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Storia degli ebrei nell’Italia moderna

PARTE PRIMA
1. Demografia e distribuzione geografica
- Quanti erano?
Sul piano demografico, l’Itali è connotata da una presenza ininterrotta di
ebrei sul suo territorio nell’arco di oltre ventidue secoli. Agli inizi dell’età
moderna gli ebrei in Italia oscillavano tra i 35.000 del XV secolo e i
50.000 del XVI secolo. Le ragioni della crescita rapida della popolazione
ebraica tra quattro e cinquecento sono da individuare nelle correnti di
immigrazione verso l’Italia che, a partire dal XIV secolo, coinvolsero
correligionari provenienti dalla Francia, dalla Provenza e dalla Germania.
Nel corso del XVII secolo l’ebraismo italiano era ridotto a circa 21.000
persone, concentrate per lo più nelle città grandi e medie che avevano
istituito i ghetti. Roma restava una delle comunità ebraiche più
importanti.

- Dove erano? La grande migrazione da Sud al Centro- Nord


Nel ‘500 la geografia dell’ebraismo italiano venne profondamente
mutata, con un rovesciamento clamoroso non privo di conseguenze
sociali e culturali. L’espulsione dalla Sicilia, decretata dai sovrani spagnoli
nel 1493, e quella del regno di Napoli, nel 1541, determinarono la
scomparsa delle comunità ebraiche del meridione e lo spostamento
dell’asse insediativo nel centro-nord della penisola per quanti non
abbandonarono l’Italia in direzione di altri lidi più accoglienti, come i
paesi del levante mediterraneo. È stato riscontrato che tra il XIV e il XV
secolo erano almeno seicento le località in cui viveva una o più famiglie
di ebrei e, in ogni modo, gli insediamenti ebraici nell’Italia settentrionale
e centrale erano oramai consolidati.
La situazione degli ebrei nell’Italia meridionale andò deteriorandosi già
alla fine del XIII secolo, nel corso di una politica angioina oscillante tra
protezione e persecuzione.
Gli ebrei dell’Italia meridionale che non si convertirono finirono così per
scegliere la via di Roma e del nord o si dissero fuori dalla penisola verso
le città dell’impero ottomano.

- Stato giuridico e rapporti con le autorità cristiane: la questione del


prestito
Il flusso migratorio dei banchieri che, da Roma muoveva verso nord per
impiantare banchi di prestito, provocò numerosi insediamenti nei territori
dello stato della chiesa, specialmente nelle attuali Marche e in Umbria.
Dal centro della penisola le famiglie dei mercanti-banchieri si espansero
verso nord, in Toscana, a Urbino, nei ducati di Mantova, Ferrara e
Milano. Ma accanto e in parallelo alla corrente migratoria da sud formata
dagli ebrei italiani, ossia di origine italiana, ne esisteva un’altra,
proveniente da nord, costituiva da gruppi di ebrei giunti della Francia e
soprattutto dalla Germania, che raggiunsero il Veneto e il Friuli e
successivamente il Piemonte.
Le ragioni per cui gli ebrei erano ammessi nelle terre cristiane e in
particolare in quelle pontificie, va notato che la presenza ebraica nella
società cristiana era tollerata dalla chiesa in base alla dottrina elaborata
da sant’Agostino, che restò sempre alla base dell’atteggiamento dei
pontefici e delle autorità ecclesiastiche e che fu accettata dai giuristi, sia
canonici che laici, e dagli stessi governanti secolari cristiani.
Una seconda domanda, relativa alla specializzazione bancaria degli ebrei,
va sottolineato che le origini degli insediamenti ebraici nelle città del
centro nord erano appunto legate all’esercizio del prestito a interesse. Ma
occorre spiegare dinamiche e motivazioni che spinsero verso questo
fenomeno. Nel medioevo, in tutta l’Europa cristiana era assai diffuso il
piccolo prestito al consumo, in genere su pegno, a cui corrispondeva la
percezione di un interesse. Su questo settore cadevano la condanna della
chiesa e anche il discredito dell’intera società. La chiesa fu perciò ostile
alle attività dei banchi feneratizi e combatté tutti i prestatori. fino al ‘500
inoltrato la condizione giuridica degli ebrei dell’Italia centro-
settentrionale si mantenne tutto sommato favorevole. Le leggi cittadine
non riconoscevano, se non raramente, agli ebrei, lo statuto di cittadini,
anche se nei comuni italiani i titolari di condotte ottennero una sorta di
cittadinanza pro tempore, con i relativi privilegi. La questione non è del
tutto chiarita. Se secondo alcuni autori ancora nel medioevo gli ebrei
erano considerati cives, in condizione di parità rispetto ad altri cittadini,
ad esempio a Roma, per altri autori invece la loro natura di infami,
infedeli di dio, di incapaci di vera fede, rendeva assai ambigua e in ogni
modo incompleta la loro cittadinanza.

- Ebrei in giudizio
Nel frattempo si assiste a un progressivo ridimensionamento dell’autorità
vicariale a seguito della concorrenza tra diversi tribunali ecclesiastici e di
una pluralità di giurisdizioni che si occupavano degli ebrei. Le pene più
frequentemente comminate dal tribunale criminale del governatore
variavano dalla multa all’esilio, la pena più grave, mentre sembrerebbe
che fosse evitata la pena capitale. Gli ebrei potevano essere sottoposti a
giudici particolari, a loro deputati, o ai tribunali ordinari per le cause civili
e criminali. Per le questioni relative alla religione o alla morale anche nei
territori non pontifici erano attivi i tribunali vescovili, che spesso
entrarono in conflitto con i rappresentanti locali dell’inquisizione romana.
Nel campo civile e per questioni che riguardavano solo ebrei esistevano
anche dei tribunali interni agli stati, che risolvevano le controversie sulla
base della legge ebraica, ad esempio in materia matrimoniale,
successoria e dotale.

2. Insediamenti e networks. Topografia e caratteri degli ebraismi


italiani
La storia di ogni singolo insediamento ebraico non può che essere
condotta all’interno di un sistema più ampio rispetto alla singola
comunità e, d’altro canto, solo in tal modo si spiega il fatto che i
prestatori riuscissero a operare anche in realtà locali ridottissime.

- Nello stato della chiesa: la Marca


È possibile disegnare un atlante delle presenze ebraiche nell’Italia centro-
settentrionale tra la fine del medioevo e l’inizio dell’età moderna. Una
delle aree che ha avuto un ruolo primario quanto agli stabilimenti ebraici,
tra la fine del medioevo e gli inizi dell’età moderna, è quella delle Marche
attuali. Gli insediamenti marchigiani erano assai importanti. In
particolare a Urbino dove, prima del passaggio al dominio diretto dello
stato della chiesa, nel 1631, la finanza ebraica era divenuta un puntello
dell’autorità dei duchi della Rovere, che avevano concesso condizioni
particolarmente favorevoli a Pesaro, Senigallia e Ancona.nel corso del
‘500 gli arrivi di ebrei, di neoconvertiti e di marrani provenienti dalla
penisola iberica ingrossano gli insediamenti ebraici marchigiani, specie ad
Ancona.

- Il caso di Ancona. Una nazione in commercio o i privilegi dei levantini


Assai particolare è il caso di Ancona, sottomessa definitivamente allo
stato della chiesa nel 1532, Ancona intratteneva già da tempo relazioni
con l’impero ottomano e manteneva un console a Costantinopoli. Grazie
agli accorsi privilegiati stipulati con le principali nazioni mercantili che si
erano stabilite ad Ancona, grazie alle concessioni agli ebrei levantini e
portoghesi, emanate fin dal 1534 e rinnovate negli anni seguenti, nella
città vigeva di fatto, nel corso degli anni quaranta de ‘500, un regime di
grande libertà economica. Nel corso del ‘500, con il contributo attivo
delle differenti e composite comunità ebraiche che vi dimoravano,
Venezia e Ancona furono in Italia i due punti di convergenza dei traffici
internazionali tra Occidente e Oriente. I legami tra la nazione portoghese
di Ferrara e quella di Ancona erano molto sviluppati, come dimostra la
presenza in entrambe le città delle stesse famiglie di commercianti e
banchieri. Ma i rapporti di fiducia e di complementarietà economica si
erano creati anche fra ebrei sefarditi, italiani e ashkenaziti.
Gli ebrei di Ancona, distribuiti tra italiani, levantini e portoghesi, e
rinchiusi nel ghetto dal 1555, godevano di privilegi peculiari, rispetto al
resto degli ebrei della Marca pontificia, privilegi che duravano ancora in
pieno ‘700. Già un anno dopo, gli speciali privilegi degli ebrei levantini
non solo furono confermati dal papa, ma vi fu aggiunto il permesso,
allargato a tutti gli ebrei di ogni altra nazione residenti ad Ancona, di
“liberamente andare in qualsivoglia luogo di detto stato per riscuotere i
loro crediti per causa delle dette mercanzie, e perciò non possano essere
molestati da veruno”.
Immaginazione e concentrazione nel ghetto degli ebrei marchigiani
furono i due fenomeni che fecero di Ancona un nucleo ebraico più
consistente della ragione, che giunse a metà ‘500 a contare, fino 3000
persone.
Dopo le persecuzioni scatenate ad Ancona, fu colpita dal boicottaggio del
porto da parte degli ebrei che risiedevano nell’impero ottomano e il
sultano, su loro impulso, fede sequestrare i beni dei cittadini anconetani
che commerciavano con il levante. Ma il blocco di Ancona, che avrebbe
dovuto rilanciare Pesato, dove molti dei marrani anconetani si erano
rifugiati, finì per favorire soprattutto Venezia.

