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Le Navi

Titolo originale: The Scientific Reason


©HIHSS e National Taiwan University Press, Taipei, 2008
Traduzione dall’inglese di Matteo Vagelli

I edizione: ottobre 2017


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Ian Hacking

LA RAGIONE SCIENTIFICA

A cura di Gerardo Ienna e Matteo Vagelli

Traduzione di Matteo Vagelli


IAN HACKING E LA SCIENZA
COME “MISCUGLIO VARIOPINTO” DI STILI

di Matteo Vagelli
1. L’occasione

Il percorso che ha portato un filosofo canadese di formazione anali-


tica a occupare una cattedra al Collège de France è tutt’altro che ba-
nale e può essere utile tentare di ricostruirne almeno le tappe principali.
Subito dopo essersi laureato in Matematica e Fisica all’università della
British Columbia, a Vancouver, Ian Hacking lavora in Alberta, come
apprendista geofisico, nei giacimenti di una compagnia petrolifera. La
lettura de L’essere e il nulla di Sartre lo spinge verso la filosofia e verso
quella che era percepita come una delle sue capitali mondiali: l’Uni-
versità di Cambridge. È così che, nel 1956, Hacking fa il suo ingresso
nella Whewell’s Court del Trinity College, già alloggio di Wittgenstein
– a cinque anni dalla morte del filosofo austriaco e nello stesso anno del-
la pubblicazione del suo Remarks on the Foundations of Mathematics.
Ed è in effetti “all’ombra di Wittgenstein” che Hacking ottiene una lau-
rea nel 1958 e un master nel 1961, entrambi in Filosofia, sotto la guida
di Casimir Lewy1. Dopo aver pubblicato un primo libro dedicato allo
sviluppo di un approccio assiomatico alla logica dell’inferenza statisti-
ca2, Hacking accetta brevi incarichi d’insegnamento negli Stati Uniti,
nella stessa Cambridge e in Canada. Dal 1967 al 1969 insegna nel di-
partimento di Filosofia della Makerere University a Kampala, in Ugan-
da. È lì che egli s’imbatte negli scritti di Foucault, in particolare, nel-
l’edizione inglese abbreviata di Folie et déraison (1961)3; un incontro
che inciderà molto sul suo modo di fare filosofia, soprattutto a livello
metodologico. Gli effetti si vedranno di lì a poco, con The Emergence
8 LA RAGIONE SCIENTIFICA

of Probability (1975), il libro forse più conosciuto di Hacking, nel qua-


le egli affronta nuovamente il tema del pensiero statistico, ma sotto
una luce completamente diversa, storico-filosofica. Il risultato è una
“archeologia della probabilità” di stampo foucaultiano, anche se il no-
me del filosofo francese non viene quasi mai citato4.
La tappa successiva della carriera di Hacking è a Stanford, dove egli
inizia a insegnare nel 1975, rimanendovi fino al 1982. Questi anni co-
stituiscono un altro snodo fondamentale della sua carriera: a Stanford
Hacking lavora a stretto contatto, da un lato, con filosofi della scienza
come Nancy Cartwright e Patrick Suppes, dall’altro, con scienziati co-
me Francis Everitt e Melissa Franklin5. Il biennio 1982-1983 Hacking
lo passa al Zentrum für Interdisziplinäre Forschung di Bielefeld, dove
incontra e discute di probabilità e statistica con Lorenz Krüger, ispira-
tore di quello che diventerà, nel 1994, il Max Planck für Wissenschaft-
sgeschichte di Berlino. A Bielefeld si gettano le basi per The Taming of
Chance (1990), che analizza l’erosione della concezione classica del
determinismo intrecciandola con l’emergenza della scienza statistica e
dei suoi usi politici nel XIX secolo6.
Gli anni Novanta sono segnati principalmente da due lavori, Rewri-
ting the Soul (1995) e Mad Travelers (1998). Caratterizzati dall’interes-
se per ciò che Hacking chiama «malattie mentali transitorie» – come
ad esempio il disturbo dissociativo dell’identità – queste opere sem-
brano marcare una svolta negli interessi e negli oggetti di indagine di
Hacking. Dopo Stanford, Toronto rimarrà la sua sede accademica prin-
cipale fino all’elezione al Collège de France, dove per lui, primo filosofo
straniero a vedersi intitolata una cattedra, viene creata nel 2000 la
“Chaire de philosophie et histoire des concepts scientifiques”. Lì, nel-
l’istituzione dove lo hanno preceduto figure del calibro di Bergson,
Merleau-Ponty e lo stesso Foucault, Hacking ha la possibilità di pre-
sentare, in sei corsi di lezioni frontali e in altrettanti seminari, una ver-
sione originale di molti temi cardine della sua produzione filosofica7.
La serie di conferenze tenute da Hacking a Taiwan, che presentia-
mo qui per la prima volta in traduzione italiana, ha luogo dunque do-
po la conclusione del progetto di insegnamento legato alla “Chaire” del
Collège. I temi affrontati dalle lezioni del novembre del 2007, infatti,
corrispondono ad alcuni dei maggiori assi di ricerca di Hacking (la
teoria degli stili di ragionamento, lo stile di ragionamento matematico
IAN HACKING E LA SCIENZA COME “MISCUGLIO VARIOPINTO” DI STILI 9

e di laboratorio, i dibattiti ontologici originati dalle scienze) e si nutro-


no degli esempi, dei riferimenti e de les mises à jour del suo periodo
d’insegnamento francese. Poiché i corsi al Collège sono ancora inedi-
ti8, le lezioni che compongono i quattro capitoli de La ragione scientifi-
ca ci danno un’idea più precisa dell’insegnamento di Hacking a Parigi,
offrendoci così una visione d’insieme, nonché un bilancio di una parte
importante della sua filosofia. Non solo, essi ci offrono anche una pro-
spettiva sugli sviluppi degli anni successivi, in quanto le lezioni di
Taiwan mostrano l’evoluzione di molti dei temi sopra menzionati ver-
so pubblicazioni ulteriori, che in molti casi Hacking considererà come
definitive.

2. Sull’idea stessa di stile di ragionamento scientifico

Hacking ha scritto su una varietà impressionante di temi, allargan-


do spesso il fronte della discussione filosofica fino a includere concet-
ti nuovi e risorse che fino ad allora erano estranee al dibattito. In più
di un’occasione egli ha suggerito di raffigurarsi la propria produzione
come lo spazio disegnato da tre principali vettori, concepiti come tre
progetti filosofici indipendenti gli uni dagli altri: uno sulla filosofia
della matematica, uno sui modi di plasmare le persone (making up peo-
ple) e uno sugli stili di ragionamento scientifico9.
Il progetto sulla matematica è quello di maggior durata, poiché
affonda le proprie radici nel primo periodo di Cambridge e può rite-
nersi concluso con la pubblicazione di Why Is There Philosophy of
Mathematics at All? (2014)10. Il secondo progetto verte, invece, su va-
rie modalità storiche di costituzione della soggettività, trova in Making
Up People (1986) e Looping Effects of Human Kinds (1995) due artico-
li teorici portanti e nelle due già citate monografie degli anni Novanta,
Rewriting the Soul e Mad Travelers, due tra i suoi case studies principa-
li11. Questo progetto risalta come quello più direttamente influenzato
da Foucault e dalla sua idea di biopolitica. Se ne può infatti ricondur-
re l’origine a due articoli, entrambi dell’inizio degli anni Ottanta, il
primo, intitolato Biopower and the Avalanche of Printed Numbers (let-
to a una conferenza a Berkeley, in onore e alla presenza di Foucault),
che faceva il ponte tra l’anatomopolitica del corpo umano (la discipli-
10 LA RAGIONE SCIENTIFICA

na del corpo come macchina) e lo studio della statistica a livello della


specie umana. L’altro, The Invention of Split Personalities, è definito
da Hacking «un’illustrazione della dottrina di Michel Foucault sulla co-
stituzione del soggetto»12. Questo asse di ricerca si è arricchito, attra-
verso gli anni, di case studies sempre più numerosi e approfonditi, qua-
li le personalità multiple, l’autismo, l’obesità, il concetto di sviluppo
infantile e quello di soglia di povertà. Il terzo progetto, quello sugli sti-
li, è nato, per così dire, in Italia, alla Domus Galilaeana di Pisa, nel 1978,
quando Hacking racconta di aver sentito parlare per la prima volta lo
storico oxoniense della scienza A.C. Crombie di «stili di pensiero scien-
tifico»13. Hacking si propone di dare pieno sviluppo filosofico all’in-
tuizione storiografica di Crombie, secondo la quale ciò che chiamia-
mo “scienza” è in realtà un insieme di metodi diversi: quello matema-
tico o postulazionale, quello dell’esplorazione sperimentale, quello
della costruzione ipotetica di modelli analogici, quello tassonomico,
quello statistico-probabilistico e quello relativo alle modalità storico-
genetiche di spiegazione.
Sia lo schema tripartito menzionato in apertura di questo paragrafo,
sia la proclamata autonomia dei tre progetti, non permettono, a mio
modo di vedere, di inquadrare correttamente le diramazioni proteifor-
mi dei lavori di Hacking. Un modo più proficuo di ricondurre a una
prospettiva unitaria la varietà dei suoi interessi è quello di dare centra-
lità al progetto degli stili: a causa delle sue implicazioni metodologi-
che, questo progetto sembra infatti avere un legame “strutturale” con
tutti gli altri. Come si è visto, gli scritti più noti di Hacking sono dedi-
cati alla probabilità e alla statistica: con quattro monografie e innume-
revoli articoli questo potrebbe essere considerato come un progetto
filosofico del tutto indipendente, se non fosse per il fatto che quello sta-
tistico rientra nella lista degli stili di ragionamento e pertanto il suo
studio dialoga in maniera interessante con il progetto degli stili. L’asse
di ricerca sulla matematica può essere visto come una parziale ridefi-
nizione (in senso dimostrativo più che assiomatico) e un approfondi-
mento del primo degli stili di ragionamento, mentre, il progetto relati-
vo al “plasmare le persone”, come una particolare combinazione tra lo
stile tassonomico e quello statistico. Hacking stesso descrive quello
che battezza lo «stile di laboratorio», inizialmente pensato come un set-
timo stile da aggiungere alla lista originale, come l’unione degli stili
IAN HACKING E LA SCIENZA COME “MISCUGLIO VARIOPINTO” DI STILI 11

dell’esplorazione sperimentale e della costruzione dei modelli analogi-


ci. Più che un progetto tra gli altri, quello sugli stili pare costituire un
meta-livello per la riflessione di Hacking. La struttura delle lezioni che
compongono La ragione scientifica sembra dar ragione a questa lettu-
ra: il primo capitolo, Sulle radici storiche della ragione scientifica, è una
ricognizione generale sulla teoria degli stili. Esso apre sui due capitoli
centrali, intitolati Da dove vengono gli oggetti matematici? e Lo stile la-
boratoriale di pensiero e azione, ciascuno dei quali illustra un preciso sti-
le scientifico, ossia quello matematico, nel primo caso, e quello speri-
mentale, nel secondo. Il capitolo conclusivo, Realismi e antirealismi, è
anch’esso strettamente connesso con la nozione di stile, in quanto ten-
ta di presentare i dibattiti ontologici originati dalle scienze come con-
seguenze dell’introduzione di diversi stili di ragionamento scientifico.

Se il progetto degli stili costituisce in un certo senso l’ossatura del-


la filosofia di Hacking, seguendone l’evoluzione attraverso gli anni si
possono rintracciare molti cambiamenti che si ripercuotono negli
scritti positivi dedicati ad altri temi. Che cos’è cambiato, dunque, nei
30 anni che intercorrono tre le due pubblicazioni che aprono e che
sembrano, per il momento, chiudere la riflessione di Hacking sul te-
ma degli stili, ossia il manifesto filosofico Language, Truth and Reason
(1982), e l’ultimo articolo, intitolato Language, Truth and Reason: 30
Years Later (2012)14? Dare una riposta esaustiva a tale interrogativo è
difficile, se non impossibile, ma possiamo almeno proporre qualche
elemento per meglio situare le lezioni di Taiwan del 2007 all’interno
di questo percorso.
L’articolo del 1982 inaugurava la «metafisica degli stili di pensiero»
(l’espressione appartiene a Hacking), vale a dire una riflessione filoso-
fica che, pur interagendo con la dimensione storica della spiegazione,
mirava in ultima istanza a cambiare la nostra concezione di che cosa sia-
no la verità, il significato e la verificazione (il titolo stesso Language,
Truth and Reason richiamava quello di un classico del positivismo lo-
gico, ossia Language, Truth and Logic, di A.J. Ayer, pubblicato nel 1936).
Hacking preferisce, in una prima fase, l’espressione «stili di ragiona-
mento scientifico» a quella di Crombie, «stili di pensiero scientifico», e
lo fa per enfatizzare la dimensione marcatamente pubblica del ragio-
namento, rispetto al pensare, che avviene invece prevalentemente nel-
12 LA RAGIONE SCIENTIFICA

la testa di un individuo. Il ragionare include il pensare, ma anche il co-


municare, l’argomentare e il mostrare. Parlare di ragionamento per-
metteva infine il riferimento alla possibilità di cogliere la ragione “in
movimento”, in azione, contrapponendosi così all’analisi delle sue fa-
coltà, per così dire, “a riposo”. Salvo qualche oscillazione occasiona-
le15, Hacking mantiene questa denominazione fino al periodo del Col-
lège de France, dove, nel 2003, tiene un corso intitolato Sugli stili di
ragionamento scientifico. Il tema degli stili verrà poi ripreso anche nel
ciclo conclusivo di lezioni del giugno del 2006, che chiuderà, riassu-
mendola, l’esperienza dell’insegnamento in Francia.
Dal punto di vista lessicografico le lezioni di Taiwan, la prima in
particolare, marcano un cambiamento notevole: Hacking decide per
la prima volta in quest’occasione di parlare di «stili di pensiero e azio-
ne» [styles of thinking and doing], ripristinando da una parte il termi-
ne “pensiero”, ma bilanciandolo dall’altra con il riferimento all’azio-
ne, al fare. Tra le ragioni di questa scelta, poi sancita in modo definiti-
vo da Language, Truth and Reason: 30 Years Later, c’è sicuramente la
volontà di smarcarsi rispetto a usi successivi dell’espressione «stili di ra-
gionamento», cercando di mantere l’originalità della propria posizio-
ne16. Sebbene nel 2012 Hacking sostenga che «il programma [di ricer-
ca sugli stili] resta uguale, cambia solo il nome», questa preferenza
terminologica segnala in realtà un riorientamento generale del proget-
to degli stili, in una direzione che potremmo definire anti-metafisica.
La «metafisica degli stili» annunciata nel 1982, sviluppata nel 1992
da ‘Style’ for Historians and for Philosophers e presente ancora nei cor-
si del Collège (lezione del 1 marzo 2004) si articolava attorno a due te-
si fondamentali: la tesi delle novità (lezione del 14 gennaio) e la tesi
della stabilizzazione degli stili (lezione del 21 gennaio). Le due tesi il-
lustravano quelli che erano allora concepiti come i due principali criteri
di identificazione di uno stile di ragionamento scientifico. Hacking ri-
teneva in primo luogo che uno stile dovesse introdurre varie novità,
tra cui nuovi tipi di oggetti, di entità, di classificazioni, di evidenza, di
frasi, cioè nuovi candidati alla verità o alla falsità, di leggi o modalità e
di possibilità17. Ma ciò non era sufficiente a identificare uno stile: per
potersi definire tale ed essere in grado di persistere nel tempo, uno sti-
le doveva in secondo luogo essere dotato di sufficienti «tecniche di au-
to-stabilizzazione». Con esse Hacking si riferiva a tutti quei meccanismi
IAN HACKING E LA SCIENZA COME “MISCUGLIO VARIOPINTO” DI STILI 13

interni di regolazione che permettono ad uno stile di «auto-certificar-


si» [self-authenticating] e «auto-giustificarsi» [self-vindicating], ren-
dendosi così immune alle critiche esterne18. Erano dunque le tecniche
di auto-stabilizzazione a rendere uno stile indipendente dalla sua sto-
ria, ad astrarlo cioè dalle negoziazioni microsociali contingenti dalle
quali esso si trovava ad emergere e a farlo diventare un canone atem-
porale di oggettività.
Mentre nei corsi al Collège si esprime ancora in questi termini, a
Taiwan Hacking – nonostante l’apparente persistenza di certe intui-
zioni, come quelle relative alle nozioni di «auto-certificazione» e di «au-
to-giustificazione» di uno stile – pare invece aver abbandonato l’idea
di fondo di una «metafisica degli stili», aprendo la strada alla riflessio-
ne successiva, in cui riconoscerà esplicitamente l’errore di aver tentato
di stilare una lista di criteri d’identificazione19. Ridefinizione termino-
logica degli “stili” e abbandono della loro “metafisica” vanno di pari
passo e questo duplice spostamento ha almeno due conseguenze che mi
sembrano importanti.
Una prima conseguenza riguarda la questione della verità. Il pro-
getto degli stili aveva in origine un ascendente foucaultiano: esso sem-
brava muoversi nel solco di quella che Foucault chiamava una «storia
della verità». In quanto standard di oggettività, uno stile aveva quella
che Peirce chiamava «la virtù di produrre verità». Ecco un passaggio
tipico in cui Hacking afferma la circolarità introdotta dagli stili: «La
verità è ciò che noi cerchiamo di scoprire in un determinato modo, e
che noi riconosciamo come la verità per come la scopriamo. Ma co-
me facciamo a sapere che il metodo è buono? Perché persegue la ve-
rità»20. Questo significava che, pur non determinando la verità o la
falsità di un dato enunciato (sono i dati o il modo in cui il mondo è
fatto a stabilirla), uno stile era in grado di tracciare uno spazio di ve-
rità e di falsità nel suo complesso (cioè che Foucault chiamava la «po-
sitività» di un enunciato) e non si percepiva la possibilità di una ve-
rità residuale, oltre ai modi di «dire vero» che emergono nelle scien-
ze. Adesso Hacking sembra propendere invece, sulla scorta di Bernard
Williams (Truth and Truthfulness, 2002), per una definizione pura-
mente formale della verità e per trasferire nel vocabolario della «veri-
dicità» tutto quello che prima esprimeva in termini di verità. Ciò por-
ta con sé una limitazione implicita del progetto degli stili alle moda-
14 LA RAGIONE SCIENTIFICA

lità dell’esser veridici a proposito di qualcosa, vale a dire ai diversi


modi di giungere alla verità, più che ai modi di produzione storica
della verità stessa. Ne risulta che il vero non si identifica più piena-
mente, come sosteneva invece Canguilhem, con «il detto del dire scien-
tifico»21. Nonostante ciò Hacking opera ancora in un’ottica foucaul-
tiana quando, andando oltre Williams, invita a vedere gli oggetti del-
le nostre procedure di veridizione come definiti da quelle procedure
stesse, anziché esistenti in maniera indipendente. Lo scarto, teorizza-
to da Williams ed evidente già nel titolo del suo volume, tra la nozio-
ne di verità (truth) e quella di veridizione (truthfulness) va purtroppo
perduto nell’edizione italiana del suo testo, per il quale è stato scelto
il titolo di Genealogia della verità, che esprime esattamente il contra-
rio di ciò che Williams, e con lui Hacking, sembrano sostenere, ovve-
ro, che non ci possa essere qualcosa come la ricostruzione storica del-
la verità e del suo valore (infra, Lezione I, §13)22.
La seconda conseguenza è il passaggio da una lista di stili non esau-
stiva e quindi potenzialmente aperta a un elenco definito ostensiva-
mente e quindi relativamente chiuso. Il punto di partenza empirico e
descrittivo costituito dalla lista degli stili individuati da Crombie era,
come abbiamo visto, lo spunto per una riflessione normativa sui crite-
ri generali d’identificazione di uno stile di ragionamento scientifico.
Hacking si chiedeva quali caratteristiche dovesse avere un modo di
pensare, quali novità o quali tecniche di stabilizzazione dovesse pro-
durre, per poter dar luogo ad uno stile di ragionamento scientifico du-
raturo. Ciò apriva alla possibilità di applicare la stessa “metafisica” ad
altri modi di pensare rispetto a quelli indicati da Crombie. Ed è proprio
su questo punto che Hacking decide di tornare indietro, di appoggiar-
si a una definizione meramente ostensiva degli stili e di invocare il “ra-
soio di Ockham” contro ogni ampliamento indebito della lista dei mo-
di di ragionare che costituiscono la scienza23.
È all’interno di questo quadro che bisogna comprendere l’introdu-
zione, anch’essa presentata per la prima volta da Hacking a Taiwan, del-
la metafora della cristallizzazione24. Una cristallizzazione è l’addensarsi
attorno a un momento storico puntuale e una figura emblematica di
uno o più cambiamenti nei modi di dire la verità a proposito di qual-
cosa. Talete, Galileo, Boyle sono tutti «pionieri emblematici». Ciascu-
no di essi rappresenta una particolare cristallizzazione di uno stile e
IAN HACKING E LA SCIENZA COME “MISCUGLIO VARIOPINTO” DI STILI 15

marca l’introduzione di qualche cambiamento decisivo in un modo di


pensare che è però di lungo corso e li precede (rispettivamente: l’in-
troduzione della dimostrazione in Talete, del metodo ipotetico-dedut-
tivo in Galileo e di quello laboratoriale in Boyle). Con questa metafora
Hacking cerca una mediazione tra discontinuità e longue durée, smor-
zando quindi quello che era originariamente un accento, mutuato da
Bachelard e Foucault, sulle “mutazioni” o “rotture epistemologiche”
tra uno stile e l’altro o sugli «inizi improvvisi» di uno stile di pensiero.
Hacking argomenta a questo proposito che Foucault stesso, ne L’ar-
chéologie du savoir (1969), aveva ricercato questa mediazione e curio-
samente, nella seconda sezione, intitolata Méthode, del IV capitolo
della sua Histoire de la sexualité I (1975), anche Foucault descrive la
solidificazione delle relazioni di forza in rapporti di potere come una
“cristallizzazione”. È da escludere, però, che Hacking avesse in mente
Foucault per quanto riguarda la metafora della cristallizzazione. Con-
siderando l’uso piuttosto diffuso di metafore geologiche nei suoi scrit-
ti («eruzione della probabilità», «valanga di numeri stampati», «erosio-
ne del determinismo»), è meno azzardato fare riferimento ai trascorsi
di Hacking come geofisico.

3. L’animale matematico

Se, nella prima lezione, Hacking fornisce un inquadramento gene-


rale, dedicato soprattutto alla sua “teoria degli stili di ragionamento”,
nella seconda e nella terza egli prende in esame due stili particolari.
Come già accennato, gli stili che sceglie di approfondire sono lo stile
di ragionamento matematico e quello di laboratorio.
In confronto alla produzione relativa agli altri progetti, le pubblica-
zioni di Hacking sulla matematica sono meno numerose e più spora-
diche25. Una prima tappa del lavoro su questo tema, come abbiamo
anticipato, viene svolta alla metà degli anni Cinquanta, con il dottora-
to a Cambridge, il quale consisteva di due parti. La seconda parte era
un lavoro di logica modale (Strict Implication and Natural Deduction)
che valse a Hacking lo Smith’s Prize in Mathematics del 1960 e fu in
seguito pubblicata come What Is Strict Implication?26. La prima parte,
invece, intitolata Proof, verteva sui concetti di dimostrazione e di ap-
16 LA RAGIONE SCIENTIFICA

plicazione matematica. L’idea di fondo era che sono le idee di dimo-


strazione e di applicazione matematica il motivo principale per cui esi-
ste – a partire da un periodo relativamente precoce della storia della
filosofia occidentale – qualcosa come una filosofia della matematica.
Hacking riceverà il dottorato da Cambridge nel 1962, ma non pubbli-
cherà questa prima metà della tesi, dedicandosi invece, come abbiamo
visto, alle ricerche sull’inferenza statistica. Gran parte di quelle prime
riflessioni sulla dimostrazione è confluita in Why Is There Philosophy
of Mathematics At All? (2014). Questo testo è il risultato di un percor-
so in cui le lezioni tenute a Taiwan giocano un ruolo non trascurabile.
Un precedente importante per comprendere la seconda di queste
lezioni è un articolo apparso in italiano nel 1995, nel quale Hacking uni-
sce esplicitamente il progetto degli stili e quello della matematica27.
Contrariamente a quanto sostenuto per lungo tempo, principalmente
dagli esponenti del Circolo di Vienna, la matematica non viene consi-
derata da Hacking come un linguaggio, bensì (sulla scorta di J.S. Mill)
come una scienza tra le altre: le proposizioni matematiche sono sem-
plicemente le proposizioni empiriche più generali e universali di cui sia-
mo capaci. Questo punto di partenza permette a Hacking di far rien-
trare a pieno titolo la filosofia della matematica all’interno della filoso-
fia della scienza e di applicare quindi al discorso matematico la
«metafisica degli stili di ragionamento». Crombie, con il primo dei
suoi stili di pensiero, definito “stile postulazionale”, intendeva, in sen-
so molto ampio, la ricerca greca dei principi primi, includendovi tutte
le discipline in qualche modo dipendenti dalla matematica, come l’a-
stronomia, l’ottica, la musica e la cartografia. Hacking decide invece
di restringere il campo al fenomeno della dimostrazione – prima geo-
metrica, poi matematica – e all’esperienza filosofica a essa connessa. Il
«nuovo continente della matematica» porta con sé necessità e cono-
scibilità a priori, o, per dirlo con le parole di Hacking: «la matematica
ha la straordinaria facoltà di stabilire delle verità sul mondo indipen-
denti dall’esperienza»28.
È poi di nuovo l’insegnamento a Parigi che consente a Hacking di
riaprire il capitolo della matematica: verso la fine del già menzionato
corso del 2002-2003, sugli stili di ragionamento scientifico, Hacking de-
dica due lezioni proprio agli «stili matematici» geometrico e algorit-
mico (lezione del 4 marzo 2003) e a due teorie della dimostrazione,
IAN HACKING E LA SCIENZA COME “MISCUGLIO VARIOPINTO” DI STILI 17

quella di Imre Lakatos e quella di Ludwig Wittgenstein (11 marzo


2003). Oltre allo studio dei Remarks di Wittgenstein, l’incontro con
Lakatos, avvenuto a Cambridge nel 1958, e la lettura delle bozze del suo
Proofs and Refutations (1976), avevano giocato un ruolo importante
nell’avvicinare il giovane Hacking alla filosofia della matematica.
La lezione di Taiwan, intitolata Da dove vengono gli oggetti matema-
tici?, si situa tra la fine dei corsi al Collège e le Descartes Lectures sulla
matematica tenute all’Università di Tilburg nel 2010. Si tratta di un
documento che anticipa e attesta l’evoluzione delle idee di Hacking fi-
no alla loro pubblicazione in forma monografica nel 2014. A Taiwan,
Hacking insiste sullo spostamento dell’accento dalla postulazione alla
pratica della dimostrazione. L’eroe di questa lezione è quindi indiscu-
tibilmente Talete («o chi per lui»), «emblematico pioniere» al quale il
folclore attribuisce la scoperta del fatto che siamo in grado di effettua-
re delle dimostrazioni, ovvero delle argomentazioni che stabiliscono la
verità dei fatti indipendentemente dal modo in cui il mondo è fatto.
Per mitigare l’eurocentrismo di Crombie, Hacking dedicherà più spa-
zio di quanto fatto in precedenza al pensiero matematico arabo e cine-
se. Tuttavia, a causa del ritrarsi della «metafisica», lo «stile algebrico
di ragionamento», di origine araba, non è più considerato come uno sti-
le a se stante, ma una cristallizzazione diversa rispetto a quella dimo-
strativa-postulazionale greca di un unico stile matematico29. Altra con-
seguenza del venir meno della metafisica degli stili è la preponderanza
attribuita al lato cognitivo della scoperta della dimostrazione: The Sha-
ping of Deduction in Greek Mathematics (1999) di R. Netz è assunto a
paradigma di ciò che Hacking intende come storia cognitiva di uno
stile scientifico. Alla domanda che sembra inseguirlo dagli anni di Cam-
bridge su «che cos’è che rende la matematica matematica?», ovvero, che
cos’è che conferisce alla matematica il suo tratto distintivo e che gene-
ra il thaumàzein, quel sentimento di meraviglia o ammirazione, pro-
prio di molti filosofi occidentali, Hacking risponde: la pratica della di-
mostrazione. Per rendere conto dell’emergenza di tale fenomeno e di
tale capacità, Hacking fa ricorso alla storia cognitiva e, parallelamente,
«ad alcuni fatti fondamentali della storia naturale degli uomini» (Witt-
genstein, Ricerche filosofiche, §415). Tutta la seconda lezione de La ra-
gione scientifica è, in effetti, permeata dal tentativo di ricondurre i di-
battiti sullo statuto degli enti matematici (numeri, forme, gruppi) in pri-
18 LA RAGIONE SCIENTIFICA

mis all’introduzione di uno stile di ragionamento specifico, e poi a


questioni di antropologia filosofica, di cui parleremo più avanti. Ciò
permette di tracciare uno dei fili conduttori di Why Is There Philosophy
of Mathematics at All?, il cui titolo originale doveva non a caso essere
The Mathematical Animal30.
Nonostante la centralità attribuita alle pratiche di dimostrazione e
ai loro presupposti, Hacking non intende affatto ridurre l’esperienza
della matematica a un solo fenomeno o a una sola attività. Al contrario
– e qui risulta ancora una volta determinante il riferimento al Wittgen-
stein dei Remarks –, egli rimane fermamente convinto che non ci sia
qualcosa come un’essenza della matematica, ma che questa consista in
una serie di attività («un miscuglio variopinto di tecniche», secondo l’e-
spressione di Wittgenstein) che vanno dalla postulazione alla dimo-
strazione, dal disegno all’intuizione e al calcolo. Si dovrebbe pertanto
parlare più propriamente di “matematiche”, al plurale, così come do-
vremmo parlare delle “scienze”, anziché di scienza, al singolare.
Nel 2010, le tre René Descartes Lectures tenute alla Tilburg Univer-
sity, in Olanda, danno a Hacking l’opportunità di esporre quella che
forse rimarrà la versione più esaustiva mai fornita della sua filosofia del-
la matematica. Il ciclo comprende tre lezioni, intitolate rispettivamen-
te Why Is There Philosophy of Mathematics?, Meaning and Necessity –
and Proof e Roots of Mathemathical Reasoning. Di questi tre interven-
ti, solo il primo, rielaborato, confluirà in Why Is There Philosophy of
Mathematics At All?. La seconda delle lezioni di Taiwan, invece, sep-
pur in maniera cursoria e a tratti allusiva al punto da dare l’impressio-
ne di vaghezza, riesce a coprire sia il piano della prima sia della terza
delle Descartes Lectures. Ma a Taiwan Hacking insiste soprattutto sul-
la dimensione pratica della matematica, sulla «matematica in azione»
ed è, questo, un aspetto sul quale avrà modo di tornare in occasione del-
la Howison Lecture intitolata Proof, Truth, Hands and Mind, tenuta al-
l’università di Berkeley subito dopo il ciclo della Tilburg. In quella se-
de Hacking dirà esplicitamente di voler «pensare alla matematica in
modo materiale» e di voler rendere sempre più conto del fatto che
«pensiamo con le nostre mani»31.
IAN HACKING E LA SCIENZA COME “MISCUGLIO VARIOPINTO” DI STILI 19

4. «The manipulative hand and the attentive eye»

Se il progetto sulla matematica ha trovato la sua forma definitiva, mo-


nografica, solamente dopo 50 anni dalla sua prima formulazione (e
dopo una serie di conferenze e di articoli sul tema), la ricerca sullo sti-
le di laboratorio ha preso al contrario le mosse da un libro, originaria-
mente concepito come un manuale introduttivo alla filosofia della
scienza per gli studenti di Stanford. Representing and Intervening
(1983) invitava i filosofi della scienza a dar vita a un vero e proprio
movimento di «ritorno a Bacone», cioè un ritorno a una considerazio-
ne maggiore del ruolo dell’esperimento nell’economia della scienza. Un
breve articolo, Experimentation and Scientific Realism, del 198232, con-
teneva già l’argomento sperimentale a favore dell’esistenza delle entità
teoriche, ma è solo nel 1983 che Hacking dà una forma compiuta alle
sue tesi, anche grazie a espressioni che sono diventate dei veri e propri
slogan, come ad esempio «se puoi spruzzarli sono reali» e «l’esperi-
mento ha una vita propria». Ad essere spruzzati, dando così la prova
della loro esistenza, erano, nell’esempio ormai celebre, elettroni pola-
rizzati, sparati da un emettitore standard su di una sfera di niobio per
modificarne la carica. Quest’argomento di natura pragmatica è ripre-
so e aggiornato nella quarta e ultima lezione de La ragione scientifica,
che tratta problemi ontologici legati allo statuto di entità astratte33.
Nonostante sia concepito all’epoca del primo degli scritti di Hacking
dedicato al progetto degli stili, Representing and Intervening non par-
la, nello specifico, di uno «stile di laboratorio» – per quanto il termine
stesso e l’idea che la scienza sia costituita da un numero limitato di
«stili di ragionamento» in evoluzione occorra nel testo del 1983. Per
una ricognizione dei lavori sullo stile di laboratorio non si può comun-
que non partire da Representing and Intervening appunto per l’accen-
to messo da quel testo su tutti quei casi di relativa indipendenza del-
l’esperimento nei confronti della teoria.
L’espressione “stile di laboratorio” appare invece negli articoli de-
dicati alla teoria degli stili e lì l’accento è sull’attività di creazione di fe-
nomeni legata alla sperimentazione: l’eroe di questo stile non è tanto
Boyle quanto la sua pompa ad aria per creare il vuoto. La pompa di
Boyle ci ha resi capaci di ampliare il corredo ontologico dell’universo
introducendo oppure stabilizzando fenomeni ed effetti che non si so-
20 LA RAGIONE SCIENTIFICA

no mai prodotti in natura o che non possono comunque presentarsi in


forma pura senza le condizioni determinate da un setting sperimenta-
le. Nel quadro della teoria degli stili, l’attività sperimentale è inoltre
concepita da Hacking come quello stile che non solo permette la co-
struzione di strumentazioni sperimentali per produrre fenomeni ai qua-
li applicare modelli ipotetici, ma che prevede anche un ulteriore livel-
lo di modellizzazione, quello che corrisponde alla teoria sull’apparato
sperimentale stesso e sul suo funzionamento34. Sin da subito lo stile di
laboratorio è pensato nei termini di una dialettica tra momento teori-
co e momento empirico, tra il concepire e lo sperimentare: se usassi-
mo il laboratorio senza lo stile ipotetico-analogico saremmo solo for-
miche, mentre la costruzione di modelli analogici senza la sperimenta-
zione ci renderebbe dei ragni, anziché delle api baconiane. Non è un
caso se, nel 1992, lo stesso anno di ‘Style’ for Historians and for Philo-
sophers Hacking fa uscire anche The Self-Vindication of Laboratory
Science, con il quale tenta di rispondere indirettamente a tutti coloro
che lo avevano accusato di svincolare totalmente l’esperimento rispet-
to alla teoria35. Quest’ultimo articolo costituisce un precedente inte-
ressante delle lezioni di Taiwan, in quanto lì Hacking unisce per la pri-
ma volta in maniera esplicita il tema del laboratorio con il progetto de-
gli stili. La scienza sperimentale è forse quella che mette meglio in luce
le due tesi della «metafisica degli stili»: nel laboratorio non solo si ope-
ra con entità teoriche spesso invisibili, ma si mettono in pratica dei mec-
canismi di auto-regolazione che rappresentano meglio di qualsiasi al-
tra definizione astratta ciò che Hacking intende per «tecniche di auto-
stabilizzazione» (infra, Lezione IV, §16).
Al Collège de France Hacking accenna varie volte alla filosofia di
laboratorio, nel corso sugli stili (Il laboratorio e i modelli teorici, del 28
gennaio 2003) e poi nell’ultimo corso, quello del 2005/2006 (lezione del
27 aprile). Prima di concludere la sua esperienza al Collège, Hacking
è invitato, nel giugno 2005, al Max Planck Institut für Wissenschaft-
sgeschichte di Berlino, per parlare della sua filosofia dell’esperimento.
Il suo intervento, intitolato Another New World Is Being Constructed Ri-
ght Now: The Ultracold36 anticipa molti dei punti toccati nella terza le-
zione di Taiwan. Il condensato di Bose-Einstein e l’attività quantistica
di atomi analizzati a temperature attorno allo zero assoluto sono i case
studies scelti da Hacking per aggiornare i suoi argomenti sulla filosofia
IAN HACKING E LA SCIENZA COME “MISCUGLIO VARIOPINTO” DI STILI 21

dell’esperimento e sulla creazione di fenomeni. Nel novembre del 2007,


l’occasione del soggiorno a Taiwan è anche quella di visitare laborato-
ri dell’ultra-freddo alla National Tsing Hua University e alla National
Chung Cheng University. Rispetto al 1982 gli esempi sono quindi de-
cisamente aggiornati ma la sostanza dell’argomento a favore del reali-
smo delle entità teoriche è rimasta intatta, ovvero: il reale e il causale
coincidono e non sembra esserci miglior modo di provare la realtà di
una entità che quella di agire sui nessi causali in cui essa si trova coin-
volta (essere è accadere e far accadere). L’argomento vale sia per il bo-
sone di Higgs sia per le manipolazioni effettuate da Edmond Becque-
rel su quelli che riteneva essere dei raggi chimici: l’esistenza di tali rag-
gi si sarebbe rivelata più tardi illusoria ma, nel 1840, ciò non gli impedì
di scattare ottime fotografie del Jardin des Tuileries e della Senna (in-
fra, Lezione IV, §14, p. 160).
Si vede dunque come il cambio terminologico introdotto nella prima
lezione assuma, nel caso dello stile di laboratorio, tutta la sua pregnan-
za. Hacking opta per «stile laboratoriale di pensiero e azione» [labora-
tory style of thinking and doing] in quanto l’espressione «stile di ragio-
namento» non basta a evocare l’unione de «la mano che manipola e
l’occhio che scruta»37 [the manipulative hand and the attentive eye].
Tra le conseguenze del nuovo quadro metodologico illustrato nella
Lezione I (e nel §2 del presente saggio), vi è anche il fatto che lo stile di
laboratorio non è più considerato da Hacking come un settimo stile di
ragionamento scientifico – unione dello stile dell’esplorazione speri-
mentale con quello della costruzione dei modelli analogici – ma come
una cristallizzazione del solo stile sperimentale. Contrariamente a quan-
to succede nel caso della matematica però, il ritrarsi della “metafisica”
non libera il campo per un radicamento cognitivo dello stile di labora-
torio. Se Netz indicava la cristallizzazione dello stile matematico, sono
Shapin e Schaffer, con il loro Leviathan and the Air-Pump (1985) a
mostrare l’emergere della filosofia sperimentale ai danni della scientia
dimostrativa di Hobbes. Il fatto che il tipo di background invocato in
questo caso sia di natura sociologica, anziché cognitiva, permette a
Hacking di ridefinire la sua distanza dai science studies e in particolare
dall’approccio di Bruno Latour38.
Ci si potrebbe infine chiedere perché Hacking, invitato a esporre
nel modo più compatto e complessivo possibile la sua filosofia a un
22 LA RAGIONE SCIENTIFICA

pubblico piuttosto distante da lui, in termini sia di formazione accade-


mica sia di retaggio culturale, non si sia dedicato a temi da lui mag-
giormente trattati, come ad esempio lo stile statistico. Perché parlare
di stile matematico e di stile di laboratorio? Non solo niente sembra
accomunare laboratorio e matematica, ma gli stili corrispondenti sem-
brerebbero dover implicare due modi di pensare agli antipodi: la cie-
ca manipolazione e la vuota teoria, l’empirismo e l’a priori, il contin-
gente e il fugace con le verità eterne e immutabili. A questo proposito
risulta illuminante ciò che Hacking dirà in apertura del suo Why Is The-
re Philosophy of Mathematics at All?: «I filosofi tendono a sottolineare
la “conoscenza” matematica, ma, come G.H. Hardy ha detto nella pri-
ma pagina della sua Apologia (1940), “la funzione di un matematico è
quella di fare qualcosa, dimostrare nuovi teoremi, aggiungere qualco-
sa alla matematica”. Ho voluto porre l’accento su quel “fare”»39. La
scelta di unire laboratorio e matematica sotto il segno «dell’interven-
to» marca quindi una sorta di “svolta pratica” con la quale Hacking,
di fatto, salda le sue filosofie dell’esperimento e della matematica con
il progetto degli stili, nel tentativo di allontanarsi da un certo tipo di sto-
ria delle idee e di procedere invece verso una «concezione più sempli-
ce e all’antica della storia: una storia non di quello che pensiamo, ma
di quello che facciamo»40.

5. L’antropologia filosofica della ragione scientifica

L’idea che la ragione scientifica, cioè la razionalità così come si di-


spiega nell’attività scientifica, abbia qualcosa di speciale e sia anzi la
ragione par excellence, è un’idea positivistica, condivisa da Auguste
Comte, Léon Brunschvicg, Abel Rey e molti altri filosofi della stessa
schiera. Se per Brunschvicg lo studio della ragione è possibile solo a
posteriori, quando questa è all’opera, per Bachelard “ragione scientifi-
ca” risulterebbe quasi un’espressione ridondante41. Anche per Hacking
questo è un punto fermo: contrariamente a quanto sostenuto da Rorty,
i discorsi non possono funzionare tutti insieme, «come parti di una con-
versazione umana indifferenziata» (infra, Lezione IV, §8, p. 152). Cio-
nonostante, Hacking ha tentato, in particolare a partire dagli anni
Duemila, di inserire la razionalità scientifica in un quadro sempre più
IAN HACKING E LA SCIENZA COME “MISCUGLIO VARIOPINTO” DI STILI 23

ampio di stimoli e condizionamenti. È in quest’ottica che egli defini-


sce quella presentata in queste lezioni come una «antropologia filoso-
fica della ragione scientifica» (infra, Lezione II, §11, p. 89).
L’idea di un’antropologia filosofica, per quanto appaia raramente nei
suoi scritti, fa parte del bagaglio di Hacking almeno a partire dalla fine
degli anni Settanta. Nella primavera del 1979 Hacking si trova a Delfi,
in Grecia, e scrive il testo per una conferenza congiunta tra gli studen-
ti dell’università di Berkeley e quella di Stanford. Il contenuto di quel
testo diventerà l’intermezzo che divide la prima parte di Representing
and Intervening, sul «Concepire», dalla seconda, sullo «Sperimentare».
Hacking, come fa spesso, sceglie di ricorrere a una sorta di parabola o
di mito delle origini, ma stavolta di sua invenzione: ciò che distingue
l’essere umano dagli altri animali non è il suo essere razionale, né la
sua abilità nel costruire strumenti, ma la sua capacità di fare rappre-
sentazioni (homo depictor). Tuttavia, originariamente, il rappresentare
era anch’essa un’attività materiale, d’intervento, che consisteva nella
realizzazione di “copie”, raffigurazioni pubbliche che avevano la pro-
prietà di somigliare a qualcos’altro. La rappresentazione origina quin-
di dall’intervento e non c’è modo di mettere in discussione la realtà di
una rappresentazione finché non entrano in gioco sistemi di rappre-
sentazione differenti. Ecco perché Hacking sostiene che «la realtà è sol-
tanto un sottoprodotto di un fatto antropologico». «La realtà ha a che
fare con la causazione, e le nostre nozioni sulla realtà sono formate a
partire dalle nostre capacità di cambiare il mondo»42.
Il tema dell’antropologia affiora anche negli scritti di Hacking dedi-
cati agli stili: per spiegare la stabilità della scienza non bastano le tec-
niche di auto-stabilizzazione, ma occorre far riferimento anche ad al-
cuni fatti basilari, relativi agli uomini e al loro posto nella natura. Men-
tre «l’antropologia storica comparata del pensiero» di Crombie
assomiglia molto all’etnologia (cioè a uno studio comparato di un aspet-
to profondamente influente della cultura occidentale), quella di
Hacking è una «antropologia filosofica» che prende in esame quelle ca-
ratteristiche trasversali che rendono possibile la scoperta e il funziona-
mento degli stili. Meglio ancora, essa è una «tecno-logia filosofica»
che prende per oggetto lo studio non, come s’intende di solito, dello
«sviluppo, l’applicazione e lo sfruttamento delle arti, dei mestieri e
delle scienze», ma delle tecniche di stabilizzazione, vale a dire, «lo stu-
24 LA RAGIONE SCIENTIFICA

dio dei modi in cui gli stili di ragionamento forniscono una conoscen-
za stabile e diventano non tanto gli scopritori della verità oggettiva
quanto gli standard dell’oggettività»43.
In realtà, calibrando alcuni dei suoi argomenti ed esempi sulla Cina
e sull’Estremo Oriente (la matematica procedurale cinese, l’invenzio-
ne della storiografia da parte di Sima Quian, le intuizioni ontologiche
di Chuang Tzu e i laboratori di biotecnologie di Shanghai), anche
Hacking mette in scena un certo tipo di etnologia, quella che Foucault
definiva nel 1967 una «etnologia della nostra cultura»44. Sono infatti i
presupposti, le ossessioni e quelli che Hacking chiama i «pregiudizi»
della ragione «occidentale» a essere definiti, in controluce, tramite que-
sto confronto. Perché il thaumàzein per la dimostrazione matematica
si è verificato in Grecia e non in Cina? Se le argomentazioni e gli ele-
menti forniti nell’ambito delle lezioni mancano a volte della solidità e
della completezza dei suoi lavori monografici, gli interrogativi posti da
Hacking in questa sede risultano importanti, tanto più che essi sono sol-
levati all’interno di un articolato quadro d’indagine che dimostra di
essere in continua evoluzione.
Hacking intitola l’ultima lezione al Collège, che chiude il progetto
della Chaire, Una antropologia filosofica della ragione scientifica (5 mag-
gio 2007), ed è ormai sotto questa denominazione generale che egli
sembra voler far rientrare lo studio dei suoi stili. Ciò avviene solo po-
chi mesi prima del soggiorno a Taiwan, del novembre dello stesso an-
no. Nel corso delle lezioni lì tenute Hacking utilizzerà infatti a più ri-
prese quest’espressione. Ne La ragione scientifica, con «antropologia fi-
losofica» egli dice di intendere «un tipo di progetto erede di quello
kantiano», nella misura in cui esso prova a riflettere «su alcuni aspetti
della natura umana così come sono stati scoperti e coltivati da gruppi
di persone, per poi essere codificati a livello sociale o addirittura di ci-
viltà» (infra, Lezione II, §1, p. 74). Con «aspetti della natura umana»,
Hacking si riferisce qui a quelle capacità innate, specifiche degli esseri
umani, che, coltivate in contesti speciali, si sono sviluppate fino a di-
ventare ciò che conosciamo come le scienze. Sebbene Hacking adesso
pensi che gli stili non abbiano un’essenza – ovvero, che non sia possi-
bile indicare una lista di condizioni sufficienti e necessarie per indenti-
ficare uno stile – egli non intende rendere la loro identificazione total-
mente arbitraria. Ecco perché, anziché in un criterio metafisico,
IAN HACKING E LA SCIENZA COME “MISCUGLIO VARIOPINTO” DI STILI 25

Hacking cerca di radicare gli stili in un numero limitato di moduli co-


gnitivi e abilità innate fondamentali e potenzialmente universali. Se
Netz gli fornisce la storia cognitiva di cui Hacking ha bisogno per lo
stile matematico-geometrico, Scott Atran (Cognitive Foundations of Na-
tural History: Towards an Anthropology of Science, 1993) assolve alla
stessa funzione per lo stile tassonomico, per l’idea cioè che certi modi
di suddividere la realtà, di categorizzare gli oggetti, siano innati negli es-
seri umani e quindi trasversali in molte culture distanti geografica-
mente e diverse tra loro45. Nonostante Netz e Atran rimangano, per
Hacking, niente più che «isole di storia cognitiva in un mare di igno-
ranza», egli vede i loro contributi come parte integrante di una «eco-
logia della ragione»46. Come si vede, il progetto sugli stili sembra aver
perso qualsiasi commitment nei confronti della parola “stile”, soprat-
tutto rispetto alle sue implicazioni normative: esso è diventato pura-
mente descrittivo, passando da una logica “metafisica” a una conce-
zione sempre più antropo-logica ed eco-logica del sapere scientifico.
Hacking probabilmente non vedrebbe alcun contrasto, bensì soltan-
to una complementarità, tra il fatto che i nostri stili siano lo sviluppo di
potenzialità innate in un «involucro genetico» (infra, Lezione II, §16, p.
97) e il fatto che essi tendano a dar luogo ad una “metafisica”. La teoria
degli stili è stata formulata inizialmente per articolare una visione del “di-
scorso scientifico” (memore per molti versi dell’analisi delle formazioni
discorsive teorizzata da Foucault ne L’archéologie du savoir del 1969) che
interagisse, risultando anche in larga parte alternativa, con la filosofia
della scienza anglosassone, dominata da nozioni quali quella di schema
concettuale, di Quine, o di paradigma, di Kuhn. Nel corso degli anni
essa è stata percepita da Hacking come eccessivamente ancorata a una
visione “proposizionale” della scienza e quindi vittima, tanto quanto i
suoi competitors anglosassoni, di un certo «idealismo linguistico»47. È
in questo contesto che va compreso l’aprirsi progressivo della dottrina
degli stili: da un lato, alla dimensione dell’«intervento», dell’esperi-
mento, ecc.; dall’altro, all’antropologia filosofica e ai contributi delle
scienze cognitive come quadro esplicativo di riferimento. Anche se mo-
duli e capacità cognitive sono viste più come condizioni di possibilità de-
gli stili che come ciò a cui gli stili in ultima analisi si riducono (infra,
Lezione I, §15, p. 64), mi sembra comunque possibile affermare che il
progetto degli stili sia andato in un certo senso «naturalizzandosi», di-
26 LA RAGIONE SCIENTIFICA

sperdendo nel corso degli anni parte del potenziale filosofico che lo con-
traddistingueva nelle prime fasi della sua elaborazione48.
A questo punto potremmo sollevare una questione che abbiamo fi-
no ad adesso soltanto sfiorato: perché Hacking sceglie di dare questa
presentazione della sua filosofia, in quest’occasione? Più precisamente,
perché il progetto sul «plasmare le persone» è assente da La ragione
scientifica? In che misura il filo dell’antropologia filosofica che corre
lungo alcuni degli scritti di Hacking è coerente con il progetto, d’ispi-
razione foucaultiana, relativo alle modalità storiche di costituzione
della soggettività? A prima vista sembra tutt’altro che evidente la pos-
sibilità di tenere insieme l’idea di costituzione degli individui con il ri-
chiamo crescente alle capacità umane innate e si potrebbe quasi parla-
re, a questo proposito, di un Hacking vittima di una forma aggiornata
di “sonno antropologico”, dal quale Foucault pensava di averci libera-
ti. Se «dobbiamo reputare reale ciò che possiamo usare per interveni-
re nel mondo e per agire su qualcos’altro, oppure ciò che il mondo
può usare per agire su di noi»49 perché il «plasmare le persone» attra-
verso la categorizzazione non rientra nello schema espositivo de La ra-
gione scientifica, mentre le tecniche della matematica sì? La limitazio-
ne degli argomenti del ciclo di lezioni di Taiwan non è dettata solo da
ovvie ragioni di tempo, ma anche da motivi di coerenza: Hacking rie-
sce a offrire una visione sufficientemente coerente e relativamente uni-
taria di una porzione importante della sua produzione filosofica, quel-
la costituita dall’insieme delle riflessioni sulla matematica, sulla scien-
za sperimentale e sulla teoria degli stili, al prezzo di escluderne un’altra,
legata alla soggettività.
Quello che continua a garantire centralità al progetto sugli stili è il
problema fondamentale rispetto al quale esso tenta di articolare una
risposta: la possibile integrazione tra filosofia e storia della scienza.
Hacking ha contribuito a dare a questo problema una piega particola-
re, che ha influenzato profondamente molti tentativi di combinare sto-
ria e filosofia della scienza che oggi vanno sotto il nome di historical
epistemology: come si può storicizzare la ragione senza relativizzarla,
senza comprometterne la validità o limitarne le pretese e il raggio d’a-
zione? Se in precedenza era la metodologia archeologica foucaultiana
a rappresentare il viatico per eccellenza rispetto a questo tipo d’inter-
rogativo, a Taiwan Hacking mostra di essere alla ricerca di nuove piste
IAN HACKING E LA SCIENZA COME “MISCUGLIO VARIOPINTO” DI STILI 27

e modelli possibili. Ecco il perché del riferimento a Leibniz e a Bour-


dieu, e del loro accostamento, nel tentativo di dar vita a un “razionali-
smo bourdesiano” o a uno “storicismo leibniziano”. Hacking presen-
ta non per niente queste lezioni come una “lunga glossa” al passo del-
le Meditazioni pascaliane in cui Bourdieu parla di una ragione che è sì
storica, ma non per questo riducibile alla storia50.
Se lo stile adottato da Hacking, in queste lezioni, fosse uno stile ar-
tistico, si tratterebbe di una “sprezzatura”: egli passa in rassegna tanti
argomenti, dando l’impressione di non volere svolgere il proprio ra-
gionamento in modo dettagliato o decisivo su nessuno dei temi tratta-
ti. In misura minore, questa è in realtà anche la cifra di molti dei suoi
libri e forse del suo modo di fare filosofia. Ciò dà senza dubbio molta
energia al suo gesto, permettendogli tra l’altro un’ampia libertà d’a-
zione, oltre che la possibilità di spaziare tra molti temi e correnti filo-
sofiche diverse. Ed è proprio il potere euristico e innovatore ad esser
stato riconosciuto ai lavori di Hacking, che sono stati letti, criticati e ap-
plicati in campi di sapere molto diversi tra loro. Nonostante ciò, come
ho cercato di mostrare, Hacking dà ne La ragione scientifica una ver-
sione di una parte importante della sua filosofia molto più coerente di
quanto potrebbe sembrare a prima vista. Quello che Hacking vi pro-
pone è un tour de force attraverso molti degli episodi salienti della sto-
ria della scienza antica e moderna. Se dovessimo paragonarlo a un even-
to del panorama epistemologico italiano, potremmo, per certi versi,
accostarlo a quello proposto da Gargani ne Il sapere senza fondamenti
(1975). Anche l’impostazione filosofica di Hacking – per dirla con le
parole usate da A.I. Davidson – «consente di tracciare una linea di
contatto tra la filosofia wittgensteiniana e una corrente notevole della
filosofia francese contemporanea»51. In definitiva, ciò che Hacking
tenta di fare in queste lezioni, è affrontare da un’angolatura diversa la
stessa domanda che egli continua a porsi a partire dalla fine degli anni
Cinquanta: che cos’è la ragione scientifica, ovvero che cos’è la scienza?
Parafrasando ciò che il Wittgenstein dei Remarks dice a proposito del-
la matematica, potremmo dire che, secondo Hacking, non c’è un qual-
cosa di definito, lì davanti ai nostri occhi, che possiamo chiamare
“scienza”. La scienza è piuttosto un “miscuglio variopinto” di stili di ra-
gionamento, o, per meglio dire, di stili di pensiero e azione, che occor-
re analizzare nel loro emergere e nel loro intreccio storico.
Nota del traduttore

In tutti i casi in cui non è presente una traduzione italiana di un te-


sto citato ho fornito la mia. Dove ho ritenuto necessario farlo, ho ag-
giunto alcuni termini tecnici inglesi tra parentesi quadre. Le note del
traduttore (Ndt) spiegano i motivi di alcune scelte legate alla resa ita-
liana dei testi originali citati da Hacking. Sono state inserite delle note
dei curatori (Ndc) laddove si è ritenuto che i limiti della spiegazione
orale rendessero necessaria un’integrazione o l’esplicitazione di un ri-
ferimento. Desidero ringraziare il prof. J.J. Yuann, della National
Taiwan University, organizzatore del soggiorno di Hacking a Taiwan e
curatore dell’edizione originale del presente testo, per averne conces-
so i diritti, rendendo possibile questo volume. Ringrazio inoltre Ales-
sia Di Benedetto e Gerardo Ienna per aver rivisto la traduzione; Luca
Corti, Moreno Rocchi, Paolo Savoia, Amanda Swain e Gabriele Vissio
per i consigli. La responsabilità degli eventuali errori rimane mia.
LA RAGIONE SCIENTIFICA
Prefazione

I capitoli qui raccolti sono il risultato della riscrittura di una serie di


quattro lezioni tenute a Taiwan nel novembre del 2007. Esse espongo-
no un unico grande tema, ma, dal momento che le lezioni si sono tenute
in luoghi diversi, il pubblico al quale esse si rivolgevano non era mai
esattamente lo stesso. Ogni lezione è stata perciò concepita in maniera
a se stante. Ho eliminato la maggior parte delle ripetizioni, ma non
tutte, perché credo che nel corso dei quattro capitoli qualche riepilo-
go possa essere utile. Queste le sedi delle lezioni:

Le Lezioni I e II sono state tenute allo Humanities Forum, Institute


for Advanced Studies in Humanities and Social Sciences, National
Taiwan University, il 9 e il 10 novembre 2007.
La Lezione III si è tenuta allo Science, Technology and Society Work-
shop presso la National Tsing Hua University, il 12 novembre 2007.
La Lezione IV al dipartimento di Filosofia della Soochow University,
il 14 novembre 2007.

In ognuna di queste occasioni i partecipanti sono stati eccezionali e


alcuni dei cambiamenti significativi apportati a questa versione si de-
vono proprio alle domande impegnative che ho ricevuto. Anche se
durato poco più di due settimane, quello a Taiwan è stato per me un
soggiorno indimenticabile. Ho imparato molto dal punto di vista ac-
cademico e della ricerca e, oltre ad aver incontrato persone interessate
alla filosofia, ho fatto la conoscenza di scienziati che lavorano nei la-
boratori dedicati allo studio degli atomi freddi della National Tsing
32 LA RAGIONE SCIENTIFICA

Hua University e della Chung Cheng University. Ho avuto anche la pos-


sibilità di incontrare clinici e ricercatori che lavorano sull’autismo al-
l’ospedale della National Taiwan University di Taipei, così come alcu-
ni ricercatori, clinici e genitori di bambini autistici a Taichung. È ancora
vivido il ricordo di un lungo incontro pomeridiano con gli studenti e
gli insegnanti di filosofia della National Chung Cheng University. Tut-
ti coloro che mi hanno invitato e accolto sono stati incredibilmente
generosi. Mi limiterò a ringraziare in modo particolare Chin-Mu Yang,
Ruey-Lin Chen e, soprattutto, l’ideatore e artefice della mia visita, Jeu-
Jenq Yuann.

Dicembre 2007
Lezione I
Sulle radici storiche della ragione scientifica

Queste lezioni trattano argomenti molto tradizionali del dibattito


filosofico: la verità, la ragione, la conoscenza e le scienze. Questi temi
sono antichi. Il mio ascendente filosofico è Leibniz e quindi, indiretta-
mente, Platone, piuttosto che Aristotele. La prospettiva storicistica
dei nostri tempi ci permette di aggiungere la consapevolezza che nien-
te è fissato eternamente, a meno che non sia puramente formale. Tutto
evolve; la maggior parte delle cose decade. Anche le costanti fisiche, co-
me la costante di Planck e la velocità della luce, potrebbero non essere
così costanti come si ritiene nel quadro di una fisica semplificata1.
Molti filosofi non-analitici ritengono ovvio che anche la verità abbia
una storia. Io sosterrò l’opposto, perché intendo la verità come un
concetto formale. Tuttavia, i miei colleghi, i filosofi analitici, potreb-
bero temere che io mi spinga già troppo nell’altra direzione. Occorre
cautela. Al fine di connettere verità e storia mi rifarò all’idea recente
di Bernard Williams a proposito di ciò che egli chiama «veridicità»
[truthfulness]. I modi di dire la verità hanno una storia, o ciò che Wil-
liams chiama una genealogia2. Al fine di connettere la ragione con la
pratica parlerò di ragionamento, anziché di qualche astratta entità asto-
rica, come la nobile ragione della filosofia più tradizionale. Questi
cambiamenti non sono semplicemente di facciata: essi rappresentano
nuovi modi di portare avanti il progetto di Leibniz di comprendere la
verità e la ragione.
Questi temi sono del tutto impersonali, ma mi concederò la libertà
di fare anche qualche osservazione di tipo personale. La gente conti-
34 LA RAGIONE SCIENTIFICA

nua a chiedermi come possa definirmi un filosofo analitico ed essere


allo stesso tempo così a mio agio nel far uso del passato per capire il pre-
sente. Una piccola digressione suggerirà qualche elemento di risposta
a questa domanda.
Il mio approccio è allo stesso tempo radicale e semplice. Ritornerò
più volte su questo punto. Da un lato, mi baso su dei truismi, dall’al-
tro, li porto a conclusioni sul ragionamento che sono radicali, talmen-
te radicali che talvolta mi troverò a dover dire che sì, intendo davvero
ciò che sto dicendo.
Rientra tra le particolarità del mio approccio il fatto che citerò spes-
so, fuori contesto, una frase molto nota di un filosofo morto molto co-
nosciuto – Schlick o Husserl, per esempio, come anche i grandi filoso-
fi canonici – sostenendo che è molto vicina a ciò che starò dicendo in
quel momento. Così facendo non intendo fare appello al principio di
autorità, perché non mi interessa affermare che tale filosofo ha inteso
le sue parole nello stesso modo in cui le intendo io. Lo faccio piuttosto
per suggerire il fatto che certe idee, in apparenza strane, sembrano es-
sere in circolazione da molto tempo, anche se in forme leggermente
diverse. Farò inoltre uso di luoghi comuni riguardanti la storia della
scienza, più di quanto una persona rispettabile dovrebbe fare. Riten-
go, infatti, che ci sia molta saggezza in certo folclore e che sia sbagliato
dimenticarcene, anche quando questo viola le regole del rigore.

