Sei sulla pagina 1di 44

Giulio D'Onofrio

Storia del pensiero medievale


Riassuntone

“L'opera di Duns Scoto si inserisce nell'infinita, insistente ripetizione delle dispute, che reitera
senza tregua le medesime autorità, spostando in modo infimo ma paziente il loro senso,
rimodellando senza posa la struttura della loro argomentazione.” (Olivier Boulnois)

Da Storia della filosofia antica di Giuseppe Cambriano


Agostino: vita e opere

Agostino nasce nel 354 a Tagaste, da madre cristiana e padre pagano. Studia a Madura e a
Cartagine, non apprende il greco. Inizialmente legato al manicheismo, religione gnostica dualista,
si reca a Milano e si converte al cristianesimo grazie al vescovo Ambrogio. Scrive dialoghi, viene
battezzato, torna in Africa, scrive testi sulle arti liberali, nel 395 diventa vescovo di Ippona, si
scontra con l'eresia di Donato. Scrive Sulla dottrina cristiana, poi tra il 397 e il 400 le Confessioni,
e l'opera in 15 libri Sulla Trinità. Scrive la Città di Dio in 22 libri, poi si scontra con l'eresia di
Pelagio, contro cui scrive diverse opere. L'anno della sua morte, il 430, i Vandali conquistano
l'Africa del Nord. La sua ultima opera sono le Retractationes, in cui valuta e riformula le
argomentazioni delle sue opere precedenti.

Il problema del male

Le tesi manicheiste sono sbagliate perché sostengono l'esistenza del bene assoluto, Dio,
contrapposto con il principio del male, ma se Dio è bene perfetto come fa a essere contrapposto al
male, di cui dovrebbe subirne l'azione? Dio è l'unico principio, e poiché è bene perfetto dev'essere
incorruttibile, quindi è immateriale. Esistere è meglio che non esistere, quindi la cosa peggiore, il
Male, non può esistere. Il male in sé non esiste, è solo privazione, lontananza dal principio primo
perfetto. Le cose create sono tutte buone, ma in grado minore del Creatore, in quanto possono
essere e non essere. L'azione malvagia corrisponde alla scelta del bene terreno, inferiore al Sommo
Bene, e nel sceglierlo la volontà lo rende un male: la volontà umana è fonte del male e del peccato,
che non danneggia il mondo o Dio, ma solo chi l'ha compiuto. La libertà è data all'uomo per
permettergli di scegliere se agire bene o male. Dio prevede le nostre azioni, ma non come
necessarie in senso assoluto, ma necessitate dalla nostra volontà: l'onniscienza divina non influisce
sulla nostra libertà.

Ricerca della verità e interiorità

Cristo è il vero filosofo, e i veri filosofi sono cristiani. La felicità viene dalla sapienza, e la
sapienza è conseguibile, come dimostrano le indubitabili verità matematiche. Gli scettici si
sbagliano, perché c'è una verità indubitabile che è l'esistenza del sé pensante. La verità non è solo
proprietà delle proposizioni, ma è una e immutabile: è il pensiero di Dio, eterno (perché “è vero
che la verità non c'è più” è falso, se la verità non c'è più). L'anima è il luogo della conoscenza, in
quanto conosce l'intelligibile, l'unica realtà autonoma, grazie all'insegnamento interiore di Cristo.
Il linguaggio è fatto di parole, che sono segni, che non permettono di cogliere ciò che a loro
corrisponde con certezza. L'impossibilità di una conoscenza diretta delle cose è conseguenza del
peccato originale, ma è risolta dalla Bibbia con il suo linguaggio di segni dai molti significati.
Sulla Bibbia si fonda la dottrina cristiana, che per comprendere la parola di Dio può usare tutti gli
strumenti utili della cultura pagana.
Illuminazione e dialogo con Dio

L'anima è una sostanza immortale, indipendente dal corpo, ma non eterna. La verità non proviene
dai sensi né è prodotta dall'uomo, o sarebbe effimera come il corpo: la verità è l'illuminazione
divina che l'anima trova unicamente dentro di sé. Grazie a questa luce interiore l'anima può
recuperare, in un processo di reminescenza, le verità immutabili, le idee e le ragioni delle cose, le
“regole eterne”, criteri di verità. Le idee non esistono autonomamente ma esistono nel Logos, nel
Verbo di Dio come modelli della creazione delle cose. L'illuminazione garantisce verità oggettiva e
la possibilità di comunicazione tra gli uomini. Dio è pura unità, ma è anche essere, verità, pensiero.
La ricerca è la dimensione propria della condizione umana, che non possiede per natura la verità,
ed è guidata da Dio, che è e possiede tale verità. Il pensiero è dialogo tra uomo e Dio (da questa
idea nascono le Confessioni). La Scrittura non è un oggetto esterno da interpretare, ma uno dei poli
del dialogo tra anima e Dio. Non è la filosofia a essere terapia dell'anima, ma Dio guaritore.

Il problema del tempo

Può sembrare che la creazione sia un atto di Dio in un dato momento, ma la volontà di Dio è
tutt'uno con il suo essere, e la sostanza di Dio è immutabile, quindi Dio non può non volere
qualcosa per un po' e poi d'un tratto volerlo. Inoltre la volontà creatrice di Dio è eterna, quindi è
eterno ciò che crea. L'eternità di Dio però trascende il tempo, e non conosce passato e futuro: Dio
esiste fuori dal tempo e con la creazione crea anche il tempo. Il tempo sembra somma di passato,
presente e futuro, ma il passato non è più e il futuro non è ancora, pare quindi che il tempo sia solo
presente. Se il presente fosse sempre attuale sarebbe l'eternità, ma in realtà esiste a patto di
diventare immediatamente passato e non essere ancora futuro. Il tempo sembra esistere in quanto
“tende a non essere”, ma non può essere nulla, dato che lo percepiamo. Gli intervalli di tempo
sono divisibili all'infinito, quindi non c'è un non divisibile che possa essere il presente. Il presente
è un intervallo senza estensione, e esiste solo il trasformarsi del futuro nel passato. Parlando del
passato noi non esponiamo le cose passate, ma le immagini impresse nel nostro animo dalle cose
passate nel loro accadere. La memoria trattiene il passato ed esiste nel presente, ed è quindi il
presente del passato. Il futuro è attesa presente di ciò che sarà e il presente attenzione presente a
ciò che è. Le tre dimensioni temporali non dipendono da nulla di esterno all'anima: il tempo è un
distendersi dell'anima (distensio animi). Quindi se non ci fosse l'anima non ci sarebbe il tempo, ma
l'anima rinvia all'unità divina (di cui è immagine), che comprende nell'eternità presente, passato e
futuro. Dio è garanzia dell'esistenza del tempo.

L'anima e la Trinità

La verità è l'autorivelazione di Dio, e ricercare la verità è anche amare Dio. Amare il prossimo è
amare il Sommo Bene attraverso l'altro. La fede è credere in Dio e quindi amarlo; è pensiero
accompagnato dall'assenso della volontà. Tra fede e comprensione razionale dei suoi contenuti non
c'è contraddizione. Chi pensa non per forza crede, ma chi crede anche pensa: l'intelligenza precede
la fede, e non potremmo avere la seconda senza la prima, perché non potremmo giudicare buona
l'adesione a Dio. Filosofia e teologia sono un tutt'uno e corrispondono alla ricerca nell'anima, che è
divisa in memoria, intelligenza e volontà, alla quale corrisponde la tripartizione di essere (memoria
che la mente ha di sé), sapere (acquisizione dell'intelligenza) e amore (esito del volere). Usare le
cose è metterle a disposizione della volontà, come mezzi per raggiungere altre cose o come fini.
Agostino distingue tra “usare” e “fruire”: il secondo include il primo con l'aggiunta della gioia per
la cosa di cui si fruisce, che diventa il fine stesso della fruizione. L'unità dell'anima nelle sue
articolazioni è l'immagine di Dio, uno e trino (l'uomo è creato a sua immagine). La diversità tra le
persone divine non deriva dal fatto che hanno tre sostanze, né da accidenti, ma dalle relazioni tra
loro. In Dio memoria, intelligenza e volontà non sono separate, ma un'unica sostanza. La creazione
del mondo è opera comune delle tre persone.

La predestinazione e la grazia

Inizialmente Agostino vede nella libera volontà la causa del male, ma poi si convince che la
volontà umana non è libera. L'agire umano è influenzato dall'abitudine, fondata sul ricordo del
piacere. I filosofi pagani sono superbi nel ritenere la ragione capace di garantire la felicità. L'uomo
non è capace di redimersi da sé dal peccato, e ha bisogno della redenzione di Cristo. La chiesa
svolge una funzione di mediazione tra l'uomo e Dio: include le grandi masse, e per questo
Agostino condanna le sette dei donatisti (che credono che nessun peccatore può far parte della
chiesa) e dei pelagiani. Pelagio sosteneva che l'uomo è creato per conseguire la perfezione, e
quindi è libero e in condizione di farlo, senza essere ostacolato dal peccato originale, senza
bisogno della mediazione della chiesa o l'incarnazione di Cristo; quindi ogni cristiano dev'essere
perfetto: il modello ideale è quello del monaco. Agostino ritiene che anche i peccatori
appartengono alla chiesa, e che bisogna vivere con loro per correggerli. Gli atti ecclesiastici (il
battesimo, l'eucaristia, ecc) sono validi indipendentemente da chi li compie, perché è Cristo a dar
loro efficacia. La fede e la salvezza dell'uomo dipendono dalla grazia concessa da Dio. L'umanità è
libera solo di fare il male. Adamo e Eva erano l'intera umanità nel momento del loro peccato,
quindi l'umanità, che da loro discende e da loro ha ricevuto l'anima (tramite l'atto sessuale), è
colpevole; Cristo è privo di peccato perché è nato da una vergine. L'umanità dopo il peccato
necessita di guarigione, e solo la grazia la può concedere. La libertà per Agostino non è la
possibilità di scegliere il bene o il male: Adamo prima del peccato era libero di “poter non
peccare”, l'uomo dopo il peccato ha la libertà di “non poter non peccare”. La vera libertà è “non
poter peccare”, e questo è concesso solo agli eletti dalla grazia divina, che lo sono
indipendentemente da alcun merito conosciuto all'uomo (altrimenti la salvezza non dipenderebbe
da Dio). La volontà che ha ricevuto la grazia possiede l'amore, la caritas, che fa sì che l'anima
preferisca sempre il bene maggiore, che è Dio. Dio prestabilisce chi si salverà e chi no, e non
induce a compiere il male, ma chi è privato della sua misericordia non può non peccare. La
predestinazione non rende inutili gli sforzi umani: nessuno sa il proprio destino.

Le due città e la storia

Nella Città di Dio Agostino sostiene che è Dio che fa nascere e cadere gli imperi. Inizialmente
Agostino ritiene che il potere politico sia al servizio della religione, ma con l'evolversi del crollo
dell'impero la convinzione diventa solo una speranza. Agostino ritiene che la storia della Chiesa
non sia condizionata dalle vicende umane. Le vicende storiche dipendono dall'ordinamento voluto
da Dio, e perciò la storia è piena di significati. La storia ha una durata limitata e si avvicina alla
fine: non c'è eterno ritorno, o non sarebbe possibile essere felici in modo duraturo. La storia ha un
fine ultraterreno che dà senso a tutto quanto precede, ma non è un progresso lineare verso la
salvezza. La storia dell'umanità è la storia della lotta tra il bene e il male, che costituiscono due
regni: storia sacra e storia profana, che coesisteranno fino all'evento finale. La distinzione si
traduce in quella tra città divina, retta dall'amore di Dio e abitata dai giusti, e la città terrena,
dominata dall'amore di sé, abitata dagli ingiusti: angeli ribelli, diavoli e uomini. L'umanità è divisa
in queste due città, e l'appartenenza ad una o l'altra dipende solo dalla grazia divina. Un popolo si
definisce in base a ciò che ama: la città terrena è la società che venera gli dei pagani, ossia i
demoni, e si fonda sulla libido dominandi, il desiderio del potere. I membri della città terrena non
vedono quanto è effimero ciò che essi hanno creato e sconvolgono l'ordine delle cose. L'ordine è
costituito dalle relazioni naturali di dipendenza tra le parti: il rispetto di tali relazioni è
l'obbedienza delle parti inferiori verso quelle superiori. L'autorità di un uomo sugli altri (la
politica) è necessaria dopo il peccato per impedire violenze reciproche. La città di Dio è la chiesa
(vera) di coloro che vivono secondo Dio e sono da lui graziati, non di tutti i membri della chiesa
(visibile). Prima del giudizio finale, gli abitanti delle due città sono mescolati, e i membri della
città di Dio sono stranieri in terra, e non possono realizzare il loro desiderio di pace. La pace è
“tranquillità nell'ordine”, e l'ordine è una “disposizione delle cose simili e dissimili che attribuisce
ad ognuna il suo posto”. L'unico modo per ottenere la pace sulla terra è nella forma della speranza.
La resurrezione finale (e la scomparsa della storia) risolverà ogni conflitto, e realizzerà la pace e la
libertà di non poter peccare.

Introduzione. I principi del pensiero medievale


1.Vera philosophia. La sintesi di fede e ragione

Giovanni Scoto Eriugena sintetizza il rapporto tra fede e ragione secondo i pensatori cristiani:
Pietro è simbolo della fede, mentre Giovanni della ragione e della scienza teologica. Entrambi
corrono verso il sepolcro (la Scrittura divina), ma Giovanni, pur arrivando per primo, fa entrare per
primo Pietro. L'accesso della conoscenza al mistero divino è permesso solo se è già presente la
fede. “Se non credete, non potrete comprendere”. Anche la fede ha però bisogno della
comprensione razionale, o rimane inautentica: la congiunzione di credere e intelligere è una
habitudo tra le due fonti per accedere alla verità. La vera philosophia è per Agostino solo quella
dei cristiani, perché i pagani posseggono solo la ragione. Non ci può essere contraddizione tra fede
e ragione perché la verità è unica ed è Dio. La vera philosophia è vera religio, e viceversa, dice
Giovanni Scoto Eriugena. Assieme producono una notio, ovvero una conoscenza certa e credibile.
Tutta la filosofia medievale si fonda sulla incontestabile certezza della verità della rivelazione, che
può solo essere spiegata e interpretata.

2. Sana Doctrina. L'oro degli egiziani e la moneta del re

La filosofia antica è stata incapace di comprendere la verità, ma il filosofo convertito può prendere
ciò che di utile c'è in essa per organizzare il dato rivelato in una disciplina: questa è l'aspirazione di
tutti i pensatori cristiani medievali. Questo lavoro per i pensatori medievali è stato già fatto dai
padri della chiesa, che hanno creato la christiana doctrina. Il crollo dell'impero romano ha
incoraggiato l'unità dogmatica e dottrinale del cristianesimo. La storia biblica dell'oro degli
egiziani rubato dagli israeliti giustifica l'appropriazione da parte dei cristiani delle teorie
filosofiche pagane. La sana doctrina lo è in quanto è una, universale e indiscutibile. Paolo secondo
la Bibbia tentò di convertire i filosofi ateniesi all'Areopago, ma ebbe successo con uno solo:
Dionigi “l'Areopagita”. Il corpus dionysianum o areopagiticum è una raccolta di testi di teologia
ispirati da Proclo che ha introdotto nel mondo cristiano elementi di filosofia neoplatonica sotto il
falso nome di Dionigi. Per Proclo nell'anima esistono diverse forme di conoscenza corrispondenti
a tre facoltà: il senso, che interpreta i dati provenienti dal mondo esterno, la ragione dialettica o
dianoetica, che lavora su concetti intelligibili per distinzioni, e l'intelletto, o ragione noetica, che
coglie la verità con un'intuizione diretta. I cristiani hanno scelto di far guidare la loro ragione
noetica dalla parola divina, trasmessa dalla Scrittura, che permette loro di accedere alla verità
direttamente. Tutto questo senza svalutare del tutto il sensibile e il molteplice come facevano i
neoplatonici.

3. Sacra eloquia. Parola di Dio e sapere umano

Il magistero ecclesiastico per consolidare una fede comune per tutti ha fissato il principio della
tradizione, secondo il quale sono attendibili le interpretazioni della scrittura dei soli maestri
autorevoli e fissate nelle formule decise dai concili. Ogni progresso speculativo per essere
accettato deve essere concorde con tutti i padri della chiesa. L'unanimitas del mondo cristiano
deve essere fondata sulla Scrittura e sulla tradizione. La teologia del silenzio, espressa dallo
pseudo-Dionigi, sottolinea l'impossibilità per il linguaggio umano di esprimere la verità della
rivelazione. Esiste quindi una complementarità tra una teologia affermativa o catafatica e una
negativa o apofatica, che si confutano a vicenda: per lo pseudo-Dionigi (nel trattato Teologia
mistica) solo l'abbandono mistico può risolvere questa contraddizione. La sana doctrina richiede
un'ascensione dell'anima alle più alte sublimità del vero per poi calarsi sul piano dianoetico della
razionalità per organizzare e comunicare la verità appresa.

4. Divina dispositio. L'ordine del creato: essenze, idee, numeri, intelligenze

Nelle opere Gerarchia Celeste e Gerarchia Ecclesiastica lo Pseudo-Dionigi descrive l'universo


come una distribuzione di gradi dell'esistenza dal creatore: nove schiere angeliche distribuite in tre
triadi trasmettono all'uomo la verità divina, e i vescovi sono i primi a recepirla, trasmettendola al
resto della scala sacerdotale, divisa in due triadi. Ciò avviene tramite tre operazioni: la
purificazione (liberazione dalla materialità), l'illuminazione (induzione conoscitiva che orienta i
gradi inferiori verso la maggiore divinità dei superiori), e la perfezione (attuazione delle
potenzialità creaturali verso l'unione con Dio). La discesa gerarchica del molteplice dall'Uno è
un'altra idea neoplatonica, con l'aggiunta della creazione dal nulla, che assicura la perfezione
dell'Uno. Inoltre la creazione, essendo una libera scelta divina, la rende non necessaria e pertanto
permette il ritorno del creato a Dio. Il male non esiste di per sé, ma solo come riduzione della
perfezione divina nella gerarchia della derivazione dell'essere. In una lettera a Lucillo Seneca
presenta al mondo cristiano la dottrina platonica delle idee, e Porfirio nella sua Isagoge descrive la
struttura metafisica della realtà secondo i platonici. Nel quarto secolo Calcidio traduce in latino e
commenta il Timeo, trasmettendo al mondo latino la cosmologia neoplatonica. Macrobio compone
un commento alla parte finale del De republica Ciceroniano in cui è descritto un sogno sulla
metempsicosi universale e l'ascesa dell'anima ai principi primi. Con i contributi del neoplatonismo
arabo e ebraico si chiude la lista di tutti i testi sul platonismo a cui i pensatori medievali hanno
avuto accesso.

5. Christiana Institutio. Le due biblioteche: litterae humanae e litterae divinae

Il programma filosofico-teologico medievale si fonda sulla comprensione della Rivelazione e della


natura. La prima è basata sul canone biblico e le sue interpretazioni patristiche, la seconda
sull'esercizio delle competenze scientifiche. Il confronto con la rivelazione è comunque necessario
per la veridicità delle scienze. Cassiodoro nel sesto secolo scrive le institutiones: un'esposizione
manualistica della scienza, insitutiones humanarum litterarum, e della rivelazione, insitutiones
divinarum litterarum, e anche Lattanzio fa una cosa del genere. Le discipline profane, fissate nel
periodo romano, si dividono in sette arti liberales, ossia riservate agli uomini liberi da necessità,
disposte in ordine gerarchico. Il primo gruppo (trivio) si divide in grammatica, logica o dialettica e
retorica. Il secondo gruppo (quadrivio), orientato alla descrizione quantitativa del mondo, si divide
in aritmetica, geometria, musica e astronomia. Il de nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano
Capella è un manuale in nove libri che espone le arti liberali in una cornice allegorica: le nozze tra
intelletto divino e intelligenza umana. Nasce la glossa, il commento che chiarisce il testo, che
diventa spesso oggetto di studio e di commento a sua volta. Testi spesso commentati sono quelli
dei Padri, che vengono antologizzati e riassunti. Secondo Agostino i sapienti che hanno inventato
le arti le hanno fissate in base non ad una convenzione ma alle regole della natura stessa.
L'avvicinarsi alla verità è frutto di un'illuminazione, o divina o naturale, ottenuta in base ad
un'elaborazione dei dati empirici. Nascono anche le arti teologiche: tecnica esegetica,
numerologia, retorica sacra, simbologia liturgica. Dal dodicesimo secolo in poi queste tecniche e
procedimenti si uniranno per dar vita alla teologia. Le due biblioteche non sono in contraddizione
ma assieme aspirano alla comprensione del divino e della creazione, sempre se la scienza è
subordinata alla teologia.

6. Regula sermonis e lex pulchritudinis. Dal molteplice all'unità: filosofia del


linguaggio ed estetica
Per Filastrio affermare che prima di Babele tutti parlassero la stessa lingua è eretico perché implica
la mancanza di fede nella chiesa di congiungere in un'unica comunità e possesso della verità tutti i
credenti. La filosofia del linguaggio è finalizzata nel medioevo alla ricongiunzione tra umano e
divino, in quanto è ritenuta capace di comprendere nelle strutture metalinguistiche l'ordine
armonico della realtà stessa. L'unità linguistica è il fondamento sovranazionale della comunità
cristiana, e da qui il divieto di tradurre la bibbia. Le regole delle arti del trivio sono viste come il
riflesso delle leggi della natura poste da Dio. Le parole sono i più efficaci tra i signa che
consentono di comprendere la verità. Il concetto Agostiniano di signum, una cosa che a
prescindere dal suo aspetto e composizione introduce nel pensiero qualcosa d'altro, è applicata ai
sacramenti e al linguaggio in generale, visti come signa della parola divina. Ogni cosa creata da
Dio è un signum della sua opera, e visto che l'uomo è fatto a immagine di Dio, egli è il signum di
Dio. La contemplazione della bellezza di qualcosa è apprezzamento di essa come signum, e quindi
delle idee perfette divine che ne hanno fatto da modelli. Qualcosa è tanto bello quanto assomiglia
alle idee divine, e visto che le leggi dei numeri sono le stesse che ordinano la realtà, ogni artista
deve ispirarsi a essi per creare qualcosa di bello. È bello ciò che è come deve essere secondo la
legge divina universale.

7. Lex vitae, disciplina morum. La filosofia pratica nel medioevo

La giustizia è accordo del singolo con l'armonia del cosmo, e su essa si fonda il comportamento
morale e i sistemi giuridici. Nel corso della propria esistenza, ogni persona compie atti che alla
fine verranno giudicati da Dio, che deciderà della salvezza o dannazione dell'anima. È virtuoso
ogni atto rivolto allo spirituale e all'immateriale, mentre è peccaminosa ogni azione rivolta verso il
corpo e l'appagamento dei desideri terreni. Cristo rappresenta l'ideale di comportamento umano.
La riflessione razionale sui doveri morali è permessa, se ha l'obiettivo di supportarli nella loro
applicazione ai casi individuali. La filosofia morale raggiunge una prima maturazione solo con
Pietro Abelardo nel XII secolo. L'obiettivo che si pone l'etica medievale è raggiungere la
cessazione dei desideri terreni e confortare il credente: l'eudaimonia greca diventa beatitudo, e la
vita morale terrena delineata dai filosofi coincide con la vita eterna concessa da Dio ai beati.
L'etica ha origine dal fondersi dei precetti della Rivelazione, assoluti e universali, e gli
orientamenti etici pagani, più specifici e particolareggiati. La legge generale è che l'anima deve
obbedire alla ragione, e la ragione al comando divino, ma sono presenti anche regole speciali in
base alla funzione che ciascuno ricopre nella società. Le virtù sono disposte in una scalarità
gerarchica di matrice neoplatonica e hanno il compito di condurre il singolo alla realizzazione
della propria vera natura. Le virtù capitali sono prudenza, fortezza, temperanza, giustizia. Il fine
della politica è attuare sulla terra la pace delle regioni celesti. L'obiettivo di tutta l'umanità è la
riunificazione di tutte le volontà nell'aspirazione alla stabilità del sommo bene, L'imperativo
categorico dell'etica medievale è amare Dio negli altri e gli altri in Dio: in questo consiste la carità.

