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LA RAGIONE SCIENTIFICA
di Matteo Vagelli
1. L’occasione
3. L’animale matematico
dio dei modi in cui gli stili di ragionamento forniscono una conoscen-
za stabile e diventano non tanto gli scopritori della verità oggettiva
quanto gli standard dell’oggettività»43.
In realtà, calibrando alcuni dei suoi argomenti ed esempi sulla Cina
e sull’Estremo Oriente (la matematica procedurale cinese, l’invenzio-
ne della storiografia da parte di Sima Quian, le intuizioni ontologiche
di Chuang Tzu e i laboratori di biotecnologie di Shanghai), anche
Hacking mette in scena un certo tipo di etnologia, quella che Foucault
definiva nel 1967 una «etnologia della nostra cultura»44. Sono infatti i
presupposti, le ossessioni e quelli che Hacking chiama i «pregiudizi»
della ragione «occidentale» a essere definiti, in controluce, tramite que-
sto confronto. Perché il thaumàzein per la dimostrazione matematica
si è verificato in Grecia e non in Cina? Se le argomentazioni e gli ele-
menti forniti nell’ambito delle lezioni mancano a volte della solidità e
della completezza dei suoi lavori monografici, gli interrogativi posti da
Hacking in questa sede risultano importanti, tanto più che essi sono sol-
levati all’interno di un articolato quadro d’indagine che dimostra di
essere in continua evoluzione.
Hacking intitola l’ultima lezione al Collège, che chiude il progetto
della Chaire, Una antropologia filosofica della ragione scientifica (5 mag-
gio 2007), ed è ormai sotto questa denominazione generale che egli
sembra voler far rientrare lo studio dei suoi stili. Ciò avviene solo po-
chi mesi prima del soggiorno a Taiwan, del novembre dello stesso an-
no. Nel corso delle lezioni lì tenute Hacking utilizzerà infatti a più ri-
prese quest’espressione. Ne La ragione scientifica, con «antropologia fi-
losofica» egli dice di intendere «un tipo di progetto erede di quello
kantiano», nella misura in cui esso prova a riflettere «su alcuni aspetti
della natura umana così come sono stati scoperti e coltivati da gruppi
di persone, per poi essere codificati a livello sociale o addirittura di ci-
viltà» (infra, Lezione II, §1, p. 74). Con «aspetti della natura umana»,
Hacking si riferisce qui a quelle capacità innate, specifiche degli esseri
umani, che, coltivate in contesti speciali, si sono sviluppate fino a di-
ventare ciò che conosciamo come le scienze. Sebbene Hacking adesso
pensi che gli stili non abbiano un’essenza – ovvero, che non sia possi-
bile indicare una lista di condizioni sufficienti e necessarie per indenti-
ficare uno stile – egli non intende rendere la loro identificazione total-
mente arbitraria. Ecco perché, anziché in un criterio metafisico,
IAN HACKING E LA SCIENZA COME “MISCUGLIO VARIOPINTO” DI STILI 25
sperdendo nel corso degli anni parte del potenziale filosofico che lo con-
traddistingueva nelle prime fasi della sua elaborazione48.
A questo punto potremmo sollevare una questione che abbiamo fi-
no ad adesso soltanto sfiorato: perché Hacking sceglie di dare questa
presentazione della sua filosofia, in quest’occasione? Più precisamente,
perché il progetto sul «plasmare le persone» è assente da La ragione
scientifica? In che misura il filo dell’antropologia filosofica che corre
lungo alcuni degli scritti di Hacking è coerente con il progetto, d’ispi-
razione foucaultiana, relativo alle modalità storiche di costituzione
della soggettività? A prima vista sembra tutt’altro che evidente la pos-
sibilità di tenere insieme l’idea di costituzione degli individui con il ri-
chiamo crescente alle capacità umane innate e si potrebbe quasi parla-
re, a questo proposito, di un Hacking vittima di una forma aggiornata
di “sonno antropologico”, dal quale Foucault pensava di averci libera-
ti. Se «dobbiamo reputare reale ciò che possiamo usare per interveni-
re nel mondo e per agire su qualcos’altro, oppure ciò che il mondo
può usare per agire su di noi»49 perché il «plasmare le persone» attra-
verso la categorizzazione non rientra nello schema espositivo de La ra-
gione scientifica, mentre le tecniche della matematica sì? La limitazio-
ne degli argomenti del ciclo di lezioni di Taiwan non è dettata solo da
ovvie ragioni di tempo, ma anche da motivi di coerenza: Hacking rie-
sce a offrire una visione sufficientemente coerente e relativamente uni-
taria di una porzione importante della sua produzione filosofica, quel-
la costituita dall’insieme delle riflessioni sulla matematica, sulla scien-
za sperimentale e sulla teoria degli stili, al prezzo di escluderne un’altra,
legata alla soggettività.
Quello che continua a garantire centralità al progetto sugli stili è il
problema fondamentale rispetto al quale esso tenta di articolare una
risposta: la possibile integrazione tra filosofia e storia della scienza.
Hacking ha contribuito a dare a questo problema una piega particola-
re, che ha influenzato profondamente molti tentativi di combinare sto-
ria e filosofia della scienza che oggi vanno sotto il nome di historical
epistemology: come si può storicizzare la ragione senza relativizzarla,
senza comprometterne la validità o limitarne le pretese e il raggio d’a-
zione? Se in precedenza era la metodologia archeologica foucaultiana
a rappresentare il viatico per eccellenza rispetto a questo tipo d’inter-
rogativo, a Taiwan Hacking mostra di essere alla ricerca di nuove piste
IAN HACKING E LA SCIENZA COME “MISCUGLIO VARIOPINTO” DI STILI 27
Dicembre 2007
Lezione I
Sulle radici storiche della ragione scientifica
1. Imparare a imparare
Due aspetti del titolo di Crombie dovrebbero essere notati. C’è il sot-
totitolo: The History of Argument and Explanation Especially in the
Mathematical and Biomedical Sciences and Arts. Non mi soffermerò su
questo, sebbene esso presenti un accostamento inusuale della mate-
matica e delle biotecnologie, per non parlare della giustapposizione
piuttosto datata ma affascinante delle scienze e delle arti pratiche.
Crombie aveva molto da dire sulla medicina, io invece non ne dirò nien-
te. La considero una mia mancanza.
Una seconda caratteristica di questo titolo è che Crombie scrive de-
LEZIONE I. SULLE RADICI STORICHE DELLA RAGIONE SCIENTIFICA 39
La lista iniziale dei sei stili di Crombie, caratterizzati ognuno dai pro-
pri oggetti di studio e metodi di analisi, aveva, per me, una sua plausi-
bilità. All’inizio è stato utile avere uno storico che mi servisse un sem-
plice catalogo su di un piatto d’argento. Oggi la comunità degli storici
considera Crombie un cimelio, un collega bizzarro, molto erudito, ma
che lavorava al di fuori della sfera delle pratiche storiografiche corren-
ti. Ciononostante, quando ho iniziato avevo la possibilità di addossare
ogni responsabilità rispetto a una lista di stili di ragionamento su di un
eminente storico! Questa è più o meno la prima esposizione in cui mi
sono imbattuto:
Così si espresse Crombie in quella presentazione che sentii nel 1978. Al-
l’epoca non aveva ancora fissato la propria terminologia su «stili di ra-
gionamento scientifico» – come si vede, egli dapprima parla di meto-
di, piuttosto che di stili, ma io terrò le due parole separate, in linea con
la sua idea successiva che gli stili di pensiero scientifico sono costituiti
da metodi di ragionamento e oggetti d’indagine.
C’è una differenza più profonda tra questo paragrafo inaugurale
del 1978 e il grande libro di Crombie del 1994. Nel paragrafo appena
citato egli parla dell’Europa tardo-medievale e della prima età moder-
na – grossomodo il periodo che porta a ciò che altri storici della scien-
za europea hanno a lungo chiamato “la rivoluzione scientifica”. Nei
tre volumi del magnum opus la narrazione inizia con la Grecia antica,
dove, per Crombie, un insieme di istituzioni sociali ha dato vita a un
modo di pensare all’interno del quale hanno preso avvio le scienze.
L’impressionante lavoro del 1994 è organizzato attorno ai sei stili, ognu-
no dei quali è presentato come derivante da premesse antiche. Nel
1978, come mostrato dal passaggio sopra citato, Crombie pensava ve-
ramente ai suoi stili di pensiero scientifico come qualcosa che assume
una forma definitiva molto più tardi.
La mia innovazione principale, rispetto alla lista di Crombie, sarà il
fatto di sottolineare che i suoi stili di lungo periodo del 1994 sono pun-
teggiati da ciò che chiamo “cristallizzazioni”. Nel rilevare ciò, porrò
42 LA RAGIONE SCIENTIFICA
l’accento sul periodo della prima età moderna nella storia europea.
Questo potrebbe allentare una certa tensione tra la sua prima discus-
sione degli stili di ragionamento scientifico e quella successiva.
Senza diventare analitici o addentrarci in questioni relative al lungo
o breve termine, dovremmo tener fede alla nostra prima impressione
sulla lista dei sei stili. Semplicemente ogni stile sembra diverso, ha un
aspetto diverso e potrebbe magari essere diverso. Ogni stile potrebbe ri-
flettere l’uso di un gruppo diverso di capacità per cui la mente umana
è ben predisposta.
La lista dei sei stili di Crombie è un modello, cioè uno schema co-
modo da seguire. Ci sono innumerevoli modi di ritagliare qualcosa
che si estende per migliaia di anni attraverso così tante civiltà scientifi-
che in evoluzione. Diversi sono i possibili quadri di analisi: basta pen-
sare ai paradigmi di Thomas Kuhn, i programmi di ricerca di Imre
Lakatos, i temi di Gerald Holton – e la lista potrebbe continuare. Il
valore di ogni partizione sta nel modo in cui la si usa. Nessuno di que-
sti quadri d’analisi è di per sé quello giusto e definitivo.
In qualche occasione ho provato a dare definizioni precise di ciò
che è uno stile di pensiero scientifico, definizioni che potessero con-
validare la lista-modello di Crombie. È stato uno sbaglio, è meglio pro-
vare a vedere ciò che si può fare con la sua idea. Una versione della
massima di Ockham ci fornisce qui una buona regola generale: la li-
sta degli stili di pensiero scientifici non dovrebbe essere estesa al di là
del necessario.
Ogni stile indicato da Crombie è un organismo vivente che evolve.
Egli ha usato questo modello come un modo per organizzare la storia
della scienza. È stato ampiamente criticato e alcuni degli attacchi han-
no colpito il nucleo del suo progetto storiografico11. Mi astengo dal fa-
re critiche perché non sono interessato a questo catalogo in quanto ta-
le. Il mio obiettivo è ripensare l’intera struttura del ragionamento scien-
tifico a partire da quello che è, per me, un punto di vista leibniziano.
Tale punto di vista, come vedremo, può anche dirsi antropologico, nel
senso originario della Anthropologie di Kant. Con ciò intendo uno stu-
dio della specie umana, delle sue facoltà innate e delle sue pratiche
concrete. È d’incomparabile aiuto il fatto di avere un modello, anche
se fornito da uno storico ripudiato dalla generazione successiva di ri-
cercatori. I lettori continueranno a chiedersi: «Come fai a prendere
LEZIONE I. SULLE RADICI STORICHE DELLA RAGIONE SCIENTIFICA 43
6. Cristallizzazione
la prima volta nel 1975, qualche anno prima di sentir parlare per la
prima volta di Alistair Crombie e dei suoi stili. Il mio libro era un’ar-
cheologia del sapere, nel senso di Michel Foucault. È stata la prima ar-
cheologia in questo senso scritta in inglese e la prima in ogni lingua a
utilizzare uno stile analitico. Questi aspetti sono spiegati nella nuova in-
troduzione all’edizione del 2006 del libro12.
Nel 1975 ho argomentato in favore della tesi secondo la quale ciò che
è immediatamente riconoscibile come ragionamento probabilistico ha
avuto inizio attorno al 1650. Nuovi tipi di enunciati iniziano a essere
pronunciati dalle persone di tutta Europa e ci si trova a entrare in un
mondo nuovo, un mondo dominato dal caso [chance], il mondo che
abitiamo oggi, del quale la “società del rischio” di Ulrich Beck è solo
uno degli aspetti più evidenti13. Certo, è possibile trovare anticipazioni
di cose dette dopo il 1650 in molte altre epoche, in molti luoghi e sot-
to altri cieli. Nel libro originale ho menzionato l’impressionante pa-
dronanza di un ragionamento simil-probabilistico presente in un testo
sanscrito classico, scritto più di due millenni fa, in India. Esistono si-
curamente esempi paralleli in Cina, sui quali nessuno ancora ha attira-
to l’attenzione. Per trent’anni, gli studiosi hanno addotto esempi di
anticipazioni dell’idea di probabilità in modo da refutare la mia tesi.
Ciononostante, come spiego nella nuova introduzione a L’emergenza,
io rimango fermo nella mia convinzione. Molti autori hanno indivi-
duato numerosi elementi appartenenti ad altri sistemi di pensiero nei
quali è possibile riconoscere precursori esitanti delle nostre probabilità.
Crombie stesso, nel presentare il suo quinto stile di pensiero scientifi-
co, fa risalire le probabilità alla notte dei tempi. È possibile raccontare
una storia del genere, ma la mia opinione è che ciò ci insegni poco,
perché solo dopo il 1650 gli esseri umani hanno iniziato a mettere in-
sieme i vari pezzi e a vedere che la fiducia in opinioni diverse e la fre-
quenza con la quale le cose accadono hanno la stessa struttura soggia-
cente, vale a dire, la struttura delle leggi della probabilità matematica.
Non mi soffermerò sulla probabilità che per un momento soltanto,
ho dedicato troppo della mia vita a essa. Nel Dizionario di filosofia pa-
rodistico redatto da Dan Dennett molto tempo fa, il verbo “to hack”
è definito come attenzione ossessiva per i dettagli, con il seguente esem-
pio: «Egli ha passato anni facendosi strada [hacking] attraverso la giun-
gla statistica»14. Ma lasciate che mi addentri ancora una volta nella giun-
LEZIONE I. SULLE RADICI STORICHE DELLA RAGIONE SCIENTIFICA 45
gla, solo per un momento. Molte delle verità relative alla probabilità
non sono affatto temporali: sono semplicemente teoremi matematici
del calcolo delle probabilità. Alcuni altri enunciati che usano la pro-
babilità possono essere veri per ogni tempo e per ogni luogo, ad esem-
pio i fatti concernenti l’emivita del radio. Altri sono invece coniugati,
veri o falsi a seconda del momento. Ma, esagerando al fine di mostra-
re il problema, nessuno di questi enunciati, di nessuno dei tre tipi, po-
teva esser fatto prima del 1650. Non c’era modo di poter asserire que-
ste verità; nessuna condizione per la loro verità o la loro verificazione
era disponibile. I metodi per ragionare su di essi non erano ancora
emersi. Non c’era, come dirò più avanti in questa lezione, nessuna ve-
ridicità riguardo ciò che chiamiamo probabilità fino alla data arbitra-
ria del 1650.