1. Imparare a imparare

La mia idea fondamentale è che il ragionamento, i modi di conosce-


re e le tecniche della scoperta abbiano una storia. Non si tratta della sto-
ria della scoperta dei fatti, della formulazione delle teorie o dell’inven-
zione di tecnologie. Non solamente abbiamo acquisito una quantità stu-
pefacente d’informazioni sul mondo e sul modo in cui cambiarlo:
abbiamo anche dovuto imparare a conoscere.
Questo ha implicato due cose. Abbiamo dovuto far affiorare vari ti-
pi di abilità innate delle quali siamo forse da sempre in possesso, ma il
cui esercizio non è spontaneo. E abbiamo dovuto far evolvere organiz-
zazioni sociali all’interno delle quali quelle abilità potessero essere
promosse.
LEZIONE I. SULLE RADICI STORICHE DELLA RAGIONE SCIENTIFICA 35

Da un lato, quindi, mi rivolgo alle scienze cognitive, allo studio del-


le capacità mentali. Dall’altro, faccio riferimento alla storia delle ci-
viltà e delle loro istituzioni. Scelgo deliberatamente i termini “rivol-
germi” e “fare riferimento”. Le scienze cognitive sono in pieno svilup-
po, ma sono ancora nella loro infanzia. Si fanno molte affermazioni
certe sul cervello e sulle sue abilità, ma in tutta sincerità la nostra co-
noscenza è ancora abbozzata e congetturale. Possiamo quindi sola-
mente rivolgerci ad alcune congetture attuali relative alla cognizione.
Sappiamo invece moltissimo sulla storia delle civiltà, anche se solo
recentemente gli storici hanno iniziato a prendere sul serio il ruolo
delle scienze al loro interno. Iniziamo a sapere molto sulla microstoria
e la microsociologia di questo o quell’evento scientifico, ma a me inte-
ressa una prospettiva più ampia sul ruolo della ragione scientifica nel-
la vita della nostra specie, una prospettiva che sia al contempo filosofi-
ca e antropologica. Mi riferirò quindi a delle storie sul passato, ma ciò
che farò non sarà storia.
Dovrei sottolineare sin dall’inizio che sono un filosofo che usa fatti
del passato, ma non sono in alcun modo uno storico delle scienze. Per
di più, uso il passato in direzione contraria, al fine di comprendere il
presente. Si può dare di quest’idea una versione brillantemente ag-
giornata, chiamandola una “storia del presente”, per usare un’espres-
sione di Michel Foucault, oppure la si può bollare come una “storia
whig”, secondo la locuzione di Herbert Butterfield3. Ma a dire il vero
non sto affatto facendo storia, mi capiterà soltanto di usarla.
La dimensione cognitiva e quella culturale sono, quindi, quelle che
tracciano lo spazio nel quale comprendere la ragione scientifica. Ab-
biamo molte abilità cognitive e la storia umana percorre molti sentieri
diversi. Non dovrebbe sorprenderci, quindi, il fatto che ci siano molti
modi di condurre la ricerca scientifica. Per esempio:

– I matematici costruiscono, tra le altre cose, dimostrazioni deduttive.


– Facciamo modelli teorici di aspetti della natura al fine di com-
prenderli o alterarli.
– Le scienze di laboratorio non richiedono solamente “l’esperimen-
to”, ma anche la costruzione di apparati che servono a provocare, e
spesso creare, fenomeni.
– I tassonomisti classificano gli esseri viventi secondo principi di
36 LA RAGIONE SCIENTIFICA

strutturazione gerarchica, sebbene ciò che tali principi siano, in quan-


to tali, continua ad essere oggetto di accese discussioni.
– Prendere decisioni in situazioni d’incertezza, pensare in termini
di probabilità, è ancora un altro stile di pensiero scientifico distinto.
– È una modalità genetica di comprensione, quella che viene appli-
cata con successo soprattutto nelle teorie evoluzionistiche come la teo-
ria darwiniana della selezione naturale, ma messa alla prova anche in di-
scipline così diverse come l’analisi freudiana e la storiografia marxista.

Questi sono modi distinti di conoscere, praticati in quelle che chia-


miamo “le scienze”. Essi hanno storie che sono in una certa misura in-
dipendenti le une dalle altre. Si basano su capacità cognitive a propo-
sito delle quali, per il momento, è possibile avanzare solamente delle
speculazioni. Sono diversi stili di pensiero scientifico, ognuno dei qua-
li è stato sviluppato in un suo modo particolare, con le sue tempistiche
e apportando il suo contributo al grande tessuto dell’immaginazione e
dall’azione scientifica.
Il fatto di basarsi sul disvelamento di potenzialità umane innate di
tipo (tra gli altri) cognitivo, come sullo sviluppo d’istituzioni sociali al-
l’interno delle quali esse fioriscono, non è proprio solo delle scienze. Un
confronto del tutto scontato è quello con la musica. Le analogie tra la
musica e ciò che adesso chiamiamo “le scienze” avevano attirato l’at-
tenzione dei filosofi greci e sono state mantenute nel cursus educativo
standard delle università medievali europee. Il “quadrivio” consisteva
nell’aritmetica, nella geometria, nella musica e nell’astronomia. Oggi-
giorno consideriamo solo tre di queste discipline come scienze e ab-
biamo messo da parte la musica. Ciò è accaduto in parte perché, seb-
bene disponiamo di una “teoria musicale”, non pensiamo alla musica
stessa come proposizionale, nello stesso modo in cui l’aritmetica, la geo-
metria e l’astronomia sono invece espresse da frasi. In queste lezioni
darò per scontato che la musica non sia uno stile di pensiero scientifi-
co, anche se questa distinzione stessa potrebbe essere un fatto contin-
gente della storia del pensiero. In effetti, dopo le nuove conoscenze
del XVII secolo, le scienze si sono evolute in una direzione e la musica
in un’altra. Le cose sarebbero forse potute andare diversamente.
L’iniziale organizzazione europea, che metteva la musica a fianco del-
l’astronomia, non sembra esser mai stata un’opzione possibile in Cina.
LEZIONE I. SULLE RADICI STORICHE DELLA RAGIONE SCIENTIFICA 37

Nel contesto cinese, per rimettere in discussione i nostri preconcetti,


potremmo citare la calligrafia come esempio di una scienza sviluppatasi
a fianco dell’astronomia.

2. Stili di pensiero scientifico

La deduzione matematica, l’indagine tassonomica, la costruzione di


modelli ipotetici, l’esplorazione sperimentale, la vita di laboratorio, il
ragionamento probabilistico, il modo di pensiero storico-genetico. Ho
tratto l’idea di un ristretto numero di diversi stili di pensiero scientifi-
co dallo storico della scienza A.C. Crombie. Mi sono imbattuto nelle
sue idee nel 1978, in una conferenza a Pisa, e da quel momento non
sono mai tornato indietro4. Egli si riferiva, secondo un modo tradizio-
nale di pensare, all’evoluzione e alla crescita più o meno continua, fin
dai tempi più antichi, di metodi di ragionamento scientifico. Voleva
organizzare una storia della scienza globale su scala enciclopedica. Am-
biva a produrre una “antropologia storica” della scienza europea. Que-
sta è un’espressione pregevole, che suppongo egli abbia preso dallo sto-
rico francese del mondo mediterraneo antico, Jean-Pierre Vernant5.
Non mi trovo del tutto in accordo col progetto di Crombie, ma ne ho
varato uno mio. Come si vedrà all’inizio della seconda lezione, lo con-
sidero, in un certo senso, un progetto antropologico. Ma non nel sen-
so di un’antropologia storica, quanto piuttosto come ciò che potrem-
mo chiamare “antropologia filosofica”, il cui antenato diretto è natu-
ralmente Kant.
Nel 1994 Crombie riuscì finalmente a pubblicare il lavoro di una vi-
ta, i tre volumi di Styles of Scientific Thinking in the European Tradi-
tion: The History of Argument and Explanation Especially in the Math-
ematical and Biomedical Sciences and Arts6. Si tratta di tre tomi bizzar-
ri e maniacali, dei quali, a parte me, nessun altro si è servito granché, ma
che forse mi hanno involontariamente suggerito una nuova visione
della verità e della ragione. Crombie parlava esattamente di sei stili di
pensiero scientifico nella tradizione europea, ognuno dei quali si svi-
luppa secondo la propria traiettoria e la propria cronologia. Non in-
tendo accordare nessun privilegio particolare alla sua precisa classifi-
cazione dei sei stili, come se si trattasse di una analisi definitiva della sto-
38 LA RAGIONE SCIENTIFICA

ria della scienza occidentale, ma la trovo comunque un modello molto


utile. Queste sono delle etichette per ognuno dei suoi stili: matemati-
co, ipotetico, sperimentale, tassonomico, statistico e genetico.
Nessuno di questi sei stili costituisce una disciplina scientifica. È
importante evitare un possibile fraintendimento. Gli stili (nel senso di
Crombie) non sono scienze, almeno non nel senso in cui parliamo at-
tualmente della chimica o della paleontologia come di scienze. La mag-
gior parte delle scienze usa la maggior parte dei sei stili di pensiero. Si
prenda un esempio estremo. Il ragionamento tassonomico può sem-
brare del tutto avulso rispetto alla matematica, finché non si riflette
sul fatto che alcuni dei teoremi più profondi riguardano la classifica-
zione, come ad esempio la classificazione completa dei gruppi sempli-
ci finiti. Tali teoremi risalgono ai cinque solidi regolari che tanto stupi-
vano Platone e i suoi successori. I biologi sistematici, invece, costrui-
scono alberi filogenetici basati sui fossili e ora anche su evidenze di
tipo molecolare-genetico. Uno strumento standard di analisi è il meto-
do della massima verosimiglianza, sviluppato in statistica applicata e fa-
cente ricorso a principi matematici basilari ma profondi7. Come detto,
la maggior parte delle scienze usa la maggior parte dei sei stili di ragio-
namento di Crombie. Probabilmente qualsiasi scienza sufficientemen-
te sviluppata li usa tutti. Ciò vale sia per scienze relativamente di “bas-
so profilo”, come la meteorologia o la mineralogia, sia per quelle che so-
no solitamente classificate più in alto nella scala gerarchica.

3. “La tradizione europea”

Due aspetti del titolo di Crombie dovrebbero essere notati. C’è il sot-
totitolo: The History of Argument and Explanation Especially in the
Mathematical and Biomedical Sciences and Arts. Non mi soffermerò su
questo, sebbene esso presenti un accostamento inusuale della mate-
matica e delle biotecnologie, per non parlare della giustapposizione
piuttosto datata ma affascinante delle scienze e delle arti pratiche.
Crombie aveva molto da dire sulla medicina, io invece non ne dirò nien-
te. La considero una mia mancanza.
Una seconda caratteristica di questo titolo è che Crombie scrive de-
LEZIONE I. SULLE RADICI STORICHE DELLA RAGIONE SCIENTIFICA 39

gli stili di pensiero scientifico nella tradizione europea. Egli immagina-


va, infatti, una “antropologia storica comparata” delle scienze, che con-
frontasse ciò che è successo in Europa con quello che è successo in Asia.
Una serie recente di studi di Geoffrey Lloyd fa esattamente questo,
prendendo la Grecia e la Cina antiche come due civiltà da confronta-
re8. Crombie, invece, non dice niente sulla scienza dell’Asia orientale o
meridionale. Peggio, egli ha gettato un rapido sguardo solamente al-
l’Asia occidentale e al Nord Africa, che sono state le fonti di gran par-
te del pensiero greco.
Sebbene io prenda brevemente in considerazione alcune questioni di
matematica cinese nella seconda lezione, anche il mio lavoro è profon-
damente eurocentrico. Se dovessi avvicinare maggiormente la mia pre-
sentazione alla scienza cinese, partirei da una pagina di Crombie e scri-
verei delle tradizioni matematiche e mediche orientali e occidentali. Pre-
ferisco invece mettere in risalto la scienza di laboratorio o ciò che
chiamerò lo “stile laboratoriale di pensiero e azione” [the laboratory
style of thinking and doing]. È il tema della mia terza lezione. Mostrerò
che si tratta di un’invenzione culturale molto specifica, una cristalliz-
zazione di una caratteristica molto generale della natura umana, vale a
dire l’esplorare curioso e il maneggiare il mondo così come lo abbia-
mo trovato. Questo evento, verificatosi in Europa a metà del XVII se-
colo, ha reso la razza umana un parassita sulla faccia della terra, che
divora gradualmente il pianeta e tutto ciò che esso contiene.
Naturalmente il laboratorio, in quanto invenzione culturale, ha da
tempo valicato i confini dell’Europa. I più importanti laboratori d’og-
gigiorno si occupano di biotecnologie e i più importanti laboratori in
questo settore sono quelli finanziati da fondi di venture capital, in Ca-
lifornia, e quelli d’iniziativa statale, come a Shanghai. Ritornerò su
quest’osservazione geopolitica alla fine della terza lezione.

4. Gli stili sono costituiti dai metodi e dagli oggetti

Il mio intento è quello di trasformare la già peculiare storia di Crom-


bie in una filosofia ancora più peculiare. Una sola frase di Crombie è
sufficiente per realizzare il passaggio:
40 LA RAGIONE SCIENTIFICA

Possiamo stabilire, nel movimento scientifico classico, una tassonomia di


sei stili di pensiero scientifico, distinti secondo i loro oggetti e i loro me-
todi di ragionamento9.

Le parole che rendono possibile il passaggio sono oggetti e metodi di


ragionamento. Esse sono di per sé innocue. Gli oggetti di cui si occupa
lo stile matematico sono spesso chiamati, dai filosofi analitici, oggetti
astratti, come numeri, forme, e gruppi. Gli oggetti dei quali si occupa
lo stile tassonomico sono, per esempio, le specie e i generi della biolo-
gia sistematica, non semplici classificazioni di esseri viventi, che si tro-
vano in tutte le lingue, ma oggetti che portano con sé la funzione pre-
cisa di sub- o super-ordinare gli altri oggetti dello stesso tipo.

5. Un semplice modello per organizzare il passato

La lista iniziale dei sei stili di Crombie, caratterizzati ognuno dai pro-
pri oggetti di studio e metodi di analisi, aveva, per me, una sua plausi-
bilità. All’inizio è stato utile avere uno storico che mi servisse un sem-
plice catalogo su di un piatto d’argento. Oggi la comunità degli storici
considera Crombie un cimelio, un collega bizzarro, molto erudito, ma
che lavorava al di fuori della sfera delle pratiche storiografiche corren-
ti. Ciononostante, quando ho iniziato avevo la possibilità di addossare
ogni responsabilità rispetto a una lista di stili di ragionamento su di un
eminente storico! Questa è più o meno la prima esposizione in cui mi
sono imbattuto:

L’attiva promozione e diversificazione dei metodi scientifici dell’Euro-


pa del tardo-medioevo e della prima età moderna rifletteva la crescita ge-
nerale, nella società europea, di una mentalità incline alla ricerca, una
mentalità condizionata e sempre più diretta, dalle sue circostanze, ad
aspettarsi e a cercare attivamente problemi da formulare e da risolvere,
invece di un consenso da accettare senza discussioni. Le varietà del me-
todo scientifico che furono in tal modo messe in circolazione possono es-
sere distinte nel modo seguente:
LEZIONE I. SULLE RADICI STORICHE DELLA RAGIONE SCIENTIFICA 41

(a) la semplice postulazione stabilita dalle scienze matematiche;


(b) l’esplorazione sperimentale e la misurazione di relazioni osservabili
più complesse;
(c) la costruzione ipotetica di modelli analogici;
(d) l’ordinamento della varietà attraverso la comparazione e la tassono-
mia;
(e) l’analisi statistica delle regolarità delle popolazioni e il calcolo delle
probabilità, e
(f) la derivazione storica dello sviluppo genetico.

I primi tre metodi riguardano essenzialmente le scienze delle regolarità


individuali, gli altri tre le scienze delle regolarità delle popolazioni ordi-
nate nello spazio e nel tempo10.

Così si espresse Crombie in quella presentazione che sentii nel 1978. Al-
l’epoca non aveva ancora fissato la propria terminologia su «stili di ra-
gionamento scientifico» – come si vede, egli dapprima parla di meto-
di, piuttosto che di stili, ma io terrò le due parole separate, in linea con
la sua idea successiva che gli stili di pensiero scientifico sono costituiti
da metodi di ragionamento e oggetti d’indagine.
C’è una differenza più profonda tra questo paragrafo inaugurale
del 1978 e il grande libro di Crombie del 1994. Nel paragrafo appena
citato egli parla dell’Europa tardo-medievale e della prima età moder-
na – grossomodo il periodo che porta a ciò che altri storici della scien-
za europea hanno a lungo chiamato “la rivoluzione scientifica”. Nei
tre volumi del magnum opus la narrazione inizia con la Grecia antica,
dove, per Crombie, un insieme di istituzioni sociali ha dato vita a un
modo di pensare all’interno del quale hanno preso avvio le scienze.
L’impressionante lavoro del 1994 è organizzato attorno ai sei stili, ognu-
no dei quali è presentato come derivante da premesse antiche. Nel
1978, come mostrato dal passaggio sopra citato, Crombie pensava ve-
ramente ai suoi stili di pensiero scientifico come qualcosa che assume
una forma definitiva molto più tardi.
La mia innovazione principale, rispetto alla lista di Crombie, sarà il
fatto di sottolineare che i suoi stili di lungo periodo del 1994 sono pun-
teggiati da ciò che chiamo “cristallizzazioni”. Nel rilevare ciò, porrò
42 LA RAGIONE SCIENTIFICA

l’accento sul periodo della prima età moderna nella storia europea.
Questo potrebbe allentare una certa tensione tra la sua prima discus-
sione degli stili di ragionamento scientifico e quella successiva.
Senza diventare analitici o addentrarci in questioni relative al lungo
o breve termine, dovremmo tener fede alla nostra prima impressione
sulla lista dei sei stili. Semplicemente ogni stile sembra diverso, ha un
aspetto diverso e potrebbe magari essere diverso. Ogni stile potrebbe ri-
flettere l’uso di un gruppo diverso di capacità per cui la mente umana
è ben predisposta.
La lista dei sei stili di Crombie è un modello, cioè uno schema co-
modo da seguire. Ci sono innumerevoli modi di ritagliare qualcosa
che si estende per migliaia di anni attraverso così tante civiltà scientifi-
che in evoluzione. Diversi sono i possibili quadri di analisi: basta pen-
sare ai paradigmi di Thomas Kuhn, i programmi di ricerca di Imre
Lakatos, i temi di Gerald Holton – e la lista potrebbe continuare. Il
valore di ogni partizione sta nel modo in cui la si usa. Nessuno di que-
sti quadri d’analisi è di per sé quello giusto e definitivo.
In qualche occasione ho provato a dare definizioni precise di ciò
che è uno stile di pensiero scientifico, definizioni che potessero con-
validare la lista-modello di Crombie. È stato uno sbaglio, è meglio pro-
vare a vedere ciò che si può fare con la sua idea. Una versione della
massima di Ockham ci fornisce qui una buona regola generale: la li-
sta degli stili di pensiero scientifici non dovrebbe essere estesa al di là
del necessario.
Ogni stile indicato da Crombie è un organismo vivente che evolve.
Egli ha usato questo modello come un modo per organizzare la storia
della scienza. È stato ampiamente criticato e alcuni degli attacchi han-
no colpito il nucleo del suo progetto storiografico11. Mi astengo dal fa-
re critiche perché non sono interessato a questo catalogo in quanto ta-
le. Il mio obiettivo è ripensare l’intera struttura del ragionamento scien-
tifico a partire da quello che è, per me, un punto di vista leibniziano.
Tale punto di vista, come vedremo, può anche dirsi antropologico, nel
senso originario della Anthropologie di Kant. Con ciò intendo uno stu-
dio della specie umana, delle sue facoltà innate e delle sue pratiche
concrete. È d’incomparabile aiuto il fatto di avere un modello, anche
se fornito da uno storico ripudiato dalla generazione successiva di ri-
cercatori. I lettori continueranno a chiedersi: «Come fai a prendere
LEZIONE I. SULLE RADICI STORICHE DELLA RAGIONE SCIENTIFICA 43

Crombie sul serio?». Risposta: «Perché ci ha dato un’utile pista da se-


guire, e perché è giusto pagare un debito intellettuale». Il modello ha
senso se visto come una lista dei modi che riteniamo scientifici di sco-
prire cose sul mondo – ha senso come un kit base.
Le descrizioni di Crombie sono talvolta datate. Egli ha svolto le
proprie riflessioni nel periodo in cui la matematica era identificata col
metodo assiomatico. Crombie riteneva la geometria euclidea una que-
stione di postulati. Da ciò la sua caratterizzazione del primo stile della
lista come stile della postulazione. Crombie era un uomo del suo tem-
po. Io sono uno del mio, mi sono formato durante l’esplosione della
teoria della dimostrazione. Per me, la geometria greca è una questio-
ne di dimostrazione, non di postulati. Potrei citare storici che sosten-
gono che la versione “assiomatica” standard che si dà di Euclide è più
il frutto dell’organizzazione medievale dei testi che non ciò che gli an-
tichi Greci facevano effettivamente. Significa che io ho ragione e Crom-
bie ha torto? Questa è una questione per specialisti, che non è così
importante nel quadro d’insieme. Che ci si concentri sui postulati o sul-
la dimostrazione, il ragionamento matematico e l’abilità di effettuarlo
sono qualcosa che ognuno è in grado di riconoscere, anche se solo al-
cuni tra noi vi sono portati e altri no. Noi sappiamo quando qualcosa
richiede la matematica. Questo è un fatto stupefacente, sul quale mi
soffermerò nella seconda lezione. Perché chiamiamo tutto ciò mate-
matica? Si tratta di così tante cose, un miscuglio variopinto di assio-
mi, dimostrazioni, disegni, intuizione, calcolo. Ma di fronte a noi c’è
senza dubbio uno stile di pensiero indipendente, poco importa come
lo si chiama.

6. Cristallizzazione

La visione che Crombie ha della storia delle scienze europee lo por-


ta a prediligere la continuità. Il mio istinto mi porta esattamente nella
direzione opposta. Preferisco raccontare la storia di ogni stile con al-
meno un momento chiaramente definito di cristallizzazione, un mo-
mento che fissa il modo di andare avanti in futuro, che spesso avviene
dopo secoli, magari millenni, di precursori incompleti. Ho acquisito
quest’abitudine presto, ne L’emergenza della probabilità, pubblicato per
44 LA RAGIONE SCIENTIFICA

la prima volta nel 1975, qualche anno prima di sentir parlare per la
prima volta di Alistair Crombie e dei suoi stili. Il mio libro era un’ar-
cheologia del sapere, nel senso di Michel Foucault. È stata la prima ar-
cheologia in questo senso scritta in inglese e la prima in ogni lingua a
utilizzare uno stile analitico. Questi aspetti sono spiegati nella nuova in-
troduzione all’edizione del 2006 del libro12.
Nel 1975 ho argomentato in favore della tesi secondo la quale ciò che
è immediatamente riconoscibile come ragionamento probabilistico ha
avuto inizio attorno al 1650. Nuovi tipi di enunciati iniziano a essere
pronunciati dalle persone di tutta Europa e ci si trova a entrare in un
mondo nuovo, un mondo dominato dal caso [chance], il mondo che
abitiamo oggi, del quale la “società del rischio” di Ulrich Beck è solo
uno degli aspetti più evidenti13. Certo, è possibile trovare anticipazioni
di cose dette dopo il 1650 in molte altre epoche, in molti luoghi e sot-
to altri cieli. Nel libro originale ho menzionato l’impressionante pa-
dronanza di un ragionamento simil-probabilistico presente in un testo
sanscrito classico, scritto più di due millenni fa, in India. Esistono si-
curamente esempi paralleli in Cina, sui quali nessuno ancora ha attira-
to l’attenzione. Per trent’anni, gli studiosi hanno addotto esempi di
anticipazioni dell’idea di probabilità in modo da refutare la mia tesi.
Ciononostante, come spiego nella nuova introduzione a L’emergenza,
io rimango fermo nella mia convinzione. Molti autori hanno indivi-
duato numerosi elementi appartenenti ad altri sistemi di pensiero nei
quali è possibile riconoscere precursori esitanti delle nostre probabilità.
Crombie stesso, nel presentare il suo quinto stile di pensiero scientifi-
co, fa risalire le probabilità alla notte dei tempi. È possibile raccontare
una storia del genere, ma la mia opinione è che ciò ci insegni poco,
perché solo dopo il 1650 gli esseri umani hanno iniziato a mettere in-
sieme i vari pezzi e a vedere che la fiducia in opinioni diverse e la fre-
quenza con la quale le cose accadono hanno la stessa struttura soggia-
cente, vale a dire, la struttura delle leggi della probabilità matematica.
Non mi soffermerò sulla probabilità che per un momento soltanto,
ho dedicato troppo della mia vita a essa. Nel Dizionario di filosofia pa-
rodistico redatto da Dan Dennett molto tempo fa, il verbo “to hack”
è definito come attenzione ossessiva per i dettagli, con il seguente esem-
pio: «Egli ha passato anni facendosi strada [hacking] attraverso la giun-
gla statistica»14. Ma lasciate che mi addentri ancora una volta nella giun-
LEZIONE I. SULLE RADICI STORICHE DELLA RAGIONE SCIENTIFICA 45

gla, solo per un momento. Molte delle verità relative alla probabilità
non sono affatto temporali: sono semplicemente teoremi matematici
del calcolo delle probabilità. Alcuni altri enunciati che usano la pro-
babilità possono essere veri per ogni tempo e per ogni luogo, ad esem-
pio i fatti concernenti l’emivita del radio. Altri sono invece coniugati,
veri o falsi a seconda del momento. Ma, esagerando al fine di mostra-
re il problema, nessuno di questi enunciati, di nessuno dei tre tipi, po-
teva esser fatto prima del 1650. Non c’era modo di poter asserire que-
ste verità; nessuna condizione per la loro verità o la loro verificazione
era disponibile. I metodi per ragionare su di essi non erano ancora
emersi. Non c’era, come dirò più avanti in questa lezione, nessuna ve-
ridicità riguardo ciò che chiamiamo probabilità fino alla data arbitra-
ria del 1650.
È chiaro il mio entusiasmo, ereditato da Gaston Bachelard, per le
mutazioni nei sistemi di pensiero15. Ma si noti che ora non chiamo l’e-
mergenza della probabilità nel 1650 una “mutazione”, e neanche una
“rivoluzione”16. L’ho appena chiamata una “cristallizzazione”. Quan-
do l’acqua congela, diventa una sostanza completamente nuova, il
ghiaccio. Queste transizioni di fase, come le chiamano oggi i fisici, so-
no reversibili. Ma dal mondo probabilistico che adesso abitiamo non
si può tornare indietro. Una cristallizzazione nell’evoluzione di uno
stile di pensiero scientifico è a tutti gli effetti irreversibile.
Aggiusterò quindi gli stili di Crombie su un mio schema, notando
almeno una cristallizzazione. Non vedo nessuna tensione tra la cristal-
lizzazione e la continuità. Il mio approccio verso il passato può anche
essere l’opposto di quello di Crombie, ma gli opposti possono essere
complementari.
Qui potrebbe essere nuovamente utile richiamare Foucault, dal qua-
le ho probabilmente mutuato questo modo di pensare. All’inizio de
L’archeologia del sapere – il suo tentativo, a mio parere non molto riu-
scito, di descrivere la metodologia dei suoi primi scritti – egli richiama
l’efficacia delle descrizioni braudeliane del passato imperniate sulla
longue durée. Sono i climi, e non i re, a dettare legge. I grandi eventi nel-
la storia del Mediterraneo sono, per esempio, l’abbattimento di gran
parte degli alberi della Grecia per costruire navi. La grande battaglia
navale di Salamina avrà pure cambiato il mondo, ma essa resta un me-
ro incidente nella storia dell’abbattimento degli alberi. Trasformare la
46 LA RAGIONE SCIENTIFICA

Grecia in una distesa di roccia brulla ha cambiato il clima e quindi le


fortune dei popoli. Foucault ha detto chiaramente che la sua storia dei
sistemi di pensiero, concepita in termini di mutazioni radicali e quasi
istantanee, è del tutto coerente con tali narrazioni magistrali di secoli
che si muovono lentamente.
Non intendo assolutamente vincolarmi a una classificazione defini-
tiva degli stili di pensiero scientifico, né optare in favore del continui-
smo di Crombie abbandonando il mio passato costellato di rotture. Sce-
glierò tuttavia di essere conservativo. Non c’è motivo di creare argo-
menti artificiali su come classificare fondamentali stili di ragionamento
scientifico. Sarò parsimonioso, imitando la massima di Ockham. Sarò
fedele ai sei stili di Crombie, ma li punteggerò di cristallizzazioni. Es-
se, insisterò su quest’aspetto, sono più importanti per comprendere il
ragionamento scientifico rispetto alle lunghe e prolisse storie di prede-
cessori. È solo quando uno stile si cristallizza che la gente capisce dav-
vero come scoprire delle cose usando quello stile.
Per ogni stile farò quindi notare almeno una discontinuità, come
ad esempio nel caso di ciò che chiamo l’emergenza della probabilità.
Non sono io a inventare questi punti: essi sono, al contrario, già leg-
gendari e ognuno di essi può contare su di un proprio pioniere, o al-
meno su un nome noto. C’è Pascal. C’è Linneo, per la classificazione
biologica. C’è inevitabilmente Galileo, per la modellizzazione ipoteti-
ca. È un caso che questi nomi rappresentino davvero persone reali.
Ognuno di questi simboleggia un inizio profondamente nuovo, in cui
un gruppo di esseri umani ha lavorato di concerto per escogitare un
nuovo modo di andare avanti. Anziché riesumare la storia della scien-
za di vecchio stampo, con i suoi racconti incentrati sull’eroe della sto-
ria, mi avvalgo di eroi leggendari, con nomi che possono corrispondere
a quelli di personaggi storici oppure no. Essi servono a designare le cri-
stallizzazioni degli stili.

7. Rimpianti a proposito della parola “stile”

Mi pento di aver iniziato a usare la parola “stile” perché essa ha ac-


quisito troppe connotazioni diverse dopo che Heinrich Wölfflin l’ha in-
trodotta nella storia dell’arte all’inizio del XX secolo17. La parola era
LEZIONE I. SULLE RADICI STORICHE DELLA RAGIONE SCIENTIFICA 47

molto in voga in Germania, anche nella forma composta Denkstil, sti-


le-pensiero [thought-style] o stile di pensiero [style of thinking]. Com-
pare nell’analisi di Oswald Spengler del declino dell’Occidente, pub-
blicata prima e dopo la fine della prima guerra mondiale. È stata mol-
to importante, per esempio, per l’approccio alla sociologia di Karl
Mannheim18. Tra i filosofi positivisti troviamo Rudolf Carnap, che par-
la di stili di pensiero, anche se questi non risultano centrali nella sua
analisi19. I nazisti hanno fatto un gran parlare di uno stile di pensiero
tipicamente ebreo20.
Il crescendo di riferimenti agli stili di pensiero – in Mannheim, Car-
nap, così come tra i nazisti – accadeva negli anni Trenta. È il decennio
di un libro che oggi riteniamo estremamente importante di Ludwik
Fleck, tradotto come Genesis and Development of a Scientific Fact. L’e-
dizione inglese omette il sottotitolo tedesco, Einführung in die Lehre
von Denkstil und Denkkollektiv21. L’idea di Fleck di Denkstil è profon-
damente diversa dalla nozione di Crombie di uno stile di pensiero.
Fleck si riferisce a un modo di pensare, un modo di scoprire che è pra-
ticato, in un dato momento, all’interno di una specifica comunità, di
un collettivo di pensiero che evolve, muta o muore in un breve arco di
tempo. Il collettivo di pensiero è un nome adatto per ciò che Thomas
Kuhn, in maniera meno appropriata, ha chiamato una «matrice disci-
plinare», un corpo di lavoratori e i loro annessi in un dato campo d’in-
dagine. I Denkstile di Fleck vivono relativamente poco, mentre gli sti-
li di pensiero scientifico di Crombie si estendono più sulla longue du-
rée. Essi si evolvono e si cristallizzano, certo, ma persistono attraverso
un lungo periodo di tempo e sono usati, a gradi differenti, in tutte le
discipline scientifiche e anche al di là di esse.
Un motivo d’inquietudine rispetto alla parola “stile” è che essa ave-
va già un uso radicato in lavori di altissimo livello. Ed è esattamente nel-
lo stesso momento, diciamo il 1935, che essa veniva anche usata in mo-
di assolutamente deprecabili. Era una parola di moda nella cultura te-
desca, usata per scopi differenti. Fortunatamente ci ricordiamo solo i
migliori di essi e abbiamo dimenticato i peggiori.
Una seconda ragione d’insoddisfazione è che la parola “stile” ha un
uso diffuso in molti contesti. Nelle scienze è del tutto naturale contra-
stare lo stile di un ricercatore famoso con quello di un altro. Tutta una
serie di articoli sono stati pubblicati in questa direzione, dopo che ho
48 LA RAGIONE SCIENTIFICA

scritto per la prima volta degli stili di ragionamento scientifico22. È un


caso fortuito che io abbia appena usato l’espressione “stili di ragiona-
mento”. Ho abbandonato questa locuzione, e sono tornato a quella ori-
ginale di Crombie “stili di pensiero scientifico”. Questo lascia l’espres-
sione “stili di ragionamento” ad altri, perché possano continuare a usar-
la a modo loro. Per esempio Arnold Davidson ha fatto propria la mia
espressione “stili di ragionamento” nel suo acuto studio sulla perver-
sione, ma egli ha inteso qualcosa di completamente differente rispetto
a me23. Più recentemente, è uscito Styles of Reasoning in the British
Life Sciences, dedicato alla prima metà del XIX secolo24. Forse mi ca-
piterà ancora di menzionare l’espressione “stili di ragionamento”, ma
non la userò più da qui in avanti. Accidentalmente essa è di dominio
pubblico ed è lì perché altri la usino. Nessuno, che io sappia, parla di
stili di pensiero scientifico eccetto Crombie e, sulla sua scia, me; l’e-
spressione ci appartiene quindi ancora per un po’.
Gli stili di pensiero scientifico, nel senso dei sei stili definitivi di
Crombie, devono essere nettamente distinti da un concetto più gene-
rico di stile. Recentemente Geoffrey Lloyd ha usato “stile di indagine”
[style of enquiry] come uno strumento analitico fondamentale nei suoi
convincenti studi comparati sulla scienza greca antica e su quella cine-
se25. Probabilmente in futuro ci saranno molti altri usi della parola “sti-
le” per mettere in risalto questo o quell’aspetto delle scienze.
“Stile” potrebbe sembrare quindi una parola sovrautilizzata, sia ne-
gli anni Trenta sia adesso. Non è forse una vecchia scarpa alla cui ago-
nia dovremmo porre fine? A volte penso di sì, ma, dopo tante ricerche
di parole alternative e altrettante riflessioni, mi sento legato all’espres-
sione di Crombie. Continuerò a parlare di stili di pensiero scientifico
di lunga durata, punteggiati da momenti di cristallizzazione. La massi-
ma di Ockham assume un’utilità particolare. Se decidiamo di non au-
mentare la lista degli stili di pensiero scientifico al di là del necessario,
evitiamo anche inutili dibattiti su come definire gli stili di pensiero – co-
me se avessero un’essenza che deve essere scoperta – e possiamo così
metterci direttamente al lavoro.
LEZIONE I. SULLE RADICI STORICHE DELLA RAGIONE SCIENTIFICA 49

8. Stili auto-certificanti

Fino a qui tutto facile. Ora preannuncio un passaggio radicale: pas-


so dalla storia alla metafisica, dall’antropologia storica all’antropolo-
gia filosofica, dalla piatta descrizione al tentativo di disfarsi dei dibat-
titi ontologici.
Ritengo che quando si cristallizza, uno stile di pensiero scientifico in-
troduca nuovi oggetti e nuovi criteri per la verità o la falsità degli enun-
ciati che portano su quegli oggetti. Uno stile, con i suoi specifici meto-
di di ragionamento, non risponde a nessun criterio eccetto quelli da
lui stabiliti. Esso non è valido perché ci aiuta a scoprire la verità in qual-
che ambito. È esso stesso a definire i criteri del dire-vero all’interno
del suo ambito. Quindi in un certo senso ogni stile è autonomo e “au-
to-certificante” [self-authenticating]. Ciò suona senza dubbio radicale,
ma è proprio ciò che intendo.
Queste dottrine, per quanto sorprendenti, non sono del tutto nuo-
ve. Quando il positivismo logico raggiunse il suo apice, Moritz Schlick
coniò lo slogan «il significato di un enunciato è il metodo della sua ve-
rificazione». Esso è stato subito modificato e poi abbandonato, ma ha
più meriti di quanto non si creda comunemente. Schlick aveva in men-
te un metodo di verificazione che risultasse appropriato per un enun-
ciato individuale, piuttosto che tipi molto generali di metodo. Senza
sposare il suo rigido verificazionismo asseriamo che, finché non ci so-
no metodi di ragionamento che influiscono sulla verità o la falsità di
un enunciato scientifico, la questione della sua verità o falsità non si
pone. Il significato, come alcune forme semplicistiche di filosofia ana-
litica hanno rimarcato, richiede la possibilità di applicare condizioni
di verità. Traendo spunto da ciò che Bernard Williams chiama “veridi-
cità”, concetto che spiegherò a breve, si può dire che gli enunciati scien-
tifici diventino disponibili [come up for grabs] in quanto veri o falsi so-
lo quando entra in gioco un metodo per ragionare sulla loro verità.
Per la maggior parte degli enunciati ordinari le cose non stanno co-
sì. Tali enunciati hanno condizioni di verità, metodi di verificazione e
così via, indipendentemente dagli stili di pensiero scientifico (per esem-
pio, «il gatto è sullo zerbino»). Allo stesso modo la maggior parte de-
gli oggetti non è introdotta nel discorso per il tramite di stili di pensie-
ro scientifico (per esempio: bastoni e pietre).
50 LA RAGIONE SCIENTIFICA

Occorre fare dei distinguo pedanti, che, riflettendoci meglio, sono


banali. Per esempio, non mi verrebbe mai in mente di avanzare l’idea
che gli enunciati sui dinosauri fossero falsi in un lontano passato sola-
mente perché non potevamo asserirli26. Ciò sarebbe assurdo. L’enun-
ciato «i dinosauri vagavano sulla terra durante il giurassico» è vero,
ma non ha alcun senso dire che sia vera adesso, o che fosse vero un mi-
lione di anni fa. È un enunciato che la grammatica inglese – per parla-
re solo della mia lingua madre – coniuga al passato, ma non è affatto
vero o falso solo in un determinato momento. Allo stesso modo non
intendo sostenere che il teorema di Pitagora sia diventato vero solo
quando la geometria ha iniziato a esistere come un insieme di cono-
scenze. Il teorema di Pitagora non è coniugabile temporalmente, non
è vero o falso limitatamente a un momento.

9. Oggetti

Ogni stile di pensiero scientifico introduce la propria classe di og-


getti. Si pensi agli oggetti astratti (‘platonici’) della matematica, alle en-
tità teoriche inosservabili al centro dei dibattiti recenti sul realismo scien-
tifico, o alla biologia sistematica con i suoi taxa. Ogni stile è relativo al
suo dominio, ma solo perché esso introduce gli oggetti che sono propri
di quel dominio. Non li crea – sostenere ciò sarebbe assurdo – ma essi
non hanno alcuno spazio nel pensiero al di fuori degli stili.
Come corollario, le nuove classi di oggetti rendono possibili dibat-
titi ontologici interminabili nei rispettivi ambiti, per esempio tra il pla-
tonismo e l’antirealismo in matematica, o tra il realismo scientifico e i
vari tipi di strumentalismo ed empirismo in fisica.
I dibattiti ontologici all’interno delle scienze risultano da (a) l’intro-
duzione di oggetti da parte degli stili di pensiero (b) il fatto che parlia-
mo di questi oggetti utilizzando frasi nelle quali i nomi degli oggetti
hanno la funzione di soggetti grammaticali, e (c), come già sottolinea-
to da Nietzsche, la maggior parte delle lingue esige presupposti di esi-
stenza per i termini che ricoprono la posizione di soggetto. Questo è
certamente vero per le lingue europee e non è quindi così strano che
questi dibattiti ontologici siano soprattutto di natura europea. Ritor-
nerò su questa questione nella seconda lezione. L’ontologia è solo un
LEZIONE I. SULLE RADICI STORICHE DELLA RAGIONE SCIENTIFICA 51

risvolto delle lingue e della cultura europea che i pensatori cinesi do-
vrebbero ignorare?
Così come gli enunciati ordinari sono indipendenti dagli stili di ra-
gionamento, nello stesso modo i dibattiti ontologici più sedimentati
non hanno niente a che vedere con gli stili. C’è un mondo esterno? Ci
sono altre menti oltre alla mia? Oppure (un problema dibattuto in
varie forme dai filosofi della logica): ci sono universali, classi, proprietà
o esistono solamente gli individui? Tutti questi sono problemi onto-
logici, ma non hanno niente a che fare con gli stili di ragionamento
scientifico.
Ritengo queste dottrine sugli enunciati, sugli oggetti e sugli stili di
pensiero scientifico profondamente razionaliste nel carattere, perfet-
tamente conformi allo spirito del mio mentore Leibniz. Lungi dall’im-
plicare qualche tipo di relativismo, la dottrina dell’auto-certificazione
degli stili di pensiero contribuisce a spiegare ciò che chiamiamo “og-
gettività”.
Bisogna essere circospetti, quasi a disagio quando si tratta dell’og-
gettività. Come Lorraine Daston e Peter Galison si sono prodigati a mo-
strare, il concetto epistemologico di oggettività ha un passato con luci
e ombre, multiforme e polisemico27. I termini “oggettivo” e “oggetti-
vità”, insieme con i loro compagni “soggettivo” e “soggettività”, han-
no acquisito i loro significati attuali nelle lingue europee solo all’epoca
di Kant28. Quando parlo di oggettività intendo essenzialmente affer-
mare che le verità scoperte dalle scienze sono vere, indipendenti da
ciò che noi pensiamo o dal modo in cui le scopriamo. Ciò è del tutto
coerente col dire che le loro condizioni di verità sono i prodotti degli
stili di pensiero nel cui dominio essi ricadono.

10. Leibniz e Bourdieu

Permettetemi un paragone insolito. Le Meditazioni pascaliane del


1997 sono, a tutti gli effetti, il testamento filosofico di Pierre Bourdieu29.
Anche lui era molto interessato all’oggettività delle scienze, inclusa
naturalmente la sua sociologia. A mio modo di vedere egli era eccessi-
vamente ostile verso la maggior parte dei social studies of science, men-
tre io ritengo di aver appreso molto dai migliori esperti in science stud-
52 LA RAGIONE SCIENTIFICA

ies, nonostante alcuni di loro pensino che io sia un vecchio guastafeste


che non ha imparato niente30.
Bourdieu era molto legato a una visione razionalistica – spesso si di-
mentica che i suoi primi lavori sono sia su Leibniz sia interamente leib-
niziani. Dal momento che è stato un uomo rilevante dei nostri tempi,
egli era storicista. Nel capitolo delle sue Meditazioni intitolato I fonda-
menti storici della ragione egli ha scritto: «Dobbiamo riconoscere che
la ragione non è caduta dal cielo, come un dono misterioso e destinato
a rimanere inesplicabile, quindi essa è completamente storica; ma con
questo non siamo in alcun modo costretti ad arguire, come si fa di so-
lito, che essa sia riducibile alla storia». Egli ha proseguito dicendo che
«È nella storia, e nella storia soltanto, che va cercato il principio del-
l’indipendenza relativa della ragione nei confronti della storia». Inol-
tre – e qui parafraso una frase eccessivamente francese – egli pensava
che «la storia singolare della ragione si compie» in condizioni «assolu-
tamente specifiche», «propriamente storiche», ma del tutto eccezio-
nali31. Potrei presentare il mio uso degli stili di ragionamento scientifi-
co come una lunga glossa a questo passo di Bourdieu. Perché è in con-
dizioni del tutto specifiche che nuovi stili di pensiero iniziano a esistere
e progrediscono.
Questo tipo di storicismo, candidamente leibniziano, è molto vici-
no al mio. È l’esatto opposto del progetto finale di Husserl nella Crisi
delle scienze europee. Le intuizioni storiche e scientifiche di Husserl so-
no estremamente importanti, ma il mio progetto è del tutto diverso dal
suo, almeno nel modo in cui io lo interpreto. Egli pensava che avessi-
mo fondamentalmente perso di vista ciò che stavamo realmente fa-
cendo nelle scienze perché abbiamo seppellito le nostre intuizioni
originali sotto innumerevoli strati di sedimenti. Questa era la causa
profonda della crisi, di cui i segni evidenti e superficiali erano lo Sta-
to della Germania, cuore della cultura e della scienza europee, nel
1936. Il compito della fenomenologia trascendentale era quello di re-
cuperare le intuizioni fondamentali e correggere il presente a partire
da lì. Lo scopo nobile era quello di salvare la civiltà europea dal disa-
stro. Per quanto io rispetti ciò che Husserl intendesse fare, credo che
tutte le idee che si basino sul recupero di una comprensione origina-
ria siano essenzialmente sbagliate, al di là dei possibili benefici politi-
ci32. Sceglierò comunque di battezzare la cristallizzazione di uno stile
LEZIONE I. SULLE RADICI STORICHE DELLA RAGIONE SCIENTIFICA 53

di pensiero come “galileiana”, e questo nome si rifà quasi direttamen-


te a Husserl, il quale mi sembra aver avuto una straordinaria com-
prensione dei profondi cambiamenti della ragione scientifica all’epo-
ca di Galileo.

11. Società

Uno stile di ragionamento scientifico non risponde ad alcun criterio


se non a quelli da lui stesso formulati. Ciò non significa che non abbia
bisogno di alcun sostegno, come se fosse una sorta di abitante autono-
mo di ciò che Popper ha chiamato il Terzo Mondo, una reincarnazio-
ne degli inebrianti postulati di Platone e Frege. Sono le persone che
pensano. Le persone ragionano, le persone scoprono. Le persone de-
vono mangiare e, anche nel caso in cui siano ricche, hanno comunque
bisogno di altre persone che prestino loro ascolto. Gli stili sono resi pos-
sibili dalle istituzioni. Lo studio comparato di Geoffrey Lloyd sulla
scienza antica della Grecia e della Cina, menzionato sopra, è molto at-
tento alle configurazioni istituzionali che hanno permesso a molti dei
suoi “stili di indagine” di prosperare in questa società o nell’altra.
Gli stili di pensiero scientifico nella tradizione europea sono pratiche
sociali tanto quanto i Denkstile di Fleck. Sono meno locali e più dura-
turi, in parte perché sono basati su capacità cognitive fondamentali.
Se si estinguono, ciò non avviene per refutazione, ma perché vengono
abbandonati. Oppure possono diventare moribondi. Non c’è miglior
esempio che la matematica greca, che si arenò completamente dopo Ar-
chimede. Si scrissero commenti in greco, arabo e latino, ma nessuna
matematica nuova fu creata per un millennio. Le cose non sono anda-
te molto diversamente in Cina.
Ho affermato che gli stili di pensiero scientifico in un certo senso si
auto-certificano. Forse questo implica che non possono essere destituiti
per cause interne; non possono essere messi in discussione dall’interno,
in quanto sono essi a fornire i propri canoni di correttezza. Ma è pos-
sibile che si perda interesse in essi, per molte ragioni. Forse si è smes-
so di creare matematica dopo Archimede perché nessuno aveva idee
nuove. Oppure la generazione successiva si era semplicemente annoia-
ta di trattare vecchie questioni, non se ne vedeva il beneficio. L’abban-
54 LA RAGIONE SCIENTIFICA

dono di uno stile di pensiero scientifico può avvenire per le ragioni


più banali.
Il giuoco delle perle di vetro, di Hermann Hesse, è la parabola di
una società costruita attorno a un’attività intellettuale molto semplice,
gestita da istituzioni complesse33. Non è molto dissimile da alcuni aspet-
ti delle scienze matematiche, ma il suo nucleo è la musica e inizia con
l’arte della fuga. Alla fine, il Magister Ludi, il vero Archimede del gio-
co, decide che egli deve, per amor dell’umanità, abbandonare le istitu-
zioni che rendono possibile il gioco delle perle di vetro. Dal nostro pun-
to di vista, tale sistema, descritto da un grande scrittore pieno d’inven-
tiva, è sufficientemente umano da essere affascinante, e tuttavia ha
un’aria assurda.
Hesse sapeva bene che alcuni dei suoi contemporanei guardavano al-
la matematica come a un gioco puramente formale. Oggi non solo i
matematici puri, ma anche i teorici delle stringhe sono pagati con fon-
di pubblici. Fino a oggi, le innovazioni concettuali stupefacenti della
teoria delle stringhe non hanno dato luogo a nessun tipo di conse-
guenze empiriche o verificabili. C’è sempre una piccola preoccupazio-
ne, in tali campi, che le risorse pubbliche possano esaurirsi e che in
una generazione o due l’attività termini.
Riporto di seguito alcune frasi prese da un’altra fonte inaspettata.
J.M. Coetzee, come già anche Hermann Hesse, ha vinto il Premio No-
bel per la letteratura. Le sue Tanner Lectures on Human Values pre-
sentano una lezione sugli animali di Elizabeth Costello, scrittrice au-
straliana. Lei a sua volta rinvia a una lezione immaginata da Kafka nel
1917. Questa è tenuta da Red Peter, una scimmia che ha imparato a par-
lare. Si legge che «vista da fuori, da un essere che le è estraneo, la ra-
gione non è che una grande tautologia. Certo, la ragione riconosce la va-
lidità della ragione in quanto principio primario dell’universo: che al-
tro dovrebbe fare? Detronizzare se stessa? I sistemi razionali, in quanto
sistemi di totalità, non hanno quel potere»34. Ma forse Costello po-
trebbe convincere tutti a smettere di pensare in quel modo.
Di tanto in tanto si verifica, secondo le parole di Richard Bern-
stein, un’esplosione di rabbia contro la ragione35. Una di queste esplo-
sioni è avvenuta alla fine degli anni Sessanta, quando la scienza era vi-
sta come uno strumento della guerra coloniale capitalistica. I giovani
ribelli cercavano di saccheggiare i luoghi della ricerca. Tattica sciocca
LEZIONE I. SULLE RADICI STORICHE DELLA RAGIONE SCIENTIFICA 55

ma giusta: se vuoi criticare uno stile di pensiero non puoi farlo stando
alle sue regole (perché in tal caso stai solamente pensando, e cercan-
do di farlo meglio, secondo quello stile). Devi distruggere la sua base
istituzionale. Per ragioni molto diverse, la rivoluzione culturale della
stessa epoca ha distrutto con successo una generazione di scienziati
cinesi. La ragione era odiata in Cina e in America all’incirca nello stes-
so momento. Forse la scienza avrebbe potuto arrestarsi del tutto, per
sempre.
Personalmente non credo che questa sia un’opzione, perché ho il
sospetto che, dal momento in cui le persone sono entrate in possesso
di modi di scoprire, esse continueranno a utilizzarle finché potranno.
Solo l’idea che non ci sia nient’altro da fare, come dopo Archimede,
può porre fine “volontariamente” a un modo di pensare. Ho la visione
ottimistica che la coercizione, sia nella forma di una rivoluzione cultu-
rale, sia nella forma Americana del politically correct, andrà esauren-
dosi. Ma ammetto che si tratti di un certo tipo di ottimismo.
La visione più pessimistica, invece, consisterebbe nel pensare che
gli stili di pensiero scientifico abbiano gradualmente creato un paras-
sita sulla faccia della terra: la razza umana. Le scienze ci hanno trasfor-
mati in un organismo che consuma sempre di più il proprio ambiente.
È chiaro che un parassita deve essere più debole del suo portatore,
perché, qualora dovesse ucciderlo, morirebbe anche il parassita stes-
so. La paura di un uomo-parassita-sulla-faccia-della-terra, che gra-
dualmente uccide il suo portatore, potrebbe condurre la nostra razza
a non impegnarsi più nelle scienze, per paura di porre fine a se stessa.
Il pensiero scientifico potrebbe semplicemente finire…

12. La “Veridicità” di Bernard Williams

Le condizioni storiche assolutamente specifiche, per ripetere l’e-


spressione di Bourdieu, che intendo ricercare, non consistono nel re-
perimento di un fondamento della ragione, ma nella storicizzazione di
concezioni leibniziane. Introduco un cambiamento che sembra cap-
zioso, un gioco di parole. Passo da verità e ragione a veridicità e ragio-
namento. “Veridicità” non è una parola comune in inglese. Non è fa-
cile tradurla in cinese. La traggo dall’ultimo libro di Bernard Williams,
56 LA RAGIONE SCIENTIFICA

Truth and Truthfulness: An Essay in Genealogy36. È il libro più interes-


sante a memoria d’uomo sulla verità e il suo valore. Contiene molte
cose e il mio uso di esso è selettivo. Voglio estendere la sua nozione di
una genealogia della veridicità. L’uso metaforico che Williams fa di que-
st’idea di genealogia è preso direttamente da Nietzsche, con un accen-
to un po’ diverso rispetto a quello di Foucault, che, come si sa, trasse l’i-
spirazione dalla stessa fonte.
Williams ha prodotto due sotto-genealogie, una del dire-vero sul pas-
sato storico e l’altra sull’autenticità verso se stessi. I periodi presi in con-
siderazione dai suoi capitoli su questi argomenti sono piuttosto diver-
si: l’Atene di Tucidide e la Parigi di Rousseau e Diderot. Egli ha scelto
questi periodi per vari motivi. Per il loro interesse intrinseco. Per la lo-
ro importanza per il suo lavoro filosofico. Ma anche perché questi era-
no due tra gli ambiti più contestati di dir-vero durante le cosiddette
“guerre culturali” [culture wars]. Uno dei suoi scopi era mostrare che
la possibilità di dire il vero rispetto al passato (a) ha una storia (contra-
riamente ai pensatori dogmatici che concepiscono la storia come la
semplice narrazione di fatti, fatti che potrebbero essere stati racconta-
ti in qualsiasi momento, in qualunque luogo). E (b) questa è una storia
di come l’oggettività a proposito del passato è emersa (contrariamente
a quei pensatori dogmatici che sostengono che non c’è una verità sto-
rica oggettiva). Allo stesso modo, per il sé e l’autenticità, egli si è op-
posto a (a) coloro i quali insistono che si diano verità solo a proposito
di esseri umani individuali, indipendenti dai contesti in cui queste ven-
gono comprese, e (b) coloro i quali sostengono che non ci sia una ve-
rità oggettiva a proposito di una persona, solo le storie che le persone
dicono su se stesse.
Proverò a estendere l’idea di Williams alle scienze, a proposito del-
le quali, com’è noto, qualche anno fa c’è stato un dibattito simile tra
(a) e (b) – oggettività come fatto temporale versus nessuna oggettività.
Farò ciò connettendo l’approccio genealogico di Williams con l’idea
di Crombie di una manciata di stili di pensiero in evoluzione.
LEZIONE I. SULLE RADICI STORICHE DELLA RAGIONE SCIENTIFICA 57

13. Silenzio a proposito della verità

Williams non ha assolutamente scritto una genealogia della verità.

Una cosa che non considererò, tuttavia, è la storia del concetto di ve-
rità, perché non credo ci sia alcuna storia del genere. Il concetto di ve-
rità medesimo – vale a dire, il ruolo assolutamente fondamentale che la
verità riveste in relazione al linguaggio, al significato e alla credenza – non
è variabile culturalmente, ma sempre e ovunque il medesimo (B. Wil-
liams, op. cit., trad. it., p. 61).

La verità, dunque, non ha storia, se non per il fatto che essa è coeva ri-
spetto all’emergenza delle strutture linguistiche per trasmettere infor-
mazioni. Questa concezione è aristotelica e tarskiana. L’aggettivo “ve-
ro” ha molti usi, ma la verità è un concetto formale, essenziale per la
semantica ma senza una semantica propria. Essa è trasversale rispetto
ad ogni discorso di tipo informativo e non ha una genealogia.
Aristotele sosteneva che «vero, invece, è dire che l’essere è e che il
non-essere non è»37. Questa è un’affermazione vuota, formale, che tra
l’altro esprime il fatto fondamentale che l’aggettivo “vero” si applica
in primo luogo a ciò che si dice, ciò che si è detto o che può essere det-
to. C’è senza dubbio una storia di quando gli uomini hanno iniziato a
parlare per dire cose in maniera informativa, per fare ciò che possia-
mo riconoscere come asserzioni. Ma, al di là di questa, non c’è una
storia ulteriore della verità.
Interpreto la massima di Aristotele come una versione precoce e al-
trettanto formale della teoria semantica della verità di Tarski. Il suo
schema, «s è vero se e solo se p» chiarisce ciò che si trova già in Ari-
stotele, ovvero, che l’aggettivo si applica alle frasi. La teoria dei meta-
linguaggi, alquanto pomposa, deriva da questo banale fatto gramma-
ticale. Tarski stesso ha scritto che la sua teoria semantica risulta, non so-
lo coerente con ognuna delle teorie “sostanziali” della verità
[substantive theory of truth], cioè con ogni teoria che dice ciò che la
verità “è” – teoria della corrispondenza, della coerenza o qualsiasi al-
tra – ma anche in grado di esprimere la motivazione centrale di queste
teorie. Questo è un modo per dire che la sua teoria è formale, scevra
58 LA RAGIONE SCIENTIFICA

di contenuto. Ciò significa che, propriamente parlando, essa non è af-


fatto una “teoria”.
Nessun filosofo ha dedicato una parte maggiore della sua carriera al
concetto della verità di quanto abbia fatto Donald Davidson. Egli ha
pubblicato una dozzina di articoli diversi con “verità” (o “vero”) nel ti-
tolo. Essi vanno da Truth and Meaning, del 1967, a Truth Rehabilitated,
del 200038. Un volume incompiuto è stato pubblicato dopo la sua mor-
te, con il titolo Sulla Verità39. Niente sarebbe più insensato che cercare
di riassumere in poche parole le riflessioni di Davidson sulla verità. Men-
zionerò solo ciò che è ovvio: che egli è sempre rimasto fedele a Tarski,
che ha sempre rigettato le teorie “sostanziali” della verità, e che pensa-
va che l’idea di verità fosse come un substrato roccioso che non può es-
sere definito. Non avrebbe detto che la verità è un concetto puramente
formale, non avrebbe detto che la verità non ha una dimensione se-
mantica, perché non avrebbe ritenuto che questa fosse la maniera giu-
sta di affrontare la questione. Tuttavia sono sicuro che la mia brusca
espressione «la verità è un concetto puramente formale» deve molto a
una riflessione su (oltre che a conversazioni con) Donald Davidson40.
Per ragioni sia teoriche sia di convenienza non dirò niente di rile-
vante sulla verità41. Perché di “convenienza”? Perché la verità è stata
una nozione talmente contestata tra i filosofi analitici, con le loro teo-
rie della verità in competizione, che sarebbe imprudente avventurarsi
in acque così profonde o presunte tali, sicuramente più profonde di me.
Ho le mie opinioni su queste discussioni, come dimostra la mia dottri-
na sulla verità come nozione puramente formale, ma queste opinioni
non sono rilevanti per la mia ricerca sugli stili di pensiero scientifici.

