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Capitolo 1 – INTRODUZIONE
La microbiologia degli alimenti è la branca della microbiologia che studia il ruolo svolto dai microrganismi
nella produzione, alterazione e conservazione degli alimenti e le malattie microbiche trasmesse attraverso
essi.
Solo a partire dal 1676 si cominciò ad ipotizzare il possibile ruolo dei microrganismi nelle alterazioni e
fermentazioni alimentari, e nel 1800 queste relazioni fra alimenti e microrganismi furono stabilite in
maniera scientifica.
I successivi sviluppi delle biotecnologie e le migliori conoscenze sulla fisiologia, sul metabolismo e la
genetica dei microrganismi coinvolti nei processi fermentativi hanno consentito di evidenziare molti
attributi fisiologici degli stessi che possono contribuire al controllo di microrganismi indesiderati, sia
alterativi che patogeni, così come assicurare il conseguimento di specifici obiettivi industriali e contribuire al
miglioramento della salute umana.
Le aree di interesse della microbiologia degli alimenti sono molteplici: fermentazioni alimentari
(produzione, conservazione e miglioramento degli alimenti tramite microrganismi), malattie microbiche
trasmesse attraverso gli alimenti, alterazioni microbiche degli alimenti, controllo qualità e sicurezza
microbiologica degli alimenti, metodi di analisi microbiologica degli alimenti.
Possiamo distinguere i microrganismi rinvenibili negli alimenti in utili, dannosi e indifferenti. Tra quelli utili
vanno ricordati gli agenti di trasformazione e conservazione alimentare, e i microrganismi probiotici
(promuovono la salute umana), mentre tra quelli dannosi ricordiamo i patogeni alimentari e i
microrganismi alterativi degli alimenti.
I microrganismi sono praticamente ubiquitari. Le caratteristiche chimico-fisiche degli alimenti permettono
la colonizzazione e lo sviluppo microbico; ogni alimento possiede una microflora strettamente legata alle
materie prime e all’ambiente in cui esse vengono prodotte, nonché alle condizioni di trasformazione,
conservazione e consumo. Nel corso della loro lavorazione, gli alimenti possono essere nuovamente
contaminati negli ambienti di lavorazione e conservazione, ma anche nelle successivi fasi di magazzinaggio,
trasporto, distribuzione e consumo. Lo specifico processo tecnologico a cui verrà sottoposto l’alimento ne
determina, inoltre, variazioni quanti-qualitative della microflora presente.
I microrganismi che causano cambiamenti desiderati negli alimenti sono in genere detti “protecnologici”.
Questi processi di trasformazione furono molto probabilmente scoperti per caso ed erano praticati senza
conoscerne le basi fermentative. Il riconoscimento da parte di Pasteur nel 1857 della natura microbica delle
fermentazioni portarono all’impiego nel 1890 della prima coltura starter per la produzione di formaggi,
aprendo la strada per l’industrializzazione delle fermentazioni alimentari. Sebbene lo scopo originale delle
fermentazioni alimentari era quello di prolungare il tempo di conservazione dei prodotti, le colture starter
sono state introdotte in alcuni settori dell’industria alimentare per iniziare la fermentazione e assicurare
l’esito tecnologico del processo produttivo. I microrganismi coinvolti nella preparazione di alimenti
fermentati appartengono a gruppi diversi come i batteri lattici, i lieviti, le muffe, le Micrococcaceae, i
propionibatteri ed altri ancora. Tra questi, i batteri lattici trovano largo impiego nella produzione di una
grande varietà di alimenti fermentati, contribuendo in vari modi nel determinare le loro caratteristiche e la
loro stabilità.
Per le colture starter hanno importanza maggiore le attività metaboliche di interesse tecnologico, mentre
per le colture protettive sono molto più importanti le funzioni antimicrobiche. Una buona coltura protettiva
non deve alterare le qualità organolettiche dell’alimento. La maggior parte dei batteri lattici risulta innocua
per la salute umana (GRAS): l’assenza di rischi è il prerequisito fondamentale per l’utilizzo di una coltura
starter o protettiva.
Negli ultimi anni si pone molta più attenzione al binomio alimento-salute, facendo crescere l’interesse per
quei cibi che, oltre al valore nutrizionale, apportano benefici per la salute umana (alimenti funzionali). I
microrganismi vivi che una volta ingeriti apportano benefici alla salute del consumatore sono detti
probiotici (i ceppi più comunemente utilizzati appartengono all’eterogeneo gruppo dei batteri lattici:
Lactobacillus, Bifidobacterium ed Enterococcus).
Il numero e i tipi di microrganismi presenti in un alimento possono essere usati per giudicare la qualità e la
sicurezza microbiologica di quel prodotto. L’assenza di microrganismi patogeni e delle loro tossine
determinano tali qualità e sicurezza. Per accertare sia la qualità microbiologica che la sicurezza di un
alimento si fa ricorso alla ricerca di organismi in grado di indicare una situazione potenzialmente pericolosa.
Tali microrganismi o gruppi di microrganismi sono detti Organismi marker e sono distinti in due gruppi:
organismi index e organismi indicatori. Fanno parte dei microrganismi indicatori i seguenti gruppi di
microrganismi: microrganismi aerobi mesofili, famiglia delle Enterobacteriaceae, coliformi ed Escherichia
coli, streptococchi fecali (enterococchi) e clostridi solfito-riduttori.
I microrganismi che causano modificazioni in un alimento tali da renderlo inaccettabile per il consumo
umano sono detti alterativi. Tutti gli alimenti vanno incontro ad alterazioni di varia natura, che
determinano una perdita delle loro qualità. Le alterazioni di natura biologica possono essere imputate ai
processi di degradazione (idrolisi e ossidazioni) a carico dei lipidi, delle proteine e degli aminoacidi, dei
carboidrati, degli alcoli ecc., catalizzate da enzimi costitutivi dell’alimento (di origine animale o vegetale) o
da enzimi prodotti da microrganismi che contaminano l’alimento. I danni economici, sia per l’industria
alimentare sia per il consumatore, derivanti dall’alterazione microbica degli alimenti sono inestimabili. Per
questo motivo, la produzione di alimenti stabili nei confronti delle alterazioni è stato un obiettivo e
un’esigenza via via crescente nella storia dell’uomo.
L’applicazione dell’HACCP (Hazard Analysis and Critical Control Points) rappresenta un utile strumento per
garantire la sicurezza igienica degli alimenti. L’applicazione di tali principi mira a identificare i pericoli
associati alle singole fasi produttive, valutandone i rischi, le conseguenze e le misure e i mezzi per il loro
controllo. Il regolamento CE 852/2004 sancisce l’implementazione del sistema HACCP; tale regolamento
suggerisce alle aziende di applicare il GMP (good manifacturing procedures) e di predisporre manuali di
corretta prassi igienica.
Risulta di fondamentale importanza conoscere in maniera dettagliata tutto ciò che è oggetto del proprio
lavoro (apparecchiature, operazioni da compiere, organismi e sostanze da manipolare ecc.), dei possibili
pericoli che lo caratterizzano e delle relative norme messe in atto per evitarli o prevenirli.
L’analisi microbiologica degli alimenti, cioè la determinazione del numero e/o della presenza di specifiche
popolazioni microbiche e/o di uno specifico microrganismo e/o di specifici metaboliti microbici trova la sua
maggiore efficacia quando è intesa e utilizzata come strumento di supporto per i sistemi di gestione della
qualità e della sicurezza microbiologica degli alimenti. Il controllo microbiologico degli alimenti dovrebbe
essere orientato a valutare le reali condizioni igieniche di produzione di un alimento al fine di identificare le
fasi del processo in corrispondenza delle quali si verificano i rischi maggiori di contaminazione. A differenza
dell’analisi chimica degli alimenti (in cui le sostanze dannose sono distribuite uniformemente e sono
costanti nel tempo) l’analisi microbiologica di un alimento deve tener conto dell’ecologia microbica dello
stesso. Infatti, la distribuzione dei microrganismi negli alimenti è imprevedibile e nella maggioranza dei casi
essi sono distribuiti in maniera casuale, con stratificazioni microscopiche e spaziali. Queste considerazioni
richiedono una scelta adeguata del piano di campionamento. L’analisi microbiologica degli alimenti mira
fondamentalmente ad accertare che l’alimento rispetti specificati criteri microbiologici. Un criterio
microbiologico stabilisce i limiti della presenza o assenza di specifici microrganismi o loro tossine negli
alimenti. I criteri microbiologici sono strettamente connessi al piano di campionamento. Infatti, quando si
esamina un alimento per la presenza di un microrganismo, i limiti che esso deve rispettare fanno
riferimento ad un campione rappresentativo del lotto produttivo; di conseguenza, i criteri microbiologici da
rispettare dettano anche il piano di campionamento da adottare.
L’accertamento del numero di organismi presenti nelle materie prime, negli intermedi di lavorazione, negli
ambienti di processo e nei prodotti alimentari pronti per il consumo, viene largamente impiegato per il
controllo della qualità microbiologica nelle industrie alimentari. I metodi maggiormente utilizzati sono:
-conteggio standard di cellule vitali su piastra (Standard Plate Counts, SPC);
-metodo del numero più probabile di microrganismi (Most Probable Number, MPN) per la determinazione
statistica delle cellule vitali;
-conteggio diretto microscopico, per cellule vitali e non;
-tecniche che sfruttano la riduzione di coloranti per stimare il numero di microrganismi che possiedono
capacità riduttive.
L’analisi microbiologica fa ricorso all’impiego di substrati nutritivi selettivi e differenziali che favoriscono
elettivamente la crescita dello specifico organismo, facilitando al tempo stesso il suo isolamento dalla
restante popolazione microbica che inevitabilmente contamina l’alimento. La ricerca o analisi qualitativa
dei patogeni negli alimenti, avviene attraverso l’applicazione di una serie di fasi sequenziali:
1)Omogeneizzazione del campione (in genere 25 g in 225 ml di brodo di prearricchimento o di
arricchimento)
2)Resuscitazione o prearricchimento non selettivo
3)Arricchimento selettivo
4) Piastramento o isolamento su substrato selettivo e differenziale
5)Conferma dell’isolato e sua identificazione
Capitolo 2- PRINCIPALI CARATTERISTICHE DEI MICRORGANISMI
ASSOCIATI AGLI ALIMENTI
La microbiologia comprende lo studio della morfologia, della struttura molecolare, delle modalità di
riproduzione, della fisiologia e del metabolismo, dell’ecologia e dell’identificazione dei microrganismi.
I microrganismi sono organismi cellulari di dimensioni infinitamente piccole. Essi comprendono batteri,
funghi, microalghe, actinomiceti, micoplasmi, protozoi e virus (quest’ultimi non sono cellulari). Il mondo dei
microrganismi comprende 2 tipi di cellule, le procariotiche e le eucariotiche.
La cellula è l'unità fondamentale della vita. Esse possono essere considerate allo stesso tempo macchine
chimiche e strumenti codificanti. Quando si trova nelle condizioni ambientali ottimali, una cellula vivente
cresce e si divide per formare due cellule ciascuna delle quali deve essere dotata di tutte le strutture della
cellula progenitrice e contenere tutte le informazioni genetiche necessarie. I microrganismi possono
svolgere ruoli sia benefici sia dannosi nei vari ambienti in cui sono diffusi. Essi possono essere agenti di
malattie che colpiscono sia vegetali sia animali o essere causa di deterioramento degli alimenti; per contro
possono svolgere ruoli positivi come quello di essere coinvolti nella produzione di alimenti e nella loro
stabilizzazione e conservazione.
I procarioti comprendono organismi con struttura cellulare semplice ed un nucleo primitivo non separato
da alcuna vera membrana dal citoplasma.
Gli eucarioti sono caratterizzati da una cellula avente un nucleo delimitato da una membrana che lo separa
dal citoplasma, organelli interni e complessi di membrane.
In ogni modo tutte le cellule microbiche sono dotate di strutture che comprendono la membrana
citoplasmatica, i ribosomi, il genoma e, nella maggior parte dei casi, la parete cellulare.
Comparando le sequenze dell'RNA ribosomale sono stati identificati tre domini evolutivi: Batteri, Archea ed
Eukarya. I Batteri (Eubatteri) e gli Archea appartengono al Regno Monera. Il dominio Bacteria comprende
organismi procarioti generalmente unicellulari. La maggior parte presenta il peptidoglicano nelle pareti
cellulari. Il dominio Archaea comprende procarioti distinti dai Bacteria per diversi aspetti: sequenze
caratteristiche dell'RNA ribosomiale; pareti cellulari senza peptidoglicano; lipidi di membrana caratteristici;
sono più strettamente correlati agli eucarioti di quanto non lo siano con i Batteri. La maggior parte delle
specie popolano ambienti caratterizzati da condizioni di vita estreme.
Il dominio Eukarya comprende il Regno dei Protisti (alghe unicellulari, muffe mucillaginose e protozoi), il
Regno dei Fungi (muffe mucillaginose, lieviti unicellulari), il Regno Animalia e il Regno Plantae.
Infine vi sono i Virus, entità unicellulari che si replicano invadendo una cellula ospite; hanno dimensioni
inferiori rispetto a tutti gli altri microrganismi e sono responsabili di molte patologie riscontrate in
organismi vegetali e animali. La loro natura di organismi viventi è molto discussa: in realtà non possono
essere considerati organismi viventi poiché privi della capacità di mantenere la propria integrità fisica.
L’unità di misura usata per i microrganismi é il micrometro (µm, 10-6 m). Per osservarli, si fa ricorso al
microscopio. Il microscopio ottico utilizza la luce visibile emessa da una sorgente luminosa, e tramite un
sistema di lenti rende visibile l’oggetto. Esistono diverse tipologie di microscopi ottici. Quelli più diffusi
sono: il microscopio in campo chiaro, in campo scuro, a ultravioletto, a fluorescenza e a contrasto di fase.
Il microscopio comprende una parte di sostegno detta stativo e una serie di lenti (obiettivi ed oculari). Gli
obiettivi sono gli elementi ottici del microscopio da cui dipendono le sue principali caratteristiche. Un
obiettivo è costituito da lenti convergenti che raccolgono la luce proveniente dall’oggetto da osservare
focalizzandola sul piano focale dando origine ad una immagine ingrandita dell’oggetto. Gli obiettivi sono
montati su una struttura girevole a revolver in grado di ospitarne più di uno a diverso ingrandimento. Sulle
lenti sono indicati il potere d’ingrandimento, l’apertura numerica (potere di risoluzione dell’obiettivo) e
spessore del vetrino copri-oggetto.
Esistono 2 tipi di obiettivi, a secco (tra le due lenti c’è aria) e a immersione (tra il preparato e la lente
frontale è interposta una goccia di olio di cedro).
L’oculare (lente oculare) ha la funzione di ingrandire l'immagine che si forma nel piano focale dell'obiettivo:
è dunque focalizzata sul piano focale dell’obiettivo. L’ingrandimento totale dell’immagine osservata al
microscopio ottico è il risultato del prodotto tra potere di ingrandimento dell’obiettivo e quello dell’oculare.
La risoluzione del microscopio dipende dalla qualità delle lenti (apertura numerica), dall’indice di rifrazione
dei mezzi interposti fra campione e lente e dalla lunghezza d’onda della luce impiegata.
Il limite di risoluzione di un microscopio indica la minima distanza (d) alla quale due punti possono essere
visti come separati; può essere calcolato con la formula: d= 0,5L / Nsenα dove: L è la lunghezza d’onda
della sorgente di luce utilizzata (espressa in nanometri, nm); N è l’indice di rifrazione del mezzo interposto
fra lente e preparato e α è il semi-angolo della lente dell’obiettivo. Al diminuire di d la risoluzione aumenta.
La cellula batterica è una cellula procariote, in cui è possibile distinguere, partendo dall’esterno verso
l’interno, capsula, parete cellulare, membrana citoplasmatica. Non tutti i batteri producono la capsula.
La parete cellulare ha una composizione chimica diversa a seconda che si tratti di un batterio Gram – o
Gram +. Nel citoplasma sono presenti il materiale nucleare, i plasmidi, i ribosomi e i granuli di riserva. Molti
batteri possono produrre spore e strutture adibite al movimento come i flagelli. Altri batteri sono dotati di
pili che intervengono nei fenomeni di scambio di materiale genetico e di riconoscimento e adesione a siti
specifici di altre cellule.
La PARETE CELLULARE è una struttura rigida che circonda la membrana plasmatica. Conferisce rigidità e
porosità alla cellula, la protegge dai danni meccanici e dalla lisi osmotica e rappresenta il sito di azione di
numerosi antibiotici. Nei batteri Gram + la parete è molto spessa (fino a 40 strati di peptidoglicano, 30-70%
del peso) e con un singolo tipo di molecola; ne Gram – è multistratificata e più complessa.
Il peptidoglicano è costituito dalla sequenza alternata di acido N-acetil muramico (NAM) e N-acetil
glucosammina (NAG). Le unità del disaccaride sono unite da legami β-1,4. Il NAM porta legato al carbonio 3
una molecola di acido lattico. Il gruppo carbossilico del gruppo lattico del NAM si lega ad una catena di
quattro aminoacidi (tetrapeptide): L-alanina; acido D-glutammico, D-alanina e L-Lisina nei batteri Gram-
positivi e acido meso-diamminopimelico nei batteri Gram-negativi. Non tutti i residui di NAM sono legati a
un tetrapeptide e quindi le maglie della strutture risultano più larghe.
Nei Gram + sono intercalati nel peptidoglicano gli acidi teicoici (polimeri di glicerolo o ribitolo legati a
gruppi Fosfato) che rappresentano fino al 10-15% del peso della parete. Gli acidi teicoici contenenti un
acido grasso sono detti acidi lipoteicoici; le loro funzioni sono di contribuire a stabilizzare la struttura della
parete, di facilitare l’assunzione di cationi e di intervenire nei meccanismi di patogenicità.
Nei Gram – la parete risulta più complessa, costituita da una membrana esterna, dal periplasma e da
peptidoglicano. La membrana esterna è costituita da un doppio strato fosfolipidico, mentre il
peptidoglicano (2,5% del peso) si trova tra due strati di spazio periplasmatico (strato gelatinoso contenente
numerosi enzimi idrolitici, rappresenta il 20-40% del volume cellulare). La membrana esterna della parete
cellulare dei batteri Gram-negativi è una complessa ultrastruttura costituita dal lipopolisaccaride (LPS,
costituito da antigene O, nucleo polisaccaridico e Lipide A/endotossina), da fosfolipidi, da lipoproteine e
da proteine. Il passaggio di piccole molecole attraverso la membrana è consentito da proteine dette
PORINE, organizzate in trimeri in modo da formare dei canali.
La parete cellulare degli Archebatteri non presenta peptidoglicano e mancano di D-aminoacidi (tipici nei
batteri). La composizione è variabile tra le specie. La parete più comune è nota come S-layer o strato S. E’
una struttura cristallina a varie simmetrie (esagonale, tetragonale) di proteine o glicoproteine.
La parete cellulare assicura la protezione osmotica della cellula. Le cellule alle quali viene rimossa la parete
cellulare sono dette Protoplasti. Nei batteri Gram-negativi sono in genere chiamati Sferoplasti. I protoplasti
presentano le seguenti caratteristiche:
a) qualunque sia la forma dalla quale provengono presentano sempre forma rotondeggiante;
b) non sono in grado di riprodursi;
c) vanno incontro a lisi quando sono sospesi in soluzioni ipertoniche o ipotoniche.
Una volta rimossa la parete cellulare ad un batterio, se lo sferoplasto è in soluzione ipotonica, l’ingresso di
acqua causa rigonfiamento e lisi osmotica; se lo sferoplasto è in soluzione ipertonica, l’uscita di acqua
determina plasmolisi; se lo sferoplasto è in soluzione isotonica non avviene nulla.
All’interno del CITOPLASMA sono presenti organuli e inclusioni di materiale di riserva. Le inclusioni cellulari
sono accumuli di sostanze che possono funzionare da depositi di materiali di riserva o di energia (sono usati
per la sintesi delle strutture cellulari). Tra i più importanti ricordiamo i granuli di poli-β-idrossibutirrato e i
granuli di glicogeno.
Nei Cianobatteri sono presenti:
-carbossisomi: organi di accumulo delle carbossilasi, sono il sito principale di fissazione della CO 2;
-vacuolo gassoso: conferiscono galleggiabilità alle cellule;
-magnetosomi: organuli sensoriali tipici dei batteri magnetotattici.
Nel citoplasma è presente una regione, il NUCLEOIDE, adibita ad ospitare il cromosoma procariotico. In
E. Coli il cromosoma è lungo 1400 µm ed è ripiegato a formare anse e avvolto su se stesso per adattarsi alle
dimensioni della cellula.
Molti microrganismi presentano DNA circolare nel citoplasma, i cosiddetti plasmidi.
I RIBOSOMI sono strutture comuni a cellule procariotiche ed eucariotiche, su cui avviene la sintesi proteica.
Sono formati essenzialmente da RNA e proteine.
Le ENDOSPORE BATTERICHE sono strutture altamente resistenti a fattori ambientali, prodotte da alcuni
batteri Gram +. Sono dotate di resistenza a numerose condizioni ambientali quali calore, radiazioni,
composti chimici, disidratazione, e garantiscono la sopravvivenza del batterio. Possono avere forma sferica
o ellittica. La spora presenta tali strutture:
-esosporio: residuo dello sporangio di natura fosfolipo-proteica;
-tunica: ricca di proteine, lipidi e peptidoglicano;
-cortex: formato da peptidoglicani;
-parete sporale: simile a quella della cellula vegetativa;
-cellula sporale o core: a scarso contenuto d’acqua, presenta membrana citoplasmatica, citoplasma,
nucleoide e ribosomi.
La resistenza dell’endospora è dovuta alla presenza di Ca (stabilizza il DNA), di proteine acido-solubili
(legano il DNA e lo rendono resistente alla T), alla disidratazione osmotica del core, ai rivestimenti sporali e
alla presenza di enzimi di riparazione del DNA.
La formazione della spora è detta sporogenesi ed è un processo a più stadi, che inizia quando c’è scarsità di
nutrienti per la cellula, e procede con la replicazione del DNA (cromosoma) e successiva formazione del
setto sporale, della prespora e poi dell’esosporio. Vengono poi sintetizzate le altre componenti e infine vi è
la lisi della cellula madre con rilascio della spora. Quando la spora si trasforma in cellula vegetativa si ha la
GERMINAZIONE, suddivisa in 3 fasi (ATTIVAZIONE, GERMINAZIONE ed ESOCRESCITA), che coincide con
l’attivazione dei processi metabolici, diminuzione della resistenza e sintesi di macromolecole.
Le MUFFE sono funghi multicellulari con struttura vegetativa detta micelio, le cui cellule possono
organizzarsi in filamenti detti ife; le ife possono essere non settate, settate uninucleate o settate
multinucleate. L’ifa può essere vegetativa o riproduttiva; in quest’ultimo caso è responsabile della
produzione di esospore libere o sporangi, che rilasciano le spore che andranno a formare nuove ife (e
nuovo micelio) con la germinazione.
Le muffe sono molto diffuse nell’ambiente e sono molto importanti dal punto di vista alimentare, sia
perché rappresentano causa di alterazione per gli alimenti, sia perché possono essere usate nella
produzione di particolari cibi quali i formaggi. Altre ancora possono essere patogeni per l’uomo (producono
micotossine).
I LIEVITI sono funghi unicellulari che si riproducono prevalentemente per gemmazione (produzione di una
protuberanza detta gemma che quando è matura si separa dalla cellula madre), ma a volte anche per
scissione, o sessualmente mediante formazione e fusione di spore. Sono aerobi o microaerofili. In
condizioni anaerobiche la loro crescita è inibita e il loro metabolismo è di tipo fermentativo. La maggior
parte dei lieviti è mesofila. L’habitat ottimale per i lieviti sono le superfici dei vegetali. Come le muffe,
hanno grande importanza dal punto di vista alimentare, sia in quanto causa di alterazioni, sia in quanto
strumenti di produzione di alcuni cibi. I lieviti di interesse alimentare sono tutti ascomiceti.
Mentre i batteri si moltiplicano per scissione binaria, i lieviti hanno una crescita che può essere più o meno
esponenziale. I batteri e i lieviti del genere Shizoaccharomyces si moltiplicano secondo una cinetica
paragonabile a quella che si realizza nei sistemi di coltura chiusi discontinui. Una coltura microbica
(microrganismo + terreno nutritivo + recipiente) rappresenta un sistema chiuso in cui i componenti
essenziali non possono ne entrare ne uscire. Dunque, dopo un certo periodo di tempo, i nutrienti si
esauriscono e allo stesso tempo si accumulano metaboliti secondari che possono inibire lo sviluppo
microbico. Questa combinazione di eventi porta prima ad una riduzione e poi all’azzeramento della velocità
di crescita della biomassa.
Se volessimo descrivere la cinetica dello sviluppo microbico in relazione al tasso di crescita (m), avremo:
Nt = N0 emt
m = ln Nt – ln Nt/t
m = 2,3 (log Nt – logN0 )/t
FATTORI ECOLOGICI
INTRINSECI= aw – pH - Potenziale redox - Nutrienti e Strutture biologiche Antimicrobici
ESTRINSECI= Temperatura – Umidità - Composizione gassosa dell’atmosfera
IMPLICITI= Sinergismo - Antagonismo - Tasso di crescita
PROCESSO= Modificazioni della composizione della microflora come conseguenza dei trattamenti
tecnologici applicati: calore, sostanze chimiche, ecc.
La manipolazione di questi fattori permette un controllo dei microrganismi negli alimenti; la maggior parte
delle procedure di conservazione si basano su questi fattori, e hanno come obiettivo principale quello di
ritardare o inibire la crescita dei microrganismi.
L’approccio moderno della conservazione degli alimenti è detto “multiple hurdle technology”, ovvero
tecnologia delle barriere multiple, e si basa sull’applicazione di diverse tecnologie ad intensità minore
rispetto all’applicazione si un singolo metodo di ostacolo allo sviluppo microbico, il che determina un
minore impatto sulle caratteristiche organolettiche e nutrizionali degli alimenti. La preservazione della
qualità e sicurezza microbiologica di un alimento implica, dunque, la creazione di un ambiente ostile ai
microrganismi indesiderati ma allo stesso tempo in grado di supportare la crescita e le attività metaboliche
di quelli utili. Naturalmente il successo di questi sistemi di produzione e conservazione è strettamente
associato ai continui sviluppi delle conoscenze che emergono dalla ricerca applicata ad ogni specifico
sistema alimentare.
Quando una cellula si trova in un ambiente i cui valori di pH sono lontani dagli optimum di crescita, la
membrana viene danneggiata e gli ioni H + e OH- possono penetrare nella cellula, causando:
-denaturazione delle proteine e degli acidi nucleici;
-morte cellulare.
Come detto precedentemente, i valori di pH minimi e massimi per la crescita dei microrganismi dipendono
dal tipo di acido presente e dal suo grado di dissociazione: gli acidi forti si dissociano completamente, quelli
deboli restano in equilibrio con la forma dissociata e indissociata. A pH acido l’equilibrio si sposta verso la
forma indissociata che essendo solubile entra all’interno della cellula, viene dissociata (a causa del pH
neutro della cellula) abbassando il pH cellulare e determinando la denaturazione delle proteine e degli acidi
nucleici, con conseguente morte cellulare.
-attività dell’acqua
Per crescere e svolgere le proprie attività metaboliche, i microrganismi hanno bisogno di acqua. In un
alimento la quantità totale di acqua (umidità) è presente sia in forma libera (utilizzabile dai microrganismi)
che legata a componenti dell’alimento stesso. L’acqua legata è indisponibile per i microrganismi, perché
può contenere soluti disciolti come sali o zuccheri, può essere cristallizzata sotto forma di ghiaccio, può
essere assorbita dalle superfici o essere presente come acqua di idratazione. Dunque solo l’acqua libera
consente la crescita microbica, per cui bisogna conoscerne il valore. L’attività dell’acqua (aw) è, appunto, la
misura della quantità di acqua libera, presente in un ambiente, per lo svolgimento delle funzioni biologiche
dei microrganismi. Essa è definita dal rapporto tra la pressione di vapore dell’acqua nell’alimento e la
pressione di vapore dell’acqua pura.
aw = p/p0
La pressione di vapore, misurata in mmHg, dipende strettamente dalla temperatura. L’attività dell’acqua
può assumere solo valori compresi tra 0 e 1, ma mai uguali ai due estremi. L’umidità relativa all’equilibrio
(ERH), ovvero il contenuto di acqua nell’atmosfera sopra un alimento, è correlata all’attività dell’acqua
tramite l’equazione ERH = aw x (100)
Al di sotto dei valori minimi di aw, il comportamento dei microrganismi dipende molto da come l’acqua
viene rimossa. Quando è rimossa rapidamente (liofilizzazione) dalla cellula microbica, quest’ultima può
sopravvivere per lunghi periodi. Quando viene rimossa con l’aggiunta di sale o zucchero, le cellule
microbiche sono soggette a fenomeni osmotici che ne causano una morte più rapida, per plasmolisi.
