contagio diretto o
attraverso veicoli contaminati da materiale fecale. Per quanto riguarda le salmonelle minori, a diffusione
ubiquitaria, il serbatoio di infezione è rappresentato da animali selvatici naturalmente infetti i quali
contaminano gli animali domestici, potendo in questo modo il patogeno entrare nel ciclo alimentare
dell’uomo. In genere viene ritenuto che la dose minima infettante sia abbastanza alta, superiore a 100.000
cellule. Comunque, esistono evidenze che in alcune situazioni, anche un numero molto ridotto del
microrganismo può causare infezione.
Gli alimenti maggiormente coinvolti sono i prodotti di origine animale (carne, uova, latte e derivati), dato
che il ciclo epidemiologico della malattia è centrato su uomo-animale. Una importante fonte di
contaminazione degli alimenti sono gli operatori infetti o portatori sani con infezioni asintomatiche.

Cresce a temperature comprese tra 5,2° e 46,2° C, con un optimum a 35-43° C. Il tasso di crescita è
sostanzialmente ridotto a T minori di 15°C (prevenuta a T<7°). La conservazione di alimenti caldi deve
avvenire a temperature di almeno 63°C. Il congelamento risulta molto devitalizzante, e a T comprese tra 0°
e -10° C è più efficace del congelamento tra -17° e -20° C.
Il pH ottimale è 7-7,5, con un range che va da 3,8 a 9,5. Molto importante è l’acido usato.
Per quanto riguarda i valori di aW, l’optimum è 0,99 (min 0,94). Si può avere sopravvivenza anche per anni
in alimenti a scarsa attività dell’acqua.
Per prevenire e controllare gli episodi infettivi, vanno rispettati questi parametri:
-Igiene degli allevamenti e della macellazione: particolare importanza per la diffusione di salmonella
assumono le modalità di eviscerazione, essendo il microrganismo presente nelle feci;
-Controllo dei parametri dei processi di trasformazione: separazione delle materie prime e dei prodotti
finiti; rispetto della catena del freddo; lavaggio e disinfezione delle superfici e delle attrezzature; impiego di
acqua potabile e clorazione; trattamenti termici adeguati; prevenzione della ricontaminazione dei prodotti
post-processo;
-Igiene del personale: deve essere formato sui principali pericoli microbiologici e sulle misure di igiene da
adottare. Evitare inoltre la manipolazione da parte di persone infette o portatori asintomatici;
-prevenzione del consumatore: rispetto delle temperature di conservazione, cottura a T e per tempi
adeguati, igiene personale adeguata, evitare contaminazione crociata tra alimenti crudi e cotti.

-isolamento ed identificazione Salmonella


1) Prearricchimento: In un sacchetto sterile aggiungere 25 g di campione e 225 ml di Acqua Peptonata
Tamponata. Omogeneizzare per 1-2 min in Stomacher.
2) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare per un minimo di 16 ore fino ad un massimo di
20 ore a 35-37° C.
3) Arricchimento selettivo: Trasferire 1 ml del brodo di prearricchimento in 10 ml di Brodo Selenite Cistina;
Trasferire 1 ml del brodo di prearricchimento in 0,1 ml di Brodo Rappaport- Vassiliadis.
4) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare a 35-37°C per 24 ore (più eventuali altre 24 ore)
il Brodo Selenite Cistina; Incubare a 35-37°C per 24 ore (più eventuali altre 24 ore) il Brodo Rappaport-
Vassiliadis.
5) Isolamento su terreno selettivo e differenziale: Strisciare con aliquote da 0,1 ml di ciascun brodo di
arricchimento una piastra di Brilliant Green Agar (BGA) e una piastra di un altro substrato a scelta (ad
esempio Salmonella-Shigella Agar, SSA o Hektoen Agar, HA).
6) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare le piastre a 35-37° C per 24 ore. Selezione di
colonie tipiche e loro isolamento in coltura pura. Annotare la comparsa di colonie sospette (tipiche) di
colore rosso circondate da terreno rosso vivo su BGA, oppure incolori con centro nero su SSA, o ancora blu-
verdi con o senza centro nero su HA. Prelevare almeno 3-5 colonie tipiche e strisciarle su piastre contenenti
un terreno nutritivo non selettivo (ad esempio Agar nutritivo; TSA; BHI agar). Incubare le piastre a 35-37° C
per 24 ore.
7) Identificazione (Conferma dell’isolato): Morfologia delle cellule: l’osservazione microscopica deve
rilevare la presenza di corti bastoncini.
-Gram-reazione: l’osservazione microscopica deve rilevare la presenza di corti bastoncini Gram negativi
(colorati in rosso).
-Catalasi: il test deve rilevare lo sviluppo di effervescenza (sviluppo di gas) che indicherà la presenza
dell’enzima.
-Ossidasi: il test deve rilevare il mancato sviluppo di colorazione viola che indicherà l’assenza dell’enzima.
---Prove biochimiche: Reazioni su Kligler Iron Agar: Salmonella spp. (acido da glucosio con produzione di
gas; produzione di H2S). Salmonella typhi (acido da glucosio senza produzione di gas; produzione di H2S);
Test dell’ureasi: negativo; Test di decarbossilazione della lisina: positivo; Test della beta galattosidasi:
negativo; Reazione di Voges Proskauer: negativa; Test di produzione di indolo: positivo; Impiego di sistemi
di identificazione multitest specifici per Enterobacteriaceae. Conferma sierologica: ricerca della presenza di
antigeni O, K ed H.

-SHIGELLA
Genere della famiglia delle Enterobacteriaceae, bastoncino Gram - (0,3-1,0x1,6-6,0 µm); mobile per flagelli
peritrichi o immobile; non sporigeno; anaerobio facoltativo; catalasi positivi (ad eccezione di Shigella
dysenteriae sierotipo 1); ossidasi negativi. Fermenta il glucosio. Al genere appartengono 4 specie: S.
dysenteriae (con 13 sierotipi, da 1 a 13), S. flexneri (6 sierotipi), S. boydii (18 sierotipi) e S. sonnei (1
sierotipo). Sono microrganismi strettamente adattati all’uomo.
E’ responsabile di malattie del tratto gastrointestinale conosciute con il nome di “shigellosi” o “dissenteria
bacillare”. I sintomi compaiono dopo 15-30h dall’ingestione dell’alimento contaminato, e comprendono
diarrea (con sangue e muco), febbre, crampi addominali, ulcerazioni della mucosa gastrica. Complicazioni
possono riguardare forti disidratazioni dell’ospite e danni renali (Sindrome uremica emolitica). Le vie di
trasmissione della malattia sono rappresentate dal contagio diretto persona-persona o dall’ingestione di
alimenti contaminati da persone infette (via oro-fecale). La DIM è bassa ed è stimata intorno a 10-1000
cellule.
La malattia si scatena quando ceppi virulenti di Shigella arrivano nel tratto gastro-intestinale, attaccano e
penetrano nelle cellule epiteliali della mucosa intestinale (meccanismo enteroinvasivo), dove si
moltiplicano e invadono le cellule circostanti, producendo enterotossine ad azione citotossica..
S. dysenteriae produce la malattia più severa (dissenteria bacillare). S. sonnei produce malattia più leggera.
La virulenza è legata alla temperatura: i ceppi cresciuti a 35 o 37°C sono capaci di invadere e determinare la
malattia, mentre i ceppi cresciuti a 30-33°C non sono virulenti.
Gli alimenti maggiormente coinvolti in episodi di shigellosi sono risultati essere le insalate di patate e altri
vegetali, di pesce, di pollo, l’acqua, la carne, i prodotti della pesca, il latte e derivati. Il fattore che
maggiormente contribuisce alla diffusione della malattia è rappresentato dalla scarsa igiene del personale
addetto alla manipolazione degli alimenti.

Crescono a temperature comprese tra 7 e 47°C con optimum a 35-37°C, in un range di pH che va da 3,8 a 9-
11, il cui optimum è a 7-7,5. Il valore ottimale di aW è 0,99 (min 0,94).

La maggior parte degli studi sono stati fatti su S. flexneri e S. sonni. Questi microrganismi non sono molto
resistenti agli stress ambientali, sebbene essi sono in grado di sopravvivere per lunghi periodi in condizioni
ecologiche diverse: su burro e margarina a 4 e a -20°C sopravvivono più di 100 giorni, in uova e latte più di
50 giorni, in carne tritata a 4°C per 4-5 giorni, in formaggi per 1-2 settimane, in succo di limone (pH 2,1- 2,6)
1 giorno. Il microrganismo è eliminato con la pastorizzazione.

-isolamento ed identificazione Shigella


1) Arricchimento selettivo: In un sacchetto sterile aggiungere 25 g di campione e 225 ml di Brodo Selenite-
Cistina. Omogeneizzare per 1-2 min in Stomacher.
2) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare a 35-37°C per 18-24 ore.
3) Isolamento su terreno selettivo e differenziale: Strisciare con aliquote da 0,1 ml del brodo di
arricchimento una piastra di Mac Conkey Agar (MCA) e una piastra di un altro substrato a scelta (ad
esempio Salmonella-Shigella Agar, SSA o Hektoen Agar, HA).
4) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare le piastre a 35-37° C per 24 ore.
5) Selezione di colonie tipiche e loro isolamento in coltura pura: Annotare la comparsa di colonie sospette
che siano incolori su MCA, oppure incolori senza centro nero su SSA, oppure verdi, trasparenti su HA.
Prelevare almeno 3-5 colonie tipiche e strisciarle su piastre contenenti un terreno nutritivo non selettivo
(ad esempio Agar nutritivo; TSA; BHI agar). Incubare le piastre a 35-37° C per 24 ore.
6) Identificazione (Conferma dell’isolato) -Morfologia delle cellule: l’osservazione microscopica deve
rilevare la presenza di corti bastoncini.
-Gram-reazione: L’osservazione microscopica deve rilevare la presenza di corti bastoncini Gram negativi
(colorati in rosso).
-Catalasi: il test deve rilevare lo sviluppo di effervescenza (sviluppo di gas) che indicherà la presenza
dell’enzima.
-Ossidasi: il test deve rilevare il mancato sviluppo di colorazione viola che indicherà l’assenza dell’enzima.
-Prove biochimiche: Reazioni su Kliger Iron Agar: acido da glucosio senza produzione di gas; mancata
produzione di H2S. Impiego di sistemi di identificazione multitest specifici per Enterobacteriaceae.

-YERSINIA ENTEROCOLITICA
Il genere Yersinia è un altro genere della famiglia delle Enterobacteriaceae. E’ un corto bastoncino Gram -,
mobile per flagelli peritrichi che sono prodotti solo quando il microrganismo è fatto crescere a temperature
di 22-28°C; non sporigeno; anaerobio facoltativo; catalasi positivo; ossidasi negativo. Fermenta il glucosio.
Essa è largamente distribuita in ecosistemi acquatici e terrestri. La principale riserva del microrganismo è
rappresentata da animali a sangue caldo, in particolare i suini. Si distingue in 5 biotipi che sulla base degli
antigeni O comprendono 48 sierotipi. I sierotipi più diffusi sono:
• O:3; O:9; O:5, O:27: isolati più frequentemente in Europa e in paesi a clima temperato. Hanno un basso
grado di patogenicità e causano infezioni sporadiche.
• O:8; O:13; O:18; O:20; O:21: isolati solo negli USA. Sono esculina negativi e appartengono al biotipo 1.
Sono altamente patogeni e sono responsabili, in particolare O:8, di grosse epidemie.
• altri sierotipi: sono largamente distribuiti ma non patogeni.

Viene distinta in 2 ceppi: ceppi “strettamente adattati all’uomo” e “ceppi ambientali” (o non adattati).
I sierotipi O:3 e O:9 raramente vengono isolati dall’ambiente; i suini sono portatori cronici e sono il
serbatoio naturale del germe. La trasmissione all’uomo avviene soprattutto attraverso la carne di maiale,
anche se, l’esistenza di un elevato numero di portatori umani sani vede implicata anche la via fecale-orale
(uomo-uomo) come una importante via di trasmissione.
Il sierotipo O:8 ha varie sorgenti di contaminazione come acque di sorgenti e pozzo, alimenti lavati con
acqua contaminata, prodotti lattiero-caseari.
Y. enetrocolitica causa l’enterocolite i cui principali sintomi, che compaiono dopo 24-36 ore (l’incubazione
può protrarsi anche per 10 giorni) sono rappresentati da diarrea, liquida o pastosa, raramente con sangue.
Altri sintomi sono rappresentati da dolori addominali, generalmente lievi, che in alcuni casi sono simili a
sindrome pseudo-appendicolare; le complicazioni sono rare ma severe: ulcerazioni diffuse, peritonite,
perforazioni intestinali.
La patogenesi è legata ad un meccanismo invasivo: penetrazione all’interno della mucosa intestinale e
proliferazione nella lamina propria. Alcuni ceppi possono avere un meccanismo enterotossico: producono
enterotossina termostabile (121°C per 30 min); la produzione si ha solo a 25°C ma non a 37°C; l’azione è
simile alla ST prodotta da ceppi enteropatogeni di E.coli. Il suo ruolo nella virulenza è ancora incerto, in
quanto, ceppi enterotossinogeni sono risultati non virulenti.

Il microrganismo è psicrotrofo e si sviluppa in 2-5 giorni in alimenti refrigerati. Può moltiplicarsi tra 0 e 42°C
con optimum a 29°C. Può svilupparsi a pH compresi tra 4 e 10 (optimum intorno a 7). Può sopravvivere fino
a 24 ore a pH 3,6 o 10. Presenta buona crescita a 4°C e pH 7, mentre la crescita è rallentata o inibita a 4°C e
pH 5,2. I trattamenti di pastorizzazione distruggono completamente il microrganismo.
L’origine della contaminazione alimentare è di tipo fecale, umana e animale, dal terreno e dall’acqua. Si
ritrova frequentemente su carcasse e carne di maiale, manzo, agnello, latte crudo di vacca, capra, cagliate
di formaggi, vegetali, ostriche, gamberetti.

-isolamento ed identificazione Yersinia enterocolitica


1) Arricchimento selettivo: In un sacchetto sterile aggiungere 25 g di campione e 225 ml di Brodo
Rappaport-Vassiliadis (modificato con aggiunta di 2,5 mg/l di carbenicillina) o 225 ml di Yersinia Selective
Enrichment Broth; Omogeneizzare per 1-2 min in Stomacher.
2) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare a 28°C per 48 ore.
3) Isolamento su terreno selettivo e differenziale: Strisciare con ansate del brodo di arricchimento piastre
di CIN agar (Cefsulodin Irgasan Novobiocin Agar). Per la numerazione del microrganismo seminare aliquote
di diluizioni decimali del campione direttamente su CIN agar.
4) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare le piastre a 28° C per 24-48 ore.
5) Selezione di colonie tipiche e loro isolamento in coltura pura: Annotare la comparsa di colonie sospette
con centro rosa-rosso con periferia trasparente/traslucida. Prelevare almeno 3-5 colonie tipiche e strisciarle
su piastre contenenti un terreno nutritivo non selettivo (ad esempio Agar nutritivo; TSA; BHI agar). Incubare
le piastre a 28°C per 24 ore.
5) Identificazione (Conferma dell’isolato): -Morfologia delle cellule: l’osservazione microscopica deve
rilevare la presenza di corti bastoncini.
-Gram-reazione: L’osservazione microscopica deve rilevare la presenza di corti bastoncini Gram negativi
(colorati in rosso).
-Catalasi: il test deve rilevare lo sviluppo di effervescenza (sviluppo di gas) che indicherà la presenza
dell’enzima.
-Ossidasi: il test deve rilevare il mancato sviluppo di colorazione viola che indicherà l’assenza dell’enzima.
-Prove biochimiche: Reazioni su Kliger Iron Agar: acido da glucosio senza produzione di gas; mancata
produzione di H2S. Impiego di sistemi di identificazione multitest specifici per Enterobacteriaceae.

-BACILLUS
Il genere Bacillus annovera oltre 30 specie, 2 delle quali, Bacillus anthracis e Bacillus cereus, sono ritenute
patogene abituali per l'uomo. Le forme vegetative hanno un pH ottimale tra 6 e 8, una temperatura
ottimale di 30-55°C. Sono distinti in 3 gruppi, a seconda della posizione e della forma della spora:
I) spora centrale o sub-terminale, non rigonfia, non deformante il corpo microbico;
II) spora centrale o sub-terminale, ovale, rigonfia a parete spessa deformante il batterio;
III) spora terminale, sferica, rigonfia a parete spessa (bacillo a forma di spillo);
Le spore hanno uno strato esterno di cheratina che le rende estremamente resistenti al calore, alle
radiazioni, alla essiccazione, ai disinfettanti e ad altre sostanze chimiche.

Bacillus cereus è un batterio di forma bastoncellare Gram-positivo, aerobio-anaerobio facoltativo, mobile


per flagelli peritrichi, privo di capsula, ma suscettibile di variazioni in base alle quali può presentarsi
immobile e/o capsulato. Tradizionalmente è considerato un microrganismo mesofilo, in quanto cresce
abitualmente a temperature comprese fra 15 e 50°C, con optimum di sviluppo a 30-37°C, ma è stata
dimostrata ripetutamente la possibilità di crescita di ceppi tossinogeni tra 4 e 37°C e tra 6 e 21°C. Produce
spore di forma ellittica, centrali o sub-terminali, che non deformano lo sporangio. La germinazione delle
spore avviene tra 5 e 50°C, con velocità massima a 30°C. E’ catalasi, ossidasi e Voges-Proskauer positivo.
Idrolizza la caseina e la gelatina, mentre risulta variabile l’idrolisi dell’amido e dell’urea. Riduce i nitrati a
nitriti, utilizza i citrati e non produce indolo. Produce acido da glucosio, maltosio, trealosio e glicerolo; non
fermenta mannitolo, xilosio, arabinosio, lattosio, dulcitolo e inositolo. Le caratteristiche biochimiche di B.
cereus, giustificano la sua ampia distribuzione in natura, in quanto la capacità di sintetizzare una grande
varietà di metaboliti extracellulari lo rende capace di colonizzare con successo habitat diversi.
Nella parete sono localizzati antigeni somatici termostabili, costituiti da mucoproteine complesse. Sono
presenti, inoltre, antigeni flagellari H ed antigeni sporali, questi ultimi, per lo più termoresistenti.

B. cereus è in grado di produrre nella fase di crescita esponenziale una enterotossina di natura proteica
costituita presumibilmente da tre subunità, con un peso molecolare compreso tra 45.000 e 50.000 Da,
stabile a 45°C per 10 min, ma inattivabile a 56 °C in 5 min. E’ stabile tra pH 5 e 11 e può essere prodotta
negli alimenti a temperature tra 32 e 35°C. La capacità di produrre l’enterotossina non sembra dipendere
dall’ aW ma si mostra dipendente dai livelli di colonizzazione che debbono superare, in genere, 10 6 UFC/g.

L’azione enterotossica induce perdita di liquidi dalla mucosa intestinale, ma viene facilmente persa per
variazioni di temperatura, di pH, di modalità di conservazione o in seguito a trattamento con enzimi
proteolitici. Di conseguenza, la enterotossina ingerita con gli alimenti viene di norma distrutta a livello
gastrico e/o intestinale, per cui l'intossicazione diarroica è da associarsi prevalentemente all'ingestione di
cellule allo stato vegetativo e/o di spore ed alla successiva crescita del bacillo con conseguente produzione
di enterotossina a livello dell'ileo.

La sindrome diarroica si manifesta generalmente entro 6-15 ore dall'ingestione dell'alimento contaminato;
tale forma morbosa, caratterizzata da nausea, frequenti scariche diarroiche con dolori addominali,
raramente da febbre e vomito, dura mediamente 24 ore, con oscillazioni da poche ore a 10 gg. Durante la
sporulazione, B. cereus produce anche una tossina ad attività emetica, costituita da un piccolo peptide, di
peso molecolare inferiore a 5000, stabile a 121 °C per 90 min ed a pH compresi tra 2 e 11 attualmente
ancora non isolata allo stato puro. E’ stato isolato, inoltre, un fattore ad elevata attività emetica di
probabile natura lipidica o glicolipidica, stabile agli enzimi proteolitici, a 121 °C per 30 min ed a pH compresi
tra 2 e 11.
B. cereus produce numerose altre tossine, nonché un gran numero di enzimi extracellulari quali nucleasi,
proteasi, collagenasi, tromboplastinasi di cui non è ben chiarito l'eventuale ruolo patogeno sull'uomo.

L’intero genere Bacillus detiene una notevole importanza nel settore alimentare, dove il ruolo sostenuto è
legato sia al decadimento delle caratteristiche organolettiche del prodotto dovuto all’attività enzimatica, sia
all'azione tossica svolta dalle tossine sul consumatore.
I sistemi di conservazione degli alimenti riescono a contenere solo in parte la proliferazione delle varie
specie di Bacillus, spesso in grado di tollerare le temperature di congelamento, di moltiplicarsi in condizioni
di refrigerazione e di sopravvivere ai trattamenti termici.

-La presenza di B. cereus nel latte è sia endogena che esogena. B. cereus sintetizza delle proteasi
extracellulari ed una fosfolipasi che possono provocare la coagulazione non acida del latte, una particolare
forma di alterazione nota come "bitty cream" e alterazione dello yogurt. Le possibilità combinate delle
spore di sopravvivere al trattamento UHT e di certi ceppi di moltiplicarsi a basse temperature pongono non
pochi problemi sia di carattere industriale che sanitario. B. cereus costituisce la parte preponderante della
microflora termoresistente psicrotrofa del latte crudo. I ceppi ambientali tipici di B.cereus normalmente
non crescono nel latte a temperature inferiori a 10°C. Ceppi di B. cereus sono stati spesso ritrovati anche in
latte pastorizzato e in formaggi derivati da latte pastorizzato.
Va considerata la concreta possibilità di sopravvivenza nei latti in polvere e nelle farine lattee di spore di
ceppi tossinogeni di B. cereus, la cui germinazione e crescita nei prodotti ricostituiti possono essere favorite
da non attente modalità d'impiego. Non va sottovalutato, inoltre, il ruolo che polveri di latte contaminate
da spore di B. cereus possono svolgere in molti prodotti alimentari di nuova concezione, per la
preparazione di creme, dessert, pietanze a base di pasta e di formaggi. B. cereus è presente anche nei
gelati.
-La contaminazione da B. cereus di prodotti carnei trae origine prevalentemente dalla cute e dalle zampe
degli animali all'atto della macellazione, con partecipazione attiva degli operatori e delle apparecchiature
alla sua diffusione, nonché dall'eviscerazione, considerata, in particolare per il pollame, il punto più critico
per la contaminazione delle carcasse. La presenza di spore è stata documentata in carni congelate bovine e
suine, in preparati carnei pastorizzati, in carni tritate crude, in insaccati freschi, nel prosciutto crudo, nei
salumi cotti, in insalate di carne, in insaccati stufati; spesso le spore sono veicolate dalle spezie utilizzate
nelle preparazioni carnee.
-Nel riso B.cereus è in grado di produrre tossina emetica, in seguito alla comprovata possibilità per le spore
di sopravvivere alla cottura e di germinare e proliferare come forme vegetative durante la conservazione.
-I dati disponibili sulla contaminazione delle uova e dei prodotti derivati ne segnalano la presenza in uova
intere liquide crude e pastorizzate, nonché in prodotti a base di uova venduti al dettaglio.
-Non ampia appare la documentazione relativa alla contaminazione dei prodotti ittici freschi, anche se
pietanze a base di pesce sono state chiamate in causa in casi di tossinfezioni collettive da B. cereus.
-La presenza di B. cereus è stata accertata in una moltitudine di altri tipi di alimento, dai prodotti da forno ai
legumi secchi, dal cacao in polvere all’amido.

-isolamento ed individuazione Bacillus cereus


1) Preparazione del campione: In un sacchetto sterile aggiungere l’alimento e un diluente (es. soluzione
sale peptone) in rapporto 1:10. Omogeneizzare per 1-2 min in Stomacher. Preparare diluizioni seriali
decimali.
2) Isolamento su terreno selettivo e differenziale: Seminare con aliquote da 0,1 ml di ciascuna diluizione
piastre contenenti il terreno MYP agar (Mannitol Egg Yolk Polymixine Agar).
3) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare le piastre a 32° C per 18-24 ore più altre 24 se
necessario.
4) Selezione di colonie tipiche e loro isolamento in coltura pura: Contare le colonie tipiche che si
presentano rugose, secche, di colore rosa-viola circondate da un denso alone di precipitazione. Prelevare
una o più colonie tipiche e strisciarle su piastre contenenti un terreno nutritivo non selettivo (ad esempio
Agar nutritivo; TSA; BHI agar). Incubare le piastre a 30°C per 24 ore.
5) Identificazione (Conferma dell’isolato): Morfologia delle cellule: l’osservazione microscopica deve
rilevare la presenza di bacilli sporigeni.
-Gram-reazione: L’osservazione microscopica deve rilevare la presenza di bacilli Gram positivi (colorati in
viola).
-Catalasi: il test deve rilevare lo sviluppo di effervescenza (sviluppo di gas) che indicherà la presenza
dell’enzima.
-Ossidasi: il test deve rilevare lo sviluppo di colorazione viola che indicherà la presenza dell’enzima.
-Colorazione delle spore e dei granuli lipidici: allestire un preparato microbico seccato all’aria e fissato alla
fiamma; esporre il vetrino ai vapori di acqua bollente e coprire con una soluzione di verde malachite al 5%
per 2 min; lavare con acqua e asciugare; colorare con una soluzione di Nero Sudan allo 0,3% (sciolto in
etanolo al 70%) per 15 minuti; lavare con xylolo per 5 secondi; asciugare e colorare con safranina per 20
sec; lavare con acqua, asciugare e osservare al microscopio: le cellule vegetative di B. cereus (4-5x1-1,5 µm)
saranno colorate in rosso, mentre le spore (in posizione centrale o subterminale) saranno di colore verde e i
granuli lipidici di colore nero. Impiego di sistemi di identificazione multitest.

-CLOSTRIDIUM BOTULINUM
C. botulinum è un batterio sporigeno, Gram-positivo, anaerobio stretto, catalasi negativo, mobile per
flagelli peritrichi o immobile. Questa specie è composta da ceppi con diverse caratteristiche colturali e
fenotipiche, ma tutte accomunate dalla capacità di produrre tossine ad azione neurotossica. I ceppi sono
distinti in 4 gruppi (I, II, III, IV), e designati in base al tipo di tossina prodotta. Fino ad oggi sono state
individuate 8 diverse tossine prodotte da Clostridium botulinum, designate con le lettere A, B, C1, C2, D, E,
F e G, tutte ad azione neurotossica (eccetto la C2).
I ceppi possono produrre una tossina principale di un tipo ed una secondaria di un altro tipo. I ceppi
responsabili di botulismo nell'uomo appartengono ai gruppi I e II.

La manifestazione della malattia si può avere in seguito all'ingestione della sola tossina (intossicazione)
ovvero delle cellule in presenza o meno della tossina (tossinfezione). Le neurotossine botuliniche hanno un
effetto paralizzante a seguito del blocco della liberazione di acetilcolina a livello presinaptico delle giunzioni
mioneurali colinergiche oppure, meno frequentemente, adrenergiche. I sintomi si manifestano fra 2 e 24
ore dopo l’ingestione dell’alimento contaminato e sono rappresentati da paralisi oculare, disturbi
dell'equilibrio, dilatazione delle pupille, visione doppia, carenza di salivazione, disturbi della deglutizione e
fonazione, costipazione e spesso ritenzione di urina, paralisi dei muscoli respiratori.
Le tossine vengono prodotte durante la crescita del microrganismo e vengono rilasciate durante la lisi delle
cellule. La tossina è idrolizzata extracellularmente da tripsina o enzimi simili in due subunità, una catena
pesante e una catena leggera; questo fenomeno aumenta la tossicità della molecola.
La contaminazione avviene durante l’allevamento, la coltivazione e la raccolta dei prodotti e soprattutto da
parte della spora. Mentre Clostridium botulinum tipo A e B sono maggiormente presenti nel terreno,
determinando contaminazione di frutta e vegetali, quello di tipo E colonizza gli ambienti marini
contaminando più facilmente i prodotti della pesca. Gli alimenti coinvolti in epidemie botuliniche in Europa
sono stati soprattutto prosciutto e altre carni conservate, ma anche conserve di diverso tipo.
Generalmente gli alimenti contaminati sono di produzione casalinga e come tali consumati da un numero
ristretto di persone.
Oltre che per alcune caratteristiche fisiologiche della cellula vegetativa, i ceppi dei gruppi I e II si
differenziano anche per la termoresistenza delle spore:
GRUPPO I: le spore più termoresistenti conosciute (D100 30 min; D121 0,21 min; z=10°C);
GRUPPO II: D82 2-3 min; z=6-7°C.
I trattamenti messi in atto mirano ad una riduzione decimale di spore botuliniche termoresistenti pari a 10 12
UFC: questo comporta un trattamento termico a 121°C per 2,5 minuti.
Le tossine botuliniche sono termolabili e quindi sono distrutte dalle temperature di cottura dei cibi;
trattamenti termici a 80°C per 5 minuti o a 79°C per 20 minuti sono sufficienti a inattivare le tossine A, B, E,
e F.
La prevenzione della tossinfezione botulinica è legata alle condizioni di germinazione della spora e di
crescita della cellula vegetativa. Le spore del gruppo I non germinano a pH < 4,6 , mentre quelle del gruppo
II a pH < 5. Quindi alimenti ad alta acidità sono ritenuti generalmente più sicuri.
Valori di aW < 0,94 e < 0,97 inibiscono la crescita di cellule di Clostridium botulinum rispettivamente del
gruppo I e II. Tali valori di aw si possono raggiungere, ad esempio, attraverso la salagione o lo zuccheraggio
degli alimenti.
Per ciò che riguarda le temperature di conservazione degli alimenti, i ceppi del gruppo II possono
accrescersi, seppur lentamente, anche a 3,3° C.

-ricerca delle tossine di Clostridium botulinum


Per la ricerca delle tossine si ricorre a test di immunodiffusione o al Mouse Neutralization Test, che è un
biosaggio che consiste nell’iniettare estratti dell’alimento, neutralizzati e non con antitossine specifiche, in
cavie da laboratorio e rilevandone i sintomi.

-CLOSTRIDIUM PERFRINGENS
Cellule con morfologia bastoncellare, Gram-positivo, sporigeno, catalasi negativo e immobile, anaerobio
stretto, anche se sopporta concentrazioni di ossigeno fino al 5%. E' in grado di idrolizzare la gelatina e la
lecitina, di ridurre nitrati e solfiti, di fermentare il lattosio, di produrre emolisina ma non produce indolo. La
sporulazione dipende dal substrato nutritivo e dal pH. Quando sono formate, le spore sono ovali, centrali o
sub-terminali, deformanti lo sporangio. La vasta distribuzione in natura è legata alla dispersione
nell’ambiente delle spore e alla loro resistenza a diversi fattori ambientali. Esso è stato ritrovato inoltre nel
tratto intestinale di molti animali, compreso l’uomo.
I ceppi di Cl. perfringens sono divisi in 5 tipi (A, B, C, D ed E) in funzione della produzione di quattro tossine
extracellulari. Cl. perfringens tipo A è l’unico rinvenibile nel suolo e nel tratto intestinale di animali. Esso è
responsabile di avvelenamenti alimentari nell'uomo. Gli altri tipi sembrano essere parassiti intestinali
obbligati.
La tossinfezione da Cl. perfringens tipo A è dovuta all'ingestione di un numero elevato di cellule o spore (10 6
-108 UFC), che giunte all’intestino producono un’enterotossina. I sintomi, che compaiono circa 8-12 ore
dopo l'ingestione dell'alimento contaminato, si manifestano con diarrea profusa e forti dolori addominali,
raramente accompagnati da febbre, nausea o vomito. I sintomi spariscono spontaneamente dopo 12-24
ore. L’enterotossina è una proteina di 34000 Da, che viene disattivata dal calore (60° C x 10 min), da enzimi
proteolitici e da acidi.

Cl. perfringens vive abitualmente nel terreno e colonizza l'intestino dell'uomo e di molti animali. E’
facilmente veicolabile sulla superficie di alimenti sia di origine vegetale che animale, benché la
tossinfezione è stata principalmente associata al consumo di carne rossa e pollame. La macellazione è un
momento quasi inevitabile di contaminazione.
Gli alimenti non cotti a sufficienza, contaminati da spore termoresistenti e mantenuti alle temperature di
crescita del microrganismo per lungo tempo sono una comune fonte della malattia; tali eventi sono comuni
in strutture adibite alla ristorazione collettiva.

Cresce in range di temperatura che va dai 20° ai 50° C, con un optimum a 45° C. Il range di pH va da 5,5 a
8,5, con optimum a 6,5. Per quanto riguarda l’a W, il suo valore deve essere superiore a 0,94. Sopporta
concentrazioni di NaCl da 0% a 8%, con un optimum di 3%. Ha potenziale di riduzione Eh: -200 mV.
Le caratteristiche di termoresistenza delle variano da ceppo a ceppo; quest’ultime vengono classificate sulla
base della termoresistenza:
a) spore più termoresistenti: D90= 15-145 min.; z= 9-16 °C
b) spore più termosensibili: D90= 3-5 min.; z= 6-8 °C

-isolamento ed identificazione Clostridium perfringens


1) Preparazione del campione: In un sacchetto sterile aggiungere 25 g di campione e 225 ml di diluente
(soluzione Ringer; Sale peptone) (diluizione 1/10). Omogeneizzare per 1-2 min in Stomacher. Trattare 10 ml
della diluizione a 80°C per 10 min. (per eliminare le forme vegetative dei batteri, lasciando inalterate le
spore). Preparare diluizioni decimali seriali.
2) Semina in piastra: Seminare 1 ml di ciascuna diluizione in piastre petri vuote. Aggiungere 15-18 ml di
terreno nutritivo mantenuto fluido a 45-47°C. Come terreno nutritivo può essere usato, tra gli altri, l’Agar
Triptosio Solfito Cicloserina (TSC: Triptosio 15 g; Estratto di lievito 5 g; Peptone di soia 5 g; Estratto di carne
5 g; Citrato ammoniacale di ferro 1 g; Metabisolfito di sodio 1 g; Agar 14 g; Acqua distillata 1000 ml. Al
substrato sterile e mantenuto fluido a 50°C si aggiungono 10 ml di una soluzione al 5% dell’antibiotico D-
cicloserina sterilizzata per filtrazione). Dopo aver disperso uniformemente l’inoculo nel terreno nutritivo, si
lascia solidificare, quindi si versano sulla superficie del terreno solidificato altri 7-8 ml dello stesso terreno
fluido, per assicurare migliori condizioni anaerobiche.
3) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare per 24-48 a 37° C, in giare per anaerobiosi.
4) Numerazione delle colonie: Le colonie di clostridi solfito riduttori appaiono di colore nero, con un
diametro di 3-7 mm. Spesso nel terreno sono presenti colonie incolori o colonie puntiformi di colore nero
che non vanno considerate nel conteggio.
5) Conferma delle colonie tipiche: Prelevare almeno 3-5 colonie tipiche (nere). Strisciare ciascuna colonia
su due piastre di agar sangue. Incubare una piastra in aerobiosi e una piastra in anaerobiosi 37° C per 18-24
ore. Solo le colonie che crescono in anaerobiosi ma non in aerobiosi sono confermate come clostridi solfito
riduttori.
6) Identificazione (Conferma dell’isolato): Morfologia delle cellule: l’osservazione microscopica deve
rilevare la presenza di corti bastoncini.
-Gram-reazione: l’osservazione microscopica deve rilevare la presenza di bastoncini Gram positivi (colorati
in viola).
-Catalasi: il test non deve rilevare lo sviluppo di effervescenza (sviluppo di gas) che indicherà l’assenza
dell’enzima.
-Ossidasi: il test deve rilevare il mancato sviluppo di colorazione viola che indicherà l’assenza dell’enzima.
-Test biochimici: fermentazione del lattosio (+) capacità di liquefare la gelatina (+) riduzione dei nitrati a
nitriti (+) mobilità delle cellule (-) Questi test pur non differenziando Cl. perfringens da altri clostridi sono
ritenuti sufficienti per dimostrare la sua presenza in un alimento. Rilevamento dell’enterotossina: saggio
dell’ansa ileale citotossicità su cellule (VERO) metodi immunoenzimatici agglutinazione passiva inversa al
lattice

-BRUCELLA
I batteri del genere Brucella sono piccoli coccobacilli Gram-negativi, immobili e asporigeni. Sono catalasi e
ossidasi positivi; aerobi stretti. Gli zuccheri sono fermentati debolmente con produzione di acidi e non gas.
Riducono i nitrati a nitriti, non producono indolo e non crescono su substrati contenenti citrato come unica
fonte di carbonio.
La malattia è endemica in molte specie animali. Particolarmente suscettibili sono gli animali gravidi. La
malattia nell’uomo può avere un decorso acuto o cronico caratterizzato da brividi, febbre e debolezza.
L’incubazione può essere piuttosto prolungata. Il microrganismo, una volta penetrato nell’ospite, passa dai
nodi linfatici al sangue dove è trasportato da polimorfonucleati e monociti, nel fegato, milza, midollo osseo
e nodi linfatici.