14. Veridicità a proposito del passato

Con veridicità, Williams intende il fatto di dire la verità a proposito


di qualcosa. Ciò ha due aspetti. La persona veridica è sia sufficiente-
mente accurata sia sufficientemente sincera. Queste sono virtù relati-
vamente indipendenti. Williams si è posto il problema di come e quan-
do è diventato possibile essere accurati e sinceri a proposito di qualco-
sa. Una genealogia della veridicità a proposito di X avrà due rami, i
cui ritmi possono essere molto diversi. Il capitolo che Williams dedica
LEZIONE I. SULLE RADICI STORICHE DELLA RAGIONE SCIENTIFICA 59

alla storia si concentra sull’accuratezza e quello sulla conoscenza di sé


sulla sincerità. Dal momento che ciò che mi interessa sono le scienze
mi dedicherò all’accuratezza, sebbene sarebbe importante osservare
anche ciò che accade alla sincerità nel contesto scientifico.
Williams disprezzava le idee generali e vaghe. La trasformazione del-
la concezione occidentale del dire-vero a proposito del passato è avve-
nuta in un momento preciso, all’epoca di un singolo uomo e della sua
opera. E quell’uomo, nella tradizione europea, era Tucidide. Tucidide
è diventato emblematico, una sorta di icona, che segnala l’inizio della
pratica storiografica nel mondo mediterraneo. Nessun uomo è solo:
c’è Tucidide, ci sono i suoi uditori e i suoi lettori, all’interno di quell’u-
niverso sociale molto specifico che era Atene. C’è un altro universo
sociale specifico in cui la scrittura della storia è apparsa all’incirca nel-
lo stesso modo che in Grecia: l’antica Cina. L’invenzione della scrittu-
ra è una precondizione per la storia, nel modo in cui la intende Wil-
liams, quindi la Cina è il luogo giusto dove cercare un cambiamento
concettuale decisivo, simile a quello avvenuto nel Mediterraneo al tem-
po di Tucidide.
Un candidato ovvio è Sima Qian (145-86 a.C. circa) o forse suo pa-
dre, Sima Tan. Non si deve pensare che in Cina e in Grecia si sia veri-
ficato esattamente lo stesso tipo di cambiamento nelle concezioni del
passato. I Sima, padre e figlio, hanno avuto per molto tempo un alto sta-
tus sociale a corte, uno status che non aveva una controparte in Grecia
al tempo di Tucidide. La storia bimillenaria scritta da Sima Qian è di-
ventata il paradigma, quasi in senso letterale, della storiografia cinese
– il modello storiografico seguito per secoli. Si potrebbe sostenere che
si tratti di una storia sociale e culturale sconosciuta in Occidente fino
al XX secolo.
Non è un’affermazione nuova, quella che indica in Tucidide il pri-
mo vero storico dell’Occidente. Anche Hume sosteneva la stessa cosa.
Ogni generazione di studiosi dà la propria spiegazione su cos’è che ren-
de questo momento della storiografia così particolare. Williams ne dà
una versione in termini di veridicità: quello che è avvenuto è «in ulti-
ma analisi, un mutamento relativo alla concezione del dire la verità sul
passato». Questa è una mossa fondamentale per le parti storiche della
genealogia della veridicità che Williams propone. È un operatore logi-
co la cui forma è rappresentata da questo schema, che chiamerò (*):
60 LA RAGIONE SCIENTIFICA

(*) Un mutamento relativo alle concezioni del dire la verità su X.

Ciò fa sembrare che X sia dato e senza tempo, X = il passato, o, nel


caso dell’emergenza dell’autenticità, X = il sé. No. Nuovi modi di dire
la verità a proposito di X cambiano le nostre concezioni di X stesso.
Williams parla del passaggio «da una concezione “locale” a una “og-
gettiva” del passato» (p. 153). Riporto qui alcuni altri frammenti rela-
tivi alla nuova idea di storia:

1) Il tempo storico fornisce una struttura rigida e determinata per il pas-


sato (p. 153).
2) […] questo mutamento significativo ebbe luogo nel V secolo a.C., l’in-
venzione del tempo storico in Occidente […] (p. 159),
3) Tale mutamento porta con sé una crescita di potere esplicativo? Si-
curamente sì; e questo nei termini della concezione di spiegazione che
chiunque può avere (p. 159).
4) Questo vuol dire che quelli che operano nel nuovo stile, che hanno la
concezione “oggettiva” del tempo, sono più razionali o, ancora, più
informati degli altri? No, se questo implica (come di solito si pensa) che
chi era all’interno della pratica tradizionale fosse confuso o credesse
qualcosa di falso (p. 160).
5) L’invenzione del tempo storico è stato un avanzamento intellettuale,
ma non tutti i progressi di natura intellettuale constano della confuta-
zione di un errore o della scoperta di confusioni (p. 160).

Non andrò oltre, quanto detto basta a capire il punto centrale. Si po-
trebbero integrare le osservazioni di Williams notando che ci posso-
no essere concezioni completamente diverse del passato e non solo
quelle che si evolvono nelle nostre nozioni occidentali. L’antropologo
Michael Lambek ci ha dato uno splendido esempio dal Madagascar,
dove un popolo esprime il proprio senso del passato attraverso ceri-
monie che coinvolgono gli spiriti in un complesso gioco di ruolo42. Tut-
to ciò ci risulta così estraneo che il più fedele razionalista tra di noi
sosterrà che «noi siamo più razionali o meglio informati» degli «al-
tri». Non sono d’accordo, anche se, qualora essi dovessero avere una
cronologia completamente diversa da quella occidentale, potrei esser
costretto ad ammettere che non parlano del passato (così come lo com-
LEZIONE I. SULLE RADICI STORICHE DELLA RAGIONE SCIENTIFICA 61

prendiamo noi). Il genio di Lambek ci rende possibile la comprensio-


ne della razionalità di quest’altra concezione del dire-vero a proposi-
to del passato.
Una nuova concezione del passato, e, in corrispondenza di ciò, nuo-
vi tipi di enunciati a proposito di esso, sono diventati disponibili. È
necessario che ogni evento accada prima, dopo, o in concomitanza
con ogni altro evento. Williams ritiene che autori precedenti, incluso
Erodoto, non fossero vincolati da questa idea. Ma ovviamente non in-
tende suggerire l’idea sciocca che gli eventi stessi siano entrati in un
ordine databile solo al tempo di Tucidide!
Lo schema estrapolato da Williams è del tutto formale e può essere
applicato in maniera trasversale. Lo ripeto:

(*) un mutamento relativo alle concezioni del dire la verità su X.

Il frammento (2) qui sopra suggerisce un secondo schema:

(**) Questo importante cambiamento è avvenuto nel secolo Y, e il


suo emblema è Z.

Dove X = il passato, Y = il V secolo a.C. e Z = Tucidide. Per usare


la terminologia suggerita sopra, Tucidide è un pioniere leggendario,
un’icona attorno alla quale si sono cristallizzate nuove maniere di dire
la verità a proposito del passato. Qui c’è una discontinuità netta, inse-
rita all’interno di una pratica più lunga e continua, che consiste nel
parlare della conoscenza collettiva dei tempi andati.

15. Matematica

Lo schema di Williams può essere applicato alle scienze. Probabil-


mente egli non sarebbe stato d’accordo. Nel suo Ethics and the Limits
of Philosophy, Williams ha tenuto le scienze separate da questioni uma-
nistiche a proposito dei valori43. Vediamo, comunque, come ciò po-
trebbe essere fatto. Iniziamo dalle relazioni geometriche. Chi potreb-
be stare al posto di Tucidide? Ecco la leggenda: «In colui che per pri-
mo dimostrò il triangolo isoscele (si chiami Talete o come altro si vuole)
62 LA RAGIONE SCIENTIFICA

si accese una luce», così scrive Kant44. In questo paragrafo Kant scon-
fina nella poesia parlando dell’ingresso «sulla via sicura della scienza»,
«la via regia». Kant la chiama la «rivoluzione intellettuale» che ha fat-
to emergere la dimostrazione matematica. È stata la scoperta della no-
stra capacità di effettuare dimostrazioni matematiche, o, per meglio
dire, geometriche.
L’emblematico pioniere della cristallizzazione della dimostrazione
geometrica è Talete, il che non significa che una tale figura storica sia
certamente esistita. Secondo la leggenda, quando X = relazioni geo-
metriche e Y = nella prima parte del VI secolo a.C., allora Z = Talete.
Abbiamo bisogno di due cose per comprendere gli stili di pensiero
scientifico: da un lato, lo studio delle capacità mentali, dall’altro, la
storia delle civiltà e delle loro istituzioni. Quali elementi culturali furo-
no necessari per supportare una scoperta relativa alle nostre capacità
cognitive? Per rispondere occorre domandarci perché la dimostrazio-
ne fosse così diffusa nella Grecia antica. C’era molta matematica in
Babilonia e certamente anche in Cina. I Cinesi avevano dei meravi-
gliosi strumenti computazionali, ma nessuna dimostrazione come quel-
la sviluppata da Euclide. Perché? La risposta preferita da Reviel Netz
inizia con il fatto, ben noto, che gli ateniesi fossero il popolo più argo-
mentativo mai conosciuto45. Essi non tolleravano nessuna autorità più
alta di loro stessi, quando si trattava di risolvere una disputa. In Crom-
bie si trova una descrizione simile dell’importanza dell’argomentazio-
ne, anche se egli non si riferiva specificamente alla dimostrazione e al-
la deduzione come farò invece io nella seconda lezione.
La Cina ci fornisce un contrasto. Estremizzando: un problema po-
teva essere risolto per editto, non c’era quindi un particolare interesse
per le dimostrazioni persuasive – per la «durezza della “necessità” lo-
gica» di cui parla Wittgenstein. Ad Atene, invece, le dimostrazioni sem-
bravano avere lo strano potere di stabilire delle verità di proprio pu-
gno, per coloro che potevano studiarle. Ciò era importante per le pra-
tiche di risoluzione delle dispute che si attuavano in Grecia. Tutto
questo non aveva lo stesso peso in Cina.
Esistono molte prove a supporto della tesi secondo la quale il pen-
siero spaziale, geometrico, coinvolge capacità cognitive diverse rispet-
to al ragionamento aritmetico, combinatorio e algoritmico. Introdu-
ciamo un’altra leggenda per lo stile algoritmico o combinatorio di pen-
LEZIONE I. SULLE RADICI STORICHE DELLA RAGIONE SCIENTIFICA 63

siero, la leggenda di al-Khwārizmī (780-850 circa) che svolgeva la sua


opera presso la Casa della Sapienza di Baghdad e a cui si deve il nome
stesso di ‘algoritmo’. Il titolo di uno dei suoi libri ci ha dato la parola ‘al-
gebra’. Ecco che abbiamo una nuova X, una nuova Y e una nuova Z:
un mutamento relativo alle concezioni del dire la verità sui numeri e
altre quantità, questo importante cambiamento ha avuto luogo nel IX
secolo e il suo emblema è al-Khwārizmī. Questa è una cristallizzazione
diversa rispetto a quella che è avvenuta all’epoca del leggendario (o
immaginario?) Talete.
Si noti che sia nel caso del pensiero geometrico sia in quello combi-
natorio, nuovi metodi di ragionamento, tra cui la dimostrazione, ren-
dono possibile un livello totalmente nuovo di “potere esplicativo”. Si
veda il punto (3) sopra. E, per ripetere il punto (4), ciò non significa che
quelli che operavano all’interno del nuovo stile, che avevano raggiun-
to la concezione “oggettiva” dello spazio o del calcolo, fossero più ra-
zionali o meglio informati dei loro predecessori.
Kant potrebbe averci visto giusto, nell’Estetica trascendentale, quan-
do ha situato aritmetica e geometria in scomparti separati della mente.
Egli ha collegato la prima alla successione di unità discrete nel tempo
e l’altra all’esperienza delle configurazioni spaziali. In qualsiasi modo
si vogliano descrivere, è qui piuttosto plausibile il richiamo all’idea di
“moduli mentali” – capacità fondamentalmente distinte inerenti al
cervello umano. Chiaramente c’è un grande dibattito, tra gli scienziati
cognitivi, sugli usi della modularità. Questi vanno dalla «modularità a
tutto tondo» di cui parla Dan Sperber46 alla concezione di Jerry Fo-
dor, che ha dato inizio all’applicazione della modularità dalla gram-
matica di Chomsky a un ambito più vasto47. Fodor parla di quella di
Sperber come di una «modularità impazzita»48. È possibile, comunque,
che parlare con moderazione di moduli rappresenti una parabola effi-
cace, mentre le nostre indagini sul cervello proseguono. Come dice Ber-
nard Williams a proposito dei moduli, da qualche parte in Truth and
Truthfulness: «Perché no?». Perché no, specialmente se c’è una consa-
pevolezza di lunga data, che precede anche Kant, a proposito dell’esi-
stenza di ciò che sembra corrispondere a una pluralità di facoltà?
I sostenitori dell’elaborazione a parallelismo distribuito delle infor-
mazioni [parallel distributed processing] diranno che ci sono risposte
molto valide alla domanda «perché no?». Nel caso del ragionamento
64 LA RAGIONE SCIENTIFICA

tassonomico c’è una tradizione radicata che mette in risalto l’idea di


moduli classificatori innati, specialmente quando si tratta di classifica-
re esseri viventi. Quindi l’immagine, per lo stile di pensiero tassono-
mico, è quella di uno stile che si staglia su di uno sfondo modulare.
Ma esistono anche modelli cognitivi alternativi. Un articolo recente il-
lustra la tesi secondo la quale tutti i fenomeni dimostrati per i moduli
classificatori innati sono meglio descritti da un processore generale
del tipo parallelo-distribuito49.
Ma supponiamo che il programma di ricerca sui moduli dia dei buo-
ni risultati. Nessun singolo modulo corrisponderà esattamente a uno
stile di pensiero. Ogni stile richiede molti moduli e di diversi tipi. Lo sti-
le di laboratorio, che introdurremo a breve, richiede una combinazio-
ne della coordinazione della mano e dell’occhio, di capacità deduttive
e molto altro.
Si ricordino le due virtù associate con la veridicità. C’è uno stan-
dard completamente nuovo di accuratezza a proposito delle relazioni
geometriche, al punto che “accuratezza” non sembra più essere la pa-
rola giusta. Dall’altro lato la sincerità sembra rimanere fuori perché la
dimostrazione diventa il solo criterio di correttezza in questo nuovo am-
bito. Oppure, dal punto di vista sociale, ciò che conta non è che il geo-
metra sia sincero, ma che gli iniziati vedano che l’argomentazione del
geometra costituisce effettivamente una dimostrazione. Possiamo ri-
gettare la visione kantiana tradizionale di un genio-della-storia [ge-
nius-in-history], secondo la quale «In colui che per primo dimostrò il
triangolo isoscele […] si accese una luce». Come se un solo uomo aves-
se fatto tutto! Occorre una comunità perché ci sia una pratica della di-
mostrazione. Ma non c’è altro standard, di ciò che è una dimostrazio-
ne corretta, al di fuori della dimostrazione stessa. Le dimostrazioni so-
no auto-certificanti. Molte dimostrazioni che sono state proposte si
sono rivelate fallaci, ma lo standard per decidere se un ragionamento è
valido o fallace è la dimostrazione stessa.
Nel caso della geometria, abbiamo un nuovo modo di dire la verità,
e di accertarci che sia la verità – cioè la dimostrazione. Nella citazione
(4) Williams parla di «operare all’interno del nuovo stile». Forse è ca-
suale, ma è utile che Crombie e Williams abbiano usato la stessa pro-
blematica parola, “stile”.
LEZIONE I. SULLE RADICI STORICHE DELLA RAGIONE SCIENTIFICA 65

16. Avvertenza a proposito di “X”

I due esempi di Williams propongono un tema plausibile a propo-


sito del quale si verifica un cambiamento relativo alle concezioni: il pas-
sato, oppure il sé. Anche nel mio primo tentativo di estensione verso
le scienze non è stato un problema individuare un nome semplice e bre-
ve per la “X” a proposito della quale si è prodotto un cambiamento nel-
la concezione: gli oggetti geometrici, o le relazioni geometriche – o la
geometria stessa, volendo. Un cambiamento nelle concezioni di qual-
cosa può essere talmente radicale che dopo di esso non si dispone su-
bito di un nuovo nome che indichi il cambiamento applicandosi indi-
stintamente tanto al passato quanto al futuro. Mi associo ai molti sto-
rici, scienziati e filosofi che individuano in Galileo colui che segna
indelebilmente il cambiamento radicale in atto nella sua epoca. Dio
ha scritto il Libro del Mondo in caratteri matematici e decifrarlo era il
compito della filosofia naturale. Sembra piuttosto chiaro che un mu-
tamento abbastanza radicale abbia avuto luogo nella prima metà del
XVII secolo. Ma un mutamento nelle concezioni di che cosa? Uno dei
mutamenti avvenuti al tempo, e in parte grazie al lavoro, del Galileo
storico, è stato quello relativo alle concezioni del moto. Ma qualcosa
di più radicale si andava cristallizzando e cioè un mutamento relativo
alla concezione del dire la verità a proposito della Natura stessa. La
verità deve essere detta nel linguaggio della matematica, con enuncia-
ti che devono poter esser controllati (per utilizzare le parole di Crom-
bie) per il tramite dell’osservazione. E non solo dell’osservazione.
Alexandre Koyré e, attraverso di lui, Crombie, preferivano un Galileo
platonico che non faceva esperimenti50. I telescopi andavano bene, vi
si potevano osservare i cieli, ma gli esperimenti, quelli no. C’è voluto
un dilettante devoto e collezionista di libri per stabilire che Galileo ha
effettivamente costruito un piano inclinato enorme per controllare la
sua straordinariamente semplice teoria dei gravi. I critici di Stillman
Drake hanno obiettato che nessun cronometraggio della caduta sul-
l’enorme piano, dalla partenza all’arrivo, poteva essere effettuato con
tale accuratezza, a quei tempi. Nient’affatto, ha detto Drake: il canto
monofonico gregoriano offriva un sistema di cronometraggio sorpren-
dentemente accurato51.
66 LA RAGIONE SCIENTIFICA

17. Lo stile galileiano (I)

Nel caso della cristallizzazione di ciascuno degli stili di scoperta c’è


un «mutamento radicale relativo alle concezioni del dire la verità su
qualcosa». Husserl può essere letto come qualcuno che propone esat-
tamente quest’idea a proposito della matematizzazione del mondo che
egli attribuiva a Galileo. Autori successivi, i cui ambiti di competenza
sono apparentemente così diversi come quelli del cosmologo Steven
Weinberg e del grammatico Noam Chomsky, hanno attribuito l’e-
spressione “stile galileiano” a Husserl. Gli ambiti di competenza di que-
sti ultimi non sono così distanti come potrebbe sembrare, perché la
cosmologia e la grammatica sono scienze dove l’esperimento (in qual-
siasi definizione restrittiva della parola) non è possibile: si devono fare
modelli teorici e confrontarli con l’osservazione. Lo stile galileiano è la
cristallizzazione di ciò che Crombie ha chiamato lo stile della model-
lizzazione ipotetica e chiaramente il suo emblematico pioniere è Gali-
leo. Anche Crombie ha dato a Galileo un posto d’onore nella storia di
questo stile, anche se non come iniziatore, in quanto egli riconosceva
una lunga catena di precursori che utilizzavano il “metodo delle ipote-
si” e la costruzione di modelli, sia intellettuali sia analogici.
Mi atterrò alla massima di non ampliare il catalogo degli stili di pen-
siero scientifici. Non sosterrò che ciò che Husserl e poi Weinberg e
Chomsky hanno chiamato lo “stile galileiano” è un nuovo stile di pen-
siero scientifico. Meglio dire che è la cristallizzazione definitiva di ciò
che Crombie ha chiamato (c) la costruzione ipotetica di modelli analo-
gici. In seguito parlerò spesso di stile galileiano, perché questa espres-
sione si riferisce a un aspetto specifico di (c): la costruzione ipotetica
di modelli.
Galileo serve quindi come pioniere. Si noti quanto è facile scaricare
le responsabilità. Né Husserl (nel caso di Galileo) né Kant (in quello
di Talete) sono usati come un’autorità. Il mio trucco retorico è piutto-
sto quello di suggerire: ecco qui, abbiamo ripetuto questo fatto di tan-
to in tanto, da tempo immemore, solo non abbiamo notato che lo sta-
vamo facendo.
LEZIONE I. SULLE RADICI STORICHE DELLA RAGIONE SCIENTIFICA 67

18. Lo stile di laboratorio

Poi c’è lo stile sperimentale indicato da Crombie: (b) l’esplorazione


sperimentale e la misurazione di relazioni osservabili più complesse.
Questo stile probabilmente non ha un inizio preciso. Gli uomini sono
sempre stati curiosi, hanno sempre osservato, armeggiato, esplorato,
perfino misurato. Un nuovo modo di dire la verità ha però preso il via
quando una comunità, ad esempio quella di Robert Boyle, non si è li-
mitata a studiare i modelli ipotetici, a controllarli con l’osservazione e
la misurazione, ma ha anche creato strumenti e apparecchiature per
interferire con il corso della natura al fine di strapparle i segreti più
nascosti. Qui X = (per esempio) le minuscole parti inosservabili della
natura, ciò che i filosofi hanno in tempi recenti chiamato entità teori-
che. La scienza di laboratorio implica una determinata pratica di veri-
dicità che inizia con il creare strumenti che funzionino; si può persino
iniziare a parlare di apparecchiature veridiche. Dal punto di vista mec-
canico parliamo più comunemente, e giustamente, di strumenti affi-
dabili, una strana combinazione tra le virtù della sincerità e dell’accu-
ratezza indicate da Williams.
La descrizione classica di questo evento può essere trovata in
Leviathan and the Air-Pump: Hobbes, Boyle and the Experimental Life
di Steven Shapin e Simon Schaffer52. Una delle caratteristiche straor-
dinarie di questo libro è che il protagonista principale non è una per-
sona ma uno strumento, la pompa ad aria. Gli altri attori, Boyle e Hob-
bes, sono scelte decisamente azzeccate. Il libro include la traduzione
di una disquisizione di Hobbes, pubblicata nel 1662. Hobbes era con-
sapevole del fatto che Boyle stesse cambiando la concezione del dire
la verità a proposito della materia (e del vuoto), usando strumenti per
creare nuovi fenomeni ed elaborando enunciati che rispondessero ai fe-
nomeni prodotti dalla strumentazione. Ritengo che questa sia una del-
le, o forse la cristallizzazione fondamentale di (b) lo stile sperimentale.
In futuro, specialmente nel corso della terza lezione, quando mi rife-
rirò allo stile laboratoriale di pensiero e azione, non starò ampliando
la lista dei sei stili di Crombie, ma mi starò riferendo a questa partico-
lare cristallizzazione dello stile (b) di Crombie.
In che cosa è consistita, esattamente, questa cristallizzazione? Su
questo punto Shapin e Schaffer forniscono un aiuto inestimabile, pre-
68 LA RAGIONE SCIENTIFICA

sentandoci la storia di Hobbes che combatte invano il nuovo labora-


torio di Robert Boyle. Ci sono già abbastanza fenomeni pubblici nel
mondo, diceva Hobbes in tono di rimprovero. Non abbiamo bisogno
di altri fenomeni, prodotti in gran segreto e controllati solo dai mem-
bri di una società altrettanto segreta (la Royal Society di Londra). Hob-
bes sapeva che un nuovo stile di pensiero stava per emergere e ne era
contrariato. La sua obiezione principale era, forse, che mentre la geo-
metria era aperta a tutti coloro che vi lavoravano, ed era contraddistinta
dalla certezza, la nuova fisica era una faccenda per iniziati che lavora-
vano in privato e producevano conoscenza solamente probabile, opinio,
e non scientia. Ma egli diceva anche chiaramente che Dio ci ha fornito
abbastanza fenomeni e non abbiamo bisogno che qualcuno come il si-
gnor Boyle ce ne dia altri, di natura dubbia.
Non è necessario scegliere Boyle come icona della cristallizzazione
dell’esperimento nello stile di laboratorio. Gli stessi nuovi criteri di
una verità controllata attraverso fenomeni artificiali stavano emergen-
do dappertutto in Europa. Boyle è però comodo perché un grande
vecchio e sapiente come Hobbes intravide i segni premonitori e li sa-
lutò con disprezzo.
Schaffer e Shapin ne Il Leviatano, e il solo Shapin nel suo libro A So-
cial History of Truth53, insistono sul fatto che a rendere possibile la scien-
za di laboratorio sia stata la fiducia reciproca invalsa tra i membri della
piccola nobiltà che formavano la Royal Society. Ci si fidava del fatto che
un nobile riportasse con sincerità i fenomeni che egli stesso aveva pro-
dotto e osservato. Che la tesi di Shapin sia storicamente esatta o meno,
egli attira in modo interessante la nostra attenzione sull’assunto (revoca-
bile) che chiunque riporti un’indagine sperimentale dica la verità.
La nostra pratica di peer review ha ereditato in maniera trasversale
gran parte di quella presunzione di sincerità, in tutte le scienze, com-
presa la matematica. Adesso chiediamo a colleghi di fare revisioni, men-
tre una volta ci si affidava ai pari [peers], vale a dire gli aristocratici in-
glesi e i nobili latifondisti.
Ogni volta che s’incontrano altri «mutamenti relativi alla concezio-
ne del dire la verità su X» in momenti storici determinati, si trova an-
che una figura di proporzioni quasi leggendarie – Tucidide, Rous-
seau/Diderot, Talete, Galileo, Boyle. Per X=le specie e i taxa più alti
della sistematica, la leggenda si addensa attorno a Linneo. Per X=pro-
babilità attorno a Pascal.
LEZIONE I. SULLE RADICI STORICHE DELLA RAGIONE SCIENTIFICA 69

La dottrina dell’eroe della storia è stata ridicolizzata da ogni storico


della scienza a memoria d’uomo. Ma c’è sempre un fondo di verità nel
folclore. Il fatto che ci sia una leggenda e un pioniere comodo ed em-
blematico per la cristallizzazione di ogni stile di pensiero scientifico mo-
stra come la tradizione riconosca già che ogni stile cristallizzato rap-
presenti un’innovazione radicale. Quest’innovazione può, per facilita-
re la narrazione, essere associata con un gigante. Ogni gigante, lo ripeto,
è solamente un prestanome. Non c’è bisogno che ciò mi venga ricor-
dato. Una parte essenziale della tesi sostenuta ne L’emergenza della
probabilità era precisamente che una nuova concezione della probabi-
lità sembra saltar fuori, quasi in maniera spontanea, dopo il 1650, in
gran parte dell’Europa. Pascal è al tempo stesso l’emblema tradiziona-
le di tale fatto e una semplice comparsa.

19. Logica

Per logica s’intende ormai logica deduttiva, nel senso di logica for-
malizzata del primo ordine. C’è una tradizione più antica, secondo la
quale la logica fissa le regole del ragionamento. Peirce ha diviso la lo-
gica in tre parti, deduzione, induzione e abduzione, o ciò che nel XIX
secolo veniva chiamato il metodo delle ipotesi. A Peirce piacevano le
triadi ed era del tutto cosciente che questa logica triadica stessa rien-
trasse nella triade medievale, il trivio, le basi fondamentali dell’educa-
zione, vale a dire grammatica, logica e retorica.
Deduzione, induzione e abduzione non sono stili di pensiero scien-
tifico, nel senso in cui ne parlo in queste lezioni. Esse sono certamente
fondate su delle capacità cognitive umane, anche se la loro espressio-
ne varia da linguaggio a linguaggio, da cultura a cultura. Peirce avreb-
be potuto aggiungere la classificazione come un quarto ramo della lo-
gica, ugualmente fondata su alcune capacità cognitive. Tutte e quattro
sono universali umani [human universals], non semplicemente perché
sono accessibili a tutti, ma perché sono lo sfondo sul quale il discorso
umano può avere luogo. Esse non hanno un vero e proprio inizio. So-
no parte della nostra natura animale. Popper diceva che le amebe fan-
no induzioni: così è, se vi pare.
Nessuno dei quattro rami della logica figura tra i “metodi di ragio-
namento” propri degli stili di ragionamento scientifico. Essi sono in
70 LA RAGIONE SCIENTIFICA

effetti presupposti, a vari gradi, da ogni stile. Evidentemente gli stili


geometrici e algoritmici sono collegati più strettamente alla logica de-
duttiva rispetto ad altri stili. Lo stile galileiano, lo stile della modelliz-
zazione ipotetica indicato da Crombie, è una conseguenza dell’abdu-
zione. Lo stile di pensiero probabilistico si basa sulle nostre capacità in-
duttive. Lo stile tassonomico sulla classificazione spontanea. Ciò che
Bourdieu ha definito «la storia particolare della ragione», vale a dire le
scoperte culturali che sono avvenute in situazioni assolutamente spe-
cifiche e locali, è possibile solo sullo sfondo di ciò che Peirce chiama-
va logica.

20. Tre proposizioni radicali

Questa filosofia non può essere presentata in poche parole. Il com-


pito consiste nel porre l’attenzione su specifici stili di pensiero scienti-
fico. In queste lezioni prenderò in esame in maniera dettagliata sola-
mente gli stili (a) e (b), lo stile matematico nella seconda lezione e lo
stile sperimentale, cristallizzatosi come lo stile di laboratorio, nella ter-
za. Alcuni aspetti generali del progetto possono comunque essere mes-
si in luce già da adesso. Ecco alcune delle implicazioni filosofiche di
questo approccio.

I) Gli stili sono auto-certificanti

Ogni modo di scoprire introduce i propri criteri di evidenza, prova


e dimostrazione. Ognuno di essi determina i criteri del dire-vero che
si applicano nel proprio campo. Ciò porta a una tesi piuttosto radicale
a proposito della veridicità e dell’oggettività. Gli stili scientifici sono
in un certo senso auto-certificanti. Per ogni stile c’è una classe di enun-
ciati che sono candidati alla verità o alla falsità solo nel contesto di quel-
lo stile. L’unico modo di scoprire se essi sono veri o falsi è usare lo sti-
le appropriato. I criteri di veridicità sono determinati dallo stile. Tutte
le proposizioni individuali sono soggette a errori. Ragionando in ac-
cordo con uno stile si possono sempre commettere degli sbagli. Ma è
all’interno del quadro tracciato da un determinato stile che è possibile
stabilire che un errore è stato commesso.
LEZIONE I. SULLE RADICI STORICHE DELLA RAGIONE SCIENTIFICA 71

Uno stile di pensiero scientifico può appassire, fallire o estinguersi.


In tal caso non siamo più propensi a chiamarlo scientifico. La sparizio-
ne di uno stile è sempre causata da forze esterne. Secondo questa teo-
ria, uno stile di pensiero prende avvio con la consapevolezza che le ca-
pacità innate possono essere usate in nuovi modi di scoprire qualcosa.
Questo è ciò che tradizionalmente viene ritenuto parte della storia “in-
terna” della scienza. Ma ciò che mantiene in vita un modo di scoprire de-
ve essere il suo uso all’interno di un contesto culturale. Ciò è parte di una
storia “esterna”. L’auto-certificazione è interna, la persistenza esterna.

II) Dibattiti ontologici

Ogni nuovo stile scientifico introduce una nuova classe di oggetti


da studiare, o, per meglio dire, una nuova X nello schema (*) di Wil-
liams. Ma questo non è tutto. Ogni nuova classe di oggetti stimola una
discussione ontologica, spesso descritta nei termini di un’opposizione
tra il realismo e qualche tipo di anti-realismo. Queste discussioni sono
solamente le conseguenze degli stili di pensiero.
Si prendano ad esempio le controversie matematiche tra i cosiddet-
ti platonici e i costruttivisti. Oppure l’opposizione tra coloro i quali
sostengono che le entità teoriche inosservabili sono reali, e quelli, da
Auguste Comte a Bas van Fraassen, che lo negano. Nella sistematica, al-
cuni affermano che le specie sono reali, ma non i taxa più alti. Altri in-
sistono invece che i generi, le classi e gli ordini sono reali, sono parte
dell’ordine naturale. E così via. Ogni dibattito ontologico avviene al-
l’interno di uno stile scientifico corrispondente. Ciò succede perché
ogni stile di scoperta crea i propri oggetti. Ci troviamo ai confini di
una teoria della natura dei dibattiti ontologici classici nelle scienze.

III) Fondamenti cognitivi e storia culturale

Terzo, ognuno di questi modi di effettuare scoperte è basato su ca-


pacità tipicamente umane, incluse quelle cognitive e quelle psicologi-
che. Indubbiamente queste capacità sono il prodotto dell’evoluzione
tramite selezione naturale. Esse sono universali.
Ma gli stili scientifici sono essi stessi il prodotto di una innovazione
ed evoluzione culturale. Gran parte di questi processi sono avvenuti
72 LA RAGIONE SCIENTIFICA

nelle regioni del Mediterraneo – il Nord Africa, l’Asia occidentale e la


Grecia – e più tardi in Europa. Ogni stile ha un inizio storico, che a vol-
te esiste solo in una forma leggendaria, e la sua traiettoria di sviluppo.
Le scienze cognitive e le neuroscienze sono tentativi adeguati per
comprendere le capacità alla base di questa storia; esse contribuisco-
no a spiegare come ciò che si è evoluto in momenti specifici in regioni
diverse del mondo si è diffuso fino a diventare parte del nostro patri-
monio umano universale.
Da una prospettiva diversa, si dovrebbe vedere lo studio degli stili
di pensiero scientifico come parte della «storia naturale degli uomini»
(Wittgenstein, Ricerche filosofiche, §415), o come parte di un’antropo-
logia filosofica.
Lezione II
Da dove vengono gli oggetti matematici?

1. Antropologia filosofica

Queste lezioni vogliono apportare un contributo all’antropologia, in-


tesa in un senso piuttosto classico. In inglese con “antropologia” s’in-
tende principalmente lo studio di particolari popoli o gruppi sociali,
spesso delimitati dalla lingua e/o dalla regione. È diventato un sinoni-
mo di etnografia. Al tempo della pubblicazione della sua Anthropolo-
gie in pragmatischer Hinsicht (‘Antropologia dal punto di vista prag-
matico’) Kant pensava invece allo studio della natura umana, anche da
un punto di vista sociale1. L’Anthropologie contiene non per niente in-
teri capitoli su come organizzare una buona cena! Michel Foucault ha
indicato questo libro come un testo che segna una rottura netta nel pen-
siero europeo. L’Uomo, sostiene Foucault, ha iniziato a riflettere su
che cosa significa essere Uomo. Da lì il titolo del capitolo di uno dei suoi
libri, L’uomo e i suoi duplicati, cioè l’Uomo sia come soggetto sia come
oggetto d’indagine2. Questo modo di pensare la nostra specie, argo-
menta ancora Foucault, è diventato possibile solo verso la fine del
XVIII secolo in Europa, e in un modo diverso rispetto a epoche e luo-
ghi precedenti. Ciò che Hume aveva proposto nel suo grande Treatise
on Human Nature, pubblicato ottant’anni prima, non era, secondo
Foucault, la stessa cosa.
Non m’interessa qui difendere le affermazioni relative alla data o al-
le caratteristiche di questa presunta rottura radicale. Per continuare a
usare ancora per un momento parole fuori moda, mi piace la coppia
indicata da Galton, “natura” e “educazione” [nature and nurture], in
74 LA RAGIONE SCIENTIFICA

quanto essa separa i due aspetti fondamentali dell’antropologia. Galton


stesso ha scritto in maniera sarcastica che il suo distico è solamente
«un utile gioco di parole»3. Ciò che egli intendeva con “educazione”
comprende più del seno e del grembo materno, ad esempio ciò che suc-
cede per strada o che passa in televisione. Galton si riferiva essenzial-
mente alla natura e all’educazione degli individui, un tema che rien-
trava nell’ambito delle discipline vagamente raggruppate sotto il no-
me di psicologia. Per quanto riguarda invece gli esseri umani in gruppi,
alcuni preferiscono parlare di natura e cultura. Per parafrasare Gal-
ton, la natura è ciò con cui le persone sono nate, quello che portano
con loro nel mondo; mentre la cultura è tutto ciò che li riguarda come
persone che vivono in società dopo il loro concepimento e la loro na-
scita. Chiaramente si tratta di una distinzione debole, ma è un’indica-
zione utile. È un gioco di parole, ma è efficace, se impiegato come tale
e non come un fatto ben noto e dato per acquisito.
A causa degli usi successivi del termine antropologia, chiamiamo
antropologia filosofica un tipo di progetto erede di quello kantiano. Vor-
rei quindi che queste lezioni fossero un contributo all’antropologia fi-
losofica, nella misura in cui esse riflettono su alcuni aspetti della natu-
ra umana così come sono stati scoperti e coltivati [nurtured] da gruppi
di persone, per poi essere codificati a livello sociale o addirittura di ci-
viltà. Mi riferisco in particolare a quelle capacità innate negli esseri uma-
ni, e apparentemente solo in loro, che sono state coltivate in tempi e luo-
ghi piuttosto specifici fino far parte di quella gamma di doti, attività,
tecniche e campi di sapere che chiamiamo “le scienze”.

2. La matematica come miscuglio variopinto di tecniche

Uso intenzionalmente il plurale, filosofia “delle scienze”, anziché


parlare di filosofia della scienza4. Questa pratica è del tutto normale in
francese e lo era anche nell’inglese del XIX secolo, per esempio quan-
do William Whewell scrisse i tre volumi della History of the Inductive
Sciences (1837) e i due volumi della Philosophy of the Inductive Scien-
ces (1840). Non bisogna dare per scontato che ci sia una cosa definita
come la scienza o la tecnoscienza. Non c’è neanche una cosa definita co-
me la matematica; c’è piuttosto ciò che Wittgenstein ha chiamato il «mi-
scuglio variopinto di tecniche della matematica»5.
LEZIONE II. DA DOVE VENGONO GLI OGGETTI MATEMATICI 75

Si pensi a come sono diverse tra loro l’aritmetica, che tutti noi ab-
biamo imparato da bambini, e la dimostrazione del teorema di Pitago-
ra, che molti di noi hanno appreso da adolescenti, o, collegata a que-
sto teorema, la dimostrazione, nel Menone platonico, di come si co-
struisce un quadrato doppio rispetto a un quadrato dato. Si pensi poi
all’idea matematica avuta da Fermat quando scrisse quello che sareb-
be poi diventato il suo ultimo teorema e alle idee dimostrative [proof-
ideas] che stanno dietro alla scoperta, effettuata da Andrew Wiles,
della dimostrazione dell’ultimo teorema di Fermat. Si pensi poi alla ma-
tematica usata per modellare il comportamento degli atomi. Mi sono re-
centemente interessato agli atomi che si trovano a temperature molto
basse, praticamente allo zero assoluto. Cerco di leggere parte della
matematica che ci permette di capire perché si comportano in modo co-
sì straordinario. Questa matematica è di vecchio stampo, presa dalla
cassetta degli attrezzi di un fisico, e molta di essa è in circolazione da
un secolo; la differenza principale è che adesso possiamo usare com-
puter molto potenti, in grado di elaborare soluzioni approssimate a
equazioni complesse che non possono essere risolte in maniera esatta,
così come di costruire simulazioni che ci permettono di stabilire stret-
te relazioni tra la teoria e l’esperimento.
Si pensi poi agli economisti, anche loro alle prese con l’elaborazio-
ne di modelli, ma che sono incapaci di comprendere il ragionamento
di un fisico almeno quanto gran parte dei fisici è incapace di trovare
un senso nell’econometria moderna. Ci si chieda poi: perché mai chia-
miamo tutto questo “matematica”? Ho il sospetto che ci siano diversi
tipi di risposte utili a questa domanda. Alcune di esse saranno di ca-
rattere matematico, mentre altre potrebbero avvalersi di altre risorse.
Mi riterrei soddisfatto se, tra di voi, qualcuno che si ricordasse di
questa lezione tra cinque anni, pensasse tra sé: «Tutto ciò che mi ricor-
do è che mi ha spinto a interrogarmi sulla ragione per la quale attività co-
sì diverse, che riguardano tanto i modi di fare che i modi di pensare,
sono tutte chiamate matematica». Sarei ancora più soddisfatto se poi
pensaste: «Questa è, già di per sé, una questione filosofica importante!».
Inizio con queste osservazioni perché dovrei iniziare dal punto in
cui i filosofi, almeno a partire da Platone, hanno sempre iniziato, con
un aspetto particolare della matematica, e cioè con i teoremi della geo-
metria, stabiliti tramite dimostrazioni perspicue. Vorrei avvertirvi in an-
ticipo che questo punto di partenza consolidato è, da un lato, essenziale
76 LA RAGIONE SCIENTIFICA

per la mia filosofia antropologica, ma, dall’altro, esso corrisponde solo


a una piccola parte di quel miscuglio variopinto di tecniche che è la
matematica.

3. Natura

Ci sono buone ragioni per pensare che gli stili di pensiero scientifi-
co, che mi hanno portato a parlare della “ragione scientifica”, siano
basati su capacità cognitive “innate” [built-in]. Queste fanno parte
della nostra eredità umana collettiva. Non c’è niente di relativo, di sto-
rico o di culturalmente dipendente a loro proposito (questo almeno è
ciò che assumo, senza argomentare qui in maniera dettagliata). Senza
alcun dubbio sono state delle spinte evolutive a favorire queste poten-
zialità, ma non si deve dare per scontato che esse abbiano avuto un va-
lore adattativo per la selezione naturale. I modi in cui esse sono emer-
se possono essere connessi, non tanto con la loro utilità immediata,
ma col fatto che esse sono le conseguenze di adattamenti autentica-
mente funzionali nello sviluppo di umani e animali. Ciò significa che
le diverse capacità cognitive che risultano essenziali per la ragione scien-
tifica potrebbero essere emerse come ciò che Stephen Jay Gould e Ri-
chard Lewontin hanno chiamato “pennacchi”6. Ci sono, in effetti, spe-
cialisti che insistono per una spiegazione dello sviluppo delle capacità
matematiche nei termini della psicologia evoluzionistica, cosa che io
non ritengo semplicemente possibile. Non credo che l’abilità nel fare
ciò che chiamiamo matematica abbia avuto, in un primo momento, un
valore adattativo. È chiaro che l’abilità di potersi muovere all’interno
del nostro mondo a tre dimensioni è essenziale per la sopravvivenza e
che l’abilità di fare inferenze e conti elementari aiuterebbe gli uccelli,
gli animali e quindi anche le persone a cavarsela, ma tutto ciò non ci fa
ancora entrare nel mondo della matematica7. Rimane, nonostante ciò,
un’ipotesi plausibile quella secondo cui, se c’è una parte del cervello che
svolge il ragionamento matematico, essa si sarà sviluppata in quella re-
gione che ha permesso ad animali precedenti di contare.
Chomsky ha suggerito per molto tempo che, così come c’è una ca-
pacità innata negli uomini di acquisire la grammatica, così ci sono an-
che le capacità umane innate di ragionare matematicamente. Egli, per
LEZIONE II. DA DOVE VENGONO GLI OGGETTI MATEMATICI 77

come lo capisco io, ipotizza che le capacità matematiche siano conse-


guenze (pennacchi?) delle capacità linguistiche. Altri scienziati cogni-
tivi ritengono che ci sia un modulo specifico per la matematica e che il
cervello umano sia, secondo i loro termini, “programmato” [hard-wi-
red] per il pensiero matematico o comunque aritmetico8.
Vorrei sottolineare che, quando parlo della capacità umana di ra-
gionare in maniera matematica, mi riferisco a qualcosa che è molto
più complesso della semplice abilità di contare o di saper distinguere
qualche figura. C’è ovviamente un’immensa varietà regionale tra i po-
poli di tutto il mondo e molta variabilità cognitiva all’interno di una
singola famiglia. L’abilità di ragionare in maniera matematica varia cer-
tamente molto più da persona a persona di quanto non vari quella
del bambino di cogliere il linguaggio parlato attorno a lui, ma, secon-
do questo modo di vedere le cose, essa fa ugualmente parte della men-
te umana. Diversi popoli non riescono a fare molto di più che conta-
re, eseguire meccanicamente calcoli aritmetici e riconoscere qualche
figura. Non ho idea se questa sia una questione di scelta o di limita-
zione intrinseca.
Sembra del resto plausibile immaginare che ci sia un modulo o un
gruppo di moduli dedicati principalmente all’orientamento spaziale e
all’immaginazione di configurazioni spaziali, e che ciò sia connesso con
la nostra abilità di ragionare geometricamente. Sembra plausibile, quin-
di, immaginare che ci sia anche un altro modulo, o un gruppo di essi,
dedicato al ragionamento numerico e combinatorio, e che, nei suoi stati
più avanzati, questo dia luogo a una capacità algebrica. Possiamo vede-
re Kant come qualcuno che ha riconosciuto questo fatto, anche se noi non
descriviamo più i fenomeni alla sua maniera. Egli distingueva l’aritmeti-
ca dalla geometria e sosteneva che ciò che egli chiamava «conoscenza sin-
tetica a priori» derivasse dall’appercezione trascendentale di unità tem-
porali discrete, mentre quella della geometria derivasse dall’appercezio-
ne trascendentale dello spazio. Certo, alcuni popoli sembrano
particolarmente portati per il ragionamento combinatorio, mentre altri
lo sono per quello geometrico, come se un gruppo fosse meglio dotato
di un certo tipo di moduli e l’altro gruppo di altri moduli.
Alcuni ricercatori sostengono che le donne processino le informa-
zioni spaziali in modo differente dagli uomini. Questo è un fatto che po-
trebbe rientrare nella narrativa dei moduli, ma bisogna essere cauti: lo
78 LA RAGIONE SCIENTIFICA

scopo di queste storie è illustrativo, sono delle storie delle origini [ju-
st-so stories]. Esse ci suggeriscono modi di guardare ai fatti, ma sono so-
lo raffigurazioni. Possono anche essere raffigurazioni utili, nella misu-
ra in cui non ci illudiamo di sapere effettivamente molto a proposito
di tali moduli o di tali capacità. Trovo che queste storie illustrative a pro-
posito delle abilità innate siano utili come indicatori, per segnalare la
nostra ignoranza. Non sono poi così distanti dai modi in cui Kant stes-
so presentava le sue intuizioni.
Secondo questa rappresentazione, tali capacità fanno parte della
nostra eredità umana universale, all’interno della quale ci sono molte
variazioni individuali. La scoperta e la pratica di queste capacità uma-
ne sono qualcosa di diverso. Esse accadono all’interno di storie speci-
ficamente umane, in circostanze storiche contingenti, e fanno parte del-
la storia delle civiltà. Non c’è, inoltre, nessuna ragione per pensare che
tali capacità, anche una volta scoperte, saranno poi effettivamente mes-
se a frutto nella stessa maniera in culture differenti, anche se tutto fa
pensare che, se una società volesse apprendere le capacità cognitive di
un’altra, potrebbe farlo.

4. La storia folcloristica della scoperta di una potenzialità umana

Concentriamoci adesso sulla scoperta della nostra capacità di pen-


siero geometrico, iniziando con la geometria. Ho già menzionato Kant,
ma egli ha molto di più da dirci. Essendo un filosofo, ho sempre cono-
sciuto quel brano enfatico sulla matematica che Kant scrisse nell’in-
troduzione alla seconda edizione della sua Critica della ragion pura.
Ho già citato alcune di quelle parole nel corso della prima lezione e le
ho usate per introdurre l’idea di un nuovo modo di dire la verità sulle
forme geometriche. Ora citerò quel paragrafo per intero. Ci serve a ri-
cordarci che al più complesso dei nostri filosofi, il saggio di Königsberg,
piacevano le belle storie. Non dimentichiamoci inoltre che il fatto che
egli abbia raccontato questa storia non implica che essa sia vera in sen-
so letterale.
Kant era eurocentrico in modo imbarazzante. Intendo ciò sia in sen-
so letterale sia figurato. Egli pensava che l’esempio di una scoperta ri-
voluzionaria in cima ai pensieri dei suoi lettori fosse la scoperta della
LEZIONE II. DA DOVE VENGONO GLI OGGETTI MATEMATICI 79

rotta navale attorno all’Africa in direzione dell’Asia – dove gli euro-


pei saranno in grado, per un certo periodo, di sfruttare le civiltà del-
l’Est. Kant parlava degli Egizi come di predecessori dei Greci, ma
non sapeva nulla della matematica cinese antica. Egli scriveva, è bene
tenerlo a mente, nel 1787, due anni prima dell’evento che l’Europa
considera come la sua rivoluzione fondamentale, quella francese.
Quindi la rivoluzione, sia essa politica, geografica o intellettuale, era
nell’aria. Egli scrive:

La matematica, sin dai tempi più remoti a cui risale la storia della ragio-
ne umana, si è messa sulla via sicura della scienza con i Greci, un popo-
lo che merita tutta la nostra ammirazione. Non si deve pensare, però, che
l’aver trovato questa via regia, o meglio l’averla spianata davanti a se
stessa, sia stata per la matematica un’impresa facile come per la logica,
dove la ragione ha a che fare solo con se stessa: credo piuttosto che essa
sia andata per lungo tempo a tentoni (soprattutto presso gli Egizi), e
che la sua trasformazione in scienza vada attribuita a una rivoluzione,
attuata dalla felice idea di un singolo uomo, mediante un tentativo a
partire del quale non ci si potette più sbagliare sulla strada che si dove-
va prendere, e fu imboccato e tracciato, per ogni tempo e con un’esten-
sione infinita, il cammino sicuro della scienza. La storia di questa rivo-
luzione del modo di pensare – molto più importante della scoperta del-
la via che doppiava il famoso Capo di Buona Speranza – e del fortunato
che la attuò, non ci è pervenuta. Tuttavia, la leggenda tramandataci da
Diogene Laerzio, il quale nomina il presunto scopritore degli elementi
minimi delle dimostrazioni geometriche – elementi che, secondo il giu-
dizio comune, non hanno neppure bisogno di dimostrazione –, prova
un fatto, e cioè che il ricordo del cambiamento prodotto dalla prima trac-
cia nella scoperta di questa nuova via dovette apparire ai matematici di
tale importanza da restare indimenticabile. In colui che per primo di-
mostrò il triangolo isoscele (si chiami Talete o come altro si vuole) si ac-
cese una luce: egli capì infatti che non doveva seguire passo passo ciò
che vedeva della figura, o anche solo nel concetto di essa, quasi che da
ciò potesse apprendere le sue proprietà, ma che doveva produrla trami-
te ciò che egli stesso aveva già pensato e rappresentato in essa a priori,
secondo concetti (per costruzione); e che per sapere con sicurezza qual-
cosa a priori, egli non doveva attribuire alla cosa se non quello che se-
80 LA RAGIONE SCIENTIFICA

guiva necessariamente da ciò che egli stesso, in conformità col suo con-
cetto, vi aveva posto9.

Volendo fare una parodia di Kant, potremmo dire che egli sta imma-
ginando la prima lampadina matematica che si è accesa nella testa di
qualcuno. Talete non è altro che una leggenda, ciò che serve non è
“un uomo”, ma una comunità, almeno una piccola rete di collabora-
tori, insegnanti e discepoli, che sfruttino la possibilità di effettuare
una dimostrazione e che condividano tra loro argomentazioni stupe-
facenti.
Come chiunque altro al giorno d’oggi, rigetto totalmente l’indivi-
dualismo kantiano, sebbene ci sia in esso qualcosa di profondamente
importante. La capacità cognitiva è in prima istanza individuale e gli es-
seri umani hanno dovuto imparare a servirsi di tale capacità. Ciò che
manca nell’affermazione di Kant è il riconoscimento esplicito del fatto
che la pratica di tale capacità è condivisa. Ciò che conta è lo sviluppo
di quell’intuizione che la leggenda attribuisce a Talete, lo sviluppo del-
le pratiche della prova.
Kant si fa prendere la mano dal lirismo quando parla dell’entrare
«sulla via sicura della scienza», la «via regia». Kant chiama quest’even-
to una «rivoluzione intellettuale» ed esso consiste nell’emergenza del-
la dimostrazione matematica. Per me c’è stata, prima, la scoperta della
nostra capacità di fare dimostrazioni matematiche, o meglio, dimo-
strazioni geometriche, e poi è venuto il riconoscimento dell’importan-
za di questa scoperta e lo sviluppo di una comunità che venerava le di-
mostrazioni. Ma c’è stato anche un mutamento relativo alla concezio-
ne degli oggetti geometrici. Abbiamo acquisito una nuova maniera di
dire la verità su di essi – dimostrando fatti a proposito di essi.

5. La veridicità a proposito degli oggetti geometrici

Nella prima lezione ho presentato lo schema genealogico del dire la


verità a proposito di qualcosa. La cristallizzazione di uno stile di pen-
siero può produrre:

(*) Un mutamento relativo alle concezioni del dire la verità su X.


LEZIONE II. DA DOVE VENGONO GLI OGGETTI MATEMATICI 81

Seguendo l’esempio di Williams a proposito di Tucidide, il pioniere


del nuovo modo di dire la verità a proposito del passato, ho suggerito
un secondo schema:

(**) Questo importante cambiamento è avvenuto nel secolo Y, e il


suo emblema è Z.

Chiaramente, il leggendario pioniere della geometria è Talete, un’i-


cona che è stata probabilmente anche una figura storica, ma il cui no-
me è, con altrettanta probabilità, solo un punto sul quale molte leg-
gende si sono accumulate. Ciò che colpisce è la misura in cui il folclo-
re sembra aver riconosciuto il bisogno di un tale accumulo di miti. La
storia di Kant riguarda:

(*) Un mutamento relativo alle concezioni del dire la verità sugli


oggetti geometrici.
(**) Questo importante cambiamento è avvenuto nel VI secolo, e il
suo emblema è Talete.

Il nuovo modo di dire la verità sugli oggetti matematici consisteva nel


dimostrare le relazioni tra di essi, e di farlo a priori. Perché quest’abi-
lità dovrebbe esser mantenuta, istituzionalizzata?

6. Greci polemici

Geoffrey Lloyd ha attirato l’attenzione su un aspetto della vita delle


città-Stato greche; Reviel Netz ha approfondito ulteriormente questo
tema10. Le città-Stato erano organizzate in molti modi diversi, ma Ate-
ne rivestiva un’importanza centrale. Era una democrazia di cittadini
maschi e liberi. Era una democrazia per pochi, che non rispecchia in
alcun modo ciò che noi, oggi, riteniamo essere una democrazia. Tra
questi pochi però non c’era nessun dittatore. Era l’argomentazione a re-
gnare sovrana.
Gli ateniesi sono stati il gruppo d’individui auto-governati più co-
stantemente dediti all’argomentazione di cui si abbia notizia. Oggi leg-
giamo Aristotele per la sua logica, non per la sua retorica. I Greci inve-
82 LA RAGIONE SCIENTIFICA

ce lo leggevano per la sua retorica; la sua logica era strettamente per


l’Accademia. Il problema delle discussioni su come amministrare la città
e combattere le sue battaglie era che non c’erano argomenti decisivi. O
forse essi risultavano decisivi solo in virtù delle abilità dell’oratore o del-
l’avidità del pubblico. Ma c’era un tipo di argomento per il quale l’ora-
toria sembrava essere irrilevante. Qualsiasi cittadino era in grado di se-
guire un’argomentazione geometrica, come anche qualsiasi schiavo
che venisse incoraggiato e guidato nel dedicarcisi per il tempo necessa-
rio. Egli poteva arrivare a vedere da solo, o magari con una quantità
minimale di istruzioni, che un’argomentazione fosse valida. Poteva an-
che creare l’argomentazione stessa, scoprirla da solo. In geometria le
argomentazioni parlano da sole a una mente che è capace di indagare.
I cinici sostengono che tutto ciò sia pura e semplice fantasia. Che
cosa vuol dire “una quantità minimale” di istruzioni? L’istruzione è
solo un tipo di retorica, un tipo di oratoria. Si prenda il caso classico,
quello della dimostrazione che si trova nel Menone su come raddop-
piare un quadrato. Ci viene detto che il giovane schiavo scopre la tec-
nica da solo, senza aiuti. In effetti, Socrate è talmente affascinato da
quella conoscenza che non si acquisisce tramite l’osservazione e l’e-
sperienza, che fa l’ipotesi inverosimile che il ragazzo debba averla ap-
presa in qualche esistenza precedente. La dimostrazione di un teore-
ma sarebbe una prova a favore dell’immortalità dell’anima! Questo è
ciò che intendo quando parlo dello sbigottimento del filosofo di fron-
te all’esperienza del comprendere o del fare una dimostrazione.
Certo, il giovane schiavo è guidato dalle domande allusive di Socra-
te, ma poi si verifica questo fenomeno straordinario, accessibile quasi
a qualsiasi lettore attento del Menone, che consiste nel fatto di vedere
che il quadrato costruito sulla diagonale è il doppio del quadrato dato.
La possibilità di tracciare un diagramma è essenziale per questa perce-
zione, tanto a livello psicologico che storico. Ma, insieme al diagram-
ma e ciò che viene detto su di esso, c’è un nuovo tipo di esperienza, un
nuovo tipo di convincimento basato solamente sulla percezione di quel-
la nuova verità.
E quindi? Lloyd nota che questo fenomeno è qualcosa di davvero im-
pressionante per i membri di una società dedita all’argomentazione, che
non ha bisogno di un dittatore e le cui ultime istanze non sono altro
che la conversazione e la persuasione. Da questo punto di vista, la so-
LEZIONE II. DA DOVE VENGONO GLI OGGETTI MATEMATICI 83

cietà dell’antica Grecia era forse un unicum tra le civiltà di cui si ha co-
noscenza. Ritornerò sul tema degli studi comparati e farò dei confron-
ti con la matematica nell’antica Cina. Prima però diamo un’occhiata
all’impatto della scoperta della dimostrazione sulla filosofia europea.

7. La matematica è stata importante per alcuni (e solo per alcuni) filosofi

Un profondo impegno nella riflessione sulla natura della matemati-


ca si trova in alcuni filosofi della tradizione occidentale, ma non in tut-
ti. In quanto occidentale, la mia ossessione per la matematica mi è sem-
pre sembrata “naturale”. L’ho data per scontata. In effetti, quando ero
giovane pensavo fosse il vero e proprio segno distintivo dei filosofi
profondi!
L’implicazione funziona in un senso solo. I filosofi profondi (pensa-
vo) erano ossessionati dalla matematica, ma molti tra coloro che erano
ossessionati dalla matematica non erano profondi. In effetti, molti fi-
losofi della matematica sono noiosi, aridi e sterili, si dedicano a pro-
grammi di ricerca degenerativi. Pensavo comunque, con l’entusiasmo
tipico della gioventù, che ogni filosofo veramente profondo fosse mos-
so dai fenomeni della matematica, dall’esperienza del fare matematica.
Non c’è neanche bisogno di dire che mi sbagliassi, ma era comunque
utile pensare al perché e al come la matematica fosse importante per
alcuni, e solo per alcuni filosofi della tradizione europea.
Questo è l’argomento di una lezione che ho tenuto nel 1998, dal ti-
tolo What Mathematics Has Done to Some and Only Some Philo-
sophers11. Uno dei suoi risultati è stato quello di far interrogare così
tanti filosofi sulla provenienza degli oggetti matematici – la domanda
del titolo di questa lezione. Questi sono alcuni tra i nomi che ho men-
zionato in quella lezione di nove anni fa: Platone, Descartes, Leibniz,
Kant, Russell e Wittgenstein, ai quali adesso aggiungo Husserl12.