Capitolo 1. Dalla Romanitas alla Christianitas. Tra caduta e rinascita dell'impero


cristiano d'occidente
Parte I. La sapienza dei “fondatori”
1. Boezio e la sapientia

CONCEZIONE DELLA FILOSOFIA- Il programma di lavoro del nobile romano Manlio Anicio
Severino Boezio, fatto giustiziare da Teodorico nel 525, era di recuperare l'intera filosofia antica e
ordinarla sistematicamente, traducendo Platone e Aristotele in latino, dimostrandone la concordia
di fondo. Nella sua Consolatio Philosophiae, la sapientia, o filosofia, viene a visitarlo in carcere. Il
fine della filosofia è elevare l'anima fino a attivare l'intellectus, per poi ridiscendere al livello
razionale e comunicare l'intuizione agli altri.
EPISTEMOLOGIA- La sapienza per Boezio è comprensione della verità delle cose che sono e che
sono immutabili, fondate su sé stesse e eterne: le qualità, le quantità, le forme, le grandezze e le
uguaglianze, le azioni, le disposizioni, i luoghi, i tempi. Sono le forme eterne, conoscibili tramite
le singole discipline del quadrivio: le quantità discrete (in sé con l'aritmetica e in relazione con la
musica) e le quantità continue (immobili con la geometria e mobili con l'astronomia). La logica
assume una particolare importanza: è l'unica parte compiuta del progetto di traduzione delle opere
platoniche, aristoteliche e stoiche, di cui propone una sintesi. Boezio differenzia la teologia
naturale, ovvero la metafisica di Aristotele, dalla fede, come gradi diversi dell'unica sapientia. Per
conoscere è necessario assimilare la capacità conoscitiva all'oggetto conosciuto.
TEOLOGIA/METAFISICA- Boezio introduce nel medioevo il problema degli universali, ovvero
le forme o essenze primordiali dei singoli oggetti. La comprensione della realtà è per Boezio un
atto teologico: l'origine delle cose studiate dalle discipline umane è sempre divina. Nel De
hebdomadibus Boezio si chiede come le sostanze possano essere buone se non lo sono in sé (in
quanto non sono Dio). Le cose finite sono buone in base ad un atto necessitante della volontà di
Dio, la loro causa produttiva. In questo testo distingue tra essere essenziale e predicativo, “l'esse”
in sé, e l'essere comune come esistere di una cosa, il “id quod est”. Il metodo proprio della
teologia corrisponde all'intelletto noetico neoplatonico. I nomi che esprimono una proprietà di Dio,
pur rientrando nelle categorie accidentali, in realtà si riferiscono solo alla sua sostanza sopra-
sostanziale. L'incarnazione è spiegata dalla definizione di natura e persona: natura è la “differenza
che distingue una realtà da un'altra dotata di forma specifica”, quindi Cristo ha due naturae, e
persona è “una sostanza individuale dotata di intelligenza e volontà”, quindi Cristo è una persona.
RAPPORTO FEDE/RAGIONE- La scienza ricerca la verità del divino, quindi dovrà affrontare
l'autorivelazione di Dio. Boezio utilizza strumenti diversi per argomenti diversi, e ritiene la ragione
capace di affrontare i problemi a lei propri senza nessun riferimento alla religione. Negli Opuscula
sacra, dedicati all'interpretazione dei dogmi, struttura intere argomentazioni razionali senza
riferimento alla fede. Solo Dio conosce la verità in modo assoluto, quindi il livello supremo della
conoscenza corrisponde alla fede. La scienza della fede assicura l'adesione della ragione ai misteri
divini con gli strumenti della filosofia.

5. L'oriente greco, dagli anni di Giustiniano al secondo concilio di Nicea


a) Il sesto secolo e Giovanni Filopono

Nell'area greca del Mediterraneo la politica e la cultura sono una continuazione della tradizione
romana. La gerarchia ecclesiastica acquista sempre maggior potere, e l'esclusione
dall'insegnamento dei pagani (ordinato da Giustiniano nel 529) porta alla chiusura delle maggiori
scuole filosofiche antiche. Alessandria nel VI secolo diventa un centro di studi tollerante che
include pagani e cristiani. Lì studia Giovanni il Grammatico detto Filopono (amante della fatica).
Giovanni è autore di commenti ad Aristotele, scritti matematici e teologici, un De aeternitate
mundi e un De opificio mundi. La sua opera è indirizzata ad un'interpretazione cristiana della
filosofia antica, in particolare Aristotele, per spiegare con strumenti filosofici le credenze cristiane,
come la creazione del mondo e la sua eternità. Il mondo è eterno perché se è finito nello spazio
allora è finito anche nel tempo, perché il tempo è la sua vita stessa, che occupa tutto il tempo
possibile. Lo spazio non è un contenitore dei corpi ma una sua proprietà, e i corpi tendono a
tornare alla posizione originaria della creazione. Giovanni identifica l'essenza con la natura, che è
un genere universale, posizione che lo porta a essere accusato di monofisismo da Leonzio di
Bisanzio, un neoplatonico.

Parte II. L'unanimitas carolingia


1.Riforma istituzionale e rinascita culturale e religiosa

Anno 786. Carlo Magno ha conquistato la Sassonia e ha costretto i sassoni a battezzarsi a forza.
Alcuino lo critica affermando che come sistema è crudele e inutile. In seguito Carlo si impegna a
promuovere istituti scolastici per educare religiosi e laici: l'erudizione viene intesa nel periodo
carolingio come il fondamento necessario alla salvezza umana in Cristo. Vengono fondate nelle
nascenti città scuole di studi giuridici e letterari sotto il controllo dei vescovi, e una schola
palatina presso la corte itinerante di Carlo, che accoglie intellettuali da tutta Europa. La
restaurazione dell'impero è connessa alla rinascita della cultura e della religione, fondata sul
recupero della tradizione classica. Vengono scritti manuali e trattazioni enciclopediche del sapere
antico (Cassiodoro, Isidoro, Beda), che diventano lo spunto per l'approfondimento e la riscoperta
dei testi antichi in tutto l'occidente cristiano. È spesso utilizzata la forma letteraria del dialogo tra
maestro e allievo. Si diffondono autori romani come Virgilio, Ovidio, Marziale, Terenzio, Seneca e
Lucrezio, e i testi dei padri della chiesa, Agostino, Ambrogio, Girolamo, Gregorio Magno e Beda,
antologizzati per temi o in forma di commenti continui ai libri sacri. La coesione del mondo
carolingio è assicurata dalla diffusione del latino, dall'unitarietà grafica (la minuscola carolina),
dall'uso di un solo testo biblico, dall'uniformità dei riti, dalla fissazione di un unico calendario.
L'idea dell'unanimitas è la base su cui si fonda il nuovo impero cristiano: sotto la guida
dell'imperatore deve avverarsi la coincidenza del regnum con l'ecclesia, e dev'esserci una
convergenza totale di fides e ratio.

5. Giovanni Scoto Eriugena

Johannes Scotus, irlandese (Eriugena significa nato in Irlanda) è nato nella prima metà del nono
secolo ed è morto verso la fine del secolo. È stato maestro di arti liberali alla scuola di corte di
Carlo il Calvo, e ha tradotto gli scritti dello pseudo-dionigi e importanti testi patristici, essendo
uno dei pochi intellettuali latini dell'epoca a conoscere il greco. Scrive nella maturità il
Perphyseon, un dialogo in cinque libri tra un maestro e un discepolo. Il progetto speculativo di
Giovanni consiste nel comprendere tutte le forme di verità che incontra, in una perfetta
corrispondenza tra competenze scientifiche e fede nella Rivelazione, per proseguire e completare
l'opera dei padri della chiesa. Ogni verità accessibile all'uomo è una manifestazione del divino: una
theophania. La più compiuta di tutte le teofanie è la Rivelazione, quindi il sistema del filosofo
dovrà essere filosofico e teologico allo stesso tempo, cioè un viaggio dell'anima razionale
sostenuto dalle informazioni fornite dal testo sacro. L'intero impianto formale dell'opera di
Giovanni Scoto è quello di un commento alle Scritture.

a) La natura e le sue divisioni

Per comprendere la realtà, bisogna prima individuare una sola parola che possa significare tutte le
cose che sono e che non sono: tale termine è natura. Natura è il genere più esteso, perciò, secondo
Aristotele, non può essere definito collocandolo all'interno di un genere più ampio; è possibile solo
dividerlo. La natura si divide in specie, in base a determinate differenze. Per fare questo bisogna
ricorrere alla rivelazione, e estrarne il concetto di creazione. Si possono distinguere quindi quattro
specie di natura: quella che crea e non è creata (Dio), quella che è creata e non crea (gli individui
molteplici), quella che è creata e che crea (le idee eterne, cause e modelli degli individui), e quella
non creata che non crea (entità necessitata dalla logica, ma ancora non chiara). Nel Periphyseon la
natura è divisa anche in base alle cose che sono e che non sono, in cinque modi diversi. 1- Sono le
cose conoscibili, non sono quelle inconoscibili; 2- sono le cose inferiori nella gerarchia del reale a
quelle che non sono; 3- non sono le cause primordiali mentre sono i loro effetti molteplici; 4- sono
le entità spirituali e non sono quelle corporee; 5- non sono gli uomini dopo il peccato originale,
sono gli uomini prima del peccato e dopo la redenzione. Giovanni spiega queste forme di divisione
in base alla distinzione neoplatonica delle forme di conoscenza. Al senso corporeo compete la
partitio, che divide il tutto nelle parti. La ratio dianoetica è la base della divisio del genere nelle
specie, e si occupa di distingue ciò che è da ciò che non è. L'intelletto intuitivo dà origine ad una
“contemplazione intelligibile della totalità”, il cui oggetto è tutto il pensabile, che consente di
comprendere il concetto di natura.
b) Conoscibilità e predicabilità di Dio

Il primo libro del Periphyseon è dedicato alla prima specie di natura, che crea e non è creata:
l'essere divino. In Dio non c'è nulla di accidentale, quindi non è conoscibile dalla mente umana che
può concepire solo sostanze a cui ineriscono accidenti, non si può inoltre mettere Dio a confronto
con qualcos'altro (teologia negativa). L'unico modo per affermare qualcosa su Dio è usare termini
metaforici (teologia affermativa), oppure correggendo i termini che si riferiscono a Dio con
prefissi superlativi come plusquam e super (teologia superlativa). La perfetta sapienza di Dio è una
non-conoscenza, una divina ignoranza. I termini che siamo costretti a usare per parlare del divino
non sono predicabili di Dio perché ne descrivono la natura ma perché è richiesto dalla relazione tra
oggetto divino e soggetto credente.

c) Conoscibilità delle creature: la triade sostanziale

Nessuna res è conoscibile in sé dalla mente umana, in quanto circondata dagli accidenti
categoriali, ma essa sussiste veramente solo nella mente di Dio, ossia il Verbo, che è il principio di
tutte le cose. Il secondo libro del Periphyseon è dedicato alla specie della natura che è creata e che
crea, ovvero Dio come pensiero creatore e creatura in quanto sostanza degli enti molteplici. In ogni
res creata esiste una triade di componenti metafisiche: sostanza, potenza e atto. Alla conoscenza
umana questa triade appare come una molteplicità di incompiute potenze e atti parziali, ovvero la
specie della natura che è creata e non crea, dietro cui è nascosta la sostanza della res. Dio conosce
la realtà per com'è davvero attraverso le idee, mentre gli effetti molteplici sono la stessa realtà vista
come apparenza fenomenica dalla conoscenza umana. Ogni cosa è il manifestarsi delle idee divine,
che a loro volta sono una manifestazione del pensiero divino, quindi tutto ciò che è, è una teofania.
Il divino è in ogni cosa, ma solo in Dio la molteplicità è risolta in uno.

d) Creazione e processio: l'Esamerone eriugeniano

La storia dell'opera divina è un doppio processo, di discesa dalle cause agli effetti e di ritorno dalla
molteplicità degli effetti alla causalità divina, che è partecipazione della sua forma di conoscenza
della sostanza ideale. Il terzo libro del Periphyseon è dedicato alla descrizione della processio,
seguendo un commento ai sei giorni della creazione (esamerone). Nel primo giorno la luce
simboleggia la discesa delle cause negli effetti. Nel secondo la collocazione del firmamento
rappresenta l'apparire dei quattro elementi. Nel terzo giorno l'emergere della terra descrive la
composizione delle forme con la materia. Nel quarto giorno Giovanni delinea un articolato sistema
astronomico geocentrico. Nel quinto la creazione degli animali descrive l'apparire degli accidenti
che coprono la sostanza. Nel sesto giorno l'uomo viene descritto come creatura centrale del cosmo,
fine dell'opera divina, centro e sintesi dell'universo. L'uomo assomiglia a Dio in quanto la sua
intelligenza è modellata sul verbo di Dio, anche se la conoscenza umana è solo un'immagine
potenziale che l'uomo ha il compito di portare ad atto ricongiungendola a quella divina.

e) Il peccato originale e l'interruzione del processo creativo

Adamo aveva il compito di risalire al suo creatore per ottenere la sua stessa conoscenza perfetta
del mondo, ma ciò era possibile solo lasciandolo libero di scegliere se amare Dio o no: il peccato
originale, a cui è dedicato il quarto libro del Periphyseon, interrompe il progetto divino. La perdita
della collaborazione con Dio avviene con un capovolgimento del corretto ordine delle facoltà
conoscitive umane, che è causa e conseguenza del peccato stesso. Adamo viene interpretato da
Giovanni Scoto come il simbolo dell'intellecus, invitato a contemplare la verità del verbo,
rappresentato dall'albero della vita. Ma Eva, la conoscenza inferiore, si lascia trascinare dai sensi,
di cui è simbolo il serpente, a cogliere il frutto proibito in quanto rappresenta la confusione che è
all'origine della scientia naturale degli uomini. Eva coinvolge anche Adamo condannando l'anima
umana a poter percepire solo le conoscenze particolari e accidentali. Adamo ed Eva sono nudi in
quanto spogliati dalla verità, e vengono ricoperti di pelli, ovvero il corpo, da Dio. La redenzione
avverrà quando l'anima tornerà ad orientare correttamente la propria conoscenza. Fino ad allora
Eva dovrà partorire con dolore le conoscenze particolari, e Adamo dovrà lavorare la terra, ovvero
la sostanza delle cose, coperte dalle spine dell'apparenza.

f) La redenzione del peccato e il reditus

L'incarnazione di Cristo è l'unico modo che permette il riavvicinamento della creazione al verbo,
perché solo il verbo poteva capovolgere l'orientamento errato della conoscenza umana. In quanto
si incarna in un uomo, officina mundi, il verbo riassume in sé l'intero creato. Quando alla fine dei
tempi l'uomo ritornerà in Dio all'autentico ordine della conoscenza avrà luogo la quarta specie di
natura, che non crea e non è creata, a cui è dedicato il quinto libro del Periphyseon. Non creata
perché l'universo sarà tornato alle sue cause in Dio stesso, e non creante perché sarà contenuta
nella propria pienezza e Dio sarà “tutto in tutte le cose”. Con l'uomo l'intera natura ritornerà alle
sue cause e compierà le proprie potenzialità. Anche i peccatori verranno redenti, e se si ostineranno
a rifiutare la grazia verranno puniti dalla loro stessa volontà, restando esclusi dalla perfezione
divina. Gli altri manterranno diversità personali nella beatitudine, in base alle azioni compiute
nella vita terrena: la visione beatificante verrà distribuita in gradi diversi. Pochi prescelti
meritevoli potranno persino contemplare Dio in Dio stesso: essi diverranno Dio compiendo la
deificatio.

g) Oltre la teologia

La theologia nel lessico Eriugeniano è usata come equivalente di Sacra Scrittura, o più di rado
come la forma più elevata di conoscenza filosofica. Nel commento al primo trattato dello pseudo-
dionigi, le Expositiones in Hierarchiam coelestem, Giovanni illustra i gradi di possibile
conoscenza creaturale del divino, di tipo teofanico: lo strumento essenziale è la Scrittura. Il
linguaggio rivelato non è di efficacia univoca; ad un livello più basso la parola divina si affida ai
significati naturali del linguaggio, analizzabile dalla ratio dianoetica, alla cui interpretazione è
dedicato l'intero Periphyseon. La Scrittura si esprime però anche in modo alogico, poetico e
simbolico, in grado di elevare il credente ad altezze mistiche. Ma sono solo le intelligenze
angeliche e i beati, tramite l'intellectus, a cui gli uomini possono accedere solo con enorme
esercizio, a cogliere intuitivamente la verità al di sopra della stessa Rivelazione. L'unico umano ad
aver avuto la possibilità di elevarsi alla visione con cui Dio contempla sé stesso è stato Giovanni
l'evangelista, che ha visto non solo ciò che vedono i santi, ma Dio in sé. Annunciando a tutti questa
sua esperienza Giovanni ha rivelato la possibilità di arrivare un giorno alla stessa conoscenza
teologica di cui ha partecipato per un attimo, che è la stessa di cui godranno coloro che saranno
coinvolti nel reditus specialis.

Capitolo 2. Le contraddizioni dell'età di mezzo, fra antiqui e moderni


Parte I. Platonismo teologico e riforma ecclesiastica nei secoli X e XI
2. Ottimismo cosmico e critica della ragione dopo il Mille
b) Il confine tra arti liberali e teologia

In Italia Settentrionale si sviluppa una tradizione di studi giuridici e retorici nella quale prendono
forma le prime rivendicazioni da parte dei maestri del diritto di svincolare le arti liberali dalla loro
funzione propedeutica alla teologia. Uno di questi maestri è Anselmo di Besate, autore di un'opera
dal titolo Rhetorimachia in cui pretende di praticare la retorica senza sottoporla alla distinzione del
vero dal falso, propria della dialettica. In Francia Adalberone, vescovo di Laon, è spinto dalla
necessità di delimitare le aree di competenza delle arti liberali rispetto alla fede. Nel Carmen ad
Rotbertum regem, un dialogo tra il re di Francia e Adalberone, l'autore descrive le ingiustizie del
mondo umano rispetto alla perfezione dell'universo creato da Dio, ma nella conclusione dell'opera
rivela che gli orrori che ha descritto sono solo un artificio retorico con cui incoraggiare il sovrano a
correggere il mondo delle azioni umane. Le arti liberali devono mettersi al servizio della teologia,
nel rispetto dei dogmi. Nell'ottimismo platonizzante di stampo carolingio si fa strada una critica
alla pretesa della ragione di poter ricostruire le leggi con cui Dio governa la creazione. Nel
monastero di San Gallo il maestro Notkero Labeone testimonia il nascere di una coscienza
epistemologica, che lo porta a definire i limiti delle capacità del pensiero e del linguaggio. Egli
distingue le scienze filosofiche in fisica e etica, che si servono della razionalità argomentativa, e
teologia, che indaga le realtà divine in base alla sola intuizione sovrarazionale.

4. I teologi moderni
b) La disputa sull'eucaristia: Berengario di Tours e Lanfranco di Pavia

Berengario di Tours, maestro di arti liberali, fonda il suo pensiero su un realismo delle essenze,
ossia delle idee divine, per interpretare in modo simbolico-spiritualista l'eucaristia: poiché nel
mondo dei corpi non può esserci trasformazione senza un cambiamento di sostanza, bisogna
negare che questo succeda con il pane e il vino. È vero che il corpo e il sangue di Cristo risorto
sono sull'altare, ma in quanto essenze eterne e invisibili, cioè nella forma più reale possibile per un
filosofo platonico. Berengario è denunciato come negatore della realtà del sacramento da altri due
allievi come lui di Fulberto di Chartres. Per giustificare la sua posizione, Berengario usa il De
corpore et sanguine Domini di Ratramno di Cobie, credendo che sia uno scritto di Giovanni Scoto.
Berengario è denunciato in una serie di concili tra il 1049 e il 1079 ed è costretto a rinnegare la
propria dottrina. Il più importante avversario di Berengario è Lanfranco di Pavia, priore
dell'abbazia di Bec e in seguito vescovo di Canterbury. A testimonianza dello scontro tra i due
abbiamo il De corpore et sanguine Domini di Lanfranco e il Rescriptum contra Lanfrannum di
Berengario. Lanfranco accusa Berengario di aver anteposto la logica alla fede per indagare un
mistero che è tale in quanto non si concilia con la scienza umana. Solo dopo il nascere della fede è
necessario ricorrere alla razionalità, per descrivere non come sia possibile ciò che è raccontato dal
dogma ma cosa significhi. Lanfranco per spiegare cosa accade durante l'eucaristia utilizza la
classificazione aristotelica delle specie in movimento, escludendo che si tratti di generazione-
corruzione, traslazione nello spazio o cambiamento della quantità, non resta che l'alterazione della
realtà naturale. Normalmente questo avviene mediante un variare degli accidenti e un permanere
della sostanza, ma nell'eucaristia per miracolo avviene l'opposto. Questa dottrina viene approvata
dal sinodo del 1079 e imposta poi nel 1215.

c) Pier Damiani

Pier Damiani, promotore della correzione morale del clero, addita la solitudine monastica come
modello ideale di santità. Ha scritto una Vita Romualdi, sermoni, composizioni poetiche, trattati di
dogmatica, ecclesiologia, esegesi, vita eremitica. Ha sempre criticato l'abuso teologico delle arti
liberali, sostenendo che il monaco non dovrebbe mai praticarle: le arti sono utili per leggere la
Scrittura e orientare l'umanità, ma devono tacere di fronte alla divinità. Nel Dominus vobiscum
Damiani rimprovera i suoi monaci per essersi chiesti perché bisogna pronunciare formule
dialogiche nelle preghiere anche quando si è da soli. Non si può introdurre la razionalità in queste
questioni, ma affidarsi alla sancta simplicitas, la stoltezza del credere, accettando le formule
imposte dai testi sacri. Solo allora si può comprendere che il monaco che prega da solo è una
cellula vivente della comunità cristiana e con le formule liturgiche ne esplicita l'appartenenza. Nel
De divina omnipotentia si discute se Dio possa, se lo vuole, cancellare un fatto che si è verificato
in passato. Dio può volere che ciò che ha voluto in passato non sia avvenuto? Ovviamente no: Dio
può tutto tranne il male, perché se Egli lo volesse, non sarebbe male, e non può l'impossibile
perché se egli lo volesse, non sarebbe impossibile, quindi Dio può fare tutto ciò che vuole e non
può fare ciò che non vuole. La logica umana non è commensurabile allo sguardo compiuto di tutta
la realtà con cui Dio osserva il creato, quindi le sue domande sulla divina onnipotenza non possono
essere formulate. L'impossibilità per l'intelletto umano di misurarsi con l'onnipotenza divina è il
suo stesso principio regolativo: l'ordo verborum può solo tentare di avvicinarsi alla verità
irraggiungibile dell'ordo rerum e dell'ordo idearum che ne è causa.

e) I moderni contro gli antiqui: Roscellino da Compiègne

Roscellino da Compiègne porta al suo apice la demolizione del platonismo come fondamento della
filosofia e della teologia. Di lui ci resta solo un'epistola ad Abelardo, e per il resto dobbiamo
accontentarci degli scritti dei suoi avversari. Secondo Anselmo Roscellino ha sostenuto una
concezione puramente vocale delle sostanze universali, che considera i generi e le specie come
suoni della bocca, un nominalismo esteso anche a tutti gli insegnamenti delle arti. Anselmo in
questa idea vede l'impossibilità per il pensiero di corrispondere oggettivamente alla realtà,
riducendo ogni forma di sapere ad un'organizzazione arbitraria dei dati dell'esperienza. Da questo
deriva l'impossibilità di comprendere le formule della dottrina cristiana come la trinità o la doppia
natura di Cristo. L'errore condannato da Anselmo in un concilio del 1090 è l'aver preteso che le
persone divine non sono una sola res, altrimenti non svolgerebbero operazioni diverse, ma tre res
diverse (triteismo). Roscellino viene accusato da Anselmo di far parte dei dialectici moderni, che
sono quei teologi e ecclesistici impegnati nella riforma morale della chiesa, sostenitori di una
posizione asistematica e anti platonica, come Pier Damiani. Essi vedono la scienza come un mezzo
di registrazione di ciò che non è comprensibile con l'esperienza. Gli antiqui fondano la
collaborazione tra ragione e fede sul vincolo tra logica e ontologia stabilito da Dio con la
creazione, mentre i moderni difendono l'integrità della fede dalle prevaricazioni della logica
platonizzante e sostengono una separazione delle corrispondenze tra nomina e res. Roscellino non
ha tentato di imporre le regole delle arti alle verità di fede, ma ha combattuto ogni commistione di
ragione e fede. Roscellino è a un tempo maestro di arti liberali e un teologo avverso
all'imposizione di schemi mentali alla volontà di Dio. La libera onnipotenza divina è l'unica
spiegazione dei misteri della fede: la mente umana è incapace di giudicare i misteri teologici se
non con formule puramente funzionali e intercambiabili.