È chiaro il mio entusiasmo, ereditato da Gaston Bachelard, per le
mutazioni nei sistemi di pensiero15. Ma si noti che ora non chiamo l’e-
mergenza della probabilità nel 1650 una “mutazione”, e neanche una
“rivoluzione”16. L’ho appena chiamata una “cristallizzazione”. Quan-
do l’acqua congela, diventa una sostanza completamente nuova, il
ghiaccio. Queste transizioni di fase, come le chiamano oggi i fisici, so-
no reversibili. Ma dal mondo probabilistico che adesso abitiamo non
si può tornare indietro. Una cristallizzazione nell’evoluzione di uno
stile di pensiero scientifico è a tutti gli effetti irreversibile.
Aggiusterò quindi gli stili di Crombie su un mio schema, notando
almeno una cristallizzazione. Non vedo nessuna tensione tra la cristal-
lizzazione e la continuità. Il mio approccio verso il passato può anche
essere l’opposto di quello di Crombie, ma gli opposti possono essere
complementari.
Qui potrebbe essere nuovamente utile richiamare Foucault, dal qua-
le ho probabilmente mutuato questo modo di pensare. All’inizio de
L’archeologia del sapere – il suo tentativo, a mio parere non molto riu-
scito, di descrivere la metodologia dei suoi primi scritti – egli richiama
l’efficacia delle descrizioni braudeliane del passato imperniate sulla
longue durée. Sono i climi, e non i re, a dettare legge. I grandi eventi nel-
la storia del Mediterraneo sono, per esempio, l’abbattimento di gran
parte degli alberi della Grecia per costruire navi. La grande battaglia
navale di Salamina avrà pure cambiato il mondo, ma essa resta un me-
ro incidente nella storia dell’abbattimento degli alberi. Trasformare la
46 LA RAGIONE SCIENTIFICA
8. Stili auto-certificanti
9. Oggetti
risvolto delle lingue e della cultura europea che i pensatori cinesi do-
vrebbero ignorare?
Così come gli enunciati ordinari sono indipendenti dagli stili di ra-
gionamento, nello stesso modo i dibattiti ontologici più sedimentati
non hanno niente a che vedere con gli stili. C’è un mondo esterno? Ci
sono altre menti oltre alla mia? Oppure (un problema dibattuto in
varie forme dai filosofi della logica): ci sono universali, classi, proprietà
o esistono solamente gli individui? Tutti questi sono problemi onto-
logici, ma non hanno niente a che fare con gli stili di ragionamento
scientifico.
Ritengo queste dottrine sugli enunciati, sugli oggetti e sugli stili di
pensiero scientifico profondamente razionaliste nel carattere, perfet-
tamente conformi allo spirito del mio mentore Leibniz. Lungi dall’im-
plicare qualche tipo di relativismo, la dottrina dell’auto-certificazione
degli stili di pensiero contribuisce a spiegare ciò che chiamiamo “og-
gettività”.
Bisogna essere circospetti, quasi a disagio quando si tratta dell’og-
gettività. Come Lorraine Daston e Peter Galison si sono prodigati a mo-
strare, il concetto epistemologico di oggettività ha un passato con luci
e ombre, multiforme e polisemico27. I termini “oggettivo” e “oggetti-
vità”, insieme con i loro compagni “soggettivo” e “soggettività”, han-
no acquisito i loro significati attuali nelle lingue europee solo all’epoca
di Kant28. Quando parlo di oggettività intendo essenzialmente affer-
mare che le verità scoperte dalle scienze sono vere, indipendenti da
ciò che noi pensiamo o dal modo in cui le scopriamo. Ciò è del tutto
coerente col dire che le loro condizioni di verità sono i prodotti degli
stili di pensiero nel cui dominio essi ricadono.
11. Società
ma giusta: se vuoi criticare uno stile di pensiero non puoi farlo stando
alle sue regole (perché in tal caso stai solamente pensando, e cercan-
do di farlo meglio, secondo quello stile). Devi distruggere la sua base
istituzionale. Per ragioni molto diverse, la rivoluzione culturale della
stessa epoca ha distrutto con successo una generazione di scienziati
cinesi. La ragione era odiata in Cina e in America all’incirca nello stes-
so momento. Forse la scienza avrebbe potuto arrestarsi del tutto, per
sempre.
Personalmente non credo che questa sia un’opzione, perché ho il
sospetto che, dal momento in cui le persone sono entrate in possesso
di modi di scoprire, esse continueranno a utilizzarle finché potranno.
Solo l’idea che non ci sia nient’altro da fare, come dopo Archimede,
può porre fine “volontariamente” a un modo di pensare. Ho la visione
ottimistica che la coercizione, sia nella forma di una rivoluzione cultu-
rale, sia nella forma Americana del politically correct, andrà esauren-
dosi. Ma ammetto che si tratti di un certo tipo di ottimismo.
La visione più pessimistica, invece, consisterebbe nel pensare che
gli stili di pensiero scientifico abbiano gradualmente creato un paras-
sita sulla faccia della terra: la razza umana. Le scienze ci hanno trasfor-
mati in un organismo che consuma sempre di più il proprio ambiente.
È chiaro che un parassita deve essere più debole del suo portatore,
perché, qualora dovesse ucciderlo, morirebbe anche il parassita stes-
so. La paura di un uomo-parassita-sulla-faccia-della-terra, che gra-
dualmente uccide il suo portatore, potrebbe condurre la nostra razza
a non impegnarsi più nelle scienze, per paura di porre fine a se stessa.
Il pensiero scientifico potrebbe semplicemente finire…
Una cosa che non considererò, tuttavia, è la storia del concetto di ve-
rità, perché non credo ci sia alcuna storia del genere. Il concetto di ve-
rità medesimo – vale a dire, il ruolo assolutamente fondamentale che la
verità riveste in relazione al linguaggio, al significato e alla credenza – non
è variabile culturalmente, ma sempre e ovunque il medesimo (B. Wil-
liams, op. cit., trad. it., p. 61).
La verità, dunque, non ha storia, se non per il fatto che essa è coeva ri-
spetto all’emergenza delle strutture linguistiche per trasmettere infor-
mazioni. Questa concezione è aristotelica e tarskiana. L’aggettivo “ve-
ro” ha molti usi, ma la verità è un concetto formale, essenziale per la
semantica ma senza una semantica propria. Essa è trasversale rispetto
ad ogni discorso di tipo informativo e non ha una genealogia.
Aristotele sosteneva che «vero, invece, è dire che l’essere è e che il
non-essere non è»37. Questa è un’affermazione vuota, formale, che tra
l’altro esprime il fatto fondamentale che l’aggettivo “vero” si applica
in primo luogo a ciò che si dice, ciò che si è detto o che può essere det-
to. C’è senza dubbio una storia di quando gli uomini hanno iniziato a
parlare per dire cose in maniera informativa, per fare ciò che possia-
mo riconoscere come asserzioni. Ma, al di là di questa, non c’è una
storia ulteriore della verità.
Interpreto la massima di Aristotele come una versione precoce e al-
trettanto formale della teoria semantica della verità di Tarski. Il suo
schema, «s è vero se e solo se p» chiarisce ciò che si trova già in Ari-
stotele, ovvero, che l’aggettivo si applica alle frasi. La teoria dei meta-
linguaggi, alquanto pomposa, deriva da questo banale fatto gramma-
ticale. Tarski stesso ha scritto che la sua teoria semantica risulta, non so-
lo coerente con ognuna delle teorie “sostanziali” della verità
[substantive theory of truth], cioè con ogni teoria che dice ciò che la
verità “è” – teoria della corrispondenza, della coerenza o qualsiasi al-
tra – ma anche in grado di esprimere la motivazione centrale di queste
teorie. Questo è un modo per dire che la sua teoria è formale, scevra
58 LA RAGIONE SCIENTIFICA
Non andrò oltre, quanto detto basta a capire il punto centrale. Si po-
trebbero integrare le osservazioni di Williams notando che ci posso-
no essere concezioni completamente diverse del passato e non solo
quelle che si evolvono nelle nostre nozioni occidentali. L’antropologo
Michael Lambek ci ha dato uno splendido esempio dal Madagascar,
dove un popolo esprime il proprio senso del passato attraverso ceri-
monie che coinvolgono gli spiriti in un complesso gioco di ruolo42. Tut-
to ciò ci risulta così estraneo che il più fedele razionalista tra di noi
sosterrà che «noi siamo più razionali o meglio informati» degli «al-
tri». Non sono d’accordo, anche se, qualora essi dovessero avere una
cronologia completamente diversa da quella occidentale, potrei esser
costretto ad ammettere che non parlano del passato (così come lo com-
LEZIONE I. SULLE RADICI STORICHE DELLA RAGIONE SCIENTIFICA 61
15. Matematica
si accese una luce», così scrive Kant44. In questo paragrafo Kant scon-
fina nella poesia parlando dell’ingresso «sulla via sicura della scienza»,
«la via regia». Kant la chiama la «rivoluzione intellettuale» che ha fat-
to emergere la dimostrazione matematica. È stata la scoperta della no-
stra capacità di effettuare dimostrazioni matematiche, o, per meglio
dire, geometriche.
L’emblematico pioniere della cristallizzazione della dimostrazione
geometrica è Talete, il che non significa che una tale figura storica sia
certamente esistita. Secondo la leggenda, quando X = relazioni geo-
metriche e Y = nella prima parte del VI secolo a.C., allora Z = Talete.
Abbiamo bisogno di due cose per comprendere gli stili di pensiero
scientifico: da un lato, lo studio delle capacità mentali, dall’altro, la
storia delle civiltà e delle loro istituzioni. Quali elementi culturali furo-
no necessari per supportare una scoperta relativa alle nostre capacità
cognitive? Per rispondere occorre domandarci perché la dimostrazio-
ne fosse così diffusa nella Grecia antica. C’era molta matematica in
Babilonia e certamente anche in Cina. I Cinesi avevano dei meravi-
gliosi strumenti computazionali, ma nessuna dimostrazione come quel-
la sviluppata da Euclide. Perché? La risposta preferita da Reviel Netz
inizia con il fatto, ben noto, che gli ateniesi fossero il popolo più argo-
mentativo mai conosciuto45. Essi non tolleravano nessuna autorità più
alta di loro stessi, quando si trattava di risolvere una disputa. In Crom-
bie si trova una descrizione simile dell’importanza dell’argomentazio-
ne, anche se egli non si riferiva specificamente alla dimostrazione e al-
la deduzione come farò invece io nella seconda lezione.
La Cina ci fornisce un contrasto. Estremizzando: un problema po-
teva essere risolto per editto, non c’era quindi un particolare interesse
per le dimostrazioni persuasive – per la «durezza della “necessità” lo-
gica» di cui parla Wittgenstein. Ad Atene, invece, le dimostrazioni sem-
bravano avere lo strano potere di stabilire delle verità di proprio pu-
gno, per coloro che potevano studiarle. Ciò era importante per le pra-
tiche di risoluzione delle dispute che si attuavano in Grecia. Tutto
questo non aveva lo stesso peso in Cina.
Esistono molte prove a supporto della tesi secondo la quale il pen-
siero spaziale, geometrico, coinvolge capacità cognitive diverse rispet-
to al ragionamento aritmetico, combinatorio e algoritmico. Introdu-
ciamo un’altra leggenda per lo stile algoritmico o combinatorio di pen-
LEZIONE I. SULLE RADICI STORICHE DELLA RAGIONE SCIENTIFICA 63
19. Logica
Per logica s’intende ormai logica deduttiva, nel senso di logica for-
malizzata del primo ordine. C’è una tradizione più antica, secondo la
quale la logica fissa le regole del ragionamento. Peirce ha diviso la lo-
gica in tre parti, deduzione, induzione e abduzione, o ciò che nel XIX
secolo veniva chiamato il metodo delle ipotesi. A Peirce piacevano le
triadi ed era del tutto cosciente che questa logica triadica stessa rien-
trasse nella triade medievale, il trivio, le basi fondamentali dell’educa-
zione, vale a dire grammatica, logica e retorica.
Deduzione, induzione e abduzione non sono stili di pensiero scien-
tifico, nel senso in cui ne parlo in queste lezioni. Esse sono certamente
fondate su delle capacità cognitive umane, anche se la loro espressio-
ne varia da linguaggio a linguaggio, da cultura a cultura. Peirce avreb-
be potuto aggiungere la classificazione come un quarto ramo della lo-
gica, ugualmente fondata su alcune capacità cognitive. Tutte e quattro
sono universali umani [human universals], non semplicemente perché
sono accessibili a tutti, ma perché sono lo sfondo sul quale il discorso
umano può avere luogo. Esse non hanno un vero e proprio inizio. So-
no parte della nostra natura animale. Popper diceva che le amebe fan-
no induzioni: così è, se vi pare.
Nessuno dei quattro rami della logica figura tra i “metodi di ragio-
namento” propri degli stili di ragionamento scientifico. Essi sono in
70 LA RAGIONE SCIENTIFICA
1. Antropologia filosofica
Si pensi a come sono diverse tra loro l’aritmetica, che tutti noi ab-
biamo imparato da bambini, e la dimostrazione del teorema di Pitago-
ra, che molti di noi hanno appreso da adolescenti, o, collegata a que-
sto teorema, la dimostrazione, nel Menone platonico, di come si co-
struisce un quadrato doppio rispetto a un quadrato dato. Si pensi poi
all’idea matematica avuta da Fermat quando scrisse quello che sareb-
be poi diventato il suo ultimo teorema e alle idee dimostrative [proof-
ideas] che stanno dietro alla scoperta, effettuata da Andrew Wiles,
della dimostrazione dell’ultimo teorema di Fermat. Si pensi poi alla ma-
tematica usata per modellare il comportamento degli atomi. Mi sono re-
centemente interessato agli atomi che si trovano a temperature molto
basse, praticamente allo zero assoluto. Cerco di leggere parte della
matematica che ci permette di capire perché si comportano in modo co-
sì straordinario. Questa matematica è di vecchio stampo, presa dalla
cassetta degli attrezzi di un fisico, e molta di essa è in circolazione da
un secolo; la differenza principale è che adesso possiamo usare com-
puter molto potenti, in grado di elaborare soluzioni approssimate a
equazioni complesse che non possono essere risolte in maniera esatta,
così come di costruire simulazioni che ci permettono di stabilire stret-
te relazioni tra la teoria e l’esperimento.
Si pensi poi agli economisti, anche loro alle prese con l’elaborazio-
ne di modelli, ma che sono incapaci di comprendere il ragionamento
di un fisico almeno quanto gran parte dei fisici è incapace di trovare
un senso nell’econometria moderna. Ci si chieda poi: perché mai chia-
miamo tutto questo “matematica”? Ho il sospetto che ci siano diversi
tipi di risposte utili a questa domanda. Alcune di esse saranno di ca-
rattere matematico, mentre altre potrebbero avvalersi di altre risorse.
Mi riterrei soddisfatto se, tra di voi, qualcuno che si ricordasse di
questa lezione tra cinque anni, pensasse tra sé: «Tutto ciò che mi ricor-
do è che mi ha spinto a interrogarmi sulla ragione per la quale attività co-
sì diverse, che riguardano tanto i modi di fare che i modi di pensare,
sono tutte chiamate matematica». Sarei ancora più soddisfatto se poi
pensaste: «Questa è, già di per sé, una questione filosofica importante!».