8. L’ossessione per la matematica

Secondo Bertrand Russell, «la domanda posta da Kant all’inizio del-


la sua opera filosofica, “come è possibile la matematica pura?”, è una
84 LA RAGIONE SCIENTIFICA

domanda interessante e difficile, a cui ogni filosofia non puramente


scettica deve trovare una risposta»13.
Russell esagerava. Molti filosofi che non sono puramente scettici non
hanno avuto alcun interesse per la domanda di Kant. Non gli è mai ve-
nuta in mente, o comunque non li ha colpiti come qualcosa d’importan-
te. Non vorrei risultare impopolare, ma è facile pensare a filosofi occi-
dentali canonici di qualsiasi epoca che non si sono minimamente occu-
pati di matematica. Ecco perché parlo di “alcuni, e solo alcuni”. Tuttavia
il senso dell’osservazione di Russell è giusto. Molti dei filosofi che tutt’og-
gi leggiamo sono stati profondamente colpiti dalla matematica e sono
arrivati al punto di cucire molta della loro filosofia sulla loro visione del-
la conoscenza matematica, della realtà matematica, degli oggetti mate-
matici, o, ciò che credo sia cruciale, della dimostrazione matematica.
Perché così tanti filosofi cercano di rispondere alla domanda di
Kant? E, d’altra parte, perché molti altri non lo fanno? Ritengo che la
risposta abbia qualcosa a che vedere con l’esperienza del praticare qual-
che tipo di matematica. Che cos’ha di particolare quella sensazione
immediata che si prova di fronte a questa o quell’altra parte della ma-
tematica, per affascinare così tanto questo o quell’altro filosofo? Si ri-
cordi l’idea di miscuglio variopinto di tecniche. È solo un certo tipo di
ragionamento matematico, a mio modo di vedere, a suggerire l’idea di
oggetti matematici e di verità a priori. È essenzialmente l’esperienza del-
la dimostrazione e delle idee in essa implicate che spinge i filosofi a
prendere la matematica seriamente.
Parlo di questa o quella “parte della matematica” perché si dovreb-
be guardare alla matematica in azione – quindi alle dimostrazioni più
che ai teoremi, alla comprensione viva più che alle verità quiescenti,
alla scoperta tanto quanto alla conoscenza. Per trovare un matematico
creativo si dovrebbe guardare a quelle idee dimostrative che aprono
nuove direzioni, più che alle mere dimostrazioni che risolvono un pro-
blema. Le esperienze connesse con la matematica viva hanno guidato i
filosofi, che ne hanno tratto pietre angolari. Ciò è vero non solo di un
Descartes o di un Leibniz, filosofi-matematici, ma anche di osservato-
ri esterrefatti, come un Platone o un Wittgenstein.
Che cosa ha colpito i filosofi? Bertrand Russell ci ha detto cosa lo
preoccupava nel 1912: «Questo apparente potere di anticipare fatti
relativi a cose di cui non abbiamo nessuna esperienza è certo sorpren-
LEZIONE II. DA DOVE VENGONO GLI OGGETTI MATEMATICI 85

dente»14. Il nome che diamo al fenomeno che ha sorpreso Russell è


“conoscenza a priori”. Questa, e parole come “verità necessarie” – o l’e-
spressione di Wittgenstein «la durezza della necessità logica» – non
esprimono tanto una proprietà della matematica quanto un’esperien-
za che fanno alcuni di noi svolgendo o comprendendo le dimostrazio-
ni di alcune proposizioni. Queste nozioni filosofiche fantasiose deriva-
no dall’esperienza della dimostrazione.
Alcuni filosofi hanno tratto inferenze piuttosto straordinarie dalla
possibilità della matematica. Socrate e l’immortalità dell’anima sono so-
lo un esempio di tali inferenze azzardate. Dovremmo riflettere in mo-
do immediato e quasi ingenuo sui fenomeni elementari che li hanno
affascinati, in modo da comprendere quella domanda: «Com’è possi-
bile la matematica pura?». Troppo spesso indulgiamo in sottigliezze o
tecnicità senza domandarci che cosa ci preoccupi veramente.
Ci sono due gruppi di filosofi che sono stati profondamente scon-
certati da alcuni aspetti della matematica. Alcuni hanno un atteggia-
mento inflazionistico, altri deflazionistico. A partire dalla loro espe-
rienza della matematica, due dei filosofi inflazionisti, Platone e Leibniz,
hanno tratto conclusioni straordinarie praticamente su tutto.
L’inflazione conduce i filosofi a proporre tesi grottesche. La defla-
zione, invece, spinge i filosofi a dire cose sulla matematica stessa che
sono in larga parte considerate come assurde. John Stuart Mill portò
avanti una grande battaglia contro l’inflazionismo. Sosteneva che non
ci fosse alcuna differenza, in principio o in pratica, tra le verità mate-
matiche e altre generalizzazioni empiriche. Molti matematici trovano
ciò assurdo, ma in tempi recenti questa tesi ha trovato dei difensori15.
Descartes è una figura molto complessa. Per quanto concerne la
matematica egli sembra un deflazionista iperbolico. Pare aver soste-
nuto che Dio potrebbe far risultare cinque la somma di due più due.
La maggior parte dei filosofi trova ciò talmente incomprensibile da sup-
porre che egli non possa aver inteso proprio questo (io penso invece
di sì: prendo molto sul serio i filosofi esterrefatti dalla matematica). Tut-
tavia, Descartes attribuiva un’importanza iperbolica alla dimostrazione
perspicua: bisognava poter comprendere la dimostrazione tutta in una
volta, afferrarla con la mente.
Wittgenstein è altrettanto complesso e forse più frainteso di De-
scartes. Basti pensare ad alcune tra le più curiose delle sue Osservazio-
86 LA RAGIONE SCIENTIFICA

ni sopra i fondamenti della matematica, che troppe persone leggono


come volte a sostenere che le verità matematiche non sono fissate o
determinate da altro che dalla pratica sociale.
Russell era un nominalista troppo raffinato per poter prendere sul se-
rio questioni dirette a proposito degli oggetti matematici. La parte più
innovativa della sua vita come filosofo la dedicò a un approccio indi-
retto, mostrando che tali oggetti sono «costruzioni logiche». Da ciò il
suo tentativo deflazionistico, chiaramente fallimentare, di dimostrare
che gli oggetti matematici esistono solo in quanto costruzioni logiche:
il progetto stupefacente dei Principia Mathematica. Uno degli aspetti
positivi dell’impegno di Russell in favore del “logicismo” fu di artico-
lare la dottrina in una forma sufficientemente precisa perché Kurt Gö-
del potesse refutarla in maniera definitiva16.
Husserl era inflazionista in un modo molto diverso rispetto a Plato-
ne. Egli pensava che la crisi, nel 1936, della civiltà europea, crisi di cui
il regime nazista era una delle manifestazioni più disgustose, poteva
essere superata recuperando un contatto diretto con l’esperienza ori-
ginaria, la Ursprung, della geometria17. Un’altra parte del suo progetto
consisteva, del resto, nel tentativo di rientrare in contatto con lo stile ga-
lileiano di pensiero – uno degli argomenti della terza lezione, Lo stile la-
boratoriale di pensiero e azione.
Se parlo, inaspettatamente, proprio di questi grandi uomini, è per-
ché essi sono i miei eroi personali. Russell è stato l’eroe della mia in-
fanzia intellettuale. Nella mia adolescenza intellettuale Wittgenstein
mi ha stretto in una morsa di ferro dalla quale non mi sono mai libera-
to. Nella prima lezione ho accennato al fatto di chiamare il mio ap-
proccio alla ragione “leibniziano”; Leibniz è stato un amore giovanile
che ancora vagheggio. Solo durante la maturità ho compreso che De-
scartes è il pensatore più profondo. In età avanzata, sono a volte affa-
scinato da Husserl. Ma soprattutto, questi sono i filosofi che prendo
sul serio, oltre agli dèi, Platone, Aristotele e Kant.

9. Due prospettive su uno straordinario libro sulla matematica greca

Alcuni, ma soltanto alcuni, filosofi occidentali sono stati così profon-


damente impressionati dalla matematica che essa ha lasciato un’im-
LEZIONE II. DA DOVE VENGONO GLI OGGETTI MATEMATICI 87

pronta permanente su una parte o su tutta la loro filosofia. Non voglio


citare quei filosofi che sono totalmente indifferenti alla matematica, che
fanno filosofia come se la matematica non avesse alcuna importanza per
alcuna riflessione filosofica degna di questo nome. Essi sono molto
più che deflazionisti: non prendono sul serio le pretese filosofiche del-
la matematica e pensano che queste non siano neanche degne di defla-
zione. Ammiro alcuni di questi filosofi, ma non molti, e non parlerò di
quelli morti che non possono rispondermi.
Sono stato fortunato a individuarne uno vivente, un amico, e voglio
elogiarlo nonostante mi trovi, non tanto in disaccordo, quanto su una
direzione opposta a quella da lui intrapresa. Mi riferisco a Bruno La-
tour, uno dei fondatori degli attuali science studies. Egli preferirebbe,
credo, non essere chiamato filosofo, in inglese, anche se egli è certa-
mente un philosophe, nel senso in cui la parola è usata nel francese
contemporaneo. Nel 1979 egli ha scritto, insieme a Steve Woolgar, La-
boratory Life, la prima rilevante etnografia del laboratorio. Forse egli
non disdegnerebbe il titolo di antropologo filosoficamente orientato,
nello stesso modo in cui io sarei onorato dell’etichetta di filosofo an-
tropologicamente orientato.
Latour ha recentemente scritto un eccellente studio critico18 su un
libro che ho già menzionato: The Shaping of Deduction in Greek Mathe-
matics: A Study in Cognitive History. L’autore, Reviel Netz, è uno sto-
rico israeliano della matematica antica, piuttosto giovane, formatosi
all’Università di Cambridge e che ora lavora a Stanford. Il libro è stato
pubblicato nel 1999. Perché Latour ne fa una recensione otto anni do-
po? La scusa è l’uscita dell’edizione economica. La verità è che è venuto
a sapere dell’esistenza del libro solo recentemente e ne è rimasto enor-
memente colpito19. La frase di apertura recita così:

Questo è, senza dubbio, il libro più importante apparso nei science studies
dalla pubblicazione de Il Leviatano e la pompa ad aria di Shapin e Schaffer.

Si riferisce al libro sottotitolato Hobbes, Boyle and the Experimental


Life, pubblicato nel 198620. Avrà un ruolo centrale nella mia terza le-
zione, sullo stile laboratoriale di pensiero e azione.
Ed ecco un fatto straordinario: sono completamente d’accordo con
il giudizio di Latour. Se si esclude il lavoro di Latour dalla competizio-
88 LA RAGIONE SCIENTIFICA

ne, allora direi “senza dubbio” che quei due libri, uno sulla deduzione
e l’altro sull’esperimento, sono i due più importanti contributi ai scien-
ce studies. Punto. Ma dico ciò per ragioni esattamente opposte a quel-
le di Latour!
C’è un punto che condividiamo. Come tutti i lettori di Netz, siamo en-
trambi sbalorditi dal suo tour de force per ricostruire i diagrammi man-
canti nei testi greci che sono sopravvissuti, e dalla sua dimostrazione
che essi sono essenziali tanto per i manuali di Euclide quanto per la crea-
tività di Archimede. Ma io e Latour ci concentriamo su intuizioni fon-
damentalmente differenti di Netz. Entrambi siamo nel giusto quanto ai
nostri centri d’interesse, ma siamo spinti da essi in direzioni differenti.

10. Una parentesi sui “science studies”

Prima un’avvertenza. Ho imparato molto dal campo dei science stu-


dies, che è apparso negli anni Settanta, ma non ho mai detto di aver con-
tribuito a esso, neanche sotto il vecchio nome di SSK (Social Studies
of Knowledge21), o sotto quello, ancora attuale, di SST (Society, Scien-
ce and Technology). Latour è stato uno dei padri fondatori di quel cam-
po, inaugurando un programma-base di ricerca ancora attivo, che cor-
risponde al nome, per intenderci, di teoria delle reti scientifiche22. Que-
sto programma è parallelo al lavoro di Barry Barnes e David Bloor, al
quale spesso ci si riferisce col nome di Scuola di Edimburgo o di “pro-
gramma forte della conoscenza scientifica”. La maggior parte di colo-
ro che lavorano in questo ambito guardano a me, nella migliore delle
ipotesi, come a un’anomalia eccentrica, e la cosa non mi dispiace affat-
to. Quindi, se è del tutto appropriato, per Latour, selezionare due dei
più importanti libri dei science studies degli ultimi ventuno anni, io
non sono invece qualificato per fare altrettanto. Sceglierei comunque
gli stessi due libri indicati da lui.
Vorrei dire che, per i miei scopi, per lo sviluppo di un’antropologia
filosofica della ragione scientifica, il libro di Netz è (senza dubbio) il li-
bro più importante ad essere uscito nell’ambito dei science studies
dalla pubblicazione di Il Leviatano e la pompa ad aria di Shapin e
Schaffer. Latour esprime un pensiero parallelo: per i suoi scopi, questi
sono i due libri più importanti per i science studies degli ultimi ven-
LEZIONE II. DA DOVE VENGONO GLI OGGETTI MATEMATICI 89

tun anni. Tra i suoi scopi c’è la teoria delle reti, e sfrutta a pieno un
gioco di parole, intitolando la sua analisi critica The Netz-Works of
Greek Deductions.

11. Ritorno sul paradosso a due facce

Dopo aver specificato che sono un filosofo che non si cimenta in que-
gli studi specialistici giustamente chiamati science studies, ritorniamo
al paradosso: Latour e io pensiamo che questi due libri, The Shaping e
Il Leviatano, siano i due libri più importanti, più utili, ad esser usciti nel-
l’ambito dei science studies. Ma pensiamo ciò per ragioni diametral-
mente opposte. Posso aggiungere, tuttavia, che capisco perfettamente
il punto di vista di Latour. Egli è affascinato dalla descrizione di Netz
della matematica greca in azione. La rete dei corrispondenti di Archi-
mede attorno al Mediterraneo era un network stupendamente delimi-
tato, all’interno del quale la matematica fu creata, resa stabile e fatta
prosperare. Più o meno allo stesso modo, la Royal Society di Londra era
un network in evoluzione, i cui membri contribuivano alla creazione e
alla stabilizzazione della nuova scienza della metà del XVII secolo.
Ciò che conta per me nel libro di Netz è però riassunto nel sottotitolo,
A Study in Cognitive History. Latour ignora proprio quello che a me
interessa, la “storia cognitiva”.
La mia antropologia filosofica della ragione scientifica prevede che gli
stili di pensiero scientifico siano basati su potenzialità innate, molte
delle quali sono cognitive, e che devono essere scoperte nel corso della
storia umana. Netz ha scritto esattamente lo studio che mi serve, una
descrizione di come sia emerso il potenziale per la dimostrazione de-
duttiva in geometria, non a partire da qualche figura leggendaria come
Talete, ma da ciò che è possibile inferire sulla base dei testi esistenti.

12. Platone nel bene e nel male

La mia lista di filosofi occidentali che furono sconvolti dalla mate-


matica iniziava con Platone. Latour vede le cose diversamente. Egli non
pensa che si debba descrivere Platone come qualcuno sconvolto dalla
90 LA RAGIONE SCIENTIFICA

matematica, egli non fu una vittima passiva. Egli fu piuttosto uno sfrut-
tatore, un aguzzino. Platone ha sequestrato la matematica. Ha volon-
tariamente frainteso la nuova scienza. Latour sostiene che «una strana
operazione di incanalamento (per non dire di sequestro), da parte dei
filosofi platonici, di un insieme di capacità strettamente specialistiche,
ha nutrito dall’interno minuscole reti di esperti cosmopoliti di geome-
tria greca», permettendo ai platonici di creare una fascinazione nei con-
fronti di, per citare di nuovo, «nozioni come “dimostrazione”, “mo-
dellizzazione”, “dimostrazione”, “calcolo”, “formalismo”, “astrazio-
ne”». Scrive Latour:

Per la grande sorpresa di coloro che credono al Miracolo Greco, la carat-


teristica fondamentale della matematica greca, secondo Netz, è che essa
è totalmente periferica rispetto alla cultura, anche a quella decisamente
elevata. La medicina, la giurisprudenza, la retorica, le scienze politiche, l’e-
tica e la storia sì, la matematica no. […] Con un’eccezione: la tradizione
platonico-aristotelica. Ma che cosa ha preso questa tradizione (molto
piccola all’epoca) dai matematici? […] solo una caratteristica fondamen-
tale: che potrebbe esistere un modo di convincere che è apodittico e non
retorico o sofistico. La filosofia ha estrapolato dalla matematica non una
pratica pienamente sviluppata, ma solo un modo per differenziare sé stes-
sa attraverso la maniera giusta di ottenere la persuasione.

Latour ritiene l’analisi di Netz un esempio perfetto di una conoscenza


sostenuta da un network di creatori e distributori di quella stessa co-
noscenza. Nessun esempio mostra ciò meglio del caso di Archimede,
il quale, lavorando poco fuori Siracusa, in Italia, creò e sostenne una
modalità completamente nuova di comprensione. In un libro scritto a
scopo divulgativo, Netz lo paragona in modo convincente a Galileo, ma
si spinge anche oltre.

Archimede è lo scienziato più importante che sia mai vissuto23.

Parafrasando ciò che Whitehead disse a proposito di Platone, Netz


continua:
LEZIONE II. DA DOVE VENGONO GLI OGGETTI MATEMATICI 91

La caratteristica generale più certa della tradizione scientifica europea è


che essa consiste in una serie di note aggiuntive ad Archimede.

Innanzitutto egli sostiene che la statica di Galileo abbia preso in pre-


stito, piena d’ammirazione, ciò che conosceva di Archimede, e che la
dinamica galileiana derivi direttamente dal matematico greco. Non
metterò in discussione l’uso di Latour del circolo di Archimede – una
manciata di matematici sulle sponde del Mar Mediterraneo, il cui pun-
to centrale è Alessandria – come esempio perfetto della network theory.
Il mio interesse per questi due grandi libri, Il Leviatano e The Sha-
ping, è completamente diverso. Nel caso di Netz, la mia lettura è più
vicina alle intenzioni dell’autore rispetto a quella di Latour. Nel caso
di Shapin e Schaffer, come dirò nella prossima lezione, la lettura di
Latour è certamente più vicina alle intenzioni degli autori rispetto alla
mia. Latour minimizza l’aspetto di Netz indicato nel sottotitolo, Co-
gnitive History. Lo stesso fa la maggior parte dei lettori, che tende a
notare solo che il libro di Netz è un’ottima ricostruzione dei diagram-
mi mancanti nei testi antichi. Per me esso è anche la prima descrizione
della scoperta di una capacità cognitiva umana fondamentale, l’abilità
di fare prove dimostrative. La storia dei diagrammi è assolutamente
parte integrante di questa descrizione.

13. Il mutamento relativo alle concezioni del dire la verità

È Platone il responsabile dell’ossessione filosofica occidentale per


la matematica? Sì e no. Certo, egli ha la responsabilità di aver suggeri-
to l’idea, inculcata poi dagli aristotelici, che ogni ragionamento filoso-
fico dovrebbe acquisire il carattere apodittico di una prova matemati-
ca. Ho sostenuto, seguendo la pista di Lloyd e Netz, che gli Ateniesi,
amanti della discussione, fossero impressionati dall’apparente abilità di
risolvere le questioni senza far ricorso alla retorica. La dimostrazione
sembrava appunto una nuova maniera di risolvere un certo tipo di
questioni. Il (*) mutamento relativo alle concezioni del dire la verità
sugli oggetti geometrici ebbe quindi un grande impatto, non solo sui
rivali in una disputa, ma anche sull’uomo che disprezzava il dibattito
democratico, cioè Platone.
92 LA RAGIONE SCIENTIFICA

Bernard Williams ha posto l’accento sulla nuova maniera di dire la


verità a proposito del passato. A mio modo di vedere, il nuovo modo
di dire la verità sugli oggetti geometrici ha avuto un effetto molto più
profondo sulla civiltà occidentale, e non necessariamente in senso po-
sitivo. Le persone iniziarono a convincersi che l’unica maniera giusta e
definitiva di ragionare fosse quella deduttiva. Probabilmente è solo
durante la “rivoluzione scientifica” che è stato possibile scrollarsi di
dosso quest’idea terribile.
Non credo comunque che la fascinazione filosofica occidentale per
gli oggetti matematici e la verità matematica sia dovuta solamente a Pla-
tone e ai platonici. L’esperienza di una dimostrazione perspicua è essa
stessa un fatto notevole, ed è proprio questa che ha colpito così tanto i
filosofi.

14. La dimostrazione, non gli assiomi, né il calcolo

Si è discusso molto, a partire dal XIX secolo e per buona parte del
XX, se la matematica fosse assiomatica e se il suo nucleo fosse il cosid-
detto “metodo assiomatico”. Tuttavia, anche all’apice dell’interesse per
i metodi formali, c’erano sempre pensatori che insistevano sul fatto
che le idee matematiche, incluso ciò che chiamiamo le “idee dimostra-
tive”, fossero fondamentali. Questa concezione fa ormai parte della
scienza divulgativa: i divulgatori scientifici dicono al mondo che ciò che
la dimostrazione di Andrew Wiles della congettura di Fermat ha mes-
so in luce è l’introduzione di un nuovo modo, molto generale, di fare
matematica. Wiles ha risolto il problema di Fermat, ma ciò è solo un
aneddoto in confronto al fatto di aver indicato un gran numero di nuo-
ve direzioni e aver connesso ambiti precedentemente non collegati.
Lo stesso si dice, in tempi più recenti, per ciò che riguarda la dimo-
strazione di Perel’man (e altri) della congettura di Poincaré.
È importante ripetere che non c’è solamente una cosa: la matemati-
ca. La gente non si chiede sufficientemente spesso, a proposito di una
pratica o di un problema: «Perché la riconosco immediatamente come
una domanda matematica?». Wittgenstein usava quest’espressione fan-
tastica: «Il miscuglio variopinto delle matematiche». La vecchia arit-
metica di base, quella di cui si servivano i bottegai prima che le calco-
LEZIONE II. DA DOVE VENGONO GLI OGGETTI MATEMATICI 93

latrici provocassero la perdita delle loro abilità, era considerata “mate-


matica”. Lo stesso vale per le scoperte relative alla dimostrazione
[proof-discoveries]. Che cos’hanno in comune due attività come queste?
Non c’è alcuna “necessità matematica” nel calcolo.
Nonostante la mia consapevolezza a proposito del “miscuglio”, l’a-
spetto della matematica che produce la maggior parte dei rompicapo
e dei disaccordi è il fenomeno della dimostrazione perspicua, dimo-
strazione che puoi comprendere, sembra, tutta in una volta, e vederla
nella sua totalità. Il tipo di dimostrazione che Descartes pensava esse-
re quella definitiva o addirittura la sola possibile. In qualche modo, il
semplice pensare non ci è mai sembrato sufficiente per risolvere i pro-
blemi. Oppure, per porre la cosa nell’altro senso, qualche filosofo ha ri-
tenuto che alcuni tipi particolari di pensiero costituissero la gloria del-
la mente umana e il nucleo della natura umana. Tali filosofi hanno ri-
tenuto ciò proprio perché sembriamo in grado di risolvere alcuni
problemi semplicemente pensando.
Per dimostrazione non intendo affatto il buon vecchio calcolo. In-
tendo quelle dimostrazioni che ci danno non solo la sensazione che il
teorema sia vero, ma anche quella di comprendere perché lo è. Grazie
a esse compiamo quell’esperienza familiare che ci fa gridare «a-ah!»,
sulla quale Martin Gardner ha posto l’accento, l’esperienza di vedere,
di afferrare che cosa segue da che cosa. Recentemente ho dovuto som-
mare un certo numero di spese per farmi rimborsare – ho fatto una li-
sta di circa 12 numeri. Ho ottenuto 3 risultati differenti con la mia cal-
colatrice tascabile, dimostrandomi davvero maldestro. Ho quindi svol-
to la somma a mano, “riportando 3” e tutto il resto. Alla fine ero sicuro
di aver ottenuto la risposta giusta, ma sicuramente non capivo perché
era la risposta giusta. Era solo l’esito di operazioni meccaniche appre-
se da bambino. Ma in quelle occasioni, ormai rare, in cui comprendo
una nuova idea dimostrativa, l’esperienza è totalmente diversa. Witt-
genstein era particolarmente interessato in ciò che egli chiamava una di-
mostrazione perspicua. Forse Descartes pensava che quelle fossero le
uniche dimostrazioni degne di questo nome.
Non c’è nessuna “necessità” nel calcolo. Si ottiene un certo risultato
semplicemente seguendo determinate procedure per le quali siamo stati
educati da bambini. Facciamo un confronto con l’utilizzo della metro-
politana. Sto imparando a orientarmi a Taipei. Un bel giorno mi trovo
94 LA RAGIONE SCIENTIFICA

vicino alla fermata di Shipei e mi viene voglia di andare allo zoo. Guar-
do quindi la mappa e vedo che per prima cosa devo prendere la linea
Hsintien, poi cambiare alla stazione centrale di Taipei, proseguire sulla li-
nea Bannan, uscire a Chunghsio Fuhsing e prendere la linea Mucha ver-
so sud, fino a raggiungere la fermata Taipei Zoo. Potrei commettere un
certo numero di errori, perché sono uno straniero, ma se invece faccio
tutto giusto e non ci sono problemi sulla metro, allora arriverò allo zoo.
Calcolare è esattamente questo, e non c’è alcuna necessità in ciò. A nes-
suno verrebbero mai in mente le idee di verità a priori, di necessità logi-
ca o di oggetti matematici riflettendo sulla metropolitana di Taipei.

15. Due concezioni della dimostrazione

Una volta ho iniziato un saggio con un’ottima frase d’apertura «Leib-


niz sapeva che cosa fosse una dimostrazione. Descartes no»24. Ma avrei
potuto dire il contrario, perché ci sono due concetti distinti di dimo-
strazione. Uno è quello di prova perspicua, che corrispondeva all’idea
cartesiana, e, penso, all’ideale platonico. L’altro è quello di dimostra-
zione come calcolo, chiarito in maniera esaustiva dalla logica simboli-
ca del XX secolo. Gli oggetti matematici sono nati dalla dimostrazio-
ne perspicua, non dal calcolo.
Fin dall’inizio, nel Mediterraneo si è diffusa la sensazione che in
matematica si studiasse un tipo speciale di oggetti, a proposito dei
quali fosse possibile scoprire un tipo speciale di verità. Questi oggetti
sono “là fuori”, come si dice – e questo “là fuori” significa due cose. Pri-
ma di tutto, essi non sono qualcosa di mentale, ma hanno un’esistenza
indipendente dalle menti umane, quindi là fuori, fuori dalle menti uma-
ne. Dall’altro lato essi non si trovano nello spazio o nel tempo. Ecco
quindi il problema: se non sono là fuori, nello spazio, allora dove so-
no? Le sfere matematiche sono, in un certo senso, come dei cuscinetti
a sfera, ma anche molto diversi da essi. Da ciò derivava il timore reve-
renziale che si aveva, nei tempi antichi, nei confronti di certi teoremi,
ad esempio, sui solidi regolari. E quando pensiamo ai numeri e ai grup-
pi finiti, non abbiamo neanche più la tentazione di localizzarli nel mon-
do spazio-temporale. Il platonismo è spesso chiamato realismo, per
via di alcune fissazioni della filosofia occidentale. Le chiamo fissazioni
LEZIONE II. DA DOVE VENGONO GLI OGGETTI MATEMATICI 95

perché il platonismo è, in realtà, un super-realismo, che si pone in una


relazione con la realtà ordinaria non dissimile dalla relazione che sus-
siste tra il super-naturale e il naturale.

16. Una seconda cristallizzazione all’interno dello stile matematico?

Gli studiosi hanno messo in luce che la matematica esisteva in Asia


occidentale e in Nord Africa molto tempo prima di Talete. Il mio tema
è stato quello della cristallizzazione dello stile matematico, con un nuo-
vo modo di dire la verità sugli oggetti geometrici. Ci sono altri eventi
che possono aver dato luogo a una cristallizzazione simile? Introduco
volentieri un’altra leggenda, relativa, in questo caso, alla scoperta de-
gli algoritmi e dell’algebra, la leggenda di al-Khwārizmī (780-850 circa),
che lavorava alla Casa della Sapienza di Baghdad e dal quale deriva il
nome stesso di ‘algoritmo’. Il nome non è molto conosciuto, ma, per da-
re un’idea della sua importanza, la Iranian Research Organization for
Science and Technology ha assegnato per circa venti anni l’Internatio-
nal Khwārizmī Prize, il suo riconoscimento più alto nell’ambito della
scienza e della tecnologia.
È chiaro che molte cose straordinarie sono successe nelle scienze in
quella civiltà persiana particolarmente fiorente del IX secolo. Vi pro-
speravano la medicina, la chimica e molti altri saperi. Coloro ai quali
piacciono i grandi racconti della world history a proposito di imperi e
battaglie dovrebbero includere la Battaglia del fiume Zab (750) come
una delle quattro o cinque più grandi battaglie della storia del mondo.
Il Grande Zab è un immissario del Tigri, la cui sorgente è situata sulle
montagne turche. Fino a quel momento Damasco era il centro politi-
co e culturale dell’Islam e la cultura islamica era essenzialmente elleni-
stica. Dopo il 750, quando gli Abbasidi sconfissero gli Omayyadi, l’I-
slam diventò orientale, radicato dunque non in Grecia ma in Persia.
La capitale del nuovo impero persiano fu costruita dal nulla nel 763: era
Baghdad. Durante il secolo successivo essa diventò il luogo più inte-
ressante del pianeta dove esercitare l’immaginazione scientifica.
Così come Kant speculava a proposito di Talete (o chi per lui), io spe-
culo su al-Khwārizmī come l’origine dello stile di ragionamento com-
binatorio, algoritmico o calcolatorio nella tradizione “occidentale”.
96 LA RAGIONE SCIENTIFICA

Seguendo le linee dello schema di Williams otterremmo quindi:

(*) Un mutamento relativo alle concezioni del dire la verità sulle


quantità.
(**) Questo importante cambiamento è avvenuto nel IX secolo, e il
suo emblema è al-Khwārizmī.

Perché parliamo di inizi leggendari? Perché il folclore potrebbe ri-


velarci di più sul sentire comune profondo rispetto alla storia della
scienza sistematica. Si può indicare la storia di un pioniere leggenda-
rio per ogni stile di pensiero scientifico. Per la probabilità la leggenda
ci parla di Pascal. Per la modellizzazione teorica abbiamo Galileo –
Husserl parlava dello stile galileiano molto prima che Crombie entras-
se in scena. Per la sperimentazione potrei menzionare il grande chimi-
co-alchimista Geber. Questo è il nome latino per Abū Mūsa Jābir ibn
Ḥayyān (721 ca. – 815 ca.), un precursore della chimica che ha lavora-
to principalmente a Kufa, a sud dell’odierna Baghdad. Naturalmente ci
sono delle controparti cinesi. Per lo stile di laboratorio la mia leggen-
da preferita, come si vedrà nella terza lezione, è quella di Robert Boy-
le e della pompa ad aria – proprio l’argomento tanto ammirato da Bru-
no Latour, ma per ragioni radicalmente diverse dalle mie. In ognuno
di questi casi c’è un’intuizione culturale relativa al modo di fare qual-
cosa, al modo di scoprire qualcosa.
In ognuno di quei casi ad essere scoperta è una potenzialità uma-
na. Una branca della scienza cognitiva moderna insiste sul fatto che
possediamo capacità innate relative ad ambiti specifici. I cinici so-
stengono che questa sia solo la resurrezione della psicologia delle fa-
coltà di epoca moderna, di moda in Spagna attorno al 1600. Certa-
mente i dettagli sono un po’ approssimativi per giustificare l’attuale en-
tusiasmo rispetto all’interpretazione di strumenti ancora molto grezzi,
come le scansioni Rmn e Pet per lo studio del flusso di sangue al cer-
vello. Ma starò al gioco, in parte perché mi sembra, sulla base di vec-
chie e diffuse prove aneddotiche, che l’abilità di comprendere le di-
mostrazioni, specialmente quelle di stile geometrico, faccia ricorso a
capacità cognitive diverse dal ragionamento combinatorio. Ciò nono-
stante, è stato necessario scoprire come ragionare anche in modo com-
binatorio e algoritmico.
LEZIONE II. DA DOVE VENGONO GLI OGGETTI MATEMATICI 97

A questo proposito mi trovo d’accordo con Jean-Pierre Changeux,


un neurobiologo sul quale dirò qualcosa di più a breve. Durante un col-
loquio per un posto di lavoro per il quale concorrevo, egli ha usato un’e-
spressione che, per quanto ne sappia, non ha mai utilizzato nei suoi
scritti – il nostro «involucro genetico» [genetic envelope] – cioè le no-
stre capacità cognitive ereditarie, che possono essere sviluppate in va-
ri modi, oppure no25. Concepisco l’abilità di fare dimostrazioni come
qualcosa che è rimasto a riposo per molto tempo nell’involucro gene-
tico del cervello umano, fino a quel gruppo di persone attorno a Tale-
te o qualunque sia il suo nome. Egli ha sfruttato la possibilità di dimo-
strare qualcosa a proposito del triangolo.
Qui c’è tutta una storia da raccontare. Per il mio modo di vedere, il
lavoro più entusiasmante è quello che ho già indicato, di Reviel Netz.
Insisto ancora sul suo sottotitolo, A Study in Cognitive History. Netz
mi ha detto che tutti leggono la sua storia come incentrata sui dia-
grammi mancanti nei testi antichi. Ma ciò su cui egli ha veramente scrit-
to è la scoperta della capacità cognitiva di utilizzare diagrammi e paro-
le. Si può capire adesso perché il libro di Netz mi affascini così tanto.
Vorrei che qualcuno scrivesse un libro dal titolo Gli algoritmi di Bagh-
dad. Uno studio di storia cognitiva.

17. Gli oggetti matematici

Uno dei dibattiti più duraturi nella storia della filosofia occidentale
è quello relativo agli oggetti matematici e alle verità matematiche. I co-
siddetti platonici ritengono che gli oggetti abbiano un’esistenza indi-
pendente dalla mente e dalla materia26. Altri pensatori hanno invece per
molto tempo sostenuto il contrario: essi sono in realtà il prodotto del-
la mente umana. In una versione più recente, essi sono visti come i
prodotti della sociologia collettiva o, in alternativa, della struttura del
cervello umano. Per una discussione abbastanza recente si veda Con-
versations about Mind, Matter, and Mathematics dei miei colleghi pari-
gini Alain Connes (vincitore della Medaglia Fields nel 1982) e Jean-
Pierre Changeux (neuroscienziato cellulare)27. Come ci si potrebbe
aspettare, Connes argomenta in favore dell’idea che gli oggetti mate-
matici sono semplicemente lì, in attesa di essere scoperti, mentre Chan-
98 LA RAGIONE SCIENTIFICA

geux difende la tesi secondo la quale essi sono i prodotti, organizzati


fisiologicamente nel cervello, del sistema cognitivo umano.
La mia opinione su questo dibattito rientra nell’approccio generale
illustrato nella prima lezione. I miei “stili di pensiero scientifico” in-
cludono uno stile galileiano, uno stile di laboratorio, uno stile tassono-
mico e, non c’è bisogno di dirlo, uno stile “geometrico” e uno “stile
combinatorio” (i nomi non sono importanti, sono dei meri indicatori).
Una delle tesi che propongo è che ogni stile di ragionamento nasce a
partire da capacità umane, principalmente ma non interamente cogni-
tive. Queste capacità sono scoperte e sviluppate in momenti specifici
della storia. Un’altra tesi è che ogni stile di ragionamento “introduce”
nuovi tipi di oggetti, e nuovi modi di dire la verità. Questa non è una
tesi relativistica ma una teoria sulle origini dell’oggettività.
È ovvio che, come alcuni dei grandi filosofi che ho menzionato, io so-
no stato assolutamente impressionato da una caratteristica, che Connes
dice essere

propria della matematica, molto difficile da spiegare. Spesso è possibi-


le, mediante sforzi considerevoli, giungere a una lista completa di og-
getti matematici definiti da condizioni molto semplici. Intuitivamente,
si crede che la lista sia completa, e si cerca in generale di dimostrare che
è esaustiva. Accade però che spesso si trovino altri oggetti proprio cer-
cando di dimostrare che la lista era conclusa. Prendiamo l’esempio del-
la teoria dei gruppi finiti28.

In un primo momento i matematici hanno pensato che ci fossero solo


sei tipi di gruppi finiti, un elenco che è stato completato verso la fine del
XIX secolo. Verso la fine del XX secolo sono stati scoperti esattamen-
te altri 20 tipi – i gruppi sporadici. E questi sono davvero gli ultimi, fi-
ne della storia. L’ultimo gruppo finito ad esser stato trovato si chiama
il mostro, ed è proprio ciò che il suo nome indica, con più di (8) x (10!)
elementi. Assumendo che non ci sia un qualche errore nascosto nella
dimostrazione, sembra che questo gruppo assurdo sia stato lì da sem-
pre, in nostra attesa, con un’espressione mostruosa sulla faccia. Que-
sto è uno dei fenomeni che fa sorgere il bisogno di una filosofia della
matematica e poi di un’ontologia platonistica.
È importante distinguere due cose diverse che Changeux e i suoi
colleghi neurobiologi stanno cercando di fare. Una è di dare una de-
LEZIONE II. DA DOVE VENGONO GLI OGGETTI MATEMATICI 99

scrizione delle operazioni che il cervello effettua quando facciamo ma-


tematica. Com’è possibile per questa complessa organizzazione di neu-
roni compiere questo tipo di lavoro? Nessuno negherebbe l’enorme in-
teresse di questo tipo di ricerca, che è ancora agli albori. C’è poi un al-
tro tipo di ricerca, la psicologia cognitiva, che è tutt’altra cosa rispetto
alla scienza del cervello. Essa parla di abilità cognitive specifiche che tro-
vano le loro basi nella struttura del cervello di carne e sangue, abilità
che sono, nel senso di Chomsky, modulari. Ma nessuno dei due assi di
ricerca arriva a cogliere l’esperienza che si ha facendo una dimostrazio-
ne, l’esperienza del vedere che il risultato deve seguire necessariamen-
te, o del sentire gli oggetti lì, come in nostra attesa. Essi eludono com-
pletamente quella che chiamo l’esperienza del fare matematica. Latour,
che ci ha insegnato tutto sulla scienza in azione, osserva nei dettagli qual-
che caso di matematica in azione, ma si basa, a mio modo di vedere, su
una gamma troppo ristretta di esempi. Egli perde così di vista quel mi-
scuglio variopinto di tecniche in cui consiste la vita matematica, alcune
delle quali includono l’esperienza della dimostrazione.

18. Allargate i vostri orizzonti!

Discuterò vari tipi di realismo nella quarta lezione. In connessione


con la matematica, “realismo” è una denominazione polivalente per
Platone e i suoi seguaci. Il dibattito tra Connes e Changeux è un di-
battito sul realismo. Ma attenzione: ci sono dibattiti sul realismo an-
che all’interno di altre scienze. Per gran parte del XX secolo c’è stato
un dibattito sulle entità teoriche della fisica, se esse siano reali o se sia-
no solo strumenti che aiutano il nostro pensiero. Anche oggi che sia-
mo in grado di contare gli atomi in una trappola ultra-fredda, ottenen-
do così la sensazione di osservare fenomeni quantistici macroscopici co-
me, per esempio, una funzione d’onda macroscopica, è comunque
possibile farsi portatori di una tesi antirealista, positivista. Bas van
Fraassen, uno dei filosofi della scienza più brillanti e noti, continua a fa-
re esattamente questo. Egli insiste sul fatto che le nostre teorie siano al
più «empiricamente adeguate», ma che non dovremmo asserire o cre-
dere che ci siano veramente 16 atomi nella trappola.
Allo stesso modo, si consideri la tassonomia sistematica in biologia.
Sin dai tempi di Linneo si discute se le specie, i generi, le famiglie, le
100 LA RAGIONE SCIENTIFICA

classi, gli ordini, siano “reali” o se siano solo modi di organizzare l’in-
credibile complessità del mondo naturale; un problema tradizional-
mente fastidioso per le piante e che dà luogo a un caos totale per i fun-
ghi e i loro tipi, per non parlare dei batteri. Ecco perché, nella prima
lezione, ho parlato dei dibattiti ontologici come di una conseguenza de-
gli stili di pensiero scientifico. In ognuno di questi casi gli oggetti sono
introdotti dallo stile. Si è sempre creduto che questi dibattiti non aves-
sero alcun legame tra di loro. Vi invito ad allargare i vostri orizzonti e
a vederli come molto simili tra loro.

19. Antropologia comparata della ragione

Crombie, in primis uno storico delle scienze del Basso Medioevo, del
Rinascimento e della prima età moderna, ha esplicitamente intitolato
il suo magnum opus: Styles of Scientific Thinking in the European Tra-
dition. Pongo l’accento sull’aggettivo “europea”. Crombie non era in
realtà del tutto eurocentrico. Egli osservava come i viaggi tra il suo
Paese natale, l’Australia, e quello d’adozione, l’Inghilterra, con i relati-
vi scali in Asia, lo avessero spinto a contemplare una «antropologia
storica comparata della ragione». Trovo quest’ultima un’idea utile, an-
che se appena abbozzata.
Sono già stato in Asia altre volte, ma questa è la prima che mi trovo
a discutere del mio approccio al ragionamento scientifico. Mi trovo, più
specificamente, sul confine orientale dell’Asia. Mi spetta di riflettere
sulle evoluzioni scientifiche, molto diverse, che sono avvenute, da un la-
to, in Asia occidentale (includendo l’antica Mesopotamia), in Africa del
Nord, nel Mediterraneo, nell’Europa del Nord, quindi nelle Ameri-
che e, dall’altro lato, in Asia orientale.
Devo iniziare dicendo che non sono affatto interessato alla questio-
ne seguente, che piace sollevare ad alcuni occidentali: «Come è possibile
che le scienze moderne siano il prodotto dell’Europa occidentale, a par-
tire dal XVII secolo, mentre le scienze cinesi non sono mai decollate
nello stesso modo e neanche la matematica antica cinese è servita da
trampolino per la matematica moderna?».
Sembra una domanda interessante. Ma ho il sospetto che non sia né
più né meno interessante della domanda: «Perché la matematica medi-
LEZIONE II. DA DOVE VENGONO GLI OGGETTI MATEMATICI 101

terranea antica raggiunse il suo apogeo con Archimede per poi subire
una battuta d’arresto, senza un singolo atto di matematica creativa (esa-
gerando un po’) fino a che una tradizione piuttosto differente, combi-
natoria, emerse, dapprima a Baghdad, per entrare poi in contatto con
il pensiero geometrico greco e dare luogo a uno stupefacente nuovo ini-
zio?». Queste domande, sul perché o sul come sia possibile che grandi
eventi siano successi, o non lo siano, in passato, sono totalmente al di
là delle mie competenze. Ma, può darsi che proprio a causa della mia
ignoranza io tenda anche un po’ ad ignorarle, trovandole non molto
sensate. Una volta erano un buon punto di partenza. Ma, ormai, i gran-
di eventi in questione sono visti come i risultati di così tante contingenze
che nessuna domanda plausibile quanto al loro “perché” può ricevere
una risposta adeguata. Credo sia una delle molte ragioni per cui Geof-
frey Lloyd, che attualmente dirige il Needham Research Institute di
Cambridge, in Inghilterra, solleva questioni diverse da quelle sollevate
dal grande pioniere degli studi occidentali sulla scienza cinese, Joseph
Needham. Lloyd ha recentemente adottato un linguaggio in apparen-
za simile, ma in realtà diverso, da quello di Crombie e dal mio: egli
parla di «stili di indagine» nel mondo antico29. Egli si dedica in parti-
colare a domande relative ai tipi di istituzione all’interno delle quali cer-
ti tipi di indagine possono essere coltivati, a differenza di altri.
Il titolo di questa lezione è una domanda filosofica: «Da dove ven-
gono gli oggetti matematici?». Si tratta di una domanda standard per
la filosofia occidentale, da Platone a oggi. Era certamente una do-
manda per la filosofia greca antica. Non sembra, invece, essere una do-
manda per la filosofia cinese antica, che pure aveva una lunga tradi-
zione matematica. Potremmo chiederci: «Perché no?». Più in genera-
le, possiamo chiedere: «Perché la matematica ha segnato così
profondamente il pensiero filosofico occidentale, almeno sin dai tem-
pi di Platone?». Forse non è una questione così frivola. Forse ci sono
cose significative da dire a questo proposito sulla matematica antica
greca e su quella cinese, ognuna radicata nelle sue circostanze locali e
storiche.
Forse il miscuglio variopinto di tecniche in cui consiste la matema-
tica è parte della risposta: il tipo di matematica sviluppata dalle prime
civiltà del Mediterraneo rende possibile una concezione degli oggetti
matematici, mentre i tipi di matematica sviluppati più o meno alla stes-
102 LA RAGIONE SCIENTIFICA

sa epoca in Cina non lo fanno. Ciò è coerente con un altro tipo di ri-
sposta, ovvero che la grammatica delle lingue dell’Ovest favorisce l’in-
sorgere di domande sugli oggetti matematici più di quanto non lo fac-
ciano le grammatiche delle lingue dell’Est. Entrambe queste risposte
sono coerenti con ancora un altro tipo di risposta: le istituzioni all’in-
terno delle quali la matematica era praticata in Cina e le funzioni pub-
bliche alle quali questa assolveva, erano piuttosto diverse da quelle at-
torno al Mar Mediterraneo. Questi tre modi di rispondere sono qual-
cosa di più che semplicemente coerenti tra loro: tutti e tre i tipi di
risposta, e altri possibili, possono e forse devono essere usati insieme e
in maniera efficace, se si pensa che la domanda sia degna di una rispo-
sta. La domanda, lo ripeto, è: «Perché i filosofi occidentali sono sempre
stati ossessionati dalla matematica, mentre quelli orientali no?».

20. La matematica cinese antica

Non so leggere il greco e neanche il cinese. Tutta la mia conoscenza


è di seconda mano. Il testo che assumo come canonico è The Nine
Chapters30, di cui sono apparse recentemente edizioni scientifiche sia
in francese sia in inglese. Conosco la versione francese perché ho scam-
bi frequenti con uno dei suoi curatori, la storica della matematica ci-
nese, Karine Chemla, che lavora a Parigi. C’è stato un grande progetto
in Europa e in America per riscoprire la scienza antica al di là di quel-
la visione, propria del XIX secolo, che faceva parlare Kant dei Greci co-
me di «un popolo che merita tutta la nostra ammirazione». Questo è il
“miracolo greco” di cui parla Latour con un’ironia sferzante. Per mol-
to tempo sono stato testardo e conservativamente europeo, pro-greci.
Dopo aver esaminato alcune parti de The Nine Chapters, direi a Chem-
la che la lampadina della dimostrazione non si è mai accesa sulla testa
di nessuno degli autori da lei studiati. Essi non hanno mai capito né
concettualizzato la possibilità di fare una dimostrazione deduttiva! Non
hanno mai avuto quell’esperienza «a-ah!» che è il nucleo del fenome-
no che chiamiamo matematica. Hanno risolto problemi tramite ap-
prossimazioni successive, ma non hanno mai dimostrato niente! Siste-
mi di approssimazione ingegnosi, un accenno di matematica puramen-
te computazionale, ma niente dimostrazioni. O almeno così credevo.
LEZIONE II. DA DOVE VENGONO GLI OGGETTI MATEMATICI 103

Mi è servito un po’ di tempo per unire la mia reazione con le intui-


zioni di Lloyd e Netz. Le prove dimostrative avevano un valore socia-
le nella società ateniese perché fornivano un paradigma di ciò che si-
gnificava risolvere una discussione. In un mondo più autoritario le di-
scussioni erano risolte dal ricorso ai superiori; l’artigiano voleva un
sistema che funzionasse. I matematici cinesi all’incirca contemporanei
di Archimede s’interessavano a problemi simili, ma non avevano nes-
suno da convincere tra il pubblico. Il loro mondo era gerarchico, la
società era autoritaria, spesso in maniera benevola. Un maestro atten-
to si accontentava di un processo che funzionasse.
Si potrebbe dire che i Cinesi avessero ragione e che i Greci, con le
loro dimostrazioni, avessero torto. “Approssimazione” è in un certo
senso la parola chiave del pragmatismo, nel senso di William James.
Secondo questa visione, ciò che vogliamo è un insieme di procedure che
alla fine condurrà i lavoratori attenti a conclusioni che saranno grosso-
modo le stesse, così che nessuna autorità ne risulterà indebolita.
Questa descrizione è molto abbozzata e semplicistica, ma è un pun-
to dove possiamo fermarci. Per continuare con un contributo più se-
rio, seguirei alcuni dei temi illustrati in un articolo recente di Chemla,
un articolo con un titolo molto lungo: Geometrical Figures and Gene-
rality in Ancient China and Beyond: Liu Hui and Zhao Shand, Plato
and Thabit ibn Qurra31. Lo considero un contributo notevole per spie-
gare il passaggio di Kant che ho citato,

[E]gli capì infatti che non doveva seguire passo passo ciò che vedeva del-
la figura, o anche solo nel concetto di essa, quasi che da ciò potesse ap-
prendere le sue proprietà, ma che doveva produrla tramite ciò che egli
stesso aveva già pensato e rappresentato in essa a priori, secondo concetti
(per costruzione) […].

Una differenza fondamentale tra la geometria cinese e quella greca è che


la prima analizzava la proprietà delle figure tramite approssimazioni e
tutta una serie di procedure, mentre la seconda faceva lo stesso grazie
a dimostrazioni perspicue. È possibile sostenere che la lunga storia
della matematica occidentale potrebbe rivelarsi, nel lungo periodo, sol-
tanto una fastidiosa deviazione rispetto al futuro della matematica. Per-
ché tutto ciò di cui abbiamo bisogno nelle nostre relazioni con il mon-
104 LA RAGIONE SCIENTIFICA

do materiale è ciò che sminuiamo chiamando “approssimazioni”. Non


necessitiamo mai di soluzioni esatte per le equazioni differenziali. Ab-
biamo solo bisogno di risposte approssimativamente adeguate. In fu-
turo la computazione rapida sostituirà la dimostrazione e la matemati-
ca orientale, anziché quella occidentale, sarà vista come quella che era
nel giusto fin dall’inizio. Lo stile di pensiero geometrico di Crombie
non è stato altro che un punto di partenza sbagliato per l’impresa scien-
tifica, un mero incidente storico?
L’articolo di Chemla appena menzionato fornisce un esempio defi-
nitivo a sostegno di questa posizione. Chemla prende appositamente
come esempio “il teorema pitagoreo”. Beh, so cos’è quel teorema – o
così credevo. Ma è molto difficile anche solo riconoscerlo nei testi ci-
nesi discussi da Chemla. Non c’è esattamente un “oggetto” lì pronto
per esser percepito distintamente, neanche nei diagrammi di cui è pos-
sibile effettuare la ricostruzione. È tutto molto diverso rispetto alla
matematica greca nella forma in cui ci è pervenuta, vale a dire in quel-
l’insieme di opere che ha reso l’interpretazione di Kant inevitabile.

21. L’origine degli oggetti

Le nuove classi di oggetti introdotte da, o con l’emergere di, nuovi


stili di pensiero scientifico, rendono possibile gli interminabili dibatti-
ti ontologici occidentali in quegli ambiti, per esempio tra platonismo e
nominalismo in matematica, o tra realismo scientifico e vari tipi di
strumentalismo ed empirismo. Penso che gli oggetti matematici non sia-
no diversi, quanto a natura e origine, dalle entità teoriche o dai nuovi
taxa della biologia sistematica.
I dibattiti ontologici all’interno delle scienze sono quindi la conse-
guenza dell’introduzione di oggetti da parte di stili di pensiero. Ma c’è
molto di più che questo in ballo, qualcosa di più eurocentrico. Nel lin-
guaggio europeo noi parliamo di questi oggetti usando frasi in cui i
nomi per gli oggetti svolgono la funzione di soggetti grammaticali. Que-
sto ci conduce a un terzo punto, messo in luce da Nietzsche molto
tempo fa: le lingue europee richiedono presupposti di esistenza per i
termini nella posizione di soggetto. Le grammatiche europee genera-
no ossessioni ontologiche.
LEZIONE II. DA DOVE VENGONO GLI OGGETTI MATEMATICI 105

Queste osservazioni non si avvicinano neanche a ciò che affascinava


veramente Kant e Russell, vale a dire perché, o come, possiamo avere
una conoscenza a priori, perché sembra che possiamo scoprire alcune
proprietà delle cose solamente pensando. Credo che quanto detto fin
qui cominci ad articolare una risposta a questo gruppo di domande
che abbiamo solo iniziato a ripensare in un modo che si rivelerà profi-
cuo. Sfortunatamente non ho il tempo di svolgere questo tipo di ri-
considerazione per intero in questa breve serie di lezioni32.
Lezione III
Lo stile laboratoriale di pensiero e azione

1. Riepilogo

Vorrei iniziare richiamando i punti principali della prima lezione.


Due erano i punti di partenza, entrambi adattamenti di idee sviluppa-
te da altri studiosi e per altri scopi. Uno è associato con lo storico del-
la scienza A.C. Crombie, dal quale ho preso una breve lista di stili di
pensiero duraturi. Il secondo è tratto dal filosofo Bernard Williams,
ed è il concetto di veridicità. Ho espresso il mio accordo con Williams
sul fatto che la verità non abbia una storia, ma la “veridicità” invece sì
ed è per questo che le genealogie della veridicità sono possibili.
Crombie era australiano e ha svolto la sua carriera a Oxford, in In-
ghilterra. Egli era principalmente uno studioso delle scienze europee del
Basso Medioevo e del Rinascimento; il suo eroe, come quello di molti
altri studiosi, era Galileo. Ma, contrariamente a ciò che si pensa comu-
nemente, egli riteneva che la cosiddetta “rivoluzione scientifica” del
XVII secolo non fosse un evento autonomo di quel periodo, quanto piut-
tosto l’evoluzione di alcune acquisizioni che avevano iniziato a dare i
loro frutti nel XII secolo. Nell’epoca in cui l’influenza di Bachelard (in
Francia) e di Kuhn (in America) era dominante, in cui i filosofi e gli sto-
rici vedevano il passato come una sequenza di mutazioni e di rivoluzio-
ni, Crombie vedeva una miriade di continuità e di riprese. Egli riassun-
se il lavoro di una vita in tre volumi enormi, Styles of Scientific Thinking
in the European Tradition, pubblicato quasi alla fine della sua vita, nel
1994. Crombie vi ha tracciato la traiettoria di ognuno di sei stili di pen-
siero, dall’antico mondo del Mediterraneo all’Europa moderna.
LEZIONE III. LO STILE LABORATORIALE DI PENSIERO E AZIONE 107

Possiamo stabilire, nel movimento scientifico classico, una tassonomia di


sei stili di pensiero scientifico, distinti secondo i loro oggetti e i loro me-
todi di ragionamento.

Abbiamo qui tre parole, stili, che sono distinguibili tramite i loro oggetti
e tramite i loro metodi di ragionamento. Nel caso della matematica, ab-
biamo familiarità, da un lato, con la distinzione tra il metodo di ragiona-
mento matematico e gli altri metodi e, dall’altro, con la distinzione tra
gli oggetti astratti della matematica e gli oggetti della vita di tutti i giorni.
Non si deve pensare che prima c’è uno stile di pensiero, che poi in-
troduce una nuova classe di oggetti scientifici. Gli stili sono costituiti
dai loro metodi e dal tipo di oggetto con il quale hanno a che fare.
Ho sostenuto l’idea secondo la quale ogni stile di pensiero introdu-
ce una nuova classe di oggetti scientifici. Ho proposto, inoltre, che i
dibattiti ontologici apparentemente irrelati che riguardano gli oggetti
astratti, gli oggetti teorici non osservabili della fisica, o i taxa della bio-
logia sistematica, sono tutti il risultato dell’introduzione di nuovi tipi
di oggetti nel corso dell’emergenza, accettazione e uso di un nuovo
stile di ragionamento all’interno di specifiche comunità.
Ho insistito su un’estensione della nozione degli stili di pensiero
scientifico di Crombie, vale a dire l’idea che all’interno di una lunga nar-
razione continua ci siano delle rotture distinte, che ho chiamato “cri-
stallizzazioni”. Una cristallizzazione può essere avvenuta nella notte dei
tempi, come quando ho affermato che l’idea di una prova dimostrati-
va ha cristallizzato modi di pensiero matematico a proposito degli og-
getti geometrici, probabilmente nel VI secolo a.C. Nella seconda le-
zione ho detto che potrebbero esserci state cristallizzazioni successive,
come quella che si verificò a Baghdad all’inizio del IX secolo, quando
il pensiero algoritmico e quello algebrico furono compresi in modo
chiaro per la prima volta.
Queste nozioni sono poi combinate con l’idea di Williams che la
veridicità a proposito di un argomento potrebbe avere una genealo-
gia. Williams ci ha dato due esempi di discontinuità nette, una rispet-
to al dire la verità sul passato, l’altra rispetto al dire la verità su sé stes-
si. Ho proposto di generalizzare la sua idea e di applicarla alle cristal-
lizzazioni che hanno luogo in stili di pensiero scientifici distinti. Per
ogni cristallizzazione si danno due schemi:
108 LA RAGIONE SCIENTIFICA

(*) un mutamento relativo alle concezioni del dire la verità su X;


(**) questo importante cambiamento è avvenuto nel secolo Y, e il suo
emblema è Z.

Per l’esempio di Williams concernente la storia, X = il passato, Y =


il V secolo a.C., e Z = Tucidide. Questa figura rappresentativa fu una
persona reale, della quale sappiamo abbastanza. È stato quello che ho
chiamato un pioniere emblematico. Tali pionieri non devono affatto
essere necessariamente dei personaggi storici, ma piuttosto delle figu-
re a metà strada tra la verità e la finzione, tra la storia e la leggenda, a
proposito delle quali un certo cambiamento radicale è stato ricono-
sciuto dalla tradizione e nelle convinzioni comuni. Nel caso della se-
conda lezione, X = oggetti geometrici, Y = il VI secolo a.C., e Z = Ta-
lete. Talete potrebbe essere una figura puramente leggendaria, o, nel ca-
so ci si riferisca a lui come a un personaggio storico, potrebbe non
aver compiuto gran parte di ciò che gli viene attribuito. Egli è un em-
blema, ciò che ho chiamato un pioniere emblematico. Tucidide è più
verità che finzione, ma Talete potrebbe essere più finzione che verità.
Ho fatto notare nella seconda lezione che non dovremmo essere
troppo scrupolosi nell’imitare le frasi di Crombie. Con la matematica
tutto fila liscio, ci sono degli enunciati pre-ionici sugli oggetti geome-
trici rispetto ai quali “Talete” può cambiare la concezione di cosa si-
gnifica parlare in maniera veridica, vale a dire effettuando delle dimo-
strazioni. Ma consideriamo ciò che è successo all’epoca di Galileo: nel
momento in cui emergeva l’idea che Dio avesse scritto il mondo in ca-
ratteri matematici egli pose l’accento su un nuovo modo di pensare la
Natura. Certo, all’epoca di Galileo avvenne un mutamento relativo al-
le concezioni del dire la verità su X = movimento, ma il cambiamento
è stato molto più ampio di questo.

2. L’esplorazione sperimentale e la modellizzazione ipotetica

Il primo stile di Crombie era matematico, l’argomento della seconda


lezione. Ho osservato alcune differenze fondamentali negli sviluppi del-
la matematica nella Cina antica e nella Grecia antica, e ho proposto l’i-
dea che quest’ultima abbia dato luogo a un’ossessione tutta occidentale
LEZIONE III. LO STILE LABORATORIALE DI PENSIERO E AZIONE 109

per la conoscenza matematica, la verità matematica e gli oggetti mate-


matici che è sconosciuta nelle altre tradizioni filosofiche. Ho suggerito
che questo fosse dovuto all’attenzione per la dimostrazione perspicua
nella matematica canonica greca; mentre la matematica cinese antica era
maggiormente dedita al processo, tanto da sviluppare una serie notevo-
le di tecniche di approssimazione. Il “mutamento nelle concezioni” del
dire la verità è consistito nel fatto che, dopo l’epoca dell’uomo che chia-
miamo Talete, le proposizioni geometriche potevano essere dimostrate.
Crombie ha catalogato esattamente sei stili di pensiero scientifici tut-
tora validi. Il quarto, il quinto e il sesto hanno a che fare con le popo-
lazioni e le classi. Li chiamo rispettivamente lo stile tassonomico, pro-
babilistico e storico-genetico. Non dirò quasi niente su questi stili in
queste lezioni, anche se ci sarebbe molto da dire!
Ho sentito per la prima volta dei “sei stili” da Crombie, a una con-
ferenza nel 1978, e ciò mi ha fatto ripensare le scienze in modo nuovo;
il mio primo utilizzo dell’idea di stile è stato nel 1982 e da quel mo-
mento ho continuato ad approfondire questo tema1. Oggi mi concen-
trerò sul secondo e sul terzo degli stili di pensiero di Crombie, ma so-
prattutto sulla cristallizzazione del secondo stile, che mi porta a parla-
re dello stile di laboratorio. Riporto qui di seguito le descrizioni del
secondo e del terzo stile che ho sentito quasi 30 anni fa:

2. La misurazione sperimentale e l’esplorazione di relazioni osser-


vabili più complesse.
3. La costruzione ipotetica di modelli analogici.

Lo stile laboratoriale di pensiero e azione non dovrebbe essere pen-


sato come uno stile aggiuntivo, ma come una cristallizzazione del se-
condo stile, la sperimentazione. Esso entrò in risonanza con una cri-
stallizzazione galileiana del terzo stile di poco precedente.

3. Riepilogo delle tre avvertenze

Prima di procedere vorrei ripetere le tre osservazioni fatte nelle le-


zioni precedenti.
(a) Un’avvertenza. Gli stili di pensiero scientifico non sono scienze
o discipline scientifiche e non si escludono a vicenda. La biologia evo-
110 LA RAGIONE SCIENTIFICA

lutiva usa molta (1) matematica, (2) misurazione ed esplorazione spe-


rimentale, (3) modellizzazione ipotetica e analogia, (4) tassonomia, (5)
probabilità e statistica, e tuttavia è il nostro esempio più riuscito di
una scienza storico-genetica. La maggior parte delle scienze moderne
utilizza gran parte degli stili di pensiero scientifico di Crombie.
(b) Un’ipotesi cognitiva. Ho ipotizzato che ognuno degli stili di
Crombie sia radicato in capacità umane innate, che sono scoperte,
sfruttate e sviluppate in situazioni storiche specifiche. Gli stili risulta-
no quindi tanto dalla cognizione quanto dalla cultura; sono i prodotti,
da un lato, delle interazioni tra dotazioni specificamente umane che
sono a loro volta i risultati della nostra eredità evolutiva e, dall’altro la-
to, di eventi e sviluppi storici specifici. In virtù dell’elemento cogniti-
vo innato segue che, anche se uno stile di pensiero si è evoluto dappri-
ma in una cultura storica a lui peculiare, esso può in seguito essere ap-
preso da popoli di qualsiasi altra cultura che scelgano di farlo.
(c) Gli stili di pensiero scientifico cambiano, si evolvono, si divido-
no e si uniscono in maniere storicamente complesse. Oggi non faccia-
mo matematica nella stessa maniera dei cosiddetti “nove capitoli” del-
la matematica cinese classica, con i loro commentari elaborati per se-
coli, tra i 2000 e i 1000 anni fa. Tuttavia riconosciamo quell’opera come
“matematica”. Come già detto, all’interno degli stili che si evolvono po-
trebbero esserci rotture o cristallizzazioni; due di queste costituiscono
il mio argomento di oggi.

