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GESTIONE DEGLI

INFORTUNI NELLO
SPORTIVO

ILIO IANNONE
Edizione a cura di Niccolò Ramponi
FISIOSCIENCE
WWW.FISIOSCIENCE.IT

AUTORE
Ilio Iannone, PT, CSCS

EDIZIONE A CURA DI FISIOSCIENCE

Niccolò Ramponi, PT, OMPT, CSCS


Valerio Barbari, PT, OMPT
Giandomenico Campardo, PT
Stefano Diprè, PT, OMPT
Paolo Torneri, PT Student
CAPITOLO 1

LA CAPACITÀ DI CARICO

Capacità di Carico Tissutale: cos’è e come


determinarla

Nel Giugno del 2019 sul British Journal of Sport Medicine (BJSM) è stato
pubblicato un bellissimo video dal titolo: “Load vs Capacity and Injuries".

Nel video viene spiegato in modo autorevole che:


– tutti i tessuti hanno una loro capacità di carico;
– se applichiamo ai tessuti un carico maggiore rispetto alla loro capacità, il
rischio di infortunio aumenta.

Un’esposizione graduale nel tempo permetterà ai tessuti di adattarsi al nuovo


stimolo, che di risposta aumenteranno le loro capacità: muscoli, tendini e ossa
diventeranno sempre più forti e resilienti. Viene ulteriormente spiegato come
molte persone dopo tanti anni di inattività fisica riprendano a fare sport con
carichi di lavoro troppo elevati rispetto alle loro capacità: il corpo non ha il
tempo di adattarsi e la probabilità di infortunarsi potrebbe aumentare.

Le anomalie strutturali non costituiscono


causa di infortunio

Il modello biomedico appare così, ormai, superato: la letteratura scientifica ha


infatti ampiamente dimostrato che le anomalie strutturali non sono causa di
infortuni.

Nel caso dello sportivo, la capacità di carico può essere influenzata da


frequenza, volume e tempi di recupero dell’allenamento. Quello che
sappiamo è che gli atleti d’elite hanno una maggior capacità tissutale rispetto
agli atleti ricreativi.

“Il video ha avuto molto successo tra i fisioterapisti, ma si è diffusa l’idea


errata e semplicistica che il dolore sia causato da una capacità di carico
bassa, per cui se hai un mal di schiena, una tendinopatia rotulea o una
tendinopatia della spalla devi semplicemente caricare la struttura.”
Capacità di carico: variabili in gioco e spunti
utili per gestirla correttamente

Come facciamo a stabilire quanto carico può tollerare il nostro paziente?


Esiste un modo per misurarla?
A complicare le cose ci sono una serie di variabili che possono influenzare la
capacità di carico, come ad esempio:

• lo stress;
• lo stato di salute;
• il sonno;
• l’alimentazione, ecc…

Quando dobbiamo prendere in considerazione cosi tante variabili non è


semplice ed è riduttivo aumentare soltanto i kg sul bilanciere. Risulta molto
complicato definire il carico tollerabile per il nostro paziente e purtroppo non
esistono modi per determinarlo.
Il video ha sicuramente lasciato ottimi messaggi per tutti i nostri pazienti:

“l’importanza di mantenere sempre uno stile di vita attivo affinchè possa


essere mantenuta una buona capacità di carico, spostare il pensiero dal
“difetto biomeccanico” (spesso indicato come causa primaria del dolore)
ad un pensiero positivo di guarigione, attraverso l’esposizione graduale
del nostro corpo al carico.”

Come impostare un Programma di


Progressione del carico di lavoro su pazienti
con dolore

Uno dei principali problemi che ci troviamo ad affrontare, come Fisioterapisti, è


quello di trovare un metodo ottimale di dosaggio del carico, da applicare caso
per caso senza correre il rischio di sovraccaricare il paziente: in questa prima
parte metto a confronto 2 test basati su evidenze scientifiche di settore.

