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Stefano Zamponi

Le metamorfosi dell’antico: la tradizione antiquaria veneta


Convegno internazionale I luoghi dello scrivere da Francesco Petrarca agli albori dell’età
moderna
organizzato dall'Associazione Italiana Paleografi e Diplomatisti
(Arezzo, 8-11 ottobre 2003)

      Alla metà del Quattrocento, nelle più colte e ricche città del Veneto (prima fra tutte Padova, ma
anche Venezia e Verona) prende l’avvio un ritorno all’antico di nuova natura, che in poco più di
una decina d’anni muterà il volto del libro umanistico, riorganizzando profondamente l’assetto
grafico e i rapporti reciproci fra scrittura capitale, littera antiqua e corsiva all’antica.
      Si tratta di fatti che singolarmente sono in massima parte noti, ma che non trovano ancora
sistemazione in un quadro di sintesi (di cui in questa occasione vorrei tentare un primo abbozzo) per
la varietà dei protagonisti di queste vicende, che solo in alcuni casi s’identificano nella figura del
copista di professione (troviamo anche scultori, pittori, miniatori, antiquarii e personaggi eclettici,
come il Feliciano, che riuniscono in sé più competenze e abilità, quali letterato, copista, miniatore,
orafo) e per la conseguente varietà delle testimonianze grafiche, che debbono essere ricercate non
solo nei libri, ma anche nei documenti e nei prodotti, maggiori e minori, delle arti figurative del
periodo. L’inevitabile, parziale ignoranza di un panorama così vario, così difficilmente dominabile,
ha attardato anche la necessaria riflessione storica su un complesso di realizzazioni che trovano
evidente origine nella cultura grafica dell’Italia veneta e padana, ma presentano elementi rilevanti di
discontinuità rispetto a quelle pur profonde radici.
      Con questa relazione, affrontando brevemente tre oggetti di studio, vorrei esaminare proprio i
problemi connessi al senso della continuità e alla consapevolezza della cesura nella cultura grafica
antiquaria; i tre argomenti, che mi sembrano idonei per riflettere sui modi, i tempi, la specificità di
innovazioni che segnano profondamente la storia del libro in età moderna, sono: la restaurazione
della capitale di modello epigrafico classico; la normalizzazione che queste nuove maiuscole
comportano sulle più alte realizzazioni in scrittura umanistica; la nascita di un libro all’antica,
connotato da una nuova organizzazione dei testi iniziali e da un inedito repertorio di immagini.

La restaurazione della capitale


      In dieci anni, dal 1450 al 1459, avendo come centro propulsivo Padova, viene a realizzarsi, in
maniera definitiva e compiuta, la restaurazione di un tipo di capitale che prende diretta ispirazione
dai modelli della epigrafia romana di età imperiale. La nuova capitale è attestata dalle fonti più
disparate, fra le quali dobbiamo subito ricordare dipinti e sculture, ma trova la sua più alta
realizzazione nei libri manoscritti, nelle lettere iniziali colorate a pennello, accuratamente disegnate
secondo proporzioni geometriche, e conquista la sua massima diffusione sempre nel libro, nei titoli
e nel vario complesso delle scritture distintive. Per la capitale di esecuzione più alta, opera spesso di
raffinatissimi miniatori, ormai molti anni fa fu proposto il termine di littera mantiniana, spesso
usato fino ad oggi, ma che non ha una cogente giustificazione storica o stilistica; per le maiuscole
dei titoli per lo più si fa genericamente riferimento a modelli epigrafici. Adottando una soluzione
già proposta per la maiuscola greca, chiamerò queste due realizzazioni con un solo termine,
maiuscola antiquaria, che con la sua singolarità (articolabile in eventuali specificazioni) rimanda ad
una valutazione complessivamente unitaria dei diversi livelli stilistici della maiuscola restaurata; in
tal modo riprendo liberamente termini usati nella Hypnerotomachia Poliphili, ove le lettere delle
iscrizioni sono denominate exquisite littere latine antiquarie, maiuscole latine, littere romane. Il
termine che non userò, littera mantiniana, rimanda ovviamente ad Andrea Mantegna, certo il
personaggio più noto fra coloro che fra il 1450 e il 1460 diffusero l’uso delle maiuscole antiquarie.
