Graciàn è il più giovane tra i grandi scrittori dell’età barocca. Nasce nel 1601 a Belmonte, presso la città di Calatayut, ed importa notar che la sua nascita aragonese e la consapevolezza di essere concittadino del poeta ispano-romano Marziale ebbero profondo influsso sulla sua formazione, infatti da un lato egli si compiacerà sempre di appartenere ad una stirpe la cui tenacia e fermezza di propositi era considerevole, proverbiali. L’Aragona è definita nel Criticòn come la buona Spagna, la regione dal temperamento tanto difficile a scomporsi quant’è difficile a ricomporsi quello castigliano. Ciò è tanto vero che nel loro allegorico peregrinare in cerca della saggezza, i due protagonisti del capolavoro Critilo e Andrenio, troveranno la quiete e la maturità dello spirito solo sulla frontiera montuosa che dalla Castiglia immette in Aragona. Aggiunge Graciàn che il re Jaime I (Giacomo I) soleva dire che comparando le nazioni di Spagna alle età anagrafiche, gli aragonesi sono gli uomini maturi. D’altra parte, l’affermata continuità con la tradizione letteraria ispano-romana (quella Marziale) permetterà a Graciàn di ricostruire una linea genealogica tipicamente ispanica caratterizzata dal gusto per l’ingegnosità e lo spirito epigrammatico di Marziale, capostipite dell’epigramma. Il padre Gracian ha quattro fratelli che come lui avevano scelto lo stato ecclesiastico, in particolare sono Pedro, Felipe, Raimundo e Magdalena de la Presentaciòn. Erano giunti ad eccellere nella sacra oratoria che era all’epoca di Gran Moda. Baldasar ci da nella sua opera “Agudeza y arte de ingenio” esempi come questi: «Faceva notare il padre Felipe mio fratello che il sommo autore pare abbia voluto fare un bisticcio verbale con la parola liber». In quell’inizio liber generationis jesu cristi, “liber” vuol dire libro e libero. Come infatti il verbo eterno doveva essere libero dalla colpa così Maria fu il libro in cui doveva stamparsi la parola di Dio, bianco libro le cui pagine furono le sue purissime viscere verginali. Richiamare in causa la Madonna non è una novità, ma fonda le sue radici nelle origini della poesia spagnola (con Gonzalo de Perceo ne “Loores de Nuestra Senora” e “Los Milagros”), poiché la Madonna è redentrice. Si vede nella salvezza del mondo il ruolo di corredentrice della Vergine. Graciàn entrò come novizio nella compagnia di Gesù e ordinato prete nel 1627, ed ebbe l’incarico di insegnare grammatica latina agli allievi del collegio di Calatayut. Prima dei voti definitivi fece tre anni di Probaciòn e li trascorse in parte a Valenza, dove il suo temperamento impaziente e orgoglioso fu messo a dura prova da alcuni comportamenti dei confratelli. Nel 1636, fu assegnato al converto di Huesca, città dove rimase alcuni anni, i più felici della sua vita, godendo dell’amicizia e protezione del patrizio Vincencio Juan de la Stanosa, illustre studioso di antichità locali che spalanco a Gracian e ad altri letterari le porte del proprio palazzo, ricchissimo di opere d’arte e preziose collezioni. Più tardi quando Gracian avrà lasciato Huesca, la persona di La Stanosa continuerà ad essere presente nel proprio ricordo. Quegli anni saranno un costante punto di riferimento e la figura di La Stanosa un appoggio indispensabile nelle difficoltà sempre maggiori in cui il gesuita andrà a ritrovarsi di fronte ai superiori della compagnia. Quando Graciàn incomincia a pubblicare è esortato da La Stanosa. Graciàn non vuole sottomettersi all’autorità della compagnia di Gesù ne sollecitarne l’imprimatur tranne per il Comulgatorio, del 1655 e tranne per l’Agudeza y arte de Ingenio la cui prima edizione è del 1642 e la seconda del 1648. Le pubblica servendosi di pseudonimi spesso e volentieri