- Identità plurime. I marrani


La parola implica una contrapposizione ai cristiani vecchi, cioè originari, e
ha una forte componente soggettiva, si tratta infatti di un modo negativo
di classificare degli individui definiti in virtù di un’ascendenza ebraica,
diretta o dei loro antenati, che si riteneva mascherata da una
conversione poco convinta al cristianesimo. Con il tempo, e con
l’espulsione degli ebrei dai domini spagnoli nel 1492, la parola marrano
acquisì un’eccezione specifica, diventando per i cristiani sinonimo di
cripto-ebreo e di giudaizzante: dunque di simulatore e di persona doppia,
traditrice e infida, che si fingeva cristiana nei contesti in cui gli ebrei non
erano tollerati.

- Bologna papale e Ferrara estense


Nel corso del ‘400 il favore dei Bentivoglio, signori della città pur nel
quadro della sovranità papale, permise agli ebrei di rafforzare le loro
posizioni.
Un ruolo centrale nella storia degli ebrei italiani di età moderna è svolto
negli stati estensi e in particolare nella città di Ferrara, sulla cui vicenda
peculiare e insieme esemplare converrà soffermarsi.
Gli Este fecero di Ferrara una capitale della presenza ebraica, il luogo di
un’accoglienza garantita e lungamente difesa dall’intolleranza romana e
inquisitoriale.
- Il caso di Ferrara, città tollerante e marrana
Ferrara era la sede in una corte raffinata e la capitale di uno stato
piccolo, ma strategicamente collocato ai confini con lo stato della chiesa
con i domini veneziani e con le terre dell’impero.
Era soprattutto Anversa il serbatoio da cui attinse Ferrara. Grande città
portuale nell’orbita della corona asburgica, Anversa fu un approdo
importante dei nuovi cristiani portoghesi, che negli anni venti del ‘500
furono autorizzati da un’ordinanza imperiale a installarsi nella città, dove
però, poiché gli ebrei non erano ammessi, dovevano continuare a
dichiararsi cristiani anche se inclini a tornare all’ebraismo.
Per quelli che partivano da Anversa e non passavano per la più amica
Francia, l’arrivo a Ferrara non era affatto semplice e diede vita a una
serie di vicende rocambolesche. Nonostante le difficoltà e le peripezie,
numerosi furono i cristiani nuovi che riuscirono a raggiungere Ferrara,
che divenne un rilevante centro mercantile e una città cosmopolita.

- Ancona nello stato della chiesa: l’area umbra


La regione pontificia cui maggiormente si indirizzò la migrazione verso
nord degli ebrei romani è l’attuale Umbria, dove alla fine del XIII secolo
si stabilirono e fiorirono cospicue comunità.

- Gli altri stati italiani. Il granducato di Toscana


Al di fuori dell’esteso stato ecclesiastico, in cui potere temporale e potere
spirituale coincidevano nella persona del pontefice, la presenza ebraica
ebbe a confrontarsi con i governi degli stati regionali e anche di piccoli
principati o di comuni. Uscendo dai confini dello stato ecclesiastico,
incontriamo altre e diverse situazioni. Nuclei ebraici, per lo più
proveniente da Roma, si erano installati precocemente anche in area
toscana: dapprima a Pisa, Siena, San Gimignano.

- Il caso eccezionale di Livorno, la città senza ghetto


Assolutamente eccezionale per l’Italia fu la situazione degli ebrei di
Livorno. Livorno da piccolo villaggio divenne, su spinta dei Medici, uno
dei principali scali commerciali del Mediterraneo anche per gli scambi con
il levante e con il nord Europa e si acquistò la fama di città tollerante e
aperta. Gli ebrei ottennero il permesso di abitare a Pisa e a Livorno, con
la possibilità di comprare beni stabili e con la protezione assicurata ai
marrani nei confronti dell’inquisizione. Un secondo editto, la livornina del
1593, ampliava tali concessioni. Sempre nel medesimo anno, il papa
Gregorio XIII emanava la bolla antiqua judaeorum improbitas, con cui
confermava in maniera definitiva la competenza inquisitoriale sugli ebrei,
soprattutto nei casi di apostasia e giudaizzazione. I privilegi concessi a
ebrei e marrani rientrano nella tradizione delle antiche condotte e
derivavano sia dalla particolare condizione materiale e geografica di
Livorno, sia dalla scelta strategica, e interessata, di prescindere
dall’appartenenza religiosa dei portoghesi e degli spagnoli che vi
affluivano. A lungo la storia della presenza degli ebrei a Livorno coincise
con quella dei portoghesi. La vivacità della Livorno ebraica si traduceva
anche in una disponibilità mentale capace di superare i confini rigidi tra
mondo cristiano e mondo ebraico, con l’apertura verso esperienze di
contaminazione e spesso di ibridazione delle due culture e religioni o, in
ogni modi, di universalistica accettazione della valenza salvifica di
entrambe. La comunità livornese era dominata e amministrata da una
ristretta oligarchia sefardita, spagnola e soprattutto portoghese, che
escludeva gli ebrei italiani.

- L’Italia meridionale. Lombardia, Piemonte, Liguria


Per quanto riguarda l’Italia del nord, la geografia dell’ebraismo italiano si
allarga alla Lombardia, al Piemonte, a Genova e ai territori orientali di
Veneto e Friuli. In Lombardia gli ebrei prestatori si stanziarono a fine
‘300, la prima autorizzazione per un banco avvenne nel 1386 nel
mantovano. Una crisi acutissima si ebbe con la dinastia sforzesca, sotto
Ludovico il Moro, una quarantina di ebrei residenti vennero processati
per detenzioni di libri considerati offensivi per la religione cristiana. Nove
vennero condannati a morte e gli altri furono espulsi e condannati al
sequestro dei beni. Anche nell’odierno territorio piemontese, gli ebrei
prestatori cominciarono a stabilirsi verso la fine del XIV secolo,
provenienti da aree francesi o tedesche. Nel 1565 il nuovo duca
Emanuele Filiberto concesse agli ebrei una condotta che precedeva la
facoltà di risiedere dovunque nel suo stato e di svolgere le loro attività
sotto la protezione del sovrano: era così inaugurata una linea di politica
ebraica dei Savoia a cui la dinastia sarebbe restata sostanzialmente
fedele.
Particolare fu la situazione della repubblica di Genova. Nella capitale gli
ebrei, giunti dal nord Italia e dal centro Europa, erano presenti fin dal
medioevo. la politica della repubblica oscillava fra concessioni e rifiuti
della presenza ebraica, conseguenti a un atteggiamento sostanzialmente
pragmatico, mentre d’altra parte gli ebrei stessi riuscivano a restare,
tramite licenze e permessi individuali, soprattutto se capaci di inserirsi
nel tessuto sociale ed economico della città.
- Venezia, città cosmopolita
La presenza in città di ebrei presentatori risaliva al X secolo. Nel 1385 du
concessa la prima condotta relativa al prestito, di durata decennale, ma
già nel 1394 fu decretata l’espulsione, che ebbe luogo allo scadere della
condotta. gli ebrei che a fine ‘300 erano stati cacciati da Venezia si erano
invece concentrati a Mestre, da dove continuavano tranquillamente le
loro attività anche nelle città lagunare, pur senza insediamenti stabili.
Qui si rifugiarono però al tempo della guerra della lega di Cambrai
(1508) insieme con molti delle città della terraferma che erano state
conquistate degli imperiali. La comunità conobbe una continua crescita
demografica, anche per le nuove immigrazioni. Una flessione si verificò
invece a partire dal secolo ‘600. Il contributo fondamentale
all’incremento demografico degli ebrei veneziani giungeva
dall’immigrazione dei ponentini, soprattutto ponentini.
Assai forti restarono anche per gli ebrei ponentini di Venezia i legami con
il paese d’origine, in particolare con il Portogallo, come dimostrano l’uso
della lingua portoghese nei testamenti e i riferimenti e i lasciati in essi
contenuti a parenti ancora cristiani e residenti nei territori iberici.