Il nuovo tipo di maiuscole ebbero infatti la prima, pubblica ostensione negli affreschi che il giovane
Mantegna realizzò a Padova, fra il 1454 e il 1457 (secondo la ricostruzione di Meiss), nella chiesa
degli Eremitani, nella cappella Ovetari, affreschi in massima parte distrutti per eventi bellici ed oggi
conosciuti attraverso fotografie anteriori al 1944. Le immagini pubblicate ci mostrano le due
legendae di San Giacomo e di san Cristoforo all’interno di complesse architetture classiche,
fittamente popolate di colonne e trabeazioni, arcate ed are, armi e armati. Alle pareti di questi
edifici fanno mostra di sé tre epigrafi, che presentano maiuscole antiquarie incise nel marmo, in due
casi riproducendo il testo di due autentiche epigrafi classiche, conosciute dal Mantegna. Le lettere
di queste iscrizioni, armoniosamente distanziate l’una dall’altra, con le loro proporzioni larghe, le
grazie a completamento dei tratti, dipendono palesemente da modelli epigrafici, anche se nelle
prime realizzazioni (Giudizio di san Giacomo, c. 1454), ancora modesta è l’alternanza fra tratti
sottili e tratti pesanti [Tav. 1], più pienamente realizzata nell’epigrafe che fa da sfondo alla scena
del martirio di san Cristoforo (1457). Sempre nel 1454 una simile duplicità di esiti grafici si
presenta in un dipinto del Mantegna, la santa Eufemia ora al museo Capodimonte di Napoli, ove la
santa è raffigurata in un tabernacolo classicheggiante chiuso in alto da un arco in pietra. L’iscrizione
incisa nel tondo dell’arco (santa euphemia) ha un chiaroscuro piuttosto leggero, certamente minore
rispetto all’epigrafe alla base del dipinto [Tav. 2], concepita come un cartellino che reca un testo
manoscritto (opus andreae mantegnae mccccliiii). Questo è anche uno dei primi casi a me noti in
cui la restituzione di una maiuscola antiquaria, riprodotta come scrittura a mano, è coerente ed
armoniosa in tutti i suoi elementi.
      La matura consapevolezza formale che questa scritta testimonia non deve stupire: il ritorno
all’antico realizzato dal Mantegna si colloca in un ambiente patavino vivo di consapevoli
sperimentazioni grafiche, che già da alcuni anni si realizzano in maiuscole antiquarie, talora di
altissima qualità. Nel 1450 Biagio Saraceno, notaio, copista, cancelliere del vescovo di Padova
Fantino Dandolo, scrive uno splendido e sempre citato esemplare della cronica di Eusebio [Tav. 3],
in cui le maiuscole, liberamente eseguite, già mostrano nelle proporzioni e nel chiaroscuro di alcune
lettere (soprattutto C, D, M, R, V) la presenza dei nuovi modelli. Negli stessi anni, prima del 1452,
una situazione analoga (si vedano in particolare C, D, O, M, N, R) si presenta per i titoli della
legenda di san Maurizio [Tav. 4], un codice fatto preparare dal patrizio veneto Iacopo Antonio
Marcello per Renato d’Angiò, nelle cui straordinarie miniature si è voluto riconoscere la mano del
Mantegna. Sempre in questi anni Biagio Saraceno scrive non solo libri, ma nella sua veste di
cancelliere vescovile redige anche diplomi di laurea e privilegi: conosciamo tre originali di sua
mano nei quali possiamo vedere come in epoca molto precoce, fra 1452 e 1455, l’inizio
dell’invocazione (in nomine) sia in capitali di nuovo tipo, di altissima e controllata qualità [Tav. 5].