I batteri possono adattarsi a variazioni di aw nel range dei valori che ne consentono lo sviluppo mediante
accumulo di soluti fisiologicamente compatibili (non tossici) che ristabiliscono le condizioni osmotiche
ottimali. Tali soluti possono essere sintetizzati dalla cellula (batteri gram-positivi, lieviti e muffe) oppure
sono presi dall’ambiente di crescita (tutti i microrganismi). In particolare i batteri possono accumulare ioni
K+ e amminoacidi, mentre lieviti e muffe accumulano K+ e, a seconda della specie, trealosio, saccarosio,
glucosio e glicerolo.
-potenziale di ossido-riduzione e O2
I microrganismi, in base alla loro crescita in presenza o in assenza di ossigeno libero, sono classificati in:
-AEROBI: richiedono ossigeno per produrre l’energia necessaria per la loro crescita. L’ossigeno funge da
accettore finale di elettroni durante la respirazione aerobica che coinvolge la glicolisi, il ciclo di Krebs e il
sistema di trasporto degli elettroni (es. Pseudomonas, Bacillus, molti funghi e alcuni lieviti);
-MICROAEROFILI: richiedono ossigeno per produrre l’energia necessaria per la loro crescita, ma in
concentrazione minore di quello presente nell’aria (20%) (es. Campylobacter);
-ANAEROBI FACOLTATIVI: possono crescere sia in presenza che in assenza di ossigeno. In presenza di
sufficienti quantità di ossigeno generano energia come gli aerobi. In assenza di ossigeno utilizzano composti
organici come accettori finali di elettroni (es. lieviti, Enterobacteriaceae, Staphylococcus);
-ANAEROBI OBBLIGATI: crescono solo se non è presente ossigeno libero che risulta tossico per la cellula.
Traggono energia dai processi di fermentazione (es. Clostridium botulinum);
-OSSIGENO-TOLLERANTI: possono crescere sia in presenza che in assenza di ossigeno producendo la stessa
quantità di energia e di prodotti metabolici in entrambe le condizioni. Sono quindi indipendenti
dall’ossigeno (batteri lattici).
Quando l’ossigeno viene assorbito dalle cellule, viene ridotto, producendo sostanze tossiche per le cellule
stesse, in particolare il radicale superossido e il perossido di idrogeno, i quali possono ossidare le
componenti vitali delle cellule provocandone la morte.
Molti microrganismi possiedono particolari enzimi in grado di proteggerli dall’azione tossica dell’ossigeno. I
batteri aerobi, gli anaerobi facoltativi e i batteri lattici hanno l’enzima SUPEROSSIDO DISMUTASI che
catalizza la conversione del superossido in perossido di idrogeno e di ossigeno. Il perossido di idrogeno è
rimosso dall’azione di un altro enzima: la CATALASI, che è presente nei batteri aerobi, negli anaerobi
facoltativi e nei microaerofili. I batteri lattici non possiedono la catalasi e scindono il perossido di idrogeno
per mezzo dell’enzima PEROSSIDASI. I batteri anaerobi obbligati non hanno gli enzimi catalasi e superossido
dismutasi, per cui in presenza di ossigeno muoiono.
-contenuto di nutrienti
I microrganismi per crescere negli alimenti hanno bisogno di una sorgente d’energia per le loro attività
cellulari e di una sorgente di composti chimici per la biosintesi dei componenti cellulari. La maggior parte
dei microrganismi di interesse alimentare sono CHEMIOETEROTROFI, cioè utilizzano composti organici
come sorgente di energia e di carbonio per la biosintesi dei componenti cellulari. In genere gli alimenti
hanno caratteristiche chimiche tali da soddisfare le esigenze nutritive di un gran numero e specie di
microrganismi, per cui la crescita dei microrganismi che contaminano un alimento raramente è limitata dal
loro contenuto in nutrienti. In generale i batteri Gram-positivi sono, dal punto di vista nutrizionale, più
esigenti dei batteri Gram-negativi, ed entrambi i gruppi sono più esigenti dei lieviti e delle muffe.
In base alla temperatura massima, minima e ottimale di crescita distinguiamo 5 classi di microrganismi:
-PSICROFILI: crescono a basse temperature (0-25°C, temperatura ottimale: 20-25°C). La crescita dei
microrganismi anche a basse temperature trova spiegazione nel fatto che i lipidi di membrana contengono
un’alta percentuale di acidi grassi insaturi i quali, abbassando il punto di solidificazione, consentono alla
membrana citoplasmatica di svolgere le proprie funzioni di assorbimento e trasporto dei nutrienti anche a
bassa temperatura.
-MESOFILI: crescono a temperature intermedie (20-45°C, temperatura ottimale 30-37°C). Sono molto
comuni nell’ambiente e si sono adattati a vivere sull’uomo e sugli animali a sangue caldo. Molti dei batteri
patogeni trasmessi con gli alimenti sono mesofili
-TERMOFILI: crescono ad alte temperature (47-70°C, temperatura ottimale: 50-55°C). La crescita ad alte
temperature sembra essere dovuta al fatto che i microrganismi termofili hanno membrane cellulari ricche
di acidi grassi saturi e, inoltre, enzimi, proteine e ribosomi sono stabili al calore.
Le temperature minime e massime di crescita di un microrganismo dipendono strettamente dai valori degli
altri fattori ecologici e sono valide quando questi ultimi sono ai loro valori ottimali.
La conservazione degli alimenti tramite processi basati sul controllo della temperatura è uno dei metodi più
usati nelle industrie alimentari.
Refrigerazione: è la conservazione degli alimenti a temperature comprese tra -1- 0°C fino a 5-10°C.
Permette un allungamento della shelf-life rispetto alla temperatura ambiente, in quanto alle temperature
di refrigerazione vi è un allungamento della fase LAG, una diminuzione del tasso di crescite dei batteri
psicrofili e allo stesso tempo l’inibizione della crescita dei batteri mesofili. I tempi di conservazione
dipendono da una serie di fattori, tra i quali sono determinanti il livello iniziale di contaminazione,
soprattutto di psicrofili, la natura dell’alimento e l’impiego combinato con altre tecnologie di conservazione.
Il tempo di conservazione ottimale si ottiene a temperature quanto più vicine a quelle di congelamento.
Congelamento: con il congelamento, generalmente si abbassa la temperatura dell’alimento a valori di -
18°C, al di sotto della quale nessun microrganismo è in grado di moltiplicarsi. Il congelamento determina un
abbassamento dell’attività dell’acqua (a -18°C aw=0,841) e una concentrazione dei solidi disciolti, che
influenzano l’attività dei microrganismi. Una parte della popolazione microbica subisce danni irreversibili
dovuti alla formazione di cristalli di ghiaccio che determinano la rottura della parete cellulare e lisi della
cellula. Molti microrganismi possono resistere a tale trattamento, per esempio i batteri Gram-negativi sono
più sensibili dei Gram-positivi, mentre le spore sono altamente resistenti. Sulla distruzione microbica da
congelamento gioca un ruolo fondamentale la velocità di congelamento stessa: maggiore è la velocità,
minore è la letalità, in quanto i cristalli di ghiaccio che si formano sono di dimensioni più piccole e
provocano dunque meno danni cellulari. Inoltre, un congelamento rapido causa meno danni dal punto di
vista strutturale all’alimento. Anche la fase di scongelamento è importante per la letalità del trattamento:
uno scongelamento lento a seguito di un congelamento veloce determina un aumento di volume dei
cristalli di ghiaccio e, quindi, una maggiore letalità, mentre uno scongelamento rapido a seguito di un
rapido congelamento causa meno danni alle cellule microbiche.
Alte temperature: il trattamento degli alimenti a temperature superiori a quelle massime per la crescita dei
microrganismi determinano una loro più o meno rapida morte. A seconda della temperatura e della durata
del trattamento e dunque della sua efficacia, possiamo distinguere diversi trattamenti termici, ad esempio:
-blanching: 100° C circa, ha lo scopo di inattivare gli enzimi e ridurre il numero di microrganismi
contaminanti;
-termizzazione: 60-65° C per pochi secondi, non assicura la distruzione totale dei microrganismi ma riduce
notevolmente la popolazione microbica;
-pastorizzazione: tra 60° e 80° C e con un tempo variabile in base alla T, ha lo scopo di risanare
igienicamente un alimento. Mira all’eliminazione di tutte le forme vegetative dei patogeni non sporigeni. Le
coppie tempo/temperatura sono stabilite sulla base della eliminazione delle forme vegetative dei patogeni
più termoresistenti, quali Mycobacterium tubercolosis, Salmonella spp., Brucella e Coxiella burnetti. Gli
obiettivi sono quelli di inattivare enzimi, quali esterasi e poligalatturonasi e di uccidere lieviti e muffe
alterative.
-sterilizzazione: temperature superiori ai 100° C, ha l’obiettivo di eliminare sia le forme vegetative che le
spore di patogeni e alterativi. Per rendere sicuri questi tipi di alimenti, i trattamenti termici minimi devono
comportare 12 riduzioni decimali (12D) delle spore del patogeno; questo implica trattamenti a 121°C per
almeno 2,5 min.
Per poter utilizzare una coppia tempo/temperatura efficace bisogna conoscere l’effetto della temperature
sui microrganismi.
Il tempo di riduzione decimale D è il tempo necessario, ad una data temperatura, a ridurre la popolazione
microbica del 90% o di un logaritmo, o, che è la stessa cosa, a ridurre ad 1 decimo la popolazione iniziale.
D=t/logN0-logNt
dove N0 è il numero di microrganismi presenti prima del trattamento, N t è il numero di microrganismi
presenti dopo un tempo t di trattamento termico. I valori di D (e quindi la resistenza termica) dei
microrganismi variano considerevolmente e sono influenzati da una serie di fattori quali: la resistenza
intrinseca, le condizioni ambientali durante la crescita della cellula o spora (età, temperatura, pH, aw,
terreno di crescita, ecc.) e durante il trattamento termico (composizione del mezzo, pH, aW, temperatura).
Le spore dei batteri termofili sono le più resistenti, con valori di D a 121° C che possono arrivare anche a 5-6
minuti. Le cellule vegetative, comprese quelle dei batteri sporigeni, dei lieviti e delle muffe sono meno
termoresistenti e presentano valori di D65,5 compresi tra 0,02 e 3 minuti. In genere trattamenti a 80°C per
10 minuti sono sufficienti ad uccidere tutte le forme vegetative. In generale si può dire che le cellule in fase
stazionaria di crescita sono più termoresistenti di quelle che si trovano in fase esponenziale, inoltre, a pH
prossimi a quelli ottimali di crescita i microrganismi sono più termoresistenti che a pH non ottimali. La
termoresistenza è influenzata anche dalla composizione chimica dell’alimento, per cui maggiore è il
contenuto in grasso e/o proteine, maggiore risulta la termoresistenza.
Un altro importante parametro per esprimere la cinetica della morte microbica è rappresentato dalla
costante di resistenza termica z, che esprime la relazione tra la temperatura del trattamento e il tasso di
morte e descrive la resistenza termica delle spore batteriche. Il valore di z è definito come l’incremento di
temperatura necessario per ridurre del 90% o di un ciclo logaritmico il valore di D.
z = T2 - T1/logDT1 - logDT2
dove T1 e T2 sono le temperature più bassa e più alta dei trattamenti termici applicati, DT 1 e DT2 i rispettivi
valori di D.
Il tempo di morte termica F indica il tempo necessario per ridurre ad un valore stabilito una popolazione di
microrganismi o di spore. In genere è espresso come multiplo di D.
La capacità dei microrganismi di moltiplicarsi in un alimento è determinata dall’azione combinata dei fattori
ecologici, che agiscono contemporaneamente nel determinare il destino dei microrganismi. Pertanto i
valori minimi, massimi e ottimali di ogni fattore ecologico che abbiamo preso trattato nelle pagine
precedenti, non devono essere considerati in termini assoluti in quanto essi sono fortemente dipendenti
dai valori degli altri fattori di crescita. In ultima analisi, l’azione reciproca tra i vari fattori determinerà quale
microrganismo o popolazione microbica crescerà e dominerà quello specifico alimento.
Dare una definizione inequivocabile dei batteri lattici risulta abbastanza difficile. Una definizione generale,
che pure con alcune limitazioni è largamente accettata è la seguente: batteri gram-positivi con morfologia
bastoncellare, coccica o cocco-bacillare, catalasi negativi, non sporigeni, privi di citocromi, anaerobi
aerotolleranti, esigenti nutrizionalmente, acido-tolleranti e con metabolismo strettamente fermentativo.
Ecco alcune proprietà che vanno espletate:
-non posseggono citocromi e una catena di trasporto degli elettroni, in quanto traggono energia solo dalla
fosforilazione a livello del substrato nel corso della fermentazione degli zuccheri;
-sono incapaci di sintetizzare gruppi porfirinici (gruppi eme) e sono, dunque, sprovvisti di una vera catalasi.
Una pseudocatalasi, non eme-dipendente, può essere prodotta da alcune specie di lattobacilli e
pediococchi. In presenza di ematina o emoglobina producono una vera catalasi;
-crescono anaerobicamente, anche se tollerano la presenza di ossigeno;
-non producono spore (tranne Sporolactobacillus, che produce endospore);
-hanno esigenze nutrizionali complesse (aminoacidi, purine, primidine e vitamine);
-sono distinti in due gruppi in base ai prodotti di fermentazione, omofermentanti (producono acido lattico)
ed eterofermentanti (producono acido lattico, etanolo/acido acetico e CO 2).
Per una corretta collocazione tassonomica dei batteri lattici, attualmente uno degli strumenti diagnostici più
affidabile è rappresentato dallo studio delle caratteristiche molecolari degli acidi nucleici, come il contenuto
in percentuale di guanina e citosina del DNA (G+C mol%), l’ibridazione DNA-DNA, nonché lo studio della
struttura e della sequenza del DNA ribosomiale. Attraverso l’analisi comparativa della sequenza del gene
16S rDNA è stato possibile dividere i diversi gruppi batterici in 16 “phyla”: i batteri Gram positivi si dividono
in due grandi phylum in base al contenuto in %mol G+C genomico: phylum Firmicutes che comprende i
batteri che hanno un contenuto molare in G+C del loro DNA inferiore al 55% e phylum Actinomycetes che
include batteri con un %mol G + C superiore al 55%. I batteri lattici appartengono al phylum Firmicutes,
Classe I (Bacilli), Ordine II (Lactobacillales). L’ordine Lactobacillales comprende sei famiglie: Aerococcaceae,
Carnobacteriaceae, Enterococcaceae, Lactobacillaceae, Leuconostocaceae e Streptococcaceae.
I batteri lattici ottengono l’energia necessaria tramite la fosforilazione al livello del substrato nel corso della
fermentazione degli zuccheri. Gli esosi (glucosio, mannosio, fruttosio) ) sono fermentati secondo due vie
principali, la via glicolitica di Embden-Meyerhof (EM) e la via del 6-fosfogluconato-fosfochetolasi. Gli
zuccheri possono essere trasportati all’interno della cellula microbica in due modi: o come zuccheri liberi,
che vengono poi attivati con la fosforilazione mediata da una fosfotrasferasi ATP-dipendente; o come
derivati fosforilati, mediante l’intervento di una fosfotrasferasi dipendente dal fosfoenolpiruvato
(accumulato endogenamente), che forma il sistema di trasporto fosfoenolpiruvato-fosfotrasferasi (PEP-PT).
Ad eccezione delle specie del genere Leuconostoc, Oenococcus, Weissella e del gruppo III degli
eterofermentanti obbligati di Lactobacillus, tutti i batteri lattici fermentano il glucosio secondo la via di EM.
Fermentazione eterolattica: il glucosio dopo fosforilazione è ossidato a 6-fosfogluconato che a sua volta è
decarbossilato a ribulosio 5-fosfato. Quest’ultimo, dopo trasformazione in xilulosio 5-fosfato, è scisso in
gliceraldeide 3-fosfato e acetil fosfato, per mezzo dell’enzima fosfochetolasi. La gliceraldeide 3-fosfato è
metabolizzata ad acido lattico secondo la via glicolitica, mentre l’acetil fosfato è ridotto ad acetaldeide e
quindi ad etanolo. Da una molecola di esoso sono prodotti una molecola di acido lattico, una di CO2, una di
etanolo (o acido acetico) e una di ATP.
Altri zuccheri esosi, come mannosio e fruttosio, seguono la via omolattica. Il galattosio, invece, quando è
trasportato all’interno della cellula per mezzo di una permeasi specifica come zucchero libero, è fermentato
secondo la via di Leloir, mentre quando è trasportato come Galattosio 6P mediante PTS (fosfotrasferasi) è
fermentato secondo la via del D-Tagatosio-6P.
Tra i disaccaridi, il metabolismo fermentativo che meglio conosciamo è quello del lattosio. Esso viene
trasportato nella cellula batterica come zucchero libero tramite permeasi. Nel citoplasma è idrolizzato
dall’enzima ß-galattosidasi in glucosio e galattosio. Il glucosio è metabolizzato secondo la via EM, mentre il
galattosio è fermentato secondo la via di Leloir. r. Il lattosio può essere inoltre trasportato e fosforilato per
mezzo di un sistema specifico PEP-PT. In tal caso lo zucchero è fosforilato a lattosio 6P che, all’interno della
cellula, per mezzo di una P-ß-galattosidasi, è scisso in galattosio 6P e glucosio che sono fermentati,
rispettivamente, attraverso la via del D-tagatosio-6P e la via EM.
I pentosi come D-ribosio, D-arabinosio e D-xilosio sono fosforilati, dopo trasporto all’interno della cellula
da parte di permeasi specifiche e quindi convertiti, mediante epimerasi o isomerasi, a ribulosio 5P o a
xylulosio 5P. Questi zuccheri sono quindi fermentati secondo la via del tagatosio 6P. Nella fermentazione
dei pentosi non viene prodotta CO2 e l’acetil fosfato derivante dalla trasformazione dello xilulosio 5-
fosfato per mezzo dell’enzima fosfochetolasi, viene trasformato da una acetatochinasi, in acido acetico e
ATP.
Durante le fermentazioni appena discusse, le diverse specie di batteri lattici, in funzione della
stereospecificità della lattico-deidrogenasi (LDH)-NAD+ dipendente presente nelle cellule, possono
produrre esclusivamente L(+)- lattato o D(-)-lattato o entrambe le forme in eguale quantità (miscela
racemica) o con predominanza di una delle due forme. L’isomero L(+)-lattato è prodotto dai generi
Aerococcus, Carnobacterium, Enterococcus, Lactococcus, Tetragenococcus, Streptococcus e Vagococcus. I
generi Leuconostoc e Oenococcus producono D(-)-lattato. I generi Lactobacillus, Pediococcus e Weissella
possono produrre L(+)- lattato, D(-)-lattato e l’isomero DL in funzione della specie.
Il piruvato può essere usato in maniera alternativa per produrre altre componenti quali acetato, formiato,
etanolo, diacetile, acetaldeide, acetoino o 2,3-butanediolo. o. Una via metabolica alternativa del piruvato,
di grande interesse tecnologico, è quella che porta alla formazione di diacetile ed acetoino/2,3-
butanediolo.
I batteri lattici possono usare una serie di composti proteici per soddisfare le proprie esigenze in
amminoacidi. Tali esigenze sono ceppo-dipendenti e variano da 4 a 14 diversi amminoacidi. Nel late, per
esempio, sono soddisfatte tutte le esigenze in quanto le caseine contengono tutti gli amminoacidi necessari
alla crescita dei batteri lattici. E’ possibile individuare i seguenti componenti del sistema proteolitico (che
scinde le componenti proteiche) dei batteri lattici:
-proteinasi: localizzate a livello della parete cellulare, scindono le proteine in peptidi che vengono
trasportati all’interno della cellula da un sistema di trasporto degli oligopeptidi. Il tipo P I degrada la β-
caseina (C terminale, prolina) e meno specificamente la k-caseina, mentre il tipo P III degrada la β -caseina (N
terminale), αs1- e k-caseina. I vari tipi di proteasi dipendono dal ceppo batterico;
-peptidasi: sia extra- che intra-cellulari, idrolizzano i peptidi in amminoacidi;
-carriers: sistemi enzimatici di membrana che trasportano peptidi e amminoacidi all’interno della cellula.
Le specie di Lactobacillus sono suddivise in 3 gruppi in base alla presenza o assenza degli enzimi deputati
alla fermentazione (fruttosio-1,6- difosfato aldolasi e la fosfochetolasi):
GRUPPO I: lattobacilli omofermentati, che fermentato gli esosi esclusivamente ad acido lattico (tramite la
via di Embden-Meyerhof) e che sono incapaci di fermentare pentosi e gluconato. Il gruppo contiene le
specie più acidificanti e le più termofile, di forma generalmente allungata, con cellule isolate o disposte in
catene lunghe o a spirale.
GRUPPO II: lattobacilli eterofermentanti facoltativi, che fermentano gli esosi tramite la via di Embden-
Meyerhof o glicolisi e producono esclusivamente acido lattico; in presenza limitata di glucosio, producono
lattato, acetato, etanolo o acido formico. Sono in grado di fermentare i pentosi a lattato ed acetato tramite
fosfochetolasi. Sono mesofili, formati generalmente da cellule corte, tozze o curvate, disposte spesso in
catene molto lunghe. Hanno come habitat preferenziale vegetali o carni fermentate.
GRUPPO III: lattobacilli eterofermentanti obbligati, che fermentano gli esosi a lattato, acetato (o etanolo) e
CO2 attraverso la via del fosfogluconato; fermentano i pentosi a lattato ed acetato tramite fosfochetolasi.
Hanno scarso potere acidificante e producono composti aromatici volatili. Sono formati da cellule molto
corte, dritte e generalmente isolate. Preferiscono habitat in cui sono presenti altri microrganismi,
preferenzialmente alimenti fermentati e tratti digerenti.
L’eterogeneità filogenetica del genere Lactobacillus è dimostrata da altre importanti caratteristiche come la
diversità della composizione del peptidoglicano, dei vari corredi enzimatici e delle vie metaboliche. Inoltre,
anche il contenuto in mol% di G + C varia molto da una specie all’altra. Il sequenziamento dei geni 16S e 23S
del’rDNA costituisce il metodo più valido per rivelare le relazioni naturali esistenti tra le varie specie
microbiche. Collins et al. (1991) e Schleifer e Ludwig (1995) hanno proposto la seguente suddivisione delle
specie appartenenti al genere Lactobacillus in base al sequenziamento del 16S rDNA:
1) gruppo Lactobacillus delbrueckii, in cui la percentuale di omologia del 16S rRNA varia dal 90,8% al
99,3%, comprende la specie Lb. delbrueckii (con le tre sottospecie) e le specie del gruppo Lb. acidophilus;
2) gruppo Lactobacillus casei-Pediococcus, il più grande e il più eterogeneo e in cui la percentuale di
omologia del 16S rRNA varia dal 90,3% al 99%. Esso comprende 37 specie di Lactobacillus e 5 specie di
Pediococcus;
3) gruppo Leuconostoc, comprendente specie assegnate al genere Weissella, Oenococcus oeni e
Lactobacilli sensu stricto eterofermentanti obbligati.
Molti degli alimenti che noi consumiamo sono prodotti mediante l’intervento dei lattobacilli, utilizzati da
soli o in combinazione con altri batteri lattici. I lattobacilli trovano impiego nella produzione di formaggi e
latte fermentati, di insaccati carnei fermentati, di prodotti lievitati da forno e di vegetali fermentati. Inoltre,
ceppi di lattobacilli, opportunamente selezionati per la loro capacità di apportare benefici alla salute
umana, trovano impiego nella produzione di alimenti fermentati probiotici, ai quali sono aggiunti per
contribuire a specifiche proprietà funzionali degli stessi.
Alcune specie possono essere responsabili di gravi alterazioni degli alimenti, soprattutto in condizioni di
ridotta concentrazione di ossigeno. Ad esempio, Lb. buchneri, Lb. casei e Lb. plantarum, grazie alla loro
capacità di moltiplicarsi a pH 3,5 e alla temperatura di 10°C, possono crescere in succhi di frutta, con
conseguenti alterazioni dovute alla produzione di gas e intorbidamento. In alcuni formaggi, ceppi di Lb.
brevis, di Lb. casei e di Lb. bifermentans, possono produrre quantità eccessive di anidride carbonica dalla
fermentazione del citrato, con conseguenti gonfiori indesiderati che alterano la struttura del prodotto. In
bevande fermentate come vino e birra, grazie alla capacità dei lattobacilli di metabolizzare gli acidi organici
(acido malico, citrico e tartarico) possono produrre eccessi di sostanze aromatiche (diacetile da citrato) che
impartiscono sapori e odori anomali; inoltre, grazie alla loro capacità di tollerare i bassi valori di pH di questi
ambienti, determinano la comparsa di torbidità indesiderata.
-I BATTERI ACETICI
Batteri con cellule ellittiche o corti bastoncini (a volte forme involutive sferiche, filamentose, allungate,
gonfie o curve), Gram – (o Gram variabili), ossidasi negativi, non sporigeni e mesofili (T ottimale di 25-30°
C), aerobi con metabolismo respiratorio. Di interesse alimentare sono i generi Acetobacter e Gluconobacter
che ossidano l’etanolo ad acido acetico (ossidazione incompleta dell’etanolo) o a CO2 e H2O (ossidazione
completa dell’etanolo). Sono acidofili (potendo crescere fino a pH 4) e psicrotrofi.
Le specie del genere Acetobacter sono mobili per flagelli peritrichi; quelle del genere Gluconobacter sono
mobili per ciglia polari o immobili. Vivono come saprofiti nel terreno, sulla frutta, nel miele e nell’aceto.
Sono gli agenti naturali della produzione dell’aceto; possono, inoltre, determinare alterazioni del vino, della
frutta e dei succhi di frutta.
-I BATTERI PROPRIONICI
Appartenenti alla specie Propionobacter, sono bastoncini irregolari, Gram +, catalasi positivi, non sporigeni,
mesofili (T ottimale di 25-40° C), anaerobi e immobili. Sono saprofiti di uomini, animali (pelle) e prodotti
lattiero-caseari. Producono acido propionico (più acetato e CO2) dalla fermentazione degli zuccheri e del
lattato. Alcune specie sono impiegate come colture starter nella produzione di alcuni formaggi con classiche
occhiature.
-genere Micrococcus
Classificato nella famiglia delle Micrococcaceae e comprende batteri di forma coccica, per lo più aggregate,
Gram +, catalasi positivi e aerobi. Utilizzano i carboidrati per via ossidativa e sono largamente distribuiti
nell’ambiente, essendo stati isolati dal terreno, dalle acque, da prodotti lattiero-caseari e dalla pelle di
umani e animali. In genere sono saprofiti e solo in alcuni casi possono comportarsi da patogeni
opportunisti. La maggior parte delle specie è mesofila e in grado di moltiplicarsi in ambienti con bassa
attività dell’acqua. Grazie alla loro attività proteolitica e lipolitica partecipano alla stagionatura di alcuni
formaggi. Alcune specie sono usate per la produzione di insaccati carnei.
-genere Staphylococcus
Classificato nella Famiglia delle Staphylococcaceae, ed annovera batteri di forma coccica in forma
aggregata, Gram +, catalasi positivi e ossidasi negativi e anaerobi facoltativi. Sono presenti nell’ambiente,
nelle vie nasali, sulle mani, nella gola, nelle feci, sui capelli, sulle ferite infette e su abrasioni della pelle.
Crescono a T comprese tra 7° C e 48° C (T ottimale di 37° C), a pH 4-10 e ad aW 0,83-0,89. Il genere
annovera oltre 50 specie, che sulla base della produzione dell’enzima coagulasi si distinguono coagulasi
positive e coagulasi negative. Tra i coagulasi positivi ci sono specie patogene e specie potenzialmente tali.
In particolare S. aureus subsp. aureus è un importante patogeno trasmesso con gli alimenti che produce
enterotossine termostabili. Le specie coagulasi negative sono considerate saprofite e solo raramente
possono essere patogene. La specie maggiormente ritrovata naturalmente nei salami e utilizzata come
coltura starter è S. xylosus. Ha cellule sferiche, singole, in paia, talvolta in tetradi. Ha esigenze nutritive
semplici, tanto che l’azoto organico non è richiesto essendo sufficiente il solo solfato ammonico. Produce
acidi da un numero elevato di carboidrati (glucosio, fruttosio, mannosio, xilosio, mannitolo e saccarosio). E’
anaerobio facoltativo, ma lo sviluppo è molto più agevole in condizioni aerobiche. Tutti i ceppi hanno un
optimum di temperatura fra 25°C e 35°C e prediligono pH neutri. S. xylosus non produce alcun tipo di
tossina, non è patogeno e non ha attività emolitica. E’ moderatamente alofilo e sviluppa bene a
concentrazioni saline del 10%. Inoltre riduce i nitrati a nitriti.