Brucella abortus causa la brucellosi dei bovini ed è diffusa in tutto il mondo. Brucella melitensis è ospitata
naturalmente da capre e pecore, mentre Brucella suis causa prevalentemente brucellosi nei suini.
Il latte crudo e prodotti derivati a latte crudo possono essere veicoli importanti di diffusione della malattia.
Animali malati o asintomatici liberano Brucella nel latte. I casi di infezione dovuti al consumo di prodotti
carnei sono estremamente rari. Altre fonti di contaminazione e diffusione del microrganismo sono: animali
infetti introdotti nell' allevamento; mangimi o foraggio; acqua; terreno.

-Il microrganismo cresce a temperature comprese tra 6° e 42° C, con optimum a 37° C; B. abortus
sopravvive in latte crudo più di 800 giorni a –40°C, 2 giorni a 4°C e 1 giorno a 25°C. In formaggio sopravvive
2-4 giorni a 24°C e 18-22 giorni a 12°C. La pastorizzazione elimina il microrganismo [60°Cx5 min (10 7
UFC/ml) oppure 65°Cx15 sec (106 UFC/ml)].
-Per quanto riguarda il pH, questo può variare tra 4,5-5,1 e 8,2-8,8 , con optimum a 7,3-7,5; il
microrganismo non cresce in latte sterile con pH inferiore a 5,3 conservato a 37°C (pH limite). Brucella può
sopravvivere in latte a pH 5 per circa un mese. Acidificazione può eliminare il microrganismo, ma non
garantisce la sua completa assenza dal prodotto.
-Il batterio può crescere in presenza di NaCl a concentrazione < 4%. La sopravvivenza diminuisce
all’aumentare della concentrazione salina. La resistenza al sale dipende dalla temperatura. In salamoia per
formaggi contenente il 27% di NaCl e conservata tra 11 e 14°C il microrganismo sopravvive fino a 45 giorni.
In burro con il 2,3% di sale fino a 6 mesi, mentre in burro non salato fino a 13 mesi.

-isolamento ed identificazione Brucella


La ricerca del microrganismo viene fatta sia sulla crema sia sull’eventuale precipitato dopo centrifugazione
o affioramento spontaneo del campione di latte.

1) Preparazione del campione: In un sacchetto sterile aggiungere l’alimento e un diluente (es. soluzione
sale peptone) in rapporto 1:10. Omogeneizzare per 1-2 min in Stomacher.
2) Isolamento su terreno selettivo e differenziale: Strisciare con ansate dell’omogenato piastre di Brucella
agar. La ricerca del microrganismo nel latte deve essere fatta sia sulla crema che sull’eventuale precipitato
dopo centrifugazione o affioramento spontaneo del campione di latte. Seguire la seguente procedura: -
porre il campione di latte in una provetta sterile ed incubarlo per una notte a 40°C; - prelevare un’aliquota
di panna affiorata e distribuirla con una spatola sterile su una piastra di Brucella agar.
3) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare le piastre a 35° C per 10 giorni in atmosfera
arricchita del 10% di CO2. Selezione di colonie tipiche e loro isolamento in coltura pura Esaminare le piastre
ogni 2 giorni, fino a 10 giorni, per la presenza di colonie di 1-2 mm di diametro, convesse e a margini interi.
Prelevare una o più colonie tipiche e strisciarle su piastre contenenti un terreno nutritivo non selettivo, ad
esempio, BHIA (Brain Hearth Infusion Broth con 1,5% di agar e 5% di siero di cavallo). Incubare le piastre a
35°C per 48 ore in atmosfera arricchita del 10% di CO2.
4) Identificazione (Conferma dell’isolato): Morfologia delle cellule: l’osservazione microscopica deve
rilevare la presenza di piccoli cocco-bacilli.
-Gram-reazione: L’osservazione microscopica deve rilevare la presenza di piccoli cocco-bacilli Gram negativi
(colorati in rosso).
-Catalasi: il test deve rilevare lo sviluppo di effervescenza (sviluppo di gas) che indicherà la presenza
dell’enzima.
-Ossidasi: il test deve rilevare lo sviluppo di colorazione viola che indicherà la presenza dell’enzima.
-Prove biochimiche: vedi tabella 10.5. Test di agglutinazione rapida su vetrino con antisieri specifici (anti-
melitensis e antiabortus).
-VIBRIO CHOLERAE
Bastoncini piccoli e ricurvi, Gram-negativi, mobili per flagelli polari, aerobi-anaerobi facoltativi. Catalasi e
ossidasi positivi. Crescono a valori di pH compresi tra 5 e 9,6 con ottimo di 7,6 e a valori di temperatura
compresi tra 10 e 43°C (optimum 35°C). In presenza di 0,1-1% di NaCl cresce meglio; non cresce in presenza
del 7% di NaCl. Il microrganismo si sviluppa con valori di a W tra 0,970 e 0,998 , con optimum a 0,984.

Sulla base degli antigeni somatici O sono individuati oltre 100 sierogruppi.
• Sierogruppi O1 e O139: sono stati implicati in epidemie di colera
• Sierogruppi da O2 a O138: mai implicati in epidemie coleriche. Sono detti “Non Epidemic Cholera Vibrio
(NECV)”.
V. cholerae è un normale abitante di acque dolci e costiere. Sopravvivono nei sedimenti marini a
temperature inferiori a 15°C e sono liberati in primavera-estate, ritrovandoli nelle acque superficiali, pesci,
crostacei e molluschi. Hanno la capacità di assumere forme di sopravvivenza, come lo stato di “cellule vitali
ma non coltivabili”. Non è rara la persistenza in persone infette ma asintomatiche.
La malattia colera si manifesta con crampi addominali, diarrea profusa con abbondanti perdite di liquidi,
con rapida disidratazione e collasso. Spesso può essere presente vomito. I sintomi si possono presentare
dopo 1-5 giorni dall’ingestione dell’alimento contaminato, in funzione della concentrazione di Vibrio
ingerita. Si ritiene che la dose minima infettiva sia di 10 6 UFC. La principale fonte di infezione è
rappresentata dalle feci di malati o convalescenti, i quali possono eliminare anche dopo 3-4 settimane dalla
guarigione fino a 106 -109 cellule del microrganismo per ml di feci.
L’azione patogena è dovuta alla produzione di una enterotossina (tossina colerica) termolabile, che
presenta sub-unità A-B (Active-Binding): 5 subunità B (legano la tossina ai recettori delle cellule
eucariotiche) e 1 subunità A (funzione enzimatica intracellulare).
L’azione della tossina colerica va a bloccare la forma attivata dell’enzima Adenilato-ciclasi, con un accumulo
di cAMP che stimola una ipersecrezione di ioni e acqua che riversandosi nel lume intestinale, provocano
grandi perdite di liquidi. In condizioni normali, la produzione di cAMP viene interrotta dall’enzima GTPasi
che idrolizza il GTP, facendo ritornare l’adenilato ciclasi nella sua forma inattiva. La tossina colerica agisce in
maniera tale che l’adenilato ciclasi resti sempre nel suo stato attivo, non consentendo l’idrolisi del GTP.

I principali alimenti veicoli di V. cholerae sono l’acqua, il pesce, i molluschi, i crostacei, il riso, la carne di
maiale, vegetali e frutta.
Il microrganismo e disattivato da: trattamenti termici (D60 2,65 min; 80-100°C x pochi sec.; 65°C x 10 min);
pH acido (< 4,5); irradiazione; polifosfati.

-isolamento ed identificazione Vibrio cholerae


L’isolamento di Vibrio cholerae negli alimenti sfrutta due caratteristiche importanti del microrganismo: la
tolleranza a pH alcalini e il rapido tempo di generazione.

1) Arricchimento selettivo: In due sacchetti sterili aggiungere 25 g di campione e 225 ml di acqua


peptonata a pH 8,4. Omogeneizzare per 1-2 min in Stomacher.
2) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare un sacchetto a 37°C e uno a 42°C per 6-8 ore.
3) Isolamento su terreno selettivo e differenziale: Strisciare con ansate dell’arricchimento (prelevando
soprattutto la pellicola superficiale) piastre con terreno selettivo TCBS agar (Tiosolfato Bile Citrato
Saccarosio Agar).
4) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare le piastre a 37°C per 18-24 ore.
5) Selezione di colonie tipiche e loro isolamento in coltura pura: Annotare la comparsa di colonie sospette
(tipiche) riferibili a Vibrio spp. che presentino le seguenti caratteristiche: V. cholerae: 2-3 mm di diametro,
lisce e leggermente appiattite, di colore giallo con centro opaco; V. parahaemolyticus: 2-3 mm di diametro,
tonde, con periferia traslucida e centro di colore verde; Altre specie di Vibrio: gialle o verdi. Prelevare una o
più colonie tipiche e strisciarle su piastre contenenti un terreno nutritivo non selettivo (ad esempio Agar
nutritivo; TSA; BHI agar). Incubare le piastre a 37°C per 24 ore.
6) Identificazione (Conferma dell’isolato): Morfologia delle cellule: l’osservazione microscopica deve
rilevare la presenza di piccoli bastoncini diritti o ricurvi.
Gram-reazione: L’osservazione microscopica deve rilevare la presenza di bastoncini ricurvi Gram negativi
(colorati in rosso).
-Catalasi: il test deve rilevare lo sviluppo di effervescenza (sviluppo di gas) che indicherà la presenza
dell’enzima.
-Ossidasi: il test deve rilevare lo sviluppo di colorazione viola che indicherà la presenza dell’enzima.
-Resistenza all’agente vibriostatico O/129 (diamino di-isopropilenpteridine): si distribuisce uniformemente
sulla superficie di una piastra di terreno selettivo usato per l’isolamento una sospensione di una colonia
sospetta, quindi si depone sul terreno un dischetto per antibiogramma contenente l’agente O/129. Dopo
incubazione si rileva la presenza o meno di aloni di inibizione (vedi tabella 10.8.1 e 10.8.2).
-Prove biochimiche: Reazioni su Kliger Iron Agar: acido da glucosio senza produzione di gas; mancata
produzione di H2S. Agglutinazione con antisieri polivalenti anti O1 e anti O139. Impiego di sistemi di
identificazione multitest.

-VIBRIO PARAHAEMOLYTICUS
Bastoncini piccoli e ricurvi, Gram-negativi, mobili per flagelli polari, aerobi-anaerobi facoltativi. Catalasi e
ossidasi positivi. Crescono a valori di pH compresi tra 4,8 e 11 con ottimo di 7,8-8,6 e a valori di
temperatura compresi tra 5 e 43°C (optimum 37°C). Richiede NaCl per la crescita (fino al 7%). Il
microrganismo si sviluppa con valori di a W tra 0,970 e 0,998 , con optimum a 0,984.
Si conoscono 12 antigeni O e 59 antigeni K. Tuttavia, non esiste nessuna correlazione tra virulenza e
sierotipi.
E’ autoctono di acque dolci e costiere. Sopravvive nei sedimenti marini a temperature inferiori a 15°C. In
primavera-estate, si ritrovano nelle acque superficiali, pesci, crostacei e molluschi.
I sintomi compaiono dopo 3-76 ore dall’ingestione dell’alimento contaminato e si manifestano con diarrea,
crampi addominali, nausea e vomito, febbre. La durata della malattia è di 1-8 giorni. La virulenza del
microrganismo è legata ad una emolisina termostabile. E’ parzialmente disattivata a 100°C x 30 min. Studi
condotti su volontari umani hanno dimostrato che l’inizio dei sintomi si ha quando sono ingeriti 2x10 5 -
3x107 UFC di ceppi emolitici.
Gli alimenti maggiormente implicati in episodi epidemici sono risultati essere il pesce, i molluschi e i
crostacei. pH acidi e basse temperature riducono i tempi di sopravvivenza del microrganismo, il quale
presenta tempi di generazione brevi (8-9 min a 37° C). I trattamenti termici eliminano il microrganismo.

-isolamento ed identificazione Vibrio parahaemolyticus


1) Arricchimento selettivo: In un sacchetto sterile aggiungere 25 g di campione e 225 ml di acqua
peptonata a pH 8,4 con il 3% di NaCl. Omogeneizzare per 1-2 min in Stomacher.
2) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare a 37°C per 18-24 ore.
3) Isolamento su terreno selettivo e differenziale: Strisciare con ansate dell’arricchimento piastre con
terreno selettivo TCBS agar (Tiosolfato Bile Citrato Saccarosio Agar).
4) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare le piastre a 37°C per 18-24 ore.
5) Selezione di colonie tipiche e loro isolamento in coltura pura: Annotare la comparsa di colonie sospette
(tipiche) riferibili a Vibrio spp. che presentino le seguenti caratteristiche: V. parahaemolyticus: 2-3 mm di
diametro, tonde, con periferia traslucida e centro di colore verde; V. cholerae: 2-3 mm di diametro, liscie e
leggermente appiattite, di colore giallo con centro opaco; Altre specie di Vibrio: gialle o verdi. Prelevare una
o più colonie tipiche e strisciarle su piastre contenenti un terreno nutritivo non selettivo (ad esempio Agar
nutritivo; TSA; BHI agar). Incubare le piastre a 37°C per 24 ore.
5) Identificazione (Conferma dell’isolato): Morfologia delle cellule: l’osservazione microscopica deve
rilevare la presenza di piccoli bastoncini diritti o ricurvi.
-Gram-reazione: L’osservazione microscopica deve rilevare la presenza di bastoncini ricurvi Gram negativi
(colorati in rosso).
-Catalasi: il test deve rilevare lo sviluppo di effervescenza (sviluppo di gas) che indicherà la presenza
dell’enzima.
-Ossidasi: il test deve rilevare lo sviluppo di colorazione viola che indicherà la presenza dell’enzima.
-Resistenza all’agente vibriostatico O/129 (diamino di-isopropilenpteridine): si distribuisce uniformemente
sulla superficie di una piastra di terreno selettivo usato per l’isolamento una sospensione di una colonia
sospetta, quindi si depone sul terreno un dischetto per antibiogramma contenente l’agente O/129. Dopo
incubazione si rileva la presenza o meno di aloni di inibizione.
-Prove biochimiche: Reazioni su Kliger Iron Agar: acido da glucosio senza produzione di gas; mancata
produzione di H2S. Impiego di sistemi di identificazione multitest.

-CAMPYLOBACTER
Appartiene alla famiglia delle Campylobacteriaceae che raggruppa batteri anaerobi, microaerofili, mobili,
elicoidali, Gram negativi; sono piccoli bastoncini di forma curva o elicoidale, mobili generalmente per un
flagello polare (lungo 2-3 volte la cellula). Hanno diverse forme: a bastoncino, a spirale, a S, curva. Se le
condizioni di crescita non sono favorevoli per il microrganismo, i bastoncini si trasformano in forme
coccoidi che diventano predominanti in colture vecchie.
E’ ampiamente riportata la difficoltà di coltivazione del microrganismo in coltura pura, con rapida perdita di
vitalità. Questa non coltivabilità deriva dalla trasformazione dei bastoncini in coccoidi, che hanno un minor
contenuto citoplasmatico e di acidi nucleici.
Essendo microaerofili, richiedono una concentrazione di ossigeno fra 3 e 15% (meglio 5%) e una
concentrazione di CO2 di 3-10%. Hanno metabolismo respiratorio, non fermentano nessuno zucchero, sono
ossidasi positivi. La temperatura di crescita varia con la specie: tutte crescono a 37°C, alcune anche a 25°C,
altre anche a 42°C. Delle varie specie, C. jejuni e C. coli sono le più frequentemente isolate da pazienti con
malattie enteriche. L’habitat naturale è costituito dall’intestino di animali a sangue caldo (pollame, suini,
pecore, cani, gatti) e uccelli, mentre la trasmissione all’uomo è imputabile ad alimenti di origine animale e
all’acqua.

L’enterocolite acuta ha una incubazione di 2-5 gg fino a 10 gg. I sintomi sono rappresentati da malessere
generale, dolori muscolari, febbre (40°C), crampi addominali e diarrea profusa. Le feci sono acquose o
mucose, con leucociti e sangue.
Il meccanismo patogenetico della malattia non è ben conosciuto. Si ipotizzano tossine simili a quelle di V.
cholerae e processi invasivi. Dose minima infettiva stimata è estremamente variabile, dipendendo dal pH
gastrico e dalla virulenza del ceppo (500-100.000 cellule).

Gli alimenti coinvolti sono molti, di cui i più comuni sono:


Latte crudo: più importante veicolo di infezione, la contaminazione avviene attraverso le feci o da animali
domestici;
Pollame: principale potenziale veicolo di infezione nell’uomo; Campylobacter é naturalmente presente
nell’intestino o sulle carcasse dopo macellazione; tuttavia si ha una drastica riduzione del numero di
Campylobacter nelle fasi successive della macellazione; particolarmente sfavorevole al microrganismo
risulta essere l’essiccamento della superficie delle carcasse.
Vegetali e frutta: possono contaminarsi in seguito a fertilizzazioni organiche o irrigazione con acque
contaminate.
Acqua da bere: solo dopo contaminazioni fecali.

Campylobacter richiede, per la crescita, substrati complessi. I ceppi associati con diarrea non crescono a
temperature inferiori a 30°C (crescita a 43°C); dunque non si moltiplicano in alimenti conservati a
temperatura ambiente. I ceppi mesofili crescono a 25°C ma non sono capaci di crescere a 43°C. La
sopravvivenza del microrganismo è migliore in alimenti refrigerati rispetto a quelli conservati a temperatura
ambiente.
Il microrganismo è sensibile a:
• alte temperature: D55 = 1 min con z = 5°C;
• bassi pH < 4 muoiono rapidamente;
• assenza di umidità: valori di aw 0,98-1,00;
• atmosfera: optimum 7-10% di O2 e 5-10% di CO2;

Per prevenire gli episodi infettivi, bisogna ridurre le infezioni negli allevamenti, controllare l’igiene della
macellazione, effettuare cottura appropriata per gli alimenti carnei, pastorizzare adeguatamente il latte,
evitare la contaminazione crociata tra cibi cotti e crudi, effettuare la pulizia e disinfezione di utensili,
attrezzature e superfici.

-isolamento ed identificazione Campylobacter


1) Arricchimento selettivo: In un sacchetto sterile aggiungere 25 g di campione e 225 ml di brodo Preston.
Omogeneizzare per 1-2 min in Stomacher.
2) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare a 42°C per 18 ore in microaerofilia (atmosfera
arricchita con il 5% di ossigeno e 10% di anidride carbonica).
3) Isolamento su terreno selettivo e differenziale: Strisciare con ansate dell’arricchimento piastre con
terreno selettivo di Karmali e su un altro terreno selettivo a scelta tra Skirrow agar (SA), Butzler Agar (BA),
Preston agar (PA).
4) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare le piastre a 42°C per 1-5 giorni in microaerofilia.
5) Selezione di colonie tipiche e loro isolamento in coltura pura: Annotare la comparsa di colonie sospette
(tipiche) riferibili a Campylobacter che presentino le seguenti caratteristiche: su Karmali Agar: grigie, piatte,
umide e con tendenza a diffondere; su Skirrow agar: rosso chiare. Prelevare una o più colonie tipiche e
strisciarle su piastre contenenti un terreno nutritivo non selettivo (ad esempio Agar nutritivo; TSA; BHI
agar). Incubare le piastre a 30°C per 24 ore.
6) Identificazione (Conferma dell’isolato): Morfologia delle cellule: l’osservazione microscopica deve
rilevare la presenza di piccoli bastoncini ricurvi.
-Gram-reazione: L’osservazione microscopica deve rilevare la presenza di bastoncini ricurvi Gram negativi
(colorati in rosso).
-Catalasi: il test deve rilevare lo sviluppo di effervescenza (sviluppo di gas) che indicherà la presenza
dell’enzima.
-Ossidasi: il test deve rilevare lo sviluppo di colorazione viola che indicherà la presenza dell’enzima.
-Sensibilità all’acido nalidixico e alla cefalotina: si distribuisce uniformemente sulla superficie di una piastra
di terreno selettivo usato per l’isolamento una sospensione di una colonia sospetta, quindi si depone sul
terreno un dischetto per antibiogramma contenente acido nalidixico e uno contenente cefalotina. Dopo
incubazione si rileva la presenza o meno di aloni di inibizione (vedi tabella 10.7).
-Prove biochimiche: Saggio idrolisi ippurato: sospendere un’ansata di coltura del microrganismo cresciuto
su substrato solido per 24 ore in 2 ml di acqua distillata sterile. Aggiungere 0,5 ml di una soluzione di
ippurato di sodio al 5% e incubare a 37°C per 2 ore. Aggiungere 1 ml di soluzione di ninidrina (3,5 g in 50 ml
di acetone e 50 ml di butanolo) e lasciare per altre 2 ore a temperatura ambiente. Lo sviluppo di un intenso
colore viola-porpora è indice di idrolisi dell’ippurato. Impiego di sistemi di identificazione multitest.

-STAPHYLOCOCCUS AUREUS
Si tratta di cocchi Gram-positivi con disposizione irregolare (a grappolo) delle cellule, catalasi positivi,
immobili, non sporigeni, anaerobi facoltativi. Una prima distinzione delle oltre 50 specie di Staphylococcus
è fatta in base alla produzione dell’enzima coagulasi in stafilococchi coagulasi positivi e stafilococchi
coagulasi negativi. L’uomo e gli animali rappresentano la principale riserva di Staphylococcus aureus. Si
trova nelle vie nasali del 30-50% delle persone sane, sulle mani del 20% delle persone, nella gola, nelle feci,
sui capelli, sulle ferite infette di umani e animali e sulle abrasioni della pelle. Il microrganismo è diffuso
largamente nell’ambiente: acqua, aria, attrezzature e superfici di lavoro.
Il microrganismo produce sia emolisine che enterotossine. Le emolisine si dividono in:
-alpha: stafilococchi di origine umana; su agar sangue producono un alone netto di emolisi; le proprietà
tossiche sono legate alla lisi di membrane di cellule varie, dermonecrosi, azione sul sistema respiratorio e
azione sul sistema nervoso centrale;
-beta: stafilococchi di origine animale; su agar sangue danno alone opalescente che diventa nettamente
emolizzato dopo incubazione a 4°C per 12 ore; le proprietà tossiche riguardano attività litica su cellule varie;
-gamma e delta: meno frequenti; presentano attività litica su cellule varie.
Le enterotossine sono proteine di 26.000-34.000 Da, termoresistenti, resistenti a pepsina e tripsina. Si
differenziano mediante reazione con anticorpi specifici in diversi tipi antigenici, A, B, C (C1, C2, C3) D, E. La
dose minima infettiva è di 200-500 ng.

Staphylococcus produce una serie di enzimi ad azione differente: la catalasi degrada l’acqua ossigenata in
acqua e ossigeno, mentre la termonucleasi o DNAsi è un enzima in grado di idrolizzare il DNA. E’
caratterizzata da elevata termoresistenza. . La coagulasi libera è una proteina extracellulare che si lega con
la protrombina dell’ospite, formando un complesso detto staphylocoagulasi in grado di trasformare il
fibrinogeno solubile del plasma in fibrina insolubile. Il clumping factor è una proteina legata alla parete
cellulare di S. aureus in grado di trasformare il fibrinogeno in fibrina.

La crescita di S. aureus avviene a temperature comprese tra 7° e 48°, con optimum a 37° C; il range di pH va
da 4 a 10, con optimum a 6-7; per la crescita sono necessari valori di aW di 0,98.

I sintomi compaiono dopo 30 min - 6 ore dall’ingestione dell’alimento contaminato con le tossine e si
manifestano con nausea, vomito, crampi addominali, diarrea, prostrazione, apiressia. Il microrganismo
produce le tossine nell’alimento in dosi sufficienti a scatenare la malattia quando è presente a livelli di
almeno 105 -106 UFC/g.
Gli alimenti che sono manipolati dall’uomo sono potenzialmente contaminabili da S. aureus. Gli alimenti
principalmente coinvolti in tossinfezioni sono i prodotti di pasticceria, la carne e prodotti carnei, latte e
derivati e preparazioni a base di uova.

-isolamento e identificazione Staphylococcus aureus


1) Preparazione del campione: In un sacchetto sterile aggiungere 10 g di campione e 90 ml di Acqua
peptonata tamponata. Omogeneizzare per 1-2 min in Stomacher. Preparare diluizioni seriali decimali.
2) Isolamento su terreno selettivo e differenziale: Seminare 0,1 ml di ogni diluizione su piastre di Baird
Parker con Egg Yolk Tellurite (BP) o Baird Parker contenente RPF (Plasma di coniglio, fibrinogeno e tellurito
di potassio) (BPRPF).
3) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare a 37°C per 24-48 ore.
4) Selezione di colonie tipiche e loro isolamento in coltura pura: Annotare la comparsa di colonie sospette
(tipiche) che presentino le seguenti caratteristiche: BP: nere o grigie, lucenti e convesse (1-1,5 mm di
diametro) con margine opalescente biancastro e circondante da alone trasparente. BPRPF: grigie, bianche o
nere con alone opaco di precipitazione della fibrina (coagulasi positiva). Prelevare almeno 5 colonie tipiche
e strisciarle su piastre contenenti un terreno nutritivo non selettivo (ad esempio TSA con aggiunto lo 0,6%
di estratto di lievito). Incubare le piastre a 35-37° C per 24 ore.
5) Identificazione (Conferma dell’isolato): Morfologia delle cellule: L’osservazione microscopica deve
rilevare la presenza di forme cocciche aggregate.
-Gram-reazione: l’osservazione microscopica deve rilevare la presenza di cocchi Gram positivi (colorati in
violetto).
-Catalasi: il test deve rilevare lo sviluppo di effervescenza (sviluppo di gas) che indicherà la presenza
dell’enzima.
-Ricerca della coagulasi libera: in un tubo da saggio sterile, miscelare 0,5 ml di coltura del ceppo cresciuto a
37°C per 28-24 h in BHI e 0,5 ml di Plasma di coniglio contenente EDTA. Incubare a 37°C. Osservare dopo 4,
6 e 24 ore la formazione parziale o totale di coagulo. La prova è considerata positiva se il volume del
coagulo occupa più del 75% del volume originario dell’inoculo.
-Ricerca della coagulasi legata: su un supporto solido (cartoncino, vetrino) stemperare 2-3 colonie del
ceppo in esame in una goccia di fibrinogeno e IgG e miscelare. Osservare dopo circa 1 min. la formazione
eventuali agglutinazioni.
-Prove biochimiche: impiego di sistemi di identificazione multitest specifici per Staphylococcus.

-LISTERIA MONOCYTOGENES
Al genere Listeria appartengono 8 specie: L. monocytogenes, L. innocua, L. ivanovii, L. welshimeri, L.
seeligeri, L. grayi, L. murrayi e L. denitrificans. Di queste 8, L. grayi e L. murrayi hanno collocazione incerta,
mentre L. denitrificans è stata spostata nel genere Murraya.
Tre specie del genere Listeria producono ß-emolisi: L. seeligeri e L. ivanovii, generalmente patogene per gli
animali e solo eccezionalmente per l’uomo e L. monocytogenes patogena per l’uomo e per gli animali.

L. monocytogenes è un corto bastoncino, Gram positivo, non sporigeno; non forma capsule, è mobile per
flagelli peritrichi che gli consentono una motilità “rotatoria”. Talvolta può presentarsi con cellule curve,
singole o in corta catena con disposizione a forma di V o Y. E’ catalasi positivo, ossidasi negativo, rosso-
metile (RM) e Voges Proskauer (VP) positivo. Non idrolizza urea, gelatina e caseina. Non riduce i nitrati, non
produce indolo e idrogeno solforato; è un microrganismo aerobico e microaerofilo.
Fermenta glucosio, fruttosio, mannosio, galattosio, cellobiosio, trealosio e saccarosio; la fermentazione di
lattosio, maltosio, saccarosio, glicerolo e sorbitolo è invece ritardata. Il glucosio é fermentato a 37°C
secondo lo schema glicolitico con produzione quasi esclusiva di acido lattico.
Da un punto di vista sierologico L. monocytogenes contiene 13 sierotipi (1/2a, 1/2b, 1/2c, 3a, 3b, 3c, 4a,
4ab, 4b, 4c, 4d, 4e, 7). di cui solo il 4b, l’1/2a e l’1/2b sono risultati responsabili di listeriosi.

Cresce a temperature comprese fra 3 e 45°C con ottimo di sviluppo a 30-37°C. Cresce a pH compresi tra 5 e
9 e in presenza di NaCl al 10%.

L. monocytogenes é un batterio altamente adattabile ed é largamente distribuito nell’ambiente grazie alla


sua capacità di crescere in “range” molto ampi di temperatura, pH e pressione osmotica. E’ stato trovato
nel terreno, coltivato e non, in tessuti vegetali in decomposizione, nelle acque di scarico, di fogne e
superficiali, nel tratto intestinale di molti uccelli e mammiferi e in prodotti alimentari quali latte, formaggi,
carne, frutta, vegetali e frutti di mare.

La listeriosi è considerata una zoonosi anche se la trasmissione da animali all’uomo è stata raramente
dimostrata. L’isolamento del microrganismo da sorgenti quali suolo e vegetazione in decomposizione,
fanno supporre un’esistenza saprofitica nel sistema pianta-suolo che potrebbe rappresentare un naturale
serbatoio di trasmissione. L. monocytogenes è stata spesso associata al tratto intestinale o con infezioni
latenti di una grande varietà di animali selvatici e domestici; inoltre, gli uccelli sono possibili vettori
responsabili della contaminazione dei foraggi insilati. E’ ormai accettato che la via orale sia la normale via di
ingresso di L. monocytogenes (ma anche la via oculare, nasale, respiratoria e cutanea) e il tratto gastro-
intestinale il primario sito di infezione in seguito all’ingestione di alimenti contaminati, considerati il
maggior veicolo di trasmissione. Allo stato attuale, pertanto, L. monocytogenes è considerato un patogeno
trasmissibile con gli alimenti. A differenza di altri microrganismi trasmessi con gli alimenti, L.
monocytogenes colpisce organi diversi dall’apparato digerente, come il sistema nervoso centrale,
l’apparato cardiovascolare, l’apparato respiratorio, gli occhi, le ossa e la pelle, determinando forme cliniche
diverse.
Le manifestazioni cliniche della listeriosi umana differiscono tra i gruppi più suscettibili: nelle donne in stato
di gravidanza si hanno sintomi simil-influenzali talora faringite e diarrea e solo occasionalmente meningite.
L’infezione può essere trasmessa al feto per via intraplacentare, o durante il parto. Il neonato colpito da
listeriosi può presentare gravi affezioni del sistema respiratorio, insufficienza cardiaca, cianosi,
granulomatosi infantisettica, setticemia e meningite. Le manifestazioni cliniche meglio conosciute ed anche
le più severe sono rappresentate dalla meningite e dalla meningoencefalite.
Nei bambini i sintomi principali sono respirazione frequente, cianosi, letargia, in genere seguita da delirio e
coma.
Negli adulti si ha una prima fase, di circa 10 giorni, con sintomi di tipo influenzale, seguita da febbre alta,
disturbi al sistema nervoso centrale, coma e morte.
Altre manifestazioni della listeriosi, spesso atipiche, sono rappresentate da setticemie, endocarditi,
faringite, ascessi polmonari, pleurite, congiuntiviti, lesioni e ascessi cutanei. Nonostante le recenti epidemie
la listeriosi umana risulta una malattia sporadica, con un’incidenza media di 4-8 casi all’anno, ma una
mortalità che raggiunge valori anche del 70%, con una media attorno al 20-22%.

I meccanismi d’azione di L. monocytogenes, che causano listeriosi, non sono del tutto chiari: oltre all’effetto
emolitico, differenti enzimi e attività metaboliche possono essere coinvolti nei processi infettivi, come la
catalasi, la superossidodismutasi e i sistemi di trasporto del ferro. L’emolisina prodotta da L.
monocytogenes, chiamata listeriolisina O (uno dei principali fattori di virulenza) è una tossina batterica, di
natura proteica, a gruppo sulfidrico attivato (-SH). L’attività litica su cellule dei tessuti e sui globuli rossi è
inibita da bassi livelli di colesterolo o di agenti ossidanti mentre viene aumentata da agenti riducenti.

Forse il più grave caso di listeriosi è quello avvenuto in California nella prima metà del 1985. Vi furono 142
casi, di cui 93 infezioni materno-fetoneonatali e 49 in adulti, con un totale di 48 morti (34%). L’infezione
risultò collegata con l’ingestione di formaggio di tipo Messicano (Jalisco cheese) fabbricato da un singolo
produttore. Il sierotipo 4b fu isolato dal formaggio e nell’impianto di produzione. Le probabili cause della
presenza di L. monocytogenes furono imputate ad una eventuale miscelazione di latte crudo a quello
pastorizzato o ad una contaminazione postpastorizzazione.

L. monocytogenes ha la capacità di adattarsi e moltiplicarsi nelle varie condizioni tecnologiche che


caratterizzano i processi di produzione, trasformazione, conservazione e distribuzione degli alimenti; infatti,
presenta una certa, anche se discussa, tolleranza ai trattamenti termici, ed è in grado di moltiplicarsi a
temperature di frigorifero, in presenza di cloruro di sodio e nitrati, a bassi valori di pH e di attività
dell’acqua.

-Latte
Numerose indagini sono state condotte in tutto il mondo per valutare l’incidenza di L. monocytogenes in
questo alimento, e il suo comportamento nel prodotto contaminato artificialmente.
Molte indagini condotte sul latte crudo in vari paesi del mondo hanno evidenziato un’incidenza variabile di
L. monocytogenes nel latte crudo. Sebbene eccezionalmente, L. monocytogenes è stata ritrovata anche nel
latte pastorizzato.
La tolleranza del microrganismo ai trattamenti di pastorizzazione è oggetto di numerose controversie: L.
monocytogenes fu ritrovata nel latte dopo pastorizzazione a 61,7°C per 35 min, ma successive ricerche
dimostrarono che tale presenza era da imputare alla inadeguata procedura usata per determinarne la
termoresistenza.
Studi condotti trattando il latte crudo inoculato con 10 5 cellule/ml di L. monocytogenes indicarono un
valore di D a 71,7°C di 0,9 sec (limiti tra 0,8 e 1,1 sec), sufficiente per inattivare 15 log 10 di L.
monocytogenes.
Molte ricerche sono state condotte sulla localizzazione intracellulare di L. monocytogenes nei leucociti
polimorfonucleati e nei macrofagi presenti nel latte vaccino, come possibile causa della sua
termoresistenza, ma tali ricerche hanno evidenziato che questa posizione intracellulare non aumenta di
molto la termoresistenza del microrganismo.
In definitiva, i numerosi studi condotti sulla termoresistenza di L. monocytogenes consentono di concludere
che, sebbene L. monocytogenes rientri tra i batteri asporigeni difficili da distruggere negli alimenti, con le
cariche in cui essa si ritrova normalmente nel latte crudo, i procedimenti tradizionali di pastorizzazione
(72°C per 15 sec) risultano sufficienti per garantire la sicurezza del consumatore.
Il latte crudo può essere facilmente contaminato da L. monocytogenes dopo la raccolta attraverso sorgenti
ambientali (suolo, feci, insilati, ecc.) o essere escreto dalla mammella di animali infetti già contaminato.
E’ stato trovato che vacche mastitiche possono eliminare il patogeno nel latte a livelli di 10 4-105 cellule per
ml, con possibilità di moltiplicazione che dipende dalla temperatura di conservazione del latte post-
raccolta.
La capacità di L. monocytogenes di crescere alle temperature di refrigerazione, ha determinato una vasta
ricerca riguardo il suo comportamento nel latte conservato a basse temperature. Tali ricerche dimostrano
che in latte conservato a 4°C, il patogeno presenta tempi di generazione variabili da 25 a 45 con tempi di
lag-fase fra 3 e 5 giorni.
L. monocytogenes, inoculata in latte crudo di vacca, di capra e di bufala a livelli di 10 3 UFC/ml, dopo 72 ore
di conservazione a 5°C subisce incrementi di 1 log in tutti e tre i tipi di latte. Alcuni ricercatori hanno trovato
che colture di L. monocytogenes cresciute a 4°C risultavano più virulente di quelle cresciute a 37°C. Dai
risultati sulla psicrotrofia di L. monocytogenes ne consegue che la refrigerazione del latte fornisce una
limitata protezione contro questo microrganismo garantendo solo un rallentamento dei tempi di sviluppo.

