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ARGOMENTO Fisiatria: approccio neurocognitivo

PROF Teresa Paolucci

DATA 16/11/2022
(Ndr, di questa lezione ci sono le slides lasciate dalla professoressa, con
contenuti aggiuntivi rispetto a quelli trattati a lezione)

RIABILITAZIONE E DOLORE CRONICO


L’APPROCCIO NEUROCOGNITIVO
Si riprende il concetto del controllo posturale e di come è organizzato il movimento.

L’engramma motorio può essere visto come


una sequenza di azioni, ma tutte queste azioni
sono programmate a livello del SNC. La
programmazione di queste azioni attinge
sempre dalla memoria, o meglio, dallo schema
motorio di quello che costruiamo nel corso
della nostra vita. Lo schema motorio deve
tener conto non solo dell’organizzazione del
movimento, ma anche dell’immagine, della
percezione del nostro corpo.

Partendo da questi presupposti, l’esercizio


riabilitativo come può integrarsi in un concetto
di recupero? Nella slide sovrastante da una
parte abbiamo l’interpretazione della patologia, dall’altro gli strumenti. L’esercizio, per il riabilitatore, non è
solo uno strumento di cura, ma anche uno strumento di verifica dell’ipotesi e sicuramente deve avere come
caratteristica una progressione, una variabilità. Nel momento in cui abbiamo un paziente con una funzione
lesa, ad esempio un paziente post ictus con un’emi-sindrome di un emisoma (che ha difficoltà nel
movimento di attivazione dell’arto superiore, nel movimento di raggiungimento e presa dell’oggetto e in
tutto quello che consiste la manipolazione dell’oggetto) l’intervento riabilitativo consiste proprio nel
recuperare quantitativamente e qualitativamente il movimento. Si può proporre un esercizio di ripetizione
di vari movimenti di flesso-estensione, rotazione, prono-supinazione nei vari fulcri principali dell’arto
superiore o dare all’esercizio una valenza diversa: considerarlo come un problema cognitivo che il paziente
deve risolvere, chiaramente in condizioni patologiche, per cui egli ha già una funzione ridotta. In questo
frangente sta anche l’interpretazione della patologia.

Il prof Carlo Perfetti nel 1997 ci insegnava che:

“si definisce cognitiva una teoria che ritiene che la priorità del recupero, sia spontaneo che guidato
dall’intervento riabilitativo, venga determinata dal tipo di processi cognitivi attivati e dalla modalità della
loro attivazione.”

Si parla specificatamente di qualità del recupero perché spesso nell’approccio più meccanicistico, quello su
cui ci si focalizza è la quantità del recupero, più che la qualità. Partendo da un esempio pratico, la donna
operata al seno di patologia tumorale mammaria (ad esempio mastectomia) spesso esita nella riduzione
dell’articolarità, nella flessione di spalla o parziali deficit di forza, soprattutto nei movimenti di intra- ed

