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Hermann Grosser

Il canone letterario
La letteratura italiana nella tradizione europea
COMPACT

a cura di

Hermann Grosser
1 Maria Cristina Grandi
Giancarlo Pontiggia
Matteo Ubezio

Duecento e Trecento libro

Quattrocento e Cinquecento
libro
line LiM
misto

PRINCIPATO © Casa Editrice Principato


Il canone letterariocompact
La letteratura italiana nella tradizione europea

© Casa Editrice Principato


Alla cara memoria di Salvatore Guglielmino

... né quantunque perdeo l’antica matre,


valse a le guance nette di rugiada
che, lagrimando, non tornasser atre.

© Casa Editrice Principato


Hermann Grosser

compact
Il canone letterario
la letteratura italiana nella tradizione europea

1
Duecento e Trecento
Quattrocento e Cinquecento

a cura di
Maria Cristina Grandi > Hermann Grosser > Giancarlo Pontiggia > Matteo Ubezio

Principato

© Casa Editrice Principato


Direzione editoriale: Franco Menin
Redazione: Silvana Mambretti
Progetto grafico: Ufficio Grafico Principato
Copertina: Giuseppina Vailati Canta

Il progetto e la direzione dell’opera sono di Hermann Grosser.

Questo volume è stato curato da:


Maria Cristina Grandi, autrice dei capitoli 6 e 8
Hermann Grosser, autore dei capitoli 4, 7, 10, 12, 13, 15-28 e 31
Giancarlo Pontiggia, autore dei capitoli 1, 2, 3, 5, 11 e 14
Giancarlo Pontiggia e Maria Cristina Grandi, autori del capitolo 9
Matteo Ubezio, autore delle note ai testi del capitolo 21 e dei capitoli 29 e 30

Gli autori ringraziano il dott. Franco Menin per la perizia e la dedizione con cui ha diretto e per-
sonalmente curato la realizzazione di questo volume, e la dott.ssa Silvana Mambretti per il prezio-
so lavoro redazionale.

ISBN 978-88-416-1668-0
Prima edizione: gennaio 2010

Ristampe
2015 2014 2013 2012 2011 2010
VI V IV III II I *

Printed in Italy

© 2010 - Proprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettua-
ta, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.
Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume die-
tro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633.
Le riproduzioni per finalità di carattere professionale, economico o commerciale, o comunque per uso diver-
so da quello personale, possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO,
Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail segreteria@aidro.org e sito web www.aidro.org.

Casa Editrice G. Principato S.p.A.


http://www.principato.it UNI EN ISO 9001

Via G.B. Fauché 10 - 20154 Milano e-mail: info@principato.it

Stampa:Vincenzo Bona - Torino

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Presentazione
Questa nuova storia e antologia della letteratura italiana viene pubblicata in un momento storico in
cui nella società e in parte anche nella scuola molti fattori tendono a mettere in discussione o a indebo-
lire nei fatti il ruolo che la cultura, la tradizione letteraria e lo studio metodico hanno a lungo avuto nel-
la formazione dell’individuo. La scelta di intitolarla Il canone letterario nasce dal proposito di ancorarla a un
concetto forte, anche se discusso, qual è quello di canone, e per questa via di assumersi e di proporre
l’impegno a contrastare una deriva che spinge a svilire l’insegnamento e l’apprendimento, a consumare
rapidamente libri, film, telefilm e altri ‘oggetti estetici’ spesso mediocri, a perdere il senso storico e a sfal-
dare il senso di appartenenza a una tradizione culturale che ha radici antiche ed è storicamente uno dei
più forti fattori identitari di quanti parlano e pensano in italiano.
In generale con il termine di canone si intende un insieme di norme o testi che hanno un significato
particolare per una comunità e che, in sostanza, sono reputati degni di essere osservati e tramandati.
Applicato alla letteratura, il concetto di canone designa perlopiù un insieme di testi di autori eccel-
lenti, di cui conservare memoria. Il concetto di canone letterario ha un valore al contempo estetico, per-
ché rimanda alla qualità e alla bellezza dei testi, ed etico-civile soprattutto perché rimanda alla volontà da
parte di una comunità di tramandare il senso della propria identità storica e culturale.
Il canone letterario è mutevole, relativo storicamente, geograficamente e socialmente (come la lingua
e la cultura). Il classicismo ha il suo canone, il romanticismo ne impone uno assai diverso, il Novecento
uno diverso ancora. Il canone, poi, è tanto più fluido e mutevole, quanto più ci si avvicina alla contem-
poraneità. Ciò significa anche che quello attuale potrebbe non essere più lo stesso nei prossimi decenni o
secoli.
Non esiste un solo canone in una società; ne esistono anzi molteplici: occidentale, europeo, italiano,
regionale, generazionale... Essenziale rimane però quello legato all’identità nazionale o quanto meno al-
la condivisione della lingua. In questo senso fondamentale è il canone legittimato dalla scuola, se non al-
tro perché è il repertorio di testi più largamente condiviso dalla comunità che parla e pensa in italiano.
È almeno in questo senso che proporre e difendere l’idea che sia necessario tramandare un canone
sufficientemente articolato di testi ordinati storicamente ha per chi scrive un valore culturale, pedagogi-
co e civile.

I lettori di quest’opera troveranno una storia ordinata e continua della tradizione letteraria italiana
con sobrie ma sistematiche aperture al contesto occidentale e in particolare a quello europeo, con cui la
cultura e la letteratura italiana sono venute più strettamente a contatto. Il limite che si è posto in questa
direzione dipende dalla volontà di tenere una via di mezzo tra due eccessi: l’enciclopedismo o la disper-
sività. Tanto per gli autori italiani quanto per quelli stranieri, si sono privilegiati – com’è ovvio – i cosid-
detti classici, gli autori e le opere cioè che hanno saputo meglio interpretare la propria epoca e al con-
tempo parlare a più generazioni, e mantenere un’attualità anche oltre i limiti del proprio tempo. Dante,
Petrarca, Boccaccio, per non fare che i primi nomi di un elenco che sarà chiaro anche solo sfogliando
queste pagine, sono i pilastri del canone e ad essi viene concesso ampio spazio e un’attenzione più ana-
litica. Ma via via si sono presi in esame interi generi, scuole e correnti sia per delineare il necessario con-
testo storico-culturale e letterario entro cui i classici si collocano, sia perché essi stessi costituiscono un
elemento fondamentale del canone. Ad alcuni autori, che oggi godono di minore fortuna critica, si è da-
to un certo spazio anche solo perché senza di essi sarebbe impossibile comprendere la fisionomia com-
plessiva di un’epoca storica. Non si vuole intendere insomma il canone come un insieme di individualità
singole, ma come una tradizione articolata e complessa.
Questo libro può essere fruito sequenzialmente, dalla prima all’ultima pagina, ma ai lettori e ai do-
centi spetterà il compito di selezionare gli argomenti cui prestare più attenzione e quelli a cui prestarne
meno o su cui sorvolare, a seconda del tempo a disposizione o delle predilezioni e delle esigenze proprie
e degli allievi. Gli autori di una storia e antologia letteraria hanno l’onere delle scelte primarie ma anche
l’obbligo di una coerenza sistematica e di una relativa completezza: forniscono insomma un canone am-
pio all’interno del quale ciascun fruitore potrà ritagliarsi una propria, individuale versione dello stesso.
Non è illegittimo pensare che i docenti potranno proporre una loro versione del canone e gli studenti
più curiosi estenderla e variarla di propria iniziativa.

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Presentazione I testi che proponiamo possono esercitare una diversa attrattiva, ma sono tutti di grande valore stori-
co per la cultura italiana. Un percorso attraverso di essi richiede magari uno sforzo a chi vi si accosta per
la prima volta, ma col tempo ripaga dello sforzo, in termini di raffinamento del senso estetico e di con-
sapevolezza di sé e delle radici storiche della propria identità culturale.
Questo libro è organizzato per capitoli che costituiscono delle unità di apprendimento. Vi si troverà
innanzitutto una trattazione sintetica e sistematica, il Profilo storico-culturale all’inizio di ogni sezione
cronologica e poi quello storico-letterario (ordinato con una certa elasticità per generi, movimenti, au-
tori esemplari). All’interno del profilo è proposto un certo numero di testi, annotati ma non analizzati,
che vengono proposti come Documenti, ad immediata esemplificazione di un argomento o di un aspet-
to della trattazione. Un Questionario di verifica dell’apprendimento completa questa parte.
Segue, capitolo per capitolo o talora paragrafo per paragrafo, un’antologia di Testi corredati da una
premessa, note esaustive (prevalentemente esplicative), un’ampia guida all’analisi e infine un laboratorio di
esercizi per approfondire la comprensione e l’interpretazione del testo. È questo idealmente il cuore del
libro e del canone, il luogo dove i testi vengono interrogati e fatti parlare. Talora, a questi sono associati in
subordine altri testi-documento (fonti o altri testi letterari, brevi interventi critici, brevi documenti sto-
rici) dotati un più sobrio apparato di commento che vengono proposti a integrazione o per un confron-
to con i testi da cui dipendono.
Chi scrive crede nella centralità del testo in ogni esperienza letteraria, ma è anche consapevole che
per comprenderlo e apprezzarlo è necessaria un’enciclopedia di informazioni che orientino l’interpreta-
zione e la rendano plausibile. Tutti del resto abbiamo studiato gli autori e i testi letterari ricorrendo a
strumenti esterni (informazioni storiche, biografie, saggi critici, commenti esplicativi). L’interpretazione
spontanea del testo è un mito, è bene ricordarlo.

Questa edizione ridotta è destinata a quanti – nei Licei e negli Istituti Tecnici – vogliano un libro di
testo più agile e sintetico, specie nella trattazione storico-letteraria, semplificato nel lin-guaggio, ma non
banale o eccessivamente schematico. A questo scopo abbiamo drasticamente rivisto e ridotto tutto il pro-
filo storico-culturale e storico-letterario e molte delle guide all’analisi; abbiamo proporzionalmente ri-
dotto i documenti (sia quelli forniti nel profilo, sia quelli in appendice ai testi).Viceversa – pur nella ne-
cessità di ridurre anche questa parte – abbiamo cercato di mantenere il più possibile intatto lo sviluppo
dei testi, che, ribadiamo, costituiscono il cuore del canone.
On line si troveranno la Bibliografia, i Percorsi, le schede di Interpretazione degli autori e dei mo-
vimenti più importanti, che corredavano l’edizione maggiore. Nella prospettiva di agevolare lo studio e
preparare alle prove di verifica e, in ultima analisi, alla prova d’esame, abbiamo aggiunto delle Sintesi in-
troduttive ai singoli capitoli, alcuni schemi e schede lessicali per sottolineare e semplificare ancor più al-
cuni passi concettualmente complessi o fornire quadri riassuntivi di immediata fruibilità e delle prove di
verifica intitolate Verso l’esame, che nelle intenzioni dovrebbero costituire un’esercitazione da svolgere
a casa o in classe per preparare le analoghe prove di verifica somministrate dal docente.
A proposito degli schemi, siamo stati intenzionalmente parchi, perché convinti che progressivamente,
con l’abitudine allo studio e una certa familiarità con la materia, nessuno schema fornito dal libro di te-
sto possa sostituire – in una corretta prospettiva pedagogica e di apprendimento – gli schemi che even-
tualmente l’insegnante tracci alla lavagna per fissare i concetti espressi a viva voce nel fluire della lezione
e, a maggior ragione, gli schemi che lo studente ritenga utile fare in proprio per fissare i concetti appre-
si studiando la storia letteraria e analizzando testi.

Mi sia infine concessa una chiosa personale.Vengo dall’esperienza de Il sistema letterario, avviata anni fa
con Salvatore Guglielmino, un grande docente e un grande amico, con cui avrei voluto condividere al-
meno in parte anche questa nuova impresa. Il canone letterario nasce anche da quella esperienza, che non
rinnega e di cui è in qualche parte debitore, ma che vorrebbe rinnovare e adattare ai tempi e alle attuali
esigenze della scuola, mantenendone il rigore e la serietà di impostazione e in qualche misura anche lo
spirito, l’impegno culturale e civile, che lo hanno caratterizzato e ne hanno determinato il successo. Il
nome di Salvatore Guglielmino, cui questo libro è dedicato, ricorrerà in qualche breve passo che si è vo-
luto inserire, qua e là nel corso della trattazione, come piccolo ma affettuoso e nostalgico omaggio al suo
insegnamento e per non sentirlo almeno idealmente del tutto estraneo a questo lavoro.

Hermann Grosser
Monza, 10 gennaio 2010

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Il canone letterario Duecento e
compact Trecento

1. Il Medioevo: società, cultura, mentalità


2. Le lingue romanze e i primi documenti del volgare italiano
3. Società e cultura nel XIII e XIV secolo
4. La nascita della letteratura italiana. La poesia religiosa
5. La letteratura dell’età feudale in Francia
6. Siciliani e Siculo-toscani
7. Lo Stilnovo
8. La poesia comico-realistica
9. Dante Alighieri
10. Le forme della narrativa in Italia fino al Boccaccio
11. Altri generi e altre forme di scrittura di età comunale
12. Francesco Petrarca
13. Giovanni Boccaccio e il Decameron
14. Sviluppi della letteratura trecentesca

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Duecento e Trecento

Il Medioevo:
1 società, cultura, mentalità
emergenti del periodo altomedievale, Cristianesimo e
Germanesimo, dal cui incontro nascono nuove realtà
politico-giuridiche e una nuova mentalità. Fondamen-
tale è il ruolo svolto dalla Chiesa, che ricostituisce l’u-
nità dell’antico impero romano, sbriciolatosi sotto
l’urto delle invasioni barbariche. Dio è posto al centro
del mondo, interpretato – con una fortunata metafora
– come un libro che l’uomo deve decifrare mediante
gli strumenti delle verità rivelate. Il mondo terreno,
naturale e storico, non ha dunque in sé valore autono-
mo, ma in quanto immenso repertorio di simboli che
rinviano a una realtà superiore, autentica ed eterna
(simbolismo universale).
Muta, nel corso dei secoli, anche la concezione
della storia, che appare come un processo lineare al
cui centro si pone l’evento rivoluzionario della reden-
zione operata da Cristo mediante il suo sacrificio. Al-
l’interno di tale concezione, la storia è vista come sto-
ria sacra e provvidenziale, progressiva realizzazione
di un piano divino finalizzato alla salvezza del genere
umano, che informa di sé ogni aspetto della vita so-
ciale. Come Dio è uno e trino, così la società umana è
divisa in tre ordini rigorosamente gerarchici (sacerdo-
ti, guerrieri, contadini). Anche la scuola e la cultura,
appannaggio dei centri monastici ed episcopali, ven-
gono riorganizzate sulla base di tale modello: il patri-
monio culturale pagano viene selezionato secondo
criteri religiosi e interpretato in chiave allegorica; il
sistema degli studi è articolato secondo lo schema
delle arti liberali, suddivise nei due cicli del trivio
(grammatica, retorica, dialettica) e del quadrivio (arit-
metica, geometria, musica, astronomia); il fondamen-
to degli studi sono i testi sacri, interpretati mediante
n Cavalieri medioevali. Il termine Medioevo, ovvero «età di mezzo», nac- l’autorità dei padri della Chiesa. Solo con la rinascita
n L’abate di Montecassino que in età umanistica con significato negativo per in- economica ed urbana che si verifica dopo il Mille
Desiderio (1027-1087) dona
un codice a san Benedetto, dicare un lungo periodo di tempo che si estendeva fra (Basso Medioevo) nascono scuole fondate su esigen-
fondatore nel 529 dell’abbazia. l’età classica – considerata un modello insuperato di ze non più esclusivamente religiose. Con l’apparizio-
n La raccolta dell’uva. civiltà – e l’età nuova, in cui il mondo tornava a rina- ne, tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, delle pri-
scere dopo un millennio di barbarie e di tenebre (i co- me grandi università europee (Bologna, Parigi, Oxford
siddetti “secoli bui”): convenzionalmente, tra la fine in particolare), si entra ormai in un’epoca nuova, che
dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.) e la fine già preannuncia per diversi aspetti la rinascita uma-
dell’Impero Romano d’Oriente (caduta di Costantino- nistica del XIV secolo. Nel frattempo, in ogni parte
poli: 1453). Oggi si preferisce frazionare tale periodo d’Europa, nascono le letterature volgari, che, affran-
in due diverse fasi, l’Alto Medioevo (fino al Mille) e il candosi dalla lingua latina – sentita ormai da tempo
Basso Medioevo, caratterizzato il primo da gravi fat- come lingua sacra della Chiesa –, si avviano progres-
tori di crisi e di instabilità, il secondo da una progres- sivamente ad imporre una nuova visione del mondo,
siva ripresa economica e culturale. Due sono le forze laica e naturalistica.

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1. Il Medioevo: società, cultura, mentalità STORIA

1.1 Introduzione all’età medievale


Il concetto di Medioevo L’età che ancor oggi chiamiamo Medioevo, ossia «età di mezzo», tradizional-
mente inizia nel 476, anno in cui Romolo Augustolo, ultimo imperatore romano
d’Occidente, fu deposto dal re degli Eruli Odoacre.
Il concetto fu elaborato in età umanistica, quando l’ultimo millennio di storia co-
minciò ad apparire come un’età “buia”, di decadenza, alla quale fu contrapposta l’età
classica, sentita come un modello insuperabile di arte e di civiltà. L’epoca che va dalla
fine dell’Impero romano d’Occidente all’età umanistica venne dunque considerata
un’età intermedia in cui le grandi istituzioni politiche erano crollate, gli studi si erano
impoveriti, la lingua latina si era imbarbarita. Tale giudizio fu poi nella sostanza ribadi-
to, con motivazioni e finalità diverse, sia dal protestantesimo che dall’illuminismo: per
il protestantesimo l’età medievale coincideva con l’affermarsi di strutture ecclesiastiche
che avevano tradito l’originaria e primitiva religione evangelica; agli occhi della cultu-
ra illuministica il Medioevo doveva invece apparire come un’età oscura e barbarica,
caratterizzata dall’ignoranza, dalla superstizione, dal primato della fede (una fede cieca
e irrazionale) sulla ragione.
Tali giudizi vennero solo parzialmente intaccati dalla cultura romantica di primo
Ottocento, che esaltò, è vero, alcuni aspetti della cultura medievale, ma paradossalmen-
te soltanto attraverso un ribaltamento del giudizio di valore: il Medioevo restava per i
romantici un’età barbarica, fosca, violenta, ma proprio per questo ricca di energie
creative e fantastiche. Su questo terreno, andavano inoltre ad attecchire questioni di
natura ideologico-politica: il Medioevo era l’epoca in cui, sotto l’effetto delle invasio-
ni germaniche, si erano andate formando le monarchie nazionali, esaltate in opposi-
zione al carattere sovranazionale e cosmopolita dell’Impero romano.
Nell’ultimo secolo tutti questi giudizi sono stati ridimensionati, quando non con-
testati: la nuova storiografia tende a mettere l’accento sugli aspetti sia di continuità
(con il periodo del tardo impero), sia di mutazione (dovuta all’affermarsi di due forze
nuove, sostanzialmente estranee al mondo greco-romano: cristianesimo e germanesi-
mo), nella consapevolezza che ogni evento storico matura gradualmente, e che anche
gli eventi più traumatici della storia sono di fatto il risultato di una complessa e lunga
catena di fenomeni che li hanno determinati.
Problemi di cronologia Un problema tuttora aperto riguarda la cronologia dell’età medievale. Prima
ancora della data del 476, che passò di fatto inosservata presso i contemporanei, più si-
gnificativi appaiono i drammatici eventi accaduti nel periodo compreso fra il 378 e il
410: la battaglia di Adrianopoli (378), nella quale l’esercito romano subì una devastan-
te sconfitta da parte dei Visigoti; l’editto dell’8 novembre 392, che mise fuori legge il
paganesimo e trasformò l’Impero di Roma in Impero cristiano; la divisione dell’Im-
pero stesso (nel 395, alla morte di Teodosio I) in due realtà destinate all’isolamento re-
ciproco (Impero Romano d’Oriente, affidato al figlio Arcadio; Impero Romano
d’Occidente, affidato all’altro figlio Onorio); il sacco di Roma ad opera dei Visigoti
(410), che aprì la strada alla formazione dei regni romano-barbarici.
Ancora più incerti risultano i confini opposti. Più ancora di singoli fatti, fra cui il
più significativo fu la caduta di Costantinopoli e la fine dell’Impero romano d’Orien-
te (1453), vanno probabilmente valutati i segni della nuova cultura umanistica: la con-
sapevolezza di una diversità, rispetto al passato, che s’impone già nel corso del Trecen-
to in Italia (la cosiddetta età proto-umanistica); l’invenzione della stampa (a metà
Quattrocento); la stessa scoperta dell’America, che ruppe definitivamente gli antichi
equilibri. Ma la questione resta aperta: uno dei maggiori medievalisti viventi, Jacques
Le Goff, sposta i confini del Medioevo fino al XVIII secolo e alla Rivoluzione france-
se. Un periodo lunghissimo, in ogni caso, e che va necessariamente articolato al suo

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Duecento e Trecento

interno: si è soliti perciò distinguere fra Alto Medioevo (all’incirca fino al Mille) e
Basso Medioevo (dopo il Mille). Proprio tale suddivisione risulta preziosa per il di-
scorso storico-culturale che ci accingiamo a fare.
Alto Medioevo Non c’è infatti dubbio che l’epoca compresa fra il V e il X secolo presenti fattori di
crisi e di instabilità, quali: lo sgretolarsi delle grandi istituzioni politico-sociali di età
imperiale; la diminuzione demografica e il conseguente spopolamento delle città; l’in-
terruzione progressiva di gran parte delle vie di comunicazione, da cui la paralisi del-
le attività commerciali; lo stato di insicurezza in cui versano gli abitanti, anche dopo il
periodo delle grandi invasioni, a causa delle continue incursioni di popoli provenien-
ti da nord (Normanni e Danesi), da est (Ungari) e da sud (Saraceni); l’impoverimento
del sistema economico, spesso ridotto a operazioni di baratto; l’impaludamento o in-
selvatichimento di gran parte delle aree agricole, sempre meno coltivate, e il soprav-
vento di un’economia più grezza fondata sulla caccia e sulla pastorizia; una condizio-
ne di povertà diffusa, spesso inasprita da carestie ed epidemie; la dissoluzione del siste-
ma scolastico romano, con la conseguente frattura dell’unità linguistica; la perdita di
gran parte delle biblioteche (e perciò delle opere) che erano andate costituendosi in
età ellenistica e imperiale; la progressiva clericalizzazione della cultura. Questo scena-
rio resterebbe tuttavia incompleto se non si facesse cenno alla rinascita carolingia del
IX secolo, di cui fu protagonista Carlo Magno, e che costituisce un momento decisivo
della storia medievale.
Il Sacro Romano Impero e la rinascita carolingia Approfittando della vacanza dell’Impero roma-
no d’Oriente, dove Irene, detronizzato il figlio Costantino VI e fattolo accecare, aveva
assunto i poteri imperiali (797), nella notte di Natale dell’800 Carlo venne incoronato
imperatore da papa Leone III, non sappiamo se per iniziativa personale del pontefice o

La visione gerarchica della cultura in età medievale

TEOLOGIA

FILOSOFIA

Arti del quadrivio


ARITMETICA GEOMETRIA
MUSICA ASTRONOMIA

Arti del trivio


GRAMMATICA RETORICA DIALETTICA

Arti meccaniche
ARCHITETTURA PITTURA SCULTURA MEDICINA

n Alla base della piramide si


trovano le cosiddette Arti
meccaniche, al di sopra delle
quali si pongono le Arti libe-
rali o intellettuali, organizzate
nel sistema del Trivio e del
Quadrivio. Al vertice, gli studi
filosofici e teologici.

aritmetica geometria astronomia musica dialettica retorica grammatica

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1. Il Medioevo: società, cultura, mentalità STORIA

per accordi intercorsi precedentemente fra i due. Nasceva il Sacro Romano Impero,
che nell’idea di Carlo doveva continuare l’Impero cristiano di Costantino e di Teodo-
sio. Poco importava, agli occhi dei contemporanei, che di fatto gli equilibri complessi-
vi fossero completamente mutati, con lo spostamento dell’asse dell’Impero dal Medi-
terraneo all’Europa continentale e germanica, e con l’indebolirsi dell’idea di romanità a
favore di quella di cristianità: ciò che Carlo volle far risaltare fu l’idea di una continuità
storica, di una translatio Imperii (“traslazione”, “trasferimento” dell’Impero) che lasciava
intatta la sostanza storica dell’Impero, «Romano», appunto, e «Cristiano».
Il progetto imperiale fu sostenuto da una grande azione incivilitrice, fondata sul re-
cupero dell’antica cultura classica e di una lingua latina scritta che fosse di nuovo all’al-
tezza dei modelli pagani e cristiani (R 1.2 e 2.). Tale compito fu affidato alle scuole,
molte delle quali nacquero grazie all’intervento diretto dell’imperatore: fra di esse la
Schola Palatina, una sorta di accademia culturale che non aveva fissa dimora, ma si muo-
veva al seguito della corte imperiale. Alla Schola Palatina furono chiamati i migliori inge-
gni dell’epoca, dal monaco Alcuino di York allo storico Eginardo, al longobardo Paolo
Diacono. Compito delle scuole fu il recupero dei classici latini da troppo tempo abban-
donati: i testi furono ricopiati dai monaci amanuensi, e in tal modo salvati dal naufragio
cui ben presto sarebbero andati incontro a causa del progressivo deperimento dei codici.
La rinascenza carolingia, anche se isolata nel panorama alto-medievale, troppo de-
n Statua di Carlo Magno (XII presso per poter rispondere all’appello culturale di pochi dotti, non fu tuttavia inutile:
secolo, Chiesa di Mustair, assicurò la trasmissione di testi fondamentali del patrimonio classico, e costituì un
Svizzera).
esempio per la cultura successiva. Alla rinascenza di età carolingia seguì, ai confini fra
Alto e Basso Medioevo, la rinascenza ottoniana, promossa dalla dinastia di Sassonia,
che non solo ripropose con autorità l’idea imperiale con Ottone I il Grande (962-
973), ma promosse una nuova rinascita degli studi classici con Ottone III (983-1002),
fautore di una Renovatio Imperii, un “rinnovamento” che restaurasse l’antico Impero
dei Cesari e di Costantino. Ottone III volle riportare la capitale dell’Impero a Roma,
favorendo l’ascesa al soglio pontificio del suo dottissimo maestro, Gerberto d’Aurillac,
col nome di Silvestro II (999-1003). Se pure effimero, il progetto di Ottone III teneva
vivo il mito di Roma e la coscienza della sua grandezza letteraria e culturale.
Basso Medioevo Ben altro è il quadro che va delineandosi dopo il Mille, e dal quale emergono, co-
me avremo modo di vedere (R 3.): nuove realtà politico-istituzionali (i Comuni e i
regni nazionali); un’agricoltura non più di sussistenza (favorita anche dall’impiego di
strumenti agricoli tecnicamente più adeguati e dalla rotazione delle colture); un’eco-
nomia dinamica, fondata su una ripresa dei traffici e sul predominio dei ceti mercanti-
li; una conseguente ripopolazione dei centri urbani, mai totalmente scomparsi ma ri-
dotti per secoli a piccoli agglomerati di fatto ininfluenti sulla vita politica e culturale.
Non a caso nascono in questo periodo, tra XI e XIII secolo, le letterature volgari; e
nasce un nuovo pubblico letterario, espressione di una visione del mondo più artico-
lata e più laica. Proprio nell’XI secolo il territorio dell’Europa cristiana, sottoposto nei
secoli precedenti ad attacchi e razzie, torna ad espandersi in concomitanza con le dif-
ficoltà del mondo islamico, destinato storicamente a perdere le precedenti conquiste
europee (penisola iberica e Sicilia) e il primato dei commerci marittimi (fondamenta-
le, nell’XI secolo, fu il ruolo svolto dalle repubbliche marinare).
Il feudalesimo Tra VIII e IX secolo si va delineando nell’Europa cristiana quel sistema di organiz-
zazione della società medievale che va sotto il nome di feudalesimo, e che sopravvi-
verà, sia pure in varie forme e in modo parziale, fino al termine del XVIII secolo.
L’importanza storica del feudalesimo non si limita al piano storico-sociale, ma con-
cerne direttamente l’immaginario artistico e letterario: si vedrà, in particolare, quale
determinante influenza saprà esercitare la mentalità feudale sulla poesia d’amore e sul-
la poesia epico-cavalleresca (R 5.).
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Duecento e Trecento

Il sistema feudale, che in qualche modo era già prefigurato nel sistema economico
delle villae tardo-imperiali (grandi latifondi che assorbivano le piccole proprietà in
cambio di protezione), si fondava sul concetto germanico di fedeltà assoluta a un capo.
Questa fedeltà, premiata con benefici e donazioni, poteva giungere all’estremo sacrifi-
cio della vita. Gli elementi costitutivi del feudalesimo sono infatti il beneficio, il vas-
sallaggio e l’immunità: giurando fedeltà assoluta al proprio signore (l’omaggio: etimolo-
gicamente, divenire «uomo» di un signore), il vasso (o vassallo) riceve in cambio un be-
neficio, ovvero un feudo, che gli viene dato non in proprietà ma in concessione sino al
termine della vita. Nel caso di tradimento (fellonia) o di mancato adempimento agli
obblighi previsti, il beneficio può essere immediatamente revocato. L’atto simbolico
mediante il quale viene concesso il feudo, l’investitura, prevede una sua complessa li-
turgia. Dato il carattere personale di questi accordi, il vassallo può a sua volta appalta-
re porzioni del suo feudo ad altri uomini a lui fedeli (vassi vassorum [vassalli dei vassal-
li], ovvero valvassori). Si va così costituendo nel corso del tempo una struttura gerar-
n Scene di investitura con chica e piramidale con al vertice il sovrano, e al di sotto un numero sempre più alto di
omaggio feudale. vassalli legati da una rete di obblighi personali. I feudi tendono ad arricchirsi, col
tempo, di sempre maggiori privilegi (immunità), che vanno dalle esenzioni fiscali al di-
ritto di arruolare soldati o di esercitare la giustizia. Quando i feudatari ottengono che
i loro benefici diventino ereditari (il primo atto è il Capitolare di Kiersy nell’877; l’ulti-
mo la Constitutio de feudis, nel 1037), il sistema, inizialmente congegnato per creare un
potere stabile e gerarchicamente compatto, comincia ad incrinarsi e deve sempre più
fare i conti con forze disgregatrici, dapprima interne al sistema (i valvassori), poi ester-
ne (le città, che nel frattempo, dopo il Mille, si vanno espandendo ad opera dei ceti
borghesi e mercantili, e cercano di rendersi progressivamente autonome sia dai feuda-
tari locali sia dall’imperatore).
Il ruolo della Chiesa Se il feudalesimo costituì, progressivamente, la struttura portante del mondo me-
dievale, fu tuttavia la Chiesa a svolgere fin dalle origini il ruolo decisivo, e a ricostitui-
re un’unità culturale e religiosa che le forze particolaristiche germaniche avevano di
fatto sbriciolato. Sostituendosi alle antiche autorità romane (i magistrati; l’imperatore),
sono i vescovi cattolici, responsabili delle loro diocesi e che agiscono con una sorta di
investitura popolare, ad arginare l’iniziale brutalità barbarica (ad esempio attraverso il
diritto di asilo, che obbligava a non fare uso di armi nei luoghi di culto), a salvaguar-
dare alcuni princìpi fondamentali della dignità umana, mettendo in atto un processo
di romanizzazione e di cristianizzazione dell’elemento barbarico. L’autorità morale
della Chiesa, conquistata in virtù del coraggio e della determinazione dei vescovi,
viene dunque progressivamente ad assumere un contenuto non più solo spirituale ma
n La benedizione di un ve- civile e sociale: la curia vescovile sostituisce di fatto l’antica curia municipale; ai tribu-
scovo (capolettera dell’XI se-
colo). nali ecclesiastici viene presto riconosciuta la competenza di giudicare intorno a que-
stioni non solo religiose ma anche civili e penali. Ancora più significativo, per il di-
scorso storico-culturale che ci interessa, fu il ruolo svolto dai monasteri, che si diffu-
sero dopo il VI secolo in ogni parte d’Europa, e costituirono per almeno un millennio
delle vere e proprie cittadelle di vita spirituale e culturale (R 1.4).

1.2 La mentalità medievale: l’interpretazione simbolica della natura


Totalità e integralità dell’esperienza religiosa Non si può comprendere l’età medievale se non par-
tendo da questo dato: la fede religiosa (una fede che fa appello all’interiorità del cre-
dente, che pretende una radicale trasformazione del modo di pensare e di vivere, e che
mira a una salvezza ultraterrena) si impone come la chiave privilegiata, se non esclusi-
va, per leggere, interpretare, studiare il mondo della natura e dell’uomo. Se il paganesi-
mo era caratterizzato dalla pluralità e laicità delle esperienze storico-culturali, il mon-
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1. Il Medioevo: società, cultura, mentalità STORIA

do medievale muove da un profondo desiderio di verità e di unità che soltanto Dio


può soddisfare. La cultura medievale è una cultura teocentrica: ogni aspetto della vita e
della storia ruota intorno a Dio e non può trovare alcuna spiegazione se non in Dio.
Di qui la supremazia dei valori spirituali su quelli materiali e il predominio della teo-
logia (da theos, “dio” e logos, “discorso”: «la scienza di Dio e dei beati», secondo la de-
finizione di san Tommaso; più genericamente: ogni discorso che abbia per oggetto la
divinità e le cose divine) su ogni altra disciplina.
Il mondo è un libro scritto da Dio Una delle metafore più diffuse in età medievale è quella che raf-
figura il mondo come un libro scritto da Dio. Ugo di San Vittore (1096 ca-1141), in
un testo teologico composto intorno al 1123 e intitolato De tribus diebus [I tre giorni],
paragona il mondo visibile a un manoscritto riccamente ornato: compito dell’uomo
“spirituale” è penetrare nell’intimo della creazione, interpretando convenientemente
l’alfabeto divino.
Il mondo della natura viene dunque apertamente svalutato: non ha valore per
quello che mostra ma per quello che nasconde dietro le sue manifestazioni materiali.
La natura è simbolo del divino, non è ancora il divino, che è puro spirito, e che si ser-
ve del mondo materiale per parlare all’uomo nel solo linguaggio che l’uomo, durante
la vita terrena, può comprendere. Il mondo della natura non vale per sé, ma in quanto
è un grande sistema di simboli che l’uomo deve decifrare per giungere a Dio.
Il simbolismo universale Già san Paolo, nella prima Lettera ai Corinzi (13, 12), scritta intorno al 57,
aveva detto che «ora noi vediamo come in uno specchio, in modo enigmatico, ma al-
lora vedremo faccia a faccia»: con questo voleva intendere che durante la vita terrena
possiamo conoscere solo in modo indiretto, come si può conoscere un oggetto attra-
verso l’immagine riflessa in uno specchio, e che solo «allora», nella vita ultraterrena,
potremo conoscere interamente la natura divina e il significato profondo delle verità
rivelate.
La mentalità medievale è dominata dall’idea che ogni oggetto, ogni elemento, ogni
essere vivente non significano soltanto ciò che appaiono nella loro realtà materiale e
sensibile, ma rimandano a un significato più profondo, invisibile, che appartiene all’or-
dine divino. Il pensiero medievale può dunque essere considerato come un pensiero
analogico, teso costantemente a stabilire un legame fra visibile e invisibile, terreno e
celeste, materiale e spirituale, temporale ed eterno, concreto e astratto.

Doc 1.1 Il mondo è un libro scritto da Dio

Ugo di San Vittore, Tutto questo mondo sensibile è infatti come un libro scritto dalle mani di Dio, cioè
I tre giorni dell’invisibile creato dalla potenza divina, e le singole creature sono come figure, non inventate dal-
luce. L’unione del corpo e
dello spirito, a c. di V. l’arbitrio dell’uomo, ma istituite dalla volontà di Dio per manifestare e indicare la sua
Liccaro, Sansoni, Firen- invisibile sapienza. Ma come un analfabeta, quando vede un libro aperto, scorge i segni,
ze 1974, p. 57
ma non capisce il senso, così lo stolto e «l’uomo animale», che «non capisce le cose di-
vine» [san Paolo, I Corinzi 2, 14] in queste creature visibili vede l’aspetto esteriore, ma
non ne capisce interiormente il significato. Colui che è spirituale, invece, ed è capace di
valutare tutte le cose, mentre considera all’esterno la bellezza dell’opera, interiormente
comprende quanto mirabile sia la sapienza del Creatore. Perciò non vi è nessuno a cui
le opere di Dio non appaiano mirabili, ma mentre l’insipiente ammira in esse soltanto
l’aspetto esteriore, il sapiente invece da ciò che vede all’esterno scorge il profondo
pensiero della sapienza divina. Così di una identica scrittura può avvenire che una per-
sona ne lodi il colore e la forma delle figure, un’altra invece ne apprezzi il senso e il si-
gnificato.

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Duecento e Trecento

Lapidari, florari, bestiari Se la natura è un grande serbatoio di simboli che vanno decifrati perché ac-
quistino senso, non deve stupire che i tre regni della natura (minerale, vegetale, anima-
le) vengano letti in chiave simbolica e diano origine a veri e propri trattati enciclope-
dici di valore non fisico o naturalistico ma religioso e morale. «Lapidari», «florari» e «be-
stiari» reintroducono l’uomo nell’armonia cosmica che il peccato originale ha offusca-
to se non cancellato agli occhi umani: le proprietà di una pietra preziosa, di un fiore, di
un animale, ci parlano «in modo enigmatico» delle grandi verità teologiche e morali.
Non si deve tuttavia pensare che in un bestiario medievale gli animali vengano de-
scritti nella loro reale natura: molti di questi animali sono anzi attinti a un repertorio
fantastico (come l’unicorno o la fenice) o sono colti in comportamenti bizzarri e stra-
vaganti che non hanno alcun rapporto con la realtà. Il mondo medievale aveva del resto
sviluppato una particolare predilezione per tutto ciò che è esotico, meraviglioso, fanta-
stico: quanto più la realtà materiale si restringeva in uno spazio angusto e limitato, a
causa delle difficoltà dei viaggi e delle relazioni, tanto più l’immaginazione si apriva al
fascino di mondi irreali e stupefacenti, cercati (e trovati) nei soli spazi allora disponibi-
li: gli antichi volumi di monstra (in latino “prodigi, cose incredibili”) e di mirabilia
(“spettacoli che destano meraviglia, stupore”) trasmessi dal mondo greco-romano. La
più fortunata di queste opere era stata la Storia naturale di Plinio il Vecchio (autore lati-
no del I sec. d.C.), più volte compendiata nei secoli medievali.
Né si deve pensare che esista necessariamente una corrispondenza rigida tra ogget-
to e simbolo: al contrario, una caratteristica di questi trattati enciclopedici è proprio
l’ambiguità e la molteplicità dei significati che possono affiorare da una pietra, un fiore
o un animale. Il leone, ad esempio, è spesso rappresentato come simbolo di violenza e
di aggressività, come nei celebri versi di Dante: «Questi parea che contra me venisse /
con la test’alta e con rabbiosa fame, / sì che parea che l’aere ne tremesse» (If I 46-48).

Doc 1.2 Le nature del leone

Il Fisiologo,
a cura di F. Zambon, Il Fisiologo ha detto del leone che ha tre nature. La sua prima natura è questa:
Adelphi, Milano 1975 quando vaga e passeggia per la montagna e gli giunge l’odore dei cacciatori, con la co-
(seconda edizione
riveduta 1982) da cancella le proprie impronte, affinché i cacciatori, seguendole, non trovino la sua ta-
na e lo catturino. Così anche il Cristo nostro, il leone spirituale vittorioso, della tribù di
Giuda, della radice di Davide, inviato dal Padre invisibile, ha nascosto le sue impronte
spirituali, cioè la sua divinità. Fra gli angeli è divenuto angelo, fra gli arcangeli arcange-
lo, fra i troni trono, fra le potenze potenza, finché è disceso nel grembo della santa Ver-
gine Maria, per salvare il genere umano smarrito, «e il Verbo si è fatto carne, e ha pre-
so dimora fra di noi» [Giovanni I, 14]. Per questo, non riconoscendolo coloro che son
scesi dall’alto, hanno detto: «Chi è questo re della gloria?». E dice lo Spirito Santo: «È il
Signore delle potenze, è Lui il re della gloria!» (Salmi XXIII, 8-10).
Seconda natura del leone. Quando il leone dorme nella tana, i suoi occhi vegliano:
infatti rimangono aperti. Lo testimonia anche Salomone nel Cantico dei Cantici, dicen-
do: «Io dormo, ma il mio cuore veglia» [Cant. V, 2]. Così anche il corpo del Signore
mio dorme sulla croce, ma la sua natura divina veglia alla destra del Padre: perché «non
sonnecchierà né dormirà colui che custodisce Israele» [Salmi CXX, 4].
Terza natura del leone. Quando la leonessa genera il suo piccolo, lo genera morto, e cu-
stodisce il figlio, finché il terzo giorno giungerà il padre, gli soffierà sul volto e lo desterà.
Così anche il Dio nostro onnipotente, il Padre di tutte le cose, il terzo giorno ha risuscita-
to dai morti il suo Figlio, primogenito di tutte le creature, il Signore nostro Gesù Cristo,
affinché salvasse il genere umano smarrito. Bene ha quindi detto Giacobbe: «Si è sdraiato e
ha dormito come un leone e come un leoncino: chi lo desterà?» [Genesi XLIX, 9].

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1. Il Medioevo: società, cultura, mentalità STORIA

Ma nel Fisiologo, che è il prototipo dei bestiari medievali, il leone diviene figura simbo-
lica e allegorica di Cristo.
Come si può osservare, il leone del Fisiologo ha ben poco a che fare con il leone rea-
le che conosciamo: le proprietà che gli vengono attribuite derivano da un repertorio
leggendario e narrativo utilizzato a fini morali. Spicca, in particolare, il continuo ri-
mando alle Sacre Scritture.
Enciclopedismo Se le verità essenziali sono qualcosa di già dato, che abbiamo perduto a causa del
peccato originale ma che possiamo in parte recuperare grazie alla venuta di Cristo sul-
la terra, non sorprende che la massima aspirazione della cultura medievale sia quella di
organizzare e classificare il sapere già disponibile in piccole o grandi enciclopedie, alcu-
ne di carattere tematico (ad esempio un bestiario), altre di carattere complessivo (che
ambiscono cioè a realizzare una summa, una totalità ordinata dell’intero scibile umano).
Fra le prime e più importanti opere enciclopediche del Medioevo vanno ricordate le
Etimologie, composte nel VII sec. da Isidoro di Siviglia (570 ca-636), che organizzano in
20 volumi l’immenso repertorio del sapere partendo per ogni voce dal significato eti-
mologico della parola, in cui si ritiene sia racchiusa la verità, cioè l’essenza autentica e
originaria, della cosa. L’enciclopedismo medievale risponde pienamente all’esigenza di
una cultura integralmente cristiana, teologica e unitaria. I dotti medievali cercano in-
nanzitutto di collocare ogni frammento e ogni aspetto del reale in un insieme ordinato
e comprensibile. Tutto, del resto, è stato predisposto da Dio, e tutto ritornerà a Dio:
questo significa che l’ordine è anteriore alla realtà stessa del mondo visibile, che Dio ha
n Pagina miniata dalle Eti- gerarchicamente plasmato secondo un preciso piano. Lo studioso medievale che ap-
mologie di Isidoro di Siviglia. pronta un’enciclopedia reintegra un ordine che precede la storia e l’uomo, dal mo-
n Miniatura che rappresenta mento che mondo della natura e mondo della storia sono opera non dell’uomo, ma di
il leone in un bestiario me-
dioevale. Dio. Di qui una nuova filosofia della storia, che si distingue da quella greco-latina.

▍ Il Fisiologo

Composto, forse ad Alessandria, tra il II e il III secolo d.C. in lingua greca da un autore sco-
nosciuto, Il Fisiologo può essere definito il capostipite dei bestiari medievali (ma comprende
anche esempi di lapidari e florari). Della sua fortuna (fu il libro più letto in tutto il Medioe-
vo dopo la Bibbia) testimoniano le innumerevoli traduzioni (quella in latino, già nel IV se-
colo) e le continue trasformazioni cui il testo fu soggetto. Il titolo compare nell’incipit di
molti capitoli («Il Fisiologo dice»); ma questa denominazione non va interpretata in senso
scientifico: nei Padri della Chiesa, in effetti, fisiologo è colui «che interpreta la natura alla lu-
ce della morale e della metafisica, iniziando così il lettore ai misteri divini» (Jacquart). Le no-
zioni naturalistiche vengono perciò adattate ai significati simbolici, costantemente forzate in
senso allegorico. Le fonti sono varie: non solo i testi biblici ma anche Plinio il Vecchio e Ari-
stotele. La struttura dei 48 brevi capitoli è assai semplice: a) citazione scritturale; b) descri-
zione dei costumi dell’animale; c) interpretazione allegorica e insegnamento morale.

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Duecento e Trecento

1.3 La mentalità medievale: la concezione della storia


Una concezione sacrale e teologica della storia Al modello ciclico prevalente nella cultura pagana
antica viene opposto un modello fondato sulle idee di linearità e di irreversibilità: la
storia non si ripete ciclicamente (idea di eterno ritorno) ma si muove in modo uni-
voco da un inizio (la creazione del mondo) a una conclusione (la fine del mondo). Tra
i due punti estremi, gli eventi fondamentali sono quelli della caduta (il peccato origi-
nale) e della redenzione (possibile solo grazie all’incarnazione di Cristo, un Dio che si
fa uomo per amore delle sue creature). Il processo storico non può dunque essere
compreso se non all’interno di una visione religiosa e provvidenziale: il mondo è una
creazione libera di Dio, un puro atto d’amore attraverso il quale Dio ha fondato il
tempo, la storia e l’uomo. Dopo il peccato originale, l’uomo si è allontanato dal suo
creatore, senza tuttavia esserne abbandonato: Dio è infatti rimasto vicino al suo popo-
lo (il popolo d’Israele), in attesa che la redenzione operata da Cristo annunciasse la sal-
vezza per ogni uomo e ogni popolo, indipendentemente dall’appartenenza etnica, dal-
la condizione sociale e dal sesso.
La storia di Roma è storia sacra Perché la redenzione si attuasse, secondo il pensiero medievale, era
stato necessario che il mondo venisse pacificato sotto un unico impero, e questo im-
pero era stato quello di Roma: come spiega Orosio nelle sue Storie contro i pagani
(scritte all’inizio del V sec.), la stessa storia romana non è dunque un insieme di even-
ti storici puramente terreni ma una storia sacra; Cristo ha deciso di incarnarsi nel mo-
mento in cui Augusto, strumento di Dio, ha pacificato l’impero [ Doc 1.3 ]. L’Impero ro-
mano (collocato al di sopra di ogni altro impero) è un impero sacro, destinato a dive-
nire col tempo cristiano: «Sacro Romano Impero» è infatti il nome con cui Carlo
Magno, come si è visto, decide di rifondare l’antico Stato romano.

Doc 1.3 Cristo e l’Impero romano

Orosio, E in quel tempo, cioè nell’anno in cui Cesare per volere di Dio diede al mondo la pa-
Le storie contro i pagani,
VI, 22, 5-8, ce più vera e più stabile, nacque Cristo, al cui avvento questa pace fece da ancella e al-
a cura di A. Lippold, la cui nascita gli angeli esultanti cantarono e gli uomini udirono: «Gloria a Dio nel-
trad. di G. Chiarini, vol.
II, l’alto dei cieli, e pace in terra agli uomini di buona volontà». Colui nelle cui mani era
Fondazione pervenuta la somma dei poteri [Augusto], non tollerò, o piuttosto non osò, esser chia-
Lorenzo Valla-Arnoldo mato «signore» degli uomini proprio nel tempo in cui nacque tra gli uomini il vero
Mondadori Editore,
Milano 1976 Signore di tutto il genere umano. E ancora, quel Cesare che Dio aveva predestinato a
così grandi misteri, ordinò per la prima volta di fare ovunque il censimento delle sin-
gole province e di iscrivervi tutti gli uomini, proprio nel medesimo anno in cui anche
Dio si degnò di apparire e di essere uomo. Allora, dunque, nacque Cristo, e, appena
nato, fu subito iscritto nel censo romano. È questo il primo chiarissimo riconosci-
mento che mostrò Cesare come principe di tutti gli uomini e i romani come signori
del mondo con la registrazione ufficiale di tutti gli uomini uno per uno, nella quale
volle figurare come uomo tra gli uomini anche colui che tutti gli uomini creò: ciò
che non fu concesso mai, in questo modo, dalla nascita del mondo e dall’inizio del ge-
nere umano, neppure al regno babilonico e macedonico, per non dire a qualsivoglia
altro piccolo regno. E senza alcun dubbio appare chiaro all’esperienza, alla fede e alla
ragione di ciascuno che è stato nostro Signore Gesù Cristo a far progredire questa
città – accresciuta e protetta dal suo favore – a tale apice di grandezza: a questa città
volle appartenere quando venne, farsi chiamare cioè cittadino romano per attestazione
del censo romano.

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1. Il Medioevo: società, cultura, mentalità STORIA

Nella visione cristiana, il processo storico non è dunque un insieme di fatti casuali
di cui protagonisti sono gli uomini stessi, ma è un processo posto fin dalle origini sot-
to la tutela di Dio: storia sacra, provvidenziale, che si sviluppa secondo un preciso di-
segno e che è destinata a concludersi con la fine del mondo, la fine del tempo e l’in-
gresso nell’eternità.
La città di Dio e la città dell’uomo Entro questa nuova visione della storia va inquadrato un tema
fondamentale della filosofia cristiana: il rapporto fra terra e cielo, o, per usare il lin-
guaggio del più grande filosofo cristiano di ogni tempo, Agostino, fra la città dell’uo-
mo e la città di Dio. Era stato proprio Agostino, del resto, a commissionare ad Orosio
la composizione delle Storie contro i pagani, che avrebbe dovuto, nel suo intento, affian-
care e integrare l’ultima sua grande opera, La città di Dio.
Agostino interpreta l’intera vicenda della storia umana (passata, presente e futura)
come una lotta tra le forze del Male e quelle del Bene, le prime asservite alla città ter-
rena, le seconde obbedienti alla città celeste. La città terrena è figlia dell’amore di sé,
dell’egoismo fino al disprezzo di Dio; la città celeste è invece figlia dell’amore di Dio
fino al disprezzo di sé. Gli abitanti della città terrena lavorano per la gloria degli uo-
mini e per il conseguimento dei beni materiali; gli abitanti della città celeste (che vi-
vono sulla terra come in esilio, stretti intorno alla madre Chiesa) operano per la gloria
di Dio e l’avvento della sua giustizia. La città terrena è sottomessa alla sola legge del-
l’uomo; quella celeste al dominio della grazia. L’Impero romano è stato l’esempio più
grande di un’organizzazione politica fondata sul diritto, ma quell’esempio è stato su-
perato dal modello della civitas Dei, fondata sull’amore di Dio, sul sacrificio della pro-
pria persona, sul disprezzo dei beni mondani. Le due città si opporranno sino alla fine
dei tempi, quando la civitas diaboli sarà vinta e sottomessa, e la civitas Dei trionferà per
l’eterno. Il giudizio negativo sullo Stato romano è tuttavia attenuato dalla necessità: la

▍ La città di Dio

L’ultima fase dell’attività di Agostino va considerata sullo sfondo delle prime grandi invasio-
ni barbariche: nel 410 i Goti di Alarico espugnano Roma e la mettono a sacco; nel 430 i
Vandali assediano Ippona, la città di cui è vescovo da più di trent’anni. La disgregazione del-
l’Impero romano sollecita Agostino su due versanti: da una parte bisogna rispondere alle ac-
cuse del superstite paganesimo, secondo il quale l’Impero andava incontro alla rovina perché
aveva dimenticato i suoi antichi dèi sostituendoli con il culto cristiano; dall’altra si tratta di
evitare che la dissoluzione dell’Impero provochi la rovina dello stesso cristianesimo. La città di
Dio, ultima grande opera del santo, è il tentativo di comporre in una sintesi organica eventi
storici e riflessioni teologiche: l’aspetto apologetico dell’opera (difendere il cristianesimo da-
gli attacchi del paganesimo) si intreccia con la necessità di spiegare il disegno provvidenzia-
le di Cristo e il nuovo significato della storia umana alla luce della rivelazione cristiana.
L’opera è divisa in due vaste sezioni: la prima (libri I-X) svolge un compito apologetico,
difende cioè la religione cristiana dalle accuse dei pagani contemporanei, e confuta la falsità
e l’immoralità del paganesimo stesso; la seconda (libri XI-XXII), divisa a sua volta in tre
quaterne, tratta della nascita delle due città (umana e celeste), del loro sviluppo e del loro
epilogo. Civitas, in latino, significa innanzitutto «cittadinanza»: gli uomini, secondo Agostino,
appartengono interiormente, nel loro animo, o alla civitas diaboli (“del demonio”, che fonda il
suo potere sui beni terreni e materiali, sull’amore egoistico, sul disprezzo di Dio), o alla civi-
tas Dei (fondata sui beni spirituali, sull’amore disinteressato, sulla totale dedizione a Dio).
Non dunque due vere città, semmai due comunità, due gruppi distinti secondo un criterio di
ordine morale (gli empi; i giusti) che agiscono per il trionfo del bene o del male. Solo alla fine
dei tempi la città celeste avrà ragione dei suoi nemici, destinati all’eterna dannazione. Ogni uo-
mo, finché vive sulla terra, è dunque in cammino verso la città celeste, che Dio ha promesso e
Cristo reso possibile con la redenzione.

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Duecento e Trecento

▍ L’autore Agostino di Ippona

Nato a Tagaste, in Numidia (le province africane, all’epoca, erano tra le regioni più colte dell’Im-
pero romano), nel 354 d.C., Aurelio Agostino in gioventù fu insegnante di grammatica e di reto-
rica, e aderì al movimento manicheista, una dottrina che spiegava la realtà come una lotta conti-
nua tra i princìpi del Bene e del Male. In seguito si trasferì in Italia, prima a Roma (383), poi a
Milano (384), allora sede imperiale, dove conobbe il vescovo Ambrogio e fu battezzato (387). Ri-
tornato in Africa, fu ordinato sacerdote (391) e acclamato vescovo a Ippona (395), dove rimase,
impegnato nell’attività pastorale e dottrinale, fino alla morte (430), avvenuta qualche mese prima
che la città, assediata dai Vandali di Genserico, fosse espugnata e saccheggiata. Personalità straor-
dinaria, per l’intensità della ricerca esistenziale e spirituale che lo condusse alla conversione (nar-
rata nelle bellissime Confessioni), per l’energia prodigata durante i trentacinque anni di attività
episcopale, e soprattutto per l’eccezionale qualità e quantità delle sue opere, Agostino fu autore
(per ricordare solo i titoli maggiori) delle Confessiones (in tredici libri, composti nel biennio 397-
398), del De doctrina christiana (La dottrina cristiana, in quattro libri, composti fra il 396 e il 426),
del De Trinitate (La Trinità, in quindici libri, scritti fra il 391 e il 419), del De civitate Dei (in venti-
due libri, scritti fra il 412 e il 427), senza contare il ricchissimo epistolario, le circa 500 prediche
(Sermones) e il vasto corpus delle opere polemiche.

n Sant’Agostino (in un codi-


miserevole condizione dell’uomo successiva al peccato originale richiede (come aveva
ce catalano del XV secolo).
già intuito san Paolo) l’esistenza di un’autorità politica in grado di frenare le passioni
umane. Benché svalutate, le strutture del diritto romano non vanno dunque rigettate:
esse devono essere utilizzate sulla terra per perseguire il bene e combattere il male, aiu-
tando gli uomini nel difficile cammino sulla via della fede e della salvezza.
Una concezione gerarchica e trinitaria della società Proprio ad Agostino si devono i fondamenti
del pensiero politico medievale: la svalutazione della città terrena rispetto a quella celeste
portava con sé non solo il primato del potere spirituale su quello temporale, ma anche
una visione immobile e gerarchica della società e della storia, fondata sui concetti cardi-
ne di obbedienza e sottomissione. L’ordine sociale, nel pensiero agostiniano, appariva co-
me il riflesso dell’ordine divino, un ordine gerarchico, compatto, immodificabile.
Un poema, Carmen ad Robertum regem [Poema al re Roberto], scritto agli inizi dell’XI
secolo da Adalberone, vescovo di Laon, illustra con chiarezza la visione trinitaria, sacra
e gerarchica del mondo sociale medievale. Come Dio è uno e trino, così la società
umana è una ma divisa in tre ordini: coloro che pregano (oratores), coloro che combat-
tono (bellatores), coloro che lavorano (laboratores). Ciascuno opera a gloria di Dio se-
condo il posto che gli è stato assegnato: la rottura di questo assetto provoca soltanto
disordine e rovina [ Doc 1.4 ].

Doc 1.4 La società trinitaria


Adalberone di Laon,
Carmen ad Robertum Così come creati, uguali sono tutti gli uomini.
Regem, in M.L. Picascia, E unica è la casa di Dio, sotto un’unica Legge;
La società trinitaria:
un’immagine medievale, e una sola è la fede. Eppure triplice è l’ordine degli uomini. [...]
Zanichelli, Triplice è dunque la casa di Dio. Unica essa è solo davanti alla fede,
Bologna 1980
ché pregano gli uni, combattono altri, altri infine faticano.
Solidali fra loro, hanno inseparabili compiti.
E con scambievole aiuto giova l’uno ai due altri
e tutti danno sostegno reciproco.
Unico e trino è dunque il vincolo che corre fra loro.
Così soltanto poté un tempo trionfare la legge,
e poté il mondo raggiungere la pace.

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1. Il Medioevo: società, cultura, mentalità STORIA

1.4 La scuola e la cultura


Dissoluzione della scuola romana di età imperiale La dissoluzione dell’impero portò con sé il di-
sgregarsi dell’apparato scolastico e un conseguente impoverimento culturale, i cui se-
gni più visibili furono una drastica diminuzione del numero degli alfabetizzati e un
uso sempre più scarso della lingua scritta. Il declino fu rapido e riguardò ogni provin-
cia dello Stato romano, anche se nel corso del VI secolo non mancarono intellettuali
che cercarono in qualche modo di arginare il fenomeno. In quest’epoca di crisi, gli
apporti più significativi furono quelli di Boezio e di Cassiodoro, forse le due ultime
grandi personalità culturali che il mondo latino seppe produrre, mentre già l’impero si
era andato frantumando nella confusa trama dei regni romano-barbarici.
A Boezio (477 ca-526), che operò negli anni di Teodorico, si deve il salvataggio di
una parte significativa della cultura e della filosofia greca; scrisse inoltre uno dei libri
fondamentali del Medioevo, La consolazione della Filosofia. Non meno importante fu
l’opera di Cassiodoro (490 ca-583), che nel monastero di Vivarium, in Calabria, da lui
fondato, si dedicò con i suoi confratelli a un’attività di trascrizione e di correzione dei
manoscritti, mettendo mano a diverse opere di carattere compilatorio, in cui rielabo-
rava la tradizione classica e patristica. Come già Boezio, Cassiodoro sentiva insomma
l’urgenza di salvare un patrimonio che correva il pericolo di disperdersi; e non è cer-
to senza significato che il suo ultimo lavoro, scritto poco prima del 580, sia un ma-
nuale di ortografia composto ad uso dei confratelli, sempre più in difficoltà con la lin-
gua scritta. Proprio a Vivarium nacquero le Istituzioni, un’opera di carattere enciclope-
dico in due libri dedicati, il primo ai testi sacri, il secondo alle arti liberali. Non man-
cavano, nell’opera, nozioni pratiche di agricoltura, di medicina e di erboristeria, ciò
che insomma poteva risultare utile ai monaci del convento. Di fondamentale impor-
tanza furono anche le Varie, una raccolta di lettere che restò il modello di stile episto-
lare almeno fino al sec. XIII.
Nei monasteri come nelle città, la conservazione del patrimonio culturale doveva
ormai fare i conti con la scarsa conoscenza della lingua, il diradarsi del pubblico colto,
la difficoltà di provvedersi dei libri o dei materiali per trascriverli, il progressivo isola-
mento culturale dei singoli centri. Come ha scritto Erich Auerbach, «coloro che par-
tecipano alla vita intellettuale [nei secoli VI, VII e VIII] sono così pochi che, dispersi
per le isolate scuole dell’Europa occidentale, hanno fra di loro soltanto relazioni irre-
golari; anche se più tardi diventano più numerosi, restano una società chiusa di maestri
e scolari».
Le scuole medievali: gli scriptoria Alla fine del VI secolo il sistema scolastico tardo antico, sostenuto
dall’autorità imperiale, poteva dirsi scomparso. Ad esso si sostituiva una nuova forma di
scolarizzazione, direttamente gestita dall’autorità ecclesiastica. Due furono le sedi degli
studi: da una parte i monasteri; dall’altra i centri episcopali, le cui scuole vennero
chiamate «cattedrali». Compito dei monasteri era quello di avviare i novizi alla vita
ascetica e contemplativa; compito delle scuole cattedrali quello di preparare i giovani
all’attività pastorale. Naturalmente si poteva dare anche il caso di giovani educati nei
centri ecclesiastici senza che poi abbracciassero una carriera religiosa: ma si trattava di
eccezioni. L’aristocrazia germanica, del resto, si mostrò per secoli sprezzante e diffi-
dente nei confronti degli studi, riservati appunto agli uomini di Chiesa: allo studio
delle lettere, il nobile opponeva l’esercizio atletico, la destrezza militare, l’equitazione,
la caccia, una cultura dell’audacia guerriera e della vigoria fisica.
Durante l’Alto Medioevo, i centri culturali più fiorenti furono i monasteri, luoghi di
ritiro spirituale, di meditazione, di preghiera, ma anche di lavoro, secondo le indica-
zioni date nel VI secolo da san Benedetto (490/500-560 ca; fondatore intorno al 530
del convento di Montecassino, dove con il passare dei secoli si costituirà la più ricca

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Duecento e Trecento

biblioteca medievale d’Europa). In tutti i grandi monasteri fiorì dunque uno scripto-
rium (nel latino medievale, “scrittoio”, ambiente dove si scrive e si conservano i testi
scritti, pertanto anche “biblioteca”) dove i monaci si alternavano nel lavoro di copiare
i codici e di produrre i manoscritti.
Chierici e laici Il sistema degli studi era dunque interamente volto a finalità sacre e religiose, e ge-
stito da chierici (dal latino clericus, che appartiene al clero). Non a caso «chierico», in
età medievale, divenne sinonimo di persona dotta, dedita all’attività intellettuale. La di-
stinzione tra laici e chierici costituisce uno dei fondamenti dell’ideologia medievale:
in senso generico stabilisce la differenza tra spirituale e temporale, sacro e profano
(dove il primo termine risulta sempre superiore al secondo); in senso culturale espri-
me la distinzione fra persone istruite e persone incolte. Essere chierici, in età medie-
vale, significava conoscere il latino, saper scrivere (la cosa non deve sorprendere: mol-
ti, all’epoca, sapevano soltanto leggere, a cominciare dall’illustre esempio di Carlo Ma-
gno), applicarsi agli studi. Ai chierici, cioè agli uomini di Chiesa, sono dunque affidati
per secoli la trasmissione del sapere e il monopolio della cultura. La coincidenza di
chierico e intellettuale sopravvisse anche quando tale monopolio cominciò a incri-
narsi, in seguito all’affermarsi delle nuove realtà comunali, delle lingue volgari (R 2.) e
di nuove forme di organizzazione scolastica. A quest’epoca, anche i modi della produ-
zione libraria cominciarono a cambiare, e si creò un personale specializzato nella co-
piatura dei codici non più interno ma esterno alle scuole cattedrali e monastiche.
Cristianesimo e paganesimo: il «sacro furto» Nei primi secoli il cristianesimo si era sviluppato in
netto antagonismo con il mondo pagano e romano: solo dopo il riconoscimento del-
la religione cristiana (con l’editto di tolleranza, promulgato a Milano da Costantino
nel 313) e l’ingresso dei cristiani nell’apparato amministrativo imperiale, si comincia a
porre la questione dei rapporti con la cultura pagana, che alcuni Padri della Chiesa
vorrebbero rifiutare in blocco per salvaguardare la purezza della dottrina cristiana. La
soluzione storica al problema è quella offerta da Agostino, che nel De doctrina christiana
[La dottrina cristiana] teorizza il concetto di «sacro furto». Pur pronunciandosi infatti
per un netto rifiuto del patrimonio culturale pagano in sé considerato, Agostino rico-
nosce che la cultura classica, accanto a falsità e menzogne, comprende sparse verità che
debbono essere recuperate e restituite al loro pieno significato: dunque è lecito al cri-
stiano “rubare” ai pagani tutto ciò che può utilizzare in modo nuovo e più degno, an-
zi per un fine “sacro”: al servizio cioè della vera fede.
Il metodo allegorico Lo strumento mediante il quale i Padri della Chiesa si accostarono ai testi classi-
ci fu il metodo allegorico, che permise di assorbire e di riconvertire buona parte del
patrimonio classico evitando che andasse perduto.
L’allegoria (dal greco állon “altro” e agoréuo “parlo”) nel mondo classico era innanzi-
tutto una figura retorica dell’analogia (come la similitudine e la metafora): consisteva
nel dire una cosa per sottintenderne un’altra. L’allegoria operava insomma su due pia-
ni: uno letterale, chiaramente percepibile, e un altro più nascosto, meno visibile, che
necessitava di chiavi interpretative per essere compreso.
Già nel mondo pagano tardo antico l’allegoria era diventata un vero e proprio me-
todo di lettura; ma nel mondo giudaico-cristiano il metodo allegorico si prestò im-
mediatamente a divenire lo strumento per eccellenza degli studi, dapprima applicato
alla lettura dei testi sacri, in seguito anche ai testi pagani.
L’episodio più noto del processo di allegorizzazione del patrimonio classico fu
l’interpretazione cristiana della IV ecloga di Virgilio, letta come un preannuncio della
nascita di Cristo (il fanciullo del carme, in realtà figlio del console cui l’ecloga era de-
dicata, destinato secondo il poeta a rinnovare il mondo nel segno della pace e della
giustizia, e a riportare sulla terra la mitica età dell’oro). L’interpretazione, resa possibi-
le da casuali consonanze testuali, rafforzò l’immagine medievale di un Virgilio mago e
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1. Il Medioevo: società, cultura, mentalità STORIA

profeta, la cui tomba, a Napoli, divenne ben presto luogo di culto, quasi fosse la tom-
ba di un santo.
L’interpretazione allegorica dei testi sacri fu invece resa necessaria, in ambito cri-
stiano, dall’esigenza di raccordare i libri del Vecchio Testamento con quelli del Nuovo,
per dimostrare non solo la continuità ma anche la perfetta specularità delle due tradi-
zioni: la storia sacra del Nuovo Testamento non è altro che il compimento di quella
del Vecchio, che a sua volta svela il suo pieno significato solo alla luce della seconda.
Il sistema delle arti liberali Già nel mondo classico le arti (o discipline) liberali avevano costituito il
fondamento degli studi. Erano così chiamate perché soltanto esse erano convenienti a
un uomo libero, in quanto attività disinteressate (prive cioè di fini economici) e pura-
mente intellettuali (cioè non manuali). Nel mondo romano esse erano nove, ma in età
medievale si ridussero a sette e furono organizzate in due blocchi, le Arti del Trivio
(grammatica, retorica, dialettica) e le Arti del Quadrivio (aritmetica, musica, geome-
tria, astronomia). Le discipline escluse furono medicina e architettura, evidentemente
troppo compromesse con il mondo corporeo e materiale (il corpo umano, gli edifici).
Il primo ad elaborare il sistema delle arti liberali fu Marziano Capella, che nella prima
metà del V secolo compose una vasta enciclopedia dell’erudizione classica destinata a
influenzare tutto il Medioevo. Il sistema ricevette poi il suo definitivo ordinamento in
età carolingia.
Le discipline del Trivio erano fondate sulla parola, quelle del Quadrivio sulla quan-
tità e sul numero. La grammatica era volta all’apprendimento del latino, ed era dunque
la base degli studi: si studiavano i classici per impadronirsi quanto più correttamente
possibile di una lingua che, col passare dei secoli, non era più una lingua madre (R 2.)
n Il sistema delle arti libera-
li. e richiedeva dunque un’applicazione lunga e appropriata. Lo studio era essenzialmen-
te mnemonico ed era finalizzato alla lettura dei testi sacri e della vasta letteratura ese-
getica (cioè i commenti dei testi biblici). Anche le Arti del Quadrivio avevano valore
propedeutico e sacro: al pari delle parole, i numeri erano studiati per le loro proprietà
simboliche. L’astronomia era al servizio della teologia: nove schiere di angeli regolava-
no i moti e le influenze dei nove cieli secondo un piano provvidenziale (Guinizzelli
R T 7.1 , per non dire di Dante). La musica stessa era concepita come una disciplina
contemplativa, un puro studio di rapporti armonici che avvicinava l’uomo alla musica
celeste.
Le «autorità» del sapere medievale La cultura del Medioevo cristiano appare non solo finalizzata a
un sapere unitario, di carattere religioso e morale, ma anche fondata su alcuni testi
considerati specialmente autorevoli (le auctoritates o «autorità» del sapere medievale) ai
quali si fa appello di continuo attraverso citazioni e richiami, in quanto dotati di una
loro sacrale e profetica verità.
Nell’edificio del sapere, le fondamenta (e dunque le supreme «autorità») sono ovvia-
mente costituite dai libri sacri dell’Antico e del Nuovo Testamento, ritenuti superiori
ad ogni altro perché direttamente ispirati da Dio. Seguono gli scritti dei Padri della
Chiesa (Gerolamo, Ambrogio, Agostino, Gregorio Magno) o di quegli autori (come
Boezio) che godevano comunque, pur non potendo essere assimilati ai Padri, di un
grande credito. Non sempre i testi di questi autori erano conosciuti nella loro interez-
za: proprio il loro carisma autorizzava anzi la circolazione di antologie, estratti, spesso
semplici raccolte di frasi significative che potevano essere utilizzate in qualsiasi contesto
per confermare la verità di un’asserzione.
Se dunque le grandi verità sono già state dette, e stanno alle nostre spalle, compito
di chi scrive non è metterle in discussione o cercarne di nuove, ma attivarle e vitaliz-
zarle sul piano teologico e morale. La civiltà medievale non è solo la civiltà del libro,
ma anche la civiltà del commento e della glossa (“nota esplicativa”), ed è proprio qui
che esprime con maggior vigore la sua creatività.
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Duecento e Trecento

La rivoluzione del sistema scolastico nel XII secolo Una prima rivoluzione del sistema scolastico
avviene nel XII secolo, quando tramonta la scuola monastica, fondata sul primato
della grammatica e sull’esegesi biblica, e si impone la scuola urbana, fondata sul pri-
mato della dialettica e della discussione razionale dei dogmi. Queste scuole urbane so-
no raramente laiche (come le scuole di diritto a Bologna e quelle di medicina a
Montpellier): per lo più si tratta delle vecchie scuole cattedrali dipendenti dai vescovi
(le più famose furono quelle francesi di Chartres, di Reims, di Orléans, di Laon, di
Notre-Dame di Parigi; ma assai nota fu anche la scuola cattedrale di Liegi). Nessuno,
all’interno di queste scuole, mette in discussione il primato della teologia: è il modo
nuovo di affrontare le questioni che rivela lo scarto rispetto ai secoli precedenti. Il
campione di questo nuovo modo di insegnare – che desta notevoli preoccupazioni e
persino scandalo negli ambienti ecclesiastici più conservatori – è Abelardo, l’autore,
fra l’altro, del Sic et non («Sì e no»), un opuscolo nel quale raccoglieva, intorno a 150
questioni teologiche, le posizioni contrastanti di diversi Padri della Chiesa (di qui il ti-
tolo). Quel che viene contestato ad Abelardo non sono tanto dei precisi contenuti,
quanto la presunzione di contrapporre la ragione al principio di autorità, la volontà di
risolvere problemi di natura teologica affidandosi non alla mediazione dei Padri della
Chiesa, ma alla libera interpretazione dei versetti biblici.
La nascita delle Università Tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo le scuole cattedrali evolvono
rapidamente in associazioni corporative (dette in latino universitates), comunità auto-
nome di maestri e di studenti provviste di un loro statuto interno. Le più importanti
furono quelle di Parigi, Oxford e Cambridge, specializzate negli studi teologici, e di
Bologna, specializzata negli studi giuridici. L’università di Parigi, come vedremo, di-
venne nel corso del XIII secolo il più importante centro di studi del mondo cristiano.
Dell’argomento avremo modo di occuparci altrove (R 3.); per ora basti dire che
con la nascita delle università si affermano nuove figure di insegnanti, ormai professio-
nisti e stipendiati, che non si sentono più solo esegeti e ripetitori ma che vogliono
pensare in autonomia e in libertà, sperimentare nuove forme di ricerca, attingere a
fonti non più soltanto scritturali o patristiche. Con l’università, sia pure in modo con-
traddittorio, si sviluppa insomma uno spirito critico finora sconosciuto, alimentato an-
che dall’apparizione di nuovi testi filosofici, in particolare di Aristotele (R 3.4), da se-
coli perduti nell’Europa latina. Diversamente dal monaco, che legge per fini spirituali
e insegna a giovani destinati anch’essi a diventare monaci, il professore universitario
n Lezione universitaria.
(non sempre un ecclesiastico) legge spinto da interessi soprattutto intellettuali, e inse-
gna a studenti non necessariamente destinati alla carriera ecclesiastica. Spesso i chieri-
ci si spostano di università in università (clerici vagantes), attratti sia da più favorevoli op-
portunità di ricerca, sia dalla prospettiva di maggiori guadagni. Da questo mondo vi-
vace e inquieto nasceranno le grandi opere filosofiche del XIII e del XIV secolo, che
eserciteranno una vasta influenza anche sui poeti (basti pensare a Guido Cavalcanti e a
Dante, che fu, secondo tradizione, uditore all’università teologica parigina).
Accanto alle Università, si svilupperà anche un sistema di scuole gestito diretta-
mente dalle istituzioni cittadine e destinato ai laici: per lo più scuole di basso profilo,
funzionali alle esigenze dei ceti mercantili, che chiedono una cultura pratica di base,
fondata essenzialmente sul saper scrivere e far di conto; ma anche scuole che promuo-
vono attività fondamentali della vita civile, come il notariato.

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1. Il Medioevo: società, cultura, mentalità VERIFICA

VERIFICA

1.1 Introduzione all’età medievale


1 Che cosa significa Medioevo? In quale epoca è stata elaborata questa nozione? Entro quali
termini cronologici possiamo comprendere l’età medievale?
2 Si è soliti distinguere fra Alto e Basso Medioevo: in quale epoca si può approssimativa-
mente collocare il passaggio dall’uno all’altro? Sintetizza i caratteri dominanti della vita e
della cultura altomedievale.
3 Che cosa intendiamo propriamente con età feudale? Quali sono i caratteri fondamentali
del feudalesimo?
4 Che cosa intendiamo propriamente con l’espressione «rinascita carolingia»? A quale epoca
ci riferiamo? Chi furono i protagonisti di tale rinascita?
5 Indica il ruolo assunto dalla Chiesa fra IV e V secolo, quando si dissolsero progressivamen-
te le istituzioni dell’Impero romano.

1.2 La mentalità medievale: l’interpretazione simbolica della natura


6 Che cosa rappresenta il mondo della natura per gli uomini del Medioevo?
7 Che cosa sono i bestiari, i lapidari e i florari? Che cosa contenevano? Qual era la loro fi-
nalità?
8 Descrivi la struttura e i caratteri più significativi del Fisiologo.
9 Spiega il significato delle seguenti parole: teocentrismo, simbolismo, enciclopedismo.
10 Perché nel Medioevo assunse tanta importanza lo studio etimologico delle parole? Chi fu
l’autorità massima in questo ambito di studi?

1.3 La mentalità medievale: la concezione della storia


11 Quale concezione della storia si afferma nel Medioevo? Come si distingue dall’interpreta-
zione della storia che si era sviluppata nel mondo greco-latino? Quali opere favorirono
l’affermarsi di questa nuova visione della storia?
12 Perché la storia di Roma è considerata sacra in età medievale?
13 Che cosa intende sant’Agostino quando parla di «città di Dio»? Che cosa oppone a tale
città?
14 Che cosa intendiamo con l’espressione «società trinitaria»?

1.4 La scuola e la cultura


15 Quali scuole fiorirono in età altomedievale? In quale epoca si afferma una nuova idea di
scuola? In seguito a quali trasformazioni economico-sociali?
16 Indica l’atteggiamento assunto dalla cultura cristiana nei confronti di quella pagana.
17 Cosa sono le Arti liberali? Sapresti indicarle?
18 Chi sono i chierici? Qual è il loro ruolo nella società medievale?
19 Spiega l’importanza assunta dal metodo allegorico nella cultura cristiana. In particolare: a
quali testi veniva applicato? Con quali finalità? Sapresti fare qualche esempio concreto?
20 Che cosa si deve intendere con il concetto di auctoritas («autorità»)? Chi sono le grandi
auctoritates del Medioevo? Quando la nozione di auctoritas comincia a entrare in crisi? In
seguito a quali eventi storico-culturali?
21 Indica i nuovi sistemi scolastici che si affermano tra il XII e il XIII secolo nell’Europa cri-
stiana.
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Duecento e Trecento

Le lingue romanze e i primi


2 documenti del volgare italiano

n Affresco con iscrizioni nella


basilica sotterranea di San Cle-
mente a Roma.

Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente e il babile che sia il cosiddetto Indovinello veronese di età
progressivo costituirsi di regni romano-barbarici, il ter- carolingia, dobbiamo allora aspettare i Placiti Cassinesi
mine «romano» perdette il suo tradizionale contenuto redatti in ambito notarile fra il 960 e il 963. Dopo tale
politico per indicare esclusivamente chi parlava la lin- epoca, i documenti in volgare si fanno sempre più fre-
gua latina. Il latino parlato o “volgare” (cioè usato dal quenti: particolarmente significativi risultano l’Iscrizio-
popolo nella vita di tutti i giorni) era però ben diverso ne di San Clemente, parte in latino e parte in volgare, e
da quello scritto dei poeti o dei giuristi, degli storici o la Postilla Amiatina, entrambi collocabili verso la fine
degli oratori, giunto fino a noi grazie alle opere dei dell’XI secolo, epoca in cui in Francia già vengono
maggiori scrittori. Con il venir meno di un potere cen- composti i primi testi letterari in lingua d’oc e d’oïl.
trale e della compatta organizzazione scolastica impe- Soltanto agli inizi del XIII secolo compaiono signifi-
riale, la differenza tra latino parlato e latino scritto, che cativi testi letterari in lingua italiana, quasi contempo-
riguardava tutti i fenomeni linguistici (lessico, sintassi, raneamente in Sicilia (con la scuola siciliana: R 6) e in
pronuncia), andò man mano aumentando, e proprio dal Umbria (con il Cantico di san Francesco: R 4). Le ra-
latino volgare si andarono costituendo nuove entità lin- gioni di questo ritardo sono varie: fra di esse, la parti-
guistiche, le cosiddette lingue romanze o neolatine, tra colare frantumazione politica del nostro paese e la pre-
le quali emersero storicamente il francese, il provenza- senza – a Roma – di un’autorità ecclesiastica che più
n Lezionario con capolet- le, il catalano, il castigliano, il portoghese, il rumeno e di ogni altra mirava a conservare la lingua latina, con-
tera miniato da un codice
della scuola di San Gallo. l’italiano. La varietà degli esiti linguistici dipese da due siderata lingua sacra della comunità cristiana. Questo
fattori: da una parte l’influsso delle lingue in uso prima spiega la diffusione, nel XII secolo, di una vasta produ-
n Scrivani (da un codice dell’arrivo del latino (fenomeno di substrato); dall’altra zione poetica in lingua provenzale nell’Italia del nord:
del XII secolo).
l’influsso delle lingue germaniche dei barbari invasori una produzione che resiste ancora lungo il corso del
(fenomeno di superstrato). Proprio all’età carolingia ri- Duecento, parallelamente all’affermarsi della nostra
salgono le prime testimonianze e i primi documenti at- lingua letteraria in Toscana (R 6-7).
testanti l’avvenuto passaggio dal latino volgare alle lin-
gue romanze: il concilio di Tours dell’813 raccomandò
infatti ai vescovi di predicare nelle lingue comprensibili
al popolo, che ormai non poteva più intendere la lingua
latina di un tempo; nell’842 i figli di Carlo Magno fece-
ro giurare i propri eserciti negli idiomi da essi realmen-
te parlati (Giuramenti di Strasburgo).
Ancora oggi si dibatte quale sia la prima testimo-
nianza scritta della nostra lingua volgare: se è impro-

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2. Le lingue romanze e i primi documenti del volgare italiano STORIA

2.1 Dalla lingua latina alle lingue volgari


La diffusione della lingua latina Nella sua espansione, Roma aveva diffuso nelle province conquista-
te non solo leggi e istituzioni ma anche una lingua comune, il latino, che si impose in
ogni parte dell’impero, trovando resistenza soltanto nelle regioni di lingua greca, in for-
za del prestigio e dell’autorevolezza culturale della civiltà ellenica. La lingua rappre-
sentò il fattore principale del processo di «romanizzazione», cioè di graduale assimila-
zione, politica e culturale, dei popoli con i quali il mondo latino era venuto a contatto.
La Romània come entità linguistica Con la graduale estensione del diritto di cittadinanza a tutti gli abi-
tanti dell’Impero romano (processo che venne a compimento nel 212 d.C.), il termine ro-
manus aveva perduto il suo significato originario, etnico e giuridico, per mantenere sol-
tanto quello politico: «romano», in opposizione a «barbaro», indicava semplicemente colui
che faceva parte, in quanto uomo libero, dell’organismo imperiale. Con la dissoluzione
dell’Impero, fra V e VI secolo, il termine perdette anche il suo tradizionale contenuto po-
litico per acquisire un significato puramente linguistico: «romano» era chi parlava la lingua
latina, distinta dalle lingue germaniche degli invasori. Da romanus derivò il sostantivo
Romània, che designava l’insieme dei territori in cui si parlava la lingua latina.
Latino scritto e latino parlato Quando tuttavia parliamo di lingua latina, dobbiamo fare alcune pre-
cisazioni, e distinguere innanzitutto tra il latino scritto, a noi noto grazie allo straordi-
nario patrimonio letterario trasmesso fino ai nostri giorni, e il latino parlato, di cui in-
vece possediamo solo scarse testimonianze. Il latino letterario si era mantenuto nel
corso dei secoli relativamente stabile, sia grazie al formarsi di un canone letterario
(fondato su autori come Virgilio, Orazio, Sallustio, Cicerone), sia grazie alla diffusione
capillare di un apparato scolastico e di un sistema bibliotecario finanziati dallo Stato; il
latino parlato, al contrario, aveva continuato ad evolversi. Questo latino, che chiamere-
mo «volgare» (dal latino vulgus “popolo”), senza alcuna connotazione spregiativa del
termine, era il latino usato nella pratica quotidiana, non solo dalle persone incolte ma
anche da quelle istruite: una lingua che poteva variare (nella pronuncia, nel lessico,
nella sintassi) a seconda del ceto sociale, del grado di cultura e del luogo di provenien-
za dei parlanti. Nel momento in cui l’Impero si frantumò in diverse realtà particolari-
stiche, e venne meno la capacità di aggregazione del potere centrale, la distanza fra la-
tino letterario e latino parlato si accrebbe, fino a che il latino letterario non fu più
compreso dai parlanti, salvo da coloro che lo studiavano e lo scrivevano.
Il latino medievale Da questo momento il latino letterario divenne una lingua “straniera” che bisogna-
va imparare. Non una lingua morta, tuttavia, perché continuò a evolversi nelle forme
varie e complesse del latino medievale, soprattutto dopo la rinascita degli studi favorita
in età carolingia da Carlo Magno (R 1.1). Non fu tanto il prestigio di una lingua anti-
ca e divenuta ufficialmente lingua sacra della Chiesa a consentire la lunga durata del la-
tino, ma la sua ricchezza e la sua capacità di adattamento: il variegato panorama della
letteratura mediolatina (spesso trascurato) può infatti comprendere l’elaborato latino
dei documenti giudiziari e notarili, il lucido e rigoroso latino della filosofia scolastica,
come il latino vivacissimo e creativo dei goliardi (R 8.2), senza contare i generi che
continuavano la tradizione classica e cristiana (storiografia, epica, innologia ecc.).
Dal latino volgare alle lingue romanze È dunque dal latino volgare, e non da quello scritto, che
dobbiamo partire per comprendere i complessi processi di trasformazione che porta-
rono alla formazione dei volgari romanzi.
Ci chiederemo innanzitutto: perché da una sola lingua (il latino) si produssero di-
verse, nuove entità linguistiche? Perché la frantumazione dell’unità imperiale sottopo-
se il latino volgare sia all’influsso delle lingue in uso prima dell’arrivo del latino (effet-
to di substrato) sia all’influsso delle lingue di provenienza germanica (effetto di super-
strato). Nella Francia del Nord, ad esempio, il latino parlato si sviluppò sotto la spinta

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Duecento e Trecento

del substrato celtico (anteriore alla conquista romana) e del superstrato francone (la
lingua parlata dagli invasori Franchi). Questo spiega perché non in tutte le regioni
dell’Impero occidentale si imponessero lingue derivate dal latino: nelle isole britanni-
che, ad esempio, dove la conquista romana era stata parziale e l’elemento latino non si
era mai pienamente radicato, emersero con più forza le lingue indigene, e meglio at-
tecchirono quelle di derivazione germanica.
Le lingue volgari derivate dal latino sono dette neolatine o romanze: neolatine per-
ché si sono tutte evolute da una stessa lingua (estremizzando, potremmo dire che l’ita-
liano è un latino moderno); romanze perché parlate dagli abitanti della Romània, il ter-
ritorio dell’Impero romano che era andato disgregandosi sotto l’effetto delle invasioni
barbariche. Quando in età medievale troviamo espressioni come romana lingua o rustica
romana lingua, non dobbiamo pensare al latino, ma alle lingue romanze da esso derivate,
contrapposte al latino stesso o alle lingue germaniche (thiotisca o teudisca lingua).
Semplificando, dalla lingua comune latina derivarono nel corso dei secoli diverse
lingue, fra cui le più importanti furono: il rumeno, il ladino (o retoromanzo), il dalma-
tico (oggi estinto), l’italiano, il sardo, il francese (o lingua d’oïl), il provenzale (o lingua
d’oc), il catalano, il castigliano (il moderno spagnolo), il portoghese.
Trasformazioni nel passaggio dal latino al volgare italiano Limitandoci al volgare italiano, pro-
viamo a descrivere i più significativi mutamenti rispetto al latino:
– nel sistema linguistico latino, le vocali erano distinte sulla base della quantità, cioè
la durata dell’articolazione (breve o lunga). Tale distinzione poteva determinare anche
una differenza di significato: ad esempio pōpulus (“pioppo”) e pŏpulus (“popolo”);
mălum (“male”) e mālum (“melo”), vĕnit (“viene”, presente indicativo) e vēnit (“ven-
ne”, perfetto). Nella lingua italiana tale criterio scompare: alla quantità si sostituisce il
timbro, cioè la pronuncia (aperta o chiusa). Si determina così un sistema di sette voca-
li: a, i, u, e chiusa, e aperta, o chiusa, o aperta, da cui possono dipendere, ancora una vol-
ta, differenze di significato: ad esempio ròsa (il fiore) si distingue per la o aperta da rósa
(participio passato femminile del verbo ródere), da leggersi con o chiusa;
– i dittonghi latini si chiudono nel seguente modo: ae, oe si trasformano in e (aperta
o chiusa); au in o aperta. Es.: caelum > cielo; poena > pena; aurum > oro;

n L’Europa delle lingue ro-


manze. La cartina evidenzia
le regioni e le aree linguisti-
che della Romània.

LINGUA D’OÏL
RETOROMANZO
PITTAVINO

FRANCO-
PROVENZALE
GALIZIANO RUMENO
LINGUA
D’OC
DALMATICO
ESE

ITALIANO
H

CASTIGLIANO
TOG

O
AN
POR

L
TA
CA

SARDO
ANDALUSO

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2. Le lingue romanze e i primi documenti del volgare italiano STORIA

– le vocali e le sillabe atone tendono a cadere (sincope): solidum > soldo; positum >
posto; calidum > caldo;
– scompare il genere neutro (la maggior parte dei vocaboli passa al maschile);
– scompare il sistema dei casi che determinava le funzioni logiche della lingua latina,
ora indicate mediante l’uso degli articoli (totalmente assenti in latino) e delle preposi-
zioni; e cadono dunque anche le terminazioni dei casi;
– scompaiono, nel sistema verbale, i deponenti (verbi di forma passiva, ma di signifi-
cato attivo), mentre resistono le quattro coniugazioni. Anche in questo caso si assiste a
un processo di semplificazione (scompaiono ad esempio le forme del supino o del-
l’imperativo futuro). Il tempo futuro è costruito non più con le tradizionali desinenze
ma con forme perifrastiche (infinito del verbo + habeo): dormire habeo > dormirò. La co-
niugazione passiva dei verbi viene costruita con l’ausiliare essere.

2.2 Le prime testimonianze delle lingue volgari


«Bilinguismo inconscio» e «bilinguità consapevole» Come si è visto, mentre il latino scritto con-
tinuava durante l’età medievale la sua ricca e complessa storia, il latino parlato si mo-
dificava gradualmente fino a dare origine a nuovi sistemi linguistici. Col tempo si
andò perciò determinando una situazione di bilinguismo: i chierici continuavano ad
usare il latino (lingua sovranazionale della cultura) quando scrivevano o comunicavano
con altri dotti, mentre facevano ricorso ai vari idiomi locali nella vita quotidiana e fa-
miliare. La domanda che gli storici della lingua si sono posti è in quale momento i
parlanti si siano resi conto che le lingue volgari costituivano di fatto nuovi sistemi lin-
guistici ben distinti dal latino, da cui pure provenivano. Quando, insomma, per ricor-
rere alle parole di un illustre linguista, Giacomo Devoto, si sia passati da un «bilingui-
smo inconscio» a una situazione di «bilinguità consapevole».
Una testimonianza e un documento: il Concilio di Tours e i Giuramenti di Strasburgo Non
è certo un caso se ciò accadde per la prima volta in terra di Francia, all’epoca della ri-
nascita carolingia degli studi (IX secolo): il rinnovato impulso dato alla lingua latina,
da recuperare nelle sue forme più illustri, consentì di misurare il divario tra il latino
della grande tradizione letteraria e le lingue parlate, sia pure derivate dal latino stesso.
Un documento emesso durante il concilio episcopale di Tours (813) esortava il cle-
ro ad esprimersi non più in latino ma nelle lingue parlate dalla popolazione, racco-
mandando di «tradurre comprensibilmente» le omelie «in lingua romanza o tedesca,
affinché tutti più facilmente possano comprendere quello che viene detto».
La consapevolezza che le lingue volgari erano ormai altra cosa dalla lingua latina ap-
pare in modo ancora più evidente dal primo documento ufficiale in volgare romanzo
che conosciamo, i cosiddetti Giuramenti di Strasburgo (14 febbraio 842), riportati da
un testimone oculare, lo storico Nitardo, nelle sue Historiae in lingua latina. L’occasio-
ne fu offerta dai giuramenti che due nipoti di Carlo Magno, Ludovico il Germanico e
Carlo il Calvo, fecero pronunciare ai rispettivi eserciti per sancire un patto di alleanza.
Perché fossero comprensibili a tutti, tali giuramenti furono elaborati e pronunciati sia
in romana lingua sia in teudisca lingua dai due eserciti, uno francofono (quello di Carlo),
n Il Giuramento di Stra- l’altro parlante lingua germanica (quello di Ludovico). Da questi giuramenti risalta sia
sburgo.
l’enorme differenza fra le due lingue (derivate da due diversi ceppi linguistici), sia la di-
stanza che si era ormai prodotta fra la lingua francese (o galloromanza) e quella latina.
I primi documenti del volgare italiano Alla fine dell’VIII secolo o agli inizi del IX risale un testo ri-
trovato solo nel 1925 nella Biblioteca Capitolare di Verona e indicato generalmente
come «Indovinello veronese». I primi due versi sono composti in un latino intriso di
volgarismi, mentre il terzo è latino perfettamente corretto: Se pareba boves, alba pratalia
araba; / albo versorio teneba, et negro semen seminaba./ Gratias tibi agimus omnipotens sempi-
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Duecento e Trecento

terne Deus. («Spingeva innanzi i buoi, bianchi prati arava; / il bianco aratro teneva, e
nero seme seminava. / Ti rendiamo grazie, o Dio onnipotente ed eterno.») Il grazioso
indovinello si fonda sull’analogia fra aratura e scrittura: l’aratore (soggetto sottinteso)
che spinge innanzi i buoi è lo scrittore; i buoi sono le dita; l’aratro è la penna d’oca; i
bianchi prati sono le pergamene; il nero seme è l’inchiostro. Gli studiosi peraltro si
chiedono se l’ignoto amanuense abbia scritto in un latino inconsapevolmente intessu-
to di volgarismi, o se abbia scherzosamente miscelato registri linguistici diversi; nel
primo caso il testo potrebbe essere considerato un prezioso documento della fase di
transizione dal latino al volgare.
Dobbiamo perciò aspettare circa un secolo e mezzo, con i quattro Placiti Cassinesi
(960-963), per trovare le prime testimonianze scritte della nostra lingua volgare . Che
si tratti di sentenze e di documenti notarili, non deve stupire: sono proprio gli am-
bienti come quelli giudiziari e notarili, costretti a mediare fra diverse lingue, diverse
culture, diversi destinatari sociali, a preoccuparsi per primi di elaborare un volgare
scritto. Giudici e notai, come vedremo, saranno molti dei primi scrittori in lingua ita-

IL LESSICO DELLA LINGUA ITALIANA

Latino classico e latino cristiano Già il cristia- così evidenti. Nel latino colto, ad esempio, la bellezza
nesimo aveva provocato nella lingua latina, anche nelle sue varie accezioni era indicata con il termine
scritta, numerosi mutamenti che riguardavano sia la pulcher, quella fisica, specificamente corporea, con il
grammatica che il lessico. Quest’ultimo si era arricchi- termine formosus; il termine latino parlato era invece
to di forme derivate dall’ebraico (Satanas, seraphin, ho- bellus, quello che finì per imporsi nella maggior parte
sanna, amen) e dal greco, ad esempio per indicare la delle lingue romanze: bello in italiano; beau in francese;
nuova vita comunitaria (ecclesia, apostolus, eucharistia, bel in provenzale. Nelle lingue iberiche, tuttavia, pre-
martyr, clerus, diaconus, episcopus). Numerosi furono i valsero le derivazioni da formosus: hermoso (spagnolo);
neologismi introdotti (communio, incarnatio, resurrectio, formoso (portoghese). Pulcher scomparve del tutto.
trinitas), necessari per definire un nuovo mondo reli- L’influsso delle lingue germaniche e della lingua
gioso e concettuale. Molte parole mutarono identità, araba Nella formazione del nostro volgare, signifi-
slittando da un significato a un altro: dominus non fu cativo fu anche l’influsso di superstrato delle lingue
più il “padrone” ma il “Signore”; fides non significò germaniche: il gotico (epoca di Teodorico), il longo-
più la fedeltà alla parola data ma la “fede” religiosa. Gli bardo (circa trecento parole documentate, l’eredità più
slittamenti semantici furono determinati anche da epi- consistente), il franco o francone. I campi semantici su
sodi testamentari: poiché Giuda, consegnando Cristo ai cui tale influsso si esercitò furono prevalentemente
soldati, aveva tradito il suo maestro, tradere, che in latino quelli della guerra e della terminologia feudale, com’è
significava appunto “consegnare”, acquistò il significa- logico se si considerano i costumi di vita e la cultura
to di “tradire”. Captivus, in latino, significava “prigio- dei popoli invasori: di origine germanica sono parole
niero”: ma dopo che si formò l’espressione captivus come guerra (werra, che sostituisce il lat. bellum), elmo,
diaboli (“prigioniero del demonio”), il termine captivus strale, dardo, guardia, tregua; o come feudo, vassallo, barone,
designò una persona malvagia, “cattiva”, appunto. schiatta. Non mancano tuttavia termini che riguardano
Latino scritto e latino volgare Il latino che ha la vita quotidiana (vanga, stamberga, panca, scaffale, sguat-
dato origine alle lingue romanze – abbiamo detto – è tero) o il corpo umano (guancia, schiena, anca, milza).
il latino volgare (sermo vulgaris) parlato dalla gente, e Al mondo arabo si devono invece termini legati al-
non quello scritto. In presenza di parole concorrenzia- l’agricoltura (albicocco, arancio, limone, carciofo, cotone), al-
li per esprimere una medesima realtà, sono i termini le scienze, in particolare alla matematica e all’astrono-
volgari a prevalere, generalmente, su quelli più illustri mia (alchimia, alcool, algebra, cifra, zero, nadir, zenith, astro-
della tradizione letteraria: equus (“cavallo”) scompare a labio) o al commercio (dogana, tariffa, magazzino, fonda-
favore della voce popolare caballus (“cavallo da tiro”); co, arsenale); e anche da queste semplici annotazioni si
testa (“vaso di coccio”, utilizzato per indicare scherzo- può comprendere il diverso ruolo che le popolazioni
samente la testa in ambito familiare) prevalse sul classi- germaniche e quelle arabe svolsero a contatto con le
co caput. Non sempre i fenomeni linguistici furono genti della Romània.

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2. Le lingue romanze e i primi documenti del volgare italiano STORIA

liana, a cominciare da Iacopo da Lentini, «il Notaro» per eccellenza (R 6.).


Dalla fine dell’XI secolo agli inizi del XIII si fanno più frequenti, e più vari, i docu-
menti in nostro possesso. Ancora una volta dall’ambiente notarile proviene la «Postilla
amiatina» (gennaio 1087), il primo testo volgare documentato in terra toscana, un’ag-
giunta di tre versi in tono giocoso a una carta in cui Miciarello e sua moglie Gualdra-
da facevano donazione di tutti i loro beni all’abbazia di San Salvatore in Montamiata:
«Ista cartula est de caput coctu: / ille adiuvet de illu rebottu, / qui mal consiliu li mise in corpu»
(«Questa carta è di Capocotto [“Testa dura”, o “Testa calda”, soprannome del donato-
re]: / gli dia aiuto contro il Maligno, che un mal consiglio gli mise in corpo»). Come
si vede, non mancano persistenti residui linguistici del latino (est, caput, adiuvet, qui).
Degli stessi anni (1084-1100 ca) è la cosiddetta «Iscrizione di San Clemente», che
compare sull’affresco di un muro della chiesa di San Clemente in Roma. L’iscrizione è
parte in latino, parte in volgare, e va a commentare un gustoso episodio di epoca pro-
tocristiana, descritto con un realismo caricaturale e grottesco. Il pagano Sisinnio dà or-
dine ai propri servi (Gosmario, Albertello, Carboncello) di condurre al martirio san
Clemente, che compie tuttavia il miracolo: i servi si trovano infatti a trasportare non il
santo ma una colonna di marmo. Mentre il santo parla in latino (lingua nobile della
Chiesa), il pagano si esprime in volgare romanesco. Rivolgendosi ai servi dice infatti
(le parole appaiono sull’affresco a commentare le immagini, come in un moderno fu-
metto): «Fili de le pute, traite [tirate] / Gosmari, Albertel, traite! / Fàlite dereto colo
palo [fagliti sotto col palo], Carvoncelle!». E il santo risponde: Duritia cordis vestri / saxa
traere meruistis («Per la durezza del vostro cuore, meritaste di trascinare sassi»).
I primi testi poetici in volgare italiano Mentre già in Provenza e in Francia si è sviluppata una raffi-
nata letteratura in lingua d’oc e d’oïl, la documentazione del nostro volgare continua,
per tutto il XII secolo, ad essere povera e scarna, anche se per la prima volta compaiono
frammenti di composizioni letterarie: è il caso dei quattro versi di un Ritmo bellunese
(«ritmo» perché costituito di versi fondati sull’intensità degli accenti) del 1193; o delle
sperimentazioni di un poeta in lingua provenzale, Raimbaut de Vaqueiras, autore dap-
prima (1190-1194 ca) di un contrasto bilingue in lingua d’oc e in dialetto genovese
[R T 6.5 Doc 6.3 ] e poi di un discordo plurilingue in cui, accanto a strofe in provenzale,
francese, guascone, gallego-portoghese, compare una strofa in lingua italiana.
Tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo sono da collocare tre testi giullareschi: il
Ritmo laurenziano, in cui un giullare, in una lingua umbro-toscana, rivolge lodi a un ve-
scovo nella speranza di ricevere in dono un cavallo; il Ritmo cassinese, in cui un monaco
elogia la vita contemplativa e condanna quella mondana; il Ritmo su sant’Alessio, testo di
carattere agiografico, anch’esso di ambiente cassinese. Bisognerà tuttavia aspettare la
terza decade del Duecento per poter leggere i primi decisivi componimenti poetici in
lingua volgare, con il Cantico di san Francesco e le liriche della scuola siciliana.
Le ragioni di tale ritardo saranno state verosimilmente più di una: forse una maggio-
re persistenza della tradizione classica rispetto alle altre regioni europee; la presenza, a
n Raimbaut de Vaqueiras cominciare dall’ambiente romano, di un clero meno disposto a rinunciare alla propria
in un capolettera. autorità, di cui la lingua latina è l’espressione più evidente; la frantumazione politica, e
dunque linguistica, del nostro paese, condizione che avrà rilevanza fino all’unità d’Ita-
lia. Resta il fatto che nessuna di queste ragioni può spiegare il ritardo con cui la nostra
letteratura volgare ebbe origine rispetto ad altre nazioni. Va tuttavia aggiunto che tale
ritardo non implica affatto un minore sviluppo culturale delle nostre città e delle no-
stre corti, affidato fino al XIII secolo (e ancora oltre) o al latino o a lingue volgari do-
tate di grande prestigio letterario: è il caso del provenzale, utilizzato da diversi trovato-
ri italiani, come Pier de la Caravana (o Cavarana), Alberto Malaspina, Rambertino
Buvalelli, Lanfranco Cigala, Bonifacio Calvo, e soprattutto Sordello da Goito (1200 ca-
1269), immortalato da Dante nel VI canto del Purgatorio (R 5.4).
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Duecento e Trecento

T 2.1 Il Placito capuano 960

A. Castellani I primi documenti in cui il volgare viene consapevolmente usato in contrapposizione al


I più antichi testi italiani latino, sono quattro placiti appartenenti tutti alla stessa epoca (960-963) e agli stessi
Pàtron, Bologna 1973 luoghi, i principati longobardi di Capua e Benevento: il placito di Capua (marzo 960); il
placito di Sessa Aurunca (marzo 963); il primo e il secondo placito di Teano (luglio e
ottobre 963). I quattro placiti sono generalmente noti come Placiti Cassinesi, perché
oggi conservati nell’archivio dell’abbazia di Montecassino. Nel diritto feudale, un placi-
to (iudicatum, per usare la terminologia dell’epoca) è un documento legale, una senten-
za emanata da un’autorità giudiziaria. Nei documenti in questione, oggetto della con-
troversia sono i beni di alcuni monasteri dipendenti da Montecassino, ma contesi da
privati che ne rivendicavano la proprietà. Alcuni studiosi hanno supposto che le cause
fossero fittizie, e rientrassero in una strategia del monastero per evitare qualsiasi forma
di contestazione dei loro possessi: di qui la meticolosità dei documenti, e il ricorso al
volgare per le formule testimoniali.
Le quattro formule che ci interessano sono infatti semplici testimonianze all’interno
di documenti più vasti redatti in lingua latina: sono rese in volgare perché tutti potesse-
ro capirle, ed eventualmente opporre obiezioni. La formula-base si ripete con lievi va-
rianti, ed è un rifacimento in volgare di precedenti formule latine: non si trattava dun-
que di testimonianze rese all’impronta, ma preparate dai cancellieri per l’occasione.

Sao ko1 kelle terre,2 per kelle fini3 So che quelle terre, entro quei confini
que ki contene, trenta anni4 le possette che qui son disegnati, le possedette trent’anni
parte Sancti Benedicti.5 il monastero di San Benedetto.

1 ko: che (dal latino 4 trenta anni: periodo al mente proprietario (diritto lare di beni e diritti [...]
quod). termine del quale, secondo di usucapione). l’uso divenne addirittura ti-
2 kelle terre: prolessi il diritto romano, colui che 5 parte Sancti Bene- pico nei riferimenti a chie-
del compl. oggetto, ripreso aveva usufruito di un bene, dicti: costrutto latineggian- se, vescovadi, monasteri»
poco dopo dal pronome le. in assenza di rivendicazione, te: «pars seguito da un geni- (Sabatini).
3 fini: dal lat. fines, qui ne diventava automatica- tivo era usato a designare
con significato di “confini”. un soggetto in quanto tito-

Guida all’analisi
Un caso giudiziario Un privato di nome Rodelgrimo intenta una causa contro il monastero di Montecassino
per alcune terre che sosteneva di aver ereditato. La causa viene portata dinanzi al giudice
Arechisi. Aligerno, abate del monastero, oppone che quelle terre appartenevano invece al-
l’abbazia, che le aveva possedute per trent’anni, e afferma di poter produrre testi a sostegno
del suo diritto. Il giorno convenuto, nel mese di marzo del 960, nella città di Capua, tre te-
stimoni pronunciano dinanzi al giudice Arechisi la formula in volgare qui riportata. Rodel-
grimo riconosce i diritti del monastero. Il giudice emette la sentenza in latino, contenente
la testimonianza in volgare. Il notaio Adenolfo la trascrive.
Latinismi e volgarismi Il documento presenta tratti linguistici caratteristici del volgare campano. In particolare:
– sparizione dell’appendice labiovelare (suono velare + semivocale labiale u) in ko, kelle, ki;
– mancata dittongazione di contene (in toscano contiene), che i contemporanei avranno
pronunciato condene;
– lo stesso vocabolo fini, che è qui usato al genere femminile, non è un latinismo ma una
«forma locale conservata proprio nella zona che ci riguarda in quel particolare significato
rustico: forma vivente già tecnicizzata nel latino delle carte» (Folena).
Spicca tuttavia, nel complesso della formula, il ricorso a un latinismo (parte: vedi nota) e a
una forma come sao, costruita per analogia con altre forme (dao = do; stao = sto; ecc.) e pre-
ferita al più diffuso saccio (ancora oggi in corso nelle parlate meridionali). La preferenza per
sao, una forma ugualmente presente in area campana ma poco usata, dimostra la volontà di
impiegare termini più «nobili» (Viscardi) e meno municipali, per innalzare in qualche modo
il livello del dettato e dar vita a un vocabolario giuridico sovraregionale.
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2. Le lingue romanze e i primi documenti del volgare italiano VERIFICA

VERIFICA

2.1 Dalla lingua latina alle lingue volgari

1 Esponi le varie fasi che conducono da un’unica lingua latina a molteplici lingue volgari.
2 Che cosa intendiamo con espressioni come romana lingua o rustica romana lingua?
3 Spiega il significato dei termini «substrato» e «superstrato»: applica i due concetti a una
precisa situazione linguistica dell’Europa romanza.

2.2 Le prime testimonianze delle lingue volgari

4 Distingui fra le nozioni di «bilinguismo inconscio» e «bilinguità consapevole».


5 Illustra le differenze più significative tra il sistema linguistico del latino e quello del volgare
italiano: a. sul piano fonetico; b. sul piano morfologico; c. sul piano lessicale.
6 Che cosa intendiamo con lingue romanze o neolatine? Da dove derivano: dal latino scritto
o dal latino parlato? Argomenta la tua risposta.
7 Elenca le lingue romanze più importanti, indicando l’area di appartenenza geografica.
8 Nel corso del Medioevo qual è il destino della lingua latina? Viene abbandonata del tutto
oppure continua ad essere usata? E se viene usata, in quali ambienti e con quali finalità?
9 Che cosa viene espressamente raccomandato al clero durante il concilio episcopale di
Tours dell’813?
10 Qual è il primo documento in lingua volgare che conosciamo? In quale anno viene redat-
to? A quale scopo?
11 Che cosa sono i Placiti capuani? A quale epoca risalgono? Perché sono considerati docu-
menti così significativi per la storia della nostra lingua?
12 Che cos’è la Postilla amiatina?
13 Fai almeno un esempio di testo poetico in lingua volgare italiana composto nel XII secolo
o agli inizi del XIII.
14 Indica almeno due motivi del ritardo della nostra letteratura rispetto alle altre letterature
romanze.

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Duecento e Trecento

Società e cultura
3 nel XIII e XIV secolo

n Attività cittadine.
Intorno al Mille si registra nell’Occidente europeo alla vittoria di questi ultimi nel novembre del 1301.
una decisa ripresa economica e demografica che de- Una nuova cultura, laica, borghese e civile, si affer-
termina una radicale trasformazione sul piano politi- ma nell’ambito delle istituzioni comunali, non più sot-
co-sociale e culturale. Tra le principali cause della rile- tomessa alle ingerenze ecclesiastiche e rivolta innan-
vante crescita demografica si segnalano la cessazione zitutto a formare i nuovi ceti dirigenti e a provvedere
delle pestilenze, la fine delle invasioni, la graduale in- la città di funzionari di alta professionalità, quali giuri-
troduzione di nuove tecniche nell’ambito dell’agricol- sti, notai, insegnanti, cancellieri e oratori. Spicca tra i
tura – che conosce un notevole incremento produttivo nuovi intellettuali del Comune la figura di Brunetto La-
– e della navigazione; tutto questo rende possibile la tini fiorentino. La mentalità realistica e concreta della
creazione di un mercato di scambio e l’avviamento di nuova aristocrazia cittadina si sposa con l’esigenza di
attività imprenditoriali e commerciali, che risorgono a assimilare e rielaborare i prestigiosi modelli della cul-
nuova vita dopo la lunga crisi dell’Alto Medioevo. Da tura feudale e cortese.
un’economia di sussistenza si passa a un’economia La traduzione in latino di opere del filosofo greco
fondata sul guadagno, sull’investimento e sulla circo- Aristotele avvia non solo un grande dibattito, che vede
lazione monetaria. Protagonista di questa rivoluzione su posizioni opposte i domenicani (sostenitori di una
è il nuovo ceto borghese e mercantile, attivo e dinami- concezione razionale degli studi) e i francescani (so-
co, che provoca la crisi delle istituzioni feudali e l’af- stenitori del primato della fede sulla ragione), ma an-
francamento dal potere signorile, e promuove l’avven- che un nuovo interesse per il mondo della natura. La
to dei liberi Comuni cittadini, affermando, contro il nascita e l’espansione delle grandi università europee
principio di autorità, i valori di libertà personale e di favoriscono la diffusione delle nuove idee, destinate a
autogoverno politico, non senza entrare in conflitto influenzare prepotentemente anche la nuova poesia in
con la stessa potestà imperiale. volgare dei comuni italiani.
n Libri, maestri e allievi. In Italia i liberi Comuni si sviluppano, fin dagli inizi Non meno importante fu il dibattito che attraversò
del XII secolo, soprattutto nelle regioni del Centro e del il mondo della Chiesa, impegnata a contrastare, fra XII
Nord, con rilevanti conseguenze anche sulla storia e XIII secolo, la formazione e la diffusione di pericolo-
della nostra letteratura. Protagonista assoluta è la To- se sette ereticali, in particolare quella valdese e quella
scana, e in particolare Firenze, che nel corso del Due- catara. Il secolare conflitto con l’Impero, che vide an-
cento vive una straordinaria ascesa politica ed econo- che il sorgere (sotto il papato di Innocenzo III prima, di
mica, accompagnata da una non meno rigogliosa fiori- Bonifacio VIII poi) di una nuova concezione teocratica,
tura artistica e culturale, ma è agitata al tempo stesso si risolse in realtà nella crisi definitiva dei due grandi
da lotte interne, dapprima tra Guelfi e Ghibellini, poi, poteri universali, cui si contrapposero le forze dei nuo-
dopo il 1266, tra le fazioni dei Bianchi e dei Neri, fino vi stati nazionali e dei potenti liberi comuni.

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3. Società e cultura nel XIII e XIV secolo STORIA

3.1 Nascita e sviluppo del mondo comunale


La rivoluzione economica del Basso Medioevo Intorno al Mille si assiste a una vigorosa ripresa
economica che tocca, sia pure in misura diversa, l’intero territorio cristiano d’Occi-
dente (R 1.1), e determina una trasformazione radicale degli equilibri politici, socio-
economici e culturali del continente. I segni di questa ripresa si manifestano in tutta la
loro evidenza agli inizi del secolo successivo: rapida crescita demografica; ripopola-
mento dei centri urbani; aumento della produzione agricola e degli scambi (marittimi,
fluviali e terrestri); moltiplicazione dei mercati e delle fiere; incremento dell’attività ar-
tigianale; rinnovata circolazione della moneta.
La ripresa demografica ebbe inizio già nel corso del secolo X. Le cause furono pro-
babilmente varie: la cessazione delle pestilenze, che torneranno ad infierire solo nel
XIV secolo; l’addolcimento del clima, di cui abbiamo prova nel ritirarsi dei ghiacciai;
la fine delle devastanti invasioni, soprattutto ungare e normanne; la lenta ma significa-
tiva introduzione nell’agricoltura di tecniche e di strumenti di lavoro (mulini ad acqua
e a vento, attrezzatura in ferro, aratro pesante, rotazione delle colture) che consentiro-
no di estendere la superficie delle terre coltivate e di aumentarne la produttività con
un minore dispendio di forze umane. Innovazioni tecnologiche furono col tempo in-
trodotte anche nell’ambito della navigazione (invenzione del timone di poppa, ado-
zione della bussola) e dell’artigianato (dove fondamentale fu il telaio per la tessitura).
L’aumento della popolazione e la moltiplicazione delle forze lavorative portarono
non soltanto al dissodamento di nuove terre (strappate alle paludi, ai boschi, alle lande
climaticamente più inospitali) ma anche al mutamento dei rapporti fra servo e signo-
re. Caratteristico dell’epoca fu il ricorso all’enfitèusi, una nuova forma di contratto che
consentiva al servo l’usufrutto a lungo termine (solitamente per tre generazioni) di un
terreno, con l’obbligo di renderlo più produttivo e di pagare un canone annuo.
Le eccedenze produttive, impensabili fino a pochi decenni prima, determinarono la
creazione di un mercato di scambio, liberando una parte della popolazione dal lavoro
dei campi e indirizzandola ad attività imprenditoriali o commerciali. Queste nuove at-
tività furono subito legate ai centri urbani, alcuni dei quali nacquero per l’occasione:
da un’economia di sussistenza si passava a un’economia fondata sul guadagno e sulla
circolazione monetaria. Protagonisti di questa rivoluzione furono i mercanti.
Fu grazie al loro dinamismo che si aprirono nuove rotte commerciali e si crearono
nuovi insediamenti, soprattutto portuali, accanto agli antichi centri urbani sopravvis-
suti al crollo del mondo antico. Non stupisce che fossero i centri marinari italiani
(Genova, Pisa,Venezia innanzitutto) ad avviare questo processo: per la posizione geo-
n Miniatura del XV secolo
raffigurante il tribunale della grafica che occupavano, potevano svolgere un ruolo fondamentale di intermediazione
mercanzia di Siena. fra meridione e settentrione d’Europa, fra Oriente e Occidente. Dalla rivoluzione
commerciale dipese direttamente l’affermarsi di attività imprenditoriali, che fiorirono
in particolar modo nell’Italia del Centro e del Nord.
La notevole prosperità che seguì a queste trasformazioni può essere indicata dal-
l’eccezionale aumento demografico della popolazione italiana: circa cinque milioni in-
torno al Mille, sei e mezzo verso il 1100, otto milioni e mezzo agli inizi del Duecen-
to, undici milioni agli inizi del Trecento (che ridivennero tuttavia otto a metà del se-
colo, a causa dell’improvviso dilagare della peste).
Nascita e sviluppo dei Comuni La formazione di un nuovo ceto borghese e mercantile, fiero della
propria identità ed economicamente dinamico, provocò la crisi delle istituzioni feuda-
li: unendosi in associazioni giurate con finalità sia religiose (confraternite) sia econo-
miche (gilde, corporazioni), questi nuovi ceti riuscirono a negoziare con i signori del
luogo, spesso vescovi, nuove condizioni di lavoro e di vita.
La nascita dei Comuni, fenomeno in origine italiano che poi si diffuse anche in al-

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Duecento e Trecento

tre regioni europee (Francia del nord, Renania, Fiandre), significò l’affermarsi del con-
cetto di libertà personale e del principio della partecipazione politica. L’avvento dei li-
beri Comuni, conseguenza dell’espansione cittadina seguìta alla rivoluzione commer-
ciale del Basso Medioevo, determinò una contestazione esplicita del principio di auto-
rità e un ridimensionamento del potere signorile: si può a buon diritto parlare di isti-
tuzione comunale solo nel momento in cui la popolazione cittadina si affranca dalla
servitù feudale e si dà forme di autogoverno politico.Tale affrancamento fu anche il ri-
sultato di una lotta, condotta sul piano sia giuridico sia militare, fra i Comuni italiani e
il potere imperiale, deciso a non concedere alcun privilegio: Federico I Barbarossa,
sconfitto dalla Lega Lombarda nella battaglia di Legnano (1176), fu infine costretto a
riconoscere con la pace di Costanza (1183) la libertà e l’autonomia dei Comuni.
Agli inizi del XII secolo si trovano Comuni in ogni parte dell’Italia centrale e setten-
trionale, non di quella meridionale, che restò estranea al movimento comunale: la mo-
narchia svevo-normanna prima, poi quella angioina, ostacolarono il fiorire di un ceto
mercantile e borghese. Questa divaricazione fra nord e sud ebbe enormi conseguenze
sulla storia d’Italia, e sulla storia letteraria: dopo l’episodio della scuola siciliana (R 6.1),
decisivo ma effimero, la nostra letteratura si svilupperà quasi esclusivamente al centro e al
nord d’Italia, con la Toscana – per le ragioni che vedremo – assoluta protagonista.
L’ascesa di Firenze Alla fine del Duecento, grazie alle industrie tessili (lana e seta in particolare) e alle
prospere attività bancarie, Firenze può ben dirsi una delle città più ricche e floride
d’Europa. Industria, commercio e finanza da tempo avevano avuto il sopravvento sul-
la tradizionale economia agraria. La coniazione del fiorino (1252) consente ai mer-
canti di operare sul mercato europeo con uno strumento monetario di grande presti-
gio. La definitiva sconfitta (1266) del partito ghibellino (che rappresenta gli interessi
agrari) a favore di quello guelfo (che privilegia le attività mercantili e finanziarie) non
placa la lotta politica: gli scontri fra Arti maggiori e Arti minori, in cui si era man ma-
no organizzato il ceto mercantile e imprenditoriale della città, porta dapprima (1282)
alla formazione di una nuova magistratura, i sei Priori, poi (1293), con gli Ordina-
menti di Giano della Bella, all’esclusione di alcune famiglie magnatizie dall’ammini-
strazione della città, norma che verrà peraltro attenuata due anni dopo.

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3. Società e cultura nel XIII e XIV secolo STORIA

Gli equilibri politici si rompono con i fatti del 1300, e con il duro scontro tra le
due fazioni opposte dei Bianchi e dei Neri, i primi (capeggiati dalla famiglia dei Cer-
chi) propensi a preservare l’autonomia della città da ogni ingerenza esterna e a colla-
borare con i ceti magnatizi, i secondi (capeggiati dalla famiglia dei Donati) inclini ad
intrecciare legami economico-politici con il papato e a favorire l’alleanza con i ceti
popolari. La vittoria dei Neri (novembre 1301) e la conseguente cacciata dei più illu-
stri esponenti dei Bianchi, fra cui Dante, è episodio notissimo: vi allude più volte
Dante stesso (R 9.1); lo narra con forte partecipazione nella sua Cronica il Compagni
(R 11.2). L’asprezza degli scontri politici dimostra anche quanto grandi fossero gli in-
teressi economici in gioco: della prosperità di Firenze almeno fin quasi alla metà del
Trecento è testimonianza assai probante, soprattutto per la gran quantità di dati stati-
stici messi a disposizione, la Nuova cronica del Villani (R 11.2).
Ma già intorno al 1340 la situazione comincia a mutare, mettendo in crisi le istitu-
zioni della città: la sospensione dei pagamenti ai banchieri fiorentini, decisa nel 1339
n Distribuzione del grano ai dal re d’Inghilterra, provoca nel giro di pochi anni il fallimento delle maggiori banche
bisognosi fuori dalle mura di
Firenze (miniatura del XIV se- della città. La grave epidemia di peste del 1348 (descritta con solenne oggettività dal
colo). Boccaccio: R 13.3 e T 13.1 ) compromise ulteriormente lo sviluppo economico di Fi-
renze, su cui gravava ormai da tempo anche l’onere di mantenere un costoso esercito
mercenario allo scopo di difendere il proprio territorio dai nemici esterni (fra cui i
Visconti di Milano, impegnati in una politica espansionistica). Il tumulto dei Ciompi
(1378), umilissimi lavoratori che arrivano a conquistare il potere con la forza, è un
episodio che, sia pure limitato nel tempo, avrà importanti conseguenze sul futuro di
Firenze. L’instaurazione di un governo oligarchico (1382) è soltanto il primo passo
che condurrà nel giro di cinquant’anni alla formazione di un regime signorile.
Una nuova cultura: laica, borghese, civile L’affermarsi delle istituzioni comunali produsse in Italia
una nuova cultura non più sottomessa alle esigenze ecclesiastiche, rivolta innanzi tut-
to a formare i nuovi ceti dirigenti e a provvedere la città di figure altamente profes-
sionali: notai, giuristi, oratori per le ambascerie, cancellieri per redigere documenti
ufficiali, maestri che insegnassero a leggere, scrivere e far di conto. Si spiega in questo
modo la scelta di trasferire in lingua volgare gli strumenti e i contenuti della tradi-
zione avvertiti come necessari per amministrare la vita politica e civile di una città:
opere enciclopediche, trattati di retorica, volgarizzamenti di carattere scientifico o
morale. Se a Firenze, in questo ambito, si impose la figura di Brunetto Latini (R
11.1), all’Università di Bologna fu attivo nella prima metà del Duecento Guido Faba,
che volle applicare alla lingua volgare gli insegnamenti dell’ars dictandi, la disciplina
che per secoli aveva insegnato e codificato i princìpi della composizione in lingua la-
tina. La partecipazione di settori sempre più ampi della cittadinanza alle attività co-
munali favorì non solo un processo di alfabetizzazione fino ad allora inimmaginabile,
ma anche la diffusione di una nuova mentalità laica, attenta alla realtà dinamica e
concreta della vita quotidiana, curiosa verso il mondo materiale e naturale, ansiosa di
accedere alla dimensione artistica e culturale. Non stupisce dunque che proprio que-
sta società, sempre più prospera e ricca sul piano economico, maturasse il desiderio di
assimilare, nei comportamenti e nelle conoscenze, i modelli ideali del mondo corte-
se e feudale, riadattati, com’è ovvio, alla mentalità del più concreto e realistico mon-
do comunale.
I liberi Comuni furono dunque realtà complesse, la cui forza risiedette proprio
nella capacità di far convivere, in un solo spazio, e con uno slancio nuovo, aspetti cul-
turali diversi e stratificati: l’espressività vitalistica e realistica dei ceti popolari, i fonda-
menti della religiosità medievale, la raffinatezza dei costumi feudali, la praticità e la
concretezza dell’universo borghese. Di questa nuova cultura, l’esponente più illustre
fu Dante Alighieri, il poeta della Vita Nuova e della Divina commedia (R 9.).
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Duecento e Trecento

3.2 La concezione teocratica e la crisi dei poteri universali


La concezione teocratica L’età medievale era stata caratterizzata dalla presenza di due poteri, Papato e Im-
pero, che aspiravano entrambi a svolgere una funzione universale. Da tale pretesa avevano
avuto origine dissidi e contrasti sfociati, nell’XI secolo, nella lotta per le investiture fra
l’imperatore Enrico IV di Sassonia e il pontefice Gregorio VII. Il punto cruciale del dissi-
dio riguardava il primato che entrambi i poteri universali (spirituale e temporale) riven-
dicavano per sé; da esso dipendevano i criteri di elezione del pontefice e dell’imperatore,
nonché il controllo che ciascuna delle due autorità pretendeva di esercitare sull’altra.
La supremazia del potere spirituale su quello temporale, già teorizzata da papa Ge-
lasio I sul finire del V secolo, sembrò ribadita con forza durante la cerimonia ufficiale
(Natale dell’anno 800) che decretò la nascita del Sacro Romano Impero: ricevendo la
corona dalle mani di papa Leone III, Carlo Magno parve di fatto autorizzare l’idea
che fosse il papa a disporre del titolo imperiale e che solo Roma potesse essere sede
d’investitura imperiale.
La decadenza morale e la corruzione delle strutture ecclesiastiche contribuì dopo
la fine dell’età carolingia a ribaltare la situazione: per più di un secolo, dopo la fonda-
zione dell’Impero romano-germanico degli Ottoni (962), furono i pontefici a doversi
difendere dalle ingerenze imperiali. La contesa riguardò, com’è noto, il diritto di inve-
stitura: in seguito all’infeudamento della gerarchia ecclesiastica, i vescovi si trovavano
infatti a dipendere dall’imperatore (per il conferimento dei benefici) prima ancora che
dal papa. La soluzione di compromesso fu raggiunta soltanto con il concordato di
Worms (1122), che disgiungeva l’investitura ecclesiastica (mediante anello e pastorale)
da quella laica (mediante il conferimento dello scettro).
Un rinnovato prestigio, seguìto alla riforma morale dell’XI e XII secolo, consentì al-
la Chiesa di ribadire con più forza le concezioni teocratiche maturate in precedenza,
tanto che si parla di «secolo della teocrazia» per designare l’età che va dal concordato di
Worms al papato di Innocenzo III (1198-1216). La tesi di Innocenzo è espressa con po-
tenza di immagini in un testo elaborato all’epoca della sua elezione: in esso viene stabili-
ta una precisa gerarchia di valori tra pontefice e imperatore, il primo paragonato al sole
che risplende di luce propria, il secondo alla luna che irradia una luce riflessa [R Doc 3.1 ].
La crisi dei poteri universali Proprio mentre il sogno teocratico di Innocenzo III sembrava doversi
realizzare, anche a causa dell’indebolimento del potere imperiale, la Chiesa entrava
tuttavia in un periodo di gravi difficoltà, dovute a varie cause, non ultime il propagar-
si di sette e di eresie che minavano dall’interno il suo primato dottrinale e il crescen-
te diffondersi nelle grandi città di una mentalità laica e mondana che spostava l’atten-
zione dal piano del divino a quello dell’umano.
All’inizio del XIV secolo le due istituzioni che avevano retto la società medievale
per lunghi secoli, Papato e Impero, appaiono ormai in crisi, segnate sia dal secolare
scontro che le aveva viste a lungo impegnate, sia dal nascere e dallo svilupparsi di realtà
politiche nuove: i Comuni (che, nel corso del Trecento, tendono a evolversi in regimi
signorili) e le monarchie nazionali.
Significativo è quanto accade al pontefice Bonifacio VIII: dopo aver emanato la bol-
la Unam sanctam (1302), forse l’ultima orgogliosa riaffermazione di un potere teocratico,
viene catturato in Anagni (1303) da una schiera di armati inviata dal re di Francia Filip-
po il Bello, che mirava alla formazione di uno stato laico e accentrato, autonomo sia dal
pontefice che dall’imperatore. Bonifacio non resse all’umiliazione e morì poco dopo il
fatto. Nel 1305 la sede papale fu spostata ad Avignone, in Francia, dove restò per circa
settant’anni. Si può ben dire che con Bonifacio tramontavano per sempre le ambizioni
universalistiche del papato, così come con Arrigo VII (che fra il 1310 e il 1313 volle
scendere in Italia per essere incoronato imperatore: R 9.7) quelle dell’impero.
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3. Società e cultura nel XIII e XIV secolo STORIA

Nuove dottrine politiche: il Defensor pacis di Marsilio da Padova Se in generale, con poche ecce-
zioni, il Medioevo aveva dimostrato scarso interesse nei confronti della teoria politica,
fin dal XII secolo, soprattutto per la decisiva spinta del mondo comunale, crescono
gradatamente sia la partecipazione alla vita civile, sia la riflessione dottrinale sui temi
dell’amministrazione pubblica. Ma è soltanto alla fine del XIII secolo, grazie alla risco-
perta della Politica di Aristotele, che queste riflessioni maturano sul piano del rigore e
della sistematicità. Se Dante, animato da una straordinaria passione intellettuale, scrive
un trattato per riaffermare il valore sacro e universale di Chiesa e Impero (R 9.6), atte-
standosi dunque su posizioni conservatrici proprio nel momento in cui le due grandi
istituzioni medievali entravano in crisi, ben diversa è la riflessione di un altro grande
pensatore contemporaneo, Marsilio da Padova (1280-1343), che nel 1324 porta a ter-
mine la composizione di un trattato latino, il Defensor pacis [Il Difensore della pace], radi-
cale attacco alle mire teocratiche del papato e prima affermazione storica di positivi-
smo giuridico, per cui il solo diritto è il diritto umano, stabilito in modo effettivo nel-
l’ambito di una comunità dall’autorità che detiene il potere legislativo.
Marsilio distingue apertamente fra legge divina e legge umana: la prima ha effetto
solo nella vita futura, e non ha dunque alcun valore giuridico. Sfera religiosa e sfera
politica, filosofia e fede appartengono ad ambiti distinti: la salvezza spirituale riguarda
le singole coscienze, non l’amministrazione della città. Con l’opera di Marsilio si svi-
luppa dunque, almeno embrionalmente, uno spirito laico: entro questa nuova prospet-
tiva, «la comunità politica è una communitas perfecta (perfecta nell’accezione latina, cioè
“compiuta”), ovvero una comunità naturale autosufficiente, avente in se stessa le sue
finalità, costituite da ciò che è giusto e utile per la società umana. Le leggi realizzano
tali finalità e perciò tutti devono sottomettersi ad esse: i singoli cittadini, i governanti e
gli ecclesiastici, papa compreso» (Bentivoglio). Detentore del potere legislativo non è
più insomma il pontefice o l’imperatore, ma è il popolo.
Appena le teorie espresse nel Defensor pacis si diffondono, Marsilio è costretto ad
abbandonare l’università di Parigi, dove aveva insegnato fino ad allora, per rifugiarsi
presso l’imperatore Ludovico il Bavaro. Nel 1327 diverse tesi dell’opera vennero con-
dannate dal pontefice Giovanni XXII; su Marsilio cadde, inevitabile, la scomunica.

Doc 3.1 Il papa come sole e l’imperatore come luna

Innocenzo III, Episto- Il vicario di Gesù Cristo, il successore di Pietro, è qualche cosa di intermedio tra Dio e
lae (I, 401), in A. Saitta,
Storia e tradizione, l’uomo, meno grande di Dio, ma più grande dell’uomo. La Chiesa Romana, che io ho
Sansoni, Firenze 1964, sposato,1 mi ha portato una dote: ho ricevuto da Roma la mitra, segno della mia funzio-
pp. 155-156 ne religiosa, e la tiara2 che mi conferisce il dominio sulla terra. Io sono stabilito da Dio al
disopra dei popoli e dei regni. Nulla di ciò che avviene nell’universo deve sfuggire all’at-
tenzione e alla potestà del sovrano pontefice. Come Dio creatore di tutte le cose ha po-
sto nel firmamento del cielo due luminari, uno maggiore che illumini di giorno, ed uno
minore che illumini di notte; così, nel firmamento della Chiesa universale, che prende il
nome di cielo, ha posto due grandi dignità, la maggiore che, quasi come ai giorni, alle
anime presiedesse e la minore che, quasi come alle notti, presiedesse ai corpi: e tale di-
gnità sono l’autorità pontificale e la regia. E certamente, come la luna riceve dal sole la
luce, essendo minore del medesimo, sia per la grandezza che per la qualità, sia per l’ubi-
cazione che per l’effetto, così la regia autorità deriva lo splendore della propria dignità
dalla pontificia autorità [...].

1 che io ho sposato: la pontefice è vicario in terra. primo, dei vescovi, è alto, il secondo è del papa, orna-
Chiesa è designata come 2 mitra ... tiara: sono diviso alla sommità in due to con tre corone e una
sposa di Cristo, di cui il due copricapi religiosi, il punte con nastri sulla nuca; croce.

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Duecento e Trecento

3.3 La vita religiosa nel XIII secolo: riforma ecclesiastica, movimenti


pauperistici, sette ereticali, ordini mendicanti
Il movimento riformatore L’infeudazione della gerarchia ecclesiastica aveva prodotto, come si è visto,
una progressiva mondanizzazione della Chiesa. Vescovi e abati si comportavano più
come feudatari che come religiosi, vivevano nel lusso e nel concubinaggio, dimentichi
degli obblighi pastorali e dell’esercizio quotidiano della preghiera. Furono monaci
che propugnavano il ritorno alla regola primitiva a denunciare per primi lo stato di
corruzione in cui versavano le abbazie, e a fondare monasteri riformati che furono
posti, per evitare le ingerenze locali dei vescovi-conti, direttamente sotto il controllo
pontificio. Il primo monastero riformato fu quello di Cluny, in Borgogna, già all’inizio
del X secolo (precisamente nell’anno 910); nel secolo successivo, sorsero nuovi ordini,
fra cui quelli dei Certosini, dei Camaldolesi e dei Cistercensi. Il concetto di ordine re-
ligioso era praticamente ignoto prima dell’anno Mille: i monasteri altomedievali erano
sì sottoposti a regole e a statuti interni, ma erano organismi autonomi e autosufficien-
ti, non collegati tra loro. Dopo Cluny, i monasteri si congregano, seguendo una rego-
la comune e ponendosi alle dipendenze dell’abate del monastero principale. Proprio
da Cluny doveva uscire Gregorio VII (1073-1085), il pontefice che diede uno straor-
dinario impulso alla riforma morale della Chiesa, combattendo simoniaci (ovvero co-
loro che facevano commercio delle cose sacre e spirituali) e nicolaiti (ovvero i chieri-
ci che vivevano in stato di concubinaggio o che, come consentivano alcune Chiese
locali, erano sposati). La forza espansiva di questi nuovi ordini ha qualcosa di prodi-
gioso: l’ordine cistercense, ad esempio, fondato nel 1098, contava già nel XIII secolo
più di cinquecento abbazie sparse per tutta Europa.
La nascita dei movimenti ereticali Durante l’alto Medioevo l’Europa cristiana aveva conosciuto un
momento di forte unità dottrinale. Le eresie, che avevano caratterizzato i primi secoli
della Chiesa, parevano completamente dimenticate. Agli inizi dell’XI secolo, in con-
comitanza con la grande fioritura economica e sociale di cui abbiamo parlato, il qua-
dro muta radicalmente: predicatori itineranti, che hanno ripudiato la moglie e la fami-
glia, o che hanno abbandonato gli ordini clericali di cui facevano parte, contestano il
ruolo della Chiesa, denunciano i comportamenti mondanizzati del clero, negano vali-
dità ai sacramenti, condannano le ricchezze, praticano la castità e l’astinenza, rifacen-
dosi ai modelli di vita comunitaria dei primi apostoli. All’inizio si tratta di movimenti
locali, apparentemente destinati ad esaurirsi all’interno del contado, dove hanno per lo
più origine; ma già verso la metà del secolo essi coinvolgono le città, soprattutto quel-
le di Provenza e i centri popolosi della pianura padana, dove trovano facile esca negli
strati sociali più miserabili (per lo più masse contadine da poco inurbate).
La pataria A Milano, in particolare, tra il 1044 e il 1075, si diffonde il movimento della pataria
(il termine patarino significa “straccivendolo”, e all’inizio viene usato in senso spregia-
tivo), che si traduce in una vera e propria rivolta contro le autorità ecclesiastiche loca-
li, accusate di non condurre una vita evangelica, di non osservare i voti di castità e po-
vertà. Il fenomeno non è solo religioso, ma si inserisce nei nuovi equilibri che si erano
andati determinando in seguito ai recenti processi di inurbamento e al diffondersi del-
la nuova ricchezza borghese: nel mondo altomedievale la povertà era una condizione
quasi naturale, alla quale si sottraeva solo l’aristocrazia feudale; ora invece diviene una
scelta di vita. Contestando la mondanizzazione e la corruzione della Chiesa, i patarini
contestano anche le ricchezze accumulate dai nuovi ceti borghesi e mercantili. Al fon-
do di queste rivolte è un misto di motivazioni economiche, personali e religiose, che
insorgono sullo sfondo di un preciso scenario storico: da una parte la lotta per le inve-
stiture fra il papato e l’impero, dall’altra la progressiva conquista di autonomia da parte
delle nuove realtà comunali. Il fenomeno più vistoso – e più inquietante – suscitato dal

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3. Società e cultura nel XIII e XIV secolo STORIA

movimento patarino fu probabilmente l’apparizione, entro le mura delle città, di un


popolo minaccioso e tumultuante che si permette di giudicare i propri vescovi, di
contestare i culti tradizionali, di discutere del valore dei sacramenti, di esser parte atti-
va nella Chiesa, superando la tradizionale divisione fra laici e chierici.
I Poveri di Lione o Valdesi Sopito verso la fine del secolo e gli inizi di quello successivo, soprattutto in
conseguenza della grande azione riformatrice dei nuovi pontefici (in particolare di
Gregorio VII), il moto ereticale riprende con maggior vigore alla metà del XII secolo,
giungendo al suo culmine nei primi decenni del Duecento. La personalità più emble-
matica e rappresentativa è Pietro Valdo, un ricco borghese di Lione, usuraio e proprie-
tario terriero, che improvvisamente decide di donare tutti i suoi beni ai poveri e di
perseguire una «vita apostolica», predicando la povertà. Dapprima tollerato, poi guar-
dato con sempre maggior sospetto,Valdo giunge alla rottura con l’autorità ecclesiasti-
ca, quando decide di tradurre in volgare alcuni passi del Nuovo Testamento: lo scopo è
quello di offrire alla gente comune la possibilità di leggere i testi sacri, perché possa
averne conoscenza diretta. Colpito da scomunica (1184) insieme ai suoi seguaci, i co-
siddetti «Poveri di Lione» o Valdesi, Valdo si arroga il diritto, pur essendo laico e per
giunta espulso dal seno della Chiesa, di amministrare i sacramenti. Il principio a cui si
appoggia è quello del «merito», contrapposto a quello dell’«ordinazione».
La contestazione tocca presto le basi dottrinali della Chiesa: i seguaci di Valdo af-
fermano di esser tenuti a obbedire prima a Dio che agli uomini, si proclamano i soli
successori degli apostoli, affettano disprezzo verso la cultura (che vedono come ema-
nazione del potere e come una forma di presunzione mondana), rigettano le preghie-
re in latino e i miracoli dei santi. Alla gerarchia ecclesiastica tradizionale oppongono la
divisione in due gruppi: i «credenti» (tenuti alla semplice osservanza di poche regole) e
i «perfetti». Questi ultimi si consacrano a una vita di assoluta povertà, al celibato, alla
continenza sessuale, alla preghiera, alla predicazione (estesa anche alle donne), obbli-
gandosi a non svolgere alcuna attività manuale (nella quale vedono soltanto un’occa-
sione di guadagno e una distrazione dalle occupazioni religiose). Dai Valdesi derivano,
in Italia, nuovi movimenti ereticali, fra cui quello degli Umiliati.
L’eresia càtara Valdesi e Umiliati sono eretici che nascono dalla Chiesa stessa, a cui spesso ritorna-
no, com’è il caso, sotto il pontificato di Innocenzo III (1198-1217), degli Umiliati. Di-
verso è invece il caso dell’eresia càtara (dal greco katharós “puro”) o albigese (da Albi,
un centro della Provenza meridionale, dove si ha una forte concentrazione di catari),
che si sviluppa dalla metà del XII alla fine del XIII secolo in varie regioni d’Europa
(fra cui la Linguadoca e l’Italia del nord).
Due sono i princìpi che reggono il mondo secondo il pensiero cataro: Bene e Ma-
le, ai quali rispettivamente competono il regno dello spirito e il regno della materia.
Secondo i catari, il mondo materiale (dunque anche la terra) è stato creato da Satana,
non da Dio; Cristo non si è realmente incarnato nel grembo della Vergine, non ha
posseduto un corpo fisico, né è stato crocefisso: dunque la redenzione fu conseguen-
n Rogo di eretici durante la za non del sacrificio di Cristo, semmai della parola di verità da lui annunciata. Tali
crociata contro i catari. princìpi non potevano che condurre allo scontro: nel 1209 Innocenzo III indisse una
crociata contro gli Albigesi, chiedendo l’intervento del re di Francia, che attendeva so-
lo l’occasione per sottomettere le ricche e colte regioni della Francia meridionale. La
distruzione di Albi segnò l’inizio del declino delle eresie catare, che alla fine del seco-
lo si potevano ben dire debellate nel mondo cristiano. La crociata contro gli Albigesi
ebbe anche importanti conseguenze nella storia della letteratura europea, perché de-
terminò nel giro di un secolo la fine della grande esperienza poetica in lingua pro-
venzale (R 5.4).
Gli ordini mendicanti Il fascino esercitato dalle sette e dalle comunità ereticali non dipendeva solo dal
loro apparato dottrinale, e in particolare dalla violenta contestazione delle gerarchie
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Duecento e Trecento

ecclesiastiche, ma anche dalla personalità e dalla statura morale di chi sosteneva quelle
dottrine. La strategia che consentì alla Chiesa di sconfiggere le sette eretiche non fu
tanto l’uso della forza e degli strumenti inquisitoriali (di cui pure si dotò proprio al-
l’epoca) quanto la formazione di ordini religiosi che in qualche modo assorbissero al
loro interno le esigenze di povertà, carità, vita apostolica che molti settori della vita ci-
vile reclamavano. Tali ordini furono detti mendicanti perché rinunciavano ufficial-
mente a possedere beni fondiari o rendite fisse, e vivevano di pura elemosina.
I due ordini mendicanti maggiori, costituitisi entrambi agli inizi del Duecento, fu-
rono l’ordine francescano e l’ordine domenicano, così detti dai nomi dei fondatori,
san Francesco d’Assisi e san Domenico. All’ordine domenicano, approvato nel 1216, fu
assegnato il compito di difendere, insegnare e predicare l’ortodossia dottrinale: di qui
la centralità all’interno dell’ordine della preparazione teologica, necessaria per contro-
battere le posizioni ereticali, nonché il rapporto istituzionale con l’Università. Poco
dopo, nel 1223, fu approvato l’ordine francescano, che dopo la morte del fondatore fu
anch’esso coinvolto nell’opera di predicazione e di lotta all’eresia, assumendo un ruo-
lo di primo piano nell’ambito degli studi mistico-teologici. Ai due ordini appartengo-
no le due figure più prestigiose della filosofia duecentesca, quelle del francescano san
Bonaventura da Bagnoregio e del domenicano san Tommaso d’Aquino. L’importanza
di entrambi gli ordini è riconosciuta da Dante (Pd XII 37-45 [R Doc 3.3 ]), che attribui-
sce ad un provvidenziale intervento della grazia divina la nascita dei due uomini de-
stinati a salvare la Chiesa dalla sua dissoluzione.
Profetismo e millenarismo: Gioacchino da Fiore A un frate calabrese, Gioacchino da Fiore (1132
ca-1202), si deve la diffusione di un pensiero profetico-apocalittico destinato ad eserci-
tare una vasta influenza sui movimenti riformisti del XIII e XIV secolo. Verso la metà

Doc 3.2 Le tre età della storia

Gioacchino da Fiore, Il primo stato è quello durante il quale noi fummo sotto il dominio della Legge; il se-
Concordia Veteri et Novi
Testamenti (V), condo è quello durante il quale noi fummo sotto il dominio della grazia; il terzo è quel-
trad. di E. Buonaiuti, lo che noi attendiamo da un giorno all’altro, nel quale ci investirà una più ampia e gene-
in Le origini, rosa grazia. Il primo stato visse di conoscenza; il secondo si svolse nel potere della sapien-
a cura di A.Viscardi,
B. e T. Nardi, G.Vidos- za; il terzo si effonderà nella plenitudine dell’intendimento.1 Nel primo regnò il servag-
si, F. Arese, Ricciardi, gio servile; nel secondo la servitù filiale; il terzo darà inizio alla libertà. Il primo stato tra-
Milano-Napoli 1956
scorse nei flagelli; il secondo nell’azione; il terzo trascorrerà nella contemplazione. Il pri-
mo visse nell’atmosfera del timore; il secondo in quella della fede; il terzo vivrà nella ca-
rità. Il primo segnò l’età dei servi; il secondo l’età dei figli; il terzo non conoscerà che
amici. Il primo stato fu dominio di vecchi; il secondo di giovani; il terzo sarà dominio di
fanciulli. Il primo tremò sotto l’incerto chiarore delle stelle; il secondo contemplò la luce
dell’aurora; solo nel terzo sfolgorerà il meriggio. Il primo fu un inverno; il secondo un
palpitare di primavera; il terzo conoscerà la pinguedine2 dell’estate. Il primo non produs-
se che ortiche; il secondo diede le rose; solo al terzo appartengono i gigli. Il primo vide le
erbe; il secondo lo spuntar delle spighe; il terzo raccoglierà il grano. Il primo ebbe in re-
taggio3 l’acqua; il secondo il vino; il terzo spremerà l’olio. Il primo stato fu tempo di set-
tuagesima;4 il secondo fu tempo di quaresima; il terzo solo scioglierà le campane di Pa-
squa. In conclusione: il primo stato fu reame del Padre, che è il creatore dell’universo; il
secondo fu reame del Figlio, che si umiliò ad assumere il nostro corpo di fango; il terzo
sarà reame dello Spirito Santo, del quale dice l’apostolo: «dove è lo Spirito del Signore, ivi
è libertà (Paolo, II Cor., 3, 17)».

1 plenitudine dell’in- 2 pinguedine: abbon- 4 tempo di settuage- (settanta giorni circa pri-
tendimento: pienezza danza. sima: la terza domenica ma di Pasqua).
della comprensione. 3 retaggio: eredità. precedente la Quaresima

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3. Società e cultura nel XIII e XIV secolo STORIA

del secolo Gioacchino, durante un pellegrinaggio in Oriente, viene a contatto con il


mondo eremitico e decide di dedicarsi a una vita di penitenza e di meditazione. In se-
guito ha ancora occasione di viaggiare, in Sicilia, a Roma, nel Nord Italia, finché non
entra nell’ordine cistercense (1160-1189), dove matura la sua esperienza spirituale attra-
verso lo studio delle Sacre Scritture. Presto insoddisfatto della tradizionale vita monasti-
ca, nell’ultimo decennio della sua esistenza Gioacchino fonda un nuovo ordine mona-
stico, l’ordine florense (da san Giovanni in Fiore, sulla Sila, sede del primo centro reli-
gioso), che fu inizialmente autorizzato dal pontefice (1196). Al centro del suo pensiero è
l’intuizione profetica di un’imminente palingenesi cosmica, che avrebbe rinnovato spi-
ritualmente il mondo degli uomini. Gioacchino concepì la storia come svolgimento di
tre «stati» successivi: l’età del Padre (corrispondente all’epoca dell’Antico Testamento),
l’età del Figlio (caratterizzata dalla diffusione dei libri neotestamentari), l’età dello Spiri-
to Santo (ormai imminente, dominata dalla pace e dall’amore) [R Doc 3.2 ].
Dalla dottrina di Gioacchino, che aveva esaltato l’ideale assoluto della povertà e
della purezza evangelica, premessa necessaria all’avvento dell’età dello Spirito e della
Grazia realizzata, furono profondamente influenzate le correnti più estreme del fran-
cescanesimo: a Firenze, alla fine del XIII secolo, nella chiesa francescana di Santa Cro-
ce, ebbe a predicare Giovanni Olivi (morto nel 1298), che sosteneva l’imminenza di
grandi rivolgimenti spirituali e sociali: fra gli uditori di Giovanni Olivi, fu di certo an-
che Dante Alighieri, che a Gioacchino da Fiore assegnò nel suo Paradiso una posizio-
ne preminente, definendolo «di spirito profetico dotato» (Pd XII 141).
I movimenti dell’Alleluja e dei Disciplinati Su influsso degli ordini mendicanti e del pensiero
gioachimita si svilupparono numerose confraternite laiche che si prefiggevano scopi
morali e penitenziali sotto il controllo dell’autorità ecclesiastica. Allo sviluppo di tali
confraternite furono strettamente connessi due movimenti che godettero di un vasto
seguito popolare: quello dell’Alleluja (1233) e quello dei Disciplinati o Flagellanti
(1260-61). Quest’ultimo, fondato dal frate gioachimita Ranieri Fasani, determinò la
nascita di quasi duemila confraternite penitenziali, sparse non solo in Italia ma anche
negli altri paesi europei.
Conflitti all’interno dell’ordine francescano: Spirituali e Conventuali Già negli anni intorno al
1230, poco dopo la morte di Francesco (1226) e la sua canonizzazione (1228), molti
frati abbandonano la vita eremitica per stabilirsi nei conventi di città. L’influenza eser-
citata dai predicatori francescani era già vasta in ogni parte d’Europa, nelle Università
come nei luoghi di culto: ma proprio questo, paradossalmente, faceva risaltare l’estre-
ma fragilità della Regola del maestro, tutta concentrata sull’idea di povertà e di carità,
e perciò assai poco incline a stabilire una precisa gerarchia in seno all’ordine. Una par-
te dei francescani, i cosiddetti fraticelli o Spirituali, pretendeva di restar fedele alla let-
tera del messaggio francescano: rifiutava perciò di essere inquadrata in una struttura
ecclesiastica troppo rigida, così come era contraria ad ogni acquisizione di stabili resi-
denze monastiche. Un’altra parte, invece, che prese il nome di Conventuale, era favo-
revole a rafforzare il potere dell’ordine, a insediarsi nelle grandi città e nelle università,
a possedere chiese e conventi propri. I dissensi sembrarono quietarsi nel momento in
cui (era il 1257) venne nominato generale dell’ordine Bonaventura da Bagnoregio,
grande personalità umana e culturale, che mediò con equilibrio tra le due spinte in-
terne dell’ordine; ma dopo la sua morte (1274) i contrasti riesplosero più violenti.
Gli Spirituali sembrarono prevalere durante il breve pontificato di Celestino V
(1294), che diede il suo consenso alla nascita dei «poveri di Celestino», depositari del-
la Regola francescana nella sua integrità. Ma il successore Bonifacio VIII (1294-1303)
annullò gli atti del suo predecessore, imponendo agli Spirituali assoluta obbedienza al-
la gerarchia conventuale. Molti fuggirono in Grecia, dove si diedero a una vita eremi-
tica; altri, come Jacopone da Todi (R 4.3), combatterono apertamente contro Bonifa-
41 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento

cio, sostenendo con intransigenza la purezza dell’esempio francescano. Questa posizio-


ne implicava anche un netto rifiuto della cultura e della letteratura dominanti.
Lo scontro tra le due fazioni si può dire concluso, a favore dei Conventuali, solo
nel 1323, quando il pontefice Giovanni XXII condannò la teoria dell’assoluta povertà
di Cristo e degli Apostoli, e provvide a perseguitare le correnti degli Spirituali.

Doc 3.3 L’esercito di Cristo

Dante, La Divina
Commedia, 37 L’essercito di Cristo, che sì caro
Pd XII costò a rïarmar, dietro a la ’nsegna
si movea tardo, sospeccioso e raro,
40 quando lo ’mperador che sempre regna
provide a la milizia, ch’era in forse,
per sola grazia, non per esser degna;
43 e, come è detto, a sua sposa soccorse
con due campioni, al cui fare, al cui dire
lo popol disvïato si raccorse.

La cristianità militante, che Cristo poté rifornire di armi (i mezzi per combattere le forze del ma-
le) a un prezzo tanto alto (il suo sacrificio), si muoveva dietro alla croce fiacco, titubante e in nu-
mero ridotto, quando Dio, colui che regna in eterno, venne in soccorso del suo esercito, che ri-
schiava di disgregarsi, non perché ne fosse degno, ma soltanto per un atto di misericordia; e, come
è stato detto [da san Tommaso: Pd XI 31-36], portò aiuto alla sua sposa, la Chiesa, con due com-
battenti, grazie alla cui opera e predicazione il popolo sviato poté ravvedersi.

3.4 La cultura filosofica e scientifica nel XIII secolo


Mondo arabo e mondo cristiano Furono due i fatti che maggiormente incisero sull’evoluzione del
pensiero cristiano nel XIII secolo: il primo fu la nascita degli ordini mendicanti, di cui
si è detto; il secondo fu il ritorno in Occidente, grazie soprattutto alla mediazione del
mondo arabo, dei testi di Aristotele (384-322 a.C.), il grande filosofo greco di cui da
secoli si era perduta la conoscenza nel mondo latino (con l’unica eccezione dei due li-
bri di logica, tradotti e commentati in latino da Boezio agli inizi del VI secolo).
Nel XII secolo fu la Spagna a svolgere un ruolo fondamentale di mediazione tra la
cultura araba e quella occidentale. Penetrati nella penisola iberica nell’VIII secolo, gli
arabi avevano dato vita al califfato di Cordova, che raggiunse il suo apogeo economi-
co e culturale nel secolo X. All’epoca, quasi tutta la penisola iberica era musulmana, e
le comunità cristiane erano confinate sui monti del Nord. La frantumazione in emira-
ti del califfato di Cordova, nell’XI secolo, consentì la reazione dei sovrani di Castiglia
e il graduale recupero dei territori arabi: Toledo ritornò cristiana già nel 1085, Cor-
dova nel 1236, Siviglia nel 1248. A metà del XIII secolo, la Spagna musulmana era or-
mai ridotta al regno di Granada, che resistette tuttavia fino al 1492. In molti di questi
centri, nell’epoca del Basso Medioevo, finirono così per risiedere comunità di fede e
di cultura differenti (arabi, latini, ebrei) che operarono a stretto contatto, favorendo un
importante lavoro di traduzione dall’arabo e dal greco in latino o nelle lingue volgari.
Anche la corte imperiale di Federico II (1220-1250) si impose per un trentennio
come uno dei grandi centri di confronto tra le diverse culture mediterranee: fu a Pa-
lermo che operò il matematico pisano Leonardo Fibonacci (1170-1240), cui si deve
l’introduzione in Occidente del sistema numerale arabo. Testi di medicina (fra cui
quelli di Ippocrate e di Galeno), di matematica (Euclide) e di astronomia (Tolomeo)
furono tradotti in latino, per la prima volta, dal greco e dall’arabo nella scuola medica
42 © Casa Editrice Principato
3. Società e cultura nel XIII e XIV secolo STORIA

di Salerno e nell’Università di Napoli, fondata proprio da Federico II nel 1224 (R 6.).


L’aspetto più significativo di questo intenso lavoro culturale fu la traduzione dei te-
sti di Aristotele, che nel mondo arabo avevano continuato ad essere non solo letti ma
anche commentati. Alla fine del Duecento si può ben dire che il corpus delle opere ari-
stoteliche era stato quasi per intero tradotto in latino. Fra i commentatori arabi di Ari-
stotele particolare risalto avevano avuto Avicenna (980-1037) e Averroè (1126-1198),
che si erano già trovati ad affrontare il problema centrale che la lettura di Aristotele
avrebbe posto nel XIII secolo al mondo latino: integrare, cioè, il pensiero aristotelico
all’interno di una cultura religiosa monoteistica.
Il ruolo culturale degli ordini mendicanti e l’Università di Parigi Le conseguenze della diffusio-
ne dei testi aristotelici in Occidente furono rapide e sconvolgenti: i maggiori pensato-
ri cristiani furono costretti a prendere posizione pro o contro Aristotele. D’altronde, se
alcune tesi dell’aristotelismo (l’anima è mortale; il mondo è eterno) erano in totale
contrasto con la dottrina cristiana, altre (la verità è frutto solo di una ricerca razionale)
potevano essere discusse e riconsiderate. Il centro maggiore degli studi e delle discus-
sioni intorno all’aristotelismo fu l’Università di Parigi, fondata agli inizi del Duecento;
protagonisti furono le personalità provenienti dai due ordini mendicanti, che appena
dopo la morte di Francesco e Domenico avevano entrambi ottenuto una cattedra di
teologia all’Università parigina: nel 1229 i domenicani, nel 1231 i francescani.Vastissi-
ma fu l’eco delle discussioni filosofiche e teologiche che si svilupparono nell’arco
dell’intero secolo.
La competizione fra i due ordini fu aspra, dettata da scelte di campo opposte: l’or-
dine francescano approfondì la filosofia di tradizione platonico-agostiniana; quello do-
menicano si orientò verso il pensiero aristotelico. I maggiori esponenti dell’ordine do-
menicano furono Alberto Magno (1205 ca-1280) e Tommaso d’Aquino (1225-1274);
dell’ordine francescano Ruggero Bacone (1210 ca-1292) e Bonaventura da Bagnore-
gio (1221-1273).
Sarà Tommaso d’Aquino (1225-1274) a introdurre il pensiero aristotelico nel cor-
po della dottrina cristiana. Tommaso difende l’autonomia metodologica della ragione,
sostenendo che il campo d’azione dell’intelletto umano è il mondo sensibile e natura-
le, non quello sovrannaturale. E benché riconosca che la ragione naturale non debba
mai contraddire i dogmi della fede, finisce di fatto per favorire lo sviluppo autonomo
della ricerca razionale e una visione naturalistica della realtà mondana.
Bonaventura da Bagnoregio, maestro a Parigi dal 1248 al 1255, generale dell’ordi-
ne francescano dal 1257 alla morte (1273), sostenne, al contrario, il primato della fede
sulla ragione e della teologia su ogni altra forma di sapere, negando autonomia alla ri-
cerca filosofica. Quello che conta per un cristiano, insomma, non è tanto disputare
sulla natura del mondo e delle cose, quanto amare Dio nella semplicità del cuore e
della mente: Dio stesso ha già rivelato quello che serve alla salvezza dell’anima nei te-
sti sacri e ha già proposto i modelli esemplari di vita nelle figure di Cristo e dei santi.
La teologia, per il francescano Bonaventura, non è una scienza speculativa ma una
scienza pratica o morale: è una sapienza che vale solo se ci rende buoni.
E tuttavia, va sottolineato, la via mistica e agostiniana seguìta dall’ordine francesca-
no, così ostile al primato della ragione, finì per favorire più dell’indirizzo aristotelico-
tomista lo sviluppo delle scienze naturali, avviando la grande rivoluzione scientifica
moderna, fondata sul primato dell’esperienza e non della ragione. Fu proprio un fran-
cescano, Ruggero Bacone (1214-1292), ad affermare con risolutezza che fra i tre di-
versi metodi per raggiungere Dio (autorità, ragionamento, esperienza), proprio l’espe-
rienza, per secoli negletta, andava considerata come la più idonea: d’altro canto, se il
mondo è stato fatto da Dio secondo leggi divine, lo studio della natura non poteva
che essere il mezzo più adeguato per conoscere la natura divina.
43 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento

Il rinnovato interesse per il mondo della natura e il vigoroso slancio impresso dagli
studi aristotelici al metodo di indagine razionale sono due momenti fondamentali del-
la cultura duecentesca, che vediamo compresi e genialmente unificati nella visione
poetica dantesca: nei canti XI e XII del Paradiso, infatti, Dante fa pronunciare l’elogio
di Francesco e dell’ordine francescano a san Tommaso, e l’elogio di Domenico e dei
domenicani a san Bonaventura, conciliando le due proposte e sintetizzandole nell’uni-
co movimento ascensionale che porta l’uomo a congiungersi, sia pure in modi diver-
si, con Dio.

Durham
L’università
nel XIII secolo
Università fondate
Hereford Cambridge nel XIII secolo
Oxford Scuola urbana
Exeter
Deutz Scuola monastica
Canterbury Università nate
Tournai
da scuole anteriori
Liegi
al XIII secolo
Reims Stavelot
Chartres
Parigi
Angers
Tours Orléans Morimond
Cluny Vercelli Vicenza
Padova
Pavia
Tolosa Montpellier
Valladolid Bologna
Salamanca Arezzo
Coimbra Siena

Lisbona Toledo Montecassino

Napoli
Siviglia Salerno

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3. Società e cultura nel XIII e XIV secolo VERIFICA

VERIFICA

3.1 Nascita e sviluppo del mondo comunale


1 Indica le cause che favorirono la rivoluzione economica del Basso Medioevo.
2 Quale classe sociale può essere considerata protagonista di tale cambiamento?
3 Che cosa significò, in termini economici e sociali, la nascita dei Comuni?
4 Illustra, magari aiutandoti anche con la biografia dantesca (R 9.1), i fatti più significativi
che accaddero in Firenze fra Duecento e Trecento.

3.2 La concezione teocratica e la crisi dei poteri universali

5 Che cosa si intende, propriamente, con il termine «teocrazia»? Su quali fondamenti si af-
fermò nel Medioevo il progetto teocratico della Chiesa? Quali conseguenze produsse nei
rapporti fra Chiesa e Impero?
6 Quando, e in conseguenza di quali accadimenti storici, si può dire che entrano in crisi
nell’Europa cristiana i poteri universali?
7 Illustra le tesi più significative sostenute da Marsilio da Padova nel suo Defensor pacis.

3.3 La vita religiosa nel XIII secolo

8 Esponi in sintesi i motivi che indussero la Chiesa, intorno al Mille, a una radicale riforma
ecclesiastica.
9 Che cosa sono i movimenti pauperistici? Quando cominciarono a diffondersi, e in seguito
a quali avvenimenti?
10 Riassumi le tesi fondamentali elaborate nell’ambito del movimento valdese.
11 Chi sono i catari? Quali dottrine sostengono? Perché la Chiesa li combatté fino ad an-
nientarli? In quale epoca il movimento cataro venne liquidato? E in che modo?
12 Che cosa sono gli ordini mendicanti? Quando vennero fondati? Con quali obiettivi?
13 Esponi le tesi millenaristiche sostenute da Gioacchino da Fiore, inquadrandole nel conte-
sto storico e religioso in cui sorsero.

3.4 La cultura filosofica e scientifica nel XIII secolo

14 Spiega l’importanza culturale che assunsero, dopo il Mille, i contatti fra mondo arabo e
mondo cristiano. Sapresti indicare i centri in cui tali contatti furono apertamente favoriti?
15 Delinea le due correnti che si contrapposero all’interno dell’ordine francescano.
16 Quale fu l’importanza della riscoperta di Aristotele rispetto all’evoluzione del pensiero
nell’Occidente cristiano?
17 Quali furono le scelte filosofiche operate in seno all’ordine francescano? Quali invece nel-
l’ambito dell’ordine domenicano?
18 Quale fu l’atteggiamento di Dante nei confronti dei due grandi ordini mendicanti, france-
scano e domenicano?

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Duecento e Trecento

La nascita della letteratura italiana.


4 La poesia religiosa
n Giotto, Affreschi del ciclo
di san Francesco: l’omaggio
di un uomo semplice (Basilica
superiore di Assisi).

I primi documenti letterari in uno dei volgari ita- considerato il Cantico di Frate Sole, che Francesco
liani si collocano tra la fine del XII secolo e il 1224, d’Assisi compose nel 1224, poco prima della sua
anno di composizione del Cantico di san Francesco. morte. È un testo scritto in volgare umbro e musicato
Sono testi d’argomento sia sacro che profano, sono per essere recitato e cantato in pubblico e in privato
probabilmente opera di giullari e appartengono ad dai frati del suo ordine e dalla gente comune. Per
aree geografiche diverse. Da un punto di vista lette- qualità, fascino e densità di significato è di gran lun-
rario sono testi piuttosto modesti, ma sono importan- ga superiore a tutti i precedenti documenti. È un se-
ti come documenti storici, perché mostrano come in reno canto di lode a Dio e di celebrazione del creato,
quell’epoca in più zone la situazione fosse ormai ma- ancor oggi in grado di suscitare intensa emozione
tura per lo sviluppo di un’attività letteraria consape- nei lettori credenti e non credenti.
vole. Dopo la morte di san Francesco numerosi scritti
Il primo testo canonico della letteratura italiana è vennero dedicati a ricostruire e celebrare la sua vita.

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4. La nascita della letteratura italiana. La poesia religiosa STORIA

n Incipit di un laudario di Ja- Tutti insieme costituiscono la cosiddetta Leggenda


copone da Todi. francescana. Alcuni, destinati al pubblico colto, sono
più accurati e scrupolosi della verità storica; altri, de-
stinati perlopiù a un pubblico popolare, si propongono
fini celebrativi ed edificanti più scoperti e selezionano
episodi esemplari, ingenui e patetici della vita del
santo, insistendo soprattutto sui miracoli. Fra questi
notevole per la sua freschezza è soprattutto un testo
trecentesco, I fioretti di San Francesco.
Dopo la morte di san Francesco la poesia religiosa
in volgare si sviluppa copiosa imboccando però stra-
de diverse da quella del Cantico, per sensibilità, spiri-
tualità e tematiche, ora indugiando su episodi della
storia sacra e della vita di Cristo, ora viceversa adot-
tando una visione cupa e drammatica della fede e del
rapporto tra uomo, Dio e natura.
Notevole è soprattutto la diffusione delle laudi (in-
ni di lode), composte sul metro profano della ballata
ed eseguite collettivamente da parte di comunità di
preghiera o «confraternite» religiose.
Un caso eccezionale e di qualità letteraria assai
notevole è costituito dal Laudario di Jacopone da To-
di (1230-1306 ca.), un frate francescano intransigen-
te seguace della corrente rigoristica degli Spirituali. È
il solo laudario personale (cioè composto da un solo
autore) che ci sia rimasto, e probabilmente non era
destinato alla pubblica esecuzione. La spiritualità di
Jacopone e i temi del suo laudario sono molto diversi
da quelli di san Francesco. Egli ora inclina verso un
esasperato misticismo, descrivendo la dolcissima ma
violenta esperienza del superamento dei limiti dell’u-
mano e del mistico abbandono in Dio; ora viceversa
rappresenta un sentimento doloroso del peccato, un
disprezzo profondo del mondo e in particolare un vero
e proprio orrore del corpo, dando un quadro impietoso
n Jacopone da Todi in pri- e desolato della condizione umana. A sé sta invece la
gione, condannato da papa mirabile Donna de Paradiso, lauda dialogata sulla
Bonifacio VIII ostile agli Spiri-
tuali (disegno da un laudario crocifissione e morte di Cristo.
del XV secolo). Nell’ambito della vasta produzione d’argomento
morale e religioso a carattere didascalico, si segnala-
no infine alcuni testi che costituiscono degli antece-
denti della Commedia di Dante, in quanto rappresen-
tano, anche se in forme ingenue e rozze, l’aldilà (co-
me nel caso di alcuni poemetti di Giacomino da Ve-
rona e di Bonvesin de la Riva) o, in forme allegoriche
più elaborate, il tema del viaggio verso la redenzione
(come nel caso di una prosa di Bono Giamboni).

47 © Casa Editrice Principato


Duecento e Trecento

4.1 Prime testimonianze letterarie


Dai documenti linguistici a quelli letterari I primi documenti letterari composti in uno dei volga-
ri in uso in Italia si collocano tutti in un’epoca che va dall’ultimo decennio del XII se-
colo al 1224, anno in cui con ogni probabilità viene composto il Cantico di Frate Sole di
san Francesco. Dalla comparsa dei primi documenti linguistici sono trascorsi oltre due
secoli. Nel frattempo, a partire dalla fine del XII secolo, specialmente in Francia si è svi-
luppata una ricca letteratura in volgare d’argomento sia religioso sia profano (R 5.).
Stabilire quale differenza ci sia tra un testo comune e un testo letterario è una que-
stione complessa, che qui non possiamo affrontare. Ci limitiamo ad osservare che per
le origini vengono comunemente considerati documenti letterari quei testi che, pur
obbedendo talora ad intenti pratici (il ringraziamento per un dono o una lode a Dio),
rivelano nell’autore, anche se minime, un’intenzione e una consapevolezza d’arte che
si manifestano ad esempio nella forma ritmata (una sorta di rudimentale versificazio-
ne) e in un linguaggio particolarmente ricercato.
I primi documenti letterari in volgare italiano I primi documenti letterari, prodotti verosimilmen-
te da giullari, appartengono ad aree diverse: soprattutto l’Italia centrale (Cassino e le
Marche), ma anche la Toscana e l’Italia settentrionale. Il più antico si deve a un trovato-
re provenzale, Raimbaut de Vaqueiras, che prima del 1194 (anno della sua morte) com-
pose due testi che alternano il provenzale ad altri volgari, compreso un dialetto genove-
se. Ma a cavallo del secolo sono composti anche il Ritmo bellunese e il Ritmo lucchese, che
celebrano vittorie militari dei rispettivi comuni, il Ritmo laurenziano, che celebra la mu-

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4. La nascita della letteratura italiana. La poesia religiosa STORIA

nificenza del vescovo Grimaldesco che ha donato un cavallo all’autore, il Ritmo cassine-
se, che presenta un ‘contrasto’ tra un saggio orientale e un saggio occidentale, e il Ritmo
su sant’Alessio, d’area marchigiana, che narra la storia edificante di sant’Alessio. Recen-
temente è stato poi scoperto un testo poetico, Quando eu stava in le tu’ cathene, databile
fra il 1180 e il 1210, che potrebbe attestare la presenza in questo periodo anche di una
poesia lirica profana su tema amoroso.
Si tratta di testi letterariamente piuttosto modesti, ma assai importanti come docu-
menti storici, perché mostrano come verso la fine del XII secolo e gli inizi del succes-
sivo in più zone geografiche la situazione fosse ormai matura per lo sviluppo di un’at-
tività letteraria consapevole. Ma verso la metà del secondo decennio del Duecento
quasi contemporaneamente in Umbria, con san Francesco, e in Sicilia, con i poeti at-
tivi alla corte di Federico II, lo sviluppo in Italia di un’attività letteraria in volgare co-
nosce una forte accelerazione e raggiunge esiti qualitativamente notevoli.

Doc 4.1 Ritmo laurenziano

Poeti del Duecento, Salva lo vescovo senato, Salute al vescovo di Iesi,


a c. di G. Contini, lo mellior c’unque sia nato, il migliore che mai sia nato,
Ricciardi, Milano-
Napoli 1960
ce [dall’]ora fue sagrato che da quando fu consacrato
tutt’alluminal cericato. dà lustro a tutto il clero.
Né Fisolaco né Cato Né il Fisiologo né Catone
non fue sì ringratïato: furono tanto colmi di doti:
el pap’à llui[dal destro l]ato il papa lo tiene alla sua destra
per suo drudo plù privato. come l’amico più intimo.
Suo gentile vescovato Il suo nobile vescovato
ben è cresciuto e melliorato. è ben cresciuto e migliorato.
L’apostolico romano Il papa romano
lo [sagroe in] Laterano; lo ha consacrato in Laterano;
san Benedetto e san Germano san Benedetto e san Germano
l destinoe d’esser sovrano lo hanno destinato a essere sovrano
de tutto regno cristïano [...] di tutto il regno cristiano [...]

4.2 San Francesco e la leggenda francescana


Il Cantico di Frate Sole Nel 1224, poco prima della sua morte, san Francesco d’Assisi compose il Canti-
co di Frate Sole o Cantico delle creature, che viene considerato il primo testo canonico
della letteratura italiana [R T 4.1 ]. È una preghiera e una lode a Dio che Francesco vol-
le scrivere in volgare e – a quanto pare – musicò personalmente, perché potesse esse-
re recitato e cantato in pubblico e in privato dai frati del suo ordine e dalla gente co-
mune. La scelta del volgare è consapevole e obbedisce a un intento di diffusione pres-
so un largo pubblico. È composto in un volgare umbro, ricco di latinismi (il latino era
lingua corrente non solo nella liturgia).
Si tratta di un testo di grande qualità e fascino, un testo assai elaborato da un punto di
vista retorico e ricco di possibili implicazioni culturali (riferimenti biblici e teologici), che
segna uno scarto netto rispetto a tutti i documenti precedenti per qualità e densità di si-
gnificato. Per molto tempo è stato però considerato l’espressione di una religiosità inge-
nua e addirittura primitiva: ciò probabilmente è dovuto anche alla capacità dell’autore di
tradurre una rigorosa visione di Dio e del creato, nutrita anche di riflessioni dottrinali, in
49 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento

un linguaggio accessibile a tutti, e in immagini semplici, di grande evidenza e di forte im-


patto emotivo, come era nello spirito della più autentica predicazione cristiana. La lode a
un Dio che nella sua trascendenza non è direttamente conoscibile dall’uomo, si concreta
in una lode delle sue creature (essenzialmente i quattro elementi aria, acqua, fuoco, terra,
ma anche gli uomini che perdonano per amor di Dio, e la stessa «morte corporale»), che
sono la manifestazione sensibile della sua potenza, della sua bontà e della sua giustizia. De-
gli elementi naturali vengono esaltate la purezza, la bellezza e l’utilità per l’uomo, in una
visione della natura serena e a tratti addirittura gioiosa, che contrasta con molte altre ma-
nifestazioni della spiritualità medievale, spesso incline al disprezzo del corpo e al timore
nei confronti di una natura sentita come minacciosa. Questa positività è il tratto più tipi-
co della spiritualità francescana e l’elemento più significativo della sua poesia, che ancor
oggi è in grado di suscitare intensa emozione nei lettori credenti e non credenti.
[  INTERPRETAZIONI DI SAN FRANCESCO]
La leggenda francescana Dopo la morte e la canonizzazione di san Francesco sia la curia romana sia
l’Ordine francescano sentirono l’esigenza di definire e divulgare ulteriormente la fi-
gura e la vicenda spirituale del santo. Lo fecero nei modi e nelle forme allora corren-
ti dell’agiografia (biografia di santi, dal greco àghios, santo).
Fra gli scopi – soprattutto da parte della curia romana – c’è quello di ancorare il
francescanesimo all’ortodossia cattolica, evitandone interpretazioni pericolose che po-
tessero alimentare i movimenti ereticali. Ma nelle complesse vicende della ricostru-
zione della biografia del santo, specie in tema di alcune sue scelte radicali, come quel-
la di una rigorosa povertà, si sente anche l’eco del dibattito fra Spirituali e Conven-
tuali, che infiammò l’Ordine per tutto il Duecento.
I testi Fra i numerosi testi, composti fra Duecento e Trecento, che costituiscono la leggen-
da francescana è da ricordare qui almeno la Legenda prima (1229) di Tommaso da Ce-
lano, un’opera piuttosto scarna, soprattutto per quanto riguarda la vita di Francesco
con i suoi primi compagni e la narrazione dei miracoli del santo, che non piacque
molto all’Ordine e che venne quindi dallo stesso autore rielaborata nella più ampia
Legenda secunda (1246-1247) e quindi sviluppata nel Tractatus de miraculis [Trattato dei
miracoli] (1252-1253). Ma, oltre ad alcune opere anonime di natura edificante (la Le-
genda trium sociorum [Leggenda dei tre compagni], lo Speculum perfectionis [Specchio di perfe-
zione] e gli Actus beati Francisci et sociorum eius [Imprese del beato Francesco e dei suoi com-
pagni]), è soprattutto importante la Legenda maior di san Bonaventura da Bagnoregio
(1260-63), un’opera diversa dalle precedenti, assai più complessa e rigorosa nella do-
cumentazione, che divenne presto la biografia ufficiale del santo.
Due tendenze Nello sviluppo due-trecentesco della leggenda francescana si constatano due princi-
pali e opposte tendenze. La prima e più consistente è quella di una riduzione della vi-
ta del santo a una serie di episodi edificanti e patetici, rievocati spesso nei modi di un
commosso lirismo e con una particolare enfasi sugli eventi miracolosi: ne consegue

▍ L’autore San Francesco

Nato ad Assisi intorno al 1182, Francesco, figlio di ricchi mercanti, trascorse la giovinezza go-
dendo di quegli agi che la situazione familiare gli permetteva. Non mancò, fra l’altro, di un’edu-
cazione letteraria. Il cambiamento di vita avviene verso il 1206: Francesco si dà a una rigorosa
pratica di povertà e intraprende una predicazione itinerante che si ispira ai precetti evangelici
dell’umiltà, della penitenza, dell’amore fra le creature, e propone un rinnovamento delle coscien-
ze e delle istituzioni che era un’esigenza profondamente sentita dalla coscienza religiosa contem-
poranea. Francesco incanala questa esigenza all’interno della Chiesa ufficiale e fonda un Ordine
religioso che nel 1210 viene approvato solo verbalmente da Innocenzo III. Poi, mosso da arden-
te spirito di apostolato, si reca a predicare in Terrasanta e in Egitto. Nel 1223 l’Ordine viene ri-
conosciuto ufficialmente da Onorio III. Muore nel 1226.

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4. La nascita della letteratura italiana. La poesia religiosa STORIA

anche una netta semplificazione della spiritualità francescana, che, depurata d’ogni
conflitto e perplessità, trasmette un’immagine del santo assolutamente serena, e ne fa
spesso un personaggio candido e ingenuo. La seconda è quella di una rappresentazio-
ne più problematica e teologicamente consapevole, che narra in modo sistematico la
vita di san Francesco, facendone talora (Legenda maior) un personaggio eroico, una fi-
gura di Cristo alle prese con la complessità della realtà culturale e sociale del tempo in
cui egli operò.
I Fioretti di san Francesco Al culmine di questa tradizione, tra il 1370 e il 1390, vennero composti da un
anonimo frate minore i Fioretti di san Francesco, l’opera più popolare e famosa della leg-
genda francescana, che oggi si considera un volgarizzamento dei precedenti Actus bea-
ti Francisci. I Fioretti sono una narrazione limpida e poetica, che con commossa parte-
cipazione e genuina immediatezza rievoca la vita di Francesco e dei suoi compagni
avvolgendola di un alone miticofavoloso: nelle azioni miracolose ma anche in quelle
della semplice vita quotidiana, nelle parole, nei gesti, nelle estasi e nelle sofferenze di
Francesco, nella sua serena povertà, l’autore contempla con occhi ammirati e stupefat-
ti – si direbbe – un esempio perfetto e rasserenante di umiltà, di fede, di speranza e di
carità. I Fioretti sono dunque la testimonianza di una fede ingenua e spontanea, priva
di ogni complicazione intellettualistica, di ogni problematicità sociale e teologica, tut-
ta risolta nell’incondizionata ammirazione e celebrazione delle virtù del fondatore
dell’Ordine, che tuttavia viene ridotto a un’unica dimensione e privato di molti dei
tratti di combattiva risolutezza e anche delle spigolosità che ne fanno una figura stori-
camente e umanamente complessa [R T 4.1 Doc 4.6 ].
Il fascino ancora attuale di quest’operetta dipende anche dalla limpidezza della lin-
gua e dello stile, che ne fecero, ancora nell’Ottocento, un modello di purezza origina-
ria della lingua.

4.3 Jacopone e la lauda


La lauda e i movimenti religiosi Dopo la morte di san Francesco, la poesia religiosa, che nei secoli
precedenti aveva avuto una rigogliosa diffusione in latino, si sviluppa copiosa anche in
lingua volgare. Non si può semplicemente dire, tuttavia, che il Cantico di Frate Sole ab-
bia fatto scuola: se è vero che esso costituì un modello prestigioso per la scelta del vol-
gare, è anche vero che nei casi più notevoli la successiva poesia imboccò in prevalenza
strade diverse, per sensibilità, spiritualità e tematiche dominanti. Da un lato privilegiò
soprattutto la rappresentazione di momenti della storia sacra e in particolare scene del-
la vita di Cristo in funzione liturgica; dall’altro inclinò verso una visione più cupa e
drammatica della fede e del rapporto tra uomo e natura, rispetto a quelli del Cantico.
Il fatto storicamente e letterariamente più notevole è la rapida diffusione, nel corso
del Duecento, di una forma sostanzialmente nuova: la lauda (inno di lode) in volgare.
La novità e la rilevanza sociale della lauda consiste soprattutto nel fatto che si tratta di
testi che venivano composti ed eseguiti collettivamente da parte di comunità di pre-
ghiera o «confraternite» sorte spesso spontaneamente e che, invece di ispirarsi alle for-
me dell’innografia religiosa latina, prendevano come modello metrico la ballata, una
forma cioè della poesia profana.
La lauda e i movimenti religiosi (dell’Alleluja e dei Flagellanti) Lo sviluppo della lauda va in-
nanzitutto collocato nel contesto delle forme di devozione popolare attuate dai nu-
merosi movimenti religiosi che caratterizzarono il Duecento e che videro processioni
spontanee di gente comune percorrere le campagne e le città intonando canti e inni
di lode a Dio e alla Vergine.
Uno dei primi movimenti di questo tipo con qualche attinenza alla storia letteraria in
volgare è quello dell’Alleluja, che sorse nel 1233 in Umbria e che presto si diffuse nel-
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Duecento e Trecento

l’Italia centro-settentrionale. I canti di lode che si intonavano durante le prediche o le


processioni furono però manifestazioni per lo più effimere, legate all’uso orale della lin-
gua, di cui si serbano solo poche testimonianze frammentarie.
Più tardi, nel 1260, per l’impulso di Ranieri Fasani, un frate gioachimita, ebbe origine
un altro movimento, quello dei Disciplinati o Flagellanti. Anch’esso, muovendo dal-
l’Umbria, si diffuse in tutta Italia e rinnovò in forme più drammatiche la pratica della
processione, della preghiera e del canto collettivo, segnando anche la nascita ufficiale del-
la lauda in volgare. Invitate dal Fasani a mortificare il corpo, le folle dei seguaci infatti
«percorrevano le strade flagellandosi e pregando, e alternavano la recitazione degli inni
liturgici tradizionali in latino con i nuovi canti volgari, che subito fecero presa fra gli
adepti» (Pasquini). Dapprima i testi vennero diffusi oralmente, poi per iscritto di confra-
ternita in confraternita. I Flagellanti sono i primi a usare la forma profana della canzone
a ballo, probabilmente con l’intento polemico di rivendicare all’ambito del sacro un me-
tro prima destinato a temi licenziosi. Le caratteristiche del movimento che decretò il
successo della forma nuova della lauda spiegano bene anche i tratti peculiari di gran par-
te di questa produzione, incline a privilegiare i temi della Passione di Cristo e del dolo-
re della Vergine, o a manifestare un esasperato misticismo.
Il Laudario di Cortona Dato questo potente impulso collettivo, la lauda si sviluppò copiosamente già nel
corso del Duecento e poi nei due secoli successivi. Rimane una grande quantità di testi,

Doc 4.2 I movimenti dell’Alleluja e dei Flagellanti secondo Salimbene de Adam

Alleluja «Da ogni contrada venivano in città coi loro gonfaloni, in schiere immense, uomini e donne, ragaz-
zi e ragazze, ad ascoltare le prediche e a lodare Dio; e cantavano con voci divine piuttosto che umane. […] E
portavano in mano rami d’albero e candele accese; e si predicava al vespro, di mattina e a metà del giorno, se-
condo il Profeta […]. E si facevano soste nelle chiese e nelle piazze; e si levavano le mani al cielo per lodare Dio
e benedirlo nei secoli. E non desistevano un attimo dalle loro lodi, tanto erano inebriati dall’amore di Dio; e
beato chi poteva fare più bene e lodare Dio».

Flagellanti «Nell’anno del Signore 1260, [...] comparivano i flagellanti su l’intera faccia della terra e tutti gli
uomini, grandi e piccoli, nobili cavalieri e popolani, si spogliavano e camminando in processione attraverso le
città si frustavano duramente: incedevano, davanti, i vescovi e i religiosi.
E si faceva da ogni parte la pace e restituiva la gente il maltolto e confessavano i so’ peccati, tanto che i sacer-
doti avevano appena appena il tempo di mangiare.
E sulle loro bocche risonavano parole divine e non umane, la loro voce era come grido di moltitudine. E
camminava la gente nella salvazione.
E componevano laude divine in onore di Dio e della beata Vergine e le cantavano, nel mentre che andavan
passo passo flagellandosi nelle processioni. »

n I flagellanti in una miniatu-


ra del XIV secolo.

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4. La nascita della letteratura italiana. La poesia religiosa STORIA

Doc 4.3 Laudario di Cortona, Altissima luce

Poeti del Duecento, 2 aggiam consolanza:


a c. di G. Contini,
Altissima luce – col grande splendore troviamo consolazione.
Ricciardi, Milano- in voi, dolze amore, – aggiam consolanza 6 formosa: soave (dal
Napoli 1960 lat. formosa, bella).
7 vasello: vaso (utero)
Ave, regina, – pulzella amorosa, destinato ad accogliere
stella marina – che non stai nascosa, Cristo.
5 luce divina, – virtù grazïosa, 12 umanitade ... co-
niungesti: dando alla luce
bellezza formosa, – de Dio se’ semblanza. Cristo, hai congiunto la
natura divina con quella
Templo sacrato, – ornato vasello, umana.
14 delettanza: diletto.
annunzïato – da san Gabrïello, 15 Fosti ... plantata : è
Cristo è’ ncarnato – nel tuo ventre bello, un’immagine biblica.
10 frutto novello – con gran delettanza. 16 disponsata: sposata.
17 imperadrice ... ’difi-
cata: sei stata fatta (edifica-
Verginitade – a Dio promettesti, ta) imperatrice.
umanitade – co.llui coniungesti, 18 pïetanza: pietà.
19 rivera: fiume.
con puritade – tu sì ’l parturisti, 20 spera: raggio.
non cognoscesti – carnal delettanza. 22 sì ch’asavori ... beni-
nanza: cosicché io possa
(noi peccatori possiamo)
15 Fosti radice – in cielo plantata, assaporare la tua benevo-
madr’e nutrice – a Dio disponsata: lenza.
imperadrice – tu se’ ’dificata, 24 a vita: alla vita ultra-
terrena.
nostra avvocata – per tua pïetanza. 26 turbanza: turbamen-
to.
Fresca rivera – ornata di fiori,
20 tu se’ la spera – di tutti i colori:
guida la schiera – di noi peccatori,
sì ch’asavori – de tua beninanza

Ave Maria, – di gratïa plena,


tu se’ la via – ch’a vita ci mena:
25 di tenebria – traesti e di pena
la gente terrena, – ch’era ’n gran turbanza.

[...]

quasi tutti anonimi, dei quali è difficile stabilire l’esatta cronologia: probabilmente molte
delle redazioni a noi giunte sono però trecentesche. Il più antico e più importante cor-
pus di testi conservatoci è il Laudario di Cortona (posteriore al 1270), a cui appartengono
l’esemplare e cupo Chi vol lo mondo desprezzare [  PT LA MORTE E L’ALDILÀ] e nume-
rosi inni alla Vergine, come questo, assai bello e fitto di rime e di nitide immagini.
Il Laudario personale di Jacopone Un caso a sé, davvero eccezionale, è invece il Laudario del frate mi-
nore Jacopone da Todi (1230-1306 ca.), accanito e intransigente seguace della cor-
rente rigoristica degli Spirituali, guidata in quegli anni da Ubertino da Casale. L’ele-
mento di eccezionalità di quest’opera, rispetto a quelle di cui si è parlato or ora, è che
si tratta di un laudario personale, interamente composto cioè da un singolo autore e
non immediatamente destinato all’esecuzione pubblica, popolare. Si pensa invece che
Jacopone si rivolgesse ai confratelli con intenti didascalici, proponendosi cioè di tra-
smettere loro i valori del suo acceso misticismo e del suo rigoroso ascetismo.
La personalità di Jacopone nei testi leggendari La tempra umana di Jacopone ci è trasmessa dalle
consuete fonti leggendarie che, per quanto non sempre attendibili sul piano docu-
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Duecento e Trecento

mentario, lasciano di lui un’immagine radicalmente diversa da quella di san Francesco:


si accentua l’intransigenza provocatoria e la stranezza dei comportamenti di Jacopone.
Un esempio per tutti: «facendose una fiata [una volta] una certa festa nella sua città di
Tode, dove era congregato una gran parte del populo, quisto beato in fervore de spiri-
to e infocato da questa vilità del mondo, se spogliò nudo, e preso uno imbasto de asi-
no se lo puose adosso, e pigliò lo codagno [la cavezza] co la propria bocca, ed andava
con le mani e co li piedi a rietro, como che fosse stata una bestia asinina. E così sella-
to, se n’andò intra quella gente che facea festa». L’aneddoto, a parte la provocatoria
stravaganza del suo comportamento, mette bene in evidenza quelle che sono le due
peculiarità della sensibilità di Jacopone: il «fervore de spirito», quello stato cioè di ec-
citazione che è manifestazione esteriore dell’esaltazione mistica, e il sentimento della
«vilità del mondo», che induce il frate ad umiliare se stesso, sino all’autoderisione, in
quanto rappresentante di un mondo impuro e vile. Il paradosso cristiano della follia
del credente, se misurata con il metro del società laica, che aveva indotto san Francesco
ad abbandonare ogni bene terreno e ad accogliere l’aborrita povertà come un bene
prezioso, si trasforma qui in un comportamento eccessivo, oltranzistico.
I temi del laudario: l’esperienza mistica La stessa impressione di radicale contrasto rispetto al fon-
datore dell’Ordine che ci è tramandata dai testi leggendari, si ha appena si scorra il suo
laudario. Uno dei grandi temi del laudario jacoponico e uno dei tratti fondamentali
della cultura e della spiritualità del suo autore è appunto il misticismo. L’aspirazione al
«trasumanare», a oltrepassare cioè, in un raptus di amore sublime, i limiti del corpo e
della natura umana per elevare l’anima sino alla fusione, all’annullamento in Dio. A più
riprese Jacopone descrive questa esperienza che è indicibile nella sua essenza profonda
(«trasumanar significar per verba non si poria», dirà anche Dante), ma che si concreta
in comportamenti che appaiono insensati agli occhi delle persone che non la vivono e
che è tale proprio perché è un’esperienza sovrumana. In Jacopone anzi essa è spesso
un’esperienza dolcissima sì, ma violenta. Balbettii, parole insensate, comportamenti
stravaganti sono descritti come manifestazioni esteriori di uno stato d’animo di inten-
sità smisurata, di una gioia profonda, rispetto alla quale qualsiasi decoro terreno non ha
alcun senso. L’esmesuranza, la dismisura, l’eccesso di questa esperienza intima, ma anche
delle manifestazioni visibili che essa induce, è uno dei termini chiave del laudario ja-
coponico.
Ascetismo e orrore del corpo L’amoroso desiderio di Dio che genera questa gioiosa esperienza del
trasumanare si associa in Jacopone a un sentimento doloroso del peccato e della totale
inadeguatezza dell’uomo e sua personale rispetto a Dio, a un disprezzo profondo del
mondo sensibile e in particolare a un vero e proprio orrore del corpo. Una sorta di fu-

▍ L’autore Jacopone da Todi

Jacopone nacque a Todi verso il 1230 dalla nobile famiglia dei Benedetti, e dopo aver studiato a
Bologna esercitò nella sua città l’attività di notaio. Secondo una biografia duecentesca, il cam-
biamento fondamentale della sua vita avvenne nel 1268 in seguito alla morte della moglie, cau-
sata dal crollo del pavimento di una sala dove si svolgeva una festa: la scoperta di un cilicio sul
corpo di lei rappresentò una rivelazione che lo spinse a una vita di mortificazione. Dieci anni
dopo entrò nell’ordine dei frati minori. Nelle lotte che opponevano la fazione dei Conventuali
(che erano propensi ad applicare in modo elastico la regola di san Francesco) e quella degli Spi-
rituali (che si battevano per una sua rigida applicazione e per l’assoluta povertà) si schierò con
questi ultimi. Bonifacio VIII perseguitò gli Spirituali, e lo scontro con Jacopone, che aveva già
polemizzato con lui, fu inevitabile: imprigionato nel 1298, Jacopone fu liberato solo nel 1303,
dopo la morte di Bonifacio. Trascorse gli ultimi anni di vita in un convento dell’Umbria e morì
attorno al 1306.

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4. La nascita della letteratura italiana. La poesia religiosa STORIA

Doc 4.4 Jacopone da Todi, Senno me par e cortesia

Poeti del Duecento, Senno me par e cortesia, trovarà dottrina nova:


a c. di G. Contini, empazzir per lo bel Messia. la pazzia, chi non la prova
Ricciardi, Milano-
Napoli 1960
Ello me par sì gran sapere, ià non sa che bene se sia.
a chi per Dio vole empazzire, Chi vole entrare en questa danza,
5 en Parisi non se vide 20 trova amore d’esmesuranza:
cusì granne filosofia. cento dì de perdonanza
Chi pro Cristo va empazzato, a chi li dice villania.
pare afflitto e tribulato, Chi va cercando onore,
ma è maestro conventato, non è degno de lo Suo amore,
10 en natura e ’n teologia. 25 ché Iesù fra dui ladruni
Chi pro Cristo ne va pazzo, en mezzo la croce staia.
alla gente sì par matto: Chi va cercando la vergogna,
chi non ha provato el fatto, bene me par che cetto iogna:
pare che sia for de la via. ià non vada più a Bologna
15 Chi vole entrare en questa scola, 30 per emparare altra maestria.

4 a chi ... empazzire: in filosofia naturale e in Cristo è fonte di gioia per strofe) sulla croce.
se qualcuno vuole impaz- teologia. chi conosce la dottrina no- 28 bene ... iogna: ben
zire. 11 pro: per. va; sentirsi umiliato, come mi pare che presto (cetto)
5 en Parisi : a Parigi, 13 chi: a chi. Cristo che volle morire fra «consegua (il suo fine mi-
sede di una celebre facoltà 14 for de la via: fuori due ladroni, è fonte di gra- stico)» (Contini).
di teologia (vide, presente: della retta via, fuorviato. tificazione). 29-30 ià ... maestria: or-
“vede”). 20 d’esmesuranza: a di- 23 onore: riconosci- mai non vada più a Bolo-
7 va empazzato: im- smisura, smisurato. menti mondani (anche per gna (altra famosa univer-
pazzisce. 21-22 cento ... villania: la propria dottrina teolo- sità) per imparare una di-
9-10 ma ... conventato: cento giorni di indulgenza gica). versa dottrina.
e invece è un maestro ad- a chi gli dice villania (l’in- 26 en mezzo ... staia:
dottorato (conventato, am- sulto di chi non ha prova- stava (da leggersi staìa, in
messo all’insegnamento) to e non capisce la follia in rima con i versi finali delle

rore ascetico, un’ansia di umiliazione e mortificazione del corpo sino all’annichilimen-


to domina molte laudi [R T 4.2 ]. Nella lauda O Segnor per cortesia, ad esempio, Jacopone
invoca Dio affinché gli mandi tutte le più orribili malattie e auspica che la sua tomba
sia il ventre di un lupo e le reliquie del suo corpo siano defecate tra spini e rovi, il tut-
to come autopunizione per il fatto di appartenere a quell’umanità che ha crocifisso
Cristo. In questo senso Jacopone rappresenta bene la spiritualità medievale più cupa e
intransigente, ispirata a quel contemptus mundi (disprezzo del mondo) che aveva dato il
titolo a una famosa operetta di Lotario di Segni, papa col nome di Innocenzo III.
Una società senza speranza di riscatto A questa visione pessimistica della natura umana corrispon-
de una rappresentazione impietosa della vita terrena e dell’umana società: il laudario
di Jacopone è popolato di digiuni, flagellazioni, malattie, corpi in decomposizione;
non c’è spazio per alcuna gentilezza umana, la società degli uomini è rappresentata
sempre come degradata, violenta, non illuminata da alcun lume di speranza, messa al-
la prova da inquietanti tentazioni demoniache. Temi della tradizione moralistica, come
la satira contro le donne, si convertono in una cruda rappresentazione delle miserie
della vita quotidiana.
Del tutto eccezionale, per la misura e la sobrietà con cui rappresenta il momento sa-
liente della storia cristiana, la passione di Cristo, è infine la lauda Donna de paradiso, che
costituisce anche il primo esempio di lauda drammatica interamente dialogata [R T 4.3 ].
I temi del Laudario Notevole è la varietà dei temi affrontati da Jacopone: oltre alle laudi mistiche, a
quelle morali e ascetiche incentrate soprattutto sul tema del peccato e dell’infelicità
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Duecento e Trecento

umana, ci sono quelle dedicate a temi della liturgia, a momenti e figure della storia sa-
cra (la passione di Cristo, il dolore di Maria). Particolarmente importanti sono poi le
laudi ‘politiche’, del tutto assenti nei laudari collettivi coevi, che rivelano in Jacopone
«un’esuberante tempra di polemista» (Pasquini): ricordiamo la polemica contro gli eretici,
la critica alla corruzione della Chiesa, l’esortazione al papa Celestino V a tener fede ai suoi
propositi di carità e povertà, la violenta polemica con Bonifacio VIII, il suo storico nemi-
co che lo incarcerò e scomunicò, la critica alla degenerazione dell’ordine francescano, la
polemica contro la presunzione e la vanagloria dei dottori di teologia.
Il linguaggio Anche sul piano del linguaggio e dello stile, Jacopone è il poeta del contrasto e dell’e-
smesuranza. All’oltranzismo dei temi e della spiritualità dell’autore corrisponde infatti
l’oltranzismo del linguaggio: non c’è sfumatura, ma solo contrasto violento, che spesso si
manifesta come antitesi tra opposti inconciliabili. La dismisura è anche la caratteristica
più frequente del suo stile, che predilige ripetizioni talora osssessive, accumulazioni ri-
dondanti, forme e ritmi incalzanti e tumultuosi, sia quando si tratta di rappresentare l’at-
tualità dell’esperienza mistica sia quando si tratta di denunciare impietosamente le mi-
serie umane. Il linguaggio di Jacopone è infine crudamente realistico, ma di un realismo
che affonda le proprie radici «in un drammatico rifiuto della realtà, inconsciamente
esorcizzata, e non mai in una forma d’amore all’uno o all’altro dei suoi aspetti» (Petroc-
chi). Anche in questo senso Jacopone appare lontanissimo da san Francesco.

4.4 Giacomino da Verona e gli antecedenti didascalici della Commedia


Diffusione della letteratura didattica d’argomento morale e religioso In un’epoca in cui, dopo
molti secoli di totale egemonia della Chiesa nell’uso della parola scritta, la concezione
della letteratura inclinava ancora frequentemente all’edificazione morale non stupisce
che vasta sia la produzione didascalica d’argomento morale e religioso.
Inferno e Paradiso secondo Giacomino da Verona Fra i testi duecenteschi ne spiccano alcuni e in
particolare due brevi poemetti intitolati De Jerusalem celesti e De Babylonia civitate infer-
nali di Giacomino da Verona. Di lui nulla si sa, se non il nome e l’appartenenza all’or-
dine dei Minori, come egli stesso ci dice alla fine del De Babylonia. L’importanza di
questi testi sta in gran parte nel fatto che essi sono i più suggestivi antecedenti della
Commedia dantesca e che tramandano una visione ingenua e popolare dell’oltremondo
cristiano.
Giacomino riduce premi e pene alla pura e semplice dimensione fisica. Della città
celeste sappiamo che le vie e le piazze sono lastricate d’oro e d’argento e di cristallo, e
che un angelo con la spada di fuoco là dentro non lascia entrare né tafani né mosche,
né bisce né serpenti, che, illuminata da Dio, essa non ha mai notte, né nuvole né neb-
bia, ma vi scorrono le acque più limpide e vi fioriscono i fiori più splendidi e vi si
trovano pietre preziose di tanta virtù che fanno ringiovanire i vecchi, e cresce della
frutta miracolosa che sana ogni malattia: mentre dappertutto si spande un profumo
delizioso, i beati cantano dolcissime melodie contemplando Dio. Si intuiscono in-
somma, anche nella descrizione del paradiso, le angosce terrene dell’uomo medievale
che egli sogna di veder svanire per poter pienamente godere della contemplazione di-
vina. Ancor più uniformemente ridotta alla dimensione del dolore fisico è la città in-
fernale [R Doc 4.5 ].
Clamorosa è la differenza tra l’ingenuità di Giacomino e la complessità psicologica,
morale e dottrinale di Dante. Ma anche fra l’involontaria comicità della poesia ‘infer-
nale’ del frate veronese e l’angoscia profonda e l’orrore che caratterizzano quella ‘ter-
rena’ di Jacopone. Giacomino, infatti, indulge spesso a uno stile basso e a un immagi-
nario attinto dalla vita quotidiana (ad esempio i paragoni culinari, che riducono i dan-
nati a manicaretti di Satana).
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4. La nascita della letteratura italiana. La poesia religiosa STORIA

Doc 4.5 Giacomino da Verona, De Babilonia civitate infernali

Il breve passo del De Babilonia che segue è una cruda ma anche comica e ‘carnevalesca’
rappresentazione del mondo infernale: in un indicibile fetore, rospi, serpenti, draghi e altri
animali repellenti tormentano i dannati, e così fanno i diavoli, che con grandi bastoni spez-
zano loro le ossa, e più avanti li sottoporranno alternativamente al caldo e al freddo, finché
giungerà Belzebù, rappresentato come cuoco infernale, che addirittura, infilzatili in uno
spiedo, li metterà ad arrostire «com’un bel porco, al fogo» e li offrirà, conditi con una salsa
densa di fiele e di veleni, come manicaretti a Lucifero, re dell’inferno.

La puça è sì granda ke n’exo per la boca,


ka eo volervel dir tuto seria negota,
ké l’om ke solamentre l’aproxima né ’l toca
çamai per nexun tempo non è livro d’angossa.
Mai no fo veçù unca per nexun tempo

90 logo né altra consa cotanto puçolento,


ké millo meia e plu da la longa se sento
la puça e lo fetor ke d’entro quel poço enxo.
Asai g’è là çò bisse, liguri, roschi e serpenti,
vipere e basalischi e dragoni mordenti:

95 agui plui ke rasuri taia l’ong[l]e e li denti,


e tuto ’l tempo manja e sempr’ è famolenti.
Lì è li demonii cun li grandi bastoni,
ke ge speça li ossi, le spalle e li galoni,
li quali è cento tanto plu nigri de carboni,

100 s’el no mento li diti de li sancti sermoni.


Tant à orribel volto quella crudel compagna,
k’el n’ave plu plaser per valle e per montagna
esro scovai de spine da Roma enfin en Spagna
enanço k’encontrarne un sol en la campagna.

105 Ked i çeta tutore, la sera e la doman,


fora per mei’ la boca crudel fogo çamban,
la testa igi à cornua e pelose le man,
et urla como luvi e baia como can.

La puzza, che ne esce dall’imboccatura [della voragine infernale], è così grande / che, a vo-
lervelo dire, lo sforzo sarebbe vano, / tanto che chi solo le si avvicina senza toccarla, / non
sarà mai più libero dalla nausea. / Mai in nessun tempo fu visto // un luogo o un’altra co-
sa altrettanto puzzolente, / poiché da mille miglia e più di lontananza si sentono / la puzza
e il fetore che escono dall’interno di quel pozzo. / Laggiù ci sono moltissime bisce, ramar-
ri, rospi e serpenti, / vipere e basilischi e dragoni sempre pronti a mordere: // le loro un-
ghie e i loro denti tagliano più di rasoi affilati, / e mangiano di continuo, eppure sono sem-
pre affamati. / Lì ci sono i diavoli con grandi bastoni, / che gli spezzano [ai dannati] le os-
sa, le spalle e i femori, / e che sono cento volte più neri dei carboni, // se non mentono i
detti dei sacri sermoni. / Quella crudele compagnia ha un aspetto tanto orribile, / che si
prova più piacere per monti e valli / ad essere flagellati con fasci di spine, da Roma fino in
Spagna, / piuttosto che incontrarne uno solo in aperta campagna. // Essi continuamente,
dalla sera alla mattina, / gettano fuori dalla bocca un crudele fuoco infernale, / hanno la te-
sta cornuta e le mani pelose, / e urlano come lupi e abbaiano come cani.

[  LE POETICHE MEDIEVALI: 1. La natura e i fini della letteratura e dell’arte; 2. Gli stili e i generi]
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Duecento e Trecento

Bonvesin de la Ripa Una figura più complessa è quella del milanese Bonvesin de la Ripa (un maestro di
grammatica attivo a Legnano e a Milano, morto fra il 1313 e il 1315), autore di numerosi
componimenti in latino e in volgare di carattere prevalentemente didascalico e moraleg-
giante su materie sia sacre sia profane. Fra quelli composti in volgare meritano un cenno
almeno le Cinquanta cortesie da desco, una sorta di galateo incentrato sui comportamenti da
tenere a tavola, e sei contrasti allegorici di carattere moraleggiante, tra cui il più noto è la
Disputa fra la rosa e la viola. Fra quelli in latino ricorderemo il De magnalibus urbis Mediolani
[Le meraviglie di Milano, del 1288] e la Vita scholastica, un poemetto in distici elegiaci.
Vicino ai due poemetti di Giacomino e anch’esso un antecedente della Commedia dan-
tesca è infine il suo Libro delle tre scritture, nigra, rubra e aurea (cioè nera, rossa e dorata, che
si pensa caratterizzassero i tre diversi inchiostri usati per le tre parti del poemetto), in cui in
volgare si descrivono rispettivamente l’Inferno e i dolori della vita umana, la Passione di
Cristo, e le gioie del Paradiso, in modi non molto dissimili da quelli del frate veronese.
Il libro de’Vizi e delle Virtudi di Bono Giamboni Infine andrà qui menzionato il toscano Bono Giambo-
ni (1235 ca.-1295 ca.), giudicato da Segre il maggior prosatore prima di Dante, auto-
re di un notevole Libro de’ Vizî e delle Virtudi, opera che certamente rivela maggior
dottrina dei due autori precedenti. Il Libro de’ Vizi e delle Virtudi è un dotto racconto
allegorico-autobiografico in prosa che si struttura attorno al tema del viaggio (come
in Dante) dal peccato alla redenzione, e che fonde molteplici fonti della tarda latinità e
della cultura medievale latina e volgare. L’opera descrive il viaggio del protagonista, ac-
compagnato dalla Filosofia, alla dimora della Fede cristiana e al monte da cui osserva
la battaglia dei Vizi e delle Virtù, e propone, in forma ora di dialogo, ora di definizione
astratta, ora di descrizione allegorica, un’ampia serie di nozioni e precetti etico-reli-
giosi. L’impianto dell’opera è allegorico: i personaggi, oltre al narratore, sono personi-
ficazioni di concetti astratti quali appunto la Filosofia, la Fede cristiana, altre Fedi, i Vi-
zi, le Virtù, che sono chiamati a parlare e ad agire.

TERMINI E CONCETTI
Documenti letterari Stabilire quale differenza ci sia tra un testo comune e un testo letterario è un problema complesso. Per le ori-
gini vengono comunemente considerati letterari quei testi che, pur obbedendo talora a intenti pratici (il ringraziamento per un
dono o una lode a Dio), rivelano nell’autore un’intenzione e una consapevolezza d’arte che si manifestano ad es. nella forma rit-
mata (o una rudimentale versificazione) e in un linguaggio che intuiamo particolarmente ricercato.
Leggenda Il termine latino Legenda, tradotto poi come Leggenda, che dà titolo a molte opere religiose medievali, ha inizialmente il
significato di “cose che devono essere lette”, indica cioè esclusivamente la rilevanza spirituale e morale dell’opera. Solo col
tempo esso assumerà il significato, oggi corrente, di narrazione non rigorosamente fondata su fatti storici e quindi in larga par-
te fantasiosa, circonfusa d’un alone mitico.
Fioretti Il termine fioretti deriva dal latino flores, fiori, nel senso di episodi trascelti e raccolti, come fiori appunto, per la loro bel-
lezza, il loro valore spirituale, la loro esemplarità.
Lauda Dal latino laus, laudis, lauda significa propriamente “lode” e come forma letteraria indica un inno di lode a Dio, che assume
il metro della ballata.
Misticismo Inclinazione, tipica della religiosità medievale (ma non solo), a concepire l’esperienza religiosa come un rapporto spi-
rituale diretto col divino, che si realizzerebbe mediante il momentaneo superamento dei limiti dell’umano (ciò che Dante chiama
«trasumanar»).
Ascetismo Regola di vita fondata su un rigido tirocinio fisico e spirituale che comporta isolamento, astinenza, digiuni, meditazione
e preghiere, al fine di realizzare un distacco dal mondo e un perfezionamento interiore.

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4. La nascita della letteratura italiana. La poesia religiosa T 4.1

T 4.1 San Francesco d’Assisi


Cantico di Frate Sole 1224-1225
Poeti del Duecento Composto nel 1224-1225, negli ultimi anni di vita del santo, il Cantico di Frate Sole
a cura di G. Contini [Canticum Fratris Solis] o Cantico delle creature [Laudes creaturarum] è per consolidata tra-
Ricciardi, dizione il primo testo veramente canonico della letteratura italiana e uno dei testi capi-
Milano-Napoli 1960
tali della spiritualità cristiana. San Francesco nell’autunno del 1224, dopo aver ricevuto
le stimmate e ormai gravemente infermo, è in visita a santa Chiara presso il convento di
San Damiano e alloggia in una capanna di vimini nel giardino. Qui, secondo quanto si
desume dalle antiche cronache, dopo una notte insonne in cui avrebbe avuto una visio-
ne che gli preannunciava la salvezza eterna, compone almeno la prima parte di questo
testo (secondo alcuni la parte conclusiva, i vv. 23-31, venne composta più tardi, in pros-
simità della morte).
Nel Cantico san Francesco rivolge una lode a Dio, coinvolgendo nella lode tutte le
creature, sentite come doni che Dio ha fatto all’uomo per alleviarne le sofferenze nel
difficile itinerario terreno. Anche l’infermità e la morte sono ragione di lode a Dio. La
visione serena e talora gioiosa della natura è uno dei tratti peculiari del sentimento re-
ligioso di san Francesco.

Nota metrica Altissimu, onnipotente, bon Signore,


Versetti ritmati, di lun- tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
ghezza variabile, organiz-
zati in lasse o strofe pure
irregolari, secondo il mo- Ad te solo, Altissimo, se konfano,
dello dei Salmi biblici. So-
no presenti frequenti as- et nullu homo ène dignu te mentovare.
sonanze (vv. 1-2, Signore :
benedictione; vv. 6, 8-9, Sole;
splendore; significatione; vv. 15 Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,
12-14, vento: tempo: sosten- spetialmente messor lo frate sole,
tamento ecc.) e più rare ri-
me (vv. 10-11, stelle : belle; lo qual’ è iorno, et allumini noi per lui.
vv. 32-33, rengratiate: humi- Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
litate). È talora seguito il de te, Altissimo, porta significatione.
cursus, che nelle poetiche
medievali definiva il ritmo
delle due parole in clauso- 10 Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle:
la di verso (cursus planus,
piana + piana: ònne bene- in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.
dictiòne, grànde splendòre; Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
cursus velox, sdrucciola +
piana: Altìssimo se konfàno;
sancitìssime voluntàti). 1 Altissimu,onnipoten- 4 et nullu … mentova- il sole è definito messor, degno di farsi essemplo di
te, bon: i tre epiteti riferiti re: eppure (et con valore cioè messere, signore, formula Dio che ’l sole».
Lingua al Signore sono frequentis- avversativo) nessun uomo è di riguardo che gli spetta in 10 per sora luna: discus-
Dialetto umbro illustre simi nel linguaggio religio- degno di nominare il tuo quanto suprema di tutte le sa anche l’interpretazione
con numerosi latinismi. so cristiano e i più frequen- nome. creature, e frate, cioè fratello, del per, “a causa di” (cioè
Tratti dialettali umbri so- ti nel complesso degli scrit- 5 Laudato sie: tu sia lo- in quanto figlio di Dio co- per aver creato la luna: è
no in genere, terminazioni ti latini di san Francesco. dato. È una formula biblica me l’uomo e tutte le altre l’interpretazione oggi più
in -u (Altissimu, nullu, di- Altissimo indica, in positivo, assai frequente nei Salmi. creature. diffusa), “attraverso” (attra-
gnu ecc.) e numerose for- la vertiginosa superiorità di Spitzer e Getto esplicita- 7 lo qual’ è … per lui: verso la lode della luna e
me particolari (se konfano, Dio rispetto al mondo e al- mente osservano che l’a- il quale è (produce) la luce delle altre creature), “da”
messor…). Latinismi sono l’uomo, concetto che altro- gente sottinteso è «dagli diurna che ci illumina. Ma (compl. di agente), e altre
ad esempio laude, cum, ho- ve è espresso in negativo uomini». Altri pensano che si noti che lo scarto sintat- ancora. Lo stesso problema
nore, bendictione, homo, tucte, come inconoscibilità, inef- l’invito alla lode sia rivolto tico «et allumini noi per si pone nelle successive oc-
spetialmente, pretiose (da fabilità. Bon indica innanzi a tutte le creature. lui», modificando il sogget- correnze del per in dipen-
leggersi benedizione, spe- tutto “bontà” profonda e 5 cum … creature: di- to, sottolinea la priorità denza dalla formula ricor-
zialmente ecc.), fructi, flori assoluta, come conviene a scussa l’interpretazione di dell’azione divina: è Dio rente Laudato sie. Sora vale
ecc. Dio; più genericamente in- questo cum che può valere che illumina gli uomini per “sorella”.
dica anche “eccellenza” “così come” (e parimenti mezzo del sole. 11 clarite: lucenti, splen-
(“Bon signore” è una for- con lui siano lodate tutte le 8 radiante: raggiante, denti. Si noti, dopo la cop-
mula di riguardo del lin- sue creature), o “con”, o “a splendente. pia bellu e radiante, questa
guaggio feudale). causa di”, o infine “per 9 porta significatione: triplicazione degli attributi
2 tue so’: spettano a te. mezzo di” (tramite le lodi porta il segno, simboleggia. delle creature.
– onne: ogni. che le creature stesse innal- Dante nel Convivio ricorda
3 se konfano: si con- zano). che «Nullo [essere] sensibi-
fanno, si addicono. 6 messor lo frate sole: le in tutto lo mondo è più

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Duecento e Trecento

13 aere, nubilo et sereno: et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,


tutti sostantivi: l’aria, il cielo per lo quale a le tue creature dài sustentamento.
nuvoloso, il cielo sereno.
14 sustentamento: nu-
trimento. 15 Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua,
18 per … nocte : per
mezzo del quale illumini la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
(ennallumini) la notte.
19 robustoso: vigoroso.
21 ne sustenta et gover- Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu,
na: ci alimenta e ci mantie- per lo quale ennallumini la nocte:
ne. I due verbi sono sino-
nimi. ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
22 con: così come.
23 Laudato si’: i vv. 23-
26, i «versetti del perdono»
20 Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,
(Contini), secondo la tradi- la quale ne sustenta et governa,
zione leggendaria france- et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.
scana, sarebbero stati com-
posti in un secondo mo-
mento, quando San Fran- Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore
cesco «rappacificò il vesco-
vo e il podestà di Assisi». et sostengo infirmitate et tribulatione.
24 sostengo: sostengono, 25 Beati quelli ke ’l sosterrano in pace,
sopportano (sostengo, terza
plurale, è una forma dell’I- ka da te, Altissimo, sirano incoronati.
talia centrale).
25 Beati quelli: è, come
il successivo guai a.cquelli,
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale,
una formula scritturale, cfr. da la quale nullu homo vivente pò skappare:
Matteo, 5, 3-10. guai a·cquelli ke morrano ne le peccata mortali;
26 ka … sirano: perché
saranno. La forma sirano, 30 beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati,
come anche sosterrano, mor- ka la morte secunda no ‘l farrà male.
rano è tipica del dialetto
umbro.
27 Laudato si’: secondo Laudate e benedicete mi’ Signore et rengratiate
la (oggi discussa) tradizione
leggendaria sopra ricordata, e serviateli cum grande humilitate.
questi ultimi versetti «della
morte» sarebbero stati
composti in un terzo mo- 30 ke trovarà: che la dannazione – contrapposta farrà male) che abbiano ri- pria dei dialetti centro-
mento, quando al santo morte troverà. alla morte corporale, la morte spettato la volontà divina. meridionali (Morini), co-
venne annunciata l’immi- 31 la morte secunda: è del corpo – che non potrà 33 serviateli: servitelo. struita, come in latino ser-
nenza della morte. la morte dell’anima, cioè la nuocere agli uomini (no ’l Forma di imperativo pro- vire, con il dativo (-li, a lui).

Guida all’analisi
Il messaggio: lode a Dio e fraternità delle creature Rispetto alla religiosità pessimistica e tragica, fondata sul di-
sprezzo e quindi sul rifiuto del mondo, che anima tanta parte della cultura e letteratura me-
dievale (la incontreremo presto in Jacopone da Todi), la visione di san Francesco appare sor-
prendentemente ottimistica e serena. Dio è padre amorevole di tutte le creature, e dell’uo-
mo in particolare, a cui i numerosi elementi naturali menzionati nel Cantico sono dati da
Dio come fratelli e sorelle e per sua utilità. Leo Spitzer per il Cantico di san Francesco ha
potuto parlare di «antropocentrismo», cioè di centralità dell’uomo nel creato, notando come
ogni creatura sia rappresentata oltre che in se stessa (la luna e le stelle, ad esempio, sono cla-
rite, l’acqua è humile e casta) e in rapporto con Dio, anche e soprattutto con l’uomo: del so-
le si dice che allumini noi per lui, la luna e le stelle sono pretiose (utili all’uomo) e belle (ne ap-
pagano il senso estetico), l’acqua è utile e pretiosa, per mezzo del fuoco Dio ennallumin[a] la
nocte (evidente il riflesso di utilità sull’uomo). Quella che emerge complessivamente è dun-
que una visione del creato fondata su un sentimento di fratellanza, di armoniosa integrazio-
ne e di reciproca utilità di tutte le cose create, della quale si deve rendere lode a un Dio che
appare essenzialmente paterno e benevolo. Dio appare tale anche di fronte alle tribolazioni,
alle infermità e alla morte che sono riservate all’uomo, perché sostenendole in pace e obbe-
dendo a Dio, l’uomo otterrà una beatitudine eterna (la formula Beati quelli cade per due
volte proprio negli ultimi versi dedicati a questo tema).
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4. La nascita della letteratura italiana. La poesia religiosa T 4.1

«Sora nostra morte corporale» Il fatto stesso di attribuire alla morte l’epiteto di sorella (sora nostra morte corpora-
le), proprio come alla terra (sora nostra matre terra), costituisce un modo di familiarizzarla e di
esorcizzarla. In questo senso è stato sostenuto che tutto il tema della fraternità delle creatu-
re, compresa la morte anch’essa assimilata alle altre creature, assolve «anche una funzione di
esorcizzazione – serve cioè a liberare gli uomini dal cieco terrore nei confronti della loro fa-
talità ed incontrollabilità» (Pasero): se questo vale per gli elementi naturali, nei confronti dei
quali gli uomini medievali prevalentemente si sentivano in quasi totale balia, ciò a maggior
ragione vale per la morte, che costituisce la più profonda fonte di paura per l’uomo. Proprio
nell’ottica di un’ampia divulgazione popolare legata alla scelta del volgare, il testo di san
Francesco, dunque, assolve una duplice funzione: quella prevalente della lode di Dio come
atto liturgico fondamentale per il cristiano, e quella di consolazione e di rassicurazione (an-
che la morte non deve fare paura, perché esiste una vita oltre la vita).
Una questione interpretativa La questione critica basilare, di quest’opera molto studiata e dibattuta, consiste nel
decidere se le Laudes Creaturarum debbano intendersi come le lodi delle creature pronun-
ciate da Francesco o dagli uomini al fine di lodare Dio loro creatore; oppure come le lodi
rivolte dalle creature al Signore. La questione ruota attorno all’interpretazione del cum
(«Laudato sie, mi’ Signore cum tucte le tue creature») e del per («Laudato si’, mi Signore, per
sora luna e le stelle» e in tutti i casi analoghi).
La prima è l’interpretazione antica più diffusa e quella oggi prevalente: il cum viene in-
teso “insieme con” o “così come” (“Da me e/o dagli uomini Tu sia lodato, mio Signore, in-
sieme con le tue creature, così come sono degne di essere lodate le tue creature”); il per vie-
ne inteso come complemento di causa: “Tu sia lodato a causa delle creature o per averle
create, o per esserti manifestato attraverso le creature”.
Per altri aspetti del di- In una diversa interpretazione il cum è inteso come “per mezzo di” (“Tu sia lodato per
battito critico mezzo delle creature”) e il per è invece inteso, proprio come il par francese – lingua assai ca-
 RINTERPRETAZIONI ra a Francesco, e lingua della cultura – come complemento d’agente (“Tu sia lodato, mio Si-
DI SAN FRANCESCO
gnore, da sorella luna e dalle stelle”).
Non si tratta di questione puramente grammaticale, perché investe il senso complessivo
del cantico e implica complesse questioni dottrinali, che non è qui il caso di affrontare. Ma
non sposta comunque le acquisizioni fondamentali su cui tutti sostanzialmente concordano:
nel Cantico si leva una lode a Dio, è presente un sentimento di fratellanza fra tutte le creatu-
re in quanto emanazioni di un unico padre comune, le creature sono apprezzate in quanto
in esse si manifesta la potenza e la bontà divina.
La lingua volgare e la destinazione del Cantico Il Cantico delle creature è stato composto da san Francesco, come
abbiamo visto, in un dialetto umbro illustre, nobilitato da numerosi latinismi. La scelta del
volgare, al tempo della sua composizione, non era né ovvia né obbligatoria, e costituisce
un’eccezione nella produzione del santo, che in tutti gli altri casi adotta il latino. San Fran-
cesco nel compierla ha obbedito – secondo la critica recente – ad un preciso intento, quel-
lo di comporre una preghiera e una lode a Dio che potesse avere una grande diffusione ed
essere recitata e cantata dai frati e dal popolo in molteplici circostanze pubbliche e private
(il testo è stato scritto dal santo – altra cosa non del tutto ovvia – ma era destinato all’esecu-
zione e alla diffusione orale; per il Cantico san Francesco aveva anche composto la musica,
oggi perduta). Questa scelta si inscrive del tutto coerentemente nell’attività di predicazione
del movimento francescano.
Elementi colti: la struttura e la simbologia numerica La facilità e popolarità del volgare – in linea con la poeti-
ca cristiana-medievale del sermo vulgaris (R 2.1), secondo cui è lecito parlare delle verità su-
preme della fede in uno stile basso e umile – è in parte compensata dai molti latinismi che
nobilitano il dettato. Una funzione analoga è svolta dall’elaborazione strutturale e stilistica
che, in un testo apparentemente semplice e lineare, è in realtà intensa e assai complessa.
Esaminiamo il principale elemento strutturale. Anche se il Cantico fosse stato composto
in un unico momento, è palese la distinzione della lode in tre fasi: la lode che concerne le
creature, la lode che concerne coloro che perdonano, la lode che concerne la morte. Nel
complesso del cantico il motivo della lode è poi scandito in tre fasi logiche: le lodi appar-

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Duecento e Trecento

tengono a Dio (tue so’ le laude; Ad te solo… se konfano), si formula il voto che Dio sia lodato
(Laudato sie), la lode a Dio è proposta in forma imperativa (Laudate…).
Un altro elemento che rimanda a una struttura ternaria riguarda i versetti (o strofe) ini-
ziali e finali, che iniziano con tre termini coordinati «Altissimu, onnipotente, bon Signore»; «Lau-
date et benedicete mi’ Signore et rengratiate». Infine, il verbo laudare è ripetuto nove volte ad ini-
zio di ciascun versetto. Come avremo modo di osservare anche a proposito di Dante, il nu-
mero tre nella cultura medievale rimanda simbolicamente, ma del tutto immediatamente per
la sensibilità dei lettori-ascoltatori del tempo, alla Trinità, cioè a Dio stesso. Analoga funzione
assolve il numero nove, che è tre volte tre, e da molti è considerato il numero perfetto.

Doc 4.6 La predica agli uccelli

Una versione ingenua Nell’ambito della ricca e variegata letteratura leggendaria francescana I Fioretti di San France-
e poetica della leggen- sco (composti probabilmente fra il 1370 e il 1390) rappresentano la versione forse più ingenua,
da francescana
ma al tempo stesso più poetica, della biografia del santo. L’episodio della predica agli uccelli
(cap. XVI) è uno dei più famosi e canonici. Il sentimento di fratellanza con tutte le creature
che san Francesco esprime nel Cantico si traduce in questo episodio in un dialogo diretto fra
il santo e alcune varietà di uccelli (una delle creature che pure erano trascurate nel Cantico).
Numerosi sono i punti di contatto fra i due testi. Gli uccelli (aves in latino è femminile) ven-
gono appellate come sirocchie, sorelle. La predica consiste essenzialmente nell’invito a ricono-
scere la bontà del creatore, che ha reso autosufficienti gli uccelli – li ha preservati dalla distru-
zione al tempo del Diluvio universale, li ha dotati di un sufficiente «vestimento», ha dato loro
casa e nutrimento benché essi non sappiano «filare né cucire» –, e a lodarlo per questo.
Conformità del mes- Il senso della predica appare conforme al messaggio del Cantico almeno: «I doni della
saggio del Fioretto con creazione, ricorda Francesco, sono sufficienti a provvedere ai bisogni elementari dell’uomo:
quello del Cantico
[...] l’uomo non ha bisogno di altro al difuori di quello che Dio ha disposto per lui nel mon-
do, andare oltre può essere occasione di peccato» (Pasero). Nel caso di questo episodio dei
Fioretti (cap. XVI) il concetto è felicemente trasposto dal punto di vista umano (l’antropo-
centrismo del Cantico) a quello animale e per estensione creaturale (ogni altra creatura è sta-
ta dotata di autosufficenza da Dio), nello spirito francescano della fratellanza universale.
Del resto, a conclusione della predica, Francesco si diletta con gli uccelli, si diletta del di-
letto degli uccelli e mostra di apprezzarne la «bellezza e varietade» e insieme con gli uccel-
li e a causa degli uccelli egli loda Dio («per la qual cosa egli con loro divotamente lodava il
creatore»).
Simbolismo della croce Non sfugga infine il duplice simbolismo dell’immagine finale: gli uccelli, obbedendo al
e fratellanza universale gesto di Francesco si muovono nelle quattro direzioni indicate dal segno della croce, ma
questo evento – sospeso tra il naturale e il soprannaturale – acquista per il santo o almeno
per il suo biografo il valore di un segno divino che invita a estendere la predicazione fran-
cescana in tutte e quattro le parti del mondo. Anche in questo dato simbolico è verificato
il sentimento francescano di fratellanza e comunicazione universale: il segno di Francesco
è inteso dagli uccelli, ma è inteso dall’uomo anche quello che gli uccelli (tramite di Dio)
rivolgono a Francesco.
E santo Francesco si puose a predicare, comandando prima alle rondini, che cantavano,
ch’elle tenéssono silenzio infino a tanto ch’egli avesse predicato. E le rondini ubbidendolo, ivi
predicò in tanto fervore che tutti gli uomini e le donne di quel castello, per divozione, gli vo-
leano andare dietro e abbandonare il castello. Ma santo Francesco non lasciò, dicendo loro:

I fioretti di San Francesco, “Non abbiate fretta, e non vi partite; e io ordinerò quello che voi dobbiate fare per sa-
a cura di
G. Davico Bonino, lute dell’anime vostre”. E allora pensò di fare il terzo Ordine,1 per universale salute di tut-
Einaudi, Torino 1964 ti. E così lasciandoli molto consolati e bene disposti a penitenzia, si partì indi e venne tra
Cannaio e Bevagno.2

1 terzo Ordine: acco- precetti francescani: è ter- e propri frati e quello delle 2 Cannaio e Bevagno:
glie i laici che seguono i zo dopo l’Ordine dei veri suore. paesi del Perugino.

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4. La nascita della letteratura italiana. La poesia religiosa T 4.1

E passando oltre con quel fervore, levò gli occhi e vide alquanti àrbori allato alla via, in
su’ quali era quasi infinita moltitudine d’uccelli; sì che santo Francesco si maravigliò e dis-
se a’ compagni: “Voi m’aspetterete qui, nella via, e io andrò a predicare alle mie sirocchie
uccelli”. Ed entrò nel campo, e cominciò a predicare agli uccelli ch’erano in terra. E su-
bitamente quelli ch’erano in su gli àrbori vénnono a lui, e insieme tutti quanti stèttono
fermi mentre che santo Francesco compié di predicare. E poi anche non si partivano, in-
3 recitò: riferì. fino a tanto ch’egli diede loro la benedizione sua. E, secondo che recitò3 poi frate Masseo
4 siete molto tenute: a frate Iacopo da Massa, andando santo Francesco tra loro, e toccandole colla cappa, nes-
siete debitrici.
5 vestimento ... tri- suna però si moveva.
plicato: per la varietà La sustanzia della predica di santo Francesco fu questa: “Sirocchie mie uccelli, voi siete
delle piume o della muta molto tenute4 a Dio, vostro creatore, e sempre e in ogni luogo il dovete laudare, però che
stagionale.
6 diputato: assegnato. v’ha dato il vestimento duplicato e triplicato;5 appresso v’ha dato libertà d’andare in ogni
7 con ciò sia cosa luogo, e anche riservò il seme di voi nell’arca di Noè, a ciò che la spezie vostra non ve-
che: dal momento che. nisse meno nel mondo. Ancora, gli siete tenute per lo elemento dell’aria, ch’egli ha dipu-
8 gonfaloniere: che
porta come un vessillo la tato6 a voi. Oltr’a questo, voi non seminate e non mietete, e Iddio vi pasce, e dàvvi i fiu-
croce. mi e le fonti per vostro bere, dàvvi i monti e le valli per vostro rifugio e gli àrbori alti per
9 per: da.
fare il vostro nido. E con ciò sia cosa che7 voi non sappiate filare né cucire, Iddio vi veste,
10 commettevano: af-
fidavano. voi e’ vostri figliuoli. Onde, molto v’ama il creatore, poi ch’egli vi fa tanti benefici; e però
guardatevi, sirocchie mie, del peccato della ingratitudine, e sempre vi studiate di lodare
Dio”. Dicendo loro santo Francesco queste parole, tutti quanti quelli uccelli cominciòro-
no ad aprire i becchi, distendere i colli, aprire l’alie e riverentemente chinare i capi insino
in terra, e con atti e con canti dimostravano che le parole del padre santo davano a loro
grandissimo diletto. E santo Francesco insieme con loro si rallegrava e dilettava, e molto si
maravigliava di tanta moltitudine d’uccelli, e della loro bellezza e varietade, e della loro at-
tenzione e familiaritade; per la qual cosa egli con loro divotamente lodava il creatore.
Finalmente, compiuta la predica, santo Francesco fece loro il segno della croce e diede
loro licenzia di partirsi. Allora tutti quegli uccelli in schiera si levarono in aria, con mara-
vigliosi canti. E poi, secondo la croce ch’avea fatta loro santo Francesco, si divísono in
quattro parti: e l’una parte volò inverso l’oriente, l’altra inverso l’occidente, la terza inver-
so il meriggio, e la quarta inverso l’aquilone; e ciascuna schiera andava cantando, maravi-
gliosamente, in questo significando che, come da santo Francesco, gonfaloniere8 della
croce di Cristo, era stato loro predicato e sopra loro fatto il segno della croce, secondo il
quale eglino si dividevano cantando in quattro parti del mondo, così la predicazione del-
la croce di Cristo, rinnovata per9 santo Francesco, si dovea per lui e per li suoi frati porta-
re per tutto il mondo. Li quali frati, a modo che uccelli non possedendo alcuna cosa pro-
pria in questo mondo, alla sola provvidenza di Dio commettevano10 la lor vita. A laude di
Cristo. Amen.

Laboratorio 1 Fai la parafrasi (orale o per iscritto) del zione “antropocentrica” dell’universo?
COMPRENSIONE testo, sciogliendo e spiegando i punti Individuali e spiega le espressioni salienti
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE controversi. nel testo.
2 Individua le creature menzionate da san 6 Una questione critica fondamentale ri-
Francesco e le loro caratteristiche (attri- guarda l’interpretazione del Cantico come
buti e predicati). lode di Dio ad opera delle creature, o co-
3 In quale modo e con che atteggiamento me lode di Dio ad opera di san Francesco
viene rappresentata la morte nel Cantico? e degli uomini. Illustrala (senza ricorrere
4 Quali aspetti linguistici e retorici appaio- alla guida all’analisi) facendo riferimento
no particolarmente importanti per l’in- al testo.
terpretazione del Cantico e perché? Indi- 7 R T 4.1 Doc 4.6 Sottolinea e analizza i passi
viduali nel testo sottolineando o cer- del Fioretto che possono essere utili per
chiando le parole e le frasi significative. un confronto con il Cantico. Quale im-
5 In che senso e sulla base di quali elemen- magine di san Francesco trasmette questo
ti si può parlare per il Cantico di conce- testo?
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Duecento e Trecento

T 4.2 Jacopone da Todi


Quando t’aliegre seconda metà sec. XIII
Poeti del Duecento La lauda illustra il tema della vanità delle cose mondane, del disprezzo per il corpo e
a cura di G. Contini più in generale per il mondo terreno (il cosiddetto contemptus mundi). Jacopone, dopo un
Ricciardi, esordio in forma di ammonizione (modo tipico della predicazione medievale), immagi-
Milano-Napoli 1960 na un contrasto, cioè un dialogo fra un vivo e un morto, nel quale il primo, che funge
da coscienza critica del secondo, espone un lungo catalogo delle vanità terrene.

Quando t’aliegre, omo d’altura,


va’ poni mente a la sepoltura;

e loco pone lo tuo contemplare,


e pensa bene che tu dii tornare
5 en quella forma che tu vide stare
l’omo che iace en la fossa scura.
Nota metrica
Ballata composta di versi «Or me respondi, tu, om seppellito,
doppi, che associano in che così ratto d’esto monno èi ’scito:
vario modo quinari, sena-
ri e settenari, oscillando o’ so’ i bei panni de ch’eri vestito?
fra il decasillabo (quinario 10 Ornato te veggio de molta bruttura».
+ quinario) come al v. 1,
l’endecasillabo (quinario
+ senario) come al v. 2, e «O frate mio, non me rampognare,
l’alessandrino (settenario ché ’l fatto mio a te pò iovare!
+ settenario) come al v.
72. Lo schema delle rime Puoi che i parenti me fiero spogliare,
è xx (ripresa), aaax (stan- de vil ciliccio me dier copretura».
za).
1-2 Quando … sepol- 15 «Or ov’è ’l capo cusì pettenato?
tura: quando ti rallegri, uo-
mo superbo, altezzoso Con cui t’aragnasti, che ’l t’ha sì pelato?
(d’altura), volgi il tuo pen- Fo acqua bollita, che ’l t’ha sì calvato?
siero alla sepoltura (va’ poni
mente, vai a porre la tua Non te c’è opporto più spicciatura!»
mente). Si noti in questa
ripresa – che nell’esecuzio-
ne orale potrebbe essere ri-
petuta come un ritornello
prima di ogni stanza – la
rima altura : sepoltura, subito
riecheggiata nella prima che dovrai morire) viene che giunge improvvisa e cero spogliare, mi ricoper- cavano soluzione di como-
stanza da fossa scura, che in- qui espresso con un’accen- che non lascia il tempo di sero di un panno grezzo do e auspicavano viceversa
dica l’antitesi di fondo della tuata attenzione al corpo e pentirsi (tema ricorrente (ciliccio) di poco valore (vile). conversioni, rinunce e pe-
lauda: la vanità illusoria e la si chiude sull’immagine, del moralismo cristiano L’atto dello spogliare qui nitenze in vita.
cruda realtà, la superbia de- dalla coloritura minacciosa, medievale e fonte di con- descritto va inteso in senso 15-18 «Or ov’è … spic-
stinata ad annullarsi e pur- della fossa scura. creta angoscia per tanti uo- proprio, per le esequie, ma ciatura!»: dov’è finito ora il
garsi nella morte. 7-10 «Or me … bruttu- mini del tempo) e il sarca- anche in senso metaforico, tuo capo che un tempo era
3 e loco … contem- ra»: è l’inizio del contrasto stico ossimoro ornato… di in quanto spoliazione dei così ben pettinato? Con
plare: e volgi (pone) lì (loco, e parla il vivo: Ora rispon- molta bruttura. beni, compresi i bei panni, chi (cui) ti sei azzuffato (t’a-
latinismo) il tuo sguardo. dimi, tu, uomo sepolto, che 11-12 O frate mio … io- sostituiti dal vil ciliccio (anti- ragnasti), che te lo ha così
Ma tanto pone quanto con- così all’improvviso (ratto) vare!: risponde il morto: tesi). Bisogna però ricorda- spelato? Fu l’acqua bollen-
templare implicano fissità di sei uscito (èi ’scito) da que- Fratello mio, non mi rim- re che questa era una pro- te, che te lo ha reso così
sguardo. sto mondo: dove sono (o’ proverare così aspramente cedura abituale, spesso sta- calvo? Non hai più biso-
4-6 e pensa … scura: e so’) le belle stoffe, i begli (rampognare), poiché il mio bilita dal moribondo stesso, gno (c’è opporto, eco del la-
rifletti bene sul fatto che abiti di cui eri vestito? Ti esempio ti può giovare! Si con il valore di una simbo- tino oportet, di cui è mante-
anche tu dovrai (dii, devi) vedo ornato di molta brut- noti il diverso esordio del lica rinuncia ai beni terreni; nuta la costruzione imper-
assumere la forma che ha tura (gli umori del corpo morto, che cerca solidarietà e che d’altro canto essa era sonale, non c’è più bisogno
(lett. nella quale tu vedi sta- in decomposizione). Si no- (frate) in tono umile e sup- frequentemente biasimata, per te) della scriminatura,
re) l’uomo che sta nella tino la durezza inquisitoria plichevole. insieme alle donazioni post della riga per acconciare i
tomba (fossa scura). Il topos dell’esordio (tu, om seppel- 13-14 Puoi … copretura: mortem, dai moralisti più capelli.
del memento mori (ricordati lito), il tema della morte dopo che i parenti mi fe- intransigenti che la giudi-
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4. La nascita della letteratura italiana. La poesia religiosa T 4.2

«Questo mio capo, ch’abbi sì biondo,


20 cadut’ è la carne e la danza dentorno:
nol me pensava, quann’era nel mondo,
19-22 «Questo … porta- cantando a rota facea portadura».
dura»: da questo mio capo,
che un tempo era biondo,
è caduta la carne con i ca- «Or ove so’ l’occhi così depurati?
pelli che attorniano il capo For de lor loco sì so’ iettati.
(la ‘danza’ dei capelli
tutt’intorno). Quand’ero 25 Credo che i vermi li s’ho manecati,
vivo non ci pensavo (a co- del tuo regoglio non àver paura».
me il mio capo si sarebbe
trasformato dopo la mor-
te), cantando e danzando (a «Perduti m’ho gli occhi, con che gia peccando,
rota), mi mettevo in mostra aguardando a la gente, con issi accennando.
(facea portadura). Ma l’ulti-
mo verso è controverso e Ohimè dolente, or so’ nel malanno,
alcuni intendono: portavo i 30 ché ’l corpo è vorato e l’alma en ardura».
capelli tagliati in tondo
(Ageno): portadura signifi-
cherebbe così acconciatura. «Or ov’è ’l naso, c’avì’ pro odorare?
Si noti comunque, al v. 20,
la metafora della danza che Quigna ’nfertade el n’ha fatto cascare?
evoca il movimento, l’on- Non t’èi poduto dai vermi adiutare,
dulatura o un tipo di taglio
dei capelli. molt’ è abbassata ’sta tua grossura».
23-26 «Or ove so’ l’occhi
… paura»: dove sono finiti 35 «Questo mio naso, ch’abbi pro odore,
ora i tuoi occhi così limpi-
di, luminosi (depurati)? In tal caduto n’è con molto fetore:
modo (sì) sono stati proiet- nol me pensava quann’ era ’n amore
tati fuori dalle orbite (loro
loco, loro sede abituale in vi- del mondo falso, pien di bruttura».
ta). Credo che se li siano
mangiati (manicati) i vermi,
che non ebbero (àver) paura «Or ov’è la lengua cotanto tagliente?
del tuo orgoglio. 40 Apri la bocca, si tu n’hai nïente.
27-30 «Perduti … ardu-
ra»: li ho perduti, gli occhi
Fone troncata, oi forsa fo ’l dente,
con cui andavo (gia) pec- che te n’ha fatta cotal rodetura?»
cando, con cui guardavo la
gente (forse in modo altez-
zoso) e ammiccavo (forse «Perdut’ho la lengua, co la qual parlava,
nel senso di guardare con molta descordia con essa ordenava:
concupiscenza). Ohimè in-
felice, ora sono nei guai, 45 nol me pensava, quann’ io manecava
giacché il mio corpo è di- el cibo e ’l poto oltra mesura».
vorato dai vermi e l’anima
è tra le fiamme dell’infer-
no (en ardura). «Or chiude le labra pro i denti coprire:
31-34 «Or ov’è ’l naso …
grossura»: dov’è ora il tuo
par, chi te vede, che ’l vogli schirnire.
naso, che ti serviva per sen- Paura me mitte pur del vedere:
tire gli odori (c’avì pro, che 50 càionte i denti senza trattura».
avevi per)? Che razza di
malattia (Quigna ’nfertade,
quale infermità mai…) te «Co’ chiudo le labra, che unqua no l’aio?
lo ha fatto cascare? Non ti
sei potuto difendere (adiu-
tare) dai vermi; molto è di-
minuita questa tua spor- caduto producendo molto relazione di esatta corri- troncata, o forse sono stati i tura»: ora chiudi le labbra
genza (grossura). Ma la gros- fetore; non ci pensavo spondenza cioè che lega tuoi stessi denti a reciderla per coprire i denti; a chi ti
sura può anche essere inte- quando amavo le false ap- colpa e pena nella Comme- (rodetura) in tal modo? vede pare che tu lo voglia
sa come la superbia di un parenze del mondo, che in dia dantesca. 43-46 «Perdut’ho … me- schernire. Mi metti paura
grosso naso che si ritrae realtà erano immonde. Si 39-42«Or ov’è la lengua sura»: ho perduto la lingua soltanto a (pur del) vederti:
schizzinoso. In questa im- noti il contrasto tra i (buo- … rodetura»: dov’è ora la con cui parlavo; con essa ti cadono i denti senza che
magine Mussini vede «una ni) odori sentiti in vita e il tua lingua, che era così ta- ordivo (ordenava) molte di- ti vengano estratti. L’invito
sorta di umorismo nero». fetore in cui è destinato a gliente (offensiva, maldi- scordie; non ci pensavo, a chiudere le labbra è sar-
35-38 «Questo mio naso dissolversi il naso del de- cente)? Apri la bocca e ve- quando gustavo (manecava, castico e si può sottinten-
… bruttura»: questo mio funto, che risponde a «una diamo se te ne è rimasto mangiavo) cibi e bevande dere un «se ne sei capace»:
naso che avevo per sentire vera e propria logica del almeno un po’ (n’hai nïente, (’l poto) in modo eccessivo. il morto, come subito ve-
gli odori e i profumi, mi è contrappasso» (Mussini), la ne hai un niente). Ti fu 47-50 «Or chiude … trat- dremo, non ha più labbra.

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Duecento e Trecento

Poco pensava de questo passaio.


Omè dolente, e como faraio,
quann’ io e l’alma starimo en ardura?»

55 «Or o’ so’ le braccia con tanta fortezza,


menaccianno a la gente, mustranno prodezza?
Ràspate ’l capo, si t’è agevelezza,
crulla la danza e fa portadura».

«La mia portadura si gia ’n esta fossa:


60 cadut’ è la carne, remase so’ l’ossa
ed onne gloria da me è remossa
51-54 «Co’ chiudo … ar- e onne miseria m’è a rempietura».
dura?»: come faccio a
chiudere le labbra, che non
le ho più (unqua, latini- «Or lèvate ’n pede, ché molto èi iaciuto,
smo)? In vita poco avevo accónciate l’arme e tolli lo scuto.
riflettuto su questo passag-
gio (dalla vita alla morte). 65 En tanta viltate me par ch’èi venuto:
Ohimè infelice, come farò non comportare più questa affrantura».
(faraio) quando io e la mia
anima staremo insieme nel
fuoco infernale? Allusione «Or co’ so’ adasciato de levarme en pede?
probabile al giorno del Chi ’l t’ode dicere mo lo se crede!
Giudizio, quando anime e
corpi si riuniranno: allora – Molto è l’om pazzo, chi no provede
dirà anche Dante – le bea- 70 ne la sua vita la sua finitura».
titudini saranno più perfet-
te e le pene più atroci. Cfr.
v. 30, dove la sorte di corpo «Or chiama i parenti, che te venga aitare,
e anima è distinta.
55-58 «Or o’ so’ le brac- che te guarden dai vermi che te sto a devorare.
cia … portadura»: dove For più vivacce venirte a spogliare:
sono ora le braccia tanto
forti, robuste che minaccia- partierse el podere e la tua mantatura».
vano la gente e mostravano
la tua potenza terrena? (me- 75 «No i posso chiamare, ché so’ encamato.
naccianno e mustranno sono
gerundi con valore di par- Ma falli venire a veder mio mercato:
ticipio, “minaccianti, mo- che me veia iacere colui ch’è adasciato
stranti”) Grattati il capo, se
ti riesce (t’è agevolezza), a comparar terra e far gran chiusura».
scrolla i capelli (con le ma-
ni) e mettiti in mostra (o
accònciati: per l’incertezza «Or me contempla, oi omo mondano:
sul senso di portadura, cfr. 80 mentr’èi nel mondo non esser pur vano;
nota 19-22).
59-62 «La mia portadura pènsate, folle, che a mano a mano
… rempietura»: la mia va- tu serai messo en grande strettura».
nità (o la mia acconciatura)
se ne è andata in questa
fossa: la carne è caduta e
sono rimaste le ossa, e ogni 67-70 «Or co’ so’ ada- mantatura»: ora chiama i to): che mi veda giacere vita, non essere vano, non
gloria terrena mi ha abban- sciato … finitura»: ora tuoi parenti, che ti vengano (nella tomba) colui che è continuare a occuparti di
donato, mentre di ogni come potrei essere in gra- (venga) ad aiutare, che ti ancora in grado (è adascia- cose vane; pensa, o folle,
miseria ne ho a sazietà (a do (so’ adasciato, francesi- proteggano (guarden) dai to, cfr. v. 67) di comperare che ben presto (a mano a
rempietura). smo) di levarmi in piedi? vermi che ti stanno divo- terre e costituire grandi mano) sarai messo in gran-
63-66 «Or lèvate … af- Chi te lo sentisse dire, po- rando. Furono più svelti proprietà (cioè: chi è an- di strettezze (nel duplice
frantura»: ora alzati in pie- trebbe crederlo possibile! (vivacce) nel venirti a spo- cora in vita e interessato ai senso di angustie morali e
di – se ne sei capace –, È del tutto folle chi non gliare: si spartirono (partier- beni terreni). Chiusura si- di restrizione fisica, il se-
giacché sei giaciuto per prevede, finché è ancora se) il tuo podere e le tue gnifica propriamente «li- polcro). La conclusione
molto tempo, indossa le ar- in vita, la sua morte (fini- vesti. Cfr. vv. 13-14 e note. mite di proprietà» (Sape- ammonitoria e edificante
mi e prendi lo scudo (scu- tura). L’om è la già notata 75-78 «No i posso chia- gno). è affidata alla voce del de-
to). Mi pare che tu sia ca- costruzione impersonale mare … chiusura»: non 79-82 «Or me contempla funto stesso, a cui eccezio-
duto in uno stato di viltà: modellata sul francese (on): posso chiamarli, poiché … strettura»: ora contem- nalmente vengono attri-
non sopportare (comportare) si è molto pazzi se non si sono afono (encamato). Ma plami, uomo che ancora buite due quartine con -
più questa prostrazione (af- prevede… falli venire a vedere il gua- sei al mondo (omo monda- secutive.
frantura). 71-74 «Or chiama … dagno che ho fatto (merca- no): mentre sei ancora in

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4. La nascita della letteratura italiana. La poesia religiosa T 4.2

Guida all’analisi
La struttura della lauda La lauda si struttura in modo assai semplice: un prologo morale in cui l’autore ammo-
nisce il lettore o l’ascoltatore (vv. 1-6), un contrasto in cui le battute del vivo e quelle del
morto si alternano esattamente, prendendo una quartina a testa (vv. 7-78) e una chiusa mora-
le, simmetrica al prologo, ma affidata questa volta alla voce stessa del defunto, che muta tono
passando da una lamentazione disperata a un ammonimento solenne («Or me contempla,
oi omo mondano…», vv. 79-82). Incorniciato fra le due sezioni ammonitorie, il contrasto si
sviluppa in modo omogeneo e piuttosto rigido. Lo stilema principale è quello biblico del-
l’ubi sunt? (dove sono?), ripetuto sei volte e sostituito tre volte nel finale da imperativi, cru-
deli perché impossibili (Or chiude le labra…; Or lèvate ’n pede…; Or chiama i parenti…), il tut-
to ritmato dall’anafora dell’Or, che rimanda a un presente di perdizione e di dolore. Queste
formule, equivalenti nel tono e nella funzione, introducono in modo ripetitivo l’enumera-
zione delle vanità terrene che la morte ha spazzato via: quasi tutte ruotano attorno all’or-
goglio e alla vanagloria per qualche proprietà del corpo, per qualche comportamento (ele-
ganza, bellezza, forza, coraggio…), e talora si convertono in peccati accessori (discordia, vio-
lenza, cupidigia). L’elenco degli oggetti chiamati in causa evidenzia un’insistenza sulla realtà
del corpo, in un macabro contrasto fra la bellezza di un tempo e il disfacimento presente.
L’insieme di questi dati indica che, pur nella semplicità e linearità dello sviluppo, Jacopone
costruisce un testo fondato su calcolate simmetrie, tutt’altro che un irrazionale raptus d’ira.
Un realismo negativo, fondato sull’orrore del corpo Il vivo, che costituisce lo specchio della coscienza del
morto, incalza quest’ultimo con un’insistenza implacabile e inquisitoria, senza alcuna pietà
dell’interlocutore. Non c’è nessuna compassione per le debolezze della natura umana in
questa voce di una coscienza rigorosa e rigida, come del resto più in generale in Jacopone.
L’intransigenza è la sua misura. Ma il vivo non si accontenta e adotta sovente toni sarcastici
e grotteschi. Se c’è uno sviluppo nel componimento, non è nella psicologia dei personaggi
(granitica è in particolare la fermezza del vivo), ma nell’allargarsi dell’orrore da una pro-
spettiva quasi esclusivamente fisica a una spirituale, in un «tetro crescendo meditativo che
porta dal disfacimento della carne all’orrore dell’inferno» (Pasquini). Si noti in particolare
l’accorata interrogativa retorica del morto ai vv. 53-54: «Omè dolente, e como faraio, /
quann’io e l’alma starimo en ardura?», in cui un io desolatamente ridotto a pura corporeità
guarda con orrore al ricongiungimento con l’anima, nell’eternità di dolorosa perdizione
che seguirà il Giudizio universale. È questo forse il momento più tragico del componimen-
to, che in due versi dice l’orribile miseria e solitudine di un corpo da cui l’anima è stata
violentemente sradicata.
Il motivo dominante è quello dell’orrore del corpo. La descrizione del disfacimento del
corpo obbedisce a un gusto del macabro e del grottesco ed è crudamente realistica, con
un’attenzione ai dettagli più spiacevoli. Lo scopo è ammonire il lettore e ingenerare disgu-
sto in lui, perché si ravveda, come spesso accadeva nella predicazione medievale. Il crudo
realismo di Jacopone si sostanzia di «un drammatico rifiuto della realtà […] e non mai in
una forma d’amore all’uno o all’altro dei suoi aspetti» (Pasquini). «I tre nemici dell’anima
individuati dalla tradizione ascetica nel demonio, nel mondo, nella carne, per il nostro auto-
re si riducono fondamentalmente a quest’ultima. Nel corpo è il principio del male e del
peccato. Al corpo Jacopone guarda con senso di paura e di inimicizia» (Getto).

Laboratorio 1 La lauda è imperniata sul contrasto fra la 2 Descrivi, facendo riferimento al testo, il
COMPRENSIONE condizione del defunto prima e dopo la diverso atteggiamento e il diverso lin-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE morte: fai un elenco delle caratteristiche guaggio dei due personaggi, l’inquisitore
fisiche (l’aspetto del corpo) e morali (gli e l’inquisito.
atteggiamenti, i comportamenti) del per- 3 Prova a spiegare se e in che modo il con-
sonaggio quand’era vivo e ora che è cetto di esmesuranza (R 4.3) può essere
morto. applicato a questo componimento.

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Duecento e Trecento

T 4.3 Jacopone da Todi


Donna de Paradiso seconda metà sec. XIII
Poeti del Duecento Il Laudario di Jacopone contiene anche, oltre ad espressioni dello slancio mistico e del-
a cura di G. Contini l’ascetico disprezzo del mondo, testi satirici e polemici (ad esempio sulla corruzione
Ricciardi, della Chiesa e dell’ordine francescano, fra cui quelli famosi in polemica con il papa Bo-
Milano-Napoli 1960 nifacio VIII) e testi che potremmo definire liturgici (dedicati ad esempio alla storia sacra
o a momenti e aspetti della vera e propria liturgia cristiana). Jacopone raggiunge il suo
vertice artistico in uno dei componimenti dedicati alla Vergine, Donna de Paradiso, che in
forma dialogica e con straordinario pathos rievoca la crocifissione di Cristo, il momento
veramente saliente dell’esperienza di fede del cristiano.

Nota metrica
Per comodità del lettore
[NUNZIO] «Donna de Paradiso,
riportiamo fra parentesi lo tuo figliolo è preso,
quadre l’indicazione del- Iesù Cristo beato.
l’identità degli interlocu-
tori, indicazione che non
compare nei manoscritti Accurre, donna, e vide
originali. Il nunzio, primo 5 che la gente l’allide:
interlocutore, è forse da
individuarsi nella persona credo che lo s’occide,
di san Giovanni. tanto l’ho flagellato».
Ballata di settenari (spo-
radicamente sostituiti da [MARIA] «Com’essere porria,
ottonari, per anacrusi) a che non fece follia,
schema yyx (ripresa) aaax
(stanza). Nella ripresa si 10 Cristo, la spene mia,
ha una rima siciliana (Pa- om l’avesse pigliato?»
radiso : preso). Rime sicilia-
ne, rime imperfette o as-
sonanze in qualche altro [NUNZIO] «Madonna, ell’ è traduto:
caso (crucifige : rege : lege, vv. Iuda sì l’ha venduto;
28-30; croce : aduce : luce, vv.
48-50; vestire : vedere : ferire, trenta denar n’ha avuto,
vv. 60-62; corrotto : deporto : 15 fatto n’ha gran mercato».
morto, vv. 76-78; afflitto :
metto: eletto, vv. 104-106).
[MARIA] «Soccurri, Maddalena!
1 Donna de Paradiso: Ionta m’è adosso piena:
Donna celeste. Non va in- Cristo figlio se mena,
teso invece come «Signora
del cielo», in quanto Maria com’ è annunzïato».
è rappresentata in vita, è
donna ancora terrena. Nel- 20 [NUNZIO] «Soccurre, donna, adiuta,
l’epiteto rivolto alla Vergi-
ne va comunque sentito il ca ’l tuo figlio se sputa
conflitto patetico fra l’u- e la gente lo muta;
mano, il presente con il
lancinante dolore per la hòlo dato a Pilato».
perdita del figlio (donna), e
il divino, la futura gloria [MARIA] «O Pilato, non fare
celeste (de Paradiso).
2 è preso: è (stato) cat- 25 el figlio mio tormentare,
turato. È il momento in cui ch’io te pozzo mustrare
Cristo viene catturato e
portato al Sinedrio (il tri- como a torto è accusato».
bunale religioso ebraico), al
cospetto di Caifa, capo dei 8-11 «Com’essere … pi- (stato) tradito. nunzïato: è condotto via mento di Cristo dal Sine-
sacerdoti. gliato?»: come potrebbe 13 sì: ha semplice valore (se mena, con valore passi- drio a Pilato, il governato-
4-5 Accurre … l’allide: (porria) mai accadere che rafforzativo. vo), com’era stato predetto re romano.
accorri, donna, e guarda l’abbiano catturato (om, 15 fatto … mercato : (dalle Sacre Scritture). 23 hòlo dato: lo hanno
come la gente lo percuote con il consueto valore im- l’ha «venduto a buon mer- 20 adiuta: aiuta(mi); si- consegnato.
(allide, latinismo). personale: lett., che lo si sia cato, a basso prezzo» (Con- nonimo di soccurri, soccurre. 26 pozzo: posso (pron.
6-7 credo … flagellato: catturato), Cristo, la mia tini). 21-22 ca ’l tuo figlio … pòzzo). Con il v. 24 la sce-
credo che lo stiano ucci- speranza (spene), dal mo- 17 Ionta … piena: mi è muta: poiché si sputa ad- na si sposta al cospetto di
dendo (lo s’occide, lo si ucci- mento che non ha com- precipitata addosso una dosso a tuo figlio e la gen- Pilato, che era stato appena
da), tanto lo hanno (l’ho, messo alcuna colpa (follia)? sventura enorme (piena). te lo trasferisce, lo porta evocato nelle parole del
con valore plur.) flagellato. 12 ell’è traduto : egli è 18-19 se mena … an- via. Si allude al trasferi- nunzio.
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4. La nascita della letteratura italiana. La poesia religiosa T 4.3

28 Crucifige: crocifiggi- [FOLLA] «Crucifige, crucifige!


lo, fallo crocifiggere; è la Omo che se fa rege,
folla che si rivolge a Pilato. 30 secondo nostra lege
29 se fa rege: si procla-
ma re (è l’accusa che, con- contradice al senato».
travvenendo alle delibera-
zioni del Senato, giustifica
il trasferimento di Cristo di [MARIA] «Prego che me ’ntennate,
fronte all’autorità romana). nel mio dolor pensate:
32-35 Prego … pensato:
vi prego di ascoltarmi (me forsa mo vo mutate
’ntennate, mi intendiate), di 35 de che avete pensato».
pensare al mio dolore (op-
pure, come imperativo:
pensate al mio dolore!): [FOLLA] «Traàm for li ladruni,
forse potreste mutare pen- che sian suoi compagnuni:
siero.
36-37 Traàm for… com- de spine se coroni,
pagnuni: traiamo, portia- ché rege s’è chiamato!»
mo fuori (dal carcere) i
due ladroni, che siano suoi
compagni nella crocifissio- 40 [MARIA] «O figlio, figlio, figlio,
ne (i due erano già stati figlio, amoroso giglio!
condannati a quella pena).
45 co’ non respundi? : figlio, chi dà consiglio
perché, com’è che non ri- al cor mio angustïato?
spondi?
46-47 Figlio … lattato?:
Figlio perché ti nascondi, ti Figlio occhi iocundi,
sottrai al petto che ti ha (o’ 45 figlio, co’ non respundi?
si’, dove sei stato) allattato?
48-51 «Madonna … leva- Figlio, perché t’ascundi
to»: Madonna, ecco la cro- al petto o’ si’ lattato?»
ce, trasportata dalla folla
(che, compl. oggetto, la gente,
soggetto; il la di l’aduce è [NUNZIO] «Madonna, ecco la croce,
pleonastico), dove dev’esse-
re innalzata la vera luce. Le- che la gente l’aduce,
vato è maschile perché con- 50 ove la vera luce
corda a senso con Cristo. È dèi essere levato».
questo un riferimento teo-
logico: Cristo è la vera luce
che deve essere levata (sulla [MARIA] «O croce, e che farai?
croce) per la salvezza del-
l’umanità: cfr. Giovanni 12, El figlio mio torrai?
32: «Io quando sarò elevato Como tu ponirai
da terra, attirerò tutti a me».
53 torrai: prenderai, mi 55 chi non ha en sé peccato?»
porterai via; oppure: rice-
verai, accoglierai. [NUNZIO] «Soccurri, piena de doglia,
54 ponirai: punirai.
56 piena de doglia: o ca’l tuo figlio se spoglia:
donna piena di dolore (do- la gente par che voglia
glia).
57 ca’l tuo figlio se che sia martirizzato!»
spoglia: poiché tuo figlio
viene spogliato (se spoglia, 60 [MARIA] «Se i tollete el vestire,
con valore passivo).
60-63 «Se i tollete … en- lassatelme vedere,
sanguenato!»: se gli (i) to- como el crudel ferire
gliete i vestiti, lasciatemi
vedere come le crudeli fe- tutto l’ha ensanguenato!»
rite lo hanno tutto insan-
guinato. Lassatelme: lasciate-
melo, dove il lo anticipa la [NUNZIO] «Donna, la man li è presa,
proposizione seguente. 65 ennella croce è stesa;
65 ennella: e nella.
66-67 con un bollon …
con un bollon l’ho fesa
ficcato: con un chiodo tanto lo ci ho ficcato.
(bollon) l’hanno trafitta (l’ho
fesa, da fendere), tanto
profondamente ce lo han- L’altra mano se prende,
no conficcato. ennella croce se stende
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Duecento e Trecento

70 s’accende: si infiam- 70 e lo dolor s’accende, mità della perdita affettiva,


ma, si intensifica. l’assolutezza del dolore; pate
72-75 Donna … sdeno- ch’è più moltiplicato. “padre” è un latinismo.
dato: Donna, gli vengono 93 tu remagni: rimanga
presi i piedi e gli vengono in vita.
inchiodati (chiavellanse) al
Donna, li pè se prenno 94 che serve ei miei
legno; aprendo ogni giun- e chiavellanse al lenno: compagni: che tu assista i
tura, tutto l’hanno slogato onne iontur’ aprenno, miei discepoli.
(sdenodato). 95 aio: ho.
76 comenzo el corrot- 75 tutto l’ho sdenodato». 100 C’una aiam sepoltu-
to: comincio il lamento fu- ra: vorrei che avessimo, po-
nebre. tessimo avere un’unica se-
77 deporto: gioia (fran- [MARIA] «E io comenzo el corrotto: poltura!
cesismo). figlio, lo mio deporto, 101 mamma scura: ma-
78 chi me t’ha morto: dre addolorata, ma l’epiteto
chi ti ha ucciso. Il me ha figlio, chi me t’ha morto, scura (come già nella fossa
valore affettivo (corrispon- figlio mio dilicato? scura di Quando t’aliegre) è
dente al dativo etico latino, intensamente evocativo.
mihi). 102-103 trovarse … affo-
81 m’avesser tratto: mi 80 Meglio averiano fatto cato!: che la madre e il fi-
avessero strappato. che ’l cor m’avesser tratto, glio soffocato (affocato) si
82-83 che … descilïato : trovino insieme in un tale
dal momento che mio fi- che ne la croce è tratto, tormento (afrantura)! L’in-
glio è stirato sulla croce, e stace descilïato!» finito ha valore esclamati-
ne viene (stace, ci sta, ci ri- vo, e può indicare tanto
mane) straziato. una deprecazione, quanto
85-87 Mortal ... afferrato: [CRISTO] «Mamma, ove si’ venuta? e forse meglio – come ai
mi dai una ferita mortale, due versi precedenti e co-
poiché il tuo pianto, che 85 Mortal me dài feruta, me nel finale, v. 134 –
vedo così straziante (afferra- ca ’l tuo planger me stuta, l’auspicio di una comu-
to, che trafigge come un nione di dolore.
ferro), mi uccide (stuta,
che ’l veio sì afferrato». 107 sia tuo figlio appel-
francesismo, da tuer). lato: d’ora innanzi sia
88 che m’aio anvito:
[MARIA] «Figlio, che m’aio anvito, chiamato figlio tuo (cfr.
che ne ho motivo. Giovanni, 19, 26-27).
89 figlio, pate e marito: figlio, pate e marito! 108-111 Ioanni … furato:
«È svolto il motivo teologi- 90 Figlio, chi t’ha ferito? Giovanni questa è (èsto)
co di Maria che è insieme mia madre: accoglila con
madre, figlia e sposa di Cri- Figlio, chi t’ha spogliato?» amore, abbi pietà di lei,
sto» (Mussini); ma l’espres- poiché ha il cuore così
sione indica anche l’enor- trafitto (furato, forato).
[CRISTO] «Mamma, perché te lagni?
Voglio che tu remagni,
che serve ei mei compagni,
95 ch’al mondo aio acquistato».

[MARIA] «Figlio, questo non dire:


voglio teco morire;
non me voglio partire
fin che mo m’esce ’l fiato.

100 C’una aiam sepoltura,


figlio de mamma scura:
trovarse en afrantura
mate e figlio affocato!»
[CRISTO] «Mamma col core afflitto,
105 entro le man te metto
de Ioanne, mio eletto:
sia tuo figlio appellato.

Ioanni, èsto mia mate:


tollela en caritate,
110 aggine pïetate,
ca’l cor sì ha furato».
70 © Casa Editrice Principato
4. La nascita della letteratura italiana. La poesia religiosa T 4.3

112-115 Figlio, l’alma … [MARIA] «Figlio, l’alma t’è ’scita, 118 a chi m’apiglio?:
attossecato!: figlio, l’anima (senza di te) a chi mi ag-
ti è uscita (dal corpo), figlio figlio de la smarrita, grappo?
di madre smarrita, figlio di figlio de la sparita, 119 pur: «in ogni modo,
madre annientata, figlio av- 115 figlio attossecato! assolutamente» (Contini),
velenato! Ma l’espressione «per sempre» (Morini).
sintetica dell’originale ha la 126 hatte la gente : la
forza del lamento dispera- Figlio bianco e vermiglio, gente ti ha.
to: i tre epiteti si stagliano a 130-131 ora sento …
fine verso con l’assolutezza figlio senza simiglio, profitizzato: ora sento il
del grido. È l’inizio stra- figlio, a chi m’apiglio? dolore, la ferita (coltello, per
ziante e incentrato sulla fi- sineddoche: la causa per
gura dolente di Maria, della Figlio, pur m’hai lassato! l’effetto) che mi fu profe-
lunga invocazione-lamen- tizzata (cfr. Luca, 2, 35).
tazione finale retta dall’a- 120 Figlio bianco e biondo, 132-135 Che moga ... im-
nafora di figlio, che però piccato: che possano morire
subito dopo lascia posto figlio volto iocondo, (moga, muoia, con valore
prevalentemente a più dol- figlio, per che t’ha ’l mondo, plurale) figlio e madre, d’una
ci notazioni affettive che sola morte straziante! (per
rievocano probabilmente figlio, così sprezzato? afferrate cfr. v. 87 e nota): che
l’infanzia del figlio (bianco e possano trovarsi abbracciati
vermiglio, bianco e biondo, dol- Figlio dolze e placente, (abbraccecate) la madre e il fi-
ze e placente…). glio appeso! L’infinito trovar-
117 sanza simiglio: senza 125 figlio de la dolente, se ha lo stesso valore escla-
pari. figlio, hatte la gente mativo che al v. 102.
malamente trattato!

Ioanni, figlio novello,


mort’è lo tuo fratello:
130 ora sento ’l coltello
che fo profitizzato.

Che moga figlio e mate


d’una morte afferrate:
trovarse abraccecate
135 mate e figlio impiccato».

Guida all’analisi
Un dramma liturgico, tutto risolto nell’umanità del dolore Donna de Paradiso è una lauda dialogica, anzi «la sola
lauda di Jacopone interamente dialogata» (Contini). Intervengono un nunzio (identificato
da alcuni in san Giovanni), Maria, la folla e il Cristo. A quest’ultimo sono riservate solo
quattro stanze, mentre diciannove sono attribuite a Maria. Ciò costituisce forse il dato es-
senziale del componimento di Jacopone: rispetto alle fonti evangeliche, che relegano la fi-
gura di Maria sullo sfondo, Jacopone mette al centro della scena proprio la Vergine, con il
suo strazio, le sue implorazioni, i suoi lamenti, le sue grida di «donna» terrena cui viene cru-
delmente strappato un figlio.
È certo un dramma liturgico quello che viene messo in scena, in quanto centrato sull’e-
pisodio veramente essenziale della storia sacra per il cristiano. Ma i personaggi della storia
sacra sono colti nel loro umanissimo dolore, che a Maria – la protagonista – fa dimenticare
ogni immediata consapevolezza della missione provvidenziale che assolve (gli unici accenni
sono tutti in chiave di “dolore annunziato”, di “funesta profezia”, al v. 19 e al v. 131). Come
nota il Getto, infatti, «il tema si svolge in un ambito umano, senza troppo diretti sviluppi e
smarrimenti in un mondo ascetico e teologico». Jacopone non fa nessuna riflessione espli-
cita, ad esempio, sul significato della passione di Cristo, in quanto sacrificio compiuto per il
riscatto dell’umanità dal peccato originale. È evidente che questo senso era ed è del tutto
immediato per un fedele (il pubblico di Jacopone); ma l’assenza di ogni intento predicato-
71 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento

rio, di ogni giustificazione teologica è altamente significativa: Jacopone risolve tutto nell’e-
sperienza del dolore umano.
Eccezionale assenza dell’orrore del corpo E per una volta, il suo realismo si depura dalle componenti terribili e
anche macabre del disprezzo della carne. Qui eccezionalmente non c’è orrore del corpo,
giacché il corpo è quello di Cristo, e caso mai c’è orrore per lo strazio ad esso inferto. Ma
l’umanità stessa sembra riscattarsi – nel momento in cui Cristo la riscatta con il suo sacrifi-
cio – nella figura della Vergine, madre appassionatamente legata al proprio figlio, per la sua
umanità di madre terrena; e in quella di san Giovanni e del nunzio (se si tratta di due per-
sone distinte) a lei uniti in un’umana solidarietà fondata su un dolore puro e per nulla mor-
boso (questo è invece, almeno per il lettore moderno, il limite di gran parte del Laudario ja-
coponico, dove non c’è nessuna simpatia ‘creaturale’, nessuno spazio per qualsivoglia genti-
lezza umana). In definitiva, poi, non c’è neppure orrore nei confronti della folla scatenata
che inneggia alla crocifissione. Anche questo dato, come l’ambiguità della figura di Caifa o
di Pilato, non sembra interessare Jacopone, tutto compreso nella rappresentazione del suo
tema essenziale.
Un’elaborazione formale semplice, ma calcolata Il dramma si svolge con grande rapidità, linearità e semplicità,
senza sbavature, senza superflue insistenze (e Jacopone sapeva anche essere prolisso e torren-
ziale). Il linguaggio assume, anche per il lettore moderno, una superiore trasparenza rispetto
a tanti altri componimenti: il lessico è quasi tutto centrato su atti, sentimenti e oggetti sem-
plici ed essenziali, di facile intelligibilità (la traslazione, la crocifissione, il dolore, lo strazio, la
croce, i chiodi, le mani, i piedi di Cristo...).
Ma anche in questo caso non si deve pensare a una scrittura spontanea, immediata e non
meditata. Jacopone fa uso consapevole dei suoi soliti stilemi: la ripetizione enfatica (quasi
tutta risolta però nell’appello patetico e straziato della madre al «figlio»), l’elencazione e l’ac-
cumulazione (soprattutto notevoli le sequenze verbali, participiali, sostantivali e aggettivali
in rima, che danno anche un effetto di ritmo al discorso: adiuta : se sputa: lo muta, vv. 20-22;
figlio : giglio : consiglio, vv. 39-41; presa : stesa : fesa, vv. 64-66; prende : stende : accende, vv. 68-70;
dire : morire : partire, vv. 96-98; ecc.); una sintassi elementare, prevalentemente fondata sulla
paratassi (un esempio per tutti: «Ioanni, èsto mia mate: / tollela en caritate / aggine pïetate
/ ca’l cor sì ha furato», vv. 108-111).
Gli strumenti sono dunque semplici ma l’effetto è potente e non certo casuale: le anafo-
re e gli altri artifici retorici sono volti essenzialmente ad enfatizzare il dolore (la disperazio-
ne del grido, la lamentazione funebre…).
Ma ancor più significativa dell’elaborazione ‘letteraria’ del componimento è la sua cal-
colata struttura e la simbologia numerica ad essa sottesa: la lauda si compone di 33 strofe,
come gli anni di Cristo, suddivise in due parti eguali di quindici strofe che si collocano esat-
tamente prima e dopo le tre (come la Trinità?) dedicate alla descrizione della crocifissione
(ai vv. 64-75, il centro strutturale e tematico della lauda), secondo uno schema di 15+3+15.
Dal computo è esclusa la prima strofa, che nella ballata costituisce la ripresa e che poteva es-
sere ripetuta come un ritornello dopo ogni stanza.

Laboratorio 1 Descrivi sinteticamente l’argomento del suddividendovi le parti. Prima della lettu-
COMPRENSIONE testo, la struttura drammatica, il ruolo, ra ciascun lettore chiarisca bene il senso
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE l’atteggiamento e la psicologia dei diversi delle battute che deve recitare e provi a
personaggi. determinare il ritmo e le pause, il tono, le
2 Individua le espressioni che appartengo- inflessioni di voce, ed eventualmente i ge-
no al sermo humilis. Che cosa si intende sti della propria esecuzione.
per sermo humilis? [  R LE POETICHE 4 In un breve scritto individua e metti a
MEDIOEVALI: 2. Gli stili e i generi] Che confronto, con diretti riferimenti ai testi,
uso ne fa e quale significato gli attribuisce le caratteristiche salienti della religiosità
la letteratura cristiana? francescana e di quella jacoponica. Dai un
3 La lauda Donna de Paradiso è un testo titolo alla trattazione e individua un de-
drammatico: provate a recitarla in classe stinatario.
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4. La nascita della letteratura italiana. La poesia religiosa VERIFICA

VERIFICA

4.1 Prime testimonianze letterarie


1 Quali sono e a quale epoca appartengono i primi documenti letterari in volgare italiano?
2 Perché sono considerati storicamente importanti, anche quando sono di modesto valore
letterario?

4.2 San Francesco e la leggenda francescana

3 Quale testo viene considerato il primo testo canonico della letteratura italiana?
4 Che tipo di spiritualità manifesta il Cantico di Frate Sole di san Francesco?
5 Che cos’è e quali scopi si prefigge la cosiddetta leggenda francescana? Ricorda alcune
opere.
6 Nel corso del Due-Trecento quali distinte tendenze assume la leggenda francescana?
7 A che epoca datano i Fioretti di san Francesco e quale tendenza rappresentano?

4.3 Jacopone da Todi e la lauda

8 Che cosa lega la nascita della lauda e i movimenti religiosi medievali? Tratteggia i rapporti
fra i due fatti.
9 Che cos’è il movimento dell’Alleluja e chi sono i Flagellanti?
10 In che cosa si distingue il laudario di Jacopone dagli altri laudari duecenteschi?
11 Descrivi quale parte hanno l’ascetismo e il misticismo nel laudario di Jacopone.
12 Confronta la spiritualità di Jacopone con quella di san Francesco.

4.4 Giacomino da Verona e gli antecedenti didascalici della Commedia

13 Quali opere sono considerate antecedenti della Commedia e perché?


14 Quale o quali concezioni dell’aldilà testimoniano?

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Duecento e Trecento

La letteratura dell’età feudale


5 in Francia

n Duello tra cavalieri (da un


manoscritto del Lancillotto
del lago, XIV secolo).

n Il santo graal oggetto di Nell’attuale Francia, divisa all’epoca in due aree


venerazione da parte di cava- linguistiche nettamente differenti, la lingua d’oc al
lieri. Miniatura da un mano-
scritto del Perceval di Chré- sud e la lingua d’oïl al nord, si svilupparono fra XI e
tien de Troyes, del XV secolo XIII secolo le prime grandi esperienze poetiche nelle
(Parigi, Biblioteca Nazionale). lingue neolatine, destinate ad esercitare un vasto in-
flusso anche sulla nostra letteratura.
Nel nord della Francia si affermò dapprima il ge-
nere epico-narrativo nella forma delle chansons de
geste, poemi in cui si narrano le imprese compiute
da un popolo, da una stirpe o anche da un singolo
eroe, e in cui si rispecchiano i valori del mondo ca-
valleresco feudale: lo spirito guerriero, il coraggio,
l’onore, la fedeltà al signore, l’amore per la propria
terra. La più antica e la più celebre di queste chan-
sons è la Canzone di Orlando, composta verso la fine
dell’XI secolo, che sullo sfondo di un’epica lotta fra i
musulmani di Spagna e i Franchi di Carlo Magno nar-
ra un episodio di tradimento e di eroismo, culminante
nella sanguinosa sconfitta dei cristiani a Roncisvalle,

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5. La letteratura dell’età feudale in Francia STORIA

n La battaglia di Roncisvalle,
miniatura da un codice fran-
cese del 1462.

trasfigurazione leggendaria di un fatto d’armi real- fonde ben presto al di fuori della terra di Provenza,
mente accaduto tre secoli prima, al tempo del regno assurgendo a fonte primaria e modello di ogni fiori-
franco, reinterpretato anacronisticamente alla luce tura poetica di impronta aulica e cortese nel Medioe-
del contemporaneo spirito di crociata. Orlando, che vo europeo, sia nella lingua d’origine (assunta quale
muore per difendere il proprio sovrano e la propria lingua d’arte da poeti di altre regioni, come accade
religione, non è più soltanto il tradizionale eroe delle nell’Italia del nord) sia nelle altre lingue volgari, ro-
armi, ma anche un martire della fede e un vassallo manze e germaniche.
feudale ligio al proprio signore fino all’estremo sacri- Dall’incontro fra la lirica provenzale e il ricco pa-
ficio. Vasta e sublime epopea della cristianità, la trimonio di leggende e di narrazioni che si erano dif-
Canzone di Orlando si propone come un modo nuovo fuse da tempo nelle corti della Francia del Nord, nac-
di reinterpretare la cultura antica, fondendo la figura que la grande stagione del romanzo cavalleresco,
dell’eroe classico con quella del santo cristiano. non più destinato alla recitazione orale (come le
Negli stessi anni in cui viene composta la Canzo- chansons de geste o le liriche trobadoriche) ma alla
ne di Orlando, nelle corti signorili di Provenza si lettura, in una dimensione più intima e privata. Vari
diffonde una nuova concezione dell’amore che si è furono i cicli poetici che si andarono sviluppando nel
n Miniatura tratta da un co- soliti definire «amor cortese», conseguenza di un corso del XII secolo: quello destinato a maggior for-
dice del Perceval ou le conte nuovo stile di vita più colto e raffinato. Al centro di tuna fu il ciclo bretone, imperniato sulle avventure e
du Graal di Chrétien de
Troyes. questo nuovo ideale non è solo la figura dell’eroe gli amori dei cavalieri di re Artù, mitico sovrano già
guerriero, ma anche quella della donna, cui il perfet- presente nei racconti orali del folclore celtico. I ro-
to cavaliere offre il suo omaggio d’amore e di incon- manzi più suggestivi di tale ciclo furono quelli com-
dizionata fedeltà. Il punto essenziale di tale relazio- posti in versi ottonari a rima baciata da Chrétien de
ne, che si sviluppa sempre fuori del matrimonio, e Troyes, e in particolare Lancillotto, o il Cavaliere della
dunque si pone in parziale contrasto con la morale Carretta e Perceval, o il Racconto del Graal. Accanto
cristiana, è l’idea che un animo cortese non può non ai romanzi del ciclo di re Artù, vasta eco ebbe anche
amare, che l’amore rappresenta insomma il vertice e la tragica vicenda d’amore e morte di Tristano e
la compiuta realizzazione delle virtù cortesi. In gran Isotta, che ci è pervenuta in diverse versioni.
parte sul tema d’amore (anche se non mancano mo- Non minore fortuna ebbero infine i poemi allego-
tivi civili e guerreschi) si fonda la poesia lirica in lin- rico-didascalici. Il più noto fu il Romanzo della Rosa,
gua d’oc, chiamata «trobadorica» dal nome dei poeti ispirato ai cicli erotici del poeta latino Ovidio. Ad esso
provenzali, i «trovatori». Poesia altamente convenzio- attinse il giovane Dante nel comporre due poemetti
nale ed elaboratissima sul piano tecnico ed espressi- giovanili, il Fiore e il Detto d’amore, alla fine del Due-
vo, la lirica occitanica, i cui maggiori esponenti furo- cento (R 9).
no Guglielmo d’Aquitania, Jaufré Rudel, Bernart de
Ventadorn, Arnaut Daniel e Bertran de Born, si dif -

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Duecento e Trecento

5.1 La nascita del genere epico in lingua volgare


Elementi strutturali del genere epico Le origini del genere epico coincidono con le origini di tut-
ta la letteratura occidentale: i primi poemi epici di cui si abbia conoscenza sono infat-
ti l’Iliade e l’Odissea, che la tradizione più antica attribuiva a un unico autore, Omero.
Dal mondo greco a quello latino e mediolatino il genere epico svolse un ruolo fonda-
mentale, e fu considerato il genere più alto e rappresentativo. Pur nell’ovvia difficoltà
di dare una definizione precisa e univoca del termine epos (che in greco voleva dire
semplicemente “parola”, e, per estensione, “discorso, racconto”), è tuttavia possibile
identificare un insieme di caratteri e di elementi strutturali che la coscienza culturale
dell’Occidente ha da sempre associato al genere epico: l’ampiezza del componimento;
la tendenza alla rappresentazione oggettiva; il carattere narrativo; la predilezione per
argomenti guerreschi e/o avventurosi; la qualità eroica e sublime (esemplare) delle ge-
sta narrate; l’interferenza del divino nelle azioni umane, o comunque il ricorso al me-
raviglioso e al sovrannaturale; l’uso di un linguaggio “speciale”, altamente artificiale,
elaborato e solenne, nel quale spicca l’uso di uno stile formulare (basato, cioè, sulla ri-
correnza di espressioni o di epiteti fissi).
Epica germanica ed epica romanza Già Tacito, in una monografia storica dedicata alle popolazioni
germaniche (la Germania, composta alla fine del I secolo d.C.), aveva accennato a
poemi epici di argomento mitologico e a canti di marcia di contenuto guerriero,
composti questi ultimi dai bardi, sorta di aedi che accompagnavano le schiere armate,
trascinandole con i loro canti al combattimento. Proprio al mondo germanico appar-
tengono alcuni potenti e vigorosi poemi epici di età medievale, elaborati inizialmente
in forma orale. Fra di essi i più noti furono: un poema anglosassone, scritto alla fine del
VII secolo e pervenuto in un manoscritto sassone del X, intitolato Beowulf dal nome
del protagonista, l’eroe che sconfigge il mostro Grendel e un drago, morendo per le
ferite riportate; i ventinove carmi dell’Edda, assegnabili a un’epoca compresa fra IX e
XII secolo; la grande saga dei Nibelunghi, poema in altotedesco diviso in trentanove
canti, detti «avventure», databile (nella redazione a noi pervenuta) all’inizio del XIII
secolo, nel quale confluiscono fatti storici e tradizioni leggendarie risalenti all’epoca
delle grandi invasioni (IV-VI secolo): nelle prime diciannove avventure del poema si
narrano le gesta di Sigfrido e la sua morte; nelle successive la vendetta che Crimilde,
moglie di Sigfrido, compie sugli uccisori del marito.
Si è spesso discusso, in passato, sull’ipotetica influenza esercitata dall’epica germanica
su quella romanza: influenza che le profonde differenze delle strutture formali, dello
stile e dei contenuti sembrano tuttavia negare. Alla base dei poemi germanici sta in
ogni caso un nucleo di fatti storici, sia pure rielaborati fantasticamente in chiave miti-
ca, nei quali si rispecchia la storia di un popolo o di una stirpe. Le vicende dei Nibe-
lunghi, ad esempio, sono ambientate all’epoca del regno burgundico e della sua distru-
zione ad opera degli Unni (436): in esse compaiono personaggi storici (sia pure ana-
cronisticamente affiancati) come Attila e Teodorico. È questa una costante che ritro-
viamo in gran parte dei poemi romanzi: nella Chanson de Roland [La canzone di Orlan-
do], composta in lingua d’oïl verosimilmente alla fine dell’XI secolo, si celebra un epi-
sodio guerresco effettivamente accaduto (e fantasticamente rielaborato) nel 778; nel
Cantar de mio Cid (letteralmente, Il cantare del mio Signore), composto in lingua casti-
gliana nel XII secolo, si narrano le gesta di Rodrigo Díaz de Bivar, eroe nazionale spa-
gnolo impegnato fra l’altro nella conquista di Valencia (storicamente tolta agli arabi di
Spagna nel 1092). Anche per questo motivo la critica romantica ha voluto interpreta-
re questi poemi come espressione dello spirito nazionale al suo nascere, insistendo sul-
l’idea (oggi inaccettabile) che essi fossero il prodotto spontaneo dell’anima collettiva di
un popolo.

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5. La letteratura dell’età feudale in Francia STORIA

Le chansons de geste in lingua d’oïl Sono circa settanta i poemi in lingua d’oïl, composti tra l’XI e il
XIII secolo, che ci sono pervenuti. Se si tiene conto che essi rappresentano solo una
parte di una vasta produzione di cui molto si è perduto, si può misurare il successo che
il genere epico conobbe in terra di Francia. Tali poemi sono chiamati chansons de geste,
poemi cantati (“canzoni”), nei quali si narrano le imprese (“gesta”) compiute da un
popolo, da una stirpe o anche da un singolo personaggio. In esse si rispecchia il mon-
do feudale dei cavalieri e dei feudatari, di cui vengono celebrati i valori più caratteri-
stici: lo spirito guerriero, la prodezza, il culto dell’onore, la fedeltà vassallatica al signo-
re, l’amore per la propria terra. Nel più antico, e più celebre, di questi componimenti,
la Chanson de Roland, tali valori sono posti al servizio della fede cristiana: Orlando, il
protagonista del poema, finisce così per unire i caratteri tradizionali dell’eroe (la forza
fisica, l’abilità militare, il coraggio, lo sprezzo del pericolo) all’esemplarità morale dei
comportamenti: è un eroe-martire, che si batte fino al sacrificio della vita per la difesa
della fede cristiana.
Tra i modelli primari delle chansons de geste va posto non a caso il poemetto agio-
grafico in lingua d’oïl, che aveva goduto di larga fortuna nell’XI secolo in Francia. Ta-
le influenza risulta evidente a più livelli, non solo contenutistici: affini sono infatti le
strutture strofiche (lasse assonanzate e rimate di versi decasillabi), lo stile formulare del
racconto e le stesse modalità d’uso dei testi, recitati da giullari itineranti con l’accom-
pagnamento della viola. Identici furono anche i luoghi di circolazione: la corte, il sa-
grato della chiesa, fiere e mercati, feste religiose. Vite di santi e poemi epici di argo-
mento cristiano venivano recitati lungo gli itinerari dei pellegrinaggi medievali, il più
noto dei quali fu quello che portava al santuario di Santiago de Compostela (la cosid-
detta «Via Lattea»).
Il ciclo carolingio Il filone più significativo di questa produzione è quello che appartiene al ciclo ca-
rolingio, di cui fa appunto parte la Chanson de Roland, il capolavoro indiscusso del ge-
nere. Protagonisti di questo ciclo sono i paladini (cioè i comites palatini, “compagni di
palazzo”) di Carlo Magno, in lotta contro i Saraceni per la difesa della fede cristiana.
La durezza del contrasto fra popolazioni cristiane e islamiche, che appaiono nei poemi
di questo ciclo epico ferocemente arroccate su due mondi contrapposti e incomuni-
cabili, si spiega con il nuovo spirito di crociata che animò l’Europa cristiana verso la
fine dell’XI secolo: si ritiene infatti che la Chanson, il più antico e il più bello dei testi
del ciclo carolingio, sia stata composta intorno al 1080, nell’imminenza della prima
crociata (1096-1099).

5.2 La Chanson de Roland


Notizie sull’opera Per secoli modello insuperato delle canzoni di gesta è stata, come si è detto, la
Chanson de Roland, composta in lingua d’oïl intorno al 1080 da un autore anonimo
che alcuni studiosi hanno voluto identificare nel Turoldus citato nell’ultimo verso del
poema [R T 5.1 Doc 5.3 ]. Nella tradizione letteraria antica era frequente che l’autore ap-
ponesse il proprio nome alla fine di un’opera; nel nostro caso, tuttavia, potrebbe sem-
plicemente trattarsi del nome del copista o del traduttore. La redazione più antica a
noi pervenuta dell’opera è quella che ci è stata conservata in un codice oxfordiano del
XII secolo: il testo, in lingua anglo-normanna, comprende 4002 decasillabi divisi in
290 lasse, ovvero strofe, di varia lunghezza.
Lo spunto storico Alla base della canzone si trova un episodio realmente accaduto: il 15 agosto 778, di
ritorno da una spedizione in terra di Spagna (da poco arabizzata), la retroguardia del-
l’esercito di Carlo fu assalita di sorpresa e massacrata al passo di Roncisvalle da un ma-
nipolo di montanari baschi; in questa battaglia perì, fra gli altri, anche il paladino Or-
lando, duca della marca di Bretagna. Si noti che i Baschi erano una popolazione cri-
77 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento

La Chanson de Roland

Le vicende, condensate in un arco di soli sei giorni (scan- Tutto si svolge secondo il maligno disegno di Gano: a
diti con precisione dal narratore in un susseguirsi di albe e Roncisvalle i cristiani vengono soverchiati dall’immenso
di notti), possono essere divise in tre blocchi compatti: una esercito dei saraceni. Il massacro è favorito dall’orgoglio di
premessa (sul tema dominante del tradimento); una se- Orlando, che rifiuta – nonostante il consiglio del saggio
quenza centrale (impostata sull’episodio di Roncisvalle); Oliviero – di suonare l’olifante per avvertire l’imperatore
un epilogo (sul tema dominante della vendetta). dell’imboscata. Quando si decide a farlo, è ormai tardi. Fe-
Da sette anni Carlo combatte vittoriosamente in Spagna rito a morte, ultimo superstite della retroguardia cristiana,
quando Marsilio, re dei Mori, ormai asserragliato in Sara- cerca vanamente di distruggere la spada miracolosa che gli
gozza, decide di avviare una trattativa di pace, con la segre- angeli avevano forgiato per lui: la sua anima è infine scor-
ta intenzione di venir meno alla parola data una volta che i tata in cielo da tre angeli [R T 5.1 ].
cristiani abbiano fatto ritorno in Francia. Durante un ac- Richiamato dal suono dell’olifante, Carlo ritorna sui suoi
ceso consiglio che si tiene nel campo cristiano, la proposta passi, incalza le truppe pagane in ritirata e ne fa strage.
viene diversamente valutata: Orlando, nipote di Carlo e fi- Marsilio, ferito, si rifugia a Saragozza, dove nel frattempo è
gliastro di Gano, vorrebbe continuare la guerra fino al giunto in suo aiuto l’esercito di Baligant, emiro d’Alessan-
completo annientamento del nemico, ma Gano, sostenuto dria. S’ingaggia infine un’ultima battaglia, che si conclude
dal vecchio e saggio Namo, convince il sovrano ad accet- con il duello decisivo di Carlo e Baligant. Grazie all’aiuto
tare la resa. Allora Orlando, infiammato dall’ira, propone dell’angelo Gabriele, l’imperatore ha la meglio sul nemico:
che sia lo stesso Gano ad andare a trattare con Marsilio, Carlo muove verso Saragozza e la espugna: tutti i saraceni
ben noto per la sua ferocia e la sua slealtà. Carlo autorizza vengono convertiti al cristianesimo; Marsilio «muore di
la missione, nonostante l’opposizione indignata di Gano, pena, e oppresso dalla colpa. / l’anima sua rende ai diavoli
che già matura in cuore la sua vendetta nei confronti del pronti». L’esercito cristiano può ora far ritorno in patria. Il
figliastro. Giunto a Saragozza, Gano si accorda infatti con i poema si conclude con il processo e la condanna del tradi-
nemici: Marsilio dovrà fingere la pace e la conversione al tore Gano, squartato da quattro cavalli impetuosi. L’angelo
cristianesimo; dopo di che Carlo farà ritorno in Francia, Gabriele scende nella camera di Carlo, durante la notte, e
lasciando alle sue spalle una retroguardia di eroi che i sara- lo esorta a nuove spedizioni militari contro i nemici della
ceni potranno facilmente annientare. cristianità [R T 5.1 Doc 5.3 ].

stiana, che nulla aveva a che fare con il mondo arabo, e che il fatto ebbe scarsa rile-
vanza sul piano storico-militare: quando tuttavia l’opera, circa tre secoli dopo, venne
composta, i predoni baschi si trovarono sostituiti, nell’immaginario, dai saraceni di
Spagna, e l’episodio di Roncisvalle venne inserito nella “guerra santa” fra mondo ara-
bo e mondo cristiano.
Un’epopea cristiana Eroe-santo, martire della fede, Orlando è dunque il protagonista di un poema cri-
stiano centrato sul contrasto, feroce e insanabile, fra due civiltà contrapposte: il mondo
islamico, assimilato a quello pagano (e perciò più volte accusato, nel corso della canzo-
ne, di politeismo e idolatria), che rappresenta il regno diabolico del male; il mondo cri-
stiano, che rappresenta il regno divino del bene.Tutti i segni del poema, al di là delle vi-
cende stesse, riconducono al tema religioso: sei sono i giorni in cui si svolge l’azione
del poema, come sei furono i giorni della creazione; dodici sono i Pari di Francia (fra
cui Orlando), come dodici erano gli apostoli (e Gano, il traditore, è assimilato nel cor-
so del racconto a Giuda, il traditore di Cristo). La stessa figura di Carlo Magno è co-
struita secondo il modello del profeta biblico: i segni più caratteristici sono la fluente
barba bianca, la prodigiosa vecchiezza (quasi duecento anni), la pacata saggezza delle
decisioni, accompagnata dalla fierezza del volto («Quand’egli parla, non parla all’im-
provviso: / è suo costume di discorrer tranquillo. / Drizza la testa, e molto fiero ha il
viso»; vv. 140-42). Carlo è spesso soccorso o visitato dagli angeli, ha sogni premonitori
e assiste a grandi prodigi (in CLXXIX, come nell’episodio biblico di Giosuè, il sole si
arresta per consentire ai cristiani di inseguire e annientare le truppe saracene). Non
mancano infine gli oggetti prodigiosi e fatati, come Durendala, la spada di Orlando, for-
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5. La letteratura dell’età feudale in Francia STORIA

Doc 5.1 Il mondo arcaico della Chanson de Roland

E. Auerbach, Nomina Il mondo della Chanson è un mondo arcaico, statico e chiuso, nel quale non c’è mar-
di Orlando a capo della gine per il dubbio: come ha scritto Erich Auerbach, «l’argomento del canto di Orlan-
retroguardia, in Mimesis,
Einaudi, Torino 1964 do è limitato e per i suoi personaggi non esiste nulla di problematico. Tutti gli ordina-
menti della vita e anche l’ordinamento dell’aldilà sono univoci, immutabili, stabiliti
con la fissità di formule. Essi, a dir vero, non sono senz’altro accessibili a un intendi-
mento razionale; ma questa constatazione la facciamo noi, non riguarda la poesia e gli
ascoltatori dell’epoca, che vivono in una fede sicura, entro una rigida, limitatissima
cornice dove i doveri della vita, la loro spartizione secondo i ceti, l’essenza delle forze
soprannaturali e il rapporto degli uomini con esse sono regolati nel modo più sem-
plice. All’interno di questa cornice c’è delicatezza e ricchezza di sentire e anche una
certa varietà dei fenomeni esterni; ma la cornice è così angusta e rigida che non è
quasi possibile che sorga problematicità o tragicità; non vi sono conflitti che meritino
l’attributo di tragico».

giata in cielo dagli angeli e consegnata da Carlo al paladino con il compito di far stra-
ge dei saraceni.
Un’ideologia feudale Il mondo della Chanson de Roland è un mondo ordinato gerarchicamente, che
rispecchia con ogni evidenza la struttura feudale dell’epoca in cui il poema fu com-
posto: i paladini sono innanzitutto vassalli di Carlo, al quale sono legati da un giura-
mento di fedeltà. I loro comportamenti appaiono fondati su norme e valori essenziali
e inderogabili: il vassallaggio, il concetto di onore (meglio morire che macchiarsi di
infamia), l’ideale guerriero. Significativa appare la difesa di Gano durante il processo:
egli afferma di non avere tradito il suo signore (Carlo) ma di essersi vendicato di un
nemico personale (Orlando). I suoi stessi accusatori non lo condannano per la morte
inflitta a Orlando, ma per aver mancato al giuramento di fedeltà nei confronti del so-
vrano: Gano aveva insomma il diritto di uccidere Orlando, che lo aveva offeso, ma non
quello di mettere a repentaglio i progetti bellici del suo signore. A tal punto è incerto
il giudizio dei vassalli invitati a esprimersi, che si deve infine ricorrere a un’ordalia (il
cosiddetto giudizio di Dio, secondo il diritto barbarico): due contendenti, uno favore-
vole l’altro contrario all’assoluzione, si affrontano in duello per determinare l’esito del
processo.
Strutture compositive e tecnica della narrazione L’unità di misura del racconto è la lassa assonan-
zata, che può variare nel numero dei versi e che costituisce una struttura autonoma e
in sé compiuta. Si è parlato per questo di narrazione paratattica: il cantore procede per
quadri isolati e indipendenti, accostati gli uni agli altri, senza legami di carattere causa-
le, temporale o modale con i precedenti. I legami sono dati semmai dall’uso di uno
stile formulare (come nell’epos classico) e dall’accostamento di “lasse similari”, orga-
nizzate su parallelismi e riprese (di un gesto, di una situazione, di una formula). Nel-
l’episodio della morte di Orlando [R T 5.1 ], ad esempio, tre lasse consecutive descrivo-
no, con minime variazioni, il gesto con cui il paladino, ormai morente, protende il
guanto a Dio in segno di omaggio e devozione: l’azione è come staticamente blocca-
ta; il gesto assume un rilievo scultoreo di grande vigore simbolico. Il tempo dominan-
te del racconto, non a caso, è il presente: dinanzi al lettore-ascoltatore, gli avvenimenti
sfilano nella loro immediatezza, senza alcuna complicazione. Il poeta non ha bisogno
di spiegare, né di correlare i fatti che accadono: i fatti, semplicemente, accadono. L’ar-
caicità delle tecniche narrative e delle scelte linguistiche sembra perfettamente intona-
ta alla rappresentazione di un mondo chiuso e rigido, all’interno del quale non si dan-
no sfumature.
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Duecento e Trecento

5.3 L’ideale cavalleresco e l’amor cortese


L’età cortese Verso la fine dell’XI secolo, negli stessi anni in cui viene composta la Chanson de
Roland, nelle corti signorili della Francia del Sud si diffonde una nuova concezione
dell’amore che si è soliti definire «amor cortese».
Il termine cortese deriva da corte, e si oppone da una parte al termine borghese (che
deriva da borgo), dall’altra al termine villano (che deriva da villa, il possesso rustico fon-
dato sul lavoro contadino). Il mondo cortese presenta dunque, fin dalle origini, una
sua marcata componente ideologica: cortese è il mondo aristocratico e feudale, con-
trapposto, per modello di vita e per distinzione sociale, sia a quello borghese e mer-
cantile delle città (fondato sull’attività pratica e sul denaro) sia a quello, povero e rozzo,
del contado. La componente ideologica era tuttavia destinata col tempo ad attenuarsi,
proprio per il forte carattere idealizzante della letteratura che tale mondo riuscì ad
esprimere: come avremo modo di vedere, la cultura cortese e la letteratura d’amore si
diffonderanno ben presto nell’ambito comunale, caratterizzandone fin dal XIII secolo
i modelli di vita e di pensiero.
La contrapposizione fra «cortese» e «villano» perdura, nel linguaggio e nell’imma-
ginario occidentale, fino ai nostri giorni: villano e cortese rappresentano anche per
noi due modi contrapposti di essere e di comportarsi, al di là delle distinzioni sociali.
Sul piano storico, l’età cortese in Europa si estende tra la fine dell’XI e il XIV secolo.
L’ideale cavalleresco Fin dall’età carolingia, i signori feudali si erano riconosciuti nella figura del guer-
riero fiero e bellicoso, impegnato a difendere le proprie terre dalle incursioni barbari-
che o ad affermare, con l’avvento del nuovo spirito di crociata, la propria identità cri-
stiana. Di questa concezione del mondo, la figura più rappresentativa era stata – come
si è visto – Orlando, il cavaliere eroico e fedele che combatte per il proprio signore e
per la fede cristiana. Proprio alla fine dell’XI secolo questa figura si evolve, arricchen-
dosi di nuove idealità pur senza cancellare i caratteri precedenti: alle virtù feudali
(sprezzo del pericolo e della morte, valore guerresco, lealtà e fedeltà vassallatica, culto
dell’onore e della stirpe) si assommano le virtù morali cristiane, in parte mutuate dal-
l’etica classica (magnanimità, fortezza, temperanza, misura), in parte elaborate dalla
Chiesa nella sua secolare evoluzione dottrinale (misericordia, e dunque difesa degli
oppressi e dei deboli; pietà nei confronti degli sconfitti).
Se risulta storicamente poco corretto identificare fin dalle origini i concetti di no-
biltà e di cavalleria, non c’è dubbio che almeno dal XII secolo la cavalleria appare co-
me l’espressione militare della nobiltà. È allora che il cavaliere entra nella letteratura
come la figura più rappresentativa del mondo aristocratico, il suo eroe per eccellenza,
sintesi delle grandi virtù cortesi: misura (ovvero dominio delle passioni e degli istinti,
capacità di disciplinare i propri costumi di vita), prodezza (il coraggio fisico, l’ardi-
mento guerriero), larghezza (la liberalità nel dare e il disinteresse nei confronti dei be-
ni materiali), gioia (il sentimento di pienezza e di armonia che il cavaliere prova nel
momento in cui si è realizzato in imprese giuste e onorevoli).
Pur nutrito di idealità religiose, il cavaliere descritto nei romanzi d’avventura fran-
cesi del XII secolo esprime una nuova sensibilità e un nuovo modello di vita: l’esalta-
zione dell’amore sensuale, il culto della donna, la ricerca del lusso e della magnificen-
za, l’importanza accordata alla dimensione estetica, una nuova coscienza del significa-
to dell’arte e della letteratura sono espressione di valori laici e mondani pressoché
ignoti nei secoli precedenti all’Europa occidentale cristiana.
L’amor cortese Al centro di questo nuovo ideale di vita, che si rivela per la prima volta (come fra
poco si vedrà) nei castelli di Provenza, non è solo la figura del cavaliere, ma anche
quella della dama, alla quale il cavaliere dona il suo amore. Non si può dare cortesia
senza amore, né si può dare amore se non in un animo cortese: questa identità sta alla

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5. La letteratura dell’età feudale in Francia STORIA

base del mondo cavalleresco, che si compiace di trasferire nell’ambito dell’esperienza


amorosa il codice feudale: «tutto il vocabolario e i gesti dell’amor cortese, e soprattut-
to la nozione di servitù e il suo contenuto, derivano dalle formule e dai riti del vassal-
laggio», sintetizza lo storico Georges Duby. La donna viene dunque assimilata al si-
gnore feudale, e chiamata midons (in lingua d’oc, dal latino meus dominus, “mio signo-
re”); ad essa si deve fedeltà e devozione: per essa si compiono le coraggiose imprese
che rendono degni del suo amore. Un rapporto così esclusivo non può essere coltiva-
to all’interno del matrimonio, che in genere, all’epoca, soprattutto all’interno delle
corti feudali, era vincolato da una logica politica (creare allenze dinastiche) od econo-
mica (arricchire il patrimonio di una famiglia). Il cavaliere-amante si rivolge dunque a
una donna già sposata, che serve con devozione assoluta.
Se l’amor cortese è anche un gioco di società all’interno della fastosa vita di corte,
esso finisce tuttavia per elaborare una nuova mitologia e un nuovo modello umano:
l’esperienza dell’amore è vista come itinerario di perfezionamento dell’animo, princi-
pio di virtù e di moralità. L’amante non può compiere azioni turpi o disoneste; attra-
verso l’amore egli si affina interiormente: la fin’amor (“l’amore perfetto”) è l’espressio-
ne con cui i poeti provenzali, i primi ad elaborare questa concezione dell’amore, defi-
niscono tale condizione di armonia e di bellezza interiore che l’amante consegue al
termine di un lungo processo formativo.
La nobiltà dello spirito, requisito essenziale per qualsiasi autentico legame d’amore,
non cancella, semmai potenzia la componente erotica e sensuale. Uno degli aspetti più
innovativi, se non trasgressivi, dell’amor cortese, è anzi il fatto che il desiderio erotico
venga espresso in termini diretti ed espliciti, e che spesso siano le donne a dar voce a ta-
le desiderio, come in un componimento della Contessa di Dia [R Doc 5.2 ], vissuta fra XII
e XIII secolo, cui si devono cinque liriche dominate da un intenso slancio sensuale.
La trattatistica d’amore Parallelamente alla diffusione della poesia d’amore, si sviluppa una vera e pro-
pria trattatistica, che s’impegna a definire sul piano teorico e dottrinale la natura d’a-
more e ad analizzare i suoi effetti sugli individui e sulla vita sociale, codificando una
serie di precetti di comportamento atti a dar conto di tutti gli aspetti e momenti del-
la vicenda amorosa. Il principale modello di questa trattatistica fu il ciclo di opere ero-
tico-didascaliche composto in lingua latina da Ovidio nell’età augustea: il testo più
fortunato, nell’ambito del ciclo ovidiano, fu indubbiamente l’Arte d’amare, che dettava
le regole da seguire per conquistare le donne (I-II libro) e si rivolgeva poi alle donne
affinché apprendessero a loro volta le arti della seduzione (III libro). Seguivano i Ri-
medi d’amore, nei quali il poeta latino insegnava invece come liberarsi dell’amore quan-
do fosse divenuto fonte di infelicità. Il successo delle opere di Ovidio, più volte tra-
dotte in volgare, fu tale che il XII secolo viene definito dagli studiosi moderni “età
ovidiana”. Una traduzione dell’Arte d’amare di Ovidio (per noi perduta) si dovette an-
che al massimo narratore del secolo, Chrétien de Troyes.
Andrea Cappellano Nell’ambito della trattatistica d’amore, l’opera destinata a maggior fortuna fu il De
amore di Andrea Cappellano, un trattato composto in lingua latina intorno al 1185. Po-
co sappiamo di questo autore, verosimilmente da identificare con Andrea di Luyères,
cappellano della contessa di Champagne. La sua opera, divisa in tre parti, si richiama
con tutta evidenza ai testi erotici ovidiani: nella prima parte si insegna come acquista-
re l’amore, nella seconda come si conserva, nella terza come si possa fuggirlo. Ma su
questo impianto Andrea innesta tutte le acquisizioni derivate dalla poesia d’amore
provenzale e dai coevi romanzi cavallereschi. Schematizzando:
– l’amore può nascere solo fuori dal matrimonio, dal momento che esso si fonda
sulla libertà del sentimento e sulla trepidazione del desiderio inappagato, ciò che non
sarebbe possibile tra due coniugi, vincolati da un obbligo giuridico e religioso di reci-
proco possesso;

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Duecento e Trecento

– l’amore va tenuto segreto e «ben celato», perché non subisca l’oltraggio dei pet-
tegolezzi e delle maldicenze: l’amante, in particolare, non deve mai vantarsi dei favori
ottenuti dalla sua donna, né rivelarne il nome;
– l’amore è sempre felice, anche quando non è corrisposto, o si conclude dolorosa-
mente: la felicità nell’amore deriva dalla capacità di amare, da una pura dedizione del-
l’animo, dal disinteresse e dalla gratuità con cui viene alimentato e vissuto;
– l’amore non può nascere se non in un animo virtuoso: avarizia, menzogna, co-
dardia o maldicenza distruggono la capacità di amare. Di conseguenza, come scrive il
Cappellano, «l’amore dà bellezza all’uomo incolto e rozzo, dà nobiltà anche ai più
umili, rende umili anche i superbi»;
– l’amore è innanzitutto servizio, dedizione, contemplazione della propria donna,
di cui si elogiano la bellezza, la saggezza, le virtù morali.

5.4 La lirica provenzale


Il movimento trobadorico Verso la fine dell’XI secolo, nei castelli di Provenza, si sviluppò «il primo
consapevole movimento letterario della nuova Europa, il movimento trobadorico»
(Viscardi). Trovatori, così furono detti i poeti provenzali (trobadors, in lingua d’oc), sono
coloro che «trovano», cioè compongono (da trobar, “comporre musica”) il testo e la
melodia di liriche destinate ad essere cantate con accompagnamento musicale, sulle
note del liuto o di altro strumento a corde, davanti al raffinato pubblico di corte. Il
profondo legame tra musica e parola fu uno dei caratteri più importanti della poesia
provenzale (di ben 264 componimenti trobadorici, circa un decimo delle liriche con-
servate, ci è pervenuta anche la notazione musicale).
Il trovatore era figura ben distinta dal giullare, anche se talvolta le due figure poteva-
no coincidere nella stessa persona: trovatore è chi compone, l’autore dei testi e delle
musiche; giullare chi esegue ciò che il trovatore ha composto. I giullari erano attori in
grado di fare un po’ di tutto (giocolieri, saltimbanchi, acrobati, musici, buffoni, perfino
ammaestratori di animali) e perciò, in qualche caso, essi stessi gli autori-compositori
dei testi che eseguivano. Il luogo dove questa poesia viene composta ed eseguita è la
corte: primo esempio di poesia “cortese” può dunque essere definita tale poesia, che si
rivolge espressamente a un pubblico scelto e aristocratico, di cui rispecchia le idealità e
i comportamenti sociali. La lirica provenzale viene detta anche trobadorica (da troba-
dor, appunto) o occitanica (dalla lingua d’oc nella quale si espresse).
I trovatori Il primo dei poeti attestati fu Guglielmo IX d’Aquitania (1071-1126), uno dei
maggiori feudatari dell’epoca, personalità di alto rango e di grande prestigio. Ma la
provenienza sociale dei circa 460 trovatori di cui siamo a conoscenza risulta estrema-
mente varia: potenti signori della grande nobiltà, castellani impoveriti, cavalieri senza
feudo, borghesi di estrazione artigiana e mercantile, uomini di bassa condizione, tal-
volta giullari alla ricerca di un protettore. Fra i nomi più significativi spiccano quelli di
Marcabru (attivo fra il 1130 e il 1150), Jaufré Rudel (nato nella prima metà del XII
secolo, morto poco prima del 1164), Bernart de Ventadorn (attivo fra il 1147 e il
1170), Raimbaut d’Aurenga (1144-1173), Guiraut de Bornelh (attivo fra il 1162 e il
1199), Arnaut Daniel (attivo fra il 1180 e il 1210), Bertran de Born (nato tra il 1140 e
il 1150, morto poco prima del 1215). Non mancano le poetesse (trobairitz), ed è un fe-
nomeno di grande rilevanza, data l’epoca e il contesto culturale; la più celebre fu la
Contessa di Dia [R Doc 5.2 ].
Data la vasta diffusione e il prestigio della lirica di Provenza (Dante definirà la lingua
d’oc «la più perfetta e la più dolce delle lingue»), non pochi furono i trovatori di altre
nazioni che scrissero in provenzale, fra cui l’italiano Sordello da Goito (ricordato dallo
stesso Dante nel Purgatorio), attivo fra il 1220 e il 1269, anno probabile della sua morte.
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5. La letteratura dell’età feudale in Francia STORIA

Doc 5.2 Contessa di Dia, Sono stata in grave angoscia

Le trovatore. Poetesse del- Sono stata in grave angoscia


l’amor cortese,a cura di
M. Martinengo, trad. di per un cavaliere che ho avuto,
P. Silvestri, Libreria del- e voglio che per sempre sia risaputo
le donne, Milano 1996 come l’ho amato a dismisura;
ora m’accorgo d’essermi ingannata,
poiché non gli ho donato il mio amore,
per cui ho vissuto nell’errore
8 sia nel letto che vestita.
Come vorrei una sera tenere
il mio cavaliere, nudo, tra le braccia,
ch’egli si riterrebbe felice
se solo gli facessi da guanciale;
che ne sono più incantata
14 Fiorio di Bian- di quanto Fiorio di Biancofiore;
cofiore: allusione alla io gli dono il mio cuore e il mio amore,
vicenda, notissima al-
l’epoca, di due giova- 16 la mia ragione, i miei occhi e la mia vita.
ni, Fiorio e Biancofio- Bell’amico, amabile e buono,
re, che si amano fin da quando vi avrò in mio potere?
bambini, subiscono
dolorose separazioni, Potessi giacere al vostro fianco una sera
ma infine si ritrovano. potessi darvi un bacio appassionato!
La vicenda fu rielabo- Sappiate, avrei gran desiderio
rata dal Boccaccio nel
suo Filocolo. di avervi al posto del marito,
con la condizione che mi concedeste
24 di far tutto ciò ch’io volessi.

Il tramonto della lirica provenzale La rovina dei castelli e delle città di Provenza in seguito alla cro-
ciata anticatara (1208-1229), alla quale si è accennato (R 3.3), provocò il rapido decli-
no del movimento trobadorico, che si può dire esaurito alla fine del XIII secolo. Ac-
canto ai testi pervenuti (spesso un’esigua selezione operata dai contemporanei: 11
componimenti, ad esempio, per Guglielmo d’Aquitania; solo 6 per Jaufré Rudel), pos-
sediamo le vidas (vite, biografie) di numerosi autori e le razos (dal lat. ratio, commenti,
in prosa) di numerose liriche. Vidas e razos, tuttavia, sono per lo più di epoca tarda
(XIII secolo), e perciò non sempre attendibili.
La scomparsa del movimento trobadorico fu compensata dalla diffusione dei mo-
delli poetici di Provenza in altre lingue e in altre corti d’Europa, in particolare nella
Francia del nord (dove i trovatori si dissero, in lingua d’oïl, trovieri), in Germania (con
la poesia d’amore dei Minnesänger), in Portogallo e in Italia con la scuola siciliana (R 6.).
Temi e motivi Per comprendere la poesia provenzale bisogna disfarsi della concezione romantica
di poesia in quanto espressione immediata e spontanea dei moti dell’animo. La lirica
trobadorica è una poesia convenzionale, che non aspira alla diretta effusione senti-
mentale, né all’originalità dei contenuti. La maggior parte della produzione è dedica-
ta all’amore; significativa risulta tuttavia la poesia di carattere morale e politico, dalle
tonalità non di rado aspre e realistiche.
L’amore cantato dai lirici provenzali è l’«amor cortese», sublimato e codificato, co-
me si è detto (R 5.3): il poeta-amante si fa vassallo di una donna, che serve con animo
devoto e tremante. L’inaccessibilità della donna, dovuta a motivi sia sociali (l’alto rango
della dama) sia morali (il matrimonio) acuisce la tensione poetica ed esalta le virtù ca-
valleresche dell’innamorato. Intorno al poeta e alla sua amata – uniti da un amore se-
greto che deve essere celato dietro lo schermo del senhal, il nome fittizio con cui vie-
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Duecento e Trecento

ne indicata l’amata – si muovono le figure del marito geloso (il gilos) e dei maldicenti
invidiosi (lauzengiers), che possono insidiare la felicità degli amanti. Nei testi ricorrono,
sviluppate attraverso sottili variazioni, immagini e situazioni canoniche: il binomio
primavera-amore [R T 5.2 ], il canto degli uccelli che riecheggia il canto d’amore del
poeta, l’attesa trepidante di un messaggero che porti notizie dell’amata [R T 5.2 ], la
pietà o la crudeltà della donna, la lode delle sue virtù e delle sue bellezze, la gioia per
l’amore corrisposto, i patimenti e le sofferenze di un amante respinto o inappagato a
causa degli ostacoli che si frappongono, il canto dell’amore lontano [R T 5.4 ].
L’amore non fu tuttavia, come si è detto, il tema esclusivo di questa poesia: circa un
quarto dei 2700 componimenti poetici che ci sono giunti sono in forma di sirvente-
se, il genere lirico che i poeti provenzali utilizzarono per argomenti di carattere mora-
le, didattico, civile o politico. La passione, l’urgenza, l’energia di queste composizioni
dimostrano quanto esse fossero sentite dal pubblico delle corti: si legga, a questo pro-
posito, il lamento-invettiva di Sordello per la morte del suo signore, o il canto guerre-
sco di Bertran de Born [R T 5.3 ].
Forme metriche Al carattere altamente convenzionale di temi, situazioni e argomenti, nella lirica in
lingua d’oc corrisponde una straordinaria ricerca sul piano formale ed espressivo: vastis-
sima è la varietà di assetti rimici e strofici che riscontriamo nei testi pervenuti. Il culto
della forma non è tuttavia mai fine a se stesso, ma vuole essere l’espressione visibile di
un’educazione interiore e di uno stile di vita improntato ai valori cavallereschi (misura,
lealtà, generosità). La forma metrica per eccellenza è la canzone (canso); quella più im-
pegnativa e retoricamente complessa è invece la sestina, di cui l’esempio più insigne re-
sta un famoso componimento di Arnaut Daniel, il poeta che Dante stesso, nella Divina
commedia, indicherà come «miglior fabbro del parlar materno». Diffuse sono anche la
ballata (che implica la presenza di un ritornello) e il discordo, il cui impianto è caratte-
rizzato, al contrario della canzone, dalla dissimiglianza delle strofe, organizzate ciascuna in
modo autonomo e “discordante” (o dissonante) rispetto alle altre del componimento.
Trobar clus e trobar plan All’interno di questa produzione, distinguiamo fra diverse forme di scrittura, in
particolare fra un trobar clus, espressione di una poesia “chiusa”, spesso oscura e diffici-
le, di registro elevato e di complessa tessitura sintattica e stilistica, e un trobar leu o plan,
poesia dallo stile più “leggero” e “piano”, dalle immagini limpide e chiare.
Una variante del trobar clus è il trobar ric, uno stile virtuosistico, “ricco” di artifici re-
torici e di ornamenti espressivi. Il termine tecnico impiegato dai poeti occitanici è, in
questo caso, entrebescar los motz (“intrecciare, intricare, aggrovigliare” le parole), come
troviamo detto, ad esempio, in una bellissima lirica di Raimbaut d’Aurenga: «rare, scu-
re e colorate parole intreccio / pensoso pensando».
Generi poetici Tra i generi poetici, i più significativi furono l’alba, la pastorella e la canzone di cro-
ciata. L’alba ha per tema la dolorosa separazione degli amanti, che hanno trascorso in-
sieme la notte, allo spuntar del giorno. La pastorella narra invece l’incontro di un cava-
liere con una pastorella e presenta, entro uno scenario dai freschi e gioiosi tratti natura-
listici, una forte componente erotica e sensuale. Sia l’alba che la pastorella sono spesso
articolate in forma dialogica. La canzone di crociata può essere sviluppata in varie di-
rezioni, e presentare carattere politico-militare, religioso o amoroso.
Generi poetici molto diffusi sono la tenzone, il planh, il plazer e l’enueg. La tenzone
è un dibattito fra due o più trovatori che può riguardare svariati temi, morali, satirici,
politici o amorosi. Il planh (“compianto”) è una canzone di lamento, come quella che
Sordello compose per la morte del suo signore. Il plazer (“piacere”) è un catalogo di
cose piacevoli [R T 5.3 ]: il suo contrario è l’enueg (letteralmente “noia”).

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5. La letteratura dell’età feudale in Francia STORIA

5.5 Il romanzo cavalleresco in lingua d’oïl


Origine e caratteri del romanzo cavalleresco Verso la metà del XII secolo avviene l’incontro fra la
lirica provenzale, fiorente da diversi decenni nel sud della Francia, e il ricco patrimonio
di leggende e di racconti che si erano andati diffondendo, fin dall’epoca delle canzoni
di gesta, nelle corti della Francia del Nord. La fusione si realizzò grazie alla mediazione
di Eleonora d’Aquitania, nipote di Guglielmo IX (il primo dei poeti in lingua d’oc)
andata sposa nel 1137 al re di Francia Luigi VII e in seguito (1152) ad Enrico II Planta-
geneto, re d’Inghilterra dal 1154. Alla corte di Eleonora, come a quella della figlia Ma-
ria, sposa di Enrico I di Champagne, fiorirono trovieri e romanzieri; e sempre alla cor-
te di Champagne, Andrea Cappellano compose il trattato De amore (1185).
I cicli romanzeschi di tema cortese vengono generalmente suddivisi in due sezioni:
quelli di materia classica, ambientati in età antica, con protagonisti gli eroi dell’antico
mondo greco-latino, che furono i primi; quelli di materia bretone o arturiana, detti
così perché ambientati in Bretagna alla corte di re Artù. Per Bretagna si devono inten-
dere sia la Bretagna insulare (o Grande Bretagna), sia la Bretagna continentale (o Ar-
morica), una regione atlantica della Francia. Affine alla materia di Bretagna appare il
cosiddetto ciclo di Tristano, che narra la storia di Tristano e Isotta, una tragica vicen-
da di amore e morte più volte rielaborata a partire dal XII secolo.
Diversamente dalle canzoni di gesta, che prevedevano una fruizione orale e l’ac-
compagnamento musicale, i romanzi sono destinati a una lettura privata. Questo spie-
ga perché le vicende risultino meglio concatenate, la psicologia dei personaggi appaia
più articolata e introspettiva, le figure femminili – e conseguentemente il tema dell’a-
more – acquistino un’importanza sconosciuta ai precedenti racconti epici. Il cavaliere
carolingio combatteva entro la cornice di grandi imprese militari collettive; il cavalie-
re dei romanzi cortesi è invece una figura solitaria, che vaga in cerca di avventure,
mettendo alla prova se stesso e il proprio valore.
La materia classica Poco dopo la metà del XII secolo, i romanzieri francesi, sotto l’influenza della nuova
letteratura cortese, presero a rielaborare i personaggi e i motivi che trovavano nei testi
classici dell’antichità greco-latina, adattandoli secondo le attese e la mentalità dei loro let-
tori: eroi ed eroine dell’antichità furono trasformati in cavalieri e dame medievali, cui ve-
nivano attribuiti «sentimenti e sensibilità e moventi del tutto moderni, secondo la ten-
denza di tutta la cultura medievale, che non avvertiva distacco o distinzione tra mondo
antico e mondo attuale» (Viscardi).Tre sono i romanzi francesi su Alessandro che furono
composti nel corso del XII secolo. Tra il 1155 e il 1165 furono composti inoltre il Ro-
manzo di Tebe, il Romanzo di Troia e il Romanzo di Enea, una sorta di trilogia in cui predo-
minano l’elemento meraviglioso e sovrannaturale, il tema dell’amore, il gusto per paesag-
gi e mondi esotici. Su queste opere ebbero grande influenza i cicli poetici di Ovidio.
La materia di Bretagna Benché cronologicamente successivo, fu tuttavia il ciclo romanzesco di mate-
ria bretone o arturiana quello destinato a godere di maggior fortuna. In età romantica
si era creduto che questo ciclo narrativo poggiasse su antichissime leggende folclori-
che di origine celtica. Oggi sappiamo che le storie favolose di Artù e dei suoi cavalie-
ri si devono quasi interamente all’invenzione di un chierico inglese, Goffredo di
Monmouth, che tra il 1135 e il 1137 compose in lingua latina la Historia regum Britan-
niae [Storia dei re di Bretagna], dove per la prima volta si narrava delle fantastiche e av-
venturose vicende di re Artù, della Tavola Rotonda intorno alla quale erano usi ritro-
varsi i suoi cavalieri, delle loro prodezze e imprese, dell’infedeltà della moglie Ginevra,
dei portentosi incantesimi di Merlino. La rapida fortuna dell’opera di Goffredo è te-
stimoniata dai numerosi volgarizzamenti cui andò soggetta negli anni appena successi-
vi alla sua composizione: fra questi, il più fortunato fu il Roman de Brut [Romanzo di
Bruto] del normanno Wace, scritto intorno al 1158 e dedicato ad Eleonora d’Aquita-

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Duecento e Trecento

nia. In quegli stessi anni, alle corti di Francia fioriva quello che giustamente è stato
considerato il massimo poeta in lingua romanza prima di Dante, Chrétien de Troyes.
I romanzi di Chrétien de Troyes Scarse sono le notizie su Chrétien: nacque a Troyes, nella Champa-
gne, verso il 1135; fu probabilmente un chierico, come sembra testimoniare la sua for-
mazione culturale; visse nelle corti aristocratiche di Francia, prima in quella di Maria
di Champagne, in seguito (dopo il 1181), alla corte di Fiandra su cui regnava il conte
Filippo d’Alsazia; compose le sue opere tra il 1160 e il 1190, anno entro il quale va
collocata la sua morte. Delle numerose opere da lui composte, restano cinque roman-
zi di materia bretone in versi ottonari a rima baciata: Erec e Enide; Cligès; Lancillotto o il
Cavaliere della Carretta, scritto su richiesta di Maria di Champagne; Ivano o il Cavaliere
del Leone; Perceval. Quest’ultimo e il Lancillotto sono rimasti incompiuti.
Romanzi d’amore e d’avventura, le opere di Chrétien si distinguono per la finezza
della rappresentazione, l’atmosfera rarefatta e misteriosa, quasi onirica, delle vicende, la
psicologia tormentata dei personaggi, il predominio dell’elemento fantastico e so-
vrannaturale. L’amore è vissuto come servizio, in ottemperanza al codice cortese d’a-
more inaugurato dai poeti provenzali; ma la riflessione di Chrétien è complessa e pro-
blematica, e basti dire che tre dei suoi cinque romanzi, Erec e Enide, Ivano e Cligès, ci
propongono il tema dell’amore realizzato (contro le regole stabilite negli stessi anni da
Andrea Cappellano) all’interno del matrimonio. Come prescriveva il codice dell’amor
cortese, tuttavia, nei romanzi di Chrétien gli amanti non possono pervenire al vero
amore se non attraverso varie e difficili prove. L’amore risulta sempre, in Chrétien, una
ricerca o inchiesta (queste in francese antico, quête in quello moderno), al termine del-
la quale i protagonisti risultano intimamente mutati, temprati dalle vicissitudini subite,
resi più forti e consapevoli lungo il cammino della virtù.
I primi quattro romanzi sono incentrati sui temi dell’amore e dell’avventura, e in
particolare sulle delicate relazioni che si istituiscono fra i doveri del perfetto cavaliere
(prodezza, onore, lealtà, misura) e i rituali (non meno vincolanti) del servizio amoroso.
Singolare, e certamente diverso dai precedenti appare invece il Perceval, che narra una
vicenda dai toni mistici e religiosi di non facile interpretazione. Protagonista di un ve-
ro e proprio romanzo di formazione, Perceval diviene cavaliere macchiandosi di una
colpa che deve poi espiare: solo al termine di un lungo percorso, egli potrà infine ri-
trovare la giusta via e riconoscere il vero significato della cavalleria.
Il romanzo di Tristano Di origine celtica è il nucleo essenziale della leggenda di Tristano e Isotta, certo
il più grande mito narrativo prodotto dall’età medievale: nata forse in Scozia, diffusasi
poi a livello orale in Irlanda, Galles, Cornovaglia e Bretagna, la tragica vicenda dei due
amanti venne organizzata e rielaborata alla corte anglonormanna di Enrico II Plantage-
neto e di Eleonora d’Aquitania. Qui, poco dopo la metà del XII secolo, dovette essere
composta la versione originaria del romanzo di Tristano e Isotta alla quale attinsero in
seguito tutti i rifacimenti successivi. Dei più antichi, che si devono ad autori operanti
nella seconda metà del XII secolo, possediamo tuttavia solo frammenti, che rendono
complessa e discordante la ricostruzione del nucleo originale della vicenda. Un roman-
zo su Tristano e Isotta, per noi perduto, aveva composto anche Chrétien de Troyes.
Le versioni più significative, sia pure lacunose e frammentarie, a noi pervenute so-
no due, entrambe in francese antico: il Tristan di Béroul, un poema in ottosillabi di
4485 versi a rima baciata, composto fra il 1165 e il 1190, caratterizzato da una scrittu-
ra tendenzialmente oggettiva, a tratti crudamente realistica; il Tristan di Thomas, un
poema anch’esso in ottosillabi di 3144 versi, composto fra il 1170 e il 1177, la cosid-
detta «versione cortese» del mito, caratterizzata da una più accurata struttura composi-
tiva, da una raffinata indagine psicologica e dall’esaltazione dell’amor cortese.
I poemi narrativo-allegorici: il Roman de la Rose Vasta fu anche la fortuna dei poemi allegorici, fra
i quali il più noto è il Roman de la Rose [Romanzo della Rosa] in ottosillabi rimati, for-
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5. La letteratura dell’età feudale in Francia STORIA

mato di due parti assai diverse: la prima, della lunghezza di circa 4000 versi, fu com-
posta da Guillaume de Lorris intorno al 1230; la seconda, che si estende per circa
18.000 versi, fu opera di Jean de Meung, che la scrisse intorno al 1270. L’argomento,
desunto dall’Ars amandi [L’arte di amare] di Ovidio, è l’amore. In un mattino di pri-
mavera, il narratore-protagonista scorge in un giardino una rosa ancora in boccio, al-
legoria dell’amata: il poema narra, con abbondanza di digressioni, le varie tappe che
conducono l’innamorato a cogliere la rosa, cioè a godere dell’amore della sua donna.
Alla raffinatezza cortese di Guillaume, che riflette il gusto e le idealità del mondo ari-
stocratico, corrisponde il realismo didattico ed enciclopedistico di Jean de Meung,
nel quale si rispecchiano le nuove esigenze dei ceti borghesi cittadini. Due parafrasi
del Roman de la Rose databili con una certa sicurezza all’ultimo ventennio del XIII
secolo, il Fiore e il Detto d’Amore, da molti studiosi considerate opera giovanile di
Dante, testimoniano della fortuna dell’opera anche in area toscana.


Lancillotto, o il Cavaliere della Carretta (1177-1181ca) tavia ricambia le sue fatiche con un silenzio gelido e sprez-
Ginevra, moglie di re Artù, di cui Lancillotto è innamorato, zante.Addolorato, il cavaliere si congeda dalla donna. La fal-
viene rapita dal perfido e sleale cavaliere Meleagant, che la sa notizia della morte di Lancillotto ha tuttavia il potere di
conduce nel regno di Gorre, dal quale nessuno, come dal re- smuovere il cuore di Ginevra, che ora si dispera e decide di
gno dei morti, può ritornare. Lancillotto, per inseguire la re- lasciarsi morire. Anche Lancillotto, al quale è giunta notizia
gina in pericolo, essendo al momento privo di cavallo, è co- della morte della dama, cerca, ma inutilmente, di togliersi la
stretto a salire sulla carretta dei malfattori, che funge da go- vita. L’avventuroso ritorno al castello del cavaliere sembra
gna, strumento d’infamia che potrebbe disonorarlo per avviare a un esito felice la vicenda. Durante un intimo col-
sempre. Comincia l’avventurosa ricerca, che si compie in loquio, la regina gli rivela il motivo del suo disprezzo: aveva
luoghi arcani avvolti da un’atmosfera di mistero e di sogno. veduto Lancillotto esitare nel salire sulla carretta dei malfat-
Dopo aver superato il ponte della spada, sospeso su acque tori. Ma ora essa concede un appuntamento segreto al suo
perigliose che sembrano richiamare quelle del mitico amante, che durante la notte riesce a penetrare di nascosto
Acheronte [R T 5.5 ], Lancillotto giunge infine al castello nella sua stanza. Alla notte d’amore seguono altre dure pro-
dove Meleagant ha rinchiuso la regina, che è stata tuttavia ve, durante le quali, fra l’altro, Lancillotto, per provare la sua
presa in custodia dal padre di Meleagant, il re Baudemagu, illimitata devozione alla donna, accetta di essere sconfitto e
sovrano – a differenza del figlio – magnanimo e cortese. umiliato durante un torneo. Si ritrova infine prigioniero in
Prendendo forza dalla visione di Ginevra, che intravede alla una torre fatta appositamente costruire da Meleagant; e qui
finestra di una torre, Lancillotto batte in duello Meleagant e il romanzo si interrompe.
ottiene di essere ammesso nelle stanze della regina, che tut-

n Lancillotto sulla carretta dell’infamia.

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Duecento e Trecento

Perceval, o il Racconto del Graal (dopo il 1181) sione di una lancia insanguinata e del Graal. Ma Perceval
Il giovane Perceval è stato allevato dalla madre nella Guasta non osa chiedere il senso di quello che ha visto, e si disperde
Foresta solitaria affinché ignorasse il mondo della cavalleria, per cinque lunghi anni in varie avventure, fino a non ricor-
e non subisse il triste destino del padre e dei fratelli, tutti darsi più di Dio. Un venerdì santo, durante un incontro ca-
morti in battaglia. Ma un giorno giungono casualmente, suale con dei penitenti incappucciati, viene indirizzato a un
nella selva, dei cavalieri di re Artù, che Perceval, abbagliato eremita, che gli rivela il suo passato e i suoi doveri di cavalie-
dalla nobiltà del portamento e dallo splendore delle arma- re.Tutti i suoi mali, gli racconta il santo eremita, sono deri-
ture, crede angeli. Deciso a seguirli, egli abbandona la ma- vati dall’aver causato la morte della madre: per questo non
dre, che muore dal dolore. Ordinato cavaliere dopo un chiese nulla della lancia e del Graal, e non poté risanare la
combattimento in cui mostra tutto il suo valore guerresco, ferita del Re Pescatore. Ma ora Perceval viene a sapere che il
Perceval incontra Biancofiore, grazie alla quale viene inizia- Re e l’eremita sono fratelli della madre, e perciò suoi zii. Fi-
to all’amore. Hanno principio le sue avventure, che lo con- nalmente, il giovane prende coscienza dei suoi doveri di
ducono un giorno nel castello del Re Pescatore, tormenta- cristiano e di cavaliere, e la domenica di Pasqua si comunica.
to da una ferita incurabile: qui è ammesso alla misteriosa vi- Qui si interrompe il racconto di Perceval.


Tristano e Isotta (tra il 1165 e il 1190) talmente ferito durante un’impresa, egli manda il fedele
Storia fatale di amore e morte, la vicenda di Tristano e Caerdino dall’amata Isotta, l’unica che potrebbe guarirlo:
Isotta può essere riassunta come segue, purché si tenga la nave, al ritorno, dovrà issare vele bianche o nere, a se-
presente che si tratta di una ricostruzione ‘artificiale’ con- conda che Isotta abbia accettato o no di imbarcarsi. Trista-
dotta sui testi e sui frammenti sopravvissuti e che non po- no è ormai in fin di vita, quando la nave appare in vista del
chi episodi presentano discordanze a seconda delle versio- porto con bianche vele: ma Isotta dalle bianche mani, ge-
ni utilizzate. losa, riferisce che le vele issate sono nere. Tristano muore
Il principe Tristano, nipote di re Marco di Cornovaglia, dal dolore; Isotta la bionda, appena sbarcata, si lascia an-
uccide il terribile Moroldo, un mostro che infestava le ter- ch’essa morire sul corpo dell’amato [R T 5.6 ].
re dello zio, pretendendo tributi umani. Colpito durante lo
scontro da un’arma avvelenata, che gli ha prodotto una fe-
rita incurabile, Tristano può solo imbarcarsi su una nave
che, priva ormai di guida, lo conduce in Irlanda: qui è gua-
rito dalle arti magiche di Isotta, sorella del Moroldo. Ri-
tornato in patria, riceve dallo zio l’incarico di rintracciare
la donna cui appartiene il capello biondo che una rondine
ha depositato davanti al sovrano, e che re Marco intende
chiedere in sposa. Dopo molte ricerche, il capello risulta
appartenere a Isotta la bionda, che Tristano invita in Cor-
novaglia perché divenga sposa dello zio. Prima della par-
tenza la madre di Isotta consegna all’ancella della figlia,
Brengania, un filtro magico che legherà di eterno amore i
due sposi: per un errore fatale, durante il viaggio, saranno
però Isotta e Tristano a bere la magica pozione, innamo-
randosi, ineluttabilmente e per sempre, l’uno dell’altra. Gli
episodi che seguono (nel frattempo si sono celebrate le
nozze di Isotta con re Marco) vedono i due amanti co-
stretti a incontrarsi clandestinamente: scoperti, si rifugiano
nella selva del Morois, dove vivono a lungo braccati dal
sovrano e dai suoi consiglieri. In seguito Isotta è accolta di
nuovo alla corte di Marco, mentre Tristano è bandito dalla
sua terra. Giunto in Bretagna, sposa Isotta dalle bianche
mani, sedotto unicamente dal nome della fanciulla. Mor- n La nave di Tristano e Isotta (da un manoscritto del XV secolo).

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5. La letteratura dell’età feudale in Francia T 5.1

T 5.1 La Chanson de Roland 1080 ca


La morte di Orlando
La canzone Siamo nel momento più drammatico del poema: mentre il grosso dell’esercito di Carlo
di Orlando sta per rientrare in Francia, Marsilio sferra un poderoso attacco contro la retroguardia cri-
trad. di R. Lo Cascio, stiana, in procinto di valicare i Pirenei presso la gola di Roncisvalle. Il «saggio» Oliviero
introduzione di C. Segre, esorta Orlando a suonare il corno per avvertire Carlo dell’imboscata: Orlando, da «prode»,
Rizzoli, Milano 1985
considera la proposta come un’offesa al suo onore, e rifiuta: «Non piaccia a Dio, ai suoi
angeli, ai santi, / che per me perda il suo valor la Francia! / Meglio morire che restar nel-
l’infamia!» (LXXXVI, 1089-91). Nonostante il valore dimostrato in battaglia, i cavalieri
cristiani vengono sopraffatti e massacrati. Dinanzi alla disfatta, ormai ferito a morte, Or-
lando decide di suonare il corno sino a farsi schiantare le tempie. Dopo aver ricomposto i
corpi dei compagni periti in battaglia, sentendo la morte vicina, l’eroe ha un solo pensie-
ro: distruggere la spada Durendala, una spada dai poteri magici, affinché non cada nelle
mani dei nemici.

Nota metrica CLXX


Nell’originale francese, Orlando sente che la vista ha perduta:
lasse assonanzate o rimate
in versi decasillabi. s’alza e fa sforzi quanti ne può di più;
anche il colore nella faccia ha perduto.
2309 Non v’abbia: non
vi possegga (sempre rivolto 2300 Davanti a lui sorge una pietra scura.
alla spada). Egli vi dà dieci colpi con cruccio:
2310 da prode: nella tra-
duzione letterale: «come un
stride l’acciaio, non si scheggia per nulla.
buon vassallo». «Ah,» dice il conte «Santa Maria, qui aiuto!
2311 non ne avrà più: di
Ah, Durendala, aveste assai sfortuna!
spade come questa.
2312 sarda: una pietra 2305 Ora che muoio, di voi non avrò cura.
dura di colore giallo bruno Per voi sul campo tante vittorie ho avute
(così chiamata perché in la-
tino designava una pietra e contro tanti paesi ho combattuto,
proveniente dall’antica città che tiene or Carlo, che ha la barba canuta!
di Sardi, in Lidia).
2318 Moriana: luogo di- Non v’abbia un uomo che innanzi ad altri fugga.
versamente localizzato: for- 2310 Per lungo tempo vi ho da prode tenuta!
se in terra di Spagna, o for- La Francia santa così non ne avrà più!»
se in Savoia (la Maurien-
ne), lungo la valle del fiu-
me Arc (effettivamente CLXXI
percorsa dalle truppe di Colpisce Orlando il pietrone di sarda:
Carlo, dirette in Italia, nel
773). stride l’acciaio, ma non si rompe affatto.
2322-2331 L’elenco delle
Quando egli vede che non può proprio infrangerla,
conquiste compiute da Or- 2315 dentro se stesso così comincia a piangerla:
lando per re Carlo corri- «Ah! Durendala, come sei chiara e bianca!
sponde solo in minima
parte alla verità storica: An- Quanto risplendi contro il sole e divampi!
giò (trasformata in contea Fu nelle valli di Moriana che a Carlo
proprio da Carlo Magno),
Pittavo (odierno Poitou), Iddio dal cielo per mezzo del suo angelo
Mania (oggi Maine), Nor- 2320 disse di darti a un conte capitano:
mandia, Provenza e Aquita- e a me la cinse il re nobile e grande.
nia sono regioni dell’odier-
na Francia, in vari modi le- Con te gli presi il Pittavo e la Mania,
gate al regno franco. Una la Normandia, la quale è terra franca;
contea carolingia furono
anche le Fiandre. Per Lom- con te gli presi Provenza ed Aquitania
bardia si deve intendere il 2325 e Lombardia e tutta la Romània,
territorio longobardo, che
si estendeva dall’Italia del con te gli presi la Baviera e le Fiandre,
nord al ducato di Beneven- la Bulgaria, la terra dei Polacchi,
to. Romània potrebbe qui
corrispondere ai territori Costantinopoli, che gli prestò l’omaggio,
bizantini d’Italia (l’Esarcato mentre in Sassonia fa quello che gli garba;
di Ravenna e la Pentapoli) 2330 con te gli presi e la Scozia e l’Irlanda,
o forse all’antico ducato di
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Duecento e Trecento

Roma. Effettive conquiste e l’Inghilterra, che diceva sua stanza.


di Carlo furono la Baviera
e la Sassonia, non gli altri Preso ho per lui tante terre e contrade
territori citati, alcuni dei che tiene Carlo, che or ha la barba bianca.
quali (Scozia, Irlanda, In-
ghilterra) furono invece Per questa spada ho dolore ed affanno:
oggetto delle successive 2335 meglio morire che ai pagani lasciarla.
conquiste normanne e an- Dio, non permettere che s’umìli la Francia!»
glo-normanne. – sua stan-
za: cioè possesso privato di
Carlo. CLXXII
Colpisce Orlando sopra una pietra bigia,
e più ne stacca di quanto io vi so dire.
La spada stride, non si rompe o scalfisce,
2340 ma verso il cielo d’un balzo va diritta.
Quando s’accorge che a infranger non l’arriva,
piano tra sé a piangerla comincia:
«Ah! Durendala, come sei sacra e fine!
2344 Nell’aureo ... reli-
Nell’aureo pomo i santi ne han reliquie:
quie: reliquie dei santi si
trovano riposte nell’impu- 2345 san Pietro un dente, del sangue san Basilio,
gnatura d’oro della spada. qualche capello monsignor san Dionigi,
2345 san Basilio: vescovo
di Cesarea: nella realtà sto- e un pezzo d’abito anche santa Maria.
rica, uno dei maggiori dot- Di voi i pagani non hanno a impadronirsi:
tori della Chiesa, non un
martire (al martirio allude solo i cristiani vi debbono servire.
qui il sangue versato). 2350 Nessuno v’abbia che faccia codardia!
2346 monsignor
Dionigi: evangelizzatore
san Di tante terre noi facemmo conquista,
delle Gallie, primo vescovo che tiene or Carlo, che ha la barba fiorita!
di Parigi, martire della L’imperatore n’è fatto forte e ricco!»
Chiesa: fu oggetto di parti-
colare devozione in Fran-
cia. CLXXIII
Orlando sente che la morte lo prende,
2355 che dalla testa sopra il cuore gli scende.
Se ne va subito sotto un pino correndo
e qui si corica, steso sull’erba verde:
2358 olifante: il corno di sotto, la spada e l’olifante mette;
Orlando, così chiamato verso i pagani poi rivolge la testa:
perché intagliato nell’avo-
rio (olifant, nel francese an- 2360 e questo fa perché vuole davvero
tico, designava sia l’elefante che dica Carlo con tutta la sua gente
sia le sue zanne).
che il nobil conte è perito vincendo.
Le proprie colpe va spesso ripetendo,
e a Dio per esse il suo guanto protende.
CLXXIV
2365 Orlando sente che il suo tempo è compiuto.
Volto alla Spagna sta sopra un poggio aguzzo.
2367 Con una mano ... Con una mano il petto s’è battuto:
battuto: il gesto rituale del «Colpa ho in cospetto della grandezza tua,
battersi il petto in segno di
colpa. Segue la formula ri- per i peccati, sia grandi che minuti,
tuale del mea culpa. 2370 Dio, che dall’ora in cui nacqui ho compiuti
fino a quest’ora che sono qui abbattuto!»
Il guanto destro verso il Signore allunga.
E scendon angeli del cielo incontro a lui.
CLXXV
Il conte Orlando è steso sotto un pino:
2375 verso la Spagna ha rivolto il suo viso.
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5. La letteratura dell’età feudale in Francia T 5.1

2381 oblio: dimentican- A rammentare molte cose comincia:


za.
2384-85 Lazzaro... Da- tutte le terre che furon sua conquista,
niele: celebri episodi del la dolce Francia, quelli della sua stirpe,
Nuovo (Giovanni XI, 1- il suo signore, Carlo, che l’ha nutrito:
44) e dell’Antico Testa-
mento (Libro di Daniele VI, 2380 né può frenare il pianto od i sospiri.
17-24). Ma non vuol mettere nemmeno sé in oblio:
2389-93 san Gabriele...
l’angelo Cherubino... san le proprie colpe ripete e invoca Dio:
Michele: Gabriele è l’ange- «O vero Padre, che mai non hai mentito,
lo del buon annuncio; i
Cherubini erano una ge- tu richiamasti san Lazzaro alla vita
rarchia angelica il cui attri- 2385 e fra i leoni Daniele custodisti;
buto era la sapienza (ma
qui sembra trattarsi del no- ora tu l’anima salvami dai pericoli
me proprio di un angelo); per i peccati che in vita mia commisi!»
l’arcangelo Michele è il Protende ed offre il guanto destro a Dio,
protettore dei naviganti e
viandanti inesperti (nell’o- e san Gabriele con la mano lo piglia.
riginale infatti troviamo 2390 Sopra il suo braccio or tiene il capo chino:
seint Michel <de la mer> del
Peril con riferimento ai a mani giunte è andato alla sua fine.
pellegrinaggi al monastero Iddio gli manda l’angelo Cherubino
di Mont-Saint-Michel in
Normandia e al pericolo e san Michele che guarda dai pericoli.
rappresentato dalle maree Con essi insieme san Gabriele qui arriva.
che interessano il luogo su
cui è eretto il monastero). 2395 Portano l’anima del conte in Paradiso.

Guida all’analisi
La tecnica narrativa L’unità di misura della narrazione è la lassa, che si configura come un piccolo mondo au-
tonomo e compatto, ogni volta perfettamente definito in se stesso. I legami che si istituisco-
no fra lassa e lassa non riguardano pertanto lo sviluppo narrativo della vicenda (la sensazione
è anzi opposta: che il racconto non avanzi, e che il poeta ricominci ogni volta da capo) ma
consistono in una serie di elementi, contenutistici o formali, che si richiamano a distanza.
Nell’episodio della morte di Orlando, ad esempio, il tentativo di frantumare la spada Duren-
dala si ripete con poche varianti nelle prime tre lasse, con un effetto di sospensione narrativa:
«Davanti a lui sorge una pietra scura. / Egli vi dà dieci colpi con cruccio: / stride l’acciaio,
non si scheggia per nulla» (CLXX, 2300-2302); «Colpisce Orlando il pietrone di sarda: / stri-
de l’acciaio, ma non si rompe affatto» (CLXXI, 2312-2313); «Colpisce Orlando sopra una
pietra bigia, / e più ne stacca di quanto io vi so dire. / La spada stride, non si rompe o scalfi-
sce, / ma verso il cielo d’un balzo va diritta» (CLXXII, 2337-2340). Ciascuno di questi tre
passi è seguito a sua volta da un’allocuzione alla spada: «Ah, Durendala, aveste assai sfortuna!»
(CLXX, 2304); «Ah! Durendala, come sei chiara e bianca!» (CLXXI, 2316); «Ah, Durendala,
come sei sacra e fine» (CLXXII, 2343).Vengono infine enumerate, ad ogni lassa, le imprese
compiute dal paladino con la sua spada, di cui si celebrano i pregi e la bellezza. Il movimen-
to della narrazione è dunque circolare: le minime variazioni delle riprese conferiscono in-
tensità all’episodio e concentrano l’attenzione sui particolari, trasfigurandoli in un’aura mi-
steriosa e soprannaturale.
Orlando: un eroe cristiano e feudale Orlando è qui rappresentato come un eroe cristiano che combatte al servi-
zio di Dio contro gli infedeli. La pagina che descrive la sua fine va perciò considerata come
l’atto conclusivo di un racconto agiografico: al pari di un santo martire, nel momento della
morte è soccorso da tre angeli che portano la sua anima in cielo. L’intervento angelico era
già prefigurato nella lassa CLXXI, dove veniva ricordata l’origine miracolosa di Durendala (v.
2319). Della pietà di Orlando sono testimoni le reliquie incastonate nell’impugnatura della
spada (vv. 2344-47), le invocazioni ai santi e a Dio (ad esempio al v. 2303), l’atto di contri-
zione (v. 2367), la preghiera pronunciata in punto di morte (vv. 2383-87), il gesto rituale del-
le mani giunte (v. 2391). Ma Orlando è anche un «uomo» di Carlo, un vassallo fedele che ha
servito il suo sovrano in mille conquiste, celebrate nella lassa CLXXI (che si configura come
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Duecento e Trecento

un vero e proprio catalogo, sia pure mitizzato e fantasticamente amplificato, delle campagne
militari di Carlo) e ancora, secondo il tipico modulo della ripresa a distanza, in altre tre lasse
(CLXX, 2306-08; CLXXII, 2351-53; CLXXV, 2377)). Non mancano i riferimenti patriotti-
ci alla terra di Francia, definita santa (v. 2311) e dolce (v. 2378).
La simbologia feudale del rapporto vassallatico, d’altronde, è talmente connaturata alla
cultura del narratore, che su di essa si modella persino il rapporto tra il fedele e Dio: per ben
tre volte (sempre secondo il modulo accennato delle lasse parallele), Orlando offre il suo
guanto a Dio (CLXXIII, 2364); CLXXIV, 2372; CLXXV, 2388): un gesto che ripete con
esattezza il cerimoniale feudale, e indica la sottomissione del vassallo al suo signore.

Doc 5.3 Due lasse: esordio e conclusione della Chanson de Roland

Se il nome di Orlando occupa con le sue imprese la sequenza della battaglia e della strage,
il poema si apre e si chiude sulla figura di Carlo, l’imperatore cristiano. L’esordio ha una
solenne intonazione epico-guerresca: a Carlo, che da sette anni combatte felicemente in
terra di Spagna, si contrappone Marsilio, già votato fin dall’esordio alla rovina (I, 9) a cau-
sa delle sue false credenze (si noterà fra l’altro che Maometto non è descritto come un
profeta ma come una divinità, onorata al pari di Apollo). I fatti storici sono deformati: la
spedizione iberica di Carlo (non ancora imperatore nel 778) era stata effimera e poco effi-
cace, anche a causa dell’insurrezione dei Sassoni che minacciavano il regno ad oriente e
che avevano consigliato un rientro repentino in terra di Francia: le iperboliche conquiste (I,
4-5) di Carlo andranno interpretate alla luce della «Reconquista» cristiana dell’XI secolo
(l’occupazione di Toledo da parte di Alfonso VI di Castiglia, nel 1085, è coeva alla compo-
sizione della Chanson). La lassa conclusiva, giocata sui toni della malinconia e della mesti-
zia, si impone per una sua arcaica forza visiva: all’appello severo dell’arcangelo Gabriele,
che esorta Carlo a riprendere le armi per nuove imprese al servizio della fede, si contrap-
pone il pianto umanissimo dell’imperatore, ancora prostrato dalla morte dei suoi paladini.
I
La canzone di Orlando Re Carlo, il nostro imperatore grande,
(vv. 1-9; 3988-4002),
trad. di R. Lo Cascio, sette anni pieni è stato nella Spagna,
introd. di C. Segre, e l’alta terra ha preso fino al mare.
Rizzoli, Milano 1985 Non v’è castello che innanzi a lui rimanga,
5 né città o muro che debba ancora infrangere.
Sol Saragozza, che sta su una montagna,
tiene Marsilio, il re che Dio non ama,
serve Maometto e Apollo prega e chiama:
dalla rovina non si potrà guardare.
CCXC
L’imperatore, quando ha fatto giustizia,
e s’è placata un po’ la sua grand’ira,
3990 Bramimonda: 3990 fa Bramimonda cristiana divenire.
moglie di Marsilio, bat- Passato è il giorno, la notte s’è incupita.
tezzata (nella lassa prece-
dente) col nome di Giu- Va nella camera a volta il re a dormire,
liana. ma san Gabriele viene da Dio per dirgli:
«Carlo, gli eserciti dell’impero riunisci!
3995 A forza: a viva 3995 A forza andrai nella terra di Bira,
forza; altri traducono: “a per dare aiuto al re Viviano in Infa,
tappe forzate”.
3995-96 Bira ... Vivia- nella città che or d’assedio è recinta,
no... Infa: nomi di per- dove i cristiani levano a te le grida».
sona (Viviano) e di luo- L’imperatore non vorrebbe partire:
ghi (Bira, Infa) variamen-
te interpretati, probabil- 4000 «Dio, – disse – quanto penosa è la mia vita!»
mente immaginari. Comincia a piangere, la barba bianca tira.
Qui ha fin la gesta che da Turoldo è scritta.

92 © Casa Editrice Principato


5. La letteratura dell’età feudale in Francia T 5.2

T 5.2 Guglielmo IX d’Aquitania


Per la dolcezza della nuova stagione fine XI-inizi XII sec.
C. Di Girolamo Guglielmo d’Aquitania (1071-1126) è il più antico dei trovatori in lingua d’oc di cui ci
I trovatori siano pervenuti componimenti poetici. Conte di Poitiers e duca d’Aquitania, partecipò a
Bollati Boringhieri, due crociate (nel 1102 in Terrasanta e nel 1120 in Spagna) e fu sovente coinvolto nei
Torino 1989 conflitti feudali di quell’epoca travagliata. Fu due volte scomunicato, la seconda volta a
causa degli amori illeciti con la viscontessa di Châtellerault: al suo sfrenato libertinag-
gio accenna anche la breve vida a noi giunta. Degli undici componimenti sopravvissuti,
sei sono di carattere burlesco, realistico e licenzioso, quattro cantano invece in toni de-
licati l’amor cortese, l’ultimo (il cosiddetto «testamento») presenta tonalità pensose e
meditative.
La canzone che segue, certo la più famosa di Guglielmo, contiene già tutti i temi più
significativi della grande produzione trobadorica.

Nota metrica Per la dolcezza della nuova stagione


Il componimento origi-
nale in lingua d’oc è costi- i boschi mettono le foglie e gli uccelli
tuito da cinque stanze cantano, ciascuno nella sua lingua,
(coblas) di versi ottosillabi secondo la melodia del nuovo canto:
con schema aabcbc.
5 dunque è bene che ognuno si volga
4 nuovo canto: il canto a ciò che più desidera.
primaverile.
24 che io possa... man-
tello: durante la cerimonia Dal luogo che più mi piace
dell’investitura, in segno di
protezione, il signore copri- non mi arriva né messaggero né messaggio,
va il vassallo,inginocchiato e sicché il mio cuore non dorme né ride,
a mani giunte, con un lem-
bo del suo mantello. 10 e io non oso farmi avanti
25 latino ostile: i discorsi finché non sono sicuro
dei maldicenti. che il patto è così come lo voglio.
26 BuonVicino:è il senhal
dell’amata.
28 breve formula: nel
Il nostro amore è
senso di parole vuote, dette
in modo casuale o sconside- come il ramo del biancospino
rato. 15 che intirizzisce sull’albero,
la notte, nella pioggia e nel gelo,
fino all’indomani, quando il sole si diffonde
attraverso il verde fogliame sul ramoscello.

Ancora mi ricordo di un mattino


20 quando ponemmo fine alla nostra guerra con un patto,
e lei mi offrì un dono così grande:
il suo amore fedele e il suo anello.
Ancora mi lasci Dio vivere tanto
che io possa mettere le mie mani sotto il suo mantello.

25 Io infatti non bado al latino ostile


di quanti cercano di separarmi dal mio Buon Vicino;
perché io so come vanno le parole,
quando si recita una breve formula:
che alcuni si vanno vantando dell’amore,
30 e noi ne abbiamo il pezzo e il coltello.

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Duecento e Trecento

Guida all’analisi
Temi convenzionali La lirica offre un sintetico repertorio dei temi e delle situazioni convenzionali della gran-
de produzione trobadorica: la primavera come stagione privilegiata dell’amore (I strofa); la
lontananza della donna, di cui il poeta attende con tremore un messaggio risolutivo (II stro-
fa); il patto d’amore che lega gli amanti (vv. 12 e 20); le chiacchiere dei maldicenti (V strofa),
da cui il poeta si difende proteggendo il nome della sua donna con un senhal (Buon Vicino);
l’amore come tensione e desiderio, rappresentato in modo oggettivo nell’immagine del ramo
di biancospino «che intirizzisce sull’albero, / la notte, nella pioggia e nel gelo» (vv. 15-16).
Metafore feudali Il rapporto d’amore fra il poeta e la sua donna è modellato su quello fra vassallo e signo-
re, e trascina con sé, inevitabilmente, tutto il vocabolario tecnico e metaforico del diritto
feudale. Qui, come si è visto, due volte (vv. 12 e 20) il poeta fa riferimento a un patto (fi
nell’originale, dal latino fides [“fede”, nel senso di “fedeltà” all’impegno assunto, alla parola
data]) che lega i due amanti, obbligando l’uomo a un rigoroso e codificato servizio d’amo-
re. Ma anche l’anello, il mantello e l’espressione conclusiva («il pezzo e il coltello») divengo-
no comprensibili solo nell’ambito delle rigide istituzioni feudali: anello (v. 22) e coltello (v.
30) facevano parte della cerimonia dell’investitura, durante la quale il signore copriva con il
lembo del mantello (v. 24) il vassallo, in segno di protezione; «pezzo» (v. 30 – pessa nell’ori-
ginale) fa riferimento alle terre concesse in beneficio dal signore al suo vassallo. Queste im-
magini alludono a una trasparente simbologia erotica, e assumono nel contesto della poesia
d’amore nuovi significati: dire che «abbiamo il pezzo e il coltello» (v. 30) varrà nel senso che
abbiamo quello che ci serve per amarci. Il ricorso alle immagini e alle metafore del mondo
feudale denuncia esplicitamente l’ideologia aristocratica di questa poesia, che nasce e si svi-
luppa nell’ambito delle potenti e magnifiche corti della Francia del Sud.

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5. La letteratura dell’età feudale in Francia T 5.2

Doc 5.4 L’amore secondo Andrea Cappellano

Quello che segue è l’esordio del celebre trattato Sull’amore di Andrea Cappellano, un chie-
rico che operò alla corte del re di Francia verso la fine del XII secolo e compose la sua
opera intorno al 1185, più di mezzo secolo dopo la morte del primo grande trovatore pro-
venzale, traendo spunto dalla produzione lirica in lingua d’oc e dai romanzi d’avventura e
d’amore in lingua d’oïl, ripensati attraverso la mediazione del ciclo erotico-didascalico di
Ovidio. Il brano inizia con la definizione della natura d’amore, una «passione» che nasce
dall’immagine della donna e si alimenta attraverso i pensieri dell’amante. L’autore sottoli-
nea in particolare il carattere interiorizzato e tormentoso di questo amore: una forza natu-
rale (perciò superiore a ogni vincolo sociale, a cominciare da quello del matrimonio) che
l’amante vive con tremore e sofferenza (come indica del resto l’etimologia del termine
passione, dal verbo latino pati, “soffrire, sopportare, patire”).
L’elaborazione teorica di Andrea Cappellano coincide perfettamente con la lirica di Gu-
glielmo d’Aquitania: l’amore è visto in entrambi come tremore, speranza, attesa, pensiero
costante e ossessivo dell’amata. Anche Guglielmo fa riferimento a «complici e messaggeri»,
teme i «pettegolezzi della gente»; lontano dalla sua donna è tormentato all’idea di averla
perduta e non fa altro che pensare a quando potrà di nuovo incontrare l’amata, agli ostacoli
che si frappongono a questo appuntamento a lungo desiderato.
A. Cappellano, De amore L’amore è una passione naturale che procede per visione e per incessante pensiero di
trad. di J. Insana,
con uno scritto di persona d’altro sesso, per cui si desidera soprattutto godere l’amplesso dell’altro, e nel-
D’Arco Silvio Avalle, l’amplesso realizzare concordemente tutti i precetti d’amore.
ES, Milano 1992 Che l’amore sia passione, si vede facilmente. Infatti, prima che l’amore sbocci da tut-
te e due le parti, non esiste angoscia maggiore, perché l’amante teme sempre che l’amo-
re non ottenga l’effetto desiderato e che siano inutili le sue fatiche. Teme anche i pette-
golezzi della gente e tutto ciò che gli può nuocere, perché le cose non compiute vengo-
no meno al più piccolo turbamento. Se l’amante è povero, teme che la donna disprezzi la
sua povertà; se è brutto, teme d’essere disprezzato per la sua bruttezza o che la donna si
leghi a un altro più bello; se è ricco teme che la sua spilorceria di una volta possa dan-
neggiarlo. A dire il vero, non c’è nessuno che possa elencare le paure che sono proprie di
ogni amante. È dunque passione quell’amore che sorge da una parte sola, e si può chia-
mare amore di uno solo.
E anche quando si compie l’amore di entrambi, le paure non diminuiscono perché
l’uno e l’altro amante teme di perdere per le fatiche di un altro ciò che con molta fatica
ha ottenuto – cosa che risulta più dura dell’essere delusi nella speranza e sentire che la fa-
tica non porta frutti. È più doloroso perdere quanto si è ottenuto che essere spogliati del-
la speranza di ottenere. Teme anche di offendere in qualche modo l’amante. E sono tan-
te le paure che è troppo difficile enumerarle.
Ti dimostro chiaramente che la passione è naturale poiché la passione, a ben guarda-
re la verità, non nasce da nessuna azione; ma la passione procede dal solo pensiero che
l’animo concepisce davanti alla visione. Quando, infatti, uno vede una donna che corri-
sponde al suo amore e che è bella secondo il suo gusto, subito in cuor suo comincia a
desiderarla, e quanto più la pensa, tanto più arde d’amore, fino a che non giunge a più
pieno pensiero. E comincia a pensare alle fattezze della donna, a riconoscere le sue mem-
bra, a immaginare i propri gesti, e a frugare i segreti di quel corpo che desidera possede-
re tutto per il proprio piacere.
Ma poi che giunge al pensiero pieno, l’amore non sa tenere il freno, e passa subito ai
fatti; subito s’affanna a cercare complici e messaggeri. E comincia a pensare come incon-
trare la sua grazia, a chiedere luogo e tempo giusto per parlare, e un’ora gli pare un anno,
perché non c’è nulla che possa subito saziare l’animo desideroso; e si sa che spesso succe-
de così. Dunque la passione naturale procede da visione e da pensiero. Al sorgere dell’a-
more non basta il semplice pensiero, ma occorre che esso sia smisurato, perché il pensie-
ro misurato non torna insistentemente alla mente, e da lì dunque non può sbocciare
amore.

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Duecento e Trecento

T 5.3 Bertran de Born


Molto mi piace la lieta stagione di primavera fine XII sec.
Antologia Il motivo topico della primavera come stagione del risveglio e dell’amore, è proposto
delle letterature da Bertran de Born (ca 1140-1215) in un contesto guerresco e feudale, ben diverso da
medievali d’oc e d’oïl quello amoroso di Guglielmo d’Aquitania: è un esempio del convenzionalismo espressi-
a cura di A. Roncaglia vo e tematico della poesia trobadorica, ma anche della sua straordinaria capacità di in-
Edizioni Accademia,
Milano 1973
novare e variare partendo da pochi nuclei lirici.

Nota metrica Molto mi piace la lieta stagione di primavera


Nel testo originale, cin-
que strofe di dieci versi che fa spuntar foglie e fiori,
(ottosillabi; il quinto e e mi piace quand’odo la festa
l’ottavo esasillabi) con ri- degli uccelli che fan risuonare
me identiche (coblas unis-
sons), secondo lo schema 5 il loro canto pel bosco,
ababcddcdd, e doppia tor-
nada (o congedo) di tre
e mi piace quando vedo su pei prati
versi (schema: cdd). tende e padiglioni rizzati,
7 padiglioni: tende mi-
ed ho grande allegrezza
litari destinate ai coman- quando per la campagna vedo a schiera
danti. 10 cavalieri e cavalli armati.
11 scorridori: cavalieri
d’assalto.
17 baluardi... breccia: E mi piace quando gli scorridori
muraglie sfondate e fatte a mettono in fuga le genti con ogni lor roba,
pezzi.
18 vallo: contrafforte di- e mi piace quando vedo dietro a loro
fensivo, trincea. gran numero d’armati avanzar tutti insieme,
20 palanche: tavole o tra-
vi usate per opere di fortifi- 15 e mi compiaccio nel mio cuore
cazione. quando vedo assediar forti castelli
23 tema: timore.
29 niuno... pregio: nes- e i baluardi rovinati in breccia,
suno può essere pregiato, te- e vedo l’esercito sul vallo
nuto in considerazione.
31 brandi: spade. che tutto intorno è cinto di fossati
35 onde: per la qual cosa. 20 con fitte palizzate di robuste palanche.
38 d’alto sangue: di no-
bile stirpe.
Ed altresì mi piace quando vedo
che il signore è il primo all’assalto,
a cavallo, armato, senza tema,
che ai suoi infonde ardire
25 così, con gagliardo valore;
e poi ch’è ingaggiata la mischia
ciascuno dev’essere pronto
volonteroso a seguirlo,
ché niuno è avuto in pregio
30 se non ha molti colpi preso e dato.

Mazze ferrate e brandi, elmi di vario colore,


scudi forare e fracassare
vedremo al primo scontrarsi
e più vassalli insieme colpire,
35 onde erreranno sbandati
i cavalli dei morti e dei feriti.
E quando sarà entrato nella mischia
ogni uomo d’alto sangue

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5. La letteratura dell’età feudale in Francia T 5.3

non pensi che a mozzare teste e braccia:


40 meglio morto che vivo e sconfitto!

Io vi dico che non mi dà tanto gusto


mangiare, bere o dormire,
come quand’odo gridare «all’assalto»
da ambo le parti, e annitrire
45 cavalli sciolti per l’ombra,
e odo gridare: «aiuta, aiuta!»
e vedo cader pei fossati
45 cavalli... l’ombra: ca-
valli disarcionati, che vaga- umili e grandi tra l’erbe,
no senza più cavaliere nel- e vedo i morti che attraverso il petto
l’ombra dei boschi.
50 pennoncelli: le ban- 50 han tronconi di lancia coi pennoncelli.
dierine che venivano fissate
all’estremità delle aste. Baroni, date a pegno
54 Papiol: il nome del
giullare al quale il poeta affi- castelli, borgate e città,
da abitualmente i suoi versi. piuttosto che cessare di guerreggiarvi l’un l’altro.
55 Signor Sì-e-No: Ric-
cardo Cuor di Leone, di cui
Bertran era vassallo, qui Papiol, volonteroso
schernito per la sua esitazio-
ne a intraprendere nuove 55 al Signor Sì-e-No vattene presto,
azioni di guerra. e digli che troppo sta in pace.

Guida all’analisi
Il canto gioioso e vitale della guerra Il componimento è costruito secondo la tecnica del plazer: vengono cioè
elencate le cose che piacciono al poeta. La potenza visiva e realistica della rappresentazione,
la nettezza dei particolari, spesso truci e violenti (teste e braccia mozzate, cavalli sbandati,
tronconi di lance che trapassano i cadaveri), la gioiosa ed energica vitalità del canto sono i
caratteri che più colpiscono la fantasia del lettore. Non deve stupire lo svolgimento del te-
ma: la lirica provenzale è poesia di corte, spesso appannaggio di nobili guerrieri che ripon-
gono il loro pregio (vv. 29-30) nelle attività militari e nei tornei cavallereschi. L’invettiva
contro il principe esitante, sprezzantemente definito Signor Sì-e-No, ben rivela il carattere
aristocratico e feudale di questa poesia.
La leggenda di Bertran de Born Non è un caso che Dante collochi Bertran de Born all’inferno, tra i seminato-
ri di discordia (If XXVIII 112-141), raffigurandolo come un uomo che porta la propria te-
sta mozza in mano «a guisa di lanterna»: giusto contrappasso per chi aveva fomentato divi-
sioni e odii quando era in vita. La collocazione infernale non impedisce a Dante di celebra-
re Bertran de Born: nel De vulgari eloquentia (II, II, 10) come nobile poeta delle armi; nel
Convivio (IV, XI, 14) come un esempio di liberalità. Si veda, del resto, la prima delle due vidas
a noi note: «Bertran de Born fu un castellano del vescovado di Périgord, signore di un ca-
stello che aveva nome Hautefort. Fu sempre in guerra con tutti i suoi vicini, col conte di
Périgord, col visconte di Limoges, con suo fratello Costantino e con Riccardo, finché que-
sti fu conte di Poitou. Fu buon cavaliere e buon guerriero e buon corteggiatore e buon tro-
vatore, assennato e di bella conversazione; e seppe trovare buona soluzione a cose buone e
cattive. La faceva da padrone, ogni volta che volesse, col re Enrico d’Inghilterra, e con suo
figlio; ma cercava sempre che essi si guerreggiassero l’un l’altro, padre e figlio e fratello. E
cercò sempre che il re di Francia e il re d’Inghilterra si facessero guerra. E ove avessero pa-
ce o tregua, subito si dava da fare con i suoi sirventesi affinché la pace si rompesse, dimo-
strando come, in tal pace, chiunque è disonorato. E da ciò gli derivarono gran bene e gran
male» (trad. di G. E. Sansone).

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Duecento e Trecento

T 5.4 Jaufré Rudel


Quando son lunghe le giornate, a maggio metà XII sec.
Antologia Jaufré Rudel, uno dei poeti più suggestivi ed enigmatici dell’intera letteratura trobadori-
delle letterature ca, signore feudale e principe di Blaia, partecipò alla seconda crociata (1147), durante la
medievali d’oc e d’oïl quale, secondo la tradizione, perdette la vita. Ma sembra più probabile che dalla crociata
a cura di A. Roncaglia
Edizioni Accademia,
tornasse, e che morisse entro il 1164, anno in cui il figlio andò pellegrino in Terrasanta.
Milano 1973 L’episodio cruciale della sua vita [R T 5.4 Doc 5.5 ], sarebbe stato l’amore per l’inaccessi-
bile e «lontana» contessa di Tripoli, della cui esistenza reale e della cui identità molti
studiosi ancora oggi discutono. Resta il fatto che l’intero canzoniere rudeliano soprav-
vissuto (in tutto sette liriche, di cui una dubbia) risulta centrato sul tema dell’«amore di
lontano». Ed è proprio l’aggettivo lontano (lonh in lingua d’oc) a scandire, strofa per stro-
fa, il ritmo fantastico e immaginoso della composizione che segue, perfetto esempio sul
piano stilistico di trobar leu (cioè di un poetare leggero e piano).

Nota metrica Quando son lunghe le giornate, a maggio,


Nel testo originale, sette
strofe di sette versi otto- mi piace dolce canto d’uccelli di lontano,
sillabi con rime identiche e quando me ne sono dipartito
(coblas unissons) secondo mi rimembro un amore di lontano.
lo schema ababccd, e tor-
nada di tre versi (schema: 5 Vado crucciato in cuore ed avvilito,
ccd). sì che canto né fior di biancospino
3 quando... dipartito:
m’aggrada più dell’inverno gelato.
non appena me ne distolgo Giammai d’amore non prenderò gioia
(lett. “quando mi sono al-
lontanato di là” nell’origi- se non di quest’amore di lontano,
nale). 10 ché più bella non so, né più valente,
4 mi rimembro: mi tor-
na il ricordo di. in nessun luogo, vicino o lontano.
14 per lei: nell’originale il
Tanto suo pregio è verace e perfetto
costrutto può anche essere
interpretato come un com- che laggiù, nel reame dei Saraceni,
pl. d’agente: “da lei”, dun- io bramerei, per lei, essere schiavo.
que “per opera sua”, della
donna. 15 Triste e gioioso me ne partirò,
23 l’ospizio: l’ospitalità.
26 Allora... conversari: se vederlo mai possa, l’amore di lontano,
letteralmente, nel testo ori- ma non so quando alfine lo vedrò,
ginale: «allora sarà perfetto il
nostro colloquio». – si par- ché i nostri paesi son troppo lontano:
ranno: appariranno, si rea- lungo è il viaggio, per terra e per mare,
lizzeranno in tutta loro evi-
denza e nobiltà. 20 e non posso perciò far previsioni;
29 Ben tengo per verace: ma così sia tutto come Dio vuole.
so che dice il vero.
30 per cui: grazie al quale. Ben conoscerò gioia, quando le chiederò
32 due mali: la lontanan-
za e il non essere corrispo- per amore di Dio l’ospizio di lontano,
sto. e se a lei piace, sarò ospitato
25 vicino a lei, benché sia di lontano.
Allora si parranno i cortesi conversari,
quando amante lontano sarà così vicino
che di belle parole godrà conforto.
Ben tengo per verace il Signore
30 per cui vedrò l’amore di lontano;
ma per un bene che me ne tocca,
soffro due mali, tanto m’è lontano.
Ah! foss’io là pellegrino,
sì che il mio bordone e il mio saio
35 fossero mirati dai suoi occhi belli.
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5. La letteratura dell’età feudale in Francia T 5.4

34 il mio bordone e il Dio che tutto creò quanto viene e va


mio saio: il bastone e la cap-
pa dei pellegrini. e formò questo amore di lontano,
36 quanto viene e va: mi dia potere come io ne ho volere
cioè quanto esiste. che veda questo amore di lontano,
38 come io ne ho volere:
quanto ne ho volere, cioè 40 per davvero, e così intimamente
desiderio. che la camera e il giardino
48 il mio padrino: si cre-
deva, secondo un’antica e abbiano sempre a sembrarmi una reggia.
diffusa tradizione di caratte-
re magico-superstizioso, Dice il vero chi ghiotto mi chiama
che gli auguri formulati dal e bramoso d’amore di lontano:
padrino al fonte battesimale
esercitassero un influsso de- 45 niun’altra gioia tanto mi piace
terminante sul destino del come gioire d’amore di lontano.
battezzato; qui il poeta ap-
pare convinto che il suo pa- Ma ciò che vorrei m’è negato,
drino abbia gettato su di lui ché tal sorte gettò su me il mio padrino:
una sorte avversa, una specie
di malocchio o maledizio- ch’io amassi senz’essere amato.
ne, tale da condannarlo per
sempre ad amare senza esse- 50 Ma ciò che vorrei m’è negato.
re amato. Maledetto sia sempre il padrino
che mi gettò la sorte di non essere amato.

Guida all’analisi
Il topos dell’«amore lontano» Quello dell’«amore lontano» è un motivo assai diffuso in età medievale: lo ri-
troviamo nel vasto repertorio delle fiabe, nella lirica cortese come nei romanzi cavallere-
schi. Nella poesia provenzale, tuttavia, e in specie in quella di Jaufré Rudel, esso esprime
un’intensità particolare: se infatti l’amore, nei trovatori di Provenza, è desiderio e tensione
inappagata, l’«amore di lontano» diviene metafora dell’amore stesso, la sua manifestazione
simbolica più compiuta ed esemplare. La poesia, qui, nasce dalla distanza che separa il poe-
ta-amante dall’amata, e si realizza in un ampio movimento fantastico interrotto soltanto
dall’invettiva che conclude, riportando la canzone all’amara realtà (vv. 48-52): entro que-
sto lungo movimento, troviamo evocati il mondo della natura (vv. 1-7), il tempo del viag-
gio e dell’avventura romanzesca (vv. 13-19), il momento tanto vagheggiato dei dolci con-
versari d’amore (v. 26).
Non mancano, com’è ovvio, elementi, situazioni e motivi propri del codice d’amore
cortese: il binomio primavera-amore (vv. 1-7); il rapporto di vassallaggio tra l’amante e la
dama (v. 14); la fedeltà all’amata (vv. 8-9); l’enumerazione di cose piacevoli (vv. 2, 46); il mo-
tivo della «gioia» d’amore, parola-chiave più volte evocata (vv. 8, 15, 22, 28, 45, 46); le lodi
della donna (vv. 10, 12, 35). Ma tutto è come assorbito dalla voce del poeta, dalla sua soffe-
renza d’amore, dalla sua dolorosa nostalgia (estremo paradosso) per un luogo e una donna
mai veduti, ma che proprio per questo si fanno emblemi assoluti del sentimento amoroso.

Doc 5.5 Vida di Jaufré Rudel

Jaufré Rudel,
L’amore di lontano, Jaufré Rudel di Blaia fu molto nobile uomo, principe di Blaia. E s’innamorò della
a c. di G. Chiarini, contessa di Tripoli, senza averla vista, per il bene che sentì dirne dai pellegrini che era-
Carocci, Roma 2003 no venuti da Antiochia. E fece su di lei molte canzoni, con belle melodie e semplici
parole. E per il desiderio di vederla si fece crociato e si mise in mare, e una malattia lo
prese sulla nave, e fu portato a Tripoli, in un albergo, come morto. E fu fatto sapere al-
la contessa ed ella andò da lui, al suo letto, e lo prese fra le sue braccia. Ed egli compre-
se che lei era la contessa e recuperò l’udito e il respiro, e lodò Dio perché gli aveva
conservata la vita fino a che l’avesse vista; e così egli morì fra le braccia di lei. Ed ella lo
fece seppellire con grande onore nella casa del Tempio; e poi, in quello stesso giorno, si
fece monaca per il dolore che ebbe della morte di lui.

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Duecento e Trecento

T 5.5 Chrétien de Troyes, Lancillotto 1177-1181


Lancillotto al Ponte della Spada
Chrétien de Troyes Per ritrovare l’amata Ginevra e liberarla da Meleagant, lo sleale cavaliere che l’ha rapi-
Lancillotto ta, Lancillotto si inoltra nel regno di Gorre, dal quale nessuno straniero è mai riuscito a
a cura di G. Agrati ritornare, come avverte un valvassore che Lancillotto ha incontrato sul suo cammino:
e M.L. Magini,
Mondadori, Milano 1983 «Ogni straniero che entra in questa terra è costretto a rimanervi: il paese diventa la sua
prigione. Infatti, vi può penetrare chi lo desidera, ma poi gli è vietato di andar via». In-
curante degli ammonimenti, Lancillotto prosegue nel suo viaggio, superando diverse
prove. Finalmente giunge, in compagnia di due giovani cavalieri, al ponte della spada.

Presero per la via diritta, e cavalcarono fino al declinare del giorno, quando
1 nona... vespro: l’ora raggiunsero il Ponte della Spada; era nona passata, verso vespro.1
nona corrisponde all’incir- Ai piedi di quel ponte, che è molto infido, sono smontati da cavallo e vedono
ca alle 15; il vespro è l’ora
canonica, la penultima, fra l’acqua traditrice, nera e rumoreggiante, densa e scura, orrida e spaventosa come
la nona e la compìeta, cioè un fiume dell’inferno, e sì pericolosa e profonda che non vi è creatura in tutto il 5
circa le 18.
mondo che, se vi cadesse, non sarebbe perduta come nel mare gelido. Il ponte
che l’attraversava è diverso da ogni altro; non ve ne fu mai, né mai ve ne sarà, uno
simile. Se mi si chiede il vero, dirò che non fu mai visto un ponte tanto orrendo,
né una passerella sì insidiosa: sull’acqua fredda, il ponte era fatto con una spada
bianca e lucente; forte e robusta, e lunga quanto due lance, era infitta da ogni 10
parte in un grande tronco. Né vi è pericolo che il cavaliere possa cadere: la spada
non si spezza né si piega, anche se, all’aspetto, non sembra poter sopportare un
grande peso.
A tale vista, i due compagni del cavaliere sono presi da grande sconforto, anche
perché credono di scorgere due leoni o due leopardi legati a un masso all’altro ca- 15
po del ponte. L’acqua, il ponte e i leoni li gettano in un tale timore che tremano
di paura da capo a piedi e dicono: «Signore, seguite il consiglio che vi è suggerito
da quanto vedete: ne avete grande bisogno e necessità. Questo ponte è stato lavo-
rato, tagliato e congiunto con malvagità. Se non tornerete subito sui vostri passi,
ve ne pentirete troppo tardi. In molti casi, prima di agire si deve ponderare a lun- 20
go. Immaginiamo pure che siate passato dall’altra parte, e questo non potrebbe av-
venire in alcun modo, non più di quanto possiate trattenere i venti e impedire lo-
ro di spirare, o agli uccelli di cantare, o far sì che non osino più levare le loro vo-
ci; ovvero più di quanto sia concesso a un uomo di rientrare nel ventre della ma-
dre e nascere una seconda volta: tutto ciò sarebbe impossibile, come non si po- 25
trebbe mai vuotare il mare. Potete tuttavia supporre e credere che quei due leoni
infuriati, incatenati dall’altra parte del ponte, non vi uccideranno e non vi suc-
chieranno il sangue dalle vene, e non mangeranno la vostra carne, per poi rosic-
chiarvi le ossa? Già sono troppo ardito, io che li fisso negli occhi e li guardo! Sap-
piate per certo che, se non agirete con prudenza, essi vi uccideranno, e in un 30
istante vi strapperanno e vi spezzeranno ogni membro del corpo: invero, non
avranno pietà. Abbiate compassione di voi stesso, e restate con noi. Commettere-
ste un torto verso la vostra stessa persona, se vi metteste consapevolmente in simi-
le pericolo di morte».
«Signori» risponde l’altro ridendo «vi ringrazio molto per la pena che mostra- 35
te nei miei confronti, e che di certo è dovuta ad affetto e a generosità. So bene
che non vorreste in alcun modo la mia sventura, ma la fede e la fiducia che ri-
pongo in Dio sono sì grandi che credo che mi proteggeranno da ogni male. Per-
ciò non temo né l’acqua né il ponte, più di quanto abbia paura della terraferma.
Voglio anzi rischiare l’avventura e prepararmi a passare dall’altra parte. Preferisco 40
morire piuttosto che tornare indietro».
100 © Casa Editrice Principato
5. La letteratura dell’età feudale in Francia T 5.5

Gli altri non sanno cosa dire, ma entrambi piangono e sospirano forte per la
compassione.
Il cavaliere si prepara meglio che può a superare l’abisso e compie un gesto dav-
vero singolare: si toglie dalle mani e dai piedi l’armatura che li ricopriva. Non giun- 45
gerà certo dall’altra parte intero e senza danni! Ma si sarà tenuto ben saldo sulla spa-
da più tagliente di una falce, a mani nude e scalzo, poiché sui piedi non ha lasciato
né calzari, né calze e nemmeno le piastre di armatura atte a proteggerne il collo.
Non si prende cura di ferirsi le mani e i piedi: preferisce storpiarsi, piuttosto
che cadere dal ponte e bagnarsi in quell’acqua da cui non uscirebbe mai più. 50
Passa dall’altra parte con grandi affanni e dolori; si piaga le mani, le ginocchia e
i piedi, ma tutto lo riconforta e lo risana Amore, che lo guida e lo accompagna, sì
che soffrire gli è dolce. Aiutandosi con le mani, con i piedi e con le ginocchia,
riesce infine a superare il ponte.
Allora gli torna alla mente il ricordo dei due leoni che credeva di aver veduto 55
quando si trovava sull’altra sponda; guarda, ma non c’è nemmeno una lucertola, né
altra cosa che gli possa recare danno. Si pone la mano davanti al viso, fissa l’anello, e
poiché non scorge alcuno dei due leoni che gli sembrava di avere veduti, ha la pro-
va che è stato ingannato da un incantamento: là non c’è alcuna creatura vivente.
I suoi compagni, rimasti sull’altra riva, vedono che è passato e se ne rallegrano 60
come devono, ma non sanno nulla delle piaghe che si è inflitto.
Eppure il cavaliere considera di aver fatto un buon baratto a non aver sofferto
danni maggiori.

Guida all’analisi
Nel regno dei morti Giunto al Ponte della Spada, Lancillotto si trova dinanzi a un fiume dalle rapide scure e
minacciose, che il narratore non esita a paragonare alle acque dell’Acheronte (r. 5). Lo stesso
paese che Lancillotto sta attraversando, «il regno da dove non si torna», è un’inquietante me-
tafora del regno dei morti. Non a caso il cavaliere, in un episodio precedente, era giunto a
uno spettrale monastero, all’interno del quale si trovavano le tombe, ancora vuote, dei cava-
lieri di re Artù. Fra queste, Lancillotto aveva scorto una tomba più grande delle altre, coper-
ta da una pesante lastra di pietra con sopra incise queste parole: «Colui che solleverà questa
lastra da solo e con le proprie mani, libererà quanti sono prigionieri nella terra da cui nessu-
no, né chierico né gentiluomo, è mai uscito dopo che vi era penetrato». Lancillotto solleva la
lastra fra lo stupore dei presenti: non era difficile, per un lettore dell’epoca, riconoscere in lui
una figura di Cristo, che aveva trionfato sulla morte osando scendere fin nelle tenebre del-
l’inferno per liberare l’uomo dalle tenebre del peccato. Chrétien, tuttavia, non insiste più di
tanto su questa via, lasciando implicito e indefinito il simbolismo della vicenda.
Le prove L’ardimento di Lancillotto non potrebbe tuttavia essere spiegato senza questa fede asso-
luta (la fede in Cristo che può spostare le montagne) riposta nel suo cuore: di fronte allo
sconforto e al terrore dei suoi due compagni, affranti alla vista del fiume e del ponte, egli ri-
sponde «ridendo» (r. 35). Intraprende dunque un’impresa che i compagni considerano im-
possibile; perciò, per dissuaderlo dal tentativo, ricorrono a una serie di adùnata (cioè di “co-
se impossibili”, rr. 21-26): non si può attraversare il ponte come non si può impedire che gli
uccelli cantino, i venti soffino eccetera. Pur ferendosi gravemente alle mani e alle giunture,
Lancillotto giunge invece all’altro capo del ponte, dove scopre che i leoni erano soltanto un
incantesimo maligno, l’ennesima prova a cui era stata sottoposta la sua fede.
La vera forza è Amore Quello che consente a Lancillotto di sprezzare ogni pericolo e di affrontare temeraria-
mente ogni avventura, uscendone sempre vincitore, è «Amore, che lo guida e lo accompa-
gna» (r. 53). Nelle pagine successive, egli giunge a una torre dove Meleagant tiene prigio-
niera Ginevra, e durante il duello con il suo avversario sembra avere la peggio. Ma alla vista
dell’amata, Lancillotto, nonostante le ferite e la debolezza, ribalta le sorti del combattimento.
101 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento

T 5.6 Dal Tristano di Thomas


La morte di Tristano e Isotta 1170-1177
Tristano La vicenda di Tristano e Isotta, dopo lunghe vicissitudini, si conclude con la morte dei
a cura di A. Del Monte, due amanti. Tristano ha inviato l’amico Caerdino, fratello di Isotta dalle bianche mani,
Libreria Scientifica Editrice, alla corte di re Marco, per convincere Isotta la bionda a raggiungerlo: solo lei, infatti,
Napoli 1952 potrebbe guarirlo da una grave ferita subita in duello. La vicenda sembra circolarmen-
te volgersi al suo principio: era stata infatti Isotta, un tempo, a guarire Tristano da una
ferita mortale, dopo l’aspro duello che l’eroe aveva combattuto con il mostruoso Mo-
roldo. Isotta si è messa in viaggio, e la nave di Caerdino sta per approdare in Bretagna,
dove Tristano soffre per la ferita, ma ancor più perché ignora se la donna amata abbia
risposto al suo appello. Caerdino, come aveva concordato con Tristano, issa la vela
bianca per segnalare la presenza a bordo di Isotta e il successo della spedizione. Ma
Isotta dalle bianche mani, gelosa del marito, medita un terribile inganno.