-formaggi e altri prodotti caseari


L. monocytogenes è stata trovata frequentemente anche nei formaggi e altri derivati del latte. E’ stata
inoltre isolata da formaggi di capra, formaggi di pecora, da yogurt e ice-cream. L’incidenza media nei
formaggi è dello 0-10%, con livelli di microrganismo compresi tra 1 e 100 UFC/g, anche se in alcuni formaggi
si arriva pure a 107-108 UFC/g. Nei formaggi italiani è stata dimostrata una percentuale di campioni positivi
compresa tra 0 e 4%, risultando particolarmente contaminati i formaggi erborinati e quelli a pasta molle. In
generale non é stata evidenziata una differente incidenza del patogeno nei formaggi ottenuti con latte
crudo rispetto a quelli ottenuti con latte pastorizzato. La presenza di L. monocytogenes nei formaggi, più
che ai trattamenti termici, va imputata alla contaminazione delle superfici, delle attrezzature, delle acque di
scarico e degli ambienti adibiti alla trasformazione casearia.
L. monocytogenes ha la capacità di sopravvivere ai processi di trasformazione e maturazione di differenti
tipi di formaggi. Infatti è stato riportato che il patogeno resta costante o aumenta solo lievemente nel corso
della fabbricazione di molti formaggi come il cheddar, il cottage, l’italico e altri ancora, concentrandosi in
genere nella cagliata, per poi subire decrementi durante la maturazione, restando rilevabile alla fine della
stessa.
Diverso è il comportamento di L. monocytogenes in formaggi molli a maturazione superficiale come il
Camembert e il Brick o quelli erborinati tipo Gorgonzola e Blue cheese. La maturazione di questi formaggi é
caratterizzata dallo sviluppo di microflore disacidificanti (lieviti, muffe, Micrococcaceae e Brevibacteriaceae)
che possono rendere il substrato più favorevole all’accrescimento del patogeno.
Il comportamento di L. monocytogenes é stato studiato anche in molti ingredienti utilizzati nelle industrie
casearie, quali diversi tipi di cagli e coloranti. Cagli commerciali inoculati con 10 3 e 107 UFC/ml di L.
monocytogenes risultavano liberi dal patogeno dopo 14, 28 e 42 giorni in funzione dell’inoculo iniziale.
L. monocytogenes é conosciuta come una specie caratterizzata da una certa acido-tolleranza. Il pH minimo
a cui essa può crescere non é ancora stato ben definito: è stato riportato che il microrganismo non cresce a
valori di pH inferiori a 5,6 in substrati sintetici, mentre in “cabbage juice” (succo di cavolo) é stata rilevata la
crescita a pH 5,0. La capacità di L. monocytogenes di crescere a bassi valori di pH é fortemente influenzata
dalla temperatura di incubazione e dalla concentrazione di sali. Nei prodotti lattiero-caseari, sono stati
registrati valori minimi di pH per la crescita di L. monocytogenes variabili tra 5,1 e 5,4 con comportamenti
diversi del patogeno in funzione delle caratteristiche del prodotto e delle colture starter di fermenti lattici
impiegate. In generale, i valori di pH dei formaggi sono tali da non consentire la crescita di L.
monocytogenes ma soltanto la sua sopravvivenza per tempi variabili.
Le colture selezionate di fermenti lattici usate per le produzioni casearie sono in grado di svolgere attività
antagonistiche nei confronti di microflore indesiderate, sia patogene che alterative. La fermentazione del
lattosio ad acido lattico ed il conseguente abbassamento del pH rappresenta uno dei principali fattori in
grado di influenzare il comportamento di L. monocytogenes nei formaggi e in altri derivati del latte. Ad
esempio è stato visto che in latte scremato sterile, fermentato con ceppi di Lactococcus lactis, L.
monocytogenes subisce riduzioni fino a 2 log rispetto al latte controllo senza batteri lattici.
Diversi studi sono stati fatti anche sul comportamento di L. monocytogenes durante la produzione e
conservazione dello yogurt, riscontrando che anche quando la concentrazione del patogeno è alta si assiste
ad un suo rapido decremento, dovuto all’acidità del prodotto. Quando il pH dello yogurt scende a valori di
3,5 il patogeno non risulta più rilevabile dopo 1-2 giorni di conservazione a 4°C. Il comportamento di L.
monocytogenes è stato studiato anche durante la conservazione a 4°C di yogurt subito dopo il processo di
fermentazione con circa 104-105 UFC/ml del patogeno ritrovando una sopravviveva variabile da 21 a 25
giorni, avendosi comunque una drastica riduzione della popolazione del patogeno durante i primi 8-12
giorni di conservazione a 4°C.
L’azione antagonistica esercitata dai batteri lattici nei confronti di L. monocytogenes può essere dovuta alla
produzione, da parte di alcuni ceppi, di sostanze ad azione inibente, tra le quali le batteriocine hanno la più
forte azione antimicrobica. Tra le batteriocine conosciute, la nisina prodotta da ceppi di Lactococcus lactis
subsp. lactis è sicuramente più importante. Sebbene le batteriocine diverse dalla nisina non siano state
approvate per un uso diretto come additivi alimentari, i batteri lattici che le producono possono essere
impiegati come colture starter e/o “protettive” nella fabbricazione di molti prodotti caseari.

-carne e prodotti carnei


Alcuni prodotti carnei, in particolare paté, sono stati coinvolti in recenti epidemie. Inoltre numerosi prodotti
carnei sono stati associati con casi sporadici di listeriosi. Una grande varietà di carni e prodotti carnei, sia
crudi che cotti, sono stati analizzati per la presenza di L. monocytogenes. Il patogeno é stato isolato da
carne cruda di bovini, suini, ovini, equini e pollame.
L. monocytogenes è stata rinvenuta in 122 campioni su 1700 analizzati di carne cruda di manzo (7,1%) e in
29 (58%) di 50 campioni di carne macinata di bovino. L’incidenza di L. monocytogenes nella carne di maiale
risulta compresa tra 0 e 68% dei campioni analizzati. Anche la carne di pollame risulta fortemente
contaminata da L. monocytogenes, con incidenze variabili tra il 12 e il 60% dei campioni.
Nella maggior parte dei casi, la fonte più importante della contaminazione da L. monocytogenes è risultata
la pelle degli animali, dalla quale il patogeno si diffonde alle attrezzature e ai locali di lavorazione e da
questi alle carni. L. monocytogenes è stata isolata molto frequentemente anche da prodotti carnei pronti
per essere mangiati, sia cotti che crudi. Per quanto concerne i livelli di contaminazione della carne cruda, i
dati relativi alle indagini fatte in Europa, indicano che L. monocytogenes solo occasionalmente, raggiunge
valori di 103 UFC/g.
La maggior parte dei ceppi di L. monocytogenes isolati da carne appartengono al sierotipo 1/2, con una
piccola proporzione appartenenti ai sierotipi 3 e 4.
Per quanto riguarda il comportamento di L. monocytogenes nei prodotti carnei, studi condotti con carne
macinata di manzo inoculata con il patogeno e conservata a 4°C rivelano l’incapacità di L. monocytogenes di
moltiplicarsi durante la conservazione, pur restando essa vitale per lunghi periodi. In generale, si può dire
che il comportamento del patogeno nella carne è fortemente dipendente dal pH, dalla temperatura di
conservazione e dal tipo e quantità di microflora naturale della carne. Un aumento della microflora naturale
della carne da 105 a 107 UFC/g comporta un aumento della inibizione della crescita di L. monocytogenes
durante la conservazione a temperature tra 7 e 20°C. Inoltre la crescita del patogeno risulta possibile in
prodotti carnei con pH uguali o superiori a 6, mentre risulta fortemente inibita o arrestata a pH inferiori a 5.

Numerosi studi sono stati fatti anche sul comportamento di L. monocytogenes durante le fasi di
preparazione dei salami, sia freschi che fermentati. In generale, nella maggioranza degli esperimenti è
riportata una riduzione di L. monocytogenes di almeno 100 volte durante la fabbricazione dei salami
fermentati; riduzione della crescita che viene imputata all’azione combinata dell’acidità, dell’attività
dell’acqua, di sale e di nitriti e nitrati. In ogni modo, i processi di fermentazione e di essiccazione dei salami,
così come l’aggiunta di vari additivi, alle concentrazioni consentite, possono essere visti come un mezzo per
ridurre ma non per eliminare L. monocytogenes dal prodotto. Anche nel caso dei prodotti carnei una
maggiore garanzia contro il pericolo di listeria può essere assicurata dall’aggiunta di adatte colture
protettive produttrici di batteriocine ad attività antilisterica.

-uova e prodotti d’uovo


L. monocytogenes non è mai stata isolata da uova intere intatte, mentre è stata in uova intere liquide
(sgusciate). Studi sul comportamento di L. monocytogenes nelle uova intere liquide, nel tuorlo e
nell’albume contaminati artificialmente dimostrano che la crescita del patogeno è confinata principalmente
nel tuorlo, con tempi di generazione a 5°C di circa 2 giorni mentre, nell’albume (pH 8,9) il patogeno subisce
riduzioni nel corso della conservazione. In uova intere, nel tuorlo e nell’albume cotti (121°C per 15 min) L.
monocytogenes cresce molto rapidamente fino a raggiungere valori superiori a 10 7 UFC/ml durante 7 giorni
di conservazione a 4°C. Per quanto riguarda la termoresistenza di L. monocytogenes in uova liquide intere,
diversi studi riportano che i valori di temperatura e tempo (60°C per 3,5 min) normalmente utilizzati
industrialmente per la pastorizzazione di questi prodotti, comportano una riduzione del numero di L.
monocytogenes di 2-3 log. Una completa inattivazione del patogeno, quando viene inoculato in questi
prodotti a livelli di 108 UFC/ml, può essere ottenuta con i seguenti processi di pastorizzazione (°C/min):
62/16, 64/8, 66/4,5, 69/1,6 e 72/0,6.

-prodotti di origine vegetale


Vegetali come cavoli, pomodori, lattuga e sedano sono risultati implicati in due importanti epidemie di
listeriosi umana. L’associazione di L. monocytogenes con i vegetali non è sorprendente, dal momento che il
microrganismo è stato comunemente isolato dal terreno oltre che da tessuti vegetali in decomposizione. In
generale, si può dire che maggiormente contaminati da L. monocytogenes risultano quei vegetali che per le
loro caratteristiche biologiche vivono in più stretta associazione con il terreno. Inoltre L. monocytogenes è
in grado di crescere e/o sopravvivere su molti tipi di vegetali durante i normali tempi di conservazione.

-pesce e altri prodotti del mare


Alcuni casi sporadici di listeriosi sono stati associati al consumo di pesci e molluschi. Il patogeno è stato
isolato sia da pesci e molluschi congelati che freschi. Inoltre molti studi hanno dimostrato che il patogeno è
in grado di crescere e sopravvivere su tali prodotti a temperatura di refrigerazione.

-ricerca di Listeria monocytogenes negli alimenti


1) Arricchimento selettivo primario: In un sacchetto sterile aggiungere 25 g di campione e 225 ml Half
Frazer Broth (Brodo di Frazer con una ridotta concentrazione di agenti selettivi). Omogeneizzare per 1-2
min in Stomacher.
2)Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare per 24 ore a 30° C.
3) Arricchimento selettivo secondario: Trasferire 0,1 ml del brodo di arricchimento in 10 ml di Frazer Broth.
4) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare a 35-37°C per 48 ore.
5) Isolamento su terreno selettivo e differenziale: Strisciare con ansate di ciascun brodo di arricchimento
(primario e secondario) una piastra di Oxford agar e una piastra di Palcam agar.
6) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare le piastre a 30-37° C per 24+24 ore.
7) Selezione di colonie tipiche e loro isolamento in coltura pura: Annotare la comparsa di colonie sospette
(tipiche) che presentino le seguenti caratteristiche:
- su Oxford agar: piccole (1 mm di diametro) grigiastre circondate da un alone nero dovuto all’idrolisi
dell’esculina. Dopo 48, le colonie, tendono a diventare più scure e più grandi leggermente infossate nel
terreno con centro concavo;
- su Palcam agar: piccole, grigio-verde o grigio-oliva con alone nero e talvolta con il centro nero, su sfondo
rosso del substrato.
Prelevare almeno 3-5 colonie tipiche e strisciarle su piastre contenenti un terreno nutritivo non selettivo
(ad esempio TSA con aggiunto lo 0,6% di estratto di lievito). Incubare le piastre a 35-37° C per 24 ore.
8) Identificazione (Conferma dell’isolato): Morfologia delle cellule: L’osservazione microscopica deve
rilevare la presenza di bastoncini.
-Gram-reazione: l’osservazione microscopica deve rilevare la presenza di bastoncini Gram positivi (colorati
in violetto).
-Catalasi: il test deve rilevare lo sviluppo di effervescenza (sviluppo di gas) che indicherà la presenza
dell’enzima.
-Mobilità: inoculare per infissione una provetta contenente il terreno Motility medium con un’ansata della
coltura del ceppo cresciuto per 24 ore in TSB a 20-25°C, ed incubare a 25°C per 48 ore. I batteri mobili
cresceranno anche intorno alla linea di infissione (tipica crescita "ad ombrello").
-Emolisi su agar sangue: inoculare per infissione più punti di una piastra contenente Agar sangue. Dopo
incubazione a 37°C Listeria monocytogenes presenta zone di beta emolisi molto strette.
-Prove biochimiche: Impiego di sistemi di identificazione multitest specifici per Listeria. Conferma
sierologia: agglutinazione su vetrino con antisieri O.

-ricerca di Listeria monocytogenes nel latte e derivate del latte


1) Arricchimento selettivo primario: In un sacchetto sterile aggiungere 25 g o 25 ml di campione e 225 ml
Listeria Enrichment Broth. Omogeneizzare per 1-2 min in Stomacher.
2) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare per 24+24 ore e fino a 7 giorni a 30° C.
3) Arricchimento selettivo secondario: Trasferire 0,1 ml del brodo di arricchimento in 10 ml di Listeria
Enrichment Broth.
4) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare a 35-37°C per 48 ore.
5) Isolamento su terreno selettivo e differenziale: Strisciare con ansate di ciascun brodo di arricchimento
(primario e secondario) una piastra di Oxford agar; può essere usato anche il Palcam agar.
6) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare le piastre a 37° C per 24+24 ore.
7) Selezione di colonie tipiche e loro isolamento in coltura pura: Annotare la comparsa di colonie sospette
(tipiche) che presentino le seguenti caratteristiche:
- su Oxford agar: piccole (1 mm di diametro) grigiastre circondate da un alone nero dovuto all’idrolisi
dell’esculina. Dopo 48, le colonie, tendono a diventare più scure e più grandi leggermente infossate nel
terreno con centro concavo.
- su Palcam agar: piccole, grigio-verde o grigio-oliva con alone nero e talvolta con il centro nero su sfondo
rosso del substrato.
Prelevare almeno 3-5 colonie tipiche e strisciarle su piastre contenenti un terreno nutritivo non selettivo
(ad esempio TSA con aggiunto lo 0,6% di estratto di lievito). Incubare le piastre a 35-37° C per 24 ore.
8) Identificazione (Conferma dell’isolato): Morfologia delle cellule: L’osservazione microscopica deve
rilevare la presenza di bastoncini.
-Gram-reazione: l’osservazione microscopica deve rilevare la presenza di bastoncini Gram positivi (colorati
in violetto).
-Catalasi: il test deve rilevare lo sviluppo di effervescenza (sviluppo di gas) che indicherà la presenza
dell’enzima.
-Mobilità: inoculare per infissione una provetta contenente il terreno Motility medium, con un’ansata della
coltura del ceppo cresciuto per 24 ore in TSB a 20-25°C, ed incubare a 25°C per 48 ore. I batteri mobili
cresceranno anche intorno alla linea di infissione (tipica crescita "ad ombrello").
-Emolisi su agar sangue: inoculare per infissione più punti di una piastra contenente Agar sangue. Dopo
incubazione a 37°C Listeria monocytogenes presenta zone di beta emolisi molto strette.
-Prove biochimiche: Impiego di sistemi di identificazione multitest specifici per Listeria. Conferma
sierologia: agglutinazione su vetrino con antisieri O.

-numerazione di Listeria monocytogenes in alimenti da consumarsi previa cottura, con la tecnica MPN
1) Preparazione del campione: In un sacchetto sterile aggiungere 10 g di campione e 90 ml di Acqua
peptonata tamponata. Omogeneizzare per 1-2 min in Stomacher. Preparare diluizioni seriali decimali fino
alla diluizione 1:1000.
2) Semina provette: Seminare in triplice 1 ml delle diluizioni (1:10; 1:100 e 1:1000) in 9 ml di Frazer Broth.
3) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare a 32°C per 24-48 ore.
4) Isolamento su terreno selettivo e differenziale: Strisciare con ansate di coltura da ciascuna provetta che
presenti annerimento del brodo su una piastra di Oxford agar.
5) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare le piastre a 37° C per 24+24 ore.
6) Selezione di colonie tipiche e loro isolamento in coltura pura: Annotare la comparsa di colonie sospette
(tipiche) che presentino le seguenti caratteristiche: piccole (1mm di diametro) grigiastre circondate da un
alone nero dovuto all’idrolisi dell’esculina. Dopo 48 tendono a diventare più scure e più grandi leggermente
infossate nel terreno con centro concavo. Prelevare almeno 5 colonie tipiche e strisciarle su piastre
contenenti un terreno nutritivo non selettivo (ad esempio TSA con aggiunto lo 0,6% di estratto di lievito).
Incubare le piastre a 35-37° C per 24 ore.
7) Identificazione (Conferma dell’isolato): Morfologia delle cellule: L’osservazione microscopica deve
rilevare la presenza di bastoncini.
-Gram-reazione: l’osservazione microscopica deve rilevare la presenza di bastoncini Gram positivi (colorati
in violetto).
-Catalasi: il test deve rilevare lo sviluppo di effervescenza (sviluppo di gas) che indicherà la presenza
dell’enzima.
-Mobilità: inoculare per infissione in Motility medium un’ansata della coltura del ceppo cresciuto per 24 ore
in TSB a 20-25°C, ed incubare a 25°C per 48 ore. I batteri mobili cresceranno anche intorno al punto di
infissione (tipica crescita "ad ombrello").
-Emolisi su agar sangue: inoculare per infissione più punti di una piastra contenente Agar sangue. Dopo
incubazione a 37°C Listeria monocytogenes presenta zone di beta emolisi molto strette.
-Prove biochimiche: Fermentazione del ramnosio: (+)
Fermentazione dello xylosio: (-)
Fermentazione del mannitolo: (-)
Prova biologica: si iniettano in 5 topini Swiss 0,1 ml di una sospensione in soluzione fisiologica del
sedimento della coltura del ceppo in esame cresciuto per 24 ore in TSYB. Si osservano i topi per 5 giorni. Dai
risultati dei vari test si determina il MPN/g dalle apposite tavole.

-limiti per Listeria monocytogenes in alimenti sfusi o preconfezionati destinati per loro natura ad essere
consumati previa cottura o che rechino sulla confezione la dizione “da consumarsi previa cottura”
1) Alimenti crudi non sottoposti a trattamento di riscaldamento: non oltre 11/g in 1 uc; non oltre 110/g in 2
uc.
2) Alimenti congelati o surgelati: non oltre 11/g in 2 uc; non oltre 110/g in 3 uc.
3) Alimenti precotti o pastorizzati: non oltre 11/g in 4 uc; non oltre 110/g in 1 uc.

Capitolo 11 – MICROBIOLOGIA DEL LATTE E DEI PRODOTTI


CASEARI
Una definizione di latte crudo è: il latte prodotto mediante secrezione della ghiandola mammaria di animali
di allevamento che non è stato riscaldato a più di 40°C e non è stato sottoposto ad alcun trattamento
avente un effetto equivalente.
Un’azienda di produzione del latte è lo stabilimento in cui si trovano uno o più animali di allevamento
destinati alla produzione di latte ai fini della sua immissione in commercio quale alimento.
Il latte è una pseudo soluzione colloidale, di colore bianco opaco, dal sapore dolce, con pH vicino alla
neutralità, costituito da una fase acquosa nella quale sono disperse molecole solubili, colloidali, grassi e
altre sostanze in quantitativi minimi ma ad alta attività biologica. Grazie alla sua composizione chimica, può
essere considerato un alimento completo. I costituenti principali e quelli minori variano, nell’ambito della
stessa specie, a seconda della razza, dell’individuo, dello stato di lattazione, dei fattori stagionali e del tipo
di alimentazione.

-composizione chimica
Il valore alimentare del latte dipende innanzitutto dal suo contenuto proteico: la caseina e la lattoalbumina
sono proteine complete, cioè contengono tutti gli amminoacidi necessari per il fabbisogno dell’organismo.
-La percentuale di ACQUA nel latte varia molto a seconda dell'animale: si va da circa l’80% nella pecora fino
a circa il 90% nella cavalla. Nel latte di vacca l'acqua è mediamente l'87.5%. Essa contiene sostanze disperse
allo stato di soluzione.
-Gli ZUCCHERI presenti nel latte sono suddivisi in zuccheri neutri (lattosio e suoi derivati), zuccheri azotati
(N-acetilglucosammina, N-acetilgalattosammina) e in zuccheri acidi (acido sialico).
Il lattosio è un disaccaride costituito da galattosio e glucosio, ed è presente sotto le due forme isomeriche,
α e β, che si differenziano per la posizione dell’ossidrile sul carbonio 1 del glucosio. E’ il componente del
latte più abbondante ed è esclusivo delle ghiandole mammarie: il latte vaccino ne contiene il 4.5% circa.
Viene idrolizzato nei suoi monosaccaridi componenti dall’ enzima beta-galattosidasi (o lattasi); questo
enzima è prodotto da numerose specie batteriche. La fermentazione del lattosio operata dai batteri lattici è
una delle fermentazioni alimentari più antiche conosciute.
Il lattosio, in persone deficienti di lattasi è in grado di causare intolleranze nei riguardi del latte.
-Il contenuto in PROTEINE del latte si aggira intorno al 3,4-3,5%, ed è formato dall’80% di caseina e dal 20%
di sieroproteine. La caseina è una proteina costituita da varie frazioni denominate α, β, γ, k, di ognuna delle
quali si conosce un certo numero di varianti genetiche. Le caseine si ritrovano nel latte sotto forma di
micelle, cioè, complessi macromolecolari che inglobano sali minerali. La caseina coagula per azione di
enzimi proteolitici; quando precipita da origine alla cagliata, la base per produrre i formaggi.
Le sieroproteine sono finemente disperse e più stabili delle micelle di caseina; nel latte vaccino
rappresentano circa il 20% dell’azoto proteico. Sono rappresentate principalmente dalla β-lattoglobulina e
α-lattoalbumina, e rispetto alle caseine contengono meno acido glutammico e prolina e più amminoacidi
solforati. Non precipitano per effetto degli enzimi, ma si separano dal siero (coagulano) con la temperatura.
-L’azoto non proteico, si ritrova nel latte vaccino dal 3% all’8% dell’azoto totale del latte; il più abbondante
è l’urea, che svolge una funzione tecnologica importante, essendo un fattore di stabilizzazione delle micelle
proteiche durante il riscaldamento del latte; altre sostanze azotate non proteiche sono rappresentate dagli
amminoacidi liberi.
-La composizione in LIPIDI varia dal 3% all’8%; possiamo distinguere i lipidi in neutri (trigliceridi, 98% del
grasso), fosfolipidi (polari, 1%) e steroli. Si possono ritrovare per la maggior parte in forma libera (lipidi
neutri) e in parte legati alle proteine (fosfolipidi).
Il grasso del latte è presente come emulsione sotto forma di globuli che hanno un peso specifico inferiore
all'acqua e che quindi tendono a risalire in superficie, formando uno strato di crema.
-Il latte è ricco di SALI MINERALIS, anche se presenti in quantità molto piccole e variabili; essi sono
importanti sia da un punto di vista alimentare, sia da un punto di vista tecnologico, in quanto stabilizzano le
caseine durante il processo di coagulazione presamica.
-Il latte contiene numerose VITAMINE come A, B1, B2, B5 e B12, che sono in parte distrutte dai trattamenti
termici.

-caratteristiche chimico-fisiche
-Il latte presenta pH debolmente acidi; il latte vaccino presenta pH di 6,5-6,7. Valori di pH inferiori indicano
che il latte ha subito processi di acidificazione (elevata contaminazione microbica), mentre valori di pH più
alti fanno sospettare un latte mastitico o di fine lattazione. L’innalzamento del pH è da imputare ad un
maggiore contenuto di sieroproteine a scapito del contenuto in caseina.
-Il latte ha una sua acidità naturale che dipende dalla quantità di fosfati, citrati, CO2 e proteine presenti;
dopo la mungitura, in funzione della contaminazione microbica e della temperatura di conservazione, il
lattosio è fermentato dai batteri presenti ad acido lattico, con conseguente aumento dell’acidità. L’aumento
di acidità è sintomo di alterazione, dunque la determinazione dell’acidità è un indice di freschezza del
prodotto. Essa si esprime in °SH (gradi Soxhlet Henkel) e corrisponde ai ml di NaOH 0,25 N necessari a
neutralizzare, in presenza dell’indicatore fenoftaleina 100 ml di latte. Un buon latte ha un’acidità totale di
6,5-7,5°SH.
-La densità del latte varia con la specie di provenienza. Per il latte bovino, la densità è compresa tra 1,030 e
1,033 g/ml a 20°C. La misura della densità permette di verificare la genuinità del latte e l’assenza di
adulterazioni quali annacquamento, che farebbero variare la densità del prodotto.
-Il punto di congelamento è un indice di potenziale annacquamento del latte: le sostanze naturalmente
disciolte nel latte ne abbassano il punto di congelamento sotto i 0° C; un eventuale annacquamento fa
tendere il punto di congelamento verso lo zero. Il latte vaccino ha un punto di congelamento, di -0,55°C.

-contaminazione microbica del latte


Il latte, subito dopo la mungitura, non è sterile, ma spesso contiene, anche se in basso numero,
microrganismi denominati “commensali della mammella” e rappresentati soprattutto da micrococchi e
streptococchi. Contiene anche sostante dotate di azione antimicrobica che si protrae per circa due ore
dopo la mungitura. Nel latte vi sono inoltre, altre sostanze con attività antibatterica, quali la
lattoperossidasi, il lisozima e le agglutinine.
La contaminazione microbica del latte è imputabile ad una serie di cause: la prima fonte di contaminazione
del latte può essere rappresentata dalla superficie della mammella, la cute dell’animale, le mani del
mungitore e le attrezzature usate per la mungitura. Un veicolo importante di contaminazione del latte è
rappresentato dalle feci, che possono trasferire nel latte anche microrganismi patogeni.
Altre cause di contaminazione sono legate all’ambiente della stalla: il contenuto microbico dell’aria varia
entro limiti molto ampi e dipende dalle condizioni ambientali.
Altre cause di contaminazione possono essere legate all’atto della mungitura stessa (soprattutto manuale) e
alle condizioni igieniche di recipienti di raccolta e delle attrezzature.
Le operazioni di raccolta del latte rappresentano quindi la causa più importante di contaminazione
microbica del latte, per cui è necessario utilizzare specifiche misure igieniche per limitare tale
contaminazione.
Vi sono quindi dei requisiti da rispettare:
REQUISITI PER LOCALI E ATTREZZATURE:
-le attrezzature per la mungitura e i locali in cui il latte è immagazzinato devono
essere situati e costruiti in modo da limitare le contaminazioni;
-i locali per il magazzinaggio del latte devono essere protetti da infestazioni e dai parassiti;
-le superfici delle attrezzature che vengono in contatto col latte devono risultare
facili da pulire e da disinfettare e devono essere mantenuti in buone condizioni;
-dopo l’impiego, tali superfici vanno pulite e disinfettate.
IGIENE DELLA MUNGITURA, DELLA RACCOLTA E DEL TRASPORTO:
-la mungitura va effettuata nel rispetto delle norme d’igiene;
-il latte deve essere posto, immediatamente dopo la mungitura, in un luogo pulito,
progettato e attrezzato in modo da evitare la contaminazione, e va immediatamente
raffreddato a 8°C nel caso di raccolta giornaliera o a 6°C nel caso di raccolta non giornaliera;
-la catena del freddo va mantenuta durante il trasporto e all’arrivo allo stabilimento
il latte non deve superare i 10°C.
IGIENE DEL PERSONALE:
-il personale addetto alla mungitura deve indossare abiti idonei e puliti;
-il personale addetto alla mungitura deve curare con grande attenzione l’igiene personale.

-microrganismi del latte


In appropriate condizioni igieniche il livello di microrganismi contaminanti è minimo (< a 1.000 UFC/ml).
Latte molto contaminato può contenere più di 1.000.000 di UFC/ml.
-Il Regolamento (Ce) N. 853/2004 stabilisce che “Gli operatori del settore devono garantire che il latte
soddisfi i seguenti criteri” (riferito al latte crudo):
•Tenore in germi a 30°C (per ml): ≤ 100.000
• Tenore in cellule somatiche (per ml): ≤ 400.000
-Per il latte crudo proveniente da altre specie:
• Tenore in germi a 30°C (per ml): ≤ 1.500.000
-Tuttavia, se il latte crudo, proveniente da specie diverse dalle vacche, è destinato alla fabbricazione di
prodotti fatti con latte crudo mediante un processo che non comporta alcun trattamento termico, il latte
crudo utilizzato deve soddisfare i seguenti criteri:
• Tenore in germi a 30°C (per ml): ≤ 500.000
Inoltre, il latte crudo non deve essere immesso sul mercato se contiene residui di antibiotici.
I gruppi batterici dominanti sono rappresentati da micrococchi, streptococchi, corinebatteri non patogeni,
batteri lattici, enterobatteri , bacilli sporigeni, specie del genere Microbacterium, Corynebacterium,
Arthrobacter, Acinetobacter, Flavobacterium, Pseudomonas, lieviti e muffe. Può essere, ovviamente,
contaminato anche da specie patogene.
I microrganismi presenti nel latte possono essere distinti in 3 gruppi: microrganismi alterativi,
microrganismi patogeni e microrganismi utili o protecnologici.
1) Sono detti alterativi i microrganismi in grado di causare modificazioni tali da rendere il latte inaccettabile
per il consumo umano. Se il latte non viene trattato per limitare l'azione dei batteri contaminanti, entro 24-
48 ore dalla mungitura va incontro ad alterazioni di natura fisico-chimica ed organolettica (acidificazione,
coagulazione, cambiamento di colore, comparsa di sapori e odori anomali). La maggior parte delle
alterazioni del latte sono da imputare a microrganismi psicrotrofici, che crescono e svolgono attività
metaboliche a basse temperature causando alterazioni di aroma, sapore, odore e struttura del latte. Questi
microrganismi sono distrutti dai trattamenti termici, ma i loro enzimi possono essere termostabili. Le
principali specie psicrotrofiche alterative del latte sono:
• Bastoncini Gram-positivi: Bacillus, Clostridium, Lactobacillus, Corynebacterium, Microbacterium ecc…
• Cocchi Gram-positivi: Micrococcus, Sarcina, Staphylococcus, Streptococcus.
• Bastoncini Gram-negativi: Pseudomonas, Chromobacterium, Enterobacter ecc…
2) Sono detti patogeni i microrganismi veicolati dal latte che possono causare malattie nell’uomo. Tra le
malattie più frequenti causate dall’ingestione di latte vi sono: quelle di natura virale (epatite virale A,
encefalite ecc….), quelle di natura batterica (botulismo, colera, listeriosi, febbre paratifoide, shigellosi ecc…)
e le RICKETTSIE (febbre Q, criptosporidiosi, toxoplasmosi ecc..).
3) i microrganismi capaci di determinare cambiamenti desiderati nel latte, sono detti protecnologici.
Tuttavia gli stessi germi cosiddetti “utili”, in particolari condizioni sono in grado di provocare fenomeni
alterativi.

Il latte appena munto ha una temperatura di 37° C, favorevole alla crescita di microrganismi contaminanti.
Dunque, la refrigerazione rapida del latte a temperature di 4°C e la sua conservazione in locali puliti e
refrigerati (8° C per raccolta giornaliera, 6° C per raccolta non giornaliera) rappresenta una condizione
fondamentale per ridurre il tasso di crescita dei microrganismi presenti. Inoltre, la temperatura del latte,
durante il trasporto in autobotti (refrigerate) e fino alla destinazione agli stabilimenti, non deve mai
superare i 10°C.

-latte trattato termicamente


I trattamenti termici operati sul latte hanno lo scopo di ridurre la popolazione microbica senza intaccare
troppo le caratteristiche organolettiche, sensoriali e nutritive del latte stesso.
Distinguiamo il latte in base ai trattamenti termici subiti in: latte termizzato, latte pastorizzato e latte UHT
(o latte sterilizzato).
Un trattamento termico è definito come qualunque trattamento che sfrutta il calore che ha come effetto
una reazione negativa al test delle fosfatasi.
-Il latte termizzato è un latte crudo che subisce riscaldamento per almeno 15 secondi a temperature
comprese tra 57° e 68° C, e da una risposta positiva al test delle fosfatasi.
-Il latte pastorizzato è ottenuto mediante un riscaldamento ad alta temperatura per un tempo molto breve
(la coppia tempo-temperatura è variabile). Presenta reazione negativa al test delle fosfatasi e positiva al
test delle perossidasi. Nel caso di una pastorizzazione alta (alta T, breve t), la risposta al test delle
perossidasi può essere negativa. Il latte immediatamente dopo la pastorizzazione deve essere raffreddato al
fine di raggiungere quanto prima una temperatura non superiore a 6 °C. Distinguiamo, tra i latti
pastorizzati:
• LATTE PASTORIZZATO. Sieroproteine non < 11% delle proteine totali.
• LATTE FRESCO PASTORIZZATO. Unico trattamento termico entro 48 ore
dalla mungitura, sieroproteine non < 14% delle proteine totali
• LATTE FRESCO PASTORIZZATO DI ALTA QUALITA’. Come il fresco,
sieroproteine non <15% delle proteine totali.
Il criterio di igiene principale del latte pastorizzato è il contenuto in Enterobacteriaceae, che deve
presentare tali valori n=5; c=2; m<1 UFC/ml; M=5 UFC/ml.
-Il latte UHT è ottenuto dal latte crudo tramite sterilizzazione, ovvero un trattamento termico ad altissima
temperatura per un periodo di tempo breve (almeno +135 °C per almeno un secondo), allo scopo di
inattivare tutti i microrganismi residui o le loro spore in modo tale, che le variazioni chimiche, fisiche e
organolettiche siano ridotte al minimo. Se il trattamento a «ultra-alta temperatura» viene applicato
mediante contatto diretto del latte e del vapore acqueo, quest'ultimo deve essere stato ottenuto da acqua
potabile e non deve cedere al latte sostanze estranee né esercitare su di esso effetti nocivi.

-latti fermentati (yogurt)


Sono preparazioni ottenute mediante fermentazione, operata da microrganismi sia naturalmente presenti
nel latte sia aggiunti come colture pure. Ad essere fermentato è il lattosio, con produzione di acido lattico
e/o alcol etilico e CO2. Quando vengono consumati, presentano un elevato numero di microrganismi vivi e
loro enzimi, che apportano un effetto benefico alla salute del consumatore.
I latti fermentati prodotti oggi nel mondo sono molteplici e sono il risultato delle particolari condizioni
ambientali, dei microrganismi utilizzati nel processo fermentativo e della tecnologia produttiva.
Tra i latti fermentati, lo yogurt è sicuramente quello che ha trovato la massima diffusione.
Lo YOGURT si ottiene per fermentazione lattica operata da Lactobacillus delbrueckii subsp. bulgaricus e
Streptococcus thermophilus che devono risultare vivi e vitali e in alto numero al momento del consumo
(non inferiore a 5x106 UFC/g): la fermentazione avviene a 42-45°C, il contenuto di acido lattico è di 0,8-
1,2%, il pH di 3,9-4,2, il residuo magro del latte tra 9 e 10,5%, la quantità di aldeide acetica prodotta è di 15-
30 ppm. Esistono varie tipologie di yogurt, quali naturale, tradizionale, a coagulo compatto o rotto, fluido
(yogurt da bere), da latte intero, parzialmente o totalmente scremato o arricchito in grassi, alla frutta, a
basso contenuto di lattosio, a ridotto valore calorico, concentrato o disidratato, gelato.

S. thermophilus produce acido lattico (L+) fino al 1%, cresce a T=42-48°C, (min 19°, max 52° C), è
omofermentante, possiede l’enzima β-galattosidasi, cresce in presenza del 2,5% di NaCl e produce vitamine
(B12, B15), NH3 e CO2 da urea.
L. delbruekii bulgaricus, produce acido lattico (D-) da lattosio e glucosio in quantità >1,5%, cresce a
temperature ottimali di 42-45°C fino a 48-52°C. E’ omofermentante, possiede l’enzima β-galattosidasi, non
produce NH3 e CO2 da urea, produce vitamine B6, PP (niacina) e acido folico.