Negli ultimi anni l’approccio riabilitativo basato sull’esercizio attivo è diventato di


fondamentale importanza. In molti disturbi muscoloscheletrici, come ad
esempio il LBP o la tendinopatia rotulea, spesso vengono inseriti esercizi con
sovraccarichi (deadlift, squat, ecc..) con lo scopo di migliorare
progressivamente la capacità di carico della struttura coinvolta. Qualsiasi
programma di strength e conditioning efficace viene strutturato sulla base di un
TEST che ha lo scopo di valutare inizialmente la capacità massimale dell’atleta:
nel caso della forza l’1RM e, successivamente, viene strutturato un programma
di progressione del carico di lavoro.
CAPITOLO 2

RECUPERO POST
INFORTUNIO

Il recupero post infortunio: un sistema


complesso e non lineare

In fase di recupero dopo un infortunio, le prime domande che, di solito, si pone


lo sportivo sono sempre legate ai tempi di guarigione ed al ritorno allo sport.
La foto sottostante si riferisce ad un articolo di Adam Meakins “Road to
recovery graph” pubblicato su BJSM nel 2015.

Anche io, come Meakins, per molti anni ho cercato di spiegare ai miei pazienti,
sulla base delle conoscenze che avevo rispetto alla guarigione dei tessuti,
come il percorso seguisse sempre un andamento lineare da A a B.
Purtroppo nel tempo ho iniziato a sentirmi scoraggiato quando, nonostante
avessi fatto al meglio il mio lavoro, notavo come il processo di recupero del
paziente fosse soggetto a continue fluttuazioni.

Il recupero dall’infortunio come sistema


complesso e non lineare

L’essere umano come la meteorologia, la biologia, la psicologia, fa parte dei


sistemi complessi. I sistemi complessi sono sistemi in cui le singole parti sono
interessate da interazioni locali che provocano cambiamenti nella struttura
complessiva.
La particolarità dei sistemi complessi è che il loro comportamento non è
prevedibile se non in modo molto parziale, probabilistico e inesatto. Il sistema si
comporta in modo caotico in riferimento alla propria sensibilità sistemica
esponenziale e rispetto alle variabili iniziali, definendo appunto un andamento
non-lineare.

I fattori che incidono nel recupero post


infortunio

È stato ampiamente dimostrato in letteratura come i fattori biopsicosociali:

• il riposo;
• il sonno;
• lo stato mentale;
• lo stile di vita;
• l’ambiente in cui si vive;

influenzino il dolore rendendo il processo di recupero non-lineare.

ll problema nell’approccio ai sistemi complessi è fondamentalmente logico:


nella logica lineare ad una causa corrisponde una conseguenza o un effetto;
nella logica complessa invece questo principio di linearità è limitato a causa di
fattori, come sopra descritti, non prevedibili.

Conclusione

Gestire le aspettative del paziente sin dall’inizio migliora notevolmente il


successo del risultato.
Uno dei nostri scopi come terapeuti è anche aiutare le persone a riflettere sulla
propria condizione e identificare quegli aspetti che devono essere migliorati.
È perfettamente normale avere degli alti e bassi durante la fase di recupero,
non bisogna preoccuparsi e soprattutto mai scoraggiarsi!
CAPITOLO 3

CARICO DI LAVORO
Come stabiliamo il carico di lavoro iniziale?

Metterò a confronto 2 differenti metodi di valutazione, l’RM e il RIR: voglio farti


capire le differenze e, soprattutto, quale reputo personalmente più adatto alle
nuove terapie basate sulle evidenze scientifiche di settore.

Il metodo RM (repetition maximum)

L’1RM è definito come la quantità massima di peso che può essere sollevata
con una sola ripetizione e con una forma adeguata.
Per un neofita, o per un soggetto reduce da un infortunio, questo tipo di test
non rappresenta la scelta migliore, tuttavia potrebbe essere determinato
attraverso il “calcolo indiretto del massimale”.
Nel caso in cui volessimo determinare il 12RM, verrà chiesto al paziente di
eseguire il movimento con il più alto carico possibile per 12 ripetizioni.
Se ad esempio il paziente riuscirà ad eseguire l’esercizio con 35kg, il suo
massimale (1RM) corrisponderà a 50kg (vedi tabella).
Il metodo RIR (Repetions in reserve)

Il RIR è un metodo di autoregolazione ideato da Mike Tuchscherer adattando


la scala RPE (Rate of Perceived Exertion) creata da Gunnar Borg negli anni
’70.

Ecco come funziona.

Un 10RPE corrisponde ad un 10RIR l’equivalente del 1RM visto in precedenza.


