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I TRASFORMATORI

L'elettricità viene trasmessa e distribuita tramite linee trifase di potenza elevata (da 30 a 1000 kV) e
media (2,5-30 kV) voltaggio. Il carico è connesso alla rete trifase a media o bassa livello di
tensione, a seconda della potenza richiesta. La rete di distribuzione per i singoli utenti è solitamente
a bassa tensione trifase (380-415 V) o singola (220-240V).

L'interfaccia tra i tratti di rete a diversa tensione è costituita di apposite stazioni(cabine) di


trasformazione della tensione, costituite da trasformatori e relativi interruttori.
Il trasformatore è una macchina elettrica statica che consente di innalzare (trasformatore
elevatore) o abbassare (trasformatore abbassatore), in modo efficace e senza grosse perdite, il valore
della tensione dall’ingresso all’uscita, che funziona sempre e solo con una alimentazione alternata (i
trasformatori in DC non esistono). Si tratta di un dispositivo che non trasforma la natura
dell’energia, che è elettrica in ingresso e in uscita.

I trasformatori, specialmente quelli di grande taglia


(> 100kVA), sono caratterizzati da un'efficienza
molto elevata (solitamente superiore al 99%),
trattandosi di macchine statiche(senza parti in
movimento): come osserviamo in figura idealmente
il trasformatore permette di mantenere costante la
potenza, ossia detta A1 la potenza apparente di
ingresso e A2 la potenza apparente di uscita, A1 =
A2, ossia V1I1 = V2I2 .Tuttavia, a causa dell'elevata
potenza le perdite di valore relativo (di rame e ferro)
non sono trascurabili.

Essenzialmente, un trasformatore è costituito da due o più avvolgimenti accoppiati da mutuo


flusso magnetico. Se uno di questi avvolgimenti, il primario è collegato ad una fonte di tensione
alternata, sarà prodotto un flusso alternato la cui ampiezza dipenderà dalla tensione primaria, la
frequenza della tensione applicata e il numero di spire che caratterizzano l’avvolgimento.
Il mutuo flusso collegherà l'altro avvolgimento, il secondario, e indurrà una tensione in esso il cui
valore dipenderà dal numero di giri secondari nonché l'ampiezza e frequenza del flusso reciproco.
È convenzionale pensare come ingresso del trasformatore l’avvolgimento principale (come
avvolgimento al quale viene applicata la tensione da alzare o aumentare) e come uscita, il
secondario (come avvolgimento in cui prelevo la tensione abbassata o alzata). Tuttavia, in molte
applicazioni, la potenza può fluire in entrambi i modi.
Un’altra terminologia usata per convenzione associa l’avvolgimento primario al terminale ad alta
tensione (terminale AT), che presenta il maggior numero di spire, e l’avvolgimento secondario al
terminale a bassa tensione (terminale BT), che presenta il minor numero di spire, se funziona da
abbassatore, o viceversa se funziona da elevatore. Quindi in generale possiamo dire che se si
alimenta l’avvolgimento AT funziona da abbassatore, se invece si alimenta l’avvolgimento BT
allora funziona da elevatore. Adeguando opportunamente il numero di spire al primario e al
secondario possiamo ottenere quasi qualsiasi rapporto delle tensioni desiderato o più in generale
qualsiasi rapporto di trasformazione desiderato, il quale descrive in che modo viene convertita o
trasformata la tensione di ingresso, e quindi che descrive il tipo di trasformatore.
L'essenza dell'azione del trasformatore richiede solo l'esistenza di flusso mutuo variabile nel
tempo (per questo SOLO in alternata) che collega due avvolgimenti.
Tale azione può verificarsi per due avvolgimenti accoppiati in aria, ma l'accoppiamento tra gli
avvolgimenti può essere reso molto più efficace utilizzando un nucleo di ferro o altri materiali
ferromagnetici, perché in questo modo la maggior parte del flusso è quindi confinato in un percorso
definito e ad alta permeabilità che collega gli avvolgimenti. Un tale trasformatore è comunemente
chiamato trasformatore di tipo shell e la maggior parte dei trasformatori sono di questo genere.

SIMBOLI ELETTRICI DEI TRASFORMATORI


Per i trasformatori Monofase e per i Trifase, è possibile distinguere schemi unifilari e multifilari.

TIPOLOGIE DI TRASFORMATORI
In generale il trasformatore è un circuito magnetico caratterizzato da un nucleo ferromagnetico con
due avvolgimenti di filo di rame smaltato avvolti intorno al nucleo; per comodità il nucleo
magnetico viene diviso in sezioni, in particolare le parti verticali del nucleo si chiamano colonne e
sono le sezioni in cui si avvolgono le bobine, mentre le parti orizzontali del nucleo si chiamano
gioghi. In base alla struttura che compongono le colonne e i gioghi, si possono distinguere due
tipologie di strutture dei trasformatori maggiormente adoperate.
Consideriamo il caso di trasformatori singola fase.

Trasformatori a mantello, anche detti shell


tipe: così detti perché si tratta di una struttura
in cui il ferro copre il rame e che presenta il
nucleo corazzato. La disposizione degli
avvolgimenti è quella in figura per evitare
accoppiamenti.

Trasformatore a colonna o core


type (c-type):si tratta di una
struttura in cui il rame copre il ferro.

Comparazione tra le due tipologie di trasformatori


Per avere un buon funzionamento del trasformatore ed evitare che il flusso magnetico si disperda in
aria, è necessario che i due avvolgimenti siano concatenati tra loro il più possibile. Per questo
motivo, il trasformatore con due colonne, avente un avvolgimento su ogni colonna, anche se è
importante dal punto di vista teorico poiché permette di capire meglio il funzionamento, in pratica
non viene realizzato quasi mai, poiché i due avvolgimenti sono troppo distanti tra loro e si avrebbe
una gran quantità di flusso disperso. Più spesso, invece, si realizza il trasformatore con il nucleo a
mantello, avente entrambi gli avvolgimenti sulla colonna centrale. Tali avvolgimenti possono essere
concentrici e sovrapposti (con l’avvolgimento di BT sovrapposto a quello di AT) oppure concentrici
e separati (con l’avvolgimento di BT separato da quello di AT).
Per quanto riguarda le tecniche di realizzazione del nucleo ferromagnetico, per quanto visto
nell’analisi dei materiali e delle perdite, tale struttura deve essere realizzata in modo da garantire
una buona stabilità meccanica al trasformatore, rendere minime le perdite nel ferro, dovute
all’isteresi e alle correnti parassite, presentare una elevata permeabilità magnetica μ e raggiungere
una elevata induzione magnetica B. In particolare per ridurre le correnti parassite, il nucleo non
viene mai realizzato con un blocco unico a struttura massiccia di materiale ferromagnetico, ma con
sottili lamierini (di spessore da 0.33 a 0.5 mm) rivestiti con uno strato di materiale isolante
(generalmente per i trasformatori si usa o una vernice o dei trattamenti chimici con fosfatazione) e
strettamente impacchettati tra loro (ciò riduce lo scorrimento delle correnti parassite in sezioni
strettissime quasi nulle). I lamierini inoltre vengono realizzati con una lega di ferro e silicio (Leghe
Fe-Si) che conferisce alla struttura una elevata permeabilità magnetica, basse perdite per isteresi ed
elevati valori di induzione B (ricordando sempre che il silicio non deve superare il 5% dell’intera
lega altrimenti i lamierini diventano troppo fragili). Il nucleo ideale per un trasformatore
dovrebbe essere di forma toroidale realizzato con lamierini cilindrici interi incastrati tra loro;
in realtà nuclei di questo tipo si possono realizzare solo per trasformatori di piccola potenza
anche se risulta piuttosto complessa la sua costruzione ed il monitoraggio degli avvolgimenti. Nella
maggior parte delle applicazioni si realizzano i lamierini frazionandoli in più parti e
successivamente incastrandoli fra loro all’interno delle bobine. In tal modo con i lamierini a
forma di C e I si realizzano i trasformatori a colonna, mentre con i lamierini a forma di E ed I si
realizzano i trasformatori a mantello. Vediamo come si incastrano tra loro i singoli pezzi per
formare il nucleo ferromagnetico e le singole