poco funzionali poiché si capisce che sia lui. Dal 1652 si occupa personalmente della stampa dei suoi libri e disobbedisce al voto di povertà perché stampando i propri libri i ricavi andarono a lui. I rapporti coi superiori diventano molto tesi anche se non si arrivò mai ad una rottura, anzi, Graciàn ricevette negli ultimi atti di vita segni particolari di stima e gli furono affidati incarichi delicati. Gracian morì nel 1658. Le prime opere pubblicate dal gesuita furono El Heroe, del 1637, El politico don Fernando el catolico del 1640, L’arte de ingenio che è del 1642 e che nell’edizione definitiva del 1648 si intitolerà “Agudeza y arte de ingenio”, el discreto del ’46, L’oraculo manual y arte de prudencia del ’47. El Heroe e Politico don Fernando el Catòlico sono due trattatelli di argomento politico che nell’impostazione formale si richiamano al principe di Machiavelli, mentre rivelano nel contenuto un intransigente anti-machiavellismo. Complesso è il caso dell’Oraculo Manual Y Arte De Prudencia, la più fortunata opera, anche la più tradotta sin dal ‘600 nei maggiori paesi d’Europa: in Italia nel 1670 ed in Francia nel 1684. Quest’opera è da leggere come il classico manuale del perfetto gentiluomo secentesco. E’ la risposta al corteggiano del ‘500. Si tratta di una raccolta di 300 massime, “sacada de los aforismos che se discurren en las obras de Lorenzo Graciàn” sottotitolo. Con questi aforismi padre Graciàn vuole insegnare che le cose del mondo sono dominate dalla fortuna, dal caso, ma il caso e la fortuna non sono se non la materia bruta, grezza, che il saggio deve sottomettere a procedimento formativo. Deve cioè plasmare ai suoi fini come il bozzettista sa plasmare la creta. La fonte di parecchie sue massime è Tacito che offriva ai suoi discepoli secentisti la possibilità di compiere un progresso su Machiavelli, giacché oltre ad essere come quest’ultimo un analista oggettivo e minuzioso della realtà, più di lui insisteva su certe virtù dei governanti, specie la prudenza. Sull’importanza delle leggi come freno all’arbitrio dei potenti, sulla necessità di educare all’arte e alla pratica del governo del principe. Veniva ad essere consentito di non cristallizzarsi sul problema del principe, quasi fosse l’unico degno di considerazione da parte dei trattatisti della politica, anzi, si estendeva lo sguardo ai vari organi dello stato e ai diversi corpi sociali per studiarne il comportamento e favorirne l’armonica collaborazione ai fini di un equilibrato esercizio del potere. Al padre Graciàn, del Oraculo gli interessa dettare delle norme di comportamento per chi trovandosi a contatto col principe, coi potenti, deve tentare giorno per giorno di correggerne e moderarne l’arbitrio. Senza però compromettere il prestigio personale. Padre Graciàn è tacitista perché al pessimismo assoluto che consiglierebbe uno sfrenato attivismo al di fuori di ogni principio o contro la saggezza idillica ed enunciataria, padre Graciàn pone un pessimismo relativo cioè l’ideale di una saggezza difficile in grado di conciliare la gelosa autonomia individuale con la responsabilità dei pubblici uffici. Un altro aspetto del Tacitismo di Graciàn può considerarsi la sua forte propensione per la scrittura breve e concisa, come ne sono prova le massime contenute nell’Oraculo. Nel 1642, vede la luce “L’arte de Ingenio”, tra la prima e la seconda edizione l’opera si accresce di molti esempi, anche se nella sostanza non cambia. Come fa intendere il termine “arte” significa sistema, trattato, dunque Graciàn si proponeva di disporre in ambizioso edificio teorico le idee proprie e dei contemporanei sulla letteratura e l’oratoria intese come manifestazioni di civile convivenza. Essendo che vi sono