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RIPASSO: Dalla laicità alla cristianità, dall’amara leggerezza alle guerre di Religione

Ariosto: https://youtu.be/NoH11XpNkPw

L’Orlando furioso in breve: https://youtu.be/ht2mudVAfxE

Solo dieci anni separano la morte di Ariosto dalla nascita di Tasso, eppure le loro
opere sono profondamente differenti: https://youtu.be/ERGAzVLi-8A.
La causa di queste differenze è il contesto storico in cui gli autori hanno vissuto.
Infatti, Tasso è il poeta della controriforma, colui che ha cercato di ridare importanza
alla chiesa cattolica, diversamente, Ariosto è ancora legato ai valori medievali, ai quali
guarda con ironia.

Torquato Tasso (1544 – 1595) scrisse la Gerusalemme liberata nel 1581, in essa
vengono cantati gli scontri tra cristiani e musulmani, durante la prima crociata,
culminati nella presa cristiana di Gerusalemme. (La vita:
https://youtu.be/XjtbE07nBGw)
Nacque a Sorrento, quella «dolce terra natìa» di cui conserverà sempre un magnifico
ricordo rimpiangendola:
«... le piagge di Campagna
amene, pompa maggior de la
natura, e i colli che vagheggia
il Tirren fertili e molli»

(Gerusalemme liberata, I,
390-92)
Nell'ottobre 1565, sarebbe giunto a Ferrara in occasione del secondo matrimonio del
duca Alfonso II d'Este. I primi dieci anni ferraresi furono il periodo più felice della
vita di Tasso, in cui il poeta visse apprezzato per le sue doti poetiche. Il cardinale gli
lasciò la possibilità di dedicarsi solamente all'attività poetica e Tasso poté così
continuare il suo poema maggiore.
Ben presto Tasso si sarebbe stancato di vivere presso la Signoria ferrarese, sognando
di recarsi presso Firenze. Non è chiaro perché volesse abbandonare Ferrara, ma i
motivi adducibili sono vari e probabilmente legati alla sua concezione religiosa.
Tasso era indubbiamente provato dalla composizione della Gerusalemme e le lettere di
quel periodo rivelano un animo inquieto e agitato, spesso preoccupato di smentire chi
voleva vedere in lui i germi della pazzia. Le manie di persecuzione e l'instabilità si
erano impadronite di lui.
Intanto avrebbe da sé causato la lunga prigionia nel Castello del duca Alfonso, per
scampare la quale non gli restava che la fuga: si travestì allora da contadino e fuggì
nei campi. Raggiunta Bologna, proseguì fino a Sorrento dove, ancora sotto mentite
spoglie e fisicamente distrutto, si sarebbe recato dalla sorella annunciandole la propria
morte, così da vedere la sua reazione, e svelandole la sua vera identità solo dopo aver
osservato la reazione realmente addolorata della donna.

A Sorrento rimase parecchi mesi ma, volendo riprendere parte alla vita di corte, fece
arrivare una supplica al duca, chiedendo di essere riammesso alle sue dipendenze. Vari
i luoghi e le fughe che lo vedranno attivo ma Tasso sarebbe per sempre rimasto
affascinato da Ferrara e dall’ambiente di quella corte elegante e colta.

La corte estense promuoveva una cultura cortigiana laica ed edonistica. La cultura


dominante, pur tenendo conto dei modelli classicisti nazionali, privilegiava il gusto
per il romanzesco, per la pura evasione e per forme di spettacolo leggere, incentrate
sull’eroismo cavalleresco unito all’ erotismo.
E’ anche l’epoca della Controriforma, così, presto anche la vita di corte comincerà a
risentire della pressione delle idee repressive della Chiesa. Torquato Tasso risentirà
particolarmente di quel clima e inizierà a esserne insofferente.

Il conflitto interiore della personalità del poeta Tasso, divisa tra le pulsioni sessuali e
la forte religiosità, diventa progressivamente sempre più forte. Questa vita inquieta,
fatta di turbamenti e angosce, lo porterà verso la follia, ne sono testimonianza una
serie di episodi incresciosi e di violente aggressioni dovuti alle sue manie di
persecuzione e autopunizione.

In quegli anni Torquato Tasso decide di fare una revisione della sua opera La
Gerusalemme liberata, togliendo le parti amorose e pubblicandola con il titolo La
Gerusalemme conquistata, che non avrà successo. Dopo aver girovagato per l’Italia
si stabilisce a Roma dove, già ammalato gravemente, muore il 25 Aprile del 1595.

Torquato Tasso aveva iniziato a scrivere molto giovane, per questo a tredici anni
aveva già composto il suo capolavoro, il poema epico-cavalleresco: Gerusalemme
Liberata, proseguendo la sua attività letteraria intensamente fino alla fine dei suoi
giorni. Il poema narra, in venti canti, le imprese, gli atti eroici e gli ostacoli che
l'esercito cristiano aveva dovuto affrontare durante la prima Crociata, a cui si
contrappongono gli atti di valore delle forze pagane. IN SINTESI:
https://youtu.be/yLG5M2Ac_UQ

Il protagonista è l'esercito crociato capitanato da Goffredo di Buglione. La grande


vicenda collettiva si esprime attraverso le intense esperienze individuali dei vari
personaggi, spesso travagliati da incertezze e contraddizioni.