4. Esplorazione e analogia: stili (2) e (3)

Né lo stile (2), né il (3) della lista di Crombie sono particolarmente


“europei”. Un modo di pensare la storia dell’astronomia cinese, per
esempio, è di vederla come il diffondersi, sin dai tempi più antichi, di
questi due stili di pensiero scientifico, ovvero la misurazione e l’osser-
vazione di relazioni complesse da un lato, e la modellizzazione ipoteti-
ca dall’altro. La modellizzazione era tipicamente effettuata sui movi-
menti dei cieli. Considero anche le speculazioni ioniche sulla natura
atomistica del mondo come una modellizzazione ipotetica. La diffe-
renza è che la modellizzazione astronomica era controllata per il tramite
dell’osservazione, mentre l’atomismo consisteva inizialmente nella spe-
LEZIONE III. LO STILE LABORATORIALE DI PENSIERO E AZIONE 111

culazione non controllata da parte di filosofi della natura particolar-


mente immaginativi.
Crombie ha caratterizzato il suo secondo stile come «misurazione
sperimentale ed esplorazione di relazioni osservabili più complesse».
Mentre solo poche civiltà hanno sviluppato gran parte di ciò che ri-
tengo degno del nome di “matematica”, credo che tutti i popoli si sia-
no dedicati in varie attività degne di essere definite sperimentazione ed
esplorazione. Ciò vale non solo per gli uomini ma anche per gli anima-
li e gli uccelli. Fino a poco tempo fa si credeva che gli uccelli avessero
dei “cervelli di gallina”, ma ci si è poi resi conto che i corvi, per esem-
pio, sono piuttosto intelligenti, forse al livello delle scimmie antropo-
morfe più simili a noi. Dubito, comunque, che qualcuna delle attività
degli uccelli sia degna del nome di misurazione; forse questa è una ca-
ratteristica esclusiva della nostra specie, propria, cioè, degli esseri uma-
ni. E, in effetti, molte civiltà umane si sono cimentate con la misura-
zione. All’inizio molti popoli sembrano aver usato parti del corpo uma-
no come standard per strumenti trasportabili di misurazione, per
esempio il piede reale, il braccio del prete dal gomito alla punta delle
dita, oppure la lunghezza di un pollice umano esemplare. Non sono
incline a vedere alcuna cristallizzazione separata, alcuna scoperta di
un nuovo potenziale umano, nel lungo sviluppo della curiosità umana,
dell’esperimento, dell’esplorazione o della misurazione.

5. Misurazione

Potrei comunque sbagliarmi a questo proposito. Forse c’è stata una


cristallizzazione distinta, relativa alla misurazione, la seconda delle at-
tività comprese nel secondo degli stili di pensiero scientifico di Crom-
bie. Tale cristallizzazione consisterebbe nella realizzazione di unità
trasportabili. Tuttavia, visto che le unità originarie, i piedi e i pollici
umani, erano già decisamente trasportabili, quello in favore di unità tra-
sportabili standard poteva essere solo un passaggio graduale e non
una rottura netta in favore di unità trasportabili. In ogni caso, uno dei
principali utilizzi della misurazione è la progettazione di edifici abita-
tivi, devozionali o protettivi. La misurazione si rende necessaria nel mo-
mento in cui s’iniziano a costruire dimore per le famiglie, per i sacer-
112 LA RAGIONE SCIENTIFICA

doti, per tenere lontano i nemici oppure per la vita dopo la morte. Si po-
trebbe quindi ragionevolmente ritenere che il primo vero bisogno di
misurazione provenisse dai costruttori2.
La proprietà della trasportabilità è scarsamente sottolineata nelle
discussioni filosofiche sulla misurazione. Tuttavia, essa è l’essenza stes-
sa della misurazione, essenza che continua ad essere alimentata grazie
al lavoro dei moderni enti nazionali per la standardizzazione. Il metro-
campione di Parigi è un tranello e un’illusione per i filosofi. Ciò che
vogliamo è un metro campione dal quale trasportare altri metri speri-
mentali per un confronto. Pensiamo al volt come all’unità di misura
del potenziale elettrico, ma chi si occupa dei campioni deve costruire
un apparato che fornisca un volt trasportabile, vale a dire un’unità stan-
dard di potenziale elettrico che possa essere portata in un laboratorio
o in un impianto elettrico qualsiasi all’interno di un paese3.
L’intuizione di Einstein che il tempo non possa essere trasportato è
una delle più grandi rivoluzioni scientifiche. Tutti indossiamo orologi
e pensiamo che quella che ci portiamo appresso sia una frazione di tem-
po trasportabile. Ma basta accelerare gli orologi ed ecco che abbiamo
la teoria della relatività ristretta. L’orologio atomico è interessante non
per la sua precisione, ma perché si basa su fenomeni che, secondo le no-
stre previsioni, pervadono l’universo e non hanno quindi bisogno di
esser trasportati.

6. Il metodo ipotetico-deduttivo

Il terzo stile di Crombie è «la costruzione ipotetica di modelli ana-


logici». Anche questo è uno stile facilmente riconoscibile, sul quale
sono propenso a dire cose simili a quelle dette per l’esperimento e per
l’esplorazione. L’analogia è la vera guida della vita4. La nostra risorsa
principale sono le congetture. “Ipotesi” è solo una parola sofisticata per
“tirare a indovinare in modo riflessivo”, un’attività che fa parte della na-
tura umana. Popper si è spinto oltre e ha sostenuto che anche un’ame-
ba è capace di fare più o meno lo stesso. Tutte le società umane inco-
raggiano il fare congetture e analogie e da lì sembra breve il passo ver-
so la possibilità di fare modelli più elaborati dell’ambiente usando
proprio quelle analogie e quelle congetture. Per dirla in breve non ve-
LEZIONE III. LO STILE LABORATORIALE DI PENSIERO E AZIONE 113

do alcuna rottura precoce evidente, nessuna cristallizzazione indipen-


dente in quest’aspetto della nostra natura animale.
Sembra che Crombie, delineando il suo terzo stile, descriva qualcosa di
molto familiare per i logici della scienza, vale a dire il ragionamento ipo-
tetico-deduttivo. I manuali di filosofia della scienza del XX secolo, spe-
cialmente quelli d’inclinazione positivista o empirista, presentavano il me-
todo ipotetico-deduttivo come il nucleo stesso del ragionamento scienti-
fico. Si fa un’ipotesi o una congettura I, che può contenere riferimenti a
entità teoriche non osservabili. Si deducono conseguenze osservabili,
spesso nella forma di una proposizione condizionale: se si danno le cir-
costanze C, allora si ottiene il risultato R. Si può concepire un esperimento
tale da produrre le condizioni C e osservare se si ottiene R o meno. Se R
si ottiene l’ipotesi è confermata (Carnap) o corroborata (Popper).
A mio avviso questo modo di vedere le cose trascura gli aspetti più
interessanti del lavoro sperimentale, sul quale ritornerò tra un mo-
mento. Ha comunque il grande merito di essere logicamente traspa-
rente. La forma logica si applica facilmente nelle circostanze più bana-
li, quando non entrano in gioco entità teoretiche o inosservabili. Per
esempio: sento un rumore ogni sera, dietro i muri della mia stanza.
Faccio l’ipotesi che dei topi vivano lì. Lascio del formaggio fuori e de-
duco che, se ci sono topi nel muro, il formaggio l’indomani sarà spari-
to. Il formaggio sparisce, tutto tranne qualche briciola. Concludo che
i topi ci sono davvero. La verifica conclusiva la ottengo quando monto
una trappola e catturo un topo morto osservabile. L’inferenza, come
tutte le inferenze non-deduttive valide, potrebbe essere sbagliata. Lo
stesso esatto rumore continua dopo aver ucciso qualche topo. Oh no,
ho degli uccelli che nidificano nel muro…
Il ragionamento ipotetico-deduttivo, così come appena illustrato,
non è certo la scoperta di una comunità di pensatori greci, cinesi o di
qualsiasi altro paese. Immagino che gli esseri umani abbiano usato que-
sto metodo di ragionamento sin dal momento in cui sono stati in grado
di parlare e verosimilmente esso è utilizzato anche dagli animali. Esso
consiste in ciò che Charles Sanders Peirce, il grande pragmatista ame-
ricano, chiamava “abduzione” e autori più recenti hanno chiamato
“inferenza alla migliore spiegazione” [inference to the best explanation].
Come anticipato nella prima lezione, Peirce pensava che la logica
avesse tre parti, deduttiva, induttiva e abduttiva. Quest’affermazione è
114 LA RAGIONE SCIENTIFICA

d’importanza fondamentale, essa non appartiene originariamente a


Peirce, ma è stata compresa più chiaramente ed espressa in maniera più
concisa da lui che da ogni altro suo predecessore. Come già detto, non
considero nessuna di queste tre parti della logica come stili di ragiona-
mento; le ritengo universalmente praticate dagli esseri umani, anche
se la loro codifica in sistemi di logica è relativamente recente. Le con-
sidero parte della nostra eredità evolutiva e non come scoperte cultu-
rali dell’Europa della prima modernità, né della Cina o dell’Egitto an-
tichi. La logica, nel senso della triade di Peirce, è un universale uma-
no, e ciò che è universale ha tre aspetti, deduttivo, induttivo e abduttivo.

7. Ragionamento architettonico

Ho accennato nella prima lezione a una certa tensione tra la prima


(1978) e l’ultima (1994) esposizione della dottrina degli stili di Crom-
bie. All’inizio il focus era sul suo campo di specializzazione, le scienze
dell’Europa della prima modernità, cioè dal Basso Medioevo (XII se-
colo) al Rinascimento. Successivamente, egli si è soffermato di più su-
gli aspetti di continuità, e ha teso a ricondurre tutto al mondo dei Gre-
ci, dominato dall’argomentazione. Crombie indica un evento che con-
sidera come relativamente graduale, e che io invece, usando termini
diversi e organizzando il discorso in maniera piuttosto differente dalla
sua, presenterò come una cristallizzazione.
Crombie compie quest’operazione a pagina 1087 (!) del secondo
volume del suo libro. Lì egli esprime la sua opinione su ciò che è suc-
cesso in una sola frase:

Il particolare ambiente intellettuale e artistico dell’Europa della prima


modernità ha contribuito a rendere il terzo stile, il metodo di modelliz-
zazione ipotetica, una caratteristica ed efficace combinazione scientifica
di esplorazione teorica ed esplorazione sperimentale.

Che ne fosse pienamente consapevole o meno, Crombie qui si riferi-


sce alla combinazione dei metodi di due stili diversi. Cercherò di farlo
rimanere fedele alla sua concezione originaria di stili distinti. Purtrop-
po non potrò dire molto sull’aspetto artistico, al quale Crombie attri-
LEZIONE III. LO STILE LABORATORIALE DI PENSIERO E AZIONE 115

buisce giustamente molta importanza. Non dobbiamo dimenticare


che una parte importante di questa sequenza locale, contingente, sto-
rica di eventi risiede negli sviluppi dell’architettura e nell’introduzio-
ne di tecniche specifiche di rappresentazione prospettica messe a pun-
to in Italia e nelle Fiandre. Ciò è anche connesso con una visione te-
leologico-cristiana del mondo. Dio è l’architetto divino, e l’Uomo, nel
suo tentativo di comprendere il mondo, non può far altro che cercar
di capire come Dio lo ha fatto.
Leibniz chiamava la modellizzazione teorica ragionamento archi-
tettonico: per capire come funziona il mondo è necessario riflettere sul-
la maniera in cui il creatore, l’architetto del mondo, ha conseguito i
suoi risultati. Il frontespizio dei tre volumi di Crombie è indicativo a
questo proposito. Mostra un disegno di “Dio il misuratore”, non sem-
plicemente Dio nell’atto di misurare, ma Dio come architetto dell’u-
niverso. L’illustrazione è tratta da una Bibbia francese del XIII secolo
e rappresenta il primo versetto del Vecchio Testamento, «In princi-
pio Dio creò il cielo e la terra». Dio sovrasta un universo di forma sfe-
rica tenendo in mano lo strumento per eccellenza dell’architetto, un
compasso, uno strumento per disegnare cerchi e misurare o trasferire
distanze.
Tutto ciò ci rammenta la connessione tra la modellizzazione ipoteti-
ca e i modelli architettonici, e quindi con la misurazione. Come si ve-
de, la distinzione tracciata da Crombie tra il primo e il terzo dei suoi
stili si dissolve curiosamente e ciò è già indicato dalla singola frase che
ho appena citato. Ciò significa forse che il suo catalogo di sei stili distinti
è fasullo? Non penso. Credo che due cristallizzazioni riportino i sei sa-
cri stili nei loro giusti rapporti. La cristallizzazione più importante del
secondo stile – quella che ha cambiato il mondo – è ciò che chiamo lo
“stile laboratoriale di pensiero e azione”, il cui emergere presento in
questa lezione. La cristallizzazione del terzo stile è ciò che chiamerò
“stile galileiano”.

8. Lo stile galileiano (II)

È una specie di luogo comune nelle semplicistiche storie della scien-


za della prima modernità, il ritenere che, all’incirca all’epoca di Galileo,
116 LA RAGIONE SCIENTIFICA

il metodo dell’analogia e della modellizzazione ipotetica abbia subito


una sofisticazione notevole, una vera e propria mutazione. Il nome
“stile galileiano” non me lo sono inventato. Steven Weinberg, il co-
smologo vincitore del Premio Nobel, si è ricordato che Husserl aveva
parlato di uno stile galileiano nel «fare modelli astratti dell’universo ai
quali almeno i fisici attribuiscono un grado di realtà superiore rispetto
al mondo ordinario della sensazione». Weinberg ha trovato quest’idea
sorprendente «perché l’universo non sembra esser stato preparato
avendo in mente gli esseri umani».
Non mi soffermerò su quest’osservazione relativa all’universo e alla
mente umana. Essa indica effettivamente un problema assillante. Per-
ché siamo così bravi a modellizzare i complessi processi della natura?
Tempo fa ho proposto un argomento un po’ incauto al riguardo, ovve-
ro che abbiamo sviluppato processi di ragionamento che sono “auto-
giustificanti”5. Ciò significa che la mente umana affronta la comples-
sità dell’universo in una maniera tale che le risposte che ottiene defini-
scono ciò che è vero a proposito dell’universo. Quindi l’universo non
deve necessariamente esser stato concepito avendo noi in mente perché
noi potessimo decifrarlo. Dirò qualcosa a proposito di questi proble-
mi nella quarta lezione, su “Realismo e anti-realismo”. Come detto, cre-
do che la mia proposta fosse per certi versi illuminante, sebbene deci-
samente forzata.
Una proposta molto più radicale fu avanzata da Charles Sanders
Peirce. È una di quelle proposte che pochi filosofi prendono sul serio.
A volte penso di essere il solo a farlo! Egli l’ha battezzata col nome piut-
tosto sinistro di «amore evolutivo». L’idea suggerita da Peirce è che la
mente e l’universo si siano evoluti in maniera armonica: la mente uma-
na si sarebbe assestata su determinate strutture preesistenti in un uni-
verso stabile, tramite processi analoghi a quelli per cui l’universo stes-
so si è assestato su leggi stabili. La mente risuonerebbe quindi per que-
sto motivo con l’universo. Prendo quest’idea sul serio, ma non ci credo.
Per tornare dalla metafisica alla cosmologia, il grammatico Noam
Chomsky ha ripreso l’osservazione di Steven Weinberg, insistendo sul
fatto che «attualmente non abbiamo alternativa se non seguire lo “sti-
le galileiano”, almeno nelle scienze naturali». Ciò è necessario, in par-
ticolare, per sviluppare la teoria della grammatica universale, almeno
nell’opinione di Chomsky. Lo storico I.B. Cohen ha proseguito su que-
LEZIONE III. LO STILE LABORATORIALE DI PENSIERO E AZIONE 117

sta strada, confrontando lo stile galileiano, con riferimento a Husserl,


con ciò che egli ha chiamato lo «stile di Newton»6.
Nella Crisi, completata verso il 1936, Husserl disse molte cose su Ga-
lileo e molte anche sulla nozione di stile. (Come notato nella prima le-
zione, Stil era una parola in voga nel mondo di lingua tedesca negli an-
ni Trenta). Ma non riesco a trovare il punto esatto in cui Husserl usi
l’espressione “stile galileiano”. Quando l’espressione è entrata in uso
Cohen, Chomsky e Weinberg lavoravano tutti nello stesso ambito e le
loro strade s’incrociavano abbastanza spesso, anche senza che essi lo
notassero. Nonostante i riferimenti a Husserl, questo senso specifico
dell’espressione sembra esser stato ideato a Harvard verso la fine degli
anni Settanta, anziché da Husserl nel 1936.
Nonostante Husserl non abbia usato l’espressione esattamente in
questo modo, la sua lunga discussione di Galileo nella Crisi va dritta al
punto della questione, meglio di quanto non lo facciano gli autori di
Harvard. Husserl ha posto l’accento sull’uso di modelli matematici
per comprendere l’universo, nella sua parte celeste e, soprattutto, in
quella terrestre: a ciò seguì l’ipotesi rivoluzionaria sull’unicità del mon-
do e sul fatto che i cieli e la terra funzionino secondo la stessa mecca-
nica, descrivibile in termini matematici. Husserl riteneva questo un mo-
mento fondamentale nella storia della civiltà europea: la matematizza-
zione del (unico) mondo. Egli ebbe l’idea che solo risalendo a quel
momento storico gli europei sarebbero potuti scampare al disastro
che stava per abbattersi su di loro. Non condivido quest’idea, ma ciò
ci ricorda quanto seriamente essa fosse presa da Husserl.
Ritornando all’enfasi di Crombie sulla teologia, la creazione e l’ar-
chitettura, non si deve dimenticare che Galileo insisteva sul fatto che
Dio avesse scritto il Libro della Natura nel linguaggio della matemati-
ca. Galileo si considerava alle prese con ciò che Leibniz avrebbe poi
chiamato «ragionamento architettonico».
Il fatto che Weinberg e Chomsky abbiano invocato lo stile galileia-
no è istruttivo. Essi non sono semplicemente dei grandi scienziati. So-
no scienziati in campi totalmente differenti, che hanno però qualcosa
in comune. Esagerando, nessuno dei due ha la possibilità di maneg-
giare i fenomeni in esame, possono solo osservarli. In questo senso so-
no come gli astronomi dei tempi antichi. Uno dei due è un cosmologo,
l’altro un grammatico. Tradizionalmente, tutto ciò che si può fare in co-
118 LA RAGIONE SCIENTIFICA

smologia è proporre modelli: non si possono fare esperimenti sul co-


smo. Weinberg è l’autore di un libro fantastico, The First Three Minu-
tes – sono i primi tre minuti dell’universo e non possiamo fare esperi-
menti su di essi, sebbene i nostri modelli cosmologici siano costruiti sul-
la base di innumerevoli risultati sperimentali. Ciò nonostante, per
esagerare fino alla parodia, in cosmologia tutto ciò che si può fare è
sviluppare modelli e confrontare tra loro le conseguenze dei modelli
tramite osservazioni. Allo stesso modo, in grammatica, non è possibile
sperimentare (esagero di nuovo), si possono solo confrontare tra loro le
previsioni scaturite dai nostri modelli grammaticali osservando ciò che
la gente dice o intende dire. La cosmologia e la grammatica sono in-
somma paradigmi di scienze ipotetiche non laboratoriali. Sono para-
digmi perfetti per lo stile (3) di Crombie, nella sua forma più pura.
I.B. Cohen, lo storico, ha fatto un’osservazione più precisa, che si spo-
sa bene con l’idea di Crombie di una combinazione di metodi di ragio-
namento avvenuta nel XVII secolo. Cohen parla di «due livelli ontolo-
gici», uno proprio della matematica, l’altro della misurazione. Si ricor-
di che lo stile (2) di Crombie consiste (in parte) nel metodo della
misurazione. Il suo stile (3) è, non solo il metodo della modellizzazione,
ma anche, con Galileo, il metodo della modellizzazione matematica,
come sottolineato da Husserl. Non m’interessa molto, al momento, se
sia più giusto parlare, come fa Cohen, di una combinazione tra due li-
velli ontologici, o, come Crombie, di una combinazione dei metodi di
due stili di pensiero scientifico. Il punto importante è la combinazione.
Ma non è semplicemente una questione di combinare la misurazione
con la modellizzazione. Ciò che noi ora chiamiamo comunemente “il
metodo scientifico” è il risultato di una combinazione dello stile gali-
leiano con lo stile di laboratorio. Vale a dire, la combinazione tra la cri-
stallizzazione del terzo stile e la cristallizzazione del secondo. E in che
cosa consiste? Nella modellizzazione e nella creazione di fenomeni in
laboratorio. Prima di passare a questo, dovremmo tentare la formula-
zione del nostro schema (*) per lo stile galileiano. C’è stato, ritengo

(*) un mutamento relativo alle concezioni del dire la verità a propo-


sito della natura;
(**) questo cambiamento significativo è avvenuto all’inizio del XVII
secolo e il suo emblema è Galileo.
LEZIONE III. LO STILE LABORATORIALE DI PENSIERO E AZIONE 119

9. Una nuova «Forma di Vita»

Nella seconda lezione, sulla matematica, ho citato un saggio ancora


inedito di Bruno Latour, nel quale egli discute un libro di Reviel Netz
sulla matematica antica. Latour dice che,

questo è, senza dubbio, il libro più importante apparso nei science stu-
dies dalla pubblicazione de Il Leviatano e la pompa ad aria di Shapin e
Schaffer.

Quest’ultimo è, in effetti, un libro molto noto nei science studies, pub-


blicato più di venti anni fa, il cui sottotitolo è Hobbes, Boyle and the
Experimental Life7. Ho detto nella seconda lezione di essere completa-
mente d’accordo con Latour su quali siano i due libri più importanti
pubblicati in quest’ambito negli ultimi ventun anni – tuttavia lo sono
per ragioni completamente opposte rispetto alle sue. Ho spiegato ciò in
connessione con la matematica. In questa lezione risulterà chiaro per-
ché anch’io ammiri così tanto questo lavoro sulla sperimentazione, seb-
bene lo usi per fini completamente diversi da quelli di Latour.
Ci si può fare un’idea delle ragioni dell’interesse di Latour per il li-
bro dal sottotitolo della sua traduzione in francese, che egli ha reso pos-
sibile attraverso il suo stesso editore. Non è più sottotitolato Hobbes,
Boyle and the Experimental Life. Il sottotitolo è diventato Hobbes et
Boyle entre science et politique8. Non c’è niente di sbagliato in questo,
ma di fatto questa scelta riorienta l’attenzione. Il sottotitolo inglese sug-
gerisce per di più uno dei temi centrali nel libro. Shapin e Schaffer
fanno un uso massiccio del concetto wittgensteiniano di «forme di vi-
ta». Il loro intento è quello di mostrarci come e quando è apparsa la for-
ma di vita sperimentale. Essi ci insegnano che il programma sperimen-
tale di Boyle era, nei termini di Wittgenstein, un nuovo «gioco lingui-
stico» e una nuova «forma di vita». Essi dicono che

faremo un uso ampio ma informale delle nozioni wittgensteiniane di un


«gioco linguistico» e di una «forma di vita». Intendiamo accostarci al me-
todo scientifico in quanto integrato entro modelli d’attività. Proprio co-
me per Wittgenstein «la parola “giuoco linguistico” è destinata a mette-
re in evidenza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di un’attività,
120 LA RAGIONE SCIENTIFICA

o di una forma di vita», così noi tratteremo le controversie intorno al


metodo scientifico come dispute su modelli diversi dell’agire e dell’or-
ganizzare le persone a fini pratici (p. 18)

Il programma sperimentale era – per usare espressioni di Wittgenstein –


un «gioco linguistico» e una «forma di vita» (p. 28)

Sono un lettore di Wittgenstein troppo prudente per seguire i nostri


due autori nel loro uso delle sue parole, ma la loro è una direzione de-
gna di essere presa in considerazione. Per «programma sperimentale»
essi intendono qualcosa di più che il laboratorio di Boyle a Oxford;
essi si riferiscono al programma di sperimentazione sviluppato in Eu-
ropa nel XVII secolo. L’esplorazione sperimentale, intesa in senso am-
pio, si è sviluppata in tutto il mondo, in società diverse e in momenti
diversi. Se dovessi adattare le parole di Wittgenstein ai miei scopi, sug-
gerirei che la cristallizzazione dello stile laboratoriale di pensiero scien-
tifico ha reso possibile un nuovo gioco linguistico all’interno di una
nuova forma di vita.
Con lo sviluppo di questo stile, altri “giochi linguistici” sono entra-
ti in circolazione. Ci sono studi eccellenti su quel genere, all’epoca in
piena evoluzione, costituito dalla pubblicazione di testi in riviste scien-
tifiche o in luoghi simili9. Internet ha cambiato nuovamente tutto. La
pre-pubblicazione online è ormai la norma e anche le riviste più auto-
revoli pre-pubblicano gli articoli, a volte mesi prima che appaiano in
forma cartacea. Dubito che Wittgenstein li avrebbe chiamati “giochi
linguistici”, ma la sua espressione è ora a disposizione di tutti. Il pro-
blema è che è un’espressione talmente potente da dare l’illusione di una
comprensione profonda di ciò di cui stiamo parlando. Alcuni, come
Schaffer e Shapin, usano l’espressione in modo preciso. Molti altri no.
Preferisco lasciarla al Wittgenstein storico.
Analogamente, si potrebbe dire che le “forme di vita” in cui lo stile
di laboratorio è praticato siano cambiate. Potremmo avere la tendenza
a enfatizzare troppo i laboratori di ricerca. Il laboratorio in realtà è
stato, a partire dal XVIII secolo, un ramo del commercio e dell’indu-
stria. Esso ha reso possibili cambiamenti geopolitici anche radicali: si
pensi allo sviluppo della chimica tedesca, nel XIX secolo, grazie alla
capacità di padroneggiare i coloranti sintetici. Se non fosse stato per la
LEZIONE III. LO STILE LABORATORIALE DI PENSIERO E AZIONE 121

malvagità della politica, tale capacità, unita ai progressi nella lavora-


zione dell’acciaio e delle munizioni, avrebbe potuto dare alla Germania
un ruolo ancora più centrale nella storia mondiale di quanto non ab-
bia avuto.
Anche i laboratori di ricerca hanno subito enormi cambiamenti. Si
è scritto molto sulla big science10 incarnata dal Progetto Manhattan e sul-
le sue conseguenze per l’amministrazione della scienza americana. In
tempi più recenti la biotecnologia ha cambiato totalmente il panora-
ma scientifico e le forme di vita al suo interno. Ritornerò molto breve-
mente su questo punto alla fine di questa lezione. Adesso riprendo il te-
ma della pompa ad aria da dove l’avevo lasciato.

10. Un nuovo attore: non una persona, ma un dispositivo sperimentale

Bruno Latour ha scritto un importante saggio su Il Leviatano e la


pompa ad aria, che fa da prolegomeno al suo We Have Never Been Mo-
dern, che sarebbe uscito poco dopo11. Anch’io ho scritto una recensio-
ne del libro l’anno seguente, mostrando di averne tratto una lezione
molto diversa dalla sua12. Vorrei sottolineare ancora una volta che ciò
che ho imparato dai due contributi più importanti nel campo dei scien-
ce studies negli ultimi ventun anni non è incompatibile con ciò che ha
appreso Latour. Tutt’altro. Sono gli accenti rispettivi ad essere profon-
damente diversi. È il segno della grandezza di un autore il fatto che
lettori diversi possano imparare cose diverse dalle stesse parole.
Nella mia recensione, scritta quasi due decadi fa, mi dicevo assolu-
tamente esterrefatto da ciò che avevo appreso dal libro di Shapin e
Schaffer. Parlerò così tanto del loro libro in questa lezione che mi rife-
rirò a loro come a S&S. Li ho ammirati perché il loro libro era qualco-
sa di veramente nuovo; come dissi allora, essi mettevano in luce «un
nuovo tipo di personaggio, un nuovo tipo di luogo, un nuovo tipo di
scrittura, un nuovo tipo di fatto e un dibattito la cui conclusione fu ri-
voluzionaria».

Il nuovo protagonista non è una persona ma un dispositivo sperimenta-


le. Esistevano già tantissimi strumenti per misurare o esaminare i feno-
meni più nel dettaglio. L’eroe di questo libro è qualcosa di diverso, uno
122 LA RAGIONE SCIENTIFICA

strumento che crea effetti che non esistevano precedentemente in ma-


niera isolata. Esso ha inaugurato la scienza di laboratorio. Prima della
pompa ad aria ci si limitava a spiegare i fenomeni fornitici dalla natura,
tipicamente quelli celesti. Dopo, un nuovo tipo di scienza doveva ri-
spondere a un nuovo padrone, i fenomeni fugaci opera di artificio.
Il nuovo luogo discusso in questo libro si è sviluppato fino a diventare il
laboratorio che anche noi conosciamo, il sito per la manifattura dei feno-
meni – o, se questo suona troppo paradossale, per la loro purificazione.
Il laboratorio era uno spazio aperto e chiuso allo stesso tempo. Doveva es-
sere pubblico, perché, secondo la dottrina che vi si andava sviluppando
attorno, ogni lavoro svolto nel laboratorio doveva poter essere eseguito da
chiunque fosse dotato di adeguate capacità e controllato da chiunque fos-
se un buon osservatore. Doveva essere privato, perché solo un gruppo au-
toselezionato di persone poteva sapere cosa vi si facesse, come far fun-
zionare il tutto, o anche solamente stabilire se la strumentazione stesse
funzionando o meno. Il laboratorio nascente portava anche con sé un
determinato modo di scrivere prosa scientifica, prosa che doveva suppli-
re la testimonianza diretta. Doveva darti l’impressione di esser stato dav-
vero lì. L’effetto si raggiungeva non aggiungendo tratti contingenti, ma eli-
minandoli. Il nuovo modo di scrivere era persuasivo perché era presen-
tato in un modo semplice e disadorno, come se fosse la descrizione esatta
di ciò che chiunque avrebbe potuto vedere, senza interpretazione. Parla-
va di dati di fatto facendoci pensare che essi fossero qualcosa di norma-
le, al di là di ogni controversia. Questo libro è in parte dedicato al modo
in cui si stabilì ciò che conta come “dato di fatto”. I dati di fatto fanno par-
te del gioco – della forma di vita sperimentale.

Ero predisposto a leggere S&S in questo modo perché nel 1983 avevo
pubblicato il mio libro Representing and Intervening. La seconda par-
te del libro, Intervening, era un appello ai filosofi perché prendessero
gli esperimenti seriamente. La filosofia delle scienze, specialmente del-
le scienze fisiche, era stata per decenni totalmente dominata dalla teo-
ria. Basti pensare a Carnap, Popper, Kuhn o van Fraassen. L’esperi-
mento era una mera appendice della teoria. Popper affermava aperta-
mente ciò che tutti in quest’ambito tendevano a dare per scontato, e
cioè che lo sperimentatore non potesse neanche iniziare il proprio la-
voro finché il teorico non avesse compiuto il suo. Gli esperimenti ser-
LEZIONE III. LO STILE LABORATORIALE DI PENSIERO E AZIONE 123

vivano a verificare, corroborare o articolare le teorie, oppure a mo-


strare che esse erano empiricamente accettabili. Pensavo di pormi alla
testa di un “movimento di ritorno a Francis Bacon”, ignorando che ta-
le movimento fosse in realtà già ben avviato. Latour e Woolgar aveva-
no già pubblicato la loro etnografia del laboratorio e Shapin e Schaf-
fer stavano completando Il Leviatano e la pompa ad aria. Di lì a poco Pe-
ter Galison avrebbe pubblicato How Experiments End13.

11. Un luogo nuovo: il laboratorio

Le parole sono spesso utili indicatori di eventi. Nella storia euro-


pea, la parola “laboratorio” è entrata a far parte delle maggiori lingue
di quel continente poco dopo il 1600, probabilmente nel 1605 in inglese
e nel 1620 in francese. Il laboratorio è innanzitutto un luogo, una strut-
tura architettonica. Per citare la prima definizione dell’Oxford English
Dictionary, che organizza le sue definizioni in modo cronologico, esso
è un «edificio a parte, per condurre ricerche pratiche di scienza natu-
rale, originariamente e specialmente in chimica e per l’elaborazione o la
manifattura di prodotti chimici, medici o simili». Il dizionario france-
se corrispondente, Le Trésor de la langue française, riporta: «Locali at-
trezzati con le installazioni e le strumentazioni necessarie per la mani-
polazione e l’esperimento, effettuati nel quadro della ricerca scientifi-
ca o per l’analisi delle medicine o dei materiali, per test tecnici o per la
formazione scientifica e tecnica». S&S osservano, tra l’altro, il rapido
aumento nel numero di luoghi identificati come laboratori, a Londra,
poco dopo il 1600. Ciò indica che una nuova parola era ormai entrata
nell’uso, ma anche che un nuovo tipo di luogo stava emergendo. Que-
sto fenomeno era una conseguenza della ricerca alchemica. S&S sotto-
lineano le differenze tra i laboratori e i gabinetti alchemici. Il nuovo
laboratorio dev’essere un luogo pubblico (p. 61). Non è un gabinetto
all’interno del quale gli uomini esplorano i segreti della natura e ten-
gono le loro scoperte nascoste. Tuttavia, come rilevato da S&S, questi
nuovi luoghi non erano aperti a qualsiasi tipo di pubblico, ma solo a
un’élite i cui componenti iniziarono a identificarsi come i membri del-
le nuove società scientifiche, come i loro collaboratori, gli impiegati e
gli aspiranti che speravano di entrare nelle loro fila.
124 LA RAGIONE SCIENTIFICA

Mi piacciono alcune delle parole della definizione francese di la-


boratorio appena citata. Un laboratorio è un luogo attrezzato con in-
stallazioni e strumentazioni necessarie alla manipolazione. La parte del
mio libro dedicato alla scienza sperimentale si chiama Intervening, e
l’intervento è molto simile alla manipolazione. Come ho sottolineato
in particolare nel capitolo 13, il laboratorio è anche un luogo per la
«creazione di fenomeni», che avviene grazie alla strumentazione co-
struita espressamente con questo proposito. Ciò è esattamente quel-
lo che fece Robert Boyle con la sua pompa ad aria. Egli creò un fe-
nomeno che non era quasi mai esistito in una forma efficacemente
riproducibile prima d’allora, cioè il vuoto all’interno di un recipien-
te. Il suo non fu il primo vuoto di questo tipo. Torricelli aveva avan-
zato l’ipotesi secondo la quale, se si porta una colonna di liquido in un
recipiente di vetro su di una montagna e si osserva il livello del liqui-
do che si abbassa, ciò che stiamo guardando è il vuoto, vale a dire
uno spazio vuoto al di sopra del liquido. Poi vennero i famosi emisferi
di Magdeburgo14.
È abbastanza sorprendente la quantità di sforzi e di denaro che l’Eu-
ropa della prima modernità fu disposta a investire per creare il vuoto,
che non aveva alcun valore pratico. Boyle ci investì il suo patrimonio
personale e il governo britannico la considerò una tra le principali at-
tività di ricerca, finanziandola generosamente. Anche altri strumenti fu-
rono finanziati senza riserve, per esempio il cronometro, ma ciò era a
causa di una diretta rilevanza commerciale. Il cronometro avrebbe
permesso alle navi inglesi di navigare, e quindi di poter sfruttare il glo-
bo, in maniera più affidabile. Esse avrebbero potuto raggiungere luo-
ghi distanti e ritornare col bottino da quelle regioni che erano viste co-
me l’Ovest, il Sud e l’Estremo Oriente. La prosperità e lo sviluppo in-
dustriale dell’Europa moderna dipendevano dal commercio, quindi
da un impero coloniale e di conseguenza anche dal cronometro, per il
calcolo delle latitudini. Resta tuttavia difficile comprendere il motivo,
a livello pratico, di un ingente dispendio di ricchezza nazionale per la
realizzazione di un vuoto di qualità migliore.
LEZIONE III. LO STILE LABORATORIALE DI PENSIERO E AZIONE 125

12. La creazione di fenomeni

Quando ho parlato della creazione di fenomeni mi sono reso conto


che questa sarebbe potuta sembrare una grossolana esagerazione. Ho
sostenuto che siamo in grado di far iniziare a esistere fenomeni che
non esistevano in precedenza in nessuna parte dell’universo. Ma ho do-
vuto riconsiderare la cosa e concedere che sarebbe meglio dire che
purifichiamo o che realizziamo dei fenomeni. Ho detto che il laser era
un nuovo tipo di fenomeno che semplicemente non esisteva prima del
1950 in nessuna parte nell’universo. Molti fisici hanno protestato, ma
penso ci sia una consapevolezza crescente del fatto che questo modo
di guardare le cose abbia un senso. Su quello che è l’oggetto attuale
del mio interesse, gli atomi a bassissime temperature e il condensato
di Bose-Einstein, oggi si possono leggere frasi di questo tenore: «Que-
sto stato della materia non sarebbe potuto esistere naturalmente nel-
l’universo. Il campione nel nostro laboratorio è quindi l’unico fram-
mento di questa sostanza nell’universo, a meno che non ci sia un labo-
ratorio in qualche altro sistema solare». È ciò che si legge in un
comunicato stampa rilasciato dal primo laboratorio che ha prodotto
questo nuovo stato della materia, il condensato di Bose-Einstein, nel lu-
glio 199515. Definire «un nuovo frammento di materia» un fenomeno
che esiste per così breve tempo e in condizioni straordinariamente ar-
tificiali sembra anche a me un’esagerazione. Ma è senz’altro un nuovo
fenomeno. Nel giro di un anno un altro laboratorio ha prodotto lo
stesso stato della materia e adesso, dodici anni dopo il primo evento,
molti laboratori sono in grado di farlo, come ad esempio il laboratorio
del professor Yu alla National Tsing Hua University, o quello del pro-
fessor Han alla National Chung Cheng University.
Gli atomi a bassissime temperature possono sembrare molto distan-
ti da Robert Boyle e dalla sua pompa ad aria per creare il vuoto. Io li
vedo invece come una conferma, come uno degli attuali e innumere-
voli punti di arrivo dello stesso stile di laboratorio. I vecchi alchimisti
sognavano di trasmutare i metalli base in oro. Essi fecero numerose sco-
perte empiriche nel corso dei loro vani tentativi sperimentali. Boyle ha
mutato il sogno della trasmutazione nella creazione di nuovi fenome-
ni. Oggi possiamo dire di aver realizzato il sogno degli alchimisti. Nel
126 LA RAGIONE SCIENTIFICA

1995 siamo stati capaci di trasmutare una sostanza, in questo caso il


rubidio, in un nuovo stato della materia, il condensato di Bose-Einstein;
non un gas, non un liquido, non un solido, ma qualcosa di nuovo nel-
la storia dell’universo.

13. Quello che Thomas Hobbes vide chiaramente

A volte è il primo passo quello che conta. Boyle è l’emblematico


rappresentante di quel primo passo. Molti altri sperimentatori, anche
se non moltissimi, stavano facendo la stessa cosa all’incirca nello stes-
so momento, in differenti parti d’Europa. Scelgo Boyle per due ragio-
ni. Una è totalmente casuale, vale a dire il fatto che S&S abbiano scrit-
to quel libro. L’altra non lo è. Un uomo, e un uomo soltanto, capì ciò
che Boyle stava facendo e si oppose con veemenza. Quell’uomo era un
vecchio burbero, il filosofo Thomas Hobbes. Visto ciò che ho detto a
proposito di Stillman Drake e di Galileo come costruttore di apparati
strumentali nel secondo capitolo, si può, se si preferisce, usare Galileo
come icona, non solo per lo stile galileiano, ma anche per quello di la-
boratorio. Galileo si dovette confrontare col cardinale Bellarmino, il
quale non ci ha lasciato però niente su cui poter riflettere in quest’oc-
casione. Boyle ha avuto Hobbes.
S&S mostrano come il lavoro di Boyle fosse contestato fin da subi-
to, sia sul piano scientifico sia su quello filosofico. L’avversario, in que-
sto dibattito, era l’altro uomo del sottotitolo del libro, Hobbes, Boyle
and the Experimental Life. Hobbes era il vecchio filosofo, ideatore del-
la teoria europea dello Stato. Il libro di Hobbes che inaugurò la scien-
za politica moderna, Il Leviatano, ha fornito parte del titolo del libro
di S&S sulla pompa ad aria. Latour, come tutte le persone ragionevo-
li, vede in Hobbes l’autore del Leviatano e, come tale, il rappresentan-
te di una nuova epoca, di un nuovo tipo di società politica. In Canada,
così come in gran parte del mondo di lingua inglese, ogni matricola
del corso di scienze politiche deve provare a leggere Hobbes, che non
è affatto semplice per via del linguaggio, che oggi sembra arcaico o inin-
telligibile a ragazzi cresciuti con la televisione. Latour legge brillante-
mente S&S come due autori che mettono in luce il modo in cui la co-
siddetta modernità ebbe inizio, con una divisione tra il sociale e il na-
LEZIONE III. LO STILE LABORATORIALE DI PENSIERO E AZIONE 127

turale, con un insieme di competenze e di possibilità d’intervento per-


tinente al primo campo, e un altro insieme (piuttosto differente) perti-
nente al secondo. Da lì il sottotitolo del libro nell’edizione francese:
Tra scienza (Boyle) e politica (Hobbes). Latour rigetta quella divisione
in favore di ciò che egli chiama la «Cosmopolitica» e si batte per un
«parlamento delle Cose». Io ho in mente un progetto molto più mo-
desto e faccio un uso molto più modesto di Hobbes.
Nel 1660 Boyle aveva 33 anni e Hobbes 72, che, casualmente, è an-
che la mia età. Se mi trovassi in disaccordo, su principi fondamentali,
con un giovane brillante, talentuoso e ben documentato di 33 anni co-
me potrei spuntarla? Sarei messo a tacere come un vecchio parrucco-
ne, e probabilmente a ragione. Boyle era il futuro. Uno dei contributi
più importanti del libro di S&S è che in un’appendice Schaffer ha tra-
dotto quello che prima era solamente un pamphlet latino ignoto ai
più, scritto da Hobbes per attaccare Boyle.
Hobbes aveva capito esattamente ciò che Boyle stava facendo e non
poteva tollerarlo. Egli aveva previsto il fatto che la strumentazione di la-
boratorio per generare fenomeni sarebbe stata qualcosa di radical-
mente nuovo. Ed era assolutamente contrario. Questa non era una
diatriba sul peso relativo dell’evidenza empirica contro la dimostra-
zione deduttiva. La questione era più profonda e più significativa. Che
cosa conta come evidenza? È ciò che troviamo tra noi, che portiamo a
casa da posti lontani, tracciamo nei cieli, o è invece ciò che facciamo con
le strumentazioni in laboratorio?16.
Non ci sono già abbastanza fenomeni, chiede Hobbes, «nel cielo
sublime e un mare e una terra tanto vasti?». Il suo interlocutore repli-
ca che: «Esistono alcuni effetti naturali decisivi, che noi conosciamo so-
lamente grazie a principi generali e all’impegno attento; in qualcuno
di questi, la – diciamo così – perizia tecnica della natura, ovvero la sua
modalità operativa, si manifesta in modo più lampante che in centomila
di questi fenomeni quotidiani» (p. 439). “Artificio”17 è esattamente la
parola giusta. Boyle aveva inventato un apparato sperimentale, dispo-
sitivi artificiali, per ottenere il vuoto. L’importanza dei dispositivi mec-
canici nell’immaginazione scientifica dell’Europa della prima moder-
nità è stata a lungo sottolineata. C’era un famoso orologio nella città di
Strasburgo, nel quale uomini artificiali sfilavano in corteo annuncian-
do le ore. Nella mia versione della storia, la pompa ad aria diede un nuo-
128 LA RAGIONE SCIENTIFICA

vo scopo agli artifici, quello di creare nuovi fenomeni. Hobbes lo ave-


va capito, lo temeva e lo detestava.
L’interlocutore esplicita uno dei fondamenti logici, quasi mai enun-
ciato, della scienza di laboratorio. Era valido negli anni Sessanta del
XVII secolo e lo è tuttora nel nostro decennio, 450 anni più tardi.
«Tali sono appunto i nostri esperimenti: la scoperta della causa di
uno soltanto di essi può essere applicata a una serie infinita di feno-
meni comuni» (p. 439). Hobbes chiede cinicamente: quali sono que-
sti fenomeni ordinari di numero infinito? Oggi aggiungeremo, alla ma-
niera beffarda di Hobbes: «E dicci di più su come realizzi questo me-
raviglioso atto di adattare i tuoi magnifici nuovi fenomeni a una causa
comune!».
Nello stesso dialogo Hobbes previde anche l’autorità del laboratorio
stesso. Il Gresham College, che divenne la Royal Society di Londra, la
madre di tutte le accademie scientifiche moderne, si fregiava di garan-
tire la possibilità di assistere alla dimostrazione dei fenomeni. Grazie a
ciò, tutto era pubblico, così che non si potessero avere dubbi su quel-
lo che avveniva. Hobbes chiede malignamente: «Visto che costoro si
riuniscono, mi pare, in un pubblico edificio, non può assistere alle se-
dute chiunque altro lo voglia, ed esprimere, come loro, il proprio pa-
rere sulle esperienze viste?». «Penso di no», vien fatto rispondere a Boy-
le (p. 438). Solo una ristretta élite aveva accesso a questi laboratori,
collegi e società. I club chiusi non sono una novità. L’accusa di Hob-
bes verte sulla tensione tra la retorica della verifica pubblica e il fatto
dell’appartenenza privata e attentamente controllata.
Quest’aspetto è sviluppato a lungo da S&S, ed è diventato uno dei
migliori contributi del loro libro ai social studies of knowledge. Esso è
ulteriormente sviluppato da Steven Shapin nel suo importante libro, ci-
tato nella mia prima lezione, A Social History of Truth18. Shapin sostie-
ne che sia stato il presupposto della reciproca fiducia e affidabilità al-
l’interno di una ristretta élite della popolazione di Londra, ovvero la
piccola nobiltà, ad aver reso possibile la scienza moderna. La sincerità
era uno dei presupposti dell’impresa e richiedeva una configurazione
sociale per esser messa in atto. È impressionante come l’attuale prati-
ca di peer review per le riviste scientifiche abbia assorbito gran parte
di quell’assunzione di sincerità in modo trasversale, in tutte le scienze,
la matematica inclusa. Ora chiediamo ai nostri colleghi di effettuare del-
LEZIONE III. LO STILE LABORATORIALE DI PENSIERO E AZIONE 129

le revisioni, mentre una volta ci affidavamo ai pari [peers], cioè ad ari-


stocratici inglesi e nobili proprietari terrieri.

14. Il mutamento concettuale decisivo

Come dovremmo completare gli schemi (*) e (**) di Williams per


la cristallizzazione dello stile di esplorazione sperimentale e misura-
zione nello stile di laboratorio? Dato il mio punto di vista, incentrato
sulla creazione di fenomeni, non si tratta primariamente di un muta-
mento nei modi di dire la verità, ma nei modi di scoprire qualcosa,
modi che conducono a loro volta a un mutamento relativo alla conce-
zione del dire la verità sul mondo. Il nuovo modo di scoprire consiste
nel costruire un apparato sperimentale per creare un nuovo fenomeno
e per esibire fenomeni purificati. C’è stato quindi

(*) un mutamento nelle concezioni di che cosa significa scoprire co-


se sulla natura, e quindi di dire la verità su di essa;
(**) questo cambiamento significativo è avvenuto nel XVII secolo e
il suo migliore emblema è Boyle.

Boyle è stato il pioniere del laboratorio, oggi continuiamo a fare ciò


che faceva lui, ovvero costruire apparati strumentali per purificare o
produrre nuovi fenomeni. A volte i fenomeni vengono creati per testa-
re teorie esistenti, a volte essi precedono qualsivoglia comprensione teo-
rica. Anche testare le teorie non è ciò che si crede abitualmente, lo
scopo è piuttosto quello di ottenere una comprensione più accurata
del fenomeno previsto. A volte ci sono ciò che in Representing and In-
tervening ho chiamato «famiglie felici», quando entrambi gli aspetti,
teorico e sperimentale, lavorano mano nella mano – come accade co-
munemente oggi nella maggior parte dei casi.
Ecco un esempio tratto dal mio interesse attuale. Le sostanze super-
conduttrici sono state prodotte per la prima volta nel laboratorio di Ka-
merlingh Onnes in Olanda, nel 1908. Esse hanno condotto alla super-
fluidità, prodotta da Kapica al laboratorio Cavendish di Cambridge, nel
1937. Nessuno ebbe una comprensione teoretica profonda di questi
fenomeni fino al 1957, quando fu concepita la teoria di Bardeen, Sch-
130 LA RAGIONE SCIENTIFICA

rieffer e Cooper. Al contrario, Einstein aveva avanzato l’idea di ciò


che adesso si chiama la “condensazione di Bose-Einstein di un gas idea-
le” nel 1925. Nessuno è però riuscito a creare il fenomeno corrispon-
dente fino al 1995. Inoltre, la condensazione di Bose non è stata crea-
ta per testare la teoria di Einstein, ma piuttosto come parte di un lun-
go programma di ricerca per capire come ciò potesse esser fatto.
Il coronamento di questa ricerca è stata una conquista tecnica del la-
boratorio, vi sono stati impiegati apparati sperimentali talmente ingegnosi
da valere un Premio Nobel. Ora qualsiasi gruppo di circa sei persone può
ripetere l’esperimento, ricorrendo alle stesse attrezzature e alle stesse idee.
A dire il vero nel laboratorio del professor Yu quasi tutta la creazione
del condensato di Bose-Einstein della National Tsing Hua University è
stata eseguita da un solo studente di dottorato, Hung-Wen Cho, il cui
soprannome inglese è “Motore”. Questa è un’analogia interessante con
il punto sottolineato da S&S: la pompa ad aria di Boyle costò una fortu-
na in termini di ricerca e sviluppo e dal punto di vista dell’impiego delle
menti scientifiche più potenti dell’epoca. Tuttavia, nel giro di due decenni
era possibile acquistarne un’imitazione di scarsa qualità in una bottega
parigina all’incirca al prezzo relativo di un moderno computer portatile
economico. Realizzare il condensato nel 1995 significò la vittoria del
Nobel, che fu condiviso tra due laboratori. Ora un dottorando di prim’or-
dine, non importa dove nel mondo, con un supporto relativamente mo-
desto, può fare la stessa cosa.

15. Ontologia: le entità teoriche

Venti o trenta anni fa, le entità che saltano fuori dalle teorie, ma che
sono inosservabili, erano il tema portante della filosofia della scienza ge-
nerale, ed esse suscitano ancora oggi molti dibattiti. Si discuteva di ta-
li entità all’interno della controversia sul realismo scientifico, che sarà
il tema della quarta e ultima lezione (anche se declinato al plurale,
“realismi” e “anti-realismi”). Ho sostenuto che i dibattiti ontologici sul-
le scienze siano il risultato dell’introduzione o della cristallizzazione di
stili ragionamento scientifico.
Gli atomisti greci avevano entità teoriche inosservabili in abbon-
danza e queste erano dotate di proprietà non banali, come ganci e ca-
LEZIONE III. LO STILE LABORATORIALE DI PENSIERO E AZIONE 131

vità, per esempio. Popper riteneva che quella fosse metafisica, non
scienza. Sono tendenzialmente d’accordo con Popper, ma non per-
ché io accetti il suo criterio forte di demarcazione, per il quale essere
scientifico significa essere testabile. Gli atomisti greci hanno prodot-
to una serie magnifica di speculazioni, che hanno dato forma al no-
stro pensiero sin dall’inizio, ma semplicemente non c’era una ragione
valida per credere alle loro storie. Molti fisici, forse la maggior parte
di essi, hanno sostenuto tesi strumentaliste a proposito degli atomi e
delle molecole fino all’inizio del XX secolo. La maggior parte dei ge-
netisti potrebbe aver avuto un approccio strumentalista a proposito
dei geni e dei cromosomi fino alla metà del XX secolo. Questi sono
dibattiti interni alle scienze, non posizioni ontologiche come il reali-
smo e l’anti-realismo. L’anti-realista sulle entità teoriche dice che tali
entità non esistono, o che non abbiamo mai ragioni sufficienti per as-
serirne l’esistenza.
Il dibattito ontologico nasce dalla combinazione del secondo e del
terzo stile di Crombie. Le entità occorrono all’interno delle teorie, chia-
ramente, e quindi potremmo concentrarci sul suo terzo stile, vale a di-
re la modellizzazione teorica e analogica, con una particolare attenzio-
ne sulla sua cristallizzazione, lo stile galileiano. Ma il grande numero
di entità teoriche di cui si discute lo status ontologico si deve alle teo-
rie che tiriamo in ballo per comprendere i fenomeni suscitati o creati
dallo stile di laboratorio. Dirò di più su quest’aspetto nella quarta le-
zione. Occorre qui notare, comunque, che la produzione, da parte di
Boyle, del vuoto all’interno di un recipiente, era in parte tesa a stabili-
re la realtà degli “atomi e del vuoto”. Una volta che si fosse creato il vuo-
to si sarebbe stabilita anche l’esistenza degli atomi, almeno all’interno
della filosofia corpuscolare della natura di Boyle.

16. Il vuoto

Boyle ha fatto due cose. Ha realizzato uno strumento che produce-


va un vuoto parziale in un contenitore, sconfiggendo grazie a ciò la
natura, se si crede nel detto «la natura ha paura dello spazio vuoto».
Egli è anche riuscito a convincere tutti che ciò fosse esattamente quel-
lo che egli aveva fatto. I science studies tendono a porre l’accento sulla
132 LA RAGIONE SCIENTIFICA

dimensione sociale e quindi, nel caso presente, a enfatizzare il secon-


do degli aspetti appena menzionati, il quale è infatti analizzato in ma-
niera brillante da S&S. Io sono decisamente materialista e quindi sono
interessato all’oggetto materiale, la pompa ad aria in quanto tale e i
suoi cloni, che presto divennero disponibili a poco prezzo in tutta Eu-
ropa. E sono interessato al fenomeno che essa ha creato, il vuoto (par-
ziale) in un recipiente.
C’è un paradosso incredibilmente istruttivo qui, talmente potente
che a volte penso che la natura ci giochi ancora dei brutti scherzi, na-
scondendoci sempre ciò che tiene nelle sue maniche. L’idea di un se-
greto della natura è molto profonda e potente, e sta senza dubbio al cen-
tro dell’emergenza della tradizione scientifica nell’antico mondo me-
diterraneo, in Egitto, in Mesopotamia, in Grecia. Sono rimasto molto
impressionato dal libro di un mio collega parigino, Pierre Hadot: Il
velo di Iside. Storia dell’idea di natura19. Credo che sia una versione
della storia di ciò che chiamo “scoprire”, che iniziò molto prima che la
razza umana si avventurasse in qualcosa di riconoscibile come scienti-
fico. Il libro inizia con un motto incomprensibile di Eraclito: «La na-
tura ama nascondersi»20.
Il paradosso è che Boyle, cercando di produrre il vuoto all’interno
di un recipiente, sembra aver compiuto un gesto inutile per non pro-
durre assolutamente niente. Ciò che fece fu, senza dubbio, importante
per la sua epoca. Egli sostenne strenuamente la cosiddetta filosofia
corpuscolare, che concepiva l’aria come composta di piccole sfere, gli
atomi, che rimbalzano a destra e a sinistra nel vuoto. Era quindi im-
portante mostrare che l’idea del vuoto fosse coerente. Ma, al di là que-
sto, non è forse vero che il vuoto è il nulla?
In termini classici il vuoto è il nulla. Intendo dire per la fisica clas-
sica del XIX secolo, prima dell’avvento della meccanica quantistica. In
termini classici, il vuoto allo zero assoluto è il luogo in cui non succe-
de nulla dentro al nulla. Ma l’immagine classica dell’universo è sba-
gliata. Dal punto di vista della meccanica quantistica, il vuoto è pieno
di fluttuazioni quantistiche. Il manuale classico sul vuoto dice, nella
prefazione:

Secondo le idee attuali non esiste il vuoto, nel senso ordinario di un pla-
cido nulla. C’è invece un vuoto composto da fluttuazioni quantistiche21.
LEZIONE III. LO STILE LABORATORIALE DI PENSIERO E AZIONE 133

Forse c’è un fondo di verità in quest’affermazione da parte di un fisico


che scrive sulla scienza con entusiasmo, pur essendo incline a invocare
un Creatore dell’Universo in alcuni dei suoi scritti più conosciuti. In
un libro che porta il titolo, tipicamente sopra le righe, di Superforce,
P.C.W. Davies scrive,

Il vuoto rappresenta la chiave per la completa comprensione della natura22.

Forse ha ragione! Ancora più straordinario di quanto appena ripor-


tato è il fatto che il vuoto sia un luogo brulicante di attività quantisti-
ca quando si trova allo zero assoluto. Cioè dove si trova il Condensa-
to di Bose-Einstein, intrappolato dagli strumenti di laboratorio in una
nuvola termica di altri atomi a circa zero nanokelvin. Vale a dire a
circa 10-9 gradi dallo zero assoluto, ciò che giustamente si chiama
l’ultrafreddo. Questo ci riporta ad Eraclito. Che splendido posto pa-
re aver scelto la Natura per nascondere i suoi segreti, nel vuoto allo
zero assoluto!
Questa è un’altra ragione per mettere Boyle e la sua pompa ad aria
nel pantheon. Il vuoto, che sembra essere il nulla assoluto, ha un’im-
portanza che va ben oltre i più audaci sogni del suo creatore.