- La stampa dei libri degli ebrei. Un business conteso tra cristiani


Sul piano culturale l’ebraismo a Venezia fu attivissimo. A cominciare dalla
stampa di libri. Già prima della nascita ufficiale del ghetto nel 1516 era
fiorita in città l’editoria ebraica, che andò acquistando come sempre
maggiore importanza fino ai primi decenni del ‘600, quando cominciò a
decadere a causa dei conflitti locali, come vedremo, e per la concorrenza
delle tipografie di Amsterdam e di altre città.
Daniel Bomberg, ricco commerciante cattolico fiammingo, di Anversa,
decise di trasferirsi a Venezia. Bomberg attrezzò molto bene la sua
tipografia, in cui lavoravano ben quattro compositori ebrei, esentati
dall’obbligo di portare il berretto giallo. Nel dicembre 1516, anno di
apertura del ghetto di Venezia, Bomberg licenziò il primo libro stampato
in ebraico a Venezia, il Pentateuco.
Dopo l’uscita di scena di Bomberg, per breve tempo Giustinian detenne
indisturbato il monopolio della stampa ebraica a Venezia, pur senza
riuscire mai a eguagliare la perfezione tipografica del predecessore. A
Roma il papato stava cambiando orientamento, se l’edizione del Talmud
di Bomberg era stata in un certo modo patrocinata da papa Leone X,
Giulio III, asceso al soglio pontificio nel 1550, aveva radicalmente
modificato l’atteggiamento della Chiesa riguardo agli ebrei e al talmud, il
decreto dell’inquisizione del 12 settembre 1553, con il quale venne
ordinata la condanna, la confisca e il rogo pubblico di tutti i Talmud.
Il Talmud stampato da Giustinian andò completamente distrutto.
Nel 1559 gli esecutori contro la bestemmia autorizzarono la stampa di
testi ebraici, eccezion fatta ancora per il Talmud.
3. Le donne nella storia degli ebrei italiani

- Matrimonio, Famiglia e ruolo femminile


Numerose furono le figure di donne prestatrici o anche titolari di case
mercantili o di intellettuali e letterate, le donne ebraiche in linea generale
godevano in una situazione più favorevole di quella delle cristiane per
diversi motivi. La tradizione sanciva che era la linea materna a stabilire
l’ebraicità dei figli. La ristrettezza del mercato matrimoniale e la forte
endogamia perseguita per mantenere le risorse all’interno del gruppo
parentale rendevano il sistema dotale fondamentale e finivano per
valorizzare le donne. Le sentenze dei rabbini avevano riconosciuto una
relativa parità di diritti tra uomo e donna all’interno della famiglia, e anzi
un vantaggio per la figlia attraverso il sistema della dote.
In alcuni casi, le fanciulle potevano anche opporsi ai matrimoni combinati
dai genitori per stipulare invece unioni d’amore. Il matrimonio e la
famiglia erano il principale scenario della vita di ebrei e ebree, all’interno
di una cultura ostile al celibato. Il mercato matrimoniale costituiva inoltre
l’occasione più importante per la redistribuzione delle risorse della
famiglia, la loro circolazione e gli scambi sociali. Le donne erano
determinanti in quanto mediatrici della famiglia e della comunità di
origine con l’esterno e con altre comunità e dinastie, contribuendo a
costruire reti di parentele complesse.
Naturalmente i matrimoni non avevano solamente una pura valenza
economica, ma, come peraltro avveniva nella società cristiana, interessi
economici e pratiche religiose e rituali si intrecciavano. Dal punto di vista
religioso, la tradizione ebraica attribuiva alle donne un ruolo di rilievo
nell’osservanza di alcune pratiche rituali da svolgersi in ambito
domestico. Importante era pure il ruolo svolto alle donne nelle famiglie di
neoconvertiti e di marrani rifugiati in Italia. È degno di nota, ed è un dato
poco conosciuto, il fatto che nella diaspora sefardita e dunque anche in
Italia, si mantenessero antiche pratiche quali il levirato e la bigamia.
Il levirato, precetto divino, consisteva nell’obbligo di matrimonio di un
uomo con la cognata, rimasta vedova del fratello e senza figli. Il suo
scopo era quello di mantenere entro il gruppo famigliare la donna e il suo
patrimonio e garantire al defunto marito una discendenza.
Quanto alla bigamia, nell’ebraismo sefardita la possibilità di prendere una
seconda moglie era legata alla condizione di sterilità della prima da
almeno dieci anni. Nelle comunità sefardite, permaneva l’uso di contrarre
matrimoni bigami e levatrici, due pratiche strettamente connesse tra
loro. Con il passare del tempo, le esigenze di libertà degli individui, di
tutela dei diritti delle donne e della loro posizione nella relazione
coniugale, e legami coniugali sempre più forti spinsero le autorità
ebraiche ad accettare la revisione di queste tradizioni religiose. Anche
l’istruzione femminile era curata e le donne erano attive in alcune
confraternite come, a Roma, quelle per l’erogazione delle doti a fanciulle
povere.

4. Il primo trauma. I nuovi arrivi in Italia dopo il 1492

- L’espulsione dalla Spagna


Il 31 marzo 1492 i re cattolici Ferdinando d’Aragona e Isabella di
Castiglia emanarono nella città di Granada, capitale del regno
musulmano espugnata solo tre mesi prima, un editto che imponeva a
tutti gli ebrei residenti nel regno iberico di lasciare il paese entro il 2
agosto successivo.
Parallelamente a questi eventi anche la legislazione si era andata
irrigidendo, soprattutto in direzione di una più netta separazione tra
ebrei e cristiani e di un severo controllo nei confronti dei conversos, gli
ebrei convertiti, accusati costantemente di giudaizzare e dunque del
reato gravissimo di apostasia.
Un’istituzione apposita, il tribunale dell’inquisizione, stabilito nel 1478,
iniziò a perseguire l’eresia dei cristiani sospettati di ebraismo. Migliaia si
nuovi cristiani furono giudicati, videro confiscati i loro beni e spesso
salirono sul rogo.
Paradossale fu la vicenda del Portogallo, dove arrivarono nel 1492 la
maggior parte dei profughi della Spagna, ma che già pochi anni dopo, nel
1496, furono espulsi con decreto reale, soprattutto poco dopo, in
violazione di quello stesso editto, fu loro impedito di partire dai porti e
furono sottoposti a un battesimo forzato di massa. Con il passare del
tempo, il problema del controllo dei comportamenti religiosi dei nuovi
cristiani si fece più impellente anche in Portogallo. Il clima si fece sempre
più pesante per i nuovi cristiani mentre cominciarono le lunghe e
complesse trattative con Roma per istituire l’inquisizione.
Col passare del tempo anche il termine “portoghese” venne di fatto
assimilato a quello di “nuovo cristiano” e di “marrano”.

- Gli arrivi in Italia


Una forte corrente migratoria iberica approdò in Italia e si stanziò a
Roma, a Venezia, nei dintorni estensi e in Toscana. La città di Ferrara
aveva una comunità multietnica in cui erano presenti tutte e tre le
componenti sopra citate, mentre italiani, portoghesi e levantini
componevano quella di Ancona, con non rari conflitti.
- Scontri, cortese, ostilità
Con le immigrazioni dei profughi sefarditi, i conflitti e le differenze tra le
varie nazioni ebraiche si moltiplicarono in tutta la penisola. I rapporti tra
ebrei italiani, da un lato, e i sefarditi provenienti dalla penisola iberica
che si riversarono in Italia in ondate successive a partire dal 1492, erano
improntati a forti rivalità, incomprensioni e ostilità reciproche. D’altro
canto anche le differenze culturali, linguistiche e sociali erano marcate.
La cattiva accoglienza riservata ai nuovi venuti da parte dei correligionari
fu straordinaria nel caso di Roma, la città in cui soggiornava la più antica
e numerosa comunità ebraica.
Incontro tra gruppi ebraici diversi finì per sorgere una serie nutrita di
problemi suscitati dalla difficoltà dell’accoglienza dei sefarditi da parte
degli ebrei romani. Tale difficoltà era dovuta a motivi numerosi e
complessi, legati essenzialmente al fatto che i nuovi arrivati erano
notevolmente più ricchi, ben impiantati nel settore creditizio e più colti:
erano in possesso, per esempio, delle nozioni della Kabbalah, della quale
in Italia poco si sapeva.

- Conflitti, accordi, convivenze. Il caso emblematico di Roma


Fin dal ‘400 la Universitas Iudaeorum in Urbe, riconosciuta ufficialmente
dai pontefici, era organizzata minutamente, con 5 scuole o luoghi di culto
e con un consiglio generale degli ebrei adulti, che a maggioranza di due
terzi provvedevano a nominare i diversi organismi di governo. Compiti
delicati dei fattori erano la ripartizione dei carichi fiscali gravati sulla
comunità, la riscossione delle tasse e la vigilanza sull’ordine interno. Essi
costituivano inoltre l’organo ufficiale di collegamento con le altre
comunità e soprattutto con le autorità pontificie e capitoline.
L’acutezza dei conflitti fra le varie “nazioni”, chiaramente esplicitata dal
proliferare di questi organismi separati, e le tensioni che si trascinarono
per decenni innescarono un alto tasso di litigiosità tra forestieri e romani
e tra gli stessi forestieri per la designazione del loro fattore. Inoltre gli
ebrei sefarditi provenienti dalla penisola iberica non solo costituivano ora
il numero più numeroso, ma erano anche i più solidi economicamente.
Papa eone era un Medici, famiglia di banchieri e dinastia che rimanda alla
ben nota politica filoebraica esercitata dalla famiglia anche in Toscana. Le
infinite controversie che continuarono a lacerare il complesso degli ebrei
di Roma durante i due primi decenni del ‘500, soprattutto riguardo agli
incarichi comunitari e alla ripartizione delle tasse indussero papa
Clemente VII a cercare nel 1524 una mediazione e un accordo, che
dovevano costituire un atto di riconciliazione intercomunitaria tra i diversi
gruppi “nazionali”. La convivenza tra la comunità romana e quella
spagnola fu dunque piuttosto difficile tanto che, a causa della tensione
che si era andata creando, nel 1524 il compito di organizzarne i rapporti
fu affidato ad uno straniero, Daniel da Pisa. Questi era membro di
un’importante famiglia di banchieri romani trapiantati in Toscana e una
personalità rispettata e conosciuta a Roma sia dagli ebrei che dalla curia
papale, vicinissimo alla famiglia Medici, cui apparteneva anche Clemente
VII, di cui era banchiere di fiducia. Egli compilò una serie di capitoli,
approvati dal papa nel dicembre di quell’anno, attraverso cui si stabiliva
una più equilibrata presenza negli organi direttivi della comunità tra le
diverse componenti di romani e ultraromani, per correggere la
preponderanza dei primi nei posti gestionali.
I capitoli di Daniel da Pisa non posero fine a conflitti e liti su varie
materie, da parte delle diverse scole e fazioni, ma con il bilanciamento
degli incarichi tra nazioni e gruppi sociali riuscirono nell’intento di
costruire un sistema abbastanza stabile e un’integrazione tra i diversi
nuclei di immigrati e di originari, favorita sia dalla comune residenza
nello stesso quartiere sia dalla condivisione della lingua, il volgare
romanesco. Il sostanziale successo è dimostrato dal fatto che i capitoli si
mantennero invariati fino al 1870.