Un 10RPE non permette di eseguire nessuna altra ripetizione: ad esempio, se
eseguo un Deadlift 5 reps@10RPE significa che non riuscirò ad eseguire
nessuna ripetizione aggiuntiva oltre le 5 reps richieste.
Un Deadlift 5reps@8RPE significa che avrò un RIR di 2 reps, altri due “colpi in
canna” oltre le 5 ripetizioni eseguite: in Italia, spesso, il RIR viene chiamato
buffer.

A differenza del metodo RM, in questo caso il massimale non è portato a


cedimento, in quanto è possibile valutare il paziente mantenendo sempre
qualche reps di riserva oltre quelle eseguite.

Analisi dei due metodi di valutazione

Il metodo basato sull’RM ha, a mio avviso, molti punti critici:

• eseguire delle ripetizioni a “cedimento” in riabilitazione non la trovo una scelta


“sicura”;
• il massimale di quel giorno specifico non tiene in considerazione di
tantissime variabili che possono influenzare il test massimale, come il
sonno, l’umore, lo stress, l’alimentazione, ecc.

Questi fattori potrebbero rendere la progressione del carico nelle settimane


successive troppo rigida e falsata. Sappiamo benissimo dalla recente
letteratura di quanto gli aspetti bio-psico-sociali possano influenzare lo stato del
paziente.

“Pertanto, un sistema di valutazione come il RIR, basato sull’autoregolazione


dell’intensità, potrebbe essere maggiormente applicabile in riabilitazione
rispetto ai test basati sull’RM: è il paziente che sceglie quando fermarsi in
base allo sforzo percepito in quella determinata giornata”.

Il RIR, non essendo un test a cedimento come l’RM, può essere valutato ad
ogni seduta stabilendo il numero di ripetizioni target di quella seduta.
Se per un qualsiasi sportivo può essere considerato normale allenarsi con
schemi di progressione del carico che prevedano volumi ed intensità
prestabilite, nel caso del nostro paziente un sistema flessibile e basato
sull’autoregolazione potrebbe risultare più efficace, per i motivi descritti in
precedenza.

Esempio di autoregolazione con metodo RIR

Negli ultimi anni anche nell’allenamento della forza molti atleti hanno iniziato ad
allenarsi con sistemi basati sull’autoregolazione.

“Lo scopo è quello di arrivare, attraverso un ramping, al carico target in


relazione ad un numero prestabilito di ripetizioni e RPE. “

Vediamo ora, con un esempio, come mettere in pratica il Metodo RIR.

Vediamo come funziona la tabella:

• 1 ripetizione 10 RPE corrisponde al massimale (100%) e significa che il


paziente non riuscirà ad eseguire altre ripetizioni;

• 2 ripetizioni 8 RPE significa che una volta completate le 2 ripetizioni il


paziente potrà farne altre 2 (89,2%).

• 1 ripetizione 9 RPE significa che il paziente riuscirà ad eseguire un’altra


ripetizione (95,5%).

Anche se all’inizio questo schema potrebbe risultare un po’ complicato, una


volta presa confidenza con la tabella risulterà tutto più semplice.
Arrivando al nostro paziente, dobbiamo definire:

1. L’RPE di lavoro
2. Il Tipo di lavoro: resistenza, ipertrofia, forza o potenza.

Ad esempio: intensità RPE 7, lavoro di forza (6 reps @ 4 serie).

Iniziamo con delle serie di avvicinamento da 6 ripetizioni aumentando


gradualmente il carico sul nostro bilanciere fino a raggiungere un RPE 7:

5@RPE
6@RPE
7@RPE (carico di lavoro target, 76,2% come da tabella).

Il fondamentale lavoro di back-off

Abbiamo bisogno di “VOLUME” e possiamo farlo attraverso delle serie di Back-


OFF diminuendo, ad esempio, il carico di un 5% (-5% fatigue).

“Questa strategia permetterà al paziente di percepire lo sforzo inferiore


nelle prime serie (l’RPE si riduce) ed avrà maggiore capacità di portare a
termine tutte le serie che ci siamo dati come obiettivo, il lavoro terminerà
quando il paziente raggiungerà nuovamente un RPE 7”.

