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Matilde Dodi, 3^BA

IL GHETTO DI VENEZIA

29 marzo 1516: il senato della Serenissima Repubblica di Venezia emana un decreto che stabilisce
che tutti gli ebrei presenti in città vadano rinchiusi in un recinto separato, segregati dunque dal
resto della popolazione veneziana.

Nei secoli precedenti l’istituzione del ghetto, gli ebrei vissero per la maggior parte nei paesi della
terraferma veneta: poche furono infatti le famiglie residenti a Venezia. Non trova inoltre più credito oggi
tra gli studiosi la notizia che gli ebrei abbiano abitato l’isola della Giudecca, il cui nome deriverebbe
piuttosto dal veneziano “zudegà” (famiglie giudicate e relegate nell’isola). I prestatori e i mercanti ebrei
della terraferma erano esclusi da ogni corporazione e dal possesso di beni immobili, e costretti perciò,
per vivere, a praticare il prestito su pegno (mestiere che era invece vietato ai cristiani, poiché
considerato dalla Chiesa peccato mortale) o il piccolo commercio dell’usato (strazarìa). Essi avevano il
permesso di soggiornare in città per un periodo massimo di quindici giorni consecutivi, durante i quali
potevano svolgere le loro attività commerciali presso il mercato di Rialto, prima di dover fare ritorno a
Mestre. Alcuni ebbero anche il privilegio di esercitare l'arte medica. Fino agli inizi del XVI secolo, non
fu dunque concessa alcuna residenza stabile in città per gli uomini ebrei, tranne che per un breve
periodo tra il 1382 e il 1397. Durante questa situazione di emergenza, fu stipulata una condotta
temporanea che consentì loro, nel 1386, di ottenere un terreno al Lido di Venezia per scopi cimiteriali.
Tuttavia, dopo la sconfitta veneziana nella battaglia di Agnadello nel 1509, a causa delle difficoltà socio-
economiche che affliggevano lo Stato veneziano, si prese la decisione di accogliere la comunità ebraica
nel cuore del centro storico. Tale accoglienza, però, non avvenne senza condizioni: gli ebrei erano tenuti
a versare un contributo annuale di 6500 ducati. L'obiettivo di questa disposizione era, di fatto, il sollievo
delle finanze veneziane, profondamente colpite dagli esiti della guerra.
Numerose abitazioni nei pressi di Rialto divennero sede di famiglie ebree, suscitando in questo modo
forti proteste da parte dei frati predicatori. Nel 1515, emerse una proposta in senato per mantenere la
presenza degli ebrei in città, considerando il loro contributo economico, ma segregandoli in aree
distinte. Da questa proposta derivò appunto il successivo decreto del 29 marzo 1516, il quale stabiliva
che “tutti gli ebrei che al momento si trovano ad abitare in diverse contrade della città e quelli che in
seguito verranno, sono tenuti e devono andare immediatamente ad abitare uniti nelle case che si trovano
in Ghetto, luogo capacissimo, presso S. Girolamo”.
Tale luogo era situato presso l’isola di Cannaregio, un’ex zona industriale in cui venivano ora gettati gli
scarti di rame (Il termine ghetto è infatti un toponimo che significava in veneziano “getto”, cioè il luogo
in cui venivano gettate le scorie della lavorazione del rame. La parola divenne poi ghetto con l’arrivo
degli ebrei tedeschi poiché questo pronunciavano la “ge” in “ghe”). Luogo pertanto assai fatiscente, ma
dalla posizione ideale poiché ben isolato dal centro città, privo di chiese cristiane o altri spazi consacrati
nelle vicinanze e facile da delimitare e sorvegliare. La zona era delimitata da due porte che, come aveva
precisato il Senato il 29 marzo 1516, sarebbero state aperte la mattina al suono della marangona (la
campana di San Marco) e richiuse la sera a mezzanotte da quattro custodi cristiani, pagati dagli ebrei
stessi e tenuti a risiedere nel sito stesso, senza famiglia per potersi meglio dedicare all’attività di
controllo. Inoltre si sarebbero dovuti realizzare due muri alti (che tuttavia non furono mai eretti) a
serrare l’area dalla parte dei rii che l’ avrebbero circondata, murando tutte le rive che vi si aprivano.
Infine, due imbarcazioni del Consiglio dei Dieci, con guardiani pagati dai nuovi "castellani",
pattugliavano il canale intorno all'isola durante la notte per garantirne la sicurezza.
Si stima che circa settecento ebrei tedeschi, italiani e alcune famiglie levantine, siano entrati, in breve
tempo, nelle case del Ghetto Nuovo, pagando un affitto aumentato di un terzo e sotto il controllo delle
severe magistrature della Serenissima Repubblica.
Matilde Dodi, 3^BA
Nella metà del 16° secolo, strane figure di mercanti fecero il loro ingresso nel ghetto, rappresentati dagli
ebrei sefarditi, i cui antenati erano fuggiti dal Portogallo e dalla Spagna in seguito al massacro di
Lisbona del 1506, un violento pogrom tra i più significativi dell'inizio dell'era moderna. Scappando