Inizio con queste osservazioni perché dovrei iniziare dal punto in
cui i filosofi, almeno a partire da Platone, hanno sempre iniziato, con
un aspetto particolare della matematica, e cioè con i teoremi della geo-
metria, stabiliti tramite dimostrazioni perspicue. Vorrei avvertirvi in an-
ticipo che questo punto di partenza consolidato è, da un lato, essenziale
76 LA RAGIONE SCIENTIFICA
3. Natura
Ci sono buone ragioni per pensare che gli stili di pensiero scientifi-
co, che mi hanno portato a parlare della “ragione scientifica”, siano
basati su capacità cognitive “innate” [built-in]. Queste fanno parte
della nostra eredità umana collettiva. Non c’è niente di relativo, di sto-
rico o di culturalmente dipendente a loro proposito (questo almeno è
ciò che assumo, senza argomentare qui in maniera dettagliata). Senza
alcun dubbio sono state delle spinte evolutive a favorire queste poten-
zialità, ma non si deve dare per scontato che esse abbiano avuto un va-
lore adattativo per la selezione naturale. I modi in cui esse sono emer-
se possono essere connessi, non tanto con la loro utilità immediata,
ma col fatto che esse sono le conseguenze di adattamenti autentica-
mente funzionali nello sviluppo di umani e animali. Ciò significa che
le diverse capacità cognitive che risultano essenziali per la ragione scien-
tifica potrebbero essere emerse come ciò che Stephen Jay Gould e Ri-
chard Lewontin hanno chiamato “pennacchi”6. Ci sono, in effetti, spe-
cialisti che insistono per una spiegazione dello sviluppo delle capacità
matematiche nei termini della psicologia evoluzionistica, cosa che io
non ritengo semplicemente possibile. Non credo che l’abilità nel fare
ciò che chiamiamo matematica abbia avuto, in un primo momento, un
valore adattativo. È chiaro che l’abilità di potersi muovere all’interno
del nostro mondo a tre dimensioni è essenziale per la sopravvivenza e
che l’abilità di fare inferenze e conti elementari aiuterebbe gli uccelli,
gli animali e quindi anche le persone a cavarsela, ma tutto ciò non ci fa
ancora entrare nel mondo della matematica7. Rimane, nonostante ciò,
un’ipotesi plausibile quella secondo cui, se c’è una parte del cervello che
svolge il ragionamento matematico, essa si sarà sviluppata in quella re-
gione che ha permesso ad animali precedenti di contare.
Chomsky ha suggerito per molto tempo che, così come c’è una ca-
pacità innata negli uomini di acquisire la grammatica, così ci sono an-
che le capacità umane innate di ragionare matematicamente. Egli, per
LEZIONE II. DA DOVE VENGONO GLI OGGETTI MATEMATICI 77
scopo di queste storie è illustrativo, sono delle storie delle origini [ju-
st-so stories]. Esse ci suggeriscono modi di guardare ai fatti, ma sono so-
lo raffigurazioni. Possono anche essere raffigurazioni utili, nella misu-
ra in cui non ci illudiamo di sapere effettivamente molto a proposito
di tali moduli o di tali capacità. Trovo che queste storie illustrative a pro-
posito delle abilità innate siano utili come indicatori, per segnalare la
nostra ignoranza. Non sono poi così distanti dai modi in cui Kant stes-
so presentava le sue intuizioni.
Secondo questa rappresentazione, tali capacità fanno parte della
nostra eredità umana universale, all’interno della quale ci sono molte
variazioni individuali. La scoperta e la pratica di queste capacità uma-
ne sono qualcosa di diverso. Esse accadono all’interno di storie speci-
ficamente umane, in circostanze storiche contingenti, e fanno parte del-
la storia delle civiltà. Non c’è, inoltre, nessuna ragione per pensare che
tali capacità, anche una volta scoperte, saranno poi effettivamente mes-
se a frutto nella stessa maniera in culture differenti, anche se tutto fa
pensare che, se una società volesse apprendere le capacità cognitive di
un’altra, potrebbe farlo.
La matematica, sin dai tempi più remoti a cui risale la storia della ragio-
ne umana, si è messa sulla via sicura della scienza con i Greci, un popo-
lo che merita tutta la nostra ammirazione. Non si deve pensare, però, che
l’aver trovato questa via regia, o meglio l’averla spianata davanti a se
stessa, sia stata per la matematica un’impresa facile come per la logica,
dove la ragione ha a che fare solo con se stessa: credo piuttosto che essa
sia andata per lungo tempo a tentoni (soprattutto presso gli Egizi), e
che la sua trasformazione in scienza vada attribuita a una rivoluzione,
attuata dalla felice idea di un singolo uomo, mediante un tentativo a
partire del quale non ci si potette più sbagliare sulla strada che si dove-
va prendere, e fu imboccato e tracciato, per ogni tempo e con un’esten-
sione infinita, il cammino sicuro della scienza. La storia di questa rivo-
luzione del modo di pensare – molto più importante della scoperta del-
la via che doppiava il famoso Capo di Buona Speranza – e del fortunato
che la attuò, non ci è pervenuta. Tuttavia, la leggenda tramandataci da
Diogene Laerzio, il quale nomina il presunto scopritore degli elementi
minimi delle dimostrazioni geometriche – elementi che, secondo il giu-
dizio comune, non hanno neppure bisogno di dimostrazione –, prova
un fatto, e cioè che il ricordo del cambiamento prodotto dalla prima trac-
cia nella scoperta di questa nuova via dovette apparire ai matematici di
tale importanza da restare indimenticabile. In colui che per primo di-
mostrò il triangolo isoscele (si chiami Talete o come altro si vuole) si ac-
cese una luce: egli capì infatti che non doveva seguire passo passo ciò
che vedeva della figura, o anche solo nel concetto di essa, quasi che da
ciò potesse apprendere le sue proprietà, ma che doveva produrla trami-
te ciò che egli stesso aveva già pensato e rappresentato in essa a priori,
secondo concetti (per costruzione); e che per sapere con sicurezza qual-
cosa a priori, egli non doveva attribuire alla cosa se non quello che se-
80 LA RAGIONE SCIENTIFICA
guiva necessariamente da ciò che egli stesso, in conformità col suo con-
cetto, vi aveva posto9.
Volendo fare una parodia di Kant, potremmo dire che egli sta imma-
ginando la prima lampadina matematica che si è accesa nella testa di
qualcuno. Talete non è altro che una leggenda, ciò che serve non è
“un uomo”, ma una comunità, almeno una piccola rete di collabora-
tori, insegnanti e discepoli, che sfruttino la possibilità di effettuare
una dimostrazione e che condividano tra loro argomentazioni stupe-
facenti.
Come chiunque altro al giorno d’oggi, rigetto totalmente l’indivi-
dualismo kantiano, sebbene ci sia in esso qualcosa di profondamente
importante. La capacità cognitiva è in prima istanza individuale e gli es-
seri umani hanno dovuto imparare a servirsi di tale capacità. Ciò che
manca nell’affermazione di Kant è il riconoscimento esplicito del fatto
che la pratica di tale capacità è condivisa. Ciò che conta è lo sviluppo
di quell’intuizione che la leggenda attribuisce a Talete, lo sviluppo del-
le pratiche della prova.
Kant si fa prendere la mano dal lirismo quando parla dell’entrare
«sulla via sicura della scienza», la «via regia». Kant chiama quest’even-
to una «rivoluzione intellettuale» ed esso consiste nell’emergenza del-
la dimostrazione matematica. Per me c’è stata, prima, la scoperta della
nostra capacità di fare dimostrazioni matematiche, o meglio, dimo-
strazioni geometriche, e poi è venuto il riconoscimento dell’importan-
za di questa scoperta e lo sviluppo di una comunità che venerava le di-
mostrazioni. Ma c’è stato anche un mutamento relativo alla concezio-
ne degli oggetti geometrici. Abbiamo acquisito una nuova maniera di
dire la verità su di essi – dimostrando fatti a proposito di essi.
6. Greci polemici
cietà dell’antica Grecia era forse un unicum tra le civiltà di cui si ha co-
noscenza. Ritornerò sul tema degli studi comparati e farò dei confron-
ti con la matematica nell’antica Cina. Prima però diamo un’occhiata
all’impatto della scoperta della dimostrazione sulla filosofia europea.
Questo è, senza dubbio, il libro più importante apparso nei science studies
dalla pubblicazione de Il Leviatano e la pompa ad aria di Shapin e Schaffer.
ne, allora direi “senza dubbio” che quei due libri, uno sulla deduzione
e l’altro sull’esperimento, sono i due più importanti contributi ai scien-
ce studies. Punto. Ma dico ciò per ragioni esattamente opposte a quel-
le di Latour!
C’è un punto che condividiamo. Come tutti i lettori di Netz, siamo en-
trambi sbalorditi dal suo tour de force per ricostruire i diagrammi man-
canti nei testi greci che sono sopravvissuti, e dalla sua dimostrazione
che essi sono essenziali tanto per i manuali di Euclide quanto per la crea-
tività di Archimede. Ma io e Latour ci concentriamo su intuizioni fon-
damentalmente differenti di Netz. Entrambi siamo nel giusto quanto ai
nostri centri d’interesse, ma siamo spinti da essi in direzioni differenti.
tun anni. Tra i suoi scopi c’è la teoria delle reti, e sfrutta a pieno un
gioco di parole, intitolando la sua analisi critica The Netz-Works of
Greek Deductions.
Dopo aver specificato che sono un filosofo che non si cimenta in que-
gli studi specialistici giustamente chiamati science studies, ritorniamo
al paradosso: Latour e io pensiamo che questi due libri, The Shaping e
Il Leviatano, siano i due libri più importanti, più utili, ad esser usciti nel-
l’ambito dei science studies. Ma pensiamo ciò per ragioni diametral-
mente opposte. Posso aggiungere, tuttavia, che capisco perfettamente
il punto di vista di Latour. Egli è affascinato dalla descrizione di Netz
della matematica greca in azione. La rete dei corrispondenti di Archi-
mede attorno al Mediterraneo era un network stupendamente delimi-
tato, all’interno del quale la matematica fu creata, resa stabile e fatta
prosperare. Più o meno allo stesso modo, la Royal Society di Londra era
un network in evoluzione, i cui membri contribuivano alla creazione e
alla stabilizzazione della nuova scienza della metà del XVII secolo.
Ciò che conta per me nel libro di Netz è però riassunto nel sottotitolo,
A Study in Cognitive History. Latour ignora proprio quello che a me
interessa, la “storia cognitiva”.
La mia antropologia filosofica della ragione scientifica prevede che gli
stili di pensiero scientifico siano basati su potenzialità innate, molte
delle quali sono cognitive, e che devono essere scoperte nel corso della
storia umana. Netz ha scritto esattamente lo studio che mi serve, una
descrizione di come sia emerso il potenziale per la dimostrazione de-
duttiva in geometria, non a partire da qualche figura leggendaria come
Talete, ma da ciò che è possibile inferire sulla base dei testi esistenti.
matematica, egli non fu una vittima passiva. Egli fu piuttosto uno sfrut-
tatore, un aguzzino. Platone ha sequestrato la matematica. Ha volon-
tariamente frainteso la nuova scienza. Latour sostiene che «una strana
operazione di incanalamento (per non dire di sequestro), da parte dei
filosofi platonici, di un insieme di capacità strettamente specialistiche,
ha nutrito dall’interno minuscole reti di esperti cosmopoliti di geome-
tria greca», permettendo ai platonici di creare una fascinazione nei con-
fronti di, per citare di nuovo, «nozioni come “dimostrazione”, “mo-
dellizzazione”, “dimostrazione”, “calcolo”, “formalismo”, “astrazio-
ne”». Scrive Latour:
Si è discusso molto, a partire dal XIX secolo e per buona parte del
XX, se la matematica fosse assiomatica e se il suo nucleo fosse il cosid-
detto “metodo assiomatico”. Tuttavia, anche all’apice dell’interesse per
i metodi formali, c’erano sempre pensatori che insistevano sul fatto
che le idee matematiche, incluso ciò che chiamiamo le “idee dimostra-
tive”, fossero fondamentali. Questa concezione fa ormai parte della
scienza divulgativa: i divulgatori scientifici dicono al mondo che ciò che
la dimostrazione di Andrew Wiles della congettura di Fermat ha mes-
so in luce è l’introduzione di un nuovo modo, molto generale, di fare
matematica. Wiles ha risolto il problema di Fermat, ma ciò è solo un
aneddoto in confronto al fatto di aver indicato un gran numero di nuo-
ve direzioni e aver connesso ambiti precedentemente non collegati.
Lo stesso si dice, in tempi più recenti, per ciò che riguarda la dimo-
strazione di Perel’man (e altri) della congettura di Poincaré.
È importante ripetere che non c’è solamente una cosa: la matemati-
ca. La gente non si chiede sufficientemente spesso, a proposito di una
pratica o di un problema: «Perché la riconosco immediatamente come
una domanda matematica?». Wittgenstein usava quest’espressione fan-
tastica: «Il miscuglio variopinto delle matematiche». La vecchia arit-
metica di base, quella di cui si servivano i bottegai prima che le calco-
LEZIONE II. DA DOVE VENGONO GLI OGGETTI MATEMATICI 93
vicino alla fermata di Shipei e mi viene voglia di andare allo zoo. Guar-
do quindi la mappa e vedo che per prima cosa devo prendere la linea
Hsintien, poi cambiare alla stazione centrale di Taipei, proseguire sulla li-
nea Bannan, uscire a Chunghsio Fuhsing e prendere la linea Mucha ver-
so sud, fino a raggiungere la fermata Taipei Zoo. Potrei commettere un
certo numero di errori, perché sono uno straniero, ma se invece faccio
tutto giusto e non ci sono problemi sulla metro, allora arriverò allo zoo.
Calcolare è esattamente questo, e non c’è alcuna necessità in ciò. A nes-
suno verrebbero mai in mente le idee di verità a priori, di necessità logi-
ca o di oggetti matematici riflettendo sulla metropolitana di Taipei.
Uno dei dibattiti più duraturi nella storia della filosofia occidentale
è quello relativo agli oggetti matematici e alle verità matematiche. I co-
siddetti platonici ritengono che gli oggetti abbiano un’esistenza indi-
pendente dalla mente e dalla materia26. Altri pensatori hanno invece per
molto tempo sostenuto il contrario: essi sono in realtà il prodotto del-
la mente umana. In una versione più recente, essi sono visti come i
prodotti della sociologia collettiva o, in alternativa, della struttura del
cervello umano. Per una discussione abbastanza recente si veda Con-
versations about Mind, Matter, and Mathematics dei miei colleghi pari-
gini Alain Connes (vincitore della Medaglia Fields nel 1982) e Jean-
Pierre Changeux (neuroscienziato cellulare)27. Come ci si potrebbe
aspettare, Connes argomenta in favore dell’idea che gli oggetti mate-
matici sono semplicemente lì, in attesa di essere scoperti, mentre Chan-
98 LA RAGIONE SCIENTIFICA
classi, gli ordini, siano “reali” o se siano solo modi di organizzare l’in-
credibile complessità del mondo naturale; un problema tradizional-
mente fastidioso per le piante e che dà luogo a un caos totale per i fun-
ghi e i loro tipi, per non parlare dei batteri. Ecco perché, nella prima
lezione, ho parlato dei dibattiti ontologici come di una conseguenza de-
gli stili di pensiero scientifico. In ognuno di questi casi gli oggetti sono
introdotti dallo stile. Si è sempre creduto che questi dibattiti non aves-
sero alcun legame tra di loro. Vi invito ad allargare i vostri orizzonti e
a vederli come molto simili tra loro.