Il latte utilizzato (principalmente vaccino) nella produzione di yogurt deve possedere determinati requisiti di
qualità; prima di tutto deve essere privo di residui di detergenti o antibiotici e di batteriofagi, che
potrebbero determinare un rallentamento della fermentazione lattica con insufficiente acidificazione del
latte; inoltre, deve avere una buona qualità microbiologica (assenza di patogeni, basso livello di
microrganismi totali); un altro requisito da considerare è il contenuto proteico (più è alto, più lo yogurt sarà
cremoso).
In primis, il latte subisce filtrazione o blanda centrifugazione, in modo da allontanare il materiale grossolano
(paglia, peli, foglie). Successivamente, subisce standardizzazione del contenuto di grasso, portandolo allo
0,1% (yogurt magro) o 3-3,5% (yogurt intero). Per preparare yogurt zuccherato o alla frutta è necessario
aggiungere zucchero in quantità non superiore al 10%. In yogurt alla frutta ma non in quelli naturali, si
possono aggiungere conservanti quali acido sorbico, diossido di zolfo e acido benzoico, mentre per alcune
tipologie possono essere aggiunte sostanze stabilizzanti come gelatina, pectine e agar, vitamine e/o sali
minerali e altri ingredienti come cacao, malto, farina di cereali o sostanze prebiotiche come l’inulina.
Successivamente, si procede alla correzione del contenuto proteico, tramite concentrazione (evaporazione
o ultrafiltrazione) della miscela o per aggiunta di proteine fino al 3,8-3,9%. Dopodiché la miscela viene
omogeneizzata a temperature comprese tra 60 e 90° C e a pressioni di 150-250 atm, allo scopo di ridurre le
dimensioni dei globuli di grasso e prevenire il loro affioramento durante la fermentazione.
In seguito, la miscela subisce trattamento termico (85-90 °C per 10-30 minuti) allo scopo di inattivare i
batteriofagi e enzimi quali lipasi e proteasi microbiche e di ottenere la denaturazione delle siero-proteine
con un aumento dell’attitudine alla coagulazione acida del complesso sieroproteine-caseine denaturate.
Ancora, con il trattamento termico si ha un abbassamento del potenziale redox per allontanamento
dell’ossigeno e la liberazione di gruppi sulfidrilici; questi fenomeni consentono una rapida fermentazione ed
una maggiore stabilità verso le ossidazioni. Dopo la pastorizzazione, la miscela lattea è raffreddata a 40-
45°C e inoculata con Streptococcus thermophilus e Lactobacillus delbrueckii subsp. bulgaricus in rapporto
1:1 o 2:1 e nella misura dell’1%. In genere il processo di fermentazione a temperatura di 40- 45°C dura da 3
a 9 ore. Lo yogurt tradizionale può essere preparato secondo 2 tipologie:
-a coagulo rotto: : la miscela lattea pastorizzata è inoculata con lo starter microbico e quindi fermentata a
40-45°C per 3-9 h in fermentiere o maturatori. Al termine della fermentazione, si esegue la rottura del
coagulo, il raffreddamento a 20°C e la lisciatura. A questo punto è possibile aggiungere frutta o altri
ingredienti, quindi lo yogurt è confezionato. Per la tipologia di yogurt liquido (da bere), il confezionamento
è preceduto da una fase di omogeneizzazione. Segue dunque la conservazione a 4°C.
-a coagulo compatto: la miscela lattea pastorizzata è inoculata con lo starter microbico (eventualmente si
aggiunge frutta) e quindi distribuita in vasetti, che dopo chiusura, sono messi a fermentare a 40-45°C per 3-
9h.

L’associazione delle due specie microbiche porta a effetti sinergici che si traducono in una serie di eventi di
natura microbiologica, chimico-fisica e nutrizionale. Streptococcus thermophilus e Lactobacillus delbrueckii
subsp. bulgaricus sono entrambi omofermentanti obbligati, producendo dalla fermentazione del lattosio
quasi esclusivamente acido lattico. Il lattosio viene così idrolizzato dalla beta-glucosidasi in glucosio e
galattosio. Il glucosio è convertito secondo la via glicolitica ad acido piruvico e quindi, tramite l’enzima
lattico-deidrogenasi in acido lattico in quantità finale nello yogurt di 0,8 - 1,3% e abbassando il pH a valori di
3,9-4,2. L’acido lattico è responsabile della destabilizzazione delle micelle caseiniche con conseguente
coagulazione del latte, in quanto tali micelle precipitano a pH 4,6 (loro punto isoelettrico), perdendo la loro
solubilità e aggregandosi, formando un gel che ingloba tutti i costituenti del latte e gli dona il suo aspetto
caratteristico. Solo il 20-40% del lattosio è convertito in acido lattico, per cui nello yogurt, rimane un residuo
di lattosio compreso tra 2,5 e 3,5% e una quantità di galattosio compresa tra 0,4 e 1,3%. Durante il processo
sono prodotti diversi composti aromatici, in particolare aldeide acetica. Il prodotto risulta digeribile anche
per chi ha intolleranze al lattosio, in quanto al suo interno sono presenti galattosidasi, proteasi e peptidasi.
Nello yogurt sono presenti anche altri composti carbonilici quali acetone (1-4 ppm), acetoino (2,5-4,0 ppm)
e diacetile (0,5-1,0 ppm). Si registra anche un aumento di acidi nucleici, mentre vitamina B12 e acido
pantotenico si riducono; aumenta la concentrazione di acido folico, niacina, acido benzoico, acido succinico,
acido acetico e acido fumarico; l’acido ippurico scompare totalmente.
L’associazione tra Streptococcus thermophilus e Lactobacillus delbrueckii ssp. bulgaricus nello yogurt
rappresenta il caso più noto di protocoperazione mutualistica e si traduce nella produzione di una quantità
di acido lattico maggiore di quella prodotta da ciascuna delle due specie quando crescono separatamente.
Anche la formazione di composti aromatici tipici dello yogurt aumenta come conseguenza di questa
cooperazione.
Streptococcus thermophilus è stimolato da aminoacidi e da corti peptidi che sono liberati dalle proteine del
latte ad opera di Lactobacillus delbrueckii subsp. bulgaricus. La crescita di Lactobacillus delbrueckii subsp.
bulgaricus è invece stimolata da composti prodotti da Streptococcus thermophilus quali acido folico,
anidride carbonica ed acido formico. Durante la conservazione dello yogurt si assiste ad importanti
variazioni del numero di Streptococcus thermophilus e di Lactobacillus delbrueckii subsp. bulgaricus (da
108-1010 UFC/ml a 107 UFC/ml dopo 30 giorni a 4°C). Temperature maggiori (14-15°C) di conservazione
portano ad una più rapida diminuzione della carica che può scendere anche al di sotto di 5x10 6 UFC/g.

-altre bevande lattiche fermentate


Il kefir è una bevanda originaria del Caucaso, che ha la consistenza di un liquido denso e cremoso, dal
sapore leggermente frizzante e meno acidulo dello yogurt. Si prepara con latte di capra, vacca o pecora; lo
starter è costituito da granuli di kefir ottenuti per macerazione in latte di pezzi di abomaso di capretto.
Hanno una microflora complessa, costituita da batteri lattici omo ed eterofermentanti, batteri acetici e
lieviti. La fermentazione del Kefir avviene a temperature di 20-22°C. I batteri lattici fermentano il lattosio,
con produzione di acido lattico (0,6-0,9%), di anidride carbonica e accumulo di polisaccaridi, mentre i lieviti
producono alcool etilico (0,4-0,9%) ed anidride carbonica. È un prodotto effervescente per l’accumulo di
CO2, ha proprietà probiotiche ed ha un residuo magro di 8,5-9%.
Il kumys è una bevanda acida leggermente alcolica, ottenuta da latte di cavalla. E’ prodotto con
un’associazione di microrganismi, in prevalenza Lactobacillus delbrueckii subsp. bulgaricus, Lactobacillus
acidophilus e lieviti del genere Saccharomyces, a 28°C, con rinnovo giornaliero mediante sostituzione di
parte del latte fermentato.
L’acidofilus milk è la bevanda nazionale fermentata lattica del nord America, così chiamata perché a base di
Lactobacillus acidophilus. Il prodotto ha un sapore piuttosto metallico in quanto il microrganismo in
questione non ha nessuna azione aromatizzante e durante la fermentazione che avviene a 37-38°C produce
solo acido lattico (fino all’1%).

-MICROBIOLOGIA DEI FORMAGGI


“Il formaggio è il prodotto fresco o stagionato, solido o semisolido, nel quale il rapporto proteine di
lattosiero/caseina non eccede quello del latte ottenuto:
a) per coagulazione del latte, latte scremato, latte parzialmente scremato, crema di siero o di latticello, solo
o in combinazione, grazie all'azione presamica o di altri agenti coagulanti appropriati, e per sgocciolamento
parziale del lattosiero risultante da questa coagulazione;
b) per l'utilizzo di tecniche di fabbricazione comportanti la coagulazione del latte e/o delle materie ottenute
a partire dal latte, presentanti delle caratteristiche fisiche, chimiche e organolettiche similari a quelle del
prodotto su descritto".
Gli unici ingredienti ammessi per produrre formaggio sono il latte, il sale e il caglio. Ogni preparazione ha
delle fasi processuali peculiari, come la filatura per la mozzarella, la stagionatura per il pecorino e il
parmigiano. Anche la pastorizzazione del latte non è una pratica adottata per tutte le preparazioni; in molti
casi i disciplinari di produzione prevedono l’impiego di latte crudo. L’utilizzazione di colture starter
selezionate è un’altra fase opzionale. Alcuni formaggi, infatti, sono prodotti sfruttando, come agenti di
fermentazione, la microflora naturale presente nel latte crudo. In altri formaggi, lo starter è costituito da
colture naturali in siero o in latte.

Il latte destinato alla caseificazione deve rispondere a ben determinati requisiti microbiologici.
Gli operatori del settore alimentare che fabbricano prodotti lattiero-caseari devono porre in atto procedure
intese a garantire che, immediatamente prima della trasformazione: a) il latte crudo di vacca utilizzato per
fabbricare i prodotti lattiero-caseari abbia un tenore di germi a 30 °C inferiore a 300.000 per ml e il latte di
vacca trasformato utilizzato per fabbricare i prodotti lattiero-caseari abbia un tenore di germi a 30°C
inferiore a 100.000 per ml. Se il latte non risponde ai criteri di cui al punto 1, gli operatori del settore
alimentare devono informare l’autorità competente e prendere misure volte a correggere la situazione. Il
latte deve essere inoltre privo di antibiotici e deve avere caratteristiche sensoriali normali.
La fermentazione del latte è il risultato dell’azione di enzimi apportati con il caglio o naturalmente presenti
nel latte e dell’attività metabolica esercitata dai microrganismi (naturalmente presenti nel latte o aggiunti).
La fermentazione del latte può durare da 1 a 5 ore e comporta il passaggio del latte dallo stato liquido allo
stato di gel e avviene mediante modificazione fisico-chimica delle caseine del latte. L’azione del caglio e
dell’acido lattico prodotto dai batteri lattici provoca la formazione di una rete proteica che ingloba il siero e
gli altri costituenti.
La coagulazione (precipitazione delle caseine a seguito di acidificazione) nella produzione dei formaggi è
sempre di tipo presamico-acida, con prevalenza della coagulazione presamica.
L’abbassamento del pH determina il rilascio da parte delle caseine di P e Ca, con conseguente
demineralizzazione e disgregazione delle micelle, e la destabilizzazione delle caseine che precipitano.
Il caglio, o presame, è una soluzione enzimatica prodotta dall’abomaso di ruminanti lattanti. Presenta
azione proteolitica specifica sulla K-caseina e azione proteolitica generale. La sua attività ottimale si ha a
valori di pH intorno a 5 e a temperature tra 32 e 40°C.
I meccanismi della coagulazione presamica si possono così riassumere:
• la chimosina degrada specificamente la K-caseina idrolizzando il legame Fenilalanina-Metionina in
posizione 105-106, con produzione di caseino-macropeptide solubile in acqua (quindi rimane nel siero) e
para-K-caseina insolubile, che rimane legato alla micella;
• aggregazione delle micelle modificate mediante legami minerali (Ca e P) con formazione del gel (coagulo);
• il distacco del caseinoglicopeptide determina la perdita dello stato di idratazione delle micelle e la loro
flocculazione.
Nel corso della maturazione della cagliata, i batteri lattici presenti (10 6 UFC/ml) fermentano il lattosio con
produzione di acido lattico e, intrappolati nella fase solida, si moltiplicano fino a raggiungere livelli di 10 9 –
1010 UFC/g, preparando la cagliata alla stagionatura; in questa fase vengono prodotti altri metaboliti che
daranno aroma al prodotto.
Gli enzimi naturali del latte, quali Plasmina (che agisce sulla βcaseina con produzione di γ-caseina; pH
ottimale 8-8,5) e la Proteasi acida (agisce sull’ α S1- caseina; pH ottimale 4) si trovano nel formaggio a pH
sfavorevoli, mentre gli enzimi del caglio (pH ottimale 4-8) sono distrutti nella fase di cottura e inibiti dal
sale.
Un ruolo fondamentale nella maturazione dei formaggi è svolto dagli enzimi microbici, che sono prodotti
non solo dai microrganismi usati come starter o presenti naturalmente nel latte di partenza, ma anche da
microrganismi che contaminano il prodotto nel corso della caseificazione.
In maniera schematica si può dire che le trasformazioni enzimatiche riguardano e determinano:
• metabolizzazione dell’acido lattico da parte di lieviti, muffe e batteri propionici;
• idrolisi dei trigliceridi in acidi grassi liberi;
• idrolisi delle caseine in peptidi, aminoacidi e composti aromatici;
• modificazioni del pH e dell’attività dell’acqua;
• ammorbidimento della pasta;
• formazione della crosta;
• modifica dell’aspetto;
• sviluppo dell’aroma e del sapore del formaggio;
• colonizzazione microbica della crosta.
Tra i batteri predominano ceppi e specie di batteri lattici quali Lactobacillus, Lactococcus, Streptococcus,
Leuconostoc ed Enterococcus, ma anche ceppi e specie di micrococchi e stafilococchi, propionibatteri,
corinebatteri. Occasionalmente possono essere presenti batteri alterativi (clostridi, bacilli, coliformi) e
patogeni (L. monocytogenes, Salmonella e altri). Anche alcuni lieviti (Debaryomyces hansenii,
Kluyveromyces marxianus, Yarrowia lipolytica) svolgono un ruolo importante nella maturazione dei
formaggi, soprattutto nella metabolizzazione del lattato e, in alcuni casi, per la loro attività lipolitica,
contribuendo a determinare le caratteristiche tipiche dei formaggi.
Generalmente lo sviluppo di muffe è considerato segno di alterazione, ma per alcuni formaggi a crosta
fiorita (camembert e brie) e erborinati (gorgonzola) le muffe sono inoculate come colture selezionate.
Il ruolo delle muffe è quello di svolgere principalmente le seguenti azioni:
• utilizzazione del lattato, con conseguente disacidificazione e addolcimento del prodotto;
• attività lipolitica e proteolitica i cui prodotti di degradazione conferiscono al prodotto le caratteristiche
sensoriali ed organolettiche tipiche.

-classificazione formaggi
In base alla temperatura di lavorazione della cagliata
• Formaggi con pasta cruda: se la cagliata non subisce temperature superiori a 38°C.
• Formaggi con pasta semicotta: se la temperatura della cagliata non supera i 48°C.
• Formaggi con pasta cotta: se la temperatura della cagliata supera i 48°C.
In base al contenuto di grassi
• Formaggi grassi: contenuto di grasso superiore al 42%.
• Formaggi semigrassi: contenuto di grasso compreso tra il 42% e il 20%.
• Formaggi magri: contenuto di grasso inferiore al 20%.
In base alla consistenza della pasta
• Formaggi a pasta molle: contenuto di acqua superiore al 45%.
• Formaggi a pasta semidura: contenuto di acqua compreso tra il 40% e il 45%.
• Formaggi a pasta dura: contenuto di acqua inferiore al 40 %.
In base al tipo di latte
• Formaggio di latte vaccino.
• Formaggio di latte pecorino.
• Formaggio di latte bufalino.
• Formaggio di latte caprino.
• Formaggio di latte misto.
In base al tipo e periodo di stagionatura
• Formaggi freschi: non subiscono stagionatura e sono consumati quasi subito dopo la preparazione.
• Formaggi stagionati a maturazione breve: meno di un mese.
• Formaggi stagionati a maturazione media: meno di sei mesi.
•Formaggi stagionati a maturazione lenta: oltre i sei mesi.
Formaggi erborinati
Formaggi nel quale una muffa alimentare produce le caratteristiche venature e chiazze verdi, durante la
maturazione in ambienti freschi e umidi.
Formaggi a Pasta filata
sono caratterizzati da una filatura della cagliata in acqua bollente.

-alterazioni biologiche dei formaggi


DIFETTI DELLA PASTA= Gonfiore precoce: tipico di formaggi freschi e a pasta molle. Si manifesta con
occhiature della pasta che compaiono entro le prime 24 ore dalla produzione, ed
è dovuto a un contenuto microbico elevato o alla presenza di antibiotici;
Gonfiore tardivo: tipico di formaggi a lunga stagionatura (>3 mesi). Si manifesta
con occhiature della pasta (a volte localizzate a formare delle grosse caverne)
causate da batteri anaerobi come clostridi e propionici che producono CO 2 o H2.
DIFETTI DI SUPERFICIE O DELLA CROSTA= Colorazioni anomale: sviluppo superficiale indesiderato di batteri
e muffe pigmentate.
Marciume: dovuto ad una eccessiva proliferazione di microrganismi fortemente proteolitici che
determinano alterazioni di tipo putrefattivo.
Cancro o vaiolo: si verifica su formaggi a lunga stagionatura. E’ dovuto allo sviluppo
di funghi a micelio rado (Es.: Scopulariopsis spp.) ed ad una conseguente
invasione di acari che si nutrono delle strutture riproduttive di questi funghi,
i quali, per sfuggire all’attacco degli acari si affondano nella pasta
producendo delle profonde cavità che diventano evidenti dopo la toelettatura delle forme.

l Regolamento (CE) n. 2073/2005 del 15.11.2005 stabilisce i seguenti criteri per il formaggio:
a) Criteri di sicurezza alimentare: definiscono l’accettabilità di un prodotto alimentare messo in commercio.
b) Criteri di igiene del processo: definiscono il funzionamento accettabile del processo di produzione; sono
limiti consigliati per valutare se sono necessarie misure correttive per l’igiene del processo.

-MICROBIOLOGIA DEL BURRO


Il burro è il prodotto ottenuto dalla crema ricavata dal latte di vacca o dal grasso ottenuto dal siero di latte
di vacca, nonché dalla miscela dei due prodotti. La denominazione “burro di qualità” è riservata al prodotto
ottenuto unicamente dalla crema del latte di vacca.
Ha una composizione media: acqua 16%; sostanza secca grassa 82% (non inferiore a questo valore);
sostanza secca magra 2%. Il sale è l’unico conservante accettato.
Per produrre burro bisogna utilizzare la panna, che può essere ottenuta per affioramento (dal 20 al 30% di
grasso), per centrifugazione (30-50% di grasso se a medio titolo di grasso, 50-80% di grasso se ad alto titolo
di grasso) o per rigenerazione (fusione di burri diversi).
La panna dopo pastorizzazione a 75-90°C per 10-30 secondi, è raffreddata a 12-15 °C e quindi inoculata con
colture starter selezionate costituite da miscele di batteri lattici mesofili (L. lactis subsp. cremoris 12,5%, L.
lactis subsp. lactis 25%, L. lactis diacetylactis 12,5%, Leuconostoc mesenteroides 50%).
La maturazione della crema avviene in adatte vasche mantenute a temperatura di 12-15°C per 18-20 ore. La
crema acidifica (32-40 °SH/100 ml), si aromatizza (diacetile e acetaldeide) e diventa più consistente.
Dopodiché si procede alla burrificazione per zangolatura (inversione di fasi) a 10°C e successivo
allontanamento del latticello (eliminazione di microrganismi e sostanze solubili).
L’elevata concentrazione di grasso e il basso contenuto di acqua rendono il burro abbastanza stabile da un
punto di vista microbiologico; tuttavia, si possono verificare contaminazioni durante le fasi di processo che
rendono il prodotto suscettibile ad alterazioni:
• irrancidimento idrolitico: è una conseguenza dell’attività delle lipasi che liberano acidi grassi volatili con
odore sgradevole;
• irrancidimento chetonico: trasformazione di acidi grassi in aldeidi e metil alchil chetoni; dovuto ad
attacchi di muffe e altri enzimi microbici;
• sapore acido: indotto da un lavaggio insufficiente del prodotto;
• autossidazione o irrancidimento ossidativo: ossidazione delle sostanze grasse in presenza di ossigeno e
catalizzata da metalli pesanti. Conferisce sapore di sego o di ossidato o metallico;
• fotossidazione: deterioramento determinato dalla luce;
• sapore e odore di putrido: degradazione delle proteine ad opera di coliformi e da Pseudomonas spp.
• ammuffimento da specie di Geotrichium, Peniciliium, Cladosporium ecc
Capitolo 12 – MICROBIOLOGIA DEI PRODOTTI CARNEI
-MICROBIOLOGIA DELLA CARNE
La carne è un ecosistema alimentare molto complesso, con caratteristiche chimico-fisiche tali da
permettere colonizzazione e sviluppo di un gran numero di microrganismi. La carne possiede una microflora
che dipende, ovviamente, dalla composizione chimica della carne stessa (75% acqua, 19% proteine, 2,5%
lipidi e altre sostanze) e dalle condizioni in cui la carne è trasformata, distribuita e consumata.
Dopo la macellazione, la contaminazione della carne ad opera di microrganismi provenienti dal suolo, dalle
feci, dalla pelle, dall’aria, dall’acqua, dagli operatori ecc… raggiunge livelli compresi tra 10 2 e 104
batteri/cm2. Le popolazioni microbiche consistono di una grande varietà di specie, potendo comprendere
Staphylococcus, Micrococcus, Pseudomonas, Moraxella, Psychrobacter, Corynebacterium, Flavobacterium,
Chromobacterium, Enterobacteriaceae, batteri lattici, Brochothrix thermosphacta, Bacillus, lieviti e muffe.
In generale, le carcasse sono maturate o frollate a temperature di refrigerazione per pochi giorni fino a 3
settimane, in modo da favorire modificazioni delle proteine strutturali del muscolo scheletrico che si
traducono in un aumento della tenerezza della carne. In seguito, le carcasse, sono sezionate in pezzi o tagli
che sono conservati refrigerati in varie condizioni di atmosfera gassosa per proteggerli più a lungo possibile
dalle alterazioni che si manifestano prima del consumo. La carne è considerata alterata quando
intervengono dei cambiamenti organolettici che la rendono inaccettabile per il consumo umano.
L’alterazione organolettica evidente della carne è dunque il risultato della decomposizione e della
produzione di metaboliti conseguente la crescita dei microrganismi. La shelf-life della carne, pertanto, è
strettamente dipendente dal numero e tipi di batteri inizialmente presenti e dalla loro successiva crescita
nelle fasi del processo produttivo.

La carne è uno degli alimenti più facilmente deperibili, grazie alla sua superficie umida e ricca di nutritivi
che favoriscono lo sviluppo microbico.
La temperatura è forse il fattore ecologico estrinseco che più influenza lo sviluppo microbico sulla carne
conservata all’aria; la temperatura più bassa di conservazione della carne è -1,5° C, mentre la T minima di
crescita dei batteri psicrofili è di -3° C. L’uso di temperature di refrigerazione (da -1° a 7° C) determina una
riduzione della crescita batterica. Dei batteri che inizialmente contaminano la carne, solo il 10% è in grado
di crescere durante le fasi di conservazione refrigerata e di questi solo una parte è in grado di causare
alterazioni.
Le popolazioni batteriche predominanti durante la conservazione della carne sono rappresentate da specie
del genere Pseudomonas, da Brochothrix thermosphacta, da membri della famiglia delle
Enterobacteriaceae e da alcuni generi di batteri lattici.
Pseudomonas fragi, P. fluorescens e P. lundensis sono le tre specie di psicrotrifi gram-negativi che
dominano il sistema grazie al loro alto tasso di crescita e alla loro capacità di aderire molto più rapidamente
alla superficie della carne; la frequente dominanza di P. fragi sembra invece essere dovuta alla sua capacità
di utilizzare diverse sorgenti di ferro, la creatina e la creatinina.
La prima fase della colonizzazione della carne coincide con l’adesione, reversibile, delle cellule batteriche
alla superficie (può essere correlata a forze di van der Waals o altri fattori), cui segue un ulteriore stadio di
adesione che è irreversibile e comporta la formazione di uno strato adesivo di polisaccaridi esocellulari
(glicocalice).
Specie appartenenti ai generi Moraxella, Psychrobacter e Acinetobacter (Gram negativi) rivestono scarsa
importanza nell’alterazione della carne in quanto metabolicamente differenti da Pseudomonas, non
essendo in grado di utilizzare il glucosio.
Altro componente della microflora carnea è Brochothtix thermosphacta (specie isolata solo da carne e
ambienti ad essa correlati), che degrada il glucosio e il glutammato della carne (in aerobiosi il glucosio è
degradato principalmente ad acido lattico, mentre in anaerobiosi in acido lattico ed etanolo).
Alcune Enterobacteriaceae psicrotrofiche ,così come specie di alcuni generi di batteri lattici, possono
essere presenti sulla carne conservata all’aria.

Le modificazioni chimico-fisiche durante il processo di alterazione avvengono nella fase acquosa della
carne. La carne fresca generalmente presenta un pH compreso tra 5,5 e 5,8 e contiene, anche se in
concentrazioni più basse rispetto a quelle di proteine e grassi, sufficiente glucosio e altri carboidrati
semplici in grado di supportare crescite batteriche fino a 10 9 /cm2. Quando i livelli di Pseudomonas
giungono a circa107 /cm2 incominciano ad essere evidenti i primi sintomi dell’alterazione della carne che si
manifesta con la comparsa di odori anomali riconducibili a debole aroma di caseario. L’esaurimento dei
livelli di glucosio sulla superficie della carne (popolazione microbica a livelli di circa 10 8 /cm2 ) rende i cattivi
odori sempre più evidenti sfociando in quello che è notoriamente riconosciuto come “alterazione
sensoriale”. L’esaurimento del livello di glucosio nella carne determina in molte specie batteriche un
mutamento improvviso da un metabolismo saccarolitico ad un metabolismo degradativo degli aminoacidi,
con produzione di sostanze maleodoranti come ammoniaca, dimetilsolfuro, dimetildisolfuro e varie amine.
Esperimenti condotti in vitro a 5°C indicano che Brochothrix thermosphacta, quando è coinoculato con
popolazioni di batteri lattici, di Pseudomonas spp. o di Enterobacteriaceae, è inibito in presenza dei soli
batteri lattici. Il microrganismo continua ad essere inibito quando è fatto crescere in presenza di un mix di
batteri lattici ed Enterobacteriaceae ma non quando è coinoculato con batteri lattici e Pseudomonas spp.
Infine, B. thermosphacta, co-inoculato con tutte le altre popolazioni, domina il sistema insieme a
Pseudomonas spp., risultando i batteri lattici quelli maggiormente inibiti.

Le popolazioni microbiche presenti sulla carne sono influenzante anche dalla composizione gassosa
dell’atmosfera dell’ambiente. L’atmosfera di una confezione può essere modificata eliminando
completamente l’aria oppure sostituendola con miscele a concentrazione nota di CO 2, O2 e N2. Modificare
l’atmosfera gassosa consente di selezionare la microflora presente: , l’aumento della concentrazione di CO 2
con limitazione di quella di O2 seleziona una microflora che è dominata da batteri Gram-positivi. Il minor
tasso di crescita e i differenti attributi metabolici dei batteri Gram-positivi rispetto ai Gram-negativi,
determina un allungamento della shelf-life della carne in ATM.
Sulla carne sottovuoto, la microflora batterica è dominata da Lactobacillus, Carnobacterium e Leuconostoc.
SV può essere conservata per tempi di 10-12 settimane a temperature di 0°C, fino a che le caratteristiche
organolettiche diventano inaccettabili. L’odore anomalo di acido è essenzialmente impartito dalla
produzione di acido lattico ed acetico da parte dei batteri lattici. In alcuni casi anche la produzione di
composti solforati e l’inverdimento possono contribuire all’alterazione. Anche se con tassi di crescita e
livelli numerici massimi inferiori ai batteri lattici, nella carne conservata SV non è raro assistere alla crescita
di B. thermosphacta e di Enterobacteriaceae, come conseguenza dell’azione combinata di temperatura di
conservazione, concentrazione di CO2 e O2, permeabilità dei film, pH e contenuto di acido lattico.
Durante la conservazione, l’attività respiratoria dei tessuti della carne determina una variazione
nell’atmosfera gassosa: la concentrazione di O2 diminuisce fino a livelli inferiori all’1% mentre quella della
CO2 aumenta fino a valori di circa il 20%.
B. thermosphacta ha una buona tolleranza alla CO 2, ma la sua crescita sottovuoto viene inibita da pH
inferiori a 5,8. Allo stesso modo l’acido lattico e la CO2 inibiscono lo sviluppo delle Enterobacteriaceae in
condizioni anaerobiche, anche se aumenti di temperatura, di pH o permeabilità all’ossigeno della
confezione riducono fortemente tale effetto inibente.
La carne in atmosfera contenente il 100% di CO 2 può essere conservata fino a 3 mesi o più se la
temperatura è mantenuta a 0-1°C. In queste condizioni i batteri lattici rappresentano normalmente la
microflora dominante.
La composizione della microflora della carne conservata in AM costituita da miscele a diversi livelli di O 2
(60-80%) e di CO2 (20-40%) è strettamente dipendente dalla temperatura di conservazione e dal tipo di
carne. A temperature di 0°C predominano i batteri lattici.

-MICROBIOLOGIA DEGLI INSACCATI CARNEI FERMENTATI


Gli insaccati carnei fermentati sono il risultato delle trasformazioni microbiologiche, biochimiche, fisiche e
sensoriali che avvengono a carico di un impasto carneo costituito da parti magre, grasso e vari ingredienti
e/o additivi, insaccato in budelli naturali o artificiali, nel corso della loro maturazione in determinate
condizioni di umidità e temperatura.
Le caratteristiche differenziali delle diverse tipologie di insaccati carnei sono:
• origine della carne (generalmente suina);
• modalità di macinazione della carne (farcia);
• modalità di preparazione del grasso;
• intensità della salagione;
• aggiunta di altri additivi e coadiuvanti;
• tipo di budello;
• sviluppo di muffe;
• condizioni di maturazione o stagionatura (tempi, temperatura, umidità).

La stabilizzazione dei prodotti carnei fermentati nei confronti delle alterazione deriva da una serie di eventi
microbiologici, fisici e biochimici, tra cui:
• l'abbassamento del pH, come conseguenza della fermentazione lattica del glicogeno o di glucidi
eventualmente aggiunti;
• l'abbassamento dell'attività dell'acqua (aw) per effetto dell'aggiunta di sale e della disidratazione che
accompagna la stagionatura;
• le condizioni termo-igrometriche che ricorrono durante la maturazione, che in genere risultano favorevoli
a microrganismi utili e sfavorevoli a microrganismi dannosi;
• la produzione di sostanze dotate di attività antimicrobica;
• l'eventuale aggiunta di additivi antimicrobici;
• l’azione dell'eventuale pratica di affumicamento.

Le fasi di preparazione dei prodotti carnei fermentati sono:


• selezione e taglio della carne;
• preparazione dell’impasto;
• insacco;
• stagionatura.
Durante queste fasi, a partire dalla macellazione della carne, si potranno trovare sull’alimento diverse
popolazioni di microrganismi, di cui solo alcune saranno in grado di colonizzare l’impasto ed il prodotto
finito, dandogli qualità e specifiche caratteristiche organolettiche.

-materie prime: carne e grasso


La carne è la parte muscolare degli animali, costituita da tessuto muscolare e dal connettivo. Per la
preparazione dei salami sono utilizzati diversi tagli di carne, tra cui spalla, coscia, pancetta. La composizione
chimica del muscolo dopo il rigor mortis è:
acqua: circa il 75%;
sostanze azotate: 20,65% circa, di cui il 19% sono divise in proteine sarcoplasmatiche (solubili in acqua) e
miofibrillari (solubili in soluzioni alcaline);
lipidi: circa il 2,5% , distinti in intracellulari e intercellulari (determina la marezzatura);
carboidrati: circa 1-1,2%, di cui il glicogeno è il più importante;
vitamine: principalmente quelle idrosolubili del gruppo B.

L’approvvigionamento delle materie prime carnee ha l’obiettivo di garantire che le carni non siano
contaminate eccessivamente da microrganismi e che non siano attaccate da insetti o animali infestanti. La
carcassa deve essere certificata ed alla consegna deve avere una temperatura interna inferiore a 7°C ed un
valore di pH minore di 6 (opt. 5,8). Il ricevimento delle carni deve essere rapido e privo di possibilità di
contaminazioni.
Lo stoccaggio refrigerato ha lo scopo di evitare contaminazioni del prodotto, in attesa di essere
trasformato. In questa fase si attuano delle misure preventive: controllo della temperatura e dell’umidità
della cella, si dispone la merce secondo il sistema “first in – first out” al fine di garantire una corretta
rotazione dei prodotti; vengono frequentemente analizzate le carni dal punto di vista microbiologico
(tramite un laboratorio d’analisi di riferimento); sanificazione delle celle; addestramento del personale
addetto al processo.
Per ottenere un buon prodotto fermentato è necessario scegliere accuratamente la carne. In linea generale
una carne del tipo PSE (pale, soft, exudative) ovvero una carne con bassi valori di pH (inferiori a 5,3) può
essere utilizzata per salami a rapida acidificazione, mentre una carne DFD (dark, firm, dry) in grado di
trattenere molta acqua ed assorbire con difficoltà il sale, presentando elevati valori di pH (maggiori di 6,1),
non è indicata per nessuna tipologia di insaccato.
Ovviamente vanno considerate anche le caratteristiche microbiologiche della carne, che non deve essere
contaminata da germi patogeni quali Yersinia enterocolitica, Salmonella spp., Clostridium botulinum.
Anche il tipo di grasso impiegato influenza in maniera determinante le caratteristiche degli insaccati. In
linea generale, sono scelti tessuti adiposi (di origine suina) poveri di acidi grassi insaturi. Il grasso di gola è
utilizzato soprattutto nei salami a farcia fine, mentre il lardo è usato solo per produrre lardelli.

-selezione e taglio della carne


In questa fase vengono allontanate le parti della carcassa non utilizzabili nella produzione degli insaccati,
come ghiandole, tendini e cartilagini. E’ importante evitare le contaminazioni incrociate mediante
appropriata pulizia e disinfezione di ambienti, superfici, attrezzature ed utensili.