Esempio, carico target trovato: 6x100kg (7rpe)

-5% fatigue = 95kg

Il paziente inizierà ad eseguire serie con 6 ripetizioni a 95kg fino a quando non
percepirà il carico nuovamente con una intensità pari a RPE 7: a questo punto,
il lavoro terminerà.

Questo è solo un esempio di strategia di lavoro, esistono diversi modi per


impostare una progressione sul carico di lavoro e non è l’obiettivo di questo
articolo.
CAPITOLO 4

PSICOLOGIA E FORZA
La Psicologia del carico di lavoro: come
superare l’equazione CARICO = PERICOLO

Con il contributo del Fisioterapista americano Erik Meira, scopriamo come il


carico di lavoro influisce sulla psicologia di un atleta di Crossfit, e come
superare le paure.

Erik Meira è un Fisioterapista Statunitense di fama mondiale, con una vasta


esperienza negli infortuni sportivi, e un blog molto seguito e apprezzato nel
mondo della riabilitazione. In questa sezione, prendo spunto da un suo
contributo, per approfondire un argomento molto discusso nel settore:
l’influenza degli aspetti psicologici nella gestione del carico di lavoro nel
CrossFit.

Il carico, oltre agli effetti positivi che conosciamo come:


• Strutturali;
• Ormonali;
• Cardiovascolari;
gioca un ruolo fondamentale anche sugli aspetti psicologici dell’atleta.

L’equazione “Carico = Pericolo” nella


Psicologia del carico di lavoro

Mettiamoci proprio nei panni dell’atleta. Se avessi una storia di mal di schiena,
oppure una tendinopatia, e avessi di fronte a me un carico elevato,
verosimilmente mi sentirò fragile e spaventato, nonostante la mia forza.

Ed è qui che sorge un’equazione nella mia testa, che mi dirà


CARICO = PERICOLO

Consciamente e inconsciamente penserò che il carico potrà produrre dei danni


alla struttura “infortunata” creando una aspettativa di DANNO: il dolore mi
impedirà di impegnarmi contro questa minaccia. Se ad esempio, dopo un
mal di schiena, proverò ad eseguire un deadlift, in realtà non sto diventando più
forte ma mi sentirò più forte perché percepirò il rischio del danno inferiore.
La percezione del Rischio di infortunio

Se percepisco il rischio inferiore, anche il mio bisogno di protezione (dolore)


sarà inferiore: non starò solo diventando fisicamente più forte ma anche più
forte psicologicamente.

Se mi sedessi su una leg extension con una aspettativa di danno, penserò che
il tendine potrà lesionarsi, proverò quindi ad estendere il ginocchio e al primo
dolore interromperò l’esercizio.

Se invece proverò a resistere al dolore con una contrazione isometrica,


spingendomi un pochino oltre fino ad un dolore per me tollerabile, mi
accorgerò che in realtà il tendine non si sta staccando.

Con la conseguenza che, stranamente, sentirò meno dolore.


Cosa è stato, quindi, a ridurmi il dolore? Ci sono stati dei cambiamenti
strutturali del tendine? Ovviamente NO!! Quindi che cos’è stato?

Violazione delle aspettative: superare


l’equazione Carico = Pericolo!

Cosa accade, quindi, nella testa dell’atleta?


Egli si aspettava che la schiena non fosse riuscita a sostenere il carico nel
deadlift, e che il suo tendine rotuleo si fosse staccato.
E invece non è successo nulla! Non è peggiorato e inizierà a sviluppare, nella
sua testa, una nuova aspettativa.

IL CARICO È SICURO!!!

La violazione delle aspettative è una tecnica che si usa per le fobie: i pazienti
vengono esposti in maniera progressiva allo stimolo che innesca la paura
(ragni, aghi, aereo).

Alcuni atleti dopo un mal di schiena, nonostante non abbiano più dolore,
continuano a mettere in atto una serie di movimenti compensatori anche per
prendere una moneta a terra.

Qualche esempio pratico? Alcuni si tengono la schiena, mentre altri si flettono


facendosi forza con una mano sulla coscia.
Attraverso dei semplici esercizi, come raccogliere un pallone a terra
lanciato dal terapista, è possibile esporre gradualmente l’atleta a compiti
motori percepiti pericolosi, fino ad arrivare a movimenti più complessi
come il deadlift.
La correlazione tra la variabilità
coordinativa e gli infortuni da sovraccarico.