Pochi anni dopo, prima del 1457, un nuovo dono del Marcello a Renato d’Angiò, un manoscritto di
Tolomeo [Tav. 6], non solo mostra titoli in maiuscola di più solido assetto monumentale, ma
soprattutto presenta il primo caso databile con sicurezza di una lettera iniziale sfaccettata, credo in
rilievo, in cui la luce provoca una partizione fra zone in ombra e zone illuminate (un primo esempio
in assoluto del nuovo stile di iniziali si presenta qualche anno prima, nel 1453-1454, se accettiamo
la datazione proposta da de la Mare, in un codice scritto dal giovanissimo Bartolomeo Sanvito).
Questo modo di costruire le iniziali ha la sua realizzazione più perfetta e più consapevole appena
due anni dopo, nel 1459, in un manoscritto di Strabone conservato ad Albi, ancora dono del
Marcello e Renato d’Angiò. In questo caso le lettere, restituite da una finissima incisione
triangolare, prismatica, sono chiaramente concepite in rilievo [Tav. 7], si staccano da un fondo
geometrico dai colori vivi (rosa, blu, verde oliva, rosso), ed accentuano la fisicità dei loro corpi
grazie a fogliami, fronde e viticci che le avviluppano e talora le penetrano. La plasticità di queste
iniziali, che sono illuminate da una luce che viene dall’alto e da sinistra, è rimarcata dall’ombra che
il corpo della lettera getta sullo sfondo colorato da cui si distacca. Sempre in questi stessi anni, fra il
1455 e il 1460, si infittiscono gli esempi di manoscritti con iniziali antiquarie, realizzate a pennello,
diversamente concepite dai singoli miniatori: come lettera piatta, fusa in bronzo, applicata su una
superficie marmorea (il Solino del 1457 appartenuto a Bernardo Bembo, una delle figure centrali
della nuova cultura antiquaria [Tav. 8]), oppure di nuovo come lettera in rilievo avviluppata da
volute di foglie e fiori in uno Svetonio databile al 1460 [Tav. 9]. In tutti i manoscritti che ho appena
citato, accanto a queste iniziali di pennello, per i titoli, per le formule di inizio e di fine si trovano
maiuscole antiquarie che, sebbene tracciate con la penna (quindi necessariamente in esecuzione più
sciolta), hanno un evidente impianto classico nelle proporzioni, nella spaziatura, nella presenza di
grazie e in un controllato gioco chiaroscurale. Gli esempi, soprattutto avanzando entro gli anni ’60,
si possono moltiplicare, con una più varia documentazione delle forme in cui la lettera iniziale
prismatica può essere realizzata: in rilievo, piatta o sfaccettata; incisa e sfaccettata; in forma di
lamina di metallo tridimensionale variamente piegata e arricciata [Tav. 10]. Procedendo poi fino
agli anni ‘70, oltre alle maiuscole antiquarie restituite dai manoscritti e dai dipinti, si possono
trovare anche esempi di epigrafi incise nella pietra che concretamente realizzano i nuovi ideali
umanistici. Molto note e studiate sono le due monumentali epigrafi progettate dall’Alberti, una nel
1467 per il Santo Sepolcro della cappella Rucellai, l’altra nel 1470 per la facciata di Santa Maria
Novella, più slanciate rispetto alla norma classica (i rapporti fra tratto più pesante ed altezza sono
rispettivamente 1:12 e 1:10,5), ma in questa occasione vorrei ricordare soprattutto un’epigrafe del
1468 (l’iscrizione sull’arco della Pescheria di Verona [Tav. 11]), giustamente attribuita al Feliciano,
e due epigrafi trentine, sulle quali sto lavorando, che ritengo sempre attribuibili allo stesso estroso
antiquarius: una è il motto delfico, Conosci te stesso, in latino e greco che contorna un oggetto
straordinario, lo specchio del vescovo Hinderbach nel castello del Buonconsiglio [Tav. 12], l’altra è
un’epigrafe commemorativa all’esterno del castello [Tav. 13], ambedue databili al 1475 o poco
dopo. In tutte queste realizzazioni felicianesche, gli aspetti essenziali, di morfologia e di stile, che
caratterizzano le maiuscole antiquarie sono riprodotte attraverso l’incisione nella pietra, con solco
triangolare di ampiezza variabile.