-preparazione dell’impasto (macinazione e miscelazione degli ingredienti)


La carne selezionata viene triturata con l’ausilio di tritacarne dotati di trafila (dimensioni variabili in base
alle dimensioni della farcia del salame, grande, fine o media), addizionata di altri ingredienti o additivi
(NaCl, latte in polvere, nitrati, nitriti, zuccheri, antiossidanti, spezie) e impastata con impastatrici, al fine di
ottenere un impasto omogeneo. Per la produzione di alcuni salami si utilizzando colture starter di
microrganismi selezionati.
Zuccheri e latte in polvere: Il D.M. n°463 del 22.10.87, consente l’utilizzo di zuccheri alimentari,
limitatamente al saccarosio, al destrosio, al fruttosio (da 0,1-0,2% a 0,5-1%), e al lattosio (0,5-2%) o loro
miscele, nei processi di trasformazione della carne. L’aggiunta di zuccheri fermentiscibili si rende necessario
dal momento che la quantità di zuccheri naturalmente presenti nella carne non è abbastanza a determinare
una riduzione del pH (acidificazione causata dal metabolismo dei batteri lattici) adeguata per una corretta
conservazione della carne. Inoltre gli zuccheri migliorano la consistenza della carne, grazie al potere
gelatinizzante della sua parte proteica.
NaCl: l’aggiunta di sale (2,5-4%) inibisce lo sviluppo di molti microrganismi indesiderati abbassando l’attività
dell’acqua; favorisce, inoltre, la solubilizzazione delle proteine miofibrillari e incrementa la precipitazione di
proteine sarcoplasmatiche durante i processi fermentativi, contribuendo al mantenimento della struttura e
della consistenza del prodotto.
Nitrati e nitriti: i nitrati (ridotti a nitriti tramite processi enzimatici) e eventualmente i nitriti sono aggiunti
come stabilizzanti del colore (per formazione di nitrosomioglobina, che dà il colore rosso), ma esplicano
anche un’azione antimicrobica inibendo lo sviluppo di Clostridium botulinum ed Enterobacteriaceae
patogene. L’azione è dovuta alla formazione di acido nitroso e di ossidi di azoto che legandosi ai gruppi
amminici delle deidrogenasi microbiche le inibiscono. Hanno inoltre anche azione antiossidante, ritardando
l’irrancidimento dei grassi. Va evidenziata, però, la tossicità di questi composti nei confronti dell’uomo, con
fenomeni di cianosi (impedisce all’emoglobina di legarsi all’ossigeno); inoltre, in presenza di ammine
secondarie e terziarie, si ha la produzione di nitrosammine, composti altamente cancerogeni. La
legislazione ne consente l’uso a dosi massime di 250 ppm per i nitrati e di 150 ppm per i nitriti aggiunti in
forma di sali di sodio o potassio.
Spezie: il tipo di spezia usato varia in base alle zone di produzione; le spezie più usate sono pepe nero,
rosso o bianco, peperoncino, finocchio, alloro, zenzero, cannella, aglio e origano. Oltre a dare aroma al
prodotto, possono favorire lo sviluppo dei batteri lattici, mediante l’apporto di manganese utile nel ciclo
glicolitico; altre possono inibire lo sviluppo di patogeni quali Clostridium botulinum e delle aflatossine di
alcune muffe.
Altri additivi: Si possono inoltre utilizzare composti antiossidanti (acido ascorbico da 300 a 600 ppm),
stabilizzanti, gelificanti e addensanti, come caseinati e polifosfati che aumentano la ritenzione idrica.
Colture starter: In Italia il decreto del 28.12.94 del Ministero della Sanità autorizza nella preparazione degli
insaccati carnei l’impiego di colture di avviamento (starter) appartenenti ai generi Lactobacillus,
Pediococcus, Micrococcus, Debaryomyces, ed alle specie Staphylococcus xylosus, Staphylococcus simulans
e Staphylococcus carnosus. L’aggiunta di colture starter deriva dal principio di isolare ed identificare i
microrganismi responsabili delle caratteristiche organolettiche della carne, e di rafforzare o migliorare tali
caratteristiche. Questa pratica ha incontrato più resistenze rispetto a quelle relative ai prodotti caseari, in
quanto la carne è un alimento solido, e ciò rende più difficile l’omogeneizzazione dell’inoculo al suo interno.
Inoltre la carne presenta una microflora autoctona competitiva molto variabile, che non può essere
eliminata con il trattamento di pastorizzazione previsto invece per il latte. Le colture starter oltre ad
assicurare la riduzione del contenuto in nitrati e nitriti nel prodotto finale attraverso la loro attività nitrato-
reduttasica, assicurano la standardizzazione delle caratteristiche organolettiche, la riduzione del tempo di
stagionatura, contribuiscono ad un miglioramento della sicurezza igienica e garantiscono costanti livelli di
“shelf-life”.
Vengono aggiunte agli impasti in quantità tale da avere una concentrazione di almeno un milione di cellule
per grammo. Le caratteristiche desiderabili di una coltura starter dovrebbero essere le seguenti:
• alotolleranza;
• capacità di crescita in presenza di 80-100 ppm. di nitrito
• crescita a temperature comprese tra i 12 e 30 °C
• omofermentatività (anche facoltativa);
• capacità proteolitica e lipolitica o non a seconda dell’uso;
• non devono produrre sapori anomali;
• capacità di ridurre i nitrati.
Le colture starter più comuni sono costituite da batteri lattici, in particolare lattobacilli e micro-stafilococchi.
Le azioni prevalenti svolte dai lattobacilli e altri batteri lattici durante la maturazione dei salami sono:
• fermentazione degli zuccheri con la liberazione di acido lattico D e/o L a seconda della specie;
• acidificazione del mezzo (riduzione del pH);
• inibizione dei batteri anaerobi facoltativi;
• coagulazione delle proteine muscolari, determinando stabilità e coesione al prodotto finito;
• contributo alla formazione del caratteristico colore rosso vivo, che si genera grazie all’ambiente acido;
• eventuale attività proteolitica e lipolitica sia endo che eso cellula.
Tra gli stafilococchi isolati e identificati nei salami la specie più frequente risulta essere S. xylosus. S.
xylosus ha esigenze nutritive semplici (gli basta il solo solfato ammonico per crescere) ed è capace di
fermentare molti zuccheri; è anaerobio facoltativo (preferisce la presenza di ossigeno) ed ha una
temperatura ottimale di crescita di 25-35° C ed un pH ottimale vicino al neutro. Non produce tossine, non è
patogeno e non ha attività emolitica. Le attività prevalenti di interesse tecnologico svolte dai micro-
stafilococchi sono:
• attività nitrato-reduttasica;
• attività catalasica;
• attività lipolitica;
• attività proteolitica.

-insacco
Dopo la miscelazione, l’impasto viene insaccato in budelli, che possono essere naturali (costituiti da parti
esterne dell’intestino di suini, bovini, equini ed ovini) o artificiali (da fibre animali o vegetali). Presentano
molti vantaggi quali la costanza del calibro, la mancanza di flora microbica, l’assenza di odori, la facile
pelabilità della fetta.

-stagionatura
Nella fase di stagionatura si manipolano i 3 parametri fondamentali, ovvero la temperatura, il tempo e
l’umidità. Consiste di 3 fasi:
Stufatura ed asciugatura: durante la stufatura prendono il via i processi microbiologici operati dai batteri
utili, e si assiste alla distruzione di quelli dannosi. Gli insaccati sono messi in camere ventilate con umidità
relativa dell’84-90% e a temperatura di 18-20°C per 1-4 giorni per i prodotti a lunga maturazione e a 24-
26°C per 12-24 ore per i prodotti a rapida acidificazione. Nella fase successiva di asciugatura, gli insaccati
vengono portati ad una temperatura di 16-22° C e ad umidità relativa di 80-90%. Va opportunamente
controllata per evitare la formazione di incrostazioni dovute alla disidratazione del prodotto. In queste fasi
si assiste ad una diminuzione del pH e dell’a W.
Maturazione o stagionatura: La stagionatura propriamente detta è la fase più lunga la cui durata può
variare dalle 4 alle 8 settimane o più; in essa avvengono una serie di modifiche di natura microbiologica,
chimico-fisica, fisica e biochimica a carico dei costituenti dell’impasto. In generale, la temperatura di
stagionatura è mantenuta tra i 10-15°C e l’umidità relativa diminuisce passando da valori iniziali di 50-70% a
valori terminali del 30-45%.

-evoluzione delle popolazioni microbiche durante la stagionatura


L’impasto carneo appena insaccato contiene tutti i microrganismi, utili e indesiderati, che potenzialmente
possono contaminare la carne. L’incremento della concentrazione salina e il conseguente abbassamento
dell’aW, la diminuzione del pH e l’abbassamento della concentrazione di O 2 esplicano un’azione selettiva in
favore dei micro-stafilococchi e dei batteri lattici.
Inizialmente le specie del genere Micrococcus sono prevalenti rispetto alle specie di Staphylococcus, ma
dopo breve tempo l’esaurimento dell’ossigeno determina un blocco del loro sviluppo, mentre
Staphylococcus proliferano in quanto crescono sia aerobicamente che anaerobicamente.
I batteri lattici, grazie alla loro azione acidificante e la produzione di sostanze antimicrobiche, competono
con gli altri microrganismi divenendo la popolazione dominante fino alla fine del processo. Nelle
fermentazioni naturali dei salami (cioè, affidate all’azione dei batteri lattici e microstafilococchi presenti
naturalmente nella carne) si possono avere alcuni inconvenienti, legati ad una microflora non idonea che
potrebbe non essere in grado di contrastare lo sviluppo di altri microrganismi alterativi e/o patogeni.
Inoltre è più alta la probabilità di uno sviluppo di batteri lattici eterofermentanti che producono non solo
acido lattico, ma anche composti che conferiscono al prodotto un’acidità poco piacevole e la formazione di
piccoli alveoli nella struttura dell’insaccato.
In tale ottica, l’impiego di colture starter, costituite da ceppi selezionati per specifiche attività metaboliche
può garantire la qualità del prodotto finito.
L'acidificazione del mezzo è dovuta ampiamente ai BATTERI LATTICI: specie mesofile di Lactobacillus
affiancate da popolazioni meno numerose di forme cocciche ugualmente mesofile (anche Leuconostoc e
Weissella). L’abbassamento del pH non è solo un “determinante ecologico” , in sinergia con ridotti valori
dell’attività dell’acqua. Esso favorisce la nitrosazione della Mioglobina, e quindi la tonalità e la stabilità del
colore dell'insaccato, e ne influenza la struttura, amalgamandone la farcia per effetto della stabilizzazione
delle proteine. I batteri lattici possono inoltre contribuire all'aromatizzazione del prodotto, producendo
diacetile.
I lattobacilli, negli insaccati carnei, raggiungono concentrazioni molto elevate, addirittura milioni di UFC/g.
Alla loro moltiplicazione, segue la lisi cellulare, con liberazione di enzimi sicuramente attivi in quelle reazioni
biochimiche che accompagnano la stagionatura esaltando le proprietà sensoriali dei prodotti.
I MICROSTAFILOCOCCHI consumano l'ossigeno che inizialmente satura il mezzo; demoliscono i perossidi,
preservando il grasso da processi di irrancidimento; esercitano attività lipolitiche, liberando glicerolo ed
acidi grassi, dei quali quelli insaturi stimolano la moltiplicazione dei batteri lattici, quelli a più corta catena
influenzano marcatamente aroma e sapore dei prodotti; sono inoltre responsabili di attività proteolitiche e
di attività esterasiche; possiedono ampiamente capacità nitrato- e nitrito-reduttasiche (nitrosazione della
mioglobina, colore rosso intenso). Anche i Microstafilococchi, infine, possono produrre batteriocine o altri
metaboliti con proprietà antagonistiche verso microrganismi indesiderati
I LIEVITI (Debaryomyces hansenii e la sua forma imperfetta, Candida famata) sono più abbondanti nelle
porzioni più esterne; se abbondantemente impiantati nella farcia, al momento del consumo danno
pelabilità. Sono quasi sempre capaci di assimilare nitrato, di demolire i perossidi, di produrre sostanze
aromatiche e di svolgere attività proteolitiche e lipolitiche.
Le MUFFE compaiono sui salami col procedere della stagionatura, dapprima a chiazze, quindi espandendosi
finchè l'efflorescenza del loro micelio aereo, progressivamente sdifferenziato in conidi, non ne ricopre
l'intera superficie. Alcune specie, come per esempio Penicillium verrucosum var. cyclopium, molto diffusa,
sono tossinogene. Le specie, che a maturità mostrano un'efflorescenza di colore bianco, grigio chiaro o
avorio, sono purtroppo spesso accompagnate da altre riferibili al genere Aspergillus di colore sgradevole e
tossinogene. Le muffe sono aerobiche e quindi consumano ossigeno; assimilano i nitrati; demoliscono i
perossidi; diffondono enzimi proteolitici e lipolitici; producono antibiotici. Sviluppandosi in una fase
successiva a quella che è caratterizzata dalla fermentazione lattica operata dai batteri lattici, consumano il
lattato, provocando un riinnalzamento dei valori di pH, generalmente apprezzato. Al micelio aereo,
corrisponde un micelio vegetativo che invade l'intera farcia dell'insaccato, con ife in comunicazione tra loro.
Se di bell'aspetto, ben ricoprente ed attribuibile a specie sicuramente non tossinogene, l'efflorescenza
fungina superficiale protegge dalla luce e dall'aria; impedisce competitivamente l'impianto di specie
indesiderate; favorisce anch'essa l'allontanamento dell'involucro dalla fetta all'atto del consumo, e
favorisce una maturazione più uniforme ed una regolare disidratazione.

-modifiche a carico dei carboidrati


L’acido lattico, prodotto dai batteri lattici durante la stagionatura è il principale prodotto della
fermentazione dei carboidrati. Possono essere formati anche altri prodotti di fermentazione, quali acido
acetico, acido butirrico e propionico, etanolo, acetoino, butandiolo, diacetile ed anidride carbonica, ma solo
in modeste quantità.
Le specie principalmente coinvolte sono eterofermentanti facoltative che producono acido lattico DL come
Lactobacillus sakei e Lactobacillus curvatus che crescono anche a 10–15°C e Lactobacillus plantarum che si
sviluppa a 25°C, Pediococcus acidilactici e Pediococcus pentosaceus che si sviluppano a 25–30°C e sono
molto acidificanti. Le specie di Leuconostoc producono acido D-lattico ed in seguito all’inoculo in salami
fermentati, produce un off-flavour di acido molto intenso.
Il ruolo degli stafilococchi è molto ridotto rispetto ai lattobacilli, sebbene sia stato dimostrato che S.
warneri è capace di produrre acido lattico D-L e di determinare un incremento dell’acido D-lattico quando
impiegata per la produzione di salami fermentati.
La produzione di acidi svolge un’azione positiva mediante l’inibizione della microflora patogena e alterante.
Gli acidi prodotti determinano un abbassamento del pH da 5,6-6,2 a 4,9-5,3 ; nelle fasi successive della
maturazione si assiste ad un innalzamento del pH dovuto all’utilizzazione dei lattati da parte delle muffe
presenti sul budello, alla formazione di composti azotati (NH 3), come risultato del catabolismo proteico ed
in parte anche dalla concentrazione (per disidratazione) di sostanze con capacità tampone. La presenza di
acidi favorisce la formazione della nitrosomioglobina, con evidente riscontro sul colore rosso.

-modifiche a carico della frazione proteica


Le proteine muscolari, come sappiamo, si distinguono in sarcoplasmatiche (solubili in acqua o soluzioni
saline diluite, costituite da enzimi come le proteasi, in particolare la calpaina le catepsine che svolgono un
ruolo fondamentale nel processo di maturazione dei salumi) e miofibrillari (solubili in soluzioni saline
concentrate, sono presenti nel sarcolemma, immerse in una massa fluida costituente il sarcoplasma; la
miosina e l’actina sono le più importanti). Vi sono poi le proteine del tessuto connettivo, insolubili nelle
soluzioni saline concentrate almeno a basse temperature.

Durante la fase di asciugatura, la sottrazione di acqua alle soluzioni saline nelle quali sono disperse le
proteine muscolari ne determina una denaturazione irreversibile. Successivamente, durante il periodo di
maturazione le proteine sono idrolizzate in polipeptidi, peptidi solubili a basso peso molecolare e
amminoacidi liberi.
La denaturazione proteica sembra essere imputabile sia ad enzimi costitutivi della carne, sia ad enzimi di
origine microbica che si sviluppano durante il processo di stagionatura. L’attività proteolitica durante la
stagionatura è dovuta prevalentemente alla catepsina D, la quale è attiva a bassi valori di pH ed è capace di
idrolizzare la miosina. Alle catepsine E, H ed L sembra essere dovuta invece, l’idrolisi dell’actina e dei suoi
prodotti di degradazione.
La proteolisi di origine microbica in prodotti carnei è ancora poco conosciuta e in generale si ritiene che le
proteasi microbiche non siano molto attive.
La proteolisi è uno dei più importanti cambiamenti biochimici che avvengono durante la stagionatura dei
prodotti carnei fermentati. Essa influenza lo sviluppo della tessitura e del flavour.
-modifiche a carico della frazione lipidica
I lipidi presenti nel tessuto adiposo sono per la maggior parte trigliceridi (99%) e in piccola parte colesterolo
e prodotti di degradazione di trigliceridi. I trigliceridi del tessuto adiposo sono costituiti dai seguenti acidi
grassi: 1,5% acido miristico, 25% acido palmitico, 14% acido stearico, 3% acido palmitoleico, 43% acido
oleico, 11% acido linoleico e 1% acido linolenico, mentre i lipidi del tessuto muscolare sono maggiormente
costituiti da trigliceridi (62-80%) e fosfolipidi (16-34%).
Durante la stagionatura, i trigliceridi e fosfolipidi sono idrolizzati ad opera delle lipasi endogene della carne
o prodotte da batteri e muffe; ciò si manifesta attraverso un calo della quantità di trigliceridi, con aumento
dei digliceridi, acidi grassi liberi e monogliceridi. Le lipasi di origine microbica derivano prevalentemente da
microrganismi appartenenti al genere Micrococcus e Staphylococcus. La loro attività lipolitica risulta
influenzata dalla temperatura, dal valore di pH e dalla forza ionica.
Durante la stagionatura, gli acidi grassi a lunga catena liberati dall’idrolisi dei lipidi subiscono trasformazioni
ossidative con produzione di diversi composti (alcani, aldeidi, chetoni, alcoli ecc…). Così, gli insaccati carnei
fermentati, possono acquisire diverse note aromatiche in funzione alla quantità dei composti ossidati
presenti nel mezzo ottenuti inoculando l’impasto carneo con diversi microrganismi. I lipidi possono subire
nel tempo anche delle alterazioni, tra cui l’idrolisi e l’irrancidimento ossidativo. L’ossidazione può essere
bloccata nella fase iniziale mediante l’aggiunta di antiossidanti che evitano la formazione dei radicali e di
conseguenza l’irrancidimento.

-modifiche di nitrati e nitriti


L’attività nitrato-reduttasica è considerata tra le più importanti attività svolte dagli stafilococchi durante la
fermentazione degli insaccati; riducendo i nitrati in nitriti, questi ultimi, in ambiente acido, diventano ossido
di azoto, che, legandosi alla mioglobina, il pigmento caratteristico della carne formano la nitroso-
mioglobina, composto che conferisce il colore rosso vivo alla carne.

-modifiche del pH e dell’ aW


Durante la stagionatura si assiste ad una netta riduzione dell’ umidità del prodotto, che accompagnata dalla
salagione determina la diminuzione dell’aw da valori di 0,98 fino a 0,86 / 0,83 nel prodotto finito.

In conclusione, le modifiche che avvengono durante la stagionatura sono correlate tra di loro e il risultato di
tali cambiamenti si possono così riassumere:
• modificazione dell’aspetto esteriore: il budello diventa traslucido e si ricopre di una patina di batteri,
lieviti e muffe;
• modificazione dell’impasto: l’impasto di colore bruno acquista il caratteristico colore rosso brillante del
salame stagionato, grazie all’azione combinata dei batteri lattici e dei micro-stafilococchi sul nitrato
aggiunto all’impasto;
• modificazione della consistenza: dovuta all’effetto della saldatura fra magro e grasso con produzione di
una massa uniforme diventa soda ed elastica per mezzo della coagulazione delle proteine dovuta alla
disidratazione, all’acidificazione e all’azione del sale.

Capitolo 13 – MICROBIOLOGIA DEI VEGETALI E DEI PRODOTTI FERMENTATI


DA FORNO
Dei vegetali possono essere consumate parti diverse della pianta (foglie, fusti, radici, tuberi, frutti, fiori). Lo
stato microbico del prodotto al momento del consumo dipende da una serie di fattori, quali le pratiche
colturali, la localizzazione delle parti edibili, le modalità di raccolta, il trasporto e le operazioni di processo,
nonché dai fattori ecologici intrinseci ed estrinseci.

-i microrganismi dei vegetali in pieno campo e dopo la raccolta


I batteri che vivono sulle foglie possono essere uccisi dall’essiccazione e dai raggi UV. Sopravvivono meglio i
batteri che si trovano in parti più umide e protette dalla luce. In genere i vegetali appena raccolti
presentano gli stessi batteri dei vegetali in pieno campo. I livelli di contaminazione possono essere compresi
tra 103 e 109 UFC/g. La varietà di generi e specie ritrovate riflette le condizioni colturali e i terreni nutritivi
utilizzati per il loro isolamento. La maggior parte dei terreni e delle condizioni di coltura mirano ad
evidenziare:
• batteri mesofili (25-30°C);
• batteri psicrotrofici (temperature di refrigerazione);
• coliformi ed altre Enterobacteriaceae.
Le popolazioni microbiche principali sono:
Pesudomonas (P. fluorescens, P. cichorii, P. syringae, P. cepacia, P. gladioli e P. solanacearum),
Enterobacteriaceae (Enterobacter cloacae e agglomerans, Citrobacter freundii, Erwinia erbicola), anaerobi
sporigeni (Clostridium perfringens, Clostridi butirrici), batteri lattici (Leuconostoc mesenteroides;
Lactobacillus spp., Lactococcus spp., Enterococcus spp.).
Negli ultimi anni sono stati registrati numerosi episodi tossi-infettivi in cui sono risultati implicati molti
batteri patogeni, tra i quali: Salmonella spp., Shigella spp., Escherichia coli enterovirulenti, Staphylococcus
aureus, Campylobacter spp., Listeria monocytogenes, Bacillus cereus, Clostridium perfringens e Clostridium
botulinum.
L’incremento di malattie batteriche associate al consumo di vegetali può dipende da varie causa, tra cui
l’utilizzo di tecniche microbiologiche di rilevamento sempre più sofisticate, una catena alimentare sempre
più allungata che favorisce l’amplificazione dei patogeni, e l’estensione oltre i confini regionali della
commercializzazione dei prodotti che elimina la stagionalità nella disponibilità di prodotti freschi.

-fonti di contaminazione microbica dei vegetali


Il TERRENO rappresenta una ricca riserva di microrganismi tellurici che svolgono un ruolo fondamentale nei
cicli biogeochimici degli elementi. L’attività degradativa di questi microrganismi potrebbe causare danni
dopo la raccolta esponendo i prodotti ad ulteriori attacchi microbici. Inoltre il terreno è una riserva di
patogeni.
L’ACQUA, se contaminata con alti livelli di batteri fecali aumenta il rischio della presenza di patogeni.
L’estensione della contaminazione può dipendere dalla struttura del vegetale (strutture che favoriscono
l’adesione e l’intrappolamento dei microrganismi) e dalle tecniche di irrigazione (quella a pioggia aumenta i
livelli di contaminazione rispetto agli altri metodi).
I FERTILIZZANTI ORGANICI (letame, compost e fanghi di depurazione delle acque reflue) possono essere
una fonte di contaminazione fecale dei vegetali. In generale, ritardando i tempi tra concimazione e raccolta
si riduce il rischio di contaminazione da patogeni dei vegetali.
Altre fonti di contaminazione sono animali domestici e selvatici e dal personale addetto alla coltivazione e
raccolta dei vegetali.

-vegetali freschi minimamente processati


La conservazione dei vegetali freschi deve essere basata sull’azione combinata e sinergica di diversi
trattamenti con l’obiettivo di ostacolare i microrganismi e ritardare la comparsa di alterazioni.
Le fasi del ciclo di produzione di vegetali freschi minimamente trattati comprendono: a) coltivazione
raccolta e pre-refrigerazione, b) trasporto, c) stoccaggio, d) selezione e) pulitura e lavaggio, f) taglio,
lavaggio e asciugatura, g) confezionamento, h) distribuzione e vendita.
La crescita, la sopravvivenza e l’inattivazione dei microrganismi sui vegetali freschi dipende dalla stretta
interazione tra le caratteristiche dei microrganismi presenti, lo stato fisiologico dei tessuti vegetali, le
caratteristiche dell’ambiente in cui si trova il vegetale e gli effetti delle tecnologie sulle popolazioni
microbiche e sulla fisiologia della pianta.
Vanno fatte alcune considerazioni sulle operazioni:
Materia prima: i vegetali da tagliare o pelare e conservare per vari tempi devono essere di prima qualità;
Refrigerazione: il rispetto della catena del freddo è il maggior ostacolo allo sviluppo microbico;
Pulitura, pre-lavaggio e lavaggio: riducono i livelli di contaminazione. Fattori che intervengono sono la
qualità dell’acqua, la temperatura dell’acqua, la turbolenza dell’acqua e la quantità di acqua;
Operazioni di taglio: rendono il prodotto più suscettibile di alterazioni (aumento del metabolismo cellulare
ed esposizione di superfici non protette agli enzimi microbici). I fattori da considerare sono l’affilatezza e lo
spessore delle lame, il materiale delle lame (acciaio inox), l’angolo di incidenza del taglio e la velocità di
taglio, la sanificazione delle lame, l’igiene del personale, le contaminazioni crociate.
Lavaggio: dopo il taglio, i vegetali sono ancora popolati da molti microrganismi;
Asciugatura: la rimozione dell’acqua inibisce lo sviluppo microbico;
Confezionamento: è l’ultima operazione del processo industriale, fondamentale per garantire la shelf-life
dei prodotti. Con il confezionamento si tenta di creare condizioni tali da ritardare l’azione combinata dei
fattori di deterioramento. I meccanismi che alterano la stabilità biochimica e microbica dei vegetali
confezionati riguardano la senescenza del vegetale (produzione di etilene), l’aumento dell’attività
respiratoria, il metabolismo anaerobico (accumulo di CO2), modificazioni enzimatiche (variazione di colore -
polifenolossidasi) e proliferazione microbica.
Modificazione dell’atmosfera nelle confezioni: consiste nel confezionare i prodotti in un’atmosfera diversa
da quella naturale e costituita da gas miscelati tra loro in differenti proporzione, che solo unitamente ad
altri interventi (refrigerazione e controllo igienico) può raggiungere gli effetti desiderati. All’interno della
confezione i livelli di O2 e CO2 si modificano in seguito alla respirazione dei tessuti e alle proprietà di
permeabilità dei film di imballaggio fino a che si stabiliranno delle condizioni di equilibrio.

-microbiologia dei vegetali fermentati


Cavoli, olive e cetrioli possono essere trasformati mediante fermentazione lattica ad opera di batteri lattici
omofermentanti facoltativi; tali prodotti presentano un pH di 3-3,5.
Le principali alterazioni riguardano:
CRAUTI: Rammollimento; Inscurimento (ossidazione da lieviti filmogeni); Viscosità (ceppi di lattici filanti).
CETRIOLI: Viscidi (batteri dotati di capsula mucillaginosa); Rammollimento (enzimi pectinolitici prodotti da
muffe); Cavi (sviluppo di gas da parte di lieviti o LAB eterofermentanti); Annerimento (H2S di origine
microbica).
OLIVE: Odore fecale (sviluppo di coliformi e bacilli); Rammollimento (enzimi pectinolitici prodotti da batteri
e muffe); Pustule bianche sub-epidermiche (sviluppo di LAB gasogeni).

FRUTTA: molte popolazioni microbiche possono popolare le superfici della frutta, le cui specie e varietà
riflettono le condizioni colturali, di raccolta, di trasporto e stoccaggio della frutta stessa. Le alterazioni sono
dovute soprattutto allo sviluppo di muffe e lieviti; batteri lattici e acetici hanno più probabilità di svilupparsi
sui tessuti lesionati.
-microbiologia dei prodotti fermentati da forno
Sono prodotti cotti, ottenuti dalla levitazione spontanea o da colture starter di impasti costituiti da una
miscela di farina di cereali diversi (grano tenero o duro) e acqua. Le cariossidi di frumento presentano la
seguente composizione:
• glucidi 72%: amido 60-68%, pentosani 6.5%, cellulosa 2.0-2.5%, zuccheri riducenti 1.5%;
• protidi 10-13%: proteine solubili in acqua e sali (albumina 12%, globulina 4%), proteine insolubili in acqua
(gliadina 44%, glutenina 40%);
• lipidi 1.5-2.0%: gliceridi, fosfolipidi, steroli, tocoferoli (vitamina E);
• sali minerali 1.5-2.0%: fosforo, ferro, potassio, calcio, zolfo;
• vitamine: riboflavina (B2), niacina, acido folico, biotina, inositolo, xantofilla;
• enzimi: diastasi (alfa e beta amilasi), proteasi, maltasi, ossidasi.
Le varie tipologie di farina sono distinte in base al contenuto di ceneri, minimo nelle farine di tipo 00, più
alto nelle altre.

La farine viene addizionata di acqua, sale e lievito, e poi impastata. La formazione dell’impasto pronto per
essere infornato è il risultato delle modifiche strutturali del glutine: la fusione delle gliadine e glutenine
produce un complesso colloidale (glutine) che rappresenta l’intelaiatura dell’impasto.
Le unità di glutenina si associano in fibre che, allo stato idratato, costituiscono una struttura stabile, elastica
e resistente all’estensione. Sono inoltre responsabili della tenacità dell’impasto. Le unità di gliadina sono
legate fra loro formando fibrille ad elevatissimo peso molecolare con una struttura poco tenace e più
estensibile, perché non possiedono cisteina, che conferisce estensibilità al glutine. L’idratazione della farina
determina la solubilizzazione dello strato di proteine che avvolge i granuli di amido e la creazione di una
fitta rete di glutine che avvolge i granuli di amido.
Per la fermentazione dell’impasto si usano panetti di Saccharomyces cerevisiae, aggiunti all’impasto in
concentrazione del 2%; la lievitazione (fermentazione di glucosio e maltosio in etanolo e CO 2) comincia
rapidamente, la CO2 si accumula, facendo aumentare di volume l’impasto. Esistono diversi tipi di
lievitazione.
Gli impasti a lievitazione biologica (sostenuta da microrganismi) possono essere preparati secondo 3
tipologie:
Metodo istantaneo: tutti gli ingredienti sono miscelati contemporaneamente e, dopo una breve lievitazione
di 1-2 ore (a 30-40° C), l’impasto viene infornato.
Metodo diretto: tutti gli ingredienti sono miscelati contemporaneamente e, dopo una lievitazione di 6-12
ore (a 22-30° C), l’impasto viene infornato..
Metodo indiretto o naturale o impasto acido: acqua e farina non vengono aggiunti in una sola soluzione, ma
in momenti diversi del processo. Ne esistono di 3 tipi, il TIPO I (propagazione giornaliera, ottenuto per
fermentazione a tre o più stadi; pH finale di circa 3,9), il TIPO II (ottenuto per fermentazione prolungata, di
15-20 ore, operata da lievito panario) ed il TIPO III (preparazione secca di impasti acidi).

Le attività svolte dai lieviti e batteri lattici che influenzano le caratteristiche degli impasti sono l’attività
acidificante, attività lievitante, attività proteolitica e attività enzimatica. Le caratteristiche desiderate nei
ceppi di lieviti panari sono: l’adattamento al maltosio, l’acido-tolleranza, la tolleranza al congelamento e
l’osmotolleranza. I batteri lattici che popolano gli impasti acidi sono rappresentati principalmente da
Lactobacillus sanfranciscensis, Lb. sakei, Lb. brevis, Lb. reuteri, Lb. pontis e Pediococcus pentosaceus.
Svolgono diverse attività come l’abbassamento del pH e incremento dell’acidità titolabile con
miglioramento delle qualità sensoriali e allungamento del periodo di conservazione; la produzione di enzimi
e altri metaboliti ha influenza su aroma, sulla crescita dei lieviti e sulla lievitazione; vengono prodotte anche
amilasi e fitasi.
Le caratteristiche dei batteri lattici tipici degli impasti acidi riguardano:
l’alta capacità di adattarsi all’ambiente fisico-chimico degli impasti;
• la natura di essere anaerobi o microaerofili;
• l’acido tolleranza;
• la capacità di fermentare intensamente i carboidrati con formazione di acido lattico (omofermentanti) o
acido lattico, acido acetico, etanolo e CO2 (eterofermentanti).

Capitolo 14 – MICROBIOLOGIA DEL VINO E DELLA BIRRA

-MICROBIOLOGIA DEL VINO


Il VINO è ottenuto dalla fermentazione alcolica del mosto d’uva da parte dei lieviti. Le uve sono popolate da
lieviti, muffe, batteri acetici e batteri lattici, che trovano la loro origine nel terreno e sono presenti a livello
di 103 – 105 UFC/g. I lieviti sono principalmente rappresentati da Hanseniaspora uvarum (Kloeckera
apiculata), Hanseniaspora guilliermondii (Kloeckera apis), Candida stellata, Metschnikowia pulcherrima,
Cryptococcus, Pichia, Kluyveromyces, Saccharomyces cerevisiae. Sull’uva danneggiata si registra un
aumento di muffe e batteri acetici, e i microrganismi arrivano a livelli di 10 6-108 UFC/g. I batteri lattici sono
rappresentati soprattutto da specie di, Lactobacillus, Leuconostoc e Pediococcus. I batteri acetici da
Gluconobacter oxydans, Acetobacter aceti e Acetobacter pasteurianus. Infine, le muffe sono rappresentate
da Botrytis cinerea, specie di Penicillium, Aspergillus, Mucor, Rhizopus, Alternaria e Cladosporium.

Il mosto ha questa composizione:


Acqua: 70-85%;
Zuccheri: glucosio e fruttosio. La percentuale di zuccheri determina il titolo alcolimetrico;
Acidi organici: acido tartarico, citrico, malico; se l'acidità è adeguata il vino risulta serbevole e fresco, se è
troppo bassa risulta piatto, se è alta risulta duro. L'acidità totale si esprime in gr/l di acido tartarico, che
assume valori da 4‰ a 9 ‰;
Polifenoli: sostanze che determinano il colore ed il sapore del vino, presenti nella buccia e nei raspi, e
agiscono come antiossidanti; possono essere antociani, flavoni, leucoantociani e catechine;
Composti azotati: polipeptidi, amminoacidi e ammoniaca, fondamentali per la fermentazione;
Sostanze pectiche: pectine, gomme, mucillagini, possono causare intorbidimento;
Sostanze odorose: terpeni, presenti nelle bucce in percentuali diverse a seconda dell’uva;
Minerali: definiti “ceneri” nella loro totalità, determinano la limpidezza e la sapidità del vino;
Enzimi;
Fattori di crescita: vitamine idrosolubili.
La composizione chimica del mosto soddisfa le richiesta di crescita di un’ampia gamma di microrganismi. Il
fattore limitante è il pH, compreso tra 3 e 3,5; i lieviti (pH ottimale di 4-4,5) sviluppano senza difficoltà a
pH= 3; i batteri acetici tollerano pH= 3; tra i batteri lattici sono in grado di svilupparsi Oenococcus oenos e
alcune specie di lattobacilli. Infine, le muffe risultano essere poco influenzate dai valori di pH.

I lieviti vinari originano dall’uva, da starter selezionati e, solo in parte, dalle attrezzature e l’ambiente di
cantina.
Famiglia Schizosaccharomycetaceae
-Genere Schizosaccharomyces: cellule globose o cilindriche; si moltiplicano per scissione; sono i principali
agenti della fermentazione malo-alcolica; le principali specie sono S. pombe, S. japonicum, S. octosporus.
Famiglia Schizosaccharomycoidaceae
Cellule apiculate (forma di limone)si moltiplicano per gemmazione. Da un punto di vista enologico sono
indesiderati in quanto responsabili dell’alta acidità volatile dei vini dell’Italia meridionale.
-Genere Hanseniaspora: H. uvarum (Kloeckera apiculata), H. guilliermondii (Kloeckera apis);
-Genere Saccharomycoides: S. ludwigii, il principale responsabile della fermentazione dei mosti muti;
Famiglia Saccharomycetaceae
Lieviti ascosporigeni.
-Genere Dekkera: presenti sia nei vini che nei mosti, il loro ruolo è ancora incerto. Produce elevate quantità
di acido acetico;
-Genere Pichia: privi di attività fermentativa, sviluppano alla superficie dei liquidi e sono agenti della fioretta
dei vini;
-Genere Torulaspora: T delbrueckii, presenta forte vigore fermentativo, buon potere alcoligeno e buona
resistenza agli antisettici, anche se non riesce a prendere il sorpavvento su Saccharomyces cerevisiae;
-Genere Zygosaccharomyces: presenti in mosti fermentati spontaneamente, hanno buona attività
fermentativa;
-Genere Saccharomyces: suddiviso in 2 gruppi, sensu stricto e sensu lato.

Nel mosto, dopo poche ore dalla pigiatura, si creano condizioni di anaerobiosi che impediscono lo sviluppo
di microrganismi dotati di metabolismo ossidativo, come batteri acetici e le muffe, favorendo quello dei
lieviti. Quando la concentrazione di alcool è prossima al 5% i lieviti apiculati arrestano la loro attività e
prende il sopravvento Saccharomyces cerevisiae che diventa padrone del processo portandolo a termine.
Oggi sono praticati numerosi interventi per evitare lo sviluppo dei “lieviti selvaggi” (apiculati) a favore dei
lieviti ellittici della specie Saccharomyces cerevisiae, tramite fermentazioni guidate che comprendono
l’impiego di lieviti selezionati, fermentazioni scalari e l’impiego di anidride solforosa.
Impiego di lieviti selezionati: si usano colture di Saccharomyces cerevisiae, con lo scopo di avere inoculi di
5-10 x 106 UFC/ml, di eliminare i lieviti apiculati e di ottenere una fermentazione costante e completa.
Fermentazioni scalari: possono essere condotte inoculando in successione il mosto con lieviti selezionati.
All’inizio il mosto è inoculato con Zygosaccharomyces veronae, Torulaspora delbrueckii, Kloeckera apiculata
e Candida stellata e, dopo 4-5 giorni, si procede all’inoculo di S. cerevisiae.
Impiego di anidride solforosa: si aggiunge ai mosti dopo pigiatura, in quantità comprese tra 50 e 150 mg/l.
Svolge azione selettiva sui lieviti, bloccando l’attività degli apiculati, inibizione dello sviluppo dei batteri
lattici, inibizione dello sviluppo dei batteri acetici, stabilizzazione dei vini sotto l’aspetto biochimico
impedendone le ossidazioni. Gli apiculati sono inibiti completamente a concentrazioni inferiori a 50 mg/l.
Nell’ambito di S. cerevisiae vi sono ceppi che si sviluppano anche a concentrazioni >di 150 mg/l, altri sono
inibiti anche da 30-40 mg/l.