Parte II: Anselmo d'Aosta

Anno 1076. Lanfranco di Pavia, arcivescovo di Canterbury, riceve da Anselmo uno scritto sulla
natura di Dio, il Modello di meditazione sulle ragioni della fede. Le dimostrazioni di questo
scritto, logicamente concatenate l'una con l'altra, non presentano nessun riferimento alle Scritture o
ai Padri, tuttavia conducono a esiti concordanti con la catechesi cristiana. Davanti alla possibilità
di distruggerlo, Lanfranco accetta l'opuscolo, cambiandone il nome in Monologion, ossia
“riflessione”. Un secondo opuscolo intitolato La fede in cerca di intelligenza diventa il Proslogion,
ovvero “colloquio” (dell'anima con Dio). Il progetto Anselmiano è di condurre la mente a una
sistemazione logica delle verità teologiche senza farle dipendere dalla fede, a partire da premesse
estratte dalla Rivelazione presupponendo la verità della fede.

1) La verità come rectitudo dell'intelligenza alla fede

Anselmo è nato ad Aosta verso il 1033, è divenuto abate nel 1078 e arcivescovo di Canterbury dal
1094 fino alla morte nel 1109. Vero è per Anselmo tutto ciò che gode di rectitudo formale, ossia
che è nel modo in cui è corretto che sia secondo la volontà divina. Un termine o una proposizione
sono veri quando esprimono un accordo tra il pensiero e la res corrispondente. La dialettica è la
scienza della rectitudo e garantisce la corrispondenza tra la res, l'intellectus, il pensiero interiore
che la rappresenta, e la vox, l'espressione vocale che la denota. La ragione umana è limitata, e
agisce all'interno di un sistema di conoscenze finito, non può perciò rappresentare in un intellectus
la verità della res corrispondente alla parola “Deus”: può farlo solo la mente divina, ovvero il
verbo. Per questo la ragione deve sottomettersi alla fede nella parola rivelata; ma una volta
compiuto l'atto di fede la ragione può comprendere l'oggetto del suo credere, potendo ora
riconoscere la rectitudo dei suoi percorsi argomentativi su Dio, ossia la corrispondenza tra essi e la
verità comunicata dalla fede. L'intelligere non sarebbe possibile senza la fede, però è qualcosa di
ulteriore a essa che si somma al dono divino della verità acquisito per mezzo del credere. Il
metodo anselmiano della sola ratio consiste nel comprendere i contenuti della fede mettendola tra
parentesi, per aggiungere qualcosa di più che non è mai in contraddizione. Anselmo concilia così
l'assolutezza della fede con la necessità della ragione.

2. Il Monologion, modello di meditazione sulla verità di Dio

L'obiettivo di entrambi gli opuscoli è comprendere la rectitudo della parola Deus, e da essa passare
a comprendere le verità particolari in esso incluse. Anche ignorando la fede, un'intelligenza può
arrivare a comprendere con la sola ragione ciò che la fede intende quando parla di Dio: la causa
unica di tutte le sostanze. Esistono vari percorsi argomentativi che la mente può seguire per
arrivare a capire questo. 1. In tutte le cose che desideriamo non desideriamo le cose in sé ma il loro
essere buone. Cerchiamo quindi ciò che le fa essere buone, che è il bene. Se lo cerchiamo e se
rende le altre cose buone è perché esiste, e dobbiamo riconoscere che solo esso è perfettamente
buono: è cioè il bene in sé. Questo sommo bene è Dio. 2. Lo stesso ragionamento (di matrice
platonica) si può fare con la grandezza, sostituendola alla bontà di quello precedente. Queste due
argomentazioni non partono da ciò che è certo per arrivare a ciò che è necessario, ma partono dalla
conoscenza del finito per capire che questa conoscenza non sarebbe possibile se non avesse origine
in una verità superiore. 3. Ogni cosa conosciuta è qualcosa che è. L'essere è predicabile come tale
o perché qualcosa lo fa essere, o perché nulla lo fa essere. Ciò che è determinato nella propria
essenza lo è da ciò che non è determinato da altro, ovvero l'essere in sé, cioè Dio. 4. Nella natura si
possono osservare diversi gradi di dignità o perfezione, ma questa gerarchia è pensabile solo in
quanto c'è qualcosa in cima alla gerarchia che interrompe la sequenza. Il grado massimo di
perfezione è la perfezione in sé, e questa è Dio. Da questi ragionamenti si possono comprendere
gli attributi divini, ossia perché è perfetto, increato, eterno, ecc. La creazione dal nulla è
impossibile per la ragione, perché ogni parola con un significato deve corrispondere a qualcosa.
Quindi il nulla è qualcosa, quindi le cose erano in qualcosa prima di essere qualcosa. Ma prima
delle cose c'era solo Dio, quindi le cose erano in Dio senza essere Dio. Prima di esistere le cose
erano nel pensiero o verbo divino. Il verbo è la Parola con cui Dio crea, quindi è generato dal
Padre, ma le due parti sono unite da un amore perfetto perché l'amante nell'amare l'amato ama sé
stesso: questo amore è lo spirito santo che procede dal Padre e dal Figlio.

3. Il proslogion, dalla fede all'intelligenza della verità di Dio

L'unum argumentum per Anselmo è l'argomentazione definitiva, unica e autosufficiente,


dell'esistenza di Dio, che non richiede altri elementi al di fuori di sé stesso per essere provato.
L'immediatezza di un argumentum nasce dal suo porsi a un livello primordiale dell'intelligenza,
per cui inventarne uno è impossibile se non con un'intuizione noetica. In questo argomento la
definizione di Dio, da cui si dimostra la sua esistenza, viene suggerita dalla fede, quindi non è
“ontologica” o veramente autosufficiente. L'argomento è questo: se, come è creduto dai cristiani,
Dio è ciò di cui non può essere pensato nulla di maggiore, allora esiste almeno nell'intelletto,
perché è pensabile. Ma se esiste non può esistere solo nell'intelletto, o non sarebbe ciò di cui non si
può pensare nulla di maggiore, perché lo si potrebbe immaginare come esistente nella realtà.
Quindi Dio esiste nella realtà. L'insipiens che “in cuor suo” afferma che Dio non esiste, lo può fare
solo in quanto è non sapiente, ossia non razionale. Un monaco di nome Gaunilone ha scritto un
libretto intitolato Liber pro insipiente per confutare questo argomento, non per negare l'esistenza di
Dio ma per dimostrare l'impossibilità di sfuggire al dubbio. Gaunilone sosteneva l'impossibilità di
sovrapporre l'essere nell'intelletto e nella realtà. Dio in sé non potrà mai essere oggetto della
intellezione umana, quindi anche la definizione usata da Anselmo è un'astrazione concettuale
escogitata dalla mente. Anselmo replica che il suo era un invito a risalire alla più elevata verità
intuitiva la cui comprensione comporta la necessaria realtà di ciò che esprime: l'esistenza di ciò di
cui non è possibile che sia pensato nulla di maggiore è necessitata dalla sua stessa pensabilità.
Anselmo, rimuovendo ogni imperfezione dal quo maius cogitari nequit, viene a definire le
proprietà di Dio, che è necessario e allo stesso tempo incomprensibile.

4. Il sistema della verità cristiana

Le opere della maturità di Anselmo sono finalizzate ad un'analisi dei temi della fede successivi alla
dimostrazione dell'esistenza di Dio. Questa esposizione sistematica è affidata di nuovo al
presupposto della verità teologica del linguaggio. Nell'epistola de incarnazione verbi Anselmo
critica l'errore di Roscellino e esprime le sue preoccupazioni sulle conseguenze teologiche di tale
errore (vedi sopra). Nel De Grammatico Anselmo spiega che tutti i termini logici significanti
possono indicare sia realtà individuali che universali e che spetta alla logica della proposizione
indicare a che livello si collochi il significato di ciascun termine. La ragione deve usare elementi
logicamente fondati la cui rectitudo sia stata verificata: tali principi eterni della verità, che
Anselmo chiama necessariae rationes, determinano la verità delle cose rinviando a quella
immutabile nel verbo. L'acquisizione della verità teologica consiste nel trovare, dopo l'esistenza di
Dio, altre necessariae rationes. Nel De casu diaboli Anselmo afferma che il male non esiste
perché non è pensabile: se il male è ciò di cui si può sempre pensare qualcosa di migliore, è una
definizione priva di rectitudo, ovvero non può corrispondere alcuna realtà voluta da Dio. Il “male”
o il “nulla” sono quindi solo negazioni del positivo corrispondente. Il male non è una res e quindi
non può essere causa di niente, mentre il peccato è l'attuarsi della non rectitudo della volontà
umana, che è libera di non essere ciò che Dio vuole che sia. Le creature sono libere perché nel
pensiero divino l'ordine è eterno e necessario, mentre nella creazione esso è in divenire, e le
potenzialità creaturali possono attualizzarsi o no. La libertà è la possibilità di realizzare o no le
perfezioni previste dalle necessariae rationes delle creature razionali: anche questa è rettitudine.

5. Il Cur Deus homo, dalla fede all'intelligenza del mysterium di Cristo

Dio è libero, di una libertà che è causa di sé stessa, perché Dio necessariamente vuole mantenere la
rectitudo che è adesione alla sua volontà. Nel Cur Deus homo (perché Dio si è fatto uomo?)
Anselmo si chiede quali ragioni abbiano portato Dio a incarnarsi per salvare l'umanità. Anche in
quest'opera la verità rivelata viene messa tra parentesi, lasciando che la pura ragione indaghi il
mistero. L'uomo si è allontanato da Dio per propria libera scelta, non realizzando la propria
rectitudo; ma questa separazione non può essere permanente, in quanto Dio è il bene, e l'attuazione
universale del bene è l'attuazione della sua volontà. Per risolvere il peccato, era necessario che il
perdono fosse chiesto da una natura contaminata dal peccato: un uomo. Ma nessun uomo avrebbe
potuto ottenere il perdono per una colpa commessa da una volontà opposta a quella divina.
Soltanto un uomo che fosse anche Dio poteva chiedere perdono per l'umanità: così l'incarnazione
di Cristo è stata necessaria. Nonostante questo, la redenzione è stata una libera scelta di Dio,
perché la libertà di Dio è la realizzazione necessaria della sua volontà. Il bene non è scelto da Dio
perché è bene, ma è bene perché è scelto da Dio, e tutto ciò che è necessario è tale perché Dio lo
vuole. Il salvatore non poteva essere un angelo perché questo avrebbe comportato un
assoggettamento dell'umanità a lui e non a Dio, la servitù al quale è l'unica vera libertà.

Capitolo 3. Il secolo delle scuole


Parte I. Nuove tendenze e centri di studio in Francia
2. Pietro Abelardo

La prima versione del Tractatus de unitate et de trinitate divina viene divulgato con il nome di
Theologia. Inizialmente questo titolo indicava il nome proprio di uno scritto specifico, con il
significato di “discorso su Dio”, ma Abelardo lo carica di un significato nuovo. Il termine, prima
usato raramente, viene unito a Christiana e si diffonde, entrando nella storia per designare la
comprensione intellettuale della verità rivelata da Dio ai profeti. La theologia christiana si pone
come la possibilità di conoscere la verità come la vede Dio. Abelardo riprende i principi
gnoseologici del neoplatonismo: non è la conoscenza ad adeguarsi all'oggetto, ma è l'oggetto che si
fa conoscere in modi diversi in base alle diverse facoltà conoscitive del soggetto; la teologia nasce
perciò dall'illuminazione divina. La conoscenza dei filosofi si limita ad una comprensione
creaturale del divino, cioè non falsa ma non vera, perché propria di una mente incapace di cogliere
del tutto l'oggetto. L'illuminazione non è abbastanza però, e richiede un impegno dell'intelligenza,
l'indagine dialettica, per comprendere il dono divino. Riprendendo la definizione boeziana di
argumentum, una ratio che produce la fides in qualcosa che è dubbio, Abelardo sostiene che la
ricerca filosofica deve essere un argumentum fidei, un'attività razionale che genera l'assenso
dell'intelligenza alla fede.

a) Gli universali e la verità del conoscere

Pietro Abelardo è nato verso il 1079 a Le Pallet. Studia a Parigi presso Guglielmo di Champeaux,
con cui entra in conflitto, finendo per essere allontanato e per dedicarsi all'insegnamento della
dialettica. Abelardo interviene nel dibattito sulla questione degli universali, ovvero: quale armonia
tra ordo rerum e ordo verborum consente di considerare reali i generi e le specie a garanzia delle
affermazioni scientifiche in cui sono implicate? Porfirio nell'Isagoge pone tre domande: gli
universali esistono? Se esistono, sono separati dagli individui? Se lo sono, sono conoscibili a
prescindere dagli individui? Abelardo critica sia Roscellino, che oltre a negare l'esistenza dei
generi mette a rischio la corrispondenza al reale della logica, sia Guglielmo di Champeaux,
sostenitore di una posizione ingenua del platonismo. Guglielmo considera l'universale come il
sostrato ontologico degli individui, quindi come una sostanza reale di ordine spirituale non
soggetta agli accidenti. La specie è sostrato comune degli individui e il genere lo è della specie.
Guglielmo ha prima sostenuto che l'universale sia un elemento materiale incorporeo dell'individuo.
Poi ha descritto l'universale come res caratterizzata da indifferentia rispetto agli individui che
risultano dalle loro differentiae. Abelardo osserva che una res non può essere predicata di altre res,
e la fisica deve utilizzare le regole della dialettica per determinare come il linguaggio esprime la
verità dei predicati che descrivono l'essere della res. Le regole e i predicati sono universali logici, e
quindi non res. Però, in disaccordo con i nominalisti, la dialettica è scienza di qualcosa di reale:
perché se è scientia veritatis deve fondarsi sulla realtà di qualcosa che non muta. L'universale
continua ad essere reale anche se non esistono più gli individui, dunque è reale, ma non in modo
particolare come gli individui. L'universale è la realtà della relazione tra soggetto conoscente e
oggetto conosciuto, ovvero la verità di una rappresentazione interiore della realtà. La logica è
scientia intellectum, ossia conoscenza che consente di cogliere con il pensiero nelle res le formae
in cui si risolvono il loro modo di essere e le loro relazioni. Per essere veri gli universali devono
riflettere la realtà delle cose, ovvero le leggi che governano il creato, quindi la verità ultima degli
universali è quella delle idee divine, modelli della creazione esistenti nel verbo.

b) Veri logici e veri philosphi

Pietro Abelardo riflette sul tema della trinità in tre pubblicazioni della sua theologia: Theologia
Summi Boni, condannata in un sinodo a Soissons, la Theologia Christiana, e la matura Theologia
Scholarium, condannata in un concilio a Sens nel 1140. In questi anni si svolge la storia d'amore
con Eloisa, l'evirazione di Abelardo, il ritiro monastico. L'uomo può parlare di Dio grazie alla
legittimazione della logica, che, essendo una scientia, ha a che fare con la veritas, proprio come la
fede. E due verità non sono mai contraddittorie, come non lo sono due scientie veridiche. L'uso
della dialettica in teologia è indispensabile. Abelardo è stato dopo Boezio il secondo fondatore
della logica medievale, e il vero fondatore dell'etica medievale. Egli è stato il primo a fissare
nell'interiorità della coscienza, e non nel vangelo, i principi per assicurare l'adesione alla legge
divina. Nel testo Ethica ovvero Scito teipsum, Abelardo sostiene che il peccato è il porre in se
stesso il fine delle proprie azioni invece che Dio: il principio dell'agire giusto dell'uomo non sta
nell'azione, ma nell'intenzione che la orienta. Uccidere è un male, ma solo farlo intenzionalmente è
un peccato, o avere intenzione di farlo. Nessuna comprensione della verità può non orientarsi
verso l'unica verità in sé, che è la conoscenza che Dio ha di sé, che è il logos primordiale: perciò i
veri logici sono veri philosophi e veri christiani, perché seguaci del logos come verità divina. La
logica, in quanto scienza della verità, ha il compito di indagare la Scrittura, che produce nella
mente un intellectus; dato che l'oggetto che le parole della Bibbia significano è incomprensibile
per la mente umana, la Scrittura dovrà usare metafore. Nel Sic et non Pietro Abelardo evidenzia
una serie di contraddizioni tra le tesi dei Padri su vari argomenti teologici. Lo scopo è invitare il
lettore a superare il contrasto, trovando il vero significato delle tesi in apparente contraddizione,
seguendo delle regole: prima dovrà confermare la correttezza filologica dei testi, poi considerare la
possibile evoluzione del pensiero di un autore, dell'uso dei termini in base al pubblico a cui si
rivolge, verificare la possibile polisemia del linguaggio. Se tutto questo non serve, bisognerà
applicare la logica per rimediare agli errori dei padri.

c) La logica della Trinità

Il mistero della trinità è spiegabile con la sola ragione. I filosofi antichi hanno distinto in Dio la
potenza, la sapienza e la bontà, e Abelardo riprende questa concezione applicandola alla trinità. Le
determinazioni trinitarie non sono indicative di relazioni ma di proprietà della sostanza: potenza,
sapienza e bontà sono tre voces distinte della stessa sostanza. Non sono un'unica definizione di
essa, ma ciascuna corrisponde a un diverso status (o modo di essere) dell'unica sostanza divina:
ciascuna ha una definizione propria e ciascuna ne esprime l'unitaria realtà. Abelardo sposta il
problema dalla logica del termine alla logica proposizionale; Dio è potenza, Dio è sapienza, Dio è
bontà, e queste sono proprietà della sostanza e non delle persone divine. I tre diversi status sono
produttori di tre intellectus, ma ogni status non è una res, quindi non c'è divisione interna a Dio.
Per spiegare questo concetto Abelardo usa la metafora del sigillo di bronzo: nel sigillo ci sono tre
status, l'essere bronzo, l'essere capace di sigillare e l'essere sigillante in atto, e questi tre status
producono tre intellectus diversi. Abelardo conferma la correttezza dell'introduzione del filioque
dei latini rispetto ai greci, che lui chiama per Filium. Riprendendo i neoplatonici, afferma che
dall'Uno procede per la mediazione della Mente o nous l'efficacia dvina, distribuita nella materia,
l'anima del mondo.

3. Le scuole di Parigi
b) La scuola di San Vittore

La scuola di San Vittore viene fondata a Parigi nel 1108 da Guglielmo di Champeaux, aperta anche
ad ecclesiastici esterni, prospettando una sintesi tra competenze profane, la philosophia del clero
secolare e lo spiritualismo dei monaci. Ugo di San Vittore, primo successore di Guglielmo nella
direzione della scuola, scrive il Didascalicon, de arte legendi, un repertorio di elementi delle
istitutiones divinarum e humanarum litterarum. Nella sua educazione intellettuale il chierico deve
apprendere tutto perché nulla è superfluo, sostiene Ugo. Con l'espulsione dal paradiso di Adamo
l'uomo perde i tre doni di Dio che avrebbero dovuto permettergli di raggiungere la perfezione:
l'essere stato creato a immagine di Dio, l'immortalità e la conoscenza del bene. Per recuperare i
suoi doni, Dio ha dato all'uomo la filosofia: theoretica per la conoscenza, la pratica per ottenere il
bene, la mechanica per rimediare alle infermità e la logica, il cui studio sta alla base della
formazione del sapiente, come metodologia per acquisire le altre forme di conoscenza. Le scienze
profane vengono considerate propedeutiche alla comprensione della verità divina: le cose studiate
devono diventare signa, indicatori delle realtà invisibili. Per fare questo bisogna applicare la forma
più alta di filosofia teoretica: la theologia mondana, e affidarsi all'iniziativa rivelatrice di Dio,
ovvero la theologia divina, che si manifesta nella Scrittura. Assieme le due theologiae generano la
fede, che permette di vedere ciò che dopo il peccato è divenuto invisibile. L'uomo è la prima
manifestazione del divino, quindi la prima forma di teologia naturale è l'autocoscienza. La
Scrittura è studiata con gli strumenti delle arti liberali: il trivio per comprendere il senso letterale,
storico e argomentativo, il quadrivio per avvicinarsi al senso simbolico, allegorico, tropologico e
mistico. L'inglese Andrea di San Vittore è convinto di poter accettare numerose interpretazioni
della Scrittura, anche relative allo stesso piano di lettura, anche per superare le apparenti
contraddizioni tra i testi dei Padri. Allievo di Ugo, Riccardo di San Vittore riprende la concezione
del maestro della scala gerarchica delle scienze, privilegiando la lettura allegorico-spirituale e
simbolica della Scrittura. Nel de Trinitate Riccardo usa argomentazioni di stampo anselmiano per
imporre alla ragione di ammettere l'esistenza di Dio, da cui deriva la spiegazione della trinità. Se
Dio esiste bisogna attribuirgli ciò che c'è di meglio nelle creature, che è l'amore, ma amare è amare
altro in quanto sé stesso, perciò in Dio c'è una trinità di persone, due che si amano e una che
giustifica l'amore con cui Dio ama ciò che da Lui è derivato quanto sé stesso. Nelle opere di
teologia mistica Beniamin maior e Beniamin minor Riccardo descrive il processo che porta l'anima
a ascendere alla contemplazione del divino. Nella prima l'anima attraversa le fasi di
immaginazione, ragione e intelligenza, propedeutici alla visione intellettuale, mentre nella seconda
interpreta i dodici figli di Giacobbe come simboli di virtù; in questo testo sostiene che la capacità
di comprendere viene meno nel momento dell'accesso al divino. Acardo di San Vittore, autore di
un De trinitate e di un De discretione animae, spiritus et mentis, divide le potenze della sostanza
interiore umana (anima, spirito e mente), per assicurarne la semplicità pure nelle diverse funzioni.
Goffredo di San Vittore nel suo Fons Philosophiae e nel Mircrocosmos presenta l'uomo come un
universo in miniatura che riassume in sé le migliori potenzialità dell'universo; celebra l'armonia
psico-fisica e la potenza delle virtù naturali, etiche e intellettuali.