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extra-rotazione. È stato studiato mediante sistemi di elettromiografia di superficie che, a parità di recupero,
la proposta di esercizio che facciamo può cambiare la fluidità del movimento. Questa fluidità, intesa come
qualità, che quindi non sta soltanto nel rom (range of motion) articolare, nella forza delle scale di
valutazione, va un pochino oltre. Prima con i sistemi elettronici di Gait analysis (sia per l’arto inferiore che
per l’arto superiore) ci si focalizzava sempre sui fulcri articolari, sull’attivazione, sulle leve, sul momento
della forza. Adesso gli stessi sistemi sono in grado di portare alla nostra attenzione quello che viene definito
“JERK” (n.d.r. dovrebbe essere una misurazione della variazione di accelerazione): è un’equazione
matematica molto complessa con cui riusciamo a misurare la fluidità del movimento, un concetto che si
sposa molto bene con la qualità del recupero. Non vuol dire che non si lavora rispetto ai protocolli
riabilitativi, ma in un certo senso cerchiamo di andare a recuperare proprio la funzione. Quindi quando
pensiamo dell'articolazione gleno-omerale, questa non è soltanto un’enartrosi a tre gradi libertà, ma la
assimiliamo al suo compito, ovvero di direzionare l’arto superiore nello spazio. Quando pensiamo al gomito
non lo pensiamo come l’articolazione intermedia, come una leva svantaggiosa (con tutto quello che la
chinesiologia ci insegna), ma lo pensiamo in base alla funzione. Quindi la funzione del gomito nel
movimento di “reaching” è quello di calibrare la distanza che intercorre tra noi e l’oggetto. La stessa cosa
facciamo quando riflettiamo sull’articolazione coxofemorale (che è un’altra enartrosi): ha il compito di
ridirezionare l’arto inferiore durante lo schema del passo. Il piede è un organo di sostegno propriocettivo.
Allora nel concetto di qualità del movimento noi andiamo a recuperare la funzione del fulcro articolare. Si
lavora sempre sull’articolarità e sulla forza, ma il fine ultimo è la funzione. Questa è la differenza
sostanziale dell’approccio neurocognitivo. Di fatti, una teoria cognitiva ha come oggetto lo studio
dell’influenza sul recupero del movimento di quei processi definiti cognitivi che sono alla base
dell’apprendimento e che ci permettono in qualche modo di interagire con il mondo.

Quali sono i processi che vengono ingaggiati maggiormente nell’approccio neurocognitivo?

Questi processi permettono la conoscenza, intesa come


fenomeno biologico, e quindi deve essere indagata durante
il percorso di recupero. Da questa definizione si capisce che
l’esercizio viene strutturato principalmente sulle funzioni
cognitive superiori e non può essere proposto a tutti i
pazienti, o meglio, a pazienti che hanno difficoltà marcate
sulla sfera cognitiva. Pazienti con ictus o post-ictus che,
soprattutto nelle prime fasi, presentano notevoli deficit
dell’attenzione selettiva o prolungata; pazienti che hanno
delle problematiche marcate come alcuni deficit collegati
all’aprassia (soprattutto all’aprassia ideo-motoria)… In questi
pazienti tale approccio deve essere molto semplificato e in
alcuni casi non può essere proposto. Ecco perché abbiamo a
disposizione altri tipi di percorsi riabilitativi (preferibili in
queste condizioni), come può essere l’approccio Bobath,
Kabat o Vojta- se si parla di pazienti pediatrici- che sono gli altri tre grandi pilastri di metodiche di
riabilitazione in ambito neurocognitivo.Questi ultimi 3, insieme al Perfetti (che sarà quello descritto nella
lezione), sono gli unici metodi riabilitativi in ambito neuromotorio .

I processi cognitivi sono importantissimi e ci permettono di lavorare tantissimo sull’afferenza sensitiva e


propriocettiva, si parla di “raccogliere le esperienze effettuate” di propriocezione, di sensibilità.
Nell’approccio neurocognitivo si lavora e si parte dall’afferenza tattile e propriocettiva proprio perché
l’afferenza tattile serve al paziente per ricostruire il movimento in maniera qualitativa, non solo

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quantitativa. La proposta di esercizi secondo un approccio cognitivo ci permette anche di adattarlo quanto
più possibile al paziente. Non esistono, come nelle metodiche classiche, proposte uguali l’una all’altra ma
hanno la possibilità di essere semplificate o complicate a seconda delle funzioni cognitive che il paziente è
in grado di ingaggiare.

FASI EVOLUTIVE DELLA RIABILITAZIONE NEUROCOGNITIVA


Negli anni 70 il lavoro era esclusivamente mirato ai processi cognitivi; così facendo però c’erano grosse
limitazioni pratiche e ciò rendeva
questo metodo veramente troppo di
nicchia. Man mano, dal lavorare
esclusivamente sulla mente,
l’attenzione si è spostata un po’ più in
periferia, creando quel link corpo-
mente-emozione. Infine, nel 2013,
lavorando tantissimo sulla motor
imagery è stato incluso anche il
confronto tra azioni. Quando parliamo
di immagine motoria intendiamo la
capacità di immaginare il movimento.
In un paziente che ha avuto una
lesione neurologica questo percorso
può essere frammentato, rallentato, in alcuni casi viene anche perso.