[1700] Hanno issato in alto la vela bianca, e veleggiano rapidamente, ché


Caerdino vede la Bretagna. Dunque son gioiosi e lieti e allegri, e tirano ben in ci-
ma la vela, che possa essere veduto quale sia, la bianca o la nera: vuole mostrare il
colore da lontano, perché era l’ultimo giorno che Tristano aveva loro fissato
[1710] quando partirono dal paese. Mentre navigano lietamente, si leva il caldo e 5
il vento cessa sicché non possono usare la vela. Il mare è estremamente piano e li-
scio. La loro nave non va né di qua né di là, fuorché quando la spinge l’onda, e
non hanno la loro scialuppa: ora grande è l’angoscia.Vedono dinanzi a loro vicina
la terra, [1720] né hanno il vento con cui possano raggiungerla. Vanno dunque
errando in alto, in basso, ora indietro e poi avanti. Non possono avanzare il loro 10
cammino, tocca loro un gravissimo impaccio. Isotta n’è profondamente rattristata:
vede la terra che ha desiderato, e non vi può giungere; per poco non muore dal
suo desiderio. Sulla nave desiderano la terra, [1730] ma il vento spira troppo lene.
Spesso Isotta si chiama sventurata. Sulla riva desiderano la nave: ancora non l’han-
no vista. 15
Tristano n’è dolente e infelice, spesso si lamenta, spesso sospira per Isotta che
tanto desidera, piange dagli occhi, il corpo gli si torce, per poco non muore dal
desiderio. In quell’angoscia, in quel tormento, [1740] viene dinanzi a lui sua mo-
glie Isotta, che medita il grande inganno: «Amico», dice, «ora viene Caerdino. Ho
veduto la sua nave sul mare, l’ho vista veleggiare a gran pena, tuttavia io l’ho ve- 20
duta in modo che per sua l’ho riconosciuta. Conceda Iddio che porti tal novella
di cui abbiate nel cuore conforto!». Trasale Tristano alla notizia, [1750] dice ad
Isotta: «Bell’amica, siete sicura che è la sua nave? Ditemi ora qual è la vela». Isotta
dice questo: «Ne son certa. Sappiate che la vela è tutta nera. L’hanno issata in cima
e levata in alto, perché manca loro il vento». Allora sì grande dolore ha Tristano 25
quale mai non ebbe, né avrà maggiore, e si volta verso il muro: [1760] «Dio salvi
Isotta e me!», dice allora. «Poiché da me non volete venire, debbo morire per vo-
stro amore. Non posso più tenere la mia vita; per voi muoio, Isotta, bell’amica.
Non avete pietà del mio languire, ma della mia morte avrete dolore. Questo, ami-
ca, m’è di grande conforto, che avete pietà della mia morte». Dice tre volte «Ami- 30
ca Isotta», [1770] alla quarta rende lo spirito.
Allora piangono per la casa i cavalieri, i compagni. Alto è il clamore, il pianto
grande. Cavalieri e servitori corrono e lo tolgono dal suo letto, poi lo distendono
1 sciamito: drappo di sopra uno sciamito,1 lo coprono di un drappo listato. Sul mare s’è levato il vento
seta pesante, simile al vel- e colpisce nel mezzo della vela, [1780] fa venire a terra la nave. Isotta discende
luto. 35
dalla nave, ode nella via i grandi pianti, le campane nei monasteri e nelle cappel-
le; chiede notizie agli uomini, perché fanno questo suono, e per chi sia il com-

102 © Casa Editrice Principato


5. La letteratura dell’età feudale in Francia T 5.6

pianto. Allora un vecchio le dice: «Bella signora, così m’aiuti Iddio, noi abbiamo
un dolore così grande che mai gente ne ebbe maggiore. [1790] Morto è Tristano,
il nobile, il prode: era di conforto a tutti quelli del regno. Era liberale coi biso- 40
gnosi, di grande aiuto ai sofferenti. Di una ferita che il suo corpo ebbe è morto,
proprio ora, nel suo letto. Mai non toccò a questa regione così grande sventura».
Appena Isotta ode la novella, [1800] non può dir parola dallo strazio. Così ad-
dolorata è della sua morte, che va discinta per la via dinanzi agli altri al palazzo.
Mai Bretoni videro donna della sua bellezza; stupiti si chiedono per la città onde 45
venga, chi sia. Isotta va, là dove vede il corpo, e si volge verso oriente, [1810] pre-
ga piamente per lui: «Amico Tristano, poiché vi vedo morto, è giusto che non
possa vivere oltre. Morto siete per il mio amore, e io, amico, muoio di tenerezza,
perché non potei venire a tempo per guarire voi e il vostro male. Amico, amico,
per la vostra morte non avrò mai di nulla conforto, gioia, né allegrezza, né alcun 50
piacere. [1820] Maledetta sia quella tempesta che in mare mi fece tanto indugiare
che io non potei venire! Se io fossi venuta a tempo, amico, vi avrei ridata la vita e
parlato dolcemente dell’amore che è stato fra noi; avrei rimpianto la mia sorte, la
nostra gioia, il nostro piacere, la pena e il grande dolore [1830] che è stato nel no-
stro amore, e questo avrei ricordato e voi baciato e abbracciato. Se io non posso 55
guarirvi, possiamo dunque insieme morire! Poiché non potei e non ebbi la sorte
di venire a tempo, e sono venuta alla morte, avrò conforto della stessa bevanda.
[1840] Per me avete perduta la vita, e io farò come verace amica: per voi voglio
egualmente morire».
L’abbraccia, e si distende, bacia la bocca e la faccia e molto stretto a sé lo strin- 60
ge, si stende corpo contro corpo, bocca contro bocca, e allora rende lo spirito, e
muore così a fianco a lui per il dolore del suo amico. [1850] Tristano è morto per
il suo desiderio, Isotta, perché non poté venire a tempo. Tristano è morto del suo
amore, e la bella Isotta, di tenerezza.

Guida all’analisi
Struttura e caratteri del brano Possiamo dividere il brano in quattro sequenze, di forte impatto scenografico e
di straordinaria intensità emotiva. La prima e la seconda si bilanciano nella prospettiva, op-
posta, dei due amanti, accomunati dal reciproco desiderio di incontrarsi: dopo un tratto di
navigazione agile e veloce, Isotta è trattenuta dalla bonaccia dinanzi alle coste di Bretagna,
dove è impaziente di approdare (rr. 1-15); a terra, nella sua stanza, Tristano si lamenta e sof-
fre nell’attesa, lasciandosi poi morire di dolore alle parole ingannatrici della moglie (rr. 16-
31). Le ultime due sequenze sono centrate sulla figura di Isotta. Dapprima lo scenario è
quello, luttuoso e desolato, delle vie cittadine, dove la donna, fra rintocchi di campane e ri-
suonare di pianti, apprende la notizia della morte dell’amato e corre «discinta» e come paz-
za (immagine tradizionale delle eroine appassionate) alla casa di Tristano (rr. 32-44). L’ultima
sequenza è certo la più patetica, ed è caratterizzata, rispetto alla precedente, da un movi-
mento più lento e interiorizzato: dopo aver pianto lo sventurato destino di Tristano, Isotta
decide di lasciarsi anch’ella morire (rr. 45-64).
Il monologo di Isotta bilancia, sul piano strutturale, quello di Tristano. Il narratore de-
scrive i sentimenti e i gesti dei due tragici amanti con molta finezza: Tristano si gira verso il
muro (quasi a occultare il suo dolore); Isotta si volge verso Oriente (là dove sorge il sole,
simbolo di vita e di speranza). Il linguaggio è scelto e cortese: si veda, ad esempio, come
Isotta annunci la propria risoluzione di morte dicendo di voler bere la stessa bevanda di Tri-
stano. Ma la metafora (bevanda = morte) si carica di un senso tragico e fatale nell’allusione
al filtro d’amore da cui aveva avuto origine la storia dei due sventurati amanti.
I versi conclusivi vogliono ribadire l’esito della vicenda: Tristano è morto per il desiderio

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Duecento e Trecento

di Isotta; Isotta per la tenerezza verso l’amante. I protagonisti sono delineati secondo il co-
dice cortese dell’epoca: Tristano viene descritto (nelle parole dei sudditi) come un cavaliere
giusto e gentile, Isotta come una donna di grande bellezza e di veemente passione.
Echi classici: la storia di Piramo e Tisbe La letteratura greco-latina offriva molti esempi di tragiche vicende
amorose, per lo più centrate su figure di eroine: la più nota era quella di Didone, la regina di
Cartagine che nel racconto virgiliano decideva di darsi la morte dopo essere stata abbando-
nata da Enea. Il precedente più significativo, per la storia di Tristano e Isotta, è tuttavia la vi-
cenda di Piramo e Tisbe, narrata dal poeta latino Ovidio nelle Metamorfosi (IV, 55-166).
Piramo e Tisbe sono due giovani babilonesi che si amano ardentemente ma non posso-
no sposarsi a causa della reciproca ostilità delle famiglie.Vivendo in due case contigue, rie-
scono tuttavia a parlarsi grazie a una fessura in un muro divisorio. Decidono infine di fug-
gire di casa, dandosi appuntamento per la notte presso il sepolcro di re Nino, appena fuori
città. Giunge per prima Tisbe, che è costretta però a fuggire alla vista di una leonessa. Du-
rante la fuga, la fanciulla lascia inavvertitamente cadere un velo, che il leone sporca del san-
gue di una precedente vittima. Quando Piramo giunge, e scorge il velo insanguinato, e le
orme ancora fresche della belva, credendo che Tisbe sia morta, si trafigge per il dolore.
Riappare la fanciulla, che fa appena in tempo a raccogliere l’ultimo respiro dell’amato, tra-
figgendosi infine «sulla lama ancora calda del sangue» di Piramo. Questa la vicenda narrata
da Ovidio, fondata anch’essa su un amore appassionato e irresistibile, che si conclude tragi-
camente, per un equivoco fatale, con la morte di entrambi gli amanti (come nel Romeo e
Giulietta di Shakespeare).
Echi classici: la storia di Teseo e di Egeo Il motivo della vela bianca o nera, che gioca un ruolo decisivo nella
conclusione del romanzo di Tristano e Isotta, richiama invece la vicenda mitica dell’eroe
ateniese Teseo. Gli abitanti di Atene erano da tempo costretti a pagare un tributo umano al
re di Creta Minosse e al mostruoso Minotauro, al quale ogni anno (secondo le varianti del
mito ogni tre anni, opppure ogni nove anni) erano destinati sette giovani e altrettante fan-
ciulle, che il mostro antropofago divorava. Teseo si offrì di uccidere il mostro: alla partenza, il
padre Egeo gli diede due vele, una bianca e una nera, che la nave di Teseo avrebbe dovuto
issare nel viaggio di ritorno: quella bianca avrebbe annunciato il successo dell’impresa; quel-
la nera la sconfitta e la morte dell’eroe. Teseo riuscì ad uccidere il Minotauro grazie all’aiu-
to di Arianna, la figlia di Minosse che si era innamorata di lui. Ma al ritorno (seguiamo il
racconto di Plutarco), «per la grande gioia né lui [Teseo] né il pilota si ricordarono di issare
la vela con cui erano d’accordo di segnalare da lontano ad Egeo ch’erano salvi. Il re vide
spuntare la vela nera; preso dalla disperazione, si gettò dalla scogliera, rimanendo sfracellato»
(Teseo 22). Da quel giorno il mare Egeo ebbe il suo nome.

Laboratorio 1 Confronta i passi del ciclo carolingio con rici e narrativi che hai letto, definisci il
COMPRENSIONE quelli del ciclo bretone che hai letto, sof- concetto di cortesia e il rapporto che tali
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE fermandoti in particolare sulla diversità: testi istituiscono con il mondo aristocra-
– dei temi; tico feudale.
– degli scenari narrativi; 3 Delinea l’immagine della donna quale ri-
– degli eroi protagonisti. sulta dai testi di questo capitolo, sia lirici
2 Facendo concreto riferimento ai testi li- che narrativi.

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5. La letteratura dell’età feudale in Francia VERIFICA

VERIFICA

5.1 La nascita del genere epico in lingua volgare

1 Indica i tratti distintivi del genere epico così come si è sviluppato dal mondo classico a
quello medievale.
2 Che cosa sono le chansons de geste? In quale epoca si diffusero? In che rapporto sono que-
ste opere con la realtà storica contemporanea?

5.2 La Chanson de Roland

3 Racconta in sintesi la vicenda della Chanson de Roland: qual è il nucleo storico da cui sorse
la leggenda narrata? Perché essa rende la forma di un grande conflitto religioso fra mondo
arabo e mondo cristiano?
4 Individua i caratteri precipui della figura di Orlando: perché diciamo che essa deve molto
alle vite dei santi? Quali sono gli altri personaggi, positivi e negativi, del poema?
5 Sulla base dei testi antologici, indica le tecniche narrative predominanti nella Chanson de
Roland.

5.3 L’ideale cavalleresco e l’amor cortese

6 Che cosa intendiamo con espressioni come «età cortese», «amor cortese», «virtù cortesi»?
7 Individua i tratti più caratteristici dell’amor cortese, spiegando in particolare i seguenti
termini: «servizio d’amore», «fin’amor», «midons». Illustra, inoltre, il rapporto che viene a
istituirsi fra il codice feudale e il codice dell’amor cortese.
8 Quali sono i precetti fondamentali dell’amor cortese esposti nel trattato De amore di An-
drea Cappellano? In particolare: come viene interpretato il matrimonio nella prospettiva
dell’amor cortese?

5.4 La lirica provenzale

9 Chi sono i trovatori? In quale contesto storico si muovono? Qual è la loro estrazione so-
ciale?
10 Illustra i temi e i motivi predominanti della poesia provenzale.
11 Spiega, possibilmente con riferimenti concreti alle letture fatte, i seguenti termini: vida, ra-
zo, trobar leu, trobar clus, alba, pastorella, canzone di crociata, tenzone, planh, plazer.

5.5 Il romanzo cavalleresco in lingua d’oil

12 Distingui fra materia classica e materia bretone, illustrando i caratteri fondamentali dei due
cicli.
13 Indica i titoli dei cinque romanzi arturiani scritti da Chrétien de Troyes. Sapresti indicare i
temi fondamentali della narrativa in versi di Chrétien?
14 Che cosa si intende con il termine queste? In quali cicli narrativi esso compare?
15 Esponi la vicenda di Tristano e Isotta. Perché viene definita una storia di amore e morte?

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Duecento e Trecento

Siciliani e Siculo-toscani
6
n Pagina illustrata dal codi-
ce De arte venandi cum avi-
bus (L’arte della caccia con
gli uccelli) del 1258-1266.

Alla corte di Federico II di Svevia, imperatore e re scuola si esaurisce entro il 1266, seguendo le sorti
di Sicilia, si sviluppa la prima scuola poetica in volga- della potenza sveva nell’Italia meridionale.
re italiano con intenti propriamente artistici. I rimatori Rispetto ai modelli provenzali i Siciliani, che ope-
siciliani sono in prevalenza funzionari di corte alle di- rano in una cerchia omogenea ed esclusiva, entro una
rette dipendenze del sovrano, impegnato fra il 1220 e struttura statale fortemente accentrata – dunque in
il 1250 (anno della sua morte) in un ambizioso pro- un ambiente assai diverso da quello feudale-cortese,
getto di accentramento politico e insieme nella pro- terreno di coltura della lirica occitanica – procedono a
mozione di una straordinaria fioritura culturale (la co- una drastica riduzione tematica, assumendo ad argo-
siddetta “rinascenza meridionale”). La produzione dei mento unico della loro poesia l’amor cortese. Dal
Siciliani si configura come un’esperienza poetica raf- punto di vista stilistico-formale, si mostrano per lo più
finata ed elitaria, di impronta laica, che si ispira alla orientati verso un elegante trobar leu, rifuggendo dal
lirica provenzale ma ne rielabora i prestigiosi modelli virtuosismo sperimentale e dall’asprezza del trobar
in una nuova lingua d’arte, aulica e sovramunicipale, clus. Si definiscono tre generi metrico-tematici fon-
il “siciliano illustre”. Iniziatore del movimento e capo- damentali: la canzone, destinata alle prove di più alto
scuola riconosciuto è il Notaro Giacomo da Lentini, impegno concettuale e retorico; la canzonetta, dove
attivo a partire dagli anni 1233-34; tra le personalità trovano spazio tonalità più cantabili e uno stile me-
poetiche più notevoli si possono ricordare Guido delle diano; il sonetto, impiegato fra l’altro nel dibattito
Colonne, Pier della Vigna, Stefano Protonotaro, Ri- dottrinale (le “tenzoni” poetiche). Si registra inoltre un
naldo d’Aquino e Giacomino Pugliese. L’attività della “divorzio” della poesia dalla musica.
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106
6. Siciliani e Siculo-toscani STORIA

lità individualistica e dinamica, tipica del ceto borghe-


se-mercantile. Pertanto la compattezza della lirica si-
ciliana si frantuma in una pluralità di centri e di espe-
rienze poetiche diverse, non riconducibili a un indiriz-
zo unitario di “scuola”.
All’imitazione dei modelli siciliani si intrecciano
apporti innovativi e dirette riprese dai Provenzali: nel
repertorio tematico fanno il loro ingresso gli argo-
menti politici, mentre sul piano formale si sperimen-
tano inedite soluzioni di scrittura aspra e difficile. Tra i
numerosissimi rimatori Siculo-toscani spiccano Bo-
n Il poeta e la donna amata. nagiunta da Lucca, Chiaro Davanzati fiorentino, ma
soprattutto l’aretino Guittone (1235 ca-1294), che per
oltre vent’anni esercitò una sorta di “dittatura” lette-
raria nell’Italia centrale, imitato da una schiera di fe-
deli seguaci (i “guittoniani”). Le rime di Guittone, in
un primo tempo di argomento amoroso e politico-mo-
I testi dei Siciliani sono stati trasmessi in una ve- rale, poi esclusivamente religioso (dal 1265 ca), sono
ste linguistica modificata dai copisti toscani, e in que- caratterizzate da una fortissima tensione espressiva,
sta forma toscanizzata la nostra prima lirica d’arte è da un incessante impulso alla sperimentazione, da
stata fin dall’inizio conosciuta e imitata nel resto d’I- una scrittura ardua, virtuosistica e difficile fino all’o-
talia; soltanto nel XVI secolo, grazie ad esigui ma pre- scurità.
ziosi ritrovamenti, se ne è potuta accertare la “sicilia- Alla metà degli anni Ottanta l’esperienza dei Sicu-
nità” originaria. lo-toscani può dirsi conclusa; l’ascesa irresistibile
Nella seconda metà del Duecento l’eredità poetica dello Stilnovo eclissa definitivamente l’astro di Guitto-
dei Siciliani viene raccolta dai rimatori dell’Italia ne (fatto oggetto di giudizi critici recisamente negativi
centrale, soprattutto toscani, che operano nell’ambi- da parte di Dante), sebbene i nuovi poeti ne raccolga-
to dei liberi Comuni cittadini, animati da una menta- no per diversi aspetti l’eredità.

La scuola siciliana (1230 ca-1266)

centro di sviluppo: diffusione nell’Italia centrale


la Magna Curia di Federico II e in particolare in Toscana (dopo il 1250)

maggiori esponenti:
Giacomo da Lentini (caposcuola)
Guido delle Colonne
Pier della Vigna inedite figure di giuristi-poeti,
Stefano Protonotaro funzionari di corte
Rinaldo d’Aquino
Giacomino Pugliese
La scuola siciliana

un tema esclusivo: l’amore

scelta di un volgare “indigeno” “siciliano illustre”, nuova lingua d’arte che


si modella sul provenzale e sul latino

generi metrico-tematici:
canzone
canzonetta
sonetto

“divorzio” dalla musica

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107
Duecento e Trecento

6.1 La scuola siciliana


La prima scuola poetica in volgare italiano Se l’anno 1224, quando Francesco d’Assisi compose il
Cantico di Frate Sole [R T 4.1 ], segna per tradizione l’esordio della poesia italiana ed ha
ormai assunto il valore di una data simbolica, è senza dubbio in Sicilia, alla corte di
Federico II di Svevia, che si sviluppa, negli stessi anni (o poco più tardi), il primo mo-
vimento poetico coerente e unitario della nostra letteratura in volgare con intenti
propriamente artistici, al di fuori di ogni finalità pratica o di edificazione religiosa e
morale. Una poesia colta ed elitaria, di ispirazione laica, che si configura in primo luo-
go come esperienza intellettuale e raffinato esercizio formale, a somiglianza della liri-
ca trobadorica di Provenza, fonte primaria e modello dei rimatori siciliani e di ogni
fioritura poetica di impronta aulica e cortese nel Medioevo europeo. Mentre nell’Ita-
lia del Nord, tuttavia, nelle corti signorili e nei comuni cittadini, troviamo poeti italia-
ni che compongono nella lingua provenzale (R 5.4), i Siciliani provvedono al trapian-
to della lirica occitanica in un volgare locale e “nazionale”.
Federico II imperatore e re di Sicilia L’intensa quanto breve fioritura della poesia siciliana si inscri-
ve, fin dalle origini e lungo l’intero arco della sua parabola storica, nell’ambito del va-
sto e ambizioso progetto politico-culturale di Federico II, imperatore e re di Sicilia,
che fra il 1220 e il 1250 perseguì nel regno già normanno dell’Italia meridionale la
costituzione di quello che viene definito il primo Stato moderno nella storia d’Euro-
pa. Con il declino della potenza sveva di fatto volge al tramonto anche l’attività poeti-
ca della scuola, per spegnersi definitivamente in seguito alla sconfitta e alla morte di
Manfredi, figlio e successore di Federico, nella battaglia di Benevento (1266), che se-
gna l’avvento nel regno di Sicilia della dinastia angioina.
Una corte mobile La corte di Federico II fu una corte mobile e itinerante: questo Stato così forte-
mente accentrato non ebbe mai un “centro” fisso, cioè una capitale stabile, identifi-
candosi piuttosto con la persona del sovrano, che si spostava di continuo da una città
all’altra e sovente soggiornava nei numerosi castelli da lui stesso edificati nella parte
peninsulare del regno. Mobilità e policentrismo che richiedono, «perché l’azione di
governo possa svolgersi con quella continuità che di fatto non viene mai meno, un
apparato cospicuo di funzionari e burocrati, efficienti e bene affiatati, parte al segui-
to del sovrano, parte decentrati nelle varie sedi» (Roncaglia). Federico si circonda
dunque di un’élite politico-amministrativa di estrazione laica e di formazione giuri-
dica, composta da dignitari di corte, magistrati e notarii (cioè estensori dei documenti
ufficiali), assai raramente nobili feudatari o ecclesiastici; e proprio a questo ceto di
esperti funzionari alle dirette dipendenze del sovrano appartengono i maggiori ri-
matori della scuola poetica siciliana, inedite figure di giuristi-poeti di vasta cultura,
addottrinati nelle discipline retoriche, talora chiamati ad esercitare altissime cariche,
fra i quali emerge il capuano Pier della Vigna (1190-1249), «il più colto giurista lai-
co e il più solenne stilista del tempo» (Roncaglia).
La Magna Curia e la rinascenza meridionale Una vivacissima attività culturale si svolge presso la
corte federiciana, la cosiddetta Magna Curia, ambiente cosmopolita e plurilingue,
aperto agli influssi di civiltà diverse (franco-normanna, germanica, ebraica, greco-bi-
zantina); forte e significativa, in particolare, la presenza della tradizione araba musulma-
na. Intorno al sovrano, uomo di vasta cultura e di multiformi interessi scientifici e let-
terari, autore di un importante trattato in latino sull’arte della falconeria, si raccolgono
artisti, dotti e studiosi delle più varie discipline: insigni giuristi, maestri di retorica, filo-
sofi e traduttori impegnati nel recupero all’Occidente dell’aristotelismo attraverso la
mediazione araba (i compendi e i commenti di Avicenna e di Averroè); cultori di
scienze matematiche, come il pisano Leonardo Fibonacci, cui si deve l’introduzione in
Europa del sistema numerico arabo e dello zero, nonché di astrologia e astronomia, co-

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6. Siciliani e Siculo-toscani STORIA

me Michele Scoto, astrologo di corte che proviene dalla scuola di Toledo, grande cen-
tro di traduzioni dalla lingua araba. Se non vi fu una capitale, fiorirono nelle città del
regno, sia in Sicilia (soprattutto a Messina e Palermo), sia sul continente, grandi centri
di cultura, dando vita a quella che si suole definire «rinascenza meridionale».
In questo clima di straordinario fervore intellettuale, accanto a una nuova cospicua
fioritura di letteratura latina, in versi e in prosa, e di poesia greco-bizantina, si inserisce
quella che resta la realizzazione più significativa, in campo letterario, della stagione fe-
dericiana: l’esperienza poetica in volgare dei rimatori siciliani.
Inizi e cronologia della scuola Anche se l’imperatore Federico, poeta egli stesso, verosimilmente non
fu l’effettivo iniziatore della produzione poetica della scuola, certo al suo impulso – e
forse a sue precise direttive – si deve l’avvio di questa originale esperienza di trasposi-
zione in volgare siciliano della lirica trobadorica.
Un’operazione perfettamente coerente con l’indirizzo della politica culturale di
corte, in quanto ripresa di un prestigioso modello di poesia laica, dotta e raffinata, se-
gno di riconoscimento di una società aristocratica ed esclusiva, in una lingua poetica
“indigena”, priva di precedenti letterari ma al tempo stesso aulica e sovramunicipale
(non-dialettale), così da rendere inequivocabilmente palese la fondazione di una tradi-
zione lirica inedita e autonoma, svincolata dal particolarismo feudale e dal municipa-
lismo (l’occitanico era la lingua dei trovatori operanti nelle città e nelle corti del
Nord Italia, politicamente ostili al progetto imperiale) e dunque idonea a rappresenta-
re degnamente la nuova realtà dello stato federiciano. Avrà avuto un certo peso anche
l’esempio recente del Minnesang germanico, che, non a caso, proprio durante l’impero
di Federico II attraversa il suo momento di maggior splendore.
Alle origini del movimento, peraltro, si avverte l’impronta di una forte e creativa
personalità di poeta, con ogni probabilità il Notaro Giacomo da Lentini, cui si rico-
nosce concordemente la statura e il ruolo di caposcuola. La lirica dei Siciliani, assai
povera di riferimenti “esterni” (eventi, date, personaggi storici), offre scarsissimi e insi-
curi appigli ai tentativi di determinarne la cronologia; ma i pochi dati accertati indur-
rebbero a situare intorno al 1233-1234 gli inizi della scuola, che esaurisce la sua più
rigogliosa fioritura nell’arco breve di circa un ventennio. I poeti siciliani più tardi sono
perciò coevi ai Toscani della prima generazione, a Bonagiunta e al giovane Guittone.
Il giudizio di Dante Già Dante, cui si deve la prima sistemazione storico-critica della produzione liri-
ca in volgare italiano, ritenuta ancor oggi valida nelle sue linee fondamentali, acuta-
mente individuava il legame tra le condizioni politico-culturali create nel regno meri-
dionale dagli ultimi sovrani svevi e le realizzazioni poetiche dei rimatori di corte, ad-
ditando nell’attività della scuola la fase iniziale e determinante di una tradizione in cui
pienamente si riconosceva.
Il “trapianto” dell’esperienza lirica occitanica La lirica siciliana si sviluppa dunque nel cuore di
una struttura statale fortemente accentrata, dominata dalla personalità d’eccezione del
sovrano, entro la cerchia omogenea, compatta ed esclusiva di un’unica corte, ad opera
non già di poeti professionisti, com’erano per la maggior parte i trovatori di Provenza,
ma di raffinati dilettanti, prioritariamente dediti alle loro alte incombenze di funzio-
nari statali, che coltivano la poesia come attività “separata” e al tempo stesso integrata
in un organico progetto politico. Il “trapianto” dell’esperienza lirica occitanica avvie-
ne pertanto in un ambiente sociale e culturale assai diverso da quello di origine, feu-
dale e cortese, variegato e policentrico; questo rende ragione delle differenze, anche
notevoli, che si possono cogliere fra la produzione dei Siciliani e i modelli provenzali.
Il rapporto con i modelli provenzali: riduzione e innovazione tematica Rispetto al più ampio
ventaglio tematico della produzione occitanica, i rimatori siciliani procedono a una
drastica selezione, assumendo ad argomento unico ed esclusivo del loro canto l’amor
cortese, con il suo tradizionale repertorio di motivi, atteggiamenti e situazioni codifi-
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Duecento e Trecento

cate. Di qui l’assenza pressoché totale di riferimenti alla cronaca e alla storia contem-
poranea, di cui si avvertono soltanto risonanze indirette e remote; di qui l’astensione
dalla propaganda e dagli interventi nelle contese politiche di un’epoca pur agitata da
aspri e drammatici conflitti, che trovano invece un’eco appassionata nelle voci disso-
nanti dei loro colleghi provenzali del Nord.
La tendenza a recidere qualsiasi legame con le occasioni contingenti si riflette an-
che nella trattazione del tema amoroso: non è certo un caso che per i Siciliani non sia
mai stata tentata la costruzione di “leggende biografiche”, ricavate dall’opera poetica,
come è accaduto invece per le vidas provenzali [R T 5.4 Doc 5.5 ]. La concezione feudale e
cortese della fin’amor come “servizio d’amore” esemplato analogicamente sull’omag-
gio del vassallo al suo signore, viene recepita nella Sicilia federiciana in quanto feno-
meno essenzialmente artistico, un mito (e un codice) letterario che non trova preciso
riscontro nella realtà sociale e nel costume di corte, e che perciò si rende disponibile a
rielaborazioni e sviluppi almeno parzialmente originali. Così, accanto a imitazioni più
ravvicinate e convenzionali dei modelli, l’interesse si concentra soprattutto sulla feno-
menologia e l’essenza ontologica d’Amore; l’esperienza amorosa si interiorizza nella
contemplazione-espressione di complessi movimenti psicologici, con uno spostamen-
to del centro lirico dall’oggetto d’amore al soggetto, come accade esemplarmente nel-
la poesia di Giacomo da Lentini [R T 6.1 ].
Le scelte formali Dal punto di vista stilistico, i rimatori federiciani si mostrano per lo più orientati,
soprattutto nella fase iniziale, verso un elegante trobar leu, rifuggendo dal virtuosismo
sperimentale e dall’asperitas, dai moduli espressivi ardui ed ermetici, insomma dalla li-
nea “espressionistica” e “difficile” della poesia trobadorica. Sebbene, com’è ovvio, nel-
la produzione della scuola si distinguano chiaramente maniere, voci e filoni diversi, si
può parlare, nel complesso, della ricerca di un raffinato stile “unitonale”: il linguaggio
poetico, aristocratico e selezionato, altamente convenzionale, si tiene lontano dagli
estremi, con una tendenza, se mai, verso l’alto e verso l’astratto.
Il divorzio dalla musica La redazione dei testi lirici provenzali, destinati alla recitazione e al canto, era
intrinsecamente e originariamente legata alla componente musicale, anche se non
sempre i poeti provvedevano personalmente ad elaborarne la notazione. I trovatori in-
sistono di continuo sull’esigenza di armonizzare le parole e i suoni (motz e sos). Per
contro, mancano esplicite indicazioni di tal genere nei Siciliani; certo, questi ultimi al-
ludono con grande frequenza alla loro poesia con i termini «canto» e «cantare»
[R T 6.1 ; R T 6.3 ], che però sono da intendere in accezione metaforica. Non è perve-
nuto nei codici alcun esempio di notazione melodica, né risulta documentata l’esecu-
zione musicale dei testi. I rimatori della Magna Curia sono dunque poeti-scrittori e
non poeti-cantori; se pure, com’è certo, i loro testi – in sé concepiti per la lettura – so-
no stati talora rivestiti di note e cantati, si tratta comunque di uno sviluppo successivo,
distinto dal momento della creazione poetica.
Un caposcuola: Giacomo da Lentini La raffinata ed eclettica esperienza poetica di Giacomo da Len-
tini, detto per antonomasia il «Notaro», appare determinante, sia sul piano tematico che
tecnico-retorico, per gli sviluppi della produzione siciliana e della successiva produzio-
ne lirica in volgare italiano. Il primato di Giacomo, attestato dalla posizione privilegia-
ta riservata ai suoi testi negli antichi canzonieri toscani, è confermato dal riconosci-
mento del suo ruolo di caposcuola in un celebre passo del Purgatorio dantesco (XXIV,
56), ma soprattutto dalle inequivocabili, fittissime riprese di motivi, stilemi, forme me-
trico-strofiche del suo repertorio nei poeti posteriori, siciliani e toscani. Di lui ci resta-
no trentotto componimenti, in cui saggia si può dire tutte le potenzialità contenutisti-
che e formali che si realizzano in seguito nell’intera produzione poetica della scuola.
Tre generi metrico-tematici: la canzone Nel canzoniere di Giacomo, infatti, risultano già ben defi-
niti i tre generi metrico-tematici fondamentali della poesia siciliana: la canzone, la
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6. Siciliani e Siculo-toscani STORIA

canzonetta e il sonetto. La forma della canzone è riservata alle prove più alte e impe-
gnative nell’espressione lirica dell’amor cortese, sia dal punto di vista dell’elaborazione
retorica e stilistica, sia della complessità metrica, concettuale e sintattica [R T 6.3 ]. I
canzonieri più antichi e autorevoli concordano nell’assegnarle una posizione privile-
giata; ma sarà Dante nel De vulgari eloquentia a teorizzare il primato della canzone qua-
le forma più illustre della nostra lirica d’arte.
La canzonetta La canzonetta ripropone lo schema di base della canzone in una versione “allegge-
rita”, caratterizzata dall’impiego di versi brevi (per lo più settenari [R T 6.1 ], mai co-
munque eccedenti la misura dell’ottonario), da strutture metriche meno complesse, da
movenze sintattiche agili e piane, da un andamento ritmico più “facile” e melodico; è
la forma che meglio si presta alle realizzazioni poetiche di stile medio, in ogni caso
meno elevato rispetto alla canzone, con interessanti sviluppi in direzione dialogica e
narrativa e aperture all’inserzione di spunti popolareggianti, anche se non si registra
mai un effettivo distacco da modi espressivi alti e “cortesi”.
Il sonetto Il sonetto, quasi certamente un’invenzione di Giacomo da Lentini, è una forma
nuova e originale, destinata, come si sa, ad eccezionale fortuna in Italia e nelle lettera-
ture europee. Fra le varie ipotesi formulate nell’intento di ricostruirne la genesi, la più
accreditata è quella che fa derivare il sonetto dalla stanza di canzone, di cui presenta la
struttura bipartita in fronte (le quartine) e sirma (le terzine), secondo il modello delle
coblas esparsas (o stanze isolate) dei trovatori provenzali. Si tratta – ed è questo l’ele-
mento più innovativo – di una forma chiusa e fissa, cui fa riscontro una certa mobilità
tematica: presso i nostri primi lirici si trovano in maggior numero sonetti amorosi, ma
anche, talvolta, d’argomento religioso e morale; in particolare, la forma-sonetto è im-
piegata per il dibattito teorico e dottrinale nella corrispondenza poetica, secondo i
modi della «tenzone» a più voci [R T 6.2 ].
Le esperienze poetiche dei rimatori siciliani La denominazione tradizionale di “Siciliani”, un tem-
po estesa ai primi imitatori toscani, oggi «vale a designare i rimatori, di qualsiasi re-
gione italiana», che appartennero alla corte sveva di Sicilia «o le gravitarono attorno»
(Contini). Agli isolani, fra cui Giacomo da Lentini e il folto gruppo dei messinesi
(Guido delle Colonne, Tommaso di Sasso, Stefano Protonotaro, Mazzeo di Ricco), si
affiancano i “continentali”: Rinaldo d’Aquino, Pier della Vigna capuano, Giacomino
Pugliese, fino al nobile genovese Percivalle Doria (morto nel 1264), vicario di Man-
fredi in Romagna e nella Marca Anconitana, che fu poeta bilingue, in siciliano e in
provenzale. Poeti furono anche membri della casa imperiale, Federico II e suo figlio re
Enzo (così detto poiché ebbe dal padre il titolo di re di Sardegna).
Non è facile tracciare una cronologia interna della scuola data la scarsità delle atte-
stazioni documentarie, né isolare le singole personalità poetiche, data la forte impron-
ta unitaria di scuola. Sembra invece opportuno, per tracciare quanto meno alcune li-
nee di demarcazione fra le varie esperienze individuali, concentrarsi sulla prosecuzio-
ne dei due filoni che si dipartono dal canzoniere di Giacomo da Lentini. Possiamo co-
sì distinguere un filone aulico e illustre (o “tragico”), che trova la sua forma espressiva
di elezione nella canzone, coltivato soprattutto da Guido delle Colonne [R T 6.3 ], da

▍ L’autore Giacomo da Lentini

Al quarto decennio del secolo XIII risalgono i documenti d’archivio che attestano l’attività
pubblica del notaio Giacomo da Lentini, funzionario della corte imperiale di Federico II; è il so-
vrano stesso a dichiarare due privilegi del 1233 redatti «per manus Iacobi de Lentino, notarii et
fidelis nostri [per mano di Giacomo da Lentini, notaio e nostro fedele]»; un atto messinese del
1240 reca la firma del teste «Iacobus de Lentino domini Imperatoris notarius». Agli stessi anni si
ritiene di dover circoscrivere anche la sua attività letteraria, che sembra dunque coincidere con
gli inizi e con la fase di massima fioritura della scuola poetica siciliana.

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Duecento e Trecento

Pier della Vigna, il grande retore, e dal più tardo Stefano Protonotaro (attestato nel
1261), rimatori dalla cifra stilistica alta, ricercata e preziosa; e un filone più “leggero”,
talora colloquiale, “oggettivo” e popolareggiante, caratterizzato da uno stile mediano e
aperto a soluzioni assai varie (lamenti, contrasti dialogati, rappresentazioni più mosse,
vivaci e colorite), che appare particolarmente congeniale a poeti quali Rinaldo d’A-
quino e Giacomino Pugliese (peraltro attivi entrambi anche sul versante aulico).
Il Contrasto di Cielo d’Alcamo L’esito più splendido di questo filone popolareggiante o “mediocre” è
rappresentato tuttavia dal contrasto Rosa fresca aulentissima [R T 6.4 ], citato da Dante;
un componimento non lirico, per molti aspetti problematico e persino misterioso, che,
se da una parte si differenzia nettamente dai testi dei poeti di corte, dall’altra consente
significativi agganci con la produzione della scuola, in cui sono già presenti, come si è
detto, svariati componimenti dialogici.
Tramandato insieme ai testi dei rimatori siciliani senza indicazione d’autore, il
componimento fu attribuito a un Cielo d’Alcamo soltanto nel XVI secolo. A lungo
creduto un testo autenticamente popolare e più antico (De Sanctis apre la sua Storia
della letteratura italiana proprio con il Contrasto di Cielo), oggi, in virtù della raffinata
organizzazione metrica e formale, lo si ritiene opera di un autore certamente colto,
che impiegando con perfetta consapevolezza artistica la tecnica giullaresca «distingue e
contrappone ad arte, con intenti satirici e parodistici, la sfera aulica preziosa e quella
idiomatico-popolaresca, fermando nel dualismo delle battute due indimenticabili con-
tendenti amorosi» (Quaglio).
Tradizione manoscritta e “toscaneggiamento” dei testi Dei rimatori siciliani ci sono pervenuti
poco più di 150 componimenti, una trentina dei quali anonimi, i restanti suddivisi
(non senza ardue questioni di attribuzione) fra venticinque autori, molti dei quali
rappresentati da un solo testo. Si tratta di un corpus più ristretto di quello originale,
in quanto fin dal Duecento i testi furono dispersi in antologie collettive; per la stes-
sa ragione risulta pressoché impossibile ricostruirne l’ordinamento cronologico. Inol-
tre, per la più gran parte, i componimenti ci sono pervenuti non nella veste lingui-
stica originaria, ma in una redazione modificata dall’intervento di copisti toscani, che
già nella seconda metà del XIII secolo adattarono i tratti fonomorfologici degli ori-
ginali al proprio idioma mediante una capillare operazione di “toscaneggiamento”.
Fisionomia linguistica originaria: il siciliano illustre I testi vennero originariamente redatti in un
siciliano “illustre”, cioè un volgare siciliano depurato dai tratti dialettali e idiomatici
più vistosi: una nuova lingua d’arte, composita e letterariamente elaborata, modellata
sul provenzale e sul latino, onde renderla idonea ad accogliere i temi della poesia tro-
badorica e ad esprimerli con adeguata raffinatezza metrico-stilistica e retorica.
La “sicilianità” linguistica originaria è stata riconosciuta dagli studiosi in base a
svariati indizi di carattere morfosintattico e lessicale, ma in particolare attraverso l’a-
nalisi delle rime. I testi, nella veste offerta dai canzonieri toscani, presentano infatti
un gran numero di rime imperfette, rigorosamente escluse nel sistema metrico pro-
venzale, quali ogn’ora : pintura [R T 6.1 ], piacere : audire, aulitosa : usa [R T 6.3 ], che era-
no invece perfette negli originali (ogn’ura : pintura; piaciri : audiri; aulitusa : usa). Rime,
▍ L’autore Guido delle Colonne

Nulla sappiamo della biografia privata del giudice messinese Guido delle Colonne, mentre è docu-
mentata fra il 1243 e il 1280 la sua pubblica attività di funzionario del Regno di Sicilia, il che in-
duce a fissare la data di nascita intorno al 1210. L’esperienza poetica di Guido, consegnata a un esi-
guo canzoniere di cinque componimenti soltanto, si colloca verosimilmente fra il 1240 e il 1250,
coeva dunque, o meglio di poco posteriore a quella di Giacomo da Lentini. Appare infatti scarsa-
mente fondata l’assegnazione di Guido alla cosiddetta ‘seconda generazione’ dei rimatori siciliani,
proposta da alcuni studiosi; assai più convincente la sua «ascrizione al gruppo antico» (Contini).

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6. Siciliani e Siculo-toscani STORIA

dette “siciliane”, che i poeti toscani adotteranno considerandole originali e intenzio-


nali, insomma un prezioso artificio tecnico da imitare.
Il Libro Siciliano Una conferma decisiva proviene dagli esigui residui di una diversa tradizione ma-
noscritta conservati dal filologo cinquecentesco Giovanni Maria Barbieri. Nella sua
Arte del rimare Barbieri trascrisse da un codice del XIV secolo, per noi perduto, che
egli chiama Libro Siciliano, la versione non toscaneggiata di una canzone di Stefano
Protonotaro, Pir meu cori alligrari, e di alcuni frammenti di re Enzo e di Guido delle
Colonne; per questi ultimi il confronto con le versioni toscaneggiate permette di
misurare l’entità dell’intervento dei copisti.
Un processo storico-culturale decisivo In ogni caso, fu nella forma “toscaneggiata” che la nostra
prima lirica d’arte fu diffusa e imitata in Toscana (e altrove in Italia): Dante stesso leg-
geva i Siciliani come li leggiamo noi oggi, e per questo dovette credere che la ricerca
linguistica dei rimatori della Magna Curia si fosse spinta assai più avanti verso la con-
quista di quel volgare illustre unitario e “italiano”, di cui egli stesso insegue la traccia
nel De vulgari eloquentia.
Appare dunque evidente che la trasmissione della poesia siciliana «rappresenta in-
sieme il risultato di un trapianto tematico e linguistico da parte della lirica toscana
che in essa si riconosce e ad essa coscientemente si ricollega. Con la trasposizione to-
scana, favorita dalla natura aulica ed interregionale della lingua poetica siciliana, si
compie un processo storico-culturale decisivo per la nostra civiltà, in forza del qua-
le non solo i toscani si considerano i legittimi continuatori della prima esperienza di
linguaggio “illustre” e i Siciliani costituiscono la base di un ricco cammino lirico, ma
si forma e si salda una compatta e continua tradizione poetica in volgare “italiano”,
cioè non dialettale» (Quaglio).

Doc 6.1 Stefano Protonotaro, Pir meu cori alligrari

È questa la prima stanza della canzone di Stefano Protonotaro, il solo testo dei Siciliani
a noi pervenuto integro nella veste linguistica presumibilmente originale, prezioso docu-
mento di quel linguaggio poetico “illustre”, non dialettale, che tuttavia conserva le carat-
teristiche fonetiche della lingua siciliana di base. La lirica, esempio di stile aulico e som-
mamente elaborato, si apre sul ben noto motivo trobadorico del “canto per amore”, de-
rivato soprattutto da Bernart de Ventadorn (R T 6.3 , note ai vv. 34-36).

Pir meu cori alligrari,


Nota metrica chi multu longiamenti
Stanza di canzone com-
posta di endecasillabi e senza alligranza e joi d’amuri è statu,
settenari, con due piedi mi ritornu in cantari,
identici e sirma indivisa, 5 ca forsi levimenti
secondo lo schema abC
abC dDEeFF. da dimuranza turniria in usatu
di lu troppu taciri;
1-4 Pir meu... in e quandu l’omu ha rasuni di diri,
cantari: per rallegrare il
mio cuore, che molto a ben di’ cantari e mustrari alligranza,
lungo è stato privo di alle- 10 ca senza dimustranza
grezza (alligranza, proven- joi siria sempri di pocu valuri:
zalismo) e di gioia d’amore
(joi d’amuri, espressione dunca ben di’ cantar onni amaduri.
tecnica del linguaggio tro-
badorico), riprendo a can- in -ia del condizionale, co- 8-12 e quandu... onni stesso significato di cantari), senza manifestazione ester-
tare, a comporre canzoni. me siria al v.11) in abitudine amaduri: e quando qual- deve (di’,rafforzato,come al na (dimustranza) la gioia sa-
5-7 ca forsi... taciri: per- la tendenza a indugiare (di- cuno (l’omu, impersonale, è v. 12, da ben, che vale “certa- rebbe sempre di poco valo-
ché forse facilmente mute- muranza) in un silenzio un gallicismo) ha ragione mente, davvero”) cantare e re: dunque ben deve cantare
rei (turniria, forma siciliana troppo prolungato. di poetare (diri, dire, nello mostrare allegrezza, poiché ogni amatore.

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Duecento e Trecento

T 6.1 Giacomo da Lentini


Meravigliosamente 1230-1250
Poeti del Duecento Questa canzonetta, forse il componimento più famoso del «Notaro», come egli stesso si
a cura di G. Contini, firma nel congedo, è incentrata sul motivo del fenhedor, l’amante timido e «vergognoso»,
Ricciardi, travagliato da un ardore amoroso di tale intensità da destare sbigottimento e meraviglia,
Milano-Napoli 1960 che non osa manifestare il proprio sentire alla donna amata, quasi non ardisce neppure
di guardarla, sebbene poi la passione trapeli inevitabilmente dai segni esteriori. Ma se la
visione della donna reale lo getta in una condizione di doloroso smarrimento, in una
dimensione tutta interiore egli può dedicarsi all’estatica contemplazione della «figura»
di lei, dipinta nel suo cuore con mirabile esattezza. Nell’ultima stanza o congedo il
poeta, rivolgendosi alla «canzonetta novella» personificata, le affida l’incarico di espri-
mere la propria richiesta d’amore: ai toni patetici e sospirosi della confessione subentra-
no le lodi dell’amata, scandite in un crescendo di immagini gioiose, risplendenti di luce
chiara, fino alla leggerezza ammiccante della chiusa.

Meravigliosamente guardo ’n quella figura,


un amor mi distringe e par ch’eo v’aggia avante:
e mi tiene ad ogn’ora. 25 come quello che crede
Com’om che pone mente salvarsi per sua fede,
5 in altro exemplo pinge ancor non veggia inante.
la simile pintura,
così, bella, facc’eo, Al cor m’arde una doglia,
che ’nfra lo core meo com’om che ten lo foco
porto la tua figura. 30 a lo suo seno ascoso,
e quando più lo ’nvoglia,
10 In cor par ch’eo vi porti, allora arde più loco
pinta como parete, e non pò stare incluso:
e non pare di fore. similemente eo ardo
O Deo, co’ mi par forte. 35 quando pass’e non guardo
Non so se lo sapete, a voi, vis’amoroso.
15 con’ v’amo di bon core:
ch’eo son sì vergognoso S’eo guardo, quando passo,
ca pur vi guardo ascoso inver’ voi, no mi giro,
e non vi mostro amore. bella, per risguardare.
40 Andando, ad ogni passo
Avendo gran disio, getto uno gran sospiro
20 dipinsi una pintura, che facemi ancosciare;
bella, voi simigliante, e certo bene ancoscio,
e quando voi non vio, c’a pena mi conoscio,

Nota metrica ascondete : vedrite). 10-12 In cor... di fore: 21 voi simigliante: somi- copre, allora lì (loco) arde di
Canzonetta di tutti sette- sembra proprio che io vi gliante a voi. più e non può stare chiuso,
nari, disposti in sette stan- 1 Meravigliosamente: porti nel mio cuore, dipinta 22 vio: vedo. nascosto.
ze di nove versi ciascuna, con intensità tale da destare come realmente apparite, 24 v’aggia avante: vi ab- 39 risguardare: guardare
costituite da una fronte di stupore. eppure ciò non appare all’e- bia qui, davanti a me. di nuovo.
due piedi identici e da una 2 distringe: stringe, lega. sterno. 27 ancor... inante: sebbe- 42 ancosciare: respirare
sirma indivisa concatena- 4-6 Com’om... pintura: 13 co’... forte: come mi ne non veda davanti a sé con affanno, singhiozzare;
ta alla fronte dalla rima fi- come un uomo (un pittore) pare duro, crudele. (quello in cui crede, l’ogget- così nel v. successivo.
nale, secondo lo schema che osserva con attenzione 15 con’: come. to della sua fede). 43 bene: così tanto.
abc abc ddc. Sono siciliane un modello (altro exemplo) 17 ca pur... ascoso: che vi 28 doglia: dolore. 44 a pena mi conoscio: a
le rime dei vv. 3-6-9 ne dipinge un’immagine guardo soltanto (pur) di na- 30 a lo suo... ascoso: na- stento resto padrone di me
(ogn’ora : pintura : figura); fedele, somigliante. scosto. Ca, dal latino quia, è scosto, vicino al petto. stesso, sono quasi fuori di
30-33-36 (ascoso : incluso : 8 ’nfra lo core meo: forma meridionale che cor- 31-33 e quando... incluso: me.
amoroso), 48-51-54 (avete : dentro il mio cuore. risponde al che toscano. e quando più lo avvolge, lo

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6. Siciliani e Siculo-toscani T 6.1

45 tanto bella mi pare.

Assai v’aggio laudato,


madonna, in tutte parti
di bellezze ch’avete.
Non so se v’è contato
50 ch’eo lo faccia per arti,
che voi pur v’ascondete.
Sacciatelo per singa,
zo ch’eo no dico a linga,
quando voi mi vedrite.

55 Canzonetta novella,
va’ canta nova cosa;
lèvati da maitino
davanti a la più bella,
fiore d’ogni amorosa,
60 bionda più c’auro fino:
«Lo vostro amor, ch’è caro,
donatelo al Notaro
ch’è nato da Lentino.»

45 mi pare: mi appari. questo per finzione,per arti- 55 novella: appena com- nel provenzale aur.
47-48 in tutte... ch’avete : ficio (per arti), dato che voi posta, nuova. 61 caro: prezioso (pro-
dappertutto, cioè in ogni persistete nel nascondervi 56 va’ canta: vai a cantare. venzale car).
mio componimento poeti- (pur vale “continuamente”). 57 da maitino: a buon’o- 63 ch’è... Lentino: indica-
co, per (di) la vostra bellezza. 52-53 Sacciatelo... a ra, al mattino presto (pro- zione del cognome (che na-
Nel testo, bellezze è singola- linga: interpretate dai segni venzale maiti). sce, che si chiama “da Lenti-
re (siciliano billizzi). (per singa), ciò (zo) che non 60 auro: oro. La forma au- no”), oppure della patria
49-51 Non so se... v’a- riesco ad esprimere con le ro, che mantiene il dittongo (che è nato a Lentino o Len-
scondete: non so se vi han- parole (a linga). latino di aurum, è siciliana; lo tini), del poeta.
no raccontato che io faccia 54 vedrite: vedrete. stesso fenomeno si riscontra

Guida all’analisi
Una struttura unitaria, simmetricamente bilanciata Dal punto di vista strutturale e tematico il componi-
mento si sviluppa simmetricamente: nelle prime tre stanze predomina il motivo della con-
templazione interiore, nelle tre successive quello del travaglio amoroso; il collegamento fra
i due blocchi è assicurato dalla ripresa di passo e guardo, in ordine inverso, all’inizio della V
stanza, secondo la tecnica delle coblas capfinidas. Uno scarto piuttosto deciso, con un effetto
di alleggerimento tonale, si registra invece nel congedo (ultima stanza).
Un discorso poetico per immagini: la figura nel cuore e il foco ascoso In entrambe le sequenze il nucleo vi-
tale del discorso si raccoglie in un’immagine centrale fortemente significativa: dapprima la
pintura, la figura nel cuore (stanze I-III); poi il foco… ascoso (stanze IV-VI).
Tali immagini si richiamano alla tradizione provenzale e cortese: l’amore che non pare di
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Duecento e Trecento

fore (v. 12), ma che d’altra parte, paradossalmente forse, non può star celato, è un topos della
lirica occitanica; la stessa metafora del foco… ascoso (vv. 29-30), che arde più forte quanto più
si tenta di coprirlo, risale, attraverso innumerevoli riprese, alle Metamorfosi di Ovidio: (IV, 64:
«e quel fuoco nascosto, più lo si nasconde, più divampa», trad. M. Ramous). Nell’immagine
della pintura, tuttavia, si potrebbe ravvisare almeno in parte un’invenzione originale: se è ve-
ro che i trovatori di Provenza affermano ripetutamente di «portare nel cuore», di «vedere
con gli occhi del cuore» le fattezze della donna amata, l’elemento di novità sembra risiede-
re nel riferimento diretto e preciso all’arte figurativa (che ricorre in altri componimenti del
caposcuola siciliano).
La dimensione dell’interiorità Ad ogni modo, in questa lirica, proprio mediante l’immagine della pintura nel
cuore – una figura ben distinta dalla persona della donna – il poeta sembra alludere a uno
svincolarsi dell’esperienza d’amore dalla visione fisica (ritenuta comunque imprescindibile:
cfr. il sonetto Amor è uno desio [R T 6.2 ]), privilegiando la dimensione dell’interiorità, indi-
viduata come spazio “altro” e diverso, almeno potenzialmente sottratto alle contingenze
esterne; un tema qui accennato, che sarà sviluppato e approfondito dagli stilnovisti e da
Dante.
Uno stile “medio” per la forma della canzonetta Come si addice alla canzonetta, con i suoi versi brevi e le sue
strutture metriche semplificate rispetto alla canzone, il testo presenta una sintassi agile e pri-
va di complessità, un andamento ritmico melodico e cantabile, uno stile piano, che si vale di
un’ornamentazione retorica contenuta e di un lessico non eccessivamente ricercato. Tuttavia
il poeta non rinuncia alle raffinatezze di una composizione accurata, né agli ingegnosi gio-
chi verbali, cari al gusto della lirica illustre in volgare così come dell’elaborata prosa latina
dell’epoca.

n Pagina miniata del Codice


Palatino contenente liriche
della scuola siciliana.

Laboratorio 1 Descrivi la struttura complessiva del 2 In quali passaggi del testo si fa riferimen-
COMPRENSIONE componimento, individuando per ciascu- to esplicito alla figura della donna amata?
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE na stanza temi, motivi, immagini ricor- Quale immagine ne scaturisce?
renti e parole-chiave. In che cosa consiste
l’artificio delle coblas capfinidas?
116 © Casa Editrice Principato
6. Siciliani e Siculo-toscani T 6.2

T 6.2 Giacomo da Lentini


Amor è uno desio che ven da core 1230-1250
Poeti del Duecento Questo sonetto fa parte di una «tenzone» poetica sulla natura d’amore aperta da Jacopo
a cura di G. Contini, Mostacci, il quale pone la questione chiedendo ai colleghi di determinare che cosa sia
Ricciardi, amore («zo che è, da voi lo voglio audire», v. 13); a lui rispondono, nell’ordine, due tra
Milano-Napoli 1960 gli esponenti più autorevoli della scuola: Pier della Vigna e Giacomo da Lentini.
L’usanza di dibattere in rima le più varie e sottili questioni intorno alla dottrina della
fin’amor ovvero alla casistica amorosa, risale ai trovatori in lingua d’oc, così come il vo-
cabolo, che deriva dal provenzale tenson (“tenzone”, appunto: letteralmente “scontro ar-
mato, combattimento”; in senso figurato, “disputa in versi a due o più voci”).

Amor è uno desio che ven da core


per abondanza di gran piacimento;
e li occhi in prima generan l’amore
4 e lo core li dà nutricamento.

Ben è alcuna fiata om amatore


senza vedere so ’namoramento,
ma quell’amor che stringe con furore
8 da la vista de li occhi ha nascimento:

ché li occhi rapresentan a lo core


d’onni cosa che veden bono e rio,
11 com’è formata naturalemente;

e lo cor, che di zo è concepitore,


imagina, e li piace quel desio:
14 e questo amore regna fra la gente.

Nota metrica chi, prima di tutto (in prima), poeta) nasce dalla vista degli 12-14 lo cor... fra la gente:
Sonetto, secondo lo sche- a generare l’amore, (poi) il occhi (cioè dalla visione il cuore che accoglie, riceve
ma ABAB ABAB ACD cuore gli dà nutrimento, lo sensibile della persona ama- (è concepitore) ciò (zo, vale a
ACD. Rima identica ai vv. alimenta. ta per mezzo degli occhi,or- dire queste rappresentazioni
1-9; rima ricca ai vv. 2-4- 5-8 Ben è... nascimen- gani del senso corporeo del- visive), contempla l’imma-
6-8. to: può ben darsi che talvol- la vista). gine (imagina) della persona
ta (alcuna fiata) qualcuno 9-11 ché li occhi... natu- amata, e prova piacere nel
1-4 Amor... nutrica- (om, un uomo; gallicismo ralemente: poiché gli occhi desiderarla (li piace quel de-
mento:Amore è un deside- con valore impersonale) trasmettono al cuore la rap- sio): ed è questo l’amore che
rio che viene dal cuore (e ami senza vedere la persona presentazione delle qualità vive, che risiede nel mondo
nasce, deriva) dall’abbon- amata (so ’namoramento); ma positive e negative (bono e (fra la gente).
danza del grande piacere quell’amore che afferra con rio) di ogni cosa che vedono,
(che la vista dell’oggetto intensità sconvolgente (cioè secondo la sua conforma-
d’amore ispira); sono gli oc- il vero amore, intende il zione naturale.

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Duecento e Trecento

Guida all’analisi
Le strutture dell’argomentazione Il testo della lirica presenta una struttura logico-dimostrativa scandita in tre
tempi. Nella prima quartina il poeta enuncia ordinatamente, per frasi staccate, ognuna delle
quali coincide con un verso, i punti fondamentali della sua tesi: dapprima identifica la natu-
ra d’amore (v. 1), quindi l’origine e la causa del suo sorgere (v. 2), precisando successiva-
mente le modalità e le fasi del processo generativo (vv. 3-4). Nella seconda quartina apre
una digressione, escludendo che possa nascere un vero amore «senza vedere so ’namora-
mento» (v. 6): trasparente l’allusione polemica alla concezione dell’amore ses vezer (in lingua
d’oc «senza vedere», appunto), che la vida provenzale attribuisce a Jaufré Rudel R T 5.4 , can-
tore dell’amor de lonh. Chiusa la digressione con un verso-cerniera che rilancia l’argomenta-
zione (v. 8), legando le due parti del sonetto mediante la ripresa del termine-chiave occhi, il
poeta dedica lo spazio delle terzine alla puntuale dimostrazione delle enunciazioni conte-
nute nei primi quattro versi.
Fonti dottrinali del sonetto: il trattato De amore di Andrea Cappellano Dal punto di vista dei contenuti con-
cettuali, l’argomentazione condotta nel sonetto di Giacomo da Lentini ricalca puntual-
mente le formulazioni dottrinali di Andrea Cappellano nel trattato De amore, e precisamen-
te alcuni paragrafi dei capitoli iniziali del primo libro [R T 5.2 Doc 5.4 ], dove si trovano le
enunciazioni fondamentali in ordine alla natura e alla genesi del sentimento d’amore, che
costituiscono la base teorica dell’intera trattazione. Siamo di fronte a una delle più significa-
tive e precoci attestazioni dell’immensa fortuna del De amore in Italia e dell’influsso eserci-
tato dall’opera sulla nostra letteratura, dai lirici della scuola siciliana agli Stilnovisti e a Dan-
te, fino al Boccaccio.

Laboratorio 1 Il sonetto Amor è uno desio fa parte di una 4 Poni a confronto le tesi sostenute da Gia-
COMPRENSIONE «tenzone» poetica. Cosa significa? como da Lentini in questo sonetto sulla
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE
2 Enuncia per punti il contenuto del sonet- natura e la genesi del sentimento d’amore
to, evidenziando: a) qual è la tesi che Gia- con le enunciazioni di Andrea Cappellano
como si propone di dimostrare; b) quali sul medesimo argomento, contenute nei
argomenti adduce a sostegno della mede- primi capitoli del trattato De amore
sima. [R T 5.2 Doc 5.4 ], evidenziando puntual-
3 A che cosa allude il poeta nella seconda mente le corrispondenze fra i due testi.
quartina?
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6. Siciliani e Siculo-toscani T 6.3

T 6.3 Guido delle Colonne


Gioiosamente canto 1230-1250
Poeti del Duecento Diamo ora un esempio di canzone, la più illustre tra le forme metrico-strofiche elaborate
a cura di G. Contini, dai Siciliani, riservata a prove alte e impegnative sul piano sia dei contenuti sia dello stile.
Ricciardi, È il canto gioioso dell’amore finalmente corrisposto, della «disïanza / che vene a
Milano-Napoli 1960 compimento» dopo lungo travaglio, nel quale il poeta intreccia sapientemente, con rara
perizia tecnica e retorica, l’espansione incontenibile del sentimento dominante – la
gioia – alla lode della donna amata, entro preziose, musicalissime volute di «lucenti me-
tafore e di festanti comparazioni» (Quaglio). Su tutte spicca la similitudine centrale del-
la «fontana piena, / che spande tutta quanta», immagine di intensa vitalità e di limpida,
cristallina bellezza, in cui si fondono, identificandosi, la gioia d’amore e il canto che es-
sa stessa ispira.

Gioiosamente canto
e vivo in allegranza,
ca per la vostr’amanza,
madonna, gran gioi sento.
5 S’eo travagliai cotanto,
or aggio riposanza:
ben aia disïanza
che vene a compimento;
ca tutto mal talento – torna in gioi,
10 quandunqua l’allegranza ven dipoi;
und’eo m’allegro di grande ardimento:
un giorno vene, che val più di cento.

Ben passa rose e fiore


la vostra fresca cera,
15 lucente più che spera;
e la bocca aulitosa
più rende aulente aulore
che non fa d’una fera
c’ha nome la pantera,
20 che ’n India nasce ed usa.
Sovr’ogn’agua, amorosa – donna, sete
fontana che m’ha tolta ognunqua sete,
per ch’eo son vostro più leale e fino
che non è al suo signore l’assessino.

Nota metrica forme siciliane aulitusa e mento: bene abbia (aia è dente passione (ardimento, gazione in una lunga tradi-
Canzone di cinque stanze, amurusa). Le rime interne forma siciliana), cioè sia be- dal provenzale ardemen, vale zione di interpretazione
ciascuna di dodici versi, o rimalmezzo sono evi- nedetto, il desiderio che “fuoco amoroso”). simbolica delle “nature”
costituite da una fronte di denziate dal trattino; per giunge a realizzarsi. 13 passa: supera. degli animali, codificata nei
due piedi eguali di quattro ulteriori osservazioni cfr. 9-10 ca tutto... ven di- 14 cera: carnagione, in- repertori dei bestiari, che
settenari (vv. 1-8) e da le note al testo e la Guida poi: poiché tutto lo scon- carnato del volto. risale alla tarda antichità e
una sirma di quattro en- all’analisi. tento si trasforma (torna) in 15 spera: raggio di sole. perdura nel Medioevo lati-
decasillabi concatenata gioia, ogniqualvolta (quan- 16-18 e la bocca... d’una no e romanzo.
alla fronte da rima interna 3 ca per... amanza:poi- dunqua) è seguito dalla feli- fera: e la (vostra) bocca pro- 20 usa: vive.
(vv. 9-12), secondo lo ché per il vostro amore (per cità amorosa. Torna è fran- fumata manda un profumo 21-22 Sovr’ogn’agua...
schema abbc abbc la forma ca, si veda la nota al cesismo; anche nel francese (aulore) più profumato (au- ognunqua sete: o donna
(c)DDEE. Rima siciliana v. 17 di R T 6.1 ). moderno tourner ha il signi- lente), cioè più intenso, di amorosa, voi siete una fon-
ai vv. 16-20, ripresa dalla 5 travagliai cotanto: ficato di “volgere, girare”. quello che emana dalla tana che mi ha tolto qua-
rima interna al v. 21 (auli- soffersi tanto a lungo. 11 und’eo... ardimento: bocca di una fiera (che non fa lunque sete. Rima equivo-
tosa : usa : amorosa; nella 6 aggio riposanza: ho perciò io (eo, come ai vv. 5, d’una fera, lett. “di quanto ca fra gli omografi sete (siete,
veste linguistica origina- riposo, sono in pace. 23, 53) mi rallegro del mio non accada a una fiera”). La voce verbale) e sete sostanti-
ria rime perfette con le 7-8 ben aia... compi- grande fuoco, della mia ar- similitudine trova una spie- vo.

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Duecento e Trecento

25 Come fontana piena,


che spande tutta quanta,
così lo meo cor canta,
sì fortemente abonda
de la gran gioi che mena,
30 per voi, madonna, spanta,
che certamente è tanta,
non ha dove s’asconda.
E più c’augello in fronda – so’ gioioso,
e bene posso cantar più amoroso
23-24 per ch’eo... l’asses- 35 che non canta già mai null’altro amante,
sino: perciò io sono verso di uso di bene amare otrapassante.
voi più leale e fedele (fino,
vocabolo “tecnico” che
compendia diverse sfuma- Ben mi deggio allegrare
ture di significato attinenti
alle virtù cortesi – si veda il d’Amor che ’mprimamente
v. 40 – è un provenzalismo) ristrinse la mia mente
di quanto non sia al suo si-
gnore l’assessino; «erano 40 d’amar voi, donna fina;
chiamati assessini i fumatori ma più deggio laudare
di hascisc di una regione vi-
cina alla Persia, aderenti a voi, donna caunoscente,
una setta musulmana fa- donde lo meo cor sente
mosa per la sua dedizione al la gioi che mai non fina.
Veglio della Montagna»
(Quaglio). 45 Ca se tutta Messina – fusse mia,
28-32 sì fortemente... s’a- senza voi, donna, nente mi saria:
sconda: così fortemente (il
mio cuore) abbonda della quando con voi a sol mi sto, avenente,
gran gioia che porta in sé ogn’altra gioi mi pare che sia nente.
(mena), grazie a voi, madon-
na, così tanta che certamen-
te trabocca (è spanta), senza La vostra gran bieltate
trovar modo di celarsi.
34-36 più amoroso...
50 m’ha fatto, donna, amare,
otrapassante: più amorosa- e lo vostro ben fare
mente, cioè esprimendo nel m’ha fatto cantadore:
canto la pienezza dell’ardo-
re amoroso, di quanto possa ca, s’eo canto la state,
mai fare alcun altro amante, quando la fiore apare,
neppure colui «che porti al-
l’estremo la pratica dell’a- 55 non poria ubrïare
more perfetto» (Contini); di cantar la freddore.
otrapassante (“oltrepassan-
te”) è un provenzalismo. Così mi tene Amore – corgaudente,
Bernart de Ventadorn: ché voi siete la mia donna valente.
«Non è meraviglia s’io can-
to / meglio d’ogni altro can- Solazzo e gioco mai non vene mino:
tore, / perché più il cuore ad 60 così v’adoro como servo e ’nchino.
amore m’astringe / e me-
glio son disposto al suo co-
mando» (Non es meravelha
s’eu chan, vv. 1-4, trad. di A. trovatori di Provenza. Si ri- avenente: bella. gione fredda, in inverno. zione con un gesto di
Roncaglia). cordino almeno due cele- 51-52 e lo vostro... canta- 57 Così mi tene… cor- omaggio e di sottomissio-
37-40 Ben mi deggio... bri luoghi di Arnaut Daniel: dore: e l’eccellenza del vo- gaudente: così Amore mi ne che riproduce nell’am-
donna fina: devo veramen- «Di Roma non vorrei tener stro comportamento mi ha rende felice nel cuore (cor- bito della relazione amo-
te (ben) essere riconoscente l’impero, / né bramerei es- fatto poeta, mi ha indotto a gaudente, secondo il Conti- rosa i rituali del vassallag-
ad Amore che all’inizio co- serne fatto papa, / se non cantare d’amore. ni, è «un composto di gusto gio feudale. Nell’espres-
strinse il mio animo ad potessi tornare a colei / per 53 la state: d’estate, nella provenzale»). sione v’adoro si riconosce
amare voi, donna nobile e cui il cuore m’arde e mi si bella stagione (la notazione 59 Solazzo... mino: pia- peraltro un evidente ri-
cortese (fina, in rima equi- spezza» (Arietta, vv. 29-32, del v. successivo fa piuttosto cere e gioia non vengono chiamo all’esperienza reli-
voca con fina,“finisce”, al v. trad. di A. Roncaglia); «io pensare alla primavera). mai meno (mino è voce sici- giosa, ricorrente nella poe-
44). senza di lei non vorrei aver 54 la fiore apare: spunta- liana conservata). sia trobadorica e nella nar-
42 caunoscente: saggia. Lucerna / né la signoria del no i fiori (fiore femminile è 60 como: come. – e rativa cortese, che operano
46 nente mi saria: per me regno ove scorre l’Ebro» un gallicismo). ’nchino: e mi inginocchio la trasposizione del mistico
non sarebbe nulla.Variazio- (Ans que sim reston de bran- 55 non… ubrïare: non dinanzi a voi (inchino è usa- amore divino nell’ambito
ne e adattamento di un mo- chas, vv. 44-45). potrei dimenticare. to transitivamente). Il poe- profano e mondano dell’a-
dulo retorico ricorrente nei 47 a sol: da solo a sola. – 56 la freddore: nella sta- ta congeda la sua composi- mor cortese.

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6. Siciliani e Siculo-toscani T 6.3

Guida all’analisi
Armonie compositive e calcolate simmetrie strutturali Esempio di stile aulico e di raffinata elaborazione for-
male, la lirica presenta una struttura compatta e unitaria, grazie a un’articolazione interna
perfettamente equilibrata. Due nuclei tematici fondamentali (tra loro ovviamente collegati e
complementari) si sviluppano secondo un criterio di armonica alternanza: l’empito di gioia
per l’amore corrisposto – che si identifica fin dall’esordio, secondo un tópos caro ai poeti
provenzali, con il canto stesso del poeta – domina nella I e nella III stanza, mentre nella II e
nella IV trovano spazio le lodi dell’amata, del suo pregio incomparabile («donna fina», v. 40;
«donna caunoscente», v. 42) e della sua «gran bieltate» (v. 49), graziose variazioni sui modu-
li convenzionali mutuati dalla lirica occitanica, con felici tocchi coloristici e descrittivi
(«Ben passa rose e fiore / la vostra fresca cera, / lucente più che spera», vv. 13-15), talora av-
vivate da una metafora più ardita e originale («Sovr’ogni agua, amorosa – donna, sete / fon-
tana...», vv. 21-22). Al motivo della lode si affianca con naturalezza la professione di fedeltà
dell’amante, che implica dedizione assoluta al servigio amoroso (vv. 23-24). Tutte le linee te-
matiche fin qui evidenziate convergono poi nella V e ultima stanza, che le riprende e le fon-
de senza residui tra loro, chiudendo saldamente il componimento in armoniosa unità.
Similitudini “culte” e preziose Il discorso poetico si sviluppa prevalentemente secondo un procedimento ana-
logico-comparativo, attraverso un susseguirsi di metafore e similitudini. Accanto alle aggra-
ziate comparazioni con fenomeni naturali luminosi e primaverili, ne compaiono altre, più
ricercate, che evocano un immaginario favoloso di origine culta e libresca, tipicamente
medievale, come quella della pantera (vv. 16-20), che attinge all’antica tradizione dei bestia-
ri, già ampiamente rivisitata in chiave profana, o quella dei fumatori di hascisc (vv. 23-24),
che si richiama ai racconti leggendari intorno al Veglio della Montagna e alla setta degli «as-
sessini», riferiti, tra le altre fonti medievali, da Marco Polo in una famosa pagina del Milione.

Laboratorio 1 Riassumi il contenuto della canzone, 2 Indica mediante quali immagini e figure
COMPRENSIONE stanza per stanza, in brevi paragrafi, asse- retoriche il poeta da espressione nelle cin-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE gnando a ciascuno un titolo adeguato. que stanze ai motivi centrali della canzo-
Qual è la situazione amorosa rappresenta- ne: la gioia dell’amore corrisposto e la lo-
ta in questa lirica? de dell’amata.
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Duecento e Trecento

T 6.4 Cielo d’Alcamo


Contrasto 1231-1250
Poeti del Duecento Al periodo di massima fioritura della scuola siciliana appartiene questo «piccolo capola-
a cura di G. Contini, voro» (Folena), attribuito a un Cielo d’Alcamo (Cielo è diminutivo, probabilmente to-
Ricciardi, scanizzato, di Michele) dall’umanista Angelo Colocci nel Cinquecento. Si tratta di un
Milano-Napoli 1960 contrasto, ovvero di un componimento dialogato a due voci, che consta di ben 160 ver-
si suddivisi in 32 strofe, a ognuna delle quali corrisponde una battuta dei due perso-
naggi, Amante e Madonna, impegnati in una serrata e vivacissima schermaglia amorosa.
Le insistenti profferte dell’intraprendente corteggiatore, ora sfrontato e malizioso, ora
Nota metrica languido e galante, vengono dapprima sdegnosamente respinte dalla donna, che tuttavia
Strofe di cinque versi cia- a poco a poco incomincia a dar segni di cedimento, cercando vari pretesti per capitola-
scuna, formate di tre versi re onorevolmente: dopo aver tentato invano di strappare una formale promessa di ma-
alessandrini (cioè doppi
settenari) monorimi, con trimonio (vv. 66-70), si accontenta di un disinvolto giuramento di fedeltà sui Vangeli
il primo emistichio sem- (vv. 151-155) per giungere infine ad arrendersi, con uno scatto gioioso, liberatorio, che
pre sdrucciolo, e di due svela nella chiusa il carattere puramente ludico e fittizio della sua lunga resistenza: «A
endecasillabi a rima ba-
ciata, secondo lo schema lo letto ne gimo a la bon’ora, / che chissa cosa n’è data in ventura».
AAABB. Del testo riportiamo le prime quindici strofe e le due conclusive.
1-5 Rosa fresca... ma-
donna mia: o rosa fresca
profumatissima (aulentissi-
ma), che appari all’inizio
dell’estate, le donne ti desi- «Rosa fresca aulentis[s]ima ch’apari inver’ la state,
derano (oppure, ti invidia- le donne ti disiano, pulzell’ e maritate:
no, cfr. v. 44; si riferisce al
fiore, metafora della bellez- tràgemi d’este focora, se t’este a bolontate;
za amata), nubili (pulzelle) e per te non ajo abento notte e dia,
sposate; liberami, toglimi
(tràgemi) da queste fiamme 5 penzando pur di voi, madonna mia.»
amorose (focora), se è (este)
nella tua volontà, se lo vuoi;
a causa tua non ho pace «Se di meve trabàgliti, follia lo ti fa fare.
(abento) né di notte né di Lo mar potresti arompere, a venti asemenare,
giorno, poiché penso con- l’abere d’esto secolo tut[t]o quanto asembrare:
tinuamente (pur) a voi, mia
signora. avere me non pòteri a esto monno;
6-10 Se di meve... m’ari-
10 avanti li cavelli m’aritonno.»
tonno: se ti tormenti, ti af-
fanni (trabàgliti) per me (di
meve), è la follia che te lo fa «Se li cavelli artón[n]iti, avanti foss’io morto,
fare (cioè sei pazzo). Potresti
(= anche se tu potessi, per ca’n is[s]i [sì] mi pèrdera lo solacc[i]o e’l diporto.
assurdo) arare (arompere) il Quando ci passo e véjoti, rosa fresca de l’orto,
mare, seminare ai venti,
mettere insieme (asembrare) bono conforto dónimi tut[t]ore:
tutte le ricchezze di questo 15 poniamo che s’ajunga il nostro amore.»
mondo (d’esto secolo): non
potresti (pòteri) avere me a
questo mondo. Piuttosto «Ke ’l nostro amore ajùngasi, non boglio m’atalenti
(avanti, letteralmente “pri- se ci ti trova pàremo cogli altri miei parenti,
ma”,che ciò avvenga) mi ta-
glio (aritonno) i capelli (vale a guarda non t’ar[i]golgano questi forti cor[r]enti.
dire: mi faccio monaca). Como ti seppe bona la venuta,
11-15 Se li cavelli... il no-
stro amore: possa io morire 20 consiglio che ti guardi a la partuta.»
prima che tu ti tagli i capelli,
perché con essi (ca’n issi)
perderei il piacere e il dilet- «Se i tuoi parenti trova[n]mi, e che mi pozzon fare?
to.Quando passo di qui (ci) e Una difensa mèt[t]oci di dumili’ agostari:
ti vedo,rosa fresca del giardi- non mi toc[c]ara pàdreto per quanto avere ha ’n Bari.
no, mi doni sempre buon
conforto: accordiamoci (po- Viva lo ’mperadore, graz[i’] a Deo!
niamo) perché si congiunga 25 Intendi, bella, quel che ti dico eo?»
(s’ajunga, cioè si realizzi) il
nostro amore.
16-20 Ke ’l nostro… a la
partuta: che (Ke) il nostro

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6. Siciliani e Siculo-toscani T 6.4

amore si congiunga (ajùnga- «Tu me no lasci vivere né sera né maitino


si), non voglio che mi piac-
cia (m’atalenti): se mio padre Donna mi so’ di pèrperi, d’auro massamotino.
e gli altri miei parenti ti tro- Se tanto aver donàssemi quanto ha lo Saladino,
vano qui, stai attento (guar- e per ajunta quant’ha lo soldano,
da) che non ti prendano (t’a-
rigolgano, ti colgano) questi 30 toc[c]are me non pòteri a la mano.»
(= i parenti) che corrono
forte. Come ti riuscì facile
(ti seppe bona) la venuta, ti «Molte sono le femine c’hanno dura la testa,
consiglio di stare in guardia e l’omo con parabole l’adimina e amonesta:
alla partenza (partuta).
21-25 Se i tuoi... ti dico tanto intorno procàzzala fin che.ll’ ha in sua podesta.
eo?: se anche i tuoi parenti Femina d’omo non si può tenere:
mi trovano, che cosa posso- 35 guàrdati, bella, pur de ripentere.»
no farmi? Io ci metto una
difesa di 2000 augustali (ago-
stari): tuo padre non osereb- «K’eo ne [pur ri]pentésseme? davanti foss’io aucisa
be toccarmi neppure in
cambio di tutte le ricchezze ca nulla bona femina per me fosse ripresa!
che ci sono (per quanto avere [A]ersera passàstici, cor[r]enno a la distesa.
ha) in Bari.Viva l’imperato-
re,grazie a Dio! Capisci,bel- Aquìstati riposa, canzoneri:
la, quello che ti dico io (eo)? 40 le tue parole a me non piac[c]ion gueri.»
La difensa consisteva in una
«minaccia di multa a difesa
della propria persona» (Pa- «Quante sono le schiantora che m’ha’ mise a lo core,
squini), secondo una legge e solo purpenzànnome la dia quanno vo fore!
inclusa nelle Constitutiones
Regni Sicilie, promulgate da Femina d’esto secolo tanto non amai ancore
Federico II nel 1231 in quant’amo teve, rosa invidïata:
Melfi (e perciò dette anche
Costituzioni Melfitane), per 45 ben credo che mi fosti distinata.»
distogliere i sudditi dalle
vendette private. Natural-
mente la somma (difensa) «Se distinata fósseti, caderia de l’altezze,
che l’aggressore era tenuto a ché male messe fòrano in teve mie bellezze.
pagare era tanto più ingente Se tut[t]o adivenìssemi, tagliàrami le trezze,
quanto più elevata la condi-
zione dell’aggredito. Gli au- e consore m’arenno a una magione,
gustales, coniati da Federico 50 avanti che m’artoc[c]hi ’n la persone.»
II nello stesso anno 1231,
erano monete d’oro di
grande valore: duemila au- «Se tu consore arènneti, donna col viso cleri,
gustali rappresentavano una
somma decisamente cospi- a lo mostero vènoci e rènnomi confleri:
cua, cosicché appare evi- per tanta prova vencerti fàralo volonteri.
dente che Amante vuole Conteco stao la sera e lo maitino:
darsi arie di gran personag-
gio. L’allusione alle ricchez- 55 besogn’è ch’io ti tenga al meo dimino.»
ze di Bari, città prospera e
fiorente di attività commer-
ciali al tempo degli Svevi, aurea, il massamutino, co- Siria dal 1174 al 1193, per- le le domina e le ammoni- dito su tutto il genere fem-
era proverbiale; non è per- niata dai califfi Almoadi, sonaggio storico divenuto sce (amonesta): tanto (l’uo- minile)! Ieri sera passasti di
tanto fondata la proposta di che regnavano sulle genti leggendario in Occidente, mo le sta) intorno (= alla qui, correndo a gran velo-
localizzare il dialogo nella dell’Africa settentrionale e ricordato con ammirazione donna) dandole la caccia cità (a la distesa). Prenditi ri-
stessa Bari. La frase esclama- della regione iberica del- per la sua saggezza nel No- (procàzzala) finché riesce poso, canterino, giullare
tiva Viva lo’mperadore, ecc. (v. l’Andalusia). La donna ri- vellino, nel Convivio, nella ad averla in suo potere (po- (canzoneri): le tue parole a
24), che presuppone ancor batte alle vanterie del cor- Divina Commedia (If IV desta). La femmina non può me non piacciono affatto
vivo Federico II, insieme al- teggiatore rincarando la 129) e nel Decameron (I, 3); il resistere all’uomo (oppure: (gueri).
la citazione della legge della dose: sono una gran dama, soldano è il Sultano per an- non può astenersene, non 41-45 Quante sono... mi
difensa, permette di circo- dalle sterminate ricchezze; tonomasia all’epoca, cioè può farne a meno): guarda fosti distinata: quanti sono
scrivere l’epoca di composi- anche, metaforicamente, ancora quello d’Egitto, in bene, o bella, di non dover- i tormenti (schiantora, gli
zione del Contrasto fra il dal pregio incomparabile. questo caso, probabilmente, tene poi pentire! schianti) che mi hai messo
1231 e il 1250. 28-30 Se tanto... a la ma- il contemporaneo. Prover- 36-40 K’eo ne... non nel cuore (= che provo) an-
26-27Tu me no lasci... no: se mi donassi tante ric- biali le favolose ricchezze piaccion gueri: che io che soltanto (e solo) pensan-
massamotino: tu non mi chezze quante ne possiede dei sovrani islamici. (K’eo) me ne dovessi poi doci di giorno quando va-
lasci vivere (= non mi lasci il Saladino, e per giunta 31-35 Molte sono... de pentire? possa io essere uc- do fuori di casa! (è sottinte-
in pace) né la sera né il mat- quante ne possiede il Sulta- ripentere!: sono molte le cisa piuttosto (davanti,“pri- so che di notte le sofferenze
tino: io sono una donna di no (soldano), non potresti donne che hanno la testa ma”) che alcuna donna vir- amorose si fanno più acute).
pèrperi (monete d’oro bizan- toccarmi (neppure) la ma- dura (cioè, che sono ostina- tuosa fosse rimproverata a Prima d’ora non avevo mai
tine), d’oro massamotino! (al- no. Il Saladino è Salah-ed- te, che fanno resistenza), causa mia (in quanto, ce- amato una donna in questo
lusione a un’altra moneta din, sultano d’Egitto e della ma l’uomo con le sue paro- dendo, avrei gettato discre- mondo (d’esto secolo) quan-

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Duecento e Trecento

«Boimè tapina misera, com’ao reo distinato!


Geso Cristo l’altissimo del tut[t]o m’è airato:
to amo te, rosa desiderata
concepìstimi a abàttare in omo blestiemato.
(invidïata): credo proprio Cerca la terra ch’este gran[n]e assai,
che tu sia destinata a me. 60 chiù bella donna di me troverai.»
46-50 Se distinata... ’n la
persone: se fossi destinata a
te, cadrei in basso, precipite- «Cercat’ajo Calabr[ï]a, Toscana e Lombardia,
rei dall’altezza (della mia ec-
celsa condizione), poiché Puglia, Costantinopoli, Genoa, Pisa e Soria,
sarebbero (fòrano) sprecate Lamagna e Babilonïa [e] tut[t]a Barberia:
(male messe, male impiegate)
con te le mie bellezze. Se donna non [ci] trovai tanto cortese,
tutto questo mi accadesse 65 per che sovrana di meve te prese.»
(tanto adivenìssemi), mi ta-
glierei le trecce, e mi farei
suora (consore m’arenno, «Poi tanto trabagliàsti[ti], fac[c]ioti meo pregheri
“rendo” al presente indica- che tu vadi adomàn[n]imi a mia mare e a mon peri.
tivo per il condizionale
«renderei») in un convento Se dare mi ti degnano, menami a lo mosteri,
(magione, letteralmente “ca- e sposami davanti da la jente;
sa”) piuttosto che lasciarmi
toccare da te (avanti che m’ar- 70 e poi farò le tuo comannamente.»
tocchi) nella persona.
51-55 Se tu consore... al
meo dimino:se tu ti fai suo- «Di ciò che dici, vìtama, neiente non ti bale,
ra, donna dal viso luminoso, ca de le tuo parabole fatto n’ho ponti e scale.
chiaro (cleri), vengo al mo- Penne penzasti met[t]ere, sonti cadute l’ale;
nastero e mi faccio frate
(confleri, confratello): lo farò e dato t’ajo la bolta sot[t]ana.
volentieri, per vincerti in 75 Dunque, se po[t]i, tèniti villana.»
una prova così ardua, di
fronte a una resistenza così
accanita (per tanta prova). «En paura non met[t]ermi di nullo manganiello:
Con te starò (stao, presente
con valore di futuro o di istòmi ’n esta grorïa d’esto forte castiello;
condizionale) la sera e il prezzo le tuo parabole meno che d’un zitello.
mattino: è indispensabile
che io ti tenga in mio potere Se tu no levi e va’tine di quaci,
(dimino,“dominio”). 80 se tu ci fosse morto, ben mi chiaci»
56-60 Boimè... di me tro-
verai: ohimè povera sventu-
rata, quale infelice destino è
il mio! (com’ao reo distinato, [La disputa continua per un bel pezzo, con ritorni e gustose variazioni sui motivi dei versi prece-
letteralmente “come ho in- denti. I due contendenti sembrano ormai disposti a gesti estremi: a un certo punto Madonna mi-
felice destino”). O altissimo naccia addirittura di gettarsi in mare piuttosto che cedere (v. 120); Amante replica che si tufferà an-
Gesù Cristo, sei (e’ = ei) del
tutto adirato con me: mi hai ch’egli alla sua ricerca «per tutta la marina», prospettando una macabra scena di necrofilia nel caso
fatta nascere (concepìstimi) la trovi morta annegata; alle reiterate richieste di matrimonio trae un «cortel novo» (v. 142) ed esor-
perché mi imbattessi in un ta la donna a scannarlo; e così via, fino al brillante colpo di scena conclusivo: all’ennesima provoca-
uomo sacrilego, bestem- zione di lei («se non ha’ le Vangelie, che mo ti dico”Jura”! / avere me non puoi in tua podesta», vv.
miatore (blestiemato)! Per-
corri, esplora la terra, che è 149-150), l’inesauribile Amante tira fuori a sorpresa un esemplare del libro sacro, trafugato in chie-
tanto grande: troverai una sa approfittando dell’assenza del parroco.]
donna più bella di me.
61 Cercat’ajo: ho ricer-
cato, esplorato. Segue un tormentato (trabagliàstiti), ti tèniti villana: di tutto quel- (oppure: reggiti in piedi, re- mi chiaci) che tu ci restassi
iperbolico elenco, alquanto prego (faccioti meo pregheri, ti lo che dici, vita mia, niente sisti se ci riesci, villana). morto.
eterogeneo, di città e di re- faccio la mia preghiera) di ti giova, ti vale (ti bale), poi- 76-80 En paura... ben mi 151-155 Le Vangelïe... in
gioni, vicine e lontane: Sorìa andare a chiedermi (vadi ché (ca) delle tue parole ne chiaci: non mi metti paura suttilitate: iVangeli, mia ca-
è la Siria, Lamagna la Ger- adomànnimi, doppio impe- ho fatto ponti e scale (cioè, per nessuna macchina da ra? ma io li porto con me,
mania (Alemagna); Babi- rativo secondo un modulo secondo un modo prover- guerra (manganiello, dimi- addosso (in seno); li ho presi
lonïa indica il Cairo, oppure sintattico siciliano), s’inten- biale siciliano, neppure me nutivo di màngano, antico al monastero (non c’era il
Baghdad; Barberìa è la terra de in sposa, a mia madre e a ne ricordo: me ne infi- ordigno per il lancio di prete, patrino): ti giuro su
dei Bèrberi, vale a dire l’A- mio padre. Se si degnano di schio). Hai creduto di met- proiettili): me ne sto nella questo libro di esserti sem-
frica settentrionale (dal Ma- darmi a te, conducimi al tere le penne,di volare in al- gloriosa sicurezza (grorïa) di pre fedele, di non mancarti
rocco allaTunisia). monastero (cioè alla chiesa) to, (ma) ti sono cadute le ali; questo ben munito castello; mai (mai non ti vegno meno).
65 per che... te prese: per e sposami pubblicamente, e ti ho dato la botta di sotto stimo le tue parole meno Dai compimento al mio
cui ti ho scelta, ti ho presa (te dinanzi a tutti (davanti da la in su (bolta sottana, cioè il (di quelle) di un bambino desiderio (talento) per ca-
prese) come mia sovrana. jente, la gente); e poi farò colpo decisivo). Dunque, se (zitello). Se tu non ti levi e rità, poiché l’anima (arma)
66-70 Poi tanto... coman- quello che comandi. puoi, continua ad essere non te ne vai di qua (quaci), mi si consuma.
namente: poiché ti sei tanto 71-75 Di ciò che dici... una villana, una contadina mi piacerebbe proprio (ben

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6. Siciliani e Siculo-toscani T 6.4

156-160 Meo sire... in ven- «Le Vangel[ï]e, càrama? ch’io le porto in seno:
tura: mio signore, dal mo- a lo mostero présile (non ci era lo patrino).
mento che mi hai giurato, io
m’infiammo tutta quanta Sovr’esto libro jùroti mai non ti vegno meno.
(d’amore): sono qui, alla tua Arcompli mi’ talento in caritate,
presenza, non mi difendo da
voi (= da te);se ti ho disprez- 155 ché l’arma me ne sta in sut[t]ilitate.»
zato (minespreso àjoti), per-
donami (merzé), mi arrendo
a voi (= a te).Andiamo a let- «Meo sire, poi juràstimi, eo tut[t]a quanta incenno.
to, subito (a la bon’ora), poi- Sono a la tua presenz[ï]a, da voi non mi difenno.
ché questa cosa ci è concessa
per nostra fortuna! S’eo minespreso àjoti, merzé, a voi m’arenno.
A lo letto ne gimo a la bon’ora,
160 ché chissa cosa n’è data in ventura.»

Guida all’analisi
Gli antecedenti letterari del Contrasto: la “pastorella” La situazione-base, così come l’esito, tutto sommato pre-
vedibile, dell’amorosa tenzone fra Amante e Madonna non mancano certo di precedenti,
anche illustri, nella tradizione letteraria medievale. In particolare, risaltano le evidenti affinità
con il genere delle pastorelle provenzali, componimenti dialogati che sceneggiano un ritua-
le di seduzione a schema sostanzialmente fisso, con alcune varianti anch’esse codificate: in
uno scenario boschereccio e rusticano, che talora si tinge di colori idillici, un cavaliere in-
contra appunto una bellissima pastorella e s’infiamma subitaneamente per lei di un prepo-
tente desiderio sensuale; alle esplicite richieste amorose dell’aristocratico corteggiatore la
fanciulla, ritrosa e diffidente, gelosa almeno in apparenza del proprio onore, oppone un de-
ciso rifiuto, in toni polemici e/o supplichevoli, talora resistendo vittoriosamente, più spesso
arrendendosi da ultimo, per amore o per forza, alle voglie del cavaliere.
Il Contrasto bilingue di Raimbaut de Vaqueiras L’accostamento più convincente, tuttavia, sembra quello propo-
sto con il Contrasto bilingue di un trovatore di Provenza, Raimbaut de Vaqueiras, composto
intorno al 1190. In uno scenario non più campestre ma cittadino, si affrontano nel duello
verbale un giullare provenzale (e un giullare è verosimilmente Amante nel Contrasto di Cie-
lo), che si esprime in lingua d’oc facendo uso dei raffinati stilemi della lirica cortese, e una
donna genovese che risponde nel proprio dialetto con ruvida immediatezza, opponendo al-
la suadente eloquenza dell’innamorato-poeta un implacabile diniego. Appare chiaro che
l’effetto ricercato nella singolare composizione di Raimbaut è quello dell’inusitata e stri-
dente collisione linguistica (e stilistica) tra due livelli sociali e culturali diversi, fra due psico-
logie, due mondi insomma, ben definiti, distanti e inconciliabili, ognuno dei quali riverbera
sull’altro una luce bizzarra, si direbbe straniante, con esiti parodistici e caricaturali.
Una rielaborazione complessa e originale A differenza di quanto si rileva nei componimenti sopra ricordati, nel
Contrasto di Cielo i due personaggi non appartengono a categorie socio-culturali diverse,
né, soprattutto, appaiono caratterizzati, sul piano della lingua e dello stile, da due registri o
livelli contrapposti. Si può affermare che Amante e Madonna parlino la stessa lingua, affron-
tandosi ad armi pari in una “recita” consapevole, orchestrata dall’autore con eccezionale abi-
lità tecnica: entrambi ricorrono a forme del linguaggio alto di stampo cortese, alternandole
incessantemente ad espressioni popolaresche e dialettali. L’intrecciarsi dei due registri lin-
guistici risponde a una ben precisa intenzione espressiva, che mira ad effetti parodistici di ir-
resistibile comicità. Ciascuno dei due antagonisti appare impegnato nel tentativo di ingan-
nare l’altro mediante una strategia di simulazione che peraltro non riesce a reggere fino in
fondo, quasi fosse costretto inevitabilmente a tradirsi, a togliersi la maschera, rivelando a
tratti la sua autentica personalità e le sue reali intenzioni. Il lettore (o l’ascoltatore; forse lo
spettatore, se veramente la vivacità mimica e gestuale del dialogo rimanda a una fruizione
teatrale) è chiamato a gustare un gioco sottile e malizioso di equivoci e di travestimenti, che
sprigiona tutta la sua carica di ironia e di giocosa ambiguità attraverso i continui ammicca-
menti e l’enfasi iperbolica del linguaggio.
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Duecento e Trecento

Doc 6.2 Il Contrasto bilingue di Raimbaut de Vaqueiras

Raimbaut de Vaqueiras, Raimbaut de Vaqueiras, trovatore provenzale attivo fra il 1180 e il 1205, fu per lunghi anni
Domna, tant vos ai preia- in Italia, legandosi stabilmente, dopo un breve soggiorno a Genova presso Obizzo II Mala-
da, trad. di A. Roncaglia,
in Storia della letteratura spina, al marchese Bonifacio I del Monferrato. Al seguito di Bonifacio, eletto nell’autunno
italiana,I, Garzanti, Mi- del 1201 capo della IV crociata, partì per l’Oriente, dove partecipò a diversi fatti d’arme e
lano 1965 trovò probabilmente la morte.
Fra i suoi componimenti più celebri, il Contrasto bilingue (datazione presunta: 1190-
1194) di cui riportiamo l’ultima strofa e le due tornadas; secondo il Roncaglia, «il primo
esperimento d’impiego di un nostro dialetto in una composizione poetica regolare, entro
gli schemi di un’arte matura e raffinata» (R2.2). Occorre tuttavia osservare che nel Contra-
sto uno dei nostri idiomi municipali, cioè l’antico dialetto genovese, risulta adibito essen-
zialmente a fini espressivi di realismo comico, appunto in quanto volgare privo di prestigio
letterario da contrapporre al linguaggio aulico della lirica provenzale.
Nota metrica
Sei strofe singulars (cioè – Jujar, to proenzalesco, 85 Domna, en estraing cossire
che, pur ripetendo il s’eu aja gauzo de mi, m’avez mes et en esmai;
medesimo schema, pre- non prezo un genoì. mas enquera·us preiarai
sentano diverse uscite di
rima) di 14 versi ciascu- No t’entend plui d’un Toesco que voillaz qu’eu vos essai
na, tutti settenari tranne 75 O Sardo o Barbarì, si cum Provenzals o fai,
il quadrisillabo finale, ni non ò cura de ti. 90 quant es pojatz.
secondo lo schema abb,
abb, cb, cbbbbd, seguite Voi t’acaveilar co mego?
da due tornadas (conge- Si·l saverà me’ marì, – Jujar, no serò con tego,
di) analogamente for- mal plait averai con sego. poss’asì te cal de mi:
mate di cinque settenari
e un quadrisillabo, se- 80 Bel messer, ver e’ ve dì: meill varà, per sant Martì,
condo lo schema no vollo questo latì; s’andai a ser Opetì
cbbbbd. fraello, zo ve afì. 95 que dar v’à fors ’un roncì
73 genoì: il genoino era Proenzal, va, mal vestì, car sei jujar.
una moneta genovese di largaime star!
scarso valore.
94 ser Opetì: il signor
Obizzino è il marchese – Giullare, il tuo provenzale, s’io di me stessa abbia gioia, non pregio un genoino;
Obizzo II Malaspina, allo-
ra protettore del poeta, non ti capisco più che un tedesco o un sardo o un berbero, e non ho cura di te. Ti vuoi
che compose il Contrasto accapigliare con me? Se lo verrà a sapere mio marito, avrai con lui mala lite. Bel mes-
mentre era ospite alla sua sere, io vi dico il vero: non voglio saperne di questi discorsi. Fratello, ve lo assicuro.Vat-
corte. Il testo è dunque
certamente anteriore al tene, provenzale mal vestito, lasciami stare!
1094, data di morte del Donna, in insolito affanno e pena m’avete messo; ma ancora vi pregherò che voglia-
marchese. te ch’io vi provi come un provenzale sa fare all’amore, quando è alla monta.
– Giullare, non sarò con te, poiché così di me ti cale: meglio varrà, per san Martino,
se ve ne andate dal signor Opizzino, che vi donerà forse un ronzino, ché siete giullare.

Laboratorio 1 Chi sono i due protagonisti-contendenti? 4 Per quali ragioni lo si può definire un te-
COMPRENSIONE Quali i rispettivi atteggiamenti e inten- sto parodistico?
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE zioni? In qual luogo si svolge la loro 5 Ricerca le espressioni caratteristiche del
schermaglia amorosa? Quale ne sarà l’esi- “rinfaccio” o ritorsione verbale, cioè le
to? riprese da una battuta all’altra delle me-
2 In quale tradizione letteraria si inserisce il desime parole e immagini; individua
Contrasto? Per quali aspetti si distacca dai inoltre le coblas capfinidas. In questo singo-
propri antecedenti e modelli? lare contesto, qual è la funzione espressiva
3 In base a quali riferimenti interni è possi- di tali artifici tecnici?
bile circoscriverne la datazione a un de-
terminato periodo?
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6. Siciliani e Siculo-toscani STORIA

6.2 I rimatori siculo-toscani


Dalla Sicilia alla Toscana Verso la metà del Duecento, l’eredità poetica dei Siciliani viene raccolta da
una folta schiera di rimatori che operano nell’ambito della vivace e policentrica civiltà
comunale dell’Italia centrale, soprattutto nelle città della Toscana. La prima ripresa –
decisiva, come si è detto, per la nostra tradizione letteraria – del repertorio tematico e
formale siciliano al di fuori della cerchia federiciana si realizza dunque su un terreno
assai diverso da quello d’origine, entro una realtà socio-politica in movimento, ben più
libera e variegata, caratterizzata dalla pluralità e dall’autonomia delle iniziative cultura-
li, dal dinamismo individualistico del ceto dominante, borghese e mercantile, incessan-
temente agitata dalle accese rivalità tra le opposte fazioni cittadine e dai conflitti, non
di rado cruenti, fra Comuni avversari (R 3.1).
Una “scuola” toscana? Pertanto la compatta esperienza dei rimatori siciliani si dirama e per così dire si
frantuma, rifrangendosi variamente in una mobile, diffusa costellazione di esercizi ed
esperimenti poetici non facilmente riconducibili, al di là della provenienza geografica, a
un denominatore comune. Da tempo infatti si considera superata la definizione di
“scuola toscana”, in quanto i poeti che vi appartengono non costituirono mai un grup-
po omogeneo, definito da conformi scelte di poetica e di stile, quale era stata la scuola
siciliana, e quale sarà poi la cerchia degli stilnovisti.
I Siculo-toscani Sembra dunque opportuno ricorrere alla più convincente, per quanto generica, in-
titolazione di «Siculo-toscani», che consente di individuare con esattezza nella com-
posita produzione dei rimatori di Toscana almeno due elementi comuni: a) la base di
partenza, per così dire, cioè l’acquisizione di temi e modi della lirica siciliana; b) la tra-
sposizione linguistica dal siciliano illustre al toscano.
Influsso dei Siciliani e apporti innovativi L’imitazione, più o meno fedele, dei modelli siciliani ap-
pare evidente nella ripresa di stilemi, tecniche espressive, forme metriche, nonché di
temi, motivi e situazioni convenzionali d’amor cortese; ciò non toglie che per la
maggior parte i poeti toscani manifestino l’esigenza di tracciare altre linee di ricerca,
ampliando il repertorio tematico e sperimentando nuove soluzioni sul piano forma-
le, in sintonia con la mentalità, le esperienze e gli interessi individuali, che a loro vol-
ta risentono delle sollecitazioni provenienti dal diverso clima storico-sociale. Di
estrazione borghese, cittadini dei liberi Comuni impegnati nella fondazione di una
cultura di impronta laica e civile che si avvale in modo spregiudicato e autonomo
dell’eredità del passato, appassionatamente coinvolti nelle lotte di parte, questi poeti
aprono nei loro versi ampi spazi al dibattito e alla riflessione morale, ma soprattutto ai
temi politici, all’intervento e alla polemica, insomma alla cronaca e alla storia con-
temporanea [R T 6.5 ], che per la prima volta fanno il loro ingresso nella nostra tradi-
zione poetica.
Inedite riprese dei modelli provenzali Anche per questo i rimatori siculo-toscani non si limitano a
raccogliere l’eredità della lirica di Provenza così come si presentava attraverso il filtro
interpretativo dei Siciliani, ma si riallacciano direttamente ai modelli occitanici, attin-
gendo in particolare alle zone del repertorio trobadorico rigorosamente escluse (o co-
munque relegate ai margini) dai poeti della corte sveva (R 6.1), cioè alla vasta produ-
zione d’argomento morale e politico, che si esprimeva soprattutto nei modi della ten-
zone e del sirventese, fitti di riferimenti all’attualità, aperti al linguaggio della polemi-
ca, della satira, dell’invettiva.
Nasce così il nuovo genere della canzone etico-politica, che trova – almeno per
ora, in attesa delle altissime prove dantesche – il suo esito più notevole nel capolavoro
poetico di Guittone, Ahi lasso, or è stagion de doler tanto [R T 6.5 ]. Inoltre, come già si è
accennato, anche sul piano del linguaggio e dello stile non pochi fra i poeti di Toscana,
soprattutto Guittone e i suoi seguaci, si avventurano ora nei territori meno esplorati

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Duecento e Trecento

dai Siciliani, saggiando le possibilità del trobar clus e dell’asperitas (in latino, “asprezza”),
di una scrittura poetica ardua e “difficile”, talora ai limiti dell’oscurità e della non-leg-
gibilità.
I centri di produzione e le esperienze poetiche La fioritura della più antica lirica toscana – riflet-
tendo in certo modo le mutevoli vicende politiche del secondo Duecento – appare
caratterizzata dalla pluralità dei centri di produzione. Sono rappresentate tutte le mag-
giori città di Toscana: Lucca, dove opera Bonagiunta; Pistoia, Pisa, Siena; Arezzo, patria
di Guittone (R 6.3); numerosi i fiorentini, tra cui spiccano Chiaro Davanzati, Monte
Andrea, Dante da Maiano e un’unica, misteriosa poetessa, la Compiuta Donzella.Ver-
so la fine del secolo, all’irresistibile ascesa di Firenze fa riscontro il declino dei centri
“provinciali”, sui quali il Comune fiorentino impone la propria egemonia politica e
insieme culturale; a Firenze si concentrano allora le esperienze letterarie più significa-
tive, e lo Stilnovo imprime nuovamente all’attività poetica un forte segno unitario.
In ogni caso, è possibile rintracciare nel panorama frastagliato e tutt’altro che
uniforme della lirica pre-stilnovistica in Toscana due principali linee di tendenza, le
quali peraltro, in molti punti, non mancano di intersecarsi e sovrapporsi: da una parte
lo sperimentalismo, il gusto del poetare aspro e difficile di Guittone e dei guittoniani
(R 6.3); dall’altra una ripresa più fedele dei Siciliani e del trobar leu, che si riconosce
piuttosto nell’esperienza, cronologicamente anteriore di parecchi anni, del lucchese
Bonagiunta, «l’autentico trapiantatore dei modi siciliani in Toscana» (Contini).
Bonagiunta da Lucca Di Bonagiunta Orbicciani non possediamo, in pratica, notizie biografiche. Co-
me si deduce dal titolo di «ser» che gli attribuisce il Canzoniere Vaticano, esercitò la
professione di notaio; si riferiscono a lui documenti d’archivio compresi fra gli anni
1242 e 1257, il che permette di collocare la sua nascita intorno al 1220. Poiché figura

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6. Siciliani e Siculo-toscani STORIA

tra i personaggi della Commedia, è certo che sia morto prima del 1300. Di lui posse-
diamo circa 40 componimenti, fra cui 11 canzoni e una ventina di sonetti. La sua poe-
sia riecheggia in forme sobrie e limpidamente aggraziate, dalle cadenze melodiche, i
modi della lirica siciliana, soprattutto di Giacomo da Lentini, mostrando una netta
predilezione per le tonalità mediane e cantabili, senza concessioni al rimare artificioso
e complicato della maniera guittoniana.
Chiaro Davanzati Il fiorentino Chiaro Davanzati, combattente guelfo a Montaperti, fu capitano del
popolo nel 1294; morì tra il 1303 e il 1304: della sua vita non sappiamo quasi nient’al-
tro. Il suo vasto canzoniere, dopo quello di Guittone il più cospicuo del Duecento, è
consegnato quasi per intero al solo Codice Vaticano, che include 61 canzoni e ben più
di 100 sonetti, cui vanno aggiunte varie rime di corrispondenza non comprese nella
silloge. Chiaro è un raffinato rielaboratore, non un inventore; nella sua eclettica pro-
duzione, sostanzialmente priva di sviluppo interno, si riconoscono gli influssi di tutti i
principali modelli della tradizione lirica, remota e recente, dai Siciliani ai Provenzali,
da Guittone e da Guinizzelli fino agli Stilnovisti, riecheggiati con notevole abilità
tecnica e compositiva in eleganti variazioni manieristiche. Il suo è un mondo squisita-
mente letterario, anzi libresco, disegnato mediante «il ricorso a un repertorio di im-
magini, che valgono come puri spunti evocativi: elementi di una tradizione rivissuta
per una sorta di compiacimento letterario» (Tartaro), come accade nel sonetto che
rievoca la favola di Narciso, o nella famosa serie di componimenti costruiti su prezio-
se similitudini animalistiche, attinte al ricchissimo e colorito serbatoio dei bestiari
medievali (Come la tigra nel suo gran dolore; Sì come il cervio che torna a morire; Il parpaglion,
che fere a la lumera) in parte, naturalmente, filtrate attraverso i rimatori di Provenza e di
Sicilia [R T 6.3 ].

6.3 Guittone d’Arezzo


Notizie biografiche Intorno alla vicenda biografica dell’aretino Guittone ci sono pervenute scarse no-
tizie, in buona parte ricavate dalle sue stesse opere. Nasce verso il 1235 da un’agiata fa-
miglia della borghesia guelfa; fra il 1257 e il 1259, disgustato dalla corruzione morale e
politica della sua città, decide di allontanarsene in volontario esilio, fuori di Toscana.
Verso il 1265, separandosi dalla moglie e dai tre piccoli figli, entra nell’Ordine dei Ca-
valieri della Beata Vergine Maria, detto poi dei frati Godenti, una confraternita reli-
giosa fondata con l’intento di metter pace tra le fazioni e di tutelare l’ordine cittadino
a difesa dei più deboli. La data di morte, nell’agosto del 1294, viene riportata soltanto
da una fonte molto tarda.
Di Guittone, il «secondo caposcuola della poesia italiana» (Contini) dopo Giacomo
da Lentini, quale già Dante lo ricorda in un passo del Purgatorio (XXIV 56), possedia-
mo un ampio canzoniere di rime e una raccolta di Lettere in volgare, uno dei più insi-
gni documenti della prosa d’arte del Duecento.
Il canzoniere bipartito di Guittone Il corpus delle rime guittoniane comprende cinquanta canzoni e
duecentocinquantuno sonetti, alcuni dei quali di non sicura attribuzione. La produ-
zione poetica di Guittone si presenta nettamente divisa in due fasi, separate da quella
medesima violenta frattura che segna l’esperienza umana e biografica dell’autore: alle
rime profane, amorose e civili, composte nel primo periodo, si contrappongono le ri-
me d’argomento religioso e morale, successive alla conversione (databile, come si è
detto, intorno al 1265), che si aprono con la canzone Ora parrà s’eo saverò cantare, ma-
nifesto di una nuova poesia (che procede dal ripudio totale della tradizione amorosa,
laica e cortese) e insieme programma di una nuova vita, dedita a un’alta missione di
apostolato cristiano.
Dicotomia apparente e sostanziale continuità Eppure, sia dal punto di vista letterario-espressivo sia
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Duecento e Trecento

nell’atteggiamento di fondo, nella produzione di Guittone in versi e in prosa si rico-


nosce una sostanziale continuità. L’intera esperienza dell’uomo e del poeta, nelle sue
pur diverse fasi, si svolge all’insegna di un’appassionata, estroversa volontà di interven-
to e di ammaestramento, sostenuta da incrollabili certezze. A una costante, fortissima
tensione morale corrisponde in ogni tempo un’analoga tensione espressiva sul piano
tecnico, stilistico e retorico.
Guittone stesso è prodigo di esplicite dichiarazioni a proposito di questo suo in-
cessante impulso all’innovazione e alla sperimentazione, che sembra invitarlo a saggia-
re tutte le possibilità, anche a prezzo di durezze e di oscurità, di ibride mescidanze lin-
guistiche, talora di un funambolismo retorico ai confini dell’enigmistica verbale, come
gli hanno tante volte rimproverato – non sempre e non del tutto a torto – i lettori an-
tichi e moderni. Ma il poeta appare ben consapevole della difficoltà “necessaria” del
suo dire poetico, peraltro rivolto a un pubblico selezionato e consenziente di intendi-
tori, come leggiamo nel primo dei due congedi della canzone Tuttor s’eo veglio o dormo
(vv. 61-66): «Scuro saccio che par lo/ mio detto, ma’ che parlo/ a chi s’entend’ ed
ame:/ ché lo’ ngegno mio dàme/ ch’i’ me pur provi d’onne/ mainera, e talento òn-
ne.» [So che la mia poesia risulta oscura, senonché parlo a chi se ne intende e mi ap-
prezza (oppure «a chi ama e intende Amore»): infatti la mia inclinazione naturale mi
impone di mettermi alla prova in tutti i modi espressivi, e lo faccio ben volentieri.]
Rime amorose: un «agone di invenzioni formali» Fin dalle giovanili rime amorose Guittone, seb-
bene mostri di ben conoscere e talvolta di riecheggiare i Siciliani, risente soprattutto
dell’influenza diretta dei lirici provenzali e dei rimatori italiani in lingua d’oc. Situa-
zioni, temi e motivi sono quelli ben noti del repertorio tradizionale: non si tratta pe-
raltro di una ripresa passiva, bensì di una rielaborazione per molti aspetti originale.
Guittone infonde nuova vitalità alle convenzioni cortesi mediante frequenti spunti au-
tobiografici, riferimenti alla realtà della vita quotidiana, inserti riflessivi di carattere
moralistico e didattico, entro una visione personale, intensamente drammatica, dell’e-
sperienza amorosa. Ma, soprattutto, il suo esercizio poetico tende a configurarsi come
un «agone di invenzioni formali» (Quaglio), in una continua sfida emulativa nei con-
fronti dei modelli, anche dei più ricercati cultori del trobar clus, che si sforza di supera-
re proprio sul terreno degli artifici più astrusi e delle più spericolate performances: ardui
giri sintattici, parole inusitate e rare, vertiginosi accumuli di figure retoriche (replicatio-
nes, antitesi, bisticci, figure etimologiche...). Di fatto Guittone non si limita ad avvaler-
si dell’armamentario tecnico-espressivo ereditato dalla tradizione lirica siculo-proven-
zale, ma lo arricchisce e “infoltisce” ulteriormente con l’apporto del sontuoso patri-
monio retorico delle artes dictandi che profonderà a piene mani nelle grandi canzoni
politiche [R T 6.5 ] e nella prosa delle Lettere.
Cantus rectitudinis: le canzoni politiche Tra il 1257 e il 1262 Guittone compone un gruppo di can-
zoni di argomento etico-politico, nelle quali si riconosce il vertice della sua produzio-
ne. Dapprima il poeta provvede a una sorta di “innesto” del tema politico sul canto
amoroso. Poi abbandona sia la tematica amorosa sia i diretti, brucianti riferimenti auto-
biografici, e approda a un canto nuovo, che si potrebbe definire, secondo la celebre for-
mula dantesca, «canto della rettitudine», cioè una poesia di intonazione alta e “tragica”,
atta ad esprimere con eloquenza solenne e impeto oratorio gli ideali etico-politici del
poeta, che si sente investito della missione di additare ai contemporanei i valori e i
princìpi del vivere civile secondo giustizia. Di fatto la sua posizione è quella di un
guelfo conservatore, che di fronte alla crisi delle antiche strutture politiche comunali
contrappone nostalgicamente un ideale passato di concordia e di buon governo alla di-
sgregazione e alla corruzione del presente. Non è meno vero, tuttavia, che in tali prove,
fra cui svetta la grande canzone per Montaperti, Ahi lasso, or è stagion de doler tanto
[R T 6.5 ], la poesia di Guittone mira a trascendere le occasioni e le polemiche contin-
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6. Siciliani e Siculo-toscani STORIA

genti, trasfigurandole in immagini pregnanti, emblematiche, di valore universale.


Poesia religiosa di «Fra Guittone» Così come nelle canzoni politiche si risolve l’esperienza, ormai in
sé esaurita, della lirica d’amore, la poesia religiosa assorbe a sua volta l’impegno mora-
le della poesia di ispirazione politico-civile, trasferendola, per così dire, su un piano più
alto, di valori eterni e immutabili. Il rinnovato canto di Guittone non si configura co-
me poesia dell’interiorità, del raccoglimento ascetico o dell’estasi, ma è ancora una
volta estroverso, tutto proteso alla persuasione, alla propaganda, all’ammonimento
energico e sentenzioso. Ritroviamo, per certi aspetti esaltata, la sua cifra stilistico-
espressiva, nel procedimento compositivo per antitesi e chiaroscuri potenti, nei visto-
si artifici retorici. Ma proprio nel nuovo genere della ballata-lauda sacra, di cui è mol-
to probabilmente l’ideatore, Guittone mostra ancora una volta la sua indomita energia
inventiva, trovando una modulazione più cantabile e “corale”, che riecheggia le ca-
denze popolaresche degli inni e dei racconti agiografici.
I guittoniani e il guittonismo Per un venticinquennio almeno, dal 1255 al 1280, Guittone esercitò
una sorta di “dittatura” intellettuale e letteraria su tutta la Toscana e anche fuori (in
Emilia e in particolare a Bologna), attestata dalle numerosissime rime di corrispon-
denza con i poeti più noti del tempo. Il magistero di Guittone impronta gran parte
della produzione poetica in volgare fra l’esperienza dei Siciliani e l’avvento dello Stil-
novo; ne risentono l’influsso, soprattutto ai loro esordi, anche i maggiori rimatori del
secolo, da Guinizzelli a Cavalcanti e a Dante.
Si distingue peraltro una schiera di seguaci e imitatori più fedeli, i cosiddetti “guit-
toniani”, i quali si limitano in prevalenza a riprendere gli aspetti più esteriori di quel
trovare aspro e altamente artificioso, che in Guittone non è mai virtuosismo gratuito,
riducendolo a una “maniera” aridamente formalistica (il “guittonismo”). Tra i guitto-
niani di più stretta osservanza vanno ricordati almeno Panuccio dal Bagno pisano, il
pistoiese Meo Abbracciavacca, i fiorentini Dante da Maiano e Monte Andrea, fra tutti
il più dotato, che si segnala per energia poetica e originalità di risultati.
Anche se fu la folgorante affermazione dello Stilnovo a relegare il modello guitto-
niano entro gli angusti confini di un fenomeno provinciale e ormai sorpassato, i poe-
ti del dolce stile (e Dante più di ogni altro) mostrano di raccogliere l’eredità di Guit-
tone sul piano dell’impegno etico e dottrinale, avvertendo l’esigenza di dar sostanza di
pensiero e salda architettura concettuale al discorso lirico.
Dante e Guittone Nondimeno, fu proprio Dante, che pure si trovò a percorrere non poche strade
aperte dall’indomita energia inventiva di Guittone, a rilasciare in più occasioni, con
tenace intransigenza, i giudizi più duramente critici sulla poesia dell’aretino. Nella
Commedia non si limita a proclamare l’estraneità di Guittone alla nuova, più autentica
e profonda, ispirazione d’Amore che distingue la lirica dello Stilnovo (Pg XXIV 52-
60); dichiara inoltre, per bocca di Guinizzelli, che quella sua immensa rinomanza, or-
mai tramontata, era in realtà usurpata e fallace: «Così fer molti antichi di Guittone, /
di grido in grido pur lui dando pregio, / fin che l’ha vinto il ver con più persone
[Così han fatto molti della precedente generazione con Guittone, continuando a lo-
darlo di bocca in bocca finché la verità ha prevalso grazie all’opera di molti poeti mi-
gliori]» (Pg XXVI 124-126). Ma è sul piano delle scelte linguistiche e formali che la
stroncatura si mostra più specifica e circostanziata, quando, nel De vulgari eloquentia,
Dante afferma che «Guittone Aretino non si rivolse mai al volgare curiale [illustre]»,
impiegando nelle sue rime, al pari di Bonagiunta e di molti altri, forme municipali e
dialettali (I, XIII, 1); e ancora, più oltre: «Smettano dunque i seguaci dell’ignoranza di
esaltare Guittone Aretino e certi altri simili a lui, che nel lessico e nella sintassi non
hanno mai perso l’abitudine di imitare il linguaggio della plebe» (II, VI, 8).

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Duecento e Trecento

T 6.5 Guittone d’Arezzo


Ahi lasso, or è stagion de doler tanto 1260 ca
Poeti del Duecento A Montaperti, il 4 settembre del 1260, i guelfi fiorentini subirono una sanguinosa di-
a cura diG. Contini, sfatta ad opera dei fuorusciti ghibellini di Firenze, alleati con il Comune di Siena e so-
Ricciardi, stenuti da un contingente di cavalieri tedeschi inviati da re Manfredi. L’esito rovinoso
Milano-Napoli 1960
dello scontro ebbe grande risonanza anche fuori di Toscana, in quanto sembrò sancire
la riscossa del partito imperiale e il crollo della potente e temuta Firenze guelfa. Non
pochi uomini di lettere, cronisti e poeti, di parte guelfa o ghibellina, consegnarono alle
loro opere la testimonianza o il ricordo di Montaperti: da Brunetto Latini [R T 11.1 ] al-
l’Anonimo senese della Sconfitta di Monte Aperto (R 11.2) a Dante, che nel X canto del-
l’Inferno rinfaccia al concittadino Farinata degli Uberti, capo dello schieramento ghibel-
lino nella storica giornata, lo «strazio e ’l grande scempio / che fece l’Arbia colorata in
rosso» (vv. 85-86). E l’aretino Guittone, dalla sua posizione di guelfo al di sopra delle
parti che già nella propria città si era trovato nella condizione dei fiorentini sconfitti e
aveva deciso di allontanarsene in volontario esilio, dedica a Firenze la sua più alta e so-
lenne canzone politica, composta nei mesi immediatamente successivi all’evento, nella
quale risuonano gli accenti dolorosamente intensi del compianto e insieme quelli fieri e
sarcastici dell’invettiva.

Nota metrica Ahi lasso, or è stagion de doler tanto


canzone di sei stanze in
versi endecasillabi e sette- a ciascun om che ben ama Ragione,
nari, costituite da una ch’eo meraviglio u’ trova guerigione,
fronte di due piedi simme- ca morto no l’ha già corrotto e pianto,
trici e da una sirma indivi-
sa, secondo lo schema AB- 5 vedendo l’alta Fior sempre granata
BA CDDC EFGgFfE, se- e l’onorato antico uso romano
guite da un congedo me-
tricamente identico alla ch’a certo pèr, crudel forte villano,
sirma.Tutte le stanze, ec- s’avaccio ella no è ricoverata:
cetto il congedo, sono col-
legate mediante la tecnica ché l’onorata sua ricca grandezza
delle coblas capfinidas (al- 10 e ’l pregio quasi è già tutto perito
tezza / Altezza, vv. 15-16;
Leone / Leone, vv. 30-31; e lo valor e ’l poder si desvia.
conquise / Conquis’è, vv. Oh lasso, or quale dia
45-45; folle / Foll’è, vv. 60- fu mai tanto crudel dannaggio audito?
61; monete / Monete, vv. 75-
76). Sono presenti rime Deo, com’hailo sofrito,
ricche, identiche ed equi- 15 deritto pèra e torto entri ’n altezza?
voche; siciliana la rima dei
vv. 80-83 (ora : mura).
Altezza tanta êlla sfiorata Fiore
1-4 Ahi lasso... pianto:
ahimè, ora è tempo (sta- fo, mentre ver’ se stessa era leale,
gion), per ogni uomo che che ritenëa modo imperïale,
veramente ami la Giustizia acquistando per suo alto valore
(Ragione), di provare un
dolore così intenso (de doler
tanto), che io mi chiedo che ben ama Ragione, v. 2) fruttifica, il poeta allude gamente pèr al v. 7 (soggetti: risca (pèra) e che l’ingiusti-
con stupore (ch’eo meravi- che la nobile Firenze (l’alta simbolicamente alla perdu- Fior e uso), si desvia al v. 11; e zia (torto) si innalzi, divenga
glio) dove (u’) egli possa Fior), un tempo ricca sem- ta potenza di Firenze, gio- così in diversi altri casi. potente?
trovare guerigione, cioè pre di frutti (granata, parti- cando sull’etimologia del 11 e lo valor... si desvia: 16-20 Altezza... mante:
conforto e salvezza; (e mi cipio passato del verbo gra- nome della città (ancora e il valore e la potenza se ne tanta grandezza vi fu in Fi-
stupisco) che il lutto (corrot- nare, riempirsi di grani o più trasparente per i con- vanno altrove, mutano di- renze, nel Fiore ormai sfio-
to) e il pianto non l’abbiano semi, detto principalmente temporanei, che usavano la rezione. rito (êlla, “nella”, forma as-
ancora ucciso (morto). Il so- della spiga; in senso generi- forma antica Fiorenza; cfr. v. 12-15 Oh lasso... altez- similata da en la), finché fu
stantivo corrotto (dal lat. cor co “fruttificare”), e l’onore- 93), identificata con uno za?: ahimè, quando mai leale verso se stessa (vale a
ruptum, “cuore spezzato”), vole, antica tradizione ro- dei suoi emblemi, il giglio (quale dia, “quale giorno”) dire: finché i suoi cittadini
che significa “lamentazione mana certamente perisco- (in realtà l’iris o giaggiolo). si udì notizia di una scia- furono concordi e leali fra
funebre”, forma una cop- no (ch’a certo pèr), crudeltà Fior al femminile è un galli- gura, di un danno (dannag- loro), che manteneva (ri-
pia sinonimica con pianto. assai (forte) sgradevole, umi- cismo dell’uso poetico, gio) tanto crudele? Dio, tenëa) un costume (modo)
5-8 vedendo... ricove- liante (villano), se al più pre- normale nei Siciliani . come hai potuto permet- imperiale (degno cioè di
rata: in quanto vede, cioè sto (s’avaccio) non vengono 10 è... perito: il verbo al tere (sofrito, “sofferto”, cioè una città capitale di un im-
constata (il soggetto di ve- salvate, ripristinate. Con singolare ha due soggetti sopportato) che il diritto, pero), conquistando, per il
dendo è sempre ciascun om l’immagine del fiore che (grandezza e pregio); analo- vale a dire la giustizia, pe- suo grande valore, molte

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6. Siciliani e Siculo-toscani T 6.5

(mante, gallicismo; cfr. v. 76) 20 provinci’ e terre, press’o lunge, mante;


province e città (terre), vici- e sembrava che far volesse impero
ne o lontane.
22-23 leggero... avante: e
sì como Roma già fece, e leggero
le riusciva facile (leggero), li era, c’alcun no i potea star avante.
poiché nessuno poteva su- E ciò li stava ben certo a ragione,
perarla, starle davanti (i è
dativo: a lei). 25 ché non se ne penava per pro tanto,
24-26 E ciò li stava... po- como per ritener giustizi’ e poso;
so: e questo (la conquista di
un impero) le spettava se- e poi folli amoroso
condo giustizia (a ragione), de fare ciò, si trasse avante tanto,
poiché non si affaticava
tanto per trarne un utile ch’al mondo no ha canto
(per pro), quanto per mante- 30 u’ non sonasse il pregio del Leone.
nere giustizia e pace (poso).
27-30 e poi... del Leone:
e dal momento in cui le Leone, lasso, or no è, ch’eo li veo
piacque, provò il desiderio tratto l’onghie e li denti e lo valore,
(folli [= le fu] amoroso) di
dedicarsi a tale impresa, e ’l gran lignaggio suo mort’a dolore,
progredì (si trasse avante) ed en crudel pregio[n] mis’ a gran reo.
tanto, che al mondo non
c’era (no ha, letteralmente 35 E ciò li ha fatto chi? Quelli che sono
“non c’è”) un solo luogo de la schiatta gentil sua stratti e nati,
(canto “angolo”) dove non
si celebrasse la virtù (il pre- che fun per lui cresciuti e avanzati
gio) del Leone. È il Marzoc- sovra tutti altri, e collocati a bono;
co, emblema araldico del
Comune fiorentino: raffi- e per la grande altezza ove li mise
gura un leone sedente, con 40 ennantîr sì, che ’l piagâr quasi a morte;
la zampa destra alzata a so- ma Deo di guerigion feceli dono,
stenere uno scudo con il
giglio. ed el fe’ lor perdono;
31-34 Leone... a gran
e anche el refedier poi, ma fu forte
reo: leone, ahimè, ormai
non è più, poiché io gli ve- e perdonò lor morte:
do strappate (ch’eo li veo / 45 or hanno lui e soie membre conquise.
tratto) le unghie e i denti e
la forza, e (vedo) la sua no-
bile discendenza (lignaggio) Conquis’è l’alto Comun fiorentino,
uccisa con dolore (mort’a
dolore), e crudelmente im- e col senese in tal modo ha cangiato,
prigionata con grande ini- che tutta l’onta e ’l danno che dato
quità (a gran reo). L’aggetti- li ha sempre, como sa ciascun latino,
vo reo, da intendersi come
un neutro latino, equivale 50 li rende, e i tolle il pro e l’onor tutto:
al sostantivo reità, “colpa” ché Montalcino av’abattuto a forza,
(lo stesso per crudele al v. 7).
L’espressione ’l gran lignag- Moltepulciano miso en sua forza,
gio suo (v. 33) si riferisce ai e de Maremma ha la cervia e ’l frutto;
guelfi fiorentini.
35-38 E ciò... a bono: e Sangimignan, Pog[g]iboniz’ e Colle
chi gli ha fatto questo? Co- 55 e Volterra e ’l paiese a suo tene;
loro che sono discesi (stratti
“estratti”) e nati dalla sua
nobile stirpe (schiatta gentil), condo un’altra interpreta- ghibellini: dalla prima cac- mune senese, in modo tale ora riceve (ha) dai signori
che furono da lui (dal Leo- zione: Dio concesse ai ghi- ciata dei guelfi ad opera dei che quest’ultimo ora resti- della Maremma, i conti Al-
ne, cioè da Firenze) resi bellini di guarire dalla loro ghibellini nel 1248 (vv. 39- tuisce a Firenze (li rende) dobrandeschi di Santa Fio-
grandi e potenti sopra tutti follia) ed egli (il Leone) li 40), all’effimera pace stabi- tutta la vergogna (onta) e il ra, la cerva, tributo simboli-
gli altri cittadini, e messi in perdonò; e poi lo ferirono lita fra le due fazioni nel danno che la stessa Firenze co di sudditanza, e il reddi-
una condizione di privile- nuovamente (el refedier), ma 1251 (vv. 41-42), alla con- ha sempre inflitto in passa- to (’l frutto), che prima ve-
gio (collocati a bono). Allude egli dimostrò ancora una giura ghibellina del 1258 to a Siena, come sa bene nivano pagati a Firenze.
qui ai cittadini di parte ghi- volta la sua forza e li rispar- (vv. 43-44), alla disfatta ogni italiano, e le toglie 54-55 Sangimignan... a
bellina. miò (perdonò lor morte); ora guelfa nella battaglia di (Siena a Firenze) tutto l’u- suo tene: (il Comune di
39-45 e per... conquise: e hanno conquistato lui e le Montaperti (1260), in se- tile (il pro) e l’onore. Siena) occupa San Gimi-
proprio a causa della posi- sue membra. In questi versi guito alla quale i ghibellini 51-53 ché Montalcino... e gnano, Poggibonsi, Colle
zione eminente in cui li il poeta ripercorre, svilup- sono divenuti i padroni di ’l frutto: poiché Siena ha Val d’Elsa e il contado
collocò, si innalzarono tan- pando il discorso metafori- Firenze (v. 45). abbattuto con la forza le (paiese) come cosa sua (a
to (ennantîr sì) che lo feriro- co che si accentra intorno 46-50 Conquis’è... tutto: mura del castello di Mon- suo).
no (che ’l piagâr) quasi mor- alla figura simbolica del il nobile Comune fiorenti- talcino, ha conquistato (mi-
talmente; ma Dio gli con- Leone, le alterne vicende no è stato conquistato, e ha so en sua forza“messo in suo
cesse di guarire (oppure, se- delle contese fra guelfi e invertito le parti con il Co- potere”) Montepulciano, e

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Duecento e Trecento

56-58 e la campana... di e la campana, le ’nsegne e li arnesi


bene: ed ha tolto (a Firen-
ze) la campana di guerra, le e li onor tutti presi
insegne, le armi e tutti gli ave con ciò che seco avea di bene.
arredi (onori), con tutto ciò E tutto ciò li avene
che insieme c’era (seco avea)
di buono. La campana è la 60 per quella schiatta che più ch’altra è folle.
Martinella, posta sul Car-
roccio fiorentino insieme
agli stendardi del Comune, Foll’è chi fugge il suo prode e cher danno,
al suono della quale veniva- e l’onor suo fa che vergogna i torna,
no dati i segnali per le ma-
novre militari; era caduta in e di bona libertà, ove soggiorna
mano ai Senesi, insieme a gran piacer, s’aduce a suo gran danno
agli altri simboli della li- 65 sotto signoria fella e malvagia,
bertà comunale, nella bat-
taglia di Montaperti. e suo signor fa suo grand’ enemico.
59-60 E tutto... è folle: e
A voi che siete ora in Fiorenza dico,
tutto questo accade alla
città di Firenze (li avene) a che ciò ch’è divenuto, par, v’adagia;
causa di quella stirpe e poi che li Alamanni in casa avete,
(schiatta) che più di ogni al-
tra è folle. Allude agli 70 servite·i bene, e faitevo mostrare
Uberti e agli altri ghibelli- le spade lor, con che v’han fesso i visi,
ni.
61-66 Foll’è... grand’ ene-
padri e figliuoli aucisi;
mico: folle è colui che ri- e piacemi che lor dobiate dare,
fugge dal proprio vantaggio perch’ebber en ciò fare
(pro) e ricerca (cher) il danno,
e fa in modo che l’onore gli 75 fatica assai, de vostre gran monete.
si muti (i torna) in infamia, e
si riduce con suo gran dan-
no a sottomettersi a una do- Monete mante e gran gioi’ presentate
minazione infida (fella “tra- ai Conti e a li Uberti e alli altri tutti
ditrice”) e malvagia, e fa del
suo più grande nemico il ch’a tanto grande onor v’hano condutti,
suo signore. che miso v’hano Sena in podestate;
67-75 A voi che siete...
gran monete: dico questo
80 Pistoia e Colle e Volterra fanno ora
a voi (cittadini di parte ghi- guardar vostre castella a loro spese;
bellina), che siete ora in Fi- e ’l Conte Rosso ha Maremma e ’l paiese,
renze, dato che quanto è
accaduto (divenuto), a quan- Montalcin sta sigur senza le mura;
to pare, vi piace (adagia, gal- de Ripafratta temor ha ’l pisano,
licismo); e poiché avete in
casa i Tedeschi (gli Alaman- 85 e ’l perogin che ’l lago no i tolliate,
ni, i cavalieri inviati da re e Roma vol con voi far compagnia.
Manfredi a sostegno dello Onor e segnoria
schieramento ghibellino a
Montaperti), serviteli bene adunque par e che ben tutto abbiate:
e fatevi mostrare le loro ciò che disïavate
spade, con le quali vi hanno
tagliato la faccia (fesso i visi) 90 potete far, cioè re del toscano.
e ucciso i vostri padri e i
vostri figli; e mi fa piacere
(piacemi) che dobbiate dare Baron lombardi e romani e pugliesi
loro, poiché faticarono assai e toschi e romagnuoli e marchigiani,
nel compiere tali azioni (en
ciò fare), gran quantità delle
vostre monete.
76-79 Monete mante... in ghibellina. «L’ironia, già pa- detto degli Aldobrande- perugini (hanno timore) 87-90 Onor... re del to-
podestate: offrite in dono tente nella stanza preceden- schi; cfr. nota ai vv. 51-53), che togliate loro (i tolliate) scano: sembra dunque che
(presentate) molte (mante) te, esplode in questa e nel possiede (ha) la Maremma il lago Trasimeno, e Roma abbiate onore e potere e
monete e preziosi gioielli ai congedo con affermazioni con il contado (paiese; cfr. vuol stringere alleanza (far ogni vantaggio (ben tutto):
conti Guidi e agli Uberti e a paradossali» (Quaglio). v. 55), Montalcino se ne sta compagnia) con voi. Prose- ora potete realizzare la vo-
tutti gli altri che vi hanno 80-86 Pistoia e Colle... al sicuro dopo l’abbatti- gue in questi versi il rove- stra aspirazione (ciò che di-
condotto a tanto onore, al far compagnia: Pistoia, mento delle mura (cfr. v. sciamento in chiave ironi- sïavate), cioè diventare i si-
punto da ridurre Siena in Colle Val d’Elsa e Volterra 51); i pisani (’l pisano) han- ca e sarcastica della situa- gnori (re) di tutta la Tosca-
vostro potere. Quelle dei custodiscono e difendono no timore di Ripafratta zione di Firenze, del suo na.
conti Guidi (i Conti per an- (fanno guardar) i vostri ca- (un castello nelle vicinan- dominio territoriale e dei 91 Baron lombardi: si-
tonomasia) e degli Uberti stelli a loro spese; il Conte ze di Pisa che i fiorentini suoi alleati all’indomani gnori dell’Italia settentrio-
erano due fra le più potenti Rosso (Aldobrandino di tolsero ai pisani per donar- della sconfitta di Monta- nale.
famiglie fiorentine di parte Soana, guelfo, del ramo ca- lo nel 1254 a Lucca), e i perti. 92 toschi: toscani.

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6. Siciliani e Siculo-toscani T 6.5

Fiorenza, fior che sempre rinovella,


a sua corte v’apella,
95 che fare vol de sé rei dei Toscani,
dapoi che li Alamani
ave conquisi per forza e i Senesi.

93-97 Fiorenza... e i Se- va”), vi chiama alla sua cor- na) della Toscana, ora so- i Tedeschi e i Senesi.
nesi: Firenze, fiore che sem- te, lei che vuole proclamarsi prattutto che (dapoi che “dal
pre rifiorisce (rinovella, con regina (fare vol de sé rei“vuo- momento che”) ha soggio-
valore riflessivo: “si rinno- le farsi re”; rei è forma pisa- gato con la forza delle armi

Guida all’analisi
Il compianto sulla rovina di Firenze Con la dolente esclamazione che apre il componimento (Ahi lasso), Guitto-
ne intona il compianto o lamento funebre sulla rovina di Firenze, che si snoda nei versi in-
tensi e appassionati della prima stanza, carichi di deprecazione e di sgomento, per culminare,
con la ripresa della movenza esclamativa d’esordio (Oh lasso, v. 12) in angosciose interroga-
zioni. Il poeta non esita a chiamare in causa Dio stesso, invocato quale difensore supremo del
«diritto», prossimo a perire insieme alla città del Fiore, contro il «torto» trionfante (v. 15).
Confronto drammatico tra il passato e il presente: elogio della perduta grandezza Nella II stanza il compianto
si arricchisce di un drammatico confronto tra la decadenza attuale e la passata grandezza,
rievocata in un commosso quanto iperbolico elogio della Firenze guelfa, fino a ieri esempio
di concordia civica (v. 17), città imperïale temuta e possente, intesa alla creazione di un do-
minio politico e territoriale che doveva assicurare, come già l’impero di Roma, il manteni-
mento dei supremi valori, la Giustizia e la Pace (v. 26).
Il mito di Roma antica Fin dai primissimi versi della canzone, infatti, risultava evidente che Guittone identifica
senz’altro il crollo della Firenze guelfa con la morte della Giustizia (Ragione, v. 2) e
dell’«onorato antico uso romano» (v. 6), la gloriosa tradizione dell’antica Roma, della quale
Firenze viene presentata come discendente e legittima erede, anche in forza di una leggen-
da assai diffusa e accreditata all’epoca, che attribuiva ai Romani la fondazione della città. Il
mito popolare e municipale di Firenze, celebrata dai cronisti toscani come «piccola Roma»,
si trasforma nell’appassionata perorazione di Guittone in una idea-forza che sottrae la pole-
mica alla dimensione del contingente per situarla sul piano dei valori assoluti e universali.
Simboli araldici e linguaggio metaforico A questo procedimento di sublimazione e di mitizzazione degli accadi-
menti della cronaca comunale, contribuisce decisivamente la scelta delle forme espressive: il
discorso di Guittone – contemplazione della rovina presente e rievocazione per contrasto
della passata grandezza – si sviluppa e si addensa in chiave metaforica intorno a due immagini,
i due simboli araldici della città di Firenze: il Fiore e il Leone. Dapprima Firenze viene identi-
ficata con il Fiore (l’emblema del giglio): un’immagine di vitalità, di prosperità e di bellezza,
elemento unificante che ritorna più volte in tutta la canzone, ma con significative mutazioni:
nella I stanza rappresenta un omaggio al fulgido passato della città («l’alta Fior sempre grana-
ta», v. 5); nella II stanza esprime il rammarico per la desolazione presente («sfiorata Fiore», v.
16); nel congedo si carica di sferzante ironia («Fiorenza, fior che sempre rinovella», v. 93), a
chiudere l’invettiva sarcastica delle stanze finali contro la viltà dei cittadini. Alla fine della II
stanza compare il secondo emblema, quello del Leone (il Marzocco), immagine di fierezza e
di potenza che nella stanza successiva si snatura mediante una metamorfosi analoga a quella
del Fiore disfiorato: privato degli artigli, delle zanne e della forza, catturato e soggiogato, «Leo-
ne, lasso, or no è...» (v. 31).
Dal lamento all’invettiva Con la IV stanza si verifica un primo repentino mutamento del registro espressivo,
sebbene la continuità del discorso sia assicurata anche qui dall’artificio della ripresa (conqui-
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Duecento e Trecento

se / Conquis’è). Se già nelle stanze precedenti (specialmente nella III) il poeta aveva fatto
chiare allusioni ad eventi storici precisi, e aveva adombrato il quadro catastrofico dell’attua-
le situazione di Firenze, da questo momento passa a descriverlo e deprecarlo in modo aper-
to e diretto. Il testo si affolla ora di nomi di persone e di luoghi ben noti, di riferimenti rea-
listici e concreti, con inserti di sapore quasi cronachistico. Nella V stanza Guittone passa al-
le tonalità più accese della polemica morale e politica, preparata dalla recisa denuncia dei re-
sponsabili di tanta rovina che chiude la stanza precedente: «E tutto ciò li avene / per quella
schiatta che più ch’altra è folle» (vv. 59-60): si raccoglie in una sosta meditativa (vv. 61-66),
per lasciare ormai prorompere, con la veemente apostrofe del v. 67 («A voi che siete ora in
Fiorenza dico»), gli accenti fieramente risentiti dell’invettiva.
Rovesciamento ironico e sarcasmo Si profila in questi versi un secondo mutamento di registro: l’indignazione
del cittadino guelfo che vede distrutta l’autonomia del libero Comune e la condanna del
moralista si esprimono in tutta la loro forza, con una sorta di acre e doloroso compiacimen-
to, in un rovesciamento ironico e paradossale della situazione delineata in precedenza, che
esplode nel feroce sarcasmo della VI stanza e del congedo: i capi ghibellini (i Conti, gli
Uberti e gli «altri tutti», v. 77) meritano di ricevere ingenti doni dai Fiorentini per averli
condotti «a tanto grande onor» (v. 78), cioè per avere messo Siena in loro potere; la perdita
ignominiosa delle città e dei dominî elencati nella IV stanza viene ora presentata come
trionfale acquisto di «onor e segnoria» (v. 87); Firenze, che ha «conquisi per forza» (v. 97)
Alamanni e Senesi, può ben considerarsi ormai la città-regina della Toscana.

Laboratorio 1 Da quale evento storico prende le mosse no l’uno o l’altra, spiegando quale rap-
COMPRENSIONE la canzone? Siamo in possesso di altre si- porto si istituisce fra i due momenti.
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE gnificative testimonianze e/o rievocazio- 6 Analizza e commenta le metafore, le me-
ni letterarie al riguardo? tonimie e le similitudini presenti nel testo
2 Riassumi in brevi paragrafi, stanza per della canzone, soffermandoti sulle imma-
stanza, il contenuto del testo, assegnando gini riferite a Firenze, in particolare quel-
a ciascuno un titolo esplicativo le del fiore e del leone.
3 In che modo Guittone interpreta e giu- 7 Rintraccia quelle che a tuo giudizio sono
dica la sconfitta della Firenze guelfa? le parole-chiave della canzone, segnalan-
4 Ricerca nel testo i passi in cui il poeta do se ricorrono in rima e/o se entrano in
rievoca il passato e quelli in cui affronta la un gioco di antitesi con altre di significa-
situazione presente della città; evidenzia i to opposto.
mutamenti significativi di tono e di lin- 8 Identifica i passi in cui Guittone si espri-
guaggio. me secondo i modi dell’ironia e del sar-
5 Nel testo si alternano lamento e invettiva: casmo.
ricerca e distingui i passi ove predomina-

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6. Siciliani e Siculo-toscani VERIFICA

VERIFICA

6.1 La scuola siciliana


1 In quale periodo storico e in quale particolare ambiente politico-statale fiorisce la scuola
poetica siciliana? Quali caratteristiche la distinguono da altre esperienze coeve?
2 A quale ceto sociale appartengono i rimatori della scuola? Quale fu la loro formazione
culturale? Quale il loro rapporto con la corte di Federico II?
3 Illustra nei suoi vari aspetti l’attività culturale che si sviluppa presso la corte federiciana.
4 Quali personalità e quali esigenze politico-culturali determinarono l’avvio del movimento
poetico?
5 Illustra il complesso rapporto che si istituisce fra i Siciliani e i modelli provenzali.
6 Qual è il tema pressoché unico sviluppato dai Siciliani nei loro componimenti?
7 Spiega che cosa si intende per «stile unitonale» riguardo alle scelte formali dei rimatori si-
ciliani, e perché non si può parlare di un’imitazione passiva della lirica provenzale.
8 Illustra il rapporto poesia-musica nella lirica provenzale e nei “trapiantatori” siciliani.
9 Caratteristiche-base e orientamenti dell’esperienza poetica di Giacomo da Lentini. Per
quali ragioni quest’ultimo viene considerato un caposcuola?
10 Individua i tre generi metrico-tematici fondamentali della lirica siciliana, illustrandone
sinteticamente le caratteristiche.
11 Si possono distinguere essenzialmente due filoni nella produzione siciliana: individuali
enunciandone le caratteristiche-base.
12 Passa in rassegna le personalità poetiche di maggior rilievo nell’ambito della scuola, e indi-
ca quale dei due filoni hanno di preferenza coltivato.
13 Il contrasto Rosa fresca... può essere considerato un testo “autenticamente” popolare? Per-
ché viene definito «misterioso» e «problematico»? A chi è attribuito?
14 Qual è la consistenza del corpus poetico siciliano? Tutti i testi sono di sicura attribuzione?
15 Cosa s’intende con l’espressione «siciliano illustre», e perché si parla di «lingua d’arte»?
16 Perché la trasposizione linguistica operata dai copisti toscani viene considerata determi-
nante per gli sviluppi successivi della nostra tradizione letteraria?
6.2 I rimatori siculo-toscani
17 Per quali ragioni di ordine storico-sociale l’esperienza dei rimatori siciliani, sostanzialmen-
te unitaria e compatta, all’atto del trapianto in Toscana si diversifica, dando luogo a ten-
denze ed esiti poetici non omogenei?
18 Distingui nella produzione siculo-toscana l’eredità dei modelli siciliani dalle innovazioni e
dagli esperimenti originali.
19 Per quali aspetti i poeti siculo-toscani appaiono riallacciarsi ai modelli provenzali?
20 Traccia un sintetico panorama dei principali centri di produzione e delle più significative
esperienze poetiche in Toscana nel periodo considerato.
6.3 Guittone d’Arezzo
21 Illustra la struttura bipartita del canzoniere di Guittone, spiegando come essa rispecchi due
fasi ben distinte della sua vita e della sua produzione.
22 Si può affermare, nonostante tutto, che vi sia una sostanziale continuità nell’esperienza liri-
ca di Guittone?
23 Enuncia i tratti caratterizzanti, anche a livello tecnico-stilistico, del trobar clus guittoniano.
24 Dalle rime amorose al «canto della rettitudine» alla poesia religiosa: distingui e descrivi i
principali blocchi tematici presenti nel canzoniere di Guittone.
25 Illustra e motiva l’ascesa e il declino della fortuna di Guittone nella Toscana del secondo
Duecento, cercando di definire con esattezza il fenomeno del “guittonismo”.
26 Quale fu l’atteggiamento di Dante nei confronti di Guittone? Quale l’eredità preziosa che
quest’ultimo lasciò anche (e soprattutto) ai suoi detrattori?
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Duecento e Trecento

Lo Stilnovo
7

n Contemplazione. Miniatu- n Il dono della ghirlanda in


ra tratta da un Canzoniere un codice del Trecento.
francese del XIV secolo.

n Il gioco degli scacchi del- Secondo una consuetudine ottocentesca si desi-


l’amore. Retro di uno spec- gna con il termine “Stilnovo” un gruppo di poeti che
chio in avorio (1320 circa)
operarono nella seconda metà del Duecento: Guido
Guinizzelli, attivo a Bologna negli anni Sessanta e Set-
tanta e forse ancor prima; in Toscana un gruppo che
comprende Dante, Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia e
alcuni altri, attivi soprattutto fra il 1280 e il 1300 ma
con propaggini nei due/tre decenni successivi.
Sulla definizione della fisionomia del gruppo, sui
suoi rapporti con la tradizione della lirica amorosa e
su altri problemi si è discusso a lungo. Quel che è
certo è che si tratta di una poesia altamente formaliz-
zata, che già i contemporanei sentirono come radical-
mente diversa da quella della tradizione cortese, per
la concezione dell’amore, per il modo di rappresenta-
re la donna, per la densità di riferimenti scritturali e
filosofici, per la poetica, il linguaggio e lo stile.
Linguaggio e stile hanno un’importanza notevole,
tanto che la definizione stessa del gruppo mette in
primo piano proprio questo aspetto.
È Dante per primo a parlare di «dolce stil novo»
per alludere a sé e agli altri suoi compagni di strada.

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7. Lo Stilnovo STORIA

n La fontana dell’amore da
un codice del XIV secolo.

n Capolettera da un codice mata. La bellezza della donna appare agli stilnovisti


contenente la canzone Lo fino
amore ch’eo vi porto di Guido
come qualcosa di misterioso e miracoloso, come una
Guinizzelli. scintilla terrena della bellezza divina e universale.
Per come viene rappresentata, la donna sembra
addirittura non possedere neppure attributi fisici, pare
quasi smaterializzarsi, farsi pura luce spirituale
(spesso si allude a lei paragonandola a una stella).
L’amore così diviene un processo di ingentilimento
profondo, di progresso morale, addirittura di tensione
a Dio, di cui la donna-angelo è simbolo e strumento.
Quando il poeta si volge a descrivere gli effetti che
la donna produce su chi la osserva, la poesia stilnovi-
stica prevede due diversi esiti: il poeta sperimenta
una sorta di estasi contemplativa (ispirata soprattutto
alla letteratura mistica) e si sente moralmente rigene-
rato; o viceversa l’apparizione della donna suscita in
lui un senso di angoscia, il sentimento doloroso della
propria inadeguatezza e inferiorità rispetto alla perfe-
La dolcezza dello stile con cui si esprimono questi zione di lei. Questo motivo, presente in tutti i rimatori
poeti indica un ideale di ordine, compostezza e raffi- del gruppo, caratterizza soprattutto le rime di Caval-
nata delicatezza, che si contrappone polemicamente canti, più degli altri poeta dello sbigottimento, della
alla presunta rozzezza e all’asprezza di Guittone e dei lacerazione interiore, dell’ansia dell’Assoluto sentito
rimatori cortesi toscani. come inattingibile approdo, del senso della morte.
Sul piano ideologico e tematico la novità della In questa tensione spirituale e in questa astrattez-
poesia stilnovistica sta invece nella capacità di rifon- za consistono il fascino peculiare e la difficoltà della
dare su nuove basi la nozione stessa d’amore, risol- poesia stilnovistica, che non è mai solo trascrizione di
vendo la contraddizione tra amor sensuale ed etica una vicenda biografica, né una storia d’amore come
cristiana, presente nella lirica cortese. L’amore stilno- la intendiamo noi oggi, ma una complessa esperienza
vistico non è più amore sensuale che chiede di esse- morale e conoscitiva, che a tratti (e per Dante in par-
re corrisposto, ma diventa un’esperienza tutta interio- ticolare) assume caratteri di vera e propria esperien-
re, che si appaga della pura contemplazione dell’a- za religiosa.

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Duecento e Trecento

7.1 Caratteri generali della poesia stilnovistica


I protagonisti Sotto l’etichetta di Stilnovo si raccoglie uno sparuto gruppo di poeti. Il caposcuola ri-
conosciuto è un rimatore bolognese, Guido Guinizzelli, attivo, secondo le più recenti
ipotesi, negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta del Duecento (muore nel 1276,
quando Dante ha dieci anni e Cavalcanti non più di sedici). Guinizzelli trasmise temi,
concetti e sensibilità assai innovativi ad alcuni giovani poeti che operarono in Toscana
fra il 1280 e il 1330 circa: Guido Cavalcanti, Dante, Cino da Pistoia, Lapo Gianni e,
più marginalmente, Gianni Alfani e Dino Frescobaldi. Il primo ad avere esatta co-
scienza di aver costituito una scuola unitaria e coerente fu probabilmente Dante, e fu
lui che introdusse la formula di «dolce stil novo».
Amor sensuale ed etica cristiana: un dilemma della poesia cortese La lirica cortese si fondava
essenzialmente su una concezione materiale e sensuale dell’amore, anche quando ne
trattava i più delicati aspetti sentimentali e psicologici: un amore pensato in relazioni
quasi sempre di tipo extramatrimoniale, spesso idealizzate in quanto frutto di libera
scelta, in contrasto con l’amore coniugale, sentito perlopiù come un obbligo contrat-
tuale (com’era tipico dei matrimoni feudali). Per questo e altri aspetti la concezione
cortese dell’amore si poneva in netto contrasto con l’etica cristiana e la sua dottrina
del matrimonio, tanto che alla fine nel 1277 il De Amore di Andrea Cappellano venne
condannato dal vescovo di Parigi.
I più tardi poeti provenzali e in genere i poeti duecenteschi che si mostrano sensi-
bili a questa contraddizione non trovano che due soluzioni: mantenersi nel profondo
fedeli alla concezione cortese dell’amore, limitandosi ad attenuarne gli aspetti più
sconvenienti; oppure fare delle decise ritrattazioni, abbandonando in pratica la lirica
d’amore per quella sacra (è il caso dell’ultimo Guittone). Comunque, non paiono in
grado di risolvere davvero la contraddizione di fondo.
Una nuova concezione dell’amore, compatibile con l’etica cristiana La grande novità degli stil-
novisti sta invece nella soluzione di questo problema, nella capacità cioè di rifondare
su nuove basi la nozione stessa d’amore, risolvendo la contraddizione tra amor sensua-
le ed etica cristiana che aveva segnato la crisi della lirica cortese. L’amore stilnovistico
non è più amore sensuale che chiede di essere corrisposto, non è più “galateo cortese”
con tutta la sua gamma di rituali (corteggiamento, ripulse, promesse, finzioni, gelosie,
intromissione di maldicenti, tradimenti, ecc.), ma diventa un’esperienza tutta interiore,
che si appaga della pura contemplazione dell’amata. Inoltre gli stilnovisti concepisco-
no la bellezza della donna come qualcosa di misterioso e miracoloso, come una scin-
tilla della bellezza divina e universale. Di conseguenza l’amore diviene per loro un
processo di ingentilimento profondo, di progresso morale, di «tensione verso un prin-
cipio assoluto e trascendente» (Marti), di cui la donna a tratti è figura e simbolo o ad-
dirittura mediatrice terrena. In questa tensione conoscitiva e spirituale e, se vogliamo,
in questa astrattezza consistono il fascino peculiare e la difficoltà della poesia stilnovi-
stica, che non è mai solo trascrizione di una vicenda biografica, né una storia d’amore
come la intendiamo noi oggi, ma una complessa esperienza morale e conoscitiva, che
a tratti assume caratteri di vera e propria religiosità.
Una donna smaterializzata Nella poesia stilnovistica scompaiono ad esempio quasi tutte le circostanze
concrete del corteggiamento amoroso e si modifica l’immagine stessa della donna. La
donna non è più descritta fisicamente, neppure in forma stilizzata e convenzionale; non
è più, a maggior ragione, «fonte di eccitanti fantasie» nel poeta-amante; sembra addirit-
tura non possedere neppure attributi fisici, pare quasi smaterializzarsi. Tutt’al più passa
per via, rivolge uno sguardo e un saluto e scompare, estatica visione. Non è più chiama-
ta a colloquiare col poeta (la schermaglia d’amore è invece un modulo ricorrente nella
lirica cortese). Al colloquio con l’amata si sostituisce talora il colloquio con terze perso-

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7. Lo Stilnovo STORIA

ne sulle virtù della donna (come accade nella canzone dantesca Donne ch’avete intelletto
d’amore [R T 9.2 ]) e più spesso il monologo lirico del poeta sul medesimo tema o sugli
effetti che amore produce in lui. La lode stessa della donna non riguarda più tanto le
virtù mondane, cortesi e cavalleresche, e neppure più l’aspetto fisico particolare quanto
piuttosto una vaghissima bellezza quasi metafisica e virtù tutte morali e spirituali. Quel-
la della donna è in ultima istanza un’immagine interiorizzata, «una sintesi di ideali»
(Marti).
La donna angelicata: non solo una metafora galante, ma un ideale morale Proprio in questa
sua nuova dimensione acquista senso il tema della cosiddetta donna angelicata, cioè
del paragone che viene sovente istituito fra la donna amata e un angelo. Quando esso
compariva nella poesia cortese si limitava ad essere un complimento galante («bella
come un angelo»).Viceversa nella poesia stilnovistica il paragone o la metafora si tra-
sformano in un’allusione a un concetto assai più profondo, ricco di implicazioni eti-
che e talora anche religiose. Nella canzone Al cor gentil rempaira sempre amore di Guido
Guinizzelli [R T 7.1 ], la frase «“tenne d’angel sembianza” non vuol dire soltanto che la
donna era bella come un angelo, ma soprattutto che essa operava beneficamente e vir-
tuosamente sul cuore del poeta» (Marti); ed è inserita in un contesto in cui si instaura
una sorta di parallelismo tra le intelligenze angeliche, che regolano l’ordine del cosmo,
e la donna-angelo che regola quello morale. La donna trova insomma un posto nel-
l’ordine provvidenziale proprio perché si rivela capace di elevare, ingentilire, nobilita-
re non solo l’amante ma tutti coloro che l’accostano. Se tale azione in Guinizzelli e
Cavalcanti rimane al livello propriamente morale, in Dante ad un certo punto si volge
a più precisi significati religiosi e addirittura teologici, diventa vera e propria rivela-
zione, figura della liberazione dell’anima dal peccato e del suo ricongiungimento a
Dio, figura di un viaggio conoscitivo della mente a Dio.

Doc 7.1 Cino da Pistoia, Tutto mi salva il dolce salutare

Poeti del Duecento,


c. di G. Contini, Tutto mi salva il dolce salutare
Ricciardi, Milano- che ven da quella ch’è somma salute,
Napoli, 1960 in cui le grazie son tutte compiute:
4 con lei va Amor che con lei nato pare.

E fa rinnovellar la terra e l’âre


e rallegrar lo ciel la sua vertute:
giammai non fuor tai novità vedute
8 quali ci face Dio per lei mostrare.

Quando va fuor adorna, par che ’l mondo


sia tutto pien di spiriti d’amore,
11 sì ch’ogni gentil cor deven giocondo.

E lo villan domanda: “Ove m’ascondo?”;


per tema di morir vòl fuggir fôre;
14 ch’abassi gli occhi l’omo allor, rispondo.

1 Tutto: del tutto. lora anche religioso). 7 novità:“creazioni mi- 12 lo villan:il cuore villa-
1-2 salva... salutare... sa- 3 in cui... compiute: racolose” (Quaglio). no, in tradizionale antitesi
lute: insistito ricorso al mo- dotata di ogni grazia, in lei 8 quali... mostrare: pa- con quello gentile.
tivo stilnovistico del salutare perfetta. ri a quelle che Dio attraver- 13 fôre: via.
(saluto) che salva, che “do- 5 fa... l’âre: rinnova, ri- so la sua persona ci mostra. 14 ch’abassi gli occhi: in
na salute”, cioè gioia e sal- crea la terra e l’aria, il mon- 11 deven giocondo: si segno di vergogna e rispet-
vezza (in senso morale e ta- do insomma. rallegra. to.

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Duecento e Trecento

Contemplazione e lode, estasi e sbigottimento Questa concezione della donna e dell’amore si


concreta spesso in componimenti di estatica contemplazione o di lode delle virtù
morali della donna, che sono comuni a tutti i principali componenti del gruppo e
(con il corredo del passaggio per via e del saluto) costituiscono un topos della poesia
stilnovistica (R Guinizzelli, Io voglio del ver [R T 7.2 ]). Ma quando il poeta si volge a de-
scrivere gli effetti che la donna produce su chi la osserva, la poesia stilnovistica preve-
de due esiti nettamente distinti. Ora il poeta sperimenta una sorta di estasi contem-
plativa (i cui modelli sono attinti soprattutto dalla letteratura mistica) e dichiara la po-
sitività degli effetti morali che essa ha non solo su di lui ma su ogni uomo che entri
nella sua sfera d’azione. Ora viceversa l’apparizione della donna suscita nel poeta un
senso di angoscia, il sentimento doloroso della propria inadeguatezza e inferiorità ri-
spetto alla perfezione di lei. Questo motivo, presente anch’esso in tutti i rimatori del
gruppo, caratterizza soprattutto le rime di Cavalcanti, più degli altri poeta dello sbi-
gottimento, della lacerazione interiore, e «dell’ansia dell’Assoluto sentito come inattin-
gibile approdo» (Marti) e del senso della morte [R T 7.3 , R T 7.5-7.7 ].
La metafora della luce e il tema dell’ineffabilità della donna La sublime perfezione della donna
mette anche alla prova le capacità rappresentative del poeta. Che cosa si può dire con
parole umane di colei che pare trascendere la stessa bellezza e natura umane? Spesso è
la metafora della luce con la sua simbologia (immaterialità, spiritualità) che ne sinte-
tizza l’essenza e risolve il problema rappresentativo («più che stella dïana splende e pa-
re», Guinizzelli R T 7.2 ). Ma altrettanto spesso questo nodo espressivo si scioglie nel te-
ma dell’ineffabilità, cioè nella dichiarazione che l’essenza profonda della donna e il
sentimento che essa suscita sono inesprimibili: «Di questa donna non si può contare: /
che di tante bellezze adorna vène, / che mente di qua giù no la sostene / sì che la

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7. Lo Stilnovo STORIA

veggia l’intelletto nostro» (Cavalcanti, Io non pensava [R T 7.5 ]). Il fatto che il poeta di-
chiari di non poter esprimere appieno le virtù benefiche e il valore della donna, o ciò
che egli prova all’atto della sua contemplazione, fa sì che la rappresentazione stilnovi-
stica della donna assomigli molto a quella del divino propria della letteratura religiosa.
«Trasumanar significar per verba non si poria», l’innalzarsi sopra i limiti dell’umano
non può essere espresso a parole, dirà d’altronde Dante stesso nella Commedia dell’e-
sperienza di mistica ascesa a Dio: l’assoluto, il divino non è comprensibile da mente
umana, è ineffabile. Di fronte ad esso – come di fronte alla donna angelicata che ne è
la figura – sono possibili solo l’abbandono nell’estasi mistica o l’angoscia dell’inade-
guatezza.
Citazioni bibliche e alone religioso Per attribuire alle manifestazioni della donna un alone religioso
che le trasforma in ‘apparizioni’ sacre, i poeti stilnovisti spesso fanno uso di trasparenti
allusioni a passi scritturali (talora vere e proprie citazioni), dal Cantico dei Cantici, dai
Salmi, dai Vangeli e da numerosi altri libri della Bibbia. L’incipit di un celebre sonetto
di Cavalcanti, ad esempio, «Chi è questa che vèn ch’ogn’om la mira / che fa tremar di
chiaritate l’âre?», è una felice rielaborazione di un passo del Cantico dei Cantici notissi-
mo ai lettori del tempo. In Dante, poi, Beatrice grazie ai molteplici riferimenti evan-
gelici diventerà espressamente simbolo e figura di Cristo, colei cioè che assolve al tem-
po presente la funzione salvifica che Cristo assolse al tempo della sua discesa in terra.
Ma altrettanto importante è la presenza di svariati riferimenti al linguaggio filosofico-
scientifico e teologico del tempo. Questa complessiva presenza dottrinale venne espli-
citamente individuata già dai contemporaeni come un tratto distintivo della nuova
poesia e rimproverata a Guinizzelli – per la sua sottigliezza filosofica e la sua oscurità –
da Bonagiunta da Lucca, un rimatore più tradizionale.
Un nuovo canone stilistico nel segno della dolcezza La formula usata da Dante per definire l’e-
sperienza stilnovistica è più precisamente quella di “dolce stil novo”. Con questa
espressione, prima ancora che individuare un gruppo di poeti accomunati da profon-
de affinità nella concezione dell’amore, Dante definisce soprattutto un canone stilisti-
co e un modo di intendere l’esercizio poetico che ha nella dolcezza il suo tratto pecu-
liare. Il termine “dolce stile” designa «un ideale artistico di compostezza, di ordine, di
proporzione essenziale», che si concreta nel complesso delle scelte linguistiche e reto-
rico-stilistiche. In particolare la dolcezza si fonda, oltre che sulla sintassi piana, su «un
lessico privo di asprezza e ricco invece di una musicalità raffinata e coscientemente
perseguita in toni ora melodici e gracili, ora più potenti e robusti» (Marti), sulla so-
brietà degli ornamenti retorici e sulla scelta di immagini per lo più ispirate a una no-
bile ed elegante semplicità. Si tratta insomma di un insieme di aspetti formali che si
contrappongono alla sintassi spesso contorta e difficile, al lessico raro, peregrino e
spesso oscuro – irto per di più di rozzi municipalismi – , all’alta densità di artifici reto-
rici propri di Guittone e dei guittoniani, che Dante stesso aveva criticato.
I poeti stilnovisti tuttavia non disdegnano, specie nei testi che hanno un’ambizione
dottrinale o programmatica, un diverso tipo di oscurità, quella che può derivare dalla
densità concettuale e dall’uso di un linguaggio filosofico: Donna me prega, la canzone
dottrinale di Guido Cavalcanti, è anzi uno dei testi più ardui e controversi della poe-
sia delle origini. Se dunque gli stilnovisti accusano i guittoniani di oscurità per bizzar-
ria e artificiosità retorica, a loro volta vengono puntualmente accusati di densità e
oscurità concettuale dai seguaci della tradizione.
Dolcezza dello stile e varietà tematica La dolcezza dello stile è un fatto formale che comunque non
pregiudica la varietà dei temi e degli stati d’animo: può esprimere non solo la con-
templazione estatica della donna, la lode delle sue virtù angeliche o la gioia sublime
che l’innamorato prova, ma anche la malinconia, il dolore, l’angoscia, la paura, il senso
di morte.
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Duecento e Trecento

7.2 Guinizzelli e Cavalcanti


Guinizzelli innovatore e precursore di Dante e di Cavalcanti Celebrato a più riprese da Dante
come precursore e padre, Guinizzelli appare anticipatore di alcuni aspetti significativi
sia della maniera dantesca sia di quella cavalcantiana, e fornisce modelli per quanto
concerne sia le rime di lode e di estatica contemplazione sia quelle dolorose di sbi-
gottimento di fronte alla potenza d’amore e alla perfezione dell’essere amato. Per il
primo caso si veda Io voglio del ver la mia donna laudare [R T 7.2 ] che in alcuni suoi ver-
si («Passa per via adorna, e sì gentile / ch’abassa orgoglio a cui dona salute, / e fa’l de
nostra fé se non la crede…») sembra ispirare i modi danteschi della lode; per il secon-
do caso si veda Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo [R T 7.3 ], che anticipa per vigore
espressivo e carica drammatica la più tipica poesia cavalcantiana.
Al cor gentil rempaira sempre amore: una teoria dell’amore e della gentilezza È però la grande can-
zone Al cor gentil rempaira sempre amore [R T 7.1 ], manifesto conclamato della poesia stil-
novistica, che dichiara la concezione guinizzelliana dell’amore: Guinizzelli espone qui
la dottrina della funzione provvidenziale della donna sul piano morale e dà nuovo si-
gnificato al paragone della donna con l’angelo. In questa canzone fa ricorso a concetti,
esempi e linguaggio di origine filosofica e scientifica, introducendo così una delle
componenti (la densità dottrinale) che caratterizzeranno la poesia stilnovistica e che gli
verranno rimproverate da Bonagiunta.
È ad esempio in chiave filosofica che vengono descritti le condizioni e i modi del-
l’innamoramento e in particolare il fondamentale rapporto tra amore e cuore gentile,
cioè nobile: facendo ricorso a una nozione aristotelica, egli ad esempio afferma che
l’amore rende attuale ciò che in potenza è già presente nel cuore gentile. L’amore cioè
è in grado di elevare e purificare, ma senza la predisposizione insita nel cuore gentile il
suo effetto sarebbe vano. Insomma, «a differenza dei suoi predecessori, l’autore non si
limita a enunciare che Amore è attratto dal cuore raffinato, ma giunge a sostenere che,
in assenza di cuore gentile, non può esistere Amore» (Rossi).
La gentilezza o nobiltà di cui qui si parla non è più la nobiltà di sangue, contro cui
Guinizzelli leva parole polemiche, ma la nobiltà d’animo, che è l’esito di un processo
di raffinamento tutto interiore, che si manifesta e si realizza appunto con la dedizione
ad Amore. Tale concezione rimanda all’ambiente urbano e comunale in cui nasce e ai
valori di una cultura nuova, più consapevole filosoficamente, che si va diffondendo
presso le élites laiche cittadine.
È poi proprio Guinizzelli che in questo e in altri componimenti introduce nella li-
rica d’amore il concetto che «l’amore esercita la propria funzione purificatrice indi-
pendentemente dalla stessa volontà e dalle intenzioni della donna, e solo grazie alla su-
periore perfezione di lei» (Rossi), sganciando così la vicenda amorosa dalla dialettica di
profferte e ripulse, tipica della poesia cortese (le gioie che coincidono con la benevo-

▍ L’autore Guido Guinizzelli

Guido Guinizzelli può essere identificato con un Guido figlio di Guinizzello di Magnano (giu-
dice bolognese). La data della sua nascita, collocata solitamente tra il 1243 e il 1245, in virtù di al-
cuni recentissimi ritrovamenti documentari è stata anticipata al 1218 circa. È probabile che rag-
giungesse una posizione di prestigio in ambiente bolognese come giudice (documenti ne atte-
stano l’attività tra il 1268 e il 1274), dopo aver forse trascorso alcuni anni in Toscana. Militò a fa-
vore della parte ghibellina dei Lambertazzi: questo impegno politico gli costò la condanna all’e-
silio, nel 1274, a Monselice. Si sa che morì prima del 14 novembre 1276. Secondo il Rossi «è le-
cito ipotizzare che la sua attività di rimatore si collochi fra il 1263 e il 1274», ma l’anticipazione
della nascita al 1218 potrebbe mettere in discussione anche questa congettura.

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7. Lo Stilnovo STORIA

Doc 7.2 Guido Guinizzelli, Vedut’ho la lucente stella diana

Vedut’ho la lucente stella diana,


ch’apare anzi che ’l giorno rend’albore,
c’ha preso forma di figura umana;
4 sovr’ogn’altra me par che dea splendore:
viso de neve colorato in grana,
occhi lucenti, gai e pien’ d’amore;
non credo che nel mondo sia cristiana
8 sì piena di biltate e di valore.
Ed io dal suo valor son assalito
con sì fera battaglia di sospiri
11 ch’avanti a lei de dir non seri’ ardito.
Così conoscess’ella i miei disiri!
ché, senza dir, de lei seria servito
14 per la pietà ch’avrebbe de’ martiri.

1 stella diana: la stella ogni altra. lezza... virtù. oserei pronunciare parola.
che annuncia la luce diurna 4 dea: dia, produca. 9-11 dal suo... ardito: so- 12 disiri: desideri.
(Lucifero). 5 grana: granato, rosso no come assalito, sopraffat- 13 seria servito: sarei ri-
2 anzi... albore: prima (la sia pur minima descri- to dalla sua virtù, la quale compensato.
che il giorno produca i pri- zione fisica è un motivo più genera in me un tale stato di 14 martiri: sofferenze.
mi chiarori, prima che al- tradizionale). turbamento, un continuo
beggi. 7 cristiana: donna. sospirare (la fera battaglia di
4 sovr’ogn’altra: più di 8 biltate... valore: bel- sospiri) che davanti a lei non

lenza della donna e le angustie sono determinate dalle ripulse). Questa dialettica non
comparirà più nei poeti successivi di scuola stilnovistica, ed anzi il con-cetto verrà ul-
teriormente perfezionato e sublimato da Dante nelle sue «nove rime» (R 9.3).
Un alone religioso Già con Guinizzelli la lode della donna si ammanta di un alone religioso, consono
al ruolo salvifico assegnatole, che precorre le più impegnative implicazioni teologiche
che Dante assegnerà alla figura di Beatrice. Lo testimoniano l’ampio ricorso a fonti
scritturali, che emerge dall’esame attento delle fonti, e anche il tema della luce, che
Guinizzelli prende dalla tradizione cortese ma riconduce a nuovi significati spirituali.
La metafora della stella che annuncia il sorgere del giorno, che designa la donna amata
in Vedut’ho la lucente stella diana, era tradizionalmente attribuita alla Vergine Maria e
«l’uso che ne fa Guinizzelli poté apparire al limite dell’irriverenza e dell’eterodossia»
(Rossi), tanto palesi apparivano le sue implicazioni religiose; senonché è la dottrina
stessa dell’amore da lui formulata a riscattarlo dall’accusa di irriverenza e a farne vice-
versa un elemento di coerente sacralizzazione della figura femminile.
Guido Cavalcanti e il suo leggendario «disdegno» Guido Cavalcanti, il più anziano dei poeti stil-
novisti toscani, sentito come un secondo maestro dal giovane Dante, è dipinto dal cro-
nista Dino Compagni come «nobile cavaliere e ardito ma sdegnoso e solitario e in-
tento allo studio». Anch’egli si muove nell’ambito letterario che abbiamo descritto, ma
la sua posizione ideologica è più complessa e sfumata, forse più ambigua. Su Caval-
canti pesa ad esempio la fama, divenuta ad un certo punto leggendaria, di essere ‘filo-
sofo’ eterodosso, un intellettuale cioè in odore di eresia. Forse sulla sua presunta etero-
dossia incidono anche la collocazione del padre Cavalcante nel girone infernale degli
epicurei (ai tempi di Dante con questo nome si indicavano quanti ritenevano l’anima
mortale) e un celebre giudizio dello stesso Dante, che parla in quella sede di un «di-
sdegno» di Guido per Beatrice, cioè per la teologia o la fede. Sta di fatto che, nono-
stante gli sforzi degli studiosi, i motivi della crisi intercorsa con Dante alla fine della
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Duecento e Trecento

stagione stilnovistica e l’esatta posizione filosofica di Guido, per mancanza di docu-


menti certi, sfuggono e probabilmente continueranno a sfuggire nei loro esatti con-
torni storici. È probabile però che la simbologia religiosa, che pure Cavalcanti adotta
in modo massiccio per definire l’ineffabile superiorità della donna, vada intesa solo in
senso morale e metaforico: forse il suo distanziamento da Dante, a un certo punto del
loro rapporto, riguardò la possibilità di intendere in senso proprio l’amore come una
via alla fede, la donna come una mediatrice di Dio. La tensione verso la bellezza uni-
versale ed eterna e verso l’assoluto che in ogni caso caratterizza la sua poesia sostan-
zialmente si risolse in uno scacco e forse in un diniego.
L’amore come passione irrazionale Sul piano tematico, rispetto alla linea tracciata da Guinizzelli, Ca-
valcanti accentua due aspetti: il tema negativo dello sbigottimento e dell’angoscia di
fronte alla superiore perfezione della donna e il momento introspettivo degli effetti che
la passione d’amore produce (il tormento dei sensi). Solo in rari momenti magici l’an-
goscia e il mistero sembrano appianarsi nella luminosità e nella delizia di una visione
sublime, e pur sempre ineffabile [R T 7.4 ]. Nella canzone dottrinale Donna me prega, fa-
cendo ricorso in modo ancor più ampio di Guinizzelli a linguaggio e concetti filosofi-
ci, egli in effetti sostiene la tesi dell’amore come desiderio tormentoso, come oscura
passione indotta da un nefasto influsso di Marte. Questa tesi (sulle cui esatte implica-
zioni filosofiche i commentatori si sono divisi) spiega la concezione dolorosa e pessi-
mistica dell’amore di Cavalcanti. Egli poi pare mosso dalla volontà di dare una spiega-
zione razionale a un fenomeno irrazionale come l’amore, ma anche questa tensione si
risolve perlopiù in uno scacco: la natura d’amore, il senso della passione, le ragioni stes-
se del fascino della donna sfuggono a questa indagine, e donna, passione e amore ri-
mangono un affascinante ma inesplicabile mistero, mentre il poeta conta e descrive le
ferite inflitte nell’animo e nei sensi dalla passione. I temi stilnovistici dell’inaccessibile

Doc 7.3 Guido Cavalcanti, Tu m’hai sì piena di dolor la mente

Tu m’hai sì piena di dolor la mente,


che l’anima si briga di partire,
e li sospir’ che manda ’l cor dolente
4 mostrano agli occhi che non può soffrire.

Amor, che lo tuo grande valor sente,


dice: «E’ mi duol che ti convien morire
per questa fiera donna, che nïente
8 par che piatate di te voglia udire».

I’ vo come colui ch’è fuor di vita,


che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia
11 fatto di rame o di pietra o di legno,

che si conduca sol per maestria


e porti ne lo core una ferita
14 che sia, com’egli è morto, aperto segno.

1 Tu... mente: il poeta rivelano alla vista (agli occhi sibile. 10-11 che... rame: che, a 14 che... segno: che in-
si rivolge alla donna amata: degli osservatori) che il 7-8 che... udire: che chi lo osserva, sembra un dichi apertamente il modo
tu mi hai riempito di tanto cuore non può resistere. sembra non voler per nulla uomo fatto di rame. in cui egli è morto.
dolore la mente... 6 E’... morire: mi duo- (nïente) ascoltare (discorsi 12 che... maestria: che si
2 si briga: si ingegna. le che tu debba morire. che invochino) per te muova solo in virtù di un
4 mostrano... soffrire: 7 fiera: crudele, insen- pietà. artificio meccanico.

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7. Lo Stilnovo STORIA

superiorità della donna, e quindi della sua incomprensibilità e ineffabilità spesso acqui-
stano così contorni dolorosi e tragici.
Teoria degli spiriti e drammatizzazione del conflitto interiore Questa introspezione viene
espressa con un ampio ricorso al lessico e ai concetti della fisiologia del tempo e in
particolare alla teoria aristotelica degli spiriti nella versione (gli spiriti sono i fluidi
corporei che consentono ogni attività vitale) del filosofo Alberto Magno (1206-1280).
La passione è insomma rappresentata come un conflitto interiore, un turbamento fi-
siologico che si caratterizza quasi sempre per la violenza e la virulenza, e determina
talora collasso psico-fisico, oscuramento mentale, annichilimento, tanto che il timore
della morte aleggia quasi sempre nella poesia di Cavalcanti come temuto esito di que-
sto conflitto. La fenomenologia della passione amorosa si manifesta, poi, tipicamente
nei termini di una drammatizzazione del conflitto interiore: l’individuo sembra disag-
gregarsi nelle sue componenti – mente, cuore, animo, spiriti, occhi, ecc. – che talora
sono chiamate a dialogare fra loro e con Amore (mediante le figure retoriche della
personificazione e della prosopopea).
Un paesaggio interiore, un desolato campo di battaglia Ancor più forte che in Guinizzelli è la
sensazione che Cavalcanti voglia cogliere la vicenda d’amore nei meandri dell’interio-
rità. Il paesaggio evocato nelle sue poesie non è più neanche il generico ambiente ur-
bano dove la donna passa, bensì l’interno del proprio corpo dove gli spiriti per lo più
“sbigottiti” si muovono fra i vari organi. Questo paesaggio viene però rappresentato
attraverso frequenti metafore guerriere tanto da assumere l’aspetto di un desolato
campo di battaglia. Ora per l’abbondanza di tecnicismi (gli spiriti) ora per la disaggre-
gazione dell’io, ora per effetto del linguaggio metaforico o più raramente per sopras-
salti metafisici si ha l’impressione di una rappresentazione straniata e quasi astratta
della vicenda d’amore [R T 7.5 ].

▍ L’autore Guido Cavalcanti

Guido Cavalcanti, fiorentino, nacque non prima del 1259 e morì, forse per le febbri contratte
nell’esilio in Lunigiana, nel 1300. Apparteneva a una famiglia d’origine mercantile, divenuta una
delle «più possenti case di genti, di possessione e di avere in Firenze» (G.Villani). Il padre, secon-
do il giudizio del Boccaccio, «leggiadro e ricco cavaliere seguì l’opinion d’Epicuro, in non cre-
dere che l’anima dopo la morte del corpo vivesse, e che il nostro sommo bene fosse ne’ diletti
carnali»; questa opinione risale a Dante, che colloca Cavalcante nel cerchio degli eretici.
Guido nel 1284 fece parte del Consiglio generale del Comune insieme a Dino Compagni e
Brunetto Latini. Sposò Bice di Farinata degli Uberti, stringendo un legame dettato da motivi di
opportunità politica. Guelfo di parte bianca, partecipò con ardore alle lotte intestine di Firenze;
nel 1297 prese parte a un assalto contro le case dei Donati, capi di parte nera. Nel 1300, in se-
guito a nuovi disordini, fu allontanato da Firenze dai priori (uno dei quali era Dante), assieme
agli altri principali esponenti delle fazioni avverse. Esiliato a Sarzana, vi rimase però poco tempo,
forse perché contrasse la malaria che di lì a poco – rientrato a Firenze – lo condusse a morte.
Giovanni Villani racconta che, dall’esilio, «tornonne malato Guido Cavalcanti, onde morìo; e di
lui fu grande dammaggio [fu una grave perdita], perrocché [perché] era, come filosofo, virtudio-
so uomo in più cose, se non che era troppo tenero e stizzoso [suscettibile e sdegnoso]». Fu sepol-
to in patria, a Santa Reparata.
I ritratti che il Compagni e ilVillani delineano del loro contemporaneo ne rivelano la persona-
lità spiccata, il temperamento sdegnoso, irreligioso, l’orgoglio intellettuale. A giudizio di Filippo
Villani «fu filosofo d’autorità, non di poca stima, e onorato di dignità, di costumi memorabili, e de-
gno d’ogni laude e onore». Analogamente il Boccaccio lo definisce «uomo costumatissimo e ricco
d’alto ingegno», «ottimo loico e buon filosofo... buon dicitore in rima». Guido Cavalcanti lascia 52
componimenti di certa attribuzione: 36 sonetti, 11 ballate, 2 canzoni, 2 stanze isolate di canzone, 1
mottetto. Per lo più si tratta di componimenti in stile tragico e “dolce”, cioè di gusto stilnovistico;
non mancano tuttavia componimenti in stile comico, tra cui due tenzoni e una “pastorella”.

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Duecento e Trecento

T 7.1 Guido Guinizzelli


Al cor gentil rempaira sempre amore 1263-1274
Poeti del Duecento Nel canto XXVI del Purgatorio Dante immagina di incontrare Guido Guinizzelli: defi-
a c. di G. Contini, nendolo «il padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d’amore usar dolci e
Ricciardi, leggiadre» esplicitamente gli riconosce il ruolo di iniziatore o precursore (padre) dello
Milano-Napoli 1960
stilnovo. L’esiguo canzoniere di Guido appare oggi nel suo complesso svolgere questa
funzione di precorrimento dello stilnovo, ma certo un posto particolare spetta alla
grande canzone dottrinale Al cor gentil rempaira sempre amore, che – citata e riecheggiata
da Dante in più di un’occasione – costituisce anche ai nostri occhi una sorta di manife-
sto della poetica stilnovistica.

Nota metrica Al cor gentil rempaira sempre amore


Canzone di sei stanze di come l’ausello in selva a la verdura;
dieci versi ciascuna se- né fe’ amor anti che gentil core,
condo lo schema:ABAB
(fronte), cDcEdE (sirma). né gentil core anti ch’amor, natura:
5 ch’adesso con’ fu ’l sole,
La fronte è composta di sì tosto lo splendore fu lucente,
due piedi eguali e presenta
tutti endecasillabi; la sirma né fu davanti ’l sole;
alterna endecasillabi e set- e prende amore in gentilezza loco
tenari. Da rilevare la pre-
senza della tecnica delle co- così propïamente
blas capfinidas (con anadi- 10 come calore in clarità di foco.
plosi tra stanza e stanza,
cioè ripresa ad inizio di
stanza di un termine, anche Foco d’amore in gentil cor s’aprende
solo affine, posto nel finale
di quella precedente: foco / come vertute in petra prezïosa,
foco, vv. 10-11; ’nnamora / che da la stella valor no i discende
amor, vv. 20-21 ecc., tranne anti che ’l sol la faccia gentil cosa;
che tra V e VI st.) e la fre-
quenza di rime che si ripe- 15 poi che n’ha tratto fòre
tono in stanze successive per sua forza lo sol ciò che li è vile,
(ad es. -ore in I, II, IV; -ura in
I, II, III ecc.), di rime iden- stella li dà valore:
tiche (ad es. sole : sole vv. 5 e così lo cor ch’è fatto da natura
7; cielo : cielo vv. 41 e 43, ecc.;
cfr. vv. 3-38, 4-18-25, 5-7- asletto, pur, gentile,
42 ecc.). Siciliana la rima 20 donna a guisa di stella lo ’nnamora.
natura : ’nnamora (vv. 18 e
20).
Amor per tal ragion sta ’n cor gentile
I stanza (vv. 1-10) Al cuore per qual lo foco in cima del doplero:
nobile (gentil) amore sem-
pre ritorna come a sua na-
turale dimora (rempaira,
francesismo), come l’uccel-
lo ritorna fra il verde della A partire da questa stanza II stanza (vv. 11-20) Il modo di stella lo fa inna- fuoco tende naturalmente
selva; natura non creò amo- «l’enunciazione della nuova fuoco d’amore si accende morare. verso l’alto). Così la vile
re prima (fe’ anti) del cuore teoria amorosa si fonda su nel cuore nobile come le Secondo i lapidari medie- natura avversa amore, co-
nobile, né il cuore nobile un procedimento analogico proprietà (vertute) nella vali le pietre preziose rice- me l’acqua avversa il fuoco
prima dell’amore (cioè, li […] che dal mondo natura- pietra preziosa, nella quale vevano le loro proprietà caldo, per via che è fredda.
creò contemporaneamen- le, attraverso una serie di (che... i[n]) la proprietà (va- dall’influsso di una stella. Amore prende dimora (ri-
te): che non appena (adesso comparazioni desunte dalla lor) non discende dalla stel- vera) nel cuore nobile, co-
con’) fu creato il sole, così scienza del tempo, s’innalza la, prima che il sole la tra- III stanza (vv. 21-30) me luogo alla propria natu-
subito la sua luce risplen- al cielo e quindi al Paradiso» sformi in nobile cosa; dopo Amore risiede nel cuore ra affine, così come il dia-
dette, e non risplendette (Rossi). Qui l’immagine che il sole con il proprio nobile per la stessa ragione mante (adamàs) nel ferro.
prima della creazione del dell’uccello deriva espressa- potere (forza) ha tolto ciò per cui il fuoco sta in cima Per comprendere quest’ul-
sole (anche sole e luce furo- mente da un passo del filo- che in lei è vile (cioè, l’ha alla torcia (doplero, propria- timo paragone bisogna te-
no creati insieme); e amore sofo Severino Boezio.Al v. 5 depurata dalle scorie), la mente un candelabro a due ner presente che secondo
risiede (prende... loco) nel il concetto e l’immagine di stella le infonde la sua pro- bracci); lì splende (splende- alcuni lapidari medievali il
cuore nobile (gentilezza, una creazione contempora- prietà: analogamente il li) a proprio piacere, lumi- diamante veniva prodotto
astratto per il concreto) na- nea di sole e luminosità de- cuore (ogg.) che dalla na- noso, terso; non ci potreb- da una modificazione del
turalmente (propïamente) riva probabilmente da un tura è stato reso eletto be stare in altro modo, tan- ferro; al diamante venivano
come il calore nello splen- passo del mistico Riccardo (asletto, francesismo), puro, to esso è suscettibile (fero; poi attribuite le medesime
dore del fuoco. di SanVittore. nobile, la donna (sogg.) a questo accade perché il proprietà della calamita.

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7. Lo Stilnovo T 7.1

IV stanza (vv. 31-40) Il so- splendeli al su’ diletto, clar, sottile;


le colpisce il fango conti-
nuamente; questo rimane no li stari’ altra guisa, tant’è fero.
cosa di poco valore (vile) e il 25 Così prava natura
sole non perde il suo calore;
l’uomo superbo (alter) dice: recontra amor come fa l’aigua il foco
“Sono nobile per schiatta” caldo, per la freddura.
(cioè: la mia nobiltà deriva Amore in gentil cor prende rivera
dall’appartenere a una stir-
pe illustre); io lo paragono per suo consimel loco
(semblo) al fango, mentre al 30 com’ adamàs del ferro in la minera.
sole paragono l’autentica
nobiltà (gentil valore): per-
ché non si deve credere Fere lo sol lo fango tutto ’l giorno:
(non dé dar om fé) che la vera
nobiltà risieda fuori del vile reman, né ’l sol perde calore;
cuore (coraggio, francesi- dis’ omo alter: «Gentil per sclatta torno»;
smo) nella dignità eredita-
ria (d’ere’), se non possiede lui semblo al fango, al sol gentil valore:
un cuore nobile disposto 35 ché non dé dar om fé
alla virtù, come l’acqua ac- che gentilezza sia fòr di coraggio
coglie, si lascia attraversare
dalla luce (porta raggio), in degnità d’ere’
mentre il cielo trattiene le sed a vertute non ha gentil core,
stelle e lo splendore, cioè
«contiene in sé la sorgente com’aigua porta raggio
luminosa» (Rossi). 40 e ’l ciel riten le stelle e lo splendore.
Nell’ultimo paragone parte
della critica vede una con-
trapposizione tra cuore non Splende ’n la ’ntelligenzia del cielo
nobile (acqua) e cuore no-
bile (cielo); il Contini, se- Deo creator più che [’n] nostr’occhi ’l sole:
guito poi da altri, propone ella intende suo fattor oltra ’l cielo,
invece di intendere che con e ’l ciel volgiando, a Lui obedir tole;
l’acqua il Guinizzelli alluda
al cuore nobile e con il cielo 45 e con’ segue, al primero,
alla donna in cui risplende del giusto Deo beato compimento,
ogni virtù. Ma si ricordi che
nella stanza precedente così dar dovria, al vero,
l’acqua era già stata assimi- la bella donna, poi che [’n] gli occhi splende
lata alla «prava natura».
del suo gentil, talento
V stanza (vv. 41-50) Dio
creatore risplende nell’in- 50 che mai di lei obedir non si disprende.
telligenza angelica deputa-
ta a muovere del cielo (’n- Donna, Deo mi dirà: «Che presomisti?»,
telligenzia del cielo) più che il
sole ai nostri occhi; essa siando l’alma mia a lui davanti.
(l’intelligenza angelica) ri- «Lo ciel passasti e ’nfin a Me venisti
conosce e comprende (in-
tende) immediatamente il e desti in vano amor Me per semblanti:
proprio creatore al di là del- 55 ch’a Me conven le laude
lo stesso cielo che essa go-
verna (oltra ’l cielo) e impri- e a la reina del regname degno,
mendo il moto al cielo (e ’l per cui cessa onne fraude».
ciel volgiando) prende (tole) a
ubbidire a Lui; e così im- Dir Li porò: «Tenne d’angel sembianza
mediatamente (al primero) che fosse del Tuo regno;
ottiene (consegue) la perfe- 60 non me fu fallo, s’in lei posi amanza».
zione dell’atto (il moto ce-
leste) disposto dal giusto
Dio (beato compimento) [op-
pure: ottiene dal giusto Dio la propria grazia (a dar dovria della lunga comparazione è fatto, prestarle sempre ub- blanti) per un amore terre-
il compimento della pro- si sottintende di nuovo il perspicuo: come Dio ri- bidienza» (Quaglio). no (in vano amor); soltanto a
pria beatitudine]; così, in beato compimento del v. 46) splende all’intelligenza an- Me e alla regina del cielo
verità, la bella donna, non non appena risplende negli gelica che dall’intuizione VI stanza (vv. 51-60) (cioè alla Madonna) per i
appena il suo splendore si occhi del suo nobile amante della Divinità trae l’impul- Donna, Dio mi dirà: «che cui meriti è dissolto ogni
manifesta agli occhi del suo un desiderio (talento, inteso so a ubbidirle, il quale si presunzione avesti?» (Che peccato (fraude) convengo-
gentile amante, dovrebbe come soggetto di splende) concreta nel movimento presomisti?), quando l’anima no le lodi». Ma io gli potrò
infondergli il desiderio (dar che non si distacchi mai dal- che imprime al cielo, così la mia sarà (siando...) davanti a rispondere: «Ebbe aspetto
dovria… talento) di non di- l’assoluta obbedienza a lei]. donna risplende dinanzi lui. «Attraversasti il cielo e d’angelo appartenente al
staccarsi mai dall’obbe- Comunque questa discussa agli occhi dell’uomo nobi- giungesti fino a Me e pren- Tuo regno; non commisi
dienza a lei [oppure: la bella stanza vada intesa nei detta- le che l’ama, il quale do- desti (desti) Me come ter- alcuna colpa, se rivolsi in lei
donna dovrebbe concedere gli sintattici, «il significato vrebbe, spinto da questo mine di paragone (per sem- il mio amore».

149 © Casa Editrice Principato


Duecento e Trecento

Guida all’analisi
La teoria della gentilezza Al cor gentil è una “canzone dottrinaria” fondata su una solida struttura argomentativa.
Guinizzelli innanzitutto espone una personale “teoria della nobiltà”, o – com’egli dice –
della gentilezza. Tale teoria può essere così esposta: la gentilezza, e cioè la vera nobiltà, non
trova il suo fondamento nell’appartenere a una stirpe illustre (secondo la concezione aristo-
cratica e feudale della nobiltà), bensì nelle doti morali e intellettuali dell’individuo (stanza
IV) che a loro volta sono essenzialmente delle qualità naturali («lo cor... è fatto da natura /
asletto, pur, gentile», st. II, vv. 18-19). Anche se una simile affermazione non è nuova in as-
soluto, è però chiaro che storicamente acquista un particolare significato se collocata sullo
sfondo della società e della cultura comunale duecentesca: la teoria della nobiltà fondata
sulle qualità naturali, sui meriti individuali, e la polemica contro la concezione aristocrati-
ca e feudale della nobiltà, costituiscono un dato fondamentale della mentalità di quei ceti
borghesi che, proprio attraverso un conflitto con la società feudale, hanno affermato la
propria autonomia e la propria indipendenza politica, e in parte culturale.
La dottrina d’amore In secondo luogo, Guinizzelli formula una teoria dell’amore. Amore rifugge dalla natura
ignobile (vv. 25-26) e ha la sua sede naturale nei cuori gentili (stanze I-III). La donna, ope-
rando secondo un disegno provvidenziale, si manifesta all’uomo dal cuor gentile e lo inna-
mora (v. 20), come la stella infonde nella materia depurata da ogni scoria la proprietà che
la rende preziosa. L’innamoramento si configura così per Guinizzelli come un tradursi in
atto di quelle disposizioni naturali, di quelle virtù morali che sono presenti nell’uomo allo
stato virtuale. In altri termini: solo l’uomo che è naturalmente predisposto al bene può as-
sumere in sé l’amore, ma d’altro canto è solo l’amore che rende effettivamente operante la
predisposizione al bene che è nell’uomo. In questa concezione d’amore – che ricorrendo
alla nozione di “potenza” e “atto” fa riferimento alla filosofia scolastica – starebbe la mag-
giore novità guinizzelliana, a giudizio di gran parte della critica. In ogni caso, è chiaro che
l’amore è concepito come un processo tutto interiore, spirituale; un processo – semplifi-
cando – di ingentilimento e di perfezionamento morale che si non si attua in tutti ma so-
lo in chi è naturalmente predisposto a viverlo.
Il ruolo salvifico della donna nel disegno provvidenziale Abbiamo osservato che la donna opera secondo un
disegno provvidenziale. È quanto viene asserito nella stanza V, la più schiettamente filosofi-
ca, grazie al paragone fra l’azione delle intelligenze angeliche sul moto dei cieli e quello
della donna nei confronti dell’uomo gentile. «Da una parte l’Intelligenza contribuisce al-
l’ordine cosmologico, muovendo il proprio cielo in ottemperanza alla volontà di Dio; dal-
l’altra la donna-angelo con uguale disinteresse e provvidenzialità contribuisce all’ordine
morale, muovendo, anch’essa in ottemperanza alla volontà di Dio, il cuore dell’uomo ver-
so il bene» (Marti). L’azione della donna, insomma, si inserisce in un disegno provviden-
ziale e opera sul piano morale proprio come su quello cosmologico operano gli angeli ve-
ri e propri.
Possiamo pertanto concludere, con Marti, che la tradizionale metafora della donna an-
gelo (in origine semplice complimento galante: “bella come un angelo”), che ricorre nel-
l’espressione «Tenne d’angel sembianza» (stanza VI), nel contesto stilnovistico assume su
questi fondamenti etico-filosofici un nuovo più pregnante significato.
«Tenne d’angel sembianza» (una meditazione sulla poesia) La stanza conclusiva richiede un breve supplemen-
to di indagine. Si noti che Dio rimprovera l’anima di aver dato ad un amore vano come
termine di paragone la Sua immagine (l’immagine di Dio stesso), cioè di aver utilizzato
nella sua poesia metafore e paragoni celesti per qualificare un amore profano, mentre le lo-
di (come aveva detto anche san Francesco: «tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne
benedictione») spettano di diritto esclusivamente a Dio e alla Madonna. È importante sot-
tolineare il fatto che in questo modo viene espressamente accusata l’anima del poeta in
quanto poeta e che l’accusa di Dio sembra voler implicare alcuni componimenti guiniz-
zelliani (ad es. Io voglio del ver la mia donna laudare) e forse l’uso stesso della tradizionale me-
tafora della donna angelo (effettivamente, di solito, usata arbitrariamente a scopi profani).
L’autodifesa dell’anima consiste in una «coraggiosa, ironica e geniale risposta»: l’errore è
150 © Casa Editrice Principato
7. Lo Stilnovo T 7.1

consistito non nel prendere Dio come termine di paragone per celebrare un amore profano,
ma «in un abbaglio analogico assai minore, quello di innamorarsi della “semblanza” angelica
della donna» (Boitani). In altri termini, nella bellezza terrena della donna è stata vista, intui-
ta una scintilla della bellezza divina: questo il vero oggetto dell’amore e della lode, questo il
senso – rinnovato – della metafora dell’angelicità della donna.
Nella stanza conclusiva della canzone, insomma, c’è anche un’implicita riflessione sulla
poesia: un distanziamento al tempo stesso dalla poesia cortese, in quanto sfruttava per scopi
profani nozioni religiose come quella della bellezza angelica, e dalla poesia di chi, come
Guittone, aveva semplicemente rinnegato e abbandonato la poesia cortese per una poesia
propriamente religiosa (e la voce di Dio in realtà esprime il punto di vista e l’accusa di
Guittone). Con questa clausola ironica Guinizzelli delimita l’esatta collocazione della sua
poesia (e poi dello stilnovo) nel mezzo di quei due estremi: la sua è una poesia d’amore per
una donna terrena che assume la dignità di un impegno etico-metafisico cristiano.

DIO

intelligenze donna
angeliche

piano piano
cielo uomo
cosmologico morale

ordine, armonia bene

DIO

Laboratorio 1 Scheda, parafrasando e, se necessario, sin- senza ricorrere alle note; al termine del-
COMPRENSIONE tetizzando il testo, le similitudini esplicite l’esercizio il ricorso alle note consentirà a
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE o implicite presenti nella canzone (è bene ciascuno di verificare autonomamente il
che l’esercizio sia fatto dopo aver ben proprio grado di comprensione ). Il se-
compreso il testo originale del Guinizelli; guente schema funge da modello.
la parafrasi o la sintesi dovrà essere fatta

versi primo termine di paragone secondo termine di paragone


1-2 Amore ritorna sempre presso il come l’uccello ritorna fra il verde
cuore nobile della selva
3-7 La natura non ha creato l’amore [così come] non appena fu creato il sole,
prima del cuore nobile, né il cuore immediatamente la sua luce
nobile prima dell’amore risplendette…
8-10 Amore risiede nel cuore nobile come il calore nello splendore del fuoco

2 Sintetizza i concetti fondamentali della – A rendere gentile il cuore è la natura o


canzone seguendo l’ordine dell’argomen- l’amore?
tazione dell’autore. Per questo esercizio è – Nella definizione della concezione del-
opportuno parafrasare il testo in forma l’amore esposta nella canzone conta di
più astratta rispetto all’originale. più l’elemento ‘democratico’ (la polemica
3 Dopo aver riflettuto sul significato e sulla antifeudale) o quello ‘elitario’ (non tutti
struttura argomentativa del testo rispondi possono essere toccati dall’amore) e per-
a queste domande: ché?
– In che cosa consiste la gentilezza?

151 © Casa Editrice Principato


Duecento e Trecento

T 7.2 Guido Guinizzelli


Io voglio del ver la mia donna laudare 1263-1274
Poeti del Duecento Dei quattordici sonetti che compongono il canzoniere guinizzelliano, questo è tra i
a c. di G. Contini, più celebri e influenti sulla successiva poesia stilnovistica e in particolare su Dante: ben-
Ricciardi, ché muova da forme ancora proprie della tradizione cortese, si arricchisce di numerose
Milano-Napoli 1960
allusioni scritturali e propone una fenomenologia degli effetti, tutti di natura morale e
spirituale, che il passaggio per via e il saluto della donna hanno sugli astanti.

Nota metrica
Io voglio del ver la mia donna laudare
Sonetto secondo lo sche- ed asembrarli la rosa e lo giglio:
ma ABAB,ABAB, CDE, più che stella dïana splende e pare,
CDE.
4 e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio.
1 del ver: secondo ve-
rità. Verde river’ a lei rasembro e l’âre,
2 asembrarli: parago-
narle. tutti color di fior’, giano e vermiglio,
3 stella dïana:Venere o
oro ed azzurro e ricche gioi per dare:
Lucifero, la stella (in realtà
il pianeta) che annuncia la 8 medesmo Amor per lei rafina meglio.
luce diurna.
3 splende e pare: «cop-
pia verbale sinonimica di Passa per via adorna, e sì gentile
valore pregnante: “appare ch’abassa orgoglio a cui dona salute,
splendente di luce”»
(Quaglio). 11 e fa ’l de nostra fé se non la crede;
4 somiglio: paragono.
5 Verde... âre: rassomi-
glio a lei la verde campa-
e no·lle pò apressare om che sia vile;
gna (river’) e l’aria (âre, ae- ancor ve dirò c’ha maggior vertute:
re). 14 null’om pò mal pensar fin che la vede.
6 giano: giallo.
7 azzurro: pietre pre-
ziose azzurre, cioè lapislaz-
zuli.
7 ricche... dare: gem- 9 adorna: ornata d’una 11, a proposito del giorno non la crede: e lo converte vanni 20, 17» (Rossi), frase
me preziose degne d’esse- dignitosa bellezza. del Giudizio: «L’uomo ab- alla nostra fede, se ancora pronunciata da Cristo ri-
re date in dono. 9 gentile: nobile. basserà gli occhi alteri, la non è un credente. sorto.
8 medesmo... meglio: 10 abassa... salute: dimi- superbia umana si piegherà; 12 no.lle po’… vile: non 13 ch’a maggior vertu-
perfino Amore per opera nuisce l’orgoglio, rende sarà esaltato il Signore, lui può avvicinarsi a lei perso- te: che possiede una dote
sua si perfeziona (rafina me- umile colui al quale ella ri- solo in quel giorno». na vile. «Versione profana ancor più straordinaria.
glio). volge il saluto. Cfr. Isaia, II, 11 e fa ’l de nostra fé se del noli me tangere di Gio-

Guida all’analisi
La struttura del plazer e la tecnica dell’analogia Il sonetto per tecnica e temi può venir abbastanza agevolmen-
te distinto in due “tempi”, che coincidono con la divisione metrica in quartine e terzine.
Nelle due quartine il poeta utilizzando la tecnica dell’analogia (si notino i verbi sinonimi:
asembrarli, somiglio, rasembro ai vv. 2, 4, 5) paragona la donna di cui vuol tessere la lode (vo-
glio... laudare, v. 1) agli elementi naturali più piacevoli e preziosi (fiori, prati, aria, stelle, pietre
preziose). Con ciò suggerisce al lettore l’immagine di un suggestivo paesaggio primaverile:
ma questo è evocato per il tramite delle similitudini, e non è propriamente l’ambiente in
cui si collochi alcun avvenimento.Va inoltre notato che il modo della lode è ancora piutto-
sto tradizionale: si ricollega infatti ai plazers provenzali (enumerazioni di cose piacevoli). Il
tema stesso della lode della donna amata è presente sia nella poesia classica sia in quella ro-
manza (trovadorica e siciliana).
Riferimenti scritturali e strategia ascensionale (dalla natura al cielo) Quella che a noi può apparire una lode
condotta in termini puramente naturalistici al lettore medievale doveva fare un effetto di-
verso, in quanto rievocava alla mente dei noti passi scritturali. In effetti il motivo dell’analo-
gia fra la donna e le forme naturali «s’ispira manifestamente al Cantico dei Cantici» (Conti-
ni), il libro del Vecchio Testamento nel quale si celebra l’amore nuziale e che nel Medioevo
152 © Casa Editrice Principato
7. Lo Stilnovo T 7.2

veniva interpretato allegoricamente, per cui nella sposa si identificava la Vergine o l’anima
cristiana o anche la Chiesa. Al v. 2 la rosa e lo giglio ricorda la similitudine «Come un giglio
fra i cardi, così la mia amata tra le fanciulle» (Cantico, II, 2); al v. 3 «più che stella diana» e al
v. 4 «e ciò ch’è lassù bello» evocano un’altra similitudine: «Chi è costei che sorge come l’au-
rora, / bella come la luna, / fulgida come il sole…?» (Cantico,VI, 10). Secondo Rossi, anzi,
«Guinizzelli sembra far ricorso al Cantico, per prospettare, in forma simbolica, un percorso
ascensionale, dalla comparazione dell’amata con gli elementi naturali (v. 2), attraverso quel-
la con gli astri (v. 3), fino alle bellezze celesti (v. 4). Si tratta d’un procedimento che, in ma-
niera estremamente sintetica, richiama quello articolatamente argomentato in Al cor gentil. È
chiaro comunque che il complesso di virtù mirabilmente racchiuse in una creatura terrestre
qual è la mia donna è tale da compiere miracoli, non diversi da quelli tradizionalmente attri-
buiti alla Vergine (e nell’esegesi più diffusa del Cantico, alla Sposa)». Per questa via «l’esalta-
zione dell’amata, in Guinizzelli diviene quasi adorante, sul modello del santificetur nomen
tuum [sia santificato il tuo nome] del Pater Noster, nonché delle Laudes ad omnes horas dicendas
[Lodi da dirsi ad ogni ora]».
Le terzine: il tema del saluto e i suoi effetti morali Nelle terzine la lode analogica e allusiva della
donna si trasforma infatti in enumerazione degli effetti palesemente miracolosi che essa
produce passando per via, manifestandosi e porgendo un saluto. A questo proposito si no-
terà: 1) non è detto e non importa se la donna ricambi o no l’amore di colui che la loda; 2)
la donna non agisce esclusivamente sull’animo dell’innamorato ma su tutti coloro che en-
trano nella sua sfera d’azione (a cui... om... om); 3) gli effetti che la donna produce mediante
la semplice presenza, lo sguardo e il saluto sono di ordine morale («abassa orgoglio», «no·lle
pò apressare om che sia vile», «null’om pò mal pensare», vv. 10, 12, 14) e di ordine religioso
(«fa ’l de nostra fé», v. 11). È possibile pertanto riconnettere questa mia donna, e il suo modo
di manifestarsi e di agire sull’uomo, alla donna-angelo e alla sua funzione salvifica delle due
stanze conclusive della canzone Al cor gentil.

Doc 7.4 La critica di Guittone

Guittone d’Arezzo, il principale esponente della poesia cortese toscana, più tardi si convertì
a una poesia morale e religiosa, implicitamente condannando come immorale tutta la pre-
cedente tradizione poetica. Venne aspramente attaccato da Dante, che in più circostanze
ebbe parole di aperto disprezzo per la sua poesia, che giudicò rozza e municipale. Guitto-
ne mostrò anche di non comprendere le potenzialità di rinnovamento morale e letterario
dell’esperienza stilnovistica, e certamente – come Dante fa dire a Bonagiunta nel citato
canto XXIV del Purgatorio – rimase al di qua di quell’esperienza letteraria, come del resto
i siciliani e lo stesso Bonagiunta («“O frate, issa vegg’io”, diss’elli, “il nodo / che ’l Notaro
e Guittone e me ritenne / di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!”», Pg XXIV 55-57).
Nel sonetto S’eo tale fosse, ch’io potesse stare Guittone, riferendosi proprio a Io voglio del ver
la mia donna laudare e a un altro testo laudativo del Guinizzelli, Vedut’ho la lucente stella dia-
na, esplicitamente attacca il poeta bolognese per aver paragonato la donna a degli elemen-
ti naturali, che nella gerarchia delle creature sono ad un livello inferiore della donna. Con
ciò dimostra di rigettare il concetto guinizzelliano di naturalità dell’amore e di non condi-
videre o addirittura di non cogliere il ruolo salvifico che, nell’ordine naturale e provviden-
ziale, Guinizzelli attribuisce alla donna.

Laboratorio 1 Elenca i termini e i concetti chiave del 2 Quali affinità (tematiche, ideologiche,
COMPRENSIONE testo e prova a schematizzare in un dia- tecniche...) presenta questo sonetto con
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE gramma i temi delle terzine (situazione, la canzone Al cor gentil? Ci sono significa-
personaggi, effetti). tive divergenze?
153 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento

T 7.3 Guido Guinizzelli


Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo post 1263 - ante 1274
Poeti del Duecento Un sonetto d’angoscia, questo, che anticipa temi e modi cavalcantiani. Lo sguardo e il
a c. di G. Contini, saluto della donna, accanto agli effetti miracolosi descritti nel testo precedente, possono
Ricciardi, produrre anche effetti sconvolgenti nell’animo dell’uomo innamorato.
Milano-Napoli 1960

Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo


che fate quando v’encontro, m’ancide:
Amor m’assale e già non ha reguardo
4 s’elli face peccato over merzede,

ché per mezzo lo cor me lanciò un dardo


ched oltre ’n parte lo taglia e divide;
parlar non posso, ché ’n pene io ardo
8 sì come quelli che sua morte vede.

Per li occhi passa come fa lo trono,


che fer’ per la finestra de la torre
11 e ciò che dentro trova spezza e fende:

remagno como statüa d’ottono,


ove vita né spirto non ricorre,
14 se non che la figura d’omo rende.

Nota metrica 2 m’ancide: mi uccide. 5 per mezzo lo cor: at- traverso gli occhi come fa il rende: nella quale non vi so-
Sonetto secondo lo sche- 3-4 non ha... merzede: traverso il cuore. fulmine (trono) che colpisce no (ricorre) né vita né anima,
ma ABAB,ABAB, CDE, non si preoccupa se mi arre- 6 ched oltre ’n parte: (fer’) attraverso la finestra ma che possiede esclusiva-
CDE. Siciliana la rima B. ca offesa (peccato), se mi fa che da parte a parte. della torre... mente l’aspetto d’uomo.
soffrire oppure mi fa grazia 8 quelli: uno che... 12 ottono: ottone.
(merzede), mi dà sollievo. 9-10 Per... torre: passa at- 13-14 ove vita né spirto...

Guida all’analisi
Un’apparizione sconvolgente Anche per gli stilnovisti l’amore è una passione che può sconvolgere. Accanto al-
le rime in lode della donna, accanto all’analisi degli effetti “miracolosi”, di ingentilimento ed
elevazione di chi entra nella sfera d’azione della donna (temi questi cari, poi, soprattutto a
Dante) si colloca l’analisi spesso drammatica del turbamento che il manifestarsi d’amore pro-
duce nell’uomo (tema tipicamente cavalcantiano). Il Guinizzelli “precursore” dello stilnovo
dà l’avvio ad entrambe le direzioni che percorreranno i due capiscuola fiorentini.
In questo sonetto è notevole rilevare innanzi tutto come la vicenda esterna del rapporto d’a-
more si riduca drasticamente alla menzione del saluto e dello sguardo (e tutt’al più all’atto-
nita immobilità del poeta), mentre tutta l’analisi si concentra sullo stato di turbamento inte-
riore, sugli effetti psicologico-morali dell’incontro. Anche in questo caso lo sconvolgimento,
drammaticamente rappresentato come trafittura, fulgurazione, pietrificazione, è del tutto in-
dipendente dall’atteggiamento della donna, dalla dialettica cortese di dichiarazioni, patteg-
giamenti, promesse, rifiuti, speranze, disillusioni che hanno come fine almeno la reciprocità
dell’amore, ma anche rapporti più concreti. Non è la ripulsa della donna che annichilisce l’a-
mante, ma la sua semplice apparizione. Qui il tema non ha espliciti risvolti metafisici, ma ap-
pare del tutto in armonia con la rappresentazione della donna-angelo e il turbamento che
l’uomo prova di fronte all’apparizione del divino (e la contiguità con testi più espliciti come
Al cor gentil consente di leggere il sonetto in questo senso). Estasi e annichilimento, gioia e

154 © Casa Editrice Principato


7. Lo Stilnovo T 7.3

terrore sono d’altronde anche nella letteratura mistica i due opposti e complementari effetti
che la manifestazione del divino determina nell’uomo che ne fa esperienza.
Fonti Di per sé, tuttavia, molte delle immagini qui utilizzate sono tradizionali: l’immagine del
dardo d’amore ha radici lontane (classiche e bibliche: per le prime R Doc 7.5 , per le seconde si
ricorda ancora una volta il Cantico dei Cantici, IV, 9: «Vulnerasti cor meum, soror mea spon-
sa, vulnerasti cor meum in uno oculorum tuorum» [Tu hai trafitto il mio cuore, sorella mia
sposa, tu ha trafitto il mio cuore con un solo tuo sguardo]) ed è diffusa in tutta la lirica cor-
tese, la similitudine col fulmine è presente già in Guittone; quella della statua è già nella li-
rica provenzale.

Doc 7.5 Il dardo d’amore nelle Metamorfosi di Ovidio

Quella del dardo scagliato da Amore che trafigge il cuore dell’uomo facendolo innamorare,
è una metafora antichissima, fra le più costanti del linguaggio della lirica amorosa di tutti i
tempi. Nella forma sua più tipica ha origine nelle letterature classiche. Il Medioevo e Gui-
nizzelli stesso in questo sonetto con tutta probabilità la derivano da un passo delle Meta-
morfosi di Ovidio, una delle principali fonti anche per la conoscenza mitologica medievale.
A proposito del mito di Dafne (figlia di Peneo e perciò designata come «ninfa penea»), Ovi-
dio racconta che Apollo, ancora insuperbito per avere sconfitto il serpente Pitone, apostro-
fa in malo modo il fanciullo Cupido che stava tendendo il suo arco: che vuoi fare con ar-
mi così impegnative, che si addicono più alle mie spalle che alle tue? Cupido replica che
l’arco d’Apollo può trafiggere ogni cosa, ma il suo può trafiggere il cuore di Apollo.

Ovidio, Metamorfosi,
I, 466-474, trad. M.
Ramous Disse, e come un lampo solcò l’aria ad ali battenti,
fermandosi nell’ombra sulla cima del Parnaso,
e dalla faretra estrasse due frecce
d’opposto potere: l’una scaccia, l’altra suscita amore.
470 La seconda è dorata e la sua punta aguzza sfolgora,
la prima è spuntata e il suo stelo ha l’anima di piombo.
Con questa il dio trafisse la ninfa penea, con l’altra
colpì Apollo trapassandogli le ossa sino al midollo.
Subito lui s’innamora, mentre lei nemmeno il nome d’amore
475 vuol sentire…

In Ovidio la trafittura è una punizione inflitta da Cupido all’arroganza di Apollo, così


le due frecce dell’amore e del disamore scagliate contestualmente inducono nel dio il
sentimento d’amore e l’impossibilità di vederlo ricambiato, determinando l’esito della vi-
cenda: Dafne inseguita dal dio invoca il padre Peneo, che la tramuta in una pianta di al-
loro (che da allora sarà sacra ad Apollo). Ma indipendentemente da questa storia e an-
che dall’invenzione di due frecce dagli opposti effetti (solo raramente ripresa), la metafora
dell’amore come trafittura del dardo di Cupido è un mezzo per drammatizzare la rap-
presentazione dell’innamoramento, per evocare i tormenti della passione.

Laboratorio 1 Elenca i termini e i concetti chiave di 3 Metti a confronto i due sonetti T 7.2 e
COMPRENSIONE questo sonetto e prova a schematizzarli in T 7.3 : quali elementi (anche soltanto im-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE un semplice diagramma. pliciti) li accomunano e quali viceversa li
2 Quali affinità (tematiche, ideologiche, distinguono? Spiega come una medesima
tecniche…) presenta questo sonetto con concezione dell’amore e della donna pos-
la canzone Al cor gentil? Ci sono significa- sa sortire effetti così diversi.
tive divergenze?
155 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento

T 7.4 Guido Cavalcanti


Chi è questa che vèn ch’ogn’om la mira 1280-1300
Poeti del Duecento In questo che è uno dei sonetti di apertura del canzoniere cavalcantiano la donna si
a c. di G. Contini, mostra nella felicissima immagine iniziale – di ascendenza biblica – come un’improvvi-
Ricciardi, sa e sfolgorante apparizione. Non solo il poeta, ma ogni uomo al suo cospetto rimane
Milano-Napoli 1960
attonito e abbagliato, non riesce a proferire parola e si limita a un sospiro, che dice la
sua stupefatta ammirazione e un sentimento di inadeguatezza di fronte a tanta perfe-
zione. La bellezza e la benevolenza (umiltà) della donna sono infatti dichiarate di tale
intensità da risultare per la mente umana inconoscibili nella loro esatta natura e di con-
seguenza ineffabili, inesprimibili.

Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira,


che fa tremar di chiaritate l’âre
e mena seco Amor, sì che parlare
4 null’omo pote, ma ciascun sospira?

O Deo, che sembra quando li occhi gira,


Nota metrica
Sonetto secondo lo sche- dical’ Amor, ch’i’ nol savria contare:
ma ABBA,ABBA, CDE, cotanto d’umiltà donna mi pare,
EDC. 8 ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ ira.
1 Chi è questa che vèn:
Chi è questa che avanza. Non si poria contar la sua piagenza,
Apertura di ispirazione bi-
blica, in quanto riecheggia ch’a le’ s’inchin’ ogni gentil vertute,
il Cantico dei cantici, 6, 9 11 e la beltate per sua dea la mostra.
(«Quae est ista quae progre-
ditur?»), Isaia, 63, 1 («Quis
est iste, qui venit?») e altri Non fu sì alta già la mente nostra
passi affini. R Guida all’ana-
lisi. e non si pose ’n noi tanta salute
2 che fa… l’âre: che fa 14 che propiamente n’aviàn canoscenza.
tremare di splendore, cioè
illumina l’aria. Per il verbo
tremar R Guida all’analisi. re: lo dica Amore, perché io altra al suo confronto (ver’ di 10 s’inchin’: «si inginoc- verse:“non abbiamo tali ca-
3-4 e mena… sospira?: e non lo saprei esprimere. lei) io la chiamo ira, cioè la chia, rende omaggio reve- pacità da...” oppure “non
conduce (mena) con sé 7 cotanto d’umiltà reputo malvagia; ira è in an- rente» (Quaglio). abbiamo avuto tale rivela-
Amore, tanto che nessuno donna:, donna tanto bene- titesi a umiltà. 12 alta: profonda, acuta. zione da...”.
(null’om) può articolare pa- fica (di tanta umiltà). Umiltà 9 Non si poria… pia- 13 salute: «virtù, capacità» 14 che… canoscenza: da
rola, ma tutti sospirano (si li- vale “benevolenza, beni- genza: non si potrebbe (po- (Quaglio) oppure «rivela- averne adeguata conoscen-
mitano a sospirare)? gnità”. ria) esprimere la sua bellezza zione» (Contini) con due za (propiamente, in modo ap-
6 dical’ Amor... conta- 8 ch’ogn... ira: che ogni (piagenza). sfumature di significato di- propriato, adeguato).

Guida all’analisi
Amore come dramma della conoscenza L’atteggiamento che Cavalcanti manifesta nei confronti della donna e
dell’amore, dà luogo nella sua poesia a una sorta di ‘dramma conoscitivo’ e più precisamen-
te alla drammatica scoperta della propria incapacità di conoscere appieno l’oggetto del pro-
prio amore. Nel suo canzoniere Cavalcanti continuamente si interroga sulla natura della
donna e della passione che a lei lega l’innamorato: il suo principale tormento deriva non
tanto da un atteggiamento di non corresponsione della donna (elemento questo della tradi-
zione cortese, solo vagamente accennato in qualche componimento nei soliti termini di
mancanza di «pietà»), quanto piuttosto dalla sua natura eccedente l’umana comprensione e
dall’irrazionalità (inspiegabilità in termini razionali) della passione stessa che egli prova. Del
resto anche i rari momenti di gioia estatica hanno origine dalla contemplazione e dall’in-
tuizione della sovrumana perfezione della donna.

156 © Casa Editrice Principato


7. Lo Stilnovo T 7.4

La natura benigna della donna e la coralità della visione Importante in questo testo – per il distanziamento dal-
la tradizione cortese – è il concetto di umiltà nel senso di “benevolenza, benignità”. Il con-
cetto e la parola che lo esprime hanno forti implicazioni cristiane ed evangeliche e ricon-
ducono la rappresentazione cavalcantiana alla funzione eticamente positiva che già Guiniz-
zelli aveva teorizzato per la donna. La donna qui lodata ha in misura tale questa virtù che
ogni altra donna paragonata a lei può essere definita ira, cioè una forma di malignità, un vi-
zio pressoché antitetico. La distanza che intercorre fra la lodata e le altre appare una distan-
za incolmabile, infinita.
Occorre inoltre notare che la benevolenza qui celebrata non ha alcuna attinenza con
l’atteggiamento della donna nei confronti dei sentimenti del poeta, non è una forma di cor-
responsione all’amore; è una qualità assoluta della donna, che si manifesta a tutti. Cavalcan-
ti qui infatti adotta un «punto di vista indefinito o ‘corale’» (De Robertis): l’ammirazione, i
sospiri, la stessa impossibilità di comprensione è riferita a tutti gli astanti («ogn’om la mira»)
o all’umanità intera («Non fu sì alta già la mente nostra / e non si pose ’n noi tanta salute, /
che propiamente n’aviàn canoscenza») e riserva a se stesso solo «l’ammissione dell’ineffabi-
lità», della propria insufficienza ad esprimere con parole la natura ‘eccessiva’ della donna
(«dical’ Amor, ch’i’ nol savria contare»).
Apparizione e religioso stupore Che Cavalcanti voglia ammantare d’un religioso stupore questa apparizione
della donna, slegandola da ogni riferimento a una storia d’amore privata, appare chiaro dal-
la trama di immagini, di concetti e di riferimenti biblici che regge il sonetto. Come già in
Guinizzelli, in tutto il suo canzoniere svaniscono quasi completamente dati che rimandino
a situazioni e contesti precisi, a elementi riconducibili a una vicenda biografica sia pur im-
maginaria. Tutto è risolto in un’apparizione dai contorni indefiniti e nell’analisi delle rea-
zioni che essa induce. L’apparizione è espressa con un inequivocabile stilema biblico: la ci-
tazione quasi letterale di alcuni passi del Cantico dei Cantici già utilizzati da Guinizzelli
[R T 7.2 ] «Quae est ista quae progreditur quasi aurora consurgens?» [Chi è costei che sorge
come l’aurora?], «Quae est ista, quae ascendit de deserto?» [Chi è colei che sale dal deser-
to?]) fa notare a Contini che «poiché l’esegesi cristiana applicò questi passi a Maria, è evi-
dente l’assimilazione [della donna lodata dal Cavalcanti] al culto mariano».
La splendida immagine dell’aria che all’apparire della donna trema per la lucentezza, ri-
conducibile al lessico della fisica del tempo, ammanta poeticamente colei che si mostra
d’una luce numinosa e associa gli elementi naturali (l’aria) al fremito di stupore che percor-
re gli uomini (Cavalcanti stesso nella canzone Io non pensava che lo cor giammai R T 7.5 ). E il
tremore è sintomo topico dell’apparire del divino. Del resto la simbologia della luce ha una
parte rilevante, sin da Guinizzelli, nella smaterializzazione della donna stilnovistica. Infine, il
tema dell’inconoscibilità e dell’ineffabilità della donna ricorda la mistica e la teologia nega-
tiva: il divino non è compiutamente conoscibile dalla mente umana né compiutamente
esprimibile dalla parola umana.
Allusione a un sonetto del Guinizzelli: concorrenza nella lode Sul piano letterario e ideologico è da notare il
fatto che questo sonetto nasconde un’allusione a un sonetto guinizzelliano (Io voglio del ver
R T 7.2 ): questa è segnalata – come nota Contini – dalla «comunanza di due rime, una nel-
le quartine (-are) e una nelle terzine (-ute), e anzi di ben quattro parole in rima, una per cia-
scuna quartina o terzina (âre, pare, vertute, salute)». Contini parla anzi di «‘concorrenza’ nella
loda»: l’analogia con elementi naturali, sufficiente per la donna di Guinizzelli, non lo è più
per la donna di Cavalcanti, per intendere la quale «ogni ordinario procedimento conosciti-
vo, che sia di qua dalla rivelazione (salute)» risulta insufficiente (cfr. nota al v. 13).

Laboratorio 1 Elenca i termini e i concetti chiave di che i riferimenti biblici hanno nella poe-
COMPRENSIONE questo sonetto e prova a schematizzarli in sia stilnovistica.
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE un semplice diagramma. 3 In questo sonetto, come in molti altri testi
2 Muovendo dall’analisi di questo testo e cavalcantiani, spicca l’assenza dei paragoni
dal confronto con i testi guinizzelliani, naturali, presenti ad es. in Al cor gentil: che
formula alcune considerazioni sul ruolo significato può avere questa assenza?

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Duecento e Trecento

T 7.5 Guido Cavalcanti


Io non pensava che lo cor giammai 1280-1300
Poeti del Duecento L’accento più tipico della poesia cavalcantiana è quello che cade sull’angoscia che prova il
a c. di G. Contini, poeta (e l’uomo più in generale, in quanto gentile e sensibile) di fronte alla bellezza della
Ricciardi, donna o ad un suo sguardo e sullo stupore e sbigottimento che egli prova. La passione d’a-
Milano-Napoli 1960
more per Cavalcanti è essenzialmente, secondo l’etimo del termine, una sofferenza che con-
duce alla morte, almeno in senso metaforico e psicologico. Le ragioni di questa sofferenza e
di questo stupore stanno tutte nell’impossibilità di cogliere in termini razionali la natura ‘ec-
cessiva’ della donna e della passione stessa. Questa canzone è un testo che si potrebbe dire
programmatica, per l’ampiezza e la sistematicità con cui il tema viene affrontato.

Nota metrica Io non pensava che lo cor giammai


Canzone, secondo lo avesse di sospir’ tormento tanto,
schema ABBC, BAAC
(fronte); DeD, FeF (sir- che dell’anima mia nascesse pianto
ma). mostrando per lo viso agli occhi morte.
5 Non sentìo pace né riposo alquanto
2 di sospir’ tormento: poscia ch’Amore e madonna trovai,
tormento dei sospiri, cau- lo qual mi disse: «Tu non camperai,
sato dai sospiri; riprende, ché troppo è lo valor di costei forte».
con analogo valore me-
taforico di conflittualità La mia virtù si partìo sconsolata
(fra le varie parti del cor- 10 poi che lassò lo core
po), un’espressione del
Guinizzelli, «Ed io dal suo a la battaglia ove madonna è stata:
valor son assalito / con sì la qual degli occhi suoi venne a ferire
fera battaglia di sospiri»
(Vedut’ho la lucente stella in tal guisa, ch’Amore
dïana, v. 10). ruppe tutti miei spiriti a fuggire.
3 che dell’anima: che
dall’anima. Il che può avere
valore consecutivo (tanto 15 Di questa donna non si può contare:
che) od oggettivo (io non ché di tante bellezze adorna vène,
pensava… che). De Rober-
tis propendendo per que- che mente di qua giù no la sostene
st’ultima soluzione sottoli- sì che la veggia lo ’ntelletto nostro.
nea la simmetria delle due
coordinate: io non pensava Tant’è gentil che, quand’eo penso bene,
che lo cor… di sospir’… che 20 l’anima sento per lo cor tremare,
dell’anima… pianto.
4 mostrando... morte: sì come quella che non pò durare
che (rif. a pianto e forse an- davanti al gran valor ch’è i.llei dimostro.
che a sospir’) rivelasse attra-
verso il mio sguardo (per lo Per gli occhi fere la sua claritate,
viso) la mia morte agli oc-
chi (di chi mi osserva): i so-
spiri e il pianto sono in-
somma rivelatori della e di riposo. Sentìo è la 1a in cui (contro di lui) ma- giù) non regge al suo cospet- dar merzede dei vv. 23 e 27)
sconfitta e della desolazio- persona. donna ha combattuto. Ma- to, tanto che il nostro intel- e posto dopo la dichiara-
ne (morte metaforica) del 6 poscia: dopo. donna (= mea domina, la mia letto possa conoscerla nella zione d’insufficienza d’una
cuore e dell’anima. Si noti 7 lo qual: Amore. – signora) designa abitual- sua essenza. Si noti – con De mente mortale a compren-
come già nei primi quattro camperai: sopravviverai. mente l’amata in tutta la li- Robertis – la «distinzione derela (vv. 17-18), il termi-
versi il poeta, invece di at- 8 valor: il termine si- rica cortese. analitica della facoltà intel- ne è più vicino al senso di
tribuire sinteticamente a sé gnifica al tempo stesso 12 degli occhi suoi: con, lettiva [intelletto] dalla sede “virtù sovrumana”. – ch’è
uno stato di afflizione (ad “pregio” (inerente a tutte per mezzo dei suoi occhi. dell’intellezione [mente]». i·llei dimostro: che in lei,
es.: sospiro e sono mortal- le doti e virtù della donna) «Come si dice ancora ‘di 19 gentil: è il termine, già cioè nella donna, è manife-
mente addolorato), con at- e “valore guerriero”, ade- spada’,‘di lancia’» (De Ro- guinizzelliano, che indica sto (dimostro, dimostrato).
teggiamento radicalmente guandosi alle metafore mi- bertis). la nobiltà d’animo. 23 Per... claritate : il suo
analitico menzioni cor, ani- litari che caratterizzano il 14 ruppe… a fuggire: 21 sì come… durare: splendore penetra (fere,
ma, viso e sospiri, pianto, mor- contesto (cfr. v. 11). sbaragliò i miei spiriti vitali poiché (sì come quella che) colpisce passando) attra-
te come entità in qualche 9 virtù: forza vitale o costringendoli a fuggire. non può resistere, reggere verso gli occhi.
misura oggettive e autono- (per attrazione delle me- 15 contare: dire, raccon- al suo cospetto (come soste-
me, personaggi del suo tafore militari) coraggio. tare in modo adeguato, nel ne del v. 17).
dramma interiore. 9 si partìo: si allontanò. senso di “esprimere com- 22 valor: cfr. nota 8; ma in
5 Non sentìo... alquan- 10-11 poi... stata: dopo piutamente i pregi”. questo caso, meno vincola-
to: non provai mai neppure aver abbandonato, lasciato 17-18 che mente... nostro: to dalla metafora militare
un poco (alquanto) di pace solo, il cuore nella battaglia che la mente umana (di qua (ma si vedano fere e diman-
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7. Lo Stilnovo T 7.5

24 quale: chiunque. sì che quale mi vede 42 per forza convenia: (ti


25-27 «Non... merzede?»: dissi che) era assolutamente
non vedi tu questo oggetto 25 dice: «Non guardi tu questa pietate necessario, inevitabile.
pietoso (pietate: l’astratto per ch’è posta invece di persona morta 43 Canzon: «Per geniale
il concreto) che pare (è posta per dimandar merzede?» ripresa d’un uso non fre-
invece) un morto mentre quente presso i toscani, il
chiede pietà (merzede)? Si E non si n’è madonna ancor accorta! congedo (identico di strut-
può intendere che questo tura ad ogni altra stanza) si
personaggio con il tu si ri- rivolge al componimento
volga direttamente a ma- Quando ’l pensier mi vèn ch’i’ voglia dire fatto persona» (Contini).
donna, oppure che l’espres- 30 a gentil core de la sua vertute, 43-44 de’ libri… t’asem-
sione non guardi tu significhi plai: ti copiai dai libri d’A-
più genericamente “come i’ trovo me di sì poca salute, more. Come nota De Ro-
non vedere”. ch’i’ non ardisco di star nel pensero. bertis, la metafora del copia-
28 E… accorta: eppure re dal libro d’Amore ricorda
(e) madonna non se ne è an- Amor, c’ha le bellezze sue vedute, i celebri versi di Pg XXIV
cora accorta! mi sbigottisce sì, che sofferire 52-54 che dichiarano la fe-
29-30 Quando... vertute: deltà di Dante al dettato d’a-
quando mi propongo (pen-
35 non può lo cor sentendola venire, more («I’ mi son un che,
sier mi vèn) di descrivere le ché sospirando dice: «Io ti dispero, quando / Amor mi spira,no-
sue virtù a una persona no- però che trasse del su’ dolce riso to,e a quel modo / ch’e’ditta
bile (gentil core nell’accezio- dentro vo significando»).
ne già guinizzelliana). una saetta aguta, 46 e vadi... ascolti: (ti
31 i’ trovo… salute: mi c’ha passato ’l tuo core e ’l mio diviso. piaccia...) d’andare presso di
scopro così (intellettual- lei così che ella ti possa
mente) debole, incapace. 40 Tu sai, quando venisti, ch’io ti dissi, ascoltare.
32 star nel pensero: per- poi che l’avéi veduta, 48 spiriti: spiriti vitali (è
sistere nel proposito. termine tipicamente caval-
34 sofferire: ancora nel per forza convenia che tu morissi». cantiano, tratto dalla filosofia
senso di “reggere, resistere” naturale del tempo che de-
(cfr. sostene e durare, vv. 17 e Canzon, tu sai che de’ libri d’Amore scriveva in termini di “spiri-
21). ti” o “corpi sottili” le facoltà
36 dice: il sogg. è Amore. – io t’asemplai quando madonna vidi: psichiche e fisiche dell’uo-
Io ti dispero: non ti lascio 45 ora ti piaccia ch’io di te me fidi mo: qui la fuga degli spiriti
speranza. dal cuore indica lo stato di
37-38 però che... aguta: e vadi ’n guis’ a lei, ch’ella t’ascolti; prostrazione, debolezza, sbi-
poiché con il suo soave sor- e prego umilemente a lei tu guidi gottimento sopra descritto.
riso ha scagliato un dardo 49 per soverchio: per
così appuntito (aguta). li spiriti fuggiti del mio core, l’eccesso.
39 c’ha passato… diviso: che per soverchio de lo su’ valore 50 eran... vòlti: sarebbero
che ha trafitto il tuo cuore e stati distrutti (conducendo a
ha aperto il mio. Si noti che 50 eran distrutti, se non fosser vòlti, morte il poeta) se non fosse-
Amore stesso si dichiara col- e vanno soli, senza compagnia, ro fuggiti.
pito dal riso della donna, e son pien’ di paura. 53 Però... fidata via: Per-
mostrando così di parteci- ciò conducili per una strada
pare al dolore del poeta. Però li mena per fidata via sicura.
40 quando venisti: quan-
e poi le di’, quando le se’ presente: 55-56 sono... d’un che si
do ti presentasti a me. more: sono l’immagine,
41 poi... veduta: dopo 55 «Questi sono in figura rappresentano uno che
che l’ebbi vista. d’un che si more sbigottitamente». muore sbigottito.

Guida all’analisi
Valore ‘eccessivo’ della donna, inconoscibilità e ineffabilità della sua natura Si diceva nella premessa che Io non
pensava che lo cor giammai può essere considerata una “canzone programmatica” per lo svi-
luppo e l’evidenza con cui sono affrontati i temi centrali della poetica cavalcantiana, che in
parte abbiamo già visto espressi nel precedente sonetto. Esaminiamoli brevemente. La don-
na appare tanto gentil (v. 19), di tanto valor (v. 22) e claritate (v. 23), di tante bellezze adorna (v.
16) – in senso sia fisico sia spirituale, poiché per gli stilnovisti la bellezza tende a configurarsi
come immagine di bontà, di ogni virtù – da comportare due conseguenze importanti. E
cioè: 1) «mente di qua giù no la sostene...»: la mente umana non è in grado di reggere l’im-
patto con la sua perfezione, né a maggior ragione la può comprendere in modo compiuto
(vv. 17-18 e 20-22); il valore della donna è insomma ‘eccessivo’ per l’amante, nel senso che
‘eccede’, va oltre le sue umane facoltà (cfr. «troppo è lo valor di costei forte», v. 8; «per sover-
chio de lo su’ valore», v. 49); 2) la sua spirituale bellezza (v. 16), il suo valore (v. 22), e cioè
l’essenza profonda della sua spiritualità, è ineffabile, incomunicabile.
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Duecento e Trecento

L’inadeguatezza del poeta produce ora l’estasi ora l’angoscia Si configura, insomma, nel rapporto d’amore, una
sorta di insormontabile inadeguatezza dell’amante rispetto alla donna amata, che i motivi
dell’incomprensibilità e dell’ineffabilità della donna rivelano. Sul piano psicologico-morale,
l’inadeguatezza dell’uomo si manifesta in due stati opposti e (fino a un certo punto) alter-
nativi: l’estasi provata nella contemplazione della miracolosa visione oppure lo sbigottimen-
to e l’angoscia che pervadono il poeta conscio della propria inadeguatezza («l’anima sento
per lo cor tremare», v. 20; «Amor… / mi sbigottisce sì, che sofferire / non può lo cor» vv. 33-35;
«un che si more sbigottitamente» v. 56). Quest’ultima è la condizione psicologico-morale più
frequente nel canzoniere cavalcantiano, e sovente si propone come prefigurazione o timore
della morte, come è chiaramente detto in questo testo (v. 4, vv. 7-8, v. 42 ecc.).
Coerenti con il campo semantico del conflitto sono anche le menzioni del ferire (ferire,
v. 13; fere, v. 23) e della sofferenza (tormento, v. 2; sofferire, v. 34), della paura (v. 52), del tremo-
re (tremare, v. 20) e della viltà (non ardisco, v. 32), della battaglia (v. 11, cui si associa il dimandar
merzede, l’arrendersi, il chiedere pietà del v. 27).
Drammatizzazione del conflitto interiore Lo stato di angoscia, di sbigottimento (vv. 34 e 56) fin da questa canzo-
ne si configura come esito di un conflitto interiore che ha per protagonisti le facoltà, i sensi,
gli organi dell’uomo raffigurati come entità autonome, ai limiti della vera e propria personifi-
cazione.
Nella canzone, sin dalla prima stanza, il conflitto rappresentato ha tre protagonisti (che po-
tremmo definire esterni): Io, Amore e madonna (vv. 1 e 6). Si tratta di due persone e di un’en-
tità personificata (mediante la maiuscola) che in due occasioni si rivolge direttamente al poe-
ta comunicandogli l’inevitabilità della disfatta («Tu non camperai...», vv. 7-8; «Io ti dispero...»,
vv. 36-42) nella battaglia in cui egli (Amore) assolve il ruolo di condottiero di madonna (vv.
13-14, 33-35).
L’io del poeta, in piena ma fallace evidenza ad inizio del v. 1, appare subito come disgrega-
to in un insieme di elementi (facoltà, sensi, organi) che divengono protagonisti (interni po-
tremmo definirli) del conflitto con Amore e madonna: il cuore (v. 1), l’anima (v. 3), gli occhi (v.
23), la virtù (v. 9), gli spiriti (v. 14). Il cuore prova tormento, l’anima piange, la virtù parte scon-
solata, gli spiriti sono volti in rotta, gli occhi sono feriti. Dell’io così disgregato che cosa resta?
Possiamo concludere che nel complesso del canzoniere cavalcantiano questa disgregazione
dell’io (in organi e facoltà), che spesso si configura come vera e propria drammatizzazione del
conflitto interiore (facoltà, spiriti, organi ecc. si comportano come veri e propri personaggi e
talora addirittura parlano), appare come l’equivalente simbolico della condizione di angoscia
provata dal poeta.
Un dramma sotto gli occhi di tutti Tipico di Cavalcanti, e poi di Dante, è il fatto che la sofferenza e lo sbigotti-
mento dell’innamorato sono sotto gli occhi di tutti. Spesso, come in questo caso ai vv. 23-
28, compare un personaggio che denuncia lo stato pietoso del poeta. Rispetto alla lirica
cortese, dove terze persone comparivano nella funzione dei lauzengiers, maldicenti invidiosi
che mettevano zizzania fra il poeta e la donna, qui la funzione dei terzi è esclusivamente
quella di constatare la sofferenza dell’innamorato, di additarne l’esemplarità e, caso mai, al-
l’opposto, di sollecitare la pietà della donna (se il «Non guardi tu…» del v. 25 fosse interpre-
tabile come un appello alla donna stessa). Il poeta d’altronde sembra voler chiedere com-
prensione e solidarietà, ma vanamente vista la sua impotenza, alle persone sensibili («Quan-
do ’l pensier mi vèn ch’i’ voglia dire / a gentil core de la sua vertute…», vv. 29-30). Anche
sotto questo rispetto ci si distanzia dalla poesia cortese, dov’era buona regola il «ben celare».

Laboratorio 1 Analizza le metafore militari presenti in 2 Abbiamo definito questa una canzone
COMPRENSIONE questa canzone, distinguendo i termini programmatica: confrontala con Al cor
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE tecnici militari (ad es.: battaglia, saetta...) gentil, la canzone dottrinale di Guinizzelli.
dai termini che vengono attratti nell’area Quali sono le principali caratteristiche
semantica della battaglia e della guerra tematiche e formali che le distinguono?
(ad es. valor, camperai...).
160 © Casa Editrice Principato
7. Lo Stilnovo T 7.6

T 7.6 Guido Cavalcanti


Voi che per li occhi mi passaste ’l core 1280-1300
Poeti del Duecento Questo sonetto descrive il conflitto interiore che l’apparizione della donna provoca nel
a c. di G. Contini, poeta. È un testo classico che consente di ricostruire un aspetto cruciale della fenome-
Ricciardi, nologia d’amore secondo Cavalcanti.
Milano-Napoli 1960

Nota metrica Voi che per li occhi mi passaste ’l core


Sonetto secondo lo sche-
ma ABBA,ABBA, CDE, e destaste la mente che dormia,
CDE. guardate a l’angosciosa vita mia,
4 che sospirando la distrugge Amore.

E’ vèn tagliando di sì gran valore,


che’ deboletti spiriti van via:
riman figura sol en segnoria
8 e voce alquanta, che parla dolore.

Questa vertù d’amor che m’ha disfatto


da’ vostr’occhi gentil’ presta si mosse:
11 un dardo mi gittò dentro dal fianco.

Sì giunse ritto ’l colpo al primo tratto,


che l’anima tremando si riscosse
14 veggendo morto ’l cor nel lato manco.

1 Voi... core: voi che mi della passione) producono 5 E’... valore: Egli lo l’aspetto esteriore rimane 14 nel lato manco: nel la-
trafiggeste il cuore «serven- effetti sconvolgenti. (Amore) avanza colpendo in potere di amore: un cor- to sinistro, dove è collocato
dovi degli sguardi» (Conti- 2 destaste… dormia: di taglio (vèn tagliando) con po senz’anima, insomma, il cuore. L’anima che si ri-
ni) oppure passando «attra- risvegliaste (cogliendo di tale forza, maestria. «Taglia- vista la fuga degli spiriti. scuote atterrita alla vista
verso gli occhi miei» (De sorpresa) la mia mente che re» è termine tecnico del 8 parla dolore: costru- della morte del cuore (tra-
Robertis). Il senso generale era addormentata. lessico militare come il pre- zione transitiva: manifesta il fitto dal dardo d’amore) si-
non cambia: nel canzoniere 4 che sospirando la di- cedente «passare». proprio dolore, parla dolo- gnifica, nella solita forma
cavalcantiano tanto l’aspetto strugge Amore: che Amore 6 spiriti: gli spiriti vitali, rosamente. metaforica, lo sconvolgi-
della donna che i suoi sguar- distrugge facendomi sospi- ovvero le facoltà psico-fisi- 9 vertù: forza, potenza. mento delle facoltà alla
di (entrambi percepiti attra- rare (la è pleonastico, sospi- che dell’uomo; R T 7.5 , 10 presta: rapida. constatazione dell’avvenu-
verso gli occhi del poeta, il rando è riferito logicamente nota v. 48. 12 ritto: diritto, preciso. – to innamoramento.
canale principe per la genesi a vita). 7 riman... segnoria: so- tratto: lancio.

Guida all’analisi
I temi, l’azione rappresentata Ricostruiamo così l’azione rappresentata: la donna si manifesta al poeta, gli rivol-
ge uno sguardo (v. 10); il suo sguardo, come un dardo scoccato d’amore, passando attraverso
gli occhi (v. 1) del poeta che lo ha colto, ha raggiunto il cuore (v. 1; v. 11) e lo ha trafitto; l’a-
nima che riposava si è riscossa (v. 2; v. 13), gli spiriti vitali sono fuggiti via di fronte all’assal-
to d’amore (v. 6), il cuore è morto (v. 14); solo l’aspetto esteriore e una fioca voce rimango-
no e sono in potere d’amore (vv. 7-8); la voce manifesta tutto il dolore per la disfatta (v. 8).
Una battaglia metaforica Anche in questo caso organi e facoltà dell’io compaiono oggettivati, personificati.
Quella che all’origine è una vicenda psicologica è trasformata da Cavalcanti in un’azione
scenica di grande intensità drammatica, ma al tempo stesso astratta (il lettore percepisce una
scena di battaglia, ma comprende che non deve intenderla realisticamente bensì metaforica-
mente e che deve riferirla ad uno stato interiore). L’uso di un lessico tecnico, le metafore, le
personificazioni sono i principali procedimenti stilistici e retorici che consentono questo ri-
sultato.
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Duecento e Trecento

Doc 7.6 Gli spiriti e la fisiologia medievale

All’ambito del lessico tecnico, in questo caso della fisiologia (nell’ambito della filosofia na-
turale), appartengono gli «spiriti», una vera e propria parola-chiave della poesia di Caval-
canti, tanto che egli stesso compirà una sorta di autoparodia nel sonetto Pegli occhi fere un
spirito sottile, nel quale il termine compare ben quindici volte. Non c’è da stupirsi che Ca-
valcanti, così attento all’analisi delle passioni e incline a una poesia che mostrasse spessore
filosofico, introducesse sovente questo concetto nella sua opera. Gli spiriti di cui qui si par-
la sono dunque dei «corpi sottili» (Contini), dei vapori prodotti dal cuore che si diffondo-
no nei diversi organi e sono responsabili di pressoché tutti i processi vitali.
La fisiologia del tempo, e specificamente Alberto Magno, che nel De spiritu et respiratio-
ne [Il soffio e la respirazione] o nei suoi Parva naturalia [Questioni naturali] descriveva il cor-
po «come una complessa macchina pneumatica» (De Robertis), ne distingueva diverse ca-
tegorie. Cavalcanti parla esplicitamente solo dello «spirito visivo» (Rime XXII e XXVIII),
per il resto li usa nell’accezione generica o in forma immaginativa («spirito che ride», «spi-
rito di gioia», «rosso spirito», come rileva De Robertis). Ciò non toglie che nella sua rap-
presentazione egli tenga conto di questa letteratura medico-filosofica. In particolare, per la
fenomenologia cavalcantiana della passione d’amore, sono importanti gli spiriti che hanno il
compito di trasmettere le singole percezioni dagli organi sensoriali esterni (gli occhi so-
prattutto) al cervello (mente), che è la sede centrale delle sensazioni. Ma nel nostro com-
ponimento la fuga degli spiriti (vitali) dal cuore indica una sorta di collasso psico-fisico, che
debilita le principali facoltà intellettive e vitali (rimane solo l’aspetto esteriore d’essere vi-
vente e «voce alquanta, che parla dolore»): in un altro sonetto, memore di Guinizzelli, Ca-
valcanti descrive questo stato come una sorta di condizione meccanica d’automa.

I’ vo come colui ch’è fuor di vita,


che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia
fatto di rame e di pietra o di legno,

che si conduca sol per maestria…

Più tardi Dante (in questo molto probabilmente dipendente dal gusto e dall’uso caval-
cantiano) evoca a più riprese nella Vita nuova gli spiriti: ad esempio, al capitolo secondo
[R T 9.1 ] per descrivere l’effetto che la prima comparsa di Beatrice fece su di lui, egli di-
stingue spirito de la vita (che ha sede nel cuore), spirito animale (che ha sede nel cervello),
spirito naturale (che ha sede nel fegato), spiriti sensitivi (responsabili in genere delle perce-
zioni sensoriali) e spiriti del viso (responsabili della vista).

Vita Nuova II, 4-7 In quello punto [alla vista di Beatrice] dico veracemente che lo spirito de la vita, lo qua-
le dimora nella secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che
apparia ne li menomi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole […]. In questo
punto lo spirito animale, lo quale dimora ne l’alta camera ne la quale tutti gli spiriti sensi-
tivi portano le loro percezioni [il cervello], si cominciò a meravigliare molto, e parlando
spezialmente a li spiriti del viso, sì disse queste parole […]. In quello punto lo spirito na-
turale, lo quale dimora in quella parte ove si ministra lo nutrimento nostro [il fegato],
cominciò a piangere, e piangendo disse queste parole […]. D’allora inanzi dico che
Amore segnoreggiò la mia anima…

Laboratorio 1 Nella Guida all’analisi sono menzionati nel testo.


COMPRENSIONE «lessico tecnico», «metafore», «personifica- 2 Prova a sintetizzare gli elementi costituti-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE zioni» quali principali artifici retorici di vi del sonetto (personaggi, situazioni,
questo sonetto: individua nel testo le azioni, effetti sul poeta) in un semplice
espressioni che rimandano a queste tre diagramma.
categorie e spiega quale ruolo assolvono
162 © Casa Editrice Principato
7. Lo Stilnovo T 7.7

T 7.7 Guido Cavalcanti


Perch’i’ no spero di tornar giammai 1280-1300
Poeti del Duecento Fra i testi più celebri del canzoniere cavalcantiano si colloca la ballata Perch’i’ no spero di
a c. di G. Contini, tornar giammai, che associa il tema dell’amore infelice a quelli della lontananza dalla pa-
Ricciardi, tria e del presentimento della morte, il tutto nei toni di una struggente malinconia. An-
Milano-Napoli 1960
che se in almeno due momenti della sua vita Cavalcanti si trovò lontano dalla terra na-
tale e a confronto con la morte – prima per un pellegrinaggio a Santiago di Compo-
stella, durante il quale attentarono alla sua vita, poi nel periodo dell’esilio a Sarzana,
dove contrasse la malattia che lo portò effettivamente alla morte –, è impossibile indi-
viduare con sicurezza l’occasione in cui essa fu composta e giudicarla col metro del-
l’autenticità biografica. Oggi prevale un’interpretazione puramente letteraria della bal-
lata, in quanto essa si configura come un “canto d’amore e di lontananza” che sviluppa,
con l’originalità propria degli stilnovisti, una tipologia testuale della tradizione cortese e
la trasmette rinnovata ai lirici delle età successive.

Nota metrica Perch’i’ no spero di tornar giammai,


Ballata mezzana (Conti- ballatetta, in Toscana,
ni) secondo lo schema
ABAB (fronte) Bccddx va’ tu, leggera e piana,
(sirma). La ripresa (vv. 1- dritt’ a la donna mia,
6) è uguale alla sirma,
cioè composta da un en- 5 che per sua cortesia
decasillabo, due settenari ti farà molto onore.
a rima baciata e il verso di
concatenatio (Wyyzzx). Ri-
ma siciliana voi : colui (vv. Tu porterai novelle di sospiri
34-35).
piene di dogli’ e di molta paura;
3 leggera e piana: velo- ma guarda che persona non ti miri
ce e lieve. 10 che sia nemica di gentil natura:
5 per sua cortesia: per la
sua gentilezza d’animo. ché certo per la mia disaventura
6 ti farà... onore: ti rice-
tu saresti contesa,
verà molto degnamente.
7 novelle: notizie. tanto da lei ripresa
8 dogli’: dolore. che mi sarebbe angoscia;
11 per la mia disaventu-
ra: per mia sventura, con 15 dopo la morte, poscia,
mio danno. pianto e novel dolore.
12 contesa: osteggiata.
13-14 tanto... angoscia: (e
saresti) da lei rimproverata Tu senti, ballatetta, che la morte
tanto che me ne derivereb- mi stringe sì, che vita m’abbandona;
be un senso d’angoscia.
15-16 dopo... dolore: da e senti come ’l cor si sbatte forte
sottintendere:“me ne deri- 20 per quel che ciascun spirito ragiona.
verebbe” (frase coordinata
alla precedente). Tanto è distrutta già la mia persona,
17 ballatetta: il diminuti- ch’i’ non posso soffrire:
vo indica un atteggiamento
affettuoso. se tu mi vuoi servire,
18 stringe: mi incalza, mi mena l’anima teco
è vicina.
20 per quel che... ragio- 25 (molto di ciò ti preco)
na: a causa di ciò che tutti gli quando uscirà del core.
spiriti vitali affermano (cioè
la vicinanza della morte).
22 soffrire: resistere. Deh, ballatetta mia, a la tu’ amistate
23 servire: rendere un
quest’anima che trema raccomando:
servizio.
24 mena... teco: porta menala teco, nella sua pietate,
l’animo con te. 30 a quella bella donna a cu’ ti mando.
27 amistate: amicizia.
29 nella sua pietate: nella Deh, ballatetta, dille sospirando,
condizione pietosa in cui si quando le se’ presente:
trova.
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Duecento e Trecento

33 Questa... servente: «Questa vostra servente


designa la ballata stessa.
40 strutta: distrutta. vien per istar con voi,
41 Voi: voce, anima e bal- 35 partita da colui
latetta (voce e anima escono che fu servo d’Amore».
dal cuore [vv. 26 e 38] e
idealmente accompagnano
la ballata presso la donna Tu, voce sbigottita e deboletta
amata).
41 piacente: adorna di ch’esci piangendo de lo cor dolente,
ogni bellezza. coll’anima e con questa ballatetta
44 starle davanti: stare in
sua presenza. 40 va’ ragionando della strutta mente.
45 Anim’... adora: e tu, Voi troverete una donna piacente,
anima, adorala.
di sì dolce intelletto
che vi sarà diletto
starle davanti ognora.
45 Anim’, e tu l’adora
sempre, nel su’ valore.

Guida all’analisi
Tono dolente e malinconico sul motivo della lontananza Rispetto ai tanti componimenti che nel canzoniere
cavalcantiano affrontano il tema dell’angoscia, questa ballata segna un mutamento di registro
stilistico: dai toni tragici si passa a toni più dolenti e malinconici. In proposito si notino, ad
esempio, l’uso reiterato del diminutivo ballatetta (al v. 39 in rima con deboletta, v. 37), il ca-
rattere di pacato e confidenziale colloquio che tutto il discorso assume e, infine, il fatto che
non è la donna la causa diretta di sofferenza per il poeta (ché, anzi, la si immagina benevol-
mente disposta verso la ballatetta messaggera, vv. 2-5), ma, forse, proprio la sua lontananza in
un momento cruciale («la morte mi stringe...», vv. 17-18).
Il dialogo affettuoso con la ballatetta Sul piano della struttura viene introdotta la notevole variazione del ri-
volgersi direttamente alla ballatetta, cioè al proprio componimento, quale tramite tra il poe-
ta e la donna separati da una insormontabile e definitiva lontananza: questo espediente, tipi-
co delle stanze di congedo delle canzoni (ad es. Io non pensava, R T 7.5 ), è qui protratto per
l’intera ballata e ne determina l’originalità. A tal proposito si noti – come ha scritto il Qua-
glio – la «tenerezza confidenziale» con cui il poeta si rivolge alla propria ballata messaggera,
apostrofata più volte con il tu (vv. 3, 6, 7, 9, 12, 16, 23 ecc.), con il possessivo mia (v. 27), col
diminutivo, e accomunata dal medesimo procedimento retorico «alla voce sbigottita e debo-
letta (v. 37) e all’anima (v. 45) del poeta stesso». Un medesimo «delicato formulario espressi-
vo» si ripropone così lungo tutto l’arco del componimento. Il critico può pertanto conclu-
dere: «Come ben vide il Foscolo, su questi “ritornelli” che prolungano da un verso all’altro
la sinfonia della mestizia, il Cavalcanti innesta genialmente il fittizio colloquio con il pro-
prio componimento, l’unica presenza nel deserto della sua solitudine, conferendo nuova
eloquente soavità alla comunicazione con la muta ballatetta (un diminutivo anche sentimen-
tale), la creatura alla quale affida il suo dolente messaggio».
I consueti motivi cavalcantiani Pur con queste variazioni, la ballata ripropone peraltro quasi tutti i principali
motivi del canzoniere cavalcantiano (il servizio d’amore, qui esteso dal poeta alla ballata
stessa, la lode della donna per la sua bellezza e le sue virtù, l’adorazione di lei; la gentil natu-
ra; la distruzione dell’equilibrio psico-fisico espressa anche mediante le consuete personifi-
cazioni; i sospiri, il dolore, lo sbigottimento, la paura della morte ecc.).

Laboratorio 1 Nella guida all’analisi abbiamo citato al- riferimenti a personaggi e situazioni.
COMPRENSIONE cuni dei consueti motivi cavalcantiani Quali dati, ad esempio, fornisce il testo
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE presenti anche in questa ballata. Indivi- riguardo alla donna amata e alle ragioni
duali nel testo e commentali. per cui il poeta soffre e si sente prossimo
2 Uno dei dati salienti di questa ballata è la a morire? Ci sono differenze rispetto ad
vaghezza (maggiore che in altri casi) dei altri testi da te analizzati?

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7. Lo Stilnovo VERIFICA

VERIFICA

7.1 Caratteri generali della poesia stilnovistica

1 Che cosa si intende con «Stilnovo» o «dolce stil novo»?


2 Chi ha utilizzato per primo questa formula?
3 Quali sono i principali poeti stilnovisti? Dove e quando operano?
4 Che provvedimento prese nel 1277 il vescovo di Parigi nei confronti del trattato De amore
di Andrea Cappellano? C’è una relazione tra questo provvedimento e la poesia stilnovistica?
5 Gli stilnovisti individuano nella poesia cortese un’irrisolta contraddizione ideologica e
tentano di sanarla. Di che cosa si tratta?
6 Quale concezione dell’amore caratterizza la poesia stilnovistica?
7 Che genere di «ingentilimento» comporta l’esperienza d’amore per i poeti stilnovisti?
8 L’amore per gli stilnovisti comporta una «tensione verso un principio assoluto e trascen-
dente». Spiega con parole tue questo concetto.
9 Come viene rappresentata la donna nella poesia stilnovistica?
10 In che senso si può dire che la donna viene «smaterializzata»?
11 Spiega con parole tue il concetto di «vaghissima bellezza quasi metafisica».
12 Quali doti vengono celebrate nella donna dai poeti stilnovisti?
13 In che modo il motivo della donna-angelo viene rinnovato dagli stilnovisti?
14 In che senso la donna angelicata degli stilnovisti costituisce un «ideale morale»?
15 La donna produce nei poeti stilnovisti estasi e sbigottimento. Di che si tratta? Spiega questi
concetti con parole tue.
16 In che cosa consiste e che rilievo ha nei poeti stilnovisti il tema dell’ineffabilità?
17 Come viene trattata la metafora tradizionale della luce e dello splendore?
18 Che ruolo hanno filosofia e teologia nella poesia e nel linguaggio stilnovistici?
19 Nella poesia stilnovistica si trovano anche allusioni o citazioni bibliche? Se sì, a che scopo?
20 In che cosa consiste il tema della lode?
21 La formula «dolce stil novo» definisce anche un ideale retorico-stilistico: di che si tratta?
22 Con quali mezzi si realizza la «dolcezza» dello stile?

7.2 Guinizzelli e Cavalcanti

23 Come viene giudicato e definito Guido Guinizzelli da Dante?


24 Quali sono i tratti specifici che caratterizzano la poesia di Guido Guinizzelli?
25 Che cosa sostiene nella sua canzone dottrinale Al cor gentil rempaira sempre amore?
26 In che senso si può dire che in questa canzone è formulata una «teoria dell’amore e della
gentilezza»?
27 Che relazione c’è tra «gentilezza» e «nobiltà»? Verso che cosa si mostra critico Guinizzelli?
28 Quali sono i tratti specifici che caratterizzano la poesia di Guido Cavalcanti?
29 Che cos’è il «leggendario disdegno» di Guido Cavalcanti e che cosa ne sappiamo di certo?
30 Delinea in breve i rapporti tra Guido Cavalcanti e Dante?
31 In che senso per Cavalcanti l’amore è una «oscura passione irrazionale»?
32 Che cosa si intende per «drammatizzazione del conflitto interiore»?

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Duecento e Trecento

VERSO
L’ESAME

Guido Cavalcanti
Noi siàn le triste penne isbigotite 1280-1300
In questo splendido sonetto Cavalcanti rielabora genialmente alcuni dei suoi temi pre-
diletti, adottando un punto di vista davvero sorprendente.

Poeti del Duecento Noi siàn le triste penne isbigotite,


a c. di G. Contini, le cesoiuzze e ’l coltellin dolente,
Ricciardi,
Milano-Napoli 1960 ch’avemo scritte dolorosamente
4 quelle parole che vo’ avete udite.
Or vi diciàn perché noi siàn partite
e siàn venute a voi qui di presente:
la man che ci movea dice che sente
8 cose dubbiose nel core apparite;
le quali hanno destrutto sì costui
ed hannol posto sì presso a la morte,
11 ch’altro non v’è rimaso che sospiri.
Or vi preghiàn quanto possiàn più forte
che non sdegn[i]ate di tenerci noi,
14 tanto ch’un poco di pietà vi miri.

1 siàn: siamo; indicativo non è chiaro se alla donna o van via»). -ci, che precede; altri ipo-
prima persona plurale co- alle persone che tante volte 7 la man… dice: forse tizza si debba leggere «voi»
me più avanti, due altri siàn, sono chiamate a constatare col suo tremito (De Ro- (cioè presso di voi).
diciàn, preghiàn, possiàn. la condizione di sbigotti- bertis), ma nel Cavalcanti 14 tanto che… vi miri:
1-2 le triste… dolente:pen- mento del poeta. non è insolito che parti del fintanto che vi prenda un
ne, cesoiuzze e coltellin sono 5 siàn partite: ci siamo corpo possano parlare. poco di compassione; vi
gli strumenti della scrittura: allontanate (dal poeta). Ma 8 cose dubbiose… ap- miri significa «vi guardi»,
gli ultimi due erano adibiti l’espressione ricorda la fu- parite: cose paurose; le ma- nel senso lato di «vi tocchi»
ad affilare le penne. ga degli spiriti dai centri nifestazioni cioè della pas- (per scambio di sensi, dalla
4 vo’: voi, riferito, come vitali (cfr. Voi che per gli occhi, sione. vista al tatto), «si impadro-
il vi del verso conclusivo, v. 6 «che’ deboletti spiriti 13 noi: rafforzativo del nisca di voi».

Per fare l’analisi di un testo in una prospettiva storico-letteraria devi avere numerose infor-
mazioni relative al contesto, all’autore, alla sua poetica, ad altre sue opere e ad autori e ope-
re affini. Più informazioni possiedi, più è probabile che la tua comprensione e interpretazio-
ne del testo risultino soddisfacenti e persuasive.
Nel caso di questa analisi scolastica diciamo che tutto quanto hai studiato fin qui sul conte-
sto storico-culturale e letterario del tardo Medioevo ti può essere genericamente utile, e in
particolar modo le informazioni desumibili dai capitoli sulla poesia cortese, siciliana e sicu-
lo-toscana, che ti forniscono uno sfondo su cui collocare (e con cui eventualmente confron-
tare) l’esperienza stilnovistica.
Ma per l’analisi specifica di questo testo naturalmente sono essenziali le informazioni pre-
senti in questo capitolo: ideologia, poetica, temi prediletti, linguaggio e stile comuni agli
stilnovisti e particolari di Guido Cavalcanti. La conoscenza dei suoi testi presenti in antolo-
gia ti consentirà di rilevare affinità e differenze e quindi di valutare l’originalità di questo so-
netto.
Nei questionari, così come nelle interrogazioni, le domande o le richieste vanno analizzate e
scomposte per rispondere in modo adeguato.

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VERSO
7. Lo Stilnovo L’ESAME

Rispondi ai seguenti quesiti (o a quelli indicati dall’insegnante).

COMPRENSIONE
7 Ti pare lecito descrivere questo testo come una
1 Qual è il «punto di vista sorprendente» da cui poesia d’amore? Motiva la risposta.
viene affrontato il tema del testo? Descrivilo e commentalo. Suggerimenti  Qui non si nomina espressamente l’a-
more, ma devi esaminare gli stati d’animo che vengo-
Suggerimenti  Chi parla in questo testo? Di che cosa
no attribuiti al poeta e in particolare le «dubbiose cose
parla? Che effetto ti pare produca questo espediente?
nel core apparite»: da che cosa possono essere pro-
2 Ai locutori vengono attribuiti dei sentimenti: dotti tali stati d’animo? Sono compatibili con quelli
quali? prodotti in lui dall’amore e dalla vista della donna?

Suggerimenti  Cfr. specialmente vv. 1-3 e 12-14. A chi


sono comuni? Il poeta abitualmente ne prova di ana- CONTESTUALIZZAZIONE

loghi? Ti pare possibile un trasferimento di sentimenti 8 Questo testo è anche, in forma metaforica, una
dal poeta a questi oggetti per ‘simpatia’ o per analo- implicita riflessione sulla scrittura poetica e sulla sua impor-
gia? Che sentimento rivelano nei confronti del poeta? tanza nella vita del poeta. Prova a illustrare questa possibile
implicazione.
ANALISI Suggerimenti  Nota l’affinità dei sentimenti attribuiti
3 Individua e contestualizza storicamente la forma agli strumenti di scrittura e al poeta; ricorda il conge-
metrica e indica lo schema di rime di questo componimento. do di T7.5 Io non pensava in cui il poeta si rivolge alla
canzone come a una persona e le attribuisce impor-
Suggerimenti  Si tratta di una forma usuale nei poeti
tanti compiti; ricorda anche il T7.7 Perch’i’ no spero,
stilnovisti? E nelle scuole poetiche precedenti? A chi
che è tutto un dialogo fra il poeta e la ballata.
se attribuisce l’invenzione? Cfr. T6.2, T7.2-4, T7.6.
9 Quali sono gli aspetti prettamente stilnovistici di
4 La personificazione di oggetti, parti del corpo, questo sonetto?
sentimenti o concetti astratti ricorre in altri testi di Caval-
Suggerimenti  Individuato il tema o i temi centrali di
canti? In che cosa si distingue questo testo da altri a te noti?
questo testo (in particolare ai quesiti 5, 6, 7) collocali
Suggerimenti  Cfr. ad es. T7.5 dove Amore è personifi- sullo sfondo dell’esperienza stilnovistica qual è de-
cato e parla, facoltà e parti del corpo del poeta sfiora- scritta nel par. 7.1.
no la personificazione come pure la canzone stessa a
cui il poeta si rivolge nella stanza finale.

5 Che cosa si intende con l’espressione «dramma-


tizzazione del conflitto interiore»? Ti pare che sia pertinente
per descrivere questo caso specifico?
Suggerimenti  Cfr. par. 7.2, dove è esposto il concetto
di «drammatizzazione del conflitto interiore» e T7.5 do-
ve è esemplificato.

6 Nonostante lo spostamento di punto di vista in


questo testo sono presenti alcuni dei temi tipici della poesia
di Cavalcanti. Prova a individuarli e a commentarli.
Suggerimenti  Nota il lessico: isbigotite, dolente, do-
lorosamente, cose dubbiose, destrutto, morte, sospiri,
pietà.

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Duecento e Trecento

La poesia comico-realistica
8
della vita quotidiana e della cronaca cittadina, in un
rovesciamento programmatico del repertorio della li-
rica in stile alto e “tragico”. L’opzione per lo stile co-
mico (cioè medio, secondo la codificazione medieva-
le degli stili, con frequenti incursioni verso il basso)
si realizza attingendo ai diversi livelli del parlato po-
polare e municipale toscano, ricco di espressioni vi-
vaci e colorite, senza rinunciare a libere commistioni
con altri registri linguistici, non escluso quello colto e
letterario, sovente impiegato in funzione parodistica
e di contrasto. La forma metrica di elezione dei gio-
cosi è il sonetto.
La critica ottocentesca di matrice romantica ave-
va interpretato in modo antistorico la poesia comico-
realistica quale poesia autenticamente popolare,
contrapposta alla lirica d’arte in quanto creazione
“spontanea” di poeti incolti e immediata trascrizione
di reali e personali esperienze biografiche. Appare
ormai pienamente accertata, invece, la letterarietà
della produzione giocosa (confermata da significati-
ve sperimentazioni del registro comico da parte di
poeti della linea aulica, soprattutto gli stilnovisti e
Dante), che si riconnette in particolare alla tradizione
mediolatina dei canti goliardici, rappresentata so-
prattutto dalla raccolta dei Carmina Burana (XII-XIII
sec.), dove trova spazio la spregiudicata esaltazione
dell’amore sensuale, della vita libera e sfrenata, del
vino, del gioco e della taverna, in una prospettiva
edonistica, ludica e “carnevalesca”.
Numerosissimi i rimatori giocosi attestati: tra le
personalità più notevoli, Rustico Filippi fiorentino,
iniziatore della poesia comico-realistica in volgare
toscano, che colpisce per l’energico realismo della
n Scena di vita cittadina Tra la metà del Duecento e i Primi del Trecento, rappresentazione nelle forme predilette dell’invettiva
(part. degli affreschi di Andrea nei centri della Toscana comunale (Firenze, Arezzo, e della caricatura; il senese Cecco Angiolieri, che nel
Bonaiuti e allievi, Cappellone
degli Spagnoli, Firenze). Siena, San Gimignano e altri) si sviluppa una cospi- suo canzoniere costruisce con rara maestria espres-
cua produzione poetica variamente denominata «co- siva, retorica e metrico-ritmica un suo personaggio
mico-realistica», «giocosa», «burlesca» o «borghese». teatralmente empio e dissacratorio, rielaborando con
Sebbene i rimatori che coltivano questo genere di grande originalità i tradizionali motivi della vita gau-
poesia non costituiscano una “scuola” unitaria, sono dente e scioperata, del vituperium, dell’umor nero
tuttavia accomunati da caratteristiche predilezioni iroso e distruttivo; Folgore da San Gimignano infine,
tematiche (accompagnate da scelte del tutto coerenti che nelle sue “corone” di sonetti (celeberrima quella
sul piano linguistico e formale), che si indirizzano dei Mesi ) disegna scene di vita lieta e cortese in uno
verso gli aspetti più corposi e “terrestri” dell’espe- stile “mediano” sospeso tra realismo descrittivo e di-
rienza, aprendo nuovi spazi alla rappresentazione mensione fantastico-evocativa.

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8. La poesia comico-realistica STORIA

8.1 La poesia giocosa o comico-realistica


Le diverse denominazioni e il loro significato Fra la metà del Duecento e i primi del Trecento, nei
centri comunali della Toscana si sviluppa una ricca produzione di rime variamente eti-
chettata dagli studiosi moderni, nel suo insieme, con le denominazioni di poesia «comi-
co-realistica», «giocosa», «burlesca» o «borghese». Sebbene non costituiscano una vera e
propria “scuola”, né una corrente unitaria e omogenea, i rimatori che coltivano questo
genere di composizioni sono accomunati da vistose predilezioni tematiche e soprattutto
da precise scelte di stile e di linguaggio, consapevolmente contrapposte a quelle che ca-
ratterizzano la coeva lirica illustre. Con il termine «comico», infatti, si fa riferimento, se-
condo la codificazione medievale degli stili [  RLE POETICHE MEDIOEVALI: 2. Gli stili e i
generi], al registro stilistico medio e medio-basso, contrapposto a quello alto e «tragico»
della tradizione illustre: uno stile, dunque, che attinge liberamente alle forme e ai diversi
livelli della lingua parlata e municipale, variegato e composito, atto ad affrontare argo-
menti molto vari, per lo più connessi a una vivace rappresentazione di esperienze mate-
riali e concrete.
A questa (almeno apparentemente) immediata adesione agli aspetti più corposi e
“terrestri” della vita quotidiana rimanda anche il termine «realistico»: si tratta peraltro di
un «realismo» che tende alla deformazione fantastica, allo stravolgimento caricaturale, e
non a una descrizione esatta e oggettiva della realtà. A sua volta «borghese» (in opposi-
zione a «cortese») evoca il colorito scenario del mondo comunale, entro il quale si sta-
gliano personaggi, costumi, episodi di vita cittadina, della borghesia e del popolo minu-
to; occorre tener presente, tuttavia (per limitare la portata sociologica del termine), che
proprio nell’ambito di quella medesima civiltà borghese del Comune sorge e si afferma

Carmina moralia
(canti satirici, invettive, la fortuna)

antecedenti mediolatini: Carmina veris et amoris


Carmina Burana (primavera e amore)

Carmina lusorum et potatorum


(vino, gioco, taverna)

forme espressive: repertorio tematico:


• letterarietà • esaltazione della ricchezza e
• stile medio o comico dei piaceri mondani
• linguaggio parlato, espressi- La poesia giocosa o • attacchi ad personam
vità idiomatica comico-realistica • ritratti caricaturali
• predominio del sonetto • umor nero
• atteggiamento ludico e paro- • invettive misogine
distico • parodia dei motivi della lirica
• vivace realismo descrittivo aulica

centri di produzione

Firenze Siena San Gimignano Arezzo

Rustico Filippi Cecco Angiolieri Folgòre Cenne da la Chitarra

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Duecento e Trecento

contemporaneamente anche la lirica illustre dei siculo-toscani e poi degli stilnovisti.


Così, la denominazione più convincente appare forse quella di poesia «giocosa» (dal
latino iocus e dal provenzale joc) che include la nozione di scherzo, di divertimento, e
insieme di godimento e di gioia, rinviando a quel caratteristico atteggiamento ludico
che tanto spesso si esprime in chiave di deformazione parodistica, di rovesciamento ir-
riverente e dissacratorio, propriamente “carnevalesco”, dei valori e dei princìpi mora-
li riconosciuti, degli ordinamenti e delle istituzioni, delle stesse convenzioni della let-
teratura “alta” e “seria” (R 8.2).
I centri e gli autori: estensione geografica e cronologica dell’esperienza giocosa La fioritura
della poesia giocosa fra Due e Trecento coinvolge numerosi centri, maggiori e minori,
della Toscana comunale, da Firenze a Lucca e ad Arezzo, da Siena a San Gimignano.
Fiorentino è l’iniziatore Rustico Filippi (o di Filippo); Siena è la patria del poeta più
famoso e rappresentativo di questa corrente, Cecco Angiolieri, e dei suoi seguaci; di
San Gimignano è Iacopo detto Folgòre; nel gruppo degli aretini è da ricordare Benci-
venne detto Cenne da la Chitarra, certo un giullare come indica il suo soprannome;
tra i lucchesi il più noto è Pietro de’ Faitinelli, con il quale tuttavia ci si inoltra ormai
nel pieno Trecento, fra i continuatori delle generazioni successive, quando le esperien-
ze poetiche di Toscana si diffondono oltre i confini regionali (R 14.1). La vitalità della
poesia realistico-giocosa in stile comico persiste in ogni caso a lungo nella nostra lette-
ratura, attraverso il Burchiello e i burchielleschi (sec. XV; R 17.1), almeno fino a Fran-
cesco Berni e ai suoi imitatori (sec. XVI e oltre, R 27.1).
Fraintendimenti della critica ottocentesca Per lungo tempo la critica ottocentesca di matrice ro-
mantico-positivistica ha perpetuato un’interpretazione fuorviante, ma soprattutto an-
tistorica, di questa produzione poetica, basata essenzialmente su due fraintendimenti, o
meglio due pregiudizi. Da una parte infatti la poesia giocosa è stata intesa come crea-
zione “spontanea” e immediata di poeti incolti, affidata ai modi linguistici popolare-
schi e inconditi della parlata locale e quotidiana, genuina espressione – in certo modo
polemicamente antiletteraria – della mentalità e del sentire degli strati popolari e del-
la piccola borghesia dell’artigianato e dei mestieri; dall’altra, come “sincera” confessio-
ne autobiografica, trascrizione diretta di autentiche esperienze personali; in particola-
re (nel caso soprattutto del canzoniere di Cecco Angiolieri) come espressione “seria”
di un atteggiamento di ribellione anticonformistica e di ostentata immoralità, talora di
violenta dissacrazione, inseparabile da un iroso e amaro disgusto nei confronti del
mondo, di se stessi e della vita dissipata, alla quale tuttavia non ci si può sottrarre, per
una sorta di perversa fatalità. Così, il motivo ricorrente della «melanconia» viene evi-
dentemente assimilato, con clamoroso anacronismo, a uno stato d’animo di «noia» tar-
doromantica e decadente (l’ennui o spleen baudelairiano) caratteristico dei poeti “ma-
ledetti” del secondo Ottocento.
Letterarietà della poesia comico-realistica: una lunga tradizione Per contro la critica recente, ac-
cantonati i pregiudizi ottocenteschi, ha pienamente riconosciuto la letterarietà dell’e-
sperienza comico-realistica, individuando nelle rime di Toscana la ripresa e la rielabo-
razione, certo non priva di vitalità autonoma e di spunti originali, di una lunga tradi-
zione mediolatina e romanza di poesia giocosa, ampiamente diffusa in tutta Europa e
codificata con precisione dalle poetiche medievali, quanto ai temi, alle tecniche e agli
stilemi “obbligati”.
Il respiro europeo del fenomeno Se tra gli antecedenti mediolatini spiccano i raffinati ritmi dei go-
liardi, quei carmina lusoria, amatoria e potatoria [canti che celebrano il gioco, l’amore, il vi-
no] che irrompono con straordinaria energia creativa e polemica nel vivacissimo pa-
norama culturale del XII secolo (R 8.2), la vitalità e il respiro europeo del fenomeno
sono testimoniati in tutte le letterature volgari romanze. Del resto occorre ricordare
che anche i poeti in volgare italiano, Siciliani e Siculo-toscani, avevano già sperimen-
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8. La poesia comico-realistica STORIA

tato tonalità “mediane” e popolareggianti, ovvero effettuato incursioni nell’attualità


politica; inoltre, che accenti e motivi realistici e burleschi circolavano largamente nei
componimenti di carattere giullaresco [R T 6.4 ]; tendenze che i rimatori giocosi di To-
scana accentuano, coltivando in modo sistematico e specifico il registro comico.
Temi e motivi prediletti Il catalogo, ampio e variegato, degli argomenti cantati da questi rimatori
sembra, per molti aspetti, configurarsi attraverso un programmatico rovesciamento
dell’aristocratico, selettivo e idealizzante repertorio tematico della lirica cortese e stil-
novistica. Temi e motivi dominanti nei canzonieri giocosi, accomunati da una visione
tutta terrestre, spregiudicatamente pratica, edonistica e utilitaristica dell’esistenza, sa-
ranno dunque: l’esaltazione della ricchezza e dei piaceri materiali che la ricchezza può
procurare, e quindi l’elogio dell’amore sensuale, della vita gaudente e sregolata (“go-
liardica”), del vino, del gioco e della taverna; per contro, la deprecazione dell’odiosa
povertà e i lamenti intorno alla volubilità della Fortuna, gli sfoghi irosi dell’umor nero
o melanconia, gli augurî di morte ai genitori e ai parenti danarosi; le invettive sarcasti-
che e infamanti contro gli avversari politici; le tirate violentemente misogine e an-
tiuxorie contro le donne, lussuriose, astute e ingannatrici, ovvero contro le vecchie lai-
de e ripugnanti; i ritratti caricaturali, impietosi e grotteschi, dei concittadini; gli attac-
chi diretti e personali, sovente in forma di tenzone, ora arguti e scherzosi, ora aggres-
sivamente ingiuriosi. Non mancano vivacissimi bozzetti di vita popolare e cittadina,
ricchi di spunti comicamente gustosi.
Linguaggio e stile Come il repertorio tematico, anche quello linguistico e stilistico-espressivo appare
già condizionato dagli orientamenti della tradizione; una notevolissima carica innova-
tiva va comunque riconosciuta all’operazione di “trapianto” nel volgare italiano dei
motivi canonici (peraltro arricchiti e variati originalmente), che si compie mediante
l’elaborazione di un linguaggio poetico attinto in gran parte dalle risorse ancora pres-
soché inesplorate della parlata popolare. L’obiettivo principale, pur nella varietà dei to-
ni e delle soluzioni individuali, sembra infatti quello di riprodurre mimeticamente
l’immediatezza del linguaggio parlato, nella sua espressività idiomatica, nella sua cor-
posità terrestre e popolaresca, alla ricerca di un effetto di naturalezza “istintiva”.
Il lessico Il materiale linguistico, tuttavia, non è interamente di estrazione popolare, «poiché
i realisti toscani rifiutano di restare prigionieri del dialetto, ma vogliono utilizzarlo a
loro piacimento, per fini d’arte» (Petrocchi). Avremo quindi un lessico misto, abile in-
treccio di vari livelli linguistici su un fondo popolaresco, municipale e colloquiale, dal-
le marcate screziature dialettali: espressioni idiomatiche corpose e colorite, non di rado
triviali, crudamente spregiudicate nonché oscene, irte di doppi sensi maliziosi; locu-
zioni proverbiali e gergali, soprannomi, neologismi bizzarri; termini spregiativi e vio-
lenti. Non mancano vocaboli culti e ricercati, talora di provenienza illustre e cortese,
per lo più in funzione parodistica o di contrasto.
La sintassi e le figure retoriche «A lessico siffatto adeguata sintassi, franta, mobilissima, irregolare.Vi
predominano le movenze collocutorie [proprie del dialogo] e conversative, i costrutti
anacolutici, i giri di frase talvolta decisi e rapidissimi, altre volte vischiosi ed involuti e
tortuosi, propri di chi parla per istinto o per impulso» (Marti). Ma dietro l’apparente
immediatezza colloquiale del vocabolario e di una sintassi così “istintivamente” libera
e persino disarticolata si cela a ben guardare un calibratissimo impianto retorico, ca-
ratterizzato da un largo impiego di figure: allitterazioni, anafore, figure etimologiche,
metafore e similitudini intensamente icastiche, apostrofi aggressive e mordaci, adynata,
amplificazioni iperboliche.
Il metro: predominio assoluto del sonetto Dal punto di vista metrico, nei componimenti a noi no-
ti (circa seicento) si registra, con eccezioni irrilevanti, il predominio assoluto del so-
netto, una forma disponibile fin dalle origini, nella tradizione poetica inaugurata dai
Siciliani, ad ospitare tematiche piuttosto varie e diversi esperimenti di stile. I giocosi
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Duecento e Trecento

ne fanno il loro metro di elezione: entro la struttura breve, compatta e scandita dei
quattordici versi concentrano scorci descrittivi di singolare efficacia, rapidi spunti nar-
rativi, scenette di vita cittadina e ritratti (R 8.3); e poi dialoghi mossi e vivaci, talvolta
concitatissimi [R T 8.1 ], quasi un’azione teatrale in miniatura, fino agli affollatissimi e
policromi arazzi, sospesi tra realtà e sogno, di Folgòre [R T 8.3 ].
Esperimenti giocosi in stile comico dei poeti “tragici” Una conferma decisiva della natura lette-
raria e colta di questa produzione viene dal fatto che anche i poeti coevi della linea
aulica e “tragica” compongono occasionalmente sonetti in stile comico sui motivi ca-
nonici, sperimentando la tonalità opposta a quella loro consueta e più congeniale. Si
va da Guinizzelli a Cavalcanti, a Cino da Pistoia, al Dante della tenzone [R T 9.8 ] e
forse del Fiore (R 9.7), il quale in seguito si varrà da par suo di tale esperienza stilisti-
ca e tonale nell’orchestrazione della Commedia. Si registra anche il fenomeno inverso:
l’esempio più vistoso è offerto dal canzoniere “bifronte” di Rustico Filippi (R 8.3),
equamente diviso tra rime giocose e rime amorose di stampo aulico, sulla scia dei Si-
ciliani.
Autobiografia e letteratura Sarebbe tuttavia un errore, in certo modo opposto e simmetrico a quello
degli studiosi ottocenteschi, negare qualsiasi autentico coinvolgimento personale, bio-
grafico e umano, nelle tematiche trattate.
Occorre innanzitutto osservare che “traducendo” nel volgare italiano temi e moti-
vi della tradizione giocosa, e filtrandoli per di più attraverso un inedito e vivacissimo
parlato popolare toscano, questi rimatori restituiscono sulla pagina i colori e il forte
sapore di un ambiente e di un’epoca, di una realtà concreta e minuta, per quanto rie-
laborata nella finzione letteraria. In secondo luogo, se da un lato non sarà il caso di
credere ingenuamente a Cecco Angiolieri quando proclama il suo ideale di vita (Tre
cose solamente m’ènno in grado, R 8.4 e R Doc 8.4 ), dall’altro non si potrà certo escludere a
priori «che i giocosi, o qualcuno di loro, possano essere stati donnaioli, giocatori e ta-
vernieri» (Marti). E in ogni caso si dovrà quanto meno ammettere una congenialità
psicologica e umana che abbia indotto alla scelta di quei temi e di quello stile; una scel-
ta, d’altra parte, a tal punto vincolante sul piano espressivo che i rapporti fra autobio-
grafia e letteratura se mai finiscono per invertirsi: quando nelle rime dei nostri poeti
giocosi compaiono elementi autobiografici – in alcuni casi accertati dai documenti
d’epoca – questi vengono calati entro gli stampi letterari codificati, modellandosi sul-
le convenzioni del “genere” secondo tradizione.

8.2 Antecedenti mediolatini: la poesia goliardica e i Carmina Burana


Carmina Burana: il codice manoscritto Con il titolo di Carmina Burana si designa una raccolta di
canti medioevali profani, composti fra la seconda metà del XII secolo e i primi de-
cenni del XIII, contenuta in un manoscritto databile intorno al 1230 conservato fino
al 1803 nell’abbazia di Benediktbeuern sulle Alpi Bavaresi, attualmente presso la Bi-
blioteca Nazionale di Monaco di Baviera. Il prezioso codice comprende circa trecen-
to componimenti in latino (la maggior parte) e in tedesco, talora in una bizzarra me-
scolanza di entrambe le lingue. Il nucleo originario della silloge è costituito da 228
canti, suddivisi in tre sezioni: canti satirici e di invettiva (carmina moralia, “d’argomento
morale”); canti di primavera e d’amore (carmina veris et amoris); canti bacchici e convi-
viali (carmina lusorum et potatorum, “canti dei giocatori e dei bevitori”). Altri testi furo-
no aggiunti in epoca posteriore (fra la seconda metà del XIII secolo e l’inizio del
XIV). Sebbene i canti raccolti nel codex Buranus siano tutti anonimi, si è pervenuti al-
l’attribuzione di un certo numero di testi ai rispettivi autori attraverso le testimonian-
ze dei contemporanei e il confronto con altre antologie. Tra le non molte personalità
sicuramente identificate, spiccano noti intellettuali e magistri del tempo, quali Ugo
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8. La poesia comico-realistica STORIA

d’Orléans, nato nel 1093, soprannominato il «Primate» per l’eccellenza dei suoi versi,
o Gualtiero di Châtillon (1135-1204), celebre per i suoi canti satirici e morali. Tutte le
liriche erano destinate ad essere cantate, ma soltanto per una trentina di esse gli ama-
nuensi hanno riportato la notazione musicale. Si tratta della raccolta di gran lunga più
importante e organica di poesia goliardica a noi trasmessa dal Medioevo. Ampiamente
diffusi sia tra gli uomini di cultura sia a livello orale e popolare, i Carmina Burana la-
sciarono un’impronta duratura nelle letterature europee.
I goliardi, clerici vagantes I Carmina Burana sono il frutto della creatività dei cosiddetti goliardi o clerici
vagantes, studenti e magistri attivi soprattutto nella Francia del Nord e nell’area renana,
dove, nel corso del secolo XII e poi nel XIII, più fervida si sviluppava la nuova cultu-
ra delle Università (R 1.4): «chierici», cioè intellettuali; «vaganti», ovvero itineranti, in
quanto si spostavano frequentemente da un centro di studi all’altro, non di rado con-
ducendo vita disordinata e avventurosa. A un ostentato atteggiamento anarchico e
trasgressivo, a uno stile di vita libero e sregolato, quale provocatoriamente si esprime
nei celebri carmi, allude appunto l’appellativo di «goliardi», di cui i chierici-studenti si
fregiarono: il termine deriva da Golia (Goliath), il gigante del racconto biblico, abbat-
tuto dalla fionda di Davide. Identificato nell’interpretazione allegorica medievale con
il demonio, Golia assurge fra l’altro (per la facile assonanza con gula, “gola” o “ingordi-
gia”, uno dei sette vizi capitali) a simbolo di voracità e bassa sensualità. Questa figura
di goliardo ribelle corrisponde soltanto in parte a realtà storica: se i documenti dell’e-
poca non lasciano dubbi sull’esistenza di una frangia di chierici-studenti “irregolari”,
dissoluti, squattrinati e chiassosi, contro i quali a più riprese tuonarono le più alte au-
torità ecclesiastiche, d’altro canto appare evidente che si tratta per molti aspetti di una
finzione letteraria, di una “maschera” assunta da dottissimi letterati, né eretici né rivo-
luzionari, talora personalità di grande prestigio che contribuirono ad elaborare una
nuova visione, più libera, aperta e dinamica della ricerca e del sapere, sullo sfondo del-
l’imponente rinnovamento culturale del secolo XII (R 1.4).
Carmina moralia La prima sezione dei Carmina Burana (1-55) include prevalentemente canti satirici
e di invettiva, che esprimono in toni veementi una rivolta morale contro la corruzio-
ne e la mondanizzazione della curia papale e degli ordini monastici (R 3.2), attribuite
all’ingerenza del potere laico nella vita spirituale e alle ambizioni politiche e tempora-

Doc 8.1 Carmina Burana: la ruota della Fortuna

Fortune plango vulnera stillantibus ocellis, Piango per i colpi della Fortuna con gli occhi pieni di la-
quod sua michi munera subtrahit rebellis. crime, poiché mi è contraria e mi sottrae i suoi doni. È
Verum est, quod legitur fronte capillata, vero, come si legge, che la Fortuna ha i capelli sulla fronte
4 sed plerumque sequitur Occasio calvata. e la nuca sempre calva.

In Fortune solio sederam elatus, Sedevo orgoglioso sul trono della Fortuna dove portavo la
prosperitatis vario flore coronatus; corona dei variopinti fiori del successo;ma mentre prima
quicquid enim florui felix et beatus, ero al colmo di ogni gioia e felicità, ora sono stato rove-
8 nunc a summo corrui gloria privatus. sciato e non godo più di alcuna gloria.

Fortune rota volvitur: descendo minoratus; La ruota della Fortuna gira continuamente: scendo sempre
alter in altum tollitur; nimis exaltatus più in basso mentre un altro viene innalzato; un nuovo re
rex sedet in vertice – caveat ruinam! siede sul trono, sollevato sopra tutti. Stia attento a non ca-
12 nam sub axe legimus Hecubam reginam. dere! Sotto la ruota troviamo infatti Ecuba, la regina.
Carmina Burana (16), a Nota metrica nario sdrucciolo, il se- 12 Hecubam: Ecuba, assunta ad emblema del-
cura di P.V. Rossi, Versi goliardici, formati condo un senario piano, moglie di Priamo e regina l’incostanza della fortuna.
Bompiani, Milano di due emistichi, il pri- disposti in quartine ri- diTroia,già presso gli autori
1989 mo dei quali è un sette- mate (strofa goliardica). classici (Virgilio, Ovidio)

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Duecento e Trecento

li del papato teocratico (R 3.2), ma soprattutto all’avidità insaziabile degli ecclesiastici,


contaminati dal vizio della simonia (la venalità delle cose sacre).
Alla medesima sezione appartiene il celebre gruppo di canti sul tema della Fortuna,
nei quali suggestioni e modelli iconografici del mondo antico, pagano (la dea insensi-
bile e capricciosa, calva o cieca, che volge senza tregua la sua ruota innalzando o ab-
battendo gli individui e gli imperi) si intrecciano con la meditazione biblica e cristia-
na sulla vanità dei beni terreni.
Carmina veris et amoris La sezione centrale, più ampia (56-186), accoglie i canti dedicati al tema dell’a-
more, sovente associato, come accade nella coeva poesia trobadorica, al risveglio gioio-
so della primavera. Se nelle corti di Provenza e di Francia poeti di estrazione laica,
partecipi della cultura cavalleresca, esprimono nelle lingue volgari la complessa e ari-
stocratica esperienza dell’amor cortese (R 5.3), nell’ambito delle scuole conosce una
nuova e rigogliosa fioritura la lirica erotica in latino: in entrambi i casi assistiamo a una
riscoperta della dimensione terrena dell’esistenza, che comporta l’accettazione e la ri-
valutazione dell’amore profano. Tuttavia il tema riceve qui un’elaborazione sensibil-
mente diversa, benché altrettanto raffinata sul piano letterario: i carmi goliardici esal-
tano con accenti liberi e gioiosi un amore accesamente sensuale, fonte di appagamen-
to e di piacere, che non si configura come rapporto di vassallaggio né subisce un pro-
cesso di idealizzazione o sublimazione. Nei testi dei chierici la celebrazione dell’amo-
re fisico e del desiderio erotico assume i contorni di un vero e proprio culto del dio
d’Amore, specularmente rovesciato in chiave parodica rispetto a quello del Dio cri-
stiano, così che per i suoi adepti alla liturgia rituale della Chiesa si sostituisce la parte-
cipazione alla festa, momento di felicità corale, in una sfrenata esplosione di gioia e di
vitalità sensuale.
Carmina lusorum et potatorum Nei canti della terza sezione (187-228), che esaltano il vino, il gioco e la
taverna, sembra concentrarsi l’essenza più autentica della poesia goliardica, tesa ad
esprimere con impressionante energia il disfrenarsi di forze liberatorie in uno slancio
di vitalistica ebbrezza. Dai carmi conviviali emerge una concezione edonistica dell’e-
sistenza, una sorta di filosofia della felicità terrena assicurata dal godimento di piaceri
concreti e materiali: bere, giocare, cantare in compagnia. La taverna, tempio del dio
Bacco, personificazione del vino che libera dagli affanni, è il luogo deputato alla cele-
brazione del gioioso rito corale. Questo luogo si configura come un mondo diverso e
separato, in cui si realizza il regno dell’abbondanza, dell’eguaglianza e della libertà, nel
totale sovvertimento delle gerarchie e delle norme vigenti nella società reale, “ester-
na”. Insieme al vino, anche il gioco d’azzardo, momento esaltante del rischio e della
dissipazione, assume una funzione liberatoria ed eguagliatrice: la sua vicenda mutevo-
le e imprevedibile, che repentinamente può spogliare il ricco ed arricchire il povero,
offre l’immagine vitalistica di una realtà in perenne movimento, altrove simboleggiata
dalla ruota della Fortuna.

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8. La poesia comico-realistica STORIA

Doc 8.2 Carmina Burana: il canto dei bevitori

È questo il cosiddetto «canto dei bevitori» (Carmen potatorum), senza dubbio il più famoso dei
carmi goliardici.Alle prime due strofe, qui riportate, fanno seguito i brindisi e il “catalogo” dei
bevitori, che coinvolgono, in un frenetico crescendo ritmico, tutti gli ordini e tutte le figure della
società medievale.
Carmina Burana (196, 1-
16), trad. di G.Vecchi In taberna quando sumus Quando siamo alla taverna,
non curamus quid sit humus, non ci importa più del mondo;
sed ad ludum properamus, ma al giuoco ci affrettiamo,
cui semper insudamus. al quale sempre ci accaniamo.
5 Quid agatur in taberna, Che si faccia all’osteria,
ubi nummus est pincerna, dove il soldo fa da coppiere,
hoc est opus, ut queratur, questa è cosa da chiedere:
sed quid loquar, audiatur. si dia ascolto a ciò che dico.

Quidam ludunt, quidam bibunt, C’è chi gioca, c’è chi beve,
10 quidam indiscrete vivunt. c’è chi vive senza decenza.
Sed in ludo qui morantur, Tra coloro che attendono al giuoco,
ex his quidam denudantur; c’è chi viene denudato,
quidam ibi vestiuntur, chi al contrario si riveste,
quidam saccis induuntur. chi di sacchi si ricopre.
15 Ibi nullus timet mortem, Qui nessuno teme la morte,
sed pro Baccho mittunt sortem. ma per Bacco gettano la sorte.

Nota metrica 6 ubi... pincerna: dove ha perduto tutto, anche i sacco.


Strofe di otto versi for- il denaro si muta sempre in vestiti che indossava, per 16 pro... sortem:gettano
mate da coppie di otto- vino. uscire dalla taverna deve i dadi sperando di vincere
nari a rima baciata. 14 saccis: il giocatore che coprirsi alla meglio con un per pagarsi da bere.

Rovesciamento carnevalesco e parodia Quello della taverna appare dunque una sorta di “mondo al-
la rovescia”, che presenta evidenti analogie con la festa del carnevale, notoriamente ca-
ratterizzata dall’atteggiamento ludico e beffardo, dall’egualitarismo anarchico e dal
trionfo della corporeità.
Sul piano delle tecniche e delle forme espressive, il capovolgimento “carnevalesco”
degli ordinamenti, dei valori e delle gerarchie sociali trova il suo strumento più tipico
nella parodia, che nei Carmina Burana si configura come esercizio estremamente colto
e raffinato, in quanto richiede un’eccezionale padronanza della lingua latina e una
stretta familiarità con i testi sacri e con le opere dei classici.
I carmi sono costruiti attraverso un fitto intreccio di allusioni parodistiche alle for-
mule liturgiche e alle scritture sacre, come nella Messa dei giocatori o nel cosiddetto
Vangelo secondo il Marco d’argento. Una parodia, quella del comico carnevalesco medie-
vale, che non nega né distrugge, nonostante la “scandalosa” ostentazione di empietà
che può sconcertare i lettori moderni, ma anzi rigenera, poiché riconosce e sanziona
dall’interno, capovolgendoli temporaneamente, i valori dominanti di una società e di
una cultura ufficiale «caratterizzata da un tono esclusivamente serio» (Bachtin).

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Duecento e Trecento

8.3 Rustico Filippi fiorentino, l’iniziatore


Le notizie biografiche e l’opera poetica Rustico Filippi è da considerarsi senza dubbio l’iniziatore
della poesia comico-realistica in lingua volgare. Scarse le notizie biografiche: nacque a
Firenze intorno al 1230 e fu di parte ghibellina. Nel 1291 risulta ancora vivo, nel 1300
già morto. Il canzoniere in nostro possesso comprende 58 sonetti, divisi equamente in
due sezioni: 29 sonetti di ispirazione giocosa in stile comico; 29 di argomento amoro-
so, nello stile illustre dei poeti siciliani.
Un canzoniere bifronte Noi ci interesseremo qui solo della sezione giocosa: vale tuttavia la pena di
segnalare la doppia ispirazione di Rustico, ben più significativa di quella dei poeti stil-
novisti e dello stesso Dante, nei quali prevale ampiamente l’indirizzo alto e illustre.
Rustico, al contrario, ci appare come un poeta bifronte, ugualmente impegnato sui
due versanti: alla dolcezza e alla sottile musicalità di quello cortese, corrispondono la
violenza espressiva e la crudezza linguistica del versante comico. I due registri non in-
terferiscono: le rime giocose, tranne rarissime eccezioni, non si propongono come
un’esplicita deformazione parodistica della poesia illustre e cortese (diversamente da
quanto accade nei continuatori, fra cui Cecco Angiolieri).
Realismo caricaturale Nella sezione delle poesie in stile comico, Rustico colpisce per il realismo del-
la rappresentazione: il suo è un mondo popolato di figure, di nomi e di episodi tratti
direttamente dalla cronaca cittadina, ben riconoscibili dai lettori fiorentini suoi con-
temporanei. La materia realistica è tuttavia sottoposta ai tradizionali filtri della poesia
giocosa: le forme predilette sono quelle dell’invettiva e della caricatura, di cui fanno le
spese mariti sciocchi e mogli lussuriose, vecchie repellenti, avversari politici, soldati
smargiassi.

Doc 8.3 Una caricatura di Rustico: il soldato smargiasso


Poeti giocosi del tempo di
Dante, a c. di Una bestiuola ho vista molto fèra,
M. Marti, Rizzoli,
Milano 1956 armata forte d’una nuova guerra,
a cui risiede sì la cervelliera,
Nota metrica 4 che del legnaggio par di Salinguerra.
Sonetto, secondo lo
schema ABAB ABAB Se ’nsin lo mento avesse la gorgiera,
CDC DCD. Parole-ri-
ma uguali nelle terzine, conquisterebbe il mar, non che la terra;
equivoca ai vv. 9-11 (pi- e chi paventa e dotta sua visèra,
glio), identica ai vv. 10- 8 al mio parer, non è folle ned erra.
12 (leone).
1 fèra: feroce.
Laida la cèra e periglioso ha ’l piglio,
2 d’una... guerra: di e burfa spesso a guisa di leone;
una straordinaria, inusita- 11 torrebbe ’l tinto a cui desse di piglio.
ta armatura (guerra, per
metonimia). E gli occhi ardenti ha via più che leone;
3-4 a cui risiede... di de’ suoi nemici assai mi maraviglio,
Salinguerra: la quale
porta l’elmetto (cervel - 14 sed e’ non muoion sol di pensagione.
liera) così ben calzato sul
capo che sembra appar-
tenere alla stirpe (legnag-
gio) di Salinguerra. Il ghi- 5 ’nsin lo: fino al. – gor- poeta in questi versi, è più e l’atteggiamento minac- chiunque riuscisse ad af-
bellino ferrarese Salin- giera: parte alta della co- che altro la formidabile ar- cioso. ferrare, cioè lo farebbe im-
guerra Torelli, morto nel razza, che riparava la gola. matura (anzi, i singoli 10 burfa: sbuffa, soffia. – pallidire dal terrore.
1244, era famoso per le 7 dotta: teme (gallici- “pezzi” della medesima). a guisa di: al modo del; co- 12 via più: assai più.
sue gesta marziali; qui smo), pressoché sinonimo 8 ned: né (analogamen- me il. 14 sed e’... pensagione:
forse viene ricordato an- di paventa. – visèra: visiera. te sed,“se”, al v. 14). 11 torrebbe... di piglio: se essi (e’) non muoiono di
che per la suggestione Ad incutere spavento, insi- 9 Laida la cèra... ’l pi- toglierebbe il colorito (tin- paura al solo pensiero, sol-
guerresca del nome. nua maliziosamente il glio: ha il volto (cera) torvo to, participio sostantivato) a tanto a pensarci.

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8. La poesia comico-realistica STORIA

Oggettività del ritratto: lo «schizzo a macchia» Tranne rari e discreti accenni, Rustico non parla di
sé, né crea un “personaggio” autobiografico come invece farà Cecco Angiolieri, pro-
ponendosi piuttosto quale testimone e osservatore, benché lasci trasparire i propri
umori e risentimenti partigiani di acceso ghibellino. La rappresentazione tende dun-
que all’oggettività del ritratto, uno «schizzo a macchia» (Marti) istantaneo e potente-
mente icastico, isolato nella misura autonoma del singolo sonetto. Ma il dato crona-
chistico di partenza viene sottoposto a una deformazione caricaturale, ora argutamen-
te ironica (come accade per l’anonimo soldato smargiasso), ora affidata alla violenza
crudamente espressionistica del vituperium (in latino “vituperio”, “ingiuria”).
Scelte linguistiche ed espressive Quanto alla tecnica compositiva, il ritratto-caricatura appare co-
struito soprattutto attraverso una martellante accumulazione che alterna particolari
concreti e vistosi a fini tratti psicologici, per risolversi in una chiusa paradossale di gu-
sto epigrammatico: «sed e’ non muoion sol di pensagione» [R Doc 8.3 ]. Il vigore della
rappresentazione è adeguatamente sostenuto dalle scelte linguistiche ed espressive: un
lessico coloritissimo e vivacemente idiomatico, ricco di fiorentinismi, sovente dispre-
giativo e triviale, giocato sui registri della crudezza e dell’oscenità; il gusto delle paro-
le rare e di forte energia sonora; una sintassi mossa, attinta dalle forme del parlato; una
retorica fondata su un accumulo straripante di comparazioni, metafore, iperboli, cita-
zioni proverbiali, doppi sensi.

8.4 Cecco Angiolieri


Dati biografici Cecco Angiolieri nasce a Siena intorno al 1260 (è dunque un contemporaneo di
Cavalcanti e di Dante) da una ricca e nobile famiglia di parte guelfa, iscritta all’Arte
del Cambio. Dai documenti d’archivio della città apprendiamo che Cecco fu con l’e-
sercito senese all’assedio del castello di Turri in Maremma e che venne ripetutamente
multato per essersi allontanato dal campo senza permesso (altre multe gli furono in-
flitte in seguito, per essersi trovato a vagabondare in città di notte, dopo il coprifuoco);
che nel 1288 partecipò alla spedizione militare contro i ghibellini di Arezzo e quindi,
forse, alla battaglia di Campaldino del 1289, dove potrebbe aver conosciuto Dante; in-
fine, che nel 1291 fu coinvolto in un processo per il ferimento di un concittadino du-
rante una rissa. La data di morte va situata fra il 1311 e il 1313 (anno in cui cinque
suoi figli rinunciarono all’eredità paterna, gravata di debiti).
Notizie di tal genere sembrano in qualche modo accreditare l’effettiva consistenza
biografica di quel personaggio scioperato e ribelle che Cecco si compiace di costrui-
re nei suoi sonetti, e che la critica ottocentesca aveva trasformato in una figura quan-
to mai anacronistica di poeta “maledetto” (R 8.1). In ogni caso, è fin troppo evidente
che i dati dell’esperienza personale vengono amplificati e iperbolicamente deformati
secondo i modelli della letteratura goliardica e realistico-giocosa.
I temi del canzoniere: l’amore per Becchina Dell’Angiolieri la tradizione manoscritta ci ha con-
servato oltre cento sonetti, nei quali ricorrono temi e motivi caratteristici, sviluppati
con eccezionale inventiva in molteplici variazioni. La sezione più cospicua del canzo-
niere (i sonetti I-LXIV), che comprende le rime d’argomento amoroso, è dominata
dalla figura di Becchina (diminutivo di Domenica), una giovane popolana capricciosa,
linguacciuta, venale e, quel ch’è peggio, infedele: per lei il poeta arde di un amore non
certo idealizzato e spirituale, rappresentato attraverso un irriverente rovesciamento
comico dei modi stilnovistici e cortesi.
Un ideale di vita: «la donna, la taverna e ’l dado» La seconda parte del canzoniere (sonetti LXV-
XCIX) intreccia temi cari alla tradizione goliardica: numerosi componimenti cantano
i piaceri del vino e del gioco, della vita gaudente e spensierata con gli amici alla taver-
na. Piaceri dispendiosi, come quelli d’amore: di qui, simmetrica all’irosa esecrazione
177 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento

della povertà, l’esaltazione del danaro, ardentemente bramato sopra ogni cosa, non
certo al fine di tesaurizzarlo né di investirlo, ma di sperperarlo allegramente.
Vituperium antipaterno e «malinconia» Alla perentoria enunciazione di un ideale di vita esclusiva-
mente dedita ai piaceri materiali s’innestano dunque per antitesi gli altri temi e moti-
vi di spicco: il vituperium antipaterno e gli irosi sfoghi dell’umor nero o «malinconia».
In una nutrita serie di sonetti risuonano insistenti gli augurî di morte e l’acre invettiva
contro il genitore ricco, vecchissimo e avaro, che non si decide a lasciarlo erede del pa-
trimonio e finalmente libero di spendere a suo piacimento. E appunto dall’avvertita
impossibilità di soddisfare i suoi desideri – estremamente concreti e terreni – a causa
della protervia di Becchina così come dell’inossidabile salute del padre taccagno, sorge
nel personaggio-Cecco, perseguitato da un destino di miseria e di irrimediabile di-
sdetta, una perenne irritazione, un malcontento corrosivo: è l’umor nero o «malinco-
nia», che dilaga incontenibile a coinvolgere in apocalittiche fantasie distruttive l’intero
universo, finché il poeta svela ammiccando il proprio gioco [R T 8.2 ].

Doc 8.4 Cecco Angiolieri, Tre cose solamente m’ènno in grado

Manifesto di questo ideale di vita compiutamente goliardico, sebbene calato entro un più
ristretto orizzonte corposamente municipale, il celeberrimo sonetto che riportiamo, nel
quale l’Angiolieri, riprendendo la tecnica illustre del plazer, riunisce in una memorabile sin-
tesi i temi più peculiari (insieme agli artifici espressivi più tipici) della sua poesia.
Poeti del Duecento
a c. di G. Contini, Tre cose solamente m’ènno in grado,
Ricciardi, le quali posso non ben ben fornire,
Milano-Napoli 1960
cioè la donna, la taverna e ’l dado:
4 queste mi fanno ’l cuor lieto sentire.

Nota metrica Ma sì·mme le convene usar di rado,


Sonetto, secondo lo ché la mie borsa mi mett’al mentire;
schema ABAB ABAB
CDC DCD. e quando mi sovien, tutto mi sbrado,
8 ch’i’ perdo per moneta ’l mie disire.
1 ènno: sono (voce
dialettale toscana). – in
grado: gradite. E dico: «Dato li sia d’una lancia!»,
2 le quali... fornire: ciò a mi’ padre, che·mmi tien sì magro,
che non posso procurarmi 11 che tornare’ senza logro di Francia.
completamente (ben ben),
come vorrei.
5 Ma sì... di rado: ma Ché fora a tôrli un dinar[o] più agro,
pure (sì) sono costretto a la man di Pasqua che·ssi dà la mancia,
usarne, a goderne, rara-
mente. 14 che far pigliar la gru ad un bozzagro.
6 mie: «forma verna-
colare» (Contini), per
«mia». – mi mett’al men- lato vernacolare (affine a pito, sia trafitto con. mento»). Ma il v. 11 per- bozzagro: infatti tirargli
tire: mi smentisce, mi con- sbraitare). 10-11 ciò a mi’ padre... mette una diversa interpre- fuori un soldo dalle mani
traddice (espressione tipi- 8 ch’i’ perdo... disire: Francia: questo (s’intenda tazione: che tornerei senza sarebbe più difficile (agro,
camente senese); cioè mi poiché perdo a causa della la maledizione del verso essere richiamato (logro o dal lat. acer), fosse pure la
impone (essendo vuota!) mancanza di danaro (per precedente) lo dico, lo au- logoro è anche uno stru- mattina di Pasqua quando
di fare il contrario di quel moneta) il modo di soddi- guro a mio padre, che mi mento di richiamo per i si usa dare la mancia, che far
che desidero, di astenermi sfare i miei (mie; cfr. nota al tiene tanto a corto di quat- falconi da caccia, che veni- catturare la gru, volatile ra-
da quei piaceri. v. 6) desideri. Si osservi tut- trini, così affamato (sì ma- vano tenuti affamati perché pido e di grandi dimensio-
7 mi sovien: mi viene tavia che la proposizione gro) che potrei tornare dalla si lanciassero prontamente ni, al piccolo e lento bozza-
in mente. – tutto mi sbra- del v. 8 potrebbe dipendere Francia (cioè fare un lungo sulla preda) fin dalla Francia gro o poiana, uccello rapace
do: prorompo in violen- da mi sovien, anziché da mi viaggio) senza dimagrire (sottinteso: pur di avere inabile alla caccia, capace
tissime invettive; sbrado è sbrado. ulteriormente (logro vale qualche soldo). tutt’al più di ghermire topi
ancora una forma del par- 9 Dato... d’una: sia col- «logoramento», «dimagri- 12-14 Ché fora... a un o pulcini.

178 © Casa Editrice Principato


8. La poesia comico-realistica STORIA

Vocazione “teatrale” di Cecco Uno dei tratti più marcati della poesia di Cecco Angiolieri è il suo
carattere mimico e “teatrale”: si ha l’impressione di assistere a un monologo recitato,
anzi rappresentato con vivace e ammiccante gestualità di fronte a un ipotetico pubbli-
co consenziente e partecipe (che talora sembra coincidere con il gruppo degli amici e
compagni di bagordi all’osteria), disposto ogni volta allo stupore e all’ammirazione di
fronte a variazioni sempre nuove su motivi ben noti e pronto ad accogliere con risa e
applausi la battuta conclusiva, giocosamente liberatoria e paradossale. Cecco allestisce
insomma una compiaciuta esibizione scenica, in chiave ironica e farsesca, di se stesso
come personaggio, scandita da movenze allocutive, da gesti aggressivi e provocatorii, in
cui il “canovaccio” narrativo-aneddotico si arricchisce di frequenti inserti dialogici.
Alcuni componimenti, tra i più riusciti, si articolano addirittura in forma di vere e
proprie scenette dialogate, serrati “contrasti” a due voci [R T 8.1 ].
Tecnica di composizione e artifici espressivi Nei suoi più tipici e memorabili sonetti l’Angiolieri
costruisce il discorso poetico secondo la tecnica della gradazione discendente o anti-
climax, con una calcolata progressione da un esordio “grave”, iperbolicamente cupo e
violento, a una chiusa “leggera”, arguta e scanzonata [R T 8.2 ], risolta mediante una
battuta comicamente sentenziosa, ora giocata nei toni surreali di un brillante parados-
so, ora di sapore realistico e proverbiale. Altrettanto caratteristiche le aperture ipoteti-
che e “impossibili” (tra le figure retoriche predilette spicca infatti l’adynaton): si veda
l’esemplare serie del sonetto S’i’ fosse foco [R T 8.2 ].
Enfasi iperbolica e amplificazione paradossale sono dunque gli artifici più scoper-
tamente ricorrenti: ma l’intensità espressiva e l’evidenza icastica della rappresentazione
dipendono in notevole misura anche dai magistrali effetti di ritmo, ottenuti mediante
vorticose enumerazioni, proposizioni “a catena”, serie anaforiche e polisindetiche
[R T 8.2 ], così come dal proliferare di metafore e similitudini bizzarre, ricche di imma-
gini corpose, talora grottescamente espressionistiche, e dal gioco degli accostamenti
inusitati e sorprendenti.
Una lingua poetica estrosamente composita La lingua poetica dell’Angiolieri è il risultato di un’a-
bile quanto estrosa commistione di elementi lessicali e morfologici eterogenei: se da
una parte, infatti, mostra un robusto fondo vernacolare e municipale, con frequenti
prelievi dal “parlato” popolaresco, inserti proverbiali e sentenziosi, modi di dire gros-
solani e plebei, dall’altra attinge copiosamente a fonti colte e letterariamente illustri,
intrecciando i diversi livelli linguistici e registri stilistici in maniera del tutto funziona-
le alla sua poetica realistico-giocosa.

8.5 Folgore da San Gimignano


Notizie biografiche Di Iacopo da San Gimignano presso Siena, detto Folgòre (cioè “fulgore”, “splen-
dore” poetico), possediamo scarse notizie biografiche, conservate nelle carte d’archivio
della sua città. Dopo il 1305 fu ordinato cavaliere, come attesta il titolo che gli viene
attribuito in un documento del 1332, dal quale risulta già deceduto; appare dunque
verosimile la proposta di collocare la sua data di nascita fra il 1265 e il 1275.
Uno stile “mediano” La produzione di Folgòre occupa una zona ben delimitata, si potrebbe dire una
“provincia” di confine nel vasto dominio della rimerìa comico-realistica toscana fra
Due e Trecento. Se da una parte infatti al suo stile appaiono del tutto estranee la
deformazione grottesca, l’asprezza e la violenza verbale degli altri rimatori fin qui
considerati, dall’altra ne condivide l’opzione per un lessico realisticamente definito e
insieme la precisione analitica nell’aderire alla corposità materiale della realtà “terre-
stre”, armonizzando componenti espressive diverse in un «mediano equilibrio evoca-
tivo» (Quaglio) tra la concretezza realistica della tradizione giocosa e la tendenza all’e-
vasione fantastica di matrice stilnovistica e cortese.
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Duecento e Trecento

Il corpus poetico: trentadue sonetti Di Folgòre possediamo tre collane o “corone” di sonetti, rispetti-
vamente formate di cinque, otto e quattordici unità; completano il corpus dei trentadue
componimenti sicuramente autentici altri cinque sonetti, quattro di argomento politi-
co scritti fra il 1313 e il 1317, e infine uno, verosimilmente più tardo, che lamenta la
morte della Cortesia.
Le “corone” di Folgòre: la festa dell’armatura La prima “corona”, anteriore al 1295 e giunta in-
completa, consta per noi di cinque componimenti (in origine il ciclo doveva inclu-
derne forse diciassette), che descrivono la festa dell’armatura di un cavaliere, consacra-
to dalle stesse virtù cavalleresche (Prodezza, Umiltà, Discrezione e Allegrezza) allego-
ricamente personificate, secondo le regole di un antico cerimoniale, tanto colorito e
spettacolare quanto ormai anacronistico. Celebrazione in chiave nostalgica di un mito
più che realistica descrizione di costume cittadino, la collana più antica risente dell’ar-
tificiosità un po’ fredda e meccanica del disegno allegorico.
Sonetti de la semana Otto sonetti, uno per ogni giorno della settimana più la dedica al fiorentino Carlo
di messer Guerra de’ Cavicciuoli, costituiscono la seconda corona (Sonetti de la sema-
na), composta poco prima del 1308. Qui, come poi nella corona dei mesi, Folgòre rin-
nova un’antica tradizione letteraria, ma soprattutto figurativa, vivissima nel Medioevo
delle cattedrali romaniche e gotiche e dei Libri d’Ore miniati, ispirata al ciclico succe-
dersi dei giorni e delle stagioni, spogliandola delle originarie intenzioni allegoriche ed
etico-didascaliche per rappresentare con minuziosa felicità descrittiva scene di vita
lieta e cortese, di volta in volta appropriate al giorno “protagonista” del sonetto.
Sonetti de’ mesi La più celebre collana dei mesi, certamente il capolavoro artistico di Folgòre, è for-
mata di quattordici componimenti, uno per ogni mese dell’anno, simmetricamente in-
corniciati da un sonetto proemiale di dedica a una «brigata nobele e cortese» di Siena,
e da un analogo congedo. In questa terza “corona” (composta intorno al 1309) il poe-
ta, riprendendo e ampliando lo schema dei Sonetti de la semana, costruisce un ciclo
completo di occupazioni piacevoli – ora sullo sfondo di paesaggi deliziosi, ora entro
scenari d’interno affollati di figure e di oggetti miniati a vivaci colori – cui la lieta bri-
gata dovrà attendere nei diversi mesi dell’anno, presentandole sotto forma di dono au-
gurale: così, se in gennaio la compagnia si riunirà in una «corte con fochi di salette ac-
cese» riccamente fornita, per uscirne soltanto «alcuna volta il giorno / gittando de la
neve bella e bianca / a le donzelle che staran da torno», in febbraio verrà allestita una
gaia partita di caccia, in maggio un festoso torneo cavalleresco; nel mese di giugno
teatro di amori e cortesie sarà una «cittadetta» dai contorni fantasticamente idillici
[R T 8.3 ]; nella gran calura di luglio, si banchetterà «man e sera» per le strade di Siena
con vini ghiacciati e carni in gelatina; e così via.
Un sogno “borghese” di vita aristocratica Nelle sue colorite ghirlande di sonetti Folgòre interpre-
ta ed esprime compiutamente un ideale di vita elegante, gaudente e spensierata, carat-
teristico della nuova aristocrazia comunale, l’alto ceto borghese che deve la sua ric-
chezza all’attività bancaria e mercantile.
Un ideale, o meglio un modello, dotato di un’effettiva consistenza storica e sociale,
in quanto rispecchia il “trapianto” nella realtà cittadina dei costumi e dei valori caval-
lereschi, eredità prestigiosa della civiltà feudale e cortese ormai declinante, rielaborati
secondo una più laica e concreta mentalità “borghese” in chiave accentuatamente
edonistica; ma, al tempo stesso, una rievocazione nostalgica, incrinata dalla consapevo-
lezza dell’irreversibile tramonto di quel mondo, che sembra allontanarsi sempre più
nella dimensione fantastica del sogno e del mito.
Una costante compositiva: la tecnica del plazer Sul piano delle forme espressive, è la felice commi-
stione di determinato e indeterminato a consentire la creazione di un’atmosfera in
certo modo favolosamente irreale, nonostante l’accumulo dei particolari realistici.
Nelle due “corone” complete Folgòre si avvale costantemente di una tecnica compo-
180 © Casa Editrice Principato
8. La poesia comico-realistica STORIA

sitiva modellata sulle strutture del plazer provenzale (R 5.4), uno schema di singolare
fortuna presso i rimatori italiani fra Due e Trecento, da Guinizzelli [R T 7.2 ] al giovane
Dante [R T 9.6 ]. Ciascun sonetto si presenta dunque come un fitto catalogo di cose
belle e gradevoli, sospeso all’avvio iniziale «vi do», «vi dono» (talora sottinteso), che va-
le a configurare l’intero componimento quale offerta, o meglio augurio amichevole e
cortese del poeta alla gentile brigata.
La parodia di Cenne Ai sonetti dei mesi, di lì a poco risponde per le rime il giullare aretino Cenne da
la Chitarra (già morto nel 1336), in una sua notissima collana che rovescia puntual-
mente in controcanto parodistico, attraverso una grottesca deformazione “per contra-
ri”, i motivi e i moduli stilistici dei cataloghi di Folgòre, proponendo per ogni mese,
secondo la tecnica dell’enueg, una serie di situazioni “noiose” e spiacevoli a una «bri-
gata avara senza arnesi» [R T 8.3 Doc 8.5 ].

n Gioco delle palle di neve


del mese di gennaio. Affresco
dal ciclo dei mesi nella Torre
dell’Aquila nel castello del
Buonconsiglio a Trento.

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Duecento e Trecento

T 8.1 Cecco Angiolieri


– Becchina mia! – Cecco, nol ti confesso
Poeti giocosi Un “contrasto” in miniatura, quasi una rapidissima azione teatrale: protagonisti Cecco e
del tempo di Dante Becchina, impegnati in un serrato dialogo a botta e risposta, anzi in un alterco dal rit-
a c. di M. Marti,
mo travolgente. Alle profferte amorose di Cecco l’indomabile Becchina replica con una
Rizzoli, Milano 1956
serie di ripulse, dinieghi, rinfacci e coloriti vituperii, fino alla perentoria e beffarda bat-
tuta conclusiva: «Abbieti ’l danno!».
Il componimento appartiene alla cospicua sezione amorosa del canzoniere, dominata
dalla figura di Becchina, una sorta di anti-Beatrice venale, dispettosa e infedele: per lei
il personaggio-poeta si strugge di desiderio e di gelosia, tra provvisorie concessioni, ri-
picche, tradimenti e rancori, rovesciando in chiave parodistica e giocosa il modello del-
la lirica stilnovistica e cortese.

– Becchina mia! – Cecco, nol ti confesso.


– Ed i’ son tu’. – E cotesto disdico.
– I’ sarò altru’. – I’ non vi do un fico.
4 – Torto mi fai. – E tu mi manda ’l messo.

– Sì, maccherell’ – Ell’avrà ’l capo fesso.


– Chi gliele fenderae? – Ciò ti dico.
– Se’ così niffa? – Sì, contr’al nimico.
8 – Non tocc’a me. – Anzi, pur tu se’ desso.

– E tu t’ascondi. – E tu va col malanno.


– Tu non vorresti. – Perché non vorria?
11 – Ché se’ pietosa. – Non di te, uguanno!

– Se foss’un altro? – Cavere ’l d’affanno.


– Mal ti conobbi! – Or non di’ tu bugia.
14 – Non me ne poss’atar! – Abbieti ’l danno!

Nota metrica mandami a casa il messo del co; oppure: contro il demo- toglierei d’affanno, farei ces-
Sonetto, secondo lo sche- comune a citarmi in giudi- nio, «il Nemico» per anto- sare le sue pene (dicendogli
ma ABBA ABBA CDC zio. nomasia . di sì).
CDC. 5 Sì, maccherell’: sì, (ti 8 pur... desso: proprio 13 Mal: per mia disgrazia.
manderò) una mezzana (si tu sei quello (cioè il nimico). – Or... bugia: adesso sì che
1 nol ti confesso: non te intenda: ecco il messo che ci 9 t’ascondi: ti nascondi, dici la verità.
lo concedo (di affermare vuole per una come te!). – mascheri il tuo vero senti- 14 Non... atar!: non pos-
che sono tua). fesso: rotto, spaccato. mento. so aiutare me stesso, liberan-
2 tu’: tuo. – disdico: ne- 6 gliele fenderae: glielo 10 non vorresti: sott.“che domi da questo affanno d’a-
go, smentisco. romperà. – Ciò ti dico: non io me ne andassi”. – vorria: more. – Abbieti ’l danno!:
3 altru’: di un’altra. – ti dico altro, ti basti questo. dovrei volerlo. peggio per te!
non vi do: non me ne im- 7 niffa: scontrosa, schifil- 11 Ché: perché. – uguan-
porta. tosa. – contr’al nimico: no: mai.
4 mi manda ’l messo: contro uno che è mio nemi- 12 Cavere ’l d’affanno: lo

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8. La poesia comico-realistica T 8.1

Guida all’analisi
Un “contrasto” parodistico e giocoso Cecco riprende qui e rielabora nel registro comico-realistico, con esiti
originalissimi e virtuosistica abilità tecnica, le forme tradizionali del contrasto (e in partico-
lare del sonetto dialogato, attestato nei canzonieri siciliani), di ascendenza illustre e cortese,
ma già passate attraverso il filtro della deformazione parodistica e giocosa (cfr. il Contrasto di
Cielo d’Alcamo [R T 6.4 ]).
Strutture metrico-ritmiche La compattezza, la vivacità e l’energia espressiva del componimento, che colpiscono
il lettore con un’immediatezza persino sconcertante, dipendono in larga misura da scelte
formali – strutturali, metriche e linguistiche – consapevoli e raffinate. Ciascuno dei quattor-
dici versi del sonetto risulta infatti bipartito da una forte cesura, che segna l’alternarsi delle
due “voci”: ad ogni emistichio corrisponde pertanto una battuta di fulminea brevità, con ef-
fetti di ritmo martellante e vorticoso. Ma la cesura non cade invariabilmente nello stesso
punto del verso; per evitare la monotonia di un ritmo sempre eguale, il poeta introduce al-
cune variazioni: mentre in ben dodici versi la cesura ricorre dopo la quinta sillaba, nei vv. 6
e 14 la cadenza viene spostata dopo la settima. Resta il fatto che nel complesso gli interventi
di Cecco sono più brevi, si direbbe quasi per “porgere la battuta” a Becchina, provocando-
ne con scaltrezza le colorite e gustose risposte.
Linguaggio e stile: un sapiente intarsio di toni e di registri Ancor più notevole il fatto che l’Angiolieri, nelle
battute di ogni emistichio, riesca a raffigurare distintamente il carattere e l’atteggiamento dei
due “tenzonanti”: più mobile e cangiante, o per meglio dire ambiguo, quello del personag-
gio-Cecco, ora teatralmente supplichevole, ora insinuante e malizioso (si pensi all’Amante
del Contrasto di Cielo d’Alcamo); più uniforme quello di Becchina, proterva e argutamente
offensiva, implacabile nelle smentite e nei dinieghi. Del tutto coerenti le scelte di linguaggio
e di stile: Cecco alterna formule e concetti del repertorio amoroso di derivazione cortese,
protestando enfaticamente dedizione assoluta nei confronti della donna amata («Ed i’ son
tu’», v. 2), ovvero lamentando l’inestinguibile tormento dell’amante («Non me ne poss’atar!»,
v. 14), a disinvolte incursioni nel “parlato” triviale e popolaresco, peraltro variegato con fi-
nezza (niffa, v. 7, è voce dialettale; maccherella, v. 5, è gallicismo, dal francese maquerelle), men-
tre Becchina ribatte servendosi di espressioni corpose e colorite («I’ non vi do un fico», v. 3;
«E tu mi manda ’l messo», v. 4), di modi di dire plebei, ingiuriosi e violenti («Ell’avrà ’l capo
fesso», v. 5; «E tu va col malanno», v. 9).

Laboratorio 1 A chi appartengono le voci che ascoltia- 2 Confronta il contrasto “in miniatura” di
COMPRENSIONE mo nel sonetto? Traccia un breve profilo Cecco con quello di Cielo d’Alcamo
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE dei due “personaggi”: analizza i loro at- [R T 6.4 ] evidenziando analogie e diffe-
teggiamenti e il loro linguaggio, sottoli- renze fra i due testi, specie per quanto ri-
neando i diversi effetti espressivi che il guarda le due coppie di contendenti.
poeta mira ad ottenere.

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Duecento e Trecento

T 8.2 Cecco Angiolieri


S’i’ fosse foco, ardere’ il mondo
Poeti giocosi Senz’altro il componimento più famoso dell’Angiolieri, e forse quello che ha contri-
del tempo di Dante buito in misura maggiore ad alimentare il mito ottocentesco del poeta empio e “male-
a c. di M. Marti,
detto”, che sfoga il suo umor nero in una serie di violentissime invettive contro l’uma-
Rizzoli, Milano 1956
nità e il mondo intero, formulando desideri smisurati e blasfemi di morte e distruzione;
desideri ovviamente “impossibili”, e appunto per questo atti ad esasperare e acuire l’i-
rosa frustrazione del ribelle, secondo un circolo vizioso caratteristico delle fantastiche-
rie romantico-decadenti. Anche la veemenza estrema delle espressioni è stata letta come
un indizio inequivocabile di sincerità autobiografica, mentre la critica più recente, at-
traverso una puntuale analisi delle strutture formali, ha prospettato un’interpretazione
di segno completamente opposto, che mette in luce la sostanza letteraria e l’intenzione
parodistico-giocosa di questo sonetto in particolare nonché di tutto il canzoniere di
Cecco e della produzione comico-realistica nel suo complesso.

S’i’ fosse foco, ardere’ il mondo;


s’i’ fosse vento, lo tempestarei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
4 s’i’ fosse Dio, mandereil’ en profondo;

s’i’ fosse papa, sarei allor giocondo,


ché tutti cristïani embrigarei;
s’i’ fosse ’mperator, sa’ che farei?
8 a tutti mozzarei lo capo a tondo.

S’i’ fosse morte, andarei da mio padre;


s’i’ fosse vita, fuggirei da lui:
11 similemente faria da mi’ madre.

S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui,


torrei le donne giovani e leggiadre:
14 le vecchie e laide lasserei altrui.

Nota metrica -er- è tratto senese, che si ri- garei: metterei nei guai. dicesse: “con un bel taglio
Sonetto, secondo lo sche- trova nelle forme analoghe 8 a tondo: intorno (da netto”).
ma ABBA ABBA CDC ai vv. 6, 8 e 9). collegare a tutti:“a tutti in- 11 faria: farei.
DCD. 4 mandereil’ en pro- torno”); secondo un’altra 13 torrei: prenderei.
fondo: lo sprofonderei, lo interpretazione, a tondo vale 14 lasserei altrui: le lasce-
1 S’i’ fosse: se io fossi. precipiterei nell’abisso. “di netto, completamente”, rei ad altri, a qualcun altro,
2 lo tempestarei: lo 5 giocondo: contento, configurando il colpo secco con valore indeterminato.
sconvolgerei con tempeste allegro. e deciso della scure o di altro
(secondo il Contini, -ar- per 6 tutti: tutti i. – embri- strumento tagliente (quasi

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8. La poesia comico-realistica T 8.2

Guida all’analisi
L’apocalissi secondo Cecco: distruzione dell’ordine universale «S’i’ fosse foco»: il sonetto si apre con una mo-
venza impetuosa, caratteristica della poesia di Cecco, un costrutto ipotetico-desiderativo di
natura iperbolica e paradossale, che si ripete identico, su un ritmo secco e martellante, per
ben cinque versi consecutivi; e ancora, quasi ossessivamente, nella stessa posizione, ai vv. 7,
9, 10, 12. Dapprima il personaggio-poeta si identifica con le forze primigenie e possenti
della natura, più precisamente con tre dei quattro elementi che, secondo le dottrine co-
smologiche tramandate fin dall’antichità, compongono il mondo terrestre (nell’ordine:
fuoco, aria, acqua, vv. 1-3); successivamente addirittura con un Dio irato che annienti in
un’immane catastrofe l’opera della sua stessa creazione (v. 4); poi, con una sensibile atte-
nuazione, passa a immaginarsi nei panni delle due somme potestà universali preposte da
Dio al governo, spirituale e temporale, dell’umanità, cioè il papa e l’imperatore (vv. 5-8);
con una nuova impennata, si immedesima nelle forze opposte e personificate della Vita e
della Morte – ma questa volta per sbarazzarsi, con un gesto almeno in apparenza di em-
pietà estrema, di suo padre e di sua madre (vv. 9-11). È evidente che il poeta coinvolge
progressivamente nella sua fantasia distruttiva e dissacratoria le componenti dell’ordine
universale, così come le aveva disegnate, in un assetto coerente e unitario, la cultura cri-
stiano-medievale.
Plazer ed enueg: gioco letterario e intenzione caricaturale Ma la cupa grandiosità, il “sublime negativo” di que-
sta immaginazione sono soltanto apparenti: già di per sé la dismisura, l’enfasi estrema e pa-
radossale delle ipotesi e delle affermazioni, ma anche il carattere truculento e bizzarro, qua-
si surreale, di talune immagini (ad esempio l’imperatore che taglia la testa a tutti quanti, con
un solo smisurato gesto), rivelano la qualità giocosa e parodistica del testo, confermata dal
sorriso ironico che trapela inequivocabile dalla raffigurazione del papa come un maligno e
consumato intrigante. Cecco gioca abilmente con due forme “gemelle” della letteratura
cortese di derivazione provenzale: in apparenza modella il discorso sulle strutture illustri del
plazer (un catalogo o enumerazione di cose belle, piacevoli e desiderate; R 5.4), ma lo rove-
scia di fatto nel suo opposto, l’enueg (“noia, fastidio”), proprio perché i desideri elencati so-
no iperbolici e “impossibili” (sul piano retorico, si tratta appunto di una serie di adùnata) e
dunque destinati – ovviamente – a non realizzarsi, alimentando il dispettoso umor nero del
personaggio-poeta.
Effetti di “smorzatura”: la chiusa in anticlimax È tuttavia nell’ultima terzina che si verifica, con un’aperta mu-
tazione di toni e di immagini, il capovolgimento decisivo: nella grandiosa serie degli adùna-
ta si inserisce un dato reale e concreto, segnato dall’improvvisa irruzione del modo indicati-
vo («S’i’ fosse Cecco, come i’ sono e fui», v. 12), con un effetto di smorzatura comica, di am-
micco sorridente che riverbera una luce giocosa e caricaturale sull’intero componimento. È
forse questo l’esempio più clamoroso di costruzione del sonetto per gradazione discenden-
te o anticlimax, un raffinato artificio di tecnica compositiva che ricorre più volte nel canzo-
niere dell’Angiolieri.

Laboratorio 1 Individua la struttura sintattica dominan- 4 Spiega perché il sonetto S’i’ fosse foco è
COMPRENSIONE te nell’intero componimento. considerato la rielaborazione parodistica
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE 2 Identifica le figure retoriche presenti nel di due generi di derivazione provenzale.
testo.
3 In quali versi traspare con maggiore evi-
denza l’intento parodistico e giocoso?

185 © Casa Editrice Principato


Duecento e Trecento

T 8.3 Folgore da San Gimignano


Sonetti de’ mesi: Di giugno – Di novembre
Poeti giocosi Due sonetti dalla corona dei mesi: il primo, dedicato al mese di giugno, dipinge con lie-
del tempo di Dante vi tocchi un incantevole paesaggio dai tratti idillici; il secondo, che ritrae scene di vita
a c. di M. Marti,
gaudente ai bagni termali nel mese di novembre, evoca immagini di vivida, corposa
Rizzoli, Milano 1956
concretezza entro una sontuosa cornice conviviale.

Nota metrica
Sonetto, secondo lo sche- Di giugno
ma ABBA,ABBA, CDC,
DCD. Di giugno dovvi una montagnetta
1 dovvi: vi do. coverta di bellissimi arboscelli,
5 soa: sua. – fontanetta: con trenta ville e dodici castelli,
piccola fontana o sorgente.
6 e faccia mille rami: e 4 che sian entorno ad una cittadetta,
formi (sogg. è la fontanetta)
innumerevoli (mille, indefi-
nito) rivi d’acqua (rami). ch’abbia nel mezzo una soa fontanetta:
7 ferendo: scorrendo. e faccia mille rami e fiumicelli,
9 dàttili:datteri.– lumie:
varietà di cedri. ferendo per giardin e praticelli
10 savorose: gustose, sa- 8 e rinfrescando la menuta erbetta.
porite.
11 empergolate siano:
siano disposte in modo da Aranci e cedri, dàttili e lumie
pendere come da un pergo- e tutte l’altre frutte savorose
lato.
12 le gente: le genti, le 11 empergolate siano per le vie;
persone che si trovano nella
cittadetta.
14 a tutto ’l mondo: a e le gente vi sian tutte amorose
tutti (gallicismo, dall’antico e faccianvisi tante cortesie,
francese tout le mont; cfr. an-
che il francese moderno tout 14 ch’a tutto ’l mondo siano grazïose.
le monde). – grazïose: gradi-
te.

Nota metrica Di novembre 10 mortiti: voce toscana,


Sonetto, secondo lo sche- mortito indica «una sorta di
ma ABBA ABBA CDC stufato di porco o di castra-
DCD. E di novembre a Petrïuolo al bagno, to con aggiunta di vino; dal
latino murtus, ‘mirto’, per-
1 Petrïuolo: località ter- con trenta muli carchi de moneta: ché aromatizzato con le fo-
male nella campagna gros- la ruga sia tutta coverta a seta; glie della pianta» (Devoto).
setana, rinomata per le sue 4 coppe d’argento, bottacci di stagno: Secondo il Contini, invece,
acque solforose. – bagno: «specie di mortadelle
nel volgare toscano, indica (com’esse profumate da
per metonimia la stazione e dar a tutti stazzonier guadagno; bacche di mortella) o, forse
termale stessa, ove si pren- meglio, di galantine».
dono i bagni curativi. torchi, doppier che vegnan di Chiareta; 11 lèvori: lepri. – rosto:
3 ruga: strada. – coverta confetti con cedrata de Gaeta; arrosto.
a: drappeggiata di. 12 acconci: ben disposti,
4 bottacci: fiaschi. 8 e béa ciascun e conforti ’l compagno. robusti (per far onore alle
5 tutti stazzonier: ogni portate abbondanti e sapo-
bottegaio. rite).
6 torchi: lumi. – dop- E ’l freddo vi sia grande e ’l fòco spesso; 13 a ciel messo: ininter-
pier: forse apposizione di fagiani, starne, colombi, mortiti, rotto, insistente, a dirotto.
torchi, indica lumi a doppia 11 lèvori, cavrïoli rosto e lesso; L’espressione si ritrova in te-
fila di candele. – Chiareta: sti di area senese.
località non identificata. 14 letta: letti. – ben forni-
7 confetti: dolci. – ce- ti: di coperte e di tutto quel
e sempre aver acconci gli appetiti;
drata: confettura o sciroppo che occorre per star comodi
di cedro. la notte ’l vento, ’l piover a ciel messo: e caldi.
8 béa: beva. 14 e siate ne le letta ben forniti.
9 spesso: grande.

186 © Casa Editrice Principato


8. La poesia comico-realistica T 8.3

Guida all’analisi
I doni di Folgòre “a la brigata nobele e cortese”: Di giugno Per il mese di giugno, Folgòre ‘dona’ alla lieta bri-
gata un paesaggio incantato, che ricorda i modi di certa produzione stilnovista, con le sue
aperture evasivamente fantastiche (si pensi soltanto al giovane Dante, Guido, i’ vorrei che tu e
Lapo ed io [R T 9.6 ]), dipingendo nelle quartine un vero e proprio quadro, anzi una gentile
miniatura dai contorni nitidi e precisi, eppure sospesa in un’atmosfera sognante e indefinita.
Nota dominante, una deliziosa sensazione di freschezza, che si sprigiona dall’immagine di
quella montagnetta verdeggiante di rigogliosa vegetazione, simmetricamente irrorata da mil-
le rivi d’acqua sorgiva; la grazia e la dolcezza dell’insieme, vagamente irreale nonostante
l’apparente precisione dei particolari, sono affidate soprattutto alla profusione dei diminuti-
vi, che chiudono in rima ben sette versi su otto. Nelle terzine lo sguardo si sposta sulle stra-
de parate a festa della cittadetta: nei vv. 9-11 subentrano immagini più ravvicinate e concre-
te, sensazioni più decise, intensità di colori e persino di profumi e sapori, evocati indiretta-
mente dai festoni di frutte savorose, che trasformano le vie in sontuosi, coloratissimi pergola-
ti; soltanto nell’ultima terzina lo scenario si anima di movimento e d’azione, ma di nuovo
indefiniti, appena accennati in termini estremamente generici («e faccianvisi tante cortesie»,
v. 13). È ancora nella chiusa che l’augurio di giugno si rivela incentrato sul motivo dell’a-
more («e le gente vi sian tutte amorose», v. 12), per tradizione associato agli esordi della bel-
la stagione.
Di novembre Nel secondo componimento troviamo tinte più forti, contorni più marcati, un’ambien-
tazione realistica in un luogo ben noto, geograficamente determinato (i bagni di Petrïuolo
nel Grossetano). Emerge qui con forza uno dei motivi-guida della “corona”, l’elogio della
liberalità, sovente accompagnato dalla condanna dell’aborrita avarizia; la tradizionale virtù
cortese viene interpretata da Folgòre in chiave di celebrazione edonistica del vivere convi-
viale in un clima di generosa ed affettuosa amicizia (v. 8). Ecco quindi il catalogo dei “doni”
insistere sulla raffinatezza dispendiosa delle leccornìe e delle suppellettili che adornano e
rallegrano la tavola (coppe d’argento, v. 4; confetti con cedrata de Gaeta, v. 7 ecc.), illuminata sen-
za risparmio dalla luce di torchi e di doppier (v. 6), che insieme al calore intenso del fòco spes-
so (v. 9) forma un contrasto piacevolissimo con il buio e il freddo [...] grande dell’ambiente
esterno. Tuttavia, accanto alla corposa concretezza e alla definizione accesamente realistica
dei particolari, si insinua anche qui una tendenza alla trasfigurazione fantastica, evidente nel-
l’iperbolica abbondanza delle scorte di danaro da spendere («trenta muli carchi de moneta»,
v. 2) e delle ricchissime e gustose vivande preparate per soddisfare i robusti “appetiti” dei
convitati (vv. 10-12), così come nella sontuosità principesca di quella «ruga [...] tutta cover-
ta a seta» (v. 3).
Evasione fantastica e concretezza realistica: lo stile mediano di Folgòre Le differenze, almeno a prima vista ri-
levanti, che emergono dall’accostamento dei due sonetti, Di giugno e Di novembre, dipendo-
no in gran parte dal dosaggio felicemente variato delle diverse tonalità espressive che Folgò-
re riesce a fondere con notevole originalità nel suo stile mediano, «collegando la precisione
concreta e la definizione analitica dello stile giocoso alle aspirazioni evasive dei modi aulici
e stilnovistici» (Quaglio).
Di fatto è possibile individuare nei due testi le costanti compositive su cui s’incentra la
produzione del loro autore. Come tutti i sonetti che intessono le leggiadre ghirlande di
Folgòre, entrambi sono strutturati, secondo lo schema del plazer trobadorico, in forma di
componimento augurale, introdotto da uno stilema iniziale, in funzione reggente, che espri-
me il gesto del dono («Di giugno dovvi una montagnetta»), ma che può essere sottinteso, co-
me nel sonetto Di novembre, seguito da una serie di congiuntivi ottativi (cioè desiderativi): che
sian, ch’abbia, e faccia (Di giugno, vv. 4-6; e cfr. anche i vv. 11-14); la ruga sia, e béa ciascun, vi sia
grande, e siate (Di novembre, v. 3; v. 8; v. 9; v. 14), alternati sovente ad infiniti “asintattici”, sospe-
si in una sfuggente indeterminatezza: e dar, e sempre aver, piover (Di novembre, v. 5; vv. 12-13).
La scelta delle forme verbali, come si vede, mira a sfumare, a rendere labili i legami sin-
tattici, a favore di uno stile paratattico, prevalentemente nominale: dominano infatti le serie
enumerative (i “cataloghi”) dei sostantivi realistici, attinti da un lessico corposo, tecnico, di
187 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento

forte impatto visivo: «Aranci e cedri, dàttili e lumie» (Di giugno, v. 9), «coppe d’argento, bot-
tacci di stagno», «fagiani, starne, colombi, mortiti, / lèvori, cavrïoli rosto e lesso» (Di novem-
bre, v. 4 ; vv. 10-11). Ad attenuare i tratti decisi, la definita concretezza dei sostantivi provve-
dono d’altro canto gli aggettivi, quasi sempre vaghi e genericamente coloriti e “cortesi” (bel-
lissimi, savorose, tante, tutto, grande), nonché, nella loro ingannevole precisione, i numerali:
trenta (Di giugno, v. 3; Di novembre, v. 2: forse il numero preferito da Folgòre), dodici e mille
(Di giugno, v. 3; v. 6), che evocano un immaginario favolosamente indefinito.

Doc 8.5 Cenne da la Chitarra, Di novembre

Dalla parodistica “corona” di Cenne, proponiamo qui il sonetto-enueg dedicato al mese di


novembre.
Poeti del Duecento
a c. di G. Contini, Di novembre vi metto in un gran stagno,
Ricciardi, in qual parte più po’ fredda pianeta,
Milano-Napoli 1960 con quella povertà che non s’acqueta
Nota metrica 4 di moneta acquistar, che fa gran danno.
Sonetto, secondo lo
stesso schema (ABBA
ABBA CDC DCD) e Ogni buona vivanda vi sia in banno;
con le stesse rime del per lume, facelline da verdeta;
sonetto di Folgore. castagne con mele aspre di Faeta;
8 istando tutti ensieme en briga e lagno.

E fuoco non vi sia, ma fango e gesso,


se no ’n alquanti luochi di romiti,
11 che sia di venti miglia lo più presso;

di vin e carne del tutto sforniti:


schernendo voi qual è più laido biesso,
14 veggendovi star tutti sì sguarniti.

2 in qual parte... pia- 6 facelline da verdeta: 7 Faeta: probabilmente quali si trovi a venti miglia
neta: «dov’è più efficace il deboli fiammelline dalla Faeto, villaggio del Prato- di distanza.
pianeta freddo» (Contini), luce verdastra;forse,“diVer- magno. 13 schernendo... bies-
cioè Saturno. deta” (località non identifi- 8 en briga e lagno:in li- so:(così che) chiunque, an-
3-4 non s’acqueta... ac- cata); in ogni caso appare ti e mugugni. che il più spregevole sci-
quistar: non si placa, non evidente il gioco di parole 10-11 se no... presso: (non munito (laido biesso), vi
trova rimedio neppure gra- con Chiareta nel corri- vi sia fuoco, v. 9) se non in schernisca, vi derida.
zie all’acquisto di denaro. spondente sonetto di Fol- pochissimi luoghi abitati da
5 in banno: in bando. gore, sempre al v. 6. eremiti, il più vicino dei

Laboratorio 1 Evidenzia i particolari più spiccatamente venzale? Sviluppa l’analisi con adeguati
COMPRENSIONE realistici presenti nei due sonetti. riferimenti ai testi.
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE 2 Quali elementi nei due testi rinviano alla 4 Confronta il mondo poetico di Folgore
tradizione cortese e quali invece all’im- con quello di Cecco Angiolieri, soffer-
maginario – più corposo e concreto – mandoti: a) sugli scenari evocati; b) sui
del mondo borghese comunale? temi prediletti; c) sulle scelte linguistiche
3 Analizza i due sonetti di Folgore dal pun- e stilistiche effettuate. Per quali motivi,
to di vista della tecnica compositiva e nonostante le vistose differenze, si può af-
delle strutture sintattiche: si può afferma- fermare che entrambi appartengano alla
re che il poeta impieghi qui le forme corrente della poesia giocosa o comico-
espressive caratteristiche del plazer pro- realistica?

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8. La poesia comico-realistica VERIFICA

VERIFICA

8.1 La poesia giocosa o comico-realistica

1 Spiega il significato dei diversi termini utilizzati per definire la produzione poetica di cui
ci occupiamo in questo capitolo: “comica”, “realistica”, “giocosa”, “burlesca”, “borghese”.
2 Quali sono le personalità più rappresentative di questa corrente poetica? Distingui fra i
poeti che si dedicarono esclusivamente al filone giocoso e quelli che coltivarono anche al-
tre forme di poesia.
3 Quale interpretazione della poesia giocosa è stata elaborata dalla critica ottocentesca? Per
quali ragioni oggi non viene più ritenuta valida?
4 Illustra i temi e i motivi prediletti dai poeti giocosi.
5 Sapresti indicare, mediante adeguati esempi, le scelte linguistiche (sintassi e lessico) e reto-
riche che caratterizzano la poesia comico-realistica?

8.2 Antecedenti mediolatini: la poesia goliardica e i Carmina Burana

6 Che cosa si intende con l’espressione “poesia goliardica”? A quale epoca occorre far riferi-
mento? Che cosa sono i Carmina Burana? In che lingua sono scritti?
7 La poesia goliardica viene oggi interpretata come un esempio di comico “carnevalesco”:
sapresti spiegare il significato di questa espressione?

8.3 Rustico Filippi fiorentino, l’iniziatore

8 Come si presenta il canzoniere di Rustico Filippi? Quale sezione viene considerata in


questo capitolo?
9 Quali sono le forme e i motivi caratteristici della poesia comica di Rustico? Quale la tec-
nica compositiva prevalentemente impiegata?

8.4 Cecco Angiolieri

10 Elenca i motivi fondamentali della poesia di Cecco Angiolieri: quali sono, in particolare, i
bersagli delle invettive dell’autore?
11 Per quali ragioni si riconosce nella poesia dell’Angiolieri un carattere mimico e “teatrale”?
12 Leggi la prima quartina del sonetto Tre cose solamente m’enno in grado, individuando i ri-
chiami più evidenti alla poesia goliardica.

8.5 Folgore da San Gimignano

13 A quali tradizioni letterarie e figurative del Medioevo si richiama Folgòre nel comporre le
sue “corone” di sonetti?
14 Quale ideale o modello di vita esprime Folgòre nei suoi componimenti poetici?
15 Spiega in che cosa consiste il particolare “stile mediano” di Folgòre.

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Duecento e Trecento

Dante Alighieri
9
n Ritratto di Dante attribuito militando nella fazione dei Guelfi bianchi: nel 1296 fa
a Botticelli. parte del Consiglio dei Cento; nel 1300 viene eletto
priore. Esiliato e in seguito condannato a morte in
contumacia (1302), il poeta – dopo una breve paren-
tesi in cui tenta di rientrare in Firenze facendo lega
con gli altri Bianchi fuoriusciti – comincia una vita ra-
minga, vagando per le corti dell’Italia centrale e set-
tentrionale. Fra il 1310 e il 1313 si schiera a favore di
Arrigo VII di Lussemburgo, cercando di promuovere il
suo programma politico di riaffermazione dell’autorità
imperiale. Nel 1315 rifiuta un’amnistia deliberata dal
governo fiorentino, ritenendo infamanti le condizioni
poste. Muore a Ravenna, dov’era ospite di Guido No-
vello da Polenta, nel 1321.
Alla fase fiorentina appartengono la maggior parte
delle Rime (il libro nel quale i posteri hanno raccolto
tutta la produzione lirica di Dante, ad esclusione delle
poesie già comprese nella Vita Nuova e nel Convivio)
e la Vita Nuova, opera autobiografica giovanile mista
di prosa e di versi, in cui Dante rievoca il proprio
Dante Alighieri, considerato unanimemente il pa- amore per Beatrice, la donna-miracolo inviata sulla
dre della nostra letteratura in versi e in prosa, nasce a terra a manifestare, con la sua bellezza e la sua virtù,
Firenze, una delle città più ricche e prospere d’Euro- la perfezione divina. Se la Vita Nuova si presenta co-
pa, nel 1265. La sua formazione culturale si svolge me un libro stilisticamente e linguisticamente com-
sotto la guida di Brunetto Latini, che gli trasmette una patto, le Rime si presentano al contrario come una
concezione civile e impegnata della cultura, e di Gui- raccolta di carattere sperimentale, da cui emerge la
do Cavalcanti, il maggior poeta in lingua volgare della volontà di saggiare una molteplicità di modi espressi-
sua generazione, che lo introduce negli ambienti stil- vi, dal genere comico-realistico al genere tragico, dal-
novistici fiorentini. Carattere aspro e battagliero, Dan- le rime dolci alle rime aspre, con esiti sempre straor-
te partecipa attivamente alla vita politica della città, dinari sul piano concettuale ed espressivo.

n Dante è bandito da Firen-


ze. Miniatura di Giovanni di
Paolo, da un codice quattro-
centesco del Paradiso.

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9. Dante Alighieri STORIA

n Dante e Virgilio davanti al-


la città di Dite (da un codice
della biblioteca Marciana di
Venezia).

Ai primi anni dell’esilio appartengono il Convivio e no) che funge da prologo dell’intera opera, per un to-
il De vulgari eloquentia, due trattati entrambi incom- tale di cento canti. Il poema, composto in un periodo
piuti: nel primo Dante si propone di comporre una verosimilmente compreso fra il 1304 e il 1321, anno
sorta di enciclopedia del sapere filosofico contempo- di morte dell’autore, narra di un viaggio attraverso i
raneo ad uso di un pubblico laico di non specialisti (di tre regni dell’oltretomba cristiano compiuto per vo-
qui la scelta del volgare); nel secondo intende porre lontà di Dio dal poeta stesso, investito di una missio-
la questione dell’uso letterario del volgare in generale ne provvidenziale che riguarda l’umanità intera. Tre
e della lingua italiana in particolare, considerata or- guide si affiancano a Dante per orientarlo alla salvez-
mai matura per poter competere con il sublime mo- za celeste: il poeta latino Virgilio nell’Inferno e nel
dello del latino. Successivo è invece il terzo trattato, Purgatorio; Beatrice, la donna amata in gioventù, colei
intitolato Monarchia, un’esposizione organica in lin- che – come dice il nome – porta beatitudine, nel Pa-
gua latina del pensiero politico-religioso di Dante, te- radiso terrestre e nel Paradiso; san Bernardo, cui vie-
so a difendere l’autonomia dell’istituto imperiale di ne affidato il compito di avviare il protagonista alla vi-
contro alle pretese teocratiche della Chiesa. sione di Dio, negli ultimi canti del Paradiso. Grande
L’opera maggiore, e la più ispirata, di Dante resta summa del sapere medievale – teologico, filosofico,
la Commedia, il «poema sacro» che assumerà l’appel- scientifico, letterario –, la Commedia si pone come
lativo di Divina, per l’altezza dell’argomento non me- un’opera profetica destinata a scuotere le coscienze
no che per la sua prodigiosa perfezione artistica, solo contemporanee e ad avviarle a una nuova epoca di ri-
nell’edizione veneziana del 1555 curata da Ludovico generazione spirituale e morale (renovatio), sulla scia
Dolce. La Divina Commedia è un poema didascalico- dei movimenti religiosi – primo fra tutti quello france-
allegorico in terzine incatenate di endecasillabi, sud- scano – che avevano intrapreso da oltre un secolo un
diviso in tre cantiche (Inferno, Purgatorio, Paradiso), vasto processo di rinnovamento della Chiesa e della
ciascuna di 33 canti, più un canto (il primo dell’Infer- società.

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Duecento e Trecento

9.1 La vita e le opere


La nascita e la famiglia Dante (abbreviazione di Durante) Alighieri nacque nel maggio o giugno del
1265 a Firenze, all’epoca uno dei comuni più potenti e prosperi d’Italia, da una fami-
glia guelfa della piccola nobiltà cittadina. Dagli atti pervenuti, sia il nonno che il padre
risultano dei modesti possidenti che svolgono attività di cambiatori, di prestatori e
perfino di usurai.
Nel celebre trittico del Paradiso (canti XV-XVII), il poeta giunge tuttavia ad ela-
borare una propria genealogia, evidentemente fondata su antiche memorie familiari,
facendola risalire al capostipite Cacciaguida, un cavaliere nato verso la fine dell’XI se-
colo e morto durante la seconda crociata (1147-1149) al seguito dell’imperatore
Corrado III di Hohenstaufen. L’ideologia di Dante, quale traspare dalle sue opere, ri-
sulta feudale e aristocratica, avversa a quei ceti mercantili e borghesi che avevano tra-
sformato da ormai un secolo il volto dei Comuni italiani. Non a caso il poeta farà
tracciare allo stesso Cacciaguida un vasto elogio della Firenze antica (Pd XV 97-129),
patriarcale e aristocratica, condannando ripetutamente, con fiera asprezza, quella con-
temporanea, borghese e mercantile.
L’incontro con Beatrice Al 1274 risale, secondo la cronologia ideale e simbolica presente nella Vita
Nuova, il primo incontro con Beatrice [R T 9.1 ], all’epoca fanciulla di quasi nove anni,
che sarebbe da identificare in una Bice di Folco Portinari, sposa in seguito di Simone
dei Bardi, destinata a morire giovanissima nel giugno 1290. Non c’è ragione, come
pure un tempo si è sostenuto, di dubitare dell’esistenza storica della donna, tenendo
tuttavia sempre presente che il poeta di età medievale «aspira a cogliere nell’esperien-
za individuale quel che si può configurare come verità oggettiva e universale, non le-
gata a determinazioni locali, storiche o individuali» (Mineo): ricerca, insomma, la qua-
lità esemplare di un accadimento, il suo valore assoluto. Non è certamente secondario
il fatto che al 1283, sempre nella Vita Nuova, il poeta collochi la riapparizione di Bea-
trice e la nascita della poesia d’amore con il sonetto A ciascun’alma presa e gentil core
[R T 9.1 ]. Dante ha appena diciotto anni, e fa il suo ingresso nella vita culturale e poe-
tica di Firenze.
La formazione culturale: Brunetto Latini e Guido Cavalcanti Sappiamo molto poco dell’infanzia
e dell’adolescenza di Dante, come dei suoi studi. La lingua della cultura era natural-
mente il latino, e latini erano i modelli linguistici e letterari (Virgilio e Ovidio sopra
tutti) sui quali si formavano le generazioni degli studenti. Firenze era tuttavia un cen-
tro culturale ancora modesto, all’epoca, certo non in grado di competere con la vicina
Bologna, sede di una prestigiosa università, e si può immaginare che i primi studi di
Dante fossero di carattere esclusivamente grammaticale e retorico. Notevole influenza
esercitarono piuttosto sul giovane Dante le due figure più illustri della Firenze di
quegli anni, Brunetto Latini e Guido Cavalcanti, con i quali fece presto conoscenza.
La figura di Brunetto, colui che aveva insegnato per primo ai fiorentini il valore
etico-politico della retorica (R 11.1), è rievocata in uno dei passi più belli e alti della
Divina Commedia (If XV 82-85):
ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora
m’insegnavate come l’uom s’etterna
«S’etterna», cioè si fa eterno mediante le opere grandi e virtuose: è il tema della gloria
poetica, che si accompagna a quello della virtù. Da Brunetto, Dante apprende una le-
zione di moralità e di coerenza intellettuale, l’esigenza di calarsi nella realtà e nella
cronaca del proprio tempo, di aprirsi a un sapere che consideri l’uomo nella sua inte-

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9. Dante Alighieri STORIA

grità: un insegnamento che fruttificherà soprattutto negli anni successivi all’esilio, al-
l’epoca dei primi trattati e del grande poema.
Se Brunetto è una figura «paterna», Guido Cavalcanti, di poco più anziano di Dan-
te, è invece il «primo amico», che lo introduce negli ambienti letterari fiorentini e gli
rivela un nuovo linguaggio poetico, ben oltre gli esempi (ancora imperanti in tutta la
Toscana) di Guittone d’Arezzo e dei suoi discepoli.
Gli studi filosofici e teologici Già durante il soggiorno bolognese dell’inverno 1286-1287, è proba-
bile che Dante si iniziasse a nuove letture. In un passo del Convivio, il poeta ricorda
come, dopo la morte di Beatrice, per trovare consolazione al proprio dolore, si fosse
dedicato agli studi filosofici.

Doc 9.1 La consolazione degli studi filosofici

Dante Alighieri, Convivio E sì come essere suole che l’uomo va cercando argento e fuori de la ’ntenzione truova oro, lo
(II, XII, 5), a c. di G. Bu-
snelli e G.Vandelli, quale occulta cagione1 presenta, non forse sanza divino imperio;2 io, che cercava di consolarme,
intr. di M. Barbi, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocabuli d’autori e di scienze e di libri:3 li
Le Monnier, quali considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste
Firenze 1964
scienze e di questi libri, fusse somma cosa.
1 occulta cagione: la volere. ne citati nel De consolatione Le due opere sono rispetti-
fortuna (è sogg.). 3 vocabuli... libri: «cioè, philosophiae e nel De amici- vamente di Boezio e di Ci-
2 imperio: comando, gli autori, i testi e le dottri- tia» (Vasoli-De Robertis). cerone.

Dante insomma cercava solo un po’ di conforto, e scopre ben di più: autori, testi e
dottrine che gli consentono di approfondire temi filosofici e religiosi che in prece-
denza aveva avuto modo di conoscere solo superficialmente. L’epoca di questi studi
può essere collocata tra il 1291 e il 1294-1295, quando il poeta frequenta assiduamen-
te i due maggiori Studi fiorentini del tempo, quello francescano di Santa Croce (nel
quale prevaleva l’interesse per l’esegesi biblica e per la letteratura mistica) e quello do-
menicano di Santa Maria Novella (profondamente influenzato dal pensiero di san
Tommaso e da letture di forte impronta aristotelica). Sono gli stessi anni in cui decide
di raccogliere le poesie giovanili e di ordinarle e collegarle tra loro mediante una nar-
razione in prosa che riveli il significato profondo e salvifico del suo amore per Beatri-
ce: nasce così, tra il 1292 e il 1294, la Vita Nuova: come ha osservato Giorgio Petroc-
chi, «nella lode di Beatrice la stupefatta ammirazione per la donna si trasferisce in un
superiore piano di elevazione concettuale». Dante quindi innesta i motivi della sua
poesia giovanile entro una solida cornice filosofica e morale.
La partecipazione alla vita pubblica della città Intorno al 1285 Dante si era sposato con Gemma
Donati (da cui avrà tre figli: Jacopo, Pietro e Antonia). L’appartenenza alla nobiltà cit-
tadina imponeva degli obblighi militari: nel giugno 1289 Dante era stato tra i feditori
a cavallo (i soldati armati alla leggera) che avevano combattuto a Campaldino contro i
ghibellini di Firenze e di Arezzo; nell’agosto aveva poi partecipato all’espugnazione del
castello pisano di Caprona.
Ma è solo dal 1295 che il poeta inizia a prender parte attiva alla vita politica della
sua città militando tra i guelfi bianchi, da lui considerati il male minore rispetto alla fa-
zione nera, i cui interessi si intrecciavano strettamente con quelli dei pontefici.
La carriera civile di Dante si consuma nel giro di pochi anni: viene eletto nel
Consiglio dei Trentasei del capitano del popolo (novembre 1295-aprile 1296) e nel
Consiglio dei Savi per l’elezione dei Priori (dicembre 1295); fa parte del Consiglio
dei Cento (maggio-settembre 1296), un importante organo di carattere amministrati-
vo; membro nel 1297 di un altro Consiglio (sul quale non possediamo altra notizia), è
poi ambasciatore presso il Comune di San Gimignano (maggio 1300), infine priore
per il bimestre 15 giugno-15 agosto 1300.
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Duecento e Trecento

La situazione politica era difficile e complessa; i conflitti, aspri e tesi, non rispar-
miavano nessuno: dopo i violenti scontri fra Bianchi e Neri del Calendimaggio 1300,
il 23 giugno dello stesso anno nuovi incidenti costrinsero i Priori a inviare al confino
gli esponenti più turbolenti delle due fazioni.
Fra di essi anche Guido Cavalcanti, che fu confinato a Sarzana (R 7.2). Non sap-
piamo quale sia stata la posizione di Dante, in qualità di priore, nei suoi confronti: cer-
to già da tempo doveva essersi allontanato da lui, forse per contrasti di natura filosofi-
ca e dottrinale. Si sa per certo che ai confinati Bianchi, poco dopo la fine del priorato
di Dante, fu concesso di ritornare in città, decisione che provocò ulteriori rancori nel-
la parte avversa. Guido Cavalcanti doveva morire di lì a poco proprio a causa delle
febbri malariche contratte in Sarzana.
Certo i fatti di giugno dovettero incidere sul destino di Dante che, rieletto nel
Consiglio dei Savi (aprile 1301) e nel Consiglio dei Cento (settembre 1301), continuò
a perseguire una politica di moderazione e di equilibrio, atta a salvaguardare l’autono-
mia politica della sua città e a preservarla da ogni ingerenza esterna, massime da quel-
la pontificia.
Il colpo di stato dei Neri Nel frattempo, in Firenze, la situazione precipitava. Nell’ottobre del 1301
Carlo di Valois fu inviato in città da Bonifacio VIII: ufficialmente in qualità di «pacia-
ro», di mediatore, in realtà allo scopo di estendere l’egemonia papale sulla Toscana.
Mentre Dante (fine di ottobre del 1301) era inviato in ambasceria presso il pontefice,
Carlo di Valois si accordò con i Neri, permettendo loro di impadronirsi con la forza
del governo della città (novembre 1301). Seguirono le condanne e gli esilii della fa-
zione avversa. Dante si trovava sulla via del ritorno, quando apprese di essere stato
condannato in contumacia il giorno 27 gennaio del 1302, per i reati di concussione,
di opposizione alla politica pontificia e di turbamento della pace pubblica, a una mul-
ta di 5000 fiorini, al confino per due anni e all’interdizione perpetua da qualunque
pubblico ufficio. Non essendosi presentato al pagamento entro i tre giorni prescritti,
fu condannato a morte in contumacia il 10 marzo successivo.
Non rientrerà mai più a Firenze, dove lasciava la moglie e i figli. I suoi beni, secon-
do la testimonianza del Boccaccio, furono saccheggiati dalle bande dei Neri: «gli fu
corso a casa e rubata ogni sua cosa, e dato il guasto alle sue possessioni».
I primi anni dell’esilio Nei primi tempi dell’esilio, Dante si illuse di poter rientrare in patria facendo
lega con gli altri Bianchi fuoriusciti, che si preparavano a una guerra civile. Fu in que-

Doc 9.2 La piaga de la fortuna

Dante Alighieri, Convivio Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di
(II, XII, 5), a c. di G. Bu-
snelli e G.Vandelli, gittarmi fuori del suo dolce seno – nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo de la vita mia,1
intr. di M. Barbi, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo cuore di riposare l’animo stancato
Le Monnier, e terminare lo tempo che m’è dato –, per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende,2
Firenze 1964
peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna,3
che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno
sanza vela e sanza governo,4 portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora5 la
dolorosa povertade; e sono apparito a li occhi a molti che forse che per alcuna fama in altra
forma m’aveano immaginato, nel conspetto de’ quali non solamente mia persona invilìo,6 ma
di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare.

1 nel quale... vita mia: per quasi tutte le regioni in na: rivelando contro la mia 5 vapora: esala (sogg. la
dove nacqui e vissi fino cui si parla la lingua usata in volontà la ferita infertami povertade).
quasi all’età di 37 anni (l’e- questo commento, il volga- dalla sorte. 6 invilìo: si avvilì.
silio è del marzo 1302). re del sì. 4 legno... governo: na-
2 per le parti... stende: 3 mostrando... fortu- ve senza vela né timone.

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9. Dante Alighieri STORIA

st’epoca che si recò a Forlì, per ottenere l’appoggio di Scarpetta degli Ordelaffi (au-
tunno 1302), e a Verona, presso Bartolomeo della Scala, dal quale sperava un appoggio
contro il governo instauratosi a Firenze (maggio 1303-marzo 1304). La morte di Bo-
nifacio VIII (2 ottobre 1303) fece sperare in una rappacificazione tra le parti, e Dante,
in rappresentanza dei fuoriusciti, scrisse un’epistola al cardinale Niccolò da Prato, in-
viato a Firenze dal nuovo pontefice Benedetto XI per tentare una conciliazione tra i
due opposti schieramenti. Il fallimento delle trattative (e la morte, il 7 luglio 1304, del
mite Benedetto XI) spinse gli esuli alla soluzione militare: fu allora che Dante si divise
dalla «compagnia malvagia e scempia» (Pd XVII 62) dei Bianchi, che poco dopo ven-
nero sconfitti nel sanguinoso scontro della Lastra, presso Fiesole (20 luglio 1304). Fra le
tante pagine in cui Dante ebbe a dolersi della propria sorte, la più commovente è for-
se quella che inserì nelle pagine d’esordio del Convivio (I, III, 4-5), probabilmente con-
temporanee ai fatti.
Secondo quanto ebbe a scrivere l’umanista Leonardo Bruni nelle sue Vite di Dante,
Petrarca e Boccaccio, il poeta, dopo l’episodio della Lastra, cercò in ogni modo di otte-
nere l’amnistia e di rientrare in Firenze. L’amnistia tuttavia non venne, e Dante conti-
nuò ad andar ramingo di corte in corte, di città in città. Nascono in questi anni due
importanti trattati, il primo in lingua volgare (Convivio), il secondo in latino (De vulgari
eloquentia), che resteranno tuttavia incompiuti, probabilmente per il contemporaneo
avvio della Divina Commedia (che possiamo collocare, verosimilmente, intorno al
1306-1307: R 9.7).
La discesa di Arrigo VII Nel novembre 1308 Arrigo VII di Lussemburgo otteneva l’investitura impe-
riale, vacante ormai da diversi anni; due anni dopo, nell’ottobre 1310, scendeva in Ita-
lia con un esercito di tremila soldati per essere incoronato in Roma e per imporre la
sua autorità ai Comuni italiani. Il programma di Arrigo sembrava rispondere alle spe-
ranze politiche e religiose di Dante, il quale si impegnò personalmente in alcune vee-
menti epistole ufficiali, rivolgendosi sia a prìncipi italiani perché collaborassero con
l’imperatore, sia all’imperatore stesso, esortandolo a non indugiare nell’azione, e a mar-

▍ Le Epistole in latino

Tredici sono le epistole in lingua latina attribuite tradizionalmente a Dante: di gran parte di es-
se, però, è stata messa in dubbio l’autenticità. Di altre epistole, andate invece perdute, abbiamo
notizia o dallo stesso Dante o da altri testimoni.
Una parte considerevole del corpus è di tema politico (I,V,VI,VII, XI); spiccano, in questa
sezione, le tre lettere (V,VI e VII) composte all’epoca della discesa di Arrigo VII di Lussembur-
go (1310-1313) e quella (XI) indirizzata nel 1314 ai cardinali italiani, riuniti in conclave a Car-
pentras per eleggere il successore di Clemente V, in cui li esorta a optare per un papa italiano
che riporti la corte pontificia nella sua legittima sede. In tutte queste lettere Dante ribadisce
con forza la propria fiducia che le due grandi istituzioni medievali, Impero e Papato, possano
superare l’attuale stato di crisi: concetti che ritroviamo sia nel coevo trattato sulla monarchia,
sia nei passi politici della Divina commedia.
Tre sono le epistole di carattere letterario (III, IV e XIII), l’ultima e la più importante del-
le quali (variamente datata fra il 1316 e il 1320) è quella con cui Dante invia a Cangrande del-
la Scala i primi canti del Paradiso. Le accese dispute sull’autenticità (parziale o integrale) e sulla
datazione dell’epistola a Cangrande testimoniano della sua importanza sul piano critico ed ese-
getico: da essa in effetti può dipendere l’interpretazione complessiva della Commedia. Le rima-
nenti sono o di carattere privato (II, XII) o composte per conto di alcuni signori che lo aveva-
no ospitato (VIII, IX, X).
Le epistole dantesche rivelano la straordinaria perizia tecnica del poeta, che si misura con le
forme elaborate e preziose prescritte dall’ars dictandi. Il virtuosismo retorico, comune all’epi-
stolografia contemporanea, è spesso ravvivato dai toni apocalittici e accesi del latino biblico,
dalla potenza vigorosa delle immagini e da una trama ricchissima di citazioni sacre.

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Duecento e Trecento

ciare contro Firenze e le città toscane. Certo anche a causa di questo appassionato
coinvolgimento, il poeta fu escluso dall’amnistia del 2 settembre 1311, con la quale Fi-
renze cercava di indebolire il fronte degli avversari ed evitare l’assedio della città da
parte delle forze imperiali. Probabilmente al periodo della permanenza di Arrigo in
Italia (ma anche in questo caso la datazione è controversa) si deve far risalire la com-
posizione della Monarchia, terzo trattato dantesco, l’unico portato a termine.
Dopo aver suscitato grandi speranze, Arrigo morì all’improvviso, per una malattia, a
Buonconvento, nell’agosto del 1313. L’anno successivo, alla morte di Clemente V (il
papa, originario della Guascogna, che aveva spostato la sede pontificia ad Avignone),
Dante inviò una lettera ai cardinali italiani affinché eleggessero un pontefice italiano
che si impegnasse a ristabilire la sede papale in Roma.
Gli ultimi anni Nel maggio 1315 Firenze offrì al poeta la revoca della condanna e la possibilità di
ritornare in patria se solo avesse ammesso le sue colpe e avesse pagato un’ammenda:
ma Dante, evidentemente deluso delle condizioni, rifiutò. Erano da poco già state di-
vulgate le due prime cantiche della Commedia. Forse per la reiterazione della condan-
na a morte nei suoi confronti (15 ottobre 1315), il poeta fu costretto ad abbandonare
definitivamente la terra di Toscana; si recò presso Cangrande della Scala a Verona, dove
fu ospite per diversi anni e dove attese alla composizione del Paradiso.
Intorno al 1320 (ma alcuni studiosi anticipano agli anni 1318-1319), Dante abban-
dona la corte scaligera di Verona per quella ravennate di Guido Novello da Polenta,
poeta anch’egli di area tardo-stilnovista (R 14.1), sul quale forse Dante contava per far
ritorno a Firenze dopo aver ultimato il poema.
Da Ravenna Dante si muove in due sole occasioni: quando si reca a Verona (1320)
per discutere la Questio de aqua et terra, una pubblica dissertazione nella quale confuta
la tesi che in qualche parte dell’emisfero l’acqua sia più alta della terraferma; e quando,
nell’estate del 1321, acconsente a far parte di un’ambasceria inviata da Guido Novello
a Venezia. Durante il viaggio di ritorno contrae una febbre malarica. Muore a Raven-
na nella notte fra il 13 e il 14 settembre.

9.2 Un “romanzo di formazione”: la Vita Nuova


Composizione e struttura del libro La Vita Nuova è un prosimetro, ossia un componimento misto di
prosa e di poesia, strutturato dall’autore stesso molto probabilmente intorno al 1293-
94 (secondo alcuni studiosi fra il 1292 e il 1293); a quest’epoca risale la stesura delle
parti in prosa. L’opera include un’antologia delle rime giovanili dantesche, in tutto 31
testi lirici (tre canzoni, una stanza e una doppia stanza di canzone isolate, una ballata e
venticinque sonetti) composti nell’arco di un decennio circa (fra il 1283 e il 1293), or-

▍ Opere latine minori: Egloge

Agli ultimi anni di vita appartengono anche due componimenti di tema bucolico composti,
come imponeva la tradizione, in esametri dattilici: si tratta delle Egloge scritte in risposta a due
epistole in versi di Giovanni del Virgilio, grammatico e maestro di poesia classica nello studio
di Bologna, legato al cenacolo preumanistico di Padova (cfr. 14.4). Giovanni, che già conosce-
va le prime due cantiche della Commedia, aveva rimproverato a Dante di dissipare le sue alte
qualità poetiche scrivendo in una lingua plebea, e lo invitava a comporre un poema «vero» in
lingua latina, la sola degna di essere letta, promettendogli in premio l’incoronazione poetica.
Sotto il travestimento bucolico, in versi delicati e allusivi tramati di echi virgiliani e ovidiani,
Dante da una parte dà un saggio della sua raffinata cultura latina, dall’altra difende le sue scel-
te, confessando di attendersi la gloria poetica proprio dal poema di cui sta completando l’ulti-
ma cantica.

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9. Dante Alighieri STORIA

ganicamente connessi mediante 42 capitoli in prosa, in genere piuttosto brevi. La pro-


sa, posteriore, come si è detto, alla maggior parte delle rime, ne offre una giustificazio-
ne e un commento: da una parte, infatti, provvede a ricostruire le circostanze e le oc-
casioni storico-biografiche legate alla composizione delle singole liriche, sull’esempio
delle razos provenzali (R 5.4), e ad inserirle in un contesto narrativo, un vero e proprio
racconto autobiografico, per quanto esile, non di rado elusivo; dall’altra a corredarle,
con rare eccezioni, di un’analisi di carattere tecnico-letterario (la cosiddetta divisione)
che, secondo le consuetudini scolastiche del tempo, consiste essenzialmente in una or-
dinata suddivisione del testo per segmenti o “blocchi” tematici [R T 9.1 ].
Il titolo: Incipit vita nova Il titolo dell’opera, Vita Nuova, che si ricava da una frase latina del I capitolo
[R T 9.1 ], racchiude più significati: allude all’epoca in cui si svolge la vicenda narrata,
cioè la giovinezza dell’autore (l’aggettivo novus, nova in latino vuol dire “nuovo”, ma
anche “giovane, giovanile”), e soprattutto alla svolta decisiva che si registra nella vita
del protagonista in seguito all’innamoramento. Vita nuova, dunque, in quanto “vita rin-
novata dall’amore” per Beatrice; infine, senza contraddizione, nuova nel senso della cri-
stiana renovatio, un radicale rinnovamento spirituale (e, inscindibilmente, poetico), che
si realizza appunto attraverso l’esperienza d’amore.
Argomento dell’opera Materia del racconto, secondo quanto Dante dichiara nel breve prologo
[R T 9.1 ], saranno i ricordi personali dell’autore, o meglio una parte di essi, trascelti in
base a un rigoroso criterio selettivo. Il suo «intendimento» è quello di trascrivere le
parole registrate nel «libro de la memoria» prendendo le mosse da un punto preciso,
segnato da una «rubrica» o intitolazione in rosso (Incipit vita nova, «Incomincia la vita
nuova»), che coincide con un episodio cruciale, il primo incontro con Beatrice.
Simmetrie compositive Nella disposizione delle rime, così come nell’articolazione degli episodi, ap-
pare evidente la ricerca di simmetrie interne, che conferiscono all’opera la struttura
armonica di un vero e proprio “libro”. Singleton, nel suo Saggio sulla «Vita Nuova»
[R T 9.3 Doc 9.4 ], ha formulato lo schema numerico, esattamente speculare, sotteso all’or-
dinamento dei testi poetici: 10 + 1 + 4 + 1 + 4 + 1 + 10 (le cifre in corsivo indicano
le canzoni, quelle in tondo i sonetti e gli altri componimenti, per lo più brevi); al cen-
tro, la canzone Donna pietosa, annuncio visionario e profetico della morte di Beatrice e
della sua trasfigurazione di donna terrena in donna celeste. Analogamente De Rober-
tis, benché propenso a individuare il vero centro o chiave di volta del libro piuttosto
nella canzone Donne ch’avete [R T 9.2 ] e nelle «nove rime» della lode, evidenzia una
successione di “blocchi” simmetrici: il racconto si apre con la visione della donna ter-
rena (A) e si chiude con la visione della donna celeste (A); al gruppo di capitoli dedi-
cati alle donne dello «schermo» (B) corrisponde l’episodio della «donna gentile» (B),
entrambi momenti di “sviamento”; intorno alle rime «de la loda» (D) si dispongono
da una parte le rime del dolore in vita (o della fase “angosciosa”, cavalcantiana, con la
scena del «gabbo», C), dall’altra quelle del dolore in morte di Beatrice (C), secondo lo
schema, ancora una volta perfettamente speculare, ABCDCBA.
Fonti e modelli: la tradizione del prosimetrum e i testi antichi Primo esempio di prosimetrum in
volgare italiano, la Vita Nuova si richiama tuttavia a una ricca tradizione, tardoantica e
poi medievale, in lingua latina; ma certo Dante deve aver guardato soprattutto al De
consolatione Philosophiae [La consolazione della filosofia] di Boezio (R 1.4), che egli stesso,
nel Convivio (II, XII, 2-3), dichiara di aver letto per trarne conforto dopo la morte di
Beatrice insieme al Laelius de amicitia [Lelio, ovvero dell’amicizia] di Cicerone. Al libro di
Boezio, la Vita Nuova si apparenta inoltre per la materia autobiografica e per la scelta
di parlare di sé in prima persona; sotto questo aspetto sarà stata fondamentale per
Dante anche la lettura delle Confessioni di sant’Agostino.
L’agiografia e il modello biblico Rilevante è anche l’influsso dei modelli agiografici, in particolare
delle Vite di sante francescane (e dello stesso san Francesco), nella ricostruzione di una
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Duecento e Trecento

“storia” edificante ed esemplare cui si intende attribuire valore universale, così come il
richiamo continuo alle Scritture (rilevabile anche a livello stilistico), soprattutto ai
Vangeli, al libro dell’Apocalisse e alle Lamentazioni del profeta Geremia, attraverso una
rete fittissima di citazioni, allusioni, figurazioni simboliche convergenti – secondo la
celebre formula di Gianfranco Contini – nell’«equazione analogica Beatrice-Cristo».
Innumerevoli gli esempi testuali: rinviamo in particolare all’analisi del cap. XXIII
[R T 9.3 ].
Suggestioni dalle letterature in volgare Fra le esperienze letterarie in volgare che più da vicino han-
no influenzato il «libello» giovanile dantesco, occorre ricordare innanzitutto le vidas e
le razos che nei manoscritti accompagnano i testi lirici dei trovatori provenzali (R 5.4),
offrendo il primo esempio di commento a rime in volgare; poi, la Rettorica di Brunet-
to Latini (R 11.1), sullo sfondo della cospicua tradizione medievale dei commenti ai
classici; infine, la nuova poesia di impronta guinizzelliana che stava nascendo negli an-
ni Ottanta nell’ambito dei più raffinati circoli intellettuali fiorentini, e che retrospetti-
vamente indichiamo con la denominazione dantesca (notoriamente posteriore, non-
ché discussa) di «dolce stil nuovo».
Reinterpretazione del passato: un “romanzo di formazione” Una delle questioni più dibattute
in passato a proposito della Vita Nuova è stata quella dell’attendibilità del racconto, del-
la conformità o meno degli eventi narrati ai dati storico-biografici reali. È lo stesso
Dante, peraltro, nel breve proemio dell’opera [R T 9.1 ] a rivolgere un chiaro avverti-
mento ai suoi lettori, là dove dichiara il proposito di «assemplare», cioè di ricopiare le
parole registrate nel «libro de la sua memoria», sotto un’intitolazione miniata (Incipit vi-
ta nova), che segnala l’inizio di un nuovo capitolo, ossia una svolta decisiva nel corso
della sua vita, “rinnovata” dall’amore per una donna chiamata Beatrice. Dante precisa
tuttavia che non le trascriverà proprio «tutte»: di alcune darà soltanto la «sentenzia», va-
le a dire il significato. Dalla Vita Nuova non ci dovremo dunque attendere un resocon-
to diretto e fedele, né (tanto meno) minuzioso ed esaustivo, di esperienze biografiche
concretamente documentabili; neppure sarà lecito, all’opposto, considerarla esclusiva-
mente un’artificiosa invenzione letteraria, una «bella menzogna» da decifrare eventual-
mente in chiave allegorica. Si potrebbe invece definire la Vita Nuova, con efficace ana-
cronismo, un “romanzo di formazione” (in tedesco Bildungsroman, storicamente una
creazione della cultura romantica fra Sette e Ottocento). Nel giovanile «libello» dante-
sco si compone infatti il disegno di un itinerario esistenziale e poetico ricostruito a po-
steriori mediante un ripensamento e una reinterpretazione del proprio passato da parte
dell’autore-protagonista, che a un certo momento avverte l’esigenza di chiarire a se
stesso il senso, la direzione del proprio cammino intellettuale e umano, di imprimervi
un ordine e un significato unitario, totalmente incentrato su quella che ora gli si rive-
la l’esperienza fondamentale e assoluta della propria esistenza: l’amore per Beatrice.
Un’autobiografia del Medioevo cristiano: un racconto esemplare Occorre tener presente, non-
dimeno, che il percorso, il destino personale delineato nel libro della Vita Nuova non
può comunque inscriversi entro le coordinate offerte dalla cultura moderna, nel segno
dell’eccezionalità individualistica e del soggettivismo di matrice romantica. Secondo le
peculiari caratteristiche della mentalità cristiano-medievale (R 1.2), l’assiduo sforzo di
retrospezione interpretativa dell’autore-protagonista mira piuttosto a comporre un
racconto esemplare: a ricercare cioè nei dati di un’esperienza contingente e particola-
re le tracce dell’eterno e dell’universale, a “leggere” nel visibile i segni dell’invisibile, a
riconoscervi insomma le linee di un arcano disegno provvidenziale.
In quest’ottica, le simmetrie interne al libro rivelano tutta la loro profonda neces-
sità: la proporzionata, quasi geometrica euritmia della composizione (per Dante come
per tutta la letteratura del Medioevo) rispecchia a livello strutturale la scoperta di un
ordine armonico al di là dell’apparente disarmonia e casualità degli eventi terreni. Di
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9. Dante Alighieri STORIA

qui anche la scelta di narrare pochissimi fatti per così dire “esterni” e concreti, scelti
per il loro valore di premonizione e per la loro rilevanza simbolica, allusiva a un signi-
ficato profondo e celato, a una superiore verità di ardua decifrazione, che si rivela
compiutamente soltanto per illuminazioni successive; di qui il predominio della visio-
ne, della «imaginazione», della concentrazione introspettiva sul racconto degli eventi.
Tutta la narrazione appare così disseminata di misteriosi presagi, che dal punto di vista
narrativo assumono una funzione prolettica (o di anticipazione): si pensi alla «maravi-
gliosa visione» del III capitolo [R T 9.1 ], che costituisce una rappresentazione profetica,
in forma simbolica e visionaria, dell’intera vicenda.