strutture.
Si possono individuare diverse tipologie di orientamento dei giunti, ossia possono essere
appoggiati o incastrati in modo diverso in base all’angolo che formano i giunti, nello specifico
avremo:
Giunti a 90°
In questo caso la struttura presenta lamierini comuni per colonne e
gioghi (lamierini isotropi e laminati a caldo)
Giunti a 40°-50°
In questo caso la struttura presenta lamierini a grani orientati (lamierini
anisotropi e laminati a freddo

Giunti a 45°
Staggered joke (Sovrapposizione obbliqua)
Per completare l’analisi strutturale mostriamo la sezione tipica di una colonna e la sezione tipica
di un giogo per capire geometricamente come sono realizzati; in generale osserviamo che le
colonne, che devono alloggiare gli avvolgimenti hanno sezione pseudo circolare, mentre i gioghi
hanno sezione rettangolare, ossia:

Nuclei del nastro


Sono realizzati avvolgendo
una striscia di materiale a
grana orientata
(anisotropo). Il nastro
avvolto viene incollato e
tagliato in sezioni a "C".
Sono utilizzati solo in
macchine di piccola
potenza.

Avvolgimenti
Entrambi gli avvolgimenti sullo stesso ramo per ridurre i flussi di dispersione.
CIRCUITI MAGNETICI CON DUE AVVOLGIMENTI
Ipotizzando un legame lineare tra flussi e correnti (sistema lineare) e forze magnetomotrici
concordi tra loro, presentiamo il tipico circuito magnetico a due avvolgimenti dove indichiamo: con
ϕm1 e ϕm2 i flussi elementari di magnetizzazione al primario e al secondario, con ϕd1 e ϕd2 i flussi
dispersi al primario e al secondario (dovuti agli effetti di dispersione nei singoli avvolgimenti), con
v1 e v2 le tensioni al primario e al secondario (generalmente una è la tensione di input e l’altra è la
tensione di output) e con i1 e i2 le correnti al primario e al secondario; considerando le resistenze
R1 ed R2 sempre presenti in un circuito magnetico o elettrico e supponendo di avere N1 spire nel
primario ed N2 spire al secondario, calcoliamo come prima cosa il flusso totale relativo al primario
e al secondario come somma dei singoli contributi di flusso, ossia:
Ricordando quanto visto nei circuiti magnetici, noto il flusso totale elementare relativo ai due
terminali, possiamo calcolare il flusso concatenato Ψ relativo al primario e al secondario (qui
indicato con Ψ ma equivale a λ visto nei circuiti magnetici):

Dove il segno di M stiamo supponendo sia positivo perché flussi concordi (ricordiamo che il segno
di M indica la posizione dei pallini nei circuiti equivalenti e quindi il verso dei flussi).
Semplificando ulteriormente ed esprimendo tutto in forma matriciale avremo:

NB: tabella in più


A questo punto noto il flusso concatenato possiamo andare a calcolare le due tensioni v1 e v2 al
primario e al secondario (ossia le tensioni ai morsetti dei due terminali considerando la caduta di
tensione sulle resistenze):
tenendo conto che M=L12=L21

Da cui ricaviamo il modello del circuito magnetico con 7 parametri descrittivi, sia nel dominio del
tempo, sia nel dominio dei fasori (in regime sinusoidale):
CIRCUITO EQUIVALENTE CON MAGNETIZZAZIONE RIFERITA AL PRIMARIO
Scriviamo i parametri M ed Lm2 in funzione della magnetizzazione relativa al primario, sfruttando
le relazioni viste nella tabella precedente:

Dove si è indicato con i’2 la corrente indotta nel primario per effetto della circolazione della
corrente i2 nel secondario (ossia una corrente che scorre sul primario e che produce nel primario la
stessa MMF che la corrente i2 produce nel secondario) e con e1 la FEM indotta nel primario dal
flusso di mutua induzione Lm1dΨ’2/dt, che dipende non solo dalla corrente i1, ma anche dalla
corrente i’2. Chiaramente la corrente i’2 è una corrente virtuale, ossia si può inserire solo se
ragioniamo con i trasformatori ideali e in quelli reali non esiste.
Osserviamo come si è passati da un modello a 7 parametri ad un modello matematico del circuito
magnetico a 5 parametri. Il circuito equivalente associato a tale modello è il seguente:

CIRCUITO EQUIVALENTE CON MAGNETIZZAZIONE RIFERITA AL SECONDARIO


Dice il prof che è solo una curiosità possiamo saltarlo!!! NON MOLTO USATO
Allo stesso modo è possibile ottenere un circuito elettrico equivalente con l’induttanza
magnetizzante riferita al secondario:

Dove la componente di carico I'1 è la corrente che circola nel secondario e che produce nel
secondario la stessa MMF che la corrente ii produce nel primario ed e2 è la back EMF indotta nel
secondario dal mutuo flusso risultante.
CIRCUITO EQUIVALENTE CON RIPORTO AL PRIMARIO
Riprendiamo le equazioni trovate nel caso di magnetizzazione riferita al primario e consideriamo
solo la seconda equazione (la prima resta invariata), moltiplicando e dividendo per N1/N2:

Dove si è indicato con v’2 la tensione di secondario riportata


al primario (ossia la FEM indotta sul primario del
trasformatore ideale quando al secondario ho v2), con R’2 la
resistenza del secondario riportata al primario e con L’d2
l’induttanza di dispersione del secondario riportata al
primario. Chiaramente la corrente i’2 è una corrente virtuale,
ossia si può inserire solo se ragioniamo con i trasformatori
ideali e in quelli reali non esiste. Osserviamo come si è passati
da un modello a 7 parametri ad un modello matematico del
circuito magnetico a 5 parametri.