-componenti del vino


ALCOL: legato al quadro organolettico del prodotto, agisce sulla solubilità dei composti che generano il
“bouquet” del vino. Il suo quantitativo è soggetto a norme nazionali e comunitarie. Permette di evidenziare
la genuinità del prodotto e di rilevare l’aggiunta di saccarosio (frode).
POLIFENOLI: componente colorata del vino, sono contenuti nella buccia e conferiscono al vino colore,
amaro e astringenza. In base al contenuto dei polifenoli i vini vengono classificati in bianchi, rosati e rossi di
diversa intensità. La quantità dipende dalla varietà di uva, dal tempo di contatto del mosto con le bucce e
dal tempo di contatto del vino col legno di rovere delle botti di affinamento.
AROMI DEL VINO: ricordiamo alcoli quali l’etanolo (80-130 g/l), il glicerolo (2-10 g/l), l’alcol iso amilico, il
propanolo, esteri come l’etil acetato (5-200 mg/l) e lattato (1-50 mg/l), acidi organici quali tartarico (0,5-7
g/l) malico (0,05-5 g/l), succinico (0,05-2 g/l), lattico (0,01-5 g/l), acetico (0,02-2 g/l), aldeidi e chetoni come
acetaldeide (10-50 mg/l), diacetile (0,2-5 mg/ml) e acetoino (0,1-12 mg/ml). Sono composti volatili che
derivano anche dalla fermentazione alcolica.

-fermentazione malo-lattica
Reazione di decarbossilazione dell’acido L-malico ad acido L-lattico. Comincia 2-3 settimane dopo quella
alcolica e dura 2-4 settimane. E’ operata da batteri lattici quali Oenococcus oeni, Lactobacillus plantarum,
Lactobacillus casei ecc… Comporta un incremento del pH di 0,3-0,5 unità, che consente di avere vini più
amabili (dal punto di vista del gusto). Mentre per alcuni vini è un effetto desiderato (come i rossi), in altri
casi (come per i vini giovani in cui la freschezza è dovuta proprio all’acido malico) non sono desiderati. La
fermentazione malo-lattica avviene con un’intensità che dipende dal pH del vino, dalla quantità di anidride
solforosa e dalla temperatura. Attualmente come starter per la fermentazione malo-lattica sono utilizzati
esclusivamente ceppi selezionati di Oenococcus oeni.

-difetti dell’odore e del sapore dei vini


Odore di zolfo: imputabile a residui di trattamenti antioidici all’uva o da trattamenti antifungini delle botti;
Odore di acido solforico o di uova putride: in assenza di ossigeno i lieviti utilizzano come ossidante lo zolfo
con conseguente produzione di idrogeno solforato;
Gusto di muffa: difetto imputabile a Botrytis cinerea (muffa grigia);
Gusto di raspo e di amarognolo: dovuto all’eccessiva presenza di tannino nel vino (raspi e vinaccioli);
Gusto di tappo: è provocato da miceli (funghi) insediatisi nel tessuto del sughero.

-alterazioni della limpidezza e del colore dei vini


Casse ossidasica: annerimento all’aria. L’alterazione è dovuta alla presenza di ossidasi nel vino, che
ossidano le sostanze fenoliche. Si ha soprattutto quando si vinificano uve guaste, marcite o peronosporate;
Casse rameosa: intorbidamento con formazione di un precipitato rossastro contenente solfuri di rame. E’
dovuto all’ossidazione delle sostanze coloranti;
Casse ferrica: intorbidamento con formazione di un precipitato nerastro causato dalla trasformazione di
sali ferrosi in sali ferrici (per ossidazione).

-alterazioni microbiche dei vini


Spunto acetico o acescenza: : è dovuta a batteri acetici (Acetobacter) che ossidano l’alcol etilico del vino in
acido acetico e acqua. Si ha soprattutto in vini poco alcolici e con scarsa acidità fissa;
Filante o grassume: è imputabile allo sviluppo di batteri lattici che producono polisaccaridi mucillaginosi. Il
vino fila come l'olio ricoprendosi in superficie di una pellicola vischiosa, grassa e assume un sapore molle e
qualche volta rancido sprigionando inoltre anidride carbonica. E’ favorita dall’ambiente asfittico, dal caldo,
dall'elevato contenuto in sostanze proteiche e da zucchero residuo;
Amaro: sapore amaro e disgustoso (trasformazione della glicerina in aldeide amillica, acroleina ecc…),
intorbidamento, odore acetoso, deposito arancione. Più frequente nei vini rossi soprattutto quelli
invecchiati in fusti ed in bottiglia, poveri di alcol e di acidità, ricchi di sostanze proteiche e ottenuti da uve
ammuffite,
Fioretta: formazione sulla superficie dei vini di un velo biancastro che poi si frammenta in piccoli pezzi. I
lieviti ossidano l'alcol in acqua e anidride carbonica, favorendo lo sviluppo di batteri acetici.

-MICROBIOLOGIA DELLA BIRRA


La BIRRA è il prodotto ottenuto dalla fermentazione alcolica, con ceppi di Saccharomyces carlsbergensis o
di Saccharomyces cerevisiae, dei mosti preparati con malto d’orzo torrefatto (o malto di frumento, di riso
ed altri cereali), con acqua ed amaricati con luppolo. La fermentazione alcolica del mosto può essere
integrata con una fermentazione lattica.
Le birre in Italia sono così classificate:
• Birra analcolica: 3-8 gradi saccarometrici (1,2% titolo alcolometrico volumico).
• Birra light: 5-10,5 gradi saccarometrici (1,2-3,5% vol).
• Birra normale: 11-13 gradi saccarometrici (3,6-4,3% vol).
• Birra speciale: 13-15 gradi saccarometrici (4,3-5% vol).
• Birra doppio malto: più di 15 gradi saccarometrici (oltre 5% vol).

Per determinare il grado alcolico di una birra si determina il peso specifico a 15°C di un distillato alcolico di
birra previamente privata di anidride carbonica. Quindi, dal peso specifico del distillato, mediante le tabelle
alcolometriche, si ricava l’alcol in grammi per 100 ml di birra (Alcol % p/v). Mentre, dal peso specifico del
residuo della distillazione, mediante specifiche tabelle (di Windish) si ricava il valore dell’estratto espresso
in grammi per 100 ml di birra (estratto % p/v). Il grado saccarometrico esprime la % di estratto contenuto
nel mosto impiegato per produrre la birra. Viene calcolato secondo l’equazione: Grado saccarometrico (v)
= Estratto (% p/v) + 2 alcol (% p/v).

-preparazione della birra


1) PREPARAZIONE DEL MALTO: L’orzo è sottoposto a pulitura e vagliatura per eliminare gli eventuali corpi
estranei. Segue la fase di macerazione o ammollamento (2-4 giorni, in recipienti colmi d’acqua a 10-15° C),
per favorire la germinazione. La germinazione, detta anche tallitura dell’orzo, inizia con la stratificazione
dell’orzo ammollato (40-90 cm) su un pavimento o in germinatoi a temperature di 15-18°C e
continuamente rivoltato per evitare accumulo di calore. Lo scopo della germinazione è quello di favorire
l’arricchimento della cariosside di una serie di enzimi amilolitici. Con la germinazione si forma il malto
verde, con chicchi teneri e friabili. Le principali trasformazioni alle quali è soggetto l'orzo nel corso del
maltaggio avvengono a carico delle proteine e dell’amido. Gli enzimi emicellulosolitici liberano le amilasi e
dopo l’attivazione da parte di enzimi proteolitici incominciano ad idrolizzare l’amido in destrine e maltosio.
La germinazione viene interrotta dalla fase di torrefazione, in cui l’orzo viene essiccato a 40-50° C per 3-4
ore, al fine di ridurre il contenuto d’acqua al 10-12%.
Quindi viene torrefatto fino a 80°C per circa 4 ore per malti chiari e fino a 100°C per i malti scuri. Dopo la
torrefazione, il malto viene privato delle radichette (fonti di intorbidimento).
Il prodotto così ottenuto costituisce il malto che contiene: 1,5-3% di umidità, 50-60% di amido, 10-12% di
cellulosa e pectine e 8-9% di proteine.
2) PREPARAZIONE DEL MOSTO DI BIRRA: Il malto essiccato e macinato viene miscelato con acqua e cotto al
fine di estrarre tutte le sostanze solubili e solubilizzabili attraverso l’azione delle diastasi e di altri enzimi.
Può avvenire per INFUSIONE (un solo tino di saccarificazione, operazione continua, si impasta il malto con
acqua a 40°C, quindi si aggiunge acqua a 80°C fino a portare la massa a 63-65°C in circa mezz’ora) o per
DECOZIONE (due tini di saccarificazione, malto si impasta con acqua fredda, quindi si trasferisce circa la
metà dell’impasto di mosto in un tino di saccarificazione dove viene riscaldato fino all’ebollizione e quindi
ritrasferito nel primo tino, con una ripetizione di questa operazione fino a che la massa arriva ad una
temperatura di circa 75-80°C).
Alla fine dell’ammostatura tutto l’amido è trasformato per il 60% in amilosio e per il 40% in destrine
(saccarificazione). La temperatura ottimale di azione delle amilasi è tra 72 e 78°C. Si formano inoltre peptidi
e aminoacidi che favoriscono la formazione della schiuma e la crescita dei lieviti. Successivamente, il mosto
è scaricato nei tini di chiarificazione per essere separato dalle trebbie, dopodiché è pronto per la cottura e
la luppolatura.
3) COTTURA E LUPPOLATURA DEL MOSTO: Si aggiunge Humulus lupulus, che grazie al suo contenuto di
umulene, alpha-umulone, beta-luppulone, oli essenziali e tannini, dona il sapore amaro alla birra.
Successivamente il mosto viene riscaldato all’ebollizione per 1-2 ore. Con questo trattamento di cottura si
ha l’inattivazione degli enzimi, la solubilizzazione delle sostanze del luppolo, la coagulazione delle albumine,
la concentrazione del mosto e l’eliminazione microrganismi non desiderati. Dopo un’ulteriore
allontanamento dei torbidi, il mosto è trasferito nelle vasche di raffreddamento dove è raffreddato.
4) LIEVITI PER LA FERMENTAZIONE: Per la produzione di birre a fermentazione bassa si utilizzano ceppi di
Saccharomyces carlsbergensis (LIEVITI BASSI), che hanno un buon potere fermentativo a 5-10°C e sono
caratterizzati da cellule isolate che tendono a formare fiocchi, per cui al termine della fermentazione si
depositano sul fondo dei tini. Per la produzione di birre a fermentazione alta si impiegano ceppi di
Saccharomyces cerevisiae (LIEVITI ALTI), che hanno un alto potere fermentativo ottimale a temperature di
15-25° C e caratterizzati dal fatto che le cellule durante la gemmazione restano attaccate alla cellula madre
formando lunghe ramificazioni. Durante la fermentazione tendono a salire in superficie dove formano uno
strato compatto detto coperchio.
5) FERMENTAZIONE: consta di due momenti distinti, la fermentazione tumultuosa, in cui sono prodotti
alcool ed anidride carbonica, e la fermentazione secondaria (o maturazione), in cui si completa la
fermentazione degli zuccheri fermentescibili e la formazione di altri composti che caratterizzano la birra.
Per le birre a fermentazione bassa, la fermentazione primaria avviene in serbatoi chiusi alla temperatura di
8-10°C e dura da 6 a 10 giorni, mentre quella secondaria avviene in altri serbatoi a temperature di 5° C
prima e -1° C poi.
Per le birre a fermentazione alta, a fermentazione primaria avviene alla temperatura di 16-20°C e dura 2-3
giorni, mentre quella secondaria può mancare del tutto o essere breve (7-20 giorni).
6) CHIARIFICAZIONE E CONFEZIONAMENTO: prima di essere confezionata, la birra è chiarificata per
filtrazione o centrifugazione per eliminare tutti i residui. Per una maggiore stabilità microbica, le bottiglie o
le lattine di birra sono pastorizzate a 70°C per 30-60 secondi. L’instabilità biologica della birra risiede nel pH
di 5,6-6,0 che risulta poco selettivo nei confronti di microrganismi quali batteri lattici, acetobatteri,
sporigeni e anche lieviti. Per ovviare a questo problema, si possono acidificare i mosti con acidi (HCl o
H3PO4) o con Lactobacillus (delbrueckii, omofermentante e termofila). Può essere aggiunto durante la fase
di ammollatura dell’orzo oppure al mosto prima della luppolatura.

-tipologie di birra
-Lager: è chiamata così ogni birra prodotta con la bassa fermentazione. Le birre Lager si caratterizzano per il
colore oro pallido e il sapore mediamente amaro.
-Pils/Pilsner: Sono birre a bassa fermentazione, con un colore che va dal giallo paglierino al dorato, un
marcato aroma di luppolo, gusto asciutto e pulito, bouquet fiorito e fragrante, schiuma abbondante con
perlage finissimo.
-Ale: birre ad alta fermentazione, di moderato contenuto alcolico e di poca schiuma, con colori e gradazioni
variabili, da bere a temperatura di cantina in boccali di vetro spesso e liscio.
-Stout: forte, come indica il nome, scurissima, con abbondante schiuma cremosa color nocciola e di gusto
amaro. Viene prodotta con orzo torrefatto e con l’aggiunta di caramello.
-Trappista: prodotte da monaci cistercensi, vengono rifermentate in bottiglia. Hanno una gradazione
robusta (da 6 a 9% vol.), colore che varia dall’oro carico all’ambrato allo scuro, schiuma ricca e gusto pieno.
-Abbazia: prodotte con il metodo dell’alta fermentazione seguendo in maniera fedele le antiche ricette di
monaci benedettini o cistercensi. Diffuse soprattutto in Belgio, sono generalmente corpose, di forte
contenuto alcolico (da 6 a 9% vol.) e di colorazione variabile dall’oro carico, all’ambrato, al rosso cupo, al
bruno scuro.

Capitolo 15 – MICROBIOLOGIA DELLE UOVA


Si intende per uova le “Uova in guscio di gallina, di anatra, di oca, di tacchina, di gallina faraona e di quaglia,
adatte al consumo umano o all’utilizzazione nell’industria alimentare, escluse le uova rotte, le uova
incrinate e le uova cotte”.
Le uova sono costituite dal guscio, dall’albume e dal tuorlo. La composizione dell’albume è: acqua 87-88%,
proteine (albumine, globuline, glicoproteine), glucidi 10-11%, 0,9%, minerali 1,1%. Il tuorlo presenta la
seguente composizione: acqua ~50%, proteine e fosfoproteine 15-17%, lipidi (trigliceridi, fosfolipidi steroli,
lecitina)28-36%, glucidi 0,1-0,3%, minerali 0,5-0,6%.

Appena deposte, le uova sono sterili internamente, ma alcuni microrganismi possono penetrarvi all’interno
in funzione di diversi fattori quali temperatura, umidità e livello di contaminazione del guscio. La
contaminazione prima della deposizione può essere trans-ovarica (tramite l’ingestione di alimenti o acqua
contaminati, i microrganismi arrivano alle ovaie per via sanguigna) o del guscio (microrganismi presenti
naturalmente nelle vie genitali dell’animale).
La contaminazione dopo la deposizione dipende dalle condizioni igieniche dell’allevamento, in funzione
delle quali i livelli microbici possono essere dell’ordine di 10 3 -105 UFC/cm2 per le uova pulite e di 10 7-108
UFC/cm2 per le uova sporche. Le specie contaminanti sono sia Gram + che Gram - .
La cuticola che copre i pori del GUSCIO lo protegge dalla penetrazione di microrganismi contaminanti.
Quando la cuticola è danneggiata, i microrganismi possono penetrare facilmente.
Il passaggio all’interno dell’uovo è favorito da vari fattori:
• fenomeni di suzione dall’esterno all’interno per formazione della camera d’aria;
• formazione di condensa dal passaggio refrigerato a temperatura ambiente;
• assottigliamento della cuticola e dello spessore del guscio;
• densità della contaminazione microbica;
• maggiore penetrazione dei batteri gram-negativi bastoncellari mobili (Pseudomonas, enterobatteri).

Quando la cuticola perde la sua attività protettiva, l’albume contrasta il raggiungimento dei microrganismi
verso il tuorlo mediante una serie di fattori:
• elevata viscosità;
• pH alcalino: 7,5 dopo la deposizione; maggiore di 9 durante la conservazione per perdita di CO2;
• lisozima: proteina enzimatica che idrolizza i legami β-1,4 del peptidoglicano della parete dei gram-positivi;
• conalbumina o ovotransferina: eteroproteina che chela il ferro, sottraendolo alla utilizzazione microbica
(soprattutto gram-negativi) impedendone lo sviluppo;
• avidina: proteina che lega la biotina (vitamina H);
• flavoproteina: lega la riboflavina (vitamina B12).

-microrganismi e alterazioni dell’uovo


Putrefazione e uova marce: contengono una miscela di batteri Gram negativi e solo qualche specie Gram
positiva; tale popolazione, responsabile della putrefazione, comprende specie di Alcaligenes, Escherichia,
Pseudomonas, Proteus, Achromobacter, Serratia, Bacillus, Streptococcus. Provocano colorazioni anomale
(nera, rossa, verde) e odori nauseabondi (marciume).

-definizioni
UOVA: le uova — diverse dalle uova rotte, incubate o cotte — di volatili di allevamento nel loro guscio,
adatte al consumo umano diretto o alla preparazione di ovoprodotti;
UOVA LIQUIDE: contenuto non trasformato delle uova dopo la rimozione del guscio;
UOVA INCRINATE: uova il cui guscio è danneggiato ma in cui la membrana è ancora intatta;
CENTRO DI IMBALLAGGIO: uno stabilimento in cui le uova sono calibrate in base alla qualità e al peso.
Nei locali del produttore e fino al momento in cui vengono vendute al consumatore, le uova vanno
conservate pulite, all’asciutto e al riparo da odori estranei, protette in modo efficace dagli urti e sottratte
all’esposizione diretta ai raggi solari. Le uova vanno immagazzinate e trasportate alla temperatura più
adatta, preferibilmente costante, per garantire una conservazione ottimale delle loro caratteristiche
igieniche. Le uova devono essere consegnate al consumatore entro un termine di ventun giorni dalla data
di deposizione.

-prodotti d’uovo liquidi


Questi prodotti sono molto suscettibili alla contaminazione e crescita microbica in quanto privi di
protezione naturale (guscio). Per garantirne una maggiore stabilità, vengono trattati termicamente
mediante pastorizzazione. Temperature di 55-60°C per pochi minuti consentono di avere il 99% di
abbattimento della microflora iniziale. La loro microflora non deve essere superiore a 1000 UFC/g. Vanno
refrigerati rapidamente e consumati al massimo entro 1-2 giorni oppure vanno congelati o disidratati.
Il Regolamento CE 853/2004 detta anche le norme specifiche per i prodotti d’uova:
«Ovoprodotti»: i prodotti trasformati risultanti dalla trasformazione di uova, o vari componenti o miscugli
di uova o dall’ulteriore trasformazione di detti prodotti trasformati;
-REQUISITI RELATIVI AGLI STABILIMENTI
Gli operatori del settore alimentare devono garantire che gli stabilimenti per la fabbricazione di ovoprodotti
siano costruiti, progettati e attrezzati in modo che sia assicurata la separazione tra le seguenti operazioni:
1) lavare, asciugare e disinfettare le uova sporche, dove queste operazioni vengano effettuate;
2) rompere le uova, raccoglierne il contenuto e eliminare le parti di gusci e membrane;
3) operazioni diverse da quelle di cui ai punti 1 e 2.
-MATERIE PRIME DESTINATE ALLA FABBRICAZIONE DI OVOPRODOTTI
Gli operatori del settore alimentare devono garantire che le materie prime impiegate per la fabbricazione di
ovoprodotti soddisfino i seguenti requisiti:
1. il guscio delle uova impiegate nella fabbricazione di ovoprodotti deve essere completamente sviluppato e
non presentare incrinature; tuttavia, le uova incrinate possono essere utilizzate per la fabbricazione di
ovoprodotti purché lo stabilimento di produzione o il centro di imballaggio le consegni direttamente a uno
stabilimento di trasformazione dove devono essere rotte al più presto;
2. le uova liquide ottenute in uno stabilimento riconosciuto a tal fine possono essere utilizzate come
materia prima. Esse devono essere ottenute nel rispetto dei requisiti di cui ai punti 1, 2, 3, 4 e 7 della parte
III.
-PRESCRIZIONI DI IGIENE PARTICOLARI PER LA FABBRICAZIONE DI OVOPRODOTTI
Gli operatori … devono garantire che tutte le operazioni siano eseguite in modo da evitare qualsiasi
contaminazione durante la produzione, la manipolazione e il magazzinaggio di ovoprodotti; in particolare
nel rispetto dei requisiti seguenti:
1. si può procedere alla rottura delle uova soltanto se sono pulite e asciutte;
2. le uova devono essere rotte in modo da rendere minima la contaminazione, …….
3. … gli impianti debbono essere puliti e disinfettati prima di essere riutilizzati per la trasformazione delle
uova;
4. ai fini del consumo umano, è vietato estrarre il contenuto mediante centrifugazione o schiacciatura delle
uova …;
5. dopo la rottura delle uova, ogni particella degli ovoprodotti deve essere sottoposta al più presto a una
trasformazione allo scopo di eliminare i rischi microbiologici o di ridurli a un livello accettabile; …;
6. …
7. se la trasformazione non viene effettuata immediatamente dopo la rottura, le uova liquide devono
essere conservate congelate o a una temperatura non superiore a 4 °C; il periodo di conservazione a 4 °C
prima della trasformazione non deve superare le 48 ore; ….;
8. i prodotti che non siano stati stabilizzati per la conservazione a temperatura ambiente devono essere
raffreddati ad una temperatura non superiore a 4 °C; i prodotti da congelare debbono essere congelati
immediatamente dopo la trasformazione.

Come criteri di sicurezza per prodotti a base d’uova e per gli alimenti contenenti uova crude, è stabilita
l’assenza di Salmonella in 25 g di prodotto in cinque unità campionarie. Per i prodotti a base d’uovo, il
regolamento fissa i seguenti criteri di igiene: enterobacteriaceae: n=5; m=10 ufc/g; M=100 ufc/g; c=2.

Capitolo 16 – MICROBIOLOGIA DELLE ACQUE POTABILI


a) "acque destinate al consumo umano":
1) le acque trattate o non trattate, destinate ad uso potabile; per la preparazione, di cibi e bevande, o per
altri usi domestici, a prescindere dalla loro origine, siano esse fomite tramite una rete di distribuzione,
mediante cisterne, in bottiglie o in contenitori;
2) le acque utilizzate in un'impresa alimentare per la fabbricazione, il trattamento, la conservazione o
l'immissione sul mercato di prodotti o di sostanze destinate al consumo umano, escluse quelle, individuate
ai sensi dell'articolo 11, comma 1, lettera e), la cui qualità non può avere conseguenze sulla salubrità del
prodotto alimentare finale;

b)"impianto di distribuzione domestico":


Le condutture, i raccordi, le apparecchiature installati tra i rubinetti normalmente utilizzati per l'erogazione
dell'acqua destinata al consumo umano e la rete di distribuzione esterna. La delimitazione tra impianto di
distribuzione domestico e rete di distribuzione esterna, di seguito denominata punto di consegna, è
costituita dal contatore, salva diversa indicazione del contratto di somministrazione;
1) Le acque destinate al consumo umano devono essere salubri e pulite.
2) Al fine di cui al comma 1, le acque destinate al consumo umano:
a) non devono contenere microrganismi e parassiti, né altre sostanze, in quantità o concentrazioni tali da
rappresentare un potenziale pericolo per la salute umana;
b) ……. devono soddisfare i requisiti minimi di cui alle parti A e B dell'allegato I;
3) L'applicazione delle disposizioni del presente decreto non può avere l'effetto di consentire un
deterioramento del livello esistente della qualità delle acque destinate al consumo umano tale da avere
ripercussioni sulla tutela della salute umana, né l'aumento dell'inquinamento delle acque destinate alla
produzione di acqua potabile.

Per quanto riguarda la presenza di E. Coli, i limiti sono di 0/100 ml per l’acqua non imbottigliata e 0/250 ml
per l’acqua in bottiglia. Per quanto concerne gli Enterococchi, il limite è di 0/100 ml per l’acqua non
imbottigliata e 0/250 ml per l’acqua in bottiglia. Il limite di presenza di Pseudomonas aeruginosa è di 0/250
ml per l’acqua in bottiglia.
Per quanto concerne il conteggio delle colonie, a 22° C devono essere in quantità inferiori o uguali a 100/ml
per l’acqua in bottiglia; a 37° C il limite è 20/ml per l’acqua in bottiglia.
I limiti dei parametri microbiologici vanno rispettati nei seguenti punti:
a) per le acque fornite attraverso una rete di distribuzione, nel punto in cui queste fuoriescono dai rubinetti
utilizzati per il consumo umano;
b) per le acque fornite da una cisterna, nel punto in cui fuoriescono dalla cisterna;
c) per le acque confezionate in bottiglie o contenitori, rese disponibili per il consumo umano, nel punto in
cui sono imbottigliate o introdotte nei contenitori;
d) per le acque utilizzate nelle imprese alimentari, nel punto in cui sono utilizzate nell'impresa.

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Capitolo 1 – LA SICUREZZA NEL LABORATORIO DI MICROBIOLOGIA
La sicurezza degli ambienti di lavoro deve rappresentare un obiettivo fondamentale per garantire la salute
umana. L ’organizzazione e la gestione della tutela della salute nei luoghi di lavoro sono regolamentate dal
Dlgs. 81/2008. Nei laboratori didattici o di ricerca, numerose possono essere le possibilità di infortuni.
Risulta pertanto di fondamentale importanza conoscere in maniera dettagliata tutto ciò che è oggetto del
proprio lavoro, dei possibili pericoli e le norme per evitarli.
Le persone coinvolte nelle varie operazioni nei laboratori possono essere esposte ad una serie di pericoli
microbiologici, per cui è necessario condurre per ogni microrganismo un’analisi del rischio, in maniera da
stabilire le procedure di corretta prassi da adottare.
Di seguito sono descritte alcune norme e regole basilari di comportamento nel laboratorio di microbiologia:
Considerare il laboratorio come un ambiente in cui si è esposti a pericoli di varia natura: è dunque
importante esibire comportamenti ispirati dalla consapevolezza del lavoro da svolgere. Una buona
organizzazione, un approccio disciplinato, attenzione e buon senso assicurano che ogni operazione e attività
siano svolte in sicurezza e con successo.
Una volta nel laboratorio di microbiologia:
• Seguire sempre le istruzioni dell’istruttore o del docente;
• Chiedere sempre istruzioni prima di usare strumenti e prima di qualsiasi operazione;
• Nessuna procedura microbiologica deve essere applicata senza aver ricevuto appropriate istruzioni e
dimostrazioni dal personale istruttivo;
• Considerare le matrici alimentari oggetto di indagini come fonte potenzialmente di agenti biologici. La
preparazione del campione per le analisi va fatto sotto cappa a flusso laminare di aria sterile;
• Per minimizzare le possibilità di contaminazione degli operatori e dell’ambiente la manipolazione
eventuale di colture microbiche appartenenti al gruppo 1 deve essere fatta osservando i principi di buona
sicurezza ed igiene professionali nel rispetto delle Buone Norme di laboratorio;
• Qualsiasi attività deve essere effettuata in maniera tale da ridurre al minimo la formazione di aerosol;
• E’ vietato pipettare a bocca colture di microrganismi; usare micropipette o pro-pipette;
• Non depositare sui banchi di lavoro oggetti personali (vestiario, borse, libri);
• Indossare e abbottonare il camice; il camice va conservato in armadi diversi da quelli utilizzati per gli
indumenti personali;
• Lavarsi le mani prima e dopo ogni operazione di laboratorio e quando si lascia il laboratorio;
• E’ vietato conservare o consumare alimenti e bevande;
• E’ vietato fumare;
• Munirsi di dispositivi di protezione personale come guanti, occhiali, mascherine e altri quando particolari
operazioni lo richiedono (chiedere all’istruttore);
• Ponete particolare attenzione nell'uso di gas, della fiamma del becco Bunsen (proteggere, raccogliendoli, i
capelli lunghi per evitare il rischio di bruciarli)
• Ponete particolare attenzione agli apparecchi elettrici e alle prese di corrente;
• Segnalate agli istruttori qualsiasi malfunzionamento o situazione non comune;
• Trasportare le provette contenenti microrganismi sempre nell’apposito porta-provette;
• Avvertire gli istruttori in caso di sversamento di liquidi (anche quando si tratta di brodi di coltura
contenenti agenti biologici del gruppo 1);
• Al termine di ogni sessione di lavoro pulire i banchi di lavoro con una soluzione disinfettante usando i
guanti (alcol denaturato o altra soluzione disinfettante messa a disposizione dagli istruttori);
• Non asportate nessun materiale dal laboratorio (soluzioni, vetreria, piastre, pipette, colture batteriche
etc.);
• Seguite le istruzioni che vi saranno fornite al termine della sessione di lavoro per eliminare qualsiasi
materiale di scarto. Il materiale biologico viene smaltito in appositi contenitori dagli istruttori;
• Lavatevi accuratamente le mani prima di lasciare il laboratorio.
• Seguite le procedure in caso di emergenza (primo soccorso, lotta antincendio, evacuazione dei lavoratori,
ecc.) seguendo le istruzioni degli istruttori.

Capitolo 2 – ANALISI MICROBIOLOGICA DEGLI ALIMENTI


L'analisi microbiologica degli alimenti trova la sua maggiore efficacia quando è intesa e utilizzata come
strumento di supporto alla implementazione di sistemi di gestione della qualità e sicurezza microbiologica
degli alimenti e alla verifica della loro efficacia. Quando il controllo microbiologico è retrospettivo (operato
cioè sull’alimento pronto), esso assume la forma di una ispezione ed è inappropriato per principio, in
quanto l’ispezione non permette di identificare il meccanismo che ha innescato un processo microbiologico.
Il controllo microbiologico dovrebbe essere orientato a valutare le reali condizioni igieniche di produzione
di un alimento (al fine di identificare le fasi in cui c’è il maggior rischio di contaminazione, sopravvivenza e
sviluppo microbico) e a confermare e verificare l’efficacia del sistema HACCP implementato e se le norme di
buona fabbricazione, conservazione e distribuzione siano state rispettate.
I controlli microbiologici, secondo le finalità perseguibili, devono riguardare le materie prime, gli intermedi
di lavorazione, i coadiuvanti tecnologici, il personale gli ambienti di trasformazione e il prodotto finito. Essi
vanno però definiti preventivamente, in modo tale che anche minime variazioni possano essere rilevate e
corrette.

-LA DOMANDA DELL’ANALISI MICROBIOLOGICA DI UN CAMPIONE ALIMENTARE


La domanda dell’analisi microbiologica di un campione alimentare al fine di dimostrare la qualità del suo
prodotto. Generalmente è richiesta per:
• la verifica dell’efficacia dei sistemi di garanzia della qualità e della sicurezza implementati;
• per provare a livello internazionale la buona qualità microbiologica del prodotto;
• quando un alimento è sospettato di essere stato causa di malattia alimentare;
• per l’identificazione dei pericoli potenziali durante le fasi di un processo produttivo;
• per l’identificazione dei Punti Critici di Controllo;
• per stabilire la “shelf life” di un prodotto ai fini dell’etichettatura (data di scadenza).
Il tipo di indagine microbiologica può riguardare:
a) la determinazione del numero di specifiche popolazioni microbiche;
b) la determinazione del numero di specifici microrganismi;
c) la determinazione della presenza o assenza (ricerca) di specifici microrganismi patogeni veicolati dagli
alimenti;
d) la ricerca di determinati metaboliti prodotti dai microrganismi (enzimi, tossine).
Nell’analisi microbiologica di un alimento si devono prendere in considerazione diversi punti:
• il piano di campionamento e i criteri microbiologici;
• il prelievo e trasporto dei campioni in laboratorio;
• la scelta dei metodi analitici per il rivelamento, la numerazione e l’identificazione di specifici
microrganismi o di gruppi di microrganismi e delle loro tossine.

-CAMPIONAMENTO: CONSIDERAZIONI ECOLOGICHE E PRINCIPI


L’analisi microbiologica di un alimento deve tener conto dell’ecologia microbica dello stesso. Infatti, la
distribuzione dei microrganismi negli alimenti è imprevedibile e nella maggioranza dei casi essi sono
distribuiti in maniera casuale; inoltre la loro quantità può aumentare o diminuire in ogni fase del processo
produttivo.
Ogni campione preso per l’analisi può essere considerato come una perdita per il produttore. In alcuni casi,
l’intera unità da cui è prelevato il campione da sottoporre ad analisi è in pericolo di andare incontro ad
alterazione. Per questa ragione e per motivi di igiene l’intera unità va scartata dopo il prelievo. Per
minimizzare le perdite, solo la porzione più piccola possibile è presa come campione.

-RACCOLTA DEL CAMPIONE


Il campione deve essere costituito da uno specificato numero di unità campionarie prelevate a random da
ogni lotto di prodotto. Ogni unità campionaria dovrebbe consistere di almeno 100 g. Se il prodotto da
analizzare è costituito da grosse masse, prelevare diverse sottounità che andranno a costituire l’unità
campionaria finale. Le unità campionarie totali non devono provenire dallo stesso contenitore della massa
del campione, ma da contenitori diversi. I campioni vanno raccolti in contenitori sterili, vanno conservati e
trasportati in condizioni refrigerate (0-4° C) o allo stato congelato.
In alcuni casi, la legislazione nazionale e comunitaria fornisce indicazioni specifiche sulle modalità operative
da seguire per il campionamento di alimenti da analizzare.

-CRITERI MICROBIOLOGICI PER GLI ALIMENTI


Le analisi microbiologiche degli alimenti mirano fondamentalmente ad accertare che l’alimento rispetti
specificati criteri microbiologici, i quali stabiliscono i limiti della presenza o assenza di microrganismi o loro
tossine in un alimento. In altre parole, accertano la sicurezza di un alimento.
Un criterio microbiologico deve fornire le seguenti informazioni: le caratteristiche per identificare
l’alimento; il tipo, la specie o il gruppo di organismi da ricercare; i metodi analitici da usare; il piano di
campionamento; i limiti microbiologici applicabili per lo specifico prodotto. I criteri microbiologici possono
essere stabiliti da apposite leggi nazionali o Europee, da accordi di tipo commerciale, da organizzazioni
specifiche.
I criteri microbiologici possono essere obbligatori (non possono essere superati e l’alimento che non
rispetta i limiti specificati subisce il ritiro dal consumo, la distruzione o lo spostamento alla produzione di
alimenti diversi) o consigliabili (consentono di esprimere un giudizio di accettabilità e servono come
campanello di allarme per mettere in evidenza anomalie di processo, distribuzione, di conservazione o
vendita).
Standard microbiologici: criterio obbligatorio, stabilito per legge (punibile in caso di mancato rispetto),
contiene limiti per microrganismi patogeni o per microrganismi indicatori.
Linee guida microbiologiche: criterio consigliabile, funzionano come un segnale d’allarme per indicare se le
condizioni microbiologiche esistenti ad un CCP o in un prodotto finito rientrano nei limiti normali. Valutano
dunque l’efficienza di un processo ad un CCP e la conformità con le GMDP.
Specificazioni microbiologiche: usati come requisito per l’acquisto di una materia prima o di un prodotto.