però troppi esempi di autori antichi e moderni, l’Agudeza viene ad essere un imponente saggio dal gusto contemporaneo per il genere acuto o “ingenioso”, manierista. All’inizio si dubitò la fonte del trattato, si pensava che potesse essere stata una riscrittura dell’opera dell’autore bolognese Matteo Peregrini o Pellegrini, intitolata “Delle Acutezze che altrimenti spiriti vivezze e concetti volgarmente si appellano”, pubblicata nel 1639. Tuttavia studi più recenti ci hanno avvalorato di un’altra tesi secondo cui l’embrione dell’Agudeza di Baldasar risalga al 1626 o 1627, molto prima dunque. Anche l’interpretazione del significato dell’opera è cambiato col tempo. Il suo centro di interesse non si fa consistere più nell’essere una retorica concettista anti-gongorino, ma nell’essere una testimonianza di affetto e ammirazione per Gongora come potrebbero far credere gli oltre 70 passi che Graciàn riporta dell’opera poetica di Gongora. Il suo interesse consiste piuttosto nell’imparzialità dell’autore nell’aver questi sottolineato l’unità profonda che si cela sotto la molteplicità delle manifestazioni letterarie barocche. Nell’aver detto, in altri termini, in modo chiaro, che è indifferente che un’opera sia scritto in stile piano o difficile, disadorno o ornato, conciso o ridondante perché ciò che conta è che sia nuova e abbia anima e vivezza ingegnosa. Baltasar distingue poi due facoltà dell’intelletto, “l’ingenio” ed “el juicio”, affermando di volersi occupare dell’ingegno soprattutto. Il Criticòn, invece è un ampio romanzo allegorico e satirico, diviso in tre parti che rappresentano le tappe fondamentali della vita umana: • La prima parte, recante il sottotitolo «en la primavera de la niñez y en el estio de la juventud», dove “estio” va tradotto come sinonimo di “verano”, estate; pubblicata nel 1651 sotto lo pseudonimo di Garcia de Marlones. • La seconda parte invece ha come sottotitolo «en el otono de la Baronil Edad» (“baronil” deriva da “baròn ce significa uomo, maschio) pubblicata con lo pseudonimo di Lorenzo Graciàn, del 1653. • Infine la terza parte ha come titolo «El invierno de la Vejez» (Nell’inverno della vecchiaia) ed è del 1657. Il titolo generale dell’opera sembri ispirarsi al Satyricon di John Barclay. Graciàn cita tra le fonti del Criticon vari autori come Omero, Luciano, Apuleio, Ariosto, per l’aspetto fantastico da la paternità a Seneca, Plutarco e Barclay, e così via. Il libro ha un’apertura decisamente narrativa e quasi avventurosa. E’ impostato su una coppia di protagonisti di cui seguiremo le sorti fino alla fine. Dopo i primi capitoli il filo narrativo si fa sempre più esile e gli interventi dei due personaggi diventano sempre più meccanici e prevedibili. Iniziano ad essere inseriti quadri allegorici che occupano grande volume di pagine. Un uomo giovane ma già passato per amare esperienze, Critilo (che secondo il gusto dell’autore il nome significa “saggio”), fa naufragio su un’isola deserta dell’atlantico, Sant’Elena, dove si imbatte con un abitante dell’isola che gli fa simpatia. Vedendolo intelligente e desideroso di apprendere, Critilo gli insegna la sua lingua volendogli trasmettere le nozioni e le esperienze di cui è in possesso, dandogli il nome di Andrenio, dal greco ANDROS, uomo. Il tema dell’uomo allo stato primitivo consente a Graciàn di svolgere delle sottili considerazioni sul linguaggio umano e sulla natura del pensiero e di riaffermare secondo la tradizionale dottrina cattolica la capacità dell’uomo di conoscere Dio e di tendere al bene anche al di fuori della fede rivelata con le semplici risorse della ragione e delle inclinazioni naturali. Siamo però ancora ben lontani dall’immagine del buon selvaggio esaltata nel ‘700. Graciàn dice che ogni opera, creazione cosciente della mente umana, deve avere un duplice carattere agrodolce, facendo un esempio di Dio che stampando nella natura un modello, egli dice: «Dio non si è accontentato che gli alberi producano solo frutti ma anche fiori. Si unisca dunque il profittevole con le delizie». Secondo le età della vita e il temperamenti individuali gli uomini possono inclinare più al dolce che all’agro, ma l’uomo vero cioè il saggio, maturo, deve preferire il contemperamento delle due qualità e tendere, anzi, più all’agro che al dolce. Per quanto riguarda il Criticòn, nel prologo (a proposito di questo discorso dell’agrodolce) dice: «ho procurato di unire la secchezza della filosofia con l’amenità dell’invenzione, la mordacità della satira con le dolcezze dello stile epico». Un concetto su cui torna Graciàn è la disposizione artificiosa dello spirito umano, in particolare dice che l’animo umano può essere corrotto dal peccato e l’artificiosità dell’essere si traduce spesso nel produrre non solo bene ma fini malvagi. Anche lui torna sul fatto che secondo un vezzo frequente del ‘600 spagnolo, i maggiori responsabili della corruzione del tempo sono considerati gli appartenenti ai ceti mercantili, dove abbondavano gli ebrei e i moresi, ai quali vengono contrapposti i contadini che Graciàn chiama “gente che non sa mentire” (citazione della prima parte del volume). L’atteggiamento di Graciàn è come Quevedeo, misogino, infatti accusa le donne di aver convertito l’uomo, e che fosse il re dell’universo come legge stabilita da Dio, ma che oggigiorno «ha fatto della donna il suo favorito che è come dire che ella può tutto» (citazione della seconda parte del volume). Rispetto all’Oraculo, qui abbiamo considerazioni di ordine politico che appaiono ispirati a doppiezza, utilitarismo, falsità, i politici machiavellici appaiono drappeggiati in mantelli di ermellino ma con risvolti di pelle di volpe, ora intenti a vestir quanti per nascondere gli artigli. Inoltre Graciàn esprime sulla tematica politico-morale dei giudizi sui popoli, dice ad esempio che i portoghesi sono sempre cortesi e innamorati, i castigliani incostanti e fanfaroni, gli aragonesi seri e virili; per quanto riguarda i popoli stranieri dice che per disgrazia del genere umano i vizi che Dio aveva dapprima confinato in una profonda grotta (mito pagano di Pandora) furono disciolti e si scatenarono per il mondo ed ecco che: - la superbia si insediò in Spagna, - l’avarizia in Francia, - l’ira in Africa, - la gola in Germania, - l’incostanza in Inghilterra - in Italia mise radici l’inganno. A Napoli nelle parole e a Genova nei fatti. Nel Criticòn, nelle città italiane non è Genova ad essere messa sotto patibolo ma la tradizionale avversaria della spagna, Venezia. Nella crisi VII (capitolo) della I parte la carrozza su cui viaggia l’inganno è chiamata veneziana, descritta come piena di artifici e trappole tirata da due serpenti con a cassetta una volpiciattola. Nella crisi II della seconda parte, l’ambiguità della politica veneziana appare come determinata dalla stessa ambiguità topografica della città ed il giudizio viene espresso attraverso un’immagine molto barocca cui non sarebbe difficile trovar corrispondenze in altri autori dell’epoca che ora paragonano Venezia ad un centauro, una sirena o un mostro bifronte. Graciàn dice: «contemplo, disse Andrenio, quel pipistrello tra le città, capitale anfibia, che non sta propriamente ne in terra ne in mare, ed è come un’arma a doppio taglio», emblema dunque politico e geografico che è testimonia del fascino esercitato dalla città lagunare e dall’inquietudine esercitata dalla sua infida politica. (esame: tre domande, una possibile in spagnolo)