Il circuito equivalente associato a tale modello è il seguente:

CIRCUITO EQUIVALENTE CON RIPORTO AL


SECONDARIO
Anche questo è un esercizio!!! POSSIAMO SALTARLO

Analogamente al caso precedente, riprendiamo le equazioni


trovate nel caso di magnetizzazione riferita al secondario e
prendiamo in esame solo la prima equazione (la seconda
resta invariata), moltiplicando e dividendo stavolta per
N2/N1:
Dove si è indicato con v’1 la tensione di primario riportata al secondario (ossia la FEM indotta sul
secondario del trasformatore ideale quando al primario ho v1), con R’1 la resistenza del primario
riportata al secondario e con L’d1 l’induttanza di dispersione del primario riportata alsecondario.
Chiaramente la corrente i’1 è una corrente virtuale, ossia si può inserire solo se ragioniamo con i
trasformatori ideali e in quelli reali non esiste. Osserviamo come si è passati da un modello a 7
parametri ad un modello matematico del circuito magnetico a 5 parametri.
Il circuito equivalente associato a tale modello è il seguente:

Note queste regole quindi, qualsiasi grandezza o parametro relativi al primario o al secondario, li
posso riportare all’altro terminale semplicemente moltiplicando per il rapporto di trasformazione o
per l’inverso del rapporto di trasformazione. Fatto questo ripasso dei circuiti magnetici, passiamo
alla descrizione del trasformatore e del suo funzionamento, che come vedremo è analogo a quello
dei circuiti magnetici, evidenziando sia le caratteristiche del trasformatore monofase ideale, sia le
caratteristiche del trasformatore monofase reale.
TRASFORMATORE MONOFASE IDEALE

Il trasformatore ideale è un sistema lineare e non dissipativo. Se facciamo riferimento alla


definizione di trasformatore intesa come macchina elettrica statica che consente di innalzare o
abbassare, in modo efficace e senza grosse perdite, il valore della tensione dall’ingresso all’uscita,
possiamo dire che il trasformatore ideale è quel trasformatore che permette di innalzare o abbassare
la tensione di ingresso, senza alcuna perdita e con un rendimento massimo del 100% (quindi senza
perdite e con potenza di ingresso uguale alla potenza di uscita). Tale sistema gode delle seguenti
proprietà fondamentali:
 RESISTENA OHMICA DELLE BOBINE NULLA: ossia non vi sono perdite per effetto
Joule nell’avvolgimento primario e nell’avvolgimento secondario, ossia non vi sono perdite
nel rame Pcu: 𝐏𝐜𝐮 = 𝟎 → 𝛠𝐜𝐮 = 𝟎
 ASSENZA DI PERDITE NEL FERRO: ossia la resistività elettrica dei lamierini
costituenti il nucleo è infinita (non vi sono correnti parassite) ed il ciclo di isteresi del
materiale ha area nulla (no perdite per isteresi): 𝐏𝐟𝐞 = 𝟎
 RILUTTANZA DEL NUCLEO MAGNETICO NULLA: ossia la permeabilità
magnetica del nucleo (e quindi dei lamierini) è infinita, e quindi il flusso magnetico generato
dagli avvolgimenti è confinato solo nel circuito magnetico (flusso principale) e sono assenti
flussi dispersi dalle singole bobine: μ𝐟𝐞 = ∞

1
R fe=
μfe S

NB. Questo è il caso equivalente a quello con un carico connesso al secondario. In caso di vuoto,
avrei la corrente i2=0.
Tutto il flusso prodotto nell’avvolgimento primario φ11 e tutto il flusso prodotto nell’avvolgimento
secondario φ22 viene incanalato nel nucleo ferromagnetico che si comporta come un unico tubo di
flusso che trasporta il flusso di mutua φ = φ11 + φ22, con φ11 = φ12 e φ22 = φ21 in quanto non vi
sono flussi dispersi (chiaramente se alimento solo il primario avrò solamente φ11, se alimento solo
il secondario avrò solamente φ22, se suppongo una tensione applicata a entrambi i terminali per
generalizzare avrò sia φ11, sia φ22).
Si assume per il primario la convenzione di segno dell’utilizzatore (corrente entrante nel
terminale con segno +) e per il secondario la convenzione di segno dei generatori (corrente
uscente dal terminale con il segno +).
Definito il verso positivo del flusso di mutua φ, si assume che i versi siano tali che una corrente i1
positiva (positiva per la convenzione dell’utilizzatore) dia luogo ad un flusso elementare φ11
positivo (ossia con stesso verso del flusso di mutua φ) e che una corrente i2 positiva (positiva per la
convenzione del generatore) dia luogo ad un flusso concatenato φ22 negativo (verso opposto
rispetto al flusso di mutua φ).
Nei due avvolgimenti, se alimentati singolarmente, le tensioni indotte sono:
d ϕ 11 dϕ
|e 11|=N 1 dt
|e 22|=N 2 22
dt

Supponendo di considerare il caso di entrambi gli avvolgimenti alimentati, su di essi vengono


indotte delle FEM e11 ed e22, i cui segni vengono scelti in accordo con la legge di Faraday-Lenz,
ossia una variazione della corrente i1 (i2), e quindi del flusso φ11 (φ22), deve creare una FEM
indotta e11 (e22) che si opponga alla variazione stessa, ossia avremo:
d ϕ 11 dϕ
e 11=N 1 e22=−N 2 22
dt dt

Per le ipotesi fatte sui segni dei flussi, possiamo esprimere le singole FEM indotte sugli
avvolgimenti in funzione del flusso di mutua sia nel caso in cui alimento entrambe gli avvolgimenti
(caso generico), sia nel caso in cui vado ad alimentare solo uno dei due avvolgimenti.

Ossia le FEM indotte dal flusso di mutua valgono:

dϕ dϕ
e 1=N 1 e2=N 2
dt dt
Le relazioni appena viste sono molto importanti perché mi permettono di capire come funziona un
trasformatore ideale come quello in figura:
Infatti, per la legge di Faraday-Lenz, avremo che le
tensioni ai morsetti dei due terminali v1 e v2, relativi ai
due avvolgimenti, saranno uguali alle FEM indotte
appena trovate, in quanto in un trasformatore ideale
non abbiamo nessuna caduta di potenziale (come si
osserva nel circuito equivalente a destra), quindi
possiamo scrivere:

con t RAPPORTO DI TRASFORMAZIONE

La cosa interessante è che grazie a questa relazione si può gestire il rapporto tra le tensioni,
semplicemente variando il numero di avvolgimenti della primaria e della secondaria.

Per quanto riguarda le correnti, invece:


Nel caso di un carico passivo, il flusso di corrente che scorre su secondario, produrrà una forza
magnetomotrice e quella complessiva è data dalla differenza tra le due. Le correnti che scorrono sui
due terminali, e quindi sui due avvolgimenti del trasformatore, le possiamo ricavare dalla legge di
Hopkinson(detta anche legge della
circuitazione magnetica), infatti
considerando che Rfe = 0 per le ipotesi
ideali fatte, scrivendo la legge di Hopkinson
avremo:

Inverso del rapporto di trasformazione

Una volta definito il rapporto tra il numero di spire del primario e il numero di spire del secondario
come rapporto di trasformazione t; come possiamo osservare dai risultati ottenuti le due FEM
primaria e secondaria stanno fra loro nel rapporto diretto dei numeri di spire dei rispettivi
avvolgimenti, ossia la FEM indotta nel primario è direttamente proporzionale alla FEM indotta nel
secondario secondo il rapporto di trasformazione t, mentre la corrente di primario è direttamente
proporzionale alla corrente di secondario secondo l’inverso del rapporto di trasformazione t. Ciò
vuol dire che il rapporto di trasformazione nel caso di trasformatore ideale mi dice esattamente di
quanto amplifico o abbasso la tensione di input e quindi che tipo di trasformatore sto utilizzando.
Per quanto riguarda la potenza trasmessa, sfruttando questo legame di tensioni e correnti con il
rapporto di trasformazione, avremo quindi che:
Si può notare quindi che se ho alte tensioni, avrò basse correnti e viceversa, perché la potenza attiva
è la stessa. Con piccola corrente e quindi piccole perdite, la trasmissione di energia avviene a
tensioni molto alte se la tensione è grande, la corrente è piccola e non ho perdite, ottima
efficienza!
Si dimostra quindi, come per le ipotesi semplificative fatte per il trasformatore ideale, si ottiene che
il trasformatore ideale è un trasformatore a rendimento massimo che riesce a trasmettere in uscita
tutta la potenza di ingresso (ossia è un dispositivo a rendimento unitario). Chiaramente in questo
caso abbiamo supposto una tensione applicata ad entrambi i terminali per una analisi più completa,
e possiamo dire che nel caso di trasformatore ideale, tale condizione equivale al caso di
funzionamento a carico applicato al secondo terminale (interruttore chiuso nella figura sopra
riportata); se considerassimo il caso a vuoto chiaramente sul secondo terminale non avremo
corrente, ossia i2 = 0, quindi l’analisi fatta vale solo per le tensioni ma non per le correnti.
La stessa analisi fatta sino ad ora nel dominio del tempo la possiamo fare nel dominio dei fasori (in
regime sinusoidale), supponendo che in ingresso venga applicata una tensione sinusoidale del tipo:
TRASFORMATORE REALE