Crombie, in primis uno storico delle scienze del Basso Medioevo, del
Rinascimento e della prima età moderna, ha esplicitamente intitolato
il suo magnum opus: Styles of Scientific Thinking in the European Tra-
dition. Pongo l’accento sull’aggettivo “europea”. Crombie non era in
realtà del tutto eurocentrico. Egli osservava come i viaggi tra il suo
Paese natale, l’Australia, e quello d’adozione, l’Inghilterra, con i relati-
vi scali in Asia, lo avessero spinto a contemplare una «antropologia
storica comparata della ragione». Trovo quest’ultima un’idea utile, an-
che se appena abbozzata.
Sono già stato in Asia altre volte, ma questa è la prima che mi trovo
a discutere del mio approccio al ragionamento scientifico. Mi trovo, più
specificamente, sul confine orientale dell’Asia. Mi spetta di riflettere
sulle evoluzioni scientifiche, molto diverse, che sono avvenute, da un la-
to, in Asia occidentale (includendo l’antica Mesopotamia), in Africa del
Nord, nel Mediterraneo, nell’Europa del Nord, quindi nelle Ameri-
che e, dall’altro lato, in Asia orientale.
Devo iniziare dicendo che non sono affatto interessato alla questio-
ne seguente, che piace sollevare ad alcuni occidentali: «Come è possibile
che le scienze moderne siano il prodotto dell’Europa occidentale, a par-
tire dal XVII secolo, mentre le scienze cinesi non sono mai decollate
nello stesso modo e neanche la matematica antica cinese è servita da
trampolino per la matematica moderna?».
Sembra una domanda interessante. Ma ho il sospetto che non sia né
più né meno interessante della domanda: «Perché la matematica medi-
LEZIONE II. DA DOVE VENGONO GLI OGGETTI MATEMATICI 101
terranea antica raggiunse il suo apogeo con Archimede per poi subire
una battuta d’arresto, senza un singolo atto di matematica creativa (esa-
gerando un po’) fino a che una tradizione piuttosto differente, combi-
natoria, emerse, dapprima a Baghdad, per entrare poi in contatto con
il pensiero geometrico greco e dare luogo a uno stupefacente nuovo ini-
zio?». Queste domande, sul perché o sul come sia possibile che grandi
eventi siano successi, o non lo siano, in passato, sono totalmente al di
là delle mie competenze. Ma, può darsi che proprio a causa della mia
ignoranza io tenda anche un po’ ad ignorarle, trovandole non molto
sensate. Una volta erano un buon punto di partenza. Ma, ormai, i gran-
di eventi in questione sono visti come i risultati di così tante contingenze
che nessuna domanda plausibile quanto al loro “perché” può ricevere
una risposta adeguata. Credo sia una delle molte ragioni per cui Geof-
frey Lloyd, che attualmente dirige il Needham Research Institute di
Cambridge, in Inghilterra, solleva questioni diverse da quelle sollevate
dal grande pioniere degli studi occidentali sulla scienza cinese, Joseph
Needham. Lloyd ha recentemente adottato un linguaggio in apparen-
za simile, ma in realtà diverso, da quello di Crombie e dal mio: egli
parla di «stili di indagine» nel mondo antico29. Egli si dedica in parti-
colare a domande relative ai tipi di istituzione all’interno delle quali cer-
ti tipi di indagine possono essere coltivati, a differenza di altri.
Il titolo di questa lezione è una domanda filosofica: «Da dove ven-
gono gli oggetti matematici?». Si tratta di una domanda standard per
la filosofia occidentale, da Platone a oggi. Era certamente una do-
manda per la filosofia greca antica. Non sembra, invece, essere una do-
manda per la filosofia cinese antica, che pure aveva una lunga tradi-
zione matematica. Potremmo chiederci: «Perché no?». Più in genera-
le, possiamo chiedere: «Perché la matematica ha segnato così
profondamente il pensiero filosofico occidentale, almeno sin dai tem-
pi di Platone?». Forse non è una questione così frivola. Forse ci sono
cose significative da dire a questo proposito sulla matematica antica
greca e su quella cinese, ognuna radicata nelle sue circostanze locali e
storiche.
Forse il miscuglio variopinto di tecniche in cui consiste la matema-
tica è parte della risposta: il tipo di matematica sviluppata dalle prime
civiltà del Mediterraneo rende possibile una concezione degli oggetti
matematici, mentre i tipi di matematica sviluppati più o meno alla stes-
102 LA RAGIONE SCIENTIFICA
sa epoca in Cina non lo fanno. Ciò è coerente con un altro tipo di ri-
sposta, ovvero che la grammatica delle lingue dell’Ovest favorisce l’in-
sorgere di domande sugli oggetti matematici più di quanto non lo fac-
ciano le grammatiche delle lingue dell’Est. Entrambe queste risposte
sono coerenti con ancora un altro tipo di risposta: le istituzioni all’in-
terno delle quali la matematica era praticata in Cina e le funzioni pub-
bliche alle quali questa assolveva, erano piuttosto diverse da quelle at-
torno al Mar Mediterraneo. Questi tre modi di rispondere sono qual-
cosa di più che semplicemente coerenti tra loro: tutti e tre i tipi di
risposta, e altri possibili, possono e forse devono essere usati insieme e
in maniera efficace, se si pensa che la domanda sia degna di una rispo-
sta. La domanda, lo ripeto, è: «Perché i filosofi occidentali sono sempre
stati ossessionati dalla matematica, mentre quelli orientali no?».
[E]gli capì infatti che non doveva seguire passo passo ciò che vedeva del-
la figura, o anche solo nel concetto di essa, quasi che da ciò potesse ap-
prendere le sue proprietà, ma che doveva produrla tramite ciò che egli
stesso aveva già pensato e rappresentato in essa a priori, secondo concetti
(per costruzione) […].
1. Riepilogo
Abbiamo qui tre parole, stili, che sono distinguibili tramite i loro oggetti
e tramite i loro metodi di ragionamento. Nel caso della matematica, ab-
biamo familiarità, da un lato, con la distinzione tra il metodo di ragiona-
mento matematico e gli altri metodi e, dall’altro, con la distinzione tra
gli oggetti astratti della matematica e gli oggetti della vita di tutti i giorni.
Non si deve pensare che prima c’è uno stile di pensiero, che poi in-
troduce una nuova classe di oggetti scientifici. Gli stili sono costituiti
dai loro metodi e dal tipo di oggetto con il quale hanno a che fare.
Ho sostenuto l’idea secondo la quale ogni stile di pensiero introdu-
ce una nuova classe di oggetti scientifici. Ho proposto, inoltre, che i
dibattiti ontologici apparentemente irrelati che riguardano gli oggetti
astratti, gli oggetti teorici non osservabili della fisica, o i taxa della bio-
logia sistematica, sono tutti il risultato dell’introduzione di nuovi tipi
di oggetti nel corso dell’emergenza, accettazione e uso di un nuovo
stile di ragionamento all’interno di specifiche comunità.
Ho insistito su un’estensione della nozione degli stili di pensiero
scientifico di Crombie, vale a dire l’idea che all’interno di una lunga nar-
razione continua ci siano delle rotture distinte, che ho chiamato “cri-
stallizzazioni”. Una cristallizzazione può essere avvenuta nella notte dei
tempi, come quando ho affermato che l’idea di una prova dimostrati-
va ha cristallizzato modi di pensiero matematico a proposito degli og-
getti geometrici, probabilmente nel VI secolo a.C. Nella seconda le-
zione ho detto che potrebbero esserci state cristallizzazioni successive,
come quella che si verificò a Baghdad all’inizio del IX secolo, quando
il pensiero algoritmico e quello algebrico furono compresi in modo
chiaro per la prima volta.
Queste nozioni sono poi combinate con l’idea di Williams che la
veridicità a proposito di un argomento potrebbe avere una genealo-
gia. Williams ci ha dato due esempi di discontinuità nette, una rispet-
to al dire la verità sul passato, l’altra rispetto al dire la verità su sé stes-
si. Ho proposto di generalizzare la sua idea e di applicarla alle cristal-
lizzazioni che hanno luogo in stili di pensiero scientifici distinti. Per
ogni cristallizzazione si danno due schemi:
108 LA RAGIONE SCIENTIFICA
5. Misurazione
doti, per tenere lontano i nemici oppure per la vita dopo la morte. Si po-
trebbe quindi ragionevolmente ritenere che il primo vero bisogno di
misurazione provenisse dai costruttori2.
La proprietà della trasportabilità è scarsamente sottolineata nelle
discussioni filosofiche sulla misurazione. Tuttavia, essa è l’essenza stes-
sa della misurazione, essenza che continua ad essere alimentata grazie
al lavoro dei moderni enti nazionali per la standardizzazione. Il metro-
campione di Parigi è un tranello e un’illusione per i filosofi. Ciò che
vogliamo è un metro campione dal quale trasportare altri metri speri-
mentali per un confronto. Pensiamo al volt come all’unità di misura
del potenziale elettrico, ma chi si occupa dei campioni deve costruire
un apparato che fornisca un volt trasportabile, vale a dire un’unità stan-
dard di potenziale elettrico che possa essere portata in un laboratorio
o in un impianto elettrico qualsiasi all’interno di un paese3.
L’intuizione di Einstein che il tempo non possa essere trasportato è
una delle più grandi rivoluzioni scientifiche. Tutti indossiamo orologi
e pensiamo che quella che ci portiamo appresso sia una frazione di tem-
po trasportabile. Ma basta accelerare gli orologi ed ecco che abbiamo
la teoria della relatività ristretta. L’orologio atomico è interessante non
per la sua precisione, ma perché si basa su fenomeni che, secondo le no-
stre previsioni, pervadono l’universo e non hanno quindi bisogno di
esser trasportati.
6. Il metodo ipotetico-deduttivo
7. Ragionamento architettonico
questo è, senza dubbio, il libro più importante apparso nei science stu-
dies dalla pubblicazione de Il Leviatano e la pompa ad aria di Shapin e
Schaffer.
Ero predisposto a leggere S&S in questo modo perché nel 1983 avevo
pubblicato il mio libro Representing and Intervening. La seconda par-
te del libro, Intervening, era un appello ai filosofi perché prendessero
gli esperimenti seriamente. La filosofia delle scienze, specialmente del-
le scienze fisiche, era stata per decenni totalmente dominata dalla teo-
ria. Basti pensare a Carnap, Popper, Kuhn o van Fraassen. L’esperi-
mento era una mera appendice della teoria. Popper affermava aperta-
mente ciò che tutti in quest’ambito tendevano a dare per scontato, e
cioè che lo sperimentatore non potesse neanche iniziare il proprio la-
voro finché il teorico non avesse compiuto il suo. Gli esperimenti ser-
LEZIONE III. LO STILE LABORATORIALE DI PENSIERO E AZIONE 123
Venti o trenta anni fa, le entità che saltano fuori dalle teorie, ma che
sono inosservabili, erano il tema portante della filosofia della scienza ge-
nerale, ed esse suscitano ancora oggi molti dibattiti. Si discuteva di ta-
li entità all’interno della controversia sul realismo scientifico, che sarà
il tema della quarta e ultima lezione (anche se declinato al plurale,
“realismi” e “anti-realismi”). Ho sostenuto che i dibattiti ontologici sul-
le scienze siano il risultato dell’introduzione o della cristallizzazione di
stili ragionamento scientifico.
Gli atomisti greci avevano entità teoriche inosservabili in abbon-
danza e queste erano dotate di proprietà non banali, come ganci e ca-
LEZIONE III. LO STILE LABORATORIALE DI PENSIERO E AZIONE 131
vità, per esempio. Popper riteneva che quella fosse metafisica, non
scienza. Sono tendenzialmente d’accordo con Popper, ma non per-
ché io accetti il suo criterio forte di demarcazione, per il quale essere
scientifico significa essere testabile. Gli atomisti greci hanno prodot-
to una serie magnifica di speculazioni, che hanno dato forma al no-
stro pensiero sin dall’inizio, ma semplicemente non c’era una ragione
valida per credere alle loro storie. Molti fisici, forse la maggior parte
di essi, hanno sostenuto tesi strumentaliste a proposito degli atomi e
delle molecole fino all’inizio del XX secolo. La maggior parte dei ge-
netisti potrebbe aver avuto un approccio strumentalista a proposito
dei geni e dei cromosomi fino alla metà del XX secolo. Questi sono
dibattiti interni alle scienze, non posizioni ontologiche come il reali-
smo e l’anti-realismo. L’anti-realista sulle entità teoriche dice che tali
entità non esistono, o che non abbiamo mai ragioni sufficienti per as-
serirne l’esistenza.
Il dibattito ontologico nasce dalla combinazione del secondo e del
terzo stile di Crombie. Le entità occorrono all’interno delle teorie, chia-
ramente, e quindi potremmo concentrarci sul suo terzo stile, vale a di-
re la modellizzazione teorica e analogica, con una particolare attenzio-
ne sulla sua cristallizzazione, lo stile galileiano. Ma il grande numero
di entità teoriche di cui si discute lo status ontologico si deve alle teo-
rie che tiriamo in ballo per comprendere i fenomeni suscitati o creati
dallo stile di laboratorio. Dirò di più su quest’aspetto nella quarta le-
zione. Occorre qui notare, comunque, che la produzione, da parte di
Boyle, del vuoto all’interno di un recipiente, era in parte tesa a stabili-
re la realtà degli “atomi e del vuoto”. Una volta che si fosse creato il vuo-
to si sarebbe stabilita anche l’esistenza degli atomi, almeno all’interno
della filosofia corpuscolare della natura di Boyle.
16. Il vuoto
Secondo le idee attuali non esiste il vuoto, nel senso ordinario di un pla-
cido nulla. C’è invece un vuoto composto da fluttuazioni quantistiche21.
LEZIONE III. LO STILE LABORATORIALE DI PENSIERO E AZIONE 133
do, dove edifici di dieci piani sono occupati da nient’altro che macchi-
ne per il sequenziamento del genoma. Ciò che si fa in quei posti renderà
ricche, tra le altre, l’industria sanitaria e quella agraria. I risultati non so-
no iscrizioni, ma sostanze e tecniche.