▍ Vita Nuova

All’età di nove anni Dante incontra per la prima volta Beatrice, anch’essa una fanciulletta di pochi
mesi più giovane, vestita di colore «sanguigno», e se ne innamora. La rivede nove anni dopo e ne
riceve il primo saluto; in seguito a una «maravigliosa visione» scrive il primo sonetto indirizzato ai
«fedeli d’Amore» (II-III R T 9.1 ). Allo scopo di celare, in ossequio alle regole del galateo cortese,
l’identità della donna amata, finge per lungo tempo di rivolgere il suo amore, in successione, a due
donne-schermo, cui dedica vari componimenti poetici. Beatrice, sdegnata per le apparenze non
virtuose della relazione con la seconda donna-schermo, nega al protagonista «lo suo dolcissimo sa-
lutare», nel quale egli riponeva tutta la sua beatitudine e ogni speranza di appagamento amoroso. A
questo punto Dante si sofferma a descrivere i mirabili effetti che il saluto della «gentilissima» ope-
rava in lui (V-XI). Alla negazione del saluto segue un periodo di grave turbamento e di angosciosi
pensieri, che culmina nell’episodio del «gabbo»: a una festa nuziale, alcune donne, fra cui Beatrice,
si prendono gioco di lui e del suo insostenibile smarrimento (XII-XIV). Si apre un periodo di ri-
flessione: Dante si interroga sulla propria contraddittoria e tormentosa condizione, cercando di in-
dagare le ragioni per cui egli sia irresistibilmente sospinto a rivedere Beatrice, dal momento che la
sua presenza provoca in lui effetti tanto devastanti; compone intanto rime d’amore doloroso sul
modello cavalcantiano (XV-XVI). La crisi, esistenziale e poetica, si risolve grazie a un colloquio
con un gruppo di donne gentili. Il protagonista-poeta supera le proprie contraddizioni e formula
una nuova poetica, che presuppone una più alta concezione dell’amore: egli si propone infatti di
non parlare più di sé e del proprio tormento, ma di consacrare la propria poesia alla lode della
«gentilissima» e al canto di un amore disinteressato e pago di sé. Primo frutto di questa “conversio-
ne” è la canzone Donne ch’avete intelletto d’amore (XVII-XIX R T 9.2 ). Dopo una digressione sul-
la natura d’amore e nuovi versi di lode (XX-XXI), Dante annuncia la morte del padre di Beatrice
(XXII). Durante una malattia, il protagonista ha una visione che prefigura la morte imminente del-
la donna amata e la sua assunzione nella gloria del Paradiso, argomento della canzone Donna pieto-
sa e di novella etate (XXIII R T 9.3 ). I capitoli successivi sono dedicati a una apparizione di Amo-
re (XXIV), a una dissertazione di natura letteraria, in cui si afferma la dignità della poesia volgare
(XXV), e soprattutto alle rime «de la loda» (XXVI R T 9.4 - XXVII). Dante dà l’annuncio della
morte di Beatrice, ma afferma di non volerne parlare (XXVIII); si diffonde invece sull’insistente ri-
corso nella vicenda narrata del numero nove, segno della natura miracolosa di lei (XXIX); riporta
poi le rime di doloroso lamento composte a quel tempo in morte della sua donna; fra queste la ter-
za canzone della Vita Nuova, Li occhi dolenti per pietà del core (XXX-XXXIV). Una «gentile don-
na giovane e bella molto» da una finestra rivolge uno sguardo compassionevole sul protagonista,
immerso nel suo dolore; combattuto dapprima fra la tentazione di abbandonarsi alla dolcezza di un
nuovo amore e il rimorso per il colpevole oblio di Beatrice, in seguito, grazie a una visione in cui
gli appare la sua donna richiamandolo a sé, respinge il «malvagio desiderio» e ritorna tutto al pen-
siero della «gentilissima» (XXXV-XXXIX). Il dolore per la morte di Beatrice si dilata a lutto uni-
versale (XL). Su richiesta di due donne gentili Dante compone il sonetto Oltre la spera che più lar-
ga gira: il suo pensiero si innalza oltre le sfere celesti a contemplare la gloria della sua donna nel-
l’Empireo, visione ineffabile che il poeta non può compiutamente esprimere. Un’ultima «mirabile
visione», che resta oscura e misteriosa, lo induce a non dire più di Beatrice finché non potrà «più
degnamente trattare di lei» (XLI-XLII R T 9.5 )

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Duecento e Trecento

Si comprende ora perché Dante probabilmente ri-legga alcuni momenti del suo
passato (e i testi poetici da essi scaturiti) trasformandone radicalmente il significato, o
meglio scoprendone soltanto ora il vero significato (in una sorta di rapporto “figura-
le”) allo scopo di riassorbirli nella vicenda principale, subordinandoli all’amore per
Beatrice: si pensi agli episodi dello «schermo» e a quello della «donna gentile», in ori-
gine – come si può congetturare – esperienze d’amore “divergenti”, dotate di un’ef-
fettiva, autonoma realtà biografica.
Un itinerario poetico Così come “rilegge” e reinterpreta gli eventi della propria vita, nella Vita Nuo-
va Dante rilegge e reinterpreta le proprie rime, o, per meglio dire, gran parte delle
liriche composte nel decennio precedente. Occorre sottolineare, tuttavia, che eventi
narrati e testi poetici, strettamente connessi da un reciproco legame, si specchiano di
continuo gli uni negli altri; anzi, gli episodi, le occasioni, le situazioni fondamentali
di cui s’intesse il racconto coincidono con le fasi salienti dell’attività del rimatore,
che sovente interviene a scandire la successione degli avvenimenti («Poi che dissi
questi tre sonetti», XVII, 1; «Appresso che questa canzone fue alquanto divolgata tra
le genti», XX, 1; «Poi che detta fue questa canzone, sì venne a me uno», XXXII, 1).
Cavalcanti, Guinizzelli e il «dolce stil nuovo» dantesco Nell’itinerario poetico lungo il quale
Dante guida il lettore della Vita Nuova si riconoscono dunque le tappe di avvicina-
mento a una meta ancora ignota: la conquista, o meglio la rivelazione quasi miracolo-
sa, di un personale «stil nuovo». Anche se le rime inserite nei capitoli iniziali serbano
qualche impronta del giovanile apprendistato guittoniano, nella prima parte del libro si
riconosce il predominante influsso della poesia di Guido Cavalcanti, in particolare
nella raffigurazione “drammatica” dell’amore angoscioso, mediante la personificazione
degli “spiriti vitali” [R T 9.1 ]. La seconda parte della Vita Nuova, segnata dalla svolta dei
capitoli XVIII-XIX e dalla canzone Donne ch’avete intelletto d’amore [R T 9.2 ], attesta,
insieme al superamento degli schemi cavalcantiani, la programmatica ripresa di modu-
li caratteristici della lirica guinizzelliana, dalla tematica della «loda» alla rappresentazio-
ne dei virtuosi e beatifici effetti dell’apparizione dell’amata, organicamente sviluppati
con più forte impegno intellettuale e conoscitivo nell’ambito di una nuova poetica,
coincidente con la scoperta della vera essenza d’Amore: un sentimento assolutamente
disinteressato, che si modella sull’amore divino (charitas) e appagandosi di se stesso si
esprime – e si risolve – in un estatico inno di lode.
Sul piano delle forme espressive, «Dante elabora un linguaggio esente da durezze
lessicali e fonetiche, da vistosità di “ornato” retorico, da complessità e involuzioni sin-
tattiche», caratterizzato da «melodica musicalità e limpidezza di dettato» (Mineo), mo-
strando già di attuare nel nuovo «stilo de la loda» i precetti che parecchi anni più tar-
di teorizzerà in ordine al volgare illustre nel De vulgari eloquentia (II,VII, 3-5).
Forme e modi della rappresentazione: la prosa della Vita Nuova Sull’esile, rarefatta trama nar-
rativa degli eventi concreti prevale, si è detto, la rappresentazione di esperienze in-
trospettive e visionarie, in un racconto ellittico, allusivo, che ricerca effetti di “sfuma-
to” mediante vaghissime indicazioni temporali e altrettanto indeterminati ed elusivi
accenni ai luoghi («passando per uno cammino lungo lo quale sen gia uno rivo chia-
ro molto», XIX, 1 [R T 9.2 ]). Se talora, all’opposto, si incontrano riferimenti precisi,
puntigliosamente circostanziati (si pensi ai dati cronologici forniti nei primi capitoli
[R T 9.1 ]), appare evidente, piuttosto che lo scrupolo di esattezza “realistica”, l’inten-
to di additarne l’arcano valore simbolico. Sul piano retorico e stilistico la prosa della
Vita Nuova, fittissima di metafore, perifrasi, personificazioni e simbologie, s’intesse da
una parte di allusioni e citazioni scritturali, di richiami biblici ed evangelici, di
espressioni proprie del linguaggio dei mistici, dall’altra di stilemi della tradizione cor-
tese e della lirica stilnovistica: modalità espressive che si associano e si fondono sen-
za dissonanze, in un mirabile “legato”, sulla medesima pagina.
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9. Dante Alighieri STORIA

9.3 Le Rime
«Una collezione di extravaganti» Con la Vita Nuova, Dante si era proposto di organizzare un’antolo-
gia delle proprie poesie, legandole in un progetto organico e compiuto; un’operazio-
ne analoga egli tentò, circa dieci anni dopo, con il Convivio, che avrebbe dovuto inclu-
dere 14 canzoni allegorico-morali seguite dai rispettivi commenti (il progetto resterà
tuttavia incompiuto).
Tutte le liriche che non rientrano nella Vita Nuova e nel Convivio, composte tra gli
anni della giovinezza e i primi anni dell’esilio (1283-1308 ca), furono invece raggrup-
pate dai posteri nel libro delle Rime e ordinate secondo criteri assai vari, per lo più di
carattere tematico o cronologico. Si tratta nel complesso di 54 componimenti (per l’e-
sattezza: 34 sonetti, 13 canzoni, 5 ballate, 2 sestine, una delle quali doppia), ai quali si
debbono aggiungere 26 componimenti di dubbia attribuzione. La raccolta comprende
tradizionalmente anche 26 testi di poeti che corrisposero con Dante: fra di essi Guido
Cavalcanti, Cecco Angiolieri, Cino da Pistoia, Forese Donati (con cui Dante ingaggiò
una memorabile tenzone).
Sperimentalismo e varietà Se non si può parlare di canzoniere (in senso moderno, petrarchesco), cioè
di un’opera unitaria e organizzata dall’autore, nondimeno ci troviamo in presenza di
una raccolta straordinaria per la qualità poetica e il rigore sperimentale dei componi-
menti. Le Rime si propongono in effetti come la testimonianza di un percorso lirico
più che ventennale.
Gianfranco Contini, il massimo studioso italiano delle rime dantesche, ha parlato
per questo libro di una «superba collezione di extravaganti», di poesie cioè che non
rientrano in nessuna delle progettate raccolte dantesche, che vagano dunque al di fuo-
ri (extra) di esse, e si propongono volta per volta come una «serie di tentativi», di pro-
ve poetiche che proiettano Dante dai primi moduli guittoniani al grande poema del-
la maturità. Sperimentalismo (stilistico, metrico, tematico) e molteplicità di modi
espressivi (dal genere comico a quello tragico, dal trobar clus al trobar leu, dalle rime dol-
ci a quelle aspre) caratterizzano in sintesi uno dei libri più imprevedibili, mossi e in-
quieti della nostra letteratura.
Rime cortesi e stilnovistiche del periodo giovanile La prima parte del libro comprende tutte quel-
le rime che erano state composte durante il periodo 1283-1293 e che, per ragioni strut-
turali e/o tematiche, non erano confluite nella Vita Nuova: si va dunque da moduli anco-
ra scopertamente guittoniani alle liriche della grande stagione stilnovista. Alcune sono
dedicate a figure femminili dai senhal dolci e aggraziati come Fioretta o Violetta (ma Bea-
trice resta la dedicataria principale delle liriche); altre, come il celebre sonetto Guido, i’
vorrei che tu e Lapo ed io [R T 9.6 ], testimoniano del clima di amicizia e di fervore intellet-
tuale di quel felice periodo che doveva interrompersi con la morte di Beatrice e la defi-
nitiva stesura della Vita Nuova. Il tema fondamentale è l’amore, spesso trattato con toni
lievi e delicati, come nella leggiadra e musicalissima ballata dedicata a Fioretta [R T 9.7 ].
Rime in stile giocoso o comico-realistico Accanto alla produzione cortese e stilnovista Dante non
mancò di sperimentare lo stile giocoso, di cui alla fine del secolo la personalità più
rappresentativa in Toscana era Cecco Angiolieri. Proprio con Cecco, sappiamo che
Dante ingaggiò una tenzone dai toni accesamente ingiuriosi, come dimostra il sonet-
to di Cecco, l’unico sopravvissuto della serie, intitolato Dante Alighier, s’i son bon bego-
lardo (cioè un buffone loquace, accusa evidentemente rivoltagli da Dante in un sonet-
to perduto). Ci è invece giunta integralmente la tenzone con l’amico Forese Donati
(fratello di Corso, il noto capo dei Neri fiorentini), che ritroveremo in Purgatorio
(XXIII, 37-XXIV, 99).
La tenzone, comprendente tre sonetti di Dante e tre di Forese, va collocata verosi-
milmente negli anni 1293-1296 (anno della morte di Forese).

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Duecento e Trecento

Secondo l’ordine stabilito da Michele Barbi, è Dante a iniziare con un sonetto (1.
Chi udisse tossir la malfatata [R T 9.8 ]) in cui accusa l’amico di trascurare la moglie e di
farla vivere nell’indigenza. Forese ribatte con un racconto alquanto oscuro (2. L’altra not-
te mi venne una gran tosse), in cui afferma di essersi imbattuto nell’ombra del padre di
Dante (morto nel 1283), costretta a vagare senza pace a causa di un nodo magico da cui
non riesce a sciogliersi: forse l’autore allude alle pratiche usuraie di Alighiero, forse a
un’ingiuria non vendicata dal figlio (che in questo caso verrebbe accusato di vigliacche-
ria). Nel terzo sonetto (3. Ben ti faranno il nodo Salamone), Dante rincara la dose, accusan-
do Forese di golosità (vizio per cui lo ritroveremo in Purgatorio) e di debiti, cui Forese
cercherebbe di rimediare praticando il furto. Nel sonetto successivo (4. Va’ rivesti San Gal
prima che dichi) Forese ritorce l’accusa di povertà su Dante («se tu ci hai per sì mendichi
[ci consideri così poveri], / perché pur mandi a noi per caritate [ci chiedi ancora la ca-
rità]?»). Dante, con uno scatto felice (5. Bicci novel, figliuol di non so cui), mette allora in
dubbio la legittimità della nascita di Forese, insistendo di nuovo sulla golosità e sulle pra-
tiche ladresche dell’amico, per finire con terribili insinuazioni ai danni dell’intera fami-
glia dei Donati. Forese (6. Ben so che fosti figliuol d’Alaghieri) ribatte infine sul tema del-
l’offesa al padre non vendicata da Dante. Alla violenza delle ingiurie (che rientravano
nel codice della tenzone, e non vanno dunque intese come espressione di una vera
ostilità fra i due poeti) corrisponde l’asprezza sintattica e lessicale della lingua, che pa-
re deformarsi sotto il peso delle accuse che i due contendenti si scagliano con iperbo-
lica potenza immaginativa.

▍ Poemetti di contrastata attribuzione: il Fiore e il Detto d’Amore

Solo verso la fine dell’Ottocento furono scoperti e dati alle stampe due poemetti allegorico-
didattici appartenenti a un unico manoscritto trecentesco di area fiorentina vergato dalla
stessa mano: il Fiore (ed. 1881), composto da 232 sonetti organizzati in sequenza narrativa, e
il Detto d’Amore (ed. 1888), mutilo e composto da 480 settenari a rima baciata. Tutt’e due i
poemetti furono probabilmente redatti da uno stesso autore verso il 1286-1287 (secondo
Petrocchi). L’assegnazione al giovane Dante dei due poemetti resta tuttora, nonostante il
prestigio degli studiosi favorevoli (fra cui Contini), assai contrastata, soprattutto per il Detto.
Entrambi i poemetti sono volgarizzamenti semplificati (mancano in particolare le digres-
sioni filosofico-dottrinarie) del Roman de la Rose, e dunque affrontano il tema di Amore
entro un contesto didascalico e allegorico (il «fiore» è naturalmente la «rosa» dell’origina-
le) fortemente venato di elementi parodistici. La spregiudicatezza dei contenuti, l’esibita
oscenità di diversi passi e l’ampliamento degli spunti polemici potrebbero essere stati il
motivo della loro scarsa diffusione. Colpisce, in entrambi i poemetti (e soprattutto nel Det-
to), il virtuosismo metrico-stilistico dell’autore, che mira ad esiti di ricercatissima artificio-
sità e di ermetico preziosismo. I moduli espressivi che più risaltano sono: l’eccezionale pre-
senza di gallicismi, che evidentemente rispondono all’esigenza di aderire maggiormente al-
l’originale francese (ma secondo Contini assolvono anche a una funzione caricaturale); la
scelta di rime difficili, tanto più evidente nel Detto, dove le rime sono tutte, obbligatoria-
mente, equivoche; l’ampio ricorso alla tradizione comico-satirica, con prevalenza dunque
di un lessico di tono basso, nonostante l’atmosfera complessiva risulti aulica e arcaizzante.
L’ipotesi della paternità dantesca, se accolta, confermerebbe ulteriormente il carattere spe-
rimentale dell’intera produzione dell’Alighieri, ma soprattutto anticiperebbe già agli anni
Ottanta la scelta di una poesia di tono parodico e di stile comico (che fino alla scoperta
del Fiore emergevano per la prima volta dalla tenzone con Forese Donati, a metà degli an-
ni Novanta). Dante, insomma, mentre componeva liriche di stile dolce, avrebbe lavorato,
secondo questa ipotesi, fin dai suoi vent’anni nell’ambito dello stile comico-realistico, sfor-
zandosi di ampliare la tastiera sintattica e lessicale della lingua volgare: un procedimento
che caratterizzerà, ovviamente con ben altri risultati, la Divina Commedia.

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9. Dante Alighieri STORIA

Le rime «petrose» Successivo alla Vita Nuova e alla tenzone è il gruppo delle rime «petrose», quattro
componimenti (due canzoni, una sestina, una sestina doppia) composti da Dante per
una donna indifferente al suo amore, e perciò insistentemente paragonata, per la du-
rezza del suo cuore, a una pietra. Con la serie delle petrose [R T 9.9 ], che vanno vero-
similmente collocate fra il 1296 e il 1298 (ma c’è chi pensa ai primi anni dell’esilio),
Dante si confronta in modo diretto con la tradizione più aspra, preziosa e oscura del
trobar clus provenzale, e in particolare con la grande esperienza poetica di Arnaut Da-
niel, che sappiamo da lui particolarmente ammirato. Il tema, quello della donna spie-
tata oggetto di un desiderio crudo e sensuale, è risolto in una ricerca formale ed
espressiva di inaudito vigore: «gli atteggiamenti scontrosi della donna assumono qui
aspri connotati materiali e coincidono con la resistenza e le difficoltà dello stesso lin-
guaggio poetico» (Ferroni). La scelta di un vocabolario duro e raggelato, l’asprezza
delle rime (dichiarata fin dall’incipit della canzone più nota: Così nel mio parlar voglio
esser aspro), la densità concettuale degli enunciati e delle immagini, l’impressionante
repertorio di figure retoriche impiegate, nonché la scelta metrica (in due casi su
quattro) della sestina dimostrano lo strenuo impegno, intellettuale e formale, del poe-
ta, volto a una poesia di segno antitetico a quello della Vita Nuova.
Rime allegorico-dottrinali e morali L’estremo periodo fiorentino e i primi anni dell’esilio sono
caratterizzati dall’interesse per temi filosofici e morali, testimoniati negli stessi anni
dalla composizione del Convivio. Gli studi filosofici iniziati dopo la morte di Beatrice,
la crudezza delle lotte politiche, l’amarezza e le difficoltà seguite all’esilio allontanano
Dante dalla lirica d’amore e lo spingono a una poesia di severo impegno dottrinale,
che si esprime talvolta in forme allegoriche, come nella celebre Tre donne intorno al cor
mi son venute. All’elevatezza dei contenuti corrisponde qui un registro stilistico vigo-
roso e sostenuto: diversamente dalle rime petrose, il linguaggio è limpido e lineare, il
movimento del discorso chiaro ed equilibrato. Ma ormai, con queste poesie, giungia-
mo alle soglie della Divina Commedia, il grande poema nel quale Dante saprà sintetiz-
zare tutte le forme poetiche fin qui sperimentate.

9.4 Un trattato filosofico in lingua volgare: il Convivio


La stagione dei trattati Fu la traumatica esperienza dell’esilio a costringere Dante a una riflessione
profonda sui fondamentali temi del rapporto fra Chiesa e Impero, della pace univer-
sale, del rinnovamento del mondo cristiano, ai quali erano strettamente collegate la
scelta di nuove forme espressive più adeguate al pubblico comunale, e perciò la ne-
cessità di ricorrere alla lingua volgare (ancora guardata con sospetto dalla cultura uf-
ficiale) anche al di fuori della raffinata esperienza della lirica d’amore: ne nacquero
tre trattati, uno dei quali soltanto (la Monarchia) fu completato, gli altri due (Convivio
e De vulgari eloquentia) restando incompiuti per il sopraggiunto impegno della Com-
media.
Datazione dell’opera Il Convivio è un trattato filosofico in lingua volgare e in forma di prosimetro
che si suole assegnare agli anni 1304-1307. Tuttavia, di recente, Maria Corti ha soste-
nuto una datazione più ampia (1303-1308) e, in particolare, ha proposto di disgiun-
gere, per la diversità del tono e del linguaggio, il quarto trattato (che sarebbe stato
scritto fra il 1306 e il 1308) dai tre precedenti (scritti, secondo l’indicazione della stu-
diosa, fra il 1303 e il 1304). Nello spazio intermedio fra le due sezioni sarebbe da in-
serire la stesura del De vulgari eloquentia.
Un progetto enciclopedico L’opera, originariamente, prevedeva quindici libri o trattati: un trattato
proemiale, nel quale venivano spiegate le ragioni dell’opera, più altri quattordici
comprendenti ciascuno una canzone accompagnata da un ampio commento. L’opera
rimase interrotta dopo il quarto trattato, probabilmente per il contemporaneo avvio
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Duecento e Trecento

della Commedia, da cui il poeta finì per essere totalmente assorbito. Nondimeno le
parti composte rivelano l’organicità dell’impostazione complessiva: nei commenti alle
canzoni (composte nel periodo 1293-1304, dunque, prima dei capitoli in prosa) l’au-
tore non si limita a spiegare il significato letterale e allegorico dei componimenti poe-
tici, ma sviluppa il discorso con ampie digressioni di carattere filosofico, teologico,
scientifico ed etico-politico, creando una fitta rete di rimandi e di citazioni che salda-
no ogni capitolo all’insieme. L’ambizione è quella di consegnare al lettore una sorta di
enciclopedia del sapere contemporaneo.
Il destinatario: elogio della sapienza ed elogio del volgare Se la Vita Nuova era un’opera destina-
ta alla cerchia raffinata ed esclusiva dei «fedeli d’Amore», il Convivio si rivolge pro-
grammaticamente a un pubblico ben più vasto di potenziali lettori, non dotti né let-
terati di professione, tuttavia animati dal desiderio di conoscere. Proprio nel trattato
proemiale [R T 9.10 ] Dante si impegna a definire questo suo nuovo pubblico, per il
quale egli imbandisce un «convivio» di sapienza: se i componimenti poetici sono le vi-
vande del banchetto, le esposizioni in prosa costituiranno il pane al quale esse si ac-
compagneranno. La metafora del convito chiarisce non solo il respiro ampio dell’ope-

▍ Il Convivio

II trattato. Dante commenta la canzone Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete (composta tra
la fine del 1293 e gli inizi del 1294), spiegandone la genesi: pieno di dolore per la morte di
Beatrice, si era accostato alla filosofia, raffigurandola come una «donna gentile» apportatrice
di felicità e di salvezza. Il personaggio della «donna gentile» era già apparso nei capitoli con-
clusivi della Vita Nuova, interpretato tuttavia come uno sviamento da Beatrice. Qui, al con-
trario, la «donna gentile» è il simbolo di una nuova ricerca sulla via della conoscenza e della
verità. Tra le letture che più avevano confortato il dolore del poeta, vengono citate La conso-
lazione della filosofia di Boezio e il trattato sull’Amicizia di Cicerone.
Prima di procedere al commento, l’autore svolge una premessa di carattere metodologi-
co: spiega i quattro sensi delle scritture (letterale, allegorico, morale, anagogico), distinguen-
do fra l’allegoria dei poeti («veritade ascosa [nascosta] sotto bella menzogna») e l’allegoria dei
teologi (che si basa, diversamente dalla precedente, su un significato letterale veritiero e non
inventato dal poeta).
Non mancano digressioni, in particolare di carattere cosmologico: numero e ordine dei
nove cieli, natura e funzione delle intelligenze angeliche, immortalità dell’anima.
III trattato. Dante commenta la canzone Amor che ne la mente mi ragiona, dedicata alla
lode della donna gentile, ovvero di Filosofia, considerata un’emanazione dell’essenza divina.
Il tema è dunque ancora quello della sapienza, cui l’uomo può attingere grazie all’intelli-
genza e alla fede. Filosofia viene definita «uno amoroso uso di sapienza, lo quale massima-
mente è in Dio, però che in lui è somma sapienza e sommo amore e sommo atto [cioè som-
ma capacità di operare]» (III, XII, 12).
Anche in questo libro non mancano digressioni, sulla natura di amore, in particolare (e
sul suo diverso modo di manifestarsi nelle varie creature), e sull’ordine gerarchico del mondo
(al cui centro è collocata la terra, come indicava la dottrina aristotelico-tolemaica).
IV trattato. Dante commenta la canzone Le dolci rime d’amor ch’i’ solìa, proponendosi di
abbandonare il tema amoroso per esporre compiutamente la sua concezione di nobiltà, in-
tesa (come d’altronde aveva già enunciato Guinizzelli [R T 7.1 ]) come una qualità indivi-
duale e non ereditaria: nobile è dunque chi possiede virtù morali e intellettuali, non chi pos-
siede ricchezze o discende da una schiatta illustre.
Qui si inserisce una digressione di argomento etico-politico, che verrà ampiamente svi-
luppata nella Monarchia: la necessità di un’autorità suprema che assicuri ordine e armonia al-
la società cristiana; il fondamento romano di tale autorità; i suoi limiti.

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9. Dante Alighieri STORIA

ra, ma anche le ragioni per cui Dante sceglie la lingua volgare, esaltata in relazione sia
al latino sia alle più note lingue volgari del tempo (come il francese e il provenzale). Il
compito che Dante assegna a se stesso è quello di un mediatore culturale fra la scien-
za, patrimonio di pochi dotti, e un vasto pubblico laico e comunale (lo stesso, in fon-
do, al quale si era rivolto Brunetto Latini: R 11.1) finora, per motivi pratici, esclusi da-
gli studi. Il fine è più volte ribadito in espressioni di alta e consapevole energia retori-
ca: «inducere li uomini a scienza e a vertù» (I, IX, 7), dar «luce a coloro che sono in te-
nebre e in oscuritade» (I, XIII, 12).
Temi e contenuti dei trattati Dopo il trattato proemiale, imperniato sull’elogio della sapienza e sul-
l’elogio del volgare (l’unico strumento atto a diffonderla), ciascun libro doveva tratta-
re un tema di natura intellettuale o morale: il II e il III sono una lode appassionata
della filosofia e della sapienza, cui, secondo l’autore, l’uomo si volge naturalmente; il
IV tratta del concetto di nobiltà; da allusioni interne, sappiamo che il VII trattato sa-
rebbe stato dedicato alla temperanza, il XIV alla giustizia, il XV alla liberalità. Colpisce,
nel complesso, non solo l’ampiezza ma anche la complessità e la profondità dei pro-
blemi affrontati: sotto questo aspetto il Convivio prelude al grande poema “enciclope-
dico” della Commedia.
La prosa del Convivio La prosa di Dante utilizza ampiamente la tecnica espositiva della contemporanea
filosofia scolastica in lingua latina, che era fiorita in particolar modo nelle università
del XIII secolo. Il discorso si sviluppa in modo analitico e concatenante: l’autore è at-
tento a sottolineare i nessi e i passaggi, a produrre divisioni evidenti della materia, ad
anticipare lo scopo di una dimostrazione, ad aprire incisi per chiarire in modo detta-
gliato ogni concetto, ad introdurre, dopo una dimostrazione, eventuali obiezioni. Con
il Convivio, si può ben dire, assistiamo alla vera fondazione della prosa saggistica italia-
na: rigorosamente strutturata sul piano sintattico, armonica e proporzionata su quello
espressivo.

9.5 Un trattato in lingua latina sul volgare: De vulgari eloquentia


Datazione e titolo Probabilmente fra la stesura del terzo e quella del quarto trattato del Convivio
(Corti), dunque fra il 1304 e il 1305 va collocata la stesura del De vulgari eloquentia, un
trattato in lingua latina, come il Convivio rimasto incompiuto. Il titolo non è attestato
dalla tradizione manoscritta, che parla di Rectorica Dantis o di Liber de vulgari eloquio: il
titolo corrente è ricavato dal passo del Convivio già citato, dove si parla di «uno libello
ch’io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza», nonché da due passi del-
lo stesso De vulgari eloquentia (I, I, 1; I, XIX, 2).
Una trattazione sul volgare in lingua latina Il ricorso al latino non deve stupire, ma rientra anzi nel
progetto culturale avviato da Dante con il Convivio: se infatti il Convivio era un ban-
chetto di sapienza allestito per un pubblico di indotti, e dunque in volgare, il De vul-
gari eloquentia è un trattato tecnico sul volgare rivolto a pochi dotti, quelli che cono-
scono e usano il latino, per convincerli della bontà e dignità del volgare, una lingua
che è il «sole nuovo», la «luce nuova» destinata a sostituire il latino come lingua della
cultura e dell’arte.
Il progetto Secondo quanto dichiara l’autore stesso, l’opera era stata progettata in almeno quat-
tro libri, se non più: ci sono pervenuti solo il I libro e parte del II, interrotto brusca-
mente nel mezzo del capitolo XIV. Proprio da questa brusca interruzione, verosimil-
mente provocata da un guasto della tradizione manoscritta (cioè l’insieme delle copie
manoscritte del testo), si è ipotizzato che il testo dantesco fosse più esteso di quello
che ci è pervenuto.
Finalità e carattere dell’opera Dante vuole dimostrare, dinanzi a un pubblico di uomini dotti, che il
volgare non è più una semplice lingua d’uso, ma ha ormai da tempo acquisito dignità
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Duecento e Trecento

letteraria, come dimostra la storia della poesia lirica in Italia, dalla scuola siciliana ai più
recenti esempi stilnovisti. Il De vulgari eloquentia non è dunque una riflessione teorica
sulla lingua parlata, semmai una dimostrazione a posteriori dell’esistenza di una nuova
lingua letteraria in grado di competere, sul piano dei risultati, con la lingua letteraria
latina. Questo spiega la vasta mappa di esempi poetici addotta dall’autore nell’ambito
dei vari stili, e soprattutto il prevalente interesse, almeno a restare alle sezioni compo-
ste, dimostrato per lo stile più alto (quello tragico o sublime): per competere con il la-
tino, il volgare deve dimostrare la sua eccellenza proprio nelle zone alte, quelle consi-
derate gerarchicamente più impegnative. Per questo motivo, il De vulgari eloquentia si
presenta come un testo leggibile a più livelli: è un trattato sulla natura del linguaggio e
sull’evoluzione storica delle lingue, una teoria degli stili, una sorta di storia della lette-
ratura italiana del Duecento.
Lingue naturali e lingue artificiali: i volgari e il latino Dopo una breve premessa, in cui chiarisce
gli intenti dell’opera, Dante esordisce distinguendo il volgare (lingua naturale che ap-
prendiamo da bambini «senza nessuna regola, imitando la madre» [trad. di A. Del
Monte]) dal latino (lingua artificiale secondaria, cui possiamo accedere soltanto attra-
verso uno studio regolare e assiduo). La differenza compariva già nel primo trattato
del Convivio, dove si diceva (I, v, 7) che «lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo
volgare è non stabile e corruttibile»: il latino è insomma una «grammatica», una lingua
artificiale e immutabile, di contro alle lingue volgari, che sono invece caratterizzate
dall’instabilità e dalla varietà. Mentre tuttavia nel Convivio tale differenza andava a tut-
to vantaggio del latino, l’unica lingua in grado di vincere la corruzione del tempo e
l’instabilità degli eventi storici, ora leggiamo che le lingue volgari sono superiori a
quelle artificiali proprio perché naturali, cioè più vicine a Dio Creatore. Naturalmen-

L’origine delle lingue e il volgare illustre Mappa dei dialetti italiani secondo Dante
I quattordici dialetti sono raggruppati in due aree, se-
parate dalla linea appenninica.
lingua ebraica

episodio di Babele
e confusione delle lingue
Friulano

Trevisano
e
Veneziano Istriano
Lombardo
lingua greca lingua germanica terza lingua
Genovese Ro
m ag
no
lo
An
co
ne

Toscano MAR
ta
no

ADRIATICO
Spoletino

lingua del sì lingua d’oïl lingua d’oc Romano


Ap
ulo
Ap or
ulo ien
tal
oc e
cid
en
tal
e
Sardo

14 dialetti MAR
TIRRENO

illustre
cardinale Siciliano
volgare
aulico
curiale

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9. Dante Alighieri STORIA

te l’idea che il latino fosse una lingua perenne e immutabile derivava dalla sua storia
medievale, e dal fatto di essersi stabilizzata come lingua della Chiesa e della cultura: è
questo il latino che Dante ha ora in mente, e a cui contrappone la naturalità delle lin-
gue volgari.
Origine del linguaggio ed evoluzione delle lingue Dopo aver dimostrato che solo agli uomini è
stato concesso il dono del linguaggio, sconosciuto sia agli animali (esseri bruti e infe-
riori) sia agli angeli, Dante introduce una breve storia delle lingue umane: dalla lingua
sacra originaria (che dopo l’episodio della torre di Babele, resterà appannaggio del so-
lo popolo ebraico) a una molteplicità di lingue in continua evoluzione. Dante si re-
stringe ai volgari europei: germanico a nord; greco a sud-est; un «terzo idioma» a sud,
quest’ultimo a sua volta distinto in tre lingue (d’oc, d’oïl, del sì, ovvero provenzale,
francese e italiano). La trattazione si concentra infine sul volgare italiano, articolato a
sua volta in quattordici varietà dialettali, le più significative della penisola.
I dialetti italiani e il volgare illustre Nessuna, tuttavia, di queste quattordici parlate possiede i requi-
siti necessari per divenire una lingua letteraria nazionale in grado di competere con le
letterature d’oc e d’oïl da una parte, con la letteratura latina dall’altra. Il volgare a cui
Dante pensa non è infatti una lingua dell’uso e della comunicazione, ma una lingua
scritta, letteraria, destinata a trattare gli argomenti più elevati, adatta perciò allo stile
tragico o sublime, il più importante nella scala gerarchica degli stili [R T 9.11 ]. Questo
volgare letterario viene chiamato «illustre», termine con il quale si deve intendere
«qualcosa che diffonde luce e che, investito dalla luce, risplende chiaro su tutto» (l’eti-
mologia dell’aggettivo è infatti connessa con il termine latino lux, “luce”). Si tratta
perciò di un volgare dotato di un magistero tale da onorare chi lo usa e da smuovere
fin nell’intimo il cuore degli uomini. Proprio per questo non può identificarsi con
nessuna delle varietà linguistiche municipali, nemmeno con quella toscana: è una lin-
gua, insomma, di cui è traccia (sia pure in maniera diversa) in tutte le città d’Italia ma
che non appartiene a nessuna di esse.
Caratteri del volgare illustre: cardinale, aulico, curiale Dante passa infine a definire la natura di
questo volgare illustre. Lo definisce «cardinale», «aulico», «curiale»: cardinale perché at-
torno ad esso ruotano tutti i principali volgari nazionali, proprio come la porta ruota
sul suo cardine; aulico (dal lat. aula, “reggia”), perché è pieno di magnificenza e di re-
galità, degno insomma di essere parlato in una reggia; curiale (dal lat. curia, il luogo do-
ve si amministrava la giustizia), perché degno del supremo tribunale, dal momento che
«la curialità non è altro che una norma ben soppesata di ciò che si deve fare». Poiché
tuttavia in Italia non esistono né una curia né una corte, diversamente da altre nazio-
ni europee, curia ed aula saranno idealmente rappresentate dai dotti e dagli scrittori
d’Italia. Per esercitare tale magistero, essi dovranno perciò guardare oltre la ristretta
cerchia municipale di cui fanno parte e mirare a una lingua unitaria che trascenda tut-
te le singole parlate e contemporaneamente le riunisca in sé, un po’ (l’esempio è di
Dante stesso) come il bianco che riunisce in sé ogni altro colore.
La teoria degli stili e lo stile tragico Nel secondo libro (rimasto interrotto al cap. XIV) Dante si
propone di esaminare l’uso del volgare illustre in poesia. Questo volgare, proprio per la
dignità e la magnificenza che possiede, non potrà essere usato da tutti i rimatori in
volgare, né in tutte le occasioni; sarà invece riservato ai poeti eccellenti, ed esclusiva-
mente ai temi più nobili ed elevati: la poesia delle armi, la poesia d’amore, la poesia
della virtù [R T 9.11 ]. Per affrontare tali argomenti la forma metrica più adatta risulta la
canzone, su cui Dante si sofferma a lungo, dando indicazioni sul verso più adeguato
(l’endecasillabo), sulla sintassi, sul lessico e sulla struttura metrica.
Che cosa dovessero contenere i libri successivi si può solo in parte intuire da qual-
che sparso accenno: probabilmente Dante avrebbe trattato anche del volgare medio-
cre, del volgare umile e della prosa in volgare.
207 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento

9.6 Un trattato di riflessione politico-religiosa: la Monarchia


Problemi di datazione dell’opera Fin dagli anni fiorentini, Dante si era battuto per difendere l’au-
tonomia della sua città dalle ingerenze dei pontefici. Le pretese temporali della Chie-
sa, ai suoi occhi, andavano annoverate fra le cause principali dello stato di disagio e di
crisi della società cristiana. Alle strutturali difficoltà in cui versava da tempo l’istitu-
zione imperiale, minata sia dalle spinte disgregatrici dei regni nazionali e delle realtà
comunali, sia dalle pretese teocratiche dei pontefici, si accompagnava la recente crisi
della Chiesa stessa, costretta ad abbandonare la sede romana per Avignone (1305). La
dolorosa esperienza dell’esilio e l’urgenza della situazione politica contemporanea
spingono dunque Dante ad approfondire la natura del potere temporale e i rapporti
che intercorrono fra Chiesa e Impero: temi che troviamo dibattuti anche nel Convi-
vio e che verranno poeticamente sviluppati in numerosi canti della Divina Commedia.
Fu probabilmente un episodio politico di notevole rilievo (almeno per le aspetta-
tive che seppe suscitare), ovvero la discesa di Arrigo VII di Lussemburgo in Italia (di-
cembre 1310), a spingere Dante a una riflessione trattatistica unitaria. Proprio agli an-
ni 1311-1313, sulla scorta del Boccaccio (Trattatello XXVI), si tende quindi ad asse-
gnare la composizione del trattato. La datazione della Monarchia resta tuttavia una
questione aperta: l’assenza di precisi riferimenti alla cronaca politica contemporanea,
unita al fatto che l’autore non ha mai parlato altrove della sua opera, spiega la varietà
delle ipotesi (nessuna delle quali sostenuta da prove decisive). Alcuni studiosi hanno
perciò retrodatato l’opera agli anni 1307-1309 per le indubbie analogie con alcuni
passi del Convivio; altri l’hanno invece spostata agli anni successivi all’impresa di Arri-
go (che morì per malattia nell’agosto 1313), spingendosi fino al 1318 e oltre, cioè agli
anni in cui il poeta aveva ormai messo mano alla terza cantica.
Struttura e contenuti dell’opera La Monarchia, un trattato in tre libri composto in lingua latina, è
l’opera in cui Dante in modo organico ed equilibrato propone una soluzione delle
grandi questioni che da secoli erano state dibattute, con esiti diversi, da filosofi, teo-
logi e libellisti politici.
Nel I libro Dante si propone di dimostrare la necessità e l’universalità dell’Impero,
solo garante della giustizia e della pace terrena; nel II che tale Impero appartiene di
diritto, e in modo inalienabile, al popolo romano, cui lo ha destinato la Provvidenza
divina; nel III che l’autorità imperiale discende in modo diretto da Dio, al pari di
quella pontificia, cui non è dunque subordinata. Le tesi erano già da tempo diffuse,
soprattutto negli ambienti filoimperiali, ma nessuno, fino a Dante, le aveva organizza-
te in una struttura argomentativa e dimostrativa così compatta e rigorosa.
Emblematico è l’esordio, in cui l’autore ricerca innanzitutto i princìpi, le ragioni
causali da cui discendano le proposizioni successive e che le rendano via via inconte-
stabili. Definisce dunque quale sia il fine di tutta quanta la società umana e in che
modo esso debba essere perseguito: dimostra come «la più alta potenza dell’umanità
sia la potenza o facoltà intellettiva», la quale non può tuttavia essere realizzata da un
solo uomo ma dall’intera comunità degli uomini, e soltanto quando ad essa venga as-
sicurata la quiete e la serenità della pace. L’imperatore è appunto colui che deve assi-
curare una pace universale, in modo che l’umanità possa realizzare compiutamente
quella potenza intellettiva che ad essa sola, tra tutti gli esseri dell’universo, è stata do-
nata.
Il pensiero politico di Dante e la fortuna dell’opera Subito dopo la morte di Dante, l’opera ven-
ne combattuta dalla Chiesa e strumentalizzata dai sostenitori del potere imperiale,
che la utilizzarono soprattutto al tempo dell’incoronazione di Ludovico il Bavaro
(1328): bruciata sul rogo nel 1329 e messa all’Indice dalla Chiesa cattolica nel Cin-
quecento (dove restò fino al 1881), godette al contrario di ampia fortuna negli am-

208 © Casa Editrice Principato


9. Dante Alighieri STORIA

bienti della Riforma, tanto che la prima edizione a stampa fu fatta a Basilea, città lu-
terana, nel 1559 (per la prima edizione a stampa italiana bisognerà aspettare il 1758).
Fu invece l’esaltazione del popolo romano, considerato da Dante unico depositario
legittimo del potere imperiale, a entusiasmare Cola di Rienzo, che volle personal-
mente commentare il trattato. Molti interpreti, anche recenti, hanno voluto leggere il
trattato come un’esaltazione dell’autonomia della ragione e dei valori laici dello Sta-
to. Eppure, come nella contemporanea Divina Commedia, Dante colloca la sua visione
politica all’interno di una visione gerarchica, trascendente e religiosa del mondo. La
Monarchia non è un libro di battaglia volto a obiettivi immediati, ma un trattato or-
ganico e rigoroso mediante il quale Dante vuole ricomporre le fratture che avevano
diviso da secoli le due grandi autorità medievali, entrambe necessarie alla salvezza del
cristiano. Il suo approccio è perciò filosofico piuttosto che giuridico, volto al rinno-
vamento spirituale e civile del mondo cristiano. Significative le pagine conclusive del
trattato [R T 9.12 ], nelle quali l’autore dimostra la convergenza, pur nell’autonomia re-
ciproca, dell’operato dell’istituzione ecclesiastica e di quella imperiale.

La concezione politico-religiosa di Dante

uomo

corpo natura corruttibile natura incorruttibile anima

fine ultimo: fine ultimo:


la felicità terrena la felicità eterna

mezzi: le virtù fede


mezzi:
speranza
intellettuali e morali le virtù teologali carità

fondata sull’autorità fondata sulla rivelazione


filosofia teologia
dei filosofi (testi sacri)

guida l’umanità alla guida l’umanità


imperatore pontefice
felicità temporale alla salvezza celeste

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Duecento e Trecento

9.7 La Divina Commedia


La Divina Commedia è un poema didascalico in forma allegorica diviso in tre canti-
che: Inferno, Purgatorio, Paradiso. Ciascuna cantica comprende 33 canti, cui si deve ag-
giungere un canto introduttivo al poema: in totale, dunque, 100 canti per oltre 14.000
versi endecasillabi. Il metro è la terzina a rime incatenate, probabilmente derivante dal
sirventese popolaresco. La preponderanza del numero tre (3 cantiche, 33 canti, strofe di
3 versi) esprime il valore sacro e religioso del poema, posto interamente sotto il segno
della fede e della renovatio spirituale.
Datazione e diffusione dell’opera Opera dell’esilio e della maturità, la Commedia fu composta in un
periodo generalmente compreso fra gli anni 1304-1307 e 1320-1321. Giorgio Petroc-
chi, cui si deve un’importante edizione critica del poema, propone come data d’inizio
il 1304, dunque il momento in cui Dante, rinunciando alla «compagnia malvagia e
scempia» (Pd XVII 62) dei fuoriusciti Bianchi che si erano alleati con i Ghibellini per
rientrare con la forza in Firenze, decise di “far parte per se stesso” (Pd XVII 69). La mag-
gior parte degli studiosi propende tuttavia per far iniziare l’Inferno intorno agli anni
1306-1307, il Purgatorio dopo il 1308, il Paradiso dopo il 1316. La prima cantica sarebbe
stata completata verso il 1309-1310, la seconda verso il 1315: in ogni caso Inferno e Pur-
gatorio cominciarono a circolare e ad essere lette fin dagli anni 1313-1314 (si trovano
passi trascritti sui Memoriali bolognesi del 1317 e del 1319). Il Paradiso, tranne i canti già
inviati agli amici (come testimoniano l’Epistola a Cangrande della Scala e l’Ecloga a Gio-
vanni del Virgilio), venne conosciuto integralmente solo dopo la morte del poeta.
In assenza del manoscritto autografo di Dante, esistono più di seicento manoscritti
che attestano la straordinaria fortuna di cui l’opera godette sia presso gli ambienti ari-
stocratici e intellettuali, sia presso i ceti popolari. Il manoscritto più antico a noi noto,
sia pure indirettamente, fu trascritto a Firenze fra il 1330 e il 1331, dunque circa dieci
anni dopo la morte del poeta. Particolare eco ebbe, fra Trecento e Quattrocento, il testo
della Commedia approntato, insieme a quello della Vita Nuova e a 15 canzoni, da Gio-
vanni Boccaccio: l’edizione, tuttavia, appare criticamente poco rigorosa, nonostante
ancora la utilizzasse, all’inizio del Cinquecento, Pietro Bembo. L’editio princeps, cioè la
prima edizione a stampa dell’opera, apparve a Foligno nel 1472. Fra le edizioni critiche
novecentesche, fondamentali furono quelle allestite da Giuseppe Vandelli (1921), Mario
Casella (1923) e Giorgio Petrocchi (1966-1967), che realizzò l’impresa avvalendosi
esclusivamente della tradizione manoscritta anteriore al Boccaccio.
Il titolo Il titolo di Divina Commedia, con il quale universalmente siamo abituati a designare
il grande poema dantesco, apparve per la prima volta nell’edizione veneziana del 1555
curata da Ludovico Dolce, a indicare sia l’eccellenza dell’opera sia i suoi contenuti ul-
tramondani. Dante, nell’Inferno, designa la sua opera comedìa, con accento alla greca, in
due diversi passi (XVI, 128 questa comedìa; XXI, 2 la mia comedìa). Alcuni studiosi pre-
tendono che tale denominazione riguardi solo la prima cantica, non il poema com-
plessivo, dal momento che nell’ultima cantica l’autore allude al poema con le espressio-
ni sacrato poema (XXIII, 62) e poema sacro (XXV, 1).
Non ci sarebbero dubbi sul titolo, se avessimo la completa certezza dell’autenticità
dell’Epistola a Cangrande della Scala: in questa lettera, inviata insieme ai primi canti del
Paradiso in una data probabilmente compresa fra il 1315 e il 1317, Dante propone in-
fatti per l’intero poema il titolo Comedìa (Libri titulus est: «Incipit Comedia Dantis Alaghe-
rii, florentini natione, non moribus: «Incomincia la Comedìa di Dante Alighieri, fiorentino
di nascita, non di costumi»), giustificandolo con due argomenti, il primo di ordine con-
tenutistico (inizio triste, conclusione lieta della narrazione), il secondo di ordine stilisti-
co (un linguaggio umile e dimesso): «E da questo è chiaro che Comedìa si può definire
la presente opera. Infatti se guardiamo alla materia, all’inizio essa è paurosa e fetida per-

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9. Dante Alighieri STORIA

ché tratta dell’Inferno, ma ha una fine buona, desiderabile e gradita, perché tratta del
Paradiso; per quel che riguarda il linguaggio questo è dimesso e umile perché si tratta
della parlata volgare che usano anche le donnette» (Epistole, XIII, 31).
Un nuovo genere di sublime Come sappiamo, nel De vulgari eloquentia Dante ha dimostrato che il vol-
gare può adattarsi anche allo stile più alto, quello «tragico»: sarebbe dunque sbagliato
pensare che Dante, nel passo dell’Epistola a Cangrande sopra riportato, voglia definire
«umile» lo stile della Divina Commedia solo perché è composta in lingua volgare. Al
contrario, come ha spiegato in un memorabile studio il filologo tedesco Erich Auerba-
ch, le indicazioni dantesche sullo stile umile e basso del suo poema «non si riferiscono
all’impiego della lingua italiana ma alla scelta delle espressioni basse e al realismo molto
accentuato in numerose parti del poema». Il problema di dare un titolo conveniente al-
la materia della Divina Commedia sorge dunque dal fatto che Dante ha composto un’o-
pera che dissolve la tradizionale concezione degli stili: il suo poema supera i confini di
uno stile basso, ed affronta anzi il soggetto più sublime che sia consentito a un uomo di
fede, ovvero il racconto della visione paradisiaca. Ma è un sublime che contiene in sé
anche il basso, anche la realtà più bassa e triviale, senza tuttavia venir meno all’idea di
«poema sacro», di una poesia cioè alta ed elevata, la cui fonte principale di ispirazione,
come lo stesso Dante indica in più punti del suo poema, è Dio stesso. Sotto questo
aspetto, Dante sta portando a maturazione un principio che già i padri della Chiesa (in
particolare sant’Agostino) avevano ben intuito nei testi evangelici, dove non solo i mi-
steri divini sono spiegati con un sermo humilis, uno stile semplice e dimesso, ma prota-
gonisti divengono spesso personaggi di basso rango, come Pietro, l’umile pescatore che
diviene apostolo e primo vescovo di Roma.
Argomento e guide Argomento della Commedia è il viaggio compiuto da Dante (insieme protagonista
e narratore) nei tre regni dell’oltretomba cristiano. Tale viaggio si svolge in otto giorni
durante la primavera del 1300, anno del Giubileo indetto da Bonifacio VIII per il rin-
novamento del mondo cristiano, forse nella settimana pasquale che va dalla mezzanot-
te del 7 aprile, venerdì santo, alla mezzanotte (o al mezzogiorno) del 14 aprile (secondo
altri, dal 25 marzo, data dell’incarnazione di Cristo, al 1° aprile).
Dante, che inizia il viaggio «nel mezzo del cammin di nostra vita», cioè nel trenta-
cinquesimo anno di età, è accompagnato durante il cammino da Virgilio, simbolo della
ragione umana (Inferno e Purgatorio), e da Beatrice, simbolo della Rivelazione e della
Fede (Paradiso Terrestre, Paradiso). San Bernardo, uno dei grandi mistici medievali, parti-
colarmente noto per la sua devozione mariana (a lui viene non a caso affidata la celebre
preghiera alla Vergine di Paradiso XXXIII), lo assisterà nei canti conclusivi, quando il
poeta potrà accedere alla visione beatifica della gloria divina.
Le fonti: la visione e il viaggio allegorico La letteratura visionaria aveva conosciuto vasta diffusione
fin dal primo affermarsi del cristianesimo: e non poteva essere altrimenti per chi consi-
derava la vita eterna come la vera vita. Alcuni di questi testi erano del resto stati accolti
nel canone delle Sacre Scritture: si pensi al libro IV di Esdra (solo in seguito escluso) o
all’Apocalisse di san Giovanni, l’ultimo e il più impressionante dei libri del Nuovo Testa-
mento. Accanto ai testi canonici si diffusero anche opere letterarie che esercitarono una
notevole influenza sull’immaginario medievale: trattazioni ascetiche e agiografiche (Vi-
tae patrum [Le vite dei Padri]; Legenda aurea; De contemptu mundi [Il dispezzo del mondo] di
Innocenzo III; il maomettano Libro della Scala), opere romanzesche (la Navigatio sancti
Brandani [La navigazione di san Brandano]; La leggenda del Purgatorio di San Patrizio; la Vi-
sio Tungdali) e visioni mistiche (la Visio Alberici; i Dialogi [Dialoghi] di Gregorio Magno; il
De eruditione hominis interioris [La formazione dell’uomo interiore] di Riccardo di San Vit-
tore; il Liber figurarum [Libro delle figure] di Gioachino da Fiore; la Vita sancti Romualdi
[Vita di san Romualdo] di Pier Damiani). Grande fu in particolare la fortuna della Visio
sancti Pauli [La visione di san Paolo], tradotta per secoli in molte lingue volgari.
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Duecento e Trecento

Fondamentali, per l’influenza decisiva che esercitarono su Dante, furono tuttavia i


classici latini: il VI libro dell’Eneide; il Somnium Scipionis [Il sogno di Scipione] di Cicerone;
i viaggi all’Averno delle Metamorfosi di Ovidio; il racconto della maga Eritone nel Bel-
lum civile [La guerra civile] di Lucano. Da Virgilio, in particolare, Dante trasse diversi
spunti per la rappresentazione spaziale dell’Inferno e dell’Antipurgatorio.
Accanto alla letteratura visionaria, non meno importanza ebbe la letteratura di viag-
gio, e in particolare il genere dei viaggi allegorici, che si era sviluppato a partire dal XII
secolo (si pensi, per restare nella sola Italia, al Tesoretto di Brunetto Latini: R 11.1). È
merito di Cesare Segre avere individuato gli elementi che collegano la Commedia con i
viaggi allegorici: la presenza di virtù non esclusivamente religiose; la pluralità delle gui-
de; l’impianto didattico (che consente di organizzare, per bocca di vari personaggi, un
organico discorso di carattere etico-religioso, artistico e scientifico); l’elemento allego-
rico; la precisione (topografica, cronologica) del racconto e delle descrizioni che si sus-
seguono (mentre le visioni, generalmente, si limitavano a flash e rapide escursioni prive
di continuità e di organicità).
Dante narratore e personaggio Dante (il cui nome compare esclusivamente in Pg XXX 55) non è so-
lo il personaggio protagonista del poema, ma anche il narratore. La distinzione risulta
determinante per la comprensione del poema e per il suo sviluppo narrativo: Dante-
agens (Dante-personaggio), colui che intravediamo fin dai primi versi smarrito e pau-
roso, incerto sul suo cammino, ha una percezione parziale e limitata dei fatti di cui fa
gradatamente esperienza; Dante-auctor (Dante-narratore), colui che scrive a viaggio
concluso, ha invece una percezione completa del viaggio intrapreso, di cui conosce il
senso provvidenziale e l’esito felice. Il personaggio e il poeta-narratore interagiscono
dinamicamente nel corso dell’intero poema, che è, va ribadito, un itinerario morale al-
la ricerca della verità e della redenzione, un itinerario durante il quale Dante personag-
gio cambia, fino a non essere più, al termine del racconto, quello che era all’inizio: non
più, insomma, un peccatore smarrito ma un uomo che ha fatto esperienza del divino.
Se all’inizio della storia la distanza fra il personaggio e il poeta è dunque massima, alla
fine del poema pellegrino e poeta coincidono. La compresenza dei due punti di vista
garantisce al lettore, all’interno di ogni canto, una doppia esperienza: quella tutta uma-
na, confusa e imperfetta, del personaggio che viaggia in luoghi a lui ignoti; quella glo-
bale e trascendente di chi scorge in ogni destino l’opera della somma giustizia divina.
Questa doppia prospettiva è il fondamento della grandezza poetica della Commedia:
si pensi a figure come quelle di Francesca da Rimini o di Ulisse, che i romantici volle-
ro trasformare, con una certa ingenuità, nella «prima donna del mondo moderno» (De
Sanctis) e nell’eroe magnanimo della conoscenza. Nella realtà del poema, di fatto, essi
rappresentano due esempi peccaminosi, di lussuria Francesca, di frode intellettuale Ulis-
se. E tuttavia Dante non cancella la verità umana delle loro vicende: il desiderio di av-
ventura che porta Ulisse oltre le colonne d’Ercole è una forma della verità del mondo,
sia pure imperfetta, che convive, nello spazio del poema, con il giudizio divino. Ulisse è
davvero l’eroe magnanimo della conoscenza, ma è anche il peccatore che Dio ha defi-
nitivamente cacciato in una bolgia infernale. Chi negasse la doppia verità di queste fi-
gure, negherebbe la poesia della Commedia.
D’altro canto non potrebbe essere diversamente: colui che dice “io” nel corso del
poema è contemporaneamente un individuo storicamente determinato (cioè il fioren-
tino Dante Alighieri, guelfo bianco esiliato ingiustamente nel 1302, che fa valere i suoi
odii e le sue passioni, che si commuove davanti al maestro Brunetto Latini o si vendica
di Filippo Argenti che un tempo lo aveva umiliato), ma anche «l’uomo in generale»
(Contini), il rappresentante di un’umanità fragile e traviata che anela a ritrovare la retta
via in un’epoca di grave crisi istituzionale e morale.
Allegoria e figura nella Commedia La Divina Commedia è un poema di impianto allegorico. Lo stesso
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9. Dante Alighieri STORIA

Dante, nel Convivio, seguendo una vasta tradizione medievale, aveva distinto fra due di-
versi generi di allegoria: l’allegoria dei poeti e l’allegoria dei teologi. Nel primo caso i
fatti narrati erano una pura invenzione del poeta, sotto la quale tuttavia si nascondeva
una verità di ordine morale o religioso; nel secondo il piano della narrazione si fonda-
va su un evento reale e storicamente accaduto. Il piano allegorico, inoltre, andava inte-
so, sull’esempio delle Sacre Scritture, su tre livelli ben distinti: il livello allegorico pro-
priamente detto (cioè il significato nascosto); quello morale (ciò che dobbiamo fare);
quello anagogico (ciò a cui dobbiamo tendere). Mentre tuttavia lo stesso Dante, nel
Convivio, aveva detto di volersi servire dell’allegoria dei poeti, tutto, nella Divina Com-
media, fa pensare che Dante volesse servirsi dell’allegoria dei teologi: il poema andrebbe
dunque letto, al pari delle Sacre Scritture, come una narrazione di eventi realmente ac-
caduti, ciascuno dei quali nasconde un’allegoria, cioè una serie di verità nascoste. Lo di-
mostra il fatto che le figure della narrazione non sono mai astrazioni concettuali (come,
ad esempio, nel caso dei poemi allegorici di Brunetto Latini) ma sempre figure storica-
mente determinate, a cominciare dalle guide (Virgilio, Beatrice, Bernardo).
Non meno importante, accanto alla tecnica allegorica, è l’uso nel poema di una
concezione anch’essa ben presente al mondo medievale, quella figurale: secondo tale
concezione, ciascun fatto accaduto non esauriva il suo significato nel suo stesso accade-
re, ma andava inteso come un’anticipazione o una prefigurazione di nuovi eventi futu-
ri, che avrebbero dato compimento al fatto stesso, portandolo a una perfezione conclu-
siva di senso. Diversamente dall’allegoria, in cui il significato ulteriore è astratto (ad
esempio Catone l’Uticense è allegoria della libertà morale), la figura collega due fatti o
due personaggi egualmente reali ed egualmente storici (ad esempio Isacco, nell’Antico
Testamento, è figura di Cristo). Il viaggio ultraterreno di Dante obbedisce sistematica-
mente a tale idea: il poeta Virgilio vissuto all’epoca di Augusto trova il suo compimen-
to figurale nel Virgilio del Limbo. La condizione ultraterrena dà infine compimento al-
la vita terrena, la illumina svelandola nel suo ultimo, e definitivo, significato. La nozione
di figura si afferma come un principio strutturale dominante, al pari di quello di alle-
goria: Catone, il custode del Purgatorio, non è dunque soltanto un’allegoria della li-
bertà morale, ma anche una personalità ben individuata che comprende e adempie la
figura storica di Catone morto ad Utica per non cadere nelle mani di Cesare.
Il motivo centrale del viaggio Il viaggio è il motivo centrale della Commedia. Ma esso si compie qui
e altrove, ora e dopo, oppure ora e prima. Ogni figura è infatti contemporaneamente fissa-
ta in un tempo doppio: mortale ed eterno. Ogni gesto, ogni battuta, ogni discorso non
sono opera del caso, rientrano in un piano teologico e provvidenziale: inchiodate alla
loro verità, le figure della Commedia ruotano intorno al personaggio Dante, che con
l’aiuto delle sue guide deve interpretarne i segni, il senso. Il viaggio non è dunque altro
che una metafora per indicare un itinerario interiore, quello che conduce dalla selva del
peccato alla luce della salvezza mediante l’aiuto divino. Non c’è salvezza senza grazia: la
ragione, i doni naturali, sono incapaci di elevarsi al divino. Virgilio (allegoria della ra-
gione) deve cedere il passo a Beatrice (allegoria della rivelazione): i grandi sapienti del
Limbo sono esclusi dalla felicità (Inferno, canto IV).
Un poema sacro La Commedia è un autentico poema sacro, nel quale Dante mette in gioco l’intero
mondo e il suo destino, religioso e politico. Il viaggio non è solo un’invenzione fanta-
stica, una finzione: Dante vuole porsi realmente come terzo dopo Enea e dopo Paolo (If
II 10-36), fondatori dell’Impero e della Chiesa, per reintegrare l’ordine divino scosso
dalle discordie e dagli egoismi, dalle divisioni e dalle lotte intestine. Alla base del poe-
ma c’è l’idea della provvidenzialità della storia umana: Nazareth e Roma ne sono gli
strumenti e la luce. Mondo pagano e mondo cristiano, mitologia classica e Sacre Scrit-
ture confluiscono verso un unico fine, quello della salvezza spirituale.Virgilio e Beatrice
sono divisi nel battesimo, non nella luce che irradiano e nella missione che svolgono.
213 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento

Tra la città degli uomini e la città di Dio si dà perfetta corrispondenza. Natura e sto-
ria sono segni del trascendente, libro divino. Così Dante può introdurre nel suo poema
l’ampio e variegato ventaglio della cronaca contemporanea. Ma il realismo dantesco è
un realismo medievale, intimamente cristiano: tutto è visto con l’occhio di Dio. Il par-
ticolare acquista senso solo nella totalità e nell’universalità di cui è parte. Un fatto, in sé,
non è niente, se non viene decifrato nei suoi sensi più alti. Alla letteralità delle immagi-
ni, deve seguire il loro senso allegorico, morale, sovratemporale. Vedere è visione, e
dunque ispirazione: «I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo /
ch’e’ ditta dentro vo significando» (Pg XXIV 52-54).
Il poema comprende più di cinquecento figure individuate, metà contemporanee e
metà del mondo antico. Fra queste ultime, mitologia pagana e cristiana trovano perfet-
ta giuntura, nonostante la straziante separazione (ravvisabile pateticamente in Virgilio)
del battesimo. Opera profetica e apocalittica, secondo le aspettative messianiche che
avevano percorso tutto il secolo XIII, la Commedia si propone anche come summa en-
ciclopedica del sapere antico e medievale: cosmologico-scientifico, teologico, filosofico,
storico-politico, artistico-letterario. Al centro, la figura di Dante, penitente e passeggero,
ma soprattutto poeta, che descrive se stesso già nella coscienza della propria gloria arti-
stica, mentre viene accolto sesto, tra Omero, Orazio, Ovidio, Lucano e la guida Virgilio:
«e più d’onore ancora assai mi fenno» (If IV 100).
Il sistema morale dantesco: punizioni e premi, contrappasso e beatitudine La Divina Commedia
è un mondo perfettamente regolato in ogni sua parte: tanto più regolato se si pensa che
il tema fondamentale è quello della giustizia divina, che distribuisce punizioni e premi
secondo un’esatta gerarchia dei meriti e delle colpe. La legge che governa i primi due
regni è quella del contrappasso o contrapasso (come si legge in If XXVIII 142), la cui va-
lidità era stata sostenuta dallo stesso san Tommaso: ciascun dannato deve patire in ragio-
ne di ciò che ha compiuto. Il contrappasso viene applicato o per analogia (come nel ca-
so di Bertran de Born, il poeta provenzale condannato, in quanto seminatore di discor-
die, a portare il capo diviso dal corpo) o per antitesi (come nel caso dei superbi, che so-
no costretti a muoversi sotto il peso di enormi massi, essi che un tempo camminavano
boriosamente a testa alta). La legge del contrappasso funziona anche per il Purgatorio:
la sola eccezione è che essa non è più eterna ma transitoria, e può essere in parte alle-
viata dalle preghiere dei vivi.
La cultura medievale è una cultura enciclopedica e gerarchica (R 1.2): non sorpren-
de dunque che anche Dante disponga peccatori, purganti e beati secondo un ordine
gerarchico rigoroso e complesso. Partendo da una ripartizione che già apparteneva alla
filosofia aristotelica, i peccatori infernali vengono distinti in tre ordini: gli incontinenti,
incapaci di porre un freno alle loro passioni (lussuriosi, golosi, avari e prodighi, iracon-
di e accidiosi); i violenti e i fraudolenti (If XI). La gravità del peccato aumenta man ma-
no che si scende verso il fondo del cono: la lussuria sarà dunque il peccato più lieve; il
tradimento di chi ci ha beneficato il più grave.
L’ordine di gravità è ribaltato nel Purgatorio, dal momento che i viaggiatori non
scendono ma salgono: nell’immaginario cristiano, l’opposizione alto-basso designa ri-
spettivamente il bene e il male, Dio e il demonio. Anche i peccati dei penitenti sono
suddivisi in tre categorie, fondate sul concetto di amore deviato (Pg XVII): per malo
obietto, quando riponiamo il fine del nostro amore nel male (superbia, invidia, ira); per
manco di vigore, quando non amiamo Dio con sufficiente sollecitudine (accidia); per trop-
po di vigore, quando rivolgiamo un amore troppo intenso ai beni terreni (avarizia e pro-
digalità, gola, lussuria).
L’ordine gerarchico interviene anche nella definizione del grado di beatitudine de-
stinato alle anime del Paradiso: secondo un ordine ascendente, dal cielo più vicino alla

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9. Dante Alighieri STORIA

terra a quello più lontano, si passa dunque dagli spiriti mondani a quelli attivi a quelli
contemplativi, cui è riservato il premio più alto.
Simmetrie compositive Non esiste forse opera, nella storia della letteratura di ogni tempo, che presen-
ti un’architettura più rigorosa e compatta, un impianto strutturale più ferreo della Di-
vina Commedia: in essa, ogni verso, ogni episodio appaiono legati per forza di richiami
interni e intertestuali al complesso sistema del poema (che a sua volta rielabora, in virtù
di una complessa rete di autocitazioni e di rimandi, tutta la produzione dantesca giova-
nile e coeva, risignificandola). Ogni cantica, ad esempio, esordisce con un’invocazione
classica: alle semplici Muse; poi alle sante Muse e a Calliope; infine ad Apollo e a Mi-
nerva, assistiti dal corteggio delle nove Muse. Si leggano, contemporaneamente, i passi di
If II 1-9; Pg I 1-12; Pd I 1-36, II, 1-15 e XXIII 55-69: l’espansione e l’amplificazione
dei tre proemi corrisponde alla ben nota esigenza medievale di far corrispondere altez-

L’OLTRETOMBA DANTESCO

Il cosmo dantesco poggia su fondamenti scientifici Il Purgatorio Il Purgatorio sorge invece su una
tradizionali, ereditati dal pensiero classico (il sistema montagna altissima agli antipodi delle terre abitate, in
aristotelico-tolemaico, che disegnava la terra immobi- mezzo all’emisfero delle acque, irraggiungibile dai vi-
le al centro del mondo) e su un vasto patrimonio di venti. Sulle sette cornici del monte, tante quanti i sette
materiali visivi (letterari, figurativi e folclorici), a loro peccati capitali (superbia, invidia, iracondia, accidia, ava-
volta rielaborati con lucida invenzione dal poeta. rizia e prodigalità, gola, lussuria), sostano temporanea-
L’Inferno L’Inferno è una immensa voragine sotter- mente le anime degli espianti prima di ascendere al Pa-
ranea a forma di tronco di cono rovesciato, il cui verti- radiso. Sulla vetta della montagna si trova il Paradiso
ce coincide con il centro della terra.Vi si accede dopo terrestre, l’Eden perduto del racconto biblico, che lo
una zona comunemente detta Anti-inferno, nella quale stesso Dante fa coincidere con i luoghi evocati dagli
sono confinati gli ignavi, cioè coloro che non vollero antichi poeti pagani quando cantavano nei loro versi la
mai prendere partito, scegliere fra il bene e il male. Su- mitica età dell’oro.
perato l’Acheronte, il fiume infernale, si entra per una Il Paradiso Il Paradiso, infine, comprende nove cieli
porta nell’inferno vero e proprio, suddiviso in nove concentrici di materia diafana, mossi dagli angeli, al
cerchi: il I è costituito dal Limbo, dove sono esiliati i centro dei quali, secondo le dottrine cosmologiche del-
morti senza battesimo e i pagani giusti, che morirono l’antichità, sta immobile la Terra. Nel cielo della luna
senza peccato; nel II sono puniti i lussuriosi, nel III i appaiono a Dante gli spiriti che mancarono ai voti; in
golosi, nel IV gli avari e i prodighi, nel V gli iracondi. quello di Mercurio gli spiriti attivi che troppo amarono
Qui si chiude la prima sezione, quella riservata agli in- la gloria; in quello di Venere gli spiriti amanti; nel cielo
continenti.Traversando la palude infernale, Dante e Vir- del Sole gli spiriti sapienti; nel cielo di Marte gli spiriti
gilio si recano alla città di Dite, nella quale si trovano i militanti; nel cielo di Giove gli spiriti giusti; nel cielo di
sarcofagi infuocati degli eretici (VI cerchio). I cerchi Saturno gli spiriti contemplativi. Seguono il cielo delle
successivi (VII: violenti; VIII: fraudolenti; IX: traditori) Stelle Fisse, dove Dante assiste al trionfo di Cristo, di
si rivelano ben più complessi e articolati dei preceden- Maria e dei beati, e il Primo Mobile, dove gli angeli ap-
ti. Il VII cerchio è infatti suddiviso in tre gironi (violen- paiono in forma di nove cerchi fiammeggianti che gi-
ti contro il prossimo; contro se stessi; contro Dio, la na- rano intorno a un luminosissimo Punto. Oltre il nono
tura e l’arte); il cerchio VIII comprende dieci bolge cielo materiale, fuori del tempo e dello spazio, è il cielo
(ruffiani e seduttori; adulatori; simoniaci; indovini e Empireo, sede puramente spirituale di Dio e dei beati.
maghi; barattieri; ipocriti; ladri; consiglieri fraudolenti; Questi ultimi scendono via via nei nove cieli solo per
seminatori di discordie; falsari); il cerchio IX è infine far comprendere a Dante in modo sensibile la diversa
suddiviso in quattro zone (Caina, Antenora, Tolomea, altezza dei loro meriti. Il cosmo celeste evocato nel Pa-
Giudecca), contenenti rispettivamente i traditori dei radiso si configura come luce e splendore: nella sola ter-
parenti, della patria, degli amici e degli ospiti, dei bene- za cantica le occorrenze di luce (o luci) sono 73, di lume
fattori (e fra questi ultimi spiccano le figure di Giuda, (o lumi) 69, di splendore 17: Dio si manifesta al mondo
Bruto e Cassio, che tradirono il primo Gesù, gli ultimi come luce che digrada gerarchicamente da un cielo al-
due Giulio Cesare). l’altro, investendo del proprio splendore ogni creatura.

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Duecento e Trecento

za dell’ispirazione e dello stile all’impegno degli argomenti trattati. Ma gli esempi si po-
trebbero moltiplicare con estrema facilità: tutte e tre le cantiche si concludono sulla pa-
rola stelle; il canto VI di ognuna delle tre cantiche è di argomento politico, secondo una
progressione che porta il lettore a considerare dapprima la situazione di Firenze, poi
dell’Italia, infine dell’Impero cristiano.
Il plurilinguismo dantesco Già nell’ambito della poesia lirica, come si è visto (R 9.3), Dante si era di-
mostrato incline a sperimentare nuovi linguaggi poetici: si pensi alle forme dolci e stil-
novistiche delle poesie per Beatrice, alla durezza semantica e sintattica delle petrose, al-
la giocosità comico-realistica della tenzone con Forese Donati o alla solenne gravità
delle rime dottrinali. Si trattava tuttavia di registri stilistici differenti, nei quali, come in-
segnavano le poetiche medievali, si dava una rigorosa equivalenza fra stile e argomento.
Ci si aspetterebbe dunque che Dante facesse una scelta linguistica e stilistica omogenea
per il suo poema, magari ricorrendo a quel volgare illustre che egli stesso aveva teoriz-
zato nel De vulgari eloquentia; o, al limite, che differenziasse le tre cantiche, procedendo,
in una sorta di ascesa ideale, dallo stile comico dell’Inferno a quello tragico del Paradiso.
Al contrario, nella Divina Commedia il poeta fa uso di un plurilinguismo e di un pluri-
stilismo stratificato, in base al quale Francesca (nel V dell’Inferno) può servirsi di espres-
sioni degne di un poeta stilnovista, o Farinata (nel canto X) di un linguaggio aulico e
solenne, mentre san Pietro (nel XXVII del Paradiso) può abbandonarsi a versi di conci-
tata e violenta energia realistica, tipiche dello stile basso.
Tale scelta, come si è già detto precedentemente, nasce da una precisa esigenza: dar
conto di una realtà umana e divina troppo complessa per essere irrigidita in un unico
registro o in un unico stile. Fermo restando dunque che l’ascesa dall’inferno al Paradi-
so presuppone anche un’ascesa linguistica e stilistica pari all’innalzamento della materia
(e che dunque nell’Inferno è documentato il maggior numero di termini del linguaggio
aspro o comico-realistico, di vocaboli scurrili e popolareschi, mentre nel Paradiso trovia-
mo il maggior numero di termini aulici, di latinismi, di neologismi), la mescolanza degli
stili è una pratica consueta dell’intero poema, cui corrisponde un significativo amplia-
mento lessicale.
Se la lingua di base adottata è il dialetto fiorentino (e non la lingua illustre, sovramu-
nicipale di cui aveva parlato nel suo tratto sul volgare italiano), Dante non esita a utiliz-
zare forme dei dialetti toscani e nazionali ogni volta che ne sente l’esigenza; a tali forme
si devono aggiungere latinismi (se ne contano circa cinquecento nel complesso del poe-
ma), gallicismi e neologismi di conio dantesco (come indiare, inluiare, insemprarsi ecc.). Né
mancano termini gergali od osceni, forme desuete e da tempo abbandonate dello stesso
dialetto fiorentino, espressioni di carattere plebeo e triviale, spesso accostati per contrasto
a termini di carattere aulico.
Dante sente insomma il bisogno di possedere una lingua poetica varia e ricca, di non
essere limitato dalle scelte, fino a inventare forme inedite quando la lingua esistente (par-
lata o letteraria) non lo soddisfa. Si spiega allora facilmente la presenza di doppioni e di si-
nonimi all’interno del poema: Dante può infatti usare, a seconda delle convenienze (non
solo metriche) sia diceva che dicea; vorrei oppure vorria; fero, feron o fenno; tacque o tacette; ma-
nicare, manducare o mangiare; speranza, speme o spene; specchio, speglio, speculo o miraglio.
Significativo è anche il procedimento mimetico, che spinge il poeta a far parlare i
suoi personaggi a seconda del loro contesto socio-linguistico o culturale: il racconto di
Pier delle Vigne, il celebre poeta siciliano, ad esempio, è condotto secondo le regole del-
l’ars dictandi (di cui Piero era stato maestro); Bonagiunta da Lucca usa il termine munici-
pale issa, tipico della sua città. La mobilità della lingua e la tensione dello stile nascono
concretamente dalla drammaticità e dal dinamismo della realtà storica, dal cozzare con-
tinuo tra la perfezione del mondo divino (immutabile e realizzato in ogni sua parte) e
l’imperfetta contingenza del mondo terreno.
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9. Dante Alighieri T 9.1

T 9.1 Vita Nuova 1293-1294


Prime apparizioni di Beatrice [I-III]
Dante Alighieri A un breve prologo, nel quale Dante espone il titolo e l’argomento dell’opera (cap. I),
Opere minori segue la narrazione del suo primo incontro con Beatrice, avvenuto quando entrambi
Vita Nuova avevano all’incirca nove anni, con la descrizione degli effetti provocati da Amore (cap.
a c. di D. De Robertis,
II). Nove anni dopo, il protagonista vede per la seconda volta Beatrice, che lo degna di
Ricciardi,
Milano-Napoli 1980 un saluto pieno di dolcezza. Dante, «come inebriato», ricerca la solitudine «d’una sua
camera» per concentrarsi tutto nel pensiero di lei, cadendo inavvertitamente in «uno
soave sonno», durante il quale gli appare una «maravigliosa visione». Destatosi, decide di
comporre un sonetto scrivendo ciò che ha veduto, e di inviarlo agli amici-poeti affinché
propongano una loro interpretazione delle misteriose immagini oniriche (cap. III). A
questo episodio l’autore fa risalire l’inizio della sua amicizia con Guido Cavalcanti, che
fu tra i risponditori alla “questione” poetica aperta dal sonetto dantesco.

1 dinanzi... leggere: I. In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si potreb-
prima della quale sono regi- be leggere,1 si trova una rubrica2 la quale dice : Incipit vita nova.3 Sotto la quale ru-
strati soltanto pochi e im-
precisi ricordi, cioè le me- brica io trovo scritte le parole le quali è mio intendimento d’assemplare4 in questo
morie dell’infanzia e della libello;5 e se non tutte, almeno la loro sentenzia.6
prima fanciullezza. Per la
metafora del libro,cfr.Guida II [I]. Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la lu- 5
all’analisi. ce quasi a uno medesimo punto, quanto a la sua propria girazione,7 quando a li
2 rubrica: titolo o som-
mario di un libro o di un ca- miei occhi apparve prima8 la gloriosa donna de la mia mente,9 la quale fu chia-
pitolo. Negli antichi codici, mata da molti Beatrice li quali non sapeano che si chiamare.10 Ella era in questa
le intitolazioni erano scritte
con il minio, di colore rosso
vita11 già stata tanto, che ne lo suo tempo12 lo cielo stellato era mosso verso la
(ruber in latino), donde il vo- parte d’oriente de le dodici parti l’una d’un grado,13 sì che quasi dal principio 10
cabolo. del suo anno nono apparve a me, ed io la vidi quasi da la fine del mio nono. Ap-
3 Incipit vita nova:“inco-
mincia la vita nuova”. Incipit parve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto,14 sanguigno,15 cinta16 e orna-
è la consueta formula di in- ta a la guisa17 che a la sua giovanissima etade si convenia.18 In quello punto19 di-
titolazione dei libri medie-
vali; simmetricamente expli- co veracemente che lo spirito de la vita,20 lo quale dimora ne la secretissima ca-
cit (“termina”) indica la mera21 de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia ne li menimi 15
conclusione dell’opera.
4 assemplare: riprodur-
polsi22 orribilmente; e tremando disse queste parole: «Ecce deus fortior me, qui
re, ricopiare.
5 libello: libretto (dal lat. re scrive, essa è già nella glo- rante la sua esistenza. (Apocalisse XIX, 13): «E in- diffonde l’energia vitale per
libellus, diminutivo di liber). ria dei cieli. 13 lo cielo stellato... gra- dossava una veste tinta di tutto il corpo attraverso le ar-
6 sentenzia: significato. 10 li quali... chiamare: do: il cielo delle stelle fisse, sangue, e il suo nome è il terie. La descrizione, d’altro
7 Nove fiate... girazio- (fu chiamata Beatrice da secondo la cosmologia me- Verbo di Dio». canto, si modella palesemen-
ne: il cielo del sole (lo cielo de molti) che, non conoscendo dievale, si muoveva da occi- 16 cinta: adorna di cintu- te su schemi cavalcantiani.
la luce) era quasi ritornato il suo nome, non sapevano dente verso oriente, percor- ra. 21 lo quale... camera:
nella medesima posizione (a come altrimenti chiamarla; rendo lo spazio di un grado 17 a la guisa: nella manie- che ha sede nella cavità più
uno medesimo punto), seguen- la chiamavano, cioè, con l’u- ogni cento anni; la dodicesi- ra. interna del cuore, designata
do il suo percorso annuale nico nome adeguato al suo ma parte di un grado corri- 18 si convenia: era adatta, attraverso la metafora della
con il moto circolare che gli aspetto e agli effetti visibili spondeva dunque a circa ot- conveniente. camera (cfr. anche nota 24).
è proprio (quanto a la sua pro- della sua più intima natura: to anni e quattro mesi, l’età 19 In quello punto: in Altrove, nel primo canto
pria girazione), per nove volte ovvero Beatrice, colei che di Beatrice al momento in quel momento. della Commedia, Dante ri-
(fiate) dopo la mia nascita rende beati, che irradia in- cui Dante la vide per la pri- 20 lo spirito de la vita: se- correrà a una diversa imma-
(appresso lo mio nascimento). Il torno a sé beatitudine. Se- ma volta. condo la fisiologia medieva- gine metaforica: «[la paura]
sole, che secondo il sistema condo un’altra interpreta- 14 umile e onesto: mo- le, nella sistemazione offerta che nel lago del cor m’era du-
tolemaico ruota insieme zione di questo passo: fu desto e decoroso (cfr. il so- dalla dottrina scolastica e in rata / la notte ch’i’passai con
con il quarto cielo intorno chiamata Beatrice (poiché netto Tanto gentile e tanto one- particolare nell’esposizione tanta pieta» (If I 20-21).
alla terra, aveva quasi com- questo era effettivamente il sta pare, vv. 1 e 6 R T 9.4 ). di Alberto Magno (De spiritu 22 ne li menimi polsi:
pletato il nono giro dopo la suo nome) da molti, i quali 15 sanguigno: rosso, co- et respiratione I, II, 2-4), che anche nei punti dove, in
nascita di Dante: era dunque tuttavia non erano in grado lore nobilissimo in quanto Dante segue qui per la defi- condizioni normali, le pul-
la primavera del 1274. di comprendere il vero si- simbolo della carità, virtù nizione dei tre spiriti (e poi in sazioni (polsi,il battito ritmi-
8 prima: per la prima gnificato di quel nome (non teologale. Ma il colore di diversi luoghi del Convivio), co provocato dalla circola-
volta. sapeano che si chiamare, pro- sangue evoca immediata- lo spirito è un corpo sottile, zione del sangue) sono de-
9 la gloriosa... de la mia priamente “non sapevano mente una simbologia sa- una sorta di fluido o vapore, bolissime. Si ritiene, con va-
mente: la donna destinata a che cosa dicevano pronun- crificale, associata alla figura «strumento dell’anima per lide ragioni, che polsi sia me-
signoreggiare (qui donna,dal ciando quel nome”). di Cristo; in particolare, è il tutte le azioni e veicolo di vi- tonimia per “arterie” (cfr.
lat. domina, vale “signora, pa- 11 in questa vita: nella vi- colore della veste di Cristo ta» (Del Monte); in partico- anche If I 90: «ch’ella [la lu-
drona”) sulla mia mente:glo- ta terrena, mortale. quale appare nella visione lare, lo spirito de la vita ha sede pa] mi fa tremar le vene e i
riosa perché, quando l’auto- 12 ne lo suo tempo: du- apocalittica di Giovanni nel cuore, che pulsando polsi»).

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Duecento e Trecento

23 Ecce deus... michi: veniens dominabitur michi».23 In quello punto lo spirito animale, lo quale di-
«Ecco un dio di me più for- mora ne l’alta camera ne la quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro perce-
te, che verrà e imporrà il suo zioni,24 si cominciò a maravigliare molto, e parlando spezialmente a li spiriti del
dominio su di me» (michi =
mihi, “a me”). Si tratta del viso,25 sì26 disse queste parole: «Apparuit iam beatitudo vestra».27 In quello pun- 20
dio Amore. L’espressione, di to lo spirito naturale,28 lo quale dimora in quella parte ove si ministra lo nutri-
solenne tono profetico, è
modellata palesemente sul mento nostro,29 cominciò a piangere, e piangendo disse queste parole: «Heu mi-
Vangelo di Luca (III, 16): ser, quia frequenter impeditus ero deinceps!».30 D’allora innanzi dico che Amo-
«ma verrà un altro, più forte
di me»; parla Giovanni Bat- re segnoreggiò la mia anima, la quale fu sì tosto a lui disponsata,31 e cominciò a
tista, il Precursore, che an- prendere sopra me tanta sicurtade e tanta signoria32 per la vertù che li dava la 25
nuncia la venuta di Cristo),
riecheggiando insieme un mia imaginazione,33 che me convenia fare tutti li suoi piaceri compiutamente.34
passo dell’AnticoTestamen- Elli mi comandava molte volte che io cercasse per vedere questa angiola giova-
to (Isaia XL, 10): «ecco il Si- nissima; onde io ne la mia puerizia molte volte l’andai cercando, e vedeala di sì
gnore Iddio verrà in tutta la
sua potenza, e il suo braccio nobili e laudabili portamenti, che certo di lei si potea dire quella parola del poe-
trionferà». ta Omero:35 «Ella non parea figliuola d’uomo mortale, ma di deo». E avvegna 30
24 lo spirito animale...
percezioni: la potenza sen- che36 la sua imagine, la quale continuatamente meco stava, fosse baldanza d’A-
sitiva,che ha sede nel cervel- more37 a segnoreggiare me, tuttavia era di sì nobilissima vertù, che nulla volta
lo (l’alta camera), dove con-
fluiscono le percezioni sen- sofferse che Amore mi reggesse38 sanza lo fedele consiglio de la ragione in quel-
soriali trasmesse dai vari spi- le cose là ove cotale consiglio fosse utile a udire. E però che soprastare a39 le pas-
riti sensitivi (ovvero, sempli-
ficando in termini moderni, sioni e atti di tanta gioventudine pare alcuno parlare fabuloso,40 mi partirò da es- 35
i cinque sensi: si vedano in- se; e trapassando41 molte cose le quali si potrebbero trarre de l’essemplo42 onde
fatti, poco più oltre, li spiriti nascono queste, verrò a quelle parole le quali sono scritte ne la mia memoria
del viso). «Lo spirito animale,
altrimenti detto anima sen- sotto maggiori43 paragrafi.
sitiva, rappresenta la genera- III [II]. Poi che fuoro passati tanti die,44 che appunto erano compiuti li nove an-
le funzione sensoriale espli-
cata dai singoli “spiriti sensi- ni appresso l’apparimento soprascritto di questa gentilissima, ne l’ultimo di questi die 40
tivi” col trasmettere attra- avvenne che questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo, in
verso i nervi cavi le perce-
zioni degli organi sensoriali mezzo a due gentili donne, le quali erano di più lunga etade;45 e passando per una
[...] alla sede sentrale della via, volse li occhi verso quella parte ov’io era molto pauroso, e per la sua ineffabile
sensazione, cioè al cervello»
(De Robertis). cortesia, la quale è oggi meritata nel grande secolo,46 mi salutoe molto virtuosa-
25 li spiriti del viso: il mente,47 tanto che me parve allora vedere tutti li termini48 de la beatitudine. L’ora 45
senso della vista (lat. visus). che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona49 di quello giorno;
26 sì: così, in questi precisi
termini. e però che quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire a li miei
27 «Apparuit iam beati-
orecchi, presi50 tanta dolcezza, che come inebriato mi partio da le genti, e ricorsi a
tudo vestra»: è apparsa or-
mai la vostra beatitudine. Si lo solingo51 luogo d’una mia camera, e puosimi a pensare di questa cortesissima.
veda la ballata cavalcantiana
Veggio ne gli occhi de la donna
mia, v. 12: «e dica:“la salute 32 sicurtade... signoria: tratta di un verso dell’Iliade 39 E... soprastare a: e che Dante precisa subito
tua è apparita”»; a sua volta assoluto dominio, piena au- (XXIV, 258): «[Ettore] non poiché indugiare su. dopo.
Cavalcanti si ispira a una torità (endiadi); sicurtade sembrava il figlio di un uo- 40 alcuno... fabuloso: un 48 tutti li termini: gli
fonte scritturale, molto pro- (“sicurezza”) qui vale “li- mo destinato a morte, ma parlare di favole. estremi confini.
babilmente san Paolo. bertà” e sottolinea come la proprio di un nume» (trad. 41 trapassando: trala- 49 fermamente nona:
28 lo spirito naturale: la signoria di Amore sia incon- di G. Tonna). Come tutti i sciando. proprio, precisamente l’ora
potenza vegetativa ,che pre- dizionata, senza limiti. suoi contemporanei in Oc- 42 essemplo: esemplare nona; ovvero, secondo il
siede alle vitali funzioni nu- 33 per la vertù... imagi- cidente, Dante ignorava la (il libro della memoria). computo delle ore in vigore
tritive. nazione: per la forza che gli lingua greca e conosceva 43 maggiori: più impor- all’epoca,la terza dopo mez-
29 in quella parte... no- dava la mia immaginazione, Omero soltanto indiretta- tanti, sia per il numero e la zogiorno (circa le tre del
stro: nello stomaco e nel fe- ovvero facoltà immaginati- mente e frammentariamen- precisione dei ricordi, sia pomeriggio). L’ora del
gato. va; quest’ultima riceve dal te attraverso citazioni occa- per il loro valore. giorno, come l’indicazione
30 «Heu miser, quia fre- senso della vista la perce- sionali, disseminate nei testi 44 fuoro... die: furono dell’anno (il nono) parteci-
quenter impeditus ero zione dell’oggetto amato e latini; è quasi certo che in trascorsi tanti giorni (die, dal pa della ricchezza simbolica
deinceps!»:Ahimè infelice, ne elabora un’immagine questo caso la fonte sia lat. dies). del numero tre; ma l’ora no-
poiché d’ora in avanti sarò interiore che la occupa in- un’operetta di Alberto Ma- 45 di più lunga etade: na è anche, secondo la tradi-
spesso impedito! teramente e costantemente gno. maggiori di lei per età. zione cristiana fondata sul
31 fu sì tosto... disponsa- (cfr. Giacomo da Lentini 36 avvegna che: sebbene. 46 meritata... secolo: ri- racconto evangelico, quella
ta: non appena fu unita in- R T 6.1-2 ). 37 fosse... d’Amore: in- compensata nella vita eter- della morte di Gesù sulla
dissolubilmente (disponsata, 34 me convenia... com- coraggiasse Amore. na, in Paradiso. croce.
«sposata») a lui (ad Amore). piutamente: dovevo fare in 38 nulla volta... reggesse: 47 virtuosamente: «effi- 50 presi: provai.
La metafora delle nozze tutto e per tutto la sua vo- neppure una volta tollerò cacemente» (Contini); il sa- 51 solingo: solitario.
evoca l’unione mistica del- lontà. che Amore esercitasse il suo luto di lei possiede una virtù,
l’anima con Dio. 35 del poeta Omero: si dominio su di me. cioè un influsso beatificante,

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9. Dante Alighieri T 9.1

52 nebula: nuvola. [III] E pensando di lei, mi sopragiunse uno soave sonno, ne lo quale m’apparve 50
53 pauroso: tale da incu-
tere paura. una maravigliosa visione: che me parea vedere ne la mia camera una nebula52 di
54 con tanta... a sé: l’a- colore di fuoco, dentro a la quale io discernea una figura d’uno segnore di pau-
spetto di Amore personifi- roso53 aspetto a chi la guardasse; e pareami con tanta letizia, quanto a sé,54 che
cato è pauroso a chi lo guar-
da, in quanto esprime la sua mirabile cosa era; e ne le sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se
incontrastabile, e perciò te- non poche; tra le quali intendea queste: «Ego dominus tuus».55 Ne le sue brac- 55
mibile, potenza; ma in sé ap-
pare pieno di letizia, gioioso. cia mi parea vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in uno
55 «Ego dominus tuus»: drappo sanguigno leggeramente,56 la quale io riguardando molto intentivamen-
in latino,“Io (sono) il tuo si-
gnore”. Trasparente l’allu- te,57 conobbi ch’era la donna de la salute, la quale m’avea lo giorno dinanzi de-
sione alla frase che apre il gnato di salutare.58 E ne l’una de le mani mi parea che questi tenesse una cosa
decalogo dei Comanda-
menti consegnati da Dio a la quale ardesse tutta, e pareami che mi dicesse queste parole: «Vide cor tuum».59 60
Mosè sul monte Sinai: «Ego E quando elli era stato alquanto, pareami che disvegliasse questa che dormia; e
sum Dominus Deus tuus», tanto si sforzava per suo ingegno, che le facea mangiare questa cosa che in ma-
“Io sono il Signore Dio tuo”
(Esodo XX, 2). no li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente.60 Appresso ciò poco dimora-
56 leggeramente: non
va61 che la sua letizia si convertia in amarissimo pianto; e così piangendo, si ri-
strettamente fasciata (invol-
ta). cogliea questa donna ne le sue braccia, e con essa mi parea che si ne gisse62 ver- 65
57 intentivamente: at- so lo cielo; onde io sostenea63 sì grande angoscia, che lo mio deboletto sonno
tentamente.
58 la donna... salutare: la non poteo sostenere, anzi si ruppe e fui disvegliato. E mantenente64 cominciai a
donna beatifica, messaggera pensare, e trovai che l’ora ne la quale m’era questa visione apparita, era la quar-
di salvazione (salute), che il
giorno prima si era degnata ta de la notte65 stata; sì che appare manifestamente ch’ella fue la prima ora de le
di salutarmi. L’autore invita nove ultime ore de la notte. Pensando io a ciò che m’era apparuto, propuosi di 70
a leggere nella duplice ac- farlo sentire66 a molti li quali erano famosi trovatori67 in quello tempo: e con ciò
cezione della parola salute
(“saluto” e “salvezza”) il si- fosse cosa che io avesse già veduto per me medesimo l’arte del dire parole per
gnificato dell’episodio: il rima,68 propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale io salutasse tutti li fedeli d’A-
saluto che si fa veicolo di
salvazione (dell’anima). more;69 e pregandoli che giudicassero70 la mia visione, scrissi a loro ciò che io
59 «Vide cor tuum»: in avea nel mio sonno veduto. E cominciai allora questo sonetto, lo quale comin- 75
latino,“Vedi il tuo cuore”.
La cosa ardente nella mano cia: A ciascun’alma presa.
di Amore è appunto il cuo-
re di Dante; subito dopo lo
stesso Amore, adoperandosi scorreva poco tempo. divideva in dodici ore, la cui 68 con ciò fosse... per ri- fedeli, cioè “vassalli” di Amo-
con ogni sua arte, con tutta 62 si ne gisse: se ne an- durata pertanto variava se- ma: poiché (con ciò fosse cosa re,loro signore,con una me-
la sua abilità (per suo inge- dasse. condo il corso delle stagio- che) a quel tempo avevo già tafora di chiara derivazione
gno), induce Beatrice a ci- 63 onde io sostenea: per ni. imparato da solo (per me me- feudale.
barsene. la qual cosa io provavo, sof- 66 propuosi... sentire: desimo, cioè da autodidatta) 70 giudicassero: inter-
60 dubitosamente: esi- frivo. decisi di esporlo, di comuni- l’arte di poetare. pretassero.
tando, come afferrata da una 64 mantenente: subito. carlo. 69 li fedeli d’Amore: se-
sorta di timore. 65 la quarta... de la notte: 67 trovatori: provenzali- condo il codice dell’amor
61 poco dimorava: tra- la notte, come il giorno, si smo per “poeti”. cortese, gli innamorati; detti

Nota metrica
Sonetto, secondo lo sche- A ciascun’alma presa e gentil core
ma ABBA ABBA CDC
CDC. nel cui cospetto ven lo dir presente,
in ciò che mi rescrivan suo parvente,
1-4 A ciascun’alma...
cioè Amore: a ciascun’ani- 4 salute in lor segnor, cioè Amore.
ma innamorata (presa da
Amore, soggetta al suo do- Già eran quasi che atterzate l’ore
minio), alla cui presenza
giunge il presente sonetto del tempo che onne stella n’è lucente,
(dir, infinito sostantivato, in- quando m’apparve Amor subitamente,
dica il componimento stes-
so; cfr. la nota 67 per l’e- 8 cui essenza membrar mi dà orrore.
spressione dire parole per ri-
ma), affinché mi scrivano in
risposta il loro parere (lor un’altra interpretazione del netto, strutturato in forma 5-6 Già eran... n’è lucen- si per indicare la quarta ora
parvente, ciò che a loro pare v. 4: porgo il mio saluto (ov- di lettera, si riconosce la sa- te: era già quasi trascorsa la della notte (cfr. nota 65).
della mia visione), auguro di vero auguro salute) in nome lutatio, esordio d’obbligo se- terza parte delle ore di quel 8 cui... membrar:ricor-
trovar salute presso il loro si- del loro signore,cioè Amore. condo le regole dello stile tempo in cui risplende ogni dare il cui aspetto.
gnore,cioè Amore.Secondo Nella prima quartina del so- epistolare. (onne) stella. Doppia perifra-

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Duecento e Trecento

Allegro mi sembrava Amor tenendo


meo core in mano, e ne le braccia avea
11 madonna involta in un drappo dormendo.

Poi la svegliava, e d’esto core ardendo


lei paventosa umilmente pascea:
14 appresso gir lo ne vedea piangendo.

11 dormendo: dormien- na amata (dal latino mea do- spesso il valore di participio morosa (cfr. dubitosamente 14 appresso... piangen-
te, che dormiva; è riferito a mina, “mia signora”; cfr. la presente (cfr. ardendo al v. 12 nella prosa,nota 59).– umil- do: dopo di che lo vedevo
madonna, tradizionale ap- prosa, nota 9). Nei testi del e piangendo al v. 14). mente pascea: nutriva con andarsene via piangente.
pellativo cortese della don- XIII secolo il gerundio ha 13 paventosa: esitante, ti- riguardosa gentilezza.

71 si divide: qui l’autore, Questo sonetto si divide71 in due parti; che ne la prima parte saluto e domando
come farà per quasi tutti i
componimenti in rima in- risponsione, ne la seconda significo a che si dee rispondere. La seconda parte co- 80
clusi nel libro, procede alla mincia quivi: Già eran.
«divisione», cioè al com- A questo sonetto fue risposto da molti e di diverse sentenzie;72 tra li quali fue
mento del testo secondo gli
insegnamenti della dottri- risponditore quelli cui73 io chiamo primo de li miei amici, e disse allora uno so-
na retorica medievale, a sua netto, lo quale comincia: Vedeste, al mio parere, onne valore. E questo fue quasi lo
volta derivati dalla tradizio-
ne antica. Ne tratta, fra gli principio de l’amistà tra lui e me, quando elli seppe che io era quelli che li avea
altri, Brunetto Latini nella ciò mandato. Lo verace giudicio74 del detto sogno non fue veduto allora per75 al-
Rettorica (R 11.1).
72 di diverse sentenzie: cuno, ma ora è manifestissimo a li più semplici.76
con diverse interpretazioni.
Delle rime composte per
l’occasione dai risponditori, in altro manoscritto a Teri- di molti secoli “risponde” a tratta di Guido Cavalcanti, vero significato.
numerosi a detta di Dante, no da Castelfiorentino; in- Dante, nella persona di che Dante designa qui, e in 75 per: da.
ci restano soltanto tre so- fine uno di Dante da Maia- Paolo Malatesta, con un so- altri luoghi della Vita Nuo- 76 a li più semplici: an-
netti: uno, espressamente no, il quale peraltro rispon- netto posto in apertura del- va (XXIV, 3; XXV, 10; che ai meno acuti, ai più in-
citato poco più oltre, di de in stile comico. Occorre la tragedia Francesca da Ri- XXX, 3), con la perifrasi genui (in quanto gli eventi
Guido Cavalcanti; uno di ricordare anche Gabriele mini (1904). primo de li miei amici. stessi lo hanno ormai chiari-
Cino da Pistoia, attribuito D’Annunzio, che a distanza 73 quelli cui: colui che. Si 74 Lo verace giudicio: il to).

Guida all’analisi
Il «libro de la memoria» Nel breve prologo o proemio dell’opera (cap. I) Dante dichiara il suo proposito di as-
semplare, cioè di ricopiare, nel presente libretto le parole registrate nel «libro de la sua me-
moria» sotto una rubrica o intitolazione miniata (Incipit vita nova) che segnala l’inizio di un
nuovo capitolo: fuor di metafora, una svolta decisiva nel corso della sua vita, “rinnovata”, ra-
dicalmente trasformata, come apprendiamo subito dopo, dall’amore per una donna chiama-
ta Beatrice. Nella chiusa Dante precisa che non trascriverà proprio tutte le parole; di alcune
darà soltanto la sentenzia, vale a dire il significato. Grazie a quest’ultima, preziosa annotazio-
ne appare fin d’ora evidente che la Vita Nuova non è un diario, un diretto e fedele resocon-
to di esperienze biografiche, bensì il frutto di un ripensamento e di una reinterpretazione
del passato da parte del suo autore.
La metafora del libro La metafora del libro si accampa al centro della visione del mondo e dell’immaginario
culturale del Medioevo cristiano, irradiandosi dal Libro per eccellenza, la Bibbia, libro sacro
che racchiude in sé tutta la verità, rivelata per grazia divina, sul destino umano e insieme sul
significato, le origini e i fini della vita dell’universo (R 1.2). L’universo stesso è un “libro”
scritto da Dio in caratteri simbolici: i fenomeni naturali, così come gli eventi della storia
umana, sono le “parole” di questo libro, che occorre impegnarsi costantemente a decifrare
per penetrarne il significato e “leggervi” preziosi frammenti di una verità che tutta intera,
nella sua luminosa e coerente pienezza, risiede soltanto in Dio. Così, l’intuizione che la me-

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9. Dante Alighieri T 9.1

tafora esprime si riverbera anche nell’ambito dell’esistenza individuale, di una “storia” per-
sonale: se Dante, nell’esordio del «libello» giovanile parla del «libro de la sua memoria», non
ricorre soltanto a una preziosa figura retorica, come si conviene allo stile tragico, ma sugge-
risce fin dall’inizio l’idea che l’autore – il protagonista – sia soltanto l’umile scriba di una
trama di eventi misteriosamente predisposti da una potenza superiore; insomma, che anche
i ricordi personali del poeta siano una «foresta di simboli» da decifrare e interpretare, per
comporre il disegno di un percorso (di un destino) esemplare.
Un’aura sacrale Nel racconto dei primi incontri con Beatrice (capp. II-III), come del resto accade in
tutta la Vita Nuova, Dante opera una trasfigurazione dei dati dell’esperienza concreta e bio-
grafica, drasticamente selezionati e ridotti a pochissime, rarefatte e sfumate notazioni (il co-
lore di una veste; la presenza di due gentili donne; un fuggevole saluto per via; una camera so-
litaria; un soave sonno), mirando piuttosto a sottolinearne di continuo il valore simbolico e a
circonfonderli di un alone estatico e sacrale.
Perifrasi astronomiche e simbologia del numero La prima apparizione di Beatrice viene collocata sullo sfondo
di un vastissimo scenario cosmico, scandito da movimenti astrali di matematica esattezza e
geometrica perfezione (la rotazione dei cieli, il ciclo dell’anno, del giorno e della notte), rit-
mi immutabili dell’universo. Nelle solenni perifrasi astronomiche dell’esordio così come
nelle indicazioni cronologiche fornite dall’autore nel capitolo successivo e poi in altri luo-
ghi dell’opera, si legge l’insistente ricorso di un numero simbolico, il nove, cui Dante più
oltre dedica, in seguito a un altro evento cruciale (la morte della gentilissima), una digressio-
ne esplicativa di notevole interesse. Questa la ragione più convincente secondo l’autore: la
radice di nove è tre, numero sacro della Trinità divina, “radice”, cioè fonte e origine, del mi-
racolo: dunque Beatrice stessa «era uno nove, cioè uno miracolo» [R T 9.1 Doc 9.3 ].
Simbologia dei colori Alla simbologia del numero si affianca quella dei colori: escluso ogni altro elemento de-
scrittivo, spicca soltanto il colore della veste di Beatrice, sanguigno nella prima apparizione;
nove anni dopo bianchissimo. Il colore rosso domina nuovamente nella visione notturna,
campita sullo sfondo di una «nebula di colore di fuoco»; una fiamma arde il cuore di Dante;
ancora sanguigno è il drappo che involge «leggeramente» la donna fra le braccia di Amore.
Colore di sangue e di fuoco, il rosso simboleggia tradizionalmente la passione amorosa, ma
anche l’amore divino (la charitas, terza virtù teologale, fiamma dello Spirito Santo); il bianco
puro è colore nuziale, e bianche sono le vesti angeliche. Soprattutto, entrambi i colori sono
legati in molteplici luoghi dei libri sacri alla figura di Cristo: bianca è la sua veste nell’epi-
sodio della trasfigurazione, secondo il Vangelo di Marco (IX, 2), rossa nella visione giovan-
nea dell’Apocalisse (cfr. nota 15); ovviamente, l’insistenza sul colore sanguigno allude al sangue
sparso in sacrificio dal Redentore sulla croce. La fitta trama di riferimenti e citazioni scrit-
turali (cfr. nota 23) autorizza l’interpretazione cristologica della figura di Beatrice, donna de
la salute, investita di una funzione salvifica e sacrificale (si veda anche, più sotto, la visione del
“cuore mangiato”).
Simbologia del nome Ancor più esplicita e persino vistosa la simbologia del nome: Beatrice, la donna gentile
che, secondo i moduli stilnovistici, dispensa e infonde beatitudine, irradiando intorno a sé,
tramite il suo aspetto, i suoi gesti, le sue parole, un influsso virtuoso e benefico; al tempo
stesso quella che, conclusa la sua vicenda terrena, è destinata alla beatitudine celeste, Beatrice
beata, come si legge nel XXVIII capitolo della Vita Nuova. La proclamata corrispondenza
del nome all’intima essenza della persona di lei trova giustificazione in un principio, deriva-
to dalle dottrine linguistiche del mondo antico e fortemente radicato nella mentalità me-
dievale: nomina sunt consequentia rerum (“i nomi sono conseguenza delle cose”). Nei nomi, e
in senso lato nelle parole, è “scritta” la natura, l’essenza profonda delle persone e delle cose:
la scienza etimologica è dunque la chiave per risalire al significato più autentico dei feno-
meni, alla loro intima verità. Lo conferma l’equivoco costruito da Dante (cap. III), ripren-
dendo il tradizionale bisticcio di derivazione trobadorica, sul duplice significato del termine
salute (“saluto” e “salvezza”): Beatrice, donna de la salute è colei che ha beatificato Dante col
suo dolcissimo salutare, e insieme l’angelica mediatrice che gli addita la via della salvezza, cioè
della beatitudine eterna.

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Duecento e Trecento

La maravigliosa visione: il cuore mangiato «Il racconto del primo e del secondo incontro con Beatrice tende a
definire la qualità dell’amore di Dante e il significato di Beatrice. Al protagonista tale qualità
e tale significato si rivelano in modo oscuro, preconcettuale, a livello sensoriale nel primo
incontro, in forma onirico-profetica dopo il secondo» (Mineo). La visione infatti rappresen-
ta profeticamente, condensata in poche azioni e immagini allusive ed enigmatiche, l’intera
vicenda d’amore del protagonista: la consapevolezza da parte di Beatrice dell’amore di Dan-
te (il risveglio); l’accettazione di questo amore da parte di lei (l’atto di cibarsi del cuore); la
morte di Beatrice e la sua ascesa al cielo (l’amarissimo pianto di Amore che, raccoltasi la don-
na fra le braccia, s’invola verso lo cielo).
Il motivo del “cuore mangiato” ricorre con frequenza nella letteratura medievale a sim-
boleggiare, nel suo nucleo fondamentale, un’indissolubile unione, un’intima compenetra-
zione fisica e spirituale, prestandosi tuttavia ad assumere di volta in volta significati diversi a
seconda del contesto. In questo terzo capitolo della Vita Nuova Dante rielabora il motivo
piegandone le valenze simboliche originarie in direzione propriamente religiosa e sacrale, a
disegnare un rituale di “mistiche nozze”, una liturgia di comunione amorosa che sembra ri-
chiamare allusivamente il rito della comunione eucaristica, istituito da Cristo durante l’ulti-
ma cena il giovedì santo, preludio al sacrificio dell’indomani, giorno della sua morte.

Doc 9.3 Il numero nove e Beatrice


Dante Alighieri, Vita Alla fine del capitolo XXVIII Dante, dopo aver annunciato la morte (la partita) di Beatrice,
Nuova (XXIX, 2-4)
dichiarando di non volerne parlare direttamente, si propone tuttavia, poiché «molte volte lo
1 con ciò sia cosa che: numero del nove ha preso luogo tra le parole dinanzi [più sopra scritte], onde pare che sia
poiché. non sanza ragione», di illustrare «alcune ragione per che questo numero fue a lei cotanto
2 astrologa: astrologi-
ca, o meglio astronomica. amico»; cioè di provarsi a motivare il misterioso legame, che insistentemente emerge nel
Il Tolomeo citato sopra è corso della vicenda narrata, tra il numero nove e la persona della gentilissima. Riportiamo,
naturalmente ClaudioTo- omettendo soltanto le dissertazioni iniziali sul ricorso del nove nelle circostanze della
lomeo, astronomo e geo-
grafo alessandrino del II morte di Beatrice (la data, l’ora del giorno...), la digressione, intessuta di sottili argomenta-
secolo. zioni, che occupa l’intero capitolo XXIX.
3 adoperino qua giu-
so: esercitino il loro influs-
so sul mondo terreno. Perché questo numero fosse in tanto amico di lei, questa potrebbe essere una ragione: con
4 secondo la loro... ciò sia cosa che,1 secondo Tolomeo e secondo la cristiana veritade, nove siano li cieli che si
insieme: secondo la loro muovono, e, secondo comune oppinione astrologa,2 li detti cieli adoperino qua giuso3 se-
reciproca disposizione.
5 perfettissimamen-
condo la loro abitudine insieme,4 questo numero fue amico di lei per dare ad intendere
te... insieme:erano dispo- che ne la sua generazione tutti e nove li mobili cieli perfettissimamente s’aveano insieme.5
sti fra loro in modo assolu- Questa è una ragione di ciò; ma più sottilmente pensando, e secondo la infallibile veritade,
tamente perfetto.
6 per similitudine: per
questo numero fue ella medesima: per similitudine6 dico, e ciò intendo così. Lo numero
analogia o somiglianza. del tre è la radice del nove, però che, sanza numero altro alcuno, per se medesimo fa nove,
7 tre via tre: tre per tre, sì come vedemo manifestamente che tre via tre7 fa nove. Dunque se lo tre è fattore per se
tre moltiplicato per se
stesso, senza intervento di medesimo del nove, e lo fattore per se medesimo dei miracoli è tre, cioè Padre e Figlio e
altro numero (sanza nume- Spirito Santo, li quali sono tre e uno, questa donna fue accompagnata da questo numero
ro altro alcuno). del nove a dare a intendere ch’ella era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del
8 per più sottile per-
sona: da parte di (per) un
miracolo, è solamente la mirabile Trinitade. Forse ancora per più sottile persona8 si vede-
più acuto, penetrante (sot- rebbe in ciò più sottile ragione; ma questa è quella ch’io ne veggio, e che più mi piace.
tile) interprete.

Laboratorio 1 Nell’esordio della Vita Nuova, Dante ri- primo capitolo della Vita Nuova. Sapresti
COMPRENSIONE corre a una metafora diffusa nella cultura indicare il valore di questa scelta espressiva?
ANALISI
medievale: indica quale, spiegane il signi- 3 Quali simbologie sono presenti e operan-
CONTESTUALIZZAZIONE
ficato e rintraccia eventuali precedenti a ti nella figura di Beatrice?
te noti. 4 Analizza il racconto del sogno (cap. III),
2 Traduci e spiega le parole e le espressioni confrontando la versione del sonetto con
latine usate da Dante nel proemio e nel quella della prosa.

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9. Dante Alighieri T 9.2

T 9.2 Vita Nuova 1293-1294


Donne ch’avete intelletto d’amore [XVIII-XIX]
Dante Alighieri Dopo aver composto i tre sonetti inclusi nei capp. XIV-XVI, gli unici della Vita Nuova
Opere minori in cui si rivolge direttamente a Beatrice, rappresentando la sua tormentosa condizione
Vita Nuova nei modi cavalcantiani della “battaglia d’amore”, Dante è ormai convinto di dover «ta-
a c. di D. De Robertis,
cere e non dire più», per esaurimento della materia poetica. Di lì a poco, tuttavia, l’in-
Ricciardi,
Milano-Napoli 1980 contro casuale con un gruppo di «gentili donne», da cui scaturisce un colloquio chiari-
ficatore, gli offrirà l’occasione per «ripigliare matera nuova e più nobile che la passata»
(XVII, 1). Alla donna «di molto leggiadro parlare» che a nome di tutte le altre gli chie-
de quale mai sia il fine di questo suo amore, dato che egli non può sostenere la presen-
za dell’amata, il protagonista risponde che, da quando a lei piacque di negargli il saluto,
tutta la sua beatitudine consiste in quello che non gli può «venire meno», cioè nelle pa-
role che lodano la sua donna. L’interlocutrice obietta che finora egli ha composto una
poesia del tutto diversa: infatti Dante, anziché cantare le lodi di Beatrice, ha parlato di
sé, esprimendo la propria «condizione». Il protagonista giunge così, riflettendo sulle
contraddizioni che il dialogo con le donne gli ha rivelato, alla formulazione di una
nuova poetica, che implica una nuova e più alta concezione dell’amore. Nondimeno, la
volontade di dire si realizza soltanto in seguito a un’ispirazione improvvisa, da cui pren-
dono l’avvio le nove rime ovvero lo stilo de la loda, la nuova fase della lirica dantesca
inaugurata dalla canzone Donne ch’avete intelletto d’amore.

1 Con ciò... vista mia:


XVIII. Con ciò sia cosa che per la vista mia1 molte persone avessero compreso
poiché a causa del mio lo secreto del mio cuore, certe donne, le quali adunate s’erano dilettandosi l’una
aspetto. ne la compagnia de l’altra, sapeano bene lo mio cuore, però che ciascuna di loro
2 sapeano... sconfitte:
conoscevano bene i miei era stata a molte mie sconfitte;2 e io passando appresso di loro, sì come da la for-
sentimenti, poiché tutte tuna menato,3 fui chiamato da una di queste gentili donne. La donna che m’avea 5
erano state più volte testi-
moni del turbamento che chiamato era donna di molto leggiadro parlare; sì che quand’io fui giunto dinan-
mi invadeva in presenza di zi da loro, e vidi bene che la mia gentilissima donna non era con esse, rassicuran-
Beatrice (XIV).
3 da la... menato: con- domi le salutai, e domandai che piacesse loro.4 Le donne erano molte, tra le qua-
dotto dal caso, fortuitamen- li n’avea certe che si rideano5 tra loro; altre v’erano che mi guardavano aspettan-
te. do che io dovessi dire; altre v’erano che parlavano tra loro. De le quali una, vol-
4 che piacesse loro: che
10
cosa desiderassero. gendo li suoi occhi verso me e chiamandomi per nome, disse queste parole: «A che
5 si rideano: ridevano, o
forse sorridevano.
fine6 ami tu questa donna, poi che tu non puoi sostenere la sua presenza? Dillo-
6 A che fine: a quale sco- ci,7 ché certo lo fine di cotale amore conviene che sia novissimo».8 E poi che
po. m’ebbe dette queste parole, non solamente ella, ma tutte l’altre cominciaro ad at-
7 Dilloci: diccelo.
8 conviene... novissi- tendere in vista9 la mia risponsione. Allora dissi queste parole loro: «Madonne, lo 15
mo: deve proprio essere fine del mio amore fue già10 lo saluto di questa donna, forse di cui voi intendete,11
straordinario, inaudito.
9 in vista: nel loro aspet- e in quello dimorava la beatitudine, ché era fine12 di tutti li miei desiderii. Ma poi
to; cioè mostrando con il lo- che le piacque di negarlo a me, lo mio segnore Amore, la sua merzede,13 ha posto
ro atteggiamento di atten- tutta la mia beatitudine in quello che non mi puote venire meno».14 Allora que-
dere una risposta (risponsio-
ne). ste donne cominciaro a parlare tra loro; e così come talora vedemo cadere l’acqua 20
10 fue già:fu dapprima,in
passato.
mischiata di bella neve, così mi parea udire le loro parole uscire mischiate di sospiri.
11 forse... intendete: che E poi che alquanto ebbero parlato tra loro, anche mi disse questa donna che m’a-
è forse quella che intendete vea prima parlato, queste parole: «Noi ti preghiamo che tu ne dichi ove sta15 que-
voi, a cui voi alludete.
12 ché era fine: poiché sta tua beatitudine». Ed io, rispondendo lei, dissi cotanto: «In quelle parole che lo-
era (soggetto è lo saluto) il fi- dano la donna mia». Allora mi rispuose questa che mi parlava: «Se tu ne dicessi ve- 25
ne, lo scopo ultimo.
13 la sua merzede: per ro, quelle parole che tu n’hai dette in notificando la tua condizione, avrestù ope-
sua grazia. rate con altro intendimento».16 Onde io, pensando a queste parole, quasi vergo-
14 non mi puote... me-
no: non può venirmi a man-
care, non mi può essere tol- significa «a noi», come, po- sto proposito”. ci) che tu hai detto (cioè (operate) con altra intenzio-
to. co più oltre, ne dicessi vero; 16 Se tu ne dicessi... in- scritto) rendendo noto (in ne,«ad altro fine,di lode,non
15 ne dichi ove sta: ci di- mentre invece n(e) hai dette tendimento: quelle parole notificando) il tuo stato, le di narrazione autobiografi-
ca in che cosa consiste; ne vale “hai detto di ciò, a que- (cioè componimenti poeti- avresti dette, messe in opera ca» (Contini).

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Duecento e Trecento

17 mi partio: mi allonta- gnoso mi partio17 da loro, e venia dicendo fra me medesimo: «Poi che è tanta bea-
nai.
18 E però... gentilissima: titudine in quelle parole che lodano la mia donna, perché altro parlare è stato lo
e perciò mi proposi di pren- mio?». E però propuosi di prendere per matera de lo mio parlare sempre mai quel- 30
dere per argomento (matera, lo che fosse loda di questa gentilissima;18 e pensando molto a ciò, pareami avere
«materia») della mia poesia
(del mio parlare) sempre, impresa troppo alta matera quanto a me, sì che non ardia di cominciare;19 e così di-
esclusivamente (mai è raf - morai20 alquanti dì con disiderio di dire e con paura di cominciare.
forzativo di sempre) la lode di
Beatrice. XIX. Avvenne poi che passando per uno cammino lungo lo quale sen gia uno ri-
19 pareami... di comin- vo chiaro molto,21 a me giunse tanta volontade di dire,22 che io cominciai a pen- 35
ciare: mi sembrava di aver
intrapresa una materia trop- sare lo modo ch’io tenesse;23 e pensai che parlare di lei non si convenia che io fa-
po elevata, troppo ardua per cesse, se io non parlasse a donne24 in seconda persona, e non ad ogni donna, ma so-
le mie forze (quanto a me),
così che non osavo (non ardia lamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femmine.25 Allora dico che
di) cominciare. Si osservi la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa,26 e disse: Donne ch’avete intellet-
l’insistente ricorso, in en- to d’amore. Queste parole io ripuosi ne la mente con grande letizia,27 pensando di 40
trambi i capitoli, dei termini
cominciare e cominciamento, prenderle per mio cominciamento, onde poi, ritornato a la sopradetta cittade, pen-
che sottolinea, al di là del- sando alquanti die,28 cominciai una canzone con questo cominciamento, ordina-
l’accezione puramente tec-
nica, il carattere inaugurale ta29 nel modo che si vedrà di sotto ne la sua divisione.30 La canzone comincia:
della prima canzone della Donne ch’avete.
Vita Nuova; e cfr. ancora co-
minciando nel dialogo con
Bonagiunta (Pg XXIV 49).
20 dimorai: indugiai. 23 lo modo... tenesse: il subito dopo, non a qualsiasi mento la mia lingua parlò con grande gioia.
21 per... chiaro molto: modo da tenere, cioè i pro- persona di sesso femminile, quasi come se si muovesse 28 alquanti die: diversi
per una strada lungo la quale cedimenti più idonei da se- ma esclusivamente a coloro da sola (per se stessa mossa). Le giorni.
scorreva (sen gia, letteral- guire per dar forma al com- che sono gentili. parole che vengono im- 29 ordinata: organizzata,
mente “se ne andava”) un ponimento. 25 pure femmine:soltan- provvisamente pronunciate strutturata.
fiume (o un ruscello) dalle 24 che parlare... a donne: to femmine (pure è avver- corrispondono al primo 30 divisione: al testo della
limpidissime acque. non era conveniente che io bio), cioè donne per natura. verso o cominciamento della canzone segue l’ampia e
22 me giunse... di dire: parlassi di lei, se non rivol- 26 Allora dico... mossa: canzone. particolareggiata divisione
provai un impulso così in- gendomi ad altre donne; pe- dico (nel senso di “affermo, 27 ripuosi... letizia: con- (cfr. III, 13 e nota 71 R T 9.1 ),
tenso di poetare. raltro, come viene precisato dichiaro”) che in quel mo- servai nella mia memoria che omettiamo.

Nota metrica Donne ch’avete intelletto d’amore,


Canzone formata di cin-
que stanze di quattordici i’ vo’ con voi de la mia donna dire,
versi, tutti endecasillabi, non perch’io creda sua laude finire,
ciascuna delle quali pre- ma ragionar per isfogar la mente.
senta la struttura di un so-
netto, secondo lo schema 5 Io dico che pensando il suo valore,
ABBC ABBC (fronte) Amor sì dolce mi si fa sentire,
CDD CEE (sirma). La
scelta esclusiva dell’ende- che s’io allora non perdessi ardire,
casillabo segnala l’inten- farei parlando innamorar la gente.
zione di conferire al com-
ponimento speciale so- E io non vo’ parlar sì altamente,
lennità e altezza di stile 10 ch’io divenisse per temenza vile;
“tragico”, secondo quan-
to afferma Dante stesso ma tratterò del suo stato gentile
nel De vulgari eloquentia:
«quando tentiamo di poe-
tare in stile tragico, è sen- trad. di P.V. Mengaldo). Si 4 ma ragionar... la mine ‘tecnico’ tradizionale 9-10 E io non vo’... vile:

za dubbio l’endecasillabo osservi inoltre che anche mente: ma (voglio) parlare dell’amor cortese). eppure io non voglio tratta-
che per una sua particola- la citata canzone caval- (ragionar) per dare sfogo alla 6-8 Amor sì dolce... la re l’argomento in uno stile
cantiana Donna me prega mente (tutta pervasa, do- gente: sento con tale inten- tanto elevato (parlar sì alta-
re eccellenza merita il
privilegio di prevalere su- ha la stanza di 14 versi. minata dal pensiero di lei e sità la dolcezza d’Amore mente, come invece la gran-
gli altri nella tessitura me- del suo valore, v. 5). Il verso che, se in quel momento diosità della materia richie-
trica. E infatti c’è un tipo 1-2 Donne ch’avete... richiama l’urgenza espressi- non perdessi coraggio (ardi- derebbe) da farmi poi rima-
di stanza che si compiace dire: Donne, che intendete va segnalata nella prosa re), se non rimanessi smarri- nere smarrito, sfiduciato, a
di essere intessuta di soli che cosa è amore, io voglio, (tanta volontade di dire). to, sopraffatto dalla sua po- causa del timore (per temen-
endecasillabi, come nella rivolgendomi a voi, parlare 5 pensando il suo valo- tenza (in altri termini: se za vile) di fronte a un compi-
famosa canzone di Guido in versi (dire, cioè “dire per re: quando considero l’in- non avvertissi l’inadegua- to troppo al di sopra delle
[Cavalcanti] di Firenze rima, poetare”) della mia sieme dei suoi pregi, delle tezza delle mie parole di mie forze.
Donna me prega perch’io vo- donna. sue qualità fisiche e spiritua- poeta all’espressione di tale 11 stato gentile: gentilez-

glio dire; e così noi pure 3 finire: esaurire, espri- li; quelle appunto che ren- sentimento) farei innamo- za, nobiltà.
cantiamo Donne ch’avete mere compiutamente e de- dono la donna degna di lode rare tutti con la mia poesia
intelletto d’amore» (II, XII, 3; gnamente. (valore, provenzalismo e ter- (parlando).

224 © Casa Editrice Principato


9. Dante Alighieri T 9.2

12a respetto... leggera- a respetto di lei leggeramente,


mente: in stile umile e di- donne e donzelle amorose, con vui,
messo, se paragonato al valo- ché non è cosa da parlarne altrui.
re di lei.
13 donne e donzelle...
con vui: donne maritate e 15 Angelo clama in divino intelletto
fanciulle che comprendete
che cosa è Amore (amorose), e dice: «Sire, nel mondo si vede
con voi (da collegare a trat- maraviglia ne l’atto che procede
terò, v. 11).
15 Angelo... intelletto: d’un’anima che ’nfin qua su risplende».
un angelo prega a gran voce Lo cielo, che non have altro difetto
(clama,“esclama”) nella (in,
“entro la”) mente di Dio. 20 che d’aver lei, al suo segnor la chiede,
De Robertis preferisce in- e ciascun santo ne grida merzede.
tendere clama “nel senso di Sola Pietà nostra parte difende,
far reclamo, querela”, confi-
gurando una sorta di “pro- che parla Dio, che di madonna intende:
cesso” nella corte celeste, «Diletti miei, or sofferite in pace
concluso dall’intervento di-
retto di Dio (vv. 24-28) il 25 che vostra spene sia quanto me piace
quale, dopo aver ascoltato le là ’v’è alcun che perder lei s’attende,
parti in causa, pronuncia la
sentenza.Ovviamente clama e che dirà ne lo inferno: O mal nati,
(come al v. 16 dice, e tutto il io vidi la speranza de’ beati».
discorso diretto che segue) è
in ogni caso una metafora: le
intelligenze angeliche co- Madonna è disiata in sommo cielo:
municano immediatamen- 30 or voi di sua virtù farvi savere.
te con la mente divina senza
servirsi delle parole, stru- Dico, qual vuol gentil donna parere
menti umani. vada con lei, che quando va per via,
16-18 Sire... risplende: «O
Signore, in terra si vedono gitta nei cor villani Amore un gelo,
effetti miracolosi (maravi- per che onne lor pensero agghiaccia e pere;
glia) nelle azioni (ne l’atto)
che provengono (che pro- 35 e qual soffrisse di starla a vedere
cede) da un’anima il cui diverria nobil cosa, o si morria.
splendore giunge fin quassù
(nel cielo Empireo, in Para- E quando trova alcun che degno sia
diso)». Così Barbi, Contini di veder lei, quei prova sua vertute,
ed altri, che riferiscono la ché li avvien, ciò che li dona, in salute,
relativa (che procede) ad atto;
altri interpreti la collegano a 40 e sì l’umilia, ch’ogni offesa oblia.
maraviglia, nel qual caso oc- Ancor l’ha Dio per maggior grazia dato
corre intendere come se-
gue: “un miracolo in atto che non pò mal finir chi l’ha parlato.
(maraviglia ne l’atto, cioè un
miracolo incarnato) che
proviene, ecc.”. Dice di lei Amor: «Cosa mortale
19 difetto: mancanza. come esser pò sì adorna e sì pura?».
20 che d’aver lei: se non
di avere Beatrice.
21 ne grida merzede: in-
voca la grazia di avere lei. pazientemente che la vostra glia riferire a Dante stesso, vezza). esperienza del suo potere,
22 nostra... difende: di- speranza (vostra spene), cioè appare poco persuasiva, a 29 è disiata... cielo: è de- avverte il suo (di Beatrice)
fende la nostra causa, cioè colei che sperate di avere fra quest’epoca, un’allusione al siderata nell’alto dei cieli. influsso benefico.
prende le difese degli uomi- voi (Beatrice), rimanga an- viaggio ultraterreno narrato 30 voi: voglio. 39-40 ché li avvien...
ni che sono in terra (i quali cora,per tutto il tempo che a nella Commedia, né sembra 31 qual: chi. oblia: perché ciò che ella gli
desiderano che Beatrice re- me piacerà, là dove c’è qual- molto più convincente in- 32 che: pronome relativo dona (lo sguardo, il saluto)
sti ancora fra loro). Pietà è la cuno che si aspetta di per- tendere che Dante, per soggetto, riferito a lei. gli si trasforma (li avvien) in
personificazione della stessa derla (ben sapendo che Bea- umiltà, accentuando iper- 33-34 gitta nei cor... e pe- bene (salute), e a tal punto lo
misericordia divina. trice è destinata al cielo), e bolicamente la distanza che re: Amore getta nei cuori rende umile, mite (l’umilia)
23 che parla... intende: che un giorno, nell’inferno, separa l’amante dalla perfe- villani (il contrario di gentili) che dimentica ogni offesa .
infatti (oppure: cosicché) potrà dire: O sventurati (mal zione dell’amata, si immagi- un gelo per cui (per che) tutti 41-42 Ancor l’ha... chi
Dio,il quale comprende che nati), io ho avuto la grazia di ni destinato all’eterna dan- i loro (bassi, vili) pensieri ag- l’ha parlato: Dio le ha an-
le “parole” dell’angelo e le vedere colei che i beati spe- nazione; è forse meglio in- ghiacciano e periscono,cioè che concesso, per grazia an-
invocazioni dei santi (vv.15- ravano di avere con sé». terpretarla in senso imper- vengono annientati. cor più grande, che chi le
21) si riferiscono a Beatrice Controversa l’interpreta- sonale e generico (anche 35 e qual soffrisse: e se abbia parlato non possa es-
(madonna), dice (parla). zione dei vv. 26-28, specie coloro che andranno all’in- qualcuno (un uomo «villa- sere dannato (mal finir).
24-28 «Diletti miei... de’ per quanto riguarda l’e- ferno potranno dire di aver no») potesse tollerare. 43 Cosa: creatura.
beati»: «O da me amati (Di- spressione alcun [...] che dirà visto Beatrice, cioè di aver 36 si morria: morirebbe. 44 adorna: ornata di bel-
letti miei), per ora sopportate ne lo inferno: nel caso la si vo- avuto un’occasione di sal- 38 prova sua vertute: fa lezza.
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Duecento e Trecento

46 che Dio... cosa nova: 45 Poi la reguarda, e fra se stesso giura


che Dio intenda fare di lei
(oppure: per mezzo di lei) che Dio ne ’ntenda di far cosa nova.
qualcosa di straordinario. «Il Color di perle ha quasi, in forma quale
presente, e il verbo intendere, convene a donna aver, non for misura:
non esprimono tanto pro-
posito da realizzare, quanto ella è quanto de ben pò far natura;
la perenne ed esplicita “in- 50 per essemplo di lei bieltà si prova.
tenzione” ed operazione
miracolosa di Dio in lei» De li occhi suoi, come ch’ella li mova,
(De Robertis). L’espressio- escono spirti d’amore inflammati,
ne cosa nova equivale a mara-
viglia (v. 17) e a miracolo nel che feron li occhi a qual che allor la guati,
sonetto Tanto gentile (v. 8 e passan sì che ’l cor ciascun retrova:
R T 9.4 ).
47 in forma: in modo, 55 voi le vedete Amor pinto nel viso,
nella misura. là ’ve non pote alcun mirarla fiso.
50 per essemplo... si
prova: la bellezza (bieltà, dal-
l’antico francese biauté) si Canzone, io so che tu girai parlando
giudica prendendo lei come a donne assai, quand’io t’avrò avanzata.
modello (essemplo).
51 come ch’: non appena Or t’ammonisco, perch’io t’ho allevata
(oppure: comunque, in 60 per figliuola d’Amor giovane e piana,
qualsiasi modo).
53 feron: feriscono. – a che là ’ve giugni tu diche pregando:
qual che... la guati: a «Insegnatemi gir, ch’io son mandata
chiunque la guardi in quel
momento. a quella di cui laude so’ adornata».
54 passan... retrova: pe- E se non vuoli andar sì come vana,
netrano tanto che ciascuno 65 non restare ove sia gente villana:
(degli spirti infiammati) rag-
giunge il cuore. ingegnati, se puoi, d’esser palese
55 pinto: dipinto.
56 là ’ve... fiso: là dove, in
solo con donne o con omo cortese,
quel punto dove nessuno che ti merranno là per via tostana.
può fissare lo sguardo; cioè Tu troverai Amor con esso lei;
la bocca, secondo quanto
Dante stesso afferma espli- 70 raccomandami a lui come tu dei.
citamente nella divisione
(XIX, 20). In questo caso,
pertanto, si dovrà intendere
viso (v. 55) nel senso di “vol-
to” e non di “occhi”. desta e mansueta; anche indica la fedeltà del poeta al- 62 gir: il cammino, la stra- strarti.
57 girai: andrai. «sommessa» (De Robertis). la diretta ispirazione di da (letteralmente, «andare»). 68 merranno: condur-
58 a donne assai: a molte Tali notazioni (psicologiche Amore, secondo quanto 63 a quella... adornata: a ranno. – tostana: rapida,
donne. – avanzata: messa o comportamentali), riferi- Dante farà dire a Bonagiun- colei delle cui lodi sono breve.
innanzi (ai lettori), cioè te alla canzone personifica- ta nel XXIV del Purgatorio adorna, abbellita (Beatrice). 69 con esso lei: con lei
pubblicata, resa nota. ta, trasmettono indicazioni (vv. 53-54). 64 sì come vana: vana- (con Beatrice).
60 per: come. – piana: di ordine stilistico e tonale; 61 là ’ve giugni tu dichi: mente, senza effetto. 70 dei: devi.
«semplice» (Contini), mo- l’espressione figliuola d’Amor dovunque arrivi tu dica. 66 d’esser palese: di mo-

Guida all’analisi
Una nuova poetica e una nuova concezione d’amore «Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore / trasse le nove rime,
cominciando / “Donne ch’avete intelletto d’amore”» chiede Bonagiunta da Lucca a Dante, in
un celebre passo del Purgatorio (XXIV, 49-51), poco prima di dare per sempre un nome al
«dolce stil novo» (ibid., 57). La canzone, di cui i capitoli in prosa (XVIII e XIX) ricostrui-
scono la genesi quasi miracolosa, viene dunque riconfermata da Dante, a distanza, quale ma-
nifesto programmatico del nuovo stile della sua lirica giovanile, di quello «stilo de la loda»
(XXVI R T 9.4 ) che appare come il frutto di una “conversione” poetica e insieme di una
definitiva chiarificazione interiore, la scoperta cioè della vera essenza d’amore. Le parole che
il protagonista della Vita Nuova pronuncia nella risponsione alle domande della donna genti-
le racchiudono già tutto il programma della nuova poesia: «lo mio segnore Amore [...] ha
posto tutta la mia beatitudine in quello che non mi puote venire meno», cioè, come rivela
subito dopo, in «quelle parole che lodano la donna mia». Siamo qui veramente alla svolta
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9. Dante Alighieri T 9.2

decisiva del percorso umano e letterario che il libro della Vita Nuova configura. Dante ab-
bandona la vecchia materia poetica, che aveva trovato espressione in una fase di accentuata
imitazione cavalcantiana: non parlerà più di sé, del proprio stato, degli effetti provocati in lui
dalla presenza e dagli atti della donna amata; non si rivolgerà più direttamente a Beatrice, né
si attenderà di conseguire da lei una ricompensa, per quanto simbolica (il saluto), da cui di-
penda la sua condizione di beatitudine o di doloroso tormento, a seconda che venga con-
cessa o negata. La scoperta della nuova materia comporta il mutamento dell’oggetto, del-
l’interlocutore e del fine del discorso poetico: d’ora in avanti parlerà di Beatrice, e le sue pa-
role saranno esclusivamente lode della sua donna, della sua virtù e della sua bellezza, degli
effetti miracolosi da lei prodotti in ogni creatura umana; si rivolgerà a coloro che hanno «in-
telletto d’amore», e in particolare alle donne gentili; il suo amore ricercherà (e troverà) ap-
pagamento e fine in sé soltanto, nell’espressione poetica della lode dell’amata.
Dall’amore-passione all’amore-carità Come si vede, il mutamento di materia e di stile che implica la nuova
poetica della lode appare inscindibilmente legato a un mutamento altrettanto radicale nel-
la concezione d’amore: da un amore interessato, passionale e in certo modo egoistico, che
ricerca una gratificazione per sé, a un amore disinteressato, che si appaga di sé, che si ri-
solve in un puro atto di contemplazione (cioè in un’esperienza di ordine conoscitivo) e si
manifesta come poesia, esprimendosi e identificandosi tutto in un inno di lode. Così, l’a-
more umano cantato nelle nove rime tende a modellarsi analogicamente sull’amore misti-
co per Dio (amor Dei), gratuito ardore di carità che a sua volta prefigura la condizione del-
le anime beate in cielo, la cui beatitudine consiste nel contemplare e lodare in eterno l’as-
soluta perfezione di Dio.
Due momenti successivi e distinti: meditato proposito e rivelazione oracolare I capitoli in prosa scandiscono in
due momenti distinti e complementari il percorso dell’autore verso la nuova poesia: il pri-
mo, dal ritmo lento, è articolato e analitico (XVIII-XIX, 1); il secondo brevissimo e rapido,
quasi precipitoso (XIX, 2). Nel dialogo con le donne Dante “drammatizza” la presa di co-
scienza che avvia la risoluzione della crisi: dapprima nelle risposte alle donne già enuncia di
slancio, quasi anticipando la fase della riflessione, la poetica della lode; poi, meditando sulle
proprie contraddizioni («perché altro parlare è stato lo mio?»), giunge a formulare consape-
volmente il suo proposito («E però propuosi di prendere per matera de lo mio parlare sem-
pre mai quello che fosse loda di questa gentilissima»), nonché a definire con rigoroso ragio-
namento i procedimenti retorici idonei a realizzarlo («a pensare lo modo ch’io tenesse»).
Soltanto a questo punto scocca la scintilla dell’ispirazione tanto attesa, e può trovare sbocco
la «volontade di dire»: la lingua del poeta improvvisamente parla «quasi come per sé stessa
mossa», pronunciando le parole dell’incipit in maniera misteriosamente automatica, quasi
dettate da una voce “altra” e trascendente, secondo i modi di un responso oracolare o di un
annuncio profetico.
Struttura della canzone La canzone Donne ch’avete risulta strutturata, secondo i canoni della più alta eloquenza,
in tre parti: esordio (stanza I), narrazione (II, III, IV), conclusione, corrispondenti alle tre se-
quenze individuate dall’autore nella divisione, rispettivamente il proemio, la trattazione (le tre
stanze centrali, dedicate alle lodi di Beatrice) e il congedo. Anche la scelta della stanza di so-
li endecasillabi (R Nota metrica) conferisce, nelle intenzioni di Dante, particolare solennità
al componimento, cui è affidato il compito di annunciare programmaticamente, insieme al-
la nuova poetica, una rinnovata dottrina d’amore.
I stanza («proemio»). La stanza d’esordio enuncia in rapida successione i punti fonda-
mentali del programma poetico dantesco:
– nell’invocazione alle donne (v. 1) Dante identifica il destinatario, o se si vuole il pubblico,
cui intende rivolgersi d’ora in poi esclusivamente («ché non è cosa da parlarne altrui», v. 14),
in coloro che hanno «intelletto d’amore», in primo luogo le donne gentili, sue interlocutri-
ci privilegiate, ma anche ogni «omo cortese», come dirà nel congedo (v. 67);
– nel v. 2 dichiara il proprio intento e circoscrive così la materia del nuovo canto («i’ vo’ con
voi de la mia donna dire»), ribadita nel v. 11 («tratterò del suo stato gentile»);
– nel v. 3 riprende il tema della propria insufficienza di poeta rispetto all’altezza della mate-

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Duecento e Trecento

ria («non perch’io creda sua laude finire»), che già si era insistentemente affacciato nella pro-
sa, per svilupparlo ancora nei vv. 5-12 con ripetute formule di modestia;
– nel v. 4 precisa i motivi che lo inducono a scrivere («ragionar per isfogar la mente»);
– nel v. 12 fornisce un’importante indicazione di ordine stilistico e tonale (leggeramente, in
antitesi con altamente, v. 9), manifestando la propria opzione per uno stile dolce e piano, af-
fine al trobar leu dei provenzali.
II stanza. Si apre, con l’improvviso grido dell’Angelo (v. 15), una scena celeste, che in-
nalza in una dimensione trascendente e assoluta la figura di Beatrice e la lode di lei, procla-
mandone la natura miracolosa: gli Angeli e i Santi reclamano la presenza della gentilissima
fra loro in una sorta di “processo in Paradiso” concluso dalla sentenza di Dio che esorta i
suoi diletti a sopportare ancora per un poco la sua mancanza, finché a Lui piacerà di chia-
marla a sé. La sanzione divina conferisce una vertiginosa altezza lirico-fantastica alla lode
dantesca, che tocca il culmine nelle espressioni iperboliche «Lo cielo, che non have altro di-
fetto / che d’aver lei» (vv. 19-20) e «la speranza de’ beati» (v. 28), paradossali e contradditto-
rie dal punto di vista logico (e teologico): il Paradiso infatti è il mondo dell’assoluta perfe-
zione, e la condizione dei beati consiste per definizione nella compiuta realizzazione della
speranza. Ma si noti: l’iperbole “eccessiva” è la coerente traduzione, sul piano stilistico-
espressivo, della proclamata ineffabilità della materia.
III e IV stanza. Nella divisione l’autore dichiara che, dopo aver detto quello «che di lei
si comprende in cielo», passa a trattare nelle due stanze successive quello «che di lei si com-
prende in terra»: dapprima «narrando alquanto de le sue vertudi effettive [= efficaci, che
producono mirabili effetti] che de la sua anima procedeano»; successivamente «narrando al-
quanto de le sue bellezze» (XIX, 17-18). Nella III stanza infatti Dante rappresenta l’azione
beatificante e salvifica della sua donna, cioè i benefici effetti spirituali che con la sua presen-
za Beatrice suscita e diffonde intorno a sé, in chiunque la veda, evocando mediante pochi
tratti sfuggenti e indefiniti il suo incedere per via; nella IV stanza non tanto provvede a una
vera e propria descrizione della bellezza di Beatrice, quanto suggerisce una perfezione inef-
fabile mediante espressioni superlative, ancora una volta iperboliche («ella è quanto de ben
pò far natura; / per essemplo di lei bieltà si prova», vv. 49-50). L’unico particolare descritti-
vo, il color di perle (v. 47), si rivela piuttosto evocativo e simbolico che realistico, in quanto
sembra alludere all’irradiarsi di una luce interiore attraverso le forme sensibili; e la contem-
plazione degli occhi (vv. 51-54) e della bocca (vv. 55-56) di Beatrice si risolve tutta nei mo-
di immaginosamente metaforici della tradizione lirica.
V stanza (congedo). In questa stanza conclusiva Dante si rivolge, come d’uso, alla canzo-
ne stessa e la esorta in toni leggiadri a presentarsi a colei di cui canta le lodi, riprendendo
circolarmente alcuni motivi del proemio, soprattutto la definizione del pubblico, la cerchia
esclusiva delle donne e degli uomini cortesi (vv. 64-68), ma anche le indicazioni stilistiche
(piana, al v. 60, richiama leggeramente del v. 12).

Laboratorio 1 Concentrati, nel cap. XVIII, sulla doman- e che «qui, veramente, incipit vita nova»: sa-
COMPRENSIONE da posta dalla donna gentile a Dante e presti spiegare i fondamenti di questo
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE sulla risposta del poeta: quale contraddi- giudizio critico?
zione ne emerge? E quale riflessione pro- 5 A quale pubblico decide di rivolgersi il
voca in Dante? poeta all’inizio del cap. XIX?
2 Illustra il nuovo significato dell’amore 6 Illustra le qualità spirituali attribuite a
quale emerge dal cap. XVIII della Vita Beatrice, nella canzone Donne ch’avete,
Nuova. dall’angelo, da Amore e dal poeta.
3 In cosa consiste la «poetica della lode»? 7 Quali topoi della poesia cortese e stilnovi-
4 Scrive Domenico De Robertis che «col stica emergono in questa canzone?
cap. XVIII siamo al vero centro del libro»,
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9. Dante Alighieri T 9.3

T 9.3 Vita Nuova 1293-1294


Prefigurazione della morte di Beatrice [XXIII]
Dante Alighieri Nel capitolo XXII Dante racconta come venisse a morte il padre di Beatrice, e del pro-
Opere minori prio turbamento nell’apprendere da alcune donne che l’amata piangeva dolorosamente,
Vita Nuova tanto da far «morire di pietade» chi la vedesse in quello stato. Su questo tema compone
a c. di D. De Robertis,
due sonetti, articolati in forma di dialogo con le donne che avevano assistito al com-
Ricciardi,
Milano-Napoli 1980 pianto funebre. Narra poi come, pochi giorni dopo, egli stesso fosse costretto all’immo-
bilità da una dolorosa infermitade, e come, nel meditare sulla fragilità della vita umana, si
formasse nella sua mente un angoscioso pensiero («Di necessitate convene che la genti-
lissima Beatrice alcuna volta si muoia»). In una sorta di delirio dell’immaginazione egli
“vede” prefigurata la morte della sua donna. Cessato lo fallace imaginare, alle donne che
lo assistono e che, spaventate, cercano di confortarlo, racconta quello che ha veduto;
poi, una volta guarito, si propone di comporre una canzone, Donna pietosa e di novella
etate, rivolgendosi alla donna giovane e gentile che per prima si era accorta del suo pianto.

XXIII. Appresso ciò per pochi dì1 avvenne che in alcuna parte de la mia per-
sona2 mi giunse una dolorosa infermitade, onde3 io continuamente soffersi per
nove dì amarissima pena; la quale mi condusse a tanta debolezza, che me conve-
nia stare come coloro li quali non si possono muovere.4 Io dico che ne lo nono
giorno, sentendome dolere quasi intollerabilemente, a me giunse uno pensero lo 5

quale era de la mia donna. E quando ei5 pensato alquanto di lei, ed io ritornai
1 Appresso... pochi dì:
pochi giorni dopo (ciò si pensando a la mia debilitata vita;6 e veggendo come leggiero7 era lo suo durare,
riferisce alla morte del pa- ancora che sana fosse, sì cominciai a piangere fra me stesso di tanta miseria.8
dre di Beatrice, Folco Por- Onde, sospirando forte, dicea fra me medesimo: «Di necessitade convene9 che la
tinari, avvenuta il 31 di-
cembre 1289; Dante ne ha gentilissima Beatrice alcuna volta10 si muoia». E però mi giunse11 uno sì forte 10
parlato nel capitolo prece- smarrimento, che chiusi li occhi e cominciai a travagliare sì come farnetica per-
dente, il XXII).
2 persona: corpo. sona12 ed a imaginare in questo modo: che ne lo incominciamento de lo errare
3 onde: a causa della che fece la mia fantasia, apparvero a me certi visi di donne scapigliate, che mi
quale.
4 che me convenia... diceano: «Tu pur13 morrai»; e poi, dopo queste donne, m’apparvero certi visi
muovere: che ero costretto diversi14 e orribili a vedere, li quali mi diceano: «Tu se’ morto». Così comincian- 15
a rimanere immobile, a let-
to. do ad errare la mia fantasia, venni a quello15 ch’io non sapea ove io mi fosse; e
5 ei: ebbi. vedere mi parea donne andare scapigliate piangendo per via, maravigliosamente
6 ritornai... vita: mi triste;16 e pareami vedere lo sole oscurare,17 sì che le stelle si mostravano di colo-
volsi a pensare alla mia vita
indebolita (dalla malattia). re ch’elle18 mi faceano giudicare che piangessero; e pareami che li uccelli volan-
7 leggiero: labile, preca-
do per l’aria cadessero morti, e che fossero grandissimi tremuoti.19 E maravi- 20
rio.
8 miseria: infelicità e gliandomi in cotale fantasia, e paventando20 assai, imaginai alcuno amico che mi
pochezza (della condizione venisse a dire: «Or non sai? la tua mirabile donna è partita di questo secolo».21
umana).
9 Di necessitade con- Allora cominciai a piangere molto pietosamente; e non solamente piangea ne la
vene: è necessario; è inevi- imaginazione, ma piangea con li occhi, bagnandoli di vere lagrime. Io imagina-
tabile.
10 alcuna volta: una va di guardare verso lo cielo, e pareami vedere moltitudine d’angeli li quali tor- 25

qualche volta; prima o poi.


11 però mi giunse: in
conseguenza di ciò mi pre-
se, mi assalì (analogamente non umani; cfr. If VI 13 con ellissi della particella XXVII, 51: «e la terra chiele XXXII, 7-8; Apoca-
«mi giunse una dolorosa («Cerbero, fiera crudele e riflessiva. Per le fonti scrit- tremò, e le pietre si spezza- lisseVI, 12.
infermitade»). diversa») e ancora If III 25 turali di questo passo, cfr. rono» (alla morte del Cri- 18 di colore ch’elle: di
12 a travagliare... per- («Diverse lingue, orribili Luca XXIII, 44: «Era circa sto); Matteo XXIV, 29: colore tale che esse.
sona: ad agitarmi, a vaneg- favelle»), dove ricorrono in l’ora sesta, e si fece buio «s’oscurerà il sole, la luna 19 fossero... tremuoti: ci
giare come una persona coppia entrambi gli agget- per tutta la terra fino all’ora non darà più la sua luce, e fossero, si verificassero
farneticante, in preda al de- tivi. nona, per l’eclissarsi del so- cadranno le stelle dal cielo, grandissimi terremoti.
lirio; subito dopo errare vale 15 venni a quello: arri- le, e il velo del tempio si e le potenze dei cieli tre- 20 paventando: temen-
ancora “delirare, uscir di vai al punto. squarciò per mezzo» (l’e- meranno» (sono parole di do; spaventato, intimorito.
sé”. 16 maravigliosamente vangelista descrive gli im- Gesù, che predice ai disce- 21 è partita... secolo: se
13 pur: ad ogni modo, triste: straordinariamente pressionanti fenomeni na- poli la sua seconda venuta n’è andata da questo mon-
inevitabilmente. afflitte, addolorate. turali che precedono la e la fine del mondo); e do; è morta.
14 diversi: mostruosi, 17 oscurare: oscurarsi, morte di Gesù); Matteo inoltre Isaia XIII, 10; Eze-

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Duecento e Trecento

22 in suso: verso l’alto, in nassero in suso,22 ed aveano dinanzi da loro una nebuletta23 bianchissima. A me
cielo. Si confronti la mira- parea che questi angeli cantassero gloriosamente, e le parole del loro canto mi
bile immagine della “nevi-
cata” a rovescio (cioè all’in- parea udire che fossero queste: Osanna in excelsis;24 e altro non mi parea udire.
sù) delle anime beate in Pd Allora mi parea che lo cuore, ove era tanto amore, mi dicesse: «Vero è che morta
XXVII 67-72. giace la nostra donna». E per questo mi parea andare per vedere lo corpo ne lo 30
23 nebuletta: nuvoletta.
Dante qui traduce letteral- quale era stata quella nobilissima e beata anima; e fue sì forte la erronea fantasia,
mente da un passo di Tom- che mi mostrò questa donna morta; e pareami che donne la covrissero, cioè la
maso da Celano, autore
della prima biografia com- sua testa, con uno bianco velo; e pareami che la sua faccia avesse tanto aspetto
pleta di san Francesco, la d’umilitade,25 che parea che dicesse: «Io sono a vedere lo principio de la pace».26
Vita S.P. Francisci o Legenda
prima (1228-30), più tardi In questa imaginazione mi giunse27 tanta umilitade per vedere lei, che io chia- 35
rielaborata e meglio docu- mava la Morte, e dicea: «Dolcissima Morte,28 vieni a me, e non m’essere villana,
mentata (Legenda secunda,
cfr. nota 28): «Si vede la sua però che tu dei essere gentile, in tal parte se’ stata!29 Or vieni a me, che molto ti
anima come una stella ful- disidero; e tu lo vedi, ché io porto già lo tuo colore». E quando io avea veduto
gidissima salire al cielo su compiere tutti li dolorosi mestieri che a le corpora de li morti s’usano di fare,30
una candida nuvoletta».
24 Osanna in excelsis: mi parea tornare ne la mia camera, e quivi mi parea guardare verso lo cielo; e sì 40
gloria nel più alto dei cieli. forte era la mia imaginazione, che piangendo incominciai a dire con verace
Secondo l’evangelista Mar-
co (XI, 10), è il grido leva- voce:31 «Oi anima bellissima, come è beato colui che ti vede!». E dicendo io que-
to dalle genti che acclama- ste parole con doloroso singulto di pianto, e chiamando la Morte che venisse a
no Gesù al suo ingresso in
Gerusalemme. E ancora me, una donna giovane e gentile, la quale era lungo32 lo mio letto, credendo che
Dante-protagonista della lo mio piangere e le mie parole fossero solamente per lo dolore de la mia infer- 45
Commedia, assistendo alla
processione simbolica nella mitade, con grande paura cominciò a piangere. Onde altre donne che per la
foresta del Paradiso terre- camera erano s’accorsero di me, che io piangea, per lo pianto che vedeano fare
stre, udrà voci cantare a questa; onde faccendo lei partire da me, la quale era meco di propinquissima
Osanna poco prima della
riapparizione di Beatrice sanguinitade congiunta, elle si trassero verso me33 per isvegliarmi, credendo che
(Pg XXXIX 51). Osanna, io sognasse, e diceanmi: «Non dormire più», e «Non ti sconfortare». E parlando- 50
dall’ebraico, è voce di invo-
cazione e di preghiera che mi così, sì mi cessò la forte fantasia entro in quello punto34 ch’io volea dicere:
esprime esultanza (letteral- «O Beatrice, benedetta sie tu»; e già detto avea: «O Beatrice», quando riscoten-
mente significa “salvaci”).
25 aspetto d’umilitade: domi apersi li occhi, e vidi che io era ingannato.35 E con tutto che io chiamas-
«l’atteggiamento del cri- se36 questo nome, la mia voce era sì rotta dal singulto del piangere, che queste
stiano che ha affidato l’ani-
ma a Dio e ha accettato la donne non mi pottero37 intendere, secondo il mio parere; e avvegna che io ver- 55
morte» (De Robertis). gognasse molto, tuttavia per alcuno ammonimento d’Amore mi rivolsi a loro. E
26 «Io sono... de la pa-
ce»: io contemplo ora la
quando mi videro, cominciaro a dire: «Questi pare morto», e a dire tra loro:
fonte della pace (cioè Dio). «Proccuriamo di confortarlo»; onde molte parole mi diceano da confortarmi, e
27 mi giunse: provai,
talora mi domandavano di che io avesse avuto paura. Onde io, essendo alquanto
sentii in me (cfr. nota 11).
L’umilitade che pervade il riconfortato, e conosciuto lo fallace imaginare,38 rispuosi a loro: «Io vi diroe quel- 60
protagonista è il riflesso di lo ch’i’ hoe avuto». Allora, cominciandomi dal principio infino a la fine, dissi loro
quella che ha contemplato
sul volto di Beatrice (per quello che veduto avea, tacendo lo nome di questa gentilissima. Onde poi, sana-
vedere lei, “per il fatto di ve- to di questa infermitade, propuosi di dire parole di questo che m’era addivenu-
dere lei, nel vedere lei”).
28 Dolcissima Morte: to,39 però che mi parea che fosse amorosa cosa40 da udire; e però ne dissi questa
l’invocazione dantesca si canzone: Donna pietosa e di novella etate, ordinata sì come manifesta la infrascritta 65
modella sulle parole di san divisione.41
Francesco, secondo quanto
riferisce Tommaso da Ce-
lano: «Ben venga la mia 30 li dolorosi... di fare: i solo nella imaginazione. era stata un’erronea fantasia. e perciò adatta all’espres-
dolcissima sorella morte». pietosi uffici che secondo 32 lungo: accanto a. 36 con tutto... chiamas- sione poetica.
29 e non m’essere... se’ l’usanza si prestano ai corpi 33 faccendo lei... verso se: sebbene io chiamassi, 41 ordinata... divisione:
stata!: e non essere scortese (corpora, plur. modellato sul me: allontanando da me lei pronunciassi. strutturata come viene
con me (cioè, non respin- neutro lat.) dei defunti. La (la «donna giovane e genti- 37 pottero: poterono. spiegato nella divisione (cfr.
germi), poiché devi essere perifrasi allude probabil- le»), che era legata a me da 38 conosciuto... imagi- III, 13 e nota 71 R T 9.1 );
gentile, dato che sei stata mente (mestiere, dal lat. mi- strettissima consanguineità nare: cfr. nota 35. XIX, 3 e nota 31 R T 9.2 )
nel corpo di tale donna (in nisterium, qui vocabolo tec- (forse una sorella o sorella- 39 propuosi... addive- scritta sotto (infrascritta, ter-
tale parte)! Dante porta qui nico) alla cerimonia delle stra di Dante), si avvicina- nuto: cfr. capitolo III, note mine tecnico cancellere-
all’estremo la lode delle esequie o ufficio funebre. rono a me. 66 e 68 R T 9.1 . sco), più avanti; cioè subito
«virtù effettive» di Beatrice, 31 con verace voce: 34 entro... punto: in 40 però che... cosa: poi- dopo il testo della canzone,
che ha il potere di “ingen- pronunciando effettiva- quel preciso momento. ché mi pareva che fosse alla fine del capitolo.
tilire” anche la Morte. mente le parole, cioè non 35 che... ingannato: che cosa d’argomento amoroso,

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9. Dante Alighieri T 9.3

Guida all’analisi
I presagi della morte di Beatrice La prematura morte della gentilissima costituisce l’evento centrale e decisivo nel
racconto della Vita Nuova, un evento che il lettore non può fare a meno di attendersi fin
dall’inizio, appena valicato il brevissimo proemio, quando Dante-narratore allude per la pri-
ma volta a Beatrice mediante la perifrasi «la gloriosa donna de la mia mente» (II, 1 [R T 9.1 ]).
Ma egli dissemina anche in seguito la narrazione di insistenti premonizioni, sia in forma
onirica (il pianto di Amore nella mirabile visione del capitolo III [R T 9.1 ]; le parole arcane
che ancora Amore pronuncia nel capitolo XII), sia mediante l’annuncio di altri accadimen-
ti luttuosi, dapprima la morte di una donna giovane e gentile, compagna di Beatrice (VIII),
poi quella del padre di lei (XXII), per rappresentare infine non più soltanto un presagio,
bensì la profetica visione dell’evento stesso.
Una prolessi “compensativa” Dante non racconterà la morte di Beatrice; ne darà soltanto l’annuncio in breve
giro di frasi (XXVIII, 1); di quella morte possiamo assistere invece alla prefigurazione in for-
ma visionaria, attraverso la vivida rappresentazione di una erronea fantasia, una sorta di delirio
dei sensi causato in parte da uno stato di prostrazione dovuto alla malattia, ma soprattutto
dal turbamento angoscioso indotto dal pensiero dell’ineluttabile necessità di morte che in-
combe anche sulla donna amata. La visione profetica del capitolo XXIII svolge quindi, sul
piano strutturale, una funzione prolettica, ossia di anticipazione, atta a “compensare” la suc-
cessiva ellissi narrativa, a prima vista misteriosa e persino sconcertante. Il fatto è che la pro-
lessi narrativa in forma di visione – a differenza del “semplice” resoconto dell’evento reale –
consente all’autore di investire la morte di Beatrice di un complesso di significazioni sim-
boliche [R T 9.3 Doc 9.4 ]].
Una meditazione cristiana sulla morte Si possono distinguere, nel racconto della imaginazione, diversi momen-
ti. Nella prima sequenza, intensamente drammatica, si succedono, in un “crescendo” affan-
noso da incubo, apparizioni inquietanti («certi visi di donne scapigliate», «certi visi diversi e
orribili a vedere») e misteriosi fenomeni naturali (il sole che si oscura, le stelle che mutano
colore, gli uccelli che cadono morti per l’aria, «grandissimi tremuoti»), che tuttavia al letto-
re del Medioevo cristiano dovevano richiamare immediatamente le grandiose e terribili
manifestazioni della potenza divina rappresentate nelle Sacre Scritture, soprattutto nei Van-
geli e nel libro dell’Apocalisse (gli sconvolgimenti della natura verificatisi alla morte di Cri-
sto; la descrizione profetica e visionaria della fine del mondo). Ma le cupe immagini di
morte si mutano in una visione luminosa e rasserenante: agli occhi del protagonista («Io
imaginava di guardare verso lo cielo») appare l’anima della sua donna che ascende, traspor-
tata da una moltitudine d’angeli osannanti, verso la gloria del Paradiso; e se la vista delle spo-
glie mortali di Beatrice riaccende il suo dolore, insieme gli infonde tanta umilitade che l’in-
vocazione alla Morte si tempera di dolcezza, quasi un nuovo canto di lode della gentilissima
(«Dolcissima Morte, vieni a me, […] tu dei essere gentile, in tal parte se’ stata!»).
La visione rappresenta dunque l’itinerario del protagonista (e dell’anima cristiana) dal-
l’umano strazio e dal terrore di fronte all’ineluttabile necessità della morte all’umile accetta-
zione della volontà divina, e soprattutto l’approdo alla scoperta del significato cristiano del-
la morte, non fine angosciosa ma passaggio alla vera vita.
La morte di Beatrice e quella di Cristo: un’«equazione analogica» Secondo la fede, la vittoria sulla morte (che
è liberazione dell’umanità dall’oscuro terrore della fine e rivelazione del vero significato
della vita terrena) è stata riportata da Cristo, il Dio-uomo, con la sua propria morte e la sua
risurrezione. In questa prospettiva, appare chiaro il significato di quella «equazione analogi-
ca Beatrice-Cristo» (Contini), che i lettori moderni non di rado hanno considerato scon-
certante e persino irriverente. Non si tratta infatti di affermare un’impossibile identità, ben-
sì di percepire, nei modi caratteristici della mentalità medievale, un’analogia: quella stessa
che si stabilisce tra la vita di Cristo e la perfetta vita cristiana, che deve configurarsi come
imitatio Christi, un’imitazione di Cristo. Non a caso, per questi aspetti, il racconto della Vita
Nuova si modella in parte sugli schemi delle opere agiografiche medievali, cioè delle Vite
dei santi, intessute di precisi richiami analogici al racconto evangelico: si pensi soprattutto
alle biografie – e all’iconografia – di san Francesco (cfr. note 23 e 28), culminanti nell’epi-
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Duecento e Trecento

sodio delle stimmate. Del resto sarà ancora Dante a interpretare la figura del santo come
quella di un alter Christus, un «secondo Cristo», nell’elogio che fa pronunciare a Tommaso
d’Aquino nel cielo del Sole (Pd XII 43-117). Così, i segni “cristologici” che il narratore-
protagonista insistentemente dissemina nel racconto della Vita Nuova, e in particolare in
questo capitolo [R T 9.3 Doc 9.3 ], mirano con ogni evidenza a significare che Beatrice («ve-
nuta / da cielo in terra a miracol mostrare» [R T 9.4 ]) appartiene alla schiera degli eletti, dei
perfetti cristiani imitatori di Cristo.

Doc 9.4 Interpretazione “cristologica” della morte di Beatrice

Charles S. Singleton, Charles S. Singleton (1909-1985), insigne dantista americano, autore di fondamentali studi
Saggio sulla «Vita Nuo-
va», trad. di danteschi (oltre al Saggio sulla «Vita Nuova», la silloge La poesia della Divina Commedia) e di
G. Prampolini, una traduzione in lingua inglese del poema, scopre in queste pagine l’analogia tra la figu-
Il Mulino, Bologna
1968, pp. 30-36 ra di Beatrice e quella di Cristo, che fornisce una chiave interpretativa nuova e determi-
nante per la lettura dell’intera opera; e osserva che tale analogia viene dichiarata dallo stes-
so Dante, quando dice (cap. XXIV) che l’arrivo della sua donna è preceduto da quello di
Giovanna, la donna amata da Guido Cavalcanti, detta Primavera per la sua grande bellezza,
e poi che Amore gli rivela il vero, recondito significato di quel nome: prima-verrà, cioè an-
cora Giovanna, in quanto Giovanni Battista, il Precursore, “venne prima” di Cristo, la vera-
ce luce.
La morte di Beatrice in visione è ben più che il presagio della sua morte reale ormai
prossima. È la rivelazione di una somiglianza così impressionante che pochi lettori (pochi
lettori cristiani, per lo meno) potranno mancare di notarla. Quegli stessi portenti che av-
vengono alla morte di lei – il terremoto, l’oscurarsi del sole – come possono non far ri-
cordare un’altra morte: la morte di Cristo? Nel racconto della Vita Nuova vi sono indub-
biamente alcuni particolari che mancano nei Vangeli: gli uccelli che cadono nell’aria, le
stelle che s’accendono nella funesta oscurità come se piangessero, le donne che «maravi-
gliosamente tristi» vanno in giro strappandosi i capelli dal dolore. Ma questi sono solo dei
particolari, quali un pittore italiano potrebbe facilmente aggiungere a un suo dipinto del-
la Crocefissione: segni indubitabili di un cataclisma universale come quello che si vide
soltanto alla morte di Cristo. La suggestione della rassomiglianza è invero così forte a
questo riguardo che si potrebbe restare scandalizzati da tanta audacia, se non ci si ricor-
dasse che, nel caso di Beatrice, nessuna effettiva realtà è attribuita a queste cose: esse sono
vedute in una specie di incubo causato da una malattia, e come tali noi le accettiamo
senza protestare.
Sembrerebbe quasi che l’autore abbia previsto il caso di qualche lettore restio a scorge-
re in Beatrice la somiglianza con Cristo indicata dalla visione della sua morte, poiché, nel
capitolo che segue immediatamente la visione [XXIV], egli ribadisce la rassomiglianza
della gentilissima con Cristo con enfasi così marcata che ogni lettore deve arrendersi al-
l’evidenza e convincersi definitivamente che il paragone è in armonia con la consapevo-
le intenzione dell’autore.
Dopo questa terza visione, un giorno il poeta aveva infatti avuto un’altra delle sue co-
siddette imaginazioni: per un inequivocabile tremore del cuore, egli sentì che la meravi-
gliosa Beatrice stava avvicinandosi. Tanto grande fu la gioia che lo riempì che il suo cuo-
re gli sembrava non essere più suo: nel suo cuore era entrato, prendendovi posto, il dio
d’Amore. Fu allora che il poeta vide venire verso di sé una donna famosa per la sua bel-
lezza, la quale per un certo tempo era stata l’amata del suo primo amico, Guido Cavalcan-
ti. Il suo nome era Giovanna, ma a causa della sua bellezza era chiamata anche Primavera.
E appresso a lei giunse «la mirabile Beatrice»:

[...] Queste donne andaro presso di me così l’una appresso l’altra, e parve che Amore mi parlas-
se nel cuore e dicesse: «Quella prima è nominata Primavera solo per questa venuta d’oggi; ché io

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9. Dante Alighieri T 9.3

mossi lo imponitore del nome a chiamarla così Primavera, cioè prima verrà lo die che Beatrice si
mostrerà dopo la imaginazione del suo fedele. E se anche vogli considerare lo primo nome suo,
tanto è quanto dire “prima verrà”, però che lo suo nome Giovanna è da quello Giovanni lo qua-
le precedette la verace luce, dicendo: Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini [«Io sono la
voce che grida nel deserto; preparate la via del Signore»].

Per il lettore che sta cercando di cogliere il principio unificatore della Vita Nuova e il se-
greto della sua forma, queste parole di Amore accendono una nuova luce. Ciò che fin qui
è stato soltanto un particolare saltuario, mostra ora una certa attrazione magnetica verso
un’unica idea e verso quella che è forse la metafora regolatrice di tutta la costruzione: esi-
ste tra Beatrice e Cristo una certa somiglianza. Da questa dichiarazione oltremodo esplici-
ta di tale rassomiglianza, il lettore scorgerà inoltre qualcosa della massima importanza per la
comprensione dell’opera: cioè la natura stessa della somiglianza; questa è una somiglianza
per analogia e non un’allegoria. Non è che dove – fino a questo punto o nel seguito del-
la storia – abbiamo letto Beatrice, ora si possa sostituire Cristo. Beatrice è come Cristo, e in
virtù di ciò, la donna che la precede è come San Giovanni Battista.

n Dante e Beatrice in un di-


segno di Botticelli.

Laboratorio 1 In quale condizione si trova il poeta all’i- 4 Illustra il valore simbolico e spirituale del
COMPRENSIONE nizio del capitolo? Da chi è assistito? confronto che Dante stabilisce tra la fi-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE 2 Spiega l’espressione «e cominciai a tra- gura di Beatrice e quella di Cristo.
vagliare sì come farnetica persona»: rias- 5 Fai una schedatura delle figure retoriche
sumi il contenuto narrativo dell’episodio più ricorrenti nel brano, individuando la
che segue. funzione espressiva che esse assumono al-
3 Quali elementi della visione riecheggia- l’interno del racconto.
no noti passi dei Vangeli e dell’Apocalisse?

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Duecento e Trecento

T 9.4 Vita Nuova 1293-1294


Tanto gentile e tanto onesta pare [XXVI]
Dante Alighieri Al capitolo XXIV, che ribadisce l’interpretazione “cristologica” della figura di Beatrice
Opere minori segue una digressione dedicata alla natura d’Amore (XXV), in cui Dante afferma come
Vita Nuova sia legittimo rappresentarlo in poesia attribuendogli una realtà corporea e dunque la fa-
a cura di D. De Robertis,
coltà di parlare, ridere e piangere «come se fosse uomo»; a sostegno della sua tesi allega
Ricciardi,
Milano-Napoli 1980 l’autorità dei poeti antichi (Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio, Lucano) nonché il recente
esempio dei rimatori volgari d’Italia e di Provenza. Nel capitolo XXVI Dante dichiara
di voler «ripigliare lo stilo de la [...] loda» di Beatrice, dicendo «de le sue mirabili ed ec-
cellenti operazioni». Nasce così il celebre sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare.

XXVI. Questa gentilissima donna, di cui ragionato è ne le precedenti parole,1


venne in tanta graziade le genti,2 che quando passava per via, le persone correano
per vedere lei;3 onde mirabile letizia me ne giungea. E quando ella fosse presso
d’alcuno, tanta onestade giungea nel cuore di quello, che non ardia di levare li oc-
chi, né di rispondere a lo suo saluto; e di questo molti, sì come esperti,4 mi potreb- 5
bero testimoniare a chi non lo credesse. Ella coronata e vestita d’umilitade s’anda-
va, nulla gloria5 mostrando di ciò ch’ella vedea e udia. Diceano molti, poi che pas-
sata era: «Questa non è femmina, anzi è uno de li bellissimi angeli del cielo». E al-
tri diceano: «Questa è una maraviglia; che benedetto sia lo Segnore, che sì mirabi-
lemente sae adoperare!».6 Io dico ch’ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li 10
piaceri,7 che quelli che la miravano comprendeano in loro8 una dolcezza onesta e
soave, tanto che ridicere9 non lo sapeano; né alcuno era lo quale potesse mirare lei,
che nel principio nol convenisse sospirare.10 Queste e più mirabili cose da lei pro-
cedeano virtuosamente:11 onde io pensando a ciò, volendo ripigliare lo stilo de la
sua loda, propuosi di dicere parole, ne le quali io dessi ad intendere de le sue mi- 15
rabili ed eccellenti operazioni; acciò che non pur coloro che la poteano sensibile-
mente vedere,12 ma li altri sappiano di lei quello che le parole ne possono fare in-
tendere. Allora dissi questo sonetto, lo quale comincia: Tanto gentile.

1 ragionato è… parole: tivo guinizzelliano del pas- vanto.L’umilitade di cui Bea- Guida all’analisi.
si è parlato, si è detto (in pro- saggio per via, assunto nella trice appare metaforica- 9 ridicere: ripetere,
sa e in rima) nei capitoli che Vita Nuova quale situazione mente coronata e vestita (“or- esprimere.
precedono la digressione tipica della lode, ancora una nata”) la rende immune dai 10 che nel... sospirare:
del XXV. volta mediante una fitta se- compiacimenti della vanità che potesse, fin dal primo
2 in tanta... genti: in rie di richiami allusivi alla e della superbia. momento, fare a meno di
tanto favore presso la gente; vita di Gesù (il suo incedere 6 che sì... adoperare: sospirare (nol convenisse, non
«intendendosi grazia […] tra la folla; i commenti degli che sa operare tali miracoli; gli fosse inevitabile).
come sentimento comples- astanti sulla natura del Cri- infatti maraviglia vale “mira- 11 procedeano virtuosa-
so di favore, benevolenza, sto e sui miracoli da lui ope- colo” e mirabilemente“mira- mente: derivavano per la
ammirazione, gradimento rati; cfr. soprattutto ilVange- colosamente”. sua virtù.
[...] che si esprime nelle pa- lo secondo Giovanni). 7 piaceri: bellezze. 12 acciò che... vedere: af-
role di benedizione e di lode 4 sì come esperti: in 8 comprendeano in lo- finché non soltanto coloro i
a lei rivolte» (De Robertis). quanto ne avevano fatto ro: accoglievano in sé, con- quali la potevano vedere
3 correano... lei: nella personalmente esperienza. cepivano.Per il significato di con i propri occhi.
prosa Dante sviluppa il mo- 5 nulla gloria: nessun onesta e di onestade, cfr. la

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9. Dante Alighieri T 9.4

Nota metrica Tanto gentile e tanto onesta pare


Sonetto, secondo lo sche-
ma ABBA ABBA CDE la donna mia quand’ella altrui saluta,
EDC. ch’ogne lingua deven tremando muta,
2 altrui: altri, qualcuno
4 e li occhi no l’ardiscon di guardare.
(“la gente”).
3 ogne: ogni. – deven:
Ella si va, sentendosi laudare,
diviene.
4 no l’ardiscon di guar- benignamente d’umiltà vestuta;
dare: non osano guardarla. e par che sia una cosa venuta
5 si va: va, incede.
9 piacente: bella. 8 da cielo in terra a miracol mostrare.
10 dà per: infonde attra-
verso.
11 che: la quale dolcezza. Mostrasi sì piacente a chi la mira,
12 labbia: volto (cfr. ad es. che dà per li occhi una dolcezza al core,
quella ’nfiata labbia di Pluto 11 che ’ntender no la può chi no la prova:
in IfVII 7), o come meglio
precisa il Contini, «fisiono-
mia». e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
14 che va dicendo a l’anima: Sospira.

Guida all’analisi
L’ingannevole limpidezza del testo Gianfranco Contini, in un celebre saggio del 1947, ebbe a dimostrare che il
sonetto, considerato tradizionalmente un esempio di limpidezza linguistica, in realtà non
presentava parola, «almeno delle essenziali», che avesse mantenuto nella lingua moderna il
valore dell’originale. Nel primo verso, ad esempio, gli aggettivi gentile e onesta vanno inter-
pretati come termini tecnici del linguaggio cortese: onesta, in particolare, è un sinonimo di
gentile, «nel senso però del decoro esterno», proprio come nel vocabolo latino da cui pro-
viene (honestas). Ancor più specifico il valore lessicale del verbo pare: «non già “sembra”, e
neppure soltanto “appare”, ma “appare evidentemente, è o si manifesta nella sua evidenza”».
Con lo stesso significato il verbo ritorna nella seconda quartina e nella seconda terzina. Al
secondo verso, donna va inteso nel significato etimologico (da domina) di “signora”, cioè co-
lei che signoreggia il cuore del poeta, attestato fin dalle origini nella tradizione lirica corte-
se. Al v. 6, d’umiltà vestuta significa “vestita di benevolenza”: «la metafora della veste, così fre-
quente in Dante e nello Stil Novo, ci riporta a quella manifestazione visibile d’un senti-
mento e d’una qualità che s’è vista concentrata nella parola pare».
Parafrasi del sonetto secondo Contini Contini giunge infine a proporre la seguente parafrasi del testo: «Tale è
l’evidenza della nobiltà e del decoro di colei ch’è mia signora, nel suo salutare, che ogni lin-
gua trema tanto da ammutolirne, e gli occhi non osano guardarla. Essa procede, mentre sen-
te le parole di lode, esternamente atteggiata alla sua interna benevolenza, e si fa evidente la
sua natura di essere venuto di cielo in terra per rappresentare in concreto la potenza divina.
Questa rappresentazione è, per chi la contempla, così carica di bellezza che per il canale de-
gli occhi entra in cuore una dolcezza conoscibile solo per diretta esperienza e dalla sua fi-
sionomia muove, oggettivata e fatta visibile, una soave ispirazione amorosa che non fa se
non suggerire all’anima di sospirare».

Laboratorio 1 Spiega il significato che dobbiamo attri- senza di simmetrie e parallelismi di ordi-
COMPRENSIONE buire ai verbi pare (v. 1) e mostrasi (v. 9). ne sintattico: fai qualche esempio.
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE 2 Tanto gentile e tanto onesta pare è conside- 4 Le scelte lessicali del sonetto sono im-
rato l’esempio forse più alto di poesia o prontate a levità e indefinitezza: dimostra
stile «della loda»: spiega le ragioni di tale asserzione, concentrandoti sulla tra-
questo giudizio critico. ma di aggettivi e di sostantivi utilizzati dal
3 Il sonetto appare perfettamente elaborato poeta.
sul piano formale, soprattutto per la pre-

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Duecento e Trecento

T 9.5 Vita Nuova 1293-1294


L’ultima «mirabile visione» [XLI-XLII]
Dante Alighieri Pregato da «due donne gentili» di mandar loro qualcuna delle sue rime, Dante decide di
Opere minori scrivere per l’occasione «una cosa nuova», il sonetto Oltre la spera che più larga gira, ulti-
Vita Nuova ma composizione poetica del libro, che narra di un rapimento estatico durante il quale
a c. di D. De Robertis,
il pensiero del protagonista (nel testo, il «sospiro» uscito dal suo cuore, v. 2) si innalza
Ricciardi,
Milano-Napoli 1980 oltre le sfere celesti a contemplare lo splendore di Beatrice beata nella gloria del Para-
diso [XLI]. Con il capitolo successivo, l’opera giunge ormai al suo solenne e misterioso
epilogo: in seguito a una «mirabile visione», di cui non viene rivelato il contenuto, Dan-
te dichiara il fermo proposito di «non dire più» della sua donna finché non possa «più
degnamente trattare di lei» dicendo «quello che mai non fue detto d’alcuna». La Vita
Nuova si conclude dunque con l’annuncio di un’altra e più grande opera in lode di
Beatrice: impossibile non leggere nelle ultime parole del libro la prefigurazione, se non
il progetto, della Commedia.

XLI. Poi mandaro due donne gentili a me pregando1 che io mandasse loro di
queste mie parole rimate;2 onde io, pensando la loro nobilitade, propuosi di man-
dare loro e di fare una cosa nuova,3 la quale io mandasse loro con esse,4 acciò che
più onorevolmente adempiesse li loro prieghi.5 E dissi allora uno sonetto, lo qua-
le narra del mio stato,6 e manda’lo a loro co lo precedente sonetto accompagna- 5
to, e con un altro7 che comincia: Venite a intender.
1 mandaro... pregan- 3 una cosa nuova: una 5 acciò che... li loro con un altro: insieme al so- (XXXII); «si tratta di una
do: mi mandarono a prega- poesia composta espressa- prieghi: per soddisfare le lo- netto Deh peregrini che penso- piccola antologia poetica,
re. mente per l’occasione; è il ro richieste in modo più si andate,incluso nel capitolo anteriore alla Vita Nuova, e
2 di queste... rimate: sonetto Oltre la spera. onorevole, più adeguato alla precedente (XL) e con un la prima che conosciamo di
qualcuna delle mie compo- 4 con esse: con le altre loro nobilitade. altro,Venite a intender li sospiri Dante» (De Robertis).
sizioni poetiche (di queste ha parole rimate, i due sonetti 6 stato: condizione. miei, un sonetto di lamento
valore partitivo). più sotto citati. 7 co lo precedente... e per la morte di Beatrice

Nota metrica Oltre la spera che più larga gira


Sonetto secondo lo sche-
ma ABBA,ABBA, CDE, passa ’l sospiro ch’esce del mio core:
DCE. intelligenza nova, che l’Amore
1 Oltre la spera... gira: 4 piangendo mette in lui, pur su lo tira.
oltre la sfera celeste che de-
scrive la circonferenza più
ampia, cioè il cielo cristalli- Quand’elli è giunto là dove disira,
no o Primo Mobile, il nono vede una donna, che riceve onore,
e il più esterno dei cieli ma-
teriali che si muovono, se- e luce sì, che per lo suo splendore
condo la cosmologia tole- 8 lo peregrino spirito la mira.
maica, di moto concentrico
e circolare intorno alla Terra
immobile.Al di là del Primo Vedela tal, che quando ’l mi ridice,
Mobile è il cielo Empireo
(“al di là” e “oltre” in senso io no lo intendo, sì parla sottile
puramente metaforico, trat- 11 al cor dolente, che lo fa parlare.
tandosi di un cielo immate-
riale, fuori dal tempo e dallo
spazio, che in ultima analisi non riportata). stantemente verso l’alto. spirito peregrino (ovvero tanto parla in modo difficile,
coincide con la mente di 3 intelligenza nova: una 5 elli: il sospiro, cioè il “pellegrino”), in quanto, oscuro (sottile, “sottilmen-
Dio), sede dei beati. La peri- potenza intellettiva nuova e pensiero.– dove disira:dove spiega lo stesso Dante, «spi- te”).
frasi astronomica del primo straordinaria rispetto alle si trova l’oggetto del suo de- ritualmente va là suso, e sì 11 cor dolente: espressio-
verso designa dunque il Pa- normali facoltà umane. siderio. come peregrino lo quale è ne inconfondibilmente ca-
radiso. 4 piangendo: il sogg. 7 luce: risplende, dal ver- fuori de la sua patria, vi stae» valcantiana («Tu m’hai sì
2 passa: penetra, si innal-
può essere sia l’Amore (v. 3), bo lucere; cfr. Pd XXXI 71- (XLI, 5). piena di dolor la mente», v. 3
za. – sospiro: il pensiero, no- sia lui (’l sospiro, v. 2); il ge- 72 («e vidi lei che si facea co- 9-10 Vedela tal... parla R Doc 7.3 ). – che lo fa parla-
minato attraverso uno dei rundio ha piuttosto valore rona / reflettendo da sé li et- sottile: la vede tale, cioè in re: in quanto il sospiro esce
suoi effetti (appunto il sospi- di participio presente (cfr. A terni rai»). – sì: così tanto. tale stato di perfezione, che, dal cuore (v. 2).
ro), come spiega Dante nella ciascun’alma presa,vv.11-12 e 8 peregrino spirito: il quando me lo riferisce (’l mi
divisione del sonetto (qui 14 R T 9.1 ). – pur su: co- sospiro o pensiero è detto qui ridice), io non lo comprendo,

236 © Casa Editrice Principato


9. Dante Alighieri T 9.5

So io che parla di quella gentile,


però che spesso ricorda Beatrice,
14 sì ch’io lo ’ntendo ben, donne mie care.

12 So io che: quello che 14 sì ch’io... ben: cosic- tanto apparente, secondo fezione di Beatrice, intende nuziosa, forse in risposta a
so, e che posso affermare ché io lo comprendo bene, quanto dichiara l’autore almeno che questo pensie- un sonetto (Dante Alighier,
con certezza, è che... cioè capisco perfettamente nella divisione (XLI, 7), pre- ro riguarda la sua donna, Cecco, ’l tu’ serv’e amico) nel
13 però che: poiché. – ri- che sta parlando di lei. La cisando che, sebbene non poiché ne sente spesso pro- quale Cecco Angiolieri gli
corda Beatrice: menziona contraddizione fra il v. 10 (io sia in grado di intendere «la nunciare il nome. La spiega- contesta la presunta incon-
Beatrice, ne pronuncia il no lo intendo) e il v. 14 (sì ch’io sua mirabile qualitade», cioè zione dantesca è su questo gruenza.
nome. lo ’ntendo ben) è quindi sol- la miracolosa e celeste per- punto particolarmente mi-

XLII. Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale io


vidi cose che mi fecero proporre8 di non dire più di questa benedetta infino a tan-
to che io potesse più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio9 quan-
to posso, sì com’ella sae veracemente.10 Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte
le cose vivono,11 che la mia vita duri per alquanti anni,12 io spero di dicer di lei 5
quello che mai non fue detto d’alcuna. E poi piaccia a colui che è sire de la cor-
tesia,13 che la mia anima se ne possa gire14 a vedere la gloria de la sua donna, cioè
di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia15 di colui qui
est per omnia secula benedictus.16

8 proporre: fare il pro- di Dio, colui «che è la causa tae, / spiritus et quantum sat gnore di ogni cortesia è Dio, nei cieli».
ponimento. finale di ogni vita» (Conti- erit tua dicere facta: / non me perché tanto largamente di- 16 qui est... benedictus:
9 di venire... studio: di ni). La perifrasi deriva dal carminibus vincet nec Thracius spensa la sua grazia agli uo- Dio, che è benedetto per
raggiungere questo obietti- Vangelo di Luca (XX, 38): Orpheus [...] («A me riman- mini. tutti i secoli. La citazione,
vo (venire a ciò) io mi sforzo, «Non è Dio dei morti, ma ga allora l’ultima parte di 14 gire: andare. che ricorre,con lievi varian-
mi adopero (studio,dal latino dei vivi, perché tutti sono una lunga vita, / e lo spirito 15 mira ne la faccia: ti, in diversi luoghi delle let-
studeo). vivi per lui». bastante per cantare le tue guarda, contempla il volto tere di san Paolo deriva dal
10 sae veracemente: sa 12 che la mia vita... anni: imprese: / nel canto non mi (di Dio). Dice Gesù nelVan- Salmo LXXI, 17: «Sia il suo
come cosa vera,secondo ve- Dante riecheggia qui l’au- vincerà Orfeo diTracia [...]»; gelo di Matteo (XVIII, 10): nome benedetto nei secoli».
rità. gurio espresso da Virgilio vv. 53-55, trad. di M. Ce- «i loro [dei fanciulli] angeli
11 Sì che... vivono:cosic- nella IV ecloga: O mihi tum scon). nei cieli vedono sempre il
ché, se sarà volontà (piacere) longae maneat pars ultima vi- 13 sire de la cortesia: si- volto del Padre mio che è

Guida all’analisi
Il sonetto Oltre la spera: Beatrice nella gloria dei cieli La prosa del capitolo XLI, se si eccettua il breve cenno
all’occasione in cui fu composto il sonetto, è dedicata interamente alla divisione, o ragionata
analisi descrittiva (qui non riportata) del testo, senza fornire al lettore le consuete indicazio-
ni di ordine biografico e narrativo. Enigmatico e visionario, l’epilogo della Vita Nuova è co-
munque preparato dal “ritorno” del poeta-protagonista a Beatrice in seguito all’esperienza
dello sviamento, ossia all’episodio della donna gentile. Occorre dire che questa volta Dante
non rappresenta propriamente una visione o un’imaginazione mentale, in qualche modo
descrivibile per quanto eccezionale e misteriosa, analoga insomma alle numerose altre che
costellano il racconto. Il protagonista non è visitato in terra da un’apparizione: l’esperienza
descritta nel sonetto è piuttosto quella di un raptus, un vero e proprio “rapimento” del pen-
siero (detto, non a caso, peregrino spirito, v. 8), che si distacca temporaneamente, attratto da
una nuova forza infusa in lui da Amore, dalla sua sede naturale e terrestre, innalzandosi ver-
so le sfere celesti, in una dimensione “altra” e sovrumana, a contemplare lo splendore della
sua donna nella gloria del Paradiso (vv. 5-8). Al trionfo in cielo di Beatrice gloriosa Dante
aveva più volte accennato nel corso della narrazione, in particolare nell’imaginazione del ca-
pitolo XXIII [R T 9.3 ]; ora, divenuto realtà, può assurgere a motivo centrale e dominante.
237 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento

Beatrice non è più l’oggetto di un’estatica percezione sensibile e neppure immagine


mentale, di natura onirica o memoriale, ma la meta di un viaggio, di una peregrinatio alla se-
de dei beati che se da una parte presenta un’evidente somiglianza con l’esperienza dei mi-
stici medievali, dall’altro sembra proporre un’anticipazione della Commedia, e in particolare
dell’ascensione paradisiaca della terza cantica. Nella struttura bipartita del sonetto si ricono-
scono infatti le due fasi del “viaggio”, o meglio due movimenti speculari, corrispondenti al-
la canonica scansione in due tempi di questa forma strofica: nelle quartine un movimento
ascendente (dal cuore del poeta all’Empireo), nelle terzine uno discendente (dall’Empireo di
nuovo alla dimensione umana e terrestre dell’interiorità: quando ’l mi ridice, v. 9).
Il ritorno alla poesia della lode e il tema dell’ineffabilità Dante ritorna così al canto in lode di Beatrice. Ritro-
viamo infatti nel sonetto tratti caratteristici dello «stilo de la loda»: la scelta delle donne gen-
tili quali interlocutrici privilegiate; la celebrazione di Beatrice quale creatura miracolosa, or-
mai donna celeste, tornata alla sua propria e vera sede, adempiendo in fatto la prefigurazio-
ne della canzone Donne ch’avete [R T 9.2 ]; il tema dell’ineffabilità, ora vertiginosamente ac-
centuato ma già ben avvertibile ed anzi esplicito nella canzone citata. Ineffabilità di una vi-
sione che, a somiglianza del rapimento mistico, trascende le facoltà umane dell’intelletto,
della memoria e della parola: è un motivo che risuonerà insistentemente, con drammatica
urgenza, nella terza cantica della Commedia dantesca fin dai versi proemiali («Nel ciel che
più de la sua luce prende / fu’ io, e vidi cose che ridire / né sa né può chi di là su discende;
/ perché appressando sé al suo disire, / nostro intelletto si profonda tanto, / che dietro la
memoria non può ire»; Pd I 4-9), per ritornare ancora, poco prima di congedare con la vi-
sione della Trinità divina il poema sacro, nell’ultimo canto (Pd XXXIII 55-75).
Il congedo e il progetto L’ultimo capitolo, pervaso di un’aura di mistero sacro, congeda il libro della Vita Nuova
nel segno del non-detto e del silenzio: delle cose contemplate dal protagonista-poeta nel-
l’ultima mirabile visione, nulla viene riferito, neppure accennato, se non che furono tali da in-
durlo a non dire più di Beatrice. Eppure il libro, in procinto di chiudersi su questo proposi-
to di rinuncia, in certo modo si “riapre” immediatamente, proiettandosi nel futuro verso un
«dire» più alto e più arduo: «non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse
più degnamente trattare di lei», anzi «dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna».
La Vita Nuova, che si era aperta sull’immagine del libro de la memoria, si chiude, simme-
tricamente, con l’oscura promessa di un altro libro, ancora tutto da scrivere. Su questo passo
molto si è discusso, arrivando a formulare l’ipotesi (cui peraltro non si tende a dare eccessi-
vo credito) che l’autore l’abbia rimaneggiato o aggiunto diversi anni dopo, quando il pro-
getto della Commedia aveva già preso forma nella sua mente.
Sul piano stilistico-espressivo, il tono dominante è quello di una solennità rituale. In parti-
colare, tre sono le perifrasi riferite a Dio («colui a cui tutte le cose vivono», r.; «sire de la
cortesia»; «qui est per omnia secula benedictus»); l’ultima, che richiama il termine benedetta due
volte attribuito a Beatrice, imprime sulla chiusa il sigillo sacrale del latino, la lingua del Li-
bro. Citazione paolina (cfr. nota 11) e formula liturgica, «era in uso, con altre simili espres-
sioni, nel finale dei libri, specie d’argomento sacro, o nelle omelie (e nelle epistole), e a con-
chiusione della fatica di copista. Così questo libro, cominciato con la proposizione del tito-
lo (Incipit vita nova) si chiude con la formula scrittoria tradizionale di ringraziamento» (De
Robertis).

Laboratorio 1 Illustra i quattro temi fondamentali del 3 Con quali perifrasi è indicata la figura di
COMPRENSIONE sonetto, nell’ordine con cui sono enun- Dio nel capitolo conclusivo?
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE ciati e sviluppati nelle quattro strofe del 4 Riassumi il contenuto dell’epilogo e
sonetto. concentrati in particolare sul progetto di
2 Il motivo dell’ineffabilità di Beatrice è un una nuova e più alta poesia: ti pare che tale
topos della letteratura mistico-religiosa: ne progetto sia stato attuato da Dante? In quale
sapresti indicare qualche esempio? sua opera?

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9. Dante Alighieri T 9.6

T 9.6 Rime 1285 ca


Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
Dante Alighieri Nel capitolo VI della Vita Nuova, appena dopo aver narrato l’episodio della prima
Rime donna dello schermo, Dante scrive di aver composto proprio in quei giorni un’episto-
a c. di G. Contini, la in forma di sirventese, in cui erano enumerate le sessanta donne più belle di Firen-
Einaudi, Torino 1970
ze. Beatrice si trovava miracolosamente ad occupare il numero nove di quella scherzo-
sa classifica (e solo più tardi Dante avrebbe scoperto il senso riposto di quel numero),
mentre la donna dello schermo era andata ad occupare il numero trenta. A questo
componimento galante per noi perduto, testimonianza del clima cortese che si era
instaurato nella Firenze del secondo Duecento, fa riferimento (v. 10) uno dei più cele-
brati sonetti danteschi, Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io, dove nell’incipit vengono
accolti i nomi dei due amici-poeti con i quali Dante aveva stabilito, fin dai primi anni
Ottanta, un sodalizio nel nome di amore e di poesia: Guido Cavalcanti (che rispose
con il sonetto S’io fosse quelli che d’amor fu degno) e Lapo Gianni. Scritto presumibil-
mente per la donna dello schermo (e per questo non compreso nella Vita nuova),
Guido, i’ vorrei ci dà subito la prova degli straordinari mezzi poetici di cui Dante già
dispone a circa vent’anni.

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io


fossimo presi per incantamento,
e messi in un vasel ch’ad ogni vento
4 per mare andasse al voler vostro e mio,

sì che fortuna od altro tempo rio


non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
8 di stare insieme crescesse ’l disio.

E monna Vanna e monna Lagia poi


con quella ch’è sul numer de le trenta
11 con noi ponesse il buono incantatore:

e quivi ragionar sempre d’amore,


e ciascuna di lor fosse contenta,
14 sì come i’ credo che saremmo noi.

Nota metrica tempesta. – rio: cattivo. va, al tempo, una donna spo- più belle donne di Firenze.
Sonetto secondo lo sche- 7 in un talento: con un sata.Vanna (Giovanna) è la Vedi l’introduzione al so-
ma ABBA ABBA CDE solo desiderio, in perfetta donna amata da Guido Ca- netto.
EDC. unità di intenti. valcanti; Lagia quella amata 11 il buono incantatore:
8 di stare... disio: cre- da Lapo Gianni. il mago Merlino.
2 incantamento: magia, scesse il desiderio (disio) di 10 quella... trenta: la 12 ragionar: discorrere,
incantesimo. stare insieme. donna amata da Dante, che parlare. Infinito con valore
3 vasel: vascello. 9 monna: madonna: ter- occupa il trentesimo posto desiderativo-condizionale.
5 fortuna: fortunale, mine con il quale si designa- nel catalogo delle sessanta

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Duecento e Trecento

Guida all’analisi
La cerchia dei poeti d’amore Fin dal vocativo iniziale (Guido), dalla dolcezza cadenzata del polisindeto che
segue (che tu e Lapo ed io) e dal verbo che evoca le nozioni del piacere e del desiderio (i’
vorrei), si capisce che il sonetto è posto interamente sotto il segno dell’amicizia. Dante si
rivolge a Guido Cavalcanti, suo primo amico in quegli anni, e a Lapo Gianni, invitandoli
idealmente a salire con le loro donne su un vascello d’amore. L’amicizia che li accomuna e
li distingue significa non soltanto comunanza di affetti, ma aristocratica condivisione di
un’idea di poesia e di amore: un’amicizia poetica e intellettuale, dunque, consolidata da
frequentazioni comuni, tenzoni poetiche, conversari amorosi (cui si allude al v.12), letture.
Di questa comunanza di vita è testimonianza anche il sonetto con il quale Guido rispon-
de a Dante, mantenendo lo stesso schema di rime: «S’io fosse quelli che d’amor fu degno,
/ del qual non trovo sol che rimembranza, / e la donna tenesse altra sembianza, / assai mi
piaceria siffatto legno». Parafrasando: mi piacerebbe moltissimo salire sul tuo vascello (legno,
per dire “nave”), se potessi essere ancora l’uomo degno d’amore di cui non resta altro, in
questo momento, che il ricordo, e se la mia donna avesse un atteggiamento (sembianza)
diverso da quello che mostra. Una risposta non convenzionale, di tonalità, com’è tipico
della poesia di Guido, pensosa e malinconica.
Citazioni cortesi Ma il sonetto di Dante è tutto intessuto di riferimenti a una letteratura che necessaria-
mente gli amici-poeti condividono nel fervore della giovinezza e della scoperta. A comin-
ciare dalla forma con cui il testo è concepito: quella del provenzale plazer (R 5.4), un com-
ponimento di cose belle offerto tradizionalmente alla propria donna o agli amici. Anche il
fiabesco vascello evocato nella prima quartina risale alla tradizione del romanzo cavalleresco
(R 5.5) e in particolare a un episodio di cui era stato protagonista il mago Merlino, il buono
incantatore del v. 11. All’episodio, fra l’altro, fa riferimento anche il Mare amoroso, il poemetto
anonimo (R 11.1) scritto proprio in Firenze negli stessi anni del sonetto di Dante: «E se
potesse avere una barchetta / tal com’ fu quella che donò Merlino / a la valente donna d’A-
valona [probabilmente Viviana, amata dal mago] / ch’andassi senza remi e senza vela / altre-
sì ben per terra com’ per acqua; / [...] intrerei con voi in quella barchetta / e mai non fini-
rei d’andar per mare, / infin ch’i’ mi vedrei oltre quel braccio / che fie chiamato il braccio
di Sanfi [le mitiche colonne d’Ercole]». L’atmosfera sognante e incantata, il motivo del viag-
gio fatato in luoghi remoti, l’insistenza sull’elemento magico e meraviglioso (vv. 2 e 11), il
richiamo alla pratica, diffusa nelle corti occitaniche, dei «ragionamenti» d’amore inquadrano
interamente il sonetto nell’ambito della cultura cortese, di cui i poeti stilnovisti fiorentini ci
appaiono come gli ultimi splendidi eredi.
Le forme espressive L’ipnotico scenario evocato dal poeta è reso in forme lente e cadenzate, che ben si pre-
stano a trasferire il lettore in un mondo leggero e sognante, anche grazie al movimento
lungo dei polisindeti (vv. 1, 9, 12-13), alla prevalenza di congiuntivi e condizionali. Le
parole chiave del sonetto rientrano nella sfera semantica del desiderio: vorrei (v. 1), voler (v.
4), talento (v. 7), disio (v. 8). Il motivo della sospensione sognante, dell’evasione in una realtà
magica fuori dal tempo (il luogo dell’amore e della poesia) è esemplarmente segnalato
dalla doppia ripetizione (vv. 7, 12) dell’avverbio sempre.

Laboratorio 1 Indica gli elementi della letteratura corte- quivi ragionar sempre d’amore».
COMPRENSIONE se, e in particolare del ciclo bretone, 4 Sapresti spiegare perché il sonetto può
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE echeggiati da Dante in questo celeberri- essere considerato un esempio di plazer?
mo sonetto. Ricordi altri esempi di plazer appartenen-
2 Quale leggendaria e fiabesca figura si cela ti alla poesia provenzale o italiana?
nell’immagine del buono incantatore? 5 Indica le ragioni che indussero Dante ad
3 Spiega il significato letterale del v. 12: «e escludere questo sonetto dalla Vita Nuova.

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9. Dante Alighieri T 9.7

T 9.7 Rime 1285 ca


Per una ghirlandetta
Dante Alighieri Nella Vita Nuova, Dante confessa a un certo punto di aver scritto per la prima donna-
Rime schermo delle cosette per rima di cui preferisce tuttavia tacere (cap. V): ad esse potrebbe
a c. di G. Contini appartenere anche questa ballata di delicata tonalità floreale. Il nome della donna è oc-
Einaudi, Torino 1970
cultato dietro un senhal (Fioretta, v. 12), nome fittizio o cifrato, che ben s’intona al mo-
tivo del componimento.
Il modello potrebbero essere le ballate di Guido Cavalcanti, all’epoca primo amico di
Dante: ma rispetto alle ballate del Cavalcanti, più malinconiche e angosciate, il testo di
Dante si segnala per la purezza musicale del vocabolario e il gioco prezioso delle ana-
logie.

Per una ghirlandetta


ch’io vidi, mi farà
sospirare ogni fiore.

I’ vidi a voi, donna, portare


5 ghirlandetta di fior gentile,
e sovr’a lei vidi volare
un angiolel d’amore umile;
e ’n suo cantar sottile
dicea: «Chi mi vedrà
10 lauderà ’l mio signore».

Se io sarò là dove sia


Fioretta mia bella a sentire,
allor dirò la donna mia
che port’in testa i miei sospire.
15 Ma per crescer disire
mïa donna verrà
coronata da Amore.

Le parolette mie novelle,


che di fiori fatto han ballata,
20 per leggiadria ci hanno tolt’elle
una veste ch’altrui fu data:
però siate pregata,
qual uom la canterà,
che li facciate onore.

Nota metrica ogni fiore (che vedrò d’ora 8 sottile: «delicato, me- poste or ora; ma anche “fre- mente, una musica) che già
Ballata mezzana, compo- in avanti) mi farà sospirare lodioso» (Maggini). sche” (visto che si tratta di fu data a un’altra (altrui) bal-
sta di una ripresa di tre (d’amore). 10 ’l mio signore:Amo- parole-fiori). lata.
versi settenari e da tre 6 sovr’a lei: sopra la re. 19 che di fiori... ballata: 22 però: perciò.
stanze di quattro novenari ghirlandetta. 12 a sentire: ad ascoltare. che hanno fatto una ballata 23 qual uom: chiunque
(nella fronte) e tre sette- 7 umile: leggiadro. L’an- 13-14 allor... sospire: allora «di materia di fiori» (Conti- sia l’uomo.
nari (nella sirma). Sche- gioletto richiama gli spiritelli dirò che la mia donna porta ni). 24 che li facciate onore:
ma: abc DEDEebc. cavalcantiani, ma anche, sul sulla (in) testa i miei sospiri. 20-21 per leggiadria... da- che facciate buona acco-
piano figurativo, gli amorini 15 crescer disire: accre- ta: per ornamento (leggia- glienza (al cantore che la
1-3 Per una... fiore: per della tradizione classica che scere i miei desideri. dria) qui (ci) hanno preso eseguirà davanti a voi).
una piccola ghiranda (di accompagnano il dio Amo- 16 verrà: procederà. (tol’elle: elle è pleonasmo)
fiori) che ho visto (vidi), re nelle sue imprese. 18 novelle: nuove, com- una veste (cioè, metaforica-

241 © Casa Editrice Principato


Duecento e Trecento

Guida all’analisi
Un tema figurativo Questa ballata, uno dei più antichi componimenti di Dante, scritta certamente negli anni
Ottanta sotto l’influsso degli amici stilnovisti, è tutta centrata sull’immagine floreale della
ghirlanda che Fioretta, la donna amata dal poeta, porta in capo. Lo spunto è realistico: un
gruppo di donne che danzano (all’epoca, le ballate erano cantate da un coro danzante) con
i capelli cinti da corone di fiori. Possediamo al riguardo numerose testimonianze iconogra-
fiche dell’epoca: la più nota, forse, è quella che fa parte di un grande affresco dipinto da
Ambrogio Lorenzetti fra il 1337 e il 1339 nel Palazzo Pubblico di Siena, gli Effetti del Buon
Governo nella città e nelle campagne. L’elemento figurativo viene tuttavia sviluppato da Dante
attraverso una serie di metafore e di analogie: i fiori che compongono la piccola ghirlanda
divengono dapprima sospiri d’amore (vv. 2-3) e in seguito le stesse parole della lirica (vv.
18-19): come dire che ogni parola di questa ballata equivale a un fiore della ghirlanda che la
donna, il cui senhal è anch’esso floreale (v. 12), porta in capo. Queste parole-fiori a loro vol-
ta si vestono (un’altra metafora, v. 21) di note musicali, divengono cioè suoni e canto (vv.
20-24).
Emblemi stilnovisti Tutto, in questo componimento, ci parla del clima stilnovista in cui opera il giovanissimo
Dante: quel clima che abbiamo già avuto modo di incontrare nel sonetto dedicato a Guido
e a Lapo [R T 9.6 ], nei capitoli della Vita Nuova o nei sonetti di Folgore da San Gimignano,
dove si descrive la vita nobile e spensierata delle brigate cittadine, fatta di feste, di pensieri
d’amore, di cose belle e cortesi, trasfigurate in un’atmosfera incantata e quasi fiabesca. Dan-
te sa rendere meravigliosamente questa atmosfera rarefatta e irreale sia attraverso una rete di
immagini vaghe e stilizzate (la ghirlanda di fiori, l’amorino svolazzante del v. 7, l’apparizio-
ne di Amore in una sorta di corteo floreale ai vv. 16-17), sia attraverso l’apparato retorico e
stilistico, elaborato secondo l’ideale della dolcezza e della musicalità: ogni parola si fa puro
suono, tende ad evadere dal semplice significato per disperdersi nell’onda musicale della bal-
lata. Si vedano, a questo proposito, i delicati procedimenti allitteranti (I’ vidi a voi, v. 4; vidi vo-
lare, v. 6), le iterazioni a distanza (ch’io vidi... I’ vidi... e sovr’a lei vidi: vv. 2, 4, 6), le rime se-
mantiche nascoste nel ritornello e nelle strofe che concatenano il nome della donna al tema
floreale e poetico (ghirlandetta, vv. 1 e 5; Fioretta, v. 12; parolette, v. 18). L’effetto è quello di
una musica leggiadra e sognante, di un ritmo evasivo e fantastico che si risolve in pura evo-
cazione di piacere e di bellezza, diversamente dall’ideologia più severa e interiorizzata delle
poesie dedicate a Beatrice, fondate sul tema dell’amore-virtù.

Laboratorio 1 Riassumi il contenuto di questa ballata. 3 Individua il senhal della donna cui il poe-
COMPRENSIONE 2 Quali versi costituiscono la zona della ri- ta dedica la poesia.
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE presa (o ritornello)? Qual è la funzione di 4 Quale rapporto si istituisce, nel testo, fra
tale sezione nel complesso della ballata? parola e musica?
242 © Casa Editrice Principato
9. Dante Alighieri T 9.8

T 9.8 Rime 1293-1296


Chi udisse tossir la malfatata
Dante Alighieri Gli anni compresi fra il 1293 e il 1296 furono un periodo decisivo per il giovane Dan-
Rime te: mentre compone la Vita Nuova (1293-1294), in cui dà sistemazione al primo decen-
a c. di G. Contini nio della sua produzione poetica, sperimenta sia una poesia di stile comico (la tenzone
Einaudi, Torino 1970
con Forese Donati: 1293-1296), sia una poesia di carattere morale e allegorico-dottri-
nale (significative le canzoni, composte fra il 1294 e il 1295, che verranno più tardi in-
cluse nel Convivio), senza contare la vicinissima serie delle quattro «petrose» [R T 9.9 ], la
prima delle quali va collocata, secondo l’indicazione dello stesso autore, proprio nel di-
cembre 1296. Dante si apre insomma a una molteplicità di esperienze, umane e poeti-
che, pur senza rinnegare le precedenti: accanto alla Firenze rarefatta e onirica della Vi-
ta nuova, con il suo lessico aristocratico e gentile, viene progressivamente alla luce anche
il mondo corposo e violento della tenzone con Forese, quello concettuale e filosofico
delle canzoni del Convivio, quello aspro e allucinatorio delle «petrose».
Proprio la tenzone con Forese Donati, fratello di Corso (il capo della fazione Nera)
e della sventurata Piccarda (che apparirà in Paradiso III-IV), ci dà la misura di questo
nuovo Dante, che vuole saggiare stilisticamente la lingua di Firenze al suo livello più
basso e plebeo. Un linguaggio destinato ad uscire, con la Divina Commedia, dai confini
di una tenzone giocosa per divenire lo strumento conoscitivo di una realtà aspra e
complessa.
La tenzone fra Dante e Forese comprende in tutto sei sonetti, tre per ciascuno dei
due contendenti: quello che segue è il primo.

Nota metrica Dante a Forese


Sonetto secondo lo sche-
ma ABAB ABAB CDE
CDE. Chi udisse tossir la malfatata
moglie di Bicci vocato Forese,
potrebbe dir ch’ell’ha forse vernata
4 ove si fa ’l cristallo, in quel paese.

Di mezzo agosto la truovi infreddata:


or sappi che de’ far d’ogni altro mese...;
1 la malfatata: sventura-
ta, vittima di un cattivo de- e non le val perché dorma calzata,
stino (dal provenzale malfa- 8 merzé del copertoio c’ha cortonese.
dat).
2 moglie: il cui nome,
come sappiamo dall’episo- La tosse, ’l freddo e l’altra mala voglia
dio del Purgatorio (XXIII, no l’addovien per omor’ ch’abbia vecchi,
87), era Nella. – Bicci voca-
to Forese: Bicci (forse ac- 11 ma per difetto ch’ella sente al nido.
corciativo di Biccicocco,
termine che allude a un
aspetto piuttosto misero) Piange la madre, c’ha più d’una doglia,
chiamato (vocato) Forese. dicendo: «Lassa, che per fichi secchi
3-4 ch’ell’ha... paese: che
ha forse svernato (vernata), 14 messa l’avre’ ’n casa del conte Guido».
dunque ha preso freddo, in
quel paese dove si forma (si
fa) il cristallo. Secondo l’au-
torità di Aristotele, il cristal-
lo nasceva dal ghiaccio che ben rimboccata (calzata), tro malanno. ma per la mancanza, la pri- infelice (Lassa), che con una
solidificava sotto l’effetto di per colpa della coperta 10 no l’addovien... vec- vazione (difetto) che deve dote da niente (per fichi sec-
un vento freddissimo. (merzé del copertoio) che è di chi: non le viene (no l’addo- sopportare (ch’ella sente) in chi) l’avrei sistemata in casa
5 infreddata: raffredda- Cortona, cioè (con un gio- vien) perché i suoi umori so- casa (al nido): chiara allusio- del conte Guido (probabil-
ta. co di parole) è troppo corta. no vecchi, insomma a causa ne a povertà e trascuratezza mente Guido Novello,
6 or sappi... mese: figu- Frecciata alla povertà di Fo- dell’età. Secondo Galeno, sessuale. morto nel 1293, della cele-
rati come deve stare (che de’ rese, ma soprattutto allusio- medico greco del II secolo, 12 la madre: la suocera di bre famiglia casentina dei
far) in tutti gli altri mesi. ne oscena alla sua trascura- gli umori del corpo si raf- Bicci; – c’ha più d’una do- conti Guidi). Naturalmente
7-8 e non le val... cortone- tezza coniugale (cfr. v. 11). freddano con il passare degli glia: che ha più di un motivo l’affermazione è iperbolica:
se: e non le serve (val) il fatto 9 freddo: raffreddore. – anni. per provare dolore (doglia). i conti Guidi valgono per
di dormire (perché dorma) l’altra mala voglia: ogni al- 11 ma per difetto... nido: 13-14 Lassa... Guido: me una famiglia ricca e illustre.

243 © Casa Editrice Principato


Duecento e Trecento

Guida all’analisi
Una tenzone di carattere scherzoso e letterario Dante e Forese all’epoca della tenzone erano amici (oltre che
parenti, sia pure alla lontana: Dante aveva infatti sposato Gemma di Manetto Donati): di
questa amicizia ci parla lo stesso Dante in uno degli episodi più commoventi del Purgatorio
(XXIII-XXIV), là dove, fra l’altro, mette in bocca a Forese un affettuoso omaggio proprio
alla moglie Nella («la vedovella mia, che molto amai»; XXIII, 92), protagonista involontaria
di questo sonetto. La precisazione è necessaria per inquadrare il carattere spesso (non sem-
pre, naturalmente) burlesco e giocoso delle tenzoni. L’invettiva ad personam, il rinfaccio cru-
do (a volte, non qui, con il ricorso alle stesse rime usate dal contendente), gli insulti aperti,
le allusioni oscene facevano parte del genere, di cui costituivano anzi un elemento determi-
nante e insostituibile.
La sperimentazione linguistica Si capisce allora perché Dante convogli la sua attenzione sulle scelte linguistiche
e stilistiche, naturalmente consone al codice comico-realistico. Si veda innanzitutto l’uso di
un vocabolario parlato, di tono basso e di registro realistico, che mette l’accento su oggetti e
fatti della vita quotidiana: tossir (v. 1), infreddata (v. 5), calzata (v. 7), copertoio (v. 8), fino alla lo-
cuzione plebea, ancora oggi nella lingua d’uso, messa in bocca alla suocera di Forese (fichi
secchi, v. 13). Allo stile basso appartiene anche l’uso dei nomi propri (vv. 2 e 14), che nella
Vita nuova era ridotto al minimo (solo quattro volte il nome di Beatrice; le altre donne so-
no menzionate, volta per volta, come la donna gentile, pietosa, dello schermo ecc.), il gusto
dei giochi di parole (cortonese, cioè di Cortona, per dire che la coperta è troppo corta; v. 8) e
dei doppi sensi (che vanno a colpire le colpe coniugali di Forese: vv. 8 e 11), l’inserto del di-
scorso diretto (vv. 13-14). La conclusione affidata alla voce della suocera, fra l’altro, è un ti-
pico elemento comico, così come la sproporzione fra la situazione e l’argomento scientifico,
derivato da Aristotele, che il poeta introduce nella prima terzina: la condizione della moglie
di Bicci non va spiegata con la teoria degli umori, ma «per difetto ch’ella sente al nido» (v.
11), evidente metafora, quest’ultima, per indicare non tanto la casa quanto il letto nuziale. La
maestria linguistica di Dante (che emerge ancora di più se confrontata con i sonetti di Fo-
rese) può essere adeguatamente valutata anche dalla raffinatezza delle rime difficili (malfata-
ta : vernata : infreddata : calzata) impiegate nella prima quartina.

Laboratorio 1 Chi è Forese Donati? Ricordi l’impor- rintracciando i caratteri comuni, ricon-
COMPRENSIONE tanza della famiglia nella storia fiorentina ducibili al genere comico-realistico cui i
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE contemporanea? testi appartengono.
2 Che cos’è una «tenzone»? Sapresti indica- 4 Confronta questo sonetto con le due
re qualche altro esempio di tenzone? composizioni precedenti, soprattutto sul
3 Confronta il sonetto della tenzone con piano lessicale: possiamo parlare di un’e-
Forese Donati con i sonetti giocosi di voluzione della poesia dantesca, e in par-
Rustico Filippi e di Cecco Angiolieri, ticolare di «sperimentalismo» espressivo?

244 © Casa Editrice Principato


9. Dante Alighieri T 9.9

T 9.9 Rime
Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra 1296
Dante Alighieri Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra, composta intorno al 1296, è la seconda delle quat-
Rime tro «rime petrose», il gruppo di poesie dedicato alla donna Petra, figura misteriosa, pro-
a c. di G. Contini babilmente non reale (anche se non pochi studiosi, nel corso del tempo, si sono sforza-
Einaudi, Torino 1970
ti di identificarla), che incarna poeticamente l’immagine della donna dura e crudele, og-
getto di un amore sensuale che non può essere soddisfatto. Siamo nel cuore dello spe-
rimentalismo dantesco: alla crudezza del tema e dello scenario naturalistico evocato,
corrispondono le scelte operate sul piano metrico (la sestina di Arnaut Daniel) e lin-
guistico (il parlare «aspro» rivelato programmaticamente nell’esordio dell’ultima petrosa:
«Così nel mio parlar voglio esser aspro / com’è ne li atti questa bella petra»).

Nota metrica Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra


Sestina lirica con retrogra-
datio cruciata (retrograda- son giunto, lasso, ed al bianchir de’ colli,
zione a croce inversa) e quando si perde lo color ne l’erba:
congedo di tre versi. e ’l mio disio però non cangia il verde,
5 sì è barbato ne la dura petra
che parla e sente come fosse donna.

Similemente questa nova donna


si sta gelata come neve a l’ombra:
ché non la move, se non come petra,
10 il dolce tempo che riscalda i colli,
1-3 Al poco giorno... er- e che li fa tornar di bianco in verde
ba: io sono giunto, ahimè perché li copre di fioretti e d’erba.
(lasso), al tempo in cui le
giornate sono brevi (al poco
giorno), lunghe le notti (che Quand’ella ha in testa una ghirlanda d’erba,
estendono intorno a sé un
grande cerchio d’ombra) e i trae de la mente nostra ogn’altra donna:
colli divengono bianchi (o a 15 perché si mischia il crespo giallo e ’l verde:
causa delle neve che li rico-
pre, o dell’erba che perde il sì bel, ch’Amor lì viene a stare a l’ombra,
colore verde della bella sta- che m’ha serrato intra piccioli colli
gione).
4 ’l mio disio... verde: il più forte assai che la calcina petra.
mio desiderio (disio) non
per questo (però non) muta La sua bellezza ha più vertù che petra,
(cangia) la sua forza (il verde,
tradizionalmente colore as- 20 e ’l colpo suo non può sanar per erba:
sociato all’idea della fre- ch’io son fuggito per piani e per colli,
schezza e del vigore).
5 sì è barbato... petra: a per potere scampar da cotal donna;
tal punto (sì) il mio deside- e dal suo lume non mi può far ombra
rio è radicato (barbato), ha
messo le radici nella dura poggio né muro mai né fronda verde.
pietra (della donna).
6 che parla... donna:
(pietra) che ha la voce e la
sensibilità di una donna.
7 Similemente: con la petra), la dolcezza della pri- stra: caccia, strappa (trae) petra: (Amore), il quale mi ferita (’l colpo) da lei inferta
stessa immutabilità e persi- mavera (il dolce tempo che ri- dalla mia mente (nel senso di ha imprigionato (serrato) tra non può guarire (sanar) per
stenza del desiderio del scalda i colli) “memoria” o di “intellet- piccoli (piccioli) colli (forse mezzo di nessuna erba me-
poeta; – nova: “singolare, 11 che li fa... verde: (il to”). un riferimento ai colli fio- dicinale (per erba).
strana”; ma anche “giova- dolce tempo, cioè la primavera) 15-16 perché... ombra: rentini) assai più fortemente 21 ch’io: tanto che io.
ne”. che fa tornare verdi i colli perché i suoi biondi ricci (il di quanto la calcina non fac- 23-24 e dal suo lume...
8 si sta gelata: rimane (li), da bianchi che erano, crespo giallo) si mescolano al cia alla pietra. verde: e dalla luce (lume) che
chiusa nel suo gelo. cioè coperti di neve. verde della ghirlanda in mo- 19 petra: pietra preziosa. lei emana non mi possono
9-10 ché non la move... 13 Quand’ella... d’erba: do così bello (sì bel) che Cfr. Guinizzelli, Al cor gentil offrire riparo (non mi può far
colli: dal momento che (ché) quando questa donna porta Amore viene ad abitare lì, rempaira sempre Amore , v. 12: ombra) nessuna altura (pog-
non la commuove (muove), in capo una ghirlanda di fo- all’ombra dei capelli e della «come vertute in petra pre- gio), nessun muro, nessuna
se non come può commuo- glie e di fiori. ghirlanda. ziosa». pianta (fronda verde).
vere una pietra (se non come 14 trae de la mente no- 17-18 che m’ha serrato... 20 e ’l colpo… erba: e la

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Duecento e Trecento

25 Io l’ho veduta già vestita a verde,


sì fatta ch’ella avrebbe messo in petra
l’amor ch’io porto pur a la sua ombra:
ond’io l’ho chesta in un bel prato d’erba,
innamorata com’anco fu donna,
30 e chiuso intorno d’altissimi colli.

Ma ben ritorneranno i fiumi a’ colli


prima che questo legno molle e verde
s’infiammi, come suol far bella donna,
di me: che mi torrei dormire in petra
35 tutto il mio tempo e gir pascendo l’erba,
sol per veder do’ suoi panni fanno ombra.

Quandunque i colli fanno più nera ombra,


sotto un bel verde la giovane donna
la fa sparer, com’uom petra sott’erba.

25 a verde: di verde (colo- zale anc, “mai”) lo fu una enunciata, nel V canto del- ombra (insomma dove la
re alla moda per le giovani donna. l’Inferno, anche da France- donna passa).
del tempo). 30 e chiuso intorno: si ri- sca: nessun cuore gentile, se 37-39 Quandunque… er-
26-27 sì fatta... ombra: co- ferisce al prato d’erba del v. amato, può fare a meno di ba: in qualunque tempo
sì bella (sì fatta) che avrebbe 28. corrispondere all’amore. (quandunque:dal latino quan-
destato in una pietra (messo 32-34 prima che questo 34-36 che mi torrei... om- documque) i colli proiettano
in petra) l’amore che io por- legno... me: prima che que- bra: che accetterei (mi torrei) un’ombra più scura, la gio-
to persino, anche (pur) alla sto legno morbido (o “umi- di dormire per sempre, per vane donna fa sparire quel-
sua ombra. do”,secondo alcuni) e verde tutta la mia vita (tutto il mio l’ombra (la fa sparer) sotto il
28 ond’io l’ho chesta: prenda fuoco (s’infiammi) tempo) sulla nuda pietra, e di bel verde delle sue vesti, co-
tanto che io l’ho desiderata per me (di me), cioè arda d’a- andare nutrendomi di erba me si fa sparire (uom è parti-
(chesta). more, come di solito fanno (gir pascendo l’erba), solo per cella impers.) una pietra sot-
29 com’anco fu donna: le belle donne. Riferimento vedere dove (do’) le sue vesti to l’erba.
come mai (anco: dal proven- esplicito alla teoria d’amore (panni) proiettano la loro

Guida all’analisi
La scelta della sestina Se la canzone fu considerata dai poeti romanzi, Dante compreso, come la forma poetica
più alta e illustre, la sestina venne intesa come una canzone difficile, un esercizio tecnica-
mente arduo cui ricorrere solo in momenti eccezionali: non è un caso che Dante ne faccia
uso in due sole occasioni, entrambe legate alla figura sensuale e inquietante della «donna Pe-
tra», e Petrarca (nel Canzoniere) soltanto in nove componimenti (su 366).
La sestina, inventata nel XII secolo da Arnaut Daniel, si fondava su due tecniche: l’uso
della parola-rima (al posto della rima) e lo schema della retrogradatio cruciata, ovvero «retro-
cessione (o retrogradazione) incrociata». Secondo tale schema, le prime tre parole-rima di
ogni nuova strofa corrispondono alle ultime tre della precedente, disposte tuttavia in ordine
inverso, e con intercalate le prime tre, questa volta nell’ordine già stabilito dalla strofa che
precede. La parola-rima che inizia una nuova strofa coincide sempre con quella che conclu-
de la precedente: al termine della rotazione, ogni parola-rima ha occupato tutte e sei le ca-
selle della sestina, che potrebbe, volendo, circolarmente riprendere, dando luogo a un movi-
mento senza fine. Il componimento chiude con un congedo di tre versi, che ripete le sei
parole-rima delle strofe, due per verso. Dante segue con puntuale esattezza il maestro, ripro-
ponendo sei parole-rima (ombra, colli, erba, verde, petra, donna) che scorrono lungo le sei stan-
ze secondo il seguente schema: I. ABCDEF, II. FAEBDC, III. CFDABE, IV. ECBFAD, V.
DEACFB, VI. BDFECA. Il congedo, ridotto a tre versi, concentra le sei parole-rima in

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9. Dante Alighieri T 9.9

coppie, tre all’interno e tre alla fine del verso, secondo questo ordine: (B) A (D) F (E) C. Si
capisce, da quanto si è detto, perché le sei parole-rima costituiscano, nel sistema della sestina,
l’elemento decisivo e fondamentale su cui convergono, insieme, l’interesse del poeta e dei
lettori. Dante sceglie parole tutte legate al mondo naturale (ombra, colli, erba, verde, petra) e al-
la figura femminile (donna), che finiscono necessariamente per fondersi e attrarsi analogica-
mente: fin dal senhal (petra), che annuncia la natura dura e implacabile della donna.
Assenza di uno sviluppo narrativo Contini ha messo in rilievo l’assenza, in questo componimento, di un ve-
ro sviluppo narrativo: ciascuna stanza è come chiusa in una sua fissità, senza comunicazio-
ne con quelle che seguono o precedono. Le parole-rima, nella loro ripetitiva staticità, con-
gelano ogni movimento, inchiodando il poeta alla logica di un desiderio urgente ma ir-
realizzabile. Le stesse immagini naturali danno la sensazione di un universo chiuso, osses-
sivo, nel quale il poeta si trova imprigionato: due volte, in particolare, il poeta ribadisce il
radicamento del suo desiderio nella pietra dura e inscalfibile della donna: «e ’l mio disio
però non cangia il verde, / sì è barbato ne la dura petra» (4-5); «com’uom petra sott’erba»
(v. 39). Il motivo della prigionia è del resto esplicitato nella quarta stanza dall’impossibilità
della fuga (vv. 21-24), nella sesta dal ricorso alla figura retorica dell’adynaton (vv. 31-34,
con cui attraverso l’argomentazione per assurdo si sostiene l’impossibilità che si verifichi il
fatto).
Procedimenti analogici: la donna, il poeta, il paesaggio L’aspetto che più colpisce, nella sestina dantesca, è il mi-
sterioso legame che si dà fra il paesaggio, la donna e il poeta. Se nella prima stanza l’analogia
fra l’inverno buio e il cuore desolato del poeta è evidente, già nella seconda s’infrange il tra-
dizionale nesso fra primavera e amore, cui la donna resiste indifferente. Ma sono proprio le
sei parole-rima, nel loro continuo mutare di significato, di stanza in stanza, a impedire lega-
mi rigidi con la figura della donna e con il cuore del poeta. Pensiamo alla parola-chiave pe-
tra, che evoca la durezza e l’impenetrabilità della donna: al v. 19 è invece presente con il va-
lore di “pietra magica”, tradizionale termine cortese (e stilnovistico) per indicare la potenza
irradiante d’amore; al v. 26, distaccandosi dalla donna, diviene l’oggetto stesso del suo amo-
re (la bellezza della donna potrebbe suscitare amore persino in una pietra, in una statua). Si-
gnificativa è anche l’antitesi che si produce, al v. 23, fra lume e ombra: nessun muro, poggio o
fronda potrà fare ombra, cioè riparare il poeta dalla luce accecante della donna, la quale nel
congedo ha perfino il potere, con il verde della sua veste, di far sparire ogni «più nera om-
bra»: e tuttavia in altre stanze la stessa donna è assimilata all’ombra invernale, al suo gelo (v.
8) e al suo buio (v. 1). Il legame fra paesaggio e donna si dà attraverso passaggi analogici,
non spiegati né caricati di valori simbolici definiti: la donna è volta per volta pietra dura, ne-
ve a l’ombra, ghirlanda d’erba, magica pietra preziosa, lume folgorante, ombra, legno molle e verde,
fino a ritornare, nel verso conclusivo, petra sott’erba. Alla fissità ossessiva del desiderio del
poeta, si oppone dunque una figura imprendibile, sfuggente, materica, che si sovrappone in-
differentemente agli emblemi più crudi del mondo naturale.

Laboratorio 1 Questa canzone è uno dei quattro com- 5 Descrivi il carattere del paesaggio dise-
COMPRENSIONE ponimenti che formano la sezione delle gnato dal poeta, soffermandoti sui signifi-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE «rime petrose»: da dove deriva questo no- cati simbolici di tale scelta.
me? Quale immagine di donna esprime? 6 Si è detto che il componimento esprime
2 Spiega accuratamente lo schema metrico una visione statica e senza evoluzione del
della sestina. cuore del poeta: sei d’accordo con tale
3 Quale rapporto esiste fra la scelta metrica giudizio critico? Motiva la tua risposta.
e il contenuto della poesia? 7 Confronta la figura della donna-pietra
4 Nella poesia è presente un esempio di con quella di Beatrice quale emerge dalla
adynaton: in che cosa consiste tale figura Vita Nuova.
retorica? E perché Dante vi ricorre?

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Duecento e Trecento

T 9.10 Convivio 1303-1308


Il proemio [I,I]
Dante Alighieri Dante apre il Convivio nel nome di Aristotele (auctor per eccellenza nell’ambito della fi-
Convivio losofia scolastica), per sottolineare due concetti cardine, intimamente legati, della sua
a c. di G. Busnelli nuova opera: ogni uomo è spinto naturalmente a conoscere; nella conoscenza risiede la
e G.Vandelli, introd. di
nostra perfezione. Definisce poi lo scopo del suo trattato (imbandire un banchetto di
M. Barbi, 2a ed.
con aggiornamento sapienza) e il pubblico di lettori al quale vuole rivolgersi (non dotti e letterati ma uo-
a cura di A.E. Quaglio, mini impegnati in attività pratiche, familiari e civili, e che perciò, non per loro colpa, so-
Le Monnier, Firenze 1964 no rimasti esclusi dalla vera cultura). Viene infine illustrato il contenuto dell’opera: in
essa vivanda saranno le canzoni, pane il commento in prosa ai versi. Il Convivio si pre-
senta dunque come un trattato in forma di prosimetro: per questo, in conclusione di
proemio, Dante sente il bisogno di richiamare alla memoria la Vita Nuova, nel segno
della continuità ma anche della differenza fra le due opere: quella (la Vita Nuova) fervi-
da e appassionata, questa (il Convivio) temperata e virile, improntata a una nuova matu-
rità filosofica e umana cui è pervenuto non solo in virtù degli studi, ma anche della
partecipazione alla vita politica della sua città, culminata nell’esilio.

Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia,1 tutti li uomini na-
turalmente2 desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascu-
na cosa, da providenza di propria natura impinta, è inclinabile a la sua propria per-
fezione;3 onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la
quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo su- 5
bietti.4 Veramente5 da questa nobilissima perfezione molti sono privati per diver-
se cagioni,6 che dentro a l’uomo e di fuori da esso7 lui rimovono da l’abito di
scienza.8 Dentro da l’uomo9 possono essere due difetti e impedi[men]ti: l’uno da
la parte del corpo, l’altro da la parte de l’anima.10 Da la parte del corpo è quando
le parti sono indebitamente disposte, sì che nulla ricevere può, sì come sono sordi 10
e muti e loro simili.11 Da la parte de l’anima è quando la malizia12 vince in essa,13
1 Sì come dice... Prima
sì che si fa seguitatrice di viziose delettazioni,14 ne le quali riceve tanto inganno
Filosofia: così come dice il
filosofo all’inizio (nel princi- che per quelle ogni cosa tiene a vile.15 Di fuori da l’uomo possono essere simile-
pio) della filosofia prima. Il mente due cagioni intese,16 l’una de le quali è induttrice di necessitade, l’altra di
Filosofo, all’epoca di Dante, è
per antonomasia Aristotele pigrizia.17 La prima è la cura familiare e civile,18 la quale convenevolemente a sé 15
(384-322 a.C.), di cui qui tiene de li uomini lo maggior numero,19 sì che in ozio di speculazione esser non
viene ricordato il trattato
sulla Metafisica, detta dallo possono.20 L’altra è lo difetto del luogo dove la persona è nata e nutrita,21 che tal
stesso Aristotele filosofia pri- ora sarà da ogni Studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano.22
ma perché studia l’essere in
quanto essere (e non, come
le altre scienze, solo in qual-
cuna delle sue determina- tutti noi uomini siamo sog- 11 Da la parte... simili: to inganno) che disprezza (tie- gior parte degli uomini.
zioni particolari) e nei suoi getti (semo subietti) per incli- l’impedimento fisico si ve- ne a vile) ogni cosa pur di ot- 20 sì che... possono: così
primi princìpi. nazione naturale (natural- rifica quando (è quando) le tenerli (per quelle: cioè le de- che non possono godere del
2 naturalmente: per lo- mente) a tale desiderio di co- parti (del corpo) non sono lettazioni). tempo (ozio: dal latino otium:
ro propria natura. noscenza (al suo desiderio). conformate come dovreb- 16 possono... intese: si il tempo libero dalle occu-
3 La ragione di che... 5 Veramente: “e tutta- bero (sono indebitamente di- possono ugualmente tener pazioni pratiche, e perciò
perfezione: la ragione di via”. sposte), in modo tale che (sì presenti due altre cause. adatto agli studi) necessario
questo (di che) può (puote) 6 cagioni: motivi, impe- che) il corpo non è in grado 17 l’una de le quali è in- alla meditazione filosofica
derivare, e deriva, dal fatto dimenti. di accogliere nulla (nulla rice- duttrice... pigrizia: la pri- (speculazione).
che ogni creatura (ciascuna 7 che dentro... esso: vere può), come avviene ai ma delle quali produce ne- 21 L’altra... nutrita: l’al-
cosa),spinta dall’istinto natu- cioè interne ed esterne al- sordi, ai muti e ai loro simili. cessità (cioè obblighi e vin- tra (cagione) è la manche-
rale, provvidenzialmente a l’individuo. 12 malizia: disposizione coli), la secondo pigrizia. volezza, la carenza (lo difetto)
ciò preordinato, tende alla 8 lui rimovono... scien- al male. 18 la cura familiare e ci- del luogo in cui si è nati e
propria perfezione. za: lo distolgono (lui rimovo- 13 vince in essa: domina vile: gli impegni, le respon- cresciuti
4 onde... subietti: per no) dalla disposizione a co- l’anima. sabilità della vita familiare e 22 che tal ora... lontano:
cui (onde), dal momento che noscere (da l’abito di scienza). 14 si fa seguitatrice... civile. (luogo) che talora non sol-
(acciò che) la conoscenza (la 9 Dentro da l’uomo: delettazioni: va in cerca di 19 la quale convenevol- tanto si troverà privo (priva-
scienza) è l’estrema, somma nell’uomo. piaceri peccaminosi. mente... numero: la quale to) di centri di studio (studio,
(ultima) perfezione della no- 10 da la parte... de l’ani- 15 ne le quali riceve... vi- (cura) giustamente, a ragio- cioè lo Studium universita-
stra anima, nella quale risie- ma: il primo di natura fisica, le: nei quali piaceri (l’anima) ne (convenevolmente) tiene rio) ma anche lontano dalle
de la nostra somma felicità, l’altro di natura morale. è a tal punto sviata (riceve tan- legati a sé (a sé tiene) la mag- comunità degli studiosi.

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9. Dante Alighieri T 9.10

Le due di queste cagioni, cioè la prima da la parte [di dentro e la prima da la


parte] di fuori,23 non sono da vituperare,24 ma da escusare e di perdono degne; le 20
due altre,25 avvegna che l’una più,26 sono degne di biasimo e d’abominazione.27
Manifestamente adunque può vedere chi bene considera, che pochi rimangono
quelli che a l’abito28 da tutti desiderato possano pervenire, e innumerevoli quasi so-
no li ’mpediti che di questo cibo sempre vivono affamati. Oh beati quelli pochi
che seggiono a quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca!29 e miseri quel- 25
li che con le pecore hanno comune cibo! Ma però che30 ciascuno uomo a cia-
scuno uomo naturalmente è amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui
ch’elli ama,31 coloro che a così alta mensa sono cibati32 non sanza misericordia so-
no inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande sen gire man-
giando.33 E acciò che misericordia è madre di beneficio,34 sempre liberalmente co- 30
loro che sanno porgono de la loro buona ricchezza a li veri poveri, e sono quasi
fonte vivo, de la cui acqua si refrigera la naturale sete35 che di sopra è nominata. E
io adunque, che non seggio a la beata mensa,36 ma, fuggito de la pastura del vul-
go,37 a’ piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade,38 e co-
nosco la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati, per la dolcezza ch’io sento 35
in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me di-
menticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro, già è più
tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi.39 Per che ora vo-
lendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch’i’ ho loro
mostrato, e di quello pane ch’è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da lo- 40
ro non potrebbe esser mangiata.40 E questo [è quello] convivio, di quello pane de-
gno, con tale vivanda qual io intendo indarno [non] essere ministrata.41 E però ad
esso non s’assetti42 alcuno male de’ suoi organi disposto, però che né denti né lin-
gua ha né palato; né alcuno settatore di vizii,43 perché lo stomaco suo è pieno d’o-
mori venenosi contrarii, sì che mai vivanda non terrebbe.44 Ma vegna qua qua- 45
lunque è [per cura] familiare o civile ne la umana fame rimaso,45 e ad una mensa
con li altri simili impediti s’assetti; e a li loro piedi si pongano tutti quelli che per
pigrizia si sono stati,46 che non sono degni di più alto sedere: e quelli e questi
prendano la mia vivanda col pane, che la far[à] loro e gustare e patire.

23 Le due di queste ca- 31 del difetto... ama: di che non mi sono seduto alla vio... mangiata: un ban- quindi esclude da questo
gioni... fuori: già prece- ciò che manca (dal lat. defi- mensa della sapienza. Dante chetto di sapienza, uno spi- convivio coloro che sono
dentemente illustrate: i di- cio) al suo amico. non si considera uno stu- rituale convivio per tutti, privi dell’abito di scienza
fetti fisici e l’impegno pro- 32 a così alta... cibati: ad dioso di professione. nel quale offrirà non solo la per motivi che sono dentro
digato per la famiglia e la vi- una cultura così profonda si 37 fuggito de la pastura vivanda (le canzoni), ma an- di loro (cfr. quanto ha detto
ta pubblica. nutrono. del vulgo: distaccatosi dal che il pane, cioè il commen- precedentemente).
24 vituperare: biasimare. 33 non sanza misericor- volgo. to che è necessario (ch’è me- 45 qualunque... rimaso:
25 le due altre: cioè la ma- dia... gire mangiando: so- 38 a’ piedi di... da loro stiere) perché esse siano chiunque, distolto da impe-
lizia e la pigrizia. no benevoli, solidali verso cade: scolaro dei veri sa- comprese, assimilate (man- gni familiari e civili, è rima-
26 avvegna che l’una coloro che vedono vivere pienti, raccolgo le briciole giata). sto (rimaso) desideroso, affa-
più: benché (avvegna che) la nell’ignoranza (erba e ghian- della loro mensa. 41 E questo... ministra- mato di scienza.
prima sia un peccato più de e bestiale pastura rimanda- 39 misericordievolmen- ta: e proprio questo è quel 46 per pigrizia... stati:
grave. no a“ignoranza”,come pane te... vogliosi: mosso da be- convivio nel quale viene sono stati in ozio: costoro
27 abominazione: ese- degli angeli vale “scienza filo- nignità, non dimenticando imbandito il pane (il com- devono sedere ai piedi dei
crazione, avversione e di- sofica e teologica”). il mio passato, ne voglio far mento) senza del quale primi, ad un livello di infe-
sprezzo. 34 E acciò... beneficio: e partecipi i miseri, ai quali ha quella vivanda sarebbe som- riorità perché sono rimasti
28 a l’abito: alla consue- dato che dalla benevolenza già fatto conoscere qualco- ministrata invano. lontani dal sapere per indo-
tudine degli studi, all’abito nasce il desiderio di dare sa, rendendoli per ciò ancor 42 s’assetti: si sieda. lenza e pigrizia, gli altri in-
della scienza. aiuto, di beneficare. più desiderosi (di sapere). 43 settatore di vizii: se- vece per necessità familiari e
29 dove... manuca: dove 35 naturale sete: quel de- Allusione alle canzoni che guace di vizi. civili.
si mangia il pane degli ange- siderio di sapere che come è intendeva commentare nel 44 omori venenosi...
li, cioè la cultura filosofica e detto all’inizio è insito nella Convivio e che in parte do- terrebbe: umori velenosi
teologica. natura umana. vevano essere già divulgate. che impedirebbero l’assimi-
30 però che: poiché. 36 E io... beata mensa: io 40 un generale convi- lazione di tale cibo. Dante

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Duecento e Trecento

Guida all’analisi
Contenuto del proemio Dante sviluppa il discorso in modo analitico e concatenato; per comodità, lo possiamo
sintetizzare nei seguenti punti:
1. Un’affermazione generale, fondata sull’autorità aristotelica: «tutti li uomini naturalmente
desiderano di sapere».
2. Dimostrazione della tesi precedente.
3. Pochi tuttavia sono coloro che riescono a realizzare tale desiderio.
4. Cause per cui tale condizione non si attua se non in pochi. Dante ne individua quattro ,
due interne (difetti fisici: sordità, mutismo; difetti spirituali: inclinazioni viziose, tendenza
ai piaceri) e due esterne all’uomo (incombenze familiari e civili; caratteristiche negative
dell’ambiente: assenza di centri di studio e di rapporti con uomini di scienza).
5. Di queste, soltanto due sono da escusare e perdonare: la cura familiare e civile; la presenza di
difetti fisici.
6. Elogio della sapienza.
7. Nuova affermazione generale: l’uomo è un essere naturalmente misericordioso.
8. Come tale, ogni uomo «che a così alta mensa» si sia cibato, ha il dovere di apprestare un
«convivio» di sapere per coloro che senza colpa ne siano stati privati.
9. Situazione personale dell’autore e ruolo che intende svolgere fra i veri sapienti e gli illet-
terati. Sua volontà di apprestare un convivio fatto di vivande e di pane.
10. Configurazione del pubblico a cui il convivio dantesco è destinato.
11. Tale convivio prevede delle vivande (cioè quattordici canzoni scritte da Dante in passa-
to) e del pane (cioè le esposizioni ragionate, letterali e allegoriche, di tali canzoni).
12. Confronto tra Convivio e Vita Nuova.
La tecnica sillogistica Dante non si limita a organizzare un discorso rigoroso e sequenziale, ma lega i momen-
ti decisivi di tale discorso ricorrendo alle tecniche espositive della filosofia scolastica. Si ve-
da l’esordio: dopo l’affermazione generale, la dimostrazione è organizzata mediante il tradi-
zionale procedimento sillogistico, che prevedeva: una premessa generale («ciascuna cosa [...]
è inclinabile a la sua propria perfezione»); il termine medio, che circoscrive la premessa («la
scienza è ultima perfezione de la nostra anima»); la conclusione («tutti naturalmente al suo
desiderio semo subietti»). Si noterà che il ragionamento risulta rafforzato dalla ripetizione
progressiva delle parole-chiave («propria perfezione... ultima perfezione... ultima felicitade»).
La chiusura della dimostrazione ci riporta all’incipit: «tutti li uomini naturalmente desidera-
no di sapere... tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti».
La prosa La cura nella costruzione del periodo non è solo funzionale allo sviluppo, minuzioso ed
esattissimo, del discorso, ma risponde a un’altra esigenza non meno importante agli occhi di
Dante: dimostrare la qualità e la bellezza della lingua volgare, difenderne le ragioni nei con-
fronti dei suoi detrattori. Un tema che vedrà Dante impegnato nel corso dei capitoli suc-
cessivi. Non mancano dunque i tradizionali elementi dell’ornatus retorico: l’esclamazione
retorica (Oh beati quelli pochi...), l’appello al lettore (Ma vegna qua qualunque è...), le serie
anaforiche (ricolgo... ricolgo) o allitteranti (misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li
miseri) e, soprattutto, il ricorso al linguaggio metaforico, che segna in modo determinante lo
sviluppo logico e immaginativo del proemio. L’intero discorso viene infatti configurato at-
traverso il lessico del cibo e della sete (da cui dipende anche il titolo dell’opera): mensa, pa-
ne, manuca, cibo, pastura, vivanda, fame, fonte, acqua, sete, convivio, stomaco, gustare.
Laboratorio 1 Riformula il principio generale da cui pro- rivolge Dante nel Convivio?
COMPRENSIONE cede l’intero ragionamento di Dante. 5 Illustra il significato delle metafore dantesche
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE 2 Qual è l’«ultima perfezione de la nostra ani- convivio, pane, vivanda.
ma» secondo l’autore? 6 Ricordi quale altra figura, in Firenze, aveva
3 Quali impedimenti, secondo Dante, esclu- già avviato un’opera di divulgazione del sa-
dono gran parte degli uomini dalla cono- pere nei decenni precedenti il Convivio? E
scenza? Da dove derivano tali impedimenti? quale differenza si osserva nelle conclusioni
Dall’individuo o dall’ambiente? cui perviene Dante circa il pubblico dei suoi
4 A quali categorie, tra quelle prima definite, si lettori e gli argomenti che vuole trattare?

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9. Dante Alighieri T 9.11

T 9.11 De vulgari eloquentia 1304-1305


Lo stile tragico [I,II, 2-5 passim]
Dante Alighieri I trattati di Dante nascono in buona parte «per giustificare la produzione precedente,
De vulgari eloquentia per sgombrare da essa ogni equivoco e liberarla da qualsiasi ipoteca di contingenza, di
a c. di P.V. Mengaldo, casualità, di approssimazione. Anche nel caso del De vulgari eloquentia influisce il biso-
in Opere minori, tomo II
gno di ordine, di sistemazione, che, se fu tipico del Medioevo cristiano in genere, fu
Ricciardi,
Milano-Napoli 1979 caratteristica saliente di Dante, del suo temperamento come della sua intelligenza»
(Mineo). Si capisce dunque perché, nel momento in cui progetta un trattato filosofi-
co in lingua volgare destinato al pubblico vasto di chi non conosce la lingua latina (il
Convivio), Dante senta il bisogno di riflettere in modo rigoroso e sistematico sulla na-
tura del volgare e, soprattutto, sulla sua potenzialità letteraria: e lo faccia, questa vol-
ta, usando il latino della scolastica, la lingua dei dotti.
Il secondo libro del De vulgari eloquentia è animato proprio dal desiderio di dimostra-
re l’altezza poetica del volgare italiano. Coerentemente con l’assunto, Dante sceglie
perciò di occuparsi soltanto del «volgare illustre», cioè di quel volgare che risulti in gra-
do di trattare gli argomenti più alti e degni. Come già si è visto a proposito del Convi-
vio, Dante sviluppa il suo discorso partendo da premesse filosofiche e invocando, anco-
ra una volta, l’autorità di Aristotele, «’l maestro di color che sanno» (If IV 131).

[...] E pertanto,1 poiché quello cui diamo il nome di illustre è il migliore di tut-
ti i volgari, ne viene di conseguenza che solo gli argomenti più nobili sono degni
di venir trattati in tale volgare, e sono quelli che chiamiamo, nella scala degli ar-
gomenti da trattare, i degnissimi.
Ma ora mettiamoci in cerca di quali siano questi argomenti. Per la cui chiara de- 5
terminazione bisogna sapere che l’uomo, coerentemente al fatto che è fornito di
un’anima a triplice dimensione,2 vale a dire vegetativa, animale e razionale, per-
1 E pertanto: dopo aver
corre una triplice via. Poiché, in quanto è essere vegetativo, persegue l’utile, e in
dimostrato che il volgare il- questo si accomuna alle piante; in quanto è animale, il piacere, e in ciò sta con le
lustre non devono usarlo bestie; in quanto essere razionale, cerca l’onesto, e in questo è solo, o partecipa del- 10
tutti i versificatori ma sol-
tanto quelli eccellenti, Dan- la natura degli angeli. È chiaramente in vista di queste tre finalità che noi faccia-
te ha introdotto il tema della mo tutto ciò che facciamo; e poiché nell’àmbito di ognuna di esse ci sono cose di
dignità, alla ricerca degli ar-
gomenti che risultino degni maggiore e di massima portata,3 in quanto tali, quelle di massima portata vanno
di essere trattati nel «volgare trattate nei modi più alti, e di conseguenza nel volgare più alto.
illustre».
2 un’anima a triplice Ma occorre discutere quali siano queste cose di massima portata. E per prima 15
dimensione: la fonte è il De cosa nell’àmbito dell’utile: qui, se consideriamo attentamente lo scopo di tutti
anima di Aristotele, secondo quelli che ricercano l’utilità, troveremo che non si tratta di null’altro che della sal-
il quale all’anima (che non
va intesa in senso soggettivo vezza.4 In secondo luogo per ciò che costituisce il piacere: e qui affermiamo che
o psicologico ma come un fornisce il grado massimo del piacere ciò che dà piacere in quanto è l’oggetto più
principio vitale, l’esplica-
zione in atto della funzione prezioso dei nostri appetiti;5 che è l’amore fisico. In terzo luogo, per l’onesto: e qui 20
del corpo) «competono va- nessuno dubita che si tratti della virtù. Perciò queste tre, vale a dire salvezza, amo-
rie funzioni, che servono da
guida nell’ordinare gli esse- re e virtù, si rivelano quelle realtà auguste6 che si devono trattare nei modi più al-
ri viventi secondo una scala ti, o cioè tali si rivelano gli argomenti che hanno più stretta relazione con esse, co-
gerarchica di forme. C’è
anzitutto la funzione vegeta- me la prodezza nelle armi, l’amore ardente e la retta volontà.7 Solo di questi argo-
tiva, che è propria delle menti, se non sbagliamo, risulta che hanno poetato in volgare i personaggi illustri, 25
piante e comprende l’atti- cioè Bertrando del Bornio8 delle armi, Arnaldo Daniello9 dell’amore, Girardo del
vità nutritiva, l’attività ge-
nerativa e i processi di ac-
crescimento e di corruzio-
ne. Poi c’è la funzione sensi- pria soltanto dell’uomo, al come si capirà meglio fra volontà che tende al bene 9 Arnaldo Daniello:
tiva, che è propria degli ani- quale competono ovvia- poco. (directio voluntatis nel testo Arnaut Daniel, il maggior
mali e comprende anche mente tutte e tre le funzioni 5 appetiti: desideri. originale). rappresentante del trobar
l’attività appetitiva (mossa elencate» (Sini). 6 realtà auguste: magna- 8 Bertrando del Bornio: clus, autore di una celebre
dal desiderio) e l’attività 3 portata: importanza. lia nel testo latino, cioè “cose Bertran de Born (ca 1140- sestina. Fu attivo nell’ulti-
motrice. Infine c’è la fun- 4 salvezza: non in senso somme”. 1215), il poeta provenzale mo ventennio del XII se-
zione intellettiva, che è pro- spirituale, bensì materiale, 7 retta volontà: cioè la della guerra R T 5.3 . colo.

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Duecento e Trecento

Bornello10 della rettitudine; e così Cino Pistoiese11 dell’amore, l’amico suo12 della
rettitudine. Canta dunque Bertrando:

Non posc mudar c’un cantar non exparia;13 30

Arnaldo:
L’aura amara
fa.l bruol brancuz
clarzir;14
Giraldo: 35

Per solaz reveilar


che s’es trop endormiz;15
Cino:
Digno sono eo di morte;16
e l’amico suo: 40

Doglia mi reca ne lo core ardire.17

Di armi invece non mi risulta che nessun italiano, finora, abbia poetato.
Visto quindi tutto ciò, diventa chiaro quali temi vanno cantati nel volgare più
elevato. 45

[III] E ora tentiamo di indagare rapidamente in che forma metrica dobbiamo


costringere i temi degni di così grande volgare.
Volendo dunque render conto della forma in cui tali temi meritano di essere
concatenati, osserviamo per prima cosa che va richiamato alla memoria un fat- 50

to, cioè che coloro i quali hanno poetato in volgare hanno dato alle loro crea-
zioni poetiche forme molteplici: chi canzoni, chi ballate, chi sonetti, chi ancora
altre forme metriche senza leggi né regole, come si mostrerà più avanti. Di tut-
te queste forme metriche noi riteniamo che la canzone sia la più eccellente: per
cui, se ciò che è sommamente eccellente è degno di quanto è parimenti eccel- 55

lente in sommo grado, come si è dimostrato in precedenza, i contenuti degni del


volgare più eccellente sono anche degni della forma metrica più eccellente, e di
conseguenza vanno trattati nelle canzoni.18 [...]

[IV] Nell’àmbito poi degli argomenti che si presentano come materia di poe- 60

sia, dobbiamo aver la capacità di distinguere se si tratta di cantarli in forma tra-


gica, o comica, o elegiaca. Con tragedia vogliamo significare lo stile superiore,
con commedia quello inferiore, con elegia intendiamo lo stile degli infelici. Se
gli argomenti scelti appaiono da cantare in forma tragica, allora bisogna assume-
10 Girardo del Bornel-
lo: Giraut de Bornelh, un
re il volgare illustre, a di conseguenza annodare la canzone.19 Se invece siamo a 65

altro celebre trovatore pro- livello comico, allora si prenderà talora il volgare mediocre, talora l’umile, e i cri-
venzale, attivo nella secon- teri di distinzione in proposito ci riserviamo di esibirli nel quarto di quest’ope-
da metà del XII secolo. Il
suo canzoniere è compo- ra.20 Se infine siamo a livello elegiaco, occorre prendere solamente il volgare
sto da 76 poesie di sicura umile.
attribuzione.
11 Cino Pistoiese: per
Cino da Pistoia R 7.1. 14 L’aura... clarzir: «L’a- 16 Digno... morte: la trattato del Convivio (Rime verso,strofe a strofe,secondo
12 l’amico suo: cioè ria pungente fa schiarire i canzone è nota anche con CVI dell’ed. Barbi). un ideale di suprema misura
Dante stesso, che qui si pre- boschetti irti di rami». Si un’altra lezione: Degno son io 18 Nella parte omessa, e proporzione fra le varie
senta come poeta morale, tratta di uno dei più celebri ch’io mora (in Poeti del Due- Dante dimostra la maggiore parti. Dolcezza e armonia
cantor rectitudinis. componimenti di Arnaut cento curata da G. Contini). nobiltà della canzone sulle sono infatti i due elementi
13 Non posc... exparia: Daniel. 17 Doglia... ardire: si altre forme metriche. fondamentali e costitutivi
«Non posso trattenermi 15 Per solaz ... endor- tratta della celebre canzone 19 annodare la canzone: del volgare illustre secondo
dall’effondere un canto». È miz: «Per risvegliare la gioia della liberalità, scritta da cantionem ligare nel testo lati- Dante.
l’incipit di un sirventese che troppo è stata addor- Dante nei primi anni dell’e- no. Comporre una canzone 20 nel quarto di quest’o-
guerresco. mentata». silio, forse destinata al XIV significa annodare verso a pera: libro mai scritto.

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9. Dante Alighieri T 9.11

Guida all’analisi
Le sequenze principali del discorso Base delle retoriche medievali era il principio della congruenza (convenien-
tia) fra materia e stile, esemplificata nella «ruota di Virgilio» di Giovanni di Garlandia. Non
stupisce dunque che Dante, partendo dalla definizione di volgare «illustre», la lingua lettera-
ria che dovrà rendersi degna di una reggia e di una curia, si ponga il problema di quali ar-
gomenti, quali forme metriche, quale stile e quale verso siano i più convenienti per tale vol-
gare.
Il primo punto è sviluppato partendo da premesse filosofiche e aristoteliche: tre sono le
funzioni dell’anima (vegetativa, animale, razionale); tre le finalità individuate all’interno di
ogni funzione (utile, piacere, onesto); tre gli argomenti più elevati nell’ambito di ciascuna fi-
nalità (salvezza, amore, virtù: salus, amor, virtus: i tre magnalia); tre, dunque, i temi letteraria-
mente più nobili (prodezza nelle armi, amore ardente, retta volontà). Questi temi pretende-
ranno forme, stile e verso adeguati, e cioè, rispettivamente, la canzone, lo stile tragico, l’en-
decasillabo.
Dante non si limita ad enunciare i suoi princìpi, ma fornisce dei modelli poetici, che fi-
niscono per delineare una sorta di storia della letteratura romanza dalle origini a Dante stes-
so: accanto ai trovatori provenzali (trascelti come rappresentanti illustri di poesia guerresca,
amorosa e morale), vengono nominati Cino da Pistoia (per la poesia d’amore) e Dante stes-
so (che significativamente si assegna il ruolo di poeta della virtù). In altri passi del trattato,
qui non riportati, vengono nominati più volte i poeti siciliani, che assumono la funzione di
anello di congiunzione fra i modelli provenzali e la poesia stilnovista.
La teoria degli stili: problemi di interpretazione Se l’intero De vulgari eloquentia si presenta, causa principale l’in-
compiutezza, come un trattato problematico e di difficile interpretazione, particolarmente
discussi sono stati i paragrafi dedicati alla teoria degli stili. Chiara è soltanto la definizione
dello stile tragico, l’unico che si accordi alla profondità del pensiero (livello semantico), alla
magnificenza dei versi (livello metrico), all’altezza della costruzione (livello sintattico) e al-
l’eccellenza dei vocaboli (livello lessicale). Più difficile è invece intendere i criteri di distin-
zione per gli altri due stili, comunque non riservati al volgare illustre: intanto lo stile comi-
co, che in altri trattati risulta generalmente il più basso, occupa qui la posizione intermedia
(pur potendo fare uso, secondo la precisazione dantesca, sia del volgare medio sia di quello
umile); il terzo stile, poi, diversamente dai due precedenti, è definito in rapporto al conte-
nuto (stile degli infelici) e non ai suoi connotati stilistici. Probabilmente, come ha osservato
Mengaldo, «nella determinazione del fondamentale rapporto materia-stile s’incrociano, sen-
za fondersi appieno, due diverse prospettive: la contrapposizione bipolare di un livello stili-
stico alto e di uno inferiore, antonomasticamente indicati con tragedia e comedia, secondo la
tradizione [...] che permette a Dante di isolare, come per ora gli preme, l’esperienza stilisti-
ca “tragica” della canzone illustre dalle altre, inferiori; e d’altra parte il diffusissimo schema
della tripartizione degli stili». Per un’ulteriore evoluzione del discorso, si vedano le posizio-
ni di Dante nell’epistola a Cangrande della Scala [R T 9.13 ], scritta ormai all’altezza della
composizione del Paradiso.

Laboratorio 1 Riassumi l’ordine del discorso sviluppato 3 Qual è la forma metrica più alta della no-
COMPRENSIONE dall’autore. stra letteratura secondo il criterio dante-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE 2 Quali sono gli argomenti più elevati che sco?
Dante considera idonei al volgare illustre 4 Esponi la teoria dei tre stili così come è
e allo stile tragico? illustrata da Dante.

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Duecento e Trecento

T 9.12 Monarchia 1311-1313


Natura e finalità del potere temporale [III, 15]
Dante Nel capitolo conclusivo della Monarchia, Dante affronta la questione politico-religiosa
Monarchia più spinosa dell’epoca: la relazione fra pontefice e imperatore, potere spirituale e pote-
a c. di B. Nardi, re temporale.
in Opere minori,
Da un secolo la Chiesa, soprattutto con Innocenzo III e Bonifacio VIII, aveva opera-
tomo II, Ricciardi, Mi-
lano-Napoli 1979 to per affermare il principio teocratico della subordinazione del potere temporale a
quello spirituale. Lo stesso Tommaso d’Aquino, che pure, fondandosi su Aristotele, ave-
va sostenuto la naturalità del potere politico (lo Stato è prodotto di natura; le leggi isti-
tuite dallo Stato non devono discordare dalle leggi naturali), era giunto alla conclusio-
ne che tutti i re cristiani dovessero essere subordinati al pontefice. Secondo san Tom-
maso, infatti, «il potere corporale e temporale dipendono sempre dal potere spirituale,
come l’operazione del corpo dipende dalla potenza dell’anima» (De regimine principum
III, 10).
Il primato del sacerdotium sul regnum era del resto determinato dalla finalità stessa di
ogni società umana: promuovere il bene spirituale dei cittadini. Tale compito è svolto
direttamente dalla Chiesa, indirettamente dai governanti, il cui massimo ufficio è quel-
lo di favorire il culto divino e «far pervenire gli uomini attraverso una vita virtuosa al
godimento di Dio». Diversa, come si vedrà dalla lettura di questo passo, è la posizione
di Dante, che vuole dimostrare che il potere imperiale deriva direttamente da Dio. Per
farlo, secondo i tipici procedimenti della filosofia scolastica contemporanea, parte da un
principio generale: l’uomo è un essere intermedio, dotato di un’anima e di un corpo.

1 riduzione “all’assur- [XV] Sebbene nel capitolo precedente sia stato provato, per riduzione “all’assur-
do”: cioè per via negativa.
Ora Dante procederà a una do”,1 che l’autorità dell’Impero non deriva dall’autorità del sommo Pontefice,
dimostrazione «per via di- tuttavia non è stato affatto dimostrato che essa dipenda immediatamente da Dio,
retta» (come viene detto
poco dopo). I due procedi- se non in quanto ciò ne viene di conseguenza. È logico infatti che, se non dipen-
menti erano tipici della filo- de dallo stesso vicario di Dio, debba dipendere da Dio. Perciò, per una completa 5
sofia scolastica. determinazione dell’assunto, dobbiamo provare “per via diretta” che l’Imperatore,
2 sicché ... emisferi: pa-
ragone che l’autore traeva cioè il Monarca del mondo, dipende immediatamente dal sovrano dell’universo,
dal Liber de causis [Sulle cause] cioè da Dio. Ad intendere come ciò sia possibile, è da sapere come soltanto l’uo-
di Aristotele («il Filosofo»
per eccellenza, come viene mo fra gli esseri occupa una posizione intermedia tra le cose corruttibili e quelle
definito subito dopo). incorruttibili; sicché a ragione viene dai filosofi paragonato all’orizzonte che si 10
3 di guisa che: di mo-
do che. trova nel mezzo tra due emisferi.2 Se infatti si consideri l’uomo secondo l’una e
l’altra parte della sua essenza, cioè l’anima e il corpo, egli è corruttibile; se si con-
sideri soltanto secondo una parte, cioè l’anima, egli è incorruttibile. Onde ben
s’espresse il Filosofo riguardo ad essa, in quanto è incorruttibile, quando disse nel
secondo Dell’anima: «E soltanto a queste, in quanto immortale, accade di separar- 15
si da ciò che è corruttibile». Or dunque: se l’uomo è qualcosa di mezzo tra gli es-
seri corruttibili e quelli incorruttibili, siccome ogni mezzo tiene della natura de-
gli estremi, è necessario che l’uomo tenga d’una natura e dell’altra. E siccome cia-
scuna natura è ordinata a un suo fine ultimo, ne consegue che duplice sia il fine
dell’uomo: di guisa che,3 com’egli solo fra tutti gli esseri partecipa dell’incorrutti- 20
bilità e della corruttibilità, così egli solo fra tutti gli esseri sia ordinato a due mète
ultime, una delle quali sia suo fine in quanto è corruttibile, l’altra in quantoincor-
ruttibile.
Due fini, adunque, cui tendere l’ineffabile Provvidenza pose innanzi all’uomo:
vale a dire la beatitudine di questa vita, consistente nell’esplicazione delle proprie 25
facoltà e raffigurata nel paradiso terrestre; e la beatitudine della vita eterna, consi-
stente nel godimento della visione di Dio, cui la virtù propria dell’uomo non può
giungere senza il soccorso del lume divino, e adombrata nel paradiso celeste. A

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9. Dante Alighieri T 9.12

queste [due] beatitudini, come a [due] conclusioni diverse, conviene arrivare con
procedimenti diversi. Alla prima invero noi perveniamo per mezzo delle dottrine 30

filosofiche, purché le seguiamo praticando le virtù morali e quelle intellettuali; al-


la seconda invece giungiamo per mezzo degl’insegnamenti divini che trascendo-
no la ragione umana, purché li seguiamo praticando le virtù teologiche,4 cioè la
fede, la speranza e la carità. Benché queste conclusioni e questi procedimenti sia-
no stati a noi mostrati, quelli dalla ragione umana, tutta quanta per noi spiegata ad 35

opera dei filosofi, questi dallo Spirito Santo che per mezzo dei profeti e degli
scrittori ispirati, per mezzo di Gesù Cristo, figliuol di Dio, a lui coeterno,5 e dei
suoi discepoli ci ha rivelato la verità sovrannaturale a noi necessaria, tuttavia l’u-
mana cupidigia se li butterebbe dietro le spalle, se gli uomini, a guisa di cavalli,
portati dalla loro bestialità ad andar vagando, non fossero trattenuti nel loro viag- 40

gio «con la briglia e col freno».6 Per questo fu necessaria all’uomo una duplice
4 le virtù morali... le
guida corrispondente al duplice fine: cioè il sommo Pontefice, che conducesse il
virtù teologiche: ovvero le genere umano alla vita eterna per mezzo delle dottrine rivelate; e l’Imperatore, il
virtù cardinali (fortezza, quale indirizzasse il genere umano alla felicità temporale per mezzo degl’insegna-
temperanza, prudenza giu-
stizia) e le virtù teologali (fe- menti della filosofia. E siccome a questo porto nessuno, o soltanto pochi, e anche 45
de, speranza, carità). questi con soverchia difficoltà, possono arrivare, se il genere umano, sedati i flutti
5 a lui coeterno: classica
formula del cattolicesimo: della blanda cupidigia,7 non riposa libero nella tranquillità della pace, a questo fi-
poiché Dio è Uno, ciascuna ne appunto deve tendere con tutte le forze colui che ha cura del mondo e che di-
delle tre Persone divine è
coeterna e consunstanziale cesi Principe romano, che si possa cioè vivere liberamente in pace in questa aiuo-
all’altra. la dei mortali.8 E siccome la disposizione di questo mondo è conseguenza della 50
6 «con la briglia e col
freno»: citazione dai Salmi
disposizione risultante dal ruotare dei cieli,9 perché gli utili insegnamenti della li-
(XXXI, 9), in camo et in freno. bertà e della pace vengano applicati senza intoppo ai luoghi e ai tempi, è necessa-
7 sedati... cupidigia: rio che a questo curatore sia provveduto da Colui che ha presente al suo sguardo
placate le onde della cupidi-
gia allettatrice. Continua la tutta quanta la disposizione dei cieli. Or questi è soltanto colui che tal disposizio-
metafora marina iniziata ne preordinò, sì che per mezzo di essa, nella sua provvidenza, ogni cosa ha legato 55
con l’immagine del porto.
8 aiuola dei mortali:è la al posto che le spetta. Se così è, egli solo elegge, egli solo conferma poiché non ha
terra.La medesima immagi- alcuno sopra di sé. Dal che si può inoltre ricavare, che né quelli dei nostri giorni
ne ritornerà in Pd XXII
151. né altri che in qualunque modo sono stati detti “elettori”,10 han da chiamarsi con
9 E siccome... cieli: se- questo nome; ma piuttosto son da ritenere “annunciatori del provvedere divino”.
condo la teoria degli influssi Onde avviene che talvolta quelli cui è stato conferito l’onore di dare questo an- 60
celesti, l’aspetto (disposi-
zione) della terra dipende nuncio, son tra loro discordi, o perché tutti o perché alcuni di loro, ottenebrati
dalla disposizione dei cieli dalla nebbia della cupidigia, non riescono a discernere la faccia della divina dispo-
che ruotano intorno ad essa.
10 “elettori”: da cui di sizione. Così appar dunque evidente che l’autorità del Monarca temporale di-
fatto dipendeva la nomina scende in esso senza alcun intermediario dal Fonte dell’universale autorità; il qual
dell’Imperatore. Con la
Bolla d’oro, emanata da Fonte, unito nella rocca della sua semplice natura, si spande in molteplici rivi per 65

Carlo IV nel 1356, la desi- sovrabbondanza della sua bontà.


gnazione fu affidata a sette
grandi elettori tedeschi: E ciò mi par che basti ormai al raggiungimento della mèta propostami. Giac-
l’Impero, contro le attese di ché è stata svelata appieno la verità sul problema, se al benessere del mondo fosse
Dante, abdicava definitiva- necessario l’ufficio del Monarca, e sul problema se il popolo romano a buon di-
mente al suo carattere cri-
stiano e universale, per dive- ritto si sia arrogato l’Impero, nonché sull’ultimo quesito, se l’autorità del Monar- 70
nire Sacro Romano Impero ca dipendesse immediatamente da Dio oppure da qualche altro.11 La verità, per al-
della Nazione Germanica.
Si leggano anche le invettive tro, a riguardo dell’ultima questione non va intesa così strettamente, nel senso che
dantesche contro gli Asbur- il Principe romano non sottostia in qualche cosa al romano Pontefice, essendo la
go contenute nel VI canto
del Purgatorio. beatitudine di questa vita mortale ordinata in qualche modo alla beatitudine im-
11 se al benessere... al- mortale. Usi pertanto Cesare quella riverenza verso Pietro,12 che il figlio primo- 75
tro: sono i tre quesiti ai quali
Dante dedica i tre libri del genito ha da usare verso il padre; sì che, illuminato dalla luce della grazia paterna,
trattato. possa con maggiore efficacia irraggiare la terra, al cui governo è stato preposto
12 Cesare... Pietro: i fon-
datori dell’Impero e della
soltanto da Colui che di tutte le cose spirituali e temporali ha il dominio.
Chiesa.

255 © Casa Editrice Principato


Duecento e Trecento

Guida all’analisi
Contenuto del capitolo Ricapitoliamo i punti principali del capitolo, teso, come si è detto, a dimostrare l’auto-
nomia dell’istituzione imperiale e la separazione dei due poteri.
– Dante parte da un principio generale: l’uomo, composto di corpo e di anima, possiede
una duplice natura. Duplice sarà perciò anche il fine dell’uomo: naturale e sovrannaturale.
– Nell’ambito della vita naturale, che è posta sotto il segno della corruttibilità e della transi-
torietà, gli uomini possono cercare la felicità terrena per mezzo delle virtù morali e intel-
lettuali. L’imperatore guida dunque l’umanità alla felicità temporale secondo i dettami della
Filosofia, assicurando la pace e la giustizia nel mondo.
– Nell’ambito della vita sovrannaturale, che non è sottoposta a corruzione e non è transito-
ria come la precedente, gli uomini aspirano alla felicità celeste assistiti dalla grazia e dalle
virtù teologali (fede, speranza, carità). Il pontefice guida dunque l’umanità alla vita eterna
secondo i dettami della Rivelazione.
– Sia l’imperatore sia il pontefice devono obbedienza a Dio, ma sono autonomi nell’ambi-
to delle loro rispettive competenze. La supremazia del papa, derivante dalla superiorità dei
fini sovrannaturali su quelli temporali, è risolta esclusivamente sul piano morale: l’imperato-
re deve rispetto al pontefice come un figlio primogenito al padre, così che, «illuminato dal-
la luce della grazia paterna», egli illumini con maggior vigore il globo terrestre al quale è
stato preposto direttamente da Dio.
Una conclusione problematica La conclusione dell’opera, che ad alcuni studiosi è parsa dettata da una certa
cautela, e forse dal timore di una condanna ecclesiastica, è stata variamente interpretata. Sa-
pegno, ad esempio, osserva: «tale correzione ha tutta l’aria di una ritirata, imposta da uno
scrupolo o da una cautela tardiva; più probabilmente da un compromesso sul terreno prati-
co, non diverso dai molti che saranno via via escogitati nei secoli per risolvere provvisoria-
mente il problema delle relazioni fra lo Stato e la Chiesa». Forse, molto più semplicemente,
Dante non può fare a meno, come ogni buon cristiano, di riconoscere la sproporzione esi-
stente fra le due nature dell’uomo: corruttibile e transitoria l’una (il corpo), incorruttibile
ed eterna l’altra (l’anima). Il vero fine di ogni uomo, insomma, è la salvezza spirituale. Tale
inevitabile, e in fondo scontata precisazione, non altera tuttavia il rigore del discorso: finché
vive su questa terra, l’uomo deve misurarsi con due nature contrastanti (corpo, anima), vol-
te a fini diversi (felicità terrena, beatitudine eterna), cui necessitano strumenti diversi (ra-
gione, fede) e perciò due diverse guide (l’imperatore e il pontefice).
Lingua e stile Lo stile della Monarchia presenta il tipico andamento della prosa latina scolastica, fondata su
una scrittura rigorosa e argomentata. Si noterà tuttavia che nella pagina conclusiva Dante
adotta uno stile più solenne, ispirato alla prosa profetica dei testi sacri. Il discorso è dunque so-
stenuto dall’uso di similitudini e di metafore di particolare energia visiva e morale: uomini
che sarebbero trascinati dalla loro bestialità a vagare a guisa di cavalli, non fossero trattenuti
«con la briglia e col freno» (metafora biblica); la vita umana come una nave che, tra i flutti del-
la cupidigia, tende alla quiete del porto; elettori «ottenebrati dalla nebbia della cupidigia».
Dante non disdegna inoltre immagini tradizionali, come quelle del fonte (che si spande in mol-
teplici rivi) e della rocca per indicare la figura divina, o come quelle del figlio e del padre per in-
dicare le due grandi autorità medievali.

Laboratorio 1 Quale posto occupa l’uomo «tra le cose 4 Da quale fonte, secondo Dante, discende
COMPRENSIONE corruttibili e quelle incorruttibili»? l’autorità imperiale?
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE 2 Chi è il «filosofo» di cui Dante cita un li- 5 Quali rapporti intercorrono fra pontefice
bro del trattato De anima? Sapresti dire e imperatore? Si può definire problemati-
quando è vissuto e perché Dante lo cita co, alla luce del discorso svolto da Dante,
come un’autorità? il finale dell’opera? Motiva il tuo giudizio
3 Quali sono i due fini dell’uomo? E con anche alla luce della situazione storica in
quali mezzi può giungere ad essi? cui Dante opera e scrive.

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9. Dante Alighieri T 9.12

Doc 9.5 I fondamenti dell’idea imperiale in Dante

A. Passerin d’Entrè- Alessandro Passerin d’Entrèves, uno dei maggiori storici delle dottrine giuridiche e
ves, Dante politico e altri politiche medievali, ha indagato sulle possibili fonti dell’idea imperiale sviluppata da
saggi, Einaudi, Torino
1955, pp. 60 e sgg.
Dante nella Monarchia, giungendo a individuare tre fattori: lo studio del diritto romano
(cui Dante si accostò inizialmente attraverso l’Università di Bologna), il concetto di
Roma (che dovette svilupparsi nel poeta sia attraverso l’impressione sensibile della
città, sia attraverso le letture), l’insegnamento di Virgilio. Fattori cui Passerin d’Entrèves
aggiunge un elemento determinante della mentalità contemporanea, il cosiddetto ar-
gumentum unitatis, l’idea di unità che «nel pensiero medievale assurge a vero e proprio
principio strutturale della realtà».

Se potessi arrischiare una congettura circa le possibili fonti della scoperta dell’Impero da
parte di Dante, non esiterei a mettervi il diritto romano come la prima e forse la più im-
portante. [...] a mio parere non può sussistere dubbio possibile che la conoscenza che Dan-
te ebbe del diritto fosse tutt’altro che superficiale, poiché in molte delle sue opere troviamo
riferimenti frequenti e precisi al Corpus iuris, insieme alle altre principali fonti del diritto (ra-
gione), così civile come canonico. Il poeta che fra tutti gli imperatori prescelse Giustiniano a
simboleggiare l’Impero romano nel Paradiso, sapeva bene quel che faceva: «Cesare fui e son
Iustinïano, / che, per voler del primo amor ch’i’ sento, / d’entro le leggi trassi il troppo e ’l
vano» (Pd VI 10-12).
Subito dopo la sua conoscenza del diritto romano io porrei, fra i fattori determinanti del
suo “imperialismo”, l’impressione che Roma stessa e la sua passata gloria produssero nell’a-
nimo del poeta. Molto s’è scritto sull’idea di Roma nel Medioevo. Nel caso di Dante ab-
biamo il raro privilegio di partecipare, per dir così, alla sua propria esperienza. Lo sfondo
vien fornito dalle leggende che [...] correvano a Firenze circa le origini romane della città.
Già molto prima che il concetto dell’Impero avesse preso forma nella mente di Dante, gli
era stata inculcata l’idea che il più alto titolo di nobiltà dei Fiorentini consistesse nella loro
discendenza romana, e che Firenze fosse «la bellissima e famosissima figlia di Roma» (Conv.
I, III, 4). Seguì l’impressione profonda e vivida di Roma che non doveva più cancellarglisi:
un’impressione che forse risaliva all’anno del Giubileo, con le sue folle ammassate sul pon-
te di Castel Sant’Angelo (If XVIII 28-33). Le pietre stesse della città sacra avevan parlato al
cuore del poeta (Conv. IV,V, 20). E la magnificenza testimoniatagli dalle rovine gli si rivela-
va ulteriormente attraverso la lettura dei classici: soprattutto la lettura di Virgilio, «lo mio
maestro e ’l mio autore (If I 85). [...]
Forse è l’insegnamento di Virgilio, più di qualsiasi argomento “ghibellino” in favore del-
l’Impero, che potrà renderci conto della scoperta da parte di Dante della missione “provvi-
denziale” di Roma, e di quella ritrattazione delle sue precedenti vedute su quell’argomen-
to che segna un passo decisivo nel processo di maturazione della sua teoria politica. Se
Dante era partito dalla credenza “guelfa” che il fondamento della potenza romana era da
identificarsi nella violenza, fu Virgilio che lo aiutò a raggiungere una diversa interpretazio-
ne. Fu invero Virgilio ad attestargli la necessità storica di quella monarchia perfetta che, assi-
1 Alla lettera, la “pie-
curando la pace universale, aveva reso possibile la venuta del Messia. L’«ottima disposizione
nezza dei tempi”, in rife- della terra» (Conv. IV,V, 4), la plenitudo temporis,1 nominata da san Paolo (Gal. IV, 4), che ave-
rimento al numero dei se- va ossessionato gli storici medievali, appariva ora a Dante coincidere con l’era di Augusto e
coli stabiliti per il mistero con l’istituzione dell’Impero. Sarebbe arrivato un tempo in cui Dante avrebbe avuto ben
dell’Incarnazione.
più da dire intorno alle profezie di Virgilio; tuttavia, a onta di quelle modifiche che le sue
vedute sulla missione di Roma possono aver subìto ai tempi del poema,Virgilio rimase per
lui non soltanto il maestro insuperato del «bello stilo che m’ha fatto onore» (If I 87), ma il
fattore decisivo della sua interpretazione della storia.
Dirò da ultimo, ma non perché importi meno, che fra gli elementi compositivi di quel
quadro che tento di tracciare, ce n’è uno che di certo deve anche avere avuto un grave pe-
so nella conversione di Dante all’idea imperiale. È l’idea dell’unità – l’argumentum unitatis –
che nel pensiero medievale assurge a vero e proprio principio “strutturale” della realtà.

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Duecento e Trecento

T 9.13 Epistole 1315-1317


A Cangrande della Scala [XIII passim]
Dante L’epistola XIII a Cangrande della Scala, di cui alcuni studiosi hanno peraltro contestato
Epistole l’autenticità, si pensa sia stata scritta tra il 1315 e il 1317, quando Dante era ormai im-
a c. di A. Frugoni e pegnato nella composizione del Paradiso.
G. Brugnoli, in Opere
Memorabile la dedica iniziale, poi riproposta anche nel titolo della Commedia: in essa
minori, tomo II, Ricciar-
di, Milano-Napoli 1979 il poeta si presenta come Dantes Alagherii florentinus natione non moribus (“Dante Alighie-
ri fiorentino di nascita non di costumi”), e si richiama orgogliosamente all’amicizia del
signore di Verona, la cui famiglia aveva in più occasioni ospitato Dante fin dai primi
tempi dell’esilio.
Proprio a Cangrande il poeta offre in dono sublimem canticam que decoratur titulo Para-
disi (“la sublime cantica della Commedia che si fregia del titolo di Paradiso”). Il dono è
accompagnato da un commento introduttivo al poema, del quale sono spiegati subiec-
tum, agens, forma, finis, libri titulus, et genus phylosophie, ovvero “soggetto, autore, forma, fi-
ne, titolo del libro, e genere di filosofia”. Le parti più significative, qui riportate, sono
quelle in cui Dante illustra il carattere allegorico del poema (argomento già trattato nel
Convivio) e il significato del titolo (Comedia).

1 polisemos: dai molti si- [7]. Per chiarire quello che si dirà bisogna premettere che il significato di code-
gnificati, vocabolo greco
composto dall’aggettivo sta opera non è uno solo, anzi può definirsi un significato polisemos,1 cioè di più
polús (“molto, numeroso”) e significati. Infatti il primo significato è quello che si ha dalla lettera del testo, l’al-
dal verbo semáino (“mostro, tro è quello che si ha da quel che si volle significare con la lettera del testo. Il pri-
significo”).
2 anagogico: da anagogia mo si dice letterale, il secondo invece significato allegorico o morale o anagogi- 5
(parola greca composta di co.2 Questi diversi modi di trattare un argomento si possono esemplificare, per
aná,“su”, e ágo,“conduco”):
indica il rapimento dell’ani- maggior chiarezza, con i versetti: «Allorché dall'Egitto uscì Israele, e la casa di Gia-
ma che si volge alla contem- cobbe (si partì) da un popolo barbaro; la nazione giudea venne consacrata a Dio; e
plazione del divino.
3 «Allorché ... Israele»: dominio di Lui venne ad essere Israele»3. Infatti se guardiamo alla sola lettera del
è l’inizio del salmo 113, nel testo, il significato è che i figli di Israele uscirono d’Egitto, al tempo di Mosè; se 10
quale è ricordata la fuga de-
gli Ebrei dall’Egitto e il loro guardiamo all’allegoria, il significato è che noi siamo stati redenti da Cristo; se
viaggio verso la Terra pro- guardiamo al significato morale, il senso è che l’anima passa dalle tenebre e dalla
messa. Il popolo barbaro è infelicità del peccato allo stato di grazia; se guardiamo al significato anagogico, il
dunque quello egizio; Gia-
cobbe è il grande patriarca senso è che l’anima santificata esce dalla schiavitù della presente corruzione terre-
biblico. na alla libertà dell’eterna gloria.4 E benché questi significati mistici5 siano defini- 15
4 eterna gloria: il regno
dei cieli. ti con diversi nomi, generalmente si possono tutti definire allegorici, in quanto si
5 mistici: qui nel senso differenziano dal significato letterale ossia storico. Infatti la parola “allegoria” deri-
di “nascosti”.
6 Infatti ... “diverso”: va dal greco “alleon” che è reso in latino con “alienum” ossia “diverso”.6
allegoria deriva in effetti [8]. Ciò premesso è chiaro che il soggetto di un’opera, sotto posto a due diver-
dall’aggettivo állos (“altro,
differente”) e dal verbo si significati, sarà duplice. E perciò si dovrà esaminare il soggetto della presente 20
agoréuo (“annuncio, parlo”). opera se esso si prende alla lettera e poi se s’interpreta allegoricamente. È dunque
Inutile ricordare che Dante il soggetto di tutta l’opera, se si prende alla lettera, lo stato delle anime dopo la
non conosceva il greco, e
che la grafia indicata è scor- morte inteso in generale; su questo soggetto e intorno ad esso si svolge tutta l’o-
retta. pera. Ma se si considera l’opera sul piano allegorico, il soggetto è l’uomo in quan-
7 Per capire...“canto”:
l’etimologia, ricavata dalle to, per i meriti e demeriti acquisiti con libero arbitrio, ha conseguito premi e pu- 25
Derivationes (famoso e diffu- nizioni da parte della giustizia divina. [...]
so repertorio lessicografico
di Uguccione da Pisa, ulti- [10]. Il titolo del libro è: “Incomincia la Comedìa di Dante Alighieri, fiorentino
mo decennio sec. XII), è og- di nascita, non di costumi”. Per capire il titolo bisogna sapere che la parola “co-
gi contestata, così come
quella, successiva, di trage- medìa” deriva dalla parola “comos” che significa “villaggio” e “oda” che significa
dia. “canto”,7 per cui “comedìa” come se fosse “canto villereccio”. Ed è la comedìa 30
un genere di narrazione poetica diverso da tutti gli altri. Si diversifica dalla tra-
gedìa per la materia in questo che la tragedìa all’inizio è meravigliosa e placida e
alla fine, cioè nella conclusione, fetida e paurosa; ed è detta tragedìa per questo da
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9. Dante Alighieri T 9.13

“tragos” che significa “capro” e “oda”, come se fosse “canto del capro”, cioè feti-
do come il capro; come risulta dalle tragedìe di Seneca.8 La comedìa invece inizia 35
dalla narrazione di situazioni difficili, ma la sua materia finisce bene, come risulta
dalle comedìe di Terenzio.9 È questa la ragione per cui alcuni dettatori presero
l’abitudine di adoperare, nelle formule di saluto, la frase: “Ti auguro tragico prin-
cipio e comica fine”. Similmente tragedìa e comedìa si diversificano per il lin-
guaggio che è alto e sublime nella tragedìa, dimesso e umile nella comedìa, come 40
dice Orazio10 nella sua Poetica quando dichiara che è permesso qualche volta agli
scrittori di comedìe di esprimersi come gli scrittori di tragedìe e viceversa:

Ma qualche volta anche la comedìa si alza dì tono


e Cremete11 irato rimprovera con tumido linguaggio 45
e nella tragedìa Telefo e Peleo12 si dolgono con discorso
pedestre13 ecc.

E da questo è chiaro che Comedìa si può definire la presente opera. Infatti se


guardiamo alla materia, all'inizio essa è paurosa e fetida perché tratta dell’Inferno, 50
ma ha una fine buona, desiderabile e gradita, perché tratta del Paradiso. Per quel
che riguarda il linguaggio questo è dimesso e umile perché si tratta della parlata
volgare che usano anche le donnette.

8 Seneca: il maggior 10 Orazio: il celebre quello basso della comme- di Misia, fu ferito da Achille, o Musa pedestris (Sermones II,
tragico latino, attivo in età poeta latino di età augustea dia si fossero qualche volta e in seguito, travestito da 6, 17) sono espressioni con
giulio-claudia, cui si devo- (69-8 a.C.), ricordato da contaminati. mendicante, si recò al cam- cui Orazio indica un lin-
no nove tragedie di magni- Dante nel limbo (If IV 89) 11 Cremete: nome con- po greco per ottenere la guaggio vicino a quello
loquente e truce intensità come satiro, cioè autore del- sueto, nella commedia anti- guarigione (come l’oracolo dell’uso: lo stile, insomma,
drammatica. Dante lo ri- le Satire e delle Epistole in ca, del padre severo in pe- aveva prescritto) proprio adatto a generi umili come
corda come autore di tratta- esametri. Compose anche renne conflitto con il figlio dal suo feritore. Peleo è il la commedia o la satira. Pe-
ti filosofici e morali in If IV un trattato in versi, l’Ars poe- dissipatore e scapestrato. padre di Achille.A Euripide, dester, del resto, ha in latino
141. tica appunto, che influenzò Forse Dante ha in mente autore greco di tragedie, in anche il senso di “prosasti-
9 Terenzio: il maggior ampiamente fino all’avven- l’omonimo personaggio cui il linguaggio tragico si co”. Musa pedestris sarà dun-
comico latino, vissuto nella to del romanticismo la cul- dell’Heautontimorumenos [Il contamina per la prima vol- que una poesia che si avvi-
prima metà del II secolo tura letteraria e figurativa punitore di se stesso] di Teren- ta con quello più basso della cina, nella lingua e nello sti-
a.C.: fu autore di sei com- europea. Il brano che segue zio. Tumido qui significa commedia, gli antichi attri- le, alla prosa.
medie che godettero di am- corrisponde ai vv. 93-96 “gonfio, ridondante, am- buirono un Telefo e un Peleo
pia fortuna in età medievale dell’opera, passo nel quale polloso”. entrambi perduti.
per il loro carattere pedago- Orazio ricorda come il lin- 12 Telefo e Peleo: perso- 13 discorso pedestre:
gico e morale. guaggio alto della tragedia e naggi da tragedia.Telefo, re sermo pedester (Ars poetica 95)

Guida all’analisi
Polisemia e allegorismo In un passo del Convivio, Dante aveva già introdotto la nozione di allegoria, distin-
guendo fra l’allegoria dei poeti e l’allegoria dei teologi: la prima si differenziava dalla secon-
da perché il piano letterale era una pura invenzione del poeta, una «bella menzogna» usata
per esprimere grandi verità. L’esempio addotto era quello di Orfeo, che, secondo la favola
ovidiana, sapeva rendere mansuete le fiere con il suo canto: finzione poetica per dire che il
saggio, con lo strumento della parola, può commuovere e trasformare gli animi più selvaggi
e irrequieti. Nell’allegoria dei teologi, al contrario, il piano letterale era costituito da un rac-
conto storicamente veritiero, com’era (nella prospettiva di un cristiano) quello dei testi sacri.
In conclusione al suo discorso, Dante affermava di volersi occupare esclusivamente dell’alle-
goria dei poeti.
Altra è invece la situazione delineata nell’epistola a Cangrande, dove, per spiegare la no-
zione di allegoria, il poeta ricorre non a un esempio poetico (la favola di Orfeo) ma a un

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Duecento e Trecento

esempio biblico (quello del popolo d’Israele uscito dall’Egitto). Una scelta significativa, e
certamente non casuale: per dirla con le parole di un celebre dantista, Etienne Gilson, «la
Divina Commedia deve interpretarsi, fatte le debite proporzioni, come i libri dell’Antico e del
Nuovo Testamento». Dante vuole insomma mettere in risalto il carattere profetico e religioso
del suo poema, volto a trasformare radicalmente la società cristiana del suo tempo.
E tuttavia Dante non si ferma qui: la polisemia del poema nasce dalla scoperta della
complessità del reale, dalla necessità di comprenderlo in tutta la sua pienezza: le vicende e i
personaggi della Divina Commedia non sono pure finzioni per esprimere verità di ordine al-
legorico, ma esprimono innanzitutto una loro verità storica e umana, l’esigenza di un reali-
smo profondo, l’esigenza, cioè, di accogliere tutta la realtà, sia quella alta e sublime sia quel-
la più umile o abietta.
Il titolo e lo stile Ugualmente significative sono le note relative al titolo dell’opera (Comedía). Dante ri-
corre a due argomenti, il primo di natura contenutistica (la commedia, diversamente dal-
la tragedia, inizia male ma finisce bene: dall’inferno si giunge insomma al paradiso; dal do-
minio del male al trionfo del bene), il secondo di natura stilistica (la scelta di uno stile
umile e dimesso, parlato perfino dalle donne del popolo, ovvero la lingua volgare). La
commistione di registri bassi e alti, che è la grande novità del poema, viene spiegata con i
versi oraziani dell’Ars poetica, nei quali si dice come talvolta commedia e tragedia conta-
minassero i propri linguaggi. È quello che Erich Auerbach, in un suo celebre saggio, chia-
merà «mescolanza degli stili».

n Arrigo VII assedia la città


di San Giovanni Valdarno.

Laboratorio 1 Chi è l’illustre personalità alla quale si ri- te? E a quale esempio ricorre per illu-
COMPRENSIONE volge Dante? Perché il poeta si rivolge strarli?
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE proprio a lui per illustrare il progetto del 3 Come viene motivato il titolo Commedia
suo poema? attribuito al poema?
2 Quali significati allegorici individua Dan-
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9. Dante Alighieri VERIFICA

VERIFICA

9.1 La vita e le opere


1 Quali personalità della cultura fiorentina del secondo Duecento influenzarono di più Dante?
2 In seguito a quale fatto, e in quali anni, il poeta si avvicinò agli studi filosofici e teologici?
3 Riassumi i fatti più significativi della partecipazione di Dante alla vita politica fiorentina.
4 Delinea con ordine gli avvenimenti che portarono al colpo di Stato dei Neri nel novembre 1301?
5 Perché Dante fu esiliato? In che modo cercò, negli anni successivi, di rientrare in Firenze?
6 Elenca in ordine cronologico i luoghi, le città e le corti in cui visse Dante dopo la condanna del 1302.
7 Elenca i titoli delle maggiori opere di Dante, indicando le date (probabili) di composizione.
8 Che cosa intendiamo con il termine «sperimentalismo»? Per quale motivo Gianfranco Contini
parla di «sperimentalismo sfrenato» a proposito dell’opera dantesca?
9.2 Un “romanzo di formazione”: la Vita Nuova
9 La Vita Nuova è un prosimetro: che cosa intendiamo con questo termine? Quali furono i modelli
di prosimetro che Dante tenne presenti nell’elaborazione dell’opera?
10 Che cosa significa «vita nuova»? In quale parte dell’opera viene spiegato il senso del titolo?
11 Riassumi schematicamente i fatti narrativi più importanti dell’opera.
12 Spiega il valore pregnante delle seguenti espressioni presenti nella Vita Nuova: donna dello scher-
mo, saluto, gabbo, poesia della loda, donna gentile.
13 Dai un’identità alla figura letteraria di Beatrice: perché è definita un «numero nove», cioè perché
questo numero fu in tanto amico di lei? Qual è il significato simbolico del suo nome?
14 Si può parlare della Vita Nuova come di un’opera agiografica?
15 Illustra il significato profondo della vicenda d’amore narrata nella Vita Nuova.
9.3 Le Rime

16 In quali testi che conosci Dante fa esplicito riferimento alla narrativa romanzesca francese?
17 Sia la tenzone con Forese sia le rime petrose arricchiscono la lingua poetica di Dante di elementi
nuovi, ignoti fino all’epoca della Vita Nuova: sapresti dire quali?
9.4 Un trattato filosofico in lingua volgare: il Convivio
18 Descrivi il progetto originario del Convivio: quali parti sono state completate?

9.5 Un trattato in lingua latina sul volgare: De vulgari eloquentia


19 Come possiamo spiegare il fatto che Dante componga il Convivio in volgare e il De vulgari elo-
quentia in latino?
20 Quali sono gli argomenti che più si confanno allo stile tragico?

9.6 Un trattato di riflessione politico-religiosa: la Monarchia


21 Quali argomenti svolge Dante nei tre libri della Monarchia?
9.7 La Divina Commedia
22 Descrivi la struttura e l’ordinamento delle tre cantiche.
23 Chi sono le guide che accompagnano Dante? Che cosa rappresentano sul piano simbolico?
24 Polisemia o pluralità dei significati della Commedia. I quattro sensi: letterale, allegorico, morale,
anagogico.
25 Che cosa distingue la cantica del Paradiso dalle due precedenti?
26 La concezione della storia in Dante.
27 Pluralità e compresenza di registri stilistici nella Divina Commedia.
28 Significato del poema tra letteratura e profezia.
29 Dante auctor e agens: spiega questi due termini applicati alla figura del poeta-viaggiatore.
30 Il tema del viaggio nel poema: suoi significati.
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Duecento e Trecento

Le forme della narrativa


10 in Italia fino al Boccaccio
n Scena conviviale. Miniatu-
ra del XIV secolo.

La variegata materia delle chansons de geste e medio borghese, viene prevalentemente diffusa nella
dei romanzi cavallereschi francesi si diffonde assai forma scritta del romanzo. In questo ambito spiccano
presto anche in Italia in forma orale, ma solo nel cor- due opere, incentrate sulla vicenda di Tristano: il Tri-
so del XIII e XIV secolo si sviluppa una narrativa stano Riccardiano e la Tavola Ritonda.
scritta che traduce e talora rielabora in modo origi- La materia carolingia, che viceversa ha come de-
nale questa tradizione. stinatario privilegiato il pubblico popolare, è da princi-
Il fatto saliente è la contaminazione dei cicli e dei pio diffusa oralmente tramite i cantari recitati nelle
generi: la cultura “cortese”, raffinata e laica, colora piazze. Storicamente importante è la produzione fran-
anche la più austera materia delle chansons de ge- co-veneta (in volgare francese). Molto popolari furono
ste. Nelle vicende dei paladini di Francia e della fede più tardi le opere di Andrea da Barberino, come il
cristiana si insinua così il gusto dell’impresa indivi- Guerin Meschino e i Reali di Francia.
duale, dell’avventura per l’avventura, del fantastico;
in qualche caso li vediamo coinvolti in avventure L’esempio è la narrazione di un fatto, un detto, una
sentimentali. vicenda reale o fantastica, addotta come prova o te-
Nel contesto comunale le storie cavalleresche so- stimonianza in un discorso argomentativo. L’esempio
no accolte con particolare interesse dai ceti che sta- insomma di per sé non si propone tanto fini artistici,
vano acquisendo la supremazia politica e cercavano quanto di persuasione. La sua origine risale alla reto-
storie, personaggi e modelli di comportamento in cui rica antica greca e romana, ma il cristianesimo inse-
riconoscersi proiettandovi le proprie aspirazioni e i rendolo in contesti edificanti (trattati morali o predi-
propri nuovi valori. Così il romanzo cavalleresco vie- che) ne fa una delle forme letterarie più diffuse e si-
ne adattato alle esigenze culturali e ideologiche del gnificative del Medioevo.
nuovo pubblico. L’esempio cristiano medievale è, per definizione,
La materia bretone e quella antica, che godevano tradizionale; trae la sua validità dall’avere il carattere
di maggior fortuna presso il pubblico aristocratico e di secolare e avita sapienza, divenendo agli occhi del

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10. Le forme della narrativa in Italia fino al Boccaccio STORIA

n Nobili ed ecclesiastici ad
un banchetto (part., inizio del
XIV secolo).

pubblico degno di fede, autorevole: perciò lo scrittore vellistici duecenteschi gravitano nell’ambito ideale e
di esempi fa sfoggio delle proprie fonti (i testi sacri, gli mentale dell’exemplum cristiano e da esso paiono
scrittori antichi) oppure si preoccupa di attestare che progressivamente e faticosamente emanciparsi. Molte
il fatto trasmesso è veramente accaduto allegando te- sono le opere del Due e Trecento che delineano questa
stimoni oculari. Così l’esperienza individuale dello complessa storia, ma il testo forse più importante –
scrivente o del parlante è posta in secondo piano. per la consapevolezza della varietà dei fini del narrare
L’esempio, proprio perché mira a una validità uni- che dimostra – è il Novellino.
versale, tende a rappresentare i tratti morali costanti Mentre l’esempio proponeva una moralità assolu-
dell’uomo; mette in scena tipi e classi di individui (il ta, definitiva, immobile la novella propone una mora-
goloso, il lussurioso, il blasfemo...), trascura le sfuma- lità sempre più sfaccettata, relativa, problematica.
ture e radicalizza le differenze prediligendo le opposi- Mentre l’esempio obbediva a una fatalità trascenden-
zioni (il santo / il peccatore). Il tratto morale emerge te (interventi provvidenziali, miracolosi), la novella
subito e si colloca in primissimo piano, senza poi dar esalta l’autonomia dell’agire umano, ha meno certez-
luogo ad altre più approfondite caratterizzazioni psi- ze circa il destino terreno e ultraterreno dell’uomo, dà
cologiche o socio-culturali. molto spazio alla fortuna e al caso. La novella con-
Formalmente l’esempio si presenta spesso come centra la propria attenzione – più che sul tipico e sul-
una narrazione secca, scarna, fulminea, che trascura l’immutabile – su ciò che è nuovo e sorprendente e
gli aspetti secondari delle vicende, le ambientazioni, i dunque non riducibile a schemi prestabiliti: non indul-
dettagli; e anche nei testi più articolati e letteraria- ge in rassegne di comportamenti che esemplificano
mente più consapevoli (come nel caso di Passavanti) virtù e vizi prestabiliti, ma esamina la varia e mutevo-
si limita agli aspetti più significativi, carichi cioè di le casistica dei comportamenti umani. Alla narrazione
implicazioni di ordine morale o religioso. tradizionale, anonima, atemporale dell’esempio, la no-
vella sostituisce una narrazione che sempre più ri-
Il fatto saliente della narrativa duecentesca italiana specchia l’attività consapevole di un preciso individuo
è però la nascita della novella, un genere letterario in un contesto storico determinato. Il narratore non
che costituisce uno dei più importanti contributi dati esita a riferire esperienze personali, dimostra di avere
dall’Italia alla letteratura europea tardo-medievale. La una concezione del mondo individuale, talora si pro-
nascita della novella come genere autonomo è il pro- pone come un vero e proprio testimone del proprio
dotto peculiare del vivace contesto urbano dei comuni tempo e, quando riprende invece una materia tradi-
toscani del tardo Duecento; difficilmente la si potreb- zionale, spesso la rielabora in modo originale e talora
be spiegare senza fare riferimento alla concezione del con distacco ironico. Col tempo si afferma insomma
mondo, alla mentalità, ai costumi, allo spirito arguto e una narrazione attenta a cogliere la realtà nel suo di-
intelligente della borghesia dell’Italia centrale. venire storico e sociale, prodotto dell’agire umano, di
L’esempio non è il solo modello che influisce sullo condizioni e situazioni contingenti; a cogliere la psi-
sviluppo della novella tardo-medievale, ma è il princi- cologia dei personaggi, le motivazioni dell’agire, le
pale soprattutto per il fatto che gran parte dei testi no- condizioni ambientali.

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Duecento e Trecento

10.1 La narrativa epico-cavalleresca in Italia


La diffusione dei modelli francesi in Italia In Francia si era sviluppata una copiosa e talora assai no-
tevole produzione di narrazioni epico-cavalleresche (in prosa e in versi): le chansons de
geste, che hanno per protagonisti Carlo Magno e i suoi paladini e sono caratterizzate
da una forte componente religiosa, e i romanzi cavallereschi, che narrano di re Artù e dei
cavalieri della Tavola rotonda, eroi leggendari del folklore celtico (e talora dell’anti-
chità greco-romana), e sono caratterizzati viceversa da forti componenti avventurose e
amorose profane (R 5.1-3).
Queste opere, che trasmettono all’Italia un patrimonio di vicende, situazioni, perso-
naggi, codici di comportamento destinati a esercitare una grande influenza sulla nostra
letteratura, cominciano presto a circolare in Italia. Ad esempio, specie lungo le vie che
portavano i pellegrini dalla Francia a Roma o ai porti d’imbarco per la Terra Santa, di-
ventano patrimonio popolare nomi di personaggi dei cicli carolingio e bretone e addi-
rittura si diffondono culti locali di reliquie legate al paladino Orlando, come dimostrano
vari documenti iconografici (nei portali delle cattedrali di Modena e di Verona, del XII
secolo, sono raffigurati personaggi arturiani e paladini carolingi) e numerose menzioni in
proverbi e in opere letterarie (persino nella regola francescana). Ma è solo nel corso del
tardo Duecento e poi più copiosamente nel Trecento che si sviluppa una narrativa rela-
tivamente autonoma (traduzioni o libere rielaborazioni di vari modelli francesi).
La fusione dei cicli e il trionfo dello spirito avventuroso Il fatto saliente per la storia letteraria è
che, nella rielaborazione di queste vicende compiuta in Italia, progressivamente i cicli
e i generi si contaminano: lo spirito e la cultura “cortese”, raffinata e sostanzialmente
laica, colorano anche la più austera materia delle chansons de geste. Nelle trame e nelle
vicende dei paladini di Francia si insinua il gusto dell’impresa individuale, dell’avven-
tura per l’avventura, del fantastico; in qualche caso vediamo gli eroi delle guerre con-
tro i Mori lasciarsi andare ad avventure sentimentali. Ciò che era stato prerogativa del
ciclo bretone si diffonde insomma anche alla materia carolingia. Lo spirito che ispira
la produzione narrativa è sempre meno quello della crociata e sempre più quello del-
la cavalleria e della cortesia. In questo modo l’originaria opposizione fra chansons de ge-
ste e romanzo cavalleresco perde il suo primitivo vigore.
Accoglienza nel contesto della società comunale italiana Nel contesto comunale italiano il ro-
manzo cavalleresco, poi, viene letto e rielaborato secondo le esigenze culturali e ideo-
logiche dei nuovi autori e del nuovo pubblico: le storie cavalleresche sono accolte con
particolare interesse dai quei ceti urbani che stavano acquisendo la supremazia politica
e cercavano modelli di comportamento cui conformare la propria condotta, e storie e
personaggi da contemplare con nostalgica ammirazione e in cui riconoscersi proiet-
tandovi le proprie aspirazioni e i propri nuovi valori.
Si trattava di storie d’amore ispirate agli ideali dell’amor cortese, come quella di
Lancillotto e Ginevra, e soprattutto quella tragica di Tristano e Isotta; avventure in cui
i cavalieri dimostrano volontà di affermazione personale e un forte senso della propria
individualità e doti come il coraggio, la determinazione, la cortesia e la liberalità, ma
anche – sempre più spesso – l’astuzia; situazioni in cui si dimostrano attaccamento e
lealtà nei confronti della patria o dello stato (specie nelle storie antiche) o solidarietà a
una consorteria o a una corporazione, con tanto di faide e vendette (come talora nel
caso delle vicende carolingie e arturiane); situazioni in cui un’associazione egualitaria
come la Tavola Rotonda «è istituita per stabilire un ordine esemplare, basato sui
princìpi di giustizia e pace». Tutto questo doveva piacere e interessare il pubblico co-
munale, che leggeva e ascoltava con passione.
Questo insieme di fatti in qualche caso comporta anche un adeguamento delle
storie tramandate ai valori, ai gusti e alle tradizioni del pubblico italiano: ad esempio, si

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10. Le forme della narrativa in Italia fino al Boccaccio STORIA

modificano vicende e caratteri per assimilarli al presente; si ampliano i quadri descrit-


tivi della vita aristocratica e di interni ricchi di suppellettili che erano oggetto dei traf-
fici dei nuovi mercanti; ci si interessa alle situazioni giuridiche, oggetto di dibattiti e di
conflitti nella società comunale.
Le forme della diffusione e il pubblico La narrativa epico-cavalleresca è attestata in Italia in forme
diverse: 1. i romanzi in prosa, lunghi componimenti destinati prevalentemente alla let-
tura individuale dei cortigiani o dei ceti medi borghesi; 2. i cantari, componimenti in
genere di media lunghezza, in ottave, prodotti in ambiente comunale dai giullari (o
canterini o cantastorie), e destinati soprattutto a una circolazione orale; e più tardi: 3. i
poemi cavallereschi, componimenti più lunghi, divisi in canti, che nascono come cicli di
cantari, e sono destinati spesso alla lettura individuale. Questa materia ricorre però an-
che in altri generi letterari, come la novella in prosa.
La materia bretone e quella antica godevano di maggior fortuna presso il pubblico
aristocratico e medio borghese, che spesso era in grado di leggere: ciò ne spiega la
maggior diffusione nella forma del romanzo.
La materia carolingia ha viceversa come destinatario privilegiato il pubblico dei
ceti popolari e spesso è diffusa tramite i cantari recitati nelle piazze. I canterini, so-
prattutto nel Quattrocento, svolgeranno questa materia in tutti i suoi aspetti arric-
chendola e variandola: in particolare in quest’epoca i cantari vengono organizzati in
poemi di più ampio respiro. Con questa evoluzione siamo al preludio di una nuova e
più grande stagione per questo genere che culminerà nei poemi cavallereschi del Pul-
ci, del Boiardo e dell’Ariosto.
La trasformazione della materia carolingia: la letteratura franco-veneta Nell’ambito della ma-
teria carolingia, un caso a sé, storicamente importante, è quello della produzione in
volgare d’oïl da parte di autori per lo più d’area veneta che assumono il francese come
lingua d’arte: ricordiamo almeno la trecentesca Entrée d’Espagne. Queste opere testi-
moniano fra l’altro l’intervento originale degli scrittori italiani che fanno agire i pala-
dini francesi anche in area italiana, ed esaltano le imprese di italiani che danno loro
aiuto. Inoltre nell’Entrée «comincia [...] decisamente quella modificazione del perso-
naggio Orlando destinata a imporsi in tutti i testi italiani seguenti; il puro guerriero,
martire della fede, si apre a elementi cavallereschi e cortesi, mentre le avventure in
Oriente fra giganti, incantesimi e principesse saracene innamorate [...] diventeranno
un paradigma, una tappa obbligata per tutti gli eroi carolingi» (Delcorno Branca).
La produzione canterina e i romanzi di Andrea da Barberino Nell’ambito della produzione di
cantari dedicati alla materia carolingia è da ricordare almeno la Spagna in rima, databi-
le verso la metà del Quattrocento. Fra Trecento e Quattrocento questa materia trova
diffusione anche in prosa. Su tutte si segnalano le opere di Andrea da Barberino (1370
ca - 1432), destinate a una notevole fortuna presso i ceti medio-bassi: il Guerin Me-
schino, i Reali di Francia, l’Aspramonte sono fra i suoi romanzi migliori.
In realtà con questi e altri testi caratterizzati da un gusto per il fantastico e il mera-
viglioso (viaggi oltremondani compresi), per i luoghi esotici e le imprese straordinarie,
per gli amori cortesi e dal sentimento esasperato, la contaminazione fra i cicli è prati-
camente compiuta. Nella società fiorentina tardo trecentesca, infatti, dominata da spi-
riti borghesi e mercantili, «l’ideale cavalleresco non può mantenere il suo primitivo
carattere aristocratico e militare» e diviene materia fantastica liberamente rielaborata e
interpretata, ma anche riunificata in «un unico immenso romanzo» (Mattaini).
La materia bretone: i due Tristano in prosa Nell’ambito della materia bretone, fra i testi in volgare
italiano, numerosissimi a partire dal Trecento, spiccano alcune opere per lo più incen-
trate su Tristano, il personaggio che più colpì la fantasia del pubblico italiano, anche se
le narrazioni lasciano posto a digressioni e vicende secondarie che riguardano altri ca-
valieri arturiani.
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Duecento e Trecento

Il più antico è il cosiddetto Tristano Riccardiano (così chiamato perché il manoscrit-


to, della fine del XIII o degli inizi del XIV secolo, è conservato nella Biblioteca Ric-
cardiana di Firenze), un romanzo in prosa che dipende probabilmente da una redazio-
ne perduta del Tristan in prosa francese e che costituisce la «massima testimonianza
della leggenda arturiana in Italia» (Marti).
La Tavola Ritonda, probabilmente opera di uno scrittore pisano che dimostra una
buona cultura giuridica (forse un giudice o un notaio), databile fra il 1320 e il 1340, è
una rielaborazione piuttosto originale della materia tristaniana, con episodi non altri-
menti attestati. Non è possibile stabilirne con certezza le fonti, ma è probabile che l’au-
tore conoscesse e utilizzasse almeno il Tristano Riccardiano e varie redazioni francesi, di
cui forse alcune perdute. L’autore «partecipa all’azione, la sottolinea, la giudica con ani-
mo da moralista [...], ama indugiare talora su temi comici e realistici; si abbandona spes-
so ad una minuta e preziosa analisi dell’esteriorità; cala, infine, in qualche modo, l’irrea-
le nel reale, facendoci sentire non più lontani, ormai, i tempi nuovi» (Marti).
La materia antica Opere di qualche interesse e talora di piacevole lettura sono, infine, per la materia
antica i Fatti di Cesare e l’Istorietta troiana, e il Libro della Storia di Troia di Binduccio del-
lo Scelto, autore forse fiorentino dei primi del Trecento, che volgarizza il celebre Ro-
man de Troie di Benoît de Sainte-Maure (un’opera di oltre 30.000 versi databile verso il
1160) attraverso una delle rielaborazioni in prosa francese. Come per le altre materie,
anche dell’antica si hanno tracce in generi diversi e principalmente nella novellistica,
che spesso trae spunto o mette in scena vicende e personaggi del mondo classico.

10.2 L’exemplum cristiano medievale


L’exemplum è la più diffusa forma narrativa medievale Prima della diffusione della moderna no-
vella, e prima anche della fioritura della letteratura epico-cavalleresca appena descritta,
lungo tutto il corso dell’alto Medioevo la principale forma narrativa era stata l’esem-
pio, in latino exemplum. Tale forma continua a essere testimoniata in modo cospicuo
anche nei secoli dopo il Mille. Da qui dobbiamo prendere le mosse anche per com-
prendere le caratteristiche innovative e originali che a partire dal XIII secolo assumerà
in Italia la novella in prosa.
L’exemplum è un breve racconto inserito in una struttura argomentativa L’exemplum è la narra-
zione di un fatto, un detto, una vicenda reale o fantastica, addotta come prova o testimo-
nianza in un discorso che mira ad argomentare una tesi. Per questo l’exemplum si propo-
ne non tanto fini artistici, quanto di persuasione. Generalmente compare all’interno di
orazioni, trattati e prose di varia natura, ma anche quando compare isolato (in raccolte di
soli esempi) potenzialmente è un elemento da utilizzare in un discorso argomentativo.
Jacopo Passavanti in un suo trattato sulla penitenza a un certo punto sostiene che l’uomo
non deve attendere troppo a pentirsi, perché la morte lo può cogliere all’improvviso
mentre è in peccato mortale: enunciata la sua tesi, ecco che per dare evidenza al concet-
to e per provare la veridicità di ciò che afferma adduce appunto l’esempio concreto di
un personaggio famoso che non ebbe tempo per pentirsi e finì dannato [R T 10.3 ].
In qualche caso, poi, gli autori medievali recano indicazioni e suggerimenti ai pre-
dicatori circa l’occasione, i tempi, i modi di utilizzo delle fonti dottrinali e degli esem-
pi che raccolgono e il destinatario a cui indirizzarli. L’esempio è insomma innanzitut-
to un artificio retorico e come tale è stato definito e utilizzato sin dall’antichità.
L’exemplum nella letteratura antica L’origine e la codificazione dell’exemplum risalgono alla retorica an-
tica greca e romana, come ha mostrato il Battaglia. «La retorica, secondo la celebre defini-
zione raccolta e sancita da Aristotele, è l’arte di persuadere; l’esempio, appunto, è uno dei
suoi principali mezzi. Per indurre alla persuasione occorrono delle prove: l’esempio ne
fornisce un repertorio pressoché inesauribile». Quanto ai contenuti, l’exemplum può esse-
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10. Le forme della narrativa in Italia fino al Boccaccio STORIA

re tratto da fatti reali (come nelle parabole) o da vicende fantastiche (come nelle favole). I
fatti reali possono essere esperienze dirette di chi le riporta, o eventi tramandati dalla tra-
dizione scritta, storica e letteraria, e da quella orale. «L’arco degli esempi è perciò immen-
so e abbraccia lo storico e il tradizionale, il reale e il poetico, il quotidiano e il favoloso».
Cristianesimo medievale ed exemplum Il cristianesimo, spesso spregiudicato nell’utilizzare e ricollo-
care entro il proprio orizzonte spirituale la tradizione antica, fa dell’esempio una del-
le forme letterarie e uno dei modi di rappresentazione della realtà più diffusi e signifi-
cativi del Medioevo. Autori come sant’Ambrogio, san Gerolamo, sant’Agostino adot-
tano questa tecnica in modo sistematico e massiccio, assicurandole – grazie al loro pre-
stigio – una fortuna enorme.
Se numerosissimi lungo tutto l’arco del Medioevo sono i testi che utilizzano exem-
pla, a partire dal XIII secolo si diffondono anche i repertori, meno numerosi ma talo-
ra assai copiosi. A titolo indicativo ricordiamo: il monumentale Tractatus de diversis ma-
teriis predicabilibus [Trattato delle diverse materie che si possono predicare, 1262?] di Stefano
di Borbone, comprendente circa 2900 esempi ordinati secondo i doni dello Spirito
Santo, e la fortunatissima Legenda aurea di Jacopo da Varagine (m. 1298), ampia raccol-
ta di esempi tratti dalle vite di santi e in parte ordinata secondo il calendario, che fu
uno dei libri più letti del tardo Medioevo [R T 10.2 ].
Gli esempi nel Trecento Nel corso del Trecento, la produzione di esempi non si arresta nonostante il
processo di laicizzazione, comunque relativo, della società. Anzi, nella seconda metà del
secolo, con la crisi successiva all’epidemia di peste, trae nuovo vigore. Inoltre, forse per
influsso della narrativa profana che alcuni scrittori mostrano di conoscere e di aver as-
similato, il genere exemplum tocca qui alcuni dei suoi vertici artistici con alcuni testi
della leggenda francescana (segnatamente i Fioretti di san Francesco, R4.2), con lo Spec-
chio di vera penitenza di Jacopo Passavanti (1302 ca - 1357) e con le opere (Vite dei San-
ti Padri, Specchio di croce, Specchio dei peccati ecc.) del predicatore domenicano Domeni-
co Cavalca (1270 ca-1342). Ma andranno ricordati anche un volgarizzamento della
Legenda Aurea, gli Assempri di fra Filippo degli Agazzari (1339-1422) e tutta una serie
di “leggende spirituali” anonime.
La vena terrificante e patetica di Jacopo Passavanti Jacopo Passavanti (1300-1357) è autore del
trattato Specchio di vera penitenza, che si qualifica soprattutto per i toni cupi: al posto
della vena colloquiale e fiabesca del Cavalca, predominano infatti nel Passavanti una
tensione drammatica, un’immaginazione terrificante e allucinata, un’acuta coscienza
del perenne incombere del peccato sulla vita dell’uomo. Dell’esperienza umana Passa-
vanti coglie il «momento più drammatico, quando l’individuo è giunto alla frontiera
del male e della perdizione e si vede precipitare nel baratro del peccato, nel regno sen-
za speranza degli inferi» (Battaglia). Fra i suoi esempi restano soprattutto nella memo-
ria del lettore quelli che si riferiscono a incubi e a terrificanti “visioni”, dominati dal-
l’elemento prodigioso e soprannaturale.
L’exemplum deve essere tradizionale, autorevole L’esempio cristiano medievale è, innanzitutto e per
definizione tradizionale; come la favola e il proverbio trae la sua validità proprio dal-
l’avere il carattere di «secolare e avita sapienza», divenendo agli occhi del pubblico de-
gno di fede, autorevole. Lo scrittore di esempi, se possibile, cerca di fondarsi su auctori-
tates universalmente accettate facendo sfoggio delle proprie fonti: i testi sacri, gli scrit-
tori antichi ma anche genericamente “un filosofo” o “un sapiente” (quasi tutti gli
esempi del Passavanti incominciano con la formula «Leggesi…», che fa appello all’au-
torevolezza del testo scritto). Oppure si preoccupa di attestare che il fatto trasmesso è
veramente accaduto allegando testimoni oculari o almeno la voce pubblica; così fa Fi-
lippo degli Agazzari nel finale dei suoi exempla: «Questo assempro udii da un venera-
bile uomo del quale ero certo che egli era di santa vita e di buona conscenzia». L’e-
sperienza dello scrivente o del parlante quindi viene sovente messa in secondo piano.
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Duecento e Trecento

Personaggi tipici e scrittura breve ed essenziale L’esempio, proprio perché mira a una validità uni-
versale, tende a sottrarre alle vicende e alle esperienze il loro carattere individuale e
storico: mira a rappresentare i tratti morali costanti dell’uomo; mette in scena tipi e
classi di individui (il goloso, il lussurioso, il blasfemo... e i loro contrari). Come gran
parte della cultura medievale, svaluta il contingente, mirando all’eterno; trascura le sfu-
mature e radicalizza le differenze prediligendo le opposizioni (il santo/il peccatore).
Ancora Passavanti ci mostra «uno cavaliere in Inghilterra, prode nell’arme, ma de’ co-
stumi vizioso», «uno Conte, il quale era uomo mondano e grande peccatore, contro a
Dio superbo, e contro al prossimo spietato e crudele» [R T 10.3 ]. Il tratto morale –
bontà, umiltà, santità o cattiveria, crudeltà, superbia – emerge subito, in modo netto, e
si colloca in primissimo piano, ma non dà poi luogo ad altre più approfondite caratte-
rizzazioni psicologiche o socio-culturali.
Formalmente l’exemplum si presenta spesso come una narrazione secca, scarna, “ful-
minea”, che trascura gli aspetti secondari delle vicende, le ambientazioni, i dettagli,
tutto ciò che nel racconto assolve semplicemente la funzione di caratterizzare, di “far
vedere”; e anche nei casi di narrazioni più articolate e letterariamente più efficaci si li-
mita agli aspetti significativi, carichi cioè di implicazioni di ordine morale o religioso.
Doc 10.1 Padre Equizio e la monaca golosa

San Gregorio Magno, Un giorno una serva di Dio dello stesso monastero entrò nell’orto; vide una lattuga, le ven-
Dialoghi sulla vita e sui ne desiderio, dimenticò di benedirla col segno della croce e la morse avidamente; ma subi-
miracoli dei SS. Padri
to fu afferrata da un diavolo e cadde a terra. E poiché si dibatteva, fu mandato a dire al pa-
dre Equizio che venisse presto e che soccorresse con la preghiera. Il padre era appena arri-
vato nell’orto, quando il diavolo che aveva afferrato quella cominciò, quasi scusandosi, a gri-
dare dalla bocca di lei: «Che ho fatto? Che ho fatto? Ero seduto sulla lattuga, lei è venuta e
mi ha morso». Con grave indignazione l’uomo di Dio gli ordinò di andarsene e di non re-
stare più in una serva di Dio onnipotente.

Astrattezza moralistica e concretezza narrativa L’esempio è utilizzato in contesti che si propongo-


no evidenti finalità etiche e pedagogiche; ma «in se stesso l’esempio non è né morale
né immorale; è soltanto un additamento, una mostra del bene e del male» (Battaglia).
Non è insomma affatto necessario che il racconto sia un’edulcorata, castigata rappre-
sentazione di buoni sentimenti e saggi comportamenti: anzi, spesso per colpire il pub-
blico si indugia nella rappresentazione dei vizi senza particolari censure, perché alla rap-
presentazione realistica e anche sordida del peccato fa poi seguito quella altrettanto rea-
listica, ma terrificante della pena, e il tutto è ordinato in un preciso schema morale. Co-
sì Passavanti può realisticamente rappresentare le insidie che una giovane donna rivolge
ad un romito per tentarlo, salvo poi descrivere le beffe e lo strazio che una moltitudine
di demoni fanno al vecchio religioso peccatore [  PT LA DONNA E L’AMORE].
È questo un fatto decisivo perché contribuisce a mantenere all’esempio un tasso di
realismo che spiega e giustifica i suoi rapporti con la successiva novellistica. «Da questo
punto di vista la cultura medievale si palesa assai spregiudicata, per nulla affetta d’in-
fingimenti o di bacchettoneria. Il Medioevo cristiano non chiudeva gli occhi dinanzi
al male; anzi lo guardava con penetrazione e accanimento, lo sorprendeva nei suoi più
fatali aspetti» (Battaglia). Nelle sue forme migliori l’esempio si presenta, insomma, co-
me una sintesi di astrattezza moralistica (perché mira sempre a cogliere vicende mo-
ralmente significative, che si riducono ai vizi e alle virtù principali) e di concretezza
narrativa (perché rappresenta con evidenza realistica i particolari concreti, il bene e il
male, le colpe e le pene). Quando nel tardo Medioevo tale concretezza narrativa verrà
utilizzata per altri scopi, senza fini moralmente edificanti, anche solo per rappresenta-
re il mondo, allora sorgerà la novella come forma letteraria autonoma e moderna.
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10. Le forme della narrativa in Italia fino al Boccaccio STORIA

10.3 Dall’exemplum morale alla novella profana


La nascita della novella Il fatto saliente della narrativa duecentesca italiana è la nascita della novella, un
genere letterario, o una forma d’arte, che costituisce uno dei più importanti contribu-
ti dati dall’Italia alla letteratura europea tardo-medievale e che avrà una gloriosa storia
plurisecolare. La nascita della novella come genere autonomo è il prodotto peculiare
del vivace contesto urbano dei comuni toscani del tardo Duecento; difficilmente si
potrebbe spiegare la novella senza fare riferimento alla concezione del mondo, alla
mentalità, ai costumi, allo spirito pratico e salace, arguto e intelligente della borghesia
dell’Italia centrale, che con le sue narrazioni orali, i motti e le beffe certamente con-
tribuisce alla sua genesi.
L’exemplum è il principale, ma non il solo modello che influisce sullo sviluppo del-
la novella tardo-medievale. Non si deve dimenticare infatti che la novella, come fonti e
modelli, ha anche il romanzo cavalleresco, la novellistica araba e orientale, i fabliaux (o
favolelli, racconti licenziosi in versi), la narrativa antica e naturalmente l’esperienza (per
noi incontrollabile) del racconto orale, sia quello folklorico, come le fiabe, sia quello
d’attualità cronachistica d’ambiente cittadino. Non trascurabile, infine, è il rapporto
che la novella intrattiene con le ricordanze, le relazioni di viaggio, la storiografia mu-
nicipale (R11.).
Dall’exemplum alla novella: dal narrare per insegnare al narrare per intrattenere Il modello del-
l’esempio, tuttavia, resta prioritario nella complessa genesi della novella, soprattutto per
il fatto che molti testi novellistici duecenteschi gravitano nell’ambito ideale e mentale
dell’exemplum cristiano e da esso paiono progressivamente e faticosamente emanciparsi.
Se nella zona di passaggio dall’esempio alla novella alcune opere duecentesche, co-
me i Conti morali di un anonimo senese, mantengono un prevalente intento edifican-
te e sono ancora molto vicini al modello dell’exemplum e precisamente di una sua sot-
tospecie, il “miracolo”, altre se ne distanziano più nettamente. Ad esempio, i Fiori e vi-
ta di filosafi e d’altri savi e d’imperadori, i Conti di antichi cavalieri, il Libro dei Sette Savi, poi,
che sono gli altri principali testi duecenteschi, tutti per diversi motivi si mostrano in
progressivo allontanamento dal modello. Rielaborano fonti classiche, storiche, roman-
zesche, orientali con un grado di consapevolezza delle possibilità e delle funzioni del
narrare a tratti già notevole. I narratori, poi, non hanno più come scopo esclusiva-
mente un’edificazione morale e religiosa rigidamente intesa: ora si propongono di tra-
smettere insegnamenti morali più generici, ora elaborano modelli di comportamento
laici che si qualificano come arte del vivere e del parlare, come misura di nobiltà e
cortesia (Fiori e vita di filosafi), ora infine si prefiggono un fine etico-politico. Quest’ul-
timo è il caso dei Conti di antichi cavalieri, che si rivolgono con particolare attenzione al
pubblico dei governanti comunali a cui vogliono trasmettere le «alte operazioni e va-
lorose e detti saggi e belli e di gran sentimento» dei più celebri eroi antichi: scelgono
insomma personaggi ed eventi esemplari e hanno intenti morali, ma in una prospetti-
va dichiaratamente laica e civile.
Ancor più innanzi degli altri in questo processo si spinge il Libro dei Sette Savi, che at-
traverso complesse mediazioni rielabora una materia narrativa probabilmente d’origine
indiana. Emerge di fatto una forte componente edonistica, il gusto cioè del narrare per
il narrare, il piacere del puro intrattenimento specialmente nel delineare «gli intrighi e
le malizie delle donne», che sfociano talora «nella beffa coniugale, irresistibilmente co-
mica e ridanciana, nel gusto dei fabliaux: come accade nel racconto del geloso estro-
messo dalla propria abitazione ad opera della moglie astuta e infedele» (Tartaro).
Il Novellino: un repertorio di generi e modi narrativi L’opera più importante e più complessa,
però, prima del Decameron, è certamente il Novellino. Opera di un autore fiorentino
anonimo (ma c’è chi ipotizza più autori e unico “raccoglitore”), composta tra il 1280
e il 1300, il Novellino è definibile come «un repertorio di materiali narrativi», ovvero
269 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento

come una ricognizione dei vari modi e delle varie materie del narrare. Assai diversi,
infatti, sono gli argomenti trattati, i registri stilistici adottati e le finalità che sembrano
presiedere alle singole novelle: si va dall’exemplum morale a quello profano, dal motto
arguto alla beffa e così via [R T 10.4-6 ].
Ma è l’alto grado di consapevolezza che l’autore mostra programmaticamente a fa-
re del Novellino l’opera che segna il vero discrimine fra il vecchio e il nuovo, quella che
più decisamente sembra mirare alla ricerca estetica. «Il tono e le finalità della raccolta
sono annunciati molto chiaramente nella novella I, destinata a fungere da introduzione
[R Doc 10.2 ]. Si nota subito che alle novelle non è attribuita una esclusiva finalità etico-
religiosa: esse saranno narrate “a prode [a vantaggio] e a piacere di coloro che non san-
no e disiderano di sapere”, e serviranno a “rallegrare il corpo e sovenire e sostentare”.
Certo, questo programma dovrà essere svolto “con più onestade e [con] più cortesia
che fare si puote”, e le menti e le parole andranno “acconciate... nel piacere di Dio”;
ma siamo ormai lontani dalla tradizione dell’exemplum come illustrazione e conferma
di un contesto teoretico. La sapienza è intesa come fulcro del vivere civile, ammirata e
ricercata in quella che ne è la diretta espressione, la parola» (Segre).

Doc 10.2 Il proemio del Novellino: la poetica

La prosa del Duecento, a


c. di C. Segre e M. IL «NOVELLINO»
Marti, Ricciardi, QUESTO LIBRO TRATTA D’ALQUANTI FIORI DI PARLARE,1 DI BELLE CORTESIE2
Milano-Napoli 1959 E DI BE’ RISPOSI3 E DI BELLE VALENTIE E DONI, SECONDO CHE PER LO
TEMPO PASSATO HANNO FATTI MOLTI VALENTI UOMINI4

Quando lo Nostro Signore Gesù Cristo parlava umanamente5 con noi, infra l’altre sue
1 fiori di parlare: scel- parole, ne disse che dell’abondanza del cuore parla la lingua.6 Voi ch’avete i cuori gentili e
ta di motti arguti ed ele- nobili infra li altri, acconciate le vostre menti e le vostre parole nel piacere di7 Dio, parlando,
ganti. «La parola Fiore era
largamente usata nella let- onorando e temendo e laudando quel Signore nostro che n’amò prima che elli ne criasse, e
teratura didattica e morale prima che noi medesimi ce amassimo. E [se] in alcuna parte,8 non dispiacendo a lui, si può
del Duecento per indicare parlare, per rallegrare il corpo e sovenire e sostentare,9 facciasi con più onestade e [con] più
una scelta di massime e
sentenze esemplari» (Lo cortesia10 che fare si puote. E acciò che11 li nobili e gentili sono nel parlare e ne l’opere qua-
Nigro). si com’uno specchio appo i minori,12 acciò che il loro parlare è più gradito, però ch’esce di
2 cortesie: «atti magna-
nimi e liberali» (Lo Nigro),
più dilicato stormento,13 facciamo qui memoria d’alquanti fiori di parlare, di belle cortesie
degni di un uomo di corte. e di belli risposi e di belle valentie, di belli donari14 e di belli amori, secondo che per lo
3 risposi: risposte. tempo passato hanno fatto già molti.15 E chi avrà cuore nobile e intelligenzia sottile sì l[i]
4 Questo libro... uo-
mini: l’intera rubrica è, co-
potrà simigliare16 per lo tempo che verrà per innanzi,17 e argomentare18 e dire e racconta-
me quelle preposte alle re in quelle parti dove avranno luogo,19 a prode20 e a piacere di coloro che non sanno e di-
successive novelle, un’ag- siderano di sapere. E se i fiori che proporremo fossero misciati intra molte altre parole, non
giunta posteriore che pe- vi dispiaccia; ché ’l nero è ornamento dell’oro, e per un frutto nobile e dilicato piace talora
raltro rispecchia il senso
complessivo del testo. tutto un orto, e per pochi belli fiori tutto un giardino. Non gravi21 a’ leggitori: ché sono sta-
5 umanamente: aven- ti molti, che sono vivuti22 grande lunghezza di tempo, e in vita loro hanno appena tratto
do assunto un corpo uma- uno bel parlare, od alcuna cosa23 da mettere in conto fra i buoni.24
no.
6 ne disse... parla la lin-
gua: ci disse che le parole 10 con... cortesia: «La 14 donari: doni. Nigro sarebbe il richiamo peso, non dispiaccia.
esprimono ciò di cui ab- frase rispecchia il nuovo 15 secondo... molti: fra- alla precedente tradizione 22 ché... vivuti: dal mo-
bonda il cuore, cioè rivela- ideale umano, elaborato se di interpretazione con- esemplare. mento che son molti colo-
no gli stati d’animo (è mas- dalla filosofia scolastica, troversa: secondo il Segre 16 simigliare: imitare. ro che sono vissuti.
sima evangelica:Luca 6,45). della virtù morale che deve significa «come sono stati 17 per lo... innanzi: in 23 hanno appena... al-
7 nel piacere di: per accompagnarsi a quella ca- compiuti nei tempi passati» futuro. cuna cosa: hanno saputo
piacere a. valleresca» (Lo Nigro). (molti sottintenderebbe 18 argomentare: li potrà pronunciare un’espressio-
8 in alcuna parte: in 11 acciò che: poiché. «nobili e gentili»); secondo usare come argomenti di ne elegante e memorabile o
qualche circostanza. 12 appo i minori: per le il Lo Nigro significa invece: persuasione. compiere un’azione.
9 sovenire e sostentare: persone di cultura e condi- «come molti autori hanno 19 avranno luogo: si tro- 24 buoni: l’aggettivo
endiadi che regge il corpo, zione sociale inferiore. fatto prima di me» (molti veranno. concorda sia con parlare che
come il precedente rallegra- 13 stormento: strumen- sottintenderebbe «autori»). 20 a prode: a vantaggio. con cosa.
re. to. Più esplicito secondo il Lo 21 Non gravi: non sia di

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10. Le forme della narrativa in Italia fino al Boccaccio STORIA

La forma novella: una concezione del mondo e un’etica laiche Nel passaggio dall’exemplum alla
novella non ci sono stacchi repentini, ma zone di mediazione, com’è proprio della logi-
ca dei mutamenti culturali. Il processo che porta alla formazione della novella come ge-
nere letterario autonomo appare tuttavia abbastanza chiaro, e chiare appaiono le carat-
teristiche del nuovo modello, che troverà la sua consacrazione nel Decameron (R13.3).
Nella produzione narrativa due-trecentesca, a una moralità assoluta, definitiva, im-
mobile si va sostituendo una moralità sempre più sfaccettata, relativa, problematica: in
un racconto del Novellino, ad esempio, un saggio medico quando la moglie, nipote di
un potente arcivescovo, partorisce dopo soli due mesi di matrimonio, prima si preoc-
cupa di tutelare la vita del nascituro (illegittimo), poi trova un modo elegante per sal-
vaguardare il proprio onore, ripudiando la donna senza inimicarsi l’arcivescovo. Una
simile materia, che nella narrativa esemplare avrebbe dato luogo ad aspre critiche sul-
la moralità delle donne o a un’invettiva contro il peccato della lussuria, qui diventa lo
strumento per celebrare la saggezza e la prontezza di spirito di un personaggio che si
muove secondo una logica tutta terrena.
La fortuna e il caso Così, a una fatalità trascendente che si manifesta negli interventi provvidenziali, ne-
gli eventi miracolosi, nella logica stessa della colpa punita e della virtù premiata, si so-
stituiscono progressivamente l’autonomia dell’agire umano, una maggiore incertezza
circa il destino terreno e ultraterreno dell’uomo, un ampliamento dello spazio occu-
pato dalla fortuna e dal caso. È in definitiva un effetto del caso se, in un altro racconto
del Novellino, il piovano Porcellino, accusato di trascurare la pieve a causa della sua pas-
sione per le donne, con l’aiuto dei servitori del vescovo trova il modo di sorprenderlo
in atti licenziosi e così scampare alla punizione [R T 10.5 ].
La complessa varietà del reale La novella guarda insomma alla vita come a un itinerario complesso,
concentra la propria attenzione, più che sul tipico e sull’immutabile, sul «nuovo, inte-
so come sorprendente e dunque non riducibile a schemi prestabiliti» (Tartaro): non
dunque rassegne di comportamenti che esemplificano virtù e vizi prestabiliti, ma la
varia e mutevole casistica dei comportamenti umani. Certo alcuni schemi sono ben
visibili: lo sciocco viene sempre beffato dal più astuto, le difficoltà si superano con la
prontezza dell’agire o l’arguzia del parlare, ma quel che conta nella logica della novel-
la sono l’originalità della beffa, la sua irripetibile dinamica, la sapidità della battuta più
che non lo schema sottostante. Si veda il racconto XXXV del Novellino [R T 10.2 ].
Individuo e storia Alla narrazione tradizionale, anonima, atemporale dell’exemplum, la novella sostitui-
sce una narrazione che sempre più rispecchia l’attività consapevole di un preciso indi-
viduo. Questi non esita a riferire esperienze personali, dimostra di avere una sua con-
cezione del mondo, talora si propone come un vero e proprio testimone del proprio
tempo e spesso, quando riprende invece una materia tradizionale, la rielabora in modo
originale e in qualche caso con distacco ironico. Progressivamente si afferma una nar-
razione attenta a cogliere la realtà nel suo divenire storico e sociale, prodotto dell’agi-
re umano, di condizioni e situazioni contingenti; una narrazione attenta a cogliere la
psicologia dei personaggi, le motivazioni dell’agire, le condizioni ambientali.
La varietà degli scopi del narrare Tra i fattori decisivi dell’affermarsi del nuovo modello c’è il diver-
sificarsi delle finalità che, in modo ora implicito ora esplicito, gli scrittori si propongo-
no (si veda la prefazione al Novellino [R Doc 10.2 ]). Ora si mira all’affermazione di una
morale, religiosa o laica che sia; ora a quella di un utile sociale o culturale che si mani-
festa come proposta di norme e modelli di comportamento (nella logica, ad esempio,
di un’etica mercantile). Ora ci si propone il puro intrattenimento che mira al diletto e
allo «spassamento» del pubblico; ora la consapevole ricerca di risultati esteticamente
validi. Ora ci si prefigge di dare testimonianza di consuetudini, comportamenti, even-
ti degni di rimanere nella memoria dei posteri; ora infine ci si interroga sul senso del-
l’agire umano e dei suoi condizionamenti storici e ambientali.
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Duecento e Trecento

T 10.1 Tristano Riccardiano [LVII e LXVI] fine Duecento


L’amore di Tristano e Isotta: fatalità e inganni
Prose di romanzi La storia di Tristano e Isotta è una storia di amori, drammi e conflitti psicologici, magie,
a cura di F. Arese, inganni, avventure, sfide, duelli, comportamenti e rituali cortesi, che oltre a fornire uti-
UTET, Torino 1950
li informazioni sul romanzo cavalleresco illumina anche alcuni stereotipi culturali pro-
pri della società che quei testi ha prodotto. Nei due episodi che seguono – tratti dal Tri-
stano Riccardiano – si pone ad esempio il problema della legittimità del comportamento
dei due amanti, che la società del tempo trattava con sensibilità e secondo codici di
comportamento assai diversi dai nostri.
Il primo episodio costituisce un momento chiave della vicenda: dopo innumerevoli
peripezie, Tristano è riuscito a condurre Isotta sulla nave che dovrà portarla in Corno-
vaglia, dove la attendono le nozze con re Marco, zio di Tristano. Ma durante la naviga-
zione accade l’imponderabile: a causa di un filtro magico bevuto inavvertitamente i due
provano un’attrazione reciproca e iniziano la loro «folle» relazione.
Nel secondo episodio, di poco successivo, dopo un’avventura nell’isola dei Giganti
dove vengono imprigionati e da dove riescono a ripartire solo dimostrando che Trista-
no è più valoroso del signore dell’isola e Isotta più bella della castellana, i due protago-
nisti, finalmente, giungono in Cornovaglia dove vengono accolti con grandi festeggia-
menti. Ma la notte delle nozze Isotta e Tristano devono nascondere al re il proprio mi-
sfatto. Solo un consapevole inganno può salvare i due protagonisti.

LVII A tanto1 sì2 chiama la reina3 Governale e Braguina,4 perché vede che
quegli due sono riponitori5 dell’oro e dell’argento e dele gioie. E dice loro: «Te-
nete questi due fiaschi d’argento, che sono pieni di beveraggio d’amore, e guar-
dategli6 bene; e quand’e’ si coricherà lo re Marco con madonna Isaotta la prima
sera e voi sì darete loro bere, e quello che rimarrae sì gittate via». Ed eglino7 dis- 5
sero che bene lo faranno.8 A tanto si parte Tristano ed hanno buono tempo. E
istando uno giorno e’9 giucavano a scacchi, e non pensava l’uno dell’altro altro
che tutto onore e già il loro cuore non si pensava follia10 neuna11 di folle amore.
E avendo giucato insieme due giuochi ed12 ierano sopra lo13 terzo giuoco, ed ie-
ra grande caldo, e Tristano disse a Governale: «E’ mi fae14 grande sete». Allora 10
andò Governale e Bragguina per dare bere e presero li fiaschi del beveraggio
amoroso, non conoscendogli che fossero cosie.15 Allora lavò Governale una cop-
pa e Braguina mesceo16 cola coppa e Governale diede bere imprima a messer
Tristano, e Tristano la beve bene piena la coppa, imperciò che gli facea bene se-
1 A tanto: allora (gallici-
smo). te, e l’altra coppa sì empieo e diedela a madonna Isotta. Ed ella iscoloe la coppa 15
2 sì: così; ma è spesso in terra17 ed allora sì la lecoe una cagnuol18 per la grande sete ch’avea. Adesso
pleonastico.
3 la reina: la regina, ma- cambioe Tristano lo suo coraggio19 e non fue più in quello senno20 ch’egli era da
dre di Isotta. prima, e madonna Isotta sì fece lo somigliante; e cominciano a pensare ed a
4 Governale e Bragui-
na: sono i servitori rispetti- guardare l’uno l’altro. Anzi che compiessero quello giuoco,21 sì si levarono ed an-
vamente di Tristano e Isot- darosine22 ambodue disotto in una camera, e quivi incominciano quello giuoco 20
ta. insieme che in tutta loro vita lo giucarono volontieri. Or si n’adiede23 Governa-
5 riponitori: custodi.
6 guardategli: custodi- le e Braguina che aviano dato lo beveraggio amoroso a messer Tristano e a ma-
teli. donna Isaotta, ed allora sì si tenero molto incolpati.
7 eglino: essi.
8 lo faranno: lo avreb-
bero fatto.
9 e’: essi. 13 ierano sopra lo: erano empieo, iscoloe ecc. «mutò il suo animo» (Con- produce un evidente equi-
10 follia: cfr. Guida all’a- nel corso del... 17 iscoloe... in terra: tini). voco con i successivi giuoco,
nalisi. 14 E’ mi fae: ho. s’intenda: dopo aver bevuto 20 senno: «stato d’animo giucarono, che indicano l’atto
11 neuna: nessuna. 15 non conoscendogli sgocciolò per terra ecc. retto dalla ragione» (Conti- sessuale.
12 ed: nesso paraipotatti- che fossero cosie: «non ri- 18 una cagnuol: «cagno- ni). 22 andarosine: se ne an-
co frequente nell’italiano conoscendoli per quello lina; qui è probabile che l’a- 21 compiessero quello darono.
antico (secondo l’uso che erano» (Contini). manuense abbia saltato giuoco: portassero a termi- 23 si n’adiede: se ne ac-
odierno non ci vorrebbe 16 mesceo: è un passato qualche frase» (Marti). ne la partita a scacchi;la scel- corse(ro).
congiunzione). remoto, come i successivi 19 cambioe... coraggio: ta del termine «giuoco»

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10. Le forme della narrativa in Italia fino al Boccaccio T 10.1

LXVI Lo giorno dele nozze sì1 s’apressa, che lo re Marco sì dee incoronare
madonna Isotta del reame di Cornovaglia. Lo giorno dele nozze sì si incomincia
grande sollazzo2 per tutte le parte del suo reame; e lo re incorona madonna Isot- 25
ta delo reame di Cornovaglia. E con grande sollazzo trapassa quello giorno dele
nozze, e dappoi la notte sì si appressima, che lo re sì si dee coricare co madonna
la reina Isotta. E allora Tristano e Governale e Blaguina3 sì si raunarono4 in una
camera privadamente5 e sì diragionano insieme e dicono: «In che maniera potre-
mo noi fare sì che lo re non sapia nostro convenentre?6 ché voi sapete bene la 30
cosa sì com’ell’è istata intra noi due». Allora rispuose Governale e disse: «Io vo-
glio che voi lasciate fare questa cosa a me ed a Blaguina, e noi sì vi metteremo
tale consiglio,7 che di queste cose non si saprà neente».8 Allora sì parla Governa-
1 sì: cfr. testo prec. (nota
2); il successivo che è relativo,
le a Blaguina, e sì gli dice che sì vuole ch’ella sì si debia coricare la notte allato
non consecutivo (così pure alo re, e impromettendoli9 gioie assai. Allora disse Blaguina: «Ed io sì sono appa- 35
alla r. 5). recchiata di10 dire e di fare tutto ciò che voi mi comanderete».
2 sollazzo: in genere
“gioia, piacere”; qui “festeg- Appressimandosi la notte che lo re si vuole coricare cola reina Isotta, ed allora sì
giamenti”. venne la reina nela camera, e le donne e le donzelle sì la mettono a letto. E dap-
3 Blaguina: variante
grafica di Braguina;nella Ta- poi che la reina fue a letto, no rimase11 nela camera se non Governale e Blaguina;
vola Ritonda sarà Brandina e dappoi istante poco,12 e lo re sì si ne viene nela camera e Tristano sì gli fae 40
(l’originale francese ha compagnia. E dappoi che lo re fue nela camera, incontanente13 sì s’aparecchia
Brangain).
4 raunarono: radunaro- d’andare a letto. E dappoi che fue coricato e Tristano sì spense tutti i lumi, e lo re
no. sì disse: «Per che cagione hai tue ispegnati14 tutti i lumi?». E Tristano rispuose e
5 privadamente: in pri-
vato, segretamente. disse: «Questa è una usanza d’Irlanda, che quando una pulcella15 si corica novel-
6 nostro convenentre: lamente16 allato a suo segnore, la prima notte si fanno ispegnare li lumi, perché la 45
«ciò che ci conviene che egli
non sappia» (Marti), ovvero donna non si vergogni; perché le pulcelle sì sono troppo17 vergognose. E questa
la nostra situazione. si è una cortesia,18 la quale sì è in Irlanda, e la madre di madonna Isotta sì mi ne
7 consiglio: rimedio.
8 neente: niente. pregò assai, ch’io la dovesse fare». Allora sì rispuose lo re Marco e disse: «Ben ag-
9 impromettendoli: gia19 tale usanza». E quando Tristano dice queste parole alo re Marco, e Governa-
promettendole. le mise Blaguina a lato alo re Marco e madonna Isotta uscio di fuori. Allora sì si 50
10 apparecchiata di:
pronta a. parte20 ogne persona dela camera, e lo re si giaque con Braguina, credendosi gia-
11 no rimase: non rima-
sero (l’italiano antico usa
cere cola reina Isotta. E dappoi che fue sollazzato lo re tanto quanto parve a lui, e
frequentemente concorda- lo re sì comanda che siano accesi i lumi, e Tristano, lo quale sì è appresso ala ca-
re il verbo al singolare se il mera, incontanente sì entroe dentro, e Governale sì prese la reina e sì la mise nel
soggetto plurale è pospo-
sto). letto, e Braguina sì si ne parte e tornossi a sua camera. E lo re di tutte queste co- 55
12 dappoi istante poco: se non s’avide21 di nulla, e molto iera lo re allegro nel suo cuore, credendos’egli
poco tempo dopo.
13 incontanente: imme- avere avuta la reina pulcella. E incontanente sì fuerono li lumi accesi, e lo re alu-
diatamente. minoe22 lo letto, sì come iera usanza di Cornovaglia, e dappoi che lo re vide la
14 ispegnati: spenti.
15 pulcella: fanciulla, ver-
certanza dela reina23 sì fue molto allegro nel suo cuore. E allora sì comanda c’o-
gine. gne persona sì si debia partire, e la notte sì trapassoe24 lo re con grande allegrez- 60
16 novellamente: per la
prima volta.
za. E alo matino sì si leva lo re Marco e sì si veste e s’apparechia e viene nela sa-
17 troppo: assai. la delo palagio, e quivi sì trovoe cavalieri e baroni di Cornovaglia. E vedendo lo
18 cortesia: usanza di re Tristano, sì ’l chiamò a sé e sì gli disse: «Mio nievo25 Tristano, ora veggio io be-
corte.
19 Ben aggia: stia bene, ne e conosco la tua lealtade e la franchezza26 dela tua cavalleria; ed io imperciò sì
abbia corso. ti daroe ora uno dono, ch’io sì voglio che tue sì sii segnore del reame di Corno- 65
20 si parte: si allontana.
21 s’avide: si avvide, si ac- vaglia, di farne a tutto tuo senno ed a tutta tua volontade, dala corona in fuori. E
corse. questo sì ti prometto io davanti a tutti questi miei baroni». Ed allora Tristano sì si
22 aluminoe: illuminò.
23 vide... dela reina: si fu
levoe e sì gli s’inginochiò a piedi e sì lo ringraziò assai di questo dono. Ed assai
accertato che al suo fianco ne sono allegri li cavalieri e li baroni tutti di Cornovaglia di quello dono, il qua-
giaceva la regina. le ha dato lo re a Tristano, e ciascheduno sì dice: «Re Marco, bene agiate voi,27 70
24 trapassoe: trascorse.
25 nievo: nipote. ch’avete dato cotale dono a monsegnore Tristano; ché infino a tanto che Tristano
26 franchezza: lealtà. sarae vivo in Cornovaglia, noi possiamo bene istare sicuri da ogne cavaliere». E
27 bene... voi: possiate
star bene. grande gioia ne fanno tutti quegli di Cornovaglia per lo loro segnore.
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Duecento e Trecento

Guida all’analisi
Il primo episodio: fatalità e colpa Il primo è un passo celebre e un luogo chiave dell’intreccio. Il «beveraggio
d’amore», filtro capace di far innamorare chi lo beve, destinato a Isotta e a re Marco suo fu-
turo sposo, per errore è bevuto da Tristano e Isotta durante il viaggio: il suo effetto è irre-
frenabile, e neppure la provata lealtà di Tristano può opporrvi resistenza. «Si noti – com-
menta la Delcorno Branca – come l’origine dell’amore fra i due sia dovuta ad un errore, ol-
tre che ad una forza magica: due circostanze destinate a sottolinearne il carattere fatale e
ineluttabile e ad attenuare, se non a cancellare, la colpevolezza dei protagonisti agli occhi del
pubblico». L’impresa di condurgli Isotta in sposa era stata affidata con una certa malevolen-
za da re Marco a Tristano, in quanto il re pensava che si trattasse di un’impresa impossibile,
vista l’ostilità che lo opponeva al padre di Isotta. Ciò non toglie che Tristano, una volta ac-
cettato il compito, per lealtà cavalleresca nei confronti del proprio sovrano avrebbe dovuto
assolvere il proprio compito senza infrazioni. Intrecciare una relazione, per di più non pla-
tonica, con Isotta significa violare un vincolo feudale e un patto cavalleresco.
Il folle e il fino amore Un tale amore, «carnale ed illegale» (Contini), è in effetti definito nel testo «folle» e pro-
duce un senso di colpa che accompagnerà i due protagonisti per tutto il corso del romanzo.
Il «folle amore» nel lessico della letteratura cortese si contrapponeva tradizionalmente al «fi-
no amore» (la fin’amor), un amore reciprocamente leale e rispettoso, capace di raffinare e in-
gentilire gli innamorati. Ma la fin’amor non era quasi mai un amore coniugale e spesso nep-
pure un amore platonico. Anzi l’etica cortese attribuiva uno statuto speciale e nobile all’a-
more extraconiugale, proprio in quanto frutto di una libera scelta e non obbligo derivante
da un contratto. In questo episodio il narratore mette dunque in scena un nodo fondamen-
tale e aggrovigliato dell’etica e della cultura cortesi: il conflitto fra amore come libera scelta,
da un lato, e il dovere di fedeltà coniugale (sancito dall’etica cristiana) e di lealtà cavalleresca,
dall’altro; l’amore come esperienza interiore nobilitante e l’amore passionale e carnale.
Il secondo episodio: l’inganno e la beffa La struttura del secondo episodio è molto simile a quella di tante bef-
fe d’amore che incontreremo nella novellistica (e che d’altronde erano tipiche della com-
media classica): i due amanti debbono ingannare un marito e vi riescono con l’aiuto di due
servitori (Governale la mente, Blaguina il corpo, si potrebbe dire) che con astuzia e ‘sacrifi-
cio’ mostrano la propria dedizione ai rispettivi signori. L’espediente è la sostituzione di
persona in circostanze che non consentono l’identificazione del personaggio: qui il buio è
ottenuto con il ricorso a una presunta usanza e alla verecondia delle pulcelle d’Irlanda.
Lo scambio di persona, un espediente inverosimile, ma accettato Come la beffa, anche lo scambio di persona è
un topos che ha radici remote (la narrativa e la commedia antiche) e avrà una notevole for-
tuna anche in seguito in ambito novellistico e teatrale, per lo più in contesti comici. È da
notare che, benché i generi in cui questo topos compare abbiano connotati realistici, nella
gran parte dei casi – come anche in questo – gli autori non paiono troppo preoccuparsi
della verosimiglianza delle circostanze (qui il buio) che non consentono l’identificazione
della persona sostituita. La parallela disponibilità del lettore a non porsi troppi interrogativi
circa tale (scarsa) verosimiglianza fa parte del «patto narrativo» che si instaura, genere per ge-
nere, tra autore e lettore, allo scopo di consentire l’efficacia dei meccanismi narrativi.
Un registro solo involontariamente comico Alla magia dell’episodio precedente, si sostituiscono qui l’astuzia e
l’inganno. Ma, se il meccanismo è quello della beffa, il registro in cui è condotta la narra-
zione non è comico (come invece nella novellistica), o lo è solo involontariamente. Il nar-
ratore tratta con serietà e piena compartecipazione, si direbbe, la materia del racconto: l’in-
ganno appare un atto necessario a cui Tristano e Isotta sono costretti dalla superiore (e nel
finale tragica) fatalità che presiede al loro amore.

Laboratorio 1 Lo stile dell’autore del Tristano Riccardiano, (Marti). Prova a rilevare in questo passo
COMPRENSIONE che la critica ha definito «uniforme e questa caratteristica stilistica.
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE piatto, grigio», è caratterizzato dalla «mo- 2 Come è affrontato il tema dell’amore ex-
notonia della struttura sintattica» e traconiugale in questo e in altri testi coe-
dall’«elementarità dei mezzi espressivi» vi?

274 © Casa Editrice Principato


10. Le forme della narrativa in Italia fino al Boccaccio T 10.2

T 10.2 Jacopo da Varagine prima del 1267


San Giorgio e il drago
Leggenda aurea Jacopo da Varagine (1228-1298) è l’autore di uno dei libri più fortunati del Medioevo,
a cura di C. Lisi, la Legenda aurea, una raccolta agiografica, composta entro il 1267, che conta 179 narra-
Libreria Editrice Fiorentina, zioni di vite esemplari di santi e di altri eventi della storia sacra legati alla liturgia an-
Firenze 1985
nuale. Dal testo dedicato alla vita di san Giorgio riproduciamo la storia dell’uccisione di
un drago, una vicenda esemplare di chiaro significato simbolico, che renderà questo
santo guerriero una delle figure più emblematiche e più frequentemente rappresentate
anche nell’iconografia sacra.

S. Giorgio, originario della Cappadocia e tribuno nell’armata romana, giunse


una volta alla città di Silene, in Libia. Vicino a questa città vi era uno stagno
grande come il mare in cui si nascondeva un orribile drago che più volte aveva
messo in fuga il popolo intero armato contro di lui; quando poi si avvicinava al-
le mura della città uccideva col fiato tutti quelli in cui si imbatteva. I cittadini, per 5
mitigare il furore del drago e impedire che appestasse l’aria causando la morte di
molti, gli offrirono dapprima due pecore ogni giorno perché se ne cibasse; ma
quando le pecore, di cui non avevano grande abbondanza, cominciarono a man-
care, furono costretti a dargli da mangiare una pecora ed un uomo. Si tirava
dunque a sorte il nome della vittima scelta fra i giovani della città e nessuna fa- 10
miglia era esclusa: già quasi tutti i giovani erano stati divorati quando l’unica fi-
glia del re fu designata come la vittima da presentare al drago. Il re profonda-
mente addolorato disse: «Prendetemi tutto l’oro e l’argento che ho e metà del
mio regno ma rendetemi la figlia mia, onde non perisca di siffatta morte!» Ri-
spose il popolo infuriato: «O re, hai fatto tu stesso questo editto. I nostri figli so- 15
no morti e tu vorresti salvare la figlia tua? Se tu non permetterai che questa
muoia come gli altri, bruceremo te e la tua casa!» Il re allora disse piangendo al-
la figlia: «Che cosa devo dirti figlia mia dolcissima? Ormai non vedrò più le tue
nozze!» Rivolto poi al popolo esclamò: «Vi prego di darmi otto giorni di tempo
per piangere la figlia mia!» Il popolo acconsentì ma dopo otto giorni così parlò 20
al re: «Non vedi che tutti muoiono per il pestifero soffio del drago?» Il re vide
che in nessun modo poteva salvare la figlia onde la vestì di vesti regali e abbrac-
ciandola disse fra le lacrime: «Ahimè! figlia mia dolcissima, io credevo che nel
grembo regale tu avresti allevato i tuoi figli, e invece diverrai preda del drago!
Ahimè! figlia mia dolcissima, io speravo di invitare i principi alle tue nozze, di 25
ornare di perle il mio palazzo e d’ascoltare l’allegro suono dei timpani e degli or-
gani; invece tu diverrai preda del drago!» La figlia allora cadde ai piedi del padre
chiedendogli la sua benedizione. Il re la benedisse con molte lacrime; dopodichè
la giovinetta si incamminò verso il lago.
Il beato Giorgio che per caso passava di là vide la fanciulla piangente e le chiese 30
cosa avesse. E quella « Buon giovane, risali subito sul cavallo se non vuoi morire
con me». E Giorgio «Non temere, figlia mia, ma dimmi che cosa fai qui in lacri-
me sotto gli occhi di tutto il popolo, che ti sta ad osservare dalle mura». E quella:
«Vedo che sei un giovane audace e generoso ma perché vuoi morire con me?
Fuggi, fuggi senza più aspettare!» E Giorgio «Non me ne andrò sino a che tu 35
non mi abbia detto che cosa stai facendo». Quando la fanciulla gli ebbe raccon-
tato la sua storia disse Giorgio: «Figlia mia non temere, poiché io ti verrò in aiu-
to nel nome di Cristo». E quella «Buon soldato non voler morire, basta la mia
morte!» Mentre così i due parlavano il drago sollevò la testa dall’acqua del lago
onde la fanciulla tutta tremante gridò: «Fuggi, fuggi, mio buon signore!» Giorgio 40
allora salì sul cavallo e fattosi il segno della croce si gettò sul drago, vibrò con for-
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Duecento e Trecento

za la lancia e, raccomandandosi a Dio, gravemente lo ferì.


Il drago cadde a terra e Giorgio disse alla giovinetta: «Non aver più timore e
avvolgi la tua cintura al collo del drago». Così ella fece e il drago cominciò a
seguirla mansueto come un cagnolino. Vedendola in tal guisa avvicinarsi alla 45
città, tutto il popolo atterrito cominciò a gridare: «Ahimè, ora moriremo tutti!»
Ma il beato Giorgio disse loro «Non abbiate timore, poiché Iddio mi ha man-
dato a voi onde liberarvi da questo drago. Abbracciate la fede di Cristo, riceve-
te il battesimo ed io ucciderò il mostro». Allora il re e tutta la popolazione ri-
cevettero il battesimo; dopodichè Giorgio uccise il drago e comandò che fosse 50
portato fuori della città con un carro tirato da quattro paia di bovi.

Guida all’analisi
San Giorgio miles Christi San Giorgio è un soldato romano che, non perdendo i suoi tratti di combattente, si
tramuta in miles Christi, in soldato di Cristo che conquista anime alla fede. L’uccisione del
drago è un’impresa che al pubblico medievale doveva apparire intrisa di allusioni al mondo
cavalleresco, ma anche dotata di un inequivocabile significato simbolico.
Il drago, mostro mitologico e folklorico variamente raffigurato e protagonista di varie
narrazioni profane del ciclo arturiano, nell’immaginario popolare e nella letteratura cristia-
na medievale acquista infatti valore simbolico, in quanto terrificante figura del demonio.
Questa è anche la chiave di lettura della nostra storia. Le figure a cui per il pubblico medie-
vale poteva, e può ancor oggi, essere immediatamente associato sono quelle dei tanti diavo-
li che nell’inferno divorano i corpi dei dannati, e tra queste campeggia quella del principe
delle tenebre Lucifero, Belzebù o Satana. Pensiamo, ad es., alle raffigurazioni in Giacomino
da Verona, e soprattutto a quella di Lucifero, nel canto finale dell’Inferno, «lo ’mperador del
doloroso regno», mostro alato tricipite che divora Giuda, Bruto e Cassio (If XXXIV 53-60).
La morte delle pecore (vittime sacrificali tradizionali) come quella dei giovani ha il si-
gnificato del tributo di sangue a un idolo malefico, mentre il motivo dell’aria appestata che
può causare la morte dell’intera popolazione (in ragione della quale si offre il tributo) si-
gnifica il trionfo definitivo del male. Questa stessa morte ha anch’essa un valore simbolico:
non tanto o non solo di morte fisica si tratta, ma di morte morale. Tant’è che – domato il
drago e liberata la vittima sacrificale eccellente – il santo promette la liberazione dal flagel-
lo del drago in cambio della conversione alla fede in Cristo.
I demoni nella narrativa agiografica I demoni popolano la narrativa esemplare e agiografica: ora sono presen-
ze insidiose o terrificanti, che mettono alla prova i santi o li straziano, come nel caso di
sant’Antonio nella Legenda aurea: «Giaceva a terra il santo con il corpo piagato ma con ani-
mo invitto invitava i demoni alla lotta. Questi si presentarono sotto forma di bestie feroci e
cominciarono a straziare il corpo di Antonio coi denti, con le corna e con le unghie. Ma
apparve un mirabile splendore e i diavoli furono costretti a fuggire: il santo si trovò comple-
tamente risanato». Ora sono invece ‘poveri diavoli’, tentatori impotenti e ridicolizzati con
cui i santi possono intessere colloqui di sapore quotidiano: nella Legenda aurea san Macario
incontra per strada un diavolo munito di falce che tenta invano di colpirlo: «Disse allora il
diavolo a Macario: “O Macario soffro molto per causa tua perché non posso vincerti. Ecco,
io faccio tutto quello che tu fai: se digiuni io rifiuto ogni cibo; se tu vegli io smetto com-
pletamente di dormire. In una cosa sola tu sempre mi superi”. “In quale?” domandò l’abate.
Disse il diavolo: “Nell’umiltà, per motivo della quale io non posso prevalere contro di te”».
Nel testo di Jacopo da Varagine invece compare in forma per così dire sublimata e assoluta,
puramente simbolica. Ma del suo valore esemplare fanno fede le innumerevoli rappresenta-
zioni iconografiche che addobbano chiese e chiostri medievali: san Giorgio che sconfigge il
drago è il combattente per la fede che sconfigge il mostro del male.
Laboratorio 1 In quali parti e a che scopo questo racconto si fa più analitico e si distanzia dalla forma
COMPRENSIONE ‘fulminea’ tipica dell’esempio?
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE

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10. Le forme della narrativa in Italia fino al Boccaccio T 10.3

T 10.3 Jacopo Passavanti metà Trecento


Il conte di Matiscona
Lo specchio Jacopo Passavanti (1302 circa-1357) è uno dei massimi scrittori tardo-medievali di
di vera penitenza esempi in volgare. L’opera nella quale sono inseriti, Lo specchio di vera penitenza, è un
Soc. Tip. de’ Classici Italiani,
Milano 1808 trattato sulla necessità della penitenza. Gli esempi sono perlopiù storie di peccatori che
mancando o tardando a pentirsi sono condannati alle pene infernali, o che non avendo
espiato le proprie colpe in terra sono condannati a lunghe sofferenze in purgatorio.
In questo esempio Passavanti dimostra la sua predilezione per il terribile. L’uomo – ar-
gomenta – non può essere così presuntuoso da credere che Dio gli conceda il tempo di
pentirsi in extremis, dopo una vita di dissipazione. La morte può giungere improvvisa,
come accadde al conte di Matiscona.

1 conciossiacosaché: Or come puote l’uomo ragionevolmente sperare che Dio gli conceda il tempo
dal momento che.
2 Elinaldo: Elinando, ch’è a venire, graziosamente; conciossiacosaché1 quello che gli ha dato, l’abbia
erudito e cronista francese, usato viziosamente, e contra lui oltraggiosamente? Non è speranza, ma cieca
del XII-XIII secolo, autore presunzione, che quello ch’è del tempo ch’ha venire, l’uomo vanamente di-
di opere di ispirazione mo-
rale e religiosa, fonte anche sponga. Contra questi cotali mostra Dio spesse volte giudicio visibile di giusta 5
dell’esempio del conte di vendetta, togliendo loro il tempo, che superbamente usavano contra Dio, e che
Niversa (R T 13.7 Doc 13.3 ).
Ma, anche in questo caso, presuntuosamente speravano di lunga vita.
l’intermediario utilizzato Leggesi scritto da Elinaldo,2 che in Matiscona fu uno Conte, il quale era uomo
dal Passavanti è l’Alphabetum
narrationum. mondano3 e grande peccatore, contro a Dio superbo, e contro al prossimo spie-
3 mondano: dedito a vi- tato e crudele. Ed essendo in grande stato4 con signoria, e colle molte ricchezze 10
ta mondana.
4 in grande stato: in una sano e forte, non pensava di morire, né che le cose di questo mondo gli dovesso-
condizione sociale elevata. no venire meno,5 né di dovere essere judicato da Dio. Un dì di Pasqua, essendo
5 venire meno: manca-
re, essere sottratti.
nel palazzo propio attorneato da molti cavalieri e donzelli,6 e da molti onorevo-
6 donzelli: giovani no- li cittadini, che pasquavano7 con lui; subito uno uomo sconosciuto, in su uno
bili in attesa di divenire ca- grande cavallo, entrò per la porta del palazzo, senza dire a persona neente: e ve- 15
valieri, paggi.
7 pasquavano: festeg- nendo infino dov’era il Conte colla sua compagnia, veggendolo8 tutti, e udendo-
giavano la Pasqua. lo, disse al Conte: Su, Conte, lievati su, e seguitami. Il quale tutto spaurito, tre-
8 veggendolo: si tratta di
una forma modellata sull’a- mando si levò, e andava dietro a questo sconosciuto cavaliere, al quale niuno era
blativo assoluto latino. ardito di dire nulla.Venendo alla porta del palazzo, comandò il cavaliere al Con-
9 traendolosi: trasci-
nandoselo. te, che montasse in su uno cavallo, che vi era apparecchiato: e prendendolo per le 20
10 correndo alla distesa: redine, e traendolosi9 dietro correndo alla distesa,10 il menava su per l’aria, veg-
velocemente, di continuo. gendolo tutta la città, traendo il Conte dolorosi guai,11 gridando: Soccorretemi,
11 traendo... guai: emet-
tendo lamenti di dolore. cittadini, soccorrete il vostro Conte misero sventurato. E così gridando, sparì da-
12 sanza fine: per l’eter-
nità.
gli occhi degli uomini, e andò a sedere sanza fine12 nello inferno co’ Demonj.

Guida all’analisi
Struttura della narrazione Questo breve esempio ha una struttura molto lineare ed essenziale: introduzione ar-
gomentativa (rr. 1-7); citazione della fonte e menzione del luogo (r. 8); presentazione del
personaggio (rr. 8-12); situazione (rr. 12-14); evento miracoloso (rr. 14-24). La vicenda è
però raccontata da un narratore esterno (testimone estraneo alla vicenda: noi la vediamo
oggettivamente attraverso i suoi occhi): per questo motivo, per la sobrietà dell’esposizione e
per l’incalzare degli eventi, soprattutto nel crescendo finale, il racconto appare assai potente
e drammatico.
Il narratore utilizza un luogo comune della narrativa esemplare medievale, la comparsa
del diavolo, qui sotto forma di misterioso cavaliere, che porta via il peccatore tra il terrifica-
to stupore dei presenti («veggendolo tutti… veggendolo tutta la città… E così gridando,
sparì dagli occhi degli uomini…») .
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Duecento e Trecento

n La contesa dell’anima di
un defunto (da un manoscrit-
to del XIII secolo).

Il diavolo nell’iconografia medievale Nell’iconografia medievale – come abbiamo già avuto modo di constata-
re – sovente il diavolo è rappresentato in forma ferina, spesso palesemente mostruosa: anche
il cavallo (che troveremo anche in un altro testo sotto forma di cavallo nero che getta fiam-
me dalle froge [R T 13.6 ]) è talora figura del diavolo o, come in questo caso suo strumento.
Di questa iconografia si ricorderà anche Manzoni, quando, nella prima stesura dei Promessi
sposi (intitolata Fermo e Lucia), immaginerà che l’appestato don Rodrigo sia improvvisa-
mente portato via dal lazzeretto da un cavallo nero: questa soluzione, con le sue implica-
zioni simboliche, dovette però apparirgli troppo palesemente orientata a significare la mani-
festazione di un giudizio divino (mentre Manzoni voleva che la sorte ultraterrena di don
Rodrigo, come le celebri parole di fra Cristoforo testimoniano, fosse lasciata nel mistero) e
la eliminò.

Laboratorio 1 Quali aspetti della forma exemplum trovi infine, la struttura sintattica dell’intero
COMPRENSIONE realizzati in questo testo? racconto.
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE 2 Perché è importante la citazione della 5 Confronta la rappresentazione che del
fonte? demonio fa Passavanti in questo testo con
3 Analizza il modo in cui sono rappresen- quella che ne dà Jacopo da Varagine nella
tati il personaggio e la situazione in que- storia di San Giorgio.
sto esempio. Su quali aspetti si sofferma il 6 Analizza e metti a confronto i temi, le
narratore e a che scopo? tecniche narrative e i registri stilistici dei
4 Abbiamo affermato che il racconto pro- tre esempi che hai letto (San Giorgio e il
cede in modo sobrio e, nel finale, con drago, questo e quello di Filippo degli
ritmo incalzante e in un crescendo di in- Agazzari riprodotto come Doc 10.3 ).
tensità drammatica: rileva nel testo que- 7 Confronta l’immagine della donna che
ste caratteristiche, osservando la frequen- emerge dal testo di Filippo degli Agazzari
za delle forme verbali (e in particolare con quelle che emergono da altri testi
dei gerundi), la quantità e la funzione duecenteschi in prosa e in poesia che hai
degli aggettivi, delle battute di dialogo e, studiato.

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10. Le forme della narrativa in Italia fino al Boccaccio T 10.3

Doc 10.3 La letteratura misogina medievale: una visione del mondo maschile e sessuofoba

Una vena misogina percorre l’intero Medioevo. Ciò è in prima istanza dovuto al fatto che
gran parte della letteratura medievale è concepita e scritta da uomini e propone una visio-
ne maschile del mondo. Ma la letteratura misogina rimanda anche alla visione negativa che
il cristianesimo medievale ha del sesso. Nella concezione cristiana medievale la donna ap-
pare fondamentalmente scissa in due immagini contrapposte: la donna spiritualizzata (l’ar-
chetipo è la Madonna, che castamente concepisce il figlio di Dio), che ritroviamo anche
nella lirica stilnovistica, e la donna tentatrice e peccatrice (il cui archetipo è Eva, causa del-
la cacciata dal Paradiso). A questa seconda categoria appartengono molte delle figure fem-
minili che compaiono nella letteratura di ispirazione cristiana (si veda qui di seguito il vi-
vace esempio di fra Filippo degli Agazzari [1339?-1421]). Il corpo femminile è visto come
uno strumento del diavolo, una fonte di tentazione e di peccato per l’uomo, che lo distoglie
dal cammino di elevazione e redenzione. In particolare questa caratterizzazione è presente
nella letteratura edificante (esempi e vite di santi, in cui un topos è il superamento della ten-
tazione della lussuria). Infine la visione negativa del corpo femminile rientra nella più ge-
nerale idiosincrasia che l’uomo medievale manifesta nei confronti del corpo, anche del pro-
prio corpo, che è concepito sovente in forte antitesi con l’anima. Il corpo è la zavorra che
trattiene l’uomo dall’elevarsi spiritualmente; il corpo è la fonte di tutte le tentazioni e di
tutti i peccati e quindi va spesso mortificato [R T 4.2 Jacopone, Quando t’aliegre].

D’UNA GIOVANA CHE LE FU ROSO DAL LISCIO TUTTE LE GOTE


La prosa del Duecento, a Entorno agli anni mille trecento ottanta e tre fu ne la città di Siena1 una fanciulla di po-
c. di C. Segre e M. co tempo maritata, la quale, tanto quanto ell’era bella del corpo, tanto era più sozza dell’a-
Marti, Ricciardi,
Milano-Napoli 1959 nima; e quanto si doveva studiare di piacere a Dio, tanto si studiava di piacere al diavolo;
però che essendo stata creata e formata da Dio a la immagine e similitudine sua, spesse vol-
te guastandosi del volto la immagine2 e figura di Dio, facevavisi quella del diavolo; cioè che
era molto vana d’ornarsi e di lisciarsi3 el volto. Costei una mattina per tempo levandosi, e
iscendendo giù ne la corte, e fatte certe cose ch’aveva a fare per la casa, disse a la suocera
sua. Io ho veduto la tal fanciulla che s’è lisciata e fattosi molto bella, sì che io voglio andare
a farmi più bella di lei. E ritornando in camera, e prendendo el liscio e impiastratesi le ma-
ni, e volendosele ponare4 al volto disse: Al nome di Santo Antonio! Allora Santo Antonio
non potendo sostenere5 che Dio nel nome suo fusse tanto ingiuriato, che ella andasse a la
chiesa a mostrare a Dio la figura del suo nemico, cioè come fanno molte misere che vanno
a la chiesa ne la casa di Dio, e fannovi su quella del diavolo; et alle6 il diavolo tanto acceca-
te, che credono che Dio non se n’avvegga e che non conosca el diavolo dagli angeli e ve-
ramente spose so’7 de le dimonia, e co’ le dimonia saranno collocate, se non s’amendaran-
no.8 La sopradetta misera subbito che s’accostò el liscio a le gote sentì uno ’ncendio di fuo-
co mortale, el quale l’arse e le consumò sì le carni del volto, che in quattro dì ch’ella visse
tutte l’ossa de le gote si vedevano schiarite; e diventò tanto scura e orribile, che chiunque la
vedeva stupidiva.9 E così Santo Antonio10 vendicò la ’ngiuria11 ch’ella voleva fare a Dio nel
nome suo.

1 Entorno... Siena: la specchia l’immagine divi- 6 et alle:e le ha Sant’Antonio (o meglio: al-


determinazione spaziale e na: per la tradizione cristia- 7 so’: sono. l’origine della denomina-
soprattutto temporale as- na, infatti, Dio ha creato 8 amendaranno: e- zione della malattia vi è,
solve qui la funzione di l’uomo a propria immagine menderanno, correggeran- probabilmente, una cre-
certificare il pubblico (che e somiglianza). no. denza superstiziosa che
è pure senese) circa l’ au- 3 lisciarsi: cospargersi il 9 stupidiva: rimaneva vuole che la malattia sia una
tenticità del fatto narrato. volto di liscio,cioè di bellet- istupidito,sbigottito. punizione per un peccato
2 del volto la immagi- to o, come diremmo oggi, 10 Santo Antonio: all’o- commesso).
ne...: l’immagine divina di un cosmetico. rigine di questo preteso 11 ’ngiuria: offesa.
impressa sul volto (l’aspetto 4 ponare: porre. “miracolo” è la malattia no-
naturale, privo di trucco, ri- 5 sostenere: sopportare. ta come il fuoco di

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Duecento e Trecento

T 10.4 Anonimo, Il Novellino dopo il 1280 - prima del 1330


Beffe e motti arguti
La prosa del Duecento Il Novellino è la più importante raccolta narrativa italiana duecentesca, quella che segna
a c. di C. Segre e M. Marti, il momento di maggiore emancipazione dalla tradizione esemplare cristiana e quella
Ricciardi, che propone la visione dell’uomo più articolata e complessa.
Milano-Napoli 1959
Questa serie di novelle brevi e brevissime, spesso d’argomento contemporaneo, testi-
monia il gusto per la beffa e per il motto arguto, ora garbato ora salace, che caratteriz-
za un’ampia zona del Novellino e che tanta parte avrà nella successiva storia della no-
vellistica italiana.

1 Taddeo di Bologna: XXXV


un professore di medicina. QUI CONTA DEL MAESTRO TADDEO DI BOLOGNA1
2 leggendo: facendo le-
zione.
3 trovò... petronciano:
Maestro Taddeo leggendo2 a’ suoi scolari in medicina, trovò che [chi] continuo man-
scoprì che chi mangiasse giasse nove dì petronciano,3 diverebbe matto. E pro[va]valo secondo la fisica.4 Un suo
per nove giorni di seguito scolaro, udendo quel capitolo, propuosesi di volerlo provare.5 Prese a mangiare de’ pe-
melanzane.
4 secondo la fisica: se- tronciani, e in capo de’ nove dì venne dinanzi al maestro, e disse: – Maestro, il cotale
condo i princìpi della medi- capitolo che leggeste non è vero, però ch’io l’hoe provato, e non sono matto. – E pu-
cina.
5 provare: verificare. re alzasi e mostrolli il culo. – Scrivete, – disse il maestro – che tutto questo è6 del pe-
6 è: è effetto. tronciano e provato è; e facciasene nuova chiosa.7
7 chiosa: nota al testo,
che il maestro veniva leg-
gendo.
XXXIX
1 Aldobrandino:Aldo- QUI CONTA DEL VESCOVO ALDOBRANDINO,1 COME FU SCHERNITO DA UN FRATE
brandino dei Cavalcanti,ve-
scovo di Orvieto (1271-79. Quando il vescovo Aldobrandino vivea al vescovado suo d’Orbivieto, e stando un
2 fine: buon.
3 do[n]zello: servitore.
giorno al vescovado a tavola, ov’erano frati minori a mangiare, ed eravene uno che
4 li... a stomaco: scam- mangiava una cipolla molto savorosamente e con fine2 appetito; il vescovo, guardan-
bierei con lui lo stomaco. dolo, disse a uno do[n]zello:3 – Vammi a quello frate, e dilli che volentieri li scambia-
5 Va dì: vai a dire.
rei a stomaco.4 – Lo donzello andò e disseglile. E lo frate rispuose: – Va dì5 a Messere
che ben credo che volentieri m’acambierebbe a stomaco, ma non a vescovado.

1 quistione: quesito.
2 Marco Lombardo: fu XLIV
un valente uomo di corte,
vissuto quasi sicuramente D’UNA QUISTIONE1 CHE FU POSTA AD UN UOMO DI CORTE
nella seconda metà del XIII
secolo nell’Italia settentrio- Marco Lombardo2 fue nobile uomo di corte e savio molto. Fue a uno Natale a una
nale. cittade dove si donavano molte robe,3 e non n’ebbe niuna. Trovò un altro uomo di
3 robe: vesti.
4 nesciente apo lui: corte, lo qual era nesciente apo lui,4 e avea avute robe. Di questo nacque una bella
ignorante al suo confronto, sentenzia;5 ché quello giullare disse a Marco: – Che è ciò, Marco, ch’i’ ho avute sette
rispetto a lui.
5 sentenzia: motto ar- robe, e tu non niuna?6 E sì se’ tu troppo7 migliore e più savio di me. Qual è la ragio-
guto. ne? – E Marco rispuose: – Non è per altro, se non che tu trovasti più de’ tuoi8 che io
6 non niuna: nessuna.
7 troppo: assai. non trova’ delli miei.
8 più de’ tuoi:più perso-
ne simili a te (vale a dire
“sciocchi, ignoranti”).
XLVII
1 laido: brutto. QUI CONTA COME UNO CAVALIERE RICHIESE UNA DONNA D’AMORE
2 dopo: dietro.
3 acconciate: disponete Uno cavaliere pregava uno giorno una donna d’amore, e diceale intra l’altre parole
a buon fine. ch’elli era gentile e ricco e bello a dismisura: – E ’l vostro marito è così laido,1 come
4 isconciate: guastate.
5 Lizio di Valbona... voi sapete. – E quel cotal marito era dopo2 la parete della cammera. Parlò, e disse: –
Rinieri da Calvoli: uomini Messere, per cortesia, acconciate3 li fatti vostri, e non isconciate4 li altrui!
illustri di Romagna (cfr. Pg
XIV 88 e 97). Messere Lizio di Valbona fu [’l] laido, e messere Rinieri da Calvoli5 fu l’altro.
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10. Le forme della narrativa in Italia fino al Boccaccio T 10.4

Guida all’analisi
Le trame e le arguzie Queste novellette sono perlopiù caratterizzate dall’estrema brevità, dall’essenzialità dei
fatti narrati, dall’argomento faceto e soprattutto, con una sola eccezione, dalla presenza di un
motto arguto a conclusione del racconto.
Mastro Taddeo (XXXV) ribatte prontamente con la parola al gesto beffardo e sconcio
dello scolaro, mostrando come l’intenzione beffarda dello scolaro riveli la sua insensatezza (e
quindi la bontà delle tesi del maestro: R10.3). Il frate (XXXIX) smaschera e schernisce con
altrettanta prontezza il vescovo che gli invidia la salute ma non sarebbe disposto a cedergli
in cambio i privilegi del suo stato. Marco Lombardo (XLIV) sottolinea l’insipienza del
giullare e lo mette a tacere (ma la novella non è priva d’una nota malinconica: non sempre
il savio è tenuto nella considerazione che merita, specialmente a corte). Messer Lizio, (XL-
VII) mostrando di non curarsi troppo del tradimento, rimprovera la scortesia di Rinieri con
un arguto gioco di parole («acconciate… isconciate»): passi portargli via la moglie, ma sen-
za metterlo in cattiva luce!
Infine nella XCV, di nuovo brevissima, troviamo la figura, che poi diventerà topica, del
villano beffato per la sua sciocchezza: in questo caso il motto arguto è sostituito dalle più
materiali frustate, a designare (con il solito disprezzo) l’inutilità dell’arguzia di fronte a uno
sciocco che non la potrebbe intendere.
Il sermo brevis e l’arguzia La scelta del sermo brevis, cioè di una misura narrativa che riduce all’essenziale le com-
ponenti del racconto e che della stringatezza formale fa un tratto di stile (per lo più: perio-
di brevi, giustapposti, alternanza di narrazione a brevi battute di dialogo, talora isolate, più
spesso nella forma della botta e risposta ecc.), è una delle caratteristiche proprie dell’exem-
plum che trapassano con poche modifiche nel genere novellistico del motto e della facezia.
Ciò che muta, oltre al contesto e all’ideologia sottesa al racconto, sono il registro che in-
clina verso il comico e alcuni tratti formali (ad esempio la frequenza della conclusione a
botta e risposta). I temi della beffa e del motto arguto infine si propongono come tipici di
un contesto laico e urbano, in cui la prontezza e l’abilità pratica e verbale con cui si risolvo-
no situazioni difficili stanno diventando dei valori, che possono venire proposti apertamen-
te in un testo scritto come esemplari, senza più remore di ordine morale e religioso.