Capire che il movimento è variabile ci aiuta a riconoscere che i modelli di


riferimento “buono/cattivo” sono meno validi di quello che pensiamo.

Si parla spesso di movimenti definiti “ottimali”: la minima deviazione diventa la


responsabile della patologia, dimenticandoci che il nostro organismo risponde
alle leggi della biologia e non della meccanica, e che in realtà è molto più
probabile che si verifichi un adattamento al carico su quella “deviazione” di
movimento.

Kostantin Kostantinov, uno dei più forti Powerlifter al mondo, per alcuni ha una
tecnica discutibile.
Un tipico esempio di adattamento al carico in cifosi lombare.
In una intervista di qualche anno fa, alla domanda: ”Come sta la tua schiena?”
rispose di non aver mai avuto nessun infortunio alla schiena e si allena da
quando aveva 16 anni!!!

Adattamento al carico e variabilità di


movimento

Quando osserviamo i dati relativi al movimento di persone asintomatiche


notiamo un’enorme variabilità di movimento. Le persone si muovono in modo
diverso e hanno diverse strategie per raggiungere lo stesso compito e quindi lo
stesso individuo può anche avere più soluzioni per raggiungere lo stesso
obiettivo. Il movimento, quindi, ha variazioni inter e intra individuali.
Questo significa che le deviazioni da un movimento considerato “ottimale”
(entro un range anatomico sicuro) NON rappresentano un problema ma solo
una variazione. Nello sport, la visione tradizionale della parola variabilità è
quella di analizzare l’end-point cioè l’obiettivo finale di una abilità ad esempio
l’azione di un lancio oppure, nel nostro caso, uno squat. Questo tipo di
variabilità si tende a mantenerla abbastanza stabile ai fini della performance e
di conseguenza una maggiore variabilità ha un’accezione negativa.

La “Variabilità Coordinativa”

Un altro modo di considerare la variabilità è la “variabilità coordinativa” intesa


come la capacità dei vari segmenti corporei, muscoli, ecc.. di interagire
per l’end-point. Ad esempio, durante la corsa, apparentemente anca e
ginocchio potrebbero sembrare dall’esterno interagire sempre allo stesso
modo, in realtà ogni passo potrebbe essere organizzato in maniera sempre
diversa.

Analizzare il singolo distretto corporeo durante uno squat, senza considerare


l’insieme e come le varie strutture interagiscono per un determinato compito,
non ha molto senso: come detto in precedenza, ognuno di noi ha una serie
infinita di combinazioni per raggiungere l’end-point.

Aspetti positivi della variabilità coordinativa

C’è una crescente evidenza di prove in letteratura, nel campo delle scienze
biologiche e fisiche, che sottolinea come la variabilità abbia effetti benefici e
quindi non più associata a diminuzione dei livelli di abilità, infortunio e salute.
Una perdita di variabilità è associata ad una riduzione dei gradi di libertà che
interagiscono per un compito motorio definito, quando questi gradi di libertà e
variabilità raggiungono una soglia critica siamo più soggetti ad infortunio.

Diversi studi hanno dimostrato un’associazione tra ridotta variabilità del


coordinamento e disturbi muscoloscheletrici, tra cui le patologie da
sovraccarico.

Una coordinazione con bassa variabilità causa la distribuzione di forze su


piccole superfici (a), con possibili lesioni da uso eccessivo.

Al contrario, una variabilità entro i limiti consentirebbe di distribuire le forze


articolari o tissutali, riducendo così al minimo il rischio di lesioni da uso
eccessivo.

È stato riportato che maggiore è la variabilità del coordinamento, più sano


è lo stato del sistema, mentre minore variabilità è stata correlata a un
sistema patologico.

Tuttavia, l’eccessiva variabilità in un sistema può anche essere indicativo di un


individuo con infortunio: c’è una finestra di variabilità in cui un individuo
sano funziona.

Nello stato di bassa variabilità (cioè nello stato in cui si trova un individuo
infortunato), è stato suggerito che è disponibile un numero ridotto di movimenti
tra le articolazioni che possono causare un uso eccessivo di determinati tessuti,
causando un peggioramento della lesione.
Inoltre, riducendo il numero di modelli di movimento disponibili, risulta un
sistema meno flessibile che potrebbe non rispondere adeguatamente a una
perturbazione esterna.
CAPITOLO 5

PREVENZIONE DEGLI
INFORTUNI

Come prevenire gli infortuni sportivi:


postura, stretching o allenamento della
forza?