Come può essere utilizzata l’immagine? Immaginiamo che il paziente è impossibilitato a compiere qualsiasi
movimento con l’emilato plegico, ha una forza muscolare 0 o 1 e non riesce proprio ad attivarlo. Quando
uscirà dalla fase di diaschisi magari strutturerà la spasticità e, man mano, questo movimento prima o poi
verrà fuori. Uno dei grandi problemi dei processi riabilitativi, soprattutto neurologici, è che ci si concentra
maggiormente sulla quantità del recupero nel minor tempo possibile, ma i pazienti in questo modo
strutturano dei compensi. Per evitare tutto questo bisogna rispettare quanto più possibile quanto riportato
nelle linee guida SPREAD, quindi entro il primo mese (max 40-45 giorni), il paziente con emiplegia deve
essere in grado di deambulare, ma contestualmente dobbiamo essere in grado di raggiungere quel
recupero senza creare dei compensi patologici. Allora l’immagine motoria viene sfruttata usando
l’attivazione dell’emisoma sano: al paziente viene chiesto di immaginare il movimento ad occhi chiusi, di
compierlo con l’emisoma sano, di fare propria quell’informazione e pian piano di trasferirlo nell’emisoma
plegico compiendo piccolissimi movimenti. Questa è una prima fase, si parla di confronto tra azioni.
Quando il pz è in una fase un po’ più avanzata, quindi, riesce a muovere discretamente anche l’emisoma
plegico; il confronto tra azioni può essere fatto come correzione: c’è l’immagine del movimento, il
movimento viene pensato e poi magari compiuto con l’emisoma plegico. Al paziente viene, inoltre,
richiesto di riportare su un diario cosa percepisce riguardo il movimento che esegue: è fatto correttamente?
È troppo rallentato? Dopo il movimento viene pensato ed eseguito di nuovo con l’emisoma sano e si fa il
confronto, sia da parte del fisioterapista che da parte del paziente, in un “dibattito riabilitativo” per poi
procedere con le altre proposte. Un altro aspetto importante su cui si lavora tantissimo in riabilitazione
neurocognitiva durante il recupero nel paziente neurologico è lavorare parallelamente e sinergicamente sia
sul lato leso che sul lato sano, e non sul singolo segmento.

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PRINCIPI DI BASE DELLA TEORIA COGNITIVA
1• Considerare tutto il corpo come superficie recettoriale

La coscienza del corpo e del suo movimento è acquisita attraverso una serie di innumerevoli informazioni
provenienti da diverse fonti informative che convergono a creare un'unica struttura (vista, tatto,
cinestesi, udito, linguaggio, vestibolo etc.). Con questa interpretazione si cerca di far recuperare nel
paziente la capacità di modificare la superficie recettoriale per interagire con l’ambiente.

Ad esempio anche per il tronco ci sono sussidi ad hoc che lavorano sul contatto percettivo della colonna: il
paziente viene sdraiato supino su coni di elasticità diversa, che rappresentano un contesto percettivo
variabile. Questo serve per riafferentare il sistema (il paziente con lombalgia cronica ha una difficoltà
percettiva discriminativa della sensibilità) e ha l’importante ruolo di ricostruire la frammentazione del
movimento tra le singole vertebre. È un esempio tipico di come in un approccio neurocognitivo il corpo
venga considerato come una superficie recettoriale.

2• Il movimento viene inteso sempre come un processo di conoscenza

Il movimento è inteso come strettamente correlato con gli elementi conoscitivi che lo determinano per
cui il recupero motorio dipende dal recupero dei processi cognitivi

L’esercizio per il paziente è un problema cognitivo da risolvere, perché ogni volta che compie un esercizio
apprende qualcosa di nuovo e l’esperienza ripetuta nel tempo va a modificare la plasticità neuronale (un
po’ come nel controllo posturale).