4. Gilberto di Poitiers
a) Un commento dialettico alla teologia boeziana

Gilberto di Poitiers è nato a Poitiers nel 1080. Studia a Laon e Chartres, dove rimane come
magister per più di un decennio, insegna a Parigi e poi torna come vescovo a Poitiers. Nel 1148 in
un concilio a Reims presieduto dal papa gli viene imposto di ritrattare quattro proposizioni
eretiche. Nel suo commento agli opuscula sacra di Boezio Gilberto sostiene che la teologia tenta
di rendere intelligibili gli enigmi del divino, per quanto la ragione deve affidarsi al linguaggio
scritturale e raggiungerà solo risultati probabili. Il divino è in sé indicibile e chi lo indaga dovrà
riconoscere l'impossibilità di ottenere certezze al riguardo. Gilberto commenta la frase di Boezio
che descrive la trinità come una “quaestio lungamente dibattuta” spiegando che si ha una quaestio
quando bisogna risolvere una contradictio tra due tesi che sembrano entrambe vere, ma una non lo
è. La verifica dell'errore è affidata ad una distinctio che evidenzia l'appartenenza delle due tesi a
diversi ambiti semantici (loci). La tesi che tra le due corrisponde al contesto in cui sono state
formulate è quella vera. Questo sistema può essere applicato anche a quaestiones suscitate da un
testo scritturale o patristico.

b) Il metodo della transumptio teologica

Le formule dialettiche, una volta applicate alla teologia, subiscono mutamenti: i termini logici
tendono ad assumere una valenza specifica quando vengono adattati al sapere teologico,
diventando inappropriati. Il teologo deve operare una distinctio tra il valore normale di un termine
e il suo valore teologico. Secondo Gilberto, Boezio divide la filosofia teoretica in tre scienze:
fisica, che studia la realtà naturale, matematica, che si occupa delle forme immutabili dei corpi non
separate, e teologia, che studia l'unica forma immutabile separata, Dio. La fisica usa la
rationabiliter, cioè definizioni, divisioni e argomentazioni, la matematica usa la disciplinaliter,
mentre la teologia usa la intellectualibiter, ossia l'intuizione contemplativa. Spesso però la teologia
deve usare gli strumenti delle scienze inferiori, sottoponendoli ad un'alterazione (transumptio)
della loro funzionalità semantica. Non applicando la transumptio si cade nell'errore degli eretici,
che hanno usato la ragione (adatta a indagare la natura) per comprendere i misteri della fede. Da
qui la critica che Gilberto ha ricevuto dai teologi ispirati da Anselmo, che considerano il
linguaggio teologico univoco rispetto al linguaggio comune, in quanto significativo della verità
che esprime.

c) La realtà del singolare e la composizione ontologica

Gilberto interviene nella disputa sugli universali, considerando l'universale non come una modalità
di conoscenza del soggetto, ma come un modo di essere di qualcosa di reale, collocato a metà tra
creazione e Dio. Gilberto indica una diversa forma di sussistenza propria dell'oggetto di ciascuna
scienza, dell'individuo, dell'universale e del divino, per poi applicare un procedimento logico
adeguato per studiarli. Gli universali esistono, e poiché tutto ciò che esiste è singolare, anche gli
universali e Dio sono realtà singolari. Al vertice delle sostanze c'è la sostanza universale, il
dividuum (divisibile o partecipabile) e sotto la sostanza individuale e indivisibile, o individuum,
che se è razionale si chiama persona. L'individuum non è conforme con altro, esiste in modo
determinato come risultato dell'incontro tra una materia e una forma: è il “id quod est” di Boezio,
ciò che esiste essendo ciò che è. Quello che lo determina è quella forma che orienta la materia
dell'individuo: il “quo est”, l'universale conforme a tutti gli individui da esso formati. Il quo est è
singolare pur essendo partecipato da diversi individui, come spiega Gilberto con la dottrina delle
formae nativae, modelli incorruttibili dell'essere distinti dalle idee divine e intermedi tra esse e gli
individui. Le idee divine nel verbo (sincerae substantiae) sono gli universali eterni e
corrispondono alla volontà di Dio, mentre le formae nativae sono singole realtà universali, modelli
che riproducono altri modelli: sono l'essere delle realtà inferiori che ne partecipano. La fisica
studia le forme degli individui corporei in composizione con la materia, la matematica studia le
formae nativae in quanto universali, la teologia trascende le forme create e studia l'essere semplice
di Dio e delle forme nel suo verbo.

d) La distinctio trinitaria

Dio è una singolarità, un id quod est, ma assolutamente semplice, cioè identica al quo est che lo fa
essere Dio. “Deus est Deus deitate” ovvero Dio è Dio perché l'essere Dio, la “deitas, qua Deus
est”, lo fa esser Dio. L'introduzione della deitas costa a Gilberto l'accusa di introdurre la
composizione nell'essere divino, e lui si difende ribadendo la strumentalità del linguaggio
teologico. La diversità dei modi significandi corrisponde ad una distinzione dei nostri modi
intelligendi, ma non a una distinzione nel modus essendi divino. Questo non porta a una
considerazione opzionale del discorso teologico: le formule di Gilberto descrivono qualificazioni
necessarie della realtà divina. Affermare che “Dio è” è equivalente a dire che “Dio è per la sua
essenza”, ossia “per la deità”, perché il pensiero può comprendere l'essere solo con una distinzione
tra soggetto e predicato. In questo modo è possibile introdurre distinctiones interne all'essere
divino, come la trinità; il padre, il figlio e lo spirito santo sono caratterizzati dalla deitas, quindi
sono la stessa sostanza, perché solo in teologia il quo est e l'id quod est designano una cosa sola.

5. La scuola di Chartres

La dottrina dell'esemplarismo divino dà origine nel dodicesimo secolo ad un filone di indagine


orientato allo studio della natura, che viene considerato con la scriptura l'altro libro scritto da Dio.
Il legame tra ordo rerum e ordo idearum viene studiato con una verifica delle forme e
concatenazioni delle entità naturali fondata sul quadrivio: le matematiche aiutano a identificare le
relazioni tra le cose fisiche, che sono un riflesso dell'ordine divino. Viene letta la Bibbia e anche
gli scritti dei filosofi e poeti antichi, come il Timeo tradotto da Calcidio, il sogno di Scipione di
Macribio, la consolatio di Boezio, Aulo gellio, Virgilio e Ovidio. Si stabilisce un raccordo tra
coelestis philosphia e mundana sapientia, con l'accesso a numerosi testi filosofici e scientifici,
reperiti nelle biblioteche o importati dall'oriente bizantino e islamico.

a) Bernardo di Chartres e le formae nativae

Accanto alla cattedrale di Chartres nel dodicesimo secolo è nata una scuola vescovile centro delle
ricerche teologico-naturalistiche, aperta ai più grandi maestri di arti liberali del tempo. Uno di
questi, Bernardo di Chartres, avviò la discussione della scuola sull'esemplarismo. Bernardo
introduce la distinzione tra le idee divine, increate ed eterne, e le idee create ed eterne, ma “non del
tutto coeterne” con quelle divine. Per indicare i principi ideali intermedi tra divino e materiale usa
il termine formae nativae. Bernardo indica in alcuni nomi (come albedo) la capacità di esprimere
la qualificabilità della sostanza senza farla entrare in commistione con essa; il verbo “albet”
(biancheggiare), significa l'accesso della qualità nella sostanza; l'aggettivo “album” (bianco) è la
qualità unita alla sostanza. Si delinea la distinzione di potenza, la perfezione ideale, e l'atto (la
contaminazione con la materia), che consente di spiegare il divenire e la derivazione delle cose da
Dio senza compromettere la trascendenza del divino. Il divenire viene inteso come un percorso di
attuazione nella particolarità della potenzialità originaria della forma, che resta in sé
incontaminata, in quanto mantiene la propria natura di potenzialità, che è riflesso delle idee divine.
Bernardo distingue tre tipi di ingegno: l'ingenium advolans, inquieto e vivace che facilmente
apprende e dimentica; quello infimum, materialista e che non riesce a contemplare il vero; e quello
mediocre, che usa la conoscenza come fondamento per sublimare le proprie capacità, ed è quello
adatto al filosofo. Secondo Bernardo gli intellettuali del presente rispetto agli autori del passato
sono come “nani sulle spalle dei giganti”, in quanto possono vedere più lontano degli antichi
perché sono elevati dalla loro conoscenza. Bernardo aspirava a riconciliare le dottrine di Platone e
Aristotele.

b) Guglielmo di Conches e la philosophia mundi

Dopo Bernardo la scuola è stata guidata da Gilberto di Poitiers. Il più importante degli allievi di
Bernardo è stato Guglielmo di Conches, la cui ricerca di precedenti della dottrina cristiana nei testi
dei pagani antichi ha suscitato l'ostilità di Guglielmo di Saint-Thierry. Guglielmo di Conches ha
scritto tre trattati, la Philosophia mundi, il Dragmaticon philosophiae e il Moralium dogma
philosophorum, e commenti agli autori antichi. Guglielmo sostiene che l'oggetto dell'analisi
razionale fisico-matematica non sono i principi puri divini, ma le causae secundae (le formae
nativae di Bernardo). Le forme native hanno lo scopo di portare a compimento l'opus naturae,
sottoposto all'opus Dei, consistente nel realizzare l'exornatio naturae, l'ornamento esteriore
dell'ordine naturale. La natura possiede una capacità causativa che deriva dalla volontà divina ma è
distinta da essa. Per distinguere tra il creatore, l'anima mundi e la natura Guglielmo introduce la
distinzione tra aeternitas (eternità ingenerata) e perpetuitas (eternità che ha un inizio). L'efficacia
causativa dei principi naturali è trasmessa dalle formae nativae ai quattro elementi, fino agli enti
individuali o atomi indivisibili. Conoscere la natura è utile per comprendere il divino; esiste un
percorso della ragione che dall'intelligere filosofico porta al credere. Guglielmo dimostra a partire
dalla natura come Dio (padre) sia la sovrannaturale causa efficiente, poi spiega come le idee di
Platone siano l'intelletto divino (figlio) e la causa formale dell'universo, e quindi che la Bontà
divina (spirito santo) sia la causa finale del creato, e perciò il principio che rende efficaci le forme
native e muove il mondo; infine i quattro elementi sono la causa materiale di ogni corpo. Tra
philosophia mundi e theologia non c'è contraddizione: la sapienza antica aiuta a chiarire i dogmi,
mentre la fede conferma e completa i processi razionali dei filosofi. Quando negli scritti sacri non
si trova qualcosa che è affermato correttamente dagli scienziati è perché gli autori di quei testi si
occupavano di altro, ovvero dell'edificazione della fede.
c) Teodorico di Chartres e la physica della creazione

Dopo Gilberto di Poitiers il nuovo cancelliere della scuola di Chartres è stato un allievo di
Bernardo di nome Teodorico. Ha scritto l'Heptateuchon, un manuale di arti liberali, l'Hexameron,
un commento alle prime pagine del Genesi in chiave scientifica, raccolte di glosse a Cicerone e
agli opuscula sacra di Boezio. La filosofia naturale è per lui la somma di tutti i progressi della
comprensione della natura acquisiti nella storia dell'uomo e perciò l'unico modo per comprendere
il rapporto tra Creatore e creazione: per questo si apre a fonti di scienza antica. Teodorico
sottopone tutte le scienze ad un comune procedimento argomentativo, diviso in compositio, in cui
il molteplice viene ricondotto all'unitarietà del vero, e la resolutio, che segue l'articolarsi dell'unità
lungo una serie di principi intermedi, fino agli individui. Le scienze si collocano su diversi piani
della gradazione della verità: la fisica studia le cose sensibili e divisibili in parti, la matematica
studia la ricomposizione di tali parti in entità superiori, la teologia si occupa della discendenza di
ogni molteplicità dall'uno. Nell'Heptateucon spiega come le arti del trivio assicurano la
correttezza, la coerenza e lo stile del linguaggio in cui si esprime la conoscenza, e quelle del
quadrivio la corredano di contenuti per ricomporre il molteplice nel semplice. Dio è la forma
veritatis di ogni conoscenza, in quanto è la forma essendi di tutto ciò che ha creato: comprendere il
Creatore è essenziale per comprendere la creazione. Come il molteplice presuppone il semplice, e i
numeri presuppongono l'unità così l'universo presuppone il principio da cui tutto deriva: l'Uno che
produce l'infinità dei numeri, infinito in quanto uno, onnipotente in quanto creatore di tutto ciò che
è numerabile. Ogni numero presuppone l'unità, quindi tutte le cose sono in Dio in quanto unità. In
Dio ci sono le idee, modelli del reale, che non compromettono la sua semplicità in quanto uno
moltiplicato per se stesso fa sempre uno. L'unità identica a se stessa è il padre, la conoscenza della
molteplicità nell'unità è il figlio, la presenza operante dell'unità nella molteplicità è lo spirito santo,
che è l'anima mundi dei platonici. Il “principio” del Genesi è il primo attimo della creazione, il
distaccarsi degli effetti dal divino e il loro precipitare nella temporalità. Teodorico ripropone la
distinzione aristotelica delle quattro cause applicata all'efficacia creatrice di Guglielmo di
Conches, e fissa l'avvio del processo creativo con l'introduzione della causa materiale, i quattro
elementi. Criticando Gilberto di Poitiers, Teodorico afferma che Dio è perfettamente semplice, e in
Lui non si può distinguere tra Dio e la divinità.

Parte II. Le scuole monastiche


3. Teologia e spiritualità cisterciense: Bernardo di Clairvaux

Bernardo di Clairvaux è stato una figura molto influente nella chiesa del dodicesimo secolo, pur
dalla sua posizione di abate. Tra le sue numerose opere, diverse che testimoniano il suo impegno
nella riforma ecclesiastica, trattati teologici, manuali di predicazione e apologetica, guide di ascesi
spirituale, raccolte di sermoni, tra cui la raccolta di Sermones super Cantica canticorum, in
celebrazione dell'amore tra Cristo e la sua chiesa. La sintesi di amore e fede, l'atto di credere, si
risolve nella riduzione di tutti i saperi nella pietà religiosa, l'unico mezzo per conoscere la verità.
Tutto ciò che esula dalla vera scientia della Bibbia e dei Padri è inutile e dannoso: la ragione deve
essere usata solo per chiarire ciò che nella Rivelazione non è evidente. Non resta nessun lavoro
teologico da compiere dopo quello dei Padri, se non di spiegare le loro dottrine; per questo
Bernardo entra in conflitto e fa condannare Pietro Abelardo e Gilberto di Poitiers. Bernardo si è
interessato alla mariologia, che gli ha meritato un posto nel Paradiso dantesco: la madonna è
modello della perfetta vita monastica, custode di tutte le virtù dell'uomo. La conoscenza teologica
è per lui contemplazione mistica della verità, compiuta tramite la vita monastica, che permette
all'uomo di recuperare la similitudo Dei perduta con il peccato originale. Nell'incontro tra libertà
della creatura e libera distribuzione della grazia da parte del creatore si compie la fusione tra anima
e Dio.
Parte III. Le scuole inglesi
2. Giovanni di Salisbury

Giovanni di Salisbury ha seguito le lezioni di Pietro Abelardo, è stato allievo di Guglielmo di


Conches e di Teodorico di Chartres. Ha scritto il Polycraticus, un manuale per la riforma morale, la
Historia pontificalis e la vita di Anselmo. Giovanni ritiene il perfezionamento pratico il fine
dell'attività filosofica, come sostiene nei suoi scritti filosofici; il poema Entheticus e il
Metalogicon. Come ogni scienza, la logica deve avere un'utilità pratica valida per tutta l'umanità. Il
principio regolatore della sapienza pratica è il sommo bene di natura divina. Giovanni critica colui
che chiama “Cornificio”, che riduceva l'efficacia del linguaggio ad un solo formalismo verbale,
mettendo in dubbio la capacità della ragione di stabilire una corrispondenza tra parole e realtà, e
sostiene che così metteva a rischio la stessa moralità e la convivenza sociale, che si fonda sulla
comunicazione veridica del pensiero. Giovanni sostiene che per essere la scienza del corretto
significato delle parole la logica deve essere sia lo studio del termine che delle regole che
collegano le proposizioni. Leggendo Aristotele Giovanni scopre che il nome dialectica, esteso a
tutta la logica, in origine indicava solo una delle tre divisioni dell'arte della dimostrazione,
significava ovvero la scienza che compie ragionamenti corretti senza confermare la verità delle
premesse. L'apodittica compie ragionamenti corretti e veri, mentre la sofistica insegna come
evitare l'errore nell'argomentazione. Giovanni chiama la dialettica disciplina probabilis, e la divide
in rhetorica e dialectica e chiama l'apodittica demonstrativa, affermando che ha valore solo in
matematica. La rhetorica non si preoccupa se afferma il vero o il falso, mentre la dialectica tende
al vero senza poterlo raggiungere in modo definitivo, e dovrà guidare tutte le ricerche umane sulla
verità della res, che alla fine è nota solo a Dio. Gli universali sono per Giovanni un oggetto della
mente che usiamo per avvicinarci a una verità che non possiamo conoscere. La dialettica deve
essere applicata anche alla teologia, e la conoscenza del suo oggetto sarà sempre provvisoria. La
fede è un'opinio, cioè una conoscenza non scientifica, opinabile, in cui si crede con certezza, che
dà vita ad una forma di conoscenza a metà tra l'imperfetta scientia umana e la perfetta scientia
divina. Guidata dalla fede, la mente umana può passare dalla ratio, che distingue i suoi oggetti con
l'indagine probabile dianoetica, alla visione di Dio che contempla le rationes divinae di tutte le
cose.

Capitolo 4. Tra due mondi


Parte II. L'incontro con il pensiero greco-arabo ed ebraico

La storia del pensiero medievale è la storia di tante translationes studiorum di conoscenze


dell'antichità iniziate con le traduzioni di Boezio. La più importante di queste translationes si è
verificata nel XIII secolo. Dal mondo greco i neoplatonici si erano spostati ad Alessandria, poi ad
Harran, in Mesopotamia, dove avevano ripreso a trascrivere Platone e Aristotele. Conquistata la
Siria e la Persia, la civiltà islamica traduce dal greco all'arabo, anche tramite passaggi col persiano,
la cultura dell'antichità. Nel nono secolo viene fondata a Baghdad la Casa della sapienza, una
grande biblioteca e centro di traduzione. Le conoscenze classiche restano nelle mani dell'élite di
acculturati, mentre sono viste con sospetto dai teologi tradizionalisti. La filosofia, chiamata falsafa
dagli arabi, mantiene nel mondo musulmano la propria origine laica, lontana dallo studio degli
oggetti di fede e del Corano. Dal mondo arabo poi la translatio passerà dalla Spagna per arrivare
nel mondo latino.

1. La teologia islamica o kalām

La religione islamica si presenta come una sapienza accessibile a tutti e non interpretabile nei suoi
principi, non complicata da misteri. Il sapere teologico islamico, il kalām, ha come oggetto la
comprensione dell'unità divina, principio primo dell'Islām, che si chiama tawhīd. Il kalām, nato a
Medina in un paese (l'Arabia) privo di una precedente tradizione culturale, si è sviluppato in
autonomia e ha solo in seguito attratto le prime discipline arabe: la grammatica, la retorica, la
giurisprudenza. Religione totalizzante, governata da un totalitarismo politico-religioso, l'Islam
concepisce la guerra santa (jihād) come mezzo per ottenere, con la forza o no, la conversione degli
infedeli. La teologia islamica si apre così al contatto con ispirazioni provenienti dalle altre religioni
monoteistiche, nella misura in cui non contraddicono i fondamenti dell'Islam, e lo stato si mostra
con loro più tollerante, purché siano sottomessi. Si stabilisce col tempo un dialogo interreligioso,
che dà un forte contributo alla formazione delle dottrine del kalām: si sentiva necessità di
formulare in modo efficace le dottrine della fede per difenderla da contaminazioni eterodosse. Per
farlo alcuni teologi islamici (i Mu' taziliti) utilizzano strumenti intellettuali laici, come la logica e
la metafisica, formulando le tesi fondamentali della dottrina a partire dal tawhīd: la natura creata
della Parola divina, la giustizia di Dio, il premio o la punizione eterna da parte di Dio delle azioni
dell'uomo, l'obbligo di condannare il male. Si sviluppa uno scontro tra Mu'taziliti e letteralisti,
difensori di una lettura del Corano più tradizionale, che portò alla fine del Mu'tazilismo. Al-Ash'arī
sostiene una mediazione tra le due parti: nel suo Chiarimento dei principi della religione sostiene
che gli attributi divini sono reali, ma diversi da quelli umani; il Corano è parola increata di Dio ma
la sua manifestazione è storica, il peccato è punito ma la clemenza può mitigare la giustizia divina.
Al-Bāqillānī coniuga la dottrina atomista con il dogma della creazione, sostenendo un
occasionalismo che nega l'efficacia di tutto fuorché Dio. Al-Ghazālī (Algazel), persiano, è stato
docente, eremita, pellegrino, e autore de La vivificazione delle scienze della religione. Per al-
Ghazālī il kalām è la conoscenza di Dio che si fonda sull'insegnamento di Maometto, ma non è la
fede, e non è sufficiente come essa alla salvezza. È necessaria per curare non i fedeli (che non ne
hanno bisogno), non gli infedeli (con cui ragionare è inutile), ma i credenti in dubbio. Al-Ghazālī è
convinto che la parte più importante della teologia sia la contemplazione mistica, mentre la
razionalità è sempre subordinata all'autorivelazione di Dio; il teologo deve usare la ragione logica
solo come supporto della fede. L'opera più nota di al-Ghazālī è l'Autodistruzione dei filosofi, in cui
egli critica chi ritiene la falsafa strumento di autonoma conoscenza della verità. Le tesi dei filosofi
greci sono in contraddizione con la religione e anche tra di loro, e sono incapaci di indagare il
divino. Come introduzione alla Autodistruzione al-Ghazālī ha scritto un riassunto delle dottrine
filosofiche che intendeva confutare; questo testo venne tradotto in latino e il suo autore venne
considerato come sostenitore delle tesi che vi erano esposte.