17. Il laboratorio di biotecnologie

Posso benissimo prendermi in giro da solo: ho appena compiuto


l’impresa di connettere, in un tutto senza soluzione di continuità, il
mistico antico Eraclito e la scienza di laboratorio più recente. Dovrei
tirare le somme ritornando alla realtà. Sarebbe bene concludere pen-
sando ai laboratori moderni, che sono molto diversi da quelli che di-
scendono da Robert Boyle. Passerò dalla fisica alla biologia, e da un
tempo remoto a quello presente23. E non è la biologia ciò verso cui do-
vremmo dirigere la nostra attenzione, ma la biotecnologia.
Sfortunatamente non so niente sulla biotecnologia. Penso come un
fisico. È per questo che all’epoca della scrittura di Representing and
Intervening parlavo con i fisici. La fisica nel 1983 era ancora la regina
delle scienze naturali. Nel 1962 sapevo già in quale direzione stessimo
andando, ma non era un futuro che faceva per me. Il mio primo lavo-
134 LA RAGIONE SCIENTIFICA

ro dopo la laurea fu a Cambridge, in Inghilterra, e durante quel perio-


do, due colleghi più anziani del mio stesso college furono insigniti dei
premi Nobel assegnati quell’anno per la medicina e la biologia, per il
Dna e l’Rna. Mi ricordo che mi presero per matto quando, pochi anni
più tardi, in un consesso di umanisti, dissi che era proprio in quell’am-
bito che stavano per accadere le cose più interessanti. Quindi, già pri-
ma degli anni Settanta andavo dicendo: «Dimenticate il passato: que-
ste nuove idee e tecniche cambieranno il mondo!».
Nella seconda metà degli anni Settanta, chiunque dotato di buon
senso, umanista o meno, se ne era reso conto. Ciò nonostante, non ho
cambiato la mia strada. Per questa ragione oggi so meno di biotecno-
logia di quanto non sappia un bravo studente delle superiori. In questo,
sfortunatamente, non sono poi così diverso da molti dei miei colleghi
filosofi più giovani.
La biotecnologia sta cambiando il mondo. Quando, decine di anni
fa, Bruno Latour e Steve Woolgar realizzarono la loro etnografia di un
laboratorio biochimico premiato col Nobel, lavorarono in un luogo di
tipo accademico molto tradizionale. Latour riteneva che il prodotto
principale del laboratorio fossero iscrizioni, e che fossero quelle, alla fi-
ne, a garantire la stabilità della scienza. Io mi opponevo, sostenendo
che il prodotto principale del laboratorio fosse una nuova sostanza, un
peptide sintetico, l’ormone di rilascio della tireotropina [Thyrotropin Re-
leasing Factor]24. Il mio ottuso materialismo e il suo idealismo visiona-
rio erano lampanti anche all’epoca! Ma quei tempi sono ormai lontani.
Nel 1974, nel bel resort di Asilomar, sulla costa californiana, si ten-
ne una conferenza tra tutti coloro che, nel mondo, lavoravano sul Dna
ricombinante. Volevano linee guida etiche per stabilire quali tipi di ri-
cerca fossero ammessi per evitare di creare mostri, batteri, per esempio,
che avrebbero potuto distruggere tutte le coltivazioni mondiali di riso.
A quel tempo essi lavoravano ancora con campioni sperimentali che
non superavano l’ordine del litro. Nel giro di pochi anni, come uno
dei partecipanti (uno dei vincitori del Premio Nobel che ho menzio-
nato, e che all’epoca presiedeva l’European Research Council) ebbe
modo di ricordare, autocisterne di quel materiale venivano spedite in
giro per il mondo. Nuove tecniche entrarono in gioco e la velocità del-
la ricerca aumentò di diecimila volte. Ci sono luoghi, in tutto il mon-
LEZIONE III. LO STILE LABORATORIALE DI PENSIERO E AZIONE 135

do, dove edifici di dieci piani sono occupati da nient’altro che macchi-
ne per il sequenziamento del genoma. Ciò che si fa in quei posti renderà
ricche, tra le altre, l’industria sanitaria e quella agraria. I risultati non so-
no iscrizioni, ma sostanze e tecniche.
La ricerca iniziale è stata svolta in laboratori universitari. Le impre-
se finanziate da fondi di venture capital hanno iniziato a formarsi in
California all’inizio degli anni Settanta. Ora si può dire che siano loro
a controllare il settore; certamente una parte importante del lavoro con-
tinua ad essere svolta nei laboratori universitari, ma spesso è il venture
capital che traccia la strada. Su questi aspetti dovrebbero aggiornarsi e
svolgere le proprie analisi i ricercatori dei science studies di oggi. In que-
sto caso è stato invece un antropologo a tracciare la strada. È un an-
tropologo nel senso classico, formatosi con Pierre Bourdieu e che in
seguito ha giocato un ruolo importante nell’introduzione del lavoro di
Michel Foucault al pubblico americano.
Mi riferisco a Paul Rabinow, professore di Antropologia alla Uni-
versity of California, a Berkeley25. Raccomando fortemente il lavoro di
Rabinow a chiunque nei science studies sia interessato alle recenti bio-
tecnologie. Egli è un modello per tutti noi. Rabinow collabora spesso
con Nikolas Rose, sociologo della London School of Economics, che ha
creato lì un grande centro di ricerca chiamato Bios, che si definisce
come un centro multidisciplinare per la ricerca sugli sviluppi contem-
poranei delle scienze della vita, della biomedicina e della biotecnologia.
Recentemente Rabinow ha visitato laboratori di biotech a Shanghai, e
userò alcune delle cose che mi ha detto in ciò che segue. Perché le im-
prese finanziate dai fondi di venture capital della California non sono
la fine della storia; ci aspetta (se non è già in corso) un’ondata di lavo-
ri provenienti dagli enormi laboratori di Stato della Cina. Si può esse-
re tentati di chiamarlo “capitalismo di Stato”, a causa delle similitudi-
ni, sul piano pratico, con il venture capitalism californiano. Non vale la
pena discutere se la California adotti il modello capitalistico mentre
Shanghai pratichi quello socialista, o quello del capitalismo di Stato. Il
punto è che, dalla prospettiva dei science studies, siamo di fronte a un
nuovo modo di fare scienza.
Stiamo parlando di un nuovo tipo di laboratorio? Ciò che stupisce
molti dei visitatori degli stabilimenti biotecnologici di Shanghai è l’im-
menso potere personale che detengono i dottori di ricerca o comun-
136 LA RAGIONE SCIENTIFICA

que i ricercatori a metà della loro carriera. Gli scienziati vanno ancora
spesso in America o in Europa per formarsi e perfezionare le loro ca-
pacità, ma un numero crescente di loro torna indietro. Mi ricordo una
conversazione avuta anni fa con un mio collega di Parigi, Philippe Kou-
rilsky, all’epoca direttore dell’Istituto Pasteur di Parigi, il primo cen-
tro di ricerca francese per la ricerca biomedica fondamentale. Era ap-
pena rientrato da Shanghai, dove aveva officiato all’apertura di una spe-
cie di clone o di franchising dell’Istituto Pasteur, costruito a lato del
vecchio quartiere francese di Shanghai, preservando alcune delle ele-
ganti facciate del XIX secolo. Ma quelle facciate sono una semplice il-
lusione: all’interno di quel complesso stavano creando, mentre lui era
lì, un’enorme impresa legata alla ricerca, in nuovi e straordinari edifi-
ci, e in tempi brevissimi per gli standard francesi. «Sorpasseranno com-
pletamente tutto quello che facciamo in meno di dieci anni», mi disse
Kourilsky.
In America la ricerca biotecnologica continua ad essere svolta, in mo-
do misto, da laboratori universitari tradizionali e da imprese finanzia-
te da fondi di venture capital. Ma, specialmente negli Stati Uniti, sono
sempre più queste ultime a fare il lavoro più all’avanguardia. Alcune
di esse si sono sviluppate fino al punto di diventare delle grandi cor-
porazioni: Genentech, Celera, Symbio. C’è una grande differenza tra
il laboratorio capitalistico e il laboratorio universitario. La si può far
risalire a ciò che ho detto riguardo alla fiducia e ai nobiluomini inglesi
del XVII secolo – il sistema del peer review. Tutto ciò che succede in
ambito accademico è governato dal sistema del peer review. Non solo
ciò che viene accettato come conoscenza e pubblicato, ma anche tutta
la ricerca che è finanziata. Scrivere e riscrivere progetti di ricerca è
una delle principali attività dei ricercatori accademici. Per di più, ciò
che viene chiamato peer review, al livello dei finanziamenti, non è in
realtà affatto peer review. Non è un processo di revisione tra pari, che
è ciò che si intende per “peer”. È più spesso la revisione di giovani ri-
cercatori da parte di vecchi ex ricercatori di successo. Essi forniscono,
in effetti, ogni tipo di consiglio. Sono vecchi uomini saggi che deter-
minano chi, nelle nuove generazioni, verrà supportato. Esagero. Non
sono né tutti saggi, né tutti vecchi e neanche tutti uomini, ma certa-
mente molti tra loro sono uomini e molti sono vecchi. Una delle figure
di spicco della venture biotechnology avrebbe affermato che «il più
LEZIONE III. LO STILE LABORATORIALE DI PENSIERO E AZIONE 137

grande ostacolo per l’innovazione scientifica e tecnologica è il sistema


di peer review per il finanziamento dei progetti di ricerca».
Le imprese private sono diverse. Lì la misura del successo è data
da un prodotto brevettabile. Ho parlato di un nuovo tipo di attività che
è iniziata 400 anni fa, la creazione deliberata di nuovi fenomeni. Se
solo Boyle fosse stato capace di brevettare la sua pompa ad aria, a
quei tempi egli sarebbe rientrato di cento volte dei suoi investimenti.
Se si confronta con il laboratorio universitario, il mondo della ricerca
finanziata da fondi di venture capital può sembrare spietato. Molti
tradizionalisti lo disapprovano. A volte si fa corrispondere una “ge-
nerazione” a un lasso di tempo di 33 anni. All’interno di una tale ge-
nerazione il capitale privato ha trasformato la ricerca biotecnologica.
Le università tentano febbrilmente di stargli dietro, aprendo uffici bre-
vetti. Questi uffici sono de facto, se non de iure, quanto meno sullo stes-
so piano di dipartimenti accademici ordinari, nella scala gerarchica
universitaria.
E quindi, che dire della tecnoscienza dell’Asia orientale? Essa cam-
bierà l’attuale generazione della bioscienza tanto quanto il venture ca-
pital ha cambiato quella precedente. E qui, per ricollegarmi al mio te-
ma precedente sull’origine del peer review, dovremmo esser ben con-
sapevoli del potenziale della trasformazione del mondo capitalistico in
un mondo in cui la ricerca è governata da uno Stato con immense ri-
sorse. Ciò è lampante in quello che ufficialmente è il regime “comuni-
sta” o comunque socialista al di là degli Stretti, la Repubblica Popola-
re. La differenza con il capitale occidentale non è il capitalismo, ma la
quantità quasi illimitata di lavoratori scientifici attuali o potenziali e il
metodo di gestione del lavoro che si è già impadronito della fetta più
grossa della produzione di base occidentale. Il trasferimento della pro-
duzione, dapprima da Taiwan, dalla Korea e dal Giappone verso la
Repubblica Popolare, si è moltiplicato al di là di ogni limite. Pratica-
mente tutti i giocattoli per bambini venduti in America sono “made in
China”. Gli stessi metodi di produzione, cioè imprese molto grandi
organizzate in piccole unità produttive, con uno spirito di squadra lo-
cale, vengono adesso applicati alla ricerca biotecnologica.
Ci sono solo due criteri per il successo in questo tipo di ricerca, in
contrasto con il lato dello sviluppo o della produzione della nuova tec-
noscienza. Il sistema peer review è necessario, certo, e normalmente è
138 LA RAGIONE SCIENTIFICA

garantito in abbondanza dalle migliori riviste scientifiche americane. Se


un articolo viene accettato lì, un ricercatore e il suo team hanno otte-
nuto le credenziali necessarie. Il secondo criterio è quello del prodot-
to brevettabile.
In un sistema statale, il denaro può essere erogato a fiumi diretta-
mente ai gruppi di ricerca. Molti di essi non rispettano i due criteri ap-
pena menzionati. Forse saranno scartati e i lavoratori assegnati a com-
piti minori per il resto delle loro vite, non diversamente da quanto ac-
cade in una società capitalistica spietatamente efficiente. Le differenze
sono (1) nella forza lavoro potenziale dei ricercatori, per la quale non
c’è un tetto massimo, e (2) nell’organizzazione e nel morale dei team
all’interno di strutture più ampie.
Ho menzionato l’espressione “forma di vita” e mi sono rifiutato di
farne largo uso. Tuttavia, siamo di fronte a una nuova forma di scienza
che si svolge all’interno di ciò che pare naturale chiamare una nuova
“forma di vita”. È una questione di risorse immense, combinate con,
in realtà, un tipo piuttosto diverso di gestione finanziaria rispetto a
quella a cui eravamo abituati. Tutto ciò può essere organizzato più fa-
cilmente da uno stato egemonico che da un qualsiasi altro tipo di regi-
me. Abbiamo un metro di paragone, il Progetto Manhattan, attraver-
so il quale il governo degli Stati Uniti elargì somme incalcolabili del
patrimonio nazionale in maniera piuttosto indiscriminata, nell’ottica
di ottenere risultati che un decennio prima avrebbero richiesto mezzo
secolo di ricerca. Il risultato immediato fu la bomba. L’effetto di lungo
termine sull’organizzazione della scienza è noto a tutti i sociologi delle
scienze col nome di big science. Forse si tratta di una nuova forma di
vita scientifica. Ma quel “big” potrebbe in realtà rivelarsi minuscolo in
confronto a ciò che potrebbe succedere nel Sud-Est asiatico nell’arco
di una generazione.

18. Due tipi di laboratorio?

Ho già usato la parola “laboratorio” per ciò che io chiamo lo “stile


laboratoriale di ragionamento”. Anche se ho messo in luce ciò che fac-
ciamo nel laboratorio molto più della maggior parte dei filosofi, resto
LEZIONE III. LO STILE LABORATORIALE DI PENSIERO E AZIONE 139

ancora aggrappato a un approccio proposizionale alle scienze. La scien-


za genera conoscenza, che è espressa tramite proposizioni. Ho descrit-
to gli stili di ragionamento scientifico nei termini della loro capacità di
far cambiare le concezioni dell’essere veridico a proposito di qualcosa.
Boyle ha prodotto il vuoto, ma anche nuovi modi di dire la verità a
proposito di tali entità teoriche.
S&S ci insegnano che la parola “laboratorio” in inglese è apparsa
insieme a una maniera di far scienza e una forma di vita che iniziarono
nel XVII secolo. Parlare di laboratori alchemici precedenti è, dal loro
punto di vista, un anacronismo. Certo, i laboratori di chimica iniziava-
no ad apparire, ma essi non erano affatto una semplice continuazione
del gabinetto degli alchimisti. Ma forse i nuovi laboratori biotecnolo-
gici arriveranno a farci vedere le cose in maniera diversa. I gabinetti al-
chemici servivano a produrre sostanze nuove e spesso miracolose. Ciò
è esattamente quello a cui servono i laboratori di biotecnologie. Essi non
servono primariamente a scoprire ciò che è vero, ma a scoprire come
fare cose. Il loro scopo è quello di fare; dire la verità è un mero stru-
mento nel complicato processo di trasformazione di vecchie sostanze
in nuove. E sì, questo è un modo di pensare scientifico – per ripetere l’e-
spressione chiave di Crombie. Ma è un modo di pensare nuovo.
Lezione IV
Realismi e antirealismi

1. Plurali

Ci si sarebbe potuti aspettare che questa lezione s’intitolasse “Reali-


smo e antirealismo”, ma ciò su cui voglio porre l’attenzione è il fatto che
un numero molto alto di dottrine filosofiche porti questi nomi. Mi
concentrerò sui realismi e gli antirealismi che sono connessi con le
scienze, ma anche in quel caso abbiamo il “realismo scientifico” sulle
entità teoriche non osservabili e tipi di realismo chiamati “platoni-
smo” in matematica e che in realtà faremmo meglio a chiamare “reali-
smo matematico”. Anche se i miei interessi saranno circoscritti, è im-
portante dare uno sguardo al quadro d’insieme e iniziare menzionan-
do quei dibattiti sui quali non ho qui niente di costruttivo da dire.
Ciò non significa che non ci sia niente da dire, in generale, al loro ri-
guardo. Questa lezione è stata presentata alla Soochow University, al-
l’epoca in cui quell’università aveva un gruppo di ricerca che lavorava
da tre anni esattamente sotto questa denominazione: “Realismo e An-
tirealismo”. Da quanto ho capito, diversi tipi di realismo e antireali-
smo erano presi in esame, quindi il mio accento sui realismi, al plura-
le, risultava particolarmente pertinente in quel contesto.

2. Non “realismo” contro “nominalismo”

La storia della filosofia occidentale è caratterizzata da una serie di


dibattiti che inizia con Platone e Aristotele e che continua ancora og-
gi. I più intensi sono stati, a mio modo di vedere, prima quelli tra i
LEZIONE IV. REALISMI E ANTIREALISMI 141

grandi filosofi arabi della Mesopotamia e dell’Africa del Nord, poi quel-
li tra i filosofi scolastici cristiani dell’Europa del Medioevo. La loro
posta in gioco può essere descritta in modi diversi e molte erano, in ef-
fetti, le sfaccettature oggetto di discussione. Tutti questi dibattiti han-
no due lati, uno ontologico e uno grammaticale. Tradizionalmente
l’enfasi viene posta sull’aspetto ontologico, su questioni a proposito di
ciò che esiste. Tuttavia, sia i filosofi islamici sia quelli scolastici cristia-
ni, hanno spesso orientato la discussione in senso grammaticale, così co-
me i filosofi analitici del XX secolo hanno fatto in senso semantico. In
ontologia si è sempre tentati di imboccare la strada di quella che Qui-
ne ha chiamato l’«ascesa semantica», passando da una discussione sul-
le cose a una discussione sui nomi delle cose.
Uno dei vantaggi dell’ascesa semantica, almeno per i pensatori del
XX secolo, è che essa permette di pensare che «sia tutta una questione
di parole». A volte il risultato è positivo e nobile, come nel caso del
“principio di tolleranza” di Rudolf Carnap. Carnap ha avanzato la tesi
che le questioni ontologiche siano esterne alla conoscenza e abbiano a
che fare con la scelta di una lingua. Questioni dotate di senso emergo-
no solo nel quadro di una lingua che porta (o meno) con sé presuppo-
sizioni di esistenza1. La critica di Quine ha naturalmente reso imprati-
cabile questa semplice tolleranza, sebbene essa rimanga un tema pre-
sente in molta parte della filosofia analitica. Per quanto mi riguarda,
cerco di evitare l’ascesa semantica, che aggira i problemi filosofici sen-
za risolverli. Io non intendo risolverli, ma penso che sia utile capire
come determinati problemi siano emersi.
Un modo di porre la questione ontologica è quella di prendere la giu-
stizia come esempio. Platone, nella Repubblica – il suo lavoro classico
di filosofia politica, dedicato al concetto di giustizia – fa chiedere in con-
tinuazione a Socrate che cosa sia la giustizia. Gli interlocutori fanno a
Socrate vari esempi di giustizia, ma egli continua a protestare che si trat-
ti solamente esempi, non della giustizia in sé. Quelli allora propongo-
no definizioni della giustizia, alle quali egli contrappone due tipi di con-
troesempi. Ci sono casi che soddisfano la definizione, ma che sono
esempi di azioni o di accordi ingiusti. Egli cita anche esempi di azioni
o accordi giusti, ma che non soddisfano le definizioni.
A volte si è tentati di dire che tutto si riduce alla domanda: «C’è qual-
cosa che accomuna tutte le azioni e gli accordi giusti, oltre al fatto che
noi li riconosciamo come giusti o che essi vengono semplicemente chia-
142 LA RAGIONE SCIENTIFICA

mati giusti?». Il nominalista estremo dice «No!». Le azioni giuste non


hanno niente in comune, tranne il fatto che l’equivalente greco del-
l’aggettivo “giusto” viene applicato a ognuna di esse. Non c’è nessuna
proprietà dell’esser giusto in aggiunta alla parola “giusto” e al suo uso
(in qualsiasi lingua si stia parlando). È chiaro che questa parentesi, ne-
cessaria, a proposito della lingua, fa già sorgere la domanda sulla rela-
tività di questi interrogativi rispetto al linguaggio, perché l’uso di parole
più o meno inter-traducibili in differenti lingue si può dire sia lo stesso
solo in modo approssimativo. Lasciamo questi cavilli da parte per il mo-
mento. Un tale nominalismo estremo potrebbe essere chiamato nom-
ismo [name-ism]. Non molti filosofi sono stati disposti a enunciare e
difendere un nomismo estremo, ma alcuni ci sono andati vicino. Pen-
so al fondatore inglese della scienza politica, Thomas Hobbes, nel XVII
secolo, e al pragmatista americano Nelson Goodman, nel XX secolo.
All’estremo opposto dello spettro troviamo il realismo estremo, per
il quale la giustizia è, in sé, un’entità reale, al di sopra dei singoli accor-
di, giudizi o atti che sono giusti. La giustizia non è semplicemente la
classe di tutte le entità giuste, ma qualcosa che esiste in sé, indipen-
dentemente da qualsiasi azione, accordo, decisione o da ogni altra sin-
gola entità alla quale si possa pensare. Non è semplicemente un ideale
per il quale battersi, ma qualcosa che esiste realmente, per quanto non
si possa mai raggiungere. Questo è un tipo di realismo. Ha un tratto
ontologico: esso riguarda ciò che esiste, o, per calcare ancor più la ma-
no, ciò che esiste veramente. Questo non è un tipo di discussione che
conduce direttamente all’ascesa semantica, anche se la tolleranza di
Carnap è senza dubbio richiesta.
I tempi sono cambiati. Ho parlato con un filosofo britannico molto
noto che si occupa di realismo e gli ho chiesto se qualcuno parlasse
ancora dell’opposizione tra realismo e nominalismo. Mi ha risposto di
«no» seccamente, in quel modo piuttosto brusco con cui gli accade-
mici sono abituati a rispondere alle domande noiose di studenti inetti
della triennale. Che cosa pensava quindi, quel filosofo, dei dibattiti tra
realismo e antirealismo? Per una risposta, si veda più avanti la sezione
su Michael Dummett.
Non credo che la risposta brusca di questo filosofo fosse giustifica-
ta. Questo fatto potrà non piacerci, ma filosofi molto diversi tra loro
continueranno a porre problemi ontologici e diranno di discutere l’op-
LEZIONE IV. REALISMI E ANTIREALISMI 143

posizione tra realismo e nominalismo. Il nominalismo è giustamente


considerato come un tipo di antirealismo. Ma dal momento che mi oc-
cupo delle scienze, eviterò per quanto possibile questo tipo di opposi-
zione tra realismo e antirealismo, che può essere espresso in termini di
universali. Ecco perché ho intitolato questa sezione Non “realismo” con-
tro “nominalismo”.

3. Universali

In alcuni casi, le entità astratte e reali che il realista afferma esistere


vengono chiamate universali. Ecco perché ciò che si discute in questi
dibattiti tra realisti e nominalisti prende a volte il nome di “problema de-
gli universali”. Questo modo di porre le cose appartiene alla scolastica
e dirige la nostra attenzione verso la grammatica e la semantica, allon-
tanandola dall’ontologia. In effetti, la parola latina tradotta con “nomi-
nalismo” sembra esser stata inventata da studiosi iberici nel 1492, l’an-
no in cui gli spagnoli finanziarono Colombo, capitano della prima nave
europea a raggiungere le “Indie Occidentali” e l’America Centrale.
Bertrand Russell fornisce una piacevole e apparentemente semplice di-
scussione di questo problema ne Il mondo degli universali, capitolo IX del
suo manuale, I problemi della filosofia. «Esaminando le parole comuni»,
scrive, «vediamo che, in linea generale, i nomi stanno a indicare i parti-
colari, mentre altri sostantivi, aggettivi, preposizioni e verbi stanno a in-
dicare gli universali». Poco più in là aggiunge candidamente che «ve-
dendo che quasi tutte le parole che si trovano in un dizionario indicano
altrettanti universali, apparirà strano che quasi nessuno, eccettuati gli stu-
diosi di filosofia, si renda mai conto dell’esistenza di queste entità»2.
Il lettore di Bertrand Russell potrebbe chiedere cosa accadrebbe se
il nostro linguaggio non fosse suddiviso in questo modo, in sostantivi,
cioè in nomi comuni, verbi, eccetera. Saremmo lo stesso propensi a di-
re che quasi tutte le parole nel dizionario “stanno a indicare” univer-
sali? È in qualche misura sensato porre questo problema, se parliamo
cinese anziché una qualsiasi lingua europea? In altri contesti, Bertrand
Russell stesso ha sostenuto che molta parte della filosofia occidentale
fosse semplicemente messa fuori pista dal suo essere totalmente pri-
gioniera della grammatica del soggetto-predicato e della corrispon-
144 LA RAGIONE SCIENTIFICA

dente metafisica del soggetto-attributo. C’è ora una letteratura secon-


daria notevole su questo argomento, nelle riviste filosofiche di lingua
inglese. Uno di questi contributi è quello del professor Wenzel della
National Chi Nan University3. Il suo lavoro filosofico fa estesi riferi-
menti a un recente studio antropologico da parte di Nisbett4. Ma il
suo vero debito è ammesso con orgoglio: egli pensa che la riflessione più
chiara a proposito del linguaggio e del pensiero, specialmente in riferi-
mento al cinese e al tedesco, si trovi in un lungo saggio scritto nel 1827
dal filosofo e filologo Wilhelm von Humboldt (1767-1835)5. Wenzel sta
lavorando a un libro sull’argomento.
Non intendo prendere qui una posizione su questi problemi, ma pen-
so sia importante riflettere sulla questione seguente: le radici dei dibat-
titi sul realismo non si trovano forse, non tanto in aspetti universali del-
la natura e della mente umana, ma in strutture linguistiche particolari?
Più nello specifico, non si potrebbe pensare che i problemi che caratte-
rizzano l’opposizione tra realismo e nominalismo emergano dalle strut-
ture delle lingue europee? Nietzsche probabilmente pensava di sì.

4. “L’ontologia ricapitola la filologia”

Quine usava questo aforisma come epigrafe per il suo libro del 1960,
Word and Object. Egli lo attribuisce a James Grier Miller, uno dei padri
fondatori della Teoria dei Sistemi. In realtà ho sentito quest’espressio-
ne prima del libro di Quine, nel corso delle lezioni tenute all’università
di Cambridge da John Wisdom, nell’autunno del 1956, ma Grier po-
trebbe in effetti averla coniata. La teoria dei sistemi non era però esat-
tamente il genere di cose di cui si occupava Wisdom e non credo che egli
avesse mai sentito parlare di Grier. Per chiunque abbia coniato per pri-
mo quest’espressione, si trattava chiaramente, o meglio, inevitabilmen-
te, di una battuta. Deriva da un motto proposto da Ernst Haeckel nel
1868: «L’ontogenesi ricapitola la filogenesi». Haeckel fu uno strenuo
difensore della selezione naturale di Darwin, nonché il suo profeta e por-
tavoce in Germania. L’“ontogenesi” è la crescita di un organismo, per
esempio di un uomo, da uovo fecondato a feto, da neonato ad adulto. La
“filogenesi” è la storia evolutiva di una specie. Haeckel sosteneva che
la crescita degli organismi individuali seguisse, a partire dal concepi-
LEZIONE IV. REALISMI E ANTIREALISMI 145

mento, gli stessi schemi secondo cui si evolve la specie alla quale quel-
l’organismo appartiene. Questa è stata, un tempo, un’idea molto diffu-
sa, al contrario di adesso. Ad ogni modo, il nostro aforisma filosofico è
un gioco di parole a partire da quello biologico.
Il motto suona bene, ma che cosa significa? Quine probabilmente in-
tendeva che, scegliendo una grammatica e una lingua appropriate, non
ci sarebbe bisogno di adottare che un’ontologia molto semplice. Sfol-
tite la vostra sintassi e la vostra semantica e la filosofia seguirà in silen-
zio i vostri ordini. Il motto diviene così adatto alla varietà di nominali-
smo proposta da Quine.
Si potrebbe, comunque, usare l’aforisma per avanzare un tipo mol-
to diverso di suggerimento: i problemi ontologici sono le conseguenze
della grammatica del linguaggio parlato dal filosofo. Questo non signifi-
ca che io sottoscriva la tesi della “relatività ontologica” di Quine. Qui-
ne riteneva che l’ontologia fosse relativa a un linguaggio. Io non pro-
pongo alcuna tesi rispetto all’ontologia, suggerisco qualcosa sull’origi-
ne o sulla fonte dei problemi ontologici. Faccio quindi un passo
indietro rispetto alle filosofie di Quine e dei suoi oppositori e propon-
go qualcosa che potremmo chiamare “la relatività linguistica dei pro-
blemi filosofici”6.

5. Contro l’eccesso di relatività linguistica: Nietzsche e Chuang Tzu

La relatività linguistica è un’idea decisamente allettante con cui gio-


care. Le persone, alla loro seconda o terza esposizione alla filosofia,
amano cimentarsi col relativismo di questo e altri tipi. Anche se sono
solidale con questo tipo di approccio, non voglio esagerare. Alcune
preoccupazioni o istinti filosofici sembrano essere piuttosto universa-
li. Uno di questi è la fascinazione per i nomi. Essa sembra trascendere
le differenze grammaticali ed essere riconoscibile in culture la cui
espressione linguistica è molto diversa da qualsiasi cosa io riesca a
comprendere bene. Senza andare troppo lontano, è possibile trovare,
in molte civiltà, filosofi perplessi a causa dei nomi e che tendono a fa-
re osservazioni decisamente notevoli su di essi. Citerò solamente due af-
fermazioni, uno dal tedesco del XIX secolo, e una dal cinese di più di
2100 anni prima. Entrambe sembrano concernere i nomi e la realtà –
146 LA RAGIONE SCIENTIFICA

e quindi, in qualche modo, il realismo e l’antirealismo. Prima Nietzsche,


ne La gaia scienza:

§58. Solo come creatori! Questo mi è costato sempre e mi costa ancora il


più grande sforzo: comprendere, cioè, che sono indicibilmente più im-
portanti i nomi dati alle cose di quel che esse sono. La fama, il nome, l’a-
spetto esteriore, la validità, l’usuale misura e peso di una cosa; in origi-
ne, perlopiù, un errore e una determinazione arbitraria buttati addosso
alle cose come un vestito e del tutto estranei alla sostanza e perfino al-
l’epidermide della cosa stessa; mediante la fede che si aveva in tutto
questo e il suo progressivo incremento di generazione in generazione, so-
no gradatamente, per così dire, concresciuti con la cosa e si sono radi-
cati in essa fino a divenire la sua carne stessa: fin dal principio l’apparenza
ha finito quasi sempre per diventar la sostanza, e come sostanza si è resa
operante. Chi pensasse che il rinvio a quest’origine e a questo nebbioso
involucro dell’illusione basterebbe ad annientare questo mondo tenuto
per sostanziale, questa cosiddetta “realtà”, non sarebbe altro che un bel
pazzo! Solo come creatori noi possiamo annientare! Ma non dimenti-
chiamo neppure questo: che basta creare nuovi nomi e valutazioni e ve-
rosimiglianze per creare, col tempo, nuove “cose”7.

Uno dei punti principali dell’aforisma è, come dice il titolo stesso, «so-
lo come creatori». Uno dei suoi sotto-temi è quindi il fatto che possia-
mo disfare un’idea da noi nominata solo creando un concetto positivo
e mettendolo al suo posto. La decostruzione fine a se stessa è un gioco
auto-indulgente. Ma è per l’altra idea in esso contenuta che porto l’at-
tenzione su questo passaggio: un numero indicibilmente più grande di
conseguenze deriva dal modo in cui le cose sono chiamate più che da
ciò che esse sono. Ed è sufficiente creare nuovi nomi, nuove valutazio-
ni e nuove probabilità per creare nuove “cose”.
Sebbene con qualche cautela, mi trovo in accordo con Nietzsche
quando si tratta di nomi di tipi di persone. Ho usato questo passaggio
in un articolo nel quale ho espresso la mia posizione attuale su uno dei
miei interessi, totalmente differente, ovvero la classificazione delle per-
sone e l’interazione delle classificazioni con le persone stesse8. Ma, sal-
vo ulteriori specificazioni, non sono incline ad applicare lo stesso tipo
di ragionamento quando si tratta dei nomi delle cose. Le persone, non
LEZIONE IV. REALISMI E ANTIREALISMI 147

c’è bisogno di dirlo, sono “cose”, ma, nel loro caso, sono il modo in
cui una persona si concepisce e il modo in cui essa viene concepita
dalle altre persone a fare la differenza. Se mi si vuole etichettare in qual-
che modo, ritengo d’essere decisamente materialista a proposito delle
cose non senzienti, come diventerà sempre più chiaro verso la fine di
questa lezione. L’aforisma di Nietzsche mi è quindi congeniale solo
quando si tratta dei nomi dei tipi di persone; esso non propone una dot-
trina attraente per le cose.
Vorrei porre accanto a quello di Nietzsche un piccolo passaggio di
Chuang Tzu, tratto dai cosiddetti The Inner Chapters. Da quanto mi
risulta, si presume che questi capitoli siano stati scritti dal filosofo taoi-
sta in persona e non siano il frutto del lavoro di qualche commentato-
re successivo.
Prenderò due frasi davvero degne di nota, in traduzione, estrapo-
landole dal contesto:

(1) Il nome è l’ospite della realtà9.

Soffermiamoci a riflettere su quest’affermazione. È una bella frase,


indipendentemente da ciò che Chuang Tzu intendesse, o dalla corret-
tezza o meno della traduzione dal cinese di 2300 anni fa. Pierre Hadot
ha detto che «scrivere la storia del pensiero significa a volte scrivere la
storia di una serie di errori di interpretazione»10. Egli ha raccontato la
storia di una sentenza ancora più vecchia, attribuita a Eraclito: «La
natura ama nascondersi». È importante per la storia della filosofia ci-
nese sapere che cosa Chuang Tzu intendesse esattamente, ma, qualsia-
si cosa egli volesse dire, quella frase è straordinariamente potente anche
da sola, fuori dal suo contesto.
Pensiamo comunemente che gli errori d’interpretazione siano qual-
cosa di terribile. Dobbiamo scoprire quello che il saggio intendeva ve-
ramente! Certo che si dovrebbe, ma si dovrebbero anche incoraggiare gli
errori d’interpretazione innovativi e durevoli. La Natura stessa sembra
evolvere grazie a errori di trascrizione del codice genetico che si rivela-
no fecondi. L’errore d’interpretazione può, a seconda dei casi, rivelarsi
più creativo rispetto a un’interpretazione che è tutt’al più semplicemen-
te affidabile. Qualsiasi cosa io dica a proposito del fatto che il nome è
l’ospite della realtà sarà probabilmente un errore d’interpretazione di
148 LA RAGIONE SCIENTIFICA

quella che forse è una cattiva traduzione di una frase antica, magari tra-
scritta in maniera scorretta. Ciò non mi disturba affatto. Così com’è (1)
è splendida e ha il merito di farti riflettere. La leggo, prima di tutto, co-
me un forte impegno verso un tipo di realtà, totalmente indipendente,
anzi, precedente rispetto al nominare, classificare e a qualsiasi altra atti-
vità intellettuale umana. La realtà è semplicemente lì e a volte accoglie
questo o quel nome come appropriato, ma solo come un ospite.
Quest’idea non è esattamente il “realismo”, in nessuno dei sensi fi-
losofici ai quali ho accennato prima. Potremmo dire che essa è reali-
sta in senso proprio, o anche in senso mistico, perché esprime un
profondo rispetto per ciò che esiste. Qualche pagina dopo, tuttavia, si
legge un’altra frase, che sembra essere un’espressione radicale di no-
minalismo:

(2) Il nominare le cose le rende reali11.

Questo sembra proprio Nietzsche! Ma ciò che segue cambia imme-


diatamente il tono.

Perché reale? Reale perché reale. Perché irreale? Irreale perché irreale.
Quindi il reale è in origine nelle cose stesse e ciò che è sufficiente è an-
ch’esso originariamente lì, nelle cose. Non c’è niente che non sia reale e
niente che non sia sufficiente12.

Prenderò quest’ultimo brano come l’espressione di un “realismo real-


mente reale” [really-real realism], o, meglio, di un “realismo reale”
[really-realism]. Contrariamente al realismo della scolastica, che espri-
me un impegno verso la “realtà” degli universali, dei concetti e delle
classi, questi aforismi sembrano manifestare un rispetto profondo per
una realtà che risulta di per sé compiuta, indipendentemente da ciò
che gli umani fanno o pensano.
Forse un filosofo analitico di lingua inglese del XXI secolo vede (1)
e (2) come compatibili nel modo seguente: una realtà compiuta prece-
de qualsiasi concettualizzazione. Quando un nome è l’ospite benve-
nuto di quella realtà, esso seleziona una certa cosa, o un certo tipo di co-
sa, che grazie a ciò diviene reale perché è un ospite di quella realtà
compiuta. Lo stesso filosofo potrebbe suggerire che l’antico saggio pen-
LEZIONE IV. REALISMI E ANTIREALISMI 149

si alla realtà compiuta come alla ragione per ciò che diciamo e sappia-
mo sulle cose, rifiutando però allo stesso tempo il tentativo, tipico del-
l’Illuminismo europeo, di fornire fondamenti alla conoscenza. Questo
rende Chuang Tzu e Nietzsche sorprendentemente vicini.
Questa piccola parentesi indica che non prendo troppo sul serio l’i-
dea che i problemi filosofici siano relativi a un gruppo linguistico. Per
evitare fraintendimenti, specifico che non prendo troppo seriamente
neanche l’idea che il filosofo tedesco e quello cinese, separati da due
millenni, abbiano avuto esattamente le medesime preoccupazioni.

6. L’ontologia generale e le scienze speciali

Per ritornare al mio tema principale, ho detto di non voler parlare


troppo dell’opposizione tra realismo e antirealismo in generale. Que-
sto perché mi occuperò di questioni relative all’esistenza che origina-
no dalle scienze. Per esempio, attorno al 1970 i filosofi analitici della
scienza iniziarono a parlare di “realismo scientifico”. La domanda che
essi avevano in mente era se le entità teoriche inosservabili, come ad
esempio quelle postulate dalla fisica, esistessero o meno. I realisti scien-
tifici dicevano di sì, un’entità esiste se una teoria che la riguarda risul-
ta essere vera, anche se l’entità è inosservabile per principio. Gli anti-
realisti scientifici – come i positivisti e gli strumentalisti – sostenevano
che le entità non esistessero. Esse sono solo strumenti per il pensiero; i
termini che usiamo per esprimerle non denotano entità che esistono ve-
ramente. Bertrand Russell ha formulato quest’idea in maniera precisa,
sostenendo che, in tutti i casi in cui è possibile, dovremmo sostituire en-
tità inferite con costruzioni logiche.
Apro qui una parentesi per dire che il positivismo può essere mor-
tale. Il positivismo classico, introdotto in Francia da Auguste Comte ne-
gli anni Trenta del XIX secolo, è stata una filosofia viva, dotata di chie-
se che avrebbero dovuto rimpiazzare quelle della religione organizza-
ta. Sono stato in una di queste chiese, nella capitale della provincia più
meridionale del Brasile, Porto Alegre. La piazza principale di quella
capitale è una piazza come molte altre, con un imponente palazzo di go-
verno, una cattedrale ecc., ma nel centro c’è un monumento al positi-
vismo e al progresso, alto svariati metri. Negli anni Ottanta, dopo la
150 LA RAGIONE SCIENTIFICA

restaurazione del governo elettivo, i primi due governatori appartene-


vano al partito positivista. Il secondo di essi morì di vaiolo perché non
credeva nei germi e non era vaccinato. Egli non credeva che le entità
teoriche esistessero veramente.
Un positivismo più moderato e riflessivo evita questo pericolo. L’em-
pirismo costruttivo di Bas van Fraassen sostiene solo che non possia-
mo asserire che questa o quell’entità teorica esista. Non si dovrebbe
credere che esse esistano, perché non abbiamo ragioni per credere o
asserire che esistano. Ancora peggio, nella maggior parte dei casi non
potremmo avere tali ragioni, per quanto adeguate a livello empirico sia-
no le nostre teorie. Ma abbiamo comunque il permesso, secondo que-
st’esigente filosofia, di agire come se le teorie fossero vere – cioè, quan-
do le teorie sono empiricamente adeguate. Quando le teorie sul vaiolo
sono empiricamente adeguate dovremmo vaccinarci contro il vaiolo
ed evitare la morte che attende il positivista eroico.
Mi piacerebbe sostenere che i dibattiti sul realismo nelle scienze par-
ticolari non hanno molto a che vedere con i dibattiti ontologici più ge-
nerali o con i problemi sugli universali. Certamente van Fraassen non
sembra esattamente un nominalista medievale classico come Gugliel-
mo di Ockham. Ma ho delle difficoltà a procedere oltre su questa stra-
da, ed è perché rimango legato alla visione tradizionale secondo la
quale la matematica è una scienza. Il “platonismo” in matematica è
una versione della dottrina realista a proposito degli oggetti matemati-
ci e l’anti-platonismo è una dottrina anti-realista. Entrambe, come ho
sostenuto nella seconda lezione, sono le conseguenze dell’introduzio-
ne dello stile di ragionamento matematico. Eccoci di nuovo all’ontolo-
gia, perché gli oggetti astratti della matematica erano uno dei pilastri
dell’intera filosofia realistica di Platone.
Per un’ottima conferma di quanto sopra, ritorniamo all’utile ma-
nuale di Russell, I problemi della filosofia. Nella seconda lezione, Da
dove vengono gli oggetti matematici?, volevo mostrare come la filosofia
europea fosse stata ossessionata dalla matematica sin dall’inizio. Ho ini-
ziato la discussione citando dai Problemi di Russell: «La domanda po-
sta da Kant all’inizio della sua opera filosofica, “come è possibile la
matematica pura?”, è una domanda interessante e difficile, a cui ogni
filosofia non puramente scettica deve trovare una risposta»13. Questo
passaggio è tratto dall’ottavo capitolo, sulla conoscenza a priori, il ca-
pitolo immediatamente precedente a quello sugli universali con il qua-
LEZIONE IV. REALISMI E ANTIREALISMI 151

le ho iniziato questa lezione. Quel capitolo si conclude con un accen-


no al «prossimo capitolo, dove vedremo che esso [l’esame di ciò che
sappiamo degli universali] risolve il problema della conoscenza a prio-
ri, dal quale fummo condotti la prima volta a prendere in considera-
zione gli universali»14.
Russell vedeva quindi l’opposizione tra realismo e antirealismo, nel-
la misura in cui questa riguarda la realtà ontologica degli universali,
come intrinsecamente connessa con il realismo e l’antirealismo a pro-
posito degli oggetti matematici. Da un punto di vista storico egli aveva
senza dubbio ragione. Non posso quindi tenere i problemi metafisici
generali così lontani dalle scienze come avrei voluto.

7. Il tipo di antirealismo di Dummett

Non ho ancora finito con l’elenco dei tipi di realismo dei quali non
parlerò (ma dei quali finisco in realtà per parlare anche troppo). Mi-
chael Dummett ha iniziato la sua carriera come logico e filosofo della
matematica. È stato attirato verso la matematica da un profondo inte-
resse per l’intuizionismo e per il costruttivismo, tuttavia, egli si è al
tempo stesso opposto alle posizioni espresse da Wittgenstein nelle Os-
servazioni sopra i fondamenti della matematica. Dummett distingueva
nettamente la negazione del principio del terzo escluso dalla negazio-
ne della bivalenza, la dottrina secondo la quale le proposizioni devono
avere uno di due valori di verità. Egli ha trasformato il realismo in una
tesi sulla bivalenza.
Dummett applicava questa nozione in maniera trasversale. Si consi-
deri un uomo, ormai morto, che non ha mai avuto in vita sua l’oppor-
tunità di dimostrare o anche solo di lasciar intendere se fosse coraggioso
o meno. In questo caso, secondo Dummett – e sono tendenzialmente
d’accordo con lui – la proposizione «egli era un uomo coraggioso»
non è vera. Tuttavia, per la stessa ragione, neanche la proposizione «egli
non era un uomo coraggioso» è vera. Così, secondo la concezione dum-
mettiana del realismo come impegno verso la bivalenza, egli è un anti-
realista a proposito del coraggio di quest’uomo.
Dummett si è avvicinato a varie dottrine anti-realiste a proposito del-
la storia e, in generale, ha incoraggiato un tipo di discorso anti-realista
dell’anti-bivalenza che, non molti anni fa, ha iniziato a diffondersi in
152 LA RAGIONE SCIENTIFICA

modo particolare tra i filosofi britannici. Anche in questo caso, si trat-


ta di un anti-realismo sul quale non mi soffermerò.

8. Un’allusione a Richard Rorty

L’ultimo Richard Rorty, che fece un tour di lezioni a Taiwan qual-


che anno fa, pensava che l’intera famiglia di dibattiti tra i realisti e gli
antirealisti fosse fuori strada. Pensava in particolare che quelli in corso
negli anni Ottanta in America fossero senza senso. Mi ricordo di aver-
gli sentito dire, durante una conversazione, in quello che per lui era
un tono di voce piuttosto rancoroso: «Il realismo è Mickey Mouse».
Nello slang di quei tempi ciò significava “troppo facile”, che l’intera
discussione non era degna di un fumetto per bambini.
Forse dovrei dire una parola qui sul mio approccio alla filosofia di
Rorty. Questo perché mi è stato detto che il libro basato sulle sue lezioni
qui a Taiwan ha ricevuto una vasta e positiva accoglienza15.
Sono sempre stato indeciso sul giudizio da dare al suo modo di fare
filosofia. Non sono d’accordo col suo far funzionare insieme più tipi
di discorso, come parti di una conversazione umana indifferenziata.
Certo, è importante che la conversazione prosegua e nella maniera più
incondizionata possibile. Ma io credo di avere un istinto molto diver-
so da quello di Rorty: io sono uno che separa, che divide, un analista;
non credo che il tracciare delle distinzioni sia un fine in sé, ma senza
distinzioni nessun fine può esser perseguito. Metto sempre tutto al
plurale nei titoli! Esempio: non parlo di “realismo” ma di “realismi”.
Mi è stato chiesto di scrivere un soffietto editoriale per l’ultimo li-
bro di Rorty, il quarto volume della sua collezione di saggi pubblicata
dalla Cambridge University Press e apparsa quest’anno, appena prima
che morisse. Ho impiegato molto tempo per scrivere 60 parole che
esprimessero la mia ammirazione senza nascondere le mie perplessità.
Alla fine, la casa editrice ha deciso di mettere solo un soffietto sul re-
tro del libro, il mio. Citerò me stesso, perché queste parole hanno ri-
chiesto davvero molto lavoro:

Penetranti e decisamente piacevoli alla lettura, questi saggi insistono fi-


no allo sfinimento sul leitmotiv di John Dewey: la filosofia conta davve-
LEZIONE IV. REALISMI E ANTIREALISMI 153

ro qualcosa quando cambia ciò di cui vogliamo parlare e il modo in cui


lo facciamo. Nel dettaglio, questi saggi mi sembrano poter essere o bea-
tamente corretti oppure sbagliati in modo irritante: il fatto che essi rie-
scano a causare una tale reazione mi fa sospettare di molta della filoso-
fia a cui sono affezionato16.

Questo è quello che penso, anche rispetto al suggerimento che i dibat-


titi sull’alternativa realismo/antirealismo siano “Mickey Mouse”. Rorty
mi disse ciò venti o trent’anni fa. All’epoca mi dette fastidio, nonostante
fossi incline a pensarla allo stesso modo e nascondessi a me stesso il
fatto di sentirmi in accordo con lui. Oggi sono ancora più d’accordo.
Mi sento anche maggiormente propenso a usare l’epiteto di Nelson
Goodman e parlare d’irrealismo per esprimere una certa indifferenza
nei confronti dei tradizionali dibattiti tra realisti e antirealisti.

9. L’atteggiamento ontologico di Arthur Fine

Rorty parlava di Arthur Fine come del suo «filosofo della scienza pre-
ferito»17. L’articolo di Fine, The Natural Ontological Attitude, inizia con
la frase: «Il realismo è morto»18. Rorty ne riassume correttamente il pun-
to centrale: Fine afferma che «non dovremmo essere né realisti né an-
tirealisti, che l’intero problema del realismo e dell’antirealismo do-
vrebbe esser lasciato da parte». Sono d’accordo sul fatto che vada la-
sciato da parte. Ma questo problema non si lascerà mettere in soffitta
tanto facilmente. Senza dubbio, Fine, con «il realismo è morto», in-
tendeva richiamare Nietzsche. In qualunque modo stiano le cose nel ca-
so di Dio, tuttavia, i dibattiti sulla sua esistenza non sono spariti dal pen-
siero occidentale nel momento in cui Nietzsche scrisse il suo famoso
aforisma. Ho pensato fosse utile arrivare a un qualche tipo di com-
prensione del richiamo che i realismi e gli antirealismi esercitano in fi-
losofia. Questo è stato uno dei temi delle mie prime tre lezioni. Chia-
miamola “la tesi delle conseguenze” [the by-product thesis]: nei dibat-
titi ontologici che affliggono le scienze, i vari tipi di oggetti che sono
rigettati dagli antirealisti, gli oggetti nudi e crudi, la cui esistenza è in-
vece asserita dai realisti, sono tutti conseguenze degli stili di pensiero
scientifici che li hanno introdotti.
154 LA RAGIONE SCIENTIFICA

Non credo che il realismo sia morto. Non m’interessa né ucciderlo


né tenerlo in vita artificialmente. Sono solo curioso di sapere perché
continuino a spuntare così tanti tipi di realismo. Ma qui restringo la por-
tata della mia domanda: perché i dibattiti sul realismo continuano a
proliferare tra i filosofi che riflettono sulle scienze, mentre non tango-
no minimamente gli scienziati che lavorano nei rispettivi campi di spe-
cializzazione?

10. Che ne è del mio argomento per il realismo delle entità?

Il mio libro del 1983, Representing and Intervening, era diviso in


due parti da ciò che chiamo una “rottura”. La seconda parte contene-
va un argomento a favore del realismo delle entità teoriche inosserva-
bili. Pensavo forse allora che il realismo fosse importante? No. Ho cam-
biato idea? Nient’affatto. Mi si permetta prima di evidenziare un paio
di righe dalla seconda pagina del libro.

Da tempo le dispute tanto sulla ragione quanto sulla realtà hanno pola-
rizzato l’interesse dei filosofi della scienza […]. Si tratta di questioni
importanti? Ne dubito. Noi vogliamo sapere che cosa è realmente reale
e cosa è veramente razionale. Eppure si vedrà che per parte mia trascu-
ro la maggior parte delle questioni relative alla razionalità, e che sono rea-
lista solo in base a ragioni del tutto pragmatiche19.

Si tratta di questioni importanti? Ripeto, ne dubito. Certo, ne dubito an-


cora, venticinque anni dopo che queste parole sono state pubblicate.
Quando prima ho parlato di Rorty, il grande neo-pragmatista dei no-
stri tempi, ho mancato di dire che sono io stesso un “pragmatista”, va-
le a dire un membro patentato della filosofia di Peirce-James-Dewey.
Ho detto che se c’è un senso in cui sono realista è per ragioni pragma-
tiche, non per via del pragmatismo. Peirce è uno dei miei eroi, proprio
come Dewey è sempre stato d’esempio per Rorty. Ho mostrato tutto ciò
in un articolo recente, in cui spiego perché non sono un pragmatista20.
Il mio libro era un appello in favore dell’esperimento. La frase chia-
ve era «la sperimentazione ha una vita propria», indipendente dalla teo-
ria. La prima parte del libro spiegava diligentemente, in maniera ac-
LEZIONE IV. REALISMI E ANTIREALISMI 155

cessibile ma accademicamente corretta, ciò che era necessario sapere


sui dibattiti filosofici recenti riguardanti la scienza teorica. Quando il li-
bro venne pubblicato i filosofi mancavano semplicemente d’interesse
per l’esperimento. Volevo aprire una porta. Il realismo scientifico era
una vera e propria moda negli anni Ottanta: ho usato l’accesa contro-
versia sul realismo scientifico come un perno su cui far leva con la mia
difesa degli esperimenti.
Ho avuto fortuna. A mia insaputa, un sacco di giovani ricercatori sta-
vano a iniziando ad aprire, a modo loro, la stessa porta. Alla fine di
quel decennio l’esperimento era assolutamente in voga tra i filosofi, gli
storici e soprattutto i sociologi della scienza.
Non c’era quindi alcuna contraddizione, nella mia mente, tra il mio
argomento sperimentale per il realismo scientifico e ciò che ho detto a
pagina 2, dove dubitavo che i dibattiti che vertono sul realismo (o sul-
la razionalità) fossero importanti. A volte vorrei aver chiesto a Rorty il
permesso di citare il suo commento, «il realismo è Mickey Mouse».

11. In che cosa consisteva l’argomento sperimentale?

(a) Se (NON “solo se”)

Molte persone ricordano una frase che si trova nelle prime pagine del
libro: «Se puoi spruzzarli, allora sono reali». Questa frase si riferiva a
una pistola a elettroni che spruzzava elettroni polarizzati per ottenere
certi effetti ben noti su di una sfera super-fredda, super-conduttiva e su-
per-fluida di niobio.
Un numero sorprendente di lettori, in un primo momento, intese
non solamente quanto sopra, ma anche che «le entità sono reali solo se
puoi spruzzarle». Non ho mai pensato questo. Non mi è semplicemente
mai venuto in mente, ed è per questo che non ho mai preso precauzio-
ni rispetto al fatto che qualcuno potesse pensarlo. Ernan McMullin
era un filosofo della scienza sincero, che mi ha confessato, scusandosi,
che aveva in effetti fatto proprio quest’errore di lettura.
Più in generale, la mia idea principale era che i dibattiti allora cor-
renti sul realismo scientifico non risultassero mai risolutivi perché con-
dotti al livello della teoria e spesso al livello della semantica. Essi si
156 LA RAGIONE SCIENTIFICA

svolgevano sempre come se i dibattenti avessero sottoscritto quella


che John Dewey chiamava «la teoria della conoscenza dello spettatore».
Come se tutto quello che facciamo nelle scienze fosse guardare e par-
lare, senza mai fare niente. La mia tesi di fondo era quindi che, solo li-
berandosi dalla teoria dello spettatore e iniziando a comprendere che
la scienza implica il fare tanto quanto il ragionare, si poteva perdere
interesse nei dibattiti che prosperavano negli anni Ottanta.

12. Qual era l’argomento sperimentale?

(b) L’argomento più forte (NON quello definitivo)

Il mio argomento sperimentale si trova al capitolo 16. La prima fra-


se di quel capitolo dice:

Il lavoro sperimentale fornisce l’evidenza più forte a favore del realismo


scientifico.

Continuavo così:

Ciò non è dovuto al fatto che si sottopongano a controllo le ipotesi sul-


le entità. È dovuto al fatto che le entità che in linea di principio non
possono essere “osservate” sono manipolate regolarmente per produr-
re nuovi fenomeni e per indagare altri aspetti della natura. Sono attrez-
zi, strumenti, che non servono a pensare ma a fare (p. 310).

E via di seguito. Ho continuato fino a rendere questa riflessione piutto-


sto convincente, almeno secondo il mio parere. La mia intenzione è sem-
pre stata quella di evitare il punto di vista dello spettatore. Sono stato
in laboratorio, a osservare un team di sperimentatori. Ho provato a par-
tecipare, facendo del mio meglio (che non è molto) per essere un osser-
vatore partecipativo. Ho quindi fatto l’esperienza di pensare a come
far usare alla strumentazione una certa entità al fine di ottenere qualco-
s’altro. Si noti che nella prefazione del libro ringrazio un collega che mi
ha accolto nel suo laboratorio per imparare a usare un microscopio e per
rompere un sacco di vetri nel tentativo di destreggiarmi. Oggi ho un
LEZIONE IV. REALISMI E ANTIREALISMI 157

assistente di ricerca, un dottorando dell’Università di Toronto, Eran Tal,


che, supportato da due dottorandi in fisica, sta facendo esattamente la
stessa cosa in un laboratorio di ottica quantistica che usa atomi freddi.
Non ho mai pensato che l’argomento sperimentale fosse qualcosa
di più che l’argomento più forte in favore del realismo scientifico, co-
me dico in quella frase d’apertura. L’argomento può, in un caso parti-
colare, risultare convincente, può essere persuasivo, ma non per que-
sto esso è definitivo.
Ho pensato, invece, che se un’entità non è ancora arrivata al punto
di poter essere manipolata al fine di servire da strumento per scoprire
qualcosa a proposito di qualcos’altro, allora non abbiamo ancora un ar-
gomento convincente per sostenere la sua esistenza. Non ho detto che
in quelle circostanze non abbiamo alcun argomento, o che non possia-
mo ragionevolmente pensare che tale entità esista. Di sicuro non in-
tendevo dire che «senza manipolazione, l’entità non esiste».

13. Un buon argomento può sempre avere una conclusione falsa

Coloro che insegnano la logica elementare devono ricordare ai loro


studenti che ottimi argomenti possono, talvolta, portarci fuori strada.
L’argomento più forte che abbiamo a favore del realismo delle entità
non deve necessariamente essere decisivo. Spesso i critici tirano in bal-
lo vecchie storie come controesempi: il flogisto o l’etere onnipervasivo
dei primordi della teoria elettromagnetica. Non mi sembra affatto ov-
vio che queste “entità” ipotetiche venissero manipolate per interferire
con e conoscere meglio altri oggetti, o che si progettassero strumenti
per sfruttare al massimo le capacità di utilizzarle. Mi si lasci quindi
prendere un (contro-) esempio che conosco molto più dettagliatamen-
te e che rispecchia meglio la forma del mio argomento.
Il mio enunciato, sopra citato, sull’«evidenza più forte», potrebbe es-
sere ambiguo. Il realismo scientifico non è una dottrina passe-partout
per la quale ogni entità proposta da una teoria qualsiasi è “reale”. È la
dottrina per cui, quando si sta usando una certa entità per indagarne al-
tre, non ha senso parlare di antirealismo a proposito di quella prima en-
tità. Non che si sia ragionevolmente convinti che essa sia reale e quindi
che la dottrina generale che porta sulla realtà di (determinate) entità
158 LA RAGIONE SCIENTIFICA

teoriche sia vera. Il punto di vista dello sperimentatore può essere espres-
so da quello che potremmo chiamare un argomento performativo.
Il mio realismo sperimentale originario consiste in questo:

(α) Il lavoro sperimentale fornisce l’evidenza più forte a favore della


realtà di un’entità teorica inosservabile.

Ho sempre pensato al realismo di questa o di quell’entità usando il


mio esempio arcinoto dell’elettrone, o, in maniera più interessante, gli
elettroni polarizzati. Adesso penso che non avrei dovuto parlare affat-
to di “evidenza”, perché ciò lascia pensare che si stia “inferendo” l’esi-
stenza di un’entità che usiamo. Per dirla in breve, questa parola sugge-
risce un ritorno alla teoria della conoscenza dello spettatore di John
Dewey. La scienza non è uno sport per spettatori. È un gioco che va gio-
cato e quelli che giocano a hockey non inferiscono l’esistenza del di-
sco: lo colpiscono, lo spostano, lo mirano, spesso lo mancano ma a
volte ci segnano dei goal.
Siccome ho scritto in termini di “miglior evidenza”, la maggior par-
te dei commentatori si è rifiutata di abbandonare il banco dell’accusa.
Essi sostengono che il mio argomento sia un caso d’inferenza alla mi-
gliore spiegazione. Niente di più lontano da ciò che intendevo. Sono
gli spettatori quelli che articolano spiegazioni21.
Scelgo in modo arbitrario un articolo recente che riunisce due erro-
ri d’interpretazione della mia idea in una singola frase. Mauricio Suá-
rez etichetta la mia «affermazione metafisica» come un caso di:

Realismo sperimentale metafisico: la manipolazione è una condizione suf-


ficiente per la realtà; x è reale se x può essere manipolato22.

Prima di tutto, ripeto che ho parlato di «evidenza più forte», non del-
la possibilità di manipolare come una condizione sufficiente o una di-
mostrazione della realtà di x. C’è poi un punto molto più importante
per il mio modo di pensare: la mia formulazione non parlava di mani-
polare e basta. Ciò che ho scritto è riportato qui sopra. Ho parlato di
entità che sono manipolate regolarmente per produrre nuovi fenome-
ni e per indagare altri aspetti della natura. Sono attrezzi, strumenti,
che non servono a pensare ma a fare.
LEZIONE IV. REALISMI E ANTIREALISMI 159

La manipolazione fine a se stessa non è molto diversa da uno sport


per spettatori. Ho parlato del manipolare con uno scopo, o meglio,
con più scopi: produrre nuovi fenomeni, indagare altri aspetti della
natura, scoprire qualcosa. Inoltre non si deve dimenticare l’avverbio re-
golarmente. Una manipolazione isolata per tentare di produrre un nuo-
vo fenomeno non è abbastanza.
Suárez trova difficoltà nel distinguere una versione metafisica da una
versione epistemologica del realismo sperimentale. Nel realismo spe-
rimentale epistemologico, «la manipolazione è una condizione neces-
saria e sufficiente per la giustificazione causale [causal warrant]: la no-
stra credenza che x esiste acquisisce questo tipo speciale di giustifica-
zione se e solo se noi crediamo di manipolare x». Se devo scegliere tra
le due tesi, le mie intenzioni erano e sono metafisiche, non epistemo-
logiche. Il fatto che abbia malauguratamente scelto di parlare di evi-
denza può suggerire che avessi qualche affermazione epistemologica
in mente. In realtà stavo parlando di evidenza in favore di un’afferma-
zione metafisica. Si ricordi, comunque, il mio dubbio circa la reale im-
portanza delle questioni metafisiche!

14. Il migliore ma non quello definitivo

Avrei preferito non aver espresso (α) in termini di evidenza, ma così


è stato e devo conviverci. (α) non dice, neanche a proposito di un qua-
lunque caso particolare, che l’evidenza è decisiva, solo che è convin-
cente. Per questo gli esempi che menzionano l’uso del flogisto per pro-
durre vari effetti – e con esso tutti gli esempi simili – non indebolisco-
no affatto il mio argomento. Non conosco abbastanza la storia del
flogisto per sapere ciò che Priestley o chi per lui pensava di stare fa-
cendo. Ma sono pronto ad accettare sulla fiducia che il suo lavoro spe-
rimentale gli abbia fornito una prova convincente per la realtà del flo-
gisto. Questa non era però, purtroppo, decisiva.
L’esempio che vorrei portare è tratto dai primi tempi della fotogra-
fia. Edmond Becquerel (1820-1891) faceva parte di una grande dina-
stia; suo figlio fu tra i vincitori del Premio Nobel per la scoperta della
radioattività e suo padre fu uno dei grandi pionieri dell’elettrochimi-
ca. Nel 1839, all’età di 19 anni, Edmond presentò un articolo che, con-
siderato retrospettivamente, può essere visto come la prima dimostra-
160 LA RAGIONE SCIENTIFICA

zione dell’effetto fotoelettrico23. All’epoca, gli effetti base della foto-


chimica erano spiegati facendo l’ipotesi che il sole emettesse due tipi
di radiazione, i raggi di luce e i raggi chimici. Ciò veniva insegnato nel-
le lezioni e nei manuali dell’École polytechnique, la cattedrale francese
della matematica e della fisica. Edmond usava i raggi chimici per pro-
durre differenze di potenziale elettrico e continuò con esperimenti sem-
pre più creativi in questo senso. Sono sicuro che fosse convinto della
realtà dei raggi chimici precisamente perché poteva usarli per indaga-
re altri fenomeni, come il potenziale elettrico, e soprattutto per poter
cambiare le proprietà di varie emulsioni di cloruro in ciò che oggi chia-
miamo fotografia. Nello stesso anno, il 1839, Daguerre spiegava il se-
greto del suo meraviglioso processo per produrre immagini, il dagher-
rotipo; nel 1840, il giovane Edmond Becquerel in persona usava i rag-
gi chimici per produrre immagini eccezionali – fotografie – di ponti
sulla Senna, i giardini delle Tuileries, etc. Egli disponeva di un argo-
mento convincente per l’esistenza di queste entità teoriche, i raggi chi-
mici. Purtroppo, come molti argomenti convincenti, non era decisi-
vo24. Ma questo non è un controesempio di (α) circa l’evidenza più for-
te a favore del realismo scientifico di questa o quell’entità.
Il mio argomento non si riferiva al fatto di prendere in considera-
zione qualche esperimento, si riferiva alla manipolazione. Era prima
di tutto una spiegazione della convinzione che hanno gli sperimentatori
del fatto che talvolta le entità che essi usano sono tanto reali quanto le
loro mani sinistre. A questo si può rispondere: sappiamo bene che gli
scienziati la pensano così, e allora? Io dico che non è solo che pensano
così; essi hanno una ragionevole convinzione basata su ciò che sono in
grado di fare con varie entità. Ho fatto riferimento, in particolare, al-
l’ingegneria: ciò che avevo in mente era la progettazione e la costru-
zione di un apparato strumentale finalizzato alla possibilità di agire su
di un’entità, ad esempio gli elettroni polarizzati, o i raggi chimici.