Questa coscienza del movimento è acquisita attraverso una serie di innumerevoli informazioni derivanti da
diverse fonti informative che convergono a creare un’unica struttura: la vista, il tatto, l’udito, la cinestesi, il
linguaggio, il vestibolo. Va da sé che i nostri esercizi in modalità neurocognitiva devono andare a lavorare
insieme o singolarmente partendo da uno di questi canali afferenziali. L’aspetto più importante è andare a
considerare la capacità di poter sempre e comunque modificare le informazioni. Ogni volta che compiamo
un gesto motorio, in qualche modo modifichiamo qualcosa nel nostro schema e nell’immagine che abbiamo
di questo movimento.

Un altro aspetto importante è che l’apprendimento è un processo che coinvolge strutture corticali e
sottocorticali, modificando l’informazione in maniera stabile. Il sistema sottocorticale (si vede chiaramente
del paziente parkinsoniano) è fondamentale nel timing del movimento, sulla fluidità, sul ritmo. Spesso,
tuttavia, nelle nostre proposte (terapeutiche) tutto questo non viene inserito. Spesso andiamo a proporre
dei movimenti eccessivamente semplificati che non vanno a stimolare l’interconnessione tra i due sistemi.

3 • Recupero come apprendimento

Si fa riferimento alla necessità di attivare i processi cognitivi per modificare gli elementi della patologia
non più come somma di elementi patologici che ostacolano il comportamento, ma come un’alterazione
dell’organizzazione del sistema.

Il recupero motorio è legato alla natura delle interazioni del corpo (spaziali e di contatto). L’interazione
corpo-oggetto con funzione conoscitiva è parte integrante dell’esercizio. E’ il soggetto che costruisce
l’oggetto, gli assegna significato e se ne lascia modificare.

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Come si può osservare nella slide, viene
riportato il ruolo dell’esercizio come
conoscenza, ma è riportato anche il
profilo del pz perché tutto quello che
facciamo deve essere adattato su misura
della persona. È una riabilitazione molto
personalizzata. Anche nei migliori
clinical trials viene riportata la maggiore
efficacia di un metodo rispetto ad un
altro, ma manca il profilo cognitivo e
motorio del paziente. E soprattutto, un
altro aspetto che spesso manca, è la
sovrapposizione di protocolli. È difficile
adattare lo stesso protocollo riabilitativo
(inteso come durata, numero di sedute,
progressione degli esercizi) perché non possiamo parlare di esercizio neuromotorio e riabilitativo.
Raramente capita che gli stessi autori abbiano usato lo stesso identico protocollo, ognuno cambia qualcosa
in funzione del campione su cui si sperimenta il metodo.

Il profilo del paziente deve prevedere quale ragionamento mette in campo e cosa sente quando conosce
(perché andiamo sempre a lavorare sull’immagine conscia del sé, e quindi anche l’esperienza cosciente del
movimento). Il movimento deve essere pensato, percepito e agito. Solo se lavoriamo in questo modo
possiamo modificare strutturalmente e cambiare anche nel dolore cronico la traccia di memoria che
abbiamo e che andiamo a recuperare. Per rompere questo circolo vizioso dobbiamo rendere questo
processo di apprendimento intenzionale e consapevole, non accidentale e inconscio. Anche se poi quando
ci muoviamo nelle proposte neurocognitive c’è sempre un apprendimento inconscio, legato all’empatia
dell’operatore, del fisioterapista. È importantissimo il modo, il linguaggio del fisioterapista. È una parte
integrante del percorso e del recupero, quindi il modo in cui propone l’esercizio è fondamentale.