- Verso la reclusione
Proprio come era avvenuto a Roma, in conseguenza degli sconvolgenti
che gli ebrei di tutta Italia avevano subito tra la fine del ‘400 e i primi
decenni del ‘500, fratture, tensioni, scissioni e conseguenti ridefinizioni
amministrative e organizzative si verificarono anche in altre comunità.
L’organismo assembleare del consiglio era contemplato in molte altre
comunità, accompagnato da organi intermedi. Ovviamente non si può
parlare di partecipazione democratica, in quanto i fattori relativi alla
ricchezza e al prestigio di alcune famiglie funzionavano spesso nella
direzione di limitare il numero degli eleggibili. Siamo nell’età del ghetto,
il secondo trauma subito dall’ebraismo italiano.
PARTE SECONDA
5. Il secondo trauma. La nascita dei ghetti: geografia e cronologia

- Recinti, serragli, claustri per gli ebrei


Il secondo trauma degli ebrei italiani, dopo quello costituito dall’arrivo in
massa dei profughi iberici, fu la nascita del ghetto. Già nell’antichità e nel
corso del medioevo gli ebrei usavano concentrarsi in aree particolari delle
città, più o meno vaste. Ma queste concentrazioni erano per lo più
spontanee e volontarie. Segregazioni coatte di ebrei cominciarono a
verificarsi negli ultimi secoli del medioevo prima in Spagna e poi in
Francia e Germania, con la chiusura di questa minoranza in zone
specifiche a mezzo di barriere fisiche che presentavano pochi minuti di
passaggio all’esterno.
La comparsa del ghetto vero e proprio, inteso dunque come un’area di
emarginazione e di segregazione degli ebrei, riservata ad essi soltanto,
coatta per legge, prevista come permanente e caratterizzata
dall’isolamento attraverso una barriera fisica in cui si aprivano soltanto
ingressi controllati nelle ore diurne e bloccati nelle ore notturne, durante
le quali era vietato uscire, si colloca nel ‘500, a Venezia.
Il ghetto Nuovo, il primo quartiere chiuso e separato destinato agli ebrei,
fu stabilito nel 1516, quando per la prima volta Venezia permise la
residenza stabile nella città dei prestatori ebrei, per la maggior parte di
origine tedesca. Con l’arrivo dei mercanti ebrei sefarditi dall’impero
ottomano, il governo veneziano offrì nel 1541 a questi ebrei levantini una
propria area, il ghetto Vecchio, che fu connesso al ghetto Nuovo con un
ponte che scavalcava un canale.
Affinché il sistema dei ghetti e il momento stesso del ghetto si
affermassero definitivamente e si generalizzassero fu dunque necessario
l’intervento diretto della chiesa di Roma. Nel 1543 veniva fondata a
Roma la casa dei catecumeni, l’istituto finalizzato alla conversione, più o
meno libera o forzata, degli ebrei e degli altri infedeli. Successivamente
si verificò un evento clamoroso e minaccioso: il pubblico rogo del Talmud
del 1553, avvenuto sempre a Roma in quella piazza di campo de’ Fiori
dove nel 1600 sarebbe stato bruciato vivo Giordano Bruno. Due anni
dopo, nasceva il ghetto di Roma.

- Una convivenza assurda e sconveniente. La nuova normativa antiebraica.


La bolla o costituzione di Paolo IV del 1555, istituiva dei ghetti nello stato
della chiesa, mette bene in luce i capisaldi della mentalità pontificia e
cattolica nei confronti degli ebrei si imponevano nuove, più rigorose
regole.
Nel documento si rintracciano un gran numero di idee, rappresentazioni e
stereotipi che erano diffusi da secoli, ma anche ora trovavano una
sistemazione completa e definitiva che avrebbe influenzato a lungo la
storia delle relazioni tra ebrei e cristiani: la colpa del deicidio, la riduzione
in schiavitù quale punizione inflitta da Dio in conseguenza della colpa,
l’ingratitudine verso chi li aveva accolti e tollerati, le aspirazioni al
dominio sui cristiani, soprattutto l’insolente mescolanza con questi ultimi,
con la pretesa di circolare senza segni di riconoscimenti, di abitare in
mezzo a loro, di prendere a servizio personale cristiano.
Il ghetto fu dunque la risposta all’alternativa tra espulsione e
conversione: una risposta finalizzata allo stesso tempo al mantenimento
degli ebrei nello stato e alla spinta verso la conversione, vera ossessione
del cattolicesimo. Essi venivano accolti e tollerati soprattutto a Roma,
ma, in attesa che si convertissero, si stabiliva nei loro confronti una
forma inedita di espulsione temporanea dalla quotidianità delle città.
A Roma, per fare un esempio relativo al ghetto più importante, lo spazio,
come pure il tempo, erano scanditi da una circolazione degli ebrei nel
territorio, urbano e anche extraurbano, nelle località in cui si recavano
per commercio.

- Roma. Strategie di sopravvivenza e libertà di movimento.


Gli ebrei di Roma non furono all’inizio del tutto consapevoli di questo
cambiamento radicale nella loro vita, che probabilmente fu visto come
una manovra transitoria legata all’intransigenza di Paolo IV, e insieme
con quelli provenienti dal Lazio e dalle province cominciarono ad
ammassarsi, senza particolari reazioni, nel luogo loro destinato. Si
trattava di un ristretto numero di strade e di edifici del rione sant’Angelo.
Alla nuova decretazione gli ebrei romani reagirono in un primo tempo
con una certa incredulità, e poi con un radicale ripensamento di tutta la
loro organizzazione interna che solo da poco tempo era stata elaborata
da Daniel de Pisa. La condizione degli ebrei di Roma e delle altre città
con ghetto non fu però mai solo e strettamente legata alla realtà del
recinto chiuso o alla minaccia della conversione.

- Geografia e cronologia dei ghetti in Italia


Anche nel resto degli stati pontifici fu eseguita la bolla del 1555, ma non
in tutte le numerose città e cittadine in cui erano insediati dei nuclei
ebraici furono costituiti dei ghetti, come invece avvenne a Bologna,
Ancona, Imola e Recanati.
Il programma segregazionista si estese a poco a poco a tutta la penisola
nella sua parte centro-settentrionale, così che il ‘600 si caratterizza per
quanto riguarda la storia ebraica italiana come il “secolo dei ghetti”.
Il modello proposto e realizzato per lo stato della chiesa, con l’alternativa
tra espulsione o ghettizzazione, fu vincente e ovunque limitato.
Attraverso questo lungo processo, i ghetti divennero tra ‘500 e ‘700
l’unico scenario della vita quotidiana della grandissima maggioranza degli
ebrei italiani. Il ghetto, si può dunque considerare un fenomeno
tipicamente italiano, dall’Italia della Controriforma, dominata dai
peculiarissimi rapporti esistenti tra i singoli stati regionali italiani e il
papato e tra il popolo e gli ebrei.

- La casa dei catecumeni e le conversioni degli ebrei


Il sistema del ghetto fu sempre accompagnato da una vera e propria
ossessione conversionistica, tendente a produrre quei cambiamenti di
fede che, erodendo a poco a poco le comunità degli ebrei, ne avrebbero
dovuto alla fine spezzare l’unità e la compattezza.
Vengono istituite case dei Catecumeni, qui venivano accolti e alloggiati
coloro che fossero stati indotti, più o meno forzatamente, a convertirsi
alla religione cattolica: si trattava di ebrei, ma anche di musulmani,
provenienti da tutta Italia e dall’estero, e di qualche pagano idolatra. È
paradossale il fatto che in genere gli ebrei della città in cui era stabilita la
casa sostenevano finanziariamente questa istituzione, in piena analogia
con la circostanza per cui sempre gli ebrei erano costretti a pagare le
spese dei portieri del ghetto, vale a dire a mantenere i loro stessi
carcerieri. La Pia Casa dei catecumeni di Roma, la prima e in assoluto la
più importante e la più documentata, accoglieva dunque ebrei,
musulmani e pagani che occorreva avviare, dopo l’istituzione religiosa, al
rito di passaggio e di aggregazione costituito dal battesimo.
I catecumeni erano sottoposti a una stretta vigilanza all’interno
dell’istituto e a limitazioni di movimenti all’esterno. I catecumeni erano
piuttosto blandamente catechizzati e istruiti nella nuova fede, spesso con
l’intervento di sacerdoti neofiti che conoscevano le lingue madri degli
“ospiti”.
Nel corso del tempo i regolamenti e i metodi di istruzione dottrina e
complementare divennero più rigorosi, anche per tentare di tenere
separati i battezzati da coloro che ancora non lo erano.