15. Quando non è possibile interferire

Ho scritto, in seguito, un articolo sulle lenti gravitazionali, proprio


nel momento in cui esse facevano notizia, vale a dire nel 1986, dopo che
furono localizzate le prime quattro di tali lenti25. L’effetto “lente gravi-
LEZIONE IV. REALISMI E ANTIREALISMI 161

tazionale” [gravitational lensing] è una conseguenza della teoria della


relatività generale. Supponiamo che ci sia una stella di massa enorme,
a grandissima distanza. Supponiamo anche che ci sia una sorgente lu-
minosa ancora più lontano, dietro alla prima stella. La luce che proviene
da quella sorgente sarà deviata dalla stella, magari da entrambi i suoi
lati, proprio come la luce è deviata dal riflesso quando passa attraver-
so una lente di vetro adatta. Se siamo abbastanza fortunati e le condi-
zioni sono quelle giuste, le lenti gravitazionali ci forniranno un’oppor-
tunità straordinaria per rendere oggetti distanti “più vicini”, nel senso
metaforico in cui si dice a volte di un telescopio che avvicina un ogget-
to lontano.
Ho preso le lenti gravitazionali come un esempio perfetto di qualcosa
col quale noi non possiamo interferire, qualcosa che semplicemente
non possiamo manipolare. Einstein, sulla base di un calcolo fatto sul re-
tro di una busta da lettere, aveva concluso che non saremmo mai stati
in grado di localizzare una lente gravitazionale. Questo era per lui
qualcosa di magnifico. Avremmo saputo che questo fenomeno accade
dappertutto nell’universo, senza mai poterlo vedere! Einstein si sba-
gliava. Nel 1980 le lenti gravitazionali iniziarono ad essere localizzate;
adesso sono qualcosa di assolutamente normale. Esse vengono utiliz-
zate per conoscere meglio l’universo lontano (confesso che alcuni de-
gli usi professati sono un po’ esagerati, più per accaparrarsi dei fondi
che per studiare l’universo lontano). Ma nonostante ciò non possiamo
ancora interferire con le lenti, non possiamo metterle a fuoco, sebbe-
ne possiamo fare cose ingegnose con la luce deviata che ci regalano. Si
confrontino le lenti con i raggi cosmici, straordinarie fonti di fasci ad al-
ta energia a basso costo, utilizzati già negli anni Trenta per scoprire le
particelle subatomiche. In questo caso si possono manipolare i fasci, ma
non le sorgenti.
Terminavo quell’articolo forse con troppa leggerezza, suggerendo che
si potesse essere in un certo senso fenomenisti a proposito delle lenti gra-
vitazionali, prendendole come entità teoriche che si adattano in modo am-
mirevole ai fenomeni e riescono a spiegarli. Ho avanzato tale proposta
anche per i buchi neri – a proposito dei quali saremo sempre in una posi-
zione duhemiana, nella quale il meglio che possiamo fare è “salvare (ri-
solvere) i fenomeni”. Questo perché in questo caso siamo dei meri spet-
tatori, spettatori dello scompiglio che pensiamo essi possano portare.
162 LA RAGIONE SCIENTIFICA

Mi stavo facendo prendere la mano, come si vedrà dal fatto che


quell’articolo sull’astrofisica termina citando una poesia. Mi sarei do-
vuto fermare un po’ prima, dicendo semplicemente che le lenti gravi-
tazionali erano, all’epoca, una novità assoluta per l’astronomia osser-
vativa, di un potenziale immenso, ma che l’argomento sperimentale per
il realismo non vi si sarebbe mai potuto applicare. L’argomento più
forte a favore del realismo non poteva essere quindi invocato. Non in-
tendevo asserire in maniera positiva l’antirealismo delle lenti gravita-
zionali. Non volevo affermare che esse non sono sicuramente reali! Mi
scuso con tutti quelli che hanno pensato che ciò che volessi dire fosse
che non dovremmo credere che esse siano reali. Intendevo solo che
abbiamo ragioni più convincenti per asserire l’esistenza degli elettroni
polarizzati che non per le lenti gravitazionali.

16. L’autogiustificazione delle scienze di laboratorio26

Ho pubblicato un articolo con questo titolo dopo che ho iniziato a


sviluppare il mio adattamento filosofico dell’idea degli stili di pensiero
scientifico di Crombie. A quanto pare è stato recentemente tradotto
in cinese.
L’articolo non riguardava il realismo o l’antirealismo. In effetti, es-
so è stato scritto con la ferma convinzione che i dibattiti sul realismo
fossero la conseguenza dell’emergenza delle scienze di laboratorio.
Se si volesse applicare l’epiteto di Nelson Goodman, “irrealista”, a
quell’articolo, lo accetterei con riluttanza. Perché con riluttanza? Per-
ché l’irrealismo ha un che di antirealismo, e ormai non voglio essere
né realista né antirealista. Forse mi crogiolo nell’illusione che Repre-
senting and Intervening fosse un lavoro realista, mentre questo artico-
lo è antirealista. In realtà nessuno dei due è probabilmente nessuna
delle due cose.
L’argomento era che l’esperimento, la teoria e l’apparato sperimen-
tale costituiscono delle risorse plastiche, un concetto che ho ripreso
da Andrew Pickering. Ognuno di essi può essere plasmato e adattato
per aggiustarsi sugli altri. Duhem aveva già mostrato come la teoria
potesse essere modellata per rendere conto dei risultati sperimentali re-
calcitranti, ma anche come si potesse modellare una descrizione del-
LEZIONE IV. REALISMI E ANTIREALISMI 163

l’esperimento in modo da preservare la teoria. Ho aggiunto a ciò che


ci sono molti strati di teoria e di esperimento, incluse le teorie che ri-
guardano la strumentazione e il substrato materiale, cioè la strumenta-
zione fisica. Tutti questi strati vengono cambiati e modificati nel tenta-
tivo di “ottenere” un risultato sperimentale. Il risultato è una specie di
autogiustificazione [self-vindication] che non è circolare in modo vi-
zioso; in effetti, essa è incredibilmente difficile e spesso impossibile da
ottenere. Quando essa risulta impossibile si origina quella ricerca che
non viene mai pubblicata e che è cancellata dalla storia. Ed è, in effet-
ti, la maggior parte della ricerca a esser cancellata.

17. La stabilità delle scienze

Uno degli intenti di quell’articolo era affrontare il tema della stabi-


lità delle scienze. I filosofi sono stati testimoni di un’epoca rivoluzio-
naria, in senso letterale, per le nostre concezioni dello spazio, del tem-
po e della causalità. Ma – diciamo dopo il 1950 – le rivoluzioni hanno
smesso di accadere in fisica. Come se ci fossimo finalmente messi sulla
strada giusta. Ho sostenuto, inoltre, che d’ora in poi non ci saranno
più rivoluzioni, solo sorprese. Quest’ultima era una tesi minore, all’in-
terno di una lunga discussione sugli esperimenti nell’ultra-freddo. In
quest’occasione posso solo rinviare in maniera cursoria a queste idee.
È mia convinzione che la fisica stessa stia cambiando in modo da ren-
dere la mia tesi sull’autogiustificazione sempre più evidente. Ecco una
frase recente che ho notato, riguarda gli atomi freddi:

[…] i nostri risultati indicano il fatto che [il modello di Bose-Hubbard]


è sufficiente per spiegare tutte le proprietà scoperte nell’esperimento e
che l’esperimento è stata una realizzazione chiara del modello, secondo
le attese27.

Il modello è corretto perché spiega come l’esperimento si è svolto e


l’esperimento è ben riuscito perché rispecchia il modello. Serve altro
per poter parlare di autogiustificazione?
DA DOVE VIENE LO STILE DI HACKING?
UN PONTE FRA SCIENCE STUDIES
ED EPISTEMOLOGIA STORICA

di Gerardo Ienna
Come definire e caratterizzare la ragione scientifica? Questa è la do-
manda fondamentale nella quale, per necessità, ogni filosofo, storico o
sociologo delle scienze si è imbattuto almeno una volta nel suo percor-
so intellettuale. Nelle lezioni di Taiwan del 2007, Ian Hacking cerca di
tirare le fila di alcune fra le maggiori linee del suo percorso intellettua-
le. Uno dei concetti cardine della sua filosofia, cui è dedicato ampio spa-
zio in La ragione scientifica, è il concetto di “stile” che costituisce, esso
stesso, in buona parte lo “stile” hackingiano. In parte, come si è visto,
una ricostruzione delle radici storiche di questo termine sono state
fornite dallo stesso autore sia nel testo che presentiamo, sia in altre oc-
casioni. Ma da dove viene questo stile? All’interno di quali dibattiti si
inserisce?
La potenzialità di questo concetto, così come l’ha strutturato
Hacking, è quella di riuscire a costruire dei ponti che mettano in co-
municazione vari orientamenti teorici risolvendo tensioni interne agli
studi sulla scienza che prima risultavano difficilmente conciliabili. Le
poste in gioco sono variegate e le voci che si sono avvicendate dagli
anni Novanta a oggi, riguardo a una possibile ricostruzione archeologi-
ca1 del concetto di stile, ne hanno indicato una pluralità intrinseca for-
se anche grazie alla genericità e plasticità del termine. Per esempio Ar-
nold I. Davidson (autore molto vicino a Hacking) elabora un percorso
genealogico che porta dal concetto di stile nella storia dell’arte, con il
ricorso all’opera di Heinrich Wölfflin e altri, passando per Michel
Foucault, per arrivare fino all’epistemologia di Hacking2. Jean Gayon,
dal canto suo, risale internamente alla tradizione della storia della scien-
168 LA RAGIONE SCIENTIFICA

za fino a Pierre Duhem3. Pierre Bourdieu invece, affascinato dalle po-


tenzialità del concetto anche in campo sociologico, evidenzia l’utilizzo
fattone da Karl Mannheim4 che effettivamente adopera lo stesso ter-
mine tedesco di Ludwik Fleck: Denkstil5. Lo stesso Hacking cita
Stephen Weinberg, Bernard I. Cohen e Noam Chomsky fra i sosteni-
tori del fatto che Edmund Husserl parli già di uno stile galileiano; op-
pure di Oswald Spengler che propone l’idea di stile occidentale6; per
non parlare dei richiami più canonici ad Alistair C. Crombie e Fleck che
sono riconosciuti, ormai universalmente, come i riferimenti intellettuali
egemonici su queste tematiche.
Ci sono almeno due fattori poco evidenziati invece negli studi sul
concetto di stile, sui quali vorremmo cercare di porre l’attenzione per
darne un’adeguata interpretazione. Da un lato è stata sottovalutata
l’intima relazione con l’epistemologia storica francese (al di là dell’e-
splicito riferimento foucaultiano) e in special modo al concetto di re-
gionalismo epistemologico cui il concetto di stile risulta esser una diret-
ta continuazione e risposta. Dall’altro invece, è il suo inserimento al-
l’interno dei dibattiti dei cosiddetti Science (and Technology) Studies,
ai quali Hacking partecipa – a modo suo – elaborando risposte etero-
dosse a partire proprio dai suoi riferimenti teorici variegati. La stessa
traiettoria intellettuale di Hacking si è costituita a partire da questo ti-
po di strategia distintiva di messa in comunicazione, da un lato, di tra-
dizioni filosofiche apparentemente inconciliabili come quella analitica
e anglofona (relativa alla sua formazione) e quella continentale (del
suo avvicinamento ai testi foucaultiani e dell’epistemologia storica) e,
dall’altro, di varie discipline come la storia, la sociologia e la filosofia del-
le scienze. Vediamo dunque di ricostruirne il percorso.
Nel 1980 Martin Hollis e Steven Lukes decidono di curare una rac-
colta di saggi dedicata al rapporto fra razionalità e relativismo7 preoc-
cupati dalla crescente centralità conquistata dal programma forte in
epistemologia, sviluppato alla Science Studies Unit di Edimburgo8 da
Barry Barnes, David Bloor, David Edge e gli altri con il programma del-
la Sociologia della Conoscenza Scientifica (SSK), connotata da un estre-
mo relativismo. Hacking decide di accettare l’invito di Hollis e Lukes
a partecipare al progetto in corso di preparazione per il quale scriverà
il celebre testo Linguaggio, verità e ragione9 che segnerà l’inizio di quel-
lo che ha poi chiamato in seguito The Style Project. I curatori organiz-
DA DOVE VIENE LO STILE DI HACKING 169

zarono l’ordine dei contributi a partire dal “più relativista” al più “ra-
zionalista”, aprendo il volume con Relativism, Rationalism and Socio-
logy of Knowledge di Barnes e Bloor, seguito immediatamente dal con-
tributo di Hacking (il quale rimase estremamente sorpreso di come
era stato interpretato il suo posizionamento filosofico)10. Già in questo
testo, viene rintracciata in Crombie la primaria fonte di ispirazione ri-
guardo alla formulazione del concetto di stile. Quest’ultimo autore è
stato il primo a parlare di stili di pensiero, attorno ai quali è costruita la
monumentale opera Styles of Scientific Thinking in the European Tra-
dition del 1994, cui erano però precedute alcune formulazioni a parti-
re dagli anni Settanta in occasione di paper e convegni11. In particolar
modo Hacking dichiara di aver ascoltato una conferenza di Crombie su
quel tema a Pisa, nel 1978, a seguito della quale lui stesso ha comincia-
to a ragionare sul termine “stile”12. Ciò che proponeva Crombie in quel-
l’intervento, e poi in maniera più estesa nel testo del 1994, è l’indivi-
duazione e classificazione di sei stili di pensiero, metodi scientifici che
si sono costituiti nello sviluppo delle scienze:

Schema riassuntivo di comparazione fra gli stili di pensiero di Crombie


e gli stili di ragionamento di Hacking.

I primi tre stili rappresentano essenzialmente l’analisi delle regolarità


individuali, mentre gli ultimi tre riguardano piuttosto l’analisi delle re-
golarità delle popolazioni ordinate nello spazio e nel tempo13. Crom-
bie non fornisce una chiara definizione analitica del concetto di stile di
170 LA RAGIONE SCIENTIFICA

pensiero, accontentandosi piuttosto di darne una connotazione e de-


scrizione che Gayon ha definito ostensiva14. È piuttosto a Hacking che
si deve «quella che a oggi è la caratterizzazione dello stile di ragiona-
mento più promettente dal punto di vista filosofico», cui arriva «com-
binando a modo suo la lezione di Foucault e quella di A.C. Crom-
bie»15. Come ha sottolineato Vagelli nel saggio introduttivo16, l’appor-
to di Hacking alla formulazione di una teoria degli stili è fondamentale
e rappresenta a tutti gli effetti in cosa consista, per la sua filosofia, la
ragione scientifica. In tal senso, bisogna prima di tutto sottolineare lo
shift linguistico da lui messo in opera dagli stili di pensiero formulati
da Crombie, agli stili di ragionamento:

Ci sono molti altri motivi che mi hanno fatto optare per il ragionamen-
to rispetto al pensiero. […] “Ragionamento” evoca anche la Critica del-
la ragion pura. Il mio lavoro è una continuazione del progetto kantiano
di spiegare come sia possibile l’oggettività. […] Kant non pensava che
la ragione scientifica fosse un prodotto storico e collettivo. Noi sì. I miei
stili di ragionamento, eminentemente pubblici, sono parte di ciò che
dobbiamo capire se vogliamo afferrare il significato di “oggettività”. E
questo non certo perché gli stili sono oggettivi (ovvero perché avremmo
trovato il modo più imparziale per giungere alla verità), ma perché han-
no stabilito ciò che conta come oggettivo (le nostre verità vengono rag-
giunte solo se conduciamo certi tipi di ricerche e rispettiamo degli stan-
dard particolari)17.

A livello storiografico, una volta che il termine “stile” ha trovato la


sua applicazione in epistemologia, storia, filosofia e sociologia delle
scienze, si è cercato di procedere a ritroso, nel tentativo di ricercare
un capostipite simbolico di questa tradizione. Universalmente si sono
potuti riconoscere nell’opera di Fleck Genesi e sviluppo di un fatto
scientifico. Per una teoria dello stile e del collettivo di pensiero18 del
1935, i prodromi iniziatici di questo dibattito. È opportuno segnalare
che l’opera in questione è rimasta pressoché sconosciuta almeno fino
a quando Thomas Kuhn non l’ha citata e presa come punto di riferi-
mento ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche del 1962 (di cui
Hacking ha curato l’edizione del cinquantesimo anniversario) pren-
dendo il concetto di collettivo di pensiero come spunto per costruire
DA DOVE VIENE LO STILE DI HACKING 171

la sua nozione di paradigma. Lo stesso Kuhn ne introdurrà la prima


edizione inglese nel 1979 su impulso di Robert K. Merton, curatore
dell’edizione insieme a Thaddeus J. Trenn per la University Chicago
Press19. Il curatore dell’edizione francese della Genesi è stato Bruno
Latour, che ne ha corredato l’edizione con una postfazione in cui vie-
ne messo evidenza che: «Fleck sviluppa un programma di ricerca che
assomiglia incredibilmente al “programma forte” messo a punto qua-
rant’anni dopo da David Bloor, Barry Barnes, Harry Collins, Steve
Shapin e molti altri»20. In questa maniera si è così costituita ex post la
figura di Fleck come quella di un “precursore” degli Science (and Te-
chnology) Studies, santificata dalla maggior parte degli handbook, del-
le introduzioni e delle varie genealogie21 del campo che sono state pub-
blicate negli ultimi anni e che affermano il suo ruolo di capostipite di
una certa tradizione22.
Ciò che mostra con chiarezza la nozione di stile nell’utilizzo di Fleck
è, in primo luogo, che presuppone una certa pluralità e collettività.
Nel descrivere la storia della sifilide infatti, l’autore mette in evidenza
le differenze che si possono evincere nell’approcciarsi a quel determi-
nato oggetto di studio a seconda che si utilizzi uno stile batteriologico,
uno stile clinico, uno stile dermatologico o uno stile socio-politico23. Dal-
l’altro canto, lo stesso Hacking, che risale alla matrice fleckiana del
termine, tiene a sottolineare la relativa differenza rispetto al suo utiliz-
zo e a quello di Crombie.

Con “stile di pensiero” Fleck intendeva parlare di qualcosa di meno ge-


nerale di quello di cui si occupa Crombie, qualcosa di limitato a una di-
sciplina o a un campo di ricerca. In ogni caso, uno stile di pensiero è
impersonale, caratteristico di un’unità sociale detta “collettivo di pen-
siero”. È la “totalità della preparazione e della prontezza nei confronti
di un modo particolare di vedere e di agire” (Fleck, 1979, p. 64). Fleck
voleva descrivere ciò che è possibile pensare, un Denkstil rende alcune
idee possibili e altre impensabili. Io e Crombie ci concentriamo sulle
estremità dello spettro di questi usi possibili, e quindi abbiamo indivi-
duato pochi stili di pensiero e ragionamento24.

Quali sono dunque le caratteristiche degli stili di ragionamento scienti-


fico? E quali gli apporti di Hacking alla strutturazione del concetto? In
172 LA RAGIONE SCIENTIFICA

primo luogo è necessario sottolineare che esistono diversi stili di ragio-


namento (già il termine stile implica questo pluralismo connotativo del
carattere della ragione scientifica) e che questi hanno un piano di emer-
genza storica ben precisa, con distinte traiettorie di maturazione. In se-
condo luogo, le proposizioni che per esser convalidate hanno bisogno di
un ragionamento possiedono una positività, la possibilità di essere ve-
re-o-false solo in conseguenza dello stile di ragionamento in cui occor-
rono. Da ciò ne consegue che molte delle categorie di possibilità, di ciò
che può essere vero o falso, sono contingenti rispetto agli eventi storici,
ovvero allo sviluppo di determinati stili di ragionamento. In questo sen-
so, se ne può inferire che esistano altre categorie di possibilità rispetto
a quelle che sono emerse nella nostra tradizione. Su quest’ultime è però
impossibile ragionare per determinare se siano migliori o peggiori delle
nostre, in quanto, le proposizioni su cui ragioniamo traggono senso so-
lo dallo stile di ragionamento in esse impiegato. Le proposizioni non
hanno un’esistenza indipendente dai modi di ragionare su di esse25. In
questo senso quindi, per Hacking, ogni nuovo stile di ragionamento in-
troduce una serie di novità, fra cui: nuovi oggetti, nuove forme di evi-
denza, nuovi enunciati, nuovi modi di esser candidati alla verità o falsità,
leggi o ogni nuova modalità di possibilità26. In questo modo di definire
il concetto di stile risulta chiaro un forte rimando a uno stilema fou-
caultiano, verso il quale l’autore non ha mai negato, ma anzi ha sottoli-
neato, la sua filiazione intellettuale. La domanda che dobbiamo porci
però è: ma di quale “Foucault” si serve Hacking per elaborare il suo con-
cetto di stile? Si tratta infatti di quella parte del pensiero foucaultiano
maggiormente legata alla storia interna dell’epistemologia francese ov-
vero in quella parte debitrice delle elaborazioni teoriche di Bachelard e
di Canguilhem. La discontinuità storica e la spazializzazione delle for-
me di sapere operata ne L’archeologia del sapere e ne Le parole e le cose
ne è un chiaro simbolo, di cui il concetto di episteme ne è la concretiz-
zazione. L’archeologia, concepita come una «comparazione sempre li-
mitata e regionale»27, e la ricerca, «non tanto della genesi delle nostre
scienze quanto di uno spazio epistemologico proprio a un periodo par-
ticolare»28, sviluppata nello «studio strettamente regionale»29 de Le pa-
role e le cose rimandano a questa tradizione epistemologica.
Questo tema, che va sotto il nome di regionalismo epistemologico,
trova la sua prima formulazione esplicita nella filosofia di Bachelard e
DA DOVE VIENE LO STILE DI HACKING 173

un suo prolungamento nelle teorie di Canguilhem per esser poi rece-


pito, in un secondo momento, da Louis Althusser e Michel Foucault30.
Nelle scienze sociali invece, è principalmente a opera di Pierre Bour-
dieu, Chamboredon e Passeron che questo tema viene recepito. Fin dal-
la prima formulazione del concetto di stile in Linguaggio, verità e ra-
gione, sia in quelle successive come Lo “stile” per gli storici e i filosofi,
Hacking esplicita con chiarezza il suo rimando alle metafore regionali-
ste utilizzate da Althusser in Lenin e la filosofia31 scrivendo: «A volte
vengono usate parole più drammatiche di quella di “stile”, come quan-
do Althusser scrisse che Talete ha aperto un nuovo continente, quello
della matematica, che Galileo ha aperto quello della dinamica e Marx
quello della storia»32.
Il regionalismo consiste nell’elaborazione di un programma filosofi-
co – in opposizione alla tensione generalista in epistemologia proposta
dal Circolo di Vienna – che consiste nel

sottolineare la diversità delle scienze o la pluralità, la singolarità, addi-


rittura l’irriducibilità dei diversi domini della scienza, ossia mettere in
risalto le variazioni storiche nel corso dell’evoluzione di una stessa scien-
za e le peculiarità inerenti alle diverse scienze. Nelle sue versioni più ra-
dicali, il regionalismo epistemologico può arrivare fino a sposare la tesi
della pluralità delle logiche: ogni scienza, o per parlare con Althusser, ogni
continente scientifico o, per parlare come Foucault, ogni episteme ha le
proprie leggi logiche e le proprie regole d’inferenza33.

È rilevante notare come ci sia una differenza di lessico fondamentale,


rivelatrice di questo diverso orientamento teorico, fra il linguaggio fi-
losofico contemporaneo inglese e quello francese. Da un lato, vi è una
chiara opposizione fra le espressioni inglesi Philosophy, History o So-
ciology of science, il cui genitivo declinato al singolare lascia intendere
una concezione unitaria del procedimento scientifico, e quello france-
se di Philosophie, Histoire o Sociologie des sciences, che invece è teso a
render l’idea di una certa pluralità delle discipline scientifiche. In que-
sto senso, il regionalismo epistemologico risulta esser quindi una ten-
denza interna e comune a tutta la filosofia francese34 già a partire da
un livello linguistico. Dall’altro lato, nelle formulazioni dell’inglese con-
temporaneo, il concetto di epistemology rappresenta lo studio della teo-
174 LA RAGIONE SCIENTIFICA

ria della conoscenza in generale, dove invece il suo (non)corrispon-


dente francese épistémologie fa riferimento esclusivamente alle teorie
sulle varie conoscenze scientifiche.
Bachelard, opponendosi alle tesi sostenute dai neo-positivisti del
Circolo di Vienna, sostiene il carattere intrinsecamente storico della ra-
gione, che produce pluralismi razionali o razionalismi aperti. In parti-
colare, in Il razionalismo applicato, viene sviluppata l’idea che la ra-
gione tenda a declinarsi in maniera differente secondo i campi d’in-
dagine. Si formano così razionalismi specifici a ogni zona del sapere,
e metodi a essa correlati, che creano un’organizzazione regionale del
sapere (richiamandosi alle ontologie regionali husserliane) come ad
esempio il razionalismo meccanico o il razionalismo elettrico. Il razio-
nalismo viene dunque frammentato, associandosi alla materia che es-
so stesso informa, tramite l’idea portante di fenomenotecnica, che per-
mette di concepire il vettore epistemologico come orientato dal ra-
zionale al reale. Un vettore dunque realizzante, che percorre una
traiettoria che va dal reale percepito, all’esperienza realizzata dalla
scienza. Questo porta però a porre il problema filosofico della rela-
zione fra i vari razionalismi regionali con il razionalismo generale. Ba-
chelard chiarisce che ci sono due modi per concepire questo rappor-
to: il primo consiste nel definire la razionalità a priori in maniera che
debba valere per tutte le esperienze presenti, passate e future. Questo
modello epistemologico è definito dall’autore «fissista»: con una tale
pretesa di universalità, esso resta molto vicino alle soluzioni solipsisti-
che dell’idealismo, che viene dunque chiaramente rifiutato dall’auto-
re35. Bachelard è interessato invece a mettere in rilievo quelle pratiche
del lavoro scientifico (da qui il razionalismo applicato) che rendono
possibile un modello di razionalismo in grado di far dialogare le varie
regionalità in un approccio definito razionalismo integrale o integran-
te. La prima caratteristica di questa forma di epistemologia integrante
è il suo esser costruita a posteriori rispetto alle epistemologie regiona-
li, attraverso la messa in relazione dei fenomeni che obbediscono a
dei tipi di esperienza ben definiti (il che la oppone fin da subito alla
prima forma elencata). La seconda possibilità di risoluzione della ten-
sione regionalista/generalista rimanda invece alla natura sociale della
conoscenza scientifica che Bachelard struttura in maniera dialettica.
La riflessione scientifica non si può ridurre dunque a uno sforzo del
DA DOVE VIENE LO STILE DI HACKING 175

soggetto singolo e isolato, essa è al contrario essenzialmente cultura-


le, storica e sociale. L’uomo non è più solo davanti all’oggetto scienti-
fico. Bachelard insiste molto sul carattere collettivo e sociale della de-
finizione della ragione, sostenendo un co-razionalismo inteso come il
razionalismo de l’union des travailleurs de la preuve.

Il razionalismo integrale deve dunque essere un razionalismo dialettico


che decide la struttura in cui deve impegnarsi il pensiero per informare
un’esperienza […]. Non si pone più dunque il problema di definire un
razionalismo generale che raccoglierebbe la parte comune dei razionali-
smi regionali. Si ritroverebbe per questa via solo il razionalismo minimo
utilizzato nella vita comune. Si cancellerebbero le strutture. Si tratta al
contrario di moltiplicare e di affinare le strutture, ciò che dal punto di
vista razionalista deve esprimersi come un’attività di strutturazione, co-
me una determinazione della possibilità di multipli assiomatici per af-
frontare il moltiplicarsi delle esperienze36.

In questo tipo di tensione teorica si può vedere fin da subito la rela-


zione organica con il concetto di stile hackinghiano. Si deve sfuggire
dalla tentazione di ridurre le varie declinazioni regionali (o stilistiche)
della ragione scientifica a quella razionalità minima del senso comu-
ne, si deve piuttosto procedere per moltiplicazione al fine di far emer-
gere le strutture della razionalità scientifica integrata. Inoltre, connes-
sa alla metafora della regione, Bachelard struttura anche la nozione di
frontiera epistemologica che rappresenta, in primo luogo, il limite sta-
bilito fra la conoscenza scientifica e quella del senso comune (rottura
epistemologica) e, in un secondo senso, rinvia contestualmente allo
spostamento costante del limite della conoscenza che determina la pos-
sibilità di uno sviluppo del pensiero scientifico37. Bachelard pur aven-
do proposto, come si è visto, un regionalismo epistemologico tale per
cui a ogni regione della scienza corrispondono delle forme di razio-
nalità specifica, non applica mai la nozione di frontiera alla questione
della divisione fra discipline (il regionalismo nella sua declinazione
ha a che fare solo con l’individuazione di zone della razionalità). Can-
guilhem, erede diretto della filosofia bachelardiana, prosegue questa
impostazione regionalista dell’epistemologia operando però delle sot-
tili differenze. Da questo punto di vista, Canguilhem assume un ruo-
176 LA RAGIONE SCIENTIFICA

lo significativo rinnovando lo stile francese in epistemologia regiona-


lizzando anche la storia delle scienze38 declinata, per queste ragioni, al
plurale. Per Canguilhem infatti, ogni regione della storia delle scienze
possiede un suo oggetto proprio, che è differente dall’oggetto della
disciplina in questione, e una propria metodologia e mezzi per stu-
diarlo. Pertanto fare una storia della fisica oppure della biologia com-
porta delle differenti poste in gioco e maniere per approcciarsi ai te-
mi in questione. Questa metafora spaziale della regione è direttamen-
te connessa con altri termini, come déplacement, frontière, filiation,
place occupé, che figurano nei testi di Canguilhem. In questo tipo di ap-
proccio, le scienze sono rappresentate su un piano. Così come esisto-
no regioni della razionalità, allo stesso tempo esistono le regioni della
scienza. Ogni regione ha dunque delle frontiere determinate dagli og-
getti e dai metodi propri a ciascuna di esse che compongono quindi
uno spazio di specificità disciplinari. Il razionalismo, sottoposto all’a-
nalisi storica, cambia forma riuscendo comunque a sopravvivere co-
me potere d’istituzione di rapporti normativi e non come osservazio-
ne di rapporti essenziali inclusi nella realtà delle cose (il vettore epi-
stemologico va dal razionale al reale). Nella stessa maniera, nelle opere
di Canguilhem, l’espressione frontiera è spesso utilizzata. Nella rac-
colta La connaissance de la vie, per esempio, egli riprende in un pas-
saggio, a proposito del vitalismo, l’idea bachelardiana di frontiera epi-
stemologica, e nello stesso senso parla di frontiera a proposito della
distinzione fra normale e patologico e, in tutta la sua opera, utilizza
metafore spaziali esplicative per render ragione di problemi episte-
mologici. In Sur l’histoire des sciences de la vie depuis Darwin, utilizza
anche la nozione di frontiera quando deve descrivere il limite ambi-
guo fra la biologia e le altre discipline. Questa declinazione del regio-
nalismo in termini disciplinari viene ripresa e applicata nell’ambito del-
l’epistemologia delle scienze sociali da Bourdieu, Chamboredon e Pas-
seron in Il mestiere di sociologo. È a partire da questa impostazione
epistemologica che si sviluppano le successive ricerche dello stesso
Bourdieu39 e dei post-bourdieusiani40 nell’ambito della sociologia dei
campi accademici e disciplinari. D’altronde, a partire soprattutto dalla
sua elezione al Collège de France, Hacking comincia a integrare nella
sfera dei suoi riferimenti intellettuali anche quelli ai fondamenti filo-
sofici del sistema bourdieusiano41. In special modo, è il modello di
DA DOVE VIENE LO STILE DI HACKING 177

storicismo – definito da Hacking leibniziano – proposto dal sociolo-


go francese che risulta essere un luogo di incontro fra i due.

Nel capitolo delle sue Meditazioni intitolato I fondamenti storici della


ragione egli ha scritto: «Dobbiamo riconoscere che la ragione non è ca-
duta dal cielo, come un dono misterioso e destinato a rimanere inespli-
cabile, quindi essa è completamente storica; ma con questo non siamo
in alcun modo costretti ad arguire, come si fa di solito, che essa sia ridu-
cibile alla storia». Egli ha proseguito dicendo che «è nella storia, e nella
storia soltanto, che va cercato il principio dell’indipendenza relativa
della ragione nei confronti della storia». Inoltre – e qui parafraso una fra-
se eccessivamente francese – egli pensava che «la storia singolare della ra-
gione si compie» in condizioni «assolutamente specifiche», «propria-
mente storiche», ma del tutto eccezionali. Potrei presentare il mio uso
degli stili di ragionamento scientifico come una lunga glossa a questo pas-
so di Bourdieu.42

La domanda su cui si snoda l’ultimo corso al Collège di Bourdieu con-


siste nel chiedersi come sia possibile che la scienza sia un prodotto
della storia e allo stesso tempo sia in grado di produrre verità trans-
storiche. La tensione a storicizzare la ragione senza relativizzarla è il
cuore pulsante dell’epistemologia storica43 (e del regionalismo episte-
mologico) che viene riattualizzata sia da Hacking sia da Bourdieu pro-
prio in funzione di antidoto rispetto agli esiti sempre più relativisti de-
gli Science (and Technology) Studies44. Anche Passeron, dopo la sua
rottura con Bourdieu, nel percorso intrapreso in Le raisonnement so-
ciologique ha provato a declinare il regionalismo epistemologico all’in-
terno delle scienze sociali ricercando lo stile proprio alle scienze socia-
li nell’elaborazione dello spazio non-popperiano dell’argomentazione45.
Anche qui, pensare la storia delle scienze nei termini hackinghiani di sti-
le permette di superare una serie controversie classiche a proposito del-
la ricerca di una definizione epistemologica di disciplina scientifica tali
per cui, per esempio:

Gli stili di pensiero scientifico non sono scienze o discipline scientifiche


e non si escludono a vicenda. La biologia evolutiva usa molta (1) mate-
matica, (2) misurazione ed esplorazione sperimentale, (3) modellizza-
178 LA RAGIONE SCIENTIFICA

zione ipotetica e analogia, (4) tassonomia, (5) probabilità e statistica, e


tuttavia è il nostro esempio più riuscito di una scienza storico-genetica.
La maggior parte delle scienze moderne utilizza gran parte degli stili di
pensiero scientifico di Crombie46.

Le discipline altro non sono che configurazioni storiche particolari


che selezionano, all’occorrenza, alcuni fra gli stili di ragionamento per
elaborare le loro pratiche discorsive (che si producono, riproducono e
cristallizzano nel tempo). Operando un passaggio da un tipo di me-
tafora cartografica come quella di regione a una di tipo stratigrafico co-
me quella di emergenza47 Hacking traduce il dibattito e le domande
del regionalismo epistemologico nei termini del concetto di stile man-
tenendone al suo interno le caratteristiche fondamentali: in primis, l’i-
dea di pluralismo, poi quella di collettività e, infine, quella di una certa
direzionalità del vettore epistemologico. Una volta emersi gli stili di ra-
gionamento pongono in essere «nuovi oggetti, nuove forme di eviden-
za, nuovi enunciati, nuovi modi di esser candidati alla verità o falsità,
leggi o ogni nuova modalità di possibilità». Hacking cerca dunque di ri-
spondere alla domanda sulla natura della ragione scientifica sfruttando
le teorizzazioni sviluppate all’interno della tradizione dell’epistemolo-
gia storica per la ricerca di una via intermedia fra il logicismo positivi-
sta e neo-positivista sviluppato nel programma del Circolo di Vienna
(cui si opponevano già Bachelard e gli altri) senza cadere però nell’e-
stremità opposta proposta dal relativismo soggiacente alle varie tradi-
zioni interne agli Science (and Technology) Studies. Quest’ultimi sono
rappresentati da un lato dal programma forte (di cui si è parlato in aper-
tura) e dall’altro dalla proliferazione di quegli studi sui saperi situati (fra
cui gli studi di laboratorio) che conducono a una estrema frammenta-
zione dei saperi scientifici. Nell’individuazione di questa terza via –
tramite appunto il ricorso all’epistemologia francese – ne va della defi-
nizione stessa del concetto di stile che permette di definire la ragione
scientifica.
Hacking spinge così oltre il suo limite anche l’épistémologie histori-
que à la française strutturando l’idea di un’ontologia storica48 o
(meta)epistemologia storica che consiste nell’adozione di un nominali-
smo dinamico al fine di descrivere i fenomeni di emergenza di nuove
pratiche discorsive, di oggetti, di possibilità di esser candidati alla ve-
DA DOVE VIENE LO STILE DI HACKING 179

rità o falsità. L’ontologia storica permette di dare una descrizione dei


fenomeni – siano essi oggetti, pratiche, schemi categoriali, tipi di per-
sone, ecc. – secondo i tre assi foucaultiani del sapere, del potere e del-
l’etica. Infatti il concetto di stile permette a Hacking di tener insieme
in un rapporto integrante (per dirla con Bachelard) la pluralità delle
varie tipologie di razionalità scientifica (senza per questo cadere in
una forma di riduzionismo). Per esempio, come si è visto nel testo del-
le lezioni che compongono La ragione scientifica, lo stile di laboratorio
è un tema particolarmente caro a Hacking, che vede nella figura di
Robert Boyle, e nella costruzione della pompa ad aria, la sua genesi
mitica49. D’altronde Hacking si era già legittimato all’interno delle te-
matiche care agli Science (and Technology) Studies con la pubblicazio-
ne di Representing and Intervening del 1983:

La seconda parte del libro, Intervening, era un appello ai filosofi per-


ché prendessero gli esperimenti seriamente. La filosofia delle scienze,
specialmente delle scienze fisiche, era stata per decenni totalmente do-
minata dalla teoria. […] Latour e Woolgar avevano già pubblicato la lo-
ro etnografia del laboratorio e Shapin e Schaffer stavano completando
Il Leviatano e la pompa ad aria. Di lì a poco Peter Galison avrebbe pub-
blicato How Experiments End50.

Nella Lezione III, dedicata a Lo stile laboratoriale di pensiero e azione,


tenendo presente la lezione di Shapin e Schaffer del Leviatano e la pom-
pa ad aria, Hacking indaga la dialettica fra strumentazione e manipola-
zione che definisce la creazione di fenomeni in laboratorio51, integrando
le riflessioni del 1983 con le sue recenti osservazioni nei laboratori che
operano sperimentazioni sugli atomi a bassissime temperature.
Tramite un’analisi puntuale dei singoli stili di ragionamento52 – e del-
le loro possibili intersezioni – Hacking ha l’occasione di mettere in at-
to quell’approccio integrante bachelardiano che mira a definire la ra-
gione scientifica nella sua pienezza ex post, e non ex ante rispetto alla
presa in analisi del funzionamento delle varie regioni, delle varie epi-
steme o dei vari stili della razionalità. In molti fra i testi che Hacking de-
dica al concetto di stile si fa riferimento al panorama intellettuale posi-
tivista e del neo-positivista ma, in particolar modo, vogliamo ora por-
tare l’attenzione alla forma contemporanea di quest’opposizione
180 LA RAGIONE SCIENTIFICA

all’unità della scienza che si è sviluppata in ambito anglosassone. Nel-


l’ambito degli Science (and Technology) Studies il tema è stato ripreso
sotto il label di disunity of science all’interno del quale Hacking è sta-
to ampiamente coinvolto (sia come riferimento intellettuale sia come
autore). In particolare il tema in questione è stato dibattuto intorno agli
anni Novanta grazie a un workshop dal titolo Disunity and Contextua-
lism tenutosi alla Stanford University cui ha fatto seguito la pubblica-
zione di una raccolta di saggi dal titolo The Disunity of Science. I cura-
tori Peter Galison e David J. Stump hanno avviato questo progetto con
l’obiettivo di fare il punto sullo stato dell’arte a proposito dei crescen-
ti attacchi alla retorica dell’unità negli Science (and Technolgy) Studies
cercando di coinvolgere voci autorevoli ma con orientamento teorico
distinto all’interno del campo come per esempio, oltre a Hacking, Ar-
nold I. Davidson (anche lui partecipa con un paper sullo stile), Steve
Fuller, Mario Biagioli, Simon Schaffer, Karin Knorr-Cetina, Donna J.
Haraway e altri. In questo contesto, “l’unità” o la “ricerca dell’unità”
sembra esser definita come un problema “filosofico” per “filosofi”
quando, al contrario, le scienze sono intrinsecamente dis-unite.
Hacking consolida ulteriormente il suo posizionamento eclettico al-
l’interno degli Science (and Technology) Studies nel 1999 con The So-
cial Construction of What?53 in cui viene proposta un’analisi filosofica
delle varie forme possibili di costruttivismo sociale, ripartendo ap-
punto dal relativismo del “programma forte” con cui abbiamo aperto
questo saggio.
La traiettoria intellettuale, tutt’altro che allineata agli standard ca-
nonici, sia degli Science (and Technology) Studies sia dell’épistémologie
historique consente a Hacking di avere una capacità innovativa in en-
trambi i programmi di ricerca, grazie alla sua capacità eclettica di ar-
ricchirne i dibattiti apparentemente incommensurabili fra loro. Il pro-
gramma della (meta)epistemologia storica o dell’ontologia storica è il
loro punto d’incontro. Il posizionamento eterodosso di Hacking, a ca-
vallo di vari campi disciplinari e accademici – fra la storia, filosofia e
sociologia delle scienze; fra gli Stati Uniti e il vecchio continente; fra la
filosofia analitica e quella continentale; fra il mondo anglofono e quel-
lo francofono, ecc. – gli permette di mettere a punto un approccio in-
tegrante capace di superare le false dicotomie cristallizzate nei vari di-
battiti intellettuali. La tematica degli stili risulta esser il trait d’union, fra
DA DOVE VIENE LO STILE DI HACKING 181

tutte le fasi e parti del pensiero dell’autore, che permette di tenere in-
sieme le ultime riflessioni sulla matematica con quelle sui laboratori,
passando per il progetto making up people, ecc54. Per queste ragioni
Hacking è ormai un punto di riferimento d’obbligo sia nell’ambito
degli studi sociali sulle scienze55 sia in quelli dell’epistemologia stori-
ca56 grazie alla sua capacità di risolvere le aporie cui conducono le let-
ture comparate delle diverse tradizioni disciplinari della storia, filoso-
fia e sociologia delle scienze d’estrazione sia anglofona sia francofona.
Note

Ian Hacking e la scienza come “miscuglio variopinto” di stili

1. Casimir Lewy (1919-1991), filosofo inglese di origini polacche, allievo


di G.E. Moore e studente di Wittgenstein, si è occupato di logica, anche se
scarse sono le sue pubblicazioni. Una descrizione di Lewy come insegnante si
può trovare nell’obituario scritto da Hacking e pubblicato come Casimir Lewy
1919-1991 nei «Proceedings of the British Academy», vol. 138, 2006, pp.
170-177.
2. I. Hacking, Logic of Statistical Inference, Cambridge University Press,
Cambridge, 1965.
3. Gli aspetti biografici di questo saggio sono tratti principalmente da una
lunga intervista biografico-intellettuale rilasciata da Hacking per «Iride», nel
2014: M. Vagelli, Ian Hacking, The Philosopher of the Present. An Interview
by Matteo Vagelli, «Iride. Journal of Philosophy and Public Debate», vol. 27,
issue 72, 2014, pp. 239-269.
4. Una delle definizioni alle quali Hacking è più affezionato è proprio quel-
la di «archeologo del probabile», dal titolo di un’intervista rilasciata per
«Sciences et avenir», numero speciale sulla probabilità, settembre-ottobre
2001, pp. 9-16. I debiti di Hacking nei confronti dell’archeologia foucaultia-
na sono espressi nell’introduzione alla seconda edizione de The Emergenge of
Probability (Cambridge University Press, Cambridge, 2006).
5. Al gruppo dei filosofi si aggiungeranno di lì a poco anche Arnold I. Da-
vidson e Peter Galison. Francis Everitt (Stanford University) dirige Gravity
Probe B (Gp-B), una missione satellitare lanciata nel 2004. Melissa Franklin
(Harvard University) è il Mallinckrodt Professor of Physics dell’università di
Harvard, lavora sulle collisioni adroniche prodotte al Fermi National Accele-
184 LA RAGIONE SCIENTIFICA

rator Laboratory di Chicago e collabora all’esperimento Atlas per il Large


Hadron Collider (Lhc) del Cern, in Svizzera.
6. The Taming of Chance è stato incluso dalla Modern Library nella lista
dei 100 più importanti libri di saggistica scritti nel XX secolo, in compagnia
delle opere di altri filosofi quali John Dewey, William James, Thomas Kuhn e
Karl Popper.
7. Per una descrizione dei corsi e dei seminari di Hacking al Collège si ve-
da E. Delille e M. Kirsch, Natural or interactive kinds? Les maladies mentales
transitoires dans les cours de Ian Hacking au Collège de France (2000-2006),
«Revue de synthèse», vol. 137, 2016, pp. 85-115.
8. Se si eccettua Plasmare le persone. Corso al Collège de France (2004-2005),
a cura di A. Bella e M. Casonato, Quattroventi, Urbino, 2008. Questa tradu-
zione di una parte dei materiali del corso 2004-2005 (peraltro prosecuzione
ideale di quello del 2001-2002, già dedicato al tema della costituzione storica
dei soggetti) non sembra però attenersi ai canoni dell’edizione scientifica adot-
tati in casi simili, come ad esempio quello della pubblicazione dei corsi al
Collège di Foucault.
9. M. Vagelli, Ian Hacking, The Philosopher of the Present, cit., p. 245.
10. I. Hacking, Why Is There Philosophy of Mathematics At All?, Cambridge
University Press, Cambridge, 2014.
11. I. Hacking Making Up People, in T.L. Heller et al. (a cura di), Recon-
structing Individualism, Stanford University Press, Stanford, 1986, pp. 222-
236, apparso anche in Hacking, Ontologia storica, cit., pp. 99-114; Looping Ef-
fects of Human Kinds, in D. Sperber et al. (a cura di), Causal Cognition. An In-
terdisciplinary Approach, Oxford University Press, Oxford, 1995, pp. 351-383.
12. I. Hacking, Biopower and the Avalanche of Printed Numbers, in «Hu-
manities in Society», n. 5, pp. 279-295; The Invention of Split Personalities, in
Human Nature and Natural Knowledge, A. Donagan et al. (a cura di), D. Rei-
del, Dordrecht, 1986. Hacking specifica che il testo di quest’ultimo saggio è
stato scritto nel 1981 e inviato per pubblicazione nell’estate del 1982.
13. Per un contesto d’uso più ampio della parola e del concetto di “stile”
in storia, filosofia e sociologia della scienza si veda il saggio di Ienna che con-
clude questo volume.
14. I. Hacking, Language, Truth and Reason», in M. Hollis e S. Lukes (a
cura di), Rationality and Relativism, pp. 48-66, Blackwell, Oxford, 1982 (trad.
it., in Ontologia storica, Pisa, ETS, 2010, pp. 211-232); Language, Truth and
Reason: 30 years later, in «Studies in History and Philosophy of Science»,
vol. 43, pp. 599-609. Martin Pickavé (Associate Professor and Canada Re-
search Chair in Medieval Philosophy, University of Toronto), in occasione
dell’assegnazione, al Quirinale, del Premio Balzan 2014 a Hacking, ha detto
NOTE 185

che «prima della sua attuale malattia, il professor Hacking stava lavorando agli
ultimi ritocchi al manoscritto di un libro intitolato Styles of Scientific Thinking:
Thruthfulness and Reason» (http://www.balzan.org/en/prizewinners/ian-
hacking/rome-forum-hacking-pickave).
15. I. Hacking, Styles of Scientific Thinking or Reasoning: A New Analyti-
cal Tool for Historians and for Philosophers, in K. Gavroglu et al. (a cura di),
Trends in the Historiography of Science, Kluwer, Dordrecht, 1993.
16. Infra, Lezione I, §7. A.I. Davidson (Sex and the Emergence of Sexuality,
«Critical Inquiry», vol. 14, n. 1, Autunno 1987, pp. 16-48) è stato il primo ad
aver raccolto e ad aver sia elaborato a livello teorico sia applicato a livello sto-
rico la nozione di stili di ragionamento di Hacking, in relazione con lo «stile
psichiatrico di ragionamento» emerso nel XIX secolo. Questo e altri studi di
Davidson sono poi confluiti nel suo The Emergence of Sexuality (2001). L’uso
fatto da Davidson ha, tra l’altro, messo pienamente in luce molte delle impli-
cazioni foucaultiane implicite nella teoria degli stili. Per un confronto tra gli
stili di Davidson e quelli di Hacking si veda P. Singy, Gli ‘stili di ragionamen-
to’ di Arnold Davidson, in «Iride. Filosofia e discussione pubblica», n. 45, 1995,
pp. 437-442 e M. Setaro, L’epistemologia storica dei concetti: una questione di
stile. Confronto a distanza tra Ian Hacking e Arnold I. Davidson, in «Medicina
& Storia», vol. 19-20, pp. 221-234.
17. I. Hacking, ‘Style’ for Historians and for Philosophers, cit., p. 11
(Hacking, Ontologia storica, cit., p. 189).
18. Ogni stile introduce le proprie tecniche di auto-stabilizzazione e
Hacking, anziché fornire una definizione generale di questo concetto, si limi-
ta a illustrarlo tramite esemplificazioni. La statistica, ad esempio, certifica se
stessa sottoponendo le proprie proposizioni a test statistici (ivi, p. 14-15;
Hacking, Ontologia storica, cit., pp. 251-252).
19. I. Hacking, Language, Truth and Reason: 30 Years Later, cit., p. 601;
Cfr. infra, Lezione I, §7, pp. 46-48.
20. I. Hacking, La metafisica degli stili di ragionamento scientifico, «Iride»,
n. 4/5, 1990, p. 12.
21. G. Canguilhem, Ideologia e razionalità nella storia delle scienze della vi-
ta, La Nuova Italia, Scandicci, 1992, p. 12: «La veridicità o il dire-il-vero del-
la scienza non consiste nella riproduzione fedele di qualche verità inscritta da
sempre nelle cose o nell’intelletto. Il vero è il detto del dire scientifico».
22. Ciò apre una porta sul dibattito, riapertosi recentemente, sulla verità e
sulla sua storia, soprattutto in Francia e in modo particolare attorno a Fou-
cault: J. Bouveresse, Nietzsche contre Foucault. Sur la vérité, la connaissance
et le pouvoir, Marseille, Agone, 2016 e più in generale P. Engel e R. Rorty, A
quoi bon la vérité?, Bernard Grasset, Paris, 2005.
186 LA RAGIONE SCIENTIFICA

23. Infra, Lezione I, §7. Non è tanto il già citato «stile psichiatrico di ragio-
namento» studiato daA. Davidson ad aver fatto cambiare idea a Hacking,
quanto il tentativo semi-provocatorio da parte di Barry Allen di applicare lo
schema di Hacking alla “demonologia” tra il XV e il XVII secolo (B. Allen, De-
monology, Styles of Reasoning, and Truth in «International Journal of Moral
and Social Studies», vol. 8, n. 2, 1992, pp. 95-121). Se la “metafisica” di
Hacking era così “permissiva” da risultare calzante anche per modi di ragio-
nare palesemente non scientifici come la demonologia, essa perdeva agli oc-
chi del suo ideatore gran parte del suo valore.
24. Infra, Lezione I, §6.
25. Tra i contributi più importanti, apparsi nel corso degli anni: I. Hacking,
Leibniz and Descartes: Proof and Eternal Truth, «Proceedings of the British
Academy», vol. 59, 1973, pp. 175-188, ristampato in Hacking, Ontologia sto-
rica, cit., pp. 200-213; Rules, Scepticism, Proof, Wittgenstein in I. Hacking (a cu-
ra di) Exercises in Analysis: Essays by Students of Casimir Lewy, Cambridge
University Press, Cambridge, 1985, pp. 113-124; What mathematics has done
to some and only some philosophers in Smiley, T.J. (a cura di), Mathematics
and Necessity, British Academy, London, 2000, pp. 83-138; Les preuves et la
nécessité chez Wittgenstein in J. Bouveresse, S. Laugier, J.-J. Rosat (a cura di),
Dernière Wittgenstein, Dernières Pensées, Marseille, Agone, 2002, pp. 265-288;
What Makes Mathematics Mathematics?, in J. Lear, A. Oliver (a cura di), The
Force of Argument: Essays in Honour of Timothy Smiley, Routledge, London,
2009, pp. 82-106.
26. I. Hacking, What Is Strict Implication?, in «Journal of Symbolic Lo-
gic», vol. 28, n. 1, 1963, pp. 51-71.
27. I. Hacking, Immagini radicalmente costruzionaliste del progresso mate-
matico, in A. Pagnini (a cura di), Realismo e antirealismo. Aspetti del dibattito
epistemologico contemporaneo, La Nuova Italia, Firenze, 1995, pp. 59-92.
28. I. Hacking, ‘Style’ for Historians and for Philosophers, cit., p. 6 (I.
Hacking, Ontologia storica, cit., p. 239). Sulla metafora althusseriana del “con-
tinente” della matematica scoperto da Talete si veda il saggio di Ienna alla fi-
ne di questo volume.
29. Cfr. I. Hacking, Styles of Scientific Thinking or Reasoning, cit., p. 36.
30. M. Vagelli, Ian Hacking, The Philosopher of the Present, cit., p. 245.
31. Il passo in questione è citato in Hacking, Why Is There Philosophy of
Mathematics at All, cit., p. xiv. La Howison Lecture è invece apparsa in spa-
gnolo: Pruebas, verdad, manos y mente, in J. Aguirre, L. Jaramillo (a cura di)
Cuadernos de Epistemología, número 5. Reflexiones en torno a la filosofía de la
ciencia y la epistemología, Popayán, Universidad del Cauca, Columbia, 2011,
pp. 11-37.
NOTE 187

32. I. Hacking, Experimentation and Scientific Realism, in «Philosophical


Topics», vol. 13, n. 1, Spring, 1982, pp. 77-87.
33. Questa lezione si basa in gran parte, come detto, sulla ricostruzione e
la ricontestualizzazione dell’argomento sperimentale per il realismo di Repre-
senting and Intervening (1983), ma anche sulle riflessioni dedicate da Hacking
al costruzionismo in The Social Construction of What? (1999).
34. I. Hacking,’Style’ for Historians and for Philosophers, cit., p. 6 (I.
Hacking, Ontologia storica, cit., p. 240).
35. Per questo tipo di critica alla filosofia dell’esperimento di Hacking si
veda in particolare D.B. Resnik, Hacking’s Experimental Realism, in «Cana-
dian Journal of Philosophy», vol. 24, n. 3, pp. 395-411.
36. I. Hacking, Another New World Is Being Constructed Right Now: The
Ultracold, Max Planck für Wissenschaftsgeschichte, Preprint, n. 318, 2006, pp.
15-43. Di questo testo è stata pubblicata una versione, leggermente rimaneg-
giata, in francese: I. Hacking, La philosophie de l’expérience: illustrations de
l’ultra-froid, «Tracés», n. 11, 2006, pp. 195-228.
37. I. Hacking,’Style’ for Historians and for Philosophers, cit., p. 4 (Hacking,
Ontologia storica, cit., p. 236).
38. In un saggio di prossima pubblicazione cerco di mostrare come anche
il rinvio a riferimenti comuni, come quelli a Bachelard e al concetto di feno-
menotecnica, abbia esiti radicalmente opposti (che per brevità potremmo de-
finire come realisti in un caso, irrealisti nell’altro) in Hacking e in Latour (M.
Vagelli, Bachelard, Hacking e il realismo tecnoscientifico, in Il senso della tecni-
ca. Saggi su Bachelard, P. Donatiello, F. Garofalo, G. Ienna (a cura di), Escula-
pio, Bologna, in corso di stampa).
39. I. Hacking, Why Is There Philosophy of Mathematics At All?, cit., p.
xiii.
40. I. Hacking Conoscere e sperimentare, Laterza, Roma-Bari, 1987, p. 22
(ho modificato leggermente la traduzione italiana per rendere meglio ciò che
Hacking intende in questo passaggio).
41. G. Bachelard: «La scienza istruisce la ragione. La ragione deve obbedi-
re alla scienza, alla scienza più evoluta, alla scienza in evoluzione», La filoso-
fia del non, Armando Editore, Roma, 2002, p. 150.
42. I. Hacking, Conoscere e sperimentare, cit., pp. 156, 173.
43. I. Hacking, ‘Style’ for Historians and for Philosophers, cit., pp. 18-19 (I.
Hacking, Ontologia storica, cit., pp. 256-257).
44. M. Foucault, Qui êtes-vous, professeur Foucault?, (1967), in Dits et écrits,
Gallimard, Paris, 2004, vol. 1, p. 633. Foucault parla di una «analisi dei fatti
culturali che caratterizzano la nostra cultura», analisi che conduce «situando-
si all’esterno della cultura alla quale apparteniamo, ad analizzarne le condizioni
188 LA RAGIONE SCIENTIFICA

formali per farne la critica, non nel senso di ridurne i valori, ma per capire
come essa abbia potuto effettivamente costituirsi». Il riferimento ai «fatti cul-
turali» può sembrare vago, ma, sollecitato dall’intervistatore, Foucault si af-
fretta a precisare: «Quindi lei fa una etnologia della nostra cultura?». «Sì, o
almeno della nostra razionalità, del nostro discorso».
45. I. Hacking, Ontologia storica, cit., p. 256; Language, Truth and Reason:
30 Years Later, cit., p. 607.
46. Hacking trae quest’idea da A.W. Crosby, Ecological Imperialism: The
Biological Expansion of Europe 900-1900, Cambridge University Press, Cam-
bridge, 1986.
47. Cfr. Vagelli, Ian Hacking. The Philosopher of the Present, cit., pp. 249-
250. Per la nozione di idealismo linguistico si veda I. Hacking, Why Does
Language Matter to Philosophy?, Cambridge University Press, Cambridge,
1975.
48. Per una critica del progetto degli stili che sottolinea l’aspetto della loro
naturalizzazione si veda M. Kusch, Hacking’s Historical Epistemology: A Cri-
tique of Styles of Reasoning, «Studies in History and Philosophy of Science»,
vol. 41, 2010, pp. 158-173.
49. I. Hacking, Conoscere e sperimentare, cit., p. 173.
50. Infra, Lezione I, §10, p. 53. Sul rapporto con Bourdieu rinvio al saggio
di Ienna alla fine di questo volume.
51. È così che A. Davidson definisce l’opera di Gargani. Cfr. A.I. David-
son, Dai giochi linguistici all’epistemologia politica, in A.G. Gargani, Il sapere
senza fondamenti, Mimesis, Milano-Udine, 2009, p. 7; sullo stesso argomen-
to, si veda anche M. Vagelli, Le problème du fondement et l’épistémologie hi-
storique italienne, «Archives de Philosophie», n. 78, 2015, pp. 509-515.