Come possiamo migliorare l’apprendimento motorio? Modificando tutti questi fattori (la prof
prende in considerazione i vari punti riportati nella slide, soffermandosi su alcuni):

Tutti i protocolli parlano di early rehabilitation, ma se


partiamo dal concetto che il paziente è in una situazione di
disabilità, non possiamo pensare di mettere seduto un
paziente che non ha controllo del tronco, per esempio.
Quando dobbiamo eseguire la seduta riabilitativa durante la
giornata? I pazienti con sclerosi multipla hanno come
sintomo invalidante la fatica, allora è importante concordare
col paziente quando avverte la minore percezione della
fatica. Anche l’ora dell’assunzione dei farmaci è importante:
non possiamo pensare di riabilitare un paziente
parkinsoniano in una fase “off” di completa rigidità o quando
è completamente distonico. Sono tutti fattori che devono
essere presi in considerazione quando si scrive un progetto riabilitativo individuale. Altro aspetto
fondamentale è la motivazione del paziente al trattamento: si può lavorare sull’aspetto empatico,
migliorando il setting, la relazione, la comunicazione, tutti fattori che rientrano nella medicina narrativa.

Partendo da questi presupposti, l’esercizio rappresenta un’esperienza cosciente. Questo è l’altro aspetto
fondamentale. Immaginiamo un paziente con amputazione dell’arto inferiore: la struttura biologica in

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questo caso è l’arto inferiore e il danno biologico è la
deambulazione. Il deficit della deambulazione, il dolore, la
sindrome dell’arto fantasma ecc fanno parte del danno
funzionale. Quindi quando parliamo di danno biologico
intendiamo proprio il danno anatomico.

Per pianificare un intervento riabilitativo e scegliere l’esercizio


partiamo rispondendo ai seguenti quesiti:

 Quali funzioni sono state alterate?


 Come sono state alterate?
 Come possono essere recuperate?

E l’esercizio deve essere strutturato considerando:

-L’interazione

-Il problema

-Contenuti: cosa deve apprendere, quali operazioni mentali deve organizzare

-Modalità: in che modo, con quale posizione, tipo di richiesta del riabilitatore

-Obiettivi: cosa deve saper fare, la prestazione del paziente che dimostra che il contenuto è stato appreso

FASI DELL’ESERCIZIO
L’esercizio viene suddiviso in una fase conoscitiva, una fase compositiva che insieme a quella procedurale è
la fase in cui il paziente, in qualche modo attraverso lo
strumento dell’immagine motoria, cerca di
approcciare e di risolvere quello che gli stiamo
chiedendo. La fase procedurale è la parte pratica, in
cui il fisioterapista tramite l’assistenza è in grado di
guidare in movimento, oppure, se il paziente è in una
fase già avanzata, il fisioterapista guida il movimento
solo con la voce, senza toccare il malato. E poi c’è la
fase di automatizzazione, in cui la fase attentiva è un
po’ meno spiccata e il paziente è in grado di procedere
anche senza la supervisione o la correzione con il
linguaggio.

Per rispondere alle caratteristiche dell’approccio neurocognitivo, l’esercizio viene ulteriormente diviso in:
● Primo grado: il terapista produce il movimento ed il paziente risolve il compito conoscitivo
attraverso un’analisi delle diverse afferenze. Possono essere eseguiti anche ad occhi chiusi perché
viene escluso il controllo da parte della vista. Questi esercizi possono essere effettuati con l’aiuto
completo o parziale del terapista. Il paziente attinge quasi esclusivamente alla sfera percettiva