Laboratorio 1 Descrivi, novella per novella, in che cosa 4 In queste novelle, brevi e brevissime,
COMPRENSIONE esattamente consista l’arguzia dei diversi molto è lasciato all’immaginazione del
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE motti, sviluppando le osservazioni fornite lettore: ambienti, aspetto e carattere dei
nella Guida all’analisi. personaggi, circostanze dell’evento ecc.
2 Elenca e descrivi sinteticamente, novella Alcuni di questi elementi sono però più
per novella, le informazioni che abbiamo strettamente implicati nella storia, si pos-
sui personaggi e sugli ambienti sociali sono dedurre dal racconto (il campo di
rappresentati in questi testi. integrazione del lettore è limitato cioè da
3 In quali delle novelle lette si realizza con- fattori di verosimiglianza e di congruenza
cretamente la seguente situazione: un con quanto è detto nel racconto), altri
personaggio astutamente si cava d’impac- sono invece lasciati totalmente alla libertà
cio mediante un motto arguto? In parti- immaginativa del lettore. Scegli qualcuna
colare: la novella del maestro Taddeo di di queste novelle e prova a integrarle
Bologna risponde a questo schema? Mo- oralmente o per iscritto con alcuni ele-
tiva la risposta facendo riferimento al te- menti narrativi che ti paiano pertinenti e
sto. congruenti.

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Duecento e Trecento

T 10.5 Anonimo, Il Novellino dopo il 1280 - prima del 1330


La novella del Piovano Porcellino
La prosa del Duecento Il modello della facezia, del motto arguto che conclude o risolve una vicenda, lo ritro-
a c. di C. Segre e M. Marti, viamo anche in questa novella, in cui un piovano, accusato da un vescovo di aver tenu-
Ricciardi, to una condotta immorale, trova modo di scampare alla punizione.
Milano-Napoli 1959
LIV
QUI CONTA COME IL PIOVANO PORCELLINO FU ACCUSATO
1 piovano: pievano, sa- Uno piovano,1 il quale aveva nome il piovano Porcellino, al tempo del vescovo
cerdote rettore di una pieve
(la chiesa madre in un di- Mangiadore2 fu acusato dinanzi dal vescovo ch’elli guidava male la pieve per
stretto rurale). cagione di femine. Il vescovo, facendo sopra lui inquisizione, trovollo molto
2 Mangiadore: Giovan-
ni Mangiadore, vescovo di colpevole. E stando in vescovado, attendendo l’altro dì d’essere disposto,3 la
Firenze dal 1251 al 1274. famiglia,4 volendoli bene, l’insegnaro campare.5 5
3 disposto: destituito, ri-
mosso dall’incarico.
Nascoserlo, la notte, sotto il letto del vescovo. E in quella notte il vescovo
4 la famiglia: i servitori v’avea fatto venire una sua amica; ed essendo entro il letto, volendola toccare,
del vescovo. l’amica non si lasciava, dicendo: – Molte impromesse m’avete fatte, e non me
5 campare: il modo di
cavarsela. ne attenete neente.6 – Il vescovo rispuose: – Vita mia, io lo ti prometto e giuro.
6 non... neente: non ne – Non, – disse quella – io voglio li danari in mano. – El vescovo levandosi per 10
mantenete nessuna.
7 a cotesto... elle me: è andare per danari, per donarli all’amica, el piovano uscì di sotto il letto, e disse:
in questa stessa situazione – Messere, a cotesto colgono elle me!7 Or chie potrebbe fare altro? – Il vescovo
che le donne mi costringo-
no a sborsare del danaro. si vergognò, e perdonògli; ma molte minacce li fece dinanzi alli altri cherici.

Guida all’analisi
Motto arguto ed elogio dell’astuzia In questa novella il narratore mette in scena un personaggio che si sottrae
alle vessazioni di un vescovo lussurioso e ipocrita. Tale motivo ha radici remote nelle pole-
miche contro la corruzione del clero e di per sé non è particolarmente originale: lo diven-
ta però se inserito, come in questo caso, in un contesto sostanzialmente comico, che non
prevede tanto la condanna edificante del vizio quanto l’implicito elogio dell’astuzia e del-
l’arguzia o una rappresentazione comunque disincantata della realtà senza fini moralistici.
Il protagonista astuto e arguto è anch’egli moralmente reprensibile, non rappresenta cioè il ti-
po dell’eroe virtuoso che smaschera il vizio; piuttosto appartiene a un’umanità abituata ad ‘ar-
rangiarsi’ destreggiandosi nei meandri di una società insidiosa, dove trionfa non il più onesto ma
il più abile. Più che i rapporti con le donne poi (contrari alle regole ecclesiastiche, ma frutto di
un impulso naturale), ciò che il narratore pare maggiormente deprecare è l’ipocrisia del ve-sco-
vo, che predica bene ma razzola male e non rinuncia a una pubblica reprimenda del piovano.
Una società che va laicizzandosi In questa novella non c’è insomma vera indignazione per l’immoralità dei re-
ligiosi: si limita a rappresentare, senza illusioni e in termini scherzosi, la realtà. Ma proprio
questo è sintomo di una laicizzazione della società e della cultura che abbandona ogni in-
transigenza e che ai valori religiosi ne affianca o ne sostituisce altri.

Laboratorio 1 Quali tratti della psicologia dei personag- mia, io lo ti prometto e giuro»).
COMPRENSIONE gi emergono con chiarezza nella novella? 3 Esamina la vicenda che, pur breve, si arti-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE Tali tratti sono frutto di specifiche analisi cola in vari momenti successivi (è suddi-
interne del narratore o si desumono dalle visibile in sequenze).
azioni e dalle parole dei personaggi? 4 Confronta questa novella con Decameron IX,
2 Esamina il sistema dei personaggi, notando 2 [R T 13.12 ]. In particolare osserva la diversa
che, oltre ai due antagonisti, compaiono, in misura narrativa e indica quali aspetti del
funzione determinante, la famiglia e l’ami- racconto qui appena accennati sono amplia-
ca del vescovo (quest’ultima è protagonista ti nel Decameron e quali sono invece del
di una vivace scenetta comprensiva di tutto originali. Rifletti sullo stile, sulle tecni-
qualche gustosa battuta di dialogo: «Vita che e sulle diverse strategie narrative.

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10. Le forme della narrativa in Italia fino al Boccaccio T 10.6

T 10.6 Anonimo, Il Novellino dopo il 1280 - prima del 1330


Questioni di giustizia
La prosa del Duecento In queste due deliziose novellette d’ambientazione orientale si trattano in forma fanta-
a c. di C. Segre e M. Marti, siosa e paradossale problemi di equità e di amministrazione della giustizia. Queste figu-
Ricciardi, re di giudici, in un caso pagani nell’altro cristiani, che vengono a capo di questioni in-
Milano-Napoli 1959 solite e complesse con grande equità, costituiscono uno dei modelli di comportamento
che l’autore del Novellino sembra voler implicitamente proporre al pubblico urbano e
comunale cui si rivolge.

IX
QUI SI DITERMINA UNA NOVA QUISTIONE1 E SENTENZIA CHE FU DATA
IN ALESSANDRIA2

1 si ditermina… qui- In Alessandria, la qual è nelle parti di Romania3 (acciò che sono dodici Alessan-
stione: si definisce uno stra- drie,4 le quali Alessandro fece il marzo dinanzi ch’elli morisse); in quella Alessan-
no caso.
2 Alessandria: probabil- dria sono le rughe5 ove stanno i saracini, li quali fanno i mangiari a vendere,6 e
mente Alessandria d’Egitto. cerca l’uomo la ruga per li piue netti mangiari e più dilicati, siccome l’uomo fra
3 nelle parti di Roma-
nia: «a Levante, nell’antico noi cerca de’ drappi.7 Un giorno di lunedì un cuoco saracino, lo quale avea no- 5
impero d’Oriente» (Conte). me Fabrat, stando8 alla [c]ucina sua, un povero saracino venne alla cucina con
4 acciò che… Alessan-
drie: poiché esistono dodici uno pane in mano: danaio non avea da comperare da costui;9 tenne il pane sopra
città chiamate Alessandria il vasello,10 e ricevea il fummo che n’usciva: e inebriato11 il pane del fumo che
(secondo un’antica leggen-
da). n’uscia del mangiare, e quelli12 lo mordea; e così il consumò di mangiare.13 Que-
5 rughe: strade. sto Fabrat non ve[n]deo bene14 questa mattina; recolsi a ingiuria e a noia,15 e 10
6 mangiari a vendere:
cibi destinati alla vendita.
prese questo povero saracino, e disseli: – Pagami di ciò che tu hai preso del mio. –
7 e cerca… drappi: e lì si Il povero rispuose: – Io non ho preso della tua cucina altro che fummo. – Di ciò
cerca (l’uomo, forma im- c’hai preso del mio mi paga16 – dicea Fabrat. Tanto fu la contesa, che per la nova
personale) la strada in cui si
offrano i cibi migliori e più quistione e rozza, non mai più avenuta,17 n’andaro le novelle al Soldano.18 El
raffinati, come da noi si fa Soldano per molta novissima cosa19 raunò savi, e mandò per costoro.20 Formò la 15
con le stoffe e gli abiti.
8 Un giorno… stando: quistione. I savi saracini cominciaro a sottigliare,21 e chi riputava il fummo non
un giorno, mentre un cuo- del cuoco, dicendo molte ragioni:22 il fummo non si può ri[t]e[n]ere [che] torna
co… stava (costrutto simile
all’ablativo assoluto latino). ad alimento,23 e non ha sustanzia né propietade24 che sia utile; non dee pagare.
9 danaio… costui: non Altri dicevano: lo fummo era ancora congiunto col mangiare, era in costui si-
aveva denaro per comperare gnoria, e generavasi della sua propietade, e l’uomo sta per vendere di suo mistie- 20
alcun cibo da costui, dal
cuoco. re,25 e chi ne prende è usanza che paghi. Molte sentenzie v’ebbe.26 Finalmente
10 vasello: pentola.
11 inebriato: dopo aver
fu il consiglio: – Poi ch’elli sta per vendere le sue derrate,27 e altri per compera-
insaporito. re, tu, giusto signore, fa’ che ’l facci giustamente pagare28 la sua derrata, secondo
12 e quelli: egli, il saracino la sua valuta.29 Se la sua cucina che vende, dando l’utile propietà di quella, suole
(l’e paraipotattico, tipico
dell’italiano antico, introdu- prendere utile moneta;30 e ora c’ha venduto fummo, ch’è la parte sottile31 della 25
ce la principale in modo per cucina, fae, signore, sonare una moneta, e giudica che ’l pagamento s’intenda fat-
noi pleonastico).
13 il consumò di man-
to del suono ch’esce di quella. – E così giudicò il Soldano che fosse osservato.32
giare: se lo mangiò comple-
tamente.
14 non ve[n]deo bene:
non vendette bene,non fece Soldano: ne giunse notizia 22 e chi… ragioni: c’era di sua proprietà. 30 Se… moneta: se egli
buoni affari. al sultano. chi reputava che il fumo 25 e l’uomo… mistiere: suole prendere denaro soli-
15 recolsi a ingiuria e a 19 per molta novissima non appartenesse al cuoco, e ciò che è frutto del proprio do, alienando la parte consi-
noia: prese l’atto del saraci- cosa: trattandosi di un caso adducendone molte ragio- lavoro si vende. stente della sua cucina (cioè
no come un’offesa e un fa- assolutamente inedito. ni. 26 Molte… v’ebbe: ven- la sostanza del cibo).
stidio. 20 raunò… costoro: fece 23 il fummo… alimento: nero espressi molti pareri. 31 la parte sottile: la parte
16 mi paga: pagami. radunare dei saggi e li fece il fumo non può essere trat- 27 sta per… derrate: è lì inconsistente, volatile.
17 per la nova… avenuta: venire da lui (per risolvere la tenuto e torna al suo ele- per vendere i suoi alimenti. 32 giudicò… osservato:
per il caso insolito e strano, questione). mento, nell’aria. 28 fa che… pagare: fa sì stabilì che fosse fatto.
senza precedenti (non avve- 21 sottigliare: sottilizzare, 24 era… propietade: ap- che egli paghi in modo
nuto mai prima). esaminare con sottigliezza il parteneva a costui (al cuo- equo.
18 n’andaro le novelle al caso. co), provenendo da un cibo 29 valuta: valore.

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Duecento e Trecento

LII
D’UNA CAMPANA CHE S’ORDINÒ1 AL TEMPO DI RE GIOVANNI2

1 s’ordinò: si predispo- Al tempo di re Giovanni d’Acri fue in Acri ordinata una campana, che chiunque
se.
2 re Giovanni: Giovan- ricevea un gran torto sì l’andava a sonare;3 il re raguna[va i] savi a ciò ordinati,
ni di Brienne, re latino di acciò che ragione fosse fatta.4 Avenne che la campana era molto tempo durata,
Gerusalemme dal 1210 al che la fune per la piova era venuta meno, sicché una vitalba v’era legata.5
1225, epoca in cui si collo-
cano i fatti. Ora avenne che uno cavaliere d’Acri avea uno suo nobile destriere, lo quale 5
3 fue in Acri ordina-
ta… sonare: fu predisposta
era invecchiato sì che sua bontà6 era tutta venuta meno: sicché per non darli
una campana, in modo che mangiare il lasciava andare per la terra.7 Lo cavallo per la fame aggiunse con la
chiunque avesse subìto un bocca a quella vitalba per rodegarla.8 Tirando, la campana sonò. Li giudici si
torto l’andasse a suonare
(per ricevere giustizia). adunaro, e videro la petizione del cavallo, che parea che domandasse ragione.9
4 il re… fatta: il re allo- Giudicaro10 che ’l cavaliere cui elli avea servito da giovane il pascesse11 da vec- 10
ra radunava i saggi preposti
perché giustizia fosse fatta. chio.
5 Avenne che… legata: Il re il costrinse, e comandò sotto gran pena.12
accadde che la campana era
durata tanto tempo che la
fune per la pioggia si era
sfilacciata, tanto che un lità, la sua forza, o il suo 8 aggiunse… rode- 9 domandasse ragio - 11 pascesse: nutrisse.
rampicante (la vitalba) vi si pregio. garla : afferrò con la boc- ne: chiedesse giustizia. 12 sotto gran pena: con
era avviticchiato. 7 per la terra: per la ca la vitalba per mangiar- 10 Giudicaro : stabili- la minaccia di infliggerli
6 sua bontà: le sue qua- città. la. rono. una pena severa.

Guida all’analisi
La serietà e la ponderatezza dei giudici In entrambi i casi ci troviamo di fronte a un’ingiustizia compiuta da un
personaggio più forte di fronte a uno più debole: tale è il commerciante nei confronti del
povero saracino, tale è il cavaliere nei confronti del suo cavallo. E in entrambi i casi l’inter-
vento dei giudici si ispira a una suprema equità.
Il povero saracino viene condannato sì, ma a una pena che costituisce un’irrisione delle
assurde pretese del cuoco, dettate da un malumore contingente (una sorta di contrappasso:
alla vendita di fumo fa da contrappunto un risarcimento solo sonoro); non c’è nei giudici, si
badi, alcuna intenzione di preconcetta tutela dei deboli, ma solo un esame attento della vi-
cenda di cui la formula narrativa conclusiva mostra con enfasi tutta la meticolosità e la sot-
tigliezza (questo elemento narrativo non è presente nelle fonti). Il cavallo poi, anche se è so-
lo un evento fortuito a portare di fronte ai giudici il suo caso, viene risarcito della mancata
riconoscenza per il servizio prestato al proprio cavaliere. In questo caso paradossale tutto il
sapore della novella sta nel fatto che il suono involontario della campana di giustizia viene
preso sul serio dai giudici, i quali, constatata un’ingiustizia, non si pongono il problema che
il querelante sia un cavallo e che la sua petizione sia soltanto fortuita, ma esercitano il pro-
prio ufficio con grande serietà e rigore.
Un messaggio per il mondo comunale Se c’è una giustizia, deve valere per tutti (anche per i più forti) e deve es-
sere applicata con estrema serietà e ponderatezza, questo potrebbe essere il messaggio che il
narratore vuole indirizzare al suo pubblico, che – si ricordi – è un pubblico comunale che
stava sperimentando i numerosi problemi che ai suoi reggitori ponevano il governo di uno
Stato e l’amministrazione della giustizia con ordinamenti nuovi, in un regime post-feudale.
Molto, troppo spesso in età feudale l’amministrazione della giustizia si era risolta in una pre-
varicazione dei più forti e ciò accadeva probabilmente spesso ancora in ambiente comuna-
le, dove i ceti emergenti erano spesso arroganti e prevaricatori. Ma le nuove istanze politi-
co-sociali facevano sentire anche l’esigenza di procedure e giudizi più equi. Così dal passa-
to e dal repertorio delle storie (qui soprattutto fonti della novellistica orientale, ma l’autore
del Novellino consulta anche i repertori delle quaestiones giuridiche, i casi dibattuti e le sen-
tenze prodotte), vengono trascelti episodi che possano additare con sobrietà, con leggerezza
e forse perfino con ironia un modello di laica saggezza.

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10. Le forme della narrativa in Italia fino al Boccaccio VERIFICA

VERIFICA

10.1 La narrativa epico-cavalleresca in Italia

1 Come e quando la narrativa epico-cavalleresca francese si diffonde in Italia?


2 Che cosa si intende con “fusione” dei cicli bretone e carolingio?
3 È ancora corretto distinguere, nella produzione italiana, materia carolingia, bretone e anti-
ca?
4 In quale contesto viene accolto il romanzo cavalleresco? Come viene letto?
5 In quali forme e per quale pubblico si diffondono le diverse materie?
6 Che cosa si intende per letteratura franco-veneta? Di che cosa si tratta?
7 Quali sono i principali testi italiani che diffondono la materia bretone? Di che cosa tratta-
no?

10.2 L’exemplum cristiano medievale

8 Definisci il concetto di exemplum (esempio). Quali sono le sue caratteristiche retoriche?


9 Quali sono le principali caratteristiche formali e ideologiche dell’esempio cristiano me-
dievale?
10 Illustra il concetto di «astrattezza moralistica e concretezza narrativa» dell’esempio.
11 Quali sono le principali raccolte di esempi diffuse in Italia?

10.3 Dall’exemplum morale alla novella profana

12 Quando, dove e in quale contesto socio-culturale nasce la novella come genere autono-
mo?
13 Quali sono i modelli letterari cui la novella attinge?
14 Quali sono le principali caratteristiche formali e ideologiche della novella?
15 In che cosa essenzialmente la novella differisce dall’esempio?
16 Quali sono le principali raccolte di novelle duecentesche e in che rapporto stanno con la
tradizione esemplare?
17 Illustra le caratteristiche essenziali del Novellino.

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Duecento e Trecento

VERSO
VERSO
L’ESAME
L’ESAME

Il Novellino
Il medico di Tolosa

XLIX
QUI CONTA D’UNO MEDICO DI TOLOSA, COME TOLSE PER MOGLIE
UNA NEPOTE DE L’ARCIVESCOVO DI TOLOSA

La prosa del Duecento Uno medico di Tolosa tolse per1 moglie una gentile donna di Tolosa, nepote de
a c. di C. Segre e M. Marti,
Ricciardi,
l’arcivescovo. Menolla.2 In due mesi fece una fanciulla. Il medico non ne mostrò
Milano-Napoli 1959 nullo cruccio, anzi consolava la donna, e mostravale ragioni secondo fisica3 che
ben poteva essere sua di ragione.4 E con quelle parole e con belli sembianti fece
sì che la donna no la poté traviare.5 Molto onoroe la donna nel parto. Dopo il 5
parto sì le disse: – Madonna, io v’ho onorata quant’i’ ho potuto. Priegovi, per
amore di me, che voi ritorniate omai a casa di vostro padre. E la vostra figliuola
io terrò a grande onore.
Tanto andaro le cose innanzi, che l’arcivescovo sentì che ’l medico avea dato
commiato a la nepote. Mandò per lui.6 E acciò ch’era grande uomo,7 parlò sopra 10
a lui molto grandi parole,8 mischiate con superbia e con minacce. Quand’ebbe
assai parlato, el medico rispuose e disse così: – Messere, io tolsi vostra nepote per
moglie, credendomi della mia ricchezza potere fornire e pascere9 la mia famiglia.
E fu mia intenzione d’avere uno figliuolo l’anno, e non più. Onde10 la donna ha
cominciato a fare figliuoli in due mesi; per la qual cosa io non sono sì agiato, se ’l 15
fatto dee così andare,11 ch’io li potesse notricare, e voi, non sarebbe onore che
vostro lignaggio andasse a povertade. Perch’io vi chieggio mercede12 che voi la
diate a un più ricco omo ch’io non sono [che possa notricare li suoi figlioli], sì
che a voi non sia disinore.

1 tolse per: prese in. dente ben). momento che era un perso- 11 se... andare: se la cosa
2 Menolla: la condusse 5 no la poté traviare: naggio importante,potente. deve procedere così (se la
(a nozze), la sposò. cioè, «non ebbe pretesto per 8 parlò... parole: gli ri- moglie continua a far figli
3 secondo fisica: secon- abortire» (Segre). volse parole arroganti. ogni due mesi).
do la scienza medica. 6 Mandò per lui: lo 9 fornire e pascere: 12 vi chieggio mercede:
4 di ragione: a ragione mandò a chiamare. provvedere e nutrire. vi chiedo di farmi la grazia.
(da connettere con il prece- 7 acciò... uomo: dal 10 Onde: invece.

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VERSO
10. Le forme della narrativa in Italia fino al Boccaccio L’ESAME

Rispondi ai seguenti quesiti (o a quelli indicati dall’insegnante).

COMPRENSIONE
6 Il pezzo forte della novella è il discorso conclu-
1 Riassumi in breve la trama della novella eviden- sivo del medico: può essere definito un motto arguto e in
ziandone gli elementi a tuo parere più significativi. quali aspetti eventualmente se ne distanzia?

Suggerimenti  Prova a seguire questo schema: «Un Suggerimenti  Rifletti sull’esatto significato di «motto»
medico di Tolosa, scoperto che la moglie..., prima la e di «arguzia». Osserva anche la struttura logicamente
consola e l’aiuta a partorire, poi... , e quando... , ri- elaborata del discorso del medico.
sponde argutamente..... in modo che...»
CONTESTUALIZZAZIONE
2 Delinea mediante qualche aggettivo appropriato
la figura del medico e quella del vescovo. 7 Illustra in breve nei loro tratti distintivi i modelli
dell’esempio e della novella e, rispetto a tali modelli, le ca-
Suggerimenti  Scegli alcuni tra questi aggettivi e, se
ratteristiche salienti del Novellino.
sai, aggiungine altri tu: gentile, posato, serio, metodi-
co, paziente, savio, prudente, orgoglioso, assennato,
Suggerimenti  Devi riesaminare (o ripensare a) i para-
grafi del profilo, scegliendo le informazioni salienti.
cordiale, furbo, spregiudicato, ironico, arguto, umile...
Osserva che con l’espressione «i modelli dell’esempio
e della novella» si indicano dei modelli astratti tenden-
ANALISI zialmente ben distinti l’uno dall’altro e che invece il
3 Analizza con attenzione il comportamento del Novellino è un testo concreto, che si colloca in una fa-
medico nei confronti della moglie e del vescovo: ti pare giu- se di transizione dall’uno all’altro modello.
sto dire che egli costituisce un modello di equilibrio interio-
8 Individua a quale pubblico pare rivolgersi l’autore
re e di saggezza? per quali ragioni?
di questa novella e spiega per quali ragioni essa po-trebbe
Suggerimenti  Soffermati in particolare sui motivi che essere considerata un exemplum profano.
lo inducono a consolare e onorare la moglie prima e
Suggerimenti  Non è evidentemente un pubblico con-
durante il parto; e sul (diverso) tenore dei due brevi di-
tadino e del tutto illetterato (perché?); la figura del me-
scorsi che rivolge alla mgolie e all’arcivescovo dopo il
dico, i valori a cui pare conformarsi, il suo atteggia-
parto.
mento nei confronti dell’arcivescovo, la natura del
4 Si è riconosciuta in questo racconto la presenza messaggio complessivo della novelletta e naturalmen-
di un garbato umorismo e di una punta di ironia: prova a in- te il raffronto con qualche esempio cristiano medieva-
dividuare gli aspetti del testo (anche singole frasi) che giu- le possono aiutarti a rispondere alla seconda parte del
stifichino questa affermazione. quesito.

Suggerimenti  Devi analizzare il discorso rivolto dal


medico all’arcivescovo, riflettendo sulla differenza tra
il senso letterale del discorso (che cosa dice il medico)
e quello profondo e sostanziale (che cosa effettiva-
mente vuol comunicare all’arcivescovo).

5 Quale o quali di questi elementi presenti nel No-


vellino ti paiono testimoniati in questa novelletta: la beffa, il
motto arguto, la prontezza di spirito, la spiritualità cristiana,
i valori cortesi, l’etica laica.
Suggerimenti  Per rispondere, oltre a definire esatta-
mente il senso della novella e la personalità del medi-
co, può essere utile ripensare a qualche altro testo del
Novellino.

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Duecento e Trecento

Altri generi e altre forme


11 di scrittura di età comunale

n Un episodio degli scontri


tra fazioni avverse a Firenze.

Tra la seconda metà del Duecento e i primi del ria del Tresor, in forma narrativa e allegorica) e il Fa-
Trecento, anche in Toscana si registra una fiorente volello, questi ultimi in versi e in volgare toscano. Bru-
produzione letteraria di impianto didattico, che pre- netto Latini è inoltre l’autore della Rettorica, traduzione
senta caratteri specifici rispetto a quella di area ve- in volgare e commento del De inventione di Cicerone.
neta e lombarda. Diverso è d’altronde il contesto so- Alla fine del Duecento o ai primi del Trecento vanno
cio-culturale, dominato da un ceto borghese e mer- collocati tre poemetti di attribuzione tuttora controver-
cantile che ha assunto uno stile di vita ispirato ai mo- sa: l’Intelligenza, il Fiore e il Detto d’Amore. Dopo l’ap-
delli dell’aristocrazia cortese, ma che avverte con for- parizione della Divina Commedia la poesia didascalico-
za l’esigenza di allestire gli strumenti di una cultura allegorica non potrà non confrontarsi con il modello
pratica, di impronta laica e civile, aperta alle temati- dantesco, come accade per l’Acerba di Cecco d’Ascoli
che scientifiche e naturalistiche, mirando a un ideale e il Dittamondo di Fazio degli Uberti, fino al Boccaccio
di misura e di chiarezza sul piano espressivo. La for- e al Petrarca dei Trionfi.
ma più diffusa è quella del poemetto didascalico-alle- Anche la prosa viene utilizzata a fini didattico-divul-
gorico in stile medio e in vario metro. gativi: possiamo ricordare, oltre ai diversi volgarizza-
Una figura esemplare di questa fervida attività è menti del Tresor di Brunetto, l’anonimo Libro della na-
rappresentata dal fiorentino Brunetto Latini (1220 ca- tura degli animali, sul modello dei bestiari; la Composi-
1294), ricordato da Dante e dal Villani per il suo impe- zione del mondo di Ristoro d’Arezzo, un trattato geo-
gno etico-politico e pedagogico, che pone al centro grafico-astronomico; il Libro de’ Vizi e delle Virtudi del
del suo programma di divulgazione del sapere la fiorentino Bono Giamboni.
scelta del volgare quale nuova lingua di cultura. A lui A partire dal XIII secolo, sempre nell’ambito della ci-
si devono tre fondamentali opere di carattere didatti- viltà comunale, si afferma un nuovo genere di scritture
co: il Tresor, scritto in prosa e in lingua d’oïl, un’enci- cronachistiche, che si distacca dalla tipologia delle
clopedia in tre libri; il Tesoretto (che riprende la mate- precedenti cronache medievali in lingua latina, impo-

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11. Altri generi e altre forme di scrittura di età comunale STORIA

n Il Tribunale dei notai con fitta di Monte Aperto, di un anonimo ghibellino senese;
tre priori giudicanti (1343). l’Istoria fiorentina di Ricordano Malespini; la Cronica di
Dino Compagni, guelfo di parte Bianca, che narra con
accenti di drammatica intensità i fatti accaduti in Fi-
renze e in Toscana fra il 1280 e il 1312. Caratteristiche
ben diverse presenta invece la Nuova cronica di un al-
tro fiorentino, Giovanni Villani: l’autore, poco interessa-
to agli eventi politici, guarda alla storia della sua città
in prospettiva socio-economica, facendosi apprezzare
per l’accuratezza della documentazione. In pieno Tre-
cento si colloca infine la singolare Cronica di Bartolo-
meo di Valmontone, che narra in un volgare di impronta
romanesca gli eventi svoltisi tra il 1325 e il 1357, fa-
cendo centro sulla città di Roma e sulla figura di Cola
di Rienzo.
state sul modello della storia sacra in una prospettiva Nel variegato panorama della letteratura di età co-
religiosa, universalistica e provvidenziale: prevale ora munale occorre ricordare ancora i libri di viaggio, te-
l’interesse nei confronti dell’attualità politica, delle vi- stimonianze delle avventurose spedizioni dei missiona-
cende locali, dei fattori economici e sociali; si avverte ri e soprattutto dei mercanti, per terra e per mare, ver-
una maggiore attenzione per i documenti, insieme a so i remoti paesi d’Oriente. Il più celebre, destinato a
un’intensa partecipazione personale. Alcuni autori, co- immensa fortuna, è il Milione del veneziano Marco Po-
me Bonvesin de la Ripa e Salimbene de Adam, conti- lo, resoconto di un lunghissimo viaggio nell’Oriente
nuano a servirsi della lingua latina, ma si registra so- asiatico, che giunse a toccare l’immenso regno del Ca-
prattutto una cospicua produzione in volgare. Nell’am- tai (la Cina), compiuto dall’autore con il padre e lo zio
biente mercantile fioriscono “libri di conti” e “ricor- tra il 1269 e il 1295. È il libro di un mercante, pratico ed
danze” familiari, che riflettono, ai confini tra la dimen- esperto, ma anche di un viaggiatore curioso, desidero-
sione privata e quella pubblica, l’attenzione per i dati so di esplorare terre sconosciute e di riferire quanto ha
concreti e la logica del profitto, ma anche l’intento di veduto, consapevole dell’eccezionalità della propria
fornire precetti di comportamento secondo un sistema esperienza. Non mancano nel Milione inserti di carat-
di valori morali. D’altro canto le accese conflittualità tere novellistico e storico-cronachistico; affiorano a
politiche che dividono le città di Toscana ispirano una tratti il gusto del meraviglioso e l’invincibile fascinazio-
ricca produzione cronachistica animata soprattutto ne del vasto repertorio di leggende fiorite da secoli nel-
dalla passione civile: tra le opere più notevoli, la Scon- l’immaginario occidentale intorno al favoloso Oriente.

n Marco Polo approda in un


porto dell’India.

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Duecento e Trecento

11.1 Brunetto Latini e la letteratura didattica e allegorica di Toscana


Caratteri generali Come nell’Italia del Nord (R4.4), anche in Toscana, tra la fine del Duecento e la
prima metà del Trecento, si sviluppa una letteratura di impianto didattico, che presen-
ta tuttavia caratteri specifici rispetto a quella di area veneta e lombarda. Differente è
d’altronde il contesto, dominato da un ceto borghese mercantile che da una parte as-
sume uno stile di vita ispirato ai modelli della cultura aristocratica cortese, dall’altra
sente con forza l’esigenza di una cultura pratica e utile alla vita civile. Prevale un’idea
di misura e di chiarezza espressiva, una maggiore sensibilità nei confronti delle temati-
che scientifiche e naturalistiche, una ricchezza e una varietà di scelte che faticherem-
mo a trovare nella produzione dell’Italia settentrionale. Nell’ambito della poesia, la
forma più diffusa è quella del poemetto didascalico-allegorico, composto in uno stile
medio, lontano dagli esiti alti e sublimi della poesia lirica. La metrica è varia: si va dai
settenari a rima baciata (come nel Tesoretto di Brunetto Latini o nel Detto d’amore) alla
serie di sonetti del Fiore (che alcuni studiosi oggi attribuiscono al giovane Dante
R9.3) fino agli endecasillabi sciolti del Mare amoroso e alla nona rima dell’Intelligenza.
Le fonti sono soprattutto francesi, in particolare il Roman de la Rose (R5.5).
Una figura esemplare: Brunetto Latini Proprio a Brunetto Latini si devono tre opere di carattere di-
dattico e divulgativo che esercitarono un importante influsso sulla cultura fiorentina: il
Tresor (in lingua d’oïl), il Tesoretto, il Favolello.
Del ruolo svolto da Brunetto testimoniano del resto sia Dante, nella Divina Com-
media, sia Giovanni Villani nella sua Cronica. Nel canto XV dell’Inferno, Brunetto è ri-
cordato come il maestro che aveva insegnato a Dante «come l’uom s’etterna» (v. 85),
come l’uomo, cioè, si renda degno con le sue opere di una fama eterna. Verso la fine
del canto, lo stesso Brunetto raccomanda a Dante il suo Tesoro (v. 119), l’opera più im-
pegnativa che l’antico maestro aveva composto, e alla quale affidava la sua ansia di im-
mortalità. Il Villani (CronicaVIII, 10) lo definisce invece «gran filosofo, gran maestro in
rettorica [...] cominciatore e maestro in digrossare i Fiorentini e farli scorti [cioè
esperti] in bene parlare e in sapere guidare e reggere la nostra repubblica secondo la
politica». Oggi si dubita che Brunetto abbia esercitato in Firenze una vera e propria
attività di insegnamento: il suo magistero dovette essere tutto affidato alle opere e alla
consuetudine con i più giovani esponenti della cultura letteraria cittadina (fra i quali,
n Ritratto di Brunetto Latini appunto, Dante). Ad ogni modo il giudizio del Villani è inequivocabile: la personalità
in un capolettera. di Brunetto risalta per l’impegno etico-politico profuso in ogni sua attività e per la ca-
rica pedagogica delle sue opere. Al centro del suo programma, laico e civile, la scelta
del volgare come lingua di cultura e strumento di divulgazione del sapere.
Opere di Brunetto Latini Non a caso Brunetto sente per prima cosa il bisogno di tradurre in volgare
alcune orazioni latine di Cicerone e soprattutto i capitoli iniziali del De inventione
[L’invenzione], un trattato retorico scritto in giovane età dallo stesso Cicerone. Rettori-
ca è infatti il titolo dell’opera di Brunetto, che comprende la traduzione dei primi 17
capitoli del De inventione accompagnati da un significativo commento testuale. Fin dal
prologo, l’autore sottolinea il valore eminentemente pubblico e civile della retorica,
arte della parola che si pone al servizio della città e del bene comune. Il libro della
Rettorica non rappresenta soltanto la fondazione della prosa volgare italiana, ma uno
dei primi segni di quella nuova cultura e di quel nuovo modo di intendere il mondo
classico che chiameremo Umanesimo.
Il Mare amoroso Allo stesso Brunetto (ma l’attribuzione è per lo più contestata per motivi di ordine
linguistico) alcuni studiosi hanno attribuito un testo intitolato Mare amoroso. Compo-
sto fra il 1280 e il 1290 in endecasillabi sciolti (primo esempio a noi noto), questo
poemetto di 334 versi si presenta come un ampio inventario delle immagini e delle si-
tuazioni canoniche della poesia d’amore duecentesca, risolte con virtuosistica dovizia
di artifici retorici.
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11. Altri generi e altre forme di scrittura di età comunale STORIA

Il Tresor, il Tesoretto e il Favolello

Il Tresor, l’opera che gli diede maggior fama, è un’enciclopedia scritta in prosa e in lingua
d’oïl durante gli anni dell’esilio. Lo stesso Brunetto spiega di aver scelto il francese per due
ragioni: è più noto e diffuso (plus commune) del volgare toscano; è più bello e piacevole (de-
litable). L’opera è organizzata in tre libri: il primo tratta di teologia, filosofia naturale e ma-
tematica; il secondo di etica ed economia; il terzo è dedicato alla retorica e alla politica.
L’ultimo libro si apre con un nuovo elogio della retorica, senza la quale non si darebbe vi-
ta politica. Il titolo allude alla natura enciclopedica dell’opera: un «tesoro» di conoscenze,
in grado di dar conto dell’intero scibile umano.
In volgare toscano furono invece composti il Tesoretto e il Favolello. Il primo è un poe-
ma didascalico di 2944 settenari a rima baciata che riprende la materia enciclopedica del
Tresor ma in forma narrativa e allegorica. L’esordio è autobiografico [R T 11.1 ]: nella piana
di Roncisvalle, mentre sta ritornando a Firenze dopo l’infruttuosa ambasceria presso
Alfonso X di Castiglia, il poeta ha notizia della sconfitta di Montaperti. Turbato e in pre-
da ad angosciosi pensieri, si smarrisce in una selva, dove incontra Natura, una donna bel-
lissima e gigantesca, da cui apprende le leggi dell’universo nonché il racconto della Crea-
zione e della Redenzione. Lasciata Natura, dopo tre giorni di cammino, giunge nel regno
di Vertute e delle sue quattro figlie, le virtù cardinali (Prudenza, Temperanza, Fortezza,
Giustizia), affiancate dalle virtù cavalleresche, ovvero Cortesia, Larghezza (= Liberalità),
Leanza (= Lealtà) e Prodezza, che in sua presenza impartiscono i loro insegnamenti a un
valente cavaliere. Si avventura quindi nel regno di Amore, dominato dal Piacere, dove ri-
schia di perdersi ma viene tratto in salvo da Ovidio, il poeta latino che aveva insegnato ad
amare (nell’Ars amandi) ed anche a liberarsi (nei Remedia amoris) dalla prigionia d’amore.
Segue una sorta di intermezzo, detto La Penetenza, un trattatello o epistola morale che in-
clude una minuziosa analisi dei peccati capitali. Ripreso il viaggio, dopo una lunga caval-
cata giunge sulla cima dell’Olimpo, donde gli è dato contemplare l’intero mondo. E qui il
poemetto si interrompe, con l’apparizione di un vecchio venerando, l’astronomo Tolo-
meo. Il poema, che forse nell’idea originaria doveva essere composto in forma di prosi-
metro, appare significativo per l’ambizioso progetto che include: dare una sistemazione al-
la cultura laica e cortese degli ultimi secoli, rielaborandola sulla base degli interessi civili e
morali di un pubblico borghese e comunale.
Scritto nella forma di un’epistola in versi, il Favolello (titolo che deriva dal francese fa-
blel, con il significato generico di “poemetto”) è infine un’epistola poetica, ancora in set-
tenari a rima baciata, inviata a Rustico di Filippo (o Rustico Filippi R8.); il tema è quel-
lo dell’amicizia (già trattato nell’antichità da Cicerone).

L’Intelligenza Alla fine del secolo o ai primi anni del successivo vanno collocati tre poemetti og-
getto tuttora di complesse dispute sull’identità degli autori: l’Intelligenza, un tempo at-
tribuito al cronista Dino Compagni, il Fiore e il Detto d’Amore, che diversi studiosi vo-
gliono oggi annettere al giovane Dante (R9.3).
L’Intelligenza è un poemetto didattico-allegorico di 309 stanze in nona rima (con
schema ABABABCCB) composto tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo, più o
meno, dunque, negli anni in cui si afferma in Firenze l’esperienza stilnovista.
Come si può osservare, l’intento enciclopedico-didascalico prevale nettamente su
quello allegorico, il gusto figurativo su quello dottrinale. Alcuni caratteri linguistici del
testo farebbero pensare a un autore non fiorentino, probabilmente della Toscana meri-
dionale, che mescola elementi linguistici di differente estrazione al pari dei materiali
narrativi, storici e scientifici (tratti da fonti provenzali, francesi e latine). Lo stesso uso
della nona rima (di fatto un’ottava alla quale si aggiunge un nono verso che rima con
B) risulta un unicum destinato a non aver seguito nel panorama due-trecentesco.
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Duecento e Trecento

L’Intelligenza

Esile la trama narrativa: il personaggio-narratore, sorpreso da Amore durante la stagione


primaverile in un giardino che presenta i tratti convenzionali del locus amoenus, si innamo-
ra di una Donna di grande bellezza coronata di sessanta gemme (str. 1-15). Segue un ex-
cursus (un vero e proprio lapidario) in cui vengono elencate le sessanta (in realtà 58) pietre
della corona di Madonna (str. 16-58), che vive insieme a sette regine in un meraviglioso
palazzo situato in Oriente. La rappresentazione del palazzo (che inizia alla strofa 59) com-
prende l’accurata descrizione di una serie di cicli pittorici e musivi raffiguranti, nell’ordi-
ne: Amore con un corteggio di amanti che appartengono alla tradizione classica, biblica e
medievale (str. 71-76); il racconto della guerra civile fra Cesare e Pompeo (str. 77-215); la
vita di Alessandro Magno (str. 216-239); le vicende che portarono alla distruzione di Troia
(str. 240-286); cavalieri e dame del ciclo bretone (str. 287-288). L’impianto allegorico
viene svelato solo nella conclusione (strofe 299-309): Madonna è allegoria dell’Intelligen-
za divina; le pietre della corona simboleggiano le virtù; le sette regine le virtù cardinali e
teologali; i cicli figurativi rappresentano il contenuto della memoria; il palazzo è il corpo
umano, dove trova sede l’Intelligenza insieme all’anima.

La poesia didattica dopo Dante Il discrimine nell’ambito della letteratura didattica e allegorica è costi-
tuito dalla Divina Commedia. Dopo la sua apparizione, la poesia didattica non potrà evita-
re di fare i conti con l’illustre precedente, magari in forma polemica e satirica, come ac-
cade nell’Acerba di Cecco d’Ascoli (1267-1327), strana figura di medico e astrologo che
venne bruciato vivo come eretico, e che si diede il compito, nel suo poema, di confutare
la scientificità dell’opera dantesca. Anche il Petrarca e il Boccaccio si confrontano con la
Commedia: si vedano, nei rispettivi capitoli, la Commedia delle ninfe fiorentine (1341-1342) e
l’Amorosa visione (1342-1343, ma rielaborata negli anni Cinquanta) del Boccaccio, i Trion-
fi del Petrarca (iniziati prima del 1340 e conclusi poco prima della morte, nel 1374). Al
modello dantesco si rifà anche il Dittamondo di Fazio degli Uberti (R 14.1), un poema in
terzine nel quale la trattazione geografica è inserita in una cornice allegorica.
La prosa didattica Tra la fine del Duecento e la prima metà del Trecento anche la prosa è utilizzata a
fini enciclopedico-divulgativi. Senza contare il già citato Tresor in lingua francese, che
conobbe diversi volgarizzamenti in toscano, vanno almeno ricordati il Libro della natu-
ra degli animali, un bestiario anonimo redatto verso la fine del XIII secolo sul modello
dei bestiari medievali in lingua latina (R 1.2 e T 6.3 ), e soprattutto la Composizione del
mondo di Ristoro d’Arezzo, un trattato in due libri dedicato alla descrizione dell’uni-
verso e delle sue leggi che il frate aretino completò verso il 1282, e che Dante utilizzò
per il suo Convivio. Interesse, curiosità, spirito d’osservazione animano queste pagine
▍ L’autore Brunetto Latini

Nato a Firenze intorno al 1220, Brunetto Latini fu notaio come il padre ed esponente del parti-
to guelfo. Nel 1260 fu inviato in qualità di ambasciatore presso Alfonso X di Castiglia, per chie-
dere aiuto contro i ghibellini di Manfredi. Di ritorno dalla Spagna, avuta notizia della sconfitta di
Montaperti e della disfatta del suo partito, decise di rifugiarsi in Francia, dove continuò l’attività
notarile e compose gran parte delle sue opere. Rientrò in Firenze poche settimane dopo la bat-
taglia di Benevento (1266), che sancì la definitiva sconfitta del partito ghibellino in Italia. Ripre-
se l’attività politica e fu più volte priore. Morì nel 1294.
Il corpus letterario, ideato e composto durante gli anni dell’esilio francese, comprende quattro
opere, di cui una in lingua d’oïl: la Rettorica (incompiuta); il Tresor, un’enciclopedia del sapere in
prosa francese; il Tesoretto, un poema allegorico-didattico in settenari a rima baciata (anch’esso in-
terrotto); il Favolello, un’epistola in versi sul tema dell’amicizia (giunto acefalo). Assai dubbia l’at-
tribuzione del Mare amoroso, oggi per lo più contestata.

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11. Altri generi e altre forme di scrittura di età comunale STORIA

di Ristoro, in cui il tradizionale enciclopedismo medievale (per lo più accumulativo e


acritico) si fonde con una nuova capacità di guardare al mondo naturale.
Agli ultimi decenni del secolo appartiene il Libro de’Vizi e delle Virtudi di Bono Giam-
boni (ca 1240-1292), un trattato morale in forma allegorica che presenta alcune affinità
con il Tesoretto del Latini: anche qui l’autore incontra Filosofia personificata che lo avvia
alla conoscenza dei Vizi e delle Virtù, rappresentati come due eserciti schierati a battaglia.

11.2 Libri di conti, ricordanze, cronache


La storiografia medievale in lingua latina La storiografia medievale in lingua latina, pur nella va-
rietà delle forme e degli schemi (cronache, annali, storie di popoli o di dinastie, rac-
conto di imprese ecc.) si era andata articolando secondo i caratteri della storia sacra,
all’interno della quale ogni evento era inquadrato e interpretato nella prospettiva teo-
logica e provvidenziale, secondo un disegno divino e fini oltremondani. Questo spie-
ga perché tale produzione fosse appannaggio dei chierici e si presentasse nella forma
privilegiata della storia universale, un modello già noto alla cultura pagana, ma rein-
terpretato alla luce della spiritualità cristiana. Si partiva perciò dai racconti biblici (la
creazione del mondo, il peccato originale, la torre di Babele), abbracciando tutti i po-
poli antichi, per giungere in un secondo momento ai fatti contemporanei, che assu-
mevano un significato soltanto se inseriti in una prospettiva universalistica e religiosa.
Le cronache di età comunale Soltanto a partire dal XIII secolo, in concomitanza con l’affermarsi del-
la civiltà comunale, autori laici (scrivani, funzionari, letterati professionisti, personalità
attive nella vita pubblica) producono testi in cui, pur senza escludere gli intenti reli-
giosi e morali, emergono un più esplicito interesse per l’attualità e le vicende locali,
una decisa caratterizzazione politica degli avvenimenti narrati, una maggiore ricchez-

Doc 11.1 Le meraviglie di Milano

Bonvesin de la Riva, I chirurghi delle diverse specialità sono più di centocinquanta. Moltissimi di loro sono
Le meraviglie di Milano,
a c. di M. Corti, medici dalle spiccate attitudini, i quali continuano a esercitare, per antica tradizione di
trad. di Giuseppe Pon- famiglia, la chirurgia appresa dai loro padri. Si crede che possano avere l’uguale nelle al-
tiggia, Bompiani,
Milano 1974 tre città della Lombardia.
I professori di grammatica sono otto; ciascuno di essi tiene sotto la propria bacchetta
una numerosa scolaresca. Ho effettivamente constatato che essi superano i dottori delle
altre città, insegnando la grammatica con grande impegno e diligenza.
Quattordici sono i dottori espertissimi in canto ambrosiano, da ciò si può dedurre
quanto siano numerosi in questa città i chierici.
I maestri elementari superano il numero di settanta.
1 Studio generale: I copisti, benché in città non vi sia Studio generale,1 superano il numero di quaranta.
Università. Trascrivendo ogni giorno libri con le loro mani, essi provvedono al pane e alle altre spese.
2 esenti: dalle impo-
ste sul pane. I forni che in città, come si sa dai registri del comune, cuocciono il pane ad uso dei
cittadini sono trecento.Ve ne sono anche moltissimi altri esenti,2 che servono monaci o
religiosi di ambo i sessi; penso siano più di cento.
I bottegai, che vendono al minuto un numero incredibile di mercanzie, sono sicura-
mente più di mille.
I macellai sono più di quattrocentoquaranta; nei loro macelli vengono vendute in ab-
bondanza ottime carni di ogni tipo di quadrupedi adatti al nostro consumo. [...]
Gli albergatori che a pagamento danno albergo a gente che viene di fuori sono circa
centocinquanta.
I fabbri che attaccano zoccoli di ferro ai quadrupedi sono circa ottanta; da questo si
può dedurre l’abbondanza dei cavalieri e dei cavalli. Quanti siano i fabbricanti di selle,
di freni, di sproni e di staffe, non sto a dirlo.

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Duecento e Trecento

za di documenti (con una particolare attenzione ai fattori economici e sociali), un’in-


tensa partecipazione emotiva (in contrasto con l’aridità delle precedenti cronache).
Bonvesin de la Riva e Salimbene de Adam Tale mutamento è visibile anche nelle cronache che con-
tinuano a servirsi della lingua latina, come in quelle, notissime al tempo, di Bonvesin de
la Riva o de la Ripa (1240-1315 ca; R 4.4) e di Salimbene de Adam (1221 - post 1288).
Pur appartenendo al genere encomiastico della laus civitatis (la lode della città), il De
magnalibus urbis Mediolani [Le meraviglie della città di Milano], scritto da Bonvesin de la
Riva nel 1288, non manca di notazioni concrete e documentazioni statistiche che ci
informano sulla consistenza sociale ed economica della città (numero degli abitanti, dei
cittadini abili alle armi, delle case, delle botteghe, dei forni, dei macellai, dei fabbri, dei
dottori in legge, dei medici e dei chirurghi, delle bancarelle all’aperto ecc.).
Ancora più significativa la Chronica [Cronaca] del francescano Salimbene de Adam
(Parma 1221-Montefalcone, in Emilia, 1288). Frate minore fin dal 1238, Salimbene
viaggiò a lungo in Italia e in Francia, sposando con fervore la causa gioachimita. In-
torno al 1260, l’anno in cui avrebbe dovuto compiersi la fine dei tempi secondo la
profezia di Gioachino da Fiore, dopo aver capeggiato il movimento dei flagellanti a
Sassuolo, abbandonò le posizioni più radicali, proponendosi d’ora in avanti di voler
credere soltanto alle cose viste («dispono non credere nisi que videro»). Negli ultimi
anni di una vita avventurosa e dispersiva, volle comporre una cronaca dei fatti accadu-
ti tra il 1167 e il 1288. L’opera, che ci è giunta mutila dell’inizio e della fine, riflette la
personalità curiosa e inquieta dell’autore: aneddoti di gusto novellistico, ritratti, pagine
diaristiche, testimonianze private si alternano a notizie di carattere politico, religioso,
militare, letterario o artistico. Ne deriva un vasto affresco di impressionante potenza
narrativa e descrittiva, non privo, a volte, di notazioni umoristiche.
Libri di conti e ricordanze L’attenzione per i dati concreti è ben visibile in una ricca produzione in
lingua volgare di libri di conti e di ricordanze che si sviluppa negli ambienti mercan-
tili tra Duecento e Quattrocento, e in particolare nella seconda metà del Trecento e
nella prima del Quattrocento. «Libri di conti» erano i registri nei quali i mercanti an-
notavano tutto ciò che riguardava le loro attività commerciali. Non opere letterarie,
dunque, ma documenti privati, che col passare del tempo assunsero tuttavia una mag-
giore complessità, fino a dare origine in età più tarda a testi più evoluti e articolati, i li-
bri di «ricordanze» appunto, in cui si registravano gli eventi più memorabili della sto-
ria familiare, al confine tra pubblico e privato, memoria personale e cronaca cittadina.
Fra i numerosi «libri di ricordanze» che ci sono pervenuti, spiccano la Cronica domesti-
ca di Donato Velluti (1313-1370), la Cronica di Buonaccorso Pitti (1354-1430 ca) e so-
prattutto i Ricordi di Giovanni di Pagolo Morelli (1371-1444).
In generale in questi testi prevale un’etica mercantile, fondata sulla logica del pro-
fitto, ma anche su un sistema di valori morali (prudenza, misura, perseveranza, buona
fama). Tra le finalità di questi libri non manca del resto quella educativa e pedagogica:
i «libri di ricordanza» sono destinati innanzitutto a un circuito privato, entro il quale lo
scrivente intende proporre un’immagine positiva di sé e insieme fornire precetti di
comportamento che riguardano sia l’attività mercantile, sia la vita domestica.
La Sconfitta di Monte Aperto Non stupisce che in Toscana, terra di accese conflittualità politiche, fiori-
sca una ricca produzione cronachistica animata soprattutto dalla passione civile. Il testo
di maggior forza e tensione – anche stilistica – è la Sconfitta di Monte Aperto, opera di
un senese di parte ghibellina che partecipò alla celebre battaglia del settembre 1260
sulla quale possediamo diverse testimonianze: fra le più significative, quelle di Brunet-
to Latini [R T 11.1 ], di Guittone d’Arezzo [R T 6.5 ] e di Dante (If X 85-86). L’episodio è
narrato con ampiezza di particolari in ogni sua fase: preparazione, genealogia dei com-
battenti, invocazione alla Vergine e ai Santi, descrizione della battaglia, rappresentazio-
ne della folla cittadina che attende con trepidazione l’esito finale della battaglia. Il ta-
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11. Altri generi e altre forme di scrittura di età comunale STORIA

glio fazioso e ideologico della narrazione viene esaltato dai moduli epici tratti dalla
tradizione cavalleresca delle chansons de geste. La potenza realistica della rappresentazio-
ne deriva in gran parte dall’intensità dei sentimenti espressi dalla voce narrante: odio,
furore, selvaggia gioia nel vedere massacrati e umiliati gli storici nemici fiorentini.
La Istoria fiorentina di Ricordano Malespini Proprio dall’episodio di Montaperti fu influenzata la vi-
ta e l’opera di Ricordano Malespini (1220-1290 ca), un fiorentino di parte guelfa che
era stato costretto, dopo l’esito rovinoso della battaglia, a rifugiarsi a Roma. Ritornò in
Firenze nel 1266, in seguito alla definitiva sconfitta della parte ghibellina. Fra il 1270 e
il 1290 scrisse una Istoria fiorentina in cui narrava le vicende della sua città fino al 1282,
l’anno dei Vespri siciliani. Alla storia contemporanea, com’era consuetudine della sto-
riografia medievale, l’autore giunge dopo un vasto preambolo di storia universale in
cui si accenna anche alla fondazione di Firenze da parte dei Romani. La passione po-
litica del narratore non impedisce un utilizzo in qualche misura critico delle fonti.
La Cronica di Dino Compagni Alla generazione di Guido Cavalcanti appartiene Dino Compagni. La
delicatezza dell’argomento, ancora di forte attualità negli anni in cui il Compagni
scriveva, e il carattere decisamente politico della narrazione («diario di una sconfitta,
steso da uno sconfitto», come ha osservato Guido Bezzola) spiegano la travagliata for-
tuna dell’opera, che ebbe una diffusione quasi clandestina nel corso del Trecento e fu
scarsamente nota anche nei secoli successivi. La prima edizione a stampa, curata dal
Muratori nel 1726, segnò la riscoperta della Cronica, che tuttavia conobbe ampia for-
tuna soltanto in età risorgimentale, sia per ragioni linguistiche (un esempio di fioren-
tino trecentesco) sia per ragioni ideologiche e patriottiche (l’età comunale vista come
un’epoca di libertà, di energia vitale e di lotte politiche).
Nella Cronica del Compagni vengono narrati gli avvenimenti accaduti in Firenze e in
Toscana fra il 1280 e il 1312. Diversamente dalla maggior parte delle opere precedenti,
che prendevano le mosse dalla creazione del mondo, l’autore inizia in medias res, limitan-
dosi esclusivamente ai fatti di cui era stato testimone, se non addirittura partecipe. Atten-
dibilità delle fonti e accertamento diretto dei fatti si accompagnano a una lettura passio-
nale e politica degli eventi, che sono inquadrati nella prospettiva di un uomo che prova
indignazione per la condizione in cui versa ormai da un decennio la sua città, rimpian-
ge i tempi passati, quando il Comune era florido e giusto, denuncia coloro che, a suo
giudizio, sono stati responsabili del disastro [R T 11.2 ], auspica un intervento riparatore.
Il vigore della rappresentazione, l’asprezza dei giudizi, la fierezza polemica dello sguar-
do sono sorretti da uno stile mosso e vivace, asciutto e incisivo, fondato su una retorica
che è tipica dei discorsi orali piuttosto che scritti (quei discorsi che il Compagni aveva
spesso tenuto durante l’esercizio della sua attività civile): così si spiegano i caratteri più
marcati della sua prosa, sempre rapida e tesa, dominata dal gusto delle ellissi e degli ana-
coluti, da un acceso realismo lessicale, dal taglio scorciato ed emotivo di molti capitoli.
▍ L’autore Dino Compagni

Nato a Firenze intorno al 1255-1260, guelfo di parte bianca appassionatamente coinvolto nella vita
politica della sua città, Dino Compagni fu per sei volte Console dell’Arte della Seta, priore nel 1289
(durante la guerra di Arezzo, e dunque nell’anno della battaglia di Campaldino cui prese parte lo
stesso Dante) e nel 1301 (quando assiste alla presa del potere da parte dei Neri), Gonfaloniere di giu-
stizia nel 1293. In virtù di una legge che salvaguardava i priori decaduti dalla loro carica da meno di
un anno, poté evitare l’esilio, che toccò invece a gran parte degli esponenti del suo partito. Fu tutta-
via emarginato dalla vita politica. Morì nel 1324, e fu sepolto nella chiesa fiorentina di Santa Trìnita.
Fra il 1310 e il 1312 compose la Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, forse il testo più signi-
ficativo del genere cronachistico medievale in lingua volgare. Della sua attività poetica restano al-
cune rime giovanili caratterizzate da una robusta tensione morale. Discussa, e per lo più conte-
stata, è oggi l’attribuzione a Dino Compagni dell’Intelligenza (R 11.1).

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Duecento e Trecento

La Nuova Cronica di Giovanni Villani Caratteristiche ben diverse presenta la Nuova Cronica che il
Villani ideò, secondo quanto egli stesso scrive (VIII, 36) durante il 1300, l’anno del
Giubileo, ma che in realtà cominciò a redigere solo dopo il 1308, di ritorno dalle
Fiandre. Concepita come una storia universale, come gran parte delle opere storio-
grafiche medievali, l’opera si apre con il racconto biblico della torre di Babele e pro-
segue narrando circa duemila anni di storia, sempre tuttavia con l’occhio ai fatti di
Firenze, che diviene, man mano, il vero oggetto della cronaca. I libri più interessanti
sono quelli dedicati alla storia contemporanea, dalla discesa di Carlo d’Angiò (libro
VIII) sino agli episodi più recenti (gli ultimi due libri furono scritti dopo la grande
alluvione del 1333).
Proprio in quest’ultima sezione l’autore sembra liberarsi, almeno in parte, degli
schemi provvidenzialistici delle cronache medievali, per guardare alla vita di Firenze
con uno sguardo nuovo: l’attenzione ai dati concreti e alla vita materiale, il rigore do-
cumentario, la precisione e la modernità dei metodi di rilevazione ne fanno ancora
oggi una delle fonti più preziose per ricostruire il quadro della società fiorentina del-
l’ultimo Duecento e della prima metà del Trecento.
Nonostante l’ambizione di emulare le grandi storie degli antichi, la Cronica del
Villani risulta debole proprio sul piano retorico e narrativo, anche se talvolta sa im-
pennarsi in pagine di carattere epico, come la descrizione della morte eroica di Man-
fredi (VII, 9). Ma si tratta di eccezioni: poco interessato agli accadimenti politici (a
differenza del Compagni), l’autore guarda alla storia della sua città in una prospetti-
va socio-economica: l’attenzione è rivolta alla vita produttiva, ai rapporti fra città e
contado, alle dinamiche commerciali, ai grandi scenari europei dei mercati e della fi-
nanza. Se il Compagni avvince il lettore per l’intensità e la forza drammatica delle
sue pagine, il Villani si fa apprezzare per l’accuratezza delle fonti, la pacatezza del rac-
conto, la cautela dei giudizi. La prosa, coerentemente con l’assunto, è semplice e di-
messa, come si conviene a un resoconto obiettivo e imparziale dei fatti.
La Cronica di Bartolomeo da Valmontone Uno dei testi più singolari del Trecento è una Cronica in
lingua romanesca composta fra il 1357 e il 1358 da uno scrittore rimasto a lungo
ignoto (era nota come la Cronica di Anonimo romano del Trecento), e a cui solo recen-
temente (1994) Giuseppe Billanovich ha dato un nome: Bartolomeo di Valmontone.
Nato intorno al 1310 in un borgo del Lazio da famiglia nobile, Bartolomeo fu stu-
dente di medicina a Bologna negli anni 1338-1339, poi chierico al servizio del vesco-
vo di Padova, che soggiornava abitualmente ad Avignone. Qui ebbe a conoscere sia il

▍ L’autore Giovanni Villani

A una generazione successiva a quella del Compagni appartiene Giovanni Villani, nato a Firenze
verso il 1280 da una famiglia di mercanti e mercante egli stesso. Politicamente moderato, fu vici-
no alla fazione dei Guelfi Neri. Dal 1302 al 1307 visse nelle Fiandre come rappresentante della
Compagnia dei Peruzzi, di cui fu socio e azionista. Durante questi anni ebbe modo di intreccia-
re importanti relazioni d’affari con i maggiori esponenti del mondo mercantile francese e fiam-
mingo. Tornato in patria, partecipò alla vita politica della sua città, fino ad assumere le più alte ca-
riche comunali: fu tre volte priore, ufficiale della moneta, cioè della zecca; ambasciatore a Bolo-
gna, tesoriere del Comune. Nel 1346 fu coinvolto nel fallimento della compagnia dei Buonac-
corsi, di cui era socio dal 1322, e conobbe anche il carcere. Morì durante la peste del 1348.
Proprio nel 1308, appena di ritorno a Firenze dopo il viaggio in Fiandra, cominciò a redigere
la Nuova cronica, la cui stesura si protrasse fino alla morte. L’opera, interrotta al libro XII, fu conti-
nuata dal fratello Matteo, che narrò in altri 11 libri i fatti compresi tra il 1348 e il 1363, anno in
cui anch’egli morì di peste. Filippo Villani (1325-1405), figlio di Matteo, commentatore di Dan-
te allo Studio fiorentino e autore di una storia dei fiorentini illustri, aggiunse all’intero corpus un
ultimo libro, dove si dava conto degli avvenimenti accaduti nel 1364.

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11. Altri generi e altre forme di scrittura di età comunale STORIA

Petrarca sia Cola di Rienzo. In seguito lasciò l’ordine ecclesiastico per dedicarsi all’ar-
te medica. Morì dopo il 1360.
Anche Bartolomeo, come Dino Compagni, abbandona i moduli tradizionali della
storia universale per narrare gli avvenimenti svoltisi tra il 1325 e il 1357: se lo scenario
è europeo (non mancano cenni alla guerra dei Cent’anni o alla crociata), il centro del-
l’opera è costituito dalla figura di Cola di Rienzo, un popolano imbevuto di memorie
classiche e di storia romana che diviene notaio grazie all’ingegno e agli studi, si pone a
capo di una fazione democratica durante gli anni della cattività avignonese, dà vita nel
1347 a una risorta repubblica romana di ispirazione antinobiliare, facendosi eleggere
tribuno, e muore nel 1354 abbandonato da quella stessa plebe romana che lo aveva un
tempo esaltato. La morte di Cola è una delle pagine più nobili e grandi dell’opera: il
protagonista non sa reggere il confronto con gli eroi antichi, e nella sventura, senten-
dosi abbandonato, tenta un’inutile fuga che culminerà nella terribile e cruenta fine.
Dei ventotto capitoli originari, ne sopravvivono solo diciannove. La lingua è ro-
manesca nella fonetica e nella morfologia, mentre lessico e sintassi sono spesso soste-
nuti dal ricorso a forme auliche, talora latineggianti. Lo stile paratattico e asindetico,
fondato su un ideale di brevità, rapidità ed essenzialità, ha una forza drammatica ed
espressionistica ignota alla letteratura del secolo. L’ambiguità delle vicende storiche, la
ferocia animalesca delle plebi, il mistero dei comportamenti umani sono indagati con
uno sguardo laico e pessimistico che ricorda a tratti quello dei grandi storici latini.

11.3 I libri di viaggio e il Milione di Marco Polo


I primi viaggi in Oriente Una delle maggiori fonti di ricchezza di Venezia era costituita dal com-
mercio di sete e di spezie, su cui la città esercitava nel XIII secolo una sorta di mono-
polio. Le spezie provenivano per lo più dall’India, da dove erano trasportate per nave
dai mercanti arabi fino al mar Rosso, e in seguito, a dorso di cammello, fino ai porti
commerciali di Alessandria o della Siria. Il viaggio era lungo e costoso, esposto a ogni
genere di insidie. Altre basi commerciali, controllate dai mercanti genovesi e veneziani,
si trovavano a Costantinopoli, sul mar Nero e in Crimea, dove giungevano i prodotti
provenienti dalla Russia meridionale, e in seguito, attraverso gli approdi del golfo Per-
sico, dalla stessa India e dalla Persia. Ben precise ragioni di ordine economico, cui si le-
gavano motivi di carattere religioso (cristianizzare le terre d’Oriente), spingevano
dunque ad aprire dei varchi all’interno di un mondo pressoché sconosciuto al Me-
dioevo occidentale, ma di cui si era a lungo favoleggiato.
Poco prima della metà del XIII secolo cominciarono a partire le prime missioni
religiose in direzione dell’impero mongolo: la più nota fu quella organizzata dal frate
francescano Giovanni da Pian del Carpine (1182-1252), che dall’Ucraina, lungo la via
della seta, giunse (1245-1246) nel cuore dell’impero del Gran Khan: al ritorno, il frate
redasse in latino una Historia Mongolorum [Storia dei Mongoli] (1247), destinata a grande
fortuna. Se tali spedizioni non sortirono gli effetti desiderati (i Mongoli si converti-
ranno all’islamismo, non al cristianesimo), era tuttavia un nuovo mondo che si faceva
conoscere attraverso racconti diretti e abbastanza documentati. Non poteva essere che
una famiglia di mercanti veneziani, nella seconda metà del XIII secolo, a offrire al-
l’Europa il libro su cui si sarebbero formate intere generazioni di navigatori (fra cui lo
stesso Cristoforo Colombo, che lo studiò e annotò) nei secoli successivi. Questo libro
fu il Milione di Marco Polo, che nel 1298, nelle carceri di Genova dove si trovava rin-
chiuso, dettò le memorie delle sue avventure a un compagno di prigionia, Rustico da
Pisa, il quale le trascrisse e le rielaborò in un francese ibridato di forme venete.
Il Milione Il Milione ebbe subito vasta diffusione, testimoniata dalla ricchezza della tradizione
manoscritta. La redazione originaria di Rustico andò presto perduta. In compenso co-
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Duecento e Trecento

minciarono a girare, soprattutto negli ambienti mercantili, numerose versioni dell’o-


pera (in lingua d’oïl, in volgare toscano, perfino – evento all’epoca assai raro – in lati-
no) con titoli diversi: su tutti, nel corso del tempo, ebbe a prevalere quello di Milione,
che deriva dal soprannome della famiglia Polo: “Emilione”, da cui “Milione”.
Al confine fra diversi generi Il Milione si offre innanzitutto come un trattato geografico e un resocon-
to di viaggio ampiamente documentato: itinerari, soste, descrizione di località, misura-
zione delle distanze, digressioni che riguardano usi e costumi [R T 11.3 ]delle popolazio-
ni (dove l’autore rivela spiccati interessi antropologici), l’economia di un paese (pro-
dotti del suolo, merci, artigianato) e la sua organizzazione amministrativa (moneta, do-
gane, stazioni di posta). L’impianto centrale è tuttavia arricchito da capitoli di sapore
novellistico e storico-cronachistico, così che il libro può essere considerato come un
testo ibrido e non facilmente inquadrabile, aperto volta per volta alle suggestioni degli
antichi exempla, dei racconti agiografici e dell’immensa riserva letteraria dei mirabilia:
procedendo da Occidente verso Oriente, Marco portava con sé non solo il desiderio
di scoprire e di esplorare terre nuove e incognite, ma anche un repertorio di favole, di
leggende, di utopie che si erano inestricabilmente legate, nel corso dei secoli, all’idea
che l’Occidente si era fatto dell’Oriente. Così non mancano la descrizione di uomini
con la coda (in realtà scimmie; cap. 165), o il racconto di voci misteriose che sorpren-
dono quanti si avventurano di notte nel deserto di Lop (cap. 56). Ma in generale è la
curiosità a prevalere sulla meraviglia; e non poche volte Marco sa dare spiegazioni
corrette di fenomeni solo apparentemente meravigliosi.
Il libro di un mercante I Polo sono innanzitutto una famiglia di mercanti, e gran parte delle annota-
zioni riguardano le attività commerciali, descritte con occhio pratico ed esperto. Ad
esempio, giunto nell’isola di Giava (cap. 159), Marco annota: «Ed è di molto grande
ricchezza: qui à pepe e noci moscade e spigo e galinga [una radice aromatica indiana]
e cubebe [un frutto tipico dell’isola] e gherofani e di tutte care [preziose] spezie. A
quest’isola viene grande quantità di navi e di mercatantìe, e fannovi grande guadagno».
Ciò non significa che l’intenzione di Marco sia quella di metter mano a un manuale
di mercatura: egli «ha ordinato le sue esperienze di viaggio secondo la struttura del
prontuario di tecnica commerciale: non col deliberato proposito di comporne uno
con fini pratici veri e propri, ma perché quella era la forma nella quale un mercante
era abituato a veder rappresentato il mondo» (Tucci).
Curiosità e meraviglia Il Milione non è dunque il libro di un mercante destinato ad altri mercanti, ma
il libro di un uomo che viaggia spinto dalla curiosità di conoscere nuovi luoghi e di
poter riferire quanto ha visto. Il Gran Khan, del resto, gli aveva affidato numerosi in-

Il Milione

Il testo è diviso in 233 capitoli (209 nella versione trecentesca in volgare). I capp. 1-18 as-
solvono il ruolo di prologo: vi si narra di Niccolò e di Matteo, due fratelli veneziani, mer-
canti, che compiono un lungo viaggio in terra d’Oriente, da cui tornano dopo alcuni an-
ni con un’ambasceria del Gran Khan per il pontefice. Il nome di Marco, figlio di Niccolò,
compare solo al cap. 9 della narrazione. Il padre e lo zio sono appena rientrati in Venezia:
«E quivi trovò messer Niccolao che la sua moglie era morta, e erane rimaso uno figliuolo
di quindici anni, ch’avea nome Marco; e questi è quello messer Marco di cui questo libro
parla».Viene organizzata una nuova spedizione, di cui Marco sarà protagonista e testimo-
ne diretto: i tre partono da Venezia e raggiungono Canbalu – l’odierna Pechino –, attra-
verso l’Armenia, la Persia, l’Afghanistan e il deserto del Gobi; durante il viaggio di ritor-
no, compiuto parte via mare e parte via terra, toccano invece la penisola di Malacca, Su-
matra, Ceylon e le coste dell’India (R cartina). Al centro del libro (capp. 75-103), un’am-
pia sezione è dedicata al Gran Khan e al suo immenso impero [R T 11.4 ].

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11. Altri generi e altre forme di scrittura di età comunale STORIA

carichi diplomatici soprattutto per la sua capacità di affabulatore: lo stesso Marco ci fa


sapere che al termine di ogni ambasceria egli redigeva delle relazioni circostanziate
che l’imperatore leggeva con avidità e impazienza. La conclusione dell’opera è del re-
sto significativa, e ci restituisce l’orgoglio del viaggiatore che ha svelato all’Occidente
cristiano un mondo nuovo, ignoto e stupefacente: «e’ non fu mai uomo, né cristiano
né saracino né tartero né pagano, che·mmai cercasse tanto del mondo quanto fece
messer Marco, figliuolo di messer Niccolò Polo, nobile e grande cittadino della città di
Vinegia» (cap. 209).
Sotto questo aspetto il Milione ci appare come un libro unico nel panorama del
tempo, perché unisce la precisione, la concretezza, lo spirito d’osservazione dei libri
mercantili o delle cronache comunali alla curiosità di un resoconto di viaggio e alla
forza immaginativa di un novellista.

▍ L’autore Marco Polo

Discendente da una famiglia patrizia da tempo dedita alla mercatura, Marco Polo nacque a Vene-
zia nel 1254. Nel 1265 (l’anno della nascita di Dante) il padre Niccolò e lo zio Matteo raggiun-
sero, al termine di una lunga spedizione, la corte del Gran Khan Qubilai (1215-1294, al potere
dal 1260), nipote del celebre Gengis Khan. Tornati in Italia nel 1269, padre e zio ripartirono di
nuovo due anni dopo, questa volta in compagnia del giovanissimo Marco. Alla corte del Gran
Khan, Marco ebbe modo di conquistarsi la fiducia dell’imperatore, per il quale assolse numerosi
incarichi di natura diplomatica viaggiando per gran parte della Cina (il Catai) e per tutto l’O-
riente asiatico. Nel 1295 i Polo tornarono definitivamente in patria. Marco ebbe modo, in segui-
to, di partecipare alla guerra tra Genova e Venezia: caduto prigioniero dei nemici, forse durante la
battaglia navale della Curzola (1298), fu rinchiuso nelle carceri di Genova, dove fece la cono-
scenza di Rustico da Pisa, già autore, al tempo, di un romanzo in prosa di materia arturiana in
lingua d’oïl. A Rustico, nell’occasione, egli ebbe modo di dettare un resoconto del suo lungo
viaggio in Oriente. Il titolo originale del libro, scritto in un francese ricco di venetismi, fu pro-
babilmente Le divisament dou monde, ovvero Descrizione del mondo. Scarcerato, Marco ritornò poi
nella sua Venezia, dove morì nel 1324.

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Duecento e Trecento

T 11.1 Brunetto Latini, Tesoretto 1260-1266


Lo smarrimento nella «selva diversa»
Poeti del Duecento Lo Tesoro conenza, «Comincia il Tesoretto». Dopo l’ampia dedica a un valente segnore, nel
a c. di G. Contini, quale si deve probabilmente ravvisare Luigi IX il Santo, re di Francia dal 1226 al 1270,
Ricciardi, il brano che segue costituisce il vero e proprio esordio dell’opera, o meglio una sorta di
Milano-Napoli 1960
prologo autobiografico che introduce all’ambientazione fantastica del poemetto e ne
prospetta lo schema narrativo con il motivo topico dello smarrimento nella selva.
Nota metrica Lo Tesoro conenza. 145 incontrai uno scolaio
Distici di settenari a rima
baciata. Al tempo che Fiorenza su ’n un muletto vaio,
115 froria, e fece frutto, che venia da Bologna,
Tesoro: la denomina-
113
zione di Tesoretto, sebbene
sì ch’ell’era del tutto e sanza dir menzogna
già presente nell’intitola- la donna di Toscana molt’era savio e prode:
zione del manoscritto più (ancora che lontana 150 ma lascio star le lode,
antico,non compare mai nel
testo, dove l’opera è indicata ne fosse l’una parte, che sarebbono assai.
soltanto (qui e al v. 75) come 120 rimossa in altra parte, Io lo pur dimandai
Tesoro; mentre il Tresor è det-
to granTesoro (v. 1351). – co- quella d’i ghibellini, novelle di Toscana
nenza: comincia. per guerra d’i vicini), in dolce lingua e piana;
115 froria: fioriva.
117 donna: signora (dal lat. esso Comune saggio 155 ed e’ cortesemente
domina). mi fece suo messaggio mi disse immantenente
118-120 ancora che... altra
parte: sebbene uno dei due
125 all’alto re di Spagna, che guelfi di Firenza
partiti fosse stato allontana- ch’or è re de la Magna per mala provedenza
to da Firenze. I ghibellini e la corona atende, e per forza di guerra
erano stati banditi nell’esta-
te del 1258, e si erano rifu- se Dio no·llil contende: 160 eran fuor de la terra,
giati a Siena. Si noti la rima ché già sotto la luna e ’l dannaggio era forte
equivoca parte : parte (al v.
119,col significato di“parti- 130 non si truova persona di pregioni e di morte.
to”; al v. 120 di “luogo”). che, per gentil legnaggio Ed io, ponendo cura,
124 messaggio: messagge-
ro, in questo caso “amba- né per altro barnaggio, tornai a la natura
sciatore” (provenzalismo). tanto degno ne fosse 165 ch’audivi dire che tene
125 re di Spagna:Alfonso
X re di Castiglia, detto el Sa-
com’esto re Nanfosse. ogn’om ch’al mondo vene:
bio ovvero “il Saggio”. La 135 E io presi campagna nasce primeramente
missione che la città di Fi- e andai in Ispagna al padre e a’ parenti,
renze aveva affidato a Bru-
netto Latini consisteva in e feci l’ambasciata e poi al suo Comuno;
una richiesta di aiuto contro che mi fue ordinata; 170 ond’io non so nessuno
Manfredi.
126-128 ch’or è re... con- e poi sanza soggiorno ch’io volesse vedere
tende: che ora è re di Ger- 140 ripresi mio ritorno, la mia cittade avere
mania e attende la corona
imperiale, se Dio non gliela tanto che nel paese del tutto a la sua guisa,
nega (no·llil contende). Nel di terra navarrese, né che fosse in divisa;
1257 Alfonso X era stato de- venendo per la calle 175 ma tutti per comune
signato da alcuni elettori re
dei Romani, cioè sovrano del pian di Runcisvalle, tirassero una fune
del Sacro Romano Impero
(a questo titolo allude l’e-
spressione re de la Magna) ,
ma l’elezione non venne misi in viaggio» (Contini). chiesi anche. 163-164 ponendo cura, dini) che vorrei veder do-
poi confermata. 139 sanza soggiorno: sen- 156 immantenente: subi- tornai: riflettendo pensai minare con un potere asso-
129 sotto la luna: a questo za trattenermi là, senza in- to. (tornai,“volsi la mente”). luto sulla mia città, né (vor-
mondo; cfr. anche If VII 64. dugio. 158 per mala proveden- 165 ch’audivi... tene: che rei) che fosse divisa dalle fa-
131 gentil legnaggio: no- 143 calle: strada. za: «per imperizia politica» udii dire che possiede (sog- zioni (divisa è sost., letteral-
bile stirpe. 145 scolaio: studente (dal (Contini). getto è ogn’om del v. 166). mente “in divisione”).
132 barnaggio: virtù ca- latino medievale scholarius). 160 fuor de la terra: fuori 167 primeramente: in 175 per comune: in co-
valleresca (provenzalismo). 146 su ’n: su in (doppia dalla città, esiliati. primo luogo. mune, cioè concordemen-
134 Nanfosse: sire, signore preposizione). – vaio: baio, 161 dannaggio: danno, 168 al: per il; così a’ (per i) e te.
Alfonso; n’Anfos in proven- di colore bruno rossiccio. s’intende subito dai guelfi al nel verso seguente. 176-177 tirassero... benfa-
zale, con la particella onori- 148 sanza dir menzogna: fiorentini, che avevano avu- 170-174 ond’io... in divisa: re: metaforicamente, faces-
fica n(e) dal lat. domine. per dire la verità. to un gran numero di morti pertanto io non conosco sero uno sforzo per vivere in
135 presi campagna: «mi 152 lo pur dimandai: gli e di prigionieri (v. 162). nessuno (dei miei concitta- pace e agire bene.

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11. Altri generi e altre forme di scrittura di età comunale T 11.1

178 scampare: sopravvi- di pace e di benfare, che suole aver Fiorenza


vere, salvarsi.
179 terra... di parte: una ché già non può scampare 185 quasi nel mondo tutto;
città lacerata dalle lotte di terra rotta di parte. e io, in tal corrotto
parte. 180 Certo lo cor mi parte pensando a capo chino,
180 mi parte: mi si spezza.
Ancora la rima equivoca di cotanto dolore, perdei il gran cammino,
parte : parte (qui è forma del pensando il grande onore e tenni a la traversa
verbo partire, cioè “divide-
re”, con valore riflessivo). e la ricca potenza 190 d’una selva diversa.
181 di: a causa di.
186-187 in tal corrotto
pensando: assorto in tale significa “lutto”). strada maestra. versa:e presi una via traversa strana (diversa).
luttuosa afflizione (corrotto 188 il gran cammino: la 189-190 e tenni... selva di- che metteva in una selva

Guida all’analisi
Viaggio reale e viaggio allegorico Il Tesoretto si apre con il resoconto circostanziato di un viaggio realmente
compiuto da Brunetto Latini, autore e protagonista-narratore del poema, inviato in qualità
di ambasciatore dal Comune di Firenze presso Alfonso X di Castiglia. Il racconto converge
rapidamente su un evento decisivo, occorso sulla via del ritorno: l’incontro con lo scolaio (v.
145) che viene di Bologna, dal quale il poeta apprende la gravissima notizia della disfatta dei
guelfi fiorentini a Montaperti (4 settembre 1260), che per lui stesso significa l’esilio e la ro-
vina del suo partito. La situazione è delineata mediante riferimenti spazio-temporali con-
creti e precisi, tanto che si potrebbe tracciare l’itinerario percorso da Brunetto su una carti-
na dell’Europa occidentale, con la penisola iberica e la Francia, divise dai monti Pirenei, e
quasi segnare il punto in cui, nella piana di Roncisvalle, sulla strada battuta dai pellegrini
che da Parigi vanno a Santiago de Compostela (la «Via Lattea»), gli si fa incontro, sul suo
muletto vaio, il latore di sì tristi nuove.
Ma già negli ultimi versi di questo brano, sul viaggio reale, storico e autobiografico, si
innesta un viaggio allegorico e fantastico: assorto in angosciosi pensieri, dichiara il protago-
nista, «perdei il gran cammino, / e tenni a la traversa / d’una selva diversa». L’ingresso nella
nuova dimensione è segnato, nei versi immediatamente successivi, da una ellissi narrativa, un
piccolo “strappo” nel tessuto del racconto: «Ma, tornando a la mente, / mi volsi e posi men-
te / intorno a la montagna / e vidi... (vv. 191-194). Quello che vedrà d’ora in poi non si in-
scrive più nelle coordinate sostanzialmente realistiche dell’esordio: alla geografia reale si è
sostituita una geografia simbolica, e le presenze che popolano questo mondo altro sono fan-
tastiche personificazioni, a cominciare da quella della Natura che di lì a poco gli appare, gi-
gantesca e bellissima, circondata dall’immensa turba degli esseri viventi, sudditi del suo re-
gno.
A partire da questo momento il poeta intraprende dunque un altro viaggio, metafora
narrativa di un itinerario conoscitivo e morale che si configura come un compendio del sa-
pere enciclopedico medievale, sviluppato nelle forme del discorso didascalico e animato
dall’impegno pedagogico-civile.
Impegno civile e ammaestramento morale Il nesso che lega i due viaggi – viaggio reale e viaggio allegorico – si
trova nei versi che leggiamo, nei quali si rendono evidenti la genesi e il significato dell’ope-
ra. Brunetto-protagonista si smarrisce nella selva perché si è immerso in una dolorosa me-
ditazione sui luttuosi eventi che affliggono la sua città; egli prende atto del divario abissale
che si apre fra l’immagine ideale della concorde convivenza civile, espressa tramite la me-
tafora della «fune / di pace e di benfare» (vv. 176-177), e l’allarmante realtà di decadenza e
di imminente rovina in cui è precipitata la sua Firenze, «terra rotta di parte» (v. 79). E come
nella finzione narrativa si verifica una deviazione involontaria dalla strada maestra su una via
dal tracciato obliquo, così, simmetricamente, nella realtà storica e biografica il suo percorso
viene deviato e il suo rientro in patria sospeso per sei anni (quelli che separano Montaper-
ti da Benevento), che trascorrerà in esilio in Francia, attendendo alle sue opere letterarie. La
composizione di un poema quale il Tesoretto, inteso a ricercare e fondare i valori su cui si

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Duecento e Trecento

possa edificare saldamente la città degli uomini, si configura dunque come attività sostituti-
va, ma non meno utile e necessaria, del «benfare», cioè dell’impegno pubblico nella vita po-
litica del Comune, ora precluso all’esiliato.
Trapianto delle virtù cortesi in ambito borghese e comunale Il significato dell’operazione di Brunetto, intellet-
tuale ‘organico’ alla società comunale, nel Tesoretto come nell’opera maggiore, il Tresor, risie-
de nell’intento di rendere accessibile, mediante l’uso della lingua volgare e di una forma re-
lativamente semplice (lo schema allegorico della narrazione; uno stile tendenzialmente pia-
no e comprensibile, quanto lo permette la schiavitù della rima), un “tesoro” di cultura lun-
gamente elaborato nei secoli del Medioevo.
Tra gli aspetti più interessanti di tale progetto, spiccano, in armonia con una tendenza
storicamente in atto nel mondo comunale, l’assunzione e la reinterpretazione – che è anche
rinnovamento e rivitalizzazione – delle virtù cavalleresche e cortesi in un clima culturale e
ideologico d’impronta laica e borghese; un intento che si palesa soprattutto nella sequenza
dedicata al regno di Vertute (per diversi aspetti ispirata al Roman de la Rose di Guillaume de
Lorris, uno dei principali modelli dell’opera), dove gli insegnamenti di Cortesia, Larghezza,
Leanza e Prodezza, le tradizionali virtù del cavaliere cortese, destituiti di ogni implicazione
derivante dal privilegio nobiliare e dalla concezione gerarchica feudale, vengono riplasmati
secondo le nuove prospettive.

Laboratorio 1 Analizza le rime nel testo di Brunetto tutto o in parte? Su quali punti eventual-
COMPRENSIONE Latini e riconosci: le rime equivoche;le mente divergono?
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE rime ricche; le rime ‘siciliane’. Compila b. Si possono individuare nel testo di
tre elenchi con l’indicazione dei versi in Brunetto espressioni, figure retoriche, im-
cui ricorrono. magini e concetti che ricorrono, simili o
2 Questo esordio del Tesoretto e la grande addirittura identici, anche nella canzone
canzone politica di Guittone d’Arezzo guittoniana?
Ahi lasso, or è stagion de doler tanto [R T 6.5 ] 3 Come il Tesoretto, anche la Commedia dan-
traggono ispirazione dalla medesima oc- tesca prende inizio dallo smarrimento del
casione storica: la battaglia di Montaperti. protagonista-narratore in una selva. Dopo
Fai un confronto tra i due testi, rispon- aver riletto questo esordio del poema di
dendo in particolare alle seguenti do- Brunetto, leggi i versi successivi (vv. 191-
mande. 207, riportati qui sotto) e il riassunto del
a. Quale interpretazione del cruento epi- Tesoretto (R11.1); poi ripercorri il canto I
sodio propongono i due autori? Le loro dell’Inferno (in particolare i vv. 1-12) cer-
reazioni e il loro atteggiamento, le rifles- cando di individuare analogie, differenze
sioni e le implicazioni che rispettivamen- ed eventualmente riscontri puntuali fra i
te ne traggono, appaiono coincidenti, in due testi (e fra i due poemi).

Ma tornando a la mente, 200 e di molte maniere


mi volsi e posi mente ucelli voladori,
intorno a la montagna; ed erbi e frutti e fiori,
e vidi turba magna e pietre e margarite
195 di diversi animali, che son molto gradite,
che non so ben dir quali: 205 e altre cose tante
ma omini e moglieri, che null’omo parlante
bestie, serpent’e fiere, le porria nominare
e pesci a grandi schiere, né ’n parte divisare.

197 moglieri: donne (da 203 margarite: perle (lati- eloquente, buon parlatore. stinguere, classificare ordi-
mulier, in lat. “donna”). nismo). 207 porria: potrebbe. natamente una per una.
200 maniere: specie. 206 parlante: per quanto 208 ’n parte divisare: di-

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11. Altri generi e altre forme di scrittura di età comunale T 11.2

T 11.2 Dino Compagni, Cronica 1310-1312


Come i Guelfi fiorentini si divisero in Bianchi e Neri
Cronica delle cose Nei 19 capitoli che aprono il libro I, l’autore ha ricordato in breve gli eventi più signi-
occorrenti ficativi occorsi in Firenze fra il 1280 e il 1300. Con i capitoli che seguono (dal 20, che
ne’ tempi suoi riportiamo, al 23), si giunge al momento cruciale di tutta la Cronica: il racconto degli
a c. di G. Luzzatto,
Einaudi, Torino 1968
episodi che diedero origine all’inimicizia tra le famiglie dei Cerchi e dei Donati e alla
conseguente divisione della città in due fazioni, quelle dei Bianchi e dei Neri, quest’ul-
tima capeggiata dall’ambizioso e crudele Corso Donati.
Intento a trovare le cause, essenzialmente psicologiche e morali, della discordia citta-
dina, Compagni poco si cura di fornire le date e di rispettare l’ordine cronologico degli
avvenimenti, che in questo capitolo si possono così riassumere: l’acquisto delle case dei
conti Guidi da parte della famiglia dei Cerchi (1280); le seconde nozze di Corso Do-
nati (1296); l’avvelenamento di alcuni giovani dei Cerchi (1298); la rissa scoppiata, du-
rante un funerale, nella piazza dei Frescobaldi (dicembre 1296); l’inimicizia fra Corso
Donati e il poeta Guido Cavalcanti (con un episodio relativo al 1299). Il racconto avrà
il suo epilogo (capp. 22-23) con i tumulti fiorentini di Calendimaggio (1 maggio 1300),
che diedero il pretesto a Bonifacio VIII per inviare in città Matteo di Acquasparta (giu-
gno 1300), apparentemente allo scopo di pacificare le fazioni, in realtà con il proposito
di favorire la parte dei Neri, cosa che in effetti avvenne alla fine del 1301.

1 per gara d’uficî: per la La città, retta con poca giustizia, cadde in nuovo pericolo, perché i cittadini si
corsa a impadronirsi di cari- cominciorono a dividere per gara d’uficî,1 abbominando l’uno l’altro.2 Interven-
che pubbliche, dalle quali
dipendeva l’esercizio del ne3 che una famiglia che si chiamavano i Cerchi4 (uomini di basso stato, ma
potere. buoni mercatanti e gran ricchi, e vestivano bene, e teneano molti famigli5 e
2 abbominando l’uno
l’altro: accusandosi vicen-
cavalli, e aveano bella apparenza6), alcuni7 di loro comperorono il palagio de’ 5
devolmente, per infamare conti,8 che era presso alle case de’ Pazzi e de’ Donati,9 i quali erano più antichi
gli avversari politici. di sangue, ma non sì ricchi: onde, veggendo i Cerchi salire in altezza (avendo
3 Intervenne: accadde.
4 Cerchi: famiglia di murato e cresciuto10 il palazzo, e tenendo gran vita11), cominciorono avere i
umili origini (di basso stato), Donati grande odio contra loro. Il quale crebbe assai, perché messer Corso
venuta dalla Val di Sieve, e
dunque dal contado. I Cer- Donati, cavaliere di grande animo, essendoglisi morta la moglie,12 ne ritolse 10
chi si erano arricchiti, eser- un’altra figliuola che fu di messer Accierito da Gaville, la quale era reda;13 ma
citando la mercatura, a tal
punto che la loro casa com- non consentendo i parenti di lei, perché aspettavano quella redità, la madre della
merciale era annoverata fra fanciulla, vedendolo bellissimo uomo, contro alla volontà degli altri conchiuse il
le prime d’Europa. parentado.14 I Cerchi, parenti di messer Neri da Gaville,15 cominciorono a sde-
5 famigli: servitori.
6 bella apparenza: un gnare, e a procurare16 non avesse la redità; ma pur per forza l’ebbe. Di che si 15
tenore di vita signorile. generò molto scandolo17 e pericolo per la città e per speziali persone.18 E essen-
7 alcuni: si noti l’anaco-
luto, irregolarità di costru- do alcuni giovani de’ Cerchi sostenuti per una malleverìa19 nel cortile del Pode-
zione sintattica ricorrente stà come è usanza, fu loro presentato uno migliaccio20 di porco, del quale chi ne
nello stile del Compagni,
che conserva alcune mo- mangiò ebbe pericolosa infermità, e alcuni ne morirono; il perché21 nella città
venze caratteristiche del ne fu gran romore, perché eran molti amati: del quale malificio22 fu molto incol- 20
parlato.
8 il palagio de’ conti: il
palazzo dei conti Guidi, con- biltà: la loro ricchezza deri- nozze, contro il parere dei (malleveria), a causa di una la mano per giurare”, e dun-
ti per antonomasia, un’anti- vava dalle proprietà terriere, familiari. multa non pagata, inflitta in que garantire.
ca e illustre famiglia fioren- e non dai commerci. 15 Neri da Gaville: zio di seguito a una rissa scoppiata 20 migliaccio: una specie
tina, un tempo ghibellina. Il 10 murato e cresciuto: Monna Tessa, la nuova mo- fra i Cerchi e i Pazzi. Come di torta cotta in teglia, a base
palazzo si trovava nel sesto fortificato e ingrandito. glie di Corso Donati. apprendiamo subito dopo, di sangue di porco impasta-
(sestiere) di Porta San Piero. 11 tenendo gran vita: 16 procurare: fare in mo- questi giovani erano tratte- to con sale e farina. Il termi-
L’acquisto venne fatto nel conducendo una vita da do che. nuti in arresto nel cortile del ne può indicare altre specia-
1280, ed è un segno tanto grandi signori. 17 scandolo: qui nel sen- Podestà, che fungeva, come è lità culinarie preparate se-
dell’ascesa sociale dei Cer- 12 la moglie: che appar- so di “divisione, discordia”. usanza, da luogo di custodia. condo un procedimento
chi, quanto della decadenza teneva alla famiglia dei Cer- 18 speziali persone: al- Malleverìa è una forma di ga- analogo ma con diversi in-
dei Guidi. Il tema è affronta- chi. cune persone in particolare. ranzia (mallevadore è colui gredienti.
to da Dante in Pd XVI. 13 reda: ereditiera. 19 sostenuti per una che garantisce l’adempi- 21 il perché: per cui, per-
9 de’ Pazzi e de’ Dona- 14 conchiuse il parenta- malleverìa: tenuti prigio- mento di un altro), dalla lo- tanto.
ti: due famiglie di antica no- do: stipulò il contratto di nieri (sostenuti) per garanzia cuz. lat. manum levare,“alzare 22 malificio: delitto.

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Duecento e Trecento

23 Non si cercò ... pro- pato messer Corso. Non si cercò il malificio, però che non si potea provare;23 ma
vare: non venne istruita al-
cuna inchiesta circa il delit- l’odio pur crebbe di giorno in giorno, per modo che i Cerchi li cominciorono a
to, dal momento che (però lasciare, e le raunate della Parte, e accostarsi a’ popolani e reggenti.24 Da’ quali
che) mancavano le prove. erano ben veduti, sì perché erano uomini di buona condizione25 e umani, e sì
24 per modo che ... reg-
genti: di modo che i Cerchi perché erano molto serventi,26 per modo che da loro aveano quello che voleano; 25
cominciarono a staccarsi e simile da’ rettori.27 E molti cittadini tirarono da loro,28 e fra gli altri messer
dagli altri magnati o grandi
della città (li cominciorono a Lapo Salterelli e messer Donato Ristori giudici,29 e altre potenti schiatte.30 I
lasciare) e a disertare le adu- Ghibellini31 similmente gli32 amavano per la loro umanità, e perché da loro trae-
nanze della parte guelfa (le
raunate della Parte), avvici- vano de’ servigi e non faceano ingiurie: il popolo minuto gli amava, perché
nandosi invece alle forze dispiacque loro la congiura fatta contro a Giano.33 Molto furono consigliati e 30
popolari e ai reggenti del Co- confortati34 di prendere la signoria,35 che agevolmente l’arebbono36 avuta per la
mune, questi ultimi espo-
nenti del “popolo grasso”, loro bontà; ma mai non lo vollono consentire.
cioè della borghesia. I Cer- Essendo molti cittadini un giorno,37 per seppellire una donna morta, alla piaz-
chi si avviano a stringere al-
leanza con la Signoria po- za de’ Frescobaldi,38 e essendo l’uso della terra a simili raunate i cittadini sedere
polare che dominava la città basso39 in su stuoie di giunchi, e i cavalieri e dottori40 su alto sulle panche, e 35
di Firenze in seguito agli
Ordinamenti di Giano della essendo a sedere, i Donati e i Cerchi, in terra (quelli che non erano cavalieri),
Bella, la nuova costituzione l’una parte al dirimpetto all’altra, uno o per racconciarsi41 i panni o per altra
fiorentina del 1293.
25 condizione: indole.
cagione, si levò ritto. Gli adversari, per sospetto, anche42 si levorono, e missono
26 serventi: larghi di fa- mano alle spade; gli altri feciono il simile: e vennono alla zuffa: gli altri uomini
vori, generosi. che v’erano insieme, li tramezorono,43 e non li lasciorono azuffare. Non si poté 40
27 da loro aveano ... da’
rettori: (i Cerchi) otteneva- tanto amortare, che alle case de’ Cerchi non andasse molta gente;44 la quale
no (aveano) dai popolani (da volentieri sarebbe ita a ritrovare45 i Donati, se non che alcuni de’ Cerchi nollo
loro) tutto quello che chie-
devano, e lo stesso (i Cerchi consentì.46
ottenevano) dal podestà e Uno giovane gentile,47 figliuolo di messer Cavalcante Cavalcanti, nobile cava-
dal capitano del popolo (e si-
mile da’ rettori). liere, chiamato Guido, cortese e ardito ma sdegnoso e solitario e intento allo stu- 45
28 tirarono da loro: pas- dio, nimico di messer Corso, avea più volte diliberato offenderlo. Messer Corso
sarono dalla loro parte, li se- forte48 lo temea, perché lo conoscea di grande animo; e cercò d’assassinarlo,
guirono.
29 Lapo Salterelli ... giu- andando Guido in pellegrinaggio a San Iacopo;49 e non li venne fatto.50 Per che,
dici: esponenti autorevoli tornato a Firenze e sentendolo,51 inanimò52 molti giovani contro a lui,53 i quali
dell’Arte dei giudici.
30 schiatte: famiglie. li promisono54 esser in suo aiuto. E essendo un dì a cavallo con alcuni da casa i55 50
31 I Ghibellini: i discen- Cerchi, con uno dardo56 in mano, spronò il cavallo contro a messer Corso, cre-
denti delle famiglie di parte
ghibellina,che dopo la scon- dendosi esser seguìto da’ Cerchi, per farli trascorrere nella briga:57 e trascorrendo
fitta di Benevento (1266) il cavallo,58 lanciò il dardo, il quale andò in vano.59 Era quivi, con messer Corso,
erano stati esclusi dal gover- Simone suo figliuolo, forte e ardito giovane, e Cecchino de’ Bardi, e molti altri,
no della città.
32 gli:li (sempre i Cerchi). con le spade; e córsogli dietro:60 ma non lo giugnendo,61 li gittarono de’ sassi; e 55
33 Giano: Giano della
dalle finestre gliene furono gittati, per modo62 fu ferito nella mano.
Bella, espulso da Firenze nel
1295.
34 confortati: esortati.
35 prendere la signoria:
nel senso di esercitare una piazza coperta che si apriva starsi. respinto dai Donati. cioè con alcuni della con-
supremazia politica, non di sulla pubblica via, dove si te- 42 anche: a loro volta. 47 gentile: nobile. sorteria dei Cerchi.
instaurare un vero e proprio nevano adunanze in diverse 43 tramezorono: li sepa- 48 forte: fortemente. 56 dardo: un’asta acumi-
regime signorile, come era occasioni (ritrovi festivi, rarono interponendosi. 49 San Iacopo: san Gia- nata.
invece accaduto in altre città nozze, funerali). 44 Non si poté ... gente: como di Compostela, in 57 per farli ... briga: per-
italiane. 39 e essendo ... basso: ed (la rissa) non si poté sedare Galizia, celebre meta di pel- ché anche i Cerchi parteci-
36 arebbono: avrebbero. essendo consuetudine della (mortare) tanto da evitare che legrinaggi nel Medioevo. passero alla zuffa.
37 un giorno: l’episodio città (terra) che i semplici molta gente accorresse alle 50 e non li venne fatto: e 58 trascorrendo il caval-
del tumulto risale probabil- cittadini «non investiti di ti- case dei Cerchi, evidente- non gli riuscì (il tentativo di lo: mentre il cavallo era lan-
mente al dicembre del toli nobiliari od accademi- mente per istigarli a capeg- assassinare Guido). ciato.
1296. ci» (Luzzatto), cioè quelli giare un assalto contro i Do- 51 sentendolo: venuto a 59 in vano: a vuoto.
38 alla piazza de’ Fre- che non erano cavalieri né nati. conoscenza del fatto. 60 córsogli dietro: lo rin-
scobaldi: la piazza ove sor- dottori, durante tali adunan- 45 ita a ritrovare: andata 52 inanimò: incitò. corsero.
gevano le case dei Fresco- ze (a simili raunate) sedessero ad aggredire. 53 contro a lui: contro 61 non lo giugnendo:
baldi. I palazzi delle consor- in basso... 46 nollo consentì: non lo Corso Donati. non riuscendo a raggiun-
terie familiari magnatizie, 40 dottori: per lo più giu- consentirono, lo impediro- 54 li promisono: gli pro- gerlo.
muniti di torri, avevano per risti e magistrati. no. Secondo altre fonti l’as- misero. 62 per modo: così che.
solito anche una loggia o 41 racconciarsi: aggiu- salto fu tentato, ma venne 55 da casa i: di casa dei;

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11. Altri generi e altre forme di scrittura di età comunale T 11.2

Cominciò per questo l’odio a multiplicare. E messer Corso molto sparlava di


messer Vieri,63 chiamandolo l’asino di Porta,64 perché era uomo bellissimo, ma
di poca malizia,65 né di bel parlare; e però spesso dicea: «Ha raghiato66 oggi l’asi-
no di Porta?»; e molto lo spregiava. E chiamava Guido, Cavicchia.67 E così rap- 60
portavano68 i giullari, e spezialmente uno si chiamava Scampolino, che rapporta-
va molto peggio non si diceva,69 perché i Cerchi si movessero a briga70 co’
Donati. I Cerchi non si moveano, ma minacciavano con l’amistà71 de’ Pisani e
delli Aretini. I Donati ne temeano, e diceano che i Cerchi aveano fatta lega co’
Ghibellini di Toscana: e tanto l’infamarono, che venne a orecchi del Papa.72 65

63 messer Vieri: il capo vano casa. Guido; secondo altri a causa to non si dicesse effettiva- Donati con la minaccia di
riconosciuto della famiglia 65 di poca malizia: di del suo carattere solitario e mente. ricorrere all’aiuto dei ghi-
dei Cerchi. scarsa intelligenza. scontroso. 70 a briga: a battaglia bellini di Pisa e di Arezzo,
64 l’asino di Porta: l’asi- 66 raghiato: ragliato. 68 rapportavano: riferi- aperta. con i quali erano in rapporti
no di porta San Piero, dove 67 Cavicchia: cioè “pio- vano. 71 amistà: amicizia. I di amicizia.
sia i Cerchi sia i Donati ave- lo”, forse per la magrezza di 69 non si diceva: di quan- Cerchi tenevano a freno i 72 Papa: BonifacioVIII.

Guida all’analisi
Un racconto appassionato Dino Compagni non è un letterato, ma un uomo che ha partecipato alla vita politi-
ca della sua città giungendo a ricoprire le cariche più alte (gonfaloniere, priore), e si è tro-
vato improvvisamente emarginato per aver creduto negli ideali della parte politica sconfitta.
La sua Cronica è un tentativo di spiegare le cause che hanno portato Firenze alle discordie
civili e al colpo di Stato dei Neri (1301) appoggiato dal pontefice Bonifacio VIII con l’aiu-
to del fratello del re di Francia, Carlo di Valois. Al confine tra cronaca, diario politico e ri-
flessione morale, le sue pagine colpiscono proprio per l’intensità con cui i fatti vengono
raccontati: l’autore non vuole rinunciare ad essere oggettivo e imparziale (come impone il
genere storiografico), ma neppure può far tacere le sue simpatie, i suoi sentimenti, le idee
per le quali ha combattuto. Nel brano appena letto, ad esempio, si noterà la differenza di
trattamento riservata alle famiglie nemiche dei Cerchi e dei Donati, intorno alle quali si an-
nodano gli interessi dell’intera città fino a dar vita a due fazioni contrapposte. Se ai Donati,
e in particolare a Corso, vengono imputate le colpe dell’inimicizia e dei disordini, si dà ri-
salto, per contro, all’atteggiamento dignitoso e moderato dei Cerchi, che dimostrano alme-
no in tre occasioni un forte senso di responsabilità: quando rifiutano di «prendere la signo-
ria», pur potendolo (rr. 31); quando non approfittano della zuffa scoppiata nella piazza dei
Frescobaldi per eliminare gli avversari (rr. 33-43); quando non reagiscono («non si movea-
no») di fronte al moltiplicarsi delle provocazioni dei Donati (r. 63). Tale riconoscimento im-
plica tuttavia un giudizio politico negativo: rifiutandosi di mettersi sullo stesso piano di
Corso Donati e dei suoi (che giungono a spargere la voce che gli avversari si siano accordati
con i ghibellini), i Cerchi consentono di fatto che la città cada progressivamente nelle mani
dei loro nemici, gente ambiziosa e priva di scrupoli. Si noterà che Dino Compagni non
prende affatto in considerazione gli interessi di natura economica che contribuirono ad ali-
mentare le discordie cittadine; la sua visione dei fatti è esclusivamente concentrata sui con-
flitti privati tra le varie consorterie familiari e sulla sproporzione tra l’ambizione sconfinata
e perversa di Corso Donati e la nobile ingenuità, per certi aspetti arcaica, del capo dei Cer-
chi, messer Vieri, uomo «di poca malizia, né di bel parlare» (r. 59).

Laboratorio 1 Dividi il capitolo nelle quattro sequenze to? Che ruolo ha nel corso della vicenda?
COMPRENSIONE che lo compongono, dando loro un titolo. 4 Al termine dell’episodio emerge la figura
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE 2 Qual è il giudizio che il cronista dà del- del pontefice: ne ricordi il nome? Che
l’intera vicenda? In quali passi? ruolo svolgerà due anni dopo in Firenze?
3 Nell’episodio compare anche la figura di E quali saranno le conseguenze di questi
Guido Cavalcanti: come viene presenta- fatti sulla vita di Dante?

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Duecento e Trecento

T 11.3 Marco Polo, Milione 1298-1309


Usi e costumi dei Tartari [cap. 69]
Milione. Ciò che distingue il Milione da tutti gli altri racconti di viaggio dell’epoca, è la varietà
Le divisament e la profondità degli interessi che animano l’autore. Marco non è soltanto un mercante
dou monde interessato alla via della seta o delle spezie, né soltanto un viaggiatore curioso di stra-
a c. di G. Ronchi, vaganze e novità: è piuttosto un uomo che desidera sinceramente conoscere il mon-
intr. di C. Segre,
Mondadori, Milano 1982 do esotico e lontano con il quale viene a contatto, e che si sforza di trasmettere ai
lettori il piacere delle sue scoperte. L’attenzione è concentrata soprattutto sugli usi e
costumi dei popoli: la vita quotidiana, l’universo materiale, la mentalità, le istituzioni.
Il capitolo che segue è dedicato alle usanze del popolo tartaro.

Sappiate che loro legge1 è cotale, ch’egli ànno2 un loro idio ch’à nome Natigai,
e dicono che quello è dio terreno,3 che guarda4 loro figliuoli e loro bestiame e lo-
ro biade. E’ fannogli grande onore e grande riv‹er›enza, ché ciascheuno lo tiene in
sua casa. E’ fannogli di feltro e di panno, e ’l tengono i.loro casa; e ancora fanno la
moglie di questo loro idio, e fannogli filiuoli ancora di panno.5 La moglie pongo- 5
no da.lato manco6 e li figliuoli dinanzi: molto gli fanno onore. Quando vengono
a mangiare, egli tolgono de la carne grassa e ungogli la bocca a quello dio e sua
moglie e a quegli figliuoli.7 Poscia pigliano del brodo e gittanne8 giú da l’usciuo-
lo ove stae quello idio. Quando ànno fatto così, dicono che lor dio e sua famiglia
àe9 la sua parte. Apresso questo mangiano e beono; e sappi‹a›te ch’egli beono lat- 10
te di giumente,10 e cónciallo11 in tal modo che pare vino bianco: è buono a bere,
e chiàmallo chemmisi.12
Loro vestimenta sono cotali: gli ricchi uomini vestono di drappi d’oro e di seta, e
ricche pelli cebeline e ermine e de vai13 e de volpi molto riccamente; e li loro ar-
nesi sono molto di grande valuta.14 Loro arme sono archi, spade e mazze, ma 15
d’archi s’aiutano15 più che d’altro, ché egli sono troppi buoni archieri;16 i.loro
dosso17 portano armadura di cuio18 di bufalo e d’altre cuoia forti.
Egli sono uomini in battaglie vale‹n›tri duramente.19 E dirovi come eglino si
possono travagliare20 più che l’altri uomini, ché, quando bisognerà, egli andrà21 e
starà u.mese senza niuna vivanda, salvo che viverà di latte di giumente e di carne 20
di loro cacciagioni che prendono.22 Il suo cavallo viverà d’erba ch’andrà pascendo,
che no gli bisogna portare né orzo né paglia. Egli sono molto ubidienti a loro si-
gnore; e sappiate che, quando bisogna, egli andrà e starà tutta notte a cavallo, e ’l
cavallo sempre andarà pascendo. Egli sono quella gente che più sostengono trava-
glio e [male], e meno vogliono23 di spesa, e che piú vivono, e sono per24 conqui- 25
stare terre e regnami.

1 loro legge: la loro reli- alla r. 3, dove fannogli deve poco più avanti. assai valenti.
gione. intendersi “gli fanno, fanno 12 chemmisi: in turco 20 si possono travagliare:
2 egli ànno: essi hanno. al dio” (onore e riverenza). qïmïz,“latte di cavalla”. possono sostenere fatiche.
3 dio terreno: un dio 6 da.lato manco: a sini- 13 pelli cebeline e ermi- 21 egli andrà: uso del
che governa le cose terrene. stra. ne e de vai: pellicce di zibel- sing. per il plurale; così in se-
4 guarda: protegge. 7 Quando... figliuoli: lino, ermellino e scoiattolo. guito nel testo.
5 E’ fannogli... panno: durante il pranzo, prendono 14 valuta: valore. 22 cacciagioni che pren-
costruiscono pupazzi di i pezzi di carne più ricchi di 15 s’aiutano: si servono. dono: capi di selvaggina che
stoffa che riproducono le grasso e ungono la bocca 16 troppi buoni archieri: catturano andando a caccia.
fattezze del dio, di sua mo- dei simulacri divini. arcieri eccezionalmente 23 vogliono: richiedono.
glie e dei suoi figli, protetto- 8 gittanne: ne versano. abili. 24 sono per: sono adatti a.
ri e custodi della casa. Qui 9 àe: ha avuto. 17 i·loro dosso: addosso.
fannogli significa “li fanno, li 10 giumente: cavalle. 18 cuio: variante dell’an-
costruiscono” (i simulacri 11 cònciallo: lo prepara- tico coio, cuoio.
del dio), diversamente che no; analogamente chiàmallo, 19 vale‹n›tri duramente:

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11. Altri generi e altre forme di scrittura di età comunale T 11.3

Egli sono così ordinati che, quando uno signore mena in oste25 .cm.26 cavalieri, a
ogne mille fa uno capo, e a ‹o›gne .xm., sicché non àe a parlare se non con .x. uo-
mini lo signore de li .xm., e quello de’ .cm. non à a pa‹r›lare se no co .x.; e così
ogni uomo risponde al suo capo. E quando l’oste vae per monti e per valle, sem- 30
pre vae inanzi .cc. uomini per sguardare,27 e altrettanti dirietro e da.lato, perché
l’oste non possa essere asalito che nol sentissoro.28 E quando egli vanno in oste da
la lunga,29 egli portano bottacci di cuoio ov’egli portano loro latte, e una pento-
lella u’ egli cuocono loro carne. Egli portano una piccola tenda ov’egli fuggono30
da l’acqua. E sì vi dico che quando egli ha bisogno, eglino cavalcano bene .x. 35
giornate senza vivanda di fuoco,31 ma vivono del sangue delli loro cavalli, ché cia-
scheuno pone la bocca a la vena del suo cavallo e bee. Egli ànno ancora loro latte
secco come pasta, e mettono di quello latte nell’acqua e disfannolovi entro e po-
scia ’l beono.
Egli vincono le battaglie altresí fuggendo come cacciando, ché fuggendo saetta- 40
no tuttavia,32 e gli loro cavagli si volgoro33 come fossero cani; e quando gli loro
nemici gli credono avere isconfitti cacciandogli, e e’ sono sconfitti eglino,34 perciò
che tutti li loro cavagli sono morti per le loro saette. E quando li Tartari veggono
gli cavagli di quegli che gli cacciano35 morti, egli si rivolgono a loro e sconfiggo-
li per la loro prodezza; e in questo modo ànno già vinte molte battaglie. 45
Tutto questo ch’io v’ò contato e li costumi, è vero de li diritti36 Tartari; e or vi
dico che sono molto37 i bastardi, ché quegli che usano au Ca[t]a38 se mantengono
li costumi degl’idoli,39 e ànno lasciata loro legge; e quegli che usano i.llevante40
tegnono la maniera degli saracini.41
La giustizia vi si fa com’io v‹i› diròe. Egli è vero, se alcuno àe imbolato42 una pic- 50
ciola cosa, ch’egli ‹non› ne debbia perdere persona,43 e gli è dato .vij. bastonate o
.xij. o .xxiiij., e vanno infino a le .cvij., secondo ch’à fatta l’ofesa; e tuttavia ingros-
sano giugne‹ndo›ne .x.44 E.sse alcuno à tolto tanto che debbia perdere persona o
cavallo o altra grande cosa, si è taglia[t]o per mezzo con una ispada; e se egli vuole
pagare .viiij. cotanto45 che non vale la cosa ch’egli à tolta, campa la persona.46 55
Lo bestiame grosso non si guarda,47 ma è tutto segnato, ché colui che ’l trovasse,
conosce la ’nsegna48 del signore e rimandal[o]; peccore e bestie minute bene si
guardano. Loro bestiame è molto bello e grosso.
Ancora vi dico un’altra loro usanza, ciò che fanno ma[trimoni] tra.lloro di fan-
ciulli morti, ciò è a dire: uno uomo à uno suo fanciullo morto; quando viene nel 60
tempo che gli darebbe moglie se fosse vivo, alotta49 fa trovare uno ch’abbia una
fanciulla morta che si faccia a lui,50 e fanno parentado insieme e danno la femina
morta a l’uomo morto. E di questo fanno fare carte;51 poscia l’ardono, e quando
veggono lo fumo in aria, alotta dicono che la carta vae nell’altro mondo ove sono
li loro figliuoli, e queglino si tengono per52 moglie e per marito nell’altro mondo. 65

25 oste: esercito. 33 si volgoro: si volgono. 39 idoli: idolatri. 46 campa la persona: ha


26 cm: sono 100.000; più 34 e e’ sono sconfitti 40 i·llevante: in Levante. salva la vita.
avanti, xm vale 10.000 e cc eglino: ecco che sono pro- 41 tegnono... saracini: 47 non si guarda: non
200. prio loro (i nemici) ad essere professano la religione isla- viene custodito.
27 sguardare: esplorare. sconfitti. mica. 48 insegna: marchio.
28 che nol sentissoro: 35 quegli che gli caccia- 42 imbolato: rubato. 49 alotta: allora.
senza che se ne accorgano. no: gli inseguitori. 43 perdere persona: su- 50 che si faccia a lui: che
29 da la lunga: in luoghi 36 diritti: veri e propri. bire la pena di morte. sia adatta a lui.
lontani. 37 molto: molti. 44 e tuttavia ... .x.: e ogni 51 fanno fare carte: sti-
30 fuggono: si riparano. 38 quegli... au Ca[t]a: volta aumentano con l’ag- pulano l’atto di matrimo-
31 di fuoco: cotta o ri- quelli che vivono abitual- giunta di dieci. I numeri nio, che poi viene bruciato.
scaldata al fuoco. mente (usano) nel Catai (au precedenti valgono rispetti- 52 queglino si... per:
32 saettano tuttavia: Cata: segmento in lingua vamente 7, 12, 24, 107. quelli (i due giovani defun-
continuano a lanciare frec- d’oïl, forse per incompren- 45 .viiij. cotanto: nove ti).
ce. sione del traduttore). volte di più.

307 © Casa Editrice Principato


Duecento e Trecento

Egli ne fanno grandi nozze e versane assai, ché dicono che vae a li figliuoli ne
l’altro mondo.53 Ancora fanno dipignere in carte uccegli, cavagli, arnesi, bisanti54 e
altre cose assai, e poscia le fanno ardere, e dicono che questo sarà presentato da di-
vero55 ne l’altro mondo a li loro figliuoli. E quando questo è fatto, egli si tengono
per parenti e per amici, come se gli loro figliuoli fossero vivi. 70

53 versane assai... mon- abbondanza perché dicono nell’aldilà. poca.


do: spandono a terra cibo in che il cibo va ai loro figlioli 54 bisanti: monete dell’e- 55 da divero: davvero.

Guida all’analisi
Interessi antropologici Il capitolo è interamente dedicato agli usi e ai costumi dei Tartari, nome con cui in
Occidente si era soliti designare il popolo mongolo. Il discorso è ordinato in brevi se-
quenze: credenze religiose, abitudini alimentari, vestiti e armature, guerra (la sequenza
più estesa), amministrazione della giustizia, allevamento del bestiame. Il paragrafo conclu-
sivo è dedicato a un’usanza totalmente estranea alla mentalità occidentale, e che non po-
teva non sorprendere il lettore: le nozze tra fanciulli defunti. Diversamente dai suoi pre-
decessori, che tendevano a giudicare il mondo asiatico secondo i parametri della propria
cultura, Marco opta per una descrizione chiara e imparziale, rinunciando a sovrapporre il
proprio giudizio al racconto. Il lettore coglie immediatamente la sincerità e l’impegno
della narrazione, che non scade mai nell’aneddotica curiosa, né si piega alle esigenze di un
exemplum morale. Dietro le pagine del Milione, soprattutto quelle che rivelano gli interessi
antropologici del viaggiatore Marco, riconosciamo insomma un’acutezza di osservazione,
un equilibrio e un’obiettività sconosciuti finora alle prose di viaggio medievali.
Uno stile sobrio ed esatto Anche il periodare di questo capitolo rivela la volontà di conquistare il lettore con la
forza dei contenuti, senza ricorrere ad abbellimenti formali. La struttura del discorso è sem-
plice e lineare, scandita da formule di transizione essenziali quanto incisive: «Sappiate che
loro legge è cotale» «Apresso questo mangiano e beono; e sappiate ch’egli beono», «Loro
vestimenta sono cotali», «E dirovi», «e sappiate che», «E sì vi dico che», «Tutto questo ch’io
v’ò contato», «La giustizia vi si fa com’io vi dirò e», «Ancora vi dico un’altra loro usanza».

Laboratorio 1 Come viene presentato il popolo dei Tar- loro confronti. Che cosa prevale: interesse,
COMPRENSIONE tari? curiosità, volontà di stupire il lettore?
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE 2 Illustra l’atteggiamento del narratore nei

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11. Altri generi e altre forme di scrittura di età comunale T 11.4

T 11.4 Marco Polo, Milione 1298-1309


Il Palazzo del Gran Khan [cap. 83]
Milione. Le divisament Nipote di Gengis Khan, fondatore dell’impero mongolo, il Gran Khan Qubilai, nato nel
dou monde 1215, era salito al potere nel 1260. Attraverso lunghe e cruente guerre, si era impadro-
a c. di G. Ronchi, cit. nito dell’intera Cina, ponendo la capitale del suo impero a Canbalu, nei pressi dell’o-
dierna Pechino. Morì nel 1294, due anni dopo la partenza di Marco, che al momento di
dettare le sue avventure a Rustichello (anno 1298) ancora non sapeva della sua morte.
La sezione del Milione a lui dedicata (capp. 75-103) è un vero libro nel libro, che si
distingue non solo per l’ampiezza ma anche per l’ammirazione che Marco tributa alla
sua persona e al suo impero.

Sappiate veramente che ’l Grande Kane dimora ne la mastra1 città – e è chiama-


ta Canbalu – .iij. mesi dell’anno, cioè dicembre, gennaio e febraio; e in questa
1 mastra: principale. città à suo grande palagio, e io vi diviserò2 com’egli è fatto.
2 diviserò: descriverò Lo palagio è d’un muro quadro,3 per ogne verso uno miglio,4 e su ciascheuno
(francesismo).
3 d’u·muro quadro: canto5 di questo palagio è6 uno molto bel palagio; e quivi si tiene7 tutti gli arne- 5
(fatto, cioè circondato) di si del Grande Kane, cioè archi, turcassi,8 selle, freni, corde, tende e tutto ciò che
una cinta quadrata di mura.
4 per ogni verso uno bisogna ad oste9 e a guerra. E ancora tra questi palagi à .iiij. palagi in questo cir-
miglio: (che misura) un mi- cuito,10 sicché in questo muro atorno atorno sono .viij. palagi, e tutti sono pieni
glio per ogni lato (verso). d’arnesi, e in ciascuno nonn-à se non d’una cosa.11
5 ciascheuno canto:
ciascun angolo. E in questo muro verso la faccia di mezzodie,12 à .v. porte, e nel mezzo è una 10
6 è: con valore imperso-
grandissima porta che non s’apre mai né chiude, se non qua‹n›do ’l Grande
nale,“c’è”.
7 si tiene: sono tenuti, Kane vi passa, cioè entra e esce. E dal lato a questa porta ne sono due piccole, da
conservati. ogne lato una, onde entra tutta l’altra gente;13 dall’altro canto n’àe un’altra gran-
8 turcassi: astucci, con-
tenitori per le frecce. de, per la quale entra comunemente ogni uomo.
9 oste: esercito schierato. E dentro a questo muro14 è un altro muro, e atorno àe .viij. palagi come nel 15
10 tra questi palagi...
circuito: entro questo peri- primaio,15 e cosí sono fatti; ancora vi stae gli arnesi del Grande Kane. Nella fac-
metro (circuito) vi sono altri cia verso mezzodie àe .v. porte, nell’altre pure16 una.
quattro palazzi. Come si ve- E in mezzo di questo muro è ’l palagio del Grande Kane, ch’è fatto com’io vi
de nel testo i numeri sono
romani con la grafia minu- conterò. Egli è il magiore che giamai fu veduto: egli non v’à palco,17 ma lo spaz-
scola. zo è alto piú che l’altra terra bene .x. palmi;18 la copertura19 è molto altissim[a]. 20
11 e in ciascuno... cosa: e
in ciascuno è riposto un di- Le mura delle sale e de le camere sono tutte coperte d’oro e d’ariento, ov’è scol-
verso tipo di oggetti. pito belle istorie di cavalieri e di donne e d’uccegli e di bestie e d’altre belle
12 la faccia di mezzodie:
il lato rivolto a sud. cose; e la copertura è altresì fatta che non si potrebbe vedere altro che oro e
13 tutta l’altra gente: ariento. La sala è sì lunga e sì larga che bene vi mangia .vim.20 persone, e v’à
della corte, come si evince
dal seguito della frase. tante camere ch’è una maraviglia a credere. La copertura di sopra, cioè di 25
14 questo muro: questa fuori,21 è vermiglia, bioia,22 verde e di tutti altri colori, e è sì bene invernicata
cinta di mura. che luce23 come cristallo, sicché molto da la lunga24 si vede lucire lo palagio; la
15 primaio: primo.
16 pure: soltanto. covertura è molto ferma.25
17 egli non v’à palco:
Tra l’uno muro e l’altro dentro a questo ch’io v’ò contato di sopra, àe begli
non c’è (v’ha) piano supe-
riore (palco). prati e àlbori,26 e àvi molte maniere27 di bestie salvatiche, cioè cervi bianchi, 30
18 ma lo spazzo... palmi: cavriuoli, dani,28 le bestie che fanno lo moscado,29 vai30 e ermellini, e altre belle
ma il pavimento (spazzo) è
sopraelevato rispetto al ter- bestie. La terra dentro di questo giardino è tutto pieno dentro di queste bestie,
reno (è alto più che l’altra terra) salvo la via onde gli uomini entrano.
almeno dieci palmi.
19 copertura:soffitto. E da la parte ve‹r›so ’l maestro31 àe uno lago molto grande, ov’à molte gene-
20 vim: seimila. razione32 di pesci. E.ssì vi dico che un grande fiume v’entra e esce, e è sì ordina- 35
21 La copertura ... fuori:
to33 che niuno pesce ne puote uscire; e àvi fatto mettere molte generazione di
il tetto.
22 bioia: azzurra.
23 è sì ... che luce: e così 24 da la lunga: di lontano. 28 dani: daini. ricavava il muschio (mosca- 31 maestro: maestrale,
ben verniciata che brilla, ri- 25 ferma: solida. 29 le bestie... moscado: i do), una sostanza profumata. vento di nord-ovest.
splende; così lucire poco più 26 àlbori: alberi. moschi, mammiferi affini ai 30 vai: una specie di sco- 32 generazione: specie.
avanti. 27 maniere:tipi,razze. cervi, dalla cui secrezione si iat tolo. 33 ordinato: sistemato.

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Duecento e Trecento

pesci in questo lago, e questo è co reti di ferro.34 E anco vi dico che verso tra-
montana,35 di lungi dal palagio da una arcata,36 àe fatto fare uno monte ch’è
34 co reti di ferro: il lago bene alto .c. passi e gira bene uno miglio;37 lo quale monte è pieno tutto d’àlbo-
è tutto chiuso mediante reti ri che per niuno tempo non perdono foglie, ma sempre sono verdi. E sappiate, 40
di ferro, che impediscono ai
pesci di fuggire. quando è detto al Grande Kane d’uno bello àlbore, egli38 lo fa pigliare con tutte
35 tramontana: nord. le barbe39 e co molta terra e fallo piantare in quello monte; e.ssia grande quanto
36 di lungi ... arcata: alla
distanza di circa un tiro di vuole, ch’egli lo fa portare à lieofanti.40 E sì vi dico ch’egli à fatto coprire totto
freccia (arcata) dal palazzo. ’l monte della terra dell’azurro, che è tutta verde,41 sicché nel monte nonn-à
37 alto .c. passi... miglio:
alto cento passi e con una cosa se non verde, perciò si chiama lo Monte Verde. 45
circonferenza di circa un E sul colmo42 del monte à uno palagio tutto verde, e è molto grande, sicché a
miglio. guardallo è una grande meraviglia, e nonn-è uomo che ’l guardi che non ne
38 egli: che egli.
39 barbe: radici. prenda alegrezza. E per avere quella bella vista l’à fatto fare lo Grande Signore
40 e·ssia grande ... lieo-
per suo conforto e sollazzo.43
fanti: e per quanto sia gran-
de, lo fa ugualmente tra-
sportare, per mezzo di ele- 41 à fatto... verde: to il monte di lapi- se dai riflessi verde- 42 colmo: cima, 43 sollazzo: piace-
fanti. ha fatto ricoprire tut- slazzuli,pietre prezio- azzurri. sommità. re.

Guida all’analisi
Tono favoloso e precisione descrittiva La lettura di questo passo del Milione colpisce per la precisione e la cura
della descrizione, che muove ordinatamente dall’esterno verso l’interno degli edifici impe-
riali: prima cinta di mura con cinque porte e otto palazzi; seconda cinta di mura, provvista
di otto porte e di otto palazzi; il palazzo vero e proprio dell’imperatore, al centro di tutto il
complesso. Anche la descrizione della reggia è accurata e ordinata: strutture murarie; sale e
stanze con relativi ornamenti; copertura delle sale; spazio esterno, a sua volta suddiviso in tre
parti (giardino, lago, monte). Non mancano precise misurazioni, espresse secondo le con-
suetudini e i parametri dell’epoca (miglia, palmi, passi, gettate d’arco). Fin dall’esordio, del
resto, il narratore aveva precisato che il palazzo è abitato solo tre mesi all’anno, «cioè dicem-
bre, gennaio e febraio». L’autore rivela insomma la concretezza e la precisione del mercante
abituato a memorizzare, calcolare, annotare.
Tale precisione non è tuttavia mai arida, ed è anzi sollecitata dalla meraviglia di chi osser-
va e vorrebbe coinvolgere il lettore nel suo stupore. Si avverte il gusto del catalogo che per-
vade queste pagine, il piacere di descrivere le camere «tutte coperte d’oro e d’ariento, ov’è
scolpito belle istorie di cavalieri e di donne e d’uccegli e di bestie e d’altre belle cose», o il
fiabesco giardino dove «àvi molte maniere di bestie salvatiche». È lo stesso gusto che anima
le “corone” di Folgòre da San Gimignano [R T 8.3 ] o le descrizioni dell’idillica campagna e
delle ville riccamente adorne ove si rifugiano i protagonisti del Decameron [R T 13.1 ]. Il «pa-
lagio del Grande Kane», è come allontanato in una dimensione fiabesca, misteriosamente
irreale, senza che ne risulti compromessa l’attendibilità del racconto. Il fascino del testo de-
riva proprio da questo singolare equilibrio fra la realistica concretezza dei particolari e il
senso di favoloso stupore che essi producono nell’insieme.
Rapporto con i lettori e scelte di stile L’entusiasmo del narratore non può non coinvolgere il lettore, sollecita-
to mediante formule che ritroviamo qui come negli altri capitoli del libro: «Sappiate vera-
mente che», «e io vi diviserò com’egli è fatto», «com’io vi conterò», «ch’io v’ò contato»,
«E·ssì vi dico», «E anco vi dico», «E sappiate», ecc. Non mancano espressioni di carattere am-
mirativo, che anticipano la meraviglia stessa del lettore: «Egli è il magiore che giamai fu ve-
duto»; «sicché a guardallo è una grande meraviglia». Né l’autore, per muovere la fantasia dei
suoi lettori, rinuncia all’uso di superlativi o di iperboli.

Laboratorio 1 Individua, nei passi letti, le formule di 2 Dividi il testo in cui viene descritto il Pa-
COMPRENSIONE transizione utilizzate dal narratore. Quale lazzo del Gran Khan in sequenze narrati-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE funzione svolgono nel libro? ve autonome e dà loro un titolo.

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11. Altri generi e altre forme di scrittura di età comunale VERIFICA

VERIFICA

11.1 Brunetto Latini e la letteratura didattica e allegorica di Toscana

1 Illustra i caratteri complessivi della poesia didattica di area toscana.


2 Colloca la figura di Brunetto Latini nella Firenze del secondo Duecento, citando anche le
testimonianze coeve a noi note.
3 Elenca le opere di Brunetto Latini, distinguendo fra quelle in prosa e in versi, in lingua
francese e in lingua toscana.
4 Riassumi la trama del Tesoretto, soffermandoti in particolare sulla zona proemiale.

11.2 Libri di conti, ricordanze, cronache

5 Illustra i caratteri generali della storiografia medievale in lingua latina, indicando quali so-
pravvivono e quali scompaiono nella storiografia in lingua volgare.
6 Quali testi cronachistici in volgare toscano ci sono pervenuti nel corso del Duecento? Quali
caratteri comuni presentano? Quali argomenti trattano?
7 Che cosa scrivono Bonvesin da la Riva e Salimbene de Adam? Quali sono i tratti più ca-
ratteristici delle loro opere?
8 Che cosa sono i «libri di conti» e le «ricordanze»? In quale contesto sociale nascono? Con
quale finalità?
9 Di cosa parla la Sconfitta di Monte Aperto? Da quale punto di vista sono narrati i fatti?
10 Confronta la Cronica del Compagni con quella di Giovanni Villani, individuando le diffe-
renze più rilevanti.
11 Illustra gli avvenimenti narrati nella Cronaca di Bartolomeo da Valmontone. In quale lingua
è stata redatta?

11.3 I libri di viaggio e il Milione di Marco Polo

12 Chi può essere definito il vero autore del Milione? Qual è il significato del titolo?
13 Individua il genere, o i generi, ai quali possiamo ricondurre l’opera di Marco Polo.
14 Perché possiamo definire il Milione come il libro di un mercante?
15 Metti in evidenza il rapporto che si istituisce fra i vari generi che hai studiato in questo
capitolo e l’affermarsi graduale dei ceti borghesi nelle città di Toscana.

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Duecento e Trecento

Francesco Petrarca
12
n Ritratto di Petrarca, attribuito ad Altichiero.

dica con impegno totale e dalle quali ricava quel pre-


stigio che gli permette di essere conteso dai potenti
e quindi di garantirsi un ampio margine di libertà e di
autonomia. Egli è inoltre uno “sradicato” che ignora
le aspre tensioni della vita comunale e i legami prati-
ci e affettivi con una patria cittadina, e può guardare
i problemi del suo tempo da una prospettiva addirit-
tura cosmopolitica.
Nella sua opera, per la prima volta nella storia
della letteratura italiana, Petrarca ci fornisce una ve-
ra messe di informazioni autobiografiche anche mol-
to minute. Queste però non hanno mai uno scopo so-
lo documentario: egli infatti mira a tracciare di sé un
profilo ideale, come già avevano fatto – in forme di-
verse – Dante e altri scrittori medievali. Fornendoci
molte informazioni dettagliate sulla sua vita quotidia-
na Petrarca vuole trasmettere di sé un’immagine
concreta, il profilo integrale d’un uomo alla ricerca
della saggezza, ma immerso nelle contraddizioni del
vivere terreno; non solo la storia di un’anima già tut-
ta proiettata nell’eterno.
Un dato di particolare rilievo della personalità di
Petrarca è costituito dall’intensità con la quale egli
sentì (specie nella giovinezza) il fascino del mondo e
della letteratura classica (latina), dall’attenzione e
dagli studi che ad essa dedicò, dall’impegno che mi-
se – soprattutto nell’Africa – nel celebrarne figure e
momenti salienti. Per questi e altri motivi (l’ideale
dialogo con gli antichi, il senso dell’esistenza di un’i-
deale res publica litterarum, la concreta fondazione
di una comunità di amici-discepoli avviati allo studio
dell’antichità, le ricerche di manoscritti di opere della
classicità, lo scrupolo filologico con cui esaminava i
n Autografo di Francesco Francesco Petrarca (1304-1374) rappresenta un testi antichi, ecc.) Petrarca si pone come il principale
Petrarca. tipo di intellettuale profondamente diverso da quello precursore o addirittura il fondatore dell’umanesimo.
che aveva caratterizzato l’età precedente, un intellet- Un altro aspetto assai importante della cultura di
tuale – secondo un’ormai vulgata definizione – “mo- Petrarca che egli seppe in gran parte trasmettere
derno”. Prima di lui, l’intellettuale comunale (Dante o agli umanisti delle generazioni successive è poi la
Cino da Pistoia, ad esempio) era legato da vincoli volontà di una nuova e più moderna conciliazione fra
morali e politici a una patria municipale, era impe- la tradizione cristiano-medievale e quella classica,
gnato in qualche settore della vita pratica (era ad nel rispetto dell’autonomia e dell’originalità di que-
esempio funzionario, mercante, notaio, ecc.), ed era st’ultima (e cioè sul fondamento di una lettura “filo-
in sostanza un dilettante della letteratura. Petrarca è logica” di quella tradizione). Ma la modernità di Pe-
invece un professionista delle lettere, alle quali si de- trarca (che non vuol dire “contemporaneità”) la si co-

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12. Francesco Petrarca STORIA

n Una dama offre la corona glie, su un diverso piano, anche nelle caratteristiche Queste tensioni e aspirazioni, non risolte sul pia-
d’alloro al Petrarca (mano- no intellettuale o del vissuto, sono risolte da Petrarca
di irrequietezza, di intima lacerazione, di perenne in-
scritto del XV secolo).
soddisfazione, nel senso di offuscamento dei grandi sul piano formale: il poeta le domina e le distanzia da
n Petrarca e Laura in una ordinamenti provvidenziali, di universale labilità e, sé mediante uno stile nitido, elegante, controllatissi-
miniatura dal Canzoniere del- contemporaneamente, nel sogno di pacificazione, di mo, frutto di una scaltrita perizia retorica e modellato
la Laurenziana.
conciliazione dell’umano e del divino che egli attri- sui principi estetici degli antichi scrittori (armonia,
buisce – diremo così – al personaggio Petrarca che euritmia, equilibrio, naturalezza, dissimulazione degli
domina gli importanti epistolari ma soprattutto il artifici, variazione continua...). Sul piano delle forme
Canzoniere. insomma Petrarca sembra aver raggiunto quella di-
Nel Canzoniere questa condizione trova – sul pia- staccata saggezza che egli ci dice di aver invano
no degli esiti artistici – l’espressione più alta per noi. perseguito nella vita.
L’opera, a un primo livello di lettura, si presenta co-
me la storia di un amore non ricambiato, che induce
nel poeta stati alterni di speranza e disillusione, di
gioia e dolore, di tenerezza e malinconia, di entusia-
smo e disperazione. Leggerlo però solo come una
storia d’amore non corrisposto significa fermarsi al
dato più immediato e superficiale. In realtà conflui-
sce nell’opera la meditazione, svolta nel corso del-
l’intera sua vita, sui grandi problemi morali ed esi-
stenziali che si sono detti: dal senso della precarietà
dell’uomo, all’esigenza di assoluto, all’impossibile
sogno di una conciliazione fra umano e divino.

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Duecento e Trecento

12.1 Un intellettuale cosmopolita, professionista delle lettere


Una vita appartata, al servizio delle lettere La vita di Petrarca è povera di eventi clamorosi ed è in
gran parte dedicata agli studi letterari, condotti in solitudine o con il conforto di po-
chi amici cari: «di giorno e di notte leggo e scrivo alternativamente, così che ogni la-
voro serve al tempo stesso da riposo e da sollievo dell’altro. Non conosco altro diletto,
altro piacere di vivere al di fuori di questi» (Fam. XIX, 16). Spesso attende per anni al-
la stesura delle sue opere, rielaborandole e perfezionandole senza sosta. Petrarca, poi, «è
un toscano che non conosce la sua terra»: si forma in Francia e a lungo vive nelle cor-
ti padane. «Se a impedirlo non ci fossero l’anagrafe e un uso del toscano che, per
quanto artificiale, rimanda pur sempre a una lingua materna, potremmo tranquilla-
mente vedere in lui il primo grande poeta dell’Italia settentrionale» (Santagata).
Un giovane esiliato, fra Arezzo, Bologna e la Provenza Francesco Petrarca nasce ad Arezzo il 20
luglio del 1304 da genitori fiorentini, ser Petracco dell’Incisa ed Eletta Canigiani: il
padre è un notaio fiorentino di parte bianca, esiliato nel 1302, come Dante, dai Neri
vincitori. Dopo un breve soggiorno a Prato, nel 1312 il padre assume un incarico alla
corte pontificia di Avignone, stabilendosi con la famiglia nelle vicinanze, a Carpentras.
Qui Petrarca trascorre la prima giovinezza e riceve la prima istruzione dal maestro
Convenevole da Prato che, secondo le consuetudini, gli insegna i rudimenti di gram-
matica, retorica e dialettica. Qualche anno più tardi, per volontà del padre, intraprende
gli studi di diritto, prima nella vicina Montpellier (dal 1316), poi nel 1320 nella pre-
stigiosa università di Bologna, dove si reca con il fratello Gherardo e l’amico Giacomo
Colonna. Qui risiede e studia sino al 1326, quando gli giunge la notizia della morte
del padre ed egli, poco incline a quel genere di studi, decide di interromperli. A Bolo-
gna – osserva Wilkins, un suo biografo – Petrarca dovette entrare per la prima volta
anche «in contatto con uomini giovani che scrivevano poesia non già nel latino delle
scuole, bensì nella loro lingua viva, l’italiano». Probabilmente in questi anni Petrarca
cominciò a emularli.
L’incontro con Laura, la vocazione letteraria e gli ordini minori Rientrati ad Avignone, Petrar-
ca e Gherardo «condussero per un certo tempo una vita di mondana gaiezza», come
ricorda il poeta stesso. Nel 1327 si colloca il primo incontro con Laura, una donna
sposata di cui egli si innamora, non contraccambiato, e che diventerà la protagonista
del Canzoniere. Petrarca più volte, anche all’amico Giacomo che ne dubitava, affermò
la reale esistenza di Laura, di cui però non conosciamo con sicurezza l’identità. Inoltre
non sappiamo se le circostanze del primo incontro nella chiesa di Santa Chiara siano
reali, perché la datazione ha implicazioni simboliche (è infatti datato il 6 aprile, il gior-
no della Passione di Cristo, ventun anni esatti prima della morte della donna). In que-
sto periodo Petrarca frequenta la corte pontificia e nel 1330 prende gli ordini minori,
per garantirsi una rendita che gli consenta di attendere con libertà agli studi letterari ai
quali ormai ha deciso di dedicarsi esclusivamente; negli anni successivi diventerà tito-
lare in Francia e in Italia di alcuni benefici ecclesiastici che rinsalderanno la sua auto-
nomia economica. Intanto però nel 1330 entra al servizio del cardinale Giovanni Co-
lonna, «come cappellano di famiglia», e conosce anche un monaco agostiniano, Dioni-
gi da San Sepolcro, a cui rimarrà molto legato e che gli fa dono di un piccolo codice
delle Confessioni di sant’Agostino, che Petrarca leggerà e custodirà amorevolmente,
portandolo spesso con sé come accade anche nel 1335 quando compie un’ascesa al
Monte Ventoso [R T 12.3 ]. Al seguito del cardinale compie numerosi viaggi, durante i
quali compie alcune importanti scoperte di antichi manoscritti: a Liegi ad esempio ri-
trova due orazioni di Cicerone. È l’inizio di un’attività di ricerche e scoperte erudite
che caratterizzerà tutta l’età umanistica. Tra il 1337 e il 1340 vive ritirato a Vaucluse
(Valchiusa) presso Avignone, una delle sue dimore più amate per l’isolamento agreste

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12. Francesco Petrarca STORIA

che concilia gli studi: qui conosce il vescovo Philippe de Cabassoles, che diverrà uno
dei suoi amici più cari. Nel 1337 nasce il figlio Giovanni (non è nota l’identità della
madre). A questo decennio avignonese appartengono sicuramente vari componimen-
ti in latino, il primo nucleo del Canzoniere e forse il primo abbozzo dei Trionfi.
L’incoronazione poetica e i soggiorni italiani Le prime opere latine composte da Petrarca gli dan-
no una fama immediata, tanto che nel nel 1341 ottiene la laurea poetica e viene inco-
ronato in Campidoglio, dopo essere stato esaminato a Napoli dal re Roberto d’Angiò.
Negli anni successivi torna ripetutamente a Valchiusa, ma compie anche numerosi
soggiorni in diverse città d’Italia, talora assolvendo incarichi diplomatici. Stringe lega-
mi personali con numerosi personaggi del mondo della chiesa, della politica e della
cultura, con cui intrattiene intensi rapporti epistolari. Nel 1342 ad Avignone conosce
anche Cola di Rienzo, ambasciatore del governo popolare romano da poco insediato-
si, «una delle figure più affascinanti del quattordicesimo secolo... ossessionato dall’idea
di una Roma novella, che riconquistasse l’antica gloria e potenza». Petrarca stringe
amicizia con Cola e insieme certo discorrono a lungo di Roma e dell’antichità classi-
ca, loro comune passione. Nel 1343 gli nasce una figlia, Francesca, che avrà cura di lui
nella vecchiaia. Frattanto progetta la prima sistemazione del Canzoniere e lavora a nu-
merose altre opere latine: fra le più notevoli c’è senza dubbio il Secretum, «che è l’e-
quivalente petrarchesco delle Confessioni di S. Agostino» (Wilkins). Durante un sog-
giorno a Verona scopre alcuni manoscritti contenenti delle raccolte di lettere cicero-
niane (Ad Attico, A Bruto, Al fratello Quinto): è forse il suo ritrovamento più importan-
te, che fra l’altro gli suggerisce l’idea di raccogliere e ordinare le sue epistole Familiari,
impresa alla quale attenderà poi per tutta la vita.
La morte di Laura e l’amicizia con Boccaccio Nel 1348 infuria la peste che gli porta via numero-
si cari amici. In quest’anno cruciale muore anche Laura: l’evento ha delle ripercussio-
ni letterarie, perché è in questo periodo che Petrarca rielabora il progetto di racco-
gliere le sue rime in un canzoniere d’impianto autobiografico, suddiviso in vita e in
morte di Laura. Conosce nuovi personaggi e stringe nuove amicizie e relazioni epi-
stolari: assai significativo per la storia letteraria italiana è il rapporto con Boccaccio,
che conosce durante un soggiorno a Firenze nel 1350: Boccaccio è affascinato dalla
personalità e dalla cultura di Petrarca e si considererà sempre suo devoto discepolo.
Il trasferimento definitivo in Italia: il soggiorno milanese Dopo aver per molti anni alternato ri-
tiri a Valchiusa e soggiorni anche lunghi di là dalle Alpi, Petrarca nel 1353 si trasferisce
definitivamente in Italia, soggiornando fino al 1361 a Milano, presso i Visconti, ma
compiendo anche numerosi viaggi per assolvere incarichi diplomatici in Italia e in
Europa per loro conto. Il soggiorno milanese suscita incomprensioni e proteste so-
prattutto presso gli amici fiorentini (Firenze è diretta rivale dei Visconti), ma Petrarca
godette a Milano di grande autonomia e libertà, da intellettuale super partes prevalen-
temente dedito ai suoi studi, che era poi quanto aveva sempre cercato. «Al Petrarca
piaceva essere trattato con grande rispetto e i Visconti non gli lesinarono gli onori. In
questo periodo fu in grado di allacciare cordiali rapporti personali con l’imperatore e
di pregarlo liberamente e ripetutamente di ritornare a Roma. Inoltre fu in grado di
occuparsi costantemente dei suoi studi e dei suoi scritti. Continuò progressivamente
ad allargare il territorio già vasto della sua erudizione e ciò soprattutto per mezzo del
frequente acquisto di libri» (Wilkins).
Gli ultimi anni, tra Venezia, Padova e Arquà Lasciata poi nel 1361 Milano per sfuggire a una nuo-
va ondata di peste, Petrarca fino alla morte visse in prevalenza nel Veneto, a Padova, a
Venezia e infine ad Arquà, sua ultima appartata dimora (1370-1374). Di questi anni
(1362) è l’idea di lasciare in dono i propri libri alla città di Venezia, per formare una
biblioteca pubblica, che sarebbe stata la prima dell’Europa moderna: una grande intui-
zione che però non ebbe seguito. La sua vita è ora funestata da sempre più numerosi
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Duecento e Trecento

lutti: muoiono molti dei suoi amici più cari, nel 1361 il figlio Giovanni e nel 1368 il
nipotino Francesco. Dal 1361 avvia la composizione di una raccolta di epistole che in-
titola Seniles. A partire dal 1364 affida al giovane segretario Giovanni Malpaghini la
trascrizione di alcune sue opere, tra cui il Canzoniere. Continua a lavorare anche ai
Trionfi e ad altre opere incompiute; negli ultimi anni compone anche l’importante
epistola Posteritati (Ai posteri), in cui delinea un autoritratto ideale e compie un bilan-
cio della propria vita [R Doc 12.1 ]. A Venezia nel 1363 e a Padova nel 1368 riceve la visi-
ta di Boccaccio, che aveva già ospitato nel 1359 per un mese a Milano: discutono fra
l’altro di Dante e della diffusione della lingua greca, che Boccaccio vuol promuovere
affidando al greco Leonzio Pilato il compito di tradurre i poemi omerici (Petrarca ri-
ceve una copia di una traduzione parziale nel 1366). Una delle ultime opere di Petrar-
ca è la traduzione latina della novella di Griselda, che conclude il Decameron (X,10).
Muore tra il 18 e il 19 luglio, alla vigilia dei suoi settant’anni.
Petrarca primo intellettuale moderno: la letteratura come professione Petrarca è stato definito il
primo intellettuale moderno. Questa definizione dipende soprattutto dal suo atteggia-
mento nei confronti della letteratura, del tutto nuovo per il Medioevo. «Rispetto agli
uomini di cultura delle generazioni precedenti (e si pensi come esempio sommo fra
questi allo stesso Dante) egli specializza al più alto grado gli studi di letteratura [...] e la
poesia stessa, facendone la professione esclusiva della propria vita»: ciò «rappresenta un
salto decisivo per la costruzione di una mentalità intellettuale moderna» (Asor Rosa).
Questo professionismo delle lettere si fonda su alcuni dati biografici e su alcune
scelte di vita. In primo luogo egli scelse di abbracciare lo stato ecclesiastico, senza una
reale vocazione, per garantirsi una fonte di reddito, e al contempo rifiutò di assumere
cariche prestigiose ma impegnative, come quella di segretario papale o altre che com-
portassero la cura d’anime o l’obbligo di residenza fissa. In secondo luogo, scelse di vi-
vere al seguito e all’ombra di alti ecclesiastici, come il vescovo Giacomo e poi il cardi-
nale Giovanni Colonna, in grado di apprezzare il suo ingegno e i suoi studi; e più tar-
di, acquisita una vasta fama, fu capace di farsi accogliere come ospite riverito e protet-
to da signori o repubbliche, piuttosto che porsi al loro servizio. In terzo luogo, quando
gli fu possibile, scelse di vivere nell’isolamento della campagna (a Valchiusa, a Selvapia-
na, ad Arquà), lontano dagli impegni della vita pratica, dal tumulto delle città, dagli
onori ed oneri e magari dalla corruzione di curia e corte. Frequenti nella sua opera
sono le dichiarazioni di predilezione per una vita ritirata, nella quiete campestre.
Il rapporto col potere: un uomo al servizio della sola cultura Autonomia e libertà sono le con-
dizioni essenziali per applicarsi con dedizione assoluta allo studio, alle humanae litterae.
Ma poi la fama acquisita in virtù di questa alta professionalità diventa a sua volta lo
strumento grazie al quale egli può garantirsi la riverenza dei potenti e un largo margi-
ne di libertà anche a corte. Quando gli venne obiettata dagli amici fiorentini la scon-
venienza del soggiorno milanese, pur con qualche imbarazzo, Petrarca addusse proprio
tali motivazioni: presso i Visconti godeva di grande autonomia, poteva dedicarsi inte-
ramente e placidamente agli studi, era insomma al servizio della sola cultura. È grazie
al suo prestigio di grande intellettuale che egli può infine rivolgersi in prima persona
a papi e imperatori, ad esempio per esortarli a fare ritorno in Italia.
Una visione cosmopolitica Un altro elemento che oppone Petrarca a molti intellettuali del passato
(come Dante) e del presente (come Boccaccio) è il suo cosmopolitismo. Quando nel
1312 il padre si reca alla corte papale di Avignone, Petrarca si sradica del tutto dal-
l’ambiente e dalla mentalità municipalistica e assume anche per i problemi italiani un
punto di vista europeo. Mantiene con l’Italia un legame affettivo e intellettuale, per
molti aspetti anche politico, ma mai municipalistico: ad esempio nel 1351 rifiuta un
ritorno in patria con molti onori e una cattedra allo studio fiorentino, una sorta di ri-
sarcimento morale che a Dante sarebbe stato gradito. Il suo impegno politico, la sua
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12. Francesco Petrarca STORIA

partecipazione alle vicende italiane, comunque li si voglia giudicare, sono anch’essi


collegati alla sua funzione intellettuale: sia perché grazie alla letteratura si era conqui-
stato un ruolo di intellettuale super partes; sia perché nel prendere posizione egli rive-
lava una visione fortemente impregnata di ideali attinti alla tradizione letteraria (la
centralità di Roma, gli ideali di libertà repubblicana o d’impero universale, le invettive
contro la corruzione del clero, ecc.), che tuttavia nelle circostanze specifiche riusciva-
no a interpretare il presente, coincidevano con gli orientamenti di movimenti e cor-
renti concretamente operanti nel tempo.

12.2 L’autobiografismo di Petrarca


Petrarca vuole comporre di sé un profilo ideale Nella sua opera, per la prima volta nella storia del-
la letteratura italiana, Francesco Petrarca fornisce al lettore una vera messe di informa-
zioni autobiografiche: parla delle sue occupazioni quotidiane pubbliche e private, di
amicizie, letture, spostamenti; si compiace di raccontare come trascorre il suo tempo,
quali vantaggi offre la dimora da lui scelta e talora, persino, quando pianta un albero
nel suo giardino. Questo fatto tuttavia non deve trarci in inganno: i dati non sono mai
puramente documentari: tutti, anche i più minuti, concorrono a tracciare un profilo
ideale di sé, hanno come destinatario ideale la posterità, appartengono al dominio let-
terario. A questo scopo egli traccia anche dei veri e propri profili autobiografici ad uso
dei posteri. Tutto ciò, sul piano strettamente biografico, induce alla cautela (dobbiamo
domandarci quanto sia finzione e quanto verità documentaria), ma dà informazioni
importanti riguardo alle intenzioni di Petrarca e ai suoi orientamenti culturali.
L’amore e gli studi letterari nella lettera Ai posteri Nella tarda lettera Ai posteri (Seniles, XVIII, 1)
ad esempio, dove traccia un sintetico autoritratto, Petrarca liquida l’esperienza dell’a-
more per Laura in poche sobrie parole che risultano difficilmente conciliabili con la
lettera e con lo spirito del Canzoniere. Analogamente in questa stessa lettera trascura
quasi del tutto la sua esperienza letteraria in volgare, cui allude parlando generica-
mente di un’inclinazione alla poesia, di un’attività poi abbandonata per dedicarsi alle
lettere sacre, e ripercorre la propria vita letteraria sulla scorta delle opere latine e in
particolare del poemetto Africa, mentre sappiamo che egli lavorò ininterrottamente fi-
no agli ultimi giorni della sua vita per riordinare e perfezionare il Canzoniere. Il fatto è
che rivolgendosi ai posteri se li immagina come un pubblico di fede cristiana e di cul-
tura classica, e traccia il suo profilo biografico a loro uso e consumo.

Doc 12.1 Ai posteri (Posteritati): un autoritratto ideale


Seniles, XVIII,1 Nell’adolescenza fui tormentato da un amore ardentissimo, ma fu l’unico e fu casto, e
più a lungo ne sarei stato tormentato se una morte acerba ma provvidenziale non avesse
estinto quel fuoco già declinante. Potrei dire, e lo vorrei, d’essere stato senza libidine, ma
se lo dicessi, mentirei. Questo posso dire senza esitazioni: d’avere sempre esecrato dentro
di me questa bassezza, pur essendovi spinto dal fuoco dell’età e del temperamento. Ma
quando fui sui quarant’anni, pur essendo ancora nel pieno delle forze, allontanai da me
non solo quell’atto osceno, ma il suo totale ricordo, a tal punto che posso dire di non aver
più guardato una donna. Cosa questa che pongo tra le mie maggiori felicità e non posso
che ringraziare Iddio che mi liberò, ancora integro e vigoroso, da una servitù tanto bassa
e da me sempre odiata. Ma passo ad altro. La superbia la conobbi in altri, non in me, e per
quanto piccolo, mi sono giudicato ancor più piccolo. L’ira danneggiò assai spesso me stes-
so, mai gli altri. Non ho esitazioni a farmi vanto (so di dire la verità) di un animo sde-
gnosissimo, ma prontissimo a dimenticare le offese e a ricordare invece i benefici. Fui de-
siderosissimo di oneste amicizie e le coltivai con grandissima lealtà. Ma questo è il suppli-
zio di chi invecchia: di dover piangere continuamente la scomparsa dei propri cari. Ebbi

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Duecento e Trecento

la fortuna, sino all’invidia, di godere della dimestichezza dei principi e dei re e dell’amici-
zia delle persone altolocate. Cercai comunque di tenermi lontano da molti di costoro,
che pure amavo assai; tanto fu in me radicato l’amore per la libertà da evitare con ogni
cura chi mi pareva fosse contrario anche al suo nome soltanto. I più grandi sovrani del
mio tempo mi amarono e mi onorarono; il perché non lo so: riguarda loro. Con alcuni
d’essi fui poi in tali rapporti che, in certo modo, furono loro a stare con me; e dalla loro
altezza non ebbi fastidio alcuno, ma ne trassi molti vantaggi. Fui d’intelligenza piuttosto
equilibrata che acuta, adatta ad ogni studio buono e salutare, ma particolarmente disposta
alla filosofia morale e alla poesia. Quest’ultima, con il procedere del tempo, l’ho abban-
donata preferendo le lettere sacre, nelle quali ho avvertito una nascosta dolcezza che per
qualche tempo avevo disprezzato, preso com’ero dalla poesia intesa come puro orna-
mento. Tra le mie molte attività, mi sono singolarmente dedicato alla conoscenza del
mondo antico, perché questo nostro tempo mi è sempre dispiaciuto; e se l’amore per i
miei cari non mi spingesse in altro senso, direi che ho sempre desiderato d’esser nato in
qualsiasi altro tempo, e mi sono comunque sforzato di dimenticare questa età, sempre in-
serendomi spiritualmente in altre.

Un uomo immerso nelle contraddizioni del vivere Il fatto di voler tracciare un’autobiografia
ideale in sé non è nuovo. Dante stesso mette in scena, specialmente nella Vita Nuova e
nella Commedia, un personaggio Dante. E tuttavia nelle sue opere è avaro di dati con-
creti, trasferibili sul piano della biografia: il suo intento è infatti quello di tracciare la
storia di un’anima nel cammino dal peccato a Dio; e quest’anima è al tempo stesso la
sua e quella di ogni uomo. Come vedremo, anche Petrarca elabora un suo complesso
progetto autobiografico che si sviluppa attraverso quasi tutte le sue opere principali, e
vuole trasmetterci la storia di un’esperienza interiore, ma al tempo stesso ci assicura
che questa è essenzialmente, unicamente la sua personale. Il fatto è che Petrarca, for-
nendoci una grande quantità di informazioni dettagliate sulla sua vita quotidiana, vere
o false che siano, mira a trasmettere di sé un’immagine concreta, il profilo integrale
d’un uomo alla ricerca della saggezza, ma immerso nel contingente, nelle contraddi-
zioni del vivere terreno; non solo la storia di un’anima già tutta proiettata nell’eterno.

12.3 Classicità e cristianesimo nell’opera di Petrarca


Conciliare cultura classica e cultura cristiana Gli studiosi di Petrarca hanno sottolineato ora gli
aspetti e gli elementi che connettono la sua opera alla cultura e alla tradizione medie-
vale, ora quelli che da esse la distanziano e che fanno di lui il fondatore dell’umanesi-
mo, il grandioso movimento quattrocentesco di riscoperta e rivalutazione dell’antichità
classica. Questi aspetti sono certamente compresenti nell’opera di Petrarca, che può es-
sere infatti considerata, in estrema sintesi, come la manifestazione di una crisi che segna
la fine del sistema culturale medievale e l’inizio o quanto meno il precorrimento di
un’età nuova. In tale trapasso ciò che caratterizza la figura di Petrarca è il tentativo pie-
namente consapevole di conciliare e sintetizzare due concezioni del mondo, due cul-
ture: quella cristiana, dominante in modo quasi esclusivo nel sistema medievale, e quel-
la classica, che si imporrà nel sistema culturale umanistico-rinascimentale.
L’entusiasmo per la classicità nelle opere giovanili Nell’esperienza intellettuale e letteraria di Pe-
trarca, a proposito di questo tentativo di conciliazione, è possibile rinvenire una ten-
denza evolutiva (ma si ricordi che la cronologia delle opere petrarchesche è questione
assai intricata, perché Petrarca era solito riprendere e correggere a lungo i propri testi).
Nelle opere di concezione più remota – l’Africa, il De viris illustribus, incominciate en-
trambe alla fine degli anni Trenta, e i Rerum memorandarum libri composti nei primi an-
ni Quaranta – è rinvenibile un giovanile entusiasmo per gli scrittori e il mondo clas-
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12. Francesco Petrarca STORIA

sico, che si manifesta nella ricezione e talora nell’imitazione di forme e temi della let-
teratura antica. L’Africa è un poema epico incentrato su Scipione e la seconda guerra
punica, che però mira anche a tratteggiare i principali eventi della storia romana. Il De
viris illustribus [Gli uomini illustri] è un’opera storica a carattere compilativo che ritrae i
principali personaggi dell’antichità. I Rerum memorandarum libri [I fatti memorabili] sono
una raccolta di fatti e aneddoti memorabili, ordinati secondo le virtù di cui sono
esempio. Petrarca prova un’intensa ammirazione per il mondo classico, di cui rimpian-
ge la dignità e il valore etico (la romana virtus), così come la cultura profonda e vasta e
la lingua armoniosa e raffinata, che al tempo suo trova profondamente decaduti. Pe-
trarca – si noti – è fra i primi a nutrire il sentimento della decadenza medievale ri-
spetto al mondo classico, che trasmetterà alle future generazioni di umanisti.
Il recupero dei valori cristiani nelle opere della maturità Nelle opere della maturità, Petrarca re-
cupera modelli, forme, tematiche cristiano-medievali, avendo esteso le sue letture in
questa direzione. La cultura classica ora comincia a fondersi con quella cristiana, al-
l’insegna della scoperta che esiste una sostanziale continuità fra l’etica classica e quella
cristiana. Il Secretum è una confessione in forma di dialogo tra Francesco e sant’Ago-
stino (ma anche sotto il segno dell’etica di Seneca, il grande moralista latino del I se-
colo d.C.), in cui Petrarca compie un’acuta autoanalisi psicologica e morale [R T 12.4 ].
Il De vita solitaria e il De otio religioso (1346-1356 ca.) sono due trattati morali incen-
trati sul concetto di “ozio” come tranquillità dello spirito, tra l’otium litteratum (cioè il
tempo libero dedicato agli studi letterari) degli antichi e l’isolamento ascetico dei cri-
stiani. Il De remediis utriusque fortune [I rimedi della buona e della cattiva sorte, 1354-1360]
è una vasta opera in cui Ragione prospetta a Gaudio e Speranza, prima, e a Dolore e
Timore, poi, i rimedi contro la buona e la cattiva sorte. Il De viris illustribus si amplia ad
accogliere personaggi della storia sacra e medievale. Tutte queste opere rivelano l’assi-
milazione di letture condotte nell’ambito di testi biblici, patristici e delle compilazio-
ni erudite medievali, senza peraltro tradire lo spirito della classicità.
▍ Il Secretum

Il Secretum, o più precisamente Secretum meum (Il mio segreto), con la didascalia De secreto con-
flictu curarum mearum (Il segreto conflitto dei miei affanni), venne probabilmente composto tra il
1347 e il 1353 (un’altra ipotesi ne anticipa la stesura al 1343). È un’opera in prosa latina, com-
posta sul modello delle Confessioni di sant’Agostino (ma ispirandosi anche a vari autori latini,
Seneca, Cicerone e Boezio fra i primi), che Petrarca dice (ma forse solo per finzione) non es-
sere destinata ad essere divulgata e che comunque di fatto venne diffusa postuma.
Agostino compare anche come personaggio interlocutore del poeta. Il dialogo fra i due,
che avviene alla presenza della Verità e che è espediente per esporre i diversi punti di vista e le
diverse aspirazioni del poeta, si scandisce in tre libri. Nel primo libro si giunge alla conclusio-
ne che la malattia morale che affligge il poeta consiste nella debolezza della volontà e nell’in-
capacità di tradurre in atto l’aspirazione al bene. Agostino invita Francesco a concentrare l’at-
tenzione sulla morte, che pone fine a quei beni e a quei valori terreni da cui il poeta non sa
staccarsi. Nel secondo libro viene analizzato l’animo di Francesco, sulla scorta della tradizio-
nale rassegna dei peccati capitali. Di alcuni di questi egli stesso si riconosce colpevole, ma
Agostino gli dimostra come in realtà egli si sia reso colpevole di tutti, ad esclusione dell’invi-
dia. Oggetto dell’indagine sono in particolare l’attaccamento a valori terreni quali la fama, il
culto della bellezza e così via. Poi l’analisi cade sull’accidia, stato di continua insoddisfazione e
inquietudine che costituisce la radice di tutti i mali dell’uomo Petrarca. Nel terzo libro, infine,
vengono prese in considerazione, e giudicate fonte di peccato da Agostino le due supreme
passioni di Francesco: l’amore per Laura e il desiderio di gloria [R T 12.4 ]. Sono posti a con-
fronto due punti di vista: queste due passioni sono un momento di innalzamento a Dio, se-
condo Francesco, e viceversa un mezzo per distogliere dal supremo amore, secondo Agostino.
Nelle ultime pagine Francesco, pur dichiarandosi convinto delle ragioni di Agostino, si dice
incapace di rinunciare a quelli che sono i due principali “miti” della sua esistenza.

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Duecento e Trecento

L’umanesimo cristiano di Petrarca In quasi tutte le opere sono quindi compresenti – sia pure in
gradi diversi – motivi e modelli classico-pagani e cristiano-medievali. Anche nelle
opere giovanili, sostanzialmente modellate sui classici, è rinvenibile, a tratti, un senso
cristiano della vita e del tempo, un pessimismo di origine ascetica. Mentre nelle ope-
re moralistiche, ispirate ai modelli cristiani, è presente «la coscienza di una missione
culturale umanistica» (Sapegno). Ad esempio a Magone morente, nell’Africa, Petrarca
attribuisce affermazioni che riecheggiano argomenti dell’ascetismo cristiano, tanto
che il fatto gli fu rimproverato come incongruenza storica; sant’Agostino nel Secretum
consiglia a Francesco la lettura dei classici – Seneca e Cicerone – come mezzo di
chiarificazione interiore non contrastante con le verità cristiane.
In Petrarca insomma le due culture sono l’oggetto di un tentativo di sintesi: supera-
te certe intransigenze giovanili, con sempre maggiore consapevolezza egli si sente ere-
de di entrambe le tradizioni, a un punto e in un momento di nuova confluenza di es-
se. Il modello che Petrarca offrirà alle generazioni successive, che tanto lo ammireran-
no e imiteranno, è quello di un umanesimo cristiano, una rivalutazione del pensiero
antico, cioè, nutrita però anche di cultura cristiana.
Abbandono di una concezione provvidenziale della storia L’elemento innovativo della concilia-
zione, rispetto ai tentativi compiuti nei decenni o nei secoli precedenti, sta però nel-
l’abbandono di una concezione provvidenziale della storia. In base ad essa in passato si
era considerato il mondo classico come destinato a preparare l’avvento della cultura
cristiana e a confluire e annullarsi in essa. E si erano lette molte opere antiche alla lu-
ce e in favore delle verità cristiane, sino a giungere alla manifesta, strumentale mani-
polazione del loro autentico significato (col metodo allegorico, per intenderci). Ora
viceversa, in Petrarca, classicità e cristianesimo si incontrano con pari dignità e diritti e
rivelano elementi comuni specie nella sfera morale – quella che a lui interessa di più –
in quanto espressioni dell’umano, elevato a valore assoluto. Di entrambi Petrarca, addi-
tati i pregi, non cela i limiti, rifiutando ad esempio i culti dell’antichità ma anche qua-
si tutta la filosofia scolastica cristiana, che era poi quanto di più sistematico la cultura
del suo tempo gli porgesse. E scopre relazioni nascoste: ad esempio la lettura di sant’A-
gostino gli fa comprendere le affinità che esistono tra il pensiero platonico e il cristia-
nesimo.
Questa sostanziale novità di atteggiamento nel tentativo di conciliare medioevo cri-
stiano e classicità pagana si fonda insomma su quella che sarà una delle eredità più
concrete che Petrarca lascerà agli intellettuali umanisti: la lettura, la conoscenza, l’ap-
prezzamento del mondo antico per quello che esso storicamente fu, che è tutt’uno
con la nascita della moderna filologia, che si fonda appunto sul presupposto che ogni
testo e ogni cultura vanno indagati e riproposti nella loro autenticità testuale e stori-
co-culturale, senza forzarne il senso per alcuna ragione.

12.4 Res publica litterarum. Filologia e studi umanistici


Un cenacolo di amici-discepoli dediti agli studi umanistici Uno dei meriti storici che ebbe Pe-
trarca nell’amministrare la fama che gli procuravano i suoi scritti fu certo quello di
crearsi un gruppo di amici, discepoli e corrispondenti che, uniti dall’amicizia e dal-
l’ammirazione per il “maestro”, costituirono uno dei primi cenacoli pre-umanistici.
Questo cenacolo fu il nucleo di quella res publica litterarum [repubblica delle lettere]
che era fra gli ideali di Petrarca e che divenne una realtà di lì a pochi decenni. Con ta-
le espressione si intende una comunità di dotti, eruditi e almeno nelle intenzioni sa-
pienti, legata oltre che da concreti specifici interessi (la ricerca di codici dispersi, la lo-
ro circolazione, la trasmissione di notizie erudite, la discussione di questioni contro-
verse...) anche da un comune atteggiamento, a tratti un vero culto, nei confronti del
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12. Francesco Petrarca STORIA

passato (amore per l’antichità, desiderio di riscoprirne la cultura nei suoi connotati au-
tentici, scrupolo filologico, visione delle humanae litterae come educazione integrale
dell’uomo...).
L’epistolario petrarchesco e la comunità umanistica L’ampio e notevole epistolario petrarchesco
– il capolavoro forse della sua prosa latina – testimonia, fra l’altro, questo magistero e il
costituirsi attorno a Petrarca di questo primo nucleo di comunità umanistica. Esso si
suddivide in una raccolta di Familiares (oltre 350 lettere divise in 24 libri, del periodo
1325-1366), in una di Seniles (125 lettere divise in 17 libri, del periodo 1361-1375), in
un gruppo di lettere Sine nomine (senza il nome del destinatario, tutte di argomento
politico-religioso, del periodo 1342-1358), di alcune Varie, nonché di 66 Epistole me-
triche in esametri. Il criterio di raccolta è essenzialmente ispirato a ragioni letterarie:
l’idea di comporre una raccolta di Familiares gli venne dopo la sua più fortunata sco-
perta di bibliofilo, quella dell’epistolario ciceroniano Ad Attico che nel Medioevo era
andato smarrito. Tale fu l’entusiasmo che Petrarca pensò di emulare Cicerone. A que-
sto scopo ideò un piano complessivo, corresse con minuzioso scrupolo le lettere già
scritte, adeguò le successive, sfrondando i testi di tutto ciò che gli apparisse banale o
non adeguato, fondendo lettere diverse, riscrivendone alcune: insomma fece del suo
epistolario un’opera dichiaratamente letteraria. A questa raccolta meditò di affiancarne
una seconda, quella delle Seniles, che però non portò a compimento (venne divulgata
postuma). Tra l’una e l’altra raccolta, che teoricamente avrebbero dovuto rispecchiare
momenti successivi, vi furono scambi: alcune lettere coeve alle Seniles confluirono ad
esempio nelle Familiares per l’argomento trattato.
L’avvio agli studia humanitatis: la perizia filologica In una Senile (XVII 2) Petrarca si riconosce
esplicitamente il merito di aver avviato gli studia humanitatis, gli studi della cultura an-
tica. «Una lode non ricuso: che per impulso da me ricevuto, molti sono oggi in Italia,
e molti per avventura anche fuori, coloro che presero a coltivare questi studi negletti
per tanti secoli; e infatti io sono forse il più vecchio tra quanti in essi si affaticano ora».
Ugo Dotti ricorda che il tratto caratteristico e innovativo di tali studi fu la perizia fi-
lologica, lo scrupolo cioè con cui si cerca di ricostruire il testo e il pensiero originale
degli autori, e conferma la “lode” di Petrarca: «Se è ben vero che tali “scoperte” co-
minciarono ancor prima del Petrarca, è però col Petrarca e con i circoli di letterati con
i quali tenne corrispondenza in patria e oltralpe, che il ritrovamento dei manoscritti, la
loro lettura e interpretazione, il discorso intessuto intorno ad essi divengono un fatto
collegiale, si tramutano in diffusione non solo di testi ma di idee». La nascita dell’uma-
nesimo, nei suoi aspetti tecnici e socio-culturali non può dunque prescindere dal ma-
gistero petrarchesco.
Il colloquio ideale con gli antichi Ma Petrarca bibliofilo accanito, postillatore erudito, esperto filolo-
go, fortunato scopritore di opere smarrite, cultore della classicità, ebbe vivissimo il
senso dell’ideale comunità e contemporaneità con gli spiriti grandi di tutti i tempi
(così come fu accanito spregiatore del “volgo”, della gente persa nelle attività pratiche
e nelle “arti meccaniche”). Si pensi ad Agostino suo interlocutore nel Secretum, ma so-
prattutto ai grandi dell’antichità classica destinatari, ovviamente fittizi, di un intero li-
bro delle Familiares, quello che doveva chiudere la raccolta. Scrivere a Cicerone o a
Seneca, celebrandone l’opera o magari deplorandone con benevolenza mancanze e
contraddizioni, era per lui un modo di mostrare quanto a loro dovesse, quanto li sen-
tisse, appunto, idealmente suoi contemporanei. Questo mito del colloquio ideale con
gli antichi diventerà un topos della letteratura dei due secoli seguenti. D’altro canto egli
si rivolge ad alcuni degli amici più cari elevandoli, altrettanto idealmente, al livello de-
gli antichi con l’attribuire loro soprannomi – Lelio, Socrate, Simonide – che del culto
per l’antichità, dell’aspirazione a una societas di dotti erano il segno più manifesto.

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Duecento e Trecento

12.5 Le scelte linguistiche, la poetica e l’estetica


Il latino, lingua esclusiva della formazione culturale Petrarca scrive sempre in latino quando deve
comunicare in forma pubblica e privata, ma anche quando annota i margini dei libri.
La scelta del latino come lingua esclusiva della prosa e della normale comunicazione
scritta si carica di valori ideali: «Attraverso il primo umanesimo, e in particolare attra-
verso il Petrarca, il latino perse il carattere di lingua tecnica e scolastica e cercò di riac-
quistare il carattere molto più universalmente umano che le lingue letterarie classiche
avevano avuto nel periodo di fioritura; esso volle essere nuovamente lo strumento del-
l’autoformazione umana» (Auerbach).
Il dominio della forma come corrispettivo del dominio delle passioni Egli cerca poi di model-
lare il proprio latino su quello dei classici distanziandosi dal rozzo latino medievale, e
anche in questo inizia una tendenza che sarà poi dell’umanesimo. La cura formale, la
ricerca di un’espressione equilibrata e armoniosa sono un modo di attestare il rag-
giungimento di un equilibrio e di un’armonia interiori che furono sempre una delle
sue grandi aspirazioni. In questo egli mostra di ispirarsi direttamente all’estetica classi-
ca, che concepiva l’armonia formale non come il semplice frutto della perizia tecnica,
ma come il segno di un dominio delle passioni, che era in definitiva prerogativa del
saggio. Ciò accade perché Petrarca, come gli antichi, riteneva che la lingua fosse diret-
ta espressione dell’individuo, della sua virtus e della sua formazione culturale. La ricer-
ca della perfezione formale era sentita insomma come tutt’uno con la ricerca della
perfezione intellettuale e morale. È per questo che Petrarca non ritiene quasi mai
un’opera definitivamente conclusa, la corregge e rielabora di continuo (talora per tut-
ta la vita). In ciò «la sua posizione è opposta a quella di Dante, al suo procedere ‘speri-
mentale’, che faceva di ogni opera scritta una prova diversa, lo specchio di un’espe-
rienza umana e intellettuale sempre pronta a cercare nuove strade, ad andare oltre. Il
procedimento essenziale del Petrarca è quello invece della riscrittura: egli parte da alcu-
ni testi, temi e progetti, e ritorna su di essi infinite volte, con arricchimenti, nuove ste-
sure, aggiunte e richiami», che appunto testimoniano la sua ansia di perfezione assolu-
ta (Ferroni). Al plurilinguismo e al pluristilismo di Dante – come ha scritto Contini –
Petrarca contrappone un tendenziale, ma sostanziale monolinguismo e monostilismo.
Il canone dell’imitazione e la mellificatio In alcuni celebri passi del suo epistolario Petrarca dichiara
esplicitamente che il raggiungimento della perfezione letteraria, specie in un’epoca di
decadenza come la sua, passa necessariamente attraverso una paziente opera di lettura,
imitazione e assimilazione dei modelli classici. Non un’imitazione passiva e meccani-
ca, ma un’imitazione-emulazione, esercizio propedeutico finché lo scrittore non abbia
raggiunto un’autonomia culturale e letteraria tale da consentirgli di essere interamen-
te se stesso. Petrarca propugna la necessità di imitare non uno solo, ma molti scrittori,
prendendo da ciascuno il meglio di quanto offre e ricomponendo gli sparsi elementi
in una sintesi personale e originale. Come l’ape coglie il nettare di fiore in fiore per
produrre il miele, così deve fare lo scrittore nei confronti dei suoi modelli letterari. È
questo il procedimento della cosiddetta mellificatio (mellificazione), che diventerà nel
corso dei secoli successivi una prassi abituale e darà luogo a infuocati dibattiti.
Anche in questo caso Petrarca si presenta come un antesignano. Parlando di un
giovane copista che lavorava per lui e che si dedicava alla poesia, provando ammira-
zione soprattutto per Virgilio, del quale non esitava a riprendere dei versi nei propri
componimenti, in una delle Familiari Petrarca trova occasione per esprimere il proprio
punto di vista sull’imitazione.
Funzione estetica del volgare Dalle opere latine Petrarca forse si attese più gloria che da quelle vol-
gari (il Canzoniere e i Trionfi: solo poesia, per di più legittimata dalla recente tradizio-
ne). Non è però vero che avesse in poca considerazione questa sua esperienza lettera-

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12. Francesco Petrarca STORIA

Doc 12.2 Il canone dell’imitazione

Familiares, XXIII, 19 Ammira soprattutto Virgilio, e giustamente, perché se molti dei nostri poeti sono degni
di lode, questo solo è degno di ammirazione. Innamorato e affascinato dalla sua poesia, in-
serisce spesso nei propri versi passi dei versi di lui; e io che lo vedo con gioia crescermi a
fianco e vorrei che divenisse quale io stesso vorrei essere, lo ammonisco con paterna be-
nevolenza a badar bene a ciò che fa: colui che imita, gli dico, deve fare in modo che ciò
che scrive sia simile ma non uguale, e che la somiglianza non sia quella che è tra l’origina-
le e la copia, che quanto più è simile tanto è più lodevole, ma quella che deve esserci tra
padre e figlio.Tra i quali, sebbene ci sia molta differenza d’aspetto, c’è pure come un’ombra
di somiglianza che i pittori chiaman “aria”, che si scorge particolarmente nel volto e negli
occhi, e che fa sì che, veduto il figlio, si ricordi il padre, anche se poi, se si scendesse ad un
esame particolare tutto apparirebbe diverso; ma intanto vi è un non so che di misterioso
che produce l’effetto di cui ho parlato. Così anche noi dobbiamo fare in modo che, se pur
qualcosa c’è di simile, il più sia dissimile, e che anche quel poco di simile che c’è, sia tal-
mente nascosto che non si possa scoprirlo se non con una ricerca silenziosa della mente, sì
che la somiglianza sia piuttosto intuita che definita espressamente. Dobbiamo insomma
servirci dell’ingegno e del colore altrui, ma non delle parole; quell’imitazione la puoi na-
scondere, ma questa appare con chiarezza, e se la prima fa i poeti, la seconda fa le scimmie.
Bisogna in conclusione seguire il consiglio di Seneca, dato già prima da Orazio: scrivere
come le api fanno il miele, non mantenendo i fiori ma convertendoli in favi, così che da
molti e diversi elementi nasca una cosa nuova, diversa e migliore.

ria: le affermazioni circa la pochezza di queste prove sono solo atti di modestia.Vero è
invece che nel volgare cercò di trasferire quell’ideale di decoro formale e di compo-
stezza che secondo lui solo il latino classico aveva realizzato: e scelse una lingua eletta,
omogenea per lessico, per tono e stile, una lingua pura e assoluta, scevra cioè da ogni
crudezza realistica, lontana dall’uso quotidiano e municipale. Scrisse insomma in quel-
lo che Contini ha definito un «fiorentino trascendentale».
Petrarca e le principali idee estetiche medievali Petrarca in sostanza teorizza un’idea nuova, mo-
derna di poesia e di arte, ma – come sempre – lo fa in modo complesso e sottile. Il
terzo libro del Secretum può anche essere letto come una dichiarazione di poetica e
una riflessione estetica. Petrarca mostra infatti, almeno implicitamente, di rigettare le
principali idee estetiche medievali: sia la concezione dell’arte come una sorta di scala a
Dio (secondo cui la contemplazione delle cose belle presenti in natura costituirebbe
un tramite per la contemplazione della bellezza divina), sia la concezione moralistico-
pedagogica dell’arte (secondo cui l’arte, che di per sé è un’attività irrazionale e colpe-
vole, è tuttavia riconducibile a un fine razionale e morale, purché presenti contenuti
edificanti).
Quando nel Secretum Agostino lo rimprovera di aver consumato gran parte della
propria vita amando e celebrando una donna mortale, Francesco replica con foga: di-
pinge Laura come una donna integerrima e depositaria, in ragione della propria bel-
lezza, di una scintilla della bellezza divina, e dichiara che Laura fu per lui un tramite
per amare Dio. Così facendo Petrarca fa riferimento alla concezione stilnovistica del-
l’amore e più in generale alla nozione d’arte che reputava la bellezza sensibile come
una scintilla della bellezza divina e giustificava l’arte proprio in ragione di questo fat-
to. Ma Agostino sottopone a una critica serrata la tesi di Francesco, che alla fine non
può non accettare le superiori ragioni dell’interlocutore. In questo modo Petrarca
vuol dirci che la nozione dell’arte come scala a Dio non è per lui più proponibile.
Più avanti Petrarca rifiuta, almeno per sé, anche la tesi secondo cui l’arte deve avere
fini etico-pedagogici. Per lui – deve ammettere di fronte ad altre serrate argomenta-

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Duecento e Trecento

zioni di Agostino – la poesia e l’arte, proprio come l’amore, sono state attività e pas-
sioni profane, da cui si attendeva una gloria terrena e che dunque lo hanno anch’esse
allontanato da Dio. L’unica soluzione sarebbe quella di abbandonarle per sempre e de-
dicarsi agli studi religiosi, ma – nonostante la consapevolezza maturata – Francesco di-
chiara che non è ancora pronto per farlo. Non esiste insomma una reale possibilità di
conciliazione tra la poesia come la intende lui e l’etica cristiana.
Petrarca sembra così liquidare qui le due principali idee estetiche del Medioevo per
abbracciare – in modo paradossale e solo apparente – la terza, quella rigoristica plato-
nica: l’arte è inconciliabile con l’etica, il bello lo è con il bene, e pertanto sono da rifiu-
tare. Ma, è chiaro, questo approdo rappresenta solo una metà della coscienza dimidiata
del Petrarca (quella rispecchiata da Agostino nel Secretum); l’altra metà (quella rispec-
chiata da Francesco) punta verso una nozione nuova di poesia e di arte, che, umanisti-
camente, si fonda sulla nozione di arte elaborata dagli antichi.
È questa l’idea di un’arte che vale a conquistare al suo autore una gloria profana,
una relativa immortalità laica (Orazio aveva scritto: «Exegi monumentum aere peren-
nius», “ho costruito un monumento più duraturo del bronzo”). E si affianca all’idea di
un’arte capace di indagare la realtà e di consolare dagli affanni del vivere: «io non so
veramente come poter esprimere il conforto che nella solitudine mi danno alcune
note e familiari parole che non solo mi nutro nel cuore ma pronuncio a voce viva»
[R T 12.2 ]. La stessa idea che nei medesimi anni faceva propria il suo più grande segua-
ce, Giovanni Boccaccio, che apre il Decameron scrivendo: «Umana cosa è aver compas-
sione degli afflitti»; e prosegue proponendosi esplicitamente di arrecare ai lettori «al-
cuno alleggiamento», cioè sollievo, con le sue novelle.

12.6 Il Canzoniere
Il Canzoniere e la scoperta della «coscienza moderna» L’opera di Petrarca segna la scoperta della
coscienza moderna: «la coscienza della “crisi”, della lacerazione interiore, dell’offusca-
mento, se non proprio della rottura dei grandi ordinamenti provvidenziali» (Dotti).
Ciò è evidente già nell’epistolario, o nel Secretum: qui, ad esempio, Petrarca analizza il
proprio perenne senso di insoddisfazione, la «varietas mortifera», cioè il suo continuo
oscillare, mortifero per la sua anima, tra sentimenti e desideri opposti; qui dichiara di
non saper rinunciare al desiderio tutto terreno di amore e gloria, pur ammettendo che
questo lo allontana da Dio. Ma è nel Canzoniere che tale scoperta si manifesta in tutta
evidenza e trova la sua più alta realizzazione artistica.
Il Canzoniere è opera di tutta una vita, sia perché raccoglie componimenti scritti in
oltre quarant’anni, sia soprattutto perché a dar forma e struttura a questa raccolta Pe-
trarca lavorò almeno dal 1336-37 fino alla morte. Essa è – si noti – la prima raccolta
della letteratura europea strutturata e diffusa per volontà dell’autore in forma di can-
zoniere, e più precisamente di canzoniere individuale con ambizione di romanzo liri-
co, cioè di un insieme organico di liriche che – senza l’ausilio di una narrazione in
prosa, come quello adottato da Dante nella Vita Nuova – si configura come il raccon-
to, nei suoi tratti essenziali, della storia intima del suo autore, dal «giovenile errore»
dell’amore tutto terreno per Laura al finale pentimento e riscatto.
Trasfigurazione ideale e fantastica dell’amore per Laura L’opera, a un primo livello di lettura, si
presenta come la storia di un amore non ricambiato, che induce nel poeta stati alterni
di speranza e disillusione, di gioia e dolore, di tenerezza e malinconia, di entusiasmo e
disperazione. Ma è bene chiarire che non si tratta di una storia intessuta di fatti e di
eventi concreti. Pochissimi sono i dati che il Canzoniere offre in questa direzione, e
quasi sempre in forma di ricordo, di contemplazione fantastica: qualche incontro,
qualche frase, qualche preciso gesto, la morte dell’amata... Tantomeno si può parlare di
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12. Francesco Petrarca STORIA

una storia realistica. Se l’amore per Laura, come il poeta stesso sostenne (e possiamo
anche credergli), fu un amore reale, esso nel Canzoniere viene però ampiamente trasfi-
gurato: materia reale tratta dall’esperienza e materia fantastica o ideale si fondono
nella costruzione letteraria, tanto da non poter più essere distinte. Laura stessa (nulla di
lei si sa sul piano biografico, ma anche se qualcosa si sapesse poco influirebbe sulla
realtà del Canzoniere), come Beatrice, più che come persona reale deve essere conside-
rata dunque come personaggio essenzialmente letterario. Ed è in questo ambito che
importa definirne la caratterizzazione. Laura nel Canzoniere è rappresentata in termini
vaghi (poco più che un fantasma mentale), con linguaggio eletto e allusivo mai con-
cretamente realistico: pochi tratti della sua persona emergono dalle centinaia di testi
che la riguardano: i capelli biondi, la carnagione bianca del volto e delle mani, gli oc-
chi splendenti; il decoro del suo portamento, la nobile eleganza delle sue vesti, un
guanto, un ventaglio e poco altro. L’aggettivazione è sempre vaga e delicata, moral-
mente allusiva più che veramente descrittiva (nobile, onesta, candida, bella…).
La vaghezza e la soggettività della rappresentazione di Laura d’altronde investono al-
tri aspetti dell’opera, ad esempio la rappresentazione della natura e degli ambienti in
cui si colloca la vicenda. Il paesaggio nel quale Laura compare, così come quello in cui
si muove il poeta, è rappresentato in termini spesso stereotipi (per lo più idillico, se-
condo il modello classico del locus amoenus, è lo sfondo in cui appare Laura; talora idil-
lico e talora desertico, aspro e selvaggio, quello in cui il poeta va peregrinando in pre-
da alle passioni) e spesso è connotato in termini emotivi o simbolici: è insomma un
paesaggio dell’anima più che un ambiente reale quello che domina il Canzoniere e fa
da sfondo al conflitto di sentimenti di cui è vittima il protagonista.
Laura-Dafne: l’amore e la poesia La figura di Laura, il suo stesso nome e i modi con cui viene desi-
gnata si collocano all’interno di una trama simbolica. Nel Canzoniere, per designare o
evocare Laura, Petrarca fa sovente ricorso all’espediente già provenzale del senhal:
«l’aura», «l’auro», «l’aureo» (ad es. «l’aureo crine»), «il lauro» sono i termini con cui più
frequentemente si allude al personaggio. Il più importante di questi e il più denso di
significati è quello che accosta il nome dell’amata alla pianta d’alloro (lauro). Con ciò
Petrarca riprende e sviluppa un mito classico, quello di Apollo e Dafne, narrato da
Ovidio nelle Metamorfosi: Apollo innamorato di Dafne la insegue e la insidia, ma costei
per sottrarsi all’amore del dio ottiene dal padre (il fiume Peneo) di essere trasformata
in un lauro, che da allora sarà la pianta sacra ad Apollo ed emblema della gloria poeti-
ca (Apollo, nume solare, era il dio della bellezza, della musica e della poesia). «Laura,
l’amata da Petrarca, può allora identificarsi per via etimologica con il lauro e, attraver-
so il racconto, con Dafne fuggente. Al centro dell’immaginario petrarchesco vi è dun-
que un mito di frustrazione» (Santagata). Petrarca adattando il mito di Apollo e Dafne
alla sua storia ottiene però non solo il risultato di caratterizzare simbolicamente Laura-
Dafne come colei che si sottrae all’amore ma anche quello di legare il tema dell’amo-
re profano all’altra grande passione della sua vita (cfr. il Secretum), la poesia e il deside-
rio di gloria. Se infatti Laura è Dafne che si tramuta in lauro, l’amore per la donna e la
venerazione della pianta si mescolano e confondono: l’amore per Laura, che si tradu-
ce in canto, allude insomma all’amore per la poesia stessa.
Laura o dell’amor terreno Laura ci appare un personaggio tutto terreno perché è oggetto di un amo-
re terreno, sia pur sublime, e perché, come tutto nel Canzoniere, è calata nel concreto
fluire del tempo. La bellezza di Laura, ad esempio, sfiorisce (XC); il poeta può imma-
ginarla accanto a sé in vecchiaia (XII e CCCXVII); la morte che gliela sottrae è un
evento naturale; e se essa viene assunta in cielo questo non è che il destino di qualun-
que anima buona, non invece – come per Beatrice – il ritorno alla propria sede natu-
rale donde era giunta per disegno provvidenziale, angelo calato di cielo in terra a mi-
racol mostrare. La presenza di qualificazioni di Laura in termini angelici non deve in-
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Duecento e Trecento

▍ Il Canzoniere

Le redazioni Il titolo stabilito da Petrarca per la raccolta delle proprie rime, nota come Canzoniere, è in
realtà Rerum vulgarium fragmenta [Frammenti di cose volgari], che in apparenza convalida l’opi-
nione diffusa da Petrarca stesso che egli si dedicasse alla composizione di liriche volgari con
limitato impegno. Il titolo (in particolare fragmenta) dissimula invece un impegno assiduo e
un intento di dare organicità strutturale e dignità stilistica alla propria produzione italiana.
Lo testimoniano, fra l’altro, le numerose (otto o nove) forme o redazioni, via via più ricche
di testi e rinnovate anche per ordinamento, che gli studiosi (soprattutto Wilkins e Santagata)
hanno potuto ricostruire del Canzoniere. La redazione ultima, che dobbiamo considerare de-
finitiva, è conservata in un codice in parte autografo, il Vaticano latino 3195, e consta di 317
sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate, 4 madrigali. L’ordinamento delle liriche nella raccol-
ta non è cronologico, anche se simula la forma del diario sentimentale: molti componimen-
ti della prima parte sono stati scritti sicuramente dopo molti componimenti inclusi nella se-
conda parte. Accanto al Vaticano latino 3195 è conservato anche un codice autografo, che
contiene redazioni precedenti e abbozzi (si tratta del cod. Vaticano latino 3196). I testi che
Petrarca non volle includere nella sua raccolta vennero riuniti e pubblicati postumi col tito-
lo di Rime extravaganti o Rime disperse.
Il 1348, un anno cruciale Le prime sillogi sono delle semplici raccolte su base tematica senza un complessivo
schema narrativo, non molto diverse cioè dalle tante altre raccolte duecentesche e trecente-
sche. L’idea di dare una forma romanzesca coerentemente aggregata sul tema del giovenile
errore e del lento avvicinamento a Dio nasce attorno al 1348, con la morte di Laura: Petrar-
ca intuisce che questo evento poteva dare una svolta alla sua raccolta e che, assimilando la fi-
gura di Laura a quella di Beatrice, egli poteva gareggiare con il Dante della Vita Nuova sul
terreno dell’autobiografia in versi. Ma è ancora più tardi, probabilmente solo negli anni Ses-
santa, che egli dà all’opera una fisionomia che si avvicina a quella definitiva.
Rime in vita e in morte di Laura Il Canzoniere, nella sua forma definitiva, è diviso in rime in vita (263) e rime
in morte (103) di Laura; ma, nel giudizio della critica, che tuttora dibatte sul senso da attri-
buire alla struttura e all’ordinamento dell’opera, a questa distinzione piuttosto estrinseca si è
affiancata e talora sostituita una distinzione fondata su due diversi atteggiamenti nei con-
fronti della vita e della propria vicenda esistenziale che Petrarca dimostra nella prima e nel-
la seconda parte della raccolta. Il primo testo in cui si lamenta la morte di Laura, ad esempio,
è il sonetto CCLXVII, mentre lo spartiacque tra la prima e seconda sezione è la canzone
CCLXIV I’ vo pensando, et nel penser m’assale, che dà l’avvio al processo penitenziale che, pur
con molte oscillazioni, caratterizza la seconda sezione dell’opera. Questa collocazione pro-
babilmente dipende dall’intenzione di far apparire la conversione «come un processo inte-
riore giunto a maturazione già prima della morte di Laura» (Santagata). La morte dell’ama-
ta, comunque, costituisce un momento fondamentale (strutturalmente necessario) della sto-
ria di tormentato abbandono delle lusinghe mondane e di avvicinamento a Dio che l’opera
nel suo complesso descrive.

gannare: esse assumono perlopiù solo un valore metaforico e spesso sono nello stesso
contesto sottoposte all’erosione del dubbio (si veda l’analisi di Erano i capei d’oro
[R T 12.9 ]). In questo, il superamento dell’esperienza stilnovistica e segnatamente di
quella dantesca, pur variamente riecheggiate nel Canzoniere, è netto.
Laura, i modelli letterari e i conflitti ideologici Certo Laura è una donna che racchiude in sé ogni
bellezza e ogni virtù, prima di tutte la fedeltà, la pudicizia e la castità che le impedi-
scono di corrispondere all’amore del protagonista. La natura bella e virtuosa di Laura è
dunque, nella dinamica dell’opera (che rispecchia anche varie fasi di elaborazione), ora
fronte di cruccio per l’amante rifiutato, ora invece fonte di rasserenamento e di spe-
ranza per l’uomo che è alla ricerca di un equilibrio emotivo e di un perfezionamento
morale. Laura può dunque assumere ora la funzione della donna ‘crudele’ dei modelli
cortesi, ora quella della donna serenatrice e salvifica di quelli stilnovistici. Ma in ogni
caso la virtù di Laura rimane nei termini di una perfezione terrena. La diversa funzio-
ne via via assunta da Laura come fonte di turbamento e di peccato o fonte di perfe-
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12. Francesco Petrarca STORIA

zionamento e di salvezza indica l’influsso di diversi modelli letterari e un’oscillazione


ideologica di Petrarca stesso, che del resto rispecchia le due anime che si confrontano
nel Secretum. Il Canzoniere dunque ingloba, per così dire, questa contraddizione di
Francesco, ora inclinando verso l’amore che distoglie da Dio, ora verso l’amore che
conduce a Dio, ma alla fine – con il conclusivo pentimento e abbandono in Dio –
mostra di far proprie, almeno in extremis, le conclusioni del Secretum e della tarda lette-
ra Ai posteri nella quale la morte di Laura è definita come «acerba ma provvidenziale»,
perché gli ha sottratto la principale ragione di peccato. Ma nella struttura del Canzo-
niere rimane fino in fondo anche l’incertezza emotiva del Secretum: il ripudio dell’a-
more terreno, il definitivo volgersi a Dio, che si realizza solo negli ultimi testi del Can-
zoniere e che a lungo si è presentato come uno stato di dubbio e di crisi, di proponi-
menti di conversione e di rimpianti, avviene dieci anni dopo la morte dell’amata (una
lunga fedeltà dunque ai propri fantasmi terreni) e in definitiva per stanchezza («Omai
son stanco, et mia vita reprendo / di tanto error», CCCCLIV), e non senza un ultimo
flebile moto di rimpianto.
Autoanalisi: il vero protagonista è Petrarca In definitiva è l’io del protagonista, ben più di Laura, il
vero protagonista del Canzoniere. «Non Laura, sì il poeta stesso campeggia nel quadro
come protagonista, non le vicende esteriori dell’amore, sì le ripercussioni di quelle
nella vita intima del Petrarca costituiscono la materia affettiva del canto» (Sapegno).
Uno dei tratti salienti del Canzoniere, nella prospettiva della storia letteraria, è infatti la
costante attitudine di Petrarca ad autoanalizzarsi, che d’altronde ben si adatta alla com-
plessiva trama autobiografica che egli intese dare alla propria opera. Egli qui trasforma
una vicenda d’amore – più taciuta che narrata – nella storia dei propri fantasmi men-
tali, dei propri moti interiori, dei riflessi che fatti, ricordi, fantasie hanno sulla più
complessa vicenda del suo spirito. «Petrarca opera dunque un vero e proprio rovescia-
mento della tradizione. Il soggetto che desidera viene con lui ad occupare quello spa-
zio che era riservato alle rappresentazioni della donna, ai rituali del corteggiamento,
all’analisi oggettivante di amore. Il palcoscenico sul quale si sceneggiava il rapporto
triadico Amore, amata e amante si trasforma nello spazio dell’“io”» (Santagata). Petrar-
ca inverte anche, con evidenti sottintesi, quel processo che aveva portato Dante al
tempo di Donne ch’avete intelletto d’amore a rinnegare una poesia in cui lo stato d’animo
del soggetto fosse protagonista assoluto, per volgersi a una poesia che avesse come fine
la lode della donna e della sua natura benefica.
Passione amorosa e inquietudine morale e religiosa L’intimo dissidio, il perenne oscillare tra stati
psico-fisici contrastanti e irriducibili, il perenne irrealizzabile desiderio di appagamen-
to e di quiete in un amore finalmente ricambiato e realizzato, che così vengono posti
al centro del Canzoniere petrarchesco, non sono – come in parte si è già visto – che un
aspetto di un più ampio dissidio, la manifestazione lirica di una più profonda e gene-
rale inquietudine esistenziale. Nel Canzoniere, infatti, le contraddizioni, le oscillazioni
proprie della passione amorosa (speranze/timori, illusioni/delusioni, ecc.) si proiettano
sullo sfondo della più complessa inquietudine morale e religiosa, che il Canzoniere de-
linea sin dalla sua struttura narrativa. Anche questa inquietudine ha connotati nuovi ri-
spetto alla recente tradizione. L’amore per Laura è, come altre passioni, un ostacolo al
raggiungimento dell’equilibrio interiore e più ancora – ci vien detto a chiare lettere –
di una pacificazione in Dio. È un ostacolo cioè alla conquista della suprema pace spi-
rituale che per Petrarca significa al tempo stesso sicuro controllo delle proprie aspira-
zioni e passioni (per suggestione dello stoicismo antico) e purificazione dalle passioni
mondane (secondo l’ottica del cristianesimo medievale). Laura in definitiva è l’in-
quietudine amorosa, è il non poter disporre totalmente di sé; e Petrarca aspira all’equi-
librio dell’animo, alla libertà che deriva dall’autocontrollo. Laura è l’amore profano,
Laura è il relativo, il temporale; e Petrarca aspira al divino, all’assoluto, all’eterno. Ma –
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Duecento e Trecento

e questo è il punto – non riesce a tramutare le aspirazioni in un possesso certo. Anche


quando Laura sembra additargli, con la propria virtù, la strada che conduce a quei be-
ni, Petrarca non è in grado di imboccarla con decisione univoca. Egli è tormentato da
un’ansia di assoluto, ma non sa perseguirlo come vorrebbe, ridimensionando ciò che
lo contraddice (l’amore, il desiderio di gloria...). Non sa rinunciare ai propri fantasmi
terreni, non è in grado di frenare il proprio desiderio, come Francesco dice ad Agosti-
no nel finale del Secretum, che costituisce la principale chiave di lettura del Canzoniere.
Il senso della labilità universale Quanto si è sin qui riferito è Petrarca stesso a dircelo in modo espli-
cito e consapevole, è una sua lucida conquista intellettuale. A un livello più profondo,
e forse inconsapevole, stanno – secondo alcuni critici – altre inquietudini, altre fonti di
angoscia. Accertata l’impossibilità di dominare le passioni terrene o di disfarsene, ac-
certato il valore che per lui rivestono le più nobili di esse, ciò che angustia Petrarca è
la loro labilità. «Domina anzitutto la lirica petrarchesca» – ha scritto Umberto Bosco –
«il senso della caducità della vita, di ogni cosa viva. Il senso profondo del Canzoniere è
dal Petrarca stesso consegnato al verso finale del sonetto-proemio, e di là s’irradia e
permea ogni pagina: è il conoscer chiaramente che quanto piace al mondo è breve so-
gno». L’acuto e tutto terreno sentimento del fluire inesorabile del tempo, dello sfiori-
re della bellezza, dell’approssimarsi di una morte, che è annullamento di tutte le uma-
ne passioni e aspirazioni, è attenuato e addolcito a tratti dalla speranza in un aldilà, ma
non si risolve né in una serena, stoica accettazione dei propri limiti, né in una salda
prospettiva religiosa (qual era ad esempio quella dantesca). La morte è sì talora un «ri-
posato porto», ma «non è senza turbamento di dubbio», è anzi «un porto che conser-
va il salso odore del mare della vita, delle tempeste passate». I moralisti dell’antichità, i
pensatori cristiani, la stessa fede non l’acquietano su questo punto, perché Petrarca è
profondamente radicato nel mondo, con i suoi valori e le sue illusioni, e non sa vive-
re la morte come un principio, ma solo come una fine. Si figura l’aldilà come un pro-
lungamento del terreno: vorrebbe che il terreno, l’umano avesse quei connotati di sta-
bilità e durevolezza che son propri del divino.
Bosco ne conclude che «l’interno dissidio del Petrarca non consiste dunque pro-
priamente nel conflitto umano-divino, ma nel conflitto tra la religione e la ragione da
una parte, che gli impongono la concezione di un Dio che comprenda tutto ma in cui
tutto si annulli, e l’incoercibile forza del sogno dall’altra, che lo trascina a concepire un
Dio riposo degli affanni e garante dell’eternità degli affetti umani»; il che è in fondo
«una scontentezza intima tanto più profonda quanto meno logicamente dominabile,
sia del solo umano sia del solo divino». A livello emotivo, profondo – senza poterlo
cioè razionalizzare – Petrarca sarebbe dunque mosso dal desiderio, per ora inquieto e
vano, di una conciliazione dell’umano e del divino. Anche in questo Petrarca prelude a
posizioni umanistiche e rinascimentali: quella conciliazione che egli sente come aspi-
razione impossibile, col Rinascimento diverrà sovente certezza di convinzione.
Il Canzoniere, ai vari livelli, vive di questi motivi intrecciati: l’inquietudine amorosa,
quella morale e religiosa si fondono e risolvono in un’inquietudine esistenziale che ha
i connotati della modernità. Ha scritto Battaglia che con Petrarca si impone nella let-
teratura un personaggio che vive «la condizione dubbiosa, sospesa, dimidiata, che già
contiene i tossici della coscienza moderna», che soffre senza poter guarire «l’antinomia
tra l’essere e il dover essere», che è alla ricerca della verità senza poterla raggiungere e
possedere come un bene certo.
Il tema politico nel Canzoniere Nel Canzoniere non trovano posto però solo i componimenti ispi-
rati al tema d’amore per Laura e all’analisi della propria inquietudine spirituale. Pe-
trarca colloca nella trama dell’opera anche componimenti occasionali, talora esplici-
tamente indirizzati ad amici e corrispondenti, su temi diversi (la notizia della morte
di un amico o di un lutto che ha colpito un amico, l’abilità artistica di un pittore,
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12. Francesco Petrarca STORIA

ecc.). Fra questi spicca il nucleo di componimenti dedicati al tema politico, e in par-
ticolare i sonetti antiavignonesi (CXXXVI-CXXXVIII) in cui Petrarca lamenta la
corruzione della corte avignonese ed auspica il ritorno della sede papale a Roma, e
la canzone All’Italia nella quale, ispirandosi a un nobilissimo ma irrealistico ideale di
pace, con un tono solenne depreca le lotte fratricide che insanguinano l’Italia. Que-
sto componimento illustra bene la concezione che Petrarca ebbe di se stesso, e an-
che il ruolo che nella sua vita da un certo momento in poi cercò concretamente di
interpretare, come intellettuale super partes capace di parlare da pari a pari con i po-
tenti additando soluzioni (almeno ideali) anche ai più scottanti problemi d’attualità.

12.7 Il Canzoniere: il linguaggio e lo stile


Il dominio della forma e il canone della naturalezza Questa materia, così densa di inquietudini, è
sottoposta ad un’intensa elaborazione formale e si risolve in una scrittura nitida, ele-
gante, controllatissima. Generazioni di lettori in vario modo hanno sottolineato il fat-
to che le inquietudini non si manifestano in forma immediata, violenta sulla pagina.
«Nessuna lirica di messer Francesco, neanche quelle nelle quali trema una commozio-
ne più fervida e dolente, né quelle dove il tono è più alto e sconsolato, lascia nell’ani-
ma del lettore una impressione di dolore violento e di disperazione, sì piuttosto un sa-
pore di saggezza malinconica e lontana» (Sapegno). Il fatto è che quanto a Petrarca pa-
re sfuggire sul piano umano, il dominio di sé e delle proprie passioni che il Canzonie-
re ci descrive come inattingibile, gli riesce perfettamente sul piano artistico-letterario,
in quanto dominio formale della propria materia.
Mentre Dante nella Commedia, e specialmente nell’Inferno, mostra chiaramente di
obbedire a un canone linguistico e stilistico che persegue l’efficacia realistica, l’imme-
diatezza talora cruda dell’espressione, Petrarca nel Canzoniere obbedisce a un canone di
naturalezza espressiva, che mira costantemente a levigare, smorzare, riequilibrare. Esso
nella sostanza consiste nella regolarità ritmica e metrico-sintattica (le rare infrazioni,
come nel caso degli enjambements, assolvono la funzione di saltuaria variatio allo scopo
di spezzare una troppo rigida regolarità che apparirebbe per altro verso innaturale: si
veda il sonetto Solo et pensoso [R T 12.8 ]) e in una complessa ricerca di equilibri for-
mali, fondata su un sapientissimo, dosatissimo uso degli artifici retorici. Antitesi, paral-
lelismi, simmetrie, chiasmi, figure foniche, ritmiche, semantiche ecc. cooperano tutte
nei singoli testi a produrre l’effetto di una composizione dei conflitti nella nitidezza,
nell’eleganza, nell’equilibrato dominio dello stile. Ma è importante notare che il poe-
ta tende e riesce per lo più a dissimulare l’elaborazione retorica cui sottopone i suoi
testi, proprio allo scopo di creare l’illusione della naturalezza, di un discorso che fluisce
naturalmente facile e armonioso (è quella che i latini chiamavano la difficilis facilitas,
un’apparente facilità espressiva difficile da realizzare).
È un modello di stile che pur affondando le radici nella tradizione, specialmente
in quella classica ma anche in quella romanza, appare sostanzialmente cosa nuova nel
panorama della lirica volgare, per il rigore estremo con cui è perseguito, per l’unifor-
mità degli effetti che sortisce, per la compattezza e la coerenza dell’opera nel suo
complesso.
Le zone artificiose del Canzoniere Vero è che vi sono momenti in cui questa ricerca di temperata re-
golarità, di raffinati equilibri formali, sembra lasciare il posto all’estenuazione intellet-
tualistica dei procedimenti retorici e a una concentrazione di artifici in un singolo
componimento (cfr. ad esempio il sonetto Pace non trovo [R T 12.12 ]). Questa variante
stilistica ispirata a una poetica della difficultas e all’ostentazione degli artifici (opposta
cioè a quella della difficilis facilitas e della dissimulazione degli artifici che abbiamo de-
scritto) affonda anch’essa le radici in una zona della tradizione che è stata definita «go-
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Duecento e Trecento

tica» e che collega il trobar clus di Arnaut Daniel alle rime petrose di Dante. Ma in pri-
mo luogo si tratta di una zona limitata e marginale del Canzoniere, che non modifica
sostanzialmente l’impressione che il lettore ha dell’opera nel suo complesso. In secon-
do luogo Petrarca sembra voler assorbire questi fenomeni di scoperta artificiosità nel
tono regolare ed equilibrato dominante del Canzoneire inserendoli come momenti di
intenzionale variatio (variazione). La variatio è anch’essa un principio dell’estetica clas-
sica che aveva come scopo di far apparire meno monotona e più naturale l’espressio-
ne e di far risaltare per contrasto i tratti stilistici dominanti. Ma questo non semplice
concetto si chiarirà più avanti quando esamineremo la poetica e la letteratura rinasci-
mentale.

12.8 I Trionfi
I Trionfi, un poemetto allegorico-visionario Un discorso almeno in parte a sé stante richiedono i
Trionfi, scritti fra il 1352 (ma la data d’inizio è incerta) e il 1374, anno della morte del
poeta, che li vede incompiuti. Sul piano dei contenuti il poemetto volgare ripropone i
temi della riflessione svolta nel Canzoniere e, in parte, nelle opere latine: l’amore come
sentimento terreno sottoposto al fluire del tempo e alla vanificazione operata dalla
morte, il conflitto morale. Questa materia però qui si risolve più nettamente nella li-
berazione dalle passioni terrene e nel raggiungimento della pace in Dio, supremo
trionfatore.
L’opera infatti si presenta come un poemetto allegorico-visionario fondato su una
serie di sei trionfi («nel senso militare romano» precisa Contini). Amore trionfa sul
poeta e sull’umanità, la Castità sull’Amore (nel senso che il pudore frena e vince il di-
sordine delle passioni), la Morte sulla Castità (nel senso che la morte vanifica le pas-
sioni ed esalta la castità), la Fama sulla Morte, il Tempo sulla Fama, l’Eternità sul Tem-
po. L’adozione di una prospettiva di riflessione teologica e l’astrattezza del disegno se-
gnano, però, una netta divergenza rispetto al Canzoniere, nel quale il discorso è assai
più concretamente aderente all’umana esperienza del poeta e la pace della fede è un
bene sempre desiderato ma anche sempre sfuggente.
Il poemetto inoltre ha l’ambizione – assente nel Canzoniere – di proporsi come sin-
tesi ordinata e coerente delle concezioni ideologiche petrarchesche. Ma la sua incom-
piutezza e, ancor più, il fallimento sul piano estetico «stanno a dimostrare l’impossibi-
lità di approdare, dall’infinita, sfumata e contrastante ricchezza dei dati analitici, a una
sintesi stabile in cui si accordino il pensiero e gli affetti» (Sapegno).
Il “dantismo” dei Trionfi e i rapporti fra Dante e Petrarca Sul piano formale i Trionfi impongono
un cenno almeno al problema del dantismo petrarchesco. Molti infatti sono gli ele-
menti che rimandano al modello della Commedia: la struttura visionario-allegorica, il
motivo del viaggio, la scelta della terzina dantesca e la presenza di frequenti echi lin-
guistici e stilistici del poema dantesco. Ora, in una familiare al Boccaccio, Petrarca si
difende dall’accusa, evidentemente corrente, di disprezzare Dante. Certo è che molte
scelte divergenti li opponevano: la scelta petrarchesca del latino per la prosa, con tutte
le sue implicazioni, di contro a quella dantesca del volgare; il monolinguismo e il mo-
nostilismo dell’uno, contro il plurilinguismo e lo sperimentalismo stilistico dell’altro; il
rifiuto della cultura scolastica, contro la piena adesione ad essa; e così via. Tuttavia, co-
me è da rifiutare l’opinione che Petrarca non abbia tenuto in alcun conto l’esercizio
poetico in volgare, così è da rifiutare l’opinione di una totale frattura fra i due poeti
sul piano della lirica volgare (il Canzoniere stesso nella sua forma-libro nasce probabil-
mente come emulazione della Vita Nuova dantesca). L’esperienza dei Trionfi, pertanto,
costituisce un anello di congiunzione non trascurabile tra i due maggiori poeti delle
nostre origini.
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12. Francesco Petrarca STORIA

Doc 12.3 La morte di Laura

F. Petrarca, Trionfi, Ri- Nei versi iniziali del Trionfo della Morte Laura, reduce dal trionfo della Pudicizia su Amore,
me extravaganti, Codice attorniata da una schiera di «compagne elette», è improvvisamente avvicinata da una «don-
degli abbozzi, c. di
V. Pacca e R. Paolino, na involta in veste negra»: è la Morte che presto trionferà su di lei... La morte di Laura,
Mondadori, Milano evocata ma non descritta nel Canzoniere, diviene qui il motivo centrale dell’episodio. Si no-
1996
teranno evidenti reminiscenze dantesche (Non human veramente, ma divino / lor andare era, e
lor sante parole... io vidi una insegna oscura e trista...).

Quella leggiadra e glorïosa donna E come gentil core honore acquista,


ch’è oggi ignudo spirto e poca terra, così venìa quella brigata allegra,
e fu già di valore alta colonna, 30 quando vidi una insegna oscura e trista;
tornava con honor da la sua guerra, ed una donna involta in veste negra,
5 allegra, avendo vinto il gran nemico, con un furor qual io non so se mai
che con suo’ ingegni tutto il mondo atterra, al tempo de’ giganti fusse a Phlegra,
non con altre arme che col cor pudico si mosse e disse: «O tu, donna, che vai
e d’un bel viso e de’ pensieri schivi, 35 di gioventute e di bellezze altera,
d’un parlar saggio e d’onestate amico. e di tua vita il termine non sai,
10 Era miracol novo a veder ivi io son colei che sì importuna e fera
rotte l’arme d’Amore, arco e saette, chiamata son da voi, e sorda e cieca
e tal’ morti da lui, tal’ presi e vivi. gente, a cui si fa notte innanzi sera.
La bella donna e le compagne elette 40 Io ò condutto al fin la gente greca
tornando da la nobile victoria e la troiana, a l’ultimo i Romani,
15 in un bel drappelletto ivan ristrette. con la mia spada, la qual punge e seca,
Poche eran, perché rara è vera gloria, e popoli altri, barbareschi e strani;
ma ciascuna per sé parea ben degna e, giugnendo quand’altri non m’aspetta,
di poema chiarissimo e d’istoria. 45 ò interrotti infiniti penser vani.
Era la lor victorïosa insegna Ora a voi, quando il viver più diletta,
20 in campo verde un candido ermellino, drizzo il mio corso, innanzi che Fortuna
ch’oro fino e topazi al collo tegna. nel vostro dolce qualche amaro metta.»
Non human veramente, ma divino «In costor non ài tu ragione alcuna
lor andare era, e lor sante parole. 50 ed in me poca; solo in questa spoglia.»
Beato s’è qual nasce a tal destino! rispose quella che fu nel mondo una.
1-3 Quella... colonna: 25 Stelle chiare pareano, in mezzo un sole «Altri so che n’avrà più di me doglia,
Laura, che un tempo pila- che tutte ornava, e non togliea lor vista, la cui salute dal mio viver pende.
stro di virtù (valore) ora è
morta (ignudo spirto, anima di rose incoronate e di viole. A me fia gratia che di qui mi scioglia».
priva del corpo).
5 il gran nemico:
Amore, sconfitto da Laura
nel Triumphus Pudicitiae. adeguato emblema, in segg.: «E io, che riguardai, 34 O tu... che vai: forse 44 quand’altri... aspetta:
6 ingegni: artifici, quanto senza lega, del topa- vidi una ’nsegna / che gi- eco dei versi danteschi: «O all’improvviso.
mezzi ingegnosi. zio [...]. » (Contini). rando correva tanto ratta...»; Tosco che per la città del fo- 47-48 innanzi... metta: nel
7 non con altre arme 22-23 Non human... è l’insegna degli ignavi. Ma co / vivo ten vai così parlan- pieno della vostra giovinez-
che: con le sole armi di un era: in questi versi sono anche il quando avversativo do onesto» (If X 22-23). za.
cuore ecc. (specifica aven- riconoscibili molti echi è frequente nella Comme- 38-39 e sorda... gente: vo- 49-50 «In costor... spo-
do vinto). stilnovistici. dia. cativo, che varia il prece- glia»:su costoro tu non puoi
10 miracol novo: inau- 26 non togliea lor vista: 31 una donna: la Morte. dente donna. vantare alcun diritto, non
dita meraviglia. non le rendeva invisibili 33 al tempo... Phlegra: 39 a cui... sera: metafora hai giurisdizione alcuna, e
12 morti... vivi: i morti (come invece fa il sole con secondo la mitologia gre- per dire l’incapacità di giu- poca ne hai su di me:solo sul
e i prigionieri d’amore. le altre stelle). co-latina nella valle di Fle- dizio degli uomini, che alla mio corpo mortale.
17 per sé: da sola. 28 E come... acquista: gra,inTessaglia,i giganti che luce del giorno (innanzi se- 51 una: unica.
18 chiarissimo: insigne. «La famosa frase stilnovisti- tentavano di scalare l’Olim- ra) sono come in piena not- 52-53 Altri... pende: altri
19-21 Era... tegna: ca. Palese il ricorso del dan- po vennero sconfitti da te, sono cioè privi di discer- (cioè il poeta), la cui salute
«L’ermellino è, per il suo tesco “E qual è quei che vo- Giove.L’episodio è ricorda- nimento. dipende dalla vita di Laura,
candore, vulgato simbolo lentieri acquista” (in rima to daVirgilio (Georg. I, 278- 40 al fin: alla morte, alla ne sarà più addolorato.
della purezza; il verde allu- con vista e attrista)» (Conti- 283), Ovidio (Metam., I, distruzione. 54 A me fia... scioglia: a
derà al colore allora prefe- ni). 151-152) e Dante (If XIV 42 punge e seca: colpisce me è gradito che tu mi libe-
rito dalle giovani per le lo- 30 quando... trista: eco 58) che suggerisce al Petrar- di punta e di taglio. ri dal corpo, consentendo-
ro vesti; l’oro può essere dantesca. Cfr. If III 52 e ca la rima con negra e allegra. 43 strani: stranieri. mi di salire al cielo.

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Duecento e Trecento

▍ I Trionfi

«Ai Trionfi [il titolo esatto è Triumphi, in latino] Petrarca attese a lungo. Dalle date che l’au-
tore inscrisse nei suoi originali [...] risulta che il primo tratto già esisteva [...] nel 1356 (ma
forse bisogna risalire ai soggiorni primaverili in Valchiusa di tre o quattro anni prima), men-
tre nell’ultimo anno della sua vita, il 1374, egli ancora lavorava al tratto terminale. L’elabora-
zione passò attraverso vari stadi, ma non giunse mai a quello idealmente ultimo» (Contini).
La struttura e l’argomento dei Trionfi sono in breve i seguenti. Nel Triumphus Cupidinis
[Trionfo d’Amore] al poeta nell’anniversario del suo innamoramento appare in visione Amo-
re trionfante, secondo l’uso romano, seguito da una folta schiera di prigionieri (amanti cele-
bri). Il poeta si unisce a costoro per sapere chi sono e cosa fanno, ma viene anch’egli sog-
giogato da Amore, per essersi innamorato di Laura, e viene trasportato a Cipro, dimora del
dio. Nel Triumphus Pudicitie [Trionfo della Castità] è narrata la ribellione di Laura ad Amore:
scortata dalle Virtù, Laura sconfigge Amore, che tentava di soggiogare lei pure, e assieme a
una schiera di donne famose per la loro pudicizia celebra il proprio trionfo presso il tempio
della Pudicizia in Roma. Nel Triumphus Mortis [Trionfo della Morte] a Laura ancora attornia-
ta dalle caste donne si fa incontro la Morte che, tra la costernazione di tutti e in particolare
del poeta, recide l’“aureo crine” sacro a Proserpina: Laura muore, ma presto compare in so-
gno al poeta per rivelargli la propria beatitudine. Nel Triumphus Fame [Trionfo della Fama], la
Fama sconfigge la Morte e celebra il proprio trionfo, accompagnata da Laura naturalmente e
da tutti i più celebri personaggi della storia antica e recente. Nel Triumphus Temporis [Trionfo
del Tempo] il moto rapido del sole suggerisce al poeta delle riflessioni sulla vanità della fama
terrena, cui fa seguito una vera e propria visione nella quale al poeta appare il Tempo trion-
fante. Infine nel Triumphus Eternitatis [Trionfo dell’Eternità] il poeta sbigottito dalla preceden-
te visione è confortato dal cuore che gli dice di confidare in Dio: gli appare allora l’ultima
visione, la visione di un «mondo novo, in etate immobile ed eterna», un mondo al di fuori
del tempo, dove trionferanno i beati e dove un giorno Laura gli riapparirà, e per sempre.

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12. Francesco Petrarca T 12.1

T 12.1 Epistole
Ideali di vita (Fam.VII, 6; XVII, 5) 1347, 1353
F. Petrarca L’epistolario di Petrarca è ricco di informazioni sulla personalità e sugli ideali di vita del
Opere poeta. Nei passi delle due lettere che abbiamo scelto il discorso trae spunto da episodi e
a. c. di M. Martelli, Sansoni
circostanze concreti (il rifiuto di un prestigioso incarico alla corte papale, il soggiorno
1975 (trad. E. Bianchi);
F. Petrarca di un amico nella sua dimora di Valchiusa), ma subito si amplia a svolgere considerazio-
Epistole ni di ordine morale o ideale, che rivelano l’orizzonte culturale e letterario cui mira lo
a c. di U. Dotti, UTET 1978 scrittore. Essi assumono poi la forma classica dell’elogio: nella prima lettera è l’elogio di
una vita modesta ma tranquilla; nella seconda è quello della vita campestre. Queste di-
chiarazioni ci consentono di cogliere l’inclinazione forse fondamentale dell’animo di
Petrarca.

Fam.VII, 6
1 Al suo Socrate: con il AL SUO SOCRATE, 1 DELLE SUE COSE FAMILIARI E DEL SUO DESIDERIO DI MEDIOCRITÀ
nome del filosofo greco, Pe-
trarca designa uno degli
amici più cari, il fiammingo A quanto delle mie cose ho confidato alla tua specchiata amicizia, nulla ho da
Ludwig van Kempen togliere, nulla da aggiungere; io sono non soltanto risoluto, ma irremovibile nel
(1304-1361), cantore nella
cappella del cardinale Gio- mio proposito;2 e se lo ricordi bene, è inutile che io ancora te ne parli. Tuttavia,
vanni Colonna ad Avignone perché tu sappia che io l’ho sempre presente a me stesso, eccoti in breve: non fui
e dedicatario delle Familiari.
Questa lettera è del 1347. mai desideroso di una gran ricchezza, sia questo un segno d’animo moderato, o 5
2 io… proposito: Pe- vile, o, come piace ad alcuni uomini grandi, grande. Dico cose vere e note anche
trarca allude probabilmente
al rifiuto da lui opposto al al volgo, delle quali ho in te un testimone, talvolta un lodatore e anche, in certe
papa Clemente VI, che gli circostanze, un amichevole riprensore, perché, per dirlo con le tue parole, io insi-
aveva offerto la carica di ve-
scovo e il prestigioso ma sto troppo nel mio proposito e dovrei badare che, là dove cerco fama di grande
oneroso incarico di segreta- costanza, non trovi invece una brutta nomea di ostinazione. Ma finora io non mi 10
rio papale. Un’analoga of- pento del mio divisamento;3 poiché ogni altezza mi fa paura, e ogni ascesa mi fa
ferta verrà rivolta al Petrarca
anche più tardi, nel 1351- pensare a una caduta; e molto più facilmente, secondo la mia natura, io vorrei
52, e sarà da lui di nuovo ri- starmi con quelli che, come dice il poeta,4
fiutata (per il resoconto ana-
litico di questo secondo ri-
fiuto cfr. Fam. XIII,5). A Abitavan nel fondo delle valli, 15
questi anni (1346-1347 o
1351-53) appartengono che non quelli che, come pur dice,
forse anche i celebri sonetti Posero lor città de’ monti in cima.
antiavignonesi (cfr. Fiamma
del ciel [R T 12.13 ]).
3 divisamento: propo- Così stando le cose, se quella desiderata mediocrità,5 che giustamente Orazio
nimento, decisione. chiama ‘aurea’, e che da un pezzo mi si promette, mi sarà concessa, l’accoglierò 20
4 il poeta:Virgilio, nel-
l’Eneide. con gratitudine, e chiamerò generoso chi me la dà; ma se mi si vorrà imporre il
5 mediocrità: latini- peso odioso e grave di una qualche gran carica, lo rifiuto, lo respingo. Preferisco
smo: l’aurea mediocritas ora-
ziana indica una condizione esser povero che inquieto; sebbene, a come vanno le mie cose e com’è l’animo
di vita mezzana, un tenore mio, io non possa chiamarmi povero. Questi e simili pensieri, quali su questo te-
di vita semplice e dignitoso.
6 padroni… padroni: i ma sogliamo scambiarci tra noi, tu, che ben mi conosci, fa’ di ripetere agli amici, 25
padroni sono probabilmen- ai padroni, e al padrone de’ padroni,6 quando vedrai opportuno ìl momento, seb-
te i Colonna e il padrone dei
padroni è il papa. bene io non li abbia mai né nascosti né taciuti.

Fam. XVII, 5. A GUIDO SETTE.1 ELOGIO DELLA VITA CAMPESTRE

1 Guido Sette: intimo Hai sentito quali speranze, quale conforto possano venire alle pubbliche sventure; è
amico (1304-1367) di Pe-
trarca, con cui trascorse la tempo di volgere la penna a vicende più liete. Ho sentito che sotto l’urgere delle
giovinezza ad Avignone; dal preoccupazioni, profugo dalla città, hai cercato scampo nella campagna. Sempre con
1358 fu arcivescovo di Ge- la parola, coi fatti appena è possibile, io elogio quest’abitudine; e del resto dei supplizi
nova. Questa lettera è del
1353. delle occupazioni urbane e della pace della vita in solitudine tempo fa ho discusso am- 5
piamente. [...] Sento che tu, non so per quanti giorni, hai abitato la mia campagna che
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Duecento e Trecento

2 la mia… Sorga:è la di- si trova alla sorgente della Sorga,2 colà mitigando l’ardore delle tue preoccupazioni
mora diVaucluse (Valchiusa) con il refrigerio di quella meravigliosa località. Ne sono felice e approvo la tua decisio-
nei pressi di Avignone, dove
Petrarca aveva soggiornato a ne; se infatti non mi fanno velo l’amore per le mie cose e la forza di un’antica consue-
lungo. tudine, veramente quei campi rappresentano il luogo della pace, la casa del riposo, il 10
3 i miei stessi versi:
«Questi due esametri non si porto delle fatiche, l’ospizio della serenità, l’officina della solitudine. In nessun luogo, a
trovano in alcuna opera lati- mio giudizio, possono nascere più splendidamente le grandi opere della mente; e par-
na del Petrarca» (Dotti): ap-
partengono dunque a un’o- lo per esperienza, sempre che, naturalmente, qualcosa di magnifico potesse nascere da
pera perduta o a una reda- questo mio piccolo e angusto ingegno. Ivi è un gradito deporre le sollecitudini, un
zione poi rifiutata.
4 Curia: la Curia papale dolce diversivo per l’animo occupato; ivi il silenzio e la libertà, una gioia sicura, una 15
di Avignone, luogo di pas- lieta sicurezza; di lì stanno lontani i negozi urbani, il rumore rissoso, il gozzovigliare
sioni, conflitti, intrighi e pieno di schiamazzi. Non vi si sente il fragore delle armi, il tripudio vano dei trionfi o
corruzione, da cui – come
s’è visto – Petrarca aveva l’inconsulta tristezza che può nascere per ragioni opposte, e dalla quale siamo ora an-
sempre cercato di mantene- gosciati. Guizzano i pesci argentei nell’onda cristallina, sparsi per i prati lontano mug-
re, per quanto possibile, le
distanze. giscono i buoi, sussurrano i venti leggermente muovendo le fronde, diversamente 20
5 custode… quello: cantano gli uccelli sui rami e, se consenti che con te usi i miei stessi versi:3 «piange Filo-
Raymond Monet, segreta-
rio di Petrarca e custode mela la notte, la tortora chiama l’amica e cadendo da una nitida fonte gorgogliano lie-
della biblioteca diValchiusa, vi le acque ». Intento al lavoro, tace frattanto il villano che curvo sulla terra fa sprizzare
era morto nel gennaio del
1353; Petrarca era assente dalla zappa che cade sulla zolla suono e faville, e insomma, per dirla in due parole, è
dal maggio-giugno. questa una dimora felice, angelica e celeste. Colà dunque, ogni volta che puoi (se vuoi 25
6 piantati… Minerva:
cioè da tempo immemora-
affidarti al mio consiglio), fuggi come in un porto dalle tempeste della Curia;4 là infat-
bile; ma la menzione delle ti, come nel porto di Brindisi, fermerai con la tremula fune la navicella fluttuante del-
divinità greche vuol signifi- l’animo. Potrai usare dei miei libri che piangono il loro signore ormai assente da trop-
care la ‘divina’ piacevolezza
del luogo (già prima l’aveva po tempo e il loro custode che non è più quello;5 potrai servirti del mio piccolo orto
definita «dimora felice, an- che, per quanti ne ho visti io, non ha il simile al mondo ed implora l’opera tua e del no- 30
gelica, celeste»).
stro Socrate per non risentire troppo della mia lontananza.[...] Puoi intanto servirti
degli alberi che vi sono, i più antichi dei quali furono piantati dalle mani stesse di Bac-
co e Minerva,6 quelli nuovi dalle mie, e non tanto per fare ombra ai nipoti, ma a noi. E
serviti della mia piccola casa e del mio letto agreste che, come ti avrà accolto nel suo
grembo, sentirà svanire il desiderio di me. 35

Guida all’analisi
La passione per le humanae litterae Il filo rosso che unisce i passi di queste due lettere è la passione per gli stu-
di letterari. Nella prima, del 1347, il rifiuto, da parte del Petrarca maturo, di cariche presti-
giose e remunerative ma onerose (un vescovado e l’incarico di segretario papale) e il conse-
guente elogio di una vita mediocre ma serena è motivato dal timore di essere distolto dagli
studi: il prestigio, il potere e la ricchezza, conseguiti con l’immersione totale in quella corte
pontificia che forse in questi stessi anni descriveva come una novella Babilonia, non valgo-
no il tempo e la libertà che la sua più modesta condizione gli consente, né soprattutto val-
gono la tranquillità d’animo che egli ritiene indispensabile per studiare e scrivere.
Nella seconda, del 1353, l’elogio della vita campestre e in particolare della serenità agre-
ste della dimora di Valchiusa indica certo una predilezione autentica per la vita appartata
nella natura, per la semplicità dei costumi e delle abitudini che la vita in campagna impone,
ma anche in questo caso la motivazione profonda dell’amore per quei luoghi e quei costu-
mi è che essi consentono le condizioni più favorevoli all’attività letteraria. Del resto Val-
chiusa era il rifugio campestre che Petrarca si era costruito, quando al servizio dei Colonna
aveva dovuto gravitare attorno ad Avignone e che avrebbe dovuto lasciare se avesse accetta-
to l’incarico di segretario papale.
Laboratorio 1 I due testi (e soprattutto il secondo) rive- ria. Prova a descrivere tale elaborazione
COMPRENSIONE lano un’attenta elaborazione retorica, che ricercando nei testi allusioni e citazioni
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE mostra come Petrarca concepisse l’episto- letterarie e le figure retoriche che ti paio-
lografia come una precisa forma lettera- no più rilevanti.

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12. Francesco Petrarca T 12.2

T 12.2 Epistole prima del 1341


A Tommaso da Messina. Lo studio dell’eloquenza (Fam. I,9)
F. Petrarca, L’inclinazione per gli studia humanitatis, che nel testo precedente abbiamo visto emerge-
Epistole re da diversi documenti, trova una conferma teorica in questa lettera giovanile, indiriz-
a c. di U. Dotti, zata a Tommaso Caloiro da Messina, amico di Petrarca negli anni bolognesi e morto nel
UTET, Torino 1978
1341. Qui, in forma meno personale, Petrarca formula una definizione dell’eloquenza
(un’arte della parola che non si riduce a puro formalismo, e che è invece una spia del-
l’animo), e fa un’analisi delle condizioni necessarie al suo manifestarsi e un’appassiona-
ta celebrazione della sua funzione morale e civile, quale le avevano assegnato i grandi
retori classici.

1 ma se noi vogliamo... La cultura dell’animo è affidata al filosofo, propria dell’oratore è la forbitezza del
tra gli uomini: cfr.Virgilio, linguaggio; ma se noi vogliamo, come si dice, sollevarci dal suolo e volare di boc-
Georgiche,III,9.E cfr.anche i
vari luoghi del Canzoniere, ca in bocca tra gli uomini,1 non dobbiamo trascurare né una cosa né l’altra. Della
dove l’espressione ricorre, prima parleremo altrove, che è problema grave e complesso, ma dai frutti fertilis-
tra cui il sonetto CCCLXV,
v. 3 [R T 12.24 ]. simi; ora, per non uscire dal tema che mi sono proposto, ti esorto e t’incoraggio a 5
2 Il discorso... discorso: correggere non solo vita e costumi, che è precipuo fine della virtù, ma forma e
cfr.Seneca,Ad Lucilium,115,
1 segg. modi del nostro linguaggio, cosa che ci potrà garantire lo studio di una ben rego-
lata eloquenza. Il discorso, infatti, è la vera spia dell’animo mentre, a sua volta, l’a-
nimo è la forza moderatrice del discorso.2 L’uno è in dipendenza dall’altro: questi
sta celato in petto, l’altro esce in pubblico; questi lo plasma prima che esca foggia- 10
to dalla propria volontà, l’altro, appena si mostra, rivela le qualità interiori; alla de-
cisione dell’uno si obbedisce, alla testimonianza dell’altro si crede. Bisogna dun-
que provvedere e all’animo e al discorso, in modo che l’animo sia giustamente se-
vero nei riguardi del discorso e il discorso sappia mostrare tutta la grandezza del-
l’animo, anche se è poi chiaro che dove è finezza di animo non potrà esserci roz- 15
zezza d’espressione, proprio come, per converso, un discorso non potrà mai essere
dignitoso se l’animo manca della sua propria maestà. Che può mai giovare im-
mergersi completamente nelle fonti ciceroniane o conoscere tutti gli scrittori
greci ed i nostri? A scrivere in modo ornato, forse, elegante, armonioso, altisonan-
te; certamente non ad esprimere gravità, serietà, saggezza di pensiero e, quel che 20
più conta, coerenza di idee. Perché se prima non avrai acquistato fermezza di vo-
lontà – e solo il saggio può raggiungere questo equilibrio – è inevitabile che, nel-
la contraddizione dei sentimenti, siano pure in contraddizione costumi e parole.
Ma una mente ben ordinata è sempre tranquilla e in quiete come un’immota se-
renità; sa quello che vuole, e ciò che ha voluto non cessa mai di volerlo, si ché, an- 25
che se non la soccorreranno gli artifici dell’arte oratoria, trova pure in sé voci ma-
gnifiche ed austere, perfettamente corrispondenti ad essa. Non si può tuttavia ne-
gare che si possono realizzare notevoli risultati quando, calmati i sentimenti (nel
loro tumulto non aspettarti mai niente di buono), ci si pone allo studio dell’elo-
quenza. Che se anche essa non fosse necessaria a noi personalmente, e se la nostra 30
mente, forte delle sue forze e spiegando in silenzio le sue facoltà, non avesse biso-
gno dell’aiuto della parola, dovremo almeno affaticarci per il bene di coloro con i
quali viviamo, e non c’è dubbio che la nostra parola possa giovare loro moltissi-
mo.
Forse tu mi vuoi obbiettare: «quanto sarebbe stato più sicuro per noi e più effi- 35
cace per gli altri persuadere con il vivo esempio della nostra virtù, in modo che
affascinati dalla sua bellezza, essi venissero impetuosamente tratti ad imitarla! È in-
fatti nella natura delle cose che i fatti siano migliori e più validi stimoli delle pa-
role, e che per questa via diventi per noi più agevole sollevarci alle vette della
virtù». Non lo contesto; hai già infatti potuto capire il mio pensiero quando io ho 40

335 © Casa Editrice Principato


Duecento e Trecento

3 Giovenale: il grande detto che per prima cosa si deve pensare all’educazione dell’animo. Non a caso,
poeta satirico latino, vissuto infatti, disse Giovenale:3 «ciò che anzitutto mi devi sono le qualità dell’animo»;
tra il 55 e il 130 d.C. (la cita-
zione è da Satire, 8, 24). che non sarebbero le prime se altro fosse loro anteposto. In realtà quanto valga
4 il passo dell’Invenzio-
l’eloquenza alla formazione della vita umana, viene mostrato sia dalle opere di
ne: si confronti De inventione,
I, 1, 1. molti scrittori sia dalla esperienza quotidiana. Lo abbiamo pur visto di questi 45
tempi quante persone, cui nulla avevano giovato gli esempi, si sono destate come
da un sonno e al solo suono di voci altrui sono passate rapidamente da un’esi-
stenza scellerata a una vita improntata a grandissima semplicità. E non sto qui a ri-
peterti, tanto è noto, il passo dell’Invenzione4 in cui Cicerone dibatte a lungo l’ar-
gomento; o la favola di Orfeo e di Amfione, dei quali si narra che col canto com- 50
movessero e conducessero dove volevano l’uno le belve immani, l’altro gli alberi e
i sassi. Non la ricorderei se non mostrasse come, con la forza di una straordinaria
parola, l’uno riuscì a portare alla mitezza e alla sociale tolleranza uomini brutal-
mente truci e istintivi come belve, l’altro animi rozzi, duri, intrattabili come sassi.

Guida all’analisi
L’ideale sintesi di res e verba, di filosofia ed eloquenza Questo testo è particolarmente importante per com-
prendere l’atteggiamento di Petrarca di fronte alla letteratura, propria ed altrui, e per valuta-
re le funzioni di modello che egli assumerà presso gli umanisti. Dopo una distinzione pura-
mente formale e subito contestata (la cultura dell’animo affidata al filosofo e la forbitezza
del discorso propria dell’oratore, rr. 1-2), Petrarca sottolinea con forza la stretta, indissolubi-
le interdipendenza di discorso e animo. «Il discorso... è la vera spia dell’animo mentre, a sua
volta, l’animo è la forza moderatrice del discorso» (rr. 8-9). Agli occhi di Petrarca, come dei
classici su cui egli si fonda, la «cultura dell’animo» e la disciplina letteraria non possono es-
sere perseguite separatamente, perché «dove è finezza di animo non potrà esserci rozzezza
d’espressione» e viceversa (rr. 15-16): la distinzione iniziale si mostra così addirittura vanifi-
cata. Petrarca, proprio come gli antichi, non può concepire insomma una parola che non
abbia sostanza di pensiero, né un pensiero che non trovi adeguata espressione nella parola. Il
linguaggio è sintesi di pensiero e parola. Eloquenza e filosofia, esteriorità e interiorità, cura
della veste e della sostanza concettuale e morale della letteratura si fondono dunque in un
tutto indissolubile. È questa ideale sintesi di res e verba, cose e parole, uno dei presupposti
fondamentali di quella cultura umanistica che di lì a poco s’imporrà in Italia e in Europa e
che nel Petrarca riconoscerà il proprio iniziatore.
L’equilibrio formale come espressione del dominio razionale delle passioni Proprio in virtù di questa corri-
spondenza, l’ideale estetico petrarchesco di un discorso equilibrato, pacato, eloquentemente
controllato, trova il suo fondamento in quell’ideale di «equilibrio» interiore che «solo il sag-
gio può raggiungere» (r. 22) e si concreta in un precetto dissimulato: non ci si deve porre
«allo studio dell’eloquenza», e quindi neppure a scrivere, nel «tumulto» dei sentimenti (rr.
29-30). In altri termini: se il saggio, che ha raggiunto l’equilibrio interiore, non potrà che
esprimersi in modo equilibrato, colui che, come Petrarca, aspira alla saggezza, al dominio di
sé, dovrà aspirare anche a un’espressione equilibrata, pacata, stilisticamente controllata. In so-
stanza qui Petrarca elabora una nozione di letteratura e di stile come ideale di dominio ra-
zionale delle passioni che si manifesta nel controllo formale del discorso. Anch’esso costi-
tuisce uno dei cardini della riflessione umanistica sulla letteratura.

Laboratorio 1 Rispondi oralmente alle seguenti domande. Qual è l’ideale estetico che emerge in
COMPRENSIONE – È sufficiente, secondo il Petrarca, stu- questa pagina?
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE diare gli scrittori greci, latini e contem- 2 Nella seconda parte della lettera Petrarca
poranei per esprimere gravità di pensiero si sofferma sulla funzione morale e civile
e coerenza di idee? – È possibile tenere della letteratura: quali tesi sostiene nel
separate res e verba, parole e cose? Perché? passo riportato?

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12. Francesco Petrarca T 12.3

T 12.3 Epistole 1336-1355


A Dionigi da Borgo San Sepolcro (Fam. IV,1)
F. Petrarca Questa è una delle pagine più celebri dell’epistolario di Petrarca: vi si narra l’ascesa al
Epistole Monte Ventoso (Mont Ventoux), non molto distante da Valchiusa. L’ascesa è compiuta
a c. di U. Dotti, dal poeta, e dal fratello che lo accompagna, per «vedere un luogo celebre per la sua al-
UTET, Torino 1978
tezza» e osservare i luoghi noti dall’alto: per il puro desiderio di conoscenza, per curio-
sità e in parte forse per mettersi alla prova. Si tratta di un’impresa non consueta per il
tempo, di un atto gratuito cui Petrarca attribuisce significati morali e simbolici. Quel
che accade nel corso della salita e al raggiungimento della vetta, infatti, mostra come
l’impresa non sia tanto la conquista di una nuova prospettiva fisica e geografica sul
mondo esterno, quanto piuttosto una conquista morale e spirituale, quella che è stata
definita la sua personale scoperta di una nuova dimensione dell’interiorità.

1 Dionigi... Sepolcro: A DIONIGI DA BORGO SAN SEPOLCRO1 DELL’ORDINE DI SANT’AGOSTINO


amico del Petrarca, che lo E PROFESSORE DELLA SACRA PAGINA. SUI PROPRI AFFANNI.
conobbe ad Avignone pri-
ma del 1333, fu letterato e
teologo; dal 1340 alla morte Oggi, spinto dal solo desiderio di vedere un luogo celebre per la sua altezza, sono
fu vescovo di Monopoli.
2 Ventoso: è il monte salito sul più alto monte di questa regione, chiamato giustamente Ventoso.2 Da mol-
Ventoux (1912 m), poco di- ti anni mi ero proposto questa gita; come sai, infatti, per quel destino che regola le
stante da Valchiusa, in Pro-
venza, dove Petrarca visse a vicende degli uomini, ho abitato in questi luoghi sino dall’infanzia e questo monte,
lungo – come dice subito che a bell’agio si può ammirare da ogni parte, mi è stato quasi sempre negli occhi. 5
dopo – a partire dal 1312.
3 Eusino: è il Mar Nero; Ebbi finalmente l’impulso di realizzare ciò che mi ripromettevo ogni giorno, so-
il passo di Livio menzionato prattutto dopo essermi imbattuto, mentre giorni fa rileggevo la storia romana di Li-
è dal libro XL, 21-22. vio, nel passo in cui il re dei Macedoni Filippo – quello che fece guerra con Roma
4 Pomponio Mela: geo-
grafo romano, nativo della – salì sull’Emo, monte della Tessaglia, e di lassù credette di vedere, secondo si diceva,
Spagna, vissuto nel I sec. due mari, l’Adriatico e l’Eusino.3 Se vero o falso non so, sia perché quel monte è 10
d.C., autore di una Choro-
graphia a cui Petrarca fa qui troppo lontano da noi, sia perché le discordanze tra gli scrittori rendono la cosa dub-
riferimento. bia. Il geografo Pomponio Mela,4 per dire solo di alcuni, riporta senza esitazione la
5 se io… chiarito: l’os-
servazione, dopo la citazio- notizia, mentre Tito Livio la ritiene falsa: se io potessi conoscere quel monte così age-
ne di un esempio classico e volmente come questo, il dubbio sarebbe presto chiarito.5 Ma per tornare ora al
un dubbio storico-filologi-
co circa la discordanza delle Ventoso, mi è sembrato scusabile in un giovane di condizione privata6 quello che 15
fonti e quindi l’attendibilità non fu biasimato in un vecchio re. Senonché, quando dovetti pensare a un compa-
della notizia, dimostra chia- gno di viaggio, nessuno dei miei amici, meravigliati pure, mi parve in tutto adatto:
ramente il moderno spirito
di conoscenza e l’attitudine tanto rara, anche tra persone care, è una perfetta concordia di volontà e di indoli.
investigativa di Petrarca: l’e- Questi era troppo pigro, quello troppo vivace; questi troppo fiacco, quello troppo
sperienza diretta (un’altra
ascesa) consentirebbe di svelto; questi troppo sventato, quello troppo prudente rispetto a quanto desiderassi; 20
gettare luce su un luogo let- di questo mi spaventava il silenzio, di quello la loquacità; di questo la pesantezza e la
terario controverso.
6 giovane... privata: pinguedine, di quello la magrezza e la debolezza; di questo mi deprimeva la fredda
cioè Petrarca stesso. indifferenza, di quello l’ardente attività: tutti difetti che, sebbene gravi, in casa si sop-
7 Questi… pesanti: an-
che se Petrarca non svilup- portano (tutto compatisce l’affetto e l’amicizia non rifiuta alcun peso), ma che in
perà poi questo motivo, viaggio divengono troppo pesanti.7 E così, esigente com’ero e desideroso di un one- 25
l’accuratezza della scelta dei sto svago, pur senza offendere in nulla l’amicizia, mi guardavo intorno soppesando il
compagni di viaggio ha dei
risvolti morali, che si faran- pro e il contro, silenziosamente rifiutando tutto quello che mi pareva potesse intral-
no chiari quando egli para- ciare la gita progettata. Finalmente – che pensavi? – mi rivolgo agli aiuti di casa e mi
gonerà questo viaggio alla
vita: il saggio deve essere confidai con l’unico fratello,8 di me più giovane e che tu ben conosci. Nulla avreb-
cauto nella scelta delle per- be potuto ascoltare con maggior letizia, felice di potersi considerare, verso di me, fra- 30
sone che dovranno condivi-
dere le esperienze fonda- tello ed amico.
mentali della vita. Partimmo da casa il giorno stabilito e a sera eravamo giunti a Malaucena, alle fal-
8 l’unico fratello: il fra-
tello Gherardo. de del monte, verso settentrione. Qui ci fermammo un giorno ed oggi, finalmente,
9 il poeta:Virgilio nelle con un servo ciascuno, abbiamo cominciato la salita, e molto a stento. La mole del
Georgiche (I, 145-6). monte, infatti, tutta sassi, è assai scoscesa e quasi inaccessibile, ma ben disse il poeta9 35

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Duecento e Trecento

che «l’ostinata fatica vince ogni cosa». Il giorno lungo, l’aria mite, l’entusiasmo, il vi-
gore, l’agilità del corpo e tutto il resto ci favorivano nella salita; ci ostacolava soltan-
to la natura del luogo. In una valletta del monte incontrammo un vecchio pastore
che tentò in mille modi di dissuaderci dal salire, raccontandoci che anche lui, cin-
quant’anni prima, preso dal nostro stesso entusiasmo giovanile, era salito fino sulla 40
vetta, ma che non ne aveva riportato che delusione e fatica, il corpo e le vesti lace-
rati dai sassi e dai pruni, e che non aveva mai sentito dire che altri, prima o dopo di
lui, avesse ripetuto il tentativo. Ma mentre ci gridava queste cose, a noi – così sono
i giovani, restii ad ogni consiglio – il desiderio cresceva per il divieto. Allora il vec-
chio, accortosi dell’inutilità dei suoi sforzi, inoltrandosi un bel po’ tra le rocce, ci mo- 45
strò col dito un sentiero tutto erto, dandoci molti avvertimenti e ripetendocene al-
tri alle spalle, che già eravamo lontani. Lasciate presso di lui le vesti e gli oggetti che
ci potevano essere d’impaccio, tutti soli ci accingiamo a salire e ci incamminiamo ala-
cremente. Ma come spesso avviene, a un grosso sforzo segue rapidamente la stan-
chezza, ed eccoci a sostare su una rupe non lontana. Rimessici in marcia, avanziamo 50
di nuovo, ma con più lentezza; io soprattutto, che mi arrampicavo per la montagna
con passo più faticoso, mentre mio fratello, per una scorciatoia lungo il crinale del
monte, saliva sempre più in alto. Io, più fiacco, scendevo giù, e a lui che mi richiamava
e mi indicava il cammino più diritto, rispondevo che speravo di trovare un sentiero
più agevole dall’altra parte del monte e che non mi dispiaceva di fare una strada più 55
lunga, ma più piana. Pretendevo così di scusare la mia pigrizia e mentre i miei com-
pagni erano già in alto, io vagavo tra le valli, senza scorgere da nessuna parte un sen-
tiero più dolce; la via, invece, cresceva, e l’inutile fatica mi stancava. Annoiatomi e
pentito oramai di questo girovagare, decisi di puntare direttamente verso l’alto e
quando, stanco e ansimante, riuscii a raggiungere mio fratello, che si era intanto rin- 60
francato con un lungo riposo, per un poco procedemmo insieme. Avevamo appena
lasciato quel colle che già io, dimentico del primo errabondare, sono di nuovo tra-
scinato verso il basso, e mentre attraverso la vallata vado di nuovo alla ricerca di un
sentiero pianeggiante, ecco che ricado in gravi difficoltà.Volevo differire la fatica del
salire, ma la natura non cede alla volontà umana, né può accadere che qualcosa di 65
corporeo raggiunga l’altezza discendendo. Insomma, in poco tempo, tra le risa di mio
fratello e nel mio avvilimento, ciò mi accadde tre volte o più. Deluso, sedevo spesso
in qualche valletta e lì, trascorrendo rapidamente dalle cose corporee alle incorpo-
ree, mi imponevo riflessioni di questo genere: «Ciò che hai tante volte provato oggi
salendo su questo monte, si ripeterà, per te e per tanti altri che vogliono accostarsi al- 70
la beatitudine; se gli uomini non se ne rendono conto tanto facilmente, ciò è dovu-
to al fatto che i moti del corpo sono visibili, mentre quelli dell’animo sono invisibi-
li ed occulti. La vita che noi chiamiamo beata è posta in alto e stretta, come dicono,
10 stretta... che vi con- è la strada che vi conduce.10 Inoltre vi si frappongono molti colli, e di virtù in virtù
duce: Matteo, 7, 14.
11 Ovidio: cfr. Ex Ponto, dobbiamo procedere per nobili gradi; sulla cima è la fine di tutto, è quel termine ver- 75
III, I, 35. so il quale si dirige il nostro pellegrinaggio.Tutti vogliono giungervi, ma come dice
Ovidio,11 ‘volere è poco; occorre volere con ardore per raggiungere lo scopo’.Tu cer-
to, se non ti sbagli anche in questo come in tante altre cose, non solo vuoi, ma vuoi
con ardore. Cosa dunque ti trattiene? Nient’altro, evidentemente, se non la strada più
pianeggiante che passa per i bassi piaceri della terra e che a prima vista sembra an- 80
che più agevole; ma quando avrai molto vagato, allora sarai finalmente costretto a sa-
lire sotto il peso di una fatica malamente differita verso la vetta della beatitudine, op-
pure a cadere spossato nelle valli dei tuoi peccati; e se mai – inorridisco al pensiero
– le tenebre e l’ombra della morte lì dovessero coglierti, dovrai vivere una notte eter-
na in perpetui tormenti». Non so dirti quanto tale pensiero mi rinfrancasse anima e 85
corpo per il resto del cammino. E potessi compiere con l’anima quel viaggio cui
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12. Francesco Petrarca T 12.3

giorno e notte sospiro così come, superata finalmente ogni difficoltà, oggi l’ho com-
piuto col corpo! E io non so se quello che in un batter d’occhio e senza alcun mo-
vimento locale può realizzare l’anima di sua natura eterna e immortale, debba esse-
re più facile di quello che si deve invece compiere in una successione di tempo, con 90
il concorso di un corpo destinato a morire e sotto il peso grave delle membra.
C’è una cima più alta di tutte, che i montanari chiamano il «Figliuolo»; perché non
12 per antifrasi: ironica- so dirti; se non forse per antifrasi,12 come talore si fa: sembra infatti il padre di tutti i
mente, dicendo l’opposto di
quel che si vuol significare monti vicini. Sulla sua cima c’è un piccolo pianoro e qui, stanchi, riposammo. E dal
(com’è spiegato). momento che tu hai ascoltato gli affannosi pensieri che mi sono saliti nel cuore men- 95
13 l’Athos e l’Olimpo:
celebri monti della Grecia:il
tre salivo, ascolta, padre mio, anche il resto e spendi, ti prego, una sola delle tue ore a
primo nella Calcidica, sede leggere la mia avventura di un solo giorno. Dapprima, colpito da quell’aria insolita-
di vari monasteri, il secondo mente leggera e da quello spettacolo grandioso, rimasi come istupidito. Mi volgo
mitologica dimora degli
dei. d’attorno: le nuvole mi erano sotto i piedi e già mi divennero meno incredibili
14 quel nemico... aceto: l’Athos e l’Olimpo13 nel vedere coi miei occhi, su un monte meno celebrato, quan- 100
Annibale; il fatto è in Livio
XXI, 37, 2. to avevo letto ed udito di essi.Volgo lo sguardo verso le regioni italiane, laddove più
15 l’amico: Dionigi, de- inclina il mio cuore; ed ecco che le Alpi gelide e nevose, per le quali un giorno pas-
stinatario della lettera.
16 Oggi... Bologna: «Pe- sò quel feroce nemico del nome di Roma rompendone, come dicono, le rocce con
trarca lasciò Bologna nell’a- l’aceto,14 mi parvero, pur così lontane, vicine. Lo confesso: ho sospirato verso quel
prile del 1326 in seguito, cielo d’Italia che scorgevo con l’anima più che con gli occhi e m’invase un deside- 105
probabilmente, alla notizia
della morte del padre: l’a- rio bruciante di rivedere l’amico15 e la patria anche se, in quello stesso momento,
scensione sarebbe quindi provai un poco di vergogna per questo doppio desiderio non ancora virile; eppure
avvenuta nel 1336» (Dotti).
È però probabile che la data non mi sarebbero mancate, per l’uno e per l’altro, giustificazioni confermate da
sia fittizia e che – come vuo- grandi testimonianze. Ma ecco entrare in me un nuovo pensiero che dai luoghi mi
le il Billanovich, il quale re-
puta simbolica tale data – la portò ai tempi. «Oggi – mi dicevo – si compie il decimo anno da quando, lasciati gli 110
lettera sia stata composta o studi giovanili, hai abbandonato Bologna:16 Dio immortale, eterna Saggezza, quanti
rielaborata molto più tardi,
nel 1355. e quali sono stati nel frattempo i cambiamenti della tua vita! Così tanti che non ne
17 Agostino: nelle Con- parlo; del resto non sono ancora così sicuro in porto da rievocare le trascorse tem-
fessioni, II, 1, 1. peste.Verrà forse un giorno in cui potrò enumerarle nell’ordine stesso in cui sono av-
18 famosissimo poeta:
Ovidio; la cit. è da Amores, venute, premettendovi le parole di Agostino:17 ‘Voglio ricordare le mie passate tur- 115
III, II, b, 35. pitudini, le carnali corruzioni dell’anima mia, non perché le ami, ma per amare te,
Dio mio’. Troppi sono ancora gli interessi che mi producono incertezza ed impac-
cio. Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho
mentito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho det-
to la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odia- 120
re; amo tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza. In me
faccio triste esperienza di quel verso di un famosissimo poeta:18 ‘Ti odierò, se posso;
se no, t’amerò contro voglia’. Non sono ancora passati tre anni da quando quella vo-
lontà malvagia e perversa che tutto mi possedeva e che regnava incontrastata nel mio
spirito cominciò a provarne un’altra, ribelle e contraria; e tra l’una e l’altra da un pez- 125
zo, nel campo dei miei pensieri, s’intreccia una battaglia ancor oggi durissima e in-
certa per il possesso di quel doppio uomo che è in me». Così andavo col pensiero a
quel passato decennio. Rivolgendomi all’avvenire, mi domandavo: «Se ti accadesse di
prolungare per altri due lustri questa vita che fugge e di avvicinarti alla virtù nella
stessa proporzione in cui, in questo biennio, per l’insorgere della nuova volontà con- 130
tro la vecchia, ti sei allontanato dalla primitiva protervia, non potresti forse allora, se
non con certezza almeno con speranza, andare incontro alla morte sui quarant’anni
e questi residui anni di una vita che già declina verso la vecchiezza, trascurarli senza
rimpianti?». Questi ed altri simili erano i pensieri, padre mio, che mi ricorrevano nel-
la mente. Gioivo dei miei progressi, piangevo sulle mie imperfezioni, commiseravo 135
la comune instabilità delle azioni umane; e già mi pareva d’aver dimenticato il luo-
go dove mi trovavo e perché vi ero venuto, quando, lasciate queste riflessioni che al-
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Duecento e Trecento

trove sarebbero state più opportune, mi volgo indietro, verso occidente, per guarda-
re ed ammirare ciò che ero venuto a vedere: m’ero accorto infatti, stupito, che era or-
mai tempo di levarsi, che già il sole declinava e l’ombra del monte s’allungava. I Pi- 140
renei, che sono di confine tra la Francia e la Spagna, non si vedono di qui, e non cre-
do per qualche ostacolo che vi si frapponga, ma per la sola debolezza della nostra vi-
sta; a destra, molto nitidamente, si scorgevano invece i monti della provincia di Lio-
19 Acque Morte:Aigues ne, a sinistra il mare di Marsiglia e quello che batte Acque Morte,19 lontani alcuni
Mortes, nei pressi di Mont-
pellier. giorni di cammino; quanto al Rodano, era sotto i nostri occhi. Mentre ammiravo 145
20 e vanno... se stessi: questo spettacolo in ogni suo aspetto ed ora pensavo a cose terrene ed ora, invece,
Confessioni, X, 8, 15. come avevo fatto con il corpo, levavo più in alto l’anima, credetti giusto dare uno
21 filosofi pagani: e in
particolare Seneca, autore sguardo alle Confessioni di Agostino, dono del tuo affetto, libro che in memoria del-
particolarmente caro a Pe- l’autore e di chi me l’ha donato, io porto sempre con me: libretto di piccola mole ma
trarca.
22 quando... concupi- d’infinita dolcezza. Lo apro per leggere quello che mi cadesse sott’occhio: quale pa- 150
scenze: l’episodio è narrato gina poteva capitarmi che non fosse pia e devota? Era il decimo libro. Mio fratello,
nelle Confessioni,VIII, 12, 29;
il passo dell’apostolo Paolo è che attendeva per mia bocca di udire una parola di Agostino, era attentissimo. Lo
nella Lettera ai Romani (13, chiamo con Dio a testimonio che dove dapprima gettai lo sguardo, vi lessi: «e van-
13-14).
23 Antonio: sant’Anto-
no gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie cor-
nio. renti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi».20 155
24 tralignando: devian-
do.
Stupii, lo confesso; e pregato mio fratello che desiderava udire altro di non distur-
25 il poeta:Virgilio, Geor- barmi, chiusi il libro, sdegnato con me stesso dell’ammirazione che ancora provavo
giche, II, 490-92. «Come è per cose terrene quando già da tempo, dagli stessi filosofi pagani,21 avrei dovuto im-
noto i versi virgiliani sono
invece un omaggio all’ope- parare che niente è da ammirare tranne l’anima, di fronte alla cui grandezza non c’è
ra di Lucrezio» (Dotti). nulla di grande. 160
Soddisfatto oramai, e persino sazio della vista di quel monte, rivolsi gli occhi del-
la mente in me stesso e da allora nessuno mi udì parlare per tutta la discesa: quelle pa-
role tormentavano il mio silenzio. Non potevo certo pensare che tutto fosse accaduto
casualmente; sapevo anzi che quanto avevo letto era stato scritto per me, non per al-
tri; tanto più che ricordavo ciò che di se stesso aveva pensato Agostino quando, 165
aprendo il libro dell’Apostolo, come lui stesso racconta, lesse queste parole: «non goz-
zoviglie ed ebbrezze, non lascivia e impudicizie, non risse e gelosia, ma rivestitevi del
Signore Gesù Cristo, e non seguite la carne nelle sue concupiscenze».22 La stessa co-
sa era già accaduta ad Antonio23 quando, leggendo nel Vangelo «se vuoi essere per-
fetto, va’, vendi quello che possiedi e dallo ai poveri; vieni, seguimi e avrai un teso- 170
ro nei cieli», come se quelle parole fossero state scritte per lui (lo dice Atanasio au-
tore della sua vita), si guadagnò il regno celeste. E come Antonio, udite quelle paro-
le, non chiese altro; e come Agostino, letto quel passo, non andò oltre, così anch’io
raccolsi tutta la mia lettura in quelle parole che ho riferito, riflettendo in silenzio
quanta fosse la stoltezza degli uomini i quali, trascurando la loro parte più nobile, si 175
disperdono in mille strade e si perdono in vani spettacoli, cercando all’esterno quel-
lo che si potrebbe trovare all’interno; pensando a quanta sarebbe la nobiltà del no-
stro animo se, di per sé tralignando,24 non si allontanasse dalle sue origini e non con-
vertisse in vergogna le doti che Dio gli diede in suo onore. Quante volte quel gior-
no – credilo – sulla via del ritorno ho volto indietro lo sguardo alla cima del mon- 180
te! Eppure mi parve ben piccola altezza rispetto a quella del pensiero umano, se non
viene affondata nel fango delle turpitudini terrene. Ed anche questo pensiero mi ven-
ne quasi ad ogni passo: se non ho esitato a spendere tanta fatica e sudore per acco-
stare solo di un poco il mio corpo al cielo, quale croce, quale carcere, quale tormento
potrebbero atterrire un’anima nel suo cammino verso Dio, mentre calpesta le su- 185
perbe vette della temerarietà e gli umani destini; e quest’altro: quanti non vengono
distratti da questo sentiero per timore dei patimenti o per amore dei piaceri? Vera-
mente felici, se pur ce ne sono, coloro dei quali credo volesse dire il poeta:25 «felice
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12. Francesco Petrarca T 12.3

chi poté scoprire il perché delle cose e tiene sotto di sé calpestato ogni timore e il de-
stino implacabile e lo strepito dell’esoso Acheronte». Ma quanta fatica dovremo du- 190
rare per tenere sotto i piedi non una terra più alta, ma le passioni che si levano da
istinti terreni!
Tra questi ondeggianti sentimenti del mio cuore, senza accorgermi del sassoso sen-
tiero, nel profondo della notte tornai alla capanna da cui m’ero mosso all’alba, e il
chiarore della luna piena ci era di dolce conforto, nel cammino. Mentre poi i servi 195
erano affaccendati nel preparare la cena, mi sono ritirato tutto solo in un angolo del-
la casa per scriverti, in fretta e quasi improvvisandole, queste pagine; non volevo in-
fatti che, differendole, magari mutando con i luoghi i sentimenti, mi si spegnesse il
desiderio di scriverti. Tu vedi dunque, amatissimo padre, come io non ti voglia na-
scondere nulla di me, io che con tanta cura ti svelo non solo tutta la mia vita, ma tut- 200
ti i miei segreti pensieri, uno per uno; prega per essi, te ne supplico, perché erranti e
incerti da tanto tempo, finalmente si arrestino, e dopo essere stati trascinati inutil-
mente per ogni dove, si rivolgano all’unico bene, veramente certo e duraturo. Addio.

26 aprile, Malaucena 205

Guida all’analisi
Una pagina di autobiografia ideale Questa che narra l’ascesa al monte Ventoso è una pagina di autobiografia let-
teraria, scritta per emulare sant’Agostino, che nelle Confessioni narra l’incontro rivelatore
con un passo della Lettera ai Romani di san Paolo, che egli sente rivolto a se stesso e che con-
tribuisce a determinare la sua conversione. Petrarca la dice scritta di getto la sera stessa del-
l’ascesa, ma secondo Billanovich la lettera venne composta molto più tardi, nel 1355. Anche
la data esatta dell’impresa non è certa. Il fatto che Petrarca la collochi a dieci anni esatti dal-
la morte del padre (cfr. nota 16) appare sospetto e certo ha valore simbolico: dopo la morte
del padre dieci anni di traviamento e trascuranza dei valori supremi preludono all’improvvi-
sa presa di coscienza di sé e della via retta da seguire per divenire veramente adulto, un uomo
nel più nobile e alto senso che Petrarca attribuisce al termine. Noi sappiamo che il suo cam-
mino verso la scoperta dei valori religiosi e la rivalutazione della letteratura cristiana fu un
processo lungo e complesso e che un ruolo vi ebbe proprio quel Dionigi destinatario di
questa lettera, che gli donò una copia tascabile delle Confessioni. Petrarca insomma emula
sant’Agostino e rende omaggio all’amico Dionigi costruendo una pagina di autobiografia
ideale, di cui non è possibile determinare quanta sia la parte di verità storica e quanta la par-
te di finzione. Certo la lettera è autentica in un ampio senso morale: è indubbio che la let-
tura delle Confessioni, avvenuta già prima del 1336, fu un incontro decisivo per Petrarca, che
nel Secretum chiama proprio sant’Agostino a svolgere il ruolo di suo confessore e padre spi-
rituale. Ma quella che Petrarca dà qui della sua scoperta è una versione drammatizzata.
Un viaggio simbolico Che l’ascesa al Ventoso – o il «viaggio» (iter) com’egli pure lo chiama adottando un con-
cetto di notevole pregnanza per la cultura cristiana – sia un racconto simbolico, tutto intes-
suto di implicazioni morali è chiaro sin dalle prime battute. La citazione virgiliana («labor
omnia vincit improbus», «l’ostinata fatica vince ogni cosa») che apre il racconto della salita
ha già di per sé un valore morale e ci fa capire che il senso di ciò che stiamo leggendo ha
un valore più generale che può estendersi a tutte le imprese umane. Così il vecchio che
tenta di dissuadere i viandanti rappresenta l’umanità comune e volgare, per cui il viaggio
non può costituire un’esperienza di ascesa spirituale, di rinnovamento interiore. Alla «delu-
sione e fatica» del vecchio pastore si contrappongono l’idea della fatica come un valore di
per sé (il labor virgiliano indica laboriosità, perseveranza, impegno) come l’elemento neces-
sario per compiere le grandi imprese umane, sia pratiche che conoscitive, sia sacre che pro-
fane, e la gioia, il turbamento, la stupefazione della scoperta interiore che è appannaggio del
sapiente. La salita, con le sue difficoltà, è specchio della vita; così come le debolezze dell’in-
dividuo che ricerca sentieri più agevoli, che però lo allontanano dalla meta. Anche il lessico

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Duecento e Trecento

dimostra questa implicazione: «annoiatomi e pentito oramai di questo girovagare» (poi dirà
«errabondare», termine ancor più negativo) allude ad esempio alla noia che le occupazioni
banali producono nell’animo dell’uomo non comune e al senso di colpa di chi si distoglie
da più alte mete, siano essere culturali o spirituali. A tali mete e alla fermezza d’animo ne-
cessaria per raggiungerle allude l’espressione «puntare direttamente verso l’alto», che non è
ovviamente solo un’indicazione geografica.
Auctoritates classiche e cristiane Uno dei fatti più notevoli e rivelatori del racconto è la continua commistio-
ne di riferimenti ad auctoritates classiche e cristiane, sentite come cooperanti al fine dell’ele-
vazione morale, della conversione da una vita materiale a una vita spirituale. Ciò rivela chia-
ramente come Petrarca, con inclinazione già umanistica, senta le due culture come profon-
damente affini, tutt’altro che antitetiche. Quando ci dà la chiave simbolica e morale di let-
tura del racconto nel lungo passo in cui «trascorrendo rapidamente dalle cose corporee alle
incorporee» riflette fra sé e sé sul significato dell’esistenza, le autorità che cita sono bibliche
(un celebre passo del Vangelo di Matteo) e classiche (Ovidio), anche se il discorso volge qui
verso significati prevalentemente religiosi («cadere spossato nelle valli dei tuoi peccati»; «vi-
vere una notte eterna in perpetui tormenti»). Giunto sulla vetta Petrarca è sconvolto e qua-
si «istupidito» dallo «spettacolo grandioso» che si presenta ai suoi occhi. Di nuovo lo soc-
corrono paragoni ed esempi classici: l’altezza del monte Athos e dell’Olimpo, l’episodio li-
viano della traversata delle Alpi da parte di Annibale; ma subito il suo pensiero si rivolge a
Dio e al senso della propria esistenza: è un vero e proprio esame di coscienza, che riguarda
la sua esperienza degli ultimi dieci anni, le sue debolezze, l’amore per le cose terrene (Lau-
ra, il desiderio di gloria). Infine – e siamo al momento cruciale, verso cui il racconto con-
cepito in emulazione con sant’Agostino converge – gli capita di aprire il libro delle Confes-
sioni, che egli dice di portare sempre con sé: ad apertura di pagina l’occhio gli cade su una
frase che sembra fatta apposta per lui e che sigla il senso di tutta la sua esperienza odierna e
passata: «e vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti … e trascurano se stessi». È
questo il momento in cui egli simbolicamente dichiara di volgere «gli occhi della mente in
sé stesso», in cui cioè la scoperta della propria interiorità raggiunge il culmine drammatico.
E di nuovo la parola cristiana è paragonata a quella pagana: infatti subito dopo egli, sdegna-
to con se stesso per la propria debolezza, ricorda che «già da tempo, dagli stessi filosofi pa-
gani avrebbe dovuto imparare che niente è da ammirare tranne l’anima, di fronte alla cui
grandezza non c’è nulla di grande».
«Quell’uomo doppio che è in me» Il tema della conversione però è trattato nella forma moderna e problemati-
ca che sappiamo propria del nostro autore. Quando infatti considera i valori mondani da
cui comprende di doversi distogliere, Petrarca confessa di non poter fare a meno di conti-
nuare ad amarli, ma ad amarli «con più vergogna, con più tristezza», «nella costrizione, nel
pianto, nella sofferenza». Confessa insomma la duplicità del suo animo («una battaglia ancor
oggi durissima e incerta per il possesso di quel doppio uomo che è in me»), continuamen-
te oscillante tra sacro e profano, tra propositi di ascesa spirituale e tentazioni che lo spingo-
no verso il basso. È il tema dell’incostanza, dell’irresolutezza, dell’intima conflittualità che
caratterizza tutta l’opera di Petrarca, compreso il Canzoniere.

Laboratorio 1 Questa lettera è di solito proposta come personaggi del passato. Soffermati su
COMPRENSIONE testimonianza della “scoperta dell’interio- quello della scalata del monte (rr. 6-14) e
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE rità”, secondo un modello al tempo stes- quello, fondamentale, della lettura sulla
so classico e cristiano. Ripercorri nel te- vetta (rr. 168-182). Spiega il significato
sto, esponendone il senso con parole tue, i dei due paragoni.
momenti in cui più sensibilmente Petrar- 3 Analizza nel testo il motivo della lotta in-
ca ci vuole comunicare il senso di questa teriore. In quali punti è trattato? Che si-
“scoperta”. È possibile individuare una gnificato gli si deve attribuire nella dina-
gradazione di momenti? mica del racconto e più in generale nel-
2 In diversi punti della lettera Petrarca pa- l’opera di Petrarca?
ragona l’esperienza propria a quella di
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12. Francesco Petrarca T 12.3

Doc 12.4 Una solitudine non ascetica

Che poi la scoperta dell’interiorità, la (conflittuale) conversione ai valori dello spirito sia
condotta in termini moderni e antiascetici, lontani da quelli del rigorismo cristiano medie-
vale, emerge chiaramente da tutta la biografia e l’esperienza culturale petrarchesca. A que-
sto proposito Garin ci spiega il senso moderno e costruttivo del suo ritirarsi in solitudine.
E. Garin, Ritirarsi in solitudine significava per Petrarca ritrovare tutta la ricchezza della propria in-
L’Umanesimo italiano,
Laterza, Roma-Bari teriorità, ritrovare il contatto con Dio, aprirsi la strada a un valido contatto col prossimo. La
1984, p. 29 solitudine non era monastico ritiro in barbaro isolamento, ma iniziazione a una società più
vera, a una charitas effettiva. L’appello all’interiorità che Petrarca rinnova in termini agosti-
niani non suona isolamento, ma esaltazione del mondo umano, del mondo dei valori e del-
l’azione, del linguaggio e della società che congiunge oltre il tempo e lo spazio, oltre ogni
limite. La celebre epistola a frate Dionigi da Borgo San Sepolcro, ove descrive l’ascesa sul
monte Ventoso, è la presentazione vivissima di questa conversione dalla natura allo spirito,
necessaria premessa per una nuova valutazione del regno dello spirito.

Doc 12.5 «Davanti agli occhi del mio cuore»

Ecco ora il passo delle Confessioni di sant’Agostino a cui si ispira e a cui fa direttamente ri-
ferimento Petrarca nella familiare che abbiamo appena letto.

Quando dal più segreto fondo della mia anima l’alta meditazione ebbe tratto e ammas-
sato tutta la mia miseria davanti agli occhi del mio cuore, scoppiò una tempesta ingente,
grondante un’ingente pioggia di lacrime. Per scaricarla tutta con i suoi strepiti mi alzai e
mi allontanai da Alipio, parendomi la solitudine piú propizia al travaglio del pianto, quan-
to bastava perché anche la sua presenza non potesse pesarmi. In questo stato mi trovavo al-
lora, ed egli se ne avvide, perché, penso, mi era sfuggita qualche parola, ove risuonava or-
mai gravida di pianto la mia voce; e in questo stato mi alzai. Egli dunque rimase ove ci
eravamo seduti, immerso nel più grande stupore. Io mi gettai disteso, non so come, sotto
una pianta di fico e diedi libero corso alle lacrime. Dilagarono i fiumi dei miei occhi, sa-
crificio gradevole per te, e ti parlai a lungo, se non in questi termini, in questo senso: «E tu,
Signore, fino a quando? Fino a quando, Signore, sarai irritato fino alla fine? Dimentica le nostre pas-
sate iniquità». Sentendomene ancora trattenuto, lanciavo grida disperate: «Per quanto tem-
po, per quanto tempo il “domani e domani”? Perché non subito, perché non in quest’ora
la fine della mia vergogna?».
Così parlavo e piangevo nell’amarezza sconfinata del mio cuore affranto. A un tratto dal-
la casa vicina mi giunge una voce, come di fanciullo o fanciulla, non so, che diceva can-
tando e ripetendo più volte: «Prendi e leggi, prendi e leggi». Mutai d’aspetto all’istante e
cominciai a riflettere con la massima cura se fosse una cantilena usata in qualche gioco di
ragazzi, ma non ricordavo affatto di averla udita da nessuna parte. Arginata la piena delle
lacrime, mi alzai. L’unica interpretazione possibile era per me che si trattasse di un coman-
do divino ad aprire il libro e a leggere il primo verso che vi avrei trovato. Avevo sentito di-
re di Antonio che ricevette un monito dal Vangelo, sopraggiungendo per caso mentre si
leggeva: «Va’, vendi tutte le cose che hai, dàlle ai poveri e avrai un tesoro nei cieli, e vieni, seguimi».
Egli lo interpretò come un oracolo indirizzato a se stesso e immediatamente si rivolse a te.
Cosí tornai concitato al luogo dove stava seduto Alipio e dove avevo lasciato il libro del-
l’Apostolo all’atto di alzarmi. Lo afferrai, lo aprii e lessi tacito il primo versetto su cui mi
caddero gli occhi. Diceva: «Non nelle crapule e nell’ebbrezze, non negli amplessi e nelle
impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo né
assecondate la carne nelle sue concupiscenze». Non volli leggere oltre, né mi occorreva.
Appena terminata infatti la lettura di questa frase, una luce, quasi, di certezza penetrò nel
mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono.

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Duecento e Trecento

T 12.4 Secretum 1347-1353


L’amore delle cose terrene fa trascurare Dio
F. Petrarca Dopo aver accusato Francesco di non aver desiderato abbastanza intensamente la pro-
Secretum pria salvezza (I libro) e aver passato in rassegna le colpe di cui egli si è macchiato nel
a c. di E. Carrara, corso della vita (II libro), Agostino, nell’ultimo libro del Secretum, concentra la sua re-
Einaudi, Torino 1977
quisitoria e le sue argomentazioni sulle «due catene» che ancora gravano sull’animo del
suo interlocutore: l’amore e la gloria. Entrambe queste passioni, che Francesco definisce
«i due più luminosi ideali» che illuminano la sua anima, secondo Agostino invece distol-
gono l’uomo dalla ricerca di Dio.
Nel passo che riportiamo, dopo averlo rimproverato d’aver amato il corpo e non l’a-
nima di Laura e dopo confutato la tesi di Francesco (ma già stilnovistica) che l’amore
per Laura sarebbe un tramite per amare Dio, Agostino cerca di dimostrare al poeta che
il suo traviamento morale è tutt’uno con l’amore per la donna da lui celebrata, che
questo amore è stato ed è colpevole ed è causa per lui di infiniti affanni. In particolare
ora Agostino domanda a Francesco se ricorda quanto grande fosse il suo timor di Dio
nella puerizia e quando viceversa cominciasse a mutare costumi...

1 ciò: il traviamento, Ag. Ma in quale punto della tua età ciò1 accadde?
l’inclinazione al peccato. Fr. A metà del fervore dell’adolescenza; e se attendi un momento, facilmente ri-
2 Stupì... Didone: an-
cora dall’Eneide (I, 613), co- corderò quale fosse allora il mio anno di età.
me la cit. successiva (IV, Ag. Non richiedo un calcolo così esatto; ma piuttosto precisa questo: quando ti è
101); sidonia è appellativo di
Didone, da Sidone, città fe- apparsa per la prima volta la beltà di quella donna? 5
nicia, sua patria. Fr. Oh, sì, non lo dimenticherò mai.
3 che ti figuri... al cielo:
è uno degli argomenti uti- Ag. Metti dunque in relazione i due tempi.
lizzati da Francesco a difesa Fr. Veramente il suo incontro e il mio traviamento accaddero nello stesso tempo.
del proprio amore, nelle pa-
gine precedenti del trattato. Ag. Ho quel che voleva. Credo che tu stupisti, che ti abbacinò gli occhi quel-
4 adamantino: di dia- l’insolito fulgore. Si dice infatti che lo stupore è dell’amore; di qui trasse quel no- 10
mante, purissimo, incorrut- stro poeta così esperto della natura il suo: «Stupì al primo vederlo la sidonia Dido-
tibile.
5 le parole di Seneca: ne»,2 al che segue poi l’espressione: «Arde d’amore Didone.» E benché quella, co-
nella Phaedra, vv. 195-6. me sai benissimo, sia tutta una narrazione fantastica, pure il poeta, anche inventan-
6 Dunque... negavi: se
Laura fu incorruttibile – ar- do, tenne presente la realtà naturale. Ma tu, essendoti stupito all’incontrarla, per
gomenta Agostino – è segno quale motivo specialmente piegasti per la sinistra via? 15
che Francesco tentò o sperò
di poterla sedurre. Fr. Credo perché appariva più agevole e aperta; la destra infatti è ardua ed angu-
7 voglio... voglio: inver- sta.
tito l’ordine, è citazione da
Terenzio (Phorm., V, 950). Ag. Dunque temesti la fatica. Ma questa donna così egregia, che ti figuri sicuris-
«Per le contraddizioni e l’in- sima guida al cielo,3 perché quando eri esitante e trepidante non ti diresse e, come
costanza nei desideri, cfr. si suol fare con gli altri ciechi, non ti tenne per mano, non ti indicò dove avessi a 20
anche Rime, CXXXII,
CXXXIV» (Bufano). passare?
Fr. Lo fece ella, per quanto poté. E in realtà non agì forse in questo senso quan-
do, immobile ad ogni preghiera, invitta contro ogni seduzione, conservò la sua
onestà di donna e, a malgrado della sua e insieme della mia età, a malgrado di mol-
te e varie circostanze che avrebbero potuto piegare anche uno spirito adamantino,4 25
rimase inespugnabile e salda? Senza dubbio quel suo animo femminile insegnava a
un uomo il dover suo e procurava che a perseguire un ideale di pudore (per usare
le parole di Seneca)5 non mi mancasse né l’esempio né il rimprovero. Alla fine, vi-
stomi avere rotte le redini e in fuga, preferì abbandonarmi anzi che seguirmi.
Ag. Dunque a volte hai desiderato qualche cosa di disonesto: il che dianzi nega- 30
vi.6 Ma questo è il solito delirare degli amanti, o dirò meglio dei dementi; di tutti i
quali può dirsi: «voglio, non voglio: non voglio, voglio».7 Che cosa vogliate e non
vogliate è ignoto a voi stessi.
Fr. Sono caduto incauto nel laccio. Ma se un tempo io ebbi forse altri desideri,
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12. Francesco Petrarca T 12.4

mi ci indussero l’amore e l’età; ora so bene quel che voglio e quel che bramo, ed 35
ho finalmente reso saldo l’animo oscillante. Ella al contrario rimase sempre tenace
nel suo proposito e sempre la stessa. Costanza femminile che tanto più ammiro
quanto più riconosco; e se altra volta mi dolsi che tale fosse il volere suo, ora ne
godo e la ringrazio.
Ag. A uno che è caduto una volta, non è facile si presti fede di nuovo. Tu mute- 40
rai costumi e modo di vita, innanzi di far credere d’aver mutato l’animo. Sarà forse
mitigato e attenuato il tuo fuoco, ma estinto di certo non è. Ma tu che attribuisci
tanto merito alla tua Diletta, non avverti quanto condanni te assolvendo essa? Gio-
va riconoscere che ella sia stata santissima, mentre tu ti confessi folle e colpevole; ed
anche felicissima, mentre tu, per il suo amore, infelicissimo. Così infatti, se ricordi, 45
ho incominciato.
Fr. Lo ricordo sì, e non oso negare che sia così, e veggo dove a poco a poco mi
hai fatto arrivare.
Ag. Perché tu lo vegga più chiaro, attendi qui. Non c’è nulla che produca l’oblio
e la trascuranza di Dio al pari dell’amore delle cose terrene; di quello specialmen- 50
te che chiamano per proprio nome Amore e (ciò che trascende ogni sacrilegio)
8 se ha aggiunto... que-
anche dio: forse per addurre una scusa celeste ai deliri umani, e perché l’immane
stione: nella frase ciceronia-
na (Tuscolane, IV, 35, 75) il «di colpa si giustifichi con l’addurre l’influsso divino. Né c’è da stupirsi che tanto pos-
certo», rileva Petrarca, «sta sa questo sentimento nei petti umani; agli altri beni, infatti, vi trae il piacere della
ad indicare un grado di cer-
tezza notevole, in chi secon- cosa veduta, lo sperato diletto di fruirne e l’impeto del vostro proprio sentire. Nel- 55
do la dottrina della nuova l’amore invece c’è tutto questo insieme, e per di più si accende un mutuo affetto;
Accademia asseriva, come
Cicerone,che la conoscenza ché, se è spenta al tutto questa speranza, anche l’amore conviene si attenui. Così
umana non può giungere a dunque se negli altri casi siete soltanto amanti, qui siete anche amati, e il petto dei
certezza ma solo seguire il mortali è eccitato quasi da stimoli alterni; talché mi sembra che il nostro Cicerone
probabile» (Carrara).
9 Omero... umane: non abbia avuto torto di dire che di tutte le passioni dell’animo di certo nessuna è 60
«Son due versi di Omero più veemente dell’amore. Doveva esserne ben sicuro, se ha aggiunto quel «di certo»
(Iliade,VI, 201-2) che il Pe-
trarca cita qui nella tradu- lui, che per quattro libri aveva preso le difese dell’Accademia, che dubitava d’ogni
zione di Cicerone (Tuscola- questione.8
ne, III, 26, 63...)» (Carrara).
Bellerofonte, eroe mitico, Fr. Ho notato più volte quel passo e mi sono stupito che così chiamasse questa
errava solitario perché dive- passione più veemente di tutte. 65
nuto odioso agli dei in
quanto (secondo alcuni, ma Ag. Non ti meraviglieresti punto, se non fosse che l’oblio ti ha invaso l’animo;
non così Omero) avrebbe certo hai bisogno di essere richiamato con un breve ammonimento alla memoria
voluto salire in cielo sul suo di molti mali. Ricorda ora come d’un subito, dal punto che questo malanno s’insi-
cavallo alato, Pegaso.
gnorì della tua mente, volto tutto al pianto, giungesti a tal estremo d’infelicità, che
con una mortale voluttà ti pascevi di lagrime e di sospiri: quando le notti ti passa- 70
vano insonni e restava sul tuo labbro il nome dell’amata; quando ti sorse aborri-
mento per ogni cosa, l’odio della vita e il desiderio della morte; e il triste amore
della solitudine e il fuggire dagli uomini; sì che non meno propriamente si poteva
dire di te quello che Omero disse di Bellerofonte «il quale errava triste e piangen-
te per stranieri campi, rodendosi il cuore ed evitando le vestigia umane».9 Di qui il 75
pallore e la magrezza e il languire anzi tempo del fiore della giovinezza; e allora gli
occhi tristi e perpetuamente umidi; allora la mente ottenebrata e turbata la pace
dei sonni; flebili lamenti se dormivi, voce fioca e roca pel pianto; spezzato e inter-
rotto il suono delle parole, e quanto di più affannoso e dolente si possa immagina-
re. Ti paiono questi segni di salute? Che dire del fatto che ella ti recava e ti toglie- 80
va la letizia e la tristezza delle giornate? Al suo apparire splendeva il sole, e al suo
allontanarsi tornava la notte. Il mutare del suo ciglio ti mutava l’animo; a seconda
del suo variare ti facevi lieto o mesto; insomma dipendevi in tutto dal suo arbitrio.
Sai che enumero cose vere e note anche al volgo. E ancora: qual maggior follia di
quando, non contento di contemplare di presenza le sembianze da cui ti erano de- 85

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Duecento e Trecento

10 artista famoso: il pit- rivati tutti questi mali, te ne procurasti un’altra dipinta dal genio di un artista fa-
tore senese Simone Martini,
attivo nel XIV secolo, auto- moso;10 e la portavi teco per tutto, per avere sempre occasione di perpetue lagrime.
re di un ritratto di Laura (cfr. Temendo forse non avessero a inaridirsi, cercasti con ogni diligenza tutto ciò che le
Rime LXXVII-LXXVIII); provocasse, trascurato e negligente in ogni altra cosa. Ovvero – per giungere al su-
ma «il ritratto della bella è
motivo già diffuso nella premo colmo dei tuoi deliri e per compiere quanto poco addietro ti ho minaccia- 90
poesia provenzale e quindi to – chi potrà condannare adeguatamente quell’insania di una mente stravolta e
siciliana» (Carrara).
11 laurea... Cirra: «Cfr. p. stupirsene, quando tu, conquistato dallo splendore non meno del suo nome che
es. Rime, V, in cui il nome del suo corpo, con incredibile vanità hai adorato ogni cosa che a quello consonas-
“Laureta”è scomposto nelle
sue tre sillabe;XXX,CXLII, se? Per la seguente ragione hai cotanto amato la laurea o degli imperatori o dei
CXLVIII ecc. Il Peneo è un poeti; perché con tal nome ella si chiamava; e da quel tempo non ti uscì, credo, dal- 95
fiume della Tessaglia; Cirra,
una delle cime del Parnaso» la penna alcuna poesia, senza che vi fosse menzione dell’alloro, non altrimenti che
(Bufano). se fossi un rivierasco del fiume Peneo o un sacerdote del vertice di Cirra.11 Alla fi-
12 la cesarea: l’alloro
concesso agli imperatori.
ne, poiché la cesarea12 non ti era lecito sperare, almeno la laurea poetica, che il me-
13 pervenisti ad ottener- rito de’ tuoi studi ti prometteva, bramasti non più moderatamente di quanto aves-
la: Petrarca conseguì la “lau- si amata la Donna stessa, e ricordando ora fra te e te con quanta fatica pervenisti ad 100
rea” in Campidoglio l’8
aprile del 1341. ottenerla13 benché sorretto dall’ali dell’ingegno, ne inorridirai. Non mi sfugge,
14 a Roma e a Napoli: a mentre ti veggo preparato a rispondere e sul punto d’aprir bocca, ciò che ti passa
Roma cinse l’alloro poetico,
a Napoli fu interrogato – nell’animo. Pensi infatti che ti eri dedicato a questi studi alquanto prima che anche
per essere dichiarato degno amassi; e che quell’onore poetico ti aveva eccitato l’animo sin dagli anni puerili: il
di tale onore – dal re Rober-
to d’Angiò. che io in verità né pongo in forse né ignoro. Ma non c’è dubbio che per essere 105
questa una costumanza scaduta da molti secoli, e per essere la presente età avversa a
tali studi; e per i pericoli delle lunghe vie, onde giungesti alle soglie non solo del
carcere ma della morte, e per altri ostacoli della fortuna non meno aspri, il tuo pro-
posito si sarebbe ritardato o forse frustrato, se la memoria di quel dolcissimo nome,
continuamente incalzandoti l’animo e togliendoti il fascio dell’altre cure, per terre 110
e per mari tra gli scogli di tante difficoltà non ti avesse tratto a Roma e a Napoli,14
ove finalmente quello, che così ardentemente desideravi, conseguisti. Chi tutto ciò
non giudicasse indizio di grave pazzia, son certo che da grave pazzia dovrebbe dir-
si afflitto anche lui.

Guida all’analisi
Confutazione della tesi di Laura come «sicurissima guida al cielo» Come s’è detto nella premessa, Francesco
nelle pagine precedenti aveva difeso il suo amore per Laura definendola – come qui gli ri-
corda sarcasticamente Agostino, rr. 18-19 – «sicurissima guida al cielo». Il contraddittorio di
Agostino procede per gradi: dapprima fa ammettere a Francesco che l’inizio del suo travia-
mento spirituale coincise con l’innamoramento per quella donna (rr. 1-8), poi direttamen-
te contesta la funzione di Laura come guida al bene («perché quando eri esitante e trepi-
dante non ti diresse…?», r. 19) e, alla replica di Francesco (lo fece mostrandosi onesta e pu-
dica e resistendo alle preghiere e alle seduzioni), smaschera la natura terrena e passionale di
quell’amore («Dunque a volte hai desiderato qualche cosa di disonesto», r. 30) e conclude
che proprio la santità di Laura condanna Francesco («non avverti quanto condanni te assol-
vendo essa? Giova riconoscere che ella sia stata santissima, mentre tu ti confessi folle e col-
pevole…», rr. 43-44). La confutazione della tesi di Francesco ha ormai raggiunto il suo
obiettivo principale: dimostrare che l’amore per Laura è stato un amore «folle e colpevole»,
che considerarlo una ‘scala a Dio’ era semplicemente un’astuzia dialettica, un autoinganno o
una forma di ipocrisia, e che infine la moralità della persona amata non ha nulla a che ve-
dere con la natura dell’amore nutrito dall’amante, non influisce su di essa.
Fenomenologia della passione amorosa Ma Agostino non si ferma qui: la sua incalzante confutazione della te-
si di Francesco si tramuta lentamente in una sottile e approfondita analisi psicologica e
morale dell’innamorato, una sorta di fenomenologia della passione amorosa. Quando
Francesco riconosce la propria passata debolezza e incostanza, ma dice di avere ormai re-

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12. Francesco Petrarca T 12.4

so saldo l’animo oscillante e di essere pronto a seguire l’esempio morale fornitogli da Lau-
ra, Agostino gli profetizza nuove debolezze e nuovi affanni perché il suo amore è forse mi-
tigato ma non è estinto (rr. 55-57). Da questa premessa nelle due ultime lunghe battute di
Agostino, interrotte ormai solo da una precisazione di Francesco, si sviluppa l’analisi dei
passati (e futuri) affanni di Francesco, che sono gli affanni di tutti gli amanti. L’incostanza
e l’oscillazione (negli umori, nei sentimenti, nei propositi) sono l’aspetto più generale, da
cui discendono «il piacere della cosa veduta, lo sperato diletto di fruirne e l’impeto del vo-
stro proprio sentire» (rr. 54-55), nonché talora il «mutuo affetto» (r. 56), ma anche le la-
grime, i sospiri, l’insonnia, i deliri notturni, l’odio della vita e il desiderio della morte, il
triste amore della solitudine e il desiderio di fuggire gli uomini, la mutevolezza di stati d’a-
nimo per la presenza o l’assenza dell’amata, l’adorazione del suo stesso nome e degli og-
getti che gli consuonano (per Francesco il lauro, la laurea) quasi sostituti dell’amata, ecc.
Tra moralismo cristiano e filosofia classica L’argomentazione e l’analisi di Agostino sono condotte sulla base di
una tradizione composita e complessa, che comprende la letteratura volgare medievale e
quella d’amore cortese e stilnovistica in particolare, ma che ha i suoi due principali referen-
ti ideologici nella filosofia classica e nel moralismo cristiano. Li troviamo forse sintetizzati in
un passo successivo (non antologizzato), dove Petrarca sostiene che l’amore «genera la tra-
scuranza di Dio insieme e di se stessi». Anche se a rigore non è possibile scindere i due ele-
menti, la trascuranza di Dio rimanda piuttosto alla cultura cristiana e l’oblio di se stessi a
quella classica. L’amore terreno e sensuale, nella prospettiva del moralismo cristiano, è infat-
ti colpevole essenzialmente perché distoglie l’animo dal Bene supremo volgendolo a cose
effimere. Nella prospettiva della filosofia morale classica (e stoica in particolare), che elabo-
ra un ideale di saggezza come assenza di passioni (apàtheia) o di controllo razionale di esse,
l’amore è da fuggire in quanto è la passione più veemente e incontrollabile (com’è detto, ci-
tando Cicerone, alla r. 59), che determina nell’individuo una sorta di alienazione, cioè di
spossessamento di sé (cfr. il dipendere totalmente dall’arbitrio dell’amata, rr. 80-83), che è
molto vicino alla alienazione mentale, alla follia (rr. 84-87 e 89-92, «un’insania di una men-
te stravolta»). Pensare di poter moderare con l’ausilio della ragione questa passione, una vol-
ta che la si è lasciata scatenare, è impossibile, è un paradosso come credere di poter «impaz-
zire assennatamente».
La figura di Agostino nel Secretum incarna insomma l’ideale sincretismo culturale di Pe-
trarca, che vede la cultura classica e quella cristiana cooperanti e concordi specialmente in
campo morale. Sant’Agostino, il grande moralista cristiano, si presta bene ad assumere que-
sta funzione in quanto, come sappiamo, aveva avuto una formazione culturale classica. Ri-
velatore di questo ideale sincretismo nel testo che abbiamo letto è anche il fatto che il Padre
della Chiesa svolga la sua argomentazione infittendola di citazioni quasi esclusivamente
classiche (da Omero a Cicerone, da Virgilio a Seneca).
Il Secretum come autocommento al Canzoniere Tutti i temi che abbiamo menzionato sono presenti anche nel
Canzoniere, tanto che questo ed altri passi del Secretum possono essere considerati, oltre che
una disamina morale della passione d’amore, anche un autocommento al Canzoniere. Que-
sto passo in particolare illustra lo schema narrativo e concettuale della raccolta poetica, la
cui idea in quanto canzoniere narrativo incentrato sul tema della conversione – come ha di-
mostrato Santagata – nasce probabilmente in parallelo con il Secretum e con le raccolte epi-
stolari delle Familiari e delle Metriche.

Laboratorio 1 Quali aspetti della cultura cortese e stil- Canzoniere, prova a individuare i passi che
COMPRENSIONE novistica sono riconoscibili nel testo? In- hanno diretta attinenza con le più signifi-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE dica i passi a te noti che possono essere cative affermazioni del Secretum. Per ogni
citati per verificare la presenza di questa testo del Canzoniere prendi un appunto
tradizione nell’opera di Petrarca. per un rinvio al relativo passo del Secre-
2 Mano a mano che leggerai i testi del tum.

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Duecento e Trecento

T 12.5 Canzoniere 1348-1374


Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono (I)
F. Petrarca È questo il sonetto proemiale del Canzoniere, che «sa, però, d’epilogo» (Chiòrboli). Qui
Canzoniere infatti il poeta, ormai in età matura, ci propone una meditazione a posteriori sulla pro-
testo critico di G. Contini, pria esperienza giovanile. Il sonetto è però al tempo stesso anche una riflessione sulla
Einaudi, Torino 1984
condizione presente e sul senso del suo scrivere versi.
Il fatto che questo sonetto retrospettivo sia collocato all’inizio comporta anche che il
lettore percepisca i componimenti che seguono (quelli che raccontano l’amore per
Laura come attuale) come in una sorta di grande flash-back (Noferi). Quanto alla data
reale di composizione, gli studiosi sono incerti: c’è chi lo ritiene composto nel 1347 (in
vita di Laura) e chi nel periodo 1348-1350 (in morte di Laura).

Nota metrica Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono


Sonetto a schema ABBA,
ABBA, CDE, CDE. di quei sospiri ond’io nudriva ’l core
in sul mio primo giovenile errore
1 Voi: invocazione al 4 quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono:
proprio pubblico, che al
tempo del Petrarca è ormai
un pubblico in prevalenza di del vario stile in ch’io piango et ragiono,
lettori, anche se qui egli fin-
ge che sia di ascoltatori .– ri- fra le vane speranze e ’l van dolore,
me sparse: allude al com- ove sia chi per prova intenda amore,
plesso dell’opera e al titolo
latino, Rerum vulgarium frag- 8 spero trovar pietà, nonché perdono.
menta.
2 di quei... core: di quei
sospiri di cui io nutrivo il Ma ben veggio or sì come al popol tutto
mio cuore. favola fui gran tempo, onde sovente
3 in sul... errore: al tem-
po del mio giovanile svia-
11 di me medesmo meco mi vergogno;
mento (l’amore per Laura).
4 quand’era... sono: et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,
l’antitesi tra il passato (era) e
il presente (sono) è parziale e ’l pentérsi, e ’l conoscer chiaramente
(in parte altr’uom) perché 14 che quanto piace al mondo è breve sogno.
anche al momento di scri-
vere Petrarca non si sente
completamente liberato interiore a cui mostra di (tra voi ch’ascoltate) vi sia intendono amore per prova; me e me provo vergogna di
dalla passione giovanile. aspirare vanamente. qualcuno che abbia perso- ma il riferirsi a tutti sottoli- me stesso.
5 del vario stile: mute- 5-6 piango... dolore: nalmente sperimentato (per nea l’intensità del suo va- 12 vaneggiar: inseguir
vole, certo perché rispec- chiasmo, «per cui piango prova intenda) quali effetti neggiare. cose vane.
chia il tumultuoso alternar- corrisponde a dolore, e ra- l’amore produca sull’uomo. 10 favola: oggetto di 14 quanto piace al mon-
si degli stati d’animo del giono a speranze» (Sape- 8 nonché: oltre che. chiacchiere e derisione (eco do: i beni terreni (implicita-
poeta, che così si allontana gno). 9 al popol tutto: per tut- di Orazio, Epodi, XI, 8). mente contrapposti ai valori
da quell’ideale di serenità 7 ove... amore: qualora ti, anche per coloro che non 11 di me... vergogno: fra eterni).

Guida all’analisi
La contrapposizione fra passato e presente Il sonetto propone, innanzitutto, una forte divaricazione tra passato
e presente, scandita lungo tutto il testo dall’alternanza di verbi al presente e verbi al passato,
ma sottolineata ed enfatizzata dall’antitesi del v. 4 («quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’
sono») e da quella dei vv. 9-10 («Ma ben veggio or sì come … favola fui gran tempo»).
Un io diviso: la coscienza attuale del «giovenile errore» La divaricazione temporale determina a sua volta una
divaricazione dell’io del poeta. Il poeta sembra cioè scindersi in un io che scrive e vive al
presente e un io che è vissuto nel passato, caratterizzati da un diverso atteggiamento, ma so-
prattutto da una diversa consapevolezza. Al passato l’io del poeta era smarrito nel suo «pri-
mo giovenile errore», «nudriva ’l core» di sospiri, era «altr’uom» da quel che è ora, «favola»
fu «gran tempo», senza accorgersi o vergognarsi delle dicerie e dello scherno del «popol tut-
to». Al presente viceversa prova vergogna e pentimento, ha raggiunto la chiara conoscenza
razionale dell’errore e della più generale vanità delle cose e dei piaceri mondani. Il concet-
to di vanità è sottolineato da numerosi «echi semantici e fonico-sillabici» (Nòferi): «VArio...
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12. Francesco Petrarca T 12.5

VANe...VAN... proVA... troVAr...VANeggiar...», in una sorta di citazione dissimulata di un


luogo biblico: «vanitas vanitatum et omnia vanitas» [vanità delle vanità, tutto è vanità].
Il poeta non si è del tutto liberato dal «giovenile errore» La divaricazione dell’io, protagonista del sonetto, tra
passato e presente è solo parziale. Fondamentale è a questo proposito la limitazione del v. 4
(«quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono»). Al presente il poeta prova sì vergogna e
pentimento, ha sì raggiunto una matura consapevolezza del proprio vaneggiamento, ma ciò
non comporta che se ne sia del tutto liberato: egli è ancora, almeno in parte, invischiato nel-
l’errore, oscilla ancora «fra le vane speranze e ’l van dolore» e piange (non solo per il senso
di colpa). Persino il «vaneggiar» del v. 12 non è esclusivamente riferito al passato.
L’autoanalisi è il soggetto del sonetto (Laura non è neppure nominata) Queste osservazioni mettono in luce co-
me argomenti privilegiati del sonetto (e poi di tutto il Canzoniere) siano in primo luogo
l’autoanalisi e la dimensione del trascorrere del tempo. Può stupire forse l’assenza di Laura,
non nominata neppure indirettamente come “donna” o con una perifrasi, quasi che l’amore
del poeta non avesse oggetto. In verità qui è colto l’amore in quanto processo psicologico
interno al soggetto che ama, un amore la cui storia ha profondamente modificato il poeta.
Un gioco illusionistico: l’io prima è dissimulato poi è posto in primo piano La centralità dell’analisi del proprio
io, della propria vicenda psicologica è, però, dapprima dissimulata in una sorta di gioco illu-
sionistico. Il sonetto si apre con un «Voi», che al lettore deve apparire un soggetto sospeso, in
attesa di un predicato che non compare; in realtà si tratta di un vocativo; e il soggetto logi-
co e grammaticale del periodo, che prende da solo le due quartine, compare soltanto al v. 8.
Anzi, propriamente non compare: è l’“io” sottinteso al verbo «spero». Questa latenza del
soggetto sino all’ottavo verso è in parte compensata dalla presenza, in frasi dipendenti, di tre
«io» (vv. 2, 4, 5) e di un «mio» (v. 3): il tutto produce un “gioco illusionistico” che turba il
lettore, un gioco di insistenza e al tempo stesso dissimulazione del protagonista logico e te-
matico delle quartine, del sonetto e poi dell’intero Canzoniere.
Nelle terzine, viceversa, l’io del poeta è subito messo in evidenza («Ma ben veggio»):
presenza questa addirittura enfatizzata ai vv. 11-12 mediante allitterazione («di ME MEde-
smo MEco MI vergogno») e ripresa («et del MIO vaneggiar...»). A questo proposito si no-
terà però che proprio l’insistenza sull’io mediante l’allitterazione simula un balbettamento
(Contini) che rinvia allo stato di incertezza e vergogna in cui si trova il poeta.
Una riflessione sullo scrivere versi: il «vario stile». Questo sonetto proemiale oltre a proporre i temi privile-
giati del Canzoniere e a presentarsi come una prima complessa prova di stile, costituisce
una presentazione del Canzoniere in quanto opera letteraria, e una prima riflessione sulla
scrittura e sul pubblico. L’opera è designata, assai modestamente, da quel «rime sparse»,
cioè disorganiche («composte e diffuse singolarmente», Santagata), e ad alcune sue caratte-
ristiche si riferisce quel «vario stile» del v. 5 che allude a uno stile oscillante, diseguale, non
equilibrato e pacato come il poeta vorrebbe. Anzi, sarà da notare come letteralmente il
poeta non chieda pietà e perdono per l’errore giovanile, ma appunto per il vario stile in cui
si esprime e che contrasta con l’ideale di equilibrio formale frutto di un dominio razio-
nale delle passioni (si veda Fam. I,9 [R T 12.3 ], rr. 21-34). Al discorso psicologico e morale
si intreccia e si sovrappone, insomma, quello schiettamente letterario: e non è da esclude-
re che «quanto piace al mondo» comprenda l’esercizio letterario stesso, anch’esso aspetto
di una “vanità” cui il poeta non sa rinunciare (cfr. Secretum [R T 12.4 ]).
Le «rime sparse» e gli «sparsi frammenti dell’anima» A un’espressione del Secretum rimanda anche il titolo com-
plessivo della raccolta – Rerum vulgarium fragmenta – riecheggiato, nella formula «rime sparse»: là
dove Francesco afferma «Sarò presente a me stesso quanto potrò: raccoglierò gli sparsi frammenti
dell’anima mia e vigilerò diligente su di me», Santagata ha visto un’esplicita allusione al proget-
to del Canzoniere. «Qui è l’anima che, disintegrata, chiede di essere ricomposta come un’opera
letteraria. Ecco dunque la prova testuale che la raccolta letteraria è il corrispettivo, simbolico e
insieme oggettivo, dell’imporsi del controllo razionale sugli impulsi sentimentali». Raccogliere
le «rime sparse», composte in un «vario stile» che testimonia le oscillazioni e le inquietudini del-
l’anima, e specchio – proprio in quanto «sparse» – di un periodo di dissipazione e disordine mo-
rale, è insomma un progetto omologo a quello di mettere ordine nella propria vita interiore.

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Duecento e Trecento

T 12.6 Canzoniere 1348-1374


Era il giorno ch’al sol si scoloraro (III)
F. Petrarca Il Canzoniere vuol proporsi anche come discorso a metà fra il diario sentimentale, in cui
Canzoniere il poeta annota di volta in volta i suoi diversi stati d’animo, e l’ordinata narrazione che
testo critico di G. Contini, ripercorre, secondo una cronologia almeno ideale, i momenti più significativi della sto-
Einaudi, Torino 1984
ria d’amore.
Dopo il sonetto proemiale retrospettivo ecco dunque il momento dell’innamoramen-
to, l’inizio del «giovenile errore», anch’esso considerato a posteriori, tanto da costituire
una vera e propria «commemorazione» (Contini). Il componimento è ascrivibile al pe-
riodo 1349-1352.

Nota metrica Era il giorno ch’al sol si scoloraro


Sonetto secondo lo sche- per la pietà del suo Factore i rai,
ma ABBA,ABBA, CDE,
DCE. quando i’ fui preso, et non me ne guardai,
4 ché i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro.
1-2 Era... i rai: era il gior-
no in cui il sole si oscurò (al
sol si scoloraro... i rai, i raggi) Tempo non mi parea da far riparo
per la pietà verso il suo crea- contra’ colpi d’Amor: però m’andai
tore (Factore); cioè, con re-
miniscenza evangelica (Lu- secur, senza sospetto; onde i miei guai
ca: Et obscuratus sol est), il 8 nel commune dolor s’incominciaro.
giorno della Passione (6
aprile 1327, come è detto in
altro sonetto). Tròvommi Amor del tutto disarmato,
3 quando... guardai:
quando io fui catturato (mi et aperta la via per gli occhi al core,
innamorai), mentre non sta- 11 che di lagrime son fatti uscio et varco:
vo in guardia.
4 legaro: continua la
metafora del verso prece- però, al mio parer, non li fu honore
dente (fui preso... non me ne ferir me de saetta in quello stato,
guardai... mi legaro).
5 far riparo: star in guar- 14 a voi armata non mostrar pur l’arco.
dia (riprende, con variatio, il
concetto del v. 3 e continua
la metafora).
7 senza sospetto: eco di
IfV 129:«soli eravamo e san- giorno in cui tutti i cristiani impreparato a resistergli e varco delle lacrime). armata di ogni virtù, non
za alcun sospetto» (Conti- sono accomunati nel dolore trovò aperta la via che con- 12-14 però... arco: perciò, a mostrare neppure l’arco (e
ni). per la morte di Cristo (nel duce al cuore attraverso gli parer mio, non fu impresa vorrà dire che Laura non si
7-8 onde... incominciaro: commune dolor). occhi, che ora non fanno al- onorevole colpirmi mentre accorse neppure della ferita
così le mie sofferenze (guai, 9-11 Tròvommi... varco: tro che piangere (in metafo- ero in quella condizione, inferta da Amore al poeta).
lamenti) ebbero inizio nel Amore mi trovò del tutto ra: sono diventati la porta, il cioè indifeso, e a voi invece,

Guida all’analisi
Un’appendice del sonetto proemiale Questo testo, quasi ad apertura di raccolta, assolve, come si è anticipato,
una funzione narrativa: menzionare l’inizio della vicenda d’amore per Laura. Il fatto che la
menzione sia in forma di commemorazione e alla vicenda si alluda con l’espressione «i miei
guai [lamenti] s’incominciaro», non fa che porre questo sonetto come un’appendice di
quello proemiale, che pure era retrospettivo ed evocava il suono dei «sospiri», il pianto, il
dolore presente e passato del poeta [R T 12.5 ].
L’amore ebbe inizio il giorno della Passione: ma questo non sacralizza Laura Ma andranno notati almeno altri
due elementi. In primo luogo il momento in cui il Petrarca colloca l’inizio della sua storia
d’amore, che è il giorno della Passione. Questo però non comporta una sacralizzazione di
Laura, come invece nella Vita Nuova per Beatrice. Qui il parallelismo è tra l’inizio della sof-
ferenza per un amore profano e il dolore sacro di tutti i cristiani (Petrarca compreso) per la
morte di Cristo: il parallelismo, cioè, si risolve in un’antitesi (sacro/profano) caratteristica –
vedremo – del dissidio interiore dello scrittore e del personaggio. In parallelismo e antitesi
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12. Francesco Petrarca T 12.6

sono anche al v. 2 i «rai» del sole (spesso metafora per occhi) che «si scoloraro» e al v. 4 «i be’
vostr’occhi» che «legaro» il poeta (Contini).
Convenzionalità delle metafore belliche In secondo luogo si noterà l’insistenza della metafora bellica (o di cac-
cia), del tutto tradizionale: essa evoca un codice cortese-cavalleresco (Amore guerriero, che
colpisce con la «saetta», è qui “scortese” in quanto ferisce un avversario indifeso che non
s’attende l’assalto, ecc.) ripreso dagli stilnovisti e in particolare dal Cavalcanti (riecheggiato
specie nel v. 10; [R T 7.6 ], Voi che per li occhi mi passaste ’l core, v. 1). Il sonetto, da questo pun-
to di vista, si rivela piuttosto convenzionale.

Doc 12.6 Petrarca, Tennemi amor anni ventuno ardendo (CCCLXIV)

Può risultare interessante mettere subito a confronto i primi due testi della stesura definiti-
va del Canzoniere con uno dei componimenti che lo concludono.
Rispetto ad Era il giorno ch’al sol si scoloraro, che chiama in causa Dio solo per contrap-
porre il momento della Passione a quello dell’inizio di una passione del tutto profana e che
nel finale colloca la lagnanza nei confronti d’Amore per non aver neppure sfiorato Laura, il
tono di questo sonetto è profondamente diverso. Laura ormai è morta da dieci anni, la pas-
sione si è attenuata ma non è scomparsa, Petrarca ha ormai maturato la consapevolezza
dell’errore e il pentimento. Ma è subentrata anche una profonda stanchezza che lo induce
finalmente ad abbandonarsi a Dio (vv. 7-8) e a pregare Dio di liberarlo dagli affanni della
vita e di accoglierlo nella beatitudine celeste (v. 13). È forse proprio il motivo della stan-
chezza e della prossimità della morte quello decisivo nella finzione conclusiva del Canzo-
niere: incapace di liberarsi totalmente dalla passione e di mutare vita per un atto di volontà
propria, che sia acquisizione stabile, rendendosi a Dio gli chiede di liberarlo dagli affanni
del vivere e dalla propria stessa incostanza. Un’aria di sconfitta e di morte aleggia nelle ul-
time pagine del Canzoniere, insieme a una doverosa contrizione, non la letizia di una con-
versione salutare.
Nota metrica
Sonetto con schema
ABBA,ABBA, CDC, Tennemi Amor anni ventuno ardendo,
DCD. lieto nel foco, et nel duol pien di speme;
2 lieto… speme: lieto
nel fuoco della passione e
poi che madonna e ’l mio cor seco inseme
pieno di speranza nei mo- 4 saliro al ciel, dieci altri anni piangendo.
menti di sofferenza (si no-
tino la doppia antitesi e il
chiasmo). Omai son stanco, et mia vita reprendo
3 seco inseme: insie- di tanto error, che di vertute il seme
me a lei. à quasi spento, et le mie parti extreme,
6-7 che… spento: che ha
quasi totalmente annulla- 8 alto Dio, a Te devotamente rendo,
to ogni germe di virtù nel-
l’animo del poeta.
7 le mie parti extre- pentito et tristo de’ miei sì spesi anni,
me: gli ultimi anni della che spender si deveano in miglior uso:
mia vita. 11 in cercar pace et in fuggir affanni.
12 ’n questo carcer: il
carcere del corpo.
13 tràmene:liberamene Signor che ’n questo carcer m’ài rinchiuso,
(trai la mia anima fuori da
esso). – li eterni danni: le tràmene, salvo da li eterni danni,
pene infernali. 14 ch’i’ conosco ’l mio fallo, et non lo scuso.
14 fallo: errore, colpa,
peccato.

Laboratorio 1 Analizza la struttura sintattica del compo- 2 Quali dati relativi alla figura e alla perso-
COMPRENSIONE nimento e il suo rapporto con la metrica: na di Laura sono presenti nel testo?
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE quanti e quanto complessi sono i periodi? 3 Confronta i due sonetti (Era il giorno e
Prevale la subordinazione o la coordina- Tennemi amor) sviluppando con puntuali
zione? La suddivisione in periodi coinci- riferimenti ai testi le osservazioni presen-
de con la suddivisione in strofi? ti nell’introduzione al secondo.
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Duecento e Trecento

T 12.7 Canzoniere 1348-1374


Movesi il vecchierel canuto et biancho (XVI)
F. Petrarca, Canzoniere Assai celebre è questo sonetto di lontananza (potrebbe essere stato composto durante
testo critico di G. Contini, un viaggio a Roma nel 1337, ma non ci sono prove). Petrarca paragona la sua ricerca
Einaudi, Torino 1984 dell’immagine autentica di Laura nel volto di altre donne con la devozione di un vec-
chierello che abbandona patria e famiglia per recarsi a Roma a venerare un’icona del
Cristo. Il sonetto comporta un’«acuta collisione» delle sfere del sacro e del profano
(Santagata).

Movesi il vecchierel canuto et biancho


del dolce loco ov’à sua età fornita
et da la famigliuola sbigottita
4 che vede il caro padre venir manco;

indi trahendo poi l’antiquo fianco


per l’extreme giornate di sua vita,
quanto più pò, col buon voler s’aita,
8 rotto dagli anni, et dal camino stanco;

et viene a Roma, seguendo ’l desio,


per mirar la sembianza di Colui
11 ch’ancor lassù nel ciel vedere spera:

così, lasso, talor vo cerchand’io,


donna, quanto è possibile, in altrui
14 la disïata vostra forma vera.

Nota metrica a un pellegrino in viaggio 7 col buon… s’aita: si dà tro (da non confondere, co-
Sonetto con schema AB- per venerare un’immagine forza con la buona volontà. me càpita spesso, con la Sin-
BA,ABBA, CDE, CDE sacra deriva probabilmente 8 rotto dagli anni: sfini- done)» (Santagata).
a Petrarca da Dante (Pd to dall’età. 13 in altrui: in altre don-
1-2 Movesi… fornita: Il XXXI 103-105). 10-11 per mirar… spera: ne.
vecchierello canuto e bian- 4 venir manco: venir per contemplare l’immagi- 14 la disïata… vera: la
co (coppia di sinonimi) si al- meno, abbandonarli. ne [effigiata] di Cristo, che vostra immagine autentica
lontana dal dolce luogo 5-6 indi… vita: e di qui spera di poter vedere anche da me desiderata. L’espres-
[natìo] dove ha trascorso trascinando il corpo ormai in paradiso. Si tratta dellaVe- sione forma vera è adottata
(fornita) tutta la sua vita. Si vecchio (antiquo fianco, che ronica (da “vera icona”), per riecheggiare l’etimo di
dice fornita, cioè trascorsa sin nomina, per sineddoche, la «l’immagine del volto di Veronica (vera icona, vera
quasi alla fine ormai immi- parte per il tutto) nelle ulti- Cristo, dipinta in una icona immagine).
nente. L’idea di paragonarsi me giornate della sua vita. bizantina venerata in S. Pie-

Guida all’analisi
Il sonetto si articola tutto in un paragone Il sonetto è composto di un unico lungo periodo e consiste tutto
nella similitudine fra il vecchio devoto pellegrino che abbandona la patria per andare a ve-
nerare la “vera immagine” di Cristo effigiata su un’icona bizantina e Petrarca che venera nei
volti di altre donne la «forma vera», la vera immagine di Laura. Il sonetto si fonda struttu-
ralmente sull’effetto di leggera sospensione che produce l’evidente squilibrio che intercor-
re tra il primo termine di paragone (la descrizione del vecchio, che prende due quartine e
una terzina) e il secondo (concentrato nell’ultima terzina). La rappresentazione del vecchie-
rello ha un inizio descrittivo molto lento, che ne sottolinea essenzialmente la stanchezza (al-
la quale corrisponde il lasso del v. 12) vinta solo dal buon voler e dal desio (a cui corrisponde

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12. Francesco Petrarca T 12.7

il disïata del v. 14), poi culmina ai vv. 10-11 nella dichiarazione dello scopo del viaggio, la
contemplazione dell’immagine sacra. Questo esito fa immediatamente scattare la similitudi-
ne nella quale Petrarca, dopo aver – come detto – sinteticamente menzionato i corrispetti-
vi della stanchezza e del desiderio del vecchierello, svolge più diffusamente il motivo che
veramente gli sta a cuore: il paragone cioè dell’immagine sacra venerata dal vecchio e del-
l’immagine profana venerata da lui.
Traduzione profana di un immaginario sacro, al limite della blasfemia Questo aspetto della similitudine è anche
concettualmente il più importante. Il paragone tra la venerazione dell’immagine sacra e
quella dell’immagine profana è accentuato dal richiamo criptato dell’etimo di Veronica (la
vera icona, come spiegato nelle note) nell’espressione «forma vera». Lungi dall’essere una rea-
le sacralizzazione di Laura nei modi e nelle forme esperite dagli stilnovisti (e da Dante in
particolare), cioè come figura di Cristo, il paragone rischia piuttosto di apparire una profa-
nazione del sacro. «L’identificazione dell’amata, rispetto alla quale le altre donne sono altret-
tante Veroniche, con il Cristo (“vostra forma vera”) accentua, sulla fine del testo, il processo
di traduzione profana di un immaginario sacro, sin quasi ai limiti della blasfemia». Così scri-
ve Santagata che ricorda anche che uno scrittore cinquecentesco fu indotto a riscrivere la
terzina finale «perché “la conclusione” gli pareva “troppo ardita e quasi impia”». In questo
modo un po’ ardito, comunque, Petrarca vuole sottolineare la distanza che intercorre tra la
sua inquietudine, tutta protesa verso un oggetto profano, e quella di chi, come i poeti pre-
cedenti (e come il vecchio retoricamente evocato nel sonetto) era disposto ad abbandonare
il profano per la ricerca del sacro.

Laboratorio 1 Analizza la struttura sintattica del compo- fine. Così accade in questo caso, perché il
COMPRENSIONE nimento distinguendo fra la parte dedica- sonetto XV è anch’esso un componi-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE ta al primo e quella dedicata al secondo mento di lontananza, che – si può dire –
termine di paragone. Quali fondamentali sviluppa e varia il concetto sinteticamen-
differenze si riscontrano? te esposto nella seconda terzina di XVI.
2 Talora nel Canzoniere Petrarca accosta e Confrontali.
raggruppa componimenti di soggetto af-

Io mi rivolgo indietro a ciascun passo


col corpo stancho ch’a gran pena porto,
et prendo allor del vostr’aere conforto,
4 che ’l fa gir oltra dicendo: Oimè lasso!
Poi ripensando al dolce ben ch’io lasso,
al camin lungo et al mio viver corto,
fermo le piante sbigottito et smorto,
8 et gli occhi in terra lagrimando abasso.
Talor m’assale in mezzo a’ tristi pianti
un dubbio: come posson queste membra
11 da lo spirito lor viver lontane?
Ma rispondemi Amor: Non ti rimembra
che questo è privilegio degli amanti,
14 sciolti da tutte qualitati humane?

2 ch’a... porto: che con- voi e dal vostro paese» (Bet- 13 questo: il poter vivere propri della condizione
duco (trascino) con fatica. tarini). lontani dal proprio spirito umana” (Santagata); ma in
3 prendo... vostr’aere: 4 che ’l fa gir oltra: il (fuor di metafora, la persona quanto resi sovrumani dal-
«traggo conforto e lena... qual conforto o il qual aere amata). l’amore?
dall’aria (vento, soffio, alito, fa andare avanti il mio cor- 14 sciolti... humane:“in
spirito, respiro) che viene da po. quanto liberi dai vincoli

353 © Casa Editrice Principato


Duecento e Trecento

T 12.8 Canzoniere 1348-1374


Solo et pensoso i più deserti campi (XXXV)
F. Petrarca Il sonetto – uno dei componimenti più giustamente noti del Canzoniere – evoca in mo-
Canzoniere do altamente suggestivo, più che non descriva, il tormento d’amore del poeta.
testo critico di G. Contini,
Einaudi, Torino 1984

Nota metrica Solo et pensoso i più deserti campi (mi scampi) che la gente si ac-
Sonetto secondo lo sche- vo mesurando a passi tardi et lenti, corga palesemente del mio
ma ABBA,ABBA, CDE, stato.
CDE. et gli occhi porto per fuggire intenti 7 atti... spenti: atteggia-

4 ove vestigio human l’arena stampi. menti che rivelano mestizia.


2 vo mesurando: vado Si noti la metafora (spenti).
misurando; «allude a un 8 avampi: sia infiamma-
camminare lento e assorto Altro schermo non trovo che mi scampi to; metafora per “intensa-
di chi procede senza una mente, tormentosamente
meta precisa» (Petronio). dal manifesto accorger de le genti; innamorato”.
3-4 et gli occhi... stampi: perché negli atti d’alegrezza spenti 9 omai: ormai. – piag -
e volgo gli occhi, attenti ad ge: pianure.
evitare quei luoghi in cui 8 di fuor si legge com’io dentro avampi: 10 di che tempre: «di che
un’impronta d’uomo (vesti- qualità» (Leopardi).
gio human) segni la sabbia. 11 altrui: agli uomini.
Cioè: è attento ad evitare
sì ch’io mi credo omai che monti et piagge 12-14 Ma... llui: ma non so
luoghi frequentati, ricerca et fiumi et selve sappian di che tempre trovare luoghi tanto imper-
quelli solitari (cfr. v. 1). Si 11 sia la mia vita, ch’è celata altrui. vi e inospitali che Amore
noti l’«ipèrbato (per porto gli non mi accompagni sempre
occhi intenti per fuggire), ral- (venga... con meco, et io co llui)
lentatore di ritmo» (Conti- Ma pur sì aspre vie né sì selvagge colloquiando, in intimo
ni). colloquio. Si noti che con
5-6 Altro... genti: non so cercar non so ch’Amor non venga sempre meco ecc. può dipendere
trovare alcun altro riparo 14 ragionando con meco, et io co·llui. tanto da venga quanto da ra-
che mi consenta di evitare gionando.

Guida all’analisi
Il tema del sonetto è l’inquietudine dell’io; tutto il resto è lasciato nel vago Solo et pensoso è un sonetto di soli-
tudine e di dissidio interiore, che per i motivi affrontati e lo stile può essere considerato ben
rappresentativo della maniera più tipicamente petrarchesca. Tutto il componimento in so-
stanza svolge con sapienti variazioni un concetto unico: “cerco la solitudine per alleviare il
mio tormento, ma non esiste solitudine che me ne liberi” (la presenza degli uomini – si no-
terà – lo aggrava, invece, per quanto detto nel sonetto proemiale: «al popol tutto / favola fui
gran tempo» [vv. 9-10]). Anzi, si deve aggiungere che tutta l’attenzione del poeta si concen-
tra sullo stato d’inquietudine dell’io e solo su quello (il che è frequente nel Canzoniere),
mentre tutto il resto è lasciato nel vago. Laura non è menzionata, è, possiamo dire, un’assen-
za significativa. Il paesaggio è evocato, suggerito, non descritto: rispetto al vago «deserti cam-
pi» dell’inizio, con i vv. 9-10 il paesaggio sembra ancor più dilatarsi a “qualunque luogo” sia
la meta dell’inquieta peregrinazione del soggetto. Addirittura non sappiamo con precisione
perché il poeta «dentro avampi», né ci vien detto «di che tempre sia la sua vita» né di che
cosa «Amor... venga... ragionando» con lui: non sappiamo insomma l’esatta causa della sua
inquietudine (anche se la possiamo intuire), ma certo sappiamo che è inquieto.
Le numerose antitesi sottolineano il tema del dissidio interiore Questa condizione di profondo dissidio si
esprime nel testo oltre che mediante la menzione al vagare (vv. 1-2), al fuggire (v. 3), alla
mestizia dell’aspetto (v. 7), anche attraverso tutta una serie di opposizioni e antitesi che di
per sé alludono ad una condizione conflittuale: a) volge gli occhi a cercare impronte, segni
d’una presenza umana, ma solo per evitarli, per fuggire gli uomini (vv. 3-4); b) la qualità del-
la sua vita è « celata altrui», agli uomini, ma è ormai nota (sappian) a monti, piagge ecc. (vv.
9-11); c) le vie che percorre sono aspre e selvagge ma Amore, ciò nonostante, sempre lo ac-
compagna (vv. 12-14); d) i suoi atti sono d’alegrezza spenti (l’espressione, che è una litote,
nega cioè il contrario di ciò che si vuol affermare, configura però anche una sorta di ossi-

354 © Casa Editrice Principato


12. Francesco Petrarca T 12.8

moro: i due termini accostati sono oppositivi; si dice infatti aspetto allegro, sguardo spento ad
esempio); e) lo spenti di fuor, è in antitesi con il dentro avampi (chiasmo: spenti di fuor… den-
tro avampi). In debole antitesi sono poi le espressioni «schermo / manifesto» (vv. 5-6),
«monti et piagge / et fiumi et selve» (polisindeto che oppone i termini a due a due); specu-
lare è l’espressione «con meco... co.llui» (v. 14).
Più in generale infine il componimento si apre con l’immagine di un’assoluta solitudine
(«Solo et pensoso»; «i più deserti campi») e si chiude con l’immagine, antitetica anche se
non contraddittoria, di un ideale colloquio con Amore («Amor... con meco, et io co.llui»):
dunque solitudine significa essere solo col proprio tormento, il pensare («pensoso» v. 1) si ri-
solve in un colloquiare («ragionando» v. 14) che – possiamo intuire – rinnova il tormento.
Una «confessione lucida, meditata, serena», percorsa da fremiti e dissidi segreti A proposito di questo testo
scriveva il De Sanctis: «È difficile trovare un sonetto così pieno di cose, e che con sì poca
ostentazione di passione sia più appassionato»: tutto è detto «con tranquillità, sotto cui giace
la tempesta». E a commento di questo giudizio il Sapegno precisa: «la tempesta della passio-
ne è già qui superata, e risolta nel tono di confessione lucida, meditata, serena, sebbene tut-
ta percorsa di fremiti e di dissidi segreti, che è il tono proprio di tutto il canzoniere».
Siamo ad un nodo fondamentale: nel Canzoniere non c’è passione che si manifesti con
violenza, mai il linguaggio petrarchesco esprime in forme immediate l’attualità della passio-
ne. Tutto è filtrato dallo «schermo» – per usare un’espressione del testo – della memoria; si
ha l’impressione che il Petrarca scriva quando il conflitto è ormai sedimentato. Ma è forse
meglio dire che questa impressione è prodotta dall’elaborazione formale, frutto di una pre-
cisa scelta letteraria.
Il canone della naturalezza espressiva Ci troviamo di fronte a quello che potremmo definire il modello lette-
rario classico (poi classicistico) della naturalezza: lo scrittore deve trattare delle proprie pas-
sioni ma le deve dominare, controllare; non si scrive sotto l’urgere della passione ma a di-
stanza di tempo, e, in ogni caso, si sottopone lo scritto ad un intenso limae labor, elaborazio-
ne formale intesa a perfezionare il testo anche nel senso indicato del dominio razionale del-
la materia, secondo un ideale di saggezza che è degli antichi (cfr. Fam. I,9 [R T 12.2 ], rr. 21-
34, ad es.). Il Petrarca, nutritosi di cultura classica, ripropone e impone alla moderna lettera-
tura volgare questo modello, che è per molti versi opposto a quello romantico, e in definiti-
va a quello odierno, che potremmo definire della spontaneità (si scrive sotto l’impeto della
passione, quando il demone ispira, per dare sfogo immediato agli affetti ecc., e quando que-
sto non è vero, come spesso accade, si deve comunque dare questa impressione al lettore).
Il controllo formale: la regolarità metrico-sintattica Importa ora osservare con quali mezzi il Petrarca susciti nel
lettore l’impressione di aver di fronte una «confessione lucida, meditata, serena». Si noti che:
a) le quattro unità strofiche sono sintatticamente autonome (vi è una pausa sintattica dopo
ogni quartina e dopo la prima terzina); b) all’interno delle quartine vi è una pausa sintattica
dopo ogni distico (virgola fra due preposizioni coordinate, al v. 2, punto e virgola al v. 6) e
lievissimi enjambements ai versi dispari: questo produce un ritmo regolare (cioè i primi otto
versi vanno letti all’incirca a due a due) che rispecchia la seguente struttura: 4 (2 + 2) + 4 (2
+ 2); c) nelle terzine le uniche pause sintattiche di qualche rilievo sono poste simmetrica-
mente dopo la cesura (e cioè a metà) del terzo verso, tra l’altro in rima (altrui, llui): questo
produce un ritmo pure regolare (cioè gli ultimi sei versi vanno letti con pause dopo vita, al-
trui (v. 11), meco, llui, (v. 14) secondo la struttura: 3 (21⁄2 + 1⁄2) + 3 (21⁄2 + 1⁄2).

Laboratorio 1 Ricerca e sottolinea nel testo tutte le disposizione della materia tematica e verbale
COMPRENSIONE possibili simmetrie e in particolare quelle è costituito dalla dimensione e disposizione
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE che riguardano coppie di aggettivi, so- dei tre periodi e dall’argomento che ciascu-
stantivi, verbi o pronomi. Per un modello no sviluppa (solitudine – vanità dello scher-
di analisi cfr. il testo seguente. mo – compagnia d’Amore). Esamina il testo
2 Un altro evidente elemento di regolata in questa prospettiva.

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Duecento e Trecento

T 12.9 Canzoniere 1348-1374


Erano i capei d’oro a l’aura sparsi (XC)
F. Petrarca Questo celebre sonetto – per il trattamento che il poeta riserva al motivo tradizionale
Canzoniere della donna-angelo – costituisce un terreno privilegiato per misurare la distanza che se-
testo critico di G. Contini, para Petrarca dallo Stilnovo.
Einaudi, Torino 1984

Nota metrica Erano i capei d’oro a l’aura sparsi


Sonetto secondo lo sche-
ma ABBA,ABBA, CDE, che ’n mille dolci nodi gli avolgea,
DCE. e ’l vago lume oltra misura ardea
1 capei d’oro: metafora
4 di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi;
tradizionale che indica ca-
pelli biondi (e ‘preziosi’ per e ’l viso di pietosi color’ farsi,
l’amante).
1 a l’aura: al vento, ma non so se vero o falso, mi parea:
l’espressione dissimula il i’ che l’ésca amorosa al petto avea,
nome di Laura, come so-
vente accade nel Canzoniere 8 qual meraviglia se di sùbito arsi?
anche in modi più artificiosi
(CCXLVI, «L’aura che ’l verde
lauro et l’aureo crine...»). Non era l’andar suo cosa mortale,
2 gli: li. ma d’angelica forma; et le parole
3-4 e ’l vago lume... oc-
chi: l’affascinante, delizioso
11 sonavan altro, che pur voce humana.
splendore dei begli occhi di
Laura riluceva (ardea) più Uno spirto celeste, un vivo sole
d’ogni altro, straordinaria-
mente. fu quel ch’i’ vidi; et se non fosse or tale,
4 ch’or... scarsi: che ora 14 piagha per allentar d’arco non sana.
ne sono privi. «I critici si
sono chiesti: per la maggior
riserva di Laura o per l’atte-
nuazione dell’età? Nono-
stante la coincidenza di or 5-6 e ’l viso... parea: e il mine ésca (materia secca atta morai (arsi, presi fuoco). verrà meno per ciò, come la
col finale [cfr. v. 13], l’ulti- volto di Laura mi pareva at- a prendere fuoco per le scin- 11 sonavan... humana: ferita di un dardo non si ri-
ma interpretazione non va teggiarsi a pietà, ma non so tille prodotte dalla pietra fo- avevano (mi parevano ave- margina, perché dopo il lan-
accettata in termini sempli- se la mia impressione corri- caia) prosegue la metafora re) un accento diverso da cio il nerbo dell’arco si sia al-
cistici: il poeta si limita a spondesse alla realtà. tradizionale dell’ardere (cfr. v. quello della voce umana. lentato» (Sapegno).
constatare fenomenica- 7 l’ésca amorosa: «l’in- 3 e v. 8). 13-14 et se... sana: e se an-
mente il diminuito splen- dole naturalmente disposta 8 qual... arsi?: non c’è da che ora non fosse più come
dore» (Contini). ad amare» (Sapegno); il ter- stupirsi se subito mi inna- allora, «il mio amore non

Guida all’analisi
Il tema stilnovistico della donna-angelo collocato nella labilità del tempo Su questo sonetto ecco un sintetico
giudizio di Gianfranco Contini: «Insigne dichiarazione di dedizione oltre il tempo; il poeta
si serba fedele alla donna invecchiata (ma l’invecchiamento è delicatamente presentato solo
in ipotesi), nella misura stessa in cui l’occasione dell’innamoramento fu sovrumana. È il te-
ma stilnovistico della donna-angelo, dell’essere non mortale […], ma al solito del Petrarca
collocato nella labilità del tempo, e così trasfigurato».
Petrarca sottolinea la collocazione di Laura nel tempo con artifici retorici Il motivo della labilità del tempo, del
suo trascorrere che ha fatto o è destinato a far invecchiare Laura, costituisce l’elemento di
maggior rilievo nel distanziamento che il Petrarca compie dallo Stilnovo, di cui pure – co-
me si è visto – riprende motivi ed espressioni. È significativo che il sonetto si apra con un
verbo che proietta al passato l’incanto di una bellezza che ha fatto innamorare il poeta: «Era-
no i capei d’oro a l’aura sparsi / che ’n mille dolci nodi gli avolgea». Si misuri la distanza che
separa questo recupero memoriale dall’estatica, atemporale contemplazione dantesca «Tan-
to gentile e tanto onesta pare / la donna mia quand’ella altrui saluta». Dante colloca Beatri-
ce già al momento dell’apparizione in una dimensione d’eterno.
Non così il Petrarca, che enfatizza la temporalità della persona e degli eventi collocando
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12. Francesco Petrarca T 12.9

delle marche temporali non solo nell’incipit del sonetto, ma anche nelle sue principali clau-
sole (in fin di verso, cioè nelle posizioni più forti, perché potenziate dalla rima): le rime avol-
gea: ardea: parea: avea: sono tutti verbi al passato (mentre in Tanto gentile dominano infiniti e
presenti: pare : guardare : laudare : mostrare; mova : prova; mira : sospira). Un passato remoto è del
resto anche l’arsi del v. 8, riecheggiato nella rima ricca spARSI : scARSI : fARSI : ARSI, che
moltiplica l’altro motivo, fondamentale e a quello complementare, della bellezza di Laura: il
motivo dell’innamoramento e dell’amore, che non svanisce neppure con lo svanire della bel-
lezza che lo ha generato («e se non fosse or tale / piaga per allentar d’arco non sana»).
Il motivo della donna-angelo ricondotto alla funzione di metafora iperbolica Ma anche laddove il Petrarca cita
luoghi stilnovistici ed evoca la sovrannaturalità della bellezza di Laura, si noti che egli – ol-
tre a collocare il “miracolo” in un passato puntuale: «Non era l’andar suo... sonavan altro... fu
quel ch’i’ vidi» – utilizza sapientemente e forse ironicamente l’artificio della litote. Invece di
dire “sovrumano” dice «non... mortale» (v. 9) e «altro che... umana» (v. 11), in modo tale da
collocare in clausola e in rima proprio le due parole «mortale» e «umana», che negano di
fatto l’impressione di angelicità avuta nel momento dell’innamoramento. Insomma, la don-
na è restituita alla sua dimensione terrena e il motivo della donna angelo è ricondotto, come
nella tradizione prestilnovistica, alla funzione di semplice metafora iperbolica (tanto bella da
parere un angelo) senza sostanziali implicazioni metafisiche.
«Pare» / «Parea»: dalla semantica dell’apparizione alla semantica del dubbio La natura angelica di Laura («Uno
spirto celeste, un vivo sole…») è inoltre sottoposta a procedimenti che evidenziano la sog-
gettività della percezione («…fu quel ch’i’ vidi») e che, mettendone ipoteticamente in di-
scussione la durevolezza («et se non fosse or tale»), mettono ovviamente in discussione anche
l’asserzione precedente. Marginale, ma pure significativo, in questa medesima direzione è lo
spostamento semantico del termine del v.6 «parea» (rispetto ad esempio all’uso dantesco in
Tanto gentile), che non significa più “si mostrava nella sua evidenza”, “mi appariva manifesta-
mente”, ma semplicemente e dubitativamente “mi sembrava”, come l’inciso che precede
(«non so se vero o falso») ben attesta. Da una semantica dell’apparizione si passa a una se-
mantica del dubbio.
Antitesi e coppie A proposito di due tra le più tipiche figure petrarchesche, le antitesi e le coppie (sostanti-
vo + aggettivo o aggettivo + sostantivo), si considerino infine questi due schemi che ne il-
lustrano la frequenza e la disposizione nel testo:
Erano i capei d’oro a l’aura sparsi Erano i capei d’oro a l’aura sparsi
che ’n mille dolci nodi gli avolgea, che ’n mille dolci nodi gli avolgea,
e ’l vago lume oltra misura ardea e ’l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi; di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi;

e ’l viso di pietosi color’ farsi, e ’l viso di pietosi color’ farsi,


non so se vero o falso, mi parea: non so se vero o falso, mi parea:
i’ che l’ésca amorosa al petto avea, i’ che l’ésca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di sùbito arsi? qual meraviglia se di sùbito arsi?

Non era l’andar suo cosa mortale, Non era l’andar suo cosa mortale,
ma d’angelica forma; et le parole ma d’angelica forma; et le parole
sonavan altro, che pur voce humana. sonavan altro, che pur voce humana.

Uno spirto celeste, un vivo sole Uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch’i’ vidi; et se non fosse or tale, fu quel ch’i’ vidi; et se non fosse or tale,
piagha per allentar d’arco non sana. piagha per allentar d’arco non sana.

Laboratorio 1 Questo è uno dei testi in cui il Petrarca 2 Metti a confronto il modo con cui il te-
COMPRENSIONE più si diffonde a rappresentare Laura. ma del tempo è trattato in questo sonetto
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE Analizza i termini che si riferiscono a lei: e in altri componimenti del Canzoniere
è una descrizione concreta e realistica o che hai letto e che ti paiono più signifi-
vaga ed evocativa? Perché? cativi per questo tema.
357 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento

T 12.10 Canzoniere 1348-1374


Chiare, fresche et dolci acque (CXXVI)
F. Petrarca Il poeta vive in uno stato di profonda prostrazione, si sente prossimo alla morte, del cui
Canzoniere pensiero sembra anzi compiacersi; quand’ecco che ritornando sulle rive del Sorga, dove
testo critico di G. Contini, un tempo contemplò Laura in tutta la sua giovanile bellezza, è catturato dai ricordi e si
Einaudi, Torino 1984
lascia andare ad un dolce, malinconico, struggente fantasticare; immagina d’esser sepol-
to in quel luogo e che Laura vi ritorni cercandolo e pianga sulla sua tomba. Così, in
questo fantasticare, perde la nozione del luogo e del tempo e per qualche istante di-
mentica il proprio dolore. Questa, in sintesi, la situazione sentimentale rappresentata in
Chiare, fresche et dolci acque, uno dei massimi esiti della poesia petrarchesca.

Chiare, fresche et dolci acque,


ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
Nota metrica gentil ramo ove piacque
Canzone secondo lo 5 (con sospir’ mi rimembra)
schema abC abC (fronte)
cdee DfF (sirma); il con- a lei di fare al bel fiancho colonna;
gedo riprende gli ultimi herba et fior’ che la gonna
tre versi della sirma (DfF). leggiadra ricoverse
1 acque: del fiume Sor- co l’angelico seno;
ga,in Provenza,dove il poeta 10 aere sacro, sereno,
aveva incontrato Laura (è
vocativo, come i sostantivi ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse:
che seguono nell’enumera- date udïenzia insieme
zione).
3 pose: «immerse, intin- a le dolenti mie parole extreme.
se» (Contini). Non è neces-
sario pensare a un bagno di
Laura: è probabile che Pe- S’egli è pur mio destino,
trarca qui «alluda al guado 15 e ’l cielo in ciò s’adopra,
del torrente, al rinfresca- ch’Amor quest’occhi lagrimando chiuda,
mento del volto» o simili. –
donna: signora (del cuore), qualche gratia il meschino
secondo l’etimo (lat. domi - corpo fra voi ricopra,
na).
5 mi rimembra: mi ri- e torni l’alma al proprio albergo ignuda.
cordo. 20 La morte fia men cruda
6 fare... colonna: ap-
poggiarsi (fare del ramo una se questa spene porto
colonna a cui appoggiarsi). a quel dubbioso passo;
9 angelico seno: proba-
bilmente da intendersi, alla ché lo spirito lasso
latina, “leggiadro lembo” non poria mai in più riposato porto
(della gonna); ma non è da
escludere il senso più im- 25 né in più tranquilla fossa
mediato del termine, co- fuggir la carne travagliata et l’ossa.
munque attenuato dall’ag-
gettivo.
10 sacro: reso sacro, agli
occhi dell’amante, dalla pre-
senza di Laura.
11 co’ begli occhi: per
mezzo degli occhi di Laura.
– m’aperse: aprì all’amore;
ma l’espressione è coniata
secondo l’immagine tradi- cinto di morire per amore 17-18 qualche... ricopra: sua sede naturale (cioè in to passaggio (dubbioso passo)
zionale di Amore che trafig- (cfr. stanza seguente). una sorte favorevole (mi au- cielo), libera ormai dal cor- da una vita all’altra.
ge (aperse = ferì) il cuore at- 14 S’egli è pur: se è vera- guro che) possa far sì che il po (ignuda). 23 lasso: stanco.
traverso lo sguardo (cfr. ad mente (come credo). mio infelice corpo sia sot- 20 fia men cruda: sarà 24 poria: potrebbe.
esempio Cavalcanti, Voi che s’adopra: si impegna. terrato in questi luoghi (fra meno dolorosa. 26 fuggir: lasciare.
per li occhi T 7.6 ). 16 lagrimando: gerun- voi, acque, ramo, ecc.). 21 spene: speranza.
13 extreme: ultime, per- dio con valore di participio 19 e torni... ignuda: e 22 a quel dubbioso pas-
ché il poeta si sente in pro- da concordare con «occhi». possa l’anima far ritorno alla so: in punto di morte, temu-

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12. Francesco Petrarca T 12.10

28 usato: abituale (un Tempo verrà anchor forse 48 oro forbito et perle:
tempo). oro lucente (i capelli) e perle
29 la fera... mansüeta: ch’a l’usato soggiorno (i fiori) quasi incastonate in
l’espressione metaforica de- torni la fera bella et mansüeta, esso.
signa Laura: «bella e man- 30 et là ’v’ella mi scorse 51 vago errore: leggiadro
sueta per sé, crudele nei ri- volteggio (Contini).
guardi del poeta» (Sapegno). nel benedetto giorno 54 spavento: stupore e
Fera vale “fiera” (sostanti- volga la vista disiosa et lieta, ammirazione (Sapegno).
vo). 55 per fermo: di certo.
31 benedetto giorno: cercandomi: et, o pieta!, 56-61 Così... sospirando:
quello in cui Petrarca vide già terra in fra le pietre il divino aspetto, il volto
Laura presso il Sorga ricor- ecc., mi avevano reso così
dato nella prima stanza. 35 vedendo, Amor l’inspiri dimentico di tutto (carco d’o-
32 vista: sguardo. in guisa che sospiri blio) e distaccato dalla realtà
33 o pieta!: oh spettacolo (diviso da l’imagine vera), che
pietoso! sì dolcemente che mercé m’impetre, sospirando dicevo.
34-35 già... vedendo: ve- et faccia forza al cielo, 63 credendo esser: con-
dendomi ormai fatto polve- asciugandosi gli occhi col bel velo. vinto di trovarmi.
re fra i sassi (della tomba). 64-65 Da indi... pace: da
35-39 Amor... velo:Amore quel momento in poi ho
l’ispiri in modo che sospiri 40 Da’ be’ rami scendea amato tanto questi luoghi
così dolcemente da riuscire (herba) che non trovo pace
ad ottenere per me miseri- (dolce ne la memoria) altrove. L’affermazione è
cordia, e riesca a vincere il una pioggia di fior’ sovra ’l suo grembo; importante perché postula
rigore della giustizia divina che, al presente, tra ricordi e
(faccia forza al cielo) col suo et ella si sedea fantasie suscitate dal luogo il
pianto (asciugandosi ecc.). humile in tanta gloria, poeta trovi un momento di
43 si sedea: stava seduta. quiete al suo tormento.
44 gloria: «il cadere natu- 45 coverta già de l’amoroso nembo. 66 Se tu avessi orna-
rale dei fiori si trasfigura nel- Qual fior cadea sul lembo, menti quant’ài voglia: se tu
la fantasia del Petrarca in un qual su le treccie bionde, (rivolto alla canzone perso-
atto di omaggio e glorifica- nificata, secondo un modu-
zione della sua donna» (Sa- ch’oro forbito et perle lo tradizionale) fossi elegan-
pegno). eran quel dì, a vederle; te, bella come vorresti esse-
45 amoroso nembo: nu- re.
be d’amore, altra metafora 50 qual si posava in terra, et qual su l’onde; 67 poresti arditamente:
(che riprende quella della qual, con un vago errore potresti senza timore.
pioggia del v.42) per designa- 68 gir in fra la gente: an-
re la caduta dei fiori. girando, parea dir: Qui regna Amore. dar tra la gente.
46 lembo: lembo della
veste.
Quante volte diss’io
allor pien di spavento:
55 Costei per fermo nacque in paradiso.
Così carco d’oblio
il divin portamento
e ’l volto e le parole e ’l dolce riso
m’aveano, et sì diviso
60 da l’imagine vera,
ch’i’ dicea sospirando:
Qui come venn’io, o quando?;
credendo esser in ciel, non là dov’era.
Da indi in qua mi piace
65 questa herba sì, ch’altrove non ò pace.

Se tu avessi ornamenti quant’ài voglia,


poresti arditamente
uscir del boscho et gir in fra la gente.

Guida all’analisi
Un ideale colloquio con la natura Questo testo si presenta come un ideale colloquio del poeta con gli elemen-
ti naturali che fecero da fondale ed anzi cooperarono a un primaverile “trionfo” di Laura,
bellissima nel tripudio di fiori, cui egli ebbe la ventura di assistere. Essi appaiono, agli occhi
dell’innamorato, dotati di una sacralità tutta laica e terrena per il solo fatto di essere entrati
359 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento

in contatto con Laura: per questo motivo ad essi il poeta si rivolge, da essi si sente attratto, e
anzi in essi desidera annullarsi (divenendo «terra in fra le pietre», v. 34).
I tempi del testo Il momento di questo colloquio (dell’enunciazione lirica) è ovviamente il presente:
quando il poeta camminando giunge sulle rive del Sorga e apostrofa la natura. Il presente è
dunque il tempo del colloquio con la natura, ma è soprattutto il tempo dell’assenza di Lau-
ra: il poeta è nei luoghi che un tempo videro Laura presente e che forse la rivedranno in fu-
turo, impietosita per la morte del poeta, ma ora ella è lontana, assente. Questo è dunque il
nucleo doloroso del componimento. Tuttavia l’intero testo sembra sorvolare sul presente,
quasi dissimulando il dolore che affligge il poeta, proiettandosi viceversa ora verso il passato
ora verso il futuro, oscillando tra ricordi e fantasticherie. Tutta la stanza I è sbilanciata verso
il passato e accentrata sull’immagine di Laura, che visivamente predomina (si noti il con-
trappunto continuo e regolare tra elementi naturali e parti del corpo o dell’abbigliamento
di Laura: acque... membra, ramo... fiancho…, herba et fior’... gonna... seno, aere... occhi).
Una fantasticheria luttuosa, ma consolatoria Nelle stanze II e III, viceversa, siamo proiettati in un futuro ipo-
tetico: se la morte è il destino che il poeta sente imminente, egli almeno spera di poter mo-
rire lì dove Laura è stata, dove una traccia di lei permane nella bellezza del luogo, dove for-
se ritornerà a piangere sulla sua tomba. Questo proiettarsi verso un futuro ipotetico, che
dapprima sembra considerato con timore e accenti realistici, si trasfigura poi nella stanza III
in vera e propria fantasia contemplativa, che ha toni di struggente malinconia (vv. 33-39),
quando ogni nesso col presente sembra dissolto («Tempo verrà anchor forse...»).
La memoria (rievocazione del “trionfo” di Laura) Nelle due ultime stanze torniamo al passato, al ricordo, al nu-
cleo generativo di tutto il testo: è il momento della contemplazione di Laura sulle rive del
Sorga. La stanza IV si risolve in una mirabile descrizione del tripudio di fiori che segna il
“trionfo” (gloria, v. 44) primaverile di Laura: sembra che la situazione sia trasfigurata nella
memoria sognante del poeta, che a posteriori o forse già nell’atto del primitivo contempla-
re ricrea in termini fantastici il quadro. La stanza V offre, sempre al passato, il ripiegamento
soggettivo, l’autoanalisi (si noti l’io in rima al v. 53): il poeta in quell’occasione perse la no-
zione del tempo e dello spazio, credendosi sollevato in cielo. Ciò va inteso metaforicamen-
te: la consistenza terrena di Laura, il carattere profano, naturale del suo trionfo non è dubbio
nonostante le riprese di motivi stilnovistici (vv. 55, 57 ecc.).
Il presente delinea una tenue storia d’affanno e consolazione Sembrerebbe da questa analisi che il presente non
si manifesti altro che in forma implicita. In realtà non è così, e anzi proprio il presente è il
momento di un divenire, di una sia pur minima storia. Infatti in alcuni momenti Petrarca
fissa la sua attenzione proprio sul presente: lo fa in modo dissimulato (in due casi tra paren-
tesi), ma non per questo meno significativo. Consideriamoli: a) «(con sospir’ mi rimembra)»
al v. 5; b) «date udïenza insieme / a le dolenti mie parole extreme» ai vv. 12-13; c) «(dolce
ne la memoria)» al v. 41; d) «mi piace / questa herba sí, ch’altrove non ò pace» ai vv. 64-65.
Nel complesso queste affermazioni, delineano un’evoluzione nella condizione interiore
del poeta: il ricordo di Laura (con l’implicita constatazione della sua attuale assenza) prima
produce «sospiri» che lasciano intuire affanno, come abbiamo già visto, un affanno che in-
duce il poeta a concentrarsi sulla propria imminente fine (cfr. le «parole extreme»). Ma la fan-
tasticheria che segue si rivela consolatrice, tanto che, poi, tornando al ricordo il poeta lo de-
finisce «dolce», con evidente scarto rispetto al v. 5. Infine a conclusione, coi vv. 64-65, ci la-
scia intendere che lì, in quel luogo che gli ha evocato ricordi e fantasie contemplative, ha
trovato un momento di pace («altrove non ò pace», v. 65), per un attimo ha dimenticato il
proprio tormento, perdendo, proprio come un tempo durante la contemplazione reale, la
nozione di sé, dello spazio e del tempo.

Laboratorio 1 Nella Guida all’analisi a proposito del 2 Nelle stanze IV e soprattutto V sono pre-
COMPRENSIONE “trionfo” di Laura abbiamo parlato di senti dei motivi stilnovistici: individuali e
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE una «sacralità tutta laica e terrena». Spiega confrontali con quelli presenti nel sonet-
questo concetto. to Erano i capei d’oro.

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12. Francesco Petrarca T 12.11

T 12.11 Canzoniere 1348-1374


Italia mia, benché ’l parlar sia indarno (CXXVIII)
F. Petrarca Questa canzone fu composta, con ogni probabilità, tra la fine del 1344 e il 1345, du-
Canzoniere rante un soggiorno a Parma, e in occasione di una guerra che vide opposti Gonzaga e
testo critico di G. Contini, Visconti, da un lato, e Estensi, Scaligeri, Ordelaffi e Pepoli dall’altro, per il possesso di
Einaudi, Torino 1984 Parma, ceduta da Azzo da Correggio a Obizzo d’Este contro i patti che la destinavano,
viceversa, a Luchino Visconti. Entrambi gli schieramenti utilizzavano truppe mercenarie
d’oltralpe: su questo motivo e sulla insensatezza di una guerra fratricida s’incentra il
componimento, che affronta l’argomento politico, trascendendo di molto l’occasione
che lo ha ispirato, e si inserisce in una recente tradizione di “canti di rettitudine” che, in
Italia, aveva annoverato Guittone e Dante.

Nota metrica Italia mia, benché ’l parlar sia indarno


Canzone secondo lo a le piaghe mortali
schema AbC, BaC (fron-
te), cDEeDdfGfG (sirma); che nel bel corpo tuo sì spesse veggio,
il congedo è identico alla piacemi almen che’ miei sospir’ sian quali
sirma.
5 spera ’l Tevero et l’Arno,
1 indarno: vano, inutile. e ’l Po, dove doglioso et grave or seggio.
2 a le piaghe mortali:
rispetto alle ferite mortali. Rettor del cielo, io cheggio
3 corpo: l’Italia è perso- che la pietà che Ti condusse in terra
nificata (secondo il modulo
retorico della prosopopea): Ti volga al Tuo dilecto almo paese.
quindi si parla di “corpo” 10 Vedi, Segnor cortese,
per alludere a territori, po- di che lievi cagion’ che crudel guerra;
polazioni, istituzioni ecc.
3 spesse: fitte, numerose. e i cor’, che ’ndura et serra
3 veggio: vedo, osservo.
4-6 piacemi... seggio: vo-
Marte superbo et fero,
glio almeno che i miei la- apri Tu, Padre, e ’ntenerisci et snoda;
menti (sospir’) siano confor- 15 ivi fa’ che ’l Tuo vero,
mi alle speranze del Tevere,
dell’Arno, del Po, presso il qual io mi sia, per la mia lingua s’oda.
quale ora mi trovo, afflitto e
infelice.Tevere,Arno e Po (per
sineddoche) designano l’I- Voi cui Fortuna à posto in mano il freno
talia stessa, le sue popolazio- de le belle contrade,
ni (forse con l’esclusione del di che nulla pietà par che vi stringa,
reame di Napoli, secondo
alcuni commentatori). 20 che fan qui tante pellegrine spade?
7 Rettor del cielo: Dio.
perché ’l verde terreno
– cheggio: chiedo.
9 Tuo... paese:perché se- del barbarico sangue si depinga?
de del papato e dell’impero. Vano error vi lusinga:
Almo qui significa“nobile”.
10 cortese: misericordio- poco vedete, et parvi veder molto,
so. 25 ché ’n cor venale amor cercate o fede.
11 di che... guerra: da
quali futili cause è scoppiata Qual più gente possede,
una così crudele guerra. Cfr. colui è più da’ suoi nemici avolto.
premessa al testo. O diluvio raccolto
12-14 e i cor’... snoda: e
apri, intenerisci, sciogli i di che deserti strani,
cuori, che Marte (dio della
guerra) superbo e feroce in- 19 di che... stringa: delle forse perché il verde suolo dete partecipazione ideale, cenari) proveniente da ter-
durisce e tiene serrati. quali sembra che non vi italiano si tinga di sangue fedeltà a gente venale. Si re straniere, selvagge. L’an-
15-16 ivi... s’oda: qui (in preoccupiate affatto. straniero, di popolazioni notino il chiasmo e l’anti- titesi diluvio / deserti accen-
Italia o nei cuori umani) fa sì 20 che fan: va sottinteso “barbariche” (in senso di- tesi: «poco vedete... veder tua l’incredibilità della si-
che la tua verità sia ascoltata un imperativo: «dite». spregiativo)? Davvero lo molto». tuazione, agli occhi del
attraverso le mie parole, per 20 pellegrine spade: ar- credete? 26-27 Qual... avolto: chi poeta; d’altro canto deserti
quanto indegno io possa es- mi, truppe straniere (mer- 23 Vano error: un’erro- ha più truppe (mercenarie) strani è in antitesi, ancor più
sere (qual io mi sia). cenarie). Si allude alle trup- nea speranza. al proprio servizio, è cir- evidente, con dolci campi (e
17 Voi: signori d’Italia pe mercenarie assoldate da 24-25 poco vedete... fede: condato da più nemici. si noti anche in questo caso
(dopo l’Italia e Dio è questa entrambe le parti in con- credete (parvi) di essere ac- 28-29 O diluvio... strani: o il chiasmo).
la terza apostrofe consecu- flitto. corti, lungimiranti, e invece diluvio (allude, in termini
tiva). – freno: governo. 21-22 perché... barbarico: non lo siete, poiché richie- di calamità, sempre ai mer-

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Duecento e Trecento

31-32 Se da... scampi?: se 30 per inondar i nostri dolci campi!


ci procuriamo questo fla-
gello con le nostre mani, chi Se da le proprie mani
mai potrà liberarcene? questo n’avene, or chi fia che ne scampi?
34 de l’Alpi schermo: la
barriera delle Alpi.
35 rabbia: furore. Ben provide Natura al nostro stato,
36-38 ma ’l desir... scab- quando de l’Alpi schermo
bia: ma la cupidigia scarsa-
mente lungimirante (cieco) e 35 pose fra noi et la tedesca rabbia;
ostinata (fermo) a operare ma ’l desir cieco, e ’ncontra ’l suo ben fermo,
contro i propri reali interessi
(’ncontra ’l suo ben) si è tanto s’è poi tanto ingegnato,
adoperata che ha fatto am- ch’al corpo sano à procurato scabbia.
malare (à procurato scabbia) il Or dentro ad una gabbia
corpo sano dell’Italia; si noti
il realismo crudo di que- 40 fiere selvagge et mansüete gregge
st’ultima metafora, di gusto s’annidan sì che sempre il miglior geme;
dantesco, si direbbe.
40 fiere... gregge: son de- et è questo del seme,
signati rispettivamente i per più dolor, del popol senza legge:
mercenari e le inermi po-
polazioni italiane; si noti il al qual, come si legge,
chiasmo. 45 Mario aperse sì ’l fianco,
41 s’annidan: fanno nido
(prosegue la metafora ani- che memoria de l’opra ancho non langue,
male). quando assetato et stanco
41 sì, che… geme: tanto
che i migliori han sempre la
non più bevve del fiume acqua che sangue.
peggio.
42-48 et è questo... san- Cesare taccio, che per ogni piaggia
gue: e queste sofferenze ci
sono inferte – per accrescere 50 fece l’erbe sanguigne
il nostro dolore – dai discen- di lor vene, ove ’l nostro ferro mise.
denti (seme) del popolo bar-
baro (senza legge) a cui Ma- Or par, non so per che stelle maligne,
rio – come si legge nella sto- che ’l cielo in odio n’aggia:
ria romana – inflisse una co- vostra mercé, cui tanto si commise.
sì dura sconfitta (aperse sì ’l
fianco) che se ne serba ancora 55 Vostre voglie divise
memoria, quando, assetato e guastan del mondo la più bella parte.
stanco, abbeverandosi al fiu-
me bevve in egual misura Qual colpa, qual giudicio o qual destino
acqua e sangue (dei nemici fastidire il vicino
morti). Si allude all’impresa
di Caio Mario, vincitore nel povero, et le fortune afflicte et sparte
102 a.C. sui Teutoni, presso 60 perseguire, e ’n disparte
Aquae Sextiae. cercar gente et gradire,
49-51 Cesare... mise: per
non parlare di Cesare, che che sparga ’l sangue et venda l’alma a prezzo?
tinse di sangue tedesco (di lor Io parlo per ver dire,
vene) l’erba di ogni pianura
(piaggia), affondando la spa- non per odio d’altrui né per disprezzo.
da (ferro, metonimia) nei lo-
ro corpi. Si noti la preteri-
zione (Cesare taccio…) e 65 Né v’accorgete anchor per tante prove
l’opposizione lor / nostro. dal bavarico inganno
53 n’aggia: ci abbia.
54 vostra... commise:
ch’alzando il dito colla morte scherza?
per colpa vostra (ma l’e- Peggio è lo strazio, al mio parer, che ’l danno;
spressione è ironica: grazie a ma ’l vostro sangue piove
voi, per vostro merito) a cui
un così grave incarico (tan- 70 più largamente, ch’altr’ira vi sferza.
to) fu affidato. L’incarico è il
governo dell’Italia.
55-56 Vostre... parte: le vicini meno potenti, ad in- anima?» (Sapegno). generale: tedeschi), che vostro sangue è sparso in
vostri discordi ambizioni fierire contro i loro averi già 63 per ver dire:per amore (quando il pericolo real- maggior copia per il fatto
portano alla rovina l’Italia, danneggiati e dispersi, a cer- di verità. mente si manifesta) scherza- che voi italiani (a differenza
che è ecc. care in paesi lontani [’n di- 65-67 Né... scherza?: e non no con la morte alzando il dei tedeschi) siete mossi da
57-62 Qual... prezzo?: sparte] e favorire [gradire] sol- vi accorgete ancora, dopo dito in segno di resa? un ben diverso odio. «Cioè:
«Quale colpa degli uomini, datesche straniere [gente], averne fatto spesso espe- 68 strazio: la vergognosa gli italiani, invece, si ammaz-
o giudizio di Dio,o quale fa- che vengono qui ad uccide- rienza,del carattere infido di beffa. zano per davvero» (Conti-
talità vi induce ad aborrire i re i nostri e a vendere la loro questi bavaresi (per dire in 69-70 ma... sferza: ma il ni).

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12. Francesco Petrarca T 12.11

Da la matina a terza
di voi pensate, et vederete come
tien caro altrui che tien sé così vile.
Latin sangue gentile,
71-73 Da la matina... vile:
75 sgombra da te queste dannose some;
dall’alba alle nove del matti-
no («Cioè quando si è anco- non far idolo un nome
ra digiuni e lucidi» [Conti- vano, senza soggetto:
ni]) riflettete sulla vostra
condizione e vedrete quan- ché ’l furor de lassù, gente ritrosa,
ta dedizione possa aver nei vincerne d’intellecto,
confronti di altri chi si con-
sidera tanto vile (da vendersi 80 peccato è nostro, et non natural cosa.
per denaro).
75 sgombra... some : lí-
berati da questo peso (some)
Non è questo ’l terren ch’i’ tocchai pria?
così nocivo. Si allude sem- Non è questo il mio nido
pre ai soldati mercenari. ove nudrito fui sì dolcemente?
76-77 non far... soggetto:
non prendere sul serio una Non è questa la patria in ch’io mi fido,
fama immeritata (vano) cui 85 madre benigna et pia,
non corrisponde una realtà
di fatto (senza soggetto). che copre l’un et l’altro mio parente?
78-80 ché... cosa: giacché Perdio, questo la mente
o gente schiva è colpa no-
stra, e non un fatto naturale, talor vi mova, et con pietà guardate
che «i furenti settentrionali, le lagrime del popol doloroso,
di dura cervice, ci superino 90 che sol da voi riposo
proprio in intelligenza»
(Contini). dopo Dio spera; et pur che voi mostriate
81 Non è... pria?: non è
segno alcun di pietate,
questa la terra dove io nac-
qui? vertù contra furore
83 nudrito: nutrito, alle- prenderà l’arme, et fia ’l combatter corto:
vato.
84 in ch’io mi fido: a cui 95 ché l’antiquo valore
mi affido. ne l’italici cor’ non è anchor morto.
86 che copre... parente:
dove sono sepolti entrambi
i miei genitori. Signor’, mirate come ’l tempo vola,
87-88 questo... mova: et sì come la vita
questo pensiero (cioè il fat-
to che l’Italia è la terra in fugge, et la morte n’è sovra le spalle.
cui sono sepolti anche i vo- 100 Voi siete or qui; pensate a la partita:
stri antenati) vi scuota la
mente, qualche volta. L’in- ché l’alma ignuda et sola
vito è rivolto ai signori d’I- conven ch’arrive a quel dubbioso calle.
talia.
90 riposo: pace, confor- Al passar questa valle
to. piacciavi porre giù l’odio et lo sdegno,
91-94 et pur... corto: e se
solo voi mostrerete qualche 105 vènti contrari a la vita serena;
segno di pietà, di amore per et quel che ’n altrui pena
l’Italia, il valore disciplinato tempo si spende, in qualche acto più degno
(degli italiani) affronterà la
furia bestiale (dei tedeschi) o di mano o d’ingegno,
e la contesa sarà di breve in qualche bella lode,
durata (perché la “virtù”
trionferà sul “furore”). 110 in qualche honesto studio si converta:
95 antiquo valore: quel così qua giù si gode,
valore che fu del popolo ro-
mano. et la strada del ciel si trova aperta.
96 morto: spento, dissol-
to.
97 mirate: riflettete. 101-102 ché... dubbioso gnata come viaggio nella scorre ad arrecare sofferen- designa la causa mediante
99 n’è sovra le spalle: è calle: giacché l’anima è de- valle di lacrime) vogliate za al prossimo, sia dedicato l’effetto), qualche onore-
per noi imminente, ci in- stinata a giungere al temuto deporre i sentimenti di invece (si converta) a com- vole impegno.
calza. passo (della morte) sola e odio e sdegno, che sono co- piere qualche opera ma- 111-112 così qua giù...
100 qui: cioè in vita, nel «spoglia di onori mondani» me venti contrari ad una nuale o intellettuale più de- aperta: in questo modo ci si
mondo. (Sapegno). serena esistenza. gna, qualche impresa che vi procura in terra una serena
100 la partita: la morte 103-105 Al passar... serena: 106-110 et quel... conver- procuri lodi (in qualche... lo- esistenza (cfr. v. 105) e ci si
(partita = partenza). durante questa vita (desi- ta: e quel tempo che si tra- de, è metonimia, in quanto spiana la via del cielo.

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Duecento e Trecento

113-118 Canzone... nemi- Canzone, io t’ammonisco 119-120 Proverai... piace:


ca: canzone, ti invito a troverai buona accoglienza,
esporre con garbo e cortesia che tua ragion cortesemente dica, fortuna, tra i pochi uomini
il tuo argomento, poiché 115 perché fra gente altera ir ti convene, magnanimi a cui piace, che
devi andare (ir ti convene) fra et le voglie son piene amano il bene.
gente superba, il cui animo 121 Chi m’assicura?: chi
ambizioso (voglie) si nutre di già de l’usanza pessima et antica, mi protegge?
adulazioni (designate me- del ver sempre nemica.
diante perifrasi: l’abitudine
antica e pessima, nemica pe- Proverai tua ventura
renne della verità). 120 fra’ magnanimi pochi a chi ’l ben piace.
Di’ lor: – Chi m’assicura?
I’ vo gridando: Pace, pace, pace. –

Guida all’analisi
Un esempio di poesia eloquente e solenne Nel Canzoniere, accanto ai temi privilegiati dell’amore per Laura e
delle riflessioni sulla propria condizione interiore, trovano posto – sia pure marginalmente –
anche le tematiche politiche. Questa canzone ne è un esempio celebre. Da un punto di vi-
sta formale il componimento appare dettato in uno stile solenne, e sottoposto ad un’inten-
sa e vigile elaborazione retorica: apostrofi, prosopopee, perifrasi, esclamazioni, interrogazio-
ni retoriche, metafore, metonimie, sineddochi, antitesi, chiasmi ecc. si addensano nel testo,
cooperando a farne un esempio di poesia eloquente che è stata presa a modello dai lettera-
ti che nei secoli successivi si sono ispirati a una nozione classicistica di letteratura e non è
dispiaciuta, in genere, neppure ai romantici, che vi hanno riconosciuto «il calore della con-
vinzione» (De Sanctis) e l’hanno presa talora anch’essi a modello (Leopardi).
Petrarca si ispira a ideali politici nobili ma astratti Nell’affrontare il tema politico Petrarca non era mosso, co-
me Guittone o Dante, da una passione municipalistica, che era l’unica forma di passione po-
litica ammissibile per un uomo di quel tempo. Egli è nutrito d’una cultura e d’esperienze
cosmopolitiche; pertanto quando affronta il tema delle discordie fra Stati italiani, tende
spesso a porsi super partes, appellandosi a un nobilissimo ma anche astratto ideale di pace. E
questo lo fa per vocazione personale ma anche perché tale è la funzione (altissima) che egli
assegna al letterato, volto più alla contemplazione che all’azione e quindi super partes per de-
finizione e in grado, per il prestigio della dottrina e per l’indipendenza personale, di parlare
da pari a pari coi potenti (questo di fatto accadde a Petrarca sul piano biografico).
L’idea di Italia di Petrarca è d’origine letteraria In secondo luogo è da notare che Petrarca, quando evoca una
nozione di Italia si fonda su una precedente tradizione letteraria e si ispira a motivi libreschi,
per lo più connessi all’antico modello dell’impero romano. Ma l’origine letteraria dei suoi
ideali e delle sue argomentazioni politiche «non implica affatto ... la loro insincerità» (Bo-
sco). Quella della letteratura è anzi l’unica via “sincera” che il Petrarca, letterato dottissimo,
poteva percorrere per affrontare il problema.
In questo testo ritroviamo entrambi gli atteggiamenti: basti considerare come il conflitto
che dà lo spunto alla canzone sia tutto risolto nell’appello alla pace e nella opposizione tra
italiani e tedeschi; e considerare come questa opposizione si fondi su reminiscenze di storia
letteraria e, in definitiva, su un appello al mito della romanità quale gli veniva consegnato
dalle tradizioni medievali (universalismo e provvidenzialismo) e dalle fonti classiche.

Laboratorio 1 Individua nella canzone, sottolineandole con quella di Guittone [R T 6.5 ]. In un bre-
COMPRENSIONE e nominandole a fianco del testo, le prin- ve scritto individua i principali elementi te-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE cipali figure retoriche che abbiamo men- matici e formali che le accomunano o le di-
zionato nella guida all’analisi. stinguono.
2 Confronta questa grande canzone politica
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12. Francesco Petrarca T 12.12

T 12.12 Canzoniere 1348-1374


Pace non trovo et non ò da far guerra (CXXXIV)
F. Petrarca, Canzoniere Questo celebre sonetto affronta il tema, frequentissimo nel Canzoniere, della sofferenza
testo critico di G. Contini, d’amore e, in particolare, del dissidio interiore che non fa trovar pace al poeta. Ma ciò
Einaudi, Torino 1984 che lo rende particolarmente notevole all’interno del Canzoniere è l’insistita e mono-
corde elaborazione formale che ne fa un esempio di scrittura altamente artificiosa o,
come altri preferisce, “gotica” o “manierista”.

Pace non trovo, et non ò da far guerra;


e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio;
et volo sopra ’l cielo, et giaccio in terra;
4 et nulla stringo, et tutto ’l mondo abbraccio.

Tal m’à in pregion, che non m’apre né serra,


né per suo mi riten né scioglie il laccio;
et non m’ancide Amore, et non mi sferra,
8 né mi vuol vivo, né mi trae d’impaccio.

Veggio senza occhi, et non ò lingua et grido;


et bramo di perir, et cheggio aita;
11 et ò in odio me stesso, et amo altrui.

Pascomi di dolor, piangendo rido;


egualmente mi spiace morte et vita:
14 in questo stato son, donna, per voi.

Nota metrica 5 Tal m’à: una persona Amore non mi uccide né mi 12 Pascomi di dolor: mi
Sonetto secondo lo sche- (Laura, ovviamente) mi tie- libera dai ferri, dalle catene. nutro di dolore.
ma ABAB,ABAB, CDE, ne. 9 et grido: eppure gri- 13 mi spiace: mi dispiac-
CDE. 6 né per... laccio: né mi do. ciono, detesto.
trattiene come suo prigio- 10 et bramo... chieggio
1 et non ò... guerra: e niero né mi libera. aita: e desidero morire e
non ho armi per combattere. 7 et non... sferra: e chiedo aiuto.

Guida all’analisi
Poetica dell’artificiosità nel Canzoniere Una delle caratteristiche fondamentali del linguaggio e dello stile pe-
trarcheschi è – abbiamo visto – la ricerca di naturalezza (dissimulare l’elaborazione retorica
e metrica dei testi, secondo il principio classico della “difficile facilità”, mediante la ricerca
di equilibrio, compostezza formale, euritmie – cfr. ad esempio l’analisi di Solo et pensoso
[R T 12.8 ]). Vi sono tuttavia nel Canzoniere alcuni testi in cui l’elaborazione retorica appare
fine a se stessa e quindi particolarmente artificiosa: in qualche caso, anzi, Petrarca sembra
“abusare” di procedimenti che sono, in diversi e più sobri contesti, peculiari del suo stile
(quali, ad esempio, le antitesi disposte secondo strutture simmetriche all’interno di uno o
più versi). Se non fossimo certi della “serietà” con cui Petrarca affronta anche queste prove,
saremmo tentati di credere che egli volesse compiere una parodia di se stesso, scrivendo “al-
la maniera” di Petrarca (da questa espressione trarranno origine i termini manierismo, manie-
ristico, che poi verranno assunti per definire forme di scrittura “artificiosa”).

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Duecento e Trecento

Disposizione equilibrata e armonica delle parole nel verso In questo sonetto troviamo forme e figure che, se
prese a sé, sono tipiche dello stile regolare ed equilibrato di Petrarca: se esaminiamo ad
esempio il primo verso «Pace non trovo, et non ò da far guerra», notiamo l’antitesi pace /
guerra, i cui termini sono elegantemente posti agli estremi del verso; la collocazione al cen-
tro di due predicati sinonimici «non trovo et non ò da far» delinea poi la figura del chiasmo
(ab/ba). La regolarità e la specularità della disposizione delle parole nel verso determina
quell’effetto di ricomposizione armoniosa degli elementi conflittuali, che è stilema tipico
del Canzoniere. Analoghe osservazioni potremmo fare per altri versi: «Veggio senza occhi, et
non ò lingua et grido» configura di nuovo un chiasmo, ma duplica l’antitesi e la sposta nei
due emistichi («Veggio / senza occhi», «non ò lingua / et grido»), mantenendo comunque
una disposizione regolata e armoniosa delle parole nel verso. «Et non m’ancide Amore, et non
mi sferra» propone un’antitesi agli estremi, ponendo al centro, come perno, il soggetto (Amo-
re). Un verso come «et volo sopra ’l cielo, et giaccio in terra», viceversa, sceglie di disporre
in antitesi i due emistichi nel loro complesso (volo sopra ’l cielo / giaccio in terra) ovvero i
quattro elementi a due a due (volo / giaccio, ’n cielo / in terra), ma, a differenza dei preceden-
ti casi, adotta la disposizione della simmetria (ab/ab): i predicati sono collocati all’inizio di
ciascun emistichio, i complementi alla fine («et volo sopra ’l cielo, et giaccio in terra»).
Ma la ripetizione ostentata delle antitesi rende artificioso il sonetto Il fatto è però che, pur con tutte queste
microvariazioni, ci troviamo di fronte a un caso di esasperata ripetitività che in pratica ri-
guarda un solo procedimento, l’antitesi (se ne contano almeno quindici – più di una per
verso – quasi sempre nella forma più tipica: due termini coordinati concettualmente op-
posti, «e temo et spero»); da qui l’impressione di monotonia. Quello che caratterizza que-
sto componimento, rispetto ad altri in cui questi artifici compaiono isolatamente o con
minor frequenza e con più significative variazioni, è che viene a mancare – come detto –
proprio l’effetto di dissimulazione degli artifici (difficilis facilitas), che altrove determina la
sensazione di un discorso che si svolge naturalmente. Qui viceversa gli artifici non sono
dissimulati, anzi paiono intenzionalmente ostentati, riportando il sonetto nell’ambito di
una poetica della difficoltà (difficultas). Conseguenza non indifferente di questa ostentazio-
ne è poi che la stessa situazione psicologica e comunicativa appare più astratta che altrove:
per dirla in breve, non è più un interrogarsi ma un “catalogare” gli aspetti del proprio dis-
sidio, e il lettore fa più fatica a immedesimarsi nel poeta, distratto com’è dall’impressio-
nante sequenza di artifici, ne ammira di più la funambolica bravura, di quanto non ne
compatisca l’intima sofferenza.

Laboratorio 1 Illustra con parole tue in che cosa consi- sco è qui enfatizzato? Fai riferimento ad
COMPRENSIONE ste l’infrazione al “canone della naturalez- altri testi a te noti.
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE za” qui attuata. 3 Completa l’analisi delle diverse forme di
2 Illustra il soggetto del sonetto, sofferman- antitesi (cioè le ‘microvariazioni’ della di-
doti in particolare sugli stati d’animo del sposizione delle parole) avviata nella Gui-
poeta. Quale tema tipicamente petrarche- da all’analisi.

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12. Francesco Petrarca T 12.13

T 12.13 Canzoniere 1348-1374


Fiamma dal ciel su le tue treccie piova (CXXXVI)
F. Petrarca, Canzoniere Aspra invettiva contro la corruzione della corte papale, che si inserisce in una tradizio-
testo critico di G. Contini, ne ben consolidata (da Jacopone a Dante) ma che trae spunto particolare dalla cattività
Einaudi, Torino 1984 avignonese. Il Petrarca ben conosceva l’ambiente della curia avignonese, contro cui in
più occasioni – specialmente nelle epistole Sine nomine – assunse posizioni polemiche.
Questo sonetto è «presumibilmente scritto sotto Clemente VI (1342-1352), il più fasti-
dioso di quei pontefici, ma, si crede, prima della morte di Laura (1348), figurando tra i
sonetti in vita» (Contini). Altri, per le affinità con alcune delle Sine nomine, lo collocano
negli anni 1351-1353.

Fiamma dal ciel su le tue treccie piova,


malvagia, che dal fiume et da le ghiande
per l’altrui impoverir se’ ricca et grande,
4 poi che di mal oprar tanto ti giova;

nido di tradimenti, in cui si cova


quanto mal per lo mondo oggi si spande,
de vin serva, di lecti et di vivande,
8 in cui Luxuria fa l’ultima prova.

Per le camere tue fanciulle et vecchi


vanno trescando, et Belzebub in mezzo
11 co’ mantici et col foco et co li specchi.

Già non fostù nudrita in piume al rezzo,


ma nuda al vento, et scalza fra gli stecchi:
14 or vivi sì ch’a Dio ne venga il lezzo.

Nota metrica mia), che «con le ghiande co- stole; e questo li rendeva chi: e in mezzo a loro sta
sonetto secondo lo sche- stituiva il semplice nutri- contrari a trasferirsi a Ro- Belzebù coi mantici, il fuo-
ma ABBA,ABBA, CDC, mento degli incorrotti e pu- ma» (Ponte). co e gli specchi (ustòri) «per
DCD. ri uomini primitivi» (Bez- 8 fa l’ultima prova: «è attizzare l’incendio dei sen-
zola). spinta all’estremo» (Ponchi- si» (Contini).
2 malvagia: è la corte 3 per... grande: facendo roli), «rivela l’estremo del 12 Già... rezzo: tu non
papale di Avignone, qui per- impoverire gli altri sei di- suo potere» (Ponte). fosti,un tempo,allevata fra le
sonificata (donde anche trec- ventata ricca e potente. 9 fanciulle et vecchi: «a piume e all’ombra (al rezzo),
cie al v. 1). L’invettiva trae 4 poi... giova: poiché ti maggiormente mostrare nell’ozio.
forza ulteriore dall’artificio diletti nel compiere azioni l’immoralità del connubio» 14 ch’a Dio... il lezzo:
dell’apostrofe. – dal fiume malvagie. (Bezzola). così che (spero) la puzza del-
et da le ghiande: espressio- 6 si spande: si diffonde. 10 trescando: organiz- la corruzione possa giunge-
ne metonimica che significa 7 de vin serva: schiava zando tresche (la tresca oltre re fino a Dio.
«dalla primitiva semplicità» del vino: «il vino di Francia che un illecito intrigo amo-
(Ponchiroli); fiume sta per piaceva ai cardinali, afferma roso è anche una danza).
«acqua di fiume» (metoni- il Petrarca in varie sue epi- 10-11 et Belzebub... spec-

Guida all’analisi
La curia come meretrix magna La corte papale su cui Petrarca auspica si abbatta la vendetta divina è rappresen-
tata mediante la personificazione femminile («treccie», «malvagia», «de vin serva, di lecti et
de vivande», ecc.) che rimanda alla «meretrix magna», la grande meretrice dell’Apocalisse (17,
2-15). La punizione invocata («fiamma del ciel», cioè una pioggia di fuoco) è quella stessa

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Duecento e Trecento

che nella Bibbia Dio scaglia contro Sodoma e Gomorra, le città dedite ai vizi (specialmen-
te sessuali). Il tema generale, cioè la vergognosa corruzione della corte papale, e i riferimen-
ti biblici determinano il tono aspro e risentito e la forma tradizionale dell’invettiva che so-
prattutto si esplicita nel duplice auspicio di una punizione divina, quasi una maledizione,
collocato simmetricamente al primo e all’ultimo verso («Fiamma del ciel su le tue treccie
piova» e «or vivi sì ch’a Dio ne venga il lezzo»). La presenza divina sembra così incombere
minacciosa sulla curia degenerata e cingerla in un assedio che ormai, negli auspici del poe-
ta, non lascia via di scampo.
Il tralignamento della Chiesa Il risentimento è generato dalla constatazione del contrasto che oppone la realtà
degradata di opulenza, corruzione e sopruso («per l’altrui impoverir se’ ricca e grande») pro-
pria dell’attuale curia avignonese e le semplici e umili origini della Chiesa o l’ideale della
missione a cui essa è chiamata in terra (qui però solo implicito). Tale contrasto è dichiarato
soprattutto dalle antitesi dei vv. 2-3 e vv. 12-13. Per designare la primitiva semplicità della
Chiesa, Petrarca fa riferimento a motivi topici della letteratura classica che descrive l’età del-
l’oro (in particolare le «ghiande», cibo degli uomini primitivi) o a temi biblici o della lette-
ratura ascetica («nuda al vento», «scalza fra gli stecchi» sono immagini che ricordano la sem-
plicità e povertà degli apostoli, che lo stesso Petrarca evoca in una delle Sine nomine men-
zionandone i «nudi piedi», o dei santi eremiti medievali e dei primi francescani). Non è che
un fugace accenno, ma è la necessaria pietra di paragone per misurare il tralignamento del-
la curia.
Incorniciata dalle due invettive (v. 1 e v. 14) e dalle due antitesi (vv. 2-3 e vv. 12-13), si ac-
campa nel cuore del sonetto la parte più fosca della descrizione della degradazione morale
della curia avignonese (vv. 5-11). Essa è rappresentata come un «nido di tradimenti» e di
peccati come l’avidità e la gola, ma più in generale come tutto il «male» che si spande per il
mondo (v. 6). Soprattutto però vi si sviluppa analiticamente la metafora della meretrix magna
e il tema della «Luxuria» (nominata nel verso centrale del sonetto, in maiuscolo, con un so-
spetto cioè di personificazione diabolica), che culmina nell’immagine dei «vecchi» prelati
che «trescano» con delle «fanciulle» e soprattutto nell’evocazione di Belzebù che attizza l’in-
cendio dei sensi, con quella forte e sinistra immagine dei mantici, del fuoco e degli specchi
ustori che rimane nella memoria.
Uno stile aspro e violento Il sonetto ha toni aspri e violenti che contrastano con la prassi abituale del Canzo-
niere, ma che rispecchiano una lunga tradizione di invettive anticuriali. L’asprezza e la vio-
lenza dei toni si nota non solo negli enunciati che auspicano l’intervento divino, ma in ge-
nerale nella sequenza in crescendo di epiteti che designano e descrivono la curia («malva-
gia», «nido di tradimenti», «de vin serva, di lecti et di vivande»), sino all’immagine di Bel-
zebù che attizza la lussuria. Del tutto coerente a questa impostazione stilistica sono poi la
scelta di un lessico concreto e basso (vin, lecti, vivande, camere, trescando, mantici, specchi, nuda,
scalza, stecchi, lezzo), i frequenti inasprimenti fonici specie nelle terzine (la rime delle terzine
mezzo: rezzo: lezzo e vecchi: specchi: stecchi; e vari passi: «vanno trescando, et Belzebub in mez-
zo»; «CO’ mantici et COl foCO et CO li speCCHI»; «SCalza fra gli steCCHI»…), che ri-
cordano le «rime aspre e chiocce» che Dante invoca per la rappresentazione del fondo del-
l’Inferno. Non si deve credere, insomma, che Petrarca si lasci prendere da un impeto di col-
lera e scriva di getto: i riferimenti biblici e letterari, le scelte stilistiche che si inseriscono in
una precisa tradizione e la stessa calibrata struttura chiastica del componimento (invettiva /
antitesi / descrizione / antitesi / invettiva) stanno a dimostrare l’attenta elaborazione for-
male e la volontà di controllo razionale della materia messi in atto da Petrarca.