Tasso sottopone questo poema eroico a continue revisioni.

Ecco il proemio della Gerusalemme Liberata: https://youtu.be/s-Xa5dbIetM


BRANO - IL GIARDINO INCANTATO DI ARMIDA Torquato Tasso
(Gerusalemme liberata, XVI) - TRAMA: Ai cristiani serve disperatamente l’aiuto
di Rinaldo: solo lui, infatti, può vincere la maledizione con cui Ismeno ha stregato la
foresta di Saron. Rinaldo, però, ha abbandonato l’accampamento (come viene narrato
nel canto V), e nessuno, tra i crociati, sa dove si trovi adesso. Perciò Goffredo incarica
Carlo e Ubaldo, due cavalieri dell’esercito cristiano, di partire alla ricerca dell’eroe.
Su consiglio del mago di Ascalona, un saggio orientale di fede cristiana, Carlo e
Ubaldo si imbarcano su una nave fatata, guidata dalla Fortuna, e intraprendono un
lungo viaggio attraverso il Mediterraneo. Alla fine, i due giungono alle isole
Fortunate, dove Armida tiene prigioniero Rinaldo grazie alla sua sensualità e alle sue
arti amatorie. Il palazzo della maga, così come il lussureggiante giardino che lo
circonda, è un luogo incantato, dove l’arte trionfa sulla natura e le illusioni sono più
vere della realtà. Giunti in questo giardino, Carlo e Ubaldo osservano, di nascosto, gli
amori di Armida e Rinaldo. I due cavalieri aspettano l’occasione per mettere in pratica
il piano elaborato dal mago di Ascalona: se Rinaldo vedrà in uno specchio la propria
immagine, si renderà conto dello stato effeminato in cui l’ha ridotto l’amore per
Armida e vorrà sicuramente tornare alla guerra e al suo dovere di crociato.

Poi che lasciar gli aviluppati calli1,

in lieto aspetto il bel giardin s’aperse:

acque stagnanti, mobili cristalli2,

fior vari e varie piante, erbe diverse,

apriche3 collinette, ombrose valli,

selve e spelonche4 in una vista offerse5;

e quel che ’l bello e ’l caro accresce a l’opre,

l’arte, che tutto fa, nulla si scopre6.

Stimi (sì misto il culto è co ’l negletto)

sol naturali e gli ornamenti e i siti7.

Di natura arte par, che per diletto

l’imitatrice sua scherzando imiti8.

L’aura, non ch’altro, è de la maga effetto9,

l’aura che rende gli alberi fioriti:

co’ fiori eterni eterno il frutto dura,


e mentre spunta l’un, l’altro matura.

Carlo e Ubaldo contemplano stupiti le meraviglie del giardino. Uno stormo di uccelli
intona un armonioso concerto; tra di loro spicca il canto del pappagallo, che invita a
cogliere la rosa prima che sia appassita, perché la vita è breve e non ritorna dopo la
morte. I due cavalieri proseguono il cammino e infine intravedono, tra la vegetazione,
le sagome di Rinaldo e Armida.

[...]

Ecco tra fronde e fronde10 il guardo inante11

penetra e vede, o pargli di vedere,

vede pur certo il vago e la diletta12,

ch’egli è in grembo a la donna, essa a l’erbetta13.

Ella dinanzi al petto ha il vel diviso14,

e ’l crin sparge incomposto15 al vento estivo;

langue per vezzo, e ’l suo infiammato viso

fan biancheggiando i bei sudor più vivo16:

qual raggio in onda, le scintilla un riso

ne gli umidi occhi tremulo e lascivo17.

Sovra lui pende; ed ei nel grembo molle

le posa il capo, e ’l volto al volto attolle18,

e i famelici sguardi avidamente

in lei pascendo si consuma e strugge19.

S’inchina, e i dolci baci ella sovente

liba or da gli occhi e da le labra or sugge20,

ed in quel punto ei21 sospirar si sente

profondo sì che22 pensi: «Or l’alma fugge

e ’n lei trapassa peregrina23».

Ascosi24 mirano i due guerrier gli atti amorosi.

Dal fianco de l’amante (estranio arnese25)


un cristallo pendea lucido e netto26.

Sorse, e quel fra le mani a lui sospese

a i misteri d’Amor ministro eletto27.

Con luci28 ella ridenti, ei con accese,

mirano in vari oggetti un solo oggetto:

ella del vetro a sé fa specchio, ed egli

gli occhi di lei sereni a sé fa spegli29.

Rinaldo rivolge ad Armida un’elaborata dichiarazione d’amore. La maga, vanitosa


come un pavone, ride alle sue parole mentre continua a pettinarsi. A un certo punto,
però, Armida si allontana per dedicarsi alle proprie stregonerie, mentre Rinaldo, a cui
è proibito entrare nel palazzo, resta nel giardino. Allora Carlo e Ubaldo escono
finalmente dal loro nascondiglio.

[...]