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oppure all’immagine motoria. Il terapista produce il movimento e il paziente risolve il compito
conoscitivo attraverso un’analisi delle diverse afferenze. Esempio: il paziente è seduto sulla
scrivania ad occhi chiusi, il terapista afferra la mano e il polso e il paziente deve riconoscere
l’altezza di diversi regoli con le diverse dita. Questo è un esercizio di riconoscimento spaziale degli
oggetti, dove si lavora sulla dimensione. Una volta che il paziente ha appreso le posizioni, si tolgono
i regoli e si chiede al paziente di replicare le varie posizioni e si va a calcolare l’errore rispetto alla
posizione di riferimento.
Un altro esempio di esercizio di riconoscimento utilizza delle superfici differenti (lisce, ruvide e
molto ruvide), il terapista fa sentire al paziente la consistenza delle diverse superfici. Il paziente ad
occhi chiusi deve distinguere quale è la superficie di riferimento.
Nell’esercizio di primo grado il paziente non attiva il reclutamento motorio, perché il movimento è
guidato dal terapista, il quale sorregge l’arto del paziente e poi lo poggia sui diversi regoli facendo
sentire al paziente la posizione (dà anche un nome alle varie posizioni). Infine il terapista pone di
nuovo il dito del paziente a varie altezze e chiede a quest’ultimo (sempre ad occhi chiusi) di
riconoscere le varie posizioni. Contestualmente, a seconda dell’altezza dei vari regoli, varia la
flessione del polso e della regione metacarpale.
● Secondo grado, la risoluzione dell’ipotesi percettiva prevede la raccolta delle informazioni
mediante il reclutamento di unità motorie senza la comparsa di compensi (es. senza attivare
movimenti riflessi anche sul lato sano). L’esercizio può essere svolto sia ad occhi aperti sia ad occhi
chiusi. Il terapista può aiutare parzialmente il paziente nel movimento oppure lo aiuta con la voce.
● Terzo grado, la risoluzione del compito avviene attraverso la vista, con il coinvolgimento di più
distretti motori su diversi piani di movimento. Il paziente compie esercizi di risoluzione, ha gli occhi
aperti e sono esercizi che fanno lavorare reciprocamente gli arti superiori con il tronco o gli arti
inferiori con il tronco; il paziente deve controllare il movimento avendo come riferimento almeno
due o tre fulcri. Un esempio è il controllo della deambulazione: mantenere traiettoria e
contestualmente andare ad esercitare una certa pressione su delle bilance poste sotto l’arto da
esaminare per andare a controllare anche il contatto del tallone sul terreno. Il paziente lavora sullo
schema del passo.

L’approccio neurocognitivo è quindi un approccio neuromotorio dove si lavora molto sulle funzioni
cognitive superiori.

In questa figura il paziente è in posizione supina sul lettino. Il


terapista sta utilizzando un tabellone quadrettato (che presenta
dei numeri da una parte e delle lettere dall’altra) e sta
posizionando il tallone del paziente dentro a riquadri differenti.
Con questo esercizio si lavora sulla flessione dell’anca e
sull’estensione del ginocchio.

Per esempio se il paziente è emiparetico non riesce ad


appoggiare il tallone a terra quando cammina, ma appoggia il
metatarso. Il terapista quindi riprogramma l’engramma motorio ripartendo dall’appoggio del tallone, in
modo tale che quando il paziente starà in piedi riprenderà a camminare, partirà mettendo il tallone a terra.

Questo invece è un esercizio di riconoscimento delle


consistenze, in cui vengono utilizzate delle spugnette di
consistenza diversa. Il paziente lavora quindi sul
riconoscimento propriocettivo. Se le spugnette hanno una

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consistenza diversa, a seconda di quanto il paziente preme a livello lombare o sulle spine iliache postero-
superiori, inclinerà e ruoterà il bacino in modo differente. La rotazione del bacino varia se questo esercizio
viene proposto con le ginocchia in estensione o flesse (quindi si può lavorare in catena cinetica aperta o in
catena cinetica chiusa).

Si può vincolare ulteriormente la flessione dell’anca ponendo


il tabellone un po’ sopraelevato.
In questa figura il tabellone utilizzato è diverso da quello
precedente, presenta una linea più marcata al centro che
rappresenta la simmetria.
Si possono effettuare esercizi di riconoscimento crociati,
quindi far lavorare in sintonia l’arto destro con l’arto sinistro.
Per esempio per svolgere i test di riconoscimento della
sensibilità profonda in assenza del diapason, si pone l’arto del
paziente in una determinata posizione e poi si chiede al
paziente (con gli occhi chiusi) di mettere l’arto controlaterale nella stessa posizione.