-MICRORGANISMI PROBIOTICI
Con il rafforzamento del binomio alimento/salute, è cresciuto sempre più l’interesse verso quegli alimenti,
detti alimenti funzionali, che, oltre agli effetti nutrizionali, esercitano effetti benefici su una o più funzioni
del corpo, migliorando lo stato di salute del consumatore.
Con il termine probiotici (dal greco “pro” e “bios”, ovvero a favore della vita) s’intendono “microrganismi
vivi che, ingeriti in un certo numero, esercitano effetti benefici sulla salute in aggiunta a quelli innati della
nutrizione generale”. E’ necessario che i microrganismi probiotici, quando assunti, siano vivi e vitali, non
inattivati e presenti in alto numero. Inoltre, è necessario che i benefici sulla salute siano dimostrati
scientificamente da studi clinici sull’uomo.
Il concetto di probiotica si è sviluppato di pari passo con gli studi di microbiologia intestinale; la complessa
popolazione microbica del tratto gastro-intestinale può essere considerata come un: “ecosistema aperto
comprendente un gruppo di popolazioni microbiche che coesistono in equilibrio in una definita regione
spazio-temporale”. Il numero di batteri presenti nel nostro organismo (10 14) è dieci volte maggiore rispetto
al numero di cellule umane presenti nei tessuti del nostro corpo (10 13). E’ inoltre stimato che nel nostro
intestino vivono più di 400 diverse specie e sottospecie di batteri appartenenti ad almeno 190 generi
diversi. Nell’intestino tali batteri, definiti probiotici, si nutrono di sostanze denominate prebiotici che ne
garantiscono la crescita. L’insieme dei batteri presenti nell’intestino umano costituisce quello che
comunemente è chiamato il microbiota intestinale. La colonizzazione batterica comincia dopo la nascita, e
già dopo pochi giorni si assiste a differenziazioni nel numero e nella composizione in specie, con il
raggiungimento di un equilibrio tra organismo e tali microrganismi.
I principali gruppi di microrganismi del microbiota intestinale comprendono:
1) batteri di forma bastoncellare Gram + (anaerobi obbligati come Bifidobacterium; anaerobi facoltativi
come Lactobacillus);
2) bastoncini Gram – (anaerobi obbligati come Bacteroides; anaerobi facoltativi come Enterobacteriaceae);
3) cocchi Gram + (anaerobi obbligati come Peptococcus; anaerobi facoltativi come Streptococcus);
4) cocchi Gram – (anaerobi obbligati come Veillonella).
Soprattutto nel colon si può notare come alcuni gruppi siano dominanti (soprattutto anaerobi stretti quali
Bifidobacterium e Eubacterium) e altri sub-dominanti (Lactobacillus, Streptococcus e Enterobacteriaceae).
Esistono molte difficoltà per lo studio della microflora del colon, soprattutto legate all’ottenimento di
campioni del contenuto intestinale. Comunque, il contenuto microbico delle feci sembra essere un buon
indicatore della microflora del colon terminale, pur non riflettendo la microflora dell’intestino e soprattutto
dell’intestino tenue. Molte specie non sono coltivabili, e quindi sono evidenziate con tecniche
batteriologiche convenzionali; con l’impiego di tecniche di biologia molecolare si può superare questo
problema di coltivabilità. In particolare il DNA che codifica per l’RNA ribosomale 16S (16S rDNA) contiene
regioni conservate in tutte le specie batteriche intervallate da regioni (da V1 a V9) in cui le sequenze
nucleotidiche sono variabili da una specie batterica all’altra. La comparazione delle similarità di sequenza
del 16S rDNA possono essere quindi usate per l’identificazione di specie batteriche e dunque per l’analisi di
comunità microbiche complesse.
Esiste una data successione di specie nel corso della vita di un individuo: al momento della nascita,
l’intestino è sterile; subito dopo la nascita, si rilevano specie come E. Coli e Streptococcus; dopo 4-7 giorni,
si sono create le condizioni che favoriscono lo sviluppo di anaerobi come Bifidobacterium. In base al tipo di
allattamento, poi, la speciografia cambia: con latte ricostituito, si ha una predominanza di Lactobacillus,
mentre col latte materno si ha una riduzione del numero di E. coli, Streptococcus, Bacteroides e di
Clostridium, con un alto numero di Bifidobacterium. All’inizio dello svezzamento aumentano gradualmente
le specie di anaerobie di Bacteroides e di cocchi Gram-positivi. Al completamento dello svezzamento si
delinea la normale microflora dell’adulto.
I fattori che influenzano la colonizzazione dell’intestino sono:
-fattori mediati dall’ospite: pH, secrezioni come immunoglobuline, bile, sali, enzimi, motilità intestinale
(velocità, peristalsi), fisiologia (compartimentalizzazione), cellule esfoliate, mucina, essudati tessutali;
-fattori microbici: adesione, mobilità, flessibilità nutrizionale, spore, capsule, enzimi, componenti
antimicrobici, tempo di generazione;
-interazioni microbiche: sinergia, antagonismo/competizione;
-dieta: composizione, fibre non digeribili, farmaci, etc;
La microflore intestinale svolge numerose funzioni necessarie al mantenimento della salute dell’ospite, le
cui alterazioni possono determinare condizioni patologiche differenti. Alcune delle più importanti funzioni
sono riassunte di seguito:
a. Fermentazione di residui della dieta non digeribili;
b. Crescita e differenziazione di cellule epiteliali;
c. Sintesi di vitamine;
d. Assorbimento di ioni;
e. Prevenzione della colonizzazione da parte di batteri patogeni (tramite antagonismo e competizione);
f. Stimolazione della risposta immunitaria: la microflora intestinale promuove (tramite la produzione di
fattori di crescita) citochine e molecole che regolano lo sviluppo del GALT (tessuto linfoide associato alla
mucosa intestinale), che è l’organo immunitario più grande del corpo umano, in cui sono presenti circa
l’80% delle cellule produttrici di immunoglobuline. La microflora intestinale sembra svolgere un ruolo
importante nella stimolazione dello sviluppo di tessuti linfoidi e nella stimolazione di produzione di
anticorpi.
Le attività probiotiche fino ad ora studiate sono legate ad un particolare ceppo di una definita specie
batterica appartenente ai generi Lactobacillus e Bifidobacterium. E’ ormai ampiamente riconosciuto che
l’assunzione di batteri probiotici possa essere utile nella cura e prevenzione di alcune malattie. Le attività
probiotiche fino ad ora studiate sono ceppo-specifiche e dunque i risultati degli studi non possono essere
estrapolati: i ceppi probiotici sono unici e diversi tra loro.
I criteri per selezionare un ceppo potenzialmente probiotico devono riguardare:
-specificità: origine umana; accurata identificazione tassonomica; sicurezza;
-competitività: capacità di sopravvivere, proliferare e di svolgere attività metaboliche in vivo a livello del
sito target; resistenza agli acidi; resistenza alla bile; capacità di adesione e potenziale capacità di
colonizzazione;
-attività funzionali che danno benefici sulla salute: prevenzione della colonizzazione da parte di batteri
patogeni; stimolazione della risposta immunitaria; produzione di sostanze antimicrobiche; attività
antimutagene e anticancerogene; produzione di composti bioattivi;
-proprietà tecnologiche: compatibilità con le tecnologie di produzione, di stoccaggio e di distribuzione;
stabilità delle caratteristiche desiderate nel corso della preparazione delle colture e dello stoccaggio;
caratteristiche di interesse tecnologico in riferimento allo specifico prodotto alimentare.
In ogni caso, il principale criterio di selezione e uso dei probiotici è la sicurezza per il consumatore. Un
batterio probiotico non deve essere né patogeno né tossinogeno e deve poter essere definito GRAS
(Generally Recognised As Safe).
Gli esperti FAO/WHO (Food and Agricolture Organization/World Health Organization) hanno stipulato delle
linee guida che riportano i criteri e le metodologie per la valutazione dei probiotici definendo i dati e le
informazioni necessarie per dimostrare la loro rivendicazione salutistica. Al fine di garantirne la sicurezza, i
probiotici dovrebbero essere saggiati almeno per le seguenti caratteristiche:
1) Patterns di resistenza agli antibiotici;
2) Accertamento di alcune attività metaboliche (produzione di D-lattato; deconiugazione dei sali biliari);
3) Accertamento di effetti collaterali negli studi su umani;
4) Sorveglianza epidemiologica dopo la commercializzazione;
5) Saggiare per la produzione di tossine i ceppi appartenenti ad una specie conosciuta come produttrice di
tossine;
6) Saggiare l’attività emolitica dei ceppi appartenenti ad una specie conosciuta come emolitica.
I PREBIOTICI sono ingredienti alimentari, capaci di generare effetti benefici sulla salute dell’ospite tramite la
stimolazione selettiva della crescita e/o attività di alcuni batteri nel colon (lattobacilli e bifidobatteri). Altri
requisiti per definire un prebiotico sono: indurre nel tratto gastrointestinale e/o a livello sistemico effetti
positivi per la salute del consumatore; non deve essere idrolizzato o assorbito nella parte superiore del
tratto gastrointestinale. Obiettivo principale dei prebiotici è dunque quello di “modulare il livello e le
attività di differenti gruppi di microrganismi endogeni intestinali”. La maggior parte dei prebiotici sono
oligosaccaridi, come Fruttooligossaridi (FOS), Galattooligossaridi (GOS), Inulina, Lattulosio,
(Iso)maltooligosaccaridi, Ciclodestrine, Raffinosio ecc.
Un alimento simbiotico è costituito dall’associazione di un alimento probiotico con alimenti prebiotici;
questi alimenti sfruttano le specifiche sinergie tra probiotici e prebiotici nel tratto gastrointestinale.
Attualmente sono prodotti diversi alimenti simbiotici. In particolare yogurt e altri derivati del latte e le
formule lattee di proseguimento. Possono dunque essere definiti alimenti funzionali.
-COLTURE STARTER
Poiché attraverso le fermentazioni spontanee, la costanza di qualità non sempre è raggiungibile, negli ultimi
anni si è accresciuto l’utilizzo di colture starter, le quali assicurano la standardizzazione delle caratteristiche
organolettiche, la riduzione del tempo di trasformazione, contribuiscono ad un miglioramento della
sicurezza igienica e garantiscono costanti livelli di “shelf-life”.
L’impiego delle colture starter è quello di isolare e identificare i germi responsabili di modificazioni
organolettiche desiderate ed aggiungerli alla materia prima per rafforzarle o riprodurle.
Le colture starter sono preparazioni che contengono microrganismi vivi e vitali che sono impiegate con
l’obiettivo di utilizzare il metabolismo microbico per il raggiungimento di specifici obiettivi tecnologici. E’
possibile distinguere le seguenti colture starter:
• Colture starter con ceppi misti: sono note anche come colture a composizione indefinita. In genere sono
costituite da substrati fermentati risultanti da lavorazioni precedenti
• Colture starter a singolo ceppo (una specie);
• Colture starter a ceppi multipli (più ceppi di una o più specie).
La scelta e la formulazione delle colture starter è basata soprattutto sulla capacità dei ceppi microbici di
svolgere i processi biochimici richiesti dalle varie tecnologie di trasformazione.
Una coltura starter o non starter di microrganismi in grado di esercitare azioni antimicrobiche nei confronti
di microrganismi indesiderati è detta coltura protettiva.
Le specie e i ceppi di batteri, lieviti e muffe che entrano nella composizione di una coltura starter o
protettiva devono soddisfare alcuni criteri di sicurezza e di efficacia tecnologica. Non meno rilevanti sono gli
aspetti economici: la propagazione degli organismi starter deve essere economicamente conveniente e la
loro manipolazione e impiego deve essere semplice. L’impiego di colture starter nella produzione di
formaggi e altri derivati del latte, del vino e della birra e dei prodotti da forno come il pane, è una pratica
ormai consolidata. Per i prodotti carnei fermentati, l’utilizzo delle colture starter ha incontrato resistenze
maggiori: la materia prima carne è molto disomogenea ed è solida per cui la dispersione del/dei
microrganismo/i inoculati è più difficile; la carne possiede una microflora autoctona competitiva molto
variabile quali-quantitativamente che non può essere eliminata tramite un trattamento di pastorizzazione,
come usualmente avviene con il latte. Una accurata selezione dei microrganismi starter ha fatto superare
allo stato attuale queste resistenze.
Le colture starter usate nelle industrie alimentari fanno riferimento a 2 tipologie principali:
1) starter naturali (latto-innesti e siero-innesti): normalmente sono composte da batteri lattici termofili e
mesofili appartenenti a generi e specie differenti. Durante il processo di caseificazione (dopo la sosta) o al
termine dello stesso, si preleva una quantità sufficiente di siero per le lavorazioni del giorno dopo,
travasandolo in un recipiente coibentato e chiuso. Il siero viene lasciato fermentare ad opera della
microflora naturale a temperature tali da selezionare le specie più idonee per la produzione della stessa
tipologia di formaggio. Il giorno successivo il siero-innesto è aggiunto al latte nella quantità di circa il 2-3%.
Le colture naturali in latte sono utilizzate per la produzione di alcuni formaggi molli e sono composte da
streptococchi, enterococchi e lattobacilli termofili. Per la loro preparazione, il latte crudo è termizzato (60-
65°C per 15-20 sec) per eliminare microrganismi indesiderati mesofili, selezionando in tal modo la maggior
parte dei batteri termofili e termoresistenti. Il latte, così trattato, è incubato per tempi e temperature
variabili in funzione della tipologia di formaggio da produrre.
2) starter selezionati (liquidi, in polvere liofilizzati o essiccati, e congelati): possono essere usati per inoculo
diretto in caldaia oppure previa loro propagazione progressiva in adatte fermentiere. Le colture selezionate
liquide, sono utilizzate per la produzione di formaggi e sono costituite da bacilli e streptococchi termofili;
sono preparate presso laboratori o centri specializzati e distribuite direttamente ai caseifici per
un’utilizzazione immediata o al massimo nel giro di due o tre giorni, previa conservazione a bassa
temperatura di 5-6°C. Sono aggiunte direttamente al latte in lavorazione. Il substrato generalmente usato
per la preparazione di queste colture è composto da miscele di siero e latte in polvere con eventuale
aggiunta di attivatori. Le colture selezionate disidratate, sono utilizzate sia per la preparazione di latti
fermentati sia di diverse tipologie di formaggi. Possono essere costituite da bacilli e streptococchi mesofili e
termofili, sia a ceppo singolo che multiplo. Sono preparate per liofilizzazione o mediante essiccazione spray.
Gli starter liofilizzati, prima di essere inoculati in caldaia, richiedono in genere una serie di passaggi di
riattivazione e moltiplicazione in latte sterile (propagazione). La preparazione delle colture selezionate in
forma congelata prevede una prima fase di produzione della biomassa microbica in fermentatori. Al
termine della fermentazione, le cellule sono separate per centrifugazione, risospese in un crioprotettivo e
quindi congelate in azoto liquido a -196°C o a -30°C.
-COLTURE PROTETTIVE
L’utilizzo di colture starter e/o protettive per migliorare e garantire la qualità e sicurezza microbiologica
degli alimenti è definito bio-conservazione.
Le proprietà antagonistiche di una coltura protettiva, oltre che dalla capacità di colonizzare un alimento e
competere per i nutrienti presenti in esso, sono dovute alla produzione di uno o più metaboliti tra i quali i
più importanti sono gli acidi organici, il perossido di idrogeno, alcuni enzimi, alcuni metaboliti a basso peso
molecolare e le batteriocine. Analizzeremo di seguito le batteriocine prodotte da batteri lattici.
Attualmente, le batteriocine vengono definite come proteine biologicamente attive sintetizzate
ribosomialmente ed eventualmente modificate post-traduzionalmente o complessi proteici in grado di
esercitare attività battericida nei confronti di altre specie batteriche, ma non sul microrganismo produttore.
L’estensione dello spettro di azione delle batteriocine a microrganismi non appartenenti al solo ceppo
produttore è stata evidenziata dalla scoperta di nuove batteriocine e ceppi produttori da habitat diversi,
appartenenti a tutti i generi di batteri lattici, come Lactobacillus, Lactococcus, Leuconostoc, Pediococcus,
Streptococcus e Carnobacterium, e alcune specie di Enterococcus. Trattamenti come il congelamento o il
calore o l’impiego di acidi deboli o agenti chelanti, o di alte pressioni idrostatiche, che indeboliscono le
barriere cellulari facilitando così il contatto della batteriocina con la membrana citoplasmatica, rendono le
batteriocine efficaci anche contro batteri gram-negativi e batteri gram-positivi resistenti.
La membrana citoplasmatica sembra essere il bersaglio principale delle batteriocine, dal momento che le
azioni iniziano con alterazioni della permeabilità della membrana con fuoriuscita di ioni e costituenti
intracellulari, effetti questi ritenuti come una conseguenza della perdita della forza proton motrice, che
priva la cellula dei meccanismi di produzione di energia e quindi della sintesi di costituenti cellulari.
Nella maggior parte dei casi la produzione di batteriocine è associata con la presenza di plasmidi. Sono
inoltre segnalate evidenze di codificazione di batteriocine da elementi mobili come trasposoni, episomi, ma
anche codificazione cromosomica. I geni per la biosintesi delle batteriocine sono organizzati in strutture
operone-simili con il primo gene codificante per la proteina strutturale, seguito da geni addizionali
codificanti per proteine con ruoli di traslocazione, regolazione, immunità o ruoli ancora non ben definiti.
Le batteriocine sono classificate in 4 classi, in base allo spettro d’azione, al peso molecolare e a
caratteristiche biochimiche e genetiche, anche se la quasi maggioranza di quelle prodotte da batteri
associati con gli alimenti appartengono alla classe I e II:
-alla classe I appartengono batteriocine costituite da piccoli peptidi con massa < di 5 KDa, attivi a livello
della membrana del microrganismo target e contenenti residui di aminoacidi inusuali come lantionina e
βmetil-Lantionina e deidro residui come deidro-alanina e deidro-butirrina. Il rappresentante più importante
di questa classe è sicuramente la nisina, prodotta da vari ceppi di Lactococcus lactis subsp. Lactis. Si tratta di
un peptide contenente 34 aminoacidi (3354 Da) con 1 residuo di lantionina, 2 di deidroalanina, 1 di
deidrobutirrina e 4 di β-Metil Lantionina.
-la classe II comprende peptidi non lantibiotici con dimensioni inferiori a 10 KDa, termostabili, sempre attivi
a livello di membrana, che si caratterizzano per avere una sequenza leader N-Terminale corta di 16-21
aminoacidi con sito di processo in una regione conservata costituita da due residui di glicina presenti in
posizione (-2) e (-1) alla fine del C-terminale del peptide leader alla giunzione con il peptide secreto.
All’interno di questa classe è possibile individuare almeno 3 sottoclassi, di cui la sottoclasse IIa è la più
comune. Ad essa appartengono batteriocine come le pediocine, le sakacine, la leucocina, l’enterocina, la
termofilina, attive contro Listeria spp.
L’impiego delle batteriocine e/o dei microrganismi produttori è stato valutato nella maggior parte dei
sistemi alimentari, inclusi prodotti carnei, prodotti lattiero-caseari, vegetali, frutta e altri ancora. Esistono
diverse modalità di applicazione delle batteriocine negli alimenti. Esse possono essere aggiunte
direttamente all’alimento sotto forma di preparazioni purificate o semi-purificate. La batteriocina è in
questo caso un additivo alimentare e quindi il suo impiego deve essere regolamentato e autorizzato.
All’attualità solo la Nisina è riconosciuta come prodotto naturale non derivato da manipolazioni genetiche e
non contenente antibiotici o composti di ammonio quaternario e quindi come sostanza GRAS. L’uso della
Nisina come additivo alimentare è consentito in circa 50 paesi per aumentare i tempi di conservazione di
alimenti come latte e derivati, conserve vegetali, prodotti carnei sia freschi che fermentati e prodotti ittici.
L’uso della Pediocina è coperto da un brevetto Europeo; essa viene utilizzata, con funzione protettiva e
antilisterica, in prodotti carnei, insalate e formaggi.
Le batteriocine possono essere impiegate negli alimenti anche come preparazioni grezze ottenute facendo
crescere il microrganismo produttore in un substrato naturale come siero, latte o alimenti fermentati.
Questa modalità evita l’uso di un composto purificato, consentendo allo stesso tempo l’impiego di
preparazioni ad attività nota e costante.
Infine è possibile impiegare le colture pure e vitali dei microrganismi produttori di batteriocine, come
colture starter o protettive, sia in alimenti fermentati che non. Tale modalità di impiego, costituisce
sicuramente il modo più naturale per incorporare le batteriocine in un prodotto alimentare, vista l’ampia
diffusione di ceppi Bac+ che già inconsapevolmente ingeriamo con alimenti fermentati non sterili. Il
successo dipende dalla capacità del batterio lattico di crescere e produrre la batteriocina in quantità
sufficiente nelle condizioni di processo dell’alimento.
La qualità igienica è il prerequisito fondamentale che ogni alimento deve rispettare e possedere, ed è
definita come “assenza nell’alimento di qualsiasi elemento tossico, sia chimico che biologico capace di
indurre uno stato di malessere o di malattia nel consumatore”. La tutela della qualità igienica degli alimenti
deve riguardare il totale delle fasi di produzione, a partire dalla produzione delle materie prime fino al
consumo del prodotto finito.
La qualità microbiologica è il nucleo centrale della qualità e sicurezza igienica degli alimenti. Il concetto di
buona qualità microbiologica sottintende materie prime ricevute con un basso contenuto microbico,
operazioni di trasformazione condotte in condizioni igieniche adeguate e, infine, una conservazione del
prodotto in condizioni di temperatura e per tempi adeguati. Col passare del tempo si è passati da un
concetto di qualità inteso come costo aggiuntivo alla QUANTITA’, ad un concetto di qualità inteso come
strumento di vendita a supporto della quantità; le esigenze del consumatore, e quindi la capacità di
soddisfarle (tramite la qualità), diventa la chiave di lettura della produzione alimentare.
Questo nuovo approccio al problema della qualità, ovvero quello di assicurare sempre più la sicurezza e
l’igiene del prodotto finito, ha reso evidente la necessità di estendere il concetto di controllo della qualità
non solo al prodotto finito ma anche a tutto il processo produttivo.
Il controllo di qualità è definito come “le tecniche e le attività a carattere operativo messe in atto per
soddisfare i requisiti di qualità”. Per lungo tempo la qualità del prodotto era valutata con l’analisi del solo
prodotto finito, separando prodotti conformi dai non conformi.
Questo tipo di controllo non garantisce la sicurezza d’uso dell’alimento, in quanto, anche se un singolo
campione dell’alimento che non presenta microrganismi patogeni, ciò non assicura la loro assenza nel resto
del prodotto. L’analisi dei prodotti finiti presentano, dunque, dei limiti:
-i risultati dipendono fortemente dai limiti di campionamento;
-la non conformità prevede revisione del processo e quindi nuove analisi;
-elevata perdita del prodotto (analisi distruttiva);
-i risultati vengono evidenziati dopo che sono stati generati e quindi il prodotto potrebbe essere già stato
commercializzato/consumato;
-le responsabilità non vengono ben individuate, in quanto il personale addetto alle fasi produttive non
viene coinvolto;
-elevato costo.
I limiti del controllo del prodotto finito possono essere superati se a quest’analisi viene aggiunta l’analisi del
processo produttivo. L’assicurazione della qualità è definita come “L’assicurazione della qualità è definita
come “l’insieme delle azioni pianificate e sistematiche necessarie a dare adeguata confidenza che un
prodotto o servizio soddisfi determinati requisiti di qualità”. Il controllo di qualità è perciò solo una
componente di un sistema integrato di assicurazione della qualità.
-ORGANISMI MARKER
Per accertare sia la qualità microbiologica che la sicurezza di un alimento si fa ricorso alla ricerca di
organismi, detti marker, in grado di indicare una situazione potenzialmente pericolosa. Gli “organismi
marker” sono organismi in grado di indicare eventi potenzialmente pericolosi nel corso della produzione,
conservazione e distribuzione di un alimento. Essi sono distinti in due gruppi:
1) organismi INDEX: organismi patogeni la cui presenza indica la presenza di altri patogeni ecologicamente
correlati.
2) organismi INDICATORI: organismi non dannosi in se, ma in grado di dare informazioni sulle condizioni
microbiologiche del prodotto. A loro volta, gli organismi indicatori possono essere distinti in 2 gruppi:
a) organismi indicatori della qualità microbiologica (che risultano utili nella valutazione dell’idoneità delle
condizioni di processo e di conservazione di un alimento);
b) organismi indicatori della sicurezza microbiologica (suggeriscono la possibilità di un pericolo di natura
microbiologica che può compromettere la salute del consumatore).
La microflora potenzialmente presente in un alimento ha una composizione complessa, in cui sono presenti
microrganismi di natura diversa e con esigenze metaboliche differenti. Quando si usa un terreno nutritivo
per la coltura di microrganismi in laboratorio, non si possono soddisfare le esigenze di tutti i microrganismi
presenti; questo vuol dire che l’analisi tramite coltura è “preferenziale”, cioè valuta la presenza di
microrganismi scelti, per cui non si può parlare di analisi della microflora TOTALE. Ad esempio, quando si
parla di “Microflora aerobia totale” o di “Carica microbica totale”, in genere, si fa riferimento al numero
totale di microrganismi in grado di svilupparsi in aerobiosi e in mesofilia (30°C) in un adatto terreno
nutritivo. Modificando le condizioni di incubazione o del substrato nutritivo, è possibile usare il conteggio
per ricercare in maniera preferenziale alcuni gruppi di microrganismi; è utile, dunque, specificare il tipo o il
gruppo di microrganismi ricercati quando si effettua un’analisi microbiologica.
L’analisi più comune è quella del Conteggio Aerobico Mesofilo (CAM, anche detto “conteggio standard in
piastra”), che può fornire utili indicazioni sullo stato microbiologico di un alimento e sulla sua storia
produttiva. Questi dati aiutano a prevedere lo stato di conservabilità e la comparsa di potenziali fenomeni
alterativi, evidenziando quindi le condizioni di trasformazione e di conservazione. Quando si valutano i
risultati di un conteggio microbico di un alimento è necessario avere idea della popolazione microbica che
ci si aspetta nel punto del processo o della distribuzione in corrispondenza del quale il campione è raccolto.
Il conteggio aerobico mesofilo può dunque essere usato per:
i) valutare la qualità microbiologica di materie prime e di prodotti finiti;
ii) valutare il rispetto delle condizioni igieniche durante il processo di produzione;
iii) valutare se la temperatura a cui un alimento deve essere conservato e distribuito sono rispettate;
valutare i tempi di conservazione (shelf life) di un alimento; determinare i livelli di contaminazione degli
ambienti di processo.
Il Regolamento CE n. 852/2004 stabilisce norme generali in materia di igiene dei prodotti alimentari
destinate agli operatori del settore alimentare, tenendo conto in particolare dei seguenti principi:
a) la responsabilità per la sicurezza alimentare incombe agli operatori del settore;
b) la sicurezza va garantita lungo tutta la catena produttiva;
c) è importante il mantenimento della catena del freddo per gli alimenti che non possono essere
immagazzinati a temperatura ambiente;
d) le procedure dell’HACCP dovrebbero accrescere le responsabilità degli operatori;
e) l’importanza dei manuali di corretta prassi igienica;
f) valutazione scientifica nel determinare criteri microbiologici e di controllo delle temperature;
g) gli alimenti importati devono avere gli stessi requisiti di quelli prodotti nella CE.
Il regolamento si applica a tutte le fasi di produzione primaria, con cui si intende “tutte le fasi della
produzione, dell'allevamento o della coltivazione di prodotti primari, compresi il raccolto, la mungitura e la
produzione zootecnica precedente la macellazione e comprese la caccia e la pesca e la raccolta di prodotti
selvatici”.
Questo regolamento non si applica:
a) alla produzione primaria per uso domestico privato;
b) alla preparazione, alla manipolazione e alla conservazione domestica di alimenti destinati al consumo
domestico privato;
c) alla fornitura diretta di piccoli quantitativi di prodotti primari dal produttore al consumatore finale o a
dettaglianti locali che forniscono direttamente il consumatore finale.
d) ai centri di raccolta e alle concerie che rientrano nella definizione di impresa del settore alimentare solo
perché trattano materie prime per la produzione di gelatina o di collagene.
Gli operatori del settore alimentare predispongono, attuano e mantengono una o più procedure
permanenti, basate sui principi del sistema HACCP. L’HACCP è un approccio sistematico di identificazione e
valutazione dei pericoli e rischi associati con ogni fase della catena produttiva, con successiva definizione
delle misure di controllo. L’applicazione dell’HACCP a tutta la catena alimentare, consente un miglior uso
delle risorse disponibili, facilita l’ispezione da parte degli organi incaricati del controllo ufficiale e promuove
gli scambi commerciali.