dalla penisola iberica, tali uomini ebrei si erano diretti verso l'Europa e il Nord Africa, alcuni
raggiungendo Costantinopoli, città con stretti legami commerciali con Venezia, determinando la
necessità quindi di contatti diretti tre le due città.
Il crescente afflusso migratorio provocò la costruzione di altissimi palazzi: negli archivi di stato sono
conservati i progetti originali di alcuni degli edifici che raggiungevano fino a 8/9 piani. Tuttavia, il
terreno sabbioso veneziano rappresentava una sfida, risolta tramite la costruzione di muri sottili e
l’utilizzo di un’altezza pavimento-soffitto molto bassa.
Per gli ebrei, vivere all’interno delle mura del Ghetto significava sì essere rinchiusi dentro dei portoni,
ma allo stesso tempo godere di diritti e protezione impensabili nella maggior parte degli altri paesi
europei dell'epoca. Il Ghetto rappresentò l'inizio di una nuova civiltà cosmopolita che coniugò ebrei
tedeschi, italiani, spagnoli e portoghesi in una società nuova, capace di interagire con il mondo cristiano
circostante e di avviare un proficuo dialogo culturale. Da queste premesse nacquero cinque sinagoghe
magnifiche, commissionate da membri della comunità ebraica e realizzate da architetti e artigiani di fede
cristiana. In particolare, si sviluppò una straordinaria produzione di libri ebraici, culminata nella prima
edizione completa del Talmud, ancora oggi di fondamentale importanza.
All'interno del Ghetto fiorirono le menti brillanti di intellettuali come Leon Modena, studioso e autore di
diverse opere in ebraico e italiano, tra cui "Historia dei Riti Hebraici", il primo libro a spiegare le
tradizioni religiose ebraiche a un pubblico cristiano. A lui si affiancò la sua allieva Sara Coppio Sullam,
una figura di spicco nel primo Seicento, che teneva un salotto letterario e pubblicava opere poetiche e
filosofiche uniche per una donna del suo tempo. Ricordiamo anche la figura di Elia Calimani,
discendente di una delle famiglie più influenti nel Ghetto originaria di Treviso. Egli operava come
prestatore (concessione di prestiti con interessi) e fondò a Venezia una banca chiamata "banco rosso",
affiancata dal "banco verde" e dal "banco nero". Il colore nel nome corrispondeva a quello delle ricevute
emesse, agevolando così il commercio con coloro che non sapevano leggere. Il funzionamento di questa
professione prevedeva che l'acquirente fornisse al banchiere un oggetto di valore in cambio di denaro,
con un determinato periodo per rimborsare il debito, interessi compresi (questa percentuale veniva
stabilita dalla Repubblica, e non dal singolo prestatore). In caso di mancato pagamento, il titolare della
banca aveva il diritto di trattenere e rivendere l’oggetto. Le attività delle banche ebraiche erano
sorvegliate da frati francescani, incaricati di garantire che non fossero scambiati oggetti sacri cristiani.
Ma a cosa era dovuto tale sentimento di odio nei confronti degli ebrei? Gli ebrei, a quei tempi, erano
spesso accusati di essere responsabili della peste e di altre calamità: rappresentazioni dell'epoca, come
stampe tedesche del 1348, ritraggono addirittura l'impiccagione di un ebreo accanto a un cane, in
simbolo di disprezzo, e l’ordine francescano, con sede nella basilica dei frati, fu certamente un epicentro
di discriminazione e odio verso essi. In Italia, gli ebrei erano obbligati a portare come segno
identificativo una "O" gialla cucita sugli abiti. Tuttavia, a Venezia, questa imposizione si tradusse
nell'obbligo di indossare un berretto giallo. Solamente alcuni banchieri e i medici godevano
dell'esenzione da questa prescrizione.
Finalmente, nel 1797, Napoleone prese la decisione di abbattere le porte del Ghetto, inaugurando così
un'era di eguaglianza tra tutti i cittadini. Dopo questo evento, molti ebrei abbandonarono il quartiere,
emergendo come cittadini di rilievo capaci di influenzare la nuova e moderna Venezia, prima sotto il
dominio austriaco e successivamente nell'Italia unita. La percezione di una completa integrazione si
sgretolò nel 1938 con l'introduzione delle Leggi Razziali fasciste, che portarono all'espulsione degli
ebrei dalle istituzioni pubbliche e alla deportazione di 246 di loro ad Auschwitz. Nonostante questi
tragici avvenimenti, il Ghetto non fu mai riportato allo status di zona segregata. Mentre molti ebrei
meno abbienti rimasero nel quartiere, diventando le vittime più vulnerabili, il Ghetto fu anche un luogo
di notevole solidarietà tra vicini. La maggioranza degli ebrei veneziani, così come degli italiani in
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generale, sopravvisse al periodo bellico e contribuì alla ricostruzione della comunità ebraica, che oggi
persiste come una comunità viva e vitale.

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