La ricerca iniziale è stata svolta in laboratori universitari. Le impre-
se finanziate da fondi di venture capital hanno iniziato a formarsi in
California all’inizio degli anni Settanta. Ora si può dire che siano loro
a controllare il settore; certamente una parte importante del lavoro con-
tinua ad essere svolta nei laboratori universitari, ma spesso è il venture
capital che traccia la strada. Su questi aspetti dovrebbero aggiornarsi e
svolgere le proprie analisi i ricercatori dei science studies di oggi. In que-
sto caso è stato invece un antropologo a tracciare la strada. È un an-
tropologo nel senso classico, formatosi con Pierre Bourdieu e che in
seguito ha giocato un ruolo importante nell’introduzione del lavoro di
Michel Foucault al pubblico americano.
Mi riferisco a Paul Rabinow, professore di Antropologia alla Uni-
versity of California, a Berkeley25. Raccomando fortemente il lavoro di
Rabinow a chiunque nei science studies sia interessato alle recenti bio-
tecnologie. Egli è un modello per tutti noi. Rabinow collabora spesso
con Nikolas Rose, sociologo della London School of Economics, che ha
creato lì un grande centro di ricerca chiamato Bios, che si definisce
come un centro multidisciplinare per la ricerca sugli sviluppi contem-
poranei delle scienze della vita, della biomedicina e della biotecnologia.
Recentemente Rabinow ha visitato laboratori di biotech a Shanghai, e
userò alcune delle cose che mi ha detto in ciò che segue. Perché le im-
prese finanziate dai fondi di venture capital della California non sono
la fine della storia; ci aspetta (se non è già in corso) un’ondata di lavo-
ri provenienti dagli enormi laboratori di Stato della Cina. Si può esse-
re tentati di chiamarlo “capitalismo di Stato”, a causa delle similitudi-
ni, sul piano pratico, con il venture capitalism californiano. Non vale la
pena discutere se la California adotti il modello capitalistico mentre
Shanghai pratichi quello socialista, o quello del capitalismo di Stato. Il
punto è che, dalla prospettiva dei science studies, siamo di fronte a un
nuovo modo di fare scienza.
Stiamo parlando di un nuovo tipo di laboratorio? Ciò che stupisce
molti dei visitatori degli stabilimenti biotecnologici di Shanghai è l’im-
menso potere personale che detengono i dottori di ricerca o comun-
136 LA RAGIONE SCIENTIFICA
que i ricercatori a metà della loro carriera. Gli scienziati vanno ancora
spesso in America o in Europa per formarsi e perfezionare le loro ca-
pacità, ma un numero crescente di loro torna indietro. Mi ricordo una
conversazione avuta anni fa con un mio collega di Parigi, Philippe Kou-
rilsky, all’epoca direttore dell’Istituto Pasteur di Parigi, il primo cen-
tro di ricerca francese per la ricerca biomedica fondamentale. Era ap-
pena rientrato da Shanghai, dove aveva officiato all’apertura di una spe-
cie di clone o di franchising dell’Istituto Pasteur, costruito a lato del
vecchio quartiere francese di Shanghai, preservando alcune delle ele-
ganti facciate del XIX secolo. Ma quelle facciate sono una semplice il-
lusione: all’interno di quel complesso stavano creando, mentre lui era
lì, un’enorme impresa legata alla ricerca, in nuovi e straordinari edifi-
ci, e in tempi brevissimi per gli standard francesi. «Sorpasseranno com-
pletamente tutto quello che facciamo in meno di dieci anni», mi disse
Kourilsky.
In America la ricerca biotecnologica continua ad essere svolta, in mo-
do misto, da laboratori universitari tradizionali e da imprese finanzia-
te da fondi di venture capital. Ma, specialmente negli Stati Uniti, sono
sempre più queste ultime a fare il lavoro più all’avanguardia. Alcune
di esse si sono sviluppate fino al punto di diventare delle grandi cor-
porazioni: Genentech, Celera, Symbio. C’è una grande differenza tra
il laboratorio capitalistico e il laboratorio universitario. La si può far
risalire a ciò che ho detto riguardo alla fiducia e ai nobiluomini inglesi
del XVII secolo – il sistema del peer review. Tutto ciò che succede in
ambito accademico è governato dal sistema del peer review. Non solo
ciò che viene accettato come conoscenza e pubblicato, ma anche tutta
la ricerca che è finanziata. Scrivere e riscrivere progetti di ricerca è
una delle principali attività dei ricercatori accademici. Per di più, ciò
che viene chiamato peer review, al livello dei finanziamenti, non è in
realtà affatto peer review. Non è un processo di revisione tra pari, che
è ciò che si intende per “peer”. È più spesso la revisione di giovani ri-
cercatori da parte di vecchi ex ricercatori di successo. Essi forniscono,
in effetti, ogni tipo di consiglio. Sono vecchi uomini saggi che deter-
minano chi, nelle nuove generazioni, verrà supportato. Esagero. Non
sono né tutti saggi, né tutti vecchi e neanche tutti uomini, ma certa-
mente molti tra loro sono uomini e molti sono vecchi. Una delle figure
di spicco della venture biotechnology avrebbe affermato che «il più
LEZIONE III. LO STILE LABORATORIALE DI PENSIERO E AZIONE 137
1. Plurali
grandi filosofi arabi della Mesopotamia e dell’Africa del Nord, poi quel-
li tra i filosofi scolastici cristiani dell’Europa del Medioevo. La loro
posta in gioco può essere descritta in modi diversi e molte erano, in ef-
fetti, le sfaccettature oggetto di discussione. Tutti questi dibattiti han-
no due lati, uno ontologico e uno grammaticale. Tradizionalmente
l’enfasi viene posta sull’aspetto ontologico, su questioni a proposito di
ciò che esiste. Tuttavia, sia i filosofi islamici sia quelli scolastici cristia-
ni, hanno spesso orientato la discussione in senso grammaticale, così co-
me i filosofi analitici del XX secolo hanno fatto in senso semantico. In
ontologia si è sempre tentati di imboccare la strada di quella che Qui-
ne ha chiamato l’«ascesa semantica», passando da una discussione sul-
le cose a una discussione sui nomi delle cose.
Uno dei vantaggi dell’ascesa semantica, almeno per i pensatori del
XX secolo, è che essa permette di pensare che «sia tutta una questione
di parole». A volte il risultato è positivo e nobile, come nel caso del
“principio di tolleranza” di Rudolf Carnap. Carnap ha avanzato la tesi
che le questioni ontologiche siano esterne alla conoscenza e abbiano a
che fare con la scelta di una lingua. Questioni dotate di senso emergo-
no solo nel quadro di una lingua che porta (o meno) con sé presuppo-
sizioni di esistenza1. La critica di Quine ha naturalmente reso imprati-
cabile questa semplice tolleranza, sebbene essa rimanga un tema pre-
sente in molta parte della filosofia analitica. Per quanto mi riguarda,
cerco di evitare l’ascesa semantica, che aggira i problemi filosofici sen-
za risolverli. Io non intendo risolverli, ma penso che sia utile capire
come determinati problemi siano emersi.
Un modo di porre la questione ontologica è quella di prendere la giu-
stizia come esempio. Platone, nella Repubblica – il suo lavoro classico
di filosofia politica, dedicato al concetto di giustizia – fa chiedere in con-
tinuazione a Socrate che cosa sia la giustizia. Gli interlocutori fanno a
Socrate vari esempi di giustizia, ma egli continua a protestare che si trat-
ti solamente esempi, non della giustizia in sé. Quelli allora propongo-
no definizioni della giustizia, alle quali egli contrappone due tipi di con-
troesempi. Ci sono casi che soddisfano la definizione, ma che sono
esempi di azioni o di accordi ingiusti. Egli cita anche esempi di azioni
o accordi giusti, ma che non soddisfano le definizioni.
A volte si è tentati di dire che tutto si riduce alla domanda: «C’è qual-
cosa che accomuna tutte le azioni e gli accordi giusti, oltre al fatto che
noi li riconosciamo come giusti o che essi vengono semplicemente chia-
142 LA RAGIONE SCIENTIFICA
3. Universali
Quine usava questo aforisma come epigrafe per il suo libro del 1960,
Word and Object. Egli lo attribuisce a James Grier Miller, uno dei padri
fondatori della Teoria dei Sistemi. In realtà ho sentito quest’espressio-
ne prima del libro di Quine, nel corso delle lezioni tenute all’università
di Cambridge da John Wisdom, nell’autunno del 1956, ma Grier po-
trebbe in effetti averla coniata. La teoria dei sistemi non era però esat-
tamente il genere di cose di cui si occupava Wisdom e non credo che egli
avesse mai sentito parlare di Grier. Per chiunque abbia coniato per pri-
mo quest’espressione, si trattava chiaramente, o meglio, inevitabilmen-
te, di una battuta. Deriva da un motto proposto da Ernst Haeckel nel
1868: «L’ontogenesi ricapitola la filogenesi». Haeckel fu uno strenuo
difensore della selezione naturale di Darwin, nonché il suo profeta e por-
tavoce in Germania. L’“ontogenesi” è la crescita di un organismo, per
esempio di un uomo, da uovo fecondato a feto, da neonato ad adulto. La
“filogenesi” è la storia evolutiva di una specie. Haeckel sosteneva che
la crescita degli organismi individuali seguisse, a partire dal concepi-
LEZIONE IV. REALISMI E ANTIREALISMI 145
mento, gli stessi schemi secondo cui si evolve la specie alla quale quel-
l’organismo appartiene. Questa è stata, un tempo, un’idea molto diffu-
sa, al contrario di adesso. Ad ogni modo, il nostro aforisma filosofico è
un gioco di parole a partire da quello biologico.
Il motto suona bene, ma che cosa significa? Quine probabilmente in-
tendeva che, scegliendo una grammatica e una lingua appropriate, non
ci sarebbe bisogno di adottare che un’ontologia molto semplice. Sfol-
tite la vostra sintassi e la vostra semantica e la filosofia seguirà in silen-
zio i vostri ordini. Il motto diviene così adatto alla varietà di nominali-
smo proposta da Quine.
Si potrebbe, comunque, usare l’aforisma per avanzare un tipo mol-
to diverso di suggerimento: i problemi ontologici sono le conseguenze
della grammatica del linguaggio parlato dal filosofo. Questo non signifi-
ca che io sottoscriva la tesi della “relatività ontologica” di Quine. Qui-
ne riteneva che l’ontologia fosse relativa a un linguaggio. Io non pro-
pongo alcuna tesi rispetto all’ontologia, suggerisco qualcosa sull’origi-
ne o sulla fonte dei problemi ontologici. Faccio quindi un passo
indietro rispetto alle filosofie di Quine e dei suoi oppositori e propon-
go qualcosa che potremmo chiamare “la relatività linguistica dei pro-
blemi filosofici”6.
Uno dei punti principali dell’aforisma è, come dice il titolo stesso, «so-
lo come creatori». Uno dei suoi sotto-temi è quindi il fatto che possia-
mo disfare un’idea da noi nominata solo creando un concetto positivo
e mettendolo al suo posto. La decostruzione fine a se stessa è un gioco
auto-indulgente. Ma è per l’altra idea in esso contenuta che porto l’at-
tenzione su questo passaggio: un numero indicibilmente più grande di
conseguenze deriva dal modo in cui le cose sono chiamate più che da
ciò che esse sono. Ed è sufficiente creare nuovi nomi, nuove valutazio-
ni e nuove probabilità per creare nuove “cose”.
Sebbene con qualche cautela, mi trovo in accordo con Nietzsche
quando si tratta di nomi di tipi di persone. Ho usato questo passaggio
in un articolo nel quale ho espresso la mia posizione attuale su uno dei
miei interessi, totalmente differente, ovvero la classificazione delle per-
sone e l’interazione delle classificazioni con le persone stesse8. Ma, sal-
vo ulteriori specificazioni, non sono incline ad applicare lo stesso tipo
di ragionamento quando si tratta dei nomi delle cose. Le persone, non
LEZIONE IV. REALISMI E ANTIREALISMI 147
c’è bisogno di dirlo, sono “cose”, ma, nel loro caso, sono il modo in
cui una persona si concepisce e il modo in cui essa viene concepita
dalle altre persone a fare la differenza. Se mi si vuole etichettare in qual-
che modo, ritengo d’essere decisamente materialista a proposito delle
cose non senzienti, come diventerà sempre più chiaro verso la fine di
questa lezione. L’aforisma di Nietzsche mi è quindi congeniale solo
quando si tratta dei nomi dei tipi di persone; esso non propone una dot-
trina attraente per le cose.
Vorrei porre accanto a quello di Nietzsche un piccolo passaggio di
Chuang Tzu, tratto dai cosiddetti The Inner Chapters. Da quanto mi
risulta, si presume che questi capitoli siano stati scritti dal filosofo taoi-
sta in persona e non siano il frutto del lavoro di qualche commentato-
re successivo.
Prenderò due frasi davvero degne di nota, in traduzione, estrapo-
landole dal contesto:
quella che forse è una cattiva traduzione di una frase antica, magari tra-
scritta in maniera scorretta. Ciò non mi disturba affatto. Così com’è (1)
è splendida e ha il merito di farti riflettere. La leggo, prima di tutto, co-
me un forte impegno verso un tipo di realtà, totalmente indipendente,
anzi, precedente rispetto al nominare, classificare e a qualsiasi altra atti-
vità intellettuale umana. La realtà è semplicemente lì e a volte accoglie
questo o quel nome come appropriato, ma solo come un ospite.
Quest’idea non è esattamente il “realismo”, in nessuno dei sensi fi-
losofici ai quali ho accennato prima. Potremmo dire che essa è reali-
sta in senso proprio, o anche in senso mistico, perché esprime un
profondo rispetto per ciò che esiste. Qualche pagina dopo, tuttavia, si
legge un’altra frase, che sembra essere un’espressione radicale di no-
minalismo:
Perché reale? Reale perché reale. Perché irreale? Irreale perché irreale.
Quindi il reale è in origine nelle cose stesse e ciò che è sufficiente è an-
ch’esso originariamente lì, nelle cose. Non c’è niente che non sia reale e
niente che non sia sufficiente12.
si alla realtà compiuta come alla ragione per ciò che diciamo e sappia-
mo sulle cose, rifiutando però allo stesso tempo il tentativo, tipico del-
l’Illuminismo europeo, di fornire fondamenti alla conoscenza. Questo
rende Chuang Tzu e Nietzsche sorprendentemente vicini.
Questa piccola parentesi indica che non prendo troppo sul serio l’i-
dea che i problemi filosofici siano relativi a un gruppo linguistico. Per
evitare fraintendimenti, specifico che non prendo troppo seriamente
neanche l’idea che il filosofo tedesco e quello cinese, separati da due
millenni, abbiano avuto esattamente le medesime preoccupazioni.
Non ho ancora finito con l’elenco dei tipi di realismo dei quali non
parlerò (ma dei quali finisco in realtà per parlare anche troppo). Mi-
chael Dummett ha iniziato la sua carriera come logico e filosofo della
matematica. È stato attirato verso la matematica da un profondo inte-
resse per l’intuizionismo e per il costruttivismo, tuttavia, egli si è al
tempo stesso opposto alle posizioni espresse da Wittgenstein nelle Os-
servazioni sopra i fondamenti della matematica. Dummett distingueva
nettamente la negazione del principio del terzo escluso dalla negazio-
ne della bivalenza, la dottrina secondo la quale le proposizioni devono
avere uno di due valori di verità. Egli ha trasformato il realismo in una
tesi sulla bivalenza.