3. La filosofia araba
a) La formazione della falsafa, da al-Kindī ad al-Fārābī

I filosofi arabi (falāsifa) hanno letto in modo sincretistico i testi di Platone, Aristotele, Plotino,
Proclo, dando origine a una sintesi di fisica e metafisica che unisce idee platoniche e aristoteliche.
Questo ha luogo nel circolo di studiosi di al-Kindī, intellettuale di Bagdad. Autore della Filosofia
prima, al-Kindī vede la falsafa come un sapere unitario, in grado di conoscere la verità
intelligibile, nei limiti dell'umano. L'intento di al-Kindī è di delineare, con l'aiuto della filosofia
classica, le conseguenze del tawhīd: la causa prima è principio immobile del movimento
dell'universo, a partire dal movimento degli esseri che passano dal non essere all'essere. Gli esseri
creati sono molteplici, ossia la loro unità non è in sé ma nasce dal confronto con le altre unità. Il
primo essere causato è il primo principio intellettuale che contiene i modelli di tutte le cose. Al-
Fārābī, maestro di logica e mistico, ha cercato di dimostrare l'unitarietà del pensiero greco nel suo
Sull'accordo fra le opinioni dei due sapienti, il divino Platone e Aristotele. Per spiegare la
concordanza tra l'idea di mondo creato di Platone e di mondo eterno di Aristotele, al-Fārābī
sostiene che Aristotele avesse inteso che il tempo e lo spazio sono creati assieme e quindi non c'è
un prima temporale del mondo, creato da Dio. Nel suo Opinioni degli abitanti della città perfetta,
al-Fārābī rilegge la Repubblica platonica adattandola alla concezione politico-religiosa dell'Islam.
Nella città ideale, il cui ordine rispecchia le intelligenze separate, i cittadini concordano con i
filosofi, che spiegano i fondamenti della religione: la Causa prima è principio dell'esistenza di
tutto; gli esseri e il loro movimento derivano dalla successione delle cause seconde, senza
compromettere l'unità e immutabilità del principio. Il divino è intelligibile, in quanto privo di
materia, ed è sempre intelligibile, quindi lo è in atto, ossia è intelligente. È autosufficiente, quindi
pensa solo sé stesso, e poiché è perfetto il suo pensiero si estende al di là di sé, generando il
molteplice. Gli esseri derivati esistono in atto solo realizzando in modo incompiuto la propria
essenza. Primo ente creato, l'intelletto primo immateriale è distinto da Dio in quanto pensa altro
oltre a sé, ossia la possibilità del molteplice. L'universo riceve conoscenza e tende a Dio. Le cause,
allontanandosi da Lui generano una serie di perfezioni decrescenti, intelligibili che pensano altri
intelligibili fino alla materia, incapace di creare. L'anima è divisa in intelletto passivo
(disponibilità a conoscere), intelletto in atto (acquisizione di conoscenze) e intelletto acquisito (che
traduce in rappresentazioni intelligibili la conoscenza). L'intelletto agente, che è l'ultima
intelligenza separata, agisce su tutte le anime come causa efficiente del loro conoscere.

b) Metafisica e teologia: Avicenna (Ibn Sīnā)

Ibn Sīnā, o Avicenna, persiano, medico, maestro di scienze e di diritto è autore del Libro della
guarigione, enciclopedia filosofica e scientifica (divisa in quattro sezioni: Logica, fisica,
matematica e metafisica) e del Canone di Medicina. La causa prima è il primo principio che evita
il regresso all'infinito della serie causale. Ibn Sīnā distingue tra potenza e atto: se Dio è il principio
dell'essere, egli è essere necessario, e necessariamente in atto, la cui essenza è la necessità; la
creatura acquisisce essere da altro e quindi non è necessariamente in atto, ma è un essere possibile,
la cui essenza è la possibilità. Ogni essere eccetto Dio viene in atto per effetto della creazione,
diventando necessariamente così com'è in atto, per la relazione che ha con la causa prima. In ogni
creatura si distingue l'essenza, ovvero la quiddità potenziale (possibile) e l'esistenza, ossia il suo
essere in atto (necessario), reso tale dalla causalità della necessità divina. Poiché Dio non ha una
quiddità diversa dal suo esistere, non rientra in un genere superiore e quindi in nessuna categoria,
perciò può essere definito solo negando la sua somiglianza con le creature. Dio è puro pensiero
perché è intelligibile (in quanto immateriale), è necessario, quindi puramente in atto, quindi è puro
intelletto. È causa finale dell'universo come in Aristotele, ma conosce anche il creato, non come
individui ma come universali contenuti in sé stesso. Dio non ha deciso di creare, cosa che
implicherebbe una molteplicità di fini che metterebbe in dubbio la sua unità, ma non è nemmeno
necessitato a farlo; la sua essenza coincide con la necessità. Le cause seconde, necessarie in quanto
cause ma possibili in quanto creature, sono cause solo perché Dio le fa passare dall'essere possibile
all'essere in atto. Dopo Dio viene l'intelletto primo, che genera il secondo intelletto, il quale genera
l'anima prima, al quale tende un corpo celeste. Dopo dieci intelletti, ognuno dei quali genera
un'anima e un corpo, c'è l'intelletto attivo separato, che governa il cielo della Luna e attualizza le
intelligenze degli individui. Gli esseri corporei non intelligenti sono possibili e non necessari: il
corpo è pura potenzialità che si dissolve, lasciando solo l'intelletto acquisito immortale.

c) L'accordo di filosofia e religione: Averroè (Ibn Rushd)

Per evitare le accuse di empietà da parte di teologi come al-Ghazālī i falāsifa cercano di crearsi
uno spazio di indagine distinto da quello della fede. I primi passi in questa direzione sono compiuti
nell'emirato Omayyade di Cordoba. Ibn Bājja (Avempace), di Saragozza, nel suo Regime del
solitario indicò la conoscenza mistica come il punto d'arrivo di un percorso che inizia con la
ragione e si conclude con l'unione del saggio con l'intelletto agente. Abū Bakr ibn Tufayl
(Abubacer), di Granada, è autore dell'Epistola di Hayy ibn Yaqzān, un racconto allegorico della
filosofia dell'illuminazione di Ibn Sīnā. Nel romanzo il protagonista Hayy indaga la verità con la
razionalità, per poi scoprire che coincide perfettamente con i contenuti del Corano. Ibn Rushd
(Averroè), di Cordova, è autore del Trattato decisivo sull'accordo della religione e della filosofia, e
di un commento all'intera opera di Aristotele (eccetto la Politica). I commenti si dividono in brevi,
sinossi delle discipline aristoteliche, medi, più lunghi e organizzati per questioni, e lunghi, glosse
letterali analitiche con citazioni al testo. Ibn Rushd nei suoi commenti cerca di epurare le
contaminazioni con il pensiero neoplatonico, e di asserire l'accordo tra fede e ragione. I falāsifa
non devono tentare di spiegare i misteri divini, perché il senso del tawhīd è nella alterità di Dio
rispetto al mondo. Ibn Rushd divide gli uomini in tre classi: fedeli, sensibili alla sola retorica,
teologi, praticanti della dialettica, le cui dimostrazioni sono vere solo se le premesse (la fede) sono
vere, e filosofi, le cui argomentazioni apodittiche sono necessarie in quanto partono da premesse
scientifiche o da principi primi. I teologi devono occuparsi della verità rivelata, mentre i filosofi
devono occuparsi della verità naturale. I teologi credono e pensano di comprendere in quanto
credono: piegano la parola rivelata ai loro interessi senza riuscire a tradurla in certezza. Da questo
nasce l'opinabilità del vero che è origine dell'intolleranza e del fanatismo. Secondo Ibn Rushd il
mondo è eterno perché ipotizzare un inizio dell'attività di Dio ne metterebbe in dubbio la
perfezione. La conoscenza avviene grazie all'intelletto agente separato e unico sul singolo
intelletto passivo e si concretizza nell'intelletto speculativo (l'intelletto acquisito di Ibn Sīnā), che
è mortale; quando esso si congiunge con l'intelletto attivo si compie la beatitudine. La materia è il
principio di individuazione del corpo, quindi un'anima separata dal corpo è intelligibile e non più
individuale: l'anima individuale è mortale. La filosofia e la teologia non sono in contraddizione, e
se lo sembrano è colpa delle cattive formule usate dai filosofi o dai teologi, o perché gli uomini
hanno una conoscenza del vero limitata. La verità, che è nota solo a Dio, può essere interpretata
dall'uomo in modi diversi: riconoscere attendibilità alla fede è necessario anche per ragioni
politiche, e riconoscere necessità alle dimostrazioni razionali è necessario per costruire la scienza.
Dove la ragione non arriva, ha valore la fede.

3. Il pensiero teologico e filosofico ebraico

Le opere teologiche e scientifiche delle scuole rabbiniche presenti nei paesi dominati dall'Islam
sono fondate sulla missione di conservare e interpretare la Legge (la Torah). Nel terzo secolo d.c.
viene costituito il Talmud, un'illustrazione della Torah e delle sue varie applicazioni pratiche, che
viene ampiamente usato dalla cultura rabbinica. Inizialmente la sapienza talmudica evita
speculazioni sul divino, ma con il Libro della creazione, un opuscolo di impostazione gnostica, ha
inizio l'interpretazione della fede. Questo testo introduce nella teologia ebraica un'aspirazione a
unire la ragione ai misteri della Rivelazione, anche per difendere la tradizione da tendenze
innovative causate dall'incontro con l'Islam. Saadyah Gaon, commentatore del Libro della
creazione, argomenta con la ragione su tesi centrali della fede, come l'unicità di Dio, la sua identità
con i suoi attributi, la creazione dal nulla. Yshaac Israeli (Isacco Giudeo) è autore del Libro delle
definizioni e del Libro degli elementi, repertori di formule filosofiche che uniscono idee plotiniane
e una sistemazione razionale della Bibbia. Shelomoh ibn Gebirol (Avicebron), di Saragozza, è
autore del Fons vitae, in cui espone l'ilemorfismo universale: ogni sostanza non divina è composta,
e nasce dall'incontro tra materia e una pluralità di forme, anche le sostanze intelligibili. La materia
universale e la forma universale sono le prime due creature, le più vicine alla volontà di Dio (la
fonte della vita) e unendosi generano l'Intelletto, l'Anima, che si divide in razionale, animale e
vegetativa; e la Natura, che crea molteplici sostanze spirituali. L'anima ha il compito di risalire
questa gerarchia fino alla comprensione della materia e forma universali. Yehuda ha-Lewi (Giuda
Levita) è autore del Kuzari, un dialogo tra un filosofo, un cristiano, un islamico e un rabbino, in
cui quest'ultimo convince il re dei Khazari a convertirsi all'ebraismo. Mosheh ben Maymon (Mosè
Maimonide), medico e giurista, è autore della Guida dei perplessi, che sono resi tali dalla lettura
dei filosofi. Il testo è una sintesi di tradizione, teologia rabbinica e filosofia greco-araba. Si fonda
sull'apprezzamento del sapere profetico, come contatto tra la conoscenza di Dio e quella degli
uomini: la profezia è il punto di arrivo dell'unione di ragione e fede. La filosofia si occupa del
creato e non può comprendere Dio da sola, ma solo costruire le sue argomentazioni sulla base della
Torah e della Bibbia. Maymon ritiene la teologia negativa tutto ciò che la ragione può formulare su
Dio. La filosofia arriva fino a intuire come il principio di ogni pensiero sia l'essere primo che fa
esistere tutto, al di là di questo inizia l'ascetismo, che è la vera vita religiosa. La profezia ha
espresso nella Legge la parola divina, e conoscendo la Legge l'uomo ottiene la capacità profetica.
Il più grande profeta e filosofo è stato Mosè, che ha intuito e diffuso tutta la conoscenza. Lewi ben
Gershom (Gersonide), autore del Le guerre del Signore, propone una teologia affermativa che
attribuisce a Dio qualità come Pensiero puro, Unità assoluta, Forma universale. Hasdai Crescas,
autore della Luce del Signore, confuta la fisica, la cosmologia e la metafisica aristoteliche, e
propone una scienza fondata sui dati della Scrittura. La Qabbalah (Cabbala) è una tradizione
mistico-esoterica che ha sviluppato una conoscenza teologica alternativa all'intellettualismo;
trasmessa tramite insegnamenti mistici, ha come centro le parole della Scrittura, i nomi di Dio,
l'unità di Dio, la creazione, il ruolo dell'uomo, la mistica, con anche influenze gnostico-magiche. Il
Libro dello splendore (lo Zohar) è un commento mistico del Pentateuco che insegna come unirsi a
Dio. La Cabbala ha esercitato una forte influenza sulla teologia scolastica anche in ambito latino.

4. L'introduzione del pensiero greco e arabo-ebraico in occidente: le traduzioni latine

L'opera delle scuole di traduttori e commentatori in Italia, in Spagna e in Francia inizia nel XII
secolo, e prosegue nel XIII, introducendo un sapere di origine antica o arabo-ebraica: studi di
logica, metafisica, etica, teologia, fisica, psicologia, aritmetica, algebra, geometria, ottica,
astronomia, medicina e alchimia. Da Toledo si diffondono in Europa traduzioni letterali,
trasposizioni dall'arabo al volgare e dal volgare al latino. I traduttori più importanti sono
Domenico Gundinsalvi (Avicenna, Avicebron), Gerardo da Cremona (Organon, Analitici Secondi),
Giacomo Veneto (Analitici secondi), Enrico Aristippo (Fedone, Menone). Michele Scoto
(Commenti di Avicenna ai De coelo, De anima, Metafisica, Fisica), le traduzioni dal greco di
Roberto Grossatesta e Guglielmo Moerbeke.

Parte III. La civiltà dell'universitas studiorum


1. La nascita delle Università

Il maestro parigino Tommaso d'Irlanda ricostruisce la translatio studiorum dall'antichità alla


cristianità affermando che come Atene, la prima casa della sapienza, anche Parigi, dove san
Dionigi ha trasferito la sede della sapienza, è divisa in tre parti: magna villa (popolo), nobili
(civitas) e studenti (universitas). Il termine universitas studiorum appare nel XIII secolo per
indicare la corporazione degli insegnanti e studenti: lo studium generale cittadino, in
contrapposizione alle altre scuole. Dalle varie competenze dei maestri hanno origine le facultates,
possibilità di scelta disciplinare diversificate solo dall'oggetto di studio. L'insegnamento è in forma
di lectio o lectura di un testo, affrontato con la quaestio che si sviluppa in una disputatio tra più
attori: un maestro e un discepolo, con il primo che propone ipotesi di solutio, mentre il secondo
avanza obiezioni. Da questa tecnica nasce il genere letterario delle quaestiones disputatae, che
sono o ordinariae, se servono per la didattica, o quodlibetales, se sono un'iniziativa fuori dalla
didattica organizzata da più maestri. Le queaestiones sono arrivate a noi spesso in forma di
reportatio, ovvero di annotazioni degli studenti. Si sviluppa la Facoltà delle Arti (poi di Filosofia),
dove prevale la lectio aristotelica, la Facoltà di Diritto, divisa in diritto civile e diritto canonico; la
Facoltà di Medicina, dove si legge il corpus di Ippocrate, e la Facoltà di Teologia, dove si legge la
Scrittura e il Liber Sententiarum di Pietro Lombardo. La prima vera università è quella di Parigi:
nel 1215 viene approvato il suo primo statuto ufficiale; da quegli anni in poi lo studium viene
considerato un'istituzione al servizio della chiesa. All'inizio del XIII secolo nascono le università di
Oxford, Cambridge, Bologna, Padova, Napoli (la prima fondata dallo stato), Tolosa, Salamanca.
La lingua didattica e amministrativa è ovunque il latino. Gli studenti entravano all'università verso
i 14 anni, iniziando dalle Arti, dove stavano per almeno quattro anni. I migliori poi venivano
promossi al grado di Baccelliere, e potevano tenere lezioni introduttive. Superando una prova il
baccelliere diveniva magister: per due anni almeno doveva insegnare alle arti, poi poteva studiare
nelle altre facoltà. In Teologia, dopo sette anni di studio della Bibbia e delle Sentenze diventava
per due anni un baccelliere biblicus, quindi per due anni baccelliere sententiarius, poi dopo quattro
anni come baccelliere formatus si poteva diventare magister theologiae. A questo punto il docente
poteva insegnare in qualsiasi Università cristiana. Il Cancelliere, rappresentante del vescovo, è
l'autorità principale dell'università e riceve il mandato dal Consiglio generale dei Maestri, che
riflette i consigli delle Facoltà, presieduti dai rispettivi rettori.

2. Philosophi e theologi

L'area di competenza della Facoltà delle Arti non riguarda la retorica né gli studi letterari, ma
sopratutto la logica, la lingua e la doctrina naturalium. Gli artistae ritengono di poter stabilire le
regole che ogni disciplina dovrebbe rispettare se vuole avere valore scientifico, e di poter studiare
anche gli aspetti non visibili della realtà, appropriandosi della metafisica e dell'etica. Questo causa
una reazione dei theologi nei confronti della filosofia e in particolare di Aristotele, che porterà al
divieto di fare uso dei libri di filosofia naturale di Aristotele nelle lezioni pubbliche; tuttavia i testi
continueranno a diffondersi. Nel 1229 si verifica a Parigi uno scontro tra studenti e cittadini
causata dalla coalizione dei docenti in difesa del diritto all'esenzione giuridica; per risolvere la
situazione Gregorio IX nel 1231 consente l'uso dei testi vietati di Aristotele, dopo che da essi sono
stati rimossi gli errori. I maestri di teologia si impegnano per definire i confini della loro
disciplina, unendo diverse concezioni diffuse nel XII secolo: l'idea della fondamentalità della
lectio biblica, l'idea che la teologia debba usare la transumptio, l'idea che i contenuti della fede
possano essere organizzati secondo una sistematicità architettonica in coerenza con il percorso
della storia della salvezza. Da questi concetti nasce la sacra doctrina, che si reputa l'esposizione
didattica della sacra scriptura, organizzata e rispettosa di regole.

Capitolo 5. L'età aurea delle università


Parte I. Genesi e formazione del pensiero universitario
2. I primi maestri secolari

Poiché gli intellettuali universitari più interessati all'approfondimento della tradizione permesso
dai nuovi strumenti ermeneutici sono orientati a percorrere i gradi della carriera per diventare
magistri presso la facoltà di teologia, bisogna consultare le opere dei theologi per seguire
l'innestarsi della speculazione scientifica nel progetto formativo universitario. Sono loro ad
impegnarsi per assicurare la coerenza del loro insegnamento con la sintesi di ragione e fede che
ereditano dalle scuole del passato, precisando la superiorità della teologia. C'è una continuità tra il
lavoro dei maestri secolari del Duecento e gli autori del secolo precedente. Guglielmo di Auxerre
sostiene che in filosofia l'argumentum è “una ragione che produce fede in ciò che è dubbio”,
mentre in teologia il principio fondante è la fede che produce razionalità. L'inversione dei rapporti
tra ragione e fede è il metodo specifico della teologia, utile a confermare i fideles, confutare gli
haeretici e orientare gli ignoranti o simplices. I secolari parigini hanno riproposto l'idea della
ragione al servizio della fede, precisandone il metodo e arricchendo le problematiche del pensiero
cristiano con nuove soluzioni tratte dalla filosofia.

b) La teoria dei trascendentali

Il termine trascendentalia appare nella Summa di Rolando da Cremona, ma i trascendentali sono


già trattati da Filippo il Cancelliere nella Summa de bono, dove sono definiti conditiones
concomitantes esse: le nozioni universali che accompagnano come proprietà qualificative ogni
pensabilità dell'essere. Sono i più alti tra i Nomi Divini, e i più generali nomi creaturali. La
percezione del loro significato porta la mente fino al limite della trascendenza, al di là del quale
tali nozioni scompaiono in un'inseparabile unità, inconoscibile. Per Filippo sono ens, unum, verum
e bonum; Guglielmo di Alvernia aggiunge pulchrum. La loro articolazione corrisponde alle
distinzioni più semplici della conoscenza, cioè alle primae intentiones simplices, punto di arrivo di
ogni astrazione umana sull'essere e primi modi di conoscibilità del divino. Dal concetto di essere
derivano necessariamente gli altri trascendentali: dall'esse viene l'unum, da cui viene il bonum, da
cui viene il verum. I trascendentali sono elementi condizionanti della teologia, in quanto
presupposti dalle verità di fede. I maestri ricorrono ad essi per spiegare l'essere creato, perché ogni
cosa creata è un ens, quindi è bonum e verum. I dati della fede sono verità, quindi sono verum e
bonum. La teoria dei trascendentali diventa il fondamento di etica, filosofia teoretica e teologia:
senza conoscerli non si può conoscere nulla.

4. I maestri francescani di Oxford: Roberto Grossatesta

In Inghilterra, l'assenza di proibizioni dei libri di Aristotele, unita ad un più esteso campo d'azione
della ragione rispetto alla fede, ha dato vita ad un interesse per il lato fisico-naturalistico della
scienza, alle discipline del quadrivio, alla medicina e all'astrologia. Negli Analitici secondi i
maestri delle Arti di Oxford trovano indicazioni su come secondo Aristotele un sapere possa essere
considerato scientifico: 1) dev'essere generato da dati acquisiti con i sensi; 2) è assicurato da dati
universali, non sottoposti agli accidenti, oggettivamente veri e dal significato univoco; 3) è
articolato in modo deduttivo a partire da definizioni universali; 4) è una conoscenza delle cause.
Roberto Grossatesta, maestro di teologia a Oxford, aggiunge che l'intelletto divino e le intelligenze
separate conoscono anche senza i sensi. È possibile conoscere tramite esperienza e illuminazione.
Il solo conoscere certo è quello dell'universale, quindi le nozioni sensibili devono essere
trasportate in termini universali, eliminando gli accidenti. Secondo Grossatesta i filosofi hanno
spiegato questo processo inventando l'intelletto agente separato e unico, mentre in realtà
l'astrazione dei dati empirici è consentita dall'illuminazione divina. Non si possono conoscere
direttamente le idee divine, cause formali del creato, ma bisogna usare come tramite la
matematica. Solo la matematica conosce in modo necessario il proprio oggetto, che è colto come
insieme di esperienza e astrazione; come vuole Aristotele, è vera conoscenza in quanto conoscenza
di cause. L'intelletto si divide in sensus, imaginatio, ratio (dialettica), intelligentia (conoscenza
degli universali, dunque matematica), e potentia superscientialis (che recepisce l'illuminazione).
La conoscenza naturale viene ridotta all'ottica, in quanto scienza della luce, le cui regole
rispecchiano quelle della matematica. Nel suo tractatus de luce, Grossatesta sostiene che la luce è
principio di verità in quanto principio di essere. Il primo atto di Dio è creare la luce, e da essa ha
origine l'universo, in tre momenti: la lux (che esprime la realtà dell'essere), lo splendor (che la
diffonde) e il fervor (il calore che la riflette distinguendola dal creatore). La luce, semplice e
inestesa, si combina con la materia prima, fissando i limiti dell'universo (lo spazio e il tempo),
quindi si contrae al centro dell'universo e si estende di nuovo nove volte a formare i nove cieli
concentrici. Tutte le creature conoscono grazie alla luce, e Dio stesso è conoscibile come luce. Le
tre persone divine scaturiscono l'una dall'altra e si distinguono nelle funzioni. Per ascendere
all'illuminazione l'anima deve partire dalla fede, che è esperienza della verità. L'Incarnazione è
stata voluta da Dio per unirsi all'uomo, che ha fatto centro dell'universo e capace di accogliere la
Sua luce.