      L’insieme dei materiali che ho ricordato non supera il valore di una prima raccolta di esempi,
ma è già sufficiente per verificare in che cosa consista la discontinuità rispetto alla variegata
tradizione delle maiuscole umanistiche della prima metà del secolo, purché si riesca a definire ciò
che accomuna fra loro esecuzioni molto differenti, dall’iscrizione riprodotta in un affresco
all’epigrafe incisa nella pietra, dalla più rifinita iniziale di pennello alle maiuscole dei titoli tracciati
ad inchiostro, segnate dalla libertà della scrittura alla viva mano. Il nuovo che in tutte queste diverse
realizzazioni costituisce l’essenza della maiuscola antiquaria si definisce e si risolve in una ricerca
formale, in una equilibrata misura che si sostanzia di scelte esecutive: le lettere ripetono i modelli
classici per la morfologia (es. la M con i tratti esterni leggermente inclinati e tratti centrali che
toccano la base di scrittura; la P non chiusa; la presenza di grazie che danno solidità ai singoli
tratti); per le proporzioni, tendenti al quadrato (evidenti soprattutto nella C, la D, la O, la Q); per
l’armonica distribuzione dei tratti pesanti e leggeri, che segue rigorosamente l’alternanza del
modello romano classico; per i rapporti costanti, all’interno di una stessa realizzazione, fra
l’ampiezza del tratto di massimo spessore e l’altezza delle lettere (uno dei rapporti più comuni e
codificati, risalente a Vitruvio, è 1:10); per il succedersi arioso delle lettere che formano le singole
parole, a loro volta spesso distinte fra loro da interpuncta tricuspidali.
Come si vede sono fatti apparentemente molto circoscritti, ma che tutti insieme costruiscono una
compagine formalmente coerente: in quanto fanno sistema vengono a rivelare una discontinuità nel
rapporto con l’antico più profonda di quanto possa essere imputato a semplici scelte esecutive in
altri momenti e in altre situazioni nella storia della scrittura latina,. Non vorrei ripetere concetti già
espressi in altra sede una ventina di giorni fa, se non altro per rispetto dei cinque ascoltatori comuni
allora ed oggi, ma debbo comunque richiamare alcune caratteristiche dell’umanesimo grafico
veneto, che rendono comprensibile in termini storici questa innovazione che stiamo esaminando.
Nell’esperienza grafica veneta e più ampiamente padana, dai primi decenni del secolo, non sembra
percepibile un rapporto con l’antico come quello che si era definito a Firenze agli inizi del
Quattrocento, con un modello forte e genericamente normativo di littera antiqua. Piuttosto si assiste
a un ritorno all’antico che, radicandosi su una base tradizionale, trecentesca, mai del tutto rinnegata
(soprattutto leggere scritture corsive e bastarde, ma anche testuali semplificate), si realizza in una
sostanziale assenza di un canone comune e riconosciuto. Questa concezione dell’antico,
necessariamente più libera, più sperimentale, si connota fin dalle origini per l’apertura verso la
tradizione grafica bizantina, con le maiuscole greche variamente usate entro un contesto latino, e già
negli anni ’20, con un grandissimo copista, Sebastiano Borsa, dilata ulteriormente i suoi confini
[Tav. 14]: la pagina di Borsa presenta un’antiqua leggera, disseminata di lettere capitali usate come
minuscole, maiuscole alla greca, nessi, forme plurime per la stessa lettera. Questo tipo di tradizione
veneta rende storicamente comprensibile l’esperienza grafica di Ciriaco d’Ancona, sommo cultore
di antichità greche e latine, nella cui scrittura dell’età matura noi assistiamo, in una immota ed
estrosissima sincronia, alla dilatazione del concetto dell’antico nello spazio (mondo latino e mondo
greco, col recupero della tradizione bizantina come tramite essenziale per la riscoperta del mondo
classico) e nel tempo (esperienze scelte di scrittura dall’antichità classica in poi fuse in una scrittura
all’antica che si radica nella tradizione latina e greca del tardo Trecento [Tav. 15] e che attinge con
la scrittura delle epigrafi alle fonti esemplari dell’antichità – vorrei ricordare che proprio con
Ciriaco si registrano i primi, incerti esperimenti di restituzione di forme antiquarie [Tav. 16]).