Il Regolamento CE 2073/2005 stabilisce i criteri microbiologici applicabili ai prodotti alimentari. Nel


regolamento vengono date alcune definizioni importanti.
-“I criteri microbiologici indicano inoltre come orientarsi nello stabilire l’accettabilità di un prodotto
alimentare e dei relativi processi di lavorazione, manipolazione e distribuzione. L’applicazione dei criteri
microbiologici deve costituire parte integrante dell’attuazione delle procedure HACCP e di altre misure di
controllo dell’igiene”
-“criterio di sicurezza alimentare, un criterio che definisce l’accettabilità di un prodotto o di una partita di
prodotti alimentari, applicabile ai prodotti immessi sul mercato”;
-“criterio di igiene del processo, un criterio che definisce il funzionamento accettabile del processo di
produzione. Questo criterio, che non si applica ai prodotti immessi sul mercato, fissa un valore indicativo di
contaminazione al di sopra del quale sono necessarie misure correttive volte a mantenere l’igiene del
processo di produzione in ottemperanza alla legislazione in materia di prodotti alimentari”;
-“campione, una serie composta di una o più unità o una porzione di materia selezionate tramite modi
diversi in una popolazione o in una quantità significativa di materia e destinate a fornire informazioni su
una determinata caratteristica della popolazione o della materia oggetto di studio e a costituire la base su
cui fondare una decisione relativa alla popolazione o alla materia in questione o al processo che le ha
prodotte”;
-“campione rappresentativo”, un campione nel quale sono mantenute le caratteristiche della partita dalla
quale è prelevato, in particolare nel caso di un campionamento casuale semplice, dove ciascun
componente o aliquota della partita ha la stessa probabilità di figurare nel campione”;
-“conformità ai criteri microbiologici, l’ottenimento di risultati soddisfacenti o accettabili di cui all’allegato I
nei controlli volti ad accertare la conformità ai valori fissati per i criteri mediante il prelievo di campioni,
l’effettuazione di analisi e l’attuazione di misure correttive, conformemente alla legislazione in materia di
prodotti alimentari e alle istruzioni dell’autorità competente”.

-PIANI DI CAMPIONAMENTO
I criteri microbiologici che definiscono l’accettabilità di un determinato prodotto alimentare, dettano il
piano di campionamento da adottare, con particolare riferimento al numero di campioni da sottoporre ad
analisi. Esistono piani di campionamento a due e a tre classi.
A due classi: In questo piano il campione può ricadere in una di due classi: accettato o rifiutato. Dunque
questi piani vengono usati per decisioni presenza/assenza.
n: numero di unità da campionare e da sottoporre ad analisi; per unità campionaria (u.c.) deve intendersi
una porzione singola o confezione di prodotto alimentare scelta a caso su cui si eseguiranno le analisi; m:
numero limite di batteri che determina l’inaccettabilità del lotto; c: numero massimo di unità campionarie
che possono superare il valore di m accettate per esprimere l’idoneità del lotto.

A tre classi: Il campione può ricadere nelle seguenti tre classi: da 0 a m; da m a M; al di sopra di M. n indica
sempre il numero di campioni sottoposti ad analisi; m: valore limite del numero di batteri (tutte le unità
campionarie devono avere valore inferiore ad m); M: valore massimo del numero di batteri tollerato, il
risultato è considerato insoddisfacente se il numero di batteri in una o più delle unità campionarie
analizzate è superiore ad M; c: numero delle unità campionarie il cui valore può essere compreso tra m ed
M, il campione viene considerato ancora accettabile se il numero di batteri delle altre unità campionarie è
pari o inferiore ad m.
Il piano di campionamento a tre classi ha una maggiore flessibilità nell’interpretare i risultati, in quanto una
piccola proporzione dei campioni analizzati (c) può superare, entro un certo limite, il valore massimo
consentito (m).
E’ stato proposto dall’ICMSF (International Commission on the Microbiological Specification for Foods) un
sistema di classificazione degli alimenti in funzione della gravità del rischio (cioè in base alle conseguenze
determinate dal pericolo sulla salute umana) che essi comportano. Sono state individuate 15 categorie di
pericoli, suggerendo per ogni caso il piano di campionamento più appropriato.

Capitolo 3 – METODI ANALITICI PER LA NUMERAZIONE DEI MICRORGANISMI


NEGLI ALIMENTI
L’accertamento del numero di organismi presenti viene largamente impiegato per il controllo della qualità
microbiologica nelle industrie alimentari. Diversi sono i metodi utilizzati per la numerazione dei
microrganismi presenti in un campione alimentare. Quelli maggiormente utilizzati sono:
• conteggio standard di cellule vitali su piastra (Standard Plate Counts, SPC);
• metodo del numero più probabile di microrganismi (Most Probable Numbers, MPN) per la
determinazione statistica delle cellule vitali;
• conteggio diretto microscopico, per cellule vitali e non;
• tecniche che sfruttano la riduzione di coloranti per stimare il numero di microrganismi che possiedono
capacità riduttive.

Tutti i metodi di conteggio presentano una serie di limitazioni, per cui i risultati vanno interpretati tenendo
conto di una serie di fattori, quali:
• il metodo di campionamento e sottocampionamento;
• la distribuzione e dinamicità dei microrganismi nel campione;
• il tipo e la natura dell’alimento e della microflora in esso presumibilmente presente;
• la storia analitica dell’alimento;
• il metodo di analisi, il tempo, la temperatura e l’atmosfera di incubazione, la composizione, il pH, l’attività
dell’acqua (aw), il potenziale di ossido-riduzione (Eh) del diluente e del terreno nutritivo utilizzato.

-CONTEGGIO STANDARD DI CELLULE VITALI SU PIASTRA


Si basa sul principio che le cellule vive presenti nel campione prelevato, una volta trasferite su un adatto
substrato, dopo incubazione a temperatura e in atmosfera idonee, si moltiplicheranno dando origine a
colonie visibili che possono essere contate.
I metodi di conteggio prevedono delle fasi da applicare in ordine predefinito, al fine di ridurre al minimo le
limitazioni descritte prima:
1) Preparazione del campione e delle diluizioni seriali (scelta del diluente);
2) Semina in o su terreno nutritivo agarizzato (scelta del substrato adatto);
3) Incubazione alla temperatura e per tempi appropriati alla microflora da numerare;
4) Conteggio delle colonie e interpretazione dei risultati.

1) preparazione del campione e della diluizione madre


Le cellule microbiche vanno dunque poste nell’adatto substrato nutritivo per essere contate. I campioni
alimentari liquidi possono essere trasferiti su piastra tal quali, mentre quelli solidi necessitano di
omogeneizzazione in un adatto diluente, al fine di disperdere i microrganismi nella fase liquida che può
essere facilmente analizzata.
La parte di campione destinata alla preparazione dell’omogenato deve essere sufficientemente grande da
rappresentare la complessa composizione microbica del campione. L’omogenato del campione viene
preparato diluendolo nel rapporto 1:10 in un adatto diluente: questa “diluizione madre” viene realizzata
aggiungendo 90 ml di diluente a 10 g di campione. Tale metodo però dipende dal grado di solubilità degli
alimenti; un metodo più accurato di preparazione della prima diluizione è quello di pesare 10 g di
campione, aggiungere circa 70-80 ml di diluente, omogeneizzare, trasferire l’omogenato in un cilindro
graduato da 100 ml, quindi portare a volume con lo stesso diluente.
-La scelta del diluente è una fase molto importante dell’analisi, in quanto diluenti non adatti, come ad
esempio l’acqua, possono causare danneggiamenti delle cellule microbiche. Il diluente più utilizzato è la
soluzione sale-peptone (0,85% NaCl + 0,1% peptone).
-L’omogeneizzazione deve avvenire in maniera tale da evitare il danneggiamento delle cellule microbiche.
A tale scopo si utilizza un omogeneizzatore peristaltico a pale (Stomacher) che “massaggia” il campione
facilitando la liberazione dei microrganismi dall’alimento. Il tempo di omogeneizzazione va standardizzato
in funzione della natura del campione alimentare. In genere tempi di 1-2 minuti sono ritenuti sufficienti.

-preparazione delle diluizioni decimali seriali


Il numero di microrganismi presenti in un dato campione alimentare, in genere, è così alto da non poter
essere contato se non dopo essere stato sottoposto a diluizioni seriali. Allestendo delle diluizioni decimali
(1:10) seriali di un campione, operiamo una diluizione del numero di microrganismi inizialmente presenti in
esso. Il numero di diluizioni da realizzare è determinato dai criteri adottati per accertare se un campione
risulta accettabile oppure si basa su precedenti esperienze di analisi condotte su prodotti simili. Nella realtà,
noi non conosciamo mai l’esatto numero di microrganismi presenti in un grammo o ml di campione. Al
momento dell’analisi dobbiamo dunque decidere quante volte diluire il campione per fare in modo che le
piastre petri (contenenti l’adatto terreno nutritivo), una volta seminate e dopo incubazione, possano
contenere un numero di colonie facilmente contabili.
Il numero di diluizioni da realizzare:
a) può essere dettato dai criteri microbiologici da soddisfare per accertare se un campione risulta
accettabile;
b) può essere dettato da precedenti esperienze di analisi condotte su prodotti simili;
c) quando non si hanno notizie sufficienti sul campione per poter prevedere il numero potenziale di
microrganismi in esso contenuto, allora è necessario diluire il campione almeno fino alla 10 -8-10-9. E’
evidente che in questo caso l’analisi diventa molto dispendiosa sia in termini di tempo che di denaro.

Il diluente utilizzato deve avere una temperatura prossima a quella del campione, per evitare danni termici
ai microrganismi. La prima diluizione può essere lasciata a riposo, per favorire la decantazione di particelle
grossolane e la dispersione di microrganismi nel diluente. In ogni modo l’intervallo di tempo tra la
preparazione della prima diluizione e quelle successive non dovrebbe mai superare i 15 minuti mentre la
semina in piastra delle diluizioni preparate deve avvenire al massimo entro 20-30 minuti dalla preparazione
della diluizione iniziale. Utilizzare sempre una nuova pipetta per ogni diluizione da realizzare.
Il materiale occorrente è:
- Pipette sterili da 1 e ml;
- Tubi contenenti 9 ml di diluente sterile.
PROCEDURA: Prelevare, con una pipetta sterile, 1 ml della prima diluizione (1:10) e trasferirlo in 9 ml di
diluente sterile evitando il contatto tra la pipetta e il diluente; in tal modo si realizza una diluizione 1/100
(10-2 ) del campione. Omogeneizzare con cura mediante agitatore automatico per 5-10 min ed
eventualmente ripetere le operazioni per ottenere diluizioni decimali successive.

-tecniche di semina delle piastre


Una volta preparate le diluizioni decimali seriali, è necessario trasferire una loro aliquota sul o nell’adatto
terreno nutritivo. Tali aliquote in genere sono di 1 ml o di 0,1 ml in funzione del metodo di inoculo
utilizzato. Lo scopo è di inoculare sempre un minor numero di microrganismi, in maniera tale che almeno 1
o 2 piastre abbiano colonie ben isolate (da 30 a 300) in modo da essere facilmente contate.
Esistono due tecniche principali di piastramento:
1) Per inclusione dell’inoculo in substrato solidificabile (pour plate): questa tecnica prevede l’uso di agar a
temperatura di 45°C che potrebbe danneggiare le cellule di alcuni microrganismi; inoltre, la crescita delle
colonie avviene sia in superficie che in profondità. Alle diluizioni più basse le colonie inglobate si possono
confondere con le particelle di campione alimentare, per cui possono risultare difficili da numerare.
Il materiale occorrente è:
-Diluizioni decimali seriali del campione;
-Pipette sterili da 1 ml;
-Substrato nutritivo sterile e mantenuto fuso a 45°C;
-Piastre Petri sterili;
PROCEDURA: In una piastra petri sterile vuota, si versa 1 ml della diluizione del campione da analizzare
(inoculo) quindi si aggiunge il substrato agarizzato (12-15 ml) mantenuto in fusione a 45-46°C. Dopo
l’aggiunta del substrato, si rotea delicatamente la piastra, in modo da descrivere un 8 per circa 30 sec., al
fine di miscelare l’inoculo (i microrganismi) con il substrato. Dopo solidificazione del substrato, le piastre
vengono incubate capovolte (per evitare che l’accumulo di eventuale vapore condensato sotto il coperchio
possa ricadere sulla superficie dell’agar disturbando lo sviluppo delle colonie e dunque il conteggio) in
termostato all’adatta temperatura.

2) Semina per distribuzione (spatolamento) superficiale dell’inoculo su substrato solido: la crescita delle
colonie avviene in superficie, facilitando la loro numerazione.
Il materiale occorrente è:
-Diluizioni decimali seriali del campione;
-Pipette sterili da 0,1 ml;
-Piastre Petri contenenti il substrato nutritivo solidificato;
PROCEDURA: Le piastre contenenti il substrato nutritivo sono preparate prima dell’inoculo; vengono poi
conservate a 4° C per una settimana. L’inoculo, costituito da aliquote da 0,1 ml delle diluizioni seriali, è
depositato con una pipetta sulla superficie dell’agar e distribuito su di essa con una bacchettina di vetro
sterile a forma di L. Si lascia adsorbire l’inoculo per circa 5 min, quindi le piastre sono trasferite capovolte in
termostato. La differenza sostanziale con la procedura per inclusione è che si fa uso di piastre contenenti il
substrato già pronto, che vengono inoculate con volumi di 0,1 ml di ciascuna diluizione. Inoculando ogni
piastra con 0,1 ml di ciascuna diluizione è necessario moltiplicare il n° di UFC/g o ml determinato per un
fattore 10. Lo stesso risultato si ottiene etichettando le piastre con la diluizione virtuale piastrata.

Per entrambe le tecniche di semina, al fine di ottenere conteggi più accurati, è consigliabile inoculare
almeno due piastre con ciascuna diluizione, facendo la media del numero di colonie ottenute sulle due
piastre.
-condizioni di incubazione delle piastre
Le piastre, una volta inoculate, vanno incubate in termostato a temperature, tempi e atmosfera gassosa
che dipendono dal tipo di popolazioni microbiche che si vuole numerare.

-numerazione delle colonie in piastra


Al termine dell’incubazione, teoricamente, ogni cellula presente nel campione iniziale ha dato origine ad
una colonia singola visibile ad occhio nudo. Per il conteggio delle colonie si selezionano solo le piastre che
sono contabili, cioè quelle che presentano un numero di colonie comprese tra 30 e 300. Per il conteggio, il
numero di colonie contato su una piastra viene moltiplicato per il numero di volte in cui è stato diluito il
campione iniziale.
n (n° di colonie nelle piastre considerate)/p (n° di piastre considerate)
N (n° di colonie)/g o ml = ------------------------------------------------------------------------------------------------------
V (volume dell’inoculo in ml) x d (diluizione considerata)
Cellule aggregate in coppia, in catene o in ammassi, quando sono depositate sul substrato si
moltiplicheranno dando origine ad una singola colonia. Per tale motivo è più corretto esprimere il risultato
di un conteggio microbico come numero di Unità (cellula/e) in grado di formare una colonia singola (UFC/g
o ml).

-limiti di rilevamento
Campione alimentare solido: il numero minimo di microrganismi teoricamente rilevabili è:
- 10 UFC/g con la tecnica per inclusione;
- 100 UFC/g con la tecnica di inoculo superficiale.
Tali limiti risultano ovvi se si fa riferimento alla quantità massima di campione alimentare analizzabile con le
due tecniche.
Campione alimentare liquido: il numero minimo di microrganismi teoricamente rilevabili è:
- 1 UFC/g con la tecnica per inclusione;
- 10 UFC/g con la tecnica di inoculo superficiale.
Infatti con le due tecniche di conteggio, “pour plate” e “spread plate” la quantità massima di campione
analizzata è pari a 1 ml e a 0,1 ml rispettivamente.

Come appare ovvio, il numero minimo di microrganismi rilevabile mediante conteggio in substrato solido,
sia con la tecnica “pour plate” sia con la tecnica per “inclusione” può essere elevato, se necessario, di un
fattore 10, variando i volumi di inoculo.

-NUMERAZIONE IN SUBSTRATO LIQUIDO: TECNICA DEL MOST PROBABLE NUMBER (MPN)


E’ una procedura di conteggio utilizzata per stimare la densità di una popolazione di microrganismi vitali in
un dato campione. Si tratta di un metodo statistico basato sulla probabilità di rilevare sviluppo microbico
dopo coltura in tubi multipli di substrato liquido di diluizioni seriali del campione; lo sviluppo microbico può
essere valutato osservando eventuale intorbidamento della coltura oppure valutando particolari attività
metaboliche del microrganismo o della popolazione microbica da numerare. Il campione dovrebbe essere
diluito in maniera tale che le diluizioni più spinte non presentino microrganismi. I migliori risultati si hanno
quando tutti i tubi inoculati con le diluizioni più basse risultano positivi e tutti i tubi inoculati con le diluizioni
più alte risultano negativi.
Per aumentare l’accuratezza statistica dell’MPN è necessario inoculare con ciascuna diluizione del
campione più tubi di brodo nutritivo. Le procedure standard per la determinazione dell’MPN usano un
minimo di 3 diluizioni e 3, 5 o 10 tubi di brodo inoculati con ciascuna diluizione. La stima del MPN/ml o g di
campione é letta su apposite tavole MPN in base al numero di tubi positivi per ciascuna serie inoculata con
una data diluizione. In queste tavole, oltre al numero più probabile di microrganismi é riportato l’intervallo,
con il valore massimo e minimo, entro il quale cade il 95% degli altri valori possibili per una specifica
combinazione di risultati.
Il materiale occorrente è:
-Bilancia;
-Apparecchiatura e sacchetti sterili per omogeneizzazione;
-Attrezzi per la manipolazione del campione: coltelli, forbici, spatole, cucchiai, pinze, cilindri graduati, ecc.
sterili;
-Diluente sterile;
-Pipette da 10, 1 e 0,1 ml;
-Tubi contenenti l’adatto substrato nutritivo liquido;
PROCEDURA: preparare la diluizione madre e le diluizioni seriali decimali del campione. Seminare 1 ml di
ciascuna diluizione in 3, 5 o 10 tubi contenenti il substrato nutritivo; Annotare il numero di tubi positivi per
ciascuna diluizione; Ricavare il MPN dalle apposite tavole. Per la lettura del MPN con le tavole di McCrady si
procede così:
Si annota per ciascuna diluizione il numero di provette positive quindi si calcola il numero caratteristico che
è costituito da 3 cifre, la prima delle quali è data dal numero di tubi che alla diluizione più spinta presentino
la più elevata positività, la seconda e la terza cifra rappresentano, rispettivamente, il numero di tubi positivi
nelle due successive diluizioni. Sulle tavole, in corrispondenza del numero caratteristico determinato, si
legge il MPN che moltiplicato per il reciproco della prima diluizione considerata indicherà il numero più
probabile di microrganismi per g o ml di campione.

-CONTEGGIO DIRETTO AL MICROSCOPIO


Per la numerazione delle cellule presenti in una sospensione microbica si utilizzano particolari vetrini
definiti camere di conteggio. Si tratta di vetrini porta-oggetto sui quali è scolpita una quadrettatura visibile
al microscopio di cui è nota l'area di ogni riquadro. Sono costruiti in modo tale che sia noto il volume di
liquido che viene introdotto tra il vetrino ed il copri-oggetto.
Esistono diverse camere di conta:
• camera di Petroff-Hausser;
• camera di Thoma;
• camera di Burker.
I limiti di questa tecnica sono:
1) non consente di distinguere le cellule vive dalle cellule morte se non si ricorre a colorazioni speciali;
2) la sospensione batterica da numerare deve avere un numero di cellule di almeno 105 -106 /ml.

Capitolo 4 – PRESUPPOSTI TEORICI SUI METODI DI RICERCA E NUMERAZIONE


DI BATTERI PATOGENI TRASMESSI CON GLI ALIMENTI
L’analisi microbiologica mirata alla ricerca e/o numerazione di microrganismi patogeni fa ricorso all’impiego
di substrati nutritivi selettivi e differenziali che favoriscono elettivamente la crescita dello specifico
organismo, facilitando l’isolamento della restante popolazione microbica.

-PRINCIPI DI MICROBIOLOGIA SELETTIVA E DIFFERENZIALE


Spesso c’è la necessità di isolare una specifica popolazione microbica dalla complessa microflora di un
alimento; per farlo si creano condizioni ambientali artificiali favorevoli allo sviluppo di quella particolare
popolazione microbica. Questa pratica è detta ARRICCHIMENTO SELETTIVO, ed ha l’obiettivo di isolare e
migliorare lo sviluppo di una popolazione microbica inibendo contemporaneamente lo sviluppo e l’azione di
altri microrganismi indesiderati, impedendo che interferiscano con l’organismo da isolare.
Sfruttando alcune caratteristiche morfologiche e fisiologiche particolari dell’organismo da isolare è
possibile:
- formulare substrati nutritivi (liquidi e solidi) che migliorano la sua crescita;
- selezionare condizioni di incubazione ad esso favorevoli (temperatura, atmosfera, tempo);
- decidere se sottoporre il campione a pretrattamenti che facilitino il suo isolamento selettivo (ad esempio
trattando termicamente il campione per isolare solo le forme sporigene).
Un arricchimento in brodo selettivo (composizione smile ai substrati solidi) aumenta la probabilità di
isolare le colonie formate dal microrganismo nel successivo passaggio di striscio su substrato solido in
piastre.
I selettivi usati sono, in genere, antibiotici, coloranti (come verde brillante, cristalvioletto eec.) e tensioattivi
(ad esempio i sali biliari) a cui il microrganismo da isolare è resistente.
E’ possibile formulare anche substrati nutritivi agarizzati, contenenti sostanze selettive (substrati selettivi
solidi) che favoriscono lo sviluppo di un gruppo di microrganismi ostacolandone quello di altri.
I substrati selettivi solidi sono addizionati di sostanze chimiche che modificano il substrato come
conseguenza dell’attività metabolica del microrganismo da isolare; questi substrati sono detti differenziali,
e differenziano i microrganismi sulla base dell’attività metabolica.
La maggior parte dei substrati differenziali sfruttano la capacità del microrganismo di fermentare un
particolare carboidrato (variazioni di pH) o di produrre particolari metaboliti che rendono “caratteristica” la
colonia da isolare.

-FASI PER LA RICERCA DI SPECIFICI MICRORGANISMI PATOGENI NEGLI ALIMENTI


1) Omogeneizzazione del campione (in genere 25g di campione in 225 ml di brodo di prearricchimento o
arricchimento);
2a) Resuscitazione (prearricchimento in substrato non selettivo);
2) Arricchimento in substrato liquido selettivo;
3a) Arricchimento secondario (in substrato liquido selettivo);
3) Piastramento su substrato solido selettivo e differenziale;
4) Selezione di colonie tipiche e loro isolamento in coltura pura (substrato solido non selettivo);
5) Conferma dell’isolato (identificazione con metodi biochimici, sierologici o molecolari).

Le fasi 1a e 2a sono applicate solo per alcuni microrganismi e in particolari procedure analitiche.
Tra ogni fase avviene l’incubazione a temperatura e per tempi caratteristici del patogeno da isolare.

-resuscitazione o prearricchimento non selettivo


Negli alimenti processati le cellule microbiche presenti possono subire danneggiamenti come conseguenza
del trattamento, che pur non uccidendole, non consente loro di moltiplicarsi; in questo caso si parla di
cellule danneggiate subletalmente. Le cellule danneggiate subletalmente non sono in grado di moltiplicarsi
fintantoché il danno non é riparato. Pertanto, un tentativo per il loro isolamento in o su un substrato
selettivo potrebbe risultare in un insuccesso, in quanto le stesse sostanze selettive (a cui il microrganismo
con cellule non danneggiate risulta resistente) potrebbero essere causa della loro morte.
Il microrganismo può anche riparare il danno cellulare se le condizioni nutritive e di conservazione
dell’alimento sono tali da favorire la sua moltiplicazione. I risultati analitici potranno essere non attendibili
con una sottostima del numero di patogeni, o addirittura condurre a falsi negativi, come conseguenza del
mancato rilevamento del microrganismo danneggiato.
La resuscitazione evita questo problema riparando le cellule danneggiate. Nell’analisi qualitativa, per
recuperare cellule danneggiate subletalmente, si omogeneizza il campione in un substrato liquido
nutrizionalmente completo e complesso, che dopo incubazione per tempi e temperature ottimali per il
microrganismo, senza però dare il tempo alle cellule di moltiplicarsi. Infatti, se tale tempo fosse troppo
lungo, si avrebbe una supercrescita di altri microrganismi contaminanti l’alimento. Al termine della fase di
recupero, sulle piastre, viene versato uno strato di substrato selettivo (e differenziale) che inibirà la crescita
dei microrganismi indesiderati.

-arricchimento selettivo
L’arricchimento selettivo è una fase obbligatoria quando si ricercano i microrganismi patogeni, in quanto i
criteri microbiologici per questi microrganismi prevedono la loro assenza in almeno 25 g di alimento.
Questo implica che il metodo di analisi deve essere in grado di rilevare anche una sola cellula del
microrganismo in presenza di altri contaminanti.
L’obiettivo è quello di favorire il più possibile il suo sviluppo rispetto alla microflora che lo accompagna, che
non essendo di nessun interesse per l’analisi, si cerca di inibire il più possibile.

-piastramento o isolamento su substrato selettivo e differenziale


Coincide con lo striscio di aliquote di un brodo di arricchimento di un campione su terreni nutritivi agarizzati
selettivi e differenziali. L’obiettivo di questa fase è quella di ottenere colonie isolate del patogeno che
potranno essere utilizzate nelle fasi successive dell’analisi. Tuttavia, la selettività e la differenzialità di tali
substrati non è assoluta; è possibile che nell’ambito di popolazioni normalmente sensibili agli agenti
selettivi utilizzati nel substrato per isolare un dato patogeno, esistano specie o ceppi particolarmente
resistenti; inoltre, molto spesso, le caratteristiche metaboliche utilizzate per differenziare il batterio
ricercato, sono possedute in ugual misura da altri microrganismi, anche non strettamente correlati
tassonomicamente ad esso.

-conferma dell’isolato: introduzione all’identificazione dei batteri


Una colonia tipica cresciuta su un substrato selettivo e differenziale deve essere considerata solo come
presuntivamente appartenente alla specie batterica ricercata. L’identità speciografica dell’isolato, pertanto,
deve essere confermata con ulteriori test. Preliminarmente, si annotano le caratteristiche di crescita della
colonia ed eventuali variazioni del substrato selettivo e differenziale di primo isolamento; si procede quindi
all’isolamento della/e colonia/e su substrato non selettivo al fine di ottenere una coltura pura del
microrganismo da identificare.
L’isolato in coltura pura sarà sottoposto ai seguenti test preliminari:
a) osservazione microscopica per accertare la sua morfologia (cocco, bastoncino, forme aggregate ecc);
b) reazione di Gram (gram positivo o gram negativo);
c) saggio della catalasi (idrolisi dell’acqua ossigenata);
d) saggio dell’ossidasi;
e) accertamento della mobilità in substrato semi-molle;
L’isolato va infine identificato a livello di specie mediante l’applicazione di metodi biochimici, metodi
immunologici e metodi molecolari.
Capitolo 5 – PRINCIPI SU METODI DI IDENTIFICAZIONE DEI BATTERI ISOLATI
NEGLI ALIMENTI
-PRINCIPI GENERALI
Identificare un microrganismo significa determinarne il maggior numero di caratteristiche (fenotipiche e
genetiche) in maniera da poterlo distinguere da altri microrganismi e classificarlo in gruppi o taxa sulla base
di reciproche somiglianze e quindi assegnargli un nome secondo norme ben definite. l’identificazione è il
processo secondo il quale un isolato microbico è studiato con tecniche di laboratorio per evidenziarne
particolari attributi che consentono di collocarlo in gruppi più o meno omogenei. I gruppi in cui sono
classificati gli organismi biologici sono, in senso discendente (scendendo i microrganismi diventano sempre
più simili) regno, divisione o phylum, classe, ordine, famiglia, genere e specie.
Una specie batterica è costituita da un insieme di individui (ceppi) che condividono molte caratteristiche
distintive comuni. L’ordine tassonomico immediatamente superiore è costituito dal genere che comprende
una o più specie con caratteristiche simili. Diversi generi vanno a costituire una famiglia e successivamente,
con lo stesso criterio, si individuano gli i gruppi tassonomici di ordine superiore.
Una specie batterica è indicata da due nomi latini scritti in corsivo: il primo indica il genere, mentre il
secondo indica la specie particolare di quel genere.

-COLTURA PURA
Una coltura pura rappresenta una popolazione di cellule derivante da una singola cellula. Colture pure
possono essere ottenute mediante la tecnica dello striscio su piastre contenenti un adatto terreno nutritivo
non selettivo. Vicino alla fiamma di un becco bunsen, aprire il coperchio della piastra quel tanto necessario
ad inserire l’ansa batteriologica per prelevare una colonia isolata da isolare in coltura pura. L’obiettivo dello
striscio in piastra è di ottenere colonie isolate su una larga parte della superficie del terreno nutritivo in
piastra.

-IDENTIFICAZIONE DEI BATTERI


I metodi di identificazione dei batteri sono distinti in metodi fenotipici e metodi genetici. Le classiche
caratteristiche fenotipiche dei batteri comprendono la morfologia e le caratteristiche fisiologiche e
metaboliche; i metodi genotipici riguardano lo studio degli acidi nucleici (DNA ed RNA) presenti nella
cellula. Alcune delle tecniche genetiche maggiormente utilizzate riguardano:
-determinazione del contenuto percentuale in guanina e citosina del DNA (mol% G+C);
-ibridazione DNA-DNA;
-RFLP (Restriction Fragment Lenght Polymorphism);
-PFGE (Pulsed Field Gel Electrophoresis);
-sequenziamento del DNA o dei geni codificanti per l’rRNA (rDNA 16S, 23S, 5S) e tutte le tecniche basate
sulla metodologia che fa uso della PCR (Polymerase Chain Reaction) come l’amplificazione della regione
spaziatrice 16S-23S rDNA, la DGGE (Denaturing Gradient Gel Electrophoresis), la RAPD (Randomly Amplified
Polymorphic DNA), l’ARDRA (Amplified rRNA Restriction Analysis), l’AFLP (Amplified Fragment Lenght
Polymorphism).

-FASI PER L’IDENTIFICAZIONE DEI BATTERI


le caratteristiche fenotipiche maggiormente utilizzate per l’identificazione dei batteri sono:
• Morfologia, gram-reazione, catalasi, ossidasi, mobilità, presenza di capsule, presenza di spore;
• Crescita in aerobiosi o anaerobiosi, a differenti pH, temperature e concentrazioni di NaCl, in presenza di
bile, di blu di metilene e di altre sostanze;
• Produzione di CO2, di H2, H2O2, H2S, NH3, acetoino etc. etc.;
• Isomeri ottici dell’acido lattico prodotti dalla fermentazione del glucosio;
• Profili di fermentazione dei carboidrati;
• Idrolisi dell’arginina, dell’esculina, dell’urea;
• Altri caratteri particolari quali ad esempio la riduzione del tellurito di potassio, attività lipolitica, attività
proteolitica, attività superossidodismutasica, etc. etc.

-descrizioni delle condizioni colturali


Substrato di isolamento e presenza di eventuali agenti selettivi, condizioni di incubazione (atmosfera e
temperatura), morfologia, colore e aspetto delle colonie.

-morfologia cellulare mediante osservazione microscopica di un preparato microbico a fresco


- pulire e sgrassare un vetrino portaoggetti per microscopia;
- depositare una goccia di acqua sterile sul vetrino;
- prelevare con un’ansa da batteriologia sterile parte o una colonia ben isolata del microrganismo;
- stemperare il materiale microbico nell'acqua;
- coprire con un vetrino copri-oggetto, avendo cura di evitare la formazione di bolle d’aria;
- osservare al microscopio
Le cellule batteriche osservate al microscopio possono presentare diverse forme:
-cellule sferiche: cocchi;
-cellule sferiche in coppia: diplococchi;
-cellule sferiche aggregate in catene: streptococchi;
-cellule sferiche aggregate a forma di grappolo: stafilococchi;
-cellule sferiche aggregate in tetradi: micrococchi e sarcine;
-cellule a forma di bastoncino singolo, in coppia o in catena: batter o bacilli;
-cellule a forma di bastoncino corto, rigonfio e con margini arrotondati: coocobacili;
-cellule a forma di bastoncino ricurvo, formanti delle caratteristiche virgole: vibrioni;
cellule a forma di bastoncino formanti delle caratteristiche spirali: spirilli;

-colorazione di Gram
a) Preparazione delle soluzioni
Soluzione di Cristal violetto-ammonio ossalato:
soluzione A:
-cristal violetto 2 g
-alcool etilico 95% 20 ml
soluzione B:
-ammonio ossalato 0,8 g
-acqua distillata 80 ml
Mescolare le soluzioni A e B, lasciare a riposo per 24 ore a temperatura ambiente, quindi filtrare per carta.
Soluzione iodio-iodurata di potassio (liquido di Lugol):
-iodio 1 g
-ioduro di potassio 2 g
-acqua distillata 300 ml
Miscelare lo iodio e lo ioduro di potassio in mortaio e sciogliere aggiungendo l'acqua poco alla volta;
versare in bottiglia scura per reagenti e lavare il mortaio con una quantità di acqua necessaria a portare il
volume a 300 ml.
Miscela Alcool-acetone:
-alcool 7 parti
-acetone 3 parti
Soluzione di Safranina:
-safranina O 2,5 g
-alcool etilico 95% 100 ml
Prima dell’uso aggiungere 10 ml di questa soluzione a 90 ml di acqua distillata.
b) Esecuzione del saggio
1- pulire e sgrassare un vetrino portaoggetti;
2- porre una goccia di acqua sterile sul vetrino;
3- stemperare il materiale microbico nell'acqua;
4- lasciare asciugare il preparato microbico all’aria;
5- fissare il preparato tagliando tre volte la fiamma;
6-colorare per 1 minuto con cristal violetto-ammonio ossalato;
7- lavare con acqua;
8- trattare per 1 minuto con Lugol;
9- lavare con acqua;
10- decolorare con alcool-acetone per 30 secondi;
11- lavare con acqua;
12- colorare con safranina per 1 minuto;
13- lavare, asciugare e osservare al microscopio.
c) Lettura ed interpretazione dei risultati
Le cellule dei batteri Gram-positivi appaiono colorate in blu-violetto, mentre le cellule dei batteri Gram-
negativi in rosso.
Dopo la colorazione con cristal violetto si colorano sia le cellule dei batteri Gram positivi che quelle dei
Gram negativi. Il Lugol è un mordenzante. Il trattamento con alcool-acetone decolora le cellule dei Gram
negativi. Le cellule dei Gram negativi si colorano con la safranina.

-reazione di Gram con KOH 3%


a) esecuzione del saggio
1- pulire e sgrassare un vetrino portaoggetti
2- porre una goccia di idrossido di potassio al 3% sul vetrino
3- stemperare con un’ansa il materiale microbico nella goccia per circa 30 sec
4- sollevare l’ansa verso l’alto
b) Lettura ed interpretazione dei risultati
Le cellule dei batteri Gram-negativi si differenziano da quelle dei Gram-positivi per la formazione di un
filamento viscoso visibile sollevando l’ansa verso l’alto dopo aver stemperato la colonia.

-presenza di endospore
Le endospore risultano già visibili da una semplice osservazione microscopica o dopo colorazione semplice
o di Gram. Per una loro migliore evidenziazione si può ricorrere ad una colorazione specifica che consente
di osservarle come aree colorate all’interno delle cellule vegetative.
a) Soluzioni di coloranti
Soluzione acquosa satura di verde malachite
Soluzione di Safranina:
-safranina O 0,25 g
-alcool etilico 95% 100 ml
Prima dell’uso aggiungere 10 ml di questa soluzione a 90 ml di acqua distillata.
b) Esecuzione del saggio
1- pulire e sgrassare un vetrino portaoggetti per microscopia;
2- porre una goccia di acqua sterile sul vetrino;
3- stemperare il materiale microbico nell'acqua;
4- lasciare asciugare il preparato microbico all’aria;
5- fissare il preparato tagliando per 20 volte la fiamma;
6- colorare per 15 min con la soluzione acquosa satura di verde malachite;
7- lavare con acqua per 10 sec;
8- colorare con una soluzione acquosa di safranina allo 0,25% per 15 sec:
9- lavare con acqua, asciugare ed osservare al microscopio
c) Lettura ed interpretazione dei dati
Le endospore appariranno colorate in verde all’interno delle cellule che saranno di colore rosa-rosso.

-saggio della catalasi


Molti microrganismi possiedono l’enzima catalasi e sono in grado di scindere l’H2O2 nel seguente modo:
2H2O2 + catalasi = 2H2O + O2
a) Preparazione della soluzione
Soluzione di perossido di idrogeno al 3%
-perossido di idrogeno 3 g
-acqua distillata 100 ml
b) Esecuzione del saggio
1- pulire e sgrassare un vetrino portaoggetti;
2- depositare sul vetrino una goccia di H2O2 al 3%;
3- stemperare il materiale microbico nella goccia di H2O2.
c) Lettura e interpretazione dei risultati
La positività del saggio è evidenziata dalla formazione di un’effervescenza dovuta alla liberazione di
ossigeno che indica la presenza della catalasi nella coltura saggiata.