Non è strettamente necessario avere degli strumenti (es.


tabellone) per svolgere questi esercizi. Per esempio se si
deve effettuare un pompage sul rachide cervicale in assenza
di strumenti, si può far sentire al paziente i diversi gradi di
rotazione, inclinazione e flesso-estensione chiedendo poi al
paziente di riposizionare il capo nella posizione
memorizzata.

In questo esercizio vengono utilizzate le spugnette di


consistenza differente, per lavorare sulla lordosi cervicale
attraverso il riconoscimento delle superfici di appoggio.

In questa figura il terapista utilizza la parete e contestualmente le


superfici di consistenze diverse per lavorare sulla colonna. Si
possono utilizzare anche degli appoggi sui piedi.
Il paziente deve quindi rispondere ad un riconoscimento doppio,
sia sulla colonna sia rispetto agli arti inferiori.

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Qui come strumento viene utilizzata una seduta, che permette di lavorare sul
riconoscimento dell’inclinazione pelvica (in senso latero-laterale e sul piano
sagittale). È un esercizio fine che viene proposto per il riconoscimento della
posizione del bacino.

Qui vengono utilizzate delle molle che si possono stringere o allargare, che danno
al paziente la sensazione di dover “spingere” di più o di meno, come se stesse
lavorando su un piano inclinato.

In questa immagine il paziente è in posizione seduta ad occhi chiusi e sta


lavorando sul tabellone. Poi dalla posizione seduta passerà in stazione
eretta. Il terapista disegna delle traiettorie sul tabellone, quindi questo è
un esercizio anche di riconoscimento della traiettoria.

In questa figura viene utilizzata la cosiddetta “battaglia navale” per il


recupero del movimento degli arti superiori. È adattabile sia per il training
del passo, sia per il movimento di reaching.

Nds:nel file fornito dalla professoressa la descrizione degli esercizi in alcuni


casi è diversa.
È consigliabile quindi andare a rivedere il file per ulteriori chiarimenti.

Perché si va a cambiare l’inclinazione degli strumenti? Per lavorare sulla flessione del gomito, sul senso di
direzione della spalla, sull’attenzione del paziente.

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Un altro tipo di esercizio non utilizza la quadrettatura, ma dei cerchi di circonferenze diverse tangenti in un
punto (sempre disegnati su un tabellone). Il paziente deve compiere movimenti di riconoscimento
seguendo la forma circonferenziale. Viene utilizzato il cerchio perché la spalla spesso compie dei movimenti
conici/circonferenziali.

Nei protocolli riabilitativi classici la prima cosa che viene riportata quando si parla di recupero articolare
sulla articolazione glenomerale, sono i movimenti pendolari di Codman. Questi sono dei piccoli movimenti
in senso orario e antiorario, solitamente svolti dal paziente in una situazione a favore di gravità (perché la
forza di gravità decoatta l’articolazione, allunga la capsula articolare).
Nell’approccio neurocognitivo si lavora ugualmente sulla funzione dell’articolazione glenomerale, ma
attraverso il riconoscimento di diversi cerchi con raggio differente e tangenti in un punto.
Il tabellone può essere posizionato davanti al paziente, di lato, in senso obliquo o parallelo al terreno, a
seconda della direzione che si vuole dare al movimento.

In tutti i metodi è importante la progressione, infatti si parte sempre dalla postura più semplice e poi si
passa man mano a quella più complessa. Quindi all’inizio gli esercizi vengono eseguiti in posizione supina o
prona, poi il paziente si mette seduto, poi in piedi e infine si passa al training alla deambulazione.

Domanda: su quale base si sceglie un metodo rispetto ad un altro?


Risposta: in base alle capacità del paziente ma anche all’esperienza del fisioterapista (deve aver svolto dei
corsi ed essere esperto in un determinato metodo prima di poterlo utilizzare).

La difficoltà procedurale del metodo neurocognitivo è la durata dei trattamenti, perché è difficile
standardizzare anche la durata anche delle singole sedute. È un metodo che richiede più tempo e si basa sul
recupero graduale. Spesso non si ha tutto questo tempo a disposizione, quindi in molte strutture
l’approccio neurocognitivo non viene utilizzato.

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