Tenendo conto delle perdite nei due avvolgimenti (perdite in rame) e nel nucleo ferromagnetico
(perdite di ferro) si passa da un sistema ideale con efficienza unitaria ad un sistema con minore
efficienza, chiamato trasformatore reale. A differenza del trasformatore ideale, tiene conto delle
perdite PLOSE che riducono il rendimento della macchina (le perdite non sono mai eccessive ma
comunque non sono nulle come nel caso ideale e rendono il rendimento minore dell’unità) e quindi
viene introdotto eliminando una alla volta le condizioni di idealità indicate nella sezione precedente.
Quindi ricordando le condizioni di idealità, diciamo che nel trasformatore reale: la resistenza
ohmica nelle bobine di rame è non nulla (ϱCu ≠ 0) e quindi sono presenti perdite negli avvolgimenti
di rame (PCu ≠ 0), sono presenti perdite nel ferro e quindi nel nucleo del trasformatore (P fe ≠ 0) e
infine la riluttanza del nucleo è diversa da zero (R fe ≠ 0), essendo la permeabilità magnetica non più
infinita (μfe ≠ ∞), e quindi sono presenti flussi dispersi. Quindi per ricavare il modello matematico e
il circuito equivalente del trasformatore reale, vediamo come modificare il modello matematico e il
circuito equivalente del trasformatore ideale trovato precedentemente (ossia cosa aggiungere per
includere gli effetti delle perdite presenti nel trasformatore reale). Procediamo per step:

RESISTENA OHMICA DELLE BOBINE NON NULLA E PERDITE NEL RAME (ϱ Cu > 0 e
PCu ≠ 0)
I trasformatori reali sono dotati di avvolgimenti reali, ossia di avvolgimenti in rame o in altri
materiali conduttori che come tali sono affetti da effetti secondari. In particolare come visto nello
studio dei materiali, le perdite nei materiali conduttori (e quindi le perdite negli avvolgimenti del
trasformatore reale) sono date dalla somma delle perdite per effetto Joule (perdite ohmiche) e
perdite addizionali (dovute all’incremento della resistenza degli avvolgimenti passando dalla
corrente continua alla corrente alternata, e causate dalla disuniforme distribuzione delle correnti nei
conduttori intersecati dai flussi dispersi). Per includere gli effetti appena descritti delle perdite nel
rame, e quindi per includere le conseguenti cadute di tensione nel modello matematico e nel circuito
equivalente del trasformatore ideale si vanno ad aggiungere due resistenze, in serie agli
avvolgimenti, dette rispettivamente resistenza di primario R1 e resistenza di secondario R2,
definite nel seguente modo:
Tali resistenze vengono poste in serie agli avvolgimenti del trasformatore ideale (esattamente come
le due resistenze nel modello del circuito magnetico) perché in tal modo le potenze dissipate nelle
due resistenze sono proporzionali ai quadrati delle correnti di primario e di secondario, proprio
come avviene nella realtà. In fase di progetto R1 e R2 vengono proporzionate in modo che i due
avvolgimenti presentino la stessa densità di corrente (nei trasformatori trifase di media e grande
potenza δ = 2.5 – 3.5 [A/mm2 ] per il rame, δ = 1.5 - 2 [A/mm2 ] per l’alluminio, nei piccoli
trasformatori monofase δ = 1.5 – 2.4 [A/mm2 ] per il rame, decrescente all’aumentare della
potenza). Spesso R1 e R2 sono quasi uguali. Inserendo queste resistenze e quindi includendo gli
effetti delle perdite nel rame, il circuito equivalente diventa:

Le equazioni del modello matematico in regime sinusoidale, supponendo sempre il caso generico in
cui si alimentano entrambe gli avvolgimenti, saranno quindi:

Che passando al modulo e considerando il valore


efficace delle grandezze in gioco, avremo:

Per quanto riguarda la potenza trasmessa, stavolta le correnti continuano a mostrare la dipendenza
dal rapporto di trasformazione t (perché non stiamo ancora parlando di flussi dispersi a causa della
riluttanza non nulla), mentre le tensioni perdono tale legame essendo diverse dalle FEM indotte
sugli avvolgimenti, quindi avremo che stavolta la potenza di ingresso non è uguale alla potenza di
uscita, segno che stavolta il rendimento è diminuito e non è più massimo come nel caso ideale
(effetto delle perdite del rame), ossia:

TRASFORMATORE CON NUCLEO FERROMAGNETICO REALERILUTTANZA DEL


NUCLEO MAGNETICO NON NULLA (Rfe ≠ 0 e μfe ≠ ∞)
Nel caso ideale avevamo supposto che la permeabilità magnetica del nucleo fosse infinita e che di
conseguenza la riluttanza del nucleo (inversamente proporzionale alla permeabilità) fosse nulla; tale
condizione garantiva che tutto il flusso fosse incanalato nel nucleo (senza alcuna perdita di flusso) il
quale fungeva quindi da vero e proprio tubo di flusso.
In un nucleo ferromagnetico reale si verifica il fenomeno della saturazione, la permeabilità
magnetica non è infinita (μfe ≠ ∞ infatti μfe = μ0 μr con μ0 = 4π10-7 e μr = 7000; pur essendo
elevata non è infinita) e quindi la riluttanza del nucleo non è nulla (Rfe ≠ 0), ossia:

Vediamo cosa vuol dire da un punto di vista pratico che la riluttanza non è nulla o che la
permeabilità non è infinita. Nel caso di trasformatore ideale analizzato precedentemente abbiamo
visto come il flusso φ si stabiliva da solo (ossia non veniva prodotto da una corrente) e veniva
incanalato tutto nel nucleo ferromagnetico che, come detto, fungeva da vero e proprio tubo di
flusso; in tal senso quindi, tutto il flusso φ fluiva dal primario al secondario e la corrente I1 al
primario dipendeva solo ed esclusivamente dalla corrente I2 al secondario e dall’inverso del
rapporto di trasformazione N2/N1, ossia la corrente al primario non mostra dipendenza dal flusso.
Tutto questo era possibile perché la riluttanza del nucleo si supponeva nulla e la permeabilità
magnetica del nucleo si supponeva infinita. Nel caso del trasformatore reale, essendo la riluttanza
del nucleo non nulla, è necessaria una certa corrente per originare il flusso φ detta corrente di
magnetizzazione Im;
In tal senso quindi parte della corrente di primario I1 viene utilizzata per generare il flusso e la
restante parte si lega alla corrente di secondario attraverso il rapporto di trasformazione, ossia nei
trasformatori reali non è vero che la corrente di primario è indipendente dal flusso; inoltre visto che
il nucleo ha una permeabilità magnetica elevata ma non infinita, può capitare che parte del flusso
prodotto si disperda tra gli avvolgimenti e non si concateni (perché risente del materiale che
circonda il nucleo), ossia non è detto che tutte le linee di flusso vengano concatenate a causa dei
flussi dispersi. Quindi complessivamente il fatto che la permeabilità magnetica non sia infinita (e
che la riluttanza del nucleo non sia nulla) provoca la comparsa di una corrente di magnetizzazione
(per la generazione del flusso), la presenza di un flusso disperso e la saturazione del nucleo
ferromagnetico. Vediamo nel dettaglio tali fenomeni. Per quanto riguarda la corrente di
magnetizzazione:

Come visto nel trasformatore ideale ho una contrapposizione di forze magnetomotrici, ossia la forza
magnetomotrice del primario viene bilanciata dalla forza magnetomotrice del secondario e il
risultato (la differenza) è zero (infatti la legge di Hopkinson la eguagliavamo a zero). Inoltre nel
caso con carico (load) le correnti I1 e I2 erano legate tra lori tramite il rapporto di trasformazione,
mentre nel caso senza carico (no load) essendo nulla I2 risultava nulla anche I1 per la legge di
Hopkinson. Nel caso di trasformatore reale mi serve una forza magnetomotrice Fmm per stabilire il
flusso, quindi, a prescindere dalla presenza o meno del carico, si crea una corrente al primario che
serve per produrre il flusso (I1 = I10 nel caso a vuoto, I1 nel caso con carico); al secondario invece,
se non è presente un carico la corrente è nulla (I2 = 0), se invece è presente un carico avremo una
corrente (I2 ≠ 0) N2I2 che fa aumentare I1. Il risultato della legge di Hopkinson nei due casi, con o
senza carico, non sarà zero ma uguale al prodotto tra il flusso φ e la riluttanza di magnetizzazione
Rm (che stavolta non è nulla), ossia il caso con carico sarà uguale al caso a vuoto (senza carico), in
quanto sia nel caso a vuoto che nel caso con carico il flusso rimane lo stesso. Ciò che cambia tra i
due casi è che nel caso a vuoto tutta la corrente di primario verrà utilizzata per produrre il flusso,
ossia per la magnetizzazione, mentre nel caso con carico parte della corrente viene utilizzata per la
magnetizzazione del nucleo, parte viene prodotta per effetto della corrente di secondario.
Calcolando le correnti di primario nei due casi avremo:

In un trasformatore reale la corrente di primario, non dipende solo dalla corrente di secondario,
come nel trasformatore ideale, ma anche dal flusso, poiché il flusso deve essere sostenuto da una
componente di corrente detta corrente di magnetizzazione Im, la cui espressione, come trovato
sopra analiticamente, dipende proprio dal flusso e dalla riluttanza di magnetizzazione. Inoltre dai
risultati ottenuti analiticamente vediamo che, trascurando le perdite nel ferro (che considereremo
dopo), la corrente di magnetizzazione Im1 coincide con la corrente assorbita a vuoto dal
trasformatore, ossia scorre anche se non ho un carico connesso (I2 = 0). A questo punto vediamo
come includere gli effetti della magnetizzazione nel modello matematico e nel circuito equivalente
del trasformatore(partendo da quello trovato includendo le perdite nel rame):
Ossia per tenere in considerazione la corrente di magnetizzazione all’interno del modello del
trasformatore reale, si inserisce in parallelo al primario del trasformatore ideale una reattanza Xm1
detta reattanza di magnetizzazione al primario (chiaramente se alimentiamo entrambi gli
avvolgimenti si definirà anche la reattanza di magnetizzazione al secondario). Le FEM indotte nei
due avvolgimenti quindi saranno del tipo:

L’introduzione della reattanza di magnetizzazione permette di considerare il flusso φ come


sostenuto solo dalla corrente di magnetizzazione che scorre nell’avvolgimento primario, ossia Im1.
In alternativa, come già visto nel caso di due avvolgimenti accoppiati, è possibile fare un
ragionamento duale ed introdurre in maniera equivalente una reattanza di magnetizzazione Xm2 in
parallelo al secondario, percorsa dalla corrente di magnetizzazione di primario riportata al
secondario (ossia la reattanza di magnetizzazione al secondario è supportata dalla corrente di
magnetizzazione riportata al secondario). Il flusso risulta indipendente dal carico, infatti, è
direttamente proporzionale alla forza elettromotrice indotta ed approssimativamente alla tensione di
alimentazione (infatti se trascurassimo le cadute di tensione su R1 e R2 si può dire che E1 ≈ V1).
Quest’ultima, dipende solo dalle caratteristiche della rete di alimentazione e non varia al variare del
carico.

Il flusso è indipendente dal carico, quindi, essendo la riluttanza Rm costante su tutto il nucleo, per la
legge di Hopkinson la forza magnetomotrice Fmm resta costante al variare del carico, come detto
precedentemente (ossia con o senza carico la forza magnetomotrice è la stessa), quindi avremo il
seguente risultato:
Qui manca il trattino su I10 e Im

quindi osserviamo come la corrente di primario I1 può essere scomposta in due termini: la corrente
di magnetizzazione Im, sempre presente, e la corrente di reazione I’2, proporzionale alla corrente di
secondario. Quest’ultima è presente solo se il trasformatore è sotto carico, ed è pari alla corrente di
secondario riportata al primario tramite l’inverso del rapporto di trasformazione (vedi tabella
formule per il riporto). Poiché la forza magnetomotrice totale è indipendente dal carico, la corrente
di reazione può essere vista come l’incremento della corrente di primario (rispetto al valore a vuoto)
necessaria a bilanciare la forza magnetomotrice di secondario (N2I2), generata dalla presenza del
carico. La corrente di reazione, come detto anche nei modelli del circuito magnetico, è una
componente fittizia della corrente I1 che, attraversando le N1 spire dell’avvolgimento primario,
genera la stessa forza magnetomotrice che in realtà è generata dalla corrente I2, circolando nelle N2
spire di secondario. Si ha infatti la seguente uguaglianza:

Complessivamente quindi il circuito equivalente e il modello matematico del trasformatore reale


che include gli effetti della magnetizzazione saranno:
FLUSSO DISPERSO

Un altro effetto secondario dovuto al fatto che la permeabilità magnetica non è infinita, è il
fenomeno di dispersione del flusso tra gli avvolgimenti, dovuto al fatto che quando il flusso
percorre il nucleo risente anche del materiale circostante il nucleo che avrà una sua permeabilità
minore di quella del nucleo, ma comunque presente; il flusso quindi per la maggior parte seguirà il
nucleo come fosse un tubo di flusso, ma in parte verrà disperso. A vuoto, il flusso è sostenuto
totalmente dalla forza magnetomotrice Fmm = Ni. Poiché però la permeabilità magnetica del ferro
non è infinita, alcune linee di flusso, che indichiamo con dφid , si chiudono in aria come mostrato
nella figura sopra, concatenandosi totalmente o parzialmente solo con l’avvolgimento primario o
secondario in base a dove stiamo considerando la dispersione. Quindi se calcoliamo il flusso
concatenato al primario o al secondario questo sarà:
ψ 1=N 1 ϕ +⅀ ψ id1 d φid 1=N 1 ϕ + N 1 ϕ d 1=ψ m 1 +ψ d 1

 ψ id 1 flusso disperso elementare della linea di collegamento ϕ id 1


 ψ m 1 flusso principale connesso con il primario;
 ψ d 1 flusso di dispersione connesso con il primario