-saggio dell’ossidasi
a) Reagenti per l’ossidasi
Tetrametil-p-fenilendiammina idrocloride 1 g acqua distillata 100 ml Questo reagente deve essere
preparato fresco prima di ogni saggio e deve essere conservato in frigo in bottiglie scure per proteggerlo
dalla luce.
b) Esecuzione del saggio
1- Prelevare una colonia in esame cresciuta su substrato nutritivo agarizzato;
2- Stemperarla su carta da filtro Whatman n°1;
3- Aggiungere alcune gocce di reattivo
c) Lettura e interpretazione dei risultati
Il saggio è positivo quando la coltura microbica assume, al massimo entro 10 minuti una colorazione
violacea a contatto con il reattivo.
La reazione è dovuta all’enzima citocromo a3 ossidasi (componente del sistema di trasporto degli elettroni)
che riduce il Tetrametil-p-fenilendiammina idrocloride a un composto di colore viola.
-saggio di motilità
a) Composizione terreno nutritivo (g/l di acqua distillata)
-Triptone: 5 g/l
-Estratto di carne: 3 g/l
-Glucosio: 1 g/l
-Agar: 3 g/l
-pH: 7,0 g/l
b) Preparazione
1- Sospendere tutti i componenti in 1 litro di acqua distillata.
2- Portare ad ebollizione sotto agitazione e distribuire 10 ml in tubi con tappo a vite.
c) Esecuzione del saggio
Prelevare con un ago da batteriologia una colonia ben isolata ed inoculare il terreno in provetta per
infissione e incubare alla temperatura ottimale di crescita del microrganismo. I microrganismi mobili
crescono in maniera diffusa dalla linea di inoculo (intorbidando tutto il terreno), mentre quelli immobili
crescono solo lungo la linea dell’inoculo.

Capitolo 6 – METODI DI NUMERAZIONE, RICERCA, ISOLAMENTO ED


INDIVIDUAZIONE DI BATTERI PATOGENI NEGLI ALIMENTI
Esistono numerosi metodi per la ricerca di specifici patogeni negli alimenti. La scelta del metodo da
applicare, se non è dichiaratamente stabilito da legislazioni specifiche, dipende dal criterio microbiologico
da adottare, dalle caratteristiche della materia prima, dal processo con cui il prodotto è stato ottenuto,
dalle caratteristiche di rischio del prodotto, dal costo dell’analisi e dalle sue finalità, ecc.
I metodi da utilizzare sono descritti nel capitolo 10 del Volume 1, alla fine di ogni paragrafo dedicato ai
singoli batteri patogeni.

Capitolo 7 – POPOLAZIONI MICROBICHE SPECIFICHE DEGLI ALIMENTI:


METODI DI RICERCA E NUMERAZIONE
Per accertare sia la qualità microbiologica che la sicurezza di un alimento si fa ricorso alla ricerca di
organismi o gruppi in grado di indicare una situazione potenzialmente pericolosa.

-PROCEDURA DI NUMERAZIONE DEI MICRORGANISMI AEROBI MESOFILI NEGLI ALIMENTI


Il numero di microrganismi aerobi mesofili è determinato, inoculando il substrato Triptone Glucosio
Estratto di lievito (PCA, Plate Count Agar) per inclusione (1 ml) o per distribuzione superficiale (0,1 ml) con
diluizioni decimali del campione omogeneizzato. Il PCA è composto da:
-Estratto di lievito 2,5 g;
-Digerito pancreatico di caseina 5 g;
-Glucosio 1 g;
-Agar 15 g;
-pH 7,0;
-Acqua distillata 1000 ml
Dopo la semina, le piastre sono incubate aerobicamente a 30° C per 72 ore (condizioni che soddisfano le
esigenze dei microrganismi mesofili e di gran parte dei microrganismi psicrotrofici). Per un conteggio
specifico dei microrganismi aerobi psicrotrofici le piastre possono essere incubate a 10°C per 7 giorni.
Il terreno nutritivo scelto deve mimare il più possibile la composizione dell’alimento stesso.
-PROCEDURA DI NUMERAZIONE DELLE ENTEROBACTERIACEAE TOTALI NEGLI ALIMENTI
La numerazione avviene seminando per inclusione 1 ml di diluizioni decimali del campione nel terreno
nutritivo selettivo e differenziale agarizzato Violet Red Bile Glucose Agar (VRBGA), costituito da:
-Estratto di lievito 3 g;
-Peptone 7 g;
-Sodio cloruro 5 g;
-Sali biliari 1,5 g;
-Glucosio 10 g;
-Rosso neutro 0,03 g;
-Cristal Violetto 0,002 g;
-Agar 12;
-Acqua distillata 1000 ml;
-pH 7,4.
Avvenuta la solidificazione del substrato, si versa su questo un altro strato di substrato, al fine di assicurare
condizioni anaerobiche favorevoli alla fermentazione del glucosio. L’incubazione delle piastre è fatta a 37°C
per 24 ore. Le colonie si presentano di colore rosa-rosso, circondate da un alone di colore porpora dovuto
alla precipitazione dei sali biliari in ambiente acido. Almeno 4-5 colonie tipiche devono essere confermate
come appartenenti alla famiglia trapiantandole su piastre di Agar nutritivo (AN: Estratto di carne 3 g;
Peptone 5 g; Agar 15 g; Acqua distillata 1000 ml; pH 6,8-7,0). Dopo incubazione a 35-37° C per 24 ore, sulle
colonie isolate si determinerà la morfologia, la gram-reazione, la catalasi e l’ossidasi.

-PROCEDURA DI NUMERAZIONE DEI COLIFORMI E DI ESCHERICHIA COLI NEGLI ALIMENTI


Esistono numerosi metodi per determinare i coliformi ed E. coli negli alimenti e nelle acque, basati sia su
conteggi in piastra che mediante MPN.

-determinazione dei coliformi (totali) con il metodo di inclusione in terreno nutritivo selettivo e
differenziale agarizzato
Omogeneizzare il campione in soluzione sale peptone e allestire diluizioni seriali decimali. Seminare 1 ml di
ciascuna diluizione in piastre Petri vuote e aggiungere circa 15 ml di terreno nutritivo Agar Cristalvioletto
Rosso neutro Bile (VRBA), costituito da:
-Estratto di lievito 3 g;
-Peptone 7 g;
-Sodio cloruro 5 g;
-Sali biliari 1,5 g;
-Lattosio 10 g;
-Rosso neutro 0,03 g;
-Cristal Violetto 0,002 g;
-Agar 15;
-Acqua distillata 1000 ml;
-pH 7,4.
Si procede ad omogeneizzare mediante rotazioni in maniera da disperdere uniformemente l’inoculo e
lasciare solidificare; aggiungere quindi altri 5-6 ml dello stesso substrato al fine di creare condizioni
anaerobiche per la fermentazione del lattosio. Dopo solidificazione del substrato, le piastre sono incubate
capovolte a 30°C per 24 ore. Il terreno VRBA contiene come selettivi i sali biliari e il cristalvioletto la cui
azione combinata assicura l’inibizione dei batteri Gram positivi; la componente differenziale del terreno
nutritivo è invece costituita dal lattosio, dalla cui fermentazione sono prodotti acidi organici che abbassano
il pH al di sotto del punto di viraggio dell’indicatore rosso neutro presente nel mezzo. Come conseguenza
della fermentazione del lattosio, le colonie tipiche appariranno colorate dal rosa al rosso intenso,
circondate da un alone di colore rosso dovuto alla precipitazione dei sali biliari in ambiente acido.

-determinazione dei coliformi (totali) con il metodo del Numero più Probabile (MPN)
Per alimenti solidi, preparare l’omogenato dell’alimento (diluizione 1:10) in soluzione sale peptone, quindi
allestire diluizioni decimali seriali. Si possono utilizzare diversi schemi di inoculo, impiegando come terreno
nutritivo liquido selettivo il Brodo con Bile (2%) e Verde Brillante (Brilliant Green Bile Broth – BGBB:
Peptone 10 g; Lattosio 10 g; Bile di bue 20 g; Verde brillante 0,0133 g; Acqua distillata 1000 ml; pH 7,4).

schema di inoculo 10 – 1 – 0,1 ml


-Inoculare 3 tubi contenenti BGBB a doppia concentrazione ciascuno con 10 ml della diluizione 1:10
(corrispondenti a inoculi di 1 g di campione per tubo);
-Inoculare 3 tubi contenenti BGBB a concentrazione normale ciascuno con 1 ml della diluizione 1:10
(corrispondenti a inoculi di 0,1 g di campione per tubo);
-Inoculare 3 tubi contenenti BGBB a concentrazione normale ciascuno con 1 ml della diluizione 1:100
(corrispondenti a inoculi di 0,01 g di campione per tubo);
-I tubi sono incubati a 30°C per 48 ore; sono considerati positivi i tubi che presentano sviluppo di gas nelle
campanule di Durham. Dalla combinazione dei tubi positivi, si risale al MPN/g leggendo il valore sulle
apposite tavole.
schema di inoculo 10 – 0,1 – 0,01 ml
-Inoculare 3 tubi contenenti BGBB a concentrazione normale ciascuno con 1 ml della diluizione 1:10
(corrispondenti a inoculi di 0,1 g di campione per tubo);
-Inoculare 3 tubi contenenti BGBB a concentrazione normale ciascuno con 1 ml della diluizione 1:100
(corrispondenti a inoculi di 0,01 g di campione per tubo);
-Inoculare 3 tubi contenenti BGBB a concentrazione normale ciascuno con 1 ml della diluizione 1:1000
(corrispondenti a inoculi di 0,001 g di campione per tubo).
-Le condizioni di incubazione e la lettura dei risultati sono come per lo schema di inoculo precedente.

Il numero di coliformi determinato con questi meccanismi è presuntivo, in quanto si possono sviluppare
altri microrganismi che producono gas da lattosio in presenza di sali biliari e verde brillante. Si deve
procedere, dunque, alla conferma dei risultati.
Da ciascuna delle provette risultate positive nella prova presuntiva, si striscia un’ansata di coltura su una
piastra di Agar Eosina Bleu di Metilene (EMBA: Peptone 10 g; Lattosio 10 g; Fosfato bipotassico 2 g; Eosina
Y 0,4 g; Bleu di Metilene 0,065 g; Agar 15 g; Acqua distillata 1000 ml; pH 6,8). Il terreno nutritivo contiene
selettivi che inibiscono la crescita di batteri gram negativi e ossidasi positivi. Dopo incubazione delle piastre
a 32°C per 24 ore, le colonie di coliformi si presenteranno di colore scuro con aspetto metallico verde
iridescente se osservate con luce riflessa.
Almeno due colonie caratteristiche cresciute su quest’ultimo substrato vanno trapiantate,
contemporaneamente, in una provetta munita di campanula di Durham e contenente come terreno
nutritivo il Brodo Lattosato (LB: Estratto di carne 3 g; Peptone 5 g; Lattosio 5 g; Acqua distillata 1000 ml; pH
6,9) per confermare, dopo incubazione a 30°C per 24 ore la produzione di gas da lattosio e su una piastra di
Agar Nutritivo, per confermare, sulle colonie cresciute dopo 24 ore di incubazione a 30°C, la presenza di
bastoncini gram negativi, catalasi positivi e ossidasi negativi.
Sulla base dei risultati ottenuti è possibile confermare o meno l’MPN presuntivo.
-determinazione dei coliformi fecali (Escherichia coli presuntivo) con il metodo del Numero più Probabile
(MPN) e test di produzione di indolo
Da ciascuna delle provette di BGBB risultate positive per i coliformi totali, si inoculano una provetta di BGBB
e una provetta di Acqua Triptonata (Triptone 10 g; NaCl 5 g; Acqua distillata 1000 ml; pH 7,2). Entrambi i
terreni sono incubati a 44,5°C per 48 ore, ricercando nella provetta con acqua triptonata la produzione di
indolo da triptofano, aggiungendo 1 ml di Reattivo di Kovacs (Paradimetilaminobenzaldeide 5 g; Alcool
isoamilico 75 ml; HCl concentrato 75 ml). In presenza di indolo, entro pochi minuti si avrà una colorazione
rosa-rossa sulla superficie del brodo.

-conferma del numero di Escherichia coli


Da ciascuno dei tubi di BGBB risultati positivi nella ricerca di coliformi fecali si striscia una piastra di EMBA.
Dopo incubazione delle piastre a 32°C per 24 ore, le colonie di coliformi si presenteranno di colore scuro
con aspetto metallico verde iridescente se osservate con luce riflessa. 2 colonie caratteristiche cresciute su
quest’ultimo substrato vanno trapiantate, contemporaneamente, in una provetta contenente Brodo
Lattosato per confermare, dopo incubazione a 30°C per 24 ore la produzione di gas da lattosio e su una
piastra di Agar Nutritivo, per confermare, sulle colonie cresciute dopo 24 ore di incubazione a 30°C, la
presenza di bastoncini gram negativi, catalasi positivi e ossidasi negativi.
Gli isolati su Agar Nutritivo, riferibili ai coliformi, sono sottoposti alle seguenti prove:
-Test del Rosso metile e test di Voges Proskauer: si inocula un’ansata di coltura in Brodo Glucosato
Tamponato (Peptone 7 g; Fosfato dipotassico 5 g; Glucosio 5 g; Acqua distillata 1000 ml; pH 7,5) che è
incubato a 37°C. Dopo due giorni di incubazione si prelevano, trasferendoli in una provetta vuota, circa 2 ml
di coltura a cui si aggiungono in successione 0,5 di una soluzione di alfa-naftolo al 5% in alcool etilico e 0,5
ml di una soluzione acquosa di KOH al 40%, per valutare la reazione di Voges-Proskauer. La positività del
test è indicata dallo sviluppo, entro 30 minuti, di una colorazione rosa-rossa sulla superficie del brodo.
Dopo altri 3 giorni di incubazione, alla restante parte della brodocoltura si aggiungono circa 0,5 ml di una
soluzione allo 0,02% di rosso metile in una miscela costituita da 6 parti di alcool etilico e 4 parti di acqua
distillata. La positività del test è indicata dal mantenimento della colorazione rossa del substrato (pH della
brodocoltura inferiore a 4,5). Una colorazione gialla indica, invece, negatività del test.
-Crescita su Agar Citrato di Simmons per valutare l’utilizzazione del citrato come unica sorgente di
carbonio: (SCA: Magnesio solfato 0,2 g; Ammonio fosfato biacido 1 g; Fosfato di potassico 1 g; Sodio citrato
2 g; Sodio cloruro 5 g; Blu di bromotimolo 0,08 g; Agar 15 g; Acqua distillata 1000 ml; pH 7.) Il terreno,
solidificato a becco di clarino (agar-slant), viene strisciato con la coltura in esame. Dopo incubazione a 37°C
per 48 ore, l’avvenuta utilizzazione del citrato si manifesta con una variazione di colore del substrato
dall’originale verde al blu intenso, come conseguenza della produzione di sostanze alcaline.

Questi test sono detti test IMVC (Indolo, Methyl Red, Voges-Proskauer e Citrato); Escherichia coli produce
indolo da triptofano, è positivo al test Rosso metile, è negativo al test Voges-Proskauer e non cresce su Agar
Citrato (Test IMVC:+ + - -).

-numerazione di Escherichia coli su terreni nutritivi cromogenici o fluorogenici


E. coli, tra tutti i coliformi è l’unico a presentare l’enzima beta-glucuronidasi. Sono stati pertanto studiati dei
terreni nutritivi in cui si utilizzano sostanze in grado di rilevare l’attività beta-glucuronidasi (composti
fluorogenici). La numerazione con composti fluorogenici si esegue mediante la tecnica MPN, incorporando
il fluorogeno in un terreno selettivo liquido come il BGBB già citato prima. Le provette che presentano
sviluppo di gas dopo incubazione a 37°C per 24-48 ore vanno osservate sotto luce UV per la presenza di
fluorescenza azzurro brillante. In questo caso si determina il MPN di E. coli presuntivo in BGBB seconda la
tecnica descritta in precedenza. . Dalle provette positive si trasferisce un’aliquota del brodo in provette
contenenti come terreno nutritivo il Brodo Laurilsolfato Triptosio (LST: Triptosio 20 g; Lattosio 5 g; Cloruro
di sodio 5 g; Potassio fosfato monoacido 2,75 g; Potassio fosfato biacido 2,75 g; Sodio laurilsolfato 0,1 g;
Acqua distillata 1000 ml; pH 7,0) aggiunto di MUG. Dopo incubazione a 37°C, dopo 4 ore e quindi ogni ora
fino ad un massimo di 18-24 ore, si osserva l’eventuale comparsa di fluorescenza azzurra. Dai risultati di
questa prova si conferma o meno il MPN presuntivo.
Tra i composti cromogenici si utilizza il 5-bromo-4-cloro-3-indolil-b-D-glucuronide che per azione
enzimatica libera 5-bromo-4-cloro-3-indolo il quale è assorbito dalle cellule microbiche le cui colonie sul
substrato assumono una colorazione blu/verde. Le piastre contenenti il terreno nutritivo, una volta
inoculate con aliquote di diluizioni decimali seriali del campione, sono incubate a 30°C per 4 ore e per
ulteriori 18 ore a 44°C. Si contano tutte le colonie di colore blu-verde, esprimendo il risultato come UFC/g o
ml di campione.

-PROCEDURA DI NUMERAZIONE DEGLI ENTEROCOCCHI (STREPTOCOCCHI FECALI) NEGLI ALIMENTI


Dopo aver preparato l’omogenato dell’alimento e le diluizioni seriali decimali secondo le modalità solite, si
possono seminare aliquote delle stesse su o in diversi terreni nutritivi selettivi e differenziali agarizzati. Uno
tra i più utilizzati è il Terreno colturale Agar Kanamicina Esculina Azide (KAA: Triptone 20 g; Estratto di
lievito 5 g; Sodio cloruro 5 g; Sodio citrato 1 g; Esculina 1 g; Citrato ammoniacale di ferro 0,5 g; Solfato di
Kanamicina 0,02 g; Sodio azide 0,15 g; Agar 15 g; Acqua distillata 1000 ml). L’azide sodica, alle
concentrazioni usate, inibisce la maggior parte dei batteri Gram negativi, mentre l’antibiotico Kanamicina
che ostacola lo sviluppo di stafilococchi. La componente differenziale del terreno è costituita dall’esculina
(glucoside incolore) che viene ridotta ad esculetina (derivato agliconico) che reagisce con i sali di ferro
formando un complesso ferro-fenolico di colore nero. Le piastre con il terreno solidificato, dopo essere
state seminate in superficie con 0,1 ml di ciascuna diluizione del campione, sono incubate a 37°C per 24-48
ore. Le colonie caratteristiche, di circa 2-3 mm di diametro, si presenteranno di colore scuro e circondate da
un alone marrone-nero dovuto alla riduzione dell’esculina ad esculetina.
Lo stesso terreno nutritivo, privato dell’agar, può essere utilizzato per numerare basse concentrazioni di
enterococchi con la tecnica MPN. La positività dei tubi sarà valutata, dopo incubazione delle provette a
37°C per 24 ore, dall’annerimento del brodo dovuto all’idrolisi dell’esculina.
In ogni caso è bene procedere alla conferma delle colonie presuntivamente considerate come enterococchi,
mediante agglutinazione con antisieri gruppo-specifico D e mediante prove morfologiche, biochimiche e
fisiologiche.

-PROCEDURA DI NUMERAZIONE DELLE SPORE DI CLOSTRIDI SOLFITO RIDUTTORI NEGLI ALIMENTI


Con la denominazione di clostridi solfito-riduttori si intende un gruppo di batteri di forma bastoncellare,
Gram positivi, sporigeni, anaerobi, in grado di ridurre i composti ossidati dello zolfo (solfiti) a idrogeno
solforato (solfuro). Crescono in un range di temperatura compreso tra 0 e 50° C, mentre sono incapaci di
crescere a pH inferiore a 5. Si prepara l’omogenato dell’alimento nel modo consueto; circa 10 ml di questa
diluizione si trattano a 80°C per 10 minuti per eliminare le forme vegetative dei batteri, lasciando inalterate
le spore. Dopo rapido raffreddamento, si allestiscono le diluizioni decimali seriali successive. Aliquote di 1
ml di ciascuna diluizione saranno trasferite in piastre sterili vuote a cui sono aggiunti 12-15 ml di terreno
nutritivo mantenuto fluido a 45-47°C. Come terreno nutritivo può essere usato, tra gli altri, l’Agar Triptosio
Solfito Cicloserina (TSC: Triptosio 15 g; Estratto di lievito 5 g; Peptone di soia 5 g; Estratto di carne 5 g;
Citrato ammoniacale di ferro 1 g; Metabisolfito di sodio 1 g; Agar 14 g; Acqua distillata 1000 ml. Al
substrato sterile e mantenuto fluido a 50°C si aggiungono 10 ml di una soluzione al 5% dell’antibiotico D-
cicloserina sterilizzata per filtrazione). Dopo aver disperso uniformemente l’inoculo nel terreno nutritivo, si
lascia solidificare, quindi si versano sulla superficie del terreno solidificato altri 7-8 ml dello stesso terreno
fluido, per assicurare migliori condizioni anaerobiche. L’incubazione delle piastre avviene a 37°C per 24-48
ore in giare per anaerobiosi. Le colonie di clostridi solfito riduttori appaiono di colore nero, con un diametro
di 3-7 mm. Spesso nel terreno sono presenti colonie incolori o colonie puntiformi di colore nero che non
vanno considerate nel conteggio.

-PARAMETRI MICROBIOLOGICI PER LA POTABILITA’ DELL’ACQUA


a) Conteggio delle colonie su agar per 1 ml a 36 e a 22°C
Seminare in Agar-germi aliquote da 1 ml dei campioni in 6 piastre di Petri. Utilizzare l’Agar per il conteggio
delle colonie (Plate Count Agar: Estratto di lievito 2,5 g; Digerito pancreatico di caseina 5 g; Glucosio 1 g;
Agar 15 g; pH 7,0; Acqua distillata 1000 ml). Incubare 3 piastre a 36 +/- 1°C per 48 ore e 3 piastre a 22°C per
3 giorni. Contare le colonie rilevando il valore medio per ogni 3 piastre e riportare il valore come colonie
per ml di campione.

b) Coliformi totali per 100 ml: metodo MPN


Seminare almeno un matraccio con 50 ml ed una serie di 5 tubi con 10 ml campione per ciascun tubo di
brodo lattosato (Estratto di carne 3 g; Peptone 5 g; Lattosio 5 g; Acqua distillata 1000 ml; pH 6,9) doppio
concentrato. Incubare a 36 +/- 1°C per 24 + 24 ore. I tubi positivi (presenza di gas) devono essere sottoposti
a conferma in brodo lattosio bile verde brillante (Peptone 10 g; Lattosio 10 g; Bile di bue 20 g; Verde
brillante 0,0133 g; Acqua distillata 1000 ml; pH 7,4) a 36 +/- 1° C per 24 +24 ore. Sulla base della positività
su tale terreno (produzione di gas), riportare il valore come MPN/100ml.

c) Coliformi fecali per 100 ml: metodo MPN


I tubi positivi di brodo lattosato devono essere sottoposti a conferma in tubi di EC broth (g/litro di acqua
distillata: Peptone 20; Lattosio 5; Sali biliari 5; Sodio cloruro 5; Potassio fosfato monoacido 4; Potassio
fosfato biacido 1,5; pH 6,8 ± 0,2. Sistemare nella provetta una campanula di Durham) per 24 ore a 44,5 +/-
0,2 °C in bagnomaria. Sulla base della positività su tale terreno (produzione di gas) riportare il valore
MPN/100 ml di campione.

d) Streptococchi fecali per 100 ml: metodo MPN


Seminare almeno un matraccio con 50 ml ed una serie di 5 tubi con ml 10 ml campione per ciascun tubo di
Azide Dextrose Broth (g/litro di acqua distillata: Peptone 20; Destrosio 5; Sodio cloruro 5; Potassio fosfato
monoacido 2,7; Potassio fosfato biacido 2,7; Sodio azide 0,2; pH 6,8 ± 0,2) doppio concentrato. I tubi
positivi (torbidi) devono essere sottoposti a conferma in tubi di Ethyl Violet Azide Dextrose Broth (g/litro di
acqua distillata: Peptone 20; Destrosio 5; Sodio cloruro 5; Potassio fosfato monoacido 2,7; Potassio fosfato
biacido 2,7; Sodio azide 0,3; Violetto di etile 0,0005; pH 6,8 ± 0,2) per 24 +24 ore a 36 +/- 1 °C . Leggere i
tubi positivi (torbidi con deposito porpora sul fondo). Riportare il valore MPN/100 ml di campione.

e) Spore di clostridi solfito riduttori


Distribuire il campione da esaminare in 10 provettoni nella quantità di circa 12 ml per provettone.
Immergere i provettoni in bagnomaria a 80°C per 10 minuti. Raffreddare rapidamente sotto acqua
corrente. Seminare in ragione di ml 10 per tubo in 10 tubi di terreno al solfito di sodio già predisposto
(g/litro di acqua distillata: Estratto di carne 10; Peptone 10; Glucosio 20; Sodio cloruro 5; Agar 20; pH 7,4.
Distribuire 20 ml per tubo e sterilizzare a 121°C per 20 minuti. Al momento dell’uso si fa fluidificare il
terreno e vi si aggiunge il seguente supplemento:1 ml di soluzione al 2,5% di solfito di sodio anidro e 0,2 ml
di una soluzione al 5% di citrato di ferro. Queste due soluzioni vanno sterilizzate per filtrazione e preparate
al momento dell’uso. Servono da indicatori della riduzione del solfito). Raffreddare sotto acqua corrente e
incubare a 36°C +/- 1°C per 24+24 ore. Contare le colonie nere di almeno mm 3 di diametro. Riportare il
valore a ml 100 di campione.

APPENDICE A – PRINCIPALI DILUENTI E TERRENI NUTRITIVI USATI PER


L’ANALISI MICROBIOLOGICA DEGLI ALIMENTI

-SOLUZIONI UTILIZZATE PER RISOSPENDERE E/O DILUIRE I CAMPIONI DA ANALIZZARE PER LA PRESENZA
DI MICRORGANISMI (DILUENTI)
-presupposti e caratteristiche
I campioni, prima di essere analizzati, vanno omogeneizzati in un adatto diluente, al fine di facilitare l’analisi
del campione stesso.
La scelta del diluente è una fase molto importante, in quanto un diluente non adatto potrebbe causare
danni alle cellule microbiche, con alterazione dei risultati delle analisi.
Le principali caratteristiche dei diluenti sono:
• isotonicità (stessa pressione osmotica delle cellule microbiche);
• assenza di componenti nutritivi (o presenti in minima quantità);
• bassa tensione superficiale (favorisce la miscelazione del liquido con il substrato agarizzato fluido).

-alcuni diluenti usati per l’analisi microbiologica


a) Soluzione peptone sale
-NaCl 8,5 g
-Peptone 1 g
-dH2O 1000 ml
Sterilizzare a 121°C per 15 min

b) soluzione fisiologica
-NaCl 8,5 g
-dH2O 1000 ml
Sterilizzare a 121°C per 15 min

c) Soluzione di Ringer diluita 1:4


-Sodio cloruro 2,25 g
-Potassio cloruro 0,105 g
-Cloruro di calcio anidro 0,06 g
-Carbonato acido di sodio 0,05 g
-dH2O 1000 ml
Sterilizzare a 121°C per 15 min

d) Soluzione di citrato trisodico [Per i formaggi]


-Citrato trisodico 20 g
-dH2O 1000 ml
Sterilizzare a 121°C per 15 min
-ALCUNI TERRENI DI COLTURA E REAGENTI CHIMICI USATI PER L’ANALISI MICROBIOLOGICA DEGLI
ALIMENTI
-esigenze nutrizionali dei microrganismi
Le esigenze nutrizionali dei microrganismi possono variare ampiamente tra gruppi e specie, anche se tutti
condividono alcune esigenze nutrizionali di base, quali:
• sorgente di energia: radiante o chimica
• sorgente di carbonio: organico e/o inorganico
• sorgente di azoto: organico e/o inorganico
• sorgente di ossigeno: per i batteri anaerobi l’ossigeno è tossico
• sorgente di: fosforo, magnesio, zolfo, potassio, sodio
• sorgente di minerali: ferro, cobalto, zinco (di solito in piccolissime quantità (tracce))
• sorgente di acqua
I nutrienti richiesti dai microrganismi possono essere suddivisi in due classi: macronutrienti e
micronutrienti.
MACRONUTRIENTI
-carbonio organico: zuccheri, aminoacidi, acidi grassi, acidi organici, basi di azoto organico, composti
aromatici e tanti altri composti organici;
-carbonio inorganico: anidride carbonica (CO2) è richiesta, anche se spesso in piccole quantità da tutti gli
organismi;
-azoto organico: proviene dalla degradazione e mineralizzazione della sostanza organica ed è utilizzato per
la sintesi di aminoacidi e di basi nucleiche azotate;
-azoto inorganico: ammoniaca (NH3) e nitrato (NO3- ) e azoto gassoso N;
-fosforo: è presente in natura sia come fosfato organico (richiede l’azione delle fosfatasi che idrolizzano
l'estere del fosfato organico) sia inorganico (da acidi nucleici, fosfolipidi e da composti ad alto contenuto di
energia);
-zolfo: entra nella composizione di aminoacidi come cisteina e metionina e di molte vitamine.
-potassio, magnesio, ferro e calcio: sono richiesti per la crescita da moltissimi batteri in concentrazioni
variabili da specie a specie;
-acqua: tutti i microrganismi utilizzano le sostanze nutritive in soluzione acquosa
MICRONUTRIENTI
-cobalto: sintesi vitamina B12;
-zinco: ruolo strutturale in molti enzimi;
-molibdeno e nichel: presenti in alcuni enzimi;
-rame: ruolo in enzimi coinvolti nella respirazione;
-manganese: attivatore per molti enzimi.
I microrganismi hanno inoltre esigenze di fattori di crescita (amminoacidi, purine, primidine, vitamine), cioè
di composti organici che risultano componenti cellulari essenziali o loro precursori, dei quali la cellula ha
necessità ma che non riesce a sintetizzare.

-tipi nutrizionali di microrganismi


In base alla sorgente di carbonio usata nelle biosintesi i microrganismi si dividono in:
AUTOTROFI: capaci di utilizzare il carbonio inorganico (CO2) come unica o principale fonte di carbonio.
Molti sono i fissatori di CO2 autotrofi che utilizzano l’energia proveniente da processi fotosintetici o dalla
ossidazione delle molecole inorganiche .
ETEROTROFI: utilizzano come fonti di carbonio substrati organici preformati ridotti. Spesso gli eterotrofi da
questi substrati attraverso processi catabolici ricavano anche energia.
In base alla sorgente di energia utilizzata per generare ATP, si dividono in:
• Fototrofi: utilizzano come sorgente di energia la luce (fotosintetizzanti).
• Chemiotrofi: utilizzano l’energia da reazioni di ossido-riduzione.
• Litotrofi: utilizzano come sorgente di elettroni, sostanze inorganiche ridotte.
• Organotrofi: ricavano elettroni o idrogeno da composti organici.

-terreni nutritivi per la coltivazione dei microrganismi


Un terreno di coltura può essere definito come l’ambiente nutritivo artificiale creato in laboratorio per far
crescere un microrganismo. I terreni di coltura sono usati per i seguenti scopi:
• Isolamento di microrganismi da ambienti vari.
• Coltivazione di microrganismi isolati.
• Mantenimento (conservazione) di colture pure di batteri.
• Determinazione di proprietà fisiologiche e biochimiche per identificazione dei microrganismi.
-In base alla composizione in nutrienti, i terreni di coltura si possono dividere in due gruppi:
• terreni sintetici o a composizione chimica definita: se ne conosce l’esatta composizione percentuale
delle sostanze chimiche;
a. I vari componenti (organici o inorganici) vanno pesati secondo la ricetta e sospesi in 1000 ml di acqua
distillata.
b. Si riscalda a bagnomaria bollente fino a dissoluzione completa.
c. Si misura ed eventualmente si aggiusta il pH al valore definito.
d. Si distribuisce in flaconi o bottiglie con tappo a vite e si sterilizza in autoclave a 121°C per 15 min.
• terreni complessi o a composizione indefinita: nella loro composizione contengono sostanze di origine
varia di cui non si conosce la composizione chimica. Possono essere costituite da estratti enzimatici grezzi di
sostanze come proteine della carne, del latte o di soia, estratti di lieviti, e altre sostanze (regolarmente
commercializzati sotto forma di polvere disidratata).

-In base allo stato fisico, i terreni nutritivi si dividono in:


• terreni nutritivi liquidi: detti anche brodi, sono preparati sciogliendo in acqua tutti i componenti
necessari.
• terreni nutritivi solidi o solidificabili: sono resi tali aggiungendo, alla soluzione dei nutrienti, una sostanza
gelificante come l’agar.

-In base alla funzione i terreni nutritivi si distinguono in:


• terreni per uso generale: presentano una composizione in nutrienti tale da soddisfare la crescita della
maggior parte dei microrganismi di uno specifico gruppo;
• terreni selettivi: contengono sostanze chimiche che esercitano un’azione inibente nei confronti di alcuni
microrganismi o gruppi di microrganismi;
• terreni selettivi e differenziali: sono terreni selettivi ai quali sono aggiunte particolari sostanze chimiche
che determinano una modificazione del terreno come conseguenza di una particolare attività metabolica
del microrganismo da isolare.

-fasi per la preparazione di un terreno di coltura


• pesare esattamente i componenti secondo la ricetta;
• aggiungere acqua distillata nella misura richiesta;
• sciogliere gli ingredienti riscaldando fino a 40-50°C per i terreni liquidi e fino all’ebollizione per i terreni
contenenti agar;
• dispensare il terreno in bottiglie o in provette muniti di tappo;
• sterilizzare in autoclave a 121°C (1 atmosfera di sovrappressione) per 15 minuti, in modo da eliminare
tutti i microrganismi, sporigeni e non, contaminanti. Alcuni terreni vanno solo riscaldati fino ad ebollizione
oppure sterilizzarli per filtrazione;
• aggiungere al terreno sterile e raffreddato a 45-47°C eventuali supplementi selettivi sterili;
• dopo sterilizzazione i terreni agarizzati possono essere dispensati in piastre di Petri oppure in tubi per
batteriologia lasciandoli solidificare in posizione verticale oppure inclinata (agar a becco di clarino o agar
slant).

APPENDICE B – CLASSIFICAZIONE ED ELENCO DEGLI AGENTI BIOLOGICI

-CLASSIFICAZIONE DEGLI AGENTI BIOLOGICI


Gli agenti biologici sono ripartiti nei seguenti quattro gruppi a seconda del rischio di infezione:
a) agente biologico del gruppo 1: un agente che presenta poche probabilità di causare malattie in soggetti
umani;
b) agente biologico del gruppo 2: un agente che può causare malattie in soggetti umani e costituire un
rischio per i lavoratori; è poco probabile che si propaga nella comunità; sono di norma disponibili efficaci
misure profilattiche o terapeutiche;
c) agente biologico del gruppo 3: un agente che può causare malattie gravi in soggetti umani e costituisce
un serio rischio per i lavoratori; l'agente biologico può propagarsi nella comunità, ma di norma sono
disponibili efficaci misure profilattiche o terapeutiche;
d) agente biologico del gruppo 4: un agente biologico che può provocare malattie gravi in soggetti umani e
costituisce un serio rischio per i lavoratori e può presentare un elevato rischio di propagazione nella
comunità; non sono disponibili, di norma, efficaci misure profilattiche o terapeutiche.

Sono inclusi nella classificazione unicamente gli agenti di cui è noto che possono provocare malattie
infettive in soggetti umani.
La classificazione degli agenti biologici si basa sull'effetto esercitato dagli stessi su lavoratori sani.
Gli agenti biologici che non sono stati inclusi nel gruppi 2, 3, 4 dell'elenco non sono implicitamente inseriti
nel gruppo 1.
Quando un ceppo è attenuato o ha perso geni notoriamente virulenti, il contenimento richiesto dalla
classificazione del ceppo parentale non è necessariamente applicato a meno che la valutazione del rischio
da esso rappresentato sul luogo di lavoro non lo richieda.
Tutti i virus che sono già stati isolati nell'uomo e che ancora non figurano nel presente allegato devono
essere considerati come appartenenti almeno al gruppo due, a meno che sia provato che non possono
provocare malattie nell'uomo.
Taluni agenti classificati nel gruppo tre possono comportare un rischio di infezione limitato perché
normalmente non sono veicolati dall'aria.
Le misure di contenimento che derivano dalla classificazione dei parassiti si applicano unicamente agli stadi
del ciclo del parassita che possono essere infettivi per l'uomo.

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