      Ciriaco supera definitivamente il modello grafico dell’antiqua del XII secolo che è alla base
della riforma fiorentina, ma supera anche il richiamo alla tradizione carolina che era ancora
avvertibile nelle scritture all’antica settentrionali: direi soltanto che è estraneo a quel concetto di
antichità. Con la sua scrittura costruisce qualcosa che non è mai esistito prima, anche se tutti i suoi
elementi sono riconoscibili in epoche e situazioni diverse della scrittura latina e greca.
      La restaurazione delle maiuscole antiquarie a Padova, e poi in Veneto, realizza un ritorno
all’antico che, muovendo dalla lezione di Ciriaco, oltrepassa del tutto la mediazione della littera
antiqua. Il mito della renovatio diventa ora del tutto scoperto e cambia di segno: l’unica, vera
scrittura dell’antichità va ricercata nei marmi del periodo imperiale classico. Insieme a questa nuova
prospettiva del ritorno all’antico cambia anche la natura dei suoi protagonisti. Nel primo
umanesimo fiorentino la restaurazione della littera antiqua è inscindibile dalle figure di intellettuali,
filologi, letterati che in primo luogo studiano i testi classici e patristici e la loro tradizione
manoscritta e che di conseguenza propugnano il modello del codice in antiqua, anche nei suoi
aspetti materiali, poiché questo è il tramite ultimo, più corretto e diretto, della tradizione classica.
Nella Padova di metà Quattrocento le punte più avanzate della riforma scrittoria sono altri
personaggi, artisti, miniatori, copisti, antiquarii, che non si identificano certo in questa originaria
matrice fiorentina, sostanzialmente filologica e retorica, e procedono più scopertamente sotto lo
stimolo di sollecitazioni di natura estetica, formale, nutrite di cultura antiquaria. Con l’energia e
l’irriverenza della gioventù in pochi anni una generazione di ventenni (ricordo che nel 1455, a
processo già ben avviato, Mantegna ha 24 anni, Bartolomeo Sanvito 20, Biagio Saraceno fra i 25 e i
30, Felice Feliciano 22) risolve lo studio della capitale epigrafica in una forte normalizzazione
classicista, con la definizione delle maiuscole antiquarie: per la prima volta nella scrittura del
Quattrocento si assiste alla formale determinazione e fissazione di un canone rigido.
      Questo aspetto normativo emerge ben presto, sempre nel decennio che stiamo esaminando, in
una trattatistica finalizzata alla costruzione delle capitali. Fra il 1459 e il 1460 Felice Feliciano
realizza il primo manuale per la costruzione delle maiuscole antiquarie secondo modelli geometrici,
denominato Alphabetum Romanum dal suo editore moderno [Tav. 17]; altri seguiranno, fino alla
più recente scoperta, un trattato sempre quattrocentesco, veneto e forse padovano, che presenta il
bellissimo titolo Regola a fare letre antiche. Non si tratta di novità assolute, perché modelli
geometrici esistevano anche per le maiuscole gotiche, ma in questi trattati sulle capitali certo
colpisce la loro forza normativa, il richiamo esibito e fortemente ideologico all’esempio
perfettissimo dell’antichità, l’uso razionalistico degli strumenti della geometria classica, come la
riga e il compasso, l’armonia ricercata attraverso proporzioni approvate da una tradizione che risale
fino a Vitruvio.
      Negli stessi anni, insieme a questa ricerca formale, si affina la riflessione sul concetto di antico,
con una netta innovazione sul piano delle concezioni paleografiche: a partire dalla metà del secolo
si presentano le prime affermazioni che la vera, l’unica scrittura antica della latinità romana è la
capitale, quale è documentata da epigrafi, da monete e da alcuni venerandi codici tardoantichi.