Quindi come possiamo osservare il flusso concatenato complessivo non dipende solo dalla
magnetizzazione e quindi da Lm, come visto prima, ma dipende anche dal flusso disperso e quindi
dalla corrispondente induttanza di dispersione Ld.
Complessivamente quindi il circuito equivalente e il modello matematico del trasformatore reale
che include gli effetti della dispersione saranno:

Le equazioni diventano:

Per quanto riguarda gli effetti della saturazione del nucleo, si definisce flusso (totalmente
concatenato) di magnetizzazione la quantità:

Ossia il flusso totalmente concatenato di magnetizzazione Ψm è quel flusso legato alla corrente di
magnetizzazione Im tramite l’induttanza di magnetizzazione Lm. Tale induttanza è una quantità
scalare costante fintanto che si parla di circuito magnetico lineare. Il trasformatore è stato visto fino
ad ora come un sistema lineare, in realtà a causa della saturazione del nucleo ferromagnetico la
relazione tra corrente di magnetizzazione e flusso di magnetizzazione è non lineare. In particolare, a
partire dal ginocchio della curva di magnetizzazione, a parità di corrente, il flusso reale è inferiore
di una quantità 𝛥λ rispetto a quello calcolato assumendo il sistema lineare, ossia:

A causa della saturazione del nucleo ferromagnetico, corrente magnetizzante, non solo è maggiore,
a parità di flusso, rispetto al caso lineare, ma risulta anche distorta. Infatti, a causa della relazione
non lineare tra flusso e magnetizzazione corrente, se una di queste variabili è sinusoidale, l'altra
deve necessariamente essere non sinusoidale, almeno per un valore di picco sufficientemente alto.

In un trasformatore monofase alimentato da una tensione sinusoidale, la corrente di


dϕ ( t ) v1
magnetizzazione non è sinusoidale. Infatti: v1 ( t )=V 1 sin ( ωt ) ≈ e 1 ( t )=N 1 ϕ=
dt jω N 1

I trasformatori lavorano con valori di induzione massimi prossimi a il ginocchio della curva BH. In
tali condizioni, la corrente magnetizzante è praticamente uguale alla somma della prima e della
terza armonica.
Nella pratica, per semplificare lo studio del trasformatore, si approssima la corrente di
magnetizzazione alla sola prima armonica, trascurando così gli effetti della saturazione. Tuttavia,
poiché la distorsione della corrente di magnetizzazione causa essenzialmente un lieve incremento
delle perdite per effetto Joule nei conduttori, si può tener conto degli effetti della saturazione, non
aggiungendo elementi (come fatto per tutti gli altri effetti di dispersione), ma aumentando
l’ampiezza della componente di prima armonica, ponendola pari alla quantità:

PRESENZA DI PERDITE NEL FERRO (Pfe ≠ 0)


Come visto nello studio dei materiali e nello studio delle perdite nei materiali, nei materiali
ferromagnetici come il ferro che compone il nucleo del trasformatore, si possono avere perdite per
isteresi, ossia dovute ad un’area non nulla della curva di isteresi, e perdite per effetto delle correnti
parassite (correnti di Focault) che si creano nella struttura del nucleo a causa della resistività non
infinita del materiale stesso. Nello specifico abbiamo visto che, detto BM il massimo valore del
campo magnetico indotto e detta f la frequenza della sorgente che alimenta il trasformatore, le
perdite nel ferro sono ricavabili dalla seguente espressione:
Fissata una certa frequenza abbiamo visto che le perdite nel ferro si possono semplificare scrivendo
la seguente espressione:

Si tiene conto delle perdite nel ferro inserendo nel circuito equivalente una resistenza trasversale
Rfe in parallelo alla reattanza di magnetizzazione Xm che dissipa la stessa potenza dissipata nella
realtà nel nucleo ferromagnetico (ossia una resistenza che dissipa la potenza sopra ricavata). La
resistenza equivalente delle perdite nel ferro è posta in parallelo al trasformatore ideale perché in tal
modo la potenza dissipata dipende dal quadrato della tensione indotta E1, come nella realtà le
perdite nel nucleo ferromagnetico. Analiticamente tale resistenza la possiamo ricavare nota la FEM
indotta e le perdite nel ferro Pfe tramite la relazione:

Complessivamente quindi il circuito equivalente e il modello matematico del trasformatore reale


che include gli effetti delle perdite nel ferro saranno:

Come possiamo osservare le perdite nel ferro sono state modellizzate tramite una resistenza Rfe in
parallelo alla reattanza di magnetizzazione. Su tale resistenza scorrerà quindi una certa corrente Ia
che si va a sottrarre alla corrente dell’avvolgimento primario, cosi come la corrente di
magnetizzazione Im. In particolare la corrente Ia che scorre sulla resistenza Rfe è in quadratura di
fase con la corrente di magnetizzazione Im. Per fare un discorso più completo sulle correnti del
circuito equivalente sopra riportato, analizziamo i singoli contributi tenendo conto anche del
contributo delle armoniche che creano distorsioni. La corrente I1 entrante nell’avvolgimento
primario, si divide in due contributi: la corrente di reazione I’2, vista come l’incremento della
corrente di primario (rispetto al valore a vuoto) necessaria a bilanciare la forza magnetomotrice di
secondario (N2I2), generata dalla presenza del carico, e la corrente I10 che percorre il parallelo di Rfe
e Xm1, detta corrente a vuoto del trasformatore in quanto coincide con la corrente di primario
quando la corrente di secondario è nulla (infatti abbiamo utilizzato la nomenclatura I 10 proprio per
indicare la corrente nel primario quando al secondario non era inserito alcun carico). Soffermiamoci
ad analizzare proprio questa corrente a vuoto del trasformatore I10; tale corrente non varia
apprezzabilmente al variare del carico ed è composta da diverse componenti:
 La fondamentale della corrente di magnetizzazione I1m1;
 La componente di terza armonica della corrente di magnetizzazione I1m3 dovuta alla
saturazione del nucleo;
 La componente di quinta armonica della corrente di magnetizzazione I15, trascurata.
 Una componente alla frequenza fondamentale ma sfasata di 90° rispetto all’armonica
fondamentale dovuta alle perdite di potenza attiva nel nucleo Ia= I1p.
Circuito equivalente completo di trasformatore monofase

Complessivamente il circuito equivalente e il modello matematico del trasformatore reale che


include gli effetti della dispersione, della magnetizzazione e delle perdite nel ferro saranno:
PROVE SUL TRASFORMATORE MONOFASE (GRUPPO DI SLIDE 8)

Esattamente come fatto per i circuiti magnetici, una volta trovato il modello matematico e il circuito
equivalente del trasformatore reale, mostriamo alcuni circuiti equivalenti semplificati che oltre a
ridurre il numero dei parametri, permette di semplificare notevolmente lo studio del trasformatore.
In particolare vediamo alcuni circuiti equivalenti semplificati con elementi circuitali riportati
al primario, che utilizzeremo nelle prove sul trasformatore monofase, partendo da quello
trovato:
Il trasformatore, come tutte le macchine, è caratterizzato da una TARGA che riporta i valori
nominali di funzionamento, detti DATI DI TARGA. Si tratta dei valori che servono a definire le
prestazioni della macchina agli effetti delle garanzie e del collaudo.