- Battesimi forzati
L’ossessione della conversione degli ebrei aveva un’impronta dottrinale di
tipo escatologica ed era basata essenzialmente sulla concezione
millenaristico-messianica relativa all’attesa della seconda venuta di cristo
sulla terra e dunque dell’avvento di mille anni di pace e di fedeltà, che
sarebbero giunti quando il mondo fosse stato unificato all’interno
dell’unica fede.
Le balie cristiane, spesso in buona fede, quando vedevano, o credevano,
un bimbo ebreo in pericolo di morte non esitavano a battezzarlo
sommariamente, salvo denunciare poi il fatto alle autorità, che
intervenivano per separarlo dalla sua famiglia.
Oltre a questi battesimi, definibili come clandestini, esistevano altre
tipologie di coercizione, però non praticate certo ingenuamente o in
buona fede come poteva avvenire per le balie. I battesimi forzati
potevano essere le conseguenze sia di denunce prestate alle autorità di
cristiani o perfino da ebrei, che asserivano con giuramento di aver
sentito dire da un ebreo di volersi convertire, sia alle cosiddette offerte
che derivano dal diritto riconosciuto ai convertiti di offrire appunto alla
nuova fede della chiesa le mogli e i figli su cui avevano la patria potestà
e persino altri parenti lontani.
Se i bambini furono le vittime principali delle conversioni forzate,
altrettanto lo furono le donne, che spesso dovevano seguire la volontà
del marito o del padre, o che abbracciavano la fede del figlio battezzato
pur di non esserne separate per sempre. Le ebree erano dunque le
destinatarie preferite di questa politica di conversione e un gran numero
di offerte concernevano appunto le donne.
La conversione, forzata o spontanea, culminava nelle cerimonie del
battesimo e della riconciliazione, che venivano celebrate, soprattutto nei
casi più clamorosi, con pompa trionfale e con la solenne esibizione
pubblica del battezzato.
Il fenomeno dei battesimi forzati, in ogni modo si sviluppò in parallelo
con la ripresa, tra XVII e XVIII secolo, degli stereotipi antiebraici
secolari, anche i più violenti e con la virulenta polemica antiebraica della
pubblicistica cattolica reazionaria della Restaurazione.

- Il valore sociale e simbolico degli ebrei convertiti


Lo studio dei destini dei convertiti e delle convertite fu emergere, oltre al
valore simbolico di questi personaggi, quali strumenti di apologia e di
esaltazione della chiesa e del papato della Controriforma, la loro
rilevanza sociale conseguente alla nutrita serie di vantaggi economici e
giuridici ottenuti ovunque con il battesimo.
La dinamica complessa tra privilegi e controllo risulta evidente da
un’istituzione del tutto particolare, di là dall’impianto sostanzialmente
comune a quello assistenziale e devozionale delle altre confraternite,
quale fu la confraternita dei neofiti intitolata a san Giovanni Battista e
nata nel 1620 per confermare maggiormente detti neofiti nella santa
fede. Tuttavia, il ruolo culturale e sociale dei neofiti era ancora più
complessa in quanto figure liminali e di confine in grado di esercitare un
ruolo di mediazione e di scambio, più o meno conflittuale, tra gruppi
religioso-culturali diversi.
Essi erano spesso utilizzati nella pratica delle prediche e nelle polemiche
nei confronti degli ebrei, al fine di stimolare le conversioni degli ex
correligionari, ma anche nelle attività di censura dei libri ebraici.
Il valore sociale e simbolico delle neofite, che offrivano ai futuri mariti
garanzie di onestà e di buoni costumi, oltre a una sicura dote, induce a
riflettere sull’inserimento e l’assorbimento notevoli dei convertiti, e
soprattutto delle convertite, nel tessuto sociale e lavorativo, senza troppi
traumi. Tuttavia, non sempre le strategie di conversione riuscivano.

6. Cultura ebraica e cultura cristiana

- La cultura e i libri degli ebrei: l’olocausto del Talmud


Sarebbe fisicamente separati dai cristiani, gli ebrei non vivevano isolati
dalla cultura circostante. L’intreccio regolare e continuo delle
comunicazioni e dei rapporti reciproci tra i due mondi non soltanto
smentisce, come abbiamo detto, il paradigma interpretativo più
consueto, quello della separatezza e dell’incomunicabilità tra i due
gruppi, ma rinvia a un sistema di interrelazioni quotidiane, di rapporti
negoziati e di conoscenze reciproche delle rispettive religioni. Tra ‘500 e
‘700, l’inquisizione si occupò della compilazione di due indici
esclusivamente composti da libri ebraici, da evitare ed eventualmente da
distruggere, primo tra tutti il Talmud.
La censura serviva anche allo scopo di conversione. Non a caso, il divieto
totale del Talmud e di altri testi cosiddetti rabbinici era volto a togliere
dalle mani degli ebrei quelli che erano considerati i maggiori e più potenti
ostacoli alla loro conversione; appunto i libri.
Per estirpare questo male alla radice, il decreto dell’inquisizione ordinava
di perseguire le sinagoghe e nelle case dei membri delle comunità di
Roma e di tutto lo stato, di esaminare e quindi bruciare i libri e i codici
talmudici che, editi per intero o solo in parte, contenessero bestemmie
aperte ed ampie contro Dio e contro la legge mosaica, che pure gli ebrei
si vantavano di seguire, nonché espressioni contrarie alle leggi di natura
e della religione cattolica. Distruggere il Talmud e gli scritti rabbinici
significava rimuovere il principale ostacolo che impediva la reale e
definitiva soluzione del problema dell’esistenza degli ebrei, cioè la loro
conversione.

- La Kabbalah
Un elemento importante della cultura ebraica trasmessa attraverso i libri
era la Kabbalah, arrivata in Europa con i profughi ebrei dalla Spagna.
Nella nuova sistemazione di Isaac Luria, il misticismo cabbalista si
presenta come la reazione culturale alla catastrofe materiale e spirituale
seguita all’esilio dalla Spagna e allo choc dell’espulsione. La
metempsicosi guadagnò allora una immensa popolarità poiché insisteva
sulle diverse tappe dell’esilio dell’anima, allusivo del tragico destino di un
intero popolo esiliato e dell’espiazione delle colpe fino alla liberazione.
Non stupisce che nell’indice dei libri degli ebrei da proibire in assoluto
fosse stata inserita tutta la produzione di Isaac Luria, messa sotto accusa
soprattutto per la dottrina della trasmigrazione delle anime, in particolare
di quelle dei peccatori che diventavano demoni o spiriti malvagi capaci di
entrare nei copri umani e di dominarli totalmente.
La Kabbalah propagata in Europa dai profughi ebrei iberici, a partire dalla
metà del ‘500 aveva cominciato sempre più a diffondersi. Questa grande
ondata culturale incluse anche l’Italia. Le Universitates iudaeorum delle
città italiane avevano accolto, più o meno di malavoglia, come si è visto,
i rifugiati spagnoli e la loro cultura.
La Kabbalah è una forma di sapere assai varia e complessa, tesa tanto
all’interpretazione quanto all’intervento sul creato.
Nel corso dell’età moderna, tutta la popolazione, ebrea o cristiana che
fosse, spesso pronunciando formule ebraiche, o latine miste a una
pseudo-ebraico incomprensibile, praticava la magia, la divinazione e
l’esorcismo, indipendentemente dall’appartenenza a un determinato ceto
sociale. È sufficiente leggere gli editti del sant’Uffizio, i processi intentati
contro ebrei per magia e stregoneria, così numerosi negli archivi, per
rendersi conto di come in questi secoli, una volta conclusasi la caccia alle
streghe, avanzasse il nesso ebraismo-stregoneria.

- Ebraismo e magia
L’immagine dell’ebreo stregone e la leggenda della stregoneria ebraica
erano assai diffuse e rinviavano alla percezione cristiana degli “strani”
rituali e usanze degli ebrei.
Fin dal ‘500 sono testimoniati casi di ebrei stregoni di cui erano
frequentatori e clienti molti cristiani e perfino ecclesiastici. La
grammatica delle scienze occulte era scritta in caratteri ebraici, veri o
immaginari che fossero. La lunga sopravvivenza delle credenze
demonologiche ben oltre il ‘500 e fino almeno al cuore dell’età dei lumi,
anche quando l’attività di repressione della stregoneria si era da tempo
allentata, già a partire dalla fine del XVI secolo, e il mantenimento del
controllo attento su tali credenze, di ebrei e di cristiani, da parte
dell’inquisizione romana pongono anche alcune questioni storiografiche e
metodologiche da segnalare.
Il nesso stregoneria-ebraismo, usuale e naturale per i cristiani,
conduceva due opposti risultati. Da un lato, i cristiani si servivano delle
magie degli ebrei, che ritenevano assai efficaci, dall’altro, però, teologi e
polemisti utilizzavano questa convinzione per accusare gli ebrei di
superstizione e soprattutto per demonizzarli.
- Il mondo della cultura
Secondo alcuni interpreti, per tutto il ‘600 la Kabbalah fu la cultura
egemone tra gli ebrei italiani che, con credenze e pratiche, coinvolgeva
sia le élites che gli stati popolari. La forma medievale del misticismo
ebraico espressa nel sapere cabbalistico continuò a essere trasmessa
come una modalità di esoterica saggezza nel ‘500.