Esso si basa sui seguenti principi:
1) Identificazione ed analisi delle condizioni di pericolo, misurandone la possibile gravità (severity) e la
probabilità di comparsa (risk);
2) Individuazione dei punti critici di controllo (Critical Control Points, CCP);
3) Specificazione dei criteri di prevenzione, cioè dei limiti critici entro i quali deve svolgersi l’operazione atta
ad assicurare che un CCP sia sotto controllo;
4) Specificazione delle procedure per effettuare il monitoraggio dei punti critici di controllo;
5) Specificazione e adozione delle azioni correttive da intraprendere quando i risultati del monitoraggio
individuano che un CCP non è più sotto controllo;
6) Specificazione delle procedure per la verifica che il sistema HACCP è effettivamente operante;
7) Definizione e specificazione della documentazione relativa a tutte le procedure adottate.
L’identificazione e l’analisi dei pericoli costituisce la prima fase dell’applicazione dell’HACCP. Il pericolo è
qualsiasi sostanza o situazione che può compromettere la sicurezza di un alimento e quindi in grado di
causare danni alla salute del consumatore. L’analisi dei pericoli ha diverse finalità, tra cui l’individuazione
dei pericoli più significativi e delle misure preventive più idonee a controllarli, la modificazione di una fase,
di un processo o di un prodotto al fine di assicurare o migliorare la sicurezza dello stesso e l’utilizzo dei dati
acquisiti per individuare i punti critici di controllo. Le fonti dei pericoli sono varie, potendo derivare dalle
materie prime, dagli ingredienti e coadiuvanti tecnologici, dal personale, dalle tecnologie impiegate, dai
materiali per gli imballaggi ecc.. I pericoli possono essere di natura chimica, fisica o biologica.
Quindi l’analisi dei pericoli comincia con la loro identificazione, ovvero indicando qualitativamente i pericoli
potenziali associati con la produzione di un determinato alimento. Di questi pericoli vanno poi stimati il
rischio di comparsa di effetti indesiderati e la sua gravità, ovvero la grandezza delle conseguenze negative
sulla salute. Questi ultimi 2 criteri (rischio e gravità) permettono di classificare i pericoli in base alla loro
entità (alta, media e bassa). Sono richieste conoscenze approfondite sugli agenti causali e loro modalità di
trasmissione e comportamento negli alimenti.
L’identificazione di pericoli di natura biologica inizia con l’analisi dei dati epidemiologici, che danno
informazioni (relative ai pericoli) sulla frequenza di contaminazione di materie prime e prodotti finiti,
frequenza di casi epidemici legati a quello specifico sistema pericolo/alimento, e le condizioni che hanno
favorito l’episodio epidemico. Da questi dati è possibile compilare una lista di potenziali microrganismi
patogeni che sono stati responsabili di episodi di malattie alimentari. Nell’analisi dei pericoli è inoltre
necessario fare una valutazione di tutte le procedure connesse con la produzione, la distribuzione e l’uso
delle materie prime e dei prodotti allo scopo di individuare materie prime, ingredienti e alimenti
potenzialmente a rischio, individuare le fonti di contaminazione, determinare il modo in cui i microrganismi
sopravvivono e si sviluppano lungo le fasi produttive, accertare i rischi e la gravità dei pericoli identificati.
Grande importanza va data all’esame di tutti i fattori di contaminazione, sopravvivenza e crescita dei
microrganismi in relazione alle caratteristiche dell’alimento e alle condizioni di processo a cui è sottoposto.
L’ENTITA’ R di un rischio si può calcolare tramite il prodotto tra la probabilità che il rischio di verifichi P e la
natura delle conseguenze D
R=DxP
Per quantificare numericamente l’analisi dei rischi, si possono attribuire dei coefficienti sia all’entità che alla
frequenza di comparsa dei danni (alta, media o bassa).
Per facilitare l’identificazione di microrganismi potenzialmente dannosi, è conveniente per prima cosa
elaborare una lista di microrganismi conosciuti o sospettati come causa di malattie di origine alimentare,
selezionando quelli più rilevanti sulla base di tali considerazioni:
- patogeni che sono stati implicati in episodi tossi-infettivi in seguito al consumo di alimenti identici o simili
a quello in esame;
- microrganismi che possono essere presenti nelle materie prime e negli ingredienti usati;
- microrganismi patogeni per l’uomo che possono ricontaminare il prodotto finito.
Dalla lista di patogeni stilata si selezionano i microrganismi patogeni in base alle conoscenze sul loro
comportamento negli alimenti in condizioni di normale applicazione delle norme di corretta prassi igienica.
Una volta individuate le cause di contaminazione e proliferazione microbica, vanno stabiliti dei sistemi di
prevenzione documentati, volti a eliminare o ridurre la probabilità di insorgenza di un pericolo, fino a livelli
accettabili. La maggior parte delle cause di contaminazione diffusa o aspecifica possono essere controllate
con l’applicazione delle procedure di corretta prassi igienica, quali manutenzione, detergenza e disinfezione
delle strutture, degli impianti e delle attrezzature; igiene e formazione del personale; approvvigionamento
idrico e gestione dei rifiuti; lotta agli insetti e animali infestanti. Queste procedure (dette di autocontrollo)
sono documenti che descrivono le modalità di esecuzione di una specifica operazione o di una specifica
attività.
-verifica
La verifica comprende l’insieme delle attività atte a determinare se il piano HACCP sviluppato funziona
correttamente e se consente di raggiungere gli obiettivi per i quali è stato implementato. Ciò comporta la
verifica di come e se tutti i pericoli per quel determinato prodotto-processo siano stati identificati e
analizzati e se possono essere controllati efficacemente; se i punti critici di controllo, i relativi limiti critici e
le procedure di monitoraggio siano concretamente in grado di tenere sotto controllo gli eventuali pericoli.
Verifiche del sistema HACCP impostato vanno effettuate ogni volta che c’è un cambiamento nelle
procedure o nei limiti critici impostati. Inoltre è buona norma sottoporre a revisioni periodiche l’intero
piano HACCP, anche in condizioni di efficace operatività del sistema. Le attività di verifica possono essere
fatte da personale interno all’azienda, da una terza parte o dalle autorità addette al controllo ufficiale.
-documentazione
L’efficacia del sistema HACCP impostato va dimostrata tramite documentazione scritta, costituita da schede
e registri dove sono riportate tutte le prescrizioni del sistema impostato, i risultati relativi alle operazioni di
monitoraggio, e lo stato generale dei locali in modo da poter rivedere i dati su base storica. La
documentazione deve essere a disposizione dei responsabili del Controllo Qualità e delle Autorità di
controllo.
L’applicazione dei principi dell’HACCP può essere facilitata, utilizzando come guida volontaria i manuali di
corretta prassi operativa. I manuali di corretta prassi costituiscono uno strumento prezioso per aiutare gli
operatori del settore alimentare nell'osservanza delle norme d'igiene a tutti i livelli della catena alimentare
e nell'applicazione dei principi del sistema HACCP. Detti manuali devono intendersi come documenti
orientativi e di indirizzo metodologico, generali per tipologia di prodotto e comprendenti le linee guida di
corretta prassi igienica per l’applicazione delle procedure di autocontrollo.
1) I manuali nazionali o comunitari dovrebbero contenere orientamenti per una corretta prassi igienica ai
fini del controllo dei rischi nella produzione primaria e nelle operazioni associate.
2) I manuali di corretta prassi igienica dovrebbero contenere informazioni adeguate sui pericoli che
possono insorgere nella produzione primaria e nelle operazioni associate e sulle azioni di controllo dei
pericoli, comprese le misure pertinenti previste dalla normativa comunitaria e nazionale o dai programmi
comunitari e nazionali. Tra tali pericoli e misure figurano ad esempio:
a) il controllo della contaminazione dovuta a micotossine, metalli pesanti e materiale radioattivo;
b) l'uso di acqua, rifiuti organici e prodotti fertilizzanti;
c) l'uso corretto e adeguato di prodotti fitosanitari e biocidi e loro rintracciabilità;
d) l'uso corretto e adeguato di prodotti medicinali veterinari e di additivi dei mangimi e loro rintracciabilità;
e) la preparazione, il magazzinaggio, l'uso e la rintracciabilità dei mangimi;
f) l'adeguata eliminazione di animali morti, rifiuti e strame;
g) le misure protettive volte a evitare l'introduzione di malattie contagiose trasmissibili all'uomo tramite gli
alimenti, nonché l'obbligo di informarne le autorità competenti;
h) le procedure, le prassi e i metodi per garantire che l'alimento sia prodotto, manipolato, imballato,
immagazzinato e trasportato in condizioni igieniche adeguate, compresi la pulizia accurata e il controllo
degli animali infestanti;
i) le misure concernenti la pulizia degli animali da macello e da produzione;
j) le misure concernenti la tenuta delle registrazioni.
-CONCLUSIONE
La conservazione dei prodotti alimentari deve essere basata sull’azione combinata e sinergica di diversi
trattamenti con l’obiettivo di ostacolare i microrganismi e ritardare la comparsa di alterazioni.
Queste malattie sono in continuo aumento; infatti, solo l’1% dei casi viene riportato. Ciò è dovuto a scarsa
investigazione e alla scarsa importanza sotto il profilo psicologico che viene data a queste malattie.
La persistenza di queste malattie è dovuta a diversi fattori, tra cui:
a) diffusione del fenomeno della ristorazione collettiva;
b) rapida espansione dei viaggi turistici, con spostamenti nel mondo di grandi masse di persone;
c) allevamenti zootecnici intensivi di tipo industriale;
d) modificazioni tecnologiche di produzione, distribuzione e consumo;
e) import-export su scala internazionale.
L’insorgenza di tali malattie è collegata ovviamente ai fattori che contribuiscono alla contaminazione degli
alimenti. La conoscenza e l’individuazione di questi fattori risulta di particolare importanza nella valutazione
del rischio igienico durante le fasi di produzione degli alimenti, al fine di elaborare procedimenti e misure
preventive idonee ad ottenere alimenti sicuri.
Quindi, il quadro clinico della maggior parte delle malattie causate da alimenti contaminati con agenti
chimici o biologici risulta costituito da diarrea, dolori addominali, vomito e a volte febbre. Consideriamo
adesso in maniera generale i meccanismi dell’azione patogena dei batteri responsabili di malattie gastro-
intestinali.
-meccanismo ENTEROTOSSICO
E’ svolto da enterotossine, cioè tossine a localizzazione intracitoplasmatica di natura proteica (esotossine)
che sono liberate in genere dopo lisi della cellula e che hanno un meccanismo d’azione sulle cellule
intestinali di tipo citotonico o citotossico.
Enterotossine citotoniche: determinano alterazione di attività enzimatiche delle cellule intestinali
(attivazione dell’adenilato-ciclasi) senza provocare lesioni. La sede elettiva è rappresentata dall’intestino
tenue, dove si ha una forte perdita di elettroliti.
Enterotossine citotossiche: sono tossine che inducono lesioni delle cellule della mucosa intestinale, che
sono indotte a perdere elettroliti (acqua e ioni sodio) e di conseguenza causano diarrea. La sede elettiva è il
colon dove vengono distrutte le cellule epiteliali.
-meccanismo ENTEROINVASIVO
Comporta la penetrazione del microrganismo all’interno delle cellule della mucosa intestinale. Si possono
distinguere questi due casi:
a) invasione della mucosa intestinale e proliferazione all’interno delle cellule epiteliali (intraepiteliale); la
sede elettiva è il colon con produzione di lesioni infiammatorie e ulcerative (enterotossine citotossiche).
b) invasione della mucosa e proliferazione nella lamina propria; la sede elettiva è il colon, in cui si può avere
una possibile diffusione nei linfonodi oppure diffusione nel circolo sanguigno, con infezione generalizzata.
Sebbene la maggior parte delle tossine coinvolte in avvelenamenti alimentari siano delle enterotossine,
altre tossine possono essere coinvolte, come quelle neurotossiche prodotte da Clostridium botulinum.
Quando la neurotossina è ingerita con l’alimento, passa attraverso la mucosa intestinale nel circolo
sanguigno, diffondendosi in tutto il corpo. La tossina si lega quindi alla parte terminale del neurone con
blocco del processo di accoppiamento tra acetilcolina e stimolo nervoso con conseguente paralisi.
Affinchè si verifichi la malattia, è necessario che si verifichino una serie di circostanze
contemporaneamente: la presenza nell’alimento di batteri in concentrazione sufficiente; la moltiplicazione
dei batteri nell’alimento fino ad un numero sufficiente a determinare la malattia o a produrre tossine in
quantità tale da determinare la malattia; è necessario che venga consumata una quantità sufficiente di
alimento contenente batteri o tossine. Per ogni microrganismo esiste una Dose Infettiva Minima (DIM), che
rappresenta il numero minimo di microrganismi ingeriti in grado di determinare i tipici sintomi della
malattia alimentare. La DIM dipende principalmente dalla virulenza del microrganismo e dall’età e stato
generale di salute delle persone colpite.
I bovini rappresentano il serbatoio e il veicolo principale del microrganismo, il quale sembra essere ben
adattato alle condizioni di pH del rumine, dove sopravvive e viene escreto con le feci. Le carni possono
essere contaminate durante le varie fasi della macellazione e la trasmissione del microrganismo all’uomo
avviene attraverso il consumo delle carni non cotte sufficientemente. Altri animali possono ospitare il
microrganismo.
E. Coli O157:H7 cresce a temperature comprese tra 8° e 44° C (T ottimale 35-37° C) e pH compreso tra 4 e
8 (pH ottimale 7), a valori di aW = 0,995. E’ in grado di sopravvivere per lunghi periodi in alimenti acidi. Il
microrganismo reagisce agli stress ambientali soprattutto quando si trova in fase stazionaria, attraverso la
sintesi di proteine protettive (cross-protection). E’ ucciso dai trattamenti di pastorizzazione (72°Cx15 sec) e
a 51,7° C ha un valore di D (tempo di riduzione decimale) di 78,2, mentre a 64,5° C la D è 0,16.
Gli alimenti contaminati da persone infette rappresentano la via più comune di diffusione, anche se è
possibile la diffusione da animali infetti.
Per prevenire e controllare la diffusione di E. Coli enterovirulenti bisogna:
• applicazione di sistemi di autocontrollo e HACCP;
• igiene ed educazione del personale addetto alla manipolazione degli alimenti;
• approvvigionamento idrico nel rispetto delle norme di igiene;
• prevenzione della contaminazione di alimenti di origine animale: stalle, macelli, macellerie;
• cottura adeguata degli alimenti carnei;
• refrigerazione controllata degli alimenti.
-SALMONELLA
Oggi sono riconosciute due specie: Salmonella enterica e S. Bongori. Sono bastoncini Gram - (0,3-1,0x1,6-
6,0 µm); mobili per flagelli peritrichi o immobili; non sporigeni; anaerobi facoltativi; catalasi positivi (ad
eccezione di Shigella dysenteriae sierotipo 1); ossidasi negativi. Fermentano il glucosio.
I batteri del genere Salmonella sono caratterizzati da vari componenti antigenici: antigene somatico O;
antigene capsulare K; antigene flagellare H. Si conoscono oltre 3000 sierotipi di Salmonella. Circa il 99% dei
sierotipi di origine umana appartengono alla subspecie enterica (Typhi, Choleraesuis, Parathyphi A,
Enteritidis ecc…). Una volta ingerito con gli alimenti, raggiunge il lume intestinale, aderisce alla cellule della
mucosa e penetra all’interno delle cellule epiteliali dove si moltiplica. Le endotossine sono liberate dopo lisi
della cellula, determinando alterazione citotonica delle cellule intestinali con conseguente diarrea (sintomi
dopo 5-72h dall’ingestione).
Le salmonelle possono causare nell’uomo due tipi fondamentali di malattie:
a) Febbre tifoide e paratifoide: sierotipi typhi e paratyphi A. Dette salmonelle maggiori, i sintomi principali
sono rappresentati da: malessere, anoressia, mal di testa, febbre, diarrea. Si ha invasione della mucosa con
proliferazione nella lamina propria. Si ha passaggio nel circolo sanguigno con infezione generalizzata.
L’infezione è molto grave, soprattutto quella causata dal sierotipo Typhi e la dose minima infettiva può
essere anche molto bassa.
b) Gastroenterite acuta: sierotipi typhimurium, enteritidis, infantis ecc. Sono dette “salmonelle minori” e
sono ubiquitarie. I sintomi sono rappresentati da: diarrea, dolori addominali, nausea, vomito, febbre.
Salmonella typhi, essendo l’uomo l’unico serbatoio, è trasmessa prevalentemente per contagio diretto o
attraverso veicoli contaminati da materiale fecale. Per quanto riguarda le salmonelle minori, a diffusione
ubiquitaria, il serbatoio di infezione è rappresentato da animali selvatici naturalmente infetti i quali
contaminano gli animali domestici, potendo in questo modo il patogeno entrare nel ciclo alimentare
dell’uomo. In genere viene ritenuto che la dose minima infettante sia abbastanza alta, superiore a 100.000
cellule. Comunque, esistono evidenze che in alcune situazioni, anche un numero molto ridotto del
microrganismo può causare infezione.
Gli alimenti maggiormente coinvolti sono i prodotti di origine animale (carne, uova, latte e derivati), dato
che il ciclo epidemiologico della malattia è centrato su uomo-animale. Una importante fonte di
contaminazione degli alimenti sono gli operatori infetti o portatori sani con infezioni asintomatiche.
Cresce a temperature comprese tra 5,2° e 46,2° C, con un optimum a 35-43° C. Il tasso di crescita è
sostanzialmente ridotto a T minori di 15°C (prevenuta a T<7°). La conservazione di alimenti caldi deve
avvenire a temperature di almeno 63°C. Il congelamento risulta molto devitalizzante, e a T comprese tra 0°
e -10° C è più efficace del congelamento tra -17° e -20° C.
Il pH ottimale è 7-7,5, con un range che va da 3,8 a 9,5. Molto importante è l’acido usato.
Per quanto riguarda i valori di aW, l’optimum è 0,99 (min 0,94). Si può avere sopravvivenza anche per anni
in alimenti a scarsa attività dell’acqua.
Per prevenire e controllare gli episodi infettivi, vanno rispettati questi parametri:
-Igiene degli allevamenti e della macellazione: particolare importanza per la diffusione di salmonella
assumono le modalità di eviscerazione, essendo il microrganismo presente nelle feci;
-Controllo dei parametri dei processi di trasformazione: separazione delle materie prime e dei prodotti
finiti; rispetto della catena del freddo; lavaggio e disinfezione delle superfici e delle attrezzature; impiego di
acqua potabile e clorazione; trattamenti termici adeguati; prevenzione della ricontaminazione dei prodotti
post-processo;
-Igiene del personale: deve essere formato sui principali pericoli microbiologici e sulle misure di igiene da
adottare. Evitare inoltre la manipolazione da parte di persone infette o portatori asintomatici;
-prevenzione del consumatore: rispetto delle temperature di conservazione, cottura a T e per tempi
adeguati, igiene personale adeguata, evitare contaminazione crociata tra alimenti crudi e cotti.
-SHIGELLA
Genere della famiglia delle Enterobacteriaceae, bastoncino Gram - (0,3-1,0x1,6-6,0 µm); mobile per flagelli
peritrichi o immobile; non sporigeno; anaerobio facoltativo; catalasi positivi (ad eccezione di Shigella
dysenteriae sierotipo 1); ossidasi negativi. Fermenta il glucosio. Al genere appartengono 4 specie: S.
dysenteriae (con 13 sierotipi, da 1 a 13), S. flexneri (6 sierotipi), S. boydii (18 sierotipi) e S. sonnei (1
sierotipo). Sono microrganismi strettamente adattati all’uomo.
E’ responsabile di malattie del tratto gastrointestinale conosciute con il nome di “shigellosi” o “dissenteria
bacillare”. I sintomi compaiono dopo 15-30h dall’ingestione dell’alimento contaminato, e comprendono
diarrea (con sangue e muco), febbre, crampi addominali, ulcerazioni della mucosa gastrica. Complicazioni
possono riguardare forti disidratazioni dell’ospite e danni renali (Sindrome uremica emolitica). Le vie di
trasmissione della malattia sono rappresentate dal contagio diretto persona-persona o dall’ingestione di
alimenti contaminati da persone infette (via oro-fecale). La DIM è bassa ed è stimata intorno a 10-1000
cellule.
La malattia si scatena quando ceppi virulenti di Shigella arrivano nel tratto gastro-intestinale, attaccano e
penetrano nelle cellule epiteliali della mucosa intestinale (meccanismo enteroinvasivo), dove si
moltiplicano e invadono le cellule circostanti, producendo enterotossine ad azione citotossica..
S. dysenteriae produce la malattia più severa (dissenteria bacillare). S. sonnei produce malattia più leggera.
La virulenza è legata alla temperatura: i ceppi cresciuti a 35 o 37°C sono capaci di invadere e determinare la
malattia, mentre i ceppi cresciuti a 30-33°C non sono virulenti.
Gli alimenti maggiormente coinvolti in episodi di shigellosi sono risultati essere le insalate di patate e altri
vegetali, di pesce, di pollo, l’acqua, la carne, i prodotti della pesca, il latte e derivati. Il fattore che
maggiormente contribuisce alla diffusione della malattia è rappresentato dalla scarsa igiene del personale
addetto alla manipolazione degli alimenti.
Crescono a temperature comprese tra 7 e 47°C con optimum a 35-37°C, in un range di pH che va da 3,8 a 9-
11, il cui optimum è a 7-7,5. Il valore ottimale di aW è 0,99 (min 0,94).
La maggior parte degli studi sono stati fatti su S. flexneri e S. sonni. Questi microrganismi non sono molto
resistenti agli stress ambientali, sebbene essi sono in grado di sopravvivere per lunghi periodi in condizioni
ecologiche diverse: su burro e margarina a 4 e a -20°C sopravvivono più di 100 giorni, in uova e latte più di
50 giorni, in carne tritata a 4°C per 4-5 giorni, in formaggi per 1-2 settimane, in succo di limone (pH 2,1- 2,6)
1 giorno. Il microrganismo è eliminato con la pastorizzazione.
-YERSINIA ENTEROCOLITICA
Il genere Yersinia è un altro genere della famiglia delle Enterobacteriaceae. E’ un corto bastoncino Gram -,
mobile per flagelli peritrichi che sono prodotti solo quando il microrganismo è fatto crescere a temperature
di 22-28°C; non sporigeno; anaerobio facoltativo; catalasi positivo; ossidasi negativo. Fermenta il glucosio.
Essa è largamente distribuita in ecosistemi acquatici e terrestri. La principale riserva del microrganismo è
rappresentata da animali a sangue caldo, in particolare i suini. Si distingue in 5 biotipi che sulla base degli
antigeni O comprendono 48 sierotipi. I sierotipi più diffusi sono:
• O:3; O:9; O:5, O:27: isolati più frequentemente in Europa e in paesi a clima temperato. Hanno un basso
grado di patogenicità e causano infezioni sporadiche.
• O:8; O:13; O:18; O:20; O:21: isolati solo negli USA. Sono esculina negativi e appartengono al biotipo 1.
Sono altamente patogeni e sono responsabili, in particolare O:8, di grosse epidemie.
• altri sierotipi: sono largamente distribuiti ma non patogeni.
Viene distinta in 2 ceppi: ceppi “strettamente adattati all’uomo” e “ceppi ambientali” (o non adattati).
I sierotipi O:3 e O:9 raramente vengono isolati dall’ambiente; i suini sono portatori cronici e sono il
serbatoio naturale del germe. La trasmissione all’uomo avviene soprattutto attraverso la carne di maiale,
anche se, l’esistenza di un elevato numero di portatori umani sani vede implicata anche la via fecale-orale
(uomo-uomo) come una importante via di trasmissione.
Il sierotipo O:8 ha varie sorgenti di contaminazione come acque di sorgenti e pozzo, alimenti lavati con
acqua contaminata, prodotti lattiero-caseari.
Y. enetrocolitica causa l’enterocolite i cui principali sintomi, che compaiono dopo 24-36 ore (l’incubazione
può protrarsi anche per 10 giorni) sono rappresentati da diarrea, liquida o pastosa, raramente con sangue.
Altri sintomi sono rappresentati da dolori addominali, generalmente lievi, che in alcuni casi sono simili a
sindrome pseudo-appendicolare; le complicazioni sono rare ma severe: ulcerazioni diffuse, peritonite,
perforazioni intestinali.
La patogenesi è legata ad un meccanismo invasivo: penetrazione all’interno della mucosa intestinale e
proliferazione nella lamina propria. Alcuni ceppi possono avere un meccanismo enterotossico: producono
enterotossina termostabile (121°C per 30 min); la produzione si ha solo a 25°C ma non a 37°C; l’azione è
simile alla ST prodotta da ceppi enteropatogeni di E.coli. Il suo ruolo nella virulenza è ancora incerto, in
quanto, ceppi enterotossinogeni sono risultati non virulenti.
Il microrganismo è psicrotrofo e si sviluppa in 2-5 giorni in alimenti refrigerati. Può moltiplicarsi tra 0 e 42°C
con optimum a 29°C. Può svilupparsi a pH compresi tra 4 e 10 (optimum intorno a 7). Può sopravvivere fino
a 24 ore a pH 3,6 o 10. Presenta buona crescita a 4°C e pH 7, mentre la crescita è rallentata o inibita a 4°C e
pH 5,2. I trattamenti di pastorizzazione distruggono completamente il microrganismo.
L’origine della contaminazione alimentare è di tipo fecale, umana e animale, dal terreno e dall’acqua. Si
ritrova frequentemente su carcasse e carne di maiale, manzo, agnello, latte crudo di vacca, capra, cagliate
di formaggi, vegetali, ostriche, gamberetti.
-BACILLUS
Il genere Bacillus annovera oltre 30 specie, 2 delle quali, Bacillus anthracis e Bacillus cereus, sono ritenute
patogene abituali per l'uomo. Le forme vegetative hanno un pH ottimale tra 6 e 8, una temperatura
ottimale di 30-55°C. Sono distinti in 3 gruppi, a seconda della posizione e della forma della spora:
I) spora centrale o sub-terminale, non rigonfia, non deformante il corpo microbico;
II) spora centrale o sub-terminale, ovale, rigonfia a parete spessa deformante il batterio;
III) spora terminale, sferica, rigonfia a parete spessa (bacillo a forma di spillo);
Le spore hanno uno strato esterno di cheratina che le rende estremamente resistenti al calore, alle
radiazioni, alla essiccazione, ai disinfettanti e ad altre sostanze chimiche.
B. cereus è in grado di produrre nella fase di crescita esponenziale una enterotossina di natura proteica
costituita presumibilmente da tre subunità, con un peso molecolare compreso tra 45.000 e 50.000 Da,
stabile a 45°C per 10 min, ma inattivabile a 56 °C in 5 min. E’ stabile tra pH 5 e 11 e può essere prodotta
negli alimenti a temperature tra 32 e 35°C. La capacità di produrre l’enterotossina non sembra dipendere
dall’ aW ma si mostra dipendente dai livelli di colonizzazione che debbono superare, in genere, 10 6 UFC/g.
L’azione enterotossica induce perdita di liquidi dalla mucosa intestinale, ma viene facilmente persa per
variazioni di temperatura, di pH, di modalità di conservazione o in seguito a trattamento con enzimi
proteolitici. Di conseguenza, la enterotossina ingerita con gli alimenti viene di norma distrutta a livello
gastrico e/o intestinale, per cui l'intossicazione diarroica è da associarsi prevalentemente all'ingestione di
cellule allo stato vegetativo e/o di spore ed alla successiva crescita del bacillo con conseguente produzione
di enterotossina a livello dell'ileo.
La sindrome diarroica si manifesta generalmente entro 6-15 ore dall'ingestione dell'alimento contaminato;
tale forma morbosa, caratterizzata da nausea, frequenti scariche diarroiche con dolori addominali,
raramente da febbre e vomito, dura mediamente 24 ore, con oscillazioni da poche ore a 10 gg. Durante la
sporulazione, B. cereus produce anche una tossina ad attività emetica, costituita da un piccolo peptide, di
peso molecolare inferiore a 5000, stabile a 121 °C per 90 min ed a pH compresi tra 2 e 11 attualmente
ancora non isolata allo stato puro. E’ stato isolato, inoltre, un fattore ad elevata attività emetica di
probabile natura lipidica o glicolipidica, stabile agli enzimi proteolitici, a 121 °C per 30 min ed a pH compresi
tra 2 e 11.
B. cereus produce numerose altre tossine, nonché un gran numero di enzimi extracellulari quali nucleasi,
proteasi, collagenasi, tromboplastinasi di cui non è ben chiarito l'eventuale ruolo patogeno sull'uomo.
L’intero genere Bacillus detiene una notevole importanza nel settore alimentare, dove il ruolo sostenuto è
legato sia al decadimento delle caratteristiche organolettiche del prodotto dovuto all’attività enzimatica, sia
all'azione tossica svolta dalle tossine sul consumatore.