I dati di targa più importanti per un trasformatore sono riportati nella seguente tabella o targa:

Come possiamo osservare, la targa associata a ogni macchina, ed in particolare ai trasformatori,


riportano anche quelli che sono i risultati di due prove sperimentali fondamentali, ossia le prove a
vuoto (o a circuito aperto o senza carico) e le prove in cortocircuito. Tali prove sono di
fondamentale importanza per valutare le prestazioni del trasformatore e per la
determinazione dei parametri caratterizzanti il circuito equivalente del trasformatore (ossia
R1, R2, Xd1, Xd2, t, Xm o X0 e Rfe o R0). Devono essere eseguite secondo le indicazioni fornite dalle
Norme CEI che garantiscono, da un lato di non danneggiare la macchina e dall’altro di determinare
i valori corretti dei parametri.

Le prove sperimentali definite dalle Norme costituiscono un buon compromesso tra precisione nella
determinazione dei valori degli elementi del circuito equivalente e complessità di effettuazione.
Inoltre le prove sperimentali sono essenziali per il costruttore, poiché costituiscono la verifica
dei calcoli progettuali, e per il committente, in fase di collaudo, per verificare la rispondenza
delle caratteristiche della macchina a quelle fornite dal costruttore. Vengono effettuate in
condizioni di funzionamento particolari, tali da poter ritenere trascurabili gli effetti di alcuni
parametri e pari a quelli che si hanno in condizioni nominali quelli degli elementi che si vogliono
misurare (infatti per fare questi test uso meno potenza rispetto a quella nominale ossia non uso
tutta la potenza perché nelle prove a vuoto sarà la tensione ad essere al valore nominale, mentre
nelle prove in cortocircuito sarà la corrente ad essere al valore nominale, ma mai entrambe
contemporaneamente). Le prove sperimentali possono essere di due tipi:
PROVA A VUOTO SUL TRASFORMATORE MONOFASE

La prova a vuoto (quindi con il secondario a circuito aperto o più semplicemente senza carico)
permette di determinare il rapporto di trasformazione t e il valore degli elementi circuitali
connessi in parallelo al trasformatore ideale, ossia la reattanza di magnetizzazione X m1 o X0 e
la resistenza equivalente delle perdite nel ferro R fe o R0 (ossia per determinare gli elementi
cerchiati nel circuito equivalente sopra riportato). Come possiamo osservare per comodità
utilizziamo il circuito equivalente con riporto degli elementi tutti al primario.

Tale prova viene eseguita alimentando a tensione nominale uno dei due avvolgimenti (nel nostro
caso il primario), mantenendo sconnessi i terminali dell’altro avvolgimento (nel nostro caso il
secondario). Nello specifico, come possiamo osservare nello schema sopra riportato, per effettuare
tale prova utilizziamo: un VARIAC (un autotrasformatore con rapporto di trasformazione
regolabile) per alimentare il primario alla tensione nominale, un voltmetro V1 per misurare la
tensione di primario, un voltmetro V2 per misurare la tensione di secondario (tale voltmetro presenta
una impedenza molto elevata, idealmente infinita, in ossequio alla condizione di vuoto del
trasformatore), un wattmetro W per la misura della potenza attiva a vuoto (come quella in tabella di
targa del trasformatore P10 = V1nI10ncosφ1) e un amperometro A per misurare la corrente assorbita
dalla rete.

Una volta descritto il sistema adoperato per la prova a vuoto vediamo come determinare il valore
degli elementi circuitali e che tipo di semplificazioni si possono fare. Come detto l’avvolgimento
primario è alimentato dalla rete, ossia nelle prove a vuoto la tensione di ingresso al primario V1 è al
valore nominale, mentre la corrente I1 (che chiamiamo I10 perché indica la corrente a vuoto) sarà
molto piccola, circa 3% rispetto alla corrente nominale (infatti abbiamo detto che nelle prove
sperimentali non si usa tutta la potenza, e solo una delle due grandezze è al valore nominale, in
questo caso solo la tensione), quindi possiamo dire che tutta la corrente I 1 = I10 scorrerà sul ramo
parallelo al trasformatore ideale e la corrente I 2 (o I12 se consideriamo il riporto delle grandezze al
primario) sarà quasi nulla. Essendo I1 molto piccola R1 e X1d saranno trascurabili, in quanto la
caduta di tensione su di esse sarà piccolissima quasi nulla. Detto questo, analiticamente avremo:

Per quanto detto precedentemente sulla corrente I10, molto piccola, e sulla tensione V1, al valore
nominale, diciamo che: le perdite nel rame sono proporzionali al quadrato della corrente, ma a
vuoto la corrente di secondario è nulla, mentre la corrente di primario e circa il 3% del valore
nominale, quindi le perdite nel rame sia al primario che al secondario sono trascurabili (quindi
possiamo trascurare i termini tagliati sopra, e nel circuito ignorare R 1, R12, Xd1 e X12). Le perdite
nel ferro sono proporzionali al quadrato di B M (come mostrato sopra), che a sua volta è
proporzionale al quadrato di E1. Come abbiamo detto a vuoto la tensione indotta E 1 è
praticamente uguale a V1 (si ricava dalla prima equazione del sistema trascurando le perdite nel
rame), che nella prova a vuoto è posta al valore nominale, quindi le perdite nel ferro sono pari al
valore nominale.

Poiché è impossibile misurare direttamente la FEM indotta E1 per il calcolo dei parametri si fa
riferimento al circuito equivalente approssimato del I° ordine sopra riportato, tagliando i parametri
R1, R12, Xd1 e X12, ritenuti trascurabili per i motivi detti sino ad ora.

Secondo tale circuito equivalente, essendo nulle le correnti I2 e I12, i due voltmetri misureranno le
tensioni di primario e secondario, che per le semplificazioni fatte coincideranno con le FEM indotte,
quindi avremo che il rapporto di trasformazione del trasformatore sarà uguale a:
Agendo sul Variac, per regolare la tensione di primario V 1, è possibile determinare le perdite
nominali nel ferro Pfen, corrispondenti alla potenza attiva assorbita alla tensione nominale (la
potenza attiva la misuro con il wattmetro W), e da questa determinare il valore della resistenza Rfe
in parallelo al trasformatore ideale:

Nelle stesse condizioni, tramite l’amperometro A, è possibile determinare la corrente a vuoto I10
corrispondente alla tensione nominale applicata, e quindi trovare la potenza reattiva e quindi il
valore della reattanza di magnetizzazione Xm1 in parallelo al trasformatore ideale:
PROVA IN CORTOCIRCUITO SUL TRASFORMATORE MONOFASE

La prova in cortocircuito (quindi con il secondario cortocircuitato) permette di determinare il


valore degli elementi circuitali connessi in serie, ossia le reattanze di dispersione Xd1 e Xd2 e le
resistenze R1 e R2.

Tale prova viene eseguita chiudendo in corto circuito i terminali di un avvolgimento ed alimentando
l’altro avvolgimento ad una tensione molto inferiore al valore nominale e tale da far circolare nei
due avvolgimenti le rispettive correnti nominali. La tensione si chiama tensione di cortocircuito V1cc
ed è scelta in modo da far circolare nei due avvolgimenti le rispettive correnti nominali.

In corto circuito a tensione nominale la macchina assorbe una potenza molto superiore al valore
nominale, tale condizione è inoltre sicuramente distruttiva. Quindi tale prova viene eseguita
chiudendo in corto circuito i terminali di un avvolgimento ed alimentando l’altro avvolgimento ad
una tensione molto inferiore al valore nominale e tale da far circolare nei due avvolgimenti le
rispettive correnti nominali.