Per la prevenzione degli infortuni sportivi, una corretta postura e un


continuo stretching non bastano, occorre ben altro: ecco cosa affermano
alcune evidenze scientifiche.

Quando si parla di prevenzione degli infortuni sportivi, spesso la prima cosa


a cui si pensa è la postura.

Un pensiero talmente radicato nelle persone che quando ci si trova davanti a


dolori di spalla, schiena, ecc… la causa sarà sempre un “problema posturale”:
un pensiero spesso rafforzato proprio dagli operatori sanitari che ci inducono a
pensare che possa esistere una postura ideale da perseguire che ci renderà
immuni al dolore.

Nonostante ci siano molti studi in letteratura che mettono a confronto la postura


delle persone con dolore e quelle indolore senza trovare nessuna differenza,
queste informazioni vengono frequentemente ignorate.

Alcuni professionisti del settore continuano spesso a basare gli interventi


soltanto sulla loro esperienza personale tralasciando che il background
peculiare di ciascuno di loro potrebbe essere inadeguato, specie se non
basato su un’evidenza scientifica.

Subito dopo la postura, la flessibilità sembrerebbe essere la causa di tutti i


mali: ti fai male perché sei “rigido” e perché non fai stretching!!!

La prevenzione degli infortuni lascerebbe così spazio alla correzione della


postura e a fantasiose sedute di riequilibrio muscolare di muscoli lunghi, corti,
deboli ecc..
Prevenzione degli infortuni: c’è
un’associazione tra postura e dolore?

Sul tema degli infortuni nello sport, occorre chiarire alcune questioni:

• Una inversione della curva lombare è predittiva per infortunio?


• Lo stretching o il foam roller diminuiscono il rischio di infortunio?
• Un dorso cifotico oppure una spalla anteriorizzata causerà un
infortunio?

Tempo fa lessi una frase molto simpatica sul blog del Dr Ben Cormack:

“If I had a £ for everybody that mentioned posture on social media or


when they had a pain problem…… well lets just say I would be a pretty
rich guy”

Negli ultimi anni le evidenze scientifiche ci hanno dimostrato che non c’è
nessuna relazione tra postura e dolore:

• La postura non è responsabile dell’impingement scapolo omerale,


Subacromial impingement syndrome: The role of posture and muscle
imbalance, Jeremy S. Lewis 2005

• Una cifosi dorsale accentuata non causa dolore alla spalla, Is thoracic
spine posture associated with shoulder pain, range of motion and function? A
systematic review, E. Barret 2016

• Nessuna relazione tra alterazione della normale lordosi cervicale e


dolore, The association between cervical spine curvature and neck pain,
D.Grob 2007

• Le curve della colonna non sono in relazione con il dolore spinale, Spinal
Curves and Health: A Systematic Critical Review of the Epidemiological
Literature Dealing With Associations Between Sagittal Spinal Curves and
Health, Sanne Tofgaard Christensen 2008

• Nessuna relazione tra lordosi lombare e dolore, How consistent are


lordosis, range of movement and lumbo-pelvic rhythm in people with and
without back pain? Robert A. Laird 2016
Lo stretching riduce davvero gli infortuni
sportivi?

Nel 2005, il Clinical Journal of Sports Medicine ha pubblicato una revisione


sistematica delle prove scientifiche riguardo gli effetti dello stretching nel ridurre
gli infortuni arrivando alla conclusione che lo stretching non riduce il
rischio di infortunio (Effect of stretching on sport injury risk: a review, Hart L.
2005).

Nel 2014 una meta-analisi (26610 soggetti) pubblicata sul British Journal of
Sports Medicine arriva alla conclusione che lo stretching non riduce il
rischio di infortuni mentre allenamenti di forza avrebbero un ruolo
fondamentale (The effectiveness of exercise interventions to prevent sport
injuries, Laursen et al).

Anche le tecniche di release miofasciale, come il foam roller, pur contribuendo


ad un miglioramento del ROM nel breve termine non hanno effetti positivi sulla
prevenzione degli infortuni.