Laboratorio 1 Confronta sul piano del linguaggio e del- mia, benché ’l parlar sia indarno [R T 12.11 ]
COMPRENSIONE lo stile questo testo con la canzone Italia rilevandone affinità e divergenze.
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE

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12. Francesco Petrarca T 12.14

T 12.14 Canzoniere 1348-1374


Or che ’l ciel et la terra e ’l vento tace (CLXIV)
F. Petrarca, Canzoniere Un delicato notturno, che descrive la quiete che regna in cielo e in terra, introduce per
testo critico di G. Contini, contrasto questo sonetto che, nei modi consueti, descrive gli affanni amorosi che ren-
Einaudi, Torino 1984 dono inquieta la notte del poeta. In questo caso Petrarca trae spunto da un celebre pas-
so di Virgilio, che descrive la notte insonne dell’innamorata Didone.

Nota metrica Or che ’l ciel et la terra e ’l vento tace


Sonetto a schema ABBA, et le fere e gli augelli il sonno affrena,
ABBA, CDE, CDE.
Notte il carro stellato in giro mena
1 tace: tacciono; il verbo
4 et nel suo letto il mar senz’onda giace,
concorda qui solo con vento.
L’espressione ricorda un
verso dantesco: «mentre che vegghio, penso, ardo, piango; et chi mi sface
’l vento, come fa, ci tace» (If,
V 96). sempre m’è inanzi per mia dolce pena:
2 affrena: tiene a freno. guerra è ’l mio stato, d’ira et di duol piena,
5 vegghio: veglio. – sfa-
ce: distrugge (è Laura). 8 et sol di lei pensando ò qualche pace.
8 di lei pensando: pen-
sando a lei. Così sol d’una chiara fonte viva
9 Così… viva: così da
un’unica chiara fonte viva move ’l dolce et l’amaro ond’io mi pasco;
sgorgano (la metafora ov- 11 una man sola mi risana et punge;
viamente designa ancora
Laura).
10 mi pasco: mi nutro. e perché ’l mio martir non giunga a riva,
11 una man… punge: al-
lusione al mito della lancia mille volte il dì moro et mille nasco,
di Peleo, che, come qui la 14 tanto da la salute mia son lunge.
mano di Laura, era in grado
al tempo stesso di ferire e di
risanare.
12 e… riva: e affinché le
mie sofferenze non abbiano
termine (concetto espresso
dalla metafora marinara del 13 moro…nasco: con- in forma iperbolica, colle- chiastica). me serenità, pace interiore,
giungere a riva o in porto, sueta antitesi per designare gata all’immagine prece- 14 tanto… son lunge: cessazione degli affanni d’a-
dove si trova riparo e quie- l’ondeggiare degli stati d’a- dente del «risana et punge» tanto sono lontano dalla more.
te). nimo del poeta, qui espressa (con cui è in una relazione mia salvezza, qui intesa co-

Guida all’analisi
La pace della natura e la guerra dei sentimenti Il notturno che apre il sonetto, in palese emulazione di Virgilio
[R Doc 12.7 ], trasmette un senso di serenità e di pace: la quiete degli elementi, il sonno degli
animali, il placido moto della luna che silenziosa conduce il carro degli astri, la bonaccia che
rende tranquilla e piatta la superficie del mare si dislocano in quattro versi regolari e lenti
nel loro sviluppo sintattico (si noti l’assenza di enjambements e di pause all’interno del verso
e la regolare collocazione dei verbi tutti in fine verso).
Ma nel passaggio dalla prima alla seconda quartina ci troviamo improvvisamente di fron-
te a una diversa situazione e a uno scarto stilistico, che la sottolinea. L’attenzione del poeta
dall’esterno si volge ora all’interno della propria dimora (dove si dipinge in veglia) e subito
dopo all’interno del proprio animo inquieto: l’io si accampa bruscamente in primo piano
con una secca e drammatica sequenza di quattro verbi che predicano tutti inquietudine e
sofferenza («vegghio, penso, ardo, piango») e sono forse disposti in una climax ascendente,
che culmina nel piangere. Il verso 5 è spezzato da una forte pausa (il punto e virgola), poi si
distende in un enjambement, artificio raro in Petrarca e sempre dosato con attenzione, che
qui spezzando il ritmo piano e regolare degli endecasillabi non può non sottolineare an-
ch’esso il brusco contrasto con la quiete del mondo esterno. In questo passaggio compare
369 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento

nel testo Laura, la causa e l’oggetto dei pensieri notturni, dell’ardore e del pianto del poeta,
che rimarrà in scena – sia pure in funzione subordinata rispetto all’io inquieto e sempre in
stretta relazione con esso – sino alla fine della seconda terzina («chi mi sface / sempre m’è
inanzi…», «sol di lei pensando ò…», «sol d’una chiara fonte viva…», «una man sola mi risa-
na et punge»), per poi lasciare totalmente il posto all’analisi del «martir» del poeta. Quel che
è inscenato nel componimento, dopo il notturno d’apertura, è dunque un’ennesima rap-
presentazione della fenomenologia dell’amore nella versione petrarchesca, della guerra cioè
dei sentimenti, dell’oscillazione degli stati d’animo del soggetto innamorato, espressa con i
consueti artifici stilistici: notiamo l’ossimoro «dolce pena» (v. 6), l’antitesi «guerra… pace»,
con i due termini collocati all’inizio e alla fine del distico (vv. 7-8), le successive antitesi «’l
dolce et l’amaro», «risana et punge», «mille volte il dì moro et mille nasco».

Doc 12.7 L’inquietudine di Didone

Petrarca nell’elaborare questo sonetto trae spunto da un celebre passo dell’Eneide di Virgi-
lio nel quale si descrive l’inquietudine notturna di Didone, innamorata di Enea. In parziale
contrasto con quanto Petrarca stesso dichiara in una lettera a Boccaccio sull’imitazione
[R Doc 12.2 ], nella quale asserisce la necessità di trarre spunto da molteplici fonti e di celare il
più possibile il debito nei confronti del passo imitato, in questo caso egli si attiene abba-
stanza fedelmente al modello, in un processo di emulazione esplicita. Bisogna però tener
conto del fatto che qui Petrarca traspone il passo imitato da una lingua (il latino) a un’altra
(il toscano), il che consente comunque di evitare l’imitazione pedissequa, quella che ripete
le stesse parole e le stesse formule dell’originale.
Pur considerando che noi leggiamo il passo di Virgilio in una traduzione, il che non per-
mette di formulare osservazioni precise sullo stile virgiliano, un confronto fra i due testi
consente di notare la presenza di numerosi elementi comuni (soprattutto il forte contrasto
tra la rappresentazione della natura in quiete e in silenzio e viceversa la tempesta che im-
perversa nell’animo della regina fenicia o del poeta, e la serie degli elementi naturali o de-
gli animali presi in considerazione nel notturno: la notte, il cielo, le stelle, il mare, gli uccelli
e le greggi o le «fere») e anche di alcune differenze (si notino ad esempio i numerosi enjam-
bements nel testo virgiliano che grosso modo sono presenti anche nell’originale latino e il più
elaborato e artificioso trattamento da parte di Petrarca del motivo dell’inquietudine intima,
giocato – come si è visto – su una serie di antitesi).

Virgilio, Eneide, IV, Era la notte e placido sonno godevano stanchi


522-532 [trad. di R. in terra i corpi, e le selve e il mare iracondo
Calzecchi Onesti]
posava, quando a mezzo del giro le stelle già volgono,
525 quando tace ogni campo, le greggi, e variopinti gli uccelli
che han l’ampie distese dell’acque o le lande selvagge
di spini, composti nel sonno, sotto la notte silente.
1 Il verso tra parentesi [Lenivan gli affanni e il cuore del male dimentico]1
quadra non compare in Ma non la disperata Fenicia: lei mai
tutti i codici e alcuni stu-
diosi lo ritengono inter- 530 s’abbandona nel sonno, mai negli occhi, nel cuore
polato. accoglie la notte. Rimonta lo strazio, e risorgendo l’amore
imperversa, ribolle dell’ire la grande tempesta.

Laboratorio 1 Analizza tutte le metafore presenti nel so- presenti nel passo di Virgilio. A quali
COMPRENSIONE netto di Petrarca e confrontale con quelle campi semantici fanno riferimento?
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE

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12. Francesco Petrarca T 12.15

T 12.15 Canzoniere 1348-1374


Passa la nave mia colma d’oblio (CLXXXIX)
F. Petrarca Ancora una volta il soggetto del componimento è l’animo del poeta in balìa della pas-
Canzoniere sione d’amore. In questo caso Petrarca rappresenta metaforicamente la propria condi-
testo critico di G. Contini, zione psicologica e morale adottando il motivo tradizionale della nave in balìa della
Einaudi, Torino 1984
tempesta.

Passa la nave mia colma d’oblio


per aspro mare, a mezza notte il verno,
enfra Scilla et Caribdi; et al governo
4 siede ’l signore, anzi ’l nimico mio.

A ciascun remo un penser pronto et rio


che la tempesta e ’l fin par ch’abbi a scherno;
la vela rompe un vento humido eterno
8 di sospir’, di speranze et di desio.

Pioggia di lagrimar, nebbia di sdegni


bagna et rallenta le già stanche sarte,
11 che son d’error con ignorantia attorto.

Celansi i duo mei dolci usati segni;


morta fra l’onde è la ragion et l’arte,
14 tal ch’incomincio a desperar del porto.

Nota metrica della notte, e nella più catti- manifestarsi e malvagio. son composte d’errore at-
Sonetto secondo lo sche- va stagione» (Sapegno). 6 ’l fin: il naufragio, la torcigliato con ignoranza.
ma ABBA,ABBA, CDE, 3 enfra Scilla et Carib- morte per naufragio. – abbi 12 Celansi... segni: sono
CDE. di: allude al pericoloso pas- a scherno: disprezzi, non nascoste le due dolci stelle
saggio dello stretto di Mes- curandosene. (gli occhi di Laura) che era-
1 oblio: dimenticanza di sina, nominandone i due 7 la vela... un vento: un no abitualmente per me se-
sé, dei propri doveri. «Allu- mostri che secondo la mito- vento (soggetto) lacera la gnali (segni) indicatori della
de, credo, all’oscurarsi della logia classica sorvegliavano vela (oggetto). rotta da seguire.
coscienza morale nell’uo- il passaggio insidiando le 8 di sospir’: che consiste 13 la ragion et l’arte: le
mo travolto dall’impeto de- navi. – governo: timone. in, che è prodotto da sospiri cognizioni teoriche e prati-
gli affetti e dei sensi» (Sape- 4 signore: cioè Amore. ecc. (così anche al v. 9). che che fanno l’abilità del
gno). 5 A ciascun remo: sot- 10 rallenta... sarte: allen- navigante.
2 aspro: tempestoso, dif- tintende: siede, è posto. – un ta le sartie già provate (dal 14 desperar del porto:
ficile, pericoloso. – a mez- penser pronto et rio: un vento). disperare di riuscire a rag-
za... verno: «fra le tenebre pensiero insistente, pronto a 11 che son... attorto: che giungere il porto.

Guida all’analisi
L’allegoria come metafora continuata Secondo la poetica classica l’allegoria è una «metafora continuata» (Ari-
stotele), una metafora cioè utilizzata non episodicamente (come accade per la stessa metafo-
ra marina di questo sonetto ai vv. 1-2 del CCXXXIV: «O cameretta che già fosti un porto /
a le gravi tempeste mie dïurne» [R Verso l’esame, p. 390]) ma sistematicamente lungo tutto
l’arco di un componimento breve o per un segmento sufficientemente esteso di testo nel
caso di componimenti più lunghi. In questo caso Petrarca utilizza esattamente questo pro-
cedimento, che copre tutta l’estensione del sonetto. Si noti che non si tratta di un paragone
(che prevede l’esplicita comparazione: io sono come la nave…) ma propriamente di una me-
tafora (che elimina la comparazione: io sono la nave).
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Duecento e Trecento

Una nave mal guidata in balìa della tempesta In questo caso il poeta descrive una nave (egli stesso, la sua vita)
che ha smarrito la rotta (il dovere morale, ma anche la pace e la serenità), si è inoltrata in un
mare pericoloso (la passione), governata da un nocchiero infido (Amore, definito come si-
gnore e nemico), mossa da rematori ostili che paiono cercare il naufragio (i pensieri malvagi),
sospinta da un vento costante e impetuoso (sospiri, speranze, desideri), in balìa della pioggia
(lagrime) e della nebbia (sdegni), con le sàrtie ormai allentate (la ragione e la volontà), men-
tre sono nascoste le stelle che possono guidare la navigazione (gli occhi di Laura), e nessuno
più sulla nave ha le conoscenze tecniche e pratiche per governarla (ragione, equilibrio psi-
cologico), tanto che egli dispera di raggiungere il porto (pace, serenità).
È da notare che il poeta non individua la causa della difficile navigazione esclusivamen-
te in fattori esterni (la tempesta della passione), ma anche nella cattiva conduzione della na-
ve, nella dimenticanza dell’arte della navigazione, nella ostinata ricerca del pericolo da par-
te di chi la guida (fuor di metafora indicherà la debolezza d’animo, la remissività della ra-
gione nei confronti della passione e così via).
Laura-Sirena Secondo Michelangelo Picone nell’ideazione di questo componimento è attivo il mo-
dello di Ulisse, che nel suo viaggio di ritorno a Itaca prima si sottopone agli allettamenti
delle Sirene, esseri dal volto di donna e dal corpo di uccello (chi ascolta il loro canto irresi-
stibile dimentica ogni dovere, ogni interesse, ogni altro affetto per seguirle, e rimane loro
schiavo sino alla morte, come testimoniano nel racconto omerico gli innumerevoli scheletri
umani che ne punteggiano l’isola), e poi attraversa il periglioso stretto di Messina delimita-
to dalla rupe di Scilla e dal gorgo di Cariddi, rappresentati nella tradizione classica come
mostri marini («Là dentro Scilla vive, orrendamente latrando: / la voce è come quella di ca-
gna neonata, / ma essa è mostro pauroso, nessuno / potrebbe aver gioia a vederla, nemme-
no un dio, se l’incontra» Odissea, XII, 85-88; «Su questo [scoglio] c’è un fico grande, ricco
di foglie: / e sotto Cariddi gloriosa l’acqua livida assorbe. / Tre volte al giorno la vomita e
tre la riassorbe / paurosamente. Ah che tu non sia là quando l’assorbe!», ivi, vv. 103-106).
Se si applica questo modello letterario al sonetto, la «nave… colma d’oblio» verrebbe a
rappresentare dunque l’io del poeta che ha ascoltato – senza le cautele di Ulisse – gli allet-
tamenti di Laura, trasformata qui idealmente nella Sirena tentatrice, e che quindi «ha di-
menticato la sua vera destinazione eterna, e si è pericolosamente avvicinato al terribile ‘pas-
so’ custodito dai due mostri marini («Passa la nave mia colma d’oblio / per aspro mare, a
mezza notte il verno, / enfra Scilla et Caribdi…»). Laura-Sirena, se è corretto leggere tra le ri-
ghe di questo sonetto un’allusione al mito omerico, rappresenterebbe l’allettamento dell’e-
ros. Ma non va tuttavia trascurata la pregnanza simbolica del mito delle Sirene, che nella let-
teratura classica figuravano anche come simbolo del fascino che l’arte esercita sull’uomo.
L’immagine nascosta nel sonetto potrebbe allora così alludere cripticamente ai due fonda-
mentali allettamenti terreni che distolgono Petrarca (si veda ancora una volta il Secretum)
dalla strada che conduce a Dio.
Per il mito di Scilla e Cariddi si veda Omero, Odissea, XII, vv. 35-110 e 165-263. Ma il
mito era proposto ad esempio anche da Virgilio, Eneide, III, 410-428 e da Ovidio, Meta-
morfosi, XIII, 730-737 (delle Sirene parla anche Ovidio, ivi,V, 551-571). Il saggio di Miche-
langelo Picone, Il sonetto CLXXXIX , si legge in Lectura Petrarce, IX, Olschki, Firenze 1989.

Laboratorio 1 Il poeta non si limita a descrivere realisti- ze et di desio». Seguendo l’interpretazione


COMPRENSIONE camente la nave in tempesta lasciando to- proposta nella Guida all’analisi individua
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE talmente implicito il significato allegorico gli elementi dell’allegoria il cui senso è
della metafora (procedimento invece usa- puramente implicito e quelli in cui l’in-
to da Dante quando nel canto I dell’Infer- terpretazione è suggerita dal poeta nel
no introduce le tre fiere allegoriche), ma modo detto.
talora orienta l’interpretazione del lettore, 2 Esponi con parole tue, commenta e di-
come quando qualifica il «vento» come scuti l’intepretazione fornita nel par.
«vento humido eterno di sospir’, di speran- «Laura-Sirena» della Guida all’analisi.

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12. Francesco Petrarca T 12.16

T 12.16 Canzoniere 1348-1374


Passer mai solitario in alcun tetto (CCXXVI)
F. Petrarca Laura in questo sonetto (non databile) è lontana, il poeta soffre per la sua assenza che
Canzoniere gli fa sentire tutta la propria solitudine: così giudica felice il paese che ‘possiede’ Laura,
testo critico di G. Contini, mentre lui non può che piangerla. Il suo stato è, al solito, caratterizzato da sentimenti
Einaudi, Torino 1984
contraddittori: prova piacere nel pianto, dolore nel riso, detesta il cibo, il cielo sereno gli
appare fosco, la notte gli procura solo affanni e non riesce ad assopirsi tanto che il let-
to, nel quale si rigira inquieto, gli appare un «duro campo di battaglia». Ma prendere
sonno gli sarebbe sgradito perché lo allontanerebbe dal solo dolce pensiero che lo tie-
ne in vita…

Nota metrica Passer mai solitario in alcun tetto mi pare assenzio o veleno
Sonetto con schema AB- non fu quant’io, né fera in alcun bosco, (tòsco).
BA,ABBA, CDE, CDE. 8 et duro… letto: per-
ch’i’ non veggio ’l bel viso, et non conosco ché vi si rigira senza riuscire
1-2 Passer… quant’io:
4 altro sol, né quest’occhi ànn’altro obiecto. a prendere sonno.
nessun passero in alcun tetto 9 qual… dice: come si
fu mai tanto solitario quan- dice.
10-11 e ’l cor… penser: e
to sono io. Da notare che Lagrimar sempre è ’l mio sommo diletto,
«solitario» è complemento sottrae il cuore al, lo priva
predicativo del soggetto, il rider doglia, il cibo assentio et tòsco, del dolce pensiero.
non un attributo che quali- la notte affanno, e ’l ciel seren m’è fosco, 12 almo: sacro, divino,
fichi la specie del passero, perché vi dimora Laura.
come accade invece per il 8 et duro campo di battaglia il letto. Lett. almo significa “che dà
«passero solitario» del Leo- nutrimento”, “fertile” (dal
pardi, che indica una specie Il sonno è veramente, qual uom dice, latino alere, nutrire) e spesso
particolare (il «monticola è attributo della madre o
solitarius»). parente de la morte, e ’l cor sottragge della terra materna, che ge-
3-4 ch’i’… obiecto: poi-
11 a quel dolce penser che ’n vita il tene. nera e nutre o di una divi-
ché non vedo il bel viso (di nità, che crea; da qui il valore
Laura), mentre io non co- estensivo che assume nel
nosco altro sole che lei né Solo al mondo paese almo, felice, linguaggio letterario.
questi miei occhi hanno al- 13 piagge: i ‘declivi’ che
tro oggetto (non desiderano, verdi rive fiorite, ombrose piagge, costeggiano un fiume o il
non sono capaci di vedere 14 voi possedete, et io piango, il mio bene. mare, ma anche più generi-
altro). camente luoghi di campa-
6 il rider… tòsco: il ri- gna.
dere mi è doloroso, il cibo

Guida all’analisi
Il paradosso della «dolce pena» sviluppato analiticamente Il nucleo concettuale del sonetto è il consueto pa-
radosso della «dolce pena» (cfr. Or che’l ciel et la terra, v. 6), che qui viene però sviluppato ana-
liticamente in toni malinconici e sentenziosi: il «sommo diletto» il poeta lo trova infatti nel
pianto («lagrimar»), indotto dal pensiero della lontananza di Laura, non nel riso, che vice-
versa gli procura dolore («il rider doglia»). Quest’ultimo concetto è in verità un po’ criptico,
generato forse solo per rinforzare il paradosso duplicando l’ossimoro (se il pianto è diletto-
so, il riso non potrà che essere doloroso), ma trova una giustificazione psicologica in quan-
to «il rider», come più avanti il sonno, indica un momento di dimenticanza di Laura, una di-
strazione dal pensiero dominante, doloroso ma necessario al poeta più del cibo (che per
l’appunto gli appare «assentio e tòsco»). Il riso e il sonno, a una considerazione di comune
saggezza, parrebbero auspicabili per alleviare gli affanni, facendogliene dimenticare la causa.
Invece, se è certo che la veglia gli procura sofferenza, tanto che il letto gli appare un «duro
campo di battaglia», il poeta coscientemente rifiuta il lenimento del sonno e lo paragona
sentenziosamente alla morte: «Il sonno è veramente, qual uom dice, / parente de la morte».
Lo paragona, si badi, non a una morte liberatrice dagli affanni (come farà poi ad esempio il
Foscolo in Alla sera: «Forse perché della fatal quïete / tu sei l’imago, a me sì cara vieni / o
Sera! […] / Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme / che vanno al nulla eterno; e intanto
fugge / questo reo tempo, e van con lui le torme / delle cure….»), ma alla morte come de-

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Duecento e Trecento

finitiva privazione di Laura. Il «dolce» pensiero di Laura, benché doloroso, è infatti la sola ra-
gione che lo tiene in vita, è anzi la vita stessa, l’unico bene: Laura è l’unico sole che conosce
(«non conosco altro sol»), i suoi occhi non hanno «altro obietto» che lei. Rinunciarvi, anche
momentaneamente, costituisce per il suo cuore affannato e inquieto un evento tragico.
Quella che qui, una volta di più, Petrarca denuncia come volontà irrefrenabile di crogiolar-
si nel proprio doloroso amore è dunque una forma di dipendenza, di alienazione, che lo al-
lontana dall’ideale stoico di saggezza come autocontrollo e dominio razionale delle proprie
passioni.

Doc 12.8 Il «passero solitario» dai Salmi a Leopardi

Il sonetto petrarchesco che abbiamo letto è famoso soprattutto per l’immagine del «passe-
ro solitario» che dà lo spunto a Leopardi per uno dei suoi canti più famosi. Ma la storia di
questa immagine è ancor più complessa e interessante. Infatti nell’ideare il sonetto, che ab-
biamo visto essere tutto collocato all’interno del dissidio amoroso senza che compaia il
motivo del pentimento per il proprio vaneggiare e del contrastato desiderio di riscatto in
Dio, Petrarca mosse con ogni probabilità dal ricordo del Salmo 101, Prece nello sconforto, di
cui riproduciamo l’inizio (versetti 1-8):
Preghiera di un afflitto che è stanco e sfoga dinanzi a Dio la sua angoscia.
Signore, ascolta la mia preghiera, Il mio cuore abbattutto come erba inaridisce,
a te giunga il mio grido. dimentico di mangiare il mio pane.
Non nascondermi il tuo volto; Per il lungo mio gemere
nel giorno della mia angoscia aderisce la mia pelle alle mie ossa.
piega verso di me l’orecchio. Sono simile al pellicano del deserto,
Quando ti invoco: presto, rispondimi. sono come un gufo tra le rovine.
1 In latino: sicut passer
Si dissolvono in fumo i miei giorni Veglio e gemo
solitarius in tecto. e come brace ardono le mie ossa. come uccello solitario sopra un tetto.1

Come si vede l’immagine del passero solitario (assai più esplicita nell’originale latino che
nella moderna traduzione della Cei) nasce qui, dov’è associata a motivi pure presenti nel
sonetto petrarchesco, come soprattutto quello della veglia e del pianto («Veglio e gemo»),
ma anche quello del languore per dimenticanza del cibo (in Petrarca: per amarezza del ci-
bo). Ora il modello imitato illumina d’una nuova luce il testo che lo imita, lasciando intui-
re i risvolti morali (sottaciuti) dell’inquietudine amorosa che tutta si accampa nella lettera
del sonetto. Rispetto al salmo Prece nello sconforto, Petrarca insomma dice lo sconforto ter-
reno e tace la preghiera, che tuttavia in altri testi ha già trovato voce e che presto diventerà
uno dei motivi portanti della raccolta (nella struttura del Canzoniere questo componimen-
to ormai gravita verso il momento della morte di Laura e della “conversione”).
L’immagine del passero solitario da Petrarca (dov’è solo uno spunto) passerà poi a Leo-
pardi che la sviluppa lungo tutto l’arco di un canto, e, abbandonata ogni possibile implica-
zione religiosa, ne fa un alter ego simile a lui ma anche più fortunato, perché – com’è co-
stume degli animali – non prova dolore per la propria sorte («Tu, solingo augellin, venuto a
sera / del viver che daranno a te le stelle / certo del tuo costume / non ti dorrai; che di
natura è frutto / ogni vostra vaghezza…»).

Laboratorio 1 La contraddizione e fluttuazione degli configura come una serie di vigorose an-
COMPRENSIONE stati d’animo, espressa al solito con la pa- titesi (in Pace non trovo) o in forma allego-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE catezza e dolcezza di stile che è tipica di rica (in Passa la nave mia). Confronta i te-
Petrarca, qui si fa più intima e più sottile sti indicati e sviluppa questa osservazione
che nei casi appena esaminati, dove si con puntuali riferimenti al testo.
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12. Francesco Petrarca T 12.17

T 12.17 Canzoniere 1348-1374


Qual paura ò, quando mi torna a mente (CCXLIX)
F. Petrarca Questo sonetto è importante nell’economia della raccolta perché costituisce l’ultima
Canzoniere apparizione di Laura viva al poeta e un presentimento della sua morte imminente,
testo critico di G. Contini, strutturalmente necessario anche in emulazione della Vita nuova di Dante che aveva af-
Einaudi, Torino 1984
fidato ad un sogno il presagio della scomparsa di Beatrice [R T 9.3 ].

Qual paura ò, quando mi torna a mente


quel giorno ch’i’ lasciai grave et pensosa
madonna, e ’l mio cor seco! et non è cosa
4 che sì volentier pensi, et sì sovente.

I’ la riveggio starsi humilemente


tra belle donne, a guisa d’una rosa
tra minor’ fior’, né lieta né dogliosa,
8 come chi teme, et altro mal non sente.

Deposta avea l’usata leggiadria,


le perle et le ghirlande e i panni allegri,
11 e ’l riso e ’l canto e ’l parlar dolce humano.

Così in dubbio lasciai la vita mia:


or tristi auguri, et sogni et penser’ negri
14 mi dànno assalto, et piaccia a Dio che ’nvano.

Nota metrica stamente: è, attribuita alla leggiadria della persona che


Sonetto secondo lo sche- donna, espressione tipica- si manifesta nella letizia d’a-
ma ABBA,ABBA, CDE, mente stilnovistica e dante- nimo, nel sorriso e nel canto
CDE. sca. (v. 11).
7 tra minor’ fior’: tra 11 humano: «nel senso di
2 grave et pensosa: in fiori di minor pregio. – né cortese, gentile» (Dotti).
atteggiamento grave e pen- lieta né dogliosa: ancora 12 Così… mia: così la-
sieroso, gravemente pensie- l’eco di un verso dantesco, a sciai Laura (la vita mia) con
roso. Il concetto è ripreso, proposito dell’atteggia- questo dubbio. Il dubbio
come nota Santagata, da mento delle anime colloca- può essere riferito tanto a
Dante, Inf. I,6 «che nel pen- te nel limbo: «sembianza Laura, pensosa e timorosa
sier rinova la paura». avean né trista né lieta» (If del proprio futuro, quanto al
3 e ’l mio cor seco: e (la- IV 84). poeta, che ne ha colto lo sta-
sciai) il mio cuore con lei. 8 et altro… sente: e non to d’animo e lo fa proprio,
3-4 et non… sovente: «ep- prova altro male che questo con un’angoscia forse ancor
pure (nonostante la paura oscuro timore. più accentuata.
che mi incute) non vi è cosa 9 Deposta… leggia - 13 negri: funesti.
alla quale io pensi tanto dria: l’espressione forse è ri- 14 et piaccia… ’nvano: e
spesso e tanto volentieri» ferita alla leggiadria dell’ab- voglia Dio che siano timori
(Santagata). bigliamento, più probabil- vani, fallaci.
5 humilemente: mode- mente a quella particolare

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Duecento e Trecento

Guida all’analisi
L’umana fragilità di Laura Il sonetto, come già altri, ci presenta una Laura umanamente fragile, sottoposta al di-
venire del tempo. Qui non è la Laura invecchiata della fantasia del sonetto XII (Se la mia vi-
ta de l’aspro tormento), ma una Laura reale, ancora abbastanza giovane e bella (è paragonata
infatti alla rosa tra fiori di minor pregio, che pur sono «belle donne»), eppure in parte già se-
gnata dal destino e dall’oscuro presentimento che la rende «grave et pensosa», «né lieta né
dogliosa»; una Laura che compare in abito severo e priva degli ornamenti allegri della gio-
vinezza («Deposta avea l’usata leggiadria / le perle et le ghirlande e i panni allegri…»), ma
soprattutto priva di sorriso e malinconicamente silenziosa («…e ’l riso e ’l canto e ’l parlar
dolce humano»). È questo uno dei rari testi in cui Laura è davvero protagonista, ha uno
spessore psicologico, una profondità emotiva che esula dall’evocazione (sempre vaga e sog-
gettiva) delle sue bellezze o dal catalogo spesso astratto delle sue virtù (ad esempio: «Fama,
Honor et Vertute et Leggiadria, / casta bellezza in habito celeste / son le radici de la nobil
pianta», detto del «lauro verde» che simboleggia l’amata in CCXXVIII). Qui Laura compa-
re, non in un sogno, ma in un incontro reale, come una donna vera, molto umanamente
preoccupata della propria sorte.
Il presagio di morte in Dante e Petrarca Per questo, nel confronto con la Vita nuova di Dante (qui certamente
emulata a proposito del motivo del presagio di morte, come forse indicano anche le occor-
renze di espressioni dantesche segnalate in nota), questo sonetto è persino più importante
del successivo CCL, che riferisce un sogno (proprio come fa Dante) in cui il fantasma di
Laura compare e «Non ti soven di quella ultima sera / – dice ella – ch’i’ lasciai gli occhi tuoi
molli / et sforzata dal tempo me n’andai? // I’ non tel potei dir, allor, né volli; / or tel dico
per cosa experta et vera: / non sperar di vedermi in terra mai». Certo, anche qui è evocato
l’ultimo incontro, ma in sogno, e Laura vi compare come una figura più astratta, quasi un’a-
nima venuta da remote lontananze che ormai non prova più turbamenti umani. Il sonetto
Qual paura ò, quando mi torna a mente segna invece maggiormente la distanza che Petrarca
mette tra sé e Dante. In Dante non c’è un ultimo incontro rivelatore; nell’episodio della
premonizione egli sorvola sulla fragilità umana di Beatrice, che non viene descritta neppu-
re in sogno, e anzi insiste sulla propria («Mentr’io pensava la mia frale vita / e vedea ’l suo
durar com’è leggiero, / piansemi Amor nel core, ove dimora; / per che l’anima mia fu sì
smarrita, / che sospirando dicea nel pensero: / – Ben converrà che la tua donna mora. – »,
Donna pietosa, vv. 29-34), risolvendo nei termini (cristologici) di un simbolico sconvolgi-
mento cosmico il momento dell’annuncio della morte di Beatrice. Petrarca viceversa ripor-
ta la sua donna in terra e indugia in questo ritratto malinconico e bellissimo, che ci conse-
gna Laura, l’ultima Laura viva, in tutta la sua dolorosa umanità.

Laboratorio 1 Confronta più analiticamente di quanto passo. Verifica o discuti le osservazioni da


COMPRENSIONE si è fatto nella Guida all’analisi il sonetto noi svolte.
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE Qual paura ò con l’episodio dantesco del- 2 Analizza i versi del sonetto in cui è de-
la premonizione della morte di Beatrice scritto lo stato d’animo del poeta ed
[R T 9.3 ]. In particolare analizza nella eventualmente metti a confronto il suo
prosa e nella poesia i momenti in cui stato d’animo con quello di Dante nell’e-
compare o viene nominata Beatrice e pisodio corrispondente.
quelli in cui viene annunciato il suo tra-
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12. Francesco Petrarca T 12.18

T 12.18 Canzoniere 1348-1374


Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo (CCLXVII)
F. Petrarca È questo il primo componimento in morte di Laura. Nel lamento per la scomparsa del-
Canzoniere l’amata Petrarca cerca di fondere la lode delle sue virtù con la riflessione sul proprio
testo critico di G. Contini, stato, la contemplazione (nella memoria) del leggiadro suo aspetto, col tenero e dispe-
Einaudi, Torino 1984
rato ricordo del loro ultimo incontro.

Nota metrica Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo,


sonetto secondo lo sche- oimè il leggiadro portamento altero;
ma ABBA, ABBA, CDE,
CDE. oimè il parlar ch’ogni aspro ingegno et fero
4 facevi humile, ed ogni huom vil gagliardo!
2 leggiadro... altero:
«portamento armoniosa-
mente signorile» (Ramat). et oimè il dolce riso, onde uscìo ’l dardo
3-4 ch’ogni... humile: di che morte, altro bene omai non spero:
con cui rendevi umile, ad-
dolcivi, ogni persona d’ani- alma real, dignissima d’impero,
mo aspro e fiero, superbo. 8 se non fossi fra noi scesa sì tardo!
4 ed ogni... gagliardo:
e nobilitavi ogni persona di
poco valore. Per voi conven ch’io arda, e ’n voi respire,
6 di che morte... spe- ch’i’ pur fui vostro; et se di voi son privo,
ro: dal quale mi attendo
ormai solo morte, e nessun 11 via men d’ogni sventura altra mi dole.
altro bene (visto che tu sei
morta).
7 alma... d’impero: Di speranza m’empieste et di desire,
anima regale, del tutto de- quand’io partì’ dal sommo piacer vivo;
gna dei più alti onori.
8 sì tardo!: così tardi, 14 ma ’l vento ne portava le parole.
«cioè, in una età che non
apprezza più la virtù»
(Ponchiroli).
9 conven: è necessario. 10 pur: sempre. 12 Di... m’empieste: mi ch’eravate ancora viva; disperdeva le nostre parole
– e ’n voi respire: e respiri 11 via men... dole: «d’o- riempiste di speranza, mi Laura è designata oggetti- (pronunciate durante il lo-
in voi, cioè tragga da voi gni altra sventura provo as- infondeste speranza. vamente attraverso una pe- ro ultimo dialogo, forse: ma
ciò che mi è necessario a sai meno (via men) dolore 13 quand’io... piacer rifrasi: sommo piacer. l’espressione è volutamente
vivere. che di questa». vivo: quando vi lasciai 14 ne portava le parole: vaga).

Guida all’analisi
Elaborazione formale e sentimenti Il componimento non è un’effusione spontanea e incontrollata di un senti-
mento improvviso. La solita complessa ed elegante veste retorica dimostra l’alto grado di
elaborazione del testo. L’iterazione iniziale dell’«oimè» (5 occorrenze, le prime 3 ravvicina-
te, le altre due progressivamente distanziate) non costituisce però indizio di una ostentazio-
ne di stile artificioso, perché in questo caso mima del tutto naturalmente il lamento di chi
ha ricevuto una notizia sconvolgente. Lo stesso si può dire per l’iterazione nella prima ter-
zina dei due pronomi personali variamente rifranti nel possessivo («vostro») e in alcuni echi
fono-simbolici («Per VOI con VEn ch’IO arda, e ’n VOI respIre, / ch’I’ pur fuI VOSTRO; et
se dI VOI son prIVO, / VIa MEn d’ognI sVEntura altra MI dole»), giacché la figura dell’in-
vocazione appare altrettanto naturale.
Il passaggio dalle due quartine, in cui il poeta contempla nella memoria la persona ama-
ta (sguardo, portamento, parlar, riso) senza però rivolgersi direttamente a lei, all’invocazione del-
la prima terzina è mediato dall’improvvisa e solenne apostrofe dei vv. 7-8 («alma real, di-
gnissima d’impero / se non fossi fra noi scesa sì tardo!») che suona come un po’ enfatica e
fredda. Convenzionale, nella scia della poesia cortese e dello stilnovo, ma adatta alla situazio-
ne commemorativa, è anche la caratterizzazione del «parlar» di Laura come fonte di perfe-
zionamento: «ch’ogni aspro ingegno et fero / facevi humile, ed ogni huom vil gagliardo!».
I momenti più felici di questo sonetto sono però probabilmente le due terzine, che tro-
377 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento

vano parole che rivelano un’autentica commozione. La prima dice con accento sincero la
dedizione di una vita intera, che non può cessare con la morte dell’amata: «Per voi conven
ch’io arda, e ’n voi respire, / ch’i’ pur fui vostro…» (si noti l’uso dei tempi che dichiarano at-
tuale l’ardore del poeta per Laura e la sua dipendenza da lei, mentre al passato è posto solo il
possesso del poeta da parte di Laura). La seconda rievoca con animo commosso l’ultimo in-
contro con Laura, le speranze e il desiderio che ancora suscita nel poeta la dolcezza della sua
persona, che non viene descritta come (analiticamente e un po’ freddamente) accade nelle
quartine ma si intuisce tutta nella frase «di speranza m’empieste e di desire», e si chiude con
la splendida immagine del vento che porta via le parole e le speranze dell’ultimo colloquio.

Doc 12.9 Cino da Pistoia, Oimè lasso, quelle trezze bionde

Nel comporre il sonetto che nel Canzoniere ha la funzione di annunciare la morte di Lau-
ra come avvenuta Petrarca ha certamente in mente la canzone che Cino da Pistoia, il più
longevo dei poeti stilnovisti e suo amico personale, dedica alla scomparsa della donna ama-
ta. Come si potrà osservare anche solo dalle due stanze (su tre) che qui riproduciamo, non
si tratta di una memoria episodica e occasionale, ma di una vera e propria emulazione e,
forse meglio, di un omaggio che Petrarca vuol tributare all’amico, adottando la struttura
stessa del suo compianto e alcune sue precise parole. Il confronto fra i due testi mostra che
se il sonetto di Petrarca ha qualche tratto enfatico e freddo, la canzone di Cino presenta
Nota metrica
Stanze di canzone se-
questi elementi in misura ancora maggiore. Ma la poesia di Cino si distingue per l’apostro-
condo lo schema: AbC, fe alla Morte, per qualche immagine o metafora o paragone naturale e per una pur sempre
AbC (fronte), ddEFeF convenzionale ma più concreta rappresentazione della donna.
(sirma).
Oïmè lasso, quelle trezze bionde Oimè, caro diporto e bel contegno,
2-3 da le quai… intor-
no: dalle quali traevano la
da le quai riluciéno 15 oimè, dolce accoglienza
loro luce dorata i poggi d’aureo color li poggi d’ogni intorno; ed accorto intelletto e cor pensato;
tutt’intorno. oimè, la bella ciera e le dolci onde, oimè, bell’umìle e bel disdegno,
4 onde: le onde (degli
occhi), metafora per lo
5 che nel cor mi fediéno, che mi crescea la intenza
sguardo. di quei begli occhi al ben segnato giorno; d’odiar lo vile ed amar l’alto stato;
5 mi fediéno: mi feri- oimè, ’l fresco ed adorno 20 oimè, lo disio nato
vano. e rilucente viso, de sì bella abondanza,
6 al ben… giorno: nel
giorno fatale dell’inna- oimè lo dolce riso oïmè, la speranza
moramento. 10 per lo qual si vedea la bianca neve ch’ogn’altra mi facea vedere a dietro
10-11 neve… rose: i den-
ti… le labbra (rosse in ogni
fra le rose vermiglie d’ogni tempo, e lieve mi rendea d’amor lo peso,
stagione). oimè, senza meve, 25 spezzat’hai come vetro,
12 senza meve: senza di Morte, perché togliesti sì per tempo? Morte, che vivo m’hai morto e impeso.
me (dipende, come i com-
plementi oggetti che desi-
gnano le parti del corpo di
Laura, dal predicato finale: degli altri. (Contini). I due termini 18 intenza: intenzione. 26 morto e impeso: uc-
togliesti, hai portato via). 16 pensato: «riflessivo» designano opposti atteg- 21 abondanza: di bellez- ciso e impiccato (si noti il
14 diporto: comporta- (Contini). giamenti, a seconda dei za e di virtù. bisticcio «vivo m’hai morto»,
mento. 17 umìle: «(neutro, come comportamenti (cortesi o 23 ch’ogn’altra… a die- mi hai ucciso mentre sono
15 accoglienza: atteg- fosse umiltà): “benevolen- vili) delle persone incon- tro: che mi faceva posporre ancor vivo).
giamento nei confronti za”, opposta al disdegno» trate. ogni altra (speranza).

Laboratorio 1 Analizza tutte le espressioni che comme- 3 Metti a confronto i sonetti Qual paura ò e
COMPRENSIONE morano il corpo e l’animo di Laura: che Oimè il bel viso che riferiscono entrambi,
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE ritratto di Laura ne emerge? Confrontalo ma in diversa prospettiva, l’ultimo incon-
con altri testi a te noti dove è descritta tro di Petrarca con Laura viva. Individua
Laura. e analizza le differenze e prova a spiegare
2 Il sonetto è nettamente bipartito: sia da le possibili motivazioni psicologiche che
un punto di vista tematico che formale le le giustificano.
quartine si distinguono dalle terzine: in- 4 Analizza le due stanze della canzone di
dividua quali caratteristiche hanno le une Cino e confrontale con il sonetto di Pe-
e le altre. trarca.
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12. Francesco Petrarca T 12.19

T 12.19 Canzoniere 1348-1374


La vita fugge, et non s’arresta una hora (CCLXXII)
F. Petrarca Più volte abbiamo notato la funzione del trascorrere del tempo nei componimenti via
Canzoniere via analizzati e più in generale nel Canzoniere, ma – come ha rilevato Contini – nel so-
testo critico di G. Contini, netto che ora proponiamo «il sentimento del tempo tocca... modernamente il suo limi-
Einaudi, Torino 1984
te: né passato né presente né futuro danno affidamento e consolazione».

La vita fugge, et non s’arresta una hora,


et la morte vien dietro a gran giornate,
et le cose presenti et le passate
4 mi dànno guerra, et le future anchora;

e ’l rimembrare et l’aspettar m’accora,


or quinci or quindi; sì che ’n veritate,
se non ch’i’ ò di me stesso pietate,
8 i’ sarei già di questi pensier’ fora.

Tornami avanti, s’alcun dolce mai


ebbe ’l cor tristo; et poi da l’altra parte
11 veggio al mio navigar turbati i vènti;

veggio fortuna in porto, et stanco omai


il mio nocchier, et rotte arbore et sarte,
14 e i lumi bei, che mirar soglio, spenti.

Nota metrica future) mi angoscia (e in gendomi a considerare il fu-


Sonetto secondo lo sche- quest’angoscia oscillo) ora turo.
ma ABBA,ABBA, CDE, da una parte ora dall’altra 11 veggio... vènti: per il
CDE. (cioè tra ricordo e attesa, tra navigare come metafora
passato e futuro). della vita cfr.Passa la nave mia
2 a gran giornate:«è l’e- 7 se non ch’i’ ò: se non [R T 12.15 ] e O cameretta [R
spressione latina magnis iti- fosse che io ho,se non avessi. Verso l’esame, p. 390].
neribus: a grandi marce, rapi- 8 sarei... fora: sarei già 12 fortuna in porto: una
damente» (Ponchiroli). fuori, mi sarei già liberato di tempesta (fortuna) proprio
4 mi dànno guerra: mi questi pensieri; s’intende: nel momento di raggiunge-
tormentano, producono in «dandomi la morte» (Pon- re il porto (il fine della vita).
me un conflitto interiore. – chiroli). 13 nocchier: timoniere. –
et le future anchora: e così 9-10 Tornami ... tristo: arbore et sarte: albero e sar-
pure quelle future (il pensie- mi ritornano alla mente i tie.
ro del futuro). momenti di dolcezza, se mai 14 lumi bei: belle luci
5-6 e ’l rimembrare... questo mio cuore infelice (metafora per “occhi”, di
quindi: il ricordare (le cose ne ha provati. Laura, naturalmente).
passate) e l’aspettare (le cose 10 da l’altra parte: vol-

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Duecento e Trecento

Guida all’analisi
Un supremo e disperato anelito di pace «Scritto dopo la morte di Laura, e forse nell’occasione stessa di quella
morte, anche questo sonetto è una di quelle lucide e desolate confessioni e contemplazioni
di sé e della propria debolezza, che appartengono alla maniera più schietta del nostro, e, in
questa seconda parte delle Rime, tornano con lo stesso linguaggio limpido e classicamente
atteggiato, ma con un fare più semplice e spoglio, con un tono più flebile e commosso, con
un’armonia più desolata e stanca, tutte pervase dal senso, e quasi dall’ombra, della morte vi-
cina, colorite di languida tristezza, rivolte ad un supremo e disperato anelito di pace. – Il so-
netto svolge il suo motivo con accenti di semplicità accorata, bellissimi, e non decade nep-
pure nell’allegoria finale tenera e delicata». Così Sapegno a commento del sonetto.
Il tema del tempo Colpisce nelle due quartine il tema classico – e più volte oggetto di riflessione da parte
dello stesso Petrarca – del tempo che scorre inesorabile, dipinto qui dapprima con estremo
vigore nell’immagine della fuga della vita inseguita dalla morte incombente che marcia a
tappe forzate. Il tempo – come ha osservato Contini – è colto assai modernamente come
un inconsistente, puntuale, inafferrabile presente nel quale il poeta prova vivissimo e tragico
il sentimento della propria ed altrui labilità, senza trovare conforto né nel passato, né nel fu-
turo (anch’essi ridotti all’inconsistenza e all’inafferrabilità). La consueta fluttuazione dell’a-
nimo si fa rapido, ansioso, disperato sguardo ora sul presente, ora sul passato, ora sul futuro; è
accorato, inappagante «rimembrare» e «aspettar», è volgersi affannosamente «or quinci or
quindi», senza trovar pace né risposte all’angoscia (e nessuna vera luce di fede). Si noti la
semplice ma incalzante successione di opposti, che scandisce stilisticamente il fluire del
tempo e l’inquieto rivolgersi del poeta a oggetti sempre sfuggenti (vita… morte…, cose pre-
senti… passate… future…, ’l rimembrare e l’aspettar…, or quinci or quindi…, Tornami avanti… e
poi da l’altra parte veggio…). Al tema del tempo dà un sobrio, sotterraneo ma potente e fosco
rilievo la serie di rime inclusive o ‘a eco’ (hora: anchora : accora : fora e mai : omai.) che scandi-
sce il componimento facendo risuonare come un battito funesto i due termini del tempo
ORA e MAI, che designano il momento presente in fuga (ora) e l’incalzare del destino che
dice l’irrealizzabilità dei sogni e dei desideri e sembra negare ogni speranza di pace (mai).
La fine del viaggio: l’esaurirsi dell’energia vitale Dopo un inizio vigoroso e concitato, nel finale il sonetto va
spegnendosi nella mestizia e nella rassegnazione (si noti il ritmo franto dei vv. 12-14). Così
l’ultima terzina, che riprende l’allegoria della nave (cfr. Passa la nave mia) presentandocela
devastata («rotte arbore e sarte») dalla tempesta proprio mentre sta giungendo in porto,
conclude cupamente il sonetto nel segno della stanchezza e dell’abbandono («e stanco omai
/ il mio nocchier»), predicendo l’esaurirsi, se non della vita, certo dell’energia vitale. Non è
un caso dunque che nell’ultima immagine, pure legata all’allegoria del viaggio (i «lumi» so-
no il faro che ha sempre guidato la nave) il poeta paia specchiarsi nei «lumi» di Laura defi-
nitivamente «spenti».

Laboratorio 1 Analizza il sonetto sia dal punto di vista zioni da noi fatte via via). In quali modi
COMPRENSIONE stilistico (sulla base dei modelli di analisi si manifesta il motivo del tempo? In qua-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE precedentemente proposti, ad es. R T 12.5 li contesti compare? In che modo e su
Voi ch’ascoltate, R T 12.8 Solo et pensoso, quali personaggi il trascorrere del tempo
R T 12.12 Pace non trovo) che da quello te- manifesta il suo influsso? Che rilievo gli si
matico (individua il motivo centrale, i può attribuire nella definizione della
personaggi coinvolti nel discorso, even- concezione della vita e dell’ideologia pe-
tuali motivi – atteggiamenti e stati d’ani- trarchesca?
mo, metafore significative – già rilevati 3 Metti a confronto il modo di considerare
altrove). il tempo proprio di Petrarca con quello
2 Riprendi in considerazione i testi petrar- dei poeti stilnovisti studiati.
cheschi letti in precedenza (e le osserva-

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12. Francesco Petrarca T 12.20

T 12.20 Canzoniere 1348-1374


Quanta invidia io ti porto, avara terra (CCC)
F. Petrarca Nella seconda parte del Canzoniere, nelle rime in morte di Laura, periodicamente si rin-
Canzoniere novano le lamentazioni del poeta per la scomparsa dell’amata. Il Petrarca utilizza tutta
testo critico di G. Contini, la sua consumata sapienza retorica per adeguare il suo linguaggio alla situazione e per
Einaudi, Torino 1984
variare la forma espressiva dei componimenti. Il testo che ora proponiamo rappresenta
un momento estremo di questo sperimentalismo, tra lamentazione e deprecazione, còl-
te, per dir così, allo stato puro.

Quanta invidia io ti porto, avara terra,


ch’abbracci quella cui veder m’è tolto,
et mi contendi l’aria del bel volto,
4 dove pace trovai d’ogni mia guerra!

Quanta ne porto al ciel, che chiude et serra


et sì cupidamente à in sé raccolto
lo spirto da le belle membra sciolto,
8 et per altrui sì rado si diserra!

Quanta invidia a quell’anime che ’n sorte


ànno or sua santa et dolce compagnia
11 la qual io cercai sempre con tal brama!

Quant’a la dispietata et dura Morte,


ch’avendo spento in lei la vita mia,
14 stassi ne’ suoi begli occhi, et me non chiama!

Nota metrica cui contemplazione trovò Laura almeno in cielo; cfr.


sonetto secondo lo sche- appagamento e sollievo la vv. 9-12 e Levommi il mio
ma ABBA,ABBA, CDE, passione che agitava il mio penser R T 12.21 ).
CDE. animo. 9-10 che ’n sorte ànno: a
5 Quanta: quanta invi- cui è stata data in sorte.
1 avara: avida (perché ha dia. 11 brama: desiderio, an-
voluto Laura tutta per sé). 6 cupidamente: bramo- sia.
2 cui... m’è tolto: la cui samente. 12 Quant’a: quanta invi-
vista mi è impedita. Si noti 8 et per altrui... diserra: dia porto a.
l’antitesi: «la terra “abbrac- mentre così raramente si 13 avendo spento... mia:
cia”, il Petrarca non può apre ad accogliere le altre avendomi sottratto la mia
nemmeno “vedere”» (Bez- anime (tra cui – è lecito im- ragione di vita.
zola). maginare – quella del poeta, 14 stassi... chiama: si è
3 mi contendi l’aria: ed preoccupato per il proprio impadronita dei suoi begli
anzi tu stessa mi sottrai l’a- spirito, ma qui soprattutto occhi, e invece non chiama
spetto. mosso dal pensiero di non me (cioè: Morte ha preso
4 dove... guerra: nella potersi ricongiungere a Laura, ma non il poeta).

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Duecento e Trecento

Guida all’analisi
Terra e cielo: il sonetto intesse il macabro e lo spirituale In questo sonetto appare particolarmente degna di
nota la compresenza e la contrapposizione di componenti macabre (immaginazione del
corpo di Laura sepolto sotto terra, nella prima quartina e nella seconda terzina) e compo-
nenti spirituali (l’immaginazione di Laura assunta in cielo a perfezionare la gioia dei beati,
nelle strofi centrali). Si noti l’anafora di «quanta» all’inizio delle strofi e la struttura chiastica,
terra / ciel / anime / Morte, per cui terra e Morte (motivo macabro) incorniciano ciel e anime
(motivo spirituale).
Allusioni erotiche e metafore belliche Ma il fatto forse saliente è costituito dalle sottili implicazioni erotiche
che, associate a metafore belliche, percorrono tutto il testo tanto nelle sue componenti ma-
cabre quanto in quelle spirituali. La terra, ad esempio, abbraccia il corpo di Laura (v. 2), e lo
conquista insediandosi nei suoi occhi (v. 14; è immagine intensa, che ambiguamente dipin-
ge il pallore e l’inespressività del cadavere e rappresenta nel medesimo tempo una forma di
possesso) e pertanto si pone in una relazione d’antagonismo col poeta, che mostra d’essere
quasi geloso del potente avversario. In proposito, la metafora bellica «mi contendi», del v. 3,
appare adatta anche alle relazioni tra amanti che si combattono per la conquista dell’amata e
appartiene alla medesima area semantica (contendere, contesa) della metafora «guerra» del v.
4, che secondo tradizione dipinge il rapporto d’amore fra Laura e il poeta.
Il cielo d’altronde «sì cupidamente à in sé raccolto» lo spirito di Laura (si noti che la men-
zione dello «spirito» è accompagnata subito da quella delle «belle membra») e i beati godo-
no della sua «santa» sì, ma anche «dolce compagnia». Il poeta esplicitamente dichiara la «brama»
che ha caratterizzato la ricerca di tale «compagnia». L’invidia di cui si discorre è insomma
una sorta di acuta, umana e terrena gelosia del poeta nei confronti di due avversari ultrater-
reni e sovrumani che gli hanno sottratto, scindendola, la totalità di corpo e spirito che il
poeta tanto amava ed ama.
Il conflitto del poeta con la morte, che non vuol prenderlo con sé Ma è da notare poi che la metafora del con-
flitto, che investe con implicazioni erotiche il rapporto tra il poeta e Laura («guerra») e tra il
poeta e la terra («mi contendi»), si sviluppa anche con diverse implicazioni in altre direzio-
ni. Essa caratterizza apertamente la relazione tra la Morte e Laura: la morte «ha spento» la
vita di Laura, che è metaforicamente la vita stessa del poeta, e si è insediata nel corpo di
Laura da vincitrice («stassi ne’ suoi begli occhi», v. 14). Ma più sottilmente caratterizza anche
quella tra la Morte e il poeta, che per mettere fine ai propri affanni e ricongiungersi in cie-
lo con l’amata, come fantastica in Levommi il mio pensier [R T 12.21 ], desidererebbe ora an-
ch’egli essere «spento» da una morte, che viceversa è spietata perché lo risparmia, negando-
gli il ‘colpo di grazia’.

Laboratorio 1 Completa il seguente schema.


COMPRENSIONE
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE
soggetto sue caratteristiche oggetto d’invidia sue caratteristiche
strofe I

strofe II

strofe III

strofe IV

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12. Francesco Petrarca T 12.21

T 12.21 Canzoniere 1348-1374


Levommi il mio penser in parte ov’era (CCCII)
F. Petrarca Laura è morta, ma Petrarca non cessa di pensare a lei con la tenerezza di un amante fe-
Canzoniere dele anche se non corrisposto. L’assenza di Laura è ora definitiva; ma quand’ella era vi-
testo critico di G. Contini, va e lontana, egli l’aveva tante volte immaginata, contemplata con la fantasia, che l’abi-
Einaudi, Torino 1984
tudine è rimasta. Anzi, ora che Laura è morta Petrarca può più facilmente immaginarla
in atteggiamento consolatorio e attribuirle parole che finalmente rivelano chiaramente
la reciprocità dell’affetto.

Levommi il mio penser in parte ov’era


quella ch’io cerco, et non ritrovo, in terra:
ivi, fra lor che ’l terzo cerchio serra,
4 la rividi più bella et meno altera.

Per man mi prese, et disse: – In questa spera


sarai anchor meco, se ’l desir non erra:
i’ so’ colei che ti die’ tanta guerra,
8 et compie’ mia giornata inanzi sera.

Mio ben non cape in intelletto humano:


te solo aspetto, et quel che tanto amasti
11 e là giuso è rimaso, il mio bel velo. –

Deh perché tacque et allargò la mano?


Ch’al suon de’ detti sì pietosi et casti
14 poco mancò ch’io non rimasi in cielo.

Nota metrica 5-6 In questa... erra: in 8 et compie’... sera: e


Sonetto secondo lo sche- questo cielo tornerai a star- che morì prematuramente.
ma ABBA,ABBA, CDE, mi vicino, se il desiderio (di 9 Mio ben... humano: la
CDE. averti accanto) non fa sì che mia beatitudine non può es-
io mi sbagli. È chiaro che in sere compresa, intesa, da un
1-2 Levommi... in terra: quest’ultima frase l’accento essere umano.
la mia immaginazione mi cade sulla certezza del desir 10-11 te solo... velo: ormai
sollevò in un luogo (il cielo) (ora Laura lo vuole accanto attendo solo te e il mio bel
dove si trova colei che io,pur a sé) e non sull’incertezza corpo (velo) che tu tanto
continuando a cercarla, non del se... non erra. Il De Sanctis amasti e che è rimasto in
trovo più in terra. così la interpretò: «io desi- terra.
3 fra... serra: fra coloro dero che tu venga e, se il de- 13 detti... pietosi: parole
che son collocati nel terzo sir non erra, verrai». affettuose (ispirate a pietà
cielo (il cielo diVenere, sede 7 i’ so’... guerra: io sono per la sofferenza di una per-
tradizionale degli spiriti colei che ti fece tanto sof- sona al cui amore ora si cor-
amanti). frire. risponde).

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Duecento e Trecento

Guida all’analisi
L’incontro con la Laura celeste immaginato come un affettuoso incontro terreno Il sonetto, in evidente emula-
zione con il sonetto Oltre la spera di Dante (incluso nella Vita Nuova, R T 9.5 ) sviluppa il
motivo spirituale della contemplazione di Laura assunta in cielo. Ma il trattamento della
materia riporta tale motivo alla consueta dimensione profana dell’amore.
Il componimento propone una salita al cielo, per forza d’immaginazione, da parte dell’io
protagonista del Canzoniere. A parte l’intenso accenno all’inconsolabile assenza terrena di
Laura (al v. 2: «quella ch’io cerco, et non ritrovo in terra»), sarà da notare come la scena ce-
leste che la fantasia dipinge paia risolversi nei modi di un affettuoso incontro terreno (final-
mente affettuoso, da parte di colei che in terra al poeta «die’ tanta guerra»!). Laura prende
infatti il poeta per mano, gli preannunzia una beatitudine celeste che ha essa pure connota-
ti profani, realizzandosi nell’essere ancora con lei: «sarai anchor meco». In proposito scriveva
De Sanctis: «Non le basta dire: – Ancor tu sarai “in questa spera” –; ma ci aggiunge un “me-
co”, particolare d’un valore infinito: che cosa è il paradiso senza Laura?». Laura delicata-
mente gli rivela sentimenti mai dichiarati prima («sarai anchor meco, se ’l desir non erra»;
«te solo aspetto»), ricorda con sensibilità femminile la propria terrena bellezza («il mio bel
velo») che tanto a cuore stava e sta al suo interlocutore. I suoi «detti» sono certamente «ca-
sti», ma anche «pietosi», cioè affettuosi e comprensivi della sofferenza dell’amante (si ricordi
ancora una volta che nel linguaggio lirico la metafora della ‘pietà’ della donna indica siste-
maticamente una forma di corresponsione dell’amore). Con l’allargarsi della mano, con
l’allentarsi della fantasia, il sogno svanisce e il poeta per poco non vien meno dalla dolcezza
della contemplazione: «poco mancò ch’io non rimasi in cielo», che ambiguamente significa
al tempo stesso morte e dolcezza della fantasia.
La forza del sogno: un Dio garante dell’eternità degli affetti umani Siamo di fronte insomma a una fantasia, a
un sogno del poeta che ricerca un impossibile contatto con l’amata, ma l’appagamento e la
piena, per quanto momentanea, consolazione, è possibile solo quando la fantasia concepisce
una Laura che non si limiti a ricordare la propria eterna beatitudine, ma lasci sperare un fu-
turo ricongiungimento con l’amante, un’eterna beatitudine anche per lui che senza la don-
na amata non sa concepire beatitudine alcuna. È forse opportuno, a tal proposito, ripetere
un giudizio di Umberto Bosco, particolarmente calzante per la situazione analizzata, secon-
do il quale «l’interno dissidio del Petrarca non consiste [...] propriamente nel conflitto
umano / divino, ma nel conflitto tra la religione e la ragione da una parte, che gli impon-
gono una concezione di un Dio che comprenda tutto ma in cui tutto si annulli, e l’incoer-
cibile forza del sogno dall’altra, che lo trascina a concepire un Dio riposo degli affanni e ga-
rante dell’eternità degli affetti umani».
Le citazioni sono tratte da F. De Sanctis, Saggio critico sul Petrarca, a c. di N. Gallo,
Einaudi, Torino 1964, p. 224; U. Bosco, F. Petrarca, Laterza, Bari 1977, p. 82

Laboratorio 1 Esegui su questo sonetto le analisi stilisti- 2 Metti a confronto il sonetto Levommi il
COMPRENSIONE che e strutturali da noi proposte per altri mio penser con un testo dantesco d’argo-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE testi. Analizza, ad es., la struttura metrica e mento affine [R T 9.5 , Oltre la spera]. In-
ritmica dei componimenti (sulla base di dividua analogie e differenze sul piano
Solo et pensoso [R T 12.8 ]), e rileva stilemi stilistico ma soprattutto su quello temati-
tipicamente petrarcheschi quali coppie, co-ideologico.
polisindeti, antitesi, parallelismi, ecc.

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12. Francesco Petrarca T 12.22

T 12.22 Canzoniere 1348-1374


Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena (CCCX)
F. Petrarca Laura è morta, il poeta è ormai in età avanzata: anche il ritorno della primavera, con i
Canzoniere suoi seducenti spettacoli naturali che invitano gli esseri viventi all’amore e alla letizia,
testo critico di G. Contini, non lo attrae più, né può più consolarlo: anzi, a maggior ragione, gli pone davanti l’in-
Einaudi, Torino 1984
felicità, il dolore, la stanchezza che lo tormentano e il pensiero perpetuo che Laura non
c’è più.

Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena


e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia,
et garrir Progne et pianger Philomena,
4 et primavera candida et vermiglia.

Ridono i prati, e ’l ciel si rasserena;


Giove s’allegra di mirar sua figlia;
l’aria et l’acqua et la terra è d’amor piena;
8 ogni animal d’amar si riconsiglia.

Ma per me, lasso, tornano i più gravi


sospiri, che del cor profondo tragge
11 quella ch’al ciel se ne portò le chiavi;

et cantar augelletti, et fiorir piagge,


e ’n belle donne honeste atti soavi
14 sono un deserto, et fere aspre et selvagge.

Nota metrica 3 Progne... Philomena: alcuni fiori primaverili. 9 lasso: infelice.


Sonetto secondo lo sche- rispettivamente l’usignuolo 6 Giove... figlia: in pri- 10 tragge: trae.
ma ABAB,ABAB, CDC, e la rondine, dei quali è indi- mavera i pianeti Giove eVe- 11 quella... chiavi: Laura,
DCD. cato il carattere del canto. Il nere (figlia di Giove, secon- che morendo ha portato in
Petrarca li designa con allu- do la mitologia greca) ap- cielo le chiavi del mio cuore,
1 Zephiro... rimena: sione alla metamorfosi miti- paiono vicini in cielo. An- rendendo eterno il mio
Zefiro (vento occidentale ca di Progne e della sorella che qui due elementi natu- amore per lei.
che annuncia la primavera) Filomena (o Filomela) negli rali sono designati con rife- 12 piagge: pianure.
ritorna, e riconduce la bella uccelli ricordati, secondo rimento mitico (e mediante 14 sono: son per me, mi
stagione. quanto narra Ovidio nelle personificazione). paiono.
2 sua... famiglia: (che Metamorfosi (VI, 424-674). 8 ogni... riconsiglia:
sono la) sua dolce compa- 4 candida et vermiglia: ogni essere vivente è nuova-
gnia. bianca e rossa, dal colore di mente sospinto ad amare.

Guida all’analisi
Il risveglio di primavera, un topos provenzale Le due quartine del sonetto hanno la forma canonica dei “risve-
gli di primavera” che avevano caratterizzato molti componimenti provenzali e che consiste-
vano in un’enunciazione del ritorno della primavera, colta nella gioiosa vitalità di alcuni
suoi eventi tipici (canto di uccelli, rinverdire di prati, sbocciare di fiori) come preludio per
dire della gioia del poeta innamorato o del suo dolore per i suoi cattivi rapporti con l’ama-

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Duecento e Trecento

ta (cfr. Guglielmo d’Aquitania, Per la dolcezza della nuova stagione [R T 5.2 ]). Qui Petrarca
enumera con insistenza gli aspetti piacevoli della primavera evocandone colori («primavera
candida e vermiglia») e suoni («garrir Progne et pianger Philomena», i canti cioè di rondini e
usignuoli), la bellezza e dolcezza che trasfigura la natura («bel tempo», «dolce famiglia») e la
generale letizia («Ridono i prati, e ’l ciel si rasserena», «Giove s’allegra»), che investe ogni esse-
re vivente invitandolo all’amore («d’amor piena», «d’amar si riconsiglia»).
Una rappresentazione vagamente evocativa Al solito il suo modo di rappresentare è vagamente evocativo (si
noti ad esempio l’espressione «primavera candida e vermiglia», allusiva a una fioritura pri-
maverile, o la vaga aggettivazione «bel tempo… dolce famiglia»), e insiste sui riflessi psico-
logici degli eventi (si noti la sequenza «Ridono… si rasserena… s’allegra») più che non di-
pinga in modo realistico e tecnicamente preciso gli oggetti (due comuni varietà d’uccelli
e i pianeti sono rappresentati mediante allusioni mitologiche: Progne, Filomena, Giove e
sua figlia Venere).
La struttura dell’antitesi Torna dunque la primavera con il trionfo delle sue bellezze naturali. Ma Laura è mor-
ta e il Petrarca ancor ne prova dolore. Egli sceglie quindi di contrapporre, con una forte an-
titesi (a partire dal «Ma» che apre la terzina), la cupa desolazione del proprio cuore alla gioia
che comunemente procurano le bellezze della primavera e al vitalismo che la stagione rin-
nova dopo il gelo invernale. Così, dopo due quartine luminose e gioiose, il componimento
subisce una svolta radicale, nel segno del dolore e della desolazione. Al poeta non resta pos-
sibilità alcuna di gioire, solo rimangono «i più gravi sospiri», e qualsiasi bellezza naturale si
tramuta ai suoi occhi in «deserto» o in «fere aspre et selvagge» (comprese le «belle donne»
che dovrebbero almeno rievocare in lui la dolcezza dei sentimenti d’amore).

Laboratorio 1 A proposito del modo vagamente evoca- sposizione degli elementi nel verso com-
COMPRENSIONE tivo di rappresentare il risveglio della pri- pletando lo schema in cui sono riquadrati
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE mavera confronta il componimento di i soggetti, cerchiando i complementi og-
Guglielmo d’Aquitania ricordato nella getti, sottolineando i verbi in nero e gli
Guida all’analisi [R T 5.2 ]. Noti differenze attributi in rosso. Ad esempio nota la col-
rispetto alla modalità di rappresentazione locazione di soggetti, predicati, ecc. (quan-
propria di Petrarca? ti e quali nella prima quartina, quanti e
2 La rappresentazione della primavera nelle quali nella seconda?) e l’enumerazione
due quartine di questo sonetto consiste in degli oggetti che dipendono dal verbo
un’enumerazione di aspetti condotta dal «rimena» (come sono collocati nei versi?
Petrarca con il suo tipico gusto per la sim- Sono tutti sostantivi? Come si spiega il
metria e per la variazione: analizza la verso 3? Sono accompagnati da attributi o
struttura sintattica di questi versi e la di- da altre espansioni in modo uniforme?).
Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena,
e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia,
et garrir Progne et pianger Philomena,
4 et primavera candida et vermiglia.

Ridono i prati, e ’l ciel si rasserena;


Giove s’allegra di mirar sua figlia;
l’aria et l’acqua et la terra è d’amor piena;
8 ogni animal d’amar si riconsiglia.

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12. Francesco Petrarca T 12.23

T 12.23 Canzoniere 1348-1374


Vago augelletto che cantando vai (CCCLIII)
F. Petrarca Siamo giunti ormai ai componimenti finali del Canzoniere: lentamente Petrarca ha ma-
Canzoniere turato la necessità di una stabile conversione a Dio. Ma è una conquista razionale: emo-
testo critico di G. Contini, tivamente egli non è in grado di staccarsi dal pensiero dominante di tutta la sua vita,
Einaudi, Torino 1984
dal suo sogno d’amore vanificato dal destino. Così a non più di una decina di testi dal-
l’ultimo atto – l’abbandono in Dio e la preghiera alla Vergine – può ancora presentarci-
si tutto rivolto al passato, con struggente nostalgia, dimostrandosi ancora impreparato a
recidere definitivamente il filo delle passioni che lo trattiene a terra. Il componimento è
probabilmente databile all’epoca dell’ultimo soggiorno a Valchiusa (1352).

Nota metrica Vago augelletto che cantando vai, miniscenza dantesca dal
Sonetto secondo lo sche- over piangendo, il tuo tempo passato, canto di Paolo e Francesca:
ma ABBA,ABBA, «così vid’io venir, traendo
CDC,DCD. vedendoti la notte e ’l verno a lato guai, / ombre portate da la
4 e ’l dì dopo le spalle e i mesi gai, detta briga» (If V 48-49).
1 Vago augelletto: leg- 9 I’ non so… pari: io
giadro (o errabondo) uccel- non so se i nostri dolori sa-
lino. se, come i tuoi gravosi affanni sai, rebbero eguali, equilibrati.
2 over… passato : «“o 10 di ch’a me… avari:
più esattamente”: è in fondo così sapessi il mio simile stato, «della qual cosa, cioè la vita
il dantesco “ricordarsi del verresti in grembo a questo sconsolato di Laura, a me sono avari la
tempo felice Ne la miseria” Morte, che di Laura ha di-
[If V 122-123]» (Contini). 8 a partir seco i dolorosi guai. strutto il corpo, e il cielo,
3 a lato: vicini, prossimi. che ne trattiene l’anima»
4 dopo le spalle: alle (Santagata).
spalle, ormai trascorso.
I’ non so se le parti sarian pari, 12 la stagione… gradita:
5 sai: conosci. ché quella cui tu piangi è forse in vita, l’autunno e la sera.
6 il mio… stato: il mio 13 col membrar: che mi
11 di ch’a me Morte e ’l ciel son tanto avari;
stato simile al tuo. inducono a ricordare.
8 a partir… guai: a con- 14 con pietà: provando
dividere con lui i suoi dolo- ma la stagione et l’ora men gradita, pietà per il tuo dolore (an-
rosi lamenti (guai).Altra re- che se il mio è superiore).
col membrar de’ dolci anni et de li amari,
14 a parlar teco con pietà m’invita.
Guida all’analisi
Un paragone elaborato Il sonetto si struttura tutto come un grande paragone tra la condizione propria e quel-
la del «vago augelletto» a cui il poeta si rivolge nell’apostrofe iniziale. Simile è il rimpianto
per il dì e l’estate, in senso proprio per l’uccellino, metaforico per il poeta (la giovinezza,
l’età più gaia quando Laura era viva), simile il timore per la notte e l’inverno, propri e me-
taforici, che incombono. Entrambi intonano poi un triste canto che somiglia al pianto:
l’uccellino con la sua voce canora pare al poeta invocare la compagna lontana, il poeta nei
suoi versi lamenta la morte dell’amata. Simile dunque, ma non identica, è la causa del pian-
to: forse infatti la compagna dell’augelletto è ancor viva e, dopo i rigori dell’inverno, po-
trebbe per lui esserci una nuova primavera allietata dal ritrovamento della femmina. Per il
poeta invece non c’è speranza di felicità, non c’è futuro: Laura è morta, l’inverno della sua
vita è una stagione che non può preludere ad alcuna primavera. Nella seconda quartina e
nella seconda terzina, poi, il tema della simile condizione si sviluppa in quello della (poten-
ziale) reciproca «pietà» che porterebbe l’uccellino, se solo sapesse il dolore dell’uomo, a
cantargli senza timore in grembo (immagine tenera e delicatissima); e che spinge il poeta,
immalinconito dai ricordi e intenerito dai minori ma comunque «gravosi affanni» dell’ani-
male, a «parlare» e quasi a confidarsi con lui.
Laboratorio 1 I commentatori, specie i più antichi, han- privo di elaborazione formale e di qual-
COMPRENSIONE no insistito sullo stile umile e sulla sem- che segno della sottigliezza d’ingegno del
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE plicità di questo componimento. Certa- poeta, che elabora un paragone nitido e
mente il sonetto è povero di quegli artifi- lineare, ma abbastanza sofisticato. Prova a
ci che caratterizzano abitualmente la individuare nel testo gli aspetti salienti
scrittura petrarchesca, ma è tutt’altro che della tessitura retorica.
387 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento

T 12.24 Canzoniere 1348-1374


I’ vo piangendo i miei passati tempi (CCCLXV)
F. Petrarca È il penultimo componimento del Canzoniere: dopo le “tempeste” che hanno caratteriz-
Canzoniere zato la sua esistenza, il poeta si sente ormai vicino al “porto”, a una morte liberatrice
testo critico di G. Contini, dagli affanni. Si rivolge così a Dio per chiedergli perdono e soccorso nel momento su-
Einaudi, Torino 1984
premo del suo “viaggio” terreno e riconsidera conclusivamente i suoi “passati tempi “,
il suo sviamento, nella ricerca e nella dedizione ai beni mondani.

Nota metrica I’ vo piangendo i miei passati tempi 10-11 et se... honesta: e se


Sonetto secondo lo sche-
ma ABBA,ABBA, CDC, i quai posi in amar cosa mortale, la mia permanenza in terra
fu spesa a inseguire cose va-
DCD. senza levarmi a volo, abbiend’io l’ale, ne (quindi colpevole), al-
2 i quai... amar: che ho
4 per dar forse di me non bassi exempi. meno la mia morte (partita,
speso, trascorso amando. cioè la partenza dalla terra)
3 senza... ale: senza in- sia virtuosa.
nalzarmi a Dio, per quanto
Tu che vedi i miei mali indegni et empi, 12-13 A quel poco... pre-

io ne avessi la possibilità. Re del cielo invisibile immortale, sta: la tua mano si degni
non bassi exempi: d’esser pronta, soccorrevole,
4
soccorri a l’alma disviata et frale, cioè degnati di venirmi in
prove del mio valore (essen-
zialmente, dato il contesto, 8 e ’l suo defecto di Tua gratia adempi: soccorso per quel poco di
in prospettiva religiosa). vita che mi rimane e nel
5 mali: colpe. momento della morte.
7-8 soccorri... adempi: sì che, s’io vissi in guerra et in tempesta,
vieni in soccorso della mia mora in pace et in porto; et se la stanza
anima sviata (indirizzata
cioè verso i beni terreni) e 11 fu vana, almen sia la partita honesta.
fragile,e colma,compensa le
sue manchevolezze con la A quel poco di viver che m’avanza
tua grazia.
et al morir, degni esser Tua man presta:
14 Tu sai ben che ’n altrui non ò speranza.

Guida all’analisi
La forma della preghiera Il sonetto I’ vo piangendo, come la più impegnativa canzone conclusiva dedicata alla Ver-
gine, è composto in forma di preghiera: il poeta sentendosi vicino alla morte confessa la va-
nità del suo amore che per tanto tempo lo ha legato (vv. 1-2) e rimpiange di non aver avuto
la forza di elevarsi a quelle mete spirituali a cui forse era in grado di giungere (vv. 3-4); invo-
ca quindi Dio perché lo soccorra in questo estremo frangente, perdonandogli i peccati e
concedendogli la sua grazia (vv. 5-8) in modo che almeno la conclusione di una vita dissipa-
ta sia virtuosa (vv. 9-11). Infine rinnova la richiesta di soccorso, dichiarando che in Lui ripo-
ne ogni sua speranza. La forma della preghiera è sottolineata dalle ripetute apostrofi a Dio.
La finale conversione, un’esigenza strutturale La struttura del Canzoniere prevede, dopo la rappresentazione del-
le alterne vicende dell’amore per Laura viva, e il disperato rimpianto per Laura morta, una
conclusione che ribadisca il pentimento per il «giovenile errore» preannunciato nel sonetto
proemiale. Strutturalmente insomma il libro doveva concludersi con un ripudio dell’amor
terreno e un abbandono in Dio finalmente senza remore. Ciò effettivamente accade negli
ultimi testi, anche se in extremis, nell’esaurirsi quasi delle energie vitali del poeta. Il fatto poi
che il ravvedimento occupi una parte assai ridotta della raccolta e contrasti con molti dei te-
sti precedenti rappresenta proprio l’ostinazione nell’inseguire la vanità dei sogni terreni, cui
nel Secretum Petrarca aveva detto di non saper rinunciare. E non è neppure escluso che nella
preghiera rivolta a Dio si possa sentire anche l’implorazione di chi, consapevole della propria
fragilità, chiede soccorso perché la rinuncia alle vanità del mondo sia un possesso sicuro.

Laboratorio 1 Questo sonetto – assieme alla canzone al- finità e diversità (essenzialmente sul piano
COMPRENSIONE la Vergine – conclude il Canzoniere e si tematico); prova quindi a descrivere la
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE collega al sonetto d’apertura. Confronta condizione “spirituale” del poeta nelle
ora i due componimenti, rilevandone af- due circostanze.
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12. Francesco Petrarca VERIFICA

VERIFICA

12.1 - 12.2 Un intellettuale cosmopolita... - L’autobiografismo di Petrarca


1 Quale immagine di sé vuol trasmettere Petrarca nei suoi scritti autobiografici? Il ritratto
che ci dà di sé fino a che punto è attendibile?
2 Quali sono i fatti salienti della biografia di Petrarca?
3 Petrarca incarna un nuovo tipo di intellettuale: delinealo e confrontalo con quello di Dante.
4 Definisci in breve i rapporti di Petrarca con la propria patria e con i centri di potere (corti
e curia). Che cosa significa che Petrarca è un “intellettuale cosmopolita”?

12.3 Classicità e cristianesimo nell’opera di Petrarca


5 Che peso hanno la cultura classica e quella cristiana medievale nella formazione culturale
di Petrarca? In che modo egli tenta di conciliare queste due grandi tradizioni?
6 È possibile individuare – approssimativamente – un tracciato evolutivo nella considerazio-
ne che egli ebbe di queste due tradizioni culturali?
7 Illustra il contenuto del Secretum e la sua funzione nell’opera del Petrarca.

12.4 Res publica litterarum. Filologia e studi umanistici


8 Che cosa si intende per res publica litterarum? Che ruolo ha questa idea nella concezione
della letteratura e nell’esperienza biografica di Petrarca?
9 Che cos’è l’Umanesimo? Che contributo diede Petrarca alla sua nascita?
10 Che cosa si intende per “filologia”? Quale contributo diede Petrarca alla nascita di questa
disciplina? Che cosa si intende per “mentalità filologica”?

12.5 Le scelte linguistiche, la poetica e l’estetica


11 Che ruolo hanno latino e volgare nell’opera di Petrarca e nella sua idea di letteratura?
12 Che funzione attribuisce Petrarca all’elaborazione formale? Spiega il concetto per cui il
dominio della forma costituisce il corrispettivo del dominio razionale delle passioni.
13 Che cosa si intende per “canone di imitazione”? Che posizione ha Petrarca in merito?

12.6 Il Canzoniere
14 Illustra sinteticamente la struttura e le principali fasi di composizione del Canzoniere.
15 Quando egli ebbe l’idea di dare alla raccolta il carattere di un “canzoniere individuale con
ambizione di romanzo lirico”? In che cosa questo progetto si differenzia dalle precedenti
esperienze poetiche?
16 In che senso si può dire che il Canzoniere segni la nascita della “coscienza moderna”?
17 Che ruolo ha l’autoanalisi nel Canzoniere? In che cosa differisce dai modelli precedenti?
18 Quali sono i temi principali affrontati nel Canzoniere?
19 Illustra la concezione dell’amore che emerge dal Canzoniere.
20 Quali caratteristiche e quale ruolo ha la figura di Laura?
21 In che modo il mito di Dafne agisce nel Canzoniere?
22 Illustra il tema dell’oscillazione fra stati d’animo e proponimenti contrastanti (mortifera va-
rietas) nel Canzoniere.
23 Che cosa si intende con “sentimento della labilità universale” e che ruolo esso ha nel Can-
zoniere?
24 Quali sono gli aspetti linguistico-stilistici salienti dell’esperienza lirica di Petrarca?

12.8 I Trionfi
25 Che cosa sono i Trionfi? Quali temi trattano? Che ruolo vi ha l’emulazione di Dante?

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Duecento e Trecento

VERSO
L’ESAME

Francesco Petrarca, Canzoniere 1348-1374


O cameretta che già fosti un porto (CCXXXIV)
F. Petrarca Questo è un tipico componimento di analisi della propria inquietudine, che «racchiude
Canzoniere il senso di un’angoscia infinita e di un animo sconvolto in pochi versi di descrizione
testo critico di G. Contini, mirabilmente limpida e sobria» (Sapegno).
Einaudi, Torino 1984

O cameretta che già fosti un porto


a le gravi tempeste mie diurne,
fonte se’ or di lagrime nocturne,
4 che ’l dì celate per vergogna porto.
O letticciuol che requie eri et conforto
in tanti affanni, di che dogliose urne
ti bagna Amor, con quelle mani eburne,
8 solo ver’ me crudeli a sì gran torto!
Né pur il mio secreto e ’l mio riposo
fuggo, ma più me stesso e ’l mio pensero,
11 che, seguendol, talor levòmmi a volo;
e ’l vulgo a me nemico et odioso
(chi ’l pensò mai?) per mio refugio chero:
14 tal paura ò di ritrovarmi solo.

4 che ’l dí ... porto: che urne, Amore mi induce a 9-11 Né pur ... volo: non innalzai sino a concepire a-
ora, di giorno, tengo na- bagnarti. solo, ora, rifuggo dalla soli- spirazioni sublimi.
scoste per la vergogna. 7 mani eburne: mani tudine (della cameretta) e 12-13 e ’l vulgo ... chero: e
5 requie: (fonte di) pa- d’avorio, bianche come dal riposo (del letto), ma invece ora cerco (chero) ri-
ce. avorio. cerco persino, ancor più, di fugio (chi l’avrebbe mai
6-7 di che ... Amor: di 8 sol… torto: solo verso sfuggire a me stesso e ai detto?) in mezzo alla gente,
quali lacrime, tanto copio- di me ingiustamente cru- miei pensieri, seguendo i che un tempo mi era odio-
se che paiono versate da deli. quali in passato talvolta mi sa e insopportabile.

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VERSO
12. Francesco Petrarca L’ESAME

Rispondi ai seguenti quesiti (o a quelli indicati dall’insegnante).

COMPRENSIONE Suggerimenti  L’interno è ovviamente la cameretta do-


1 Individua la forma metrica e indica lo schema di ve Petrarca può star solo, l’esterno il mondo dove in-
rime di questo componimento. contra il «volgo». Ricorda o riguarda il sonetto Solo et
pensoso e nota che la contrapposizione cambia di sen-
Suggerimenti  Come si chiama questo tipo di compo- so in relazione al fattore tempo.
nimento? Nota la struttura strofica evidenziata dai ca-
poversi (due strofe di 4 e due di 3 versi: come si chia- 7 Il testo racconta anche una storia di snaturamen-
mano?). Ricorda che ad ogni rima si attribuisce una to e dissipazione di sé. Spiegala soffermandoti in particolare
lettera dell’alfabeto, maiuscola nel caso di endecasilla- sul v. 11 («che, seguendol, talor levommi a volo»). A quali at-
bi, minuscola per versi più brevi. tività allude qui Petrarca?
Suggerimenti  Considera bene la nota 9-11 e la rela-
2 Riassumi l’argomento del testo, individuandone i zione tra «pensiero» e «volo» (cioè aspirazioni subli-
temi più significativi. mi: di ordine letterario? morale? religioso? o tutte e tre
Suggerimenti  Sono temi ricorrenti in tutto il Canzo- le cose?). Insomma la solitudine nella cameretta, ora
niere ma puoi ripensare ad esempio al sonetto proe- insopportabile e infruttuosa (fuggo me stesso e il mio
miale e al sonetto Solo et pensoso. pensiero), un tempo era una solitudine operosa...
3 Spiega il senso contestuale della metafora mari- 8 Descrivi nel modo più esaustivo possibile l’elabo-
na ai vv. 1-2. razione retorica del testo, soffermandoti, oltre che sulle perso-
Suggerimenti  Nota le espressioni porto e tempeste e nificazioni, sulle metafore, sulle antitesti, anche sulla disposi-
nota che il concetto viene ripetuto in forma non più zione delle parole nel testo (in particolare sulle coppie di ag-
metaforica ai vv. 3-4. Quali espressioni corrispondono gettivi, sostantivi o aggettivi + sostantivi, e sulle simmetrie).
alle due citate? Suggerimenti  Per degli esempi puoi rivedere le guide
all’analisi di T12.8 Solo et pensoso, T12.9 Erano i capei
4 Posto che le «mani eburne» sono quelle di Laura,
d’oro e T12.22 Zephiro torna (Analisi punto 2).
spiega perché vengono menzionate e che funzione assolvo-
no nel testo. 9 Dopo un elaborato trattamento letterario e retori-
Suggerimenti  Nota che le mani eburne sono lo stru- co della materia il verso finale spicca per la sobria nudità.
mento con cui Amore fa versare lacrime al poeta. La Prova a commentarlo.
metafora, oltre al significato che puoi facilmente de- Suggerimenti  Un critico ha parlato di parole «tanto
durre, è un’immagine che ha un forte valore figurati- più intense e terribili quanto più sobrie» (Sapegno). Il
vo. verso è una ricapitolazione sintetica del senso com-
plessivo del testo: l’analitica elaborazione retorica che
precede gli dà il valore di una conclusione perentoria.
ANALISI

5 Analizza il fattore tempo (e in particolare il rappor-


to passato/presente), che è motivo fondamentale del compo- CONTESTUALIZZAZIONE

nimento. Quali figure retoriche sottolineano il fattore tempo? 10 Prova a contestualizzare questo componimento
Suggerimenti  Nota le espressioni «già fosti... se’ or», nel complesso del Canzoniere.
«requie eri... ti bagna Amor» e quelle corrispondenti Suggerimenti  Individuati i temi salienti e il senso
nella seconda parte del componimento. Rileva il rap- complessivo del testo puoi, ad esempio, collocarlo
porto tra la condizione del poeta al passato e al pre- nello schema complessivo del Canzoniere e in parti-
sente. colare ricondurlo al tema centrale dell’inquietudine
6 Analizza la duplice contrapposizione inter- morale e religiosa (in rapporto con l’esperienza d’a-
no/esterno, solitudine/immersione nella folla. Per quali more): cfr. 12.6.
ragioni risulta particolarmente significativa in questo te-
sto?

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Duecento e Trecento

Giovanni Boccaccio
13 e il Decameron

n Boccaccio, la sua musa e i Giovanni Boccaccio (1313-1375) è l’ultimo dei manza d’oltralpe, di gran moda a corte. Il tema amo-
frati (miniatura di fine ’300). grandi classici della letteratura italiana ed europea di roso risulta fra tutti il predominante. Il valore di que-
questa stagione, e un grande innovatore. È soprattut- ste opere è assai diverso: Boccaccio cerca di com-
n I giovani riuniti ad ascoltare to colui che con il Decameron dà una mirabile siste- piacere il suo pubblico ma è anche alla ricerca della
Pampinea (disegno ad inchio-
mazione alla forma novella, imponendo il proprio ori- sua voce più vera. In ogni caso il principale merito
stro e acquerello nel più antico
esemplare italiano del Deca- ginale modello per secoli; ma è anche un grande letterario di queste opere giovanili sta nella speri-
meron). sperimentatore di generi letterari della tradizione an- mentazione di generi diversi, alcuni dei quali ancora
tica e medievale, che consegna rinnovati alla lettera- poco praticati in Italia. Sulla stessa linea – ma nella
tura rinascimentale e, negli ultimi anni della sua vita, direzione di una riscoperta di generi della recente
con Petrarca – che considerava suo maestro – uno tradizione toscana – si collocano le successive opere
dei fondatori dell’umanesimo. minori composte dopo il suo rientro a Firenze (1341)
Decisivo per la formazione intellettuale e umana e prima del Decameron.
di Boccaccio è il suo soggiorno a Napoli (tra il 1327 e Il Decameron, scritto a Firenze dal 1349 al 1351,
il 1341), durante il quale entra a contatto con la raffi- è il capolavoro della novellistica medievale, che rac-
nata vita mondana della corte angioina e studia, leg- coglie cento novelle entro una storia-cornice am-
ge, in modo disordinato ma appassionato, e scrive le bientata a Firenze e nel suo territorio al tempo della
sue prime opere letterarie. In queste mescola e fon- peste nera (1348). Rispetto alle opere precedenti il
de esperienze biografiche e innumerevoli suggestioni Decameron si segnala innanzitutto per la maturità
letterarie, specie quelle della recente letteratura ro- narrativa di cui Boccaccio dà prova e per la poetica

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13. Giovanni Boccaccio STORIA

n La novella di Federigo degli che lo ispira: un’idea di letteratura mezzana, che ha portanza che il mercante assume nel Decameron),
Alberighi (miniatura di scuola come scopo l’intrattenimento e la consolazione degli l’individuo che nell’agone del mondo lotta per affer-
fiamminga da una traduzione
francese del Decameron – affanni e che per molti aspetti si avvicina alla moder- mare i propri scopi ed esercita l’intelligenza (la virtù
1430-1440). na idea di autonomia dell’arte (un’arte cioè che non laica per eccellenza, grande protagonista del Deca-
n La novella di Andreuccio da si propone fini educativi o edificanti). meron) per imporsi o quantomeno non soccombere;
Perugia (xilografia dall’edizione
veneziana del 1504). Ma fondamentali per la sua comprensione e valu- la fortuna, intesa laicamente come caso, come in-
tazione storica sono alcuni elementi: in particolare la treccio cioè di volontà, azioni e situazioni non del tut-
grande varietà della materia trattata (temi, ambienti, to prevedibili; e naturalmente l’amore, passione irre-
situazioni, personaggi: l’amore rimane un tema im- frenabile e impulso naturale che talora è capace di
portante ma non esclusivo) e il realismo con cui essa sovvertire le rigide gerarchie sociali (è il cosiddetto
viene rappresentata: un realismo che non prevede tema della «democrazia dell’eros»); e molti altri an-
una rigida prospettiva trascendente che ordini e va- cora.
luti i comportamenti umani e li collochi all’interno di La novità del Decameron la si coglie appieno con-
un superiore disegno provvidenziale (come accadeva frontandone i valori ideologici e le tecniche narrative
in Dante). Il Decameron è insomma una grande con quelli della tradizione precedente: nuova è la fi-
«commedia umana» simile per ampiezza di orizzonti nalità del narrare, nuovo il mito umano proposto, tipi-
alla commedia dantesca, ma a questa opposta per- co di una società mercantile e dinamica, nuova la
ché è collocata nel mondo e adotta categorie inter- problematicità dei giudizi morali, nuova la comples-
pretative del tutto mondane e laiche. Così nel Deca- sità della macchina narrativa ricca di vicende secon-
meron i comportamenti umani sono esaminati, senza darie, di confluenze, complicazioni e scioglimenti, di
alcun intento edificante, alla luce di una morale aper- rapporti fra protagonista ed ambiente.
ta e problematica. Lo stesso vale per la religione e i L’interesse per il Decameron non deve far dimen-
religiosi: la religione, quando il tema è affrontato se- ticare l’ultima fase dell’attività del Boccaccio, quella
riamente, appare una questione individuale su cui, “umanistica”, contrassegnata da un’attenzione sem-
con la ragione umana, non è possibile dare responsi pre maggiore verso le humanae litterae e le voci dei
certi; e i religiosi, buoni e cattivi, sono trattati alla classici e da una consapevole ricerca del loro inse-
stregua di tutti gli altri personaggi. Ma spesso i temi gnamento perenne. Assieme alle opere di erudizione,
morali e religiosi sono affrontati in modo anche ai repertori biografici e mitologici da lui composti in
scherzoso e irriverente: in questo senso Boccaccio si questi anni va ricordato il ruolo di maestro e di
distanzia nettamente dalla narrativa degli exempla, esempio che egli fornisce, creando attorno a sé un
da cui pure attinge situazioni ed intrecci. cenacolo nel quale si formano orientamenti e figure
Fra i temi più caratteristici dell’opera, trattati da che saranno dominanti nell’Umanesimo.
prospettive diverse e con varietà di giudizi (non in
modo univoco e preconcetto), ci sono il mondo mer-
cantile, i suoi personaggi e le sue imprese (si è par-
lato in proposito di «epopea dei mercatanti» per l’im-

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Duecento e Trecento

13.1 Un intellettuale sulle orme di Dante e Petrarca


Boccaccio fra Dante e Petrarca Giovanni Boccaccio (1313-1375) ebbe come ideali maestri i due
grandi scrittori toscani che più di tutti avevano gettato le basi della moderna tradizio-
ne letteraria: Dante (1265-1321) e Petrarca (1304-1374). Dall’uno soprattutto apprese
il genio della lingua volgare, la potenza della rappresentazione realistica e il gusto del-
lo sperimentalismo letterario, dall’altro le eleganze del latino dei classici, l’amore per
l’erudizione e gli ideali umanistici che in breve avrebbero radicalmente mutato il pa-
norama della letteratura tardo-medievale. Ma anche sul piano biografico Boccaccio
appare mediare i modelli di intellettuale che i due grandi scrittori toscani incarnavano:
quello dell’intellettuale laico e municipale (Dante) e quello del chierico cosmopolita
(Petrarca). Come Dante, ad esempio, privilegiò l’orizzonte degli interessi municipali,
come Petrarca a un certo punto della sua vita scelse la condizione di chierico. Tuttavia
Boccaccio trovò una sua via originale alla cultura letteraria, fondendo in una sintesi
personalissima lo spirito medievale con quello umanistico-rinascimentale.
L’infanzia e l’esperienza napoletana: mondo mercantile e mondo cortese Nato nel 1313, a Fi-
renze o a Certaldo in Valdelsa, luogo d’origine della famiglia, da una relazione extraco-
niugale del ricco mercante Boccaccino di Chelino, Boccaccio più tardi tentò di nobi-
litare e mitizzare la sua umile nascita fantasticando che essa fosse avvenuta a Parigi e
fosse il frutto di una relazione del padre con la figlia naturale del re di Francia. Sottrat-
to alla madre ed educato nella casa paterna, egli venne avviato dal padre all’attività
mercantile prima a Firenze, poi a Napoli, dove si era trasferito nel 1327, presso la
compagnia dei Bardi, i potentissimi mercanti e banchieri che allora finanziavano e so-
stenevano la monarchia angioina. A Napoli Boccaccio intraprese, contro voglia, anche
lo studio del diritto canonico. Qui, fra il 1327 e il 1340-41, visse le esperienze fonda-
mentali della sua formazione. La pratica professionale, innanzitutto, che gli fece cono-
scere a fondo quel mondo della mercatura che poi avrebbe rappresentato nel Decame-
ron; e la frequentazione della corte di Roberto d’Angiò, il re colto che gli aprì le por-
te della sua ricca biblioteca e gli fece sperimentare le raffinatezze dell’ambiente nobi-
liare. A queste esperienze si aggiunge l’apprendistato culturale e letterario, compiuto
n Boccaccio giovane.
attraverso la frequentazione dei dotti di corte e uno studio disordinato da autodidatta:
importante fu tra l’altro la lettura delle opere della tradizione cortese e romanzesca, so-
prattutto francese, che era di gran moda in quegli anni a Napoli. Non va trascurata in-
fine neppure la frequentazione delle giovani nobildonne, maestre di conversazioni e ri-
ti mondani, appassionate di letteratura amena e fautrici della sua educazione sentimen-
tale, che culminò nell’amore; un amore che egli poi mitizzò e descrisse come infelice e
indirizzato a una donna dal nome simbolico di Fiammetta, suggerendo potesse trattar-
si di una figlia illegittima del sovrano. Frutto letterario di questi anni furono alcune
opere narrative in versi e in prosa volgare: Caccia di Diana, Filostrato, Filocolo e Teseida.
Rientro a Firenze e lenta integrazione nella vita comunale Non sappiamo per quali precisi mo-
tivi Boccaccio abbandonò Napoli: forse le difficoltà economiche della compagnia dei
Bardi, i cui rapporti con la corte angioina andavano deteriorandosi, e del padre, che
l’aveva abbandonata già nel 1338. Fatto sta che il giovane Boccaccio tra il 1340 e il
1341, assai a malincuore fece ritorno a Firenze. I primi tempi furono difficili: a lui che
aveva sempre avuto in odio l’attività mercantile e che aveva forse aspirato a una collo-
cazione a corte per meriti letterari, «doveva sembrare di ripiombare nelle angustie del-
la vita più borghese e mercantile, da cui ormai si era lusingato di essere evaso» (Bran-
ca). Gli anni Quaranta a Firenze furono oltre tutto caratterizzati dalla crisi delle gran-
di compagnie (del 1345 è il fallimento dei Peruzzi e dei Bardi) e da una talora torbida
e conflittuale situazione sociale. Ma a poco a poco Boccaccio intrecciò nuove relazio-
ni sociali, si appassionò ai problemi civili e politici della città e scoperse un ambiente

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13. Giovanni Boccaccio STORIA

letterario vitale e stimolante: si integrò insomma nella società fiorentina e approfondì


la conoscenza della sua tradizione letteraria, scoprendone le potenzialità. Così le nuo-
ve opere, composte tra il 1341 e il 1346, – Comedia delle Ninfe, Amorosa visione, Elegia
di Madonna Fiammetta, Ninfale fiesolano – portano il segno di quelle scoperte e avviano
una nuova fase della sua attività letteraria.
Tra il 1346 e il 1347, tuttavia, forse per l’aggravarsi della situazione interna della
città e della sua personale, Boccaccio tentò di trovare una sistemazione definitiva nel-
le corti emiliane e soggiornò per qualche tempo a Ravenna alla corte dei da Polenta e
a Forlì in quella degli Ordelaffi.
L’esperienza della peste e la composizione del Decameron Lo ritroviamo però a Firenze nel 1348,
l’anno della peste nera, durante la quale il padre si occupò dell’approvvigionamento e
dei provvedimenti sanitari. «Fu un’esperienza profonda e decisiva per lo spettacolo
della bestialità e dell’eroismo umano sollecitati dall’immane tragedia, per la rovina di
Firenze ridotta a poco più di un terzo della sua popolazione e prostrata in conseguen-
za politicamente e economicamente, per la devastazione delle amicizie più care»
(Branca). Quell’esperienza tragica verrà rievocata nell’Introduzione al Decameron, com-
posto probabilmente tra il 1349 e il 1351, subito dopo la rovina della città: fu una
nuova felicissima svolta nella sua produzione letteraria.
Gli anni Cinquanta e il rapporto con il Petrarca Dopo la peste e la morte del padre (1349), Boc-
caccio si trova ad assumere nuove responsabilità sia private che pubbliche. Negli anni
Cinquanta numerosi e sempre più importanti incarichi vengono affidati dalla Signoria
a lui, che ormai è diventato l’uomo di cultura più prestigioso della città e va conqui-
standosi anche un certo prestigio politico. Fra quelle che più interessano la storia let-
teraria ci sono nel 1350 la missione a Ravenna per portare a suor Beatrice, la figlia di
Dante, un risarcimento simbolico della città e nel 1351 quella a Padova dal Petrarca,
che egli sin dalla giovinezza considerava suo maestro, per notificargli la revoca della
condanna del padre e della relativa confisca dei beni e per offrirgli una cattedra nello
Studio fiorentino, che egli però rifiutò.
L’incontro con Petrarca inaugura un sodalizio e un’amicizia determinanti per lo
sviluppo della cultura italiana: il poeta aretino aprì a Boccaccio nuovi orizzonti cultu-
rali, gli fece conoscere autori antichi, gli prestò libri, lo indirizzò metodicamente agli
studi umanistici. Egli così, negli ultimi vent’anni della sua vita, si dedicò alla composi-
zione di varie e importanti opere erudite in latino, fece eccezionali scoperte librarie
(nel 1355 nella biblioteca di Montecassino riportò alla luce codici di opere di Varrone,
di Apuleio, di Tacito), creò attorno alla sua casa un circolo di letterati che avrebbero
avuto un ruolo decisivo nello sviluppo dell’umanesimo fiorentino. Fece attribuire a
Leonzio Pilato la «prima cattedra di greco nell’Europa non bizantina» (Branca), ne sti-
molò la traduzione di Omero, comprese, più di Petrarca, l’importanza determinante
dell’allargamento del canone degli scrittori classici anche a quelli greci sino allora po-
co noti. Grazie all’impulso e al magistero di Petrarca, ma anche con apporti e intui-
zioni del tutto personali e pionieristici, Boccaccio fu tra i massimi artefici di quella ri-
voluzione che avrebbe cambiato il corso della storia culturale europea. Egli, tuttavia,
non venne meno ad alcune basilari convinzioni letterarie e politiche: continuò a esal-
tare e a difendere la figura di Dante (a partire dal 1351 compose un Trattatello in laude
di Dante), nonostante la freddezza del Petrarca, e polemizzò con lui quando si stabilì a
Milano dai Visconti, tradizionali avversari di Firenze (1353).
Gli ultimi anni: umanesimo e sacerdozio Gli ultimi anni di Boccaccio, fervidi di studi umanistici,
furono a tratti meno felici sul piano pratico e dei rapporti politico-sociali. In seguito a
una congiura in cui vennero coinvolte persone a lui vicine Boccaccio si ritirò a Cer-
taldo. La sua stessa situazione economica dovette farsi più difficile. Fatto sta che egli at-
traversò un lungo periodo di ripiegamento interiore e di crisi, anche di natura spiri-
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Duecento e Trecento

tuale e religiosa. Anche se non ha probabilmente fondamento storico la notizia che


egli meditasse la distruzione del Decameron, egli nel Corbaccio, uno scritto in prosa, for-
se del 1365, caratterizzato da un’acre spirito misogino, in pratica ne capovolse e rin-
negò la poetica e lo spirito. Non abbiamo invece notizie precise circa le ragioni del
suo ingresso nella gerarchia ecclesiastica, che ci è testimoniata da un documento del
papa Innocenzo VI che gli conferisce la cura d’anime e il sacerdozio.
Dopo il 1365, in seguito a una nuova fase di distensione della vita politica fiorentina,
Boccaccio fece ritorno in città e assolse nuovi incarichi pubblici. Visitò ancora per l’ul-
tima volta Petrarca a Padova nel 1368 e continuò a tenere con lui una fitta corrispon-
denza. Frequentano in questi anni la sua casa, fra gli altri, Coluccio Salutati e Luigi Mar-
sili, due dei futuri protagonisti dell’umanesimo fiorentino. L’ultimo suo incarico fu di
tenere nella chiesa di Santo Stefano di Badia una pubblica lettura della Commedia di
Dante, che intraprese, ma non portò a termine. Già da tempo malato di gotta, si ritirò a
Certaldo, dove morì il 21 dicembre del 1375.

13.2 Lo sperimentalismo delle opere anteriori al Decameron


Influsso del Boccaccio ‘minore’ L’opera veramente fondamentale di Boccaccio è il Decameron, che è
anche il suo indiscusso capolavoro. Ma sarebbe un grave errore sottovalutare le nume-
rose altre sue opere, che ebbero in alcuni casi un’influenza determinante sulla lettera-
tura dei secoli successivi. Notevole ad esempio fu l’influsso della produzione umani-
stica (in latino) cui Boccaccio si dedicò nella seconda parte della sua vita. Ma anche le
opere della giovinezza, pur con tutti i loro limiti, ebbero un influsso assai grande sulla
letteratura rinascimentale non solo italiana.
Lo sperimentalismo della giovinezza Boccaccio sin dalla giovinezza, quando scoperse la prepotente
vocazione per le lettere, fu un lettore onnivoro. In questa quasi inesauribile disposizio-
ne a leggere e a cimentarsi in forme e generi diversi consiste quello che si suole defi-
nire il suo giovanile «sperimentalismo». In questo egli seguì il grande esempio di Dan-
te, anche lui incline all’uso del volgare e sperimentatore di stili e generi diversissimi.
Boccaccio recepì forme e temi dalla variegata produzione letteraria dell’età sua e li
rielaborò con una grande sensibilità per le attese del pubblico, spesso con la capacità di
selezionare quanto di meglio quelle esperienze letterarie avevano offerto, in modo da
offrire alle generazioni successive se non dei capolavori, dei modelli compiuti e stabili,
suggestivi e fruibili. Questo fu forse il maggior contributo delle sue opere giovanili.
Modelli per il Rinascimento La mediazione da lui compiuta tra vecchio e nuovo e la definizione di
temi e generi appaiono in qualche caso decisive. Ciò è particolarmente vero per quan-
to riguarda il poema cavalleresco in ottave, a cui egli con il Teseida ha il merito «di aver
dato per la prima volta dignità letteraria» (Marti); il genere arcadico-pastorale, che egli
inaugura in epoca moderna con la Commedia delle ninfe fiorentine, un’opera mista di
prosa e poesia; e il poemetto mitologico, che inventa con il Ninfale fiesolano. Ma fra le
sue opere minori compaiono anche un romanzo d’avventura in prosa (Filocolo), un ro-
manzo in prosa in prima persona incentrato sulla confessione sentimentale che è con-
siderato il primo «romanzo psicologico» della nostra letteratura (Elegia di Madonna
Fiammetta), e un poema allegorico in terza rima che, pur modellato sulla Commedia,
contribuirà alla fortuna del genere dei trionfi in età rinascimentale (Amorosa visione).
Comprendiamo allora tanto l’ampiezza di orizzonti dello sperimentalismo boccaccia-
no, quanto la misura del suo influsso sulla letteratura del Rinascimento.
Autobiografismo (fantastico) e letterarietà Uno dei tratti salienti di tutta la produzione giovanile è
la commistione di autobiografismo e di letterarietà. Dalla sua nascita regale francese, ai
suoi regali amori napoletani, ai personaggi dell’ambiente fiorentino, frequente è in
questi testi l’allusione alle proprie vicende biografiche, sempre trasfigurate però in
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13. Giovanni Boccaccio STORIA

chiave fantastica e sulla scorta di precisi e autorevoli modelli letterari. Egli seppe far sì
che nelle sue opere il suo pubblico si riconoscesse e lo riconoscesse e rinvenisse vi-
cende, temi, discussioni, sentimenti, contesti prediletti, dando però a questo insieme di
elementi dignità letteraria e autonomia fantastica.
La poetica: filoginia e intrattenimento La poetica giovanile del Boccaccio è caratterizzata prevalen-
temente da una disposizione «filogina», cioè di apprezzamento, celebrazione della
donna e dell’amore (tema prediletto) e di aperto dialogo con il pubblico femminile.
Questo va inteso tanto nella sua concretezza storica (ad esempio le nobildonne che
organizzavano e animavano la vita sociale alla corte angioina), quanto nella sua valen-
za simbolica di pubblico sensibile e raffinato, interessato a una letteratura di intratteni-
mento, ricca di contenuti avventurosi, sentimentali ed erotici. Rivolgendosi alle donne
Boccaccio individua insomma per le sue opere un pubblico medio (non necessaria-
mente solo femminile) abbastanza colto e raffinato da spregiare le forme più popolari
e volgari della letteratura corrente, ma non abbastanza colto e motivato per affrontare
né i più seri studi filosofici e morali né i generi letterari alti, nutriti di contenuti dot-
trinali. Tipici di questa «letteratura mezzana» sono alcuni tratti come l’inclinazione al-
l’analisi dei sentimenti, la ricerca frequentissima di pathos (ad es. nell’intreccio di amo-
re e morte), il gusto per le situazioni avventurose, talora portate agli estremi limiti del-
la verosimiglianza, la densità di figure retoriche enfatiche, e altro ancora.
La fase napoletana L’opera giovanile di Boccaccio, benché presenti insolubili problemi di datazione, si
suole distinguere in due fasi, quella del soggiorno napoletano e quella successiva al suo
rientro a Firenze nel 1340-41. Nella prima fase, attingendo alle forme popolari del

▍ Opere del periodo napoletano

Caccia di Diana (prima del 1334?) Composta a Napoli, la Caccia di Diana è un poema in terzine di diciotto can-
ti, che prende l’esile trama come pretesto per descrizioni ed elogi delle belle nobildonne na-
poletane. In quanto seguaci di Diana le protagoniste partecipano a una caccia, ma, converti-
tesi poi improvvisamente a Venere, vedono le proprie prede trasmutarsi in giovani amanti.
Filostrato (1335 ca.) Il Filostrato (ovvero “vinto d’amore”, secondo l’approssimativa interpretazione etimologica
dell’autore) è un poema in ottave (metro che Boccaccio passerà a tutta la produzione epico-
cavalleresca posteriore) scritto forse attorno al 1335. Ispirato al ciclo troiano, e alla letteratura
popolare dei cantari, il poema narra l’infelice amore di Troiolo, figlio di Priamo, per Criseida,
una vedova greca prigioniera che, dopo aver a lungo ricambiato il suo amore, ricondotta al
suo popolo abbandona e tradisce l’amante nemico che, infine, muore per mano di Achille.
Filocolo (1336-38) Col Filocolo (“fatica d’amore” secondo l’autore), composto nel 1336-38, Boccaccio speri-
menta il romanzo in prosa, fondendo il modello moderno e ‘popolare’ del romanzo cortese
con quello antico del romanzo greco alessandrino, e adotta una scrittura ricercata, analitica
(fino alla prolissità), sontuosa per elaborazione retorica e impreziosita da numerose divagazio-
ni erudite.Viene qui ripresa e assai amplificata una storia (ambientata nel VI secolo) molto
diffusa in tutte le lingue dell’Europa occidentale: l’amore tra due giovani pagani, educati in-
sieme fin da bambini – Florio, figlio del re di Marmorina, e Biancifiore, una povera fanciulla
che alla fine si scoprirà avere invece nobili natali –, la loro separazione, le peripezie di Bianci-
fiore che è venduta come schiava in Egitto, la lunga ricerca di Florio, che alla fine ritrova e li-
bera l’amata, il loro rientro in Italia, la conversione al cristianesimo e le nozze.
Teseida (1339-1341) Composto negli ultimi anni napoletani (1339-1340) e poi rivisto a Firenze (nel 1340-41),
il Teseida è un poema in 12 libri (come l’Eneide) in ottave. Anche qui, come nel Filostrato, il
rilievo maggiore è dato alla tematica sentimentale e amorosa. Sullo sfondo della guerra di
Teseo, re di Atene, contro le Amazzoni e contro Tebe, campeggia la storia dell’amore di Pa-
lemone e Arcita, due prigionieri tebani, per Emilia: l’amicizia fra i due giovani si trasforma
in rivalità e dopo una serie di avventurose vicende si arriva alla singolar tenzone per decide-
re di chi sarà Emilia. Il duello è vinto da Arcita, ma questi, ferito a morte, prima di morire
esorta Emilia a promettere che come sposo accetterà Palemone. E con queste nozze, cele-
brate nel tempio di Venere, si conclude il poema.

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Duecento e Trecento

cantare e a quelle, particolarmente in auge alla corte angioina, della letteratura corte-
se e romanzesca franco-provenzale, ma prendendo a modello anche autori latini anti-
chi e medievali (soprattutto Ovidio, magister di letteratura amorosa lungo tutto il me-
dioevo), e variando continuamente forme e registri, egli compose varie opere che so-
no caratterizzate ancora dai limiti e dalle intemperanze propri di un giovane che vuo-
le dar prova della propria bravura e cultura (ad esempio l’amplificazione retorica, il
gusto per le lunghe descrizioni, per i monologhi sentimentali, per gli excursus dottri-
nali del Filocolo), ma anche da intuizioni e scelte proficue sul lungo periodo (ad esem-
pio l’invenzione dell’ottava narrativa, il registro semplice e colloquiale nel Filostrato).
La fase fiorentina La fase che si suole definire fiorentina, pur non abbandonando del tutto i preceden-
ti modelli è caratterizzata dalla scoperta o riscoperta dei generi e delle forme della tra-
dizione toscana (sirventesi, letteratura allegorica, Dante, cantari) e da un sostanziale su-
peramento della dimensione cortese. In questi anni Boccaccio compone due fra i testi
letterariamente più felici della stagione pre-decameroniana: il Ninfale fiesolano e l’Elegia
di Madonna Fiammetta.
Le Rime Sin dalla giovinezza, infine, e poi per tutto il corso della sua vita Boccaccio com-
pose anche delle Rime. È noto il fatto che, al momento della lettura di una parte del
canzoniere petrarchesco, preso dallo sconforto per l’inferiorità della sua opera poetica
nei confronti di quella dell’amico e maestro aretino, Boccaccio distrusse un numero
cospicuo di rime giovanili, ma venne poi indotto dal Petrarca stesso a non desistere
dalla composizione poetica.

▍ Opere del periodo fiorentino

Commedia delle Ninfe (1341-42) L’influsso di Dante è particolarmente visibile nell’impianto dottrinale-allegori-
co che caratterizza la Commedia delle Ninfe (nota anche come Ninfale d’Ameto o Ameto),
scritta nel 1341-42, parte in prosa e parte in terzine dantesche. L’opera ha il merito di inau-
gurare il moderno genere arcadico-pastorale.
Ameto, un rozzo pastore, incontra una compagnia di bellissime ninfe, devote a Venere, e si
innamora di Lia, la loro guida. In occasione della festa di Venere, Lia e altre sei ninfe (la cui
bellezza è oggetto di descrizioni dettagliate e sensuali) raccontano ad Ameto i loro amori.
Alla fine delle narrazioni, Ameto, dopo una cerimonia di purificazione, comprende il signi-
ficato allegorico delle ninfe e dei loro racconti: esse rappresentano le virtù, che consentono
al rozzo pastore di trasformarsi da bruto in uomo e di elevarsi alla conoscenza di Dio.
Amorosa visione (1342) Anche l’Amorosa visione, scritta nel 1342 in 50 canti di terzine, muove da suggestioni dan-
tesche e ha un elaborato impianto dottrinale-allegorico. Il poema narra un viaggio allegori-
co del poeta, guidato da una donna gentile, a un castello, dove vede effigiati i trionfi di Sa-
pienza, Gloria, Avarizia, Amore e Fortuna, nella cui corte si trovano personaggi che in vita
hanno incarnato quelle entità astratte. Uscito dal palazzo il poeta in un giardino incontra
delle gentildonne napoletane e fiorentine, che celebra nei suoi versi.
Elegia di Madonna Fiammetta (1343-44) L’Elegia di Madonna Fiammetta, romanzo di confessione in prosa, scritto
probabilmente nel 1343-44, può essere considerato il primo romanzo psicologico della no-
stra letteratura. Notevole è il fatto che l’autoanalisi sia affidata a una voce femminile.
Fiammetta, la narratrice, innamoratasi al primo incontro di Panfilo, vive una stagione di
felicità, interrotta però dalla partenza di lui per Firenze. Seguono varie peripezie: apprende
prima che Panfilo si è sposato, ma quando sta già per riconquistare una rassegnata serenità,
viene a sapere che la notizia era falsa e che Panfilo ha una felice relazione con una fiorenti-
na. Folle di gelosia, Fiammetta vuol darsi la morte, ma ne è impedita dalla vecchia nutrice.
Arriva infine la notizia di un prossimo ritorno di Panfilo e Fiammetta ritorna a sperare.
Ninfale fiesolano (1345-46) Il Ninfale fiesolano, un poemetto mitologico in 473 ottave scritto nel 1345-46 circa, si
ispira alle Metamorfosi di Ovidio: il pastore Africo e la ninfa Mensola dopo un fortunoso
amore sono trasformati dagli dei in due torrenti che, nei pressi di Fiesole, si incontrano e co-
sì si realizza un amore eterno fra i due amanti che hanno subito questa metamorfosi.

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13. Giovanni Boccaccio STORIA

Doc 13.1 L’innamoramento di Fiammetta

Elegia di
Madonna Fiammetta Mentre che io in cotal guisa, poco altrui rimirando1, e molto da molti rimirata, di-
moro2, credendo che la mia bellezza altrui pigliasse, avvenne che l’altrui me misera-
mente prese. E già essendo vicina al doloroso punto, il quale o di certissima morte o di
vita più che altra angosciosa dovea essere cagione3, non so da che spirito mossa, gli oc-
chi con debita gravità elevati, intra la multitudine de’ circustanti giovini con acuto ri-
1 poco... rimirando: guardamento distesi4; e oltre a tutti, solo e appoggiato ad una colonna marmorea, a me
poco ammirando l’altrui dirittissimamente uno giovine opposto vidi; e, quello che ancora fatto non avea d’alcu-
bellezza. no altro, da incessabile fato mossa5, meco6 lui e li suoi modi cominciai ad estimare. Di-
2 dimoro: me ne sto
(da unire a Mentre che). co che, secondo il mio giudicio, il quale ancora non era da amore occupato, egli era di
3 il quale... cagione: forma bellissimo, negli atti piacevolissimo e onestissimo nell’abito suo, e della sua giovi-
che doveva causarmi o la
morte o una vita ango- nezza dava manifesto segnale crespa lanugine, che pur mo’ occupava le guance sue; e me
sciosa. non meno pietoso che cauto7 rimirava tra uomo e uomo8. Certo io ebbi forza di ri-
4 gli occhi... distesi:
trarre gli occhi da riguardarlo alquanto, ma il pensiero, dell’altre cose già dette estiman-
rivolsi il mio sguardo.
5 da... mossa: spinta da te9, niuno altro accidente, né io medesima sforzandomi, mi poté tòrre10. E già nella mia
un inesorabile destino. mente essendo l’effigie della sua figura rimasa, non so con che tacito diletto meco la ri-
6 meco: fra me e me.
7 non meno pietoso
guardava, e quasi con più argomenti affermate vere le cose che di lui mi pareano11, con-
che cauto: appassionato tenta d’essere da lui riguardata, talvolta cautamente se esso mi riguardasse mirava.
ma riguardoso. Ma intra l’altre volte che io, non guardandomi dagli amorosi lacciuoli12, il mirai, te-
8 tra uomo e uomo:in
mezzo ad altre persone. nendo alquanto più fermi che l’usato ne’ suoi gli occhi miei, a me parve in essi13 parole
9 dell’altre... esti- conoscere dicenti: «O donna, tu sola se’ la beatitudine nostra». Certo, se io dicessi che es-
mante: che già apprezzava
le altre sue qualità.
se non mi fossero piaciute, io mentirei; anzi sì mi piacquero, che esse del petto mio tras-
10 mi poté tòrre: mi sero un soave sospiro, il quale veniva con queste parole: «E voi la mia». Se non che io, di
poté distogliere dall’osser- me ricordandomi, gli le tolsi14. Ma che valse? Quello che non si esprimea, il cuore lo ’n-
varlo.
11 con più... pareano: tendeva con seco, in sé ritenendo ciò che, se di fuori fosse andato, forse libera ancora sa-
confermatami nell’idea rei15. Adunque, da questa ora innanzi concedendo maggiore arbitrio agli occhi miei fol-
che fossero vere le buone li, di quello che essi erano già vaghi divenuti li contentava16; e certo, se gl’iddii, li quali ti-
impressioni che di lui ave-
vo avuto. rano a conosciuto fine tutte le cose, non m’avessero il conoscimento levato, io poteva
12 lacciuoli: insidie (te- ancora essere mia17; ma ogni considerazione all’ultimo posposta, seguitai l’appetito, e su-
se da Amore).
13 in essi: negli occhi bitamente atta divenni a potere essere presa18; per che, non altramente il fuoco se stesso
del giovane. d’una parte in un’altra balestra, che una luce, per un raggio sottilissimo trascorrendo, da’
14 gli le tolsi: gliele tolsi
suoi partendosi, percosse negli occhi miei, né in quelli contenta rimase, anzi, non so per
(tolsi quelle parole al mio
sospiro; o anche: sottrassi al quali occulte vie, subitamente al cuore penetrando, se ne gìo19. Il quale, nel sùbito avve-
giovane quelle parole), nimento di quella temendo, rivocate a sé le forze esteriori, me palida e quasi freddissima
cioè cercai di non dimo-
strare il mio sentimento. tutta lasciò20. Ma non fu lunga la dimoranza21, che il contrario sopravvenne, e lui22 non
15 Quello... sarei: l’a- solamente fatto fervente sentii, anzi le forze tornate ne’ luoghi loro, seco uno calore ar-
more che non esprimevo, recarono, il quale, cacciata la palidezza, me rossissima e calda rendé come fuoco, e quello
il mio cuore tuttavia lo
sentiva dentro di sé, tratte- mirando onde ciò procedeva23, sospirai. Né da quell’ora innanzi niuno pensiero in me
nendo questo sentimento, poteo24, se non di piacergli.
di cui forse, se l’avessi
espresso, mi sarei liberata.
16 concedendo... con-
tentava: concedendo
maggiore libertà ai miei 18 ma... presa: ma po- a un altro, il suo sguardo (lu- provvisa che percepisce, scalda (fatto fervente) e trasfe-
occhi, li nutrivo di ciò che sponendo, trascurando ce che trascorre attraverso un chiamate a soccorso le for- risce le forze e il calore in
essi desideravano (la vista ogni saggia considerazione, raggio sottilissimo) colpì i ze esteriori, mi lasciò palli- tutto il resto del corpo, ren-
del giovane). perseguii il mio piacere e miei occhi e per occulte vie da e fredda (gli spiriti vitali dendo Fiammetta rossa e
17 se gl’iddii... mia: se subito mi trovai nella con- penetrò nel fondo del mio si addensano a protezione infuocata (per amore).
gli dei,i quali portano le si- dizione di essere presa (nei cuore: insomma Fiammet- del cuore e lasciano il resto 23 e quello... procedeva:
tuazioni a esiti da loro pre- lacci di Amore). ta ardisce fissare il suo del corpo). guardando colui dal quale
destinati, non mi avessero 19 per che... gìo: perciò, sguardo in quello del gio- 21 Ma... dimoranza: ma tutto questo sconvolgi-
tolto il discernimento, io non diversamente da come vane e se ne inamora. non trascorse molto tem- mento era determinato.
avrei ancora potuto avere fa il fuoco che passa rapida- 20 Il quale... lasciò: il po. 24 poteo: ebbe forza.
il controllo su di me. mente (balestra) da un luogo cuore, temendo la luce im- 22 lui: il cuore, che si ri-

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Duecento e Trecento

13.3 Il Decameron
13.3.1 Introduzione. La struttura dell’opera e la poetica
Boccaccio fra medioevo e modernità Il processo di acquisizione della tradizione fiorentina da par-
te di Boccaccio culmina nel Decameron, che mostra evidenti rapporti con la narrativa
toscana precedente e un preciso radicamento nell’ambiente socio-culturale della città,
che è tra le principali protagoniste del libro. Il Decameron inoltre costituisce l’approdo
e il coronamento di tutta l’esperienza letteraria giovanile, ed è l’opera che dà forma
compiuta e definitiva a un genere letterario, la novella, che estenderà la sua fortuna in
tutta Europa e per molti secoli sino al romanticismo e influirà in modo sostanziale sul-
l’elaborazione anche di altri generi, primo fra tutti la commedia rinascimentale e mo-
derna. Ma il Decameron è anche molto di più: è un’opera di straordinaria sapienza let-
teraria e sintesi culturale che si pone a cavallo di due epoche, chiudendo una tradizio-
ne complessa e aprendone un’altra ancor più ricca e variegata.
La poetica: una concezione edonistico-consolatoria dell’arte Il proemio del Decameron si apre
solennemente con una sentenza: «Umana cosa è avere compassione degli afflitti». Da
questa affermazione Boccaccio muove per dichiarare che con la sua opera egli inten-
de prestare conforto e distrazione alle persone afflitte, fra cui spiccano le donne, che
per sensibilità e condizione sociale più di ogni altro hanno bisogno delle consolazioni
dell’immaginazione che la letteratura può fornire. Il Decameron pertanto si presenta sin
dal proemio come un’opera narrativa di intrattenimento, che mira al diletto, alla di-

▍ Il Decameron

Descrizione Il Decameron (dal greco, “dieci giornate”) si apre con un proemio in cui Boccaccio delinea i
dell’opera primi tratti della sua poetica (scopo principale dell’opera è la consolazione degli afflitti) e in-
dividua nelle donne il suo pubblico d’elezione. Segue una lunga introduzione [R T 13.1 ] che
dà l’avvio a quella che viene comunemente definita la storia cornice o semplicemente la corni-
ce dell’opera, che si svilupperà poi lungo tutto il libro: vi si narrano le vicende della peste che
devastò Firenze nel 1348 e l’incontro in una chiesa di dieci giovani (sette donne e tre uomi-
ni) che, non avendo più legami familiari in città, decidono di trasferirsi in una villa di cam-
pagna, per sfuggire alla peste e vivere in modo più sereno e spensierato, ma onesto, quel tra-
gico momento; qui giunti i giovani decidono di trascorrere le giornate conversando, passeg-
giando, giocando, cantando e danzando e soprattutto narrandosi reciprocamente ogni gior-
no delle novelle (nelle dieci giornate dedicate alla narrazione verranno dunque raccontate
cento novelle). Ogni giorno viene eletto un re o una regina, che governa la servitù e orga-
nizza la vita della brigata, stabilendo anche il tema a cui si dovranno attenere i novellatori.
Ogni giorno tutti i giovani raccontano una novella, secondo l’ordine stabilito dalla regina, e
un giovane a turno canta una canzone. Uno di loro, Dioneo, ottiene il privilegio di poter
narrare sempre per ultimo e di avere la facoltà di non attenersi al tema della giornata. Nel-
l’introduzione alla IV giornata Boccaccio interrompe la storia-cornice per difendersi dalle
accuse di immoralità rivoltegli da alcuni lettori, svolgendo altre considerazioni di poetica e
narrando una novelletta volta a dimostrare le tesi sostenute nella sua autodifesa (questa no-
velletta è dunque la centunesima dell’opera e l’unica che si immagina narrata direttamente
dall’autore). L’opera si chiude con una Conclusione dell’autore in cui Boccaccio, prima di
congedarsi dal suo pubblico, formula le ultime e più articolate considerazioni di poetica
[R T 13.2 ].
I temi delle giornate Daremo conto dei temi delle dieci giornate come li ha formulati l’autore nelle introdu-
zioni ai testi, ma può essere utile fornirne qui un quadro sintetico: la giornata I è a tema li-
bero, la II e la III sono dedicate al tema dell’avventura a lieto fine, per opera della fortuna o
dell’ingegno, la IV è dedicata al tema dell’amore tragico, la V a quello dell’amore a lieto fine,
la VI ai motti arguti e scaltri che evitano dei guai, la VII alle beffe fatte dalle donne ai mari-
ti, l’VIII alle beffe in genere, la IX è di nuovo a tema libero, e la X, infine, è dedicata ai com-
portamenti liberali e magnifici, in campo amoroso e non.

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13. Giovanni Boccaccio STORIA

strazione, alla consolazione di un pubblico ampio e vario, di persone sensibili, ma in


prevalenza non di dotti. Più avanti nell’introduzione alla IV giornata, difendendosi
dall’accusa di aver trattato in modo licenzioso il tema dell’amore profano, Boccaccio
dichiara che l’amore è una forza naturale e irrefrenabile che può del tutto legittima-
mente essere presa come soggetto di un’opera narrativa realistica, composta in volgare,
in prosa e in «istilo umilissimo» come la sua, di cui però – malgrado la rituale modestia
– afferma la dignità e il valore artistico. Nella conclusione infine afferma l’esistenza di
esigenze intrinseche della letteratura che giustificano l’uso di un linguaggio libero e
spregiudicato (quello che uomini e donne adoperano tutti i giorni nel mondo reale
che egli vuole rappresentare). È già un passo verso una concezione di una relativa au-
tonomia dell’arte, rispetto a ogni finalità pratica, etica o utilitaristica che sia. Certo, con
tali affermazioni egli si allontana decisamente dalle più tipiche concezioni espresse dal
medioevo, ma fa un passo in avanti rispetto alle caute aperture formulate dall’anonimo
estensore del Novellino [R Doc 10.2 ]. Un’idea analoga dell’arte la ritroveremo invece nel
rinascimento, quando verrà sancito in forma più netta e compiuta il principio del be-
ne dicere (il dire bene, la bellezza) come fine specifico dell’arte.
L’invenzione della letteratura mezzana Queste affermazioni di poetica nel loro complesso defini-
scono e delimitano un’idea mezzana di letteratura, che abbiamo già incontrato trat-
tando delle opere giovanili: già nel Filocolo, infatti, Boccaccio aveva collocato la sua
pratica letteraria a metà strada fra una letteratura alta, che in forma allegorica affron-
tasse il problema delle verità supreme e potesse essere accostata alla teologia e alla filo-
sofia, e i «fabulosi parlari degli ignoranti», cioè forme espressive basse e triviali dotate
di poca o nulla dignità letteraria. In particolare la cosiddetta «filoginia», la definizione
delle donne come pubblico ideale e il privilegio accordato al tema d’amore, costitui-
scono una consapevole scelta di campo. Questa poetica è nel Decameron il presupposto
fondamentale per una rappresentazione realistica dell’infinita varietà dei comporta-
menti e dei giudizi umani, una rappresentazione prevalentemente mimetica, intrinse-
camente laica, spregiudicata e aperta a una morale problematica, mai definitoria e
preconcetta (forse anche al di là dei convincimenti ideologici dell’uomo Boccaccio).
La mimesi del reale trionfa insomma sull’ideologia e il primato della mimesi è possi-
bile perché Boccaccio adotta un’idea della letteratura disimpegnata, libera da ogni fi-
nalità pedagogica e morale.
Eclissi dell’autore-narratore A parte gli espliciti e significativi giudizi di ordine morale ed estetico
formulati nei luoghi ricordati, Boccaccio in quanto autore-narratore tende in effetti a
scomparire dalla sua opera, che prevede che l’autore-narratore racconti direttamente
solo la storia-cornice mentre a narrare le novelle siano i suoi personaggi, dotati in
qualche misura di una propria identità e autonomia psicologica. Quando nelle novelle
ci imbattiamo in giudizi di qualsiasi natura sui personaggi, sulle vicende, sui costumi
non possiamo cioè attribuirli direttamente a Boccaccio, ma dobbiamo quanto meno
porci il dubbio se quel giudizio – formulato propriamente da un novellatore – corri-
sponda al giudizio di Boccaccio o se rientri, e in che misura, nella caratterizzazione
psicologica e ideologica del novellatore e quindi ricada esclusivamente sotto la sua re-
sponsabilità. Anche se il tentativo di caratterizzare con precisione ciascun novellatore è
probabilmente impossibile, sappiamo ad esempio che Dioneo è il più libero e licenzio-
so, mentre altri si presentano come più schivi e pudichi o più moderati ed equilibrati.
Boccaccio in ogni caso in questo modo crea una sorta di schermo fra sé e il lettore.

13.3.2 Realtà e ideologia: la «commedia umana»


La questione del realismo: assenza di una prospettiva trascendente Quello di realismo è un
concetto discusso e discutibile. Ma è anche vero che può essere una categoria utile, se
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Duecento e Trecento

adeguatamente precisata. Si può parlare di realismo anche per Dante e per la letteratu-
ra edificante medievale, che spesso non chiude gli occhi di fronte al male e indulge ad
esempio nella rappresentazione analitica e cruda dei vizi e di ogni sorta di pene e tor-
menti, o viceversa adotta un linguaggio basso, giocoso e licenzioso (un ampio uso di
espressioni esplicite inerenti alla sessualità è attestato anche nella predicazione). Ma tra
queste forme di realismo e quella propria del Decameron ci sono almeno due differen-
ze sostanziali: l’assenza di una prospettiva trascendente che interpreti e ordini l’insieme
dei dati narrativi, e l’ampiezza e la varietà dei temi trattati.
Mario Baratto individua «una prima e tipica caratteristica dello scrittore: la volontà
di penetrare oltre la superficie della società, del costume, [...] per cogliere il comporta-
mento di individui sempre diversi (che hanno tutti qualcosa di irripetibile nonostante
le affinità che li uniscono) in un mondo terreno che si rivela altrettanto mobile e im-
previsto». L’osservazione è fondamentale: Boccaccio da un alto non tipizza i propri
personaggi, ne traccia sempre dei profili individuali e non si limita alla superficie del-
la realtà umana e sociale, ma scava in profondità; dall’altro non introduce una prospet-
tiva trascendente, provvidenziale, che ordini e giudichi i comportamenti umani in
funzione dell’eterno, che ne giustifichi la varietà, il disordine, la miseria o la sublimità.
Boccaccio insomma analizza con scrupolo e straordinaria capacità di introspezione
psicologica i comportamenti dell’uomo in una dimensione esclusivamente umana e
mondana, si concentra insomma sul mondo terreno, sui rapporti degli uomini fra loro
e con la realtà naturale, ambientale, sociale, oggettuale.
La religione e la morale: un approccio problematico Quando Boccaccio affronta seriamente il
trascendente, Dio e la fede, lo fa per lo più presentandolo come un problema indivi-
duale, intimo di ciascun individuo, o come un problema di cui, con gli strumenti del-
la ragione e nelle forme della letteratura mezzana, non è possibile dare una soluzione
univoca e soprattutto certa. Esemplare è il caso di una novella assai ambigua come
quella di ser Ciappelletto [R T 13.3 ].
Ma più spesso si parla delle istituzioni, delle manifestazioni e dei rappresentanti ter-
reni della religione – Chiesa, ordini, predicazioni, confessioni, pratiche cerimoniali, ab-
badie, monasteri, singoli preti, frati, monaci, monache, priori, abbadesse – e questi so-
no colti con diverso atteggiamento, ora di apprezzamento, ora di censura, ora di uma-
na comprensione, ora di derisione, ma comunque sempre negli stessi modi e forme
con cui si esamina la restante realtà umana e sociale, senza pregiudizi e preconcetti,
cioè con grande spregiudicatezza. Anche il giudizio morale insomma, tanto nei con-
fronti dei religiosi quanto nei confronti degli altri personaggi, nel Decameron, assai più
che nel Novellino e nella tradizione novellistica precedente, è aperto e problematico,
quasi mai perentorio e definitivo, spesso lasciato alla responsabilità del lettore.
La questione del realismo: latitudine narrativa Nel Decameron c’è posto per personaggi nobili, lea-
li, virtuosi, onesti, santi, ma anche per quelli malvagi, disonesti, traditori, truffatori,
peccatori: per mercanti intraprendenti e accorti o cupidi e meschini, per nobili ma-
gnanimi e generosi o vanagloriosi e incauti, per popolani dai bisogni elementari e di
grosso ingegno o prudenti e astuti, per uomini avveduti e intelligenti, arguti e sottili o
ingenui e sciocchi, per donne sensibili e oneste, o lascive e corrotte, per chierici santi o
imbroglioni, per ingenui compatiti o crudelmente derisi, per beffatori e beffati; per la
pietà, i sentimenti e gli affetti più teneri, ma anche per la grettezza e la crudeltà. È pre-
sente pressoché tutta la gamma dei ceti sociali, dai più elevati (re, nobili, potenti prela-
ti, ricchi banchieri) sino ai più umili (operai, contadini, servi), e vastissima è anche la
varietà dei luoghi e degli ambienti (si va dalle corti ai bassifondi, dalla realtà cittadina
alla campagna, dai luoghi vicini e noti – come Firenze – a terre e mari esotici). Anche
i registri variano dal comico al tragico, dal serio al faceto, dal satirico all’elegiaco e as-
sai ampia è la gamma dei temi ispiratori e dei modi rappresentativi.
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13. Giovanni Boccaccio STORIA

Secondo Momigliano nel Decameron non ci sono solo la sapida comicità, il vitalismo
sfrenato, la sensualità e l’erotismo, la beffa anticlericale, l’intelligenza spregiudicata, ma ci
sono pagine che delicatamente mettono in luce le virtù e gli aspetti più intimi e nobi-
li dello spirito umano. Ma è anche vero, per converso, che c’è una cospicua letteratura
della crudeltà, che impietosamente mette in luce, e in una luce talora livida, le miserie
dell’uomo, le sue meschinità e turpitudini. Non si tratta tanto di crudeltà fisica, quanto
morale: esemplari in questo senso alcune novelle di beffe e in particolare la figura di
Calandrino, lo sciocco che si crede astuto e che si consegna con una sorta di autolesio-
nistica voluttà nelle mani dei suoi tormentatori, i suoi presunti amici che invece godo-
no della sua inerme sciocchezza e nel tormentarlo in ogni modo (Boccaccio intuisce
qui, come si è notato, la dinamica psicologica che lega oscuramente la vittima al pro-
prio carnefice). Qualcosa di analogo si può asserire a proposito dei fratelli di Lisabetta:
gli interessi mercantili che determinano il loro comportamento sono rappresentati nei
loro risvolti più meschini e tragici con una crudezza che può stupire in un autore che
altrove sembra voler celebrare l’intelligenza, l’intraprendenza e il dinamismo di un ceto
sociale che ha modificato profondamente il corso della storia [R T 13.6 ].
La «commedia umana» La varietà di temi, ambienti, situazioni e personaggi costituisce una sostanzia-
le novità: «Boccaccio non si arresta di fronte ad alcun aspetto della realtà, è disposto a
rappresentare tutto, e questo comporta un ampliamento dei confini del narrabile, l’im-
missione, cioè, nei confini della letteratura, di temi che prima ne erano esclusi e che ora
vengono ritenuti degni di una rappresentazione che aspiri a dignità formale. La novel-
la con Boccaccio amplia smisuratamente i propri orizzonti» (Guglielmino). Anche in
seguito accadrà raramente che uno scrittore accolga nella sua opera una così grande va-
rietà di temi e personaggi. Se qualcuno prima di Boccaccio ha mostrato un’analoga
ampiezza di orizzonti nei confronti dell’umano, questo è Dante. Proprio per sottoli-
neare l’analogia dei due scrittori quanto a complessità e varietà tematica, la critica ha
parlato per il Decameron di «commedia umana»: la formula insiste però anche sull’anti-
tesi con la Commedia dantesca, cui compete l’attributo di «divina» non solo perché ha
rappresentato l’aldilà, ma anche perché le tante figure e vicende umane che ha rievoca-
to le ha ordinate alla luce del trascendente e dell’eterno, con ferree categorie interpre-
tative etico-religiose. La commedia boccacciana è invece «umana» non solo perché è
collocata nel mondo, ma perché adotta categorie interpretative mondane e laiche.
Ma questa formula può anche alludere a una specifica componente di moderna
teatralità presente nell’opera, che tanto influirà nella genesi della commedia cinque-
centesca, anch’essa mondana e laica, realistica e moralmente spregiudicata: il mondo
appare nel Decameron come un grande palcoscenico, lo scenario complesso nel quale
gli uomini agiscono, si confrontano, confliggono e dialogano.

13.3.3 I grandi temi


Mondo cortese e realtà cittadina In una così grande varietà di personaggi, di temi, situazioni e sce-
nari, è possibile comunque individuare nel Decameron alcuni nuclei fondamentali di
ispirazione. I due principali, secondo Baratto, sono il mondo cortese al tramonto e la
realtà contemporanea soprattutto cittadina, che del resto rappresentano i due poli fon-
damentali dell’esperienza biografica di Boccaccio. Il mondo cortese, che pure è rap-
presentato anche nei suoi aspetti deteriori (l’arroganza e la crudeltà, ad esempio, o l’ec-
cesso di liberalità che comporta il dissesto del patrimonio, com’è nel caso di Nastagio
degli Onesti e di Federigo degli Alberighi), è spesso descritto come il luogo di elabo-
razione di una cultura e di costumi nobili e raffinati (soprattutto nella decima giorna-
ta). Per contro il mondo cittadino e quello fiorentino in particolare, quando sono visti
in positivo, si caratterizzano per il vitalismo, l’arguzia, l’oculatezza, l’intelligenza o l’a-
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Duecento e Trecento

stuzia. La sintesi di questi due poli si può trovare nell’auspicio, perlopiù sottinteso, di
veder associati nel mondo comunale i modelli di superiore comportamento cortese
con le doti più tipiche e apprezzate della società borghese e mercantile. Questa era del
resto una tendenza già da tempo in atto nei comuni toscani, da quando le famiglie ma-
gnatizie ormai affermatesi economicamente avevano tentato di darsi un nuovo statuto
socio-culturale, proprio attingendo a quei modelli, anche se non sempre erano andate
oltre la superficie della raffinatezza cortese. Secondo alcuni critici nel Decameron, pur
così lontano dai modi e dai metodi della letteratura didattica medievale, ci sarebbe an-
zi anche l’intento di fornire, sia pure in forma sobria e non prescrittiva, dei modelli
ideali di comportamento con cui oggettivamente confrontarsi.
L’epopea dei mercatanti Di questa realtà contemporanea, borghese e cittadina, una parte essenziale è
rappresentata dal mondo mercantile, da cui Boccaccio stesso proveniva, ma in cui non
si sentiva pienamente realizzato. Certo nessuno scrittore prima di lui ne aveva rappre-
sentato in modo così sistematico i protagonisti, le vicende, la mentalità, i comporta-
menti, tanto che per evidenziare questa predilezione tematica e la sua «centralità nello
stesso disegno ideale dell’opera» si è coniata per il Decameron la formula critica di
«epopea dei mercatanti» (Branca). Il mondo mercantile appare sovente protagonista
non solo attraverso le numerose e memorabili figure individuali di mercanti (Ciappel-
letto, Andreuccio, Landolfo Rufolo…), ma anche come ambiente sociale diffuso
(quartieri, mercati, fondachi, botteghe, navi mercantili…) pullulante anche di figure
minori, appena sbozzate ma quasi sempre in modo incisivo, con tutto l’insieme di abi-
tudini, comportamenti, pregiudizi che lo caratterizzano (si veda la novella Lisabetta da
Messina [R T 13.6 ]). Lo stesso ampliamento geografico degli scenari narrativi dell’ope-
ra è spesso legato al mondo mercantile, sia nel senso che i luoghi menzionati nel De-
cameron rispecchiano gli itinerari mercantili e che Boccaccio doveva averne avuto no-
tizia proprio attraverso i racconti dei protagonisti, sia perché non di rado quei luoghi
esotici sono esplicitamente associati al tema dello spirito d’avventura e dei viaggi
compiuti dai mercanti.
Assodata questa significativa presenza, bisogna però aggiungere che non si tratta di
un’epopea tutta positiva e celebrativa. Del mondo mercantile e dei suoi protagonisti
sono messe in luce tanto le doti, determinanti per il rinnovamento socio-economico e
culturale del basso medioevo, quali lo spirito d’avventura, l’intraprendenza, la cura del
patrimonio, l’oculatezza, la prudenza, l’astuzia, l’intelligenza; quanto limiti e vizi quali
la cupidigia, la grettezza, la meschinità, la spregiudicatezza, l’insensibilità, la visione
economicistica del mondo e un conservatorismo sociale che si manifesta talora in for-
me altrettanto rigide e cupe di quello feudale. Anche nel caso del mondo mercantile,
insomma, Boccaccio non ha tesi univoche da sostenere, ma ispira la sua rappresenta-
zione a un sostanziale mimetismo realistico, onesto e integrale.
Si può infine aggiungere che nel Decameron i fasti del mondo mercantile, più che
rappresentati al presente, sono rievocati nel momento del tramonto della sua fase
espansiva medievale e per di più in un momento tragico, quello della peste, in cui –
come è detto nell’Introduzione – tante famiglie magnatizie, tanti patrimoni e tanti pa-
lazzi sono ormai andati in rovina. Quando l’epopea dei mercatanti si sofferma sullo
spirito d’avventura, sull’intraprendenza, sugli aspetti insomma più dinamici e positivi
di quella realtà, si può dunque e forse si deve cogliere un alone di nostalgia analogo a
quello che caratterizza certe rappresentazioni del mondo cortese: entrambi rimandano
anche alle esperienze felici della giovinezza, quando Boccaccio, rappresentante di una
ricca compagnia mercantile fiorentina, frequentava a Napoli la società aristocratica.
L’intelligenza, l’individuo Fra i temi portanti del Decameron spicca quello comunemente definito
dell’intelligenza, sintesi suprema del saper vivere mondano. L’intelligenza, come tema
decameroniano, è essenzialmente la capacità di analizzare una situazione e adottare
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13. Giovanni Boccaccio STORIA

con prontezza i comportamenti più idonei al raggiungimento del proprio scopo. Do-
te mondana e laica per eccellenza, essa si presenta come sempre in un’ampia gamma di
sfumature: ora furbizia messa a servizio di piccoli e meschini interessi, ora astuzia an-
che grandiosa nei rapporti commerciali, ora scaltrezza in quelli amorosi, ora intuizione
fulminea e quasi irriflessa, ora meditata sagacia nelle relazioni sociali, ora profonda co-
noscenza psicologica degli individui e vasta esperienza del mondo, ora superiorità in-
tellettuale e morale. Talora l’intelligenza si manifesta in un comportamento pratico
(Nastagio ad esempio organizza un banchetto nel luogo dove sa che si riproporrà la
visione oltremondana che indurrà l’amata a concederglisi), talaltra in una battuta ar-
guta che risolve una situazione difficile (è il tema della sesta giornata [R T 13.9 ]), o in
un più elaborato discorso che inganna o persuade (ad esempio la confessione di Ciap-
pelletto [R T 13.3 ]). L’intelligenza, anche nelle sue varianti deteriori dell’astuzia e del-
l’inganno, è una dote affinatasi nel mondo borghese e mercantile, ma non è solo una
sua prerogativa: essa non ha quasi confini sociali nel mondo decameroniano, può ca-
ratterizzare infatti un sovrano e un servo (Agilulf e il palafreniere [R T 13.5 ]), un for-
naio come Cisti, un intellettuale come Cavalcanti (che associa al più alto livello intel-
ligenza e cultura), un religioso come frate Cipolla [R T 13.10 ].
Tuttavia c’è forse nel Boccaccio un orientamento a riconoscere nell’intelligenza,
nell’astuzia e soprattutto nell’arguzia verbale delle doti caratteristiche del mondo cit-
tadino fiorentino. Viceversa l’ambiente che in pratica è quasi sempre privo di questa
dote è quello contadino, dal quale provengono il maggior numero di sciocchi, segno
abbastanza evidente e scontato della visione urbanocentrica di Boccaccio e in genere
di tutti gli intellettuali della sua epoca. Il tema dell’intelligenza si associa poi di fre-
quente a quello della beffa, che contrappone personaggi più scaltri a personaggi inge-
nui e sciocchi, vittime predestinate. Ma più in generale il tema dell’intelligenza, tanto
nelle sue forme più basse quanto in quelle più elevate, mette in scena l’individuo che
vuole affermare se stesso e realizzare i propri scopi, desideri, pulsioni. Forse più anco-
ra che il tema della mercatura quello dell’individuo che lotta con strumenti mondani
per affermarsi nella realtà sociale indica un orientamento storico-culturale più ampio,
di cui il Decameron è la più tempestiva e alta testimonianza.
La fortuna Nell’agone del mondo, dove lotta per la sopravvivenza e la supremazia, l’uomo de-
ve fare i conti, oltre che con le volontà e i contrastanti desideri degli altri uomini, an-
che con la fortuna. La fortuna non è più la cieca ministra della volontà divina che dà e
toglie i beni mondani agli uomini secondo disegni imperscrutabili ma comunque
provvidenziali, quale appariva a Dante; l’idea di fortuna che domina nel Decameron è
più vicina alla nozione laica e immanente di caso, che nel tardo medioevo si stava svi-
luppando proprio nel mondo mercantile, abituato a vagliare con prudenza le situazio-
ni e i possibili imprevisti, a cogliere al volo le occasioni propizie: un’idea di fortuna
cioè come insieme di circostanze che sfuggono alla possibilità di previsione dell’uomo,
e che sono il frutto del complesso interagire delle storie, delle volontà e dei compor-
tamenti degli uomini con altri uomini e con fattori ambientali. Si veda poi nella no-
vella di Nastagio degli Onesti come Boccaccio, annullando ironicamente ogni possi-
bile interpretazione provvidenzialistica, riduca anche una visione d’oltretomba al si-
gnificato profano di un incontro fortuito e casuale, che favorisce le terrene aspirazio-
ni del protagonista e ne mette in moto l’intelligenza creativa [R T 13.7 ]. Intelligenza,
prudenza, esperienza si confrontano con la fortuna, talora soccombendo, talora paran-
done gli improvvisi colpi avversi, talora cogliendone con prontezza le opportunità.
Sembra indiscutibile, insomma, che nella sua rappresentazione mimetica della realtà
Boccaccio abbandoni decisamente ogni concezione provvidenzialistica della storia e
dell’agire individuale o quanto meno non la introduca nella sua opera, limitandosi a os-
servare le strategie e gli sforzi attuati dall’uomo nell’affrontare l’incostanza della sorte.
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Duecento e Trecento

L’amore, la donna e la «democrazia dell’eros» Già in precedenza abbiamo visto il ruolo chiave,
anche sul piano simbolico, che l’amore e le donne assolvono nel Decameron e abbia-
mo constatato che l’amore è inteso espressamente da Boccaccio come una forza na-
turale, un impulso irresistibile che, anche nei suoi aspetti fisici, di per sé non è col-
pevole. La concezione dell’amore e dei rapporti fra i sessi che Boccaccio formula nel
Decameron è dunque dichiaratamente una concezione antiascetica. Questa, si ricordi,
è una delle poche tesi in materia di morale esplicitamente argomentate dall’autore,
in forma non ambigua. Nella concreta rappresentazione dell’amore, poi, Boccaccio
ancora una volta accoglie quanto sul tema gli veniva dalla tradizione precedente (da
Ovidio ai moralisti cristiani, dalla letteratura cortese ai poeti realistico-giocosi, allo
stilnovo), lo rielabora in modo originale e soprattutto lo sviluppa, ampliandone i
confini e gli orizzonti e presentando una casistica quanto mai articolata. L’amore nel
Decameron è infatti via via pulsione elementare e meccanica, sensualità tenera e deli-
cata, passione oscura e travolgente, sentimento dolce e malinconico, gelosia ossessiva,
esperienza intima che esalta e nobilita e molto altro ancora, in un’ampia gamma di
sfumature, applicate a personaggi che – come detto – si caratterizzano sempre per
qualche tratto individuale e irripetibile.
L’amore è prepotente impulso naturale e passione irrazionale, che si scontra nella
realtà con regole morali e convenzioni sociali piuttosto rigide, ed è quindi uno dei
campi privilegiati in cui si esercitano l’intelligenza e l’astuzia e una multiforme arte
della seduzione. Anche l’amore nel Decameron è oggetto insomma di una contesa pe-
renne, di una conflittualità che rientra nella più generale lotta per l’affermazione di sé
che caratterizza il mondo del Decameron. Le situazioni più tipiche sono le strategie
messe in atto per conquistare qualcuno, l’astuzia degli amanti che devono ingannare
un marito (violando i vincoli sociali e morali del matrimonio). La sua affermazione
così passa spesso attraverso la violazione di leggi e convenzioni, che nel Decameron ap-
paiono troppo anguste e rigide.
Ma ci sono situazioni ancor più complesse e innovative, in cui l’amore mette in di-
scussione e talora abbatte assai più rigide barriere economico-sociali. Nel Decameron,
innanzitutto, l’amore, in quanto naturale, è concepito come un impulso universale, ‘de-
mocratico’ (in proposito si è utilizzata la formula di «democrazia dell’eros» o «democra-
zia del cuore»), che non ha rigidi confini sociali: se di solito abita le case di nobili – di-
ce una novellatrice – può anche insediarsi in quelle dei poveri (è il caso di Simona e
Pasquino, due filatori protagonisti per la prima volta, in quanto popolani, di una vicen-
da d’amore puro e tragico, IV,7). Ma c’è di più: l’amore è infatti una passione così in-
tensa che può aguzzare l’ingegno a tutti e può abbattere le barriere sociali, anche nel
senso che può porre sullo stesso piano e mettere in conflitto con esiti imprevedibili un
nobile e un popolano, un ricco e un povero (si veda il caso di re Agilulf e del palafre-
niere che seduce la regina [R T 13.5 ]), e che può legare una nobile a un servo (come ca-
pita a Ghismunda, IV,1), una ricca borghese a un giovane di bottega (è il caso di Lisa-
betta da Messina [R T 13.6 ]). In amore insomma contano di più la giovinezza, la bellez-
za, la passionalità che non il denaro, il potere, il prestigio sociale o intellettuale, e un
vecchio ricco o nobile soccombe facilmente di fronte a un giovane povero o plebeo.
Ma sempre nel Decameron la realtà ha la meglio sull’ideologia, e così quelle rigide con-
venzioni morali e soprattutto sociali che spesso aguzzano l’ingegno altrettanto spesso
coartano il desiderio individuale e producono esiti tragici (il nobile Tancredi non tolle-
ra che la figlia ami un servo, IV, 1; i fratelli di Lisabetta, ricchi mercanti, non tollerano
che la sorella ami un garzone di bottega: in entrambi i casi la storia si conclude con la
morte degli amanti) e in molti casi le arti e le strategie della seduzione si presentano
nelle forme deteriori di inganni che costringono un personaggio più debole o più
sciocco a sottostare alle non sempre nobili voglie del più forte e astuto.
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13. Giovanni Boccaccio STORIA

Uno dei tratti ‘democratici’ e innovativi della rappresentazione dell’amore nel De-
cameron riguarda infine il protagonismo delle donne, che certo – viste dagli occhi ma-
schili dell’autore – sono spesso creature affascinanti e seducenti, oggetti di desiderio,
talora motori passivi dell’azione, ma in molti casi compaiono anche come soggetti at-
tivi, e non solo sul piano intimo dei sentimenti e delle passioni, ma anche dell’azione,
e dunque soggetti propositivi e intraprendenti, astuti e tenaci nel perseguire i propri
scopi, soggetti insomma che combattono anch’essi al tempo stesso per difendere la
propria dignità e per affermare i propri desideri (come capita in molte novelle, specie
della settima giornata, sul tema della beffa ordita dalle mogli nei confronti dei mariti
gelosi). Il tema dell’intelligenza, del saper vivere mondano si applica dunque anche al-
le donne, prevalentemente come scaltrezza negli affari di cuore, arricchita via via da
sensibilità, misura, ponderazione ed espressione di nobili ideali.

13.3.4 Le forme e il linguaggio


Modi e forme narrative e rapporti con la tradizione Anche sul piano retorico-stilistico il Decame-
ron si caratterizza per la grande varietà di forme narrative, per una straordinaria dutti-
lità stilistica. Sul piano dei modelli narrativi, si può ricorrere alla classica analisi di Ba-
ratto, che ha individuato una serie di tipologie da lui definite racconto, romanzo, no-
vella, novella esemplare, contrasto, mimo e commedia. Insomma, strategie diverse a se-
conda dei temi, dei casi e delle circostanze: novelle intessute di semplici fatti o psico-
logicamente più approfondite, novelle il cui nucleo è il comportamento morale o il
conflitto spesso tragico tra bene e male, novelle infine in cui la frequenza dei dialoghi,
ora semplici ora complessi, sembra alludere alla forma teatrale.
Boccaccio anche per le forme del Decameron ha attinto ampiamente a tutte le tra-
dizioni precedenti a lui note: oltre alla novella letteraria, alla narrativa orale toscana,
anche alle tradizioni folcloriche, alla narrativa antica (Apuleio in particolare), alla no-
vellistica orientale, alle prediche e agli exempla cristiani, ai racconti dei giullari, ai li-
cenziosi fabliaux, alla poesia e al romanzo cortesi, al teatro antico, alla commedia ele-
giaca medievale, rielaborandoli però tutti originalmente e spesso genialmente. Non è
questa la sede per affrontare nella sua complessità la questione (specialistica) della rie-
laborazione delle fonti. Ma a titolo di esemplificazione si può accennare a due casi
particolari e particolarmente importanti sul piano della storia letteraria.
Nel caso dei modi narrativi che per la struttura in scene e per la centralità del
dialogo inclinano verso il teatro, Boccaccio, muovendo dal teatro classico allora noto
(Terenzio e Plauto) dall’esperienza dei giullari e dalle poche forme teatrali medieva-
li, fornisce spunti non solo ideologico-tematici, ma anche linguistici, stilistici e strut-
turali a quella che nel Cinquecento, dopo la riscoperta di Plauto, sarà la commedia
rinascimentale.
Più diretto ed eclatante è il rapporto che la novella decameroniana instaura con
l’esempio cristiano medievale: Boccaccio ne fa un uso ampio, ma spesso strumenta-
le e ideologicamente eversivo, attingendo sovente la materia delle sue storie alle rac-
colte medievali di esempi edificanti, ma le volge sempre a un significato profano, mi-
mandone forme e linguaggio, in forma però quanto meno ironica, parodistica e gio-
cosa [R T 13.3 ].
Linguaggio e stile Vittore Branca ha dimostrato l’ampia presenza della retorica medievale nell’elabo-
razione stilistica del Decameron sia per quanto riguarda alcuni dei più generali orien-
tamenti strutturali e stilistici, sia per quanto riguarda questioni particolari come l’ado-
zione del cursus riscontrabile sin dalla prima frase del libro o la predilezione per una
«prosa versificata» (migliaia sono gli endecasillabi presenti nella prosa decameroniana).
Una tendenza stilistica poi assai influente sulla successiva codificazione rinascimen-
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Duecento e Trecento

tale è il processo di latinizzazione che la prosa volgare subisce in Boccaccio: nel Deca-
meron ciò si nota specialmente nella cornice, dove il registro è più sostenuto ed eleva-
to e talora tragico (introduzione), e in molte delle parti narrative delle novelle, dove
comunque il linguaggio si fa più duttile e vario. Questa tendenza consiste essenzial-
mente nell’adozione di un periodo complesso, ricco di subordinate, che predilige una
disposizione degli elementi della frase simile a quella del latino (frequenza delle inver-
sioni e in particolare collocazione dei verbi a fine frase, a fine periodo), che rende la
lettura della prosa decameroniana talora difficile e tanto più quanto più il registro
adottato dall’autore è elevato e solenne.1
Ma nelle novelle e soprattutto nelle parti dialogate si deve constatare una grande va-
rietà di registri, dal comico al grottesco, dall’elegiaco al tragico e una altrettanto grande
varietà di soluzioni linguistico-stilistiche particolari. Qui quasi sempre prevale un’esi-
genza mimetica e il linguaggio e lo stile si adattano con grande duttilità ai temi, alle si-
tuazioni, ai personaggi e alle forme narrative (Baratto). Constatiamo così la presenza di
diverse varietà socio-culturali della lingua: strutture più semplici e lineari di gusto col-
loquiale e popolare o più elaborate e sostenute di evidente matrice dotta e letteraria, a
seconda della condizione sociale, della cultura dei personaggi e della qualità delle situa-
zioni e delle circostanze. La mimesi linguistica si estende talora anche alla caratterizza-
zione geografica dei personaggi, con l’adozione di formule vernacolari. Ma la varietà
delle soluzioni stilistiche attuate da Boccaccio culmina forse nelle funamboliche inven-
zioni linguistiche e nelle deformazioni espressive a scopo comico o grottesco, ora di
matrice popolare ora invece vere e proprie invenzioni d’autore (si veda esemplarmen-
te la novella di frate Cipolla [R T 13.10 ]).

13.4 L’ultima stagione: le opere umanistiche e il Corbaccio


Boccaccio umanista Si è già detto del decisivo rapporto con Petrarca, che a un certo punto della vita
induce Boccaccio a dedicarsi più intensamente allo studio dei classici e alla produzio-
ne latina, e si sono ricordate le altre vicende biografiche della maturità che mutano il
corso della sua attività letteraria e la sua stessa concezione della letteratura.
L’umanesimo di Boccaccio si manifesta in questi anni innanzitutto nell’adozione di
un ideale di vita ritirata e solitaria libera da impegni pratici e interamente dedicata al-
lo studio, e nell’impegno a diffondere in una ristretta cerchia di dotti amici i risultati
delle scoperte librarie, delle ricerche erudite e delle meditazioni sulla letteratura anti-
ca. Ciò si realizza, oltre che nelle discussioni del cenacolo e nelle relazioni epistolari
(notevoli soprattutto le Epistole indirizzate a Petrarca), anche attraverso un certo nu-
mero di opere latine di impianto erudito-enciclopedico.
Erudizione e amore per la classicità Il contributo, spesso notevole, che Boccaccio diede con le ope-
re latine alla causa dell’umanesimo è di natura soprattutto erudita. A parte il Buccolicum
carmen, opera di poesia, le altre sono tutte opere di erudizione storico-letteraria a ca-
rattere enciclopedico, che in qualche caso rimarranno negli scaffali degli studiosi fino
al Settecento (Branca). Anche se siamo lontani dal rigore filologico dei successivi
umanisti e probabilmente anche dallo spirito critico di Petrarca, egli, per l’ampiezza
delle fonti consultate, con questi suoi testi indica una strada e testimonia un’inclina-
zione al recupero integrale dell’eredità classica, un amore anzi per quel patrimonio
culturale lontano nel tempo ma sempre più attuale.

1. Nelle poetiche medievali si definiva cursus il ritmo delle clausole (cioè delle parti finali) e in particolare del-
le due ultime parole di un verso o di un periodo in prosa: le forme principali sono il cursus planus che preve-
deva due parole piane, come in «siàmo suggètti», «ònne benedictiòne»; il cursu velox, che prevedeva una sdruc-
ciola e una piana come in «desìderan di sapère», «accòlgono volentièri», «sanctìssime voluntàti»; il cursus tardus
prevedeva viceversa una piana e una sdrucciola «pàrte dell’ànima», «per aventùra s’avìsano».

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13. Giovanni Boccaccio STORIA

La nuova poetica Ma queste opere segnano una svolta nell’attività letteraria di Boccaccio anche per-
ché obbediscono a una nuova poetica: la letteratura nel Boccaccio maturo si riappro-
pria i «principi primi» (Bruni), si apre cioè all’impegno e alla riflessione morale e reli-
giosa. Nel De casibus ad esempio le vite dei personaggi sventurati sono accompagnate
da riflessioni morali di stampo sia classico che medievale cristiano sui vizi e sulle virtù
degli uomini, e si fa strada l’idea di un intervento diretto di Dio nella storia. Analogo
impegno etico-religioso è testimoniato nelle Genealogie, che nei due ultimi libri enun-
ciano esplicitamente una poetica secondo cui la letteratura deve avere un significato
recondito spiegabile mediante l’allegoria.
La difesa della dignità della poesia che in questa e in altre opere compie il Boccaccio
maturo ha insomma come fondamento «la presenza di verità profonde, accostabili a
quelle della filosofia e della teologia», nascoste sotto la superficie della finzione (Bruni).
Che ciò sia frutto di una crisi e di una ‘conversione’ dell’uomo o solo di un mutamen-
to di poetica è oggetto di dibattito, ma lo scarto è obiettivamente piuttosto netto. Del
1372 è una lettera a Mainardo Cavalcanti in cui Boccaccio lo esorta a non dare da leg-
gere alle sue donne il Decameron e le altre sue opere giovanili – un tempo tutte dedica-
te alle donne – perché moralmente discutibili e nocive per i loro animi, data la presen-
za di temi e argomenti poco decorosi e contrari all’onestà che potrebbero indurre a
commettere il male. È un indice dell’abbandono della poetica filogina della giovinezza,
che trova riscontro anche nell’ultima opera creativa in volgare scritta da Boccaccio.
La satira aspramente misogina del Corbaccio Il Corbaccio (databile al 1365, secondo altri ai primi an-
ni ’50), è un’opera narrativa acremente satirica che, riprendendo la tradizione antica e
medievale della letteratura antiuxoria, capovolge recisamente la poetica filogina della
giovinezza e dello stesso Decameron, attaccando con violento sarcasmo tutti i principa-
li stereotipi della letteratura cortese. C’è tuttavia chi ha interpretato quest’opera in
chiave sperimentalistica, come un puro e semplice esercizio letterario e stilistico di
stampo comico-realistico, sminuendone cioè la valenza ideologica e così attenuando il
contrasto che i temi e le dichiarazioni introdurrebbero rispetto alla precedente produ-
zione narrativa. Ma anche in questo caso lo scarto con il passato è assai netto.
▍ Il Corbaccio

Il narratore, respinto da una vedova di cui è innamorato, ha una visione nella quale il defun-
to marito della donna gli appare in un orribile deserto, allegoria del «laberinto d’amore», e
gli rivela tutti i vizi e le nefandezze della moglie e delle donne in genere, dalle quali lo esor-
ta a tenersi lontano. «Attraverso le narrazioni e le descrizioni del marito viene con sarcastica
violenza strappata la maschera alla ingannevole vedova e rilevata invece la sua bruttezza fisi-
ca e morale, la rovina nauseabonda della sua carne, la malvagia e incredibile ipocrisia della
sua condotta; [...] così come tutte le donne sono false e bugiarde, ciarliere, infedeli, inganna-
trici, lussuriose, avide, avare, sospettose, iraconde, ecc., vere creature del diavolo» (Marti).

Dante: una lunga fedeltà Negli anni della maturità Boccaccio scrive il Trattatello in laude di Dante (una
biografia del poeta composta tra il 1351 e il 1355 e in seguito ridotta) e le Esposizioni
sopra la Comedia (le letture pubbliche tenute a Firenze), che manifestano il fedele cul-
to di Dante, da lui difeso anche in alcune epistole rivolte al Petrarca, che egli legge pe-
raltro con una sensibilità per molti versi già umanistica. Anche queste opere rivelano
infatti una concezione impegnata della poesia, che media le posizioni di Dante e Pe-
trarca: una poesia intesa come portatrice di profonde verità (la poesia non si distingue
dalla teologia quando affronta i medesimi temi) e come un’attività a cui dedicarsi con
dedizione totale e ascetico impegno a scapito anche dell’impegno nelle questioni po-
litiche e civili, che tanta parte aveva avuto invece nella biografia dantesca.Vi si trovano
anche affermazioni sul primato della letteratura in latino rispetto a quella in volgare,
che costituiscono un’ulteriore conferma della strada imboccata dal Boccaccio maturo.
409 © Casa Editrice Principato
Duecento e Trecento

T 13.1 Il Decameron 1349-1351


Introduzione
G. Boccaccio Dopo un breve Proemio, che affronta questioni di poetica e di cui daremo conto nel te-
Il Decameron sto successivo, il Decameron propone una lunga introduzione alla prima giornata. In es-
a c. di V. Branca,
Einaudi, Torino 1984 sa il Boccaccio, rivolgendosi alle donne, che ha scelto come suo pubblico d’elezione,
narra dapprima le vicende della peste che ha colpito Firenze nel 1348, poi la decisione
di alcuni giovani di rifugiarsi in una villa nel contado di Firenze nella speranza di evi-
tare il contagio e di passare quanto più lietamente possibile quel terribile periodo…
Così, con questo «orrido incominciamento» di fondamentale importanza per determi-
nare la struttura e il senso complessivo dell’opera, si apre la narrazione che farà da cor-
nice alle cento novelle del Decameron.
Data la lunghezza di questa introduzione e la particolare complessità del linguaggio
qui adottato dall’autore, ne proporremo solo alcuni brevi passi collegati da un riassun-
to delle parti omesse.

1 Quantunque volte: Quantunque volte,1 graziosissime donne, meco pensando riguardo2 quanto voi
ogniqualvolta (è correlato naturalmente3 tutte siete pietose, tante conosco che la presente opera al vostro iu-
col successivo tante: quante
volte mai… altrettante). dicio avrà grave e noioso4 principio, sì come è5 la dolorosa ricordazione della pe-
2 meco pensando ri-
stifera mortalità trapassata6, universalmente a ciascuno che quella vide o altra-
guardo: riflettendo fra me e
me considero. menti conobbe dannosa7, la quale essa porta nella sua fronte8. Ma non voglio per 5
3 naturalmente: per na- ciò che questo di più avanti leggere vi spaventi9, quasi sempre tra’ sospiri e tralle
tura.
4 noioso: fastidioso, pe- lagrime leggendo dobbiate trapassare10. Questo orrido cominciamento vi fia11
noso. non altramenti che a’ camminanti una montagna aspra e erta, presso alla quale un
5 sì come è: quale è in
effetti. bellissimo piano e dilettevole sia reposto, il quale tanto più viene12 lor piacevole
6 trapassata: trascorsa quanto maggiore è stata del salire e dello smontare la gravezza. E sì come la estre- 10
(da non molti anni, al mo- mità della allegrezza il dolore occupa, così le miserie da sopravegnente letizia so-
mento della composizione
dell’opera). no terminate13.
7 dannosa: va collegato
con universalmente. Senza questo avvertimento preliminare, l’«orrido cominciamento» non lascerebbe presagire «la dol-
8 la quale… fronte: ri-
cordo che (la quale è riferito cezza e il piacere» che presto seguiranno. Se fosse stato possibile evitare questa orribile narrazione senza
a ricordazione) ogni persona allontanarsi dalla verità, Boccaccio l’avrebbe fatto volentieri, ma egli è «da necessità» costretto a ricorda-
che sia venuta a contatto re quegli eventi. Nel 1348, dunque, una «mortifera pestilenza» colpì la città di Firenze: essa, o per una
con la peste (essa è riferito, a
senso, a ciascuno) porta bene congiunzione astrale nefasta o per la volontà di Dio di punire i peccati degli uomini, si era diffusa dal-
impressa nella propria l’Oriente in Occidente. A nulla erano valsi i provvedimenti sanitari e le suppliche rivolte a Dio.
mente.
9 di più… spaventi: vi
spaventi e vi induca a non E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue del naso
proseguire la lettura. era manifesto segno di inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d’es-
10 quasi… trapassare:
come se, leggendo, doveste
sa a’ maschi e alle femine parimente o nella anguinaia o sotto le ditella14 certe en- 15

sempre stare tra lacrime e fiature15, delle quali alcune crescevano come una comunal16 mela, altre come uno
sospiri. uovo, e alcune più e alcun’altre meno, le quali i volgari17 nominavan gavoccioli. E
11 vi fia: sarà per voi.
12 viene: risulta, riesce. dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio18 cominciò il già detto ga-
13 E sì… terminate: e vocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a veni-
come il dolore succede al-
l’allegria (quando questa re19: e da questo appresso20 s’incominciò la qualità21 della predetta infermità a 20
giunge al suo fine), così l’in- permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in cia-
felicità ha fine quando so-
praggiunge la letizia. scuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui22 grandi e rade e a cui minu-
14 anguinaia… ditella: te e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo
inguine… ascelle. indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno.
15 enfiature: rigonfia-
menti.
16 comunal: comune, di Nessun rimedio risultava efficace, pochi guarivano e quasi tutti invece morivano entro i terzo giorno
grandezza normale. dall’apparire dei sintomi. Il contagio si propagava con estrema rapidità, come il fuoco – dice il Boccaccio
17 volgari: i popolani.
18 infra… spazio: in bre-
ve tempo. 20 da questo appresso: 21 la qualità: il sintomo.
19 venire: crescere. dopo di ciò, in seguito. 22 a cui: a chi.

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13. Giovanni Boccaccio T 13.1

23 Alla gran… sepoltu - – alle cose secche o unte. E non solo si trasmetteva tramite il contatto con gli infermi, ma anche trami-
re: Non bastando la terra te quello con oggetti ad essi appartenuti o con animali che avessero toccato gli infermi o i loro oggetti;
consacrata alla sepoltura
della gran quantità di corpi e gli stessi animali ne morivano con incredibile rapidità. Questa situazione fece nascere «paure e imagi-
che veniva esposta (mostrata) nazioni» nei vivi e li spinse a tenersi lontani dagli infermi. Si imposero però diversi stili di vita: alcuni, da
e portata alle chiese ogni soli o raccoltisi in brigata, vivevano chiusi in casa e separati dal resto del mondo, conducendo un tenore
giorno e quasi ogni ora. di vita sobrio e moderato. Altri invece ritenevano che un rimedio efficace alla malattia fosse bere e man-
24 i… sopravvegnenti: i
corpi che sopraggiungeva- giare smodatamente e concedersi ogni piacere: questi ultimi popolavano le taverne ad ogni ora e spesso
no. festeggiavano nelle tante case abbandonate e incustodite. Altri conducevano un tenore di vita intermedio,
25 e in quelle… si perve- altri ancora abbandonavano la città presumendo che solo entro le mura cittadine il morbo si potesse svi-
nia: e dopo averli stivati in
quelle fosse comuni, a strati
luppare. «In tanta afflizione e miseria della nostra città – osserva l’autore – era la reverenda auttorità del-
(a suolo a suolo) come si met- le leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta» poiché i magistrati erano o morti o in-
tono le mercanzie nelle na- fermi o privi di uomini e mezzi per amministrarla e farla rispettare. I malati per paura del contagio ve-
vi, i cadaveri venivano rico- nivano lasciati languire in solitudine, abbandonati anche dagli amici e dai parenti più stretti (persino pa-
perti con poca terra finché il
cumulo dei corpi giungeva dri e madri abbandonavano i figli malati). Pochi prestavano aiuto per amicizia o affetto; qualche servito-
alla sommità della fossa (la re lo faceva per avidità, e spesso pagando l’avidità con la propria morte.
fossa al sommo pervenia, lett.: Le donne malate in questa situazione non si vergognavano di mostrare a chiunque ogni parte del lo-
la fossa giungeva alla som- ro corpo, tanto che – in alcune di quelle che si salvarono – questa abitudine fu poi causa di minore one-
mità, veniva completamen-
te riempita). stà. La paura e la pratica di abbandonare i malati fece anche sì che molti che, se curati, si sarebbero po-
tuti salvare, invece morirono. Quando qualcuno dei ceti superiori moriva, le consuete veglie e cerimonie
funebri non c’erano più o erano ridotte al minimo. Ancor più tragica era la condizione dei ceti medi e
del popolo minuto: senza alcuna assistenza uomini e donne morivano a migliaia ogni giorno e giaceva-
no abbandonati nelle case o nelle strade; i parenti superstiti portavano i corpi dei defunti fuori delle ca-
se e senza alcuna cerimonia li facevano mettere nelle bare o addirittura trasportare su tavolacci; in mol-
ti casi una stessa bara conteneva più corpi, talora un’intera famiglia.

Né erano per ciò questi da alcuna lagrima o lume o compagnia onorati, anzi 25
era la cosa pervenuta a tanto, che non altramenti si curava degli uomini che mori-
vano, che ora si curerebbe di capre. […] Alla gran moltitudine de’ corpi mostrata,
che a ogni chiesa ogni dì e quasi ogn’ora concorreva portata, non bastando la ter-
ra sacra alle sepolture23, e massimamente volendo dare a ciascun luogo proprio se-
condo l’antico costume, si facevano per gli cimiterii delle chiese, poi che ogni par- 30
te era piena, fosse grandissime nelle quali a centinaia si mettevano i sopravegnen-
ti24: e in quelle stivati, come si mettono le mercatantie nelle navi a suolo a suolo,
con poca terra si ricoprieno infino a tanto che la fossa al sommo si pervenia25.
Neppure il contado era risparmiato dalla pestilenza. I contadini, senza alcun soccorso medico, mori-
vano come bestie, e quanti sopravvivevano non si curavano di coltivare, ma si limitavano a consumare
quanto già raccolto. Così i campi e gli animali giacevano in totale abbandono. Che altro aggiungere? Ba-
sterà dire – conclude il Boccaccio – che in Firenze tra marzo e luglio, per il contagio o l’abbandono, si
crede che siano morte oltre centomila persone, tante quante non si pensava neppure che la città ne aves-
se contenute. Quante case, quante abitazioni rimasero vuote! Quante famiglie si estinsero completamen-
te! Quanti uomini, donne e giovani che la mattina apparivano sanissimi e a pranzo avevano cenato con
i parenti, la sera cenarono nell’altro mondo con i loro antenati!
In questo doloroso contesto accadde un giorno che nella chiesa di Santa Maria Novella si incontras-
sero per caso sette giovani donne d’età tra i diciotto e i ventotto anni. Il Boccaccio, per discrezione, non
le chiamerà con i loro veri nomi, ma con nomi fittizi (Pampinea, la più anziana, Fiammetta, Filomena,
Emilia, Lauretta, Neifile ed Elissa). Pampinea si rivolge alle altre donne con un elaborato discorso: è giu-
sto e naturale – dice – che chiunque, quanto e come può, cerchi di proteggere la propria vita. Perché
dunque non dovremmo noi cercare di provvedere alla nostra salvezza? A che scopo restare in una città
colpita dalla pestilenza, quando noi non siamo di utilità alcuna? quando circolando per strada siamo in-
sidiate, schernite dalla feccia della città, e non vediamo altro che violenze, saccheggi, morti? quando an-
che in casa non è rimasto altro che paura e orrore? Al mondo non ci è rimasto nessuno che possa gui-
darci; siamo rimaste sole a provvedere a noi stesse. Inoltre in città non vige più alcuna norma o legge;
ciascuno fa quello che vuole, senza regola morale, seguendo esclusivamente i propri appetiti; anche i mo-
nasteri sono in preda alla dissolutezza. Perché dunque restare, in queste tristi condizioni? Ci reputiamo
da meno degli altri? Crediamo che la nostra vita sia legata al nostro corpo da più forti catene di quanto
non accade agli altri?
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Duecento e Trecento

26 ancora… sia: benché Pampinea dunque propone di tentare di scampare alla pestilenza e ai disonesti costumi ormai impe-
sia adirato con noi (allude ranti in città, ritirandosi per qualche tempo a vivere più serenamente e allegramente, ma in modo ragio-
all’ipotesi che la pestilenza
sia opera o di influssi astrali o nevole e onesto, in una delle loro proprietà fuori Firenze. Così la descrive e conclude il suo discorso:
della volontà divina, en-
trambi metaforicamente Quivi s’odono gli uccelletti cantare, veggionvisi verdeggiare i colli e le pianure,
identificati con il cielo).
27 le sue… nega: non ci e i campi pieni di biade non altramenti ondeggiare che il mare, e d’alberi ben 35
nasconde le sue eterne bel- mille maniere, e il cielo più apertamente, il quale, ancora che crucciato ne sia26,
lezze.
28 la copia maggiore: non per ciò le sue bellezze eterne ne nega27, le quali molto più belle sono a ri-
maggiore abbondanza. guardare che le mura vote della nostra città; e èvvi, oltre a questo, l’aere assai più
29 noie: cose dolorose,
spiacevoli.
fresco, e di quelle cose che alla vita bisognano in questi tempi v’è la copia mag-
30 quivi… qui: lì (nel giore28 e minore il numero delle noie29. Per ciò che, quantunque quivi così 40
contado)… qui (in città). muoiano i lavoratori come qui30 fanno i cittadini, v’è tanto minore il dispiacere
31 quanto… rade: quan-
to sono più rari (case e abi- quanto vi sono più che nella città rade31 le case e gli abitanti. E qui d’altra parte,
tanti). se io ben veggio, noi non abbandoniam persona, anzi ne possiamo con verità di-
32 ne possiamo… ab-
bandonate: anzi piuttosto re molto più tosto abbandonate32: per ciò che i nostri, o morendo o da morte
possiamo dire, in verità, di fuggendo, quasi non fossimo loro, sole in tanta afflizione n’hanno lasciate. Niuna 45
esser abbandonate da esse.
33 Niuna… seguire: per- riprensione adunque può cadere in cotal consiglio seguire33: dolore e noia e forse
tanto nessun rimprovero ci morte, non seguendolo, potrebbe avvenire. E per ciò, quando vi paia, prendendo
può essere rivolto prenden- le nostre fanti34 e con le cose oportune faccendoci seguitare, oggi in questo luogo
do questa decisione.
34 fanti: servitrici. e domane in quello quella allegrezza e festa prendendo che questo tempo può
35 che… porgere: che
sono possibili in queste cir-
porgere35, credo che sia ben fatto a dover fare36; e tanto dimorare in tal guisa, che 50

costanze. noi veggiamo, se prima da morte non siam sopragiunte, che fine il cielo riserbi a
36 credo… fare: credo sia
queste cose37. E ricordivi che egli non si disdice più a noi l’onesta mente andare,
cosa ben fatta a farsi (cioè:
credo sia cosa ben fatta che faccia a gran parte dell’altre lo star disonestamente38. –
prendere le nostre fanti,farci
seguire dai bagagli, far festa Le altre giovani concordano con Pampinea e anzi già si stanno mettendo d’accordo per la partenza,
ecc.)
37 e tanto… cose: e (ri- quando Filomena osserva che, pur approvando l’idea di Pampinea, ritiene che per delle donne non sia
tengo opportuno) rimaner- opportuno andarsene da sole e che avrebbero dovuto invece trovare degli uomini come guida e compa-
vi tanto da poter vedere, se gnia nel viaggio. Mentre ragionano su questa proposta, nella chiesa entrano tre giovani loro amici (Pan-
non moriamo prima, che il filo, Filostrato e Dioneo) alla ricerca delle donne da loro amate, che per caso si trovavano tutte fra quel-
cielo ponga fine a questo
stato di cose, cioè alla pesti- le sette. Pampinea sorridendo osserva che la fortuna sembra essere loro favorevole, ma Neifile, che è fra
lenza. le tre di cui i giovani sono innamorati, avanza dei dubbi sull’opportunità di mettersi in viaggio in com-
38 E ricordivi… disone- pagnia di quegli uomini, temendo che qualcuno possa mettere in dubbio la loro onestà. Filomena però
stamente: e ricordatevi che
l’andarcene via comportan-
prontamente replica che a chi si comporta onestamente non deve importare il giudizio della gente: «Idio
doci onestamente non è per e la verità l’arme per me prenderanno», si leveranno insomma a sua difesa. Così Pampinea, che è impa-
noi più disdicevole che per rentata con uno di loro, formula la proposta ai tre giovani, che prima si credono presi in giro, poi, com-
molti altri il rimanersene in presa la serietà della proposta, accettano volentieri. Quindi, fatti i preparativi del caso, la brigata parte per
città vivendo disonesta-
mente. la villa di una delle giovani, a un paio di miglia da Firenze.
Installatisi nella nuova dimora, Dioneo dichiara che non sa ciò che intendono fare gli altri, ma quan-
to a lui, lasciatisi alle spalle tutti i pensieri tristi, ha intenzione di divertirsi, ridere e cantare. Pampinea
prontamente risponde: «Dioneo, ottimamente parli: festevolmente viver si vuole, né altra cagione dalle
tristizie ci ha fatte fuggire». E propone che per ogni giorno si elegga un capo, che regoli e ordini la vita
della brigata. Tutti approvano l’idea e Filomena, intessuta una corona d’alloro, la mette in capo a Pampi-
nea eleggendola regina della prima giornata. Costei, dopo aver impartito le disposizioni necessarie per-
ché i servitori si occupino di tutto il necessario perché la vita della brigata si svolga ordinatamente e pia-
cevolmente, invita tutti a passeggiare liberamente per i giardini. Riunitisi di nuovo per il pranzo, i giova-
ni mangiano discorrendo piacevolmente e scherzando; subito dopo si intrattengono suonando e cantan-
do e poi si ritirano ciascuno nella propria stanza.
Dopo il breve riposo pomeridiano, la regina invita tutti a seguirla in un praticello nei pressi del pa-
lazzo; lì postisi in cerchio a sedere, Pampinea osserva che data la calura estiva e l’ora (sono circa le tre
del pomeriggio) non è il caso di andare a passeggiare, ma è meglio rimanere lì all’ombra e al fresco, gio-
cando a dama o a scacchi, oppure – ciò che a lei pare meglio – raccontandosi delle novelle sino al tra-
monto. Tutti accolgono la proposta della regina, che per quel primo giorno lascia libero ciascuno di rac-
contare la storia che più gli piaccia.

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13. Giovanni Boccaccio T 13.1

Guida all’analisi
L’orrido cominciamento e il lieto fine La lunga introduzione alla prima giornata, che funge da introduzione ge-
nerale a tutta l’opera, è strutturata dal Boccaccio come una grande antitesi, fra gli orrori
della peste che flagella la città di Firenze e il suo contado e gli onesti piaceri che la brigata
dei dieci giovani, casualmente incontratisi durante una funzione in Santa Maria Novella,
decide di prendersi nel sereno isolamento di una campagna e di una villa non toccate dal
morbo. Il contrasto non potrebbe essere più netto: riguarda gli ambienti, gli eventi, i com-
portamenti e il registro della narrazione, che trascorre rapidamente dal tragico della prima
parte all’idillico della conclusione (si notino le rappresentazioni paesaggistiche). Il Boccac-
cio stesso, rivolgendosi alle donne, suo pubblico d’elezione, le avverte che se l’«orrido co-
minciamento» potrà turbarle, questo durerà poco e lascerà il posto a temi e ad atmosfere più
sereni e lieti. Anzi il contrasto stesso avrà la funzione di rendere più intenso il piacere che
seguirà e che caratterizzerà poi tutto il libro. Con questa antitesi il Boccaccio sembra voler-
si anche adeguare alle poetiche del tempo (e, ad es., al modello della Commedia dantesca)
che prevedevano per i generi comici un inizio talora cupo e problematico e un lieto fine.
Questa premessa, da molti critici giudicata fredda e retorica, assolve la precisa funzione di
additare, oltre che la vicenda particolare della brigata, anche l’esperienza del Boccaccio
stesso e del suo pubblico che la tremenda esperienza della pestilenza si erano appena lascia-
ti alle spalle: il ricordo di quegli eventi funesti, posto come necessaria premessa alla narra-
zione tutta, accrescerà per contrasto il piacere di sentirsene liberati e consentirà di godere
più pienamente della piacevolezza della storia narrata nella cornice e delle cento novelle.
Ma la grande antitesi iniziale ha dei risvolti, oltre che psicologici, anche morali: l’ecceziona-
lità degli eventi – tanto la catastrofica pestilenza, quanto l’isolamento in una campagna qua-
si fuori dal mondo – consente e giustifica, nella rappresentazione della ‘commedia umana’
che seguirà, «una particolare libertà che è quasi risarcimento della contigua esperienza del-
la Morte» (Guglielmino).
Un piacevole e onesto ragionevole Tuttavia va notata l’enfasi con cui Pampinea contrappone la disonesta (e, per
il dolore, innaturale e disumana) condotta di vita che ormai regna in Firenze, in un mo-
mento di vacanza di ogni legge morale, civile e religiosa, all’onestà e alla ragionevole mode-
razione (e naturalezza e profonda umanità) dei piaceri che la brigata intende prendersi co-
me risarcimento di tanto dolore in villa. Se le condizioni eccezionali consentono delle li-
bertà altrimenti impensabili per delle donne – lasciare la casa, prendersi cura di se stesse sen-
za guida di padri, fratelli o mariti, accompagnarsi con degli uomini – le giovani, che pren-
dono personalmente l’iniziativa liberatoria, impegnano la propria coscienza a non infrange-
re quelle leggi morali e quell’onestà di costumi che, pur nel sovvertimento di ogni norma-
lità e di ogni valore, esse sentono ancora validi e forti. L’inno alla vita che scaturisce dall’or-
rido cominciamento di morte, per quanto possa apparire per certi versi licenzioso (come
apparirà ai detrattori del Boccaccio suoi contemporanei), è in realtà saldamente tenuto en-
tro precisi confini morali.
Realtà e letteratura Si è a lungo discusso sulle fonti che il Boccaccio tiene presente nel descrivere la pestilen-
za fiorentina (fonti classiche, da Tucidide a Lucrezio, e medievali, come Paolo Diacono nel-
la Historia Langobardorum, Storia dei Longobardi) e sulle differenze che si notano rispetto alle
descrizioni di quella calamità lasciate dai cronisti contemporanei (ad es. il Villani). Quel che
è certo è che Boccaccio intreccia forse indissolubilmente realtà e letteratura, memoria per-
sonale e memoria letteraria. L’attenzione ai dati reali è forte, anche se strutturata in modo
molto più razionale che emotivo, tanto che può parere che egli voglia tenere sotto control-
lo le emozioni ed eviti di narrare esperienze che lo riguardino personalmente: il dolore e
l’orrore è insomma nelle cose, ancor più che nelle parole, sempre sorvegliate e retorica-
mente elaborate, secondo un gusto già preumanistico. Queste appaiono orchestrate secondo
uno stile alto (tragico) e una sintassi complessa e modellata sul latino e spesso lasciano tra-
sparire reminiscenze letterarie.

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Duecento e Trecento

T 13.2 Il Decameron 1349-1351


Poetica del Decameron
G. Boccaccio Boccaccio affronta importanti questioni di poetica in diversi punti della sua opera e
Il Decameron precisamente nel Proemio, nell’introduzione alla IV giornata e nella Conclusione. Di
a c. di V. Branca,
Einaudi, Torino 1984 queste pagine, linguisticamente piuttosto difficili, daremo un rapido riassunto che con-
sentirà di seguire lo sviluppo delle argomentazioni, e ci limiteremo a riprodurre te-
stualmente una novelletta (l’unica che figura narrata dall’autore) che il Boccaccio col-
loca nell’introduzione della IV giornata.

PROEMIO
«Umana cosa è avere compassione degli afflitti». Con questa affermazione si apre il Decameron. Mol-
ti hanno avuto afflizioni e hanno sentito il bisogno di compassione, e l’autore è fra questi. Da giovane
egli fu innamorato e, non per colpa dell’amata ma per l’eccesso della sua passione, ne provò più inquie-
tudine e pena che contentezza. In questa situazione egli ricorda che i «ragionamenti» e le «consolazioni»
di qualche amico gli porsero «tanto refrigerio» che solo per questo crede di non essere morto. Ma, come
Dio volle, quell’ardente passione ebbe termine e ora ne può ricordare solo gli aspetti piacevoli. Tuttavia,
cessata la pena, non è venuta meno la memoria dei benefici ricevuti, tanto che egli, grato, vuole almeno
assolvere la medesima funzione consolatoria nei confronti di chi ne avesse bisogno.
E chi negherà – dice – che di tale conforto abbiano bisogno più le donne che gli uomini? Esse sono
abituate a tenere le proprie passioni nascoste nei loro petti (e le passioni nascoste e represse infiammano
gli animi più di quelle manifeste); per condizione sociale sono costrette spesso a vivere i loro turbamen-
ti chiuse nelle proprie stanze; se diventano preda di qualche «malinconia», hanno per natura minore ca-
pacità di sopportazione e meno occasioni di distrarsi rispetto agli uomini, che sono liberi di muoversi a
proprio piacere e di dedicarsi a numerose attività. Dunque, per riparare in qualche modo ai torti fatti dal-
la fortuna alle donne, per consolare delle loro afflizioni le donne innamorate, egli intende «raccontare
cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo», narrate nel corso di dieci giorni da una
brigata di dieci giovani uomini e donne «nel pistelenzioso tempo della passata infermità» e alcune can-
zoni da loro cantate. In queste novelle si vedranno «piacevoli e aspri casi d’amore e altri fortunati avve-
nimenti» (avvenimenti determinati cioè dal caso) accaduti nei tempi moderni e in quelli antichi. Leg-
gendole, le donne innamorate «parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle mostrate e utile consi-
glio potranno pigliare, in quanto potranno cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da
seguitare».

INTRODUZIONE ALLA IV GIORNATA


Sempre rivolgendosi alle donne Boccaccio dice di aver pensato che l’mpetuoso vento dell’invidia non
dovesse colpire se non le alte torri e le più elevate cime degli alberi. Ma scopre di essersi ingannato, per-
ché, pur essendosi ingegnato di andare solo per le pianure e le valli, da quel vento si trova ora scrollato
e quasi lacerato. Fuor di metafora, Boccaccio vuol dire che aveva ritenuto che l’invidia avrebbe colpito
solo autori di opere elevate per contenuto e stile, mentre egli si è limitato a scrivere delle novelle in pro-
sa, in volgare fiorentino e in uno stile quanto più umile gli fosse stato possibile. Ne conclude che hanno
ragione i saggi che hanno sempre sostenuto che «sola la miseria è senza invidia nelle cose presenti».
Ci sono stati dunque alcuni che leggendo le sue novelle hanno affermato che a lui piacciono troppo
le donne, e che egli male ha fatto a dilettarsi di piacere loro e di consolarle e, anzi, di lodarle, come fa.
Altri hanno osservato che egli è ormai troppo vecchio per andar dietro a queste cose e che meglio
avrebbe fatto a star con le Muse in Parnaso piuttosto che mescolarsi alle donne (a dedicarsi cioè alla
poesia piuttosto che alla novellistica). Da queste accuse il Boccaccio ora vuole difendersi, ma prima di
farlo narrerà ai suoi detrattori non una novella intera, per non confondersi con la brigata, ma una parte
di una novella.

1 di condizione… leg- Nella nostra città, già è buon tempo passato, fu un cittadino il quale fu nomina-
giere: di umile condizione
sociale. to Filippo Balducci, uomo di condizione assai leggiere1, ma ricco e bene inviato e
2 bene… cose: bene av- esperto nelle cose2 quanto lo stato suo richiedea; e aveva una sua donna moglie3,
viato ed esperto nella sua
professione. la quale egli sommamente amava, e ella lui, e insieme in riposata vita si stavano, a
3 donna moglie: moglie niuna altra cosa tanto studio ponendo quanto in piacere interamente l’uno all’al- 5

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13. Giovanni Boccaccio T 13.2

(accompagnato,in forma ri- tro. Ora avvenne, sì come di tutti avviene, che la buona donna passò di questa vi-
dondante e di rispetto, da
donna, cioè signora). ta, né altro di sé a Filippo lasciò che un solo figliuolo di lui conceputo4, il quale
4 conceputo: concepi- forse5 d’età di due anni era. Costui per la morte della sua donna tanto sconsolato
to. rimase, quanto mai alcuno altro amata cosa perdendo rimanesse6; e veggendosi di
5 forse: circa.
6 quanto… rimanesse: quella compagnia, la quale egli più amava, rimaso solo7, del tutto si dispose di non 10
quanto non ne rimase mai volere più essere al mondo8 ma di darsi al servigio di Dio e il simigliante fare del
alcun altro perdendo una
cosa amata (costruzione la- suo piccol figliuolo. Per che, data ogni sua cosa per Dio9, senza indugio se n’andò
tineggiante, frequente nel sopra Monte Asinaio10, e quivi in una piccola celletta se mise11 col suo figliuolo,
Boccaccio, con numerose
inversioni e i verbi posti a fi- col quale di limosine in digiuni e in orazioni12 vivendo, sommamente si guardava
ne frase). di non ragionare, là dove egli fosse, d’alcuna temporal cosa13 né di lasciarnegli14 15
7 di quella… solo: ri-
masto privo (solo) di quella alcuna vedere, acciò che esse da così fatto servigio nol traessero15, ma sempre del-
compagnia ecc. la gloria di vita eterna e di Dio e de’ santi gli ragionava, nulla altro che sante ora-
8 si dispose…mondo:
decise di non volere più vi-
zioni insegnandogli. E in questa vita molti anni il tenne, mai della cella non la-
vere in società, cioè di riti- sciandolo uscire, né alcuna altra cosa che sé dimostrandogli16.
rarsi in un isolamento asce- Era usato17 il valente uomo di venire alcuna volta a Firenze, e quivi secondo le 20
tico.
9 per Dio: ai poveri, in sue oportunità dagli amici di Dio sovenuto18, alla sua cella tornava.
elemosine. Ora avvenne che, essendo già il garzone19 d’età di diciotto anni e Filippo vec-
10 Monte Asinaio: mon-
te Senario, nei pressi di Fi- chio, un dì il domandò ov’egli andava. Filippo gliele disse; al quale il garzon disse:
renze. «Padre mio, voi siete oggimai20 vecchio e potete male durar21 fatica; perché non
11 se mise: si stabilì, si ac-
casò.
mi menate voi una volta a Firenze, acciò che, faccendomi cognoscere gli amici e 25
12 orazioni: preghiere. divoti di Dio e vostri, io che son giovane e posso meglio faticar di voi, possa po-
13 temporal cosa: di al-
scia pe’ nostri bisogni a Firenze andare quando vi piacerà, e voi rimanervi qui?»
cuna cosa profana, monda-
na. Il valente uomo, pensando che già questo suo figliuolo era grande e era sì abi-
14 lasciarnegli: lasciar- tuato al servigio di Dio che malagevolmente le cose del mondo a sé il dovrebbo-
gliene.
15 acciò… traessero: af- no omai poter trarre22, seco stesso disse: «Costui dice bene»; per che, avendovi a 30
finché queste non lo di- andare, seco il menò.
straessero dalla pratica asce- Quivi il giovane veggendo i palagi, le case, le chiese e tutte l’altre cose delle
tica (i digiuni e le orazioni so-
pra menzionati). quali tutta la città piena si vede, sì come colui che mai più per ricordanza23 vedu-
16 dimostrandogli: mo-
te no’ n’avea, si cominciò forte a maravigliare e di molte domandava il padre che
strandogli (il padre è l’unica
persona che entra a contatto fossero e come si chiamassero. Il padre gliele diceva; ed egli, avendolo udito, rima- 35
con lui). neva contento e domandava d’una altra. E così domandando il figliuolo e il padre
17 Era usato: era abituato,
aveva l’abitudine. rispondendo, per avventura si scontrarono in una brigata di belle giovani donne e
18 e quivi… sovenuto: e ornate, che da un paio di nozze24 venieno: le quali come il giovane vide, così do-
qui sovvenuto, aiutato nelle mandò il padre che cosa quelle fossero.
sue necessità da alcuni pii
benefattori. A cui il padre disse: «Figliuol mio, bassa gli occhi in terra, non le guatare25, 40
19 garzone: ragazzo, gio-
ch’elle son mala cosa».
vane.
20 oggimai: ormai. Disse allora il figliuolo: «O come si chiamano?»
21 male durar: a stento Il padre, per non destare nel concupiscibile appetito del giovane alcuno inchi-
sopportare, sostenere.
22 che…trarre: che diffi- nevole disiderio men che utile26, non le volle nominare per lo proprio nome27,
cilmente le cose mondane cioè femine, ma disse: «Elle si chiamano papere». 45
avrebbero potuto attirarlo,
sviarlo. Maravigliosa cosa a udire! Colui che mai più alcuna veduta non avea, non cura-
23 per ricordanza: a sua tosi de’ palagi, non del bue, non del cavallo, non dell’asino, non de’ danari né d’al-
memoria, per quanto si ri- tra cosa che veduta avesse, subitamente disse: «Padre mio, io vi priego che voi fac-
cordava.
24 da… nozze: «modo ciate che io abbia una di quelle papere».
popolare e parlato in luogo «Oimè, figliuol mio,» disse il padre «taci: elle son mala cosa». 50
del semplice da certe nozze»
(Branca). A cui il giovane domandando disse: «O son così fatte le male cose?»
25 guatare: guardare. «Sì» disse il padre.
26 per… utile: per non
destare nell’animo (concupi-
scibile appetito è espressione un’inclinazione (inchinevole vale, sono le cose stesse (no- dalle cose); non nominare le smo, quasi che separando la
tecnica del linguaggio filo- desiderio) pericolosa. mina sunt consequentia rerum, i donne col loro nome ha cosa dal suo nome la cosa
sofico) del giovane alcun 27 non… nome: spesso i nomi sono conseguenza dunque qui il valore di uno stessa perdesse il suo poten-
desiderio che costituisse nomi, nella cultura medie- delle cose, sono determinati scongiuro o di un esorci- ziale pericolo.

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Duecento e Trecento

28 quanto è: sta di fatto E egli allora disse: «Io non so che voi vi dite, né perché queste sieno mala cosa;
che (espressione sul tipo di
‘questo è quanto’, questo è quanto è28, a me non è ancora paruta vedere alcuna così bella né così piacevole
un dato di fatto); oppure: come queste sono. Elle son più belle che gli agnoli29 dipinti che voi m’avete più 55
«per quanto è possibile» volte mostrati. Deh! se vi cal di me30, fate che noi ce ne meniamo una colà sù di
(Branca).
29 agnoli: angeli. queste papere, e io le darò beccare31».
30 se vi cal di me: se vi
Disse il padre: «Io non voglio; tu non sai donde elle s’imbeccano!» e sentì in-
importa di me, se mi volete
bene. contanente32 più aver di forza la natura che il suo ingegno; e pentessi33 d’averlo
31 e io le darò beccare: io menato a Firenze. 60
le nutrirò (ma l’affermazio-
ne ingenua del figlio nel-
l’immediata replica del pa- Terminata la novelletta Boccaccio confessa apertamente che a lui piacciono le donne e che si ingegna
dre acquista un significato di piacer loro. Non c’è da meravigliarsene, se si pensa non solo ai piaceri d’amore ma anche alla bellez-
equivoco, alludendo all’atto za e alle molteplici virtù delle donne. Del resto non è riuscito a resistere al loro fascino neppure un gio-
sessuale).
32 incontanente: imme- vane allevato su un monte «salvatico e solitario»… Di certo chi lo accusa di questo, e che non ama le
diatamente. donne e non desidera d’essere amato da loro, è persona che non sente e non conosce né la bellezza né
33 pentessi: si pentì.
la forza di un affetto del tutto naturale qual è l’amore: per questo Boccaccio non se ne cura.
Quanto ad aver parlato d’amore, non c’è da vergognarsene se lo hanno fatto poeti come Cavalcanti e
Dante. E potrebbe anche citare uomini antichi e valorosi che nei loro anni maturi si compiacquero di
piacere alle donne. Che poi egli debba starsene con le Muse in Parnaso, è certo un buon consiglio, ma in
fondo anche le Muse son donne e le donne, se pure non valgono quanto le Muse, ne hanno somiglian-
za d’aspetto, tanto che anche solo per questo dovrebbero legittimamente piacergli. Del resto «le donne
già mi fur occasione di comporre mille versi, dove le Muse mai non mi furono di farne alcun cagione».
Dunque chi crede che, scrivendo novelle, egli si sia molto allontanato dal Parnaso e dalle Muse si sbaglia.
Boccaccio afferma dunque che proseguirà la sua opera nel modo in cui ha cominciato. «E se mai con
tutta la mia forza a dovervi in alcuna cosa compiacere mi disposi, ora più che mai mi vi disporrò, per ciò
che io conosco che altra cosa dir non potrà alcuno con ragione, se non che gli altri e io, che v’amiamo,
naturalmente operiamo; alle cui leggi, cioè della natura, voler contrastare troppo gran forze bisognano, e
spesse volte non solamente invano ma con grandissimo danno del faticante s’adoperano».

CONCLUSIONE
Alla fine del Decameron, prima di congedarsi dai lettori Boccaccio ringrazia innanzitutto Dio e poi
le donne, che sono state le sue muse ispiratrici. Prima di posare la penna, però, vuole replicare ad altre
accuse particolari che gli potrebbero essere rivolte dalle sue stesse lettrici.
In primo luogo qualcuna potrà dire che egli abbia scritto le novelle con «troppa licenzia», dicendo
cose talora sconvenienti da ascoltare per una donna. Boccaccio nega, affermando che non c’è nessun
argomento che, se affrontato «con onesti vocaboli», sia disdicevole per alcuno. Ma, pur ammettendo che
in qualche caso ciò sia accaduto, egli può giustificarsi dicendo che se c’è qualcosa di sconveniente in
alcune novelle, ciò è dovuto – se si esamina la questione «con ragionevole occhio» – a una necessità in-
trinseca alla novella stessa: quegli argomenti non si sarebbero potuti raccontare diversamente. E se in
qualche caso lo si è fatto usando qualche «paroletta più liberale» di quanto non convenga cioè a una
bacchettona, egli ritiene che l’averle scritte non debba essere imputato più a sua colpa di quanto non si
faccia agli uomini e alle donne che tutto il giorno le ripetono nella vita reale. Senza contare che alla
sua penna non devono essere concesse minori facoltà di quante se ne concedono al pennello del pit-
tore, il quale senza biasimo dipinge la realtà così come si presenta ai suoi occhi e «fa Cristo maschio e
Eva femina». Inoltre bisogna riconoscere che le sue novelle non sono state narrate nelle chiese, dove
sono necessari animo e linguaggio onestissimi (benché nelle storie ecclesiastiche si trovino talora
espressioni più sconvenienti delle sue), né nelle scuole dei filosofi, ma sono state dette «ne’ giardini, in
luogo di sollazzo, tra persone giovani benché mature e non pieghevoli per [influenzabili da] novelle, in
tempo nel quale andar con le brache in capo per iscampo di sé era alli più onesti non disdicevole», in
una circostanza cioè in cui era ritenuto lecito anche alle persone più oneste usare qualunque mezzo
per scampare al flagello della peste. Le sue novelle poi possono giovare o nuocere a seconda del letto-
re: il vino è ottima cosa per i sani, nefasta per i malati; diremo per questo che il vino è malvagio? Ogni
cosa può essere bene e male adoperata, e così accade anche alle sue novelle. Chi vorrà trarne cattivi
consigli li trarrà, ma a chi vorrà trarne «utilità e frutto», le sue novelle non lo negheranno. Chi ha altro
da fare, le lasci perdere, che esse non correranno dietro a nessuno.
Ci sarà forse chi dirà che ce ne sono alcune che sarebbe stato meglio che non ci fossero. Lo conce-

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13. Giovanni Boccaccio T 13.2

de: ma egli ha scritto le cose che ha sentito narrare e se fossero state narrate meglio egli avrebbe scrit-
to novelle più belle. Ma, anche ammesso che egli sia stato l’inventore delle storie, non c’è nessuno, ec-
cetto Dio, che faccia sempre ogni cosa perfettamente. Chi non vuole leggerle tutte, legga solo quelle
che lo dilettano.
Qualcuno poi dirà che le sue novelle sono troppe, troppo lunghe e troppo piene di motti e di ciance,
che non convengono a una persona seria. Ma Boccaccio dice di aver ritenuto che tali cose non stessero
male nelle sue novelle «scritte per cacciar la malinconia delle femine». Chi giudicasse diversamente può
dedicarsi alla lettura delle lamentazioni di Geremia. La sua insomma è un’opera che mira all’intratteni-
mento.
Ringraziato Dio di avergli concesso di portare a termine la sua impresa, saluta un’ultima volta le sue
muse dicendo che si ricordino di lui, se hanno trovato qualche consolazione nell’aver letto il libro.

Guida all’analisi
Il proemio: una nozione edonistico-consolatoria dell’arte Nel Proemio Boccaccio definisce con chiarezza gli
scopi che si prefigge di raggiungere con il Decameron. Questa pagina ha un indiscutibile va-
lore di dichiarazione di poetica. All’idea pedagogica e morale dell’arte che aveva dominato
nei secoli egemonizzati dalla cultura cristiana, Boccaccio sostituisce qui un’idea appresa
dalla frequentazione dei classici: l’arte e in particolare la letteratura possono avere una fun-
zione edonistico-consolatoria, possono cioè costituire una distrazione, un «alleggiamento»
(sollievo), un «refrigerio» dagli affanni del vivere. Esse procurano infatti alle persone che sof-
frono (e tutti gli esseri umani soffrono) quel «diletto» che discende dalle «sollazzevoli cose»,
dalla narrazione cioè di fatti sia tragici che comici, sia realistici che fantastici, che comunque
hanno la prerogativa di distrarre dalle proprie personali inquietudini. Boccaccio non esclu-
de anche una funzione di utilità morale («utile consiglio potranno pigliare, in quanto po-
tranno cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare»): in ogni ca-
so è chiaro però che non si propone di fornire insegnamenti religiosi ed edificanti come
nella nella letteratura devota, ma modelli di saper vivere mondano.
Le donne pubblico d’elezione L’altro dato importante del Proemio è l’identificazione delle donne (e delle donne
innamorate in particolare) come pubblico d’elezione. A questo risultato Boccaccio giunge
tramite l’affermazione che le donne sono le persone che hanno più bisogno di consolazione,
in quanto per natura e condizione sociale hanno meno alternative pratiche per distrarsi dai
propri affanni. Ma non dobbiamo lasciarci trarre in inganno da questa considerazione, che
pure ha storicamente un fondamento di verità: le donne (innamorate) figurano qui come
persone che hanno una sensibilità acuta e affinata. D’altronde già nella tradizione cortese e
stilnovistica la donna era stata eletta come pubblico privilegiato, in quanto l’esperienza del-
l’amore, che esse simbolicamente incarnavano, era presa come segno distintivo di una supe-
riorità psicologica e morale. Le donne poi, che erano quasi sempre escluse dall’istruzione, si
contrappongono ai dotti, ai letterati. Fingendo di rivolgersi solo a un pubblico femminile, in
realtà Boccaccio pensa a un pubblico reale di donne e uomini sensibili, interessati alla lette-
ratura di intrattenimento e d’immaginazione in volgare, e non distratti dalle occupazioni pra-
tiche (economiche, politiche, civili...) o da più impegnativi interessi culturali e dottrinali.
L’introduzione alla IV giornata: difesa dall’accusa di immoralità Nell’introduzione alla IV giornata Boccaccio
mira soprattutto a difendersi dall’accusa di immoralità della propria opera. Il dato saliente
della sua argomentazione è che l’amore è una forza naturale che non può essere contrastata
in alcun modo: lo dimostra l’esempio profano di Filippo Balducci (è un esempio perché si
inserisce in un discorso argomentativo; ma è profano per il suo significato antiascetico). La
naturalezza stessa dell’amore («naturale affezione», «gli altri e io, che v’amiamo, naturalmente
operiamo») ha il significato preciso di una definizione di valore. Ciò che è naturale non può
essere colpevole.
Un genere e uno stile umilissimi, ma con dignità letteraria Accanto a questa, che è la tesi principale, Boccaccio
pone altre considerazioni: egli si è mosso per piani e valli, ha scelto cioè un genere umile e
«in istilo umilissimo» ha composto le sue novelle. A quanti gli dicono che avrebbe fatto me-
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Duecento e Trecento

glio a stare con le Muse in Parnaso (cioè a scrivere solo opere di più nobile ed elevata ispi-
razione), replica affermando la dignità letteraria di un genere di intrattenimento, realistico
(l’opposizione delle donne alle Muse significa che la sua opera è fondata sulla realtà) e
umile ma non per questo privo di valore estetico. Questo è il senso preciso dell’affermazio-
ne che, scrivendo novelle e ispirandosi alle donne reali, egli «né dal Monte Parnaso, né dal-
le Muse non si allontana quanto molti per aventura si avisano».
La conclusione: verso un’idea dell’autonomia dell’arte La nozione di autonomia dell’arte, l’idea cioè che l’arte
non debba proporsi alcuno scopo pratico se non il valore estetico (la bellezza) è un’idea
moderna. Ma Boccaccio, che pure degli scopi pratici (consolazione degli afflitti, utilità) se li
propone, qui formula alcune osservazioni che ci avvicinano a quest’idea. Particolarmente si-
gnificativa è la difesa dall’accusa di aver usato un linguaggio licenzioso: se ci sono espressio-
ni che possono averla suscitata, «la qualità delle novelle l’hanno richesta» ed egli non avreb-
be potuto scriverle diversamente, pena la mancata realizzazione degli obiettivi estetico (il
realismo, il comico) e pratico (il piacevole intrattenimento) che si era prefisso. Esiste insom-
ma una necessità intrinseca della materia e dell’arte che legittima scelte che potevano appa-
rire al tempo moralmente discutibili. Boccaccio rappresenta la realtà e la rappresentazione
della realtà ha le sue esigenze. Boccaccio in fondo sostiene che l’arte non è automaticamen-
te soggetta alle regole etiche vigenti in altri contesti, che l’arte ha insomma una sua eticità
intrinseca.

n La lieta brigata alla fine


della quinta giornata (xilogra-
fia dall’edizione veneziana del
1504).

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13. Giovanni Boccaccio T 13.3

T 13.3 Il Decameron 1349-1351


Ser Ciappelletto (I,1)
G. Boccaccio Questa è la prima novella del Decameron. Poco prima, nell’Introduzione, i dieci giovani
Il Decameron si sono accordati di raccontare ogni giorno ciascuno una novella, eleggendo un re o
a c. di V. Branca,
Einaudi, Torino 1984 una regina che stabilisse il tema a cui dovevano attenersi i novellatori del giorno. L’uni-
co esente da questa regola, è Dioneo, che narra sempre per ultimo su tema a sua scelta.
Nella prima giornata però, che vede Pampinea come regina della brigata, si stabilisce
che ciascuno racconti la novella che più gli aggrada.
Con questa novella narrata da Panfilo il Boccaccio ci dà immediatamente un saggio
1 morto: da morto. delle novità artistiche e ideologiche presenti nel Decameron e della sua complessità. La
2 Convenevole… è: è novella affronta in modo assai spregiudicato, ma in forma anche problematica e ambi-
opportuno.
3 che ciascheduna… le gua, come vedremo, un tema particolarmente scottante: quello del rapporto tra etica e
dea principio: che a ciascu- fede, e più precisamente – come è detto nella rubrica iniziale – quello della santifica-
na sua impresa dia principio, zione di un mercante malvagio e astuto.
che inizi ciascuna sua im-
presa nel nome di Dio (si
noti il costrutto irregolare: Ser Cepparello con una falsa confessione inganna un santo frate e muorsi; e, essendo stato
ciascheduna… le dea, invece
che a ciascheduna… dea). un pessimo uomo in vita, è morto1 reputato per santo e chiamato San Ciappelletto.
4 io: il narratore è Panfi-
lo. – Convenevole cosa è2, carissime donne, che ciascheduna cosa la quale l’uomo
5 sue... cose: meravi-
gliose imprese di Dio, mani- fa, dallo ammirabile e santo nome di Colui, il quale di tutte fu facitore, le dea prin- 5
festazioni della potenza di cipio3. Per che, dovendo io4 al vostro novellare, sí come primo, dare cominciamen-
Dio.
6 acciò che…si fermi: to, intendo da una delle sue maravigliose cose5 incominciare, acciò che, quella udi-
affinché si consolidi (si fermi) ta, la nostra speranza in Lui, sí come in cosa impermutabile, si fermi6 e sempre sia
la nostra speranza in Lui, che
non è soggetto a mutamenti. da noi il suo nome lodato. Manifesta cosa è che, sí come le cose temporali tutte so-
La stabilità del disegno divi- no transitorie e mortali, cosí in sé e fuor di sé esser7 piene di noia8, d’angoscia e di 10
no, e forse la sua impertur-
babilità di fronte agli eventi fatica e a infiniti pericoli sogiacere; alle quali senza niuno fallo né potremmo noi,
poi narrati, devono essere il che viviamo mescolati in esse e che siamo parte d’esse, durare né ripararci9, se spe-
fondamento di una stabile zial grazia di Dio forza e avvedimento non ci prestasse. La quale a noi e in noi non
speranza in Lui.
7 cosí… esser: così è da credere che per alcun nostro merito discenda, ma dalla sua propria benignità
egualmente in se stesse e mossa e da’ prieghi di coloro impetrata10 che, sí come noi siamo, furon mortali, e 15
nelle loro manifestazioni
esterne sono (costrutto lati- bene i suoi piaceri mentre furono in vita seguendo11 ora con Lui eterni son dive-
neggiante, con l’infinito es- nuti e beati; alli quali noi medesimi, sí come a procuratori informati per esperien-
ser dipendente da Manifesta
cosa è, come poco più avanti za della nostra fragilità, forse non audaci di porgere i prieghi nostri nel cospetto di
sogiacere). tanto giudice, delle cose le quali a noi reputiamo oportune gli porgiamo12. E ancor
8 noia: fastidio, dolore.
9 alle quali... ripararci: piú in Lui, verso noi di pietosa liberalità pieno, discerniamo, che, non potendo l’a- 20
alle quali senza alcun dub- cume dell’occhio mortale nel segreto della divina mente trapassare in alcun modo,
bio (fallo) noi non potrem- avvien forse tal volta che, da oppinione ingannati, tale dinanzi alla sua maestà fac-
mo… resistere, né potrem-
mo evitarle (altro costrutto ciamo procuratore che da quella con eterno essilio è iscacciato13: e nondimeno Es-
irregolare: ripararci dovrebbe so, al quale niuna cosa è occulta, piú alla purità del pregator riguardando che alla
dipendere da un dalle quali).
10 da prieghi… impe- sua ignoranza o allo essilio del pregato, cosí come se quegli fosse nel suo cospetto 25
trata: ottenuta dalle pre- beato, essaudisce coloro che ’l priegano14. Il che manifestamente potrà apparire
ghiere di coloro (i santi).
11 e bene…seguendo: e nella novella la quale di raccontare intendo: manifestamente, dico, non il giudicio
seguendo, mente furono vi- di Dio ma quel degli uomini seguitando15.
vi, i suoi comandamenti.
12 alli quali… porgia - Ragionasi16 adunque che essendo Musciatto Franzesi di ricchissimo e gran mer-
mo: ai quali rivolgiamo le
nostre preghiere (gli = li, i
prieghi) per le cose che ci ne- grande (ancor più) noi di- noi, ingannati da una falsa ra, che non la sua ignoranza concetto presente anche in
cessitano (delle cose oportune), scerniamo in Lui, che è così opinione, ci rivolgiamo co- o la malvagità di colui che è Dante).
come ad intermediari (pro- generoso verso di noi: (di- me intermediario presso di pregato.Le preghiere rivolte 15 non il giudicio…se-
curatori)… non avendo forse scerniamo) che, non poten- Lui ad uno che invece è a santi solo presunti sono guitando: basandosi sul
il coraggio di rivolgerle di- do il nostro occhio mortale dannato . talvolta esaudite da Dio per giudizio umano, non su
rettamente a Dio. in alcun modo penetrare nei 14 più… priegato: consi- la purezza di chi prega, più quello divino:cioè per quel-
13 E ancor più…iscac- segreti della mente divina, derando più la purezza di che per l’effettiva santità di lo che l’uomo può sapere.
ciato: e qualcosa di più forse talvolta (accade che) colui che rivolge la preghie- chi viene invocato (è un 16 Ragionasi: si narra.

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Duecento e Trecento

17 essendo Musciatto… catante in Francia cavalier divenuto e dovendone in Toscana venire con messer 30
pensò… commettere: Mu-
sciatto Franzesi, ricchissimo Carlo Senzaterra, fratello del re di Francia, da papa Bonifazio addomandato e al ve-
mercante, essendo stato no- nir promosso, sentendo egli li fatti suoi, sí come le piú volte son quegli de’ merca-
minato cavaliere dal re di tanti, molto intralciati in qua e in là e non potersi di leggiere né subitamente stral-
Francia e dovendo accom-
pagnare Carlo diValois (Car- ciare, pensò quegli commettere17 a piú persone e a tutti trovò modo: fuor sola-
lo Senzaterra) a Roma dal pa- mente in dubbio gli rimase cui lasciar potesse sofficiente a riscuoter suoi crediti 35
pa BonifacioVIII che l’aveva
richiesto e sollecitato (al ve- fatti a piú borgognoni18. E la cagione del dubbio era il sentire li borgognoni uo-
nir promosso), sapendo che i mini riottosi e di mala condizione e misleali19; e a lui non andava per la memoria
suoi affari erano assi intricati
e che non si sarebbero potuti chi tanto malvagio uom fosse, in cui egli potesse alcuna fidanza20 avere, che op-
agevolmente e rapidamente porre alla loro malvagità si potesse. E sopra questa essaminazione pensando lunga-
sbrogliare (cioè prima della
sua partenza), pensò di affi- mente stato21, gli venne a memoria un ser Cepparello22 da Prato, il quale molto al- 40
darli… Musciatto Franzesi è la sua casa in Parigi si riparava23; il quale, per ciò che piccolo di persona era e mol-
un banchiere toscano attivo to assettatuzzo24, non sappiendo li franceschi che si volesse dir Cepparello, creden-
in Francia e consigliere di
Filippo il Bello che indusse do che ‘cappello’, cioè ‘ghirlanda’25 secondo il lor volgare a dir venisse, per ciò che
«a falsificare moneta e a raz- piccolo era come dicemmo, non Ciappello ma Ciappelletto il chiamavano: e per
ziare i mercanti italiani»
(Branca), e da cui fu nomi- Ciappelletto era conosciuto per tutto, là dove pochi per ser Cepperello il cono- 45
nato cavaliere. scieno.
18 fuor…borgognoni:
gli rimase solo il dubbio su Era questo Ciappelletto di questa vita: egli, essendo notaio, avea grandissima ver-
chi potesse essere idoneo a gogna quando uno de’ suoi strumenti26, come che27 pochi ne facesse, fosse altro
riscuotere certi suoi crediti
presso dei borgognoni (abi- che falso trovato28; de’ quali29 tanti avrebbe fatti di quanti fosse stato richesto, e
tanti della Borgogna, perso- quegli piú volentieri in dono che alcuno altro grandemente salariato30. Testimo- 50
ne difficili da trattare, come nianze false con sommo diletto diceva, richesto e non richesto; e dandosi a quei
spiega subito dopo).
19 riottosi… misleali: tempi in Francia a’ saramenti31 grandissima fede, non curandosi fargli falsi, tante
«litigiosi e di malvagia indo- quistioni malvagiamente vincea a quante a giurare di dire il vero sopra la sua fede
le (morale) e sleali, falsi»
(Branca). era chiamato. Aveva oltre modo piacere, e forte vi studiava32, in commettere33 tra
20 fidanza: fiducia. amici e parenti e qualunque altra persona mali e inimicizie e scandali34, de’ quali 55
21 E sopra… stato: ed es-
sendo stato a lungo a com- quanto maggiori mali vedeva seguire tanto piú d’allegrezza prendea. Invitato a
piere questa indagine (si no- uno omicidio o a qualunque altra rea cosa, senza negarlo mai, volenterosamente
ti il costrutto latineggiante
con il verbo in fine). v’andava, e piú volte a fedire35 e a uccidere uomini con le proprie mani si ritrovò
22 ser Cepparello: Boc- volentieri. Bestemmiatore di Dio e de’ Santi era grandissimo, e per ogni piccola
caccio si ispira assai libera- cosa, sí come colui che piú che alcuno altro era iracundo. A chiesa non usava 60
mente a un personaggio
storico che ebbe questo no- giammai36, e i sacramenti di quella tutti come vil cosa con abominevoli parole
me e fu effettivamente in re- scherniva; e cosí in contrario le taverne e gli altri disonesti luoghi visitava volentie-
lazione con Musciatto
Franzesi: il personaggio sto- ri e usavagli. Delle femine era cosí vago come sono i cani de’ bastoni; del contra-
rico però «non era notaio, rio37 piú che alcuno altro tristo uomo si dilettava. Imbolato avrebbe e rubato con
era ammogliato e aveva figli,
era ancor vivo, a Prato, nel quella coscienza che un santo uomo offerrebbe38. Gulosissimo e bevitor grande, 65
1304» (Branca). tanto che alcuna volta sconciamente gli facea noia. Giucatore e mettitore di mal-
23 molto… riparava: fre-
quentava spesso la sua casa di vagi dadi era solenne39. Perché mi distendo io in tante parole? egli era il piggiore
Parigi. uomo forse che mai nascesse. La cui malizia lungo tempo sostenne la potenzia e lo
24 assettatuzzo: assai cu-
rato nel vestire, d’una ele-
stato40 di messer Musciatto, per cui molte volte e dalle private persone, alle quali
ganza affettata. Si noti il di-
minutivo pertinente alla
modesta statura del perso- 28 fosse… trovato: nava. na perbene avrebbe fatto mento”, che è centrale alla
naggio e congruente con i (avrebbe provato vergogna 33 commettere: suscitare. un’elemosina (offerrebbe). novella, e il suo linguaggio
successivi diminutivi (Ciap- qualora) fosse stato trovato 34 scandali: litigi. 39 Giucatore… solenne: antifrastico che trionfano
pelletto), ma forse malizioso veritiero, conforme alle 35 fedire: ferire. Era un grandissimo (solenne) coerentemente nella con-
(e comico) a cospetto del- leggi (altro che falso). 36 A chiesa… giammai: giocatore d’azzardo e baro clusione».
l’enormità dei suoi vizi, che 29 de’ quali: cioè di atti non frequentava mai le (truccando i dadi). Solenne, 40 sostenne… stato: fu
verranno presto enumerati. falsi. chiese. nota il Branca, è l’«ultimo di sostenuta e protetta dalla
25 ‘cappello’, cioè ‘ghir- 30 che alcuno altro… sa- 37 del contrario: di rela- quegli aggettivi – o espres- potenza e dal prestigio so-
landa’: chapel in francese lariato: piuttosto che uno zioni omosessuali. sioni – usati di solito in senso ciale (com’è chiaro conte-
(come del resto anche cap- veritiero grandemente com- 38 Imbolato… offerreb- positivo e qui stravolti in ne- stualmente, nel testo poten-
pello in italiano antico) si- pensato. be: avrebbe sottratto con gativo di cui è punteggiato zia e stato sono soggetti, ma-
gnificava ghirlanda. 31 saramenti:giuramenti. astuzia (imbolato) o rapinato questo ritratto. Il quale in- lizia è compl. oggetto; il ver-
26 strumenti: atti notarili. 32 e forte vi studiava: e (rubato) con quella serenità troduce così proprio il gran- bo sostenne concorda con
27 come che: benché. intensamente vi si appassio- d’animo con cui una perso- de tema dello “stravolgi- uno solo dei due soggetti).
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13. Giovanni Boccaccio T 13.3

41 per cui… riguardato: assai sovente faceva iniuria, e dalla corte, a cui tuttavia la facea, fu riguardato41. 70
grazie a Musciatto spesso fu
risparmiato (riguardato) tan- Venuto adunque questo ser Cepparello nell’animo a messer Musciatto, il quale
to dai privati, cui assai spesso ottimamente la sua vita conosceva, si pensò il detto messer Musciatto costui dove-
arrecava offese, quanto dalla re esser tale quale la malvagità de’ borgognoni il richiedea; e perciò, fattolsi chia-
giustizia, con cui non si
comportava diversamente. mare, gli disse cosí: «Ser Ciappelletto, come tu sai, io sono per ritrarmi del tutto di
42 non so…di te: non co-
qui: e avendo tra gli altri a fare co’ borgognoni, uomini pieni d’inganni, non so cui 75
nosco persona più adatta di
te a cui affidare il compito di io mi possa lasciare a riscuotere il mio da loro piú convenevole di te42. E perciò,
(lasciare a) riscuotere da loro con ciò sia cosa che tu niente facci al presente, ove a questo vogli intendere, io in-
i miei crediti.
43 E perciò… sia: perciò, tendo di farti avere il favore della corte e di donarti quella parte di ciò che tu ri-
dato che al momento tu non scoterai che convenevole sia43».
hai altri impegni, qualora tu
accetti (vogli intendere, voglia Ser Ciappelletto, che scioperato si vedea e male agiato delle cose del mondo44 e 80
occuparti di) questo incari- lui ne vedeva andare che suo sostegno e ritegno era lungamente stato45, senza niu-
co, io ho intenzione di farti no indugio e quasi da necessità costretto si diliberò46, e disse che volea volentieri.
avere il favore della corte
reale e di darti un’adeguata Per che, convenutisi insieme, ricevuta ser Ciappelletto la procura e le lettere favo-
(convenevole) percentuale di revoli del re, partitosi messer Musciatto, n’andò in Borgogna dove quasi niuno il
quanto riscuoterai.
44 scioperato… mondo: conoscea: e quivi fuori di sua natura47 benignamente e mansuetamente cominciò a 85
sapeva di essere disoccupato voler riscuotere e fare quello per che andato v’era, quasi si riserbasse l’adirarsi al da
e in cattive condizioni eco-
nomiche. sezzo48.
e lui… stato: e vedeva al- E cosí facendo, riparandosi in casa di due fratelli fiorentini, li quali quivi a usura
lontanarsi colui che era stato
a lungo suo sostegno e pro- prestavano e lui per amor di messer Musciatto onoravano molto, avvenne che egli
tezione. infermò49. Al quale i due fratelli fecero prestamente venir medici e fanti che il ser- 90
46 si diliberò: prese una
decisione.
vissero e ogni cosa oportuna alla sua santà racquistare50. Ma ogni aiuto era nullo,
47 fuori di sua natura: per ciò che il buono uomo, il quale già era vecchio e disordinatamente vivuto, se-
contrariamente alle sue abi- condo che i medici dicevano, andava di giorno in giorno di male in peggio come
tudini.
48 al da sezzo: in ultimo, colui che aveva il male della morte; di che li due fratelli si dolevan forte.
in caso di estrema necessità. E un giorno, assai vicini della camera nella quale ser Ciappelletto giaceva infer- 95
49 infermò: si ammalò.
50 alla… racquistare: per mo, seco medesimo51 cominciarono a ragionare. «Che farem noi» diceva l’uno al-
fargli riacquistare la salute. l’altro «di costui? Noi abbiamo de’ fatti suoi pessimo partito alle mani52: per ciò
51 seco medesimo: fra
loro. che il mandarlo fuori di casa nostra cosí infermo ne sarebbe gran biasimo e segno
52 Noi… mani: ci trovia- manifesto di poco senno, veggendo la gente che noi l’avessimo ricevuto prima e
mo a pessimo partito, in poi fatto servire e medicare cosí sollecitamente, e ora, senza potere egli aver fatta 100
una difficile situazione per
causa sua. cosa alcuna che dispiacer ci debbia, cosí subitamente di casa nostra e infermo a
53 vederlo mandar fuo -
morte vederlo mandar fuori53. D’altra parte, egli è stato sí malvagio uomo, che egli
ri: se la gente vedesse che
noi, dopo averlo ricevuto non si vorrà confessare né prendere alcuno sagramento della Chiesa; e, morendo
ecc., ora lo cacciamo di casa senza confessione, niuna chiesa vorrà il suo corpo ricevere, anzi sarà gittato a’ fossi
infermo ecc. Il costrutto è
irregolare (anacoluto) in a guisa d’un cane. E, se egli si pur confessa, i peccati suoi son tanti e sí orribili, che 105
quanto vederlo mandar fuori il simigliante n’averrà54, per ciò che frate né prete ci sarà che ’l voglia né possa as-
non è congruente con veg-
gendo la gente che noi, da cui solvere: per che, non assoluto, anche sarà gittato a’ fossi55. E se questo avviene, il
dovrebbe dipendere. popolo di questa terra, il quale sí per lo mestier nostro, il quale loro pare iniquissi-
54 il simigliante n’a-
verrà: accadrà la stessa cosa,
mo e tutto il giorno ne dicon male, e sí per la volontà che hanno di rubarci, veg-
sarà lo stesso un guaio. gendo ciò si leverà a romore56 e griderà: ‘Questi lombardi cani,’ li quali a chiesa 110
55 non assoluto… a’ fos- non sono voluti ricevere, non ci si voglion piú sostenere57; e correrannoci alle case
si: non essendo stato assolto,
sarà egualmente (anche) e per avventura non solamente l’avere ci ruberanno ma forse ci torranno oltre a
gettato nei fossi, non sarà ciò le persone58: di che noi in ogni guisa59 stiam male se costui muore».
cioè sepolto in terra consa-
crata, come accadeva agli Ser Ciappelletto, il quale, come dicemmo, presso giacea là dove costoro cosí ra-
eretici, agli scomunicati e gionavano, avendo l’udire sottile, sí come le piú volte veggiamo aver gl’infermi, udì 115
agli usurai.
56 si leverà a romore: ciò che costoro di lui dicevano; li quali egli si fece chiamare e disse loro: «Io non
creerà dei tumulti.
57 Questi lombardi…
sostenere: questi cani di dobbiamo più tollerarli qui nale della penisola,Toscana accompagnava spesso il di- Lombard street» (Branca).
lombardi, che non vengo- (ci). «Lombardi erano chia- inclusa (Pg XVI 125-126): spregiativo di ‘chien’. An- 58 le persone: la vita.

no accolti in chiesa, non mati in Francia tutti gli ita- e ‘lombardo’ era sinonimo cor oggi a Parigi esiste rue 59 in ogni guisa: in ogni
liani della parte settentrio- di prestatore e usuraio, cui si des Lombards e a Londra modo.

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Duecento e Trecento

60 d’alcuna… dubitiate: voglio che voi d’alcuna cosa di me dubitiate60 né abbiate paura di ricevere per me
non abbiate timore di nulla
per causa mia. alcun danno. Io ho inteso ciò che di me ragionato avete e son certissimo che cosí
61 dove… avvisate: qua- n’averrebbe come voi dite, dove cosí andasse la bisogna come avvisate61: ma ella
lora la faccenda andasse co- andrà altramenti. Io ho, vivendo, tante ingiurie fatte a Domenedio, che, per farne- 120
me voi pensate.
62 né piú né meno ne farà: gli io una ora in su la mia morte, né piú né meno ne farà62; e per ciò procacciate di
non ne terrà maggior conto, farmi venire un santo e valente frate, il piú63 che aver potete, se alcun ce n’è; e la-
non ci baderà neppure: in-
somma, un’ultima offesa a sciate fare a me, ché fermamente64 io acconcerò i fatti vostri e’ miei in maniera che
Dio non muterebbe gran- starà bene e che dovrete esser contenti».
ché l’oneroso computo del-
le cattive azioni di Ciappel- I due fratelli, come che molta speranza non prendessono di questo65, nondimeno 125
letto. se n’andarono a una religione66 di frati e domandarono alcuno santo e savio uomo
63 il piú: il più santo e va-
lente.
che udisse la confessione d’un lombardo che in casa loro era infermo; e fu lor da-
64 fermamente: certa- to un frate antico67 di santa e di buona vita e gran maestro in Iscrittura e molto ve-
mente, senza dubbio. nerabile uomo, nel quale tutti i cittadini grandissima e speziale divozione aveano, e
65 come che… di que-
sto: benché non ci sperasse- lui menarono68. Il quale, giunto nella camera dove ser Ciappelletto giacea e allato 130
ro molto. postoglisi a sedere, prima benignamente il cominciò a confortare, e appresso il do-
66 religione: convento.
67 antico: anziano. mandò quanto tempo era che egli altra volta confessato si fosse.
68 lui menarono: lo con- Al quale ser Ciappelletto, che mai confessato non s’era, rispose: «Padre mio, la
dussero da Ciappelletto.
69 assai sono di quelle
mia usanza suole essere di confessarsi ogni settimana almeno una volta, senza che
che: sono molte le settima- assai sono di quelle che69 io mi confesso piú; è il vero che poi che io infermai, che 135
ne in cui. son passati da otto dí, io non mi confessai tanta è stata la noia che la infermità m’ha
70 per innanzi: d’ora in
avanti. data».
71 poi: poiché. Disse allora il frate: «Figliuol mio, bene hai fatto, e cosí si vuol fare per innanzi70;
72 Messer lo frate: appel-
lativo di riguardo, coerente e veggio che, poi71 sí spesso ti confessi, poca fatica avrò d’udire o di dimandare».
con il voi adottato da Ciap- Disse ser Ciappelletto: «Messer lo frate72, non dite cosí: io non mi confessai mai 140
pelletto; il frate invece si ri-
volge al penitente in forma tante volte né sí spesso, che io sempre non mi volessi confessare generalmente73 di
familiare e paterna. tutti i miei peccati che io mi ricordassi dal dí che io nacqui infino a quello che
73 confessare general-
mente: è la «confessione ge-
confessato mi sono; e per ciò vi priego, padre mio buono, che cosí puntualmente
nerale» prevista dalla Chiesa, d’ogni cosa mi domandiate come se mai confessato non mi fossi; e non mi riguar-
che comporta la confessio- date perché io infermo sia, ché io amo molto meglio di dispiacere a queste mie 145
ne di tutti i peccati dalla na-
scita in poi. carni che, faccendo agio loro, io facessi74 cosa che potesse essere perdizione dell’a-
74 ché io… facessi: giac- nima mia, la quale il mio Salvatore ricomperò col suo prezioso sangue75».
ché io preferisco infliggere
una sofferenza a queste mie Queste parole piacquero molto al santo uomo e parvongli argomento di bene
carni, piuttosto che, avendo disposta mente76: e poi che a ser Ciappelletto ebbe molto commendato77 questa
loro riguardo, io commet- sua usanza, il cominciò a domandare se egli mai in lussuria78 con alcuna femina 150
tessi…
75 la quale… sangue: tra- peccato avesse.
duzione di un versetto del Te Al quale ser Ciappelletto sospirando rispose: «Padre mio, di questa parte mi ver-
Deum, che connota in Ciap-
pelletto una compunzione gogno io di dirvene il vero temendo di non peccare in vanagloria».
«leggermente untuosa» Al quale il santo frate disse: «Dí sicuramente, ché il vero dicendo né in confes-
(Momigliano), essenziale
per lo sviluppo della novella. sione né in altro atto si peccò giammai». 155
76 parvongli… mente: Disse allora ser Ciappelletto: «Poiché voi di questo mi fate sicuro, e io il vi dirò:
gli parvero indizio di un
animo disposto al bene. io son cosí vergine come io usci’ dal corpo della mamma mia».
77 commendato: appro- «Oh, benedetto sie tu da Dio! » disse il frate «come bene hai fatto! e, faccendo-
vato, lodato. lo, hai tanto piú meritato, quanto, volendo, avevi piú d’albitrio di fare il contrario
78 in lussuria: «Incomin-
cia la confessione che con che non abbiam noi e qualunque altri son quegli che sotto alcuna regola son con- 160
ordine si volge prima ai stretti79».
peccati di incontinenza
(accidia, lussuria, gola, ava- E appresso questo il domandò se nel peccato della gola aveva a Dio dispiaciuto.
rizia, ira: trascurate superbia Al quale, sospirando forte, ser Ciappelletto rispose di sí e molte volte; per ciò che,
e invidia come meno facili
alla qualità del confessato), con ciò fosse cosa che egli, oltre alli digiuni delle quaresime80 che nell’anno si fan-
poi a quelli di malizia»
(Branca). quel vizio di quanta non ne ad alcuna regola religiosa o indica non solo la Quaresi- riodi di digiuno scelti libe-
79 avevi… constretti : tu abbiamo noi (frati) e tutti monastica. ma in preparazione della ramente dai fedeli o impo-
avevi più libertà di darti a quelli che sono sottoposti 80 quaresime: il plurale Pasqua, ma anche altri pe- sti dalla Chiesa.

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13. Giovanni Boccaccio T 13.3

81 quando… adorando: no dalle divote persone, ogni settimana almeno tre dí fosse uso di digiunare in pa- 165
quando avesse sopportato
(durato) alcuna fatica o pre- ne e in acqua, con quello diletto e con quello appetito l’acqua bevuta aveva, e spe-
gando o… zialmente quando avesse alcuna fatica durata o adorando81 o andando in pellegri-
82 insalatuzze d’erbuc-
ce: il doppio diminutivo,
naggio, che fanno i gran bevitori il vino; e molte volte aveva disiderato d’avere co-
mostrando come oggetto tali insalatuzze d’erbucce82, come le donne fanno quando vanno in villa83, e alcuna
del desiderio un cibo mo- volta gli era paruto migliore il mangiare che non pareva a lui che dovesse parere a 170
desto per qualità e quantità,
mira ad enfatizzare la mo- chi digiuna per divozione, come digiunava egli84.
derazione di Ciappelletto Al quale il frate disse: «Figliuol mio, questi peccati sono naturali e sono assai leg-
(qui si riferiscono le parole
del protagonista, che, in- gieri, e per ciò io non voglio che tu ne gravi piú la coscienza tua che bisogni. A
tenzionalmente mostran- ogni uomo avviene, quantunque santissimo sia, il parergli dopo lungo digiuno
dosi contrito per dei pecca- buono il manicare85 e dopo la fatica il bere». 175
ti insignificanti, vuol crear-
si, agli occhi del frate, un «Oh!» disse ser Ciappelletto «padre mio, non mi dite questo per confortarmi:
alone di santità). ben sapete che io so che le cose che al servigio di Dio si fanno, si deono fare tutte
83 in villa: in campagna.
84 alcuna volta… egli: nettamente e senza alcuna ruggine d’animo86: e chiunque altramenti fa, pecca».
talora il cibo gli era parso Il frate contentissimo disse: «E io son contento che cosí ti cappia nell’animo87 e
migliore di quanto egli ri-
teneva dovesse apparire a piacemi forte la tua pura e buona conscienza in ciò. Ma dimmi: in avarizia hai tu 180
chi digiuna per devozione, peccato disiderando piú che il convenevole o tenendo quello che tu tener non do-
come faceva lui. «La ripeti-
zione di parere (tre volte) e vesti?»
di digiunare è una di quelle Al quale ser Ciappelletto disse: «Padre mio, io non vorrei che voi guardasti88 per-
sottigliezze linguistiche cui ché io sia in casa di questi usurieri: io non ci ho a far nulla89, anzi ci era venuto per
il B. ricorre spesso per
esprimere situazioni inte- dovergli ammonire e gastigare e torgli90 da questo abominevole guadagno; e credo 185
riori (qui la untuosa com- mi sarebbe venuto fatto, se Idio non m’avesse cosí visitato91. Ma voi dovete sapere
plicatezza dell’ipocrita)»
(Branca). che mio padre mi lasciò ricco uomo, del cui avere, come egli fu morto, diedi la
85 manicare: mangiare maggior parte per Dio92; e poi, per sostentar la vita mia e per potere aiutare i po-
86 senza… animo: senza
alcuna macchia, senza alcu- veri di Cristo, ho fatte mie piccole mercatantie93 e in quelle ho disiderato di gua-
na intima riserva. Ruggine dagnare. E sempre co’ poveri di Dio, quello che guadagnato ho, ho partito per 190
«indica molto bene ciò che mezzo94, la mia metà convertendo ne’ miei bisogni, l’altra metà dando loro: e di ciò
toglie lo splendore all’ani-
ma che opera in servizio di m’ha sí bene il mio Creatore aiutato, che io ho sempre di bene in meglio fatti i fat-
Dio» (Momigliano). ti miei».
87 ti cappia nell’animo:
tu provi questi sentimenti «Bene hai fatto:» disse il frate «ma come ti se’ tu spesso adirato95?»
(lett.: ciò stia dentro al tuo «Oh!» disse ser Ciappelletto «cotesto vi dico io bene che io ho molto spesso fat- 195
animo).
88 guardasti: sospettaste. to; e chi se ne potrebbe tenere, veggendo tutto il dí gli uomini fare le sconce cose,
89 io non… nulla: io non non servare i comandamenti di Dio, non temere i suoi giudicii96? Egli sono state
ho nulla a che fare con loro. assai volte il dí97 che io vorrei piú tosto essere stato morto che vivo, veggendo i
90 gastigare e torgli:
rimproverare e distoglierli. giovani andar dietro alle vanità e udendogli giurare e spergiurare, andare alle taver-
91 se Idio… visitato: se
ne, non visitar le chiese e seguir piú tosto le vie del mondo che quella di Dio». 200
Dio non mi avesse mostra-
to la sua potenza, facendo- Disse allora il frate: «Figliuol mio, cotesta è buona ira, né io per me te ne saprei
mi ammalare. Il termine vi- penitenza imporre; ma per alcun caso avrebbeti l’ira potuto inducere a fare alcuno
sitare in questa accezione è
tipica del linguaggio devo- omicidio o a dire villania a persona o a fare alcuna altra ingiuria?»
to. A cui ser Ciappelletto rispose: «Oimè, messere, o voi98 mi parete uomo di Dio:
92 per Dio: in elemosine,
per amor di Dio. come dite voi coteste parole? o s’io99 avessi avuto pure un pensieruzzo di fare 205
93 mercatantie: affari. qualunque s’è l’una delle cose che voi dite, credete voi che io creda che Idio m’a-
94 ho partito per mezzo:
ho diviso a metà.
vesse tanto sostenuto?100 Coteste son cose da farle gli scherani e i rei uomini, de’
95 come… adirato: quali qualunque ora io n’ho mai veduto alcuno, sempre ho detto101: ‘Va, che Idio
quanto spesso, quante volte ti converta’».
ti sei adirato.
96 giudicii: castighi. Allora disse il frate: «Or mi dí, figliuol mio, che benedetto sie tu da Dio: hai tu 210
97 Egli… il dí: capita più mai testimonianza niuna falsa detta contra alcuno o detto male d’altrui o tolte del-
volte al giorno.
98 voi: eppure voi. «Uso l’altrui cose senza piacere di colui di cui sono?»
fiorentino, popolare dell’o
esclamativo» (Branca). l’interrogazione dubitati- to?: che Dio l’avrebbe così a ste sono cose che fanno i ta che ne ho incontrato uno
99 s’io: se io. «Altro uso va» (Branca). lungo tollerato? malandrini e gli uomini ho detto.
toscano di o per introdurre 100 che Idio… sostenu- 101 Coteste… detto: que- malvagi, dei quali ogni vol-

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Duecento e Trecento

102 Mai messer sì: certo «Mai messer sí102,» rispose ser Ciappelletto «che io ho detto male d’altrui; per ciò
che sí.
103 al maggior… mon- che io ebbi già un mio vicino che, al maggior torto del mondo103, non faceva altro
do: facendo il maggior torto che batter la moglie, sí che io dissi una volta male di lui alli parenti della moglie, sí 215
che sia al mondo. gran pietà mi venne di quella cattivella104, la quale egli, ogni volta che bevuto avea
104 cattivella: poveretta.
105 Gnaffé: in fede mia, troppo, conciava come Dio vel dica».
antica interiezione toscana. Disse allora il frate: «Or bene, tu mi di’ che se’ stato mercatante: ingannasti tu mai
106 annoverare: contarli.
107 ivi… mese: un mese persona cosí come fanno i mercatanti?»
più tardi. «Gnaffé105,» disse ser Ciappelletto «messer sí, ma io non so chi egli si fu: se non 220
108 piccioli: monete di
scarso valore. che, uno avendomi recati denari che egli mi doveva dare di panno che io gli avea
109 un sabato dopo nona: venduto e io messigli in una mia cassa senza annoverare106, ivi bene a un mese107
un sabato pomeriggio,dopo
l’ora di nona (circa le tre), trovai ch’egli erano quatro piccioli108 piú che esser non doveano; per che, non ri-
subito prima del vespro. Il vedendo colui e avendogli serbati bene uno anno per rendergliele, io gli diedi per
riposo festivo partiva dal ve- l’amor di Dio». 225
spro del sabato e durava sino
al vespro della domenica. Disse il frate: «Cotesta fu piccola cosa, e facesti bene a farne quello che ne face-
Ser Ciappelletto si dimostra sti».
insomma a tal punto zelante
da considerare un peccato E, oltre a questo, il domandò il santo frate di molte altre cose, delle quali di tutte
l’aver fatto lavorare un servo rispose a questo modo; e volendo egli già procedere alla absoluzione, disse ser
nell’ora immediatamente
precedente l’inizio del ripo- Ciappelletto: «Messere, io ho ancora alcun peccato che io non v’ho detto». 230
so festivo, «in un’ora cioè Il frate il domandò quale; e egli disse: «Io mi ricordo che io feci al fante mio, un
che considerava già sacra
per la vicinanza alla festività» sabato dopo nona109, spazzare la casa e non ebbi alla santa domenica quella reve-
(Branca). La giornata era di- renza che io dovea».
visa in quattro parti (terza, «Oh!» disse il frate «figliuol mio, cotesta è leggier cosa».
sesta, nona, vespro) di circa
tre ore ciascuna (a seconda «Non,» disse ser Ciappelletto «non dite leggier cosa, ché la domenica è troppo 235
della stagione), dal sorgere da onorare, però che in cosí fatto dí risuscitò da morte a vita il nostro Signore».
del sole sino al tramonto.
110 Va via: suvvia. Disse allora il frate: «O, altro hai tu fatto?»
111 mentre che: fintanto «Messer sí,» rispose ser Ciappelletto «ché io, non avvedendomene, sputai una
che.
112 confessandogli… li- volta nella chiesa di Dio».
beramente: qualora egli li Il frate cominciò a sorridere e disse: «Figliuol mio, cotesta non è cosa da curarse- 240
confessasse, Dio glieli per-
donerebbe volentieri. ne: noi, che siamo religiosi, tutto il dí vi sputiamo».
113 e egli: egli (l’e paraipo- Disse allora ser Ciappelletto: «E voi fate gran villania, per ciò che niuna cosa si
tattico è pleonastico). convien tener netta come il santo tempio, nel quale si rende sacrificio a Dio».
E in brieve de’ cosí fatti ne gli disse molti; e ultimamente cominciò a sospirare e
appresso a piagner forte, come colui che il sapeva troppo ben fare quando volea. 245
Disse il santo frate: «Figliuol mio, che hai tu?»
Rispose ser Ciappelletto: «Oimè, messere, ché un peccato m’è rimaso, del quale
io non mi confessai mai, sí gran vergogna ho di doverlo dire; e ogni volta che io
me ne ricordo piango come voi vedete, e parmi esser molto certo che Idio mai
non avrà misericordia di me per questo peccato». 250
Allora il santo frate disse: «Va via110, figliuolo, che è ciò che tu di’? Se tutti i pec-
cati che furon mai fatti da tutti gli uomini, o che si debbon fare da tutti gli uomi-
ni mentre che111 il mondo durerà, fosser tutti in uno uom solo, e egli ne fosse pen-
tuto e contrito come io veggio te, sí è tanta la benignità e la misericordia di Dio,
che, confessandogli egli, gliele perdonerebbe liberamente112: e per ciò dillo sicura- 255
mente».
Disse allora ser Ciappelletto sempre piagnendo forte: «Oimè, padre mio, il mio è
troppo gran peccato, e appena posso credere, se i vostri prieghi non ci si adopera-
no, che egli mi debba mai da Dio esser perdonato».
A cui il frate disse: «Dillo sicuramente, ché io ti prometto di pregare Idio per te». 260
Ser Ciappelletto pur piagnea e nol dicea, e il frate pure il confortava a dire; ma
poi che ser Ciappelletto piagnendo ebbe un grandissimo pezzo tenuto il frate cosí
sospeso, e egli113 gittò un gran sospiro e disse: «Padre mio, poscia che voi mi pro-
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13. Giovanni Boccaccio T 13.3

114 bestemmiai: maledis- mettete di pregare Idio per me, e io il vi dirò: sappiate che, quando io era piccoli-
si, insultai.
115 la mamma… cento no, io bestemmiai114 una volta la mamma mia». E cosí detto rincominciò a piagner 265
volte: «alla finzione della forte.
pietà religiosa con la fre- Disse il frate: «O figliuol mio, or parti questo cosí gran peccato? o gli uomini be-
quente mimesi del linguag-
gio devoto si aggiunge – stemmiano tutto il giorno Idio, e sí perdona Egli volentieri a chi si pente d’averlo
dulcis in fundo…– la finzione bestemmiato; e tu non credi che Egli perdoni a te questo? Non piagner, conforta-
della pietà filiale con le ade-
guate modalità linguistiche ti, ché fermamente, se tu fossi stato un di quegli che il posero in croce, avendo la 270
(«la mamma mia dolce… contrizione che io ti veggio, sí ti perdonerebbe Egli».
portò in corpo… portom-
mi in collo»)» (Guglielmi- Disse allora ser Ciappelletto: «Oimè, padre mio, che dite voi? la mamma mia
no). dolce, che mi portò in corpo nove mesi il dí e la notte e portommi in collo piú di
116 avendolo per: giudi-
candolo. cento volte115! troppo feci male a bestemmiarla e troppo è gran peccato; e se voi
117 in caso di morte: in non pregate Idio per me, egli non mi serà perdonato». 275
punto di morte. Veggendo il frate non essere altro restato a dire a ser Ciappelletto, gli fece l’abso-
118 voi: «il frate passa dal tu
usato nella confessione, co- luzione e diedegli la sua benedizione, avendolo per116 santissimo uomo, sí come
me da padre a figlio,al voi per colui che pienamente credeva esser vero ciò che ser Ciappelletto avea detto: e chi
rispetto a chi considera or-
mai “santissimo uomo”» sarebbe colui che nol credesse, veggendo uno uomo in caso di morte117 dir cosí?
(Branca). E poi, dopo tutto questo, gli disse: «Ser Ciappelletto, con l’aiuto di Dio voi118 sa- 280
119 piacevi… luogo?:siete
contento che il vostro cor- rete tosto sano; ma se pure avvenisse che Idio la vostra benedetta e ben disposta
po sia sepolto nel nostro anima chiamasse a sé, piacevi egli che ’l vostro corpo sia seppellito al nostro luo-
convento?
120 senza che: senza con- go?119»
tare che. Al quale ser Ciappelletto rispose: «Messer sí, anzi non vorrei io esser altrove, po-
121 di presente: subito.
122 dubitavan forte non:
scia che voi m’avete promesso di pregare Idio per me: senza che120 io ho avuta 285
assai temevano che. sempre spezial divozione al vostro Ordine. E per ciò vi priego che, come voi al vo-
123 leggiermente: facil-
stro luogo sarete, facciate che a me vegna quel veracissimo corpo di Cristo il qua-
mente.
124 niente del rimaso: di le voi la mattina sopra l’altare consecrate; per ciò che, come che io degno non ne
null’altro. sia, io intendo con la vostra licenzia di prenderlo, e appresso la santa e ultima un-
125 di quello…medesi-
mo: utilizzando i suoi stessi zione, acciò che io, se vivuto son come peccatore, almeno muoia come cristiano». 290
soldi. Il santo uomo disse che molto gli piacea e che egli diceva bene, e farebbe che di
126 a far la vigilia: a fare la
veglia funebre. presente121 gli sarebbe apportato; e cosí fu.
127 fu insieme: si incontrò, Li due fratelli, li quali dubitavan forte122 non ser Ciappelletto gl’ingannasse, s’e-
ebbe un colloquio. rano posti appresso a un tavolato, il quale la camera dove ser Ciappelletto giaceva
128 secondo… avea: per
quanto aveva compreso dal- dividea da un’altra, e ascoltando leggiermente123 udivano e intendevano ciò che 295
la sua confessione. ser Ciappelletto al frate diceva; e aveano alcuna volta sí gran voglia di ridere, uden-
do le cose le quali egli confessava d’aver fatte, che quasi scoppiavano: e fra sé talora
dicevano: «Che uomo è costui, il quale né vecchiezza né infermità né paura di
morte, alla qual si vede vicino, né ancora di Dio, dinanzi al guidicio del quale di
qui a picciola ora s’aspetta di dovere essere, dalla sua malvagità l’hanno potuto ri- 300
muovere, né far che egli cosí non voglia morire come egli è vivuto?» Ma pur ve-
dendo che sí aveva detto che egli sarebbe a sepoltura ricevuto in chiesa, niente del
rimaso124 si curarono.
Ser Ciappelletto poco appresso si comunicò: e peggiorando senza modo ebbe
l’ultima unzione e poco passato vespro, quel dí stesso che la buona confessione fat- 305
ta avea, si morí. Per la qual cosa li due fratelli, ordinato di quello di lui medesimo125
come egli fosse onorevolemente sepellito e mandatolo a dire al luogo de’ frati, e
che essi vi venissero la sera a far la vigilia126 secondo l’usanza e la mattina per lo
corpo, ogni cosa a ciò oportuna dispuosero.
Il santo frate che confessato l’avea, udendo che egli era trapassato, fu insieme127 310
col priore del luogo; e fatto sonare a capitolo, alli frati ragunati in quello mostrò ser
Ciappelletto essere stato santo uomo, secondo che per la sua confessione concepu-
to avea128; e sperando per lui Domenedio dovere molti miracoli dimostrare, per-
suadette loro che con grandissima reverenzia e divozione quello corpo si dovesse
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Duecento e Trecento

129 pieviali: piviali, vesti li- ricevere. Alla qual cosa il priore e gli altri frati creduli s’acordarono: e la sera, anda- 315
turgiche.
130 seguendo: seguiti da ti tutti là dove il corpo di ser Ciappelletto giaceva, sopr’esso fecero una grande e
(costrutto modellato sull’a- solenne vigilia; e la mattina, tutti vestiti co’ camisci e co’ pieviali129, con li libri in
blativo assoluto latino). mano e con le croci innanzi cantando andaron per questo corpo e con grandissima
131 da questo… ripren-
dere: prendendo spunto da festa e solennità il recarono alla lor chiesa, seguendo130 quasi tutto il popolo della
questo per volgersi a rim- città, uomini e donne. E nella chiesa postolo, il santo frate, che confessato l’avea, sa- 320
proverare.
132 fornito: concluso. lito in sul pergamo di lui cominciò e della sua vita, de’ suoi digiuni, della sua virgi-
133 da tutti fu andato: tut- nità, della sua simplicità e innocenzia e santità maravigliose cose a predicare, tra
ti andarono.
134 a adorarlo: a venerarlo l’altre cose narrando quello che ser Ciappelletto per lo suo maggior peccato pian-
e a pregarlo. gendo gli avea confessato, e come esso appena gli avea potuto metter nel capo che
135 a botarsi: a far voti
(implorando la sua interces- Idio gliele dovesse perdonare, da questo volgendosi a riprendere131 il popolo che 325
sione). ascoltava, dicendo: «E voi, maladetti da Dio, per ogni fuscello di paglia che vi si
136 a appiccarvi… cera:
ad apporre gli ex voto di cera
volge tra’ piedi bestemmiate Idio e la Madre e tutta la corte di Paradiso».
attorno alla sua tomba. E oltre a queste, molte altre cose disse della sua lealtà e della sua purità: e in brie-
137 e affermano… a lui: e
ve con le sue parole, alle quali era dalla gente della contrada data intera fede, sí il
affermano che Dio abbia
compiuto molti miracoli mise nel capo e nella divozion di tutti coloro che v’erano, che, poi che fornito132 330
per sua intercessione e ne fu l’uficio, con la maggior calca del mondo da tutti fu andato133 a basciargli i piedi
compia continuamente
(tutto giorno) in favore di chi e le mani, e tutti i panni gli furono indosso stracciati, tenendosi beato chi pure un
a lui devotamente si racco- poco di quegli potesse avere: e convenne che tutto il giorno cosí fosse tenuto, ac-
manda.
138 Il quale…Dio: non ciò che da tutti potesse essere veduto e visitato. Poi, la vegnente notte, in una arca
voglio negare che sia possi- di marmo sepellito fu onorevolemente in una cappella: e a mano a mano il dí se- 335
bile che egli sia beato al co- guente vi cominciarono le genti a andare e a accender lumi e a adorarlo134, e per
spetto di Dio.
139 come che: benché. conseguente a botarsi135 e a appicarvi le immagini della cera136, secondo la pro-
140 egli poté… stremo:
mession fatta. E in tanto crebbe la fama della sua santità e divozione a lui, che qua-
egli avrebbe potuto in pun-
to di morte. si niuno era che in alcuna avversità fosse, che a altro santo che a lui si botasse, e
141 così… essaudisce: an- chiamaronlo e chiamano san Ciappelletto; e affermano molti miracoli Idio aver 340
che se noi prendiamo come
intercessore un suo nemico mostrati per lui e mostrare tutto giorno a chi divotamente si raccomanda a lui137.
(un grande peccatore), che Cosí adunque visse e morí ser Cepparello da Prato e santo divenne come avete
crediamo suo amico (cioè
santo), Dio esaudisce le no- udito. Il quale negar non voglio esser possibile lui esser beato nella presenza di
stre preghiere, come se ri- Dio138, per ciò che, come che139 la sua vita fosse scellerata e malvagia, egli poté in
corressimo veramente a un su lo stremo140 aver sí fatta contrizione, che per avventura Idio ebbe misericordia 345
santo quale mediatore della
sua grazia. di lui e nel suo regno il ricevette: ma per ciò che questo n’è occulto, secondo quel-
142 per la sua grazia: per
lo che ne può apparire ragiono, e dico costui piú tosto dovere essere nelle mani del
grazia di Dio
143 nelle presenti avver- diavolo in perdizione che in Paradiso. E se cosí è, grandissima si può la benignità di
sità: durante questa pesti- Dio cognoscere verso noi, la quale non al nostro errore ma alla purità della fé ri-
lenza.
144 cominciata l’abbia- guardando, cosí faccendo noi nostro mezzano un suo nemico, amico credendolo, ci 350
mo: va riferito a compagnia. essaudisce141, come se a uno veramente santo per mezzano della sua grazia ricor-
ressimo. E per ciò, acciò che noi per la sua grazia142 nelle presenti avversità143 e in
questa compagnia cosí lieta siamo sani e salvi servati, lodando il suo nome nel qua-
le cominciata l’abbiamo144, Lui in reverenza avendo, ne’ nostri bisogni gli ci racco-
manderemo sicurissimi d’essere uditi. – 355
E qui si tacque.

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13. Giovanni Boccaccio T 13.3

Guida all’analisi
La struttura della novella La novella presenta una struttura narrativa assai semplice. La narrazione è incorniciata
da un’introduzione e da una conclusione di natura riflessiva, che possono ricordare la strut-
tura degli exempla: vi si discute infatti un problema etico e religioso e si tende a configurare
il racconto come un esempio di come Dio possa talora operare misteriosamente il bene an-
che attraverso personaggi malvagi (il fatto che nel Decameron le introduzioni raramente ab-
biano forma argomentativa accentua il significato di questa scelta). La novella vera e propria
– storia della vita, della morte e della beatificazione di Ciappelletto – può essere agevolmen-
te divisa in tre parti: 1) antefatti (narrati in forma sintetica) e ritratto di Ciappelletto; 2) azio-
ne principale: la missione di Ciappelletto in Borgogna (dopo una narrazione sintetica, si col-
loca la “scena” della confessione che segue quasi in tempo reale lo svolgersi degli eventi e in
cui dominano le parti dialogate); 3) la beatificazione di Ciappelletto (post factum, conclusione
simmetrica agli antefatti, narrata di nuovo in forma sintetica). Insomma:
introduzione – narrazione – conclusione
[antefatti – azione principale – post factum]

Il mondo mercantile La novella si caratterizza per il realismo della rappresentazione del mondo mercantile.
Musciatto Franzesi è un personaggio storico e storica è la sua ascesa alla corte di Francia;
storicamente attestata è la cattiva fama dei borgognoni («uomini riottosi… e misleali») e de-
gli usurai (poi più nobilmente definiti ‘banchieri’); realistici sono i dettagli delle difficoltà e
dei rischi che si corrono nell’attività di mercatura, specie nella riscossione dei crediti, quelli
della sepoltura degli usurai in terra sconsacrata e così via. Complessivamente ne esce la rap-
presentazione di un mondo difficile e ostile, in cui si deve lottare per sopravvivere ed affer-
marsi e non è sempre possibile ottemperare alle norme e ai precetti della Chiesa; un mondo
in cui la ponderazione, la prudenza, un’intelligenza vigile e presta, ma anche la spregiudica-
tezza, l’opportunismo e l’astuzia costituiscono un patrimonio pressoché indispensabile.
Il ritratto di Ciappelletto: il «piggiore uomo» del mondo In un tale contesto non stupisce che Musciatto per ri-
solvere una situazione obiettivamente assai problematica pensi di rivolgersi a quello che
viene definito «il piggiore uomo forse che mai nascesse». Il fatto non è trascurabile, perché ci
fa capire che alcune delle caratteristiche negative di Ciappelletto sono presentate come ne-
cessarie per portare a buon fine il suo compito nella situazione in cui si trova ad agire. A
Ciappelletto viene dedicato un celeberrimo ritratto che assolve essenzialmente il compito di
delineare una serie cospicua di vizi colossali, per farne risaltare poi il capovolgimento in al-
trettante presunte virtù nella scena della confessione. Se non conoscessimo dettagliatamente
i costumi viziosi di Ciappelletto non potremmo godere dell’enormità della sua messa in sce-
na. La critica ha messo bene in evidenza come questo ritratto sia una sorta di elogio capo-
volto: uno dei possibili modelli è l’elogio tradizionale dei santi, solo che il ritratto del santo
o dell’eroe è qui capovolto non si sa bene se dire in un elogio o in una deprecazione di un
sommo, iperbolico vizioso. All’elencazione delle virtù canoniche del santo si sostituisce
un’elencazione altrettanto dettagliata di vizi.
La confessione: iperbole e capovolgimento ironico La falsa confessione di Ciappelletto in punto di morte è sta-
ta definita il capolavoro della sua scellerata vita. La sua messinscena è qui iperbolica come
per tutta la vita iperbolica è stata la sua malvagità. Il ritratto che egli abilmente accredita di sé
è infatti quello di un uomo integerrimo, scrupolosissimo nel rispetto dei comandamenti e
dei precetti della Chiesa, santissimo: insomma un ritratto opposto ma speculare a quello for-
nito dal narratore. Egli lo fa portando all’esasperazione ogni qualità positiva secondo la mo-
rale corrente, talora capovolgendo in dettaglio le sue reali abitudini di vita. Ma lo fa anche
fingendo di considerarsi per delle inezie (mentre enormi furono i suoi vizi) un peccatore ta-
le da non meritare il perdono divino. È un abile gioco di specchi, enfatizzato dalle capacità
mimetiche di Ciappelletto, tanto più straordinarie in quanto messe in atto in punto di mor-
te (come notano i due usurai, rr. 298-301), quando qualsiasi persona fa i conti o con Dio o
con la propria coscienza. Egli infatti dimostra somma ipocrisia ma anche eccezionale dutti-

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Duecento e Trecento

lità istrionica nell’impersonare non solo un santo, ma anche un devoto pio, zelante e bigot-
to, che teneramente si commuove per gli affetti più puri e ‘sacri’ (la mamma), che mostra
un’esacerbata contrizione per lievi mancanze proprie e si adombra per altrettanto lievi man-
canze altrui, e che nel rapporto col frate e nel linguaggio dimostra un’«unzione pia e peni-
tenziale» (Muscetta), che rivela esperienza di un mondo che gli era stato totalmente estraneo
in vita («io amo molto meglio di dispiacere a queste mie carni che, faccendo agio loro, io fa-
cessi cosa che potesse essere perdizione dell’anima mia, la quale il mio Salvatore ricomperò
col suo prezioso sangue»; cfr. n. 75).
Una morale problematica La novella è di interpretazione controversa e pone alcuni quesiti di non facile solu-
zione. C’è indubbiamente un contrasto tra la rappresentazione del personaggio, che a molti
è parsa simpatizzante, e i giudizi moralmente negativi che il narratore dà di lui. La rappre-
sentazione simpatizzante in parte dipende dal fatto che Ciappelletto incarna, sia pure con
una connotazione moralmente negativa, doti che il Boccaccio mostra di apprezzare: con abi-
lità, astuzia e intelligenza egli si fa beffe di un ingenuo e porta a compimento il suo compi-
to terreno, in un mondo ostile, in cui tali doti sono indispensabili e alla morale religiosa e ta-
lora rigoristica se ne va sostituendo di fatto una terrena e laica.
Ma c’è contrasto anche tra l’abile giustificazione del narratore, che non mette in discus-
sione i principi fondamentali della religione e propone un’interpretazione ortodossa della
vicenda (Dio opera il bene anche attraverso persona malvagie) e lo spirito della novella, che
si sviluppa in forma comica e giocosa (i giovani della brigata, alla ripresa della narrazione, in-
fatti, ridono e approvano) e vede il trionfo dell’eroe negativo in un contesto tutto terreno.
Ciappelletto realizza tutti i suoi scopi e alle fine sono tutti contenti: gli usurai, che si salvano;
il frate, che può ammonire il popolo additando la santità di Ciappelletto; il popolo che vede
esaudite le sue preghiere per intercessione del santo; e forse Ciappelletto stesso che ha com-
piuto il suo blasfemo capolavoro e si è probabilmente conquistato quell’inferno che con i
suoi comportamenti precedenti aveva sempre mostrato di ricercare, come nota maliziosa-
mente Muscetta. C’è da domandarsi se questo sia un fine tragico o un lieto fine.
Problemi aperti Molti problemi insomma rimangono aperti nell’interpretazione della novella, e sono ri-
specchiati dai giudizi divergenti espressi dalla critica, che ora ha sottolineato l’empietà e la
malvagità del protagonista e il finale che lascia un brivido d’orrore con l’evocazione della
probabile dannazione di Ciappelletto e delle «mani del diavolo» da cui il peccatore è afferra-
to (Branca); ora viceversa ha sottolineato il puro e semplice trionfo dei valori del profano
mondo borghese («Il novellatore ne può ricavare un lieto exemplum alla rovescia… È una
morale borghese, spregiudicata, serena», Muscetta); e ha interpretato la novella ora attri-
buendo a Boccaccio un giudizio negativo sul personaggio (fra lo stupore e l’orrore) ora vi-
ceversa attribuendogli un giudizio positivo (approvazione delle sue ‘virtù’ terrene).
Una conclusione La stessa difficoltà di interpretare in modo univoco la novella lascia il senso di un narrare
aperto e problematico, che si è definitivamente svincolato dalle angustie ideologiche della
narrativa esemplare medievale. Il giudizio divino in merito alla vicenda e alla sorte del per-
sonaggio – questo è certo – rimane occulto per tutti, novellatore e narratore compresi, e se
ne deduce che il solo giudizio che si può dare è quello formulato sulla base di una tutta ter-
rena ragione: la presenza, talora incombente negli exempla, di un disegno provvidenziale e la
presunzione di esserne gli interpreti accreditati, comunque un poco si allontanano.

Laboratorio 1 Formula con parole tue un’interpretazio- del mondo mercantile. Se hai già letto al-
COMPRENSIONE ne sintetica della novella, discutendo tre novelle sul tema mettile a confronto.
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE quelli che abbiamo definito «problemi 3 Scegli alcuni passi del testo e compi alcu-
aperti» (rapporto con l’exemplum, giudi- ne osservazioni retorico-stilistiche: ad es.
zio del Boccaccio su Ciappelletto, senso metti a confronto la prosa delle parti in-
complessivo del racconto, fine tragico o troduttiva e conclusiva con quella della
lieto fine…). scena della confessione; analizza il lin-
2 Analizza e commenta i passi in cui il guaggio di Ciappelletto sviluppando le
Boccaccio delinea la sua rappresentazione osservazioni della Guida all’analisi.

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13. Giovanni Boccaccio T 13.4

T 13.4 Il Decameron 1349-1351


Andreuccio da Perugia (II,5)
G. Boccaccio Nella seconda giornata, che si svolge sotto il reggimento di Filomena, si narra «di chi,
Il Decameron da diverse cose infestato, sia oltre alla sua speranza riuscito a lieto fine».
a c. di V. Branca,
Einaudi, Torino 1984 La novella di Andreuccio da Perugia, narrata da Fiammetta e ambientata nella città di
Napoli, che Boccaccio ben conobbe in gioventù, può essere considerata, oltre che una
novella d’avventura, una novella di formazione, perché mostra come un giovane inge-
nuo e incauto, sperimentate con suo danno le insidie del mondo, riesca alla fine, facen-
do tesoro di quel che gli è capitato, a cavarsi d’impaccio in una situazione assai diffici-
le. Ma l’ambientazione cittadina, di per sé assai significativa, le caratteristiche del perso-
naggio, la natura stessa della vicenda pongono nuovamente sotto i riflettori il mondo
della mercatura, così importante nell’economia complessiva del Decameron.

Andreuccio da Perugia, venuto a Napoli a comperar cavalli, in una notte da tre gravi acci-
denti soprapreso1, da tutti scampato con un rubino si torna a casa sua.

[...] Fu, secondo che io già intesi, in Perugia un giovane il cui nome era An-
dreuccio di Pietro, cozzone di cavalli2; il quale, avendo inteso che a Napoli era 5
buon mercato di cavalli3, messisi in borsa cinquecento fiorin d’oro4, non essendo
mai piú5 fuori di casa stato, con altri mercatanti là se n’andò: dove giunto una do-
1 da… soprapreso: sor- menica sera in sul vespro, dall’oste suo informato la seguente mattina fu in sul
preso da tre gravi avveni- Mercato, e molti ne vide e assai ne gli6 piacquero e di piú e piú mercato tenne7, né
menti.
2 cozzone di cavalli: di niuno potendosi accordare, per mostrare che per comperar fosse8, sí come rozzo 10
sensale, cioè mediatore, e poco cauto9 piú volte in presenza di chi andava e di chi veniva trasse fuori que-
commerciante di cavalli.
3 avendo inteso… ca- sta sua borsa de’ fiorini che aveva.
valli:è un dato storico,infatti E in questi trattati10 stando, avendo esso la sua borsa mostrata, avvenne che una
«i cavalli del Regno di Na-
poli, già rinomati nel Me- giovane ciciliana11 bellissima, ma disposta per piccol pregio12 a compiacere a qua-
dioevo, furono anche più ri- lunque uomo, senza vederla egli13, passò appresso di lui e la sua borsa vide e subito 15
cercati dopo che Carlo I eb- seco disse: «Chi starebbe meglio di me se quegli denari fosser miei?» e passò oltre.
be preso vari provvedimenti
e promosso varie cure per Era con questa giovane una vecchia similmente ciciliana, la quale, come vide An-
migliorare le razze […]:e per dreuccio, lasciata oltre la giovane andare, affettuosamente corse a abbracciarlo: il
questo a Napoli si commer-
ciavano bene» (Branca). Del che la giovane veggendo, senza dire alcuna cosa, da una delle parti la cominciò a
resto tutta la novella, che pu- attendere.14 Andreuccio, alla vecchia rivoltosi e conosciutala, le fece gran festa, e 20
re ha qualche vago antece-
dente letterario, pare ispirar- promettendogli essa di venire a lui all’albergo, senza quivi tenere troppo lungo ser-
si alla conoscenza diretta del mone15, si partí: e Andreuccio si tornò a mercatare ma niente comperò la matti-
mondo napoletano e ad
«aneddoti reali, popolari, na.16 La giovane, che prima la borsa d’Andreuccio e poi la contezza della sua vec-
fantastici» ascoltati in gio- chia con lui17 aveva veduta, per tentare se modo alcuno trovar potesse a dovere aver
ventù dal Boccaccio durante quelli denari, o tutti o parte, cautamente incominciò a domandare chi colui fosse o 25
il suo soggiorno napoletano.
4 cinquecento fiorin donde e che quivi facesse e come il conoscesse. La quale ogni cosa cosí particular-
d’oro: una cifra assai cospi- mente de’ fatti d’Andreuccio le disse come avrebbe per poco18 detto egli stesso, sí
cua.
5 mai piú: mai in prece- come colei19 che lungamente in Cicilia col padre di lui e poi a Perugia dimorata
denza. era, e similmente le contò dove tornasse20 e perché venuto fosse.
6 ne gli: gliene (si parla
ovviamente di cavalli). La giovane, pienamente informata e del parentado di lui e de’ nomi, al suo appe- 30
7 e di piú… tenne: e
condusse trattative per mol-
tissimi (di piú e piú) cavalli. in effetti avrebbe dovuto 11 ciciliana: siciliana. 16 Andreuccio… matti- la dimestichezza che la vec-
8 per… fosse: per dimo- consigliare Andreuccio a 12 pregio: prezzo: una na:Andreuccio riprende le chia dimostrava con lui.
strare di essere effettivamen- non mostrare a chiunque prostituta, dunque. contrattazioni, ma non 18 per poco: pressappo-
te intenzionato ad acquista- passasse (chi andava e chi veni- 13 senza… egli: senza che compera nulla: l’osservazio- co.
re. va) il suo denaro, per di più egli la vedesse. ne serve a sottolineare che i 19 sì come colei: dato
9 rozzo e poco cauto: in un quartiere che egli 14 da una… attendere: cinquecento fiorini (il pos- che lei.
inesperto (non ancora di- avrebbe dovuto riconoscere postasi in disparte si mise ad sibile bottino) rimangono 20 dove tornasse: in qua-
rozzato all’arte della merca- come equivoco. osservarla. intatti. le albergo di Napoli risie-
tura) e incauto. La prudenza 10 trattati: trattative. 15 sermone: discorso. 17 la contezza…con lui: desse.

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Duecento e Trecento

21 al suo appetito… in- tito fornire con una sottil malizia, sopra questo fondò la sua intenzione;21 e a casa
tenzione: allo scopo di rea-
lizzare i suoi scopi, di soddi- tornatasi, mise la vecchia in faccenda22 per tutto il giorno acciò che a Andreuccio
sfare la propria cupidigia non potesse tornare; e presa una sua fanticella23, la quale essa assai bene a così fatti
con astuzia, architettò il suo servigi aveva ammaestrata, in sul vespro la mandò all’albergo dove Andreuccio tor-
piano sulla base delle infor-
mazioni avute dalla vecchia. nava. 35
22 mise… in faccenda:
La qual, quivi venuta, per ventura lui medesimo e solo trovò in su la porta e di
tenne occupata.
23 fanticella: giovinetta, lui stesso il domandò. Alla quale dicendole egli che era desso, essa, tiratolo da parte,
servetta. disse24: «Messere, una gentil donna di questa terra, quando vi piacesse, vi parleria
24 Alla quale…disse: la
giovane, alla quale Adreuc- volentieri». Il quale vedendola, tutto postosi mente e parendogli essere un bel fan-
cio aveva detto che era pro- te della persona, s’avvisò questa donna dover di lui essere innamorata25, quasi altro 40
prio colui che cercava (desso bel giovane che egli non si trovasse allora in Napoli, e prestamente rispose che era
= proprio lui, dal lat. id
ipsum), tiratolo da parte, dis- apparecchiato26 e domandolla dove e quando questa donna parlar gli volesse.
se. Si noti il costrutto «Alla A cui la fanticella rispose: «Messere, quando di venir vi piaccia, ella v’attende in
quale dicendole egli…», in
parte modellato sull’ablati- casa sua».
vo assoluto latino. Nell’ita- Andreuccio presto, senza alcuna cosa dir nell’albergo, disse: «Or via mettiti avan- 45
liano odierno viceversa il
gerundio è solitamente usa- ti, io ti verrò appresso».
to solo quando il soggetto è Laonde la fanticella a casa di costei il condusse, la quale dimorava in una contra-
il medesimo della reggente,
mentre qui diversi sono il da chiamata Malpertugio27, la quale quanto sia onesta contrada il nome medesimo
soggetto della reggente, essa, il dimostra. Ma esso, niente di ciò sappiendo né suspicando28, credendosi in uno
e quello della subordinata al onestissimo luogo andare e a una cara donna29, liberamente30, andata la fanticella 50
gerundio, egli.
25tutto postosi… inna- avanti, se n’entrò nella sua casa; e salendo su per le scale, avendo la fanticella già la
morata: esaminatosi da ca- sua donna chiamata e detto «Ecco Andreuccio», la vide in capo della scala farsi a
po a piedi (tutto postosi men-
te), e sembrandogli d’essere, aspettarlo.
quanto all’aspetto (della per- Ella era ancora assai giovane, di persona grande e con bellissimo viso, vestita e
sona), un bel giovane (fante),
si convinse che questa don- ornata assai orrevolemente31; alla quale come Andreuccio fu presso, essa incontro- 55
na (la «gentil donna» che lo gli32 da tre gradi33 discese con le braccia aperte, e avvinghiatogli il collo alquanto
invitava) dovesse essersi in- stette senza alcuna cosa dire, quasi da soperchia34 tenerezza impedita; poi lagriman-
namorata di lui.Altra inge-
nuità di Andreuccio, come do gli basciò la fronte35 e con voce alquanto rotta disse: «O Andreuccio mio, tu sii
se di bei giovani a Napoli il ben venuto!»
non ci fosse altri che lui!
26 apparecchiato: pron- Esso, maravigliandosi di cosí tenere carezze, tutto stupefatto rispose: «Madonna, 60
to, disposto. voi siate la ben trovata!»
27 Malpertugio: rione at-
tiguo a quello del Porto (fra Ella appresso, per la man presolo, suso nella sua sala il menò e di quella36, senza
le odierne vie Flavio Gioia e alcuna altra cosa parlare, con lui nella sua camera se n’entrò, la quale di rose, di fio-
San Nicola alla Dogana), de- ri d’aranci e d’altri odori tutta oliva37, là dove egli un bellissimo letto incortinato e
riva il suo nome da un pertu-
gio, un’apertura nelle mura molte robe su per le stanghe, secondo il costume di là, e altri assai belli e ricchi ar- 65
cittadine che consentiva una nesi vide38; per le quali cose, sí come nuovo39, fermamente credette lei dovere es-
scorciatoia per recarsi al Por-
to. Zona destinata ai traffici sere non men che gran donna40.
commerciali, vi sorgevano E postisi a sedere insieme sopra una cassa41 che appiè del suo letto era, cosí gli
«le logge dei mercanti fore-
stieri, fra cui quelle dei sici- cominciò a parlare: «Andreuccio, io sono molto certa che tu ti maravigli e delle ca-
liani: non lontano era anche rezze le quali io ti fo e delle mie lagrime, sí come colui42 che non mi conosci e per 70
il banco dei Bardi, in cui il B.
passò vari anni della sua gio- avventura43 mai ricordar non m’udisti. Ma tu udirai tosto cosa la quale piú ti farà
vinezza.Intorno si erano na- forse maravigliare, sí come è che io sia44 tua sorella; e dicoti che, poi che Idio m’ha
turalmente stabiliti luoghi di
piacere e covi di gente di
malaffare» (Branca). complesso di Ciappelletto. 35 gli basciò la fronte: «a tiche (stanghe), secondo l’a- che pure dipinge bene lo
28 suspicando: sospet- 30 liberamente: in tutta sottolineare la castità del ge- bitudine di quei luoghi, e al- stato d’animo di Andreuc-
tando. tranquillità, senza sospetti. sto sororale» (Branca) tre belle e ricche suppellet- cio).
29 cara donna: da una 31 orrevolmente: onore- 36 di quella: da quella (sa- tili. 41 cassa: cassapanca, so-
persona perbene, che nu- volmente, cioè decorosa- la), da lì. 39 sì come nuovo: da in- vente posta ai piedi del letto.
trisse affetto per lui e per cui mente. 37 oliva: olezzava, profu- genuo, inesperto qual era. 42 sì come colui che: da-
egli incautamente forse già, 32 incontrogli: incontro mava. L’espressione fa il paio con to che.
prima d’averla vista, sentiva a lui. 38 là dove… vide: là dove quella alla n. 9. 43 per avventura: forse,
nascere un sentimento. Il 33 gradi: gradini. egli vide un bellissimo letto 40 gran donna: una no- probabilmente.
semplice aggettivo cara di- 34 soperchia: soverchia, chiuso da cortine (cortinato) bildonna (da notare il pas- 44 sí come è che io sia:
pinge uno stato d’animo troppa. e molti abiti appesi alle per- saggio da cara a gran donna, cioè che io sono.

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13. Giovanni Boccaccio T 13.4

45 io non morrò… fatta tanta grazia che io anzi la mia morte ho veduto alcuno de’ miei fratelli, come
muoia: in qualsiasi momen-
to io debba morire, ormai che io disideri di vedervi tutti, io non morrò a quella ora che io consolata non
(dopo averti visto) non po- muoia45. E se tu forse questo mai piú non udisti, io tel vo’ dire. Pietro, mio padre e 75
trò che morire lieta. tuo, come io credo che tu abbi potuto sapere, dimorò lungamente in Palermo, e
46 piacevolezza: amabi-
lità, cortesia. per la sua bontà e piacevolezza46, vi fu e è ancora da quegli che il conobbero ama-
47 sonne: ne sono, sono
to assai. Ma tra gli altri che molto l’amarono, mia madre, che gentil donna fu e al-
diventata.
48 avendo riguardo… lora era vedova, fu quella che piú l’amò, tanto che, posta giú la paura del padre e
mostrata: considerando de’ fratelli e il suo onore, in tal guisa con lui si dimesticò, che io ne nacqui e son- 80
l’ingratitudine dimostrata
da lui nei confronti di mia ne47 qual tu mi vedi. Poi, sopravenuta cagione a Pietro di partirsi di Palermo e tor-
madre. nare in Perugia, me con la mia madre piccola fanciulla lasciò, né mai, per quello
49 (lasciamo stare… che io sentissi, piú né di me né di lei si ricordò: di che io, se mio padre stato non
portare): la figura della pre-
terizione («lasciamo perde- fosse, forte il riprenderei avendo riguardo alla ingratitudine di lui verso mia madre
re il fatto che…»), per cui la mostrata48 (lasciamo stare allo amore che a me come a sua figliuola non nata d’una 85
ciciliana posponendo se stes-
sa enfatizza la propria devo- fante né di vil femina dovea portare49), la quale le sue cose a sé parimente, senza sa-
zione filiale, serve tuttavia pere altrimenti chi egli si fosse, da fedelissimo amor mossa rimise nelle sue mani50.
qui soprattutto a ribadire la
nobiltà della sua nascita: non Ma che è?51 Le cose mal fatte e di gran tempo passate sono troppo piú agevoli a
nata da una serva (fante) né riprendere che a emendare:52 la cosa andò pur cosí. Egli mi lasciò piccola fanciulla
da una donna qualsiasi, di
poco conto (vil femina). in Palermo, dove, cresciuta quasi come io mi sono, mia madre, che ricca donna era, 90
50 la quale… mani: la mi diede per moglie a uno da Gergenti53, gentile uomo e da bene, il quale per
quale aveva fiduciosamente amor di mia madre e di me tornò a stare54 in Palermo; e quivi, come colui che è
messo nelle sue mani i pro-
pri beni e tutta se stessa, sen- molto guelfo, cominciò a avere alcuno trattato col nostro re Carlo55. Il quale, senti-
za chiedere neppure chi egli to dal re Federigo prima che dare gli si potesse effetto, fu cagione di farci fuggire
fosse (senza voler nulla in
cambio, cioè), mossa solo da di Cicilia quando io aspettava essere la maggior cavalleressa che mai in quella isola 95
un amore assolutamente fe- fosse56: donde, prese quelle poche cose che prender potemmo (poche dico per ri-
dele. L’insistenza su questo
argomento vuol forse creare spetto alle molte le quali avavamo), lasciate le terre e li palazzi, in questa terra ne ri-
un vago senso di colpa in fuggimmo, dove il re Carlo verso di noi trovammo sí grato che, ristoratici57 in par-
Andreuccio, per renderlo te li danni li quali per lui58 ricevuti avavamo, e possessioni e case ci ha date, e dà
poi più malleabile.
51 Ma che è?: ma che im- continuamente al mio marito, e tuo cognato che è, buona provisione59, sí come tu 100
porta? potrai ancor vedere. E in questa maniera son qui, dove io, la buona mercé di Dio e
52 sono… emendare: è
molto più semplice biasi- non tua60, fratel mio dolce, ti veggio».
marle che porvi rimedio. E cosí detto, da capo il rabbracciò e ancora teneramente lagrimando gli basciò la
53 Gergenti:Agrigento.
54 tornò a stare: si stabilì. fronte.
55 come colui… Carlo: Andreuccio, udendo questa favola61 cosí ordinatamente, cosí compostamente 105
dato che era di parte guelfa, detta da costei, alla quale in niuno atto moriva la parola tra’ denti né balbettava la
tramò una cospirazione
(trattato) con il nostro re lingua, e ricordandosi esser vero che il padre era stato in Palermo e per se medesi-
Carlo. Nostro indica l’attuale mo62 de’ giovani conoscendo i costumi, che volentieri amano nella giovanezza, e
re di Napoli. Carlo II d’An-
giò, detto lo zoppo, fu in ef- veggendo le tenere lagrime, gli abbracciari e gli onesti basci63, ebbe ciò che ella di-
fetti re di Napoli dal 1285 al ceva piú che per vero: e poscia che ella tacque, le rispose: «Madonna, egli non vi 110
1309 (epoca in cui si imma-
gina si svolga l’azione). Gli dee parer gran cosa se io mi maraviglio: per ciò che nel vero64, o che mio padre,
Angioini avevano perso la per che che egli sel facesse65, di vostra madre e di voi non ragionasse giammai, o
Sicilia nel 1282, in seguito
alla rivolta deiVespri sicilia-
ni, ma a Palermo avevano
ancora dei sostenitori, quale cinto di sposare uno dei cio, non del tutto motivato con cui la donna (un’altra rale ha avuto il suo effetto
il presunto patrigno della ci- maggiori cavalieri del regno (se egli non aveva mai avuto abile simulatrice e dissimu- (ma l’ingenuo Andreuccio
ciliana. (acquisendo il titolo cioè di notizia della sorella) assolve latrice, come Ciappelletto) sarebbe probabilmente ca-
56 Il quale… fosse: ma cavalleressa). ancora una volta la funzione ha raccontato la sua favola in duto nella trappola anche
questa congiura (il quale, ri- 57 ristoratici: risarcitici. di mettere un po’ a disagio parte scagionano il protago- se la donna avesse finto per
ferito a trattato), essendo sta- 58 per lui: per causa sua. l’interlocutore, per renderlo nista. lui un diverso e più sconta-
ta scoperta da Federico (Fe- 59 buona provisione: più malleabile. 62 per se medesimo: per to amore).
derico II d’Aragona, che al- una cospicua pensione, ren- 61 favola: in quanto nar- averne fatta diretta espe- 64 nel vero: in verità.
lora regnava in Sicilia) pri- dita. razione fittizia, falsa. Potreb- rienza. 65 per che… facesse:
ma che la si potesse mandare 60 la buona… e non tua: be connotare di nuovo l’in- 63 gli onesti basci: i casti qualunque fosse la ragione
ad effetto, fu la causa che ci grazie alla volontà di Dio e genuità di Andreuccio, se- baci, che avevano incorni- che l’induceva a compor-
costrinse a fuggire dalla Si- non per merito tuo. Il rim- nonché il seguito che de- ciato il racconto: anche la tarsi così.
cilia quando io ero in pro- provero rivolto ad Andreuc- scrive l’abilità e la sicurezza finzione della castità soro-

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Duecento e Trecento

che, se egli ne ragionò, a mia notizia venuto non sia, io per me niuna conscienza
aveva di voi se non come se non foste66; e emmi tanto piú caro l’avervi qui mia so-
rella trovata, quanto io ci sono piú solo e meno questo sperava67. E nel vero io non 115
conosco uomo di sí alto affare al quale voi non doveste esser cara, non che a me
66 io per me… non fo- che un picciolo mercatante sono. Ma d’una cosa vi priego mi facciate chiaro: come
ste: quanto a me non avevo
alcuna notizia di voi, come
sapeste voi che io qui fossi?»
se non esisteste. Al quale ella rispose: «Questa mattina mel fé sapere una povera femina la qual mol-
67 e emmi… sperava: e
to meco si ritiene, per ciò che con nostro padre, per quello che ella mi dica, lunga- 120
mi dà tanta più gioia avere
scoperto di aver qui voi co- mente e in Palermo e in Perugia stette; e se non fosse che piú onesta cosa mi parea
me sorella, quanto più io che tu a me venissi in casa tua che io a te nell’altrui, egli ha gran pezza che io a te ve-
sono solo in questa città (ci)
e quanto meno io me l’a- nuta sarei»68.
spettavo. Appresso queste parole ella cominciò distintamente a domandare di tutti i suoi
68 se non fosse…sarei: e
se non fosse che mi pareva
parenti nominatamente69, alla quale di tutti Andreuccio rispose, per questo ancora 125

più decoroso che fossi tu a piú credendo quello che meno di creder gli bisognava.
venire a trovarmi in questa Essendo stati i ragionamenti lunghi e il caldo grande, ella fece venire greco70 e
che è anche casa tua piutto-
sto che non fossi io a venire confetti e fé dar bere71 a Andreuccio; il quale dopo questo partir volendosi, per ciò
in un albergo (o in casa tua), che ora di cena era, in niuna guisa il sostenne72, ma sembiante fatto di forte tur-
da lungo tempo io sarei ve-
nuta a trovarti personal- barsi abbracciandol disse: «Ahi lassa me, ché assai chiaro conosco come io ti sia po- 130
mente. co cara! Che è a pensare che tu sii con una tua sorella mai piú da te non veduta, e
69 nominatamente: ad
uno ad uno, chiamandoli in casa sua, dove, qui venendo, smontato esser dovresti73, e vogli di quella uscire per
per nome. andare a cenare all’albergo? Di vero tu cenerai con esso meco74: e perché mio ma-
70 greco: un vino bianco
tipico del meridione.
rito non ci sia, di che forte mi grava75, io ti saprò bene secondo donna76 fare un
71 fé dar bere: fece dar da poco d’onore». 135
bere, fece bere. Alla quale Andreuccio, non sappiendo altro che rispondersi, disse: «Io v’ho cara
72 il sostenne: lo tollerò,
lo permise. quanto sorella si dee avere, ma se io non ne vado, io sarò tutta sera aspettato77 a ce-
73 dove… dovresti: dove na e farò villania».
saresti dovuto venire ad al-
loggiare (smontato), trovan- E ella allora disse: «Lodato sia Idio, se io non ho in casa per cui mandare78 a dire
doti a Napoli. che tu non sii aspettato! benché tu faresti assai maggior cortesia, e tuo dovere, 140
74 con esso meco: con
me (forma rafforzativa).
mandare a dire a’ tuoi compagni che qui venissero a cenare, e poi, se pure andare te
75 mi grava: mi dispiace. ne volessi, ve ne potresti tutti andar di brigata79».
76 secondo donna: «per Andreuccio rispose che de’ suoi compagni non volea quella sera, ma, poi che
quel che è concesso ad una
donna, cioè modestamen- pure a grado l’era, di lui facesse il piacer suo. Ella allora fé vista di mandare a dire
te» (Branca). all’albergo che egli non fosse atteso a cena; e poi, dopo molti altri ragionamenti, 145
77 se io… aspettato: fi-
guriamoci se non ho perso- postisi a cena e splendidamente di piú vivande serviti, astutamente quella menò per
na in casa che possa manda- lunga80 infino alla notte obscura; e essendo da tavola levati e Andreuccio partir vo-
re ad avvertire che non ti lendosi, ella disse che ciò in niuna guisa sofferrebbe81, per ciò che Napoli non era
aspettino per cena.
78 mandare: a mandare, terra da andarvi per entro di notte, e massimamente un forestiere; e che come che
mandando. egli a cena non fosse atteso aveva mandato a dire, cosí aveva dello albergo fatto il 150
79 di brigata: insieme, in
compagnia. somigliante.82 Egli, questo credendo e dilettandogli, da falsa credenza ingannato,
80 quella menò per lun- d’esser con costei, stette83. Furono adunque dopo cena i ragionamenti molti e
ga: tirò in lungo la cena.
81 sofferrebbe: avrebbe lunghi non senza cagione tenuti; e essendo della notte una parte passata, ella, la-
sopportato, permesso. sciato Andreuccio a dormire nella sua camera con un piccol fanciullo che gli mo-
82 così… il somigliante:
la stessa cosa aveva fatto per
strasse se egli volesse nulla, con le sue femine in un’altra camera se n’andò. 155

l’alloggio (aveva cioè man- Era il caldo grande: per la qual cosa Andreuccio, veggendosi solo rimaso, subita-
dato a dire che non l’aspet- mente si spogliò in farsetto e trassesi i panni di gamba e al capo del letto gli si po-
tassero per la notte).
83 stette: rimase. «Il ver- se84; e richiedendo il naturale uso di dovere diporre il superfluo peso del ventre, do-
bo alla fine ha come un si- ve ciò si facesse domandò quel fanciullo, il quale nell’uno de’ canti della camera gli
gnificato fatale» (Momi-
gliano). mostrò uno uscio e disse: «Andate là entro». Andreuccio dentro sicuramente85 pas- 160
84 si spogliò… pose: si
spogliò rimanendo in far-
setto (un indumento che si si tolse calze e brache e se le 85 sicuramente: senza verbio che sottolinea l’in- un altro momento cruciale.
portava sopra la camicia) e pose al capo del letto. sospetto; di nuovo un av- genuità di Andreuccio in

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13. Giovanni Boccaccio T 13.4

sato, gli venne per ventura posto il piè sopra una tavola, la quale dalla contraposta
86 gli venne… giuso: per parte sconfitta dal travicello sopra il quale era, per la qual cosa capolevando questa
caso pose il piede sopra una tavola con lui insieme se n’andò quindi giuso86: e di tanto l’amò Idio, che niuno
tavola di legno (che costi-
tuiva il pavimento del gabi- male si fece nella caduta, quantunque alquanto cadesse da alto, ma tutto della brut- 165
netto, una sorta di balcon- tura, della quale il luogo era pieno, s’imbrattò. Il quale luogo, acciò che meglio in-
cino chiuso che si affaccia-
va sul vicolo, nella quale ve- tendiate e quello che è detto e ciò che segue, come stesse vi mostrerò. Egli era in un
nivano fatti ricadere gli chiassetto stretto, come spesso tra due case veggiamo: sopra due travicelli, tra l’una
escrementi), la quale all’al- casa e l’altra posti, alcune tavole eran confitte e il luogo da seder posto, delle quali
tra estremità era disconnes-
sa dalla trave su cui posava, tavole quella che con lui cadde era l’una87. 170
tanto che, capovoltasi (capo- Ritrovandosi adunque là giú nel chiassetto Andreuccio, dolente del caso, comin-
levando) la tavola, egli cadde
insieme con quella nella via ciò a chiamare il fanciullo; ma il fanciullo, come sentito l’ebbe cadere, cosí corse a
sottostante. dirlo alla donna. La quale, corsa alla sua camera, prestamente cercò se i suoi panni
87 Egli era…: in uno
stretto vicoletto (chiassetto) , v’erano; e trovati i panni e con essi i denari, li quali esso non fidandosi mattamen-
come spesso fra due case te88 sempre portava addosso, avendo quello a che ella di Palermo, sirocchia d’un 175
vediamo, c’erano (egli era) perugin faccendosi, aveva teso il lacciuolo89, piú di lui non curandosi prestamente
alcune tavole confitte sopra
due travicelli posti tra l’una andò a chiuder l’uscio del quale egli era uscito quando cadde.
e l’altra casa, sopra le quali Andreuccio, non rispondendogli il fanciullo, cominciò piú forte a chiamare: ma
(tavole) era posta la seduta;
una di queste tavole era ciò era niente.90 Per che egli, già sospettando e tardi dello inganno cominciandosi
quella che cadde insieme a a accorgere, salito sopra un muretto che quello chiassolino dalla strada chiudea91 e 180
lui.
88 mattamente: stupida- nella via92 disceso, all’uscio della casa, il quale egli molto ben riconobbe, se n’andò,
mente. e quivi invano lungamente chiamò e molto il dimenò93 e percosse. Di che egli pia-
89 avendo… lacciuolo:
avendo ottenuto ciò per cui
gnendo, come colui che chiara vedea la sua disaventura, cominciò a dire: «Oimè
ella – fingendosi, palermi- lasso, in come piccol tempo ho io perduti cinquecento fiorini e una sorella!»
tana com’era, sorella di un E dopo molte altre parole, da capo cominciò a battere l’uscio e a gridare; e tan- 185
perugino – aveva teso l’in-
ganno; avendo ottenuto ciò to fece cosí, che molti de’ circunstanti vicini, desti, non potendo la noia sofferire94,
a cui aveva fatto la posta. si levarono; e una delle servigiali95 della donna, in vista tutta sonnocchiosa, fattasi
90 era niente: non sortiva
alcun effetto, era inutile. alla finestra proverbiosamente96 disse: «Chi picchia là giú?»
91 chiudea: separava. «Oh!» disse Andreuccio «o non mi conosci tu? Io sono Andreuccio, fratello di
92 nella via: nella via
principale, là dove davano i
madama Fiordaliso». 190
portoni delle case. Al quale ella rispose: «Buono uomo, se tu hai troppo bevuto, va dormi97 e tor-
93 dimenò: scosse.
94 la noia sofferire: sop-
nerai domattina; io non so che Andreuccio né che ciance98 son quelle che tu di’; va
portare il rumore, il fastidio in buona ora e lasciaci dormir, se ti piace».
recato dai lamenti e dai col- «Come» disse Andreuccio «non sai che io mi dico? Certo sí sai; ma se pur son
pi di Andreuccio.
95 servigiali: serve. cosí fatti i parentadi di Cicilia, che in sí piccol termine si dimentichino, rendimi al- 195
96 proverbiosamente: meno i panni miei, li quali lasciati v’ho, e io m’andrò volentier con Dio».
rimproverandolo, in tono Al quale ella quasi ridendo disse: «Buono uomo, è mi par che tu sogni», e il dir
di rimprovero.
97 va dormi: va a dormi- questo e il tornarsi dentro e chiuder la finestra fu una cosa.99
re. Di che Andreuccio, già certissimo de’ suoi danni, quasi per doglia fu presso a
98 ciance: parole vane,
frottole, fantasie. convertire in rabbia la sua grande ira, e per ingiuria100 propose di rivolere quello 200
99 fu una cosa: fu tutt’u- che per parole riaver non potea; per che da capo, presa una gran pietra, con troppi
no.
100 per ingiuria: con la maggior colpi101 che prima fieramente cominciò a percuoter la porta. La qual co-
forza. sa102 molti de’ vicini avanti destisi e levatisi, credendo lui essere alcuno spiacevole103
101 con troppi maggior
colpi: con colpi assai più
il quale queste parole fingesse per noiare quella buona femina,104 recatosi a noia il
forti. picchiare il quale egli faceva, fattisi alle finestre, non altramenti che a un can fore- 205
102 La qual cosa: per la stiere tutti quegli della contrada abbaiano adosso, cominciarono a dire: «Questa è
qual cosa.
103 alcuno spiacevole: una gran villania a venire a questa ora a casa le buone femine105 e dire queste cian-
qualche malandrino. ce; deh! va con Dio, buono uomo; lasciaci dormir, se ti piace; e se tu hai nulla a far
104 buona femina: «eufe-
mismo ironico» (Branca). con lei, tornerai domane, e non ci dar questa seccaggine stanotte».
105 a casa le… femine: a Dalle quali parole forse assicurato uno che dentro dalla casa era, ruffiano della 210
casa di donne, persone per- buona femina, il quale egli né veduto né sentito avea, si fece alle finestre e con una
bene.
106 boce: voce. boce106 grossa, orribile e fiera disse: «Chi è laggiú?»
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Duecento e Trecento

107 un gran bacalare: una Andreuccio, a quella voce levata la testa, vide uno il quale, per quel poco che
persona autorevole, detto
con ironia (il termine deriva comprender poté, mostrava di dovere essere un gran bacalare,107 con una barba ne-
da baccalaureus o baccalaris ra e folta al volto, e come se del letto o da alto sonno si levasse sbadigliava e stro- 215
che «indicava il dottore co- picciavasi gli occhi: a cui egli, non senza paura, rispose: «Io sono un fratello della
ronato d’alloro» [Branca]).
108 piú rigido: in tono più donna di là entro».
aspro, severo. Ma colui non aspettò che Andreuccio finisse la risposta, anzi piú rigido108 assai
109 Io non so… muovere:
non so che cosa mi trattenga che prima disse: «Io non so a che io mi tegno che io non vegno là giú, e deati tan-
dal venire laggiù e bastonar- te bastonate quante io ti vegga muovere,109 asino fastidioso e ebriaco che tu dei es- 220
ti finché io ti veda muovere.
110 umilmente: sottovo- sere, che questa notte non ci lascerai dormire persona»; e tornatosi dentro serrò la
ce. finestra.
111 per… migliore: per il
tuo meglio.
Alcuni de’ vicini, che meglio conoscieno la condizion di colui, umilmente110
112 doloroso: infelice, do- parlando a Andreuccio dissero: «Per Dio, buono uomo, vatti con Dio, non volere
lente. stanotte essere ucciso costí: vattene per lo tuo migliore111». 225
113 de’ suoi… disperato:
persa la speranza di recupe- Laonde Andreuccio, spaventato dalla voce di colui e dalla vista e sospinto da’
rare il suo denaro. conforti di coloro li quali gli pareva che da carità mossi parlassero, doloroso112
114 a se medesimo… ve-
niva: infastidito egli stesso quanto mai alcuno altro e de’ suoi denar disperato,113 verso quella parte onde il dí
dalla puzza che sentiva pro- aveva la fanticella seguita, senza saper dove s’andasse, prese la via per tornarsi all’al-
manare da sé.
115 Ruga Catalana: una
bergo. E a se medesimo dispiacendo per lo puzzo che a lui di lui veniva114, diside- 230
strada che allora, come ora, roso di volgersi al mare per lavarsi, si torse a man sinistra e su per una via chiamata
conduceva non al porto ma la Ruga Catalana115 si mise. E verso l’alto della città andando, per ventura davanti si
alla parte alta della città.
116 temendo… corte: te- vide due che verso di lui con una lanterna in mano venieno, li quali temendo non
mendo che fossero delle fosser della famiglia della corte116 o altri uomini a mal far disposti, per fuggirli, in
guardie.
117 pianamente ricoverò: un casolare, il qual si vide vicino, pianamente ricoverò117. Ma costoro, quasi come a 235
cautamente, silenziosamen- quello proprio luogo inviati andassero, in quel medesimo casolare se n’entrarono; e
te si nascose.
118 ferramenti: arnesi, quivi l’un di loro, scaricati certi ferramenti118 che in collo avea, con l’altro insieme
utensili. gl’incominciò a guardare, varie cose sopra quegli ragionando.
119 il cattivel d’Andreuc-
cio: quel poveretto di An-
E mentre parlavano, disse l’uno: «Che vuol dir questo? Io sento il maggior puz-
dreuccio, il povero An- zo che mai mi paresse sentire»; e questo detto, alzata alquanto la lanterna, ebber ve- 240
dreuccio. duto il cattivel d’Andreuccio119, e stupefatti domandar: «Chi è là?»
120 brutto:imbrattato,lor-
do. Andreuccio taceva, ma essi avvicinatiglisi con lume il domandarono che quivi
121 Veramente… questo: cosí brutto120 facesse: alli quali Andreuccio ciò che avvenuto gli era narrò intera-
questo dev’essere accaduto
di certo in casa di quel mal- mente. Costoro, imaginando dove ciò gli potesse essere avvenuto, dissero fra sé:
vivente (scarabone) di Butta- «Veramente in casa lo scarabone Buttafuoco fia stato questo»121. 245
fuoco. Di lui i due perso- E a lui rivolti, disse l’uno: «Buono uomo, come che122 tu abbi perduti i tuoi de-
naggi parlano «come di una
potenza terribile: sicché a nari, tu hai molto a lodare Idio che quel caso ti venne che tu cadesti né potesti
ragione l’Ammirato avan - poi in casa rientrare: per ciò che, se caduto non fossi, vivi sicuro che, come pri-
zò l’ipotesi che potesse es-
sere uno dei capi di quelle ma adormentato ti fossi123, saresti stato amazzato e co’ denari avresti la persona124
leghe di malviventi che fu- perduta. Ma che giova oggimai di piagnere? Tu ne potresti cosí riavere un denaio 250
rono successivamente chia-
mati “ruffiani”, “compa- come avere delle stelle del cielo:125 ucciso ne potrai tu bene essere, se colui sen-
gnoni” (oggi “camorri- te che tu mai ne facci parola».
sti”)» (Branca). Il termine
scarabone «sopravvive anco- E detto questo, consigliatisi alquanto, gli dissero: «Vedi, a noi è presa compassion
ra oggi come scarafuni nel di te: e per ciò, dove tu vogli con noi essere a fare alcuna cosa la quale a fare andia-
parlato siciliano per desi- mo, egli ci pare esser molto certi che in parte ti toccherà il valere di troppo piú che 255
gnare chi truffa negli affari
e bara al gioco» (Gugliel- perduto non hai126».
mino). Andreuccio, sí come disperato, rispuose ch’era presto127.
122 come che: benché.
123 vivi… fossi: stai sicuro Era128 quel dí sepellito uno arcivescovo di Napoli, chiamato messer Filippo Mi-
che non appena ti fossi ad- nutolo129, e era stato sepellito con ricchissimi ornamenti e con un rubino in dito il
dormentato.
124 la persona: la vita.
125 Tu… del cielo: hai la
stessa probabilità di riavere il nessuna. ti toccherà assai più di quel pronto, disposto a farlo. questo arcivescovo è un
tuo denaro, quanta di pren- 126 in parte… non hai: che hai perduto. 128 Era: era stato. personaggio storico: morì il
dere una stella dal cielo: cioè come tua parte (del bottino) 127 ch’era presto: che era 129 Filippo Minutolo: 24 ottobre 1301.

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13. Giovanni Boccaccio T 13.4

130 spogliare: rubare. quale valeva oltre a cinquecento fiorin d’oro, il quale costoro volevano andare a 260
131 fecer veduto: dissero, spogliare130; e cosí a Andreuccio fecer veduto131.
fecero intendere.
132 piú cupido che consi- Laonde Andreuccio, piú cupido che consigliato132, con loro si mise in via; e an-
gliato: più bramoso di rifar- dando verso la chiesa maggiore133, e Andreuccio putendo forte, disse l’uno: «Non
si, che avveduto.
133 chiesa maggiore: il potremmo noi trovar modo che costui si lavasse un poco dove che sia, che egli non
Duomo di Napoli; l’arcive- putisse134 cosí fieramente?» 265
scovo – nota il Branca –ef-
fettivamente «fu sepolto Disse l’altro: «Sí, noi siam qui presso a un pozzo al quale suole sempre esser la
nell’antica cappella della fa- carrucola e un gran secchione; andianne là e laverenlo spacciatamente»135.
miglia Capece Minutolo,
nell’angolo estremo della Giunti a questo pozzo trovarono che la fune v’era ma il secchione n’era stato le-
crociera del Duomo di Na- vato: per che insieme deliberarono di legarlo alla fune e di collarlo136 nel pozzo, e
poli,in una tomba che ancor egli là giú si lavasse e, come lavato fosse, crollasse la fune137 e essi il tirerebber suso; e 270
oggi si può ammirare».
134 putendo… putisse: cosí fecero.
puzzando… puzzasse. Avvenne che, avendol costor nel pozzo collato, alcuni della famiglia della signo-
135 laverenlo spacciata-
mente: lo laveremo rapida- ria138, li quali e per lo caldo e perché corsi erano dietro a alcuno avendo sete, a
mente. quel pozzo venieno a bere: li quali139 come quegli due videro, incontanente co-
136 collarlo: calarlo.
137 crollasse la fune: minciarono a fuggire, li famigliari che quivi venivano a bere non avendogli vedu- 275
scrollasse la fune, desse uno ti140. Essendo già nel fondo del pozzo Andreuccio lavato, dimenò la fune. Costoro
strattone alla fune
138 alcuni… signoria: assetati, posti giú lor tavolacci e loro armi e lor gonnelle141, cominciarono la fune a
guardie. tirare credendo a quella il secchion pien d’acqua essere appicato. Come Andreuc-
139 li quali: i due ladri che
accompagnavano Andreuc-
cio si vide alla sponda del pozzo vicino, cosí, lasciata la fune, con le mani si gittò
cio. sopra quella. La qual cosa costor vedendo, da subita paura presi, senza altro dir la- 280
140 li famigliari… veduti:
sciaron la fune e cominciarono quanto piú poterono a fuggire: di che Andreuccio
non visti dalle due guardie
(solito costrutto col gerun- si maravigliò forte, e se egli non si fosse bene attenuto142, egli sarebbe infin nel fon-
dio modellato sull’ablativo do caduto forse non senza suo gran danno o morte; ma pure uscitone e queste ar-
assoluto).
141 tavolacci… gonnelle: me trovate, le quali egli sapeva che i suoi compagni non avean portate, ancora piú
deposti gli scudi (tavolacci), le s’incominciò a maravigliare. 285
armi e la sopravveste (gon-
nelle). Ma dubitando e non sappiendo che, della sua fortuna dolendosi, senza alcuna
142 bene… attenuto: te- cosa toccar quindi diliberò di partirsi: e andava senza saper dove. Cosí andando si
nuto forte (alla sponda del venne scontrato143 in que’ due suoi compagni, li quali a trarlo del pozzo venivano;
pozzo).
143 si venne scontrato: gli e come il videro, maravigliandosi forte, il domandarono chi del pozzo l’avesse trat-
accadde di imbattersi. to. Andreuccio rispose che non sapea, e loro ordinatamente disse come era avve- 290
144 leggiermente: facil-
mente. nuto e quello che trovato aveva fuori del pozzo. Di che costoro, avvisatisi come
145 furono all’arca: rag-
stato era, ridendo gli contarono perché s’eran fuggiti e chi stati eran coloro che sú
giunsero la tomba.
146 gravissimo: pesantissi- l’avean tirato. E senza piú parole fare, essendo già mezzanotte, n’andarono alla chie-
mo. sa maggiore, e in quella assai leggiermente144 entrarono e furono all’arca145, la qua-
147 ammenduni: entram-
bi. le era di marmo e molto grande; e con lor ferro il coperchio, ch’era gravissimo146, 295
148 v’enterrai: ci entrerai. sollevaron tanto quanto un uomo vi potesse entrare, e puntellaronlo.
149 noi… pali: ti daremo
tante botte con uno di que-
E fatto questo, cominciò l’uno a dire: «Chi entrerà dentro?»
sti pali. A cui l’altro rispose: «Non io».
150 penerò: faticherò.
151 s’avisò… parte sua:
«Né io» disse colui «ma entrivi Andreuccio».
decise innanzi tutto (innanzi «Questo non farò io» disse Andreuccio. 300
tratto) di tenersi la propria Verso il quale ammenduni147 costoro rivolti dissero: «Come non v’enterrai?148 In
parte.
152 caro: prezioso. fé di Dio, se tu non v’entri, noi ti darem tante d’uno di questi pali149 di ferro sopra
153 pasturale… guanti: la testa, che noi ti farem cader morto».
bastone, copricapo e guanti,
oggetti tutti preziosi, sim- Andreuccio temendo v’entrò, e entrandovi pensò seco: «Costoro mi ci fanno en-
boli dell’autorità vescovile. trare per ingannarmi, per ciò che, come io avrò loro ogni cosa dato, mentre che io 305
penerò150 a uscir dall’arca, essi se ne andranno pe’ fatti loro e io rimarrò senza cosa
alcuna». E per ciò s’avisò di farsi innanzi tratto la parte sua151; e ricordatosi del ca-
ro152 anello che aveva loro udito dire, come fu giú disceso cosí di dito il trasse al-
l’arcivescovo e miselo a sé; e poi dato il pasturale e la mitra e’ guanti153 e spogliato-
lo infino alla camiscia, ogni cosa diè loro dicendo che piú niente v’avea. Costoro, 310

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Duecento e Trecento

154 preso tempo: colto il affermando che esser vi doveva l’anello, gli dissero che cercasse per tutto: ma esso,
momento opportuno.
155 venendo meno cad- rispondendo che nol trovava e sembiante faccendo di cercarne, alquanto gli tenne
de: cadde svenuto. in aspettare. Costoro che d’altra parte eran sí come lui maliziosi, dicendo pur che
156 in quella… appicca-
to: o morire (convenirlo mori-
ben cercasse, preso tempo,154 tiraron via il puntello che il coperchio dell’arca soste-
re, convenirgli morire) fra i nea, e fuggendosi lui dentro dall’arca lasciaron racchiuso. La qual cosa sentendo 315
vermi del cadavere per la fa- Andreuccio, quale egli allor divenisse ciascun sel può pensare.
me e le esalazioni, nel caso
che nessuno più venisse ad Egli tentò piú volte e col capo e con le spalle se alzare potesse il coperchio, ma
aprire la tomba, o essere im- invano si faticava: per che da grave dolor vinto, venendo meno cadde155 sopra il
piccato come ladro, qualora
qualcuno venisse. morto corpo dell’arcivescovo; e chi allora veduti gli avesse malagevolmente avreb-
157 vi manuchi: vi mangi. be conosciuto chi piú si fosse morto, o l’arcivescovo o egli. Ma poi che in sé fu ri- 320
158 perseguitati: inseguiti.
159 si abbatté: si imbatté, tornato, dirottissimamente cominciò a piagnere, veggendosi quivi senza dubbio al-
giunse. l’un de’ due fini dover pervenire: o in quella arca, non venendovi alcuni piú a
160 in sollecitudine: in ap-
prensione (Fiordaliso ov-
aprirla, di fame e di puzzo tra’ vermini del morto corpo convenirlo morire, o ve-
viamente non aveva manda- gnendovi alcuni e trovandovi lui dentro, sí come ladro dovere essere appiccato.156
to nessuno ad avvertire l’al- E cosí fatti pensieri e doloroso molto stando, sentí per la chiesa andar genti e 325
bergatore).
161 A’ quali… partire: ai parlar molte persone, le quali, sí come egli avvisava, quello andavano a fare che es-
quali (compagni), avendo so co’ suoi compagni avean già fatto: di che la paura gli crebbe forte. Ma poi che
Andreuccio raccontato ciò
che gli era capitato, parve costoro ebbero l’arca aperta e puntellata, in quistion caddero chi vi dovesse entra-
opportuno, per consiglio re, e niuno il voleva fare; pur dopo lunga tencione un prete disse: «Che paura ave-
dell’oste, che egli si dovesse
subito (incontanente) allonta- te voi? credete voi che egli vi manuchi?157 Li morti non mangian gli uomini: io 330
nare da Napoli. v’entrerò dentro io». E cosí detto, posto il petto sopra l’orlo dell’arca, volse il capo
162 avendo… andato:
avendo investito il suo de-
in fuori e dentro mandò le gambe per doversi giuso calare. Andreuccio, questo
naro in un anello,mentre era vedendo, in piè levatosi prese il prete per l’una delle gambe e fé sembiante di vo-
andato a Napoli per compe- lerlo giú tirare. La qual cosa sentendo il prete mise uno strido grandissimo e pre-
rare cavalli. La conclusione
della novella ha in quell’in- sto dell’arca si gittò fuori; della qual cosa tutti gli altri spaventati, lasciata l’arca 335
vestito un tratto ironico, in aperta, non altramente a fuggir cominciarono che se da centomilia diavoli fosser
quanto non si tratta propria-
mente di un investimento perseguitati158.
intenzionale, ma il frutto di La qual cosa veggendo Andreuccio, lieto oltre a quello che sperava, subito si gittò
una incredibile sequenza di
avventure casuali. fuori e per quella via onde era venuto se ne uscí della chiesa; e già avvicinandosi al
giorno, con quello anello in dito andando all’avventura, pervenne alla marina e 340
quindi al suo albergo si abbatté;159 dove li suoi compagni e l’albergatore trovò tut-
ta la notte stati in sollecitudine160 de’ fatti suoi. A’ quali ciò che avvenuto gli era
raccontato, parve per lo consiglio dell’oste loro che costui incontanente si dovesse
di Napoli partire161 la qual cosa egli fece prestamente e a Perugia tornossi, avendo
il suo investito in uno anello, dove per comperare cavalli era andato162. 345

Guida all’analisi
La città: una nuova considerazione dell’ambiente Questa novella è una delle prime opere medievali che, dopo
tante corti, castelli e foreste o scenari allegorici e fantastici, presenta la città come co-protago-
nista della vicenda. È un tributo che la cultura ormai ‘borghese’ doveva a quei centri urbani
(borghi), risorti con i commerci dopo i secoli del feudalesimo, da cui prendeva il nome. Nel-
l’ottica mercantile non stupisce neppure che una città diventi il teatro di una novella avventu-
rosa (come la selva per i cavalieri erranti), perché la città era lo spazio operativo principale dei
mercanti, e quella forestiera era luogo d’affari ma spesso anche di insidie, come il mare, i de-
serti, le foreste che si dovevano attraversare per giungervi (in tempi in cui viaggiare era sempre
un rischio). Come scrive Baratto, «il Boccaccio è il primo grande scrittore, nel Medio Evo,
che abbia colto la natura avventurosa della città, il potenziale narrativo che essa contiene».
Del resto il nuovo realismo rappresentativo che si faceva strada in quest’epoca imponeva an-
che di dare un diverso ruolo alla rappresentazione dell’ambiente. Esso diventa così un elemento
capace non solo di creare sfondo e colore, ma anche di interagire con i personaggi, costituendo
per le sue caratteristiche specifiche un luogo di opportunità, insidie, ostacoli che determina o
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13. Giovanni Boccaccio T 13.4

condiziona i comportamenti (sul piano dell’intreccio) e una fonte di emozioni e sentimenti (su
quello psicologico e morale). Ovviamente non si tratta solo dell’ambiente fisico (luoghi, ogget-
ti, paesaggi urbani o naturali), ma anche di quello sociale, di quell’insieme inscindibile cioè di
ambiente fisico e di esseri umani che lo abitano e che hanno, nel bene e nel male, contribuito a
modellarlo. Possiamo dire che il Boccaccio dà un contributo notevole alla formazione della
moderna idea di ambiente, e che dopo di lui il paesaggio narrativo non è più lo stesso.
La formazione di un mercante La narratrice presenta una serie impressionante di elementi volti a connotare An-
dreuccio come ingenuo (si noti però che il Boccaccio non indugia in lunghe analisi psicolo-
giche, ma fa desumere al lettore i tratti psicologici dei personaggi dai loro comportamenti o
dalle loro parole). Abbiamo già visto come Andreuccio fosse giovane e non fosse mai prima
d’allora uscito di Perugia: grazie a questi due dati subito il personaggio ci viene dipinto come
inesperto. Poco dopo egli mostra in pieno mercato («in presenza di chi andava e di chi veni-
va», r. 11) la borsa con i cinquecento fiorini allo scopo di «mostrare che per comperar fosse».
La narratrice, commentando l’atto sconsiderato di Andreuccio, lo qualifica significativamen-
te come «rozzo e poco cauto»: all’inesperienza si associano l’ingenuità, l’incautela, il suo esse-
re ancora un mercante ‘grezzo’, da ‘dirozzare’ all’arte della contrattazione e della prudenza.
Nell’episodio del misterioso invito scopriamo anche la presunzione di Andreuccio: non ne
vede le possibili insidie perché si sente giovane e bello, pensa che qualche donna si sia innamo-
rata di lui, «quasi altro bel giovane che egli non si trovasse allora in Napoli», commenta ironica-
mente la narratrice (rr. 40-41). Uscito senza dir nulla all’oste e ai compagni si dirige verso un
quartiere malfamato, «niente di ciò sappiendo né suspicando, credendosi in uno onestissimo
luogo andare» (r. 49). Senza sospetti («liberamente», r. 50), entra in una casa sconosciuta e «sì co-
me nuovo» (ingenuo) crede di trovarsi in casa di una gran dama; qui cade poi nel tranello degli
«onesti baci» di Fiordaliso, non scorgendo nel suo nome un che di eccessivamente zuccheroso e
fiabesco; si beve insomma la «favola» (r. 105) della cortigiana «credendo quello che meno di
creder gli bisognava» (r. 125). Andreuccio persevera nel suo comportamento fino all’ingenuità
di narrare per filo e per segno ai due sconosciuti la sua disavventura, il che consente loro di al-
lettarlo con la speranza di rifarsi (mentre già progettano di farlo scendere nella tomba e di ab-
bandonarlo lì) e alla decisione di seguirli nel furto («più cupido che consigliato», r. 261).
Alla fine però, quando ormai si tratta di scendere nella tomba, intuisce in parte l’insidia (in
verità sospetta di poter essere truffato, non di venire rinchiuso nell’arca) e cerca di prevenir-
la, fingendo di non aver trovato l’anello. In questa circostanza la narratrice pronuncia – forse
con un filo di residua ironia – la frase che finalmente qualifica il protagonista come «malizio-
so» («eran sì come lui maliziosi», r. 312). La metamorfosi del personaggio, il suo viaggio di
iniziazione alle insidie del mondo urbano e mercantile non sono ancora compiuti, ma un
passo è fatto. Egli avrà ancora bisogno dell’aiuto del caso per ristabilire le sue sorti (l’arrivo di
una seconda brigata di ladri, che gli rispalanca l’avello), ma allora saprà cogliere al volo l’oc-
casione, intuendo lo stato d’animo e le possibili reazioni dei ladri e fingendo di voler tirar giù
nella tomba il chierico (lo vuole invece solo spaventare perché fugga lasciando aperta la tom-
ba) e si conquista, per caso e per virtù, la vita, la libertà, il denaro perduto e la possibilità di ri-
prendere in più tranquille contrade la sua attività mercantile.
Fortuna e virtù Il caso (o «fortuna») costituisce il terzo tema della novella. Con alcuni testi duecenteschi
ma soprattutto con il Decameron il caso comincia a sostituire la provvidenza nell’ideologia e
nella dinamica della narrativa tardo-medievale. È anche questo un indizio del laicismo del
Boccaccio. Il caso nel Decameron non è però neppure destino o fato, qualcosa cioè di miste-
rioso e sovrumano: è invece quell’elemento di imponderabile, frutto dell’interazione com-
plessa delle azioni umane e delle circostanze naturali e sociali, che è poi il modo moderno di
intendere il caso (e noi ne siamo debitori in gran parte alla cultura mercantile della tarda età
medievale). Il caso per il Boccaccio è poi un elemento necessario, ma non sufficiente per il
successo di ogni azione umana: l’uomo e il mercante in particolare nel loro agire devono
metterne in conto la presenza, addestrandosi, grazie alle loro virtù laiche, a pararne le insidie
impreviste, ad attenuarne i colpi improvvisi e a coglierne con prontezza le opportunità favo-
revoli, addestrandosi insomma ad analizzare la realtà e formulare ipotesi e previsioni.

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Duecento e Trecento

Casuale è la presenza della vecchia fantesca che mette la giovane siciliana al corrente dell’i-
dentità di Andreuccio e di quei particolari che le consentono di architettare il suo tranello: e
Andreuccio non riesce a parare il colpo del caso associato all’astuzia della sua interlocutrice.
Ma casuali sono anche la caduta nel chiassetto che gli salva almeno la vita (Andreuccio an-
cora fatica ad accorgersi della buona sorte e vorrebbe rientrare nella tana del lupo) e tutti gli
altri incontri e accidenti, come, simbolicamente, il suo vagare per la città senza sapere dove si
dirige. Casuali infine sono la venuta della seconda brigata di ladri e il riaprirsi della tomba:
ora però Andreuccio è pronto a volgere la casualità a proprio favore.

Doc 13.2 Precetti di mercatura

Paolo da Certaldo, Verso il 1360 un mercante toscano, Paolo da Certaldo, compone un libretto, il Libro di buo-
Libro di buoni costumi,
a c. di A. Schiaffini, Le ni costumi, che raccoglie precetti di comportamento e in particolare di mercatura, che costi-
Monnier, Firenze 1945 tuiscono una preziosa testimonianza del sapere pratico e dell’etica mercantili. Il quadro del-
la vita mercantile qui delineato è articolato e complesso, trattando di svariati argomenti, ma
alcuni di questi precetti – composti in questo caso dopo la stesura del Decameron ma sinte-
si di una saggezza pratica formatasi nel corso dei secoli e ben presente nel mondo mer-
cantile, noti al Boccaccio in forma di precetti orali, di detti sapienziali, sembrano corri-
spondere con precisione alle situazioni narrate in questa novella. Ne proponiamo alcuni.
1 se... altro: se puoi
fare altrimenti, se non ne
86. Guadati di non andare fuori di casa tua di notte, se puoi fare altro1; e se ti pur con-
puoi fare a meno. viene ire, mena teco compagnia fidata e uno buono e grande lume. Non andare mai a casa
2 per ch’ella mandi di niuna femina mondana né d’altra simile di notte, per ch’ella mandi per te2; e se pur man-
per te: per quanto ella ti dasse più volte per te, dille che venga a casa tua, s’ella vuole venire: se no, sì si rimanga, ché
inviti (mandi messaggi,
mandi a chiamare). molte beffe se ne sono già vedute, e spezialmente in terre marine e forestiere.

96. Se vai in alcuno luogo di rischio , muoviti a tua posta1, e va sanza dirlo a persona do-
ve vadi; anzi se vai a Siena, dì tu vadi a Lucca: e andrai sicuro da la mala gente. E se quando
se’ in cammino tu trovassi briganti o altre male persone e tu t’avvedessi di niuno malo atto,
non ristare2 punto co loro, se se’ in luogo salvatico3, anzi studia4 e cammina forte; e se avan-
zi punto loro5, cavalca poi sì forte, che, per che ti vogliano giugnere6, che non possano se
non se’7 a l’albergo o in buona terra8. E sempre ti mostra povero di danari il più che puoi.
1 a tua posta: «a tuo be- vaggio. avanti a loro. quando tu sia giunto.
neplacito» (Schiaffini), se- 4 studia: «studia il passo 6 per che ti vogliano 8 buona terra: luogo si-
condo le tue intenzioni. (o il cammino), ossia “af- giugnere: per quanto essi curo.
2 ristare: fermarti. frettati”» (Schiaffini). cerchino di raggiungerti.
3 salvatico: isolato, sel- 5 avanzi... loro: e se sei 7 se non se’: se non

Laboratorio 1 Analizza i modi della rappresentazione quali? Se no, perché? C’è una morale nel-
COMPRENSIONE dello spazio e degli ambienti (esterni ed la storia di Andreuccio?
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE interni) e in particolare gli spostamenti di 3 Molti critici hanno riconosciuto a questa
Andreuccio, la descrizione delle vie e dei novella caratteristiche di teatralità. Prova a
quartieri cittadini, l’ingresso di Andreuc- suddividere la novella in scene ed even-
cio in casa della siciliana, la tomba del- tualmente ad elaborare una versione tea-
l’arcivescovo. Boccaccio si sofferma in trale (dialoghi e brevi didascalie) di una
descrizioni analitiche? se sì in quali casi? delle scene individuate.
quali altre tecniche adotta? c’è in lui un 4 Di Andreuccio non ci viene fornito un ri-
interesse a ‘far vedere’ gli ambienti in cui tratto complessivo e unitario, tuttavia mol-
i personaggi operano? to si può desumere da commenti e giudizi
2 Il comportamento di personaggi che An- della narratrice e dai suoi medesimi com-
dreuccio incontra è sicuramente censura- portamenti. Traccia dunque su queste basi
bile, ma anche Andreuccio, alla fine, com- un ritratto complessivo di Andreuccio, sof-
pensa la sua perdita andando a derubare fermandoti, oltre che sui suoi tratti psico-
la tomba di un arcivescovo. Il narratore logici fondamentali (in parte già descritti
formula dei giudizi di ordine morale in nella Guida all’analisi) sui suoi stati d’ani-
merito a questi comportamenti? Se sì mo nei diversi momenti della novella.
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13. Giovanni Boccaccio T 13.5

T 13.5 Il Decameron 1349-1351


Agilulf e il palafreniere (III,2)
G. Boccaccio La terza giornata, sotto il governo di Neifile, ha per tema «chi alcuna cosa molto da lui
Il Decameron disiderata con industria acquistasse e la perduta ricoverasse [ricuperasse]». Il tema tipica-
a c. di V. Branca,
Einaudi, Torino 1984 mente boccacciano dell’industria, cioè dell’abilità, dell’astuzia, dell’intelligenza già fon-
damentale nelle due novelle che abbiamo letto, diviene qui centrale dell’intera giornata
e sempre si applica a un oggetto del desiderio di natura amorosa o semplicemente ses-
suale, il che contraddistingue questa giornata decameroniana.
Nella seconda novella, narrata da Pampinea, si narra dell’astuzia di un palafreniere
che innamorato della sua regina riesce con uno stratagemma a giacere con lei e poi,
scoperto, con una seconda astuzia riesce a scampare al castigo del re.

Un pallafrenier1 giace con la moglie d’Agilulf re2, di che Agilulf tacitamente s’accorge;
truovalo e tondelo3; il tonduto tutti gli altri tonde, e così campa della mala ventura4.

1 pallafrenier: stalliere. Essendo la fine venuta della novella di Filostrato, della quale erano alcuna volta
2 Agilulf re:Agilulfo, re un poco le donne arrossate e alcuna altra se n’avevan riso, piacque alla reina che 5
dei Longobardi fra il 590 e il
615, marito di Teodolinda, Pampinea novellando seguisse: la quale con ridente viso incominciando disse:
per influsso della quale fa- – Sono alcuni sí poco discreti nel voler pur mostrare di conoscere e di sentire
vorì la diffusione del cattoli- quello che per loro non fa di sapere, che alcuna volta per questo, riprendendo i
cesimo nel suo regno. Il per-
sonaggio è dunque storico, disaveduti difetti in altrui, si credono la lor vergogna scemare dove essi l’acrescono
ma la vicenda qui narrata è in infinito5: e che ciò sia vero nel suo contrario, mostrandovi l’astuzia d’un forse 10
del tutto fantasiosa.
3 tondalo: lo rasa, gli ta- di minor valore tenuto che Masetto, nel senno d’un valoroso re, vaghe donne, in-
glia i capelli. tendo che per me vi sia dimostrato6.
4 campa… ventura:
scampa, sfugge alla mala sor- Agilulf re de’ longobardi, sí come i suoi predecessori, in Pavia, città di Lombar-
te. dia, avevan fatto, fermò il solio7 del suo regno, avendo presa per moglie Teudelin-
5 Sono… infinito: ci so-
no alcune persone così po- ga, rimasa vedova d’Auttari, re stato similmente de’ longobardi, la quale fu bellissi- 15
co discrete nel volere mo- ma donna, savia e onesta molto ma male avventurata in amadore8. E essendo al-
strare a tutti i costi (pur) di quanto per la vertù e per lo senno di questo re Agilulf le cose de’ longobardi pro-
conoscere e sentire ciò che
non conviene che loro sap- spere e in quiete, adivenne che un pallafreniere della detta reina, uomo quanto a
piano, che talora per questa nazione9 di vilissima condizione ma per altro da troppo più che da cosí vil me-
loro ostinazione, biasiman-
do o punendo (riprendendo) stiere10, e della persona bello e grande cosí come il re fosse11, senza misura12 della 20
in altri delle colpe non evi- reina s’innamorò. E per ciò che il suo basso stato non gli avea tolto che egli non
denti (disaveduti),credono di
diminuire la propria vergo- conoscesse questo suo amore esser fuori d’ogni convenienza13, sí come savio a
gna e invece l’accrescono al- niuna persona il palesava né eziandio a lei con gli occhi ardiva discoprirlo14. E
l’infinito.
6 e che ciò… dimostra-
quantunque senza alcuna speranza vivesse di dover mai a lei piacere, pur seco si
to: e che ciò sia vero intendo gloriava che in alta parte avesse allogati i suoi pensieri15; e, come colui che tutto 25
dimostrarvelo attraverso il ardeva in amoroso fuoco, studiosamente faceva, oltre ad ogni altro16 de’ suoi com-
suo contrario, mostrandovi
l’astuzia (e bisognerebbe ag- pagni, ogni cosa la qual credeva che alla reina dovesse piacere. Per che intervenia 17
giungere: la discrezione) di- che la reina, dovendo cavalcare, più volentieri il pallafreno da costui guardato18 ca-
mostrata da una persona di
condizione anche inferiore valcava che alcuno altro: il che quando avveniva, costui in grandissima grazia sel
a quella di Masetto (il perso-
naggio della novella prece-
dente) per opporsi al com- sua sede. fisica, del palafreniere con il scoprirlo: come persona sai in alto (è un tratto dell’e-
portamento assennato di un 8 male… amadore: suo re). saggia non lo rivelava a nes- tica e della dottrina d’amore
re valoroso.Tutto il concetto sfortunata in amore. 12 senza misura: smisu- suno e non osava farlo com- cortesi, che descrivevano
è piuttosto tortuoso: in so- 9 nazione: nascita. ratamente, perdutamente. prendere con un semplice come fonte di nobilitazione
stanza è un’opposizione fra 10 ma per altro… me- 13 E perciò… conve- sguardo neppure all’amata. l’amare persone di uno stato
l’indiscrezione sciocca di chi stiere: ma per tutto il resto nienza: e dato che la sua vile Ecco la discrezione di cui si sociale superiore).
rivela qualcosa che nuoce al- assai superiore al suo mode- condizione non gli impedi- discorre nell’introduzione e 16 oltre… altro: più di
la sua reputazione e la pru- sto mestiere. va di comprendere che il che contribuirà a salvare il ogni altro.
dente, assennata discrezione 11 cosí come il re fosse: suo amore era del tutto palafreniere. 17 intervenia: accadeva.
di chi, tacendo, la occulta. quanto il re (è un primo im- sconveniente, impossibile a 15 si gloriava… pensieri: 18 il pallafreno… guar-
7 fermò il solio: pose il portante accenno al motivo realizzarsi. si gloriava fra sé e sé di aver dato: il cavallo accudito da
trono (soglio), stabilì cioè la dell’equivalenza, non solo 14 sí come savio… di- collocato i suoi desideri as- costui.

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Duecento e Trecento

19 in grandissima… re- reputava19 e mai dalla staffa non le si partiva, beato tenendosi20 qualora pure i 30
putava:riteneva questa scel-
ta come un grandissimo atto panni toccar le poteva.
di favore. Ma, come noi veggiamo assai sovente avvenire, quando la speranza diventa mi-
20 tenendosi: ritenendo-
si.
nore tanto l’amor maggior farsi, cosí in questo povero pallafreniere avvenia, in
21 in tanto che… atato: tanto che gravissimo gli era il poter comportare il gran disio cosí nascoso come
dato che gli era difficilissimo facea, non essendo da alcuna speranza atato21; e più volte seco, da questo amor 35
(gravissimo) sopportare in si-
lenzio il proprio desiderio, non potendo disciogliersi, diliberò di morire. E pensando seco del modo, prese
non essendo aiutato (atato; per partito di voler questa morte per cosa per la quale apparisse lui morire per lo
s’intenda: a sopportarlo) da
alcuna speranza. amore che alla reina aveva portato e portava: e questa cosa propose di voler che tal
22 E pensando… diside- fosse, che egli in essa tentasse la sua fortuna in potere o tutto o parte aver del suo
ro:e pensando in qual modo disidero22. Né si fece a voler dir parole23 alla reina o a voler per lettere far sentire 40
(realizzare il suo proposito),
decise di procurarsi la morte il suo amore, ché sapeva che invano o direbbe o scriverebbe, ma a voler provare se
per qualcosa per cui gli fosse per ingegno24 con la reina giacer potesse; né altro ingegno né via c’era se non tro-
chiaro che moriva (apparisse
lui morire) per l’amore che var modo come egli in persona del re25, il quale sapea che del continuo con lei
aveva provato e provava per non giacea26, potesse a lei pervenire e nella sua camera entrare. Per che, acciò che
la regina:e decise che ciò ac-
cadesse tentando la sorte, vedesse in che maniera e in che abito il re, quando a lei andava, andasse, più volte 45
cercando di realizzare in di notte in una gran sala del palagio del re, la quale in mezzo era tra la camera del
tutto o in parte il proprio
desiderio. re e quella della reina, si nascose: e intra l’altre una notte vide il re uscire della sua
23 Né si fece… dir paro- camera inviluppato in un gran mantello e aver dall’una mano un torchietto27 ac-
le: né accennò a rivelare a ceso e dall’altra una bacchetta, e andare alla camera della reina e senza dire alcuna
parole.
24 per ingegno: per mez- cosa percuotere una volta o due l’uscio della camera con quella bacchetta e in- 50
zo di un inganno. contanente28 essergli aperto e toltogli di mano il torchietto.
25 in persona del re: sot-
to le spoglie del re, fingendo La qual cosa veduta, e similmente vedutolo ritornare29, pensò di cosí dover fare
di essere il re. egli altressí: e trovato modo d’avere un mantello simile a quello che al re veduto
26 del continuo… gia-
cea: non dormiva sempre avea e un torchietto e una mazzuola30, e prima in una stufa31 lavatosi bene acciò
(tutte le notti, per tutta la che non forse l’odor del letame la reina noiasse o la facesse accorgere dello ingan- 55
notte) con lei. no, con queste cose, come usato era, nella gran sala si nascose. E sentendo che già
27 torchietto: una picco-
la torcia. per tutto si dormia32, e tempo parendogli o di dovere al suo disiderio dare effetto
28 incontanente: imme-
o di far via con alta cagione alla bramata morte33, fatto con la pietra e con l’ac-
diatamente.
29 similmente… ritor- ciaio34 che seco portato avea un poco di fuoco, il suo torchietto accese e chiuso e
nare: vistolo uscire nello avviluppato nel mantello se n’andò all’uscio della camera e due volte il percosse 60
stesso modo dalla camera
della regina. con la bacchetta. La camera da una cameriera tutta sonnacchiosa fu aperta e il lu-
30 mazzuola: piccola me preso e occultato: laonde egli, senza alcuna cosa dire, dentro alla cortina trapas-
mazza, simile alla bacchetta di sato35 e posato il mantello, se n’entrò nel letto nel quale la reina dormiva. Egli di-
cui poco sopra.
31 stufa: bagno caldo. siderosamente in braccio recatalasi36, mostrandosi turbato, per ciò che costume del
32 per tutto si dormia:
re esser sapea che quando turbato era niuna cosa voleva udire, senza dire alcuna 65
dappertutto si dormiva,tutti
dormivano. cosa o senza essere a lui detta più volte carnalmente la reina cognobbe37. E come
33 far via… morte: o di che grave gli paresse il partire, pur temendo non la troppo stanza gli fosse cagione
aprirsi la via per un motivo
così nobile a una morte de- di volgere l’avuto diletto in tristizia38, si levò e ripreso il suo mantello e il lume,
siderata. senza alcuna cosa dire, se n’andò e come più tosto poté si tornò al letto suo.
34 con… acciaio: con la
pietra focaia e con l’acciari- Nel quale appena ancora esser potea, quando39 il re, levatosi, alla camera andò 70
no, gli strumenti con cui al- della reina, di che ella si maravigliò forte; e essendo egli nel letto entrato e lieta-
lora si accendeva il fuoco. mente salutatala, ella, dalla sua letizia preso ardire40, disse: «O signor mio, questa
35 dentro… trapassato:
superata la cortina del letto che novità è stanotte? voi vi partite pur testé da me41 e oltre l’usato modo42 di me
(una tenda che circondava il avete preso piacere, e cosí tosto da capo ritornate? Guardate ciò che voi fate».
letto).
36 in braccio recatalasi:
presala fra le braccia.
37 carnalmente… co-
gnobbe: si unì carnalmente temendo che il rimanervi 39 Nel quale… quando: dire: preso coraggio dal fat- nato da me.
con la regina. troppo a lungo (la troppo in questo letto egli si era for- to che egli si mostrava alle- 42 oltre l’usato modo:
38 E come che… tristi- stanza) convertisse il diletto se appena coricato, quan- gro. più intensamente, più volte
zia: e benché gli paresse du- provato in danno, in infeli- do… 41 vi partite pur testé da del solito.
ro allontanarsi da lei,tuttavia cità. 40 dalla sua letizia… ar- me: vi siete appena allonta-

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13. Giovanni Boccaccio T 13.5

43 subitamente presun- Il re, udendo queste parole, subitamente presunse43 la reina da similitudine di 75
se: immediatamente com-
prese. costumi e di persona essere stata ingannata, ma come savio44 subitamente pensò,
44 come savio: da saggio, poi vide la reina45 accorta non se ne era né alcuno altro, di non volernela fare ac-
prudente: la stessa espressio- corgere46: il che molti sciocchi non avrebbon fatto ma avrebbon detto: «Io non ci
ne in precedenza usata per il
palafreniere (cfr. nota 14). fui io: chi fu colui che ci fu? come andò? chi ci venne?» Di che molte cose nate
45 poi vide la reina: poi-
sarebbono47, per le quali egli avrebbe a torto contristata la donna e datale materia 80
ché vide che la regina.
46 di non… accorgere: di disiderare altra volta quello che già sentito avea48; e quello che tacendo niuna
di non fare in modo che lei vergogna gli poteva tornare, parlando s’arebbe vitupero recato49.
si accorgesse dell’accaduto.
47 molte cose… sareb- Risposele adunque il re, più nella mente che nel viso o che nelle parole turba-
bono: molto scandalo, mol- to: «Donna, non vi sembro io uomo da poterci altra volta essere stato e ancora ap-
te nefaste conseguenze ne presso questa tornarci50?» 85
sarebbero derivate.
48 avrebbe… avea: a tor- A cui la donna rispose: «Signor mio, sí; ma tuttavia io vi priego che voi guar-
to (in quanto la regina non diate alla vostra salute».
ne aveva colpa) avrebbe rat-
tristato la regina e le avrebbe Allora il re disse: «E egli mi piace di seguire il vostro consiglio, e questa volta
magari dato motivo di desi- senza darvi più impaccio me ne vo’ tornare».
derare di ripetere l’espe-
rienza. Un duplice tratto di E avendo l’animo già pieno d’ira e di maltalento51 per quello che vedeva gli era 90
delicatezza e di prudenza! stato fatto, ripreso il suo mantello, s’uscí della camera e pensò di voler chetamen-
Quanto alla prudenza, il so-
vrano ha forse notato l’e- te52 trovare chi questo avesse fatto, imaginando lui della casa dovere essere53 e,
spressione della moglie: «ol- qualunque si fosse, non esser potuto di quella uscire. Preso adunque un picciolis-
tre l’usato modo di me avete simo lume in una lanternetta, se n’andò in una lunghissima casa54 che nel suo pa-
preso piacere».
49 e quello… recato: si lagio era sopra le stalle de’ cavalli, nella quale quasi tutta la sua famiglia55 in diver- 95
sarebbe procurato infamia e si letti dormiva; ed estimando che, qualunque fosse colui che ciò fatto avesse che
disonore rivelando (parlan-
do) quello che invece, ta- la donna diceva, non gli fosse potuto ancora il polso e ’l battimento del cuore, per
cendo, non gli avrebbe pro- lo durato affanno, potuto riposare56, tacitamente, cominciato dall’un de’ capi del-
curato (gli poteva tornare) al-
cuna vergogna. Ritorna, la casa, a tutti cominciò a andar toccando il petto per sapere se gli battesse.
questa volta applicato al re,il Come che ciascuno altro57 dormisse forte, colui che con la reina stato era non 100
tema della novella quale era dormiva ancora; per la qual cosa, vedendo venire il re e avvisandosi ciò che esso
stato esposto dalla narratri-
ce nell’introduzione (cfr. cercando andava, forte cominciò a temere, tanto che sopra il battimento della fa-
note 5 e 6). tica58 avuta la paura n’agiunse un maggiore; e avvisossi fermamente59 che, se il re
50 uomo… tornarci: un
uomo che, dopo aver avuto di ciò s’avvedesse, senza indugio il facesse morire60. E come che varie cose gli an-
dei rapporti amorosi con dasser per lo pensiero di doversi fare, pur vedendo il re senza alcuna arme diliberò 105
voi, non possa averne subito
dopo altri? (Lett.: un uomo di far vista di dormire e d’attender quello che il far dovesse61. Avendone adunque
tale da poter aver avuto dei il re molti cerchi né alcun trovandone il quale giudicasse essere stato desso62, per-
rapporti amorosi con voi e venne a costui e trovandogli batter forte il cuore seco disse: «Questi è desso». Ma
da averne altri subito dopo?)
51 maltalento: sdegno, sí come colui che di ciò che fare intendeva niuna cosa voleva che si sentisse63,
rabbia. niuna altra cosa gli fece se non che con un paio di forficette64, le quali portate 110
52 chetamente: cauta-
mente, in modo discreto avea, gli tondé65 alquanto dall’una delle parti i capelli, li quali essi a quel tempo
(lett. quietamente). portavan lunghissimi, acciò che a quel segnale la mattina seguente il riconoscesse;
53 imaginando lui… es-
sere: immaginando che do- e questo fatto, si dipartí e tornossi alla camera sua.
vesse trattarsi di una persona Costui, che tutto ciò sentito avea, sí come colui che malizioso era66, chiaramen-
che viveva a palazzo.
54 casa: casamento.
te s’avvisò perché67 cosí segnato era stato: laonde egli senza alcuno aspettar68 si 115
55 famiglia: la servitù, levò, e trovato un paio di forficette, delle quali per avventura v’erano alcun paio
l’insieme degli inservienti. per la stalla per lo servigio de’ cavalli69, pianamente andando a quanti in quella ca-
56 e estimando… ripo-
sare: e ritenendo che al col-
pevole (a colui, che – chiun- dormiva… quello che egli (il) dovesse se: ma non volendo fare al- 67 perché: a quale scopo.
que fosse – avesse fatto ciò 58 sopra… fatica: oltre al fare. cun atto che fosse manifesto 68 senza alcuno aspet-
che la regina gli aveva rac- battito dovuto alla fatica. 62 Avendone… desso: a tutti. tar: senza alcun indugio.
contato) il battito del polso e 59 avvisossi fermamen- avendone dunque il re tasta- 64 forficette: forbicette. 69 delle quali… cavalli :
del cuore non potesse anco- te: e capì chiaramente, per ti (cerchi, cercati) molti e non 65 tondé: recise, tagliò. di cui per caso, per sua buo-
ra essersi acquietato, per l’af- certo. trovandone nessuno che 66 sí come… era: dato na sorte (per avventura) nella
fanno sopportato. 60 il facesse morire: lo giudicasse colpevole (lett. che era astuto (malizioso); si stalla ce n’era un paio per ac-
57 Come… altro: benché avrebbe condannato a mor- che giudicasse essere stato noti che è la stessa espressio- cudire ai cavalli.
ogni altro dormisse profon- te. proprio lui, desso). ne usata per Andreuccio nel
damente, mentre ogni altro 61 quello… dovesse: 63 Ma sí come… sentis- finale della novella.

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Duecento e Trecento

70 avanti… s’aprissono: sa ne giacevano, a tutti in simil maniera sopra l’orecchie tagliò i capelli; e ciò fat-
prima che si aprissero le
porte del palazzo. to, senza essere stato sentito, se ne tornò a dormire.
71 gli venisse davanti: Il re, levato la mattina, comandò che avanti che le porti del palagio s’aprisso- 120
comparisse davanti a lui. no70, tutta la sua famiglia gli venisse davanti71; e cosí fu fatto. Li quali tutti, senza
72 senza… capo: senza
alcun copricapo. alcuna cosa in capo72 davanti standogli, esso cominciò a guardare per riconoscere
73 il tonduto da lui: colui il tonduto da lui73; e veggendo la maggior parte di loro co’ capelli a un medesimo
al quale egli aveva tagliato i
capelli. modo tagliati, si maravigliò, e disse seco stesso: «Costui, il quale io vo cercando,
74 d’alto senno: di gran- quantunque di bassa condizion sia, assai ben mostra d’essere d’alto senno74». Poi, 125
de intelligenza.
75 senza romore: senza
veggendo che senza romore75 non poteva avere quel ch’egli cercava, disposto a
destare scalpore e scandalo. non volere per piccola vendetta acquistar gran vergogna76, con una sola parola
76 disposto… vergogna:
deciso a non volersi procu-
d’ammonirlo e dimostrargli che avveduto se ne fosse gli piacque77; e a tutti rivol-
rare una grande vergogna to disse: «Chi ’l fece nol faccia mai più, e andatevi con Dio».
(con la rivelazione della bef- Un altro gli avrebbe voluti far collare78, martoriare, essaminare e domandare79; e 130
fa e dell’offesa recata alla re-
gina e a lui stesso) per com- ciò facendo avrebbe scoperto quello che ciascun dee andar cercando di ricopri-
piere una piccola vendetta. re80, e essendosi scoperto, ancora che intera vendetta n’avesse presa, non iscemata
La piccola vendetta è proba-
bilmente ritenuta tale non ma molto cresciuta n’avrebbe la sua vergogna e contaminata l’onestà della donna
per l’entità dell’offesa ma sua81. Coloro che quella parola udirono si maravigliarono e lungamente fra sé es-
per la bassa condizione del saminarono che avesse il re voluto per quella dire, ma niuno ve ne fu che la 135
colpevole (Fanfani). Di
nuovo la prudenza e la di- ’ntendesse se non colui solo a cui toccava. Il quale, sí come savio82, mai, vivente il
screzione di cui alla nota 49. re, non la scoperse83, né più la sua vita in sí fatto atto commise alla fortuna84. –
77 con una… piacque:
decise, gli piacque con una
semplice frase di ammonirlo
e di fargli capire che si era cia poste dietro alla schiena scun deve cercare di tenere anzi avrebbe di molto accre- nel primo caso) è attribuita
accorto dell’accaduto. in modo da produrre dolo- nascosto (cioè la vergognosa sciuto la propria vergogna e al palafreniere.
78 collare: sottoporre al rosissime slogature. offesa subita). avrebbe compromesso la 83 scoperse: rivelò.
supplizio della colla, che 79 essaminare e doman- 81 e essendosi… donna buona fama della moglie 84 né… fortuna: né mise
consisteva nel sospendere dare: sottoporre ad interro- sua: e avendo rivelata l’offe- (cfr. ancora n. 49). più con un simile atto la
bruscamente e ripetuta- gatori. sa, benché si fosse compiu- 82 sí come savio: l’e- propria vita in balia della
mente il malcapitato trami- 80 avrebbe… ricoprire: tamente vendicato, non spressione compare per la sorte.
te una corda legata alle brac- avrebbe rivelato ciò che cia- avrebbe perciò diminuita, terza volta e di nuovo (come

Guida all’analisi
Un duello fra savi Questa novella, come tante altre nel Decameron, presenta il conflitto di due personaggi per
il possesso di una donna. Rispetto ad altri testi in cui a confrontarsi sono personaggi di di-
verse capacità intellettuali (il caso più tipico è quello di un furbo e di uno sciocco; e il mari-
to quasi sempre recita la parte dello sciocco), qui a confrontarsi sono due personaggi più o
meno equivalenti sul piano intellettuale e morale: il marito ne esce sconfitto, come quasi
sempre accade, ma se non può evitare il danno almeno evita le beffe. La novella è l’esempli-
ficazione di un preciso assunto: si dimostra savio chi con discrezione evita di rivelare una
colpa altrui che potrebbe danneggiarlo. Essa si può dire strutturata, e quasi cadenzata, su
un’espressione chiave: «sì come savio», attribuita prima al palafreniere che evita di rivelare a
chicchessia il proprio amore per la regina, poi al re che evita di rivelare alla moglie di non es-
sere stato lui poco prima ad amarla, quindi di nuovo al palafreniere che, compresa la pruden-
za e la clemenza del re, evita di riferire l’impresa e di ripeterla: in tutti e tre i casi la saviezza è
accostata a un prudente silenzio. Ma al re l’epiteto potrebbe essere attribuito anche quando
decide di svolgere la sua inchiesta tacitamente e quando, vistosi nuovamente beffato dal pa-
lafreniere, di nuovo preferisce evitare lo scandalo. Il tema programmatico della novella po-
tremmo sintetizzarlo dunque come «saviezza della discrezione».
Democrazia dell’eros e dell’ingegno Il fatto che il «duello fra savi» (Baratto) veda contrapposti due personaggi
gerarchicamente distantissimi, un re e un palafreniere, pari tuttavia sul piano delle doti in-
tellettuali e morali e su quello dell’amore, introduce l’altro tema della novella, che potrem-
mo definire come «democrazia dell’amore e dell’ingegno». Nella prospettiva della cultura
borghese trecentesca è ormai assodato che le disparità sociali in alcuni campi possono esse-
re compensate dall’intelligenza e da altre doti fisiche, psicologiche o morali. Sul piano del-

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13. Giovanni Boccaccio T 13.5

l’amore e dell’erotismo, ad esempio, «un palafreniere equivale a un re (se non è anzi miglio-
re di lui, come la narratrice saggiamente sospetta)» (Baratto) e qui una regina, altrove una
nobildonna o un ricca borghese può preferire la passione e la prestanza di un giovane di
bassa condizione a un marito vecchio o tiepido. Agilulf, che non è vecchio né tiepido, tut-
tavia dimostra una simile preoccupazione quando, scoperta l’intrusione, si trattiene dal rive-
larla all’ignara regina, sia per evitare che la moglie sia rattristata dall’accaduto, sia anche, qua-
lora costei avesse apprezzato la passionalità del palafreniere, per evitare che possa desiderare
che la trasgressione si ripeta.
Il mondo vecchio che cede al nuovo Ma il palafreniere equivale o supera il re anche sul piano dell’intelligenza e
dell’astuzia, doti che gli consentono di realizzare il suo sogno impossibile, di beffare due volte
il sovrano e di scampare alla sua punizione. Intelligenza e astuzia sono doti ‘nuove’, tipiche del
mondo borghese e celebrate letterariamente soprattutto attraverso la novella. A tal proposito
si è notato che in questa novella la caratterizzazione storica è assai debole, poco più che un
fondale pittoresco, mentre in scena operano personaggi ‘moderni’ quali il Boccaccio poteva
osservare nelle città del suo tempo. L’ambientazione alto-medievale ha piuttosto un valore
simbolico, come in chiave sociologica ha sostenuto Mario Alicata, cui la novella di Agilulfo
pare esemplare del declino del mondo vecchio che cede il passo a quello nuovo, «dove anche
chi non ha sangue aristocratico nelle vene può farsi strada, se l’ingegno gli dà ala».
Nobiltà d’animo di Agilulf Agilulf, in verità, nel momento in cui manifesta un’oculata discrezione, si dimostra
anche generoso e clemente e vince forse il rivale in nobiltà d’animo, riconoscendo il suo
valore intellettuale e cedendo alla sua astuzia con un moto quasi di simpatia: «se la natura,
mediante l’amore, stimola l’intelligenza degli individui e contiene dunque in sé un elemen-
to di sfida che contesta l’autorità e l’ordine gerarchico, l’intelligenza può anche, accettata la
sostanziale sanità della natura, mantenere intatti i necessari rapporti di civiltà tra gli uomini»
(Baratto). Così forse accade ad Agilulf, che riconoscendo in definitiva la naturale potenza
dell’amore che ha stimolato l’ingegno del suo servo, accetta la sconfitta con fair play ormai
non più longobardico. Agilulf insomma ha altre doti che Boccaccio mostrerà di apprezzare
tanto nei nobili, quanto nei borghesi del suo tempo (specie nella decima giornata).
Un simpatico seduttore Anche in questa novella, infine, Boccaccio dimostra simpatia nei confronti di un per-
sonaggio che commette un’azione censurabile, se giudicata con il metro della morale catto-
lica: la seduzione di una donna sposata. Nessuna parola, infatti, è spesa per discutere sotto
questo rispetto il comportamento del palafreniere, di cui viceversa si esaltano le doti. Il met-
tere tra parentesi il giudizio morale, come s’è visto nel caso di Andreuccio, o il trattarlo am-
biguamente, come nel caso di Ciappelletto, è un’operazione frequente da parte del Boccac-
cio, che spesso sembra limitarsi ad osservare il vario agire ed ingegnarsi dei suoi personaggi
nei complessi scenari del mondo, con uno spirito di osservazione realistico e curioso, talora
spregiudicato o addirittura beffardo. Ma il tema della sessualità ha connotazioni particolari
nel Decameron. È un istinto naturale, una forza vitalistica che percorre tutta l’opera e solleci-
ta uomini e donne ad affinare il proprio ingegno. È normale insomma che il Boccaccio si
astenga dal formulare giudizi morali in proposito o ribalti quelli tradizionali, anche se l’a-
more trova compimento al di fuori di legami istituzionali (del resto già la tradizione corte-
se aveva legittimato l’amore extraconiugale…) e magari senza esplicito e preventivo con-
senso della controparte, che spesso alla fine si dimostra comunque soddisfatta della trasgres-
sione o trova modo di mettersi presto la coscienza in pace o ricavarvi un utile. È dunque
con una simpatia benevola e spesso maliziosa che Boccaccio affronta questo tema piccante.

Laboratorio 1 Prova a immaginare che l’intreccio di comportamento dei personaggi?


COMPRENSIONE questa novella sia collocato invece che nel 2 Il racconto è condotto mediante un’al-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE contesto longobardico in una ‘moderna’ ternanza di punti di vista e tramite inter-
cittadina del Trecento. Descrivi sintetica- venti della novellatrice a commento della
mente quali sostanziali modifiche andreb- vicenda. Individua questi aspetti della
bero apportate al racconto. Si dovrebbero narrazione segnalando i relativi passi nel
introdurre anche sostanziali modifiche al testo.

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Duecento e Trecento

T 13.6 Il Decameron 1349-1351


Lisabetta da Messina (IV, 5)
G. Boccaccio Nella quarta giornata regna Filostrato e impone che i giovani della brigata narrino «di
Il Decameron coloro li cui amori ebbero infelice fine». La giornata si svolge all’insegna del tragico e
a c. di V. Branca,
Einaudi, Torino 1984 del patetico, come accade in questa novella narrata da Filomena che nella sua breve in-
troduzione la definisce «pietosa», cioè commovente.
Vi si narra una tragica storia d’amore violentemente stroncata dai fratelli della pro-
tagonista. La vicenda di Lisabetta ha come ambientazione ancora una volta il mondo
mercantile, di cui Boccaccio in questo caso ci mostra il lato peggiore.

I fratelli d’Ellisabetta uccidon l’amante di lei: egli l’apparisce1 in sogno e mostrale dove sia
sotterato; ella occultamente disotterra la testa e mettela in un testo2 di bassilico, e quivi sú pia-
gnendo ogni dí per una grande ora3, i fratelli gliele tolgono, e ella se ne muore di dolor poco
1 l’apparisce: le appare. appresso.
2 testo: vaso. 5
3 per… ora: assai a lun-
go. [...] Erano4 adunque in Messina tre giovani fratelli e mercatanti, e assai ricchi
4 Erano: vivevano. uomini rimasi dopo la morte del padre loro, il quale fu da5 San Gimignano; e ave-
5 fu da:era originario di.
6 che che… cagione: vano una loro sorella chiamata Elisabetta, giovane assai bella e costumata, la quale,
qualunque (che che) ne fosse che che se ne fosse cagione6, ancora maritata non aveano. E avevano oltre a ciò
la causa.
7 fondaco: magazzino, questi tre fratelli in un lor fondaco7 un giovinetto pisano chiamato Lorenzo, che 10
bottega. tutti i lor fatti guidava e faceva; il quale, essendo assai bello della persona e leggia-
8 il quale… piacere: da-
to che era di assai bell’aspet-
dro molto, avendolo più volte Lisabetta guatato, avvenne che egli le incominciò
to, accadde che il giovane stranamente a piacere8. Di che Lorenzo accortosi e una volta e altra, similmente,
cominciò a piacere intensa- lasciati suoi altri innamoramenti di fuori9, incominciò a porre l’animo a lei; e sí
mente (stranamente,in modo
insolito) a Lisabetta, che l’a- andò la bisogna10 che, piacendo l’uno all’altro igualmente, non passò gran tempo 15
veva più volte osservato che, assicuratisi11, fecero di quello che più disiderava ciascuno.
(guatato). Si noti la costru-
zione irregolare (anacolu- E in questo continuando e avendo insieme assai di buon tempo e di piacere,
to): «il quale… avvenne che non seppero sí segretamente fare, che una notte, andando Lisabetta là dove Lo-
egli»; e il gerundio «avendo-
lo Lisabetta… guatato» mo- renzo dormiva, che il maggior de’ fratelli, senza accorgersene ella, non se ne ac-
dellato sull’ablativo assoluto corgesse12. Il quale, per ciò che savio13 giovane era, quantunque molto noioso gli 20
latino. fosse a ciò sapere14, pur mosso da più onesto consiglio15, senza far motto o dir co-
9 lasciati…fuori: tra-
scurata ogni altra donna (di sa alcuna, varie cose fra sé rivolgendo intorno a questo fatto, infino alla mattina
fuori indica che le simpatie seguente trapassò16. Poi, venuto il giorno, a’ suoi fratelli ciò che veduto aveva la
di Lorenzo riguardavano
donne estranee alla casa di passata notte d’Elisabetta e di Lorenzo raccontò; e con loro insieme, dopo lungo
Lisabetta).
10 la bisogna: la faccen-
consiglio, diliberò di questa cosa, acciò che né a loro né alla sirocchia alcuna infa- 25

da. mia ne seguisse, di passarsene tacitamente e d’infignersi del tutto d’averne alcuna
11 assicuratisi: preso co- cosa veduta o saputa infino a tanto che tempo venisse nel quale essi, senza danno
raggio; o, anche, «sentendosi
sicuri e quindi avendo so- o sconcio di loro, questa vergogna, avanti che più andasse innanzi, si potessero
verchia fiducia» di non esse- torre dal viso17.
re scoperti (Branca). E in tal disposizion dimorando, cosí cianciando e ridendo con Lorenzo come 30
12 non seppero… accor-
gesse: non seppero agire con usati erano, avvenne che, sembianti faccendo18 d’andare fuori della città a dilet-
discrezione tale (cioè: suffi- to19 tutti e tre, seco menaron20 Lorenzo; e pervenuti in un luogo molto solitario
ciente ad evitare) che una
notte, essendo Lisabetta an-
data nella camera di Loren-
zo, il maggiore dei suoi fra- la novella, e l’accostamento 14 quantunque… sape- 17 diliberò… viso: stabilì ro lavare (si potessero torre dal
telli non si accorgesse del «accorgersene… accorges- re: benché sapere ciò gli in merito a questa vicenda, viso) questa vergogna (cioè
fatto, senza che lei invece si se» (è una figura di ripetizio- procurasse un grande dolo- affinché non ne derivasse al- porre fine alla relazione),
rendesse conto d’essere stata ne chiamata poliptoto), che re. cuna infamia né a loro né al- prima che progredisse trop-
scoperta. Si noti la ripetizio- enfatizza il concetto. 15 più onesto consiglio: la sorella, di passarla sotto si- po.
ne pleonastica del che dopo 13 savio: prudente (in ac- 18 sembianti faccendo:
più cauto proposito. lenzio e di fingere di non
l’inciso («che una notte… cezione simile a quella della 16 varie cose… trapassò: aver visto o saputo nulla fino facendo finta.
che il maggiore»), che è fre- novella di Agilulf: tace per pensando a lungo all’acca- a che non si presentasse l’oc- 19 a diletto: a spasso.
quente nel Boccaccio e che evitare uno scandalo fami- duto, attese fino alla mattina casione in cui, senza danno 20 seco menaron: con-
ricorre anche più avanti nel- liare). seguente. né fastidio per loro, potesse- dussero con sé.

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13. Giovanni Boccaccio T 13.6

e rimoto, veggendosi il destro21, Lorenzo, che di ciò niuna guardia prendeva22,


uccisono e sotterrarono in guisa che23 niuna persona se n’accorse. E in Messina
tornatisi dieder voce24 d’averlo per loro bisogne mandato in alcun luogo; il che 35
leggiermente25 creduto fu, per ciò che spesse volte eran di mandarlo da torno26
usati.
Non tornando Lorenzo, e Lisabetta molto spesso e sollecitamente27 i fratei do-
21 veggendosi il destro:
mandandone, sí come colei a cui la dimora lunga gravava28, avvenne un giorno
vedendone l’opportunità, che, domandandone ella molto instantemente29, che l’uno de’ fratelli disse: «Che 40
vedendo che l’occasione era vuol dir questo? che hai tu a far di Lorenzo30, che tu ne domandi cosí spesso? Se
propizia.
22 che di ciò… prende- tu ne domanderai più, noi ti faremo quella risposta che ti si conviene». Per che la
va: che non stava in guardia, giovane dolente e trista, temendo e non sappiendo che31, senza più domandarne
non aveva sospetti. si stava e assai volte la notte pietosamente il chiamava e pregava che ne venisse32; e
23 in guisa che: in modo
che. alcuna volta con molte lagrime della sua lunga dimora si doleva e senza punto ral- 45
24 dieder voce: sparsero
legrarsi33 sempre aspettando si stava.
la voce.
25 leggiermente: facil- Avvenne una notte che, avendo costei molto pianto Lorenzo che non tornava e
mente.
26 da torno: in giro.
essendosi alla fine piagnendo adormentata, Lorenzo l’apparve nel sonno34, pallido
27 sollecitamente: con e tutto rabbuffato35 e co’ panni tutti stracciati e fracidi: e parvele che egli dicesse:
sollecitudine, con insisten- «O Lisabetta, tu non mi fai altro che chiamare e della mia lunga dimora t’atristi e 50
za.
28 sì come… gravava: me con le tue lagrime fieramente accusi; e per ciò sappi che io non posso più ri-
dato che la lunga assenza di tornarci36, per ciò che l’ultimo dí che tu mi vedesti i tuoi fratelli m’uccisono». E
Lorenzo le pesava. disegnatole37 il luogo dove sotterato l’aveano, le disse che più nol chiamasse né
29 instantemente: «con
insistenza e preoccupazio- l’aspettasse, e disparve.
ne» (Branca). La giovane, destatasi e dando fede alla visione, amaramente pianse. Poi la matti- 55
30 che hai… Lorenzo:
che ti importa di Lorenzo, na levata, non avendo ardire di dire alcuna cosa a’ fratelli, propose di volere anda-
che hai tu a che fare con lui.
31 non sappiendo che:
re al mostrato luogo e di vedere se ciò fosse vero che nel sonno l’era paruto38. E
non sapendo bene che cosa avuta la licenzia d’andare alquanto fuor della terra a diporto39, in compagnia d’u-
temere. na che altra volta con loro era stata40 e tutti i suoi fatti sapeva, quanto più tosto
32 ne venisse: facesse ri-
torno da lei. poté là se n’andò; e tolte via foglie secche che nel luogo erano, dove men dura le 60
33 senza punto ralle- parve la terra quivi cavò41; né ebbe guari cavato42, che ella trovò il corpo del suo
grarsi: senza poter più pro- misero amante in niuna cosa ancora guasto né corrotto43: per che manifestamen-
vare alcuna allegria.
34 nel sonno: in sogno. te conobbe essere stata vera la sua visione. Di che più che altra femina dolorosa,
35 rabbuffatto: con i ca-
conoscendo che quivi non era da piagnere44, se avesse potuto volentier tutto il
pelli scomposti.
36 ritornarci: ritornare corpo n’avrebbe portato per dargli più convenevole sepoltura; ma veggendo che 65
qui da te, nel mondo.
37 disegnatole: designa-
ciò esser non poteva, con un coltello il meglio che poté gli spiccò dallo ’mbusto45
to, indicatole. la testa, e quella in uno asciugatoio inviluppata, e la terra sopra l’altro corpo46 git-
38 se ciò… paruto:se fos- tata, messala in grembo alla fante, senza essere stata da alcun veduta, quindi si di-
se vero ciò che in sogno le
era apparso. partí e tornossene a casa sua.
39 E avuta… diporto: e Quivi con questa testa nella sua camera rinchiusasi, sopra essa lungamente e 70
avuto il permesso di uscire amaramente pianse, tanto che tutta con le sue lagrime la lavò, mille basci47 dan-
di città (terra) per andare a
passeggio. dole in ogni parte. Poi prese un grande e un bel testo48, di questi ne’ quali si pian-
40 altra volta… stata: era
ta la persa49 o il basilico, e dentro la vi mise fasciata in un bel drappo; e poi mes-
stata in passato al loro servi-
zio. savi sù la terra, sù vi piantò parecchi piedi50 di bellissimo bassilico salernetano, e
41 cavò: scavò.
42 né… cavato: né ebbe
quegli da niuna altra acqua che o rosata o di fior d’aranci o delle sue lagrime non 75

molto scavato. innaffiava giammai51. E per usanza aveva preso di sedersi sempre a questo testo vi-
43 guasto né corrotto: in cina e quello con tutto il suo disidero vagheggiare52, sí come quello che il suo
stato di decomposizione.
44 quivi… piagnere: non Lorenzo teneva nascoso: e poi che molto vagheggiato l’avea, sopr’esso andatasene
era tempo né luogo per cominciava a piagnere, e per lungo spazio, tanto che tutto il basilico bagnava, pia-
piangere. gnea. 80
45 dallo ’mbusto: dal bu-
sto.
46 l’altro corpo: il resto 48 testo: vaso. 51 e quegli… giammai: e se o dai fiori d’arancio (due 52 vagheggiare: curare e
del corpo. 49 persa: maggiorana. non lo innaffiava mai se non profumi) o con le sue lacri- contemplare con modi af-
47 basci: baci. 50 piedi: piantine. con acqua distillata dalle ro- me. fettuosi e fantasticanti.
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Duecento e Trecento

53 studio: cura. Il basilico, sí per lo lungo e continuo studio53, sí54 per la grassezza della terra
54 sí… sí: vuoi… vuoi. procedente dalla testa corrotta55 che dentro v’era, divenne bellissimo e odorifero
55 per… corrotta: per la
fertilità della terra causata molto; e servando la giovane questa maniera del continuo56, più volte da’ suoi vi-
dalla presenza della testa in cin fu veduta. Li quali, maravigliandosi i fratelli della sua guasta bellezza e di ciò
decomposizione.
56 sservando… conti- che gli occhi le parevano della testa fuggiti, il disser loro57: «Noi ci siamo accorti 85
nuo: comportandosi sem- che ella ogni dí tiene la cotal maniera58». Il che udendo i fratelli e accorgendose-
pre in questo modo.
57 Li quali… loro: i quali ne, avendonela alcuna volta ripresa e non giovando59, nascosamente da lei fecero
vicini, poiché i fratelli si me- portar via questo testo; il quale non ritrovando ella con grandissima instanzia
ravigliavano del fatto che la
sorella aveva perduto la sua molte volte richiese, e non essendole renduto, non cessando il pianto e le lagrime,
bellezza e che gli occhi pa- infermò60, né altro che il testo suo nella infermità domandava. I giovani si mara- 90
revano uscirle dalla testa vigliavan forte di questo adimandare, e per ciò vollero vedere che dentro vi fosse;
(tanto erano infossati, o tan-
to era smagrita), riferirono e versata la terra, videro il drappo e in quello la testa non ancora sí consumata, che
loro quanto avevano visto. essi alla capellatura crespa non conoscessero lei essere quella di Lorenzo. Di che
58 tiene… maniera: si
comporta in questo modo essi si maravigliaron forte e temettero non questa cosa si risapesse: e sotterrata
(formula sintetica del narra- quella, senza altro dire, cautamente di Messina uscitisi e ordinato come di quindi 95
tore, per evitare di ripetere
quanto già detto). si ritraessono61, se n’andarono a Napoli.
59 avendola… giovan- La giovane non restando62 di piagnere e pure il suo testo adimandando, pia-
do: avendola talvolta rim-
proverata senza ottenere al- gnendo si morí, e cosí il suo disaventurato amore ebbe termine. Ma poi a certo
cun risultato. tempo divenuta questa cosa manifesta a molti, fu alcun che compuose quella can-
60 infermò: si ammalò.
61 ordinato… ritraesso- zone la quale ancora oggi si canta, cioè: 100

no: «e disposto il modo di


trasferire di lì,cioè da Messi- Qual esso fu lo malo cristiano,
na, tutti i loro affari e le loro
cose» (Branca). che mi furò la grasta, et cetera.63 –
62 non restando: non
cessando.
63 Qual esso… et cetera: le esistono varie redazioni, alla vicenda specifica narrata to dal lamento ma inventò popolare, quello dei fiori
Chi fu il malvagio che mi ma nessuna incomincia con in questa novella. Secondo il egli stesso i fatti narrati nella che crescon sulle tombe de-
rubò il vaso (grasta,voce sici- le parole citate dal Boccac- Branca dunque «si può rite- novella […], svolgendo for- gli amanti».
liana). Di una canzone simi- cio e nessuna fa riferimento nere che il B. prese lo spun- se anche un altro motivo

Guida all’analisi
La struttura della novella La novella, sin dal sunto iniziale, si presenta strutturata sulla contrapposizione fra l’a-
more di Lisabetta e l’azione repressiva e violenta dei fratelli; in mezzo, oggetto del conten-
dere, sta Lorenzo, amato dalla giovane e ucciso dai fratelli, che compare in sogno a Lisabet-
ta per svelare l’omicidio; sullo sfondo la società mercantile, con le sue leggi gerarchiche e la
sua filosofia di vita duramente economicistica (che individua cioè nelle leggi economiche e
nell’interesse individuale la regola essenziale o unica del vivere civile).
La novella si sviluppa poi per sequenze narrative di varia lunghezza in cui si alternano ab-
bastanza rigidamente come attori protagonisti i fratelli e Lisabetta (1. i fratelli non maritano
Lisabetta; 2. questa si innamora di Lorenzo e intesse con lui una relazione; 3. i fratelli la sco-
prono, si consultano e poi uccidono Lorenzo; 4. Lisabetta è angustiata dall’assenza di Loren-
zo e ne chiede notizie ai fratelli; 5. questi la minacciano; 6. Lisabetta si richiude in se stessa,
invoca Lorenzo, che le appare in sogno, quindi ne trova e disseppellisce il corpo, ne recide il
capo e lo interra nel vaso di basilico, piangendo e fantasticando su di esso; 7. i fratelli ven-
gono a conoscenza del fatto, scoprono la testa e la seppelliscono altrove, quindi abbandona-
no Messina; 8. Lisabetta per il dolore ne muore). La sequenza più lunga (la 6) potrebbe es-
sere ulteriormente suddivisa, isolando, al centro, l’intervento in sogno di Lorenzo, che segna
il capovolgimento della direzione di sviluppo della novella (prima i fratelli vanificano il so-
gno d’amore di Lisabetta; poi Lisabetta vanificherà i progetti di discrezione dei fratelli).
Incomunicabilità In ogni caso la struttura per blocchi alternati sottolinea l’incapacità di comunicare dei
personaggi e «la mancanza di ogni contatto affettivo che non sia quello rispettivamente del-
la vigilanza e della paura; e quando tale contatto avviene per un momento (Lisabetta che
chiede invano notizie di Lorenzo), esso rende definitivamente invalicabile questa distanza,
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13. Giovanni Boccaccio T 13.6

sospinge la vittima in una più grave e definitiva solitudine». Il conflitto e l’alternanza strut-
turale che lo evidenzia sono fondati sulla «contrapposizione di due logiche che non posso-
no mai incontrarsi perché sono mosse da istanze troppo diverse» (Baratto). L’istanza di Lisa-
betta è l’amore, quella dei fratelli è la ragione di mercatura, come ha rilevato Branca.
La ragion di mercatura e la negazione dell’eros Ma in che senso e in che modo l’amore di Lisabetta per Lo-
renzo, loro factotum, potrebbe nuocere ai fratelli? Si può immaginare che essi temano che la
relazione illegale con Lorenzo, se scoperta, impedisca un matrimonio migliore e più profi-
cuo; e che d’altronde un matrimonio con un giovane non ricco come Lorenzo sia sconve-
niente e addirittura inammissibile per la famiglia: «il matrimonio delle donne» ricorda Ba-
ratto «era concepito dal padre (e qui dai fratelli che lo sostituiscono) come un affare, un
mezzo per assicurare alla famiglia-azienda utili legami e protezioni, per ampliare risorse e
prestigio, senza alcun riguardo, ovviamente, per la vita affettiva, o più semplicemente per
l’autonomia, della donna, di fatto considerata come una merce».
Comunque sia, va rimarcata la reticenza del narratore sulle ragioni del non ancora avve-
nuto matrimonio di Lisabetta, che era da tempo in età da marito: «la quale, che che se ne
fosse cagione, ancora maritata non aveano». La colpa dei fratelli infatti è già nel ritardato
matrimonio (in attesa di un contratto lucroso?) che reprime e mette alla prova i naturali
istinti e i sentimenti di una giovane donna: misconoscere la potenza d’amore determina in-
somma il danno e la tragedia. La forza naturale dell’amore e la democrazia dell’eros (che
non tiene conto di gerarchie sociali e interessi economici), affermate dal Boccaccio, sono
qui negate con violenza dai personaggi sino al duplice esito tragico, l’omicidio di Lorenzo e
la rinuncia di Lisabetta a vivere.
Infamia e vergogna: i moventi economici, sociali e morali dell’omicidio Ma a ben vedere il narratore insiste so-
prattutto sull’«infamia» e sulla «vergogna» che l’atto in sé comporta ai loro occhi e che la sua
divulgazione acuirebbe. Questa infamia e questa vergogna non sono spiegate abbastanza dal
puro e semplice motivo economico del mancato affare. L’atto in sé produce l’ira (repressa e
covata a lungo), che trova un piccolo sfogo solo nell’unico, durissimo dialogo con Lisabetta, e
l’intima vergogna di veder violato il codice familiare che imponeva alla sorella totale sotto-
missione alla volontà dei fratelli-padroni e cieca adesione agli interessi della famiglia-azienda.
Ma la sua divulgazione produrrebbe l’infamia e quindi il pubblico scandalo per una relazione
illegale e immorale (il che screditerebbe l’intera famiglia agli occhi dei benpensanti) e per di
più con una persona di basso stato (il che costituirebbe motivo di disprezzo e di beffe presso
gli altri mercanti). Il movente economico, certo prioritario, ma anche quello sociale e ‘mora-
le’ si intrecciano insomma in modo indissolubile. Quella dei fratelli di Lisabetta è infatti una
visione gretta e statica dei rapporti sociali, ammantata d’un moralismo ipocrita, intriso di pre-
giudizi.
Il tragico e l’elegiaco: il personaggio di Lisabetta Il personaggio di Lisabetta ha una grandezza e una poesia che
tutti i commentatori hanno notato, accentuando ora gli elementi cupi e tragici della novel-
la (Momigliano) ora gli aspetti magico-fiabeschi (Russo) o quelli elegiaci (Branca).
Ma assai notevole è il fatto che questo personaggio sottomesso, inerme, silenzioso e malinco-
nicamente chiuso nel suo mondo di dolenti fantasticherie fino a sprofondare in una sorta di cu-
pa follia, con la sua resistenza passiva alla volontà dei fratelli-padroni ottenga una duplice vitto-
ria: ella infatti – nota Baratto – da un lato vanifica i progetti commerciali dei fratelli che sono
costretti ad abbandonare Messina (abbandonando anche Lisabetta al suo destino), e dall’altro,
con la morte, vanifica anche la loro volontà di mettere a tacere la vicenda che, consegnata a una
canzone, correrà invece sulla bocca di tutti, screditandone per sempre l’onorabilità.

Laboratorio 1 Prova a descrivere oralmente o mediante testo tutti gli elementi utili a descrivere
COMPRENSIONE uno schema il sistema dei personaggi, in- questo aspetto del racconto e prepara una
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE dividuandone le funzioni nell’economia breve relazione.
della novella. 3 Delinea un ritratto di Lisabetta analizzan-
2 Si è citata questa novella come un esem- done psicologia, stati d’animo e compor-
pio di tema della crudeltà: individua nel tamenti.

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Duecento e Trecento

T 13.7 Il Decameron 1349-1351


Nastagio degli Onesti (V, 8)
G. Boccaccio La quinta giornata, sotto il reggimento di Fiammetta, è dedicata a «ciò che a alcuno
Il Decameron amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse». Dopo le novel-
a c. di V. Branca,
Einaudi, Torino 1984 le degli amori tragici e patetici della precedente giornata, si torna insomma a vicende
d’amore a lieto fine, anche se con modalità e toni assai differenti a seconda dei casi.
La novella di Nastagio degli Onesti, narrata da Filomena, ci mostra come il protagoni-
sta, dopo un lungo e vano corteggiamento della donna amata, riesca, con l’aiuto del ca-
so e grazie alla sua sottile intelligenza, a conquistarla e a farla divenire sua sposa. Ma,
come vedremo, questa novella è un caso di palese riutilizzazione ironica di un tema re-
ligioso assai fortunato nella letteratura esemplare, quello della caccia infernale.