Questa concezione non tarda a ricevere una realizzazione pratica, anche se effimera, col concorso
del più inventivo antiquarius del periodo, Felice Feliciano. Intorno al 1463 (ben prima quindi
dell’analogo esperimento che in campo greco fu realizzato da Giano Lascaris nel 1494 con la
stampa dell’Anthologia Graeca) Feliciano confezionò un breve testo in traduzione latina, l’Ercole
Senofontio, un piccolo manoscritto membranaceo, forse un codicetto di dedica, scritto tutto in
capitale, ricco di richiami ai modi decorativi ottoniani e ai cromatismi del codice greco [Tav. 18],
che diventa il primo manifesto, implicito ma non per questo meno definitivo, della riforma grafica
più radicale, che identifica la vera littera antiqua in testi scritti soltanto in maiuscole antiquarie. Lo
stesso testo, credo sempre negli stessi anni, è copiato di nuovo da Feliciano in un manoscritto
cartaceo, di uso personale, che nella seconda parte presenta lo pseudo Catone, De re militari, scritto
in un’ornatissima minuscola ciriacana di fasto barocco. In questo caso la maiuscola è collegata ad
una soluzione ancora più estrema e radicale, del tutto estranea alla tradizione libraria, perché ogni
pagina, che contiene poche linee di testo [Tav. 19], è concepita come un’epigrafe rettangolare che si
erge fra ampi margini bianchi, senza alcuna decorazione; la successione delle pagine è assimilabile
a una sequenza di singole epigrafi, in cui il testo è diluito in una serie di unità minime. In tal modo
ha concreta attuazione un progetto estremo e tremendo, un tentativo destinato peraltro alla
marginalità e all’insuccesso, che realizza con assoluta coerenza il fine ultimo della riforma grafica
antiquaria, l’immota e opaca staticità del canone della capitale, ma avanza tacitamente un proposta
che appena formulata risulta definitiva e irreversibile, perché la capitale, avvertita come sorgente
prima della scrittura latina, una volta restaurata è anche approdo ultimo, immoto ed immutabile, in
cui tutta la storia della scrittura si ricapitola e muore.
La normalizzazione classicista della littera antiqua e della corsiva all’antica
      Entro pochi anni, già nel decennio 1460-1470, nei manoscritti di più alto livello qualitativo le
maiuscole antiquarie svolgono un’avvertibile funzione modellizzante sulle scritture umanistiche alle
quali si accompagnano, l’antiqua e la corsiva all’antica. Ovviamente queste stesse maiuscole si
possono presentare anche in manoscritti più dimessi, che iterano i modelli tradizionali della scrittura
veneta e settentrionale (littera antiqua leggera e mossa; varie realizzazioni di corsive all’antica,
come quella del Feliciano), ma in questa occasione vorrei esaminare soltanto gli esiti di maggiore
impegno calligrafico, ove è scoperta ed evidente la consapevolezza dei risultati ricercati e ottenuti.
      I nuovi modelli di littera antiqua, occorre dirlo subito, hanno origine da una ricerca stilistica le
cui soluzioni non implicano novità strutturali, che toccano la morfologia delle lettere, ma
comportano solo una serie di minuti aggiustamenti grafici che ancora una volta si definiscono e si
esauriscono sul piano della forma. La riassettatura della materia grafica dell’antiqua avviene
attraverso un’esecuzione che privilegia la norma geometrica; questo risultato è assicurato da tratti
discendenti uniformi che terminano in forma semplice sulla base di scrittura, talora completati da
trattini orizzontali; aste ascendenti e discendenti di analogo peso ed esecuzione; curve il cui
spessore aumenta e degrada con attenta progressione geometrica. In sostanza si rinuncia a quella
alternanza di spessori, a quel movimento che nella tradizione fiorentina, ma anche in molte
realizzazioni venete, era garantita dalla presenza di trattini di attacco e stacco, variamente inglobati
o prominenti rispetto al tratto discendente [Tav. 20, Tav. 21, Tav. 22]. Il risultato è una
fondamentale rispondenza stilistica della minuscola con l’immoto ordine delle capitali, un’antiqua
realizzata sempre più consapevolmente come scrittura statica, che non deve manifestare il
movimento della viva mano, una scrittura che gioca sempre più sul piano della regolarità, della
ricerca di proporzioni costanti, della iterazione attenta dei singoli elementi costruttivi (aste,curve,
grazie). Già entro gli anni ’70 diversi sono i possibili esempi, dai copisti noti, italiani e transalpini,
ai copisti anonimi, in ogni caso molto precoci rispetto alle più mature realizzazioni, sempre citate,
del Pagliarolo e del Sallando, attivi fra gli ultimi decenni del Quattrocento e gli inizi del
Cinquecento.