Dummett applicava questa nozione in maniera trasversale. Si consi-
deri un uomo, ormai morto, che non ha mai avuto in vita sua l’oppor-
tunità di dimostrare o anche solo di lasciar intendere se fosse coraggioso
o meno. In questo caso, secondo Dummett – e sono tendenzialmente
d’accordo con lui – la proposizione «egli era un uomo coraggioso»
non è vera. Tuttavia, per la stessa ragione, neanche la proposizione «egli
non era un uomo coraggioso» è vera. Così, secondo la concezione dum-
mettiana del realismo come impegno verso la bivalenza, egli è un anti-
realista a proposito del coraggio di quest’uomo.
Dummett si è avvicinato a varie dottrine anti-realiste a proposito del-
la storia e, in generale, ha incoraggiato un tipo di discorso anti-realista
dell’anti-bivalenza che, non molti anni fa, ha iniziato a diffondersi in
152 LA RAGIONE SCIENTIFICA
Rorty parlava di Arthur Fine come del suo «filosofo della scienza pre-
ferito»17. L’articolo di Fine, The Natural Ontological Attitude, inizia con
la frase: «Il realismo è morto»18. Rorty ne riassume correttamente il pun-
to centrale: Fine afferma che «non dovremmo essere né realisti né an-
tirealisti, che l’intero problema del realismo e dell’antirealismo do-
vrebbe esser lasciato da parte». Sono d’accordo sul fatto che vada la-
sciato da parte. Ma questo problema non si lascerà mettere in soffitta
tanto facilmente. Senza dubbio, Fine, con «il realismo è morto», in-
tendeva richiamare Nietzsche. In qualunque modo stiano le cose nel ca-
so di Dio, tuttavia, i dibattiti sulla sua esistenza non sono spariti dal pen-
siero occidentale nel momento in cui Nietzsche scrisse il suo famoso
aforisma. Ho pensato fosse utile arrivare a un qualche tipo di com-
prensione del richiamo che i realismi e gli antirealismi esercitano in fi-
losofia. Questo è stato uno dei temi delle mie prime tre lezioni. Chia-
miamola “la tesi delle conseguenze” [the by-product thesis]: nei dibat-
titi ontologici che affliggono le scienze, i vari tipi di oggetti che sono
rigettati dagli antirealisti, gli oggetti nudi e crudi, la cui esistenza è in-
vece asserita dai realisti, sono tutti conseguenze degli stili di pensiero
scientifici che li hanno introdotti.
154 LA RAGIONE SCIENTIFICA
Da tempo le dispute tanto sulla ragione quanto sulla realtà hanno pola-
rizzato l’interesse dei filosofi della scienza […]. Si tratta di questioni
importanti? Ne dubito. Noi vogliamo sapere che cosa è realmente reale
e cosa è veramente razionale. Eppure si vedrà che per parte mia trascu-
ro la maggior parte delle questioni relative alla razionalità, e che sono rea-
lista solo in base a ragioni del tutto pragmatiche19.
Molte persone ricordano una frase che si trova nelle prime pagine del
libro: «Se puoi spruzzarli, allora sono reali». Questa frase si riferiva a
una pistola a elettroni che spruzzava elettroni polarizzati per ottenere
certi effetti ben noti su di una sfera super-fredda, super-conduttiva e su-
per-fluida di niobio.
Un numero sorprendente di lettori, in un primo momento, intese
non solamente quanto sopra, ma anche che «le entità sono reali solo se
puoi spruzzarle». Non ho mai pensato questo. Non mi è semplicemente
mai venuto in mente, ed è per questo che non ho mai preso precauzio-
ni rispetto al fatto che qualcuno potesse pensarlo. Ernan McMullin
era un filosofo della scienza sincero, che mi ha confessato, scusandosi,
che aveva in effetti fatto proprio quest’errore di lettura.
Più in generale, la mia idea principale era che i dibattiti allora cor-
renti sul realismo scientifico non risultassero mai risolutivi perché con-
dotti al livello della teoria e spesso al livello della semantica. Essi si
156 LA RAGIONE SCIENTIFICA
Continuavo così:
teoriche sia vera. Il punto di vista dello sperimentatore può essere espres-
so da quello che potremmo chiamare un argomento performativo.
Il mio realismo sperimentale originario consiste in questo:
Prima di tutto, ripeto che ho parlato di «evidenza più forte», non del-
la possibilità di manipolare come una condizione sufficiente o una di-
mostrazione della realtà di x. C’è poi un punto molto più importante
per il mio modo di pensare: la mia formulazione non parlava di mani-
polare e basta. Ciò che ho scritto è riportato qui sopra. Ho parlato di
entità che sono manipolate regolarmente per produrre nuovi fenome-
ni e per indagare altri aspetti della natura. Sono attrezzi, strumenti,
che non servono a pensare ma a fare.
LEZIONE IV. REALISMI E ANTIREALISMI 159
di Gerardo Ienna
Come definire e caratterizzare la ragione scientifica? Questa è la do-
manda fondamentale nella quale, per necessità, ogni filosofo, storico o
sociologo delle scienze si è imbattuto almeno una volta nel suo percor-
so intellettuale. Nelle lezioni di Taiwan del 2007, Ian Hacking cerca di
tirare le fila di alcune fra le maggiori linee del suo percorso intellettua-
le. Uno dei concetti cardine della sua filosofia, cui è dedicato ampio spa-
zio in La ragione scientifica, è il concetto di “stile” che costituisce, esso
stesso, in buona parte lo “stile” hackingiano. In parte, come si è visto,
una ricostruzione delle radici storiche di questo termine sono state
fornite dallo stesso autore sia nel testo che presentiamo, sia in altre oc-
casioni. Ma da dove viene questo stile? All’interno di quali dibattiti si
inserisce?
La potenzialità di questo concetto, così come l’ha strutturato
Hacking, è quella di riuscire a costruire dei ponti che mettano in co-
municazione vari orientamenti teorici risolvendo tensioni interne agli
studi sulla scienza che prima risultavano difficilmente conciliabili. Le
poste in gioco sono variegate e le voci che si sono avvicendate dagli
anni Novanta a oggi, riguardo a una possibile ricostruzione archeologi-
ca1 del concetto di stile, ne hanno indicato una pluralità intrinseca for-
se anche grazie alla genericità e plasticità del termine. Per esempio Ar-
nold I. Davidson (autore molto vicino a Hacking) elabora un percorso
genealogico che porta dal concetto di stile nella storia dell’arte, con il
ricorso all’opera di Heinrich Wölfflin e altri, passando per Michel
Foucault, per arrivare fino all’epistemologia di Hacking2. Jean Gayon,
dal canto suo, risale internamente alla tradizione della storia della scien-
168 LA RAGIONE SCIENTIFICA
zarono l’ordine dei contributi a partire dal “più relativista” al più “ra-
zionalista”, aprendo il volume con Relativism, Rationalism and Socio-
logy of Knowledge di Barnes e Bloor, seguito immediatamente dal con-
tributo di Hacking (il quale rimase estremamente sorpreso di come
era stato interpretato il suo posizionamento filosofico)10. Già in questo
testo, viene rintracciata in Crombie la primaria fonte di ispirazione ri-
guardo alla formulazione del concetto di stile. Quest’ultimo autore è
stato il primo a parlare di stili di pensiero, attorno ai quali è costruita la
monumentale opera Styles of Scientific Thinking in the European Tra-
dition del 1994, cui erano però precedute alcune formulazioni a parti-
re dagli anni Settanta in occasione di paper e convegni11. In particolar
modo Hacking dichiara di aver ascoltato una conferenza di Crombie su
quel tema a Pisa, nel 1978, a seguito della quale lui stesso ha comincia-
to a ragionare sul termine “stile”12. Ciò che proponeva Crombie in quel-
l’intervento, e poi in maniera più estesa nel testo del 1994, è l’indivi-
duazione e classificazione di sei stili di pensiero, metodi scientifici che
si sono costituiti nello sviluppo delle scienze:
Ci sono molti altri motivi che mi hanno fatto optare per il ragionamen-
to rispetto al pensiero. […] “Ragionamento” evoca anche la Critica del-
la ragion pura. Il mio lavoro è una continuazione del progetto kantiano
di spiegare come sia possibile l’oggettività. […] Kant non pensava che
la ragione scientifica fosse un prodotto storico e collettivo. Noi sì. I miei
stili di ragionamento, eminentemente pubblici, sono parte di ciò che
dobbiamo capire se vogliamo afferrare il significato di “oggettività”. E
questo non certo perché gli stili sono oggettivi (ovvero perché avremmo
trovato il modo più imparziale per giungere alla verità), ma perché han-
no stabilito ciò che conta come oggettivo (le nostre verità vengono rag-
giunte solo se conduciamo certi tipi di ricerche e rispettiamo degli stan-
dard particolari)17.
tutte le fasi e parti del pensiero dell’autore, che permette di tenere in-
sieme le ultime riflessioni sulla matematica con quelle sui laboratori,
passando per il progetto making up people, ecc54. Per queste ragioni
Hacking è ormai un punto di riferimento d’obbligo sia nell’ambito
degli studi sociali sulle scienze55 sia in quelli dell’epistemologia stori-
ca56 grazie alla sua capacità di risolvere le aporie cui conducono le let-
ture comparate delle diverse tradizioni disciplinari della storia, filoso-
fia e sociologia delle scienze d’estrazione sia anglofona sia francofona.
Note
che «prima della sua attuale malattia, il professor Hacking stava lavorando agli
ultimi ritocchi al manoscritto di un libro intitolato Styles of Scientific Thinking:
Thruthfulness and Reason» (http://www.balzan.org/en/prizewinners/ian-
hacking/rome-forum-hacking-pickave).
15. I. Hacking, Styles of Scientific Thinking or Reasoning: A New Analyti-
cal Tool for Historians and for Philosophers, in K. Gavroglu et al. (a cura di),
Trends in the Historiography of Science, Kluwer, Dordrecht, 1993.
16. Infra, Lezione I, §7. A.I. Davidson (Sex and the Emergence of Sexuality,
«Critical Inquiry», vol. 14, n. 1, Autunno 1987, pp. 16-48) è stato il primo ad
aver raccolto e ad aver sia elaborato a livello teorico sia applicato a livello sto-
rico la nozione di stili di ragionamento di Hacking, in relazione con lo «stile
psichiatrico di ragionamento» emerso nel XIX secolo. Questo e altri studi di
Davidson sono poi confluiti nel suo The Emergence of Sexuality (2001). L’uso
fatto da Davidson ha, tra l’altro, messo pienamente in luce molte delle impli-
cazioni foucaultiane implicite nella teoria degli stili. Per un confronto tra gli
stili di Davidson e quelli di Hacking si veda P. Singy, Gli ‘stili di ragionamen-
to’ di Arnold Davidson, in «Iride. Filosofia e discussione pubblica», n. 45, 1995,
pp. 437-442 e M. Setaro, L’epistemologia storica dei concetti: una questione di
stile. Confronto a distanza tra Ian Hacking e Arnold I. Davidson, in «Medicina
& Storia», vol. 19-20, pp. 221-234.
17. I. Hacking, ‘Style’ for Historians and for Philosophers, cit., p. 11
(Hacking, Ontologia storica, cit., p. 189).
18. Ogni stile introduce le proprie tecniche di auto-stabilizzazione e
Hacking, anziché fornire una definizione generale di questo concetto, si limi-
ta a illustrarlo tramite esemplificazioni. La statistica, ad esempio, certifica se
stessa sottoponendo le proprie proposizioni a test statistici (ivi, p. 14-15;
Hacking, Ontologia storica, cit., pp. 251-252).
19. I. Hacking, Language, Truth and Reason: 30 Years Later, cit., p. 601;
Cfr. infra, Lezione I, §7, pp. 46-48.
20. I. Hacking, La metafisica degli stili di ragionamento scientifico, «Iride»,
n. 4/5, 1990, p. 12.
21. G. Canguilhem, Ideologia e razionalità nella storia delle scienze della vi-
ta, La Nuova Italia, Scandicci, 1992, p. 12: «La veridicità o il dire-il-vero del-
la scienza non consiste nella riproduzione fedele di qualche verità inscritta da
sempre nelle cose o nell’intelletto. Il vero è il detto del dire scientifico».
22. Ciò apre una porta sul dibattito, riapertosi recentemente, sulla verità e
sulla sua storia, soprattutto in Francia e in modo particolare attorno a Fou-
cault: J. Bouveresse, Nietzsche contre Foucault. Sur la vérité, la connaissance
et le pouvoir, Marseille, Agone, 2016 e più in generale P. Engel e R. Rorty, A
quoi bon la vérité?, Bernard Grasset, Paris, 2005.
186 LA RAGIONE SCIENTIFICA
23. Infra, Lezione I, §7. Non è tanto il già citato «stile psichiatrico di ragio-
namento» studiato daA. Davidson ad aver fatto cambiare idea a Hacking,
quanto il tentativo semi-provocatorio da parte di Barry Allen di applicare lo
schema di Hacking alla “demonologia” tra il XV e il XVII secolo (B. Allen, De-
monology, Styles of Reasoning, and Truth in «International Journal of Moral
and Social Studies», vol. 8, n. 2, 1992, pp. 95-121). Se la “metafisica” di
Hacking era così “permissiva” da risultare calzante anche per modi di ragio-
nare palesemente non scientifici come la demonologia, essa perdeva agli oc-
chi del suo ideatore gran parte del suo valore.
24. Infra, Lezione I, §6.
25. Tra i contributi più importanti, apparsi nel corso degli anni: I. Hacking,
Leibniz and Descartes: Proof and Eternal Truth, «Proceedings of the British
Academy», vol. 59, 1973, pp. 175-188, ristampato in Hacking, Ontologia sto-
rica, cit., pp. 200-213; Rules, Scepticism, Proof, Wittgenstein in I. Hacking (a cu-
ra di) Exercises in Analysis: Essays by Students of Casimir Lewy, Cambridge
University Press, Cambridge, 1985, pp. 113-124; What mathematics has done
to some and only some philosophers in Smiley, T.J. (a cura di), Mathematics
and Necessity, British Academy, London, 2000, pp. 83-138; Les preuves et la
nécessité chez Wittgenstein in J. Bouveresse, S. Laugier, J.-J. Rosat (a cura di),
Dernière Wittgenstein, Dernières Pensées, Marseille, Agone, 2002, pp. 265-288;
What Makes Mathematics Mathematics?, in J. Lear, A. Oliver (a cura di), The
Force of Argument: Essays in Honour of Timothy Smiley, Routledge, London,
2009, pp. 82-106.
26. I. Hacking, What Is Strict Implication?, in «Journal of Symbolic Lo-
gic», vol. 28, n. 1, 1963, pp. 51-71.
27. I. Hacking, Immagini radicalmente costruzionaliste del progresso mate-
matico, in A. Pagnini (a cura di), Realismo e antirealismo. Aspetti del dibattito
epistemologico contemporaneo, La Nuova Italia, Firenze, 1995, pp. 59-92.