I sistemi di conservazione degli alimenti riescono a contenere solo in parte la proliferazione delle varie
specie di Bacillus, spesso in grado di tollerare le temperature di congelamento, di moltiplicarsi in condizioni
di refrigerazione e di sopravvivere ai trattamenti termici.
-La presenza di B. cereus nel latte è sia endogena che esogena. B. cereus sintetizza delle proteasi
extracellulari ed una fosfolipasi che possono provocare la coagulazione non acida del latte, una particolare
forma di alterazione nota come "bitty cream" e alterazione dello yogurt. Le possibilità combinate delle
spore di sopravvivere al trattamento UHT e di certi ceppi di moltiplicarsi a basse temperature pongono non
pochi problemi sia di carattere industriale che sanitario. B. cereus costituisce la parte preponderante della
microflora termoresistente psicrotrofa del latte crudo. I ceppi ambientali tipici di B.cereus normalmente
non crescono nel latte a temperature inferiori a 10°C. Ceppi di B. cereus sono stati spesso ritrovati anche in
latte pastorizzato e in formaggi derivati da latte pastorizzato.
Va considerata la concreta possibilità di sopravvivenza nei latti in polvere e nelle farine lattee di spore di
ceppi tossinogeni di B. cereus, la cui germinazione e crescita nei prodotti ricostituiti possono essere favorite
da non attente modalità d'impiego. Non va sottovalutato, inoltre, il ruolo che polveri di latte contaminate
da spore di B. cereus possono svolgere in molti prodotti alimentari di nuova concezione, per la
preparazione di creme, dessert, pietanze a base di pasta e di formaggi. B. cereus è presente anche nei
gelati.
-La contaminazione da B. cereus di prodotti carnei trae origine prevalentemente dalla cute e dalle zampe
degli animali all'atto della macellazione, con partecipazione attiva degli operatori e delle apparecchiature
alla sua diffusione, nonché dall'eviscerazione, considerata, in particolare per il pollame, il punto più critico
per la contaminazione delle carcasse. La presenza di spore è stata documentata in carni congelate bovine e
suine, in preparati carnei pastorizzati, in carni tritate crude, in insaccati freschi, nel prosciutto crudo, nei
salumi cotti, in insalate di carne, in insaccati stufati; spesso le spore sono veicolate dalle spezie utilizzate
nelle preparazioni carnee.
-Nel riso B.cereus è in grado di produrre tossina emetica, in seguito alla comprovata possibilità per le spore
di sopravvivere alla cottura e di germinare e proliferare come forme vegetative durante la conservazione.
-I dati disponibili sulla contaminazione delle uova e dei prodotti derivati ne segnalano la presenza in uova
intere liquide crude e pastorizzate, nonché in prodotti a base di uova venduti al dettaglio.
-Non ampia appare la documentazione relativa alla contaminazione dei prodotti ittici freschi, anche se
pietanze a base di pesce sono state chiamate in causa in casi di tossinfezioni collettive da B. cereus.
-La presenza di B. cereus è stata accertata in una moltitudine di altri tipi di alimento, dai prodotti da forno ai
legumi secchi, dal cacao in polvere all’amido.
-CLOSTRIDIUM BOTULINUM
C. botulinum è un batterio sporigeno, Gram-positivo, anaerobio stretto, catalasi negativo, mobile per
flagelli peritrichi o immobile. Questa specie è composta da ceppi con diverse caratteristiche colturali e
fenotipiche, ma tutte accomunate dalla capacità di produrre tossine ad azione neurotossica. I ceppi sono
distinti in 4 gruppi (I, II, III, IV), e designati in base al tipo di tossina prodotta. Fino ad oggi sono state
individuate 8 diverse tossine prodotte da Clostridium botulinum, designate con le lettere A, B, C1, C2, D, E,
F e G, tutte ad azione neurotossica (eccetto la C2).
I ceppi possono produrre una tossina principale di un tipo ed una secondaria di un altro tipo. I ceppi
responsabili di botulismo nell'uomo appartengono ai gruppi I e II.
La manifestazione della malattia si può avere in seguito all'ingestione della sola tossina (intossicazione)
ovvero delle cellule in presenza o meno della tossina (tossinfezione). Le neurotossine botuliniche hanno un
effetto paralizzante a seguito del blocco della liberazione di acetilcolina a livello presinaptico delle giunzioni
mioneurali colinergiche oppure, meno frequentemente, adrenergiche. I sintomi si manifestano fra 2 e 24
ore dopo l’ingestione dell’alimento contaminato e sono rappresentati da paralisi oculare, disturbi
dell'equilibrio, dilatazione delle pupille, visione doppia, carenza di salivazione, disturbi della deglutizione e
fonazione, costipazione e spesso ritenzione di urina, paralisi dei muscoli respiratori.
Le tossine vengono prodotte durante la crescita del microrganismo e vengono rilasciate durante la lisi delle
cellule. La tossina è idrolizzata extracellularmente da tripsina o enzimi simili in due subunità, una catena
pesante e una catena leggera; questo fenomeno aumenta la tossicità della molecola.
La contaminazione avviene durante l’allevamento, la coltivazione e la raccolta dei prodotti e soprattutto da
parte della spora. Mentre Clostridium botulinum tipo A e B sono maggiormente presenti nel terreno,
determinando contaminazione di frutta e vegetali, quello di tipo E colonizza gli ambienti marini
contaminando più facilmente i prodotti della pesca. Gli alimenti coinvolti in epidemie botuliniche in Europa
sono stati soprattutto prosciutto e altre carni conservate, ma anche conserve di diverso tipo.
Generalmente gli alimenti contaminati sono di produzione casalinga e come tali consumati da un numero
ristretto di persone.
Oltre che per alcune caratteristiche fisiologiche della cellula vegetativa, i ceppi dei gruppi I e II si
differenziano anche per la termoresistenza delle spore:
GRUPPO I: le spore più termoresistenti conosciute (D100 30 min; D121 0,21 min; z=10°C);
GRUPPO II: D82 2-3 min; z=6-7°C.
I trattamenti messi in atto mirano ad una riduzione decimale di spore botuliniche termoresistenti pari a 10 12
UFC: questo comporta un trattamento termico a 121°C per 2,5 minuti.
Le tossine botuliniche sono termolabili e quindi sono distrutte dalle temperature di cottura dei cibi;
trattamenti termici a 80°C per 5 minuti o a 79°C per 20 minuti sono sufficienti a inattivare le tossine A, B, E,
e F.
La prevenzione della tossinfezione botulinica è legata alle condizioni di germinazione della spora e di
crescita della cellula vegetativa. Le spore del gruppo I non germinano a pH < 4,6 , mentre quelle del gruppo
II a pH < 5. Quindi alimenti ad alta acidità sono ritenuti generalmente più sicuri.
Valori di aW < 0,94 e < 0,97 inibiscono la crescita di cellule di Clostridium botulinum rispettivamente del
gruppo I e II. Tali valori di aw si possono raggiungere, ad esempio, attraverso la salagione o lo zuccheraggio
degli alimenti.
Per ciò che riguarda le temperature di conservazione degli alimenti, i ceppi del gruppo II possono
accrescersi, seppur lentamente, anche a 3,3° C.
-CLOSTRIDIUM PERFRINGENS
Cellule con morfologia bastoncellare, Gram-positivo, sporigeno, catalasi negativo e immobile, anaerobio
stretto, anche se sopporta concentrazioni di ossigeno fino al 5%. E' in grado di idrolizzare la gelatina e la
lecitina, di ridurre nitrati e solfiti, di fermentare il lattosio, di produrre emolisina ma non produce indolo. La
sporulazione dipende dal substrato nutritivo e dal pH. Quando sono formate, le spore sono ovali, centrali o
sub-terminali, deformanti lo sporangio. La vasta distribuzione in natura è legata alla dispersione
nell’ambiente delle spore e alla loro resistenza a diversi fattori ambientali. Esso è stato ritrovato inoltre nel
tratto intestinale di molti animali, compreso l’uomo.
I ceppi di Cl. perfringens sono divisi in 5 tipi (A, B, C, D ed E) in funzione della produzione di quattro tossine
extracellulari. Cl. perfringens tipo A è l’unico rinvenibile nel suolo e nel tratto intestinale di animali. Esso è
responsabile di avvelenamenti alimentari nell'uomo. Gli altri tipi sembrano essere parassiti intestinali
obbligati.
La tossinfezione da Cl. perfringens tipo A è dovuta all'ingestione di un numero elevato di cellule o spore (10 6
-108 UFC), che giunte all’intestino producono un’enterotossina. I sintomi, che compaiono circa 8-12 ore
dopo l'ingestione dell'alimento contaminato, si manifestano con diarrea profusa e forti dolori addominali,
raramente accompagnati da febbre, nausea o vomito. I sintomi spariscono spontaneamente dopo 12-24
ore. L’enterotossina è una proteina di 34000 Da, che viene disattivata dal calore (60° C x 10 min), da enzimi
proteolitici e da acidi.
Cl. perfringens vive abitualmente nel terreno e colonizza l'intestino dell'uomo e di molti animali. E’
facilmente veicolabile sulla superficie di alimenti sia di origine vegetale che animale, benché la
tossinfezione è stata principalmente associata al consumo di carne rossa e pollame. La macellazione è un
momento quasi inevitabile di contaminazione.
Gli alimenti non cotti a sufficienza, contaminati da spore termoresistenti e mantenuti alle temperature di
crescita del microrganismo per lungo tempo sono una comune fonte della malattia; tali eventi sono comuni
in strutture adibite alla ristorazione collettiva.
Cresce in range di temperatura che va dai 20° ai 50° C, con un optimum a 45° C. Il range di pH va da 5,5 a
8,5, con optimum a 6,5. Per quanto riguarda l’a W, il suo valore deve essere superiore a 0,94. Sopporta
concentrazioni di NaCl da 0% a 8%, con un optimum di 3%. Ha potenziale di riduzione Eh: -200 mV.
Le caratteristiche di termoresistenza delle variano da ceppo a ceppo; quest’ultime vengono classificate sulla
base della termoresistenza:
a) spore più termoresistenti: D90= 15-145 min.; z= 9-16 °C
b) spore più termosensibili: D90= 3-5 min.; z= 6-8 °C
-BRUCELLA
I batteri del genere Brucella sono piccoli coccobacilli Gram-negativi, immobili e asporigeni. Sono catalasi e
ossidasi positivi; aerobi stretti. Gli zuccheri sono fermentati debolmente con produzione di acidi e non gas.
Riducono i nitrati a nitriti, non producono indolo e non crescono su substrati contenenti citrato come unica
fonte di carbonio.
La malattia è endemica in molte specie animali. Particolarmente suscettibili sono gli animali gravidi. La
malattia nell’uomo può avere un decorso acuto o cronico caratterizzato da brividi, febbre e debolezza.
L’incubazione può essere piuttosto prolungata. Il microrganismo, una volta penetrato nell’ospite, passa dai
nodi linfatici al sangue dove è trasportato da polimorfonucleati e monociti, nel fegato, milza, midollo osseo
e nodi linfatici.
Brucella abortus causa la brucellosi dei bovini ed è diffusa in tutto il mondo. Brucella melitensis è ospitata
naturalmente da capre e pecore, mentre Brucella suis causa prevalentemente brucellosi nei suini.
Il latte crudo e prodotti derivati a latte crudo possono essere veicoli importanti di diffusione della malattia.
Animali malati o asintomatici liberano Brucella nel latte. I casi di infezione dovuti al consumo di prodotti
carnei sono estremamente rari. Altre fonti di contaminazione e diffusione del microrganismo sono: animali
infetti introdotti nell' allevamento; mangimi o foraggio; acqua; terreno.
-Il microrganismo cresce a temperature comprese tra 6° e 42° C, con optimum a 37° C; B. abortus
sopravvive in latte crudo più di 800 giorni a –40°C, 2 giorni a 4°C e 1 giorno a 25°C. In formaggio sopravvive
2-4 giorni a 24°C e 18-22 giorni a 12°C. La pastorizzazione elimina il microrganismo [60°Cx5 min (10 7
UFC/ml) oppure 65°Cx15 sec (106 UFC/ml)].
-Per quanto riguarda il pH, questo può variare tra 4,5-5,1 e 8,2-8,8 , con optimum a 7,3-7,5; il
microrganismo non cresce in latte sterile con pH inferiore a 5,3 conservato a 37°C (pH limite). Brucella può
sopravvivere in latte a pH 5 per circa un mese. Acidificazione può eliminare il microrganismo, ma non
garantisce la sua completa assenza dal prodotto.
-Il batterio può crescere in presenza di NaCl a concentrazione < 4%. La sopravvivenza diminuisce
all’aumentare della concentrazione salina. La resistenza al sale dipende dalla temperatura. In salamoia per
formaggi contenente il 27% di NaCl e conservata tra 11 e 14°C il microrganismo sopravvive fino a 45 giorni.
In burro con il 2,3% di sale fino a 6 mesi, mentre in burro non salato fino a 13 mesi.
1) Preparazione del campione: In un sacchetto sterile aggiungere l’alimento e un diluente (es. soluzione
sale peptone) in rapporto 1:10. Omogeneizzare per 1-2 min in Stomacher.
2) Isolamento su terreno selettivo e differenziale: Strisciare con ansate dell’omogenato piastre di Brucella
agar. La ricerca del microrganismo nel latte deve essere fatta sia sulla crema che sull’eventuale precipitato
dopo centrifugazione o affioramento spontaneo del campione di latte. Seguire la seguente procedura: -
porre il campione di latte in una provetta sterile ed incubarlo per una notte a 40°C; - prelevare un’aliquota
di panna affiorata e distribuirla con una spatola sterile su una piastra di Brucella agar.
3) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare le piastre a 35° C per 10 giorni in atmosfera
arricchita del 10% di CO2. Selezione di colonie tipiche e loro isolamento in coltura pura Esaminare le piastre
ogni 2 giorni, fino a 10 giorni, per la presenza di colonie di 1-2 mm di diametro, convesse e a margini interi.
Prelevare una o più colonie tipiche e strisciarle su piastre contenenti un terreno nutritivo non selettivo, ad
esempio, BHIA (Brain Hearth Infusion Broth con 1,5% di agar e 5% di siero di cavallo). Incubare le piastre a
35°C per 48 ore in atmosfera arricchita del 10% di CO2.
4) Identificazione (Conferma dell’isolato): Morfologia delle cellule: l’osservazione microscopica deve
rilevare la presenza di piccoli cocco-bacilli.
-Gram-reazione: L’osservazione microscopica deve rilevare la presenza di piccoli cocco-bacilli Gram negativi
(colorati in rosso).
-Catalasi: il test deve rilevare lo sviluppo di effervescenza (sviluppo di gas) che indicherà la presenza
dell’enzima.
-Ossidasi: il test deve rilevare lo sviluppo di colorazione viola che indicherà la presenza dell’enzima.
-Prove biochimiche: vedi tabella 10.5. Test di agglutinazione rapida su vetrino con antisieri specifici (anti-
melitensis e antiabortus).
-VIBRIO CHOLERAE
Bastoncini piccoli e ricurvi, Gram-negativi, mobili per flagelli polari, aerobi-anaerobi facoltativi. Catalasi e
ossidasi positivi. Crescono a valori di pH compresi tra 5 e 9,6 con ottimo di 7,6 e a valori di temperatura
compresi tra 10 e 43°C (optimum 35°C). In presenza di 0,1-1% di NaCl cresce meglio; non cresce in presenza
del 7% di NaCl. Il microrganismo si sviluppa con valori di a W tra 0,970 e 0,998 , con optimum a 0,984.
Sulla base degli antigeni somatici O sono individuati oltre 100 sierogruppi.
• Sierogruppi O1 e O139: sono stati implicati in epidemie di colera
• Sierogruppi da O2 a O138: mai implicati in epidemie coleriche. Sono detti “Non Epidemic Cholera Vibrio
(NECV)”.
V. cholerae è un normale abitante di acque dolci e costiere. Sopravvivono nei sedimenti marini a
temperature inferiori a 15°C e sono liberati in primavera-estate, ritrovandoli nelle acque superficiali, pesci,
crostacei e molluschi. Hanno la capacità di assumere forme di sopravvivenza, come lo stato di “cellule vitali
ma non coltivabili”. Non è rara la persistenza in persone infette ma asintomatiche.
La malattia colera si manifesta con crampi addominali, diarrea profusa con abbondanti perdite di liquidi,
con rapida disidratazione e collasso. Spesso può essere presente vomito. I sintomi si possono presentare
dopo 1-5 giorni dall’ingestione dell’alimento contaminato, in funzione della concentrazione di Vibrio
ingerita. Si ritiene che la dose minima infettiva sia di 10 6 UFC. La principale fonte di infezione è
rappresentata dalle feci di malati o convalescenti, i quali possono eliminare anche dopo 3-4 settimane dalla
guarigione fino a 106 -109 cellule del microrganismo per ml di feci.
L’azione patogena è dovuta alla produzione di una enterotossina (tossina colerica) termolabile, che
presenta sub-unità A-B (Active-Binding): 5 subunità B (legano la tossina ai recettori delle cellule
eucariotiche) e 1 subunità A (funzione enzimatica intracellulare).
L’azione della tossina colerica va a bloccare la forma attivata dell’enzima Adenilato-ciclasi, con un accumulo
di cAMP che stimola una ipersecrezione di ioni e acqua che riversandosi nel lume intestinale, provocano
grandi perdite di liquidi. In condizioni normali, la produzione di cAMP viene interrotta dall’enzima GTPasi
che idrolizza il GTP, facendo ritornare l’adenilato ciclasi nella sua forma inattiva. La tossina colerica agisce in
maniera tale che l’adenilato ciclasi resti sempre nel suo stato attivo, non consentendo l’idrolisi del GTP.
I principali alimenti veicoli di V. cholerae sono l’acqua, il pesce, i molluschi, i crostacei, il riso, la carne di
maiale, vegetali e frutta.
Il microrganismo e disattivato da: trattamenti termici (D60 2,65 min; 80-100°C x pochi sec.; 65°C x 10 min);
pH acido (< 4,5); irradiazione; polifosfati.
-VIBRIO PARAHAEMOLYTICUS
Bastoncini piccoli e ricurvi, Gram-negativi, mobili per flagelli polari, aerobi-anaerobi facoltativi. Catalasi e
ossidasi positivi. Crescono a valori di pH compresi tra 4,8 e 11 con ottimo di 7,8-8,6 e a valori di
temperatura compresi tra 5 e 43°C (optimum 37°C). Richiede NaCl per la crescita (fino al 7%). Il
microrganismo si sviluppa con valori di a W tra 0,970 e 0,998 , con optimum a 0,984.
Si conoscono 12 antigeni O e 59 antigeni K. Tuttavia, non esiste nessuna correlazione tra virulenza e
sierotipi.
E’ autoctono di acque dolci e costiere. Sopravvive nei sedimenti marini a temperature inferiori a 15°C. In
primavera-estate, si ritrovano nelle acque superficiali, pesci, crostacei e molluschi.
I sintomi compaiono dopo 3-76 ore dall’ingestione dell’alimento contaminato e si manifestano con diarrea,
crampi addominali, nausea e vomito, febbre. La durata della malattia è di 1-8 giorni. La virulenza del
microrganismo è legata ad una emolisina termostabile. E’ parzialmente disattivata a 100°C x 30 min. Studi
condotti su volontari umani hanno dimostrato che l’inizio dei sintomi si ha quando sono ingeriti 2x10 5 -
3x107 UFC di ceppi emolitici.
Gli alimenti maggiormente implicati in episodi epidemici sono risultati essere il pesce, i molluschi e i
crostacei. pH acidi e basse temperature riducono i tempi di sopravvivenza del microrganismo, il quale
presenta tempi di generazione brevi (8-9 min a 37° C). I trattamenti termici eliminano il microrganismo.
-CAMPYLOBACTER
Appartiene alla famiglia delle Campylobacteriaceae che raggruppa batteri anaerobi, microaerofili, mobili,
elicoidali, Gram negativi; sono piccoli bastoncini di forma curva o elicoidale, mobili generalmente per un
flagello polare (lungo 2-3 volte la cellula). Hanno diverse forme: a bastoncino, a spirale, a S, curva. Se le
condizioni di crescita non sono favorevoli per il microrganismo, i bastoncini si trasformano in forme
coccoidi che diventano predominanti in colture vecchie.
E’ ampiamente riportata la difficoltà di coltivazione del microrganismo in coltura pura, con rapida perdita di
vitalità. Questa non coltivabilità deriva dalla trasformazione dei bastoncini in coccoidi, che hanno un minor
contenuto citoplasmatico e di acidi nucleici.
Essendo microaerofili, richiedono una concentrazione di ossigeno fra 3 e 15% (meglio 5%) e una
concentrazione di CO2 di 3-10%. Hanno metabolismo respiratorio, non fermentano nessuno zucchero, sono
ossidasi positivi. La temperatura di crescita varia con la specie: tutte crescono a 37°C, alcune anche a 25°C,
altre anche a 42°C. Delle varie specie, C. jejuni e C. coli sono le più frequentemente isolate da pazienti con
malattie enteriche. L’habitat naturale è costituito dall’intestino di animali a sangue caldo (pollame, suini,
pecore, cani, gatti) e uccelli, mentre la trasmissione all’uomo è imputabile ad alimenti di origine animale e
all’acqua.
L’enterocolite acuta ha una incubazione di 2-5 gg fino a 10 gg. I sintomi sono rappresentati da malessere
generale, dolori muscolari, febbre (40°C), crampi addominali e diarrea profusa. Le feci sono acquose o
mucose, con leucociti e sangue.
Il meccanismo patogenetico della malattia non è ben conosciuto. Si ipotizzano tossine simili a quelle di V.
cholerae e processi invasivi. Dose minima infettiva stimata è estremamente variabile, dipendendo dal pH
gastrico e dalla virulenza del ceppo (500-100.000 cellule).
Campylobacter richiede, per la crescita, substrati complessi. I ceppi associati con diarrea non crescono a
temperature inferiori a 30°C (crescita a 43°C); dunque non si moltiplicano in alimenti conservati a
temperatura ambiente. I ceppi mesofili crescono a 25°C ma non sono capaci di crescere a 43°C. La
sopravvivenza del microrganismo è migliore in alimenti refrigerati rispetto a quelli conservati a temperatura
ambiente.
Il microrganismo è sensibile a:
• alte temperature: D55 = 1 min con z = 5°C;
• bassi pH < 4 muoiono rapidamente;
• assenza di umidità: valori di aw 0,98-1,00;
• atmosfera: optimum 7-10% di O2 e 5-10% di CO2;
Per prevenire gli episodi infettivi, bisogna ridurre le infezioni negli allevamenti, controllare l’igiene della
macellazione, effettuare cottura appropriata per gli alimenti carnei, pastorizzare adeguatamente il latte,
evitare la contaminazione crociata tra cibi cotti e crudi, effettuare la pulizia e disinfezione di utensili,
attrezzature e superfici.
-STAPHYLOCOCCUS AUREUS
Si tratta di cocchi Gram-positivi con disposizione irregolare (a grappolo) delle cellule, catalasi positivi,
immobili, non sporigeni, anaerobi facoltativi. Una prima distinzione delle oltre 50 specie di Staphylococcus
è fatta in base alla produzione dell’enzima coagulasi in stafilococchi coagulasi positivi e stafilococchi
coagulasi negativi. L’uomo e gli animali rappresentano la principale riserva di Staphylococcus aureus. Si
trova nelle vie nasali del 30-50% delle persone sane, sulle mani del 20% delle persone, nella gola, nelle feci,
sui capelli, sulle ferite infette di umani e animali e sulle abrasioni della pelle. Il microrganismo è diffuso
largamente nell’ambiente: acqua, aria, attrezzature e superfici di lavoro.
Il microrganismo produce sia emolisine che enterotossine. Le emolisine si dividono in:
-alpha: stafilococchi di origine umana; su agar sangue producono un alone netto di emolisi; le proprietà
tossiche sono legate alla lisi di membrane di cellule varie, dermonecrosi, azione sul sistema respiratorio e
azione sul sistema nervoso centrale;
-beta: stafilococchi di origine animale; su agar sangue danno alone opalescente che diventa nettamente
emolizzato dopo incubazione a 4°C per 12 ore; le proprietà tossiche riguardano attività litica su cellule varie;
-gamma e delta: meno frequenti; presentano attività litica su cellule varie.
Le enterotossine sono proteine di 26.000-34.000 Da, termoresistenti, resistenti a pepsina e tripsina. Si
differenziano mediante reazione con anticorpi specifici in diversi tipi antigenici, A, B, C (C1, C2, C3) D, E. La
dose minima infettiva è di 200-500 ng.
Staphylococcus produce una serie di enzimi ad azione differente: la catalasi degrada l’acqua ossigenata in
acqua e ossigeno, mentre la termonucleasi o DNAsi è un enzima in grado di idrolizzare il DNA. E’
caratterizzata da elevata termoresistenza. . La coagulasi libera è una proteina extracellulare che si lega con
la protrombina dell’ospite, formando un complesso detto staphylocoagulasi in grado di trasformare il
fibrinogeno solubile del plasma in fibrina insolubile. Il clumping factor è una proteina legata alla parete
cellulare di S. aureus in grado di trasformare il fibrinogeno in fibrina.
La crescita di S. aureus avviene a temperature comprese tra 7° e 48°, con optimum a 37° C; il range di pH va
da 4 a 10, con optimum a 6-7; per la crescita sono necessari valori di aW di 0,98.
I sintomi compaiono dopo 30 min - 6 ore dall’ingestione dell’alimento contaminato con le tossine e si
manifestano con nausea, vomito, crampi addominali, diarrea, prostrazione, apiressia. Il microrganismo
produce le tossine nell’alimento in dosi sufficienti a scatenare la malattia quando è presente a livelli di
almeno 105 -106 UFC/g.
Gli alimenti che sono manipolati dall’uomo sono potenzialmente contaminabili da S. aureus. Gli alimenti
principalmente coinvolti in tossinfezioni sono i prodotti di pasticceria, la carne e prodotti carnei, latte e
derivati e preparazioni a base di uova.
-LISTERIA MONOCYTOGENES
Al genere Listeria appartengono 8 specie: L. monocytogenes, L. innocua, L. ivanovii, L. welshimeri, L.
seeligeri, L. grayi, L. murrayi e L. denitrificans. Di queste 8, L. grayi e L. murrayi hanno collocazione incerta,
mentre L. denitrificans è stata spostata nel genere Murraya.
Tre specie del genere Listeria producono ß-emolisi: L. seeligeri e L. ivanovii, generalmente patogene per gli
animali e solo eccezionalmente per l’uomo e L. monocytogenes patogena per l’uomo e per gli animali.
L. monocytogenes è un corto bastoncino, Gram positivo, non sporigeno; non forma capsule, è mobile per
flagelli peritrichi che gli consentono una motilità “rotatoria”. Talvolta può presentarsi con cellule curve,
singole o in corta catena con disposizione a forma di V o Y. E’ catalasi positivo, ossidasi negativo, rosso-
metile (RM) e Voges Proskauer (VP) positivo. Non idrolizza urea, gelatina e caseina. Non riduce i nitrati, non
produce indolo e idrogeno solforato; è un microrganismo aerobico e microaerofilo.
Fermenta glucosio, fruttosio, mannosio, galattosio, cellobiosio, trealosio e saccarosio; la fermentazione di
lattosio, maltosio, saccarosio, glicerolo e sorbitolo è invece ritardata. Il glucosio é fermentato a 37°C
secondo lo schema glicolitico con produzione quasi esclusiva di acido lattico.
Da un punto di vista sierologico L. monocytogenes contiene 13 sierotipi (1/2a, 1/2b, 1/2c, 3a, 3b, 3c, 4a,
4ab, 4b, 4c, 4d, 4e, 7). di cui solo il 4b, l’1/2a e l’1/2b sono risultati responsabili di listeriosi.
Cresce a temperature comprese fra 3 e 45°C con ottimo di sviluppo a 30-37°C. Cresce a pH compresi tra 5 e
9 e in presenza di NaCl al 10%.
La listeriosi è considerata una zoonosi anche se la trasmissione da animali all’uomo è stata raramente
dimostrata. L’isolamento del microrganismo da sorgenti quali suolo e vegetazione in decomposizione,
fanno supporre un’esistenza saprofitica nel sistema pianta-suolo che potrebbe rappresentare un naturale
serbatoio di trasmissione. L. monocytogenes è stata spesso associata al tratto intestinale o con infezioni
latenti di una grande varietà di animali selvatici e domestici; inoltre, gli uccelli sono possibili vettori
responsabili della contaminazione dei foraggi insilati. E’ ormai accettato che la via orale sia la normale via di
ingresso di L. monocytogenes (ma anche la via oculare, nasale, respiratoria e cutanea) e il tratto gastro-
intestinale il primario sito di infezione in seguito all’ingestione di alimenti contaminati, considerati il
maggior veicolo di trasmissione. Allo stato attuale, pertanto, L. monocytogenes è considerato un patogeno
trasmissibile con gli alimenti. A differenza di altri microrganismi trasmessi con gli alimenti, L.
monocytogenes colpisce organi diversi dall’apparato digerente, come il sistema nervoso centrale,
l’apparato cardiovascolare, l’apparato respiratorio, gli occhi, le ossa e la pelle, determinando forme cliniche
diverse.