      L’avvio del processo di normalizzazione e stilizzazione della littera antiqua nelle forme
dell’antiqua tonda, di solito considerato nella letteratura paleografica in un continuo, dialettico
rapporto con la fissità della stampa, deve quindi essere spostato indietro di quasi venti anni e trova
diversa e più ricca motivazione proprio nei modelli della maiuscola antiquaria, che assolve la
funzione di indubbio paradigma normalizzatore, al quale può riferirsi la ricerca di una sempre
migliore regolarità geometrica, spesso accompagnata da un più netto rilievo assunto dalla lettera
singola, come unità di base del testo scritto (un fenomeno che poi diventa evidentissimo nella
stampa).
      Ancora, sempre dalla fine degli anni ’50 in poi, si normalizza in sede libraria una corsiva
all’antica di grande qualità e solo allora nasce, per ripetere l’espressione di Ullman, il vero rival
system della littera antiqua, che con perdonabile anacronismo possiamo già chiamare cancelleresca
italica, utilizzando un termine attestato dai primi trattati di scrittura italiani. Molti esempi sono
ormai noti, grazie ai lavori di Wardop, Ruysschaert, Albinia de la Mare e a una recente, ricchissima
mostra padovana [Tav. 23, Tav. 24]: la tradizione della corsiva all’antica si risolve (ed insieme
diventa altra da sé, si estingue) in una scrittura di altissima qualità, molto normalizzata nei suoi
elementi e nelle scelte stilistiche, la cancelleresca di Bartolomeo Sanvito, attivo prima a Padova, poi
a lungo a Roma, da cui il nuovo modello si diffonde in tutta Italia (bisogna ricordare che Sanvito
ebbe vita lunga ed eccezionalmente operosa, tanto che al momento possono a lui attribuirsi 116
manoscritti, più 6 parzialmente autografi, più una sessantina in cui ha inserito le sue splendide
maiuscole antiquarie).
      La fissazione dei modelli della cancelleresca italica, di cui Sanvito è certamente il copista più
noto, non avvengono con un processo di normalizzazione solo formale, come era stato per l’antiqua
tonda. Come abbiamo accennato, sul piano della corsività la tradizione grafica umanistica in Veneto
era particolarmente variegata, intessuta di lettere greche e di capitali, di nessi e di legature singolari.
Ora questa ricchezza, questa varietà viene rapidamente a depauperarsi, in un processo di selezione
che conserva soltanto poche, singole forme. Prendiamo l’esempio di Sanvito, e una realizzazione
formale della sua cancelleresca. Secondo la migliore tradizione veneta abbiamo di fronte una
scrittura piuttosto leggera, appena inclinata verso destra, che esibisce le lettere fondamentali della
tradizione corsiva, la a corsiva, la f e la s che discendono sotto la base di scrittura, la s tonda a fine
parola. Si troveranno poi, variamente distribuite secondo i periodi di attività e il livello grafico, altre
lettere della tradizione veneta, la T alta alla greca, la Q maiuscola e la G onciale usate in funzione di
minuscola, alcune singole legature alla greca di tradizione ciriacana (lo, ho, sp), Le lettere ‘altre’
rispetto alla normale tradizione corsiva, così come le legature, fra le quali risaltano le tradizionali
legature ‘latine’ ct e st, in forme particolarmente ampie, ricche di slancio, rivestono anche
un’indubbia funzione decorativa, rendono più mossa la pagina, così come sembrano in fondo
ricercate o tollerate, a fini espressivi, modeste irregolarità nella costruzione e nella successione delle
lettere. Per il resto, la cancelleresca di Sanvito si risolve nel sovrano dominio della forma: una
esecuzione controllata e posata, tratto dopo tratto, per lo più evitando reali legature, del tutto
assimilabile all’antiqua dello stesso copista per qualità e livello formale, perfetto corrispettivo di
maiuscole antiquarie di assoluta perfezione.