In particolare viene eseguita alimentando a corrente nominale uno dei due avvolgimenti (nel nostro
caso il primario), mantenendo in cortocircuito i terminali dell’altro avvolgimento (nel nostro caso il
secondario). Nello specifico per effettuare tale prova utilizziamo: un VARIAC che permette di
regolare la tensione di primario in maniera da alimentare il trasformatore alla tensione di corto
circuito V1cc, un voltmetro V per misurare la tensione di primario, un amperometro A 1 per misurare
la corrente di primario, un amperometro A2 per misurare la corrente al secondario (tale
amperometro presenta una impedenza molto piccola, idealmente nulla, in concordanza alla
condizione di cortocircuito del trasformatore) e un wattmetro W per la misura della potenza attiva
di cortocircuito (P1cc = V1ccI1ncosφ1).

In corto circuito stavolta abbiamo le correnti al valore nominale e le tensioni molto più piccole dei
valori nominali (sempre perché tali prove devono essere fatte a potenze molto più basse dei valori
nominali), quindi tutti gli elementi che dipendono dalla tensione di ingresso (ossia gli elementi in
parallelo al trasformatore ideale) saranno trascurabili rispetto agli elementi in serie (situazione
opposta alla precedente). Analiticamente dal circuito equivalente avremo che la potenza attiva
dissipata in cortocircuito dipenderà dagli elementi in serie e dagli elementi in parallelo secondo la
relazione:

Le perdite nel ferro sono proporzionali al quadrato della tensione, quindi, alla tensione di
cortocircuito, che è molto più piccola (4-10%) della tensione nominale, quindi sicuramente stavolta
le perdite nel ferro sono trascurabili. Le perdite nel rame invece sono proporzionali al quadrato della
corrente, che nella prova di corto circuito, per definizione, assume il valore nominale, quindi anche
le perdite nel rame saranno al valore nominale.

Quindi stavolta trascuriamo le perdite nel ferro (e quindi il ramo in parallelo al trasformatore ideale)
e consideriamo gli elementi che caratterizzano le perdite nel rame (tutti gli elementi in serie).

Facendo riferimento al circuito equivalente approssimato del secondo ordine con gli elementi
riportati al primario:
Si può dimostrare che le potenze attive e reattive assorbite dagli elementi di secondario e quelle
assorbite dai corrispondenti elementi riportati al primario coincidono (proprietà fondamentale del
riporto) ossia analiticamente:

La potenza attiva e la potenza reattiva totali assorbite dal circuito equivalente considerato sono
quindi effettivamente uguali a quelle assorbite in pratica dal trasformatore.

Poiché nelle condizioni della prova in corto circuito le perdite nel ferro sono trascurabili, la potenza
assorbita in corto circuito Pcc corrisponde alle perdite nel rame Pcu; quindi calcolando la potenza
attiva di cortocircuito tramite il wattmetro e la corrente nominale tramite l’amperometro, possiamo
calcolare la resistenza di cortocircuito delle perdite nel rame Rcc tramite la relazione:

Con i risultati della prova in corto circuito non è possibile determinare separatamente R 1 e R12 ma
solo la somma di tali termini detta resistenza di corto circuito. Ciò è ben verificato nella realtà
perché i due avvolgimenti sono dimensionati in modo da supportare la stessa densità di corrente
(quindi le perdite nel rame per i due avvolgimenti sono le stesse).

Il valore delle resistenze R1 e R2 varia con la temperatura, quindi, dopo la misura si dovrà effettuare
il riporto alla temperatura convenzionale di riferimento T [°C], che vale 75 [°C] per le classi
d'isolamento A, E, B, e 115 [°C] per le classi F, H.

Nelle stesse condizioni, tramite il voltmetro V, è possibile determinare la tensione di cortocircuito


corrispondente alla corrente nominale, e quindi trovare la potenza reattiva e quindi il valore della
reattanza di cortocircuito Xcc in serie al trasformatore (e quindi i valori delle reattanze di
dispersione) ossia:
AUTOTRASFORMATORI
Un autotrasformatore è una macchina elettrica statica che realizza una trasformazione di
energia elettrica, senza però fornire l’isolamento elettrico tra primario e secondario tipico dei
trasformatori. Può essere pensato come un normale trasformatore in cui il primario è
elettricamente connesso al secondario (quindi si dice che un autotrasformatore è un trasformatore
dotato di un solo avvolgimento a presa intermedia e se questa presa è in movimento si tratta di un
variatore di tensione, un tempo utilizzato). Se pensiamo a tale dispositivo come caratterizzato da un
unico avvolgimento, diciamo che il primario è costituito dall’intero avvolgimento di N1 spire,
mentre il secondario è costituito da una parte di avvolgimento con N2 spire. Anche per questo tipo
di trasformatore possiamo eseguire le prove a vuoto e le prove in cortocircuito; stavolta però per
semplicità nella trattazione, consideriamo il funzionamento di un autotrasformatore ideale,
trascurando tutte le perdite viste sino ad ora, per evidenziare le principali differenze tra un
autotrasformatore e un trasformatore tradizionale (le perdite sono le stesse).

V A =V 1 +V 2

V B=V 2

I A=I 1

I B=I 1 + I 2=I A + I 2

V A I A=V B I B

V A I A = ( V 1+ V 2 ) I 1

V B I B =V 2 ( I 1 + I 2)
N PRIMARIO ( N A + N B )
In un Autotrasformatore il rapporto di trasformazione è:t AT = =
N SECONDARIO NB

La potenza nominale dell'autotrasformatore è superiore a quella del trasformatore originale.

(
A AT =V B 0 I Bn=V 20 ( I 1 n + I 2 n ) =V 20 I 1 n+ V 20 I 2 n=
NA
NB )
+1 V 20 I 2 n=¿) ATR

(In assenza di carico)

Quindi è tanto più vantaggioso utilizzare un autotrasformatore quanto più N A è piccolo rispetto a
NA+NB cioè tanto più piccolo è il rapporto di trasformazione dell’autotrasformatore (ossia
l’autotrasformatore assorbe minor potenza tanto più il rapporto di trasformazione è piccolo).
In generale un autotrasformatore è meno costoso, più piccolo e più leggero di un trasformatore
tradizionale, perché la minore potenza di dimensionamento permette di ridurre la sezione del
nucleo e la sezione dei conduttori degli avvolgimenti. Tuttavia, la perdita dell’isolamento galvanico
può pregiudicarne l’utilizzo, infatti:
 In un trasformatore tradizionale è sempre possibile mettere a terra il secondario, in un
autotrasformatore invece ciò è possibile solo se è alimentato da una linea a neutro isolato, o
se è alimentato tra fase e neutro di una linea con neutro a terra e si è certi di mettere a terra il
morsetto collegato al neutro.
 Un trasformatore tradizionale a seguito dell’interruzione di una spira secondaria il carico
resta sottoposto a tensione nulla, nell'autotrasformatore invece in caso di rottura di una spira
sull'avvolgimento secondario il carico viene ad essere sottoposto alla tensione di primario
(per questo si usa in applicazioni con rapporti di trasformazione di 1:3 o 1:4).

TRASFORMATORI AD ALTA FREQUENZA

Sono generalmente trasformatori di bassa potenza (<1kW), inseriti in circuiti commutati.


Funzionano a frequenze molto alte (100-500 kHz) con tensioni ad onda quadra. Il nucleo non è
realizzato con lamierini impaccati, ma da solidi blocchi di ferrite. A parità di potenza sono molto
più piccoli dei convenzionali trasformatori.

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