Le manifestazioni cliniche della listeriosi umana differiscono tra i gruppi più suscettibili: nelle donne in stato
di gravidanza si hanno sintomi simil-influenzali talora faringite e diarrea e solo occasionalmente meningite.
L’infezione può essere trasmessa al feto per via intraplacentare, o durante il parto. Il neonato colpito da
listeriosi può presentare gravi affezioni del sistema respiratorio, insufficienza cardiaca, cianosi,
granulomatosi infantisettica, setticemia e meningite. Le manifestazioni cliniche meglio conosciute ed anche
le più severe sono rappresentate dalla meningite e dalla meningoencefalite.
Nei bambini i sintomi principali sono respirazione frequente, cianosi, letargia, in genere seguita da delirio e
coma.
Negli adulti si ha una prima fase, di circa 10 giorni, con sintomi di tipo influenzale, seguita da febbre alta,
disturbi al sistema nervoso centrale, coma e morte.
Altre manifestazioni della listeriosi, spesso atipiche, sono rappresentate da setticemie, endocarditi,
faringite, ascessi polmonari, pleurite, congiuntiviti, lesioni e ascessi cutanei. Nonostante le recenti epidemie
la listeriosi umana risulta una malattia sporadica, con un’incidenza media di 4-8 casi all’anno, ma una
mortalità che raggiunge valori anche del 70%, con una media attorno al 20-22%.
I meccanismi d’azione di L. monocytogenes, che causano listeriosi, non sono del tutto chiari: oltre all’effetto
emolitico, differenti enzimi e attività metaboliche possono essere coinvolti nei processi infettivi, come la
catalasi, la superossidodismutasi e i sistemi di trasporto del ferro. L’emolisina prodotta da L.
monocytogenes, chiamata listeriolisina O (uno dei principali fattori di virulenza) è una tossina batterica, di
natura proteica, a gruppo sulfidrico attivato (-SH). L’attività litica su cellule dei tessuti e sui globuli rossi è
inibita da bassi livelli di colesterolo o di agenti ossidanti mentre viene aumentata da agenti riducenti.
Forse il più grave caso di listeriosi è quello avvenuto in California nella prima metà del 1985. Vi furono 142
casi, di cui 93 infezioni materno-fetoneonatali e 49 in adulti, con un totale di 48 morti (34%). L’infezione
risultò collegata con l’ingestione di formaggio di tipo Messicano (Jalisco cheese) fabbricato da un singolo
produttore. Il sierotipo 4b fu isolato dal formaggio e nell’impianto di produzione. Le probabili cause della
presenza di L. monocytogenes furono imputate ad una eventuale miscelazione di latte crudo a quello
pastorizzato o ad una contaminazione postpastorizzazione.
-Latte
Numerose indagini sono state condotte in tutto il mondo per valutare l’incidenza di L. monocytogenes in
questo alimento, e il suo comportamento nel prodotto contaminato artificialmente.
Molte indagini condotte sul latte crudo in vari paesi del mondo hanno evidenziato un’incidenza variabile di
L. monocytogenes nel latte crudo. Sebbene eccezionalmente, L. monocytogenes è stata ritrovata anche nel
latte pastorizzato.
La tolleranza del microrganismo ai trattamenti di pastorizzazione è oggetto di numerose controversie: L.
monocytogenes fu ritrovata nel latte dopo pastorizzazione a 61,7°C per 35 min, ma successive ricerche
dimostrarono che tale presenza era da imputare alla inadeguata procedura usata per determinarne la
termoresistenza.
Studi condotti trattando il latte crudo inoculato con 10 5 cellule/ml di L. monocytogenes indicarono un
valore di D a 71,7°C di 0,9 sec (limiti tra 0,8 e 1,1 sec), sufficiente per inattivare 15 log 10 di L.
monocytogenes.
Molte ricerche sono state condotte sulla localizzazione intracellulare di L. monocytogenes nei leucociti
polimorfonucleati e nei macrofagi presenti nel latte vaccino, come possibile causa della sua
termoresistenza, ma tali ricerche hanno evidenziato che questa posizione intracellulare non aumenta di
molto la termoresistenza del microrganismo.
In definitiva, i numerosi studi condotti sulla termoresistenza di L. monocytogenes consentono di concludere
che, sebbene L. monocytogenes rientri tra i batteri asporigeni difficili da distruggere negli alimenti, con le
cariche in cui essa si ritrova normalmente nel latte crudo, i procedimenti tradizionali di pastorizzazione
(72°C per 15 sec) risultano sufficienti per garantire la sicurezza del consumatore.
Il latte crudo può essere facilmente contaminato da L. monocytogenes dopo la raccolta attraverso sorgenti
ambientali (suolo, feci, insilati, ecc.) o essere escreto dalla mammella di animali infetti già contaminato.
E’ stato trovato che vacche mastitiche possono eliminare il patogeno nel latte a livelli di 10 4-105 cellule per
ml, con possibilità di moltiplicazione che dipende dalla temperatura di conservazione del latte post-
raccolta.
La capacità di L. monocytogenes di crescere alle temperature di refrigerazione, ha determinato una vasta
ricerca riguardo il suo comportamento nel latte conservato a basse temperature. Tali ricerche dimostrano
che in latte conservato a 4°C, il patogeno presenta tempi di generazione variabili da 25 a 45 con tempi di
lag-fase fra 3 e 5 giorni.
L. monocytogenes, inoculata in latte crudo di vacca, di capra e di bufala a livelli di 10 3 UFC/ml, dopo 72 ore
di conservazione a 5°C subisce incrementi di 1 log in tutti e tre i tipi di latte. Alcuni ricercatori hanno trovato
che colture di L. monocytogenes cresciute a 4°C risultavano più virulente di quelle cresciute a 37°C. Dai
risultati sulla psicrotrofia di L. monocytogenes ne consegue che la refrigerazione del latte fornisce una
limitata protezione contro questo microrganismo garantendo solo un rallentamento dei tempi di sviluppo.
Numerosi studi sono stati fatti anche sul comportamento di L. monocytogenes durante le fasi di
preparazione dei salami, sia freschi che fermentati. In generale, nella maggioranza degli esperimenti è
riportata una riduzione di L. monocytogenes di almeno 100 volte durante la fabbricazione dei salami
fermentati; riduzione della crescita che viene imputata all’azione combinata dell’acidità, dell’attività
dell’acqua, di sale e di nitriti e nitrati. In ogni modo, i processi di fermentazione e di essiccazione dei salami,
così come l’aggiunta di vari additivi, alle concentrazioni consentite, possono essere visti come un mezzo per
ridurre ma non per eliminare L. monocytogenes dal prodotto. Anche nel caso dei prodotti carnei una
maggiore garanzia contro il pericolo di listeria può essere assicurata dall’aggiunta di adatte colture
protettive produttrici di batteriocine ad attività antilisterica.
-numerazione di Listeria monocytogenes in alimenti da consumarsi previa cottura, con la tecnica MPN
1) Preparazione del campione: In un sacchetto sterile aggiungere 10 g di campione e 90 ml di Acqua
peptonata tamponata. Omogeneizzare per 1-2 min in Stomacher. Preparare diluizioni seriali decimali fino
alla diluizione 1:1000.
2) Semina provette: Seminare in triplice 1 ml delle diluizioni (1:10; 1:100 e 1:1000) in 9 ml di Frazer Broth.
3) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare a 32°C per 24-48 ore.
4) Isolamento su terreno selettivo e differenziale: Strisciare con ansate di coltura da ciascuna provetta che
presenti annerimento del brodo su una piastra di Oxford agar.
5) Temperatura (°C) e tempo (h) di incubazione: Incubare le piastre a 37° C per 24+24 ore.
6) Selezione di colonie tipiche e loro isolamento in coltura pura: Annotare la comparsa di colonie sospette
(tipiche) che presentino le seguenti caratteristiche: piccole (1mm di diametro) grigiastre circondate da un
alone nero dovuto all’idrolisi dell’esculina. Dopo 48 tendono a diventare più scure e più grandi leggermente
infossate nel terreno con centro concavo. Prelevare almeno 5 colonie tipiche e strisciarle su piastre
contenenti un terreno nutritivo non selettivo (ad esempio TSA con aggiunto lo 0,6% di estratto di lievito).
Incubare le piastre a 35-37° C per 24 ore.
7) Identificazione (Conferma dell’isolato): Morfologia delle cellule: L’osservazione microscopica deve
rilevare la presenza di bastoncini.
-Gram-reazione: l’osservazione microscopica deve rilevare la presenza di bastoncini Gram positivi (colorati
in violetto).
-Catalasi: il test deve rilevare lo sviluppo di effervescenza (sviluppo di gas) che indicherà la presenza
dell’enzima.
-Mobilità: inoculare per infissione in Motility medium un’ansata della coltura del ceppo cresciuto per 24 ore
in TSB a 20-25°C, ed incubare a 25°C per 48 ore. I batteri mobili cresceranno anche intorno al punto di
infissione (tipica crescita "ad ombrello").
-Emolisi su agar sangue: inoculare per infissione più punti di una piastra contenente Agar sangue. Dopo
incubazione a 37°C Listeria monocytogenes presenta zone di beta emolisi molto strette.
-Prove biochimiche: Fermentazione del ramnosio: (+)
Fermentazione dello xylosio: (-)
Fermentazione del mannitolo: (-)
Prova biologica: si iniettano in 5 topini Swiss 0,1 ml di una sospensione in soluzione fisiologica del
sedimento della coltura del ceppo in esame cresciuto per 24 ore in TSYB. Si osservano i topi per 5 giorni. Dai
risultati dei vari test si determina il MPN/g dalle apposite tavole.
-limiti per Listeria monocytogenes in alimenti sfusi o preconfezionati destinati per loro natura ad essere
consumati previa cottura o che rechino sulla confezione la dizione “da consumarsi previa cottura”
1) Alimenti crudi non sottoposti a trattamento di riscaldamento: non oltre 11/g in 1 uc; non oltre 110/g in 2
uc.
2) Alimenti congelati o surgelati: non oltre 11/g in 2 uc; non oltre 110/g in 3 uc.
3) Alimenti precotti o pastorizzati: non oltre 11/g in 4 uc; non oltre 110/g in 1 uc.
-composizione chimica
Il valore alimentare del latte dipende innanzitutto dal suo contenuto proteico: la caseina e la lattoalbumina
sono proteine complete, cioè contengono tutti gli amminoacidi necessari per il fabbisogno dell’organismo.
-La percentuale di ACQUA nel latte varia molto a seconda dell'animale: si va da circa l’80% nella pecora fino
a circa il 90% nella cavalla. Nel latte di vacca l'acqua è mediamente l'87.5%. Essa contiene sostanze disperse
allo stato di soluzione.
-Gli ZUCCHERI presenti nel latte sono suddivisi in zuccheri neutri (lattosio e suoi derivati), zuccheri azotati
(N-acetilglucosammina, N-acetilgalattosammina) e in zuccheri acidi (acido sialico).
Il lattosio è un disaccaride costituito da galattosio e glucosio, ed è presente sotto le due forme isomeriche,
α e β, che si differenziano per la posizione dell’ossidrile sul carbonio 1 del glucosio. E’ il componente del
latte più abbondante ed è esclusivo delle ghiandole mammarie: il latte vaccino ne contiene il 4.5% circa.
Viene idrolizzato nei suoi monosaccaridi componenti dall’ enzima beta-galattosidasi (o lattasi); questo
enzima è prodotto da numerose specie batteriche. La fermentazione del lattosio operata dai batteri lattici è
una delle fermentazioni alimentari più antiche conosciute.
Il lattosio, in persone deficienti di lattasi è in grado di causare intolleranze nei riguardi del latte.
-Il contenuto in PROTEINE del latte si aggira intorno al 3,4-3,5%, ed è formato dall’80% di caseina e dal 20%
di sieroproteine. La caseina è una proteina costituita da varie frazioni denominate α, β, γ, k, di ognuna delle
quali si conosce un certo numero di varianti genetiche. Le caseine si ritrovano nel latte sotto forma di
micelle, cioè, complessi macromolecolari che inglobano sali minerali. La caseina coagula per azione di
enzimi proteolitici; quando precipita da origine alla cagliata, la base per produrre i formaggi.
Le sieroproteine sono finemente disperse e più stabili delle micelle di caseina; nel latte vaccino
rappresentano circa il 20% dell’azoto proteico. Sono rappresentate principalmente dalla β-lattoglobulina e
α-lattoalbumina, e rispetto alle caseine contengono meno acido glutammico e prolina e più amminoacidi
solforati. Non precipitano per effetto degli enzimi, ma si separano dal siero (coagulano) con la temperatura.
-L’azoto non proteico, si ritrova nel latte vaccino dal 3% all’8% dell’azoto totale del latte; il più abbondante
è l’urea, che svolge una funzione tecnologica importante, essendo un fattore di stabilizzazione delle micelle
proteiche durante il riscaldamento del latte; altre sostanze azotate non proteiche sono rappresentate dagli
amminoacidi liberi.
-La composizione in LIPIDI varia dal 3% all’8%; possiamo distinguere i lipidi in neutri (trigliceridi, 98% del
grasso), fosfolipidi (polari, 1%) e steroli. Si possono ritrovare per la maggior parte in forma libera (lipidi
neutri) e in parte legati alle proteine (fosfolipidi).
Il grasso del latte è presente come emulsione sotto forma di globuli che hanno un peso specifico inferiore
all'acqua e che quindi tendono a risalire in superficie, formando uno strato di crema.
-Il latte è ricco di SALI MINERALIS, anche se presenti in quantità molto piccole e variabili; essi sono
importanti sia da un punto di vista alimentare, sia da un punto di vista tecnologico, in quanto stabilizzano le
caseine durante il processo di coagulazione presamica.
-Il latte contiene numerose VITAMINE come A, B1, B2, B5 e B12, che sono in parte distrutte dai trattamenti
termici.
-caratteristiche chimico-fisiche
-Il latte presenta pH debolmente acidi; il latte vaccino presenta pH di 6,5-6,7. Valori di pH inferiori indicano
che il latte ha subito processi di acidificazione (elevata contaminazione microbica), mentre valori di pH più
alti fanno sospettare un latte mastitico o di fine lattazione. L’innalzamento del pH è da imputare ad un
maggiore contenuto di sieroproteine a scapito del contenuto in caseina.
-Il latte ha una sua acidità naturale che dipende dalla quantità di fosfati, citrati, CO2 e proteine presenti;
dopo la mungitura, in funzione della contaminazione microbica e della temperatura di conservazione, il
lattosio è fermentato dai batteri presenti ad acido lattico, con conseguente aumento dell’acidità. L’aumento
di acidità è sintomo di alterazione, dunque la determinazione dell’acidità è un indice di freschezza del
prodotto. Essa si esprime in °SH (gradi Soxhlet Henkel) e corrisponde ai ml di NaOH 0,25 N necessari a
neutralizzare, in presenza dell’indicatore fenoftaleina 100 ml di latte. Un buon latte ha un’acidità totale di
6,5-7,5°SH.
-La densità del latte varia con la specie di provenienza. Per il latte bovino, la densità è compresa tra 1,030 e
1,033 g/ml a 20°C. La misura della densità permette di verificare la genuinità del latte e l’assenza di
adulterazioni quali annacquamento, che farebbero variare la densità del prodotto.
-Il punto di congelamento è un indice di potenziale annacquamento del latte: le sostanze naturalmente
disciolte nel latte ne abbassano il punto di congelamento sotto i 0° C; un eventuale annacquamento fa
tendere il punto di congelamento verso lo zero. Il latte vaccino ha un punto di congelamento, di -0,55°C.
Il latte appena munto ha una temperatura di 37° C, favorevole alla crescita di microrganismi contaminanti.
Dunque, la refrigerazione rapida del latte a temperature di 4°C e la sua conservazione in locali puliti e
refrigerati (8° C per raccolta giornaliera, 6° C per raccolta non giornaliera) rappresenta una condizione
fondamentale per ridurre il tasso di crescita dei microrganismi presenti. Inoltre, la temperatura del latte,
durante il trasporto in autobotti (refrigerate) e fino alla destinazione agli stabilimenti, non deve mai
superare i 10°C.
S. thermophilus produce acido lattico (L+) fino al 1%, cresce a T=42-48°C, (min 19°, max 52° C), è
omofermentante, possiede l’enzima β-galattosidasi, cresce in presenza del 2,5% di NaCl e produce vitamine
(B12, B15), NH3 e CO2 da urea.
L. delbruekii bulgaricus, produce acido lattico (D-) da lattosio e glucosio in quantità >1,5%, cresce a
temperature ottimali di 42-45°C fino a 48-52°C. E’ omofermentante, possiede l’enzima β-galattosidasi, non
produce NH3 e CO2 da urea, produce vitamine B6, PP (niacina) e acido folico.
Il latte utilizzato (principalmente vaccino) nella produzione di yogurt deve possedere determinati requisiti di
qualità; prima di tutto deve essere privo di residui di detergenti o antibiotici e di batteriofagi, che
potrebbero determinare un rallentamento della fermentazione lattica con insufficiente acidificazione del
latte; inoltre, deve avere una buona qualità microbiologica (assenza di patogeni, basso livello di
microrganismi totali); un altro requisito da considerare è il contenuto proteico (più è alto, più lo yogurt sarà
cremoso).
In primis, il latte subisce filtrazione o blanda centrifugazione, in modo da allontanare il materiale grossolano
(paglia, peli, foglie). Successivamente, subisce standardizzazione del contenuto di grasso, portandolo allo
0,1% (yogurt magro) o 3-3,5% (yogurt intero). Per preparare yogurt zuccherato o alla frutta è necessario
aggiungere zucchero in quantità non superiore al 10%. In yogurt alla frutta ma non in quelli naturali, si
possono aggiungere conservanti quali acido sorbico, diossido di zolfo e acido benzoico, mentre per alcune
tipologie possono essere aggiunte sostanze stabilizzanti come gelatina, pectine e agar, vitamine e/o sali
minerali e altri ingredienti come cacao, malto, farina di cereali o sostanze prebiotiche come l’inulina.
Successivamente, si procede alla correzione del contenuto proteico, tramite concentrazione (evaporazione
o ultrafiltrazione) della miscela o per aggiunta di proteine fino al 3,8-3,9%. Dopodiché la miscela viene
omogeneizzata a temperature comprese tra 60 e 90° C e a pressioni di 150-250 atm, allo scopo di ridurre le
dimensioni dei globuli di grasso e prevenire il loro affioramento durante la fermentazione.
In seguito, la miscela subisce trattamento termico (85-90 °C per 10-30 minuti) allo scopo di inattivare i
batteriofagi e enzimi quali lipasi e proteasi microbiche e di ottenere la denaturazione delle siero-proteine
con un aumento dell’attitudine alla coagulazione acida del complesso sieroproteine-caseine denaturate.
Ancora, con il trattamento termico si ha un abbassamento del potenziale redox per allontanamento
dell’ossigeno e la liberazione di gruppi sulfidrilici; questi fenomeni consentono una rapida fermentazione ed
una maggiore stabilità verso le ossidazioni. Dopo la pastorizzazione, la miscela lattea è raffreddata a 40-
45°C e inoculata con Streptococcus thermophilus e Lactobacillus delbrueckii subsp. bulgaricus in rapporto
1:1 o 2:1 e nella misura dell’1%. In genere il processo di fermentazione a temperatura di 40- 45°C dura da 3
a 9 ore. Lo yogurt tradizionale può essere preparato secondo 2 tipologie:
-a coagulo rotto: : la miscela lattea pastorizzata è inoculata con lo starter microbico e quindi fermentata a
40-45°C per 3-9 h in fermentiere o maturatori. Al termine della fermentazione, si esegue la rottura del
coagulo, il raffreddamento a 20°C e la lisciatura. A questo punto è possibile aggiungere frutta o altri
ingredienti, quindi lo yogurt è confezionato. Per la tipologia di yogurt liquido (da bere), il confezionamento
è preceduto da una fase di omogeneizzazione. Segue dunque la conservazione a 4°C.
-a coagulo compatto: la miscela lattea pastorizzata è inoculata con lo starter microbico (eventualmente si
aggiunge frutta) e quindi distribuita in vasetti, che dopo chiusura, sono messi a fermentare a 40-45°C per 3-
9h.
L’associazione delle due specie microbiche porta a effetti sinergici che si traducono in una serie di eventi di
natura microbiologica, chimico-fisica e nutrizionale. Streptococcus thermophilus e Lactobacillus delbrueckii
subsp. bulgaricus sono entrambi omofermentanti obbligati, producendo dalla fermentazione del lattosio
quasi esclusivamente acido lattico. Il lattosio viene così idrolizzato dalla beta-glucosidasi in glucosio e
galattosio. Il glucosio è convertito secondo la via glicolitica ad acido piruvico e quindi, tramite l’enzima
lattico-deidrogenasi in acido lattico in quantità finale nello yogurt di 0,8 - 1,3% e abbassando il pH a valori di
3,9-4,2. L’acido lattico è responsabile della destabilizzazione delle micelle caseiniche con conseguente
coagulazione del latte, in quanto tali micelle precipitano a pH 4,6 (loro punto isoelettrico), perdendo la loro
solubilità e aggregandosi, formando un gel che ingloba tutti i costituenti del latte e gli dona il suo aspetto
caratteristico. Solo il 20-40% del lattosio è convertito in acido lattico, per cui nello yogurt, rimane un residuo
di lattosio compreso tra 2,5 e 3,5% e una quantità di galattosio compresa tra 0,4 e 1,3%. Durante il processo
sono prodotti diversi composti aromatici, in particolare aldeide acetica. Il prodotto risulta digeribile anche
per chi ha intolleranze al lattosio, in quanto al suo interno sono presenti galattosidasi, proteasi e peptidasi.
Nello yogurt sono presenti anche altri composti carbonilici quali acetone (1-4 ppm), acetoino (2,5-4,0 ppm)
e diacetile (0,5-1,0 ppm). Si registra anche un aumento di acidi nucleici, mentre vitamina B12 e acido
pantotenico si riducono; aumenta la concentrazione di acido folico, niacina, acido benzoico, acido succinico,
acido acetico e acido fumarico; l’acido ippurico scompare totalmente.
L’associazione tra Streptococcus thermophilus e Lactobacillus delbrueckii ssp. bulgaricus nello yogurt
rappresenta il caso più noto di protocoperazione mutualistica e si traduce nella produzione di una quantità
di acido lattico maggiore di quella prodotta da ciascuna delle due specie quando crescono separatamente.
Anche la formazione di composti aromatici tipici dello yogurt aumenta come conseguenza di questa
cooperazione.
Streptococcus thermophilus è stimolato da aminoacidi e da corti peptidi che sono liberati dalle proteine del
latte ad opera di Lactobacillus delbrueckii subsp. bulgaricus. La crescita di Lactobacillus delbrueckii subsp.
bulgaricus è invece stimolata da composti prodotti da Streptococcus thermophilus quali acido folico,
anidride carbonica ed acido formico. Durante la conservazione dello yogurt si assiste ad importanti
variazioni del numero di Streptococcus thermophilus e di Lactobacillus delbrueckii subsp. bulgaricus (da
108-1010 UFC/ml a 107 UFC/ml dopo 30 giorni a 4°C). Temperature maggiori (14-15°C) di conservazione
portano ad una più rapida diminuzione della carica che può scendere anche al di sotto di 5x10 6 UFC/g.
Il latte destinato alla caseificazione deve rispondere a ben determinati requisiti microbiologici.
Gli operatori del settore alimentare che fabbricano prodotti lattiero-caseari devono porre in atto procedure
intese a garantire che, immediatamente prima della trasformazione: a) il latte crudo di vacca utilizzato per
fabbricare i prodotti lattiero-caseari abbia un tenore di germi a 30 °C inferiore a 300.000 per ml e il latte di
vacca trasformato utilizzato per fabbricare i prodotti lattiero-caseari abbia un tenore di germi a 30°C
inferiore a 100.000 per ml. Se il latte non risponde ai criteri di cui al punto 1, gli operatori del settore
alimentare devono informare l’autorità competente e prendere misure volte a correggere la situazione. Il
latte deve essere inoltre privo di antibiotici e deve avere caratteristiche sensoriali normali.
La fermentazione del latte è il risultato dell’azione di enzimi apportati con il caglio o naturalmente presenti
nel latte e dell’attività metabolica esercitata dai microrganismi (naturalmente presenti nel latte o aggiunti).
La fermentazione del latte può durare da 1 a 5 ore e comporta il passaggio del latte dallo stato liquido allo
stato di gel e avviene mediante modificazione fisico-chimica delle caseine del latte. L’azione del caglio e
dell’acido lattico prodotto dai batteri lattici provoca la formazione di una rete proteica che ingloba il siero e
gli altri costituenti.
La coagulazione (precipitazione delle caseine a seguito di acidificazione) nella produzione dei formaggi è
sempre di tipo presamico-acida, con prevalenza della coagulazione presamica.
L’abbassamento del pH determina il rilascio da parte delle caseine di P e Ca, con conseguente
demineralizzazione e disgregazione delle micelle, e la destabilizzazione delle caseine che precipitano.
Il caglio, o presame, è una soluzione enzimatica prodotta dall’abomaso di ruminanti lattanti. Presenta
azione proteolitica specifica sulla K-caseina e azione proteolitica generale. La sua attività ottimale si ha a
valori di pH intorno a 5 e a temperature tra 32 e 40°C.
I meccanismi della coagulazione presamica si possono così riassumere:
• la chimosina degrada specificamente la K-caseina idrolizzando il legame Fenilalanina-Metionina in
posizione 105-106, con produzione di caseino-macropeptide solubile in acqua (quindi rimane nel siero) e
para-K-caseina insolubile, che rimane legato alla micella;
• aggregazione delle micelle modificate mediante legami minerali (Ca e P) con formazione del gel (coagulo);
• il distacco del caseinoglicopeptide determina la perdita dello stato di idratazione delle micelle e la loro
flocculazione.
Nel corso della maturazione della cagliata, i batteri lattici presenti (10 6 UFC/ml) fermentano il lattosio con
produzione di acido lattico e, intrappolati nella fase solida, si moltiplicano fino a raggiungere livelli di 10 9 –
1010 UFC/g, preparando la cagliata alla stagionatura; in questa fase vengono prodotti altri metaboliti che
daranno aroma al prodotto.
Gli enzimi naturali del latte, quali Plasmina (che agisce sulla βcaseina con produzione di γ-caseina; pH
ottimale 8-8,5) e la Proteasi acida (agisce sull’ α S1- caseina; pH ottimale 4) si trovano nel formaggio a pH
sfavorevoli, mentre gli enzimi del caglio (pH ottimale 4-8) sono distrutti nella fase di cottura e inibiti dal
sale.
Un ruolo fondamentale nella maturazione dei formaggi è svolto dagli enzimi microbici, che sono prodotti
non solo dai microrganismi usati come starter o presenti naturalmente nel latte di partenza, ma anche da
microrganismi che contaminano il prodotto nel corso della caseificazione.
In maniera schematica si può dire che le trasformazioni enzimatiche riguardano e determinano:
• metabolizzazione dell’acido lattico da parte di lieviti, muffe e batteri propionici;
• idrolisi dei trigliceridi in acidi grassi liberi;
• idrolisi delle caseine in peptidi, aminoacidi e composti aromatici;
• modificazioni del pH e dell’attività dell’acqua;
• ammorbidimento della pasta;
• formazione della crosta;
• modifica dell’aspetto;
• sviluppo dell’aroma e del sapore del formaggio;
• colonizzazione microbica della crosta.
Tra i batteri predominano ceppi e specie di batteri lattici quali Lactobacillus, Lactococcus, Streptococcus,
Leuconostoc ed Enterococcus, ma anche ceppi e specie di micrococchi e stafilococchi, propionibatteri,
corinebatteri. Occasionalmente possono essere presenti batteri alterativi (clostridi, bacilli, coliformi) e
patogeni (L. monocytogenes, Salmonella e altri). Anche alcuni lieviti (Debaryomyces hansenii,
Kluyveromyces marxianus, Yarrowia lipolytica) svolgono un ruolo importante nella maturazione dei
formaggi, soprattutto nella metabolizzazione del lattato e, in alcuni casi, per la loro attività lipolitica,
contribuendo a determinare le caratteristiche tipiche dei formaggi.
Generalmente lo sviluppo di muffe è considerato segno di alterazione, ma per alcuni formaggi a crosta
fiorita (camembert e brie) e erborinati (gorgonzola) le muffe sono inoculate come colture selezionate.