Intanto Ubaldo oltra ne viene, e ’l terso

adamantino scudo30 ha in lui converso31.

Egli al lucido scudo il guardo gira,

onde si specchia in lui qual siasi32 e quanto

con delicato culto adorno33; spira34

tutto odori e lascivie il crine e ’l manto,

e ’l ferro35, il ferro aver, non ch’altro, mira

dal troppo lusso effeminato a canto:

guernito è sì ch’inutile ornamento

sembra, non militar fero instrumento.

Qual uom da cupo e grave sonno oppresso

dopo vaneggiar36 lungo in sé riviene,

tal ei tornò nel rimirar se stesso,

ma se stesso mirar già non sostiene37;

giù cade il guardo, e timido e dimesso,


guardando a terra, la vergogna il38 tiene.

Si chiuderebbe e sotto il mare e dentro

il foco per celarsi, e giù nel centro39.

Ubaldo incominciò parlando allora:

«Va l’Asia tutta e va l’Europa in guerra:

chiunque e pregio brama e Cristo adora

travaglia in arme or ne la siria terra40.

Te solo, o figlio di Bertoldo41, fuora

del mondo, in ozio, un breve angolo serra42;

te sol de l’universo il moto nulla

move, egregio campion d’una fanciulla.

Qual sonno o qual letargo ha sì sopita

la tua virtute? o qual viltà l’alletta43?

Su su; te il campo e te Goffredo invita,

te la fortuna e la vittoria aspetta.

Vieni, o fatal44 guerriero, e sia fornita45

la ben comincia46 impresa; e l’empia setta47,

che già crollasti48, a terra estinta cada

sotto l’inevitabile49 tua spada».

Tacque, e ’l nobil garzon restò per poco

spazio50 confuso e senza moto e voce51.

Ma poi che diè vergogna a sdegno loco,

sdegno guerrier de la ragion feroce52,

e ch’al rossor del volto un novo foco

successe, che più avampa e che più coce53,

squarciossi i vani fregi e quelle indegne


pompe54, di servitù misera insegne;

ed affrettò il partire, e de la torta55

confusione uscì del labirinto.

[...]

IL GIARDINO DELLE DELIZIE TERRENE Il giardino di Armida è un luogo


meraviglioso, ricco e lussureggiante: una specie di paradiso tropicale, dove fiori e
frutti crescono contemporaneamente in un’eterna estate. Per questa descrizione Tasso
si ispira a un tema molto diffuso sin dall’antichità, quello del locus amoenus. Per i
greci e per i latini, e poi per i poeti italiani, il locus amoenus era un’oasi di delizie e di
piaceri, situata lontano dalla città, dove si potevano dimenticare le fatiche e le noie
dell’esistenza. Nella Liberata, però, l’ideologia che ispira il mito del locus amoenus
viene a scontrarsi con la morale cristiana. Infatti il giardino di Armida è un mondo
laico e profano, dove l’uomo è invitato a godere delle gioie della vita, in primo luogo
dell’amore, perché non c’è nulla che lo aspetti dopo la morte. Tasso avverte il fascino
di questo mondo, che è quello “rinascimentale” di Poliziano e di Ariosto, e tuttavia lo
condanna, perché questa visione dell’esistenza non è conciliabile con i valori
controriformistici. Non a caso il giardino è anche un labirinto, dove si rischia, come
accade a Rinaldo, di smarrire la fede e di dimenticare che la vera vita, per chi crede, è
quella dopo la morte. Per Tasso non si tratta di una scelta facile, come dimostra la
descrizione, sensuale e partecipe, del giardino e delle sue meraviglie; ma questa scelta
va fatta comunque. Perciò, alla fine dell’episodio, Rinaldo abbandona la sua amante e
ritorna a Gerusalemme, per purificarsi con la preghiera e compiere il suo dovere di
crociato.

La morale dell’episodio: la scelta tra piacere e virtù, tra menzogna e verità è netta, e
non lascia spazio ai compromessi. A Rinaldo non resta che rifiutare la tranquillità del
locus amoenus, assieme ai piaceri laici che esso rappresenta, per assecondare il volere
di Dio e dirigersi a Gerusalemme; a Tasso non resta che respingere l’ideale edonistico
del Rinascimento in nome delle regole della Controriforma.

Scrive anche un dramma pastorale: Aminta (https://youtu.be/2-kMLXJ-Syw) nel


1573 e realizza, con quest’opera, una sorta di sintesi tra mondo cortigiano e genere
pastorale. I personaggi richiamano esponenti della corte ferrarese, tra cui lo stesso
Tasso.

La vicenda narrata si basa sull’amore pieno di dedizione di Aminta, un giovane


pastore, per la bella e ritrosa Silvia, una ninfa.

Tasso compone, inoltre, una grande quantità di liriche, per le circostanze più diverse:
le Rime (dai cui madrigali e sonetti emergono affascinanti immagini femminili,
cariche di sensualità). Le liriche d’amore di Torquato Tasso, erano dedicate alle
donne che egli ha amato, abbiamo poi quelle encomiastiche, che si rifanno ai modelli
classici, e le rime religiose.

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