1 vassene… Chiassi: se Nastagio degli Onesti, amando una de’Traversari, spende le sue ricchezze senza essere
ne va su istanza dei suoi fa- amato; vassene pregato da’ suoi a Chiassi1; quivi vede cacciare a un cavaliere una giovane e
miliari a Chiassi (Classi o
Classe, nei pressi di Raven- ucciderla e divorarla da due cani2; invita i parenti suoi e quella donna amata da lui a un
na): e nella celebre pineta di desinare, la quale vede questa medesima giovane sbranare3 e temendo di simile avenimento4
Classe sono ambientate le
vicende fondamentali della prende per marito Nastagio. 5
storia.
2 vede… cani: vede una
giovane venire cacciata
Come la Lauretta si tacque, cosí per comandamento della reina cominciò Filo-
(cioè inseguita come si fa mena:
nella caccia) da un cavaliere – Amabili donne, come in noi è la pietà commendata, cosí ancora in noi è dalla
e venire uccisa e divorata da
due cani. divina giustizia rigidamente la crudeltà vendicata5: il che acciò che io vi dimostri e 10
3 vede… sbranare: vede materia vi dea di cacciarla del tutto da voi6, mi piace di dirvi una novella non me-
(i cani) sbranare questa stessa
giovane. no di compassion piena che dilettevole.
4 temendo… aveni- In Ravenna, antichissima città di Romagna, furon già assai nobili e gentili uomi-
mento: temendo che una
cosa simile possa capitare ni, tra’ quali un giovane chiamato Nastagio degli Onesti, per la morte del padre di
anche a lei. lui e d’un suo zio, senza stima7 rimase ricchissimo. Il quale, sí come de’ giovani av- 15
5 come… vendicata:
come in noi viene elogiata la
viene, essendo senza moglie s’innamorò d’una figliuola di messer Paolo Traversaro,
pietà, così viene dalla divina giovane troppo più nobile che esso non era8, prendendo speranza con le sue ope-
giustizia punita la crudeltà. re di doverla trarre a amar lui9. Le quali, quantunque grandissime, belle e laudevo-
6 il che… voi: pertanto
(il che) affinché io vi dimo- li fossero, non solamente non gli giovavano, anzi pareva che gli nocessero, tanto
stri e vi dia motivo di scac- cruda e dura e salvatica10 gli si mostrava la giovinetta amata, forse per la sua singu- 20
ciare del tutto la crudeltà dal
vostro animo. lar11 bellezza o per la sua nobiltà sí altiera e disdegnosa divenuta12, che né egli né
7 senza stima: in modo cosa che gli piacesse le piaceva. La qual cosa era tanto a Nastagio gravosa a com-
inestimabile (rafforza ed en-
fatizza il ricchissimo). portare13, che per dolore più volte dopo essersi doluto14 gli venne in disidero d’uc-
8 troppo… non era: di cidersi; poi, pur tenendosene15, molte volte si mise in cuore di doverla del tutto la-
nobilissimo casato, di ceto sciare stare, o se potesse d’averla in odio come ella aveva lui. Ma invano tal propo- 25
sociale troppo superiore al
suo. nimento prendeva, per ciò che pareva che quanto più la speranza mancava, tanto
9 con le… lui: di riuscire
con le sue azioni a farla in-
più multiplicasse16 il suo amore.
namorare di lui. Non si dice Perseverando adunque il giovane e nello amare e nello spendere smisuratamente,
esattamente quali azioni, ma parve a certi suoi amici e parenti che egli sé e ’l suo avere parimente fosse per con-
si allude a un tenore di vita
assai elegante e dispendioso, sumare17; per la qual cosa più volte il pregarono e consigliarono che si dovesse di 30
ispirato al modello nobiliare Ravenna partire e in alcuno altro luogo per alquanto tempo andare a dimorare, per
e cortese della magnificenza
e della liberalità. ciò che, cosí faccendo, scemerebbe l’amore e le spese18. Di questo consiglio più
10 cruda… salvatica: volte fece beffe Nastagio; ma pure, essendo da loro sollecitato, non potendo tanto
crudele, dura, ritrosa o addi- dir di no, disse di farlo19; e fatto fare un grande apparecchiamento20, come se in
rittura scorbutica.
11 singular: eccezionale.
12 sí altiera… divenuta: 14 doluto: lamentato, 17 egli sé… consumare: avrebbe attenuato il suo disse che lo avrebbe fatto).
divenuta così altezzosa e compianto. fosse in procinto di perdere amore e diminuito le spese. 20 grande apparecchia-
sdegnosa. 15 pur tenendosene: pur se stesso e i propri beni: una 19 non potendo… farlo: mento: grandi, imponenti
13 gravosa a comporta- trattenendosi dal farlo. duplice rovina, psicologica non potendo sempre e sol- preparativi: come per un
re: dura, penosa da soppor- 16 multiplicasse: au- ed economica. tanto (tanto) dire di no, alla lungo viaggio, mentre non
tare. mentasse. 18 scemerebbe… spese: fine acconsentì (disse di farlo, si allontana più di tre miglia.

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13. Giovanni Boccaccio T 13.7

Francia o in Ispagna o in alcuno altro luogo lontano andar volesse, montato a ca- 35
vallo e da’ suoi molti amici accompagnato di Ravenna uscí e andossen a un luogo
fuor di Ravenna forse tre miglia, che si chiama Chiassi; e quivi fatti venir padiglio-
ni e trabacche21, disse a color che accompagnato l’aveano che starsi22 volea e che
essi a Ravenna se ne tornassono. Attendatosi adunque quivi Nastagio cominciò a
fare la più bella vita e la piú magnifica che mai si facesse, or questi e or quegli altri 40
21 padiglioni e trabac- invitando a cena e a desinare, come usato s’era23.
che: padiglioni e tende.
22 starsi: fermarsi lì.
Ora avvenne che, venendo quasi all’entrata di maggio24, essendo un bellissimo
23 come usato s’era: co- tempo e egli entrato in pensiero della sua crudel donna, comandato a tutta la sua
me si era abituato a fare, co- famiglia che solo il lasciassero per più poter pensare a suo piacere, piede innanzi
me era solito fare.
24 venendo… maggio: piè se medesimo trasportò pensando infino nella pigneta25. E essendo già passata 45
essendo giunti quasi all’ini- presso che la quinta ora del giorno26 e esso bene un mezzo miglio per la pigne-
zio di maggio.
25 piè… pigneta: passo ta entrato, non ricordandosi di mangiare né d’altra cosa, subitamente gli parve
dopo passo giunse, assorto udire27 un grandissimo pianto e guai altissimi28 messi29 da una donna; per che,
nei suoi pensieri, fino alla
pineta. Tutto il brano del- rotto il suo dolce pensiero30, alzò il capo per veder che fosse e maravigliossi nel-
l’ingresso nella pineta rie- la pigneta veggendosi31. E oltre a ciò, davanti guardandosi, vide venire per un bo- 50
cheggia luoghi danteschi.
26 essendo… giorno: es-
schetto assai folto d’albuscelli e di pruni32, correndo verso il luogo dove egli era,
sendo quasi mezzogiorno. una bellissima giovane ignuda, scapigliata e tutta graffiata dalle frasche e da’ pru-
27 gli parve udire: gli
sembrò di udire, ma parve è
ni, piagnendo33 e gridando forte mercé; e oltre a questo le vide a’ fianchi due
verbo tecnico delle appari- grandi e fieri mastini, li quali duramente appresso correndole spesse volte crudel-
zioni sovrannaturali. mente dove la giugnevano la mordevano34; e dietro a lei vide venire sopra un 55
28 guai altissimi: acutis-
simi lamenti (guai). corsier nero un cavalier bruno35, forte nel viso crucciato, con uno stocco36 in ma-
29 messi: emessi. no, lei di morte con parole spaventevoli e villane minacciando. Questa cosa a
30 rotto… pensiero: bru-
scamente interrotte le sue un’ora37 maraviglia e spavento gli mise nell’animo e ultimamente38 compassione
dolci fantasie (stava pensan- della sventurata donna, dalla qual39 nacque disidero di liberarla da sí fatta ango-
do alla sua amata).
31 nella pigneta veggen-
scia40 e morte, se el potesse. Ma senza arme trovandosi, ricorse a prendere41 un ra- 60
dosi: di trovarsi nella pineta. mo d’albero in luogo di bastone e cominciò a farsi incontro a’ cani e contro al
32 albuscelli... pruni: ar-
busti... rovi.
cavaliere.
33 piagnendo: che pian- Ma il cavaliere che questo vide gli gridò di lontano: «Nastagio, non t’impacciare,
geva (gerundio con valore lascia fare a’ cani e a me quello che questa malvagia femina ha meritato».
di participio presente).
34 li quali… la morde- E cosí dicendo, i cani, presa forte la giovane ne’ fianchi, la fermarono, e il cavalie- 65
vano: i quali, inseguendola re sopragiunto smontò da cavallo; al quale Nastagio avvicinatosi disse: «Io non so
rabbiosamente, quando riu-
scivano a raggiungerla, la chi tu ti se’42 che me cosí cognosci, ma tanto ti dico che gran viltà è d’un cavalie-
mordevano. re armato volere uccidere43 una femina ignuda e averle i cani alle coste44messi co-
35 sopra un corsier…
bruno: un cavaliere vestito
me se ella fosse una fiera salvatica: io per certo la difenderò quant’io potrò».
di nero, sopra un cavallo ne- Il cavaliere allora disse: «Nastagio, io fui d’una medesima terra teco45, e eri tu an- 70
ro. cora piccol fanciullo quando io, il quale fui chiamato messer Guido degli Anasta-
36 stocco: lancia.
37 a un’ora: nello stesso gi46, era troppo più innamorato di costei che tu ora non se’ di quella de’ Traversari;
tempo. e per la sua fierezza e crudeltà47 andò sí la mia sciagura, che io un dí con questo
38 ultimamente: infine.
39 dalla qual: riferito a stocco, il quale tu mi vedi in mano, come disperato48 m’uccisi, e sono alle pene
compassione. eternali49 dannato. Né stette poi guari tempo50 che costei, la qual della mia morte 75
40 angoscia: dolore, affli-
zione. fu lieta oltre misura, morí, e per lo peccato della sua crudeltà e della letizia avuta
41 ricorse a prendere: si de’ miei tormenti, non pentendosene, come colei che non credeva in ciò aver
ridusse, si adattò a prendere.
42 chi tu ti se’: chi tu sia.
peccato ma meritato51, similmente fu e è dannata alle pene del Ninferno52. Nel
43 ma tanto… uccidere: quale come ella discese, cosí ne fu e a lei e a me per pena dato, a lei di fuggirmi da-
ma ti dico soltanto che è un vanti e a me, che già cotanto l’amai, di seguitarla come mortal nemica, non come 80
atto di grande viltà per un
cavaliere armato voler ucci-
dere ecc. quasi l’anagramma di Na- che caratterizzavano l’at- ché ero disperato, come una poiché non credeva facen-
44 coste: costole. stagio, il che sottolinea le af- teggiamento della Traversa- persona che è disperata. do ciò di commettere pec-
45 io fui… teco: io vissi finità dei due personaggi. ri (cruda e dura e salvatica); e il 49 eternali: eterne. cato, ma anzi di far cosa me-
nella tua stessa città (terra). 47 fierezza e crudeltà: termine salvatica è stato ap- 50 Né… tempo: né passo ritevole.
46 Anastagi: si noti che il asprezza e crudeltà. Ricor- pena usato da Nastagio. molto tempo. 52 del Ninferno: dell’In-
cognome del cavaliere è rono quasi le stesse parole 48 come disperato: poi- 51 come… meritato: ferno.

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Duecento e Trecento

53 Nel quale… donna: e amata donna53; e quante volte io la giungo54, tante con questo stocco, col quale io
non appena ella discese al-
l’inferno, come pena ci fu uccisi me, uccido lei e aprola per ischiena55, e quel cuor duro e freddo, nel qual
dato, a lei di fuggire e a me, mai né amor né pietà poterono entrare, con l’altre interiora insieme, sí come tu ve-
che l’avevo tanto amata, di drai incontanente, le caccio di corpo e dollemangiare a questi cani.56 Né sta poi
inseguirla come nemica
mortale, non come donna grande spazio57 che ella, sí come la giustizia e la potenzia di Dio vuole, come se 85
amata. È una sorta di simbo- morta non fosse stata, risurge e da capo incomincia la dolorosa fugga58, e i cani e io
lico «contrapasso»: a lei che
aveva gioito della morte a seguitarla59. E avviene che ogni venerdí60 in su61 questa ora io la giungo qui e qui
dell’innamorato come ca- ne fo lo strazio che vederai; e gli altri dí non credere che noi riposiamo, ma giun-
stigo viene imposto di sof-
frire per la propria morte; a gola62 in altri luoghi ne’ quali ella crudelmente contro a me pensò e operò; e es-
lui che si era tolto la vita per sendole d’amante divenuto nemico, come tu vedi, me la conviene in questa guisa 90
amor di lei, di trafiggerla e tanti anni seguitar quanti mesi ella fu contro a me crudele63. Adunque lasciami la
ucciderla con la stessa arma.
54 e quante… giungo: e divina giustizia mandare a essecuzione, né ti volere opporre a quello a che tu non
tutte le volte che io la rag- potresti contrastare».
giungo.
55 aprola per ischiena: le Nastagio, udendo queste parole, tutto timido divenuto e quasi non avendo pe-
squarcio la schiena. lo addosso che arricciato64 non fosse, tirandosi adietro e riguardando alla misera 95
56 le caccio… cani: le
estraggo dal suo corpo e le giovane65, cominciò pauroso a aspettare quello che facesse66 il cavaliere; il quale,
do da mangiare a questi ca- finito il suo ragionare, a guisa d’un cane rabbioso con lo stocco in mano corse
ni.
57 Né… spazio: né tra-
addosso alla giovane, la quale inginocchiata e da’ due mastini tenuta forte gli gri-
scorre molto tempo. dava mercé67, e a quella con tutta sua forza diede per mezzo il petto e passolla
58 fugga: fuga.
59 a seguitarla: da capo
dall’altra parte68. Il qual colpo come la giovane ebbe ricevuto, cosí cadde bocco- 100

incominciamo a inseguirla. ne sempre piagnendo e gridando: e il cavaliere, messo mano a un coltello, quella
60 ogni venerdí: «il ve- aprí nelle reni, e fuori trattone il cuore e ogni altra cosa da torno, a’ due mastini
nerdì è probabilmente scel-
to come giorno di peniten- il gittò69, li quali affamatissimi incontanente il mangiarono. Né stette guari che la
za per la scena più dramma- giovane, quasi niuna di queste cose stata fosse70, subitamente si levò in piè e co-
tica ed esemplare» (Branca),
ma rivela la periodicità del- minciò a fuggire verso il mare, e i cani appresso di lei sempre lacerandola: e il ca- 105
l’azione che sarà pronta- valiere, rimontato a cavallo e ripreso il suo stocco, la cominciò a seguitare, e in
mente colta e sfruttata da picciola ora si dileguarono in maniera che più Nastagio non gli poté vedere.
Nastagio.
61 in su: verso. Il quale, avendo queste cose vedute, gran pezza stette tra pietoso e pauroso71: e do-
62 giungola: la raggiungo
po alquanto gli venne nella mente questa cosa dovergli molto poter valere72, poi che
(e strazio).
63 me la… crudele: mi è ogni venerdì avvenia; per che, segnato il luogo, a’ suoi famigliari se ne tornò, e ap- 110
imposto di inseguirla in presso, quando gli parve, mandato per73 più suoi parenti e amici, disse loro: «Voi
questo modo per tanti anni
quanti furono i mesi in cui m’avete lungo tempo stimolato che io d’amare questa mia nemica74 mi rimanga75 e
lei fu crudele verso di me. ponga fine al mio spendere, e io son presto di farlo dove voi una grazia m’impetria-
64 arricciato: Si ricorda
qui un passo dantesco: «Già
te76, la quale è questa: che venerdí che viene voi facciate sí che messer Paolo Traver-
mi sentia arricciar li peli / de sari e la moglie e la figliuola e tutte le donne lor parenti, e altre chi77 vi piacerà, qui 115
la paura» (If XXIII 19-20). sieno a desinar meco. Quello per che io questo voglia, voi il vedrete allora».
65 tirandosi… giovane:
ritraendosi ed osservando la A costor parve questa assai piccola cosa a dover fare; e a Ravenna tornati, quan-
giovane infelice. do tempo fu, coloro invitarono li quali Nastagio voleva, e come che dura cosa fos-
66 facesse: avrebbe fatto.
67 gridava mercé: invo- se il potervi menare78 la giovane da Nastagio amata, pur v’andò79 con l’altre insie-
cava pietà. me. Nastagio fece magnificamente apprestar da mangiare e fece le tavole mettere 120
68 passolla… parte: la
trapassò da parte a parte. sotto i pini dintorno a quel luogo dove veduto aveva lo strazio della crudel80 don-
69 il gittò: lo gettò (il na; e fatti metter gli uomini e le donne a tavola, sí ordinò, che appunto la giovane
cuore). amata da lui fu posta a seder di rimpetto al luogo dove doveva il fatto intervenire81.
70 Né stette… fosse: né
passò molto tempo che la Essendo adunque già venuta l’ultima vivanda, e82 il romor disperato della caccia-
giovane,come se nulla di ciò
fosse accaduto.
71 pietoso e pauroso: 74 questa mia nemica: ga, smetta. 79 pur v’andò: tuttavia 82 e: subito; e «dopo la
turbato e impaurito. «Appellativo che discende 76 m’impetriate: mi fac- ella vi andò. proposizione temporale in-
72 gli venne… valere: gli dal linguaggio lirico dov’era ciate. 80 magnificamente… dica istantaneità dell’azio-
venne in mente che questo assai comune» (Branca), ma 77 altre chi: quante altre crudel: ricorrono ancora ne» (Branca).
fatto gli sarebbe potuto es- che riprende anche il termi- donne. una volta due termini chia-
sere molto utile. ne usato poco prima da 78 come… menare: ben- ve della novella.
73 mandato per: mandati Guido degli Anastagi. ché fosse impresa difficile 81 doveva… intervenire:
a chiamare. 75 mi rimanga: mi asten- riuscire a condurvi. sarebbe dovuto accadere.

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13. Giovanni Boccaccio T 13.7

83 quivi tra loro: qui in ta giovane da tutti fu cominciato a udire. Di che maravigliandosi forte ciascuno e 125
mezzo, di fronte a loro.
84 Il romore… cavaliere: domandando che ciò fosse e niuno sappiendol dire, levatisi tutti diritti e riguar-
si levarono molte grida con- dando che ciò potesse essere, videro la dolente giovane e ’l cavaliere e’ cani; né
tro i cani e il cavaliere. guari stette che essi tutti furon quivi tra loro83. Il romore fu fatto grande e a’ cani e
85 v’aveva: erano presen-
ti. al cavaliere84, e molti per aiutare la giovane si fecero innanzi; ma il cavaliere, par-
86 come se a se medesi-
lando loro come a Nastagio aveva parlato, non solamente gli fece indietro tirare ma 130
me: il meccanismo dell’i-
dentificazione scatta, come tutti gli spaventò e riempié di maraviglia; e faccendo quello che altra volta aveva
previsto da Nastagio, anche fatto, quante donne v’aveva85 (ché ve ne aveva assai che parenti erano state e della
per le donne presenti a que-
sta seconda caccia. dolente giovane e del cavaliere e che si ricordavano dell’amore e della morte di lui)
87 La qual… ragiona- tutte cosí miseramente piagnevano come se a se medesime86 quello avesser veduto
menti: questo evento, non
appena ebbe termine e la fare. La qual cosa al suo termine fornita, e andata via la donna e ’l cavaliere, mise 135
donna e il cavaliere se ne fu- costoro che ciò veduto aveano in molti e varii ragionamenti87. Ma tra gli altri che
rono andati via, indusse co- più di spavento ebbero, fu la crudel giovane da Nastagio amata, la quale ogni cosa
loro che avevano visto la
scena a discuterne a lungo. distintamente veduta avea e udita e conosciuto che a sé più che a altra persona che
88 Ma… toccavano: ma
vi fosse queste cose toccavano88, ricordandosi della crudeltà sempre da lei usata
tra quelli che ne provarono
più spavento, ci fu la giovane verso Nastagio; per che già le parea fuggire dinanzi da lui adirato89 e avere i masti- 140
crudele amata da Nastagio, ni a’ fianchi.
che aveva distintamente os-
servato ogni cosa e aveva ca- E tanta fu la paura che di questo le nacque, che, acciò che questo a lei non avve-
pito che a lei più che ad ogni nisse, prima tempo non si vide, il quale quella medesima sera prestato le fu, che el-
altra persona questi eventi si
attagliavano, si riferivano. la90, avendo l’odio in amor tramutato, una sua fida cameriera segretamente a Na-
89 dinanzi da lui adirato: stagio mandò, la quale da parte di lei il pregò che gli dovesse piacere, d’andare a lei, 145
davanti a lui (che la insegui- per ciò che ella era presta91 di far tutto ciò che fosse piacer di lui. Alla qual Nasta-
va) adirato.
90 prima… ella: non ap- gio fece rispondere che questo gli era a grado molto, ma che, dove le piacesse, con
pena ne ebbe l’opportunità, onor di lei voleva il suo piacere, e questo era sposandola per moglie92. La giovane,
che le si presentò quella sera
stessa, ella. la qual sapeva che da altrui che da lei rimaso non era che moglie di Nastagio stata
91 presta: disposta, pron- non fosse, gli fece risponder che le piacea93. Per che, essendo ella medesima la mes- 150
ta.
92 che questo… moglie: saggera94, al padre e alla madre disse che era contenta d’essere sposa di Nastagio, di
che ciò gli era molto gradito, che essi furon contenti molto.
ma che, qualora lei fosse
d’accordo (le piacesse),voleva E la domenica seguente Nastagio sposatala e fatte le sue nozze95, con lei più
realizzare il proprio deside- tempo lietamente visse. E non fu questa paura cagione solamente di questo bene,
rio (il suo piacere) salvaguar- anzi sí tutte le ravignane donne paurose ne divennero, che sempre poi troppo più 155
dando l’onore di lei, e que-
sto era possibile sposandola. arrendevoli a’ piaceri degli uomini furono che prima state non erano96. –
93 La giovane… piacea:la
giovane, che sapeva che non
era dipeso da nessun altro al-
l’infuori di lei se non era già 94 essendo… messagge- termini indicano il mo- sta paura non produsse solo in seguito si dimostrarono
diventata moglie di Nasta- ra: formulando ella stessa la mento della promessa e questo benefico effetto, an- assai più arrendevoli ai pia-
gio, gli fece rispondere che proposta di matrimonio. quello delle nozze. zi tutte le donne ravennati ceri degli uomini di quanto
acconsentiva (le piacea). 95 sposatala… nozze: i 96 E non… erano: e que- divennero così paurose che non fossero state prima.

Guida all’analisi
Il tema della caccia e la tradizione esemplare Questa novella è strutturata su tre temi principali: quello della
caccia infernale, quello dell’amore e quello dell’intelligenza.
Il tema più caratterizzante è quello della ‘caccia tragica’ (oltremondana) che al Boccaccio
deriva da una lunga tradizione. Lo incontriamo anche in Dante quando, nella desolata selva
dei suicidi, improvvisamente compare una muta di cagne inferocite all’inseguimento di un
gruppo di dannati (gli scialacquatori) che terrorizzati fuggono a rotta di collo e invano cer-
cano riparo fra le piante che racchiudono le anime dei suicidi (If XIII 108-129). Ma «leg-
gende di cacce infernali correvano da secoli l’Europa – sulle ali di mitologie nordiche – ora
attribuite a Odino, ora a Artù, e in Italia proprio a Teodorico di Ravenna. Queste fantasie
d’oltre tomba assunsero l’aspetto di particolare punizione di peccati e delitti d’amore» (Bran-
ca) e in tante altre opere esemplari, compreso un testo del Passavanti all’incirca coevo del
Decameron [R T 13.7 Doc 13.3 ]. Boccaccio ne conosceva verosimilmente diverse versioni, anche
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Duecento e Trecento

trasmesse in forma orale. La caratteristica di tutte queste narrazioni esemplari è naturalmen-


te l’intento edificante, che trova supporto in una rappresentazione fosca e terribile, tale da
incutere disagio e terrore nei lettori o nell’uditorio. Il Boccaccio invece utilizza consapevol-
mente e ironicamente questa tradizione, sfruttandone gli aspetti più foschi a scopo di con-
trasto con il tenore del resto della novella, che appare invece lieve e sorridente, certo anche
malizioso in ambito morale e forse persino irridente nei confronti di quella stessa tradizione,
ispirato com’è a una celebrazione assolutamente profana dell’amore e dell’intelligenza.
Il tema dell’amore Quello dell’amore è il tema conduttore della novella, l’unico che ricorre in ogni fase del-
la narrazione. Ci si presenta sotto vari aspetti: è l’amore patetico di un amante infelice per-
ché non ricambiato, che diventa amore tragico nella storia di Guido degli Anastagi e vice-
versa nel finale si ribalta in amore felice e legalmente appagato con le nozze di Nastagio e
anche negli amori liberi e spregiudicati delle «ravignane donne». Ora veste i panni cortesi
(quando Nastagio conduce una vita magnifica nella speranza di far innamorare l’amata
«troppo più nobile» di lui), ora quelli ecclesiastici (quando è posto al centro di una visione
oltremondana, con tutto il corredo di colpe e pene), ora infine quelli borghesi (quando nel
finale si getta un fascio di luce sui moderni costumi di una città come Ravenna). Ma il sen-
so che complessivamente esso assume è ancora una volta quello espresso dal Boccaccio nel-
la prefazione della IV giornata: la naturalità dell’eros, che non può essere osteggiato, repres-
so e colpevolizzato da una visione rigoristica e ascetica dei rapporti umani. Questa novella,
che per un tratto si finge esempio edificante, è in realtà e in modo del tutto evidente una
parabola profana: non è possibile e non è giusto resistere alla forza dell’amore; la potenza
d’amore anzi aguzza l’ingegno e spinge gli amanti a trovare qualsiasi mezzo pur di conqui-
stare le amate (o gli amati). Questa la morale moderna e antiascetica della novella.
Un’etica laica ma problematica Parabola profana, dunque, e anche maliziosa se è vero che nel finale la Traver-
sari e le altre donne ravennati si dichiarano pronte a soddisfare comunque i propri amanti, al
di fuori di ogni regola morale. Boccaccio forse non vuole proporre come proprio modello
l’amore senza freni e senza limiti (su cui pure ama indugiare perché l’argomento piace al
suo pubblico), come invece sembra fare la novellatrice nel finale. Quella del Boccaccio è
certo la presa d’atto di un mutamento di costumi, che non esclude però una visione più
moderata, come quella di Nastagio, il quale è pronto a moderare la repentina e illimitata di-
sponibilità dell’amata convertita dal terrore a troppo facili costumi, proponendole le nozze.
Ancora una volta la morale problematica del Boccaccio lascia l’ultima parola alla sensibilità
e alla coscienza del lettore.
Il tema dell’intelligenza e dell’astuzia Il terzo tema è quello dell’intelligenza. Nastagio coglie il senso di un
evento soprannaturale (la visione) e, prevedendo le reazioni dei suoi invitati, lo volge a pro-
prio favore, trasformandolo in uno spettacolo profano. Nastagio è così un altro eroe del sa-
per vivere mondano, che visto vano ogni tentativo di ottenere i suoi scopi con la magnifi-
cenza e la liberalità (le tradizionali virtù cortesi), li ottiene invece, sia pure con il concorso di
un evento fortuito, grazie alla sua intelligenza (nuova virtù borghese). Anche il soprannatu-
rale, che forse non voleva dire proprio quello che Nastagio gli fa dire, deve insomma in
qualche misura piegarsi alle astuzie dell’uomo d’ingegno, così come tante volte è piegato
dai cattivi religiosi a scopi illegittimi e a interessi personali.
Un gioco semantico: crudeltà e pietà Il nucleo più segreto della novella sta però nella maliziosa ambiguità del
Boccaccio nell’uso del linguaggio. Boccaccio in effetti attribuisce alla volontà divina la pu-
nizione della crudeltà e l’elogio implicito della pietà (cfr. r. 76 e rr. 82-83). Ciò sarebbe cor-
retto da un punto di vista dottrinale se i due termini si limitassero al significato che avevano
nel linguaggio morale e religioso, e cioè godimento delle sofferenze altrui e disponibilità a
infliggerne, e viceversa compassione, afflizione per le sofferenze altrui. Ma lo scrittore gioca
sul duplice senso del concetto di crudeltà/pietà evocando qui con sapiente astuzia il linguag-
gio della poesia cortese la quale designava tout court come «donna crudele» la donna che non
ricambiava l’amore e respingeva materialmente l’innamorato; e come «donna pietosa» la
donna disposta a corrispondere all’amore e magari a concedersi ai desideri dell’amante (se
ne veda un uso consono ai modelli cortesi nella novella di Federigo degli Alberighi, n.70).

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13. Giovanni Boccaccio T 13.7

Doc 13.3 Il conte di Niversa di Jacopo Passavanti

J. Passavanti, Lo spec- Questo esempio è inserito in un più ampio contesto argomentativo, e funge da argo-
chio di vera penitenza,
Soc. Tip. de’ Classici
mento utilizzato dal predicatore per dimostrare la propria tesi. Questa: anche se è possi-
italiani, Milano 1808 bile espiare le proprie colpe in Purgatorio, fare penitenza in terra è conveniente perché
le pene terrene sono brevi e lievi, mentre quelle purgatoriali sono assai più gravi e dura-
ture di quelle terrene. L’esempio del conte di Niversa ne è la prova.

Leggesi scritto da Elinando,1 che nel contado d’Universa2 fu uno povero uomo,
1 Elinando: Elinando, il quale era buono, e che temeva Iddio, ed era carbonajo, e di quell’arte3 si vivea.
erudito e cronista francese
del XII-XIII secolo, auto- E avendo accesa la fossa de’ carboni4 una volta, e stando la notte in una sua cap-
re di opere di ispirazione pannetta a guardia della accesa fossa; sentì in su l’ora della mezza notte grandi stri-
morale e religiosa.
2 Universa: è variante da. Uscì fuori per vedere, che fosse: e vide venire verso la fossa correndo e stri-
di Niversa.
3 arte: mestiere.
dendo una femmina scapigliata e gnuda:5 e dietro le venia uno cavaliere in su uno
4 la fossa de’ carboni: cavallo nero correndo, con uno coltello ignudo in mano: e della bocca, e degli
la fossa nella quale si arde la occhi, e del naso del cavaliere e del cavallo uscia fiamma di fuoco ardente. Giu-
legna per produrre il car-
bone. gnendo la femmina alla fossa, che ardea, non passò più oltre,6 e nella fossa non ar-
5 gnuda: ignuda, nuda. diva a gittarsi; ma correndo intorno alla fossa, fu sopraggiunta dal cavaliere, che
6 Giugnendo la fem-
dietro le correa, la quale traendo guai,7 presa per gli svolazzanti capelli, crudel-
mina... non passò più ol-
tre: la donna, giunta presso mente ferì per lo mezzo del petto col coltello, che tenea in mano. E cadendo in
la fossa ardente, non prose- terra, con molto spargimento di sangue, la riprese per gli insanguinati capelli, e
guì.
7 guai: grida, lamenti. gittolla8 nella fossa de’ carboni ardenti; dove lasciandola stare per alcuno spazio di
8 gittolla: la gettò. tempo, tutta focosa e arsa9 la ritolse: e ponendolasi davanti in su ’l collo del caval-
9 focosa e arsa: tutta
bruciata.
lo, correndo sen’andò per la via dond’era venuto. La seconda e la terza notte vide
10 essendo... dimesti- il carbonajo simile visione. Donde, essendo egli dimestico del10 conte di Niversa,
co del: avendo familiarità, tra per l’arte sua de’ carboni, e per la bontà,11 la quale il Conte, ch’era uomo d’a-
dimestichezza con il.
11 bontà: sua, del carbo- nima, gradiva; venne al Conte, e dissegli la visione, che tre notti avea veduta.Ven-
naio. ne il Conte col carbonajo al luogo della fossa; e vegghiando12 insieme nella cap-
12 vegghiando: ve-
gliando. pannetta, nell’ora usata venne la femmina stridendo, e ’l cavaliere dietro, e fecio-
13 feciono: fecero. no13 tutto ciò che ’l carbonajo aveva veduto fare. Il Conte, avvegnachè14 per l’or-
14 avvegnachè: sebbe-
ne. ribile fatto che avea veduto, fosse molto spaventato, prese ardire.15 E partendosi il
15 prese ardire: si fece cavaliere spietato con la donna arsa attraversata in sul nero cavallo, gridò scongiu-
coraggio. randolo, che dovesse ristare,16 e sporre17 la mostrata visione.Volse il cavaliere il ca-
16 ristare: fermarsi.
17 sporre: spiegare, vallo, e fortemente piangendo, e’ disse: Da poi, Conte, che tu vuoli sapere i nostri
commentare. martirj, i quali Iddio t’ha voluto mostrare, sappi, ch’io fui Giuffredi tuo cavaliere, e
18 nodrito: nutrito, al-
levato. in tua corte nodrito.18 Questa femmina, alla quale io sono tanto crudele e fiero, è
19 ci ... peccato: accon-
dama Beatrice, moglie che fu del caro tuo cavaliere Berlinghieri. Noi prendendo
sentimmo a peccare.
20 temporale: tempo- piacere di disonesto amore l’un dell’altro, ci conducemmo a consentimento di
ranea. peccato,19 il quale a tanto condusse lei, che per potere più liberamente fare il ma-
21 ma ... Purgatorio:
ma scontiamo in tal modo le, uccise suo marito. Perseverammo nel peccato infino alla infermità della morte;
la nostra pena purgatoria- ma nella infermità della morte, prima ella, e poi io tornammo a penitenza; e con-
le. fessando il nostro peccato, ricevemmo misericordia da Dio, il quale mutò la pena
22 stanziato: stabilito.
23 duolo: dolore. eterna dello inferno, in pena temporale20 di Purgatorio. Onde sappi, che noi non
24 E perocch’ella... siamo dannati, ma facciamo a cotale guisa, come hai veduto, nostro Purgatorio: 21
concupiscenza: e poiché
ella provò nei miei con- e avranno fine, quando che sia, li nostri gravi tormenti. E domandando il Conte,
fronti un ardente amore che gli desse ad intendere più specificatamente le loro pene; rispose con lagrime e
ispirato dal desiderio car-
nale. con sospiri: Perocchè questa donna per amore di me uccise il suo marito, l’è data
questa pena, che ogni notte, tanto quanto ha stanziato22 la divina giustizia, patisce
per le mie mani duolo23 di penosa morte di coltello. E perocch’ella ebbe ver di
me ardente amore di carnale concupiscenza,24 per le mie mani ogni notte è gitta-
ta ad ardere nel fuoco, come nella visione vi fu mostrato. E come già ci vedemmo

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Duecento e Trecento

25 cagione: causa. con gran disio, e con piacere di grande diletto; così ora ci veggiamo con grande
26 sostengo io: anch’io
sopporto, soffro. odio, e ci perseguitiamo con grande sdegno. E come l’uno fu cagione25 all’altro
27 alleggino: alleggeri- d’accendimento di disonesto amore; così l’uno è cagione all’altro di crudele tor-
scano. mento; che ogni pena, che io fo patire a lei, sostengo io;26 che ’l coltello, di che io
28 come saetta folgore:
come la folgore saetta la ferisco, tutto è fuoco, che non si spegne; e gittandola nel fuoco, e traendolane, e
(saetta è voce verbale). portandola, tutto ardo io. Il cavallo è uno demonio, al quale siamo dati, che ci ha
29 Non ci incresca: non
ci dispiaccia (riprende il a tormentare. Molte altre sono le nostre pene. Pregate Iddio per noi: fate limosine,
discorso del Passavanti ri- e dir messe, acciocchè si alleggino27 i nostri martirj. E questo detto, sparì, come
volto al suo pubblico).
30 qui: in vita. saetta folgore.28 Non ci incresca29 adunque, dilettissimi miei, sofferire alquanto di
31 ci conviene: è neces- pena qui,30 acciocchè possiamo scampare di quelle orribili pene, e dolorosi tor-
sario, dobbiamo.
menti dell’altra vita, alla quale, o vogliamo noi, o no, pur ci conviene31 andare.
Il sistema L’esempio di Passavanti è strutturato su tre coppie di personaggi: il carbonaio e il conte
dei personaggi (testimoni dell’evento, l’uno inconsapevole, l’altro per il suo stato sociale in grado di rece-
pire il messaggio divino), il cavaliere e la donna (colpevoli di adulterio e lei anche di omi-
cidio), Dio misericordioso e giusto e il demonio (incarnato nel cavallo che getta fiamme),
che rappresentano la suprema antitesi cristiana, il bene e il male, la felicità e il dolore. La
prima coppia rappresenta due vivi (che possono trarre utilità morale dalla visione), la se-
conda due morti (che incarnano gli errori umani non più rimediabili), la terza i principi
eterni che regolano l’esistenza delle prime due.
La novella del Boccaccio in parte ricalca la struttura dell’esempio: anche qui potremmo
individuare tre coppie più alcuni personaggi secondari, ma al posto dei due testimoni ci so-
no un uomo e una donna in condizione speculare a quella dei due dannati (il che è essen-
ziale perché la novella funzioni) e Dio e il demonio vengono relegati a un ruolo di scarso
rilievo. La novella però è tutta incentrata sulla figura di Nastagio, eroe dell’intelligenza
mondana, che ha nella Traversari un’antagonista sconfitta e che riesce a manipolare la vi-
sione oltremondana e volgere a proprio favore la vicenda dei due dannati.
Ricomposizione Cesare Segre ha messo in luce come il senso profano della novella, rispetto all’esempio,
della fabula sia determinato anche da una lieve ma decisiva modificazione strutturale. Nell’exemplum di
Passavanti Giuffredi spiega al conte e al carbonaio il senso della visione solo dopo che la
stessa si è manifestata più volte agli occhi dell’ignaro carbonaio, proprio a conclusione del
racconto; viceversa nella novella del Boccaccio la spiegazione del senso della visione da
parte di Guido cade dopo (anzi: durante) la prima visione, ed è subito rivolta a Nastagio,
destinatario consapevole che ha anche tentato di opporsi all’azione del cavaliere e che met-
terà a frutto tempestivamente l’informazione. Schematicamente:
I tempo II tempo
Passavanti il carbonaio assiste alla caccia il carbonaio e il conte assistono alla caccia; il conte
(più volte) interviene e il cavaliere spiega il senso della visione
Nastagio assiste alla caccia e intervie- Nastagio e i suoi invitati assistono alla caccia
Boccaccio ne; Guido gli spiega il senso della visione

Questo spostamento è decisivo perché:


a) attribuisce un diverso ruolo a Nastagio: egli assiste da solo alla tragica visione, ne
comprende il senso, ne intuisce la potenziale utilità per i propri fini, la sfrutta abilmente.
Dalla visione Nastagio comprende che non vale la pena di suicidarsi per amore, mentre si
può trovare il modo di raggiungere con astuzia il proprio scopo (profano);
b) modifica il senso della visione: religioso nel testo di Passavanti, decisamente profano
nella novella del Boccaccio. Per l’abile regia di Nastagio, la visione si muta in spettacolo.
Mentre in Passavanti la visione costituisce un vero e proprio messaggio (un ammonimento
inviato da Dio), nel caso del Boccaccio questa intenzionalità manca: la visione è un incon-
tro fortuito e solo nella sua replica diviene un messaggio, indirizzato però da Nastagio.

Laboratorio 1 Metti a confronto la rappresentazione scopi) nella novella di Nastagio e nell’e-


dell’ambiente (caratteristiche, funzioni, sempio del Conte di Niversa.

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13. Giovanni Boccaccio T 13.8

T 13.8 Il Decameron 1349-1351


Federigo degli Alberighi (V, 9)
G. Boccaccio Anche questa novella, che segue immediatamente quella di Nastagio, appartiene alla V
Il Decameron giornata e tratta il tema degli amori contrastati ma a lieto fine. Esauritisi tutti i narrato-
a c. di V. Branca,
Einaudi, Torino 1984 ri, eccetto Dioneo, che ha però ottenuto il privilegio di intervenire sempre per ultimo,
tocca alla regina, cioè a Filomena, il compito di narrare la sua novella.
La storia di Federigo degli Alberighi è quella di un nobile fiorentino che si innamora di
una donna che però non vuol saperne di lui: per farsi notare e tentare di conquistarla
egli conduce, secondo i costumi cortesi, una vita splendida, ma molto al di sopra delle
sue possibilità, tanto che presto dilapida tutto il suo patrimonio. Ma alla fine, proprio
quando la fortuna sembra infliggergli il colpo decisivo, Federigo riuscirà a far breccia
nel cuore di donna Giovanna.
Questa novella, che ha inizialmente qualche tratto in comune con quella di Nastagio,
ben presto prende una diversa strada: si sviluppa in tono serio e patetico e adotta pale-
semente temi, sensibilità e linguaggio cortesi, celebrando non l’intelligenza e l’astuzia,
ma la nobiltà d’animo e la generosità.

1 si consuma: esaurisce i Federigo degli Alberighi ama e non è amato, e in cortesia spendendo si consuma1
suoi averi, si rovina. e rimangli un sol falcone, il quale, non avendo altro, dà a mangiare alla sua donna venuta-
2 il quale… a casa: fal-
cone che egli sacrifica fa- gli a casa2; la qual, ciò sappiendo, mutata d’animo, il prende per marito e fallo ricco.
cendolo cucinare per acco-
gliere degnamente la donna
amata che è venuta a fargli Era già di parlar ristata Filomena, quando la reina, avendo veduto che più niu- 5
visita. no a dover dire, se non Dioneo per lo suo privilegio, v’era rimaso, con lieto viso
3 appartiene di ragio-
nare: tocca raccontare. disse:
4 da: con. – A me omai appartiene di ragionare3; e io, carissime donne, da4 una novella si-
5 non… dona: non solo
affinché sappiate quanto mile in parte alla precedente il farò volentieri, non acciò solamente che conoscia-
potere ha la vostra bellezza te quanto la vostra vaghezza possa ne’ cuor gentili, ma perché apprendiate d’esse- 10
(vaghezza) negli animi no- re voi medesime, dove si conviene, donatrici de’ vostri guiderdoni senza lasciarne
bili, ma affinché impariate
voi stesse a donare i vostri sempre esser la fortuna guidatrice, la qual non discretamente ma, come s’aviene,
favori (guiderdoni, doni), smoderatamente il più delle volte dona5.
quando e a chi li merita (do-
ve si conviene), senza lasciarvi Dovete adunque sapere che Coppo di Borghese Domenichi6, il quale fu nella
guidare dalla fortuna,la qua- nostra città, e forse ancora è7, uomo di grande e di reverenda auttorità ne’ dí no- 15
le nella maggior parte dei
casi, come suole capitare, stri, e per costumi e per vertù molto più che per nobiltà di sangue chiarissimo8 e
dona non con discernimen- degno d’eterna fama, essendo già d’anni pieno, spesse volte delle cose passate co’
to ma in modo esagerato,
sconsiderato. L’ultima frase, suoi vicini e con altri si dilettava di ragionare: la qual cosa egli meglio e con più
abituale critica alla fortuna ordine e con maggior memoria e ornato parlare che altro uom seppe fare. Era usa-
cieca dispensatrice di favori, to di dire, tra l’altre sue belle cose, che in Firenze fu già un giovane chiamato Fe- 20
può suonare anche come un
velato rimprovero di Filo- derigo di messer Filippo Alberighi9, in opera d’arme e in cortesia10 pregiato sopra
mena al comportamento ogni altro donzel11 di Toscana. Il quale, sí come il più de’ gentili uomini aviene12,
delle donne ravennati della
novella precedente. d’una gentil donna chiamata monna Giovanna s’innamorò, ne’ suoi tempi tenuta
6 Coppo… Domeni-
delle13 più belle donne e delle più leggiadre che in Firenze fossero; e acciò che egli
chi: è un personaggio stori-
co. l’amor di lei acquistar potesse, giostrava, armeggiava14, faceva feste e donava, e il 25
7 forse ancora è: l’in- suo senza alcun ritegno spendeva; ma ella, non meno onesta che bella, niente di
certezza è dovuta al fatto
che, al momento della nar- queste cose per lei fatte né di colui si curava che le faceva15.
razione, in Firenze infuriava Spendendo adunque Federigo oltre a ogni suo potere molto16 e niente acqui-
la peste.
8 chiarissimo: assai illu-
stre, famoso. nelle abitudini cortesi. 12 sí… aviene: come per re è la battaglia singolare, ar- onore (per lei, cioè per farsi
9 Alberighi: una delle 11 donzel: giovane aspi- lo più (il più) accade ai gio- meggiare è maneggiare le ar- notare da lei) né di chi le
più antiche famiglie fioren- rante cavaliere o semplice- vani nobili. mi per dare spettacolo» compiva.
tine, ormai estinta però al mente giovane nobile (è di- 13 tenuta delle: conside- (Branca). 16 oltre… molto: molto
tempo del Boccaccio. minutivo di donno, cioè si- rata fra. 15 niente… faceva: per al di sopra delle proprie pos-
10 in opera… cortesia: gnore, dal lat. dominus, come 14 giostrava, armeggia- nulla (niente) si curava né di sibilità.
negli esercizi cavallereschi e donzella lo è di donna). va: «come già altrove giostra- queste imprese fatte in suo

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Duecento e Trecento

17 niente acquistando: stando17, sí come di leggiere adiviene18, le ricchezze mancarono e esso rimase po-
non facendo alcun progres-
so, non ottenendo alcun ri- vero, senza altra cosa che un suo poderetto piccolo essergli rimasa, delle rendite 30
sultato (nella conquista della del quale strettissimamente19 vivea, e oltre a questo un suo falcone20 de’ miglior
donna amata).Alcuni invece del mondo. Per che, amando più che mai né parendogli più potere essere cittadi-
interpretano in chiave eco-
nomica: non guadagnando no come disiderava21, a Campi,22 là dove il suo poderetto era, se n’andò a stare.
nulla, non incrementando il Quivi, quando poteva uccellando e senza alcuna persona richiedere23, paziente-
proprio patrimonio in mo-
do da compensare le enor- mente la sua povertà comportava24. 35
mi spese. Ora avvenne un dí che, essendo cosí Federigo divenuto allo stremo25, che26 il
18 sí… adiviene: come
facilmente, spesso capita. marito di monna Giovanna infermò, e veggendosi alla morte venire fece testa-
19 strettissimamente: in mento; e essendo ricchissimo, in quello lasciò suo erede un suo figliuolo già gran-
grandi ristrettezze, a mala dicello e appresso questo, avendo molto amata monna Giovanna, lei, se avvenisse
pena.
20 falcone: «addestrato che il figliuolo senza erede legittimo morisse, suo erede substituí, e morissi27. 40
appositamente, il falcone Rimasa adunque vedova monna Giovanna, come usanza è delle nostre donne,
veniva usato per un partico-
lare tipo di caccia praticata l’anno di state28 con questo suo figliuolo se n’andava in contado a una sua posses-
dalla nobiltà. Pere rendersi sione assai vicina a quella di Federigo. Per che avvenne che questo garzoncello
conto dell’importanza che
tale sport aveva nel Medioe- s’incominciò a dimesticare29 con Federigo e a dilettarsi d’uccelli e di cani; e aven-
vo e del suo significato di do veduto molte volte il falcon di Federigo volare e stranamente30 piacendogli, 45
status symbol, basta pensare
che persino Federico II ave- forte disiderava d’averlo ma pure non s’attentava di31 domandarlo, veggendolo a
va dedicato ad esso un trat- lui esser cotanto caro. E cosí stando la cosa, avvenne che il garzoncello infermò; di
tato: Ars venandi cum avibus che la madre dolorosa molto, come colei che più no’ n’avea32 e lui amava quanto
(l’arte di caccaire per mezzo
degli uccelli)» (Guglielmi- più si poteva, tutto il dí standogli dintorno non restava33 di confortarlo e spesse
no). volte il domandava se alcuna cosa era la quale egli disiderasse, pregandolo gliele 50
21 né… disiderava: e non
sembrandogli di poter vive- dicesse, ché per certo, se possibile fosse a avere, procaccerebbe come l’avesse34.
re in città con il decoro che Il giovanetto, udite molte volte queste proferte, disse: «Madre mia, se voi fate
desiderava.
22 Campi: Campi Bisen- che io abbia il falcone di Federigo, io mi credo prestamente guerire».
zio, un piccolo borgo a po- La donna, udendo questo, alquanto sopra sé stette35 e cominciò a pensar quello
chi chilometri da Firenze. che far dovesse. Ella sapeva che Federigo lungamente l’aveva amata, né mai da lei 55
23 quando… richiedere:
andando a caccia col falcone una sola guatatura36 aveva avuta, per che ella diceva. «Come manderò io o andrò a
quando poteva e senza chie- domandargli questo falcone, che è, per quel che io oda, il migliore che mai volas-
dere aiuto (richiedere) ad al-
cuno. se e oltre a ciò il mantien nel mondo37? E come sarò io sí sconoscente38, che a un
24 comportava: soppor- gentile uomo al quale niuno altro diletto è più rimaso, io questo gli voglia tor-
tava.
25 essendo… stremo: es- re39?» E in cosí fatto pensiero impacciata, come che ella fosse certissima d’averlo 60
sendosi Federigo ridotto in se ’l domandasse, senza sapere che dover dire, non rispondeva al figliuolo ma si
estrema miseria. stava40.
26 che: ripetizione pleo-
nastica del che della reggente Ultimamente41 tanto la vinse l’amor del figliuolo, che ella seco dispose, per
(avvenne un dí che). contentarlo, che che esser ne dovesse42, di non mandare ma d’andare ella medesi-
27 e veggendosi… mo-
rissi: e vedendosi vicino alla ma per esso e di recargliele43, e risposegli: «Figliuol mio, confortati e pensa di gue- 65
morte fece testamento; ed rire di forza44, ché io ti prometto che la prima cosa che io farò domattina, io an-
essendo ricchissimo, no-
minò come erede il figlio drò per esso e sí il ti recherò». Di che il fanciullo lieto il dí medesimo mostrò al-
che era già grandicello e do- cun miglioramento.
po di lui (appresso questo),co-
stituì suo erede (suo erede La donna la mattina seguente, presa un’altra donna in compagnia, per modo di
substituí, nominò erede so- diporto45 se n’andò alla piccola casetta di Federigo e fecelo adimandare. Egli, per 70
stitutivo) la moglie, che ave- ciò che non era tempo, né era stato a quei dí, d’uccellare46, era in un suo orto e
va molto amata, nel caso che
il figlio morisse a sua volta
senza eredi legittimi; quindi 32 come… n’avea: dato 37 il mantien nel mon- nuto, senza sapere che cosa portarglielo.
morì. che non aveva altri figli. do: lo tiene in vita (procu- dire, non rispondeva al figlio 44 di forza: con tutte le
28 l’anno di state: ogni 33 non restava di: non randogli il cibo). ma stava silenziosa (si stava). tue forze.
anno durante l’estate. cessava di. 38 sconoscente: ingrata. 41 Ultimamente: da ulti- 45 per modo di diporto:
29 a dimesticare: a fare 34 procaccerebbe… 39 torre: togliere. mo, alla fine. come se andasse a passeggio.
amicizia, a frequentare. avesse: avrebbe cercato il 40 E… si stava:e tenuta in 42 che… dovesse: qual- 46 non era… uccellare:
30 stranamente: insolita- modo di ottenerla. sospeso da questi pensieri, siasi cosa dovesse accadere. non era il momento oppor-
mente, intensamente. 35 sopra sé stette: rimase benché ella fosse assoluta- 43 d’andare… recarglie- tuno per andare a caccia, né
31 non s’attentava di: pensierosa. mente certa che se l’avesse le: di andare ella stessa a far- lo era stato nei giorni prece-
non si azzardava a. 36 guatatura: sguardo. domandato l’avrebbe otte- ne richiesta a Federigo e di denti.

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13. Giovanni Boccaccio T 13.8

47 faceva… acconciare: faceva certi suoi lavorietti acconciare47; il quale, udendo che monna Giovanna il
faceva portare a compimen-
to (da un contadino) certi domandava alla porta, maravigliandosi forte, lieto là corse.
suoi lavoretti. La quale vedendol venire, con una donnesca piacevolezza levataglisi incontro48,
48 con… incontro: anda-
tagli incontro con signorile
avendola già Federigo reverentemente salutata, disse: «Bene stea Federigo!»49 e se- 75

amabilità. guitò: «Io son venuta a ristorarti50 de’ danni li quali tu hai già avuti per me aman-
49 Bene stea Federigo:
domi più che stato non ti sarebbe bisogno: e il ristoro è cotale, che io intendo con
che Federico stia bene, for-
mula augurale e di saluto. questa mia compagna insieme desinar teco dimesticamente51 stamane».
50 ristorarti: risarcirti. Alla qual Federigo umilmente rispose: «Madonna, niun danno mi ricorda mai
51 dimesticamente: fa-
miliarmente. «Tutta questa avere ricevuto per voi ma tanto di bene che, se io mai alcuna cosa valsi, per lo vo- 80
frase […] è modulata su quel stro valore e per l’amore che portato v’ho adivenne52. E per certo questa vostra li-
linguaggio cortese, se non berale venuta m’è troppo più cara che non sarebbe se da capo mi fosse dato da
stilnovistico, che il B. ha
sempre presente in simili ca- spendere quanto per adietro ho già speso, come che a povero oste siate venuto53»;
si: come nella risposta di Fe- e cosí detto, vergognosamente54 dentro alla sua casa la ricevette e di quella nel suo
derigo («umilmente… per
lo vostro valore…»)» (Bran- giardino la condusse, e quivi non avendo a cui farle tener compagnia a altrui55, 85
ca»). disse: «Madonna, poi che altri non c’è, questa buona donna moglie di questo la-
52 Madonna… adiven-
ne: Mia signora, non ricor- voratore vi terrà compagnia tanto che io vada a far metter la tavola».
do di aver ricevuto alcun Egli, con tutto che la sua povertà fosse strema, non s’era ancor tanto avveduto
danno da voi (per voi) ma
tanto bene che,se io mai val- quanto bisogno gli facea che egli avesse fuor d’ordine spese le sue richezze56; ma
si alcunché, ciò è accaduto questa mattina niuna cosa trovandosi di che potere onorar la donna, per amor del- 90
(adivenne) per il vostro valo- la quale egli già infiniti uomini onorati avea, il fé ravedere57. E oltre modo ango-
re e per l’amore che io vi ho
portato. scioso58, seco stesso maledicendo la sua fortuna, come uomo che fuor di sé fosse
53 E per certo… venuto: or qua e or là trascorrendo59, né denari né pegno60 trovandosi, essendo l’ora tarda
E per certo questa vostra
generosa (liberale) visita mi è e il disidero grande di pure onorar d’alcuna cosa la gentil donna e non volendo,
assai più cara di quanto non non che altrui, ma il lavorator suo stesso richiedere61, gli corse agli occhi il suo 95
mi sarebbe il poter rico-
minciare a spendere quanto buon falcone, il quale nella sua saletta vide sopra la stanga; per che, non avendo a
in passato ho speso, benché che altro62 ricorrere, presolo e trovatolo grasso63, pensò lui esser degna vivanda di
siate venuta da un povero cotal donna. E però64, senza più pensare, tiratogli il collo, a una sua fanticella il fé
ospite.
54 vergognosamente: prestamente, pelato e acconcio, mettere in uno schedone65 e arrostir diligente-
umilmente, «con l’imbaraz- mente; e messa la tavola con tovaglie bianchissime, delle quali alcuna ancora avea, 100
zo che gli deriva dalla consa-
pevolezza della sua miseria» con lieto viso ritornò alla donna nel suo giardino e il desinare, che per lui far si
(Guglielmino). potea, disse essere apparecchiato. Laonde la donna con la sua compagna levatasi
55 non avendo… a al-
trui: non avendo nessun al- andarono a tavola e, senza saper che si mangiassero66, insieme con Federigo, il
tro (a altrui) a cui potesse da- quale con somma fede67 le serviva, mangiarono il buon falcone.
re l’incarico di tenerle com- E levate da tavola e alquanto con piacevoli ragionamenti con lui dimorate, pa- 105
pagnia.
56 Egli… ricchezze: egli, rendo alla donna tempo di dire quello per che andata era, cosí benignamente68
benché la sua povertà fosse verso Federigo cominciò a parlare: «Federigo, ricordandoti tu della tua preterita69
estrema (strema), non si era
ancora accorto, quanto vita e della mia onestà, la quale per avventura tu hai reputata durezza e crudeltà70,
avrebbe dovuto (quanto biso- io non dubito punto che tu non ti debbi maravigliare della mia presunzione71
gno gli facea), di avere sperpe-
rato (avesse fuor d’ordine spese) sentendo quello per che principalmente qui venuta sono; ma se figliuoli avessi o 110
le sue ricchezze. avessi avuti, per li quali potessi conoscere di quanta forza sia l’amor che lor si por-
57 il fé ravedere: glielo
fece comprendere, lo rese
consapevole.
58 angoscioso: angoscia-
to, inquieto. 62 a che altro: altro a cui. cortese, lirica e cavalleresca chi le si accosta, è stilnovisti- 71 presunzione: audacia.
59 trascorrendo: corren- 63 trovatolo grasso: con- insieme, da cui anche fedele. ca («benignamente d’umiltà L’audacia ha però una con-
do agitato. statato che era grasso. Altra inflessione cortese fra vestuta…», Dante). notazione di reale presun-
60 pegno: un oggetto da 64 però: perciò. le molte che decorano que- 69 preterita: passata. zione perché la donna può
dare in pegno (per acquista- 65 schedone: schidione, sta esemplare novella di cor- 70 onestà… crudeltà: ec- immaginare che Federigo
re del cibo da servire alla sua spiedo. tesia» (Branca). co qui descritta, nelle parole pensi che la richiesta sia fatta
ospite). 66 senza… mangiasse- 68 benignamente: con di un’amata che ha respinto fidando sul valore che egli
61 e non volendo… ri- ro: senza sapere che cosa affabile benevolenza. Si ri- l’amante, la genesi psicolo- attribuisce all’amata. Di qui
chiedere: e non volendo (con enfasi: che cosa impor- cordi che l’espressione, at- gica del concetto di cru- l’imbarazzo della donna.
chiedere aiuto non che ad tante) stessero mangiando. tribuita alla donna, di cui in- deltà, su cui Boccaccio ha
altri, ma neppure al proprio 67 fede: «devozione, rive- dica la natura benigna capa- costruito la novella di Na-
contadino. renza: parola della lingua ce di determinare il bene di stagio degli Onesti.

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Duecento e Trecento

72 mi… iscusata: credo ta, mi parrebbe esser certa che in parte m’avresti per iscusata72. Ma come che tu
(mi parrebbe) che sarei certa
che mi avresti potuto in par- no’ n’abbia73, io che n’ho uno, non posso però le leggi comuni dell’altre madri
te scusare. Si noti la tituban- fuggire74; le cui forze seguir convenendomi, mi conviene, oltre al piacer mio e ol-
za della donna nell’avanzare tre a ogni convenevolezza e dovere, chiederti75 un dono il quale io so che som- 115
questa ipotesi.
73 come… n’abbia: ben- mamente t’è caro: e è ragione76, per ciò che niuno altro diletto, niuno altro di-
ché tu non ne abbia. porto77, niuna consolazione lasciata t’ha la tua strema fortuna78; e questo dono è il
74 non posso… fuggire:
non posso sottrarmi alle leg- falcon tuo, del quale il fanciul mio è sí forte invaghito, che, se io non gliele porto,
gi che sono comuni a tutte io temo che egli non aggravi tanto nella infermità la quale ha, che poi ne segua
le altre madri, cioè alle leggi
naturali che ne determina- cosa per la quale io il perda. E per ciò ti priego, non per l’amore che tu mi porti, 120
no i sentimenti e i compor- al quale tu di niente se’ tenuto79, ma per la tua nobiltà, la quale in usar cortesia s’è
tamenti nei confronti dei fi- maggiore che in alcuno altro mostrata80, che ti debba piacere di donarlomi, acciò
gli.
75 le cui… chiederti: che io per questo dono possa dire d’avere ritenuto in vita il mio figliuolo e per
poiché è inevitabile (conve- quello averloti sempre obligato»81.
nendomi) che io obbedisca
alla forza di tali leggi, sono Federigo, udendo ciò che la donna adomandava e sentendo che servir non ne 125
costretta (mi conviene), con- la potea per ciò che mangiar gliele avea dato, cominciò in presenza di lei a pia-
tro il mio stesso desiderio
(oltre al piacer mio) e contro gnere anzi che alcuna parola risponder potesse. Il qual pianto la donna prima cre-
ad ogni dovere di conve- dette che da dolore di dover da sé dipartire il buon falcon divenisse82 più che da
nienza, a chiederti.
76 è ragione: è ragione-
altro, e quasi fu per dire che nol volesse; ma pur sostenutasi83, aspettò dopo il
vole, è giusto che sia così. pianto la risposta di Federigo, il qual cosí disse: «Madonna, poscia che a Dio piac- 130
77 diporto: svago.
78 la tua strema fortuna:
que che io in voi ponessi il mio amore, in assai cose m’ho reputata la fortuna con-
la tua estrema sfortuna,la tua traria e sonmi di lei doluto; ma tutte sono state leggieri a rispetto di quello che
fortuna che ti ha ridotto in ella mi fa al presente, di che io mai pace con lei aver non debbo84, pensando che
estrema povertà.
79 al quale… tenuto: ri- voi qui alla mia povera casa venuta siete, dove, mentre che ricca fu, venir non de-
spetto al quale tu non hai al- gnaste, e da me un picciol don vogliate, e ella abbia sí fatto85, che io donar nol vi 135
cun obbligo.
80 per la tua nobiltà… possa: e perché questo esser non possa vi dirò brievemente. Come io udi’ che voi,
mostrata: per la tua indole la vostra mercé86, meco desinar volavate, avendo riguardo alla vostra eccellenzia e
nobile che, nel fare cortesie, al vostro valore, reputai degna e convenevole cosa che con più cara vivanda87 se-
si è mostrata superiore che
in ogni altro uomo. condo la mia possibilità io vi dovessi onorare, che con quelle che generalmente
81 per quello… obliga-
per l’altre persone s’usano: per che, ricordandomi del falcon che mi domandate e 140
to: per quel motivo (possa
dire di) esserti obbligata, es- della sua bontà, degno cibo da voi88 il reputai, e questa mattina arrostito l’avete
serti debitrice per sempre. avuto in sul tagliere89, il quale io per ottimamente allogato avea90; ma vedendo ora
82 divenisse: derivasse.
83 sostenutasi: trattenu- che in altra maniera il disideravate, m’è sí gran duolo che servire non ve ne posso,
tasi. che mai pace non me ne credo dare».
84 in assai… debbo: in
molte circostanze (cose) ho
E questo detto, le penne e’ piedi e ’l becco le fé in testimonianza di ciò gittare 145

ritenuto che la fortuna mi avanti. La qual cosa la donna vedendo e udendo, prima il biasimò d’aver per dar
fosse avversa e mi sono la- mangiare a una femina ucciso un tal falcone91, e poi la grandezza dell’animo suo,
mentato di lei, ma tutte le
mie sventure sono state lievi la quale la povertà non avea potuto né potea rintuzzare92, molto seco medesima
(leggieri) rispetto a questa; a commendò93. Poi, rimasa fuori della speranza d’avere il falcone e per quello della
proposito, a causa della qua-
le (di che) io non mi potrò salute del figliuolo entrata in forse, tutta malinconosa si dipartí e tornossi al fi- 150
mai pacificare con lei. gliuolo. Il quale, o per malinconia94 che il falcone aver non potea o per la ’nfer-
85 ella… fatto: ed ella (la
fortuna) abbia fatto sì che… mità che pure a ciò il dovesse aver condotto95, non trapassar molti giorni che egli
86 la vostra mercé: per con grandissimo dolor della madre di questa vita passò.
vostra grazia, bontà. La quale, poi che piena di lagrime e d’amaritudine fu stata alquanto, essendo ri-
87 con più cara vivanda:
con il cibo più squisito, pre- masa ricchissima e ancora giovane, più volte fu da’ fratelli costretta96 a rimaritarsi. 155
zioso. La quale, come che voluto non avesse, pur veggendosi infestare97, ricordatasi del
88 degno cibo da voi: ci-
bo degno di voi.
89 tagliere: piatto (di por-
tata). lo rimproverò di aver ucciso (Branca). 94 per malinconia: per il con insistenza.
90 il quale… avea: il qua- un falcone tanto pregiato 92 rintuzzare: sminuire. dolore. 97 infestare: «tormentare
le (falcone) io ritenevo di per dare da mangiare a una 93 commendò: lodò. Si 95 che… condotto: che cioè sollecitare importuna-
aver utilizzato nel modo donna. «Contrappone tal a noti anche la contrapposi- comunque lo avrebbe con- mente» (Branca).
migliore. femina, quasi con una punta zione tra il biasimo ad alta dotto a tale fine.
91 il biasimò… falcone: di disprezzo per se stessa» voce e la lode intima. 96 costretta: sollecitata

458 © Casa Editrice Principato


13. Giovanni Boccaccio T 13.8

98 magnificenzia ulti- valore di Federigo e della sua magnificenzia ultima98, cioè d’avere ucciso un cosí
ma: della sua ultima azione
nobile e generosa. fatto falcone per onorarla, disse a’ fratelli: «Io volentieri, quando vi piacesse, mi
99 mi starei: me ne aster- starei99; ma se a voi pur piace che io marito prenda, per certo io non ne prenderò
rei, ne farei a meno. mai alcuno altro, se io non ho Federigo degli Alberighi». 160
100 non ha cosa del mon-
do: non ha alcun bene, alcu- Alla quale i fratelli, faccendosi beffe di lei, dissero: «Sciocca, che è ciò che tu di’?
na proprietà. come vuoi tu lui che non ha cosa del mondo?100»
101 da molto: come uomo
di grande valore. A’ quali ella rispose: «Fratelli miei, io so bene che cosí è come voi dite, ma io
102 e cui: che. voglio avanti uomo che abbia bisogno di ricchezza che ricchezza che abbia biso-
103 miglior massaio fat-
to: divenuto più accorto gno d’uomo». 165
amministratore del suo pa- Li fratelli, udendo l’animo di lei e conoscendo Federigo da molto101, quantun-
trimonio.
que povero fosse, sí come ella volle, lei con tutte le sue ricchezze gli donarono. Il
quale cosí fatta donna e cui102 egli cotanto amata avea per moglie vedendosi, e ol-
tre a ciò ricchissimo, in letizia con lei, miglior massaio fatto103, terminò gli anni
suoi. – 170

Guida all’analisi
Mondo cortese e mondo borghese Il contesto in cui Federigo si muove è quello della Firenze arcaica, già rimpianta
da Dante per la sua costumatezza e moralità, quando ancora «la gente nova e i subiti guadagni»
non l’avevano degradata. Non ci sono elementi per stimare con sicurezza l’epoca in cui Boccac-
cio colloca questa storia, ma l’aura di passato remoto che spira nel testo è un elemento assai im-
portante (la famiglia degli Alberighi è già in decadenza nel XII secolo e ormai estinta nel XIV).
Gli ideali cavallereschi e cortesi erano però ancora presenti nel Trecento anche nella borghesissi-
ma realtà comunale toscana.Ad essi si ispiravano i giovani delle nuove élites cittadine, che aveva-
no fatto fortuna per lo più con i commerci, e che una volta arricchitesi e affermatesi politica-
mente avevano cercato di raffinare i propri costumi. Ma le nuove élites dovevano fare i conti con
una realtà economica e sociale più complessa di quella feudale e quindi, se in astratto vagheggia-
vano la spensierata liberalità e magnificenza dell’antica nobiltà (qual era descritta dalla letteratu-
ra), in pratica avevano imparato ad essere oculati amministratori.
Il comportamento di Federigo, dunque, è ispirato ai più nobili ideali di vita cortese: libera-
lità, generosità, raffinatezza, amore concepito come servizio e dedizione assoluta nei confron-
ti di una donna… La magnificenza cortese e la generosità di Federigo, se esaminate nell’otti-
ca mercantile, si convertirebbero però in estrema dissennatezza perché egli viola i più sacri
principi del buon governo del patrimonio, senza ravvedersi quando è sull’orlo del baratro e
senza ravvedersi nemmeno nell’estremo ‘nobilissimo’ o ‘dissennatissimo’ gesto di sacrificare,
per onorare la donna amata, il proprio falcone, simbolo residuo dell’antica magnificenza, suo
fedele compagno ma soprattutto mezzo di sostentamento.
Boccaccio svela la precarietà della magnificenza cortese Una delle questioni critiche relative a questa novella ri-
guarda dunque il giudizio che Boccaccio dà del suo personaggio. Ha un atteggiamento preva-
lentemente nostalgico verso quel mondo cortese che gli ricorda la Napoli angioina della gio-
ventù? o viceversa predomina la critica ‘economica’? Premesso che entrambe le tesi sono state
sostenute dalla critica, per tentare una risposta dobbiamo svolgere alcune altre considerazioni.
La narrativa cortese per lo più si limitava a magnificare la generosità e la liberalità dei nobili
ricchi e potenti lasciando l’impressione che la loro ricchezza fosse illimitata e magari metteva in
scena il contrasto fra la generosità del sovrano e la parsimonia dei loro amministratori. Talora
presentava anche personaggi nobili ma poveri, che sopperivano con la gentilezza dei costumi e
dell’animo alla mancanza di risorse e sostenevano con dignità la povertà. Più di rado, infine,
presentava nobili impoveriti, ma in questo caso quasi mai si apriva all’analisi ‘economica’ delle
ragioni dell’impoverimento, che appariva come una sorta di destino infausto. Boccaccio invece,
mentre celebra Federigo come uno dei donzelli più versati in cortesia di tutta Toscana, getta an-
che una diversa luce su quella magnificenza, svelandone i retroscena economici e la sostanziale
precarietà. Dietro la liberalità dei grandi signori ci sono amministratori oculati e taccagni ed
esattori spietati e crudeli che gliela consentono; dietro la liberalità dei donzelli, che devono
mettersi in mostra finché son giovani, ci sono genitori o parenti che li orientano e li tengono a

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Duecento e Trecento

freno (così si comportano i parenti di Nastagio, che lo costringono ad allontanarsi da Ravenna;


così si comportano i fratelli di donna Giovanna, che avanzano obiezioni al suo matrimonio con
Federigo per la sua povertà e forse per la sua propensione allo sperpero).
Due chiavi di lettura La novella di Federigo può dunque essere letta come la parabola cortese di un uomo nobilis-
simo che, dopo infiniti colpi avversi della fortuna (così egli tende a presentare la propria vi-
cenda), alla fine viene ricompensato dalla sorte, perché con l’atto di suprema liberalità, senza
contraddire se stesso, inverte il corso della sua vicenda, conquista l’animo della donna amata e
viene ricompensato, tornando ad essere ricchissimo e ritrovando il proprio ruolo in società.
L’ammirazione per la sua coerente ed estrema cortesia, più che l’amore, gli vale la ricompensa
che Giovanna gli concede.
Ma leggere solo così la novella sarebbe depauperante. A questo modello se ne intreccia di
certo anche un altro. Federigo, che scopre improvvisamente come un’illuminazione la passata
dissennatezza (rr. 88-91) e che diventa «buon massaio» nel finale, descrive, come Andreuccio,
un itinerario esemplare: il nobile dissennato che attraverso l’esperienza concreta, nonostante la
pervicacia nel non riconoscere i propri errori, alla fine acquista quell’oculatezza e quella pru-
denza che gli erano mancate, e si dimostra degno di tornare ad avere un patrimonio cospicuo,
che la buona sorte (nonostante tutto) gli consegna, perché ora è pronto ad amministrarlo co-
me si conviene. Anche il matrimonio conclusivo, che contraddice uno dei capisaldi della let-
teratura cortese, è un modo per entrare nella dimensione moderna e borghese del vivere.
La sintesi del Boccaccio Boccaccio sembra dunque apprezzare la nobiltà d’animo e in genere i comportamenti ci-
vili e raffinati (quella che potremmo definire l’educazione superiore di Federigo), ma insi-
stendo sul tema dello sperpero, della povertà e del suo finale divenire «miglior massaio», svela
ciò che del comportamento cortese non funzionava più nel mondo borghese del Trecento. Il
denaro va amministrato con realismo e non si deve fare il passo più lungo della gamba, come
insegnavano le massime mercantili. Con equilibrio Boccaccio insomma mostra di apprezzare
alcune doti dell’animo e del comportamento del mondo e della civiltà cortese, criticandone
però con concreto realismo altre, e tenta una sintesi di liberalità e generosità e costumatezza
cortesi e di concretezza, oculatezza, realismo borghesi.
Interpretazioni contrastanti di Giovanna Anche il personaggio di Giovanna ha suscitato diverse e contrastanti in-
terpretazioni: c’è chi ne ha messo in luce l’onestà e la nobiltà d’animo, parlando di «spirito ar-
monioso» (Pernicone) e di un «intreccio di sentimenti (pudore, amor materno, pietà per l’a-
mante infelice)… dosatissimo» (Salinari), chi l’ha celebrata, per il suo trepido amor materno,
per l’intensa malinconia con cui si allontana da Federigo, come una fra «le immagini più pu-
re» del Decameron (Getto). C’è viceversa chi ne ha evidenziato la «freddezza», la sua natura di
«creatura senza slanci», «la miseria di sentimenti» (notando che anche il suo più nobile gesto, la
scelta di Federigo come sposo, la compie obtorto collo, «veggendosi infestare» dall’insistenza dei
fratelli) e ancora l’eccessiva «civetteria» che mette nel suo primo approccio con Federigo, la
crudeltà della sua richiesta (Muscetta). Non c’è dubbio che un intenso amor materno e l’as-
senza di slanci per Federigo (è certo più un’ammirazione intellettuale e morale che non l’a-
more a spingerla alle nozze) sono tratti che coesistono nella novella e giudicare quale sia deci-
sivo è questione delegata alla sensibilità del lettore.
Il tema dell’infanzia Può mettere d’accordo tutti, invece, l’osservazione di Getto che questa novella, per la delica-
tezza con cui è tracciato il profilo del fanciullo, sin dai suoi primi incontri con Federigo (la
passione per il falcone e la sua ritrosia a domandarlo), e la malinconica intensità con cui è af-
frontato il tema della sua infermità e morte, è «una pagina rara della nostra letteratura, che, so-
prattutto prima dell’età romantica, […] quasi ignora la poesia dell’infanzia».
Laboratorio Ti suggeriamo un confronto tra la novella di protagoniste femminili e confronta il loro
COMPRENSIONE Nastagio e quella di Federigo. carattere (è descritto analiticamente?) e i
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE 1 Metti a confronto il comportamento dei loro comportamenti.
due protagonisti e i diversi modi con cui 3 Analizza e confronta l’ampiezza che le
essi realizzano i propri desideri. Individua parti dialogiche assumono e la funzione
tutte le possibili analogie e differenze. che assolvono nelle due novelle.
2 Delinea un sintetico ritratto delle due

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13. Giovanni Boccaccio T 13.9

T 13.9 Il Decameron 1349-1351


Chichibio cuoco (VI,4)
G. Boccaccio La sesta giornata del Decameron, sotto il reggimento di Elissa, è dedicata a «chi con al-
Il Decameron cun leggiadro motto, tentato, si riscotesse (cioè abbia reagito a una provocazione), o
a c. di V. Branca,
Einaudi, Torino 1984 con una pronta risposta o avvedimento (cioè con un accorto comportamento) fuggì
perdita o pericolo o scorno». È questa insomma la giornata che, sulla scorta di una tra-
dizione ormai consolidata (si pensi al Novellino), raccoglie le novelle fondate sui motti
spiritosi o pungenti più che sull’articolazione dell’intreccio, e quindi anche le più brevi
e sintetiche di tutta l’opera.
Famosissima e assai piacevole è la storia di Chichibio, un cuoco un po’ fatuo, che per
compiacere la sua bella commette una duplice, imperdonabile scorrettezza nel confron-
ti del signore presso cui è a servizio. Lo salverà un motto spiritoso, trovato – neppure
lui sa come – nel momento della disperazione.

Chichibio, cuoco di Currado Gianfigliazzi, con una presta parola a sua salute l’ira di
Currado volge in riso e sé campa dalla mala ventura minacciatagli da Currado.

Tacevasi già la Lauretta e da tutti era stata sommamente commendata la Non-


na, quando la reina a Neifile impose che seguitasse; la qual disse: 5
1 Quantunque… tro- – Quantunque il pronto ingegno, amorose donne, spesso parole presti e utili e
vare: Sebbene un vivace e belle, secondo gli accidenti, a’ dicitori, la fortuna ancora, alcuna volta aiutatrice de’
pronto ingegno, donne in-
namorate, fornisca parole paurosi, sopra la lor lingua subitamente di quelle pone che mai a animo riposato
utili e belle, a seconda dei per lo dicitore si sareber sapute trovare1: il che io per la mia novella intendo di di-
casi, a chi parla, anche la for-
tuna, che qualche volta aiuta mostrarvi. 10
i paurosi,ne pone improvvi- Currado Gianfigliazzi2, sì come ciascuna di voi e udito e veduto puote avere,
samente in bocca a persone
che mai ne avrebbero potu- sempre della nostra città è stato nobile cittadino, liberale e magnifico, e vita caval-
te trovare di simili a mente leresca tenendo3 continuamente in cani e in uccelli4 s’è dilettato, le sue opere
fredda (a animo riposato).
2 Currado Gianfigliaz- maggiori al presente lasciando stare5. Il quale con un suo falcone avendo un dì
zi: personaggio storico fio- presso a Peretola6 una gru ammazzata, trovandola grassa e giovane, quella mandò a 15
rentino vissuto tra il XIII e il un suo buon cuoco, il quale era chiamato Chichibio7 e era viniziano; e sì gli
XIV secolo, appartenente a
una celebre famiglia di ban- mandò dicendo8 che a cena l’arrostisse e governassela9 bene. Chichibio, il quale
chieri, di parte nera. come nuovo bergolo era così pareva10, acconcia11 la gru, la mise a fuoco e con
3 vita… tenendo: con-
ducendo una vita secondo i sollecitudine a cuocer la cominciò. La quale essendo già presso che cotta e gran-
costumi cavallereschi (cor- dissimo odor venendone, avvenne che una feminetta della contrada, la quale Bru- 20
tesi).
4 uccelli: uccelli da cac- netta era chiamata e di cui Chichibio era forte innamorato, entrò nella cucina, e
cia, come il falcone di Fede- sentendo l’odor della gru e veggendola pregò caramente Chichibio che ne le des-
rigo degli Alberighi.
5 le sue… stare: per non se12 una coscia.
parlare ora delle sue più im- Chichibio le rispose cantando13 e disse: «Voi non l’avrì14 da mi, donna Brunet-
portanti imprese (allude alla ta, voi non l’avrì da mi». 25
partecipazione alla vita po-
litica del comune e all’atti- Di che donna Brunetta essendo turbata15, gli disse: «In fé di Dio, se tu non la mi dai,
vità finanziaria e commer- tu non avrai mai da me cosa che ti piaccia», e in brieve le parole furon molte16; alla fi-
ciale).
6 Peretola: un borgo vi- ne Chichibio, per non crucciar la sua donna, spiccata l’una delle cosce alla gru, gliele
cino a Firenze, dove i Gian- diede.
figliazzi avevano dei posse-
dimenti. Essendo poi davanti a Currado e a alcun suo forestiere17 messa la gru senza co- 30
7 Chichibio: da pronun- scia, e Currado18, maravigliandosene, fece chiamare Chichibio e domandollo che
ciarsi Chichibìo.
8 gli mandò dicendo: fosse divenuta l’altra coscia della gru. Al quale il vinizian bugiardo subitamente ri-
gli mandò a dire (lo incaricò spose: «Signor mio, le gru non hanno se non una coscia e una gamba».
di arrostirlo per cena).
9 governassela: la pre- 11 acconcia: preparata. anche canticchiando, canti- 14 l’avrì: l’avrete. devoli, ci fu un litigio.
parasse. 12 ne le desse: gliene des- lenando, per celia: si noti la 15 turbata: irritata, stizzi- 17 forestiere: ospite.
10 come… pareva: era se. risposta di Chichibio, con ta. 18 e Currado: subito
fatuo e sciocco (nuovo bergo- 13 cantando: nel suo mu- ripetizione e omoteleuti, 16 in breve… molte: e in Currado (e paraipotattico).
lo) così come pareva. sicale dialetto veneziano, o cioè rime (avrì… mi). breve si passò a parole sgra-

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Duecento e Trecento

19 non vid’io… questa?: Currado allora turbato disse: «Come diavol non hanno che una coscia e una
credi forse che io non abbia
mai visto altra gru che que- gamba? non vid’io mai più gru che questa? 19» 35
sta? cioè, che io non sappia Chichibio seguitò: «Egli è, messer, com’io vi dico; e quando vi piaccia, io il vi
come son fatte le gru? farò veder ne’ vivi20».
20 ne’ vivi: negli esempla-
ri vivi, in quelle vive. Currado per amore de’ forestieri che seco aveva non volle dietro alle parole an-
21 dietro… andare: pro-
dare21, ma disse: «Poi che tu di’ di farmelo veder ne’ vivi, cosa che io mai più non
seguire la discussione.
22 e io: ebbene io (e parai- vidi né udi’ dir che fosse, e io22 il voglio veder domattina e sarò contento; ma io ti 40
potattico). giuro in sul corpo di Cristo che, se altramenti sarà, che io ti farò conciare in ma-
23 che… che: abituale ri-
presa pleonastica del che niera, che23 tu con tuo danno ti ricorderai, sempre che tu ci viverai24, del nome
dopo una proposizione pa- mio».
rentetica.
24 ci viverai: sopravvive- Finite adunque per quella sera le parole, la mattina seguente, come il giorno
rai alla punizione. apparve, Currado, a cui non era per lo dormire l’ira cessata, tutto ancor gonfiato25 45
25 gonfiato: gonfio d’ira.
26 fiumana: fiume o sta-
si levò e comandò che i cavalli gli fossero menati; e fatto montar Chichibio sopra
gno. un ronzino, verso una fiumana26, alla riva della quale sempre soleva in sul far del
27 nel menò: lo condusse
dì vedersi delle gru, nel menò27 dicendo: «Tosto vedremo chi avrà iersera mentito,
lì.
28 far… bugia: provare la o tu o io».
veridicità della sua bugia Chichibio, veggendo che ancora durava l’ira di Currado e che far gli conveni- 50
(impresa evidentemente
impossibile). va pruova della sua bugia28, non sappiendo come poterlasi fare29 cavalcava appres-
29 poterlasi fare: poterlo so a Currado con la maggior paura del mondo, e volentieri, se potuto avesse, si sa-
fare, poterla provare.
30 gli venner… vedute: rebbe fuggito; ma non potendo, ora innanzi e ora adietro e dallato si riguardava, e
gli accadde di vedere prima ciò che vedeva credeva che gru fossero che stessero in due piè.
d’ogni altro. Ma già vicini al fiume pervenuti, gli venner prima che ad alcun vedute30 sopra 55
31 in un piè dimorava-
no: se ne stavano ferme su la riva di quello ben dodici gru, le quali tutte in un piè dimoravano31, sì come
una sola zampa. quando dormono soglion fare; per che egli prestamente mostratele a Currado,
32 Aspettati: aspetta.
33 ghiottone: «canaglia, disse: «Assai bene potete, messer, vedere che iersera vi dissi il vero, che le gru non
furfante» (Branca). hanno se non una coscia e un piè, se voi riguardate a quelle che colà stanno».
34 parti: ti pare.
35 donde si venisse: da Currado vedendole disse: «Aspettati32, che io ti mostrerò che elle n’hanno due», 60
dove venisse l’idea di ri- e fattosi alquanto più a quelle vicino, gridò: «Ho, ho!», per lo qual grido le gru,
spondere in quel modo (ab-
biamo visto all’inizio che, mandato l’altro piè giù, tutte dopo alquanti passi cominciarono a fuggire; laonde
secondo la novellatrice, è la Currado rivolto a Chichibio disse: «Che ti par, ghiottone33? parti34 ch’elle n’ab-
fortuna a porgliela in boc- bian due?»
ca).
36 si convertì: si tramutò. Chichibio quasi sbigottito, non sappiendo egli stesso donde si venisse35, rispose: 65
37 sollazzevol: diverten-
«Messer sì, ma voi non gridaste ‘ho, ho!’ a quella d’iersera; ché se così gridato ave-
te.
38 cessò… paceficossi: ste ella avrebbe così l’altra coscia e l’altro piè fuor mandata, come hanno fatto
scampò alla punizione e si queste».
rappacificò.
A Currado piacque tanto questa risposta, che tutta la sua ira si convertì36 in fe-
sta e riso, e disse: «Chichibio, tu hai ragione: ben lo doveva fare». 70
Così adunque con la sua pronta e sollazzevol37 risposta Chichibio cessò la ma-
la ventura e paceficossi38 col suo signore. –

Guida all’analisi
Un personaggio impulsivo, incapace di guardare al domani Chichibio è un bugiardo spudorato e irriflessivo:
cede d’impulso alle bizze della sua Brunetta, senza prevedere o mettere in conto le conse-
guenze del suo gesto. Certo, deve intuire che la sta facendo grossa, ma lui è uno che non
sa resistere alle sollecitazioni del momento: per quel che potrebbe accadere poi, si affida al-
la fortuna, alla filosofia del «domani è un altro giorno, si vedrà…». Del resto così ce lo pre-
senta il Boccaccio definendolo «nuovo bergolo», cioè un «leggerone», per dirla col Bran-
ca. Poi, di fronte alle proteste inquisitorie del padrone, tira fuori la spudorata asserzione
che le gru non hanno che una coscia e pretende per di più di dimostrarglielo «ne’ vivi».
Sta giocando col fuoco, perché il suo è un comportamento potenzialmente irrisorio e of-

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13. Giovanni Boccaccio T 13.9

fensivo: difendersi in quel modo significa oggettivamente prendere per stupido il padrone
e, pertanto, scatenarne o esasperarne l’ira. Ma, di nuovo, Chichibio non ha premeditato
questa linea difensiva: ha parlato all’improvviso («subitamente», r. 32), dicendo quel che gli
passava per la mente, senza comprendere che così facendo si metteva da solo con le spal-
le al muro. Si salva, momentaneamente, solo perché Currado non vuol fare una scenata di
fronte agli ospiti.
La paura di Chichibio Chichibio a questo punto forse ingenuamente pensa di averla scampata definitivamente
(chissà mai che la notte non plachi l’ira del padrone). Ma la sua offensiva spudoratezza in-
duce viceversa Currado a insistere, a volersi togliere la soddisfazione di smascherare plateal-
mente il cuoco. È solo la mattina successiva che Chichibio si dimostra per la prima volta
consapevole e preoccupato del pericolo che corre. È un tratto di finezza psicologica del
narratore non menzionare la paura di Chichibio se non all’ultimo, quasi d’improvviso e in
forma enfatizzata: «con la maggior paura del mondo» (r. 52). Nulla infatti ci è detto dei pen-
sieri notturni di Chichibio, dopo le minacciose, durissime parole di Currado la sera prima.
Ma l’espressione con cui si apre l’introspezione del personaggio la mattina seguente: «veg-
gendo che ancora durava l’ira di Currado», suggerisce, per la sorpresa che dimostra, che la
notte di Chichibio possa essere stata abbastanza tranquilla. Così la paura sembra calare im-
provvisa, inattesa e violenta sul poveretto, che adotta un atteggiamento di cui forse si ricor-
derà il Manzoni descrivendo la paura di don Abbondio di fronte ai bravi: «se potuto avesse,
si sarebbe fuggito; ma non potendo, ora innanzi e ora adietro e dallato si riguardava, e ciò
che vedeva credeva che gru fossero che stessero in due piè». Improvvisamente dalla sicume-
ra della sera prima Chichibio precipita nell’incubo, quello che gli fa scorgere gru su due
zampe in ogni cespuglio.
Chichibio e la fortuna Sull’orlo del baratro, impossibilitato a fuggire, Chichibio però si rinfranca per un mo-
mento vedendo un gruppo di gru appollaiate su una sola zampa e «prestamente» (r. 57) le
mostra al signore. L’avverbio (come il «subitamente» della la sera prima) è un dettaglio si-
gnificativo: Chichibio ancora una volta agisce d’impulso, senza pensare alle conseguenze: la
sua difesa di una tesi insostenibile non poteva che esasperare ulteriormente il già adirato
Currado; non sarebbe stato meglio, secondo ragione, a quel punto implorare pietà? Ma ec-
co che alla fine gli esce quel motto spiritoso che, contro ogni logica, lo salva e che egli non
avrebbe mai potuto trovare «a animo riposato» (r. 8). Il motto – si noti – non è intenzional-
mente spiritoso, non costituisce una strategia: suggeritagli chissà come dalla sua buona stel-
la, la battuta non è che l’iperbole dell’attitudine a mentire e della spudoratezza di Chichibio.
È questo che smonta l’ira di Currado e lo ammansisce. È il riconoscimento della bellezza e
del paradossale candore della spiritosaggine, ancorché involontaria, che converte «in festa e
riso» quella che poteva essere una tragedia.
La fortuna, dunque, è la protagonista della novella, in quanto «aiutatrice de’ paurosi»: tra-
dotta, la considerazione introduttiva di Neifile significa che a far trovare il motto brillante
a Chichibio è la paura, la disperazione che fa irrazionalmente e imprevedibilmente appello
alle risorse estreme, e non l’intelligenza, l’astuzia, l’educazione o la cultura, di cui è privo.
La moderazione di Currado In extremis ne esce bene anche Currado, che fino allora aveva fatto esclusivamente la
parte del signore gonfio d’ira, sia pure a buon diritto, e disposto ad infliggere una punizione
esemplare (al tempo il furto era punito anche con la morte): il riconoscimento del valore
estetico della spiritosaggine e forse il compatimento dell’irriducibile leggerezza del suo cuo-
co (insomma della paradossale genuinità del suo mentire) lo riconducono a quel profilo di li-
beralità, magnificenza e cortesia cavalleresca che di lui la novellatrice aveva tracciato all’inizio,
dandogli anche un tratto di indulgente moderazione, di chi sa dichiararsi vinto e perdonare.

Laboratorio 1 In questa novella, come spesso in quelle mana), notando la quantità e qualità delle
COMPRENSIONE della VI giornata, il dialogo ha una funzio- battute, il tono con cui esse vengono pro-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE ne essenziale. Esaminalo nelle tre sequen- nunciate, la funzione che esse ti pare as-
ze in cui compare (in cucina, alla tavola solvano nel contesto della novella.
del signore, il giorno dopo presso la fiu-
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Duecento e Trecento

T 13.10 Il Decameron 1349-1351


Frate Cipolla (VI, 10)
G. Boccaccio L’ultima novella della sesta giornata – dedicata ai motti, ai discorsi, alle pronte reazioni
Il Decameron che tolgono da un impaccio – è narrata da Dioneo, il più sapido e spregiudicato dei no-
a c. di V. Branca,
Einaudi, Torino 1984 vellatori, che ha il privilegio di narrare sempre per ultimo e di potersi allontanare dal
tema imposto dalla regina. Questa volta però Dioneo decide di non avvalersi di questa
sua prerogativa e narra una storia fondata sulla capacità di reagire con prontezza a un
imprevisto e sull’abilità di parola: in questo caso però non un motto secco, ma un am-
pio discorso funambolico e furbesco. Il protagonista è frate Cipolla, il tema è quello del
culto delle reliquie e della credulità popolare, che l’astuto protagonista è abilissimo a
sfruttare, nonostante due giovani della sua brigata ordiscano una beffa ai suoi danni.

1 agnolo: angelo. Frate Cipolla promette a certi contadini di mostrar loro la penna dell’agnolo1 Gabriello; in
2 in luogo… Lorenzo:
trovando dei carboni al po- luogo della quale trovando carboni, quegli dice esser di quegli che arrostirono san Lorenzo2.
sto di quella (penna), il frate
dice che si tratta dei carboni Essendo ciascuno della brigata della sua novella riuscito, conobbe Dioneo che a lui
(di quegli) su cui venne mar-
tirizzato, bruciato (arrostito) toccava il dover dire; per la qual cosa, senza troppo solenne comandamento aspet- 5
san Lorenzo. tare, imposto silenzio a quegli che il sentito motto di Guido lodavano, incominciò:
3 separarmi: allonta-
narmi.
4 seguitando… pedate: Vezzose donne, quantunque io abbia per privilegio di poter di quel che più mi
seguendo le vostre orme.
5 con subito riparo:con piace parlare, oggi io non intendo di volere da quella materia separarmi3 della
un pronto, immediato ri- qual voi tutte avete assai acconciamente parlato; ma, seguitando le vostre pedate4, 10
medio.
6 fuggisse… era: riuscis-
intendo di mostrarvi quanto cautamente con subito riparo5 uno de’ frati di santo
se ad evitare la beffa che gli Antonio fuggisse uno scorno che da due giovani apparecchiato gli era6. Né vi do-
era stata preparata da due vrà esser grave perché7 io, per ben dir la novella compiuta8, alquanto in parlar mi
giovani. Scorno propriamen-
te significa ‘umiliazione’ o distenda9, se al sol guarderete il qual è ancora a mezzo il cielo.
‘umiliazione che mette in Certaldo10, come voi forse avete potuto udire, è un castel11 di Valdelsa posto nel 15
ridicolo’.
7 perché: il fatto che. nostro contado, il quale, quantunque piccol sia, già di nobili uomini e d’agiati fu
8 compiuta. completa. abitato; nel quale, per ciò che buona pastura12 vi trovava, usò un lungo tempo d’an-
9 mi distenda: mi dilun-
ghi (è la novella più lunga in dare ogni anno una volta13 a ricoglier le limosine fatte loro dagli sciocchi un de’
una giornata che presenta frati di santo Antonio14, il cui nome era frate Cipolla, forse non meno per lo nome
novelle brevi).
10 Certaldo: il borgo tra
che per altra divozione vedutovi volontieri, con ciò sia cosa che quel terreno pro- 20
Firenze e Siena dal quale duca cipolle famose per tutta Toscana15. Era questo frate Cipolla di persona piccolo,
proveniva la famiglia del di pelo rosso e lieto nel viso e il miglior brigante16 del mondo: e oltre a questo, niu-
Boccaccio.
11 castel: qui vale ‘borgo’. na scienza avendo17, sí ottimo parlatore e pronto era, che chi conosciuto non l’aves-
12 buona pastura: buon
se, non solamente un gran rettorico18 l’avrebbe estimato, ma avrebbe detto esser
pascolo, detto metaforica-
mente per significare l’ab- Tulio medesimo o forse Quintiliano: e quasi di tutti quegli della contrada era com- 25
bondanza di sciocchi che ca- pare o amico o benvogliente19.
devano nei tranelli del frate.
13 usò… volta: fu solito Il quale, secondo la sua usanza, del mese d’agosto tra l’altre v’andò una volta; e
per molto tempo andare una una domenica mattina, essendo tutti i buoni uomini e le femine delle ville da tor-
volta all’anno.
14 un de’… Antonio: fa-
no venuti alla messa nella calonica20, quando tempo gli parve21, fattosi innanzi dis-
mosi al loro tempo per essere se: «Signori e donne22, come voi sapete, vostra usanza è di mandare ogni anno a’ 30
sovente dei truffatori che si
approfittavano della credu- 15 forse… Toscana: ben del linguaggio, si apra con oratori (soprattutto il pri- poi l’amicizia e infine l’atteg-
lità degli sciocchi. Furono visto in quel borgo tanto per una notazione ironica pro- mo) e i massimi teorici latini giamento di benevola dispo-
oggetto per questo di prov- la devozione degli abitanti prio sul nome del frate. di retorica. nibilità» (Guglielmino).
vedimenti papali e Dante quanto per il suo nome,dato 16 il miglior brigante: il 19 e quasi… benvoglien- 20 calonica: canonica,
stesso li attacca nella Comme- che quelle terre producono più lieto compagno di bri- te: e aveva rapporti di grande chiesa parrocchiale.
dia (Pd XXIX 124 segg.). La cipolle famose in tutta la to- gata (brigante), il miglior familiarità con tutta la gente 21 quando… parve:
novella di Boccaccio, per scana. «Anzi lo stemma di buontempone. della contrada. I tre predicati quando gli parve il momen-
quanto d’invenzione, si fon- Certaldo portava e porta 17 niuna… avendo: non conclusivi sono disposti se- to opportuno.
da tuttavia su un duplice dato una cipolla» (Branca). No- avendo alcuna istruzione. condo «un climax discenden- 22 donne: signore (dal lat.
storico:la diffusissima pratica tevole il fatto che questa no- 18 rettorico: oratore; co- te: al primo posto il legame dominae); ma l’espressione è
di ‘creare’ false reliquie e la vella che, come vedremo, me Cicerone (Tullio) o che deriva dall’essere padri- ricercata, derivando dall’uso
cattiva fama dell’ordine. molto si fonda sull’allusività Quintiliano, due grandi no di battesimo o di cresima, cortese.

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13. Giovanni Boccaccio T 13.10

23 baron: «titolo d’onore poveri del baron23 messer santo Antonio del vostro grano e delle vostre biade, chi
che si usava premettere an-
che ai nomi di santi» (Bran- poco e chi assai, secondo il podere e la divozion sua, acciò che il beato santo Anto-
ca). nio vi sia guardia de’ buoi e degli asini e de’ porci e delle pecore vostre24; e oltre a
24 acciò che… vostre:
sant’Antonio era particolar- ciò solete pagare, e spezialmente quegli che alla nostra compagnia25 scritti sono,
mente venerato come pro- quel poco debito che ogni anno si paga una volta. Alle quali cose ricogliere io so- 35
tettore degli animali. no dal mio maggiore, cioè da messer l’abate, stato mandato26; e per ciò con la be-
25 compagnia: la confra-
ternita religiosa, a cui gli nedizion di Dio, dopo nona27, quando udirete sonare le campanelle, verrete qui di
aderenti versavano una quo- fuori della chiesa là dove io al modo usato vi farò la predicazione, e bascerete28 la
ta (debito) annuale.
26 Alle quali… mandato: croce; e oltre a ciò, per ciò che divotissimi tutti vi conosco del barone messer san-
per riscuotere le quali cose to Antonio, di spezial grazia29 vi mostrerò una santissima e bella reliquia, la quale io 40
(offerte e quote) io sono sta-
to inviato dal mio superiore, medesimo già recai dalle sante terre d’oltremare: e questa è una delle penne dell’a-
cioè dall’abate. gnol Gabriello, la quale nella camera della Vergine Maria rimase quando egli la
27 dopo nona: dopo le tre
del pomeriggio. La giornata venne a annunziare30 in Nazarette». E questo detto si tacque e ritornossi alla mes-
era divisa in quattro parti sa.
(terza, sesta, nona, vespro) di Erano, quando frate Cipolla queste cose diceva, tra gli altri molti31 nella chiesa 45
circa tre ore ciascuna (a se-
conda della stagione), dal due giovani astuti molto, chiamato l’uno Giovanni del Bragoniera e l’altro Biagio
sorgere del sole sino al tra- Pizzini, li quali, poi che alquanto tra sé ebbero riso della reliquia di frate Cipolla,
monto.
28 bascerete: bacerete ancora che molto fossero suoi amici e di sua brigata, seco proposero di fargli di
(con grafia conforme all questa penna32 alcuna beffa. E avendo saputo che frate Cipolla la mattina desinava
pronunzia toscana).
29 di spezial grazia: per nel castello33 con un suo amico, come a tavola il sentirono cosí se ne scesero alla 50
grazia speciale. strada34, e all’albergo dove il frate era smontato se n’andarono con questo proponi-
30 egli… annunziare: egli
(l’angelo) venne a darle l’an- mento, che Biagio dovesse tenere a parole35 il fante di frate Cipolla e Giovanni do-
nunzio (dell’incarnazione di vesse tralle cose del frate cercare di questa penna, chente che ella si fosse36, e tor-
Dio). gliele37, per vedere come egli di questo fatto poi dovesse al popol dire.
31 tra… molti: tra i molti
altri presenti. Aveva frate Cipolla un suo fante, il quale alcuni chiamavano Guccio Balena e al- 55
32 di questa penna: a pro-
tri Guccio Imbratta, e chi gli diceva Guccio Porco38; il quale era tanto cattivo, che
posito di questa penna.
33 nel castello: qui indica egli non è vero che mai Lippo Topo ne facesse alcun cotanto39. Di cui spesse volte
la parte alta del paese, dov’e- frate Cipolla era usato di motteggiare40 con la sua brigata e di dire: «Il fante mio ha
ra il palazzo comunale.
34 alla strada: nella strada in sé nove cose tali che, se qualunque è l’una di quelle fosse41 in Salamone o in
principale (situata nella par- Aristotile o in Seneca42, avrebbe forza di guastare ogni lor vertù, ogni lor senno, 60
te bassa del paese).
35 tenere a parole: intrat- ogni lor santità. Pensate adunque che uom dee essere egli, nel quale né vertù né
tenere conversando. senno né santità alcuna è, avendone nove!43»; e essendo alcuna volta domandato
36 chente… fosse: quale
che essa fosse, di qualunque
quali fossero queste nove cose e egli, avendole in rima messe, rispondeva: «Dirolvi:
sorte essa fosse. egli è tardo, sugliardo44 e bugiardo; negligente, disubidiente e maldicente; trascuta-
37 torgliele: sottrargliela,
to45, smemorato e scostumato; senza che egli ha alcune altre teccherelle46 con que- 65
portargliela via.
38 Guccio… Porco:«i no- ste, che si taccion per lo migliore47. E quel che sommamente è da rider de’ fatti
mi di Guccio (diminutivo di suoi è che egli in ogni luogo vuol pigliar moglie e tor casa a pigione48; e avendo la
Arriguccio) Porcellana – da
cui deriverebbe per analogia barba grande e nera e unta, gli par sí forte49 esser bello e piacevole, che egli s’avisa50
Porco – e Guccio Imbratta che quante femine il veggano tutte di lui s’innamorino, e essendo lasciato, a tutte
sono stati trovati dagli stu-
diosi in parecchi documenti andrebbe dietro perdendo la coreggia51. È il vero che egli m’è d’un grande aiuto, 70
trecenteschi; ma più che la per ciò che mai niun non mi vuol sí segreto52 parlare, che egli non voglia la sua
storicità del personaggio, parte udire; e se avviene che io d’alcuna cosa sia domandato, ha sí gran paura che
conta in questo contesto il
contributo connotante che
questi nomi o nomignoli ap-
portano al ritratto del perso- fantasia […] cui si attribui- (un re di Israele, un filosofo 44 tardo, sugliardo: tardo 48 tor… pigione: prende-
naggio» (Guglielmino). vano varie stranezze e face- greco, un filosofo e letterato d’ingegno, sporco. re casa in affitto.
39 il quale… cotanto: il zie» (Branca). latino) evocati qui come 45 trascutato: incapace di 49 sí forte: così tanto.
quale era così inetto (cattivo) 40 Di cui… motteggiare: esempi rispettivamente di fare alcunché per bene, 50 s’avisa: crede.
che neppure Lippo Topo ne che… era solito prendere in saggezza (virtù), di acutezza quindi inaffidabile o, ancora, 51 e… correggia: e, se po-
combinava di altrettanto giro. di pensiero (senno) e di negligente. tesse, farebbe la corte a tutte
grosse; oppure: che neppure 41 se qualunque… fosse: profondo interesse per i pro- 46 teccherelle: macchio- quante anche se perdesse la
LippoTopo ne ritraeva di al- se anche una sola di esse si blemi morali (santità). line, difettucci. cintura (cioè, anche se gli ca-
trettanto inetti. Lippo Topo trovasse. 43 avendone nove!: a- 47 che… migliore: di cui scassero i pantaloni).
era un «proverbiale perso- 42 Salamone… Seneca: vendo nove caratteristiche è meglio tacere. 52 segreto: segretamente.
naggio, probabilmente di tre grandi sapienti antichi così disastrose!

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Duecento e Trecento

53 e se… convenga: in- io non sappia rispondere, che prestamente risponde egli e sí e no, come giudica si
somma si impiccia sempre, e
a sproposito, dei fatti del fra- convenga53».
te. Tutto l’enunciato è in- A costui, lasciandolo all’albergo, aveva frate Cipolla comandato che ben guardas- 75
somma ironico. se che alcuna persona non toccasse le cose sue, e spezialmente le sue bisacce, per
54 era più… niuna: desi-
derava stare in cucina più ciò che in quelle erano le cose sacre. Ma Guccio Imbratta, il quale era più vago di
che l’usignolo (desideri sta- stare in cucina che sopra i verdi rami l’usignuolo, e massimamente se fante vi sen-
re) fra i rami, soprattutto se
intuiva che ci fosse qualche tiva niuna54, avendone in quella dell’oste una veduta, grassa e grossa e piccola e mal
serva (fante niuna). «Ma senti- fatta, con un paio di poppe che parean due ceston da letame e con un viso che pa- 80
va è ben più che “udiva” o
“vedeva”: coinvolge tutti i rea de’ Baronci55, tutta sudata, unta e affumicata, non altramenti che si gitti l’avol-
suoi sensi» (Guglielmino). toio alla carogna, lasciata la camera di frate Cipolla aperta e tutte le sue cose in ab-
Un’intuizione animalesca, bandono, là si calò56; e ancora che d’agosto fosse, postosi presso al fuoco a sedere,
insomma, che non esclude,
visto il seguito, una partico- cominciò con costei, che Nuta aveva nome, a entrare in parole e dirle che egli era
lare allusione all’olfatto. gentile uomo per procuratore e che egli aveva de’ fiorini più di millantanove, sen- 85
55 de’ Baronci: perso-
naggi proverbiali per la loro za quegli che egli aveva a dare altrui, che erano anzi più che meno, e che egli sape-
bruttezza. va tante cose fare e dire, che domine pure unquanche57. E senza riguardare a un
56 là si calò: scese in cuci-
na (dalla stanza di frate Ci- suo cappuccio sopra il quale era tanto untume, che avrebbe condito il calderon
polla,che stava ai piani supe- d’Altopascio58, e a un suo farsetto rotto e ripezzato59 e intorno al collo e sotto le
riori). Ma l’espressione pro-
segue, con espressività gio- ditella60 smaltato di sucidume, con più macchie e di più colori che mai drappi fos- 90
cosa, la metafora dell’avvol- sero tartereschi o indiani61, e alle sue scarpette tutte rotte e alle calze sdrucite, le
toio che a volo cala sulla ca- disse, quasi stato fosse il siri di Ciastiglione62, che rivestir la voleva e rimetterla in
rogna.
57 che egli… unquanche: arnese e trarla di quella cattività di star con altrui e senza gran possession d’avere
il discorso fumoso – quasi ridurla in isperanza di miglior fortuna63 e altre cose assai: le quali quantunque
un nonsense – e inteso a pro-
durre un grande effetto sulla molto affettuosamente le dicesse, tutte in vento convertite, come le più delle sue 95
sua interlocutrice riprodu- imprese facevano, tornarono in niente64.
ce,in piccolo,la retorica am-
bigua, allusiva e furbesca del Trovarono adunque i due giovani Guccio Porco intorno alla Nuta occupato;
suo padrone, come presto della qual cosa contenti, per ciò che mezza la lor fatica era cessata65, non contradi-
vedremo. In questa prima cendolo alcuno66 nella camera di frate Cipolla, la quale aperta trovarono, entrati, la
parte egli si presenta come
nobile, ricco e intelligente: prima cosa che venne lor presa per cercare67 fu la bisaccia nella quale era la penna; 100
ma nobile per procuratore si- la quale aperta, trovarono in un gran viluppo di zendado68 fasciata una piccola cas-
gnifica ‘nobile per procura’
(cioè, pressappoco, al posto settina; la quale aperta, trovarono in essa una penna di quelle della coda d’un pap-
di un altro);millantanove è un pagallo, la quale avvisarono dovere esser quella che egli promessa avea di mostrare
numero inesistente, indefi-
nitamente iperbolico; la a’ certaldesi. E certo egli il poteva a quei tempi leggiermente far credere, per ciò
precisazione senza quegli che ancora non erano le morbidezze d’Egitto69, se non in piccola quantità, trapas- 105
che…, che al principio suo- sate in Toscana, come poi in grandissima copia con disfacimento70 di tutta Italia
na come un’addizione, è a
ben vedere una sottrazione son trapassate: e dove che elle poco conosciute fossero71, in quella contrada quasi in
(‘senza contare quelli che niente erano dagli abitanti sapute; anzi, durandovi ancora la rozza onestà degli an-
doveva dare ad altri’) e co-
spicua (anzi più che meno). Il tichi, non che veduti avessero pappagalli ma di gran lunga la maggior parte mai
periodo si chiude su un’e- uditi non gli avea ricordare72. Contenti adunque i giovani d’aver la penna trovata, 110
spressione difficile e ad ef-
fetto: egli sa fare e dire tante quella tolsero e, per non lasciare la cassetta vota, vedendo carboni in un canto del-
cose che neppure il suo pa- la camera, di quegli la cassetta empierono; e richiusala e ogni cosa racconcia73 co-
drone mai (domine pure un-
quanche) ne saprebbe fare e
dire altrettante.
58 il calderon d’Altopa-
un gran signore (francese, se, gliore. niva così evitata. 70 disfacimento: rovina
scio: il pentolone in cui i
come pare,Ciastiglione deri- 64 tornarono in niente: 66 non… alcuno: non (dei costumi).
monaci di Altopascio face- va da Châtillons). non produssero alcun risul- impedendolo alcuno, senza 71 dove… fossero: se al-
vano cuocere il cibo per tut- 63 che… fortuna: che tato. Nuta è sporca e grezza che alcuno lo impedisse.
to il convento: indica la smi- trove erano poco note.
voleva rifarle il guardaroba quanto Guccio, ma non 67 che venne… cercare: 72 la maggior… ricor-
surata quantità dell’untume e darle una più consona si- tanto sciocca da non com- che fu (venne) da loro presa
del cappuccio di Guccio. dare: la maggior parte della
59 ripezzato: rattoppato.
stemazione, liberarla da prendere le spacconate e le per cercare (la falsa reliquia). gente non li aveva mai nep-
60 ditella: ascelle.
quella schiavitù (cattività) intenzioni del servo di frate 68 zendado: drappo di pure sentiti nominare.
61 drappi… indiani: ce-
che la costringeva a stare al- Cipolla. seta. 73 racconcia: risistemata,
le dipendenze d’altri e, ben- 65 mezza… era cessata: 69 morbidezze d’Egitto: rimessa a posto.
lebri per essere di colori va- ché egli non avesse grandi metà della loro fatica (cioè le raffinatezze, le mollezze
riegati. ricchezze, restituirle la spe- allontanare Guccio dalla orientali (d’Egitto, parte per
62 il siri di Ciastiglione:
ranza di un avvenire mi- stanza di frate Cipolla) ve- il tutto).
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13. Giovanni Boccaccio T 13.10

74 se ne vennero: se ne me trovata avevano, senza essere stati veduti, lieti se ne vennero74 con la penna e
andarono via.
75 come… uomo: non
cominciarono a aspettare quello che frate Cipolla, in luogo della penna trovando
appena tutti ebbero pranza- carboni, dovesse dire. 115
to. Gli uomini e le femine semplici che nella chiesa erano, udendo che veder dove-
76 appena vi capeano: ci
stavano a mala pena (capeano; vano la penna dell’agnol Gabriello dopo nona, detta la messa, si tornarono a casa; e
il verbo in questa accezione è dettolo l’un vicino all’altro e l’una comare all’altra, come desinato ebbero ogni uo-
oggi in disuso, da esso però
derivano ‘capienza’,‘capien- mo75, tanti uomini e tante femine concorsono nel castello, che appena vi capea-
te’). no76, con disidero aspettando di veder questa penna. Frate Cipolla, avendo ben de- 120
77 mandò a: chiese, or-
dinò. sinato e poi alquanto dormito, un poco dopo nona levatosi e sentendo la moltitu-
78 campanelle: venivano dine grande esser venuta di contadini per dovere la penna vedere, mandò a77 Guc-
usate per attirare l’attenzione cio Imbratta che là sù con le campanelle78 venisse e recasse le sue bisacce. Il quale,
della gente all’esposizione
delle reliquie. poi che con fatica dalla cucina e dalla Nuta si fu divelto79, con le cose addimanda-
79 divelto:strappato,si no-
te con fatica lassù n’andò: dove ansando giunto, per ciò che il ber dell’acqua gli 125
ti l’uso espressivo del verbo,
che indica la renitenza di avea molto fatto crescere il corpo, per comandamento di frate Cipolla andatone in
Guccio a lasciare i suoi affari. su la porta della chiesa, forte incominciò le campanelle a sonare.
80 ragunato: radunato.
81 in acconcio… suoi: nel Dove, poi che tutto il popolo fu ragunato80, frate Cipolla, senza essersi avveduto
modo più opportuno per i che niuna sua cosa fosse stata mossa, cominciò la sua predica e in acconcio de’ fat-
suoi scopi.
82 fatta prima la confes-
ti suoi81 disse molte parole; e dovendo venire al mostrar della penna dell’agnol Ga- 130
sione:recitando il Confiteor. briello, fatta prima con gran solennità la confessione82, fece accender due torchi83 e
83 torchi: ceri.
84 soavemente: con deli-
soavemente84 sviluppando il zendado, avendosi prima tratto il cappuccio, fuori la
catezza e solenne lentezza. cassetta ne trasse. E dette primieramente alcune parolette a laude e a commenda-
85 non sospicò… tanto: zione dell’agnolo Gabriello e della sua reliquia, la cassetta aperse. La quale come
non sospettò che fosse stato
Guccio a sostituire la reli- piena di carboni vide, non sospicò che ciò Guccio Balena gli avesse fatto, per ciò 135
quia, perché lo sapeva inca- che nol conosceva da tanto85, né il maladisse del male aver guardato che altri ciò
pace di tanto (cioè di ordire
una simile beffa, di compiere non facesse, ma bestemmiò tacitamente sé, che a lui la guardia delle sue cose aveva
un simile affronto). commessa, conoscendol, come faceva, negligente, disubidiente, trascutato e sme-
86 non per tanto: ciò no-
nostante. Si noti, nel seguito,
morato. Ma non per tanto86, senza mutar colore, alzato il viso e le mani al cielo,
l’impassibilità e la pronta rea- disse sí che da tutti fu udito: «O Idio, lodata sia sempre la tua potenzia!» 140
zione del frate. Poi richiusa la cassetta e al popolo rivolto disse: «Signori e donne, voi dovete sa-
87 dove… sole: dove ap-
pare il sole: di fatto significa pere che, essendo io ancora molto giovane, io fui mandato dal mio superiore in
‘dovunque si vede il sole’,ma quelle parti dove apparisce il sole87, e fummi commesso88 con espresso comanda-
vuol far intendere ‘là dove
sorge il sole’,cioè in Oriente. mento che io cercassi tanto che io trovassi i privilegi del Porcellana89, li quali, an-
Incomincia qui un discorso cora che a bollar niente costassero, molto più utili sono a altrui che a noi90. Per la 145
funambolico e furbesco, in qual cosa messom’io in cammino, di Vinegia partendomi e andandomene per lo
cui il frate gioca sull’ambi-
guità delle espressioni e delle Borgo de’ Greci e di quindi per lo reame del Garbo cavalcando e per Baldacca,
denominazioni geografiche: pervenni in Parione, donde, non senza sete, dopo alquanto pervenni in Sardigna91.
tutte o quasi indicanti perso-
naggi,oggetti,situazioni reali Ma perché vi vo io tutti i paesi cerchi da me divisando92? Io capitai, passato il
e spesso banali o luoghi vici- Braccio di San Giorgio, in Truffia e in Buffia93, paesi molto abitati e con gran po- 150
ni,ma esposte in modo da far
immaginare esperienze fa- poli; e di quindi pervenni in terra di Menzogna94, dove molti de’ nostri frati e d’al-
volose in luoghi esotici. tre religioni95 trovai assai, li quali tutti il disagio andavan per l’amor di Dio schi-
88 fummi commesso: mi
fu dato incarico. fando96, poco dell’altrui fatiche curandosi dove la loro utilità vedessero seguitare,
89 i privilegi del Porcella-
na: i privilegi erano atti e do- moso per essere equivocata 92 Ma perché… divisan- 94 Menzogna: «pare una do:evitando i disagi,cioè vi-
cumenti che concedevano dai rozzi ascoltatori. do: ma perché mi dilungo a regione per la somiglianza vendo lietamente e in ab-
donazioni o particolari pre- 91 Vinegia… Sardigna: i nominarvi tutti i luoghi da con Borgogna e la medieva- bondanza. Ma, al solito –
rogative; Porcellana forse allu- nomi di luoghi che apparen- me percorsi (cerchi)? le Sansogna» (Zingarelli). controbilanciato com’è dal
de a Guccio (cfr.nota 38),ma temente evocano un itinera- 93 Braccio… Buffia: San 95 religioni: ordini reli- per amor di Dio –, è detto con
certo indica una via e un rio esotico –Venezia, la Gre- Giorgio è un’altra contrada giosi. La collocazione di or- la certezza che sarà frainteso
ospedale di Firenze. cia, un regno africano (Gar- fiorentina, mentre Truffia e dini religiosi nel paese di dagli sciocchi creduloni che
90 ancora… noi: la frase, bo),le città arabe di Baldack o Buffia sono nomi d’inven- Menzogna lascia trasparire lo stanno ad ascoltare a boc-
che di fatto dice l’inutilità di Bagdad (Baldacca), un mi- zione, allusivi a ‘truffa’ e a il tema della falsità dei reli- ca aperta. Così pure la frase
dell’impresa (benché non sterioso Parione e infine la ‘buffo’ o ‘beffa’: insomma i giosi, esemplificato dalla fi- seguente (non curandosi
costino nulla, servono a po- Sardegna – in realtà indicano «paesi dei truffatori e dei bef- gura stesa di frate Cipolla e delle altrui fatiche, quando
co), è esposta in modo suffi- borgate, vie, piazze e altri fatori o dei buffoni» (Bran- caro a Boccaccio. potessero avere il proprio
cientemente complesso e fu- luoghi di Firenze. ca). 96 il disagio… schifan- tornaconto).

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Duecento e Trecento

97 in terra… sacca: «so- nulla altra moneta spendendo che senza conio per quei paesi: e quindi passai in
no presentate in un alone di
favolosa stranezza le cose terra d’Abruzzi, dove gli uomini e le femine vanno in zoccoli su pe’ monti, rive- 155
più ovvie (usare gli zoccoli, stendo i porci delle lor busecchie medesime; e poco più là trovai gente che porta-
fare le salsicce, infilare nei no il pan nelle mazze e ’l vin nelle sacca97: da’ quali alle montagne de’ bachi98 per-
bastoni il pane a forma di
ciambelle, metter il vino venni, dove tutte l’acque corrono alla ’ngiù. E in brieve tanto andai adentro, che io
negli otri). Ma c’è chi pro- pervenni mei infino in India Pastinaca99, là dove io vi giuro per l’abito che io por-
pende a vedere in queste
frasi allusioni sessuali» (Gu- to addosso che io vidi volare i pennati100, cosa incredibile a chi non gli avesse ve- 160
glielmino). duti; ma di ciò non mi lasci mentire Maso del Saggio101, il quale gran mercatante
98 montagne de’ bachi:
forse allude alla terra dei ba- io trovai là, che schiacciava noci e vendeva gusci a ritaglio102. Ma non potendo
schi «qui equivocamente ri- quello che io andava cercando trovare, per ciò che da indi in là si va per acqua, in-
dotti a bachi» (Branca). dietro tornandomene, arrivai in quelle sante terre dove l’anno di state vi vale il
99 India Pastinaca: altro
paese esotico e favoloso, pan freddo quatro denari e il caldo v’è per niente103. E quivi trovai il venerabile 165
con la furbesca contamina- padre messer Nonmiblasmete Sevoipiace104, degnissimo patriarca di Ierusalem. Il
zione di una denominazio-
ne geografica reale e di un quale, per reverenzia dell’abito che io ho sempre portato del baron messer santo
nome che indicava una ra- Antonio, volle che io vedessi tutte le sante reliquie le quali egli appresso di sé ave-
dice dolciastra e forse allu-
deva a spezie e dolciumi va; e furon tante che, se io ve le volessi tutte contare, io non ne verrei a capo in
orientali (Pastinaca). parecchie miglia, ma pure, per non lasciarvi sconsolate105, ve ne dirò alquante. Egli 170
100 pennati: il termine
designa i ‘pennuti’, cioè gli primieramente mi mostrò il dito dello Spirito Santo cosí intero e saldo come fu
uccelli, che è del tutto nor- mai, e il ciuffetto del serafino106 che apparve a san Francesco, e una dell’unghie de’
male che volino, ma gioca gherubini107, e una delle coste del Verbum-caro-fatti-alle-finestre108 e de’ vesti-
sull’equivocità del termine
che significava anche dei menti della santa Fé catolica, e alquanti de’ raggi della stella che apparve a’ tre Ma-
particolari attrezzi per la gi in Oriente, e una ampolla del sudore di san Michele quando combatté col dia- 175
potatura, evidentemente
noti al pubblico contadino vole, e la mascella della Morte di san Lazzero109 e altre. E per ciò che io libera-
del frate. mente gli feci copia delle piagge di Monte Morello in volgare e d’alquanti capito-
101 Maso del Saggio: un
burlone assai noto a quel li del Caprezio110, li quali egli lungamente era andati cercando, mi fece egli parte-
tempo. fice111 delle sue sante reliquie: e donommi uno de’ denti112 della santa Croce e in
102 a ritaglio: al dettaglio.
103 dove… niente: dove il
una ampolletta alquanto del suono delle campane del tempio di Salomone e la 180

pane freddo costa quattro penna dell’agnol Gabriello, della quale già detto v’ho, e l’un de’ zoccoli di san
denari e il caldo (non il‘pane Gherardo da Villamagna (il quale io, non ha molto, a Firenze donai a Gherardo di
caldo’, ma proprio il ‘caldo’
estivo) non costa nulla. Bonsi113, il quale in lui ha grandissima divozione) e diedemi de’ carboni co’ quali
104 Nomiblasmete Se- fu il beatissimo martire san Lorenzo arrostito; le quali cose io tutte di qua114 con
voipiace: nome burlesco
che significa (storpiando il meco divotamente le recai, e holle tutte. È il vero che il mio maggiore non ha mai 185
francese) ‘non biasimatemi sofferto che io l’abbia mostrate infino a tanto che certificato non s’è se desse sono
per piacere’. o no115; ma ora che per certi miracoli fatti da esse e per lettere ricevute dal Pa-
105 sconsolate: deluse.
106 serafino: un angelo. triarca fatto n’è certo, m’ha conceduta licenzia che io le mostri; ma io, temendo di
107 gherubini: cherubini,
fidarle altrui116, sempre le porto meco.Vera cosa è che io porto la penna dell’agnol
altri angeli.
108 Verbum… finestre: Gabriello, acciò che non si guasti, in una cassetta e i carboni co’ quali fu arrostito 190
«storpiatura buffonesca san Lorenzo in un’altra; le quali son sí simiglianti l’una all’altra, che spesse volte mi
della frase “Verbum caro
factum est” [ed il Verbo si vien presa117 l’una per l’altra, e al presente m’è avvenuto: per ciò che, credendomi
fece carne] (Giov. 1,14), ri- io qui avere arrecata la cassetta dove era la penna, io ho arrecata quella dove sono
petuta anche all’Angelus, e
cui è aggiunto anche alle fi- i carboni. Il quale io non reputo che stato sia errore, anzi mi pare esser certo che
nestre per confondere e volontà sia stata di Dio e che Egli stesso la cassetta de’ carboni ponesse nelle mie 195
stordire gli ascoltatori» mani, ricordandom’io pur testé118 che la festa di san Lorenzo sia di qui a due dí. E
(Branca).
109 Morte… Lazzero: «è
forse la più fantastica e sur- di Firenze e un nome d’in- le reliquie di denti, ma ov- 114 di qua: di qua dal mare, gnificare ‘se ci sono davvero
reale di queste reliquie: cioè venzione che alludono alla viamente grottesco riferirli qui da noi. o no’.
la mascella della Morte (im- sodomia. La frase però finge alla Croce, con evidente 115 il mio maggiore… 116 fidarle altrui: affidarle
maginata,secondo le figura- la trascrizione e traduzione equivoco forse sulle “brac- no: il mio superiore non ha in custodia ad altri.
zioni correnti, come uno di rari e misteriosi mano- cia” della croce» (Branca). mai permesso che fossero 117 mi vien presa: mi ac-
scheletro femminile) che scritti (feci copia… in volga- 113 Gherardo… Bonsi: il mostrate in pubblico fin- cade di prendere, scambia-
colpì Lazzaro, poi resuscita- re… capitoli). primo è un antico france- ché non se ne fosse accerta- re.
to d Gesù» (Branca). 111 partefice: partecipe. scano sovente ritratto con ta l’autenticità. Falso scru- 118 pur testé: solo adesso.
110 Monte Morello… 112 uno de’ denti: una gli zoccoli, il secondo è un polo, con ulteriore ambi-
Caprezio: un monte a nord scheggia. «Frequenti erano mercante fiorentino. guità: la frase può anche si-

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13. Giovanni Boccaccio T 13.10

119 dall’omor: dagli umo- per ciò, volendo Idio che io, col mostrarvi i carboni co’ quali esso fu arrostito, rac-
ri del corpo, e in particolare
dal sangue. cenda nelle vostre anime la divozione che in lui aver dovete, non la penna che io
120 trarretevi: vi togliere- voleva, ma i benedetti carboni spenti dall’omor119 di quel santissimo corpo mi fé
te, abbasserete. pigliare. E per ciò, figliuoli benedetti, trarretevi120 i cappucci e qua divotamente 200
121 che fuoco… senta:
che non sarà bruciato dal v’appresserete a vedergli. Ma prima voglio che voi sappiate che chiunque da que-
fuoco senza accorgersene. sti carboni in segno di croce è tocco, tutto quello anno può viver sicuro che fuo-
122 le maggior… capeva-
no: le croci più grandi che co nol cocerà che non si senta121».
fosse possibile (che vi capeva- E poi che cosí detto ebbe, cantando una laude di san Lorenzo, aperse la cassetta e
no, che vi stavano).
123 scemavano: diminui- mostrò i carboni; li quali poi che alquanto la stolta moltitudine ebbe con ammira- 205
vano di volume. zione reverentemente guardati, con grandissima calca tutti s’appressarono a frate
124 per… schernire: con
un tempestivo espediente Cipolla e, migliori offerte dando che usati non erano, che con essi gli dovesse toc-
beffò coloro che, sottraen- care il pregava ciascuno. Per la qual cosa frate Cipolla, recatisi questi carboni in ma-
dogli la penna, avevano cre- no, sopra li lor camiscion bianchi e sopra i farsetti e sopra li veli delle donne co-
duto di poterlo beffare.
125 Li quali… smascella- minciò a fare le maggior croci che vi capevano122, affermando che tanto quanto 210
re: E questi, che avevano as- essi scemavano123 a far quelle croci, poi ricrescevano nella cassetta, sí come egli
sistito alla sua predica e ave-
vano udito il rimedio che il molte volte aveva provato.
frate aveva saputo trovare e E in cotal guisa, non senza sua grandissima utilità avendo tutti crociati i certalde-
quanto egli l’avesse presa alla
lontana e con quali parole si, per presto accorgimento fece coloro rimanere scherniti, che lui, togliendogli la
(cioè con quale ‘eloquente’ penna, avevan creduto schernire124. Li quali stati alla sua predica e avendo udito il 215
preambolo avesse introdot-
to la nuova reliquia, prepa- nuovo riparo preso da lui e quanto da lungi fatto si fosse e con che parole, avevan
rando il rimedio alla beffa), tanto riso, che eran creduti smascellare125. E poi che partito si fu il vulgo, a lui an-
avevano riso tanto da teme- datisene, con la maggior festa del mondo ciò che fatto avevan gli discoprirono e
re di smascellarsi.
126 gli valse… carboni: gli appresso gli renderono la sua penna; la quale l’anno seguente gli valse non meno
fruttò non meno di quanto che quel giorno gli fosser valuti i carboni126. 220
gli avessero quel giorno
fruttato i carboni.

Guida all’analisi
La struttura narrativa: beffa e controbeffa La novella di frate Cipolla sviluppa innanzitutto i temi dell’abilità
dialettica e della beffa (o dello scherno, come dice il Boccaccio), in un modo che potremmo
riassumere così: i due giovani cercano di beffare frate Cipolla, che a sua volta intendeva bef-
fare i certaldesi: frate Cipolla, alla fine, si cava d’impaccio con un abile discorso e beffa en-
trambi. La gara fra i due giovani «astuti molto» e l’astutissimo e «gran rettorico» frate Cipol-
la si conclude peraltro con «la maggior festa del mondo» in cui i contendenti – si intuisce –
ridono alle spalle degli sciocchi popolani e si fanno beffe della loro credulità, le uniche vere
e inconsapevoli vittime di tanta sagacia. Il sistema dei personaggi e l’intreccio della novella
nelle sue tre fasi principali potrebbero essere così rappresentati:
I due eventi-chiave della novella, che ne scandiscono l’intreccio, sono lo stratagemma dei
giovani (la sostituzione della penna di pappagallo con un mucchietto di carboni) e il di-
scorso funambolico, intessuto di equivoci, con cui frate Cipolla replica alla tentata beffa dei
suoi amici. I due eventi si pongono insomma su due piani diversi: quello dell’azione (un’a-
zione muta e furtiva) e quello del linguaggio (una pubblica predica).
Il discorso equivoco di frate Cipolla Il discorso di frate Cipolla è comunque il cuore tematico e artistico della no-
vella. In esso la figura dell’anfibologia (ambiguità, doppio senso) gioca un ruolo decisivo an-
che per le conseguenze che ha sul piano dell’intreccio e del sistema dei personaggi. Il discor-
so si sviluppa cioè su un duplice livello di senso: quello reale (spesso un senso banale, triviale, o
addirittura un non-senso) e quello fittizio (un senso favoloso, esotico, ecc.). E prevede due di-
stinti livelli di lettura: la lettura critica, che è conscia dei due livelli di senso e soprattutto può
attingere quello reale smascherando la finzione e l’ambiguità; e quella ingenua, che invece
può solo cogliere il senso fittizio. Naturalmente le due diverse interpretazioni conducono a
due diverse immagini di frate Cipolla: imbroglione per i savi o santo per gli sciocchi.

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Duecento e Trecento

Gli sciocchi villani presenti alla predica intendono il discorso nel senso fittizio e favoloso
che vuole attribuirgli frate Cipolla e che del resto risponde alle loro attese di meraviglioso;
i due giovani viceversa, avendone i mezzi culturali, lo decodificano correttamente, com-
prendendo le intenzioni del frate, la strategia retorica e le molteplici allusioni furbesche.
msenso reale (banale) minterpretazione critica (giovani) mf. C. = imbroglione
il discorso equivoco di frate Cipolla
msenso fittizio (favoloso) minterpretazione ingenua (villani) mf. C. = santo
C C C

G V G V G V

I tempo II tempo III tempo


frate Cipolla vuole beffare i villani frate Cipolla beffa entrambi frate Cipolla e i due giovani
i due giovani vogliono beffare ‘sbeffeggiano’ i villani
frate Cipolla
[C = frate Cipolla, G = i due giovani,V = villani. Le frecce m indicano la direzione della beffa o dello scher-
no. Da notare che solo i villani subiscono sempre l’azione]

La posizione del lettore La diversa condizione degli ascoltatori (i villani e i due giovani) e i modi in cui la no-
vella si sviluppa hanno un’ulteriore importante conseguenza: come nella novella di Ciappel-
letto il lettore era posto nella condizione dei due usurai, in quanto ascoltava la confessione
conoscendo l’indole e le intenzioni di Ciappelletto, ed era quindi in qualche misura indotto
a identificarsi con loro, ad ammirare l’astuzia di Ciappelletto e a ridere della credulità del fra-
te (che non sa e male interpreta la confessione); così qui il lettore è posto nella condizione
dei due giovani beffatori (che sanno dello scherzo e stanno a vedere come se la caverà il fra-
te) ed è indotto ad ammirare la prontezza di frate Cipolla e a ridere della credulità dei con-
tadini certaldesi (che non sanno, e male interpretano la predica). Il lettore talora è anche mes-
so al corrente dei pensieri di frate Cipolla (analisi interna). La strategia narrativa, insomma,
suggerisce al lettore l’atteggiamento da assumere nei confronti dell’evento narrato.
Le strategie linguistiche L’uso furbesco ed equivoco del linguaggio, come abbiamo mostrato nelle note, è dun-
que l’elemento caratterizzante della novella. Le principali tecniche adottate sono queste:
1. l’uso di nomi o toponimi allusivi a personaggi e luoghi reali e vicini, ma assimilabili ad
altri esotici e favolosi, sul tipo di Maso del Saggio, un burlone nobilitato però dalla saggezza
iscritta nel cognome, o sul tipo di Vinegia, Borgo de’ Greci, Braccio di San Giorgio e di tutti i ri-
ferimenti ai luoghi di Firenze, ammantati però di un alone esotico che fa sognare i villani.
2. l’uso di nomi e toponimi irreali e furbeschi, che in modo più spudorato alludono alla
truffa e alla beffa in atto o a costumi comunque deprecabili (sul tipo di Truffia e Buffia e ter-
ra di Menzogna o Caprezio) o viceversa a elementi in grado di solleticare la fantasia popolare
(sul tipo di India Pastinaca, che evoca golosità esotiche).
3. l’uso di espressioni attinte da altre lingue e ridotte a dei veri e propri nonsense, ma de-
stinate ad apparire esotiche e misteriose agli ascoltatori incolti, sul tipo di Nonmiblasmete Se-
voipiace, modellato sul francese, Verbum-caro-fatti-alle-finestre, modellato sul latino e storpiatu-
ra di una frase evangelica.
4. l’uso di enunciati anfibologici semplici che giocano sul doppio significato di un termi-
ne o sulla somiglianza fonica di due termini o su altri artifici retorici, come «vidi volare i
pennati» (che gioca sul doppio significato di pennati) o «montagne de’ bachi» (dove bachi
evoca «baschi») o «di state vi vale il pan freddo quattro denari e il caldo v’è per niente» (che
gioca sull’ambiguità di caldo, in effetti un sostantivo, cioè calura, ma inteso come aggettivo,
cioè pane caldo), o «vestimenti della santa Fé Catolica» o «la mascella della Morte di San Laz-
zero», che sfruttano la personificazione di un concetto astratto, o «denti della santa Croce»,
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13. Giovanni Boccaccio T 13.10

che personifica un oggetto e gioca sull’estensione analogica di ‘braccia della croce’ (quasi
che un oggetto dotato di braccia potesse avere anche denti).
5. l’uso di enunciati complessi che dicono cose banali o addirittura controproducenti, ma
che appaiono abbastanza intricati o fumosi da passare inosservati o da venire intesi in senso
opposto (sul tipo di «senza quegli che egli aveva a dare altrui, che erano anzi più che meno»;
o su quello di «li quali il disagio andavan per l’amor di Dio schifando, ecc.»; o ancora su
quello conclusivo di «chiunque da questi carboni in segno di croce è tocco, tutto quello an-
no può viver sicuro che il fuoco nol cocerà che non si senta»).
A proposito di alcuni di questi ultimi enunciati ‘controproducenti’ si è ipotizzato che frate
Cipolla li pronunci a bassa voce: ma l’ipotesi non è necessaria, perché sono il prestigio del fra-
te e la sciocca credulità dei villani che ne decretano il successo (mentre i tentativi di Guccio
non sortiscono analogo effetto). Il fatto è che nella turbinosa e tutta ambigua retorica di frate
Cipolla ci possono stare anche enunciati spudoratamente banali (si pensi alle «acque che cor-
rono all’ingiù») che però sortiscono un effetto analogo a quelli sofisticatamente equivoci. È, a
ben vedere, un modo questo di rincarare la dose nei confronti della stupidità del vulgo certal-
dese, che beve qualunque sciocchezza e perciò merita di essere gabbato.
Il carnevalesco La complessa e torrenziale strategia linguistica messa in atto da frate Cipolla obbedisce al-
le regole del carnevalesco letterario, quale è stato descritto dal critico russo Michail Bachtin
(1895-1975): una formula fondata essenzialmente sul comico, sulla parodia (qui la parodia di
una predica), sull’ambiguità, sulle commistioni linguistiche e stilistiche, sui riferimenti alla
realtà materiale e corporea (qui si pensi a frasi come «rivestendo i porci delle lor busecchie
medesime» o «India Pastinaca» o ai denti, alle coste, alle mascelle, a proposito delle varie reli-
quie; e più in generale nell’intera novella alla rappresentazione di Guccio e di Nuta), sul ri-
baltamento dei canoni consueti, sulla bizzarria e l’eccentricità delle invenzioni tematiche e
linguistiche. È una formula questa, facilmente riconoscibile nella nostra novella, che rie-
cheggia alcune caratteristiche della cultura e dell’immaginario popolari, quali si manifesta-
vano nelle feste e nei riti profani del carnevale, in cui dominavano una comica e spregiudi-
cata giocosità intrisa di riferimenti materiali e corporei (dai cibi, accarezzati dalla fantasia
popolare che conosceva quasi solo la fame, al sesso o agli aspetti più degradati del quotidia-
no) e il ribaltamento di valori costituiti, per cui per un giorno tutto è o appare possibile e
lecito, per un giorno tutto appare il contrario di quello che è abitualmente (il mondo alla
rovescia): i padroni diventano servi, i servi padroni, la fame si capovolge in abbondanza (l’al-
bero della cuccagna), i potenti vengono impunemente irrisi, le cose sacre profanate, l’osce-
nità e la trivialità prendono il posto delle cose e delle parole più nobili.
Realtà storica e ideologia: città e campagna, cultura e incultura La novella, come quasi sempre nel Decameron,
pur essendo tutta d’invenzione si fonda su dati storici: la corruzione degli ordini religiosi, la
pratica delle false reliquie e la credulità popolare. La credulità, ormai in declino nelle città e
nei livelli sociali più alti, è invece ancora assai diffusa nelle campagne. In tutta la narrativa
medievale e moderna il ruolo del contadino è e sarà perlopiù quello dello sciocco e della
vittima designata delle beffe. La letteratura è in effetti, in questa e in altre epoche, espressio-
ne di una cultura urbanocentrica che ha poco interesse e poca pietà per il mondo contadino.
A suo modo la novella del Boccaccio sviluppa però anche il motivo della conoscenza (co-
noscenza del mondo e competenza linguistica) che è strumento di potere e mezzo necessa-
rio per evitare le insidie di chi la detiene. I giovani e il frate sono accomunati forse da un’in-
dole maliziosa, ma certo anche da queste competenze linguistiche e culturali e, per questo,
possono alla fine farsi beffe della stolta moltitudine. L’elogio della freddezza e della prontezza
d’ingegno che consentono di cavarsi d’impaccio da una situazione imbarazzante, si associa
dunque a questa consapevolezza delle risorse e del potere del linguaggio e della cultura.
Laboratorio 1 Confronta il personaggio di frate Cipolla lità e gli scopi dei personaggi.
COMPRENSIONE con altri protagonisti di novelle di beffa. 3 Individua gli interventi del novellatore a
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE 2 Sviluppa il confronto fra la scena di Guc- commento della vicenda o del comporta-
cio e quella di frate Cipolla e in partico- mento dei personaggi. Che funzione as-
lare l’ambiente, la situazione, la persona- solvono nel racconto?
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Duecento e Trecento

T 13.11 Il Decameron 1349-1351


Calandrino e il porco imbolato (VIII,6)
G. Boccaccio Nell’ottava giornata, sotto il reggimento di Lauretta, si narrano le «beffe che tutto il
Il Decameron giorno o donna a uomo o uomo a donna o l’uno uomo all’altro si fanno». Il tema tipi-
a c. di V. Branca, camente novellistico della beffa, che già in molti casi aveva fatto la sua comparsa nel
Einaudi, Torino 1984
Decameron, trova qui il suo massimo sviluppo. A narrare una delle beffe fatte allo scioc-
co Calandrino, che compare come vittima in altre tre novelle, è Elissa.
Nella VI, 3 gli amici Bruno e Buffalmacco avevano fatto credere a Calandrino che
nel contado di Mugnone si trovasse una pietra (l’elitropia) dalla mirabolante proprietà
di rendere invisibile chi la portasse addosso: la stupidità di Calandrino aveva dato loro
l’occasione di prendere a sassate l’amico, che, credendo di averla trovata e volendo go-
derne da solo i benefici, si prende in silenzio le sassate pur di non rivelarsi, finché, tor-
nato a casa, ricopre di botte la moglie che, vedendolo e apostrofandolo come se niente
fosse, gli rovina l’incantesimo (così, almeno, pensa lo sciocco Calandrino, che nemmeno
alla fine si accorge di essere stato gabbato).
Ora in questa novella d’ambiente rusticano, vivacizzata dalla frequenza dei dialoghi e
da un parlato con molte inflessioni popolaresche, Bruno e Buffalmacco sottopongono
Calandrino a un’altra tormentosa beffa…

1 imbolano: rubano. Bruno e Buffalmacco imbolano1 un porco a Calandrino; fannogli fare la sperienza da ri-
2 fannogli…vernaccia: trovarlo con galle di gengiovo e con vernaccia 2, e a lui ne danno due, l’una dopo l’altra, di
lo sottopongono ad un sor-
tilegio per ritrovare il porco, quelle del cane confettate in aloè 3, e pare che l’abbia avuto egli stesso 4: fannolo ricompera-
con gallette di zenzero (gen- re 5, se egli non vuole che alla moglie il dicano.
giovo) e con vernaccia (un
vino). Come vedremo si [...] 5
tratta di un falso sortilegio Chi Calandrino, Bruno e Buffalmacco fossero non bisogna che io vi mostri,
che fa credere a Calandrino
che il ladro, mangiando del- ché assai l’avete di sopra udito: e per ciò, più avanti faccendomi6, dico che Calan-
le gallette dolci, sarà sma- drino aveva un suo poderetto non guari7 lontan da Firenze, che in dote aveva
scherato sentendole invece avuto dalla moglie, del quale, tra l’altre cose che sù vi ricoglieva8, n’aveva ogni an-
amarissime.
3 di quelle… aloè: di no un porco; e era sua usanza sempre colà di dicembre d’andarsene la moglie e 10
quelle fatte di zenzero cani- egli in villa, e ucciderlo e quivi farlo salare.
no (una qualità di zenzero
meno pregiata) impastate Ora avvenne una volta tra l’altre che, non essendo la moglie ben sana, Calan-
con succo di aloè, un succo drino andò egli solo a uccidere il porco; la qual cosa sentendo Bruno e Buffal-
amarissimo.
4 e pare… egli stesso: e macco e sappiendo che la moglie di lui non v’andava, se n’andarono a un prete
sembra che l’abbia rubato loro grandissimo amico, vicino di Calandrino, a starsi con lui alcun dì. Aveva Ca- 15
Calandrino stesso, che ov-
viamente sente l’amaro del- landrino, la mattina che costor giunsero il dì9, ucciso il porco; e vedendogli col
le gallette. prete, gli chiamò e disse: «Voi siate i ben venuti: io voglio che voi veggiate che
5 fannolo ricomperare:
glielo fanno riscattare, ri-
massaio10 io sono»; e menatigli in casa, mostrò loro questo porco.
comperare. In verità nel fi- Videro costoro il porco esser bellissimo e da Calandrino intesero che per la fa-
nale della novella non si nar- miglia sua il voleva salare; a cui Brun disse: «Deh! come tu se’ grosso! Vendilo e 20
ra il riscatto del porco (Ca-
landrino sarà però probabil- godianci i denari e a mogliata dì che ti sia stato imbolato11».
mente costretto a ricompe- Calandrin disse: «No, ella nol crederebbe, e caccerebbomi12 fuor di casa: non
rarlo per non mettere al cor-
rente la moglie del fatto),ma v’impacciate13, ché io nol farei mai».
il pagamento dei presunti Le parole furono assai ma niente montarono14. Calandrino gl’invitò a cena co-
servigi dei due beffatori
mediante il dono di due tale alla trista15, sì che costor non vi vollon cenare e partirsi da lui. 25
coppie di capponi. Disse Bruno a Buffalmacco: «Vogliangli noi imbolare stanotte quel porco?»
6 più… faccendomi: Disse Buffalmacco: «O come potremmo noi?»
proseguendo subito il di-
scorso, vendendo senza altri
preamboli alla vicenda.
7 non guari: non molto. cui vi giunsero. godiamoci (godianci) tutti caccerebbe. 15 cotale alla trista: con
8 tra… ricoglieva: tra le 10 massaio: esperto mas- insieme il ricavato e a tua 13 non v’impacciate: tanta malavoglia, con così
altre rendite che ricavava dal saro, bravo amministratore moglie (a mogliata, forma non vi immischiate. malcelato dispiacere.
poderetto. del mio podere. popolare toscana) dì che ti è 14 niente montarono:
9 la mattina… il dì: la 11 come… imbolato: stato rubato. non produssero alcun effet-
mattina stessa del giorno in come sei sciocco!Vendilo e 12 caccerebbomi: mi to.

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13. Giovanni Boccaccio T 13.11

16 nol muta… testé: non Disse Bruno: «Il come ho io ben veduto, se egli nol muta di là ove egli era te-
lo sposta dal luogo in cui po-
co fa si trovava. sté16».
17 faccianlo… noi?: fac- «Adunque» disse Buffalmacco «faccianlo; perché nol faremmo noi?17 E poscia 30
ciamolo; perché non do- cel goderemo qui insieme col domine18».
vremmo farlo?
18 col domine: con il Il prete disse che gli era molto caro19; disse allora Bruno: «Qui si vuole usare un
prete. poco d’arte20. Tu sai, Buffalmacco, come Calandrino è avaro e come egli bee vo-
19 gli era molto caro: l’i-
dea gli piaceva, era d’accor- lentieri quando altri paga: andiamo e menianlo21 alla taverna; quivi il prete faccia
do. vista di pagar tutto per onorarci e non lasci pagare a lui nulla: egli si ciurmerà22, e 35
20 d’arte: d’astuzia.
21 menianlo: conducia- verracci troppo ben fatto poi23, per ciò che egli è solo in casa».
molo. Come Brun disse, cosí fecero. Calandrino, veggendo che il prete non lo lasciava
22 si ciurmerà: si ubria-
cherà.
pagare, si diede in sul bere24, e benché non ne gli bisognasse troppo pur si caricò
23 e verracci… poi: e poi bene25: e essendo già buona ora di notte26 quando dalla taverna si partì, senza vo-
(con Calandrino ubriaco) la lere altramenti cenare27, se n’entrò in casa, e credendosi aver serrato l’uscio il lasciò 40
nostra beffa riuscirà benissi-
mo. aperto e andossi a letto. Buffalmacco e Bruno se n’andarono a cenar col prete: e,
24 si diede in sul bere: si come cenato ebbero, presi loro argomenti28 per entrare in casa Calandrino là onde
lasciò andare al bere.
25 benché… bene: e Bruno aveva divisato29, là chetamente30 n’andarono; ma trovando aperto l’uscio,
benché non gli giovasse entraron dentro e ispiccato il porco via a casa del prete nel portarono e, ripostolo,
troppo (cioè non reggesse
bene il vino) si riempì di vi- se n’andarono a dormire. 45
no,ne bevve in modo esage- Calandrino, essendogli il vino uscito del capo31, si levò la mattina; e come scese
rato. giù guardò e non vide il porco suo e vide l’uscio aperto: per che, domandato
26 buona ora di notte:
notte inoltrata. quello e quell’altro se sapessero chi il porco s’avesse avuto, e non trovandolo, in-
27 senza… cenare: senza cominciò a fare il romor grande32: oisé!33 dolente sé, che il porco gli era stato im-
cenare con gli amici, proba-
bilmente perché avrebbe bolato. Bruno e Buffalmacco levatisi se ne andarono verso Calandrino per udir 50
dovuto pagare, né altrove. ciò che egli del porco dicesse; il quale, come gli vide, quasi piagnendo chiamati,
28 argomenti: arnesi, at-
trezzi. disse: «Oimè, compagni miei, che il porco mio m’è stato imbolato!».
29 là… divisato: dalla Bruno accostatoglisi pianamente34 gli disse: «Maraviglia che se’ stato savio una vol-
parte da cui Bruno aveva ta !»
35
progettato (divisato) di en-
trare. «Oimè» disse Calandrino «ché io dico da dovero36». 55
30 chetamente: silenzio-
«Così dì,» diceva Bruno «grida forte, sì che paia bene che sia stato cosí».
samente.
31 essendogli… capo: Calandrino gridava allora più forte e diceva: «Al corpo di Dio37, che io dico da
essendo ritornato sobrio, dovero che egli m’è stato imbolato».
svanito l’effetto del vino.
32 il romor grande: un E Brun diceva: «Ben dì, ben dì: e’ si vuol38 ben dir così, grida forte, fatti ben
gran baccano,gridando e la- sentire, sì che egli paia vero». 60
mentandosi. Disse Calandrino: «Tu mi faresti dar l’anima al nemico39: io dico che tu non mi
33 oisé!: nel discorso di-
retto sarebbe un ohimé, ma credi, se io non sia impiccato per la gola, che egli m’è stato imbolato40!»
trattandosi di un discorso Disse allora Bruno: «Deh! come dee potere esser questo? Io il vidi pure ieri co-
indiretto l’interiezione è
volta alla terza persona, co- stì: credimi tu far credere che egli sia volato41?»
me il successivo dolente sé. Disse Calandrino: «Egli è come io ti dico». 65
34 pianamente: piano,
«sotto voce, con aria di «Deh!» disse Bruno «può egli essere?»
complicità» (Branca). «Per certo» disse Calandrino «egli è così, di che io son diserto42 e non so come
35 Maraviglia… volta:
sono stupito che tu per una io mi torni a casa: mogliema nol mi crederà43, e se ella il mi pur crede, io non
volta sia stato saggio, furbo. avrò uguanno44 pace con lei».
Bruno finge di non creder- Disse allora Bruno: «Se Dio mi salvi, questo è mal fatto, se vero è45; ma tu sai, 70
gli.
36 da dovero: davvero, in
modo veritiero.
37 Al corpo di Dio:
esclamazione e formula di
giuramento, come «in no- 40 se io… imbolato: stra- è stato rubato). imbolato e volato). crederà”, come per il suc-
me di Dio». na costruzione che in so- 41 come… volato?: co- 42 di che… diserto: col cessivo il mi).
38 e’ si vuol: bisogna. stanza significa: possa io es- me può essere accaduto che io sono rovinato. 44 uguanno: mai più.
39 al nemico: il diavolo, sere impiccato se mento questo? Io l’ho visto lì appe- 43 mogliema… crederà: 45 Se…vero è: che Dio
‘nemico’ per antonomasia (ma letteralmente: così pos- na ieri: vuoi forse farmi cre- mia moglie non crederà al mi scampi, se (quanto dici) è
dell’uomo: tutta la frase vale sa io non essere impiccato, dere che egli sia volato via? mio racconto (nol mi: sintesi vero, questo è un guaio (mal
“mi fai dannare”. come è vero che il porco mi (con un gioco di parole tra tra “non lo crederà” e “non mi fatto).

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Duecento e Trecento

46 a un’ora: allo stesso Calandrino, che ieri io t’insegnai dir così: io non vorrei che tu a un’ora46 ti faces-
tempo.
47 ciò che v’è: e tutto il
si beffe di moglieta e di noi».
resto, tutto ciò che esiste. Calandrino incominciò a gridare e a dire: «Deh perché mi farete disperare? e be-
48 vuolsi… riaverlo: bi-
sogna trovare un modo (via)
stemmiare Idio e’ santi e ciò che v’è47? Io vi dico che il porco m’è stato stanotte im-
di riaverlo, se possibile. bolato». 75
49 non c’è… porco: non
Disse allora Buffalmacco: «S’egli è pur così, vuolsi veder via, se noi sappiamo, di
è certo venuto dall’India chi
ti ha rubato il porco. riaverlo48».
50 la esperienza… for- «E che via» disse Calandrino «potrem noi trovare?»
maggio: «era un sortilegio,
un incantesimo assai diffu- Disse allora Buffalmacco: «Per certo egli non c’è venuto d’India niuno a torti il
so che aveva assunto quasi porco49: alcuno di questi tuoi vicini dee essere stato, e per ciò, se tu gli potessi ragu- 80
forma di rito: […] fatti certi nare, io so fare la esperienza del pane e del formaggio50 e vederemmo di botto51 chi
segni e data la benedizione
su bocconi confezionati l’ha avuto».
con formaggio e pane «Sì,» disse Bruno «ben farai con pane e con formaggio a certi gentilotti che ci
(d’orzo in genere), si invita-
vano i presunti ladri a giu- ha da torno52! ché son certo che alcun di lor l’ha avuto, e avvederebbesi53 del fat-
rare la loro innocenza; e, to e non ci vorrebbe venire». 85
dette speciali orazioni, si
davano loro da mangiare «Come è adunque da fare?» disse Buffalmacco.
quei bocconi che non po- Rispose Bruno: «Vorrebbesi fare con belle galle di gengiovo54 e con bella ver-
tevano essere inghiottiti dal
colpevole» (Branca). naccia, e invitargli a bere: essi non sel penserebbono55 e verrebbono, e così si pos-
51 di botto: subito, im- sono benedicer le galle del gengiovo come il pane e ’l cascio».
mediatamente. Disse Buffalmacco: «Per certo tu di’ il vero; e, tu, Calandrino, che di’? voglianlo 90
52 ben farai… da torno:
ti riuscirà facile questo sor- fare?»
tilegio del pane e del for- Disse Calandrino: «Anzi ve ne priego io per l’amor di Dio; ché, se io sapessi
maggio con certi galan-
tuomini (gentilotti) che pure chi l’ha avuto, sì mi parrebbe essere mezzo consolato».
stanno qui attorno. È detto «Or via,» disse Bruno «io sono acconcio56 d’andare infino a Firenze per quelle
ironicamente a significare:
come credi di farcela, con cose in tuo servigio, se tu mi dai i denari». 95
le canaglie che ci sono qui? Aveva Calandrino forse quaranta soldi, li quali egli gli diede. Bruno, andatose-
53 avvederebbesi: si ac-
corgerebbe (in discussione è
ne a Firenze a un suo amico speziale57, comperò una libra di belle galle e fecene
la prova del pane e del for- far due di quelle del cane58, le quali egli fece confettare in uno aloè patico fre-
maggio, troppo nota per sco59; poscia fece dar loro le coverte del zucchero60 come avevan l’altre, e per
passare inosservata).
54 galle di gengiovo: cfr. non ismarrirle o scambiarle fece lor fare un certo segnaluzzo, per lo quale egli 100
nota 2.«Bruno qui burlesca- molto ben le conoscea; e comperato un fiasco d’una buona vernaccia, se ne
mente sostituisce al pane e
cacio le galle di zenzero, al- tornò in villa61 a Calandrino e dissegli: «Farai che tu inviti domattina a ber con
l’acqua benedetta la vernac- teco tutti coloro di cui tu hai sospetto: egli è festa, ciascun verrà volentieri, e io
cia, se stesso al prete, l’incan- farò stanotte insieme con Buffalmacco la ’ncantagione sopra le galle e recherol-
tagione alla benedizione»
(Branca). leti62 domattina a casa, e per tuo amore io stesso le darò e farò e dirò ciò che fia 105
55 non sel penserebbo- da dire e da fare63».
no: non si accorgerebbero
che si tratta di un sortilegio. Calandrino così fece. Ragunata adunque una buona brigata tra di giovani fio-
56 acconcio: pronto, di- rentini che per la villa erano e di lavoratori, la mattina vegnente, dinanzi alla chie-
sposto.
57 speziale: commer- sa intorno all’olmo, Bruno e Buffalmacco vennono con una scatola di galle e col
ciante di spezie, droghiere. fiasco del vino: e fatti stare costoro in cerchio, disse Bruno: «Signori, e’ mi vi con- 110
58 due… cane: cfr. nota 3.
59 fece… fresco: fece
vien dir la cagione per che voi siete qui, acciò che, se altro avvenisse che non vi
impastare con un succo di piacesse64, voi non v’abbiate a ramaricar di me. A Calandrin, che qui è, fu ier not-
aloè epatico fresco. Il succo te tolto un suo bel porco, né sa trovare chi avuto se l’abbia; e per ciò che altri che
d’aloè è amarissimo.
60 le coverte del zuc- alcun di noi che qui siamo non gliele dee potere aver tolto, esso, per ritrovar chi
chero: la copertura di zuc- avuto l’ha, vi dà a mangiar queste galle una per uno, e bere; e infino da ora sap- 115
chero.
61 in villa: al villaggio. piate che chi avuto avrà il porco non potrà mandar giù la galla, anzi gli parrà più
62 recherolleti: te le por- amara che veleno e sputeralla; e per ciò, anzi che questa vergogna gli sia fatta in
terò.
63 fia…fare: sia necessa- presenza di tanti, è forse meglio che quel cotale che avuto l’avesse in penitenza il
rio dire e fare. dica al sere, e io mi rimarrò di questo fatto65».
64 se… piacesse: se acca-
desse qualcosa di spiacevole.
Ciascun che v’era disse che ne voleva volentier mangiare: per che Bruno, ordi- 120
65 in penitenzia… fatto: natigli e messo Calandrino tra loro, cominciatosi all’un de’ capi, cominciò a dare a
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13. Giovanni Boccaccio T 13.11

lo dica in confessione al pre- ciascun la sua; e, come fu per mei Calandrino66, presa una delle canine, gliele po-
te e io mi asterrò dall’impre-
sa. se in mano. Calandrino prestamente la si gittò in bocca e cominciò a masticare,
66 come… Calandrino: ma sì tosto come la lingua sentì l’aloè, così Calandrino, non potendo l’amaritudi-
come fu davanti a Calandri-
no. ne sostenere, la sputò fuori. Quivi ciascun guatava nel viso l’uno all’altro per ve- 125
67 compiuto di darle: der chi la sua sputasse; e non avendo Bruno ancora compiuto di darle67, non fac-
terminato di distribuirle. cendo sembiante d’intendere a ciò68, s’udì dir dietro: «Eia, Calandrino, che vuol
68 non… a ciò: facendo
finta di non accorgersi che dir questo?» per che prestamente rivolto e veduto che Calandrino la sua aveva
Calandrino l’aveva sputata. sputata, disse: «Aspettati69, forse che alcuna altra cosa gliele fece sputare: tenne70
69 Aspettati: aspetta un
po’. un’altra»; e presa la seconda, gliele mise in bocca e fornì71 di dare l’altre che a da- 130
70 tenne: prendine. re avea. Calandrino, se la prima gli era paruta amara, questa gli parve amarissima:
71 fornì: finì.
72 Buffalmacco… e ma pur vergognandosi di sputarla, alquanto masticandola la tenne in bocca, e te-
Bruno: Buffalmacco dava nendola cominciò a gittar le lagrime che parevan nocciuole sì eran grosse; e ulti-
da bere alla brigata e così
pure Bruno. mamente, non potendo più, la gittò fuori come la prima aveva fatto. Buffalmacco
73 Io… tu: io l’ho sempre faceva dar bere alla brigata e Bruno72: li quali insieme con gli altri questo veden- 135
saputo per certo che te l’eri do tutti dissero che per certo Calandrino se l’aveva imbolato egli stesso; e furon-
tenuto tu.
74 Ma che… sei?: ma vene di quegli che aspramente il ripresero.
quanto ne hai ricavato, ami- Ma pur, poi che partiti si furono, rimasi Bruno e Buffalmacco con Calandrino,
co mio (sozio, socio), in ve-
rità? ne hai avuto sei fiorini? gl’incominciò Buffalmacco a dire: «Io l’aveva per lo certo tuttavia che tu te l’ave-
75 Intendi… tale: inten- vi avuto tu73, e a noi volevi mostrare che ti fosse stato imbolato per non darci una 140
dimi bene, Calandrino, ci fu
un tale… volta bere de’ denari che tu n’avesti».
76 che… rimedire: che Calandrino, il quale ancora non aveva sputata l’amaritudine dello aloè, inco-
tu tenevi a tua disposizione
e a cui davi ciò che riuscivi a minciò a giurare che egli avuto non l’avea.
rimediare. Disse Buffalmacco: «Ma che n’avesti, sozio, alla buona fé? avestine sei?74»
77 Tu… beffardo!: hai
ben imparato a farti beffe di
Calandrino, udendo questo, s’incominciò a disperare; a cui Brun disse: «Intendi 145

noi. sanamente, Calandrino, che egli fu tale75 nella brigata che con noi mangiò e bevé,
78 Tu… trovata!: si fa ri-
che mi disse che tu avevi quinci sù una giovinetta che tu tenevi a tua posta e da-
ferimento ad una preceden-
te novella (Calandrino e l’eli- vile ciò che tu potevi rimedire76, e che egli aveva per certo che tu l’avevi manda-
tropia) che abbiamo riassun- to questo porco. Tu sí hai apparato a esser beffardo!77 Tu ci menasti una volta giù
to nella premessa. Metter in
galea senza biscotto significa per lo Mugnone raccogliendo pietre nere: e quando tu ci avesti messi in galea 150
“mettere nei guai” (come senza biscotto, e tu te ne venisti e poscia ci volevi far credere che tu l’avessi trova-
chi va per mare, su una galea,
senza provviste). Tu te ne ve- ta!78 e ora similmente ti credi co’ tuoi giuramenti far credere altressì che il porco,
nisti significa “te ne tornasti che tu hai donato o ver venduto, ti sia stato imbolato. Noi sì siamo usi delle tue
a casa”. beffe e conoscianle; tu non ce ne potresti far più! E per ciò, a dirti il vero, noi ci
79 ci… arte: abbiamo fat-
to fatica a fare l’incantesimo. abbiamo durata fatica in far l’arte79, per che noi intendiamo che tu ci doni due 155
80 se non che: altrimenti.
81 monna Tessa: la mo-
paia di capponi, se non che80 noi diremo a monna Tessa81 ogni cosa».
glie di Calandrino. Calandrino, vedendo che creduto non gli era, parendogli avere assai dolore,
82 il riscaldamento: l’ar- non volendo anche il riscaldamento82 della moglie, diede a costoro due paia di
rabbiatura, la strigliata.
capponi; li quali, avendo essi salato il porco, portatisene a Firenze, lasciaron Calan-
drino col danno e con le beffe. 160

Guida all’analisi
I furbi e lo sciocco Calandrino, in quanto sciocco, è vittima predestinata di ogni sorta di beffe da parte dei
due falsi amici, Bruno e Buffalmacco, personaggi caratterizzati essenzialmente dalla furbizia,
da un pronto intuito e da una vena di sottile crudeltà. La ripetuta presenza di Calandrino
nel Decameron ne fa lo sciocco per antonomasia, una figura divenuta poi quasi proverbiale, e
anche «la più completa antitesi di quello spirito di accortezza e intelligenza mondana, che si
incarna in tanti personaggi del Decamerone» (Fubini). Quella di Calandrino non è però «una
sciocchezza inerte, una stupidità rassegnata e tranquilla»: specialmente in altre novelle, come
in quella citata dell’elitropia, egli mostra di credersi furbo e talora tenta di ingannare i suoi
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Duecento e Trecento

amici (il fatto gli viene ironicamente ricordato anche in questa, quando Bruno gli dice: «Tu
sì hai apparato a essere beffardo!», r. 149). Tale tratto della personalità di Calandrino è però
in questo caso un po’ meno evidente: Calandrino si caratterizza qui soprattutto per la stupi-
dità e la disperazione, ma dimostra anche una certa inclinazione all’avarizia, ad esempio
quando invita con evidente malavoglia («alla trista», r. 25) i due amici e il prete a cenare da
lui. Quando però, invitato alla taverna, eccede nel bere, visto che a pagare è il prete, e rifiu-
ta di cenare con gli amici (forse temendo di dover pagare la sua parte) aggravando così l’ef-
fetto del troppo vino, siamo indotti a sospettare che almeno in quel frangente egli si senta
astuto, mentre non si accorge che sta cadendo nella trappola.
Il danno e le beffe La beffa ordita dagli implacabili Bruno e Buffalmacco, con la complicità del prete, è in
questo caso piuttosto complessa e si struttura su vari livelli di danneggiamento e di sbeffeg-
giamento. Di per sé la sottrazione del porco sarebbe un semplice furto o un inganno, se non
seguisse la messinscena dell’incantesimo. Proprio in questo sta la prima vera beffa: il dan-
neggiato è fatto passare per ladro (ironicamente, un furto fatto a se stesso!) e svergognato in
pubblico. Al danno del furto se ne associa ora un secondo: gli vengono fatte assaporare due
galle amarissime che, nel tentativo di trangugiarle e di non passare per colpevole, gli fanno
versare lacrime che paiono nocciole. Calandrino naturalmente non sospetta di essere beffa-
to: forse tra sé e sé maledice la sua cattiva sorte, ma certo prova disappunto e vergogna al
pensiero che gli verrà attribuita la colpa («vergognandosi di sputarla», r. 132). Ma a Bruno e
Buffalmacco questo non basta: dopo avergli da principio maliziosamente suggerita l’idea di
fingere il furto del porco, fingono di credere che egli abbia accolto il loro consiglio e, pro-
prio mentre in Calandrino monta l’angoscia (che ne dirà la moglie?!), lo apostrofano con
aria di complicità (tutta la scena gustosa del «grida forte, sì che paia bene che sia stato così»,
rr. 53-64). Quindi, a rimarcarne la sciocchezza, lo trattano da furbo che li prende per scioc-
chi («credimi tu far credere che egli sia volato?», r. 64) e da irriconoscente («ma tu sai, Ca-
landrino, che ieri io t’insegnai dir così: io non vorrei che tu a un’ora ti facessi beffe di mo-
glieta e di noi», rr. 70-72). Il continuo riferimento alla moglie, poi, che scandisce le fasi del-
la novella, è una beffa nella beffa che angustia Calandrino (dopo le botte della novella del-
l’elitropia, qui si vede quali sono davvero i rapporti di forza tra i due). Il malumore iniziale,
al pensiero che monna Tessa non gli perdonerebbe l’imbandigione del porco con gli amici
(rr. 20-21), si converte presto in un’angoscia che raggiunge il culmine nel finale quando il
nome della moglie viene agitato minacciosamente per estorcergli, oltre al porco, anche due
coppie di capponi («se non che noi diremo a monna Tessa ogni cosa», r. 156, dove nell’«ogni
cosa» è compresa naturalmente la falsa storia della giovinetta con cui Calandrino si sarebbe
goduto il maiale). Con quest’ultima estorsione la somma dei danni e delle beffe si compie
definitivamente: la ricattatoria richiesta dei capponi è formulata infatti come pagamento dei
presunti servigi svolti con l’incantagione: «noi ci abbiamo durata fatica a far l’arte, per che noi
intendiamo che tu ci doni due paia di capponi» (rr. 155-156). Con ciò, di fatto, i due falsi
amici non solo beffano Calandrino, ma si fanno anche – per così dire – pagare le spese del-
la beffa ordita ai suoi danni.
L’inerme disperazione e la sottile crudeltà In una beffa fatta ai danni di uno sciocco, in presenza cioè di una
forte dissimmetria di intelligenza e astuzia fra i personaggi, c’è in ogni caso un fondo ama-
ro di crudeltà: la crudeltà della vita che in ogni campo discrimina i più deboli e i più scioc-
chi. Ma in questa novella la perfidia, l’implacabilità, di Bruno e Buffalmacco, il gusto un po’
sadico che mostrano nell’infierire su Calandrino e nell’assaporarne quasi l’angoscia aggiun-
gono un di più di crudeltà al tema. Calandrino si offre infatti del tutto inerme al danno e
alle beffe materiali e morali che gli vengono inflitte: non sa elaborare neppure un barlume
di strategia difensiva, non si accorge di nulla, ingurgita bocconi amarissimi senza opporre
resistenza, ripete all’infinito prima con angoscia e ira, poi – si intuisce – con una sempre più
meccanica disperazione «il porco mio m’è stato imbolato… io dico da dovero… io dico da
dovero che egli m’è stato imbolato… se io non sia impiccato per la gola, che egli m’è stato
imbolato… io vi dico che il porco m’è stato stanotte imbolato…» (ora grido ora sommes-
so mormorio, questo è forse il motivo conduttore tematico e stilistico della novella), acco-

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13. Giovanni Boccaccio T 13.11

glie vergognoso le riprensioni degli invitati all’incantesimo («e furonvene di quegli che
aspramente il ripresero», rr. 136-137) e certo si prenderà una strigliata dalla moglie. Se non
fosse che in questi casi l’inclinazione del lettore, indotta anche dalla strategia narrativa, è
quella di immedesimarsi nei furbi e nel ridere dello sciocco, si potrebbe dire che Calandri-
no è qui un personaggio quasi patetico.

Laboratorio 1 La frequenza dei dialoghi fa di questa no- caratterizzati da pochi o molti tratti psi-
COMPRENSIONE vella una di quelle tipicamente teatrali (da cologici?
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE commedia, secondo la classificazione di 3 Questa è una novella d’ambientazione
Baratto). Prova a suddividere il testo in campagnola, ma la rappresentazione del
sequenze (corrispondenti alle scene di contesto in cui si svolge è limitata a pochi
una commedia), isola gli interventi del tratti. Ricercali nel testo. Ci sono altri
narratore analizzandone le caratteristiche elementi del racconto che suggeriscono
e la funzione (corripondono alle brevi o rammentano l’ambientazione campa-
didascalie di un testo teatrale o introdu- gnola?
cono più consistenti elementi ad es. de- 4 Confronta la novella di Calandrino che
scrittivi, narrativi, a commento, di analisi hai appena letto con quella di frate Ci-
psicologica, ecc.?). Infine esamina le bat- polla. In entrambi i casi si tratta di novel-
tute di dialogo e la loro funzione: ad le incentrate sulla beffa, ma la qualità dei
esempio, immagina di doverle recitare e personaggi, la dinamica dell’intreccio e
rifletti sul tono, sulle inflessioni della vo- gli esiti stessi della beffa sono assai diversi.
ce, sulle espressioni del viso, sui gesti che Analizza tali differenze e prova illustrarle
sarebbe opportuno adottare per renderle e a giustificarle.
più efficaci ed espressive. Per far ciò do- 5 Se disponi di un’edizione integrale del
mandati anche quali intenzioni avesse Decameron, puoi leggere altre tre diverten-
l’autore, quali aspetti del carattere dei ti novelle dedicate alla figura di Calandri-
personaggi volesse via via far emergere. no:VIII, 3;VIII, 6; IX, 3. Prova a confron-
2 Le figure di Calandrino e dei suoi due tarle ed eventualmente a riraccontarle ai
falsi amici ti paiono tipi o individui, per- tuoi compagni.
sonaggi piatti o a tutto tondo? Sono cioè
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Duecento e Trecento

T 13.12 Il Decameron 1349-1351


La badessa e le brache (IX, 2)
G. Boccaccio Nella nona giornata, che si svolge sotto il reggimento di Emilia, si torna, come nella
Il Decameron prima, al tema libero. La novella che segue è narrata, come nel caso di Calandrino e il
a c. di V. Branca,
Einaudi, Torino 1984 porco, da Elissa. Questa volta Boccaccio sviluppa un tema che aveva avuto larga fortu-
na nella narrativa medievale tanto sacra quanto profana: quello del religioso o della re-
ligiosa accusati di avere una o un amante o colti sul fatto; egli non manca però di dare
al racconto una patina sorridente e maliziosa tutta sua: nelle sue mani la storia si sdop-
pia e diventa quella di una giovane monaca che viene colta in flagrante adulterio, ma
scampa alla punizione minacciata dalla badessa perché costei svela una sua analoga col-
pa commettendo un errore nell’abbigliarsi un po’ troppo in fretta...

1 Levasi: si alza (dal let- Levasi1 una badessa in fretta e al buio per trovare2 una sua monaca, a lei accusata, col suo
to). amante nel letto; ed essendo con lei un prete, credendosi il saltero de’ veli3 aver posto in ca-
2 trovare: sorprendere.
3 il saltero de’ veli: «ter- po, le brache del prete vi si pose; le quali vedendo l’accusata e fattalane accorgere, fu dilibe-
mine tecnico: indicava il rata4, ed ebbe agio di starsi col suo amante.
complesso dei veli che, di-
sposti sul capo, avevano la 5
forma triangolare dello Già si tacea Filomena, e il senno della donna a torsi da dosso coloro li quali
strumento musicale chia-
mato salterio» (Branca). amar non volea da tutti era stato commendato; e così in contrario non amor ma
4 fu diliberata: scagio- pazzia era stata tenuta da tutti l’ardita presunzione degli amanti, quando la reina a
nata dall’accusa e liberata
dalla pena che ne sarebbe Elissa vezzosamente disse: – Elissa, segui –; la qual prestamente incominciò:
conseguita. – Carissime donne, saviamente si seppe madonna Francesca, come detto è, li- 10
5 saviamente… sua: al-
lusione alla novella prece-
berar dalla noia sua5; ma una giovane monaca, aiutandola la fortuna, sé da un so-
dente, in cui una donna per prastante pericolo leggiadramente parlando diliberò6. E come voi sapete, assai so-
liberarsi da due corteggia- no li quali, essendo stoltissimi, maestri degli altri si fanno e gastigatori7, li quali, sì
tori importuni impone loro
un gravosissimo compito come voi potrete comprendere per la mia novella, la fortuna alcuna volta e meri-
che essi non riescono a por- tamente vitupera8: e ciò addivenne alla badessa sotto la cui obedienzia9 era la 15
tare a termine.
6 sé… diliberò: si libero monaca della quale debbo dire.
con un arguto discorso da Sapere adunque dovete in Lombardia essere un famosissimo monistero di san-
un pericolo incombente
(soprastante). tità e di religione10, nel quale, tra l’altre donne monache che v’erano, v’era una
7 gastigatori: castigato- giovane di sangue nobile e di maravigliosa bellezza dotata, la quale, Isabetta chia-
ri, critici dei costumi altrui. mata, essendo un dì a un suo parente alla grata venuta11, d’un bel giovane che con 20
8 vitupera: svergogna,
copre di infamia. lui era s’innamorò; e esso, lei veggendo bellissima, già il suo disidero avendo con
9 sotto… obedienza: gli occhi concetto12, similmente di lei s’accese: e non senza gran pena di ciascuno
sotto la cui autorità.
10 famosissimo… reli- questo amore un gran tempo senza frutto sostennero.
gione: un monastero famo- Ultimamente, essendone ciascuno sollecito13, venne al giovane veduta una via
sissimo per la religiosità e la
santità delle monache (la da potere alla sua monaca occultissimamente andare; di che ella contentandosi14, 25
formula ricorrente nel Boc- non una volta ma molte con gran piacer di ciascuno la visitò.
caccio, ma in questo caso un
po’ enfatica) costituisce Ma continuandosi questo, avvenne una notte che egli da una delle donne15 di
un’ironica antitesi con il se- là entro fu veduto, senza avvedersene e egli o ella, dall’Isabetta partirsi e andarsene.
guito della novella. Il che costei con alquante altre comunicò16; e prima ebber consiglio d’accusarla
11 a un… venuta: essen-
do andata alla grata del par- alla badessa, la quale madonna Usimbalda ebbe nome, buona e santa donna se- 30
latorio per incontrare un condo la oppinion delle donne monache e di chiunque la conoscea17; poi pensa-
parente.
12 il suo… concetto: rono, acciò che la negazione non avesse luogo18, di volerla far cogliere col giova-
avendo compreso (concetto) ne alla badessa; e così taciutesi, tra sé le vigilie e le guardie segretamente partirono
dallo sguardo il desiderio
della monaca. per incoglier costei19.
13 essendone… solleci-
to: essendo entrambi stimo- pendente da quello della 15 donne: monache. falsa opinione. guardia per sorprenderla.
lati dall’amore. reggente, modellato sull’a- 16 comunicò: mise in co- 18 acciò… luogo: affin- «Comincia quel linguaggio
14 di che… contentan- blativo assoluto latino: nel mune con, raccontò a. ché ella non potesse negare soldatesco col quale in tutta
dosi: della qual cosa essendo seguito del periodo infatti 17 secondo… conoscea: la colpa. questa pagina il B. caricatu-
ella felice. Costrutto del ge- muta il soggetto (il giovane la precisazione introduce il 19 tra sé… costei: si spar- reggia l’affaccendarsi di
rundio con soggetto indi- la visitò). sospetto che si tratti di un tirono i turni di veglia e di quelle zelanti» (Branca).

478 © Casa Editrice Principato


13. Giovanni Boccaccio T 13.12

20 non guardandosi: non Or, non guardandosi20 l’Isabetta da questo né alcuna cosa sappiendone, avvenne 35
stando in guardia. che ella una notte vel fece venire21, il che tantosto22 sepper quelle che a ciò bada-
21 vel fece venire: fece
venire da lei l’amante . vano; le quali, quando a lor parve tempo, essendo già buona pezza di notte23, in
22 tantosto: subito.
23 essendo… notte: es-
due si divisero, e una parte se ne mise a guardia dell’uscio della cella dell’Isabetta e
sendo già notte inoltrata. un’altra n’andò correndo alla camera della badessa; e picchiando l’uscio, a lei che
24 temendo non: temen-
già rispondeva, dissero: «Sù, madonna, levatevi tosto, ché noi abbiam trovato che 40
do che.
25 spacciatamente: in l’Isabetta ha un giovane nella cella».
tutta fretta. Era quella notte la badessa accompagnata d’un prete il quale ella spesse volte in
26 le venner tolte: le ac-
cadde invece di prendere.
una cassa si faceva venire. La quale, udendo questo, temendo non24 forse le mona-
27 pinse in terra: abbatté. che per troppa fretta o troppo volonterose tanto l’uscio sospignessero, che egli s’a-
28 da… storditi: confusi
per essere stati colti così di
prisse, spacciatamente25 si levò suso e come il meglio seppe si vestì al buio; e cre- 45

sorpresa. dendosi torre certi veli piegati, li quali in capo portano e chiamangli il saltero, le
29 menata in capitolo:
venner tolte26 le brache del prete; e tanta fu la fretta, che senza avvedersene in luo-
condotta nella sala capitola-
re, dove le monache si riuni- go del saltero le si gittò in capo e uscì fuori e prestamente l’uscio si riserrò dietro
vano. dicendo: «Dove è questa maladetta da Dio?» E con l’altre, che sì focose e sì attente
30 con… seco: con l’in-
tenzione di fare qualche erano a dover far trovare in fallo l’Isabetta, che di cosa che la badessa in capo aves- 50
brutto scherzo alle mona- se non s’avvedieno, giunse all’uscio della cella, e quello, dall’altre aiutata, pinse in
che che avesse potuto terra27: e entrate dentro, nel letto trovarono i due amanti abbracciati. Li quali, da
prendere, se alla sua amante
fosse stato fatto alcun male così subito sopraprendimento storditi28, non sappiendo che farsi, stettero fermi. La
(novità alcuna), e poi di con- giovane fu incontanente dall’altre monache presa e per comandamento della ba-
durla via con sé.
31 vituperevoli opere: dessa menata in capitolo29. Il giovane s’era rimaso; e vestitosi aspettava di veder che 55
azioni vergognose.
32 se… avea: se la cosa si
fine la cosa avesse, con intenzione di fare un mal giuoco a quante giugner ne po-
fosse risaputa al di fuori del tesse, se alla sua giovane novità niuna fosse fatta, e di lei menarne con seco30.
convento, ne avrebbe com- La badessa, postasi a sedere in capitolo in presenzia di tutte le monache, le qua-
promesso la buona fama. li solamente alla colpevole riguardavano, incominciò a dirle la maggior villania
33 dietro alla villania: al-
le espressioni di forte biasi- che mai a femina fosse detta, sì come a colei la quale la santità, l’onestà, la buona 60
mo. fama del monistero con le sue sconce e vituperevoli opere31, se di fuor si sapesse,
34 multiplicando… no-
velle: dilungandosi la bades- contaminate avea32: e dietro alla villania33 aggiugnea gravissime minacce.
sa nel discorso. La giovane, vergognosa e timida, sì come colpevole non sapeva che si risponde-
35 venne… alzato: ac-
cadde alla giovane di alzare. re, ma tacendo di sé metteva compassion nell’altre: e, multiplicando pur la bades-
36 usulieri: «legacci coi sa in novelle34, venne alla giovane alzato35 il viso e veduto ciò che la badessa ave- 65
quali si fermavano le brache
alla calzature (uose)» (Bran- va in capo e gli usulieri36 che di qua e di là pendevano: di che ella, avvisando ciò
ca). Questo termine forse è che era37, tutta rassicurata disse: «Madonna, se Dio v’aiuti38, annodatevi la cuffia e
all’origine del nome della poscia mi dite ciò che voi volete».
badessa (Usimbalda), che co-
munque è certo in una rela- La badessa, che non la ’ntendeva, disse: «Che cuffia, rea femina? ora hai tu viso
zione ironica con questo da motteggiare?39 parti egli aver fatta cosa che i motti ci abbian luogo?40» 70
passo in cui vediamo la ba-
dessa Usimbalda baldanzosa Allora la giovane un’altra volta disse: «Madonna, io vi priego che voi v’anno-
e spavalda con gli usulieri diate la cuffia; poi dite a me ciò che vi piace»; laonde molte delle monache leva-
delle brache del prete che le
pendono dal capo. rono il viso al capo della badessa e, ella similmente ponendovisi le mani, s’accor-
37 avvisando… era: sero perché l’Isabetta così diceva.
comprendendo di che si Di che la badessa, avvedutasi del suo medesimo fallo41 e vedendo che da tutte 75
trattava.
38 se… v’aiuti: che Dio veduto era né aveva ricoperta42, mutò sermone e in tutta altra guisa che fatto non
vi aiuti, vi benedica. aveva cominciò a parlare, e conchiudendo venne impossibile essere il potersi dagli
39 ora… motteggiare?:
hai, proprio ora, la faccia to- stimoli della carne difendere43; e per ciò chetamente, come infino a quel dì fatto
sta di prendermi in giro? s’era, disse che ciascuna si desse buon tempo quando potesse; e liberata la giovane,
40 parti… luogo?: ti pare
(parti) di aver fatto qualcosa col suo prete si tornò a dormire, e l’Isabetta col suo amante44. Il qual poi molte 80
che sia compatibile con gli volte, in dispetto di quelle che di lei avevano invidia, vi fé venire; l’altre che senza
scherzi?
41 del… fallo: della pro- amante erano, come seppero il meglio, segretamente procacciaron lor ventura45. –
pria analoga colpa.
42 né… ricoperta: e che 43 e… difendere: e con- carne. 45 segretamente… ven- buona sorte).
non aveva la possibilità di 44 e l’Isabetta… aman-
cluse che era impossibile tura: in segreto si procura-
nasconderlo. sottrarsi agli stimoli della te: sott.‘fece lo stesso’. rono i propri piaceri (lett.: la

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Duecento e Trecento

Guida all’analisi
Una novella scherzosa e irriverente Il senso complessivo di questa sorridente e gustosa novella sta tutto nelle
conclusioni cui è costretta a giungere la badessa, scopertasi l’ipocrisia del suo ampio e mi-
naccioso sermone e la vacuità del suo moralismo: «conchiudendo venne impossibile essere il
potersi dagli stimoli della carne difendere». Ancora una volta insomma qui Boccaccio difen-
de la propria opera narrativa, come aveva fatto con la novelletta delle papere. Non sarà il ca-
so neppure di indugiare sul trattamento, scherzoso e irriverente, del tema della corruzione
degli ordini religiosi: non è con spirito moralistico, né con tono di virulenta polemica che
qui Boccaccio lo affronta. Caso mai, se c’è un obiettivo polemico, esso è costituito piuttosto
dall’ipocrisia della badessa e dall’invidia delle monache (il vero movente della loro delazio-
ne, come Boccaccio lascia intuire nel finale) più che non dal loro precedere o seguire Isa-
betta sulla cattiva strada dei peccati della carne. Il punto di vista del Boccaccio su questo te-
ma ha infatti più spesso riflessi liberatori che censori, anche nei confronti dei religiosi.
I tempi e il ritmo della novella Piuttosto saranno da sottolineare il ritmo per lo più veloce e serrato della novel-
la, il realismo della rappresentazione, e alcuni motivi particolari. La novella è scandita da un
calibrato alternarsi di eventi incalzanti e di lievi indugi che creano una sospensione ora va-
gamente drammatica ora decisamente umoristica. Fulmineo ad esempio è l’innamoramento
di Isabetta e del giovane che la scorge dietro la grata. Tutta la dinamica psicologica è con-
densata in un gioco di sguardi e in rapidissimi tratti, dopo di che si passa al puro desiderio.
Tra il primo incontro e i convegni notturni passa un notevole lasso di tempo, condensato
però in una semplice ellissi («questo amore un gran tempo senza frutto sostennero… Ultima-
mente…»). Anche il reciproco appagamento dei sensi è risolto allo stesso modo («non una
volta ma molte… Ma continuandosi questo»). Più dettagliata è invece la pagina dedicata alla
scoperta della relazione da parte delle consorelle di Isabetta, alle loro macchinazioni e ai lo-
ro appostamenti, che ne descrive le esitazioni, i conciliaboli, lo zelo mosso forse solo dal-
l’invidia. Questo lieve rallentamento ha la funzione di creare un po’ di suspense nel lettore.
La concitata notte dell’imbroglio In modo di nuovo serrato, con minimi indugi solo su dettagli realistici e
umoristici, si sviluppa l’episodio successivo, la notte dell’imbroglio, che costituisce il nucleo
narrativo della novella: l’incontro proibito della badessa, il suo rivestirsi in fretta e furia, l’ir-
ruzione delle monache alla sua porta, la successiva irruzione di tutto il convento nella stan-
za di Isabetta, la stupita sorpresa dei due giovani amanti, tutto è narrato con ritmo incal-
zante, tutto è contrappuntato da gustose e misurate note descrittive: il prete introdotto nel
convento in una cassa; lo scambio «al buio» da parte della badessa del saltero con le brache,
all’arrivo delle monache; il suo riserrarsi «prestamente» l’uscio alle spalle lasciando la cella; la
frase minacciosa e concitata della badessa nel tragitto verso la cella di Isabetta; ecc.
La scena del capitolo Il ritmo si attenua di nuovo e più nettamente nella scena del capitolo: Boccaccio, pur sen-
za riferirlo, indugia nel descrivere il discorso della badessa, la scoperta liberatoria di Isabetta
(quando finalmente alza lo sguardo e vede gli usulieri pendere dal capo della sua accusatrice),
le battute di dialogo e l’imprevista conclusione della requisitoria. Questo passo prende al-
l’incirca lo stesso spazio degli eventi precedenti. Non si tratta però di una dilatazione asso-
luta del tempo narrativo: ci muoviamo sempre all’interno di una narrazione sintetica, ma se
Boccaccio avesse tenuto lo stesso ritmo con cui ha narrato la scena precedente l’avrebbe ri-
solta in tre righe. Il fatto è che alla concitazione densa di eventi si è sostituita una situazione
più tranquilla e rituale e la relativa lentezza con cui la narra ha la funzione da un lato di
porre enfasi sull’ipocrisia della badessa, che sentendosi ormai al sicuro indugia in una reto-
rica ampia e oziosa («multiplicando pur la badessa in novelle»), e dall’altro di creare una su-
spense umoristica: il lettore è ormai in possesso di tutti gli elementi per capire come si con-
cluderà la novella, non dubita più della sorte di Isabetta, ma Boccaccio vuole che egli im-
pieghi il tempo di una pagina per scoprirne i dettagli, facendogli assaporare con calma la
doppia opposta metamorfosi dello stato d’animo di Isabetta e della badessa.
Lo svelamento: un gioco di sguardi Al fulmineo gioco di sguardi fra Isabetta e il giovane, che aveva aperto la
narrazione, si contrappone infatti il lento intrecciarsi di sguardi che la conclude: lo sguardo
di Isabetta che si alza da terra, e poi con rinnovata baldanza si figge negli occhi della bades-

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13. Giovanni Boccaccio T 13.12

sa; gli sguardi delle monache che si alzano anche loro da terra (anch’esse, che hanno comin-
ciato a provar compassione per la consorella, si sentono un po’ in colpa) e lo rivolgono alla
badessa; quello infine della badessa che – inquisitorio e minaccioso – prima è posato su Isa-
betta, poi – stupito, sorpreso e imbarazzato – si volge alle monache e quindi a se stessa e al-
le brache che ha in capo, riflettendosi negli sguardi delle monache, che possiamo solo im-
maginare stupiti, preoccupati e forse ironici. Lo svelamento dell’ipocrisia della badessa, nar-
rato con questo relativo indugio, è poi sintetizzato in due frasi che sottolineano conclusiva-
mente il motivo del vedere e dello svelare («avvedutasi del suo medesimo fallo e vedendo che
da tutte veduto era né aveva ricoperta») che tanta parte ha in questa novella, in cui Boccaccio
induce il lettore a sbirciare – diciamo così – nel separato mondo di un monastero svelando-
ne maliziosamente i comici e drammatici segreti.

Doc 13.4 Jacopo da Varagine, Leggenda di Santa Margherita

Di tutt’altro tono e tenore rispetto alla novella del Boccaccio è la narrazione edificante ed
esemplare della vita di Santa Margherita fatta da Jacopo da Varagine, che costituisce un ante-
cedente e una probabile fonte del Boccaccio per il tema del peccato carnale all’interno di un
monastero. Qui si tratta però di un’accusa ingiusta rivolta a una giovane donna casta e santa,
che si era rifugiata in un monastero proprio per tutelare la propria verginità, fuggendo dalla
casa dello sposo la notte delle nozze.
Jacopo da Varagine,
Legenda aurea, trad. di Margherita era una fanciulla bellissima, ricca e nobile; era stata allevata dai genitori in un
C. Lisi, Libreria Edi- tale amore dei buoni costumi e del pudore che cercava di sfuggire, in ogni modo, agli
trice Fiorentina, 1985, sguardi degli uomini. Infine fu chiesta in isposa da un giovane nobile e con il consenso di
pp. 690-691
entrambe le famiglie vennero preparate sfarzosissime feste per le nozze. Quando fu giunto
il giorno stabilito, mentre tutta la gioventù e la nobiltà celebrava l’avvenimento, la fanciul-
la, ispirata da Dio, si prostrò a terra e fra le lacrime cominciò a considerare quali lordure
fossero le gioie di questa vita in confronto al danno irreparabile della perdita della vergi-
nità. Perciò, giunta la notte, si rifiutò all’amplesso del marito e approfittando del sonno di
lui, si tagliò i capelli, si vestì da uomo e fuggì.
Dopo aver molto camminato giunse ad un convento dove rivestì l’abito religioso pren-
dendo il nome di frate Pelagio. Tanta fu la santità in cui visse che, per ordine dell’abate e
per deliberazione dei frati dovette assumere l’incarico di divenire superiore in un conven-
to di monache. Poiché la beata Margherita adempiva tale compito con la più assidua cura,
il diavolo geloso di tanta virtù pensò a un mezzo per perderla. Indusse una religiosa del
convento a cadere nel peccato carnale e quando la disgraziata fu costretta dalla grossezza
del ventre a confessare la propria colpa, tutte le monache e i frati, costernati, si trovarono
costretti a considerare colpevole frate Pelagio poiché era l’unico uomo che le frequentas-
se. Allora con ignominia lo cacciarono fuori del convento e lo chiusero in una spelonca;
poi dettero l’incarico al più severo fra i monaci di portargli ogni tanto un po’ di pane e ac-
qua. La santa fanciulla non perse nella terribile prova la serenità dello spirito ma continua-
mente innalzava lodi al Signore e si confortava con l’esempio dei santi. Infine quando si
sentì vicina a morire, scrisse all’abate e ai monaci del convento: «Nata da nobile famiglia,
mi chiamai nel mondo Margherita; ho preso il nome di Pelagio, perché ho dovuto attra-
versare il pelago delle tentazioni. Ora chiedo di essere sepolta dalle mie sante consorelle
poiché riconoscano una vergine in colui che chiamarono adultero».
Dopo aver letto tale lettera le monache e i frati corsero alla spelonca e le sante religiose
trovarono che il monaco Pelagio altro non era che un’intatta vergine: allora con ogni ono-
re la seppellirono nel convento e fecero penitenza per l’errore commesso.

Laboratorio 1 Metti a confronto la novella di Boccaccio vi invece ciò che li differenzia: scopo, to-
COMPRENSIONE con l’esempio di Jacopo da Varagine. In- no, temi ed eventualmente qualche aspet-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE dividua e analizza gli elementi narrativi to formale.
che ti paiono comuni ai due testi. Descri-

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Duecento e Trecento

T 13.13 Il Decameron 1349-1351


La Lisa e re Piero (X, 7)
G. Boccaccio Nella decima e ultima giornata del Decameron il re della brigata, Panfilo, impone di nar-
Il Decameron rare di «chi liberalmente o vero magnificamente alcuna cosa operasse intorno a’ fatti d’a-
a c. di V. Branca,
Einaudi, Torino 1984 more o d’altra cosa». Dopo molte giornate in cui avevano dominato le beffe, le astuzie,
un realismo talora crudo e, sovente, i toni comici, il libro si chiude con dieci novelle tut-
te ispirate alla celebrazione della nobiltà d’animo, della generosità, della cortesia. Si ha
l’impressione di trascorrere improvvisamente dal mondo reale, agitato anche da torbide
passioni, in una sfera ideale in cui trovano posto solo i sentimenti più alti e puri.
La settima novella, narrata da Pampinea, ha per protagonisti una giovane borghese
saggia e discreta, perdutamente innamorata, e un re magnanimo e sensibile…

Il re Piero1, sentito il fervente amore portatogli dalla Lisa inferma, le conforta, e appresso
ad un gentil giovane la marita, e lei nella fronte baciata, sempre poi si dice suo cavaliere.

[…] Nel tempo che i franceschi di Cicilia furon cacciati, era in Palermo un no-
1 Il re Piero: Pietro d’A- stro fiorentino speziale2, chiamato Bernardo Puccini, ricchissimo uomo, il quale 5
ragona, che resse la Sicilia d’una sua donna, senza più, aveva3 una figliuola bellissima e già da marito. E es-
dal 1282 al 1285, in seguito
all’insurrezione dei Vespri sendo il re Pietro di Raona4 signor della isola divenuto, faceva in Palermo mara-
siciliani, che cacciò gli an- vigliosa festa co’ suoi baroni; nella qual festa, armeggiando egli alla catalana5, av-
gioini dall’isola (ad essa si
allude all’inizio della no- venne che la figliuola di Bernardo, il cui nome era Lisa, da una finestra dove ella
vella). era con altre donne, il vide correndo egli6 e sì maravigliosamente7 le piacque, che 10
2 speziale: commer- una volta e altra poi riguardandolo di lui ferventemente s’innamorò.
ciante di spezie.
3 senza più, aveva: aveva E cessata la festa e ella in casa del padre standosi, a niun’altra cosa poteva pensa-
soltanto. re se non a questo suo magnifico e alto8 amore; e quello che intorno a ciò più
4 di Raona: d’Aragona.
5 armeggiando alla ca- l’offendeva9 era il cognoscimento della sua infima condizione, il quale niuna spe-
talana: portando le armi, in ranza appena le lasciava pigliare di lieto fine10: ma non per tanto da amare il re in- 15
un torneo,secondo l’uso ca-
talano. dietro si voleva tirare e per paura di maggior noia a manifestar non l’ardiva11. Il re
6 correndo egli: mentre di questa cosa non s’era accorto né si curava: di che ella, oltre a quello che si po-
cavalcava, solito costrutto al
gerundio con soggetto di- tesse estimare, portava intollerabile dolore. Per la qual cosa avvenne che, crescen-
verso da quello della reg- do in lei amor continuamente e una malinconia sopr’altra agiugnendosi12, la bel-
gente, modellato sull’ablati- la giovane più non potendo infermò13, e evidentemente di giorno in giorno co- 20
vo assoluto latino.
7 maravigliosamente: me la neve al sole si consumava. Il padre di lei e la madre, dolorosi di questo acci-
intensamente, con un’in- dente, con conforti continui e con medici e con medicine in ciò che si poteva
tensità tale da suscitare me-
raviglia; ma la scelta del ter- l’atavano14; ma niente era15, per ciò che ella, sì come del suo amore disperata, ave-
mine (nobile e ricercato,co- va eletto16 di più non volere vivere.
me il successivo ferventemen-
te) ci introduce all’atmosfera Ora avvenne che, offerendole il padre di lei ogni suo piacere17, le venne in pen- 25
nobilmente cortese della siero, se acconciamente potesse, di volere il suo amore e il suo proponimento, pri-
novella.
8 magnifico e alto: «gli ma che morisse, fare al re sentire; e per ciò un dì il pregò che egli le facesse venire
aggettivi sonanti sottolinea- Minuccio d’Arezzo. Era in que’ tempi Minuccio tenuto un finissimo cantatore e
no questo amore fatto di pa- sonatore e volentieri dal re Pietro veduto, il quale Bernardo avvisò che la Lisa vo-
tetica ammirazione» (Bran-
ca). lesse per udirlo alquanto e sonare e cantare18: per che fattogliele dire, egli, che pia- 30
9 l’offendeva: l’addolo-
cevole19 uomo era, incontanente20 a lei venne e, poi che alquanto con amorevoli
rava.
10 niuna… fine: non le parole confortata l’ebbe, con una sua viuola dolcemente sonò alcuna stampita21 e
lasciava neppure una spe- cantò appresso alcuna canzone, le quali allo amor della giovane erano fuoco e
ranza di poterlo portare a
lieto fine. fiamma, là dove egli la credea consolare.
11 per paura… l’ardiva:e
non ardiva manifestarlo per
paura di averne maggior 13 più… infermò: non nulla le giovava. 18 il quale… cantare: il 19 piacevole: cortese.
dolore. potendo più tollerarle, si 16 aveva eletto: aveva de- padre credette che Lisa 20 incontanente: subito.
12 una malinconia… ammalò. ciso. chiedesse di Minuccio (il 21 stampita: un tipo di
17 ogni suo piacere: qua-
agiugnendosi: aggiungen- 14 l’atavano: l’aiutavano. quale) per sentirlo suonare e canzonetta su tema amoro-
dosi afflizione ad afflizione. 15 ma niente era: ma lunque cosa ella desiderasse. cantare. so (dal prov. estampida).

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13. Giovanni Boccaccio T 13.13

22 io… guardatore: io ho Appresso questo disse la giovane che a lui solo alquante parole voleva dire; per 35
scelto te come fidatissimo che partitosi ciascun altro, ella gli disse: «Minuccio, io ho eletto te per fidissimo
custode.
23 della sua essaltazione: guardatore22 d’un mio segreto, sperando primieramente che tu quello a niuna
per la sua ascesa al trono. persona, se non a colui che io ti dirò, debbi manifestar gia mai, e appresso che in
24 mel… veduto: mi ca-
pitò di vederlo (mel venne ve- quello che per te si possa tu mi debbi aiutare: così ti priego. Dei adunque sapere,
duto) in un momento fatale Minuccio mio, che il giorno che il nostro signore re Pietro fece la gran festa del- 40
(in sì forte punto) mentre ga-
reggiava in armi (armeggian- la sua essaltazione23, mel venne, armeggiando egli, in sì forte punto veduto24, che
do egli). dello amor di lui mi s’accese un fuoco nell’anima che al partito m’ha recata che
25 che… vedi: che mi ha
portato nelle condizioni in tu mi vedi25; e conoscendo io quanto male il mio amore a un re si convenga e
cui tu mi vedi ora. non potendolo non che cacciare ma diminuire e egli essendomi oltre modo gra-
26 comportare: soppor-
tare.
ve a comportare26, ho per minor doglia eletto di voler morire27; e così farò. È il 45
27 ho… morire: come vero che io fieramente n’andrei sconsolata28, se prima egli nol sapesse; e non sap-
male minore ho scelto di piendo per cui29 potergli questa mia disposizion30 fargli sentire più acconciamen-
morire.
28 È… sconsolata: è vero te che per te, a te commettere31 la voglio e priegoti che non rifiuti di farlo; e
però che io morirei (n’an- quando fatto l’avrai, assapere mel facci32, acciò che io consolata morendo mi svi-
drei, me ne andrei) profon-
damente infelice. luppi33 da queste pene»; e questo detto piagnendo si tacque. 50
29 per cui: attraverso chi, Maravigliossi Minuccio dell’altezza dello animo di costei e del suo fiero propo-
per mezzo di chi. nimento e increbbenegli forte; e subitamente nello animo corsogli34 come one-
30 disposizion: cioè, al
tempo stesso, il suo amore e stamente la poteva servire, le disse: «Lisa, io t’obligo la mia fede35, della quale vivi
la sua decisione di morire. sicura che mai ingannata non ti troverrai; e appresso commendandoti di sì alta
31 commettere: affidare.
32 assapere mel facci: (ti impresa, come è aver l’animo posto a così gran re36, t’offero il mio aiuto, col qua- 55
prego) che tu me lo faccia le io spero, dove tu confortar ti vogli37, sì adoperare, che38 avanti che passi il terzo
sapere.
33 sviluppi: liberi, sciol- giorno ti credo recar novelle che sommamente ti saran care; e per non perder
ga. tempo, voglio andare a cominciare». La Lisa, di ciò da capo pregatol molto e pro-
34 nello animo corsogli:
venutogli in mente. messogli di confortarsi, disse che s’andasse con Dio.
35 io… fede: «ti impegno Minuccio partitosi, ritrovò un Mico da Siena, assai buon dicitore in rima39 a 60
la mia parola, il mio onore» quei tempi, e con prieghi lo strinse40 a far la canzonetta che segue:
(Branca); cioè, ti prometto
lealtà e discrezione. L’offerta
d’aiuto è formulata più Muoviti, Amore, e vattene a Messere41,
avanti.
36 appresso… re: e poi, e contagli le pene ch’io sostegno;
lodatati per una così eletta digli ch’a morte vegno, 65
impresa qual è aver conce-
pito amore per un re tanto celando per temenza il mio volere42.
nobile… Merzede, Amore, a man giunte ti chiamo43,
37 dove… vogli: purché
tu ne abbia conforto, «a pat-
ch’a Messer vadi44 là dove dimora.
to che stia di buon animo» Dì che sovente lui disio e amo,
(Branca). sì dolcemente lo cor m’innamora; 70
38 sì adoperare che: agire
così che, fare in modo che. e per lo foco ond’io tutta m’infiamo
39 Mico… rima: Mico da
temo morire, e già non saccio l’ora
Siena ottimo verseggiatore,
poeta. Non risulta nessun ch’i’ parta da sì grave pena dura45,
poeta con questo nome; an- la qual sostegno per lui46 disiando,
che perciò si è propensi a
credere che i versi che se- temendo e vergognando: 75
guono siano stati composti deh! il mal mio, per Dio, fagli assapere.
dal Boccaccio stesso. Poi che di lui, Amor, fu’ innamorata,
40 lo strinse: lo indusse, lo
convinse. non mi donasti ardir quanto temenza
41 vattene a Messere: vai
che io potessi sola una fiata
dal mio signore. Messere è
l’equivalente maschile di lo mio voler dimostrare in parvenza47 80
madonna, in un appello al-
l’Amore che si immagina lando per timore (temenza) 44 c’ha… vadi: affinché 46 per lui: per suo amore. di svelare (dimostrare in par-
formulato da una donna. il mio sentimento,il mio de- tu vada dal mio signore. 47 non… parvenza: non venza, manifestare visibil-
Qui casualmente messere è, siderio. 45 e già… dura: e già non mi ha dato tanto coraggio – mente) il mio animo.
oltre che signore del cuore, 43 Merzede… chiamo: a
vedo l’ora di liberarmi da quanto invece mi hai dato
anche un sovrano. mani giunte invoco la tua una sofferenza così aspra e paura – da consentirmi an-
42 celando… volere: ce- pietà. terribile. che solo una volta (una fiata)

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Duecento e Trecento

48 gravenza: sofferenza a quegli che mi tien tanto affannata;


(provenzalismo). così morendo, il morir m’è gravenza48!
49 non… spiacenza: non
gli farebbe dispiacere. Forse che non gli saria spiacenza49,
50 s’a me… sapere: qua-
se el sapesse quanta pena i’ sento,
lora egli mi desse l’ardire di
fargli sapere la mia condi- s’a me dato ardimento 85
zione.
51 sicuranza: sicurezza.
avesse in fargli mio stato sapere50.
52 far savessi: facessi sa- Poi che ’n piacere non ti fu, Amore,
pere. Errore d’autore per la ch’a me donassi tanta sicuranza51,
Ageno; a meno che non si
sottintenda un ‘noto’ o simi- ch’a Messer far savessi52 lo mio core,
li: sapessi far noto, palese, lasso, per messo mai o per sembianza53, 90
cioè fossi in grado di far sa- mercé ti chero54, dolce mio signore,
pere.
53 per… sembianza: at- che vadi a lui e donagli membranza55
traverso un intermediario o del giorno ch’io il vidi a scudo e lanza
di persona.
54 mercé… chero: ti con altri cavalieri arme portare56:
chiedo (chero) come grazia presilo a riguardare 95
(mercé).
55 donagli membranza: innamorata sì, che ’l mio cor pere57.
ricordagli.
56 il vidi… portare: lo vi-
di armato di scudo e lancia Le quali parole Minuccio prestamente intonò58 d’un suono soave e pietoso sì
gareggiare con altri cavalie- come la materia di quelle richiedeva, e il terzo dì se n’andò a corte, essendo an-
ri. cora il re Pietro a mangiare; dal quale gli fu detto che egli alcuna cosa cantasse 100
57 pere: perisce, muore.
58 intonò: musicò. con la sua viuola. Laonde egli cominciò sì dolcemente sonando a cantar questo
59 questo suono: questa
suono59, che quanti nella real sala n’erano parevano uomini adombrati60, sì tutti
canzonetta.
60 adombrati: attoniti stavano taciti e sospesi a ascoltare, e il re per poco61 più che gli altri. E avendo Mi-
(Momigliano), stupefatti, nuccio il suo canto fornito, il re il domandò donde questo venisse62 che mai più63
incantati (Branca).
61 per poco: quasi. non gliele pareva avere udito. 105
62 donde… venisse: da «Monsignore,» rispose Minuccio «e’non sono ancora tre giorni che le parole si
dove venisse questa canzo-
ne. fecero e ’l suono»; il quale, avendo il re domandato per cui64, rispose: «Io non l’o-
63 mai più: mai in prece- so scovrir se non a voi».
denza. Il re, disideroso d’udirlo, levate le tavole65 nella camera sel fé venire, dove Mi-
64 per cui: da chi (compl.
d’agente), ma può voler in- nuccio ordinatamente ogni cosa udita gli raccontò; di che il re fece gran festa e 110
tendere anche ‘in nome di commendò66 la giovane assa’ e disse che di sì valorosa giovane si voleva aver com-
chi’.
65 levate le tavole: alla fi- passione; e per ciò andasse da sua parte a lei e la confortasse e le dicesse che senza
ne del pranzo. fallo quel giorno in sul vespro la verrebbe a visitare.
66 commendò: lodò.
67 senza ristare: senza in- Minuccio, lietissimo di portare così piacevole novella, alla giovane senza rista-
dugi. re con la sua viuola n’andò; e con lei sola parlando ogni cosa stata raccontò e
67
115
68 della sua sanità: di un
miglioramento di salute. poi la canzon cantò con la sua viuola. Di questo fu la giovane tanto lieta e tanto
69 senza… fosse: senza contenta, che evidentemente senza alcuno indugio apparver segni grandissimi
che nessuno dei familiari sa- della sua sanità68; e con disidero, senza sapere o presummere alcun della casa che
pesse o sospettasse di che
cosa si trattasse. ciò si fosse69, cominciò ad aspettare il vespro nel quale il suo signor veder dovea. Il
70 domandò Bernardo:
re, il quale liberale e benigno signore era, avendo poi più volte pensato alle cose 120
domandò a Bernardo.
71 maravigliosamente: udite da Minuccio e conoscendo ottimamente la giovane e la sua bellezza, diven-
in modo stupefacente,«qua- ne ancora più che non era pietoso; e in su l’ora del vespro montato a cavallo, sem-
si miracolosamente» (Branca).
72 ancora: già. biante faccendo d’andare a suo diporto, pervenne là dov’era la casa dello speziale:
e quivi fatto domandare che aperto gli fosse un bellissimo giardino il quale lo
speziale avea, in quello smontò e dopo alquanto domandò Bernardo70 che fosse 125
della figliuola, se egli ancora maritata l’avesse.
Rispose Bernardo: «Monsignore, ella non è maritata, anzi è stata e ancora è for-
te malata: è il vero che da nona in qua ella è maravigliosamente71 migliorata».
Il re intese prestamente quello che questo miglioramento voleva dire e disse:
«In buona fé, danno sarebbe che ancora72 fosse tolta al mondo sì bella cosa: noi la 130
vogliamo venire a visitare».
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13. Giovanni Boccaccio T 13.13

73 come che… pur: ben- E con due compagni solamente e con Bernardo nella camera di lei poco ap-
ché… tuttavia.
74 gravissimi pesi: indica presso se n’andò e, come là entro fu, s’accostò al letto dove la giovane alquanto
in modo allusivo, perché so- sollevata con disio l’aspettava e lei per la man prese dicendo: «Madonna, che vuol
lo il re comprenda, il peso di dir questo? voi siete giovane e dovreste l’altre confortare, e voi vi lasciate aver ma- 135
un amore troppo grande per
lei. le? Noi vi vogliam pregare che vi piaccia per amor di noi di confortarvi in ma-
75 vostra… mercé: per
niera che voi siate tosto guerita».
grazia vostra.
76 coperto: allusivo. La giovane, sentendosi toccare alle mani di colui il quale ella sopra tutte le co-
77 da più… reputava: la se amava, come che ella alquanto si vergognasse, pur73 sentiva tanto piacere nell’a-
giudicava sempre più una
donna di valore. nimo quanto se stata fosse in Paradiso; e come poté gli rispose: «Signor mio, il vo- 140
78 tale uomo: cioè di un lere io le mie poche forze sottoporre a gravissimi pesi74 m’è di questa infermità
borghese.
79 umanità: «atto cortese stata cagione, dalla quale voi, vostra buona mercé75, tosto libera mi vedrete».
e pietoso» (Branca). Solo il re intendeva il coperto76 parlare della giovane e da più ogn’ora la repu-
80 qual merito: quale
premio.
tava77, e più volte seco stesso maladisse la fortuna, che di tale uomo78 l’aveva fatta
81 v’ha… impetrato: vi figliuola; e poi che alquanto fu con lei dimorato e più ancora confortatala, si 145
ha procurato un grande partì. Questa umanità79 del re fu commendata assai e in grande onor fu attribuita
onore da parte nostra.
82 con… siate: poiché allo speziale e alla figliuola; la quale tanto contenta rimase quanto altra donna di
siete in età da marito. suo amante fosse già mai; e da migliore speranza aiutata in pochi giorni guerita,
83 vostro… appellarci:
chiamarci,dichiararci vostro più bella diventò che mai fosse.
cavaliere. Ma poi che guerita fu, avendo il re con la reina diliberato qual merito80 di tan- 150
84 senza più… che: senza
volere altro che. to amore le volesse rendere, montato un dì a cavallo con molti de’ suoi baroni a
85 faccendo… re: facen- casa dello spezial se n’andò, e nel giardino entratosene fece lo spezial chiamare e
do propria, accettando la la sua figliuola: e in questo venuta la reina con molte donne e la giovane tra lor
volontà del re.
86 l’ardore… dirizzare: ricevuta, cominciarono maravigliosa festa. E dopo alquanto il re insieme con la
indirizzare il mio amore. reina chiamata la Lisa, le disse il re: «Valorosa giovane, il grande amor che portato 155
87 niuno… piacere: nes-
suno si innamora per scelta n’avete v’ha grande onore da noi impetrato81, del quale noi vogliamo che per
meditata,ma «secondo l’im- amor di noi siate contenta: e l’onore è questo, che, con ciò sia cosa che voi da ma-
pulso passionale e il richia-
mo della bellezza» (Branca). rito siate82, noi vogliamo che colui prendiate per marito che noi vi daremo, in-
88 mi disposi… mio: mi tendendo sempre, non obstante questo, vostro cavaliere appellarci83 senza più di
prefissi di condividere sem-
pre il vostro volere, di fare tanto amor voler da voi che84 un sol bascio». 160
che il vostro volere fosse an- La giovane, che di vergogna tutta era nel viso divenuta vermiglia, faccendo suo
che il mio. il piacer del re85, con bassa voce così rispose: «Signor mio, io son molto certa che,
89 e per ciò… diletto: e
perciò non solo (sono di- se egli si sapesse che io di voi innamorata mi fossi, la più della gente me ne repu-
sposta) a prendere volentieri terebbe matta, credendo forse che io a me medesima fossi uscita di mente e che
marito e a rispettare (aver ca-
ro) quello che vorrete asse- io la mia condizione e oltre a questo la vostra non conoscessi; ma come Idio sa, 165
gnarmi, che mi darà un che solo i cuori de’ mortali vede, io nell’ora che voi prima mi piaceste, conobbi
onorevole stato (che mio ono-
re e stato sarà), ma sarei lieta voi essere re e me figliuola di Bernardo speziale, e male a me convenirsi in sì alto
(mi sarebbe diletto), pensando luogo l’ardore dello animo dirizzare86. Ma sì come voi molto meglio di me cono-
di compiacervi, anche se voi
mi chiedeste di gettarmi nel scete, niuno secondo debita elezione ci s’innamora ma secondo l’appetito e il pia-
fuoco. cere87: alla qual legge più volte s’opposero le forze mie, e, più non potendo, v’a- 170
90 quanto… conviene:
quanto (poco) convenga al
mai e amo e amerò sempre. È il vero che, com’io a amore di voi mi senti’ prende-
mio stato sociale. re, così mi disposi di far sempre del vostro voler mio88; e per ciò, non che io faccia
91 senza licenzia: senza il
questo di prender volentier marito e d’aver caro quello il quale vi piacerà di do-
permesso.
92 Idio… non l’ho: Dio, narmi, che mio onore e stato sarà, ma se voi diceste che io dimorassi nel fuoco,
in nome mio, vi ringrazi e credendovi io piacere, mi sarebbe diletto89. Avere voi re per cavaliere sapete quan- 175
ricompensi, che io non pos-
so farlo (vista la mia pochez- to mi si conviene90, e per ciò più a ciò non rispondo; né il bascio che solo del
za). mio amor volete senza licenzia91 di madama la reina vi sarà conceduto. Nondi-
meno di tanta benignità verso me quanta è la vostra e quella di madama la reina
che è qui, Idio per me vi renda e grazie e merito, ché io da render non l’ho92». E
qui si tacque. 180
Alla reina piacque molto la risposta della giovane, e parvele così savia come il re
l’aveva detto. Il re fece chiamare il padre della giovane e la madre: e sentendogli
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Duecento e Trecento

93 anella: anelli. contenti di ciò che fare intendeva, si fece chiamare un giovane, il quale era genti-
94 non… di farlo: che
non rifiutava di farlo. le uomo ma povero, ch’avea nome Perdicone, e postegli certe anella93 in mano a
95 incontanente: subito. lui non recusante di farlo94 fece sposare la Lisa. 185
96 molte gioie e care: A’ quali incontanente95 il re, oltre a molte gioie e care96 che egli e la reina alla
molti e preziosi gioielli.
97 gli: a lui, a Perdicone. giovane donarono, gli97 donò Cefalù e Calatabellotta, due bonissime terre e di
98 di gran frutto: ricche
gran frutto98, dicendo: «Queste ti doniam noi per dote della donna; quello che
(per le rendite che davano).
99 servò… il convenen- noi vorremo fare a te, tu tel vedrai nel tempo avvenire»; e questo detto, rivolto al-
te: mantenne il patto, quan- la giovane disse: «Ora vogliam noi prender quel frutto che noi del vostro amore 190
to convenuto.
100 sopransegna:«contura aver dobbiamo»; e presole con amenduni le mani il capo le basciò la fronte.
o nastro o sciarpa o altro og- Perdicone e ’l padre e la madre della Lisa, e ella altressì, contenti grandissima fe-
getto simbolico che la dama
donava al cavaliere da porta- sta fecero e liete nozze; e secondo che molti affermano, il re molto bene servò al-
re sull’armatura» (Branca). la giovane il convenente99, per ciò che mentre visse sempre s’appellò suo cavalie-
101 Così… subgetti: agen-
do in questo modo dunque
re né mai in alcun fatto d’arme andò che egli altra sopransegna100 portasse che 195

si conquistano gli animi dei quella che dalla giovane mandata gli fosse.
sudditi. Così adunque operando si pigliano gli animi de’ subgetti101, dassi altrui mate-
102 le fame… acquista-
no: e si acquista fama eterna. ria di bene operare e le fame eterne s’acquistano102: alla qual cosa oggi pochi o
103 alla… ’ntelletto: a ciò niuno ha l’arco teso dello ’ntelletto103, essendo li più de’ signori divenuti crudeli
oggi pochi o nessun sovrano
rivolge il suo pensiero. e tiranni. – 200

Guida all’analisi
Struttura e ambientazione (mondo borghese / mondo cortese) La struttura della novella è molto semplice e linea-
re: si può dire che gli elementi che la costituiscono «si compongono nella misura di un trittico
insieme storico e favoloso: il romanzo dell’amore disperato della Lisa, la mediazione musicale di
Minuccio, la ricompensa cavalleresca del re Piero» (Baratto).Vi si confrontano il mondo bor-
ghese, e quello cortese: da principio il mondo borghese risulta posto in primo piano (la casa
dello speziale e la camera dove Lisa soffre), mentre quello cortese è visto e immaginato da lon-
tano (la «maravigliosa festa» e il torneo visti da Lisa dalla finestra); poi progressivamente il primo
lascia il posto al secondo, che è rappresentato direttamente dall’interno (la scena del pranzo a
corte accompagnato dal canto di Minuccio) o che occupa gli spazi del primo (le due ‘discese’
del sovrano e poi della corte tutta nella casa e soprattutto nel giardino dello speziale, che im-
provvisamente viene trasfigurato in luogo anch’esso degno di una «maravigliosa festa») fino al-
le nozze, alla piena assunzione cioè della protagonista borghese nel mondo cortese. Il mondo
della corte è avvolto in un alone nobilmente fantastico, un clima da romanzo cavalleresco, for-
se perché dipinto da un Boccaccio incline, in questa giornata programmaticamente dedicata al-
la liberalità e alla magnificenza, alla nostalgia dei suoi felici giovanili anni napoletani, ma che
certo è conforme anche all’immaginazione di Lisa stessa, disposta a fantasticare dal basso della
sua casa borghese.
Lisa, un personaggio nobilmente e dolcemente patetico Ma tutti i personaggi, e i protagonisti in particolare, si di-
spongono e si caratterizzano in modo da armonizzare con il tono celebrativo delle idealità ca-
valleresche e cortesi che caratterizza questa novella. Lisa, innanzitutto: il suo amore è nobilissi-
mo in quanto, secondo la concezione cortese dell’amore, indirizzato a un personaggio di rango
e di valore eccelsi. Amore purissimo, fervidissimo e meraviglioso il suo, ma anche disperato (al-
la lettera, ‘senza speranza’) e quindi malinconico, che non sconfina nel tragico, cui pure la vo-
lontà che Lisa ha di morire sembra volgerlo, solo per la sua estrema, audace iniziativa, la gene-
rosa mediazione di Minuccio e la regale magnanimità di re Piero. Ma, se non volge al tragico, si
mantiene a lungo nei toni di un dolce patetismo: il condursi della vicenda sul filo della dispera-
zione e della morte e il suo esito viceversa felice, la presenza stessa di un impedimento insor-
montabile, di un destino crudele, maledetto dal re medesimo, che ha fatto nascere Lisa nella ca-
sa di uno speziale invece che in una corte, costituiscono tipici ingredienti del patetico. Del resto
l’immedesimazione del lettore nella vicenda della giovane perdutamente innamorata è assicu-
rata dai suoi tratti purissimi, dalla sua nobiltà d’animo e dalla sua infelice sorte.
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Lisa però è anche realistica, saggia e discreta: conosce i limiti della propria condizione sociale
e, sia pure in un atto di disperato attaccamento alla vita (se così possiamo intendere il suo estre-
mo tentativo di far sapere al re il suo amore…), gioca benissimo la sua unica carta: affida alla
poesia (poesia cortese, esperta di situazioni consimili) e al canto del musico di corte il suo ma-
linconico e disperato amore… La poesia e il canto, che non mancheranno di fare il loro effet-
to, anche sugli astanti «adombrati» all’ascolto, ha un ruolo importante nella novella: ingredienti
emblematici del mondo cortese quale lo immaginava quello borghese, poesia e canto costitui-
scono la mediazione fascinosa e decisiva fra i due mondi, il più alto e nobile punto di contatto
(il cantore borghese ammesso, per la sua arte, a corte).
Umanità, regalità, magnanimità di re Piero D’altronde il re Piero in ogni suo atto si dimostra all’altezza delle più
nobili raffigurazioni ideali della maestà, della cortesia, della liberalità, dell’umanità e della sag-
gezza: è colpito e mosso a compassione dall’infelice passione di Lisa e dalle sue doti (la definisce
sin dall’inizio «valorosa giovane», r. 111) e subito le destina il dono di una visita che egli sa be-
ne che potrà essere guaritrice. Ma quando si reca, fingendo il semplice diporto, a dare conforto
alla giovane inferma, scopre la discrezione (il parlar coperto che lo toglie da ogni possibile im-
barazzo) e la misura di Lisa e si lamenta del suo crudele destino (è forse questo pensiero l’uni-
co momento in cui il sovrano si mostra appassionato e incrina il suo perfetto aplomb regale).
Nel successivo incontro anch’egli dimostra misura e discrezione nel parlare, forse per togliere a
sua volta la Lisa dall’imbarazzo di una pubblica dichiarazione dei motivi della sua visita. Quan-
do infine le offre il secondo duplice dono, egli le dà il massimo che poteva concedere: un ma-
rito nobile e la promessa di dichiararsi per sempre suo cavaliere, un compenso concreto, in-
somma (un titolo nobiliare cioè e l’ammissione alla vita di corte), e un generoso atto simbolico
sostitutivo dell’amore. Un atto simbolico rappresentato con grande finezza psicologica è anche
il bacio di re Piero: «le parole di re Piero hanno un tono da antico romanzo bretone, sembrano
chiedere in grazia quello che invece concedono per un sentimento di magnanimità; sono ad un
tempo auguste ed umane. E il bacio – E presole il capo con amendune le mani il capo, la baciò la fron-
te – è un gesto di paterna e nobile comprensione. In questo tratto l’ispirazione cavalleresca del-
la novella si condensa in accenti d’un’austerità epica e commovente» (Momigliano).
Idealità e realismo L’amore di Lisa è dunque premiato? Sì, ma Boccaccio immagina il premio con realismo, te-
nendo a freno fantasia e sentimentalismo. Questa di Lisa e del re Piero non è una fiaba, in cui
una Cenerentola sposa un principe azzurro: Lisa in fondo sposa non il re, amato e contemplato
a lungo, ma lo sconosciuto Perdicone, «gentile uomo ma povero», precisa il Boccaccio, che è
consapevole dei limiti della generosità dei sovrani e dei nobili. Il re sa che questo giovane, be-
neficato da cospicue donazioni e promesse, proprio perché povero non può rifiutare la propo-
sta, che un nobile di più alto rango e con più cospicue rendite avrebbe viceversa rifiutato, no-
nostante la saviezza, il fascino e la bellezza (miracolosamente riconquistata in pochi giorni) di
Lisa. Ciò che egli concede a una semplice borghese è moltissimo nella logica cortese e cavalle-
resca; nulla sarebbe se commettessimo l’errore di leggere la novella secondo i parametri della
sensibilità romantica. Anche Lisa nella sua saggezza e discrezione è consapevole dei limiti della
realtà sociale e del valore economico e simbolico dei doni ricevuti e non chiede di più. Il re
maledice la fortuna di Lisa, ma non può e non vuole violare i codici sociali e culturali del pro-
prio mondo. D’altronde non prova amore, ma ammirazione e un sentimento di paterno affetto
(forse fuori da questo contesto idealizzante, Boccaccio avrebbe potuto immaginare tutt’altra
novella…). Ci muoviamo insomma nell’ambito di una rievocazione del romanzo cavalleresco e
delle sue più pure idealità, e di un realismo ammantato di nobili ideali, non in quello della fia-
ba e del meraviglioso.

Laboratorio 1 Metti a confronto questa novella con ciale e geografica, rango sociale degli in-
COMPRENSIONE quella di Lisabetta da Messina centrata namorati, natura degli ostacoli, soluzione,
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE anch’essa sul tema dell’amore socialmente comportamento dei personaggi, linguag-
impossibile (confronta: ambientazione so- gio, registro stilistico, ecc.).

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Duecento e Trecento

VERIFICA

13.1 Un intellettuale sulle orme di Dante e Petrarca

1 Quali sono le date e le esperienze più significative della biografia di Boccaccio?


2 Metti a confronto le vicende del periodo napoletano con quelle del periodo fiorentino.
3 Descrivi il rapporto biografico e ideale di Boccaccio con Dante e Petrarca.

13.2 Lo sperimentalismo delle opere anteriori al Decameron

4 Illustra quali sono le caratteristiche complessive delle opere minori giovanili e quali sono i
principali apporti che esse danno alla storia letteraria.
5 Che cosa si intende con «letteratura filogina»?
6 Quali sono le opere del periodo napoletano e quelle del periodo fiorentino anteriore al
Decameron? Quali argomenti trattano? A quali generi appartengono? Descrivine breve-
mente alcune.

13.3 Il Decameron

7 Quando Boccaccio compone il Decameron? Illustrane sinteticamente la struttura (sintetizza


anche gli eventi della storia-cornice) e i temi delle giornate.
8 Quali sono i tratti fondamentali della poetica del Decameron? In quali parti dell’opera Boc-
caccio li delinea esplicitamente.
9 Illustra i concetti di «concezione edonistico-consolatoria della letteratura» e di «letteratura
mezzana».
10 Che cosa si intende con «eclissi dell’autore-narratore»? Che cosa essa comporta?
11 Si può parlare di realismo per il Decameron? Se no, perché? Se sì, in che senso?
12 In che modo vengono affrontati i temi etico-religiosi nel Decameron, secondo l’interpreta-
zione fornita nel profilo?
13 Illustra il concetto critico di «commedia umana» quale ti è proposto nel profilo. Se hai let-
to la scheda Interpretazioni di Boccaccio, rispondi: lo si è inteso in accezioni diverse?
14 Che cosa si intende con «latitudine narrativa» del Decameron?
15 Illustra il tema del mondo mercantile e illustra il concetto di «epopea dei mercatanti».
16 Illustra i temi dell’intelligenza e della fortuna.
17 Illustra i temi dell’amore e della donna.
18 Che ruolo ha l’individuo nel Decameron?
19 Quali sono le principali caratteristiche formali (strutturali, linguistiche, stilistiche) del De-
cameron?

13.4 L’ultima stagione: le opere umanistiche e il Corbaccio

20 Nella produzione degli ultimi anni si segnala un sostanziale mutamento di poetica: quali
nuove vie percorre Boccaccio? Quale idea della letteratura formula? In quali opere la rea-
lizza?

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VERSO
13. Giovanni Boccaccio L’ESAME

VERSO
L’ESAME

Il Decameron (VI,2)
Cisti fornaio
G. Boccaccio La novella appartiene alla sesta giornata, dove si trattano le vicende di «chi con alcuno
Il Decameron leggiadro motto, tentato, si riscosse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita
a c. di V. Branca,
Einaudi, Torino 1984 o pericolo o scorno». Il tema principale che qui viene affrontato attraverso la figura e il
comportamento di Cisti, un umile fornaio alle prese con personaggi illustri, è uno di
quelli chiave del Decameron.

Cisti fornaio con una sola parola1 fa raveder Messer Geri Spina d’una sua
trascutata 2 domanda
1 parola: battuta. – Belle donne,3 io non so da me medesima vedere che più in questo si pecchi, o la
2 trascutata: incauta. natura apparecchiando a una nobile anima un vil corpo, o la fortuna apparecchiando a
3 Belle donne: a parlare
è Pampinea.
un corpo dotato d’anima nobile vil mestiero,4 sì come in Cisti nostro cittadino e in
4 che... mestiero: quale molti ancora abbiamo potuto vedere avvenire; il qual Cisti, d’altissimo animo fornito,
sia il peggior peccato: che la la fortuna fece fornaio. E certo io maladicerei e la natura parimente e la fortuna, se io
natura a un animo nobile
assegni un corpo o un’atti- non conoscessi la natura esser discretissima5 e la fortuna aver mille occhi, come che gli
vità spregevole. sciocchi lei cieca figurino.6 Le quali io avviso che, sí come molto avvedute, fanno
5 discretissima: assai av-
veduta. quello che i mortali spesse volte fanno, li quali, incerti de’ futuri casi, per le loro
6 come che... figurino: oportunità e le loro più care cose ne’ più vili luoghi delle lor case, sì come meno so-
benché gli sciocchi (se) la
raffigurino come cieca. spetti, sepelliscono, e quindi ne’ maggior bisogni le traggono, avendole il vil luogo più
7 li quali... non avreb- sicuramente servate che la bella camera non avrebbe.7 E così le due ministre8 del
be: gli uomini ripongono le
loro cose preziose nei luo-
mondo spesso le lor cose più care nascondono sotto l’ombra dell’arti reputate più vi-
ghi più spregevoli della ca- li, acciò che di quelle alle necessità traendole9 più chiaro appaia il loro splendore. Il
sa, perché meno sospetti di che quanto in poca cosa Cisti fornaio il dichiarasse, gli occhi dello ’ntelletto rimet-
nascondere un tesoro, e lì
rimangono al sicuro più tendo a messer Geri Spina, [...] mi piace in una novelletta assai piccola dimostrarvi.10
che in una bella stanza. Dico adunque che, avendo Bonifazio papa, appo il quale messer Geri Spina fu in
8 le due ministre: la na-
tura e la fortuna. grandissimo stato,11 mandati in Firenze certi suoi nobili ambasciadori per certe sue
9 di quelle... traendole: gran bisogne,12 essendo essi in casa di messer Geri smontati, e egli con loro insieme i
portandole alla luce, rive-
landole quando è necessa- fatti del Papa trattando, avvenne che, che se ne fosse cagione,13 messer Geri con que-
rio. sti ambasciadori del Papa tutti a piè quasi ogni mattina davanti a Santa Maria Ughi14
10 in poca cosa... dimo-
strarvi: in una breve novella
passavano, dove Cisti fornaio il suo forno aveva e personalmente la sua arte esserce-
voglio dimostrarvi in quale va.15 Al quale quantunque la fortuna arte assai umile data avesse, tanto in quella gli era
circostanza (di poco conto) stata benigna, che egli n’era ricchissimo divenuto, e senza volerla mai per alcuna altra
Cisti fornaio rivelasse lo
splendore del proprio ani- abbandonare splendidissimamente vivea, avendo tra l’altre sue buone cose sempre i
mo illuminando la mente migliori vini bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero o nel contado.
di messer Geri Spina.
11 Bonifazio... stato: es- Il quale, veggendo ogni mattina davanti all’uscio suo passar messer Geri e gli amba-
sendo papa BonifacioVIII, sciadori del Papa, e essendo il caldo grande, s’avisò16 che gran cortesia sarebbe il dar
presso cui Geri godeva
somma considerazione. lor bere del suo buon vin bianco; ma avendo riguardo alla sua condizione e a quella di
12 gran bisogne: grandi messer Geri,17 non gli pareva onesta cosa il presummere18 d’invitarlo ma pensossi di
necessità; il tentativo di tener modo il quale inducesse messer Geri medesimo a invitarsi.19 E avendo un far-
metter pace fra Bianchi e
Neri (siamo nel 1300). setto bianchissimo indosso e un grembiule di bucato innanzi sempre, li quali più tosto
13 che... cagione: qua-
lunque fosse il motivo.
mugnaio che fornaio il dimostravano,20 ogni mattina in su l’ora che egli avvisava che
14 Santa Maria Ughi: messer Geri con gli ambasciadori dover21 passare si faceva davanti all’uscio suo recare
una piccola chiesa nei pres-
so di palazzo Strozzi.
15 esserceva: esercitava. considerando la differenza il presummere: l’ardi- tenere un comportamento
18 20 il dimostravano: lo fa-
16 s’avisò: pensò. di condizione sociale fra lui re. (modo) che spingesse Geri a cevano parere.
17 ma... messer Geri: e messer Geri. 19 di tener... invitarsi: di invitarsi da sé. 21 dover: dovesse.

489 © Casa Editrice Principato


Duecento e Trecento

VERSO
L’ESAME

22 un picciolo orciolet- una secchia nuova e stagnata d’acqua fresca e un picciolo orcioletto22 bolognese nuo-
to: un vaso di terracotta vo del suo buon vin bianco e due bicchieri che parevano d’ariento,23 sì eran chiari: e
piccolo piccolo.
23 d’ariento: d’argento. a seder postosi, come essi passavano, e egli, poi che una volta o due spurgato s’era,24
24 spurgato s’era: aveva
cominciava a ber sì saporitamente questo suo vino, che egli n’avrebbe fatta venir vo-
sputato. Il gesto sgradevole,
ma al tempo assai comune e glia a’ morti.
popolare (si ricordi la no- La qual cosa avendo messer Geri una e due mattine veduta, disse la terza: «Chente
vella di Ser Ciappelletto),
serve a Cisti anche per ri- è,25 Cisti? è buono?»
chiamare l’attenzione. Cisti, levato prestamente in piè, rispose: «Messer sì, ma quanto non vi potre’ io dare
25 Chente è: com’è?
26 al quale... generata: al a intendere, se voi non assaggiaste».
quale la calura (la qualità Messer Geri, al quale o la qualità o affanno più che l’usato avuto o forse il saporito
forse sottintende del tempo) bere, che a Cisti vedeva fare, sete avea generata,26 volto agli ambasciadori sorridendo
o un’insolita stanchezza o il
veder bere Cisti con tanto disse: «Signori, egli è buono27 che noi assaggiamo del vino di questo valente uomo:
gusto aveva messo sete forse che è egli tale, che noi non ce ne penteremo»; e con loro insieme se n’andò ver-
27 egli è buono: è oppor-
tuno e non disdicevole. so Cisti.
28 di presente: subito. Il quale, fatta di presente28 una bella panca venire di fuor dal forno, gli pregò che se-
29 famigliari: servitori.
30 e non aspettaste: non dessero; e alli lor famigliari,29 che già per lavare i bicchieri si facevano innanzi, disse:
crediate. «Compagni, tiratevi indietro e lasciate questo servigio fare a me, ché io so non meno
31 gran tempo davanti:
da molto tempo. ben mescere che io sappia infornare; e non aspettaste30 voi d’assaggiarne gocciola!» E
32 commendatol molto: così detto, esso stesso, lavati quatro bicchieri belli e nuovi e fatto venire un piccolo or-
molto avendolo lodato. cioletto del suo buon vino, diligentemente diede bere a messer Geri e a’ compagni, al-
33 mentre... vi stettero:
finché gli ambasciatori ri- li quali il vino parve il migliore che essi avessero gran tempo davanti31 bevuto; per che,
masero a Firenze. commendatol molto,32 mentre gli ambasciador vi stettero,33 quasi ogni mattina con
34 essendo espediti: a-
vendo portato a termine il loro insieme n’andò a ber messer Geri.
loro incarico. A’ quali, essendo espediti34 e partir dovendosi, messer Geri fece un magnifico con-
35 per niuna condizio-
ne: in nessun modo. vito, al quale invitò una parte de’ più orrevoli cittadini, e fecevi invitare Cisti, il quale
36 e di quello... mense: per niuna condizione35 andar vi volle. Impose adunque messer Geri a uno de’ suoi fa-
per offrirne mezzo bic-
chiere a ciascuno con la migliari che per un fiasco andasse del vin di Cisti e di quello un mezzo bicchier per
prima portata (prime men- uomo desse alle prime mense.36 Il famigliare, forse sdegnato perché niuna volta bere
se). aveva potuto del vino, tolse37 un gran fiasco.
37 tolse: prese.
38 raffermando: ripe- Il quale come Cisti vide, disse: «Figliuolo, messer Geri non ti manda a me».
tendo, riaffermando. Il che raffermando38 più volte il famigliare né potendo altra risposta avere, tornò a
39 che sí fo: che così fac-
cio, cioè che sono proprio messer Geri e sì gliele disse; a cui messer Geri disse: «Tornavi e digli che sì fo:39 e se
io che ti mando. egli più40 così ti risponde, domandalo a cui io ti mando».41
40 più: ancora una volta.
41 a cui io ti mando: da Il famigliare tornato disse: «Cisti, per certo messer Geri mi manda pure a te».
chi ti mando. Al quale Cisti rispose: «Per certo, figliuol, non fa».42
42 non fa: non fa così,
non ti manda a me. «Adunque,» disse il famigliare «a cui mi manda?»
43 A Arno: Cisti vuol di- Rispose Cisti: «A Arno».43
re che un fiasco così grande Il che rapportando il famigliare a messer Geri, subito gli occhi gli s’apersero dello
va riempito d’acqua, non di
un vino così pregiato. ’ntelletto e disse al famigliare: «Lasciami vedere che fiasco tu vi porti»; e vedutol disse:
44 dettagli villania: dopo
«Cisti dice vero»; e dettagli villania44 gli fece torre un fiasco convenevole.45
averlo aspramente rimpro-
verato. Il quale Cisti vedendo disse: «Ora so io bene che egli ti manda a me», e lietamente
45 convenevole: adatto, glielo impié.
di giusta dimensione.
46 soavemente: delicata- E poi quel medesimo dì fatto il botticello riempiere d’un simil vino e fattolo soa-
mente, con cura, perché nel vemente46 portare a casa di messer Geri, andò appresso, e trovatolo gli disse: «Messere,
trasporto non si alterasse.
47 a questi dí: nei giorni io non vorrei che voi credeste che il gran fiasco stamane m’avesse spaventato; ma, pa-
scorsi. rendomi che vi fosse uscito di mente ciò che io a questi dì 47 co’ miei piccoli orciolet-
ti v’ho dimostrato, cioè che questo non sia vin da famiglia, vel volli staman raccorda-
490 © Casa Editrice Principato
VERSO
13. Giovanni Boccaccio L’ESAME

re.48Ora, per ciò che io non intendo d’esservene più guardiano, tutto ve l’ho fatto ve-
nire: fatene per innanzi come vi piace».49
Messer Geri ebbe il dono di Cisti carissimo e quelle grazie gli rendé che a ciò cre-
dette si convenissero, e sempre poi per da molto l’ebbe50 e per amico. –
48 cioè che questo... sta- vitù (vin da famiglia). aveva mostrato di apprez- custode (guardiano).
man raccordare: vi ho vo- 49 non intendo... vi pia- zare il suo vino, Cisti lo 50 per... l’ebbe: lo stimò
luto ricordare che questo ce: la frase vuole dire che aveva tutto destinato a lui e uomo di molto valore.
non è vino da darsi alla ser- fin da quando messer Geri se ne è considerato solo il

Rispondi ai seguenti quesiti (o a quelli indicati dall’insegnante).

COMPRENSIONE quelle in cui Cisti e Geri non sono entrambi presenti in


1 Riassumi l’argomento della novella in un breve te- scena, ma si confrontano con i servi, e che sono tali da
sto, e scandiscila in un adeguato numero di sequenze narrative privilegiare brevissime battute di dialogo.

Suggerimenti  individua le sequenze distinguendo il 5 Analizza i personaggi e le loro relazioni: a quali


livello o la funzione del discorso e i mutamenti di tem- classi sociali appartengono e quali criteri regolano i loro rap-
po, luogo e personaggi (cornice introduttiva, circo- porti?
stanze dell’evento, eventi abituali, evento specifico Suggerimenti  Distingui tra protagonisti e comprimari;
scomponibile nelle sue diverse fasi). nota a quali personaggi sono concesse battute di dia-
2 Delinea in breve un ritratto di Cisti notandone gli logo e a quali no; quali toni e atteggiamenti hanno gli
aspetti fisici, sociali, psicologici e morali. uni nei confronti degli altri; nota infine che la stratifica-
zione sociale dei personaggi può essere analizzata in
Suggerimenti  prima di procedere sottolinea nel testo
tre distinti livelli.
le espressioni utili allo scopo e distingui tra giudizi
espliciti (le affermazioni della narratrice nella cornice 6 Individua e commenta i passi in cui Cisti dimo-
ed eventualmente nel corso della narrazione: ad es. stra consapevolezza della propria condizione sociale e del-
«nobile anima... vil corpo») e parole, pensieri o com- la propria ‘qualità individuale’. La qualità individuale di Ci-
portamenti del personaggio da cui è possibile dedurre sti annulla, attenua o lascia intatte le differenze sociali?
tratti del suo animo (ad es. «avendo riguardo alla sua Suggerimenti  Nota l’atteggiamento di Cisti sia nei ri-
condizione...»). guardi di Geri e degli ambasciatori, sia nei riguardi dei
servi.
ANALISI
7 Individua e commenta quella che può essere defi-
3 Analizza lo spazio del racconto: i luoghi e gli am- nita la battuta chiave del racconto.
bienti in cui si svolge la vicenda, quelli che vengono rappre- Suggerimenti  È una battuta fulminea, ma piena di
sentati un po’ più analiticamente e quelli che vengono solo sottintesi, che – secondo la tradizione della narrativa
evocati. Su quali dettagli si sofferma Boccaccio e perché? dei motti e delle facezie a cui puoi utilmente riferirti –
Suggerimenti  Distingui tra esterni e interni, tra luoghi risolve la situazione e illumina Geri.
in cui Cisti è presente e luoghi in cui egli è assente; no-
ta che gli ambasciatori non entrano nel forno di Cisti, CONTESTUALIZZAZIONE

che Cisti rifiuta di partecipare al convito e che quasi 8 Individua e descrivi il tema (o i temi) chiave della
tutti i pochi dettagli descrittivi sono funzionali alla ‘co- novella, riportandolo (o riportandoli) alle più generali conce-
struzione’ del protagonista. zioni di Boccaccio.
4 Analizza il tempo del racconto: la narrazione ti Suggerimenti  La principale chiave di lettura della no-
pare analitica o sintetica, il ritmo costante o variato, lento o vella è fornita da Pampinea nell’introduzione, ma le in-
serrato? A quali eventi viene concesso più spazio e perché? dicazioni che trovi lì vanno comunque analizzate e arti-
Suggerimenti  Riesamina la suddivisione in sequenze: colate: Cisti esemplifica un ideale complesso di ‘saper
noterai che alcune sono brevissime, e sono soprattutto vivere’.

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Duecento e Trecento

Sviluppi della letteratura


14 trecentesca

n Scena di matrimonio (affre-


sco nel duomo di Monza, metà
del XV secolo).

I modelli cui fanno costantemente riferimento i ri- tentativi e dall’eclettismo delle forme. Ma il fenome-
matori trecenteschi sono rappresentati dalle due no storicamente più rilevante è la diffusione della
maggiori esperienze liriche maturate tra la fine del poesia al di fuori della ristretta area regionale (es-
Duecento e i primi del Trecento, la poesia stilnovisti- senzialmente la Toscana) in cui si era sviluppata; nu-
ca e quella comico-realistica. D’altro canto, sullo merosi poeti, soprattutto veneti e umbri, assimilano il
sfondo dei notevoli cambiamenti socio-politici in atto volgare toscano (“esportato” dagli esuli politici e for-
(in particolare l’eclissarsi degli organismi di governo te del prestigio di Dante, poi di Petrarca) quale lingua
comunali a favore di quelli signorili, ma anche le crisi letteraria nazionale, declassando di fatto le lingue lo-
economiche connesse alle cicliche ondate di pesti- cali a dialetti.
lenze che si abbattono sull’Europa), si diffonde uno Tra gli imitatori dello Stilnovo si distingue Sen-
stato d’animo di smarrimento e di inquietudine cui in nuccio del Bene fiorentino, il quale, esiliato dalla sua
ambito letterario corrisponde il venir meno della città nel 1313, visse a lungo in Avignone, dove co-
compattezza e del rigore che avevano caratterizzato nobbe il Petrarca. Di Sennuccio ci resta un esile can-
la grande lirica precedente, così che l’attività poetica zoniere in cui si avverte già l’impronta della poesia
del Trecento appare segnata dalla discontinuità dei di corte: l’imitazione dantesca si stempera in un’ag-
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14. Sviluppi della letteratura trecentesca STORIA

graziata, manieristica dolcezza, che ricorda piuttosto secolo, dal Petrarca al Sacchetti, come pure nelle
(ma in senso esclusivamente formale) il Petrarca. raccolte novellistiche ispirate al modello del Deca-
Non si tratta di un caso isolato: uno dei fenomeni ca- meron. Tra i musicisti o “intonatori” il più celebre è
ratteristici del nuovo secolo, infatti, è il risolversi (e Francesco Landino da Fiesole, attivo a Firenze.
l’appiattirsi) delle suggestioni poetiche desunte dai Accanto a questa produzione rivolta a un pubblico
modelli entro uno spazio esclusivamente letterario. colto ed elegante, che ne fruiva nelle feste e nei con-
Nella poesia di ascendenza comico-realistica, in viti, non mancano testi per musica di ispirazione po-
certo modo più densa e nutrita di concrete passioni, polaresca, nelle forme metriche del rispetto e dello
appare pressoché assente una tematica esplicita- strambotto.
mente giocosa: l’attenzione è rivolta alla cronaca cit- Erede della vivace narrativa medievale, il Deca-
tadina, ai fatti di costume, a contenuti etico-civili di meron del Boccaccio si costituì rapidamente come
provenienza dantesca e guittoniana, espressi tuttavia un modello destinato a influenzare tutta la novellisti-
nei modi della tradizione comica (invettive, impiego ca successiva, anche fuori dai confini nazionali, co-
del registro parodistico e del parlato popolare) cui la me testimoniano i Racconti di Canterbury dell’ingle-
tensione ideologica conferisce un’inedita serietà. Le se Geoffrey Chaucer. In Italia le prime raccolte ispira-
personalità più notevoli sono quelle del fiorentino te al Decameron sono le Novelle di Giovanni Sercam-
Pieraccio Tedaldi, del lucchese Pietro dei Faitinelli e bi, il Pecorone di ser Giovanni fiorentino e Il Trecen-
del senese Bindo Bonichi. tonovelle di Franco Sacchetti, scrittore vario ed
Nel corso del Trecento il mondo comunale è pro- eclettico, estroso ed istintivo, cui si deve anche una
gressivamente travolto dall’affermarsi dei regimi si- cospicua produzione poetica. In assenza di una cor-
gnorili. I poeti e gli artisti convergono dunque in gran nice, le vicende del Trecentonovelle si susseguono in
numero presso le corti dei signori: le più attive cultu- modo libero, spesso casuale, con una particolare at-
ralmente sono quelle dei Visconti a Milano, degli tenzione alla cronaca del tempo ma anche alla me-
Scaligeri a Verona e dei Carraresi a Padova. Ciò non moria personale dell’autore, che tende a concludere
toglie che la maggior parte dei poeti conduca vita er- le novelle con un commento di carattere morale. Pre-
rabonda e precaria, in un rapporto non sempre felice vale, nell’insieme dei racconti, la vena comica e
con la nuova committenza. umoristica, che risalta in virtù di uno stile rapido e
Nell’età del Petrarca si diffonde, inizialmente in incisivo, di un lessico ricco di espressioni idiomati-
Francia e poi nelle corti europee, ma in particolare in che e gergali.
Italia, la corrente musicale detta Ars Nova, caratte- La riscoperta dei classici latini perduti o dimenti-
rizzata da una tecnica più complessa e virtuosistica cati, sostenuta da una nuova attività filologica, avvia
rispetto alle esperienze precedenti, idonea ad espri- infine quella nuova fase della cultura italiana ed eu-
mere le nuove esigenze di una cultura profana. Si ropea che si è soliti chiamare Umanesimo. Protago-
riannoda il legame organico tra poesia e musica, al- nista di tale movimento fu, verso la metà del Trecen-
lentatosi dopo la grande stagione dell’antica lirica to, Francesco Petrarca, che in virtù del suo prestigio
provenzale. Le forme predilette sono la ballata, il poetico e intellettuale favorì la diffusione dei nuovi
madrigale e la caccia. La produzione poetica trecen- ideali, portando a maturazione un processo già av-
tesca per musica è assai cospicua: se anche vi furo- viato sin dalla fine del secolo precedente nei grandi
n Scene di vita cittadina da un no poeti “specializzati” in questo genere, testi poetici centri culturali dell’Italia centrale e settentrionale.
codice della metà del 1300. per musica si trovano in quasi tutti i canzonieri del

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Duecento e Trecento

14.1 La lirica dopo Dante e Petrarca


La poesia del Trecento Le due grandi esperienze liriche maturate tra la fine del Duecento e gli inizi
del Trecento, la poesia stilnovista e la poesia comico-realistica, non si esaurirono con la
morte dei protagonisti: rappresentarono anzi dei modelli cui fece costantemente rife-
rimento una folta schiera di rimatori trecenteschi, non solo toscani. I cambiamenti so-
cio-politici in atto, e in particolare l’eclissarsi degli organismi comunali a favore di
quelli signorili; la crisi delle istituzioni universalistiche, l’Impero e la Chiesa; le crisi
economiche, causate anche dall’onda delle pestilenze che ciclicamente si abbatterono
sull’Europa a cominciare dalla metà del secolo, crearono tuttavia una sorta di smarri-
mento delle coscienze e di sotterranea irrequietezza. In ambito letterario, alla compat-
tezza e al rigore delle esperienze liriche del Duecento, fondate sul tema centrale del-
l’amore, fece seguito una cultura poetica segnata dalla discontinuità dei tentativi e dal-
l’eclettismo delle forme.
Diffusione della poesia toscana oltre i confini regionali Fu la diffusione della poesia fuori dalla ri-
stretta area regionale in cui si era sviluppata, a rappresentare il fenomeno più rilevante
del secolo: molti furono infatti i poeti, specialmente di area veneta ed umbra, che assi-
milarono il toscano come lingua letteraria nazionale, declassando di fatto le lingue lo-
cali a dialetti. A promuovere tale diffusione furono al principio le forzate peregrina-
zioni dei poeti espulsi per ragioni politiche dalle loro città (si pensi, per limitarsi all’e-
sempio più illustre, alla vicenda biografica dantesca). Tali migrazioni avevano fatto co-
noscere un’esperienza poetica raffinatissima e in costante evoluzione, favorendo dun-
que la nascita di una lingua letteraria comune. Il prestigio di Dante (soprattutto in area
veneta) e del Petrarca (figlio, come si ricorderà, di un esule fiorentino) diede ulteriore
impulso al processo in atto.

n Scena di vita cittadina, da


Effetti del buongoverno in
città di Ambrogio Lorenzetti
(Palazzo Pubblico di Siena).

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14. Sviluppi della letteratura trecentesca STORIA

Il tardo stilnovismo Nel segno di Dante e di Petrarca operano i più significativi imitatori dello Stilnovo,
fra i quali si possono ricordare le figure di Sennuccio del Bene (nato verso il 1275), di
Matteo Frescobaldi (morto nella peste del 1348, figlio dello stilnovista Dino), di Gio-
vanni Quirini (operante nei primi decenni del Trecento, ancora vivo nel 1327, autore
fra l’altro di un compianto per la morte di Dante) e di Guido Novello da Polenta, il si-
gnore di Ravenna che aveva ospitato proprio Dante negli ultimi anni di vita (R 9.1).
Fra queste personalità, la più significativa è quella di Sennuccio del Bene, fiorentino
di nascita, di parte guelfa e bianca, che partecipò intensamente alla vita politica del suo
comune: seguì le milizie dell’imperatore Arrigo VII all’assedio di Firenze; condannato
per questo all’esilio (1313), visse dal 1316 ad Avignone, presso la curia pontificia, dove
conobbe il cardinal Colonna e il Petrarca. Per intercessione del papa ottenne la revoca
del bando (1326) e rientrò a Firenze, dove morì in tarda età nel 1349. Il Petrarca lo ri-
cordò affettuosamente in diversi sonetti, piangendone la morte in versi accorati e ma-
linconici: «Sennuccio mio, benché doglioso et solo / m’abbi lasciato, i’ pur mi ri-
conforto, / perché del corpo ov’eri preso e morto / alteramente se’ levato a volo»
(CCLXXXVII, 1-4). Di Sennuccio restano solo 13 componimenti di tema amoroso,
per lo più sonetti, cui si deve aggiungere una canzone politica per la morte dell’impe-
ratore Arrigo. Se la sua formazione è quella di un poeta comunale che a vent’anni po-
teva già leggere la Vita Nuova di Dante, la sua esile produzione ha già l’impronta della
poesia di corte: la tensione metafisica si perde; il linguaggio si svuota; resta un’aura di
dolcezza e di amabilità che lo apparenta, ma in un senso esclusivamente formale, al Pe-
trarca. Si veda questo sonetto, costruito sul ricordo della donna gentile e pietosa che
anima l’ultimo scorcio della Vita Nuova:

Doc 14.1 Un sonetto di Sennuccio del Bene


D. Piccini,
Un amico del Petrarca: Sen- Era nell’ora che·lla dolce stella
nuccio del Bene e le sue ri-
me, Antenore, Padova- mostra segno del giorno a’ viandanti
Roma 2004 quando m’apparve, con umìl sembianti,
4 in visïone una gentil donzella.
Nota metrica
Sonetto ritornellato con
schema ABBA ABBA Parea dicesse in sua dolce favella:
CDC DCD e coda a ri- «Leva la testa a chi ti vien davanti
ma baciata EE. mossa a pietà de’ tuoi pietosi pianti,
1 dolce stella: Lucife- 8 piena d’amore e, come vedi, bella,
ro, la stella del mattino.
2 segno del giorno:
l’indizio dell’alba che sta
a rimettermi tutta in la tua mano;
sorgendo. to’mi per donna e lascia la tua antica,
3 con umìl sembianti: 11 prima che Morte t’uccida lontano».
in umile e pietoso atteg-
giamento.
7 pietosi: che muovo- Io, vergognando, non so ch’io mi dica,
no a pietà. ma per donzella e per paese strano
9 a rimettermi: (solle-
cita) ad affidarmi.
14 non cangio amor, né per mortal fatica.
10 la tua antica: sottin-
teso donna. Ond’ella, vergognando, volse i passi
12 Io, vergognando... e piangendo lasciò gli occhi miei bassi.
dica: vergognoso, io non
so cosa dire.
13 strano: straniero. Il
poeta è lontano dalla sua
patria e dalla donna che 14 non cangio: non cam- neppure a prezzo di un tor- 16 piangendo: piangenti
ama. bio. – né per mortal fatica: mento mortale. (riferito agli occhi del poeta).

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Duecento e Trecento

La situazione della donna tentatrice è risolta, come si vede, entro un puro scenario di
aggraziata dolcezza e di manieristica imitazione. Anche questo è un fenomeno caratteri-
stico del nuovo secolo: le esperienze della tradizione duecentesca, siano esse di ispirazio-
ne stilnovista o giocosa, sembrano appiattirsi in uno spazio esclusivamente letterario, sra-
dicate dai contesti comunali dove erano sorte e prive delle motivazioni profonde che le
avevano originate.
Poesia di modi comico-realistici Apparentemente più densa e nutrita di concrete passioni è la poesia
di modi comico-realistici. Le personalità più significative furono il fiorentino Pieraccio
Tedaldi (morto verso il 1350), il lucchese Pietro dei Faitinelli (nato intorno al 1290,
morto nel 1349) e il senese Bindo Bonichi (1260 ca-1337). In essi è pressoché assente
una tematica esplicitamente giocosa: l’attenzione è volta agli eventi della cronaca cittadi-
na, ai costumi di vita dei ceti borghesi, a contenuti etico-civili di ascendenza guittoniana
e dantesca, espressi tuttavia nei modi della tradizione comica duecentesca (frequente ri-
corso alle forme dell’invettiva e del vituperium; uso di registri parodistici e antifrastici,
predilezione per un vocabolario di fondo parlato e popolare). Così, «i modi espressivi del
repertorio comico, isolati dalla materia convenzionale, strettamente giocosa, si dispongo-
no in un dettato che la tensione ideologica rinnova intimamente, conferendogli una di-
gnità nuova, un’imprevista serietà di accenti» (Tartaro). Non a caso questi poeti vivono la
loro esperienza in un ambito sociale che è ancora quello del Comune, all’interno del
quale assumono ruoli politici talora significativi: Bindo Bonichi fu membro del Consi-
glio generale, console della mercanzia e magistrato dei Nove, la più alta carica di Siena;
Pietro de’ Faitinelli, guelfo di parte nera originario di una nobile famiglia lucchese, fu
notaio e pubblico ufficiale della Curia cittadina; Pieraccio Tedaldi partecipò alla battaglia
di Montecatini (1315), dove cadde prigioniero dell’esercito pisano.
Poesia di corte Con l’eccezione di Firenze, nel corso del Trecento il mondo comunale è progressiva-
mente travolto dall’affermarsi di piccoli e grandi signori, presso i quali convergono gran
parte dei poeti e degli artisti. Le corti culturalmente più attive furono quelle dei Viscon-
ti a Milano, degli Scaligeri a Verona e dei Carraresi a Padova. Il rapporto con la commit-
tenza non fu sempre felice: la maggior parte dei poeti condusse una vita errabonda e
precaria, di cui sono testimonianza le loro stesse composizioni.
Emblematico è il destino di Fazio degli Uberti, discendente dell’illustre famiglia ghi-
bellina di cui avevano parlato poeti come Guittone [R T 6.5 ] e Dante (If X). Nato a Pisa
(a causa del bando perpetuo cui la famiglia era stata condannata nel 1267) fra il 1305 e il
1309, Fazio dovette adattarsi a vivere nelle grandi corti del Nord, in particolare presso gli
Scaligeri di Verona, i Visconti di Milano e Giovanni d’Oleggio, signore di Bologna. Nel-
le canzoni di tema politico e morale, come quelle sulla Fortuna (Lasso!, che quando im-
maginando vegno) e sulla decadenza di Firenze (O sommo bene, o glorioso Iddio), emerge il
senso di umiliazione e di angoscia che dovette colpire le generazioni trecentesche su cui
pesava il ricordo delle grandi battaglie comunali ormai estinte. Si legga il congedo della
canzone su Fortuna e Povertà: «Canzon, non so pensare a cui ti scriva, / ché non trovo
che viva / nel mondo disperato com’io sono: / e però t’abbandono / e vanne pur do-
vunque più ti piace, / che certa se’ ch’io non avrò mai pace». Senza esagerare la portata
autobiografica di queste liriche, che sono per lo più impostate sui consueti schemi topi-
ci e retorici, colpisce il senso di smarrimento e di vuoto che attraversa l’intera produzio-
ne lirica trecentesca: temi tradizionali come quelli della Fortuna e della Povertà sono ora
ripresi in una prospettiva autobiografica e affannosa, privati di quella vitalità e di quell’e-
nergia, anche espressiva, che aveva caratterizzato la grande esperienza della poesia goliar-
dica e comico-realistica del XII e XIII secolo (R 8.).
Poesia per musica Parallelamente alla poesia del Petrarca e alla pittura di Simone Martini, si diffonde,
inizialmente in Francia, poi nelle corti europee, e in particolare in Italia, l’esperienza
musicale detta «Ars Nova». In polemica con i predecessori, i teorici della nuova musi-
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14. Sviluppi della letteratura trecentesca STORIA

ca adottano una tecnica più complessa e articolata, che meglio si presta a interpretare
le nuove esigenze di una cultura profana. Spesso queste nuove espressioni musicali fu-
rono utilizzate nell’ambito di feste e di conviti, riannodando quel legame fra poesia e
musica che, sebbene non si fosse mai interrotto, si era però indebolito dopo la grande
esperienza dell’antica lirica provenzale. Le forme musicali più coltivate furono la bal-
lata, il madrigale e la caccia (un procedimento contrappuntistico, quest’ultimo, in cui
una voce sola intona la melodia ed è “inseguita”, a intervalli regolari, da altre voci che,
appunto, le danno la caccia). I testi delle cacce, per la suggestione esercitata dal termi-
ne, descrivono sovente animate scene a carattere venatorio. Nel vasto e ricco panora-
ma della produzione poetica per musica, spesso anonima, si segnalano le figure di
Niccolò Soldanieri (attivo fra il 1350 e il 1370) e di Alesso di Guido Donati. Ma testi
poetici per musica si trovano in quasi tutti i canzonieri del secolo, a cominciare da
quelli del Petrarca o del Sacchetti, o nei testi novellistici che si rifanno al modello del
Boccaccio: nel Decameron, come si ricorderà, ogni giornata si concludeva con una
canzone a ballo.Va anche detto che nei maggiori codici musicali trecenteschi e quat-
trocenteschi il nome dei rimatori è spesso taciuto, mentre è invece indicato quello dei
musicisti o «intonatori», fra i quali i più noti nel Trecento furono Giovanni da Cascia,
Iacopo da Bologna, Vincenzo da Rimini, Niccolò da Perugia, Ghirardello da Firenze
e, soprattutto, Francesco Landino.
Nato a Fiesole nel 1325, cieco fin quasi dalla nascita, organista della Basilica di San
Lorenzo, Francesco Landino (detto anche Francesco degli Organi o Cieco degli Or-
gani) fu uno dei massimi esponenti del rinnovamento musicale e poetico fiorentino.
Nel 1364 fu incoronato poeta a Venezia dal re di Cipro. Morì a Firenze nel 1397.
Virtuoso di vari strumenti, alcuni dei quali da lui inventati o rielaborati, e in par-
ticolare dell’organo portativo (detto anche organetto, è un organo di piccole dimen-
sioni, diffuso fra XIII e XV secolo in Europa, per musiche sacre e profane), Landino
fu anche un celebre improvvisatore, un teorico musicale, uno studioso di arti libera-
li e di filosofia, poeta e narratore, una figura, insomma, che ben possiamo inserire nel
clima preumanistico della città rievocato anche nel Paradiso degli Alberti di Giovanni
Gherardi da Prato. Della sua produzione musicale sono pervenute 141 ballate più 1
caccia, 12 madrigali, parte di 1 mottetto, 1 virelai (una forma poetico-musicale pro-
veniente dalla Francia); in alcuni casi a Francesco si devono anche i componimenti
poetici. I versi sono realizzati in funzione della musica e del canto: saranno poi le vo-
ci a dare accento e scansione ritmica ai versi, amplificandone polifonicamente l’irra-
diazione. Il testo conserva tuttavia una sua suggestiva autonomia poetica, fondata sui
canoni dell’immediatezza espressiva e della grazia evocativa, come si può osservare
nella seguente ballata:

Doc 14.2 Francesco Landino, Ecco la primavera

Nota metrica Ecco la primavera 8 ogni cosa ha vaghezza;


Ballata di settenari se- che ’l cor fa rallegrare: l’erbe con gran freschezza
condo lo schema xyyx
(ripresa) abab (fronte) tempo è d’innamorare e’ fior coprono i prati
bccx (sirma). 4 e star con lieta cera. e gli alberi adornati
12 sono in simil manera.
No’ veggiam l’aria e ’l tempo
4 cera: volto.
che pur chiam’allegrezza; Ecco la primavera...
6 che pur chiam’alle- in questo vago tempo
grezza: che di nuovo, co-
me sempre (pur), richia- (sogg.l’aria e ’l tempo prima- 7 vago: amabile, leggia- successivo. stesso modo,cioè rivestiti di
mano, suscitano allegrezza verili). dro; così vaghezza nel verso 12 in simil manera: allo fiori.

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Duecento e Trecento

Se questa produzione, particolarmente diffusa alle corti dei Visconti e degli Scalige-
ri, nonché nei palazzi fiorentini, era rivolta a un pubblico colto ed elegante, non
mancò una produzione di testi per musica di ispirazione popolaresca indirizzata a un
pubblico medio-basso: entro questo ambito espressivo, le forme più coltivate furono le
ballate, gli strambotti (un componimento breve di tema amoroso dallo schema metri-
co vario, generalmente ABABABCC) e i rispetti (simili agli strambotti, ma con sche-
ma di rime ABABCCDD).
L’esperienza della poesia per musica, con la sua carica di immediatezza e di fre-
schezza, fruttificherà in ambiente mediceo, lasciando una vasta impronta sulla produ-
zione lirica di Lorenzo il Magnifico e del Poliziano.

14.2 La narrativa dopo Boccaccio


Il Decameron come modello Si è visto (R10.) come diverse modalità della narrativa medievale (legen-
dae, exempla, lais, fabliaux, vidas, il romanzo cortese, i racconti orientali delle Mille e una
notte) concorressero in varia misura alla creazione del genere novellistico. Con il Boc-
caccio tale percorso può dirsi compiuto: il Decameron è il primo grande esempio di te-
sto novellistico in lingua romanza, destinato a influenzare tutta la narrativa successiva e
a costituirsi come modello insuperabile. L’uso della cornice, entro la quale vanno a di-
sporsi le singole novelle, la presenza di novellatori che introducono il racconto (ac-
compagnandolo con note di commento e di contestualizzazione), il valore autonomo
della narrazione (non più incanalata a fini morali, ma fondata sul principio letterario
del diletto), l’accurata elaborazione stilistica (che sancisce la dignità del genere) sono
elementi che ritroveremo, per almeno due secoli, come una costante della grande no-
vellistica europea, da Chaucer a Margherita di Navarra.
In Italia, le prime raccolte novellistiche composte sul modello decameroniano sono:
le Novelle di Giovanni Sercambi (scritte verso la fine del secolo), Il Pecorone attribuito a
un ser Giovanni fiorentino (iniziato, secondo quanto dice l’autore, nel 1378, ma con-
tinuato fino ai primi due decenni del Quattrocento; edito per la prima volta nel 1558)
e soprattutto il Trecentonovelle di Franco Sacchetti (ideato intorno al 1385 e scritto nel-
l’ultimo decennio del secolo), di cui si parlerà più avanti (R14.3).
Le Novelle di Giovanni Sercambi Giovanni Sercambi nacque a Lucca nel 1348. Dopo aver ereditato
dal padre l’attività di speziale, si dedicò alla vita politica, ricoprendo diverse cariche
pubbliche. Alla fine del secolo sostenne le ambizioni dei Guinigi, una ricca famiglia di
mercanti e banchieri che assunse ben presto la signoria della città. Grazie al loro ap-
poggio, fu due volte gonfaloniere di giustizia (1397 e 1400) e membro a vita (dal
1407) del Consiglio privato del signore, che lo accolse nella sua corte e lo provvide di
una generosa pensione. Morì di peste nel 1424. Autore anche di testi cronachistici (le
Croniche di Lucca dal 1164 al 1423) e di argomento politico (la Nota a voi, Guinigi, ri-
volta ai signori della città), Giovanni Sercambi compose un’ampia raccolta di novelle
di cui ci sono giunte due redazioni, una di 100, la seconda di 155 novelle. Il modello
del Boccaccio è ben visibile nell’impianto dell’opera: si immagina infatti che nell’anno
1374 una brigata di giovani lucchesi abbandonino la loro città per sfuggire alla peste e
intraprendano un viaggio lungo l’Italia; le novelle vengono narrate durante le diverse
tappe del viaggio.
Il Pecorone di ser Giovanni fiorentino Nel Pecorone del misterioso ser Giovanni fiorentino (sulla cui
identità si è più volte discusso) la cornice è occupata dalla storia d’amore tra una suo-
ra, la bella e onesta Saturnina, e il giovane Auretto, che si innamora per fama (un topos
della poesia cortese) della donna, monaca a Forlì, facendosi per amore frate, e poi cap-
pellano del monastero ove lei risiede: le novelle vengono raccontate dai due giovani,
che si danno convegno in un parlatorio appartato del monastero, in 25 giorni, per un
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14. Sviluppi della letteratura trecentesca STORIA

totale di 50 novelle. Come nel Decameron, ogni giornata si chiude con una ballata in-
tonata dal giovane o dalla ragazza. Benché popolato di mercanti e tramato di vicende
avventurose e beffarde, il mondo del Pecorone (titolo dal significato ancora incerto)
tende a perdere in realismo e a sfumare nel fiabesco. La novella più nota della raccolta
è quella che Shakespeare rielaborò due secoli dopo nel Mercante di Venezia.

14.3 Franco Sacchetti


Tra gli autori minori del Trecento, spicca la figura di Franco Sacchetti, scrittore vario
ed eclettico, impegnato nell’ambito sia della poesia che della novellistica, «l’ultima vo-
ce di questo secolo», come ebbe a definirlo Francesco De Sanctis. L’estraneità alla
nuova cultura e ai nuovi ambienti umanistici che si stavano gradatamente affermando,
il ricorso esclusivo al volgare in un’epoca in cui i migliori ingegni si erano convertiti
al latino (R14.5), spiegano la scarsa fortuna di cui godette la sua opera dopo la morte.
Non a caso l’autografo del suo capolavoro, Il Trecentonovelle, ormai guasto e prossimo a
rovina, fu salvato soltanto nel Cinquecento dal filologo Vincenzo Borghini, che ne fe-
ce trarre una copia; dopo di che, per arrivare alla prima edizione a stampa della rac-
colta, si dovette attendere il 1724.
La vita Appartenente a un’antica famiglia fiorentina di parte guelfa dedita da tempo all’atti-
vità finanziaria e commerciale, Franco Sacchetti nacque poco dopo il 1330 a Ragusa,
in Dalmazia, dove il padre si trovava a quel tempo per esercitare la mercatura. Nel
1351 si iscrisse all’Arte del Cambio, viaggiando poi a lungo, come il padre, per affari.
Spirito moderato, tipico rappresentante della borghesia attiva e operosa della sua città,
dal 1363 partecipò intensamente alla vita pubblica, rivestendo diverse cariche, fra cui il
priorato (nel 1384); fu anche, in varie occasioni, impegnato in qualità di osservatore e
di ambasciatore per conto del comune fiorentino. Dissesti economici e sventure fami-
liari rattristarono l’ultima parte della sua vita: la morte della prima e della seconda mo-
glie, di un figlio e del fratello Giannozzo (giustiziato, per aver preso parte al tumulto
dei Ciompi, nel 1379); la devastazione dei suoi possedimenti causata dalle incursioni
di milizie mercenarie (nel 1397). Morì a San Miniato, probabilmente vittima della pe-
ste, nell’anno 1400.
La produzione poetica Prima di approdare alla novellistica, Sacchetti per circa quarant’anni è un
poeta ben radicato nell’ambiente della cultura fiorentina contemporanea. L’opera con
la quale esordisce nel 1353, La battaglia delle belle donne di Firenze con le vecchie, è un
poemetto in ottave (il metro dei cantari), nel quale è ripreso secondo moduli attarda-
ti un tradizionale argomento della poesia giocosa: il contrasto fra giovinezza e vec-
chiaia, amabile e leggiadra la prima quanto turpe e invidiosa la seconda.
L’opera poetica più significativa è il Libro delle Rime, un’ampia raccolta di testi or-
ganizzati secondo un criterio cronologico e caratterizzati dalla varietà delle forme
metriche e dei temi: poesie di contenuto giocoso e amoroso (soprattutto nella pri-
ma parte della vita), di ispirazione civile e morale (dopo il 1378), spesso legate ad oc-
casioni specifiche (ad esempio il compianto per la morte del Boccaccio). L’atteggia-
mento del Sacchetti è eclettico e sperimentale: i modelli della poesia guittoniana,
stilnovista o comico-realistica convivono perciò con quelli più recenti del canzonie-
re petrarchesco. Spiccano, per freschezza e originalità, i testi per musica (risalenti al
periodo 1362-1374), alcuni dei quali furono intonati, cioè musicati, dallo stesso au-
tore (R14.1). Il linguaggio poetico delle Rime, almeno nei suoi esiti più incisivi, è se-
gnato dallo stesso carattere popolaresco e idiomatico che si ritroverà nella prosa no-
vellistica: ritmo svelto e serrato, sintassi mossa e colorita, vocaboli scelti per la loro
espressività sonora e onomatopeica, talvolta, si direbbe, per il puro gusto di essere
pronunciati.
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Duecento e Trecento

Le opere in prosa Al periodo della maturità appartengono le Lettere (successive al 1378) e le severe
Sposizioni dei Vangeli, quarantanove sermoni in prosa in cui si commentano e interpre-
tano passi del Vangelo (1378-1381). Probabilmente al 1385 risale l’ideazione del Tre-
centonovelle, al quale il Sacchetti lavorò fra il 1392 e il 1397. L’opera ci è giunta mutila:
78 delle 300 novelle originarie sono andate infatti perdute; molte parti, fra cui quella
proemiale [R T 14.1 Doc 14.3 ], sono giunte in uno stato lacunoso e frammentario.
Il Trecentonovelle Rispetto al modello aureo del Decameron, Il Trecentonovelle presenta una differenza so-
stanziale: in assenza della cornice, le novelle non sono raggruppate secondo un ordine
tematico o un piano prestabilito, ma si susseguono in modo libero e a volte casuale. I
raccordi interni sono assicurati dalla voce del narratore-autore, che spesso interviene
all’inizio di una nuova novella per stabilire un legame con la precedente.
Tali raccordi sono assai esili, e spesso affidati a formule scontate del tipo: «Ancora
questa novella passata mi pigne [spinge] a doverne dire un’altra del detto poeta»
(CXV); «La novella detta di sopra mi fa ricordare d’un’altra novella d’un ricco fioren-
tino» (CXLVII); ecc. Il raccordo può anche servire a spezzare un ciclo narrativo, come,
nel caso seguente, quello dedicato al buffone Gonnella (un personaggio storicamente
esistito, che ritornerà anche nel novelliere cinquecentesco del Bandello): «Io non vo-
glio per ora raccontare più dell’opere del Gonnella, però che mi conviene dar luogo
agli altri; e ancora, perché Antonio Pucci, piacevole fiorentino, dicitore di molte cose
in rima, m’ha pregato che io il discriva qui in una sua novella» (CLXXV).
Nello schema compositivo dell’opera è anche previsto un intervento morale da par-
te del narratore al termine di ogni novella, un po’ come avveniva negli exempla me-
dievali: si veda la parte conclusiva della novella di Bernabò Visconti [R T 14.1 ]. Tali ri-
flessioni danno spesso la sensazione di essere giustapposte in modo semplicistico alla
narrazione; nondimeno il Sacchetti sa essere a volte acuto e stringente osservatore,
mostrando di sottrarsi almeno in parte al rigido schematismo delle “moralità” tradi-
zionali.
Il realismo cittadino e domestico del Trecentonovelle Il Sacchetti appartiene a quella famiglia di
scrittori estrosi e istintivi, che sembrano abbandonarsi ogni volta al flusso rapido e
vorticoso dell’azione, alla fisica sensuosità di una locuzione, alla bizzarria di un gesto,
allo scintillio di un particolare: il narratore del Trecentonovelle non è mai al di qua o
o al di là dei fatti, ma dentro di essi, come incorporato nella materia stessa che sta
trattando; è, anzi, si potrebbe dire, riga dopo riga, quella materia stessa. In assenza di
una visione del mondo complessa e unitaria, in grado di armonizzare le varie com-
ponenti del mondo reale e ideale (si pensi all’idillio agreste della cornice, nel Deca-
meron), emerge un’adesione curiosa al mondo dei fenomeni e delle figure, delineate
con pochi tratti rapidi e vivaci, spesso caricaturali. Non a caso, nel proemio dell’ope-
ra, il Sacchetti sottolinea lo stretto legame fra narratore (spesso testimone oculare se
non protagonista delle vicende) e mondo narrato, che deve essere percepito anche
dal pubblico dei lettori come un mondo vicino, quotidiano, familiare: perciò «non è
da maravigliare se la maggior parte delle dette novelle sono fiorentine», perché il
narratore è innanzi tutto attratto dal mondo che conosce intimamente, concreta-
mente, e che ritrae nella sua singolare e individuale immediatezza, senza alcun filtro
intellettuale o ideologico.
Prevale, nell’insieme della raccolta, la vena comica e umoristica, che si esprime par-
ticolarmente nelle novelle di beffa, nella descrizione di scene vivaci e movimentate,
nella predilezione per figure bizzarre e stravaganti, per lo più appartenenti al mondo
popolano e borghese.
Lo stile del Trecentonovelle Lo stile del Trecentonovelle corrisponde pienamente alle esigenze narrative
del Sacchetti: un dialogo rapido e incisivo, fatto di battute idiomatiche e gergali; un
vocabolario tratto dalla lingua parlata, non solo fiorentina, con un gusto particolare
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14. Sviluppi della letteratura trecentesca STORIA

per l’onomatopea e le espressioni proverbiali; una «sintassi mimetica», per ricordare un


celebre giudizio critico del Segre, che «non tenta di ordinare intellettualmente la si-
tuazione, ma si lascia trarre nel vortice delle mosse e delle azioni. È una sintassi smate-
rializzata, gioiosa come un gioco di bimbi; una sintassi che non si pone al di là dei fat-
ti, descrivendoli, ma nasce insieme con essi, col loro tono e la loro misura, ora acco-
stando impressionisticamente i vari tocchi di colore, ora facendosi affannosa e spezza-
ta, ora increspandosi in un sorriso, ora dinoccolandosi nelle mosse più “nuove”».

14.4 I racconti di Canterbury di Chaucer


Influenza dei modelli francesi e italiani nella narrativa inglese: i fabliaux Molte manifestazioni
letterarie dell’area inglese nei secoli XII-XIV appaiono mutuate principalmente dalla
produzione francese che influenza e condiziona largamente le nascenti letterature eu-
ropee. E così in Inghilterra avevano trovato traduttori o imitatori sia la materia di Ro-
ma (o materia antica) sia quella di Bretagna, sia la lirica (con una certa originalità nel-
la fresca descrizione della natura e della primavera), sia i fabliaux francesi. I fabliaux o
favolelli sono racconti brillanti e satirici, generalmente composti in ottonari a rima
baciata, ispirati a vicende quotidiane, incentrati però sulla beffa e sul riso: mariti tradi-
ti, preti avidi e intriganti, burle architettate alle spalle dell’albergatore avido o dell’in-
genuo contadino. A noi rimangono circa 150 testi, di cui una quarantina di autore si-
curo (che talvolta si nomina all’interno del componimento) e gli altri anonimi. L’affi-
nità di spirito e temi di queste composizioni in versi con la nascente novella italiana è
del tutto evidente: alcune situazioni e motivi particolari presenti nei fabliaux conflui-
rono, infatti, attraverso traduzioni e riduzioni, nella narrativa italiana, da Boccaccio al
Bandello.
D’altra parte «fino al XIV secolo, il francese fu la lingua delle classi elevate inglesi e
la letteratura colta dell’Inghilterra era in francese» (Daiches). Almeno nel caso di Geof-
frey Chaucer, il maggior narratore inglese medievale, è riscontrabile però anche un in-
flusso della letteratura italiana, che ormai stava affermandosi nel quadro europeo.
I racconti di Canterbury di Chaucer, uno dei capolavori della narrativa medievale Ha sicura-
mente meditato la lezione del Boccaccio e degli altri maggiori letterati italiani del
Due-Trecento l’inglese Geoffrey Chaucer (1340 ca.-1400), autore di uno dei capola-
vori della narrativa tardo-medievale, I racconti di Canterbury (The Canterbury Tales, 1387
circa), anche se non è possibile accertare la sua diretta conoscenza del Decameron.
Chaucer ebbe esperienza tanto del mondo della corte quanto di quello degli affari,
soggiornò sia in Francia sia in Italia, dove conobbe Boccaccio e Petrarca, tradusse
parzialmente il francese Roman de la Rose.
Nei Canterury Tales Chaucer adotta la struttura della cornice, immaginando di ritro-
varsi insieme a una trentina di pellegrini diretti al santuario di Canterbury in una lo-
canda, la Locanda del tabarro, in un sobborgo di Londra. L’oste propone – e tutti ac-
cettano – che per passare il tempo durante il percorso ciascun pellegrino racconti due
storie all’andata e due al ritorno e che poi venga premiato il miglior narratore. Del-
l’opera, non portata a termine, ci rimangono 21 racconti completi, per la maggior
parte in versi, e una decina di frammenti.
Ogni personaggio, caratterizzato individualmente con minuzia analitica e acume
psicologico, narra una novella adatta alla propria condizione sociale e alla propria fi-
sionomia psicologica. Nel prologo, dove vengono narrate le circostanze dell’incontro,
vengono presentati con ricchezza di particolari molti dei personaggi che poi saranno
anche i narratori: il Cavaliere, la Priora, il Frate, il Mercante, il Chierico di Oxford, il
Mugnaio, lo Scudiero, ecc. Ogni racconto poi è preceduto, come nel Decameron, da
un’introduzione nella quale il narratore espone considerazioni e apprezzamenti che
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Duecento e Trecento

più o meno strettamente si legano al tema del racconto, ed è seguito da commenti e


battibecchi degli ascoltatori.
I personaggi e le rispettive novelle sono assai diversi fra loro, tanto che grazie a ciò
Chaucer con I racconti di Canterbury traccia al tempo stesso un affresco della cultura e
della società del suo tempo e un quadro sintetico dei principali generi letterari me-
dievali, dal fabliau al romanzo cortese, dall’agiografia all’apologo, dalla parabola alla
moderna novella (magari sapida e licenziosa).

14.5 La cultura preumanistica


Solo verso la metà del Trecento, grazie all’attività del Petrarca, si può considerare av-
viata quella nuova fase della cultura italiana ed europea che si è soliti chiamare Uma-
nesimo. Alla radice di questo grande movimento della letteratura, dell’arte e del pen-
siero, ci fu un diverso modo di intendere i classici latini, sentiti come modelli di verità,
di dignità e di sapienza, e perciò da recuperare nella loro lezione originaria. La risco-
perta dei classici perduti o dimenticati, la nascita di un’attività filologica, la contrappo-
sizione fra l’antica virtus latina e la “barbarie” dei secoli successivi, il ripristino della
lingua latina nella sua forma classica, furono gli aspetti più qualificanti e rivoluzionari
di tale ricerca. Il prestigio del Petrarca favorì poi la diffusione di tali ideali in ogni par-
te d’Europa, mettendo in atto un processo che giunse gradualmente a maturazione nel
secolo successivo. Fra i primi, in Italia, a recepire le nuove istanze culturali promosse
dal Petrarca, era stato, come si ricorderà, il Boccaccio: l’episodio più significativo della
sua attività umanistica fu la sentita esigenza di impadronirsi della lingua greca, da secoli
praticamente sconosciuta all’Occidente cristiano. Il nuovo nasceva dunque dal passato,
e non sarebbe stata l’ultima volta nella storia della nostra cultura.
Il «preumanesimo» Questo fervore di studi e di ricerche non nasceva dal nulla: era invece il prodotto
degli interessi culturali che erano andati formandosi all’interno del variegato e ricco
mondo comunale. Col termine di «preumanisti» vengono infatti indicati quegli stu-
diosi e quegli eruditi, operanti tra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV, che antici-
pano, seppure in modi ancora frammentari e discontinui, i motivi dell’imminente
svolta umanistica. I centri culturali più attivi furono i comuni di Bologna, di Verona e
soprattutto di Padova, ma il discorso riguardò anche altre regioni, in particolare la To-
scana e la Provenza. Non si tratta di una concomitanza casuale: è proprio dall’affer-
marsi di una nuova cultura laica e dalla necessità di difendere le conquiste di libertà
del mondo comunale che sorse l’esigenza di riappropriarsi degli autori classici, fra i
quali non solo i poeti non compresi nel canone medievale (come Catullo e Tibullo) o
pressoché ignorati (come Seneca tragico), ma anche uno storico della repubblica co-
me Tito Livio. Le personalità più significative furono quelle dei padovani Lovato Lo-
vati (1241-1309) e Albertino Mussato (1262-1329).
I volgarizzamenti dei classici latini Un altro segno dell’imminente rivoluzione umanistica fu la va-
sta attività di traduzione dei classici latini in volgare: il fenomeno aveva avuto origine
nel secolo precedente (si pensi alle traduzioni ciceroniane di Brunetto Latini: R11.1),
ma soltanto nel XIV secolo si registra un’attività così intensa di volgarizzamento degli
autori classici.Vengono così tradotti l’Ars amandi [L’arte d’amare], i Remedia amoris [Ri-
medi d’amore] e le Heroides [Lettere di eroine] di Ovidio, l’Eneide di Virgilio, le opere sto-
riche di Sallustio e di Livio (di cui Boccaccio tradusse la terza e la quarta deca) o
quelle, al confine tra retorica e storia, di Valerio Massimo. Colpisce, in questi volgariz-
zamenti, la sempre più sentita esigenza di fedeltà al testo latino, insieme all’ambizione
di competere con lo stile dell’originale. È anche attraverso queste versioni che verso la
metà del secolo si giunge alla splendida prosa narrativa del Boccaccio.

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14. Sviluppi della letteratura trecentesca T 14.1

T 14.1 Franco Sacchetti, Il Trecentonovelle 1392-1397


L’abate e il mugnaio [IV]
Il Trecentonovelle Ecco una novella sul tema tradizionale dei «bei parlari», risolto con l’arguzia e la viva-
a cura di E. Faccioli, cità tipiche del Sacchetti. Bernabò Visconti, dispotico signore di Milano (uno dei tanti
Einaudi, Torino 1970 tiranni che popolano il mondo del Trecentonovelle), pone quattro quesiti “impossibili” a
un ricco abate: quale sia la distanza fra terra e cielo; quanta acqua si trovi in mare; che
cosa si faccia all’inferno; quanto valga egli stesso, il temutissimo signore di Milano. L’a-
bate, per guadagnare tempo, chiede di «darli termine a rispondere a sì alte cose»; ma ot-
tiene soltanto la dilazione di un giorno. Mentre ritorna afflitto e pensoso alla badìa,
s’imbatte in un suo mugnaio, che gli promette di cavarlo da ogni impaccio. L’ingegno
del mugnaio sconfigge la tracotanza del gran signore, ma non salva l’abate, che viene
imprevedibilmente declassato a mugnaio.

1 Messer... Melano:Ber- Messer Bernabò signore di Melano1 comanda a uno abate che lo chiarisca di2
nabò Visconti, signore di quattro cose impossibili; di che3 uno mugnaio, vestitosi de’ panni dello abate, per
Milano dal 1354 al 1385,
che il Sacchetti afferma di lui4 le chiarisce in forma5 che rimane abate e l’abate rimane mugnaio.
aver conosciuto di persona,
ritorna in ben quattro no-
velle della raccolta oltre a Messer Bernabò signore di Melano, essendo trafitto6 da un mugnaio con belle 5
questa (LXXIV, LXXXII, ragioni, gli fece dono di grandissimo benefizio.7 Questo signore ne’ suoi tempi fu
CLII, CLXXXVIII), a rap- ridottato da piú che altro signore;8 e come che fosse crudele, pur nelle sue crudeltà
presentare emblematica-
mente l’esercizio capric- avea gran parte di justizia.9 Fra molti de’ casi che gli avvennono10 fu questo, che
cioso e arbitrario del potere uno ricco abate, avendo commesso alcuna cosa di negligenza11 di non avere ben
signorile.
2 lo chiarisca di: gli notricato12 due cani alani, che erano diventati stizzosi,13 ed erano del detto signo- 10
chiarisca, gli spieghi. re, li disse che pagasse fiorini quattromila. Di che l’abate cominciò a domandare
3 di che: per la qual cosa.
4 per lui: al posto dell’a- misericordia. E ’l detto signore, veggendolo addomandare14 misericordia, gli disse:
bate. – Se tu mi fai chiaro di15 quattro cose, io ti perdonerò in tutto; e le cose son
5 forma: modo.
6 trafitto: colpito, punto
queste che io voglio che tu mi dica: quanto ha di qui al cielo; quant’acqua è in ma-
sul vivo. re; quello che si fa in inferno; e quello che la mia persona vale. 15
7 benefizio: rendita.
8 ridottato... signore:
Lo abate, ciò udendo, cominciò a sospirare, e parveli essere a peggior partito che
temuto più che ogni altro prima;16 ma pur, per cessar furore e avanzar tempo,17 disse che li piacesse darli ter-
signore; ridottato è un fran- mine a rispondere a sí alte cose.18 E ’l signore gli diede termine tutto il dí sequen-
cesismo.
9 e come che... justizia: te; e come vago d’udire il fine di tanto fatto, gli fece dare sicurtà del tornare.19
e sebbene fosse crudele, L’abate, pensoso, con gran malenconia, tornò alla badía, soffiando come un ca- 20
tuttavia nelle sue crudeltà vallo quando aombra;20 e giunto là, scontrò21 un suo mugnaio, il quale, veggendo-
c’era (avea) una gran parte
di giustizia. Che Bernabò lo cosí afflitto, disse:
avesse fama di signore giu- – Signor mio, che avete voi che voi soffiate22 cosí forte?
sto e protettore dei deboli è
confermato da altre fonti Rispose l’abate:
dell’epoca; d’altra parte il – Io ho ben di che, ché ’l signore è per darmi la mala ventura23 se io non lo fo chia-
finale scambio delle parti
fra l’abate dappoco e il va- ro di quattro cose, che Salamone24 né Aristotile non lo potrebbe fare.
lente mugnaio può ben es- Il mugnaio dice:
sere addotto a riprova della – E che cose son queste?
sua justizia.
10 avvennono: accadde-
ro. e gli parve di trovarsi in una 18 disse... sí alte cose: gno a garanzia (sicurtà) che gnore si appresta a darmi la
11 alcuna... negligenza: condizione ancora peggio- chiese che (Bernabò) si de- il giorno dopo sarebbe ri- mala sorte (mala ventura),
qualche atto di negligenza re di prima, cioè rispetto al- gnasse di fissargli un termi- tornato. cioè a punirmi severamen-
12 notricato: nutrito, al- la precedente ingiunzione ne entro il quale risponde- 20 aombra: s’adombra, te.
levato. di pagare un’ammenda di re, cioè di concedergli un s’impenna spaventato da 24 Salamone: Salomone,
13 stizzosi: affetti dalla quattromila fiorini (come ragionevole lasso di tempo un’ombra. biblico re d’Israele, consi-
scabbia. dire, insomma: gli parve di per trovare le risposte a 21 scontrò: incontrò. derato nel Medioevo il sa-
14 veggendolo addo- esser caduto dalla padella questioni così difficili. 22 soffiate: sospirate, piente per antonomasia in-
mandare: vedendo che do- nella brace). 19 e come vago... torna- sbuffate, come poco più so- sieme ad Aristotele, il filo-
mandava. 17 per cessar... tempo: re: ed essendo desideroso di pra soffiando. sofo dell’antica Grecia cita-
15 mi fai chiaro di: mi schivare la collera (del si- udire come la faccenda sa- 23 Io ho ben... ventura: to subito dopo.
chiarisci, mi spieghi. gnore) e guadagnare tem- rebbe andata a finire, gli im- io ne ho un buon motivo,
16 e parveli... che prima: po. pose di depositare un pe- dal momento che il mio si-

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Duecento e Trecento

25 gli lo: glielo. L’abate gli lo25 disse.


26 ’l vorrà... santi: lo
vorranno Dio e i santi. Allora il mugnaio, pensando, dice all’abate: 25
27 non sapea... fosse: era – Io vi caverò di questa fatica, se voi volete.
talmente sconvolto, fuori di Dice l’abate:
sé, che non sapeva neppure
dove si trovasse (Contini: «a – Dio il volesse.
che santo votarsi»). Dice il mugnaio:
28 Se ’l tu fai... vuogli: se
ci riesci, prendi (togli) da me – Io credo che ’l vorrà Dio e’ santi.26 30
ciò che vuoi. L’abate, che non sapea dove si fosse,27 disse:
29 niuna: nessuna.
30 nella... discrizione: a – Se ’l tu fai, togli da me ciò che tu vuogli,28 ché niuna29 cosa mi domanderai,
vostra discrezione, cioè a che possibil mi sia, che io non ti dia.
vostro giudizio.
31 O che modo terrai?: Disse il mugnaio:
in che modo farai? – Io lascerò questo nella vostra discrizione.30 35
32 terminerò: definirò,
risolverò (i quattro quesiti).
– O che modo terrai?31 – disse l’abate.
33 parve mill’anni: non Allora rispose il mugnaio:
vedeva l’ora. – Io mi voglio vestir la tonica e la cappa vostra, e raderommi la barba, e domat-
34 volonteroso: deside-
roso. tina ben per tempo anderò dinanzi a lui, dicendo che io sia l’abate; e le quattro co-
35 al barlume: nella pe- se terminerò32 in forma ch’io credo farlo contento. 40
nombra.
36 occupando: nascon- All’abate parve mill’anni33 di sustituire il mugnaio in suo luogo; e cosí fu fatto.
dendo, coprendo. Fatto il mugnaio abate, la mattina di buon’ora si mise in cammino; e giunto alla
37 Veduto... cosa: valuta-
ta ogni cosa con precisione porta, là dove entro il signore dimorava, picchiò, dicendo che tale abate voleva ri-
(appunto). spondere al signore sopra certe cose che gli avea imposte. Lo signore, volontoroso34
38 molto forte a vedere:
molto difficile da verifica-
di udire quello che lo abate dovea dire, e maravigliandosi come sí presto tornasse, 45
re. lo fece a sé chiamare: e giunto dinanzi da lui un poco al barlume,35 facendo reve-
39 milia: migliaia.
40 cogna: unità di misura
renza, occupando36 spesso il viso con la mano per non esser conosciuto, fu do-
corrispondente a dodici mandato dal signore se avea recato risposta delle quattro cose che l’avea addoman-
barili. dato.
41 misurisi: si misuri.
42 arraffia: si afferra con i Rispose: 50
raffi, ovvero con gli uncini – Signor sí.Voi mi domandaste: quanto ha di qui al cielo.Veduto appunto ogni
(If XXI 52 e 100).
43 favellai: parlai. cosa,37 egli è di qui lassú trentasei milioni e ottocento cinquantaquattro mila e set-
44 ebbe: venne a sapere. tantadue miglia e mezzo e ventidue passi.
Dice il signore:
– Tu l’hai veduto molto appunto; come provi tu questo? 55
Rispose:
– Fatelo misurare, e se non è cosí, impiccatemi per la gola. Secondamente doman-
daste: quant’acqua è in mare. Questo m’è stato molto forte a vedere,38 perché è cosa
che non sta ferma, e sempre ve n’entra; ma pure io ho veduto che nel mare sono venti-
cinque milia39 e novecento ottantadue di milioni di cogna40 e sette barili e dodici 60
boccali e due bicchieri.
Disse il signore:
– Come ’l sai?
Rispose:
– Io l’ho veduto il meglio che ho saputo: se non lo credete, fate trovar de’ barili, e
misurisi;41 se non trovate essere cosí, fatemi squartare. Il terzo mi domandaste quello
che si faceva in inferno. In inferno si taglia, squarta, arraffia42 e impicca, né piú né me-
no come fate qui voi.
– Che ragione rendi tu di questo?
Rispose:
– Io favellai43 già con uno che vi era stato, e da costui ebbe44 Dante fiorentino ciò
che scrisse delle cose dell’inferno; ma egli è morto; se voi non lo credete, mandatelo a
vedere. Quarto mi domandaste quello che la vostra persona vale; e io dico ch’ella vale
ventinove danari.
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14. Sviluppi della letteratura trecentesca T 14.1

45 Mo ti nasca il vermo- Quando messer Bernabò udí questo, tutto furioso si volge a costui, dicendo:
can: imprecazione: adesso
(mo, dal lat. modo, forma dei – Mo ti nasca il vermocan;45 sono io cosí dappoco ch’io non vaglia piú che una
dialetti settentrionali) ti pignatta?46 65
venga il vermocane o capo- Rispose costui, e non sanza gran paura:
storno, malattia provocata
da un parassita che colpisce – Signor mio, udite la ragione. Voi sapete che ’l nostro Signore Jesú Cristo fu
il cervello di alcuni animali. venduto trenta danari; fo ragione47 che valete un danaro meno di lui.
46 pignatta: pentola.
47 fo ragione: calcolo. Udendo questo il signore, immaginò troppo bene che costui non fosse l’abate, e
48 avvisando lui esser: guardandolo ben fiso, avvisando lui esser48 troppo maggiore uomo di scienza che 70
rendendosi conto che lui
era. l’abate non era, disse:
49 mulinaro: mugnaio. – Tu non se’ l’abate.
50 per darli piacere: per
fare un piacere all’abate. La paura che ’l mugnaio ebbe ciascuno il pensi; inginocchiandosi con le mani
51 Mo via: orsù. giunte, addomandò misericordia, dicendo al signore come egli era mulinaro49 del-
52 e se’ da piú: e vali di
più.
l’abate, e come e perché camuffato dinanzi dalla sua signoria era condotto, e in che 75
53 e io... confirmare: al- forma avea preso l’abito, e questo piú per darli piacere50 che per malizia.
lora (e) ti voglio conferma- Messer Bernabò, udendo costui, disse:
re (nella carica di abate).
54 ottenere: mantenere. – Mo via,51 poi ch’ello t’ha fatto abate, e se’ da piú52 dí lui, in fé di Dio, e io ti
55 scura: incerta, diffici- voglio confirmare,53 e voglio che da qui innanzi tu sia l’abate, ed ello sia il mulina-
le.
56 assicurarsi: difendersi; ro, e che tu abbia tutta la rendita del monasterio, ed ello abbia quella del mulino. 80
oppure, secondo un’altra E cosí fece ottenere54 tutto il tempo che visse che l’abate fu mugnaio, e ’l mu-
interpretazione, mostrare
sicurezza. gnaio fu abate.
57 interviene: accade. Molto è scura55 cosa, e gran pericolo, d’assicurarsi56 dinanzi a’ signori, come fe’
58 dove va l’uomo: con
valore impersonale: dove si
questo mugnaio, e avere quello ardire ebbe lui. Ma de’ signori interviene57 come
va (francesismo). del mare, dove va l’uomo58 con grandi pericoli, e ne’ gran pericoli li gran guada- 85
59 e ne’ gran pericoli... gni.59 Ed è gran vantaggio quando il mare si truova in bonaccia, e cosí ancora il
guadagni: proposizione el-
littica del verbo, di sapore signore: ma l’uno e l’altro è gran cosa di potersi fidare, che fortuna tosto non
proverbiale:più grandi sono venga.60
i pericoli, maggiori (posso-
no risultare) i guadagni.
60 ma l’uno e l’altro...
venga: ma tanto con il ma- re che non si scateni all’im- novella prosegue con una riferisce in breve una va- BernabòVisconti e del mu-
re, quanto con i signori, è provviso un fortunale (for- sorta di appendice, che non riante del medesimo aned- gnaio un innominato ponte-
cosa assai rischiosa confida- tuna), cioè una tempesta. La riportiamo, in cui Sacchetti doto, che vede al posto di fice e un ortolano.

Guida all’analisi
Un’ambientazione realistica Lo spunto della novella è tratto da una ricca tradizione popolare e letteraria, desti-
nata a grande fortuna anche nei secoli successivi: si pensi soltanto alla figura di Bertoldo, il
villano deforme e avveduto che con le sue sottili trovate e le sue argute risposte tiene testa
al re longobardo Alboino e alla sua corte. Il Sacchetti inserisce tuttavia il motivo tradiziona-
le entro una cornice realistica: il signore che impone quesiti impossibili è Bernabò Visconti,
signore di Milano dal 1354 al 1385, noto ai contemporanei per le sue bizzarrie e crudeltà.
Questo è già un tratto tipico della narrativa del Sacchetti, che si sforza di dare verosimi-
glianza alle vicende narrate, inserendole in un quadro sociale ben definito, dominato (e la
novella lo fa ben capire) dal tramonto del mondo comunale e dall’affermarsi di un’egemo-
nia signorile. Perfino lo spunto iniziale che dà origine alla novella (l’abate è punito per aver
trascurato gli alani del signore) è fondato su un dato riscontrabile nella cronaca contempo-
ranea: secondo quanto racconta uno storico fiorentino, Goro Dati (1362-1435), «facea
[messer Bernabò] a ogni suo cittadino tenere cani, a chi uno a chi più secondo il potere, da-
va loro spese e avea sopra tutto uficiali che li rassegnavano [riconsegnavano] ogni mese per
pelo e segno [con precisione], con tanto ordine, per vie e per contrade, che niuno non po-
tea fallare che non si sapesse, ed erane fortemente punito in pecunia [in denaro]; cioè chi
non lo rassegnasse vivo [il cane] e sano e bene in punto». La durezza e la crudeltà di Ber-
nabò sembrano tuttavia mitigarsi al termine della vicenda, dove prevale un motivo caro alla
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Duecento e Trecento

tradizione novellistica due-trecentesca: il riconoscimento dell’ingegno umano al di là delle


divisioni sociali (cfr., nel Boccaccio, le novelle di Melchisedec e del Saladino o di Cisti for-
naio). È proprio l’audacia delle risposte del mugnaio a placare il furore di Bernabò e a de-
terminare il sorprendente finale, con lo scambio dei ruoli fra abate e mugnaio.
Lo schema narrativo e i personaggi La novella si sviluppa secondo uno schema semplice e lineare: una breve in-
troduzione, che serve a tratteggiare vicenda e protagonisti; l’incontro casuale fra lo sprovve-
duto abate e l’accorto mugnaio, che consente di introdurre il meccanismo decisivo della
novella (lo scambio di persona); il dialogo fra signore e mugnaio (in veste di abate), durante
il quale il lettore ha modo di gustare l’arguzia e l’ingegnosità delle risposte; la conclusione
(che sorprende il lettore ma in fondo presenta una sua rigorosa logica: il signore non fa al-
tro che fissare per sempre, con una decisione inappellabile, l’avvenuto scambio di persona). I
personaggi non sono delineati sul piano psicologico: dell’abate e del mugnaio sappiamo so-
lo quello che è necessario allo svolgimento della vicenda; Bernabò, personaggio storico rea-
le, è raffigurato secondo gli schemi prevedibili della sua leggenda.
La conclusione moralistica, che è presente nella maggior parte delle novelle del Sacchet-
ti, determina uno scarto, anche stilistico, rispetto alla vera e propria narrazione. L’autore-
narratore si espone in prima persona con le sue riflessioni sentenziose, utilizzando una to-
nalità severa e meditativa che contrasta con l’andamento mosso e un po’ anarchico del rac-
conto. Se in alcune novelle il commento morale appare posticcio e astratto, qui il Sacchetti
riesce tuttavia, con una certa felicità di immagini, a rendere più narrativamente compiuto il
personaggio di Bernabò: il raffronto fra la psicologia signorile e l’universo marino fa risalta-
re la bizzarria del feroce signore, descritto quasi come una divinità capricciosa, ora benigna
e favorevole, ora tempestosa e terribile, comunque infida.
Linguaggio e stile In questa, come nelle altre novelle della raccolta, troviamo i caratteri espressivi dominan-
ti della prosa narrativa del Sacchetti: dialogato mosso, breve, vivace, tutto botta e risposta; an-
damento prevalentemente paratattico della frase; ricorso ad espressioni gergali tipiche del
parlato (si pensi, ad esempio, alla seguente battuta: « Mo ti nasca il vermocan; sono io cosí
dappoco ch’io non vaglia piú che una pignatta?»).

Laboratorio 1 Riassumi la trama della novella. 5 Confronta lo stile della novella con quel-
COMPRENSIONE 2 Il racconto è inquadrato in un preambolo lo del proemio (giunto, come sai, mutilo):
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE e in una conclusione: quale funzione quali differenze osservi?
svolgono queste due parti, l’ultima in 6 Confronta il proemio del Decameron
particolare, nel complesso della novella? [R T 13.1 ] con quello del Trecentonovelle
3 Analizza i tratti dominanti dei personag- [R Doc 14.3 ], cercando di individuare ana-
gi: il signore, l’abate, il mugnaio. Quale logie e differenze intorno ai seguenti te-
dei tre attrae maggiormente l’attenzione mi: a. dichiarazioni d’intenti dell’autore e
del narratore e può essere considerato il scopi dell’opera; b. temi espressamente di-
vero protagonista della novella? chiarati; c. pubblico al quale l’opera è ri-
4 Conosci altre novelle trecentesche in cui volta.
siano protagonisti personaggi apparte-
nenti al mondo signorile?

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14. Sviluppi della letteratura trecentesca T 14.1

Doc 14.3 Il proemio del Trecentonovelle

Il Trecentonovelle, Nonostante sia giunto mutilo, il proemio dell’opera risulta prezioso, in quanto definisce con
a cura di E. Faccioli, cit. chiarezza gli intendimenti dell’autore. La solenne gravità dell’esordio, cui si accompagna uno
stile alto, ben diverso da quello delle novelle, si modella con ogni evidenza sulle tonalità proe-
1 al presente tempo: miali del Decameron: senza dubbio un omaggio tributato al grande predecessore, ma probabil-
presumibilmente intorno mente anche un riflesso dello stato d’animo, venato di cupo sconforto, dell’ultimo Sacchetti,
al 1397, al termine della
redazione dell’opera. assai provato dagli avvenimenti esterni e dalle sventure private. Occorre tuttavia osservare
2 vicitata: visitata. che gli accenti severi e meditativi del proemio sembrano poi trovare limitato riscontro nel
3 campestre: campali.
4 comportino: sop-
concreto svolgimento narrativo delle novelle, restando circoscritti alle considerazioni morali
portino. poste a conclusione del racconto vero e proprio.Tutto sommato i riferimenti al Boccaccio e
5 descrivendo ... per poi al poema di Dante rappresentano un atto di ossequio più che altro formale nei confronti
una materiale cosa: par-
lando cioè del Decameron dei due grandi fiorentini, rispetto ai quali l’autore si riconosce, con sincera umiltà, «uomo di-
come di un libro da poco, scolo e grosso». Più significative appaiono invece le dichiarazioni relative alla «verità» della
inferiore al «nobile inge- materia narrativa: gran parte delle storie saranno dunque fiorentine perché fiorentino è l’au-
gno» del suo autore. Giu-
dizio diffuso fra i dotti del- tore, che tiene a dire, in aggiunta, di esser stato testimone oculare di molte se non addirittura
l’epoca, che davano la pal- protagonista («e certe di quelle che a me medesimo sono intervenute»).
ma alle opere erudite del Ispirato ancora al Decameron è il riferimento alle «pestilenziose infirmità»; evidenti risultano
Boccaccio, spregiando il
libro delle novelle, in netto tuttavia le differenze rispetto al vasto affresco della peste del 1348 che si dispiega nell’intro-
contrasto con l’immenso duzione al Decameron: non soltanto, com’è ovvio, per l’ampiezza e la potenza artistica della
successo dell’opera presso rappresentazione, ma anche per il valore simbolico e strutturale che esso assume nell’econo-
il pubblico dei lettori, an-
che scrittori ed artisti, di mia complessiva dell’opera. Nel proemio del Trecentonovelle l’allusione alle ricorrenti epide-
ceto borghese. mie di peste che avevano di nuovo funestato i territori dell’Occidente europeo e la città di Fi-
6 ridotto: tradotto; va
detto peraltro che la testi- renze, rimane invece una notazione prevalentemente cronachistica, tutt’al più idonea a tra-
monianza del Sacchetti ri- smettere al lettore un generico senso di precarietà della condizione umana.
guardo alle traduzioni del
Decameron in francese e in
inglese non è confermata Considerando al presente tempo1 e alla condizione dell’umana vita, la quale con pesti-
da altre fonti. lenziose infirmità e con oscure morti è spesso vicitata;2 e veggendo quante rovine con
7 discolo e grosso: di
quante guerre civili e campestre3 in essa dimorano; e pensando quanti populi e famiglie per
scarsa cultura e rozzo.
8 novelle: qui, come in questo son venute in povero e infelice stato e con quanto amaro sudore conviene che
seguito,con il significato di comportino4 la miseria, là dove sentono la lor vita esser trascorsa; e ancora immaginando
“fatti”. come la gente è vaga di udire cose nuove, e spezialmente di quelle letture che sono agevo-
9 sono state per li
tempi: sono circolate in li a intendere, e massimamente quando danno conforto, per lo quale tra molti dolori si me-
tempi diversi. scolino alcune risa; e riguardando in fine allo eccellente poeta fiorentino messer Giovanni
10 intervenute:capitate.
11 generazione: condi-
Boccacci, il quale descrivendo il libro delle Cento Novelle per una materiale cosa,5 quanto
zione. al nobile suo ingegno... quello è divulgato e richie... che infino in Francia e in Inghilterra
12 nientedimeno ... ta- l’hanno ridotto6 alla loro lingua, e grand... so; io Franco Sacchetti fiorentino, come uomo
ceranno: tuttavia, nel rac-
conto di fatti magnifici e discolo e grosso,7 mi proposi di scrivere la presente opera, e raccogliere tutte quelle novel-
virtuosi, saranno detti le,8 le quali, e antiche e moderne, di diverse maniere sono state per li tempi,9 e alcune an-
espressamente i nomi dei cora che io vidi e fui presente, e certe di quelle che a me medesimo sono intervenute.10
protagonisti (quelli tali); nel
racconto di fatti meschini e E non è da maravigliare se la maggior parte delle dette novelle sono fiorentine... che a
vergognosi, nel caso in cui quelle sono stato prossima... e se non al fatto piú presso a la... e perché in esse si tratterà di...
fossero implicati uomini condizioni di genti, come di... marchesi e conti e cavalieri, e di... grandi e piccoli, e cosí di
importanti per posizione o
condizione sociale, per grandi donne, mezzane e minori, e d’ogni altra generazione;11 nientedimeno nelle magni-
convenienza (per lo migliore) fiche e virtuose opere seranno specificati i nomi di quelli tali; nelle misere e vituperose, do-
i loro nomi saranno taciuti. ve elle toccassino in uomini di grande affare o stato, per lo migliore li nomi loro si taceran-
13 a cui in dispiacere
toccano: a cui (le novelle) no;12 pigliando esempio dal vulgare poeta fiorentino Dante, che quando avea a trattare di
dispiacciono. virtú e di lode altrui, parlava egli, e quando avea a dire e’ vizii, e biasimare altrui, lo faceva
14 nella verità: secondo
verità. dire alli spiriti.
15 incontra: succede. E perché molti e spezialmente quelli, a cui in dispiacere toccano,13 forse diranno, come
16 intitolata in: attri- spesso si dice: «queste son favole»; a ciò rispondo che ce ne saranno forse alcune, ma nella
buita a.
17 ma non sarebbe ... verità14 mi sono ingegnato di comporle. Ben potrebbe essere, come spesso incontra,15 che
stata:ma non vorrebbe dire una novella sarà intitolata in16 Giovanni, e uno dirà: ella intervenne a Piero; questo serebbe
che il fatto raccontato non piccolo errore, ma non sarebbe che la novella non fosse stata.17 E altri potran dire...
sia realmente accaduto.

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Duecento e Trecento

VERIFICA

14.1 La lirica dopo Dante e Petrarca

1 Traccia un quadro riassuntivo della produzione lirica del XIV secolo, indicando i nomi
degli autori più significativi.
2 Si può dire che nel corso del Trecento i modelli della poesia toscana vengono esportati
anche nell’Italia settentrionale? Sapresti indicare le cause principali del fenomeno e le
sue conseguenze sul piano storico-culturale per la nostra letteratura?
3 Che cosa intendiamo con “poeti di corte”? Quali delle corti settentrionali furono più
attive sul piano culturale? Anche il Petrarca può essere assimilato all’esperienza dei poeti
di corte?
4 Illustra i temi più rappresentativi della poesia del Trecento.
5 Spiega il significato dei seguenti termini: Ars nova, caccia, madrigale.
6 Traccia un rapido profilo della poesia per musica trecentesca, soffermandoti sulla figura
di Francesco Landino.

14.2 La narrativa dopo Boccaccio

7 Che cosa intendiamo per «cornice» quando parliamo di una raccolta di novelle? Quale
funzione svolge sul piano retorico-narrativo?
8 Indica gli autori e i titoli delle raccolte di novelle più significative del Trecento.
9 Per quali motivi il Decameron del Boccaccio può essere considerato per secoli il modello
più importante del genere novellistico?

14.3 Franco Sacchetti

10 Esponi i momenti più significativi della vita di Franco Sacchetti, inquadrandoli nel con-
testo della storia fiorentina del Trecento.
11 Elenca le opere, in versi e in prosa, del Sacchetti.
12 Descrivi lo schema ricorrente delle novelle del Sacchetti, facendo specifico riferimento
alle letture antologiche.
13 In cosa consiste l’elemento comico nelle novelle del Sacchetti? Rispondi con esempi
concreti tratti dai testi.
14 Quali sono i caratteri più rilevanti dello stile del Trecentonovelle?

14.4 I racconti di Canterbury di Chaucer

15 Quali modelli letterari influenzano la narrativa inglese trecentesca?


16 Quali sono le caratteristiche salienti dei Racconti di Canterbury?
17 Che genere di storia-cornice adotta Chaucer nella sua opera?

14.5 La cultura preumanistica

18 Che cosa intendiamo con «preumanesimo»? Quali personalità possono essere considerate
preumaniste nel corso del primo Trecento?

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Il canone letterario Quattrocento e
compact Cinquecento

15. Cultura e società nel primo Rinascimento (1380-1492)


16. Umanesimo e letteratura umanistica
17. La lirica del Quattrocento
18. La narrativa del Quattrocento
19. Angelo Poliziano
20. Cultura e società nel primo Cinquecento (1492-1545)
21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento
22. Bembo e il dibattito sulla lingua e sulla letteratura
23. La trattatistica morale: Erasmo, Bembo e Castiglione
24. Ludovico Ariosto
25. La lirica del Cinquecento
26. La narrativa del Cinquecento
27. Scrittori anticlassicisti del primo Cinquecento
28. Il teatro fra Medioevo e Rinascimento
29. Società e cultura nell’età del Concilio di Trento
30. Classicismo e Manierismo nel secondo Cinquecento
31. Torquato Tasso

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Quattrocento e Cinquecento

Cultura e società nel primo


15 Rinascimento (1380-1492)

n Cosimo e Piero de’ Medici


(in primo piano; part. dell’af-
fresco del Corteo dei Magi di
Benozzo Gozzoli. Palazzo Me-
dici-Riccardi, Firenze).

L’età umanistico-rinascimentale va all’incirca dal- l’età di Lorenzo de’ Medici (ma anche di Boiardo, Pul-
la fine del Trecento sino quasi alla fine del Cinquecen- ci e Sannazaro) o dell’Umanesimo volgare, assistiamo
to. Le ragioni di questa periodizzazione sono princi- a una ripresa del volgare, prima lenta poi (dal 1480)
palmente di natura letteraria. Verso la fine del Trecen- più vigorosa. È un’età di grande fioritura artistica e let-
to, per impulso di intellettuali come Petrarca e Boc- teraria, di più vasta e varia creatività, in cui si acquisi-
caccio, si elabora una cultura fondata sulla riscoperta sce con orgoglio la consapevolezza di aver ormai
e sulla rivalutazione dei classici latini e greci, in con- creato una civiltà pari a quella degli antichi.
trapposizione con l’età medievale, la media aetas [età 1492-1540 Lo slancio creativo prosegue impetuo-
di mezzo] che ora viene individuata come un’epoca di- so almeno fino alla metà del secolo successivo. È que-
stinta ed estranea. Su tali basi si valorizzano gli studia sta l’età del pieno Rinascimento, l’età di Ariosto, Ma-
humanitatis, gli studi filosofico-letterari che pongono chiavelli e Guicciardini. Ma il contesto storico muta
l’uomo al centro della propria attenzione (da humani- con la drammatica crisi politica che segue la morte di
tas deriva il termine Umanesimo), e si auspica di far ri- Lorenzo (1492, una data simbolica, anche perché è
nascere la civiltà antica (di qui la nozione e il termine quella della scoperta dell’America, che segna l’inizio
di Rinascimento), studiandola con accanimento e me- dell’età moderna) e con la discesa di Carlo VIII (1494) e
todi nuovi, depurandola delle interpretazioni moralisti- l’inizio delle guerre d’Italia. In letteratura la rappresen-
che e allegoriche ed emulandola con opere ad essa tazione del mondo e la riflessione sulla condizione
ispirate. Verso la metà del Cinquecento assistiamo a umana si fanno più problematiche e talora più acri, si
una fase di aperta e consapevole crisi della cultura profilano nuovi bisogni e una nuova sensibilità.
umanistico-rinascimentale, che prelude all’avvento del 1540-1580 Vari fattori di crisi, tra cui gli esiti della
Barocco. Riforma protestante e del Concilio di Trento che a
Periodizzazione interna Sono possibili tuttavia ul- metà Cinquecento sancisce la divisione religiosa del-
teriori scansioni cronologiche: 1380-1450, 1450-1492, l’Europa, fanno da sfondo all’età del Manierismo o
1492-1540, 1540-1580 ca. della crisi del Rinascimento. La visione del mondo si
1380-1450 Fino alla metà del Quattrocento e oltre, incupisce e i principi e i valori ‘umanistici’ tendono a
il rinnovamento culturale si sviluppa quasi interamen- irrigidirsi e a snaturarsi: l’armonia e la naturalezza
te attraverso la lingua latina: è la fase che spesso vie- spesso lasciano il posto a una ricercatezza affettata e
ne chiamata di Umanesimo latino. In questi anni il mo- all’amore per il raro e il bizzarro. Sono sintomi di una
vimento umanistico è caratterizzato da un forte impe- profonda crisi sociale, culturale e morale, che tuttavia
gno educativo e civile: da cui talora il nome di Umane- lascia ancora spazio a grandi autori e grandi opere co-
simo civile. me Tasso e la Gerusalemme liberata, capolavoro di que-
1450-1492 Nella seconda metà del Quattrocento, sto autunno del Rinascimento.

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15. Cultura e società nel primo Rinascimento STORIA

n Paolo Uccello, La battaglia


di San Romano (Londra, Na-
tional Gallery).

L’inizio (1380-1450 e 1450-1492) di questo lungo L’invenzione della stampa a caratteri mobili, ver-
periodo sul piano storico-politico è caratterizzato dal- so la metà del Quattrocento in Germania per opera di
l’affermazione delle signorie, che progressivamente Gutenberg, costituisce una grande rivoluzione nella
sostituiscono i comuni. L’Italia fra Tre e Quattrocento si storia della civiltà occidentale, in grado col tempo di
presenta divisa in una miriade di piccole signorie, che modificare nell’uomo i processi cognitivi e la perce-
solo nel corso del Quattrocento tendono a organizzar- zione stessa del mondo. Ma l’invenzione della stampa
si in stati di dimensioni più vaste. Il rapporto tra gli ha anche dirette e immediate conseguenze sull’orga-
stati italiani è spesso conflittuale, ma dopo la pace di nizzazione e sulla diffusione della cultura e della let-
Lodi (1454), anche per l’abilità diplomatica di Lorenzo teratura in particolare. La possibilità di disporre in bre-
de’ Medici, si instaura un periodo di pace che favori- ve tempo e a costi ridotti di numerose copie identiche
sce lo sviluppo artistico e culturale. di un testo favorisce il commercio librario, la diffusio-
L’avvento dell’umanesimo comporta un processo, ne della lettura e di conseguenza l’alfabetizzazione,
anche radicale, di laicizzazione della cultura. Ma nel rende più agevole lo studio e costituisce uno stru-
complesso la religione cristiana non viene rifiutata e mento indispensabile per lo sviluppo della filologia
anzi si tenta di renderla più aperta a interpretare an- umanistica.
che le legittime esigenze terrene degli uomini. Il fer- Il modello dominante dell’intellettuale di quest’e-
vore di rinnovamento culturale e la tensione a ritorna- poca è quello (ispirato da Petrarca) del letterato pro-
re alle fonti autentiche e originarie della cultura mo- fessionista che, non potendo ancora vivere dei pro-
derna, caratteristici dell’umanesimo, trovano un ri- venti del mercato librario, si rivolge alla corte o alla
scontro in ambito religioso in un’ansia di riforma del- Chiesa, che gli consentono di vivere agiatamente e di
la Chiesa, di rinnovamento della fede e di ritorno alle dedicarsi alla propria attività artistica o letteraria. La
fonti autentiche della spiritualità cristiana, la Bibbia e corte, che i principi vogliono elegante e magnifica, in
il Vangelo. quest’epoca costituisce il principale centro di elabo-
razione, produzione e diffusione della cultura. Il me-
cenatismo di principi come Lorenzo il Magnifico è un
n Lorenzo il Magnifico ritrat-
to dal Vasari. dato esemplare. Ma anche la Chiesa, agendo anch’es-
sa come un principato terreno, svolge un’intensa atti-
vità di mecenatismo e anzi accoglie nei suoi ranghi
molti intellettuali anche solo per i loro meriti culturali.
Infine la storia della lingua è in quest’epoca carat-
terizzata da una vigorosa affermazione del latino, che
per quasi cinquant’anni diventa la lingua pressoché
esclusiva della cultura. Tuttavia verso la metà del se-
colo assitiamo a una ripresa prima lenta poi più vi-
gorosa del volgare, che aspira a diventare elegante e
duttile come il latino e gode del vantaggio di potersi
adeguare ai mutamenti della realtà attuale assai più
del latino umanistico.

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Quattrocento e Cinquecento

15.1 La società signorile


La formazione delle signorie A partire dal Trecento molti comuni sorti nell’Italia centro-settentrionale
nel corso dell’XI e XII secolo lasciano il posto a regimi signorili, che nel Quattrocento si
estendono in pratica a tutta l’Italia. Ogni singolo caso ha un’origine e una storia partico-
lari, ma il passaggio avviene perlopiù a causa di una degenerazione della lotta politica cit-
tadina e per l’incapacità delle oligarchie dominanti di trovare un assetto istituzionale sta-
bile. Il passaggio avviene talora in forme cruente, talora in forme più pacifiche o magari
con il consenso esplicito della popolazione (a Ferrara è il comune stesso che nel 1264 as-
segna la sovranità agli Este). Come la storia sovente insegna, quando la conflittualità poli-
tica e sociale si mantiene a lungo alta, sorge un’esigenza profonda di pace a qualunque co-
sto, anche a discapito della libertà. Nei comuni medievali questo accade abbastanza spes-
so: prima si attribuiscono poteri temporanei a un podestà chiamato dall’esterno (fase po-
destarile del comune), poi questi si stabilizzano e infine si trasmettono per via ereditaria.
La signoria vera e propria nasce insomma quando una famiglia conquista e impone sta-
bilmente la propria egemonia, ottenendo il riconoscimento formale da parte del potere
imperiale (ad esempio iVisconti a Milano), o esercitando un’egemonia di fatto nel rispet-
to formale delle magistrature comunali.
Limiti del potere signorile In ogni caso il potere dei signori, per quanto esteso, non è assoluto. Ad
esempio, a differenza di ciò che accade in altre monarchie europee, in Italia «le antiche
magistrature municipali continuano a sussistere anche sotto la signoria, sebbene con
compiti ridotti, cioè con le sole funzioni di ordinaria amministrazione» (Reinhardt).
Inoltre il signore deve in qualche modo rispettare il tacito contratto con le élites citta-
dine che è all’origine di molti regimi rinascimentali, garantendo la pace e orientando la
sua azione di governo sempre più verso la difesa degli interessi del patriziato. Questo
poi non rinuncia del tutto a esercitare concrete forme di controllo e talora a riprender-
si il governo dello stato, in situazioni particolari (come nel caso di gravi errori politici
del signore o in assenza di eredi). Anche per tali ragioni una delle principali conse-
guenze dell’avvento di un regime signorile è l’acuirsi della frattura sociale fra patriziato
cittadino e ceti subalterni, che è poi caratteristica tipica delle società aristocratiche.
Ma la signoria deve spesso scendere a patti anche con i poteri locali. Il tentativo di
amministrare le zone periferiche dello stato mediante strutture burocratiche diretta-
mente dipendenti dal governo centrale (i Visconti avevano a disposizione almeno due-
cento funzionari a tale scopo) ha infatti un successo molto parziale: in molti casi negli
stati regionali il potere di controllo della città dominante sulle città subordinate e sul
contado è ancora frutto di accordi particolari o dipendenze feudali e consente larghe
autonomie amministrative.
Frammentazione politica e policentrismo culturale Il principale limite storico della formazione
delle signorie è la frammentazione dell’assetto statale italiano che dura fino all’unità
d’Italia, per cui si dovrà attendere addirittura la metà dell’Ottocento. Com’è noto, la
suddivisione dell’Italia in numerosi stati spesso in conflitto fra loro fu un elemento di
debolezza sul piano politico-diplomatico e militare, che favorì, a partire dal Cinque-
cento, il dominio diretto o l’egemonia di quelle potenze straniere che si erano orga-
nizzate in stati nazionali. Ma la frammentazione favorisce anche un policentrismo
culturale che, accanto a qualche aspetto negativo (ad esempio la mancata diffusione di
una lingua nazionale), ha numerosi aspetti positivi: lo sviluppo autonomo di numero-
si centri culturali, talora in emulazione fra loro, che danno vita a diverse e originali
tradizioni artistico-letterarie, è indubbiamente una ricchezza della nostra storia, che
non ha paragoni in altri stati europei.
La ‘pace armata’ di Lodi e la crisi di fine secolo L’Italia nel tardo Trecento si presenta come una
miriade di piccoli stati che nel Quattrocento tendono ad aggregarsi in entità di più

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15. Cultura e società nel primo Rinascimento STORIA

ampio respiro, soprattutto per l’impulso dell’espansionismo dei Visconti di Milano e


della repubblica di Venezia. Nella prima metà del Quattrocento questi fenomeni
espansionistici determinano un complesso ruotare di alleanze e numerose guerre re-
gionali. Ma con la pace di Lodi (1454) si trova un assetto di alleanze, imperniato sui
cinque grandi stati (il Ducato di Milano, la repubblica oligarchica di Venezia, la Firen-
ze dei Medici, lo stato della Chiesa e il Regno di Napoli), capace di garantire una pa-
ce quarantennale, che è fra le cause materiali della fioritura artistica e letteraria rina-
scimentale. Il lungo periodo di non belligeranza, ad esempio, consente di destinare in-
genti risorse a imprese pacifiche: all’arredo urbanistico e architettonico, all’arricchi-
mento artistico delle dimore principesche e più in generale al mecenatismo di corte.
Non si deve pensare però che il quarantennio che segue la pace di Lodi sia stato un
periodo idillico sul piano politico: numerosi furono i focolai di crisi, le tensioni, i mu-
n Carlo VIII entra in Firenze. tamenti di alleanze e le azioni militari sventate all’ultimo istante soprattutto grazie al-
l’iniziativa diplomatica di Lorenzo de’ Medici, il principale artefice del complesso e
precario equilibrio fra le potenze italiane, tanto che pare più giusto definire questo
quarantennio come un periodo di ‘pace armata’.
Alla fine del Quattrocento però anche questo precario equilibrio si rompe e la nuo-
va fase di aperta conflittualità favorisce l’intervento dei francesi, che scendono in armi
in Italia nel 1494 con Carlo VIII. È l’inizio di un lungo periodo di guerre per il pre-
dominio sull’Italia, che vedono protagonisti francesi e spagnoli e di una fase di lenta
decadenza politica e poi anche economico-sociale.
La discesa di Carlo VIII e gli scrittori Le vicende politico-militari non sempre hanno effetti diretti
e immediati sulla cultura e sull’arte. La crisi politica di fine secolo non produce, o non
produce immediatamente, un rallentamento dello slancio artistico e letterario rinasci-
mentale, ché anzi alcuni dei massimi capolavori del pensiero, dell’arte e della letteratu-
ra italiana si collocano proprio nei turbolenti anni di guerra. Ma gli scrittori si dimo-
strano pronti a registrare le drammatiche novità della storia politico-militare. L’Orlan-
do innamorato di Boiardo, un poema tutto percorso da ideali e sogni cavallereschi, si in-
terrompe ad esempio proprio con un’ottava che registra l’amaro impatto con la realtà
dell’Italia messa a ferro e a fuoco dall’invasione francese: Boiardo insomma ci dice che
in tempo di guerra non gli è più possibile cantare con la spensieratezza d’altri tempi le
fantastiche imprese dei cavalieri erranti.

Doc 15.1 L’epilogo dell’Orlando innamorato

M.M. Boiardo,
Orlando innamorato,
Mentre che io canto, o Iddio redentore,
III, IX, 26 Vedo la Italia tutta a fiama e a foco
Per questi Galli, che con gran valore
1 disertar:distruggere, Vengon per disertar1 non so che loco;
rendere deserto. Però vi lascio in questo vano amore
2 Fiordespina:il poeta
De Fiordespina2 ardente a poco a poco;
lascia in sospeso la vicenda
amorosa di questo suo Un’altra fiata, se mi fia concesso,
personaggio. Racontarovi il tutto per espresso.

Qualche anno più tardi Machiavelli con lucida amarezza metterà bene in luce le il-
lusioni e i limiti politici che erano insiti nello splendore delle corti rinascimentali.
Lo slancio creativo dunque non si esaurisce, ma gli scrittori, che non sono imper-
meabili a quello che accade attorno a loro, quanto meno prendono coscienza che le
condizioni sono mutate e le rappresentano e ne traggono riflessioni che in un modo o
nell’altro incidono sulla loro visione del mondo (si noti come l’ideale umanistico di
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Quattrocento e Cinquecento

otium, il tempo libero che può essere destinato alla cultura e al mecenatismo, diventi
nella cruda prospettiva politica di Machiavelli un «marcirsi nello ocio»).
Doc 15.2 Le illusioni dei principi italiani secondo Machiavelli

N. Machiavelli, Il principe, Credevano i nostri principi italiani, prima ch’egli assaggiassero i colpi delle oltramonta-
XXVI ne guerre, che a uno principe bastasse sapere negli scrittoi pensare una acuta risposta, scri-
vere una bella lettera, mostrare ne’ detti e nelle parole arguzia e prontezza, sapere tessere
una fraude, ornarsi di gemme e d’oro, dormire e mangiare con maggiore splendore che gli
altri, tenere assai lascivie intorno, governarsi co’ sudditi avaramente e superbamente, mar-
cirsi nello ocio, dare i gradi della milizia per grazia, disprezzare se alcuno avesse loro di-
mostro alcuna lodevole via, volere che le parole loro fussero responsi di oraculi; né si ac-
corgevano i meschini che si preparavano ad essere preda di qualunque gli assaltava.

15.2 Renovatio fidei e Umanesimo cristiano


Laicismo, materialismo e tradizione cristiana Nel corso di questo volume vedremo come la ri-
valutazione del mondo antico e l’esaltazione dell’uomo operata dall’Umanesimo in
aperta polemica con il rigorismo cristiano medievale favorisca la diffusione di una
visione del mondo sostanzialmente laica, che pur non escludendo la dimensione ‘ce-
leste’ dell’uomo riserva un’attenzione prioritaria a quella ‘terrestre’. Si accentua ad
esempio l’idea che l’uomo sia l’artefice del proprio destino (faber fortunae suae) e in
particolare della sua fortuna e felicità terrena (R 16.3), e, grazie anche a una rinno-
vata lettura di Aristotele e di altri filosofi antichi, si ricomincia a considerare la natu-
ra come un campo di indagine del tutto autonomo rispetto alla religione, con un at-
teggiamento empirico cioè che costituisce il lontano preludio e un’importante pre-
messa della scienza moderna.
Il ritorno all’antico talora comporta anche una rivalutazione della visione pagana
del mondo: alcuni membri dell’accademia romana di Pomponio Leto, ad esempio,
spinsero il proprio culto degli antichi e il sogno di restaurarne anche le istituzioni si-
no al punto di ordire nel 1468 una congiura per deporre il papa; e ci furono sette
esoteriche che si ispiravano all’antica tradizione ermetica e a varie dottrine magico-
astrologiche. Il naturalismo rinascimentale comporta talora anche un’inclinazione
verso una filosofia materialistica (che contesta l’immortalità dell’anima) e un conse-
guente distacco dalla metafisica cristiana: gli intellettuali atei o agnostici però in que-
st’epoca molto di rado dichiarano apertamente le proprie posizioni, anche per ra-
gioni prudenziali.
Tuttavia si tratta nel complesso di casi estremi: l’atteggiamento più diffuso è inve-
ce ancora il tentativo di conciliare cultura classica e tradizione cristiana, etica pagana
e cristiana, tenendo più nettamente separata la sfera religiosa da quella filosofico-
scientifica e da quella politica. Insomma, nella maggior parte dei casi il rinnovamen-
to umanistico si attua all’interno di un quadro ideologico ancora profondamente cri-
stiano. Si può concludere con Garin che «L’“età nuova” del Rinascimento non è
l’avvento di nuove religioni, devozioni o culti, neppure neopagani; è caratterizzata da
uno sforzo di illuminazione, di critica, al massimo di riforma morale o di rivaluta-
zione dell’interiorità».
Renovatio fidei e umanesimo cristiano È assai significativo, ad esempio, che lo spirito umanistico si
manifesti all’interno del mondo cristiano anche come una nuova sensibilità religiosa,
come nostalgia della purezza di vita e di fede delle origini. Questo anelito si traduce
nell’esigenza di una renovatio fidei, di un rinnovamento della fede cioè, che rigetti le
punte estreme del rigorismo medievale e ‘umanizzi’ la religione, ponendo l’individuo
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15. Cultura e società nel primo Rinascimento STORIA

al centro anche del rapporto fra uomo e Dio, ridimensionando i culti esteriori ed esal-
tando la dimensione interiore della fede, riscoprendo i valori della fratellanza univer-
sale, della pace nella fede, della reciproca tolleranza; ma che rivaluti anche la natura, le-
gittimando la soddisfazione dei bisogni materiali e la ricerca della felicità terrena, co-
me fa in chiave religiosa il Valla nel De vero bono [Il vero bene].
L’attitudine umanistica a tornare alle fonti antiche, che in ambito letterario si mani-
festa come riscoperta dei classici latini e greci, in ambito religioso si traduce in un ri-
torno al Vangelo. E lo spirito filologico, che insegna a riscoprire il significato autentico
delle opere antiche depurandole delle interpretazioni allegoriche e moralistiche che
nel Medioevo le avevano snaturate, si applica anche alla tradizione religiosa: così anche
nel mondo cattolico si fa strada la convinzione che sia necessario rileggere i testi sacri
e la tradizione patristica (i Padri della Chiesa) liberandola dall’enorme apparato di in-
terpretazioni e restrizioni introdotte dalla filosofia medievale; si lavora con metodo fi-
lologico per ripubblicare i testi fondamentali nelle loro esatte lezioni e per riscoprirne
il significato originario e autentico. Ma la filologia umanistica, oltre che con il bisogno
di riattingere la spiritualità delle origini, si intreccia anche con la critica anticuriale:
Lorenzo Valla nel 1440 dimostra con strumenti filologici la falsità della donazione di
Costantino, che veniva addotta per dare fondamento giuridico al radicamento territo-
riale e al potere temporale della Chiesa.
I movimenti: Devotio moderna ed evangelismo In questo contesto si collocano forme devozionali e
movimenti che percorrono l’Europa nel Quattrocento, come la Devotio moderna, ori-
ginaria dei Paesi Bassi, che predica la lettura diretta dei Vangeli (invece delle opere
edificanti medievali), un rapporto con Dio che privilegi la meditazione individuale e
la messa in pratica nella vita quotidiana dell’insegnamento evangelico piuttosto che le
forme cerimoniali ed esteriori del culto. La mirabile Imitazione di Cristo, attribuita a
Tommaso di Kempis (1380-1471), è forse l’opera che, con la sua intensa spiritualità,
meglio rappresenta il senso di questo movimento. Più tardi su posizioni per molti
aspetti analoghe si svilupperà a partire dalla Spagna il movimento dell’Evangelismo che
esprimerà grandi personalità come Juan Luis Vives, Thomas More, Jacques Lefèvre
d’Étaples, Gian Pietro Carafa (papa Paolo IV) e soprattutto Erasmo da Rotterdam, fi-
gura tra le più esemplari dell’Umanesimo cristiano tra Quattro e Cinquecento.
Erasmo da Rotterdam (1469-1536) Dopo aver applicato il metodo filologico alle humanae litterae
con la raccolta di proverbi greco-latini degli Adagia, Erasmo si impegna nella sua ap-
plicazione anche alle divinae litterae, mettendo a punto scrupolose e fondamentali
edizioni critiche dei Vangeli («l’opera di Erasmo che incise più a fondo sulla menta-
lità dell’Occidente» secondo Ronald Bainton), delle opere di san Paolo e dei Padri
della Chiesa. Da questo parallelo ritorno alla lettura diretta delle fonti humanae e di-
vinae, Erasmo deriva la convinzione che l’etica pagana classica fosse, per quanto me-
no profonda di quella cristiana nella sua forma originaria, non dissimile e non in-
compatibile con essa. Egli dunque crede che la tradizione classica e quella cristiana
possano e debbano essere conciliate nell’ambito di un umanesimo cristiano, tanto
che non trova sconveniente allegare alle tradizionali invocazioni ai santi cristiani an-
che quella celeberrima a Socrate, elevato a protettore dell’uomo moderno, ideal-
mente ‘classico’ e cristiano al tempo stesso («Sancte Socrates, ora pro nobis», cioè
n Erasmo da Rotterdam, di «Santo Socrate, prega per noi»). Erasmo per questa via sviluppa una critica nei con-
Hans Holbein il Vecchio.
fronti del cristianesimo tardo-medievale, afflitto da un insulso formalismo devozio-
nale, da un rigorismo etico, dalle infinite astrusità metafisiche della tradizione scola-
stica (messe alla berlina nell’Elogio della follia, opera composta in Italia nel 1509).
Così snaturato da un formalismo cerimoniale e speculativo, il cristianesimo ha di-
menticato il suo spirito originario, il suo compito di testimonianza e imitazione di
Cristo nella pratica della vita quotidiana. Erasmo auspica che esso, profondamente
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Quattrocento e Cinquecento

rinnovato, possa ridiventare una fede ‘ragionevole’, pacifica, tollerante e quindi vera-
mente universalistica, secondo la lettera e lo spirito originario dei testi sacri.
Il millenarismo e il riformismo di Gerolamo Savonarola In questa stessa epoca il bisogno di
riforma spirituale si manifesta però anche in forme più tradizionali, più vicine cioè
allo spirito rigoristico e millenaristico del cristianesimo medievale. Il caso per noi
più interessante e clamoroso è forse quello di Gerolamo Savonarola, un frate dome-
nicano, nato a Ferrara nel 1452, ma attivo soprattutto a Firenze, dove risiede nel con-
vento di San Marco. Convintosi, in seguito a una visione, dell’imminente intervento
di Dio per punire la corruzione della Chiesa, egli avvia un’intensa attività di predi-
cazione nell’Italia settentrionale e a Firenze, che considera la città eletta da Dio per
contrapporsi alla Roma pontificia, facendo numerosi seguaci (i cosiddetti «piagno-
ni»). Dopo la caduta dei Medici Savonarola mescola la predicazione di una riforma
morale con inziative volte a una riforma politico-istituzionale della città (in senso
moderatamente democratico). Il conflitto con il papa e con la Signoria cittadina lo
porta però alla condanna al rogo (1498). I suoi moniti al pentimento e all’espiazio-
ne, le sue profezie di un imminente flagello hanno l’intransigenza e gli accenti cupi
tipici della predicazione medievale.
La Chiesa e la comunità cristiana La Chiesa non si mostra in grado di dare risposte adeguate a que-
sti movimenti, né del tutto in sintonia con il complesso della comunità cristiana, an-
che se nel Quattrocento annovera papi umanisti come Niccolo V e Pio II (Enea Silvio
Piccolomini). Scossa da divisioni interne, impegnata a contrastare fermenti che con-
danna come ereticali, dedita alla gestione materiale del potere e alla definizione del
proprio assetto territoriale, la Chiesa non sembra prestare grande attenzione alle ri-
chieste di riforma e rinnovamento, né pare in grado di reagire alla perdita di quell’e-
gemonia culturale che aveva detenuto per quasi tutto il Medioevo. Di fatto, poi, la
Chiesa stessa nel nuovo contesto storico tardo-medievale subisce un processo di seco-
larizzazione sia culturale che politica che tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento
la porta ad apparire più un magnifico principato terreno, ben radicato nella sua realtà
territoriale regionale, che l’istituzione ecumenica che era stata nel Medioevo. Sarà la
n Sopra. Il rogo del Savona- drammatica scossa inferta dalla riforma luterana a Cinquecento inoltrato, più che non
rola a Firenze.
n Sotto. Una stamperia del i postulati dell’umanesimo cristiano, a costringere la Chiesa a compiere una svolta nel-
Cinquecento. la sua gestione della politica e della cultura.

15.3 L’invenzione della stampa


I presupposti dell’invenzione della stampa Verso la metà del Quattrocento in Germania viene in-
ventata la stampa a caratteri mobili. Si tratta di un evento centrale per la storia della cir-
colazione dei testi letterari, ma anche per i riflessi che ebbe sul modo di percepire e co-
noscere la realtà da parte dell’uomo. L’invenzione fu resa possibile dal maturarsi di al-
cune condizioni culturali, economiche, sociali e tecniche. Innanzitutto lo sviluppo del-
l’alfabetizzazione e il crescente bisogno di acculturazione da parte di ceti sempre più
vasti determinarono un aumento della domanda di libri e crearono un mercato poten-
ziale che favorì l’investimento economico e la ricerca tecnologica. Ma influirono anche
la disponibilità della carta, lo sviluppo delle tecniche di fusione e incisione dei metalli e
della xilografia (pressione su carta o stoffa o cuoio di matrici di legno sulle quali era in-
cisa una figura). Determinante fu la diffusione della carta: introdotta in Europa dalla Ci-
na per tramite arabo già nel XII sec., essa dapprima venne prodotta soprattutto in Italia,
ma già col XIV sec. era presente ovunque. Meno resistente e durevole, e quindi meno
pregiata, solo col tempo divenne meno costosa della pergamena, ma fin dall’inizio, a
differenza di quella, fu disponibile in grande quantità: fatto essenziale per la diffusione
su vasta scala della stampa e ragione, nonostante gli svantaggi, della sua affermazione.

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15. Cultura e società nel primo Rinascimento STORIA

I primi testi a stampa (metà del XV secolo) Gli inizi della stampa sono ancora in parte avvolti nel
mistero. Vi fu con ogni probabilità un periodo (circa un decennio) di messa a punto
dell’invenzione: i primi stampatori, infatti, dovettero sperimentare diverse soluzioni
per superare le difficoltà tecniche. Quel che è certo, però, è che verso la metà del XV
secolo si diffusero i primi testi composti con la tecnica dei caratteri mobili. Fra i primi
stampatori, se non il primo, fu Johannes Gensfleisch detto Gutenberg, orefice di Ma-
gonza, che nel 1456 pubblicò una celebre Bibbia, nota come la Bibbia delle 42 linee e
considerata – ma forse a torto – il primo libro a stampa in assoluto: opera tecnica-
mente mirabile, essa fu probabilmente preceduta da svariati altri tentativi e da realizza-
zioni meno perfette. Ben presto, comunque, grazie alle sue eccezionali potenzialità la
tecnica si diffuse in tutta Europa, per lo più ad opera di stampatori tedeschi (a Subia-
co e a Roma operarono, ad esempio, i celebri Sweynheym e Pannartz).
I vantaggi della stampa La stampa consentiva la produzione di un numero potenzialmente illimitato
di copie identiche, in tempi assai più ridotti che per la riproduzione a mano e a costi
n Una pagina della Bibbia assai minori. A tale proposito, scrive Goldschmidt: «La domanda di copie di classici la-
delle 42 linee.
tini improvvisamente così di moda era grandissima, il numero di ricchi amatori che
potevano ordinare un’elegante copia manoscritta da un libraio come Vespasiano da Bi-
sticci era ristrettissimo; in tutta l’Europa c’erano gruppi di persone desiderose di leg-
gere e di possedere, per esempio, le Epistole di Cicerone, perché la qualità cui si aspira-
va di più a quel tempo nella società colta era la capacità di scrivere una lettera elegan-
te, in latino naturalmente, con scelte citazioni e riferimenti storici». La stampa poté ri-
spondere a questo bisogno diffuso; fu così che tra il 1467 e il 1500 si stamparono al-
meno 84 edizioni delle Epistole di Cicerone.
Effetti cognitivi, linguistici e culturali della stampa Gli effetti della nuova invenzione furono cla-
morosi. La stampa influì sui processi di alfabetizzazione e acculturazione in atto, acce-
lerandoli notevolmente; col tempo contribuì a uniformare le abitudini linguistiche
delle popolazioni, aumentandone la consapevolezza di appartenere a una comunità
linguistica; modificò le tecniche didattiche fornendo finalmente strumenti di appren-
dimento alla portata di chiunque si accostasse all’istruzione; influì infine sulla sensibi-
lità e sui processi cognitivi, diffondendo l’abitudine alla lettura silenziosa, alla perce-
zione visiva, all’astrazione.
Ma occorre insistere sugli effetti che la diffusione della stampa produsse nel mondo
della cultura e di quella umanistica in particolare. In effetti «il più importante fattore
nella diffusione dei libri umanistici e delle idee e delle forme del Rinascimento fu il
commercio librario» (Goldschmidt). Le botteghe degli stampatori divennero un centro
di produzione e smistamento culturale fondamentale, un punto di riferimento e d’in-
contro per molti intellettuali. Questo in particolare accadde quando alcuni umanisti si
fecero stampatori e diedero vita a celebri raccolte di classici. Immediati e numerosi del
resto furono i riconoscimenti e le celebrazioni che gli umanisti tributarono alla nuova
invenzione, mostrando di comprenderne appieno la portata rivoluzionaria. Si va da
semplici constatazioni dell’efficienza del nuovo mezzo come quella di Roberto Orsi
che dichiara: «Si stampa in un sol giorno quanto non si riesce a scrivere in un anno», o
quella di Leon Battista Alberti che analogamente loda «sommamente l’inventore tede-
sco che ai nostri giorni riuscì con alcune pressioni di caratteri a formare in cento gior-
ni oltre dugento volumi scritti sopra un dato esemplare, coll’opera di tre soli uomini»
(mentre la copia manoscritta di una singola opera richiedevano il lavoro di svariate set-
timane o addirittura mesi da parte di un amanuense), sino a considerazioni sulla ridu-
zione dei costi, come fa Giovanni Andrea Bussi notando che «maestri eccellentissimi
nella stampa iniziarono a esercitare la loro arte con tanta abilità e industria […] che i
libri possono essere comprati quasi a meno di quanto in altri tempi costava in genere
la rilegatura». Ma ancor più significative sono le dichiarazioni di quanti associano espli-
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Quattrocento e Cinquecento

citamente la diffusione della stampa ai progressi degli studi e in genere della cultura,
come fanno, ad esempio, Ludovico Carbone e, più tardi, François Rabelais.
Doc 15.3 Carbone dedica a Borso d’Este le Epistole di Plinio

Ci si può rallegrare, divino Borso signore eccellentissimo [Borso d’Este, signore di


Ferrara], del nostro secolo, in cui fioriscono in sommo grado gli studi delle più belle ar-
ti, l’eloquenza e la giusta erudizione sono finalmente onorate e ricondotte al loro anti-
co prestigio.Tanto si estende l’eloquenza romana e greca che i Francesi e gli Inglesi mo-
strano di avere buoni oratori e poeti, alla qual cosa un aiuto comodissimo è stato forni-
to dalle nobilissime menti dei Tedeschi, che hanno escogitato modi ingegnosissimi di
stampare libri in modo da produrre contemporaneamente moltissimi volumi di autori
sapientissimi e da preparare codici utilissimi in gran numero e con minore spesa.

Doc 15.4 Rabelais elogia la stampa

Ora sono tutte le discipline restituite, e le lingue instaurate [cioè rimesse in onore]; la
Greca, senza la quale è vergogna che una persona si chiami dotta, l’Ebraica, la Caldaica,
la Latina. Ed è praticata con tanta eleganza e correzione quell’arte della stampa, che era
stata inventata al tempo mio per ispirazione divina, così come, per contrappeso, l’arti-
glieria per suggestione diabolica. Tutto il mondo è pieno di persone sapienti, di precet-
tori dottissimi, di vastissime biblioteche, e sono del parere che mai ai tempi di Platone,
né di Cicerone, né di Papiniano [un giurista romano del II secolo d. C.], non vi fu tan-
ta comodità di studio come ne troviamo adesso.

L’invenzione della stampa e la filologia umanistica Ma è necessario insistere su un aspetto parti-


colare di questo rapporto, e cioè sul contributo della stampa all’affermazione della fi-
lologia umanistica (la filologia è una disciplina che ha come scopo l’edizione di un te-
sto nella forma che rispecchi nel modo più corretto e fedele possibile la volontà del-
l’autore). È chiaro come le esigenze filologiche degli umanisti, il loro desiderio di di-
sporre di tutti i testi noti dell’antichità in un numero sufficientemente ampio di copie
e soprattutto nella migliore forma testuale possibile, dovessero trovare nella stampa il
mezzo più idoneo per realizzarsi. Infatti, una volta che uno studioso avesse stabilito il
testo filologicamente più corretto di un’opera, adesso era in grado di farlo circolare in
migliaia di copie assolutamente identiche. Insomma la stampa fu un supporto e un
mezzo essenziale per lo sviluppo della moderna filologia, che, nata prima della stampa,
non avrebbe potuto senza di essa evolversi, perfezionarsi e imporsi come ha fatto.
La diffusione Secondo le stime di Febvre e Martin, alla fine del XV secolo sono uscite circa 35
mila edizioni, corrispondenti a 15-20 milioni di esemplari circolanti in Europa. Nel
corso del XVI secolo esce un numero di edizioni compreso tra le 150 e le 200 mi-
la, corrispondente a circa 200 milioni di esemplari circolanti. Come si vede, si tratta
di una diffusione imponente, non paragonabile alla precedente diffusione manoscrit-
ta. Difficile è stabilire le tirature, che non dovettero essere alte, se non eccezional-
mente: è possibile stimare in 1000-1500 copie la tiratura media a partire dall’inizio
del XVI secolo; ma per i libri di successo talora si fanno molte o moltissime ristam-
pe. E ciò vale anche per le opere dei grandi umanisti oltre che dei classici antichi (e
naturalmente dei libri religiosi e “popolari”). Un esempio per Erasmo: «dal 1500 al
1525, settantadue tirature, ristampe e riedizioni conosciute degli Adagia, sotto varie
forme; una cinquantina dal 1525 al 1550, circa quaranta dal 1550 al 1560. Dei Col-
loquia, dal 1518 al 1526 una sessantina di edizioni conosciute, settanta circa dal 1526
al 1550; e una ventina dal 1550 al 1560, senza contare gli estratti e le traduzioni. In
complesso, sicuramente parecchie centinaia di migliaia d’esemplari di queste due so-
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15. Cultura e società nel primo Rinascimento STORIA

le opere d’Erasmo...». Il caso è per certi versi eccezionale; raramente testi umanistici
ebbero simile fortuna. Dopo anni di miseria agli inizi del Cinquecento Erasmo è in-
fatti «il primo scrittore del mondo che sia riuscito a vivere coi proventi della sua pro-
duzione a stampa» (Mandrou) e in quegli anni – aggiungiamo – uno dei pochissimi.

15.4 Gli intellettuali fra corte e Chiesa


Il cortigiano Lo sviluppo dei regimi signorili muta sensibilmente il quadro dei rapporti tra intel-
lettuali e società. Il modello duecentesco dell’intellettuale comunale, che di professione
è giudice, notaio, insegnante o mercante, che partecipa attivamente al governo dello sta-
to e che si dedica alla letteratura saltuariamente per diletto personale, già nel Trecento
appare in declino. La figura di Petrarca delinea un modello nuovo: egli si dedica alla let-
teratura in modo esclusivo, professionale e cerca di garantirsi l’indipendenza economica
instaurando un complesso rapporto con le istituzioni del suo tempo, le corti e la Chie-
sa, che gli offrono ospitalità e gli concedono benefici. Proprio in questa duplice direzio-
ne – professionalizzare l’attività letteraria e approfondire i legami con la corte e con la
Chiesa – si muoveranno i letterati dei secoli a venire. Il modello emergente e d’ora in-
nanzi dominante, insomma, è quello dell’intellettuale chierico o cortigiano.
La corte rinascimentale Mentre la corte feudale era composta quasi esclusivamente di dignitari, con-
siglieri civili e militari e inservienti, e rare erano le manifestazioni solenni in cui il
principe dimostrava il suo sfarzo (quasi soltanto matrimoni o cerimonie religiose), la
corte rinascimentale appare notevolmente diversa. La novità è data non tanto dalla
creazione di un apparato amministrativo più complesso, quanto piuttosto dalla perma-
nenza a corte di nobili locali e stranieri che mettono in moto un processo di raffina-
mento della vita sociale di corte e delle forme di intrattenimento, per cui vengono in-
vestiti capitali sempre più cospicui: «una società raffinata, infatti, pretende di essere di-
vertita, vale a dire intrattenuta con stile ed eleganza. Dalle esigenze di distrazione e di
rappresentanza della corte si sviluppò, così, la cultura di corte» (Reinhardt). Lo scopo
ultimo della corte rinascimentale è infatti proprio la rappresentanza, non l’ammini-
strazione. In questo ambito sempre più essenziale diventa la funzione simbolica e me-
diatica della corte: il signore intende presentarla all’opinione pubblica (agli altri sovra-
ni, alla nobiltà locale, e di riflesso al popolo) come un microcosmo ben ordinato, de-
voto, nobile, elegante, sfarzoso, colto, raffinato allo scopo di affermare il proprio presti-
gio personale e di legittimare simbolicamente il proprio potere. Di qui per il signore
la necessità di arricchire le dimore di opere d’arte magnifiche, di circondarsi di intel-
lettuali di spicco, di organizzare feste eleganti e spettacoli raffinati, di costituire biblio-
teche vaste e aggiornate, di favorire lo sviluppo di cenacoli e accademie, di farsi per-
sonalmente animatore delle conversazioni, delle attività sociali e culturali, e addirittu-
n La corte rinascimentale: ra proporsi come l’ispiratore dell’attività artistica e letteraria. «La concezione umani-
particolare della Camera degli
sposi di Andrea Mantegna.
stica dell’arte rivalutava la funzione del committente, facendone il coproduttore, anzi
lo spiritus rector del processo creativo, in ossequio alla convinzione che solo autentici
prìncipi di diritto divino ricevessero la grazia di riconoscere e patrocinare autentici
geni. In tal modo, il mecenatismo diveniva un attestato di legittimità della funzione di
governo» (Reinhardt).
Il mecenatismo La maggior parte dei letterati, artisti, umanisti attivi in quest’epoca vivono a corte o
gravitano attorno ad essa. I signori si mostrano ben disposti ad accoglierli, remunerar-
li, onorarli commissionando loro delle opere (soprattutto nel caso di pittori, scultori,
cesellatori…), stimolandoli alla ricerca e alla creatività o quanto meno offrendo loro
incarichi e occupazioni di vario impegno e prestigio che comunque lascino loro tem-
po per la loro arte. La corte in effetti da questo punto di vista colma un vuoto sociale,
dando opportunità economiche, protezione e legittimazione sociale, garantendo mar-
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Quattrocento e Cinquecento

gini di libertà e indipendenza non trascurabili a un ceto di artisti e letterati che diffi-
cilmente altrove, nella società di quel periodo, avrebbe potuto trovarne di analoghi.
Spesso poi gli stessi intellettuali provenivano dai ranghi dell’aristocrazia (in qualche ca-
so i letterati sono gli stessi prìncipi, come Lorenzo il Magnifico). È certamente vero
però che la dipendenza da un mecenate committente-protettore può anche limitare la
libertà di espressione e soprattutto condizionare le scelte degli scrittori, perché il si-
gnore spesso interviene per determinare, ad esempio, i significati simbolici degli affre-
schi che adornano le pareti della corte, per imporre, con vario grado di discrezione,
tematiche encomiastiche o ‘politicamente corrette’, o anche solo per orientare il gusto
degli scrittori le cui opere dovevano diffondere e amplificare la fama anche di chi le
aveva promosse o commissionate.
La corte, un circuito socialmente chiuso La corte proprio perché è il centro di convergenza di gran
parte delle personalità più eminenti dell’epoca e il luogo d’incontro fra autori, com-
mittenti e fruitori primi dell’opera d’arte, è anche il principale luogo di confronto e di
scambio di idee, di circolazione di testi. Ma è anche un circuito socialmente chiuso,
impermeabile all’esterno: così, rispetto alla realtà di Firenze e di qualche altro comune
toscano del Duecento e del Trecento, che vedevano un più intenso scambio tra intel-
lettuali e vita cittadina, l’età delle signorie favorisce, per il ruolo egemone della corte,
lo sviluppo di una cultura aristocratica nello spirito e una più netta divaricazione tra
cultura alta (prevalentemente scritta e ispirata ai principi dell’umanesimo) e cultura po-
polare (anche scritta, ma più spesso orale, di intrattenimento o di natura devozionale).
La corte luogo della festa e del teatro La corte è anche il luogo della festa aristocratica e della rap-
presentazione teatrale. Questo è un fatto nuovo e degno di rilievo: tra Quattro e Cin-
quecento viene rimesso in scena il teatro antico e specialmente di quello comico.
Dapprima nei cortili dei palazzi signorili e poi al chiuso, si costituiscono delle struttu-
re apposite, per ora provvisorie e mobili (solo a fine Cinquecento architetti di valore,
come Palladio e Scamozzi, costruiranno i primi teatri stabili, il Teatro Olimpico di Vi-
cenza nel 1580 e il Teatro di Sabbioneta nel 1583). La rappresentazione teatrale divie-
ne così un vero e proprio rito collettivo di una società elitaria e laica. Le rappresenta-
zioni sono riservate a un pubblico selezionato di invitati (mentre altre manifestazioni,
ad esempio i tornei o i cortei solenni, prevedono l’uscita dal palazzo e quindi l’am-
missione di un pubblico più vasto, allo scopo di produrre un più ampio consenso po-
n Enea Silvio Piccolomini in- polare). A rappresentare i testi sono chiamati dapprima gli stessi cortigiani in veste di
coronato poeta da Federico III
d’Asburgo, 1507.
attori dilettanti; dell’organizzazione sono incaricati talora intellettuali di primo piano,
come nel Cinquecento Ariosto alla corte estense o Castiglione a quella urbinate.
La Chiesa, principale alternativa alla corte Ma il dato di maggior rilievo è che la principale alter-
nativa alla corte è, ancor più che nel Trecento, la Chiesa. Essa spesso costituisce per i
letterati un vero e proprio surrogato – talora persino meno vincolante – del mecena-
tismo dei principi. Ad attrarre gli intellettuali e in particolare i letterati di quest’epoca
sono soprattutto le possibilità offerte dal godimento di benefici ecclesiastici, che im-
plicava obblighi relativamente modesti (ad esempio, ma non sempre, il celibato, un
vincolo peraltro facilmente aggirabile): era stato il caso di Petrarca, e sarà quello di
Ariosto. Non è però infrequente il caso di umanisti nominati vescovi o cardinali (talo-
ra per puri meriti culturali), e un umanista come Enea Silvio Piccolomini addirittura
diventa papa senza per questo abbandonare la sua attività letteraria.
Pur nell’ambito di un sistema di valori basato sulla cultura cristiana, come si è visto,
l’età che precede il Concilio di Trento è caratterizzata da una sostanziale laicizzazione
e mondanizzazione dell’ideologia e della cultura. Ora il fatto che fra i letterati i chie-
rici siano in aumento, e che fra questi ci siano alcuni dei nomi più rilevanti della cul-
tura “laica” dell’epoca, può apparire sorprendente. Certo è che questo fatto getta luce
sulle difficoltà di realizzazione professionale che incontrano gli intellettuali, i quali, pur
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15. Cultura e società nel primo Rinascimento STORIA

non avendo in molti casi un’autentica vocazione, sono indotti a scegliere la condizio-
ne ecclesiastica. Ma getta anche luce sulla tolleranza della Chiesa di questi anni e sulla
sua disponibilità a favorire la produzione intellettuale, letteraria e artistica, anche indi-
pendentemente dall’impegno degli scrittori in campo morale e religioso.
Il mercato librario: un’occasione perduta Un’alternativa a corte e Chiesa avrebbe forse potuto
fornirla il mercato librario negli anni della diffusione della stampa, a partire cioè dalla
fine del Quattrocento. Tuttavia questo fenomeno non assunse dimensioni rilevanti: nel
periodo 1450-1550 solo il 5,7% degli intellettuali sono «scrittori-stampatori-editori»,
per lo più in proprio; più difficile da quantificare è invece la percentuale di quanti
svolgevano un’attività saltuaria come collaboratori o consulenti degli editori, con re-
tribuzioni verosimilmente non tali da consentire l’autonomia economica. Tra i fattori
che ostacolarono questo sviluppo va considerato in primo luogo il fatto che il diritto
d’autore non era adeguatamente tutelato: ciò riduceva molto la possibilità che un au-
tore percepisse il necessario per vivere dalla pubblicazione delle sue opere, anche se
molto diffuse, e tanto più nell’Italia politicamente divisa, per cui i privilegi di stampa,
validi solo nel territorio dello stato, avevano diffusione assai limitata (in pratica il let-
terato ferrarese poteva esigere diritti d’autore solo dallo stampatore ferrarese, mentre
nessuno vietava a quello milanese o napoletano di stampare la stessa opera senza retri-
buire l’autore e magari di diffonderla a minor prezzo anche nel ducato di Ferrara).
D’altro canto la mentalità del tempo reputava poco onorevole trarre compensi dalle
opere d’invenzione e induceva a preferire i donativi dei signori, a cui l’opera era de-
dicata. Per queste e altre ragioni l’invenzione della stampa, evento grandioso sul piano
culturale, non produsse immediati effetti su quello della condizione sociale degli intel-
lettuali: il mercato librario non costituì insomma una valida alternativa alla corte o al-
la chiesa e in definitiva si dimostrò, sotto questo rispetto, un’occasione perduta.
I cenacoli e le accademie Gli umanisti sentirono fortemente l’esigenza di incontrarsi, discutere, con-
frontarsi e cooperare per la ricerca della verità e la definizione delle proprie tesi e
crearono vincoli di reciproca solidarietà umana e intellettuale. La frequenza degli in-
contri e la libera, disinteressata conversazione, anzi, ben presto divennero un topos let-
terario applicato alle biografie degli stessi umanisti. Ma è indubbio che nel Quattro-
cento, a corte, nei giardini dei palazzi di qualche maestro o di qualche mecenate, si
svilupparono incontri, riunioni fra intellettuali con una frequenza e soprattutto con
una rilevanza culturale ignote al recente passato. Tant’è che di questi cenacoli umani-
stici o accademie si può parlare come di una vera e propria istituzione culturale, anche
se a lungo informale. Questi sodalizi sono caratterizzati innanzitutto dalla comunanza
n Ritratto di Marsilio Ficino. di interessi e da un forte vincolo solidaristico, ma sono anche l’espressione di un pro-
getto secondo cui il dialogo e lo scambio di idee costituiscono un fattore essenziale
della formazione individuale e della ricerca culturale. Gli umanisti certamente idealiz-
zarono questi cenacoli, descrivendoli come liberi, aperti e disinteressati, ma essi costi-
tuiscono pur sempre uno dei fenomeni di rilievo di quest’epoca.
Fra le prime e più importanti accademie vanno ricordate l’Accademia platonica,
ispirata e guidata da Marsilio Ficino a Firenze a partire dal 1463 circa, e vicina ai Me-
dici che la protessero; l’Accademia alfonsina e poi pontaniana, sviluppatasi sotto la pro-
tezione aragonese a Napoli per impulso e sotto la guida del Panormita prima e di
Giovanni Pontano più tardi; l’Accademia romana di Pomponio Leto, attiva a partire
dal 1460; l’Accademia aldina, sviluppatasi attorno allo stampatore-umanista Aldo Ma-
nuzio a Venezia sul finire del secolo. Già in parte con alcune di queste accademie, ma
soprattutto con le molte altre sorte dagli inizi del Cinquecento, assistiamo però a un
processo di regolamentazione e di burocratizzazione: le accademie sempre più spesso
si danno norme, statuti, determinano più rigidamente le procedure di accesso, i propri
compiti istituzionali e così via.
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Quattrocento e Cinquecento

Le botteghe degli stampatori e dei librai La presenza di un celebre stampatore umanista, Aldo Ma-
nuzio, tra i fondatori e gli ispiratori di un’importante accademia, la presenza più defila-
ta, poi, di molti altri stampatori nei cenacoli e nelle accademie dell’epoca, e infine i
contatti da parte di molte accademie con il mondo dell’editoria lasciano intuire come
anche le botteghe degli stampatori siano diventate in questo periodo un centro essen-
ziale della produzione e della circolazione culturale. Queste furono in effetti luoghi di
incontro, di discussione e di elaborazione della cultura, non di mera esecuzione tecnica,
e meritano il massimo interesse, così come le sempre più ricche e fornite botteghe dei
librai. Il panorama cittadino si arricchisce di un nuovo punto di riferimento per tutti
coloro che potevano accedere alla lettura e specialmente per gli intellettuali che, pur
non traendone di che vivere, sempre più sono coinvolti nel mondo dell’editoria.
Le biblioteche Importante è anche la fondazione delle prime biblioteche pubbliche, che favorisco-
no una più sicura conservazione e una più agevole circolazione del patrimonio librario.
Se già a Petrarca era balenata l’idea – rivoluzionaria per il tempo – di costituire una bi-
blioteca pubblica, aperta agli studiosi e agli amatori, ora questa idea si concreta. Molte
biblioteche, da luogo di conservazione privata del patrimonio librario (com’erano sta-
te e in parte ancora erano le biblioteche signorili, che conservavano spesso i libri in ar-
madi o in casse accanto al tesoro o in luoghi non subito accessibili) o da luogo di studio
strettamente riservato (secondo il modello della biblioteca monastica che conservava
spesso i libri incatenati ai leggii), diventano ora luoghi non solo di conservazione ma
anche di circolazione della cultura. Incrementano sistematicamente e talora secondo
precisi progetti il patrimonio librario, lo rendono più accessibile, favoriscono il prestito,
sia pur nell’ambito di limitate cerchie intellettuali. Sorgono così la biblioteca fiorentina
di S. Marco (Medicea pubblica), fondata da Cosimo de’ Medici, e più tardi la Lauren-
ziana, istituita dal Magnifico; la biblioteca Vaticana, aperta al pubblico da Sisto IV, che
era la più ricca dell’epoca essendo dotata di oltre tremilacinquecento volumi (1484); la
biblioteca Marciana di Venezia (1460); mentre tra le raccolte signorili spicca quella ur-
binate dei Montefeltro, ricchissima e ben presto rinomatissima. Il numero di testi con-
servati si accresce notevolmente con la diffusione dei testi a stampa.
Accanto a queste e ad altre imponenti biblioteche signorili andrà infine ricordato il
ruolo che in quest’epoca assolsero alcune grandi collezioni private di umanisti (la più
celebre e più cospicua è quella di Pico della Mirandola): scambi e prestiti di libri nel-
l’ambito della sodalitas (sodalizio) di cui si è discorso consentirono a molti umanisti di
fornirsi dei testi indispensabili per i propri studi. Col tempo, insomma, dalla fase ‘eroi-
n Sopra. La biblioteca di San ca’ di riscoperta dei classici dimenticati nelle ‘carceri’ di biblioteche inaccessibili e
Marco.
n Sotto. Melozzo da Forlì: Il inutilizzate si passa alla fase di stabile circolazione e sfruttamento di un patrimonio li-
papa Sisto IV nomina il pre- brario che va organizzandosi e strutturandosi al meglio.
fetto della Biblioteca Vatica-

15.5 La lingua e i dibattiti sulla lingua


Il latino, lingua degli umanisti Per gran parte del Quattrocento il predominio del latino come lingua
di cultura è nettissimo; il volgare viceversa si conquista nuovi spazi nell’uso pratico, ad
esempio come lingua delle cancellerie. La stragrande maggioranza delle opere degli
umanisti è composta in latino; il latino è la lingua per eccellenza non solo della co-
municazione epistolare e della trattatistica ma anche, in moltissimi casi, della poesia e
della narrativa. Col progresso degli studi filologici gli umanisti cercano di uniformarlo
a quello dei grandi autori della latinità classica (Cicerone, Livio, Seneca...). È significa-
tivo dello sviluppo in atto che gli umanisti della seconda e terza generazione possano
rimproverare a quelli della prima e ai preumanisti (non escluso lo stesso Petrarca) di-
fetti di stile, lontananza dai modelli della latinità aurea: così fa ad esempio il Valla in
una celebre polemica con Poggio Bracciolini.
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15. Cultura e società nel primo Rinascimento STORIA

Il Certame coronario e la riscossa del volgare Ma già nel corso del Quattrocento si fa luce una con-
trotendenza che mira a riconoscere dignità al volgare, a ripristinargli zone d’uso non
subalterne, a sostituirlo infine al latino come lingua della cultura. Nel 1441 si colloca il
Certame coronario, gara poetica in volgare, voluta da Leon Battista Alberti e patrocinata
da Piero de’ Medici, nella speranza di stimolare gli scrittori a cimentarsi in opere vol-
gari. Il Certame risulta un fallimento, vista la modestia delle opere presentate a concor-
so, e il premio non viene neppure assegnato, ma costituisce comunque un indizio si-
gnificativo. Nella seconda metà del secolo, auspice soprattutto la corte medicea con
Lorenzo in testa, i tentativi si moltiplicano e i risultati finalmente giungono: opere di
qualità in volgare vengono prodotte sia in poesia che in prosa; e molti umanisti affian-
cano sempre più spesso il volgare al latino.
Attorno al 1480 questa controtendenza raggiunge il suo punto critico. Con Poli-
ziano, Boiardo, Sannazaro l’umanesimo volgare giunge a piena maturazione. Il volgare
riprende a sottrarre spazi d’uso al latino in quasi tutti i generi, anche in quelli mai pri-
ma tentati: «la tragedia, la commedia, la satira hanno i primi esempi in italiano proprio
in questo scorcio di secolo» (Migliorini). La stessa scelta degli umanisti di privilegiare
rigidamente il latino classico e quello ciceroniano in particolare tende a fare del latino
una lingua morta sempre più svincolata dai processi comunicativi reali, favorendo co-
sì il recupero del volgare, più duttile e ancorato alla realtà.
Un volgare modellato sul latino Nel corso del Quattrocento appare chiaro però che anche la ripre-
sa del volgare è condotta secondo le linee tracciate da Petrarca e Boccaccio, che ave-
vano cercato di attribuire alla lingua materna il decoro formale del latino. Il volgare
degli umanisti infatti in questa fase cerca esso pure ispirazione nei classici latini, e cer-
ca di competere col latino umanistico in dignità, eleganza, raffinatezza di dettato. Se-
condo Cristoforo Landino «è necessario essere latino chi vuol esser buon toscano»: bi-
sogna cioè conoscere e ispirarsi al latino per scrivere bene in toscano. Il periodare ela-
borato, ricco di subordinate talora sino al quarto e quinto grado, ne è un segno. E ne è
un segno anche la crescente frequenza di latinismi in ambito lessicale, come dimostra
la stessa denominazione della gara intesa a promuovere l’uso del volgare (Certame coro-
nario, cioè competizione che assegna una corona d’alloro, è un ruvido latinismo).
Il primato del fiorentino letterario Concretamente gli scrittori quattrocenteschi che scelgono il vol-
gare partono dalle proprie parlate locali, che cercano di depurare dai più evidenti dia-
lettismi lessicali, morfologici e sintattici, e di nobilitare ispirandosi per un verso al lati-
no e per un altro ai modelli letterari trecenteschi. A lungo, insomma, le radici locali
della lingua degli scrittori si fanno sentire: tanto che per uno storico della lingua è ab-
bastanza agevole indicare da quale area geografica provenga uno scritto di questo pe-
riodo. Tuttavia l’influsso degli scrittori trecenteschi è destinato col tempo a risultare
determinante e ad orientare gli scrittori di tutta Italia verso il toscano e in particolare
verso il fiorentino letterario di Dante, Petrarca, Boccaccio.
Il dibattito sulla lingua: i sostenitori del latino Le concrete vicende linguistiche che abbiamo de-
scritto sono accompagnate da riflessioni teoriche sulla natura e le potenzialità di latino
e volgare e, nei momenti più critici, da vere e proprie polemiche circa la superiorità
dell’una o dell’altra lingua. Spregiatori del volgare specialmente nella prima metà del
Quattrocento ve ne furono parecchi; nacque anzi una vera e propria «cultura antivol-
gare» (Gensini), come testimonia Domenico da Prato, ricordando i molti che sostene-
vano «il libro di Dante esser da dare a li speziali per farne cartocci, o vero più tosto, a
li pizzicagnoli per porvi dentro il pesce salato, perché vulgarmente scrisse». La pole-
mica contro Dante è condotta «in nome di una scelta rigorosa di aristocrazia linguisti-
ca»: Bruni attribuisce a Salutati l’opinione che Dante, se avesse scritto in latino, sareb-
be stato superiore ai grandi poeti dell’antichità. Ma «vulgarmente scrisse», scrisse cioè
in una lingua che a molti non appariva degna di affrontare argomenti destinati ad es-
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Quattrocento e Cinquecento

sere tramandati ai posteri. Se nel Quattrocento la polemica contro il volgare non ap-
pare poi tanto diffusa e virulenta quanto le affermazioni appena citate lascerebbero
pensare, ciò dipende forse proprio dalla generale supremazia del latino nell’uso con-
creto e nell’opinione dei dotti, che spesso non ritengono neppure utile affrontare un
argomento che appare del tutto scontato.
Assai significativi e ispirati sono viceversa nei medesimi anni gli elogi della lingua
latina, al di là di ogni intento polemico contro il volgare, ma per pure finalità di entu-
siastica celebrazione. A questo proposito nessuna pagina è forse più esplicita e sugge-
stiva della prefazione di Lorenzo Valla ai suoi Elegantiarum linguae latinae libri sex [Sei li-
bri delle Eleganze della lingua latina, 1435-1444]: qui egli vincola strettamente le sorti
della civiltà a quelle della lingua, identificandole quasi; dichiara che la diffusione della
cultura e della lingua latina fu impresa superiore alla stessa diffusione dell’impero; e
conclude che la missione degli umanisti deve essere quella di ripristinare lo splendore
dell’antica lingua per ripristinare mediante essa l’antica civiltà. Il latino è dunque cele-
brato come strumento di civiltà, e la sua celebrazione è strettamente connessa alla più
feconda attività culturale e civile degli umanisti di questa prima fase [R T 16.2 ].
I difensori del volgare Ma vi furono anche difensori del volgare. Mentre esso conquista nuovi spazi
negli usi pratici, in ambito letterario – anche umanistico – molti si preoccupano di av-
viare un’equilibrata riflessione sulla sua origine, sui suoi ambiti di utilizzazione, sulle
sue virtualità letterarie. Flavio Biondo ad esempio confuta la tesi dantesca che latino e
volgare coesistessero sin dall’antichità come lingue indipendenti e che il latino fosse
una lingua solo letteraria, diversa dal volgare. Ciò significava «ammettere che qualsiasi
lingua plebea e parlata potesse assurgere all’espressione ornata, toccare, rispondendo ai
bisogni dell’arte, i più alti valori artistici e grammaticali. Era, questa, la via per riabili-
tare il volgare e riscattare dal giudizio negativo le opere dei grandi poeti toscani» (Vi-
tale). Siamo nel 1435. Più o meno negli stessi anni Leon Battista Alberti scrive in dife-
sa del volgare una pagina celebre, la prefazione al terzo dei Libri della famiglia: dichiara
di scrivere in volgare per farsi intendere da tutti e di voler piuttosto «giovare a molti
che piacere a pochi»; afferma la dignità del volgare e ne sostiene le potenzialità pro-
prio in paragone col latino: «e sia quanto dicono quella antica [lingua latina] apresso di
tutte le genti piena di autorità, solo perché in essa molti dotti scrissero, simile certo
sarà la nostra s’e’ dotti la vorranno molto con suo studio e vigilie essere elimata e po-
lita»; il che si converte in un invito ai dotti a scrivere in volgare per elevarlo all’eccel-
lenza del latino.
L’invito dell’Alberti nella seconda metà del secolo viene seguito da molti, ed egli
stesso funge da modello. Cristoforo Landino potrà constatare che l’auspicio dell’Al-
berti almeno in parte si è realizzato: «già da ora per la vertù degli scrittori da me no-
minati [la lingua volgare] è divenuta abbondante et elegante, et ogni giorno, se non
mancheranno gli studi, più diventerà». Sono gli anni in cui giunge a maturazione l’u-
manesimo volgare: uno dei suoi massimi rappresentanti, il Poliziano, può a buon dirit-
to scrivere queste parole in un’epistola premessa a una raccolta di liriche in volgare in-
viata da Lorenzo de’ Medici a Federico d’Aragona nel 1476: «Né sia più nessuno che
quella toscana lingua come poco ornata e copiosa disprezzi. Imperocché, se bene giu-
stamente le sue ricchezze e ornamenti saranno estimati, non povera questa lingua, ma
abbondante e politissima sarà ritenuta». Le discussioni e le polemiche sul ruolo delle
due lingue continuano per quasi tutto il Cinquecento: ma ormai le posizioni dei fau-
tori del latino appaiono sostanzialmente nostalgiche e tanto più virulente quanto più si
deve constatare che il “toscano” ha ormai imposto la sua supremazia. «Sono gli ultimi
episodi» rileva il Vitale «di una battaglia ormai del tutto perduta» (Vitale).

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15. Cultura e società nel primo Rinascimento VERIFICA

VERIFICA

1 Su quali basi si può impostare la periodizzazione dell’età umanistico-rinascimentale?


2 Spiega i concetti di “umanesimo latino”, “umanesimo volgare” e “umanesimo civile”.

15.1 La società signorile

3 Che cosa sono le Signorie, quando si formano e che caratteristiche istituzionali hanno?
4 Quali sono i limiti del potere signorile?
5 Che cosa si intende, parlando dell’Italia rinascimentale, per policentrismo culturale?
6 Che cosa caratterizza il quarantennio che separa la pace di Lodi dalla discesa di Carlo VIII?
7 Come reagiscono gli scrittori alla discesa di Carlo VIII in Italia?
8 Che ruolo assolve la religione cristiana nell’età rinascimentale e quali sono i suoi rapporti
con la cultura laica?
9 Ci furono in questo periodo fenomeni di rivalutazione del paganesimo antico?

15.2 Renovatio fidei e Umanesimo cristiano

10 Illustra il concetto di Renovatio fidei [Rinnovamento della fede].


11 Che cosa caratterizza la religiosità di Erasmo da Rotterdam?
12 Che cosa caratterizza invece la religiosità di Gerolamo Savonarola?

15.3 L’invenzione della stampa

13 Spiega quando e dove si sviluppò la stampa a caratteri mobili.


14 Quali sono i principali effetti dell’invenzione della stampa?
15 Come reagiscono i letterati alla nuova invenzione?

15.4 Gli intellettuali fra corte e Chiesa

16 Illustra brevemente la condizione socio-professionale degli intellettuali di quest’epoca.


17 Quali sono le caratteristiche più importanti della corte in relazione all’attività artistico-let-
teraria?
18 Che cosa si intende per mecenatismo? Quali sono le sue caratteristiche e i suoi limiti?
19 Spiega il concetto di corte come «circuito socialmente chiuso».
20 Come e in che misura influì l’invenzione della stampa sulla condizione sociale degli intel-
lettuali?
21 Che cosa sono i cenacoli e le accademie?
22 Quali sono le novità più importanti nell’organizzazione delle biblioteche?

15.5 La lingua e i dibattiti sulla lingua

23 Qual è la diffusione del latino e del volgare nel Quattrocento?


24 Che cos’è il Certame coronario? Chi lo promosse e perché?
25 Illustra brevemente il dibattito su latino e volgare.

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Quattrocento e Cinquecento

Umanesimo e letteratura
16 umanistica

n Sandro Botticelli, Un gio- L’Umanesimo fu un grande movimento di riscoperta sentì di leggere in originale e di restituire al mondo oc-
vane uomo viene condotto al dell’antichità classica e di alcuni suoi valori fondamen- cidentale molti capolavori antichi, a partire dalle opere
cospetto delle arti liberali (af-
fresco, Louvre). tali. Il termine umanesimo deriva dal latino studia hu- di Omero.
manitatis, gli studi cioè che avevano per oggetto l’uomo Mossi dall’ammirazione per l’antichità classica, gli
(in particolare quelli letterari, storici, filosofici) distinti umanisti si proposero di emularla; da quel passato li se-
dagli studia divinitatis, che avevano per oggetto la divi- parava però quella che essi definirono l’età di mezzo, la
nità. Le origini dell’Umanesimo (preumanesimo) risal- media aetas, da cui derivano il concetto e il termine di
gono a Petrarca che nel Quattrocento ne fu considerato Medioevo, che noi ancora oggi utilizziamo. Essi la de-
l’iniziatore; ma un forte impulso lo diedero nel tardo Tre- scrissero come un’età di decadenza da cui intendevano
cento anche Boccaccio e altri letterati toscani suoi ami- distanziarsi e risollevarsi. Consapevoli della difficoltà
ci e discepoli. dell’impresa di riportare il mondo moderno allo splen-
Il culto per l’antichità classica portò alla ricerca e dore dell’antico, solo a Quattrocento inoltrato essi si
alla riscoperta di antichi codici contenenti opere clas- convinsero di essere riusciti a far ‘rinascere’ l’antico.
siche che nel Medioevo si credevano perdute (celebri i Da questa idea deriveranno il termine e il concetto di
ritrovamenti di Bracciolini), ma anche ad elogi del mon- Rinascimento.
do antico e dei suoi scrittori, della lingua latina intesa Grande impulso ebbe una nuova disciplina, la filolo-
come strumento di civiltà e degli studi umanistici che li gia, che si propone, con un metodo razionale e obiettivo,
riportavano in auge. Dopo secoli di oblio totale, si diffu- di dare edizioni dei testi scrupolosamente esatte e ri-
se anche una nuova e approfondita conoscenza della spettose della volontà degli autori. Essa può essere
lingua greca – favorita dall’emigrazione di molti dotti considerata la disciplina simbolo dell’umanesimo, per-
bizantini dopo la caduta di Costantinopoli – che con- ché consentì una riscoperta autentica anche dal punto

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16. Umanesimo e letteratura umanistica STORIA

| | | | | | | | | | | | | |
1300 1320 1340 1360 1380 1400 1420 1440 1460 1480 1500 1520 1540 1560

Francesco Petrarca 1304 1374


Giovanni Boccaccio 1313 1375
Coluccio Salutati 1331 1406
Leonardo Bruni 1370 ca 1444
Guarino Veronese 1370 ca. 1460
Vittorino da Feltre 1373? 1446
Poggio Bracciolini 1380 1459
Giannozzo Manetti 1396 1459
Lorenzo Valla 1405 1457
Matteo Palmieri 1406 1475
Leon Battista Alberti 1404 1472
Cristoforo Landino 1424 1498
Marsilio Ficino 1433 1499
Angelo Poliziano 1454 1494
Pico della Mirandola 1463 1494
Erasmo da Rotterdam 1466 o 1469 1536
Pietro Paolo Vergerio 1498 1565

di vista ideologico del mondo classico (in contrapposi- no via via la bellezza del corpo, i piaceri terreni, la sag-
zione alle manipolazioni e interpretazioni allegoriche gezza della natura che ce li ha dati, l’educazione fisica
dei secoli precedenti) e favorì la formazione di una più (associata a quella intellettuale), la vita attiva (contrap-
moderna coscienza storica. Grazie al metodo filologico posta a quella contemplativa), l’impegno civile, nell’eco-
Lorenzo Valla poté ad esempio dimostrare che il docu- nomia nella società e nella politica, e infine l’uomo
mento che attestava la presunta Donazione di Costanti- stesso che grazie alla sua virtù, cioè capacità e intra-
no era un falso medievale. Erasmo da Rotterdam, poi, prendenza, si fa artefice della propria fortuna (homo fa-
applicò il metodo filologico anche ai testi sacri. ber fortunae suae). Ciò è tipico del cosiddetto umanesi-
L’ideale di uomo che si viene elaborando grazie a mo civile che si sviluppa soprattutto a Firenze fra Tre e
questi modelli e questi studi è quello di un uomo inte- Quattrocento. A Leon Battista Alberti poi si devono alcu-
grale, fatto di corpo e di anima in equilibrato e armonico ne delle più celebri affermazioni sulla possibilità che la
rapporto fra loro. Ma certo, in contrapposizione al rigori- virtù ha di vincere la fortuna.
smo morale e all’ascetismo religioso del più radicale Gli umanisti si impegnarono anche a fondare una
cristianesimo medioevale (ad es. il Disprezzo del mon- nuova pedagogia. Tenendo conto di tutti questi principi,
n Ritratto di umanista fiam- do di Lotario di Segni), molti umanisti sostennero che lo
mingo (inizio ’500).
essi miravano a una formazione integrale ed equilibrata
n Luciano Laurana, La città scopo principale della vita umana fosse raggiungere la (fisica, psicologica, intellettuale, morale, civile, religio-
ideale (part.). felicità terrena: così da una prospettiva laica, celebraro- sa...) dei giovani, da realizzarsi nel dialogo e nella letizia.
Verso la fine del Quattrocento a Firenze Marsilio Fi-
cino si fa promotore di un nuovo corso di studi filosofici
che, ispirandosi a Platone, riportano in primo piano la
spiritualità e la vita contemplativa. Pico della Mirando-
la poi compie una delle più alte celebrazioni della digni-
tà dell’uomo e della sua possibilità di determinare il
proprio destino: ora però la prospettiva non è più quella
della vita terrena e della società civile, ma quella verti-
ginosamente più ampia del cosmo, dell’universo intero.
È una nuova fase che segna il parziale declino del-
l’umanesimo civile, che alcuni spiegano con la crisi del-
la libera repubblica (la florentina libertas a lungo esalta-
ta dagli umanisti) e l’affermarsi della signoria medicea.