- Debora Ascarelli, l’”ape ingegnosa”


Debora era una aristocratica ebrea, di buona cultura, moglie di un
esponente di primo piano della comunità spagnola da poco giunta a
Roma e altrettanto da poco, almeno formalmente, uscita dalle
controversie che in anni non molto lontani avevano opposto ebrei
autoctoni a ebrei ultramontani per l’amministrazione della Universitas
hebraeorum. Della sua vita sappiamo poco o nulla, mentre conosciamo i
testi che ci ha lasciato. Le sue traduzioni dall’ebraico all’italiano volgare
non solo rendevano tali testi fruibili dalle donne sue correligionarie, ma,
essendo state elaborate pochi decenni dopo l’istituzione del ghetto
romano del 1555, delineavano una figura di duplice mediatrice culturale.
Debora. L’ape ingegnosa, come la chiamava un suo ammiratore giocando
sul suo nome, va dunque inserita come protagonista all’interno di questa
interazione così come va inserita nel canone della letteratura italiana e
nel ricco filone della poesia femminile italiana dal ‘500.

- Sara Copio Sullam, la “bella ebrea”


Una bellissima poetessa protagonista della vita culturale ebraica, non
solo ebrea.

- Anime, demoni, reincarnazioni


La credenza dell’immortalità dell’anima era infatti individuata come
materia di fede comune ai cristiani e agli ebrei che, appunto sulla base di
tale comunanza di dottrine, erano considerati eretici o apostati nel caso
che se ne allontanarono.
Si trattava di un argomento assai delicato, dal momento che metteva in
causa il dogma dell’immortalità dell’anima e della sua sorte dopo la
morte, con punizioni e premi, l’esistenza di inferno e purgatorio e la
resurrezione finale. Il rischio insomma era quello della caduta all’interno
di una visione materialista che concepiva l’anima come mortale, una
visione che veniva definita senz’altro, e genericamente, come epicurea
dalle autorità ecclesiastiche. Tuttavia la vicenda inquietava e interessava
l’inquisizione, se gli stessi rabbini cominciavano a negare del tutto
l’esistenza dei demoni e a dubitare di una serie di dottrine consolidate
anche per gli ebrei, si poteva temere non più soltanto la deriva
superstiziosa ed eretica delle loro convinzioni, ma anche un’altra sorta di
pericolosa conseguenza: cioè che una certa tendenza moderna, più
razionale e meno legata alla cosmologia mitologica si facesse
pericolosamente strada anche spesso gli ebrei.
Gli inquisitori si interessavano alle convinzioni degli ebrei su angeli e
demoni perché ne conoscevano la derivazione talmudica e cabbalistica, la
carica superstiziosa e gli usi che se ne facevano nell’arte magica, spesso
in complicità con i cristiani; per scacciare i demoni fabbricavano e
vendevano appositi amuleti.
PARTE TERZA
7. La svolta del ‘700
- I paradossi dell’età dall’emancipazione
Il ‘700 è l’età dell’emancipazione e dell’assimilazione.
Da parte ebraica, nel XVIII secolo l’adesione alla nuova cultura e la
partecipazione alla vita intellettuale dei lumi, teorizzata dagli esponenti
dell’illuminismo ebraico, produssero una secolarizzazione crescente
basata, all’interno, sull’introduzione delle idee della cultura moderna e
sulla crescente distinzione tra individui e comunità e, all’esterno, sulla
rivendicazione dell’eguaglianza dei diritti nella società civile.
In Italia, nel corso del secolo, proprio mentre l’atmosfera e le tematiche
culturali dei lumi cominciavano a entrare nei circoli intellettuali, perfino
cattolici, si assiste alla ripresa di un clima generale fortemente
antiebraico. Le espressioni di questo antiebraismo crescente furono
molte e attive, non soltanto in ambito cattolico. Innanzitutto la
demonizzazione delle tradizioni, dei costumi e dei riti degli ebrei. Nella
cultura cattolica tradizionalista, attraverso la convinzione relativa
all’impronta demoniaca dell’universo ebraico, dominante fin nel cuore del
‘700, la sua ritualità era percepita come direttamente volta a colpire il
mondo dei cristiani, come minacciosa e pericolosa.
Occorre esaminare le conseguenze delle riforme e delle idee
settecentesche sulla condizione degli ebrei e sui rapporti con il resto della
società, collocandole all’interno delle forti differenziazioni che distinguono
le singole situazioni e le relazioni locali, anche quelle apparentemente più
affini. Le diverse evoluzioni degli stati regionali si riflettono, per quel che
riguarda per gli ebrei, in differenti ritmi e in scansioni cronologiche
interne che conducono, nel giro degli stessi anni, a provvedimenti
opposti: da un lato, la novità per cui nel 1784 le porte del ghetto di
Trieste furono aperte, dando così la possibilità agli ebrei locali di vivere
accanto ai cittadini di altra fede e, dall’altro lato, l’ultima istituzione di un
ghetto, nel 1782, a Correggio.

- Una relazione a tre: stati, chiesa, ebrei


La condizione, la stessa consistenza quantitativa e il ruolo degli ebrei in
Italia tra età dei lumi e rivoluzioni sembrano dipendere in primissimo
luogo dalla situazione e dall’evoluzione dei rapporti tra i diversi stati
regionali e la chiesa. I conflitti regionali crescenti tra le due sfere, e i
nuovi equilibri di potere di volta in volta stabiliti, si rifletterono con forza
sul mondo ebraico, che diventa strumento di questa dialettica. A ben
guardare, la questione ebraica acquistò importanza crescente,
nell’ambito di tale conflitto, proprio per l’utilizzazione politica fattane da
entrambe le parti.
Un esempio efficace del fatto che gli ebrei divenissero le pedine di una
politica e di un conflitto più ampi è fornito dall’esito sfortunato del
tentativo di riammetterli nel regno di Napoli, avviato nel 1740 dal nuovo
re Carlo di Borbone.
Il richiamo degli ebrei nel regno rientrava nella politica riformatrice e
mercantilistica di Carlo, nel quadro di una serie di iniziative volte alla
ripresa economica dello stato. L’ormai diffuso paradigma economico
dell’utilità suggerì di offrire una serie di privilegi che attirano in breve
tempo solo a Napoli 121 ebrei, per la maggior parte provenienti da
Roma, da Livorno e anche dall’Olanda. Contro i pareri positivi dei cattolici
colti e aperti che facevano appello tanto ai principi di tolleranza del vero
cristianesimo, quanto alle idee degli uomini illuminati, l’iniziativa, che
incontrò subito le proteste dei mercanti cristiani e la forte ostilità del
clero e della plebe, fallì rapidamente per l’intervento pesante e abile di
Roma.
Anche il caso dello stato sabaudo conferma quanto la dialettica tra i due
poteri e il braccio di ferro tra lo stato e la chiesa di Roma giocasse su
queste pedine, gli ebrei, e condizionasse la situazione delle comunità, a
dimostrazione della tesi storiografica dell’antisemitismo quale risorsa
politica. In Piemonte troviamo tuttavia una situazione diversa, poiché nel
corso del secolo l’influenza culturale e ideologica crescente della chiesa
sullo stato rafforzò l’isolamento degli ebrei e la loro separazione dal
mondo cristiano, mentre le autorità ecclesiastiche cercavano di sottrarre
agli organismi statali la giurisdizione sulla minoranza ebraica. La
connessione tra la questione ebraica e le più generali riforme di
laicizzazione e di rivendicazione delle prerogative dello stato contro le
pretese ecclesiastiche emerge con evidenza dall’acceso dibattito che si
aprì sul caso dell’annullamento del matrimonio di un ebreo convertito.

- Ebrei e riforme
Le riforme liberalizzatrici di Giuseppe II, che era peraltro un convinto
cattolico, erano aspirate all’idea di un’organizzazione politica in cui le
diverse confessioni dovevano convivere per l’utilità dello stato e al
disegno di una compagine statale in cui si dovevano sciogliere i diversi e
autonomi corpi, come quelli costituiti dalle comunità ebraiche.
Le riforme anticipavano anche le contraddizioni dell’emancipazione e i
paradossi dell’illuminismo, perché il principio dell’eguaglianza assoluta
comportava il rischio dall’assimilazione/ cancellazione delle identità
diverse. Occorreva fare i conti con l’anelito religioso di queste riforme
che spingevano verso la cosiddetta rigenerazione degli ebrei: vale a dire,
rispondevano all’esigenza della loro integrazione culturale ed economica
nella società cristiana, non certo esente da finalità conversionistiche più o
meno esplicite.
- Il dibattito sulla questione ebraica
Ma quali erano gli atteggiamenti della cultura non ebraica, cattolica o
laica che fosse, nei confronti degli ebrei? Qui ci troviamo di fronte a una
situazione complessa e contraddittoria. Il ‘700 è proprio il secolo che non
solo inaugura riforme volte all’emancipazione, ma avvia precocemente
una discussione accesa sul problema ebraico che sconvolge i diversi
piani: economico, giuridico e teologico.
Relativamente al mondo cattolico, l’avvicinamento all’ebraismo non va
spiegato sulla base delle trasformazioni economiche liberistiche o dei
mutamenti culturali indotti dal razionalismo, dall’illuminismo e dalle idee
di tolleranza, ma va visto in riferimento alle trasformazioni interne al
cattolicesimo stesso e alla spaccatura ideologico-politica e teologica
esistente fra correnti diverse e in conflitto.
La questione ebraica si colloca allora al cuore di una frattura interna a
questo mondo. I circoli cattolici filogiansenisti e i riformatori ecclesiastici
anticuriali, che reclamavano l’eliminazione degli abusi introdotti da Roma
e dal papato mediante il ristabilimento del puro cristianesimo delle
origini, fino dagli anni settanta del XVIII secolo avevano fondati le loro
attese millenaristiche e palingenetiche su un deciso filoebraismo e su un
netto recupero delle origini ebraiche del cristianesimo.
Quanto al mondo della cultura laica e riformatrice che viene in genere
considerata come in toto favorevole agli ebrei, anche qui erano presenti
ambiguità e divisioni interne. Sono note le posizioni antiebraiche degli
illuministi francesi, a partire da Voltaire.