Il ruolo delle muffe è quello di svolgere principalmente le seguenti azioni:
• utilizzazione del lattato, con conseguente disacidificazione e addolcimento del prodotto;
• attività lipolitica e proteolitica i cui prodotti di degradazione conferiscono al prodotto le caratteristiche
sensoriali ed organolettiche tipiche.
-classificazione formaggi
In base alla temperatura di lavorazione della cagliata
• Formaggi con pasta cruda: se la cagliata non subisce temperature superiori a 38°C.
• Formaggi con pasta semicotta: se la temperatura della cagliata non supera i 48°C.
• Formaggi con pasta cotta: se la temperatura della cagliata supera i 48°C.
In base al contenuto di grassi
• Formaggi grassi: contenuto di grasso superiore al 42%.
• Formaggi semigrassi: contenuto di grasso compreso tra il 42% e il 20%.
• Formaggi magri: contenuto di grasso inferiore al 20%.
In base alla consistenza della pasta
• Formaggi a pasta molle: contenuto di acqua superiore al 45%.
• Formaggi a pasta semidura: contenuto di acqua compreso tra il 40% e il 45%.
• Formaggi a pasta dura: contenuto di acqua inferiore al 40 %.
In base al tipo di latte
• Formaggio di latte vaccino.
• Formaggio di latte pecorino.
• Formaggio di latte bufalino.
• Formaggio di latte caprino.
• Formaggio di latte misto.
In base al tipo e periodo di stagionatura
• Formaggi freschi: non subiscono stagionatura e sono consumati quasi subito dopo la preparazione.
• Formaggi stagionati a maturazione breve: meno di un mese.
• Formaggi stagionati a maturazione media: meno di sei mesi.
•Formaggi stagionati a maturazione lenta: oltre i sei mesi.
Formaggi erborinati
Formaggi nel quale una muffa alimentare produce le caratteristiche venature e chiazze verdi, durante la
maturazione in ambienti freschi e umidi.
Formaggi a Pasta filata
sono caratterizzati da una filatura della cagliata in acqua bollente.
l Regolamento (CE) n. 2073/2005 del 15.11.2005 stabilisce i seguenti criteri per il formaggio:
a) Criteri di sicurezza alimentare: definiscono l’accettabilità di un prodotto alimentare messo in commercio.
b) Criteri di igiene del processo: definiscono il funzionamento accettabile del processo di produzione; sono
limiti consigliati per valutare se sono necessarie misure correttive per l’igiene del processo.
La carne è uno degli alimenti più facilmente deperibili, grazie alla sua superficie umida e ricca di nutritivi
che favoriscono lo sviluppo microbico.
La temperatura è forse il fattore ecologico estrinseco che più influenza lo sviluppo microbico sulla carne
conservata all’aria; la temperatura più bassa di conservazione della carne è -1,5° C, mentre la T minima di
crescita dei batteri psicrofili è di -3° C. L’uso di temperature di refrigerazione (da -1° a 7° C) determina una
riduzione della crescita batterica. Dei batteri che inizialmente contaminano la carne, solo il 10% è in grado
di crescere durante le fasi di conservazione refrigerata e di questi solo una parte è in grado di causare
alterazioni.
Le popolazioni batteriche predominanti durante la conservazione della carne sono rappresentate da specie
del genere Pseudomonas, da Brochothrix thermosphacta, da membri della famiglia delle
Enterobacteriaceae e da alcuni generi di batteri lattici.
Pseudomonas fragi, P. fluorescens e P. lundensis sono le tre specie di psicrotrifi gram-negativi che
dominano il sistema grazie al loro alto tasso di crescita e alla loro capacità di aderire molto più rapidamente
alla superficie della carne; la frequente dominanza di P. fragi sembra invece essere dovuta alla sua capacità
di utilizzare diverse sorgenti di ferro, la creatina e la creatinina.
La prima fase della colonizzazione della carne coincide con l’adesione, reversibile, delle cellule batteriche
alla superficie (può essere correlata a forze di van der Waals o altri fattori), cui segue un ulteriore stadio di
adesione che è irreversibile e comporta la formazione di uno strato adesivo di polisaccaridi esocellulari
(glicocalice).
Specie appartenenti ai generi Moraxella, Psychrobacter e Acinetobacter (Gram negativi) rivestono scarsa
importanza nell’alterazione della carne in quanto metabolicamente differenti da Pseudomonas, non
essendo in grado di utilizzare il glucosio.
Altro componente della microflora carnea è Brochothtix thermosphacta (specie isolata solo da carne e
ambienti ad essa correlati), che degrada il glucosio e il glutammato della carne (in aerobiosi il glucosio è
degradato principalmente ad acido lattico, mentre in anaerobiosi in acido lattico ed etanolo).
Alcune Enterobacteriaceae psicrotrofiche ,così come specie di alcuni generi di batteri lattici, possono
essere presenti sulla carne conservata all’aria.
Le modificazioni chimico-fisiche durante il processo di alterazione avvengono nella fase acquosa della
carne. La carne fresca generalmente presenta un pH compreso tra 5,5 e 5,8 e contiene, anche se in
concentrazioni più basse rispetto a quelle di proteine e grassi, sufficiente glucosio e altri carboidrati
semplici in grado di supportare crescite batteriche fino a 10 9 /cm2. Quando i livelli di Pseudomonas
giungono a circa107 /cm2 incominciano ad essere evidenti i primi sintomi dell’alterazione della carne che si
manifesta con la comparsa di odori anomali riconducibili a debole aroma di caseario. L’esaurimento dei
livelli di glucosio sulla superficie della carne (popolazione microbica a livelli di circa 10 8 /cm2 ) rende i cattivi
odori sempre più evidenti sfociando in quello che è notoriamente riconosciuto come “alterazione
sensoriale”. L’esaurimento del livello di glucosio nella carne determina in molte specie batteriche un
mutamento improvviso da un metabolismo saccarolitico ad un metabolismo degradativo degli aminoacidi,
con produzione di sostanze maleodoranti come ammoniaca, dimetilsolfuro, dimetildisolfuro e varie amine.
Esperimenti condotti in vitro a 5°C indicano che Brochothrix thermosphacta, quando è coinoculato con
popolazioni di batteri lattici, di Pseudomonas spp. o di Enterobacteriaceae, è inibito in presenza dei soli
batteri lattici. Il microrganismo continua ad essere inibito quando è fatto crescere in presenza di un mix di
batteri lattici ed Enterobacteriaceae ma non quando è coinoculato con batteri lattici e Pseudomonas spp.
Infine, B. thermosphacta, co-inoculato con tutte le altre popolazioni, domina il sistema insieme a
Pseudomonas spp., risultando i batteri lattici quelli maggiormente inibiti.
Le popolazioni microbiche presenti sulla carne sono influenzante anche dalla composizione gassosa
dell’atmosfera dell’ambiente. L’atmosfera di una confezione può essere modificata eliminando
completamente l’aria oppure sostituendola con miscele a concentrazione nota di CO 2, O2 e N2. Modificare
l’atmosfera gassosa consente di selezionare la microflora presente: , l’aumento della concentrazione di CO 2
con limitazione di quella di O2 seleziona una microflora che è dominata da batteri Gram-positivi. Il minor
tasso di crescita e i differenti attributi metabolici dei batteri Gram-positivi rispetto ai Gram-negativi,
determina un allungamento della shelf-life della carne in ATM.
Sulla carne sottovuoto, la microflora batterica è dominata da Lactobacillus, Carnobacterium e Leuconostoc.
SV può essere conservata per tempi di 10-12 settimane a temperature di 0°C, fino a che le caratteristiche
organolettiche diventano inaccettabili. L’odore anomalo di acido è essenzialmente impartito dalla
produzione di acido lattico ed acetico da parte dei batteri lattici. In alcuni casi anche la produzione di
composti solforati e l’inverdimento possono contribuire all’alterazione. Anche se con tassi di crescita e
livelli numerici massimi inferiori ai batteri lattici, nella carne conservata SV non è raro assistere alla crescita
di B. thermosphacta e di Enterobacteriaceae, come conseguenza dell’azione combinata di temperatura di
conservazione, concentrazione di CO2 e O2, permeabilità dei film, pH e contenuto di acido lattico.
Durante la conservazione, l’attività respiratoria dei tessuti della carne determina una variazione
nell’atmosfera gassosa: la concentrazione di O2 diminuisce fino a livelli inferiori all’1% mentre quella della
CO2 aumenta fino a valori di circa il 20%.
B. thermosphacta ha una buona tolleranza alla CO 2, ma la sua crescita sottovuoto viene inibita da pH
inferiori a 5,8. Allo stesso modo l’acido lattico e la CO2 inibiscono lo sviluppo delle Enterobacteriaceae in
condizioni anaerobiche, anche se aumenti di temperatura, di pH o permeabilità all’ossigeno della
confezione riducono fortemente tale effetto inibente.
La carne in atmosfera contenente il 100% di CO 2 può essere conservata fino a 3 mesi o più se la
temperatura è mantenuta a 0-1°C. In queste condizioni i batteri lattici rappresentano normalmente la
microflora dominante.
La composizione della microflora della carne conservata in AM costituita da miscele a diversi livelli di O 2
(60-80%) e di CO2 (20-40%) è strettamente dipendente dalla temperatura di conservazione e dal tipo di
carne. A temperature di 0°C predominano i batteri lattici.
La stabilizzazione dei prodotti carnei fermentati nei confronti delle alterazione deriva da una serie di eventi
microbiologici, fisici e biochimici, tra cui:
• l'abbassamento del pH, come conseguenza della fermentazione lattica del glicogeno o di glucidi
eventualmente aggiunti;
• l'abbassamento dell'attività dell'acqua (aw) per effetto dell'aggiunta di sale e della disidratazione che
accompagna la stagionatura;
• le condizioni termo-igrometriche che ricorrono durante la maturazione, che in genere risultano favorevoli
a microrganismi utili e sfavorevoli a microrganismi dannosi;
• la produzione di sostanze dotate di attività antimicrobica;
• l'eventuale aggiunta di additivi antimicrobici;
• l’azione dell'eventuale pratica di affumicamento.
L’approvvigionamento delle materie prime carnee ha l’obiettivo di garantire che le carni non siano
contaminate eccessivamente da microrganismi e che non siano attaccate da insetti o animali infestanti. La
carcassa deve essere certificata ed alla consegna deve avere una temperatura interna inferiore a 7°C ed un
valore di pH minore di 6 (opt. 5,8). Il ricevimento delle carni deve essere rapido e privo di possibilità di
contaminazioni.
Lo stoccaggio refrigerato ha lo scopo di evitare contaminazioni del prodotto, in attesa di essere
trasformato. In questa fase si attuano delle misure preventive: controllo della temperatura e dell’umidità
della cella, si dispone la merce secondo il sistema “first in – first out” al fine di garantire una corretta
rotazione dei prodotti; vengono frequentemente analizzate le carni dal punto di vista microbiologico
(tramite un laboratorio d’analisi di riferimento); sanificazione delle celle; addestramento del personale
addetto al processo.
Per ottenere un buon prodotto fermentato è necessario scegliere accuratamente la carne. In linea generale
una carne del tipo PSE (pale, soft, exudative) ovvero una carne con bassi valori di pH (inferiori a 5,3) può
essere utilizzata per salami a rapida acidificazione, mentre una carne DFD (dark, firm, dry) in grado di
trattenere molta acqua ed assorbire con difficoltà il sale, presentando elevati valori di pH (maggiori di 6,1),
non è indicata per nessuna tipologia di insaccato.
Ovviamente vanno considerate anche le caratteristiche microbiologiche della carne, che non deve essere
contaminata da germi patogeni quali Yersinia enterocolitica, Salmonella spp., Clostridium botulinum.
Anche il tipo di grasso impiegato influenza in maniera determinante le caratteristiche degli insaccati. In
linea generale, sono scelti tessuti adiposi (di origine suina) poveri di acidi grassi insaturi. Il grasso di gola è
utilizzato soprattutto nei salami a farcia fine, mentre il lardo è usato solo per produrre lardelli.
-insacco
Dopo la miscelazione, l’impasto viene insaccato in budelli, che possono essere naturali (costituiti da parti
esterne dell’intestino di suini, bovini, equini ed ovini) o artificiali (da fibre animali o vegetali). Presentano
molti vantaggi quali la costanza del calibro, la mancanza di flora microbica, l’assenza di odori, la facile
pelabilità della fetta.
-stagionatura
Nella fase di stagionatura si manipolano i 3 parametri fondamentali, ovvero la temperatura, il tempo e
l’umidità. Consiste di 3 fasi:
Stufatura ed asciugatura: durante la stufatura prendono il via i processi microbiologici operati dai batteri
utili, e si assiste alla distruzione di quelli dannosi. Gli insaccati sono messi in camere ventilate con umidità
relativa dell’84-90% e a temperatura di 18-20°C per 1-4 giorni per i prodotti a lunga maturazione e a 24-
26°C per 12-24 ore per i prodotti a rapida acidificazione. Nella fase successiva di asciugatura, gli insaccati
vengono portati ad una temperatura di 16-22° C e ad umidità relativa di 80-90%. Va opportunamente
controllata per evitare la formazione di incrostazioni dovute alla disidratazione del prodotto. In queste fasi
si assiste ad una diminuzione del pH e dell’a W.
Maturazione o stagionatura: La stagionatura propriamente detta è la fase più lunga la cui durata può
variare dalle 4 alle 8 settimane o più; in essa avvengono una serie di modifiche di natura microbiologica,
chimico-fisica, fisica e biochimica a carico dei costituenti dell’impasto. In generale, la temperatura di
stagionatura è mantenuta tra i 10-15°C e l’umidità relativa diminuisce passando da valori iniziali di 50-70% a
valori terminali del 30-45%.
Durante la fase di asciugatura, la sottrazione di acqua alle soluzioni saline nelle quali sono disperse le
proteine muscolari ne determina una denaturazione irreversibile. Successivamente, durante il periodo di
maturazione le proteine sono idrolizzate in polipeptidi, peptidi solubili a basso peso molecolare e
amminoacidi liberi.
La denaturazione proteica sembra essere imputabile sia ad enzimi costitutivi della carne, sia ad enzimi di
origine microbica che si sviluppano durante il processo di stagionatura. L’attività proteolitica durante la
stagionatura è dovuta prevalentemente alla catepsina D, la quale è attiva a bassi valori di pH ed è capace di
idrolizzare la miosina. Alle catepsine E, H ed L sembra essere dovuta invece, l’idrolisi dell’actina e dei suoi
prodotti di degradazione.
La proteolisi di origine microbica in prodotti carnei è ancora poco conosciuta e in generale si ritiene che le
proteasi microbiche non siano molto attive.
La proteolisi è uno dei più importanti cambiamenti biochimici che avvengono durante la stagionatura dei
prodotti carnei fermentati. Essa influenza lo sviluppo della tessitura e del flavour.
-modifiche a carico della frazione lipidica
I lipidi presenti nel tessuto adiposo sono per la maggior parte trigliceridi (99%) e in piccola parte colesterolo
e prodotti di degradazione di trigliceridi. I trigliceridi del tessuto adiposo sono costituiti dai seguenti acidi
grassi: 1,5% acido miristico, 25% acido palmitico, 14% acido stearico, 3% acido palmitoleico, 43% acido
oleico, 11% acido linoleico e 1% acido linolenico, mentre i lipidi del tessuto muscolare sono maggiormente
costituiti da trigliceridi (62-80%) e fosfolipidi (16-34%).
Durante la stagionatura, i trigliceridi e fosfolipidi sono idrolizzati ad opera delle lipasi endogene della carne
o prodotte da batteri e muffe; ciò si manifesta attraverso un calo della quantità di trigliceridi, con aumento
dei digliceridi, acidi grassi liberi e monogliceridi. Le lipasi di origine microbica derivano prevalentemente da
microrganismi appartenenti al genere Micrococcus e Staphylococcus. La loro attività lipolitica risulta
influenzata dalla temperatura, dal valore di pH e dalla forza ionica.
Durante la stagionatura, gli acidi grassi a lunga catena liberati dall’idrolisi dei lipidi subiscono trasformazioni
ossidative con produzione di diversi composti (alcani, aldeidi, chetoni, alcoli ecc…). Così, gli insaccati carnei
fermentati, possono acquisire diverse note aromatiche in funzione alla quantità dei composti ossidati
presenti nel mezzo ottenuti inoculando l’impasto carneo con diversi microrganismi. I lipidi possono subire
nel tempo anche delle alterazioni, tra cui l’idrolisi e l’irrancidimento ossidativo. L’ossidazione può essere
bloccata nella fase iniziale mediante l’aggiunta di antiossidanti che evitano la formazione dei radicali e di
conseguenza l’irrancidimento.
In conclusione, le modifiche che avvengono durante la stagionatura sono correlate tra di loro e il risultato di
tali cambiamenti si possono così riassumere:
• modificazione dell’aspetto esteriore: il budello diventa traslucido e si ricopre di una patina di batteri,
lieviti e muffe;
• modificazione dell’impasto: l’impasto di colore bruno acquista il caratteristico colore rosso brillante del
salame stagionato, grazie all’azione combinata dei batteri lattici e dei micro-stafilococchi sul nitrato
aggiunto all’impasto;
• modificazione della consistenza: dovuta all’effetto della saldatura fra magro e grasso con produzione di
una massa uniforme diventa soda ed elastica per mezzo della coagulazione delle proteine dovuta alla
disidratazione, all’acidificazione e all’azione del sale.
FRUTTA: molte popolazioni microbiche possono popolare le superfici della frutta, le cui specie e varietà
riflettono le condizioni colturali, di raccolta, di trasporto e stoccaggio della frutta stessa. Le alterazioni sono
dovute soprattutto allo sviluppo di muffe e lieviti; batteri lattici e acetici hanno più probabilità di svilupparsi
sui tessuti lesionati.
-microbiologia dei prodotti fermentati da forno
Sono prodotti cotti, ottenuti dalla levitazione spontanea o da colture starter di impasti costituiti da una
miscela di farina di cereali diversi (grano tenero o duro) e acqua. Le cariossidi di frumento presentano la
seguente composizione:
• glucidi 72%: amido 60-68%, pentosani 6.5%, cellulosa 2.0-2.5%, zuccheri riducenti 1.5%;
• protidi 10-13%: proteine solubili in acqua e sali (albumina 12%, globulina 4%), proteine insolubili in acqua
(gliadina 44%, glutenina 40%);
• lipidi 1.5-2.0%: gliceridi, fosfolipidi, steroli, tocoferoli (vitamina E);
• sali minerali 1.5-2.0%: fosforo, ferro, potassio, calcio, zolfo;
• vitamine: riboflavina (B2), niacina, acido folico, biotina, inositolo, xantofilla;
• enzimi: diastasi (alfa e beta amilasi), proteasi, maltasi, ossidasi.
Le varie tipologie di farina sono distinte in base al contenuto di ceneri, minimo nelle farine di tipo 00, più
alto nelle altre.
La farine viene addizionata di acqua, sale e lievito, e poi impastata. La formazione dell’impasto pronto per
essere infornato è il risultato delle modifiche strutturali del glutine: la fusione delle gliadine e glutenine
produce un complesso colloidale (glutine) che rappresenta l’intelaiatura dell’impasto.
Le unità di glutenina si associano in fibre che, allo stato idratato, costituiscono una struttura stabile, elastica
e resistente all’estensione. Sono inoltre responsabili della tenacità dell’impasto. Le unità di gliadina sono
legate fra loro formando fibrille ad elevatissimo peso molecolare con una struttura poco tenace e più
estensibile, perché non possiedono cisteina, che conferisce estensibilità al glutine. L’idratazione della farina
determina la solubilizzazione dello strato di proteine che avvolge i granuli di amido e la creazione di una
fitta rete di glutine che avvolge i granuli di amido.
Per la fermentazione dell’impasto si usano panetti di Saccharomyces cerevisiae, aggiunti all’impasto in
concentrazione del 2%; la lievitazione (fermentazione di glucosio e maltosio in etanolo e CO 2) comincia
rapidamente, la CO2 si accumula, facendo aumentare di volume l’impasto. Esistono diversi tipi di
lievitazione.
Gli impasti a lievitazione biologica (sostenuta da microrganismi) possono essere preparati secondo 3
tipologie:
Metodo istantaneo: tutti gli ingredienti sono miscelati contemporaneamente e, dopo una breve lievitazione
di 1-2 ore (a 30-40° C), l’impasto viene infornato.
Metodo diretto: tutti gli ingredienti sono miscelati contemporaneamente e, dopo una lievitazione di 6-12
ore (a 22-30° C), l’impasto viene infornato..
Metodo indiretto o naturale o impasto acido: acqua e farina non vengono aggiunti in una sola soluzione, ma
in momenti diversi del processo. Ne esistono di 3 tipi, il TIPO I (propagazione giornaliera, ottenuto per
fermentazione a tre o più stadi; pH finale di circa 3,9), il TIPO II (ottenuto per fermentazione prolungata, di
15-20 ore, operata da lievito panario) ed il TIPO III (preparazione secca di impasti acidi).
Le attività svolte dai lieviti e batteri lattici che influenzano le caratteristiche degli impasti sono l’attività
acidificante, attività lievitante, attività proteolitica e attività enzimatica. Le caratteristiche desiderate nei
ceppi di lieviti panari sono: l’adattamento al maltosio, l’acido-tolleranza, la tolleranza al congelamento e
l’osmotolleranza. I batteri lattici che popolano gli impasti acidi sono rappresentati principalmente da
Lactobacillus sanfranciscensis, Lb. sakei, Lb. brevis, Lb. reuteri, Lb. pontis e Pediococcus pentosaceus.
Svolgono diverse attività come l’abbassamento del pH e incremento dell’acidità titolabile con
miglioramento delle qualità sensoriali e allungamento del periodo di conservazione; la produzione di enzimi
e altri metaboliti ha influenza su aroma, sulla crescita dei lieviti e sulla lievitazione; vengono prodotte anche
amilasi e fitasi.
Le caratteristiche dei batteri lattici tipici degli impasti acidi riguardano:
l’alta capacità di adattarsi all’ambiente fisico-chimico degli impasti;
• la natura di essere anaerobi o microaerofili;
• l’acido tolleranza;
• la capacità di fermentare intensamente i carboidrati con formazione di acido lattico (omofermentanti) o
acido lattico, acido acetico, etanolo e CO2 (eterofermentanti).
I lieviti vinari originano dall’uva, da starter selezionati e, solo in parte, dalle attrezzature e l’ambiente di
cantina.
Famiglia Schizosaccharomycetaceae
-Genere Schizosaccharomyces: cellule globose o cilindriche; si moltiplicano per scissione; sono i principali
agenti della fermentazione malo-alcolica; le principali specie sono S. pombe, S. japonicum, S. octosporus.
Famiglia Schizosaccharomycoidaceae
Cellule apiculate (forma di limone)si moltiplicano per gemmazione. Da un punto di vista enologico sono
indesiderati in quanto responsabili dell’alta acidità volatile dei vini dell’Italia meridionale.
-Genere Hanseniaspora: H. uvarum (Kloeckera apiculata), H. guilliermondii (Kloeckera apis);
-Genere Saccharomycoides: S. ludwigii, il principale responsabile della fermentazione dei mosti muti;
Famiglia Saccharomycetaceae
Lieviti ascosporigeni.
-Genere Dekkera: presenti sia nei vini che nei mosti, il loro ruolo è ancora incerto. Produce elevate quantità
di acido acetico;
-Genere Pichia: privi di attività fermentativa, sviluppano alla superficie dei liquidi e sono agenti della fioretta
dei vini;
-Genere Torulaspora: T delbrueckii, presenta forte vigore fermentativo, buon potere alcoligeno e buona
resistenza agli antisettici, anche se non riesce a prendere il sorpavvento su Saccharomyces cerevisiae;
-Genere Zygosaccharomyces: presenti in mosti fermentati spontaneamente, hanno buona attività
fermentativa;
-Genere Saccharomyces: suddiviso in 2 gruppi, sensu stricto e sensu lato.
Nel mosto, dopo poche ore dalla pigiatura, si creano condizioni di anaerobiosi che impediscono lo sviluppo
di microrganismi dotati di metabolismo ossidativo, come batteri acetici e le muffe, favorendo quello dei
lieviti. Quando la concentrazione di alcool è prossima al 5% i lieviti apiculati arrestano la loro attività e
prende il sopravvento Saccharomyces cerevisiae che diventa padrone del processo portandolo a termine.
Oggi sono praticati numerosi interventi per evitare lo sviluppo dei “lieviti selvaggi” (apiculati) a favore dei
lieviti ellittici della specie Saccharomyces cerevisiae, tramite fermentazioni guidate che comprendono
l’impiego di lieviti selezionati, fermentazioni scalari e l’impiego di anidride solforosa.
Impiego di lieviti selezionati: si usano colture di Saccharomyces cerevisiae, con lo scopo di avere inoculi di
5-10 x 106 UFC/ml, di eliminare i lieviti apiculati e di ottenere una fermentazione costante e completa.
Fermentazioni scalari: possono essere condotte inoculando in successione il mosto con lieviti selezionati.
All’inizio il mosto è inoculato con Zygosaccharomyces veronae, Torulaspora delbrueckii, Kloeckera apiculata
e Candida stellata e, dopo 4-5 giorni, si procede all’inoculo di S. cerevisiae.
Impiego di anidride solforosa: si aggiunge ai mosti dopo pigiatura, in quantità comprese tra 50 e 150 mg/l.
Svolge azione selettiva sui lieviti, bloccando l’attività degli apiculati, inibizione dello sviluppo dei batteri
lattici, inibizione dello sviluppo dei batteri acetici, stabilizzazione dei vini sotto l’aspetto biochimico
impedendone le ossidazioni. Gli apiculati sono inibiti completamente a concentrazioni inferiori a 50 mg/l.
Nell’ambito di S. cerevisiae vi sono ceppi che si sviluppano anche a concentrazioni >di 150 mg/l, altri sono
inibiti anche da 30-40 mg/l.
-fermentazione malo-lattica
Reazione di decarbossilazione dell’acido L-malico ad acido L-lattico. Comincia 2-3 settimane dopo quella
alcolica e dura 2-4 settimane. E’ operata da batteri lattici quali Oenococcus oeni, Lactobacillus plantarum,
Lactobacillus casei ecc… Comporta un incremento del pH di 0,3-0,5 unità, che consente di avere vini più
amabili (dal punto di vista del gusto). Mentre per alcuni vini è un effetto desiderato (come i rossi), in altri
casi (come per i vini giovani in cui la freschezza è dovuta proprio all’acido malico) non sono desiderati. La
fermentazione malo-lattica avviene con un’intensità che dipende dal pH del vino, dalla quantità di anidride
solforosa e dalla temperatura. Attualmente come starter per la fermentazione malo-lattica sono utilizzati
esclusivamente ceppi selezionati di Oenococcus oeni.
Per determinare il grado alcolico di una birra si determina il peso specifico a 15°C di un distillato alcolico di
birra previamente privata di anidride carbonica. Quindi, dal peso specifico del distillato, mediante le tabelle
alcolometriche, si ricava l’alcol in grammi per 100 ml di birra (Alcol % p/v). Mentre, dal peso specifico del
residuo della distillazione, mediante specifiche tabelle (di Windish) si ricava il valore dell’estratto espresso
in grammi per 100 ml di birra (estratto % p/v). Il grado saccarometrico esprime la % di estratto contenuto
nel mosto impiegato per produrre la birra. Viene calcolato secondo l’equazione: Grado saccarometrico (v)
= Estratto (% p/v) + 2 alcol (% p/v).
-tipologie di birra
-Lager: è chiamata così ogni birra prodotta con la bassa fermentazione. Le birre Lager si caratterizzano per il
colore oro pallido e il sapore mediamente amaro.
-Pils/Pilsner: Sono birre a bassa fermentazione, con un colore che va dal giallo paglierino al dorato, un
marcato aroma di luppolo, gusto asciutto e pulito, bouquet fiorito e fragrante, schiuma abbondante con
perlage finissimo.
-Ale: birre ad alta fermentazione, di moderato contenuto alcolico e di poca schiuma, con colori e gradazioni
variabili, da bere a temperatura di cantina in boccali di vetro spesso e liscio.
-Stout: forte, come indica il nome, scurissima, con abbondante schiuma cremosa color nocciola e di gusto
amaro. Viene prodotta con orzo torrefatto e con l’aggiunta di caramello.
-Trappista: prodotte da monaci cistercensi, vengono rifermentate in bottiglia. Hanno una gradazione
robusta (da 6 a 9% vol.), colore che varia dall’oro carico all’ambrato allo scuro, schiuma ricca e gusto pieno.
-Abbazia: prodotte con il metodo dell’alta fermentazione seguendo in maniera fedele le antiche ricette di
monaci benedettini o cistercensi. Diffuse soprattutto in Belgio, sono generalmente corpose, di forte
contenuto alcolico (da 6 a 9% vol.) e di colorazione variabile dall’oro carico, all’ambrato, al rosso cupo, al
bruno scuro.