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Quattrocento e Cinquecento

16.1 Origini dell’Umanesimo. Gli studia humanitatis


Il termine, il concetto Il termine ‘Umanesimo’ deriva dall’espressione studia humanitatis con cui gli an-
tichi latini designavano l’insieme di studi letterari e filosofici che avevano come og-
getto l’uomo (rispetto a quelli che avevano come oggetto la natura o la divinità). Già
nell’antichità classica, però, la parola humanitas ha un significato che travalica quello
generico di ‘umanità’: nel corso dei secoli II-I a.C., per influsso della cultura greca che
in quel tempo fa il suo massiccio ingresso in Roma, assume via via un significato più
forte e pregnante: viene usato per indicare non solo la categoria astratta degli esseri
umani, ma l’insieme di qualità morali e culturali che distingue l’uomo dagli altri ani-
mali, e in particolare la magnanimità, la razionalità, la sensibilità, la cultura, la modera-
zione e la filantropia, l’amore cioè per gli altri uomini e una comprensione profonda
per la condizione umana. Si elabora insomma una visione ideale dell’uomo che ha le
sue radici nella filosofia greca e che in Roma viene a modificare, attenuandolo e ad-
n Un umanista nel suo stu-
dolcendolo, il più austero ideale tradizionale di vir romanus fondato sulla forza, sul co-
dio. raggio, sulla serietà, sulla perseveranza, sulle virtù cioè del guerriero e del politico pro-
prie dell’età arcaica. Il termine humanitas sintetizza questo nuovo ideale e studia huma-
nitatis viene a indicare il curriculum di studi, il percorso formativo più adatto a realiz-
zarlo. In questa nuova e più complessa accezione il termine humanitas risultava insom-
ma già al tempo di Cicerone pressoché inscindibile da quella formazione culturale che
aveva nei filosofi, negli oratori e nei letterati greci la fonte principale.
Il termine, nelle sue diverse accezioni, viene ripreso in Italia e in particolare a Fi-
renze verso la fine del Trecento, quando un rinnovato interesse per la cultura classica
caratterizza l’attività dei letterati di punta. Con l’espressione studia humanitatis in que-
st’epoca si designa dunque l’insieme di discipline (e specialmente gli studi letterari e
filologici) che mirano a riportare all’attenzione dei moderni la cultura classica latina e
greca, con il suo articolato ideale di humanitas, nello sforzo di definire un nuovo mo-
dello di comportamento umano da contrapporre o quantomeno da integrare a quello
medievale, sentito ormai come insufficiente.
Petrarca fu il primo Come sappiamo, il primo impulso al profondo rinnovamento culturale nel segno
della riscoperta e della rivalutazione della classicità che caratterizza il tardo Trecento e
il Quattrocento italiano (e poi di riflesso quello europeo) e che prenderà più tardi il
nome di Umanesimo, lo diede Francesco Petrarca. Egli incarna un nuovo modello di
intellettuale professionista totalmente dedito agli studi letterari e definisce e propugna
un nuovo modello culturale fondato su un’ideale conciliazione della cultura classica
con quella cristiana. Personalmente avvia un processo di riscoperta e diffusione delle
opere dei classici, che legge e interpreta con quel rispetto per l’originalità e l’autono-
mia del pensiero degli antichi che costituirà il presupposto indispensabile della na-
scente filologia. Tesse una serie di relazioni a livello europeo, scambiando libri e idee,
con altri appassionati lettori e studiosi della cultura antica e contribuisce a elaborare
un aristocratico ideale di res publica litterarum, di repubblica delle lettere, cioè una sorta
di comunità di tutti i dotti cultori degli studi classici, indipendentemente dalla loro
nazionalità o dal loro ceto sociale, che prefigura i futuri cenacoli umanistici. Agisce
dunque in una prospettiva non più municipalistica (come Dante), ma cosmopolita, so-
vranazionale. Come lingua esclusiva della prosa e più in generale come lingua della
cultura sceglie il latino (la lingua che accomuna tutti i letterati europei), che cerca di
riportare alla dignità dei modelli antichi, depurandolo dagli usi medievali. Elabora sia
in latino che nelle liriche in volgare un ideale di stile eletto, colto, raffinato, ispirato ai
valori dell’equilibrio e dell’armonia che erano propri degli antichi scrittori. Rimette
nel circolo della riflessione letteraria e filosofica tardo-medievale un ideale di saggez-
za come dominio di sé, come equilibrio, che ha i suoi principali referenti nei morali-

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16. Umanesimo e letteratura umanistica STORIA

sti antichi (Seneca in particolare). E questi non sono che gli aspetti fondamentali del
suo contributo alla formazione del movimento umanistico. Il primato di Petrarca in
questo senso è ben chiaro alla mente degli umanisti del tardo Trecento e del Quattro-
cento, che pure col tempo riconosceranno anche alcuni ovvii limiti della sua azione
(ad esempio nel riportare il latino alla raffinatezza dell’uso antico). Esemplare è la te-
stimonianza di Leonardo Bruni, che esplicitamente gli attribuisce il merito di inizia-
tore del movimento umanistico.

Doc 16.1 Petrarca fu il primo

L. Bruni, [Per] insino al tempo di Dante lo stile litterato pochi sapevano, e quelli pochi il sapeva-
Vita di Petrarca no assai male, come dicemmo nella vita di Dante. Francesco Petrarca fu il primo, il qua-
le ebbe tanta grazia d’ingegno che riconobbe e rivocò in luce l’antica leggiadria dello
stile perduto e spento e, posto che in lui perfetto non fusse, pur da sé vide ed aperse la
1 Tullio: M.Tullio Ci-
via a questa perfezione, ritrovando l’opere di Tullio1 e quelle degustando e intendendo,
cerone (106-43 a.C.), in-
signe oratore e uomo po- adattandosi quanto poté e seppe a quella elegantissima e perfettissima facondia; e per
litico romano. certo fece assai, solo a dimostrare la via a quelli che dopo lui avevano a seguitare.

Boccaccio e il pre-umanesimo Bisogna peraltro riconoscere che anche Boccaccio, muovendosi nel
culto di Petrarca e sviluppando molte delle intuizioni del maestro, dà un notevole
contributo in proposito, riunendo attorno a sé a Firenze un circolo di dotti che costi-
tuirà il nucleo originario dell’umanesimo fiorentino e, ad esempio, favorendo tra i pri-
missimi una rinnovata attenzione allo studio della lingua greca. C’è insomma una fi-
liazione diretta che lega la figura cosmopolita e irrequieta di Petrarca, il suo amico e
discepolo Boccaccio, stabilmente radicato in Firenze, e il primo Umanesimo fiorenti-
no che ha in Coluccio Salutati (1331-1406) la sua figura di spicco.
Riscoperta dei classici Se l’Umanesimo – come abbiamo visto – è strettamente legato allo studio
delle opere dell’antichità classica, fondamentale appare l’opera di ampliamento del
canone degli autori classici noti e leggibili, che nei secoli precedenti era stato assai
limitato. Ciò avviene innanzitutto in un modo molto concreto. In questi anni (dalla
fine del Trecento a tutto il Quattrocento) moltissimi testi antichi di cui si era persa
notizia vengono infatti recuperati e rimessi in circolazione: in qualche caso si tratta
di scoperte casuali, in altri il frutto di un’attività di investigazione sistematica delle
biblioteche monastiche ed ecclesiastiche. Una volta resisi disponibili, i nuovi testi
vengono rapidamente immessi nel circuito culturale, grazie alla trama di relazioni
che gli umanisti intessono e presto grazie al decisivo apporto della stampa. Se un
tempo la presenza e anche la conoscenza di un codice in una singola biblioteca non
ne garantiva l’effettiva diffusione, ora questa conoscenza da parte di un umanista si-
gnifica quasi immediatamente la disponibilità di quel codice nell’intero circuito del-
la cultura d’avanguardia. Si determina così un circolo virtuoso: il desiderio di cono-
scere meglio la letteratura classica spinge all’investigazione, la riscoperta di testi che
si erano creduti perduti per sempre migliora la conoscenza dell’antichità e dà un for-
midabile impulso all’approfondimento degli studi.
Bracciolini: la liberazione dei classici Poggio Bracciolini (1380-1459) non fu il solo autore di im-
portanti scoperte, ma certo è il più famoso e può essere considerato il rappresentante
esemplare di questa attività di ricerca. A lui si deve la riscoperta, la trascrizione e la dif-
fusione di opere fondamentali dell’antichità latina: alcune orazioni di Cicerone, l’Insti-
tutio oratoria di Quintiliano, il De rerum natura di Lucrezio, le Silvae di Stazio e vari altri
testi. Ma egli è una figura emblematica anche per via della splendida lettera del 15 di-
cembre del 1416 a Guarino Veronese [R T 16.1 ] in cui narra alcune sue scoperte nel
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Quattrocento e Cinquecento

monastero di San Gallo e manifesta con un’evidenza quasi simbolica l’entusiasmo per
i suoi ritrovamenti: ci parla di quei codici come si trattasse di persone vive a lungo de-
tenute in oscure «carceri» («Ho trovato Quintiliano ancor salvo ed incolume, ancorché
tutto pieno di muffa e di polvere»), definisce la sua scoperta come una loro ‘liberazio-
ne’, una sottrazione a un «ingiusto supplizio», mostra insomma di proiettarsi verso i te-
stimoni cartacei di quel mondo di cultura e di sapienza come a interlocutori vivi e
presenti, che si possono interrogare e che possono darci risposte preziose intorno a
problemi fondamentali del nostro essere e del nostro esistere. L’idea del dialogo con gli
antichi, che già era balenata nelle pagine in cui Dante affidava a Virgilio il compito di
guidarlo nell’aldilà («Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore, / tu se’ solo colui da cu’ io
tolsi / lo bello stilo che m’ha fatto onore», If I 85-87) e, in forme più nuove, nelle pa-
gine di Petrarca quando indirizzava epistole «dal regno dei viventi» a Cicerone o a Se-
neca, si rafforza ulteriormente e diventa metafora pregnante del senso nuovo che si at-
tribuisce al rapporto con l’antichità classica.
La lingua latina come strumento di civiltà In questo contesto la drastica scelta del latino come lin-
gua della cultura, oltre che essere funzionale alla comunicazione nell’ambito di una
comunità sovranazionale, assume anche un rilievo culturale e simbolico. Il latino è
sentito come lingua d’elezione e viene celebrato per la sua nobiltà intrinseca, ma an-
che per il suo essere tramite principale di conoscenza del mondo classico e quindi
perfetto strumento di nutrimento culturale. Esemplare in questo senso è la prefazione
che Lorenzo Valla (1405-1457) scrive al primo degli Elegantiarum libri: qui si dice, ad
esempio, che mentre la conquista militare romana si era svolta «con le armi, la guerra e
il sangue» e, per quanto duratura, era pur sempre risultata transitoria, la conquista cul-
turale attuata grazie alla diffusione della lingua latina era stata una conquista pacifica, si
era svolta «con benefizi, con l’amore e la concordia», senza mortificare ed anzi arric-
chendo le popolazioni che la accoglievano, ed era stata una conquista molto più dura-
tura di quella militare e per molti versi imperitura [R T 16.2 ]. Ma nelle celebrazioni del
latino, come quella esemplare di Valla, non c’è solo l’elogio del latino in quanto lingua
specifica, c’è anche la celebrazione della lingua in sé come strumento di civiltà e degli
studi linguistici come mezzo di formazione e, diremmo, nobilitazione culturale. Espli-
citamente Valla asserisce lo sviluppo parallelo e interdipendente della lingua e della ci-
viltà di un popolo: «E chi ignora che studi e discipline fioriscono quando la lingua è
in fiore, e decadono quand’essa decade?».
Latino ecclesiastico medievale e latino umanistico Il latino che si vuole adottare come lingua
della cultura umanistica non è beninteso il povero e rozzo (così appare agli scrittori
quattrocenteschi) latino ecclesiastico medievale; bensì proprio il latino dei classici, re-
staurato nelle sue strutture morfologico-sintattiche, nel suo patrimonio lessicale, nel-
la varietà dei registri e, negli auspici, riportato all’antica dignità e all’antico splendo-
re. E in effetti il progresso straordinario delle conoscenze, degli studi, la moltiplica-
zione dei testi d’autore disponibili favorisce in breve tempo anche un significativo
raffinamento del latino umanistico. Nel corso del secolo si apriranno dispute su qua-
li siano i modelli da seguire e imitare (Cicerone, Virgilio o tutti i buoni autori); ma
è un fatto che si salta a piè pari quasi tutta la latinità medievale per attingere anche
in questo caso alle più prestigiose e raffinate fonti originarie. Fra gli scrittori cristia-
ni, quanto a lingua e stile, si salvano esclusivamente alcuni dei più antichi apologeti
e padri della Chiesa formatisi direttamente, prima della conversione, alla scuola dei
classici latini (Lattanzio, detto il «Cicerone cristiano», e Agostino, ad esempio; ma con
l’uno siamo nel III e con l’altro al IV-V secolo d.C., ancora nell’evo antico, insom-
ma). Persino la lingua di Petrarca, come si è visto, e degli altri scrittori pre-umanisti
trecenteschi presto appare viziata da un’eccessiva dipendenza dalle forme rozze e
corrotte del latino medievale.
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16. Umanesimo e letteratura umanistica STORIA

Elogi degli studia humanitatis Come quello della lingua latina, così anche l’elogio degli studia humani-
tatis diviene in breve un topos della letteratura umanistica. Si può dire che nessuno
scrittore manchi l’opportunità di tessere, almeno una volta, la lode del nuovo cursus di
studi.Via via si mettono in luce aspetti particolari: il canone degli autori da leggere, i
metodi da seguire, i benefici che questi studi apportano alla formazione culturale e
morale dell’individuo e del cittadino, la compatibilità con gli studia divinitatis e via di-
cendo. Ma comune a tutte queste laudationes è l’afflato, lo spirito che le promuove: una
profonda consapevolezza del valore degli studi umanistici e un entusiasmo per le fon-
ti classiche a cui essi consentono di accedere. Così è nelle pagine di Coluccio Salutati
e di Leonardo Bruni (1370-1444) [R T 16.3 ] o del segretario apostolico Gasparino
Barzizza, che ad esempio scrive: « Chi v’è infatti fra voi che non intenda che tutte le
arti umane hanno tra loro, come dice Cicerone, un vincolo comune e sono unite da
un legame di parentela? Chi non si accorgerebbe che la vita degli uomini senza que-
ste arti sarebbe non solo deserta e derelitta, ma di gran lunga inferiore e peggiore per-
fino di quella di molti animali?».
Studi greci Già Boccaccio aveva contribuito alla ripresa degli studi greci, favorendo l’attribu-
zione presso lo Studio fiorentino a Leonzio Pilato della prima cattedra di greco nel-
l’Europa occidentale, e stimolandolo a tradurre Omero (R13.1). Con il Quattrocento
il processo di diffusione della conoscenza della lingua e della cultura greca si intensifi-
ca: nel 1396 il dotto bizantino Manuele Crisolora viene incaricato di insegnare lingua
e letteratura greca allo Studio fiorentino (auspice il Salutati): tra i suoi allievi ci sono
Guarino Veronese e Leonardo Bruni, che in una sua epistola ne ricorda con emozione
l’insegnamento.
Prima del 1418 giunse in Italia Giorgio da Trebisonda, seguace di Aristotele, che
divenne segretario apostolico e insegnò e operò in varie città d’Italia (dal Veneto alla
corte aragonese di Napoli). Nel 1438-1443 a Ferrara e a Firenze ci fu un concilio per
l’unione delle Chiese cattolica e ortodossa, che intensificò gli scambi culturali e portò
numerosi dotti prelati bizantini in Italia: fra questi si ricordano Giorgio Gemisto Ple-
tone e Teodoro Gaza, seguaci di Platone, e Giovanni Bessarione, sostenitore viceversa
della possibilità di conciliare la filosofia aristotelica con quella platonica. Più tardi
Marsilio Ficino riconoscerà a Giorgio Gemisto Pletone il merito di aver aperto una
nuova era negli studi filosofici italiani. Ma è soprattutto con la caduta di Costantino-
poli (1453) che gli studi greci traggono nuovo impulso: a metà secolo infatti un nutri-
to stuolo di dotti bizantini, profughi dall’Impero d’Oriente in procinto di cadere o ca-
n Una pagina tratta da un duto ormai sotto il dominio dei Turchi, si trasferiscono in Italia e vi portano codici
codice della Metafisica di Ari- preziosi e conoscenze altamente qualificate (tra i più influenti ricordiamo Giovanni
stotele.
Argiropulo, che fu docente allo Studio di Firenze ed ebbe fra i suoi allievi Cristoforo
Landino, Marsilio Ficino e Angelo Poliziano). Grazie al loro insegnamento ben presto
le competenze linguistiche e culturali dei dotti greci si trasferiscono ai migliori uma-
nisti italiani. Di Guarino Veronese si dice che conoscesse il greco come il latino. Poli-
ziano e altri ne fanno oggetto di studi filologici. Ficino traduce tutta l’opera di Plato-
ne e di Plotino dall’originale (1492). In questo modo alla tradizione latina, retroterra
pressoché esclusivo dei dotti medievali e dei primi umanisti, si affiancò aprendo ulte-
riori prospettive l’immenso patrimonio della cultura e soprattutto della filosofia greca,
la cui rinnovata conoscenza caratterizzerà in profondità gli sviluppi culturali del tardo
Quattrocento e del Cinquecento.

16.2 Filologia e critica storica


Restauro filologico dei testi Questo fervore di studi, corroborato dall’entusiasmo per le scoperte di
codici antichi e per le nuove prospettive che apre la conoscenza del mondo greco, si
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Quattrocento e Cinquecento

traduce spesso – lo abbiamo visto – in un profondo rispetto e in un autentico amore


per il mondo antico e gli autori classici. Questa è indiscutibilmente una premessa
emozionale e ideologica indispensabile per lo sviluppo degli studi filologici, che prima
di costituire una tecnica di edizione di testi sono un habitus mentale e culturale fon-
dato sulla volontà di investigare con ogni mezzo utile e con la massima obiettività la
lingua e la cultura di un autore, allo scopo di restituire il testo delle sue opere nella
forma che più esattamente possibile ne rispecchi la volontà. Insomma la filologia si
propone, con un metodo razionale e obiettivo, di dare edizioni dei testi scrupolosa-
mente esatte e rispettose della cultura e dell’ideologia originaria degli autori. Si com-
prenderà facilmente quanto questa disciplina contrasti con la prassi dei copisti e degli
scrittori medievali di parafrasare, sintetizzare, ampliare, chiosare, utilizzare approprian-
dosele a piacimento le opere degli autori che trascrivevano o a cui attingevano per
comporne di proprie.
La filologia può essere considerata la disciplina simbolo dell’umanesimo perché, ca-
povolgendo l’impostazione medievale del ‘sacro furto’ (la cristianizzazione dei testi an-
tichi teorizzata da sant’Agostino), consente una riscoperta autentica del mondo classi-
co e una rilettura qualitativamente nuova anche delle opere già note alla tradizione
medievale. Anche se il metodo dell’intepretazione allegorica dei testi antichi, per scru-
poli religiosi o nella convinzione che questa fosse l’esatta modalità di lettura, non ces-
sa completamente e anzi da molti viene ancora sostenuto e variamente giustificato, lo
n Lo studio di un umanista.
scrupolo filologico costituisce una delle premesse indispensabili perché il mondo anti-
co venga progressivamente riscoperto nell’autenticità dei suoi messaggi. Tra i massimi
esponenti di questa disciplina vanno annoverati almeno Lorenzo Valla (1405-1457), il
primo a mettere a punto un efficace e rigoroso metodo filologico-critico, e – della
ancor più agguerrita generazione successiva di filologi – il Poliziano, su cui ci soffer-
meremo più avanti (R 19.2), ed Ermolao Barbaro (1453-1493), autore delle Castigatio-
nes plinianae, imponente saggio di correzioni filologiche al testo delle opere di Plinio il
Vecchio.
Il Nuovo Testamento e la falsa donazione di Costantino Il metodo filologico viene applicato anche
agli studi religiosi e alla critica storica. Sul primo versante si ricorderà almeno l’edi-
zione in greco, per il tempo filologicamente corretta (e con una nuova traduzione la-
tina assai diversa dalla vulgata di S. Girolamo), che Erasmo da Rotterdam dà del Nuo-
vo Testamento, suscitando un generale scalpore ma aprendo anche la via alla moderna
critica neotestamentaria. Sul secondo versante si ricorderà la celeberrima confutazio-
ne della donazione di Costantino compiuta da Lorenzo Valla (De falso credita et ementi-
ta Constantini donatione, 1440, cioè letteralmente: La menzognera donazione di Costantino
falsamente ritenuta vera), e condotta sulla base di un puntiglioso esame storico-antiqua-
rio e filologico del testo.Valla, fra l’altro, denuncia l’assenza di prove documentarie e di
riscontri nelle fonti storiche che comprovino la veridicità del testo e anzi fornisce nu-
merose attestazioni del contrario; svela molteplici incongruenze (si parla di Costanti-
nopoli quando Costantino non l’aveva ancora fondata) e grossolani errori storici (si
parla ad esempio di un diadema di oro purissimo e di pietre preziose, mentre con la
parola diadema al tempo di Costantino si designava un copricapo di panno o di seta);
indica la presenza di clamorosi errori sintattici e lessicali, inconcepibili in un docu-
mento ufficiale imperiale, di svariate espressioni tipiche del latino più tardo e addirit-
tura di reminiscenze da testi biblici che Costantino non avrebbe mai potuto conosce-
re: dimostra insomma che il documento fatto valere dalla Chiesa era un falso medie-
vale, opera di un chierico ignorante contro cui Valla ha parole durissime sia per l’atto
in sé della falsificazione sia per il peccato che si potrebbe definire di ‘lesa cultura’
(«Che Dio ti mandi in malora, uomo cattivissimo, che attribuisci un linguaggio barba-
ro a un secolo dotto»).
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16. Umanesimo e letteratura umanistica STORIA

Edizioni di testi Non stupisce quindi che, all’atto della diffusione della stampa, molti umanisti si
impegnino direttamente, anche avviando imprese editoriali, nella pubblicazione di
importanti collane di testi. Sugli aspetti strettamente editoriali di questa attività ci sia-
mo già soffermati in precedenza. Qui basterà ricordare le mirabili edizioni di classi-
ci greci e latini, nonché le edizioni degli autori della più recente tradizione volgare,
date ai primi del Cinquecento a Venezia da Aldo Manuzio. Peraltro, se Manuzio è
l’editore umanista di punta sia per lo scrupolo filologico cui si attengono i curatori
delle edizioni sia per l’eleganza della veste editoriale, analoghe iniziative si diffondo-
no presto in tutta Europa.
Coscienza storica: coscienza della decadenza e della rinascita Il proiettarsi idealmente all’indie-
tro, verso quell’antichità classica da cui ci si attende di avere risposte decisive, compor-
ta alcune conseguenze culturali di importanza nient’affatto secondaria. Innanzitutto si
prende più esatta coscienza della decadenza delle arti e in genere della cultura e della
civiltà dei secoli successivi alla caduta dell’Impero, quando non solo le opere ma anche
le arti, le tecniche, le istituzioni del mondo antico erano andate smarrite o erano gra-
vemente decadute. Molti sono soprattutto fra Tre e Quattrocento i lamenti circa la de-
cadenza che investe la cultura e la vita civile dei tempi presenti: ad esempio Braccioli-
ni dipinge a tinte fosche lo stato di decadenza dei luoghi simbolo dell’antica civiltà ro-
mana, il Campidoglio, il Palatino, il foro ridotti a deposito di letame, a pascolo di por-
ci e bovi.

Doc 16.2 La decadenza della città di Roma secondo Poggio Bracciolini

P. Bracciolini, Cosa tristissima è questa e degna di non piccola meraviglia: questo colle del Campido-
Historiae de varietate glio, una volta a capo dell’impero romano e cittadella del mondo, davanti a cui tremava-
fortunae
no tutti i re e i principi, su cui salirono in trionfo tanti imperatori, che fu adorno dei
doni e delle spoglie di tanti e sì potenti popoli, già fiorente e mirabile a tutto il mondo,
è a tal punto desolato, rovinato e mutato da quel suo primitivo splendore, che, mentre le
viti si arrampicano sui seggi dei senatori, è diventato deposito di letame e d’immondez-
ze. Guarda il Palatino e accusa la fortuna che a tal punto distrusse la casa di Nerone, ri-
costruita dopo l’incendio di Roma con le spoglie di tutto il mondo, ornata con i mezzi
riuniti di tutto l’impero, resa mirabile a vedersi dai boschi, dai laghi, dagli obelischi, dai
portici, dai colossi, dai teatri di marmi variopinti, e di cui non rimane nient’altro se non
le immense rovine.Vai sugli altri colli di Roma e tutti li vedrai privi di edifici, pieni di
ruderi e di vigneti. Il foro, luogo fra tutti in Roma il più celebre per i giudizi, per le leg-
gi, per le riunioni del popolo, e lì vicino il Comizio, insigne per l’elezione dei magistra-
ti, sono deserti e squallidi per la malignità della fortuna, e l’uno è l’alloggio di porci e
bovi, l’altro è coltivato a legumi.

Il concetto di media aetas e gli studi storici Quasi immediata conseguenza di questa presa di co-
scienza dell’attuale decadenza è la definizione del concetto di media aetas, quell’età di
mezzo che separa i tempi presenti, ansiosi di rinnovamento e di rinascita, dall’età anti-
ca che viene presa a modello. Il concetto storiografico di Medio Evo, che tuttora noi
adottiamo, nasce dunque nel contesto delle riflessioni e delle polemiche umanistiche
sulla decadenza della civiltà antica. L’impulso a recuperare il più possibile di quell’an-
tica civiltà si affianca a quello altrettanto decisivo di voler capire le ragioni della deca-
denza e farne la storia. Si può dire che l’Umanesimo costituisce anche per queste ra-
gioni un momento fondamentale nella formazione della coscienza storica moderna.
Moltissimi umanisti, oltre che alla filologia, alla morale, alla filosofia, alla letteratura, al-
la politica si dedicano quindi anche alla riflessione storica o esplicitamente alla storio-
grafia. Lungo sarebbe l’elenco delle opere composte dai principali esponenti di questo
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Quattrocento e Cinquecento

movimento: basti qui ricordare che, anche prima delle monumentali imprese storio-
grafiche del Platina (Liber de vita Christi et omnium pontificum [Libro della vita di Cristo e
di tutti i pontefici], 1479) o di Flavio Biondo (Historiarum ab inclinatione Romanorum de-
cades [Decadi di storie dalla caduta dell’impero romano], 1453, in 32 libri, la principale in-
dagine umanistica complessiva della storia medievale), molti fra i primi umanisti si de-
dicano con qualche impegno a quest’attività storiografica o di critica storica. E natu-
ralmente moltissimi sono gli elogi delle storie, gli attestati cioè via via della dignità,
della nobiltà, dell’utilità delle storie anche da parte di chi non si impegna in prima
persona nella composizione di opere storiografiche. In questo rinnovato fervore di
studi storici alla volontà di comprendere il passato e il presente si associa, fra l’altro, an-
che una ragione diversa, meno tecnica e più letteraria, altamente significativa però di
quel complessivo spirito umanistico che anima questi scrittori: la volontà, già teoriz-
zazta dagli antichi, di sottrarre all’oblio le imprese gloriose, di garantire attraverso la
parola scritta una memoria imperitura ai grandi protagonisti della storia e ovviamen-
te anche ai narratori delle loro imprese.
È con ogni evidenza un modo classico e laico (in origine pagano) di intendere la
sopravvivenza dopo la morte, non del tutto estraneo alla coscienza cristiana medieva-
le, ma in queste forme così radicali impensabile senza il recupero della civiltà antica.
Coscienza della rinascita A poco a poco si fa strada la consapevolezza che molti progressi sono stati
fatti, che quella in cui si vive è un’età che può cominciare a guardare alla civiltà classi-
ca senza più l’angosciosa constatazione della propria decadenza. La media aetas si sta
chiudendo e dalle sue ceneri, grazie al rinnovamento degli studi sta nascendo un’età
nuova, che trae il suo vigore proprio dalla rinascita degli studi classici. Ben presto alle
lamentazioni sulla decadenza attuale degli studi si sostituiscono dichiarazioni esplicite
di di orgoglio per il cammino percorso, per un rinnovamento che può dirsi finalmen-
te realizzato e che viene descritto facendo ricorso all’antico mito dell’età dell’oro.
Dalla rinascita dell’antico prende corpo insomma una nuova civiltà consapevole del
proprio splendore e della propria originalità. Fra le più significative dichiarazioni in
merito va ricordata soprattutto quella di Marsilio Ficino.

Doc 16.3 La lode del secolo in Marsilio Ficino

Marsilio Ficino, Quello che i poeti cantarono un giorno delle quattro età, di piombo, di ferro, d’argento
Epistole e d’oro, il nostro Platone nella Repubblica riferisce a quattro nature d’uomini, dicendo
[trad. E. Garin]
che nell’indole degli uni è congenito il piombo, il ferro in quella di altri, in altri l’ar-
gento, in altri l’oro. Se dunque c’è un’età che dobbiamo chiamar d’oro, essa è senza
dubbio quella che produce dovunque ingegni d’oro. E che tale sia questo nostro secolo
non metterà in dubbio chi vorrà prendere in considerazione i mirabili suoi ritrovati.
Questo secolo, infatti, come aureo, ha riportato alla luce le arti liberali già quasi scom-
parse, la grammatica, la poesia, l’oratoria, la pittura, la scultura, l’architettura, la musica, e
l’antico suono della lira Orfica. E ciò a Firenze. E, cosa che presso gli antichi era cele-
brata, ma era ormai quasi scomparsa, ha congiunto la sapienza con l’eloquenza, la pru-
denza con l’arte della guerra.

16.3 Umanesimo civile


Una visione dell’uomo antiascetica e laica L’ideale di uomo che si viene elaborando grazie alla ri-
scoperta della cultura classica è certamente quello di un uomo integrale, fatto di cor-
po e di anima in equilibrato e armonico rapporto fra loro. Salvo qualche sporadico ca-
so di umanesimo paganeggiante, il quadro di riferimento ideologico è sempre, e salda-
mente, quello cristiano (R 15.3); tuttavia, soprattutto da principio e nel vivo della po-
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16. Umanesimo e letteratura umanistica STORIA

lemica contro il Medioevo culturalmente grezzo e ideologicamente oscurantista,


«umanesimo» significa un forte impulso a rigettare con vigore non la fede cristiana,
ma senza dubbio le componenti ascetiche, rigoristiche, integralistiche di una parte
consistente del cristianesimo medievale: la sua inclinazione al contemptus mundi, al di-
sprezzo del corpo e della vita terrena, e la vocazione a sottoporre ogni aspetto del rea-
le al giudizio teologico. L’umanesimo, insomma, si impegna da principio a riscoprire
l’uomo naturale, ad affermare laicamente il suo diritto a realizzare i bisogni materiali
senza sensi di colpa, a ricercare anche la felicità terrena. E scopre la possibilità di ana-
lizzare la natura, la storia, la società, la morale... l’intera realtà terrena, insomma, su ba-
si nuove, in modo razionale, senza pregiudiziali giustificazioni teologiche e senza fina-
lità metafisiche. Ci si avvia ad affiancare all’etica cristiana anche un’etica laica. In que-
sto modo quelle istanze naturalistiche e laiche che abbiamo visto emergere nella cul-
tura borghese due-trecentesca (si pensi alla novellistica e a Boccaccio) trovano ora,
nella riflessione morale e filosofica degli umanisti, anche una legittimazione teorica.
Nel complesso si può affermare che attraverso questa azione il rapporto tra corpo e
anima, tra azione e contemplazione, tra civitas hominis e civitas dei, in precedenza sbi-
lanciato nel senso dello spiritualismo, ora viene non tanto (o non sempre) sovvertito,
quanto piuttosto riequilibrato.
Elogio del corpo e della natura Alle dichiarazioni medievali di disprezzo del corpo e del mondo
che trovano la loro più tipica espressione nel Contemptus mundi [Il disprezzo del mon-
do] di Lotario di Segni (Innocenzo III) e che continuavano a riecheggiare anche nel
secondo Trecento (dopo la peste nera) e più attenuate e marginali nel Quattrocento,
gli umanisti rispondono con l’esplicita confutazione di quel trattatello e di ogni altra
antica e moderna affermazione dell’infelicità dell’uomo. Così fa soprattutto Gian-
nozzo Manetti (1396-1459) nel suo esemplare De dignitate et excellentia hominis
(1451-1452), in cui sostiene che i piaceri del corpo sono più numerosi delle mole-
stie; celebra la previdenza della natura che ha reso piacevole l’ingestione del cibo, che
serve alla conservazione dell’individuo, e ancor più piacevole il rapporto sessuale, che
serve alla conservazione della specie; sostiene la superiore nobiltà del corpo umano
rispetto a quello degli altri animali; confuta la tesi che il nascere nudo dell’uomo sia
sintomo della sua miseria, e celebra la bellezza del corpo umano («era necessario che
l’uomo nascesse così proprio per la sua grazia e bellezza»). Queste sono affermazio-
ni inequivocabili, che mirano a ridare dignità al corpo in una prospettiva al tempo
stesso naturalistica ed estetica [R T 16.4 ]. Ma al contempo Manetti celebra anche la
nobiltà e l’immortalità dell’anima e la sua natura divina, contro i filosofi antichi che
ne avevano asserito la natura corporea e mortale, per concludere che l’unità della
persona, l’insieme armonioso di corpo e anima sarà esaltato dopo il giudizio univer-
sale, quando le anime si ricongiungeranno ai corpi e gli uomini godranno finalmen-
te di una «perpetua ed eterna salute», di «una gioventù senza vecchiaia», di una pie-
na «libertà» dalle necessità, dalle gravezze e dalle corruzioni del peccato, di una «pe-
renne ed eterna letizia» e così via. Tra la speranza della felicità terrena e la certezza
di quella celeste, tra la dignità del corpo e quella dell’anima, tra la dimensione natu-
rale e quella soprannaturale non c’è insomma per Manetti alcuna drammatica con-
traddizione, nessun contrasto, ma una continuità sostanziale.
Vita attiva e vita contemplativa La serena e ferma accettazione della dimensione naturale e mon-
dana dell’uomo e la conseguente affermazione della possibilità di realizzare anche la
felicità terrena spostano l’attenzione degli umanisti sui mezzi per realizzarla compiu-
tamente. Se una gran parte della cultura medievale aveva puntato soprattutto sulla su-
periore dignità della vita contemplativa (clausura monastica, preghiera, ascesi, con-
templazione di Dio), numerose sono ora le affermazioni della dignità anche della vi-
ta attiva, della sua superiorità o quanto meno della sua compatibilità con quella con-
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Quattrocento e Cinquecento

templativa. Questa per alcuni rimane forse concettualmente superiore, ma non vie-
ne più sentita come sufficiente perché l’uomo si realizzi nella pienezza e nella tota-
lità della sua persona, fatta di corpo e di anima. In particolare per realizzare la felici-
tà terrena l’uomo deve impegnarsi attivamente nel mondo, deve agire per farsi faber
fortunae suae, artefice della propria fortuna e del prorpio destino terreno, convinto
che questo non dispiace neppure a Dio. «Non credere [...] che sfuggire la gente, evi-
tare la vista delle cose piacevoli, chiudersi in un chiostro o segregarsi in un eremo,
costituisca la via della perfezione» scrive ad esempio Coluccio Salutati a un amico
che voleva farsi monaco. Occupato nelle attività mondane il suo interlocutore potrà
forse piacere ancor più a Dio, perché non mirerà esclusivamente alla propria perso-
nale quiete spirituale, ma gioverà alla famiglia, agli amici, allo Stato, tutte cose che a
Dio stanno a cuore.
La felicità terrena: necessità della vita civile Specialmente nel contesto del primo umanesimo fio-
rentino (Salutati, Bruni, Palmieri, Manetti) da questa presa di posizione derivano sva-
riate attestazioni dell’utilità dell’impegno sociale, civile, politico e un elogio degli stru-
menti atti a realizzare la felicità terrena dell’uomo in quanto cittadino, in quanto cioè
partecipe di una comunità regolata da leggi. Numerose sono ad esempio le dichiara-
zioni dell’utilità del matrimonio, della cura e dell’educazione dei figli, della masserizia
(cioè della cura del patrimonio familiare), della ricchezza (strumento per garantire a sé,
alla famiglia, ma anche alla comunità un benessere materiale che viene sentito e di-
chiarato utile, se non sempre propriamente necessario, al raggiungimento della felici-
tà terrena), dell’impegno amministrativo, economico, politico, militare a favore della
patria. «Per questo s’afferma di tutte l’opere umane, niuna essere più prestante, mag-
giore, né più degna, che quella che se exercita per accrescimento e salute della patria
ed optimo stato d’alcuna bene ordinata republica, alla conservazione delle quali massi-
mamente sono apti gli uomini virtuosi» scrive Matteo Palmieri (1406-1475) nel suo
Libro della vita civile (1433 ca.). Particolarmente gli uomini «virtuosi», cioè valenti, sono
dunque chiamati a impegnarsi in attività pubbliche di governo dello Stato, invece di
richiudersi semplicemente nell’amministrazione del patrimonio individuale o familia-
re, nella convinzione che le due cose non siano in contraddizione fra loro, ma anzi si
potenzino reciprocamente [R T 16.5 ].
Florentina libertas A Firenze, dove l’Umanesimo nasce e si sviluppa, queste tematiche si associano an-
che a una esplicita difesa delle istituzioni repubblicane, in contrasto con le elaborazio-
ni teoriche e le prese di posizione polemiche di scrittori umanisti residenti in princi-
pati. È questo l’aspetto più esplicitamente politico di quel movimento umanistico, es-
senzialmente fiorentino, che prende nome di Umanesimo civile (Baron, Garin). Il te-
ma in molti suoi aspetti è in verità complesso e soggetto a letture e interpretazioni an-
che abbastanza divergenti. Di certo comunque c’è che alcuni tra i primi umanisti fio-
rentini, tutti impegnati nella gestione politica e amministrativa della repubblica (Co-
luccio Salutati fu cancelliere della repubblica fiorentina dal 1375 al 1406, Leonardo
Bruni nel 1410-11 e poi dal 1427 al 1444, ma anche Poggio Bracciolini, meno aper-
tamente schierato su questo tema, fu cancelliere dal 1453 al 1458), compongono una
serie di opere in difesa della florentina libertas, della libertà di Firenze e in particolare
del suo ordinamento istituzionale, contro le pretese espansionistiche dei Visconti e gli
elogi del principato che letterati e umanisti andavano tessendo in quegli stessi anni. In
particolare ad elaborare il mito della florentina libertas sono Coluccio Salutati nella sua
virulenta polemica contro Antonio Loschi, cancelliere dei Visconti (Invectiva in Anto-
nium Luschum vicentinum, 1403), e Leonardo Bruni, nella Laudatio florentine urbis (1403-
1404 ca.) e poi nelle già citate Historiae florentini populi: essi tessono le lodi della città in
sostanza asserendo che a Firenze, direttamente discendente dai Romani, spetta il me-
rito di aver riportato in vita quelle istituzioni repubblicane dell’antica Roma che
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16. Umanesimo e letteratura umanistica STORIA

l’Impero aveva abbandonato e di essere la città dove più di ogni altra si vive nella li-
bertà («Che cosa significa infatti essere fiorentino, se non essere per natura e per legge
cittadino romano, e per conseguenza libero e non schiavo?» scrive ad esempio Saluta-
ti, il quale asserisce che viceversa i milanesi obbediscono al tiranno e non possono in
alcun modo ergersi a giudici delle istituzioni fiorentine).
Florentina libertas e principato civile Queste affermazioni beniteso non vanno interpretate in una
chiave troppo moderna e ‘democratica’: le istituzioni repubblicane e la florentina li-
bertas vanno intese come espressione di un governo repubblicano sì, ma oligarchico,
com’era del resto quasi inevitabile che fosse a quei tempi. Tanto che in seguito, con
l’affermarsi della criptosignoria medicea, che formalmente mantiene in vigore le isti-
tuzioni repubblicane ma progressivamente le esautora concedendo il potere di fatto
alla famiglia dei Medici, almeno per qualche tempo non mancano affermazioni di
analogo tenore.

16.4 Educazione umanistica. Fondazione di una nuova pedagogia


Nuovi ideali pedagogici La nuova visione dell’uomo elaborata grazie alla riscoperta della cultura
classica e agli studia humanitatis dà vita ben presto al progetto di una nuova pedagogia.
Infatti – come scrive Garin – «se ogni riflessione sembra rivolgersi all’uomo, e l’uomo
è posto al centro del mondo, la formazione dell’uomo diviene il punto essenziale di
ogni dottrina; e poiché ogni teoria vuol essere, alla fine, teoria dell’uomo, ogni teoria
darà un posto eminente al problema educativo». Innanzitutto viene dato un valore
nuovo all’educazione dei fanciulli: «i genitori non possono procurare ai figliuoli né
ricchezza maggiore, né più sicuro patrimonio, di un’educazione nelle arti liberali»,
scrive Pier Paolo Vergerio nel De ingenuis moribus et liberalibus studiis adulescentiae [Dei
nobili costumi e degli studi liberali della gioventù] (1400-1402). Queste sono celebrate in
quanto «convengono a un uomo libero», e non tanto nel senso che sono riservate a
un’élite, quanto piuttosto «nel senso che lo studiare rende liberi gli uomini» (Verge-
rio), li emancipa dalla schiavitù dell’ignoranza e delle credenze superstiziose e li rende
veramente uomini, nel senso pregnante legato al nuovo concetto di humanitas.
Il carattere essenziale della nuova pedagogia ruota attorno al concetto di sviluppo
integrale dell’uomo in un armonioso rapporto con la natura e la società: uno sviluppo
cioè che è al contempo fisico, intellettuale, morale, civile, religioso. Sia la teoria sia la
prassi educativa delle scuole umanistiche (per quanto è dato sapere dalle memorie dei
discepoli) sono ispirate alla moderazione e all’equilibrio, al rigore della preparazione
ma anche alla dolcezza dei metodi di insegnamento. L’ideale, che molte testimonianze
descrivono come spesso effettivamente realizzato, è quello di un apprendimento gio-
ioso, frutto di curiosità ed emulazione, di studio individuale, ma anche di discussioni.
La rielaborazione collettiva del sapere attraverso la discussione, una prassi dei cenacoli
umanistici che trova riscontro nella predilezione della forma letteraria del dialogo,
trova spazio teorico e pratico anche nella scuola.
Un nuovo canone di letture Come detto, si elabora un nuovo canone di letture che, accanto ai testi
religiosi, ha ovviamente come grandi protagonisti i classici: il canone comprende filo-
n Massimiliano Sforza a
scuola, miniatura di scuola sofi, storici, oratori e anche i molto discussi poeti, di cui spesso gli umanisti prendono
lombarda, fine sec. XV (da un le difese e tessono gli elogi anche in una prospettiva pedagogica. I classici, poi, non
manoscritto della Gramatica
di Donato, conservato alla Tri-
esclusi i poeti, hanno una parte centrale nel nuovo progetto pedagogico non solo per-
vulziana di Milano). ché sono maestri di eloquenza, ma anche perché sono giudicati maestri di humanitas,
n Maestro e allievi. cioè di virtù morali, intellettuali e pratiche, di una sapienza, di una sensibilità e di una
magnanimità compatibili con la fede cristiana (le lettere – scrive Leonardo Bruni –
«tendono a formare l’uomo buono»). Lo studio della grammatica e della retorica ha
certo ancora una parte preponderante in questo progetto, ma non è più condotto sui
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Quattrocento e Cinquecento

manuali e sui repertori tradizionali, bensì direttamente attingendo ai testi degli autori,
in modo da non tenere separate res e verba, le cose dalle parole, la trasmissione delle
conoscenze dall’eloquenza. I due aspetti sono considerati anzi inscindibili e indispen-
sabili l’uno all’altro.

Doc 16.4 Lettere e scienza si integrano a vicenda

L. Bruni, Quell’eccellenza di cui parlo, non può derivare se non dalla conoscenza di molte e varie
De studiis et litteris
cose. Perciò occorre molto aver visto e molto aver letto, ed essersi dedicati ai filosofi, ai
poeti, agli oratori, agli storici e a tutti gli altri scrittori. Così ne risulta, per così dire, un
pieno sufficiente, per cui possiamo apparire eloquenti, vari, adorni e in niente sprovve-
duti e rozzi. Si deve aggiungere poi una perizia letteraria non superficiale né disprezza-
bile. Queste due culture si giovano e si integrano a vicenda. Le lettere senza la scienza
sono delle cose sterili e vane; la scienza delle cose, per quanto vastissima, se manca dello
splendore delle lettere sembra come nascosta ed oscura. A che serve sapere tante belle
cose, se non si è capaci di parlarne con dignità e di scriverne senza cadere nel ridicolo?
Così perizia letteraria e scienza delle cose sono in un certo modo strettamente con-
giunte. E congiunte, queste due culture, hanno innalzato alla celebrità e alla gloria que-
gli antichi di cui veneriamo il ricordo: Platone, Democrito, Aristotele,Teofrasto,Varrone,
Cicerone, Seneca, Agostino, Girolamo, Lattanzio, nei quali tutti è difficile poter distin-
guere se fu maggiore la scienza delle cose o la perizia letteraria.

Esercizio fisico Fra le maggiori novità rispetto al passato c’è anche la rivalutazione pedagogica del-
l’esercizio fisico, indispensabile – nella nuova prospettiva laica e antiascetica – a un ar-
monioso sviluppo dell’individuo. «A chi è sano di mente e di corpo, consiglio di cura-
re l’una e l’altro: la mente perché possa discernere e ragionevolmente comandare; il
corpo perché possa tollerare da forte e obbedire con facilità...». Infatti gli uomini «se
fin dalla puerizia, e su su per tutte le età, non abbiano avvezzato l’animo e il corpo a
una paziente fatica, quando poi a un tratto piombi loro addosso qualche cosa di trop-
po grave, non valgono a sostenerne il peso, e tosto si stroncano» (Vergerio). Oltre a co-
stituire, insieme ai giochi, un diversivo e una distrazione che facilita la ripresa dello
studio e la concentrazione, l’educazione fisica è considerata un valore in sé, proprio
perché l’uomo è fatto di anima e corpo e perché la visione del corpo come carcere
dell’anima, come fonte di tentazioni da disprezzare e mortificare è ormai lontanissima.
L’educazione delle donne Non va nemmeno trascurata la possibilità di estendere alle donne questo
curriculum di studi, con alcune lievi modifiche relative al diverso ruolo sociale che es-
se sono chiamate ad assolvere (ad esempio alle donne non conviene tanto lo studio
degli oratori, secondo Bruni, in quanto non si troveranno mai a discutere nei tribuna-
li o nelle assemblee politiche). Notevole è il fatto che l’epistola di Leonardo Bruni De
studiis et litteris (Sugli studi e sulle lettere, composta tra il 1422 e il 1429), uno dei primi
testi che delineano in una prospettiva esplicitamente pedagogica il curriculum degli
studia humanitatis, sia rivolta a una donna, Battista Malatesta. Se confrontiamo questo
nobile progetto di educazione femminile formulato da uno scrittore umanista, e sia
pure rivolto a una nobildonna, cioè all’esponente di una ristretta élite, con le testimo-
nianze che abbiamo sulla formazione delle figlie anche di ricchi mercanti (Paolo da
Certaldo pochi anni prima reputava uno spreco di denaro la formazione intellettuale
di una ragazza: «E s’ell’è fanciulla femina, polla [mettila] a cuscire, e none a leggere,
ché non istà troppo bene a una femina sapere leggere, se già no la volessi fare mona-
ca»), scopriremo che la distanza che le separa è davvero abissale: si affaccia insomma
l’idea che i valori intrinseci all’humanitas possano giovare anche a una donna, indipen-
dentemente da quale sia poi il suo ruolo nella società.
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16. Umanesimo e letteratura umanistica STORIA

Doc 16.5 Lo studio dei poeti nella formazione di una donna

L. Bruni, Non mi mancano certamente esempi di donne illustri che si segnalarono nelle lettere,
De studiis et litteris
negli studi e nell’eloquenza, e col cui ricordo io possa spingerti ad elevarti ancora. Così,
molti secoli dopo la sua morte, restavano ancora lettere della figlia di Scipione Africano,
Cornelia, scritte in uno stile elegantissimo; e i poemi e i libri di Saffo1 erano tenuti in
grandissima considerazione per la loro eccezionale ricchezza di linguaggio e raffinatezza
artistica. Ai tempi di Socrate visse anche Aspasia, una donna di grandissima cultura, e tan-
to elevata nell’eloquenza e nelle lettere che quel grande filosofo non si vergogna di con-
fessare di avere imparato certe cose da lei. Ce ne furono anche altre, di cui potrei parlare,
ma può bastare aver riferito questi tre esempi di donne famosissime. Or dunque indiriz-
za ed innalza la tua mente, ti prego, alla loro altezza. Così grande intelligenza e così ec-
cezionale ingegno non è giusto che ti siano stati dati invano o che ti accontenti di risul-
tati mediocri: devi tendere alle vette più alte, e sforzarti di raggiungerle.

I grandi maestri Le due figure di maggiore spicco, non solo o non tanto per le formulazioni teori-
che, quanto piuttosto per il modello vivo e concreto che costituirono nelle loro scuole,
furono certamente Guarino Veronese (1370 ca.-1460) e Vittorino da Feltre (1373?-
1446). Personalità diversissime, fondamentalmente laico il primo e autore di numerose
opere, religiosissimo il secondo (è definito il «Socrate cristiano») e quasi esclusivamen-
te dedito all’insegnamento pratico, i due sono in sostanza accomunati dall’amore per gli
studia humanitatis e dai nuovi ideali pedagogici che abbiamo descritto.
Guarino aprì una scuola-convitto (contubernium) prima a Verona in accordo con il
Comune, poi a Ferrara sotto gli auspici degli Estensi: «se mai vi fu scuola che unì un
chiaro ordine di studi, e un metodo preciso, a una cordiale collaborazione, questa fu il
contubernium guariniano. L’incontro umano sul terreno delle “lettere” sembrava realiz-
zarsi a pieno. I giovani erano vinti dall’ardore del maestro; s’alzavano la notte a studia-
re, a riprendere in mano i testi», anche se «Guarino, in realtà, sosteneva la necessità di
alternare lo studio allo svago, e consigliava gli esercizi fisici, le passeggiate in campagna,
il nuoto, la caccia, la danza...» (Garin). Il suo innovativo metodo e programma di inse-
gnamento e di studi è descritto e teorizzato nel De modo et ordine docendi ac studendi
pubblicato dal figlio Battista (ca. 1485). L’umanista ferrarese Ludovico Carbone (1435-
1482), allievo di Guarino Veronese, in occasione della sua morte compose e lesse
un’orazione che delinea con commossa ammirazione e riconoscenza la figura del
maestro, nella molteplicità dei suoi aspetti e interessi umani e intellettuali.
Vittorino da Feltre operò invece a Mantova dove trasformò una villa ducale desti-
nata agli svaghi di corte dei Gonzaga, la villa Zoiosa, nella sua scuola che prese nome
di Casa Giocosa. Il nome costituisce un programma pedagogico: benché scrupolosissi-
mo sul piano religioso e rigoroso nell’insegnamento, egli attribuiva infatti una funzio-
ne essenziale al gioco, e concepiva l’apprendimento come un processo da condursi
nella letizia. Fra i suoi allievi ci furono i figli del Duca e numerosi nobili cortigiani, ma
anche giovani poveri che venivano accolti nella scuola a titolo gratuito.
Di entrambi questi grandi maestri abbiamo numerosi elogi tessuti dai loro disce-
poli, che li descrivono come maestri dottissimi e li ricordano con revente ammirazio-
ne e gratitudine per le loro doti di umana cordialità. Col tempo questo curriculum di
studi e questo modello pedagogico si diffonderanno in molti paesi europei, e, a Cin-
quecento inoltrato, riecheggeranno nelle pagine di un libro famoso, il Gargantua e
Pantagruele di François Rabelais (R 27.3 e T 27.4-5 ).
Le scuole e i cenacoli umanistici in concorrenza con le università Le scuole umanistiche di Gua-
rino, di Vittorino e di altri erano scuole preparatorie agli studi universitari, ma presto per
la novità dei metodi, il canone di letture, la qualità dell’insegnamento (nella Casa Gioco-
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Quattrocento e Cinquecento

sa di Vittorino, ad esempio, vennero chiamati a insegnare greco personalità di primo


piano come Giorgio da Trebisonda e Teodoro Gaza) entrarono in diretta concorrenza
con le stesse università, che molto spesso erano legate a forme e metodi di insegna-
mento più tradizionali e conservatori. In questo senso ancor più decisamente agirono
anche i cenacoli e le accademie, che non erano istituzioni scolastiche in senso proprio,
ma luoghi di incontro e di confronto in cui l’elaborazione collettiva del sapere avve-
niva a quei tempi al massimo livello. Entrambi questi istituti, scuole e cenacoli, aveva-
no il carattere di strutture aperte, duttili e innovative, che si sviluppavano, sovente al di
fuori dei canali istituzionali, per libera iniziativa di dotti che terminato l’iter di studi
personali sentivano il bisogno di metterlo in comune con altri e diffonderlo. «Gli “uo-
mini nuovi”,» scrive Garin «scontenti delle forme usate di insegnamento, e desiderosi
di sapere, perché solo il sapere dà potenza e decoro – come diceva Leon Battista Al-
berti –, si facevano da sé nuovi ordinamenti, si cercavano i maestri, e alla fine comin-
ciavano essi stessi a insegnare». È insomma lo spirito dei tempi nuovi che prende il so-
pravvento anche sulle vecchie istituzioni.
Le lettere classiche una via per la scienza Le prospettive che questi nuovi studi aprivano non si li-
mitavano, poi, solo alla lingua e alla cultura classica, non solo alla filosofia e alla retori-
ca: «non si deve dimenticare che le lingue classiche bene possedute, e i testi antichi,
bene e integralmente intesi, costituivano ancora la più grande biblioteca, anche nel
campo delle scienze, che il mondo avesse. Leggere nell’originale e intendere a fondo
Archimede o Tolomeo, Ippocrate o Galeno, Platone o Aristotele, era impadronirsi di
punti di partenza essenziali per un effettivo progresso del sapere» (Garin). Non stupi-
sce dunque che da questa matrice umanistica col tempo si sia sviluppata anche una
nuova scienza.

16.5 Leon Battista Alberti


Un ‘uomo integrale’ Per la vastità dei suoi interessi e delle sue attività Leon Battista Alberti (1404-
1472) può essere considerato il primo umanista che si avvicina a realizzare l’ideale ri-
nascimentale di ‘uomo integrale’, teorico e pratico, versato in ogni disciplina: fu infatti
architetto, scultore, musico, teorico delle arti, matematico, ottico, grammatico, letterato,
poeta, moralista, ma esperto anche di astrologia e di altre discipline. In qualche caso
questi interessi si realizzano al massimo livello. Di enorme importanza ad esempio è il
suo apporto come architetto e teorico delle arti al Rinascimento italiano; per le sue
realizzazioni architettoniche basti qui ricordare il Tempio Malatestiano a Rimini, Palaz-
zo Rucellai e la facciata di Santa Maria Novella a Firenze, capolavori ispirati all’archi-
tettura classica che costituirono modelli assai influenti sui successivi sviluppi dell’arte ri-
nascimentale italiana. Ma vasta e varia è anche la produzione in ampio senso letteraria
di Alberti, in latino e in volgare: una commedia latina (Philodoxeos, 1425), trattati come
n Leon Battista Alberti, il
il De commodis litterarum atque incommodis [Sulla comodità e i fastidi delle lettere, 1430], i
Tempio Malatestiano a Rimi- Quattro libri della famiglia (in volgare, 1433-1440), le prose delle Intercoenales (scritti de-
ni. stinati ad essere letti in momenti conviviali, di varia natura: dialoghi, riflessioni morali,
favole, fantasie scherzose), gli Apologi, il Momus o De principe (fantasiosa e ironica narra-
zione sul tema del principato, 1443-1450), vari dialoghi e altri scritti morali in latino e
in toscano (ad es. De tranquillitate animi [Della tranquillità dell’animo], 1442; De iciarchia
[Sull’amministrare la casa], 1468, uno scritto tardo che ritorna sul tema del governo del-
la famiglia), numerosi importantissimi trattati tecnici (De statua, De pictura, e soprattutto
il monumentale De re aedificatoria, un trattato in dieci libri sull’architettura del 1455) e
anche delle Rime volgari.
I Libri della famiglia: rinnovamento di un genere ‘mercantile’ Ma l’opera che risulta soprattutto
importante nella prospettiva della storia letteraria è il dialogo dei Quattro libri della fa-
540 © Casa Editrice Principato
16. Umanesimo e letteratura umanistica STORIA

miglia (1433-1440). Questo è certamente il suo capolavoro e un testo imprescindibi-


le per misurare il contributo di Alberti alla definizione delle posizioni dell’umanesi-
mo verso la società civile. Qui inoltre prende piena consapevolezza l’umanesimo
volgare: fondamentale in questo senso la sua difesa della lingua toscana (R 15.7), che
egli cerca di nobilitare facendo ricorso al latino (nel lessico e nelle strutture sintatti-
che), per renderla adatta a funzioni più elevate e in contesti più estesi (oltre gli usi
pratici e l’ambito municipale).
I Quattro libri della famiglia appartengono a un genere già praticato fra Tre e Quat-
trocento in ambiente mercantile (si ricordi soprattutto il Libro dei buoni costumi di
Paolo da Certaldo), quello della riflessione sui costumi mercantili e sulla conduzione
della famiglia, nei suoi rapporti interni e nei confronti delle altre famiglie mercantili,
delle istituzioni e in generale della società civile. Ma lo rinnovano profondamente,
immettendo una mentalità nuova incentrata soprattutto su un integrale laicismo, e lo
elevano a una consapevolezza teorica sconosciuta nelle opere precedenti. Qui, scrive
Alberto Tenenti, «l’umanista palesa per la prima volta le sue doti fondamentali: la si-
stematicità nel disporre la materia, la lucidità dell’esposizione e la novità mentale del-
l’impianto – che è poi la cosa più notevole». Alberti, infatti, affronta il tema della fa-
miglia «mettendo spontaneamente da parte ogni premessa teologica ed ogni scopo
n Leon Battista Alberti, Pa- religioso», che caratterizzavano invece le opere dei suoi predecessori. «La trattazione
lazzo Rucellai a Firenze.
sistematica ed autonoma, juxta propria principia [fondata su princìpi propri], di un
problema come quello della famiglia costituiva, per il Quattrocento europeo, una
conquista ed una realizzazione intellettuali di prim’ordine. Essa significava, infatti, che
questa generazione era ormai capace di installare un’analisi razionale nel cuore del
proprio mondo».
Il concetto di tempo Importanti sono soprattutto alcune prese di posizione che risultano profonda-
mente innovative o che sintetizzano e per la prima volta teorizzano nitidamente idee e
valori che andavano affermandosi nel contesto della società mercantile e della cultura
umanistica. Ruggiero Romano e Alberto Tenenti individuano tre temi e tre apporti fon-
damentali consegnati da Alberti alla cultura quattrocentesca tramite i Libri della famiglia: i
concetti di tempo, di masserizia e di onore/virtù, tutti concepiti e affrontati in una pro-
spettiva rigorosamente laica, juxta propria principia, come si diceva poc’anzi, senza il tradi-
zionale ricorso a premesse teologiche o finalità etico-religiose. Il tempo, ad esempio, che
era per lo più concepito sacralmente e metafisicamente come qualcosa che non appar-
teneva all’uomo, ma a Dio, o era concepito nelle forme cicliche e quindi immobili pro-
prie della tradizione agricola, è ricondotto totalmente nell’ambito della natura, delle pre-
rogative dell’uomo e per questa via alla storia: «Chi non sa perdere tempo sa fare quasi
ogni cosa, e chi sa adoperare il tempo, costui sarà signore di qualunque cosa e’ voglia».
Dal buon uso del tempo derivano, insomma, all’uomo benefici concreti: egli deve farsi
signore del proprio tempo. Non è più il tempo della Chiesa, ma «il tempo quale ormai
da circa un secolo gli orologi delle torri comunali di differenti città d’Italia e d’Europa
venivano scandendo quello di cui l’Alberti s’impossessava, infrangendo quella che è sta-
ta chiamata la “volontà di ignorare il tempo” e, al di là del tempo, la storia».
La masserizia, la ricchezza e l’onore Analogamente anche il concetto di masserizia è rinnovato ri-
spetto al passato. Il governo economico della famiglia e dell’attività commerciale è
considerato in una prospettiva esclusivamente, integralmente laica. Il denaro e il lavoro
sono il cardine di questa visione: «il denaro è al centro di tutto», scrivono Romano e
Tenenti, libero ormai da ogni pregiudizio morale e religioso, in base a cui – come ab-
biamo già visto – si giudicava la povertà un bene e la ricchezza un male. Il lavoro del
mercante è ciò che, nelle compravendite commerciali, giustifica l’aumento del prezzo
della merce. «Il concetto di lavoro come componente del prezzo è ora introdotto con
chiarezza, al di fuori d’ogni considerazione teologica tesa a giustificare – più o meno
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Quattrocento e Cinquecento

vagamente – il “giusto prezzo”». Far masserizia, però, non è soltanto guadagnare e ac-
cumulare: è una complessa arte volta all’ordinato governo della casa e dell’attività im-
prenditoriale, che sola consente di conservare quanto si è guadagnato e di garantirsi nel
contesto sociale la buona reputazione. Per Alberti infatti, che critica l’avarizia non per
ragioni morali ma perché nuoce alla reputazione del mercante, «autorità, grazia, onore,
reputazione della famiglia: questi debbono essere i fini veri della ricchezza».
Virtù e fortuna Ma quello che forse più caratterizza storicamente il dialogo albertiano è la chiara e
ferma celebrazione della virtù, dell’insieme cioè di doti intellettuali, morali e pratiche che
servono per agire nel mondo e contrastare con successo l’azione imponderabile e ca-
pricciosa della fortuna. Certo, in qualche punto del libro – come in altre opere – c’è una
pensosa perplessità e forse anche qualche accenno di sgomento di fronte agli eventi che
portano imprevedibilmente alla rovina singoli individui o casate insigni, ma Alberti con
chiarezza enuncia la sua sostanziale fiducia nell’uomo, nella sua possibilità – grazie alla
virtù – di sconfiggere o contrastare la fortuna (individuabile nel complesso agire degli al-
tri uomini) e farsi dunque faber fortunae suae. «Non è potere della fortuna, non è, come al-
cuni sciocchi credono, così facile vincere chi non voglia essere vinto.Tiene gioco la for-
tuna solo a chi se gli sottomette». L’uomo per farlo deve mettere in campo la propria vir-
tù e «solo è senza virtù chi non la vuole». Sono affermazioni nette e chiare che fissano il
momento forse più positivo – e certo uno di quelli idealmente più alti – nella comples-
sa e variegata storia moderna del rapporto tra virtù e fortuna [R T 16.6 ].
In altre pagine memorabili Alberti sviluppa numerosi altri temi e concetti cultural-
n Leon Battista Alberti, La mente ‘moderni’, cioè strettamente connessi a quanto di più interessante e innovativo
facciata di Santa Maria No-
vella a Firenze.
stava producendo la cultura di quel tempo: abbiamo già visto che Alberti tesse l’elogio
della lingua e prospetta un nuovo ruolo socio-culturale anche per quella volgare (tra
l’altro a lui si deve l’iniziativa del Certame coronario), ma, ad esempio, elabora anche
un ideale pedagogico non molto difforme da quello di cui si è prima discorso, ed
esprime una concezione del mondo naturalistica e laica (nelle sue parole anche Dio
sembra a tratti sfumare nel concetto di natura).
Interpretazioni dell’Alberti Quello che viceversa è oggetto di valutazioni discordanti è il significato
complessivo del libro e dell’ideale di famiglia che viene definito nel contraddittorio
delle diverse voci e opinioni dei partecipanti al dialogo. Alcuni critici e storici hanno
argomentato a favore della modernità ‘capitalistica’ e dell’aperto impegno ‘civile’ del-
l’autore. Ora viceversa si è portati per lo più a sottolineare gli aspetti tradizionali e
conservatori (addirittura con qualche spunto di nostalgia per i tempi trascorsi...) della
complessiva concezione della famiglia albertiana, che è descritta come una cellula
chiusa, autonoma, quasi autarchica, ispirata a una morale mercantile abbastanza con-
servatrice e a un ideale politico di governo oligarchico, il cui nucleo fondante sia pro-
prio l’insieme delle famiglie più eminenti.
Pur in presenza di questi limiti, tuttavia, non pare possibile svalutare del tutto l’ap-
porto di Alberti alla definizione dell’umanesimo civile (che peraltro non si vuole qui
certo intendere nel senso di un impegno ‘democratico’, che prefiguri modelli attuali):
sullo sfondo della famiglia rimane la comunità con cui essa deve condividere interessi
e alla cui stabilità deve contribuire; per questo (per interesse personale e collettivo, in-
somma) i più importanti esponenti della famiglia devono partecipare alla vita politica
dello stato; anche nell’interesse dello stato devono esercitare le proprie virtù e accu-
mulare ricchezze che potranno aiutare la repubblica nel momento del bisogno. Ma
non è sempre facile ricostruire con esattezza il pensiero dell’autore perché, secondo gli
usi rinascimentali, la struttura dialogica dell’opera non si propone di far emergere una
sola tesi, ma fa sì che si confrontino le diverse posizioni dei vari interlocutori: se
Giannozzo, che rappresenta nel dialogo il punto di vista più conservatore, sostiene ad
esempio che bisogna evitare di impegnarsi personalmente nell’amministrazione dello
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16. Umanesimo e letteratura umanistica STORIA

stato, Lionardo, portatore di un punto di vista più aperto e moderno, controbatte so-
stenendo una tesi opposta: se un cittadino si dedica alla vita politica per puro e smo-
dato amore del potere, deve essere biasimato; viceversa è assolutamente necessario che
il buon cittadino si impegni nel governo dello stato per garantire il benessere e la tran-
quillità di tutti i cittadini e non lasciare questo compito ai viziosi che porterebbero al-
la rovina lo stato e con esso le fortune dei privati; perché la tranquillità e la prosperità
di un singolo è inscindibile da quella della collettività in cui egli vive.

16.6 Platonismo e Umanesimo fiorentino in età laurenziana


Disimpegno politico e primato della vita contemplativa Il nuovo contesto politico-culturale
nella Firenze medicea attenua lo slancio ‘civile’ dell’umanesimo fiorentino. Progessiva-
mente si fa strada una netta affermazione della superiorità della vita contemplativa ri-
spetto a quella attiva. Accettata anche a Firenze la realtà del principato, per quanto am-
mantato di un formale ossequio nei confronti delle magitrature repubblicane, lo spazio
concesso all’azione politica e civile del singolo cittadino sembra ridursi anche sul pia-
no ideale o teorico.
Le Disputationes Camaldulenses di Cristoforo Landino È la tesi ad esempio di Cristoforo Landino
(1424-1498), che nelle sue importanti Disputationes Camaldulenses [Le discussioni tenute a
Camaldoli] (1475 ca.) sostiene con nettezza il primato della vita contemplativa su quel-
la attiva: «da quanto si è detto si può concludere: coloro che sono immersi nell’azione
giovano certamente, ma o nel presente o per breve tempo. Coloro, invece, che ci illu-
minano la misteriosa natura delle cose, questi gioveranno sempre. Le azioni finiscono
con gli uomini; i pensieri vincendo ogni secolo vivono immortali e si innalzano al-
l’eterno». Garin ha osservato che il sapiente di Landino, che sceglie la pura contempla-
zione, ponendosi come modello ideale ma non scendendo personalmente nell’agone
della vita politica e civile, pur con tutti i distinguo del caso, «somiglia piuttosto al mo-
naco studioso, che a Socrate soldato a Potidea, e perciò maestro d’Atene» (in altre paro-
le, a un Socrate che solo dopo aver combattuto per la sua Atene ne diventa il maestro).
n Federico da Montefeltro,
duca di Urbino, e Cristoforo In verità la celebrazione della vita contemplativa per Landino non ha esclusivamente
Landino. una portata religiosa e metafisica, ma è anche un’esaltazione della ricerca filosofica e
teorica, che può influire anche sull’azione degli uomini nella vita civile (il teorico offre
modelli a chi opera). E nasce, al solito dei dialoghi umanistici, da un contraddittorio fra
due personaggi che sostengono tesi opposte: Lorenzo de’ Medici argomenta in favore
della vita attiva, Leon Battista Alberti in favore di quella contemplativa, ottenendo una
chiara vittoria finale ma riconoscendo anche la piena dignità della tesi del suo avversa-
rio. Rispetto agli elogi della vita attiva, frequenti nella prima metà del secolo, lo scarto
appare tuttavia assai brusco, specialmente sul piano politico-culturale: se la celebrazione
della vita contemplativa di Landino non significa un ritorno tout court all’ascetismo
medievale, essa comporta però un aristocratico divorzio fra teoria e prassi gravido di
conseguenze e una rinuncia all’impegno civile diretto.
Pico e il De hominis dignitate Più radicalmente orientata a un orizzonte solo metafisico e a una cele-
brazione della sapienza mistica appare la posizione di Giovanni Pico della Mirandola
(1463-1494). Così nel testo che è considerato il manifesto del tardo umanesimo fio-
rentino, il De hominis dignitate (1486), non c’è più neppure il simulacro di un dibattito
sulla superiorità della vita contemplativa su quella attiva o viceversa; la gerarchia è net-
ta e inequivocabile: al vertice sta lo spirito contemplativo, vero dio in terra; sotto di lui
si pongono i filosofi, che sviluppando l’anima razionale si meritano la qualifica di ani-
mali celesti, infinitamente più sotto tutti gli altri uomini che hanno sviluppato solo
l’anima sensitiva o quella vegetale e che sono paragonati ai bruti o alle piante. Pico
tesse dunque un elogio dell’uomo in quanto sola creatura partecipe tanto della natura
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Quattrocento e Cinquecento

animale quanto di quella divina e sola creatura in grado di decidere autonomamente e


liberamente il proprio destino, scegliendo se abbassarsi al rango degli esseri bruti o
elevarsi a quello delle creature angeliche sino a fondersi in Dio stesso. È ancora una
volta un’affermazione della libertà umana, della possibilità dell’uomo di farsi faber for-
tunae suae, ma l’orizzonte non è più quello della semplice vita mondana, dell’acquisto
o della perdita dei beni materiali, della fama e dell’onore o del prestigio e del potere
nella comunità civile, bensì quello vertiginosamente più ampio dell’intero universo.
Anche l’idea della centralità dell’uomo, fondamento e misura della realtà, si sposta dal
contesto civile e politico a quello metafisico, dalla città al cosmo. È questa forse la
massima celebrazione della dignità ed eccellenza dell’uomo mai scritta negli anni del-
l’umanesimo, ma è anche così sublimata da perdere qualcosa della vigorosa concretez-
za di precedenti, più moderate affermazioni.
Ficino e il neoplatonismo fiorentino Ma la figura di maggiore spicco e di più duratura influenza su-
gli sviluppi della cultura rinascimentale fu certamente Marsilio Ficino (1433-1499),
allievo di Landino, traduttore di Platone e di Plotino, animatore dell’Accademia fio-
rentina con sede nella villa medicea di Careggi. Suo principale merito è quello di aver
reso disponibile quasi per intero in traduzione latina il corpus dei testi platonici e neo-
platonici, diffondendone il pensiero anche attraverso numerose opere originali, e dan-
do così sostanza a quella progressiva riscoperta del platonismo che già i dotti greci
avevano avviato con il loro insegnamento. La riscoperta di Platone, che ha specifici
aspetti filosofici che non è qui il caso di illustrare in dettaglio, valse essenzialmente a
controbilanciare l’egemonia di Aristotele, che una parte assai consistente del pensiero
cristiano medievale (la scolastica) aveva adottato come riferimento e quindi a rinno-
vare profondamente il quadro culturale del tardo medioevo, immettendovi problema-
n Sopra. Pico della Mirando- tiche e punti di vista radicalmente innovativi. L’operazione nella sostanza fu possibile
la. anche grazie all’affermazione di Ficino di una sostanziale continuità tra il pensiero
n Sotto. Marsilio Ficino ri- platonico e quello cristiano e al suo impegno a dimostrarla e diffonderla. Bisogna d’al-
tratto in un capolettera.
tra parte ricordare che questo rinnovamento filosofico fu anche il risultato del pro-
gresso degli studi umanistici nel corso di tutto il secolo.
L’amore conduce a Dio Secondo Ficino l’uomo può emanciparsi dalle angustie della condizione terre-
na se riesce a cogliere la graduale presenza divina in ogni forma della natura e se per
questa via riesce a innalzarsi alla comprensione/contemplazione di Dio stesso. La bellez-
za naturale non è che una forma imperfetta della bellezza divina, ma l’uomo attraverso
l’esatta valutazione dell’una può intuire anche l’altra: la bellezza naturale e terrena è in-
somma una sorta di preparazione a quella divina. La forza che consente questo innalza-
mento è l’amore: l’uomo grazie all’amore (anche delle cose terrene ma come pallido,
imperfetto simulacro di quelle divine) può elevarsi a Dio, che da Ficino è rappresentato
come luce purissima. L’uomo – come per Pico – è una sorta di microcosmo che riuni-
sce in sé finito e infinito, terra e cielo, natura inferiore e natura superiore. Ficino celebra,
oltre alla filosofia, anche la magia e l’astrologia, strumenti di interpretazione e di domi-
nio della natura in chiave teologica; e la poesia, la musica e il canto come arti che sono
dotate di un potere mistico, in quanto consentono di intuire l’essenza divina.
Fra gli amici e i discepoli di Ficino ci furono Cristoforo Landino, Poliziano, Botti-
celli e molti altri protagonisti del tardo Quattrocento fiorentino. Ma il platonismo fi-
ciniano influì profondamente anche sulla concezione cinquecentesca dell’amore, tan-
to nella trattatistica specifica (ad esempio i fortunatissimi Dialoghi d’amore di Leone
Ebreo, 1535) quanto nella poesia (tipico fu il fenomeno del petrarchismo, intessuto di
motivi platonizzanti).

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16. Umanesimo e letteratura umanistica STORIA

I PROTAGONISTI
Preumanesimo Petrarca, Boccaccio, Salutati
Riscoperta di codici antichi Petrarca, Bracciolini
Umanesimo civile, primato della vita attiva Salutati, Bruni, Manetti, Palmieri, Alberti
Filologia Valla, Poliziano, Erasmo da Rotterdam
Pedagogia umanistica Bruni, Guarino Veronese, Vittorino da Feltre
Platonismo, primato della vita contemplativa Ficino, Landino, Pico della Mirandola

TERMINI E CONCETTI
Umanesimo Studia humanitatis (studi letterari, storici, filosofici), humanitas
Rinascimento Rinascita del mondo antico
Media Aetas, Medioevo Età di decadenza culturale, di mezzo tra l’antichità classica e il presente
Filologia Edizioni esatte, rispettose della volontà dell’autore
Umanesimo civile Celebra la felicità terrena e i mezzi per realizzarla, il primato della vita attiva

Il culto dell’antichità classica e gli studia humanitatis (studi umanistici)

Culto per l’antichità classica

studio del greco elogio del latino, lingua di civiltà impulso agli studi umanistici ricerca e riscoperta di dodici
antichi e opere perdute

prime cattedre di nuova pedagogia filologia allargamento del canone dei testi noti
greco

allargamento rinnovamento del latino rispetto della volontà e del-


del canone medoevale sull’esempio l’ideologia degli autori
dei testi noti dei modelli antichi

senso storico

Studia humanitatis

polemico distacco recupero di modelli, valori e


dalla media aetas ideali del mondo antico

celebrazione di valori compatibili episodico neopaganesimo


con il cristianesimo

laicismo, felicità ter- studi filosofici, morali e re-


rena, edonismo, vita ligiosi, ispirati dagli anti-
attiva, impegno civile chi, nuovo aristotelismo

umanesimo civile umanesimo neoplatonico

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Quattrocento e Cinquecento

T 16.1 Poggio Bracciolini, Epistola a Guarino Veronese 1416


Quintiliano liberato da un oscuro carcere
Prosatori latini del In questa bellissima e celeberrima lettera Poggio Bracciolini (1380-1459) narra la sco-
Quattrocento perta, da lui compiuta nei più oscuri recessi di una biblioteca monastica, di alcuni anti-
a c. di E. Garin, Ricciardi,
Milano-Napoli 1952 chi codici, di nessun interesse per quei monaci e i loro predecessori, ma preziosissimi
per lui chierico umanista: si tratta in particolare di un codice che contiene per intero le
Insitutiones oratoriae, di Quintiliano, un’imponente ‘summa’ della retorica antica di cui al
Medioevo erano note solo alcune parti. Le parole che il giovane umanista adopera per
riferirsi al codice ritrovato, quasi si trattasse di un caro amico sottratto a una morte
atroce, ci fanno comprendere l’entusiasmo con cui Poggio e gli altri umanisti guardano
in questi anni al mondo antico.
La scoperta libraria di cui qui si parla avvenne nel 1416 nella biblioteca del mona-
stero di San Gallo, in Svizzera, nel periodo in cui Poggio partecipò al Concilio di Co-
stanza al seguito del papa Giovanni XXIII, di cui era segretario. La lettera è indirizzata
a Guarino Veronese, un altro dei protagonisti di questa stagione della cultura italiana e
grande maestro, di cui più avanti leggeremo un elogio.

POGGIO FIORENTINO SEGRETARIO APOSTOLICO SALUTA


IL SUO GUARINO VERONESE.

So che nonostante le tue molte occupazioni quotidiane, per la tua gentilezza e


benevolenza verso tutti, ricevi sempre con piacere le mie lettere; e tuttavia ti prego
nel modo più vivo di prestare a questa una particolare attenzione, non perché la
mia persona possa destar l’interesse anche di chi ha molto tempo da perdere, ma
per l’importanza di quanto sto per scriverti. So infatti con assoluta certezza che tu, 5
colto come sei, e gli altri uomini di studio, avrete una grandissima gioia. Infatti, o
Dio immortale, che cosa può esservi di più piacevole, caro, gradito a te e agli altri
uomini dotti che la conoscenza di quelle cose per la cui familiarità diventiamo più
colti e, ciò che più conta, più raffinati? La natura, madre di tutte le cose, ha dato al
genere umano intelletto e ragione, quali ottime guide a vivere bene e felicemente, 10
e tali che nulla possa pensarsi di più egregio. Ma non so se non siano veramente
eccellentissimi, fra tutti i beni che a noi ha concesso, la capacità e l’ordine del dire,
senza cui la ragione stessa e l’intelletto nulla potrebbero valere. Infatti è solo il di-
scorso quello per cui perveniamo ad esprimere la virtù dell’animo, distinguendoci
dagli altri animali. Bisogna quindi essere sommamente grati sia agli inventori delle 15
altre arti liberali, sia soprattutto a coloro che, con le loro ricerche e con la loro cu-
ra, ci tramandarono i precetti del dire e una norma per esprimerci con perfezione.
Fecero infatti in modo che, proprio in ciò in cui gli uomini sovrastano special-
mente gli altri esseri animati, noi fossimo capaci di oltrepassare gli stessi limiti
umani. E, molti essendo stati gli autori latini, come sai, egregi nell’arte di perfezio- 20
1 M. Fabio Quintiliano: nare e adornare il discorso, fra tutti illustre ed eccellente fu M. Fabio Quintiliano,1
retore latino, originario del- il quale così chiaramente e compiutamente, con diligenza somma, espone le doti
la Spagna, vissuto a Roma
all’incirca fra il 35 e il 95 d.C. necessarie a formare un oratore perfetto, che non mi sembra gli manchi cosa alcu-
L’opera di cui qui si parla, le na, a mio giudizio, per raggiungere una somma dottrina o una singolare eloquen-
Institutiones oratoriae (Istitu-
zioni di retorica) in 12 libri, za. Se egli solo rimanesse, anche se mancasse il padre dell’eloquenza Cicerone, 25
venne composta tra il 90 e il raggiungeremmo una scienza perfetta nell’arte del dire. Ma egli presso di noi ita-
92 ed è il più ampio e siste-
matico trattato di retorica liani era così lacerato, così mutilato, per colpa, io credo, dei tempi, che in lui non si
dell’antichità. riconosceva più aspetto alcuno, abito alcuno d’uomo. Finora avevamo dinanzi un
2 con la... ferite: cita-
zione daVirgilio, EneideVI, uomo «con la bocca crudelmente dilacerata, il volto e le mani devastati, le orecchie
496-498. strappate, le nari sfregiate da orrende ferite».2 30
Era penoso, e a mala pena sopportabile, che noi avessimo, nella mutilazione di
un uomo sì grande, tanta rovina dell’arte oratoria; ma quanto più grave era il do-
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16. Umanesimo e letteratura umanistica T 16.1

3 Marco Tullio... Mar- lore e la pena di saperlo mutilato, tanto più grande è ora la gioia, poiché la nostra
cello: il primo è Cicerone, il
secondo un amico di Cice- diligenza gli ha restituito l’antico abito e l’antica dignità, l’antica bellezza e la
rone, pompeiano, esiliato perfetta salute. Ché se Marco Tullio si rallegrava tanto per il ritorno di Marcello3 35
nel periodo delle guerre ci- dall’esilio, e in un tempo in cui a Roma di Marcelli ce n’erano tanti, ugualmente
vili, che Cesare aveva poi
graziato e richiamato dal- egregi ed eccellenti in pace e in guerra, che devono fare i dotti, e soprattutto gli
l’esilio; Cicerone nel 46 a.C. studiosi di eloquenza, ora che noi abbiamo richiamato, non dall’esilio, ma quasi
aveva scritto una celebre
orazione di ringraziamento dalla morte stessa, tanto era lacero e irriconoscibile, questo singolare ed unico
a Cesare (Pro Marcello). La splendore del nome romano, estinto il quale restava solo Cicerone? E infatti, per 40
gioia di Cicerone per il ri-
torno dell’amico dall’esilio Ercole, se non gli avessi recato aiuto, era ormai necessariamente vicino al giorno
è paragonata a quella degli della morte. Poiché non c’è dubbio che quell’uomo splendido, accurato, elegante,
umanisti per il ritorno «non
dall’esilio, ma quasi dalla pieno di qualità, pieno di arguzia, non avrebbe più potuto sopportare quel turpe
morte stessa» di Quintilia- carcere, lo squallore del luogo, la crudeltà dei custodi. Era infatti triste e sordido
no. come solevano essere i condannati a morte, con la barba squallida e i capelli pieni 45
4 dei Quiriti: dei Ro-
mani. di polvere, sicché con l’aspetto medesimo e con l’abito mostrava di essere destina-
5 il nostro Terenzio: to a un’ingiusta condanna. Sembrava tendere le mani, implorare la fede dei Qui-
commediografo latino del
II sec. a.C. Si noti l’espres- riti,4 che lo proteggessero da un ingiusto giudizio; e indegnamente colui che una
sione «il nostro» che presen- volta col suo soccorso, con la sua eloquenza, aveva salvato tanti, soffriva ora, senza
ta Terenzio come un caro
amico. trovare neppur un difensore che avesse pietà della sua sventura, che si adoperasse 50
6 Caio Valerio Flacco: per la sua salvezza, che gli impedisse di venire trascinato a un ingiusto supplizio.
poeta epico latino del I sec.
d.C. Ma, come dice il nostro Terenzio,5 quanto inopinatamente avvengono spesso le
7 Quinto Asconio Pe- cose che non oseresti sperare!
diano: un retore minore Un caso fortunato per lui, e soprattutto per noi, volle che, mentre ero ozioso a
contemporaneo di Quinti-
liano e di Valerio Flacco. Costanza, mi venisse il desiderio di andar a visitare il luogo dove egli era tenuto 55
8 Leonardo Bruni e recluso.V’è infatti, vicino a quella città, il monastero di S. Gallo, a circa venti mi-
Niccolò Niccoli: due cele-
bri umanisti toscani. Del glia. Perciò mi recai là per distrarmi, ed insieme per vedere i libri di cui si diceva
primo (1370 ca. -1444) ab- vi fosse un gran numero. Ivi, in mezzo a una gran massa di codici che sarebbe
biamo parlato nel profilo; il
secondo (1364-1437), eru- lungo enumerare, ho trovato Quintiliano ancor salvo ed incolume, ancorché tut-
dito e bibliofilo, non ha la- to pieno di muffa e di polvere. Quei libri infatti non stavano nella biblioteca, co- 60
sciato opere.
me richiedeva la loro dignità, ma quasi in un tristissimo ed oscuro carcere, nel
fondo di una torre, in cui non si caccerebbero neppure dei condannati a morte.
Ed io son certo che chi per amore dei padri andasse esplorando con cura gli er-
gastoli in cui questi grandi son chiusi, troverebbe che una sorte uguale è capitata a
molti dei quali ormai si dispera. 65
Trovai inoltre i tre primi libri e metà del quarto delle Argonautiche di Caio Vale-
rio Flacco,6 ed i commenti a otto orazioni di Cicerone, di Quinto Asconio Pe-
diano,7 uomo eloquentissimo, opera ricordata dallo stesso Quintiliano. Questi li-
bri ho copiato io stesso, ed anche in fretta, per mandarli a Leonardo Bruni e a
Niccolò Niccoli,8 che avendo saputo da me la scoperta di questo tesoro, insisten- 70
temente mi sollecitarono per lettera a mandar loro al più presto Quintiliano. Ac-
cogli, dolcissimo Guarino, ciò che può darti un uomo a te tanto devoto. Vorrei
poterti mandare anche il libro, ma dovevo contentare il nostro Leonardo. Co-
munque sai dov’è, e se desideri averlo, e credo che lo vorrai molto presto, facil-
mente potrai ottenerlo. Addio e voglimi bene, ché l’affetto è ricambiato. 75
Costanza, 15 dicembre 1416.

Guida all’analisi
La struttura retorica dell’epistola Bracciolini comincia segnalando l’importanza della comunicazione contenu-
ta nella lettera e prevedendo una «grandissima gioia» per Guarino e per gli altri studiosi
amici suoi, ma subito dopo dedica numerose righe a una celebrazione dell’eloquenza e di
quanti ne tramandano le regole: affermazioni importanti sul piano storico-culturale, ma del
tutto scontate per il suo interlocutore. Si tratta in effetti di un espediente retorico, una sor-
547 © Casa Editrice Principato
Quattrocento e Cinquecento

ta di sospensione del discorso e una dilazione dell’informazione saliente, che mira a creare
un’attesa nel lettore. Possiamo immaginare Guarino che, dopo l’annuncio iniziale, scorre
avidamente la lettera alla ricerca della ragione della gioia promessa. Questa (la notizia della
scoperta del codice) giunge solo molto tardi, e non prima che Poggio abbia inserito velate
allusioni ad essa: cita il nome di Quintiliano, poi allude all’ipotetica sopravvivenza della sua
opera, quindi cala indizi più espliciti: «Ma egli presso di noi italiani era così lacero...» (dun-
que ora non lo è più?). Il discorso si fa più esplicito a partire dalle righe 37-38 quando si an-
nuncia il ritorno «quasi dalla morte stessa» di Quintiliano; essa è però ancora inviluppata,
per così dire, nell’ornamentazione retorica del discorso. La metafora del salvataggio da un
oscuro carcere si sviluppa infatti in modo articolato nelle righe successive finché, alla riga
53, il discorso cessa di essere metaforico e si volge finalmente a una più diretta trasmissione
dell’informazione («Un caso fortunato per lui, e soprattutto per noi, volle che...»). La strut-
tura dunque può essere così descritta: 1. annuncio di una notizia lieta, 2. differimento della
notizia, 3. serie di progressive allusioni alla notizia, 4. aperta comunicazione della notizia.
La figura della prosopopea La parte saliente dell’epistola è quella centrale (all’incirca coincidente con il punto
3), in cui Poggio adotta sistematicamente la figura retorica della prosopopea, cioè della perso-
nificazione di un oggetto inanimato, in questo caso il codice che contiene l’opera di Quin-
tiliano. Il momento iniziale dell’uso di questa figura può essere individuato nell’espressione
«Ma egli presso di noi italiani era così lacerato...»: da qui infatti il discorso, che prima riguarda-
va un autore e il suo contributo alla definizione dell’arte del dire, si volge espressamente al-
l’opera e ai codici, ma in modo metaforico, descrivendoli come si trattasse appunto di per-
sone reali. Poggio ci trasmette prima l’immagine di un uomo lacerato, mutilo e, mediante la
citazione di Virgilio, orrendamente straziato (i codici allora noti, che erano appunto mutili,
cioè incompleti), poi quella di un uomo ricondotto alla sua dignità originaria di antico ro-
mano («la nostra diligenza gli ha restituito l’antico abito e l’antica dignità, l’antica bellezza e
l’antica salute», rr. 32-34, a significare il risultato finale della scoperta). Ma prima di tradur-
re questa metafora in notizia precisa, Poggio indugia ancora a descrivere lo stato del codice
trovato nel monastero di San Gallo, e lo fa descrivendoci la condizione di un prigioniero
gettato in un oscuro carcere, ancora integro, ma in condizioni d’aspetto penose e prossimo
alla fine. E descrive il luogo, la situazione generale e le circostanze particolari dell’incontro.
Il senso dell’epistola: l’ideale colloquio con i classici La struttura del discorso è dunque attentamente calibrata,
l’esposizione è retoricamente elaborata. Non dobbiamo considerare questo fatto come un
indice di freddezza (noi siamo abituati a forme di scrittura più immediate), bensì un modo
del tutto naturale di esprimersi per degli umanisti imbevuti di cultura e letteratura classica; e
più precisamente lo dobbiamo considerare un tributo a quell’arte oratoria di cui da princi-
pio si tesse l’elogio e di cui Quintiliano rappresenta uno dei vertici. Poggio insomma sa che
Guarino si emozionerà di fronte al suo discorso anche per la sua sapiente eloquenza e, al
contempo, si vuol mostrare degno discepolo dell’amatissimo maestro che ha richiamato in
vita. In particolare l’uso insistito della prosopopea ci pone di fronte a un dato molto impor-
tante: gli umanisti concepiscono la lettura dei classici come un ideale colloquio con i gran-
di protagonisti della cultura antica. Le loro opere, i loro libri in quanto trasmettono un mes-
saggio fondamentale sono identificati e quasi confusi con i loro autori. Nella cerchia so-
prattutto dei primi umanisti, che combattevano una battaglia d’avanguardia per il rinnova-
mento della cultura, e che erano consapevoli di costituire un’élite ristretta osteggiata dai
moltissimi fautori della tradizione, è vivo il senso di essere più simili agli antichi che agli uo-
mini del proprio tempo ed è quindi del tutto naturale sentire quei grandi autori come pro-
pri contemporanei.

Laboratorio 1 Nella prima parte della lettera Braccioli- anche nel profilo [R16.4 e Doc 16.3 e 5 ]), ri-
COMPRENSIONE ni tesse un elogio delle arti liberali e del- tornerà in numerosi testi successivi: pre-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE l’eloquenza: ricostruisci il senso del di- disponi una scheda per seguirne gli svi-
scorso citando le affermazioni a tuo pa- luppi (qui raccoglierai i concetti e le af-
rere più significative. Il tema, illustrato fermazioni più interessanti).
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16. Umanesimo e letteratura umanistica T 16.2

T 16.2 Lorenzo Valla, Elegantiae linguae latinae 1435-1444


Il latino, lingua di civiltà
Prosatori latini del Il latino è la lingua d’elezione degli umanisti, che cercano di riportarlo all’antica digni-
Quattrocento tà e perfezione, dopo la lunga decadenza medievale. Ma la lingua latina in questo scrit-
a c. di E. Garin, Ricciardi,
Milano-Napoli 1952 to di Lorenzo Valla è celebrata come non mai soprattutto per essere stata, più dello stes-
so impero romano, uno straordinario e duraturo strumento di diffusione della civiltà,
capace di portare in modo del tutto pacifico benefici all’umanità intera.

PREFAZIONE AI SEI LIBRI DELLE ELEGANZE

Quando, come spesso mi avviene, vo meco stesso considerando le imprese dei


popoli e dei re, mi accorgo che i nostri compatriotti hanno superato tutti gli altri,
non solo per ampiezza di dominio, ma anche nella diffusione della lingua. I Per-
siani, i Medi, gli Assiri, i Greci ed altri molti hanno fatto conquiste in lungo e in
largo; gl’imperi di alcuni, anche se inferiori per estensione a quello romano, sono 5
stati molto più duraturi. Eppure nessuno diffuse la propria lingua quanto i Romani
che, per tacere di quei lidi d’Italia detti una volta Magna Grecia, della Sicilia, che
fu anch’essa greca, e di tutta l’Italia, quasi dovunque in occidente, e in gran parte
del settentrione e dell’Africa, resero famosa e quasi regina in breve tempo la lin-
gua di Roma, detta latina dal Lazio, dove è Roma; e, per quel che riguarda le pro- 10
vincie, la offrirono agli uomini come ottima messe per fare sementa. Opera, que-
sta, splendida e molto più preziosa della propagazione dell’impero. Quelli, infatti,
che estendono il dominio sogliono essere molto onorati e vengono chiamati im-
peratori; ma coloro che hanno migliorato la condizione umana sono celebrati
con lode degna non di uomini ma di dèi, perché non hanno provveduto soltanto 15
alla grandezza e alla gloria della propria città, ma al vantaggio e al riscatto in ge-
nere dell’umanità intera. Se dunque i padri nostri superano gli altri per gloria mi-
litare e per molti altri meriti, nella diffusione della lingua latina furono superiori
a se stessi, e, lasciato quasi l’imperio terreno, raggiunsero in cielo il consorzio de-
gli dèi. O diremo forse che, mentre Cerere per avere trovato il grano, Bacco il vi- 20
no, Minerva l’ulivo, ed altri molti per benefizi del genere hanno avuto un posto fra
gli dèi, è minor merito l’aver distribuito ai popoli la lingua latina, messe ottima e
davvero divina, cibo non del corpo ma dell’anima? Fu essa, infatti, a educar le gen-
ti e i popoli tutti nelle arti liberali; fu essa ad insegnare loro ottime leggi, ad apri-
re la strada ad ogni sapienza; fu essa a liberarli dalla barbarie. Perciò qual giusto esti- 25
matore mai non preferirà coloro che si resero illustri nel culto delle lettere a quan-
ti condussero orribili guerre? Uomini regi chiamerai questi; ma dirai giustamen-
te divini quelli, che non si limitarono ad aumentare, come è umano fare, lo stato
e la maestà del popolo romano, ma a modo di dèi provvidero anche alla salute del
mondo. Tanto più che quanti venivano assoggettati al nostro dominio perdevano 30
il proprio e, cosa ben amara, ritenevano di essere privati della libertà, e forse non
a torto; mentre invece capivano che la lingua latina non mortificava la loro, ma in
qualche modo la migliorava, così come ritrovare il vino non significò abbandona-
re l’uso dell’acqua, né la seta cacciò la lana e il lino, né l’oro gli altri metalli, ma fu
solo un incremento degli altri beni. A quel modo che una gemma incastonata in 35
un anello d’oro non lo avvilisce, ma lo adorna, così la lingua nostra aggiungendo-
si ai volgari altrui dette, non tolse splendore. Né ottenne il dominio con le armi,
la guerra e il sangue, ma con benefizi, con l’amore e la concordia. E per quel che
si può congetturare, questa fu, per dir così, la fonte di tanto successo: innanzitutto
che i nostri maggiori coltivavano mirabilmente ogni genere di studi, così che chi 40

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Quattrocento e Cinquecento

non era egregio nelle lettere, neppure poteva eccellere nelle armi: e questa non era
piccola spinta all’emulazione anche per gli altri. In secondo luogo offrivano pre-
mi insigni a chi professava le lettere. Infine esortavano tutti i cittadini delle pro-
vincie a parlare romano così in provincia come a Roma. E questo basti, a propo-
sito del paragone fra la lingua latina e l’impero romano: l’uno genti e nazioni cac- 45
ciarono come sgradevole soma; l’altra considerarono più soave d’ogni nettare, più
splendida d’ogni seta, più preziosa d’ogni oro e d’ogni gemma, e la conservarono
gelosamente come un Dio disceso dal cielo. Perché è grande il sacramento della
lingua latina, grande senza dubbio la divina potenza che presso gli stranieri, pres-
so i barbari, presso i nemici, viene custodita piamente e religiosamente da tanti se- 50
coli, sì che noi Romani non dobbiamo dolerci ma rallegrarci e gloriarci dinanzi al-
l’intero mondo che ci ascolta. Perdemmo Roma, perdemmo il regno, perdemmo
il potere; e non per colpa nostra, ma a causa dei tempi. Eppure con questo più
splendido dominio noi continuiamo a regnare in tanta parte del mondo. Nostra è
l’Italia, nostra la Gallia, la Spagna, la Germania, la Pannonia, la Dalmazia, l’Illirico 55
e molte altre nazioni; poiché l’impero romano è dovunque impera la lingua di Ro-
ma. [...]
E chi ignora che studi e discipline fioriscono quando la lingua è in fiore, e de-
cadono quand’essa decade? Quali furono infatti i sommi fra i filosofi, gli oratori, i
giuristi, gli scrittori infine, se non quelli che sommamente ebbero a cuore la per- 60
fezione del dire? Ma il dolore mi impedisce di parlare ancora, e mi strazia e mi co-
stringe al pianto, vedendo da quale altezza e quanto in basso sia caduta la lingua.
Qual mai cultore delle lettere, o qual uomo amante del pubblico bene si asterrà
dalle lacrime, vedendola nelle condizioni medesime in cui fu un giorno Roma oc-
cupata dai Galli? Tutto è travolto, bruciato; a stento rimane il Campidoglio.1 Da se- 65
coli nessuno più parla latino, e neppure l’intende leggendo.2 Gli studiosi di filoso-
fia non intendono i filosofi, gli avvocati non intendono gli oratori i legulei, i giu-
risti, gli altri né hanno capito né capiscono i libri degli antichi, quasiché, ora che
l’impero romano è caduto, più non convenisse a noi né la lingua né la cultura la-
tina. Così hanno lasciato che la muffa e la ruggine deturpassero il fulgore antico 70
della latinità. I saggi hanno variamente spiegato i motivi di tutto ciò, né io oso pro-
nunciarmi in proposito, approvando o condannando; e neppure dirò perché mai le
arti della pittura, della scultura, dell’architettura, che sono tanto vicine a quelle li-
berali, dopo essere per tanto tempo cadute così in basso da parer quasi morte co-
me le lettere, ora si risveglino a nuova vita, e fiorisca una sì larga schiera di buoni 75
artefici e di colti uomini di lettere. Comunque, quanto furono tristi i tempi anda-
ti, in cui non si trovò neppure un dotto, tanto maggiormente dobbiamo compia-
cerci con l’epoca nostra nella quale, se ci sforzeremo un poco di più, io confido che
presto restaureremo, più ancora che la città, la lingua di Roma e, con essa, tutte le
discipline. Perciò, dato il mio amore per la patria, anzi per l’umanità, e data la 80
grandezza dell’impresa, voglio esortare ed invocare dall’alto tutti gli studiosi di
eloquenza e, come suol dirsi, suonare a battaglia.

1 Tutto... Campido- stenza romana, significa al- 2 Da secoli ... leggen- te degli umanisti,una vistosa
glio: la metafora, che deriva l’incirca che nel periodo di do: l’affermazione è certa- affermazione della loro
dall’episodio dell’invasione crisi a stento si conservano il mente esagerata, ma la pole- identità.
dei Galli (390 a.C.) e dell’as- ricordo della passata gran- mica contro la “media ae-
sedio posto al Campidoglio, dezza culturale e la cogni- tas”,interposta fra la classici-
ultimo baluardo della resi- zione della lingua antica. tà e il presente, è una costan-

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16. Umanesimo e letteratura umanistica T 16.2

Guida all’analisi
Lingua e civiltà: dichiarazioni di principio In questo passo si intrecciano tre ordini di considerazioni: una ri-
flessione di natura teorica, un’analisi storica e dichiarazioni inerenti all’attualità culturale.
L’affermazione concettualmente più importante è forse quella che connette il fiorire del-
la lingua con il fiorire della civiltà («chi ignora che studi e discipline fioriscono quando la
lingua è in fiore, e decadono quand’essa decade?»); essa riguarda certo la lingua latina, ma
ha anche una portata più generale: gli studi linguistici e retorici sono in ogni caso indi-
spensabili al fiorire di una qualsiasi civiltà. Un’altra importante dichiarazione di principio
indirettamente desumibile, come vedremo, dall’analisi storica è che la lingua diffonde la ci-
viltà con strumenti pacifici, che tutti possono accogliere volentieri, mentre il potere poli-
tico-militare lo fa con strumenti di guerra che portano orrore e distruzione e generano
reazioni violente.
La lingua e l’impero di Roma: analisi storica Da queste affermazioni di principio discendono logicamente
quelle di ordine storico, sparse nel testo, che riguardano l’eccellenza della lingua latina e i
suoi rapporti con l’impero romano. Gli antichi romani «coltivavano mirabilmente ogni ge-
nere di studi» (r. 40) e promuovevano sia le lettere sia l’uso del latino in ogni provincia (rr.
41-44); anche perciò (per la superiorità della civiltà romana) la lingua latina si diffuse stra-
ordinariamente nello spazio e nel tempo (r. 6 e segg.); la diffusione del latino deve essere
quindi considerata impresa superiore alla diffusione dell’impero: mentre quest’ultimo ha as-
soggettato «con le armi, la guerra e il sangue» e ha tolto la libertà ai popoli conquistati, la
lingua si è imposta «con benefizi, con l’amore e la concordia» e ha arricchito i popoli che
l’hanno utilizzata donando loro le arti liberali, il diritto, la sapienza, e liberandoli dalla bar-
barie, tanto che se i guerrieri meritano il titolo di «uomini regi», i latini che diffusero le let-
tere meritano quello di «uomini divini» (rr. 11-37); la diffusione della lingua latina è risulta-
ta più duratura dell’impero: resiste anche molti secoli dopo la caduta di quello (rr. 52-57).
La chiamata dei dotti a battaglia Le considerazioni di Valla non sono però soltanto di ordine teorico e stori-
co, ma costituiscono anche un programma con evidenti implicazioni per l’attualità cultu-
rale. Ciò emerge con chiarezza nel finale del passo riportato, quando, dopo le dichiarazio-
ni teoriche e la disamina storica, dopo il comprensibile orgoglio per essere erede e in
qualche misura partecipe di questa straordinaria opera di civilizzazione,Valla si ripiega me-
stamente sul presente e denuncia la decadenza attuale delle vestigia dell’antico stato («a
stento rimane il Campidoglio») ma soprattutto della lingua latina (quasi più nessuno la
parla, pochi la intendono), e di conseguenza degli studia humanitatis e della stessa civiltà
che essa aveva favorito. Ma ormai – siamo nel terzo decennio del Quattrocento – in lui è
anche chiaro che il moto di decadenza si è invertito e si può intravedere un riscatto e una
rinascita dell’antica civiltà. Così con rinnovato orgoglio, questa volta per l’operato dei dot-
ti che con lui stavano contribuendo al «risveglio» delle arti, li chiama «a battaglia» dichia-
rando che alla decadenza della lingua (e della civiltà) latina si deve rispondere con una
sempre maggiore dedizione gli studi, in particolare di eloquenza, indispensabili per restau-
rare, attraverso la lingua, la civiltà latina.

Laboratorio 1 Per qualificare i pregi della lingua latina 3 Confronta l’ultima parte di questo testo
COMPRENSIONE Valla utilizza una serie di similitudini (e con i passi riportati nel profilo [R Doc 16.2-3 ]
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE metafore): individuale nel testo (ad es. al- e ricostruisci sinteticamente, commen-
le rr. 22-23: «lingua latina, messe ottima e tandole, le fasi attraverso le quali dalla
davvero divina, cibo non del corpo ma consapevolezza della decadenza si passa
dell’anima»). all’orgoglio per la rinascita della civiltà.
2 È possibile dedurre, direttamente o indi-
rettamente, dal testo un giudizio dell’au-
tore sul volgare?
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Quattrocento e Cinquecento

T 16.3 Leonardo Bruni, Epistulae data incerta


Gli studia humanitatis [Libro VI]
E. Garin In questo passo di una sua epistola Leonardo Bruni (1370-1444) invita il suo interlocu-
Il rinascimento tore a dedicarsi con passione e costanza agli studia humanitatis, nella certezza che essi
italiano
Cappelli, Bologna 1980 «tendono a formare l’uomo buono», sono cioè lo strumento essenziale per sviluppare
nell’uomo le sue migliori qualità. Sin dai rapidi accenni presenti in questa lettera appa-
re chiaro come gli studia humanitatis prevedano un ampliamento del canone tradiziona-
le di letture: Bruni infatti esorta l’amico ad approfondire in modo «diligente ed intimo»
la conoscenza non solo di filosofi come Aristotele, ma anche di poeti, storici, oratori e
di quanti altri consentano di migliorare al tempo stesso il proprio sapere e la propria
eloquenza.

Duplice sia il tuo studio: volto, in primo luogo, a conseguire nelle lettere, non
codesta conoscenza comune e volgare, ma un sapere diligente ed intimo, nel qua-
le voglio che tu eccella; in secondo luogo, ad ottenere la scienza di quelle cose
che riguardano la vita e i costumi; studi, questi, che si chiamano di umanità, per-
ché perfezionano ed adornano l’uomo. In essi il tuo sapere sia vario e molteplice 5
e tratto da ogni parte, sì che nulla tu tralasci che sembri contribuire alla forma-
zione, alla dignità, alla lode della vita. Credo che ti convenga leggere quegli auto-
ri, come Cicerone e simili, che ti possano giovare, non solo per dottrina, ma an-
che per il nitore del discorso e l’abilità letteraria. Se vorrai darmi ascolto, da Ari-
stotele apprenderai i fondamenti di queste discipline, ma cercherai in Cicerone 10
l’eleganza e l’abbondanza del dire e le ricchezze tutte dei vocaboli e, per così di-
re, la destrezza nel discorrere di quegli argomenti.
Vorrei infatti che un uomo egregio avesse ricca la conoscenza e sapesse anche
illustrare ed abbellire nel discorso le cose che sa. Ma questo non sarà capace di fa-
re chi non abbia letto molto, molto imparato, molto tratto da ogni parte. Quindi 15
non dovrai venire addottrinato solamente dai filosofi, pur fondamento di questi
studii, ma anche formato dai poeti, dagli oratori, dagli storici, in modo che il tuo
discorso sia vario, ricco e per nulla rozzo...
Se, come spero, raggiungerai tale eccellenza, quali ricchezze si potrebbero para-
gonare ai resultati di questi studi? Per quanto, infatti, lo studio del diritto civile sia 20
più commerciabile, esso è, per dignità e proficuità, superato dalle lettere. Esse in-
fatti tendono a formare l’uomo buono, del quale niente può pensarsi di più utile;
il diritto civile, invece, in nulla contribuisce a rendere buono l’uomo... Che anzi
l’uomo onesto rispetterà i legati e compirà le volontà del testatore,1 anche se il te-
stamento non avrà avuto sette testimoni, pur disponendo in contrario il diritto ci- 25
vile.2 Inoltre la bontà e la virtù sono immutabili, mentre il diritto varia secondo i
luoghi e secondo i tempi, sì che spesso quello che è legittimo a Firenze, è colpa a
Ferrara.

1 testatore: colui che ha malmente nullo il testa- vuole dimostrare la supe- civile che talvolta, per vizi
fatto testamento. mento (ad esempio per la riorità degli studia humani- formali, dispone in modo
2 pur... civile: anche se il mancanza del numero lega- tatis, che rendono onesto iniquo.
diritto civile dichiarerà for- le di testimoni). L’esempio l’uomo, rispetto al diritto

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16. Umanesimo e letteratura umanistica T 16.3

Guida all’analisi
«Formare l’uomo buono»: la polemica con il sapere tecnico Nel corso del Medioevo gli studi si erano svilup-
pati sostanzialmente in due direzioni: quella religiosa e morale che attingeva alla millenaria
tradizione cristiana, che per lunghi secoli avevano costituito la quasi totalità del sapere; e, più
recentemente, quella di natura tecnica che comprendeva discipline come la medicina e il di-
ritto (le prime grandi università, ad esempio, erano state quelle di Parigi, specializzata in teo-
logia, quella di Bologna, specializzata in diritto, e quella di Salerno, specializzata in medicina).
Già Petrarca aveva evidenziato polemicamente i limiti degli studi puramente tecnici (in una
sua Invettiva contro dei medici padovani). Qui l’argomento è ripreso di scorcio anche da
Bruni, che nel finale del passo mira a dimostrare la superiorità morale degli studia humanita-
tis rispetto al diritto, che talvolta può risultare iniquo per eccesso di tecnicismo (ad esempio
impugnando un testamento per semplici vizi formali). Bruni ci vuol dire che gli studia hu-
manitatis mirano invece a formare «l’uomo buono», aprendogli il cuore e la mente, instillan-
dogli un più comprensivo senso di lealtà e di giustizia, indirizzandolo insomma a sviluppare
quel complesso di virtù che l’antico ideale di humanitas aveva codificato e celebrato (onestà,
magnanimità, sensibilità, ecc.). Sottolineando questa componente etica degli studi letterari
Bruni lascia anche intendere che essi si integrano naturalmente con i valori tradizionali del
cristianesimo, che continua ad essere un sostanziale punto di riferimento ideologico.
Non solo filosofi... Il canone delle letture utili per la formazione individuale nel giudizio degli umanisti si
amplia considerevolmente rispetto al passato. Qui Bruni afferma l’utilità di affiancare alla
lettura dei filosofi (cita Aristotele, che costituiva già uno dei fondamenti del sapere medie-
vale) anche quella di poeti, storici, oratori.
Egli pare mosso da due priorità: la prima è quella di dimostrare la compatibilità del nuo-
vo corso di studi con la tradizione (non si tratta di un’eversione, ma di uno sviluppo e di un
miglioramento della tradizione): da principio sottolinea che il sapere deve essere «diligente
ed intimo», non superficiale cioè; che deve avere per oggetto «la scienza di quelle cose che
riguardano la vita e i costumi»; che esso deve essere «vario e molteplice»; che i filosofi costi-
tuiscono pur sempre il «fondamento di questi studii». E, come si è detto, ribadisce il caratte-
re etico di questi studi (il cui fine è «formare l’uomo buono»).
Rispetto a un sapere tradizionale, che aveva decisamente privilegiato gli aspetti sostan-
ziali della formazione (etica, filosofia, teologia...), a Bruni appare però urgente sottolineare,
in secondo luogo, anche la necessità di sviluppare la cura formale del discorso, l’arte del-
l’eloquenza cioè, che il Medioevo aveva spesso trascurato. Si noti come egli insista sul «nito-
re del discorso e l’abilità letteraria», su «l’eleganza e l’abbondanza del dire...», sulla «destrez-
za del discorrere», sulla capacità di «illustrare e abbellire nel discorso le cose che sa». Come
vedremo anche in seguito, res e verba, cose e parole, dottrina ed eloquenza sono per gli uma-
nisti due aspetti inseparabili della formazione culturale dell’individuo, che si potenziano vi-
cendevolmente. Gli studia humanitatis non conducono dunque a un vuoto formalismo, ma a
una conoscenza vasta, varia e approfondita di cose sostanziali e utili, unita alla capacità di
esporre le proprie conoscenze in modo elegante e raffinato, bello e piacevole.
Laboratorio 1 Dopo aver letto il testo di Bruni, esponi grammatica ha condotto i religiosi, e
COMPRENSIONE con parole tue in che cosa consistono gli quanti altri, come loro, ne sono digiuni?
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE studia humanitatis e prova a spiegare per Essi non capiscono quello che leggono,
quali ragioni alcuni li ritenevano incom- né possono offrire agli altri cose da leg-
patibili con la formazione di un cristiano gere. [...] Un Cristiano ignorante saprà a
e altri viceversa li ritenevano utili e anzi stento che cosa credere. E se qualcuno
necessari. Considera ad esempio queste scuota la sua semplicità facendo appello
osservazioni di Coluccio Salutati: «Come all’autorità della Scrittura, o con un qual-
potrebbe infatti venire a conoscenza della siasi anche debole argomento, non saprà
Scrittura sacra chi fosse ignaro di studi cosa rispondere e comincerà a dubitare
letterari? E come li imparerebbe chi fosse della verità della fede». Per rispondere
privo di qualsiasi nozione grammaticale? puoi anche consultare i paragrafi 15.2,
Non vedi a che punto l’ignoranza della 16.1 e 16.3.
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Quattrocento e Cinquecento

T 16.4 Giannozzo Manetti


De dignitate et excellentia hominis 1451-1452
I piaceri e la bellezza del corpo umano
Prosatori latini del L’umanista fiorentino Giannozzo Manetti (1396-1459) compose questo trattato sulla
Quattrocento Dignità ed eccellenza dell’uomo poco dopo la metà del secolo, su richiesta di Alfonso
a c. di E. Garin, Ricciardi
Milano-Napoli 1952 d’Aragona. In quest’opera, che è la sua più famosa, si propone di tessere un elogio del-
l’uomo e in particolare di confutare le tesi filosofiche e religiose che hanno in vario
modo sminuito la figura umana, via via negando l’immortalità dell’anima o affermando
la fragilità o la viltà del corpo umano o argomentando circa l’infelicità della vita uma-
na, tanto grave da preferirle la morte. Nel quarto libro, da cui sono tratti questi brevi
passi, egli si dedica in prevalenza alla confutazione di un celebre e cupo libretto della fi-
ne del XII secolo, il De contemptu mundi [Sul disprezzo del mondo], opera di Lotario di Se-
gni (poi papa Innocenzo III), che aveva costituito una delle più drastiche rappresenta-
zioni medievali della miseria della condizione umana. Ne sortisce, fra l’altro, una schiet-
ta lode dei piaceri e della bellezza del corpo umano.

LIBRO QUARTO
Delle lodi e del bene della morte; della miseria della vita umana.

1 confutare... umana: Fin qui, nei tre libri precedenti, ho esposto largamente e diffusamente, con
nel corso della trattazione chiara ed aperta parola, per quanto poteva permettermelo la limitata capacità del
Manetti cita non solo Inno-
cenzo III, autore del De con- mio ingegno, tutto quello che sembrava in particolar modo riferirsi e concernere
temptu mundi, ma anche la una certa singolare e precipua dignità ed eccellenza dell’uomo. E ritenevo non a
Bibbia e numerosi filosofi e
moralisti antichi, da Aristo- torto che ormai fosse giunto il momento opportuno e adatto a concludere l’ope- 5
tele a Cicerone e Seneca, ra mia, cosa che senza dubbio avrei già fatto, se non avessi pensato essere impor-
che hanno sostenuto varie
tesi circa l’infelicità dell’uo- tante per il nostro assunto confutare quelle affermazioni che molti autori antichi e
mo, la debolezza del suo moderni hanno scritto in lode e sul vantaggio della morte, ed intorno all’infelici-
corpo o la natura corporea
dell’anima. tà della vita umana:1 affermazioni che in qualche modo appaiono contrastare con
2 queruli: lamentosi, in- la precedente trattazione. Per altro in questa mia confutazione delle suddette opi- 10
clini a lamentarci. nioni frivole e false ho stabilito di seguire una linea, in modo che la discussione
3 sensi esterni: come si
vedrà Manetti distingue tra riesca più grave e severa. Risponderò quindi brevemente, secondo la natura delle
sensi esterni e sensi interni: i questioni e le esigenze degli argomenti, innanzitutto a quanto si obbietta circa la
primi sono i cinque sensi, i
secondi sono il cosiddetto fragilità del corpo umano, in secondo luogo intorno all’ignobiltà dell’anima, infi-
senso comune (o ‘sesto senso’, ne intorno alla persona umana nel suo complesso. 15
che secondo Aristotele ave-
va il compito di confrontare Orbene, […], se non fossimo troppo queruli2 e troppo ingrati e ostinati e deli-
e unificare i dati dei sensi cati, dovremmo riconoscere e dichiarare che in questa nostra vita quotidiana pos-
esterni) e altre facoltà men-
tali come l’immaginare, il sediamo molti più piaceri che non molestie. Non c’è infatti atto umano, ed è mi-
ricordare, il giudicare... rabile cosa, sol che ne consideriamo con cura e attenzione la natura, dal quale
4 sostanze o accidenti:
termini filosofici con cui si
l’uomo non tragga almeno un piacere non trascurabile: così attraverso i vari sensi 20

distinguono le qualità e le esterni,3 come il vedere, l’udire, l’odorare, il gustare, il toccare, l’uomo gode sem-
proprietà connaturate e co- pre piaceri così grandi e forti, che taluni paiono a volte superflui ed eccessivi e so-
stanti (sostanze) od occasio-
nali (accidenti) di un oggetto. verchi. Sarebbe infatti difficile a dirsi, o meglio impossibile, quali godimenti l’uo-
La terminologia, diffusa in mo ottenga dalla visione chiara ed aperta dei bei corpi, dall’audizione di suoni e
tutta la filosofia scolastica, è
in origine aristotelica. sinfonie e armonie varie, dal profumo dei fiori e di simili cose odorate, dal gustare 25
cibi dolci e soavi, e infine dal toccare cose estremamente molli. E che diremo de-
gli altri sensi interni? Non possiamo dichiarare a sufficienza con parole quale di-
letto rechi seco quel senso che i filosofi chiamano comune nel determinare le dif-
ferenze delle cose sensibili; o qual piacere ci dia la varia immaginazione delle di-
verse sostanze e accidenti,4 o il giudicare, il ricordare, e infine l’intendere, quando 30
prendiamo a immaginare, comporre, giudicare, ricordare ed intendere le cose già
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16. Umanesimo e letteratura umanistica T 16.4

apprese mediante qualche senso particolare. Perciò se gli uomini nella vita gustas-
sero quei piaceri e quei diletti, piuttosto che tormentarsi per le molestie e gli af-
fanni, dovrebbero rallegrarsi e consolarsi invece di piangere e di lamentarsi, soprat-
tutto poi avendo la natura fornito con larghezza copiosa numerosi rimedi del 35
freddo, del caldo, della fatica, dei dolori, delle malattie; rimedi che sono come si-
curi antidoti di quei malanni, e non aspri, o molesti, o amari, come spesso suole
accadere con i farmachi, ma piuttosto molli, grati, dolci, piacevoli. A quel modo
infatti che quando mangiamo e beviamo, mirabilmente godiamo nel soddisfare la
fame e la sete, così ugualmente ci allietiamo nel riscaldarci, nel rinfrescarci, nel ri- 40
posarci. Ancorché le percezioni del gusto appaiano in certo qual modo molto più
dilettose di tutte le altre percezioni tattili, fatta eccezione per quelle del sesso; e ciò
la natura, che è guida sommamente solerte ed abile e senza dubbio unica, non ha
fatto a caso, ma – come dicono i filosofi – per ragioni chiare e cause evidenti, on-
de si traesse un godimento di gran lunga maggiore nel coito che non nel mangia- 45
re e nel bere, intendendo essa innanzitutto conservare la specie piuttosto che gl’in-
dividui; e la specie si conserva con l’unione del maschio e della femmina, l’indivi-
duo invece con l’assorbimento del cibo che, per dir così, recupera ciò che si perde.
In tal modo tutte le opinioni e le sentenze sulla fragilità, il freddo, il caldo, la fatica,
la fame, la sete, i cattivi odori, i cattivi sapori, visioni, contatti, mancanze, veglie, so- 50
gni, cibi, bevande, e simili malanni umani; tutte, insomma, tali argomentazioni ap-
pariranno frivole, vane, inconsistenti a quanti considereranno con un po’ più di di-
ligenza e di accuratezza la natura delle cose.

Guida all’analisi
Dall’orrore del corpo al suo elogio Queste celebri pagine del trattato di Giannozzo Manetti costituiscono la più
esplicita presa di distanza compiuta dall’umanesimo quattrocentesco rispetto agli estremi
dell’ascetismo medievale. Se sovente nel Medioevo il corpo veniva infatti presentato come il
carcere dell’anima, come la principale fonte del peccato, come un elemento di debolezza e
una continua sorgente di miseria fisica e morale per l’uomo, tanto da indurre a punirlo,
mortificarlo, disprezzarlo e a negarne ogni dignità, Manetti ribalta drasticamente questa vi-
sione sia in senso morale, elogiando i piaceri e invitando l’uomo a considerare e valorizzare
gli aspetti positivi del vivere, sia più avanti in senso estetico, elogiando la bellezza del corpo.
Naturalismo e fede cristiana Quella di Manetti è una visione dell’uomo che possiamo definire naturalistica: si
noti fra l’altro come egli esplicitamente celebri la previdenza e la saggezza della natura che ha
graduato l’intensità dei piaceri in modo da indurre l’umanità in primo luogo a conservare la
specie e in secodo luogo a conservare l’individuo. Una volta ricondotti il piacere e il corpo
nell’ambito di un superiore disegno naturale e provvidenziale (la natura per Manetti è indub-
biamente un’emanazione divina), tutte le possibili obiezioni moralistiche sono destinate a ca-
dere, e così ogni senso di colpa nei confronti del corpo, del cibo, della sessualità... È chiaro per-
tanto come questa serena e a tratti gioiosa rappresentazione della dimensione fisica del vivere
terreno non sia in contrasto con i valori della fede cristiana, ma esclusivamente con una loro
interpretazione rigoristica e antinaturalistica, peraltro assai diffusa nei secoli precedenti.
Naturalismo e umanesimo civile È anche chiaro come una simile visione si colleghi coerentemente, in questi an-
ni, con le dichiarazioni di fiducia nella natura umana e nelle possibilità dell’uomo di rendersi
artefice della propria fortuna terrena, e con l’interesse dimostrato dagli umanisti per le attività
o gli aspetti del vivere civile intesi a migliorare la condizione terrena dell’uomo (ricchezza,
masserizia, buon governo, educazione, ecc.): insomma, la serena accettazione della fisicità co-
stituisce un presupposto essenziale all’affermazione della centralità dell’uomo nel mondo.
Da questa rivalutazione del corpo discende anche la rivalutazione dell’educazione fisica
come aspetto saliente della concezione pedagogica dell’umanesimo: la ricerca del benessere
del corpo, come la ricreazione dello spirito, è condizione indispensabile all’apprendimento.
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Quattrocento e Cinquecento

Doc 16.6 Poggio Bracciolini, I bagni di Baden

A farci capire lo spirito in gran parte nuovo con cui gli umanisti guardano alla vita umana
nei suoi aspetti naturali e socio-culturali contribuisce in particolare la lettera di Poggio
Bracciolini che descrive i bagni di Baden (1416). Durante un suo viaggio in qualità di se-
gretario apostolico egli si ferma qualche tempo nella località termale di Baden e osserva
con curiosità scevra da ogni considerazione moralistica gli usi e i costumi, per quel tempo
piuttosto liberi e spregiudicati, degli abitanti e dei villeggianti, che giungono da località
lontane al solo scopo di ricercare il benessere del corpo. E nota con compiaciuto stupore
come in tanta varietà di costumi e in tanta libertà e promiscuità la vita scorra serena, sen-
za gelosie, bisticci, mormorazioni, maldicenze. Sarebbe piacevole leggerla per intero, ma
qui può bastare il passo sulle acque termali.

Prosatori latini del Quat- Se poi vuoi conoscere qual sia la virtù di queste acque, essa è varia e molteplice, ma in
trocento, a c. di
E. Garin, Ricciardi,
una cosa è mirabile e veramente divina. In nessun luogo del mondo ci son bagni più pro-
Milano-Napoli 1952, pizi alla fecondità delle donne. Così, molte che vengono ai bagni per guarire della steri-
pp. 227-229 lità, ne sperimentano la mirabile efficacia; infatti osservano scrupolosamente le prescri-
zioni con le quali si curano quelle che non possono concepire. Ma merita fra l’altro far
menzione del fatto che una smisurata moltitudine di persone d’ogni condizione viene
qui da distanze di duecento miglia, non tanto per la salute quanto per il piacere; tutti gli
amanti, tutti i vagheggini, tutti coloro che ripongono nei piaceri lo scopo della vita, si
danno convegno qui per godere degli agognati beni; fingono molte malattie del corpo
mentre soffrono per le passioni dell’animo. Così vedrai innumerevoli belle senza mariti o
congiunti, con due cameriere e un servo, e al massimo una lontana parente, qualche vec-
chietta che è più facile ingannare che saziare. Alcune secondo le loro possibilità vengono
ornate di vesti lussuose, d’oro, d’argento, di gemme, tanto da far credere che vadano a
nozze sontuosissime e non ai bagni. Qui sono anche vergini vestali o, per meglio dire,
florali; qui abati, monaci, frati, sacerdoti, vivono con una licenza superiore al consueto,
prendendo a volte il bagno con donne ed ornandosi il capo di ghirlande, senza fare il mi-
nimo conto della propria condizione di religiosi. Tutti hanno in mente una cosa sola: di
sfuggire la tristezza, di cercar l’allegria, di non preoccuparsi di niente se non di viver lieti
e di godersi i piaceri. Qui non si tratta di dividere i beni comuni, ma di mettere in co-
mune le cose divise. Strano a dirsi, in tanta moltitudine – ci son circa mille persone –, in
tanta varietà di costumi, in una folla così eccitata, non nascono mai bisticci, tumulti, dis-
sidi, mormorazioni, maldicenze. I mariti vedon le mogli corteggiate, le vedon conversare
con i forestieri, e a volte da solo a sola; non se la prendono, non si meravigliano, pensano
che tutto questo si faccia con innocente amicizia. La taccia di geloso, che qualche volta
ha colpito da noi quasi tutti i mariti, qui non ha ragion d’essere; del tutto sconosciuta è la
stessa parola; ignorando la passione non hanno un termine per indicarla. E c’è da meravi-
gliarsi che manchi il nome di una cosa, là dove manca la cosa stessa? Né mai fra costoro si
è trovato ancora alcuno che fosse geloso.

Laboratorio 1 Confronta il testo di Manetti con quello tato da una visione ascetica e antinatura-
COMPRENSIONE di Bracciolini riportato in Doc 16.6 , indivi- listica, assai diffusa nel Medioevo, a quella
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE duandone i principali punti di conver- naturalistica e antiascetica testimoniata da
genza. questi testi. In primo luogo però control-
2 Leggi on line il PT La morte e l’aldilà e in la di aver chiaro e quindi definisci con
particolare il passo di Lotario di Segni. parole tue questi quattro concetti: asceti-
Prova quindi a ripercorrere, in questo vo- co/antiascetico, naturalistico/antinaturali-
lume, le principali tappe che hanno por- stico.

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16. Umanesimo e letteratura umanistica T 16.5

T 16.5 Matteo Palmieri, Della vita civile 1438-1439


Elogio della vita civile [IV]
Prosatori volgari del Il dialogo del fiorentino Matteo Palmieri intitolato Della vita civile è un libro importante
Quattrocento per la definizione stessa del concetto di umanesimo civile. Coerentemente con la propria
a c. di C.Varese,
Ricciardi, Milano-Napoli vita, impegnata, oltre che negli studi letterari, nell’attività di speziale e nell’amministra-
1965 zione dello Stato (tra l’altro fu Priore a Firenze, e più volte Gonfaloniere di Giustizia e
Capitano in molti borghi e città della Repubblica di Firenze), Matteo Palmieri nei quat-
tro libri di quest’opera si diffonde in un’attenta analisi delle principali attività che coo-
perano allo sviluppo di un’ordinata vita civile, necessaria perché l’uomo possa realizzare
il proprio ideale di felicità terrena. Nel passo che segue, l’autore sostiene con passione
come senza l’attività degli uomini, la terra sarebbe un luogo ostile e invivibile. Data la
difficoltà del testo originale, ne diamo una versione in italiano moderno.

Ogni virtù si realizza nelle opere e tramite le opere acquista lode; ma alle ope-
re non si giunge senza i mezzi necessari per realizzarle. Perciò non può essere né
liberale né magnifico colui che non ha denaro da spendere; non sarà mai giusto
né forte chi vivrà in solitudine, senza essersi messo alla prova in opere importanti,
in azioni di governo che riguardino la collettività. 5
La virtù non si realizza compiutamente se non viene messa alla prova; non si ri-
conosce la lealtà in colui al quale non è affidato alcun compito, ma in colui al
quale sono attribuiti importanti incarichi.
La temperanza non è propria di chi vivendo isolato non entra a contatto con i
diletti mondani, ma in chi, pur ammirandoli, si contiene e non si lascia andare a 10
una vita disordinata, alla quale altri non sanno resistere.
Da ciò consegue che alle persone virtuose è lecito ricercare ciò che è loro uti-
le al fine di vivere bene; se a uno capita di ottenerlo, lo usi in opere virtuose; se
non l’ottiene, lo disprezzi in quanto bene soggetto al capriccio della fortuna; e
non si discosti da una vita ordinata e virtuosa, per quanto possa aver guadagnato. 15
Biasimevole sarebbe colui che per aumentare le proprie sostanze, nuocesse ad
altri. Chi, non nuocendo ad alcuno, con attività legittime e onorevoli accresce il
proprio patrimonio, merita lode. Le cose utili sono molteplici e varie, ma, fra tut-
te, nessuna è maggiore di quelle che gli uomini si procurano vicendevolmente, in
un’ordinata vita civile. 20
Molte cose che recano utilità e comodità non esisterebbero se l’uomo non le
avesse create con il proprio intelligente e industrioso operare, come il coltivare, il
cogliere a tempo debito i frutti maturi e lavorarli, conservarli e predisporli per le
necessità del vivere; aver cura della salute e ristabilirla nei corpi malati; navigare e
smerciare le cose di cui si abbonda, procurandosi viceversa quelle di cui si manca. 25
Di queste non potremmo disporre se non ci fossero i commercianti a trasportarle e
a fornircele. Se non esistessero le attività artigianali e industriali saremmo privi di
moltissime cose utili e in gran parte necessarie al vivere. Grazie a queste attività si
sono estratti dalle profondità della terra il ferro, i metalli, il legname e perfino le
pietre, che poi sono state lavorate e predisposte per il nostro uso e il nostro utile. 30
Con questi materiali sono state costruite le case, in cui noi non solo ci proteg-
giamo dalle tempeste, dal calore, dal freddo e dalle intemperie (grazie ad esse sono
popolate parti del mondo che altrimenti sarebbero deserte), ma in caso di neces-
sità anche ci rifugiamo per resistere ai nostri nemici, per ripararci dagli animali fe-
roci e crudeli, conducendovi una vita lieta e sicura potendovi svolgere con co- 35
modo ogni nostra attività.
Grazie all’industriosità dell’uomo la nostra vita si è adornata e raffinata, si sono
edificate le città abitate e frequentate da molti uomini, e poi in quelle si sono
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Quattrocento e Cinquecento

scritte le leggi, si sono approvate le consuetudini, si sono migliorati i costumi e si


sono ordinate le discipline del vivere civile, da cui sono conseguiti la mansuetudi- 40
ne, l’amore, la solidarietà di quanti vivono in una comunità. Pertanto dobbiamo
riconoscere vera la sentenza degli stoici, i quali dicevano che ciò che si trova in
terra è stato creato da Dio per uso e comune utilità degli uomini, e che gli uomi-
ni sono stati generati per utilità e sussidio degli altri uomini, affinché potessero
aiutarsi e favorirsi vicendevolmente. Noi forse abbiamo speso più parole del ne- 45
cessario per dimostrare ciò che era già certo, poiché le cose certe non hanno bi-
sogno di prova e ciascuno sa con certezza che senza il favore e l’aiuto degli altri
uomini non si fa nulla di grande, e non si realizzano quelle arti che ci procurano
ornamento e utilità.
50
Guida all’analisi
«La vera loda di ciascuna virtù è posta nell’operare» Con queste parole si apre il passo della Vita civile che ab-
biamo riportato. Le virtù – dice Palmieri – si realizzano solo nel concreto operare. Una vir-
tù in astratto, ma anche ogni positiva inclinazione umana allo stato puramente virtuale è co-
me se non esistesse. Così una persona che vive isolata dal consorzio umano può solo poten-
zialmente coltivare le virtù, ma è vivendo a contatto con gli altri che può realizzarle, perfe-
zionarle. Ciò, nel pensiero di Palmieri, vale per ogni virtù, anche cristianamente intesa. Illu-
minante è l’esempio qui addotto a proposito della temperanza: può dirsi veramente tempe-
rante chi si isola dal consorzio umano? chi non sottopone cioè alla prova dei fatti la propria
virtù? Ma a Palmieri interessano anche altre virtù, di natura non religiosa, come ad esempio
la lealtà: come si può dire leale una persona la cui lealtà non è mai stata messa alla prova?
Virtù e utilità Il concetto di virtù (cristianamente o laicamente intesa), che può sfumare nel concetto più
comprensivo di inclinazione positiva, di capacità o abilità individuale, nel discorso di Palmie-
ri si lega strettamente e quasi trapassa in quello di utile (all’utile è appunto dedicato il quarto
libro). Le persone dotate di inclinazioni positive devono dunque impegnarsi per esercitarle e
nell’esercitarle – ci vien detto come cosa del tutto naturale – perseguono l’utile personale: «a’
virtuosi s’appartiene cercare utile acciò che possino bene vivere». L’utile individuale, com-
prese le ricchezze, ricercate legittimamente, non nuocendo agli altri, è degno di lode («Chi,
non nocendo a persona, con buone arti accresce suo patrimonio, merita loda»).
Utile individuale e utile collettivo Ma nella visione ideale di Palmieri l’utile individuale non contrasta con quel-
lo comune, anzi si integra perfettamente con esso: gli uomini nell’esercitare le arti e la pro-
pria industriosità agiscono infatti per sé (per vivere nel benessere) ma contemporaneamen-
te agiscono anche per gli altri. Con il proprio lavoro forniscono i beni necessari alla vita ci-
vile, dal cibo alle case. Bellissima è l’immagine relativa alla costruzione delle case, che danno
riparo in condizioni climatiche ostili: senza questo frutto dell’operare dell’uomo, là dove il
clima è meno favorevole, la terra sarebbe deserta. La società civile è dunque un bene irri-
nunciabile per l’uomo ed essa è possibile solo grazie all’industrioso operare dell’uomo.
Benessere materiale e convivenza civile Nelle ultime righe il concetto si precisa ulteriormente. Dall’operosità
umana deriva una vita associata ordinata e felice: le leggi, i costumi civili, «le discipline del
politico vivere» e di qui anche virtù veramente ‘umane’ come «la mansuetudine, l’amore e
l’unione degli animi insieme ragunati». Solo garantendo un benessere generale – sembra
volerci dire Matteo Palmieri – si può realizzare una felice convivenza fra gli uomini, regola-
ta da leggi e buoni costumi e ispirata all’amore e alla concordia. È una posizione molto mo-
derna, per qualche verso persino ardita. Ed è certamente una visione ideale e con una nota
di utopismo, forse, ma nasce anche come riflesso dell’apprezzamento della vita cittadina, che,
pur fra mille contrasti, in quegli anni aveva raggiunto un buon grado di civiltà.

Laboratorio 1 Confronta le affermazioni di Palmieri con 16.5). Esponi quindi con parole tue il con-
COMPRENSIONE le posizioni di Alberti a proposito di ric- cetto di Umanesimo civile.
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE chezza e masserizia da noi sintetizzate (R

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16. Umanesimo e letteratura umanistica T 16.6

T 16.6 Leon Battista Alberti, Quattro libri della famiglia


Prologo: Virtù vince fortuna
L.B. Alberti Il prologo ai Libri della famiglia (1432-1434) di Leon Battista Alberti è un testo di capita-
I libri della famiglia le importanza per fissare il momento forse culminante di un processo secolare di restitu-
a c. di R. Romano e
A. Tenenti, zione all’uomo della fiducia nei propri mezzi, della fiducia cioè – per usare una celebre
Einaudi, Torino 1980 formula – di poter divenire faber fortunae suae, artefice della propria fortuna terrena.
Muovendo da una considerazione perplessa della decadenza e della scomparsa di fa-
miglie un tempo potenti e gloriose, Alberti in queste pagine, splendide ma difficili, si
domanda quale sia il ruolo della virtù e della fortuna nel sorgere e nel decadere così
delle famiglie come degli stati e se via vero – come molti pensano – che la fortuna sia
arbitra del destino terreno dell’uomo. La risposta è un fervido e vigoroso inno alla vir-
tù, alla volontà e alla responsabilità dell’uomo, che sintetizza al meglio quello che è for-
se il più alto e nobile ideale dell’umanesimo.

1 Repetendo: inizia un Repetendo1 a memoria quanto per le antique istorie e per ricordanza de’ no-
periodo assai complesso, il
cui senso complessivo è:
stri vecchi insieme2, e quanto potemmo a’ nostri giorni come altrove così in Ita-
considerando come molte lia vedere non poche famiglie solere felicissime essere e gloriosissime, le quali ora
famiglie potenti e gloriose sono mancate e spente3, solea spesso fra me maravigliarmi e dolermi se tanto va-
del passato e del presente so-
no decadute e si sono estin- lesse contro agli uomini la fortuna essere iniqua e maligna4, e se così a lei fosse 5
te, mi meravigliavo e dolo- con volubilità e temerità sua licito famiglie ben copiose d’uomini virtuosissimi,
rosamente mi interrogavo
se la fortuna avversa potesse abundante delle preziose e care cose e desiderate da’ mortali, ornate di molta di-
distruggere tutti i beni ma- gnità, fama, laude, autoritate e grazia, dismetterle d’ogni felicità, porle in povertà,
teriali e morali acquisiti da
una famiglia e ridurla in uno solitudine e miseria, e da molto numero de’ padri ridurle a pochissimi nepoti, e da
stato di abiezione. ismisurate ricchezze in summa necessità, e da chiarissimo splendore di gloria so- 10
2 Repetendo... insie-
me: richiamando alla me-
mergerle in tanta calamità, averle abiette, gittate in tenebre e tempestose avversi-
moria quanto appreso attra- tà5. Ah! quante si veggono oggi famiglie cadute e ruinate6! Né sarebbe da annu-
verso le storie antiche e an- merare o racontare quali e quante siano simili a’ Fabii, Decii, Drusii, Gracchi e
che attraverso i ricordi dei
nostri vecchi. Marcelli, e agli altri nobilissimi apo gli antichi, così nella nostra terra assai state per
3 non poche... spente: lo ben publico a mantener la libertà, a conservare l’autorità e dignità della patria 15
cioè che (la frase ha valore
dichiarativo) molte fami- in pace e in guerra, modestissime, prudentissime, fortissime famiglie, e tali che da-
glie, che un tempo furono gl’inimici erano temute, e dagli amici sentiano sé essere amate e reverite7. Delle
fortunatissime e gloriosissi- quali tutte famiglie8 non solo la magnificenza e amplitudine9, ma gli uomini, né
me, ora sono decadute e si
sono estinte. solo gli uomini sono scemati e disminuiti10, ma più el nome stesso, la memoria di
4 se ... maligna: doman-
loro, ogni ricordo quasi in tutto si truova casso e anullato11. 20
dandomi se (oppure: quasi
che) la fortuna potesse esse- Onde non sanza cagione a me sempre parse da voler conoscere12 se mai tanto
re (valesse... essere) tanto in- nelle cose umane possa la fortuna, e se a lei sia questa superchia licenza concessa13,
giusta e avversa nei con-
fronti degli uomini. con sua instabilità e inconstanza porre in ruina14 le grandissime e prestantissime
5 e se così... avversità: si famiglie. Alla qual cosa15 ove io sanza pendere in alcuna altra affezione16, sciolto e
ricostruisca questa lunga
frase fondata su una serie di 6 ruinate: rovinate, nel e riverite dagli amici. truova casso e annullato si rife- valore dichiarativo: cioè
coordinate: e se a lei fosse le- forte senso metaforico di 8 Delle quali... fami- riscono tutti, a senso, a tutti i quello di mandare in rovina.
cito, in virtù della sua volu- crollate, ridotte a rovine. glie: e di tutte queste fami- soggetti, tanto che il perio- 15 Alla qual cosa: si rico-
bilità e del suo impeto, pri- 7 Né... reverite: si co- glie; il relativo ad inizio pe- do si può intendere così: «Di struisca la struttura di questo
vare di ogni bene materiale struisca: e non sarebbe possi- riodo è un latinismo. tutte queste famiglie sono periodo complesso: quando
e morale (dismetterle d’ogni bile enumerare o raccontare 9 amplitudine: gran- diminuiti e anzi del tutto io penso a ciò... e quando
felicità) famiglie ricche di quali e quante siano state dezza (in senso anche politi- annullati non solo la magni- considero (ove... rimiro) co-
uomini virtuosissimi..., e ri- nella nostra terra le famiglie co). ficenza e il potere, ma anche me la nostra famiglia abbia
durle in povertà..., e ridurle simili a quelle dei Fabi, dei 10 scemati e disminuiti: gli uomini, e non solo gli resistito (ostato)... e come i
da numerose che erano a Deci, ecc. e di tutte le altre diminuiti, coppia sinonimi- uomini, ma anche il loro ri- nostri antenati Alberti ab-
esigue (da molto numero de’ nobilissime presso (apo) gli ca (che forse distingue una cordo». biano saputo sostenere e re-
padri... a pochissimi nepoti), e antichi romani, nel difende- diminuzione di numero e di 12 a me ... conoscere: a spingere le avversità (abbi-
condurle da una ricchezza re lo stato e mantenere la li- valore). me parse necessario cercare no... saputo discacciare... e so-
smisurata a un’estrema ne- bertà, nel conservare l’auto- 11 casso e anullato: vano di conoscere. stenere)..., allora vedo come
cessità, e sommergerle..., rità e la dignità della patria e nullo, cioè del tutto annul- 13 e se.. concessa: e se a molti spesso incolpino sen-
renderle abiette, gettarle ecc., famiglie modestissime lato. In realtà nel complesso lei sia concesso questo so- za vero motivo la fortuna
nelle tenebre e in una tem- ecc. e tali da essere temute incastro della frase i predica- verchio, eccessivo potere. (da molti veggo la fortuna... es-
pesta di avversità. dai nemici e da essere amate ti sono scemati e disminuiti... si 14 porre in ruina: con sere... inculpata), e vedo mol-

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Quattrocento e Cinquecento

ti (veggo molti), che per pro- libero d’ogni passion d’animo penso, e ove fra me stessi, o giovani Alberti, rimiro 25
pria stoltezza si sono trovati
in situazioni sfavorevoli (per la nostra famiglia Alberta a quante avversità già tanto tempo con fortissimo animo
loro stultizia scorsi...), lamen- abbia ostato, e con quanta interissima ragione e consiglio17 abbino e’ nostri Al-
tarsi della fortuna e dolersi
d’essere stati sopraffatti dal- berti saputo discacciare e con ferma constanza sostenere i nostri acerbi casi e’ fu-
le sue onde impetuose (bia- riosi impeti de’ nostri iniqui fati, da molti veggo la fortuna più volte essere sanza
simarsi... e dolersi), nelle qua- vera cagione inculpata, e scorgo molti per loro stultizia scorsi ne’ casi sinistri, bia- 30
li viceversa come stolti si so-
no gettati a capofitto da soli simarsi della fortuna e dolersi d’essere agitati da quelle fluttuosissime18 sue unde,
(nelle quali... precipitorono). nelle quali stolti sé stessi precipitorono. E così molti inetti de’ suoi errati dicono
16 senza... affezione:
senza assumere un atteggia- altrui forza furne cagione19.
mento parziale. Ma se alcuno con diligenza qui vorrà investigare qual cosa molto estolla20 e ac-
17 interissima... consi-
glio: perfetta razionalità e cresca le famiglie, qual anche le mantenga in sublime grado d’onore e di felicità21, 35
assennatezza. costui apertamente vederà gli uomini le più volte aversi d’ogni suo bene cagione e
18 fluttuosissime: assai
impetuose, travolgenti. d’ogni suo male22, né certo ad alcuna cosa tanto attribuirà imperio, che mai giudi-
19 E così... cagione: e chi ad acquistare laude, amplitudine e fama non più valere la virtù che la fortuna23.
così molti inetti dicono che Vero24, e cerchisi le republice, ponghisi mente a tutti e’ passati principati: troverassi
i propri errori (de’ suoi errati)
sono causati (furne cagione) che ad acquistare e multiplicare, mantenere e conservare la maiestate e gloria già 40
da una forza estranea. conseguita, in alcuna mai più valse la fortuna che le buone e sante discipline del
20 estolla: innalzi (in ric-
chezza, potere, fama...). vivere25. E chi dubita? Le giuste leggi, e’ virtuosi princípi, e’ prudenti consigli, e’
21 felicità: prosperità. forti e constanti fatti, l’amore verso la patria, la fede, la diligenza, le gastigatissime e
22 vederà... male: vedrà
che gli uomini la maggior lodatissime osservanze de’ cittadini26 sempre poterono o senza fortuna guadagnare
parte delle volte sono essi e apprendere27 fama, o colla fortuna molto estendersi e propagarsi a gloria, e sé 45
stessi la causa (aversi... cagio-
ne) dei propri successi e dei stessi molto commendarsi alla posterità e alla immortalità28.
propri insuccessi.
23 né... fortuna: e non at- «E della nostra Italia non è egli manifesto el simile?» si domanda allora Alberti ed
tribuirà a cosa alcuna tanto
potere (imperio), da non giu- enumera esempi antichi e recenti di virtù per concludere:
dicare che il valore persona-
le (virtù) sia determinante Come confesseremo noi non essere più nostro che della fortuna quel che noi
(valere) più che la fortuna
nell’acquistare lode, gran- con sollicitudine e diligenza delibereremo mantenere e conservare? Non è pote-
dezza, fama. Nessuna cosa, re della fortuna29, non è, come alcuni sciocchi credono, così facile vincere chi non
insomma, ha tanto potere da
indurre a pensare che la for- voglia essere vinto. Tiene gioco30 la fortuna solo a chi se gli sottomette. […] 50
tuna sia più forte della virtù. Così adunque si può statuire la fortuna essere invalida e debolissima a rapirci
24 Vero: così è, invero.
25 in alcuna... vivere: (si
qualunque nostra minima virtù31, e dobbiamo giudicare la virtù sufficiente a con-
troverà che) in nessuno di scendere e occupare32 ogni sublime ed eccelsa cosa, amplissimi principati, suppre-
essi la fortuna ha avuto più me laude, eterna fama e immortal gloria. E conviensi non dubitare che cosa qual
potere dei buoni e sacri or-
dinamenti (discipline del vi- si sia, ove tu la cerchi e ami, non t’è piu facile ad averla e ottenerla che la virtù33.
vere). Solo è sanza virtù chi nolla vuole. 55
26 le gastigatissime...
cittadini: i comportamenti
dei cittadini ispirati a una (gli ordinamenti e i com- 29 Non è...fortuna: (tut- banco, cioè domina. 32 conscendere e occu-
scrupolosa e lodevole osser- portamenti virtuosi sopra to ciò) non è nel potere 31 Così... virtù: così pare: «conseguire e mante-
vanza (delle leggi e delle tra- citati poterono) estendersi e della fortuna; ma si può an- dunque si può stabilire che nere» (Romano-Tenenti).
dizioni). ampliarsi gloriosamente, e che far dipendere da questa la fortuna è del tutto inca- 33 E conviensi... virtù: e
27 apprendere: raggiun- diventare motivo di onore- frase il successivo vincere (la pace (invalida e debolissima) bisogna credere che non c’è
gere. vole ricordo (commendarsi, fortuna non ha il potere di di sottrarci una qualsiasi e nulla di più adatto a fartela
28 o colla... immortalità: raccomandarsi) presso i po- vincere chi ecc.). pur minima parte del no- ottenere, di qualunque cosa
o con la fortuna favorevole steri e in eterno. 30 Tiene gioco: tiene stro valore. si tratti, della virtù.

Guida all’analisi
Brevi cenni sulla storia del concetto di fortuna: l’antichità Gli antichi avevano variamente risolto il problema dei
rapporti tra virtù e fortuna, sovente assegnando alla virtù il primato sulla fortuna e certamen-
te esaltando il valore individuale, le doti intellettuali e pragmatiche che potevano determina-
re il successo in un’impresa (con la parola virtus gli antichi, e così pure Alberti, indicano il va-
lore individuale, l’insieme di doti intellettuali, morali, pragmatiche che consentono all’uomo
di agire nella realtà terrena). Ma gli antichi avevano mostrato anche un grande rispetto e qua-
si una sorta di reverenza nei confronti della fortuna, considerata talora come una vera e pro-
560 © Casa Editrice Principato
16. Umanesimo e letteratura umanistica T 16.6

pria divinità capricciosa e imprevedibile (tanto che l’attributo di felix, cioè fortunato, era te-
nuto in grande considerazione da generali e politici, in quanto segno di una sorta di sacralità
o predestinazione al successo).
Brevi cenni sulla storia del concetto di fortuna: il Medioevo cristiano Il Medioevo cristiano invece aveva svalu-
tato il successo mondano, ritenendolo o ininfluente o addirittura nocivo in relazione al ve-
ro scopo della vita terrena, quello cioè di guadagnarsi con il proprio agire nel mondo la fe-
licità ultraterrena. Lo stesso concetto di virtù si era perciò modificato, proprio in relazione a
questo diverso fine: la parola veniva usata per significare quell’insieme di comportamenti
morali e religiosi che dovevano consentire all’uomo di riconquistare la patria celeste perdu-
ta. Quanto alla fortuna, essa era considerata una ministra di Dio che assegna e toglie i beni
terreni agli uomini, molto spesso senza che l’uomo possa neppure comprenderne il senso: il
cristiano medievale considerava l’azione della fortuna come dipendente da un imperscruta-
bile disegno provvidenziale, che doveva essere accettato come buono e giusto per fede. Ta-
lora nella cultura popolare i colpi avversi della fortuna erano interpretati come punizioni
inflitte da Dio agli uomini per le loro colpe.
Il pragmatismo dei mercanti C’è infine da osservare che nell’alto Medioevo, in seguito alla decadenza delle ar-
ti e delle tecniche, l’uomo per secoli si era sentito in balia delle forze naturali e più in gene-
rale della fortuna. Nel corso del Basso Medioevo le cose erano parzialmente mutate: soprat-
tutto in ambiente mercantile c’era stata una sorta di inversione di tendenza, almeno sul pia-
no pratico. Se nelle scritture mercantili si sentono ripetere gli appelli ai valori e alle creden-
ze religiose, nell’agire quotidiano i mercanti avevano imparato a valutare i rischi delle loro
imprese commerciali, a prevedere i possibili accidenti avversi e a predisporre soluzioni al-
ternative, pur senza modificare radicalmente il concetto medievale di fortuna.
Valore teorico della posizione di Alberti Alberti dà uno statuto teorico a questa inversione di tendenza, sgom-
berando il campo dalla visione morale e religiosa cristiana medioevale e utilizzando di nuo-
vo la parola ‘virtù’ nell’accezione classica. Il problema della moralità della propria condotta
terrena e dei suoi riflessi sulla salvezza eterna, è retrocesso a problema individuale e perti-
nente alla sfera privata e anzi intima dell’individuo (sia pure fondamentale per l’umanista
cristiano). Nel momento in cui l’attenzione si sofferma sulla pura e semplice vita mondana,
l’agire umano può e anzi deve essere valutato esclusivamente con un metro terreno, di vir-
tù intellettuali, morali, pragmatiche che trovano i loro punti di riferimento teorici nella ri-
flessione morale, storica, filosofica antica.
La posizione positiva, anzi ottimistica di Leon Battista Alberti, condensata nelle più cele-
bri frasi sentenziose di questo passo («Non è potere della fortuna, non è, come alcuni scioc-
chi credono, così facile vincere chi non voglia essere vinto. Tiene gioco la fortuna solo a chi
se gli sottomette»; «Solo è sanza virtù chi nolla vuole»), è dunque una sintesi di ideali uma-
nistici modellati sui classici (in particolare il concetto antico di virtus) e del pragmatismo
della società mercantile che si era fatto largo nei due o tre secoli precedenti. È una sintesi
insomma di valori morali e ideali (magari discutibili, come l’ottemperanza ai costumi e ai
valori della tradizione, ma comunque autorizzati dai pensatori antichi e per questo storica-
mente significativi) e di pragmatica considerazione della natura, dell’uomo e della società.
Ma in ogni caso costituisce il momento culminante di una conversione di giudizio sul po-
tere dell’uomo nei confronti della realtà naturale e sociale, il momento di forse più netta di-
chiarazione della fiducia dell’uomo nei propri mezzi.

Laboratorio 1 Fai una paragrafazione del testo indivi- 3 In un contesto caratterizzato da un alto
COMPRENSIONE duando paragrafo per paragrafo il concet- numero di periodi assai ampi e sintattica-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE to saliente che vi viene esposto. mente molto elaborati, di tanto in tanto si
2 Analizza da un punto di vista linguistico e trovano periodi brevi e brevissimi; anzi,
retorico-stilistico alcuni periodi complessi alcune delle affermazioni concettualmen-
del testo, ad es. rr. 24-33. Prova a definire te più importanti sono affidate a periodi
con alcuni aggettivi appropriati la lingua e di questo tipo. È una scelta intenzionale?
lo stile di Alberti. Quali effetti stilistici produce?
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Quattrocento e Cinquecento

T 16.7 Giovanni Pico della Mirandola


Oratio de hominis dignitate 1486
Dignità e libertà dell’uomo
Prosatori latini del Considerata da molti come il tardivo manifesto dell’umanesimo italiano, la pagina ini-
Quattrocento ziale della Oratio de hominis dignitate [Orazione sulla dignità dell’uomo, 1486] di Giovanni
a c. di E. Garin, Ricciardi,
Milano-Napoli 1952 Pico della Mirandola (1463-1494) è un vero e proprio inno alla dignità e alla libertà
dell’uomo a cui, unico essere dell’intero creato, Dio ha dato la prerogativa di poter de-
cidere il proprio destino: l’uomo può infatti abbassarsi al livello dei bruti o elevarsi a
quello delle intelligenze angeliche, sino alla pura e perfetta contemplazione della divi-
nità. Questa prerogativa del tutto esclusiva lo fa essere quasi un dio in terra. Con que-
ste affermazioni di Giovanni Pico il tema schiettamente umanistico dell’uomo faber for-
tunae suae è elevato a livelli sublimi, ma viene proiettato dal turbolento orizzonte terre-
no, del concreto vivere e operare nella natura e nel mondo, alle più rarefatte astrazioni
metafisiche.

Già il Sommo Padre, Dio creatore, aveva foggiato secondo le leggi di un’arcana
sapienza questa dimora del mondo quale ci appare, tempio augustissimo della di-
vinità. Aveva abbellito con le intelligenze la zona iperurania1, aveva avvivato di
anime eterne gli eterei globi2, aveva popolato di una turba di animali d’ogni spe-
cie le parti vili e turpi del mondo inferiore. Senonché, recato il lavoro a compi- 5
mento, l’artefice desiderava che ci fosse qualcuno capace di afferrare la ragione di
un’opera sì grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità. Perciò, compiu-
to ormai il tutto, come attestano Mosè e Timeo3, pensò da ultimo a produrre
l’uomo. Ma degli archetipi4 non ne restava alcuno su cui foggiare la nuova creatu-
ra, né dei tesori uno ve n’era da largire in retaggio5 al nuovo figlio, né dei posti di 10
tutto il mondo uno rimaneva in cui sedesse codesto contemplatore dell’universo6.
Tutti erano ormai pieni, tutti erano stati distribuiti nei sommi, nei medî, negli in-
fimi gradi. Ma non sarebbe stato degno della paterna potestà venir meno, quasi
impotente, nell’ultima fattura7; non della sua sapienza rimanere incerto in un’ope-
ra necessaria per mancanza di consiglio8; non del suo benefico amore, che colui 15
che era destinato a lodare negli altri la divina liberalità fosse costretto a biasimarla
in se stesso9. Stabilì finalmente l’ottimo artefice che a colui cui nulla poteva dare
di proprio fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri.
Perciò accolse l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del
mondo così gli parlò: « non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un 20
aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle

1 la zona iperurania: libri del Vecchio Testamento es. sant’Agostino (IV-V sec. nell’ultimo atto della crea-
quella posta oltre il cielo, là (il riferimento nel testo è al d.C.), avevano però adatta- zione, nell’ultima creatura.
dove Platone aveva collo- libro del Genesi in cui è nar- to il concetto platonico alla 8 per mancanza di
cato il mondo delle idee, le rata la creazione). Timeo dottrina cristiana, come qui consiglio: per incapacità di
sostanze immutabili ed invece è il protagonista del fa Pico. decidere.
eterne a cui il platonismo dialogo di Platone (V-IV 5 largire in retaggio: 9 che colui... se stesso:
cristiano fa corrispondere sec. a.C.) che porta il suo destinare, donare all’uomo che l’uomo, il quale aveva il
le intelligenze angeliche. nome e in cui il filosofo come suo patrimonio per- compito di celebrare la ge-
2 aveva... globi: aveva greco tratta della cosmolo- sonale (retaggio, lett. eredità). nerosità di Dio nei con-
assegnato anche agli astri gia e del Demiurgo, il divi- 6 contemplatore del- fronti delle altre creature,
(eterni globi) un’intelligenza no creatore dell’universo l’universo: si noti che l’uo- dovesse invece lamentarsi
angelica (anima) preposta a dal caos primigenio. mo è qui designato attra- di Dio per la scarsa genero-
regolarne e armonizzarne 4 archetipi: le idee pla- verso la specifica funzione sità manifestata nei suoi
il moto. toniche, cioè il modello contemplativa che Dio ha confronti (biasimarla, cioè
3 Mosé e Timeo: Mosè eterno, la forma originaria inteso assegnargli (cfr. righe ‘biasimare la generosità’, nel
è il personaggio biblico a su cui sono esemplate tutte precedenti) come suo fine e senso di lamentarsi del suo
cui la tradizione attribuisce le cose terrene e sensibili. sua ragion d’essere. contrario).
la composizione dei primi Già i padri della Chiesa, ad 7 nell’ultima fattura:

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16. Umanesimo e letteratura umanistica T 16.7

prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio10 otten-
ga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me pre-
scritte11. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbi-
trio, alla cui potestà ti consegnai12. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là me- 25
glio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno,
né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti pla-
smassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle
cose inferiori che sono i bruti13; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle
cose superiori che sono divine ». 30
O suprema liberalità di Dio padre! o suprema e mirabile felicità dell’uomo! a
cui è concesso di ottenere ciò che desidera, di essere ciò che vuole. I bruti nel na-
scere seco recano dal seno materno tutto quello che avranno. Gli spiriti superni o
dall’inizio o poco dopo furono ciò che saranno nei secoli dei secoli. Nell’uomo
nascente il Padre ripose semi d’ogni specie e germi d’ogni vita. E secondo che 35
ciascuno li avrà coltivati, quelli cresceranno e daranno in lui i loro frutti. E se sa-
ranno vegetali sarà pianta; se sensibili, sarà bruto14; se razionali, diventerà animale
celeste; se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio. Ma se, non contento della sorte
di nessuna creatura, si raccoglierà nel centro della sua unità, fatto uno spirito solo
con Dio, nella solitaria caligine del Padre colui che fu posto sopra tutte le cose 40
starà sopra tutte le cose15.

10 voto e... consiglio: bitrio’ significa ribadire natura platonica, tra l’ani- care: se saprà interpretare e
desiderio e... giudizio. con altre parole la completa ma razionale e l’anima in- realizzare quella prerogati-
11 La natura... prescrit- libertà dell’uomo. tellettiva, che comporta va unica che Dio gli ha at-
te: le altre creature hanno 13 i bruti: gli animali. due diversi gradi di perfe- tribuito, ovvero la libertà
una natura esattamente de- 14 se sensibili... bruto: zione, quella (come poi assoluta), allora egli saprà
finita e limitata dalle leggi se le facoltà dell’uomo si li- spiegherà) della compren- fondersi (misticamente)
che io stesso ho stabilito. miteranno a quelle sensibili sione razionale del filosofo con Dio stesso e sarà effetti-
12 Tu... consegnai: tu sarà un animale. Gli anima- e quella intuitiva della pura vamente signore di tutte le
viceversa determinerai li, secondo la concezione e contemplazione. cose, come Dio ha conces-
personalmente e libera- la terminologia filosofica 15 Ma... cose: il concetto so che fosse. Nella caligine del
mente, non costretto entro medievale, erano dotati qui esposto sembra avere Padre significa: nell’opacità,
alcun limite, secondo il tuo dell’anima sensitiva, ma più un valore poetico-reli- nell’essenza oscuramente
arbitrio (capacità di giudi- non dell’anima razionale o gioso, che propriamente fi- nebulosa, cioè non razio-
zio e di scelta, volontà), al intellettiva, che è invece losofico: se l’uomo si racco- nalmente intelligibile, di
cui potere ti ho consegnato. propria dell’uomo. Qui di glierà nel centro della sua Dio.
Che Dio abbia ‘consegnato seguito Pico introduce unità (espressione piuttosto
l’uomo al potere del suo ar- un’ulteriore distinzione, di vaga che dovrebbe signifi-

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Quattrocento e Cinquecento

Guida all’analisi
La libertà dell’uomo In quanto sublime inno alla libertà dell’uomo, questo testo è stato considerato una sorta di
manifesto dell’umanesimo. Il racconto della creazione, un po’ drammatizzato, ci presenta Dio
che, esauriti tutti gli archetipi e tutti i possibili doni, pare avere un attimo di dubbio circa il de-
stino dell’ultima delle sue creature, alla quale finalmente riserba come sua unica e specifica pre-
rogativa la libertà assoluta, l’attributo cioè che più ancora dell’anima razionale lo avvicina a lui.
La libertà è responsabilità e potenzialità: per secoli il cristianesimo ha insistito su entrambi gli
aspetti, e anzi spesso ha accentuato il momento della responsabilità e il rischio della caduta e
della colpa (la prima caduta, il peccato originale, è in effetti nella religione cristiana e in quel-
la medievale in particolare un nodo fondamentale, un’eredità negativa con cui l’uomo deve
costantemente confrontarsi e da cui deve riscattarsi in un mondo in cui il Maligno non cessa
di tendere insidie alla sua fragilità). Anche Pico non manca di porre il dualismo, enunciando la
possibilità dell’abbrutimento, ma è sopratutto interessato a celebrare l’incomparabile grandez-
za del dono e le sublimi prospettive che si aprono all’orizzonte dell’uomo. L’uomo che voglia
dirsi veramente tale può elevarsi alla contemplazione della divinità stessa, in un certo senso
può farsi Dio, confondendosi con lui («nella solitaria caligine del Padre»).
La contemplazione, fine e ragion d’essere dell’uomo È necessario comprendere bene il senso e la portata cultu-
rale di questa celebrazione dell’uomo, della sua dignità e della sua libertà. È la celebrazione
forse più alta dell’uomo che l’umanesimo abbia concepito, ma è di natura diversa da quelle,
più limitate e concrete, che l’avevano preceduta. Sin dalle prime righe è chiaro il ruolo che
Dio assegna all’uomo, all’atto della sua creazione: «l’artefice desiderava che ci fosse qualcuno
capace di afferrare la ragione di un’opera sì grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità».
Poco dopo Pico definisce l’uomo (adottando il punto di vista di Dio stesso) «il contemplato-
re dell’universo». La contemplazione della bellezza dell’universo (scandita nei tre momenti
della comprensione intellettuale, ammirazione, amore) è dunque il fine che Pico assegna al-
l’uomo nel disegno della creazione. Ne discendono, come fini accessori, anche la lode della sa-
pienza divina e quella della sua generosità («colui che era destinato a lodare... la divina liberalità»).
L’orizzonte è dunque puramente metafisico. E la suprema realizzazione della natura umana si
ha, più ancora che nella comprensione razionale di quella meravigliosa creazione che è l’uni-
verso, nella mistica unione con Dio quale ci è presentata nelle ultime righe del testo, più poe-
tiche che filosofiche: raccogliendosi nel centro della sua unità, l’uomo potrà assurgere alla so-
litaria caligine del Padre, oltre i cieli sensibili, alle vertiginose altezze iperuraniche. Dall’infini-
tamente piccolo o meglio dall’infinitamente intimo, all’infinitamente grande, alla totalità di
Dio (dal microcosmo al macrocosmo): il percorso è tutto spirituale, tutto contemplativo.
«Un nume rivestito di carne umana» La stessa centralità dell’uomo nel mondo qui asserita («Ti posi nel mezzo del
mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo», rr. 25-26) è ora concepita
come centralità non definita in una dimensione terrena, ma proiettata in un universo da con-
templare nella sua relativa bellezza e perfezione, quale immagine della bellezza e perfezione as-
soluta di Dio. Analogamente il suo «stare sopra tutte le cose», non è una superiorità volta al-
l’azione, al dominio pratico della natura e delle creature, ma una superiorità legata al tempo
stesso alla natura spirituale dell’uomo e al suo elevarsi dal centro della creazione alle altezze
vertiginose dell’iperuranio da cui volgere lo sguardo sulla brulicante imperfezione del mondo
terreno. È dunque non tanto il filosofo quanto il mistico, l’uomo che si realizza nella pura
contemplazione, colui che può veramente dirsi un dio in terra, come Pico dichiara qualche
pagina più avanti: «Se vedrai un filosofo che discerne ogni cosa con retta razionalità, vèneralo;
è un animale celeste, non terreno. Se però vedrai un puro spirito contemplativo dimentico del
suo corpo, relegato nei penetrali della mente, costui non è un animale terreno, non un anima-
le celeste; costui, più augustamente, è un nume rivestito di carne umana».
Laboratorio 1 In che senso e fino a che punto, a tuo giu- ste affermazioni di Pico con il dibattito
COMPRENSIONE dizio, questo testo può essere considerato il su virtù e fortuna? Confronta ad esempio
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE manifesto di tutto l’Umanesimo italiano? questo testo con quello di Leon Battista
2 In che rapporto stanno, a tuo parere, que- Alberti [R T 16.6 ].

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16. Umanesimo e letteratura umanistica VERIFICA

VERIFICA

16.1 Origini dell’Umanesimo. Gli studia humanitatis


1 Spiega il concetto di Umanesimo e l’origine del termine.
2 Quale ruolo ebbe Petrarca nello sviluppo del movimento umanistico?
3 Che importanza ebbero le scoperte di antichi codici nelle biblioteche monastiche?
4 Con quali accenti Bracciolini narra la sua scoperta di un codice di Quintiliano?
5 Che cosa sostiene Valla a prposito della lingua latina nella prefazione delle Elegantiae?
6 Che sa sono gli studia humanitatis?
7 Come risorgono e che posto hanno gli studi greci nello sviluppo dell’Umanesimo?

16.2 Filologia e critica storica


8 Che cos’è la filologia e perché gli umanisti vi si dedicano con impegno e passione?
9 A quali risultati degni di nota porta la filologia umanistica?
10 Che considerazione hanno gli umanisti degli studi storici? Che scopi attribuiscono loro?
11 Cita qualche nome di umanista che si è occupato di storia.
12 Come nasce il concetto di media aetas (medio evo, età di mezzo)?
13 Che giudizio danno gli umanisti del Medioevo? e del proprio tempo?

16.3 Umanesimo civile


14 Che cosa si intende per «Umanesimo civile»?
15 Che cosa si intende per «visione dell’uomo antiascetica e laica»?
16 Che senso e che importanza storica ha il tema dell’elogio del corpo? Chi ne tratta?
17 Che cosa sostiene Salutati a proposito della vita attiva e di quella contemplativa?
18 Spiega il concetto di «florentina libertas» e le circostanze in cui esso viene formulato.

16.4 Educazione umanistica. Fondazione di una nuova pedagogia


19 Nel corso del Quattrocento in ambito umanistico viene elaborato un nuovo modello pe-
dagogico. Quali ne sono le caratteristiche salienti?
20 Chi sono e perché sono famosi Vittorino da Feltre e Guarino Veronese?

16.5 Leon Battista Alberti


21 Chi è Leon Battista Alberti e quali sono i suoi principali campi di attività? Cita qualche
sua opera.
22 Di che cosa trattano e a che genere appartengono i Libri della famiglia?
23 Come potresti definire la concezione che Alberti ha del tempo?
24 Che cosa afferma Alberti a proposito della masserizia e del denaro?
25 Che cosa sostiene Alberti in merito al rapporto tra virtù e fortuna? Perché è importante la
trattazione di questo tema che egli compie nei Libri della famiglia?
26 Su quali aspetti dell’opera di Alberti ci sono giudizi discordanti?

16.6 Platonismo e Umanesimo fiorentino in età laurenziana


27 Che cosa sostiene Cristoforo Landino a proposito della vita attiva e di quella contemplativa?
28 Chi è Pico della Mirandola e quale tesi sostiene nel De hominis dignitate?
29 Che cosa si intende per «neoplatonismo fiorentino» e chi ne è il principale artefice?
30 Quali temi affronta Marsilio Ficino nella sua filosofia?

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Quattrocento e Cinquecento

La lirica del Quattrocento


17

n Xilografia (part.) per la Can-


zone per andare in maschera di
Lorenzo il Magnifico.

In quello che è stato detto “secolo senza poesia” e personalità di poeti eccentriche, e talora antagoni-
(circa 1375-1475), il comporre versi in realtà continua stiche, rispetto alla linea ufficiale ed egemone. Si trat-
ad esercitare un suo stanco fascino: la produzione li- ta di poeti che o rifiutano certi dati fondamentali e
rica da un punto di vista quantitativo non conosce cri- tradizionali del poetare (come fa Burchiello) o speri-
si, ma risulta qualitativamente mediocre. L’esperienza mentano con scaltrita perizia i moduli giocosi (come
poetica quattrocentesca si svolge all’insegna di un fa Lorenzo de’ Medici).
sostanziale ibridismo tematico e stilistico, il che si- Negli ultimi trent’anni del Quattrocento anche la li-
gnifica confluenza di vari stimoli e modelli in un eser- rica compie uno straordinario salto di qualità con il
cizio poetico che per lo più non riesce a fonderli in Poliziano, il Boiardo e Lorenzo il Magnifico. Alcuni
modo organico e originale, raggiungendo una fisiono- loro versi, che sono ormai nella memoria collettiva,
mia stilistica individuale. costituiscono il tipo più puro della lirica quattrocente-
Se la contaminazione dei modelli è la norma, si sca: fascinosi e luminosi giardini fioriti a primavera;
deve tuttavia riconoscere nell’ambito di questo ibridi- l’armonia di una natura perfetta; delicate e vaghe al-
smo che l’influsso del Petrarca in un certo numero di lusioni a storie d’amore, in perfetta sintonia con un
n Poliziano e il piccolo Giulia- lirici è particolarmente evidente. Così accade ad ambiente amico; espliciti inviti a godere delle delizie
no de’ Medici (part. di un affre-
sco di Domenico Ghirlandaio esempio in Giusto de’ Conti, fedele ma gelido imitato- della giovinezza e dell’amore; il tutto appena attenua-
nella chiesa di Santa Trinita a re del Petrarca e autore di un canzoniere assai fortu- to da un’ombra di malinconia, per la consapevolezza
Firenze).
nato (e importante per la diffusione del petrarchismo della fugacità della bellezza e della vita umana.
quattrocentesco) ma d’ispirazione piuttosto angusta. Per vari motivi alcuni dei maggiori lirici di fine
Particolarmente interessanti, poi, risultano i lirici Quattrocento – Boiardo, Lorenzo de’ Medici e più di
cosiddetti cortigiani (per l’ambiente di provenienza e tutti Jacopo Sannazaro – delineano una tendenza a
di esercizio della loro attività), che manifestano una fare del canzoniere petrarchesco un modello sempre
preferenza per il Petrarca degli artifici più condensati, più influente nell’elaborazione lirica, ora sul piano te-
dei giochi di parole, delle antitesi protratte, delle cor- matico, ora su quello formale, ora su entrambi. Nel-
rispondenze ricercate e difficili, e che per certi versi l’ambito dell’ibridismo quattrocentesco s’intravede
anticipano esperienze poetiche come quelle manieri- insomma, e proprio nei lirici più originali, la tendenza
stica e barocca dei due secoli successivi. Serafino a una più seria e profonda imitazioneemulazione di
Aquilano e il Tebaldeo sono fra i maggiori esponenti Petrarca, che prelude a quel «petrarchismo ortodos-
di questa tendenza. so», cioè esclusivo e rigoroso, che sarà il più vistoso
Questo panorama della produzione lirica sarebbe fenomeno della poesia cinquecentesca.
incompleto se non ricordassimo anche manifestazioni

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17. La lirica del Quattrocento STORIA

17.1 Caratteri e tendenze della poesia quattrocentesca


Il secolo senza poesia (1374-1475) Il secolo che segue la morte di Petrarca (1374) è stato definito il
«secolo senza poesia» (Croce). In effetti, a parte Pontano (autore però solo di liriche in
latino), dobbiamo attendere gli ultimi decenni del Quattrocento per incontrare gran-
di personalità quali Poliziano, Boiardo, Lorenzo de’ Medici, Sannazaro. Per il resto, la
produzione lirica è copiosa, ma mediocre, senza vette. Fra le ragioni di questo mo-
mentaneo declino va ricordato il fatto che in età umanistica i migliori ingegni erano
attratti dal latino e impegnati di preferenza su temi politico-civili o filosofico-morali, e
si mostravano quindi poco inclini verso i più lievi temi della poesia lirica in volgare.
I caratteri della poesia quattrocentesca: ibridismo e occasionalità L’esperienza poetica del Quat-
trocento si svolge nel complesso all’insegna di quello che viene definito un ibridismo stili-
stico e tematico: i poeti quattrocenteschi rielaborano temi e modelli formali attinti da varie
tradizioni poetiche precedenti, senza riuscire a fonderli in una sintesi originale. I model-
li sono molti, sia volgari (dai trovatori agli stilnovisti, da Dante a Petrarca) che latini, sia
colti e raffinati che realistici e popolari: anzi, un aspetto tipico di questa poesia è proprio
l’accostamento di reminiscenze dotte e tratti popolareggianti. Qualcosa di analogo d’al-
tronde accade sul piano linguistico: su un fondo che è toscano o toscaneggiante si inne-
stano, spesso nel medesimo testo, termini popolari, dialettali e frequenti latinismi. Il gusto
per l’inserzione di latinismi è anzi uno dei tratti più vistosi della lirica quattrocentesca.
Una gran parte dei componimenti nasce poi da circostanze occasionali e – si direb-
be – da un’ispirazione più tenue e discontinua che in passato; più di rado si persegue il
fine della composizione di un canzoniere organico, unitario, come aveva fatto Petrarca;
molte raccolte sono composte a posteriori e risultano eterogenee, ibride anche al loro
interno, nelle ragioni che le hanno prodotte.
Giusto de’ Conti e il «petrarchismo eretico» Fra i tanti modelli assunti dai poeti quattrocenteschi
un discorso a parte meriterebbe Petrarca, se non altro per il fatto che di lì a poco, nel
Cinquecento, l’imitazione esclusiva della sua opera avrebbe dato luogo a un fenomeno
asai vistoso. Anche nel Quattrocento Petrarca fu uno dei modelli prediletti dai poeti in
volgare, ma nessuno lo prese come modello esclusivo e anche quelli che lo seguirono
più da vicino spesso ne colsero solo gli aspetti esteriori, fraintendendo nella sostanza il
suo messaggio profondo. Lo si vede ad esempio nell’esperienza di Giusto de’ Conti,
uno dei più interessanti poeti di primo Quattrocento, nel suo canzoniere intitolato La
bella mano (1440).
Il gusto dell’artificio nei cosiddetti lirici «cortigiani» Nel secondo Quattrocento si segnalano al-
cuni rimatori accomunati nella definizione di “lirici cortigiani”, perché i suoi princi-
pali esponenti appartennero all’ambiente delle corti padane (Ferrara e Milano su tutte)
o di quella aragonese (ad esempio Antonio Tebaldi ferrarese [1463-153], più noto co-
me Tebaldeo, e Serafino Ciminelli, detto Serafino Aquilano [1466-1500], cortigiano
degli Sforza e dei Gonzaga, e il barcellonese e napoletano d’adozione Benedetto Ga-
reth detto il Cariteo [1450 ca-1514]).
Con questi poeti per un verso si afferma un gusto più meditato, una disciplina più
severa nello stile e nelle forme, una maggior compostezza del linguaggio e del tono,
ma per altro verso anche la tendenza a prediligere il Petrarca degli artifici più conden-
sati, dei giochi di parole, delle antitesi protratte (e, sul piano tematico, della dialettica
dei contrari), delle corrispondenze ricercate e difficili.
Si configura così talora un gusto dell’artificio per l’artificio, una predilezione per i
“concetti” e le “arguzie”, e persino un’estetica della meraviglia, che di lontano preludo-
no a esperienze liriche successive (Manierismo e Barocco). Lo dimostrano alcuni com-
ponimenti dell’Aquilano [R T 17.1 ] e del Tebaldeo, che ad esempio può intessere tutto
un sonetto sull’arguta analogia tra la bianchezza dell’incarnato della donna amata e la

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Quattrocento e Cinquecento

bianchezza della neve, che, vedendo la donna più bianca di lei, decide per dispetto di
starsene in cielo; ma il sole che torna a risplendere nelle terzine non è quello naturale,
bensì quello prodotto – con meraviglia degli astanti – dagli occhi dell’amata:
La neve che fioccando discendea,
vedendo esser più candida costei,
più volte in ciel, contra il voler dei dèi,
stette, né al basso più venir volea.
Stava pieno ciascun di meraviglia,
vedendo che fioccava e che sole era:
il sol che facea lei cum le soe ciglia.
La poesia realistico-giocosa Nel corso del Quattrocento continua anche la tradizione della poesia
realistico-giocosa in stile comico, con alcune novità di rilievo. Questo genere si svi-
luppa quasi esclusivamente in area toscana e in particolare fiorentina, dove il contesto
culturale e linguistico era più propizio: lì aveva avuto origine la corrispondente tradi-
zione due-trecentesca; lì tra lingua parlata e lingua letteraria c’era la minore distanza; lì
la poesia era praticata anche al di fuori delle corti, in ambienti popolari. Non si tratta
peraltro di una poesia spontanea e incolta: questa produzione per lo più obbedisce a
canoni retorico-stilistici precisi, derivati dalla teoria degli stili medievale.Va tenuta in-
fatti presente anche l’esistenza a Firenze di un contesto socio-culturale tradizionalista e
anti-umanistico, legato al volgare e alla tradizione comunale e repubblicana, ma non
necessariamente d’estrazione solo popolare, che nel corso del Quattrocento si colloca
su posizioni dichiaratamente anti-medicee: il che talora attribuisce a questa poesia an-
che una «implicita ma indubitabile connotazione politica» (Orvieto).
Il Burchiello: poetica dell’accumulazione caotica, del nonsense e dell’assurdo Il caso estremo e
anche quello letterariamente più significativo è quello di Domenico di Giovanni fio-
rentino, di professione barbiere, soprannominato dai contemporanei il Burchiello
(1404-1449) perché sua caratteristica peculiare era scrivere versi «alla burchia», cioè
versi che accumulavano le immagini e i concetti, gli oggetti e i personaggi più svaria-
ti, come alla rinfusa si ammassavano i carichi delle burchie (che erano delle piccole
barche). L’accostamento irrazionale e sorprendente, l’enumerazione caotica, il gusto
dell’assurdo sono dunque i tratti stilistici più tipici della poesia del Burchiello, che «pe-
sca dappertutto: nella natura e nei libri, nelle ceste dell’ortolano e nella bottega del
ferrivecchi, nella cronaca municipale e nella storia e, perché no?, nella lingua viva e
nella fantasia», secondo De Robertis, che ha riconosciuto nei libri delle gabelle e nei
mercati del tempo una delle probabili fonti delle sue rappresentazioni caotiche. Non è
chiaro a noi moderni se i suoi versi e le sue bizzarre immagini nascondano riferimen-
ti criptati a personaggi e situazioni del contesto in cui operava: ciò è talora possibile,
ma non toglie che la ricerca del nonsense e il pastiche tematico e linguistico rimangano
i tratti salienti della sua poesia, spesso indecifrabile. La personalità e le poesie del Bur-
chiello, così piene di interrogativi insoluti, sono dunque tra le più «sconcertanti e di-
scusse», ma «anche tra le più geniali» non solo del nostro Quattrocento (Orvieto).

▍ L’autore Il Burchiello

Domenico di Giovanni, detto il Burchiello, nacque da famiglia povera a Firenze nel 1404 e condus-
se una vita di condizione modesta (faceva il barbiere) sino alla morte. La sua bottega nella via di Ca-
limala fu un ritrovo di poeti e di pittori. La moda di tenzoni poetiche e scambi di componimenti in
versi burchielleschi interessò largamente poeti e personalità del tempo (persino Leon Battista Alber-
ti). Essendo di orientamenti antimedicei, il Burchiello, al secondo ritorno di Cosimo in Firenze nel
1434, fu costretto ad abbandonare la città. A Siena condusse vita disordinata e finì anche in carcere.
Nel 1445 si stabilì a Roma, dove riprese la sua attività di barbiere e dove morì nel 1449.

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17. La lirica del Quattrocento STORIA

17.2 Il ‘rinascimento’ della lirica (Boiardo, Lorenzo il Magnifico, Sannazaro)


Un momento magico della lirica italiana Negli ultimi trent’anni del Quattrocento anche la lirica
compie uno straordinario salto di qualità. A questi anni risalgono alcune poesie di Poli-
ziano, forse il maggior poeta e umanista dell’età sua, di Boiardo e di Lorenzo il Magni-
fico, che nella memoria collettiva costituiscono il tipo più puro della lirica quattrocen-
tesca: fascinosi giardini in cui l’incanto di una fioritura primaverile crea scenari lumino-
si; momenti magici di contemplazione dell’armonia di una natura perfetta; delicate e
vaghe allusioni a storie d’amore che consentono all’uomo e alla donna di fruire della
propria pienezza vitale, in perfetta sintonia con un ambiente amico; espliciti inviti, for-
mulati con precise allusioni a fonti classiche, a cogliere questa bellezza transitoria, e, fuor
di metafora, a godere delle delizie della giovinezza e dell’amore; il tutto appena attenua-
to da un’ombra di malinconia, sempre virilmente dominata, per la consapevolezza della
fugacità della bellezza, della primavera della natura e della vita umana.Versi come «I’ mi
trovai, fanciulle, un bel mattino / di mezzo maggio in un verde giardino. // Eran d’in-
torno vïolette e gigli / fra l’erba verde, e vaghi fior’ novelli, / azzurri, gialli, candidi e
vermigli: / ond’io porsi la mano a côr di quelli / per adornar e mie’ biondi capelli / e
cinger di grillanda el vago crino» (Poliziano [R T 19.2 ]), o «Quant’è bella giovinezza, /
che si fugge tuttavia! / Chi vuol esser lieto, sia: / del doman non c’è certezza» (Lorenzo
[R T 17.5 ]), appena letti, si stampano nella memoria a contrassegnare una stagione per
molti versi eccezionale della poesia italiana. Il fascino di una natura armoniosa dai con-
torni ideali, una delicata sensualità, lo sfumare dell’allegria nella malinconia e di questa
in una gioia matura, ma forse soprattutto la comparsa di un colorismo vario e vivace
(quasi sconosciuto alla precedente tradizione), che ricorda Piero della Francesca e Bot-
ticelli, sono i tratti più caratteristici e quelli che più rimangono impressi.
Eclettismo e «petrarchismo ortodosso»: si torna a credere nella lirica volgare Sul piano dei
modelli letterari, questi lirici si muovono ancora nell’ambito di un sostanziale eclettismo,
per cui è possibile trovare accostate reminiscenze classiche, tratti popolari, echi romanzi,
esplicite citazioni stilnovistiche e dantesche accanto a citazioni petrarchesche.
Nelle personalità di maggior rilievo l’imitazione-emulazione del Petrarca, con una
profondità e serietà sconosciute ai lirici precedenti, diviene un momento sempre più
importante, sia sul piano tematico sia su quello formale (come soprattutto nel caso del
Sannazaro). Questa tendenza appare storicamente assai rilevante, in quanto preannun-
cia una svolta che segnerà la lirica nei primi decenni del Cinquecento. Anche grazie a
questo riavvicinamento, al contempo estetico e morale, a Petrarca, a colui cioè che ave-
va al massimo grado esaltato la dignità della poesia lirica, i poeti di questo scorcio di
secolo mostrano di tornare a credere nella poesia volgare, ad affidarle messaggi impor-
tanti, seri e profondi, ad attribuirle una funzione decisiva nel complessivo sistema let-
terario, emancipandola dall’occasionalità e dalla ritualità dell’intrattenimento di corte.
Il vitalismo della natura e degli affetti negli Amorum libri di Boiardo Il canzoniere quattrocen-
tesco più notevole è quello di Matteo Maria Boiardo (1441-1494), noto peraltro so-
prattutto per il poema cavalleresco Orlando innamorato (R 18.5). Nonostante l’origi-
nalità e l’intensità di alcuni motivi ispiratori, proprio gli Amorum libri (Libri degli amo-
ri, titolo di ascendenza ovidiana) si segnalano perché propongono un petrarchismo
che «è tra i più “fedeli” e sostanziali nell’ambito della lirica contemporanea» (Men-
galdo). Soprattutto importa che Boiardo – attraverso una raccolta organica di rime
centrata sul tema amoroso – voglia delineare la ‘storia di un’anima’, depurando la vi-
cenda personale dai tratti più occasionali, aneddotici e diaristici che infarcivano la li-
rica quattrocentesca: unico fra i suoi contemporanei, egli si propone di ricalcare, ad
esempio, oltre che le traversie amorose, anche lo schema petrarchesco del conclusivo
pentimento religioso.

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Quattrocento e Cinquecento

La sua poesia però trova gli accenti più persuasivi nella rappresentazione imme-
diata degli affetti positivi e nel sentimento «della vitalità spontanea della natura» (Bi-
gi). Questa capacità di cogliere e rappresentare con moto spontaneo e schietta sensi-
bilità il fascino paesistico, i ritmi, le luci, i colori, i suoni della natura, il senso della
vita che in essa si svolge e in particolare l’amore e i sentimenti elementari è uno dei
caratteri salienti, oltre che degli Amorum libri, della migliore poesia dell’intero Quat-
trocento. E in effetti, a paragone di quello di Petrarca, il canzoniere boiardesco si ca-
ratterizza immediatamente perché risplende e riecheggia di luci, colori, suoni, di una
sensualità che a Petrarca manca quasi del tutto.
L’ora del giorno che ad amar ce invita
dentro dal petto il cor mi raserena,
vegendo uscir l’Aurora colorita,
e a la dolce ombra cantar Philomena. (I, 22)
Cantati meco, inamorati augelli,
poiché vosco a cantar Amor me invita;
e voi, bei rivi e snelli,
per la piagia fiorita
teneti a le mie rime el tuon suave.
La beltade ch’io canto è sì infinita… (I, 8)
Quanto agli affetti, Boiardo dà il meglio di sé nella rappresentazione di quelli lie-
ti e gioiosi. Si può dire che egli riconosce «nella zoglia [gioia] il perno attorno a cui
ruota l’agire umano» (Zanato), che la ricerca di un gaudium di stampo epicureo è
parte essenziale della sua concezione del mondo.
Questa inclinazione, che è certo un pregio del canzoniere boiardesco, ne è anche il
limite forse più vistoso, nel senso che gli preclude indagini psicologiche più profonde
e una convincente modulazione del registro grave dello stile. «Non bisogna cercare in
queste rime [...] il tono intimo, denso e profondo della lirica petrarchesca: la voce del
Boiardo è molto meno complessa e meno meditata, risponde a un momento di eb-
brezza fantastica affettuosa ma superficiale; e perciò non le conviene lo stile del Petrar-
ca sobrio e severo, intimamente musicale e tutto percorso da fremiti e palpiti segreti; sì
un linguaggio capace di parlare con immediatezza al cuore dei lettori, un linguaggio
espansivo e caldo, vivace e colorito, appassionato e descrittivo» (Sapegno).
L’eclettismo geniale di Lorenzo de’ Medici Lorenzo de’ Medici fu autore di componimenti di va-
ria natura, diversi per tono, temi e stile, e difficilmente riducibili a unità: si incontrano
testi ora comico-realistici e burleschi, ora seri, elegiaci o tragici, ora intrisi di una raf-
finata cultura umanistica, ora ispirati alle forme della devozione popolare; svariate so-
no poi le fonti classiche e romanze, colte e popolari. Lorenzo appare insomma un
poeta genialmente eclettico, anche se alcuni critici ne hanno rilevato il «dilettantismo»
e l’«intellettualismo», propri del politico che si fa occasionalmente poeta e che rivela
una limitata partecipazione emotiva e ideale all’attività letteraria, concepita invece co-
me un puro gioco dell’intelligenza.
▍ Gli Amorum libri
Gli Amorum libri, composti tra il 1469 e il 1471 e stampati per la prima volta postumi nel
1499, comprendono 180 componimenti in vario metro (150 sonetti, 30 fra canzoni, ballate,
madrigali e altri metri) ordinati in tre libri di 60 testi ciascuno nei quali sono descritti la
gioia dell’amore nascente e ricambiato (libro I), la gelosia dell’innamorato che vive la delu-
sione del tradimento (libro II) e infine un incerto stato che oscilla tra rinnovate speranze,
nostalgici ricordi e una più severa e conclusiva meditazione morale (libro III). Questa mate-
ria, così ordinata, mostra la volontà dell’autore di proporre un itinerario umano e spirituale
simile a quello rappresentato da Petrarca nel Canzoniere.

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17. La lirica del Quattrocento STORIA

La poesia come «rifugio» e «refrigerio» dagli impegni politici I due poli dell’attività di Lorenzo
de’ Medici – statista e cultore e protettore delle humanae litterae – si possono però ar-
monizzare, riconoscendogli la serietà e l’impegno ideale profusi nell’esercizio poetico.
Secondo De Robertis «Lorenzo è, in certo senso, la riproduzione, sul piano della realtà
effettuale, dell’ideale umanistico. Come cioè l’umanesimo individuava nel letterato,
nella scienza della storia e nel dominio della parola, le doti essenziali dell’uomo politi-
co, e a lui affidava il governo dello Stato, l’uomo nelle cui mani si raccoglieva la re-
sponsabilità del potere cercava nelle humanae litterae il crisma della sua azione (o la
propria completezza), ne sentiva il bisogno, ambiva al loro possesso, o vi cercava
conforto». Secondo Emilio Bigi, Lorenzo si rivolge alla poesia per trovare conforto o
«refrigerio» nella momentanea evasione dal mondo dei gravosi impegni politici, per
trovare insomma un «rifugio sentimentale e letterario» in cui «ritirare e riposare l’ani-
mo affaticato e magari in altri momenti acutamente interessato dalla dura e sapida
realtà quotidiana». Anche se fondata su un topos letterario, questa celebre invocazione
al sonno perché giunga presto e porti con sé, in sogno, l’immagine consolatoria della
donna amata esemplifica bene il motivo profondo del bisogno di refrigerio e di pace
che secondo Bigi ispira tutta l’attività letteraria del Magnifico:
4 che tanto peni: che O sonno placidissimo, omai vieni
tanto tardi a giungere. all’affannato cor che ti disia:
9 fêrno:fecero,posero (le
serra il perenne fonte a’ pianti mia,
Grazie posero la loro sede
nel viso della donna amata). 4 o dolce oblivion, che tanto peni.
11-13 Se così… eburnea Vieni, unica quiete, quale affreni
porta: nella conclusione si sola il corso al desire, e in compagnia
invoca o un sonno eterno, mena la donna mia benigna e pia
qualora il sogno non corri-
spondesse alla realtà, o un 8 cogli occhi di pietà dolci e sereni.
sogno veridico, qual era Mostrami il lieto viso, ove già fêrno
quello che secondo gli anti- le Grazie la lor sede, e il disio queti
chi dagli inferi giungeva agli
uomini passando per la por- 11 un pio sembiante, una parola accorta.
ta di corno, mentre quello Se così me la mostri, o sia eterno
che passava dalla porta ebur- il nostro sonno, o questi sonni lieti,
nea era falso. 14 lasso! non passin per l’eburnea porta.

I componimenti della prima fase, che si inscrivono nell’ambito di un consapevo-


le ed elegante petrarchismo, rivelano un «gusto a suo modo vivo e sincero di va-
gheggiare un mondo aristocratico di gentili e tenere finezze sentimentali ed espres-
sive, separate dalla dura e realistica vita quotidiana» (Bigi), nonché una vena elegiaca
che costituisce una nota tra le più personali, e lo distanzia da quella gioiosa del
Boiardo. Tali caratteri risultano ulteriormente accentuati nella fase contraddistinta da
un manifesto influsso stilnovistico. Ma i testi suoi più ‘canonici’, quelli che sono ri-
masti nella memoria collettiva, sono i canti carnascialeschi, e in particolare La canzo-
na di Bacco e Arianna [R T 17.5 ] in cui limpidamente associa reminiscenze classiche (il
tema oraziano del carpe diem) e motivi popolari; e il poemetto burlesco La Nencia da
Barberino [R T 17.6 ] che sviluppa motivi della tradizione rusticale toscana.
Jacopo Sannazaro e la lezione petrarchesca La lirica di Jacopo Sannazaro, autore di una delle più
celebrate opere della cultura umanistica volgare, l’Arcadia, e di numerose opere latine,
costituisce forse il più importante capitolo dell’assimilazione dell’esperienza poetica
petrarchesca. Non c’è dubbio infatti che le rime raccolte postume col titolo di Sonetti
e canzoni (1530) «s’iscrivano in un preciso ideale lirico, di osservanza petrarchesca,
perseguito, attraverso un sicuro disegno di correzioni e sistemazioni formali [...]; come
non vi è dubbio, e lo attesta la strepitosa fortuna del libretto, sul valore di anticipazio-
ne di questa ricerca, subito avvertito dai lirici cinquecentisti» (De Robertis). Infatti se
la raccolta quale ci è giunta (uscì postuma e non curata dall’autore) appare composita,
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Quattrocento e Cinquecento

il suo nucleo centrale segna un netto distacco dalle tematiche e dalle forme della liri-
ca cortigiana. Per Sannazaro il rapporto con Petrarca non si esaurisce insomma in echi
episodici e occasionali, o in calchi tanto ostentati quanto meccanici e superficiali, ma
nell’assimilazione profonda della lezione di linguaggio, di stile, di umanità e in un’alta
considerazione della dignità dell’esercizio poetico propria del maestro. Alle soglie del
nuovo secolo (le rime datano all’incirca tra il 1485 e il 1495) siamo davvero prossimi a
quella svolta che segnerà la storia della lirica cinquecentesca.

▍ L’autore Matteo Maria Boiardo

Matteo Maria Boiardo nacque nel 1440 (o 1441) a Scandiano da Giovanni Boiardo, feudatario
del luogo, e da Lucia Strozzi. Ebbe un’educazione umanistica a Ferrara, alla corte di Lionello
d’Este, sino al 1451, poi a Scandiano, dopo la morte del padre. Nel 1460 ereditò i beni della fa-
miglia e l’onere della conduzione del feudo. Del biennio 1463-1464 sono le sue prime opere la-
tine (Carmina de laudibus Estensium [Carmi in lode degli Estensi] e le ecloghe Pastoralia). Continuò a
risiedere a Scandiano, ma compariva alla corte ferrarese e più spesso alla corte di Sigismondo
d’Este a Reggio Emilia, dove conobbe quell’Antonia Caprara che celebra nel suo canzoniere.
Nel 1476 entrò stabilmente a far parte del seguito del duca Ercole I d’Este e si stabilì a Ferrara.
Nel frattempo aveva composto le rime degli Amorum libri (1469-1471) e aveva avviato la stesura
dell’Orlando innamorato. Nel 1478, quando Ercole si allontanò da Ferrara, il Boiardo fece ritorno a
Scandiano. L’anno successivo si sposò con Taddea Gonzaga di Novellara. Nel 1480 venne nomi-
nato governatore di Reggio, incarico che mantenne sino al 1483 e dal 1487 sino alla morte, av-
venuta nel 1494. Nel 1483 erano stati pubblicati i primi due libri dell’Orlando innamorato (il terzo
rimase incompiuto e venne divulgato postumo). Fra le sue opere minori sono da ricordare le
ecloghe in volgare (Pastorale, 1482-1483), degli epigrammi latini, una commedia in volgare e di-
versi volgarizzamenti (tra cui l’Asino d’oro di Apuleio e la Ciropedia di Senofonte).

▍ L’autore Lorenzo de’ Medici

Nato nel 1449 da Piero di Cosimo e da Lucrezia Tornabuoni, Lorenzo de’ Medici ebbe educazione
umanistica e sin dalla giovinezza venne avviato all’attività politica (assolse incarichi diplomatici e
venne abilitato a sostituire il padre nel Consiglio dei Cento). Nel 1469 sposa Clarice Orsini in un
matrimonio che mira a stabilire dei legami con l’influente famiglia romana. Nel medesimo anno, al-
la morte di Piero, assume la guida della politica fiorentina su invito dei maggiorenti della città. Nel
1478 scampa all’agguato che porta alla morte del fratello Giuliano, ordito dalla famiglia dei Pazzi, in
un momento di grave crisi politica (l’esercito del papa e del re di Napoli è ai confini dello stato).Tut-
tavia Lorenzo riesce a fronteggiare la situazione e anzi a rinsaldare il suo potere personale. L’anno
successivo, con una mossa azzardata ma abile, si reca personalmente a Napoli per staccare il re Ferran-
te dall’alleanza col papa.Vi riesce e nel 1480 ottiene anche la revoca dell’interdetto papale contro Fi-
renze. Negli anni successivi opera un profondo riordinamento delle magistrature fiorentine, teso a
consolidare il potere della propria famiglia. In politica estera svolge un’intensa attività diplomatica
per mantenere l’equilibrio tra gli stati italiani. La sua morte, nel 1492, segna la fine di un’epoca.

▍ L’autore Jacopo Sannazaro

Nato nel 1457 a Napoli, di famiglia nobile, Jacopo o Jacobo Sannazaro ebbe un’intensa educazio-
ne umanistica, ma si familiarizzò anche con i testi della letteratura volgare. Entrò a far parte del-
l’Accademia pontaniana col nome di Actius Syncerus. Nel 1481 venne assunto al servizio di
Alfonso d’Aragona, duca di Calabria. Nel 1496 passò al servizio di Federico d’Aragona, divenuto
re di Napoli. Quando nel 1501 il re, in seguito all’occupazione francese, venne costretto all’esilio,
lo seguì in Francia. Nel 1505, morto il sovrano, fece ritorno a Napoli, dove visse appartato sino
alla morte, avvenuta nel 1530. Compose numerose e al tempo celebri opere latine, ma oggi ricor-
diamo soprattutto l’Arcadia, un romanzo pastorale in volgare, e le Rime.

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17. La lirica del Quattrocento T 17.1

T 17.1 Serafino Aquilano, Strambotti dopo il 1480, prima del 1500


Spesso questi arsi panni me dispoglio
S. Aquilano Una tendenza tipica della lirica quattrocentesca è l’inclinazione di alcuni “poeti corti-
Strambotti giani” a una poesia ricca di artifici retorici e di concetti arguti, che rivela un poetare di-
a c. di A. Rossi,
Guanda, Parma 2002 simpegnato, di garbato intrattenimento, che nasce e perlopiù si esaurisce nel circuito
della società cortigiana. I più tipici rappresentanti di questa tendenza sono il Tebaldeo e
Serafino Aquilano (1466-1500), attivo alle corti di Urbino, Milano e Mantova; di lui
proponiamo ora uno ‘strambotto’.

Nota metrica Spesso questi arsi panni me dispoglio


Strambotto (cioè un’otta- E buttomi nel mar per troppo ardore,
va isolata), secondo lo
schema ABABABCC. e non mi val, ch’io son pur quel ch’io soglio,
anzi se infiamma l’acqua al mio calore;
5 l’acqua battendo poi in qualche scoglio
forza è che lui se accenda del to amore,
ché per domarte Amor tenta ogni prova:
forza è che un saxo alfin l’altro commuova.

1 Spesso… dispoglio: serve a nulla, giacché ri- (forma derivata dall’ablati- 7 ché… prova: poiché, è necessario alla fine che un
spesso mi spoglio di questi mango tale e quale (cioè vo assoluto latino). per domarti (cioè farti in- sasso (lo scoglio) commuo-
vestiti bruciati (dal fuoco non trovo refrigerio). 6 forza… amore: è ine- namorare), Amore prova va l’altro (la donna insensi-
d’amore del poeta). 5 l’acqua battendo: vitabile che lo scoglio si ac- ogni espediente. bile, paragonata a un sasso
3 e non… soglio: e non quando poi l’acqua batte cenda del tuo (to) amore. 8 forza… commuova: per la sua durezza).

Guida all’analisi
Il gusto per l’artificio La rappresentazione di una materia intimamente sofferta, filtrata attraverso un’elaborata
ricerca formale, era stata la principale lezione petrarchesca. Non si può dire invece che que-
sta sia la strada presa dall’Aquilano, che sostituisce spesso a quella lezione di equilibrio e mi-
sura un comporre ingegnoso, arguto, denso di “concetti” e di artifici, ma di ispirazione blan-
da, superficiale, non sempre di accurata elaborazione formale, come dimostra questo stram-
botto, pure fondato su motivi tradizionali e anche tipicamente petrarcheschi.
Iperboli e paradossi: il poeta-fuoco e la donna-sasso Il poeta innamorato arde a tal punto che le sue vesti bru-
ciano (arsi panni) e così, per trovare refrigerio, egli si tuffa nel mare; ma il gesto sortisce un
effetto sorprendente, giacché, invece di rinfrescare il poeta, è l’acqua del mare che si infiam-
ma. Non contento di aver trasformato una metafora comune (ardere per amore) in un’argu-
ta iperbole (l’infiammarsi dell’acqua), l’Aquilano la porta alle estreme conseguenze: l’acqua
infuocata non può non ‘accendere’ anche uno scoglio. Il fuoco d’amore del poeta è dunque
tale che si propaga a tutto ciò che lo circonda, anche a elementi che dovrebbero esserne im-
muni, come l’acqua e la pietra.
Regista di questo vero e proprio innaturale prodigio è Amore, che tenta con ogni mezzo
di commuovere la donna fredda e insensibile, nella speranza che, se non è abbastanza eloquen-
te la manifestazione diretta dell’ardore del poeta, almeno lo sia quella indiretta e ‘prodigiosa’
dello scoglio. Nonostante il tema, in questo componimento non c’è però vero pathos: si so-
spetta invece il sorriso compiaciuto del poeta e del suo pubblico di fronte alla funambolica
manifestazione di abilità retorica.

Laboratorio 1 Individua le metafore presenti nel testo, sto componimento e perché e in che mi-
COMPRENSIONE sciogliendone il senso. Spiega con parole sura essa costituisca un ‘tradimento’ della
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE tue in che cosa consiste l’arguzia di que- lezione petrarchesca.

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Quattrocento e Cinquecento

T 17.2 Il Burchiello, Rime prima del 1449


Nominativi fritti e mappamondi
I sonetti Il testo che segue rappresenta, nelle sue forme estreme e negli esiti più brillanti, un’al-
del Burchiello tra tendenza della poesia quattrocentesca, quella realistico-giocosa o burlesca di am-
Einaudi, Torino 2004
biente toscano. Nel caso del Burchiello, il geniale inventore dello scrivere «alla burchia»,
è infatti il gusto bizzarro per il nonsense e l’assurdo a farla da padrone. Questo gusto co-
stituisce in verità un tratto caratteristico del Quattrocento fiorentino, senza paragoni
nemmeno nella tradizione giocosa due-trecentesca, almeno in ambito italiano.

Nota metrica Nominativi fritti e mappamondi, forse compaiono in qualità


Sonetto caudato (cioè e l’arca di Noè fra due colonne di possibili cibi, come le
con una strofe aggiuntiva) successive castagne. Zacca-
con schema ABBA,AB- cantavan tutti chirïeleisonne rello intende invece testuggi-
BA, CDC, DCD, dEE. 4 per l’influenza de’ taglier mal tondi. ne e tartufi come «calli e ve-
sciche» che «hanno assalito i
La Luna mi dicea: «Ché non rispondi?» talloni».
1 Nominativi fritti: è E io risposi: «Io temo di Giansonne, 13 sì grassi i gufi: il ter-
forse il più celebre accosta- mine grassi sembra collo-
mento assurdo della poesia però ch’io odo che ’l dïaquilonne carsi a cavallo fra il tema del
di Burchiello: il nominativo è 8 è buona cosa a fare i capei biondi.» cibo e quello del sudore che
una nozione grammaticale, Per questo le testuggini e i tartufi compare nel finale.
un concetto astratto dun- 15 lasagne: il noto piatto
que che mal si presta ad es- m’hanno posto l’assedio alle calcagne di pasta, spesso assai unto,
sere fritto. 11 dicendo: «Noi vogliam che tu ti stufi.» con una possibile «allusione,
3 cantavan… Kyrielei- quindi, o al sudore, ribadito
sonne: intonavano il «Kyrie E questo sanno tutte le castagne: dal successivo Sudario, dei
eleison» della Messa: si noti pei caldi d’oggi son sì grassi i gufi, pellegrini o alla calca» (Or-
l’incongruenza con i sog- vieto). Lasagne dunque po-
getti (nominativi, mappa- 14 ch’ognun non vuol mostrar le sue magagne. trebbe stare per “pellegrini
mondi e arca di Noè). E vidi le lasagne sudati”.
4 taglier mal tondi: 16 sudario: allude al velo
piatti di portata di forma andare a Prato a vedere il Sudario, dellaVeronica, con cui ven-
non perfettamente tonda o, 17 e ciascuna portava l’inventario. ne asciugato il volto di Cri-
secondo altri,“vuoti”. Se i sto, che veniva venerato a
piatti fossero “vuoti”, si po- Roma; ma qui i pellegrini si
trebbe ipotizzare un vago non c’è nulla da mangiare? vello d’oro (da collegare, lo, un decotto medicamen- recano probabilmente a ve-
senso per il precedente can- 6 Giansonne: forma po- per analogia, con i «capei toso. L’intera risposta appa- nerare il «Sacro Cingolo»
to sacro: ci si dedica al canto polare per Giasone, mitico biondi» del v. 8). re assurda. conservato nel Duomo di
sacro, si fa penitenza, perché eroe greco che conquistò il 7 dïaquilonne: il diachi- 9 testuggine… tartufi: Prato.

Guida all’analisi
Lo scrivere «alla burchia» La caratteristica essenziale di questa come di molte altre poesie del Burchiello è l’ac-
cumulazione «alla burchia», cioè alla rinfusa, spesso attraverso la tecnica dell’enumerazione
caotica, di oggetti, concetti, personaggi e luoghi che «svolgono un filo di connessioni assur-
de su un fondo sintatticamente impeccabile» (Contini). Qui potrebbero essere attivi tre o
quattro campi semantici principali: quello del cibo (o della sua assenza: i piatti vuoti) e
quindi della fame; quello della religione (canto, penitenza, pellegrinaggio); quello del sudo-
re (che pare collegare l’unto del cibo al sudore della folla dei pellegrini e quindi di nuovo
alla religione e alla penitenza). È comunque assai difficile e forse impossibile ricondurre il
complesso della bizzarra invenzione linguistica del Burchiello a un senso anche soltanto
probabile. La trama di relazioni che si potrebbero intuire fra tutti questi elementi (una storia
di fame e digiuni penitenziali? un pellegrinaggio in una città brulicante di tentazioni e di
insidie?) appare in ogni caso sospesa, fluttuante in un contesto in cui i nessi analogici, la suc-
cessione delle immagini sembrano orientati a creare giochi verbali e concettuali (accosta-
menti assurdi e sorprendenti fra concreto e astratto: «nominativi fritti»; fra animato e inani-
mato: «mappamondi» che «cantavan», «tartufi» che pongono «l’assedio»; ecc.), insomma a su-
scitare un divertissement bizzarro piuttosto che a formulare un qualsivoglia messaggio.

Laboratorio 1 Tanto l’Aquilano quanto il Burchiello so- che però adotta strategie diverse. Metti a
ANALISI no esponenti di una poesia ‘artificiosa’ confronto i due testi.

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17. La lirica del Quattrocento T 17.3

T 17.3 Matteo Maria Boiardo, Amorum libri tres 1469-1471


Cantati meco, inamorati augelli [I,8]
M. M. Boiardo Il canzoniere del Boiardo, spesso considerato il più bello del Quattrocento, rappresenta
Amorum libri tres bene quel momento felice della poesia italiana che si caratterizza per un sereno connu-
a c. di T. Zanato,
Einaudi, Torino 1998 bio tra uomo e natura, per i dolci paesaggi primaverili elevati a simbolo di una condi-
zione felice, anche se transitoria (la giovinezza, l’amore…). Il libro primo degli Amores è
quello che meglio si presta a interpretare la sensibilità del poeta e questo particolare
momento della nostra storia letteraria. Questo madrigale ne è un perfetto esempio.

Nota linguistica Cantati meco, inamorati augelli, compagnate (teneti el tuon)


La lingua dei componi-
poiché vosco a cantar Amor me invita; col vostro canto i miei ver-
menti del Boiardo è un si.
ferrarese illustre, nobilita- e voi, bei rivi e snelli, 7-8 il cor... solo: il cuore
to dal riscontro con la per la piagia fiorita non ha l’ardire di assumersi
tradizione toscana.Alcu- da solo l’incarico di cantar
ni degli aspetti salienti so- 5 teneti a le mie rime el tuon suave. le lodi della donna.
10 Vagi… volo: graziosi
no lo scempiamento delle La beltade che io canto è sì infinita,
doppie (inamorati,piagia) e uccelli (vagi, cioè «‘vaghi’,
talora il raddoppiamento che il cor ardir non have perché ‘variopinti’ e ‘irre-
delle scempie per iper- pigliar lo incarco solo, quieti’» [Zanato]), voi ve ne
correttismo (cella per ce- andate volando.
la); dialettalismi del tipo ché egli è debole e stanco, e il peso è grave. 11-12 perché… dolo:
zoglia (per gioia),zascun 10 Vagi augelleti, voi ne giti a volo, scherzosa allusione al «luo-
(per ciascun) ecc.; i plurali
perché forsi credeti go comune che fa degli ilari
del tipo voce (per voci), le uccelli un’allusione pole-
seconde plurali in -iti, -ati, che il mio cor senta dolo, mica all’infelicità umana»
-eti (cantati,odeti). Non ra- e la zoglia che io sento non sapeti. (Contini).
ri sono anche i latinismi 13 zoglia: gioia.
(ad es.iubato per chioma- Vaghi augeleti, odeti: 14 odeti: udite.
to). 15 che quanto gira in tondo 15-17 che quanto… nel
mondo: il senso è “in tutto
Nota metrica il mare e quanto spira zascun vento, il mondo, qual è delimitato
Madrigale (mandrialis) se-
condo lo schema ABa non è piacer nel mondo dal mare e percorso dai
venti, non c’è piacere che
bCB cdC Ded E efGfG. che aguagliar se potesse a quel che io sento. …”.
18 aguagliar se potesse:
1 Cantati meco: canta- 2 vosco: con voi. 4 piagia: piano, pendio. si possa paragonare, possa
te con me. 3 snelli: rapidi (Zanato). 5 teneti… tuon: ac- eguagliare.

Guida all’analisi
L’“allegro” continuo boiardesco Questo componimento sviluppa il motivo del rapporto tra l’uomo, la donna e
la natura: in un contesto arcadico-pastorale il poeta rivolge una preghiera, un’esortazione
agli «augeleti» prima e ai «bei rivi» poi, affinché, accompagnandolo col proprio canto e col
proprio mormorio, lo aiutino ad esprimere l’infinita gioia che amore produce in lui. Emer-
ge in questo modo la nota più intimamente boiardesca: quell’“allegro” continuo, privo di
turbamenti, che coinvolge nell’esaltazione della donna una natura che si anima di luci, suo-
ni, colori e appare purissima e incontaminata. L’accento comunque cade soprattutto sull’a-
nimo del poeta, sulla gioia, sul piacere che lo pervade.
Una trama letteraria che non esclude originalità Il tessuto di fondo di questo, peraltro assai originale, compo-
nimento è petrarchesco, con numerose reminiscenze a partire da «Amor me invita» (Canz.
CXIV, 5-6) e dai «bei rivi e snelli» (Canz. CCXIX, 4) sino ad esempio al vocativo «Vaghi au-
geleti» (Canz. CCCLIII, 1). A questo si sovrappongono qui influssi stilnovistici, volti però in
chiave profana (un’infinita beltà che dà una beatitudine indicibile, il cuore che «ardir non
have» di cantare la bellezza della donna), e trobadorici (il tema della «zoglia» per la forza vi-
tale, e talvolta proprio erotica, che da esso si libera», come nota lo Zanato).

Laboratorio 1 Nel centro del componimento è inserita del passo e il contesto del componimento
COMPRENSIONE una nota in apparenza dissonante: il cuore, e prova a stabilire se e in che misura si trat-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE si dice, è «debole e stanco» e il peso che ta di una nota dissonante rispetto a quella
deve sostenere «è grave». Analizza il senso gioiosa che domina il madrigale.

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Quattrocento e Cinquecento

T 17.4 Matteo Maria Boiardo, Amorum libri tres 1469-1471


Se passati a quel ponte, alme gentile [III, 10]
M. M. Boiardo Ecco ora, dal terzo libro degli Amores, un componimento che mette in luce una «voca-
Amorum libri tres zione narrativa» (De Robertis) che prelude a certe zone fantastiche dell’Innamorato. Per
a c. di T. Zanato,
Einaudi, Torino 1998 il linguaggio e alcune componenti simboliche, il sonetto ha le proprie radici nella tra-
dizione lirica classica e medievale e nel Canzoniere petrarchesco in particolare.

Nota metrica Se passati a quel ponte, alme gentile,


Sonetto secondo lo sche- che in bianco marmo varca la rivera,
ma ABAB,ABAB, CDC,
DCD. fiorir vedreti eternamente aprile,
4 e una aura sospirar dolce e ligiera.

1 Se... ponte:se attraver- Ben vi scorgo sinor che v’è una fiera
sate quel ponte. che abate e lega ogni pensier virile,
1 alme gentile: anime
gentili. e qualunqua alma è più superba e altiera,
2 che… rivera: che, fatto
8 persa la libertà, ritorna umile.
di marmo bianco, unisce le
rive del fiume.
4 una aura… ligiera: e Ite, s’el v’è in piacer, là dove odeti
una brezza soffiare dolce e
lieve (la metafora antropo- cantar li augei ne l’aria più serena
morfica del sospirar introdu- 11 tra ombrosi mirti e pini e fagi e abeti.
ce una lieve nota malinco-
nica).
5 vi scorgo sinor: vi av- Ite là voi, che io son fugito a pena,
verto fin da ora. libero non, ché pur, come vedeti,
5 fiera: metafora che de-
signa la donna, come in Pe- 14 porto con meco ancora la catena.
trarca.
6 abate… virile: abbatte
e soggioga ogni pensiero vi- sche’ quali combattività, odeti: udite. 13-14 libero… catena: gito, insomma, ma non mi
rile, sottomette insomma coraggio e orgoglio. 12 a pena: a malapena, non già libero, poiché, co- sono liberato dalle catene
l’uomo privandolo delle sue 9 Ite, s’el... piacer: an- ma l’espressione connota me vedete, porto ancora d’amore.
più tipiche doti ‘cavallere- date, se vi piace, se volete. – anche dolore (‘con pena’). con me la catena: sono fug-

Guida all’analisi
L’immaginario cavalleresco Le componenti narrative presenti nel sonetto si muovono secondo due piani: quello,
collocato nel passato, del viaggio compiuto dal poeta nelle terre che stanno oltre il ponte
marmoreo e l’incontro con la fiera di cui ancora porta i segni; e quello, collocato in un futu-
ro ipotetico, del viaggio supposto e implicitamente sconsigliato delle alme gentile a cui è ri-
volta l’allocuzione. Entrambe queste componenti narrative alludono a un’esperienza amoro-
sa, modellata sulle imprese cavalleresche o romanzesche e condotta nei territori del fantasti-
co (il viaggio, la sfida, il soggiogamento). È da osservare poi la presenza del topos, a questa da-
ta esso pure tipicamente cavalleresco, del locus amoenus («ombrosi mirti e pini e fagi e abeti»,
l’«aura» «serena» e «dolce e ligera», gli «augèi» che cantano, l’eterno aprile, sullo sfondo della
«rivera») che ben si fonde con i motivi ispiratori del Boiardo lirico. È infine da notare che il
luogo ameno nel sonetto è attraente per la sua bellezza, ma cela un’insidia (la fiera): risulta
per questo probabilmente imparentato con i tanti luoghi frutto di incantesimi che popolano
i racconti cavallereschi. La donna allora può forse meritare la qualifica di “incantatrice”.
I riferimenti a Petrarca e ai lirici stilnovisti Echi stilnovistici sono riconoscibili nella seconda quartina, anche se
il contesto profano e cavalleresco li priva del loro più tipico alone morale e religioso. Han-
no invece riscontro in Petrarca l’enumerazione e la metafora della donna-fiera.

Laboratorio 1 Che effetti produce nello svolgimento componente narrativa di stampo cavalle-
COMPRENSIONE del tema della donna (o di Amore) che resco?
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE incatena l’innamorato la presenza di una

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17. La lirica del Quattrocento T 17.5

T 17.5 Lorenzo de’ Medici, Canti carnascialeschi data incerta


Canzona di Bacco
Lorenzo de’ Medici Lorenzo de’ Medici compose opere di varia natura e ispirazione. Anch’egli con le rime
Scritti scelti serie, ora di stampo stilnovistico ora di stampo petrarchistico, costituisce una tappa im-
a c. di E. Bigi,
UTET, Torino 1965 portante di quel processo di raffinamento classicistico della poesia volgare del secondo
Quattrocento. Ma i testi suoi più ‘canonici’ sono quelli giocosi e rusticali. La Canzona di
Bacco è un canto carnascialesco, un testo cioè composto in occasione del carnevale, de-
stinato a essere cantato con accompagnamento musicale dai partecipanti al corteo in
maschera che percorreva le vie della città. La descrizione del corteo, con un ripetuto
invito a godere della felicità presente, è appunto il soggetto del testo.

Nota metrica Quant’è bella giovinezza, così vecchio è ebbro e lieto,


ballata di ottonari (un ver-
so parisillabo con ictus che si fugge tuttavia! già di carne e d’anni pieno;
principali sulla terza e sulla Chi vuol esser lieto, sia: se non può star ritto, almeno
settima sillaba, cioè con
una struttura con cadenza di doman non c’è certezza. ride e gode tuttavia.
ritmica regolare propria di 5 Quest’è Bacco e Arianna, 35 Chi vuol esser lieto, sia:
molta poesia popolare: belli, e l’un dell’altro ardenti: di doman non c’è certezza.
«Quant’è bélla giovinézza
/ che si fúgge tuttavía! / perché ’l tempo fugge e inganna, Mida vien drieto a costoro:
Chi vuol ésser lieto sía / sempre insieme stan contenti. ciò che tocca, oro diventa.
del domán non c’è certéz-
za») secondo lo schema Queste ninfe ed altre genti E che giova aver tesoro,
xyyx (ripresa) abab (stan- 10 sono allegre tuttavia. 40 s’altri poi non si contenta?
za) byyx (volta). Da notare
che la ripresa, qui ai vv. 1-4, Chi vuol esser lieto ,sia: Che dolcezza vuoi che senta
talora nell’esecuzione ora- di doman non c’è certezza. chi ha sete tuttavia?
le veniva ripetuta intera-
mente a ogni strofe, men- Questi lieti satiretti, Chi vuol esser lieto, sia:
tre qui due suoi versi, «Chi delle ninfe innamorati, di doman non c’è certezza.
vuol esser lieto, sia: / di do- 15 per caverne e per boschetti 45 Ciascun apra ben gli orecchi,
man non c’è certezza», tor-
nano identici nel finale han lor posto cento agguati; di doman nessun si paschi;
della volta. Le rime con- or da Bacco riscaldati, oggi sian giovani e vecchi,
trassegnate con a e b varia-
no ad ogni strofe (nella pri- ballon, salton tuttavia. lieti ognun, femmine e maschi;
ma -anna: -enti: nella se- Chi vuol esser lieto, sia: ogni tristo pensier caschi:
conda -etti: -ati:, ecc.) men-
tre quelle contrassegnate 20 di doman non c’è certezza. 50 facciam festa tuttavia.
con x e y rimangono co- Queste ninfe anche hanno caro Chi vuol esser lieto, sia:
stanti (-ezza: -ia:).
da lor esser ingannate: di doman non c’è certezza.
non può fare a Amor riparo, Donne e giovinetti amanti,
2 che… tuttavia: che
trascorre sempre (tuttavia), se non gente rozze e ingrate: viva Bacco e viva Amore!
senza mai arrestarsi. 25 ora insieme mescolate 55 Ciascun suoni, balli e canti!
5 Bacco… Arianna:
personaggi mitologici, raffi- suonon, canton tuttavia. Arda di dolcezza il core!
gurati dalle maschere del Chi vuol esser lieto sia: Non fatica, non dolore!
corteo: Bacco (o Dioniso) è di doman non c’è certezza. Ciò c’ha a esser, convien sia.
il dio del vino,Arianna è co-
lei che aiutò Teseo a uccide- Questa soma, che vien drieto Chi vuol esser lieto, sia:
re il Minotauro, dandogli il 30 sopra l’asino, è Sileno: 60 di doman non c’è certezza.
celebre filo che gli consentì
di ritrovare l’uscita del labi-
rinto e che più tardi, abban-
donata da Teseo, venne soc- e la coda) abitanti dei bo- dai satiri, perché anche loro me una soma (carico) sul duce alla felicità.
corsa proprio da Bacco. schi, quasi sempre associati sono accese d’amore. dorso di un asino è Sileno,un 40 s’altri… contenta: se
6 ardenti: innamorati. alle ninfe oggetto delle loro 23-24 non… ingrate: solo satiro precettore di Bacco. non si è poi contenti.
9 ninfe: nella mitologia lascive insidie (cfr. v. 16: chi è d’animo grezzo e di 37 Mida: il re della Frigia 45 di doman… paschi:
greca sono divinità minori «han lor posto cento aggua- cuore ingrato può resistere che morì di fame e di sete nessuno si nutra (paschi) del
che abitano boschi, fiumi, ti»). all’amore. È un motivo di dopo aver incautamente domani, cioè di speranze
laghi e monti. 17 or… riscaldati: eccita- origine stilnovistica. chiesto e ottenuto da Dio- che spesso si riveleranno va-
13 satiretti: piccoli satiri, ti da Bacco, ovvero dal vino. 26 suonon, canton: suo- niso di tramutare in oro tut- ne.
cioè, nella mitologia greca, 21-22 Queste… inganna- nano, cantano. to ciò che toccasse. La figu- 58 Ciò… sia: sia quel che
esseri metà uomini e metà te: anche le ninfe (almeno 29 questa… Sileno: que- ra di Mida esemplifica le sia (lett.: ciò che deve acca-
capri (di cui in particolare quelle del corteo) tuttavia sto che segue il corteo delle conseguenze nefaste dell’a- dere è necessario che acca-
hanno le zampe, le orecchie sono liete di essere insidiate ninfe e dei satiri adagiato co- vidità umana, che non con- da).

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Quattrocento e Cinquecento

Guida all’analisi
Il tema del carpe diem fra la chiassosa realtà del carnevale e le allusioni classiche In questo componimento si
fondono realismo e mitologia, reminiscenze classiche e tratti popolareschi. La Canzona di Bac-
co infatti descrive un corteo in maschera durante il carnevale: un evento reale della società
contemporanea, nell’esperienza di tutti. I personaggi, cioè le maschere, che vi compaiono so-
no però Bacco, Arianna, Sileno, Mida, ninfe e satiri, e rimandano quindi anche al mito e alla
classicità. Bacco, che è il protagonista, in quanto dio del vino, rappresenta un diretto invito a
godere l’ebbrezza e a gustare i piaceri profani della festa. Il tema, perfettamente consono allo
spirito carnevalesco ma anche nobilitato dai precedenti classici, è quello dell’invito a godere
dell’oggi nell’incertezza del domani, il tema cioè epicureo e oraziano del carpe diem. Il tema era
già stato delicatamente trattato dal Poliziano in alcune delle sue più belle ballate (R T 19.2 I’ mi
trovai fanciulle).
I motivi classici e polizianei sono resi qui in modo esplicito e accentuato e assumono trat-
ti realistici e popolareggianti. Se nel Poliziano domina un clima di pacata serenità e letizia, ap-
pena velato dalla malinconia, qui si tratta di una letizia più chiassosa, di un’allegria festosa. Si
percepisce il rumore delle danze, delle risa, dei salti; si intuiscono la musica, i suoni, i canti, che
paiono quasi soffocare l’elemento negativo della fuga del tempo. È d’altronde tipico della di-
mensione carnevalesca esorcizzare il negativo del vivere quotidiano nell’ebbrezza spensierata
del giorno di festa.
Interpretazioni della Canzona di Bacco La Canzona, nonostante la sua apparente semplicità, non è di interpreta-
zione del tutto pacifica. Se infatti è indiscutibile la compresenza di elementi positivi e negati-
vi, e l’invito a godere la vita è palesemente collegato alla consapevolezza della sua fugacità; più
controversi sono invece il peso da attribuire a ciascuno dei due elementi e l’esatta definizione
del tono e del senso complessivo del componimento.
A un estremo sta chi sottolinea il momento riflessivo, pessimistico e malinconico, o attri-
buisce tensione drammatica al contrasto tra il motivo della fuga del tempo e quello del carpe
diem: la ripetizione del verso «di doman non c’è certezza» sarebbe ossessiva e costituirebbe una
sorta di malinconico e pensoso “memento!” che, accanto a Orazio e ai classici, potrebbe addi-
rittura annoverare come fonte i più cupi moniti religiosi medievali sulla fugacità del vivere e la
vanitas vanitatum (la vanità delle cose terrene). Nel Medioevo il carnevale era il momento di un
dissacratorio ma effimero capovolgimento scherzoso dei temi della consueta riflessione reli-
giosa: la celebrazione del godimento fisico nasceva come contrapposizione alle prediche sul
disprezzo del mondo che tornavano a dominare nel tempo di quaresima. E la vanitas vanitatum
poteva aleggiare nella letizia esagerata della festa, come il pensiero della fame abituale nel mo-
mento dell’eccezionale abbuffata.
All’estremo opposto sta chi nega tensione drammatica al contrasto ripetuto nel ritornello e
sottolinea la natura giocosa del testo, in cui l’allegria trionfa: il ritmo cadenzato e cantabile del-
l’ottonario, le forme ‘chiassose’ che assume la celebrazione della festa, il motivo bacchico, quel-
lo erotico toglierebbero spessore agli spunti riflessivi, ripetuti sì ma superficiali. Ciò accadrebbe
in coerenza con il contesto a cui la Canzona era destinata: quello del carnevale, momento cer-
to effimero che lascia subito il posto alla quaresima, ma che appunto per questa sua natura ec-
cezionale sospende preoccupazioni e tristezze e immerge totalmente i protagonisti nell’eb-
brezza del vino, nell’allegria della festa, nella spensierata follia dell’oggi.

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17. La lirica del Quattrocento T 17.5

Doc 17.1 Il tema del tempo in François Villon (Ballata delle dame di un tempo)

Verso la metà del Quattrocento il tema del tempo che fugge è trattato anche dal più
grande poeta francese del secolo, François Villon, personaggio controverso dalla vita pro-
babilmente breve (nato nel 1431, dopo il 1463 non si hanno più sue notizie) e certo sre-
golata (si ricordano risse, furti, brigantaggio, prigione, una condanna a morte e infine l’e-
silio). L’opera sua più celebre è un ampio poemetto, Il testamento, vario per temi e toni.
In due celebri ballate inserite nel Testamento Villon sviluppa con accenti cupi e strug-
genti il motivo della fuga del tempo e dell’incalzare della morte che tutto travolge ri-
correndo ripetutamente alla formula biblica dell’ubi sunt? (dove sono?). Questa formula
nella letteratura medievale era tipica delle enumerazioni di personaggi scomparsi o fasti
terreni (amore, bellezza, potenza...) ormai decaduti, che sovente si risolvevano nell’invi-
to a pentirsi e a rendersi a Dio: si pensi ad esempio alla lauda Quando t’aliegre di Jaco-
pone da Todi [R T 4.2 ].
Riproduciamo per intero la prima ballata, che costituisce un’enumerazione di donne ce-
lebri del passato. Per il nostro scopo poca importanza ha l’identificazione esatta dei singoli
personaggi (ciò che conta per il senso della poesia è che, celebri amanti regine o eroine,
son tutte morte) e tuttavia ricordiamo, per curiosità, che Flora e Taide sono due cortigiane,
l’una romana, l’altra greca, Archiapada è un personaggio inesistente (nato dal fraintendi-
mento del nome del greco Alcibiade), Eco è nel mito la ninfa innamorata di Narciso, Eloi-
sa è la giovane protagonista di una storia d’amore con il prelato e filosofo Abelardo, evira-
to dai parenti di lei per averla corrotta (XI-XII secolo); la regina che, secondo una leggen-
da medievale, condannò il suo amante Buridano all’atroce morte è Giovanna di Navarra
(XIV secolo), Berta è la madre di Carlo Magno, Giovanna «arsa viva a Rouan» è l’eroina
Giovanna d’Arco (1412-1431), mentre Bianca e le altre sono personaggi minori o non
identificabili oggi con certezza.

[trad. di A. Carminati e Ditemi dove, in quali rive, Ma dove sono le nevi dell’anno?
E. StojkovičMazzariol]
è Flora la bella Romana,
dov’è Archiapada e Taìde, E Bianca al giglio somigliante,
che le fu cugina germana? regina dal canto di sirena,
Eco parlante quando vaga Bice, Alice, Berta piè-grande,
un frastuono su fiume o stagno, Arembugi che il Maine teneva,
che bellezza ebbe più che umana? Giovanna la buona di Lorena,
Ma dove sono le nevi dell’anno? dagli Inglesi bruciata a Roano;
dove son, dove,Vergin suprema?
Dov’è la sapiente Eloisa, Ma dove sono le nevi dell’anno?
per cui, castrato, il saio prese
Pietro Abelardo in San Dionigi? Principe saper non vi prema
Per amore subì tali offese. Dove son quelle, ora o tra un anno,
La regina dov’è che ha ordinato ch’io non riprenda la cantilena:
Che dentro un sacco Buridano ma ove sono le nevi dell’anno?
Nella Senna fosse gettato?

Laboratorio 1 Spiega con parole tue che cos’è e in che 3 Individua nel testo tutte le espressioni le-
COMPRENSIONE modo si manifesta nel testo il tema ora- gate al tema della fuga del tempo e del-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE ziano del carpe diem? l’incertezza del vivere e tutte quelle inve-
2 Individua nel testo tutte le espressioni ce legate al tema dell’invito a godere del
che evocano i suoni e i rumori della festa: tempo presente. Discuti le opposte inter-
quali aspetti del metro e del ritmo enfa- pretazioni fornite nella Guida all’analisi e
tizzano questa dimensione sonora del prendi posizione.
componimento?

579 © Casa Editrice Principato


Quattrocento e Cinquecento

T 17.6 Lorenzo de’ Medici, La Nencia da Barberino


Ardo d’amore, e conviemme cantare
Lorenzo de’ Medici La Nencia da Barberino è un poemetto rusticale, un poemetto cioè che mette in scena
Scritti scelti personaggi e ambienti contadini. Il tema centrale, un vero e proprio topos della poesia
a c. di E. Bigi,
UTET, Torino 1965 medievale, è l’amore non corrisposto, ma volto dal registro tragico e patetico, proprio
della lirica d’ambiente cortese o borghese, a quello comico e grottesco, proprio della
rappresentazione del mondo rusticano fatta da intellettuali nobili e borghesi. Nelle
stanze iniziali (che riproduciamo), il pastore Vallera celebra la bellezza della donna
amata e lamenta le sue pene d’amore.

Nota linguistica 1. Ardo d’amore, e conviemme cantare 2


La lingua diVallera è un Empoli... Barberin:
fiorentino parlato e popo- per una dama che me strugge el cuore; 1-8
tutte località nei dintorni di
lare, ricco di dialettalismi, ch’ogni otta ch’i’ la sento ricordare, Firenze,ma si noti che il rag-
a scopo di caratterizza-
el cor me brilla e par ch’egli esca fuore. gio d’azione diVallera è de-
zione sociale del perso- limitato anche dall’ambien-
naggio, che non troviamo Ella non truova de bellezze pare, te del mercato.
4 quinamonte: qui sul
nella coeva produzione li- cogli occhi gitta fiaccole d’amore.
rica seria: si notino ad es. monte.
otta (volta), ento (entro), I’ sono stato in città e ’n castella, 7 ento: entro.
chiunche (chiunque), begghi e mai ne vidi ignuna tanto bella. 3
(begli), drieto (dietro), 2 saviamente rilevata:
drento (dentro), ghi (gli), saggiamente educata: l’epi-
capegli, anegli (capelli, 2. I’ sono stato ad Empoli al mercato, teto fa il paio con il prece-
anelli), gnun, gnuna (alcu- dente onesta,eco della poesia
no, alcuna), ecc. a Prato, a Monticegli, a San Casciano, stilnovistica.
a Colle, a Poggibonzi e San Donato, 4 quadrata: proporzio-
Nota metrica
a Grieve e quinamonte a Decomano; nata (ma l’epiteto ha una
Ottave di endecasillabi (lo sfumatura di grezza,corposa
schema fisso dell’ottava è Fegghine e Castelfranco ho ricercato, solidità).
8 succhiello: arnese per
ABABABCC). San Piero, el Borgo e Mangone e Gagliano:
traforare il legno: nell’oriz-
più bel mercato ch’ento ’l mondo sia zonte artigianale di Vallera
è Barberin, dov’è la Nencia mia. il paragone indica perfezio-
1 ne.
1 conviemme: mi con-
viene, devo. 3. Non vidi mai fanciulla tanto onesta, 4
ch’ogni otta: che ogni 2 havvi... denti: dentro
3
volta. né tanto saviamente rilevata: le labbra ci sono (havvi) due
4 me brilla: mi scoppia. non vidi mai la più leggiadra testa, file di denti.
5 Ella... pare: non c’è né sì lucente, né sì ben quadrata; 3-4 che... venti: tanto il
bellezza pari a la sua. paragone con il cavallo
6 gitta fiaccole d’amo- con quelle ciglia che pare una festa quanto il numero dei denti
re: lancia sguardi infuocati; quand’ella l’alza, ched ella me guata: indicano salute.
la metafora è una variante 6 senz’altro... scortica-
più corposa (fiaccole) del te- entro quel mezzo è ’l naso tanto bello menti: senza bisogno di al-
ma del fuoco d’amore che che par propio bucato col succhiello. cun belletto (liscio, scortica-
promana dagli occhi di ma- menti sono sinonimi).
donna o di quello stilnovi- 7 ento ’l mezzo: nel
stico degli spiritelli che 4. Le labbra rosse paion de corallo: centro.
muovendo dagli occhi della
donna colpiscono il cuore ed havvi drento duo filar de denti, 5
del poeta. che son più bianchi che que’ del cavallo: 2 trafiggere’ con egli:
8 ignuna: alcuna. trapasserebbe con essi.
da ogni lato ve n’ha più de venti.
Le gote bianche paion di cristallo
sanz’altro liscio, né scorticamenti,
rosse ento ’l mezzo, quant’è una rosa,
che non si vide mai sì bella cosa.

5. Ell’ha quegli occhi tanto rubacuori,


ch’ella trafiggere’ con egli un muro.

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17. La lirica del Quattrocento T 17.6

Chiunch’ella guata convien che ’nnamori; 3 Chiunch’: chiunque.


5 drieto: dietro.
ma ella ha cuore com’un ciottol duro; 6 fûro: furono.
e sempre ha drieto un migliaio d’amadori, 8 i’ per guatalla.... cer-
che da quegli occhi tutti presi fûro. vello: invece io per incon-
trare il suo sguardo (che ella
La se rivolge e guata questo e quello: concede generosamente al
i’ per guatalla me struggo el cervello. migliaio d’amadori) mi inge-
gno in ogni modo.

6. La m’ha sì concio e ’n modo governato 6


1-2 La m’ha... governato:
ch’i’ più non posso maneggiar marrone, ella mi ha conciato e ridotto
e hamme drento sì ravviluppato a tal punto che io non sono
più capace di usare la zappa
ch’i’ non ho forza de ’nghiottir boccone. (marrone, grossa ‘marra’).
I’ son come un graticcio deventato, 3 e hamme... ravvilup-

e solamente per le passione, pato: e mi ha così avvilup-


pato lo stomaco (lett. den-
ch’i’ ho per lei nel cuore (eppur sopportole!), tro).
5 come un graticcio:
la m’ha legato con cento ritortole.
magro come una stuoia.
6 le passione: le soffe-
7. Ella potrebbe andare al paragone renze, le pene d’amore.
8 ritortole: corde, lacci
tra un migghiaio di belle cittadine, (composti di fili ritorti).
ch’ell’apparisce ben tra le persone
7
co’ suoi begghi atti e dolce paroline; 1 andare al paragone:
l’ha ghi occhi suoi più neri ch’un carbone reggere il confronto.
4 begghi: begli.
di sotto a quelle trecce biondelline, 5 l’ha ghi occhi: ha gli
e ricciute le vette de’ capegli, occhi.
che vi pare attaccati mill’anegli. 7 le vette: le punte, le ci-
me.

8. Ell’è drittamente ballerina, 8


1 Ell’è.... ballerina: ella
ch’ella se lancia com’una capretta: è una provetta ballerina.
girasi come ruota de mulina 4 e dassi.... scarpetta: e
si tocca la scarpetta con la
e dassi della man nella scarpetta. mano (è una movenza del
Quand’ella compie el ballo, ella se ’nchina, ballo).
5 compie: porta a termi-
po’ se rivolge e duo colpi iscambietta, ne.
e fa le più leggiadre riverenze, 6 po’... iscambietta: poi
che gnuna cittadina da Firenze. si volta e fa un paio di sgam-
betti (passi di danza).

9. La Nencia mia non ha gnun mancamento: 9


3 un buco... mento: una
l’è bianca e rossa e de bella misura, fossetta al centro del mento.
e ha un buco ento ’l mezzo del mento, 6 credo... natura: credo
che la natura l’abbia creata
che rabbellisce tutta sua figura. (fêsse, la facesse) come esem-
Ell’è ripiena d’ogni sentimento: pio, modello di bellezza (’n
credo che ’n pruova la fêsse natura pruova).
8 diveglie: svelle, strap-
tanto leggiadra e tanto appariscente, pa.
ch’ella diveglie il cuore a molta gente. 10
1 avventurato: fortuna-
10. Ben se potrà chiamare avventurato to.
4 chi arà... foglie: chi
chi fie marito de sì bella moglie; quel fiordaliso terrà fra le
ben se potrà tener in buon dì nato sue braccia nudo (senza fo-
glie).
chi arà quel fioraliso sanza foglie; 8 sugnaccio: un pezzo
ben se potrà tener santo e biato, di grasso di maiale, di strut-
e fien guarite tutte le suo’ voglie, to.
aver quel viso e vederselo in braccio
morbido e bianco, che pare un sugnaccio.
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Quattrocento e Cinquecento

Guida all’analisi
L’orizzonte rusticano di Vallera Il mondo di Vallera è limitato, il suo orizzonte è circoscritto. Nessuna donna è
bella come la sua Nencia («Ella non truova di bellezze pare», 1, 5): l’affermazione perentoria,
che potrebbe ricordare tante celebrazioni cortesi di donne «imperadrici d’ogne costumanza»,
è, nelle intenzioni del personaggio, subito avvalorata da un lungo elenco di luoghi da lui vi-
sitati di persona; ma agli occhi di un lettore appena un po’ scaltrito la duplice delimitazione
geografica e sociale (eran tutti piccoli borghi del contado di Firenze;Vallera ne ha visitato so-
lo i mercati) suona come un’ironica e bonaria presa di distanze dell’autore. Nencia è la regi-
na della bellezza e Barberino è il «più bel mercato ch’ento ’l mondo sia», parola di uno che
ha girato tutti i mercati nel circondario di Firenze!
Movenze auliche e degradazione comico-realistica Subito dopo, nel passaggio dall’affermazione generale di prin-
cipio della supremazia di Nencia all’analisi dettagliata delle sue qualità, troviamo un’analoga
movenza discendente: si comincia con un «tanto onesta», che non può non richiamare alla
mente niente meno che la Beatrice dantesca, e con un «tanto saviamente rilevata» che, pur in
tono minore, fa appello alla sfera morale (alla costumatezza e all’educazione della giovane);
ma, come ormai ci aspettiamo, subito si passa a qualità fisiche, la «leggiadra testa... ben qua-
drata... che pare una festa», il «naso tanto bello / che par proprio bucato col succhiello». Le
labbra rosse sembrano un corallo, dice risollevando di nuovo il tono del discorso verso mo-
delli aulici, e, subito ridiscendendo, racchiudono tanti denti sanissimi, più bianchi di quelli
«del cavallo». L’ironica degradazione comico-realistica corre qui sul filo della rima (si notino
i nessi rilevata : quadrata, onesta : testa : festa, bello : succhiello e corallo : cavallo).Vallera insomma
riporta le sue lodi, che arieggiano dapprima formule auliche, alla più modesta e concreta
realtà del suo orizzonte sociale e culturale. La menzione del succhiello (ingenuamente preso
come pietra di paragone per valutare la perfezione di un’opera di natura, mentre ci attende-
remmo il contrario: la natura presa come misura dell’abilità dell’artigiano) e poi soprattutto il
paragone del cavallo (Vallera sembra valutare la salute della donna, proprio come a un merca-
to si valuta la prestanza di un animale) sono rivelatori della genuina concretezza e grossola-
nità del personaggio. Il precetto pratico di scegliere con cura una moglie sana e robusta, per
avere figli altrettanto sani e forti, ricorre frequentemente nelle scritture mercantili, ma certo
suonerebbe stonato in qualsiasi celebrazione lirica della donna amata!
Così nel seguito, quando si trapassa dal topos della lode delle bellezze a quello della dichia-
razione delle pene inflitte dalla donna crudele, le consuete formule sono tutte più o meno
grevemente, ma sempre nettamente e coerentemente degradate all’orizzonte culturale del
contadino: la penetrazione dello sguardo di Nencia trafiggerebbe «un muro», il suo cuore è
duro come «un ciottol», per farsi notare Vallera si strugge «el cervello», la sua prostrazione è
valutata nell’incapacità di «maneggiar marrone», le catene che lo legano sono «ritortole». E
analogamente accade quando nel finale si torna alla lode (che ripropone più volte la nota
movenza dall’aulico al prosaico): la grazia nel ballare ricorda la rustica agilità di una «capret-
ta», la perfezione dell’aspetto è coronata da «un buco» in mezzo al mento e dulcis in fundo, nel
mezzo della suprema fantasia erotica, il viso e forse tutto il corpo della donna bella come
«fioraliso» è detto «morbido e bianco, che pare un sugnaccio».

Laboratorio 1 Completa la seguente tabella indicando, ca e quelle che invece ne costituiscono


COMPRENSIONE sulla scorta degli esempi forniti nella guida una degradazione comico-realistica. Spie-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE all’analisi, le espressioni che rimandano al- ga oralmente le scelte.
la tradizione della lirica cortese-stilnovisti-
Tradizione cortese-stilnovistica Tradizione comico-realistica
Ardo d’amore... me strugge el core (1, 1-2) El cor me brilla e par ch’egli esca fuore (1, 3)
Ella non truova de bellezze pare (1, 3) gitta fiaccole d’amore (1, 4)
I’ sono stato in città e ’n castella (1, 7) I’ sono stato ad Empoli al mercato (2, 1)
ecc.

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17. La lirica del Quattrocento VERIFICA

VERIFICA

17.1 Caratteri e tendenze della poesia quattrocentesca

1 Perché il periodo 1374-1475 è stato definito «il secolo senza poesia»? A che cosa rimanda-
no le due date limite? In che senso va intesa questa affermazione?
2 Che cosa si intende per «ibridismo» e «occasionalità» in quanto tratti caratteristici della
poesia del Quattrocento?
3 Chi sono i lirici cortigiani e quali sono le caratteristiche salienti della loro poesia?
4 Spiega, esemplificando, che cosa si intende per «gusto per l’artificio»?
5 Quali sono le caratteristiche della poesia realistico-giocosa e a quale tradizione si ispirano?
6 Chi è il Burchiello e quali sono i tratti più vistosi della sua poesia

17.2 Il ‘rinascimento’ della lirica volgare (Boiardo, Lorenzo il Magnifico, Sannazaro)

7 Nell’ultimo quarto del Quattrocento assistiamo a una svolta: descrivila.


8 Quali sono le caratteristiche tematiche che accomunano la poesia degli autori di questo
scorcio del secolo?
9 Che cosa si intende con «eclettismo» e con «petrarchismo» e quale rapporto si instaura tra
questi due moduli poetici?
10 Quali opere scrive Boiardo e quali sono le caratteristiche salienti della sua esperienza liri-
ca?
11 Che cosa si intende con «allegro continuo», e a chi è riferita questa espressione?
12 Illustra il concetto critico di «poetica del rifugio e del refrigerio». A chi appartiene questa
definizione e a quale poeta si riferisce?
13 Illustra le caratteristiche salienti della poesia di Lorenzo il Magnifico.
14 In che rapporto stanno dantismo e petrarchismo nell’opera del Magnifico?
15 Chi è, dove opera e per quali opere è soprattutto famoso Jacopo Sannazaro?
16 È corretto affermare che nella lirica di Sannazaro l’esperienza poetica del Quattrocento si
distanzia dal modello petrarchesco e trova il suo momento di massima originalità?
17 Descrivi sinteticamente il rapporto che la poesia del Quattrocento instaura con il modello
petrarchesco.

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Quattrocento e Cinquecento

La narrativa del Quattrocento


18

n Incisione per un’edizione


delle novelle di Masuccio Sa-
lernitano.

Nel primo Quattrocento anche i narratori si espri- fra l’altro per la contaminazione delle fonti, per il re-
mono prevalentemente in latino. Fra i generi prediletti cupero del racconto anche brevissimo, per la modifi-
dagli umanisti c’è innanzitutto la facezia, connessa cazione o l’eliminazione della cornice e infine per il
con i motti e gli esempi profani medievali, ma anche linguaggio spesso meno elaborato e non ancora
profondamente radicata nel contesto storico-culturale uniformato al modello del toscano letterario. Ricordia-
umanistico e cortigiano, soprattutto per gli ideali di mo almeno il Novellino di Masuccio Salernitano.
equilibrio spirituale, di sagace arte del vivere, di pia- La narrativa quattrocentesca non si esaurisce qui:
cevole conversazione che esprime. Si tratta di rac- accanto alla memorialistica, a svariati tipi di poemetti
conti brevi o brevissimi, privi di complicazioni d’in- e di componimenti in versi, va segnalata la letteratu-
treccio, fondati sul gesto, sul fatto, sul motto faceto, e ra d’argomento pastorale (ecloghe liriche, drammi o
su giochi di parole, paralogismi, nonsense. Il Liber fa- romanzi). Le caratteristiche di questa produzione so-
cetiarum del Bracciolini ne è l’esempio più notevole, no abbastanza omogenee, tant’è che si può parlare di
mentre se ne hanno anche versioni meno colte, più un vero e proprio “codice bucolico”. Questo genere,
popolareggianti. Notevoli sono pure gli apologhi (o fa- che tanta influenza avrà nella letteratura europea dal
vole) fondati sul recupero della tradizione antica (Eso- Cinque al Settecento, ha il suo capolavoro nell’Arca-
po e Fedro): i più notevoli sono i Cento Apologhi di dia di Jacopo Sannazaro.
Leon Battista Alberti. Nel Quattrocento prosegue anche la produzione di
Abbastanza cospicua – specie nel secondo Quat- cantari e in particolare dei cantari ciclici che esercita-
trocento – è la produzione di novelle sia spicciolate no un certo influsso sulla formazione del poema ca-
sia ordinate in raccolte organiche, sia in latino sia so- valleresco con intenti d’arte. Il poema cavalleresco
prattutto in volgare. La novellistica quattrocentesca si nasce in ambiente socialmente elevato e cultural-
orienta verso l’imitazione-emulazione del Decameron, mente più raffinato di quello canterino e pur mante-
ma non è riducibile ad essa. Da questa si distanzia nendo contatti con questa tradizione se ne distingue

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18. La narrativa del Quattrocento STORIA

n Frontespizio dell’Orlando namorato del Boiardo, esito serio della tradizione


innamorato, in un’edizione canterina, nasce in un contesto cortigiano e marcata-
veneziana del 1528.
mente signorile (Ferrara); è caratterizzato da una sia
pur vaga nostalgia del mondo cavalleresco medievale,
idealizzato alla luce delle aspettative e dei valori dei
destinatari estensi e gioca le sue carte sul piano dei
sentimenti e delle passioni nobilmente intese, dei tra-
dizionali valori di coraggio, cortesia, gentilezza, lealtà;
affonda le radici nell’epica francese e nella tradizione
canterina depurata e nobilitata; è scritto in un volgare
letterario marcatamente padano.
Viceversa, il Morgante del Pulci, che della tradi-
zione canterina è l’esito comico, nasce in Firenze,
nella città cioè che più manteneva desta la tradizione
comunale, pur nell’egemonia medicea; il Morgante
costituisce la parodia del mondo e dei valori cavalle-
reschi: accentua il gesto, l’atto, l’azione nei loro
aspetti materiali (la botta, lo schiaffo, il pugno) e la
materialità del vivere (il cibo, il bere); innesta nella
essenzialmente per la cura formale, gli intenti d’arte e tradizione canterina l’esperienza comico-giocosa, ti-
la diversa forma di circolazione scritta. picamente toscana, aggiornata dall’esperienza bur-
Ma il genere principe della narrativa quattrocente- chiellesca; sul piano linguistico rappresenta la tradi-
sca è senz’altro il poema cavalleresco. L’Orlando in- zione del fiorentino vivo e parlato.

Facezie e Apologhi
Poggio Bracciolini (1380-1459) Liber facetiarum (Libro delle facezie, 1438-1452)
Leon Battista Alberti (1404-1472) Apologi centum (1437)
Novelle
Enea Silvio Piccolomini (1405-1464) Historia de duobus amantibus (Storia di due amanti, 1444)
Masuccio Salernitano (1410 ca.-1475) Novellino (1450-1470)
Romanzo pastorale
Jacopo Sannazaro (1455/56-1530) Arcadia (1480-1486 circa)
Poema cavalleresco
Luigi Pulci (1432-1484) Morgante maggiore (1461-1463, ed. ampliata 1483)
Matteo Maria Boiardo (1440 ca.-1494) Orlando innamorato (1476-1494, incompiuto)

Facezie tradizione volgare medievale aggiornata secondo gli ideali della civil conversazione umanistica
(Novellino, “motti arguti”) e cortigiana (anche gli antichi la praticavano;
priorità dei valori formali; valore liberatorio del riso...)
Apologhi esempi allegorici medievali ripresa della favola classica (Esopo e Fedro)
e ideale della civil conversazione umanistica
Novella tradizione medievale aggiornata talora secondo gli ideali della civil conversazione
(Decameron e altri) (abolizione o modifica della cornice decameroniana)
Romanzo influsso indiretto di testi me- sviluppo originale dei modelli pastorali antichi (Virgilio, Bucoliche);
pastorale dievali (Vita Nuova di Dante) autobiografia idealizzata; riferimenti criptati alla vita di corte
Poema tradizione medievale aggiornata, specie nel Boiardo, da una sensibilità nuova; rievoca-
cavalleresco (romanzi francesi e cantari) zione del mito per esprimere valori e ideali attuali dell’umanesi-
mo cortigiano: vitalismo, raffinatezza, cortesia, amore, lealtà e
persino la cultura umanistica (temi dell’amore e del sapere che
adorna l’uomo)

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Quattrocento e Cinquecento

18.1 Facezie e apologhi


La facezia, fra tradizione classica e medievale Nel primo Quattrocento, anche la narrativa si espri-
me in latino. Il genere forse più caratteristico della narrativa umanistica è la facezia.
Essa si connette con la tradizione narrativa dei due secoli precedenti, che prendeva co-
me soggetto il motto sapido, arguto, elegante, in quanto testimonianza di prontezza di
spirito o di nobile sentire specie di quell’élite dell’ingegno che era sorta in ambiente
comunale. La facezia umanistica assume peraltro alcuni connotati originali proprio
perché si richiama ai modelli e alle teorie degli scrittori classici e tende a connettersi
alle consuetudini socio-culturali delle nuove élites che popolano i cenacoli umanistici
e la corte signorile.
Il Liber facetiarum di Poggio Bracciolini Poggio Bracciolini è l’autore della più importante raccol-
ta quattrocentesca di facezie, il Liber facetiarum, cioè Libro delle facezie, composto fra il
1438 e il 1452, che raccoglie 273 testi: «aneddoti popolari, pettegolezzi di curia, in-
ganni femminili, risposte impertinenti frammiste a esempi di ingenuità o di disarmata
ignoranza» (Tartaro).
Lo scopo che l’autore si propone è dunque intrattenere piacevolmente, ricreare l’a-
nimo, come dice a chiare lettere nell’introduzione, «con qualche sorridente ristoro».
Notevole è il fatto che qui Poggio, certo consapevole della recente tradizione volgare,
enfatizza il rapporto con gli antichi e mira a legittimare il genere della facezia non
tanto sul piano morale (questa viceversa era stata la preoccupazione dell’autore del
Novellino) quanto su quello culturale, per cui decisivo risulta il fatto che anche gli «an-
tichi, uomini di solida prudenza e dottrina» l’avessero sistematicamente praticata.
Il riso distensivo e liberatorio è poi un ideale – legato alla rivalutazione del corpo e
della vita terrena operata dagli umanisti – che percorre tutto il Rinascimento (lo ri-
troveremo in Castiglione).
Civil conversazione e sagace arte del vivere Le facezie più tipiche sono racconti brevi o brevissimi,
privi di complicazioni d’intreccio, fondati sul gesto, sul fatto, sul motto significativo
perché appunto faceto, e su giochi di parole, paralogismi, nonsense, realizzati mediante
il ricorso massiccio agli artifici retorici. La facezia umanistica però si distingue anche e
soprattutto perché si fonda «su un’idea di equilibrio spirituale, di sagace arte del vive-
re» (Ciccuto); e per lo più assume i modi della confabulatio, cioè della «chiacchierata
amichevole disimpegnata, affidata al fluire di una conversazione del tutto estempora-
nea» (Tartaro), che ricorda naturalmente l’ideale di civile conversazione caro ai mem-
bri della corte e dei cenacoli e in genere alla cultura del secolo.
Talora la facezia si fa sapida critica di costume, rivelando la volontà di contestare
l’ideologia di un’epoca, il suo sistema di valori, i suoi tabù, come nel seguente esempio
che stigmatizza l’ipocrisia di un religioso.
Doc 18.1 Esortazione di un cardinale alle soldatesche pontificie

P. Bracciolini, Durante la guerra che nell’Agro Piceno il Cardinale Spagnuolo sostenne contro i nemici
Liber facetiarum, XIX
del papa, ci si preparava a uno scontro diretto che avrebbe deciso le sorti dei contendenti.
Il Cardinale si fece ad incitare i soldati con un discorso vario, affermando che i caduti di
quella battaglia avrebbero pranzato con Dio e con gli angeli; e, perché affrontassero la
morte con maggiore sprezzo, prometteva ai morituri la remissione di ogni peccato. Poi,
concluso il fervorino, si allontanava dal luogo dello scontro. Allora uno dei soldati lo apo-
strofò: «Perché dunque non ci fate compagnia in questo pranzo?». E quello: «Non sono
abituato a pranzare a quest’ora, e non ho ancora fame».

In altri casi però la facezia si limita a cogliere bonariamente tratti del comporta-
mento umano tipici del genere faceto e comico
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18. La narrativa del Quattrocento STORIA

Doc 18.2 Il prete che invece dei paramenti portò al vescovo dei capponi

P. Bracciolini, Un vescovo di Arezzo di nome Angelo, che io ho conosciuto, convocò un giorno al Sino-
Liber facetiarum, XXII
do i sacerdoti della sua diocesi, facendo sapere che coloro i quali avevano una qualche ca-
rica si dovevano presentare a detto Sinodo in cappa e cotta (che sono, appunto, paramenti
sacerdotali). Uno di questi preti, sprovvisto degli indumenti richiesti, se ne stava triste in ca-
sa, non sapendo dove poterseli procurare. La perpetua che viveva con lui, vedendolo pen-
soso e assai immalinconito, gli domandò la ragione di tale tristezza; e il prete rispose che,
secondo l’ordine del vescovo, doveva presentarsi al Sinodo in cappa e cotta. «Ma, mio
buon amico, voi non avete inteso il senso del precetto», replicò la serva. «Non cappa e cot-
ta richiede il vescovo, e voi dovete portare bensì capponi cotti.» Il prete apprezzò l’avvedu-
tezza della donna e, con i capponi al seguito, fu molto ben accolto dal vescovo, il quale per
celia diceva che solo quel suo prete aveva interpretato correttamente il senso dell’avviso.

Altri testi Ricordiamo inoltre le Facezie e favole di Leonardo, i Detti piacevoli in volgare del Poli-
ziano, nei quali talora si insinuano temi come la vanità delle apparenze o la morte, e a
volte un “umorismo nero” (R 19.3). Più ancorati alle tradizioni popolari e alla novellisti-
ca due-trecentesca sono gli anonimi Motti e facezie del Piovano Arlotto (composti entro il
1485-1488), che raccontano fatti, detti e avventure di un personaggio realmente vissuto,
Arlotto Mainardi, la cui simpatia va «alla gente semplice che lavora duramente» (Marchi).
Gli Apologi centum dell’Alberti e la favola classica Prodotto specifico anche se marginale della let-
teratura umanistica, nell’ambito del recupero delle forme classiche (i modelli sono
Esopo e Fedro), è anche il genere della favola o dell’apologo.
Operazione colta e letteratissima appare la raccolta degli Apologi centum (1437) di
Leon Battista Alberti: animali, piante, elementi naturali, oggetti e talora uomini sono
chiamati in un brevissimo spazio narrativo a compiere un gesto o a pronunciare una
frase, ora sentenziosa ora caustica ora in apparenza priva di senso, che in vario modo
rimandano ai rapporti dell’uomo in società e alla sua natura. L’assenza della consueta
morale conclusiva (il «fabula docet») e la brevità rendono questi apologhi talora enig-
matici, come avverte lo stesso Alberti. Tuttavia anche nella loro parziale enigmaticità, gli
Apologi albertiani conservano tutt’oggi il fascino di una scrittura frammentaria ma in-
tensa, che procede per intuizioni, folgorazioni, brevi arguzie, oscillando tra la moralità,
la satira e il nonsense. Un umorismo sottile e amaro pervade dunque questi testi, che
dietro le figure animali o gli oggetti lasciano intravedere esistenze di uomini persi die-
tro i fantasmi delle loro aspirazioni, delle loro abitudini, dei loro pregiudizi.

Doc 18.3 Alcuni apologhi di L. B. Alberti

L.B. Alberti,
Apologi centum VIII Il moscerino derideva il tarlo che si vantava di essere della famiglia delle cicogne,
poiché con il suo rostro divorava corrodendolo la scricchiolante trave; sosteneva a sua
volta di essere figlio di Fetonte [il figlio del Sole], poiché volava per il cielo.
XI L’orso, dopo aver spezzato i rami di un cespuglio, alle parole del tronco: «Que-
sto è dunque il ringraziamento che ricevo per il beneficio di averti offerto del cibo?
e come ti comporterai con me per il resto dell’anno?», rispose: «Ti lacererò e ti strap-
però dalle radici»
XIX Il libro, in cui era stata scritta tutta l’arte libraria, chiedeva aiuto per non essere
divorato dal topo. Il topo sghignazzò.
LXV La scintilla, poiché era agile e lucente, pensava di diventare una stella ma ven-
ne meno.

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Quattrocento e Cinquecento

18.2 Le novelle
Il Decameron e l’ibridismo della novella quattrocentesca Nel panorama della narrativa quattro-
centesca importante è il ruolo della novella vera e propria. La novellistica appare ab-
bastanza articolata: l’esperienza narrativa del Decameron ha lasciato il segno, ma anche
altri testi e altre tradizioni mantengono la loro vitalità e capacità di influenza: così è
per il Trecentonovelle, la tradizione dei motti, gli exempla, le fonti classiche, il racconto
popolare... Come nella lirica, anche nella novellistica si può forse parlare di ibridismo
conforme ai canoni di poetica, che non proponevano ancora l’imitazione di un unico
modello.
Dal capolavoro di Boccaccio le raccolte quattrocentesche si distanziano perché
contaminano diverse fonti e accolgono anche racconti brevissimi, ma soprattutto per-
ché modificano o eliminano la cornice. Quando la modificano, lo fanno nel tentativo
di aggiornarla alle esigenze della cultura e della società del tempo: si simulano la civi-
le conversazione, il rapporto dialogico o epistolare, messi in auge dalla letteratura
umanistica o semplicemente dalle abitudini di una società colta, borghese o cortigiana.
Notevole appare anche la varietà di temi e di registri linguistici e stilistici, con la
comparsa del gusto per il macabro e il grottesco (quasi assente nel Decameron) che avrà
poi molta fortuna nel Cinquecento.
Le novelle spicciolate Notevoli innanzitutto sono alcune novelle spicciolate (non raccolte cioè in no-
vellieri organici, ma diffuse singolarmente) in latino e in volgare. Ad esempio l’Historia
de duobus amantibus [Storia di due amanti, 1444] di Enea Silvio Piccolomini, lunga no-
vella sul tema dell’adulterio condito di beffe ai danni di un marito sciocco; e in volga-
re la Novella del grasso legnaiuolo, accentrata pure sul motivo della beffa. Per la sapienza
narrativa, il dinamismo che la percorre e la complessità della rappresentazione psicolo-
gica, questa lunga novella è uno dei capolavori della novellistica del secolo.
Le raccolte organiche Le raccolte quattrocentesche non sono molto numerose, e in esse il dato co-
mune è il tentativo di continuare – ma alla lontana – la maniera decameroniana, non
senza influssi della restante tradizione due-trecentesca. Alla prima metà del secolo ap-
partengono Il paradiso degli Alberti di Giovanni Gherardi da Prato (1367 ca - 1445), che
tenta di ricondurre la cornice decameroniana ai modi e al gusto di una civile conver-
sazione di stampo umanistico, e le Novelle d’ambiente senese di Gentile Sermini: par-
ticolarmente notevoli per la vivacità del realismo linguistico che giunge fino alla mi-
mesi del dialetto rusticano.
D’area emiliana sono invece le Porrettane di Giovanni Sabbadino degli Arienti,
composte attorno al 1478. Tutti questi testi, anche se non compaiono nel novero dei
‘classici’ e hanno una modesta fortuna editoriale, sono tuttora di piacevolissima lettu-
ra anche per un pubblico di non specialisti.
Il Novellino di Masuccio: la «civil conversazione» e il grottesco Privo di un racconto-cornice e
organizzato per nuclei tematici è il Novellino di Masuccio Salernitano (Tommaso
Guardati, 1410 ca.-1475), composto tra il 1450 e il 1470, certamente la raccolta più
importante del secolo. L’opera comprende 50 novelle ed è preceduta da un Prologo nel
quale sono succintamente esposti gli intenti del narratore: da un lato un narrare face-
to volto al diletto e dall’altro una virulenta polemica morale contro i religiosi. Il nar-
ratore ammette i propri limiti artistici (parla di «grosso e rudissimo ingegno», di «pigra
e rozza mano», ecc.), ma rivendica anche l’attendibilità e anzi la verità dei racconti e la
loro utilità a disvelamento delle «fraudi» dei religiosi. Alla cornice tradizionale il No-
vellino sostituisce per ogni novella una sorta di lettera dedicatoria e una conclusione
spesso moralizzante. Masuccio è consapevole di scrivere in un «rusticano stile», in uno
stile cioè non particolarmente raffinato e lontano sia dal modello decameroniano sia
da quello della prosa umanistica latina e volgare, ma punta a farne una caratteristica

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18. La narrativa del Quattrocento STORIA

della propria arte, intesa a valorizzare la rappresentazione di vicende utili per il conte-
nuto di verità che trasmettono. Particolarmente notevoli per la resa narrativa e la vis
anticlericale o misogina sono le novelle della prima e della seconda decade. Risenti-
mento polemico, spirito satirico, passione moralistica, gusto per il grottesco caratteriz-
zano la raccolta a giudizio del Petrocchi, mentre il Nigro ne sottolinea «il gusto allu-
cinatorio, il grottesco, il macabro, l’orrido, il fatalistico, la risata impietosa, il voyeuri-
smo, tutto ciò che va oltre la giusta misura».

18.3 Il romanzo pastorale e i generi narrativi minori


I generi ‘minori’ e la letteratura pastorale La narrativa quattro-cinquecentesca non si esaurisce nei
generi e nelle opere che abbiamo sin qui preso in considerazione. Si registra anzi, per
suggestione dei modelli classici e per la diffusione della stampa e l’ampliarsi e diffe-
renziarsi del pubblico, una proliferazione di tipi testuali diversi: memorialistica, biogra-
fia, poemetti mitologici, pastorali, rusticali e così via. Si tratta di opere talora molto
note e celebrate a quel tempo e nei secoli successivi, e tuttavia oggi oggetto quasi
esclusivo delle attenzioni degli specialisti. Qui tralasciamo di parlarne. Un cenno me-
rita invece la letteratura d’argomento pastorale, che proprio fra Quattro e Cinquecen-
to sfocia in numerosi generi affini per temi, ma diversi per forma: l’ecloga lirica, il
dramma pastorale (destinato alla recitazione nelle corti) e il romanzo pastorale, che sul
finire del Quattrocento si afferma grazie all’Arcadia di Sannazaro, uno dei capolavori
della letteratura rinascimentale.
I modelli classici All’origine di questo insieme di generi si collocano la tradizione idillica classica che
muove da Teocrito e soprattutto le ecloghe virgiliane (Bucoliche): è a partire da questo
momento che al termine «ecloga» si associa stabilmente il significato di ‘componi-
mento d’argomento pastorale’. Si tratta di componimenti in versi, in forma di mono-
logo o di dialogo, che mettono in scena gli amori, le ansie, le gare poetiche e talora gli
scherzi e le rivalità dei pastori di una mitica Arcadia, o comunque di una campagna
sottratta alle fatiche del quotidiano e fortemente stilizzata. Nel caso virgiliano, poi, si
attua un ulteriore processo di idealizzazione della vita e del mondo agresti, contrap-
posti alla vita e al mondo della città.
Il codice bucolico Più ancora che elementi formali la tradizione antica consegna al mondo umanisti-
co-rinascimentale un insieme codificato di situazioni, personaggi, sentimenti. Maria
Corti ha individuato, tra i dati meglio codificati di questa tradizione, la natura idealiz-
zata e felice del paese d’Arcadia, che «ha solo il nome in comune con l’aspra terra del
Peloponneso» ed è invece «una sorta di Eden bucolico», dove la vita dei pastori è cala-
ta in una dimensione più di sogno che di realtà, un mondo agreste e d’evasione in an-
titesi con quello urbano. I personaggi che popolano questa Arcadia talora sono identi-
ficabili con persone reali, magari con i «poeti della cerchia dell’autore», e tuttavia si
presentano come estranei a ogni logica di vita reale e quotidiana: i pastori arcadici
«usano molto del loro tempo a suonare il flauto, la siringa, a gareggiare nel canto con
modi del tutto letterari» e «sono per lo più innamorati infelici, bramosi di metterne al
corrente altri pastori; l’amore è raramente drammatico, ma li distrae dalla cura delle
pecore». Questi elementi sono per lo più ripresi nella letteratura pastorale quattro-cin-
quecentesca, «ma il centro di gravitazione è mutato, mutati sono il significato e la sim-
bologia di tali presenze, ormai strettamente legate a un mondo cortigiano e umanisti-
co»: sono pertanto spesso i personaggi e la vita stessa della corte o dei cenacoli umani-
stici ad essere adombrati nella finzione pastorale. Il codice viene insomma reinterpre-
tato in funzione dell’attualità.
L’Arcadia del Sannazaro e il romanzo pastorale Jacopo Sannazaro (1455/56-1530) con l’Arcadia
(1480-1486 circa) compendia e al tempo stesso rinnova la tradizione bucolica antica e
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Quattrocento e Cinquecento

medievale. L’Arcadia associa testi lirici in versi a capitoli in prosa, ha cioè la forma del
prosimetrum, innovativa per il genere pastorale, anche se non priva di illustri preceden-
ti: si pensi alla Vita Nuova dantesca, che non manca di esercitare il suo influsso.
La trama dell’opera è esilissima. Da principio l’io narrante (che per ora non ha no-
me) appare come un pastore fra pastori, totalmente partecipe del mondo arcadico nel
quale vive. Dominano in queste prime prose le componenti liriche e descrittive: in
una prosa si descrive ad esempio una cerimonia agreste, indugiando sulle pitture che
adornano di scene mitologiche il tempio; in un’altra nel solito scenario è descritta
Amaranta che arrossisce al canto di Galizio; e così via.
Verso la metà del libro l’io narrante acquista una dimensione meno convenzionale,
si arricchisce di una sia pur minima storia personale: si viene ad esempio a sapere che
è forestiero e assai infelice; si chiama Sannazaro ma da tutti è detto Sincero, è di fami-
glia nobile, si è perdutamente innamorato di una donna che però non lo ricambia, e
quindi, dopo aver meditato il suicidio, ha deciso «di abandonare Napoli e le paterne
case, credendo forse di lasciare amore e i pensieri insieme con quelle» (prosa VII). Ma
venendo in Arcadia l’amore non si è spento ed egli ora soffre indicibilmente.
Nel finale Sincero, con animo nuovamente aperto alla speranza, partecipa ad alcuni
eventi della vita dei pastori (una visita ad una maga, un sacrificio al tempio di Pan e al se-
polcro di Massilia, personaggio che forse evoca la madre del poeta, ecc.). Nell’Ecloga X,
infine, si celebrano Napoli, la sua corte, la sua cultura. Più tardi (verso il 1496) Sannazaro
aggiunse due nuovi capitoli nei quali Sincero – tra sogno e realtà – descrive il suo ritor-
no in patria accompagnato da una Ninfa per fiumi sotterranei, l’annuncio della morte
dell’amata (irruzione questa di un evento ben altrimenti drammatico rispetto alle ritro-
sie e ai rossori delle pastorelle della tradizione e della precedente parte) e il conforto dei
pastori che adombrano alcuni letterati dell’Accademia pontaniana (R 15.4).
Un’opera in divenire e un modello per la letteratura europea La trama rimane insomma esilissi-
ma per tutta l’opera, ma la dimensione narrativa ad un certo punto si afferma inequi-
vocabilmente, le prose acquistano maggiore consistenza e diversa funzione: il tutto si
volge, insomma, in direzione del romanzo autobiografico e dell’autobiografia idealiz-
zata, forse proprio per suggestione della Vita Nuova dantesca. D’altro canto «la storia
suonava anche come un elogio del nuovo secolo e della scelta culturale in senso uma-
nistico fatta dal centro napoletano. La stessa vita collettiva dei pastori veniva a simbo-
leggiare il piacevole ritrovo accademico, dove si ascoltano i canti e si discute di poesia»
(Tateo).

Doc 18.4 Il paesaggio d’Arcadia

Jacopo Sannazaro, Giace nella sommità di Partenio, non umile monte della pastorale Arcadia, un dilettevo-
Arcadia, Prosa I
le piano, di ampiezza non molto spazioso però che il sito del luogo nol consente, ma di
minuta e verdissima erbetta sì ripieno, che se le lascive1 pecorelle con gli avidi morsi non
vi pascesseno2, vi si potrebbe di ogni tempo ritrovare verdura. Ove, se io non mi inganno,
son forse dodici o quindici alberi, di tanto strana et eccessiva bellezza, che chiunque li ve-
1 lascive: irrequiete. desse, giudicarebbe che la maestra natura vi si fusse con sommo diletto studiata in formar-
2 pascesseno: pasco- li. Li quali alquanto distanti, et in ordine non artificioso disposti, con la loro rarità la natu-
lassero. rale bellezza del luogo oltra misura annobiliscono. [...]
3 trare... versaglio: ti-
rare con gli archi al bersa- In questo così fatto luogo sogliono sovente i pastori con li loro greggi dagli vicini mon-
glio. ti convenire, e quivi in diverse e non leggiere pruove exercitarse; sì come in lanciare il gra-
4 rusticane insidie: ve palo, in trare con gli archi al versaglio3, et in addestrarse nei lievi salti e ne le forti lotte,
inganni contadineschi (ti-
pici di chi vive in campa- piene di rusticane insidie4; e ’l più de le volte in cantare et in sonare le sampogne a pruo-
gna). va l’un de l’altro, non senza pregio e lode del vincitore.

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18. La narrativa del Quattrocento STORIA

Doc 18.5 Il lamento di Sincero

Jacopo Sannazaro,
Arcadia, Prosa VII
Io non veggio né monte né selva alcuna, che tuttavia non mi persuada di doverlavi ri-
trovare, quantunque a pensarlo mi paia impossibile. Niuna fiera né uccello né ramo vi sen-
to movere, ch’io non mi gire paventoso per mirare se fusse dessa in queste parti venuta ad
intendere la misera vita ch’io sostengo per lei. Similmente niuna altra cosa vedere vi pos-
so, che prima non mi sia cagione di rimembrarmi con più fervore e sollicitudine di lei. E
mi pare che le concave grotte, i fonti, le valli, i monti, con tutte le selve la chiamino, e gli
alti arbusti risoneno sempre il nome di lei.Tra i quali alcuna volta trovandomi io, e miran-
do i fronzuti olmi circondati da le pampinose viti, mi corre amaramente ne l’animo con
angoscia incomportabile, quanto sia lo mio stato difforme da quello degli insensati alberi,
1 per tanti... dilunga-
i quali, da le care viti amati, dimorano continuamente con quelle in graziosi abbracciari; et
to: separato dal mio amo- io per tanto spazio di cielo, per tanta longinquità di terra, per tanti seni di mare dal mio
re da gran tratto di mare. desio dilungato1, in continuo dolore e lacrime mi consumo.

L’opera ebbe un enorme successo: nel corso del Cinquecento si contano ben ses-
santasei edizioni; e la sua fortuna è attestata anche dalle numerose imitazioni, a livello
europeo. Alla radice del successo, non solo italiano, dell’Arcadia sta il fatto che in essa –
come si accennava – trovano espressione «sentimenti nuovi che, a sforzare appena le
cose, si chiamerebbero pretasseschi e addirittura preromantici, il culto della natura
non inquinata, l’amore dell’amore, la malinconia» (Contini).

18.4 Pulci e Boiardo: la nascita del poema cavalleresco


I cantari cavallereschi e la contaminazione dei cicli carolingio e bretone Nei primi decenni
del Quattrocento, quando la letteratura colta in volgare tace, nelle piazze prosegue in-
tensa l’attività dei canterini. Con il termine “cantari” si indicano i componimenti in
rima ideati o rielaborati dai giullari, o canterini, e diffusi essenzialmente tramite recite
nelle piazze e quindi per via orale, talora con accompagnamento musicale. I canterini
sono per lo più personaggi di modesta cultura; e di modesta elaborazione formale sono
pertanto quasi sempre i loro prodotti, che presentano anzi, sin dalla struttura, le tracce
della diffusione orale presso un pubblico popolare, che si doveva avvincere, sorprende-
re, divertire. Caratteristiche essenziali ne sono le preliminari invocazioni a Dio e alla
Vergine, l’intreccio complicato e le peripezie, l’avventura eccezionale e fuor di misura,
le atmosfere meravigliose e fiabesche, l’ambientazione esotica o fastosa, il gusto dell’i-
perbole, i richiami frequenti al pubblico e, sul piano del linguaggio, la sintassi elemen-
tare, l’imprecisione metrica e la trascuratezza stilistica. La caratterizzazione dei perso-
naggi non risulta mai approfondita. Gli argomenti, poi, sono svariati: a noi interessano
la ripresa delle materie carolingia e bretone e soprattutto la loro contaminazione, già
avviata nel corso del Trecento e del primo Quattrocento, quando sulle vicende im-
prontate a spirito epico-religioso dei paladini di re Carlo si innestano i temi profani
del viaggio in terre esotiche, dell’avventura per l’avventura e dell’innamoramento ti-
pici del ciclo bretone.
I cantari ciclici Fra Tre e Quattrocento prende piede la tendenza a coordinare i cantari in cicli: i di-
versi cantari venivano recitati in giornate successive e il pubblico si ripresentava davan-
ti al banco dei canterini nelle ore stabilite. In questo modo si intessevano avventure più
articolate e complesse, più ricche di peripezie, colpi di scena, mutamenti d’ambiente.
Fra i testi quattrocenteschi meritano qui una menzione le due redazioni della Spa-
gna, denominate “maggiore” e “minore” (anteriori alla metà del XV secolo), che trat-
tano della spedizione ispanica di Carlo Magno, rielaborando il materiale tradizionale,
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Quattrocento e Cinquecento

dall’assedio di Pamplona al tradimento e alla punizione dei Maganzesi, dalla morte di


Orlando a Roncisvalle al ritorno vittorioso degli eserciti cristiani in Spagna. La Spagna
in rima è «il più notevole testo carolingio italiano precedente all’età del Pulci» (Del-
corno Branca). Ma ricordiamo anche il Rinaldo di Montalbano (o i Cantari di Rinaldo),
che segna la caduta di Carlo dal ruolo di protagonista: in primo piano subentra il per-
sonaggio che dà nome al cantare, e che ebbe enorme fortuna nel Quattrocento.Va se-
gnalato infine un Cantare d’Orlando, che narra le avventure in Oriente di Orlando e
Morgante (un gigante saraceno convertito) assieme a diversi altri paladini, fra cui spic-
ca il solito Rinaldo. Questo testo è noto, più che per le sue qualità intrinseche, per es-
ser servito a Pulci come traccia per i primi 23 canti del Morgante.
Dal cantare al poema cavalleresco con intenti d’arte Il poema cavalleresco che si suol definire
«colto» o «con intenti d’arte» (Pulci, Boiardo, Ariosto…), e che è il genere narrativo
più illustre del secolo, istituisce un rapporto abbastanza stretto con la produzione can-
terina. Fra gli elementi che caratterizzano il poema cavalleresco rispetto ai cantari si
segnala innanzitutto il mutamento di produttori, di destinatari e di forme di circola-
zione: gli autori sono più colti e appartengono o frequentano un ambiente social-
mente elevato, borghese e più spesso cortigiano, che è poi quello dei destinatari prin-
cipali dei poemi; l’opera infine è composta subito per iscritto ed è destinata alla stam-
pa e al massimo alla lettura pubblica in cerchie ristrette.
Sul piano del linguaggio i poemi si caratterizzano innanzitutto per il maggior con-
trollo formale e la maggiore cura compositiva. Hanno poi alcune caratteristiche strut-
turali e tematiche che risentono del diverso pubblico e delle mutate condizioni di dif-
fusione: i singoli canti (non più «cantari») sono più lunghi e non necessariamente trat-
tano un argomento in sé compiuto; mutano i riferimenti al pubblico (Boiardo si ri-
volge ai «Signori e cavallier che ve adunati / per odir cose dilettose e nove…»); la me-
trica è assai più accurata, si moltiplicano i riferimenti letterari e così via. Molti dei te-
mi di base permangono invece in gran parte intatti.
Talora nei nuovi poemi c’è consapevolezza piena della propria superiorità e anche
volontà di distanziarsi dai modi e dai toni dei cantari. Tuttavia il rapporto con essi co-
munque sussiste e spesso non si limita alla semplice ripresa della materia, ma implica
più profonde suggestioni. Pulci prende il Cantare di Orlando come traccia principale
per il proprio poema. Ma anche Boiardo lavorerà tenendo sul tavolo, oltre a svariate
fonti francesi, alcuni cantari. Pulci, poi, evocherà esplicitamente quel mondo popolare
in cui affonda le radici la tradizione canterina.
I poemi di Pulci e Boiardo, due modelli antitetici Il Morgante di Pulci e l’Orlando innamorato di
Boiardo, i due maggiori poemi cavallereschi del Quattrocento, sono gli esiti diversi di
un medesimo processo. In estrema sintesi, l’Orlando innamorato è l’esito cortese, serio e
ordinato del processo di assunzione dell’epica medievale e della tradizione canterina
nella cultura umanistico-rinascimentale e nella letteratura ufficiale, mentre il Morgante
ne rappresenta l’esito comico, caotico e a tratti parodico.
Pulci si forma sulla tradizione volgare e popolare Luigi Pulci (1432-1484) vive e si forma nella
Firenze del Burchiello e dei Medici, in un ambiente che risente della tradizione lette-
raria e culturale comunale e repubblicana, ma che al tempo stesso vede la progressiva
affermazione della signoria medicea. Non ha cultura umanistica, si forma letteraria-
mente sui testi della tradizione volgare e in particolare su quella giocosa e burchielle-
sca; e quando, dopo aver svolto il suo ruolo alla corte di Cosimo, è tra gli amici di Lo-
renzo, nella brigata medicea rappresenterà proprio la tradizione volgare libera e scan-
zonata in contrapposizione all’umanesimo platonizzante serio e dotto che nel Ficino
ha il suo massimo rappresentante (anche perciò Pulci cadrà in disgrazia).
Avuto da Lucrezia Tornabuoni, moglie di Cosimo, lo stimolo e quasi l’investitura a
cantare in ottava rima le imprese di Carlo Magno, nell’ottica di un riavvicinamento di
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18. La narrativa del Quattrocento STORIA

Firenze alla Francia, si mette al lavoro prendendo come base il Cantare d’Orlando. Lo
segue passo passo, quanto alla trama e alla dinamica degli eventi, ma lo riscrive con li-
bertà fantastica e soprattutto con diversa sapienza stilistica.

▍ L’autore Luigi Pulci

Di famiglia nobile ma decaduta, Luigi Pulci nacque nel 1432 a Firenze. Dopo un periodo eco-
nomicamente difficile, verso il 1460, venne introdotto in casa de’ Medici, dove strinse legami di
amicizia con il giovane Lorenzo ma instaurò anche un rapporto di stretta collaborazione con la
famiglia. Nella primavera del 1461 pare che incominciasse, su sollecitazione di Lucrezia Torna-
buoni, madre di Lorenzo, la stesura del Morgante. Sul finire del 1465 assieme al fratello Bernardo
fu bandito dal comune per debiti, ma nel marzo del 1466, per intercessione di Lorenzo, gli fu
concesso di far ritorno in patria. Quando nel 1469 Lorenzo assunse il potere, Pulci ebbe alcuni
incarichi dai Medici. In questi anni strinse legami di amicizia col Poliziano e invece ebbe con-
trasti con Matteo Franco, un prete pure protetto dai Medici e frequentatore della casa (si scam-
biarono, fra l’altro, violenti sonetti satirici), e con Marsilio Ficino, astro nascente della cultura fio-
rentina dell’ultimo quarto di secolo. Non si sa se a causa di questi contrasti o per un atteggia-
mento poco ortodosso in materia di religione (venne forse iniziato a pratiche di magia, cui ac-
cenna in varie lettere), Pulci progressivamente deteriorò i propri rapporti con l’ambiente medi-
ceo. Fatto sta che decise di porsi alle dipendenze di Roberto Sanseverino, un condottiero al ser-
vizio di Firenze, con il quale compì numerosi viaggi fuori Firenze, tra cui quello durante il qua-
le, nel 1484, lo colse la morte a Padova. Fu sepolto in terra sconsacrata, come eretico.
Fra le opere minori di Pulci, oltre all’Epistolario, ricordiamo la Beca da Dicomano, favola ville-
reccia composta ad imitazione della Nencia da Barberino del Magnifico, la Giostra di Lorenzo (160
stanze per celebrare la vittoria del suo protettore in una giostra del 1469), sonetti e strambotti di
gusto popolare e sonetti dialettali.

L’esaltazione degli aspetti materiali, dinamici, comici e grotteschi dell’esistenza Quello che
soprattutto attrae Pulci è la realtà concreta. Così egli riesce a dare il meglio di sé nella
rappresentazione degli aspetti materiali, dinamici, spettacolari dell’esistenza e in perso-
naggi comici e iperbolici come Morgante e Margutte (quest’ultimo di sua invenzio-
ne). Morgante incarna il tema «della vitalità esuberante e puramente fisica, della vio-
lenza primitiva e irrazionale» e quello della fame e della voracità. Margutte, furfante
astuto, vanitoso e ciarlatano, pronto alle più clamorose ribalderie senza rimorsi e sensi
di colpa, rappresenta poi il rovesciamento parodico degli ideali cavallereschi. In effetti
il Morgante più che del «clangore degli acciai» o del «tinnire delle lance sugli scudi»
riecheggia di improperi, schiaffoni, legnate, motti, salti, tonfi e ruzzoloni. «La prodez-
za muscolare è celebrata con allegria». Sono la tradizione comica toscana, con la sua
predilezione per il materiale e il quotidiano, gli echi delle tradizioni folkloriche con i
rovesciamenti, le dissacrazioni, gli eccessi liberatori del carnevalesco; sono la tradizione
canterina in particolare e lo stesso ambiente fiorentino borghese e mercantesco che
indirizzano Pulci assai lontano dal «vagheggiamento pensoso di un ideale nobile e
lontano», dalla «nostalgica e sognante ammirazione del Boiardo per un mondo ormai
tramontato» (Ageno).
L’autore non appare interessato alla psicologia dei personaggi, bensì alla multiforme
varietà di un mondo tutto materiale. «Lo spettacolo del mondo – scrive Ferroni –
consiste tutto nel ripetersi di movimenti meccanici, come in un caos vorticoso. La
violenza degli eroi che disintegra i corpi degli uccisi rende il mondo simile a una
enorme macelleria, dove la materia organica viene schiacciata, tagliata, manipolata.
Con perverso divertimento Pulci insiste a descrivere scene di battaglia con immagini
legate al cibo: tutto diventa commestibile, pasta e trippa, vino e sangue, farina e cer-
vella. Nello spazio dell’avventura pullula una materia informe, emergono segni di un
mondo selvaggio, non definibile in termini umani, e segrete presenze magiche e de-
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Quattrocento e Cinquecento

moniache». Esemplare la scena della battaglia di Roncisvalle, in cui la carneficina si


trasforma in un grottesco banchetto demoniaco [R T 18.3 ].
Parodia e dissacrazione del progetto culturale mediceo Nell’affrontare la materia cavalleresca
Pulci passa spesso bruscamente dai toni epico-popolareschi propri dei cantari, ancora
rispettosi della materia carolingia, a quelli grotteschi e dissacratori propri della tradi-
zione carnevalesca: agli uni si attiene quando più passivamente si mostra fedele alle
fonti, gli altri intervengono nelle sue elaborazioni più originali. Con ciò egli rivela al
fondo un intento parodistico nei riguardi di quella tradizione da cui pure prendeva le
mosse. Questa vena dissacratoria è letta oggi anche come una delle cause del progres-
sivo distacco di Pulci dall’ambiente mediceo, che per un verso si orientava verso la
cultura umanistica, alta e dotta, incarnata a corte soprattutto da Poliziano e da Ficino,
e per altro verso si mostrava interessato al recupero delle tradizioni popolari, ma in
forme bonarie e paternalistiche (si pensi alla Nencia di Lorenzo). Ora, Pulci era in po-
lemica dichiarata col Ficino, e d’altro canto l’operazione letteraria da lui messa in atto,
dapprima incoraggiata proprio nel contesto del recupero delle tradizioni popolari, si
dimostrò col tempo incompatibile con le linee portanti del progetto laurenziano, in
quanto troppo acre e irriverente (secondo Rinaldi, ad esempio, l’opera di Pulci costi-
tuisce un’implicita contestazione della politica culturale medicea).
Una poetica antirinascimentale: la struttura dell’opera e il linguaggio Il ricorso al carnevalesco, al
grottesco, a un crudo sperimentalismo linguistico e in particolare alle violente commi-
stioni di aulico e di prosaico, il gusto per le enumerazioni caotiche, il trattamento irrive-
rente di alcuni dei temi più cari alla tradizione cavalleresca, la stessa parodia dell’epica po-
polaresca ma anche la struttura dell’opera, che sembra svilupparsi casualmente e caotica-
mente per impulsi improvvisi e talora incoerenti e irrazionali, rivelano nel Pulci un in-
tento di dissacrazione degli ideali di ordine, compostezza, razionalità e armonia della cul-
tura egemone; denunciano insomma una poetica e una visione del mondo profonda-
mente lontane dagli ideali rinascimentali, se non addirittura antirinascimentale.

▍ Il Morgante

Incominciata nel 1461, la composizione dell’opera procedette dapprima assai celermente


(nel 1462 lavora al cantare XIV), poi più lentamente, finché nel 1472 Pulci ne interruppe la
stesura al cantare XXIII. Nel 1478 venne data alle stampe questa parte dell’opera, che però
non aveva vera e propria conclusione. Negli anni Ottanta Pulci riprende a lavorare al poema
e compone cinque cantari aggiuntivi, di argomento e spirito parzialmente diversi, concen-
trandosi sull’episodio della rotta di Roncisvalle, e introducendo nuovi personaggi, il più ce-
lebre dei quali è Astarotte, diavolo portavoce di ideali di tolleranza religiosa. I primi ventitré
cantari si ispirano, talora assai fedelmente, ai poemi canterini l’Orlando e la Spagna in rima, di
cui sono al tempo stesso una sorta di parodia; la giunta viceversa trae materia specialmente
dalla Rotta di Roncisvalle. Il titolo di Morgante maggiore compare a partire dall’edizione in 28
cantari del 1483.
Intricatissima e ricca di episodi indipendenti è la trama dell’opera. Il filo conduttore è da-
to però dall’abbandono da parte di Orlando del campo cristiano, in seguito alle calunnie di
Gano di Maganza, il traditore per eccellenza della tradizione cavalleresca, e alla credulità di
Carlo Magno. Allontanandosi dalla Francia, Orlando incontra Morgante, il gigante che si
converte al cristianesimo e segue il paladino nelle sue imprese in Oriente, cui si associano
svariati altri paladini. Nell’episodio più celebre dell’opera Morgante incontra il mezzo gi-
gante Margutte, con cui vive iperboliche avventure: moriranno entrambi in modo consono
alla loro natura bizzarra, il primo per il morso d’un granchiolino, il secondo scoppiando per
le risa. Orlando in seguito farà ritorno in Francia per difendere le truppe cristiane dall’attac-
co mosso dal re Marsilio con la complicità di Gano. Negli ultimi cinque cantari sono narra-
te, con la rotta di Roncisvalle, la morte di Orlando e, a conclusione, la punizione di Gano e
la morte di re Carlo.

594 © Casa Editrice Principato


18. La narrativa del Quattrocento STORIA

Formazione umanistica di Boiardo Matteo Maria Boiardo (1440 ca-1494) si radica in tutt’altro am-
biente e in tutt’altra tradizione. Ferrara, al crocevia tra Toscana, Veneto e Lombardia,
era sede di un vitale umanesimo cortigiano e di una tradizione di cultura cortese che
attingeva in particolare alla letteratura cavalleresca francese e franco-italiana. Non bi-
sogna dimenticare «quanto grande fosse stato, in queste regioni, il prestigio della lette-
ratura di Francia, e quale fosse la portata culturale di certi luoghi felici del sentimento
e dell’immaginazione, né quali occasioni di scoperta [...] quella tradizione avesse con-
tinuato ad offrire in tempi così fervidi di fatti» (De Robertis). L’ambiente di corte col-
tivava dunque le letture cavalleresche ed esprimeva valori e ideali che il mondo della
cavalleria, quale si era fissato in una parte della tradizione letteraria, poteva prestarsi a
sintetizzare. In tale contesto nasce l’Orlando innamorato.
L’Orlando innamorato e gli ideali dell’umanesimo cortese Non c’è da stupirsi che Boiardo, feuda-
tario di Scandiano, nobile e cortigiano degli Estensi, con il suo Orlando innamorato
muova in direzione del «vagheggiamento pensoso di un ideale nobile e lontano» di
cui si è discorso, giacché la dimensione fantastica, la rievocazione del mito sono un
mezzo letterario per esprimere valori e ideali propri dell’ambiente in cui il poema na-
sce e a cui si destina: raffinatezza, cortesia, amore, lealtà e persino la cultura umanistica.
Si veda come Orlando si contrappone sul piano dialettico ad Agricane, sostenendo
che il sapere adorna l’uomo «come un prato il fiore»: l’uno incarna il modello del ca-
valiere moderno guerriero sì, ma raffinato e colto, l’altro incarna il tipo del cavaliere
medievale, dedito esclusivamente alla caccia e alle armi [R T 18.5 ].
In questo senso sono fondamentali lo spazio concesso al tema d’amore, in una ma-
teria tradizionalmente egemonizzata dalle armi, e la qualità di questo amore, che è vis-
suto seriamente come esperienza nobilitante e totalizzante e che, pur nell’intrico del-
le avventure e dei colpi di scena, è una sintesi di ideali che molto deve all’esperienza
lirica e al petrarchismo in particolare. «Il motivo delle armi s’integrava in quello del-
l’amore: armi ed amore, esercizio di nuovi cori gentili», nota De Robertis, ricordando
questa assai esplicita ottava: «Il vago amor che a sue dame soprane / portarno al tem-
po antico e cavallieri, / e le battaglie e le venture istrane, / e l’armeggiar per giostre e
per tornieri, / fa che il suo nome al mondo anco rimane, / e ciascadun lo ascolti vo-
lentieri; / e chi più l’uno, e chi più l’altro onora, / come vivi tra noi fossero ancora»
(II, XXVI, 1).
Il merito di Boiardo non sta dunque propriamente nella fusione delle materie o dei
cicli bretone e carolingio, già avviata in precedenza, ma nell’innovazione operata sul
piano ideale e culturale, nella rivitalizzazione di una tradizione letteraria alla luce dei
valori dell’umanesimo cortese, nel diverso peso e nella diversa funzione assegnati ai te-
mi dell’amore e delle armi, il cui intreccio sarà poi un topos del poema cavalleresco.
Angelica e l’amore motori dell’intreccio Il personaggio di Angelica è tra quelli più felici dell’Or-
lando innamorato, certo il più nuovo [R T 18.4 ]. È per amore di lei che Orlando abban-
dona improvvisamente la corte di Carlo e il campo cristiano per avventurarsi nel lon-
tano e favoloso Oriente e affrontare una serie interminabile di audaci imprese, che gli
Orlandi precedenti affrontavano per puro spirito d’avventura, scatenato magari dal ri-
sentimento contro Maganzesi e sovrano. È per amore di lei che si muovono e agitano
Ranaldo, Sacripante, Agramante e molti degli altri protagonisti del libro. Per lei, maga-
ri per conquistare una fama e un’eccellenza che colpiscano il suo cuore, si muovono
guerre, si affrontano viaggi e imprese impossibili, contro i più fantastici e meravigliosi
esseri, contro incantesimi e sortilegi. Angelica è davvero il motore primo dell’intero
intreccio.
L’intreccio narrativo cui Angelica dà l’avvio è d’altro canto un intreccio più com-
plesso e raffinato rispetto a quello dei cantari e dello stesso Morgante, che procedevano
linearmente per episodi in sé conclusi: nell’Innamorato i fili narrativi sono numerosi, le
595 © Casa Editrice Principato
Quattrocento e Cinquecento

vicende si distendono per più canti, si intrecciano e concatenano in vario modo, talo-
ra vengono lasciate in sospeso e poi riprese a distanza di qualche canto. Il narratore
trova spazio, poi, per interventi a commento, specialmente ad apertura dei singoli can-
ti e nelle apostrofi ai suoi uditori immaginari; c’è spazio anche per descrizioni di am-
bienti, luoghi, oggetti e personaggi. Comunque, è nel dinamismo degli eventi, nell’an-
nodarsi, sciogliersi, accavallarsi e capovolgersi di fatti e destini, in una parola nella flui-
dità della narrazione, che l’Orlando innamorato ha una delle caratteristiche salienti e
uno dei suoi punti di forza.

▍ L’Orlando innamorato

L’Orlando innamorato fu probabilmente incominciato verso il 1476. La stesura dell’opera proce-


dette celermente, tanto che i primi due libri (di 29 e 31 canti) vennero terminati nel 1482 e
pubblicati a Reggio Emilia nel 1483. Negli anni successivi il poeta rimise mano all’opera, ma il
terzo libro procedette con lentezza e non giunse mai a compimento: si arresta bruscamente su
una celebre ottava [R Doc 15.1 ] in cui si lamenta la situazione dell’Italia messa a ferro e fuoco dalla
calata di Carlo VIII. La prima edizione integrale è del 1506.
La trama è intricatissima. Angelica giunge a Parigi col fratello Argalia mentre si sta svol-
gendo un grande torneo e propone una sfida a tutti i cavalieri convenuti: chiunque abbatterà
Argalia avrà lei stessa in premio, mentre i cavalieri sconfitti saranno suoi prigionieri. Argalia,
fidando nella bellezza di Angelica e in una lancia fatata, medita di togliere di mezzo tutti i
più validi cavalieri cristiani e saraceni, favorendo così l’invasione dell’Occidente da parte del
padre Galafrone. Ma il piano non riesce: Argalia viene ucciso da Ferraguto, che riesce a sor-
prendere l’avversario mentre questi non è in possesso della lancia fatata. Angelica allora fug-
ge dal campo cristiano, inseguita da numerosi cavalieri cristiani, affascinati dalla sua bellezza,
che così lasciano sguarnito il campo proprio mentre l’emiro Gradasso lo minaccia. Astolfo
però, grazie alla lancia fatata di Argalia, sbaraglia Gradasso.
Con la fuga di Angelica incomincia una serie di peripezie e di avventure in Occidente e
in Oriente, presso Albraca, patria della donna, che vede Orlando e Ranaldo come principa-
li (ma non unici) protagonisti. Partito per amore all’inseguimento di Angelica, Ranaldo be-
ve alla fonte Ardenna, che per un incantamento di Merlino ha il potere di disamorare chi vi
si abbevera, e comincia a detestare Angelica; mentre Angelica beve a una fonte che produce
l’effetto inverso e si innamora di Ranaldo. Così, inseguita da Orlando, Angelica insegue Ra-
naldo che la fugge: l’asimmetria dell’amore è necessaria perché l’azione si rinnovi continua-
mente. Questi e altri personaggi dopo svariate avventure si ritrovano presso Albraca, dove è
in corso una guerra tra Sacripante e Agricane per il possesso di Angelica. In questa fase i
duelli si moltiplicano, così come i personaggi e le avventure secondarie. Abbondano anche
lotte con personaggi fantastici come draghi, grifoni, giganti, centauri, tori, sirene ecc. e si in-
contrano giardini e palazzi incantati, maghi e fate.
Frattanto Agramante, re pagano, progetta di invadere la Francia. Con lui è Rodamonte, ma
un indovino sostiene che, per sconfiggere i cristiani, è necessaria la presenza di Rugiero, che
però è tenuto nascosto dal mago Atlante. Rodamonte prima e Agramante poi, che nel frat-
tempo ha sottratto Rugiero alla custodia del mago, sbarcano in Francia, mettendo a dura
prova gli eserciti cristiani. Carlo Magno però è soccorso da Ranaldo, da Orlando e da altri
paladini, che con Angelica avevano fatto ritorno in Occidente. Il rapporto fra Angelica e
Ranaldo è nel frattempo mutato di nuovo, perché Ranaldo, bevendo alla fonte dell’amore,
ha ripreso a bramare Angelica, che peraltro si è disamorata di lui avendo bevuto alla fonte
opposta. Ranaldo e Orlando, come già prima, entrano in conflitto fra loro per amore di An-
gelica, mentre re Carlo, che la tiene prigioniera, dichiara che la darà a chi si distinguerà nel-
la lotta contro Agricane. Nel corso di queste e altre vicende alla fine dell’opera si accenna
anche al nascente amore tra Rugiero e Bradamante, destinati a divenire i capostipiti della di-
nastia estense.

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18. La narrativa del Quattrocento T 18.1

T 18.1 Luigi Pulci, Morgante maggiore 1461-1482; ed. 1483


La professione di fede di Margutte [XVIII, 112-120]
L. Pulci Morgante è un gigante che Orlando nei primi canti dell’opera converte al cristianesimo
Morgante e si prende come compagno d’avventure in Pagania, dove si è recato, sdegnato per le
a c. di F. Ageno, Ricciardi, calunnie di Gano di Maganza e la credulità di Carlo Magno. Le loro strade, dopo innu-
Milano-Napoli 1955
merevoli imprese, ad un certo punto si separano; Morgante compie un incontro decisi-
vo: casualmente ad un crocicchio gli si fa incontro Margutte, un irresistibile lestofante,
gigante a metà, che con lui vivrà le avventure più divertenti e più note del libro. Mar-
gutte è personaggio interamente d’invenzione di Pulci: qui, con lui, la fantasia, le predi-
lezioni, gli umori dell’autore si manifestano appieno e con felicissima misura.
In questo passo è narrato l’incontro dei due personaggi, cui segue la lunga professio-
ne di fede di Margutte.

Nota metrica 112. Giunto Morgante un dì in su ’n un crocicchio,


Ottave di endecasillabi se- uscito d’una valle in un gran bosco,
condo lo schema
ABABABCC. vide venir di lungi, per ispicchio,
112 un uom che in volto parea tutto fosco.
1 in su ’n un: ad un. Cu- Détte del capo del battaglio un picchio
mulo irrazionale di preposi-
zioni frequente nel Pulci in terra, e disse: «Costui non conosco»;
(cfr. anche v. 7). e posesi a sedere in su ’n un sasso,
3 per ispicchio: di sbie-
co.
tanto che questo capitòe al passo.
5 Détte... picchio: diede
col capo del battaglio un 113. Morgante guata le sue membra tutte
colpo. Il battaglio (di una
campana) è l’arma impro- più e più volte dal capo alle piante,
pria di cui si è munito Mor- che gli pareano strane, orride e brutte:
gante al momento di seguire
Orlando. – Dimmi il tuo nome, – dicea – vïandante. –
8 tanto... passo: finché Colui rispose: – Il mio nome è Margutte;
questi (lo sconosciuto)
giunse al crocicchio. ed ebbi voglia anco io d’esser gigante,
113 poi mi penti’ quando al mezzo fu’ giunto:
1 guata: osserva attenta- vedi che sette braccia sono appunto. –
mente.
2 dal capo alle piante:
dalla testa ai piedi. 114. Disse Morgante: – Tu sia il ben venuto:
5 Margutte: «è il nome
dato comunemente nel ecco ch’io arò pure un fiaschetto allato,
Medio Evo ai saracini o che da due giorni in qua non ho beuto;
quintane, cioè ai fantocci di e se con meco sarai accompagnato,
legno, rappresentanti guer-
rieri in grandezza naturale, io ti farò a camin quel che è dovuto.
contro cui spezzavan la lan- Dimmi più oltre: io non t’ho domandato
cia i cavalieri nelle giostre»
(Ageno). «Meno sicuro che se se’ cristiano o se se’ saracino,
muova da marabutto“santo- o se tu credi in Cristo o in Apollino. –
ne musulmano” [...] tra-
sportato a designare un pu-
po siciliano» (Contini). 115. Rispose allor Margutte: – A dirtel tosto,
7 al mezzo: a metà della
crescita. io non credo più al nero ch’a l’azzurro,
8 sette braccia: all’incir- ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto;
ca quattro metri. e credo alcuna volta anco nel burro,
114
2-3 ecco... beuto: così
avrò al mio fianco un fia-
schetto, che son due giorni la metafora»,insinuando che altro, più consueto accumu- 8 Apollino: si tratta di denza popolare alla Trinità
che non bevo. «Margutte a Morgante potrà bersi il lo di preposizioni (meco già una presunta divinità dei cristiana.
lato a Morgante parrà una contenuto di quel che ha significa ‘con me’). musulmani (il nome deriva 115
fiaschetto appeso al fianco definito fiaschetto. 5 io... dovuto: ti tratterò dal dio greco Apollo), costi- 2 io... azzuro: io non
di un uomo normale» (Age- 4 con... accompagna- per strada (a camin) come si tuente con Macometto credo in nulla.
no); il verso seguente poi to: ti accompagnerai a me, conviene. (Maometto) e Trivigante 3 o vuogli: o vuoi, o an-
«continua scherzosamente verrai con me; con meco è un 6 più oltre: ancora. una triade opposta nella cre- che.

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Quattrocento e Cinquecento

5 cervogia: bevanda nella cervogia, e quando io n’ho, nel mosto,


prodotta dalla fermenta-
zione dell’orzo o dell’ave- e molto più nell’aspro che il mangurro;
na, birra o sidro. – mosto: ma sopra tutto nel buon vino ho fede,
succo d’uva. e credo che sia salvo chi gli crede;
6 e molto... mangurro:
«giuoco di parole fra aspro,
vino, e aspro, moneta turca 116. e credo nella torta e nel tortello:
d’argento [...]: Margutte
crede nel mosto aspro più l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuolo;
che il mangurro (che è una e ’l vero paternostro è il fegatello,
moneta turca di rame di
poco valore [...]) non creda e posson esser tre, due ed un solo,
nell’aspro, moneta d’argen- e diriva dal fegato almen quello.
to (in quanto ne è una par-
te)» (Ageno). E perch’io vorrei ber con un ghiacciuolo,
116 se Macometto il mosto vieta e biasima,
1 e credo: «Comincia credo che sia il sogno o la fantasima;
l’empia parodia del Credo,
e in particolare dell’Incar-
nazione e dell’Unità e Tri- 117. ed Apollin debbe essere il farnetico,
nità» (Contini). Forse un
sottinteso empio anche e Trivigante forse la tregenda.
nella scelta di torta, tortello e La fede è fatta come fa il solletico:
fegatello come trinità ali- per discrezion mi credo che tu intenda.
mentare, in quanto di im-
probabile parentela (i primi Or tu potresti dir ch’io fussi eretico;
due sono legati, nel gioco acciò che invan parola non ci spenda,
di parole, dalla radice tort-,
gli ultimi due dal diminuti- vedrai che la mia schiatta non traligna
vo -ello, ma sono cibi diver- e ch’io non son terren da porvi vigna.
sissimi).
5 e diriva... quello: e al-
meno il fegatello deriva dal 118. Questa fede è come l’uom se l’arreca.
fegato. Quasi un nonsense,
che però contribuisce a Vuoi tu veder che fede sia la mia?
sottolineare l’eterogeneità Che nato son d’una monaca greca
dei cibi. e d’un papasso in Bursia, là in Turchia.
6 ghiacciuolo: si tratta
di un recipiente utilizzato E nel principio sonar la ribeca
per raccogliere il ghiaccio, mi dilettai, perch’avea fantasia
chiamato in causa qui per le
sue notevoli dimensioni. cantar di Troia e d’Ettore e d’Acchille,
8 Macometto: poi asso- non una volta già, ma mille e mille.
ciato ad Apollino e a Trivi-
gante a rappresentare la re-
ligione musulmana che 119. Poi che m’increbbe il sonar la chitarra,
proibiva l’uso di bevande
alcoliche. Margutte affer- io cominciai a portar l’arco e ’l turcasso.
ma di non credere in loro, Un dì ch’io fe’ nella moschea poi sciarra,
di non credere neppure alla e ch’io v’uccisi il mio vecchio papasso,
loro esistenza in quanto, so-
stenendo tale proibizione, mi posi allato questa scimitarra
non possono essere che e cominciai pel mondo andare a spasso;
mostri dell’immaginazione
(sogno, fantasima, farnetico, o e per compagni ne menai con meco
tregenda che, propriamente, tutti i peccati o di turco o di greco;
è una riunione di demoni).
117
3 La fede... solletico: 120. anzi quanti ne son giù nello inferno:
cioè come c’è chi soffre e io n’ho settanta e sette de’ mortali,
chi non soffre il solletico,
così c’è chi ha e chi non ha
fede: e non c’è nulla da farci,
vuol dire argutamente tilmente per cercare di terreno fertile (per far frut- 5 ribeca: antico stru- 5 scimitarra: è la scia-
Margutte. convincermi. tificare il seme della fede). mento a corde. bola dei Turchi, a lama ri-
4 discrezion: discerni- 7-8 vedrai... vigna: vedrai 118 6-7 perch’avea... cantar: curva.
mento. L’intera espressione, che la gente come me (la 1 come... l’arreca: perché avevo desiderio di 120
ammiccante, vale all’incir- mia schiatta) non degenera «congenita» (Contini). cantare. 1 quanti ne son: quanti
ca: a buon intenditor poche (detto ironicamente: cioè 4 papasso: sacerdote 119 peccati ce ne sono.
parole. non devia dal proprio cam- musulmano. 2 turcasso: faretra. 2 de’ mortali: di peccati
6 acciò... spenda: affin- mino, non muta parere) e 4 Bursia: città sacra del- 3 fe’... sciarra: feci una mortali.
ché tu non ti affatichi inu- che io non costituisco un l’Anatolia. rissa (sciarra) nella moschea.

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18. La narrativa del Quattrocento T 18.1

che non mi lascian mai la state o ’l verno;


pensa quanti io n’ho poi de’ venïali!
Non credo, se durassi il mondo etterno,
si potessi commetter tanti mali
quanti ho commessi io solo alla mia vita;
ed ho per alfabeto ogni partita.

5 etterno: in eterno. nel corso della mia vita. cato) con grande precisio- una lunga elencazione di
6 si potessi: si potrebbe- 8 ed ho... partita: e co- ne, tanto da poterla ordina- peccati che noi tralasciamo.
ro. nosco ogni parte di questa re dall’a alla zeta, secondo
7 solo alla mia vita: solo materia (la materia del pec- alfabeto. La frase prelude a

Guida all’analisi
Una parodia del Credo cristiano e una fede tutta alimentare L’episodio costituisce una gustosa parodia della pro-
fessione di fede o delle attestazioni di virtù seriamente formulate. Uno dei modelli è il Credo
cristiano, che viene preso di mira nell’ottava 116, dove il mistero dell’unità e trinità di Dio è
ridotto, in termini alimentari, ai delicati rapporti tra torta, tortello e fegatello, in un gioco di
allusioni che sfiora il nonsense (così nel verso «e diriva dal fegato almen quello» che è parodia –
rileva la Ageno – del «conceptus est de Spiritu Sancto» del Credo, appunto). Lo spregiudicato
Margutte pone la religione musulmana sullo stesso piano di quella cristiana: se questa era col-
pevole d’astinenze e digiuni, quella lo è soprattutto di proibire l’uso del vino, che è il princi-
pale oggetto di fede dell’empio Margutte («ma sopra tutto nel buon vino ho fede», 115, 7).
Tutta materiale e alimentare è dunque la fede di questo personaggio irriverente e gioiosa-
mente trasgressivo, nato da un’unione sacrilega fra una monaca e un papasso, assolutamente ir-
regolare e irriducibile a qualsiasi norma (come attesta anche la sua natura di mezzo gigante, né
uomo né gigante insomma), che ha un pantheon costituito da cappone, lesso, arrosto, burro,
cervogia, mosto, vino, torta, tortello e fegatello: un pantheon del resto costituito alla perfezione
per attrarre la simpatia di Morgante, che infatti non esiterà ad associarsi a lui.
Altri modelli letterari Un modello che può aver agito sulla fantasia di Pulci è il ritratto di ser Ciappelletto
tracciato dal Boccaccio nel Decameron, tutto giocato sulla negazione delle virtù celebrate
nei panegirici dei santi e degli uomini probi, sul capovolgimento dei valori e delle con-
suetudini. Nel corso dell’elencazione dei suoi peccati, ad esempio, avvicinandosi partico-
larmente al personaggio boccacciano, egli afferma: «I sacramenti falsi e gli spergiuri / mi
sdrucciolan giù proprio per la bocca / come i fichi sampier, que’ ben maturi, / o le lasa-
gne...» (138, 1-3), o ancora: «Bestemmiator, non vi fo ignun divario / di bestemmiar più
uomini che santi, / e tutti appunto gli ho sul calendario. / Delle bugie nessuno se ne van-
ti, / ché ciò ch’io dico fia sempre il contrario» (139, 2-6). Del resto l’intera litania dei suoi
peccati, dal gioco d’azzardo alla truffa, dalla sodomia al sacrilegio, ricalca in più punti il
modello. Viceversa il tratto che soprattutto distingue Margutte da Ciappelletto è l’esaspe-
rata voracità, che rimanda alle tradizioni popolari che costituivano il proprio immaginario
come una sorta di compensazione fantastica della fame endemica che attanagliava soprat-
tutto le popolazioni contadine medievali: in questo senso davvero esemplare è la parodia
del Credo. Più in generale si può dire che Pulci, reinterpretando in chiave comica e ‘car-
nevalesca’ la narrativa carolingia e brettone, si pone nel solco dell’intera tradizione comica
medievale (dai goliardi medievali ai poeti comico-realistici toscani, sino al Burchiello), che
aveva abituato al capovolgimento parodistico e provocatorio dei valori celebrati nei corri-
spettivi generi seri (la lirica in particolare).

Laboratorio 1 È possibile applicare la categoria del “car- piezza dei periodi; la frequenza di struttu-
COMPRENSIONE nevalesco” a qualche aspetto di questo te- re ipotattiche e paratattiche (subordinate
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE sto? e coordinate); il rapporto tra struttura
2 Analizza la struttura sintattica e il ritmo metrica e struttura sintattica (frequenza
di alcune ottave di questo episodio (tipi- degli enjambements), ecc.
che della metrica del Pulci): nota l’am-
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Quattrocento e Cinquecento

T 18.2 Luigi Pulci, Morgante maggiore 1461-1482; ed. 1483


Morgante e Margutte all’osteria [XVIII, 150-179]
L. Pulci Alla fine del lungo discorso di autopresentazione fatto da Margutte, Morgante si mostra
Morgante soddisfatto dell’incontro e invita il nuovo arrivato a seguirlo, mettendolo tuttavia in
a c. di F. Ageno, Ricciardi,
Milano-Napoli 1955 guardia dal rivolgere contro di lui le sue arti truffaldine, ché il battaglio è pronto a ca-
stigare chicchessia. L’accordo è presto raggiunto: i due possono così mettersi nuova-
mente, e insieme, alla ventura. Il loro primo incontro è con un malcapitato oste che
non può immaginare, da principio, l’entità della sciagura che su di lui incombe.

150. Vannosi insieme ragionando il giorno;


la sera capitorno a un ostiere,
e come e’ giunson, costui domandorno:
– Aresti tu da mangiare e da bere?
E pàgati in su l’asse o vuoi nel forno. –
L’oste rispose: – E’ ci fia da godere:
e’ ci è avanzato un grosso e bel cappone. –
Disse Margutte: – E’ non fia un boccone.
150 151. Qui si conviene avere altre vivande:
2 capitorno... ostiere:
giunsero presso un oste, a noi siamo usati di far buona cera.
un’osteria. Non vedi tu costui com’egli è grande?
3 e come... domandor-
no: e come vi giunsero do-
Cotesta è una pillola di gera. –
mandarono a costui (forme Rispose l’oste: – Mangi delle ghiande.
del passato remoto tipiche Che vuoi tu ch’io provvegga, or ch’egli è sera? –
del fiorentino).
4 Aresti: avresti. e cominciò a parlar superbamente,
5 pàgati... forno: fatti tal che Morgante non fu pazïente:
pagare a tuo piacimento;
ma è detto scherzosamente
per intendere il contrario. 152. comincial col battaglio a bastonare;
L’asse è quella che veniva l’oste gridava e non gli parea giuoco.
utilizzata per porre i pani in
forno. Disse Margutte: – Lascia un poco stare.
6 E’... godere: ce n’è Io vo’ per casa cercare ogni loco.
tanto da stare allegri, ci sarà
da far baldoria. Io vidi dianzi un bufol drento entrare:
8 E’... boccone: il cap- e’ ti bisogna fare, oste, un gran fuoco,
pone a noi non basterà
neppure per un boccone. e che tu intenda a un fischiar di zufolo;
151 poi in qualche modo arrostiren quel bufolo. –
2 noi... cera: noi siamo
abituati a mangiare di buon
appetito, lautamente. 153. Il fuoco per paura si fe’ tosto;
4 Cotesta.... gera: co- Margutte spicca di sala una stanga;
desto cappone è (per lui, o
per noi) una pillola di aloe, l’oste borbotta, e Margutte ha risposto:
un medicinale; per dire – Tu vai cercando il battaglio t’infranga:
un’inezia. a voler far quello animale arrosto,
5 Mangi... ghiande:
cioè s’arrangi, detto con di- che vuoi tu tòrre un manico di vanga?
sprezzo (le ghiande sono Lascia ordinare a me, se vuoi, il convito. –
cibo per maiali).
6 provvegga: procuri, E finalmente il bufol fu arrostito;
prepari.
7 superbamente: con 154. non creder colla pelle scorticata:
arroganza.
152 e’ lo sparò nel corpo solamente.
2 non... giuoco: capiva
che non era uno scherzo.
5 bufol: bufalo. prontamente, al volo. botte, stai facendo in modo vorrai per caso usare il ma- crediate che l’avessero
6-7 e’ ti... zufolo: bisogna 153 che il mio battaglio ti spezzi nico di una vanga? scuoiato; venne cioè arro-
che tu prepari un gran fuo- 2 stanga: trave. le ossa (infranga). 154 stito con tutta la pelle.
co, oste, e che tu intenda 4 Tu... infranga: tu vuoi 6 che.... vanga?: non 1 non... scorticata: non 2 lo sparò: lo aprì.

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18. La narrativa del Quattrocento T 18.2

Parea di casa più che la granata:


comanda e grida, e per tutto si sente;
3 Parea... granata:
Margutte pareva conosces-
un’asse molto lunga ha ritrovata;
se la casa meglio della scopa apparecchiolla fuor subitamente,
(granata), che fruga ogni an- e vino e carne e del pan vi ponea,
golo della casa.
8 non capea: non ci sta- perché Morgante in casa non capea.
va (date le sue dimensioni).
155
1-2 le reliquie... bufolo:
155. Quivi mangioron le reliquie tutte
l’intero bufalo (le reliquie del bufolo, e tre staia di pane o piùe,
sono propriamente i resti: e bevvono a bigonce; e poi Margutte
l’espressione dice l’accura-
tezza dello spolpamento). disse a quell’oste: – Dimmi, aresti tue
2 tre staia: una grande
da darci del formaggio o delle frutte,
quantità; lo staio era una
misura per biade. ché questa è stata poca roba a due,
3 a bigonce: ancora in o s’altra cosa tu ci hai di vantaggio? –
gran quantità; «la “bigon-
cia” è un vaso alto di doghe, Or udirete come andò il formaggio.
senza coperchio, usato nella
vendemmia» (Ageno).
4 aresti tue: avresti tu.
156. L’oste una forma di cacio trovòe,
6 a due: per due come ch’era sei libbre, o poco più, o meno;
noi. un canestretto di mele arrecòe,
7 o s’altra... vantaggio:
o qualche altra vivanda in d’un quarto o manco, e non era anche pieno.
più, oltre a questa (di vantag- Quando Margutte ogni cosa guardòe,
gio).
156 disse a quell’oste: – Bestia sanza freno,
2 sei libbre: circa due ancor s’arà il battaglio adoperare,
chili. s’altro non credi trovar da mangiare.
3 arrecòe: portò, servì.
4 d’un quarto o manco:
pari a un quarto di staio, o 157. È questo compagnon da fare a once?
anche meno.
7 s’arà... adoperare: si Aspetta, tanto ch’io torni, un miccino,
dovrà adoperare il batta- e servi intanto qui colle bigonce:
glio.
157 fa che non manchi al gigante del vino,
1 È... once?: ti pare che che non ti racconciassi l’ossa sconce.
costui sia persona da nutri- Io fo per casa come il topolino:
re a once? L’oncia era una
misura per farmacisti e spe- vedrai s’io so ritrovare ogni cosa,
ziali, equivalente a pochi e s’io farò venir giù roba a iosa! –
grammi.
2 un miccino: un po-
chino. 158. Fece la cerca per tutta la casa
5 che... sconce: che non
ti rompa le ossa (racconcias- Margutte, e spezza e sconficca ogni cassa,
si... sconce, conciasse male). e rompe e guasta masserizie e vasa:
6 come il topolino: che
si intrufola ovunque.
ciò che trovava, ogni cosa fracassa,
8 a iosa: in abbondanza. ch’una pentola sol non v’è rimasa;
158
di cacio e frutte raguna una massa,
3 vasa: vasi.
5 rimasa: rimasta intat- e portale a Morgante in un gran sacco,
ta. e cominciorno a rimangiare a macco.
6 raguna una massa: ra-
duna, raccoglie una gran
quantità. 159. L’oste co’ servi impaüriti sono
8 a macco: a iosa, senza
freno.
ed a servire attendon tutti quanti;
159 e dice fra se stesso: «E’ sarà buono
3 e dice: sogg. è l’oste. non ricettar mai più simil briganti:
3-4 E’ sarà... più: sarà bene
non accoglier più. e’ pagheranno domattina al suono
6 e saranno contanti: le di quel battaglio, e saranno contanti.
botte, a differenza dei dena- Hanno mangiato tanto, che in un mese
ri, saranno date pronta-
mente e tutte. non mangerà tutto questo paese.»
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Quattrocento e Cinquecento

160 160. Morgante, poi che molto ebbe mangiato, 163


4 a camino: quando so- disse a quell’oste: – A dormir ce n’andremo; 1 Vedes’tu mai: hai mai
no in cammino, in viaggio. visto.
– insieme conteremo: fa- e domattina, com’io sono usato 3 diluvi... bea: divori...
remo i conti insieme, detto sempre a camino, insieme conteremo, beva.
equivocamente. 4 non credo....natura:
7 a suo... pagassi: che e d’ogni cosa sarai ben pagato, non credo che la natura ne
pagasse pure con suo como- per modo che d’accordo resteremo. – abbia mai generato un altro
do (l’oste, temendo botte, si simile.
mostra accondiscendente, E l’oste disse a suo modo pagassi; 5 all’oste: all’osteria.
cerca di evitare il peggio). ché gli parea mill’anni e’ se n’andassi. 6 gli... la misura: lo sazi
8 gli parea mill’anni: completamente.
non vedeva l’ora che. 7 mai... vedesti: non si è
161 161. Morgante andò a trovare un pagliaio mai visto uomo più gene-
2 appoggiossi... lïofan- ed appoggiossi come il lïofante. roso.
164
te: si coricò come l’elefante,
«che dorme, si credeva, in Margutte disse: – Io spendo il mio danaio: 3 spiccare: «intonare»
piedi contro un albero» io non voglio, oste mio, come il gigante, (Contini).
(Contini). 5 Bambillona: Babilo-
3 danaio: denaro. far degli orecchi zufoli a rovaio; nia.
5 far... rovaio: far sì che non so s’io son più pratico o ignorante, 8 giornate: giornate di
il vento (rovaio) mi fischi marcia; la giornata è il per-
nelle orecchie, cioè non
ma ch’io non sono astrolago, so certo: corso che si compie cammi-
voglio dormire all’aperto. io vo’ con teco posarmi al coperto. nando (o cavalcando) in una
6-7 non so... so certo: non giornata.
so se io sono savio o igno- 8 e vassi con sospetto: e
rante, ma so per certo che 162. Vorrei, prima che’ lumi sieno spenti, si procede fra mille pericoli
non sono un astrologo; cioè che tu traessi ancora un po’ di vino; (perché si tratta di territori
non sono interessato ad os- infestati da briganti, si deve
servare le stelle, quindi an- ché non par mai la sera io m’addormenti, intendere).
165
cora una volta non voglio s’io non becco in sul legno un ciantellino, 1 e non a sordo: frase
dormire all’aperto.
8 posarmi: coricarmi, così per risciacquare un poco i denti; proverbiale; Margutte trae
riposarmi. e goderenci in pace un canzoncino: subito le conseguenze del-
162 l’informazione: se per più
e’ basta un bigonciuol così tra noi, giornate non incontreran-
2 traessi: «spillassi»
(Ageno). or che non ci è il gigante che c’ingoi. no altri alberghi sarà il caso
3-4 ché... ciantellino: di premunirsi di scorte di ci-
giacché la sera non riesco bo...
mai ad addormentarmi se 163. – Vedes’tu mai – Margutte soggiugnea 2 che... malizia: che, in

non bevo (becco) ancora un – un uom più bello e di tale statura, proposito, immediatamente
gocciolino sul tavolo spa- meditò un inganno.
recchiato (sul legno). e che tanto diluvi e tanto bea? 3 buon ricordo: un av-
6 e goderenci... can- Non credo e’ ne facessi un più natura. vertimento prezioso.
4 vi si fa tristizia: lungo
zoncino: e ci godremo in E’ vuol, quando egli è all’oste, – gli dicea
santa pace una canzoncina, il percorso ci sono delin-
canticchieremo tranquilli. – che l’oste gli trabocchi la misura; quenti pronti a commettere
7 un bigonciuol: il di- cattive azioni.
ma al pagar poi, mai il più largo uom vedesti: 5 Or oltre: orsù, orbene.
minutivo dice modica
quantità, ma la bigoncia – se tu nol provi, tu nol crederresti. – 6 pagar con masserizia:

abbiamo visto – è un grosso far economia nelle spese, di-


recipiente: non si tratta in- scutere sul conto.
somma proprio di ‘un bic- 164. Venne del mosto, e stanno a ragionare,
chierino’. e l’oste un poco si rassicurava;
8 c’ingoi: «minacci di
mangiare, non solo tutto il Margutte un canzoncin netto spiccare
cibo, ma anche noi» (Age- comincia, e poi del camin domandava,
no). dicendo a Bambillona volea andare.
L’oste rispose che non si trovava,
da trenta miglia in là, casa né tetto
per più giornate, e vassi con sospetto.

165. E disselo a Margutte, e non a sordo,


che vi pensò di sùbito malizia,
e disse all’oste: – Questo è buon ricordo,
poi che tu di’ che vi si fa tristizia.
Or oltre, a letto; e saren ben d’accordo,
ch’io non istò a pagar con masserizia:
602 © Casa Editrice Principato
18. La narrativa del Quattrocento T 18.2

7 scotti: «vitto» (Age- io son lo spenditore, e degli scotti, 7 dov’io capessi: dove
no), «conti» (Contini). io possa stare (comoda-
166
come tu stesso vorrai, pagherotti: mente disteso).
1 calcata la scarsella: la 169
borsa gonfia di denaro. 166. io ho sempre calcata la scarsella. 4 Fa... nome: fai come
5 né basto né sella: in- il tuo nome suggerisce,
dici che l’animale era stato Deh, dimmi, tu non debbi aver domata, cioè dormi tranquillo.
domato ed era quindi uti- per quel ch’io ne comprenda, una cammella 5-6 tu... some: avrai un
lizzabile per il trasporto di bel risveglio, quando sarà
cose o persone. La doman- ch’io vidi nella stalla tua legata; tempo e il carico (some)
da, fatta con circospezione, ch’io non vi veggo né basto né sella. – sarà lontano. Margutte
mira a farsi dire dove si tro- Rispose l’oste: – Io là tengo appiattata pensa al carico di cibi e og-
vino il basto o la sella. getti che sottrarrà all’oste
6-8 Io là... primaccio : una sua bardelletta, ch’io gli caccio, innanzi giorno.
io tengo nascosto là nella nella camera mia sotto il primaccio. 7 brigatella... figliuoli :
mia camera sotto il mate- «compagnia di famiglia,
rasso (primaccio o piumac- cioè figli» (Ageno).
cio, materasso di piuma) 167. Per quel ch’io il faccia, credo che tu intenda: 8 La donna: mia mo-
un piccolo basto (bardel- glie.
letta), ch’io le metto ad- sai che qui arriva più d’un forestiere 170
dosso (gli caccio). a cena, a desinare ed a merenda. – 1 pigliarci: guadagnare.
167 3-4 Come... via?: avrai
1 Per... faccia: perché
Disse Margutte: – Lasciami vedere della moneta spicciola per
io lo faccia. un poco come sta questa faccenda, cambiarci qualche doppia
4 Lasciami vedere: rac-
poi che noi siam per ragionare e bere, (dobbra, moneta del vlore di
contami, fammi capire. due scudi) da spendere du-
7 son... cieco: «lunghe e son le notte un gran cantar di cieco. – rante il viaggio.
come la cantilena d’un E l’oste gli rispose: – Io te l’arreco. – 5 Io... starci: non ci
mendicante cieco» (Age- vuol molto a fare il conto.
no). 7 venti ducati: monete
8 te l’arreco: te la porto. 168. Recò quella bardella il sempliciotto: d’oro o d’argento, di un
168 certo valore. Si deve inten-
2-3 Margutte... scotto:
Margutte vi fe’ sù tosto disegno, dere che l’intero ammonta-
Margutte subito vi fece so- ché questa accorderà tutto lo scotto; re dei risparmi dell’oste
pra il suo piano (cioè ela- equivale a venti ducati.
e disse all’oste: – E’ mi piace il tuo ingegno.
borò un piano che ruotava 171
attorno alla bardelletta), Questo sarà il guancial ch’io terrò sotto; 2 con esso noi: con noi,
poiché questa pagherà tut- e dormirommi qui in su questo legno: da noi.
to lo scotto, sistemerà tutti i
conti; detto ironicamente so che letto non hai dov’io capessi,
«perché Margutte se ne tanto che tutto mi vi distendessi.
servirà per rubare la cam-
mella e portar via le masse-
rizie» (Ageno). 169. Or vo’ saper come tu se’ chiamato. –
Disse l’ostier: – Tu saprai tosto come:
io sono il Dormi per tutto appellato. –
Disse Margutte: «Fa come tu hai nome;»
così fra sé «tu sarai ben destato,
quando fia tempo e innanzi fien le some.»
– Come hai tu brigatella, o vuoi figliuoli? –
Disse l’ostier: – La donna ed io siàn soli. –

170. Disse Margutte: – Che puoi tu pigliarci


la settimana in questa tua osteria?
Come arai tu moneta da cambiarci
qualche dobbra da spender per la via? –
Rispose l’oste: – Io non vo’ molto starci,
ch’io non ci ho preso, per la fede mia,
da quattro mesi in qua venti ducati,
che sono in quella cassetta serrati. –

171. Disse Margutte: – Oh, solo in una volta


con esso noi più danar piglierai!
Tu la tien’ quivi: s’ella fusse tolta? –
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Quattrocento e Cinquecento

3 s’ella... tolta?: e se ti Disse l’ostier: – Non mi fu tocca mai. – 174


venisse rubata? 2 sergozzone: pugno,
4 tocca: toccata. Margutte un occhiolin chiuse, ed ascolta, cazzotto.
5 un occhiolin chiuse: e disse: «A questa volta lo vedrai!» 3 sciòrmi: sciogliermi,
strizzò un occhio. E per fornire in tutto la campana, che io mi sia slegato.
7 per... campana: per 4 per casa... processio-
«concludere appuntino» un’altra malizietta trovò strana. ne: andassi girovagando per
(Contini), per perfezionare casa.
l’inganno. 6 Io... macchione: io me
172 172. – Perché persona discreta e benigna – ne starò serrato, rintanato in
1-4 Perché... fatto: perché dicea coll’oste – troppo a questo tratto camera.
in questa circostanza (a que- 8 che... tentennata: che
sto tratto) mi sei parso una
mi se’ paruto, io mi chiamo il Graffigna; non si prendessero qualche
persona davvero (troppo) di- e ’l profferer tra noi per sempre è fatto. percossa.
screta e a modo, ecco io mi Io sento un poco difetto di tigna, 175
chiamo il Graffigna e l’ami- 2 di questo costume: di
cizia (profferer) tra noi è fatta ma sotto questo cappel pur l’appiatto: questa abitudine di Mar-
per sempre. Propriamente io vo’ che tu mi doni un po’ di burro, gutte.
profferer significa dichiara- 3 si guardi... cieca: si
zione, profferta d’amicizia. ed io ti donerò qualche mangurro. – guardi dal pericolo.
5 Io... tigna: io soffro un 4 fuor delle piume: fuo-
po’ di tigna (malattia del ri dal letto.
cuoio capelluto, che dà forte 173. L’oste rispose: – Nïente non voglio: 5 malizia greca: ingan-
prurito). domanda arditamente il tuo bisogno, no degno di un greco. «I
6 l’appiatto: la nascon- Greci, e in genere i levantini,
do.
ché di tal cose cortese esser soglio. – erano leggendari per astuzie
7 burro: per ungersi la Disse Margutte allora: – Io mi vergogno: maligne» (Contini).
testa e lenire il prurito. sappi che mai la notte non mi spoglio 176
8 mangurro: moneta 2 a far fardello: a radu-
turca di rame, di poco valo- per certo vizio ch’io mi lievo in sogno; nare ogni sorta di oggetti da
re. vorrei ch’un paio di fune m’arrecasse, sottrarre all’oste; o più sem-
173 plicemente: a rubare a man
2 arditamente: senza
e legherommi io stesso in su questa asse. bassa.
farti alcuno scrupolo. 3 ne giva: se ne andava;
3 cortese: generoso. cioè andò a svuotarla (da
6 per... sogno: a causa di
174. Ma serra l’uscio ben dove tu dormi,
notare in questo, come in al-
un certo vizio che io ho di ch’io non ti dessi qualche sergozzone; tri casi, la formula espressiva
alzarmi (lievo) nel sonno; se tu sentissi per disgrazia sciòrmi approssimativa e sintetica).
soffre, o meglio finge di sof- 6 ugneva: ungeva, per
frire di sonnambulismo. e che per casa andassi a processione, non farlo cigolare.
non uscir fuor. – Rispose presto il Dormi,
e disse: – Io mi starò sodo al macchione.
Così voglio avvisar la mia brigata,
che non toccassin qualche tentennata. –

175. Le fune e ’l burro a Margutte giù reca,


e disse a’ servi di questo costume:
ch’ognun si guardi dalla fossa cieca
e non isbuchi ignun fuor delle piume.
Odi ribaldo! Odi malizia greca!
Così soletto si restò col lume,
e fece vista di legarsi stretto,
tanto che ’l Dormi se n’andò a letto.

176. Come e’ sentì russar, ch’ognun dormiva,


e’ cominciò per casa a far fardello:
alla cassetta de’ danar ne giva,
ed ogni cosa pose in sul cammello;
e come un uscio o qualche cosa apriva,
ugneva con quel burro il chiavistello;
e come egli ebbe fuor la vettovaglia,
appiccò il fuoco in un monte di paglia.

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18. La narrativa del Quattrocento T 18.2

177 177. E poi n’andava al pagliaio a Morgante:


1 n’andava: andò (qui e – Non dormir più, – dicea – dormito hai assai;
altrove l’imperfetto, al po-
sto del passato remoto, ha non di’ tu che volevi ire in Levante?
forse il valore di “eccolo Io sono ito e tornato, e tu il vedrai.
andare”).
4 Io son... tornato: io Non istiàn qui, dà in terra delle piante,
sono già andato e tornato se non che presto il fummo sentirai. –
dal Levante. Notevole il
gioco di parole fra Levante, Disse Morgante: – Che diavolo è questo?
oriente e levare, rubare. Tu hai pur fatto, per Dio, netto e presto. –
5 Non... piante: non re-
stiamo qui, muoviti! (dà in
terra delle piante, metti i pie- 178. Poi s’avvïava, ch’aveva timore,
di a terra, cammina). perché quivi era un gran borgo di case,
6 se non che: altrimenti.
8 netto e presto: in fret- che non si lievi la gente a romore.
ta e bene. Dicea Margutte: – Di ciò che rimase
178
2 quivi: nei pressi del- all’oste, un birro non are’ rossore:
l’osteria. ch’io non istò a far mai le staia rase,
3 non si lievi... a romo-
re: aveva timore che la gen-
ma sempre in ogni parte dov’io fui,
te si svegliasse e accorresse, sono stato cortese dell’altrui. –
cogliendoli sul fatto.
5 un birro... rossore:
«proverbiale la rapacità dei 179. Mentre che questi così se ne vanno,
birri: un birro, per cui è la casa ardeva tutta a poco a poco:
quasi un impegno spogliar
completamente chi gli cada prima che ’l Dormi s’avvegga del danno,
fra le mani, non avrebbe era per tutto appiccato già il foco;
vergogna di aver lasciato al-
l’oste quello che gli ha la- e non credea che fussi stato inganno.
sciato Margutte» (Ageno), Quivi la gente correa d’ogni loco;
cioè nulla. ma con fatica scampò lui e la moglie:
6 io... rase: «non sono
mai avaro nelle misure» e così spesso de’ matti si coglie.
quando si tratta di danneg-
giare qualcuno, non faccio
«come il venditore di grano 8 cortese dell’altrui: 179 dell’oste, qui la sua ‘sempli- 8 così... coglie: così
che pareggia lo staio troppo generoso con la roba d’al- 5 e non... inganno: è il cità’ raggiunge il culmine. spesso si ingannano gli
colmo» (Contini). tri. tocco conclusivo al ritratto con fatica: a mala pena. sciocchi.

Guida all’analisi
I temi della voracità iperbolica e della sopraffazione violenta L’episodio dell’osteria si snoda con un ritmo in-
calzante dapprima attorno al tema principe dell’insaziabile, iperbolica voracità dei protago-
nisti. Si possono individuare due fasi: la prima (ott. 150-154) delle ‘trattative’, per chiamarle
così, a suon di battaglio e dell’apparecchiamento della cena; la seconda (ott. 155-159) della
consumazione del pasto, scandita dalla ripetizione del termine «mangiare» e «rimangiare».
Ma non c’è soluzione di continuità: il tema della fame e del cibo domina incontrastato. Si
incomincia con la contrapposizione dei punti di vista dell’oste, uomo normale che in un
«grosso e bel cappone» vede un pasto di tutto rispetto («ci fia da godere» 150, 6), e dei gi-
ganti per cui invece non è che «un boccone» (si noti l’antitesi in rima cappone : boccone) o ad-
dirittura si riduce a «pillola di gera» (151, 4), cioè a nulla più che un’amara medicina. Si pro-
segue con le numerose e soprattutto pantagrueliche portate in cui consiste questa cena im-
provvisata, inframmezzate dalle devastazioni operate da Margutte che, alla ricerca di altro ci-
bo, «spezza e sconficca... rompe e guasta... ogni cosa fracassa» (158, 2-4): la fame qui si tra-
duce in sopraffazione violenta. L’episodio si conclude poi con l’apoteosi del concetto chia-
ve del passo: «Hanno mangiato tanto, che in un mese / non mangerà tutto questo paese.» //
«Morgante, poi che molto ebbe mangiato, / disse ecc.» (159, 7-8 e 160, 1).
Gli stilemi della quantità Tutto ovviamente è ridotto qui alla più bassa materialità: nei protagonisti non c’è spa-
zio per passioni che non siano la più elementare di tutte, la fame; mentre nell’oste si ridu-
cono alla paura e all’ira, necessariamente repressa, per la spoliazione in atto. Si noti, allora,

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Quattrocento e Cinquecento

come tratto stilistico peculiare del passo, e perfettamente congruente con questo tema, l’in-
sistito richiamo alle dimensioni, ad esempio della stanga contrapposta al manico di vanga
(153, 2-4), o di Morgante che «in casa non capea» (154, 8), o di Margutte che dice all’oste
«letto non hai dov’io capessi» (168, 7); e alle misure o ai recipienti: staia, bigonce, libbre, once,
massa, forma (di cacio), canestretto, gran sacco, e più avanti bigonciuol (162, 7); o a diverse altre
espressioni che variamente sottolineano la dimensione o la quantità («un gran fuoco», «un
asse molto lunga», «o poco più, o meno», «d’un quarto o manco, e non era anche pieno», «a iosa», «a
macco», ecc.). Il tutto con un gioco e un’alternanza di punti di vista (di Morgante e Margut-
te che vedono piccolo, «un canestretto» o «un bigonciuol», quel che all’oste e al lettore pare
enorme), come nel caso notato all’inizio (cappone / boccone)
I temi della beffa realizzata con astuzia e del denaro Poi, consumato il pasto, e andato a dormire Morgante, l’e-
pisodio sembra mutar tema e registro: dagli eccessi, dal vociare, dal fracasso e dallo scon-
quasso si passa alle più sottili malizie, al tono più confidenziale, all’irridente bisbiglio delle
battute ‘a parte’ di Margutte (169, 4-6 e 171, 6), alla silenziosa destrezza del medesimo che
unge col burro i chiavistelli. È il motivo del furto e della beffa realizzata con astuzia, che
prende il posto di quello della sopraffazione violenta e della fame smodata. Il trapasso è se-
gnalato, oltre che dalla rarefazione dei termini riferiti alla fame e al cibo e alle quantità ali-
mentari, soprattutto dalla collocazione in primo piano del motivo del pagamento incon-
gruo, evocato sin dall’ott. 159 («e’ pagheranno domattina al suono / di quel battaglio, e sa-
ranno contanti»), e di quello strettamente collegato del denaro. Margutte insiste, per rassicu-
rare l’oste e sciogliergli la lingua, sulla generosità sua e di Morgante, pari o anche superiore
alla loro voracità: «e d’ogni cosa sarai ben pagato, / per modo che d’accordo resteremo» (160,
5-6); «E’ vuol ... / che l’oste gli trabocchi la misura; / ma al pagar poi, mai il più largo uom ve-
desti: / se tu nol provi, tu nol crederresti» (163, 7-8); «io non istò a pagar con masserizia: / io
son lo spenditore, e degli scotti, / come tu stesso vorrai, pagherotti» (165, 6-8); «io ho sempre
calcata la scarsella» (166, 1); «Oh, solo in una volta / con esso noi più danar piglierai!» (171, 1-
2). Nella strategia di rassicurazione psicologica messa in atto da Margutte si insinuano però
scarti di tono, quasi velate minacce («Io spendo il mio danaio: / io non voglio, oste mio, co-
me il gigante, / far degli orecchi zufoli a rovaio», 161, 3-5), e soprattutto doppi sensi furbe-
schi («degli scotti, / come tu stesso vorrai, pagherotti», 165, 7-8, che quasi quasi significa ‘pa-
gherai lo scotto della tua stupidità’). Questi si rivelano nelle parole ironiche del narratore
(«questa accorderà tutto lo scotto», 168, 3) o negli ‘a parte’ del protagonista («A questa volta
lo vedrai!», 171, 6) e naturalmente nel gran finale di rapina e distruzione che culmina con il
paragone con la rapacità dei birri e con la massima burlesca «ma sempre in ogni parte dov’io
fui / sono stato cortese dell’altrui» (ott. 178). Il motivo dominante questa seconda parte dell’e-
pisodio è anche contrappuntato dai numerosi riferimenti al denaro in astratto o in concre-
to alle diverse monete, che sostituiscono quelli alle misure alimentari (contanti, danaio, mone-
ta, dobbra, ducati, mangurro...).

Laboratorio 1 È possibile applicare la categoria del “car- buisce Margutte) incarna perfettamente il
COMPRENSIONE nevalesco” a qualche aspetto di questo te- tipo dello sciocco vittima di beffe della
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE sto? tradizione novellistica toscana: conosci
2 Leggi la Guida all’analisi e ritrova e sottoli- qualche esempio famoso di sciocco casti-
nea nel testo le espressioni che vengono gato? Se sì, confrontalo con questo.
citate (o anche altre affini). Rileggi quindi 4 Esamina la tecnica di rappresentazione
il testo cercando di notare e apprezzare adottata da Pulci in questo episodio: indi-
l’effetto che producono gli stilemi e gli in- vidua che parte e che funzione assolvono
dicatori dei temi principali che hai così in- la narrazione, la descrizione, il dialogo, i
dividuato. commenti del narratore, le analisi interne
3 Traccia un breve ritratto dell’oste indivi- dei personaggi. In particolare soffermati
duando passi in cui Pulci riferisce aspetto, sui dialoghi: nota che entrambe le fasi del-
indole, stati d’animo del personaggio. L’o- l’episodio sono contraddistinte da un uso
ste sin dal nome ‘parlante’ Dormi (come accorto e vivace del dialogo, che vive di
‘parlante’ è Graffigna, il nome che si attri- brevi battute alternate dei vari personaggi.
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18. La narrativa del Quattrocento T 18.3

T 18.3 Luigi Pulci, Morgante maggiore 1461-1482; ed. 1483


La battaglia di Roncisvalle [XXVI, 45-49; XXVII, 50-57]
L. Pulci Con l’episodio seguente giungiamo al momento cruciale dell’opera, la battaglia di
Morgante Roncisvalle, in cui troverà la morte Orlando: frattanto però anche Margutte e Morgan-
a c. di F. Ageno, Ricciardi,
Milano-Napoli 1955 te sono morti nei modi bizzarri che convengono alla natura del loro personaggio, l’uno
scoppiando dal ridere al vedere una bertuccia calzare i suoi stivali, l’altro morso da un
granchiolino dopo essere saltato sul dorso di una balena e averla ammazzata a colpi di
battaglio. A far precipitare gli eventi è il traditore Gano di Maganza, che con l’inganno
ha attirato Orlando a Roncisvalle, d’accordo con il re saraceno Marsilio, che lo attende
lì con un imponente esercito. Quando questo si mostra a tutti è chiaro che la battaglia
è impari, ma il paladino rifiuta di suonare il corno per chiamare soccorso e affronta im-
pavido lo scontro, mentre l’arcivescovo Turpino benedice i guerrieri cristiani e li esorta
affinché «ognun morissi volentier per Cristo». La scena si fa drammatica. Orlando ar-
ringa i suoi perché combattano con coraggio e affrontino sereni la morte , ricorda loro
esempi di coraggiosi soldati romani e alla fine contempla pensoso Roncisvalle. Sul ver-
sante opposto vediamo il re Falserone che giura di vendicare col sangue di Orlando la
morte del figlio Ferraù. Ma ecco come si presenta l’esercito pagano...

XXVI XXVI
45 45. E’ si sentiva i più stran naccheroni
1 E’ si sentiva... nac- e tante busne e corni alla moresca,
cheroni: si udivano i più
strani naccheroni (si tratta che rimbombava per tutti i valloni,
di un tipo di tamburi). e par che degli abissi quel suono esca;
2 busne... moresca: tanti pennacchi, tanti stran pennoni,
buccine, cioè trombe, e
corni di foggia moresca (ti- tante divise, la più nuova tresca,
pici dei saraceni). era cosa a veder per certo oscura,
5 pennacchi... penno-
ni: i pennacchi adornano e fatto arebbe ’Alessandro paura.
probabilmente gli elmi dei
soldati, i pennoni sono inve-
ce stendardi. 46. L’annitrir de’ cavalli e il mormorare
6 la... tresca: l’insolita de’ pagan che venivan minacciando
(nuova) danza (la tresca è un
ballo popolare); la metafora ch’ognun voleva e’ cristian trangugiare
indica un insolito «movi- (e sopra tutto Falserone Orlando),
mento di schiere accompa- parea quando più forte freme il mare,
gnato da musica» (Ageno).
7 oscura: terribile, pau- Scilla e Cariddi co’ mostri abbaiando;
rosa. e tutta l’aria di polvere è piena,
8 ’Alessandro: persino
ad Alessandro Magno. come si dice del mar della rena.
46
3 trangugiare: divorare,
cruenta metafora per ‘ucci- 47. Quivi eran Zingani, Arbi e Sorïani,
dere’,‘annientare’. dello Egitto e dell’India e d’Etïopia,
4 Falserone Orlando:
Falserone voleva trangugiare e sopra tutto di molti marrani
Orlando. che non avevon fede ignuna propia,
5 freme: freme per i di Barberia, d’altri luoghi lontani;
venti, mugghia in tempesta.
6 Scilla.... abbaiando: i ed Alcuïn, che questa istoria copia,
promontori di Scilla e Ca- dice che gente di Guascogna v’era:
riddi nella mitologia antica
erano due mostri marini pensa che ciurma è questa prima schiera!
che presidiavano lo stretto
di Messina; l’espressione,
non del tutto chiara (co’ mo- dice del deserto, come se si municati (convertitisi e poi 5 Barberia: l’Africa set- ‘narra’.
stri, insieme ad altri mostri fosse nel deserto (mar della ritornati alla propria reli- tentrionale. 8 ciurma: in senso di-
marini?), evoca l’ululato rena, mare di sabbia). gione). 6 Alcuïn: monaco sas- spregiativo: accozzaglia di
47 4 che non... propia: che sone del IX secolo, presun- gente.
del vento fra gli scogli, di-
pingendolo però come il 1 Zingani... Sorïani: non avevano nessuna fede ta fonte di Pulci, che gli at-
latrato di mostri mitologici. Zingari,Arabi, Siriani. propria, che non credevano tribuiva una vita di Carlo
8 come... rena: come si 3 marrani: ebrei sco- in nulla. Magno. Copia vuol dire

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Quattrocento e Cinquecento

48. Ed avean pur le più strane armadure


e i più stran cappellacci quelle genti:
certe pellacce sopra ’l dosso, dure,
di pesci, coccodrilli e di serpenti,
e mazzafrusti e crave, accette e scure;
e molti i colpi commettono a’ venti
con dardi ed archi e spuntoni e stambecchi
e catapulte che cavon gli stecchi.

49. Quivi già i campi l’uno all’altro accosto,


da ogni parte si gridava forte:
chi vuoi lesso Macon, chi l’altro arrosto;
ognun volea del nimico far torte.
Dunque vegnamo alla battaglia tosto,
sì ch’io non tenga in disagio la Morte,
che con la falce minaccia, ed accenna
ch’io muova presto le lance e la penna.

48 ti usano armi da getto (lett.: d’uso ignoto», Ageno). cinati. ma è detto con una scherzo-
3 dosso: dorso, schiena. affidano i colpi al vento). 8 che... stecchi: che ab- 3 chi... arrosto: chi vuol sa metafora alimentare (oggi
5 mazzafrusti e crave: 7 spuntoni e stambec- battono fortificazioni (ma lessare Macone (divinità pa- si direbbe piuttosto ‘fare
fruste con estremità metalli- chi: aste da lancio (lo stam- dice stecchi scherzosamente). gana), chi vuole arrostire la polpette’).
che e clave. becco o stambecchino è un’ar- 49 divinità dei Cristiani (l’altro). 7 accenna: mi fa cenno,
6 e molti... venti: e mol- ma da lancio «di forma e 1 accosto: erano ravvi- 4 far torte: distruggere, mi impone.

La battaglia presto infuria violentissima. Dapprima le sorti sembrano favorire i cristiani:


Orlando e Astolfo e poi anche Rinaldo e Ricciardetto, che giungono a soccorrerli, fan-
no strage di saraceni. Ma quando questi sembrano volti definitivamente in fuga soprag-
giunge Bianciardino con una grande armata e capovolge la situazione.

XXVII XXVII
50
50. E’ si vedeva tante spade e mane,
1 mane: mani. tante lance cader sopra la resta,
2 sopra la resta: la resta è e’ si sentia tante urle e cose strane,
il gancio della corazza sul
quale al tempo di Pulci si che si poteva il mar dire in tempesta.
fissava la lancia (porre la lan- Tutto il dì tempelloron le campane,
cia in resta) prima dello sanza saper chi suoni a morto o festa;
scontro.
5 tempelloron: suona- sempre tuon sordi con baleni a secco,
rono, batterono. e per le selve rimbombar poi Ecco.
6 a morto o festa: a
morto o a festa, in segno di
lutto per la sconfitta o di 51. E’ si sentiva in terra e in aria zuffa,
gaudio per la vittoria. perché Astarotte, non ti dico come,
7 sempre... secco: sem-
pre si odono tuoni sordi e si e Farferello ognun l’anime ciuffa:
vedono lampi senza piog- e’ n’avean sempre un mazzo per le chiome,
gia (a secco).
8 Ecco: Eco, personag- e facean pur la più strana baruffa,
gio mitologico. Le selve e spesso fu d’alcun sentito il nome:
riecheggiano dei suoni
della battaglia. – Lascia a me il tale: a Belzebù lo porto. –
51 L’altro diceva: – È Marsilio ancor morto?
1 E’ si sentiva... zuffa: la
zuffa, la battaglia si sentiva
(cioè si svolgeva) in terra e portare in volo Rinaldo a morti per portarle all’infer- nevano sempre un gran nu- la dimensione giocosa, qui
in cielo. Roncisvalle, ma qui giunto no. mero (un mazzo) per le tragicomica, tipica di Pulci.
2 Astarotte: è, come egli torna a fare la sua pro- 3 ciuffa: acciuffa, pren- chiome. La buffa e concreta 8 È... morto?: Marsilio
Farferello, un diavolo evo- fessione di diavolo, ac- de al volo. immagine (anime tenute è morto anche lui? è già
cato dal mago Malagigi per chiappando le anime dei 4 e’.... chiome: e ne te- per le chiome) ci riporta al- morto Marsilio?

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18. La narrativa del Quattrocento T 18.3

52. E’ ci farà stentar prima che muoia.


Non gli ha Rinaldo ancor forbito il muso,
che noi portian giù l’anima e le cuoia? –
O Ciel, tu par’ questa volta confuso!
O battaglia crudel, qual Roma o Troia!
Questa è certo più là che al mondano uso.
II sol pareva di fuoco sanguigno,
e così l’aire d’un color maligno.

53. Credo ch’egli era più bello a vedere


certo gli abissi, il dì, che Runcisvalle:
52
1 stentar: penare. È sem-
ch’e’ saracin cadevon come pere,
pre un diavolo che si rivolge e Squarciaferro gli portava a balle;
all’altro.
2-3 Non gli ha... cuoia?:
come facciamo a portare la tanto che tutte l’infernal bufere
sua anima e il suo corpo occupan questi, ogni roccia, ogni calle
(cuoia) giù all’Inferno, se
Rinaldo non lo ha ancora e le bolge e gli spaldi e le meschite,
ucciso (forbito il muso, pulito e tutta in festa è la città di Dite.
il muso, metafora comica).
4 tu par’... confuso!:
perché non ti decidi a de- 54. Lucifero avea aperte tante bocche
cretare la vittoria dell’uno o
dell’altro. che pareva quel giorno i corbacchini
5 qual...Troia!: come il alla imbeccata, e trangugiava a ciocche
sacco di Roma da parte dei l’anime, che piovean, de’ saracini,
Vandali o l’assedio diTroia.
6 Questa... uso: questa che par che neve monachina fiocche
battaglia è ben più aspra di come cade la manna a’ pesciolini:
quelle che sogliono avveni-
re nel mondo. non domandar se raccoglieva i bioccoli,
8 l’aire: l’aria, che sem-
e se ne fece gozzi d’anitroccoli!
bra colorarsi di presagi fu-
nesti (color maligno).
53 55. E’ si faceva tante chiarentane,
1-2 Credo... Runcisvalle:
sarebbe stato spettacolo più che ciò ch’io dico è, disopra, una zacchera
bello contemplare gli abissi (e non dura la festa mademane,
del mare, in quel giorno, crai e poscrai e poscrigno e posquacchera,
che non Roncisvalle.
4 Squarciaferro: un al- come spesso alla vigna le Romane);
tro diavolo. – a balle: a muc- e chi sonava tamburo, e chi nacchera,
chi (accatastati come balle
di fieno). baldosa e cicutrenna e zufoletti,
5-8 tanto che... Dite: tan-
e tutti affusolati gli scambietti.
to che i saracini morti (que-
sti) occupano ogni luogo
dell’inferno, che festeggia
l’evento: vengono qui evo- che attendono, a bocca spa- 7-8 non domandar... d’a- della Carinzia. modo imprecisato, la durata
cati esplicitamente luoghi lancata, l’imbeccata della nitroccoli!: figurati se non 3-5 (e non dura... Roma- della festa.
ed espressioni dell’Inferno madre. raccoglieva anche le bricio- ne): e la festa infernale non 6-7 e chi... zufoletti: vari
dantesco (le bufere infernali 3 a ciocche: a mucchi.
le (bioccoli, propriamente dura solo un giorno, ma strumenti musicali: la nac-
ricordano il canto di Paolo 5 che par... fiocche: che
‘fiocchi di lana’), s’ingozzò molti, come spesso accade chera è forse lo stesso tipo di
e Francesca; gli spaldi, spalti, pare che fiocchi neve mo- come un anatroccolo (si per le feste romane in occa- tamburo suonato dall’eser-
e le meschite, moschee, della nachina, una neve rossiccia riempì il gozzo come fanno sione della vendemmia (alla cito saraceno (cfr. sopra nac-
città di Dite ricordano l’epi- «quale si vede per effetto le anatre). vigna). Il concetto ‘molti cheroni nota 45,1) o anche lo
sodio ai cantiVIII-IX). d’una pianta microscopica 55 giorni’ è espresso con una strumento popolare spa-
54 che v’è mischiata (la uredo 1-2 E’ si faceva... zacche- sequenza di termini dialet- gnolo che ancor oggi porta
1 Lucifero... bocche: nivalis). È un tratto efficace a ra: si facevano tante danze, tali dell’Italia centrale che questo nome; la baldosa è un
Lucifero è rappresentato da dipinger questo fioccare che quel ch’io dico di sopra significano: oggi (madema- antico strumento a corde; la
Dante come mostro con tre d’anime nell’aria infernale (la descrizione della batta- ne), domani (crai), dopodo- cicutrenna è una zampogna;
teste, che qui però vengono sempre accesa di sinistri ba- glia o forse proprio la nuova mani (poscrai), il terzo gior- gli zufoletti sono dei flauti.
fantasiosamente moltipli- gliori» (Carli- Sainati). tresca di cui sopra alla nota no dopo domani (poscrigno); 8 e tutti... scambietti: e i
cate, a descriverne la gioiosa 6 la manna: il cibo (pro- e si conclude invece con salti o i passi di danza (scam-
45,6) è una bazzecola al
voracità. priamente gli insetti che ca- confronto; la chiarentana una scherzosa invenzione bietti) erano agili e precisi
2-3 i corbacchini alla im- dono in acqua e vengono (cioè ‘carinziana’) è una linguistica di Pulci (posquac- (affusolati).
beccata: i piccoli del corvo mangiati dai pesci). specie di ballo originario chera) che estende ancora, in

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Quattrocento e Cinquecento

56 56. E Runcisvalle pareva un tegame


2-3 un gran... ossame: un dove fussi di sangue un gran mortito,
grande stufato di teste (di ca-
pi), gambe (di peducci) e altre di capi e di peducci e d’altro ossame
ossa. Propriamente il mortito un certo guazzabuglio ribollito,
era uno stufato composto di
testa di maiale e zampe di che pareva d’inferno il bulicame
pecora cotte nel vino rosso. che innanzi a Nesso non fusse sparito;
4 ribollito: stracotto.
5-6 che pareva... sparito: e ’l vento par certi sprazzi avviluppi
che sembrava il lago di san- di sangue, in aria, con nodi e con gruppi.
gue bollente dell’inferno (il
Flegetonte dantesco), che
però non diminuisse mai di 57. La battaglia era tutta paonazza,
profondità (non fusse sparito), sì che il Mar Rosso pareva in travaglio,
come accade invece a quello
dantesco tanto da permet- ch’ognun, per parer vivo, si diguazza:
tere al centauro Nesso di e’ si poteva gittar lo scandaglio
guadarlo.
7-8 ’l vento... gruppi: per tutto, in modo nel sangue si guazza,
mentre il vento sembra che e poi guardar, come e’ suol l’ammiraglio
avviluppi in aria gli spruzzi
di sangue formando nodi e ovver nocchier se cognosce la sonda,
groppi (gruppi): fosca imma- ché della valle trabocca ogni sponda.
gine in cui i mulinelli di ven-
to spandono e rapprendono
il sangue in strane fogge. Rosso agitato dalla tempe- nuotando (diguazza). nominato come sonda), sonda (se conosce la sonda),
57 sta. 4-8 e’ si poteva... sponda: tanto si sguazzava nel san- poiché ogni sponda della
1-2 La battaglia... trava- 3 ognun... diguazza: dovunque (per tutto) si po- gue, e poi misurare la valle traboccava di sangue.
glio: il campo di battaglia ognuno per mostrare di es- teva gettare lo scandaglio profondità (guardar) come è
era tutto livido e sanguigno, sere vivo (e forse per essere (strumento marinaro per solito fare l’ammiraglio o il
tanto che pareva il Mar soccorso) doveva agitarsi misurare la profondità, poi nocchiero, se sa usare la

Guida all’analisi
La battaglia e la chiarentana infernale La tragedia che si svolge sul campo di battaglia, nella prima delle otta-
ve che abbiamo riportato (XXVII,50) si mantiene sostanzialmente su toni seri: domina il
senso di confusione e di sconvolgimento tipico delle battaglie, evocato dalle urla dei con-
tendenti («e’ si sentia tante urla e cose strane», 50, 3: si noti ancora una volta la ‘stranezza’),
dall’immagine della tempesta («mar... in tempesta», «tuon sordi con baleni a secco», 50, 4
e 7) e dal suono alterno di campane «a morto o festa» (50, 6). Ma ecco che entrano in sce-
na Astarotte e Farferello, che acciuffano al volo le anime dei soldati che muoiono. Subito
la scena, con un improvviso e geniale mutamento di punto di vista, si sposta nel fondo
dell’inferno, dove la tragedia umana si converte in una festa diabolica, con bocche gioio-
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18. La narrativa del Quattrocento T 18.3

samente spalancate a ricevere la manna che piove dalla superficie della terra (le anime get-
tate giù dai diavoli). Il registro muta repentinamente dal serio al tragicomico e al grotte-
sco: campeggiano i paragoni e le metafore della festa, del pantagruelico pasto (Lucifero che
si ingozza come un’anatra) e soprattutto della chiarentana infernale, la danza frenetica che
sigla il sinistro festino. Pulci qui, oltre a ricordare e citare passi dell’Inferno dantesco, dove
ci sono scene di registro comico (ad es. la zuffa tra diavoli e i barattieri a Malebolge) si
mostra ancora una volta memore di tutta la tradizione comica medievale che spesso aveva
utilizzato l’immagine o la metafora del festino infernale (tra i testi in questa antologia si
veda Petrarca, Fiamma del ciel).
I diavoli che divorano i corpi dei peccatori erano nella letteratura cristiana medievale
perlopiù immagini orride e truculente (e lo stile comico, cioè basso e quotidiano, in questi
contesti non induceva se non episodicamente il riso); viceversa Pulci introduce nella sua de-
scrizione un riso sinistro che produce un effetto di straniamento e di velata contestazione
tanto della tradizione medievale di rappresentazione dell’inferno, quanto della materia caro-
lingia e del poema cavalleresco (Roncisvalle degradata a episodio grottesco e tragicomico).
Anche in questo caso, anzi a maggior ragione in questo caso la rappresentazione violente-
mente degradata della battaglia dovette probabilmente spiacere al circolo laurenziano.
«Runcisvalle pareva un tegame» Quando lo sguardo ritorna in superficie il contrasto fra il tragico della vicenda e
il comico della rappresentazione e del linguaggio si fa stridente: con largo anticipo su analo-
ghe esperienze otto-novecentesche (a partire da una celebre metafora di Baudelaire, che para-
gona il cielo basso e greve di Parigi a un coperchio che schiaccia l’anima) Pulci fa cozzare
l’aulico con il prosaico e la piana di Roncisvalle diventa un immenso tegame in cui cuoce uno
stufato umano (un gran mortito / di capi e di peducci e d’altro ossame: si notino i peducci e l’ossame),
un guazzabuglio ribollito, dove la dimensione alimentare giocosa e gioiosa (anche se al fondo
memore delle ataviche fami del mondo contadino) degli episodi di Morgante e Margutte di-
venta uno scherzo sinistro e irriverente, un tragicomico fosco e brusco, dove testine di maiale
e peducci di pecore si confondono con capi, arti, ossa umane, e il vino si confonde col sangue
che schizza in aria (spruzzo d’un mare agitato dalla tempesta) formando nodi e groppi di fog-
ge strane e inquietanti. I pochi superstiti li vediamo diguazzare nel mare-pentolone di Ronci-
svalle, pezzi di carne che ribollono per la gioia della tregenda infernale.

Laboratorio 1 Leggi ad alta voce il passo (o una sua par- comico. Attratto dalla stranezza delle fog-
COMPRENSIONE te significativa) cercando di apprezzarne e ge dei guerrieri saraceni e dalla varietà dei
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE renderne adeguatamente con l’espressione suoni, egli indugia in una descrizione ana-
della voce le più caratteristiche sonorità. litica: ricerca nel testo le enumerazioni
2 Nella tua esperienza scolastica (o nelle tue caotiche di strumenti musicali, di insegne,
letture personali) hai certamente incontra- di popoli, di capi d’abbigliamento, di armi.
to altri passi di duelli, battaglie o stragi: ri- Analizza l’ottava 48, che si apre con una
cordi qualcosa che sia paragonabile a que- duplice menzione del concetto di ‘stra-
sta rappresentazione? Se sì, prova a con- nezza’ ed è tutta una duplice lunga enu-
frontarle. Se no, prova a leggere in questo merazione, costituisce il culmine di questa
volume qualche episodio di duelli o di tendenza. Il tutto è accompagnato da un
battaglie (ad esempio in Boiardo il duello gusto per la parola insolita e sonante: ri-
fra Orlando e Agricane [R T 18.5 ], in Ario- cercane qualche esempio. Infine sottolinea
sto l’episodio di Cloridano e Medoro i versi caratterizzati da sonorità aspra e
[R T 24.7 ], o quello di Rodomonte all’as- secca e da rime con sonorità interessanti
salto di Parigi [R T 24.6 ]) e confrontali. (rime in -ura, -are, -era, -ure; quelle in -oni,
3 L’episodio della battaglia di Roncisvalle -ando, che paiono diffondere il rimbom-
incomincia e a tratti si svolge secondo un bo grave dei naccheroni; e quelle più aspre
registro serio e anche patetico, ma già e secche in -esca, -enti, -ecchi, -osto, -orte;
quando si tratta di descrivere la multifor- partendo da oscura : paura e finendo nel
me e variopinta armata saracena prevale comico e sinistro torte : Morte).
in Pulci il gusto per la descrizione in stile
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Quattrocento e Cinquecento

T 18.4 Matteo Maria Boiardo, Orlando innamorato ed. 1483


L’apparizione di Angelica [I, I 19-35]
M.M. Boiardo Di tutt’altro tenore rispetto al Morgante, sin dalle prime ottave appare l’altro grande
Orlando innamorato poema cavalleresco del Quattrocento, l’Orlando innamorato. Dopo l’importante proemio
a c. di A. Scaglione,
UTET, Torino 1969 (che riportiamo anche qui, ma di cui trattiamo in Doc 18.6 ), Boiardo incomincia la narra-
zione descrivendo la corte di re Carlo Magno in occasione di una grandiosa giostra da
lui organizzata per i più valorosi cavalieri cristiani e saraceni, senza distinzione di razza
o di fede; quand’ecco che inaspettatamente compare la bellissima Angelica, personaggio
che nel poema incarna e sintetizza l’irresistibile forza d’amore. La sua comparsa dà l’av-
vio a un’azione complicatissima, fatta di avventure intricate e meravigliose; ma è anche
un’apparizione luminosa, che introduce un personaggio davvero nuovo – ha osservato
De Robertis – nella tradizione epico-cavalleresca europea.

Nota metrica 1. Signori e cavallier che ve adunati


Tutto il poema è in ottave
di endecasillabi, secondo Per odir cose dilettose e nove,
lo schema fisso: Stati attenti e quïeti, ed ascoltati
ABABABCC. La bella istoria che ’l mio canto muove;
E vedereti i gesti smisurati,
L’alta fatica e le mirabil prove
19 Che fece il franco Orlando per amore
1 Mentre... costoro: sia- Nel tempo del re Carlo imperatore.
mo a corte, durante il convi-
to; nelle ottave precedenti
Boiardo ha riferito i discorsi 2. Non vi par già, signor, meraviglioso
di alcuni personaggi, tra cui Odir cantar de Orlando inamorato,
Ranaldo.
2 sonarno... banda: gli Ché qualunche nel mondo è più orgoglioso,
strumenti che annunciano È da Amor vinto, al tutto subiugato;
l’inizio del convito risuona-
rono da ogni lato (banda). Né forte braccio, né ardire animoso,
5 con sotil lavoro: fine- Né scudo o maglia, né brando affilato,
mente decorate.
6 a ciascun... manda: fa Né altra possanza può mai far diffesa,
servire le vivande (o distri- Che al fin non sia da Amor battuta e presa.
buisce doni) a ciascuno.
8 racordava: ricordava.
20 [...]
2 basso: a bassa voce, pa-
catamente.
3-4 Re Carlo... valenti: 19. Mentre che stanno in tal parlar costoro,
Re Carlo, che è circondato Sonarno li instrumenti da ogni banda;
da tanti re, condottieri e va-
lorosi cavalieri. Ed ecco piatti grandissimi d’oro,
5 tutta... disprezza: Coperti de finissima vivanda;
questa notazione isolata pa- Coppe di smalto, con sotil lavoro,
re suggerita da un residuo
scrupolo religioso, legato al- Lo imperatore a ciascun baron manda.
la tradizione della materia Chi de una cosa e chi d’altra onorava,
carolingia; di fatto anche i
pagani sono invitati e ono- Mostrando che di lor si racordava.
rati (il tema della contrap-
posizione fra diverse fedi è
piuttosto sbiadito nel poe- 20. Quivi si stava con molta allegrezza,
ma boiardesco e certo non Con parlar basso e bei ragionamenti:
ne è il fulcro ideologico).
6 come... venti: come il Re Carlo, che si vidde in tanta altezza,
vento pare disprezzare (e Tanti re, duci e cavallier valenti,
spazza via) la sabbia in riva al Tutta la gente pagana disprezza,
mare. Denanti vale ‘davanti’.
7 nova: inattesa, inusita- Come arena del mar denanti a i venti;
ta. Ma nova cosa che ebbe ad apparire,
8 sbigotire: trasalire di
stupore. Fe’ lui con gli altri insieme sbigotire.
612 © Casa Editrice Principato
18. La narrativa del Quattrocento T 18.4

21. Però che in capo della sala bella


Quattro giganti grandissimi e fieri
Intrarno, e lor nel mezo una donzella,
Che era seguìta da un sol cavallieri.
Essa sembrava matutina stella
E giglio d’orto e rosa de verzieri:
In somma, a dir di lei la veritate,
Non fu veduta mai tanta beltate.

22. Era qui nella sala Galerana,


Ed eravi Alda, la moglie de Orlando,
Clarice ed Ermelina tanto umana,
Ed altre assai, che nel mio dir non spando,
Bella ciascuna e di virtù fontana.
Dico, bella parea ciascuna, quando
Non era giunto in sala ancor quel fiore,
Che a l’altre di beltà tolse l’onore.

23. Ogni barone e principe cristiano


In quella parte ha rivoltato il viso,
Né rimase a giacere alcun pagano;
Ma ciascun d’essi, de stupor conquiso,
Si fece a la donzella prossimano;
La qual, con vista allegra e con un riso
Da far inamorare un cor di sasso,
Incominciò così, parlando basso:

24. – Magnanimo segnor, le tue virtute


E le prodezze de’ toi paladini,
Che sono in terra tanto cognosciute,
Quanto distende il mare e soi confini,
Mi dan speranza che non sian perdute
Le gran fatiche de duo peregrini,
Che son venuti dalla fin del mondo
Per onorare il tuo stato giocondo.
21
3 intrarno... mezo: en- 25. Ed acciò ch’io ti faccia manifesta,
trarono e in mezzo a loro Con breve ragionar, quella cagione
(comparve).
6 e giglio... verzieri: e Che ce ha condotti alla tua real festa,
(sembrava) un giglio o una Dico che questo è Uberto dal Leone,
rosa di giardino (orto, latini- Di gentil stirpe nato e d’alta gesta,
smo, e verzieri, sono sinoni-
mi). Cacciato del suo regno oltra ragione:
22
Io, che con lui insieme fui cacciata,
1-3 Galerana... Ermelina:
sono le mogli rispettiva- Son sua sorella, Angelica nomata.
mente di Carlo Magno,
Orlando, Ranaldo e Ug-
gieri il danese.
4 che... spando: su cui 24 viaggi, non solo pellegri- estremi confini del mondo 4 Uberto dal Leone:
non mi soffermo. 5 non sian perdute: non naggi religiosi), Angelica (nell’ottica eurocentrica nome fittizio, in realtà si
23 siano (state) vane, inutili. stessa e il fratello che l’ac- qui adottata). tratta di Argalia.
4 de stupor conquiso: 6 de duo peregrini: dei compagna. 8 il tuo... giocondo: il 6 oltra ragione: ingiu-
sopraffatto dallo stupore. due pellegrini (il termine 7 dalla fin del mondo: tuo felice regno. stamente.
5 si fece... prossimano: indicava nel Medioevo dal Catai (l’odierna Cina), 25 8 nomata: nominata,
si avvicinò. chiunque compisse lunghi patria di Angelica, posta agli 2 cagione: causa. chiamata.

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Quattrocento e Cinquecento

26 26. Sopra alla Tana ducento giornate,


1 Sopra... giornate: Dove reggemo il nostro tenitoro,
duecento giornate di viag-
gio oltre il Tanai (il fiume Ce fôr di te le novelle aportate,
Don). Le distanze erano al E della giostra e del gran concistoro
tempo normalmente indi-
cate mediante il numero Di queste nobil gente qui adunate;
delle tappe giornaliere (a ca- E come né città, gemme o tesoro
vallo, salvo precisazioni).
2 dove... tenitoro: là do- Son premio de virtute, ma si dona
ve è il nostro regno (lett.:do- Al vincitor di rose una corona.
ve noi governiamo il nostro
territorio).
3 ce... aportate: ci furo- 27. Per tanto ha il mio fratel deliberato,
no portate notizie di te ecc. Per sua virtute quivi dimostrare,
4 concistoro:raduno,riu-
nione, (concistoro, concilio è Dove il fior de’ baroni è radunato,
usato anche per raduni laici). Ad uno ad un per giostra contrastare:
6-8 e come... corona: l’en-
tità puramente simbolica del
O voglia esser pagano o battizato,
premio (premio de virtute, Fuor de la terra lo venga a trovare,
premio per il valore cavalle- Nel verde prato alla Fonte del Pino,
resco) è citata qui da Angeli-
ca come sicuro indizio di un Dove se dice al Petron di Merlino.
nobile disinteresse, tipico
dell’etica cavalleresca, che dà 28. Ma fia questo con tal condizïone
valore assoluto alla giostra.
27 (Colui l’ascolti che si vôl provare):
4 ad uno... contrastare:
Ciascun che sia abattuto de lo arcione,
di sfidare a duello uno dopo
l’altro tutti i baroni. La giostra Non possa in altra forma repugnare,
è propriamente un duello E senza più contesa sia pregione;
che veniva svolto non allo
scopo di ferire o di uccidere Ma chi potesse Uberto scavalcare,
l’avversario, bensì di dimo- Colui guadagni la persona mia:
strare la superiorità dell’uno Esso andarà con suoi giganti via. –
o dell’altro dei due conten-
denti:a tal proposito spesso si
usavano armi smussate e – 29. Al fin delle parole ingenocchiata
come proporrà Argalia – il
duello finiva quando un ca- Davanti a Carlo attendia risposta.
valiere veniva disarcionato. Ogni om per meraviglia l’ha mirata,
5 o voglia... battizato: lo
sfidante,che si tratti di un pa-
Ma sopra tutti Orlando a lei s’accosta
gano o di un cristiano (non Col cor tremante e con vista cangiata,
importa), venga a incontrare Benché la voluntà tenìa nascosta;
mio fratello fuori delle mura
cittadine (fuor de la terra). E talor gli occhi alla terra bassava,
8 dove... Merlino: che si Ché di se stesso assai si vergognava.
chiama il Pietrone di Merli-
no. Secondo la leggenda ar-
turiana è il luogo (ovvia- 30. «Ahi paccio Orlando!» nel suo cor dicia
mente favoloso) dove il ma- «Come te lasci a voglia trasportare!
go Merlino fu sepolto per
incantesimo. Non vedi tu lo error che te desvia,
28
E tanto contra a Dio te fa fallare?
1 Ma fia... condizïone:
ma la sfida sia fatta (lett.questo Dove mi mena la fortuna mia?
accada) a tali condizioni, Vedome preso e non mi posso aitare;
che... Io, che stimavo tutto il mondo nulla,
4 non possa... repugna-
re: che non possa riprendere Senza arme vinto son da una fanciulla.
in alcuna altra forma (a piedi,
con la spada o la mazza) il passione suscitata in lui da rore, la colpa che ti allontana peraltro non ancora assalito dremo, Boiardo stesso si pre-
combattimento. Angelica). dalla retta via e ti fa tanto pec- dai saraceni?), tornerà con murerà di smentire il punto
5 pregione: prigioniero. 6 benché... nascosta: care contro a Dio. Il motivo ben altro vigore nella Gerusa- di vista di Orlando.
6 scavalcare: disarciona- benché cercasse di tenere della colpa in senso morale e lemme liberatadiTasso.Qui su- 5 mi mena: mi conduce.
re, far cadere da cavallo. celate le sue intenzioni (e i religioso, qui assai vago e ge- bito lascia subito il posto a un 6 aitare: difendere, libe-
7 guadagni... mia: abbia suoi sentimenti). nerico (si sente in colpa per- senso di colpa tutto profano rare (dai lacci da cui è preso).
me in premio. 30 ché è sposato? perché abban- per la propria debolezza di Fuor di metafora, non sa
29 1 paccio: pazzo. donerà la moglie cristiana per fronte all’amore: il prode trattenersi.
5 con vista cangiata: 2 a voglia: dal desiderio. una pagana? perché abban- guerriero si arrende di fronte
mutato nell’aspetto (per la 3-4 lo error... fallare?: l’er- donerà il campo cristiano, a una fanciulla! Ma,come ve-

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18. La narrativa del Quattrocento T 18.4

31. Io non mi posso dal cor dipartire


La dolce vista del viso sereno,
Perch’io mi sento senza lei morire,
E il spirto a poco a poco venir meno.
Or non mi val la forza, né lo ardire
Contra d’Amor, che m’ha già posto il freno;
Né mi giova saper, né altrui consiglio,
Ch’io vedo il meglio ed al peggior m’appiglio.»

32. Così tacitamente il baron franco


Si lamentava del novello amore.
Ma il duca Naimo, ch’è canuto e bianco,
Non avea già de lui men pena al core,
Anci tremava sbigotito e stanco,
Avendo perso in volto ogni colore.
31
Ma a che dir più parole? Ogni barone
1 dal cor dipartire: to- Di lei si accese, ed anco il re Carlone.
gliere dal cuore.
2 vista: aspetto.
6 m’ha... freno: mi ha
33. Stava ciascuno immoto e sbigottito,
già sottomesso (cfr. 30,6 ve- Mirando quella con sommo diletto;
dome preso).
7 né mi... saper: e non
Ma Feraguto, il giovenetto ardito,
mi è utile sapere come Sembrava vampa viva nello aspetto,
dovrei comportarmi. E ben tre volte prese per partito
8 ch’io vedo.. m’appi-
glio: so qual è il bene e Di torla a quei giganti al suo dispetto,
scelgo il male. È il verso E tre volte afrenò quel mal pensieri
finale della canzone I’ vo
pensando del Petrarca Per non far tal vergogna allo imperieri.
(Canz. CCLXIV).
32
3 il duca Naimo: Na-
34. Or su l’un piede, or su l’altro se muta,
mo duca di Baviera, di Grattasi ’l capo e non ritrova loco;
solito presentato come un Rainaldo, che ancor lui l’ebbe veduta,
modello di saggezza, anche
in ragione dell’età (canuto e Divenne in faccia rosso come un foco;
bianco).
5 anci: anzi.
E Malagise, che l’ha cognosciuta,
8 Carlone: «forma po- Dicea pian piano: «Io ti farò tal gioco,
polare derivata dalla fran- Ribalda incantatrice, che giamai
cese (Carlun è spesso nella
Chanson de Roland)» (Sca- De esser qui stata non te vantarai.»
glione).
33
1 sbigottito: torna per
35. Re Carlo Magno con lungo parlare
la terza volta questa espres- Fe’ la risposta a quella damigella,
sione tipica di Cavalcanti Per poter seco molto dimorare.
(nelle sue rime è indice
della potenza devastante Mira parlando e mirando favella,
d’amore). Né cosa alcuna le puote negare,
3 Feraguto: cavaliere
saraceno, che prenderà Ma ciascuna domanda li suggella
nome di Ferraù nell’Orlan- Giurando de servarle in su le carte:
do furioso.
6 di torla... dispetto: di Lei coi giganti e col fratel si parte.
portarla via ai due giganti
a loro dispetto.
7 afrenò... penseri: 34 dotato di poteri magici, principali cavalieri, cristia- 35
tenne a freno quel cattivo 2 e non ritrova loco: perciò si dice che l’ha co - ni e pagani, per portarli da 6-7 ma ciascuna... carte:
pensiero (sarebbe stata una non riesce a star fermo. gnosciuta, l’ha riconosciuta re Galifrone suo padre). «glie l’accoglie apponendo
villania in assoluto, ma – 5 Malagise: cavaliere come ingannatrice, ne ha 7 ribalda incantatrice:
quasi l’imperial suggello, e
come è subito precisato – cristiano (Malagigi nel Fu - scoperto l’inganno (Ange- malvagia incantatrice, sia promettendo di tenervi
anche un’offesa nei con- rioso) cugino di Rainaldo lica ha dotato Argalia di perché Angelica è esperta fede come se avesse giura-
fronti di re Carlo, di cui o Ranaldo (Rinaldo nel armi fatate e medita così di arti magiche sia perché to sul Vangelo» (Scaglio-
Angelica era ospite). Furioso) e di Orlando. È di far prigionieri tutti i incanta con la sua bellezza. ne).

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Quattrocento e Cinquecento

Guida all’analisi
La corte, i suoi costumi e i suoi valori Boiardo, che sin dal proemio si rivolge ai nobili cortigiani come a suoi in-
terlocutori privilegiati, colloca la prima scena del poema in un ambiente in cui il suo pubblico
– «Gente ligiadra, nobile e gentile, / Che seguite ardimento e cortesia» (II, X, 1.4-5) – possa
proiettarsi e riconoscersi. Nelle ottave qui riprodotte emerge innanzitutto il tema della vita ma-
teriale di corte, e dei suoi rituali sociali: subito vediamo sfilare vivande finissime servite su piat-
ti d’oro, indice di eccezionale ricchezza e raffinatezza, e i doni che Carlo offre a ciascun convi-
tato, mostrando di conoscerlo e ricordarlo personalmente (ott. 19). Il convito è caratterizzato
anche dalla musica, dall’allegria e da una conversazione nobile e raffinata. L’allegria è un tipico
connotato della corte sin dalla poesia franco-provenzale e siciliana del XII-XIII secolo; qui però
si tratta di un’allegria misurata e composta (i convitati non alzano la voce, non assumono atteg-
giamenti sguaiati). I «bei ragionamenti», anch’essi di remota origine, sono un tratto saliente an-
che delle corti rinascimentali, soprattutto là dove si impone la cultura umanistica che fa della
colta e raffinata conversazione uno dei suoi supremi ideali. Analogamente, sul piano della mo-
rale, vengono subito chiamati in causa ideali di comportamento e valori che il pubblico di cor-
te può condividere e riconoscere come propri; Angelica così può fare appello alla magnanimità,
al valore di re Carlo e alle prodezze dei suoi paladini (24.1-2), alla nobiltà e all’eccellenza dei pre-
senti (26.5 e 27.3), può celebrare la felicità del suo regno, frutto di buon governo (24.8), può esal-
tare come suprema manifestazione di nobiltà il disinteresse che muove paladini e cavalieri a ci-
mentarsi nella giostra (26.6-8).
Angelica, «ribalda incantatrice» In questo contesto nobile e raffinato fa la sua improvvisa comparsa Angelica, se-
gnalata dalla presenza di alcuni elementi tradizionali: consueti paragoni naturali (col giglio, con
la rosa, con la «matutina stella», 21.6-6), echi di metafore cortesi («fiore» di bellezza, ella supera
tutte le altre donne22.8), lo stupore degli astanti (23.4). Nella caratterizzazione di Angelica,
nuovo rispetto alla tradizione cortese-stilnovistica sarà nel poema soprattutto il suo dinamismo
e vitalismo, che si indovina sin d’ora nella solarità di quel suo viso allegro, di quel sorriso am-
maliante (23.6-7). Ma Angelica qui è anche personaggio falso e simulatore: il «parlar basso», il te-
nore della prima parte del discorso, elogiativo e suasivo, e infine l’atto di umile attesa («ingenoc-
chiata... attendia risposta», 29.1-2) sono certo segni di cortesia e di rispetto consoni al contesto
regale, ma sono anche atti simulati che nascondono un’insidia. In effetti mentre tutti sembrano
accecati dalla sua bellezza, sbigottiti e prostrati, Malagise, che è anche lui dotato di poteri magici,
svela la natura di Angelica, definendola senza mezzi termini «ribalda incantatrice». Quella di An-
gelica si presenta dunque subito come una doppia natura di esperta di inganni e di artifici magi-
ci (lo dichiarerà poco più avanti il narratore, 37.2-4), ma anche di donna affascinante che ‘incan-
ta’ e getta scompiglio con la sua naturale bellezza (40, 1-3). Queste ottave iniziali del poema in-
troducono insomma un personaggio di larga fortuna nel poema cavalleresco ed eroico, la donna
seduttrice e incantatrice, erede profondamente rinnovata di lontani modelli come la Circe ome-
rica, ma prototipo anche dell’Angelica ariostesca e dell’Armida tassiana.
L’amore come elemento perturbante Il fascino di Angelica (assai più che l’incantesimo delle armi di Argalia) non
manca di produrre i suoi effetti: tutti i cavalieri sono presi dall’amore per lei, anche se ciascuno cer-
ca di tenere a freno i propri violenti impulsi, per decoro personale e rispetto del nobile consesso.
Ma appunto l’amore compare qui come elemento potenzialmente in grado di perturbare la sere-
nità e l’urbanità della vita di corte e presto farà sciamare molti paladini al suo inseguimento sin nel-
le più remote parti del mondo. In questo senso di vergogna per la perdita del controllo di sé proba-
bilmente vanno lette le parole di Orlando (29-31), anche se vi si intreccia pure il motivo morale e
religioso, ma in forma vaga e non preponderante (anche il disprezzo di re Carlo per i pagani appa-
re poco più che un residuo della tradizione carolingia, cfr. note a 20.5 e 30.3-4). In realtà Boiardo,
pur sfruttandolo per movimentare l’intreccio, non porta alle estreme conseguenze il tema dell’a-
more perturbante (sarà Ariosto a farlo nell’Orlando furioso, marcando le distanze dal suo modello) o
moralmente colpevole (sarà il Tasso a farlo nella Gerusalemme liberata), né vuole attribuirgli partico-
lare valore ideologico.Anzi privilegierà e darà rilievo ideologico al suo esatto contrario: l’amore
come forza vitalistica e impulso nobilitante che costituisce la molla fondamentale dell’agire uma-
no e consente all’individuo di realizzarsi come uomo nel senso più nobile del termine [R Doc 18.6 ].
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18. La narrativa del Quattrocento T 18.4

Doc 18.6 L’amore (e le armi) nel proemio e nei commenti del narratore

Il paladino inna- Con l’entrata in scena di Angelica fa la sua comparsa anche il tema d’amore, che era
morato tipico del ciclo arturiano ma si era già fatto strada anche in quello carolingio, portando
alla sostanziale fusione dei due cicli già nella tradizione canterina del secolo preceden-
te. È vero però che in nessuna opera precedente l’amore costituiva per Orlando e gli al-
tri paladini la molla prima del loro agire, come era accaduto per alcuni personaggi del
ciclo bretone e come accade ora per Orlando e per tanti altri nell’Innamorato. Giusta-
mente quindi Boiardo può insistere sin dal titolo e dal proemio sulla novità strutturale e
culturale da lui introdotta. D’altronde se erano tramontate le idealità religiose vive nel-
l’età delle prime crociate, era tramontato anche lo spirito cortese medievale che anima-
va i cavalieri della Tavola rotonda: la riproposizione di idealità e valori “cortesi” quali
l’amore, il valore cavalleresco, lo spirito d’avventura non poteva essere fatta da Boiardo
né da alcun altro suo contemporaneo se non in un’ottica moderna, rinascimentale.
Quindi non si tratta tanto di un’operazione nostalgica e regressiva, quanto di un’opera-
zione che ha come referente la vita e i valori della corte moderna, la cultura rinasci-
mentale e, come interlocutore, un pubblico vivo e ben connotato: il mondo dei paladi-
ni e quello dei cavalieri erranti, con i valori e i comportamenti ‘d’epoca’ che vengono
evocati, sono una metafora, un simbolo che allude a una realtà ben più attuale.
Potenza d’amore L’episodio che abbiamo letto è innanzitutto una esemplificazione della potenza d’a-
more asserita, poche ottave prima, nel proemio di tutta l’opera. Tutte le peripezie del
poema, tutte le «mirabil prove» sostenute dal protagonista hanno come scaturigine l’a-
more: e ciò non deve stupire – dice Boiardo – perché all’amore nessuno, nemmeno il
più rude e valoroso cavaliere, può resistere, e ognuno è da lui «vinto» e «subiugato», sog-
giogato (eco di un noto motivo cortese-stilnovistico: Amore abbatte orgoglio).