- Individui e copri. L’inizio della fine delle comunità


Le università degli ebrei erano correntemente definite dalle autorità civili
e religiose come corpi e ancora nel 1768 il governo veneziano non
riconosceva, sul piano tributario, gli individui, ma solo l’università come
copro. Il carattere che faceva della nazione ebraica uno dei corpi
costituiti dello Stato, se aveva rafforzato nel passato sia i poteri e
l’autorità dei capi delle comunità, per le loro funzioni amministrative e
mediazione con i governi, sia la coesione interna, cominciava ora a
entrare in crisi, all’esterno come all’interno.
Le tendenze degli ebrei più vicini alle idee illuministe e più pronti ad
accogliere il nuovo clima culturale e a smussare le chiusure di corpo, con
l’insistenza più sugli individui che sulla comunità. Le nuove idee
esaltarono differenze, contraddizioni sociali e rotture di solidarietà, e
allentarono la tradizionale visione della sacralità della comunità. Si stava
verificando un sia pur lento mutamento di mentalità anche per questo
aspetto relativo al rapporto individui/corpo all’interno del mondo ebraico,
provocandone la divisione, come si evince dalle contraddizioni interne
che emergono da molti documenti dell’epoca.
Nell’organizzazione sociale articolata per corpi e per comunità, che
costituivano un principio di ordine che solo lentamente cominciò a
entrare in conflitto con lo stato modernizzatore, le università ebraiche si
inserivano pienamente.

8. Le contraddizioni della felice rigenerazione degli ebrei.

- Il 1789 degli ebrei in Italia


La conferma più evidente dell’aria nuova che stava penetrando nei ghetti
proviene proprio dalla comunità romana che nel 1789 rivolse un audace
e provocatorio Memoriale al pontefice allora regnante, Pio IV. Si trattava
del papa che appena eletto, nel 1775, aveva emanato un editto
durissimo nei confronti degli ebrei, replicato nel 1793, non a caso in
piena temperie rivoluzionaria, nel quale ribadiva e rafforzava i
provvedimenti restrittivi imposti due secoli prima dalla bolla cum nimis
absurdum del 1555. Per la prima volta, attraverso la dettagliata e
argomentata scrittura del Memoriale, venivano affrontati temi politici e
ideologici di grande delicatezza relativi al rapporto tra i papi e gli ebrei e
al ruolo di questi ultimi nelle società maggioritarie.
Parallelamente alle nuove idee egualitarie, ostili a ogni forma di
particolarismo, di privilegio e di autonomia, giudicati come residui feudali
delle nuove idee politiche, anche le tensioni e i conflitti interni sollecitati
dalle trasformazioni della modernità misero in crisi alla fine del secolo, in
Italia, il sistema comunitario che governa il mondo ebraico.

- I cittadini ebrei di fronte alla Rivoluzione


Il periodo della rivoluzione, con la radicalizzazione dei conflitti tanto
esterni quanto interni, costituisce una fase importante anche per capire i
livelli diversi di coinvolgimento degli ebrei italiani nella nuova politica e
soprattutto le reazioni culturali messe in atto di fronte a questa ulteriore
e sconvolgente fase della modernità.
Gli anni del triennio repubblicano in Italia (1796-1799) avevano
introdotto grandi mutamenti e soprattutto sancito l’emancipazione
attraverso l’acquisizione della piena cittadinanza e dei diritti politici e
civili. Il processo non fu però privo di ripercussioni, si all’interno che
all’esterno delle comunità.
Il collegamento posto tra ebrei e francesi non solo rafforzò il nascente
stereotipo, destinato a lunghissima fortuna nei secoli seguenti, delle
responsabilità degli ebrei nello scoppio della rivoluzione, ma scatenò
diffuse azioni di violenza contro di loto e attacchi ai ghetti. Numerosi gli
episodi da ricordare: gli avvenimenti del 1790 in Toscana, quando la
reazione popolare alle riforme illuminate, economiche ed ecclesiastiche
del granduca Pietro Leopoldo coinvolse anche gli ebrei di Livorno e di
Firenze, che subirono violenze e saccheggi; l’assalto al ghetto di Roma
nel 1793, con il tentativo d’incendiarlo, subito dopo l’uccisione da parte
del popolo inferocito del rappresentante francese Bassville, i diversi
attacchi portati ai ghetti compiuti alla discesa dei francesi in Italia.
Per quanto riguarda l’Italia, allo stato attuale degli studi, non si
conoscono posizioni rigide come quelle degli ebrei olandesi, che si
dichiararono addirittura contrari al diritto di cittadinanza, o come quelle
delle comunità francesi orientali, di Metz, d’Alsazia e della Lorena, che
erano riluttanti a sciogliersi nella nazione e a rinunciare alle autonomie e
ai privilegi speciali dell’organizzazione comunitaria, e che arrivarono ad
accettare le nuove idee solo traducendole nel linguaggio tradizionale di
un repubblicanesimo biblico.
Con l’abbattimento dei protoni dei ghetti caddero anche i nomi che
avevano sancito fino ad allora la diversità e la separazione degli ebrei.
Così a Venezia, il quartiere ebraico venne chiamato Contrada dell’unione
e i capi delle comunità videro il loro titolo trasformato in quello di
deputati dei cittadini ebrei.
Ci là dall’illusione utopistica e di breve durata di unità e di fratellanza tra
ebrei e cristiani, resta il problema di quanto anche la pur breve parentesi
democratica ed emancipatrice abbia contribuito all’espulsione del sistema
comunitario, già da tempo in crisi, sotto la spinta delle nuove idee, a
causa della sua parzialità legata agli interessi di pochi e dell’anacronismo
degli organismi direttivi. Alla fine del periodo rivoluzionario e dell’età
napoleonica, e nonostante gli sforzi di ricomposizione, tale sistema non
sarebbe stato più lo stesso e non sarebbe mai più tornato eguale.

- Il mito di Napoleone
Le difficoltà fi coniugare le novità con la tradizione e le ambiguità di una
emancipazione/eguaglianza concessa implicitamente a prezzo della
rinuncia alla diversità e all’autonomia dell’organizzazione comunitaria
emersero pesantemente nelle fasi di dominazione diretta di Napoleone in
Italia.
La sfuggente politica napoleonica, sostanzialmente condizionata dagli
stereotipi antiebraici settecenteschi, soprattutto in materia economica e
riguardo al tema ossessivamente presente dell’usura, era volta a
spingere in direzione dell’assimilazione attraverso la concessione di una
non completa emancipazione.
Le questioni poste da Napoleone all’assemblea rispecchiavano perciò
antichi timori, stereotipi e pregiudizi nei confronti degli ebrei e del loro
rapporto con le autorità civili, timori a cui si voleva dare risoluzione con
semplici decreti legislativi. Il Sinedrio assunse una precisa funzione
politica, quella di imporre ai corregionali l’assimilazione per legge, anche
a spese di modifiche fondamentali delle norme tradizionali dell’ebraismo,
come ad esempio avveniva con la dispensa dall’osservanza religiosa per i
militari. La partecipazione italiana ai lavori fu numericamente importante,
anche se non tutte le comunità inviarono i loro rappresentanti.
I limiti e le ambiguità dell’orientamento napoleonico resero acuta la
tensione fra emancipazione, assimilazione e identità ebraica, già evidente
nella fase rivoluzionaria, ed esplicitarono la mancata conciliazione tra
universalismo dei diritti e differenze di individui e gruppi, con esiti
dirompenti tanto all’interno, quanto all’esterno del mondo ebraico. Oltre
a ciò il regime napoleonico innescò un complesso processo simbolico
delle future, rilevanti, conseguenze.
L’antisemitismo, oltre a contestare qualsiasi diritto di cittadinanza agli
ebrei se prima non si fossero convertiti, si traduceva anche, sul piano
politico, nel prospettare ai sovrani dell’Europa restaurata il pericoloso e
assai solido nesso tra l’appartenenza alla separata nazione ebraica e la
sovversione rivoluzionaria.