La ragione scientifica

Lezione I

1. Per una ricognizione generale sull’argomento l’articolo di riferimento è


J.-P. Uzan, The Fundamental Constants and Their Variation: Observation and
Theoretical Status, in «Reviews of Modern Physics», vol. 75, 2003, pp. 403-455.
2. B. Williams, Genealogia della verità. Storia e virtù del dire il vero, Fazi, Ro-
ma, 2005. Si veda la mia recensione in «Canadian Journal of Philosophy»,
vol. 34, 2004, pp. 137-148.
3. Sir Herbert Butterfield ha scritto uno dei primi libri di testo sulla storia
della scienza europea nella prima modernità, basato sulle lezioni tenute per
NOTE 189

gli studenti dell’Università di Cambridge nel 1948 (H. Butterfield, Le origini


della scienza moderna, il Mulino, Bologna, 2008). Il suo punto di riferimento
principale era Alexandre Koyré. Ma la sua fama è dovuta alle sue storie poli-
tiche e sociali dell’Inghilterra; egli disprezzava i “Whig” – di cui il filosofo e
storico David Hume è il miglior esempio – che descrivevano il passato come
una serie di eventi che ottengono un senso solo nella misura in cui conduco-
no a, e sono “ratificati” da, un presente glorioso.
4. Gli atti furono pubblicati in J. Hintikka, D. Gruender, e E. Agazzi (a
cura di) Theory Change, Ancient Axiomatics, and Galileo’s Methodology: Pro-
ceedings of the 1978 Pisa Conference on the History and Philosophy of Science,
2 vol., D. Reidel, Dordrecht, 1981.
5. “Historical anthropology” non ha un utilizzo corrente in inglese, l’e-
spressione francese “anthrolopologie historique”, invece, è ben conosciuta da-
gli studiosi che lavorano in quella lingua. Ha avuto inizio con gli storici della
cosiddetta Scuola delle Annales e in particolare con il nuovo modo, proposto
da Vernant, di studiare le civiltà antiche della Grecia e di altre aree del Medi-
terraneo. L’espressione è attualmente utilizzata per battezzare corsi universi-
tari, gruppi di ricerca e così via, ed è una voce del tutto comune nelle enciclo-
pedie francesi, come ad esempio la Universalis.
6. Alistair C. Crombie, Styles of Scientific Thinking in the European Tradi-
tion. The History of Argument and Explanation Especially in the Mathemati-
cal and Biomedical Sciences and Arts, Duckworth, London, 1994 [In italiano
è uscito un piccolo volume che riassume alcune delle idee fondamentali del-
l’opus magnum di Crombie: Stili di pensiero scientifico agli inizi dell’Europa
moderna, Bibliopolis, Napoli, 1992 (Ndc)].
7. Per un’analisi e una riformulazione di questo metodo rimandiamo ai pri-
mi lavori di Hacking sulla statistica e in particolare a I. Hacking, Logic of Stati-
stical Inference, Cambridge University Press, Cambridge, 1965, capitolo 5 (Ndc).
8. G.E.R. Lloyd, Grecia e Cina: due culture a confronto. Mondi antichi, ri-
flessioni moderne, Feltrinelli, Milano, 2008.
9. A.C. Crombie, op. cit., vol. I, p. 83.
10. A.C. Crombie, Philosophical Perspectives and Shifting Interpretations
of Galileo, in Hintikka et al. (a cura di), Theory Change, cit., pp. 271-284.
11. R. Iliffe, Rational Artistry, in «History of Science», n. 36, 1998, pp.
329-357, un ampio resoconto critico di Crombie, Styles of Scientific Thinking
in the European Tradition. Per recensioni più brevi, R. Ariew, in «Isis», vol.
86, pp. 82-83; A.J. Meadows, in «New Scientist», n. 23, luglio 1994, p. 38; K.
Magruder, in «Sixteenth Century Journal», n. 26, 1995, pp. 406-410.
12. I. Hacking, The Emergence of Probability, Cambridge University Press,
Cambridge, 1975; 2a ed., con una nuova introduzione, Cambridge University
190 LA RAGIONE SCIENTIFICA

Press, Cambridge, 2006; trad. it., L’emergenza della probabilità. Ricerca filoso-
fica sulle origini delle idee di probabilità, induzione e inferenza statistica, il
Saggiatore, Milano, 1987. A causa della grave incompetenza della filiale di
New York della casa editrice, la nuova introduzione non è né numerata né in-
dicata nel sommario.
13. Il termine “società del rischio” è diventato quasi un cliché dei nostri tem-
pi grazie a Ulrich Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità,
Carocci, Roma, 2013.
14. Hacking fa qui riferimento a The Philosophical Lexicon, un dizionario
umoristico di filosofia iniziato da Daniel Dennett nel 1969 e attualmente cu-
rato da Asbjørn Steglich-Petersen. Il dizionario, i cui lemmi sono costituiti da
neologismi formati a partire da nomi di filosofi perlopiù contemporanei, è
accessibile online: www.philosophicallexicon.com (Ndc).
15. Sottolineo “ereditato”. Per i filosofi anglofoni della mia generazione
era chiaramente la Struttura di Kuhn del 1962 a dominare ogni discussione. Ma
il mio specifico entusiasmo per le rotture nei sistemi di pensiero derivava da Le
parole e le cose di Michel Foucault (Le parole e le cose. Un’archeologia delle
scienze umane, BUR, Milano, 2016). Questo a sua volta è riconducibile agli
influenti scritti di Gaston Bachelard (1884-1962), che occupavano gran parte
dello spazio delle librerie parigine degli anni Sessanta.
16. Sulla questione specifica delle rivoluzioni nella storia della probabilità
si veda il mio Was There a Probabilistic Revolution 1800-1930? in L. Krüger
et al. (a cura di), The Probabilistic Revolution, Vol I: Ideas in History, Cam-
bridge, MIT Press, Cambridge Mass., 1987, pp. 54-58.
17. H. Wölfflin, Concetti fondamentali della storia dell’arte, Abscondita, Mi-
lano, 2012.
18. Per i riferimenti si veda il mio ‘Style’ for Historians and Philosophers, in
«Studies in History and Philosophy of Science», vol. 23, 1992, pp. 1-20, ristam-
pato in I. Hacking, Ontologia storica, Edizioni ETS, Pisa, 2010, pp. 233-258.
19. R. Carnap, La costruzione logica del mondo. Pseudoproblemi nella filo-
sofia, UTET, Torino, 1997.
20. Non ho tenuto traccia di tutte le fonti alle quali mi riferisco, ma ricor-
do bene lo shock di quando le ho trovate sfogliando alcune pagine di giorna-
lismo scientifico tedesco pubblicate negli anni Trenta.
21. L. Fleck, Genesi e sviluppo di un fatto scientifico. Per una teoria dello
stile e del collettivo di pensiero, il Mulino, Bologna, 1983.
22. Il lavoro a cui mi riferisco è Language, Truth and Reason, in M. Hollis e
S. Lukes (a cura di), Rationality and Relativism, Blackwell, Oxford, 1982, pp.
48-66. La tappa successiva dello sviluppo è il mio articolo sullo “stile” del 1992,
si veda la nota 18 qui sopra [Per un esempio di uso “personalizzante”, con-
NOTE 191

trario a quello “generalizzante”, del concetto di stile in filosofia della scienza,


Hacking si riferisce qui a lavori come quello di K. Gavroglu, Differences in
Style as a Way of Probing the Context of Discovery, «Philosophia», vol. 45, 1990,
pp. 53-75. Gavroglu confronta lo stile del laboratorio di James Dewar (1842-
1923) e quello di Heike Kamerlingh Onnes (1853-1926), entrambi impegnati
in ricerche relative alla fisica delle basse temperature. Su questo punto si ve-
da Ontologia storica, cit., p. 235 (Ndc)].
23. A.I. Davidson, L’emergenza della sessualità. Epistemologia storica e for-
mazione dei concetti, Quodlibet, Macerata, 2010.
24. J. Elwick, Styles of Reasoning in the British Life Sciences: Shared As-
sumptions, 1820-1858, Pickering & Chatto, London, 2007.
25. Egli ha dapprima usato il mio vecchio termine “stile di ragionamento”,
esattamente per lo scopo appena menzionato, ma ha poi optato velocemente
per la sua terminologia: «Due stili radicalmente differenti di ragionamento ma-
tematici» in G.E.R. Lloyd, prefazione a K. Chemla e S. Guo, Les neuf chapi-
tres. Le classique mathématique de la Chine ancienne et ses commentaires, Du-
nod, Paris, 2004, p. xi.
26. Nel 1985 circa Nelson Goodman disse in pubblico: «Ian, intendi sug-
gerire…» [che i dinosauri ecc.]. E io ho detto «no!». Mi piace che a pormi que-
sta domanda per la prima volta sia stato il più grande pragmatista dell’epoca,
il più grande nominalista di tutti i tempi, lo stesso uomo a cui spesso si attri-
buisce ciò che egli stesso pensava come manifestamente assurdo, vale a dire
la somma reductio ad absurdum di ogni insensata versione delle sue stesse sen-
sate idee.
27. L. Daston e P. Galison, Objectivity, Zone Books, New York, 2007.
28. O poco prima, per esempio I. Watts, Logic, London, 1724: «La certez-
za oggettiva è quando una proposizione è certamente vera in se stessa; e sog-
gettiva, quando siamo certi della sua verità» (II. ii. § 8).
29. P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, Feltrinelli, Milano, 1998.
30. Per le mie riflessioni sui science studies in connessione con Bourdieu si
veda I. Hacking La science de la science chez Pierre Bourdieu, in J. Bouveresse
e D. Roche (a cura di), La Liberté par la connaissance. Pierre Bourdieu (1930-
2002), Odile Jacob, Paris, 2004, pp. 147-162.
31. P. Bourdieu, op. cit., p. 115.
32. Spiego questo in connessione con la matematica e la Ursprung husser-
liana in Husserl on the Origins of Geometry, in D. Hyder e H.J. Rheinberger,
Science and the Life-World. Essays on Husserl’s Crisis of the European Scien-
ces, Stanford University Press, Stanford, 2010, pp. 64-82.
33. H. Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, Mondadori, Milano, 2006.
34. J.M. Coetzee, La vita degli animali, Adelphi, Milano, 2000, p. 35.
192 LA RAGIONE SCIENTIFICA

35. R. Bernstein, The Rage Against Reason, in E. McMullin (a cura di),


Construction and Constraint, Notre Dame University Press, Notre Dame,
1988, p. 216.
36. B. Williams, Genealogia della verità, cit.
37. Aristotele, Metafisica, libro Γ, 1011 b 25; trad. it., di G. Reale, Luigi
Loffredo Editore, Napoli, 1968.
38. Faccio qui riferimento solo agli articoli contenuti nei cinque volumi di
saggi pubblicati da Oxford University Press.
39. Laterza, Roma-Bari, 2006.
40. Il capitolo più lungo nel mio Linguaggio e filosofia (Raffaello-Cortina,
Milano, 1994) s’intitola La verità di Donald Davidson.
41. Mi limito quindi a esprimere in termini di veridicità gran parte di ciò che
ho detto sulla verità nei due articoli menzionati alle note 18 e 22.
42. M. Lambek, The Weight of the Past: Living with History in Mahajanga,
Madagascar, Palgrave, London, 2002.
43. L’etica e i limiti della filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1987.
44. I. Kant, Critica della ragion pura, Bompiani, Milano, 2004, p. 29 (B xi).
45. R. Netz, The Shaping of Deduction in Greek Mathematics: A Study in
Cognitive History, Cambridge University Press, Cambridge, 1999. Anche
Geoffrey Lloyd è favorevole a questa descrizione in Grecia e Cina: due cultu-
re a confronto. Mondi antichi, riflessioni moderne, cit.
46. D. Sperber, In Defense of Massive Modularity, in Dupoux, E. (a cura
di) Language, Brain and Cognitive Development: Essays in Honor of Jacques
Mehler, MIT Press, Cambridge, 2002, pp. 45-48.
47. J. Fodor, La mente modulare. Saggio di psicologia delle facoltà, il Muli-
no, Bologna, 1988.
48. J. Fodor, Modules, Frames, Fridgeons, Sleeping Dogs, and the Music of the
Spheres, in J.L. Garfield (a cura di), Modularity in Knowledge Representation
and Natural-language Understanding, MIT Press, Cambridge, 1987, pp. 25-36.
49. T.T. Rogers e J.L. McClelland, Semantic Cognition: A Parallel Distribu-
ted Processing Approach, in «Behavioral and Brain Sciences», vol. 31, issue 6,
December 2008 , pp. 689-714 [Il modello di Parallel Distributed Processing
(Ppd) è una teoria cognitiva “connessionista”, che riguarda il modo in cui si
acquisiscono e si connettono tra loro informazioni, immagini, sensazioni, for-
mando dei “nodi” all’interno di una rete neuronale. Il paradigma della rete può
entrare in conflitto con la visione modulare della mente: se le informazioni
sono immagazzinate e scambiate all’interno di una rete diventa difficile iden-
tificare zone o moduli mentali con una funzione unica e specifica. La teoria
connessionista, pur non escludendo il richiamo ai “moduli”, li concepisce co-
munque non come un insieme dato e innato di facoltà, ma come strutture co-
NOTE 193

determinate dalla predisposizione genetico-neuronale e dell’ambiente. Lo psi-


cologo James McClelland è considerato tra i fondatori di questa teoria ed in
italiano è possibile consultare David E. Rumelhart-James McClelland, PDP.
Microstruttura dei processi cognitivi, il Mulino, Bologna, 1991 (Ndc)].
50. Hacking fa riferimento alle tesi sostenute da Koyré principalmente nel
testo dal titolo Studi Galileiani, Einaudi, Torino, 1976 (Ndc).
51. S. Drake, Galileo’s Discovery of the Law of Free Fall, in «Scientific Ame-
rican», vol. 228, n. 5, 1973, pp. 84-92 e S. Drake, Galileo, una biografia scien-
tifica, il Mulino, Bologna, 1988. Drake presenta Galileo come un induttivista
che scopre la legge che regola il moto dei corpi in caduta libera sulla base del
modo in cui una palla cadeva nel suo apparato sperimentale. Non concordo
con questa lettura. Suggerisco comunque che egli abbia fatto ricorso a qual-
cosa di più rispetto alla semplice osservazione per controllare i suoi calcoli
matematici: usava ciò che succedeva al suo strumento di laboratorio. Un caso
classico, forse, di metodo ipotetico-deduttivo.
52. Princeton University Press, 1986 (trad. it., Il Leviatano e la pompa ad aria:
Hobbes, Boyle e la cultura dell’esperimento, La Nuova Italia, Scandicci, 1994).
53. A Social History of Truth: Civility and Science in Seventeenth-Century En-
gland, University of Chicago Press, Chicago, 1994.

Lezione II

1. Edizione originale tedesca, 1976 (trad. it., Antropologia dal punto di vi-
sta pragmatico, Einaudi, Torino, 2010).
2. M. Foucault, Le parole e le cose, cit., capitolo IX.
3. F. Galton, English Men of Science: their Nature and Nurture, Macmillan,
London, 1874, p. 12.
4. Come spiego nel mio articolo The Disunities of the Sciences, in P. Gali-
son e D.J. Stump (a cura di), The Disunity of Science. Boundaries, Contexts
and Power, Stanford University Press, Stanford, 1996, pp. 37-74.
5. L. Wittgenstein, Osservazioni sopra i fondamenti della matematica, Ei-
naudi, Torino, 1988, II, §46.
6. S.J. Gould e R.C. Lewontin, I pennacchi di San Marco e il paradigma di
Pangloss. Critica del programma adattazionista, Einaudi, Torino, 2001. Un pen-
nacchio è una caratteristica architettonica, spesso decorativa, che si è svilup-
pata, quasi in maniera non intenzionale, a partire da una caratteristica funzio-
nale della progettazione di un edificio.
7. Quindi, nonostante l’interesse per il lavoro di Stephen Dehaene, scien-
ziato cognitivo, non sono d’accordo con il titolo del suo libro, The Number Sen-
se: How the Mind Creates Mathematics, Oxford University Press, Oxford,
194 LA RAGIONE SCIENTIFICA

1987. Per quanto mi riguarda, egli ci insegna qualcosa rispetto alla connatu-
ralità [innateness] del contare, ma non rispetto a quella del ragionamento
matematico.
8. B. Butterworth, What Counts: How Every Brain Is Hardwired for Math,
Free Press, New York, 1999.
9. I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 29.
10. R. Netz, Shaping Deduction in Greek Mathematics, cit.
11. Si tratta della Dawes Hicks Lecture alla British Academy, pubblicata
in «Mathematics and Necessity», edito da T.J. Smiley, British Academy, Lon-
don, 2000, pp. 83-138.
12. Omisi Husserl perché la lezione si concentrava su problemi centrali
per la filosofia analitica. Ho parzialmente rimediato a quell’omissione nell’ar-
ticolo Husserl on the Origins of Geometry citato alla nota 32 della Lezione I.
13. B. Russell, I problemi della filosofia, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 99. La
domanda di Kant è formulata nella Critica della ragion pura, cit., p. 97 (B 20).
14. Ivi, p. 100.
15. P. Kitcher, The Nature of Mathematical Knowledge, Oxford University
Press, Oxford, 1983.
16. Le mie idee sui punti essenziali del programma logicista, e sulle sue
motivazioni, si trovano in What Is Logic?, in “Journal of Philosophy”, vol. 86,
1976, pp. 285-319.
17. E. Husserl, Die Krisis der europaischen Wissenschaften und die transzen-
dentale Phanomenologie, completata nel 1936 e tradotta come La crisi delle
scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano, 2015.
18. B. Latour, The Netz-Works of Greek Deductions, in «Social Studies of
Science», vol. 38, n. 3, 2008, pp. 441-459.
19. Il caso vuole che sia stato io a parlargli del libro, è per questo che egli
mi dedica gentilmente il suo saggio.
20. Si veda la nota 51 della Lezione I.
21. Con l’acronimo SSK s’intende più frequentemente l’espressione “So-
ciology of Scientific Knowledge” con la quale ci si riferisce comunque alla stes-
sa corrente cui fa accenno Hacking nel testo (ovvero quella iniziata da Bloor
e Barnes a Edimburgo), (Ndc).
22. Qui Hacking fa riferimento alla cosiddetta Actor-Network-Theory
(ANT). Questa è una teoria sociologica sviluppata (già a partire dagli anni
Ottanta) principalmente da Michel Callon, Bruno Latour e John Law che con-
siste nell’operare una simmetrizzazione fra umani, non-umani e pratiche di-
scorsive. Per il lettore interessato si veda in special modo la formulazione del-
l’ANT di Latour in Reassembling the Social. An Introduction to Actor-Network-
Theory, Oxford University Press, Oxford, 2005 (Ndc).
NOTE 195

23. R. Netz e W. Noel, Il codice perduto di Archimede, Rizzoli, Milano, 2007,


p. 46.
24. I. Hacking, Leibniz and Descartes: Proof and Ethernal Truths, «Dawes
Hicks Lecture to the British Academy», 1973, pubblicato nei «Proceedings
of the National Academy of Sciences» (vol. 94, 1997) e ristampato in Ontolo-
gia storica, cit., pp. 259-275.
25. Il concetto di “involucro genetico” [enveloppe génétique] è in realtà un
concetto molto presente negli scritti di Changeux, si veda a questo proposito:
L’uomo neuronale, Feltrinelli, Milano, 1983, p. 249 (pubblicato originaria-
mente in francese, L’homme neuronal, Paris, 1983) e L’uomo di verità, Feltri-
nelli, Milano, 2003, ad esempio al capitolo 6, §8. Quest’ultimo libro è origi-
nariamente uscito in francese e in inglese: L’homme de vérité, Odile Jacob,
Paris, 2002; The Physiology of Truth, Harvard University Press, Cambridge,
2002 (Ndc).
26. L’idea è antica, ma la denominazione, in connessione con la matemati-
ca, è invece moderna. Deriva da quel Paul Bernays da cui prende il nome la
teoria degli insiemi Neumann-Bernays: P. Bernays, Sur le platonisme dans les
mathématiques, in «L’Enseignement mathématique», n. 34, 1935, tratto da una
lezione tenuta nel 1934 e tradotta da Charles Parsons per Paul Benacerraf e Hi-
lary Putnam, Philosophy of Mathematics: Selected Readings, 1964, 2a ed., Cam-
bridge University Press, Cambridge, 1983, pp. 258-271.
27. J.-P. Changeux e Alain Connes, Pensiero e materia, Bollati Boringhieri,
Torino, 1991.
28. Ivi, pp. 25-26.
29. G.E.R. Lloyd, Grecia e Cina, cit., p. 92.
30. K. Chemla e S. Guo, Les neuf chapitres. Le classique mathématique de
la Chine ancienne et ses commentaires, Dunod, Paris, 2004, Tomo I, p. 116. Cfr.
Shen Kangsheng, John N. Crossley, Anthony W.-C. Lun, The Nine Chapters on
the Mathematical Art: Companion and Commentary, Oxford University Press,
Oxford, 1999.
31. In «Science in Context», vol. 18, 2005, pp. 125-166.
32. Per un’idea su come andare avanti, si vedano i miei corsi al Collège de
France on line su http://www.college-de-france.fr/site/ian-hacking/_cour-
se.htm, in particolare le lezioni Démonstration e La stabilité des styles de pen-
sée scientifique (corso 2005-2006, Raison et véracité – Les choses, les gens, la
raison).
196 LA RAGIONE SCIENTIFICA

Lezione III

1. Si vedano le note 18 e 22 della Lezione I.


2. Il “linguaggio primitivo” dei costruttori, con il quale Wittgenstein apre
le Ricerche filosofiche, può essere primitivo per loro, ma qualcuno deve pur
aver tagliato su misura le lastre che essi chiedono di passarsi l’uno all’altro. Il
taglio su misura potrebbe forse esser fatto senza parlare, ma ciò ci ricorda
l’immensa complessità sociale e culturale che è presupposta anche dal più sem-
plice e sensato racconto sul linguaggio umano.
3. Mi sono reso conto per la prima volta che la trasportabilità è l’essenza del-
la misurazione quando ho fatto visita a Churchill Eisenhart nel vecchio Bureau
of Standards di Gaithersburg, in Virginia (il Bureau è ora lo U.S. National In-
stitute of Standards and Technology).
4. La frase del vescovo Butler, che la probabilità «è la vera guida della vi-
ta» è molto nota; lo è meno il fatto che questa frase si trovi all’inizio dell’in-
troduzione al suo Analogy of Religion, Natural and Revealed (1763).
5. L’autogiustificazione delle scienze di laboratorio, in A. Pickering (a cura
di), La scienza come pratica e cultura, Edizioni di Comunità, Torino, 2001, pp.
33-76. Mi è stato detto che a Taiwan questo articolo è stato recentemente tra-
dotto in Cinese.
6. I riferimenti alle discussioni di Weinberg, Chomsky e Cohen si trovano
nei miei due articoli sugli stili ripubblicati in Ontologia Storica, cit., in parti-
colare alle pp. 214-215 e 234-235.
7. S. Shapin e S. Schaffer, op. cit.
8. S. Shapin e S. Schaffer, Léviathan et la pompe à air: Hobbes et Boyle en-
tre science et politique, Editions la découverte, Paris, 1993.
9. C. Bazerman, Le origini della scrittura scientifica. Come è nata e come
funziona l’argomentazione del saggio sperimentale, Transeuropa, Bologna,
1991.
10. Per big science, in sociologia e storia della scienza, si intende quel tipo
di cambiamento radicale nel modo di produzione scientifica avvenuto nel
XX secolo con la nascita del progetto Manhattan. L’espressione big science
descrive almeno tre fattori che determinano la peculiarità di questo periodo
storico: grandi opere di ricerca scientifica finanziate con denaro pubblico;
applicazione tecnologica su larga scala dei risultati scientifici della ricerca di
base da parte di grandi entità private (come le multinazionali, ecc.); ricerca e
applicazione tecnica in campo militare. Il termine si oppone a quello di little
science con il quale si intende l’opera di singoli ricercatori (o di piccoli grup-
pi). In particolar modo, il primo a introdurre il termine è stato il fisico Alvin
Weinberg in un articolo pubblicato su Science. Nelle scienze sociali si deve
NOTE 197

invece a Derek de Solla Price la più celebre descrizione del fenomeno in que-
stione in Little Science, Big Science, Columbia University Press, New York-
London, 1963 (Ndc).
11. B. Latour, Postmodern? No, Simply Amodern! Steps Towards an Anth-
ropology of Science, in «Studies in the History and Philosophy of Science»,
vol. 21, 1990, pp. 145-171.
12. I. Hacking, Artificial Phenomena, in «British Journal for the History of
Science», n. 24, 1991, pp. 235-241. La mia recensione arrivava decisamente in ri-
tardo. La rivista si sentiva giustamente in colpa per aver pubblicato una recen-
sione ignorante e compiaciuta dell’edizione con copertina rigida, e ha colto co-
sì l’occasione dell’edizione paperback per dare una seconda occhiata al libro.
13. P. Galison, How Experiments End, The University of Chicago Press,
Chicago, 1987. Per una ricognizione sulla proliferazione degli studi sul labo-
ratorio a partire dagli anni Ottanta si veda I. Hacking, Philosophers of Experi-
ment, in «PSA: Proceedings of The Biennial Meeting of the Philosophy of
Science Association» (1970-994), vol. 2, 1988, pp. 147-156 (Ndc).
14. Con “emisferi di Magdeburgo” si fa riferimento all’esperimento effet-
tuato da Otto von Guericke (1602-86) per provare l’esistenza della pressione
atmosferica: due emisferi cavi collegati tra loro oppongono un’elevata resi-
stenza al distacco quando si estrae l’aria dallo spazio cavo formato dalla loro
unione. Un tiro di otto cavalli per parte rese possibile la realizzazione dell’e-
sperimento (Ndc).
15. Physicists create a new state of matter at record low temperature, pubbli-
cazione del National Institute of Standards and Technology e della Univer-
sity of Colorado, 13 luglio 1995.
16. Hobbes ha posto questa domanda nel Dialogus physicus, pubblicato
nel 1661, una risposta piccata al libro di Boyle New Experiments Physico-Me-
chanical, pubblicato nel 1660 (Boyle a sua volta confutò Hobbes nel 1662).
Questo dialogo non è stato tradotto nell’edizione francese di S&S, contri-
buendo all’allontanamento dal lato materiale, che io invece sottolineo, in di-
rezione del lato sociale del libro.
17. Con il termine “artificio” [artifice] Schaffer rende l’espressione latina
che nella versione italiana è tradotta come ‘perizia tecnica’ (Ndc).
18. S. Shapin, op. cit.
19. Einaudi, Torino, 2006.
20. Si veda la mia recensione in «London Review of Books», 10 maggio, 2007,
che spiega alcune delle ragioni per le quali penso che questo libro sia così im-
portante. È disponibile online su http://www.lrb.co.uk/v29/n09/hack01_.html.
21. Peter W. Milonni, The Quantum Vacuum: An Introduction to Quantum
Electrodynamics, Academic Press, Boston, 1997, p. 104.
198 LA RAGIONE SCIENTIFICA

22. P.C.W. Davies, Superforce, Simon and Schuster, New York, 1985, p. 104.
23. Questa lezione è stata preparata per un workshop di un giorno su
“Science, Technology and Society”. Il professor Ruey-Lin Chen, che mi ha
invitato a questo workshop, mi ha scritto che «alcuni amici negli Sts suggeri-
scono che dovrei chiederle di parlare del modo in cui lei “immagina” la tec-
noscienza dell’Asia dell’Est, alla fine della lezione per la comunità Sts». Ciò che
dico qui a proposito della biotecnologia di Stato in Cina è una versione rima-
neggiata di ciò che ho detto in risposta a questa richiesta.
24. I. Hacking, The Participant Irrealist at Large in the Laboratory, in «Bri-
tish Journal for the Philosophy of Science», vol. 39, n. 3, 1988, pp. 277-294.
25. P. Rabinow, T. Dan-Cohen, A Machine to Make a Future: Biotech Ch-
ronicles, Princeton University Press, Princeton, 2005; P. Rabinow, Pensare le
cose umane, Meltemi, Roma, 2008; P. Rabinow, French DNA: Trouble in Pur-
gatory, Chicago, 1999; e il mio preferito: Fare scienza oggi. PCR: un caso esem-
plare di industria biotecnologica, Feltrinelli, Milano, 1999.

Lezione IV

1. R. Carnap, Empiricism, Semantics, and Ontology, in «Revue internatio-


nale de philosophie», n. 4, 1950, pp. 20-40.
2. B. Russell, I problemi della filosofia, cit., pp. 110-111.
3. C.H. Wenzel, Chinese Language, Chinese Mind? in C. Kanzian e E. Rung-
galdier (a cura di), Cultures: Conflict-Analysis-Dialogue (Proceedings of the
29th International Ludwig Wittgenstein Symposium, 2006), Ontos, Frank-
furt am Main, 2007, pp. 296-314.
4. R.E. Nisbett, The Geography of Thought: How Asians and Westerners
Think Differently… and Why, Free Press, New York, 2003. Per un riassunto
delle critiche ai tipi di risultati raggiunti da Nisbett si veda G. Lloyd, Cogniti-
ve Variations: Reflections on the Unity and Diversity of the Human Mind, Cla-
rendon Press, Oxford, 2007 (e la mia recensione di quest’ultimo nella «Lon-
don Review of Books», primo novembre 2007).
5. Le idee sistematiche di Wilhelm von Humboldt sull’eterogeneità delle
lingue si trovano nella sua celebre monografia, On Language: On the Diver-
sity of Human Language Construction and its Influence on the Mental Deve-
lopment of the Human Species, Cambridge University Press, Cambridge, 1999.
(Tradotto da Über die Verschiedenheit des menschlichen Sprachbaues und ih-
ren Einfluss auf die geistige Entwiceklung des Menschengeschlechts, 1836).
Wenzel invece si riferisce a un testo meno noto, una lettera scritta nel 1827 a
Jean-Pierre Abel-Rémusat, che era stato professore di cinese al Collège de Fan-
NOTE 199

ce a Parigi a partire del 1814, la prima cattedra di cinese in Europa. Lettre à


M. Abel-Remusat: Sur la nature des formes grammaticales en general et sur le
genie de la langue chinoise en particulier, Dondey-Dupre, Paris, 1827 (ristam-
pato in Elibron Classics, 2005). Wenzel fornisce i riferimenti al tedesco e ad
altri studi su questa lettera.
6. Per altri significati di “relatività linguistica” si vedano articoli enciclope-
dici come quello di C. Swoyer nella Stanford online encyclopedia, http://pla-
to.stanford.edu/archives/sum2015/entries/relativism/, oppure L. Borodit-
sky, Linguistic Relativity, in L. Nadel (a cura di), Encyclopedia of Cognitive
Science, Macmillan Press, London, 2003, pp. 917-921.
7. F. Nietzsche, La gaia scienza, in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. V, to-
mo II, Adelphi, Milano, 1965, §58, pp. 78-79.
8. Kinds of People: Moving Targets, in «Proceedings of the British Aca-
demy», vol. 151, 2007, pp. 285-318.
9. C. Tzu, The Inner Chapters, Counterpoint, Washington DC, 1998, p. 7
[in italiano il passo in questione si può trovare in Tao. I grandi testi antichi,
UTET, Torino, 2003, capitolo 3, Chuang-Tzu – Il vero libro di Nan-Hua, p.
352 (Ndc)]. Giusto per puntualizzare, P. Lagerkvist (1891-1974), Premio No-
bel per la letteratura nel 1951, ha pubblicato il suo romanzo autobiografico
Guest of Reality (Gäst hos Verkligheten, Aldus/Bonnier, Stockholm, 1967)
nel 1925. Per una discussione di C. Tzu ancora più fuori dal contesto della
mia si veda M. Berkson, Language: The Guest of Reality – Zhuangzi and Der-
rida on Language, Reality and Skillfulness, in P. Kjellberg e P.J. Ivanhoe (a cu-
ra di), Essays on Skepticism, Relativism, and Ethics in the Zhuangzi, State Uni-
versity of New York Press, Albany, 1996, pp. 97-126.
10. Pierre Hadot, Il velo di Iside. Storia dell’idea di natura, Einaudi, 2006,
p. 12. [laddove il traduttore italiano sceglie “controsensi” ho preferito lascia-
re “errori d’interpretazione”, per adeguarmi al seguito dell’argomentazione
di Hacking (Ndt)].
11. Ho lasciato il calco italiano della traduzione inglese, che mette meglio
in luce gli scopi di Hacking. La traduzione italiana UTET riporta invece: «le
cose si ammettono chiamandole per nome», op. cit., p. 360, mentre in quella
Adelphi (Zhuang-zi, Milano, Adelphi, 1992, p. 24) si trova: «è nominandole
che le cose sono» (Ndt).
12. Anche in questo caso tengo il calco dall’inglese, laddove l’italiano sem-
bra scostarsi di molto: «Che ammetto? Ammetto ciò che mi sembra ammissi-
bile. Che non ammetto? Non ammetto ciò che non mi sembra inammissibile.
Certamente nelle creature v’è qualcosa di ammissibile e di approvabile, nes-
suna è inammissibile o inapprovabile» (UTET, op. cit., p. 360); cfr. Adelphi,
p. 24: «Come dire sì a una cosa? Si dice sì a una cosa che è. Come dire no a
200 LA RAGIONE SCIENTIFICA

una cosa? Si dice no a una cosa che non è. Come giudicare ciò che è possibi-
le? Si considera possibile una cosa che è possibile. Come giudicare ciò che
non è possibile? Si considera impossibile una cosa che non è possibile. Ogni
cosa ha la sua verità; ogni cosa ha la sua possibilità. Non c’è nulla che non ab-
bia la sua verità; non c’è nulla che non abbia la sua possibilità» (Ndt).
13. Si veda la nota 13 della Lezione II.
14. B. Russell, op. cit., p. 119.
15. R. Rorty, Hope in Place of Knowledge: The Pragmatics Tradition in Phi-
losophy, Institute of European and American Studies, Academia Sinica, Tai-
pei, 1999.
16. Quarta di copertina dell’edizione paperback, Richard Rorty, Philosophy
as Cultural Politics, Philosophical Papers IV, Cambridge University Press, Cam-
bridge, 2007.
17. Ivi, p. 133.
18. A. Fine, The Natural Ontological Attitude, in The Shaky Game: Einstein,
Realism and the Quantum Theory, University of Chicago Press, Chicago, 1986.
19. I. Hacking, Conoscere e sperimentare, Roma-Bari, Laterza, 1987, p. 4.
20. On Not Being a Pragmatist: Eight Reasons and a Cause, in C. Misak (a
cura di), New Pragmatists, Oxford University Press, Oxford, 2007, pp. 32-49.
21. Alcune delle critiche sono: D. Resnik, Hacking’s Experimental Reali-
sm, in «Canadian Journal of Philosophy», vol. 24, 1994, pp. 395-412; R. Rei-
ner e R. Pierson, Hacking’s Experimental Realism: An Untenable Middle
Ground, in «Philosophy of Science», vol. 62, n. 1, 1995, pp. 60-69 [Per “infe-
renza alla migliore spiegazione” s’intende generalmente una regola d’inferen-
za secondo la quale, tra le varie spiegazioni potenziali di un dato fenomeno,
la migliore di esse è anche quella vera. Due dei più noti argomenti tratti da que-
sta regola sono l’argomento del successo scientifico, secondo il quale la scien-
za ha successo (soprattutto a livello strumentale) perché converge verso la ve-
rità e quello della coincidenza: sarebbe un “accidente cosmico” se gli strumenti
scientifici riuscissero a manipolare così efficacemente alcune entità che in
realtà non esistono. Per un esempio del primo argomento si veda R.N. Boyd,
Scientific Realism and Naturalistic Epistemology, in «PSA 1980», vol. 2, pp.
613-662; per una versione del secondo invece J.C. Smart, Between Science
and Philosophy, Random House, New York, 1968. Cercando di prevenire al-
cune critiche a questo poposito, Hacking aveva già spiegato il suo scetticismo
nei confronti di tutti gli argomenti riconducibili all’inferenza alla migliore spie-
gazione in Conoscere e sperimentare, op. cit., pp. 62-68 (Ndc)].
22. M. Suárez, Experimental Realism Defended: How Inference to the Most
Likely Cause Might be Sound, in S. Hartmann, C. Hoefer, L. Bovens (a cura di),
Nancy Cartwright’s Philosophy of Science, Routledge, London, 2008.
NOTE 201

23. E. Becquerel, Recherches sur les effets de la radiation chimique de la lu-


mière solaire, au moyen des courants électriques, in «Comptes rendus hebdo-
madaire des séances de l’Académie des Sciences», vol. 9, 1839, pp. 145-149.
Cfr. E. Becquerel, La Lumière, ses causes et ses effets, 2 voll., Firmin Didot
Frères, Paris, 1867-68, vol. II, p. 122. L’esperimento è stato riprodotto da Jérô-
me Fatet; si veda il suo seminario online datato 26 gennaio 2005, Edmond
Becquerel: La naissance de l’actinomètre électrochimique.
24. Daniela Monaldi me lo ha fatto notare dopo aver letto ciò che avevo
scritto a proposito di Becquerel nel preprint Another New World Is Being Con-
structed Right Now: The Ultracord, Max Planck Institute for the History of
Science, Berlin, 2006.
25. Extragalactic Reality: The Case of Gravitational Lensing, «Philosophy
of Science», vol. 56, 1989, pp. 555-581 [Per una critica di questa discussione
di Hacking dell’effetto “lente gravitazionale” alla luce del suo argomento
sperimentale a favore del realismo delle entità teoriche si veda D. Shapere,
Astronomy and Antirealism, in «Philosophy of Science», vol. 60, n. 1, 1993, pp.
134-150. Shapere fa notare che l’applicabilità dell’argomento sperimentale in
astrofisica dipende dal senso che Hacking intende attribuire al verbo “mani-
polare”: dal momento che utilizziamo le lenti gravitazionali per misurare le
distanze, operiamo con esse, ci serviamo di esse come di strumenti, siamo al-
lora legittimati a ritenerle reali anche se non possiamo effettuare esperimenti
su di esse].
26. I. Hacking, L’autogiustificazione delle scienze di laboratorio, cit.
27. S.R. Clark and D. Jaksch, Signatures of the Superfluid to Mott-Insulator
Transition in the Excitation Spectrum of Ultracold Atoms, in «New Journal of
Physics», vol. 8, 2006, pp. 160-178, a p. 177.

Da dove viene lo stile Hacking

1. Con la parola “archeologica” voglio intendere tutto quell’insieme di ri-


costruzioni che sono andate al di là dell’utilizzo del termine all’interno della sto-
ria della scienza o di quelle, seppur interne alla disciplina, non del tutto conte-
nutisticamente attinenti alla formulazione che ci interessa in questo contesto.
2. A.I. Davidson, Stili di ragionamento: dalla storia dell’arte all’epistemolo-
gia della scienza, in L’emergenza della sessualità, Quodlibet, Macerata, 2010,
pp. 171-190.
3. J. Gayon, De la catégorie de style en histoire des sciences, in «Alliage», n.
26, 1996, pp. 13-25.
202 LA RAGIONE SCIENTIFICA

4. Si veda Il problema di una sociologia della conoscenza, in K. Mannheim,


Sociologia della conoscenza, il Mulino, Bologna, 2000, pp. 123-194.
5. P. Bourdieu, Il mestiere di scienziato, Feltrinelli, Milano, 2003, p. 84.
6. Cfr. i due saggi di I. Hacking: Linguaggio, Verità e Ragione e Lo “Stile”
per gli storici e i filosofi entrambi contenuti in Ontologia Storica, Edizioni
ETS, Pisa, 2010.
7. Hacking riferisce la data del 1980 in Linguaggio, Verità e ragione, op. cit.
p. 211. La raccolta verrà pubblicata ufficialmente in M. Hollis e S. Lukes (a cu-
ra di), Rationality and Relativism, Mit Press, Cambridge Mass, 1982.
8. Con gli autori provenienti dalla Scuola di Edimburgo Hacking condivi-
deva l’interesse per la filosofia di Wittgenstein (si veda il saggio di Vagelli
contenuto in questo volume, infra, pp. 7-27).
9. M. Hollis e S. Lukes (a cura di), Rationality and Relativism, cit., pp. 48-
66; ripreso in Ontologia storica, cit., pp. 211-232.
10. Cfr. Linguaggio, Verità e Ragione, cit., p. 211.
11. Hacking applica dunque il concetto di stile a partire dal 1980, ben pri-
ma della formulazione definitiva da parte di Crombie nel 1994.
12. Infra, Lezione I, §2, p. 37 e seguenti.
13. M. Kusch, Hacking’s Historical Epistemology: A Critique of Styles of Rea-
soning, in «Studies in History and Philosophy of Science», n. 41, 2010, pp.
158-173.
14. Cfr. J. Gayon, op. cit.
15. A.I. Davidson, op. cit., p. 175.
16. Si veda infra, p. 27.
17. I. Hacking, Lo “stile” per storici e filosofi, cit., pp. 236-237.
18. Si pensi per esempio che la prima edizione americana di questo testo
risale al 1979, a cura di Brenn e Merton e con un’introduzione di Kuhn.
19. E. Campelli, Un rapporto imaginabilis? Ludwik Fleck e Thomas Kuhn,
in «Sociologia e Ricerca Sociale», n. 53/54, 1997, pp. 7-52.
20. B. Latour, Postface: Transmettre la syphilis. Partager l’objectivité, in L.
Fleck, Genèse et développement d’un fait scientifique, Les Belles Lettres, Pa-
ris, 2005, p. 253.
21. Fleck sarà uno fra i riferimenti intellettuali comuni a Hacking e agli
Science (and Technology) Studies. La rivista di bandiera del settore, «Social Stu-
dies of Science», animata da David Edge, di Edimburgo, ha dedicato in varie
occasioni spazio alla figura di Fleck così come ha fatto, più tardi, la rivista «Mi-
nerva» (e in maniera minore «Science Technology & Human Values»). Si ve-
da inoltre: S. Jasanoff, Genealogies of STS, in «Social Studies of Science», vol.
43, n. 3, 2012, pp. 435-441; M. Bucchi, Scienza e società. Introduzione alla so-
NOTE 203

ciologia della scienza, il Mulino, Bologna, 2002; a cura di Jasanoff, S. et al.,


Handbook of Science and Technology Studies, SAGE, London, 1995; D.J. Hess,
Science Studies. An Avanced Introduction, New York University Press, New
York, 1997, p. 84.
22. Lo stesso è avvenuto per altri autori come ad esempio Boris Hessen. Si
veda G. Ienna e G. Rispoli, Boris Hessen al bivio fra scienza e ideologia, in B.
Hessen, Le radici sociali ed economiche della meccanica di Newton, Castelvec-
chi, Roma, 2017, pp. 5-44.
23. Cfr. J.-F. Braunstein, L’histoire des sciences. Méthodes, styles et contro-
verses, Vrin, Paris, 2008.
24. I. Hacking, Lo “stile” per storici e filosofi, cit., p. 235-236.
25. Cfr. Linguaggio, verità e ragione, cit.
26. Cfr. Lo “stile” per storici e filosofi, cit.
27. M. Foucault, L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia del-
la cultura, BUR, Milano, 2011, p. 146.
28. Si tratta delle parole usate nella prefazione all’edizione inglese (The Or-
der of Things). M. Foucault, Dits et écrits, 2 voll., Gallimard, Paris, 1994, p. 9.
29. M. Foucault, Dits et écrits, cit., p. 8.
30. Cfr. J.-F. Braunstein, Bachelard, Canguilhem, Foucault. Le “style français”
en épistémologie, in Wagner, Pierre (a cura di), Les philosophes et la science,
Gallimard, Paris, pp. 920-963.
31. Questo testo di Althusser è stato riconosciuto anche da altri studiosi
come debitore del regionalismo epistemologico. (Cfr. J.-F. Braunstein, Bache-
lard, Canguilhem, Foucault. Le “style français” en épistémologie, cit.). Inoltre
si noti che buona parte della filosofia di Althusser è stata fortemente influen-
zata dai dispositivi teorici bachelardiani.
32. Linguaggio, verità e ragione, cit., p 214, che riprende L. Althusser, Le-
nin e la filosofia seguito da: Sul rapporto fra Marx e Hegel; Lenin di fronte a
Hegel, JacaBook, Milano, 1969, pp. 25-26.
33. P. Jacob, Il regionalismo epistemologico: una tendenza della filosofia
contemporanea delle scienze in Francia, in «Rivista di filosofia», vol. 83, n. 2,
1991, p. 287.
34. Si possono rintracciare tensioni regionaliste anche in altri autori oltre a
quelli da noi citati; per approfondimenti si veda P. Jacob, op. cit.
35. Cfr. G. Bachelard, Il razionalismo applicato, Edizioni Dedalo, Bari, 1975.
36. G. Bachelard, Il razionalismo applicato, cit.
37. Su queste tematiche si vedano i saggi contenuti in P. Donatiello, F. Ga-
204 LA RAGIONE SCIENTIFICA

lofaro, G. Ienna, (a cura di), Il senso della tecnica. Saggi su Bachelard, Escula-
pio Editore, Bologna, 2017.
38. In L’objet de l’histoire des sciences, contenuto in Études d’histoire et de
philosophie des sciences concernat les vivants (Vrin, Paris, 1968), Canguilhem
esplicita con chiarezza che non esiste una storia della scienza declinata al sin-
golare ma una storia delle scienze regionalizzate. In questo senso è possibile
notare una continuità con Auguste Comte.
39. È probabile che Bourdieu sia stato uno dei sostenitori di Hacking per
la sua elezione nel 2000/2001 al Collège de France (insieme a Jacques Bouve-
resse) per la cattedra di “Philosophie et histoire des concepts scientifiques”. In
P. Bourdieu, Il mestiere di scienziato, cit., (testo del suo ultimo corso al Collè-
ge, anch’esso del 2000-2001) l’autore infatti evoca spesso la figura di Hacking:
per il riferimento al concetto di stile si veda Il mestiere di Scienziato, p. 84. Si
noti inoltre che, nel dedicare il suo ultimo corso a Jules Vuillemin (p. 11), Bour-
dieu dice: «Vuillemin si trova in quella tradizione francese di filosofia della
scienza che ha trovato un’incarnazione in Bachelard, Koyré, Canguilhem e che
è portata avanti oggi da alcuni studiosi, tra queste stesse mura», dove il riferi-
mento è chiaramente diretto a Hacking.
40. Si fa qui riferimento principalmente agli studi di J.-L. Fabiani, Y. Gin-
gras, J. Heilbron, É. Brian e altri.
41. Oltre al testo che presentiamo qui (infra, Lezione I, §10), anche nei corsi
al Collège il riferimento a Bourdieu assume una posizione centrale.
42. Infra, Lezione I, §10, p. 52.
43. Cfr. il saggio introduttivo di Vagelli, infra, p. 26.
44. Bourdieu decide di dedicare il suo ultimo corso al Collège al campo
scientifico proprio perché preoccupato dalle tendenze degli studi contempo-
ranei sulla scienza. Da un lato, gli sconvolgimenti del Sokal Affaire richiede-
vano un intervento diretto per riabilitare l’immagine delle scienze sociali in
genere all’interno del campo scientifico. Dall’altro il relativismo estremo pro-
posto da Latour (che parlava da un pulpito interno allo stesso campo accade-
mico francese) otteneva sempre più sostenitori. In tal senso, non escludiamo
che Bourdieu abbia sostenuto la candidatura di Hacking al Collège proprio
in funzione anti-latouriana (anche quest’ultimo avendo tentato più volte di
avvicinarsi a quest’istituzione).
45. Anche J.-C. Passeron, a seguito della lettura dei testi di Crombie e di
Hacking, ha cominciato a utilizzare il concetto di stile. In tal senso, a partire
dagli scritti successivi alla prima edizione di Le Raisonnement Sociologique
del 1991, il sociologo francese ha usato questo termine per connotare il suo
tipo di ricerca sullo spazio argomentativo delle scienze sociali. Queste rifles-
sioni sul concetto di stile vengono elaborate in una serie di testi preparatori
alla ristrutturazione de Le Raisonnement Sociologique per la sua seconda edi-
zione del 2006.
NOTE 205

46. Infra, Lezione III, §3, pp. 109-110.


47. In verità già utilizzata da Bachelard (ma in maniera meno strutturante)
e ampiamente in Foucault.
48. Ontologia storica, in Ontologia storica, cit., pp. 11-43.
49. Specifica Hacking che il nome di Boyle, come quello di Talete o Gali-
leo, sono dei meri indicatori simbolici per individuare a livello mitologico la
genesi di uno stile di ragionamento.
50. Infra, Lezione III, §10, p. 122.
51. Anche qui è possibile vedere una certa affinità con il concetto di feno-
menotecnica bachelardiana.
52. Come si è visto nel saggio di Vagelli, Hacking ha analizzato da vicino
anche altri stili di ragionamento (infra, p. 10-11).
53. In italiano tradotto come La natura della scienza. Riflessioni sul costru-
zionismo, McGraw-Hill, Milano, 2000. Segnaliamo in particolare l’edizione
francese Entre science et réalité. La construction sociale de quoi?, La Décou-
verte, Paris, 2001 uscito nella collana di Latour e Callon (Anthropologie des
sciences et techniques) in cui sono stati pubblicati (oltre ad alcuni fra i testi
dei due direttori di collana) anche un’antologia dell’ambito degli Science (and
Technology) Studies e alcuni testi classici come Léviathan et la pompe à air di
Shapin e Schaffer.
54. Su questo punto si veda l’introduzione di M. Vagelli a questo volume,
infra, pp. 7-27.
55. A. Pickering (a cura di), Science as Practice and Culture, University of
Chicago Press, Chicago, 1992; Jasanoff, S. et al. (a cura di), Handbook of Scien-
ce and Technology Studies, cit.; M. Biagioli (a cura di), The Science Studies
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and Technology Studies, Blackwell Publishing, Chichester, 2004.
56. J.-F. Braunstein, Bachelard, Canguilhem, Foucault. Le “style français” en
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Indice dei nomi

A Boyle, Robert, 14-15, 19, 67-68, 87, 96,


Agazzi, Evandro, 189, 213, 217 119-20, 124-33, 137, 139, 179, 193,
al-Khwārizmī, 63, 95, 96 196-97, 205, 220
Archimede, 53-55, 88-91, 101, 103, Butler, Bishop, 196
195, 219 Butterfield, Herbert, 35, 188-89, 212
Ariew, Roger, 189, 211
Aristotele, 33, 57, 81, 86, 140, 192, 211
C
Carnap, Rudolf, 47, 113, 122, 141-42,
B 190, 198, 212
Bachelard, Gaston, 15, 22, 45, 106, 172, Changeux, Jean-Pierre, 97-99, 195, 213
174-75, 178-79, 187, 190, 203-05, Chemla, Karine, 102-04, 191, 195, 212
207, 210, 221-24 Cho, Hung-Wen, 130
Bardeen, John, 129 Chomsky, Noam, 63, 66-76, 99, 116-
Barnes, Bary S., 88, 168-69, 171, 194 17, 168, 196, 212
Bazerman, Charles, 196, 211 Chuang, Tzu, 24, 145, 147, 149, 199,
Beck, Ulrich, 44, 190, 211 212
Becquerel, Edmond, 21, 159-60, 201, Coetzee, John Maxwell, 54, 191, 213
211 Cohen, Bernard I., 116-18, 168, 196,
Bellarmino, Roberto, 126 198, 213
Bernstein, Richard J., 54, 192, 211 Comte, Auguste, 22, 71, 149, 204
Bloor, David, 88, 168-69, 171, 194, 221 Connes, Alain, 97-99, 195, 213
Bose, Satyendra N., 20, 125-26, 130, Cooper, Leon N., 130
133, 163 Crombie, Alistair C., 10-11, 14, 16-17,
Bourdieu, Pierre, 27, 51-52, 55, 70, 23, 37-48, 56, 62, 64-67, 70, 96, 100-
135, 168, 173, 176-77, 188, 191, 01, 104, 106-15, 117-18, 131, 139,
202, 204, 212, 216, 221, 223 162, 168-71, 178, 189, 202, 204,
Bouveresse, Jacques, 185-86, 191, 204, 211, 213, 218
207, 209, 216, 223
226 LA RAGIONE SCIENTIFICA

D G
Daguerre, Louis-Jacques-Mandé, 160 Galileo, Galilei, 14-15, 46, 53, 65-66,
Darwin, Charles R., 144, 176 68, 90-91, 96, 106, 108, 115, 117-18,
Daston, Lorraine, 51, 191, 213, 215 126, 173, 189, 193, 205, 213-14, 217
Davidson, Arnold I., 27, 48, 167, 180, Galison, Peter, 51, 123, 179-80, 183,
183, 185-86, 188, 191, 201-02, 207, 191, 193, 197, 213, 215-16, 223
210, 213, 222 Gardner, Martin, 93
Davidson, Donald, 58, 192, 213-14 Garfield, Jay L., 192, 214
Davies, 133, 198, 214 Geber (Abū Mūsa Jābir ibn Ḥayyān), 96
Dennett, Daniel, 44, 190 Gödel, Kurt, 86
Descartes, René, 17-18, 83, 84-86, 93- Goodman, Nelson, 142, 153, 162, 191
94, 186, 195, 208, 215 Gould, Stephen Jay, 76, 193, 215
Dewey, John, 152, 154, 156, 158, 184 Gruender, David, 189, 213, 217
Diderot, Denis, 56, 68 Guo, Shuchun, 191, 195, 212
Drake, Stillman, 65, 126, 193, 214
Dummett, Michael, 142, 151
H
Hadot, Pierre, 132, 147, 199, 217
E Haeckel, Ernst, 144
Einstein, Albert, 20, 112, 125-26, 130, Han, Dian-Jiun, 125
133, 161, 200, 214 Hesse, Hermann, 54, 191, 217
Eisenhart, Churchill, 196 Hintikka, Jaakko, 189, 213, 217
Elwick, James, 191, 214 Hobbes, Thomas, 21, 67-68, 87, 119,
Eraclito, 132-33, 147 126-28, 142, 193, 196-97, 220
Erodoto, 61 Hollis, Martin, 168, 184, 190, 202, 208,
Euclide, 43, 62, 88 215, 223
Holton, Gerald, 42
Humboldt, Wilhelm von, 144, 198,
F 217
Fermat, Pierre de, 75, 92 Hume, David, 59, 73, 189
Fine, Arthur, 153, 200, 214 Husserl, Edmund, 34, 52-53, 66, 83,
Fleck, Ludwik, 47, 53, 168, 170-71, 86, 96, 116-18, 168, 191, 194, 217
190, 202, 214, 222, 224 Hyder, David, 191, 217
Fodor, Jerry, 63, 192, 214
Foucault, Michel, 7-10, 13, 15, 24-26,
35, 44-46, 56, 73, 135, 167, 170, I
172-73, 184-85, 187-88, 190, 193, Iliffe, Robert, 189, 217
203, 205, 207-08, 215, 221-22
Frege, Gottlob F.L., 53
J
James, William, 103, 154, 184
INDICE DEI NOMI 227

K Netz, Reviel, 17, 21, 25, 62, 81, 87-91,


Kafka, Franz, 54 97, 103, 119, 192, 194-95, 218-19
Kant, Immanuel, 37, 42, 51, 62-63, 66, Nietzsche, Friederich W., 50, 56, 104,
73, 77-81, 83-84, 86, 95, 102-05, 144-49, 153, 185, 199, 207, 219
150, 170, 192, 194, 217-18 Nisbett, Richard E., 144, 198, 219
Kapica, Pëtr, 129
Kourilsky, Philippe, 136
Krüger, 8, 190, 215 O
Kuhn, Thomas, 25, 42, 47, 106, 122, Ockham, William of, 14, 42, 46, 48, 150
170-71, 184, 190, 202, 218, 222

P
L Pascal, Blaise, 46, 68-69, 96
Lakatos, Imre, 17, 42 Peirce, Charles S., 13, 69-70, 113-14,
Lambek, Michael, 60-61, 192, 218 116, 154
Latour, Bruno, 21, 87-91, 96, 99, 102, Pickering, Andrew, 162, 191, 196, 205,
119, 121, 123, 126-27, 134, 171, 214, 216, 224
179, 187, 194, 197, 202, 204-05, Pitagora, 50, 75
218, 224 Planck, Max, 8, 20, 33, 187, 201, 205,
Leibniz, Gottfried Wilhelm, 27, 33, 51- 209, 216, 224
52, 83, 84-86, 94, 115, 117, 186, Platone, 33, 38, 53, 75, 83-86, 89-91,
195, 208, 215 99, 101, 140-41, 150
Lewontin, Richard, 76, 193, 215 Popper, Karl, 53, 69, 112-13, 122, 131,
Linneo, Carl, 46, 68, 99 184
Lloyd, Geoffrey E.R., 39, 48, 53, 81-
82, 91, 101, 103, 189, 191-92, 195,
198, 218 R
Lukes, Steven, 168, 184, 190, 202, 208, Rabinow, Paul, 135, 198, 219
215, 223 Roche, Daniel, 191, 216, 223
Rogers, Timoty T., 192, 219
Rorty, Richard, 22, 152-55, 185, 200,
M 208, 219
Magruder, Kerry, 189, 218 Rose, Nikolas, 135
Mannheim, Karl, 47, 168, 202, 224 Rousseau, Jean-Jacques, 56, 68
McClelland, James L., 192-93, 219 Russell, Bertrand, 83-86, 105, 143,
Meadows, Arthur J., 189, 218 149-51, 194, 198, 200, 219
Miller, James G., 144
Milonni, Peter W., 197, 218
S
Schaffer, Simon, 21, 67-68, 87, 89, 91,
N 119-21, 123, 127, 179, 180, 196-97,
Needham, Joseph, 101 205, 220
228 LA RAGIONE SCIENTIFICA

Schlick, Moritz, 34, 49 W


Shapin, Steven, 21, 67-68, 87-88, 91, Watts, Isaac, 191, 220
119-21, 123, 128, 171, 179, 196-97, Weinberg, Steven, 66, 116-18, 168,
205, 220 196, 220
Sima, Qian, 24, 59 Wenzel, Christian H., 144, 198-99, 220
Sima, Tan, 59 Whewell, William, 7, 74
Spengler, 47, 168 Whitehead, Alfred North, 90, 219
Sperber, Dan, 63, 184, 192, 209, 220 Williams, Bernard A.O., 13-14, 33, 49,
Suárez, Mauricio, 158, 159, 200, 220 55-61, 63-65, 67, 71, 81, 92, 96, 106-
08, 129, 188, 192, 216, 220
Wisdom, John, 144
T Wittgenstein, Ludwig, 7, 17, 18, 27,
Tal, Eran, 157 62, 72, 74, 83-86, 92-93, 119-20,
Talete, 14-15, 17, 61-63, 66, 68, 79-81, 151, 183, 186, 193, 196, 198, 202,
89, 95, 97, 108-09, 173, 186, 205 208, 209, 221
Tarski, Alfred, 57, 58 Wölfflin, Heinrich, 46, 167, 190, 221
Torricelli, Evangelista, 124 Woolgar, Steve, 87, 123, 134, 179, 218
Tucidide, 56, 59, 61, 68, 81, 108

Y
U Yu, Ite Albert, 125, 130
Uzan, Jean-Philippe, 188, 220

V
Van Fraassen, Bas, 71, 99, 122, 150
Vernant, Jean-Pierre, 37, 189
Indice

IAN HACKING E LA SCIENZA


COME “MISCUGLIO VARIOPINTO” DI STILI
di Matteo Vagelli 5

1. L’occasione 7
2. Sull’idea stessa di stile di ragionamento scientifico 9
3. L’animale matematico 15
4. «The manipulative hand and the attentive eye» 19
5. L’antropologia filosofica della ragione scientifica 22

Nota del traduttore 28

LA RAGIONE SCIENTIFICA 29

Prefazione 31

Lezione I 33
1. Imparare a imparare 34
2. Stili di pensiero scientifico 37
3. “La tradizione europea” 38
4. Gli stili sono costituiti dai metodi e dagli oggetti 39
5. Un semplice modello per organizzare il passato 40
6. Cristallizzazione 43
7. Rimpianti a proposito della parola “stile” 46
8. Stili auto-certificanti 49
9. Oggetti 50
10. Leibniz e Bourdieu 51
11. Società 53
12. La “Veridicità” di Bernard Williams 55
13. Silenzio a proposito della verità 57
14. Veridicità a proposito del passato 58
15. Matematica 61
16. Avvertenza a proposito di “X” 65
17. Lo stile galileiano (I) 66
18. Lo stile di laboratorio 67
19. Logica 69
20. Tre proposizioni radicali 70

Lezione II
1. Antropologia filosofica 73
2. La matematica come
miscuglio variopinto di tecniche 74
3. Natura 76
4. La storia folcloristica
della scoperta di una potenzialità umana 78
5. La veridicità
a proposito degli oggetti geometrici 80
6. Greci polemici 81
7. La matematica è stata importante
per alcuni (e solo per alcuni) filosofi 83
8. L’ossessione per la matematica 83
9. Due prospettive su uno straordinario
libro sulla matematica greca 86
10. Una parentesi sui “science studies” 88
11. Ritorno sul paradosso a due facce 89
12. Platone nel bene e nel male 89
13. Il mutamento relativo
alle concezioni del dire la verità 91
14. La dimostrazione, non gli assiomi,
né il calcolo 92
15. Due concezioni della dimostrazione 94
16. Una seconda cristallizzazione
all’interno dello stile matematico? 95
17. Gli oggetti matematici 97
18. Allargate i vostri orizzonti! 99
19. Antropologia comparata della ragione 100
20. La matematica cinese antica 102
21. L’origine degli oggetti 104

Lezione III
1. Riepilogo 106
2. L’esplorazione sperimentale
e la modellizzazione ipotetica 108
3. Riepilogo delle tre avvertenze 109
4. Esplorazione e analogia: stili (2) e (3) 110
5. Misurazione 111
6. Il metodo ipotetico-deduttivo 112
7. Ragionamento architettonico 114
8. Lo stile galileiano (II) 115
9. Una nuova «Forma di Vita» 119
10. Un nuovo attore: non una persona,
ma un dispositivo sperimentale 121
11. Un luogo nuovo: il laboratorio 123
12. La creazione di fenomeni 125
13. Quello che Thomas Hobbes vide chiaramente 126
14. Il mutamento concettuale decisivo 129
15. Ontologia: le entità teoriche 130
16. Il vuoto 131
17. Il laboratorio di biotecnologie 133
18. Due tipi di laboratorio? 138

Lezione IV
1. Plurali 140
2. Non “relativismo” contro “nominalismo” 140
3. Universali 143
4. “L’ontologia ricapitola la filologia” 144
5. Contro l’eccesso di relatività linguistica:
Nietzsche e Chuang Tzu 145
6. L’ontologia generale e le scienze speciali 149
7. Il tipo di antirealismo di Dummett 151
8. Un’allusione a Richard Rorty 152
9. L’atteggiamento ontologico
di Arthur Fine 153
10. Che ne è del mio argomento
per il realismo delle entità? 154
11. In che cosa consisteva
l’argomento sperimentale? 155
12. Qual era l’argomento sperimentale? 156
13. Un buon argomento può sempre
avere una conclusione falsa 157
14. Il migliore ma non quello definitivo 159
15. Quando non è possibile interferire 160
16. L’autogiustificazione
delle scienze di laboratorio 162
17. La stabilità delle scienze 163

DA DOVE VIENE LO STILE HACKING.


UN PONTE TRA SCIENCES STUDIES ED EPISTEMOLOGIA STORICA
di Gerardo Ienna 165

Note 183

Bibliogragfia 207

Indice dei nomi 225


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