28. I. Hacking, ‘Style’ for Historians and for Philosophers, cit., p. 6 (I.
Hacking, Ontologia storica, cit., p. 239). Sulla metafora althusseriana del “con-
tinente” della matematica scoperto da Talete si veda il saggio di Ienna alla fi-
ne di questo volume.
29. Cfr. I. Hacking, Styles of Scientific Thinking or Reasoning, cit., p. 36.
30. M. Vagelli, Ian Hacking, The Philosopher of the Present, cit., p. 245.
31. Il passo in questione è citato in Hacking, Why Is There Philosophy of
Mathematics at All, cit., p. xiv. La Howison Lecture è invece apparsa in spa-
gnolo: Pruebas, verdad, manos y mente, in J. Aguirre, L. Jaramillo (a cura di)
Cuadernos de Epistemología, número 5. Reflexiones en torno a la filosofía de la
ciencia y la epistemología, Popayán, Universidad del Cauca, Columbia, 2011,
pp. 11-37.
NOTE 187
formali per farne la critica, non nel senso di ridurne i valori, ma per capire
come essa abbia potuto effettivamente costituirsi». Il riferimento ai «fatti cul-
turali» può sembrare vago, ma, sollecitato dall’intervistatore, Foucault si af-
fretta a precisare: «Quindi lei fa una etnologia della nostra cultura?». «Sì, o
almeno della nostra razionalità, del nostro discorso».
45. I. Hacking, Ontologia storica, cit., p. 256; Language, Truth and Reason:
30 Years Later, cit., p. 607.
46. Hacking trae quest’idea da A.W. Crosby, Ecological Imperialism: The
Biological Expansion of Europe 900-1900, Cambridge University Press, Cam-
bridge, 1986.
47. Cfr. Vagelli, Ian Hacking. The Philosopher of the Present, cit., pp. 249-
250. Per la nozione di idealismo linguistico si veda I. Hacking, Why Does
Language Matter to Philosophy?, Cambridge University Press, Cambridge,
1975.
48. Per una critica del progetto degli stili che sottolinea l’aspetto della loro
naturalizzazione si veda M. Kusch, Hacking’s Historical Epistemology: A Cri-
tique of Styles of Reasoning, «Studies in History and Philosophy of Science»,
vol. 41, 2010, pp. 158-173.
49. I. Hacking, Conoscere e sperimentare, cit., p. 173.
50. Infra, Lezione I, §10, p. 53. Sul rapporto con Bourdieu rinvio al saggio
di Ienna alla fine di questo volume.
51. È così che A. Davidson definisce l’opera di Gargani. Cfr. A.I. David-
son, Dai giochi linguistici all’epistemologia politica, in A.G. Gargani, Il sapere
senza fondamenti, Mimesis, Milano-Udine, 2009, p. 7; sullo stesso argomen-
to, si veda anche M. Vagelli, Le problème du fondement et l’épistémologie hi-
storique italienne, «Archives de Philosophie», n. 78, 2015, pp. 509-515.
La ragione scientifica
Lezione I
Press, Cambridge, 2006; trad. it., L’emergenza della probabilità. Ricerca filoso-
fica sulle origini delle idee di probabilità, induzione e inferenza statistica, il
Saggiatore, Milano, 1987. A causa della grave incompetenza della filiale di
New York della casa editrice, la nuova introduzione non è né numerata né in-
dicata nel sommario.
13. Il termine “società del rischio” è diventato quasi un cliché dei nostri tem-
pi grazie a Ulrich Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità,
Carocci, Roma, 2013.
14. Hacking fa qui riferimento a The Philosophical Lexicon, un dizionario
umoristico di filosofia iniziato da Daniel Dennett nel 1969 e attualmente cu-
rato da Asbjørn Steglich-Petersen. Il dizionario, i cui lemmi sono costituiti da
neologismi formati a partire da nomi di filosofi perlopiù contemporanei, è
accessibile online: www.philosophicallexicon.com (Ndc).
15. Sottolineo “ereditato”. Per i filosofi anglofoni della mia generazione
era chiaramente la Struttura di Kuhn del 1962 a dominare ogni discussione. Ma
il mio specifico entusiasmo per le rotture nei sistemi di pensiero derivava da Le
parole e le cose di Michel Foucault (Le parole e le cose. Un’archeologia delle
scienze umane, BUR, Milano, 2016). Questo a sua volta è riconducibile agli
influenti scritti di Gaston Bachelard (1884-1962), che occupavano gran parte
dello spazio delle librerie parigine degli anni Sessanta.
16. Sulla questione specifica delle rivoluzioni nella storia della probabilità
si veda il mio Was There a Probabilistic Revolution 1800-1930? in L. Krüger
et al. (a cura di), The Probabilistic Revolution, Vol I: Ideas in History, Cam-
bridge, MIT Press, Cambridge Mass., 1987, pp. 54-58.
17. H. Wölfflin, Concetti fondamentali della storia dell’arte, Abscondita, Mi-
lano, 2012.
18. Per i riferimenti si veda il mio ‘Style’ for Historians and Philosophers, in
«Studies in History and Philosophy of Science», vol. 23, 1992, pp. 1-20, ristam-
pato in I. Hacking, Ontologia storica, Edizioni ETS, Pisa, 2010, pp. 233-258.
19. R. Carnap, La costruzione logica del mondo. Pseudoproblemi nella filo-
sofia, UTET, Torino, 1997.
20. Non ho tenuto traccia di tutte le fonti alle quali mi riferisco, ma ricor-
do bene lo shock di quando le ho trovate sfogliando alcune pagine di giorna-
lismo scientifico tedesco pubblicate negli anni Trenta.
21. L. Fleck, Genesi e sviluppo di un fatto scientifico. Per una teoria dello
stile e del collettivo di pensiero, il Mulino, Bologna, 1983.
22. Il lavoro a cui mi riferisco è Language, Truth and Reason, in M. Hollis e
S. Lukes (a cura di), Rationality and Relativism, Blackwell, Oxford, 1982, pp.
48-66. La tappa successiva dello sviluppo è il mio articolo sullo “stile” del 1992,
si veda la nota 18 qui sopra [Per un esempio di uso “personalizzante”, con-
NOTE 191
Lezione II
1. Edizione originale tedesca, 1976 (trad. it., Antropologia dal punto di vi-
sta pragmatico, Einaudi, Torino, 2010).
2. M. Foucault, Le parole e le cose, cit., capitolo IX.
3. F. Galton, English Men of Science: their Nature and Nurture, Macmillan,
London, 1874, p. 12.
4. Come spiego nel mio articolo The Disunities of the Sciences, in P. Gali-
son e D.J. Stump (a cura di), The Disunity of Science. Boundaries, Contexts
and Power, Stanford University Press, Stanford, 1996, pp. 37-74.
5. L. Wittgenstein, Osservazioni sopra i fondamenti della matematica, Ei-
naudi, Torino, 1988, II, §46.
6. S.J. Gould e R.C. Lewontin, I pennacchi di San Marco e il paradigma di
Pangloss. Critica del programma adattazionista, Einaudi, Torino, 2001. Un pen-
nacchio è una caratteristica architettonica, spesso decorativa, che si è svilup-
pata, quasi in maniera non intenzionale, a partire da una caratteristica funzio-
nale della progettazione di un edificio.
7. Quindi, nonostante l’interesse per il lavoro di Stephen Dehaene, scien-
ziato cognitivo, non sono d’accordo con il titolo del suo libro, The Number Sen-
se: How the Mind Creates Mathematics, Oxford University Press, Oxford,
194 LA RAGIONE SCIENTIFICA
1987. Per quanto mi riguarda, egli ci insegna qualcosa rispetto alla connatu-
ralità [innateness] del contare, ma non rispetto a quella del ragionamento
matematico.
8. B. Butterworth, What Counts: How Every Brain Is Hardwired for Math,
Free Press, New York, 1999.
9. I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 29.
10. R. Netz, Shaping Deduction in Greek Mathematics, cit.
11. Si tratta della Dawes Hicks Lecture alla British Academy, pubblicata
in «Mathematics and Necessity», edito da T.J. Smiley, British Academy, Lon-
don, 2000, pp. 83-138.
12. Omisi Husserl perché la lezione si concentrava su problemi centrali
per la filosofia analitica. Ho parzialmente rimediato a quell’omissione nell’ar-
ticolo Husserl on the Origins of Geometry citato alla nota 32 della Lezione I.
13. B. Russell, I problemi della filosofia, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 99. La
domanda di Kant è formulata nella Critica della ragion pura, cit., p. 97 (B 20).
14. Ivi, p. 100.
15. P. Kitcher, The Nature of Mathematical Knowledge, Oxford University
Press, Oxford, 1983.
16. Le mie idee sui punti essenziali del programma logicista, e sulle sue
motivazioni, si trovano in What Is Logic?, in “Journal of Philosophy”, vol. 86,
1976, pp. 285-319.
17. E. Husserl, Die Krisis der europaischen Wissenschaften und die transzen-
dentale Phanomenologie, completata nel 1936 e tradotta come La crisi delle
scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano, 2015.
18. B. Latour, The Netz-Works of Greek Deductions, in «Social Studies of
Science», vol. 38, n. 3, 2008, pp. 441-459.
19. Il caso vuole che sia stato io a parlargli del libro, è per questo che egli
mi dedica gentilmente il suo saggio.
20. Si veda la nota 51 della Lezione I.
21. Con l’acronimo SSK s’intende più frequentemente l’espressione “So-
ciology of Scientific Knowledge” con la quale ci si riferisce comunque alla stes-
sa corrente cui fa accenno Hacking nel testo (ovvero quella iniziata da Bloor
e Barnes a Edimburgo), (Ndc).
22. Qui Hacking fa riferimento alla cosiddetta Actor-Network-Theory
(ANT). Questa è una teoria sociologica sviluppata (già a partire dagli anni
Ottanta) principalmente da Michel Callon, Bruno Latour e John Law che con-
siste nell’operare una simmetrizzazione fra umani, non-umani e pratiche di-
scorsive. Per il lettore interessato si veda in special modo la formulazione del-
l’ANT di Latour in Reassembling the Social. An Introduction to Actor-Network-
Theory, Oxford University Press, Oxford, 2005 (Ndc).
NOTE 195
Lezione III
invece a Derek de Solla Price la più celebre descrizione del fenomeno in que-
stione in Little Science, Big Science, Columbia University Press, New York-
London, 1963 (Ndc).
11. B. Latour, Postmodern? No, Simply Amodern! Steps Towards an Anth-
ropology of Science, in «Studies in the History and Philosophy of Science»,
vol. 21, 1990, pp. 145-171.
12. I. Hacking, Artificial Phenomena, in «British Journal for the History of
Science», n. 24, 1991, pp. 235-241. La mia recensione arrivava decisamente in ri-
tardo. La rivista si sentiva giustamente in colpa per aver pubblicato una recen-
sione ignorante e compiaciuta dell’edizione con copertina rigida, e ha colto co-
sì l’occasione dell’edizione paperback per dare una seconda occhiata al libro.
13. P. Galison, How Experiments End, The University of Chicago Press,
Chicago, 1987. Per una ricognizione sulla proliferazione degli studi sul labo-
ratorio a partire dagli anni Ottanta si veda I. Hacking, Philosophers of Experi-
ment, in «PSA: Proceedings of The Biennial Meeting of the Philosophy of
Science Association» (1970-994), vol. 2, 1988, pp. 147-156 (Ndc).
14. Con “emisferi di Magdeburgo” si fa riferimento all’esperimento effet-
tuato da Otto von Guericke (1602-86) per provare l’esistenza della pressione
atmosferica: due emisferi cavi collegati tra loro oppongono un’elevata resi-
stenza al distacco quando si estrae l’aria dallo spazio cavo formato dalla loro
unione. Un tiro di otto cavalli per parte rese possibile la realizzazione dell’e-
sperimento (Ndc).
15. Physicists create a new state of matter at record low temperature, pubbli-
cazione del National Institute of Standards and Technology e della Univer-
sity of Colorado, 13 luglio 1995.
16. Hobbes ha posto questa domanda nel Dialogus physicus, pubblicato
nel 1661, una risposta piccata al libro di Boyle New Experiments Physico-Me-
chanical, pubblicato nel 1660 (Boyle a sua volta confutò Hobbes nel 1662).
Questo dialogo non è stato tradotto nell’edizione francese di S&S, contri-
buendo all’allontanamento dal lato materiale, che io invece sottolineo, in di-
rezione del lato sociale del libro.
17. Con il termine “artificio” [artifice] Schaffer rende l’espressione latina
che nella versione italiana è tradotta come ‘perizia tecnica’ (Ndc).
18. S. Shapin, op. cit.
19. Einaudi, Torino, 2006.
20. Si veda la mia recensione in «London Review of Books», 10 maggio, 2007,
che spiega alcune delle ragioni per le quali penso che questo libro sia così im-
portante. È disponibile online su http://www.lrb.co.uk/v29/n09/hack01_.html.
21. Peter W. Milonni, The Quantum Vacuum: An Introduction to Quantum
Electrodynamics, Academic Press, Boston, 1997, p. 104.
198 LA RAGIONE SCIENTIFICA
22. P.C.W. Davies, Superforce, Simon and Schuster, New York, 1985, p. 104.
23. Questa lezione è stata preparata per un workshop di un giorno su
“Science, Technology and Society”. Il professor Ruey-Lin Chen, che mi ha
invitato a questo workshop, mi ha scritto che «alcuni amici negli Sts suggeri-
scono che dovrei chiederle di parlare del modo in cui lei “immagina” la tec-
noscienza dell’Asia dell’Est, alla fine della lezione per la comunità Sts». Ciò che
dico qui a proposito della biotecnologia di Stato in Cina è una versione rima-
neggiata di ciò che ho detto in risposta a questa richiesta.
24. I. Hacking, The Participant Irrealist at Large in the Laboratory, in «Bri-
tish Journal for the Philosophy of Science», vol. 39, n. 3, 1988, pp. 277-294.
25. P. Rabinow, T. Dan-Cohen, A Machine to Make a Future: Biotech Ch-
ronicles, Princeton University Press, Princeton, 2005; P. Rabinow, Pensare le
cose umane, Meltemi, Roma, 2008; P. Rabinow, French DNA: Trouble in Pur-
gatory, Chicago, 1999; e il mio preferito: Fare scienza oggi. PCR: un caso esem-
plare di industria biotecnologica, Feltrinelli, Milano, 1999.
Lezione IV
una cosa? Si dice no a una cosa che non è. Come giudicare ciò che è possibi-
le? Si considera possibile una cosa che è possibile. Come giudicare ciò che
non è possibile? Si considera impossibile una cosa che non è possibile. Ogni
cosa ha la sua verità; ogni cosa ha la sua possibilità. Non c’è nulla che non ab-
bia la sua verità; non c’è nulla che non abbia la sua possibilità» (Ndt).
13. Si veda la nota 13 della Lezione II.
14. B. Russell, op. cit., p. 119.
15. R. Rorty, Hope in Place of Knowledge: The Pragmatics Tradition in Phi-
losophy, Institute of European and American Studies, Academia Sinica, Tai-
pei, 1999.