- La vendetta
Un evento emblematico del livello di altissima conflittualità innescato dal
periodo rivoluzionario tra ebrei partigiani dei nuovi regimi e società
cristiana maggioritaria, sostanzialmente antifrancese e antirepubblicana,
fu quello che si svolse a Roma, nel corso della repubblica romana del
1788-1789. Particolarmente odiato dagli ebrei era un tale Gioacchino
Savelli, un pescivendolo che faceva parte di una corporazione di mestiere
importante, appunto quella dei pescivendoli. Si trattava di un gruppo
sociale che oltre a vivere e lavorare alle porte del ghetto. Nel Portico
d’Ottavia, era anche l’organizzatore delle cosiddette “giudiate”,
manifestazioni teatrali di strada che si tenevano a Carnevale e che
prendevano di mira gli ebrei e la loro religione. In seguito al ritorno dei
francesi, all’inizio del 1799e dunque con il ripristino della Repubblica, il
cadavere di Cimarra fu trovato nella campagna romana. Subito il delitto
fi ascritto agli ebrei, che infatti organizzarono anche il trasporto del corpo
in città, esibendolo al pubblico durante un corteo che l’attraversata tutta.
Lo spettacolo del cadavere del controrivoluzionario Cimarra, fiero nemico
del ghetto, fatto uccidere dai ricchi ebrei giacobini delle famiglie Ascarelli
e Baraffael e portato in giro per l’Urbe al suono dei tamburi, in una sorta
di macabra festa di trionfo, potè costituire una dolce vendetta per i
tartassati ebrei romani, proprio quando però si approssimava la fine della
repubblica e il ritorno del papato.
- Roma 1825. La svolta antiebraica della restaurazione
Nel 1800 e nel 1814-15 le due restaurazioni dei governi di antico regime
e del potere pontificio determinarono un radicale ribaltamento della
situazione giuridica degli ebrei nella penisola, cancellando quasi ovunque
le conquiste dell’emancipazione civile e politica che avevano riconosciuto,
nell’Europa rivoluzionaria e napoleonica, la loro piena cittadinanza e
l’eguaglianza.
Nel corso del pontificato di Leone XII, pontefice antimoderno e zelante
durante il cui governo si realizzò una forte impennata della politica
antiebraica, divennero assai forti sia le motivazioni religiose che quelle
economiche dell’antigiudaismo. La linea repressiva nei confronti degli
ebrei, ripresa con rigore nel corso della restaurazione, rifletteva la
politica generale del papato di opposizione strenua al pluralismo culturale
e ai diritti civili portati dalla nuova cultura europea. L’antiebraismo era
appunto una delle facce del rapporto conflittuale della chiesa con il
mondo moderno uscito dalla rivoluzione.
Il 1825 in particolare rappresenta una data centrale sia per il mondo
cattolico che per quanto riguarda le motivazioni religiose e polemiche
dell’antiebraismo. Si tratta dell’anno in cui, dopo una pausa di mezzo
secolo e i recenti sconvolgimenti religiosi e politici, venne celebrato il
primo giubileo dell’800, che fu poi anche l’ultimo della Roma papale. In
connessione con il giubileo, l’anno 1825 è anche quello in cui il pontefice
immaginava e progettava per Roma addirittura un nuovo ghetto, da
edificare in un’altra parte della città e dove trasferire a forza e
rinchiudere con maggiore durezza gli ebrei.
Che un rapporto strettissimo esistesse tra i due eventi, il giubileo e
l’irrigidimento della politica antiebraica, e che entrambi fossero finalizzati
tanto alla riaffermazione del ruolo direttivo della religione e del papato
nella società e nella politica europee, quanto all’esaltazione della
funzione sacrale di Roma, è dimostrato dalla fioritura, proprio alla metà
degli anni venti, di una violenta pubblicistica antiebraica, spesso derivata
dalla predicazione, che accompagnò appunto quei due eventi e ad essi si
riferiva esplicitamente.
Nello stesso anno 1825 fu pubblicato un violento libello dal titolo Degli
Ebrei nel loro rapporto colle nazioni cristiane che ebbe ben 4 edizioni tra
il 1825 e il 1826, con numerose ristampe successive.
L’operetta costituisce un caposaldo e il punto di riferimento
dell’antigiudaismo cattolico italiano all’interno dell’Ottocento. In essa
erano ribaditi tutti i tradizionali stereotipi antisemiti, apertamente ripresi
da ora in poi e sempre più irrobustiti dal cattolicesimo reazionario
ottocentesco: il deicidio, l’avidità di arricchimento indirizzata a rovinare i
cristiani, le ambizioni di potere per giungere al dominio del mondo, il
danno arrecato alla morale e ai costumi, l’odio per la religione cristiana
spinto fino alla peggiore barbarie.
La situazione degli ebrei divenne nel corso della restaurazione sempre
meno garantita anche sul piano delle professioni e dei commerci. La
libertà economica, che sembrava acquista da tempo in molte località e
perfino prima degli eventi rivoluzionari, cominciò a incrinarsi di nuovo.
Era ovvio che soprattutto a Roma e nello stato papale non si tollerasse
più la residenza stabile di ebrei in località prive di ghetto, diventata
possibile dopo l’emancipazione.

Conclusioni
Antiebraismo e antisemitismo.
Le radici moderne dell’antisemitismo
L’emancipazione civile e politica degli ebrei sancita dalla rivoluzione francese
finì per accentuare ancora di più l’antiebraismo cattolico, che divenne una
componente primaria dell’intransigentismo ottocentesco, all’interno della
diffusa convinzione che esiste un nesso preciso tra emancipazione degli ebrei,
massoneria, Rivoluzione e, in ultima analisi, processi si scristianizzazione.
Nell’ambito delle definizioni correnti e fino a oggi predominanti, l’antiebraismo
viene interpretato come avversione cristiana nei confronti dell’ebraismo
rabbinico di epoca post-biblica e soprattutto come ideologia ispirata da motivi
unicamente religiosi, relativi al mancato riconoscimento da parte degli ebrei di
Gesù come Messia e alle responsabilità nella sua morte. Il termine
antisemitismo viene invece ricondotto sia alla nascita recente, alla fine
dell’Ottocento, sia ai suoi innovativi contenuti laici, secolarizzati e razziali, privi
di precedenti. Se da un lato la componente biologica innata e non religiosa è
esplicitata chiaramente nei trattati spagnoli di età moderna, dall’altro lato non
furono né la laicità, né la secolarizzazione, né l’anticristianesimo i fattori
decisivi dell’antisemitismo razziale di età contemporanea, dal momento che
pure in mancanza di quei fenomeni esso si sviluppò nella Spagna
cinquecentesca.
La negazione dell’esistenza di un antisemitismo razziale del Cinquecento fino
almeno all’Otto-Novecento è l’unico argomento, ancora molto adottato, che
consente di affrontare le difficoltà e gli imbarazzi introdotti dai tragici eventi del
secolo scorso, culminati con la Shoah.
Il sistema teologico giudicava gli ebrei come popolo della lettera e non dello
spirito, quanto all’interpretazione delle scritture, oltre che come popolo deicida,
giustamente punito da Dio con la dispersione nel mondo. Quello ebraico però,
secondo la tesi di Agostino, era anche il popolo testimone della verità del
cristianesimo, dimostrata con evidenza dalla condizione di degrado perenne e
di subordinazione degli ebrei, e soprattutto un popolo necessario alla
redenzione finale, secondo una teologia della storia che vedeva nella loro
conversione in massa il segno della fine dei tempi e della seconda venuta di
Cristo.
Nel ‘500 non si assiste alla semplice riproposta di tradizionali paradigmi
teologici, ma a un vero salto di qualità, a una rottura rispetto alla secolare
tradizione antiebraico, che pose in maniera del tutto nuova i termini della
questione.
Tra ‘500 e ‘700 l’armamentario mentale e ideologico che considerava gli ebrei
come servi e dunque non soggetti di diritto e tanto meno di cittadinanza, come
oggetti da poter denunciare, imprigionare e offrire alla fede cristiana, e che li
poteva obbligare a cambiare nome, appartenenza e identità con i battesimi
forzati, consolidò e rafforzò nel tempo abitudini e atteggiamenti mentali,
comportamenti e pratiche sociali che si collocano alle radici storiche
dell’antisemitismo otto-novecentesco, religioso e laico, poiché generarono
pratiche di esclusione e di persecuzione degli ebrei solo in quanto ebrei.
L’altra fase di svolta nei rapporti tra ebrei e cristiani si colloca alla fine del ‘700
e nei decenni della conquista dell’emancipazione civile e politica. Da un lato,
l’emancipazione presupponeva la logica universalistica e astratta
dell’uguaglianza e dei diritti di tutti i cittadini, e dunque a un diritto; dall’altro
lato, l’ideologia cattolica intransigente e reazionaria, che a tale emancipazione
si opponeva, negava l’eguaglianza in base appunto al presupposto della
differenza, riconosciuta certo, ma descritta come irriducibile e minacciosa, a
meno che gli ebrei non si convertissero.
Dopo la Rivoluzione francese, nell’800, l’antiebraismo si colora invece di tratti
storici e politici nuovi, e molto diversi dal passato, legati all’avversione e alla
paura della modernità e delle trasformazioni politiche da essa introdotte.
Non cambiano solo i contenuti, ma anche il linguaggio stesso di questo
antigiudaismo cattolico in cui, soprattutto il ‘900, l’appello e un sano
antisemitismo si coniuga con termini come razza, stirpe e nazione applicati agli
ebrei, a indicarne il carattere di estraneità, all’interno dei vari stati nazionali,
come pure le caratteristiche innate e inalterabili.

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