La nascita di un nuovo libro all’antica
      Sempre a Padova e in Veneto, nello stesso periodo di 10-15 anni, accanto a questa sperimentazione grafica, nasce un
nuovo tipo di libro all’antica, in cui il mito della renovatio dell’antichità romana classica è del tutto scoperto
nell’apparato decorativo. Se abbiamo in mente gli affreschi di Mantegna nella chiesa degli Eremitani ci rendiamo
immediatamente conto come queste immagini, e altre analoghe, attingibili presso lo stesso circolo di artisti e antiquarii,
si risolvano in un vero e proprio repertorio iconografico che si alimenta dallo studio delle antichità romane, delle
epigrafi, delle rovine. Da un primo censimento, ancora molto sommario, mi parrebbe che la classicità si risolva in
repertorio, in combinatoria di certo numero base di immagini; i manoscritti, talora coloratissimi, si popolano di
cornicioni, colonne, templi, altari, lapidi, cornucopie, putti, tabelle, tondi, festoni, candelabre, lance, scudi, vasi, troni,
tempietti, monete, medaglie, sfingi, sirene, delfini, satiri itifalli, trionfi di carri e cavalieri, scene mitologiche.
L’enumerazione, volutamente disordinata, intende solo prospettare la necessità di un censimento ancora da realizzare
(oggetti, modelli, colori); ai nostri fini ora è sufficiente osservare che nascono soluzioni destinate a grande popolarità sia
nei manoscritti che nei libri a stampa. Ancora prima del 1460, in un piccolo manoscritto attribuito a Sanvito (pergamena
colorata, inchiostri d’oro e d’argento) il titolo del testo è in una singola pagina iniziale, all’interno di una piccola edicola
[Tav. 25]. Il titolo che è a fronte del testo, ma autonomo rispetto ad esso, è una vera innovazione, destinata a grande
successo nei manoscritti.
      Ancora, la forte presenza nel manoscritto di elementi architettonici classici (marmi, are, edicole, colonne, templi)
suggerisce collocazioni finora impensate per la scrittura, soprattutto per i titoli e le formule iniziali del testo [ Tav. 26].
Fin dai primi anni ’60 le strutture architettoniche diventano sede di scrittura, talora in forma del tutto naturale (il testo
inciso sul marmo dell’epigrafe, sul cornicione del tempio, su una facciata dell’altare), talora con invenzioni ricche di
fantasia, destinate a perpetuarsi nella stampa fino al XVI secolo (il tempio col suo basamento, colonne e timpano
diventa il supporto a cui è fissata una finta pergamena, lisières e fori compresi [ Tav. 27]). In questi nuovi manoscritti
all’antica il rapporto fra le scritture e lo sfondo architettonico valorizza al massimo le qualità formali delle nuove
scritture riformate.
      Tentiamo qualche conclusione, seppur provvisoria. A Padova e nelle più importanti città venete, in meno di venti
anni, si viene a realizzare una forte normalizzazione classicista su base formale di tutti i piani dello scrivere (maiuscola,
antiqua, corsiva all’antica), che relega l’inventiva e la fantasia della tradizione veneta soprattutto ad aspetti esteriori e
decorativi (pergamene colorate, titoli policromi, grande repertorio di immagini classiche continuamente combinate in
modo diverso) e fissa in anni piuttosto precoci, almeno rispetto alla comune consapevolezza, le qualità formali delle
scritture umanistiche che saranno recepite nella stampa.

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