16. Quarta di copertina dell’edizione paperback, Richard Rorty, Philosophy
as Cultural Politics, Philosophical Papers IV, Cambridge University Press, Cam-
bridge, 2007.
17. Ivi, p. 133.
18. A. Fine, The Natural Ontological Attitude, in The Shaky Game: Einstein,
Realism and the Quantum Theory, University of Chicago Press, Chicago, 1986.
19. I. Hacking, Conoscere e sperimentare, Roma-Bari, Laterza, 1987, p. 4.
20. On Not Being a Pragmatist: Eight Reasons and a Cause, in C. Misak (a
cura di), New Pragmatists, Oxford University Press, Oxford, 2007, pp. 32-49.
21. Alcune delle critiche sono: D. Resnik, Hacking’s Experimental Reali-
sm, in «Canadian Journal of Philosophy», vol. 24, 1994, pp. 395-412; R. Rei-
ner e R. Pierson, Hacking’s Experimental Realism: An Untenable Middle
Ground, in «Philosophy of Science», vol. 62, n. 1, 1995, pp. 60-69 [Per “infe-
renza alla migliore spiegazione” s’intende generalmente una regola d’inferen-
za secondo la quale, tra le varie spiegazioni potenziali di un dato fenomeno,
la migliore di esse è anche quella vera. Due dei più noti argomenti tratti da que-
sta regola sono l’argomento del successo scientifico, secondo il quale la scien-
za ha successo (soprattutto a livello strumentale) perché converge verso la ve-
rità e quello della coincidenza: sarebbe un “accidente cosmico” se gli strumenti
scientifici riuscissero a manipolare così efficacemente alcune entità che in
realtà non esistono. Per un esempio del primo argomento si veda R.N. Boyd,
Scientific Realism and Naturalistic Epistemology, in «PSA 1980», vol. 2, pp.
613-662; per una versione del secondo invece J.C. Smart, Between Science
and Philosophy, Random House, New York, 1968. Cercando di prevenire al-
cune critiche a questo poposito, Hacking aveva già spiegato il suo scetticismo
nei confronti di tutti gli argomenti riconducibili all’inferenza alla migliore spie-
gazione in Conoscere e sperimentare, op. cit., pp. 62-68 (Ndc)].
22. M. Suárez, Experimental Realism Defended: How Inference to the Most
Likely Cause Might be Sound, in S. Hartmann, C. Hoefer, L. Bovens (a cura di),
Nancy Cartwright’s Philosophy of Science, Routledge, London, 2008.
NOTE 201
lofaro, G. Ienna, (a cura di), Il senso della tecnica. Saggi su Bachelard, Escula-
pio Editore, Bologna, 2017.
38. In L’objet de l’histoire des sciences, contenuto in Études d’histoire et de
philosophie des sciences concernat les vivants (Vrin, Paris, 1968), Canguilhem
esplicita con chiarezza che non esiste una storia della scienza declinata al sin-
golare ma una storia delle scienze regionalizzate. In questo senso è possibile
notare una continuità con Auguste Comte.
39. È probabile che Bourdieu sia stato uno dei sostenitori di Hacking per
la sua elezione nel 2000/2001 al Collège de France (insieme a Jacques Bouve-
resse) per la cattedra di “Philosophie et histoire des concepts scientifiques”. In
P. Bourdieu, Il mestiere di scienziato, cit., (testo del suo ultimo corso al Collè-
ge, anch’esso del 2000-2001) l’autore infatti evoca spesso la figura di Hacking:
per il riferimento al concetto di stile si veda Il mestiere di Scienziato, p. 84. Si
noti inoltre che, nel dedicare il suo ultimo corso a Jules Vuillemin (p. 11), Bour-
dieu dice: «Vuillemin si trova in quella tradizione francese di filosofia della
scienza che ha trovato un’incarnazione in Bachelard, Koyré, Canguilhem e che
è portata avanti oggi da alcuni studiosi, tra queste stesse mura», dove il riferi-
mento è chiaramente diretto a Hacking.
40. Si fa qui riferimento principalmente agli studi di J.-L. Fabiani, Y. Gin-
gras, J. Heilbron, É. Brian e altri.
41. Oltre al testo che presentiamo qui (infra, Lezione I, §10), anche nei corsi
al Collège il riferimento a Bourdieu assume una posizione centrale.
42. Infra, Lezione I, §10, p. 52.
43. Cfr. il saggio introduttivo di Vagelli, infra, p. 26.
44. Bourdieu decide di dedicare il suo ultimo corso al Collège al campo
scientifico proprio perché preoccupato dalle tendenze degli studi contempo-
ranei sulla scienza. Da un lato, gli sconvolgimenti del Sokal Affaire richiede-
vano un intervento diretto per riabilitare l’immagine delle scienze sociali in
genere all’interno del campo scientifico. Dall’altro il relativismo estremo pro-
posto da Latour (che parlava da un pulpito interno allo stesso campo accade-
mico francese) otteneva sempre più sostenitori. In tal senso, non escludiamo
che Bourdieu abbia sostenuto la candidatura di Hacking al Collège proprio
in funzione anti-latouriana (anche quest’ultimo avendo tentato più volte di
avvicinarsi a quest’istituzione).
45. Anche J.-C. Passeron, a seguito della lettura dei testi di Crombie e di
Hacking, ha cominciato a utilizzare il concetto di stile. In tal senso, a partire
dagli scritti successivi alla prima edizione di Le Raisonnement Sociologique
del 1991, il sociologo francese ha usato questo termine per connotare il suo
tipo di ricerca sullo spazio argomentativo delle scienze sociali. Queste rifles-
sioni sul concetto di stile vengono elaborate in una serie di testi preparatori
alla ristrutturazione de Le Raisonnement Sociologique per la sua seconda edi-
zione del 2006.
NOTE 205
La ragione scientifica
Foucault, Michel, Les mots et les choses: Une archéologie des scien-
ces humaines, Gallimard, Paris, 1966, (trad. it., Le parole e le cose. Un’ar-
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Ricerca filosofica sulle origini delle idee di probabilità, induzione e infe-
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L. Krüger, L.J. Daston e M. Heidelberger (a cura di), The Probabili-
216 LA RAGIONE SCIENTIFICA
D G
Daguerre, Louis-Jacques-Mandé, 160 Galileo, Galilei, 14-15, 46, 53, 65-66,
Darwin, Charles R., 144, 176 68, 90-91, 96, 106, 108, 115, 117-18,
Daston, Lorraine, 51, 191, 213, 215 126, 173, 189, 193, 205, 213-14, 217
Davidson, Arnold I., 27, 48, 167, 180, Galison, Peter, 51, 123, 179-80, 183,
183, 185-86, 188, 191, 201-02, 207, 191, 193, 197, 213, 215-16, 223
210, 213, 222 Gardner, Martin, 93
Davidson, Donald, 58, 192, 213-14 Garfield, Jay L., 192, 214
Davies, 133, 198, 214 Geber (Abū Mūsa Jābir ibn Ḥayyān), 96
Dennett, Daniel, 44, 190 Gödel, Kurt, 86
Descartes, René, 17-18, 83, 84-86, 93- Goodman, Nelson, 142, 153, 162, 191
94, 186, 195, 208, 215 Gould, Stephen Jay, 76, 193, 215
Dewey, John, 152, 154, 156, 158, 184 Gruender, David, 189, 213, 217
Diderot, Denis, 56, 68 Guo, Shuchun, 191, 195, 212
Drake, Stillman, 65, 126, 193, 214
Dummett, Michael, 142, 151
H
Hadot, Pierre, 132, 147, 199, 217
E Haeckel, Ernst, 144
Einstein, Albert, 20, 112, 125-26, 130, Han, Dian-Jiun, 125
133, 161, 200, 214 Hesse, Hermann, 54, 191, 217
Eisenhart, Churchill, 196 Hintikka, Jaakko, 189, 213, 217
Elwick, James, 191, 214 Hobbes, Thomas, 21, 67-68, 87, 119,
Eraclito, 132-33, 147 126-28, 142, 193, 196-97, 220
Erodoto, 61 Hollis, Martin, 168, 184, 190, 202, 208,
Euclide, 43, 62, 88 215, 223
Holton, Gerald, 42
Humboldt, Wilhelm von, 144, 198,
F 217
Fermat, Pierre de, 75, 92 Hume, David, 59, 73, 189
Fine, Arthur, 153, 200, 214 Husserl, Edmund, 34, 52-53, 66, 83,
Fleck, Ludwik, 47, 53, 168, 170-71, 86, 96, 116-18, 168, 191, 194, 217
190, 202, 214, 222, 224 Hyder, David, 191, 217
Fodor, Jerry, 63, 192, 214
Foucault, Michel, 7-10, 13, 15, 24-26,
35, 44-46, 56, 73, 135, 167, 170, I
172-73, 184-85, 187-88, 190, 193, Iliffe, Robert, 189, 217
203, 205, 207-08, 215, 221-22
Frege, Gottlob F.L., 53
J
James, William, 103, 154, 184
INDICE DEI NOMI 227
P
L Pascal, Blaise, 46, 68-69, 96
Lakatos, Imre, 17, 42 Peirce, Charles S., 13, 69-70, 113-14,
Lambek, Michael, 60-61, 192, 218 116, 154
Latour, Bruno, 21, 87-91, 96, 99, 102, Pickering, Andrew, 162, 191, 196, 205,
119, 121, 123, 126-27, 134, 171, 214, 216, 224
179, 187, 194, 197, 202, 204-05, Pitagora, 50, 75
218, 224 Planck, Max, 8, 20, 33, 187, 201, 205,
Leibniz, Gottfried Wilhelm, 27, 33, 51- 209, 216, 224
52, 83, 84-86, 94, 115, 117, 186, Platone, 33, 38, 53, 75, 83-86, 89-91,
195, 208, 215 99, 101, 140-41, 150
Lewontin, Richard, 76, 193, 215 Popper, Karl, 53, 69, 112-13, 122, 131,
Linneo, Carl, 46, 68, 99 184
Lloyd, Geoffrey E.R., 39, 48, 53, 81-
82, 91, 101, 103, 189, 191-92, 195,
198, 218 R
Lukes, Steven, 168, 184, 190, 202, 208, Rabinow, Paul, 135, 198, 219
215, 223 Roche, Daniel, 191, 216, 223
Rogers, Timoty T., 192, 219
Rorty, Richard, 22, 152-55, 185, 200,
M 208, 219
Magruder, Kerry, 189, 218 Rose, Nikolas, 135
Mannheim, Karl, 47, 168, 202, 224 Rousseau, Jean-Jacques, 56, 68
McClelland, James L., 192-93, 219 Russell, Bertrand, 83-86, 105, 143,
Meadows, Arthur J., 189, 218 149-51, 194, 198, 200, 219
Miller, James G., 144
Milonni, Peter W., 197, 218
S
Schaffer, Simon, 21, 67-68, 87, 89, 91,
N 119-21, 123, 127, 179, 180, 196-97,
Needham, Joseph, 101 205, 220
228 LA RAGIONE SCIENTIFICA
Y
U Yu, Ite Albert, 125, 130
Uzan, Jean-Philippe, 188, 220
V
Van Fraassen, Bas, 71, 99, 122, 150
Vernant, Jean-Pierre, 37, 189
Indice
1. L’occasione 7
2. Sull’idea stessa di stile di ragionamento scientifico 9
3. L’animale matematico 15
4. «The manipulative hand and the attentive eye» 19
5. L’antropologia filosofica della ragione scientifica 22
LA RAGIONE SCIENTIFICA 29
Prefazione 31
Lezione I 33
1. Imparare a imparare 34
2. Stili di pensiero scientifico 37
3. “La tradizione europea” 38
4. Gli stili sono costituiti dai metodi e dagli oggetti 39
5. Un semplice modello per organizzare il passato 40
6. Cristallizzazione 43
7. Rimpianti a proposito della parola “stile” 46
8. Stili auto-certificanti 49
9. Oggetti 50
10. Leibniz e Bourdieu 51
11. Società 53
12. La “Veridicità” di Bernard Williams 55
13. Silenzio a proposito della verità 57
14. Veridicità a proposito del passato 58
15. Matematica 61
16. Avvertenza a proposito di “X” 65
17. Lo stile galileiano (I) 66
18. Lo stile di laboratorio 67
19. Logica 69
20. Tre proposizioni radicali 70
Lezione II
1. Antropologia filosofica 73
2. La matematica come
miscuglio variopinto di tecniche 74
3. Natura 76
4. La storia folcloristica
della scoperta di una potenzialità umana 78
5. La veridicità
a proposito degli oggetti geometrici 80
6. Greci polemici 81
7. La matematica è stata importante
per alcuni (e solo per alcuni) filosofi 83
8. L’ossessione per la matematica 83
9. Due prospettive su uno straordinario
libro sulla matematica greca 86
10. Una parentesi sui “science studies” 88
11. Ritorno sul paradosso a due facce 89
12. Platone nel bene e nel male 89
13. Il mutamento relativo
alle concezioni del dire la verità 91
14. La dimostrazione, non gli assiomi,
né il calcolo 92
15. Due concezioni della dimostrazione 94
16. Una seconda cristallizzazione
all’interno dello stile matematico? 95
17. Gli oggetti matematici 97
18. Allargate i vostri orizzonti! 99
19. Antropologia comparata della ragione 100
20. La matematica cinese antica 102
21. L’origine degli oggetti 104
Lezione III
1. Riepilogo 106
2. L’esplorazione sperimentale
e la modellizzazione ipotetica 108
3. Riepilogo delle tre avvertenze 109
4. Esplorazione e analogia: stili (2) e (3) 110
5. Misurazione 111
6. Il metodo ipotetico-deduttivo 112
7. Ragionamento architettonico 114
8. Lo stile galileiano (II) 115
9. Una nuova «Forma di Vita» 119
10. Un nuovo attore: non una persona,
ma un dispositivo sperimentale 121
11. Un luogo nuovo: il laboratorio 123
12. La creazione di fenomeni 125
13. Quello che Thomas Hobbes vide chiaramente 126
14. Il mutamento concettuale decisivo 129
15. Ontologia: le entità teoriche 130
16. Il vuoto 131
17. Il laboratorio di biotecnologie 133
18. Due tipi di laboratorio? 138
Lezione IV
1. Plurali 140
2. Non “relativismo” contro “nominalismo” 140
3. Universali 143
4. “L’ontologia ricapitola la filologia” 144
5. Contro l’eccesso di relatività linguistica:
Nietzsche e Chuang Tzu 145
6. L’ontologia generale e le scienze speciali 149
7. Il tipo di antirealismo di Dummett 151
8. Un’allusione a Richard Rorty 152
9. L’atteggiamento ontologico
di Arthur Fine 153
10. Che ne è del mio argomento
per il realismo delle entità? 154
11. In che cosa consisteva
l’argomento sperimentale? 155
12. Qual era l’argomento sperimentale? 156
13. Un buon argomento può sempre
avere una conclusione falsa 157
14. Il migliore ma non quello definitivo 159
15. Quando non è possibile interferire 160
16. L’autogiustificazione
delle scienze di laboratorio 162
17. La stabilità delle scienze 163
Note 183
Bibliogragfia 207