Appena deposte, le uova sono sterili internamente, ma alcuni microrganismi possono penetrarvi all’interno
in funzione di diversi fattori quali temperatura, umidità e livello di contaminazione del guscio. La
contaminazione prima della deposizione può essere trans-ovarica (tramite l’ingestione di alimenti o acqua
contaminati, i microrganismi arrivano alle ovaie per via sanguigna) o del guscio (microrganismi presenti
naturalmente nelle vie genitali dell’animale).
La contaminazione dopo la deposizione dipende dalle condizioni igieniche dell’allevamento, in funzione
delle quali i livelli microbici possono essere dell’ordine di 10 3 -105 UFC/cm2 per le uova pulite e di 10 7-108
UFC/cm2 per le uova sporche. Le specie contaminanti sono sia Gram + che Gram - .
La cuticola che copre i pori del GUSCIO lo protegge dalla penetrazione di microrganismi contaminanti.
Quando la cuticola è danneggiata, i microrganismi possono penetrare facilmente.
Il passaggio all’interno dell’uovo è favorito da vari fattori:
• fenomeni di suzione dall’esterno all’interno per formazione della camera d’aria;
• formazione di condensa dal passaggio refrigerato a temperatura ambiente;
• assottigliamento della cuticola e dello spessore del guscio;
• densità della contaminazione microbica;
• maggiore penetrazione dei batteri gram-negativi bastoncellari mobili (Pseudomonas, enterobatteri).
Quando la cuticola perde la sua attività protettiva, l’albume contrasta il raggiungimento dei microrganismi
verso il tuorlo mediante una serie di fattori:
• elevata viscosità;
• pH alcalino: 7,5 dopo la deposizione; maggiore di 9 durante la conservazione per perdita di CO2;
• lisozima: proteina enzimatica che idrolizza i legami β-1,4 del peptidoglicano della parete dei gram-positivi;
• conalbumina o ovotransferina: eteroproteina che chela il ferro, sottraendolo alla utilizzazione microbica
(soprattutto gram-negativi) impedendone lo sviluppo;
• avidina: proteina che lega la biotina (vitamina H);
• flavoproteina: lega la riboflavina (vitamina B12).
-definizioni
UOVA: le uova — diverse dalle uova rotte, incubate o cotte — di volatili di allevamento nel loro guscio,
adatte al consumo umano diretto o alla preparazione di ovoprodotti;
UOVA LIQUIDE: contenuto non trasformato delle uova dopo la rimozione del guscio;
UOVA INCRINATE: uova il cui guscio è danneggiato ma in cui la membrana è ancora intatta;
CENTRO DI IMBALLAGGIO: uno stabilimento in cui le uova sono calibrate in base alla qualità e al peso.
Nei locali del produttore e fino al momento in cui vengono vendute al consumatore, le uova vanno
conservate pulite, all’asciutto e al riparo da odori estranei, protette in modo efficace dagli urti e sottratte
all’esposizione diretta ai raggi solari. Le uova vanno immagazzinate e trasportate alla temperatura più
adatta, preferibilmente costante, per garantire una conservazione ottimale delle loro caratteristiche
igieniche. Le uova devono essere consegnate al consumatore entro un termine di ventun giorni dalla data
di deposizione.
Come criteri di sicurezza per prodotti a base d’uova e per gli alimenti contenenti uova crude, è stabilita
l’assenza di Salmonella in 25 g di prodotto in cinque unità campionarie. Per i prodotti a base d’uovo, il
regolamento fissa i seguenti criteri di igiene: enterobacteriaceae: n=5; m=10 ufc/g; M=100 ufc/g; c=2.
Per quanto riguarda la presenza di E. Coli, i limiti sono di 0/100 ml per l’acqua non imbottigliata e 0/250 ml
per l’acqua in bottiglia. Per quanto concerne gli Enterococchi, il limite è di 0/100 ml per l’acqua non
imbottigliata e 0/250 ml per l’acqua in bottiglia. Il limite di presenza di Pseudomonas aeruginosa è di 0/250
ml per l’acqua in bottiglia.
Per quanto concerne il conteggio delle colonie, a 22° C devono essere in quantità inferiori o uguali a 100/ml
per l’acqua in bottiglia; a 37° C il limite è 20/ml per l’acqua in bottiglia.
I limiti dei parametri microbiologici vanno rispettati nei seguenti punti:
a) per le acque fornite attraverso una rete di distribuzione, nel punto in cui queste fuoriescono dai rubinetti
utilizzati per il consumo umano;
b) per le acque fornite da una cisterna, nel punto in cui fuoriescono dalla cisterna;
c) per le acque confezionate in bottiglie o contenitori, rese disponibili per il consumo umano, nel punto in
cui sono imbottigliate o introdotte nei contenitori;
d) per le acque utilizzate nelle imprese alimentari, nel punto in cui sono utilizzate nell'impresa.
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Capitolo 1 – LA SICUREZZA NEL LABORATORIO DI MICROBIOLOGIA
La sicurezza degli ambienti di lavoro deve rappresentare un obiettivo fondamentale per garantire la salute
umana. L ’organizzazione e la gestione della tutela della salute nei luoghi di lavoro sono regolamentate dal
Dlgs. 81/2008. Nei laboratori didattici o di ricerca, numerose possono essere le possibilità di infortuni.
Risulta pertanto di fondamentale importanza conoscere in maniera dettagliata tutto ciò che è oggetto del
proprio lavoro, dei possibili pericoli e le norme per evitarli.
Le persone coinvolte nelle varie operazioni nei laboratori possono essere esposte ad una serie di pericoli
microbiologici, per cui è necessario condurre per ogni microrganismo un’analisi del rischio, in maniera da
stabilire le procedure di corretta prassi da adottare.
Di seguito sono descritte alcune norme e regole basilari di comportamento nel laboratorio di microbiologia:
Considerare il laboratorio come un ambiente in cui si è esposti a pericoli di varia natura: è dunque
importante esibire comportamenti ispirati dalla consapevolezza del lavoro da svolgere. Una buona
organizzazione, un approccio disciplinato, attenzione e buon senso assicurano che ogni operazione e attività
siano svolte in sicurezza e con successo.
Una volta nel laboratorio di microbiologia:
• Seguire sempre le istruzioni dell’istruttore o del docente;
• Chiedere sempre istruzioni prima di usare strumenti e prima di qualsiasi operazione;
• Nessuna procedura microbiologica deve essere applicata senza aver ricevuto appropriate istruzioni e
dimostrazioni dal personale istruttivo;
• Considerare le matrici alimentari oggetto di indagini come fonte potenzialmente di agenti biologici. La
preparazione del campione per le analisi va fatto sotto cappa a flusso laminare di aria sterile;
• Per minimizzare le possibilità di contaminazione degli operatori e dell’ambiente la manipolazione
eventuale di colture microbiche appartenenti al gruppo 1 deve essere fatta osservando i principi di buona
sicurezza ed igiene professionali nel rispetto delle Buone Norme di laboratorio;
• Qualsiasi attività deve essere effettuata in maniera tale da ridurre al minimo la formazione di aerosol;
• E’ vietato pipettare a bocca colture di microrganismi; usare micropipette o pro-pipette;
• Non depositare sui banchi di lavoro oggetti personali (vestiario, borse, libri);
• Indossare e abbottonare il camice; il camice va conservato in armadi diversi da quelli utilizzati per gli
indumenti personali;
• Lavarsi le mani prima e dopo ogni operazione di laboratorio e quando si lascia il laboratorio;
• E’ vietato conservare o consumare alimenti e bevande;
• E’ vietato fumare;
• Munirsi di dispositivi di protezione personale come guanti, occhiali, mascherine e altri quando particolari
operazioni lo richiedono (chiedere all’istruttore);
• Ponete particolare attenzione nell'uso di gas, della fiamma del becco Bunsen (proteggere, raccogliendoli, i
capelli lunghi per evitare il rischio di bruciarli)
• Ponete particolare attenzione agli apparecchi elettrici e alle prese di corrente;
• Segnalate agli istruttori qualsiasi malfunzionamento o situazione non comune;
• Trasportare le provette contenenti microrganismi sempre nell’apposito porta-provette;
• Avvertire gli istruttori in caso di sversamento di liquidi (anche quando si tratta di brodi di coltura
contenenti agenti biologici del gruppo 1);
• Al termine di ogni sessione di lavoro pulire i banchi di lavoro con una soluzione disinfettante usando i
guanti (alcol denaturato o altra soluzione disinfettante messa a disposizione dagli istruttori);
• Non asportate nessun materiale dal laboratorio (soluzioni, vetreria, piastre, pipette, colture batteriche
etc.);
• Seguite le istruzioni che vi saranno fornite al termine della sessione di lavoro per eliminare qualsiasi
materiale di scarto. Il materiale biologico viene smaltito in appositi contenitori dagli istruttori;
• Lavatevi accuratamente le mani prima di lasciare il laboratorio.
• Seguite le procedure in caso di emergenza (primo soccorso, lotta antincendio, evacuazione dei lavoratori,
ecc.) seguendo le istruzioni degli istruttori.
-PIANI DI CAMPIONAMENTO
I criteri microbiologici che definiscono l’accettabilità di un determinato prodotto alimentare, dettano il
piano di campionamento da adottare, con particolare riferimento al numero di campioni da sottoporre ad
analisi. Esistono piani di campionamento a due e a tre classi.
A due classi: In questo piano il campione può ricadere in una di due classi: accettato o rifiutato. Dunque
questi piani vengono usati per decisioni presenza/assenza.
n: numero di unità da campionare e da sottoporre ad analisi; per unità campionaria (u.c.) deve intendersi
una porzione singola o confezione di prodotto alimentare scelta a caso su cui si eseguiranno le analisi; m:
numero limite di batteri che determina l’inaccettabilità del lotto; c: numero massimo di unità campionarie
che possono superare il valore di m accettate per esprimere l’idoneità del lotto.
A tre classi: Il campione può ricadere nelle seguenti tre classi: da 0 a m; da m a M; al di sopra di M. n indica
sempre il numero di campioni sottoposti ad analisi; m: valore limite del numero di batteri (tutte le unità
campionarie devono avere valore inferiore ad m); M: valore massimo del numero di batteri tollerato, il
risultato è considerato insoddisfacente se il numero di batteri in una o più delle unità campionarie
analizzate è superiore ad M; c: numero delle unità campionarie il cui valore può essere compreso tra m ed
M, il campione viene considerato ancora accettabile se il numero di batteri delle altre unità campionarie è
pari o inferiore ad m.
Il piano di campionamento a tre classi ha una maggiore flessibilità nell’interpretare i risultati, in quanto una
piccola proporzione dei campioni analizzati (c) può superare, entro un certo limite, il valore massimo
consentito (m).
E’ stato proposto dall’ICMSF (International Commission on the Microbiological Specification for Foods) un
sistema di classificazione degli alimenti in funzione della gravità del rischio (cioè in base alle conseguenze
determinate dal pericolo sulla salute umana) che essi comportano. Sono state individuate 15 categorie di
pericoli, suggerendo per ogni caso il piano di campionamento più appropriato.
Tutti i metodi di conteggio presentano una serie di limitazioni, per cui i risultati vanno interpretati tenendo
conto di una serie di fattori, quali:
• il metodo di campionamento e sottocampionamento;
• la distribuzione e dinamicità dei microrganismi nel campione;
• il tipo e la natura dell’alimento e della microflora in esso presumibilmente presente;
• la storia analitica dell’alimento;
• il metodo di analisi, il tempo, la temperatura e l’atmosfera di incubazione, la composizione, il pH, l’attività
dell’acqua (aw), il potenziale di ossido-riduzione (Eh) del diluente e del terreno nutritivo utilizzato.
Il diluente utilizzato deve avere una temperatura prossima a quella del campione, per evitare danni termici
ai microrganismi. La prima diluizione può essere lasciata a riposo, per favorire la decantazione di particelle
grossolane e la dispersione di microrganismi nel diluente. In ogni modo l’intervallo di tempo tra la
preparazione della prima diluizione e quelle successive non dovrebbe mai superare i 15 minuti mentre la
semina in piastra delle diluizioni preparate deve avvenire al massimo entro 20-30 minuti dalla preparazione
della diluizione iniziale. Utilizzare sempre una nuova pipetta per ogni diluizione da realizzare.
Il materiale occorrente è:
- Pipette sterili da 1 e ml;
- Tubi contenenti 9 ml di diluente sterile.
PROCEDURA: Prelevare, con una pipetta sterile, 1 ml della prima diluizione (1:10) e trasferirlo in 9 ml di
diluente sterile evitando il contatto tra la pipetta e il diluente; in tal modo si realizza una diluizione 1/100
(10-2 ) del campione. Omogeneizzare con cura mediante agitatore automatico per 5-10 min ed
eventualmente ripetere le operazioni per ottenere diluizioni decimali successive.
2) Semina per distribuzione (spatolamento) superficiale dell’inoculo su substrato solido: la crescita delle
colonie avviene in superficie, facilitando la loro numerazione.
Il materiale occorrente è:
-Diluizioni decimali seriali del campione;
-Pipette sterili da 0,1 ml;
-Piastre Petri contenenti il substrato nutritivo solidificato;
PROCEDURA: Le piastre contenenti il substrato nutritivo sono preparate prima dell’inoculo; vengono poi
conservate a 4° C per una settimana. L’inoculo, costituito da aliquote da 0,1 ml delle diluizioni seriali, è
depositato con una pipetta sulla superficie dell’agar e distribuito su di essa con una bacchettina di vetro
sterile a forma di L. Si lascia adsorbire l’inoculo per circa 5 min, quindi le piastre sono trasferite capovolte in
termostato. La differenza sostanziale con la procedura per inclusione è che si fa uso di piastre contenenti il
substrato già pronto, che vengono inoculate con volumi di 0,1 ml di ciascuna diluizione. Inoculando ogni
piastra con 0,1 ml di ciascuna diluizione è necessario moltiplicare il n° di UFC/g o ml determinato per un
fattore 10. Lo stesso risultato si ottiene etichettando le piastre con la diluizione virtuale piastrata.
Per entrambe le tecniche di semina, al fine di ottenere conteggi più accurati, è consigliabile inoculare
almeno due piastre con ciascuna diluizione, facendo la media del numero di colonie ottenute sulle due
piastre.
-condizioni di incubazione delle piastre
Le piastre, una volta inoculate, vanno incubate in termostato a temperature, tempi e atmosfera gassosa
che dipendono dal tipo di popolazioni microbiche che si vuole numerare.
-limiti di rilevamento
Campione alimentare solido: il numero minimo di microrganismi teoricamente rilevabili è:
- 10 UFC/g con la tecnica per inclusione;
- 100 UFC/g con la tecnica di inoculo superficiale.
Tali limiti risultano ovvi se si fa riferimento alla quantità massima di campione alimentare analizzabile con le
due tecniche.
Campione alimentare liquido: il numero minimo di microrganismi teoricamente rilevabili è:
- 1 UFC/g con la tecnica per inclusione;
- 10 UFC/g con la tecnica di inoculo superficiale.
Infatti con le due tecniche di conteggio, “pour plate” e “spread plate” la quantità massima di campione
analizzata è pari a 1 ml e a 0,1 ml rispettivamente.
Come appare ovvio, il numero minimo di microrganismi rilevabile mediante conteggio in substrato solido,
sia con la tecnica “pour plate” sia con la tecnica per “inclusione” può essere elevato, se necessario, di un
fattore 10, variando i volumi di inoculo.
Le fasi 1a e 2a sono applicate solo per alcuni microrganismi e in particolari procedure analitiche.
Tra ogni fase avviene l’incubazione a temperatura e per tempi caratteristici del patogeno da isolare.
-arricchimento selettivo
L’arricchimento selettivo è una fase obbligatoria quando si ricercano i microrganismi patogeni, in quanto i
criteri microbiologici per questi microrganismi prevedono la loro assenza in almeno 25 g di alimento.
Questo implica che il metodo di analisi deve essere in grado di rilevare anche una sola cellula del
microrganismo in presenza di altri contaminanti.
L’obiettivo è quello di favorire il più possibile il suo sviluppo rispetto alla microflora che lo accompagna, che
non essendo di nessun interesse per l’analisi, si cerca di inibire il più possibile.
-COLTURA PURA
Una coltura pura rappresenta una popolazione di cellule derivante da una singola cellula. Colture pure
possono essere ottenute mediante la tecnica dello striscio su piastre contenenti un adatto terreno nutritivo
non selettivo. Vicino alla fiamma di un becco bunsen, aprire il coperchio della piastra quel tanto necessario
ad inserire l’ansa batteriologica per prelevare una colonia isolata da isolare in coltura pura. L’obiettivo dello
striscio in piastra è di ottenere colonie isolate su una larga parte della superficie del terreno nutritivo in
piastra.
-colorazione di Gram
a) Preparazione delle soluzioni
Soluzione di Cristal violetto-ammonio ossalato:
soluzione A:
-cristal violetto 2 g
-alcool etilico 95% 20 ml
soluzione B:
-ammonio ossalato 0,8 g
-acqua distillata 80 ml
Mescolare le soluzioni A e B, lasciare a riposo per 24 ore a temperatura ambiente, quindi filtrare per carta.
Soluzione iodio-iodurata di potassio (liquido di Lugol):
-iodio 1 g
-ioduro di potassio 2 g
-acqua distillata 300 ml
Miscelare lo iodio e lo ioduro di potassio in mortaio e sciogliere aggiungendo l'acqua poco alla volta;
versare in bottiglia scura per reagenti e lavare il mortaio con una quantità di acqua necessaria a portare il
volume a 300 ml.
Miscela Alcool-acetone:
-alcool 7 parti
-acetone 3 parti
Soluzione di Safranina:
-safranina O 2,5 g
-alcool etilico 95% 100 ml
Prima dell’uso aggiungere 10 ml di questa soluzione a 90 ml di acqua distillata.
b) Esecuzione del saggio
1- pulire e sgrassare un vetrino portaoggetti;
2- porre una goccia di acqua sterile sul vetrino;
3- stemperare il materiale microbico nell'acqua;
4- lasciare asciugare il preparato microbico all’aria;
5- fissare il preparato tagliando tre volte la fiamma;
6-colorare per 1 minuto con cristal violetto-ammonio ossalato;
7- lavare con acqua;
8- trattare per 1 minuto con Lugol;
9- lavare con acqua;
10- decolorare con alcool-acetone per 30 secondi;
11- lavare con acqua;
12- colorare con safranina per 1 minuto;
13- lavare, asciugare e osservare al microscopio.
c) Lettura ed interpretazione dei risultati
Le cellule dei batteri Gram-positivi appaiono colorate in blu-violetto, mentre le cellule dei batteri Gram-
negativi in rosso.
Dopo la colorazione con cristal violetto si colorano sia le cellule dei batteri Gram positivi che quelle dei
Gram negativi. Il Lugol è un mordenzante. Il trattamento con alcool-acetone decolora le cellule dei Gram
negativi. Le cellule dei Gram negativi si colorano con la safranina.
-presenza di endospore
Le endospore risultano già visibili da una semplice osservazione microscopica o dopo colorazione semplice
o di Gram. Per una loro migliore evidenziazione si può ricorrere ad una colorazione specifica che consente
di osservarle come aree colorate all’interno delle cellule vegetative.
a) Soluzioni di coloranti
Soluzione acquosa satura di verde malachite
Soluzione di Safranina:
-safranina O 0,25 g
-alcool etilico 95% 100 ml
Prima dell’uso aggiungere 10 ml di questa soluzione a 90 ml di acqua distillata.
b) Esecuzione del saggio
1- pulire e sgrassare un vetrino portaoggetti per microscopia;
2- porre una goccia di acqua sterile sul vetrino;
3- stemperare il materiale microbico nell'acqua;
4- lasciare asciugare il preparato microbico all’aria;
5- fissare il preparato tagliando per 20 volte la fiamma;
6- colorare per 15 min con la soluzione acquosa satura di verde malachite;
7- lavare con acqua per 10 sec;
8- colorare con una soluzione acquosa di safranina allo 0,25% per 15 sec:
9- lavare con acqua, asciugare ed osservare al microscopio
c) Lettura ed interpretazione dei dati
Le endospore appariranno colorate in verde all’interno delle cellule che saranno di colore rosa-rosso.
-saggio dell’ossidasi
a) Reagenti per l’ossidasi
Tetrametil-p-fenilendiammina idrocloride 1 g acqua distillata 100 ml Questo reagente deve essere
preparato fresco prima di ogni saggio e deve essere conservato in frigo in bottiglie scure per proteggerlo
dalla luce.
b) Esecuzione del saggio
1- Prelevare una colonia in esame cresciuta su substrato nutritivo agarizzato;
2- Stemperarla su carta da filtro Whatman n°1;
3- Aggiungere alcune gocce di reattivo
c) Lettura e interpretazione dei risultati
Il saggio è positivo quando la coltura microbica assume, al massimo entro 10 minuti una colorazione
violacea a contatto con il reattivo.
La reazione è dovuta all’enzima citocromo a3 ossidasi (componente del sistema di trasporto degli elettroni)
che riduce il Tetrametil-p-fenilendiammina idrocloride a un composto di colore viola.
-saggio di motilità
a) Composizione terreno nutritivo (g/l di acqua distillata)
-Triptone: 5 g/l
-Estratto di carne: 3 g/l
-Glucosio: 1 g/l
-Agar: 3 g/l
-pH: 7,0 g/l
b) Preparazione
1- Sospendere tutti i componenti in 1 litro di acqua distillata.
2- Portare ad ebollizione sotto agitazione e distribuire 10 ml in tubi con tappo a vite.
c) Esecuzione del saggio
Prelevare con un ago da batteriologia una colonia ben isolata ed inoculare il terreno in provetta per
infissione e incubare alla temperatura ottimale di crescita del microrganismo. I microrganismi mobili
crescono in maniera diffusa dalla linea di inoculo (intorbidando tutto il terreno), mentre quelli immobili
crescono solo lungo la linea dell’inoculo.
-determinazione dei coliformi (totali) con il metodo di inclusione in terreno nutritivo selettivo e
differenziale agarizzato
Omogeneizzare il campione in soluzione sale peptone e allestire diluizioni seriali decimali. Seminare 1 ml di
ciascuna diluizione in piastre Petri vuote e aggiungere circa 15 ml di terreno nutritivo Agar Cristalvioletto
Rosso neutro Bile (VRBA), costituito da:
-Estratto di lievito 3 g;
-Peptone 7 g;
-Sodio cloruro 5 g;
-Sali biliari 1,5 g;
-Lattosio 10 g;
-Rosso neutro 0,03 g;
-Cristal Violetto 0,002 g;
-Agar 15;
-Acqua distillata 1000 ml;
-pH 7,4.
Si procede ad omogeneizzare mediante rotazioni in maniera da disperdere uniformemente l’inoculo e
lasciare solidificare; aggiungere quindi altri 5-6 ml dello stesso substrato al fine di creare condizioni
anaerobiche per la fermentazione del lattosio. Dopo solidificazione del substrato, le piastre sono incubate
capovolte a 30°C per 24 ore. Il terreno VRBA contiene come selettivi i sali biliari e il cristalvioletto la cui
azione combinata assicura l’inibizione dei batteri Gram positivi; la componente differenziale del terreno
nutritivo è invece costituita dal lattosio, dalla cui fermentazione sono prodotti acidi organici che abbassano
il pH al di sotto del punto di viraggio dell’indicatore rosso neutro presente nel mezzo. Come conseguenza
della fermentazione del lattosio, le colonie tipiche appariranno colorate dal rosa al rosso intenso,
circondate da un alone di colore rosso dovuto alla precipitazione dei sali biliari in ambiente acido.
-determinazione dei coliformi (totali) con il metodo del Numero più Probabile (MPN)
Per alimenti solidi, preparare l’omogenato dell’alimento (diluizione 1:10) in soluzione sale peptone, quindi
allestire diluizioni decimali seriali. Si possono utilizzare diversi schemi di inoculo, impiegando come terreno
nutritivo liquido selettivo il Brodo con Bile (2%) e Verde Brillante (Brilliant Green Bile Broth – BGBB:
Peptone 10 g; Lattosio 10 g; Bile di bue 20 g; Verde brillante 0,0133 g; Acqua distillata 1000 ml; pH 7,4).
Il numero di coliformi determinato con questi meccanismi è presuntivo, in quanto si possono sviluppare
altri microrganismi che producono gas da lattosio in presenza di sali biliari e verde brillante. Si deve
procedere, dunque, alla conferma dei risultati.
Da ciascuna delle provette risultate positive nella prova presuntiva, si striscia un’ansata di coltura su una
piastra di Agar Eosina Bleu di Metilene (EMBA: Peptone 10 g; Lattosio 10 g; Fosfato bipotassico 2 g; Eosina
Y 0,4 g; Bleu di Metilene 0,065 g; Agar 15 g; Acqua distillata 1000 ml; pH 6,8). Il terreno nutritivo contiene
selettivi che inibiscono la crescita di batteri gram negativi e ossidasi positivi. Dopo incubazione delle piastre
a 32°C per 24 ore, le colonie di coliformi si presenteranno di colore scuro con aspetto metallico verde
iridescente se osservate con luce riflessa.
Almeno due colonie caratteristiche cresciute su quest’ultimo substrato vanno trapiantate,
contemporaneamente, in una provetta munita di campanula di Durham e contenente come terreno
nutritivo il Brodo Lattosato (LB: Estratto di carne 3 g; Peptone 5 g; Lattosio 5 g; Acqua distillata 1000 ml; pH
6,9) per confermare, dopo incubazione a 30°C per 24 ore la produzione di gas da lattosio e su una piastra di
Agar Nutritivo, per confermare, sulle colonie cresciute dopo 24 ore di incubazione a 30°C, la presenza di
bastoncini gram negativi, catalasi positivi e ossidasi negativi.
Sulla base dei risultati ottenuti è possibile confermare o meno l’MPN presuntivo.
-determinazione dei coliformi fecali (Escherichia coli presuntivo) con il metodo del Numero più Probabile
(MPN) e test di produzione di indolo
Da ciascuna delle provette di BGBB risultate positive per i coliformi totali, si inoculano una provetta di BGBB
e una provetta di Acqua Triptonata (Triptone 10 g; NaCl 5 g; Acqua distillata 1000 ml; pH 7,2). Entrambi i
terreni sono incubati a 44,5°C per 48 ore, ricercando nella provetta con acqua triptonata la produzione di
indolo da triptofano, aggiungendo 1 ml di Reattivo di Kovacs (Paradimetilaminobenzaldeide 5 g; Alcool
isoamilico 75 ml; HCl concentrato 75 ml). In presenza di indolo, entro pochi minuti si avrà una colorazione
rosa-rossa sulla superficie del brodo.
Questi test sono detti test IMVC (Indolo, Methyl Red, Voges-Proskauer e Citrato); Escherichia coli produce
indolo da triptofano, è positivo al test Rosso metile, è negativo al test Voges-Proskauer e non cresce su Agar
Citrato (Test IMVC:+ + - -).
-SOLUZIONI UTILIZZATE PER RISOSPENDERE E/O DILUIRE I CAMPIONI DA ANALIZZARE PER LA PRESENZA
DI MICRORGANISMI (DILUENTI)
-presupposti e caratteristiche
I campioni, prima di essere analizzati, vanno omogeneizzati in un adatto diluente, al fine di facilitare l’analisi
del campione stesso.
La scelta del diluente è una fase molto importante, in quanto un diluente non adatto potrebbe causare
danni alle cellule microbiche, con alterazione dei risultati delle analisi.
Le principali caratteristiche dei diluenti sono:
• isotonicità (stessa pressione osmotica delle cellule microbiche);
• assenza di componenti nutritivi (o presenti in minima quantità);
• bassa tensione superficiale (favorisce la miscelazione del liquido con il substrato agarizzato fluido).
b) soluzione fisiologica
-NaCl 8,5 g
-dH2O 1000 ml
Sterilizzare a 121°C per 15 min
Sono inclusi nella classificazione unicamente gli agenti di cui è noto che possono provocare malattie
infettive in soggetti umani.
La classificazione degli agenti biologici si basa sull'effetto esercitato dagli stessi su lavoratori sani.
Gli agenti biologici che non sono stati inclusi nel gruppi 2, 3, 4 dell'elenco non sono implicitamente inseriti
nel gruppo 1.
Quando un ceppo è attenuato o ha perso geni notoriamente virulenti, il contenimento richiesto dalla
classificazione del ceppo parentale non è necessariamente applicato a meno che la valutazione del rischio
da esso rappresentato sul luogo di lavoro non lo richieda.
Tutti i virus che sono già stati isolati nell'uomo e che ancora non figurano nel presente allegato devono
essere considerati come appartenenti almeno al gruppo due, a meno che sia provato che non possono
provocare malattie nell'uomo.
Taluni agenti classificati nel gruppo tre possono comportare un rischio di infezione limitato perché
normalmente non sono veicolati dall'aria.
Le misure di contenimento che derivano dalla classificazione dei parassiti si applicano unicamente agli stadi
del ciclo del parassita che possono essere infettivi per l'uomo.