Parte II. Progresso e sistemazione della teoria della scientia


2. Alberto Magno (o di Colonia)
a) Filosofia aristotelica e teologia cristiana

Alberto Magno si è impegnato per tradurre e commentare l'intero corpus aristotelico, intendendo
Aristotele non come una fonte di informazioni a cui attingere sporadicamente, ma come un sistema
scientifico organico orientato a tutte i campi di indagine. Alberto considera la filosofia come
propedeutica alla teologia, e infatti scrive De natura boni, Summa de creaturis, commenti biblici e
un Commento alle sentenze. Teologo rinomato, Alberto si dedica in seguito alla filosofia; tiene per
primo corsi sul corpus areopagiticum. Nel 1259 partecipa a una commissione di domenicani che
impongono di considerare Aristotele come introduttivo alla teologia. Dopo essere stato vescovo,
Alberto compone la Summa theologiae (incompiuta).
b) Il sistema filosofico della realtà

La logica si occupa come la metafisica dei principi primi e ha il compito di individuarli e porli
come premesse del discorso vero, la metafisica li studia in quanto cause per conoscere le leggi che
governano la natura, senza far ricorso alla libera volontà divina. La metafisica è indipendente dalla
fede nel formulare affermazioni oggettive. Il filosofo deve occuparsi di realtà naturali senza
preoccuparsi dei miracoli divini, che sono un'interruzione esterna della sua libertà d'azione, ma che
garantiscono l'autonomia della filosofia. Il filosofo può così leggere i testi antichi e scegliere con la
pura ragione, e con il confronto con le certezze della fede, quali insegnamenti conservare. Alberto
rifiuta l'ilemorfismo universale di Avicebron, che può portare all'immanentismo. La divisione in
discipline dello studio della realtà è posta in base alle metodologie delle varie scientiae che
costituiscono la filosofia: scrive testi di fisica, psicologia e metafisica, che gli valgono il
soprannome di Doctor Universalis. L'esse di Dio corrisponde al suo quod est, perciò egli è puro
intelletto e libera volontà. La causalità di Dio viene trasmessa ad una gerarchia di enti celesti
immateriali e intelligenti, che conferiscono l'essere in forma di quod est alle realtà inferiori. Ogni
essere determinato è disposto a essere formato (ha una inchoatio formae), e tende a Dio perché in
Dio è la propria forma. Usando questa attrazione Dio governa l'universo: i corpi tendono ai cieli,
che tendono alle intelligenze seconde, che tendono a Dio. Questo sistema è chiamato fatum (senza
implicare determinismo): gli influssi dall'alto sono necessari, ma la natura della materia li rende
efficaci in modo imprevedibile. L'astronomia è lo studio di questi influssi che dal cielo si
trasmettono ai corpi.

c) L'antropologia e l'ascesa della conoscenza

L'anima è edotta dalla potenzialità della materia che dagli influssi astrali dà origine alle funzioni
vegetative (in potenza nel seme paterno, in atto grazie agli agenti naturali) e sensitive (in potenza
nell'anima vegetativa, in atto quando il feto si sviluppa). L'anima intellettiva, presente in potenza
in quella sensitiva, è libera, quindi slegata dal sistema causale universale, e dipendente
dall'intelletto primo divino; è in parte dipendente e in parte autonoma dalla corporeità. Per
conoscere gli universali l'anima produce delle forme, orientata dall'attrazione delle intelligenze
superiori (questa produzione di forme è l'intelletto attivo). Poiché è incorporata, l'anima non può
contemplare le forme, quindi l'intelletto agente deve creare nell'anima una disponibilità a ricevere
le forme (intelletto passivo). L'uomo dovrebbe liberarsi della corporeità per unire l'intelletto
passivo a quello attivo, che è la vera sostanza dell'uomo. L'intelletto attivo a sua volta,
abbandonando lo spazio e il tempo viene astratto dall'intelletto divino fino a conoscere
l'intelligibile puro, poi le sostanze separate e infine Dio, con cui si unisce. Nell'ascesi mistica
culminano sia la scienza filosofica che la sapienza religiosa, grazie al libero concedersi
dell'intelletto divino.

d) Il sistema della verità teologica

Si diffonde nelle università del Duecento un'edizione scolastica dell'intero corpus areopagitico, da
cui parte Alberto Magno per le sue riflessioni teologiche. Per Alberto la fede è la fonte della verità
e principio di qualsiasi ricerca su di essa. L'assenso alla fede fa da principio regolativo della
conoscenza teologica, la cui verità trascende il razionale. La teologia si differenzia dalle altre
scientiae in base al suo subiectum (non il soggetto ma il contenuto di una attività conoscitiva), che
è Dio e le sue proprietà: tutti gli articoli di fede (credibilia). Dio è la causa unica di tutto ciò che è
oggetto di fede, quindi la teologia è una scienza unica, e studia Dio sia come causa che come fine
ultimo, mentre la metafisica lo studia solo come fine. Conoscenza della fede è conoscenza del
Logos, ed è quindi principio di una logica della verità che rende i credenti i veri philosophi e
theologi. Dio non è un oggetto evidente né per la fede né per la ragione, è più un fine a cui tende
ogni affermazione teologica: quindi la teologia non è una scienza speculativa ma pratica. Un
“sapere affettivo” che informa mentre attrae, la teologia si concluderà nell'unione con Dio. La
teologia deve risolversi nella perfectio dell'intelligenza e dell'affetto nella visione beata, tale
perché è conoscenza intellettiva e affettiva di Dio come fine ultimo. Le teofanie vanno intese come
conoscenza della bontà divina che è la sua essenza. La teologia, preparata dalle discipline inferiori,
porta l'intelligenza a partecipare alla verità in sé, grazie alla discesa del Verbo nell'anima.

Parte III. Bonaventura di Bagnoregio

Bonaventura di Bagnoregio è stato dal 1257 Generale dell'Ordine francescano. La teologia ha Dio
come subiectum e questo la rende dottrina, è discorso sul primo principio e questo la rende anche
scienza, a differenza della metafisica che è solo scienza; il suo scopo è mostrare la coincidenza tra
il principio e Dio. In quanto scienza deve trovare le condizioni (assignare le rationes) che
consentono di esprimere giudizi razionali sul modo di essere di Dio, ma nel farlo deve ricondurre
le rationes alla certezza di partenza, ossia mostrare come ogni verità teologica si risolve in Dio e
nella Scrittura. Dio è causa agente, materiale, formale e finale della realtà di ogni cosa, quindi la
teologia è unitaria ed è organizzata metodologicamente, grazie alle rationes logiche che si
risolvono nella ratio superiore. La verità in sé è superiore alla verità di qualcosa, e la verità in sé è
Dio, quindi la teologia è superiore alle altre scienze. La missione del teologo è ricondurre gli
uomini dalla sapienza filosofica a quella cristiana: la vita e la dottrina di Cristo sono il fine di ogni
cristiano, quindi in lui si trova ogni sapienza e ogni scienza. Il procedimento razionale è utile in
teologia per confutare gli avversari della fede, per convincere i credenti dubbiosi e sopratutto per
dare diletto a coloro che credono, godendo già in vita il premio ultraterreno. È così che si segue il
precetto di Francesco d'Assisi della imitatio Christi.

1. La scienza teologica come reductio ad unum e il suo fondamento scritturale

Nato nel 1217 a Civita di Bagnoregio Bonaventura è stato baccelliere a Parigi, e ha dedicato la vita
all'Ordine francescano. Bonaventura ritiene che la mundana sapientia possa mettere a rischio
l'unitarietà delle opinioni sul vero, e che il compito della teologia sia assicurarne l'unità,
compiendo la reductio ad unum del pensiero e della volontà: può farlo perché l'unum è Cristo, che
unisce umano e divino. L'intelligibilità e l'amore sono le forze di questa via teologica comune:
l'universo creato dal Logos è intelligibile, e il bene è oggetto di amore. Il teologo ha una certezza:
la veridicità della scrittura, in cui si rivela la verità divina. La scrittura racchiude l'universo
secondo le quattro dimensioni della croce: larghezza (le parti della Bibbia, Vecchio e Nuovo
Testamento), lunghezza (la storia dalla genesi al giudizio universale), altezza (le gerarchie
ecclesiastica, celeste, gli angeli e sopraceleste, che è la trinità) e profondità (i vari significati della
Scrittura, letterale, allegorico, morale e anagogico). Riprendendo lo pseudo-Dionigi, Bonaventura
sostiene che il subiectum della teologia è Dio secondo la substantia (essenza), Cristo secondo la
virtus (potenza) e l'opera di redenzione secondo l'operatio (atto). Ma tutto questo è distinto in
un'indissolubile unità, quindi il subiectum è il dato di fede. Bonaventura articola la sua visione
della sintesi di fede e ragione ripresa dai suoi modelli Agostino e Anselmo utilizzando la Bibbia, la
catechesi, la numerologia, la tradizione ecclesiastica, i Padri; tramite immagini, elenchi, strutture
organizzate che si aprono in altri elenchi.

2. La teologia come determinatio distrahens

L'obiettivo della ricerca dell'intelligetia sacrae scripturae è la notitia Christi, “la scienza che si ha
di Cristo”, come riflesso della “scienza che ha Cristo”. Nel corso della sua attività didattica
Bonaventura scrive diverse postille a testi biblici che poi si sviluppano come quaestiones, poi
scrive il Commento alle Sentenze. La lectio biblica e la determinatio teologica (ovvero la solutio
della quaestio) hanno lo stesso oggetto: il vero rivelato, che nel primo caso viene solo illustrato,
mentre nel secondo lo si trasforma per opera della grazia e della ragione, in un intelligibile. Il
sapere teologico è una determinatio quodam modo distrahens della Rivelazione, dove “distrahens”
significa “che conduce altrove”, perché la fa passare dal credibile all'intelligibile. La scienza
teologica è posteriore alla scrittura nell'ordine conoscitivo ed epistemologico, in quanto fonte
primaria di ciò che viene riconosciuto dalla razionalità: la Rivelazione è subaleternans, mentre la
teologia è subalternata. È l'intervento della ragione filosofica la causa della natura “dis-traente”
della teologia: la filosofia, scientia imperfetta ma necessaria, sta a metà tra Scrittura e teologia.

3. Dalla scientia alla sapientia

La scientia Christi è la scienza che può soddisfare di più il desiderio di cercare la felicità, quindi
ha la dignità più grande di tutte e può essere chiamata sapientia, in quanto unisce al meglio
intelligenza e azione nella conoscenza del Sommo Bene. La filosofia diversifica gli obiettivi, a
partire dalla distinzione di discipline teoretiche e pratiche, ed è incompleta. Nel paradiso terrestre
la mente di Adamo partecipava indirettamente della forma della verità (deiformitas) e poteva
coglierne in parte la natura. Dopo il peccato l'umanità conosce il vero in modo frammentario
(deformitas), questo è il sapere della scienza naturale. Il filosofo per conoscere Dio dovrà quindi
essere teologo e affidarsi alla Scrittura. Bonaventura è autore di diverse collationes, che sono la
redazione di prediche tenute dai maestri davanti al corpo docente o studentesco; la più importante
è la Collationes in Hexameron. La Facoltà di Teologia deve essere casa della sapienza unitaria, in
grado di usare gli strumenti della logica, fisica, metafisica, psicologia, le scienze greco-arabe per
spiegare la dottrina di Cristo. L'intelletto agente recepisce grazie all'illuminazione (che garantisce
l'oggettività) le regole fondanti dell'universo: prima di tutte l'essere che è principio di tutto ciò che
è. L'intelletto agente e quello possibile non sono sostanze separate ma distinte disposizioni
dell'anima; non del tutto attiva la prima (o non potrebbe ricevere illuminazione) e non del tutto
passiva la seconda (perché applica le forme astratte che riceve dai sensi). Bonaventura riprende
anche la teoria platonica dell'esemplarismo. La filosofia è vera, ma se subordinata alla verità della
teologia, che è subordinata alla Rivelazione. Platone ha intuito il trascendente (sapientia), ma per
farlo ha oltrepassato il suo campo, la scienza naturale; Aristotele ha ristabilito la via della scienza
(scientia) ma ha abbandonato la via superiore: Agostino ha ricevuto sia la scientia che la sapientia.

4. La teologia speculativa

Nelle questiones disputatae sulla Trinità il tema è l'unione di dimostrazione e fede per trovare le
rationes necessariae che soggiaciono al dogma. Nella prima quaestio la sintesi di “conoscenza
nella certezza” razionale e di “conoscenza nella fede” è scandita dal confronto di due articuli: il
primo dimostra razionalmente l'esistenza di Dio, il secondo dimostra la necessità del dogma
trinitario. Nel primo articolo ritorna l'argomento anselmiano, nel secondo a partire dalla fede nel
principio di produzione divina si comprende la genesi dell'essere dall'essere. Nella seconda
questione si dimostra la compatibilità di unità e trinità in Dio, nella terza la sua semplicità, nella
quarta l'infinità, nella quinta l'eternità, nella sesta l'immutabilità, nella settima la necessità,
nell'ottava si mostra come la convergenza di fede e ragione produca una “circolarità intelligibile”:
la fede comporta la ragione e viceversa. Il fondamento della speculazione cristiana è la primitas
divina, ossia l'esistenza dell'essere che non si può pensare che non sia ciò che è. È evidenziata dal
principio dell'essere (Dio) che è identità di esse e esse aliquid, che sono distinte in tutto il resto. La
primitas è il principio nell'anima di ogni conoscenza, perché si può conoscere solo ciò che è essere
in quanto partecipa della primalità dell'essere perfetto. È la forma prima che l'intelletto agente
riceve dall'illuminazione e che permette all'intelletto passivo di riconoscere le forme provenienti
dall'esperienza. Grazie a questo principio l'anima è in grado di riconoscere l'essere come
compresenza di essenza, potenza e atto. L'essere divino è produttivo in quanto primario, e la sua
conoscenza del produrre è il Verbo e il suo amore per il produrre è lo Spirito Santo, quindi i tre
elementi sono coeterni e consustanziali. I modi e le forme della natura sono riflesso dell'eterna vita
dinamica del Verbo. Le idee e le azioni dell'uomo devono essere riflesso della legge di Dio. Il liber
vitae insegna la fede, la ragione e la conoscenza: la vita francescana, il cui modello è Cristo,
realizza nella vita mortale quella immortale. Nell'opuscolo Lignum vitae Bonaventura congiunge
l'albero, simbolo della generazione del Verbo e della vita mortale, con la croce, simbolo della
redenzione e origine della vita eterna.

5. La reductio teologica della filosofia e l'itinerarium della teologia

Per ascendere alla verità della Rivelazione l'uomo deve salire la scala delle scienze: naturalis
(fisica, meccanica, matematica), rationalis (grammatica, retorica, logica) e moralis (monastica,
politica, economia), per arrivare alla fine alla theologia. La filosofia è il regno del molteplice, che
deve essere percorso per arrivare all'unità della teologia, ma a cui non bisogna fermarsi. Nel De
reductione artium ad theologiam si teorizza la riconduzione delle arti alla loro sorgente divina,
grazie al sostegno della luce esteriore, che porta allo studio della meccanica per creare oggetti che
soddisfino le necessità del corpo; della luce inferiore, che è quella dei cinque sensi che comprende
i corpi; della luce interiore, che è la conoscenza filosofica (indaga le cause, formula i principi,
articola le discipline); e della luce superiore, che viene dalla Scrittura. Nell'Itinerarium mentis in
Deum l'esempio da seguire è quello di Francesco d'Assisi per raggiungere la pace della verità al
termine di un percorso mentale di ascesa a Dio, in una sintesi di intelletto e volontà. L'itinerarium
è la guida in sette gradi di questo percorso. Al primo livello si cerca Dio con il sensus nel mondo,
il secondo grado è l'imaginatio che riconosce Dio nelle tracce che lascia nel mondo, il terzo è la
ratio che conosce Dio in base all'immagine da lui impressa nelle facoltà naturali, il quarto è
l'intellectus, che lo contempla in quest'immagine con l'aggiunta della grazia, il quinto è
l'intelligentia che contempla l'unità di Dio nella somiglianza con l'illuminazione, il sesto è la
visione della Trinità, il vertice della mente, il settimo è il rapimento mistico nell'estasi.

Parte IV. Tommaso d'Aquino

La mente umana è in grado, grazie all'intelletto agente, di conoscere la verità, ma in questo è


limitata dal suo essere creata e finita: può cogliere verità intelligibili come i principi primi, ma le
sfuggono le verità di fede. Il vero è sempre in relazione a qualcosa, perché consiste in una
adaequatio rei et intellectus: in una presa d'atto (affermativa o negativa) che l'essere è nella cosa in
modo tale da poter essere riconosciuto dall'intelletto. Nessuna res è falsa, perché la falsità è
l'inequalitas tra la cosa e l'intelletto. La teologia è vera se consente all'intelletto di vedere l'oggetto
delle sue affermazioni, realizzando l'adaequatio con essa. La vera teologia porterà così a
compimento le aspirazioni della filosofia a conoscere ogni forma di verità.

1. Magister in sacra pagina

Tommaso è nato nel 1224 dalla famiglia dei conti d'Aquino. Ha frequentato la facoltà delle Arti a
Napoli, si è poi convertito all'ordine domenicano, ha studiato a Parigi e a Colonia con Alberto
Magno. Commenta la Bibbia (Salmi, Giobbe, Epistole, vangeli), che fa da fondazione alla
teologia: ne è la ragione di esistenza, ne offre il contenuto, ne è il fine ultimo. Il senso più
importante della Bibbia per Tommaso è quello letterale, su cui si fonda la prima comprensione
teologia della Rivelazione. La Scrittura istruisce, è piacevole, appassiona, orienta la morale e
insegna a istruire gli altri credenti. Riprendendo le quattro cause aristoteliche Tommaso afferma
che la materia della Scrittura è la salvezza portata da Cristo, la causa efficiente è Dio che l'ha
dettata, la causa finale è l'elevazione dell'anima, e la forma distingue tra i modi espositivi della
Rivelazione, che sono diversi da quelli della teologia. Tommaso nel 1252 è baccelliere sentenziario
e nel 1256 è magister in sacra pagina.

2. Sancti e philosphi
Nel suo Scriptum super Sententiis Tommaso utilizza autorità filsofiche, come Aristotele e gli arabi,
per le sue argomentazioni teologiche, sempre nel rispetto del pensiero dei padri e dei teologi
contemporanei. Secondo Tommaso la genesi delle creature è una conseguenza della generazione
del Verbo, dentro al quale il Padre progetta la creazione, e il ritorno delle creature a Dio è l'esito
della processione dello Spirito, che diffonde nel creato la santificazione. Riprendendo la
concezione neoplatonica di Avicenna sulla descensio dall'Uno e reversio all'Uno dal molteplice,
Tommaso la usa per riflettere sul parallelismo tra le produzioni trinitarie ad intra e le missioni
trinitarie ad extra (nella creazione). Tommaso usa i filosofi non solo per trovare categorie
organizzative o un metodo di elaborazione della teologia, ma come fonte legittima di pensiero
accanto ai Padri e ai teologi del passato. L'uso della filosofia antica non è episodico. Dato che la
verità è assicurata dalla Rivelazione, Tommaso deve dare una nuova fondazione alla metafisica che
assicuri un sistema di verità acquisite con la sola ragione, in accordo con l'altra verità accessibile
senza sforzo. La metafisica non può restare incompiuta e molteplice com'è ora, ma dev'essere
sistematizzata con la ragione per permetterle il dialogo con la fede.

3. I principi della metafisica: essere ed essenza

Il De principiis naturae è un'esposizione dei concetti aristotelici di atto e potenza, sostanza e


accidente, materia e forma, la divisione del genere in specie e individui, le quattro cause e i tre
principi del divenire (materia, forma e privazione). Per semplificare e ricondurre queste strutture
all'unità della Causa prima della teologia, Tommaso usa il concetto di essere. L'essere si dice in
base alle dieci categorie di Aristotele e in base ai diversi gradi di perfezione delle sostanze.
L'essentia (o quidditas) è la verità di ciò di cui si predica l'essere e coincide con una definizione.
L'esse è ciò di cui si predica tale definizione. L'essenza si predica di ciò che è, ossia di un ens. Ens
è tutto ciò che esiste (est) ed è qualcosa (est aliquid), e in quanto tale è esse in atto; l'essentia è
l'ens in atto. Entrambi sono presenti in tutte le sostanze. Le sostanze composte lo sono da forma e
materia, dunque la loro essentia comprende sia la forma che la materia. La combinazione di
materia e forma produce un individuo solo quando la materia è signata quantitate. In un uomo la
forma è composta con una quantità precisa di materia, ma nella definizione di “uomo” la forma è
composta con una materia, ma non in quantità determinata. Un uomo e “l'uomo” sono entrambi
essentia, ma solo il primo è un'essenza in atto, cioè un ens. La capacità intellettiva non è affetta
dalla materia, o non sarebbe in grado di cogliere gli universali, ma le intelligenze separate e
l'anima sono composte, altrimenti sarebbero la Causa prima che è l'unica sostanza semplice.
Quindi, le sostanze separate create sono un composto di forma ed essere, e hanno come essentia
solo la forma, ma realizzata in un modo di essere in atto che non coincide con l'essenza in sé.
Realizzano in atto solo in parte la loro essentia, essendo affette dalla potenzialità. Il loro essere è
“ricevuto”, quindi è limitato. L'anima acquisisce il suo essere in atto nell'unione con il corpo di cui
è forma, anche se non è il corpo che la individua, in quanto la loro unione individua l'uomo.
L'anima è determinata in quanto unione di esse e essentia, ma è individuata perché il suo essere
realizza l'essenza solo in unione con un corpo. Dissolto il corpo l'anima resta individuale perché è
già stata formata all'essere in questo modo determinato. Solo Dio gode di un esse che realizza in
atto in modo assoluto la sua essentia, ed è ens senza potenzialità: esse e essentia coincidono. La
“deità” non è un genere che si realizza in atto in un individuo ma è l'essere stesso in atto. Dio
quindi non è l'essere universale che fa essere le altre cose, perché non ha bisogno di altro per
essere esistente, e possiede già in sé tutte le perfezioni. Gli accidenti esistono in quanto ineriscono
ad una sostanza, quindi nella loro definizione qualcos'altro deve fare da soggetto: la loro essenza è
incompleta e relativa. L'essere non è un accidente dell'essenza, perché anche l'accidente ha una sua
essenza, ma ne è una determinazione in atto, ovvero un'esistenza.

4. Filosofia e teologia: dai commenti a Boezio alla Summa contra Gentiles

La metafisica, scienza del filosofo che ha come subiectum l'ente in quanto ente, tratta il divino
come realtà con la quale l'intelletto è in grado di cogliere i principi primi indimostrabili, a partire
dai loro effetti. La teologia (sacra doctrina) può essere o filosofica o fondata sulla fede: la prima
ha per subiectum l'ente in sé e studia le res divinae come principio di esso, l'altra ha per subiectum
il divino in sé. Entrambe si occupano di ciò che è separato dalla materia e immobile, ma la teologia
filosofica lo fa considerando i principi dell'essere come manifesti nei loro effetti; l'altra lo fa grazie
alla fede che le fa conoscere Dio in sé. La teologia non è una scienza perché è fondata sulla fede,
ma nonostante ciò: è scienza perché ha un oggetto suo (il divino studiato come principio in sé). La
Summa contra Gentiles è un tentativo di convincere i membri di altre religioni a convertirsi. La
sacra doctrina è fondata sulla fede, la filosofia sulla ragione e non si contraddicono, e quando lo
fanno è un errore della filosofia. La filosofia può essere usata dalla teologia per 1. dimostrare le
anticipazioni della fede (preambula fidei), 2. per esplicitare verità di fede, e 3. per mostrare la
falsità delle idee contro la fede. I preambula fidei sono le verità teologiche conoscibili con la
filosofia, nozioni naturali che anticipano la fede. Chi non è credente può comprendere le verità di
fede con la ragione, e chi non è filosofo le può comprendere con la fede. La verità del divino è
duplice: ci sono le verità dimostrate razionalmente e le verità a cui si arriva solo con la fede. Le
prime tre parti dell'opera hanno come oggetto Dio in sé, la relazione tra creatore e creato, e la
relazione tra il Bene (Dio) e la vita morale; nella quarta parte i misteri della Rivelazione sono
chiariti con ragionamenti solo “probabili”, in quanto la ragione deve farsi superare dalla fede.
L'intera opera è fondata sulla dimostrazione dell'esistenza di Dio, da cui scaturiscono le sue
proprietà: se è motore è immobile, quindi è eterno, quindi è puro atto, quindi è immateriale, quindi
è spirito, quindi è incomposto. Dio non rientra in un genere, non è forma delle cose, è solamente la
sua essenza. Il linguaggio teologico non può essere né univoco, ne del tutto equivoco con quello
naturale, ma solo analogico. Grazie all'analogia la teologia può ricorrere ai termini della filosofia.