I lavori dedicati alla mobilità articolare possono indubbiamente migliorare


alcune abilità come la pesistica o la ginnastica ma non riducono il rischio di
infortunio.

La qualità del movimento è sicuramente importante dal punto di vista della


performance ma non occupa un ruolo fondamentale nella prevenzione degli
infortuni: se ti muovi bene non è detto che non avrai infortuni.

È stato ampiamente dimostrato come il dolore muscoloscheletrico sia


multifattoriale e scarsamente correlabile alla postura per cui lavori
dedicati non riducono il rischio di infortunio.

Allenamento della forza: un vaccino anti-


infortuni?

L’allenamento della forza può davvero ridurre gli infortuni sportivi? Quali sono
gli effetti, diretti e indiretti, di un programma di sovraccarico muscolare?
Facciamo un po’ di chiarezza, con l’aiuto delle migliori evidenze scientifiche di
settore.
Nel 2013 Laursean et al hanno confrontato gli effetti sulla prevenzione degli
infortuni di:

• stretching;
• allenamento della forza;
• esercizi di propriocezione;

arrivando alla conclusione che “l’allenamento della forza rappresenta il modo


migliore per prevenire gli infortuni”.

I più recenti studi sull’allenamento della


forza

Nel 2018 Lauersen et al. hanno analizzato 6 studi e 7.738 partecipanti di età
compresa tra i 12 e 40 anni.
Tra questi, 1.502 erano militari di leva, mentre la gran parte dei partecipanti
erano calciatori professionisti e semi-professionisti: 177 il numero degli infortuni
osservati.
Gli studi analizzati sono stati pubblicati dal 2003 al 2016.
Negli studi sono stati analizzati prevalentemente le lesioni agli arti inferiori e i
programmi di strength training differivano per quanto riguarda il volume,
l’intensità e le settimane di lavoro.

Che cosa è emerso da questi studi?

• Una riduzione degli infortuni del 66% degli atleti che hanno seguito
programmi di strength training;
• I programmi seguiti per 8 mesi non hanno avuto nessun evento avverso;
• I programmi seguiti per un tempo inferiore hanno comunque ottenuto una
riduzione degli infortuni del 43%;
• Un aumento del volume di allenamento del 10% ha ridotto gli infortuni
del 4%;
• Una riduzione del 75% del dolore anteriore di ginocchio;
• Una riduzione del 64% degli infortuni sul LCA.
L'AUTORE
ILIO IANNONE

Mi chiamo Ilio Iannone, classe 1976. pensieri) e sociali (cultura, esperienze,


Laurea in Fisioterapia conseguita presso relazioni), risultato di una sinergia tra
L’Università degli studi di Roma “La individuo e ambiente.
Sapienza” nel 1999.
Questo nuovo modello di lavoro trova
Nel 2009 conseguo il diploma in osteopatia particolare applicazione sui disturbi
presso l’International College of muscoloscheletrici in quanto negli ultimi
Osteopathic Manual Medicine (ICOMM). anni la letteratura scientifica ha dimostrato
Dal 2006 sono Amministratore presso la che essi sono sempre più scarsamente
Orthomed – Ortopedia e Riabilitazione a correlabili alle alterazioni strutturali, in molti
Fondi (LT). individui presenti in maniera asintomatica –
e in particolare al dolore cronico
Nel tempo inizio a coltivare la passione per muscoloscheletrico – fortemente associato
i disordini muscoloscheletrici consultando a fattori psicosociali (kinesiofobia,
gli studi di noti ricercatori del settore e catastrofizzazione, ansia, evitamento,
partecipando a corsi di formazione con disuso).
alcuni di loro come Adam Meakins, Chris
Littlewod, Alli Gokeler, Jeremy Lewis, Ben A Maggio 2019, dopo mesi di studio e
Cormack, e altri. allenamento, ho ottenuto il CSCS (Certified
Strength e Condititioning Specialist) con
In questi 20 anni di lavoro ho modificato il la NSCA (National Strength e
mio approccio di lavoro passando da un Conditioning Association), la più ambita
modello di tipo biomedico basato sulla Certificazione Internazionale sul
visione della malattia soltanto come condizionamento fisico e allenamento
espressione della sola alterazione di fattori della Forza.
biologici, al modello bio-psicosociale che
considera la malattia anche come
alterazione di fattori psicologici (emozioni e

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