5. Tra Roma e Parigi, aristotelismo contro l'averroismo: angelologia e antropologia

Il De unitate intellectus è una critica agli averroisti. Gli angeli sono sostanze intellettive esenti da
materia; non essendo individui, sono distinti tra loro solo come specie: ogni angelo è una specie.
Le operazioni che l'anima svolge in quanto intellectus non sono dipendenti dalla corporeità, il
soggetto che le compie è dunque incorporeo. Tra queste operazioni c'è l'autocoscienza, quindi
l'anima è una forma sussistente. L'anima è incorruttibile, è dotata di volontà e intelletto e la sua
determinazione sostanziale è data dalla composizione di essenza e esistenza. Poiché la conoscenza
intellettuale (principio formale dell'umanità) è ciò che rende l'uomo tale, se l'intelletto fosse
comune a tutti ci sarebbe solo un uomo. L'uomo è individuo per il corpo, l'intelletto è presente in
ogni individuo, e la forma rende uomo il corpo: l'anima è la forma sostanziale dell'uomo in quanto
individuo. Il carattere di sostanza non contraddice quello di forma. Unica è la forma sostanziale,
formatrice della materia degli individui. Anima e corpo sono i principi costitutivi dell'unica
sostanza individuale in atto. Le facoltà dell'anima (intellettiva, sensitiva, vegetativa) sono potenze
dell'unica forma, infatti ogni facoltà superiore comprende le capacità delle facoltà inferiori. Nella
gerarchia di perfezioni le forme sostanziali che esprimono una perfezione maggiore includono
tutte le perfezioni inferiori. L'unione di anima e corpo avviene nel momento del concepimento. Al
livello della conoscenza sensibile si elaborano species della percezione, a partire dalle quali
l'intelletto agente elabora la species intellettiva mediante astrazione. La volontà agisce in modo
conforme alle conoscenze fornite dall'intelletto, ma non è subordinata all'intelletto, e agisce
liberamente perché conosce in parte il bene, mentre se conoscesse il Sommo Bene sarebbe
costretta a perseguirlo. L'anima continua a conoscere dopo la morte del corpo, avendo ora accesso
alle species intelligibili, e continua ad avere una forma, capace di animare e istruire il corpo anche
quando (per accidente) vi è separata. La creazione è finalizzata a compiere la perfezione delle
creature, e la perfezione dell'anima comprende la capacità di formare il corpo, quindi la loro
separazione è temporanea e verrà risolta nella resurrezione dei corpi.

6. La Summa theologiae e la “teologia dell'Esodo”


Nel De aeternitate mundi Tommaso sostiene che i filosofi devono affermare che razionalmente
non è possibile che il mondo sia stato creato, ma il teologo deve sostenere che ciò è stato possibile
comunque in base all'onnipotenza divina. La filosofia non può pretendere di affermare il contrario
delle verità di fede. La Summa theologiae nasce come testo di studio teologico. Nella prima parte
dell'opera si parla di Dio, della trinità, della creazione, delle creature; nella seconda parte si studia
la beatitudine e come raggiungerla; nella terza parte si parla della redenzione e della grazia.
L'opera è un'esposizione della theologia, che segue il procedimento della disputatio: posizione
della quaestio, verifica delle obiectiones, formulazione della conclusio e risposta alle obiezioni.
Nella seconda quaestio della prima parte Tommaso espone le cinque vie per dimostrare l'esistenza
di Dio. 1- Ogni cosa in movimento passa dalla potenza all'atto, quindi non è mossa da sé, ma da
qualcosa in atto; non si può procedere all'infinito da motore a motore, perché se non ci fosse un
primo motore non ci sarebbero quelli dopo, il primo motore dev'essere sempre in atto: tale è Dio.
2- Ogni cosa è sottoposta ad una causa efficiente del suo essere, ma nessuna lo è di sé stessa, e il
rinvio all'infinito è impossibile, quindi esiste una causa efficiente prima, che è Dio. 3- Alcune cose
sono possibili (possono essere o no), ma se tutte fossero possibili, è possibile un momento in cui
nulla era, ma l'essere scaturisce dal qualcosa, quindi c'è qualcosa di necessario; la necessità la si ha
in sé o data da altro, e per non ricadere nel rinvio all'infinito dev'esserci qualcosa che è necessario
per sé ed è causa della necessità del resto: Dio. 4- Le cose sono più o meno buone, ma possono
essere tali solo in rapporto a qualcosa che è massimamente buono, che è Dio. 5- Le cose create
operano per conseguire il loro scopo, quindi tutto ha un fine, ma le cose non intelligenti sono
orientate al loro fine, quindi a ordinare l'universo è Dio. Dio è privo di composizione, dunque
semplice, quindi buono, infinito, dunque esiste in tutte le cose come causa, ed è uno. La “teologia
dell'Esodo” di Tommaso, fondata sull'Ego sum qui sum dell'Esodo, afferma che Dio è privo di
qualificazioni perché primo in tutti gli ordine di qualificazione. È puramente in atto, quindi la sua
divinitas corrisponde al suo esse, perché è un assoluto est: questo è l'unico nome che gli si possa
attribuire. È universale (tutto ciò che è in Dio è in est) e commune (perché tra est e Dio non c'è
differenza).

7. La teologia come scienza

Il conoscere scientifico riguarda verità universali, che sono conclusioni di sillogismi apodittici, la
cui validità è tratta da premesse che devono derivare a loro volta da sillogismi. Per fondare il
ragionamento servono principi fondamentali evidenti e indimostrabili. Questo ideale della scienza
aristotelica può essere applicato alla matematica e alla logica, ma nelle altre scienze bisogna
introdurre dati dell'esperienza, ed è così nella scientia teologica. La theologia include ogni forma
di insegnamento cristiano fondato sulla Rivelazione, ed è scientifica perché usa ha come principi
primi gli articoli di fede, in quanto sono evidenti di per sé, grazie all'illuminazione divina. La
teoria della subalternazione di Tommaso è che alcune scienze procedono da principi resi noti dalla
luce divina, nei confronti della quale sono subalternate (in logica sono “subalterne” le proposizioni
che traggono la loro veridicità da proposizioni superiori). La teologia ha un metodo suo, e
interpreta il suo oggetto in molti modi, metaforico, simbolico, narrativo, precettivo, ecc. La sacra
doctrina è una scienza pratica, perché orienta moralmente l'uomo, ma è insieme una scienza
speculativa, che studia Dio e per questo fa rispettare le sue leggi. La teologia sacra e filosofica
hanno lo stesso subiectum, il divino, ma un diverso obiectum (la conoscenza conseguibile nel
corso della vita), perché i risultati variano in base al metodo: una è fondata sulla rivelazione e
l'altra no. Il subiectum della sacra doctrina è tutto ciò che è Dio o è subordinato ad esso, perciò
non lo esaurirà mai e la ricerca non avrà mai fine. La teologia deve riconoscere i propri limiti e
limitarsi ad accettare il dato rivelato e spiegare non come possa essere vero ma cosa sia. Tommaso
spiega il mistero eucaristico con la dottrina della transustanziazione: la sostanza del pane e del
vino mutano in quelle del corpo e del sangue di Cristo ma gli accidenti non cambiano.
Collaborando con le scienze naturali la teologia può essere ritenuta scientia, e la filosofia vede
riconosciuta la propria autonomia dalla ingiunzione di non indagare la verità rivelata.

Capitolo 6. L'officina del sapere nel tardo medioevo


Parte I. Le molte verità: discussioni e correnti di pensiero tra due secoli
1. Enrico di Gand e i maestri secolari

Nel XIII secolo la rivalità tra maestri secolari e ordini mendicanti si è trasformata da una questione
di rivalità istituzionale ad una polemica sugli ideali pauperistici dei Predicatori e dei Francescani.
A Parigi, dove nel 1258 viene fondato da Roberto de la Sorbonne il collegio universitario
Sorbonne per studi secolari, si riaccende il contrasto, in seguito alla concessione del Papa di
privilegi ai mendicanti. Una commissione di teologi viene incaricata di contestare tali privilegi:
uno dei membri è Enrico di Gand. La discussione si estende alle tesi aristotelizzanti dei
domenicani, la distinzione di essere ed essenza di Tommaso, e la sua psicologia.

a) I fondamenti teologici del pensiero di Enrico di Gand

Enrico di Gand è stato maestro di teologia a Parigi, autore di diversi Quodlibeta, commenti ad
Aristotele e una Summa quaestionum ordinarium, in cui intende fondare la teologia su basi non
aristoteliche. Secondo Enrico, la posizione di Tommaso d'Aquino sottopone la Rivelazione a
schemi mentali che non le appartengono, e la teologia non deve essere fondata sulla compatibilità
con un sistema filosofico. Dio è il soggetto e l'oggetto della teologia, in quanto è Dio che fa
conoscere ciò che su Dio bisogna sapere. La teologia deve orientare tutte le scienze inferiori, senza
risolverle tutte in sé, come propongono i francescani.

b) La composizione “intenzionale” dell'essere

La distinzione di esse per se e esse per aliud ha origine nei secolari nell'incontro tra riflessione
boeziana sulla predicabilità del divino e la teoria avicenniana della discesa del possibile nel
necessario. Tommaso ha poi distinto tra essentia e ens, ovvero essenza in sé e essenza esistente in
atto per l'aggiunta di una perfezione formale mancante all'essenza in sé. Enrico di Gand vede in
questa distinzione la sovrapposizione di due res, una necessaria in sé e l'altra possibile e derivata
dall'essenza. Dio dovrebbe essere pura necessità, e le creature esito di un'emanazione necessaria
che attualizza la loro potenzialità. Così però si compromette la libertà divina e delle creature: in
realtà Dio è l'essere in sé (ciò che esiste per il fatto di essere), e le creature sono ciò che Dio vuole
che siano (l'essere è dato loro dall'esterno). Ogni atto creativo della volontà divina produce una
sola e irripetibile res, la cui unità la fa essere un suppositum, una realtà distinta dalle altre. La
distinzione di essenza e esistenza non è reale, ma una distinzione intenzionale: è l'intelletto che
separa nell'unità di una cosa due intentiones (percezioni del contenuto della res). Anche Dio nella
creazione pensa così gli oggetti creati, e sono queste le idee divine, e in seguito le crea con la
propria volontà onnipotente.

c) La dottrina della conoscenza e la illustratio specialis

Il principio è ratio essendi, causa formale delle essenze e causa efficiente delle esistenze, ed è
ratio intelligendi o cognoscendi. Per conoscere qualsiasi verità l'intelletto deve cogliere la
corrispondenza dell'essenza delle cose con l'idea divina da cui derivano. È Dio che rende evidente
alla mente la verità di un dato conosciuto confrontandolo con una verità superiore. L'illuminazione
è una condizione fondamentale della conoscenza, capace anche di rendere autonoma la volontà
dell'intelletto grazie ad una trasmissione di efficacia che viene da Dio. Enrico chiama questo
principio a priori illustratio specialis, che garantisce la verità di ogni conoscenza e di ogni scienza
assicurando la coerenza tra verità nell'intelletto e la legge degli universali divini.
d) La scienza teologica e la nuova epistemologia cristiana

Le scienze inferiori, fondate sui principi epistemologici aristotelici, funzionano per astrazione e
producono risultati solo parziali. Tramite l'illuminazione, la teologia è in grado di mettere in
contatto l'intelligenza con la realtà soprannaturale. Il suo subiectum, Dio, non deve essere indagato
con la ragione, ma con la fede nella Rivelazione. In teologia l'elemento materiale del conoscere, il
dato scritturale acquisibile per via sperimentale (a posteriori), e l'elemento di verifica formale (a
priori), ovvero la conoscenza che Dio ha di sé, uniti assicurano una conoscenza perfetta, perché
l'informazione nella mente e l'esemplarità della mente divina corrispondono. La verità della
teologia è superiore alla fede perché la arricchisce con la comprensione data da Dio. A ogni livello
la ragione è assistita dall'illuminazione, nello studio degli oggetti particolari (scienze) e degli
universali (teologia). La mente è spinta dalla fede e dalle scienze inferiori fino ad arrivare alla
teologia, che rende comprensibili i dati di fede e assicura la validità delle scienze inferiori. La
teologia è l'unica che può realizzare la perfezione conoscitiva che la rende simpliciter speculativa,
ossia speculativa in modo perfettto.

2. Egidio Romano, maestro degli Agostiniani

Egidio Romano è nato a Roma verso il 1245, ha studiato a Parigi con Tommaso, è stato dottore
ufficiale del nuovo ordine mendicante degli Agostiniani, Arcivescovo di Bourges, è morto nel
1316. Ha scritto il De plurificatione intellectus possibilis e un elenco di errores philosophorum.
Mosso dall'idea di restaurare l'agostinismo, con l'aggiunta della filosofia pagana, tenta di
correggere l'aristotelismo degli averroisti e l'agostinismo sordo alla filosofia. Egidio afferma che
ogni creatura è composta da due res, la cui unione non produce vera unità, ma una congiunzione
per accidente. L'atto creatore coincide con la connessione dell'esistenza con le essenze. Le essenze
non sono solo esemplari eterni e le esistenze non sono solo gli effetti che ne partecipano: dato che
la composizione di essenza e esistenza è un connotato della realtà di ogni creatura, l'essenza non è
autosufficiente né eterna. La conoscenza è un giudizio sulla composizione di essenza ed esistenza
che solo Dio può conoscere del tutto, mentre l'uomo conosce per astrazione di dati di senso, che
non sono in grado di evidenziare nella cosa conosciuta la presenza dell'essenza. Il pensiero non
coglie la composizione di essenza e esistenza in una res ma può solo rappresentarne diversi gradi
di manifestazione. L'anima si articola in facoltà, ognuna delle quali esprime un giudizio sulla
composizione dell'essere, la cui verità è relativa. È anche forma del corpo, poiché essa è il
principio che ne porta ad attuazione (esistenziale) le molteplici potenzialità (essenziali). Tre facoltà
dominanti sono l'anima vegetativa, quella sensitiva, comprendente senso comune, immaginazione,
memoria; e quella intellettiva, divisa in intelletto passivo e attivo. La conoscenza è l'esito del
riflettersi nell'anima di diversi modi di essere della res, che sono recepiti dalle varie facoltà, senza
illuminazione. La metafisica e la teologia si occupano di Dio, ma la prima come causa degli enti,
la seconda come principio della glorificazione dell'umanità. Nessuna scienza è in grado di cogliere
Dio in modo perfetto, perché ogni conoscenza è riconduzione della verità dell'oggetto alla capacità
di coglierlo del soggetto, quindi Dio non è il subiectum della teologia, ma il fine a cui tende
l'anima; la teologia ha il compito di orientare tale impulso. È una scientia affectiva, ovvero è
finalizzata ad una speculatio che produce un'operatio, entrambe orientate al fine superiore della
dilectio. È superiore alle altre scienze, perché solo nella beatitudine si possono saturare i limiti
della propria conoscenza.

3. L'aristotelismo degli artistae e la condanna del 1277


a) Il dibattito e le condanne

Tra gli anni '60 e '70 del XIII secolo vengono scritti da parte dei docenti di teologia diversi testi
polemici contro i loro colleghi delle arti e le loro idee in contrasto con la Rivelazione: l'eternità del
mondo, la creazione per intermediari, il determinismo, l'intellettualismo etico, l'unità dell'intelletto
e la negazione dell'immortalità dell'anima e della risurrezione dei corpi. Sigieri di Brabante, uno di
questi maestri delle arti, propone una conoscenza dimostrativa in cui le conclusioni sono
necessarie a prescindere dal confronto con la religione. L'intelletto con cui l'uomo conosce, quello
possibile, non è forma del corpo come lo sono la parte sensitiva e vegetativa, o sarebbe incapace di
staccarsi dalle immagini sensibili; per poter formulare i concetti dev'essere separato dal corpo:
appartiene alla natura spirituale dell'intelligenza superiore comune a tutti gli individui. Nel 1270 il
vescovo di Parigi vieta l'insegnamento di tredici tesi avverroistiche legate a eternità del mondo e
dell'uomo, determinismo e negazione della provvidenza, unicità dell'anima intellettiva. L'obiettivo
di questo divieto era di riportare i filosofi al loro ambito di competenza e di impedire l'eccessiva
apertura dei teologi all'aristotelismo. Nel 1272 viene vietato ai maestri delle arti di discutere di
questioni teologiche. Nel 1276 la facoltà delle arti vieta di tenere lezioni in luoghi privati, segno
che alcuni maestri svolgevano lezioni non controllate su Aristotele. L'anno dopo il papa invia una
commissione di sedici teologi ad indagare sugli errori insegnati dai docenti delle arti: la
commissione individua e proibisce 219 tesi filosofiche. Alcune di queste erano averroiste, altre
chiaramente antiteologiche, altre aristoteliche, altre neoplatoniche, alcune persino interpretazione
di idee agostiniane, alcune erano affermazioni contrarie alla razionalità filosofica.

b) Il sistema di pensiero degli Aristotelici delle Arti

In seguito alle condanne la carriera di Sigieri di Brabante viene interrotta definitivamente. Dio è
causa prima e principio dell'essere, e la sua esistenza è dimostrabile in base a diverse vie
argomentative. L'unicità della causa è garantita dall'unicità del suo effetto, che è un principio
intelligibile, la prima di una gerarchia di intelligenze inferiori che fanno da intermediari causali. La
prima causa agisce sul primo effetto, e ogni intelligenza muove quella inferiore e la propria sfera
celeste, fino al cielo della Luna. Ogni intelligenze è immateriale, unica nella sua specie e
individuata dalla sua quiddità: solo Dio è pura attualità, tutto il resto è composto di potenza e atto.
Ogni evento è necessario e fa parte di un circolo di eventi che si ripete all'infinito. La contingenza
ha origine dalla impossibilità per la materia di ricevere in modo efficace le forme provenienti dalle
sfere superiori. La volontà umana è libera per la limitata capacità di giudizio razionale. L'anima è
forma del corpo e le sue proprietà ne sono il principio motore: il grado massimo della sua azione è
il livello più alto della facoltà vegetativo-sensitiva, la cogitativa, che entra in relazione con l'anima
intellettiva, l'ultima intelligenza separata, che include intelletto attivo e possibile. Boezio di Dacia
è stato maestro di grammatica e autore del De modi significandi, esponente dei modistae,
grammatici speculativi che studiavano la relazione tra leggi della metafisica e leggi della logica
con le capacità semantiche del discorso grammaticale. Nel De aeternitate mundi e negli altri
opuscoli filosofici sono esposte dottrine simili a quelle condannate, come quelle sull'eternità del
mondo, sulla divinazione, sulla beatitudine terrena, conseguibile con la vita filosofica.

c) La “doppia verità” e le distinzioni epistemologiche degli artistae

L'accusa rivolta agli artistae di sostenere la coesistenza di verità contraddittorie non sembra
legittima. Gli aristotelici delle arti rivendicano il diritto a operare con la pura ragione senza
considerare imposizioni esterne, ma non dichiarano che le conclusioni così raggiunte, se contrarie
ai dati di fede, siano portatrici di una verità filosofica diversa da quella teologica. Sigieri
raccomanda nel caso di incertezza di aderire sempre alla fede, che trascende la ragione. Alla fine
della quaestio sull'eternità del mondo afferma che non è chiaro per la ragione se il mondo è eterno
o no, ma che ogni credente ha l'obbligo di ammettere che il mondo ha avuto inizio. Boezio di
Dacia stabilisce un parallelo tra l'errore ereticale di chi usa la razionalità in temi di fede e l'errore
filosofico di chi rifiuta le conclusioni vere della ragione. Le tesi di Aristotele e dei filosofi secondo
Boezio non sono in contrasto con la Rivelazione, perché può esserci armonia tra diverse forme di
conoscenza, purché ciascuna abbia il proprio ambito di studio. Non c'è una doppia verità, ma
diversi ordini di verità. Quello della fede, fondato sulla Rivelazione e relativo a cause
sovrannaturali non indagabili con la ragione non potrà essere in contraddizione con quello della
fisica o metafisica, fondati sulla coerenza logica delle conclusioni razionali e relative all'analisi di
cause naturali. Hanno ragione i filosofi a dire che, razionalmente, il mondo è increato, e hanno
ragione i cristiani a dire che il mondo è stato creato, perché questo è reso possibile
dall'onnipotenza divina.

Parte II. Riformatori e innovatori: nuove vie della sistematicità speculativa


1. Ruggero Bacone

L'inglese Ruggero Bacone è nato nel 1214, ha insegnato alle Arti di Parigi e poi si è convertito al
francescanesimo, proclamandosi profeta della riforma del sapere cristiano, inviato da Dio a
convertire il mondo intero. Scrive solo parti di questo progetto, raccolte nell'Opus maius, minor e
tertium; muore nel 1292. Bacone critica i teologi del suo tempo, accusandoli di sette peccati: 1.
l'uso del metodo filosofico; 2. ignoranza delle lingue greca e ebraica, della retorica, della
matematica e della fisica, e della conoscenza esperienziale della natura; 3. ignoranza e culto della
persona; 4. l'uso del libro delle sentenze al posto della Scrittura; 5. corruzione del testo sacro; 6.
incapacità di interpretare la Bibbia; 7. mancanza di efficacia retorica. Ci sono anche errori
filosofici, come fondare la conoscenza sull'astrazione (che allontana dalla comprensione
immediata dell'oggetto), o l'idea degli universali. Ce l'ha anche con i principi dell'auctoritas, della
traditio e dell'opinione comune. La conoscenza vera è quella ottenuta con l'esperienza (scientia
experimentalis) e la razionalizzazione dei dati dell'esperienza: è intuitiva, può quindi fissare i
principi primi, e ha in sé i fondamenti della propria verificabilità, quindi è autonoma. Tutte le
scienze sono subalternate ad essa, in quanto è il metodo di tutte. Questa scientia experimentalis è
la matematica, che pone la mente a diretto contatto con le cose, e su essa si fondano, in ordine
ascendente, l'ottica, poi l'astronomia e la magia (?), e poi l'etica, che ha come oggetto il fine della
vita umana: la felicità. È impossibile comprendere la vera felicità senza Dio, e per ottenerla la
ragione deve riconoscere i propri limiti e affidarsi alla teologia, che è la scienza più in alto nella
gerarchia. La conoscenza che Dio ha del vero, trasmessa dalla Rivelazione, è l'acquisizione più
diretta e intuitiva delle cose, quindi la teologia è la più compiuta scientia experimentalis. La fede è
una conoscenza preparatoria a quella sperimentale, in quanto permette di anticiparne i risultati; la
fede è un'illuminazione con cui Dio immette nell'anima la conoscenza della verità. La teologia è
una conoscenza matematica (intuitiva e immediata della realtà) e rivelata, perciò si può chiamare
sapientia. Dio ha comunicato la sapientia ai primi umani dopo il peccato originale, e loro l'hanno
trasmessa di generazione in generazione, corrompendola man mano, finché non è riemersa,
distorta, nell'insegnamento dei filosofi; con la rivelazione cristiana l'umanità ha di nuovo accesso
alla sapienza, ma dev'essere ripulita dalle contaminazioni della filosofia. Comprendere la
Rivelazione è quindi la chiave per conoscere l'universo. Il perfezionamento della conoscenza
fondato sulla Bibbia segue sette gradi: l'illuminazione ricevuta secondo la scienza, secondo la
virtù, secondo lo Spirito Santo, secondo le beatitudini evangeliche, secondo i sensi spirituali,
secondo i frutti spirituali, e secondo l'estasi.

4. Giovanni Duns Scoto

Giovani Duns Scoto, il “dottor sottile”, è nato in Scozia, ha studiato a Oxford, teologia a Parigi,
dove ha insegnato, è morto a Colonia nel 1308. Le sue opere sono tutte legate alla didattica
universitaria, da ricordare l'Opus Oxoniense (o Ordinatio), summa della sua teologia, e la Lectura
prima. Secondo Scoto la scienza naturale è rigorosa ma incapace di affermazioni assolute, e la
conoscenza sovrannaturale è perfetta e veridica ma si ottiene solo rinunciando al rigore e alle
regole di necessità e efficacia della scienza.

a) Theologia in se e theologia in nobis


Se è conoscenza, la teologia deve poter considerare in modo totale il suo oggetto. Tutte le verità
teologiche sono in Dio, che è quindi l'oggetto della teologia, considerato in sé, ossia come essenza.
L'essenza di Dio è perfetta e infinita, quindi inconoscibile. Solo un intelletto capace di conoscere
l'essenza divina può essere teologico. Ma l'intelletto delle creature può conoscere solo ciò a cui è
proporzionato. L'essenza divina è proporzionale solo all'intelletto divino. La theologia in se è
quindi la conoscenza che Dio ha di sé, mentre la theologia in nobis è solo la porzione di questa
conoscenza che l'uomo è adatto a ricevere. La theologia in nobis non si occupa di Dio in sé, ma del
concetto di ens infinitum, che è la migliore rappresentazione di Dio a cui possiamo arrivare. Ad
esso bisogna ridurre tutti gli altri concetti che si riferiscono al divino, e quindi ad ogni perfezione.
Con la sola filosofia l'uomo non può esaurire la pensabilità delle perfezioni dell'essere, in quanto
ogni oggetto conosciuto nel mondo del finito rinvia a qualcosa di più perfetto. La massima
pensabilità dell'infinito è nella Scrittura, che racconta tutte le possibili relazioni della creazione con
il creatore: grazie ad essa l'uomo le pensa e affina la sua capacità di riconoscere la natura
corrispondente all'ens infinitum. La nostra theologia conosce le perfezioni dell'ens infinitum, e le
coglie come oggetti di una conoscenza argomentativa, che si sostituisce alla Rivelazione, su cui si
fonda.

b) Teologia e filosofia

La metafisica conosce l'essere come oggetto determinato, la cui verità e fondata sui principi primi
della logica e da rapporti di causa e effetto; la teologia considera l'essere come orientato ad un fine,
ma presuppone l'impossibilità di cogliere il fine con una conoscenza interna alla natura, in quanto
un fine interno al creato sarebbe finito e rimanderebbe ad altri fini. I teologi devono aprirsi ad una
conoscenza che va oltre quella naturale e quella metafisica, perché la natura, a differenza dell'ens
infinitum, non è perfetta. La Rivelazione, dono gratuito di Dio, è per la theologia nostra anche una
fonte di conoscenza che supplisce alle incapacità della natura di conoscere la verità. La
Rivelazione mette in atto e determina la potenza passiva (potentia oboedientialis) dell'intelletto
con un'informazione soprannaturale.

c) Lo statuto scientifico della teologia

Le verità della Rivelazione sono verità complesse, ossia espresse dal punto di vista logico in forma
di proposizioni costituite da termini concettuali: l'intelletto può comprendere i singoli termini che
le costituiscono, ma non può avere conoscenza naturale di esse come proposizioni. Sono le
preposizioni e non i concetti della Bibbia a condizionare la conoscenza umana. La conoscenza data
dalla Rivelazione consente all'intelletto di conoscere l'oggetto in un modo che gli sarebbe possibile
solo se potesse averne esperienza evidente (che è impossibile). Dio è il subiectum della metafisica
e della teologia: la metafisica solo in quanto astratto e senza attributi, la theologia in nobis in
quanto rivelato, la teologia degli angeli e dei beati in quanto essere perfetto conoscibile per
illuminazione (è la migliore possibile per una creatura, ma è ancora limitata dalle loro imperfette
facoltà conoscitive), e la theologia in se di Dio in quanto essenza. La theologia in se non è
scientia, in quanto non procede in modo sillogistico, mentre quella dei beati è scientia perché
distingue tra oggetto divino e le sue proprietà. Se per scientia si intende un sapere vero
contrapposto all'opinione, allora la conoscenza dei contingenti in teologia (come l'incarnazione di
Cristo) non è contrario al suo essere scientia. Le scienze inferiori non possono dare nessun
sostegno alla teologia, in quanto non possono conoscere il soprannaturale rivelato, e la teologia
non può fornire alle altre scienze nessuna informazione, in quanto segue metodi diversi. La
teologia è pratica e soteriologica. La prassi è un atto della volontà che segue a un giudizio, quindi
un'azione giusta è conforme alla ragione, e non c'è differenza tra funzione conoscitiva e pratica
nell'intelletto (se non che la seconda e mossa da volontà). In teologia non c'è differenza tra
significato teoretico e pratico: affermando la verità del bene essa dirige la volontà verso esso, ed è
l'unica scienza a fare questo.
d) Metafisica e ontologia: l'univocità dell'essere

La filosofia non può esprimere giudizi sul soprannaturale, ma non ha limiti all'interno dell'ambito
della conoscibilità naturale dell'essere. Secondo Averroè, l'oggetto della metafisica è Dio come
causa prima dell'universo, secondo Avicenna l'oggetto della metafisica è l'essere in quanto essere e
ciò che gli pertiene. La seconda opinione, sostenuta da Scoto, assicura alla metafisica un suo
ambito proprio e una sua autonomia. La metafisica dice di Dio tutto ciò che può comprendere per
via razionale come proprio dell'essere primo, come prima causa e perfezione dell'essere in sé.
Tutto ciò che è intelligibile include la nozione di ente (come generi e specie) o è contenuto in essa
(come le affezioni). Tutto ciò che la ragione conosce è essere, e la ragione può conoscere tutto ciò
che è: l'essere in metafisica è univoco. Un discorso analogico è possibile se si conosce l'analogato,
ma poiché l'essere di Dio è superiore a quello delle creature, queste non possono essere l'analogato
del discorso su Dio (o Dio avrebbe analogiche imperfezioni); quindi l'analogato dovrebbe essere
Dio stesso, che in partenza non si conosce. La metafisica quindi non conosce per via analogica.
L'essere è colto dalla metafisica nella sua univocità, come concetto in grado di sostenere sia
l'affermazione sia la negazione del suo significato, quindi è atto a fare da medio sillogistico.
L'univocità vale sul piano della realtà (ente fisico) e su quello della logica (ente logico), perché
appartiene all'essere prima di qualsiasi determinazione (ente metafisico). È concepibile come
essere solo ciò che si estende a tutto ciò che è: l'essere univoco è quindi il concetto primo
dell'intelletto, e precede qualsiasi determinazione e differenziazione dei propri modi di attuazione.
Comprende il finito e l'infinito.

e) L'essere infinito

Per comprendere gli attributi di Dio non si può partire dagli attributi dell'essere finito, per poi
trascenderli per analogia, ma bisogna considerare l'ens infinitum in quanto tale. L'esistenza di Dio,
che è dimostrabile in base alla sua concepibilità come infinito, non è evidente, altrimenti sarebbe
anche indimostrabile. La concepibilità dell'essere infinito implica una serie di predicazioni: è
immutabile, eterno, immenso, ubiquo, invisibile, ineffabile, uno, vero, buono, necessario e
possibile, in atto e in potenza, perché lo è in modo trascendente al finito. Pensare l'ente primo
significa pensarlo come causa efficiente, ultimo fine e somma perfezione. Ogni ente ha una causa,
e per evitare di risalire all'infinito nella serie delle cause bisogna concepire la causa prima. Stesso
ragionamento con il fine e la perfezione. Usare queste argomentazioni per dimostrare la necessità
di Dio significherebbe dimostrarla in base al finito e all'imperfetto, mentre Dio è molto di più dei
suoi effetti. Scoto invece suggerisce di pensare alla verità degli intelligibili che il nostro intelletto
conosce, e che se sono veri è perché sono pensabili in un intelletto perfetto infinito; alle perfezioni,
che sono contenute in una perfezione superiore; ai fini, che si risolvono in un fine ultimo. L'essere
infinito è tale se si dimostra la sua pensabilità come infinito, e la pensabilità consiste nella sua non-
contraddittorietà. Il finito ammette qualcosa di superiore, l'idea di infinito non è contraddittoria,
quindi il finito rimanda all'infinito. Dio è perfetto e possibile, quindi esiste.

f) Il volontarismo divino e le sue conseguenze: realtà e conoscibilità dell'essere finito

L'essere finito non è dimostrabile, perché è un fatto evidente. Esiste soltanto perché la causa
infinita di tutti gli infiniti possibili lo fa essere. La causa divina è infinitamente libera, dunque solo
l'onnipotenza divina porta le cose a passare dall'intelletto divino, in cui sono possibili come
intelligibili, alla realtà spazio-temporale, dove sono possibili come effetti. Ci sono due tipi di leggi
nell'universo: le leggi naturali, tramiti della volontà divina, e la stessa volontà in modo diretto. La
potenza divina è il principio causale di ogni cosa e ogni evento. Ogni determinazione dell'essere
dipende dal fatto che Dio la vuole. L'unica determinazione possibile dell'essere è il suo essere
stesso, la sua esistenza che fa essere ogni cosa nel modo in cui è: la sua haecceitas, ossia la
differenza individuale, conoscibile in modo intuitivo dall'intelletto nella sua singolarità. Scoto
distingue tra conoscenza intuitiva della realtà, che è sufficiente a riconoscere l'esistenza singolare
di una cosa, e la inferiore conoscenza astrattiva, con la quale l'intelletto tenta di cogliere una natura
comune di una cosa finita, vedendola come specie, indifferente alla sua esistenza effettiva. Scoto
introduce una concezione sperimentale, non aristotelica delle scienze naturali. Oggetto di questa
scienza saranno non le connessioni causali tra le res, ma le loro relazioni di compossibilità,
espresse con proposizioni complesse intuitive. La materia ha una predisposizione naturale ad
essere formata da tutte le possibili forme, capaci di includere in sé forme inferiori, che si uniscono
alla materia per realizzare la cosa singolare. Le forme possono essere misurate in base a un loro
aumentare o diminuire di efficacia in un composto, i cui elementi sono distinguibili perché hanno
definizioni diverse, ma non sono realmente distinti perché sono uniti e inseparabili. Tra gli
elementi costitutivi di una res c'è quindi solo una distinzione formale (distinctio formalis)

g) La distinctio formalis e le sue conseguenze: l'eterna predestinazione di Cristo

Grazie alla distinzione formale si spiega perché non comporta alterazione dell'unità divina la
trinità o l'incarnazione del Verbo in Cristo. L'incarnazione è predestinata perché il mondo è stato
creato per accogliere il Verbo, che si distingue dalle altre persone divine in quanto è caratterizzato
dal suo relazionarsi ad altro nell'amore. La salvezza dell'umanità e il rimedio al peccato di Adamo
è solo una ragione dell'incarnazione. Maria è preservata dal peccato perché è stata predestinata a
essere madre di Cristo, e l'immacolata concezione, che incrementa la dignità della venuta di Cristo,
è probabile, e quindi è stata scelta.

h) La volontà umana e la sua libertà

La volontà umana, il cui fine è il Sommo Bene, Dio, agisce con libertà in base alle informazioni
che riceve dall'intelletto. Distinguendo tra atto di natura, necessitato, e atto di volontà, libero,
quest'ultimo è il moto razionale di una potenza in grado di scegliere tra oggetti distinti, senza
alcuna dipendenza dall'intelletto, perché non è obbligata a rispettare la valutazione dell'intelletto
della maggiore o minore dignità di un bene. L'intelletto non sa riconoscere l'essere infinito e quindi
non può confrontarlo con i beni finiti: la volontà è libera di scegliere i gradi intermedi del suo
tendere al fine ultimo. Anche sul piano morale esistono due tipi di leggi: la legge naturale
(potentia ordinata), e la legge divina corrispondente all'efficacia della potentia absoluta. La
rivelazione guida la volontà nel suo perfezionamento: nel rispetto della legge naturale, che detta i
fondamenti dell'etica (perseguire il bene e evitare il male) e in quello della legge divina, che aiuta
l'uomo con normative superiori (i comandamenti) a orientarsi nella scelta dei beni. Solo la
Rivelazione mostra la maggiore o minore coerenza dei beni con il Bene supremo.

Capitolo 7. L'autunno della speculazione medievale


Parte I. Il dibattito filosofico e teologico nell'età di Giovanni XXII
4. Guglielmo di Ockham

Guglielmo afferma che la logica è lo strumento principale e la garanzia della scientificità delle
scienze. Ockham fonda la sua rilettura della logica aristotelica su una considerazione concreta e
singolare di ciò che corrisponde al significato dei concetti logici. Questa regola dell'unità e
semplicità del reale sostiene il progetto di Ockham di restaurazione del sapere cristiano, svincolato
dall'essenzialismo greco-arabo. La logica riconosce verità in ciò che è per il fatto di essere stato
voluto in questo modo dall'onnipotenza divina: solo ciò che è singolare, semplice, conoscibile nel
proprio contingente modo di essere.

a) Il “Venerabilis Inceptor”
Guglielmo è nato nel 1280 ad Ockham. Ha studiato a Oxford, non ha mai conseguito la licenza
magistrale in teologia, nel 1324 è stato accusato di eresia; si converte alla corrente pauperistica
degli Spirituali; viene condannato per eresia, fugge da Roma e si stabilisce a Monaco. Muore nel
1347. È autore di un commento all'Organon, l'Expositio aurea, un Commento alle Sentenze (noto
come Ordinatio), la Summa logica, scritta per difendersi dalle accuse di eresia.

b) La teoria della verità: notitia intuitiva e notitia abstractiva, termine incomplexum e


complexum proposizionale

La logica si basa sui termini non solo come elementi delle proposizioni e delle dimostrazioni, ma
soprattutto perché è nel modo di significare proprio del termine logico che bisogna cercare le
corrispondenze tra pensiero e realtà. Tra notitia intuitiva e notitia abstractiva solo la prima può
informare sulla realtà di un oggetto. Scoto sbaglia nel considerare intuitiva solo la percezione
sensoriale della presenza esterna dell'oggetto: anche le operazioni intellettuali e le passioni
possono essere percepite in modo intuitivo, e soprattutto i principi primi della logica, da cui
derivano proposizioni necessarie, che sono evidenti anch'esse. È intuitiva ogni apprensione
semplice che consente di sapere se una cosa esiste o no, è astrattiva ogni conoscenza che coglie
l'oggetto a prescindere dalla sua esistenza e dalle sue caratteristiche contingenti. La seconda è
causata dalla prima, e si produce quando la conoscenza intuitiva non è più efficace, ma entrambe
conoscono gli stessi oggetti. I termini logici incomplexa (non in proposizioni) sono i fondamenti
del sapere umano, ma finché la conoscenza intuitiva ha a che fare solo con i termini, la sua
veridicità dipende dal suo significato, ossia al suo essere sostanza o qualità, non dalla sua realtà: il
termine da solo non informa sull'esistenza della res significata. Il giudizio sull'esistenza appartiene
al piano delle preposizioni, che connettono soggetto e predicato. L'incomplexum si apprende, il
complexum richiede assenso. Sono vere tutte le proposizioni singolari necessarie, ovvero evidenti
all'intuizione, quelle che derivano dai principi primi, le proposizioni universali necessarie, e le
proposizioni contingenti intuitive, relative al modo di essere degli individui: le proposizioni
singolari contingenti. Non sono vere le non evidenti proposizioni universali contingenti, prodotte
dalla conoscenza astrattiva non supportata dall'intuizione.

c) La dottrina della suppositio e il nominalismo

Aristotele distingueva nei termini della proposizione funzione soggettiva e predicativa (soggetto e
predicato). I logici del XIII secolo hanno elaborato la teoria della suppositio, che segue il variare
del valore di una parola in base alla sua posizione all'interno della proposizione. Questa dottrina
riguarda i termini categorematici, che da soli hanno un senso compiuto, distinti da quelli incapaci
di stare da soli, chiamati sincategorematici. A seconda dell'uso di una parola all'interno di una
preposizione, si distinguono vari tipi di suppositiones. Ockham distingue tre forme di suppositio:
suppositio materialis, quando il termine sta per se stesso come segno vocale o grafico (“uomo è
una parola”); suppositio personalis, quando il termine sta per ciò che significa, una realtà materiale
o no, singolare o universale (“l'uomo corre”); e suppositio simplex, quando il termine esprime
qualcosa di comune alle cose che rientrano nel suo significato, ed è diverso da ciò che esse sono
(“l'uomo è una specie). Quando il termine svolge una suppositio personalis a esso corrisponde una
res, mentre quando svolge una suppositio simplex, a esso non corrisponde una res ma un concetto
mentale. L'universale esiste solo nell'anima, ma quando (con la suppositio personalis), viene usato
per indicare qualcosa la di fuori dell'anima allora significa la realtà di tutti gli individui concreti
che rientrano nel significato del termine usato. L'universale è solo un'intentio che orienta il
conoscente verso la somiglianza tra più cose; per l'intelletto è evidente solo l'oggetto individuale. Il
“nominalismo” di Ockham è il primato dell'individuo, che è espressione del pensiero cristiano,
estraneo a qualsiasi ordinamento esemplaristico della realtà.

d) Il primato dell'individualità e i “rasoi di Ockham”


La logica non è per Ockham il riflesso della costruzione dell'universo, ma uno strumento per
conoscere l'essere reale di ogni individuo del creato. Tentare di ingabbiare l'onnipotenza divina ad
una costruzione umana è reso impossibile dal terminismo puro, capace di esprimere solo la realtà
del singolare. I “rasoi di Ockham” sono le formule logiche usate da lui e dai suoi seguaci, che
eliminano tutto ciò che è superfluo. Sono essenzialmente due principi: il principio dell'assolutezza
incondizionata dell'onnipotenza divina, e il principio dell'economia. Poiché Dio può tutto e poiché
Dio è il Sommo Bene, “è inutile derivare da più cose e più condizionamenti ciò che può accadere
in modo più semplice”; “Dio può tutto ciò che non è contraddittorio”; “non si deve porre pluralità
se non è necessario”; e primo di tutti, “gli enti non devono essere moltiplicati se non è necessario”.

e) La nuova concezione della scienza

La scientia non è un'adaequatio rei et intellectus, ma è la formulazione di un discorso sulla verità


delle preposizioni. La verità è una preposizione vera, la falsità è una proposizione falsa. Verità e
falsità di una preposizione dipendono solo dalla sua relazione con il modo di essere della cosa. La
scienza nasce dall'assenso alla verità di una o più preposizioni che concernono solo individui
singolari. La scienza non riguarda i singolari come mutevoli, ma le intenzioni dell'anima che
suppongono per le cose corruttibili, ossia universali (non reali ma mentali) che suppongono per i
singolari. Le scienze reali (come la fisica) risultano da termini che suppongono per realtà concrete,
le scienze mentali (come la logica) risultano da termini che suppongono per concetti della mente,
quindi sono vere solo nell'anima. La scienza deve essere necessaria e deve procedere per via
deduttiva, quindi la fisica è scienza non di oggetti naturali, ma delle proposizioni su di essi e la
logica è scienza delle proposizioni che si possono formare sugli oggetti mentali.

f) La teologia come sapienza

La fede è un ambito che produce verità certe. Secondo Ockham, l'ipotetica theologia in se non è
scienza né è descrivibile, perché non possiamo parlarne senza ridurla alla theologia in nobis.
Stesso discorso sulla teologia dei beati: sappiamo solo che è possibile. La theologia nostra dipende
unicamente dalla Rivelazione. La scienza richiede conoscenza di proposizioni evidenti, quali non
sono quelle della Rivelazione, altrimenti sarebbero riconosciute vere anche dai non credenti. La
teologia non è scienza ma è una conoscenza fondata sul credibile. Ci sono per il credente
conoscenze necessarie che hanno origine nella percezione intuitiva necessaria di quel che Dio deve
essere se esiste, ma non dimostrano l'esistenza di Dio. Sono relative alle proprietà divine essenziali
(la bontà, la sapienza, ecc), conoscibili in quanto evidenti, e sono vere perché dicono qualcosa di
dicibile su Dio che può essere colto dalla ragione. Il sapere teologico è composto da verità
dimostrabili in modo scientifico e altre no, altre teoretiche, altre pratiche. Il subiectum della
teologia in nobis si divide in ciò che il discorso teologico suppone, Dio, e ciò che suppone per Dio,
che è un concetto. La teologia è più che una scienza, è una conoscenza vera complessa, una
sapientia. La verità della perfezione divina è però unitaria e semplice, la teologia indica solo
l'essenza divina e non altro: ogni nome di Dio è un altro modo di dire “Dio”, e i suoi attributi si
risolvono nella non-distinguibilità delle perfezioni. La perfezione non è in Dio, è Dio. Però Dio
non è conoscibile dagli uomini, questa è la sua essenza: solo la Scrittura spiega come parlare di
Dio.

g) La libertà della fede

Come tutte le altre applicazioni del pensiero di Ockham ai vari ambiti del sapere, la riflessione
etica, ecclesiastica e politica ha fondamento nella Scrittura. L'uomo è mosso dalla sua
incondizionabile volontà, libera di agire verso le finalità che indica una fede altrettanto
incondizionata nell'autentico messaggio di speranza rivelato da Dio. Ockham aspira a purificare la
Chiesa dai condizionamenti terreni tramite la povertà francescana, che è legittimata dalla libertà di
realizzare i comandamenti di Cristo nelle forme evidenziate nei Vangeli. Il potere imperiale,
deputato al governo di questo mondo (nel rispetto della legge divina) è giustificato dalla
affermazione di Cristo che il suo regno non è terreno. Il potere pontificio è non di governo, ma di
servizio, come guida dell'umanità verso la beatitudine. Ritorna il principio di economia, che
elimina ogni struttura creata dagli uomini sopra l'ordine della realtà: l'ordine universale non
dipende dalla mente umana ma dalla volontà divina.

Finis

Potrebbero piacerti anche