1 Signori e cavallier che ve adunati 2 Non vi par già, signor, meraviglioso


Per odir cose dilettose e nove, Odir cantar de Orlando inamorato,
Stati attenti e quïeti, ed ascoltati Ché qualunche nel mondo è più orgoglioso,
La bella istoria che ’l mio canto muove; È da Amor vinto, al tutto subiugato;
E vedereti i gesti smisurati, Né forte braccio, né ardire animoso,
L’alta fatica e le mirabil prove Né scudo o maglia, né brando affilato,
Che fece il franco Orlando per amore Né altra possanza può mai far diffesa,
Nel tempo del re Carlo imperatore. Che al fin non sia da Amor battuta e presa.

Laboratorio 1 Indica per ciascun personaggio quale rea- dello stupore degli astanti nella lirica stil-
COMPRENSIONE zione ha alla comparsa e all’annuncio di novistica, il motivo dei bei ragionamenti
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE Angelica (sottolinea le espressioni più si- nel proemio del Novellino. Inoltre puoi
gnificative). svolgere una breve ricerca confrontando
2 In quali espressioni – riferite alle reazioni l’Angelica boiardesca con la Circe omeri-
dei cavalieri all’apparizione di Angelica – ca (Odissea, ...), con la Angelica ariostesca
si può rilevare un influsso diretto della [R T 24.3 ], e con la maga Armida nel Tas-
tradizione lirica? so [R T 31.10 ]. Ora o nel corso dell’anno
3 Individua e analizza i passi in cui più puoi sviluppare anche il confronto fra la
esplicitamente viene evidenziato il rap- concezione dell’amore ad esempio: nei
porto armi/amore (ovvero valore guer- poeti siciliani, in quelli stilnovistici e in
riero/amore). Dante, in Boccaccio, in Petrarca e infine
4 Rintraccia e confronta nell’antologia i in Ariosto e Tasso (di cui puoi sin d’ora
modelli citati: il motivo del gioco e del leggere almeno i proemi ai loro poemi,
riso a corte nei poeti siciliani, il motivo R T 24.2 e R T 31.6 )
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Quattrocento e Cinquecento

T 18.5 Matteo Maria Boiardo, Orlando innamorato ed. 1483


Il duello: Orlando contro Agricane [I, XVIII 29-45 e I, XIX, 3-16]
M.M. Boiardo Nel corso delle innumerevoli peripezie che la fuga di Angelica mette in moto, i perso-
Orlando innamorato naggi principali si ritrovano tutti all’assedio di Albraca, nel lontano e favoloso Oriente,
a c. di A. Scaglione, UTET,
Torino 1969 chi per insidiare chi per difendere la bella protagonista. In questo contesto si colloca que-
sto celebre duello, che si conclude con la conversione e la morte di Agricane: si tratta di
un bell’esempio di duello ad alta tensione drammatica, che per una volta fa toccare al-
l’Orlando innamorato i toni epici della più remota tradizione del genere; ma è anche un
passo da cui emerge con particolare chiarezza l’Umanesimo cortese che ispira il poeta.

I, XVIII

29 29. Orlando ed Agricane un’altra fiata


1 Agricane: è il re tarta-
ro che, dopo aver invano Ripreso insiem avean crudel battaglia;
chiesto in sposa Angelica, La più terribil mai non fo mirata:
ha cinto d’assedio Albraca
(città che Boiardo dice es- L’arme l’un l’altro a pezo a pezo taglia.
sere lontana una giornata Vede Agrican sua gente sbaratata,
dal Catai, cioè dalla Cina, e Né li pô dare aiuto che li vaglia,
forse corrisponde alla Boca-
ra di cui parla Marco Polo Però che Orlando tanto stretto il tene,
nel Milione), dove Angelica Che star con seco a fronte li conviene.
è rifugiata. In aiuto di An-
gelica, fra gli altri, è giunto
anche Orlando. – un’altra 30. Nel suo secreto fie’ questo pensiero:
fiata: un’altra volta, di nuo-
vo dopo un’interruzione. Trar fuor di schiera quel conte gagliardo,
3 la... mirata: la più ter- E poi che occiso l’abbia in su il sentiero
ribile che si sia (fo, fu) mai
vista. Tornar alla battaglia senza tardo;
5 sbaratata: sbaragliata. Però che a lui par facile e legiero
6 né... vaglia: né alla sua
gente (li, gli) può portare
Cacciar soletto quel popol codardo;
aiuto che sia loro utile (li va- Ché tutti insieme, e il suo re Galafrone,
glia).
7 tanto... tene: lo incal-
Non li stimava quanto un vil bottone.
za così da presso.
8 che... conviene: che è 31. Con tal proposto se pone a fuggire,
costretto a fronteggiarlo.
30 Forte correndo sopra alla pianura;
1 Nel suo... pensiero: Il conte nulla pensa a quel fallire,
Agricane, fra sé e sé segreta-
mente formula questo pro- Anci crede che il faccia per paura;
getto. Senza altro dubbio se il pone a seguire.
2 trar... schiera: attirare
Orlando fuori dalle sue
E già son gionti ad una selva oscura;
schiere, isolare dal resto del- Aponto in mezo a quella selva piana
le truppe. Era un bel prato intorno a una fontana.
4 senza tardo: senza in-
dugio (tardo, ritardo).
5 però... ligiero: poiché 32. Fermosse ivi Agricane a quella fonte, 32
a lui pare impresa assai age- 4 né piastra... levare: e
vole (facile e ligiero, coppia E smontò dello arcion per riposare, non si volle (volse) togliere
sinonimica). Ma non se tolse l’elmo della fronte, né la corazza (piastra) né lo
7 Galafrone: è il padre scudo.
di Angelica e re del Catai. Né piastra o scudo se volse levare; 5 e poco... conte: e po-
31 E poco dimorò che gionse il conte, co attese prima che giun-
1 proposto: proposito. E come il vide alla fonte aspettare, gesse il conte.
3 nulla... fallire: non si 6-7 il vide... dissegli: il
rende per nulla conto del- Dissegli: – Cavallier, tu sei fuggito, soggetto è Orlando.
l’inganno, non pensa si trat- E sì forte mostravi e tanto ardito! 33
ti di un inganno. 1-2 Come ... cavalliero?:
5 se il... seguire: si mette come puoi sopportare tanto
ad inseguirlo. 33. Come tanta vergogna pôi soffrire disonore qual è (quale deri-
7 aponto: appunto. va dal) volgere le spalle ad un
8 fontana: fonte. A dar le spalle ad un sol cavalliero? solo cavaliere?

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18. La narrativa del Quattrocento T 18.5

4 fallito... pensiero: ti Forse credesti la morte fuggire:


sei sbagliato, hai sbagliato
progetto. Or vedi che fallito hai il pensiero.
5 die’: deve. Chi morir può onorato, die’ morire;
6 de legiero: facilmente.
7 durare: restare.
Ché spesse volte aviene e de legiero
34 Che, per durare in questa vita trista,
3 franco: valoroso. Morte e vergogna ad un tratto s’acquista. –
5-8 del tuo... donai: siano
motivo della tua salvezza il
tuo valore e la grande corte- 34. Agrican prima rimontò in arcione,
sia che hai dimostrato nei
miei confronti, quando ho Poi con voce suave rispondia:
portato soccorso alla mia – Tu sei per certo il più franco barone
gente. Orlando aveva inter- Ch’io mai trovassi nella vita mia;
rotto il duello con Agricane
per consentirgli di soccor- E però del tuo scampo fia cagione
rere i suoi che erano stati as- La tua prodezza e quella cortesia
saliti da un gigante. cane non sapeva se l’avver-
35 Che oggi sì grande al campo usato m’hai,
sario fosse cristiano o paga-
2 ma non tornasti: ma Quando soccorso a mia gente donai. no.
che tu non torni, fai in mo- 3-4 Chi... cangiarei: se
do di non tornare (tornasti, pure qualcuno mi potesse
tornassi). 35. Però te voglio la vita lasciare, fare sovrano del paradiso, io
3-4 Questo... scampo:
questo progetto (di toglierti Ma non tornasti più per darmi inciampo! non scambierei quella con
questa fortunata sorte (con
di mezzo senza ucciderti) fu Questo la fuga mi fe’ simulare, la possibilità cioè di battersi
quello che mi fece simulare Né vi ebbi altro partito a darti scampo. e confrontarsi con Orlan-
la fuga, né trovai altro modo do, uno dei più valorosi ca-
per salvarti la vita. Se pur te piace meco battagliare, valieri al mondo).
6 Se pur: se invece.
Morto ne rimarrai su questo campo; 5-6 ma... Dei: ma sin da
36
Ma siami testimonio il celo e il sole ora ti ricordo e ti intimo di
1 molto umano: con non discutere di questioni
molta benevolenza e com- Che darti morte me dispiace e duole. – di religione. L’intimazione,
prensione (ma il termine del tutto inattesa, di Agrica-
evoca il concetto di humani- ne, come vedremo nel se-
tas nella complessità dei suoi 36. Il conte li rispose molto umano, guito dell’episodio, non
sensi). Si noti come questo Perché avea preso già de lui pietate: implica tanto una tepidezza
«rispose molto umano» re- di fede (anche se poi, in
plichi il precedente «con – Quanto sei – disse – più franco e soprano, punto di morte, non esiterà
voce suave rispondia», rife- Più di te me rincresce in veritate, a convertirsi) quanto piut-
rito ad Agricane. tosto un’inettitudine dia-
3 franco e soprano: va- Che serai morto, e non sei cristïano, lettica e un fastidio nei con-
loroso ed eccelso (soprano, Ed andarai tra l’anime dannate; fronti delle dissertazioni
sovrano, superiore a ogni teoriche (dice: ciascuno
altro). Ma se vôi il corpo e l’anima salvare,
combatta in nome del suo
4 più... rincresce: tanto Piglia battesmo, e lasciarotte andare. – Dio, ma poche ciance!).
più mi dispiace per te. 8 brando: spada.
37 38
1 riguardollo in viso: lo 37. Disse Agricane, e riguardollo in viso: 1 Né... Tranchera: né
scrutò in volto. Agricane, – Se tu sei cristïano, Orlando sei. pronunciò altre parole, ma
rimarcata la nuova cortesia estrasse la spada; questa co-
dell’avversario, lo fissa in Chi me facesse re del paradiso, me molte spade pregiate di
volto, lo scruta con estrema Con tal ventura non lo cangiarei; celebri cavalieri ha un nome
attenzione, quasi a trovare proprio, Tranchera (che più o
conferma dell’identità o a Ma sino or te ricordo e dòtti aviso meno vale “tagliente”,
fissare nella mente l’imma- Che non me parli de’ fatti de’ Dei, “tranciatrice”).
gine del cavaliere che crede 2 se affronta: si dirige af-
ormai di aver riconosciuto Perché potresti predicare in vano:
frontandolo.
dalla nobiltà degli atti. Diffenda il suo ciascun col brando in mano. – 4 ponta: punta.
2 Se.... cristïano: Or- 5 una lumera: un mo-
lando ha appena rivelato di dello insigne, un esempio
essere cristiano (cfr. 36.5) e 38. Né più parole: ma trasse Tranchera, (lett.: un lume, metafora
questo restringe il campo E verso Orlando con ardir se affronta. consueta per indicare eccel-
delle ipotesi. Ma qui im- lenza).
porta sottolineare che i due Or se comincia la battaglia fiera, 6 sterno: stettero, com-
schieramenti, degli assalito- Con aspri colpi di taglio e di ponta; batterono. – il libro: il libro
ri e dei difensori di Angeli- di Turpino (l’arcivescovo di
ca, non vedono necessaria- Ciascuno è di prodezza una lumera, Reims che secondo tradi-
mente contrapposti cristia- E sterno insieme, come il libro conta, zione avrebbe per primo
ni e pagani: si combatte per narrato la vicenda di Orlan-
rivalità in amore, non per Da mezo giorno insino a notte scura,
do), fonte immaginaria del-
motivi di fede: perciò Agri- Sempre più franchi alla battaglia dura. l’Orlando innamorato.

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Quattrocento e Cinquecento

39 39. Ma poi che il sole avea passato il monte,


1 avea.... monte:era tra-
montato dietro una monta- E cominciosse a fare il cel stellato,
gna. Prima verso il re parlava il conte:
6 se poseremo: ci sdra-
ieremo, ci riposeremo.
– Che farem, – disse – che il giorno ne è andato?
7 pare: apparirà, spun- Disse Agricane con parole pronte:
terà. – Ambo se poseremo in questo prato;
40
5 palese: visibile, scoper- E domatina, come il giorno pare,
to (senza difese). Ritornaremo insieme a battagliare. –
41
2 condecente: conve-
nienti. 40. Così de acordo il partito se prese.
5 la divina monarchia:
Dio, signore del mondo. Lega il destrier ciascun come li piace,
42 Poi sopra a l’erba verde se distese;
2 vôi: vuoi. Come fosse tra loro antica pace,
5 e roppi... merto: e
ruppi il capo al mio maestro L’uno a l’altro vicino era e palese.
per ricompensa. Orlando presso al fonte isteso giace,
43
3 a gentilezza: a un ari- Ed Agricane al bosco più vicino
stocratico. Stassi colcato, a l’ombra de un gran pino.
8 Io... conviene: io so
quel tanto che conviene al
mio stato di nobile cavaliere. 41. E ragionando insieme tuttavia
44
1 io... segno: io concor- Di cose degne e condecente a loro,
do con te (lett.: miro allo Guardava il conte il celo e poi dicia:
stesso bersaglio, metafora – Questo che or vediamo, è un bel lavoro,
militare).
3 faccia men degno: Che fece la divina monarchia;
renda l’uomo meno degno E la luna de argento, e stelle d’oro,
d’onore.
4 anci: anzi. E la luce del giorno, e il sol lucente,
Dio tutto ha fatto per la umana gente. –

42. Disse Agricane: – Io comprendo per certo


Che tu vôi de la fede ragionare;
Io de nulla scïenzia sono esperto,
Né mai, sendo fanciul, volsi imparare,
E roppi il capo al mastro mio per merto;
Poi non si puotè un altro ritrovare
Che mi mostrasse libro né scrittura,
Tanto ciascun avea di me paura.

43. E così spesi la mia fanciulezza


In caccie, in giochi de arme e in cavalcare;
Né mi par che convenga a gentilezza
Star tutto il giorno ne’ libri a pensare;
Ma la forza del corpo e la destrezza
Conviense al cavalliero esercitare.
Dottrina al prete ed al dottor sta bene:
Io tanto saccio quanto mi conviene. –

44. Rispose Orlando: – Io tiro teco a un segno,


Che l’arme son de l’omo il primo onore;
Ma non già che il saper faccia men degno,
Anci lo adorna come un prato il fiore;
Ed è simile a un bove, a un sasso, a un legno,
Chi non pensa allo eterno Creatore;
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18. La narrativa del Quattrocento T 18.5

Né ben se può pensar senza dottrina


La summa maiestate alta e divina. –

45. Disse Agricane: – Egli è gran scortesia


A voler contrastar con avantaggio.
Io te ho scoperto la natura mia,
E te cognosco che sei dotto e saggio.
Se più parlassi, io non risponderia;
Piacendoti dormir, dòrmite ad aggio,
E se meco parlare hai pur diletto,
De arme, o de amore a ragionar t’aspetto.
45 proseguire il discorso su un tema a ferisce a una contesa in armi, qui ha 6 ad aggio: con tuo agio, a tuo
2 contrastar con avantaggio: proposito del quale Agricane ha già valore metaforico, riferendosi a una piacimento.
contendere in condizioni di vantag- dichiarato la propria inferiorità. L’e- contesa dialettica. 8 t’aspetto: è detto con una lieve
gio, di manifesta superiorità. È in- spressione, tipica del linguaggio ca- 4 te cognosco: ti riconosco, ti sfumatura di sfida.
somma scortese da parte di Orlando valleresco, che in senso proprio si ri- concedo.

Parlando d’amore Agricane scopre che il suo avversario è, come lui, innamorato di An-
gelica: non lo più tollerare e, prima che si faccia giorno, lo sfida al duello.

I, XIX
3 3. Agrican combattea con più furore,
2 con più... servava: più Il conte con più senno si servava;
saggiamente risparmiava le
forze. Già contrastato avean più de cinque ore,
4 se schiarava: si schiari-
E l’alba in orïente se schiarava:
va; ma sarà da intendersi:
schiariva il cielo. Or se incomincia la zuffa maggiore.
5 la zuffa maggiore: la Il superbo Agrican se disperava
fase cruciale, decisiva del
duello. Che tanto contra esso Orlando dura,
7 contra esso... dura: E mena un colpo fiero oltra a misura.
contro di lui... resistesse.
4
1 disperato: che non dà 4. Giunse a traverso il colpo disperato,
speranza (meglio che ‘infer- E il scudo come un latte al mezzo taglia;
to da chi è disperato’), tre-
mendo. Piagar non puote Orlando, che è affatato,
3 affatato:fatato,reso in- Ma fraccassa ad un ponto e piastre e maglia.
vulnerabile da un incantesi-
mo. Non puotea il franco conte avere il fiato,
5 Non puotea... fiato: Benché Tranchera sua carne non taglia;
non riusciva quasi a respira-
re. Fu con tanta ruina la percossa,
6 non taglia: non ta- Che avea fiaccati i nervi e peste l’ossa.
gliasse, non avesse tagliato.
7 ruina: danno, rovina.
5 5. Ma non fo già per questo sbigotito,
3 Gionse... partito: Or- Anci colpisce con maggior fierezza.
lando lo raggiunse, lo colpì
nello scudo tranciandolo in Gionse nel scudo, e tutto l’ha partito,
due. Ogni piastra del sbergo e maglia spezza,
4 sbergo: usbergo, co-
razza. E nel sinistro fianco l’ha ferito;
8 coste: costole. E fo quel colpo di cotanta asprezza,
Che il scudo mezo al prato andò di netto,
E ben tre coste li tagliò nel petto.

6. Come rugge il leon per la foresta,


Allor che l’ha ferito il cacciatore,
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Quattrocento e Cinquecento

6 Così il fiero Agrican con più tempesta 5 se... un’ora: se indugio


4 rimena... furore:resti- ancora un’ora a por fine alla
tuisce un colpo con stra- Rimena un colpo di troppo furore. battaglia, cioè a sconfiggere
ordinario (troppo) furore, di Gionse ne l’elmo, al mezo della testa; Agricane.
straordinaria violenza. Non ebbe il conte mai botta maggiore, 7-8 chiamomi... lato:
7 ch’io sia dannato se toc-
1 Non vedea... nïente: E tanto uscito è fuor di cognoscenza cherò mai più una spada.
non vedeva più nulla, era ri- Che non sa se egli ha il capo, o se egli è senza. 10
masto accecato (lett. attra- 1 Il fin... inteso: le sue
verso gli occhi non vedeva ultime parole non sono
in nessun modo la luce). 7. Non vedea lume per gli occhi nïente, comprensibili.
3 corrente:rapido,veloce. 2 le parole incocca: bal-
6 se... durava: se fosse ri- E l’una e l’altra orecchia tintinava; betta.
masto ancora (ponto) in Sì spaventato è il suo destrier corrente, 3-4 foco... bocca: il fiato
quella condizione di stordi- che gli esce da naso e bocca
mento. Che intorno al prato fuggendo il portava; sembra un fuoco acceso dal
7-8 ma... arcione: ma, tro- E serebbe caduto veramente, furore (meglio che: il fiato
vandosi in procinto di cade- Se in quella stordigion ponto durava; acceso di furore, emesso con
re, per tale causa riprese i furia...sembra un fuoco).
sensi, ritrovò lucidità (lett.: Ma, sendo nel cader, per tal cagione 6-7 con... riverso: con la
gli ritornò lo spirito) e si Tornolli il spirto, e tennese allo arcione. spada Durindana impugna-
mantenne in sella. ta con entrambe le mani lo
8 colpisce sopra la spalla destra
1-2 E venne... avanzato: 8. E venne di se stesso vergognoso, vibrando il colpo da sinistra
provò vergogna di sé nel ve- verso destra, con un manro-
dersi così nettamente supe- Poi che cotanto se vede avanzato. vescio.
rato. «Come andarai – diceva doloroso 8 diverso: inusitato, ec-
3-4 Come... vituperato?: cezionale.
come potrai mai presentarti – Ad Angelica mai vituperato? 11
ad Angelica così disonorato Non te ricordi quel viso amoroso, 1 dichina: cala, affonda.
(per la sconfitta)? Che a far questa battaglia t’ha mandato? 2 il pancirone: la parte
7-8 Ma... perire: ma se chi della corazza (sbergo) depu-
è richiesto di un servizio Ma chi è richiesto, e indugia il suo servire, tata a proteggere la pancia.
tarda a compierlo, quando Servendo poi, fa il guidardon perire. 3 de una maglia fina:
poi lo compie perde co- naturalmente una maglia
munque il diritto alla ri- metallica, fina perché fitta
compensa (qui la benevo- 9. Presso a duo giorni ho già fatto dimora (non già sottile) o di fine fat-
lenza, l’amore di Angelica). tura.
9 Per il conquisto de un sol cavalliero, 4 gallone: fianco.
1-4 Presso... primiero: ho E seco a fronte me ritrovo ancora, 5 tanta roina: tanta rovi-
già impiegato quasi due na, un colpo così devastante.
giorni nel tentativo di abbat- Né gli ho vantaggio più che il dì primiero. 6 gionse nell’arcione: il
tere un solo cavaliere e me lo Ma se più indugio la battaglia un’ora, colpo va tanto a fondo che,
ritrovo ancora di fronte, sen- L’arme abandono ed entro al monastero: trapassando Argante, giunge
za aver acquisito maggior a colpire la sella. Si noti l’ir-
vantaggio di quanto ne avessi Frate mi faccio, e chiamomi dannato, regolare alternanza di tempi
il primo giorno, cioè senza Se mai più brando mi fia visto al lato.» (presente, passato remoto).
aver fatto alcun progresso.

10. Il fin del suo parlar già non è inteso,


Ché batte e denti e le parole incocca;
Foco rasembra di furore acceso
Il fiato che esce fuor di naso e bocca.
Verso Agricane se ne va disteso,
Con Durindana ad ambe mano il tocca
Sopra alla spalla destra de riverso;
Tutto la taglia quel colpo diverso.

11. Il crudel brando nel petto dichina,


E rompe il sbergo e taglia il pancirone;
Benché sia grosso e de una maglia fina,
Tutto lo fende in fin sotto il gallone:
Non fo veduta mai tanta roina.
Scende la spada e gionse nello arcione:
De osso era questo ed intorno ferrato,
Ma Durindana lo mandò su il prato.
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18. La narrativa del Quattrocento T 18.5

12. Da il destro lato a l’anguinaglia stanca


Era tagliato il re cotanto forte;
Perse la vista ed ha la faccia bianca,
Come colui ch’è già gionto alla morte;
E benché il spirto e l’anima li manca,
Chiamava Orlando, e con parole scorte
Sospirando diceva in bassa voce:
– Io credo nel tuo Dio, che morì in croce.

13. Batteggiame, barone, alla fontana


Prima ch’io perda in tutto la favella;
E se mia vita è stata iniqua e strana,
Non sia la morte almen de Dio ribella.
Lui, che venne a salvar la gente umana,
L’anima mia ricoglia tapinella!
Ben me confesso che molto peccai,
Ma sua misericordia è grande assai. –

14. Piangea quel re, che fo cotanto fiero,


E tenìa il viso al cel sempre voltato;
Poi ad Orlando disse: – Cavalliero,
In questo giorno de oggi hai guadagnato,
Al mio parere, il più franco destriero
Che mai fosse nel mondo cavalcato;
Questo fo tolto ad un forte barone,
Che del mio campo dimora pregione.

15. Io non me posso ormai più sostenire:


Levame tu de arcion, baron accorto.
Deh non lasciar questa anima perire!
Batteggiami oramai, ché già son morto.
Se tu me lasci a tal guisa morire,
Ancor n’avrai gran pena e disconforto. –
Questo diceva e molte altre parole:
Oh quanto al conte ne rincresce e dole!
16. Egli avea pien de lacrime la faccia,
E fo smontato in su la terra piana;
Ricolse il re ferito nelle braccia,
E sopra al marmo il pose alla fontana;
E de pianger con seco non si saccia,
Chiedendoli perdon con voce umana.
Poi battizollo a l’acqua della fonte,
Pregando Dio per lui con le man gionte.

12 concessivo, «pur così for- metonimia per ‘la vita’. 14 (si riferisce ad Orlando, che
1 a l’anguinaglia stan- te»). 3 strana: vissuta da infe- 8 del... prigione: che è smonta da cavallo per de-
ca: all’inguine sinistro. 6 scorte: «“sagaci”, ma è dele, cioè estranea alla fede. tenuto prigioniero al mio porre l’avversario ferito).
2 cotanto forte: andrà una zeppa» (Contini). 4 de Dio ribella: ribelle campo. 5 de pianger... saccia:
inteso come avverbio, «così 13 a Dio. 15 non si sazia, non smette di
gravemente», piuttosto che 1 Batteggiame: battez- 6 l’anima... tapinella: 6 disconforto: rimorso. piangere con lui.
come epiteto di re (nel qual zami. accolga la mia povera ani- 16
caso avrebbe un valore 2 la favella: la parola, ma. 2 fo smontato: smontò

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Quattrocento e Cinquecento

Guida all’analisi
Tradizione e modernità nella rappresentazione del duello: tragicità e ironia Il duello è uno dei momenti topi-
ci della narrativa epico-cavalleresca. In questo caso l’alta tensione drammatica, il riferimento a
ideali e valori religiosi che percorrono l’episodio, fanno sfiorare a queste pagine i toni e l’at-
mosfera che erano propri della primitiva tradizione epica, quando Orlando era essenzialmen-
te il paladino della fede. Si notino in proposito la bella descrizione del cielo stellato, opera del-
la «divina monarchia» nelle parole di Orlando (XVIII, 41), la sua celebrazione della fede
(XVIII, 44), ma soprattutto la patetica conversione di Agricane (XIX, 12-15), e il commosso
raccoglimento di Orlando nell’assistere alla morte del nemico convertitosi in extremis. Ma la
tensione dell’episodio è a tratti attenuata, se non venata d’ironia: lo si può rilevare nella rie-
vocazione del giovane Agricane che rompe «il capo al mastro suo per merto», che strappa un
sorriso, o nel passo «Non ebbe il conte mai botta maggiore, / E tanto uscito è fuor di co-
gnoscenza / Che non sa se egli ha il capo, o se egli è senza » (ott. 6, 5-8), che dipinge lo stor-
dimento del conte, ma lo fa con un paradosso ironico.
La cultura nella formazione del cavaliere Ai motivi delle armi e dell’amore e a quelli della fede e dell’onore, si
associa anche, nelle parole di Orlando, il motivo della dignità del sapere e della sua funzione
nobilitante, tratto questo di ascendenza umanistica (di un umanesimo cortese): se le armi so-
no «de l’omo il primo onore» (XVIII, 44,2), Orlando celebra contestualmente anche il sape-
re (XVIII, 44,3-4). E se questo sapere subito si connota in senso religioso («Ed è simile a un
bove, a un sasso, a un legno, / Chi non pensa allo eterno Creatore», ivi, 44,5-6), la sua più am-
pia valenza di formazione intellettuale emerge sia nelle parole di Orlando stesso (per riflette-
re sulla religione è necessaria preliminarmente molta «dottrina», ivi, 44,7-8), sia nel confron-
to con le precedenti parole di Agricane. Queste rimandano a una concezione alto-medievale
della nobiltà, che assegnava all’aristocratico solo una formazione cavalleresca, mentre la dot-
trina era riservata ai chierici (XVIII, 43,3-8). Il tono epico, la drammaticità della situazione
sono così raggiunti senza rinunciare ai motivi ispiratori di tutta l’opera, in chiave ‘moderna’,
cioè senza nostalgiche regressioni ad un passato definitivamente tramontato.
Il codice cavalleresco (negli ideali delle corti rinascimentali) Questo duello rivela anche quale idea avesse il Ri-
nascimento del codice di comportamento cavalleresco, cui attribuiva ideali di nobile lealtà e
profonda umanità che solo in parte ritroveremmo nelle fonti medievali: ne sono esempi l’in-
terruzione della fase precedente del duello ricordata all’ott. 34 e frutto della «cortesia» di Or-
lando, il reciproco rispetto, l’ammirazione anzi che lega i due contendenti, l’interruzione ri-
tuale al calar della notte e la lealtà con cui la tregua viene rispettata, il monito di Agricane
«Egli è gran scortesia / A voler contrastar con avantaggio» (XIX, 45, 1-2), il vigore della con-
tesa e la prontezza con cui l’estremo desiderio del vinto viene esaudito ne sono alcune ma-
nifestazioni probanti. Nel rievocare e riattualizzare gli ideali cortesi, insomma, Boiardo li ar-
ricchisce, pur nella sostanziale levità della narrazione, di una complessità e di una profondità
morale e culturale che è frutto della prospettiva umanistica con cui nelle corti rinascimentali
si tentava di far proprio il mito della cavalleria.

Laboratorio 1 Esamina il linguaggio e lo stile di Boiardo spetto fisico, dei sentimenti e degli stati d’a-
COMPRENSIONE e cerca di definirne le caratteristiche salien- nimo. Ci sono delle diffuse analisi interne?
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE ti. Prendi come termini di confronto i testi Ci sono espressioni che descrivono espres-
a te meglio noti della tradizione lirica (da samente degli stati d’animo? Si può dedur-
Petrarca in avanti), un passo di prosatore re qualcosa dello stato d’animo dei perso-
volgare del Quattrocento [R T 16.5 ] e natu- naggi dalla descrizione del loro aspetto
ralmente il Morgante di Pulci, che apparte- esteriore (se c’è), dei loro gesti, delle loro
nendo allo stesso genere costituisce il raf- parole? Che cosa sappiamo insomma della
fronto più significativo. Puoi riferirti an- psicologia dei personaggi e fino a che pun-
che ai risultati degli esercizi 2 e 4 al testo to all’autore interessa rappresentarcela?
precedente. 3 In uno scritto articolato svolgi, facendo
2 Analizza la rappresentazione dei personag- ampio riferimento ai testi letti, il seguente
gi: soffermati soprattutto sulla rappresenta- tema: “La rielaborazione della materia ca-
zione, se c’è e nella misura in cui c’è, dell’a- valleresca in Pulci e Boiardo”.
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18. La narrativa del Quattrocento VERIFICA

VERIFICA

18.1 Facezie e apologhi

1 Che cos’è la facezia e quali scopi si propone?


2 Quali sono i tratti peculiari della facezia umanistica? Qual è la raccolta più rappresentativa?
3 Che cosa sono gli apologhi e in che cosa differiscono dalla facezia?

18.2 Le novelle

4 Illustra le caratteristiche salienti della novella quattrocentesca, citando qualche opera.


5 Quali sono i tratti che soprattutto caratterizzano il Novellino di Masuccio Salernitano dal-
le altre raccolte coeve?
6 È corretto asserire che il Novellino fonde comicità, moralismo e gusto per il macabro?
7 Prova a spiegare il concetto di «grottesco».

18.3 Il romanzo pastorale e i generi narrativi minori

8 Che cos’è il romanzo pastorale? Da quali generi deriva? Quali sono i suoi modelli classici?
9 Spiega cosa significa l’espressione «codice bucolico» e quindi illustrane i tratti salienti.
10 Quali sono le caratteristiche peculiari (tematiche e formali) dell’Arcadia di Jacopo Sanna-
zaro?
11 Che cos’è un prosimetrum?
12 È corretto dire che l’aspetto che ha reso celebre l’Arcadia presso il pubblico rinascimentale
è il suo intreccio complesso e ricco di suspense?

18.4 Pulci e Boiardo: la nascita del poema cavalleresco

13 Che cosa sono i cantari? E i cicli di cantari? Chi sono gli autori? Quale il pubblico?
14 Che cosa si intende per «contaminazione del ciclo bretone e carolingio»?
15 Che differenza e che rapporto ci sono tra i cantari e i poemi di Pulci e Boiardo?
16 Riferisci i dati salienti delle biografie di Pulci e Boiardo, soffermandoti in particolare sugli
aspetti che le differenziano.
17 Quali sono le caratteristiche salienti che rendono il Morgante e l’Orlando innamorato due
modelli antitetici?
18 Esponi i dati in tuo possesso circa il rapporto tra Pulci e i Medici. Che cosa si intende per
«parodia e dissacrazione del progetto culturale mediceo»?
19 È corretto asserire che Pulci introduce nel suo poema un’attenzione particolare alla psico-
logia dei personaggi?
20 Quali sono i personaggi e i temi più tipici del Morgante?
21 Perché si può parlare di una «poetica antirinascimentale» del Pulci?
22 Quali ideali ispirano l’Orlando innamorato?
23 Quale funzione narrativa attribuisce Boiardo al personaggio di Angelica?
24 È corretto dire che la novità dell’Orlando innamorato non sta tanto nell’attribuire al perso-
naggio Orlando un’avventura amorosa quanto piuttosto nel concepire l’amore come una
passione esclusiva e nobilitante?
25 Illustra brevemente i nodi principali dell’intreccio.
26 Che cosa significa dire che Boiardo «rivitalizza una tradizione letteraria antica alla luce dei
valori dell’umanesimo cortese»?

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Quattrocento e Cinquecento

Angelo Poliziano
19
orientarsi nel mondo. Ma poesia, filologia e cultura fi-
losofica convergono anche in una visione della lette-
ratura come suprema attività dell’uomo, suprema ma-
nifestazione della sua nobiltà spirituale e della tensio-
ne civilizzatrice. Nei Miscellanea, nelle prolusioni in
prosa e in versi ai corsi universitari, nelle epistole e in
altri scritti Poliziano lascia testimonianza della sua
attività di filologo e critico umanista: un metodo filolo-
gico sicuro e innovativo, uno scrupolo estremo nell’in-
dagine delle testimonianze storiche e letterarie, la ca-
pacità di affrontare ogni problema in prospettiva sto-
rica, il gusto aristocratico della parola e dell’immagi-
ne rara, del lavoro scientifico difficile e specializzato
sono alcune delle caratteristiche di questa sua atti-
vità. Sul piano estetico Poliziano, in polemica con
n Vittore Carpaccio, Giovane Paolo Cortese, sostenne la necessità di imitare tutti
cavaliere (Madrid). gli autori di qualche pregio, in un processo di assimi-
lazione e interiorizzazione della parola degli antichi
La vita del Poliziano (1454-1494) è trascorsa pres- che costituisce il fondamento dell’originalità stilistica
soché interamente al servizio dei Medici a Firenze. La individuale.
condizione di poeta e umanista cortigiano gli conces- Fra i suoi scritti in volgare si segnalano le Stanze
se la tranquillità necessaria ai suoi studi. Fu precetto- per la giostra di Giuliano de’ Medici, poemetto che
re di Piero e segretario di Lorenzo. Anni di crisi furono narra l’innamoramento di Iulio per la bella Simonetta
per lui quelli successivi alla congiura dei Pazzi (1478- e che si sarebbe dovuto concludere con la celebrazio-
1480), che segnò la morte di Giuliano de’ Medici (pro- ne della vittoria di Iulio a una giostra; l’Orfeo, favola
tagonista delle Stanze, che anche per questo vennero pastorale che riprende il mito classico di Orfeo, pa-
interrotte). Sentendo forse in pericolo la propria posi- store disceso agli Inferi per riottenere la moglie Euri-
zione, il Poliziano decise di lasciare Firenze; vi fece dice, morta per il morso di un serpente; e infine nu-
però presto ritorno (1480), benevolmente accolto da merose Rime.
Lorenzo che gli affidò la cattedra di eloquenza greca Un sentimento pagano della natura, del tempo e
e latina allo Studio Fiorentino. Nel 1492, morto Loren- della vita percorre la poesia in volgare del Poliziano.
zo e complicatasi nuovamente la situazione fiorenti- Temi fondamentali sono la celebrazione della bellez-
na, Poliziano fece dei passi per trovare una più sicura za, della giovinezza e dell’amore, così come degli
sistemazione a Roma e addirittura fu raccomandato ideali umanistici di poesia, virtù, gloria, insidiati però
per il cardinalato. Ma morì nel 1494, prima che la no- tutti dal trascorrere del tempo e dall’incombere della
mina andasse in porto. morte, che proietta una tenue ombra di malinconia in
Poesia, filologia, cultura filosofica nel Poliziano, e molti dei testi più noti. La poesia del Poliziano è uno
specie nel Poliziano maturo, si intrecciano indissolu- dei momenti più alti della poesia quattrocentesca.
bilmente e convergono in una visione tutta terrena,
laica dell’uomo la cui virtù (la virtus umanistica) è an-
che la sua dignità e lo strumento che egli ha per

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19. Angelo Poliziano STORIA

19.1 Un laico al servizio della cultura


Il rapporto con la corte medicea Angelo Ambrogini nacque a Montepulciano il 14 luglio del 1454.
Dalla città natale derivò il nome di Politianus con cui venne chiamato negli ambienti
umanistici della Firenze medicea, sua seconda patria, e con cui è passato alla storia. A
Firenze giunse abbastanza presto, in seguito alla morte del padre avvenuta in circo-
stanze tragiche nel 1464; i suoi primi anni qui non dovettero essere facili, a causa dei
problemi economici che lo alliggevano. Grazie ai precoci meriti letterari, tuttavia, Po-
liziano riuscì presto a risolvere i suoi problemi accasandosi nel palazzo di via Larga, se-
de della corte medicea (1473): appena diciannovenne trovò nel Magnifico un protet-
tore sensibile e benevolo, a cui sarebbe rimasto legato per il resto della sua vita, e che
gli avrebbe concesso di dedicarsi con agio all’esercizio delle lettere cui lo indirizzava-
no natura e cultura. Le scelte fondamentali della vita di Poliziano a questo punto era-
no già compiute: dal 1473 al 1479 rimase al servizio di Lorenzo come suo cancelliere
e come precettore del figlio Piero, e dal 1480 al 1494, anno della morte, tenne la cat-
tedra di eloquenza greca e latina presso lo Studio fiorentino. Sono queste le coordina-
te fondamentali di un’esistenza breve e tutta dedicata agli studia humanitatis.
Poeta umanista e cortigiano La condizione di poeta cortigiano dovette apparirgli congeniale. Poli-
ziano era persona desiderosa di stabilità e di certezze, e gli studi che lo impegnavano
richiedevano tranquillità; la corte medicea poi in quegli anni era una corte illuminata,
tollerante, impegnata sin nella persona di Lorenzo alla diffusione e al rafforzamento
degli studi umanistici e alla valorizzazione della tradizione volgare. Poliziano conobbe
e frequentò personaggi di spicco nel campo della letteratura volgare e latina, e si giovò
dell’insegnamento di eminenti maestri umanisti, alcuni dei quali vennero chiamati ap-
posta per perfezionare le sue conoscenze di greco e di latino.
Fino al 1478 le cose procedettero bene: gli impegni sia pur talora gravosi di cancel-
liere di Lorenzo e di precettore di Piero non oscuravano i privilegi. Dopo aver esordi-
to con la traduzione in latino di alcuni libri dell’Iliade, che gli valse l’appellativo di
«homericus adulescens» [giovane omerico], Poliziano in questi anni compose gran
parte dei suoi versi in latino e in volgare e soprattutto le Stanze per la giostra di Giulia-
no de’ Medici, capolavoro della letteratura quattrocentesca. Una produzione copiosa, e
di assoluto valore sul piano dell’arte.
Un temporaneo soggiorno a Mantova Tuttavia le cose non andarono sempre così lisce né il suo
rapporto con i Medici fu sempre così chiaro e lineare. L’equilibrio venne turbato dal-
la fallita insurrezione dei Pazzi, di cui cadde vittima Giuliano de’ Medici, dedicatario e
protagonista delle Stanze, la cui composizione fu definitivamente interrotta. Era il 26
aprile 1478. A stento Lorenzo si era salvato con l’aiuto dello stesso Poliziano, e ora do-
veva affrontare difficoltà interne ed esterne, compresa la minaccia di un’invasione da
parte degli eserciti del papa e del re di Napoli. La situazione di crisi investì di riflesso
anche il giovane letterato: «quando la potenza di Lorenzo sembra vacillare [...] il Poli-
ziano sente in pericolo la quiete e la sicurezza che la protezione medicea gli aveva fi-
no ad allora assicurato»: è ragionevole quindi ipotizzare che tra i non chiari moventi
che lo spinsero d’un tratto a lasciare Firenze, proprio in concomitanza di un rischioso
viaggio di Lorenzo a Napoli, vi fosse «anche, e forse soprattutto, la volontà di cercare
un rifugio più pacifico e più sicuro» (Bigi).
Dopo qualche peregrinazione fra Emilia e Veneto, Poliziano approdò a Mantova dal
cardinale Francesco Gonzaga, cui dedicò l’Orfeo, composto forse proprio durante tale
soggiorno nel 1480. Lorenzo poi però tornò da Napoli con un accordo, sistemò la po-
litica interna e quella estera, consolidò il proprio potere e infine benevolmente riam-
mise Poliziano a Firenze. Gli concesse anche la cattedra di eloquenza greca e latina,
che contribuì ad aprire un nuovo periodo nella vita del poeta e fu per lui una collo-
cazione ottimale.
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Quattrocento e Cinquecento

Un cardinale mancato Dopo vari anni di stabilità un altro fatto giunge a turbare la vita di Poliziano e
complica il quadro dei suoi rapporti con le istituzioni. Nel 1492 muore Lorenzo, e per
Firenze si profilano anni difficili; ma tutta l’Italia è alla vigilia di una crisi storica di va-
ste proporzioni. Poliziano è probabilmente ripreso dall’inquietudine, dal senso di insi-
curezza e instabilità di quattordici anni prima: medita di lasciare di nuovo Firenze per
una collocazione più sicura, e questa volta la sua scelta cade sullo stato ecclesiastico.
«Sappiamo di certo» scrive Dionisotti «che nel 1493, quando aveva trentanove anni,
egli fu ufficialmente raccomandato da Piero de’ Medici al papa per la nomina a cardi-
nale». Si trattava, come per molti altri, di una scelta di stato e di carriera, non certo di
vocazione. La nomina non andò in porto perché nel 1494, poco prima della cacciata
di Piero de’ Medici, che quasi inevitabilmente avrebbe travolto lui pure, Poliziano si
spegneva quarantenne.

19.2 Poesia, filologia, estetica nel Poliziano umanista


Il culto della parola, manifestazione suprema della civiltà umana L’interesse per il mondo clas-
sico e la sua letteratura, l’impegno in direzione degli studi umanistici e filologici si
manifesta in Poliziano sin dall’adolescenza, quando traduce in latino parti dell’Iliade
e compone liriche ed epigrammi latini. Poesia e filologia – e nel Poliziano maturo
anche filosofia – si intrecciano indissolubilmente, perché nascono dal culto della pa-
rola come manifestazione suprema della civiltà umana. Poliziano ha una visione tut-
ta terrena e laica dell’uomo, la cui «virtù» (la virtus umanistica) è anche la sua dignità
e lo strumento che egli ha per orientarsi e affermarsi nel mondo. Ma la virtus del-
l’uomo, la sua nobiltà spirituale e la sua tensione civilizzatrice si realizzano al massi-
mo grado nell’arte della parola, cioè nella letteratura o (come allora si diceva, senza
troppo distinguere) nell’eloquenza.
Nella prolusione del 1480 al suo insegnamento di eloquenza greca e latina invitan-
do gli studenti alla lettura di Quintiliano, il grande retore latino la cui opera era stata
riscoperta da Poggio Bracciolini, Poliziano pronuncia un elogio dell’eloquenza, come
arte che consente all’uomo di conquistare prestigio personale nella vita pubblica e
privata, ma soprattutto di giovare agli amici alleviandone le pene e consolandoli, e a
tutti i suoi concittadini esortandoli e persuadendoli al bene, muovendoli a sdegno nei
confronti dei malvagi, orientandone e governandone la volontà politica in vista del
bene dello Stato, la cui origine stessa, in quanto comunità governata da leggi e costu-
mi civili, dipende in ultima istanza dai progressi della cultura.
Il metodo filologico di Poliziano Il punto cruciale è comprendere come nel Poliziano il culto della
parola non sia solo una formulazione ideale, una dichiarazione di principio, ma si rea-
lizzi concretamente attraverso un interesse profondo, rigoroso, analitico per tutti i do-
cumenti e le testimonianze del passato investigati e compresi con un acuto senso del-
la loro storicità.

Virtus umanistica ed eloquenza a se stesso: conquista prestigio personale


in privato
agli amici: consola e orienta
si esplica
Virtus al massimo grado
umanistica l’eloquenza giova
nell’arte della parola
(eloquenza)
etica
in pubblico ai concittadini orientandoli al bene
politica

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19. Angelo Poliziano STORIA

Doc 19.1 Prolusione al corso su Quintiliano e Stazio

Prosatori latini del


Quattrocento, Che cosa vi è di più bello che arrivare ad eccellere fra gli uomini in quella dote per cui gli
a c. di E. Garin, Ric- uomini eccellono sugli altri animali? Che cosa vi è di più meraviglioso che, parlando alle
ciardi, Milano-Napoli grandi moltitudini, irrompere a tal punto negli animi e nelle menti degli uomini da spin-
1952.
gerne e ritrarne il volere a tuo piacimento, da renderne i sentimenti più miti o più violen-
ti, da dominare infine le volontà e i sentimenti di tutti? Che cosa v’è di più egregio che po-
ter abbellire ed esaltare con la parola gli uomini eccellenti per virtù e le azioni egregie, e di
contro abbattere e sconfiggere i malvagi e i dannosi, svergognandone e schiacciandone le
turpi gesta? Che cosa vi può essere di così utile e fecondo quanto poter convincere i tuoi
concittadini, a te carissimi, in tutte quante le cose che tu abbia trovato convenienti allo sta-
to, distogliendoli a un tempo dai propositi inutili e cattivi? Che cosa vi è di tanto necessa-
rio, quanto aver sempre pronta l’armatura e la spada dell’eloquenza con cui proteggere se
stessi, attaccare gli avversari e difendere la propria innocenza insidiata dai malvagi? Che co-
sa v’è di così magnanimo e conforme a un animo umano ben educato quanto il poter
consolare gli sventurati, sollevare gli afflitti, soccorrere i supplici, procurarsi e mantenersi
amicizie e clientele? [...]. Per dirti quindi in breve il mio sentire, non v’è parte della vita,
non tempo, non fortuna, non età, non nazioni, in cui massime dignità e sommi onori non
siano stati conquistati dall’arte oratoria, la quale ha sempre giovato moltissimo, non solo a
sé, ma in pubblico e in privato a tutti i cittadini. Perciò a così illustre, a così egregio posses-
so questo nostro Quintiliano vi condurrà, o giovani, per una via rapida e quasi militare, in
cui vi conviene entrare a celere passo per contribuire al vostro decoro, al vantaggio degli
amici, al benessere di questa fiorentissima repubblica.

Scrive Eugenio Garin: «Messer Agnolo ha quasi il senso della santità della parola. [...]
Avvicinarla e comprenderla, per quel che essa è veramente, ha la serietà di un rito, ma
impone anche uno studio lungo e rigoroso, tutta una scienza. Ogni elemento ha valo-
re, fin nel minimo particolare ortografico; e va ricercato e ricostruito, nelle sue vicen-
de e nei suoi sviluppi. I monumenti letterari consolidano questo vincolo umano: re-
stituirli e comprenderli è fare veramente la scienza integrale dell’uomo». E si tratta di
una scienza tutta terrena e storica: «Si tratta della forma di un dittongo: ed ecco le ra-
gionate testimonianze dei contemporanei, i casi non accumulati accidentalmente ma
distribuiti secondo la ragione; le epigrafi coeve ben controllate; le monete del tempo.
Ma davvero, domanda ironico, avrà sbagliato sempre la zecca imperiale?».
Nei Miscellanea e nelle altre opere filologiche Poliziano elabora «la prima grande ri-
cerca condotta con rigore ‘scientifico’ nei campi della letteratura, del diritto, e della
storia in genere». Questo fatto segna una svolta decisiva che ha implicazioni non solo
tecniche. Infatti nel momento in cui vengono sottoposti al vaglio della ragione e sto-
ricizzati, i testi antichi perdono la loro autorità assoluta. «In quel punto sono poste le
basi di una rivoluzione logico-scientifica. Per questo il filologo Poliziano è un grande
nome nella storia del sapere umano».
Gli scritti filologici e critici Sul piano tecnico il metodo filologico polizianeo è fatto di procedimenti
innovativi e, per i tempi, rigorosissimi e si fonda su una «conoscenza veramente ecce-
zionale per il suo tempo [...] del greco e del mondo greco» (Branca). La critica filolo-
gica del Poliziano si esplica in primo luogo nelle cento dissertazioni dei Miscellanea
(edite nel 1489) e nei frammenti di una seconda raccolta (solo di recente riscoperti e
pubblicati), opere nelle quali Poliziano affronta problemi spesso in apparenza margina-
li ma altrettanto spesso giungendo a delineare complessi spaccati di storia e cultura an-
tiche. E poi nei corsi universitari, rimastici parzialmente negli appunti degli studenti,
nelle prolusioni in prosa e in versi, curate e pubblicate dall’autore, e infine nelle Epi-
stole e in altre opere ancora.

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Quattrocento e Cinquecento

La teoria dell’imitazione e la polemica con Paolo Cortese Quando si parla di “classicismo” si in-
tende una letteratura che trae ispirazione dai grandi scrittori dell’antichità e nei casi
migliori ricerca la propria originalità attraverso l’imitazione-emulazione di quei mo-
delli; cioè non un’imitazione passiva e meccanica, ma una scrittura che nasce dalla
profonda conoscenza dei classici e da una filiale venerazione nei loro confronti. In
questo contesto si colloca la celebre polemica che vede opposti Paolo Cortese (1465-
1510) e Angelo Poliziano. Entrambi si muovono nell’ambito teorico dell’imitazione-
emulazione, entrambi ripudiano l’imitazione puramente meccanica. Ma Cortese af-
ferma in sostanza la teoria dell’ottimo modello, della necessità cioè di ispirarsi a un
modello unico, il migliore disponibile, che per la lingua e lo stile latini è Cicerone.Vi-
ceversa Poliziano rifiuta la rigida imitazione di un unico modello, per quanto possa
considerarsi «ottimo», e sostiene la necessità di imitare gli autori che presentino qual-
che pregio, in un processo di assimilazione e interiorizzazione della parola degli anti-
chi che è anche conoscenza storico-critica. «Quando Cicerone e altri buoni autori
avrai letto abbondantemente, e a lungo, e li avrai studiati, imparati, digeriti; quando
avrai empito il tuo petto con la cognizione di molte cose, e ti deciderai finalmente a
comporre qualcosa di tuo, vorrei – scrive – che tu procedessi con le tue stesse forze...».
La poetica della docta varietas Questa concezione dell’imitazione, fra l’altro, giustifica la formula di doc-
ta varietas adottata per definire gusto, ideale estetico e pratica dello stile polizianei: per
docta varietas [dotta varietà] si intende un gusto per la commistione di reminiscenze te-
matiche e stilistiche provenienti da tutta la tradizione letteraria – antica e moderna, au-
lica e popolare –; un gusto «letteratissimo» e tuttavia non gelidamente erudito, anzi ca-
ratterizzato da una tensione stilistica «vitalissima e colorita» (Bigi). La poesia del Poli-
ziano, in volgare e in latino, in effetti presenta diverse reminiscenze, calchi e citazioni
anche dissonanti per provenienza e qualità, attinti a fonti ora classiche ora popolari, che
si intrecciano in complessi e originalissimi «intarsi» (Bigi), mantenendo le loro diverse
coloriture. Siamo lontani dallo sperimentalismo linguistico di un Pulci o di un Bur-
chiello, alieni entrambi da una rigorosa formazione umanistica, ma anche da quell’idea-
le di uniformità, di regolarità che di lì a poco si sarebbe imposto. Siamo invece vicini a
quel gusto e a quella pratica linguistica e stilistica, ispirati all’ibridismo, che, sia per il la-
tino sia a maggior ragione per il volgare, appaiono tipicamente quattrocenteschi.

Classicismo e teoria dell’imitazione nella polemica tra Cortese e Poliziano

imitazione meccanica:
rifiutata (almeno in teoria)
ricerca l’originalità
teoria
Classicismo attraverso l’esempio
dell’imitazione teoria dell’ottimo modello: imitare un
dei classici
solo autore, il migliore (tesi di Cortese)
imitazione-emulazione
teoria della pluralità dei modelli: imita-
re tutti i buoni autori (tesi di Poliziano)

19.3 Poliziano scrittore in volgare


Le Rime e le opere in volgare degli anni giovanili La gran parte della produzione in volgare di Po-
liziano si colloca negli anni della giovinezza, anteriori all’assunzione dell’incarico di
magister di eloquenza, anche se è ormai accertato che egli compose ancora qualche li-
rica isolata negli anni successivi e soprattutto che mai ripudiò quanto aveva scritto in
volgare. Nella giovinezza compose gran parte delle Rime (una trentina di canzoni a
ballo, di registro serio e comico-burlesco, nove rispetti continuati, un centinaio di ri-
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19. Angelo Poliziano STORIA

spetti spicciolati, alcune canzoni e sonetti), tra il 1475 e il 1478 le Stanze, forse nel
1480 (comunque non oltre il 1483) l’Orfeo.
Nelle Rime spicca il tema della giovinezza, velato da un’ombra di malinconia Le migliori
liriche volgari di Poliziano nascono da una felice, non intellettialistica contaminazio-
ne di temi e modi della letteratura popolare e di suggestioni classiche (il carpe diem
oraziano, il motivo della fuga del tempo, quello della vita effimera delle rose, ecc.). Il
tema prediletto e più congeniale al Poliziano lirico è quello della giovinezza, età del-
l’amore, della bellezza, della felicità, del canto e del ballo, cui – secondo un topos tra-
dizionale – è sovente paragonata la primavera con i suoi paesaggi in fiore. Così ac-
cade nelle canzoni a ballo più celebrate, I’ mi trovai, fanciulle e Ben venga maggio, ad
esempio [R T 19.2-3 ]. Ma l’atmosfera primaverile, la serenità e la spensieratezza festosa
degli amori giovanili è sfiorata dall’ombra del trascorrere del tempo che ne incrina
la perfezione. I fiori or ora sbocciati presto sfioriranno; anzi a quelli ancora in boc-
cio si affiancano quelli già sfioriti: così è della giovinezza, dell’amore e della felicità
che presto trascorrono. L’invito a cogliere «la bella rosa del giardino» «prima che sua
bellezza sia fuggita», l’invito in altre parole a goder la giovinezza prima che svanisca
(è il carpe diem oraziano), si vela di una lieve malinconia che deriva dal senso della
fragilità e della caducità di quanto c’è di più bello nella vita. Basta un’esitazione per
«far sfiorire il maggio», e l’incanto, il miracolo non si ripeterà. Ma se un’ombra di
malinconia si insinua rimangono al lettore i nitidi paesaggi, e l’attimo di vitalità pro-
rompente si fissa per sempre sulla pagina in versi di limpidezza purissima, tutti per-
corsi di suoni, colori, riflessi di rara suggestività. Un sentimento pagano della natura,
del tempo e della vita percorre queste liriche. La visività concreta e al tempo stesso
capace di suggerire impalpabili sensazioni è uno dei pregi che fanno della lirica po-
lizianea uno dei momenti più alti della poesia quattrocentesca.
Le Stanze per la giostra Le Stanze per la giostra di Giuliano de’ Medici si inscrivono nella medesima ve-
na delle liriche maggiori e ne ripropongono le immagini nitide e lo stile ispirato al ca-
none della docta varietas, con i suoi intarsi di latinismi e termini popolari, di remini-
scenze latine e volgari. Quest’opera nasce come poemetto di natura encomiastica: sco-
po è celebrare la vittoria di Giuliano de’ Medici a una giostra tenutasi in Firenze, rial-
lacciando l’impresa all’amore del giovane fratello di Lorenzo per una donna genovese,
Simonetta Cattaneo. Ma i motivi ispiratori più profondi sono da ricercare altrove.
La metamorfosi di Iulio: formazione umana o renovatio spirituale La trama, assai esile, descrive la
metamorfosi di Iulio, giovinetto dapprima dedito interamente a Diana e alle Muse
(caccia e poesia), anzi sdegnoso nei confronti degli amanti, da lui aspramente criticati
per la loro dedizione all’amore; e poi amante egli stesso, per effetto di un mirabile in-
ganno d’Amore che, inducendolo a seguire una splendida cerva, lo allontana dal suo
seguito e lo trafigge proprio mentre la cerva scompare per lasciare il posto a Simonet-
ta. Quello che così viene descritto è un processo di formazione, di un giovane eroe
che matura aprendosi all’amore e alla sfera dei più nobili sentimenti che facevano par-
te dell’ideale formazione umanistica: l’encomio di Iulio, destinato a trionfare nella
giostra, si svolge così sia sul piano del vigore del corpo e della gloria militare (la gio-
stra) sia su quello dell’interiorità e dei valori spirituali (l’amore).
Secondo alcuni studiosi, che hanno enfatizzato le componenti neoplatoniche e le
possibili implicazioni allegoriche del poemetto, la vicenda di Iulio costituirebbe una
sorta di «progressiva elevazione da valori terreni a valori metafisici», dalla vita sensuale
a quella razionale e contemplativa, attraverso tre stadi coincidenti con tre diverse for-
me di bellezza (la cerva, Simonetta,Venere). Essa descriverebbe insomma un processo
di renovatio dell’anima che, mediante l’esperienza dell’amore, si eleverebbe sino alla pu-
ra contemplazione. È tuttavia probabile che il motivo dell’encomio intriso di remini-
scenze e idealità umanistiche sia sufficiente a spiegare il senso complessivo dell’opera.
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Quattrocento e Cinquecento

▍ Le Stanze

Le Stanze cominciate per la giostra di Giuliano de’ Medici vennero composte in un arco di tem-
po che va dal 29 gennaio 1475 al 26 aprile 1478 (date rispettivamente della giostra tenutasi
in Firenze, che dà lo spunto all’opera, e della morte di Giuliano). Constano di due libri, il se-
condo dei quali lasciato interrotto, di 125 e 46 ottave (o stanze, appunto). Le Stanze nascono
da «un’ardita e originale contaminazione di due diversissimi generi letterari, quali, da un la-
to, il poemetto encomiastico della latinità decadente con le sue ampie digressioni mitologi-
che; e, dall’altro, la narrazione in ottave di giostre e feste, tipica della letteratura volgare, anzi
popolare o semipopolare» (Bigi), esempio anche questo di docta varietas. E bisogna aggiunge-
re l’influsso, messo in luce da Branca, della medievale letteratura dei trionfi che contribui-
rebbe alla strutturazione della materia e degli episodi, e – secondo alcuni – anche a definire
il senso allegorico dell’opera.
Nel primo libro, dopo la proposizione, una duplice invocazione ad Amore e al Magnifico
(ott. 1-6) e un’ottava di scusa per aver interrotto la traduzione dell’Iliade (7), si narrano la vi-
ta di Iulio, e cioè l’alter ego di Giuliano, prima dell’innamoramento, l’amore per la caccia e i
rimproveri che egli rivolge agli amanti e una lode della vita rusticana e dell’età dell’oro (8-
21); quindi l’ira di Amore (22-24) e una complessa scena di caccia, durante la quale compa-
re la cerva formata dal dio che si fa inseguire da Iulio; svanita la cerva per incanto, Iulio si
trova di fronte Simonetta, una bellissima ninfa, e viene trafitto da Amore; scesa la sera Iulio fa
ritorno a casa dove ritrova i compagni (25-67); frattanto Amore torna al regno della madre
Venere in Cipro (68-115).
Nel secondo libro Amore rispondendo a Venere, narra la propria impresa, celebrando la
casata medicea e Lorenzo in particolare (1-13);Venere prefigura la vittoria di Iulio nella gio-
stra (13-16). Gli amorini volano in Toscana e instillano nei giovani il desiderio di amare e di
far prova nelle armi (17-21); frattanto Venere convoca Pasitea, sposa del Sonno, affinché il fi-
glio Morfeo, dio dei sogni, induca Iulio a partecipare al torneo (22-26). Iulio in sogno vede
Simonetta che infierisce su Amore; questi invoca l’aiuto di Iulio che sospinto dalla gloria
corre in difesa di Amore; Simonetta scompare «in trista nube avvolta», poi ricompare «in for-
ma di Fortuna» a ravvivare il mondo e a guidare Iulio a una fama eterna: l’oscuro sogno pre-
figura la morte di Simonetta e la vittoria di Iulio al torneo (27-37); Iulio si sveglia «d’amore
e d’un disio di gloria ardendo», gli pare di veder ancora davanti a sé la Gloria che lo sprona
a partecipare alla giostra; invoca quindi Pallade, Amore e Gloria affinché lo sostengano nel-
l’impresa (38-46). Qui si interrompe il secondo libro.

Personaggi e ambiente appaiono miticamente trasfigurati Interi episodi (su tutti la descrizione
del regno di Venere), vari motivi particolari (quello della cerva, ad esempio) e personag-
gi come Venere, Cupido e gli amorini sono ispirati ai miti dell’antichità o direttamente
tratti da essi. Ma anche i personaggi reali, Giuliano e Simonetta, appaiono trasfigurati e
come trasportati in un’atmosfera rarefatta e sognante: lui, giovane bellissimo e altero, tut-
to intento a spendere la «sua verde etate» nel culto delle Muse e di Diana, e insensibile
alle ninfe che per lui sospirano, sfida il vento «frenando un gentil corridore», fa «sovente
pe’ boschi soggiorno, inculto sempre e rigido in aspetto», si copre il capo di ghirlande; lei
appare in forma di ninfa, vestita d’un candido velo e adorna di «rose e fior», «nell’atto re-
galmente è mansueta e pur nel ciglio le tempeste acqueta», la illumina «un non so che
divino», e tutto attorno a lei per incanto appare ridente, «sereno», «ameno».
Ma trasfigurato è anche l’ambiente: sin dall’inizio siamo come trasferiti in un mondo
ideale e senza tempo, in un paesaggio primaverile di intatta bellezza, sia nella rappresenta-
zione stilizzata della giovinezza di Iulio, sia nella scena della caccia e della miracolosa ap-
parizione della cerva e poi di Simonetta, sia, a maggior ragione, nella descrizione del re-
gno di Venere. Come nel poema pastorale, non esistono qui i problemi e gli affanni del
quotidiano, se non per quanto concerne l’amore; e anche dell’«amorosa insania», sono
messi in rilievo soprattutto l’attimo irripetibile e incantevole dell’innamoramento e i pri-
mi affanni velati ancora di dolcezza. «Tutte le ottave – scrive Sapegno – cantano, non la
gloria di Giuliano, sì il mondo ideale in cui si rifugia la fantasia del poeta umanista, mon-
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19. Angelo Poliziano STORIA

do dove la bellezza è senza macchia, la voluttà fluisce uguale e senza spasimi, e il dolore
stesso s’attenua in elegia fissandosi in forme immutabili e scultorie».
L’ombra della morte si proietta sul poemetto L’innamoramento doveva preludere alla descrizione
della giostra vinta da Iulio per onorare l’amata. Ma il poemetto rimase interrotto, sia per-
ché la parte più congeniale a Poliziano era stata ormai scritta, sia per la precoce morte di
Simonetta, certo definitivamente per la tragica morte di Giuliano per mano dei congiu-
rati nel 1478. Con il sogno premonitore della morte di Simonetta, l’ombra della morte si
proietta nella tessitura del poemetto diffondendo un velo di malinconia, senza peraltro in-
crinarne la suggestiva bellezza, che in parte anzi si fonda, come nelle liriche, proprio sul
contrasto tra l’incanto di un attimo meraviglioso e irripetibile e il suo rapido trascorrere,
ovvero tra la realtà e il sogno, tra la condizione umana e la dimensione del mito.
La celebrazione degli ideali umanistici e il sentimento della loro fragilità Quello rappresentato
da Poliziano è un universo essenzialmente letterario, ispirato dai miti tramandati dal-
l’antichità e dai valori ideali della cultura umanistica (la bellezza, l’amore, la poesia, la
virtù terrena e la gloria) e pervaso dagli echi degli scrittori latini e volgari: un mondo
per molti versi «separato», oggetto dell’attitudine contemplativa del suo creatore. Eppu-
re per diverse ragioni «la celebrazione, se così si vuol chiamarla, degli ideali umanistici è
sempre accompagnata dal sentimento della fragilità e della fugacità di questi ideali, del-
la loro natura di “sogni”, vagamente o oscuramente insidiati dalle forze inesorabili del
Fato, della Fortuna, della Morte, della passione stessa» (Bigi). L’ombra della morte, in-
somma, il sentimento della caducità di tutte le più belle cose terrene paiono proiettarsi
anche sui più profondi ideali che avevano ispirato la poesia e la vita tutta di Poliziano.
La Festa d’Orfeo La Festa d’Orfeo è una «favola», cioè un componimento destinato alle scene, che con-
tamina tradizione pastorale e mitologica, ispirandosi per la scenografia alle sacre rappre-
sentazioni, alle «momarìe» veneziane (rappresentazioni scherzose e farsesche date in occa-
sione di feste mascherate) e alle rappresentazioni conviviali di corte. Venne composta
probabilmente nel 1480 a Mantova «in tempo di dui giorni», in un paio di giorni.
Anche quest’opera muove da un motivo tutto letterario, la ripresa del mito di Orfeo,
che per amore affronta l’impresa della discesa agli Inferi e in virtù della forza del suo can-
to ottiene da Plutone di riportare sulla terra l’amata Euridice, morta per il morso di un
serpente mentre fuggiva il pastore Aristeo che la inseguiva; ma nel ritorno infrange il di-
vieto impostogli di non guardare la sposa, che così gli viene sottratta per sempre. Nella ri-
presa di questo mito si scontrano due motivi: quello, congeniale alla sensibilità e alla cul-
tura umanistica, del fascino della poesia che vince la morte; e quello antitetico del defini-
tivo insuccesso dell’impresa, del ripudio d’amore da parte di Orfeo e della sua morte per
mano delle Baccanti. Quest’ultimo motivo significa forse proprio la precarietà delle con-
quiste e degli stessi valori umani travolti dalla passione (è un impeto passionale a tradire
Orfeo) o dal tempo o dal fato e in definitiva, qui, dalla morte. La ripresa del mito d’Orfeo
può indurre a interpretare la «favola» come celebrazione della poesia, supremo fra i valo-
ri umanistici, ma – come nelle Stanze – bisogna tener conto delle ombre di morte che il
mito stesso proietta sulla forza della poesia.
La favola si conclude con la «conversione» irosa di Orfeo al disprezzo dell’amore mu-
liebre, conversione che è condotta in termini assai vicini alla requisitoria contro gli aman-
ti compiuta da Iulio nelle Stanze: rispetto alle Stanze dunque, nelle quali la posizione ini-
ziale di Iulio era destinata a mutare per effetto dei mirabili inganni d’Amore e preludeva,
negli intenti, a un esito felice, l’Orfeo segna un capovolgimento negativo del disegno, en-
fatizzato proprio dalla ripresa degli argomenti che erano stati di Iulio. Il pastore Aristeo,
lui pure innamorato di Euridice, tesse una lode indiscriminata dell’amore, ma poi la sua
sventatezza e il fato provocano l’accidentale morte di Euridice; Orfeo sfida gli Inferi per
amore, ma poi, ottenuta e ripersa la sposa, ripudia quell’amore che l’aveva mosso ma che
non aveva retto alla prova del destino.
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Quattrocento e Cinquecento

Le opere minori A questi testi poetici si debbono aggiungere alcune opere in prosa fra cui spiccano
una raccolta di facezie, i Detti piacevoli, e la prefazione alla Raccolta aragonese (un’antologia
di testi poetici toscani inviata da Lorenzo a Federico d’Aragona, del 1477), che costituisce
la prima importante riflessione sulla tradizione letteraria volgare dopo il De vulgari elo-
quentia dantesco. Qui Poliziano mostra una disposizione critica storico-filologica, coeren-
te con la sue idee estetiche dell’imitazione di molti e della docta varietas: egli, infatti, pur
dando netto rilievo alle figure di Dante e Petrarca, esamina l’intera tradizione volgare, non
trascurando neppure gli autori meno congeniali a un dottissimo umanista. Oltre a queste
due opere e alle Lettere, in volgare Poliziano lascia dei tardi Sermoni, scritti per una
confraternita religiosa fiorentina, e una Lauda alla Vergine.
I Detti piacevoli (composti tra il 1477 e il 1482) constano di 423 detti, e proseguono
la forma quattrocentesca della facezia. Questa raccolta dimostra ancora una volta come
motivo ispiratore di Poliziano sia sempre essenzialmente il «veritiero amore della pa-
rola»: «la costante vera dei Detti è infatti il gusto per la battuta in se stessa considerata,
l’interesse alla materia verbale» (Zanato). Sul piano dei contenuti la raccolta si segnala
soprattutto, scrive Marchi, per «la pensosità di talune battute in cui si insinua, inopina-
tamente, l’ombra della morte» (come nel detto 317) o per «la riflessione amara sulla
fallacia delle apparenze esteriori» (come nel detto 168) o ancora per «l’occorrenza di
un umorismo ‘nero’» (come in 35, 50, 51). E più in generale va notata la tendenza a
sostanziare il detto arguto di un’implicita riflessione sul costume, la morale, i casi del-
la vita e della storia. La frequenza dei personaggi e delle situazioni storiche infine dà a
tratti alla raccolta uno spiccato colorito memorialistico.

Doc 19.2 Detti piacevoli

A. Poliziano, [5] – Lorenzo di Piero di Cosimo predetto, ragionandosi in un cerchio di preti e di-
Detti piacevoli,
a c. di T. Zanato, Ist. cendogli alcuno che l’uomo non si potea guardare da loro, disse non essere maraviglia,
dell’Enciclopedia Ita- perché, avendo essi i panni lunghi, hanno dato prima il calcio che altri vegga loro muo-
liana, Roma 1983 ver la gamba.
[35] – Messer Giorgio Ginori impiccava a Prato colle sue mani uno per fatti di stato; e
dicendo lui: – Deh, lasciatemi dire una avemaria! –, messer Giorgio, pingendolo, disse: – Va
pur giù, dira’la poi! –
[50] – El Barghella, quando vedeva fanciulli o gittar sassi o gli sentiva fare romore, sole-
va dire: – O Erode, dove se’ tu ora? –
[51] – Un altro soleva dare un quattrino a ogni fanciullo che corressi su pel muricciuo-
lo d’Arno; e, essendogli detto: – Perché spendi tu cotesti danari a diletto? –, rispose: – Se
un tratto ne cade uno, è bene speso ogni cosa! –
[96] – A uno che si grattava le reni e parte [intanto] diceva: – S’amor non è, che dunque
è quel ch’i’ sento? –, gli fu risposto: – È un pidocchio che non ha amore, perché e’ morde
el padrone! –
[168] – Uno, essendo dimandato se bisognava dimandare come qualcuno stessi veden-
dolo avere buon viso, disse di sì, perché aveva veduto molte volte de’ fiaschi rotti colla ve-
sta nuova.
[191] – E peggiori uomini che sieno al mondo sono a Roma, e peggiori degl’altri sono
e preti, e peggiori de’ preti si fanno cardinali, e ’l peggiore di tutti e cardinali si fa papa.
[192] – Dice messer Marsilio che i preti sono più cattivi de’ secolari, e frati de’ preti, de’
frati e monaci, de’ monaci e romiti, de’ romiti le donne.
[201] – Un vecchio mi disse a questi dì che le cose ingiuste non possono durare, e che
la giustizia è fatta come l’acqua, che, quando è impedita dal suo corso, o ella rompe quel-
lo riparo e ’mpedimento, o ella cresce tanto e ’ngrossa, ch’ella sbocca poi di sopra.
[317] – Un fanciullino cavalcava in groppa e ’l padre suo in sella; e disse semplicemente:
– Oh babbo, quando voi sarete morto non cavalcherò io in sella? –

634 © Casa Editrice Principato


19. Angelo Poliziano T 19.1

T 19.1 Angelo Poliziano, Paolo Cortese 1494


La polemica sull’imitazione
Prosatori latini La lettera di Poliziano a Paolo Cortese, che gli aveva inviato una raccolta di proprie
del Quattrocento epistole, e la risposta di quest’ultimo costituiscono un «testo capitale» – ha scritto Garin
a c. di E. Garin, Ricciardi, – della polemica sull’imitazione e dell’intera cultura letteraria umanistico-rinascimenta-
Milano-Napoli 1952
le. Si delinea qui per la prima volta con nettezza il contrasto fra due modi di concepi-
re il classicismo e si precisano due correnti della poetica rinascimentale, quella eclettica
(che prevede l’imitazione-emulazione di molti autori) e quella dell’ottimo modello
(che prevede l’imitazione solo del modello giudicato migliore).

ANGELO POLIZIANO AL SUO PAOLO CORTESE

C’è una cosa, a proposito dello stile, in cui io dissento da te. A quel che mi sem-
bra, tu non approvi se non chi riproduca Cicerone. A me sembra più rispettabile
l’aspetto del toro o del leone che non quello della scimmia, anche se la scimmia
rassomiglia di più all’uomo. Come ha detto Seneca, non sono simili tra loro quel-
li che si crede siano stati i massimi esponenti dell’eloquenza. Quintiliano deride 5
coloro che credevano di essere i fratelli germani di Cicerone per il fatto che fini-
vano i loro periodi con le sue stesse parole. Orazio condanna coloro che sono imi-
tatori e nient’altro che imitatori. Quelli che compongono solamente imitando mi
sembrano simili ai pappagalli che dicono cose che non intendono. Quanti scrivo-
no in tal modo mancano di forza e di vita; mancano di energia, di affetto, di indole; 10
sono sdraiati, dormono, russano. Non dicono niente di vero, niente di solido, nien-
te di efficace.Tu non ti esprimi come Cicerone, dice qualcuno. Ebbene? Io non so-
no Cicerone; io esprimo me stesso.
Vi sono poi certuni, caro Paolo, che vanno mendicando lo stile a pezzi, come il
pane, e vivono alla giornata. Se non hanno innanzi un libro da cui rubacchiare, non 15
sanno mettere assieme tre parole; ed anche quelle le contaminano con nessi rozzi
e con vergognosa barbarie. La loro espressione è sempre tremante, vacillante, de-
bole, mal curata, mal connessa; costoro io non posso soffrire; eppure hanno la sfac-
ciataggine di giudicare dei dotti, di coloro il cui stile è quasi fecondato da una na-
scosta cultura, da un leggere continuo, da un lunghissimo studio. Ma voglio ritor- 20
nare a te, caro Paolo, che amo profondamente, a cui debbo molto, a cui attribui-
sco un grande ingegno: io vorrei che tu non ti lasciassi avvincere da codesta su-
perstizione che ti impedisce di compiacerti di qualcosa che sia completamente tuo,
che non ti permette di staccare mai gli occhi da Cicerone. Quando invece Cice-
rone ed altri buoni autori avrai letto abbondantemente, ed a lungo, e li avrai stu- 25
diati, imparati, digeriti; quando avrai empito il tuo petto con la cognizione di
molte cose, e ti deciderai finalmente a comporre qualcosa di tuo, vorrei che tu pro-
cedessi con le tue stesse forze, vorrei che tu fossi una buona volta te stesso, vorrei
che tu abbandonassi codesta troppo ansiosa preoccupazione di riprodurre esclusi-
vamente Cicerone, vorrei che tu rischiassi mettendo in giuoco tutte le tue capa- 30
cità. Coloro i quali stanno attoniti a contemplare solo codesti vostri ridicoli mo-
delli non riescono mai, credimi, a renderli, e in qualche modo vengono spengen-
do l’impeto del loro ingegno e mettono ostacoli davanti a chi corre, e, per usare
l’espressione plautina, quasi remore. Come non può correre velocemente chi si
preoccupa solo di porre il suo piede sulle orme altrui, così non potrà mai scrive- 35
re bene chi non ha il coraggio di uscire dalla via segnata. E ricordati infine che so-
lo un ingegno infelice imita sempre, senza trarre mai nulla da sé. Addio.

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Quattrocento e Cinquecento

PAOLO CORTESE AD ANGELO POLIZIANO

Nulla mi accadde mai di così imprevisto quanto la tua restituzione delle mie let-
tere. Credevo che il mio libro ti fosse capitato in mezzo a gravi occupazioni. Dal-
la tua lettera vedo che non solo lo hai assaggiato, ma lo hai addirittura divorato, 40
tanto che mi scrivi che rimpiangi le ore così male spese nella sua lettura; le mie let-
tere ti sembrano indegne di essere lette da un uomo dotto, indegne di essere state
raccolte da me, fatta eccezione per alcune di pochissimi. Codesto tuo giudizio io
ti lascio; io non intendo opporti il mio dal momento che non è lecito dissentire da
te, ed io sono uomo, per usare l’espressione di Cicerone, che non vorrei giudica- 45
re un altro anche se potessi, né potrei anche se volessi. Esaminerò invece il punto
in cui dici di dissentire particolarmente da me.
Tu scrivi di avere imparato da me che io non approvo nessuno che non imiti il
modello ciceroniano. Per quanto mi posso ricordare, io non ho mai detto nulla di
simile, né vorrei averlo detto. Che cosa potrebbe esserci di più sciocco in tanta va- 50
rietà d’ingegni, in nature così varie, in volontà tanto diverse, che voler tutto co-
stringere e conchiudere entro i limiti determinati da un unico ingegno? Ma poi-
ché mi provochi alla discussione, non sarà forse tempo perso chiarire e difendere
il mio giudizio, pur riconoscendo che le tue parole intendono persuadermi, non
provocarmi. Innanzi tutto di buon grado confesso che vedendo in tanta decaden- 55
za gli studi d’oratoria, e quasi inesistente l’eloquenza forense, come se gli uomini
del nostro tempo avessero perso la nativa parola, più di una volta ho apertamente
dichiarato che non era possibile ai nostri giorni parlare in modo elegante e varia-
to se non si imitasse un qualche modello, a quel modo che gli stranieri ignari del-
la lingua non potrebbero percorrere le terre altrui senza una guida, e i bambini na- 60
ti da poco non potrebbero camminare se non nella carrozzina o sorretti dalla nu-
trice. E benché molti siano stati insigniti in ogni genere di eloquenza, io ricordo
di avere scelto Marco Tullio come esemplare degno d’essere proposto a tutti gli uo-
mini dotti. Io non ignoravo che vi sono stati molti eminenti nell’arte oratoria, ca-
paci di raffinare e di arricchire d’eloquenza gli ingegni; ma vedevo che il consen- 65
so di tanti secoli aveva giudicato il solo Cicerone primo fra tutti. E fin da bambi-
no avevo imparato che conviene sempre scegliere il meglio, mentre sapevo che è
proprio di uno stomaco corrotto, intemperante e malato, preferire un cibo dete-
riore rifiutando quello ottimo e salutare. Ed anche adesso mi permetterei di so-
stenere, come tante altre volte, che nessuno dopo Marco Tullio ha raggiunto la glo- 70
ria dello stile se non da lui quasi educato e allattato. Era tuttavia viva allora una par-
ticolare imitazione che mentre sdegnava la simiglianza possedeva quel medesimo
lucido stile, e tutta era animata da un proprio vigore; il che dagli uomini del no-
stro tempo è del tutto trascurato o ignorato. Io voglio, caro Poliziano, che la so-
miglianza non sia quella della scimmia con l’uomo, ma quella del figlio col padre. 75
La scimmia imita in modo ridicolo soltanto le deformità e i vizi del corpo in
un’immagine deformata; il figlio rende il volto, l’andatura, il portamento, l’aspet-
to, la voce, la figura del padre, eppure in tanta somiglianza ha qualcosa di proprio,
di naturale, di diverso, sì che quando si paragonano sembrano tra loro dissimili.
[...] 80
Perciò, per parlare di me, non hai motivo, caro Poliziano, di distogliermi dall’i-
mitazione di Cicerone. Rimproverami piuttosto l’incapacità di imitarlo bene, an-
corché io preferisca essere seguace e scimmia di Cicerone piuttosto che alunno e
figlio di altri. C’è tuttavia una grande differenza fra il metodo dell’imitazione e chi
non intende imitare nessuno. Secondo me non solo nell’eloquenza, ma in tutte 85
quante le altre arti è necessaria l’imitazione. Ogni sapere si fonda su una precedente
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19. Angelo Poliziano T 19.1

1 Lattanzio: Lucio Ce- cognizione; nulla v’è nella mente che prima non sia stato afferrato dai sensi. Si
lio Firmiano Lattanzio (240
ca-320 ca), scrittore latino comprende così che ogni arte è imitazione della natura, anche se per natura acca-
cristiano, autore fra l’altro de che si generi poi una certa dissomiglianza. Così gli uomini, pur essendo fra lo-
del De opificio Dei e delle Di- ro dissimili, sono anche congiunti da una qualche somiglianza, e benché alcuni sia- 90
vinae institutiones, fu definito,
per il suo stile classico,il“Ci- no più coloriti ed altri più pallidi, alcuni più belli ed altri più alti, tutti comunque
cerone cristiano”. hanno la stessa figura e la stessa forma. Ed anche quelli a cui manca una gamba o
2 Curzio: Quinto Cur-
zio Rufo (I sec.d.C.) è auto- una mano o un braccio, non per questo debbono escludersi dal genere umano, an-
re di una Storia di Alessandro che se li dovremo chiamare manchevoli e zoppi. Così unica è l’arte dell’eloquen-
Magno.
3 Columella: Lucio Giu- za, unica l’immagine, unica la forma. Coloro che da questa si allontanano sono 95
nio Moderato Columella (I storti e zoppi. Considera adesso quanti si sono scelti come modello Marco Tullio,
sec. d.C.), spagnolo di Cadi-
ce, è autore di un ampio come ne siano lontani, come siano fra loro diversi. Livio raggiunse una certa scor-
trattato di agricoltura, il De revole ricchezza senza misura, Quintiliano un suo acume, una particolare sonorità
re rustica. Lattanzio,1 Curzio2 una certa leggerezza, Columella3 una singolare eleganza. Tut-
ti si proposero lo stesso modello da imitare, eppure essi sono tra loro grandemente 100
dissimili e tutti sommamente distanti da Cicerone. Si comprende così che l’imita-
zione è cosa che va gravemente meditata, e che fu degno di somma ammirazione
l’uomo da cui, come da una fonte perenne, derivarono ingegni tanto diversi.

Guida all’analisi
Modernità del Poliziano? La posizione di Poliziano a noi, oggi, non può non apparire più moderna e ‘aperta’ ri-
spetto a quella di Paolo Cortese, che viceversa rischia di apparire distante, gretta, quasi in-
comprensibile. In realtà la differenza tra le due posizioni è minore di quanto appaia a prima
vista: entrambe le tesi vanno correttamente riportate al contesto culturale classicistico.
Convergenza sul principio dell’imitazione-emulazione Né Cortese né Poliziano rifiutano il principio di imita-
zione: Paolo Cortese lo afferma a chiare lettere, in modo reciso e per certi versi estremo
(«Secondo me non solo nell’eloquenza, ma in tutte quante le altre arti è necessaria l’imita-
zione» [rr. 85-86]), Poliziano non lo esclude e tende a connotarlo come paziente lavoro di
assimilazione della cultura classica («Quando invece Cicerone ed altri buoni autori avrai let-
to abbondantemente, ed a lungo, e li avrai studiati, imparati, digeriti...» [rr. 24-26]), come
indispensabile momento a-priori di ogni scrittura letteraria. Poliziano soprattutto si scaglia
contro l’imitazione pedissequa, meccanica (da scimmie e pappagalli) e contro gli scrittori
deboli di ingegno e di personalità che «vanno mendicando lo stile a pezzi», che son perdu-
ti «se non hanno innanzi un libro da cui rubacchiare» (rr.14-15). Ma anche Cortese, sul pia-
no teorico, rifiuta l’imitazione pedissequa e propone un ideale di imitazione-emulazione vi-
vo nell’antichità (rr. 73-74) come accade tra figlio e padre (rr. 75-79), non escludendo cioè
la dissimiglianza rispetto al modello, né la possibilità di raggiungere una forma di originalità.
Certo l’accento dei due scrittori cade, nel fervore polemico, su aspetti diversi: a Poliziano
preme sottolineare la necessità dell’originalità, a Cortese la necessità dell’imitazione. Ma è
questione di accento, le posizioni non sono inconciliabili.
Divergenza sui modelli: uno solo o molti Diversamente accade per la definizione del modello: qui infatti sta il
vero motivo del contendere. Complessivamente in queste pagine si delineano la tesi ecletti-
ca e la tesi dell’ottimo modello, che tanta parte avranno nella storia della poetica e della let-
teratura rinascimentali. Poliziano, pur non escludendo Cicerone dal novero dei «buoni au-
tori», allega sin dall’inizio diversi testimoni (Quintiliano, Seneca, Orazio [rr. 5-8]) e insiste
sulla molteplicità delle letture («Cicerone ed altri buoni autori...», rr. 24-25); viceversa Paolo
Cortese enuncia il principio dell’opportunità di scegliere il modello migliore («conviene
sempre scegliere il meglio» r. 67), individua per consenso generale in Cicerone il meglio in
letteratura (rr. 62-67) e si propone quindi di prenderlo a modello pressoché esclusivo.
Laboratorio 1 Il linguaggio dei due umanisti è ricco di 2 Sottolinea i passi che contengono esplici-
COMPRENSIONE metafore e similitudini: schedale distin- ti riferimenti o citazioni di autori classici.
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE guendone i campi semantici. Che effetto A che scopo, a tuo giudizio, sono inseriti
produce l’uso insistito di questa figura? nel testo? Quale funzione assolvono?
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Quattrocento e Cinquecento

T 19.2 Rime
I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino [CII]
A. Poliziano In questa lirica, che è fra le più belle e celebri di Poliziano e dell’intero Quattrocento,
Rime un giardino tripudiante di fiori a primavera diventa immagine di un’età della vita, la
a c. di D. Delcorno Branca, giovinezza, e di una condizione dell’animo, la spensieratezza e l’amore, due fra i temi
Marsilio,Venezia 1990
più cari al giovane Poliziano. La lirica è anche un esempio illuminante della poetica po-
lizianea della docta varietas, cioè di una libera e creativa imitazione di molti modelli.

I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino


di mezzo maggio in un verde giardino.

Eran d’intorno vïolette e gigli


fra l’erba verde, e vaghi fior’ novelli,
5 azzurri, gialli, candidi e vermigli:
ond’io porsi la mano a côr di quelli
per adornar e mie’ biondi capelli
e cinger di grillanda el vago crino.

I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino.

10 Ma poi ch’i’ ebbi pien di fiori un lembo,


vidi le rose, e non pur d’un colore:
io corsi allor per empier tutto el grembo,
perch’era sì soave il loro odore
che tutto mi sentì’ destar el core
15 di dolce voglia e d’un piacer divino.

I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino.

I’ posi mente: quelle rose allora


mai non vi potre’ dir quant’eron belle:
quale scoppiava della boccia ancora;
20 qual’eron un po’ passe e qual’ novelle.
Amor mi disse allor: – Va’, cô’ di quelle
che più vedi fiorire in sullo spino –.

I’ mi trovai fanciulle, un bel mattino.

Quando la rosa ogni suo foglia spande,


25 quando è più bella, quando è più gradita,
allora è buona a metterla in grillande,
prima che sua bellezza sia fuggita:
sicché, fanciulle, mentre è più fiorita,
cogliàn la bella rosa del giardino.

30 I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino


di mezzo maggio in un verde giardino.

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19. Angelo Poliziano T 19.2

Guida all’analisi
Una serenità offuscata da un lieve turbamento Il testo rappresenta un quadro relativamente statico: è un bel
mattino di pieno maggio, e il poeta, in un giardino in cui spiccano i colori dei fiori prima-
verili, su invito d’Amore intesse una ghirlanda. Si sarebbe tentati di abbandonarsi alla pura e
semplice contemplazione di una scena che per la freschezza e la vivacità dei colori può ri-
portare alla mente celebri dipinti coevi, da un lato, e alcune delle più tipiche ambientazioni
del Boiardo lirico, dall’altro. Ma la serenità della scena è come insidiata da un lieve turba-
mento, la nitidezza dei colori è come offuscata da una lieve ombra: così, almeno, è parso a
varie generazioni di lettori. Il fatto merita una spiegazione.
Il tema dello sfiorire della rosa e il carpe diem oraziano Di frequente i lirici e i poeti in genere avevano assun-
to l’immagine della primavera o quella dei fiori come metafora di un’età della vita umana
(la giovinezza, ovviamente), talora rendendo esplicita l’analogia in vere e proprie similitudi-
ni. Qui, implicitamente, è in atto un processo del genere: la fioritura primaverile evoca la
giovinezza; il far ghirlande, il coglier la rosa «mentre è più fiorita», significano godere la gio-
vinezza; la sfioritura («prima che sua bellezza sia fuggita» v. 27) evoca il declino della giovi-
nezza. Il messaggio che chiude il componimento («sicché, fanciulle, mentre è più fiorita, /
cogliàn la bella rosa del giardino») è un equivalente del carpe diem [cogli il giorno] oraziano,
dove il carpere in origine significava “spiccare, cogliere” fiori o frutti (e dunque l’espressione
carpe diem è metaforica e significa “cogli il giorno come si coglie un fiore”). Ed è inevitabi-
le un’ulteriore associazione con uno dei più celebri testi laurenziani, la Canzona di Bacco e
Arianna [R T 17.5 ]: «Quant’è bella giovinezza, / che si fugge tuttavia! / Chi vuol esser lieto,
sia: / di doman non c’è certezza» con quel che segue.
Insomma, l’invito a godere la vita nella sua stagione migliore nasce, in una lunga tradizio-
ne, dalla constatazione della caducità della giovinezza. Qui, nella canzone polizianea, il mo-
mento negativo è posto ai margini del componimento, pressoché taciuto; e tuttavia la sua
presenza si fa sentire come senso della fragilità, dell’effimero, della labilità che velano di ma-
linconia anche i momenti della piena giovinezza.
La ripresa e l’uso del passato remoto A insinuare questa sensazione nel lettore contribuisce anche la ripetizio-
ne, a fine d’ogni stanza, del primo dei versi della ripresa (o di entrambi, in altre trascrizioni):
l’uso ripetuto del passato remoto, che proietta la bellezza del mattino in un passato indefi-
nitamente lontano, non può che confermare l’impressione che il motivo dell’inesorabile
fuggire del tempo sia fondamentale nella genesi del componimento. Un’autorevole confer-
ma di questa interpretazione la fornisce Emilio Bigi che, sintetizzando i temi più tipici del-
la lirica giovanile del Poliziano, ha parlato di «amore... bellezza e... giovinezza, cantati nella
loro affascinante vitalità umana e insieme con sottile sentimento della loro caducità».

Laboratorio 1 Confronta questo testo con la Canzona di 2 In uno scritto articolato svolgi il seguente
COMPRENSIONE Bacco di Lorenzo il Magnifico [R T 17.5 ]. tema: “Il tema del carpe diem nella lettera-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE Quali tratti accomunano i due componi- tura rinascimentale”.
menti e quali li distinguono?

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Quattrocento e Cinquecento

T 19.3 Rime anteriore al 1485


Ben venga maggio [CXXII]
A. Poliziano Tutta intessuta di riferimenti alle feste fiorentine del Calendimaggio e vivacizzata dalla
Rime presenza di donzelle e damigelle che cantano e ballano, e per questo più vicina alla
a c. di D. Delcorno Branca,
Marsilio,Venezia 1990 Canzona di Bacco di Lorenzo, quest’altra stupenda lirica polizianea costituisce una varia-
zione sui medesimi motivi della precedente: la giovinezza, l’amore, la bellezza e il sot-
tile turbamento per la loro caducità. Come suggerisce la Delcorno Branca questa balla-
ta era «da cantarsi accompagnata da musica all’inizio di maggio, probabilmente mimata
in un’elementare azione scenica, come suggerisce il testo», che dapprima prevede l’«in-
gresso dei giostranti che vengono coronati dalle donne», e poi (vv. 35-50) l’«ingresso di
una personificazione del dio d’amore».

Nota metrica Ben venga maggio Per prender le donzelle


«Ballata di tutti settenarî,
con strofa ab, ab, bx (x e ’l gonfalon selvaggio! si son gli amanti armati.
sempre in maggio), ripre- Arrendetevi, belle,
sa xx (il primo verso, in Ben venga primavera, 30 a’ vostri innamorati;
maggio, quinario)» (Con-
tini). che vuol l’uom s’innamori, rendete e cor furati,
5 e voi, donzelle, a schiera non fate guerra il maggio.
1 Ben venga: «Col valo- con li vostri amadori,
re dell’odierno “benvenu-
to”» (Contini). – maggio: che di rose e di fiori Chi l’altrui core invola
«È la parola chiave che torna vi fate belle il maggio. ad altrui doni el core.
sempre in fine strofa, alter-
nando il duplice significato 35 Ma chi è quel che vola?
espresso nella ripresa» (Del- Venite alla frescura È l’angiolel d’amore,
corno Branca): il duplice si- 10 delli verdi arbuscelli: che viene a fare onore
gnificato è quello del mese e
del maio, il ramo fiorito. ogni bella è sicura con voi, donzelle, a maggio.
2 ’l gonfalon selvaggio:
fra tanti damigelli;
«l’insegna silvestre, il ramo
fiorito, detto “maio”, che i ché le fiere e gli uccelli Amor ne vien ridendo
giovani appendevano il pri- ardon d’amore il maggio. 40 con rose e gigli in testa,
mo giorno di maggio alle
porte o alle finestre delle lo- e vien di voi caendo.
ro ragazze» (Maier). 15 Chi è giovane e bella, Fategli, o belle, festa.
4 che... s’innamori: che
vuole che ognuno s’inna- deh, non sie punto acerba, Qual sarà la più presta
mori. ché non si rinnovella a dargli e fior’ del maggio?
9 alla frescura: all’om-
bra fresca.
l’età, come fa l’erba:
12 damigelli: giovani in- nessuna stia superba 45 Ben venga il peregrino.
namorati. Il termine varia il 20 all’amadore il maggio. Amor, che ne comandi?
precedente amadori e i suc-
cessivi amanti e innamorati. Che al suo amante il crino
14 il maggio: a maggio. Ciascun balli e canti ogni bella ingrillandi:
16 acerba: schiva, ritrosa.
Il termine sarà affiancato e di questa schiera nostra. ché li zitelli e grandi
variato dai successivi superba Ecco che i dolci amanti 50 s’innamoran di maggio.
(v. 19) e dura (v. 25).
17 non si rinnovella: la van per voi, belle, in giostra:
giovinezza non si rinnova, 25 qual dura a lor si mostra
non ritorna. farà sfiorire il maggio.
19 stia superba: nessuna
sia sdegnosa, rifiuti l’amore.
21 Ciascun balli e canti: un’altra possibilità, attri- tafora del cuore rubato per 36 l’angiolel d’amore: 45 il peregrino: Amore.
cfr. la Canzona di Bacco di buendo a maggio il valore di designare l’innamoramento Cupido. Eco di una ballatel- 46 che ne comandi?: che
Lorenzo, al v. 55 «Ciascun complemento oggetto: è tradizionale. la dantesca (Per una ghirlan- cosa ci comandi?
suoni, balli e canti!». “farà svanire la primavera, 33 invola: ruba, sottrae. detta). 48 ingrillandi: inghirlan-
26 farà... maggio: «il ver- l’incanto della primavera”. 35 Ma chi è quel che vo- 41 e vien... caendo: e di. «La donna donava la
so può essere interpretato La polisemia accresce sug- la?: «Nell’emblematica a - viene a cercarvi. ghirlanda come premio al
così:“farà appassire il ramo gestione a questo verso zione scenica presupposta 43 presta: rapida, veloce. vincitore del torneo» (Del-
fiorito”; oppure “maggio si chiave del componimento. dalla ballata (le donne che si 45-50 «Ben venga... di corno Branca).
vendicherà della ritrosia 31 rendete e cor furati: arrendono agli innamorati e maggio»: «La ballata si 49 ché li zitelli e grandi:
della donzella facendo sfio- restituite i cuori rubati ai donano il cuore) si ha qui chiude con uno scambio di poiché i giovinetti e gli uo-
rire la sua bellezza”» (Ma- vostri amanti, cioè, ancora, l’ingresso del dio d’amore» battute fra le donne e Amo- mini maturi.
ier). Ma non è da escludere ricambiate l’amore; la me- (Delcorno Branca). re» (Delcorno Branca).

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19. Angelo Poliziano T 19.3

Guida all’analisi
Godere la giovinezza e l’amore a maggio La ballata Ben venga maggio sviluppa, come la precedente, il motivo
della giovinezza che dev’essere goduta prima che sfiorisca. Ma, in coerenza con la struttu-
ra che sembra prevedere un’elementare azione scenica, si presenta più mossa e movimen-
tata dalla molteplice presenza di «donzelle» che si adornano di fiori, cantano e danzano, e
di «damigelli» (o «amadori», «amanti», «innamorati» con sottolineatura del motivo domi-
nante) che pure cantano e danzano, ma giostrano anche e sembrano rincorrere e voler cat-
turare, sia pure solo metaforicamente, le donzelle (come avveniva durante le feste del ca-
lendimaggio). Il quadro nel finale è festosamente mosso dalla comparsa dell’«angiolel d’a-
more» (reminiscenza dantesca) che «ne vien ridendo / con rose e gigli in testa». L’impera-
tivo di godere la giovinezza è poi espresso come invito a innamorarsi, a inghirlandar gli
«amadori», a non star superbe, ad arrendersi ai dolci assalti degli «amanti armati» e così via.
Il senso della precarietà e il motivo del carpe diem Ma anche qui si insinua il senso della precarietà di questa
gioiosa letizia, che è poi senso della caducità della giovinezza: bastano, ad insinuarlo, la con-
statazione che «non si rinnovella/ l’età, come fa l’erba» (vv. 17-18) e l’ammonimento a non
mostrarsi dure ché altrimenti si «farà sfiorire il maggio» (v. 26), che suggerisce l’idea di un
miracoloso, precario equilibrio che un nonnulla può turbare facendo svanire letizia e gioia.

Doc 19.3 Una ballata di Cavalcanti, fonte di Poliziano

Obbedendo alla poetica della docta varietas, alle fonti classiche Poliziano accosta sovente fon-
ti della tradizione volgare. In questo caso per il significato complessivo del testo di Polizia-
no è fondamentale l’ode oraziana del carpe diem, e numerosi, sostanziali punti di contatto ci
sono con la Canzona di Bacco di Lorenzo il Magnifico (la cronologia dei due autori è vaga,
ed è difficile stabilire quale dei due testi sia una possibile fonte dell’altro). Ma per questa
ballata Poliziano tenne senza dubbio presente anche una ballata di Guido Cavalcanti, Fresca
rosa novella, probabilmene anch’essa una ballata di Calendimaggio, però di senso assai diver-
3 per prata e per rive- so (qui tutto converge sull’apparizione di madonna, angelica creatura, e sull’estatica ammi-
ra: per prati e pianure. razione del poeta). Il punto di contatto, che suggerisce a Poliziano numerose precise remi-
5 vostro... verdura: niscenze, oltre all’occasione del calendimaggio, è la rappresentazione della primavera come
proclamo il vostro assoluto
valore (rivolgendomi) alla annunzio d’amore, un topos della lirica delle origini. Riportiamo in corsivo alcune delle
campagna. espressioni che riecheggiano nella ballata di Poliziano (inequivocabile soprattutto «da gran-
7 in gio’ si rinnovelli:
di e da zitelli» che ritorna a ruoli invertiti nel finale del Poliziano «ché li zitelli e grandi /
«sia celebrato gioiosamen-
te» (Contini). s’innamoran di maggio»). Anche la presenza di un «angiolel d’amore» al v. 36 di Ben venga
8 da grandi... zitelli: maggio è una probabile reminiscenza stilnovistica, in questo caso però di una ballata dantesca
da vecchi e giovani. (Per una ghirlandetta).
9 per... camino: ovun-
que, in ogni luogo.
11 in suo latino: nel suo Fresca rosa novella, da sera e da matino
linguaggio. piacente primavera, su li verdi arbuscelli.
15 po’ che... vène: poi-
ché giunge primavera (il
per prata e per rivera Tutto lo mondo canti,
tempo della donna il cui gaiamente cantando, 15 po’ che lo tempo vène,
senhal è appunto primavera, 5 vostro fin presio mando – a la verdura. sì come si convene,
cfr. v. 2). Lo vostro presio fino vostr’altezza presiata:
16 sì... convene: com’è
giusto. in gio’ si rinovelli ché siete angelicata – criatura.
19 sembranza: sem- da grandi e da zitelli Angelica sembranza
bianza, aspetto. per ciascuno camino; 20 in voi, donna, riposa:
21-22 aventurosa... di-
sianza: fortunato...deside- 10 e cantin[n]e gli auselli Dio, quanto aventurosa
rio. ciascuno in suo latino fue la mia disianza!

Laboratorio 1 Confronta questa ballata con la Canzona tradizione letteraria, classicistica, ma i due
COMPRENSIONE di Bacco di Lorenzo de’ Medici [R T 17.5 ]. testi si distinguono almeno per una fon-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE In entrambi si trovano forme e motivi damentale differenza di tono: individua e
ispirati alla tradizione popolare (festa, confronta tutti questi elementi.
danza…) e forme e motivi ispirati alla
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Quattrocento e Cinquecento

T 19.4 Stanze per la giostra 1475-1478


La giovinezza di Iulio, insensibile all’amore [I, 8-24]
G. Contini Le Stanze nascono come opera encomiastica per la celebrazione della vittoria di Giulia-
Letteratura italiana del
Quattrocento
no de’ Medici a una giostra nel 1475, ma racchiudono tutti i temi più congeniali a Po-
Sansoni, Firenze 1976 liziano; sono il suo capolavoro poetico e uno dei vertici della poesia quattrocentesca.
Dopo la propositio e una duplice invocazione ad Amore e al Magnifico, ha inizio la nar-
razione: Poliziano descrive la giovinezza di Iulio (Giuliano de’ Medici), trascorsa nella
venerazione di Diana e delle Muse (la caccia e le arti) e nel disprezzo per le donne e
per l’amore. Nel finale compare Cupido, il dio dell’amore, che medita vendetta…

Nota metrica VIII Nel vago tempo di sua verde etate,


Ottave (di versi endecasil- spargendo ancor pel volto il primo fiore,
labi) secondo lo schema
AB AB AB CC. né avendo il bel Iulio ancor provate
VIII
le dolce acerbe cure che dà Amore,
1 verde etate: giovinez- viveasi lieto in pace e ’n libertate;
za. Questo verso riecheggia talor frenando un gentil corridore,
l’incipit di una celebre can-
zone petrarchesca: Nel dolce che gloria fu de’ ciciliani armenti,
tempo de la prima etade (Canz. con esso a correr contendea co’ vènti:
XXIII).
2 il primo fiore: la pri-
ma peluria. IX or a guisa saltar di lëopardo,
3 il bel Iulio: Giuliano or destro fea rotarlo in breve giro;
de’ Medici, fratello minore
di Lorenzo, nato nel 1453 e or fea ronzar per l’aere un lento dardo,
morto nell’aprile del 1478, a dando sovente a fere agro martiro.
soli venticinque anni, vitti-
ma della congiura de’ Pazzi. Cotal viveasi il giovane gagliardo;
4 le dolce... Amore: gli né pensando al suo fato acerbo e diro,
affanni dolcemente aspri né certo ancor de’ suo’ futuri pianti,
che procura Amore.
6 frenando... corridore: solea gabbarsi delli afflitti amanti.
tenendo a freno un nobile
destriero, cavalcando.
7 de’ ciciliani armenti: X Ah quante ninfe per lui sospirorno!
dei branchi (armenti), ovvero Ma fu sì altero sempre il giovinetto,
degli allevamenti siciliani che mai le ninfe amanti no’l piegorno,
(erano celebri al tempo).
8 contendea: gareggiava. mai poté riscaldarsi il freddo petto.
IX Facea sovente pe’ boschi soggiorno,
2 or... giro: ora lo faceva inculto sempre e rigido in aspetto;
abilmente (destro) girare in
stretto spazio. e ’l volto difendea dal solar raggio
3 un lento dardo: una con ghirlanda di pino o verde faggio.
flessibile freccia.
4 dando... martiro: dan -
do alle fiere aspro martirio, XI Poi, quando già nel ciel parean le stelle,
cioè una morte dolorosa tutto gioioso a sua magion tornava;
(descrive la caccia).
6 fato... diro: il suo desti- e ’n compagnia delle nove sorelle
no aspro e crudele (come nel celesti versi con disio cantava,
caso dei futuri pianti del verso e d’antica virtù mille fiammelle
successivo,l’allusione non ri-
guarda la congiura de’ Pazzi, con gli alti carmi ne’ petti destava:
ma è tutta interna al poemet- così, chiamando amor lascivia umana,
to e si riferisce alla vicenda
dell’innamoramento, con- si godea con le Muse o con Dïana.
notato qui negativamente
come acerbo e diro solo perché X nità dei boschi) con tradi- gletto nell’abbigliamento e 5 d’antica... fiammel-
il poeta accoglie l’attuale 1 Ah... sospirorno: ah zionale metafora agreste, severo nell’aspetto. le: desiderio, nostalgia delle
punto di vista del personag- quante fanciulle per lui so- adatta al giovane cacciatore 7 difendea: proteggeva. antiche virtù.
gio che, come subito vedre- spirarono (la terminazione che ama vivere nei boschi. XI 8 Muse... Dïana: «con la
mo, disprezza l’amore). Diro in -orno è forma tipica del 3 piegorno: piegarono. 1 parean: apparivano. poesia e la caccia, della quale
è «latinismo già petrarchesco, passato remoto nel fiorenti- 4 riscaldarsi... petto: 2 a sua magion: alla sua Diana era la dea protettrice»
“crudele”» (Contini). no quattrocentesco). Le ra- cioè innamorarsi. dimora, alla sua casa. (Maier).
8 gabbarsi: farsi beffe. gazze son dette ninfe (divi- 6 inculto... e rigido: ne- 3 nove sorelle: le Muse.

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19. Angelo Poliziano T 19.4

XII XII E se talor nel ceco labirinto


1 ceco labirinto: me- errar vedeva un miserello amante,
tafora tradizionale per desi-
gnare l’amore (in termini di dolor carco, di pietà dipinto,
negativi). seguir della nemica sua le piante,
3 di pietà dipinto: in
aspetto tale da suscitare e dove Amore il cor li avessi avinto,
pietà. lì pascer l’alma di dua luci sante
4 della... piante: le trac-
ce dell’amata; «nemica» per preso nelle amorose crudel’ gogne,
“amata” (che non corri- sì l’assaliva con agre rampogne:
sponde o che si teme non
corrisponda l’amore) è me-
tafora tradizionale. XIII – Scuoti, meschin, del petto il ceco errore,
5-6 e dove... sante: e (ve- ch’a te stessi te fura, ad altrui porge;
deva il miserello amante)
nutrirsi l’animo degli occhi non nudrir di lusinghe un van furore,
(luci), per lui sacri, di colei a che di pigra lascivia e d’ozio sorge.
cui (dove) Amore lo avesse
indissolubilmente legato. Costui che l’ vulgo errante chiama Amore
7 amorose... gogne: i è dolce insania a chi più acuto scorge:
crudeli lacci (gogne) d’amo- sì bel titol d’Amore ha dato il mondo
re; «in realtà la gogna era il
collare di ferro che si mette- a una ceca peste, a un mal giocondo.
va ai rei esposti alla berlina»
(Maier); il laccio d’amore è
quindi connotato, secondo XIV Ah quanto è uom meschin, che cangia voglia
il punto di vista di Iulio, co- per donna, o mai per lei s’allegra o dole;
me qualcosa che suscita di- e qual per lei di libertà si spoglia
sprezzo e derisione.
8 agre rampogne: aspri o crede a sui sembianti, a sue parole!
rimproveri. Ché sempre è più leggier ch’al vento foglia,
XIII
2 ch’a te... porge: che ti e mille volte el dì vuole e disvuole:
sottrae a te stesso e ti mette segue chi fugge, a chi la vuol s’asconde,
in potere altrui. e vanne e vien, come alla riva l’onde.
3 van furore: inutile fol-
lia; «eco fonica della clausola
petrarchesca (I, 6) “van do- XV Giovane donna sembra veramente
lore”» (Contini).
4 che... sorge: che può quasi sotto un bel mare acuto scoglio,
nascere solo in una persona o ver tra’ fiori un giovincel serpente
oziosa e dissoluta. uscito pur mo’ fuor del vecchio scoglio.
5 errante: “che sbaglia”,
ma anche “ondivaga”, che Ah quanto è fra’ più miseri dolente
non sa star ferma nei propri chi può soffrir di donna il fero orgoglio!
propositi (si ricordi la feno-
menologia petrarchesca del- Ché quanto ha il volto più di biltà pieno,
l’amore). più cela inganni nel fallace seno.
6 è... scorge: è una dolce
follia (insania) a giudizio di
chi vede più a fondo nelle XVI Con essi gli occhi giovenili invesca
cose d’amore. Amor, ch’ogni pensier maschio vi fura;
8 ceca peste: a un ma-
lanno, che vien detto ceco e quale un tratto ingozza la dolce ésca,
perché irrazionale, incapace mai di sua propria libertà non cura;
di distinguere il vero e il be-
ne (l’amore è tradizional- ma, come se pur Lete Amor vi mesca,
mente definito “cieco”). tosto oblïate vostra alta natura,
1
XIV
Ah... meschin: ah
né poi viril pensiero in voi germoglia,
quanto è infelice... sì del proprio valor costui vi spoglia.
3 qual: chi.
4 a sui sembianti: ai suoi
atteggiamenti, alle sue
espressioni (fittizie). to appena (pur mo’) dalla sua «Amore invesca i cuori con sottrae, ruba. 6 oblïate: dimenticate;
5 è più leggier: la donna vecchia spoglia, pelle. gli occhi delle giovani don- 3 e quale... ingozza: e brusco passaggio dalla terza
è più leggera, volubile. 6 può soffrir: accetta di ne (e in tal caso essi è pleo- chi una volta inghiotte. alla seconda persona (apo-
8 e vanne e vien: e va e sopportare. nastico); oppure: con tali 5 Lete: come se Amore strofe diretta agli amanti).
viene, ondeggia nei senti- 8 fallace seno: nell’ani- inganni [...] Amor confon- vi mescesse, versasse «acqua 6 alta: nobile.
menti e nei propositi. mo falso. de, insidia gli occhi dei gio- di Lete, mitico fiume della 8 proprio: vostro pro-
XV XVI vani» (Maier). dimenticanza» (Contini). prio.
4 uscito... scoglio: usci- 1-2 Con essi... Amor: 2 maschio: virile. – fura: Mesca viene da “mescere”.

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Quattrocento e Cinquecento

XVII Quanto è più dolce, quanto è più securo


seguir le fere fuggitive in caccia
fra boschi antichi fuor di fossa o muro,
e spïar lor covil per lunga traccia;
veder la valle e ’l colle e l’aer più puro,
l’erbe e’ fior, l’acqua viva, chiara e ghiaccia;
udir li augei svernar, rimbombar l’onde,
e dolce al vento mormorar le fronde!
n Xilografia tratta da un’edi- XVIII Quanto giova a mirar pender da un’erta
zione cinquecentesca delle
Stanze per la giostra.
le capre, e pascer questo e quel virgulto;
e ’l montanaro all’ombra più conserta
destar la sua zampogna e ’l verso inculto;
XVII
veder la terra di pomi coperta,
3 fuor... muro: fuori ogni arbor da’ suoi frutti quasi occulto;
città, in campagna. veder cozzar monton’, vacche mugghiare
4 spïar: cercare. – covil:
tana. e le biade ondeggiar come fa il mare!
7 svernar: «“cantare”
(arcaismo poetico)» (Con-
tini). XIX Or delle pecorelle il rozzo mastro
XVIII si vede alla sua torma aprir la sbarra,
giova: piace (latini-
1
smo).
poi, quando muove lor con suo vincastro,
2 virgulto: pianta. dolce è a notar come a ciascuna garra;
3 e ’l montanar: e vede- or si vede il villan domar col rastro
re il montanaro. – conserta:
intrecciata, cioè fitta. le dure zolle, or maneggiar la marra;
4 destar... incultor: ri-
or la contadinella scinta e scalza
svegliare, cioè far risuonare
la zampogna e i suoi canti star con l’oche a filar sotto una balza.
rozzi (inculti).
5 pomi: frutti.
6 occulto: nascosto. XX In cotal guisa già l’antiche genti
XIX si crede esser godute al secol d’oro,
1 mastro: «”pastore”, in
né fatte ancor le madri eron dolenti
Virgilio “magister ovium”
o “pecoris”» (Contini). de’ morti figli al marzïal lavoro,
2 torma: mandria. né si credeva ancor la vita a’ vènti,
2 sbarra: «stanza dell’o-
vile» (Contini). né del giogo doleasi ancora il toro:
3 vincastro: bastone. lor case eron fronzute querce e grande,
4 garra: gridi, sgridi.
5 rastro: rastrello (latini-
ch’avean nel tronco mèl, ne’ rami ghiande.
smo).
6 marra: zappa.
XXI Non era ancor la scelerata sete
XX
2 si crede... d’oro: si del crudele oro entrata nel bel mondo;
crede che abbian goduto viveansi in libertà le genti liete,
durante l’età dell’oro, miti-
ca epoca di originaria feli- e non solcato il campo era fecondo.
cità.Tutta questa ottava e la Fortuna invidïosa a lor quïete
seguente, dedicate all’età ruppe ogni legge, e Pietà misse in fondo;
dell’oro sono fitte di remi-
niscenze classiche, ad es. Lussuria entrò ne’ petti, e quel furore
virgiliane e lucreziane. che la meschina gente chiama Amore –.
3 fatte... eron dolenti: si
dolevano (eron = erano).
4 al marzïal lavoro: in
guerra (Marte ne era il dio).
5 né... vènti: né si affida-
va (credeva, latinismo) la vita
ai vènti, nella navigazione. XXI pectora cogis / Auri sacra cra fame dell’oro», dove sa- sere arato, coltivato.
6 né... toro: cioè non 1-2 la scelerata... oro: la fames?», «A che cosa non cra vale “esecranda”, Pg 5 invidïosa a: invidiosa
esisteva l’allevamento (né scellerata brama dell’oro forzi i cuori degli uomini / XXII 40-41). della (latinismo).
l’agricoltura). che rende crudeli gli uomi- o maledetta fame dell’oro», 2 bel mondo: mondo 6 misse in fondo: «rove-
8 mèl... ghiande: di cui ni. È reminiscenza virgilia- Aen. III, 56-57) mediata felice. sciò, atterrò» (Contini).
gli uomini si nutrivano. na («Quid non mortalia dalla ripresa dantesca («sa- 4 non solcato: senza es-

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19. Angelo Poliziano T 19.4

XXII In cotal guisa rimordea sovente


l’altero giovinetto e sacri amanti,
come talor chi sé gioioso sente
non sa ben porger alli altrui pianti;
ma qualche miserello, a cui l’ardente
fiamme struggeano i nervi tutti quanti,
gridava al ciel: – Giusto sdegno ti muova,
Amor, che costui creda almeno per pruova –.

XXIII Né fu Cupido sordo al pio lamento,


e ’ncominciò crudelmente ridendo:
– Dunque non sono idio? dunque è già spento
mio foco con che il mondo tutto accendo?
Io pur fei Giove mugghiar fra l’armento,
io Febo drieto a Dafne gir piangendo,
io trassi Pluto delle infernal’ segge:
e che non ubidisce alla mia legge?

XXIV Io fo cadere al tigre la sua rabbia,


al leone il fer rugghio, al drago il fischio;
e quale è uom di sì secura labbia
che fuggir possa il mio tenace vischio?
Or, ch’un superbo in sì vil pregio m’abbia
che di non esser dio vegna a gran rischio?
Or veggiàn se ’l meschin ch’Amor riprende,
da dua begli occhi se stesso or difende –.

XXII esperienza. (drieto... gir) Dafne pian- 8 che: qual essere viven- come trappola per cattura-
1 rimordea: rimprove- XXIII gendo; «la ninfa Dafne, fi- te. re gli uccelli.
rava. 4 con che: con cui. glia del fiume Peneo, men- XXIV 6 che... rischio: io corra
2 e sacri: i sacri, cioè 5 fei... mugghiar: feci tre fuggiva Apollo, di cui ri- 2 fer rugghio: il fiero il rischio di non essere più
«consacrati ad Amore» muggire Giove, cioè l’in- fiutava l’amore, fu mutata ruggito. un dio (perché l’indifferen-
(Maier). dussi a trasformarsi in toro in alloro» (Maier). 3 di sì secura labbia: di za di Iulio ne limiterebbe
5 qualche miserello: per amore di Europa, la 7 io trassi... segge: io fe- aspetto così impavido. l’onnipotenza).
qualche innamorato infeli- quale, salitagli in groppa, fu ci sì che il dio Plutone la- 4 vischio: insidia; il vi-
ce. trasportata a Creta. sciasse le sedi (segge) infer- schio o meglio una sostanza
8 per pruova: per prova, 6 Febo... Dafne: io feci nali per andare in Sicilia a appiccicosa derivata dalle
dopo averne fatta diretta sì che Apollo inseguisse rapire Proserpina. bacche del vischio era usata

Guida all’analisi
La serena bellezza della natura e gli affanni d’amore Queste prime ottave introducono al nucleo tematico e
narrativo del poemetto: la caccia e l’innamoramento di Iulio. Esse motivano e giustificano
l’azione successiva, in quanto l’alterigia di Iulio genera la reazione di Cupido che medita di
punirlo (ott. XXIII-XXIV) e, nel seguito, effettivamente lo punirà tendendogli l’insidia che
lo farà innamorare. Ma soprattutto esse creano un effetto di contrasto, perché delineano una
giovinezza trascorsa «in pace e ’n libertade» nella serena bellezza di una natura senza tempo,
ispirata al mito dell’età dell’oro (ott. XVII-XXI), prima della comparsa «di una diversa bel-
lezza, che non appaga come i campi fioriti, ma inquieta, che insegna all’anima la malinconia
e il raccoglimento, che non distrugge l’estasi ma la chiude nel dolore» (Momigliano), prima
insomma degli affanni e dei turbamenti d’amore.
Libertà, forza, serenità, freddezza e ‘superbia’ di Iulio Gli epiteti attribuiti a Iulio (bel, lieto, destro, gagliardo, alte-
ro, freddo, detto del suo petto, inculto e rigido, detto del suo aspetto) designano una condizio-
ne di forza fisica e morale, di assoluta assenza d’ogni turbamento. «Altero» (X, 2), o «super-

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Quattrocento e Cinquecento

bo» (XXIV, 5) sono epiteti tradizionalmente attribuiti a chi si mostra insensibile all’amore
ed ostenta disprezzo nei confronti del dio o, almeno, va superbo della propria indipendenza
ritenendosi quasi “invulnerabile” da parte di Amore (che, nel mito, trafigge con i suoi dardi
facendo innamorare). Del resto la stessa “freddezza” di cuore può essere intesa come un’of-
fesa al dio Amore. Ma l’alterigia di Iulio si manifesta soprattutto nel discorso che egli, in to-
no sprezzante, rivolge ai giovani amanti contrapponendo la lode della vita rusticana (para-
gonata all’età dell’oro) e la libertà, la forza e la serenità di chi la pratica, alla misera vita di chi
è assoggettato all’amore: naturalmente, dicendo questo, egli celebra se stesso e mostra di-
sprezzo verso gli interlocutori, uno dei quali infatti, sentendosi schernito e offeso, invoca la
punizione d’Amore (ma nelle sue parole Iulio prefigura anche la sorte che presto gli toc-
cherà, tanto che il discorso può apparire oggettivamente ironico). Del tutto naturale e
conforme a un topos tradizionalissimo è quindi, nel finale, il proposito da parte di Cupido di
castigare il «superbo» Iulio. Da un punto di vista letterario è da rimarcare il fatto che la lo-
de della vita rusticana e la comparazione di questa all’età dell’oro (ottave XVII-XXI) è
compiuta facendo ampio ricorso a numerose fonti antiche (tutta la tradizione della poesia
pastorale risulta pertinente, ma soprattutto il Virgilio delle Bucoliche, che celebra tanto le
gioie della vita agreste quanto la felicità dell’età dell’oro).
Amore come insania Nel rappresentare l’amore come «insania» Poliziano adotta una prospettiva che potremmo
definire rinascimentale: il dominio di sé e il controllo razionale delle passioni («viveasi lieto
in pace e ’n libertate», VIII,5) è in effetti per il Rinascimento uno dei valori supremi. Pe-
trarca ricordava che nulla di buono si può fare in preda alle passioni, ma quasi tutta la filo-
sofia antica muoveva su questa linea di idealizzazione di un equilibrio spirituale governato
dalla ragione. Nel rappresentare gli effetti dell’insania amorosa, Poliziano fa tesoro della
millenaria esperienza della lirica amorosa e della riflessione morale, fino a Petrarca. Ma so-
prattutto tiene presente qui la tradizione misogina antica e medievale, che rappresentava la
donna come incostante, infedele, insidiosa, ingannatrice (cfr. ottave XV-XVI), che viceversa
è un tema del tutto marginale in Petrarca.
Ideologia e letterarietà in Poliziano Sarebbe però incauto affermare che nell’esposizione di questo tema Poli-
ziano esprime compiutamente la sua visione del mondo, la sua ideologia: certo gli possiamo
attribuire l’ideale del dominio razionale delle passioni, ma con tutta probabilità non il di-
sprezzo per l’amore e per la donna (in gran parte semplice effetto del riecheggiamento di
topoi tradizionali). La struttura complessiva del poemetto prevedeva l’innamoramento di Iu-
lio, punizione del dio Amore ma forse anche conquista spirituale, secondo una nota linea di
educazione morale e raffinamento interiore sviluppata in tutta la migliore lirica romanza
che nell’episodio successivo si manifesta in numerosi riferimenti addirittura stilnovistici. In
questo senso Poliziano nelle Stanze non appare molto distante da Boiardo. Tuutavia la fabu-
la di altre sue opere (l’Orfeo ad esempio), incentrata sulla violenza irrazionale delle passioni
potrebbe mettere in discussione anche questo risultato. In effetti, Poliziano non sembra in-
cline a scrivere opere he esprimano tesi ideologiche troppo precise e definite. Anzi, secondo
Emilio Bigi, in genere nell’opera di Poliziano sono la filologia per un verso e la raffinata let-
terarietà per l’altro ad avere la preminenza sull’ideologia, e l’elaborazione formale conta più
delle tematiche.

Laboratorio 1 L’amore e gli amanti vengono descritti o re e descrivine sinteticamente le eventua-


COMPRENSIONE rappresentati, in questo passo, secondo tre li differenze.
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE diversi punti di vista: quello del narratore, 2 Individua (sottolinea) nel testo i versi in
quello di Iulio, quello di Cupido. Analizza cui viene rappresentata la natura. Deli-
tutte le espressioni che, secondo i tre di- neane sinteticamente tutti le principali
versi punti di vista, si riferiscono all’amo- caratteristiche.

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19. Angelo Poliziano T 19.5

T 19.5 Stanze per la giostra 1475 -1478


La metamorfosi di Iulio [I, 33-59]
G. Contini In questo, che è l’episodio più celebre delle Stanze, Cupido mediante una mirabile insi-
Letteratura italiana del dia riesce nell’intento di far innamorare Iulio. Un giorno, di prima mattina, Iulio, mon-
Quattrocento tato sul «corridor superbo», parte «con sua gente eletta» per andare a caccia; la «lieta
Sansoni, Firenze 1976
schiera» s’inoltra nel bosco e stana la selvaggina terrorizzata: durante la caccia Iulio «lie-
to» si allontana dalla schiera e sembra volare qua e là sul suo destriero per inseguire e
uccidere le sue prede, senza poter prevedere quel che l’attende...

Nota metrica XXXIII Ah, quanto a mirar Iulio è fera cosa


Ottave (di versi endecasil-
labi) secondo lo schema romper la via dove più ’l bosco è folto
AB AB AB CC. per trar di macchia la bestia crucciosa,
con verde ramo intorno al capo avvolto,
XXXIII
1 a mirar: dipende da è colla chioma arruffata e polverosa,
fera cosa (variazione di una e d’onesto sudor bagnato il volto!
notissima espressione dan-
tesca, «è cosa dura», If I 4). Ivi consiglio a sua fera vendetta
2 romper la via: aprirsi prese Amor, che ben loco e tempo aspetta;
il passaggio.
3 per... crucciosa: per
stanare la bestia irritata. XXXIV e con sua man di lieve aier compuose
4 con... avvolto: cfr. l’imagin d’una cervia altera e bella,
l’ottava X, 7-8.
6 onesto: «che gli fa con alta fronte, con corna ramose,
onore» (secondo Maier); candida tutta, leggiadretta e snella.
«glorioso» (secondo Con-
tini). E come tra le fere paventose
7-8 Ivi... Amor: in quel al gioven cacciator s’offerse quella,
luogo Amor decise (consi-
glio... prese) di compiere la lieto spronò il destrier per lei seguire,
sua vendetta. pensando in brieve darli agro martire.
XXXIV
1 aier: aere, aria.
4 candida: è la spia lessi- XXXV Ma poi che ’nvan dal braccio el dardo scosse,
cale che collega quest’ap- del foder trasse fuor la fida spada,
parizione con alcuni cele-
bri versi di Petrarca e in e con tanto furor il corsier mosse,
particolare «Una candida che ’l bosco folto sembrava ampia strada.
cerva sopra l’erba / verde
m’apparve» (Canz. CXC, La bella fera, come stanca fosse,
1-2) più lenta tuttavia par che se’n vada;
5 paventose: timorose.
6 s’offerse: si presentò. ma, quando par che già la stringa o tocchi,
8 darli... martire: di uc- picciol campo riprende avanti alli occhi.
ciderla.
XXXV
1 Ma... el dardo scosse: XXXVI Quanto più segue invan la vana effigie,
dopo aver scoccato un dar- tanto più di seguirla invan s’accende;
do senza colpirla.
3 il corsier: il destriero, tuttavia preme sue stanche vestigie,
il cavallo. sempre la giunge, e pur mai non la prende:
5 La bella fera: altra re-
miniscenza petrarchesca, qual fino al labro sta nelle onde stigie
«la fera bella e mansueta» Tantalo, e ’l bel giardin vicin gli pende,
(Canz. CXXVI, 29), dove
fera è una metafora per ma qualor l’acqua o il pome vuol gustare,
donna (la connotazione subito l’acqua e ’l pome via dispare.
che questa reminiscenza
letteraria dà all’espressione
costituisce quindi una pre-
figurazione della meta- piccolo vantaggio. sempre ripercorre le sue analogamente Tantalo se ne seguenti, ogni qualvolta
morfosi della cerva in Si- XXXVI stanche tracce. sta immerso nelle onde del- tenti di dissetarsi o di sfa-
monetta). 1 la vana effigie: l’im- 4 sempre... prende: più lo Stige fino alle labbra, e un marsi, acqua e frutti gli si
6 più lenta tuttavia: magine inconsistente della volte la raggiunge ma non albero (giardin) protende i negano, e così egli è co-
sempre più lenta. cerva. riesce mai a catturarla. suoi rami vicino a lui... Ma, stretto a patir eternamente
8 picciol campo: un 3 tuttavia... vestigie: 5-6 qual... pende: così, come è detto nei due versi fame e sete.

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Quattrocento e Cinquecento

XXXVII XXXVII Era già drieto alla sua disïanza


1-2 Era già drieto... allon-
tanato: egli si era allontana- gran tratta da’ compagni allontanato,
to di molto (gran tratta) dai né pur d’un passo ancor la preda avanza,
compagni inseguendo (drie- e già tutto el destrier sente affannato;
to, dietro) la cerva, oggetto
del suo desiderio (disïanza). ma, pur seguendo sua vana speranza,
3 avanza: avvicina, supe-
pervenne in un fiorito e verde prato:
ra; la cerva, cioè mantiene
inalterato il suo distacco. ivi sotto un vel candido li apparve
5 pur seguendo: conti- lieta una ninfa, e via la fera sparve.
nuando a seguire.
8 una ninfa: Simonetta
Cattaneo, la donna genove- XXXVIII La fera sparve via dalle suo ciglia;
se amata da Giuliano. I mo-
delli di quest’apparizione ma ’l gioven della fera ormai non cura,
«sono la Matelda dantesca“e anzi ristringe al corridor la briglia,
là m’apparve sì com’egli ap- e lo raffrena sovra alla verdura.
pare / subitamente cosa che
disvia / per maraviglia tutt’al- Ivi tutto ripien di maraviglia
tro pensare / una donna so- pur della ninfa mira la figura:
letta che si gia / e cantando e
scegliendo fior da fiore / ond’era parli che dal bel viso e da’ begli occhi
pinta tutta la sua via”(Pg XX- una nuova dolcezza al cor gli fiocchi,
VIII 37-42), e Beatrice “so-
pra candido vel cinta d’uliva /
donna m’apparve” (Pg XXX XXXIX qual tigre, a cui dalla pietrosa tana
31-32)» (Delcorno Branca).
Ma non è da escludere an- ha tolto il cacciator li suoi car’ figli;
che l’incrocio con la sugge- rabbiosa il segue per la selva ircana,
stione del già ricordato ver- ché tosto crede insanguinar gli artigli;
so petrarchesco «Una candi-
da cerva sopra l’erba / verde poi resta d’uno specchio all’ombra vana,
m’apparve» (Canz. CXC, 1- all’ombra ch’e suoi nati par somigli;
2): poco più avanti Simo-
netta verrà definita «candi- e mentre di tal vista s’innamora
da» (XLIII, 1). la sciocca, el predator la via divora.
XXXVIII
1 La fera sparve: ripren-
de il finale dell’ottava prece- XL Tosto Cupido entro a’ begli occhi ascoso,
dente (anadiplosi, stanze al nervo adatta del suo stral la cocca,
capfinidas).
1 dalle suo ciglia: dai poi tira quel col braccio poderoso,
suoi occhi, alla sua vista. tal che raggiugne e l’una e l’altra cocca;
2 non cura: non bada a,
non si preoccupa. la man sinistra con l’oro focoso,
3 ristringe... briglia: la destra poppa con la corda tocca:
trattiene le redini del caval-
lo. né pria per l’aer ronzando esce ’l quadrello,
4 verdura: prato. che Iulio drento al cor sentito ha quello.
6 pur: solamente.
7 parli: gli pare.
7-8 da’... fiocchi: «secon- XLI Ahi, qual divenne! ah, come al giovinetto
do la tradizione della lirica corse il gran foco in tutte le midolle!
amorosa, gli occhi della
donna sono sede privile- che tremito gli scosse il cor nel petto!
giata delle forze d’amore:
Dante, Tanto gentile, 10:
“che dà per li occhi una
dolcezza al core”» (Delcor- di fronte alla propria imma- XL 5 l’oro focoso: «l’arden- petto, la punta della freccia
no Branca). Vedremo fra gine (ombra vana) riflessa in 1 ascoso: nascosto. te strale d’oro che suscita si è arretrata sino alla mano
poco che Cupido stesso è uno specchio. È una «simi- 2 nervo: corda dell’ar- l’amore, mentre quello di sinistra» (Gianni).
nascosto negli occhi della litudine della tradizione co.– cocca: qui è la parte piombo provoca odio» 7-8 né pria... quello: e
ninfa (XL, 1). classica [...] e diffusa dai be- terminale della freccia. (Maier). non appena la freccia (’l
XXXIX stiari medievali, presente 3 quel: il nervo e lo strale 5-6 la man sinistra... toc- quadrello) vola per l’aria
3 ircana: dell’Ircania, nella lirica antica [...]: il assieme (tira indica la ten- ca: «e con la punta d’oro ronzando, Iulio già l’ha
regione della Persia a sud cacciatore ruba i cuccioli sione dell’arco, non il lan- della freccia tocca la mano sentita trafiggergli il cuore.
del Mar Caspio. alla tigre e arresta il suo in- cio). sinistra, con la corda la parte Indica la simultaneità del-
4 ché tosto... artigli: seguimento ponendole di 4 tal... cocca: tanto che destra del petto. Cupìdo ha l’atto e dell’effetto.
perché ritiene di poter pre- fronte uno specchio» (Del- le due estremità dell’arco si impugnato l’arco con la si- XLI
sto bagnare i propri artigli corno Branca). toccano. Cocca designa sia nistra, ha disteso il nervo 2 il gran foco: natural-
del sangue del cacciatore. 8 la via divora: fugge ra- l’estremità della freccia che con la destra: il nervo è pro- mente è la passione, l’amo-
5 resta... vana: s’arresta pidamente. quella dell’arco. teso sino a toccare il suo re.

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19. Angelo Poliziano T 19.5

4 molle: bagnato. d’un ghiacciato sudor tutto era molle;


5 ghiotto: desideroso,
bramoso. – suo: della ninfa. e fatto ghiotto del suo dolce aspetto,
6 giammai... puòlle: giammai li occhi da li occhi levar puòlle;
non può mai levare lo ma, tutto preso dal vago splendore,
sguardo dagli occhi di lei,
non può fare a meno di os- non s’accorge el meschin che quivi è Amore.
servarla e di ammirarla.
XLII
1 lì drento: lì dentro agli XLII Non s’accorge che Amor lì drento è armato
occhi di lei. Di nuovo un’a- per sol turbar la suo lunga quïete;
nadiplosi, una ripresa del
verso finale dell’ottava pre- non s’accorge a che nodo è già legato,
cedente (Non s’accorge ch’A- non conosce suo piaghe ancor segrete;
mor). di piacer, di desir tutto è invescato,
5 invescato: invischiato.
7 ’l crino: i capelli. e così il cacciator preso è alla rete:
XLIII le braccia fra sé loda e ’l viso e ’l crino,
2 dipinta: «ornata, ador-
na» (Maier). e ’n lei discerne un non so che divino.
3-4 lo... scende: i capelli
biondi, a riccioli, scendono
dal capo. XLIII Candida è ella, e candida la vesta,
4 umilmente superba: ma pur di rose e fior’ dipinta e d’erba;
tipico ossimoro di stampo
petrarchesco. lo inanellato crin dall’aurea testa
6 suo cure disacerba: scende in la fronte umilmente superba;
mitiga, lenisce i suoi affanni. rideli a torno tutta la foresta,
7 nell’atto... mansüeta:
probabile sintesi di una re- e quanto può suo cure disacerba;
miniscenza dantesca (Bea- nell’atto regalmente è mansüeta,
trice «regalmente nell’atto an-
cor superba», Pg XXX 70) e e pur col ciglio le tempeste acqueta.
di una petrarchesca («la fera
bella e mansueta», Canz.
CXXVI, 29, per cui cfr. la XLIV Fólgoron gli occhi d’un dolce sereno,
nota a XXXV, 5). ove sue face tien Cupido ascose;
8 pur col ciglio: col solo
sguardo. l’aier d’intorno si fa tutto ameno,
XLIV ovunque gira le luci amorose;
1 Fólgoron: sfolgorano. di celeste letizia il volto ha pieno,
– d’un dolce sereno: di un
azzurro come il cielo sere- dolce dipinto di ligustri e rose;
no. ogni aura tace al suo parlar divino,
2 ove... ascose:dove Cu-
pido tiene nascoste le sue fa- e canta ogni augelletto in suo latino.
ci, le sue fiammelle (che at-
tizzano l’amore).
4 luci: metafora per oc- XLV Con lei se’n va Onestate umile e piana
chi. che d’ogni chiuso cor volge la chiave;
6 dolce: dolcemente. –
ligustri: «fiore bianco tradi-
con lei va Gentilezza in vista umana,
zionalmente appaiato alla e da lei impara il dolce andar soave;
rosa ad indicare l’incarnato non può mirarli il viso alma villana,
femminile» (Delcorno
Branca, che ricorda un pas- se pria di suo fallir doglia non have;
so di Claudiano). tanti cori Amor piglia, fere o ancide,
8 in suo latino: nel pro-
prio linguaggio (remini- quanto ella o dolce parla o dolce ride.
scenza cavalcantiana).
1
XLV
umile e piana: è una
XLVI Sembra Talia se in man prende la cetra,
«dittologia / stilnovistica», sembra Minerva se in man prende l’asta;
come avverte il Contini,
dove piana varrà “sempli-
ce”.
2 che... chiave: che sa dire che i vv. 5-6 costitui- 8 ella... ride:«eco del pe- quentem”)» (Contini). camente “una Musa”.
aprire i cuori più chiusi. scono una clamorosa ripresa trarchesco (finale del sonet- XLVI 2 Minerva: dea della sag-
3 in vista: in forma, in stilnovistica. to CLIX) “Et come dolce 1 Talia: una delle Muse, e gezza ma, anche, della guer-
aspetto. 7 fere o ancide: ferisce o parla et dolce ride”, a sua precisamente quella ispira- ra (secondo una più tarda
6 se... have: se prima non uccide, altri verbi tipica- volta memore d’un luogo trice della poesia comica tradizione qui accolta).
prova dolore, pentimento mente stilnovistici in questo oraziano (“Dulce ridentem (secondo tradizione) ma qui
per i propri errori. Inutile contesto. Lalagen amabo, Dulce lo- assunta a designare generi-

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Quattrocento e Cinquecento

4 Dïana: dea della caccia, se l’arco ha in mano, al fianco la faretra,


cui particolarmente devoto
è Iulio, come abbiamo visto. giurar potrai che sia Dïana casta.
5-6 Ira... basta: effetti del- Ira dal volto suo trista s’arretra,
l’apparizione della donna e poco, avanti a lei, Superbia basta;
pure di origine stilnovistica.
6 basta: resiste, dura. ogni dolce virtù l’è in compagnia,
XLVII Biltà la mostra a dito e Leggiadria.
1 verdura: erba, prato.
2 avea contesta: aveva
intrecciato. Per alcune fonti XLVII Ell’era assisa sovra la verdura,
di queste immagini [R allegra, e ghirlandetta avea contesta
T 19.2 ].
5 come... cura: non ap- di quanti fior’ creassi mai natura,
pena si accorse (puose cura, de’ quai tutta dipinta era sua vesta;
pose attenzione) della pre-
senza di Iulio. e, come prima al gioven puose cura,
6 alquanto: un poco. alquanto päurosa alzò la testa,
XLVIII
1 Già... partire: già si poi colla bianca man ripreso il lembo,
avviava, per allontanarsi da levossi in piè con di fior’ pieno un grembo.
quel luogo.
4 talenta: desidera.
5 soffrire: sopportare. XLVIII Già s’invïava, per quindi partire,
6 priego: preghiera. la ninfa, sovra l’erba, lenta lenta,
XLIX
1 qual che tu ti sia: chi- lasciando il giovinetto in gran martire,
unque tu sia. che fuor di lei null’altro ormai talenta.
2 m’assembri: mi sem-
bri. Ma non possendo el miser ciò soffrire,
4 fammi certo: rendimi con qualche priego d’arrestarla tenta;
noto, dimmi. par che, tutto tremando e tutto ardendo,
5 fuor... umana: sovru-
mana, al di fuori di ogni così umilmente incominciò dicendo:
sembianza umana.
6 merto: merito. Iulio
domanda quale suo merito, XLIX – O qual che tu ti sia, vergin sovrana,
quale grazia divina o quale o ninfa o dea – ma dea m’assembri certo;
benigna stella lo renda de-
gno di osservarla. se dea, forse se’ tu la mia Dïana;
L se pur mortal, chi tu sia fammi certo,
1 Volta: rivoltasi, volta- ché tua sembianza è fuor di guisa umana;
tasi.
3 che... sole: che avreb- né so già io qual sia tanto mio merto,
be fatto muovere i monti e qual dal ciel grazia, qual sì amica stella,
arrestare il sole. Si tratta di
adynata (menzione di cose ch’io degno sia veder cosa sì bella –.
impossibili) tradizionali.
5 fra perle e vïole: fra
denti e labbra, con la bocca;
L Volta la ninfa al suon delle parole,
ma, tolta la veste metafori- lampeggiò d’un sì dolce e vago riso,
ca, il concetto è ridondan- che i monti avre’ fatto ir, restare il sole:
te.
6 per... diviso: avrebbe ché ben parve s’aprisse un paradiso.
spaccato in due. Poi formò voce fra perle e vïole,
8 Sirena: perfino una Si-
rena. «Secondo il mito le tal ch’un marmo per mezzo avre’ diviso;
Sirene erano bensì vaghe soave, saggia, e di dolcezza piena,
allettatrici, ma insensibili e
crudeli» (Maier). «Singola- da innamorar, non ch’altri, una Sirena:
re rovesciamento: di solito
la sirena adescatrice è la
donna» (Delcorno Bran- In un breve discorso ella dichiara di non essere una dea, ma una donna, nata in Liguria e
ca). legittimamente sposata, e di chiamarsi Simonetta.
LV
5 Feciono: fecero, leva- LV Poi con occhi più lieti e più ridenti,
rono. tal che ’l ciel tutto asserenò d’intorno,
8 fassi: si fa.
mosse sovra l’erbetta e passi lenti
con atto d’amorosa grazia adorno.
Feciono e boschi allor dolci lamenti
e gli augelletti a pianger cominciorno:
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19. Angelo Poliziano T 19.5

LVI ma l’erba verde sotto i dolci passi 2 le... precetti: le parole


2 temenza il tiene: il ti- magnifiche (solenni, forse
more lo trattiene. bianca, gialla, vermiglia e azzurra fassi. sentenziose e pronunciate
3 gli assidera: gli si fa con altera sicurezza) e i pre-
ghiaccio, si gela. LVI Che de’ far Iulio? Ahimè, ch’e’ pur desidera cetti di comportamento.
6 né pensa... pene: le 4 pur: adesso, ancora.
sofferenze sono ovviamente seguir sua stella, e pur temenza il tiene: 8 pur dianzi: solo poco
quelle di Iulio e a non curar- sta come un forsennato, e ’l cor gli assidera, tempo fa.
sene è Simonetta. LIX
7 andar celeste: l’anda- e gli s’agghiaccia il sangue entro le vene; 1 Dianzi eri: ancora
tura celestiale. sta come un marmo fisso, e pur considera un’anadiplosi del finale del-
8 ventilar: l’ondeggiar la stanza precedente. Si noti
(per il vento). lei che se’n va né pensa di sue pene, ai versi 1-4 il doppio chia-
LVII fra sé lodando il dolce andar celeste smo: «Dianzi... fera... fera...
se li: gli si. or» e «dianzi... or... or...
1
5 un... amanti: come
e ’l ventilar dell’angelica veste. dianzi».
uno qualsiasi degli altri in- 2 ne’ lacci involto: lega-
namorati, da lui scherniti. LVII E’ par che ’l cor del petto se li schianti to, soggiogato, catturato
7 agogna: brama, desi- nella sua rete (è atto proprio
dera intensamente. e che del corpo l’alma via si fugga del cacciare, che la fera ritor-
8 qui... vergogna: qui lo e ch’a guisa di brina al sol davanti ce sul cacciatore): cfr. anche
attira Amore, da qui la ver- XLII, 6 «e così il cacciator
gogna lo tiene lontano. in pianto tutto si consumi e strugga; preso è alla rete».
LVIII già si sente esser un degli altri amanti, 7 degge: deve.
U’ sono: dove sono; sti- 8 ch’a virtute... legge:
1
lema frequente nei libri e pargli ch’ogni vena Amor gli sugga; Amore detta le leggi a cui
profetici della Bibbia (noto or teme di seguirla, or pure agogna, devono attenersi tanto la
nella forma latina di Ubi qui ’l tira Amor, quinci il ritrae vergogna. virtù che la fortuna.
sunt) e poi in tutta la tradi-
zione romanza:connota sar-
casmo. LVIII U’ sono or, Iulio, le sentenzie gravi,
le parole magnifiche e’ precetti,
con che i miseri amanti molestavi?
Perché pur di cacciar non ti diletti?
Or ecco ch’una donna ha in man le chiavi
d’ogni tua voglia, e tutti in sé ristretti
tien, miserello, i tuoi dolci pensieri;
vedi chi tu se’ or, chi pur dianzi eri.

LIX Dianzi eri d’una fera cacciatore,


più bella fera or t’ha ne’ lacci involto;
dianzi eri tuo, or se’ fatto d’Amore;
sei or legato, e dianzi eri disciolto.
Dov’è tuo libertà, dov’è ’l tuo core?
Amore e una donna te l’ha tolto.
Ahi, come poco a sé creder uom degge!
ch’a virtute e fortuna Amor pon legge.

Guida all’analisi
La caccia e la metamorfosi della cerva Dopo la rappresentazione della giovinezza felice di Iulio e l’annuncio
dei propositi di vendetta di Cupido, la scena successiva (qui in parte omessa) si apre al-
l’ottava XXV con uno stacco paesistico che rappresenta ancora una volta una natura pri-
maverile. L’episodio della caccia che segue ripropone uno Iulio ardito e sicuro di sé nel-
l’arte che preferisce; ma ormai aleggia nell’aria la minaccia di un evento perturbatore, che
puntualmente si manifesta sotto forma di meraviglioso inganno. L’«imagin d’una cervia al-
tera e bella», composta per arte divina di solo «aier», attrae Iulio, si fa inseguire provocato-
riamente ma si sottrae alla cattura finché si compie la decisiva metamorfosi: la cerva si ‘tra-
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Quattrocento e Cinquecento

muta’ in ninfa e lascia Iulio attonito e ammirato del prodigio e della sovrumana bellezza
di quella che pare ed egli crede una dea (ottave XLVI e XLIX).
L’apparizione di Simonetta, ninfa o dea pagana L’apparizione di Simonetta è condotta soprattutto sotto il segno
di reminiscenze dantesche e stilnovistiche: Matelda e Beatrice ne sono i principali modelli
(cfr. XXXVII, 7-8 e note), per il candore suo e della veste, per l’immagine dei fiori di cui è
adornata (XLIII, 1-2), per la regalità del suo portamento e la mansuetudine (XLIII, 7), per
l’umiltà (XLIII, 4), per l’onestà e la gentilezza, per il «dolce andar soave» e per tutti gli effet-
ti che produce sugli astanti (XLV, 1-8). Ma sarebbe azzardato riconoscere una troppo preci-
sa valenza ideologica a queste reminiscenze, attribuendo a Simonetta il valore di una donna-
angelo che conduce a Dio o a verità superiori. Abbiamo anche visto come negli stessi passi
siano presenti anche reminiscenze petrarchesche: ad esempio, l’immagine petrarchesca della
« fera bella e mansueta» e quella della «candida cerva» agiscono in profondità nel testo, nel
far presagire e poi nel caratterizzare l’apparizione. Ma Simonetta, pur vivendo di queste e
varie altre reminiscenze letterarie, nel complesso sfugge tanto alla logica stilnovistica quan-
to a quella petrarchesca: decisiva è la sua caratterizzazione come ninfa. Non è strumento di
elevazione a Dio, come in Dante, né fonte di contraddittorie inquietudini morali, come in
Petrarca. È piuttosto una splendida manifestazione, un’attualizzazione quasi di quel mondo
mitico dell’antichità pagana che Poliziano amava e ammirava nei suoi scrittori classici.
La metamorfosi interiore di Iulio e il tema della renovatio Alla metamorfosi della cerva fa seguito, di necessità e
a compimento della vendetta d’amore, la metamorfosi interiore di Iulio (ottave LVI-LVII), il
cui nuovo stato, già prefigurato alle ottave XIII-XIV, è rappresentato ora in situazione, soprat-
tutto mediante il ricorso a notissimi topoi petrarcheschi: il contrasto di passioni (ardere / ag-
ghiacciare, desiderio / timore), la violenza di queste, il turbamento, l’incapacità di prendere
una decisione. Il significato dell’episodio, che è poi il nucleo narrativo portante dell’intero
poemetto (così come ci è giunto) è dunque quello di una «formazione umana», di una «re-
novatio» interiore del protagonista.
Ma, come ha notato De Robertis, nel contesto di un’opera intrisa dei miti dell’antichità
classica, la vicenda della renovatio interiore di Iulio acquista un significato simbolico più am-
pio: essa sembra infatti voler implicitamente alludere anche a una più generale renovatio del-
la poesia e dell’arte, e cioè, in definitiva, a quella stagione umanistico-rinascimentale della
nostra cultura che proprio in Poliziano trova uno dei suoi cardini e dei suoi vertici. «Mai ri-
vestì di tante gemme l’erba / la novella stagion che ’l mondo aviva» (LXXX), scriverà poco
più avanti Poliziano, forse alludendo proprio all’età sua.

Laboratorio 1 Analizza la preghiera di Orfeo a Plutone spetto alla precedente preghiera rivolta a
COMPRENSIONE scandendola in sequenze (ad es. richiesta Cerbero e alle Furie?
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE d’ascolto, vv. …-…; scopo del viaggio, vv. 2 In uno scritto articolato svolgi uno dei
...-…; narrazione della morte di Euridice, seguenti temi: 1) “La ricezione dei mo-
vv. …-…; ecc.). In quali punti soprattutto delli classici nella poesia di Poliziano”; 2)
e con quali mezzi Orfeo cerca di impie- “Suggestione e precarietà degli ideali
tosire e persuadere il suo interlocutore? umanistici nella poesia di Poliziano”.
Si può riscontrare una diversità di toni ri-
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19. Angelo Poliziano VERIFICA

VERIFICA

19.1 Un laico al servizio della cultura

1 Delinea sinteticamente il profilo socio-culturale di Poliziano. Quale tipologia di intellet-


tuale egli rappresenta? Quali sono gli aspetti salienti della sua biografia che giustifichino la
tua definizione?
2 Come può essere giudicato sul piano storico-culturale il tentativo di Poliziano di ottenere,
poco prima di morire, la carica di cardinale? Può essere utile R 15.4.

19.2 Poesia, filologia, estetica nel Poliziano umanista

3 Illustra brevemente gli interessi e l’attività del Poliziano umanista. Cita qualche sua opera
erudita.
4 Illustra con parole tue il concetto di «culto della parola, come suprema manifestazione del-
la civiltà umana», facendo riferimento ai dibattiti umanistici.
5 Quali sono i concetti salienti espressi da Poliziano nella Prolusione al corso su Quintiliano e
Stazio? Quali di questi concetti hai già incontrato studiando gli umanisti? Cita qualche te-
sto letto.
6 Che parte ha la filologia nell’attività intellettuale di Poliziano? Illustra l’interpretazione di
Garin che ti è stata proposta nel profilo (per meglio comprendere la posizione del critico
puoi leggere on line la scheda INTERPRETAZIONI DEL RINASCIMENTO per quel che si rife-
risce alle tesi di Garin).
7 Quali contrapposte tesi caratterizzarono il dibatto sull’imitazione? Che cosa sostiene Poli-
ziano?
8 Che cosa si intende per docta varietas e che nesso ha con il concetto di classicismo?

19.3 Poliziano scrittore in volgare

9 Quali sono le principali opere volgari di Poliziano?


10 Illustra le caratteristiche salienti delle Rime volgari di Poliziano, facendo riferimento anche
alle informazioni acquisite studiando il capitolo sulla lirica.
11 Riferisci la trama delle Stanze per la giostra, l’occasione per cui furono composte e le circo-
stanze che ne determinarono l’interruzione.
12 Quale interpretazione delle Stanze ti viene proposta nel profilo?
13 Spiega la funzione del mito nel poemetto.
14 Riferisci l’argomento della Festa d’Orfeo e l’interpretazione proposta nel profilo.
15 È corretto affermare che Stanze e Festa d’Orfeo riflettono due visioni del mondo e dell’a-
more in contrasto fra loro?
16 Il tema dell’amore e quello della morte sono centrali nell’opera volgare di Poliziano: come
e in quali testi vengono affrontati?
17 Che ruolo hanno il mito e l’amore per la letteratura nell’opera volgare di Poliziano?
18 Che cosa si intende per «sentimento della fragilità degli ideali umanistici»? Dove è riscon-
trabile questo sentimento?

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Quattrocento e Cinquecento

Cultura e società nel primo


20 Cinquecento (1492-1545)
Il 1492, l’anno della scoperta dell’America, segna ne del mondo, le condizioni stesse dell’attività degli intel-
convenzionalmente l’inizio dell’età moderna; ma è anche lettuali europei.
l’anno della morte del Magnifico, e di lì a poco scompaio- Nel corso del Quattrocento all’interno del mondo catto-
no altri grandi poeti e umanisti del secondo Quattrocento. lico si erano levate richieste di una riforma della Chiesa
In quegli anni si chiude una fase storico-culturale abba- che ridesse vigore alla parola evangelica. Nel 1517 fu il
stanza omogenea. In effetti in Italia a quel tempo a molti frate agostiniano Martin Lutero a dare una radicale rispo-
parve che un’epoca felice volgesse al termine, tanto più sta a quell’insieme di bisogni e malcontento. Lutero svolse
che nel 1494 la discesa di Carlo VIII fu vissuta da quasi una serrata critica alla prassi della vendita delle indulgen-
tutti i contemporanei come un evento sconvolgente. ze arrivò a contestare alcuni fondamentali dogmi del cat-
L’impresa di Carlo VIII diede il via a un lungo periodo di tolicesimo. L’abolizione del celibato per i pastori, il rifiuto
guerre tra le principali potenze continentali per il primato del sacramento della confessione, la libera interpretazione
in Europa, che si combatterono soprattutto in un’Italia di- dei testi sacri ebbero effetti dirompenti e segnarono un
visa in tanti stati incapaci di avviare un processo di unifi- solco non sanabile con la Chiesa cattolica.
cazione politica o di trovare un accordo stabile fra loro. Al- Il successo della Riforma dovette molto alla stampa,
la fine della guerra la pace di Cateau-Cambrésis (1559) che le assicurò una rapida diffusione e le diede una forza
sancì la sostanziale vittoria della Spagna (sulla Francia) e d’urto straordinaria. Inoltre la pratica della lettura indivi-
la fine dell’indipendenza della penisola italiana. Fra i mo- duale della Bibbia in volgare incrementò il numero degli
menti più drammatici ci fu il sacco di Roma del 1527. La alfabetizzati e rese più omogenea la lingua, ma favorì an-
Spagna ottenne una duratura egemonia sull’Italia, ma Car- che la diffusione dell’idea che la lettura e il libro fossero
lo V vide fallire il sogno di restaurazione dell’Impero e nel veicoli della fede, ciò che non accadde nei paesi cattolici,
1556 abdicò separando il regno di Spagna dalla corona dove la lettura e l’interpretazione dei testi sacri rimasero
imperiale. prerogativa del clero.
Nei decenni del primo Cinquecento, in cui nasce una La corte rimane il principale centro promotore della
quantità di mirabili opere artistiche e letterarie, il contrasto produzione letteraria, e il principale datore di lavoro degli
fra le sublimi idealità e la realtà concreta della storia poli- scrittori, ma la vita dei cortigiani sembra in qualche caso
tica e sociale tocca il punto di massima drammaticità. diventare più difficile. Il mecenatismo continua, ma la crisi
Nel frattempo la scoperta dell’America e i viaggi dei politica distoglie in parte energie e denari dalle arti.
grandi navigatori aprono nuove vie commerciali, ma il Per ora la Chiesa assolve una funzione analoga: anche
n Sopra. Ritratto di Carlo VIII. confronto con popoli i cui tratti somatici, costumi e fedi se si profilano tempi duri, essa continua a proteggere e in-
n Al centro. Cristoforo Co- sconcertano gli Europei, apre nuovi scenari anche di ordi- gaggiare intellettuali concedendo incarichi, benefici, pre-
lombo incontra le popolazioni ne culturale e morale. Proprio in questi anni poi Copernico bende e alte cariche anche a persone senza una reale vo-
del Nuovo Mondo (incisione cazione. Solo dopo il Concilio di Trento ai chierici si chie-
dimostra che la terra non è immobile al centro dell’univer-
del XVI secolo).
n In basso a destra. Lutero so, ma ruota attorno al sole. Si aprono così prospettive fi- derà in modo più rigido l’impegno pastorale o un’attività di
incontra Carlo V alla Dieta di losofiche e scientifiche che modificano profondamente propaganda della fede.
Worms (1521). l’immagine del mondo propria del Medioevo. La produzione libraria ha un forte incremento. La
Oltre a tutto ciò, l’Europa cristiana, per effetto della stampa tuttavia non consentì agli intellettuali di emanci-
Riforma protestante, si spacca in due, creando una nuova parsi dai consueti centri di potere. Si crearono nuove figu-
frontiera anche sul versante religioso. Di lì a poco, la Chie- re professionali e aumentarono gli addetti alla produzione
sa cattolica organizzerà una risposta politica e culturale libraria, ma la commercializzazione delle opere letterarie
alla Riforma protestante, la Controriforma, che contribuirà non garantì agli scrittori l’indipendenza economica. Ciò a
anch’essa, e non poco, a modificare la sensibilità, la visio- causa della precarietà del diritto d’autore, delle tirature li-
mitate e della stessa mentalità degli scrittori che conside-
rano quella letteraria un’attività non venale.
Con la fine del secolo i cenacoli degli umanisti vengo-
no sostituiti da organismi più strutturati che prendono il
nome di Accademie. Esaurita la sua fase più creativa e ri-
voluzionaria la cultura umanistica tende sempre più a tec-
nicizzarsi, perdendo a poco a poco quel vigore di idee che
aveva avuto nel Quattrocento. Un aspetto di questa ten-
denza è la codificazione del classicismo: ora si sente la
necessità di definire meglio i modelli da imitare e le nor-
me linguistiche e retoriche da seguire nella composizione
di un’opera letteraria. Al centro di questo processo in Italia
sta la figura capitale di Pietro Bembo.

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20. Cultura e società nel primo Cinquecento (1492-1545) STORIA

20.1 La crisi politica italiana in un’età di mutamenti epocali


L’anno 1492 e l’inizio dell’età moderna Il 1492 segna convenzionalmente l’inizio dell’età moder-
na. Il 1492 in effetti è l’anno della scoperta dell’America, evento che innescherà una
serie di decisivi mutamenti sul piano economico, politico, sociale e culturale. Questa
va però presa come una data simbolica di un complesso mutamento che si sviluppa
in realtà attraverso delle tappe che si collocano su un più lungo periodo. Si è poi a
lungo discusso in che cosa consistano effettivamente i tratti salienti della ‘modernità’
e si sono indicati altri momenti cruciali: ad esempio quasi un secolo prima, l’inizio
del Rinascimento italiano; o un po’ più tardi nel 1517, l’inizio della Riforma lutera-
na; o anche molto più tardi, la rivoluzione scientifica, o la rivoluzione inglese che af-
ferma la prima monarchia costituzionale moderna.Va insomma ancora una volta sot-
tolineato che i mutamenti veramente significativi non sono mai improvvisi (tanto
meno quelli che riguardano la mentalità e la cultura, fattori di lungo periodo).
La fine del Quattrocento nella periodizzazione letteraria Tuttavia anche sotto il profilo culturale
e letterario questa data simbolica ha un suo significato. Il 1492, in effetti, è l’anno della
morte del Magnifico; nel 1494 muoiono Boiardo, Poliziano e Pico della Mirandola e di
lì a poco Landino (1498) e Ficino (1499), cioè alcuni dei poeti e degli intellettuali più
significativi del primo Rinascimento volgare e degli ultimi rappresentanti dell’Umane-
simo più vitale e creativo. Appare pertanto corretto ritenere che in quel torno d’anni si
chiuda perlomeno una fase storico-culturale omogenea. In Italia a quel tempo a molti
parve che un’epoca felice volgesse al termine, tanto più che nel 1494 ci fu anche la di-
scesa in Italia di Carlo VIII, vissuta da quasi tutti come un evento sconvolgente, un ve-
ro spartiacque tra il quarantennio di pace (sia pure ‘armata’), garantito dalla politica del
Magnifico, durante il quale la vita artistico-letteraria si era sviluppata in forme splendi-
de, e un’età che sembrava addensare sull’Italia solo nubi minacciose. Così alle dichiara-
zioni di lode del secolo che si chiudeva si affiancano rapidamente dichiarazioni di crisi
anche troppo pessimistiche.
Le guerre d’Italia La discesa in Italia di Carlo VIII diede il via a un lungo periodo di guerre, che vide-
ro impegnate le principali potenze continentali: la Francia, l’Impero e la Spagna (qua-
si completamente riunificata dopo la reconquista). Ma se il conflitto aveva come scopo
l’egemonia europea, di fatto lo scacchiere su cui si combatterono le battaglie più aspre,
tanto militari che diplomatiche, fu l’Italia, divisa in tanti stati e staterelli animati da
profonde rivalità e mire espansionistiche locali, che la morte del Magnifico e situazio-
ni contingenti riportarono in primo piano. Queste rivalità locali furono il pretesto o la
causa scatenante del sessantennio di guerre sanguinose. Incapaci di mettere in moto
un processo di unificazione politica o di trovare un accordo stabile fra loro, gli stati ita-
liani presero forse il partito peggiore, quello di rivolgersi alle grandi potenze europee,
nella speranza illusoria di poter trarre profitto dall’ingerenza straniera e al tempo stes-
so di poterla contenere e manovrare. Ma fu un errore.
La discesa di Carlo VIII e la caduta dei Medici A far precipitare gli eventi fu Ludovico Sforza det-
to il Moro, reggente del ducato di Milano, che chiamò in Italia Carlo VIII per risolve-
re un conflitto con gli Aragonesi di Napoli. Carlo VIII, che aveva ben altre ragioni di
egemonia personale per scendere in Italia, non si fece troppo pregare e, fra lo stupore
dell’Italia intera, giunse fino a Napoli senza quasi dover combattere, nonostante pres-
soché tutti gli altri stati italiani gli fossero ostili. Facile fu anche la conquista del Re-
gno; impossibile invece si dimostrò mantenerlo, perché la sua discesa e un imprevisto
accordo con il pontefice Alessandro VI gli rivolse contro sia gli stati italiani (compreso
lo Sforza) unitisi in una lega, sia soprattutto gli spagnoli, anche loro interessati ad an-
nettere il regno di Napoli e soprattutto a contrastare la minaccia dell’espansione fran-
cese in Italia. Uno degli effetti locali di questa rapida, ma infruttuosa discesa, fu la cac-

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Quattrocento e Cinquecento

ciata dei Medici da Firenze: Piero de’ Medici, successore di Lorenzo, dapprima osteg-
giò il sovrano francese, contro il parere dell’oligarchia economica fiorentina (timorosa
di perdere importanti affari in Francia); poi repentinamente gli si arrese senza condi-
zioni, suscitando l’ira di tutti. A Firenze, scossa anche dalla predicazione del Savonaro-
la, si instaurò così di nuovo una repubblica oligarchica (1494-1512) al cui servizio fe-
ce la sua carriera Machiavelli.
Un lungo conflitto con vicende alterne Questo fu però solo il primo atto di una serie impressio-
nante di conflitti e di mutamenti di alleanze. Al governo della Francia, dopo Carlo
VIII, si erano succeduti Luigi XII (1498-1515) e Francesco I (1515-1547), il princi-
pale rivale di Carlo V d’Asburgo (1519-1556), che grazie a un fortunato e imprevedi-
bile gioco di successioni dinastiche aveva riunito nelle proprie mani il regno di Spa-
gna (con tutti i suoi recenti possedimenti americani), il dominio dei Paesi Bassi e la
corona imperiale. È facile comprendere come questa inusitata concentrazione di po-
tere costituisse per la Francia (geograficamente e politicamente accerchiata) una mi-
naccia mortale e che quindi la partita ancora aperta per il dominio dell’Italia divenis-
se agli occhi del sovrano francese una partita vitale, e per l’imperatore l’occasione vi-
ceversa di mettere definitivamente in ginocchio il pericoloso rivale e riaffermare il
ruolo universalistico dell’Impero. Durante la lunga guerra varie volte Milano cadde in
mano francese e poi in mano spagnola, varie volte i diversi signori locali ottennero
piccole conquiste territoriali per riperderle subito dopo.Venezia ad un certo momen-
to parve in grado di poter aspirare al dominio dell’Italia intera, ma solo per vedersi

n La battaglia di Pavia, tra


Carlo V (sopra, in un ritratto di
Tiziano) e Francesco I, in un
quadro di R. Heller (XVI seco-
lo).

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20. Cultura e società nel primo Cinquecento (1492-1545) STORIA

contrastare da una lega prontamente sorta per impedirlo (la Lega di Cambrai, 1508) e
dopo la sconfitta di Agnadello rischiò di essere completamente annientata; e infine
tutti gli stati italiani in pratica si trovarono prima alleati e poi in conflitto con tutti gli
altri. Alla fine della guerra la pace di Cateau-Cambrésis del 1559 sancì la sostanziale
vittoria della Spagna che da quel momento divenne la potenza egemone nella peniso-
la italiana.
Fra i momenti davvero drammatici che scossero i contemporanei ci fu il sacco di
Roma operato nel 1527 dai lanzichenecchi, truppe mercenarie tedesche al soldo del-
l’imperatore, che in un particolare frangente della guerra si videro senza stipendio e
quindi, senza più controllo, decisero di mettere a ferro e fuoco l’Italia centrale sino a
devastare la capitale della cristianità con il papa impotente a guardare lo scempio del-
la città santa dalle finestre di Castel Sant’Angelo.

Doc 20.1 Il sacco di Roma nel racconto di Guicciardini

F. Guicciardini,
Storia d’Italia Il giorno medesimo gli spagnuoli,1 non avendo trovato né ordine né consiglio2 di di-
fendere il Trastevere, non avuta resistenza alcuna, v’entrorono dentro [...]. Entrati den-
tro, cominciò ciascuno a discorrere tumultuosamente alla preda,3 non avendo rispetto
non solo al nome degli amici né all’autorità e degnità de’ prelati, ma eziandio a’ tem-
pli a’ monasteri alle reliquie onorate dal concorso di tutto il mondo,4 e alle cose sagre.
Però sarebbe impossibile non solo narrare ma quasi immaginarsi le calamità di quella
città, destinata per ordine de’ cieli a somma grandezza ma eziandio a spesse direzioni. 5
Impossibile a narrare la grandezza della preda, essendovi accumulate tante ricchezze e
tante cose preziose e rare, di cortigiani e di mercatanti; ma la fece ancora maggiore la
qualità e il numero grande de’ prigioni che si ebbeno a ricomperare con grossissime
taglie:6 accumulando ancora la miseria e la infamia,7 che molti prelati presi da’ solda-
ti, massime da’ fanti tedeschi, che per odio del nome della Chiesa romana erano cru-
deli e insolenti, erano in su bestie vili, con gli abiti e con le insegne delle loro dignità,
menati a torno8 con grandissimo vilipendio per tutta Roma; molti, tormentati crude-
lissimamente, o morirono ne’ tormenti o trattati di sorte che, pagata che ebbono la ta-
glia, finirono fra pochi dì9 la vita. [...] Sentivasi i gridi e urla miserabili delle donne ro-
mane e delle monache, condotte a torme10 da’ soldati per saziare la loro libidine: non
potendo se non dirsi essere oscuri a’ mortali i giudizi di Dio, che comportasse che la
castità famosa delle donne romane cadesse per forza in tanta bruttezza e miseria.11
Udivansi per tutto infiniti lamenti di quegli che erano miserabilmente tormentati,
parte per astrignergli a fare la taglia parte per manifestare le robe ascoste.12 Tutte le
cose sacre, i sacramenti e le reliquie de’ santi, della quali erano piene tutte le chiese,
spogliate de’ loro ornamenti, erano gittate per terra; aggiugnendovi la barbarie tedesca
infiniti vilipendi.13

1 gli spagnuoli: le scopo di preda, compiere 7 accumulando... in- gruppi. costringerli a pagare un
truppe spagnole erano in scorrerie. famia: e alla rovina si ag- 11 non potendo... mi- riscatto o a rivelare dove
realtà composte in gran 4 onorate... mondo: giungeva l’infamia consi- seria: così non si può fare avessero nascosti i propri
parte di lanzichenecchi, oggetto di visita e venera- stente nel fatto che... a meno di ammettere che beni.
mercenari tedeschi (mol- zione da parte di pellegri- 8 erano... torno: era- i giudizi di Dio – che ha 13 aggiugnendovi...
ti dei quali protestanti). ni provenienti da ogni no condotti per la città su tollerato che l’onorata vilipendi: e i barbari sol-
2 né ordine né consi- parte del mondo. bestie vili (probabilmente castità delle donne roma- dati tedeschi (che erano
glio: un ordinato proget- 5 direzioni: diruzio- somari). ne fosse così vilmente of- protestanti) al furto e al-
to di difesa. ni, distruzioni. 9 fra pochi dì: dopo fesa – sono imperscruta- l’offesa aggiungevano pa-
3 discorrere... preda: 6 ricomperare... ta- pochi giorni. bili ai mortali. role e atti ingiuriosi.
correre di qua e di là a 10 a torme: a frotte, a 12 per... ascoste: per
glie:riscattare a caro prezzo.

Gli stati nazionali e la fine del sogno universalistico La Spagna alla fine della guerra ottenne una
duratura egemonia sull’Italia, ma Carlo V vide fallire il suo sogno di restaurazione del-
l’Impero come potenza universalistica, e anche quello più modesto di esercitare un’e-
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Quattrocento e Cinquecento

gemonia sostanziale sull’intera Europa, mantenendo uniti i regni e i popoli che le for-
tunate congiunture dinastiche gli avevano attribuito (egli abdicò nel 1556, un anno
prima di morire, assegnando al figlio il regno di Spagna e al fratello la corona impe-
riale). Fu l’ennesima riprova che le sorti dell’Europa sarebbero state ormai nelle mani
degli stati nazionali, territorialmente vasti, politicamente accentrati, dotati di eserciti
stabili e di un apparato burocratico sempre meglio organizzato. Rispetto ad essi appa-
rivano ormai istituzioni anacronistiche tanto l’Impero, un gigante dai piedi d’argilla,
quanto gli stati regionali, troppo piccoli per poter mantenere a lungo un esercito in
grado di competere con quelli spagnolo e francese, e troppo soggetti alla discrezione o
alla volubilità degli alleati che proprio in questa crisi si erano dimostrati inaffidabili.
Una contraddizione italiana: crisi politica ed eccellenza artistica Anche nel Quattrocento la
splendida rinascita culturale italiana dovette fare i conti con una realtà politica ed
economica tutt’altro che idilliaca, fra crisi economiche, processi di rinfeudamento,
congiure di palazzo, violenze di ogni sorta, tanto che si è ormai soliti affermare che il
Rinascimento fu tale in effetti quasi esclusivamente sul piano artistico-culturale. «Il
mondo che si riflette nelle grandi opere e nelle grandi figure del primo Rinascimen-
to italiano è un mondo più spesso tragico che lieto, più spesso duro e crudele che pa-
cificato, più spesso enigmatico ed inquieto che limpido ed armonioso. [...] La ‘positi-
vità’ della cultura del Rinascimento non è, dunque, la presa di coscienza di un’età fe-
lice della vicenda umana. Nato sul terreno della cultura, e soprattutto su quello del-
l’arte, solo su quel piano il moto rinascimentale mantiene il suo valore ‘positivo’ di
conquista e di affermazione di certi valori umani, di certi progressi teorici e morali,
contro una relatà che li negava, in un mondo in travaglio agitato da crisi profonde»
(Garin).
Tuttavia è ben chiaro che proprio nei decenni del primo Cinquecento, che vedo-
no nascere una messe di opere mirabili che tuttora rendono celebre l’Italia nel mon-
do, il contrasto fra le sublimi idealità artistico-letterarie e la realtà fattuale della storia
politica e sociale tocca il punto di massima drammaticità. Se Ariosto poté scrivere
l’Orlando furioso e Machiavelli Il Principe; se tanti altri si dedicarono con eccellenti ri-
sultati alla pittura, alla scultura, all’architettura e alla letteratura, è però importante te-
nere a mente come tutte queste mirabili imprese dell’ingegno, con gli ideali di armo-
nia, equilibrio, saggezza che esprimono, vennero composte, per dirlo con una metafo-
ra, fra i colpi dei cannoni e i bagliori delle fiamme che scuotevano l’Italia politica.
Se poi, nonostante tutto, lo sviluppo delle arti fu possibile, ciò accadde per almeno
due ragioni: le guerre di quel tempo erano guerre di eserciti che solo di rado coinvol-
gevano la vita delle città e dei comuni cittadini; e i letterati vivevano spesso nelle corti a
contatto con gli aristocratici o nel loro entourage, dove si sentivano i contraccolpi dina-
stici di una vittoria o di una sconfitta militare, ma raramente si sperimentavano, o si spe-
rimentavano in forma attutita, gli effetti di una carestia o dell’impoverimento della vita
economica di uno stato.
La minaccia turca Altri eventi storici danno il segno dei grandi mutamenti in atto. Uno di questi è
l’avanzata dei Turchi, che dopo la conquista di Costantinopoli nel 1453, allargano
sempre più i loro domini e la loro sfera di influenza giungendo persino a minacciare
direttamente l’Europa cristiana. Nel 1481 gli Ottomani estendono i loro confini sino
in Dalmazia e nel 1529 pongono sotto assedio Vienna. Frattanto hanno anche con-
quistato molte delle basi commerciali veneziane e genovesi nell’Egeo: è un duro col-
po soprattutto per la Serenissima, che certo reagirà e contribuirà ad arrestare l’avan-
zata del pericoloso nemico (con la battaglia di Lepanto nel 1571, che porrà un argine
definitivo all’avanzata turca), ma che anche per queste obiettive difficoltà è indotta ad
orientarsi sempre più verso la terraferma e i traffici europei, snaturando in parte la
propria vocazione storica di principale mediatore commerciale sulle rotte d’Oriente.
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20. Cultura e società nel primo Cinquecento (1492-1545) STORIA

20.2 Nuovo mondo, nuove frontiere


La scoperta dell’America e l’allargamento del mondo conosciuto Nel frattempo la scoperta
dell’America (Cristoforo Colombo, 1492) e più tardi il viaggio in India circumnavi-
gando l’Africa ad opera di Vasco da Gama (1497-1499), la circumnavigazione del glo-
bo ad opera di Ferdinando Magellano (1519-1522) e altre imprese consimili aprono
nuove vie commerciali e nuovi complessi, affascinanti scenari anche di ordine cultura-
le e morale. Sul piano commerciale le nuove vie marittime finiscono col rendere mar-
ginali le rotte attraverso il Mediterraneo (per di più infestato da pirati e luogo di con-
flitto con i Turchi) e quindi favoriscono dapprima Portogallo e Spagna e sul medio-
lungo periodo l’Olanda e l’Inghilterra, più abili nello sfruttare le potenzialità com-
merciali delle nuove rotte e delle nuove terre scoperte. L’allargamento del mondo co-
nosciuto comporta una serie di conseguenze: se nella nostra prospettiva può apparire
secondario il fatto che i nuovi prodotti modifichino profondamente le abitudini ali-
mentari degli Europei (vengono ad esempio introdotti pomodori, patate, mais, cacao,
nuove spezie; si rende disponibile in quantità prima sconosciute lo zucchero), è in-
dubbia la rilevanza che hanno la nuova e più esatta conoscenza del mondo, la scoper-
ta di nuove terre e di nuovi popoli dalle caratteristiche fisiche, dai costumi e dalle fe-
di così diverse e sorprendenti per gli Europei.
La rivoluzione copernicana Da quanto sin qui detto si possono valutare alcune delle nuove rivolu-
zionarie prospettive che vanno aprendosi, tanto più se consideriamo che proprio in
questi anni Copernico elabora una teoria che sconvolge la visione medievale dell’uni-
verso, dimostrando matematicamente che la Terra non è immobile al centro dell’uni-
verso, ma ruota attorno al Sole. Saranno più avanti altri studiosi, e in primis Galileo, a
trarre le debite conseguenze di questa teoria, ma già sin d’ora si aprono prospettive fi-
losofiche e scientifiche che modificano profondamente l’immagine del mondo pro-
pria del Medioevo.
Riforma e Controriforma: la fine periodo Se a questo infine si aggiunge che l’Europa cristiana, per
effetto della riforma protestante, si spacca in due, dando nuova linfa e nuove motiva-
zioni ai già tanti conflitti che l’avevano lacerata nei secoli precedenti, ma anche po-
nendo in secondo piano il tradizionale contrasto con il mondo musulmano, si com-
prenderà come un nuovo scenario e una nuova frontiera si aprano anche sul versante
religioso. Di lì a poco, dopo tentativi di conciliazione e atti di repressione, la Chiesa
cattolica organizzerà una risposta politica e culturale alla Riforma protestante, che
prende nome di Controriforma e che contribuirà anch’essa, e non poco, a modificare
la sensibilità, la visione del mondo, le condizioni stesse dell’attività degli intellettuali
europei. Ed è all’incirca alla data del 1545 che si chiude il periodo che qui consideria-
mo, quando cioè si aprono i lavori del Concilio di Trento, nato appunto per conciliare
i dissidi all’interno della cristianità occidentale, ma destinato a sancire una frattura irre-
parabile. A questa data può apparire azzardato affermare che si esaurisca completamen-
te il moto rinascimentale; è però anche abbastanza evidente che esso declina, cambia
molti dei suoi connotati, è costretto ad affrontare nuove istanze e nuovi problemi.

20.3 La Riforma protestante


Martin Lutero e la renovatio fidei A lungo e da più parti nel corso del Quattrocento all’interno del
mondo cattolico si erano levate richieste di una riforma della Chiesa che combattesse
la corruzione del clero, limitasse il formalismo del culto, rimettesse in primo piano l’e-
sperienza individuale e intima della fede, e ridesse infine vigore alla parola evangelica.
L’Umanesimo, specie quello d’oltralpe, aveva contribuito con alcune sue personalità di
spicco e da ultimo soprattutto con Erasmo da Rotterdam a dare sostanza culturale a
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Quattrocento e Cinquecento

questi bisogni (R 15.3). La Chiesa tuttavia, in quanto istituzione, non aveva saputo da-
re risposte davvero incisive alle diffuse esigenze di renovatio fidei. Un notevole malcon-
tento era presente soprattutto nell’Europa centro-settentrionale, dove già in passato
l’iniziativa di alcuni riformatori religiosi si era saldata con un più generale malconten-
to sociale; così quando nel 1517 il frate agostiniano Martin Lutero, probabilmente sen-
za del tutto prevedere le conseguenze del suo gesto, affisse alla porta della chiesa di
Wittenberg le sue celebri 95 tesi, si mise in moto un movimento di riforma che nel
giro di pochi anni divise l’Europa cristiana in due.
Le 95 tesi di Wittenberg Nelle 95 tesi di Wittenberg Lutero svolgeva una serrata critica alla prassi
della vendita delle indulgenze che costituiva tanto per la Chiesa romana quanto per
i vescovi e i príncipi locali una cospicua fonte di entrate (la raccolta e la gestione
delle offerte era affidata a grandi banchieri come i Fugger e i Medici). La critica ave-
va risvolti sia morali sia teologici: la vendita delle indulgenze si fondava sul principio
che la Chiesa, depositaria del cosiddetto ‘patrimonio dei santi’ (in sostanza i meriti da
essi acquisiti al cospetto di Dio), proprio attingendo a quel patrimonio potesse in-
tercedere presso Dio per rimettere parzialmente o totalmente le pene del Purgato-
rio, ai viventi come ai defunti, purché i fedeli fossero sinceramente contriti e com-
pissero a loro volta delle opere caritatevoli. La pratica era diffusa anche in passato e,
ad esempio, un’indulgenza plenaria veniva concessa a quanti avessero compiuto un
pellegrinaggio nei principali santuari della cristianità, a Roma o a Santiago de Com-
postela. Ma col tempo, per la diminuita tensione morale e le maggiori necessità fi-
nanziarie, ai pellegrinaggi e alle buone opere si era sostituito il semplice versamento
di una cospicua offerta, che veniva persino regolato da minuziosi tariffari. Proprio in
quegli anni il papa Leone X aveva bandito una campagna di indulgenze «per la fab-
brica di San Pietro», dandone l’appalto alla sorella, che a sua volta aveva dato il sub-
appalto per la Germania all’arcivescovo di Magonza, che aveva pagato cospicue tan-
genti a Roma. Agli occhi di Lutero e di molti umanisti, di intellettuali cattolici e di
n Martin Lutero in una stam- tanta gente comune, questa prassi scandalosa appariva il sintomo manifesto di una in-
pa di Lucas Cranach il Giova-
ne (sec. XVI). tollerabile secolarizzazione della Chiesa e della corruzione di molti suoi esponenti.
Ma a Lutero appariva anche fondata su falsi presupposti dottrinali (la dottrina delle
buone opere per ottenere la salvezza eterna).
La dottrina luterana La critica alla prassi delle indulgenze aveva infatti anche dei risvolti teologici
che nel seguito della riflessione di Lutero sarebbero divenuti un programma di radi-
cale contestazione di alcuni fondamentali dogmi del cattolicesimo. L’uomo – affer-
ma Lutero – non si salva per ciò che fa nella vita, ma essenzialmente per la purezza
e l’intensità della fede in Cristo (giustificazione per fede); egli è infatti gravato dal pec-
cato e non è in grado di compiere opere davvero meritevoli agli occhi di Dio, che,
per salvarsi, gli concede la fede, come un dono gratuito (gratuità della fede); il rappor-
to fra l’uomo e Dio è un rapporto intimo e individuale, e la Chiesa in quanto orga-
nizzazione gerarchica con a capo il papa, che pretende di regolamentare la vita reli-
giosa e di interpretare univocamente la parola di Dio, non ha ragion d’essere (critica
della gerarchia ecclesiastica); alla Chiesa visibile si deve contrapporre dunque una Chie-
sa invisibile costituita da una libera comunità di credenti, senza sostanziale distinzio-
ne tra chierici e laici (sacerdozio universale); ciascun fedele è libero di leggere e inter-
pretare personalmente i testi sacri (libero esame); molti dei dogmi della Chiesa catto-
lica, ad esempio quelli riguardanti i sacramenti, ad eccezione del battesimo e del ma-
trimonio, non hanno valore poiché non trovano rispondenza nelle fonti testamenta-
rie (critica dei sacramenti). Questi principi e alcune loro conseguenze pratiche, come
l’abolizione del celibato per i pastori, il rifiuto del sacramento della confessione, la li-
bera lettura e intepretazione dei testi sacri che portò alla traduzione della Bibbia in
tedesco (ad opera di Lutero stesso) e a una sua straordinaria diffusione presso tutti i
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20. Cultura e società nel primo Cinquecento (1492-1545) STORIA

fedeli, ebbero effetti dirompenti e duraturi e segnarono una frattura non sanabile con
la Chiesa cattolica.
La diffusione e l’affermazione del luteranesimo Se da principio, all’atto della pubblicazione del-
le 95 tesi di Wittenberg, Lutero voleva probabilmente solo proporre un dibattito eti-
co-teologico di limitate proporzioni nell’ambito della comunità universitaria di Wit-
tenberg, la rapida e vastissima diffusione geografica e sociale delle sue tesi gli diede
consapevolezza della portata e dell’efficacia della sua azione e lo spinse ad approfon-
dirne le ragioni e a trarne le ultime conseguenze. Presto egli si appellò alle autorità
politiche tedesche perché sostenessero concretamente il moto di riforma e giunse a
polemizzare in forme più virulente col papa, che definì «l’Anticristo romano». A più
riprese Lutero dovette affrontare l’ostilità dei cattolici tedeschi e l’azione stessa del
papa, che lanciò la scomunica contro il frate agostiniano (1521), seguito poco dopo
dall’imperatore che emise un bando contro di lui.
Conflitti e scissioni all’interno della Riforma Il principio del libero esame indusse altri religiosi
protestanti a dare interpretazioni ancor più radicali della Riforma: Lutero si trovò co-
sì a dover affrontare anche un fronte interno e si rese conto di dover a sua volta rego-
lamentare la vita della Chiesa riformata, operazione che comportò anche duri conflit-
ti. Ma il processo si rivelò efficace e irreversibile. Nonostante l’ostilità dell’imperatore,
già con la pace di Augusta (1555) la Chiesa luterana, ormai diffusa anche nei paesi
scandinavi, ottenne un riconoscimento ufficiale, sia pure attraverso il compromesso del
cuius regio, eius religio che sanciva la legittimità della religione protestante negli stati il
cui sovrano l’avesse ufficialmente adottata.
Si affermarono così altre Chiese riformate: quella di Zwingli, sorta a Zurigo e diffu-
sasi in Svizzera; e soprattutto quella di Calvino, sorta a Ginevra e diffusasi in Francia,
con gli ugonotti, e in altri paesi europei. In Inghilterra infine la Chiesa anglicana, pur
influenzata dal calvinismo, fu soprattutto una Chiesa nazionale che mirava a sottrarre il
controllo del clero al pontefice.
Lutero ed Erasmo Lutero ebbe anche complessi rapporti con gli esponenti del mondo cattolico che
avevano auspicato una profonda azione di riforma. Erasmo, ad esempio, dapprima
considerò con un certo favore l’azione di Lutero e ne condivise alcuni presupposti. Le
sue idee innovative e la sua iniziale simpatia per la Riforma gli costarono l’ostilità del
mondo cattolico, tanto che nel 1521 dovette abbandonare Lovanio, dove insegnava, e
rifugiarsi prima a Basilea, poi a Friburgo. Erasmo condusse così mestamente i suoi ul-
timi anni di vita, osteggiato tanto dal mondo cattolico, che lo giudicava perlomeno
complice del luteranesimo, quanto da quello riformato, dal quale col tempo egli aveva
preso le distanze, dichiarando la sua fedeltà al papa.
Tentativi di conciliazione e il Concilio di Trento Quanto alla Chiesa cattolica bisogna osservare
che vi furono dei tentativi, anche per ragioni politiche, di trovare un accordo e una
conciliazione con le Chiese riformate, tanto che si condussero numerosi colloqui e si
progettò un concilio per comporre le divergenze; ma ben presto vinse il partito degli
intransigenti, così che quando fu effettivamente indetto il concilio di Trento (1545-
1563), o quantomeno pochi anni dopo il suo inizio formale, quando al soglio pontifi-
cio salì l’intransigente Gian Pietro Carafa (Paolo IV), apparve ormai chiaro a molti
che esso avrebbe finito col sancire la divisione nel mondo cristiano.
La riforma protestante e la stampa È stato detto che la riforma luterana fu figlia di Gutenberg. Se
quella che da principio pareva solo una disputa etico-teologica universitaria divenne
presto un moto inarrestabile che coivolse tutte le classi sociali e tutta l’Europa, ciò fu
possibile anche grazie alle potenzialità della stampa a caratteri mobili. «Se ci fermiamo
alla chiesa di Wittenberg con Lutero – scrive la Eisenstein –, non riusciamo a cogliere
l’importanza storica dell’avvenimento». Le 95 tesi esposte sulla porta della chiesa di
Wittenberg probabilmente sarebbero restate un fatto locale, se nel giro di pochi gior-
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Quattrocento e Cinquecento

ni migliaia di esemplari non avessero raggiunto più o meno tutta la Germania e poi
tutta l’Europa. La critica di Lutero toccava certo un nervo scoperto nella sensibilità te-
desca, ma la sua diffusione a mezzo stampa le diede una forza d’urto che forse neppu-
re lui aveva previsto.
Nei paesi investiti dalla Riforma poi la massiccia diffusione tanto degli scritti dei
teologi quanto delle traduzioni in volgare della Bibbia determinò un incremento del-
l’alfabetizzazione e un processo di omogeneizzazione della lingua (nella Germania po-
liticamente divisa il fattore unificante delle diverse parlate fu proprio quello religioso);
e la pratica della lettura individuale dei testi sacri favorì anche la diffusione in larghi
strati della popolazione dell’idea che il libro fosse veicolo della fede, mentre nei paesi
cattolici, che osteggiavano tale prassi riservando al sacerdote il compito di leggere e
interpretare la parola di Dio, si diffuse piuttosto la convinzione che attraverso i libri si
propagassero dottrine ereticali, generando quindi nei ceti popolari un atteggiamento
di diffidenza e di sospetto verso il libro e la lettura individuale.

20.4 Gli intellettuali, la corte e i canali di diffusione della cultura


La corte La corte per tutto il periodo che qui consideriamo rimane sempre (e rimarrà an-
cora a lungo) il principale centro promotore della produzione letteraria, il principale
committente e quindi il principale datore di lavoro per gli scrittori, ma la vita di chi
riesce a entrare a farne parte sembra in qualche caso diventare più difficile. Il mecena-
tismo dunque continua, ma progressivamente la crisi politica distoglie in parte energie
e denari da questa funzione. Forse per una minore disponibilità delle corti stesse, ma
certo anche in relazione all’incremento del numero degli scrittori, comincia ad essere
più difficile anche entrarvi; e così, accanto alle consuete celebrazioni della corte, come
luoghi di raffinata vita culturale, e dei principi, come magnifici mecenati, si levano an-
che voci in vario modo dissonanti.
Alla prima categoria appartiene ad esempio il ritratto della corte di Urbino al
tempo di Federico II (1422-1482) e di Guidubaldo di Montefeltro (1472-1508) trac-
ciato da Baldassar Castiglione nel Cortegiano (1528): si tratta di una delle più alte e
partecipi idealizzazioni e celebrazioni della corte nel libro che a sua volta celebra e

Doc 20.2 La corte di Urbino al tempo di Guidubaldo di Montefeltro

B. Castiglione,
Il cortegiano Alle pendici dell’Appennino, quasi al mezzo della Italia verso il mare Adriatico, è posta,
come ognun sa, la piccola città d’Urbino; la quale, benché tra monti sia, e non così ame-
ni come forse alcun’altri che veggiamo in molti lochi, pur di tanto avuto ha il cielo fa-
vorevole, che intorno il paese è fertilissimo e pien di frutti; di modo che, oltre alla salu-
1 fa mestieri: è neces- brità dell’aria, si trova abuntantissima d’ogni cosa che fa mestieri1 per lo vivere umano.
saria. Ma tra le maggior felicità che se le possono attribuire, questa credo sia la principale, che
2 nelle calamità... pri-
va: ciò accadde nel 1502- da gran tempo in qua sempre è stata dominata da ottimi Signori; avvenga che nelle cala-
1503 sotto la minaccia del- mità universali delle guerre della Italia essa ancor per un tempo ne sia restata priva.2 [...]
l’espansione delValentino Quivi adunque i soavi ragionamenti e l’oneste facezie s’udivano, e nel viso di ciascuno
(Cesare Borgia).
dipinta si vedeva una gioconda ilarità, talmente che quella casa certo dir si poteva il pro-
prio albergo della allegria; né mai credo che in altro loco si gustasse quanta sia la dolcez-
za che da una amata e cara compagnia deriva, come quivi si fece un tempo; ché, lassando
quanto onore fosse a ciascun di noi servir a tal signore come quella che già di sopra ho
detto, a tutti nascea nell’animo una summa contentezza ogni volta che al conspetto del-
la signora Duchessa ci riducevamo; e parea che questa fosse una catena che tutti in amor
tenesse uniti, talmente che mai non fu concordia di voluntà o amore cordiale tra fratelli
maggiore di quello, che quivi tra tutti era.

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20. Cultura e società nel primo Cinquecento (1492-1545) STORIA

idealizza la figura del cortigiano, anche se la descrizione di quel luogo e di quel tem-
po felice è intrisa di malinconia, perché i principali protagonisti sono ormai morti.
Al secondo gruppo appartengono invece le lagnanze e le circostanziate accuse nei
confronti dell’insensibilità o della grettezza dei signori, sia laici che ecclesiastici, che
vedremo fare al cortigiano deluso Ariosto [R T 24.1 ]; o i violenti attacchi nei con-
fronti dell’idea stessa della corte, come quelli di un intellettuale free lance qual è Pie-
tro Aretino: nel Ragionamento de le corti (1538), un dialogo nel quale Piccardo cerca
di dissuadere il giovane Coccio dall’intraprendere la carriera di cortigiano, l’Aretino
descrive la corte come un luogo turpe dove dominano incontrastati tutti i vizi.
Doc 20.3 La corte, mercato di menzogne, scola di fraudi

P. Aretino, PICCARDO. La Corte, messeri miei, è spedale de le speranze, sepoltura de le vite, baila1
Ragionamento
de le corti
degli odii, razza de l’invidie, mantice de l’ambizioni, mercato de le menzogne, serraglio
dei sospetti, carcere de le concordie, scola de le fraudi, patria de l’adulazione, paradiso
1 baila: balia.
dei vizii, inferno de le virtù, purgatorio de le bontà e limbo de le allegrezze.

La Chiesa Per il momento la Chiesa condivide ancora con la corte principesca questa funzio-
ne di centro di attrazione, di luogo di produzione e di datrice di lavoro: la Chiesa in-
fatti, nonostante si profilino tempi difficili per via della Riforma protestante, per qual-
che tempo continua a proteggere e ingaggiare intellettuali concedendo incarichi, be-
nefici e prebende o più importanti cariche per meriti intellettuali anche a persone
senza una forte vocazione: è il caso di Castiglione, che fu nunzio apostolico, di Guic-
ciardini, e di Bembo, che diventerà addirittura cardinale. Solo più tardi, quando il
Concilio di Trento sancirà una svolta, ai chierici si chiederà o l’impegno pastorale o
un’attività di difesa e propaganda della fede e comunque si vigilerà con più attenzione
sulla natura ideologica delle opere non religiose pubblicate dai chierici.
La stampa L’invenzione della stampa, che data ormai circa mezzo secolo, non esaurisce la sua
spinta propulsiva. Si assiste anzi a un forte incremento della produzione libraria: si è
calcolato che nel XV secolo si produssero circa 35.000 edizioni per un totale di 15/20
milioni di volumi; nel XVI secolo il numero delle edizioni sale a 150/200.000, pari a
circa 200 milioni di esemplari circolanti (il che significa anche maggiore varietà di te-
sti e tiratura media più elevata).
La stampa tuttavia, nonostante questi numeri, rimase un’occasione perduta per
quanto concerne l’emancipazione degli intellettuali dai consueti centri di potere eco-
nomico e politico: l’aumento delle stamperie e della loro attività determinò sì la for-
mazione di nuove figure professionali e un incremento di addetti alla produzione li-
braria, ma la commercializzazione delle opere letterarie non garantì agli scrittori e in
particolare ai letterati l’indipendenza economica. Questo per varie ragioni: il diritto
d’autore non era riconosciuto e tutelato, le tirature erano basse (la media è inferiore ai
1000 esemplari) e i letterati consideravano l’attività letteraria come un’attività non ve-
nale, e si aspettavano un riconoscimento economico più dai donativi dei principi (o
dei nobili dedicatari delle opere) che non dall’immissione delle opere in un circuito
commerciale.
Come abbiamo visto a proposito di Lutero, però, la stampa costituisce sempre più il
fattore decisivo della diffusione della cultura e delle idee. È questo un processo che
non si arresterà più nel mondo occidentale.
Dai cenacoli alle accademie Con la fine del secolo gli informali cenacoli degli umanisti vengono so-
stituiti da organismi dotati di una più rigida e complessa regolamentazione che sem-
pre più spesso prendono il nome di Accademie: si danno norme, statuti, si determina-
no le procedure di accesso, i propri compiti isttuzionali, si definiscono le «imprese»
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Quattrocento e Cinquecento

(contrassegni grafici e motti che individuano l’accademia), i partecipanti assumono


nomi fittizi e così via. È questo un processo che raggiungerà il suo apice, come vedre-
mo, fra Cinque e Seicento.

Doc 20.4 Diritto d’autore e donativi

L. Febvre - H. Martin, Chieder denaro al libraio, cui affidano l’opera e che ne ricaverà un utile, e perciò vendere
La nascita del libro,
Laterza, Roma-Bari il prodotto del proprio spirito, non è ancora entrato nei costumi: gli autori del Cinque-
1977 cento, e alcuni del Seicento, rifiutano d’accettare simile umiliazione. Così, il sistema cui
pare ricorressero molti autori deriva dal tradizionale mecenatismo. Quando un’opera esce
dai torchi, gli autori ne richiedono alcune copie, cosa più che naturale, e ai tempi di Era-
smo prendono l’abitudine di inviarle a qualche ricco signore, amico delle lettere, accom-
pagnate da lusinghiere epistole dedicatorie: omaggio che il signore saprà apprezzare e ri-
compensare con un regalo di denaro. Nel secolo XVI, la cosa appare lecita e onorevolissi-
ma; come l’abitudine, ben presto acquisita, di far stampare all’inizio o alla fine dell’opera,
epistole o versi encomiastici, rivolti ai potenti protettori che non mancano, anche loro, di
pagare; salvo a far sapere a tutti, se la somma non è abbastanza alta, la tirchieria del perso-
naggio in questione. Non accade forse che persino un umanista come Petrus de Ponte, il
«cieco di Bruges», deluso dai suoi protettori, dedichi agli allievi un’opera in cui denuncia
chi non s’è mostrato abbastanza generoso?

Tecnicizzarsi della cultura umanistica Esaurita la sua fase più creativa e rivoluzionaria la cultura
umanistica tende sempre più a tecnicizzarsi, perdendo a poco a poco quel vigore di
idee che aveva avuto nel Quattrocento. Non è naturalmente un processo repentino, e
del resto i risultati sul piano erudito, filologico, retorico e grammaticale sono spesso
cospicui (nel primo Cinquecento, ad esempio, si compongono le prime fondamentali
grammatiche della lingua volgare). Vero è poi che la cultura umanistica si estende
sempre più in Europa, dando luogo a esperienze creative di primo piano: è il caso di
Erasmo da Rotterdam, le cui opere principali si collocano a inizio Cinquecento; ed è
il caso di Rabelais, che nel Gargantua e Pantagruele celebra ancora una volta in forme
rinnovate l’educazione umanistica.
La codificazione del classicismo Un altro aspetto di questa tendenza alla regolamentazione della
cultura umanistica è quello che potremmo definire di codificazione del classicismo. Se
nel corso del Quattrocento il rapporto con i classici era affidato perlopiù alla pura e
semplice imitazione, ora si sente la necessità di definirlo più precisamente, individuan-
do i modelli da imitare e le norme linguistiche e retoriche da seguire; si codificano e,
per così dire, si istituzionalizzano le forme, i modi, i valori del classicismo. Al centro di
questo processo in Italia sta la figura capitale di Pietro Bembo, vero e proprio arbitro
delle concezioni estetiche di gran parte del secolo.
Se in tutti questi casi il processo è fisiologico e dà luogo a risultati sovente notevo-
lissimi, il restringersi delle prospettive ideali fa a poco a poco emergere anche la figu-
ra del pedante (con il termine «pedante» si definisce un umanista dalle corte vedute,
tutto compreso nel suo orticello grammaticale o erudito, non più mosso da grandi
ideali di rinnovamento culturale), bersaglio nel corso del secolo di tanti strali satirici
da parte degli scrittori più aperti.

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20. Cultura e società nel primo Cinquecento (1492-1545) VERIFICA

VERIFICA

20.1 La crisi politica italiana in un’età di mutamenti epocali

1 Perché il 1492 può essere considerato un’importante data simbolica per la complessiva pe-
riodizzazione storica?
2 In che misura una periodizzazione che faccia capo al 1492 pone dei problemi in ambito
letterario?
3 I contemporanei percepirono tempestivamente i segni di una crisi: spiega perché.
4 Quali eventi traumatici caratterizzano la storia italiana di questi anni?
5 Particolare risalto presso i contemporanei ebbe il cosiddetto sacco di Roma. Quando av-
venne e di che cosa si trattò? Commenta il Doc 20.1 .
6 Che cosa si intende dire affermando che il Cinquecento segna in Europa la fine del «so-
gno universalistico»?
7 Che cosa soprattutto caratterizza gli «stati nazionali» e che ruolo avranno d’ora in poi?
8 Rispetto alle grandi potenze europee l’Italia si trova in una situazione particolare e con-
traddittoria: illustrala brevemente.
20.2 Nuovo mondo, nuove frontiere

9 Altri importanti eventi modificano il quadro economico e politico europeo: ad es. l’avan-
zata dei Turchi e la scoperta dell’America. Spiega quali riflessi tali eventi hanno in partico-
lare in Italia.
10 Quali effetti producono sul piano della cultura e della mentalità la scoperta dell’America e
la rivoluzione copernicana?
20.3 La Riforma protestante

11 La fine di questo periodo si fa coincidere generalmente con l’apertura del Concilio di


Trento: perché e di che cosa si tratta?
12 Che cosa si intende con l’espressione renovatio fidei?
13 Notevole rilievo nel primo Cinquecento hanno gli eventi religiosi e in particolare la
riforma protestante: illustrane i tratti storici e culturali più significativi.
14 Tra il mondo protestante e quello cattolico, ma anche all’interno del mondo protestante ci
furono contrasti e dibattiti. Illustrane gli aspetti salienti.
15 In che rapporti furono il cattolico Erasmo e il protestante Lutero? Che cosa li accomuna-
va e che cosa li divideva?
16 Per quali ragioni si reputa assai importante il rapporto tra l’invenzione della stampa e la
riforma protestante?
20.4 Gli intellettuali, la corte e i canali di diffusione della cultura

17 Delinea sinteticamente le condizioni socio-economiche degli intellettuali in quest’epoca.


18 Che ruolo assolve in quest’epoca la corte nei confronti degli intellettuali?
19 Quali contraddittori atteggiamenti hanno gli scrittori nei confronti della corte?
20 Che ruolo assolve in quest’epoca la Chiesa nei confronti degli intellettuali? Ci sono novità
rispetto al recente passato?
21 Quali effetti produce nel corso del Cinquecento il notevole sviluppo della stampa?
22 Che cosa sono i «diritti d’autore»? Fino a che punto vengono tutelati in quest’epoca e
entro che limiti essi costituiscono un’opportunità di emancipazione degli scrittori dalla
corte? Commenta il Doc 20.4 .
23 In che cosa essenzialmente consiste l’evoluzione dai cenacoli alle accademie?
24 Che cosa si intende con l’espressione «codificazione del classicismo»?

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Quattrocento e Cinquecento

21 Storiografia e politica a Firenze


nel primo Cinquecento
In questo capitolo esaminiamo la riflessione politi- 1494, poco dopo la morte del Magnifico (1492), si in-
ca e storiografica del primo Cinquecento focalizzando staura una repubblica (1494-1512) durante la quale
l’attenzione sui suoi due massimi esponenti: i fioren- fa le sue prime prove e la sua carriera di funzionario
tini Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini. Ma- Machiavelli; alla caduta di questa i Medici ritornano al
chiavelli in particolare può essere considerato il fon- potere per un quindicennio (1512-1527) e Machiavelli
datore della moderna scienza politica, per la sua con- cade in disgrazia e viene anche incarcerato e manda-
siderazione laica, pragmatica e utilitaristica della po- to per un anno al confino. Prima del definitivo conso-
litica, e per il fatto di lidamento della signoria medicea, tuttavia, c’è un ul-
aver tenute separate la teriore triennio di governo repubblicano (1527-1530),
politica e la morale. dal quale – poco prima di morire – Machiavelli si at-
Prima di lui il pensie- tende invano un reintegro nelle sue antiche funzioni.
ro politico medievale La vicenda professionale di Machiavelli che tenta
aveva mirato a definire di accreditarsi come tecnico dell’amministrazione
comportamenti ideali. dello stato, indipendentemente dalla forma di governo
Per il cristianesimo il fi- in essere, è dunque caratterizzata da una serie di
ne dell’individuo è Dio e scacchi. Ma è proprio dopo il 1512, negli anni di for-
dunque in linea di princi- zato isolamento, che egli compone le sue due opere
pio la politica deve esse- principali, Il Principe e i Discorsi sopra la prima Deca
re subordinata all’etica e di Tito Livio.
alla teologia: questa è ad Il Principe è un’opera offerta ai Medici, nel tentati-
esempio la tesi di vo di conquistarsi la loro fiducia e di fornire loro pre-
sant’Agostino (IV sec.) e cetti utili per affrontare la difficile congiuntura politi-
di san Tommaso (XIII ca. Il Principe ha dunque uno scopo pratico, ma al
sec.), pur con qualche contempo è anche una straordinaria opera teorica.
differenza. Ispirati a que- Machiavelli ha infatti l’ambizione di prospettare an-
ste dottrine sono i molti che norme di comportamento e strategie d’azione di
trattati medievali sul validità universale. Con Il Principe in effetti ha inizio la
comportamento dei prin- storia della moderna scienza politica, fondata sulla
n Cesare Borgia, il Duca Va- cipi, che in pratica finiscono con il fornire un mero verità effettuale (realismo), su conoscenze sperimen-
lentino, in un ritratto di anoni- tali (empirismo) e sul tentativo di individuare le co-
catalogo delle virtù del buon cristiano.
mo.
Anche la trattatistica umanistica si occupa della stanti e le leggi del comportamento sottostanti alla
definizione del perfetto principe. Essa tuttavia si ispira caotica fenomenologia storica (naturalismo). Nessuno
agli ideali umanistici di formazione globale dell’indivi- dopo Machiavelli potrà fare a meno di prendere in
duo e amplia il catalogo delle virtù e i riferimenti cultu- esame la sua dottrina, nessuno potrà – come se nien-
rali: alle virtù del perfetto cristiano si associano così te fosse – tornare a fonti e formulazioni teoriche pre-
anche virtù laiche e mondane come la maestà, la libe- cedenti.
ralità e la magnificenza, la raffinatezza nella vita socia- Quelli che egli enuncia sono principi rivoluzionari
le e naturalmente la formazione culturale, uno dei valo- che non mancheranno di colpire e scandalizzare i
ri fondamentali dell’umanesimo; e come riferimenti, ai contemporanei. Machiavelli rigetta l’etica cristiana
testi della tradizione cristiana si associano i filosofi e come metro di giudizio per la politica e propone un’e-
gli storici antichi. Un antecedente del Principe di Ma- tica interamente laica, fondata sull’utile (sull’efficacia
chiavelli, per la sua visione cupa e disincantata del po- delle azioni commisurata al bene dello stato), più o
tere, può però essere considerato un trattatello di Pog- meno secondo il principio comunemente definito co-
gio Bracciolini, L’infelicità dei principi (1440). me «il fine giustifica i mezzi». Egli poi fonda la sua
Tanto Machiavelli quanto Guicciardini operarono teoria sul principio che l’uomo sia malvagio e che
nella Firenze di primo Cinquecento, che vive una con- questa intrinseca malvagità giustifichi l’operato del
vulsa storia di ribaltamenti politico-istituzionali: nel principe, che ha il diritto di violare le norme morali

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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento STORIA

n Niccolò Machiavelli (ritrat- quando ciò è necessario per il bene dello stato. Il
to di Rosso Fiorentino). principe deve insomma usare l’uomo ma anche la be-
stia, e di questa la volpe e il leone, cioè l’astuzia e la
forza, secondo necessità.
Nei Discorsi invece, pur senza venir meno a questi
principi metodologici, Machiavelli muta prospettiva ed
esamina soprattutto la forma istituzionale repubblica-
na: riflette sull’esperienza storica dei romani e fra
l’altro teorizza l’importanza delle buone leggi per il
mantenimento dello stato e l’efficacia della religione
come strumento di governo. Quest’opera pone alcuni
problemi interpretativi di non facile soluzione: non è
del tutto chiaro se in astratto Machiavelli preferisse la
forma monarchica (esaminata nel Principe), che egli
sembra ritenere più efficace nella formazione dello
stato, o quella repubblicana (esaminata qui), che egli
sembra ritenere migliore per il mantenimento dello
stato nel lungo periodo. Comunque sia, Machiavelli in
primo luogo pone sempre il bene dello stato e reputa
secondaria la forma di governo.
Machiavelli è soprattutto un teorico della politica,
Guicciardini è invece nelle sue opere ora un fine co-
stituzionalista, ora un acuto moralista, ora uno storico
di grande levatura. Ma l’opera veramente canonica di
n Francesco Guicciardini (ri- Guicciardini, quella a cui affida il suo sapere etico-po-
tratto postumo di Cristofano litico, sono i Ricordi, un piccolo libro di riflessioni in
dell’Altissimo). forma di aforismi a cui lavorò per lunghi anni.
Molte cose accomunano l’esperienza di Machia-
velli a quella di Guicciardini, ma sul piano teorico ci
sono alcune profonde differenze. Guicciardini mostra
di non condividere la fiducia che ha Machiavelli di po-
ter desumere dalla storia e dall’esperienza leggi di
comportamento di validità universale. Per lui l’unico
vero principio è la «discrezione», la capacità cioè di
analizzare le situazioni concrete e di scegliere di volta
in volta il comportamento più adatto alla situazione
concreta. Se poi Machiavelli pone al primo posto il
bene dello stato, Guicciardini al primo posto pone il
«particulare», cioè l’interesse personale e della pro-
pria parte politica. Nel «particulare» egli peraltro non
individua cinicamente gli interessi più materiali e me-
schini: ma un complesso di interessi che comprendo-
no anche la tutela della propria personale dignità, la
buona reputazione e l’onore che derivano da una di-
rittura morale socialmente riconosciuta.

n Pagina manoscritta dei Ri-


cordi di Guicciardini.

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Quattrocento e Cinquecento

21.1 La riflessione politica prima di Machiavelli


Machiavelli e le dottrine politiche La moderna scienza politica ha inizio con Machiavelli, per la sua
considerazione laica, pragmatica e utilitaristica della politica, e per il fatto di aver te-
nute separate la sfera della politica da quella della morale. Ora, prima di esaminare le
teorie di Machiavelli, e per comprenderne meglio l’originalità e la novità, sarà oppor-
tuno accennare in breve ad alcuni dei modelli da cui egli prende le distanze.
Il pensiero politico cristiano Il pensiero cristiano in linea di principio aveva subordinato la politica
all’etica e alla teologia, cercando se possibile di armonizzarle. Sant’Agostino (354-430)
contrappone la società terrena al regno celeste come una civitas diaboli (città del diavo-
lo) alla civitas Dei (città di Dio) e afferma che il cristiano, pellegrino in transito sulla
terra, deve mirare alla città celeste, e cioè realizzare per quanto possibile nella vita ter-
rena i valori del cristianesimo: la politica deve dunque essere subordinata alla religione
e da questa ispirata. Molto più tardi san Tommaso (1221?-1274) afferma che scopo
della politica è la felicità terrena dell’uomo, che si esplica nella concordia, nella pace e
nella giustizia: per realizzarla il sovrano ha il compito di promuovere il bene fra i cit-
tadini e deve possedere virtù come la prudenza, la giustizia e la saggezza. Quello della
politica è dunque un compito morale. Ma anche per san Tommaso il fine ultimo del-
l’individuo è Dio, non la città terrena, per quanto moralmente ordinata; anch’egli in-
somma, pur riconoscendo una relativa autonomia alla politica, la subordina alla teolo-
gia e così fa a proposito del potere temporale rispetto a quello spirituale.
Il trattato medievale e il principe ideale Nel panorama medievale le opere più significative, per un
paragone col Principe di Machiavelli, sono i trattati che, ispirandosi alle tesi appena ci-
tate, delineano le caratteristiche del perfetto principe. Tra queste si segnala come mo-
dello insigne il De regimine principum (1285) di Egidio Colonna. In quest’opera si deli-
nea la figura del principe ideale, la cui natura e i cui atti sono tutti rigidamente ispira-
ti e regolati dall’etica cristiana: così il ritratto del perfetto principe si risolve in pratica
in un catalogo delle virtù cristiane.
Il trattato umanistico Rispetto a questo influente modello, la trattatistica umanistica non modifica
l’impostazione che mira alla definizione appunto del perfetto principe. Essa tuttavia
interviene ampliando il catalogo delle virtù e i riferimenti culturali da cui trae spunto:
alle virtù del perfetto cristiano si associano così anche virtù laiche e mondane, come la
maestà, la liberalità e la magnificenza. Inoltre la trattatistica umanistica ai consueti rife-
rimenti all’etica e alla teologia cristiana affianca e qualche volta sostituisce cospicui ri-
ferimenti alle fonti classiche che avevano trattato in vario modo di politica, e soprat-
tutto ad Aristotele e a Cicerone. Soprattutto importante è il celebre De principe (1468),
in cui Giovanni Pontano propone al giovane duca Alfonso d’Aragona «una summa del-
le virtù etiche e politiche atte al buon governo», procedendo da quelle propriamente
morali (liberalità, clemenza, umiltà, lealtà, giustizia, moderazione, amore della verità,
ecc.) «a quelle riguardanti il portamento, il modo di vestire e di parlare, gli svaghi, ecc.,
in una prospettiva di formazione globale dell’individuo» (Cappelli). Nutrito di esem-
pi tratti dal mondo antico e da quello contemporaneo, e teso a delineare una figura di
sovrano che incarni senza compromessi l’ideale del saggio antico, vestito però di pan-
ni cristiani e intriso di sensibilità e cultura umanistiche, il Principe di Pontano è una
delle opere più nobilmente rappresentative degli ideali politici dell’Umanesimo.
Un antecedente di Machiavelli: Bracciolini Nell’ambito della produzione umanistica c’è però un
testo che costituisce un antecedente anche sostanziale di qualche aspetto delle dottrine
di Machiavelli. Si tratta del De infelicitate principum (1440) di Poggio Bracciolini. In
quest’opera Bracciolini, discutendo la questione astratta se i principi siano più o meno
felici degli altri uomini, e se sia o meno opportuno e vantaggioso per un intellettuale
dedicarsi alla politica, giunge alla conclusione che la vita dei principi è irrimediabil-

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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento STORIA

Doc 21.1 Le virtù del principe ideale secondo Pontano

Giovanni Pontano, Coloro che vogliono esercitare il potere devono innanzitutto proporsi due scopi: il
De principe liber,
[trad. di G.M. Cappelli] primo di essere liberali, il secondo di essere clementi. Infatti, il principe che eserciterà
la liberalità renderà amici i nemici, devoti gli ostili, fedeli gli infidi. Inoltre, spingerà ad
amarlo gli stranieri, quand’anche vivano in terre lontanissime. Colui nel cui animo
sentiamo che c’è clemenza, tutti lo ammiriamo, lo veneriamo, lo consideriamo simile a
Dio. Ed è proprio da queste due virtù che il principe vien fatto somigliantissimo a Dio,
la cui prerogativa è di far bene a tutti e perdonare ai colpevoli.
Ma ciò che bisogna assolutamente fuggire è l’adulazione, perché chi presta orecchio
agli adulatori cessa di essere veramente padrone di se stesso, in quanto valuta sé e le
proprie azioni sulla base delle altrui adulazioni piuttosto che della propria coscienza.
Bandirai dalla tua corte anche l’ambizione, poiché è nutrice e madre di molti e grandi
mali; riguardo a essa io ho la stessa opinione di Tommaso Pontano, mio parente, uomo
famoso per cultura ed esperienza di vita, il quale, come ho saputo, era solito dire che
l’ambizione è la peste delle città e dei regni. Ben a ragione l’imperatore romano Ales-
sandro ordinò che un tale che ricercava il favore popolare con tale bramosia da ripor-
re in esso il massimo dei beni, fosse incatenato a un palo e poi, appiccato il fuoco a una
catasta di legname ancora umido, fosse soffocato dal fumo, affermando che era giusto
che morisse di fumo chi era stato solito vendere e comprare fumo. Il principe che terrà
a mente di essere un uomo non diverrà mai superbo, perseguirà sempre l’equilibrio e
quanto più vedrà che ogni cosa procede secondo i suoi desideri, tanto più si convin-
cerà che a regolare le vicende umane è Dio, a cui proprio la superbia è sommamente
sgradita.

mente infelice: non bastano gli agi, le ricchezze, il potere e i tanti privilegi concreti di
cui dispone e gode a dargli la felicità, perché il mondo in cui opera è insidioso, i pro-
blemi che deve affrontare sono ardui e le stesse azioni che deve compiere per governa-
re e per mantenere il potere sono gravi e ingenerano inquietudini.
Come è facile comprendere, quest’opera di Bracciolini appartiene ancora a una
forma di dibattito tipicamente umanistico e in ampio senso morale e quindi è molto
lontana dal trattato di Machiavelli. Il vizio è condannato ed esecrato, come accadeva in
molta trattatistica cristiana. Tuttavia finisce con lo squarciare il velo dell’idealità nor-
malmente posto sulla figura del principe e sul mondo della corte. La rappresentazione
del potere, fonte di corruzione spesso anche del principe più onesto, è condotta in
termini che anticipano in qualche misura successive affermazioni di Machiavelli. La
tesi che la vita dei principi e dei governanti in genere sia essenzialmente infelice getta
insomma una luce abbastanza fosca su tutta la gestione della vita politica.
Machiavelli accoglierà la cruda visione del potere di Bracciolini, ma sosterrà pro-
prio la necessità strumentale dei comportamenti che la morale giudica viziosi.

21.2 Firenze nell’età di Machiavelli


La caduta dei Medici (1494) Prima di esaminare la figura e l’opera di Niccolò Machiavelli è anche
bene accennare alla situazione politica di Firenze negli anni in cui egli visse ed operò,
perché la sua concezione della storia e della politica ha come sfondo tanto le teorie e
i dibattiti politici dei secoli precedenti, quanto la concreta situazione storica che egli
esaminò da attento osservatore e da cui trasse spunti di riflessione.
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Quattrocento e Cinquecento

Alla morte di Lorenzo il Magnifico nel 1492 gli succedette il figlio Piero, debole e
incerto, non all’altezza del difficile compito di mantenere il controllo dei gruppi oli-
garchici e di proseguire la politica estera del padre o di trovare nuove strategie nell’in-
tricato scenario italiano. E così alla prima prova davvero difficile – la gestione della
crisi in occasione della discesa di Carlo VIII – si mostrò imprudente e pavido e finì
con lo scontentare tutta la città, che gli si sollevò contro e lo cacciò.
Instaurazione della repubblica Cacciati i Medici, a Firenze si instaurò un governo repubblicano: co-
sì la città si riprendeva di fatto quel potere che formalmente era stato sempre nelle sue
mani. Il primo provvedimento che il nuovo regime prese fu quello di istituire, sul mo-
dello della repubblica veneziana, un Consiglio Maggiore composto di 3000 cittadini,
che aveva il compito di nominare le cariche esecutive in base a complessi criteri che
nella sostanza dovevano garantire l’impossibilità da parte di alcuna famiglia o di alcun
gruppo di potere di egemonizzare la vita politica cittadina, come invece erano riusci-
ti a fare i Medici. Ma con il ritorno alla libera dialettica politica si palesarono e rinno-
varono anche i conflitti che opponevano le diverse fazioni socio-politiche, mosse da
interessi economici e orientamenti culturali divergenti.
Gli anni del Savonarola Nei primi anni il dato saliente fu soprattutto l’opposizione fra i seguaci di Sa-
vonarola, i cosiddetti Piagnoni, che rappresentavano la parte popolare, e i gruppi ari-
stocratici, detti gli Arrabbiati. Savonarola propugnava una profonda riforma morale e
religiosa in aperta polemica contra la degenerazione della Chiesa e in particolare di
papa Alessandro VI Borgia, accusato di simonia, ma anche una riforma fiscale che ina-
spriva l’imposta fondiaria e quella sui redditi. Il primo governo della città di orienta-
mento popolare si mosse in questa direzione, suscitando l’ostilità degli Arrabbiati che
si allearono con i fautori dei Medici (i Palleschi): il partito aristocratico, dopo alterne
drammatiche vicende, riuscì a scalzare il governo popolare e a far imprigionare e
condannare Savonarola come eretico (1498).
Soderini e la repubblica oligarchica Caduto Savonarola, il governo passò in mano oligarchica, ma
non per questo cessarono i conflitti interni: i gruppi aristocratici più conservatori, co-
me i Rucellai, ritenevano che il Consiglio Maggiore non desse sufficienti garanzie di
controllo alla loro parte e premevano perché venissero attuate riforme più incisive in
questo senso. Nel 1502 venne eletto gonfaloniere a vita Pier Soderini, che avrebbe
dovuto tutelare gli interessi dell’oligarchia. Egli godette di un’ampia stima per la sua
dirittura morale, ma la sua azione politica sollevò numerose perplessità e venne osteg-
giata proprio dai magnati fiorentini. Soderini mantenne la carica fino al 1512, quando
le mutate condizioni politiche determinarono una nuova crisi, in seguito alla quale al
papa Giulio II, vicino ai Medici, fu agevole imporre il loro rientro in città.
Il ritorno dei Medici (1512-1527 e 1530) I Medici ressero la città di Firenze per quindici anni. Il
loro dominio non fu però incontrastato. In particolare si mantennero vivi alcuni cir-
coli aristocratici antimedicei, facenti capo alla famiglia Rucellai, nei giardini della cui
casa (i cosiddetti Orti Oricellari) si tennero delle riunioni di giovani intellettuali che
discutevano di politica e cultura, manifestando una grande ammirazione per la Ro-
ma repubblicana. A queste riunioni partecipò anche Machiavelli, per il suo prestigio
personale e per la sua fama di studioso della storia antica. In questo ambiente si
tramò anche una congiura antimedicea, che però venne scoperta e repressa. I Medi-
ci riuscirono così a governare la città finché, con la sconfitta della Lega di Cognac,
furono nuovamente cacciati da Firenze. Il nuovo governo repubblicano però durò
solo tre anni: a porre fine all’esperienza repubblicana di Firenze fu l’imperatore Car-
lo V che, dopo il sacco di Roma, aveva stipulato con il papa Clemente VII, al secolo
Giulio de’ Medici, una pace separata (pace di Barcellona 1529), che prevedeva anche
la restaurazione dei Medici a Firenze in cambio della promessa del papa di incoro-
narlo imperatore in Italia.
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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento STORIA

21.3 Niccolò Machiavelli


21.3.1 Il segretario fiorentino: la vita e le opere minori
La formazione (1469-1498) Niccolò Machiavelli, figlio di Bernardo, notaio, e di Bartolomea de’
Nelli, nacque a Firenze nel 1469. Non abbiamo molte notizie sulla sua formazione:
sappiamo però che le condizioni economiche della famiglia non erano particolar-
mente agiate, che egli ebbe una discreta educazione umanistica e imparò il latino,
ma probabilmente non il greco. Sin da giovane si rivolse con particolare passione
soprattutto ai testi degli storici e dei pensatori politici antichi (tra cui Tito Livio),
ma la biblioteca paterna gli forniva anche opere letterarie (copiò un codice del De
rerum natura di Lucrezio). Non molto si sa neppure sull’orientamento politico del
padre e sui suoi rapporti con i Medici: ma forse Niccolò frequentò casa Medici, co-
sa che spiegherebbe quella certa familiarità con cui si rivolgerà più tardi, in un mo-
mento di disgrazia, a Giuliano de’ Medici.
L’attenzione al Savonarola Nei primi anni della repubblica Machiavelli poco più che ventenne ebbe
occasione di osservare il comportamento di Girolamo Savonarola: e se, come nota Ri-
dolfi, in linea di principio non dovette essere ostile al nuovo governo di ispirazione
popolare, tuttavia manifestò indubbiamente poca simpatia e molta diffidenza nei con-
fronti del frate domenicano, il primo di quei «profeti disarmati» a cui avrebbe dedica-
to poi pagine memorabili delle sue opere maggiori. In una delle sue prime lettere
conservateci (9 marzo 1498, a Ricciardo Becchi) Machiavelli, riferendo una predica
del Savonarola, ne dipinge con sprezzante ironia la retorica e lo accusa apertamente di
malafede («secondo el mio giudizio, viene secondando e’ tempi e le sue bugie colo-
rando»), nota come egli favorisca una netta divisione della cittadinanza (il frate sostie-
ne che i suoi seguaci sono seguaci di Dio, gli avversari seguaci del diavolo), ma si rive-
la anche attento al successo popolare di Savonarola, mostrando di volerne capire le ra-
gioni.
Nomina a segretario della seconda cancelleria Nel 1498, pochi giorni dopo la morte di Savona-
rola, Machiavelli venne nominato segretario della seconda cancelleria, che si occupava
della politica estera e dell’organizzazione militare, e si conquistò la stima e la fiducia
del gonfaloniere Pier Soderini. In questi anni difficili e turbolenti per Firenze e l’Ita-
lia intera questo incarico fu un ottimo osservatorio per la sua formazione di teorico
della politica. «E il segretario fiorentino ebbe modo di esprimervi non solo il suo in-
gegno politico, ma in generale le sue doti intellettuali e i suoi gusti letterari: [...] gli
scritti redatti come funzionario di governo sono già chiara testimonianza del lucido
vigore che caratterizza le sue opere» (Vivanti). In questi anni egli lascia cospicua testi-
monianza di sé nelle prose delle Legazioni e commissarie (i documenti ufficiali), ma
compone anche opere in versi come il primo Decennale e i Capitoli.
Le missioni diplomatiche e i Rapporti Si occupa soprattutto di questioni militari e diplomatiche, con
incarichi di responsabilità (anche operativi).Tra le altre cose, compie svariate missioni in
Italia, fra le quali soprattutto notevoli sono quelle a Senigallia presso il Valentino, quan-
do questi fa assassinare i suoi avversari politici (1502), e a Roma, durante il conclave
che eleggerà papa Giulio II (1503); ma ne compie anche in Francia, in Tirolo e nel Ve-
neto presso l’imperatore Massimiliano d’Asburgo. Da queste ultime esperienze dirette
nasceranno, fra l’altro, i due importanti trattati Ritracto di cose di Francia e Rapporto di co-
se della Magna (composti fra il 1508 e il 1512). Machiavelli mostra di cogliere l’impor-
tanza che in uno stato come la Francia hanno l’accentramento del potere e la coesione
interna, realizzati anche attraverso la formazione di un efficiente apparato burocratico
centralizzato e, per i tempi, assai moderno; mentre all’opposto nel caso della Germania,
pur celebrando la libertà delle città tedesche, depreca la debolezza che all’imperatore
deriva dalla divisione politica e amministrativa del paese in tanti principati autonomi e
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Quattrocento e Cinquecento

comunità cittadine spesso in conflitto fra loro. Sulla base di questo giudizio di fondo
in più di un’occasione Machiavelli suggerirà ai governanti di Firenze, tentati talora di
allearsi con l’imperatore, di preferire l’alleanza della più solida Francia.
Un esercito di popolo Nell’ambito dei suoi uffici Machiavelli promuove e organizza una leva nel con-
tado fiorentino per dotare la città di un esercito permanente. Come vedremo egli dif-
fidava delle truppe mercenarie (uno dei punti su cui gli storici sono più critici nei
confronti di Machiavelli) e sosteneva la necessità di dotarsi di un esercito nazionale,
perché riteneva che il potere politico sia all’interno sia nelle relazioni internazionali
dipendesse in larga misura dalla forza militare di cui il governo veniva accreditato e di
cui poteva effettivamente disporre. La situazione fiorentina però non era semplice,
perché un arruolamento di milizie nelle città soggette era rischioso, e quindi il bacino
cui attingere si limitava al contado della capitale. In ogni caso, la formazione di un
esercito stabile contribuì per qualche tempo a consolidare il governo della repubblica.
Ghiribizzi al Soderini e altri scritti Oltre agli scritti ufficiali, Machiavelli in questi anni compose al-
cune opere di un certo rilievo: fra queste si possono segnalare Del modo tenuto dal
Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il
duca di Gravina Orsini (1503), che è un resoconto analitico dell’episodio che verrà
sintetizzato poi in uno dei più celebri capitoli del Principe; Del modo di trattare i po-
poli della Valdichiana ribellati (1503); e i Ghiribizzi al Soderini (1506), una riflessione più
ampia sulla natura umana e su come essa interagisca con gli accadimenti storici. Qui
Machiavelli in particolare osserva che nell’azione politica si ha successo quando le
inclinazioni individuali concordano con lo spirito dei tempi, o quando si è in grado
di modificare il proprio carattere e modo di procedere per adattarlo al mutare delle

Doc 21.2 Il potere della fortuna

Ghiribizzi al Soderini Donde nasca che le diverse operationi qualche volta equalmente giovino o equalmente
nuochino,1 io non lo so, ma disidererei bene saperlo; pure, per intendere l’oppinione vo-
stra, io userò pesunptione di dirvi la mia.
Credo che come la natura ha fatto all’huomo diverso volto, così gli habbia fatto diverso
ingegno et diversa fantasia. Da questo nasce che ciascuno secondo lo ingegno et fantasia
sua si governa. Et perché dall’altro canto i tempi sono vari et gli ordini delle cose sono di-
versi,2 a colui succedono ad votum i suoi desiderii, et quello è felice che riscontra il modo
del procedere suo con il tempo,3 et quello, per opposito, è infelice che si diversifica con le
sue actioni dal tempo et dall’ordine delle cose. Donde può molto bene essere che due, di-
versamente operando, habbiano uno medesimo fine, perché ciascuno di loro può confor-
marsi con il riscontro suo,4 perché sono tanti ordini di cose, quanti sono provincie et sta-
ti. Ma perché i tempi e le cose universalmente et particularmente si mutano spesso, et gli
1 Donde... nuochino:
huomini non mutano le loro fantasie né i loro modi di procedere, accade che uno ha un
per quale causa accade che tempo buona fortuna, et un tempo trista.5 Et veramente chi fosse tanto savio che cono-
diverse azioni in circostan- scesse i tempi et l’ordine delle cose, et accomodassisi a quelle,6 harebbe sempre buona for-
ze analoghe talora giovino tuna, o egli si guarderebbe sempre dalla trista,7 et verrebbe a essere vero che il savio co-
(abbiano successo) e talora
nuociano (non abbiano mandasse alle stelle et a’ fati.8 Ma perché di questi savi non si truova, havendo gli uomini
successo). prima la vista corta, et non potendo poi comandare alla natura loro, ne segue che la fortu-
2 i tempi... diversi: i
na varia et comanda agli huomini, e tiengli sotto il giogo suo.
tempi sono mutevoli e le
circostanze diverse, cioè i
contesti in cui l’uomo agi- (è felice) colui il cui modo di dei due conformi il suo agi- ne buona fortuna e cattiva lomeno parerebbe i colpi
sce variano. agire è conforme (riscontra) re al (diverso) contesto in fortuna in un’altra. della cattiva fortuna.
3 a colui... tempo: rea- alle caratteristiche del con- cui si trova. 6 accomodassisi a 8 et... a’ fati:sarebbe ve-
lizza i progetti (desiderii) se- testo in cui si trova ad agire. 5 uno... trista: uno quelle: si adeguasse alle cir- ro che il saggio potesse de-
condo i propri desideri (ad 4 perché... suo: perché (agendo sempre nello stes- costanze. terminare il proprio desti-
votum) ed ottiene successo può accadere che ciascuno so modo) ha in un’occasio- 7 o egli... trista: o per- no.

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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento STORIA

situazioni; cosa difficile perché ogni individuo è restio a modificare il proprio carat-
tere e le proprie inclinazioni profonde, mentre le condizioni storiche mutano assai
rapidamente portando alla rovina chi non sa «riscontrare» i tempi: a quest’epoca Ma-
chiavelli è orientato dunque a considerare la fortuna come arbitra del destino indi-
viduale. Quando riprenderà questi concetti nel Principe, in parte modificherà il giu-
dizio [R T 21.7 ].
Emarginazione al ritorno dei Medici Quando nel 1512 cadde la repubblica, Machiavelli venne dap-
prima licenziato dall’incarico di segretario (forse proprio in ragione del suo stretto le-
game con il Soderini), poi nel 1513 venne accusato di aver partecipato a una congiu-
ra antimedicea: questo sospetto gli costò un breve periodo di carcere, durante il quale
fu anche sottoposto a torture, e la condanna a un anno di confino, che trascorse nel
suo podere dell’Albergaccio, presso San Casciano. Fu un periodo di grande amarezza,
ma anche di febbrile attività intellettuale e letteraria: qui nell’anno di confino compo-
se il Principe (o almeno la gran parte) e probabilmente una parte dei Discorsi [R T 21.1 ],
che poi riprese e completò più tardi. Rientrato a Firenze, privo di incarichi pubblici,
continuò la sua attività intellettuale: scrisse fra l’altro l’Arte della guerra (1519-20, ed.
1521) e le commedie Mandragola, uno dei capolavori della commedia cinquecentesca,
e Clizia, che vennero messe in scena nel 1518 e nel 1525. Seguì con grande attenzio-
ne gli eventi militari e politici italiani ed europei e si tenne in contatto epistolare con
numerosi amici ancora attivi politicamente (ad es. Pietro Vettori e Guicciardini). Tentò
anche a più riprese di riavvicinarsi ai Medici: questo del resto era stato anche lo scopo
pratico della stesura del Principe, dedicato a Lorenzo de’ Medici, duca di Urbino, che
voleva essere anche la dimostrazione di come la sua esperienza politica potesse giova-
re ai nuovi signori. Machiavelli con ciò intendeva, più o meno consapevolmente, af-
fermare il suo ruolo di tecnico della politica, che, pur avendo un’opinione politica
personale, si pone al servizio dello stato.
I suoi tentativi ebbero scarso successo, specie sul piano dell’attività pratica: nel 1519
però dal cardinale Giulio de’ Medici ottenne l’incarico, stipendiato, di comporre una
storia di Firenze, le Istorie fiorentine, che terminò nel 1525. La sua fama di studioso della
storiografia classica (che avrà la sua consacrazione nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito
Livio, in fase di composizione proprio in questi anni) e il sospetto e l’ostilità dei Medici
nei suoi confronti lo avvicinarono però anche al gruppo di giovani aristocratici antime-
dicei che si riunivano nei giardini di casa Rucellai (i cosiddetti Orti Oricellari) a discu-
tere della Roma repubblicana, che molto ammiravano, e di cultura e letteratura classica,
ma anche di attualità e di politica. Nel 1522 verrà scoperta una congiura organizzata
proprio da un gruppo di aristocratici proveniente da questo ambiente, ma Machiavelli,
nonostante la frequentazione degli Orti, non ne rimase coinvolto.
La Mandragola e le altre opere d’invenzione Oltre alle opere che potremmo definire ‘tecniche’ (trat-
tati e saggi d’argomento politico o militare, opere storiografiche), Machiavelli è an-
che autore di numerose opere d’invenzione di vario genere. Innanzitutto la Mandra-
gola (1518), di cui ci occuperemo diffusamente più avanti (R 28.4.4), una commedia
che trasferisce la spregiudicata visione del mondo del suo autore dal campo della po-
litica a quello del costume, dalle corti e dai campi di battaglia alla camera da letto.
Contrariamente a quanto accade nelle altre commedie del Cinquecento che, a di-
spetto di ogni possibile intrigo e peripezia, alla fine sanciscono sempre il ristabili-
mento dell’ordine morale in forme socialmente rassicuranti e rasserenanti, la Man-
dragola sancisce infatti il trionfo del disordine morale perpetrato dal più astuto: gra-
zie all’aiuto di un servo e di un frate corrotto, con l’inganno Callimaco riesce a in-
durre l’irreprensibile Lucrezia a diventare la sua amante, con soddisfazione di en-
trambi e con buona pace dello sciocco marito.
Assai più convenzionale è invece la seconda commedia, Clizia (1525), che ripro-
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Quattrocento e Cinquecento

pone l’intreccio della Casina di Plauto. Oltre a ciò, Machiavelli volgarizza un’antica
commedia latina, l’Andria di Terenzio, e compone una novella in prosa (Belfagor arci-
diavolo, sul tema misogino della donna che manda in rovina persino il diavolo) e va-
rie opere in versi: due Decennali, che ripercorrono gli eventi della storia italiana dal
1494 in poi (il secondo è incompiuto); dei Capitoli alla maniera del Berni e dei Can-
ti carnascialeschi. Importante è infine il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, in cui
Machiavelli intervenendo nella questione della lingua sostiene la superiorità del fio-
rentino vivo (R 22.1).
Breve ritorno alla politica attiva ed emarginazione definitiva Nello stesso anno di pubblicazio-
ne delle Istorie fiorentine e della messa in scena della Clizia (1525) Machiavelli ottiene
che gli sia revocata l’interdizione dai pubblici uffici e comincia a ricevere qualche in-
carico anche di tipo burocratico e diplomatico da Giulio de’ Medici, ora divenuto pa-
pa Clemente VII, e dalla stessa signoria fiorentina. Quando però di lì a poco i Medici,
dopo il sacco di Roma, furono nuovamente costretti a lasciare la città e venne restau-
rata la repubblica (17 maggio 1527), Machiavelli venne ancora una volta messo da par-
te, essendo ora malvisto per il suo riavvicinamento ai Medici: gli vennero così revoca-
ti tutti gli incarichi. Il suo tentativo di legittimare la sua funzione di tecnico al di so-
pra delle parti e al servizio dello stato si risolse in un definitivo fallimento. Ma Ma-
chiavelli non ebbe a dolersene a lungo, perché morì il 21 giugno di quello stesso 1527.

21.3.2 Il Principe e i fondamenti metodologici del pensiero politico di Machiavelli


Rifondare la politica per risolvere la crisi italiana Per molteplici ragioni, Il Principe è un’opera
rivoluzionaria e costituisce il punto di partenza di ogni moderna riflessione sulla po-
litica. La drastica rifondazione teorica della politica formulata in quest’opera nasce
innanzitutto da uno scopo pratico: Machiavelli infatti si rivolge ai Medici per forni-
re loro strumenti d’azione, nella convizione che un principato moderno, retto se-
condo i criteri del realismo politico, sia l’unica o la migliore soluzione nelle circo-
stanze attuali per avviare la formazione di uno stato ampio e politicamente accen-
trato (sul modello della Francia), capace di trattare da pari a pari con i grandi stati
europei e di garantire quindi autonomia politica all’Italia. Il Principe insomma si pro-
pone in primo luogo come un manifesto politico e un prontuario teorico utile per
la risoluzione della drammatica crisi nella quale l’Italia si trovava in quegli anni di
guerre e di invasioni straniere.
Una teoria generale dello stato concreta e pragmatica Se Il Principe si pone degli obiettivi politi-
ci contingenti e immediati, va però ribadito che Machiavelli non si limita a questo. Il
respiro e l’orizzonte del Principe sono assai più ampi. Machiavelli ha l’ambizione di
prospettare, al di là di alcune proposte contingenti, anche norme di comportamento e
strategie d’azione di validità universale: una scienza o, se si preferisce, una sapienza po-
litica concreta e pragmatica, che dia soluzioni ai problemi non solo del proprio ma di
ogni tempo.

– accreditarsi presso i Medici come esperto di politica


scopo pratico – fornire ai Medici uno strumento per l’azione politica
contingente e immediata
Il Principe

– elaborare un’originale dottrina generale della politica


scopo teorico
– fornire precetti di validità universale

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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento STORIA

▍ Il Principe

Il Principe fu in gran parte composto di getto durante il confino all’Albergaccio, nella se-
conda metà del 1513. Più tardi, ma comunque anteriori al 1515, sono la Dedica a Lorenzo de’
Medici, nipote del Magnifico, e il capitolo conclusivo (il XXVI). L’opera venne stampata po-
stuma a Roma nel gennaio 1532.
L’argomento del Principe (composto di una Dedica e di 26 capitoli) può essere così sche-
matizzato (ne distinguiamo, per comodità, quattro nuclei principali):
I-XI Diversi tipi di principato; come si acquistano e come si mantengono. M. distingue fra principati
ereditari, nuovi e misti (in parte ereditari e in parte nuovi) esaminando i diversi casi e for-
nendo per ciascuno di essi dei precetti di comportamento. Per i principati nuovi (VI-X) di-
stingue se vengano acquistati per virtù o per fortuna e con armi proprie o con armi altrui:
quelli acquistati per virtù e con armi proprie sono i più duraturi. Poi esamina il principato
civile, quando «uno privato cittadino... diventa principe della sua patria» (IX) e lo stato della
Chiesa (XI).
XII-XIV Milizie mercenarie e milizie proprie. M., come farà poi anche nell’Arte della guerra, so-
stiene che le milizie mercenarie sono inaffidabili e che un principe deve assolutamente do-
tarsi di milizie proprie se vuole dare un saldo fondamento al proprio potere.
XV-XXIII Virtù e comportamenti adatti al principe. M. dichiara di voler essere utile a chi lo leg-
ge e che preferisce perciò seguire la «verità effettuale» (la realtà) piuttosto che la «immagina-
zione di essa» (un ideale). Poiché colui che trascura i comportamenti reali degli uomini per
seguire solo gli ideali è destinato al fallimento. Così il principe, se vuole sopravvivere e ave-
re successo, deve necessariamente imparare ad usare anche comportamenti che contravven-
gono alla morale e alla religione. Deve astenersi da questi comportamenti quando non siano
effettivamente necessari e quando potrebbero causargli un’infamia tale da mettere in perico-
lo il suo stesso potere. Il fine da perseguire è il bene dello stato (XV). Su queste basi M. esa-
mina i seguenti comportamenti: la liberalità e la parsimonia (XVI), la crudeltà e la pietà, e se
sia meglio essere amati o temuti (XVII), la lealtà e la slealtà (XVIII), come si debba rifuggire il
disprezzo e l’odio (XIX). Seguono poi questioni più minute: se le fortezze siano utili o meno
(XX), che cosa debba fare un principe per essere stimato (XXI), come si debba comportare
con i segretari (XXII) e con gli adulatori (XXIII).
XXIV-XXVI Riflessioni conclusive ed esortazione ai Medici. M. prima denuncia l’ignavia dei
principi italiani, che hanno perso i propri stati non a causa del’avversa fortuna ma per re-
sponsabilità propria (XXIV), poi riflette in termini generali sul rapporto fra virtù e fortuna
(XXV). Infine rivolge un’appassionata esortazione ai Medici a liberare l’Italia dallo straniero
(XXVI).

La «verità effettuale» Quanto appena osservato sul pragmatismo del Principe ci consente di fissare il
primo cardine del pensiero politico di Machiavelli e del suo metodo di indagine. In
un celebre capitolo di quest’opera (XV, R T 21.4 ) egli afferma che molti prima di lui
hanno trattato dei principati non come sono in realtà, ma come dovrebbero ideal-
mente essere e che viceversa per parte sua, volendo essere utile a chi lo legge, egli
sgombrerà il campo dagli ideali, e si atterrà esclusivamente alla «verità effettuale», per-
ché solo così si possono risolvere i problemi reali del governo dello stato. Così facen-
do Machiavelli enuncia un basilare principio teorico e prende seccamente le distanze
da tutta la riflessione idealistica e moralistica che lo aveva preceduto, mostrandosi ben
consapevole della novità rivoluzionaria della propria impostazione metodologica.
Una teoria sperimentale: la realtà contemporanea e le storie degli antichi La teoria politica di
Machiavelli si basa sulla «verità effettuale» e ha di conseguenza un fondamento empi-
rico, sperimentale. Per elaborare la sua dottrina egli si fonda cioè sull’esperienza: da un
lato si tratta della sua diretta esperienza in qualità di acuto osservatore della vita politi-
ca contemporanea; dall’altro si tratta dell’esperienza accumulatasi nel corso dei secoli,
che egli trova condensata non tanto nelle teorie della politica che precedono la sua,
quanto piuttosto nelle fonti storiche antiche e moderne che tramandano un patrimo-
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Quattrocento e Cinquecento

nio immenso di informazioni utili per chi le sappia interpretare e ordinare con meto-
do. In particolare, si interessa agli storici antichi (soprattutto Livio, a cui dedicherà l’al-
tra sua opera fondamentale). In questo senso (ma solo in questo) egli, come gli uma-
nisti, si volge al passato, all’antichità per trarne una lezione sul presente. Adotta, se vo-
gliamo, il principio classico che la storia sia magistra vitae, maestra di vita.
Naturalismo e pessimismo: la natura umana è immutabile e malvagia Perché dall’analisi del
comportamento degli uomini antichi si possano trarre elementi utili per il presente, è
necessario credere che le diverse situazioni storiche siano comparabili e che i com-
portamenti che hanno ottenuto successo in passato siano efficacemente riproducibili,
anche nel presente e nel futuro: si deve insomma credere che esistano delle costanti
che regolano il comportamento umano e le vicende politiche. Le costanti – schema-
tizziamo – hanno un fondamento nella natura (in particolare nella natura umana), le
variabili nella contingenza storica. Machiavelli in effetti mostra chiaramente di fonda-
re la sua teoria politica proprio su un convincimento di questo tipo. In particolare egli
elabora le sue tesi muovendo da quello che si potrebbe definire un assioma, che ricor-
re frequentemente nel Principe e che è questo: la natura umana è immutabile ed è es-
senzialmente malvagia. Ad esempio, a proposito del precetto che autorizza il principe
in caso di necessità a non mantenere la parola data, osserva: «se li uomini fussino tutti
buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché e’ sono tristi e non la osservereb-
bono a te, tu etiam non l’hai a osservare a loro» (XVIII [R T 21.6 ]). Possono dunque
cambiare le circostanze superficiali e specifiche, i contesti storici, ma l’uomo al fondo
è malvagio per natura e non cambia col mutare dei luoghi, dei tempi, delle forme di
governo. Insomma, solo fondandosi sull’immutabilità della natura umana è possibile
elaborare una teoria generale della politica. Pertanto, invece che votarsi alla rovina im-
maginando uomini buoni per natura, il principe deve basare la sua realistica strategia
di governo su questo dato concreto e crudo, ma ai suoi occhi certo e costante.
Questo è il naturalismo di Machiavelli, suffragato del resto da una grande quantità di
paragoni e riferimenti al mondo della natura. Il naturalismo si contrappone da un lato
al fideismo religioso, che chiama variamente in causa entità o fenomeni soprannatura-
li per spiegare le vicende terrene; e dall’altro a uno storicismo radicale, che non creda
all’esistenza nel divenire storico di costanti ‘naturali’. Queste convizioni e questo me-
todo avvicinano Machiavelli agli uomini di scienza che in questi anni andavano inda-
gando la natura nel tentativo di individuarne le leggi fisiche, chimiche, astronomiche:
il paragone tra la fondazione della scienza politica e la fondazione della scienza speri-
mentale moderna è un topos della critica machiavelliana e riposa su questi generali
princìpi.

Empirismo e naturalismo

Empirismo Naturalismo

Dall’esperienza poli- la natura umana è immutabile


desumere leggi generali del
tica e diplomatica è possibile perché
comportamento umano marginali sono le variabili storiche
personale

Dall’esperienza degli
antichi condensata la legge fondamentale è che
nella storia l’uomo è malvagio

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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento STORIA

Doc 21.3 La medicina e lo stato (un paragone naturalistico)

Machiavelli, Perché e’ Romani feciono in questi casi quello che tutti e’ principi savi debbono fare: e’
Il Principe, cap. III
quali non solamente hanno ad avere riguardo alli scandoli1 presenti, ma a’ futuri, e a
quelli con ogni industria ovviare;2 perché, prevedendosi discosto,3 vi si rimedia facilmen-
te, ma, aspettando che ti si appressino, la medicina non è a tempo, perché la malattia è di-
1 scandoli: disordini. ventata incurabile; e interviene di questa, come dicono e’ fisici dello etico,4 che nel prin-
2 ovviare: porre rime- cipio del suo male è facile a curare e difficile a conoscere: ma nel progresso5 del tempo,
dio.
3 discosto: per tempo. non la avendo nel principio conosciuta né medicata, diventa facile a conoscere e difficile
4 come... etico: come a curare. Cosí interviene nelle cose di stato perché conoscendo discosto, il che non è da-
dicono i medici a proposi- to se non a uno prudente, e’ mali che nascono in quello si guariscono presto; ma quando,
to della tisi.
5 nel progresso: con il per non gli avere conosciuti, si lasciano crescere in modo che ognuno gli conosce, non vi
progredire. è più rimedio.

Autonomia della politica rispetto alla morale La dichiarazione di volersi attenere alla «verità effet-
tuale» illumina un altro cardine del pensiero politico di Machiavelli, quello anzi che a
prima vista apparve il più rivoluzionario. Lo si può così formulare: quella della politica è
una sfera autonoma rispetto alla morale, o meglio rispetto alla morale convenzionale
(classica o cristiana che sia). Il principe o lo statista che voglia avere successo nel suo agi-
re politico non deve farsi scrupolo, se necessario, di violare le normali regole della mo-
rale. Il concetto è sintetizzato dall’autore in un precetto che suona così: «non partirsi dal
bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato» (XVIII [R T 21.6 ]). Pur essendo
consapevole che sarebbe meglio comportarsi secondo i dettami della morale, egli deve
essere pure consapevole che adeguandovisi, quando la realtà consiglia diversamente, si
condanna al fallimento («la ruina»). E altrettanto spesso il fallimento dell’azione politica
determina non solo la «ruina» del principe, ma anche conseguenze gravi per tutto lo sta-
to e per tutta la popolazione. Machiavelli dice che talvolta un’azione che violi i princìpi
della morale, ma che sia limitata e compiuta al momento opportuno, può evitare a di-
stanza di tempo conseguenze peggiori, mali più gravi e più estesi (disordini, conflitti,
morti) che danneggiano un’intera comunità (XVII [R T 21.5 ]).
La necessità e il fine Il problema è assai complesso e dibattuto, ma Machiavelli sembra volerci dire che la
politica ha una sua moralità specifica, diversa da quella comune, perché il principe è «ne-
cessitato», costretto dagli eventi a violare la morale corrente: «uno principe, e massime
uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono te-
nuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro
alla carità, contro alla umanità, contro alla relligione» (XVIII). Il concetto di necessità è il
concetto che ricorre forse più spesso in questi capitoli cruciali. Machiavelli infatti sa be-
ne che deve giustificarsi, perché sa che, agli occhi degli ingenui, sta demolendo convin-
zioni millenarie e che, agli occhi dei cinici – dicendo ciò che tutti sanno e fanno ma nes-
suno si è mai azzardato a teorizzare –, sta rivoluzionando l’ipocrita galateo della politica.
La necessità dunque impone le sue regole per un fine costruttivo. Il fine giustifica i mez-
zi, si è soliti sintetizzare (l’espressione, desunta concettualmente dal Principe, è stata conia-
ta in età controriformistica). L’efficacia dell’azione dello statista in vista del bene dello
stato è insomma quella che potremmo definire la morale di secondo grado della politica.
Simulazione e dissimulazione: la costruzione di un’immagine pubblica Così, soprattutto nel
Principe, Machiavelli mostra come i comportamenti derivanti dai principali cardini
della morale classica e cristiana in molti casi possono essere nocivi o addirittura disa-
strosi per lo stato: bontà, religiosità, lealtà, liberalità, mitezza vengono messe in discus-
sione, come valori assoluti. Sono valori da perseguire solo quando è possibile farlo
senza danni. Per governare lo stato il principe all’occorrenza deve saper «usare la gol-
pe e il lione», essere astuto, sleale, violento, non curarsi di compiere azioni malvagie se
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Quattrocento e Cinquecento

queste sono necessarie.Viceversa per il principe è importante, più che esserlo davvero,
apparire buono, generoso, leale, liberale ecc. anche quando viola questi precetti. Deve,
in altri termini, essere buon simulatore e buon dissimulatore [XVIII R T 21.6 ].
Machiavelli insomma si dimostra attentissimo a quella che oggi chiameremmo la co-
struzione dell’immagine pubblica, ma anche in questo caso in forme complesse e arti-
colate. Infatti, più dettagliatamente, egli dice che il principe non si deve curare del giu-
dizio di quella che poi sarà chiamata l’opinione pubblica, a meno che non gli sia avver-
so e rischi di vanificare i suoi scopi. Anche la fama personale insomma è sottoposta alla
regola dell’efficacia sul piano pragmatico, ai criteri della convenienza e della necessità.
Talora può convenirgli apparire anche malvagio, crudele, sleale ecc. piuttosto che, per
voler apparire a tutti i costi il contrario, mettersi nella condizioni di perdere il potere, di
arrecare danno allo stato. E in ogni caso, di fronte al dilemma secco se sia meglio essere
temuto o amato, Machiavelli non esita a scegliere l’essere temuto [XVII R T 21.5 ].
La virtù individuale e i modelli umanistici Con la sua visione ‘naturalmente’ negativa dell’uomo, e
con la sua spregiudicata dottrina che separa la politica dalla morale e contrappone co-
me incompatibili ideale e reale, Machiavelli capovolge drasticamente l’immagine uma-
nistica dell’uomo, che era fondata sul modello del saggio che mira a contemperare eti-
ca e politica, azione e conoscenza, nella fiducia profonda che l’uomo grazie alle sue
virtù sia in grado di avvicinare il reale all’ideale. Non rinuncia però ad affermare in
qualche misura il valore della virtù individuale, e anzi nel Principe addirittura esaspera
l’individualismo; senonché il suo orizzonte è sempre quello di uno spregiudicato
pragmatismo.
La questione della ‘virtù’ dell’individuo (non ovviamente la virtù cristiana, ma la ca-
pacità di risolvere problemi) e dunque dell’efficacia dell’azione umana non era un pro-
blema eludibile per Machiavelli. Per un verso tutta la sua costruzione intellettuale ripo-
sa sul concetto che, seguendo correttamente le leggi e le regole della politica, un uomo
dotato di adeguata virtù possa realizzare il fine di un efficace governo dello stato. Se non
avesse avuto questa convinzione Machiavelli probabilmente non si sarebbe cimentato
nella sua opera di rigorosa razionalizzazione della politica.Vedremo più avanti che Guic-
ciardini, che non aveva questa fiducia, criticherà Machiavelli proprio per questo.
Virtù e fortuna: agonismo temperato Machiavelli del resto non può fare a meno di affrontare di-
rettamente il problema del rapporto fra la virtù e la fortuna. E si trova in questo caso
di fronte a una difficoltà intrinseca del proprio pensiero, che era venuto considerando
sin dai Ghiribizzi al Soderini, oscillando nel giudizio. Da un lato, nel Principe, egli teo-
rizza la necessità per il principe di adeguare il proprio comportamento alle necessità
dei tempi, ipotizza cioè in lui doti di duttilità di comportamento in ragione del dive-
nire storico e dell’analisi della situzione obiettiva in cui si trova ad operare. Dall’altro

ETICA e POLITICA, REALTÀ e IMMAGINAZIONE ovvero IL FINE GIUSTIFICA I MEZZI

Trattati politici pre- fondati delineano stati etica e politica coincidono il principe deve
cedenti il Principe sull’ideale immaginari esercitare le virtù
sono inutilizzabili nella moralità della politica del buon cristiano
pratica

Il Principe fondato sul reale delinea stati e compor- etica e politica divergono il principe può essere
(verità effettuale) tamenti reali ovvero moralità di II grado e non essere buono e
vuol essere utile a chi della politica fondata virtuoso a seconda
lo intenda sull’utile dell’utile dello Stato
(«il fine giustifica i mezzi») perché necessitato
dalla realtà dei fatti

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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento STORIA

però il suo convinto naturalismo gli suggerisce l’idea che gli uomini abbiano tratti di
carattere che non possono agevolmente mutare: chi è cauto per indole tenderà a com-
portarsi sempre cautamente, e chi invece è impetuoso tenderà a comportarsi così in
ogni circostanza. Ma le condizioni storiche, le situazioni concrete dell’agire umano,
che Machiavelli chiama ‘fortuna’, mutano rapidamente: così egli asserisce che di solito,
quando le condizioni storiche richiedono un comportamento naturale in un indivi-
duo, costui ottiene successo; quando viceversa le condizioni richiedono il comporta-
mento opposto costui, perseverando nelle proprie naturali inclinazioni (come è quasi
inevitabile che accada), si condanna all’insuccesso, alla «ruina» [XXV R T 21.7 ].
La difficoltà è risolta in questo caso non razionalmente, ma con uno scarto brusco
e improvviso: tra il «respettivo» e l’«impetuoso», Machiavelli mostra di preferire l’im-
petuoso, colui che affronta di petto le situazioni. La motivazione è del tutto metafori-
ca: «la fortuna è donna, ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla... e
però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più fero-
ci e con più audacia la comandano». Il discorso si fonda tutto sull’efficacia di un’im-
magine e di una similitudine, ma non risolve razionalmente il problema teorico. Anzi
Machiavelli introduce ora un’opzione irrazionale: di fronte al dilemma insolubile, fini-
sce col rivelare un tratto di agonismo e di vitalismo (meglio agire e combattere impe-
tuosamente che lasciarsi trascinare e travolgere), che forse è un residuo dell’ottimismo
umanistico, di chi in fondo non vuole ammettere che la virtù possa essere sconfitta. In
questa stessa chiave può essere letta anche la conclusione del Principe [XXVI R T 21.8 ],
nella quale egli esorta i Medici a farsi promotori di un riscatto dell’Italia dalla propria
sudditanza nei confronti delle potenze straniere: è un motivo ‘ideale’ che inaspettata-
mente fa la sua comparsa al termine di una trattazione disincantata e realistica.
Conclusioni: realismo e utopia Con Il Principe ha inizio la storia della moderna scienza politica, fon-
data sulla verità effettuale (realismo), su conoscenze sperimentali (empirismo) e sul
tentativo di individuare le costanti e le leggi del comportamento sottostanti alla caoti-
ca fenomenologia storica (naturalismo). Certo è che nessuno dopo Machiavelli potrà
fare a meno di prendere in esame la sua dottrina, nessuno potrà – come se niente fos-
se – tornare a fonti e formulazioni teoriche precedenti. Indipendentemente da ogni
giudizio di valore, un dato acquisito è che Machiavelli rigetta l’etica cristiana come
metro di giudizio per la politica e propone un’etica interamente laica, fondata sull’uti-
le (sull’efficacia delle azioni commisurata al bene dello stato). Analogamente tutta lai-
ca è la sua considerazione della storia e dell’agire umano, che attribuisce all’uomo una
responsabilità terribile, ma commisurata solo al successo o all’insuccesso della sua azio-
ne nell’agone del mondo terreno. L’uomo è al centro del suo interesse, ma in forme
radicalmente diverse da quelle del recente umanesimo: Machiavelli si dimostra incline
a non rinunciare alla valorizzazione dell’individuo, come aveva fatto la cultura umani-
stica, anche a costo di introdurre qualche elemento irrazionale nella sua trattazione
(vedi fortuna e virtù), e per qualche verso anzi esaspera la prospettiva individualistica;
ma l’uomo di Machiavelli ha perso ogni tratto di idealità astratta, tutto crudamente
impegnato com’è a districarsi con ogni mezzo in un mondo dall’aspetto per nulla
amichevole. Il Principe di Machiavelli segna uno spartiacque decisivo e ineludibile.
Machiavelli è profondamente legato al proprio tempo, appare capace di cogliere quan-
to si andava lentamente elaborando nel mondo della cultura e della scienza, ma guar-
da anche avanti e fornisce modelli concettuali alla riflessione e al giudizio (non sem-
pre concorde) delle generazioni future.
Il linguaggio, lo stile Il Principe è un’opera argomentativa, che sostiene delle tesi con il corredo di ar-
gomenti logici e di esempi concreti attinti dalla realtà storica e contemporanea. La
struttura argomentativa e l’esposizione ordinata e razionale appaiono evidenti sin dal-
le prime battute del libro. Machiavelli distingue e classifica con linguaggio sobrio e
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Quattrocento e Cinquecento

chiaro i vari tipi di principato e, più avanti, i possibili comportamenti del principe nel-
le diverse situazioni, esaminandone le conseguenze positive e negative.
Machiavelli appare sintetico nel definire i dati fondamentali su cui fonda il suo ra-
gionamento e nel formulare le possibilità, le tesi e i precetti di comportamento; assai
più analitico, talora, nel formulare gli argomenti logici e nell’esporre gli esempi stori-
ci (si veda il caso del Valentino, R T 21.3 ). Tipico è il ricorso ad enunciati apodittici (o
assiomi), cioè a verità che egli dà per condivise, evidenti, irrefutabili, e che quindi non
ritiene di dover provare. E tipica è la perentorietà con cui, a conclusione del ragiona-
mento, riassume le sue tesi dando loro il valore di massime di validità universale («non
partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato», XVIII; «le iniurie si
debbono fare tutte insieme, acciò che, assaporandosi meno, offendino meno», VIII).
Ma accanto a queste e altre forme espositive che ci riportano alla razionalità della sua
costruzione intellettuale, la critica ha rinvenuto tensioni e torsioni del linguaggio e del-
lo stile, cortocircuiti sintattici (non raro nel Principe è l’anacoluto, un periodo che inco-
mincia con un soggetto e finisce con un predicato non corrispondente ad esso: «Cre-
do... sia infelice quello che con il procedere suo si discordano e’ tempi», XXV), scarti me-
taforici e simbolici («la fortuna è donna...», «a uno principe è necessario sapere bene usa-
re la bestia e lo uomo», «debbe di quelle pigliare la golpe e il lione», «a ognuno puzza questo
barbaro dominio»).Tutti questi stilemi rientrano nelle strategie del discorso argomenta-
tivo in quanto costituiscono delle formule retoriche che mirano a rendere più efficace il
discorso: dopo un ragionamento analitico e sottile una massima o una metafora posso-
no assolvere la funzione di colpire il lettore imprimendosi nella sua memoria. Ma esse
rivelano anche un tratto profondo della personalità dello scrittore, il suo agonismo, la
sua volontà di affermare perentoriamente delle verità che sente indiscutibili, la sua vo-
lontà di aggredire la materia concettuale e il linguaggio, proprio come al principe sug-
gerisce di aggredire la realtà preferendo l’essere impetuoso all’essere respettivo. Sta di
fatto che il linguaggio del Principe si caratterizza proprio per questa commistione, spes-
so indissolubile, di razionalità e di metaforicità, di rigore argomentativo e di agonismo
espressivo, che è anche il tratto che rende affascinante la prosa di Machiavelli.

21.3.3 I Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio


La «verità effettuale» nel Principe e nei Discorsi Se Il Principe riguardava la forma monarchica di gover-
no, i Discorsi sono essenzialmente dedicati all’esame di quella repubblicana. Con quest’o-
pera Machiavelli completa quindi la sua riflessione sullo stato esaminando la seconda del-
le due possibili forme istituzionali («Tutti li stati... sono o republiche o principati»). I Discorsi
per qualche aspetto si distanziano dal Principe sul piano ideologico, ma è più corretto
considerarli un’opera complementare piuttosto che antitetica alla precedente. Del resto,
la generale impostazione metodologica osservata nel Principe non viene meno neppure
nei Discorsi. Gli studiosi sono concordi nell’asserire che anche nei Discorsi «il criterio per
la valutazione della validità di questa o quella soluzione politica rimane quello della “ve-
rità effettuale” enunciato nel Principe» (Procacci). A tale proposito nei Discorsi si possono
infatti trovare ribadite alcune fondamentali convinzioni enunciate esemplarmente nel
Principe: ad esempio a proposito della necessità di considerare il fine delle azioni, a propo-
sito della malvagità della natura umana o ancora riguardo alla necessità di fondare il pro-
prio comportamento sull’esempio meditato degli antichi [R T 21.9 ].
La novità dei Discorsi riguarda o sembra riguardare il giudizio sulle due forme isti-
tuzionali: qui si palesa una predilezione (oggetto di un complesso dibattito critico) per
le repubbliche, là si asseriva la necessità di un principato. Tale differenza si spiega forse
così: se nel Principe Machiavelli aveva esaminato soprattutto il momento della forma-
zione dello stato e si era proposto di dare una risposta a un problema d’attualità, tenendo
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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento STORIA

Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

Genesi dei Discorsi È giudizio largamente condiviso che Machiavelli prima di dedicarsi
alla stesura del Principe abbia cominciato ad occuparsi del commento a Tito Livio, ma che a
un certo punto (forse nel 1513, giunto al capitolo XVII) l’abbia interrotto per dedicarsi
esclusivamente alla stesura del Principe (avvenuta tra il luglio del 1513 e il maggio del 1514),
per poi riprenderlo e portarlo a compimento nel periodo che va dal 1514 al 1517 (o forse al
1519). Probabilmente l’avanzata o l’avvenuta stesura dei Discorsi costituì una delle credenzia-
li che consentirono a Machiavelli di entrare come un maestro tra il 1517 e il 1519 nella ri-
stretta cerchia di intellettuali che si riunivano negli Orti Oricellari.
Argomento I Discorsi sono un’opera più ampia del Principe (142 capitoli, contro i 26, e un
numero di pagine di oltre nove volte superiore) ma dalla struttura meno organica, in quan-
to costituiscono un commento a un’opera storiografica che via via offre spunti particolari di
riflessione: a Machiavelli capita dunque di tornare anche più volte su uno stesso argomento,
mutando magari la prospettiva da cui lo prende in esame. Del contenuto dell’opera, assai va-
rio e articolato, si possono indicare alcuni argomenti cardine: nel libro I Machiavelli affron-
ta soprattutto problemi relativi alla fondazione dello stato e alla politica interna; nel libro II si
occupa di politica estera e della gestione delle milizie e si mostra interessato al problema del-
l’ampliamento dello stato; nel libro III, assai composito, tratta sia di politica interna che di
politica estera con particolare riguardo al ruolo che singole personalità hanno avuto nella vi-
ta politica romana e ai modi in cui gli stati si trasformano.

conto di esigenze particolari e contingenti, nei Discorsi privilegia la prospettiva del


mantenimento dello stato, che richiede caratteristiche e strategie diverse, e si distanzia
dall’attualità per adottare una prospettiva storica più ampia e in qualche caso assoluta.
Repubblica o principato? Su quale delle forme di governo prese in esame nelle due opere maggiori,
principato o repubblica, Machiavelli facesse cadere le sue preferenze c’è stato e c’è
grande dibattito, ma il problema – posto in forma così radicale – è forse insolubile. È
probabile che Machiavelli in astratto mostrasse una certa inclinazione per la forma re-
pubblicana, modellata sull’esempio degli antichi romani e magari sull’esperienza della
repubblica fiorentina nella quale si era formato e aveva operato, ma che in concreto,
vista la situazione contingente dell’Italia, egli ritenesse che la soluzione migliore in
quel momento storico fosse la forma monarchica e in particolare uno stato assoluto.
Ad optare per quest’ultimo, come soluzione migliore ai problemi del proprio tempo,
sembravano realisticamente indurlo le esperienze contrapposte della Francia e della
Germania, che Machiavelli aveva attentamente esaminato pochi anni prima nel Ritrac-
to di cose di Francia e nel Rapporto di cose della Magna: il modello francese di uno stato
territoriale ampio e accentrato, in cui la monarchia aveva imbrigliato le autonomie
feudali, gli pareva chiaramente la formula vincente nel presente e nell’immediato fu-
turo (e bisogna dire che non aveva torto: la storia moderna sarà sempre più la storia
delle monarchie assolute). Machiavelli del resto sa bene che ogni epoca e ogni situa-
zione concreta pone problemi particolari e impone strategie diverse per risolverli.

REPUBBLICA E PRINCIPATO

Il principato è preferibile è la forma di governo la volontà del principe e le Il Principe


(potere assoluto) all’atto di fondare più adatta al presente leggi coincidono
uno stato

La repubblica è preferibile nel (forse) è la forma di deve essere fondata su Discorsi


(potere condiviso) mantenimento del- governo prediletta buone leggi
lo stato da Machiavelli

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Quattrocento e Cinquecento

La fondazione e il mantenimento dello stato Alcune differenze di impostazione delle due opere
sono determinate – come s’è detto – dalla maggiore attenzione che Machiavelli rivol-
ge nei Discorsi al problema del mantenimento dello stato, rispetto a quello della sua
formazione, che risultava prioritario nel Principe. Per formare uno stato, ad esempio,
può essere sufficiente e anzi spesso risulta preferibile la virtù di un singolo individuo,
di un principe abile e spregiudicato: questa è l’ottica prioritaria del Principe, ma anche
nei Discorsi si asserisce un concetto analogo, quando si elogia Romolo per essersi sba-
razzato dei possibili colleghi all’atto della fondazione della città.Viceversa, per mante-
nerlo, nel lungo periodo risulta più funzionale la distribuzione e la condivisione del
potere, quanto meno nella forma di una monarchia moderata dalle leggi. Nel medesi-
mo passo Machiavelli elogia Romolo «per avere quello subito ordinato uno Senato
con il quale si consigliasse» ed enuncia un precetto generale: se a ordinare lo stato è
meglio che sia una sola persona, lo stato così ordinato se il potere è nelle mani di mol-
ti è destinato a durare più a lungo che se lo è in quelle di uno solo.
Sulla base di queste considerazioni l’ordinamento repubblicano e quello dell’an-
tica repubblica romana in particolare, in cui il potere era condiviso e distribuito, può
apparire in linea di massima più adatto di un principato assoluto a conservare lo sta-
to. Machiavelli con ciò fa sua la celebre tesi di Polibio che giudicava la costituzione
della repubblica romana – formata da un’equilibrata commistione della forma mo-
narchica (i consoli), di quella aristocratica (il senato) e di quella democratica (il Tri-
bunato della plebe) – come la migliore possibile. Per Machiavelli, come per Polibio,
quella dell’antica republica romana è probabilmente la migliore forma che si sia da-
ta storicamente, certo una delle esperienze di governo più durature. Non è del resto
escluso, anche nell’ottica dell’attualità e del Principe, che, una volta fondato il suo sta-
to, il principe possa optare per una certa condivisione del potere, delegandone una
parte a magistrature repubblicane.
La stabilità dello stato innanzitutto In ogni caso, per approfondire il problema, bisogna considerare
che il criterio della solidità e della stabilità dello stato in Machiavelli prevale sempre
sulla scelta di una forma di governo piuttosto che di un’altra. Il realismo politico, da
lui stesso nitidamente teorizzato, la vince sempre sull’ideologia: a Machiavelli insom-
ma probabilmente non importa granché stabilire se in assoluto e in astratto una forma
sia meglio dell’altra; l’obiettivo è l’efficienza e la solidità dello stato: le strategie per
realizzarlo possono variare.
Si deve infine tenere presente che le distinzioni fra le due forme non erano – so-
prattutto nell’ottica fiorentina – del tutto chiare e antitetiche. I Medici avevano go-
vernato e governavano mantenendo formalmente in vita le magistrature repubblicane
e alcuni loro sostenitori li invitavano a proseguire in questa direzione della repubblica
oligarchica.
Le buone leggi Comunque sia, Machiavelli nei Discorsi esamina il ruolo che nel garantire stabilità
alla repubblica romana hanno avuto tanto le singole individualità d’eccezione quanto
«i buoni ordini», cioè il buon ordinamento dello stato. Quest’ultimo gli appare fonda-
mentale nelle sue varie articolazioni (le milizie, la religione, le leggi, e via dicendo).
Notevole appare sin dalle prime affermazioni dei Discorsi l’attenzione rivolta al con-
cetto di buone leggi: assai più che nel principato assoluto, dove in effetti esse finiscono
con il coincidere con la volontà e dunque con la persona del sovrano, le buone leggi
sono essenziali in una repubblica o in una monarchia moderata, che opti per una con-
divisione del potere. Le buone leggi talora nascono dai conflitti sociali: in una delle af-
fermazioni più sorprendenti per chi provenga dalla lettura del Principe, Machiavelli af-
ferma ad esempio che il conflitto fra patrizi e plebei, più che un elemento di debolez-
za, fu per l’antica Roma un punto di forza in quanto determinò la formazione del Tri-
bunato della plebe («se i tumulti furono cagione della creazione de’ Tribuni meritano
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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento STORIA

somma laude», I,4), il che però, a ben vedere, è un’altra applicazione del precetto che
un male immediato può produrre un bene futuro. Questo istituto agì infatti in modo
da temperare in senso democratico gli elementi monarchico e aristocratico dello stato
romano, perché le ambizioni della parte popolare in uno stato bene ordinato non pos-
sono essere semplicemente represse. Le buone leggi, poi, devono ordinare la vita nor-
male, ma anche prevedere soluzioni alle situazioni eccezionali: se ad esempio un citta-
dino attenta alla libertà dello stato deve essere possibile accusarlo di fronte a un magi-
strato; si devono insomma prevedere dei meccanismi per cui il malcontento popolare
si possa in questi casi sfogare senza ricorso ad atti straordinari che potrebbero rovinare
lo stato.
La repubblica è superiore al principato nel mantenimento dello stato Proprio considerando
la funzione delle buone leggi, Machiavelli elabora alcune delle idee più innovative
dei Discorsi: le leggi devono limitare le possibili intemperanze tanto del principe in
uno stato monarchico, quanto del popolo in uno stato repubblicano; un governo po-
polare però dà maggiori garanzie di rispetto delle leggi di quanto non faccia un
principe. Pertanto, per il mantenimento dello stato, il governo repubblicano appare
superiore a quello monarchico: «se i principi sono superiori a’ popoli nello ordinare
leggi, formare vite civili, ordinare statuti ed ordini nuovi [cioè nel momento della
fondazione di uno stato], i popoli sono tanto superiori nel mantenere le cose ordi-
nate, ch’egli aggiungono sanza dubbio alla [cioè eguagliano la] gloria di coloro che
l’ordinano» [R T 21.9 ].
La religione come instrumentum regni e come fattore di coesione sociale Fra gli altri aspetti del
buon ordinamento dello stato Machiavelli prevede anche la religione. Machiavelli
non è certo un pensatore politico di ispirazione cristiana e anzi i suoi giudizi sul
ruolo della Chiesa nella vita politica moderna sono perlopiù negativi e sprezzanti,
tanto nel Principe quanto nei Discorsi: secondo lui, ad esempio, il papato ha contri-
buito in modo determinante alla rovina dell’Italia per svariate ragioni morali e poli-
tiche; ma è addirittura la religione cristiana che, esaltando l’umiltà e la vita contem-
plativa invece delle virtù civili, ha politicamente snervato i popoli, rendendoli debo-
li e poco amanti della libertà. Diversamente si comportavano gli antichi, la cui reli-
gione era intesa a celebrare i valori terreni, ed esaltava gli uomini attivi e forti.
Lo stato si preoccupava poi di controllare e ordinare le pratiche religiose in modo
che esse costituissero anche uno strumento di governo. La religione in questo senso è
dunque un instrumentum regni, un mezzo per governare lo stato: «vedesi, chi conside-
ra bene le istorie romane, quanto serviva la religione a comandare gli eserciti, a ani-
mire la Plebe, a mantenere gli uomini buoni, a fare vergognare i rei»; insomma, «dove
è religione facilmente si possono introdurre l’armi; e dove sono l’armi e non religio-
ne, con difficultà si può introdurre quella» (I, 11). Ma, come ha notato Procacci, oltre
ad assolvere questa funzione strumentale la religione costituisce un fattore di coesio-
ne sociale e di concordia civile: «La ‘religione’, nel senso latino del termine religio,
non lega soltanto gli uomini a un Dio o a più Dei, ma essenzialmente lega gli uomi-
ni tra loro».

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Quattrocento e Cinquecento

21.4 Francesco Guicciardini


21.4.1 La vita e le opere costituzionali
Machiavelli e Guicciardini L’esperienza biografica e intellettuale di Francesco Guicciardini ha molti
punti di contatto con quella di Machiavelli: fiorentino, anch’egli si trovò a vivere nei
convulsi anni delle guerre d’Italia e dei rapidi rivolgimenti politici della città natale;
anch’egli si dedicò con indipendenza di giudizio alla riflessione sulla storia e sulla po-
litica e intraprese la carriera politica tentando di accreditarsi come funzionario dello
stato, più come tecnico insomma che come uomo di parte; anch’egli, dopo il successo
(più rimarchevole e duraturo e più legato alle fortune dei Medici), sperimentò la
sconfitta e l’emarginazione e soprattutto non vide realizzati i suoi progetti costituzio-
nali. Ma ciò che distingue i due grandi intellettuali sono alcuni convincimenti teorici
e metodologici di fondo sul senso della storia, sulla possibilità dell’uomo di governar-
la, sui modi e sui mezzi per tentare di farlo e in particolare sulla possibilità di desume-
re dalla storia teorie, regole, modelli di comportamento applicabili al presente. Ma-
chiavelli è essenzialmente un politologo senza eguali, Guicciardini è via via un fine
costituzionalista, un grande moralista, uno storico di razza. Empiristi e pessimisti en-
trambi, l’empirismo di Guicciardini appare più ‘tattico’ e meno razionale (o forse me-
no razionalizzabile), il suo pessimismo sulla possibilità di governare la storia più acre e
più profondo.
La formazione Francesco Guicciardini nasce nel marzo del 1483 a Firenze. Il padre Piero era un
ricco mercante con attività in tutta Europa, amico e discepolo di Marsilio Ficino. La
famiglia apparteneva all’aristocrazia fiorentina e si era garantita prestigio e importanti
cariche pubbliche all’ombra dei Medici. Gli anni decisivi della formazione di France-
sco cadono però nel periodo del governo repubblicano (1494-1512). Egli compie i
suoi studi di diritto in varie università e ottiene la laurea in diritto civile nel 1505. Nel
1508 sposa Maria, figlia di Alamanno Salviati, un esponente di primo piano del parti-
to degli ottimati. In questi anni si dedica all’avvocatura e si tiene in disparte dalla vita
politica: il suo interesse in questa direzione si manifesta nella stesura delle Storie fioren-
tine dal 1378 al 1509, la sua prima e precoce opera di rilievo, composta fra il 1508 e il
1509 (incompiuta e inedita fino al 1859), dimostrando una certa indipendenza di giu-
dizio.
Ambasciatore in Spagna: il Discorso di Logrogno Ma l’impegno attivo nella vita pubblica è dietro
l’angolo: trascorsi pochi anni, all’inizio del 1512 lo troviamo in Spagna impegnato, an-
cora giovanissimo, nel prestigioso incarico di ambasciatore della Repubblica fiorentina
presso Ferdinando il Cattolico. Sul piano professionale, è la svolta della sua vita: d’ora
in avanti egli si dedicherà totalmente alla carriera politica attiva. Non per questo tut-
tavia abbandona la riflessione teorica. Proprio durante la missione in Spagna scrive
l’importante Discorso di Logrogno (inedito fino a metà Ottocento), una riflessione sulla
politica interna e in particolare sull’ordinamento costituzionale fiorentino, in cui
Guicciardini mostra di aver acquisito una visione dello stato più matura e consapevo-
le rispetto alle Istorie fiorentine. Il modello teorico che Guicciardini sostiene è quello di
una repubblica dotata di un sistema costituzionale fondato su un’equa distribuzione
dei poteri e sul rigoroso rispetto delle leggi. Accanto dunque alle magistrature già esi-
stenti, il Consiglio Maggiore e il Gonfaloniere, che rappresentano l’istanza democrati-
ca e quella signorile, Guicciardini vorrebbe che si collocasse un Senato espressione
dell’oligarchia. Le tre magistrature, controllandosi e condizionandosi a vicenda, garan-
tirebbero un’equilibrata dialettica fra le diverse parti sociali e politiche e quindi ordine
e stabilità allo stato.
Al servizio dei Medici e dei papi medicei Mentre Guicciardini è in Spagna, a Firenze ritornano al
potere i Medici. A differenza di quanto era accaduto a Machiavelli, tuttavia, questo
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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento STORIA

evento non segna la fine della carriera politica di Guicciardini. Il suo accostamento alla
parte medicea è rapido e ha successo: rientrato a Firenze alla fine del 1513, lo troviamo
infatti membro della Signoria nel 1515, quando compone i due discorsi intitolati Come
assicurare lo stato ai Medici. Nel 1516 lascia Firenze per entrare al servizio della curia pon-
tificia, ma sono due Medici, papa Leone X (1513-1521) e papa Clemente VII (1523-
1534), che lo chiamano ad assolvere incarichi di prestigio. Sul piano letterario a questi
anni appartengono le riflessioni e gli aforismi che comporranno i Ricordi, l’opera sua più
memorabile, e il Dialogo del reggimento di Firenze (1521-1525, ma anch’esso inedito fino
a metà Ottocento) in cui ribadisce i convincimenti costituzionali espressi nel Discorso di
Logrogno, ma in una forma più elaborata e complessa.
La caduta in disgrazia Ma la vita politica italiana in questi anni è densa di svolte repentine, che ora in-
cidono anche sulla carriera di Guicciardini. Caduto il governo mediceo nel 1527, egli
viene processato a Firenze per una falsa accusa di appropriazione indebita e per l’atti-
vità svolta al servizio dei papi medicei. Assolve ancora qualche incarico per Clemente
VII, ma anche in curia la sua posizione vacilla. Nel 1529 poi, per la sua persistente vi-
cinanza al papa, è accusato di tramare contro la Repubblica: viene condannato a Firen-
ze e gli vengono confiscati tutti i beni in patria. La libertà dagli impegni politici e di-
plomatici gli lascia il tempo di scrivere le Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavel-
li e di portare a termine la redazione definitiva dei Ricordi (1530).
La Repubblica dura pochi anni, e con la restaurazione dei Medici (1530) per Guic-
ciardini tornano importanti incarichi; non finiscono però le difficoltà: il papa gli affida il
compito di riorganizzare il governo mediceo in Firenze. Il suo tentativo è però quello di
instaurare un ordinamento costituzionale equilibrato, ispirato ai principi enunciati nel
Discorso di Logrogno e nel Dialogo del reggimento di Firenze. L’intenzione risponde ai suoi
convincimenti profondi, ma mira anche a garantire ai Medici il favore della cittadinanza,
tanto di parte popolare quanto di parte ottimatizia. Ma la situazione è difficile e convulsa
e gli interessi immediati contrastano la lungimiranza di Guicciardini. ClementeVII, im-
pegnato nell’opera di rafforzamento del potere della famiglia in Firenze, non vede di
buon occhio il progetto moderato di Guicciardini e lo allontana da Firenze, affidandogli
l’incarico di governatore di Bologna, un incarico apparentemente di un certo prestigio
ma in realtà uno stratagemma per toglierlo dal vivo della politica fiorentina.
Guicciardini torna però a Firenze nel 1534 e figura ancora prima tra i consiglieri di
Alessandro e poi tra i fautori dell’ascesa di Cosimo alla guida di Firenze, ma né l’uno
né l’altro si dimostrano disposti ad accettare una limitazione del proprio potere, e così
Guicciardini alla fine si vede costretto a ritirarsi definitivamente a vita privata (1538).
Gli ultimi anni non sono però infruttuosi sul piano letterario: si dedica con impegno
alla redazione della Storia d’Italia fino alla morte che lo coglie nel 1540, impedendogli
di portare a termine quest’ultima grande impresa.

21.4.2 Le opere della maturità


La sapienza dei Ricordi Abbiamo detto che Machiavelli fu un politologo senza pari, mentre Guic-
ciardini fu via via un fine costituzionalista, un grande moralista, uno storico di razza.
Pur nella varietà delle sue opere, è indubbio infatti che la grandezza di Machiavelli
stia tutta nella definizione di una dottrina politica rivoluzionaria. Guicciardini non
ha un profilo così omogeneo e dà il meglio di sé nei Ricordi, un’opera moralistica
(nel senso moderno di riflessione sui costumi e i comportamenti dell’uomo), e nel-
la Storia d’Italia, un poderoso affresco delle vicende dell’Italia dalla morte di Loren-
zo il Magnifico al 1534 (in cui si dimostra storico di levatura superiore al Machia-
velli).
Ai Ricordi, l’opera più canonica fra le sue principali, Guicciardini lavorò a più ri-
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Quattrocento e Cinquecento

▍ I Ricordi

I Ricordi sono una raccolta di 221 aforismi, cioè di brevi massime, a cui Guicciardini comin-
ciò a lavorare sin dalla giovinezza (una prima serie di 30 ricordi è del 1512) e portò a com-
pimento nel 1530 (attraverso tre successive redazioni: la redazione A, di 161 aforismi del
1525; la B, di 181 del 1528; e la definitiva, la C, di 221 del 1530). Nel passaggio da una re-
dazione all’altra Guicciardini non si limita ad aggiungere nuovi ricordi, ma corregge, elimi-
na e riordina i precedenti. Come tutte le altre opere di Guicciardini anche i Ricordi vennero
pubblicati postumi (la prima edizione è quella parigina del 1576).
I Ricordi si inseriscono nella cospicua tradizione (in ispecie fiorentina) delle scritture me-
morialistiche mercantili, destinate a tramandare ai figli e ai nipoti ricordi familiari e perso-
nali e la sapienza pratica acquisita dall’estensore (generalmente una figura patriarcale e il ca-
po dell’impresa familiare). Ma pur richiamandosi a questa tradizione, l’orizzonte su cui spa-
zia la riflessione di Guicciardini non è più quello familiare o consortile, bensì quello più am-
pio della politica e della storia, non più solo quello della città, ma quello dell’Italia e delle re-
lazioni internazionali.
Com’è nella tradizione, gli aforismi di Guicciardini non sono ordinati per argomento, ma
presentano una disposizione apparentemente casuale, che fa sì che il lettore dell’opera passi
da un argomento ad un altro e a più riprese si trovi ricondotto su un tema già affrontato e
ora riproposto a distanza di qualche pagina con modifiche prospettiche. La struttura stessa
dell’opera rivela la predilezione per una riflessione non sistematica e non organica ed è an-
che un’implicita dichiarazione della sfiducia di poter elaborare opere e teorie sistematiche su
quel soggetto.

prese per quasi vent’anni, pur trattandosi di uno scritto di poche decine di pagine, il
che dimostra l’importanza che l’autore le attribuiva. In effetti è qui che Guicciardini
condensa la sua ‘sapienza’ umana e politica, accumulata in molti anni di attività pub-
blica e di private riflessioni sulla natura e i comportamenti umani, sulla società, la po-
litica e la storia.
Il pessimismo di Guicciardini: la fragilità della natura umana Il pessimismo di Guicciardini ap-
pare per molti versi più radicale di quello di Machiavelli. In verità egli non è così
drastico come talora Machiavelli nel giudizio negativo sulla natura umana: ad esem-
pio asserisce che «gli uomini tutti per natura sono inclinati più al bene che al male,
[...] ma è tanto fragile la natura degli uomini e sì spesse nel mondo le occasione che
invitano al male, che gli uomini si lasciano facilmente deviare dal bene» (C 134).
Non è dunque la malvagità un fattore congenito nell’uomo; lo è bensì la sua fragi-
lità che, di fronte alle infinite occasioni di volgersi al male, non sa opporre resisten-
za. Di fatto però anche per Guicciardini ci si deve confrontare con uomini inclini al
male, sia pure per debolezza più che per intrinseca malignità (ma talora ne lamenta
la «tristizia», C 192).
Il quadro della società con cui un uomo e non solo un principe deve confron-
tarsi è sconfortante. Tutti o quasi appaiono interessati ad affermare i propri spesso
meschini interessi, a discapito di ogni altra considerazione; i governanti si disinteres-
sano dei governati; i preti sono ambiziosi, avidi, corrotti; il popolo è «uno animale
pazzo, pieno di mille errori, di mille confusione, sanza gusto, sanza deletto, sanza sta-
bilità» (C 140); slealtà, violenza, simulazione, dissimulazione e tutti gli altri peggiori
vizi sono la norma. La società insomma – ci dice con realismo e spregiudicatezza de-
gni di Machiavelli – obbedisce a moventi crudamente economici, cinicamente par-
ticolaristici.
La sfiducia nella teoria Guicciardini è poi assai più scettico di Machiavelli circa la possibilità di go-
vernare la storia e, ancor più, di individuare leggi, regole e precetti di comporta-
mento che siano universalmente validi. Troppo varia e mutevole è la realtà (e la for-
tuna) perché la ragione possa interpretarla e ridurla a costanti su cui fondare delle
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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento STORIA

teorie positive. Esemplare è lo sconsolato stupore con cui egli in uno dei suoi ricor-
di più belli constata la quantità di circostanze favorevoli che debbono inanellarsi per-
ché un raccolto giunga a maturazione e un uomo arrivi alla vecchiaia (C 161). Co-
me ridurre a regole una complessità così imprevedibile e sfuggente? Nessuna verità
è a portata di mano, né è possibile in alcun modo prevedere gli eventi futuri (C 58).
Anche nel divenire storico si applica lo stesso scetticismo: le variabili sono infinita-
mente superiori alle costanti, tanto che non ha senso guardare al passato per indivi-
duare dei modelli esemplari di comportamento da riproporre al presente. «Quanto
si ingannono coloro che a ogni parola allegano e’ romani – scrive pensando a Ma-
chiavelli –. Bisognerebbe avere una città condizionata come era loro, e poi gover-
narsi secondo quello esemplo: el quale a chi ha le qualità disproporzionate è tanto
disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facessi el corso di un caval-
lo» (C 110). Tra la conoscenza teorica e la prassi c’è dunque una distanza enorme,
perché, anche ammesso che la teoria dia indicazioni esatte, non si fanno mai abba-
stanza i conti con la fragilità umana, che spesso non sa metterle in pratica con la do-
vuta perizia e prontezza. Così egli può concludere: «Quanto è diversa la pratica dal-
la teorica!» (C 35).
La «discrezione» Più che alla teoria, bisogna dunque affidarsi alla «discrezione» [R T 21.11 ], cioè a
una capacità di discernimento che non si può insegnare «per regola», ma che è il
frutto dell’esperienza concreta, della pratica del mondo, che è capacità sia razionale
sia intuitiva di districarsi negli infiniti meandri del reale, di adattarsi all’infinita va-
rietà e mutevolezza delle situazioni concrete. Questa della «discrezione», in definiti-
va, può essere considerata la sola regola, il solo generalissimo precetto che Guic-
ciardini si senta di formulare positivamente. Ed è l’unica possibile, limitata e fragile
ancora di salvezza di fronte a una fortuna che imperversa (C 138). Il pessimismo e
l’empirismo di Guicciardini conducono dunque molto vicino a un fatalismo senza
rimedio, che segna la fine di ogni sogno umanistico di poter con la virtù governa-
re la fortuna.
Il «particulare» Di fronte a questa sconsolata visione del reale che resta dunque da fare all’uomo
politico, oltre che esercitare l’arte della discrezione? Dove e a che cosa deve tende-
re? Se nelle opere più tecniche egli elabora una teoria positiva, individuando mec-
canismi costituzionali che possano portare equilibrio nei rapporti tra le parti e nel
governo dello stato, nei Ricordi questa prospettiva è perlomeno in ombra. Guicciar-
dini non sembra credere, come Machiavelli, nella possibilità che lo stato metta un
qualche ordine nel mondo. All’uomo politico non resta dunque che seguire il pro-
prio «particulare», i propri interessi personali e quelli della parte che rappresenta
[R T 21.12 ]. Ma Guicciardini nel «particulare» non individua cinicamente gli interessi
di parte più materiali e meschini: con questa espressione intende un complesso di
interessi che comprendono anche la tutela della propria personale dignità, la buona
reputazione personale e l’onore che derivano da una dirittura morale socialmente
riconosciuta (C 218). Se dunque Machiavelli riconosce che il bene dello stato giu-
stifica i mezzi iniqui adottati a tal fine, Guicciardini, non credendo in fondo nello
stato come soluzione positiva delle contraddizioni umane (e i vizi per lui tutto
sommato rimangono vizi), accentua il suo individualismo, ma mostra di ancorarlo
comunque a una moralità dai contorni sfumati, ma riconoscibile nella reputazione
che la società e forse la storia finiscono col riconoscere agli individui.
Storia d’Italia Guicciardini conclude la sua esperienza intellettuale con la Storia d’Italia, l’altro
suo capolavoro e l’unica opera scritta in vista di una pubblicazione, ma rimasta an-
ch’essa a lungo inedita per la morte dell’autore. Dopo le giovanili Istorie fiorentine
(che partivano dal 1378) qui egli ritorna ad esaminare le vicende del recente passa-
to e del presente. La Storia d’Italia non introduce elementi sostanziali che modifi-
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Quattrocento e Cinquecento

chino le acquisizioni ideologiche formulate nei Ricordi e, caso mai, il metodo storio-
grafico, le analisi e i giudizi che vi leggiamo costituiscono una riprova dei suoi con-
vincimenti profondi. Guicciardini appare molto scrupoloso e analitico nel considera-
re gli eventi che descrive. Ricorre alle proprie dirette esperienze, ma fa largo uso an-
che delle fonti documentarie e degli archivi di stato fiorentini. Non trascura alcun
dettaglio utile per la comprensione dei fenomeni: come nei Ricordi lamentava la
grande quantità di accidenti che determinano il successo o l’insuccesso dell’azione,
così qui si impegna a indagare questa complessità per comprendere il senso profon-
do degli eventi che hanno sconvolto la vita politica italiana nel periodo delle guerre
d’Italia. Pochi sono gli schemi interpretativi generali, perché ogni vicenda si spiega
solo tenendo conto della sua singolare complessità.
In linea di massima tuttavia egli giudica assai positivamente la situazione di equi-
librio e di stabilità che la politica di Lorenzo aveva assicurato all’Italia nella seconda
metà del Quattrocento. Il punto di partenza è dunque positivo: quanto segue invece
è da lui rappresentato come una serie quasi infinita di errori, leggerezze, follie so-
prattutto dei principi italiani che hanno creduto di poter governare gli eventi facen-
do ricorso alle potenze straniere, senza rendersi conto dei veri moventi che le spin-
gevano all’intervento. Insomma egli nella storia recente vede una riprova della diffi-
coltà di governare la storia e della necessità di esaminare di volta in volta in ogni si-
tuazione specifica tutti gli accidenti che possono alterare il corso previsto degli even-
ti. Se c’è poi un principio generale che Guicciardini sembra avvalorare, è che ogni
mutamento degli equilibri esistenti costituisce una fonte di pericolo perché dà il de-
stro alla fortuna di intervenire con più facilità e in modo più repentino e violento
nelle cose umane. Se dunque è difficile governare una situazione stabile ancor più
difficile è governarne una in rapido divenire, perché le variabili si fanno più nume-
rose, gli imprevisti e i rivolgimenti più frequenti.
La Storia d’Italia ha un respiro drammatico, a tratti tragico, sostenuto da uno stile
sobrio ma alto («monumentale» diceva De Sanctis), modellato sui classici. Se infine
dalla storiografia antica, che costituisce il modello a cui in quest’opera egli soprat-
tutto si attiene, Guicciardini trae l’idea che la narrazione storica sia essenzialmente
incentrata sulle imprese dei grandi uomini, la realtà dei fatti – una vicenda tutta di
scacchi e di sconfitte – getta però una luce fosca proprio sulle virtù messe in campo
dai singoli individui.

MACHIAVELLI e GUICCIARDINI

Machiavelli crede possibile elabora una teoria gene- fine: il bene dello Stato
desumere dalla storia e rale della politica
dall’attualità leggi e
precetti di
comportamento
Guicciardini non crede possibile universalmente validi diffida della teoria e si fine: il «particulare»
affida alla «discrezione»

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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento T 21.1

T 21.1 Niccolò Machiavelli, Lettera a Francesco Vettori 1513


All’Albergaccio
N. Machiavelli Si tratta senza dubbio di una delle più belle lettere della tradizione epistolografica italiana.
Opere, vol. II Fu inviata da Machiavelli il 10 dicembre 1513 all’amico e concittadino Francesco Vettori
a c. di C.Vivanti, Einaudi- (1474-1539), allora ambasciatore della Repubblica Fiorentina presso la corte papale a Ro-
Gallimard, Torino
ma. Nella sua ultima del 23 novembre, Vettori gli aveva descritto quale fosse la sua vita a
Roma, tra le non molte incombenze legate all’ufficio di ambasciatore e una misurata rou-
tine quotidiana; e Machiavelli lo ricambia raccontandogli a sua volta come trascorrano i
suoi giorni all’Albergaccio, la villa presso San Casciano dove risiede ormai da diversi me-
si. Per lui è un momento particolarmente triste: travolto nell’agosto del 1512 dal ritorno
al potere dei Medici, dal marzo del 1513 Machiavelli vive lontano da Firenze, esonerato
da qualunque incarico politico e guardato con diffidenza dai nuovi signori della città.

1 Magnifico... Romae: Magnifico oratori florentino Francisco Vectori apud Summum Pontificem
“Al magnifico oratore fio-
rentino Francesco Vettori patrono et benefactori suo. Romae.1
presso il Sommo Pontefice,
patrono e benefattore suo.A Magnifico ambasciatore.2 «Tarde non furon mai grazie divine»3. Dico questo, per-
Roma”. ché mi pareva aver perduta no, ma smarrita la grazia vostra,4 sendo stato voi assai 5
2 Magnifico ambascia-
tore: tutta la prima parte tempo senza scrivermi, et ero dubbio5 donde potessi nascere la cagione. E di tut-
della lettera ha tono scher- te quelle mi venivono nella mente tenevo poco conto, salvo che di quella quando
zoso e ironico;ilVettori scri-
veva infatti di condurre una io dubitavo non vi avessi ritirato da scrivermi, perché vi fussi suto scritto che io
vita tutt’altro che magnifica, non fussi buono massaio delle vostre lettere;6 et io sapevo che, da Filippo e Pago-
e concludeva dicendo «né
voglio crediate io viva da lo in fuora,7 altri per mio conto8 non l’aveva viste. Honne riauto per l’ultima vo- 10
imbasciadore». stra de’ 23 del passato,9 dove io resto contentissimo vedere quanto ordinatamente
3 «Tarde... divine»: le
grazie divine non giunsero
e quietamente voi esercitate cotesto offizio publico;10 et io vi conforto11 a segui-
mai troppo tardi; Machia- re così, perché chi lascia e sua commodi12 per li commodi d’altri, so perde e sua,
velli cita a memoria un ver- e di quelli non li è saputo grado.13 E poiché la Fortuna vuol fare ogni cosa, ella si
so dai Trionfi del Petrarca.
Ironicamente, paragonando vuole lasciarla fare,14 stare quieto e non le dare briga,15 et aspettare tempo che la 15
le lettere dell’amico alle gra- lasci fare qualche cosa agl’uomini; et allora starà bene16 a voi durare più fatica,17 ve-
zie divine, rimprovera ilVet-
tori per il ritardo con cui ri- ghiare più le cose, et a me partirmi di villa e dire: eccomi.18 Non posso pertanto,
sponde alle sue. volendovi rendere pari grazie, dirvi in questa lettera altro che qual sia la vita mia,19
4 mi pareva... vostra: mi
pareva di avere non perduta e se voi giudicate che sia a barattarla20 con la vostra, io sarò contento mutarla.
definitivamente ma mo- Io mi sto in villa,21 e poi che seguirno quelli miei ultimi casi,22 non sono stato, 20
mentaneamente smarrita la ad accozarli23 tutti, 20 dì a Firenze. Ho infino a qui uccellato a’ tordi di mia ma-
vostra benevolenza.
5 ero dubbio: mi do- no. Levavomi innanzi dì, impaniavo,24 andavone oltre con un fascio di gabbie ad-
mandavo. dosso, che parevo el Geta quando e’ tornava dal porto con i libri di Amfitrione;25
6 E di tutte... lettere: e di
tutte le ragioni (quelle) che pigliavo el meno dua, el più sei tordi. E così stetti tutto novembre; dipoi questo ba-
mi venivano in mente face- dalucco, ancora che dispettoso e strano,26 è mancato con mio dispiacere; e qual27 25
vo poco conto, tranne (salvo
che) quando mi coglieva il ti-
more di avervi dissuaso dallo (per la) ultima vostra lettera 14 ella... fare: bisogna la- grazie” all’amico descri- le panie (gli strumenti per
scrivermi (dubitavo non vi ha- del 23 del mese passato. sciarla fare. vendo i suoi giorni di con- catturare gli uccelli, fatti di
vessi ritirato da scrivermi), per- 10 offizio publico: la ca- 15 le dare briga: contra- finato all’Albergaccio. asticciole legate e spalmate
ché forse qualcuno vi aveva rica di ambasciatore. Ma- starla. 20 che sia a barattarla: di vischio).
riferito che io non avevo il chiavelli continua a motteg- 16 starà bene: converrà. che valga la pena barattarla. 25 che parevo... Amfi-
giusto riguardo (io non fussi giare l’amico, il quale gli 17 durare più fatica: fati- 21 in villa: in campagna. trione: si allude a una no-
buon massaio) per le vostre aveva confessato che le sue care di più. 22 miei ultimi casi: Ma- vella quattrocentesca, nella
lettere. mansioni di ambasciatore 18 partirmi... eccomi: la- chiavelli allude discreta- quale lo schiavo Geta com-
7 da Filippo... in fuora: presso il Papa erano ben po- sciare la campagna (villa) e mente all’arresto e alla tor- pare colle spalle cariche dei
ad eccezione di Filippo e di ca cosa. offrire i miei servigi (dire: ec- tura che nel febbraio di libri del suo padrone Anfi-
Paolo. Si tratta di Filippo 11 conforto: esorto. comi). quell’anno subì per essere trione appena giunto da
Casavecchia, un amico co- 12 e sua commodi: i pro- 19 non posso... vita mia: stato sospettato di aver preso Atene.
mune,e PaoloVettori,fratel- pri interessi. nella sua ultima lettera il parte alla congiura antime- 26 dipoi... strano: Dopo,
lo del destinatario. 13 so perde... grado: per- Vettori descriveva quale dicea di Pier Paolo Boscoli e questo mio passatempo,
8 per mio conto: con la de i propri interessi, e degli fosse la sua vita di amba- Agostani Capponi. benché fosse cosa plebea e
mia autorizzazione. interessi che ha fatto per gli sciatore alla corte papale; 23 ad accozarli: a metterli per me inconsueta.
9 Honne... del passato: altri non gli è portata rico- Machiavelli si appresta assieme. 27 e qual: e quale sia.
sono stato rinfrancato dalla noscenza. pertanto a “render pari 24 impaniavo: preparavo

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Quattrocento e Cinquecento

la vita mia vi dirò. Io mi lievo la mattina con el sole e vommene in un mio bosco
che io fo tagliare, dove sto dua ore a riveder l’opere del giorno passato, et a passar
tempo con quegli tagliatori, che hanno sempre qualche sciagura28 alle mane o fra
loro o co’ vicini. E circa questo bosco io vi arei a dire mille belle cose che mi so-
no intervenute,29 e con Frosino da Panzano e con altri che voleano di queste le- 30
gne. E Fruosino in spezie30 mandò per31 certe cataste senza dirmi nulla, et al pa-
gamento mi voleva rattenere32 10 lire, che dice aveva avere da me quattro anni so-
28 sciagura: lite. no,33 che mi vinse a cricca34 in casa Antonio Guicciardini.35 Io cominciai a fare el
29 intervenute: successe. diavolo; volevo accusare el vetturale,36 che vi era ito per esse,37 per ladro; tandem38
30 in spezie: specialmen-
te. Giovanni Macchiavelli vi entrò di mezzo, e ci pose d’accordo. Batista Guicciardi- 35
31 mandò per: ordinò di ni, Filippo Ginori, Tommaso del Bene e certi altri cittadini, quando quella tra-
andare a prendere.
32 rattenere: trattenere. montana soffiava, ognuno me ne prese39 una catasta. Io promessi a tutti; et man-
33 quattro anni sono: da da’ne una a Tommaso, la quale tornò in Firenze per metà, perché a rizzarla vi era40
quattro anni.
34 cricca: un gioco di
lui, la moglie, le fante, e figliuoli, che paréno el Gabburra quando el giovedì con
carte. quelli suoi garzoni bastona un bue.41 Di modo che, veduto in chi era guadagno, ho 40
35 in casa... Guicciardi- detto agl’altri che io non ho più legne; e tutti ne hanno fatto capo grosso,42 et in
ni: in casa di Antonio Guic-
ciardini. spezie Batista,43 che connumera44 questa tra l’altre sciagure di Prato.
36 vetturale: carrettiere. Partitomi del bosco, io me ne vo a una fonte, e di quivi in un mio uccellare.45
37 che vi era... esse: che
era andato a prendere le ca- Ho un libro sotto,46 o Dante o Petrarca, o un di questi poeti minori, come Tibul-
taste di legna. lo, Ovvidio e simili: leggo quelle loro amorose passioni e quelli loro amori, ricor- 45
38 tandem: finalmente.
39 prese: prenotò. domi de’ mia,47 godomi un pezzo in questo pensiero. Transferiscomi poi in su la
40 la quale... vi era: la strada nell’osteria, parlo con quelli che passono, dimando delle nuove48 de’ paesi lo-
quale,una volta a Firenze,ri-
sultò essere (tornò) la metà di ro, intendo varie cose, e noto varii gusti e diverse fantasie49 d’uomini. Vienne in
quanto era quando gliela questo mentre50 l’ora del desinare, dove con la mia brigata51 mi mangio di quelli
mandai, perché ad accata- cibi che questa mia povera villa e paululo patrimonio comporta.52 Mangiato che 50
starla (rizzarla) c’erano.
41 che pareno... bue: la ho, ritorno nell’osteria: quivi è l’oste, per l’ordinario,53 un beccaio,54 un mugnaio,
famiglia di Tommaso aveva dua fornaciai. Con questi io m’ingaglioffo55 per tutto dì giuocando a cricca, a tri-
pigiato quella legna con
tanta energia da sembrare il che-tach,56 e poi dove nascono mille contese e infiniti dispetti di parole iniuriose,
macellaio Gaburra coi suoi e il più delle volte si combatte un quattrino e siamo sentiti nondimanco gridare da
garzoni attorno a un bue da
ammazzare. San Casciano.57 Così, rinvolto entra questi pidocchi, traggo el cervello di muffa e 55
42 ne hanno... grosso: se sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa
la sono presa a male.
43 Batista: Battista Guic-
via per vedere se la se ne vergognassi.58
ciardini era podestà di Prato Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in sull’uscio mi
quando la città subì il sac- spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto,59 e mi metto panni reali e
cheggio delle truppe spa-
gnole (29 agosto 1512). curiali;60 e rivestito condecentemente61 entro nelle antique corti degli antiqui uo- 60
44 connumera: annove-
mini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è
ra.
45 uccellare: luogo predi- mio, e che io nacqui per lui;62 dove io non mi vergogno parlare con loro, e do-
sposto per la cattura degli mandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono;
uccelli.
46 sotto: sottobraccio. e non sento per 4 ore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la
47 de’ mia: dei miei. povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro. E perché Dante 65
48 nuove: notizie.
49 fantasie: passioni, u -
dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo avere inteso,63 io ho notato quello di
mori.
50 Vienne... mentre: se
ne viene in questo modo. 54 beccaio: macellaio. lezza della posta, fino a San ne vergogni. Machiavelli introduce il la-
51 brigata: famiglia. Con 55 m’ingaglioffo: mi tra- Casciano. 59 di fango e di loto: cop- tino al preciso scopo di dare
Machiavelli erano nella casa sformo in un fannullone, in 58 Così … vergognassi: pia di sinonimi (loto dal lati- nobiltà e solennità al suo
all’Albergaccio la moglie e un buono a nulla. Il verbo ravvolto così tra queste cose no lutus). dettato.
quattro figli. “ingaglioffirsi”. volgari (pidocchi) impedisco 60 reali e curiali: degni di 63 non … avere inteso: il
52 che questa... compor- 56 triche-tach: tavola al mio cervello di ammuffire re e di corti. fatto di aver capito qualche
ta: che questa modesta casa reale, gioco da giocarsi su nell’inerzia e lascio che la 61 condecentemente: in cosa non costituisce di per sé
di campagna e il mio picco- una scacchiera con pedine malignità della mia sorte si modo conveniente. vera conoscenza se poi
lissimo (paululo, latinismo) e dadi. sfoghi, essendo contento 62 mi pasco … per lui: mi quella cosa non si fissa nella
patrimonio consentono. 57 siamo sentiti … San che mi perseguiti in questo nutro di quello che è l’unico memoria, non la si ricorda
53 per l’ordinario: di soli- Casciano: siamo sentiti gri- modo ignobile, per vedere mio vero cibo e per il quale (lo ritenere). Machiavelli cita
to. dare, nonostante la picco- se alla fine essa stessa non se io nacqui. In questo caso Dante (Pd V 41-42).

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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento T 21.1

64 ho notato... capitale: che per la loro conversazione ho fatto capitale,64 e composto uno opuscolo De
ho annotato ciò che ho im-
parato (ho fatto capitale) dalla principatibus, dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni di questo sub-
loro conversazione. bietto, disputando che cosa è principato, di quale spezie sono, come e’ si acquisto-
65 uno opuscolo … si
perdono: un opuscolo che
no, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono.65 E se vi piacque mai alcuno mio 70

tratta Dei principati, nel quale ghiribizzo,66 questo non vi doverrebbe dispiacere; et a un principe, e massime a un
mi diffondo quanto più so- principe nuovo, doverrebbe essere accetto; però67 io lo indrizzo alla Magnificenza
no capace nella riflessione
su questo soggetto, esami- di Giuliano.68 Filippo Casavecchia l’ha visto; vi potrà ragguagliare in parte e della
nando che cosa sia un prin- cosa in sé, e de’ ragionamenti ho auto seco, ancor che tuttavolta io l’ingrasso e ri-
cipato, di quanti tipi ne esi-
stano, come si acquistano, pulisco.69 75
come si mantengono e per- Voi vorresti, magnifico ambasciatore, che io lasciassi questa vita, e venissi a go-
ché si perdono. Machiavelli dere con voi la vostra. Io lo farò in ogni modo, ma quello che mi tenta ora è cer-
allude, naturalmente, al
Principe. te mia faccende che fra 6 settimane l’arò fatte. Quello che mi fa stare dubbio è che
66 ghiribizzo: «opera e-
sono costì quelli Soderini, e quali io sarei forzato, venendo costì, visitargli e parlar
strosa e stravagante, ma priva
di grande valore letterario loro.70 Dubiterei che alla tornata mia io non credessi scavalcare a casa, e scavalcas- 80
(ed è per lo più usata dall’au- si nel Bargello, perché ancora che questo stato abbi grandissimi fondamenti e gran
tore stesso come espressione
di modestia)» (Battaglia). securtà, tamen egli è nuovo, e per questo sospettoso, né ci manca de’ saccenti, che,
67 però: perciò. per parere come Pagolo Bertini, metterebbono altri a scotto, e lascierebbono el
68 Giuliano: Giuliano de’
Medici, figlio di Lorenzo il pensiero a me.71 Pregovi mi solviate questa paura,72 e poi verrò infra el tempo det-
Magnifico e fratello di papa to a trovarvi a ogni modo. 85
Leone X. È principe “nuo- Io ho ragionato con Filippo73 di questo mio opuscolo, se gli era bene darlo o
vo” perché da poco tornato
in Firenze dopo la caduta non lo dare;74 e sendo ben darlo, se gli era bene che io lo portassi, o che io ve lo
della Repubblica (1512). mandassi. El non lo dare mi faceva dubitare che da Giuliano e’ non fussi, non
Come si vedrà, Machiavelli
in seguito preferirà dedicare ch’altro, letto,75 e che questo Ardinghelli si facessi onore76 di questa ultima mia fa-
il suo trattato a Lorenzo de’ tica. El darlo mi faceva la necessità che mi caccia, perché io mi logoro, e lungo 90
Medici duca di Urbino, di
cui Giuliano era lo zio. tempo non posso star così che io non diventi per povertà contennendo,77 appres-
69 vi potrà … ripulisco: so al desiderio arei che questi signori Medici mi cominciassino adoperare, se do-
vi potrà informare in parte vessino cominciare a farmi voltolare un sasso;78 perché se poi io non me gli gua-
sia dell’opuscolo sia delle di-
scussioni che ho avuto con dagnassi,79 io mi dorrei di me; e per questa cosa,80 quando la fussi letta, si vedreb-
lui in proposito, sebbene be che quindici anni81 che io sono stato a studio dell’arte dello stato, non gl’ho né 95
giorno per giorno (tuttavol-
ta) io accresca e corregga lo dormiti né giuocati; e doverrebbe ciascheduno aver caro servirsi d’uno che alle
scritto. spese d’altri fussi pieno di esperienzia. E della fede mia non si doverrebbe dubita-
70 Quello... loro: ciò che
mi trattiene è che sono a re, perché avendo sempre osservato la fede, io non debbo imparare ora a romper-
Roma (costì) i Soderini, ai la; e chi è stato fedele e buono 43 anni, che io ho, non debbe potere mutare natu-
quali, se venissi in città, sarei ra; e della fede e della bontà mia ne è testimonio la povertà mia. 100
obbligato a far visita e a ri-
volgere la parola. Si ricordi Desidererei adunque che voi ancora mi scrivessi quello che sopra questa mate-
che Pier Soderini e Machia- ria vi paia, e a voi mi raccomando. Sis felix.82
velli avevano lavorato in
strettissima collaborazione
al tempo della Repubblica; Die X decembris 1513.
ora Machiavelli temeva che
il ritornare a frequentarlo,
anche per semplice cortesia, molto sicura di sé, tuttavia sta paura. nemico personale, potesse darmi di far rotolare un sas-
avrebbe potuto compro- (tamen) è uno stato nuovo, e 73 Filippo: il già menzio- plagiare o spacciare il Prin- so.
mettere la fiducia che stava perciò sospettoso, né vi nato Filippo Casavecchia. cipe per opera propria. 79 non me gli guada-
cercando di riacquistarsi mancano gli intriganti (sac- 74 se gli era … dare: se 77 El darlo … conten- gnassi:non ne ottenessi la fi-
presso i Medici. centi) come Paolo Bertini, i era bene darlo o no (si in- nendo: a darlo mi spingeva ducia.
71 Dubiterei... a me: se quali per mettersi in mo- tende a Giuliano de Medi- il bisogno che mi pungola, 80 per questa cosa: grazie
venissi a Roma temerei che stra, inviterebbero altri al- ci). perché io mi sto consu- a questa cosa (il Principe).
al mio ritorno a Firenze io l’osteria (lo scotto è il prezzo 75 El non … letto: a non mando e non posso vivere a 81 quindici anni: dal
non creda di smontare da del vitto o dell’alloggio) e darlo mi spingeva il dubbio lungo in queste condizioni 1498 al 1513. Poco importa
cavallo a casa, e smonti inve- lascerebbero poi a me da che da Giuliano non fosse senza diventare, per po- se furono anni spesi al servi-
ce nel Bargello (vale a dire in pagare. Machiavelli intende nemmeno letto. vertà, spregevole (conten- zio della Repubblica: ciò
prigione, essendo il Bargel- dire che i suoi nemici lo fa- 76 si facessi onore: ap- nendo, latinismo). che conta sono lo zelo e la
lo il capitano della polizia e, rebbero mettere in prigio- profittasse. Machiavelli te- 78 appresso … sasso: ol- serietà con cui Machiavelli
per antonomasia, il palazzo ne lasciandogli poi la briga meva che il frate fiorentino tre al desiderio che avrei sa di essersi occupato di po-
di giustizia), siccome, ben- di sbrogliarsela. Piero Ardinghelli, segreta- che i Medici incomincias- litica, e la lunga esperienza.
ché questa signoria dei 72 Pregovi... paura: vi rio di papa Leone X e mol- sero a servirsi di me, anche 82 Sis felix: sii felice.
Medici sia solidissima e prego di liberarmi da que- to vicino ai Medici, già suo nel caso dovessero coman-

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Quattrocento e Cinquecento

Guida all’analisi
La modesta vita del «magnifico ambasciatore» L’incipit della lettera è ironico, sin dall’appellativo «Magnifico
ambasciatore» (tra i due la consuetudine era stretta e Vettori si era rivolto a Machiavelli chia-
mandolo «Compar mio charo»). Machiavelli sembra scherzosamente alludere a una frase di
Vettori («né voglio crediate io viva da imbasciadore»). Vettori gli aveva scritto che la sua
giornata scorreva tranquilla e monotona: abitava in una casa piuttosto solitaria; aveva smes-
so di invitare forestieri a pranzo o a cena per non sperperare il suo salario; aveva quindi re-
stituito l’argenteria ai conoscenti che gliel’avevano prestata; si alzava con comodo e faceva
visita in curia scambiando solo poche parole col papa, e ancor meno con il cardinale Giulio
de’ Medici. Dopo pranzo passeggiava in giardino o usciva a cavalcare; la sera se ne stava a ca-
sa e leggeva libri di storici, qualche volta scriveva una lettera d’ufficio ai Signori fiorentini...
L’amaro e ironico contrappunto: l’ingaglioffirsi in villa Il nucleo centrale della risposta di Machiavelli si sviluppa
in gran parte come una sorta di contrappunto a quella del Vettori: se l’uno conversa col pa-
pa, cardinali e signori vari, Machiavelli pranza con la sua brigata e s’ingaglioffisce all’osteria
con beccai, mugnai, fornaciai, giocando a triche-trach e questionando per un quattrino; se
l’uno passeggia nel giardino, l’altro va a uccellare carico di gabbie, come un personaggio da
commedia, o si reca nel bosco a seguire il lavoro dei boscaioli. Il contrappunto ha un che di
scherzoso e fa appello allo stile comico, ma il fondo è amaro: sin da principio Machiavelli af-
ferma che, quanto alla propria vita, «se voi giudichate che sia a barattarla con la vostra, io sarò
contento mutarla». Ma lascia affiorare l’amarezza soprattutto nel finale della narrazione della
sua giornata, quando rileva con una certa acredine: «Così rinvolto entra questi pidocchi trag-
go el cervello di muffa, et sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi cal-
pesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi». Machiavelli non nasconde tuttavia di
ricavare anche un certo piacere dalle sue occupazioni diurne, che gli consentono fra l’altro
di avere notizie e di continuare a studiare la natura umana. È in fondo proprio questo che
gli permette di trarre «el cervello di muffa» nel suo isolamento campestre.
Il riscatto serale Ma quando il discorso si volge alle occupazioni serali si nota subito uno scarto nello stile e
nel tono. Abbandonata ogni ironia, il discorso si fa serio e teso, il lessico si fa più eletto, si ad-
densano le figure retoriche: lo spartiacque è l’ingresso nello «scrittoio», lo spogliarsi della
«veste cotidiana, piena di fango e di loto» (loto è un latinismo) e l’indossare «panni reali et
curiali». La rappresentazione è realistica, ma al contempo simbolica: dallo spazio della vita
pratica, dove la fortuna ha potere, allo spazio della vita intellettuale, che nessuno può sottrar-
gli; dal luogo dell’abiezione al luogo del riscatto. Così si passa dal «mi mangio di quelli cibi
che questa povera villa et paululo patrimonio comporta» al «mi pasco di quel cibo, che so-
lum è mio, et che io nacqui per lui». Così, dalla vivace descrizione delle contese all’osteria, si
passa al colloquio con gli antichi; dall’ottundimento delle occupazioni e dei giochi triviali a
un’elevazione spirituale che ridimensiona ogni affanno della vita quotidiana.
Il Principe La lettera poi annuncia l’avvenuta composizione del Principe. Questo è probabilmente an-
che l’obiettivo di Machiavelli: mettere al corrente l’amico dell’avvenuto compimento del-
l’opera, chiedergli consiglio e forse anche un concreto sostegno diplomatico, come si ricava
dal finale. Machiavelli sostiene questo suo intento con straordinaria eleganza e sapienza re-
torica, dissimulando la trepidazione e l’orgoglio per questo suo parto, ma non tanto da non
lasciarlo intuire al suo interlocutore e a noi; con la modestia che l’epistolografia imponeva,
egli parla del Principe come di un «opuscolo» e di un «ghiribizo», che però «non... doverreb-
be dispiacere» all’amico e anzi «doverrebbe essere accetto» a un principe. Nel finale poi le
carte si scoprono: «et per questa cosa, quando la fussi letta, si vedrebbe che quindici anni che io
sono stato a studio all’arte dello stato, non gli ho né dormiti né giuocati; et doverrebbe ciascheduno
haver caro servirsi d’uno che alle spese d’altri fussi pieno di experientia».

Laboratorio 1 Nella Guida all’analisi si è parlato di uno vazioni e trova altri esempi pertinenti.
COMPRENSIONE scarto stilistico (da uno stile basso e co- Spiega con parole tue le ragioni di questo
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE mico a uno stile alto e grave) e si sono scarto repentino.
fatti alcuni esempi: sviluppa quelle osser-
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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento T 21.2

T 21.2 Niccolò Machiavelli, Il Principe 1513


De’ principati nuovi che s’acquistano con l’arme
proprie virtuosamente [VI]
N. Machiavelli La trattazione del Principe si apre con un breve capitolo dedicato alla classificazione dei
Opere, vol. I vari tipi di principato: i principati possono essere «ereditari», quando il principe ottiene il
a c. di C.Vivanti, Einaudi- potere per successione, o «nuovi»; questi a loro volta possono essere «nuovi tutti», quan-
Gallimard, Torino 1997 do il potere è assunto da un privato cittadino, o «misti», quando il potere è assunto dal
principe di un altro stato, per annessione. L’interesse di Machiavelli si focalizza sui prin-
cipati nuovi, difficili sia da conquistare che da mantenere. Dopo aver trattato il principa-
to misto, che rispecchia la situazione dei Medici, a cui vorrebbe offrire strumenti per al-
largare i loro domini in Italia, Machiavelli si concentra sui principati «tutti nuovi» che
esercitano su di lui un fascino particolare, perché in essi l’intelligenza e la capacità di
azione del principe si possono esprimere al massimo grado. E a questi stati egli può ap-
plicare il suo pensiero politico con la massima audacia fino alle estreme conseguenze.
In questo capitolo trattati alcuni dei capisaldi della riflessione machiavelliana: il prin-
cipio di imitazione, la necessità di «pensare in grande» imitando gli uomini straordinari,
il ruolo di virtù e fortuna nell’ascesa al potere, i diversi problemi posti dalla conquista e
dal mantenimento dello stato, l’uso della forza, la questione delle armi. E vi si trova tut-
ta la passione, addirittura spietata, di Machiavelli per le azioni risolutive e il suo odio per
i compromessi.

VI. DE PRINCIPATIBUS NOVIS QUI ARMIS PROPRIIS ET VIRTUTE ACQUIRUNTUR

Non si maravigli alcuno se, nel parlare che io farò de’ principati al tutto nuovi, e di
principe e di stato1, io addurrò grandissimi esempli. Perché, camminando gli uomini
sempre per le vie battute da altri e procedendo nelle azioni loro con le imitazioni, né 5
si potendo le vie d’altri al tutto tenere né alla virtù di quegli che tu imiti aggiugnere,
debbe uno uomo prudente entrare sempre per vie battute da uomini grandi, e quegli
che sono stati eccellentissimi imitare: acciò che, se la sua virtù non vi arriva, almeno
ne renda qualche odore2; e fare come gli arcieri prudenti3, a’ quali parendo el luogo
dove desegnano ferire4 troppo lontano, e conoscendo fino a quanto va la virtù5 del 10
loro arco, pongono la mira assai più alta che il luogo destinato, non per aggiugnere
con la loro freccia a tanta altezza6, ma per potere con lo aiuto di sì alta mira pervenire
al disegno loro7.
Dico adunque che ne’ principati tutti nuovi, dove sia uno nuovo principe, si
truova a mantenergli più o meno difficultà secondo che più o meno è virtuoso8 15
colui che gli acquista. E perché questo evento, di diventare di privato principe,
presuppone o virtù o fortuna, pare che l’una o l’altra di queste dua cose mitighi-
no in parte molte difficultà9; nondimanco10, colui che è stato meno in su la fortu-
na11 si è mantenuto più. Genera ancora facilità essere el principe constretto, per
non avere altri stati, venire personalmente ad abitarvi. 20

1 al tutto... e di stato: in questo capitolo. ve sempre seguire gli esem- 6 aggiungere... a tanta dando piuttosto alla virtus
nel capitolo I, Machiavelli 2 camminando gli uo- pi degli uomini grandi e altezza: raggiungere una latina e pagana, che indicava
aveva istituito una distin- mini... odore: dal momen- imitare quelli che si sono così grande altezza. intelligenza e capacità di
zione fra principati ereditari to che gli uomini vivono distinti sopra tutti (quelli ec- 7 pervenire... loro: con- agire in modo pronto ed ef-
e nuovi, e, all’interno di que- quasi sempre conforman- cellentissimi), affinché, anche seguire il loro proposito. ficace.
sti ultimi, una distinzione dosi agli esempi dei prede- se la sua virtù non eguaglia 8 virtuoso: dotato di 9 mitighino... difficultà:
ulteriore fra quelli che sono cessori (per le vie battute da al- la loro, ne porti almeno quel complesso di doti che concorra ad appianare mol-
aggregati a uno stato preesi- tri) e agiscono per imitazio- qualche traccia (odore). consentono all’uomo di te delle difficoltà che il prin-
stente (i principati misti) e ne, e non è possibile né 3 prudenti: assennati, opporsi alle forze ostili della cipe incontra.
quelli in cui sale al potere un conformarsi in tutto e per previdenti. fortuna e realizzare i propri 10 nondimanco: nondi-
privato cittadino e che co- tutto all’esempio degli altri, 4 el luogo... ferire: il obiettivi. Si ricordi che la meno.
stituiscono un’entità statale né eguagliare (aggiugnere) la bersaglio che intendono virtù di Machiavelli non ha 11 colui... fortuna: colui
nuova a sé stante (nuovi tut- virtù di chi è imitato, un uo- colpire. nulla che fare con il concet- che si è affidato di meno alla
ti). Di questi ultimi si tratta mo assennato (prudente) de- 5 virtù: forza, potenza. to cristiano di virtù, riman- fortuna.

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Quattrocento e Cinquecento

Ma per venire a quegli che per propria virtù e non per fortuna sono diventati
principi, dico che e’ più eccellenti sono Moisè, Ciro, Romulo, Teseo12 e simili. E
benché di Moisè non si debba ragionare, sendo suto13 uno mero esecutore delle
cose che gli erano ordinate da Dio, tamen14 debbe essere ammirato, solum15 per
quella grazia che lo faceva degno di parlare con Dio. Ma considerato Ciro e li al- 25
tri che hanno acquistato o fondati regni, gli troverrete tutti mirabili16; e se si con-
siderranno17 le azioni e ordini18 loro particulari, parranno non discrepanti19 da
quegli di Moisè, che ebbe sì grande precettore20. Ed esaminando le azioni e vita
loro non si vede che quelli avessino altro da la fortuna che la occasione, la quale
dette loro materia a potere introdurvi dentro quella forma che parse loro: e sanza 30
quella occasione la virtù dello animo loro si sarebbe spenta, e sanza quella virtù la
occasione sarebbe venuta invano21.
Era adunque necessario a Moisè trovare el populo d’Israel in Egitto stiavo22 e op-
presso da li egizi, acciò che quegli, per uscire di servitù, si disponessino a seguirlo.
Conveniva che Romulo non capessi in Alba23, fussi stato esposto al nascere24, a vo- 35
lere25 che diventassi re di Roma e fondatore di quella patria. Bisognava che Ciro
trovassi e’ persi malcontenti dello imperio de’ medi26, ed e’ medi molli ed effemina-
ti per la lunga pace. Non poteva Teseo dimostrare la sua virtù, se non trovava gli ate-
niesi dispersi. Queste occasioni per tanto feciono27 questi uomini felici e la eccel-
lente virtù loro fe’ quella occasione essere conosciuta28: donde la loro patria ne fu 40
nobilitata e diventò felicissima.
Quelli e’ quali per vie virtuose, simili a costoro, diventono principi, acquistano
el principato con difficultà, ma con facilità lo tengono; e le difficultà che gli han-
no nello acquistare el principato nascono in parte da’ nuovi ordini e modi che so-
no forzati introdurre per fondare lo stato loro e la loro securtà29. E debbesi consi- 45
derare come e’ non è cosa più difficile a trattare, né più dubbia a riuscire, né più
pericolosa a maneggiare, che farsi capo di introdurre nuovi ordini30. Perché lo in-
troduttore ha per nimico tutti quegli che degli ordini vecchi fanno bene31, e ha
tiepidi defensori tutti quelli che delli ordini nuovi farebbono bene: la quale tepi-
dezza nasce parte per paura delli avversari, che hanno le leggi dal canto loro, par- 50
te da la incredulità32 degli uomini; e’ quali non credono in verità le cose nuove, se
non ne veggano nata una ferma esperienza33. Donde nasce che, qualunque volta
quelli che sono nimici hanno occasione di assaltare, lo fanno partigianamente34, e
quelli altri35 difendono tiepidamente: in modo che insieme con loro si periclita36.
È necessario pertanto, volendo discorrere bene questa parte, esaminare se questi 55

12 Moisè... Teseo: allo 18 ordini: gli ordinamen- storo dirigere gli eventi con 27 feciono: fecero. 32 incredulità: diffiden-
scopo di accreditare le pro- ti, le leggi. la propria virtù (dare la for- 28 la eccellente... cono- za, scetticismo.
prie idee attribuisce uguale 19 non discrepanti: non ma); senza un’occasione sciuta: la loro eccellente 33 se... esperienza: se
valore a personaggi assai difformi, non discordanti. propizia quegli uomini non virtù seppe riconoscere e non ne vedono gli esiti
eterogenei, come Mosè, il 20 sì grande precettore: avrebbero potuto manife- quindi cogliere la buona concreti.
liberatore e legislatore del Dio, che dettò la legge a stare la propria virtù, e sen- occasione che si presenta- 34 Donde nasce... parti-
popolo ebraico, Ciro, fon- Mosè. In questa afferma- za la loro personale virtù va. gianamente: da ciò deriva
datore nel VI sec. a.C. della zione non è assente forse non avrebbero potuto far 29 nascono... securtà: che ogniqualvolta gli av-
monarchia persiana, Ro- qualche ironia da parte di fruttare la buona occasione. provengono dalle nuove versari delle innovazioni
molo, primo re di Roma, e un pensatore per il quale 22 stiavo: schiavo. leggi e dai nuovi ordina- hanno l’opportunità di far-
Teseo mitico re di Atene e l’arte politica è cosa squisi- 23 non capessi in Alba: menti di governo che essi lo, le attaccano con spirito
uccisore del Minotauro. tamente umana e le inge- non trovasse posto entro la sono costretti a introdurre fazioso.
13 sendo suto: essendo renze religiose sono sem- città di Alba. per fondare il loro stato e 35 quelli altri: coloro che
stato. pre sospette. 24 fussi... al nascere: fosse garantirsi la loro personale sono favorevoli ai nuovi or-
14 tamen: tuttavia. 21 Ed esaminando... in- stato abbandonato alla na- sicurezza. dini.
15 solum: solamente. vano: il senso di questo pe- scita. 30 farsi capo... ordini: 36 insieme... periclita:
16 mirabili: degni di am- riodo è che la fortuna ha 25 a volere che: per far sì farsi promotore dell’intro- confidando su questi tiepi-
mirazione. dato ai personaggi citati che. duzione delle nuove leggi. di sostenitori si corre peri-
17 considerranno: consi- l’occasione favorevole (la 26 imperio de’ medi: go- 31 fanno bene: traggono colo.
dereranno. materia), ma è spettato a co- verno dei Medi. vantaggio.

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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento T 21.2

innovatori stanno per loro medesimi37 o se dependono da altri: cioè se per con-
durre l’opera loro bisogna che preghino38, o vero possono forzare39. Nel primo
caso, sempre capitano male e non conducono cosa alcuna40; ma quando dependo-
no da loro propri41 e possono forzare, allora è che rare volte periclitano42: di qui
nacque che tutti e’ profeti43 armati vinsono ed e’ disarmati ruinorno44. Perché, ol- 60
tra alle cose dette, la natura de’ populi è varia45 ed è facile a persuadere loro una
cosa, ma è difficile fermargli in quella persuasione46: e però conviene essere ordi-
nato in modo che, quando non credono più, si possa fare loro credere per forza47.
Moisè, Ciro, Teseo e Romulo non arebbono possuto48 fare osservare loro49 lunga-
mente le loro constituzioni, se fussino stati disarmati; come ne’ nostri tempi inter- 65
venne a fra Ieronimo Savonerola50, il quale ruinò ne’ sua ordini nuovi51, come52 la
moltitudine cominciò a non credergli, e lui non aveva modo a tenere fermi quel-
li che avevano creduto né a fare credere e’ discredenti53. Però questi tali hanno nel
condursi grande difficultà54, e tutti e’ loro periculi sono fra via55 e conviene che
con la virtù gli superino. Ma superati che gli hanno, e che cominciano a essere in 70
venerazione56, avendo spenti quegli che di sua qualità gli avevano invidia57, ri-
mangono potenti, sicuri, onorati e felici.

37 stanno per loro me- 42 allora... periclitano: modo che, quando i popoli suo esperimento si concluse 54 questi tali... difficultà:
desimi: si basano sulle pro- allora accade che raramen- abbiano perso la fiducia, si in un clima di grande vio- qui torna a riferirsi ai prin-
prie forze. te corrano dei rischi. possano mantenere fedeli lenza con la condanna al ro- cipi armati sul modello di
38 bisogna che preghi- 43 e’ profeti: i riformatori. con la forza. go sua e dei suoi più stretti Mosè, Ciro, ecc.
no: debbono chiedere aiu- 44 ruinorno: andarono in 48 arebbono possuto: collaboratori. 55 fra via: durante la loro
to ad altri. rovina. avrebbero potuto. 51 ne’ sua ordini nuovi: ascesa al potere.
39 forzare: usare la loro 45 varia: mutevole. 49 loro: ai popoli. assieme al nuovo governo 56 essere in venerazione:
forza. 46 è facile... persuasione: 50 fra Ieronimo Savone- che aveva egli stesso pro- essere rispettati e obbediti.
40 non... alcuna: non è facile convincere i popoli rola: Gerolamo Savonarola mosso. 57 avendo spenti... invi-
conducono a buon fine al- di qualche cosa, ma è diffici- (1552-1498) ebbe parte im- 52 come: non appena. dia: avendo eliminato colo-
cuna impresa. le farli stare saldi (fermarli) in portante nel formulare la 53 né... discredenti: né ro che erano invidiosi del
41 dependono da loro quell’opinione. costituzione repubblicana aveva i mezzi per costringe- loro potere.
propri: dipendono solo da 47 e però... forza: e perciò della città dopo la cacciata re all’obbedienza gli avver-
se stessi. è necessario predisporsi in dei Medici nel 1594, ma il sari.

Guida all’analisi
Un principio di metodo: l’imitazione degli uomini grandi Machiavelli ritiene che l’uomo politico debba agire
fondandosi sulla sua concreta esperienza personale e sullo studio della storia antica e recen-
te; dall’una e dall’altra egli deve derivare leggi e modelli di comportamento che siano appli-
cabili alle situazioni in cui si trova ad operare. È ciò che Machiavelli dichiara in questo ca-
pitolo, utilizzando il concetto di imitazione. Nel preambolo sembra proporre come una pa-
lese verità il fatto che gli uomini procedano per imitazione: «camminando gli uomini sem-
pre per le vie battute da altri e procedendo nelle loro azioni con le imitazioni». I gerundi
causali dimostrano che questa non è propriamente la tesi che egli vuol sostenere, ma una
premessa evidente ad essa. In effetti la tesi che propone, e per cui adduce come argomento
l’esempio metaforico dell’arciere, è che si debbano imitare le azioni degli uomini grandi e
in particolare degli «eccellentissimi». Il criterio con cui Machiavelli individua la grandezza e
l’eccellenza degli esempi non è esplicitamente dichiarato, ma è evidente che consiste in
quello che definisce sinteticamente la «virtù», cioè la capacità di analizzare la realtà e adotta-
re le giuste strategie per realizzare i propri scopi, insomma l’intelligenza, il valore, il coraggio
e altri tratti che preciserà nel corso dell’opera.
Il ruolo di fortuna e virtù nell’acquisto e nel mantenimento dello stato Dopo il preambolo metodologico,
Machiavelli enuncia subito chiaramente una seconda tesi, che è poi quella principale rela-
tivamente alla materia specifica della costituzione di principati «tutti nuovi». Essa può es-
sere così parafrasata: la facilità con cui si mantiene un principato nuovo dipende dalla
‘virtù’ di chi lo ha acquisito: se infatti la fortuna può incidere favorevolmente nel mo-

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Quattrocento e Cinquecento

mento dell’acquisto, è solo la virtù che consente di mantenerlo a lungo (perché è diffici-
le immaginare una fortuna sempre benevola). Un corollario di questa tesi, esposto nel
quinto paragrafo, è che chi acquista un principato essenzialmente «per vie virtuose» (cioè
senza l’aiuto della fortuna) magari incontra maggiori difficoltà nell’acquisto, ma poi lo tie-
ne con più facilità di chi sia stato smaccatamente aiutato dalla fortuna nell’acquisto. Tutto
l’impianto argomentativo del capitolo mira dunque a celebrare la virtù del principe e a in-
vitare a diffidare della fortuna.
L’occasione Machiavelli qui non esamina in astratto, come farà più avanti, in che misura fortuna e
virtù determinino le azioni umane. Si limita a constatare che la virtù nel tempo dà più ga-
ranzie della fortuna. Anzi gli esempi esaminati in questo capitolo sono tutti esempi di
principi che dalla fortuna hanno avuto soltanto l’occasione e spesso un’occasione in appa-
renza negativa: per Mosè fu la schiavitù del popolo di Israele; per Romolo fu la sua cac-
ciata dalla città di Alba; per Teseo la dispersione degli ateniesi; per Ciro lo scontento dei
persiani per la dominazione dei Medi (e la mollezza di questi ultimi). Tutto il resto lo fe-
cero da soli, «per vie virtuose». L’occasione insomma si manifesta qui come una situazio-
ne oggettivamente problematica, che può apparire in qualche caso addirittura catastrofica,
ma che si offre all’uomo ‘virtuoso’ perché dimostri il suo valore interpretandola, governa-
dola e capovolgendola clamorosamente. È, nel suo estremismo, una testimonianza della
passione di Machiavelli per le azioni decise, per gli interventi radicali, e naturalmente per
le figure eroiche della tradizione classica. Il concetto di occasione è comunque in sé assai
importante: l’occasione, qualunque essa sia, è fornita dalla fortuna, ma è anche il campo di
intervento della virtù dell’individuo. L’occasione non elimina le difficoltà dell’acquisto, ma
lo rende possibile; senza l’occasione – precisa Machiavelli – la virtù sarebbe inutile, ma
senza la virtù l’occasione si presenterebbe invano.
Le difficoltà dei nuovi ordini e i profeti armati In questo contesto Machiavelli introduce una serie di distin-
zioni e di precisazioni relative alla natura delle difficoltà che si incontrano nell’acquisto di
un principato: esse consistono essenzialmente nella necessità di introdurre nuovi ordina-
menti e nel diverso grado di partecipazione degli avversari e dei sostenitori delle innova-
zioni (gli uni sono agguerriti e faziosi, gli altri tiepidi). Ne deriva che il principe non de-
ve contare troppo sull’aiuto di questi tiepidi sostenitori, pena la sua «ruina», ma deve con-
fidare nelle proprie forze. Fra queste un posto particolare lo hanno «l’arme proprie» evi-
denziate nel titolo del capitolo, cioè la possibilità di esercitare forme di coercizione me-
diante un esercito che sia sotto il proprio diretto controllo. Dal che scaturisce il celebre
esempio dei profeti armati e di quelli disarmati: i primi riescono a durare perché possono
imporsi con la forza, gli altri no. Il più celebre dei profeti disarmati è stato frate Gerolamo
Savonarola, conosciuto da Machiavelli, che quando ebbe favorevole la fortuna riuscì a im-
porre le sue idee nella costituzione della repubblica di Firenze, ma quando quella gli vol-
se le spalle, non avendo mezzi di coercizione, finì miseramente sul rogo.

Laboratorio 1 Individua e analizza le metafore presenti Siracusano: che cosa lo distingue e che
COMPRENSIONE nel testo: in particolare spiegane la fun- cosa lo accomuna agli altri precedenti? A
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE zione nel contesto (argomentativa? stili- quali precetti di comportamento vanno
stica?). ascritte le sue azioni?
2 Esamina l’esempio conclusivo di Ierone

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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento T 21.3

T 21.3 Niccolò Machiavelli, Il Principe 1513


De’ principati nuovi che s’acquistano con le arme
e fortuna di altri [VII]
N. Machiavelli L’ascesa e la rovina del duca Valentino sono l’argomento di uno dei capitoli più celebri
Opere, vol. I del Principe, in cui Machiavelli delinea a tinte forti il ritratto del perfetto uomo politico
a c. di C.Vivanti, Einaudi- al quale i principi moderni, e nella fattispecie il destinatario del trattato Lorenzo de’
Gallimard, Torino 1997 Medici, dovrebbero coraggiosamente ispirarsi per mettere ordine in Italia. Ripercorren-
do le tappe attraverso cui Cesare Borgia giunse a creare in breve tempo un nuovo sta-
to personale, portando leggi e sovranità dove era anarchia, Machiavelli esemplifica e ap-
profondisce le questioni introdotte nei capitoli precedenti, con particolare attenzione al
problema del rapporto fra virtù e fortuna; e preannuncia la trattazione sistematica che
farà nei capitoli successivi intorno alle qualità che si desiderano nel nuovo principe.
Anche a voler prescindere dal complesso disegno politico machiavelliano, queste pa-
gine rimarrebbero straordinarie per la tetra bellezza del personaggio del Valentino e per
lo sconvolgente documento che offrono della realtà cinquecentesca all’ombra dell’au-
reo Rinascimento divulgato dalle idealizzazioni dell’arte e della letteratura contempo-
ranee.

1 di privati: da privati VII. DE PRINCIPATIBUS NOVIS QUI ALIENIS ARMIS ET FORTUNA ACQUIRUNTUR
cittadini.
2 fra via... volano: du-
rante la loro ascesa, perché Coloro e’ quali solamente per fortuna diventano di privati1 principi, con poca
conquistano il principato
agilmente senza impacci. fatica diventono, ma con assai si mantengono; e non hanno alcuna difficultà fra
via, perché vi volano2: ma tutte le difficultà nascono quando e’ sono posti3. E que-
3 quando... posti: quan-
do si sono insediati al pote- sti tali sono quando è concesso ad alcuno uno stato o per danari o per grazia di chi
re. lo concede: come intervenne4 a molti in Grecia nelle città di Ionia e di Ellespon- 5
4 intervenne: accadde.
5 Dario: Dario I divise
to, dove furono fatti principi da Dario5, acciò le tenessino per sua sicurtà e gloria6;
l’impero persiano, del quale come erano fatti ancora quelli imperadori che di privati, per corruzione de’ solda-
facevano parte anche le città ti, pervenivano allo imperio7.
greche della Ionia e dell’El-
lesponto sopra citate, in “sa- Questi stanno semplicemente in su la8 volontà e fortuna di chi lo ha concesso
trapie”, a capo delle quali loro, che sono dua cose volubilissime e instabili, e non sanno e non possono te- 10
impose governatori di sua
creazione. nere quello grado: non sanno, perché s’e’ non è9 uomo di grande ingegno e virtù,
6 acciò... gloria: affin- non è ragionevole che, sendo10 vissuto sempre in privata fortuna11, sappia coman-
ché costoro le governassero
per la sicurezza e la gloria di dare; non possono, perché non hanno forze che gli possino essere amiche e fede-
Dario. li. Di poi gli stati che vengono subito12, come tutte l’altre cose della natura che
7 come... imperio: si al-
lude agli imperatori romani
nascono e crescono presto, non possono avere le barbe e correspondenzie loro13 15
della decadenza che per- in modo che il primo tempo avverso le spenga14, – se già quelli tali, come è det-
vennero al potere grazie alla to, che sì de repente sono diventati principi non sono di tanta virtù che quello
corruzione dei pretoriani e
delle milizie. che la fortuna ha messo loro in grembo e’ sappino subito prepararsi a conservarlo,
8 stanno... in su la: di- e quelli fondamenti, che gli altri hanno fatti avanti che diventino principi, gli fac-
pendono dalla.
9 s’e’ non è: se egli, cioè il cino poi15. 20
principe, non è (si noti il Io voglio all’uno e l’altro di questi modi detti, circa il diventare principe per
brusco passaggio dalla terza
persona plurale sanno alla virtù o per fortuna, addurre dua esempli stati ne’ dì della memoria nostra16: e
terza singolare è). questi sono Francesco Sforza e Cesare Borgia. Francesco, per li debiti mezzi e con
10 sendo: essendo.
11 in privata fortuna: da
una grande sua virtù, di privato diventò duca di Milano17; e quello che con mille
privato cittadino.
12 gli stati... subito: gli
stati che si creano in breve 14 spenga: uccida. ciò che la fortuna ha offerto ti ai nostri tempi. Milano, abbatté la Repub-
tempo. 15 se già... poi: a meno loro (ha messo loro in grembo) 17 Francesco... Milano: blica Ambrosiana che era
13 le barbe e corrispon- che (se già) coloro che così e non provvedano poi a Francesco Sforza (1401- stata fondata nel 1447 alla
denzie loro: le radici e le lo- all’improvviso (de repente) quei fondamenti del loro 1466), condottiero a capo morte di Filippo MariaVi-
ro ramificazioni (Machia- sono diventati principi non potere cui gli altri han delle milizie milanesi im- sconti, e, avendo sposato la
velli continua il paragone abbiano tanta virtù da sa- provveduto prima di di- pegnate nella guerra contro figlia di questi, Bianca Ma-
naturalistico fra gli stati e le persi subito organizzare ventare principi. Venezia, nel 1450 volse le ria, si fece proclamare si-
“cose della natura”). (prepararsi) per conservare 16 stati... nostra: accadu- armi contro la stessa città di gnore della città.

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Quattrocento e Cinquecento

18 ducaValentino: Cesare affanni aveva acquistato, con poca fatica mantenne. Da l’altra parte, Cesare Borgia, 25
Borgia (1475-1507), figlio
di papa AlessandroVI,otten- chiamato dal vulgo duca Valentino18, acquistò lo stato con la fortuna del padre e
ne da Luigi XII re di Francia con quella lo perdé, non ostante che per lui si usassi ogni opera e facessinsi tutte
la contea diValence, poi in- quelle cose che per uno prudente e virtuoso uomo si doveva fare per mettere le
nalzata a ducato, e il titolo di
duca diValentinois (donde il barbe sua in quelli stati che l’arme e fortuna di altri gli aveva concessi19. Perché,
suo appellativo). La sua car- come di sopra si disse, chi non fa e’ fondamenti20 prima, gli potrebbe con una
riera politica viene descritta
nel corso del capitolo. grande virtù farli poi, ancora che21 si faccino con disagio dello architettore e pe- 30
19 non ostante... conces- riculo dello edifizio22. Se adunque si considerrà tutti e’ progressi23 del duca, si ve-
si: nonostante egli avesse fat-
to quanto doveva esser fatto drà lui aversi fatti grandi fondamenti alla futura potenza; e’ quali non iudico su-
da un politico intelligente e perfluo discorrere24 perché io non saprei quali precetti mi dare migliori, a uno
capace, allo scopo di mettere principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sue: e se gli ordini sua non gli profit-
le proprie radici in quegli sta-
ti che le armi e la fortuna di torno25, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed estrema mali- 35
altri gli avevano procurato. gnità di fortuna.
20 e’ fondamenti: i prov-
vedimenti per il rafforza- Aveva Alessandro VI, nel volere fare grande il duca suo figliuolo, assai difficultà
mento del potere. presenti e future. Prima, e’ non vedeva via di poterlo fare signore di alcuno stato
21 ancora che: sebbene.
22 con disagio... edifizio:
che non fussi stato di Chiesa26: e, volgendosi a tòrre quello della Chiesa, sapeva
fuor di metafora: con fatica che il duca di Milano e’ viniziani non gliene consentirebbono27, perché Faenza e 40
del principe (l’architettore) e Rimino erano di già sotto la protezione de’ viniziani28.Vedeva oltre a questo l’ar-
rischio di rovina per il nuo-
vo stato (l’edifizio). me di Italia, e quelle in spezie di chi si fussi potuto servire29, essere nelle mani di
23 e’ progressi: le azioni. coloro che dovevano temere la grandezza del papa, – e però30 non se ne poteva fi-
24 discorrere: esaminare.
25 e se... profittorno: e se dare, – sendo tutte nelli Orsini e Colonnesi31 e loro complici. Era adunque ne-
i suoi procedimenti non gli cessario che si turbassino quelli ordini e disordinare gli stati di Italia, per potersi 45
giovarono.
26 stato di Chiesa: stato
insignorire sicuramente di parte di quelli32. Il che gli fu facile, perché e’ trovò e’
compreso nei territori già viniziani che, mossi da altre cagioni, si erono volti a fare ripassare e’ franzesi in Ita-
appartenenti alla Chiesa. lia: il che non solamente non contradisse, ma lo fe’ più facile con la resoluzione
27 e volgendosi... con-
sentirebbono: e se avesse del matrimonio antico del re Luigi33.
avuto in mente di attingere Passò adunque il re in Italia con lo aiuto de’ viniziani e consenso di Alessandro: 50
(tòrre: togliere, latinismo da
tollo, “prendo”) allo stato né prima fu in Milano che il papa ebbe da lui gente34 per la impresa di Roma-
della Chiesa, sapeva che il gna35, la quale gli fu acconsentita per la reputazione del re36. Acquistata adunque il
duca di Milano e la repub-
blica di Venezia non glielo duca la Romagna e sbattuti37 e’ Colonnesi, volendo mantenere quella e procede-
avrebbero consentito. re più avanti, lo impedivano dua cose: l’una, l’arme sua che non gli parevano fe-
28 perché... viniziani: co-
me le città di Faenza e di Ri-
deli; l’altra, la volontà di Francia: cioè che l’arme Orsine, delle quali si era valuto38, 55
mini stavano sotto la prote- gli mancassino sotto39, e non solamente gl’impedissino lo acquistare ma gli to-
zione diVenezia, pur essen- gliessino lo acquistato, e che il re ancora40 non li facessi il simile. Delli Orsini ne
do formalmente comprese
nei territori della Chiesa, ebbe uno riscontro41 quando, dopo la espugnazione di Faenza, assaltò Bologna,
così le città anch’esse ponti- che gli vidde andare freddi42 in quello assalto; e circa il re conobbe lo animo suo
ficie di Forlì e di Pesaro go-
devano della protezione del quando, preso el ducato d’Urbino, assaltò la Toscana: da la quale impresa il re lo 60
duca di Milano Ludovico il fece desistere43.
Moro. Onde che il duca deliberò di non dependere più da le arme e fortuna d’altri; e,
29 l’arme... servire: le
compagnie di ventura italia-
ne, e specialmente quelle
delle quali si sarebbe potuto 33 trovò e’ viniziani... del precedente matrimonio Cesena, Rimini, Pesaro e 40 ancora: anche.
servire (si ricordi che il Papa Luigi: trovò iVeneziani che del re Luigi XII (questi in- Faenza, e poi venne dal papa 41 riscontro: prova.
non possedeva milizie pro- per espandersi nei territori fatti era desideroso di divor- medesimo nominato duca 42 andare freddi: com-
prie, onde doveva servirsi di della Lombardia avevano ziare da Giovanna di Francia di Romagna. battere con poco impegno.
armi mercenarie). chiesto aiuto ai francesi di per sposare Anna di Breta- 36 per la reputazione del 43 da la quale... desistere:
30 però: perciò. Luigi XII, invitandoli a gna, vedova di CarloVIII). re: per il prestigio e l’auto- Luigi XII, alleato di Firenze,
31 Orsini e Colonnesi: scendere per la seconda vol- 34 né prima... gente: non rità di Luigi XII. non voleva si creasse uno
potenti famiglie (Orsini e ta in Italia (dice ripassare per- appena ebbe conquistata 37 sbattuti: sbaragliati. stato troppo potente nell’I-
Colonna) nemiche di Ales- ché erano già scesi in Italia Milano, il papa ricevette da 38 l’arme... valuto: i sol- talia centrale e, dopo averlo
sandroVI. pochi anni prima, nel 1494, lui truppe. dati mercenari legati alla fa- favorito, si oppose al dise-
32 Era... di quelli: era con CarloVIII); la quale im- 35 la impresa di Roma- miglia Orsini, di cui si era gno del Valentino. Fu in
dunque necessario cambia- presa non solamente il papa gna: l’impresa militare con servito (valuto, valso). questa occasione che Ma-
re quella situazione politica non ostacolò (non contraddis- cui il Valentino, armato dal 39 gli mancassino sotto: chiavelli, nel 1502, compì la
e creare disordine all’inter- se), ma anzi facilitò con l’an- papa, occupò tra il 1499 e il gli venissero meno, lo tradis- sua prima legazione presso il
no degli stati ostili. nullamento (la resoluzione) 1501 le città di Imola, Forlì, sero. Borgia.

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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento T 21.3

44 le parte: le fazioni. la prima cosa, indebolì le parte44 Orsine e Colonnese in Roma: perché tutti gli
45 aderenti: seguaci.
46 gentili uomini: nobili. aderenti45 loro, che fussino gentili uomini46, se gli guadagnò, faccendoli suoi gen-
47 provvisioni: stipendi. tili uomini e dando loro grandi provvisioni47, e onorògli, secondo le loro qualità, 65
48 condotte: stipendi as- di condotte48 e di governi: in modo che in pochi mesi negli animi loro l’affezio-
segnati ai “condottieri”,
cioè i capitani d’armi. ne delle parti49 si spense e tutta si volse nel duca. Dopo questo, aspettò la occasio-
49 l’affezione delle parti:
ne di spegnere e’ capi Orsini, avendo dispersi quelli di casa Colonna: la quale gli
l’attaccamento alla fazione.
50 la quale... meglio: venne bene, e lui la usò meglio50. Perché, avvedutosi51 gli Orsini tardi che la gran-
l’occasione che si presenta e dezza del duca e della Chiesa era la loro ruina feciono una dieta alla Magione nel 70
viene magistralmente còlta
dal Valentino è la congiura Perugino; da quella nacque la rebellione di Urbino, e’ tumulti di Romagna e infi-
ordita contro di lui da alcuni niti periculi del duca52, e’ quali tutti superò con l’aiuto de’ franzesi. E ritornatoli la
Orsini, daVitellozzoVitelli, reputazione, né si fidando di Francia né di altre forze esterne, per non le avere a
Oliverotto da Fermo,
Giampaolo Baglioni, dal si- cimentare53 si volse alli inganni; e seppe tanto dissimulare l’animo suo che li Orsi-
gnore di Siena Pandolfo Pe- ni medesimi, mediante il signore Paulo54, si riconciliorno seco55, – con il quale il 75
trucci e dai mandati del du-
ca di Urbino, riunitisi nel- duca non mancò d’ogni ragione di offizio per assicurarlo56, dandoli danari, veste e
l’ottobre del 1502 presso cavalli – tanto che la simplicità57 loro li condusse a Sinigaglia nelle sua mani58.
Perugia in una piccola loca-
lità chiamata Magione. Spenti adunque questi capi e ridotti e’ partigiani loro sua amici, aveva il duca
51 avvedutosi: accortisi. gittati assai buoni fondamenti alla potenzia sua, avendo tutta la Romagna col du-
52 da quella... del duca:
Machiavelli si riferisce alla cato di Urbino, parendoli massime59 aversi acquistata amica la Romagna e guada- 80
ribellione della città di Ur- gnatosi quelli populi per avere cominciato a gustare il bene essere loro60. E perché
bino, che tornò sotto Gui- questa parte è degna di notizia e da essere da altri imitata, non la voglio lasciare
dubaldo da Montefeltro, e
alla perdita di Camerino, indreto61. Presa che ebbe il duca la Romagna e trovandola suta comandata62 da si-
anch’essa riportata in mano gnori impotenti, – e’ quali più presto avevano spogliati e’ loro sudditi che corret-
al suo vecchio signore Gio-
van Maria daVarano. ti63, e dato loro materia di disunione, non d’unione – tanto che quella provincia 85
53 per non... a cimenta- era tutta piena di latrocini, di brighe e d’ogni altra ragione di insolenzia, iudicò
re: per non doverle mettere
alla prova. fussi necessario, a volerla ridurre pacifica e ubbidiente al braccio regio, dargli buo-
54 Paulo: Paolo Orsini, il no governo: e però vi prepose messer Rimirro de Orco64, uomo crudele ed espe-
quale si riconciliò colValen- dito65, al quale dette plenissima potestà. Costui in poco tempo la ridusse pacifica e
tino a nome di tutti congiu-
rati. unita, con grandissima reputazione. Di poi iudicò il duca non essere necessaria sì 90
55 seco: con lui.
56 il duca... assicurarlo: il
eccessiva autorità perché dubitava non divenissi odiosa, e preposevi uno iudizio
duca non trascurò alcun de- civile66 nel mezzo della provincia, con uno presidente eccellentissimo67, dove ogni
bito gesto di cortesia per città vi aveva lo avvocato suo. E perché conosceva le rigorosità passate avergli ge-
rassicurarlo.
57 simplicità: ingenuità. nerato qualche odio68, per purgare li animi di quelli populi e guadagnarseli in tut-
58 nelle sue mani: il 31 to, volle mostrare che, se crudeltà alcuna era seguita, non era causata da lui ma 95
dicembre a Senigallia, dove dalla acerba69 natura del ministro. E presa sopra a questo occasione70, lo fece, a
li aveva invitati per confer-
mare la riconciliazione, il Cesena, una mattina mettere in dua pezzi in su la piazza, con uno pezzo di legne
Valentino catturò gli ex e uno coltello sanguinoso accanto71: la ferocità del quale spettaculo fece quegli
congiurati:VitellozzoVitelli
e Oliverotto da Fermo furo- popoli in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi72.
no strangolati sul posto; il 18 Ma torniamo donde noi partimmo. Dico che, trovandosi il duca assai potente e 100
gennaio, a Castel della Pieve,
subirono uguale sorte Paolo in parte assicurato de’ presenti periculi, per essersi armato a suo modo73 e avere in
Orsini e il duca Gravina- buona parte spente quelle arme che, vicine, lo potevano offendere, gli restava, vo-
Orsini. Machiavelli aveva
narrato “a caldo” la vicenda lendo procedere collo acquisto74, el respetto del75 re di Francia: perché conosceva
in una relazione al governo
fiorentino (Descrizione del
modo tenuto dal ducaValentino sanguinaria azione del Va- sto che governati. ché sapeva che la severità cui 72 satisfatti e stupidi:
nello ammazzare Vitellozzo lentino aveva riportato or- 64 Rimirro de Orco: Re- aveva sottoposto il popolo soddisfatti (per vedersi ven-
Vitelli, Oliverotto da Fermo dine in una terra martoriata mirro de Lorqua, luogote- aveva suscitato qualche odio dicati del crudele governa-
ecc.) dalla semi-anarchia feudale nente delValentino. nei suoi confronti. tore) e al tempo stesso sgo-
59 massime: soprattutto che vi regnava. 65 espedito: risoluto. 69 acerba: crudele. menti.
(latinismo). 61 lasciare indreto:lascia- 66 preposevi uno iudizio 70 presa... occasione: 73 a suo modo: autono-
60 per avere... loro: per re indietro, tralasciare. civile: istituì un tribunale ci- còlta l’occasione buona al mamente, senza ricorrere ad
avere incominciato a godere 62 suta comandata: che vile. proposito. armi altrui.
di una condizione di benes- era comandata. 67 presidente eccellen- 71 lo fece... accanto: così 74 acquisto: l’espansione
sere, grazie al nuovo ordine 63 e’ quali... corretti: i tissimo:Antonio del Mon- Ramirro de Lorqua fu tro- territoriale.
stabilito; a Machiavelli pre- quali avevano mandato in te. vato la mattina del 26 di- 75 el respetto del: la sog-
me sottolineare che la pur rovina i loro sudditi, piutto- 68 E perché... odio: e per- cembre 1502. gezione al.

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Quattrocento e Cinquecento

76 sapeva... sopportato: come dal re, il quale tardi s’era accorto dello errore suo, non gli sarebbe sopporta-
sapeva che il re,essendosi ac-
corto tardi di aver lasciato to76. E cominciò per questo a cercare di amicizie nuove e vacillare con Francia77 105
crescere troppo la potenza nella venuta che’ franzesi feciono verso el regno di Napoli contro alli spagnuoli
del Valentino e del papa (lo che assediavano Gaeta78; e lo animo suo era assicurarsi di loro79: il che gli sarebbe
errore suo), non avrebbe tol-
lerato ulteriori ingrandi- presto riuscito, se Alessandro viveva80. E questi furno e’ governi81 sua, quanto alle
menti. cose presenti.
77 vacillare con Francia:
mettere in dubbio l’alleanza Ma quanto alle future, lui aveva a dubitare in prima che uno nuovo successore 110
con la Francia. alla Chiesa non gli fussi amico e cercassi torgli82 quello che Alessandro li aveva da-
78 nella venuta... Gaeta:
nel 1503, combattendo i to. Di che pensò assicurarsi83 in quattro modi: prima, di spegnere84 tutti e’ sangui85
Francesi contro gli Spa- di quelli signori che lui aveva spogliati, per tòrre al papa quella occasione86; secon-
gnoli per il possesso del do, di guadagnarsi tutti e’ gentili uomini di Roma, come è detto, per potere con
Regno di Napoli e avendo i
Francesi la peggio, il papa e quelli tenere el papa in freno; terzo, ridurre il Collegio più suo che poteva87; quar- 115
il Valentino si mostrarono to, acquistare tanto imperio88, avanti che il papa morissi, che potessi per sé medesi-
tiepidi con i vecchi alleati e
incominciarono a stringere mo resistere a uno primo impeto. Di queste quattro cose, alla morte di Alessandro
accordi (le suddette nuove ne aveva condotte89 tre, la quarta aveva quasi per condotta: perché de’ signori spo-
amicizie) con gli Spagnoli.
79 assicurarsi di loro: gliati ne ammazzò quanti ne possé aggiugnere90 e pochissimi si salvorno, e gentili
porli in condizione di non uomini romani si aveva guadagnati, e nel Collegio aveva grandissima parte91; e 120
potergli nuocere.
80 se Alessandro viveva:
quanto al nuovo acquisto, aveva disegnato diventare signore di Toscana e possede-
AlessandroVI morì improv- va di già Perugia e Piombino, e di Pisa aveva presa la protezione. E come e’ non
visamente il 18 agosto del avessi avuto ad avere rispetto a Francia92, – che non gliene aveva ad avere più, per
1503.
81 e’ governi: i provvedi- essere di già e’ franzesi spogliati del Regno93 da li spagnuoli: di qualità che ciascu-
menti. no di loro era necessitato comperare l’amicizia sua94, – e’ saltava in Pisa95. Dopo 125
82 cercassi torgli: cercas-
se di togliergli. questo, Lucca e Siena cedeva subito, parte per invidia96 de’ fiorentini, parte per
83 Di che... assicurarsi: paura; e’ fiorentini non avevano remedio. Il che se gli fussi riuscito, – che gli riusci-
da questa eventualità pensò
di mettersi al riparo. va97 l’anno medesimo che Alessandro morì, – si acquistava tante forze e tanta re-
84 di spegnere: spegnen- putazione che per sé stesso98 si sarebbe retto e non sarebbe più dependuto da la
do, uccidendo. fortuna e forze di altri, ma da la potenza e virtù sua. 130
85 e’ sangui: i discenden-
ti. Ma Alessandro morì dopo cinque anni che egli aveva cominciato a trarre fuora
86 per... occasione: «per
la spada: lasciollo con lo stato di Romagna solamente assolidato99, con tutti li altri
togliere al nuovo papa la
possibilità di usare gli eredi in aria100, in fra dua potentissimi eserciti inimici e malato a morte101. Ed era nel
dei signori da lui spodestati» duca tanta ferocità102 e tanta virtù, e sì bene conosceva come li uomini si hanno a
(Vivanti).
87 ridurre... poteva: guadagnare o perdere, e tanto erano validi e’ fondamenti che in sì poco tempo si 135
controllare quanto più pos- aveva fatti, che s’ e’ non avessi avuto quelli eserciti addosso, o lui fussi stato sano,
sibile il Collegio dei cardi- arebbe retto a ogni difficultà.
nali che doveva eleggere il
papa. E che e’ fondamenti sua fussino buoni, si vidde: che la Romagna lo aspettò103
88 imperio: potenza.
89 ne aveva condotte: ne
più d’uno mese; in Roma, ancora che mezzo vivo, stette sicuro, e, benché Baglio-
aveva realizzate, portate a ni,Vitelli e Orsini venissino in Roma, non ebbono séguito contro di lui104; possé 140
compimento. fare, se non chi e’ volle, papa, almeno ch’ e’ non fussi chi e’ non voleva105. Ma se
90 ne possé aggiugnere:
ne poté raggiungere. nella morte di Alessandro fussi stato sano, ogni cosa gli era facile: e lui mi disse106,
91 nel Collegio... parte:
«c’era un numero di cardi- gli Spagnoli, in guerra fra te del padre era gravemente riuscì a non far eleggere chi niere della Chiesa; nel suc-
nali ufficiente per assicurare loro, erano interessati a infermo;per entrambi si dif- non voleva. Il nemico di cessivo conclave il della
l’elezione di un papa a lui fa- stringere alleanza con lui. fuse la voce che si trattasse di Cesare Borgia era Giuliano Rovere venne eletto papa
vorevole. IlValentino conta- 95 saltava in Pisa: avrebbe avvelenamento. della Rovere, che nel con- col nome di Giulio II anche
va soprattutto sugli undici occupato Pisa. 102 ferocità: energia, fie- clave del settembre 1503 grazie al voto dei cardinali
cardinali spagnoli» (Vivan- 96 invidia: odio. rezza. non venne eletto. Il nuovo fedeli ai Borgia. E questo è
ti). 97 gli riusciva: gli sarebbe 103 lo aspettò: aspettò il papa fu infatti Francesco l’errore che più avanti Ma-
92 E come... Francia: e riuscito. suo ritorno, rifiutandosi di Todeschini Piccolomini, chiavelli imputerà alValen-
non appena avesse potuto li- 98 per sé stesso: con le sue sottomettersi al nuovo papa che prese il nome di Pio III tino, giacché il nuovo papa
berarsi della soggezione alla sole forze. Giulio II. e che morì nell’ottobre di non mantenne le promesse.
Francia. 99 assolidato: solidamen- 104 non ebbono... lui: non quello stesso anno. Giulia- 106 e lui mi disse: Ma-
93 spogliati del Regno: te nelle sue mani. trovarono sostegno contro no della Rovere allora sti- chiavelli fu a Roma dal 23
privati del Regno di Napo- 100 in aria: non consolida- di lui. pulò un accordo con il Va- ottobre al 18 dicembre, in
li. ti. 405 possé... voleva: se non lentino, promettendogli la occasione del conclave da
94 di qualità... sua : in 101 malato a morte: anche riuscì a far eleggere papa conferma dei suoi possedi- cui uscì eletto Giulio II.
modo che sia i Francesi sia ilValentino, infatti, alla mor- proprio chi voleva, almeno menti e il titolo di gonfalo-

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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento T 21.3

ne’ dì che fu creato Iulio II, che aveva pensato a ciò che potessi nascere morendo
el padre, e a tutto aveva trovato remedio, eccetto ch’ e’ non pensò mai, in su la sua
morte, di stare ancora lui107 per morire. 145
Raccolte io adunque tutte le azioni del duca, non saprei riprenderlo108: anzi mi
pare, come io ho fatto, di preporlo imitabile109 a tutti coloro che per fortuna e
107 ancora lui: anche lui. con le armi di altri sono ascesi allo imperio; perché lui, avendo l’animo grande e
108 riprenderlo: biasimar- la sua intenzione alta110, non si poteva governare111 altrimenti; e solo si oppose al-
lo.
109 preporlo imitabile: li sua disegni la brevità della vita di Alessandro e la sua malattia. Chi adunque iu- 150
proporlo come modello. dica necessario nel suo principato nuovo assicurarsi delli112 inimici, guadagnarsi
110 intenzione alta: obiet-
tivo ambizioso.
delli amici; vincere o per forza o per fraude; farsi amare e temere da’ populi, se-
111 governare: comporta- guire e reverire da’ soldati; spegnere quelli che ti possono o debbono offendere;
re. innovare con nuovi modi gli ordini antiqui; essere severo e grato, magnanimo e li-
112 assicurarsi delli: met-
tersi al sicuro dai. berale; spegnere la milizia infedele, creare della nuova; mantenere l’amicizie de’ re 155
113 respetto: timore. e de’ principi in modo ch’e’ ti abbino a benificare con grazia o offendere con re-
114 freschi: recenti.
115 ebbe mala elezione: spetto113, non può trovare e’ più freschi114 esempli che le azioni di costui.
fece una cattiva scelta. Solamente si può accusarlo nella creazione di Iulio pontefice, nella quale il du-
116 tenere: ottenere.
117 San Piero... Ascanio: ca ebbe mala elezione115. Perché, come è detto, non potendo fare uno papa a suo
Giuliano della Rovere car- modo, poteva tenere116 che uno non fussi papa; e non doveva mai consentire al 160
dinale di San Pietro inVin- papato di quelli cardinali che lui avessi offesi o che, divenuti papa, avessino ad aver
coli, Giovanni Colonna,
Raffaello Riario cardinale paura di lui: perché gli uomini offendono o per paura o per odio. Quelli che lui
di San Giorgio, Ascanio aveva offesi erano, in fra li altri, San Piero ad Vincula, Colonna, San Giorgio, Asca-
Sforza.
118 Roano: Georges nio117; tutti li altri avevano, divenuti papi, a temerlo, eccetto Roano118 e gli spa-
d’Amboise, arcivescovo di gnuoli: questi per coniunzione e obligo, quello per potenza, avendo coniunto se- 165
Rouen e ministro del re di
Francia. co el regno di Francia119. Pertanto el duca innanzi a ogni cosa doveva creare papa
119 questi... Francia: i car- uno spagnuolo: e, non potendo, doveva consentire a Roano120, non a San Piero ad
dinali spagnoli (questi) per la
comune origine (coniunzio- Vincula. E chi crede che ne’ personaggi grandi e’ benefizi nuovi faccino sdimen-
ne, parentela; i Borgia erano ticare le iniurie121 vecchie, s’inganna. Errò adunque el duca in questa elezione, e
di origine spagnola) e per gli fu cagione dell’ultima ruina sua122. 170
obblighi nei riguardi di suo
padre, il d’Amboise (quello)
perché poteva contare sul 120 Pertanto... Roano: il il francese, perché erano gli merlo. infatti, nel novembre di
potente sostegno del re di Valentino avrebbe dovuto unici che non avesse offeso 121 iniurie: offese. quello stesso 1503 fece ar-
Francia. far eleggere o gli spagnoli o o che avessero ragioni di te- 122 ruina sua: Giulio II, restare ilValentino a Ostia.

Guida all’analisi
La debolezza dello stato acquisito con arme e fortuna d’altri Questo capitolo è complementare al precedente e,
sul piano teorico, prende in esame la situazione diametralmente opposta a quella: alla virtù
nell’acquisto del principato si contrappone qui la fortuna; alle armi proprie si contrappongo-
no le armi altrui. Date le premesse teoriche già esposte, la tesi formulata all’inizio del capitolo
non ha bisogno di giustificazioni: chi diventa principe per sola fortuna non incontra difficoltà
nell’acquisto, ma le deve affrontare tutte una volta insediato, e solo a prezzo di grande fatica e
virtù riesce a mantenere lo stato.
Machiavelli indugia un poco solo per chiarire gli elementi di debolezza di questo tipo di
principe. Il primo e fondamentale è la volubilità della volontà e della fortuna di chi ha inse-
diato il nuovo principe e da cui egli dipende: nel caso del Valentino, a incidere nella sua «rui-
na» non è la mutata volontà del papa, che era suo padre, ma la mutata fortuna che ha condot-
to a morte il primo artefice della sua ascesa. In secondo luogo si collocano l’incapacità e l’im-
possibilità di comandare: chi, senza esserselo guadagnato sul campo, da privato diventa princi-
pe difficilmente ha le doti necessarie per conservare il potere; ma soprattutto, non avendo «ar-
me proprie», non può «forzare», come è stato mostrato nel capitolo precedente a proposito dei
profeti disarmati. I principi insediati da altri hanno sì eserciti, ma questi non dipendono diret-
tamente da loro e quindi non possono essere considerati fedeli, come nel caso del Valentino,
che dipendeva dalle milizie degli Orsini e indirettamente da quelle del re di Francia. Insomma,
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Quattrocento e Cinquecento

all’eccezionalità della fortuna che li ha insediati deve corrispondere un’analoga eccezionalità


di virtù perché il principe possa reggere a lungo lo stato.
Una similitudine naturalistica Il momento più critico è poi quello iniziale, quando anche un principe dotato di
virtù non può aver ancora consolidato il suo potere: si noti la similitudine naturalistica degli
«stati che vengono subito» i quali «come tutte l’altre cose della natura che nascono e crescono presto,
non possono avere le barbe e le corrispondenzie loro in modo che il primo tempo avverso
non le spenga». Su questa similitudine si è insistito perché essa, paragonando lo stato a una
pianta, rivela la concezione naturalistica di Machiavelli.
La fosca e tragica figura del Valentino Esaurita questa premessa teorica, Machiavelli si diffonde a esaminare la
vicenda del Valentino, la sua rapida ascesa, le sue azioni volte a consolidare un potere che sa-
peva collocato su deboli fondamenta e il suo improvviso crollo causato da «una estraordina-
ria ed estrema malignità di fortuna». La vicenda di Cesare Borgia nella ricostruzione di Ma-
chiavelli ha un che di grandioso e sinistro al tempo stesso, ha il respiro di una fosca tragedia.
In effetti tale dovette sentirla Machiavelli che, non curandosi di spendere una sola parola per
stigmatizzare l’atrocità delle sue azioni, dipinge il Valentino come un personaggio grandioso,
di certo proponibile come modello di principe «prudente e virtuoso», forse addirittura eroi-
co nel suo solitario confronto con la terribile macchina del potere, con forze tanto superio-
ri alle sue, con bramosie altrettanto intense delle sue e infine con una fortuna estremamen-
te maligna. Machiavelli soprattutto appare perplesso e quasi sgomento di fronte al caso di un
principe dotato di eccezionali ‘virtù’ che mette in atto tutte le tattiche e le strategie neces-
sarie per «assicurarsi» e predisporsi a parare i colpi avversi della fortuna, ma che alla fine no-
nostante tutto ciò soccombe; e si deve essere a lungo interrogato sulle ragioni profonde di
questa «ruina», senza probabilmente giungere a una soluzione univoca. Spia di questa per-
plessità è forse lo scarto che si nota tra la premessa alla narrazione, quando dichiara che «se
gli ordini sua non gli profittorno, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed
estrema malignità di fortuna», e il finale, quando, dopo averlo di nuovo proposto come esem-
plare, inaspettatamente – quasi non capacitandosi che la fortuna possa davvero aver determi-
nato in negativo la sorte di un così perfetto principe – introduce un errore fatale nella ele-
zione di papa Giulio II, che in parte accusa il Valentino e in parte scagiona la fortuna.
Un nodo etico: ‘virtù’ e crudeltà Per il resto ciò che colpisce di più il lettore è l’impassibilità, non ancora giustifi-
cata sul piano teorico, con cui Machiavelli rappresenta le efferatezze del Valentino. Egli non
spende una sola parola per stigmatizzarle, anzi, tutto preso dalla logica della sua costruzione in-
tellettuale le elogia come «grandi fondamenti alla futura potenza», tanto che non esita a di-
chiarare: «io non saprei quali precetti mi dare migliori, a uno principe nuovo, che lo esemplo
delle azioni sue». E ritorna sul tema più avanti. Eppure si tratta non solo di azioni diplomati-
che o militari, ma di assassinii, come nel caso dei capi degli Orsini, all’inizio suoi alleati, truci-
dati a tradimento a Senigallia; o come nel caso di messer Rimirro da Orco, «uomo crudele ed
espedito» da lui stesso incaricato di rendergli fedele con ogni mezzo la Romagna, e poi, non
per infedeltà di quello, ma per mero calcolo politico, fatto squartare e «messo in dua pezzi in
su la piazza, con uno pezzo di legne e uno coltello sanguinoso accanto» per ingraziarsi e al
tempo stesso ammonire i romagnoli; o come infine nel caso dei suoi avversari romani che
avrebbero potuto contrastare i suoi disegni nella futura elezione del nuovo papa («de’ signori
spogliati ne ammazzò quanti ne possé aggiugnere e pochissimi si salvorno»). Ma per Machia-
velli non è ancora giunto il momento di rendere conto di questo che anche agli occhi dei
suoi pur spregiudicati contemporanei doveva apparire come uno stridente punto cruciale
della trattazione. Le giustificazioni teoriche della necessità di adottare qualunque mezzo per
realizzare il fine della politica attenderanno a palesarsi ancora qualche capitolo.

Laboratorio 1 Abbiamo definito il Valentino grandioso e 2 Machiavelli dà un giudizio ‘scandaloso’


COMPRENSIONE fosco, tragico e persino eroico. Quali dell’operato del Valentino. Illustra con pa-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE aspetti tematici e stilistici del testo si pos- role tue le ragioni per cui Machiavelli ne
sono citare per avvalorare o discutere approva in sostanza l’operato.
questa definizione?

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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento T 21.4

T 21.4 Niccolò Machiavelli, Il Principe 1513


Di quelle cose per le quali li uomini, e
specialmente i principi, sono laudati o vituperati
N. Machiavelli Con il capitolo XV si apre la parte più spregiudicata e ‘scandalosa’ del trattato, quella
Opere, vol. I cioè in cui viene apertamente teorizzata l’autonomia della politica dalla morale comu-
a c. di C.Vivanti, Einaudi- ne. I capitoli dal XVI al XXI trattano in modo analitico dei comportamenti che il prin-
Gallimard, Torino 1997
cipe deve tenere per conservare sé al potere e il suo stato ordinato e sicuro; ma la por-
tata rivoluzionaria del pensiero machiavelliano si coglie tutta in questo breve capitolo di
carattere metodologico, in cui per la prima volta come criterio guida per la formula-
zione dei precetti viene assunta non un’immagine di perfezione ideale bensì la schietta
e quasi sempre brutale «verità effettuale».

XV. DE HIS REBUS QUIBUS HOMINES ET PRAESERTIM PRINCIPES


LAUDANTUR AUT VITUPERANTUR

Resta ora a vedere quali debbino essere e’ modi e governi1 di uno principe o
co’ sudditi o con li amici. E perché io so che molti di questo hanno scritto2, du- 5
bito, scrivendone ancora io, non essere tenuto prosuntuoso, partendomi massime,
nel disputare questa materia, da li ordini delli altri3. Ma sendo l’intenzione mia
stata scrivere cosa che sia utile a chi la intende, mi è parso più conveniente4 anda-
re dreto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa5. E molti si
sono immaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti 10
in vero essere6. Perché gli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe
vivere, che colui che lascia quello che si fa, per quello che si doverrebbe fare, im-
para più presto la ruina che la perservazione sua7: perché uno uomo che voglia fa-
re in tutte le parte8 professione di buono, conviene che ruini in fra tanti che non
sono buoni. Onde è necessario, volendosi uno principe mantenere, imparare a 15
potere essere non buono e usarlo e non usarlo secondo la necessità.
Lasciando adunque addreto le cose circa uno principe immaginate, e discor-
rendo quelle che sono vere, dico che tutti li uomini, quando se ne parla, e massi-
me e’ principi, per essere posti più alti9, sono notati di10 alcune di queste qualità
che arrecano loro o biasimo o laude. E questo è che alcuno è tenuto liberale, al- 20
cuno misero11 (usando uno termine toscano, perché avaro in nostra lingua è an-
cora colui che per rapina desidera di avere: misero chiamiamo noi quello che si
astiene troppo di usare il suo); alcuno è tenuto donatore, alcuno rapace; alcuno
crudele, alcuno piatoso12; l’uno fedifrago, l’altro fedele; l’uno effeminato e pusilla-
nime, l’altro feroce e animoso; l’uno umano, l’altro superbo; l’uno lascivo, l’altro 25
casto; l’uno intero13, l’altro astuto; l’uno duro, l’altro facile14; l’uno grave, l’altro
leggieri15; l’uno religioso, l’altro incredulo16, e simili. E io so che ciascuno confes-

1 e’ modi e governi: la so, soprattutto (massime) per culare coll’immaginazione ideali (quello che si doverrebbe chiavelli usa misero nel senso
condotta e il modo di tratta- il fatto che, nel trattare que- su come le cose dovrebbero fare) si predispone alla pro- attuale di “avaro”, e avaro in
re. sto argomento, mi discosto essere o si vorrebbe che fos- pria rovina piuttosto che alla quello attuale di “avido”.
2 molti... hanno scritto: (partendomi) dai metodi se- sero. propria salvezza (la perserva- 12 piatoso: pietoso.
l’allusione alla trattatistica guiti dagli altri. 6 in vero essere: esistere zione sua). 13 intero: integro, oppo-
politica precedente è gene- 4 conveniente: rispon- nella realtà. 8 in tutte le parte: in sto ad astuto, calcolatore.
rica, potendosi riferire tanto dente all’intento. 7 gli è... perservazione ogni cosa. 14 facile: pieghevole, ac-
ai classici antichi quanto agli 5 andare dreto... essa: sua: c’è tanta differenza (gli è 9 per essere posti più al- comodante.
scrittori medievali e umani- qui, ragionare sulle cose così tanto discosto) tra come vera- ti: perché occupano una po- 15 leggieri: volubile, in-
sti. come avvengono nella mente si vive e come si do- sizione più in vista. costante.
3 dubito... altri: temo, realtà dei fatti (effettuale è vrebbe vivere, che chi tra- 10 notati di: giudicati per. 16 incredulo: scettico, ir-
scrivendone anch’io, di es- neologismo coniato da Ma- scura i fatti reali (quello che si 11 misero: secondo il religioso.
sere considerato presuntuo- chiavelli), piuttosto che spe- fa) a favore di speculazioni corretto uso toscano, Ma-

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Quattrocento e Cinquecento

serà che sarebbe laudabilissima cosa uno principe trovarsi17, di tutte le soprascritte
qualità, quelle che sono tenute buone. Ma perché le non si possono avere tutte né
interamente osservare, per le condizioni umane che non lo consentono18, è ne- 30
cessario essere tanto prudente19 ch’e’ sappi fuggire la infamia di quegli vizi che gli
torrebbono20 lo stato; e da quegli che non gliene tolgono guardarsi21, s’e’ gli è
possibile: ma non possendo, vi si può con meno respetto lasciare andare22. Ed
etiam non si curi23 di incorrere nella infamia di quelli vizi, sanza e’ quali possa dif-
ficilmente salvare lo stato; perché, se si considera bene tutto, si troverrà qualche 35
cosa che parrà virtù, e seguendola sarebbe la ruina sua: e qualcuna altra che parrà
vizio, e seguendola ne nasce la sicurtà e il bene essere suo24.

17 uno principe trovar- causa delle concrete condi- glielo tolgono. con questo insegnamento simevole, mentre un com-
si: che un principe posse- zioni umane e storiche che 22 vi si può... lasciare Machiavelli sancisce l’indi- portamento ritenuto vi-
desse. non sempre lo consentono. andare: può indulgere in pendenza dell’etica politica zioso potrebbe significare
18 ma, perché... consen- 19 prudente: accorto. quelli senza eccessivi scru- dall’etica comune, per cui sicurezza e benessere per il
tono: ma, siccome non si 20 torrebbono: toglie- poli. ciò che moralmente si con- principe e lo stato.
possono avere tutte le buo- rebbero. 23 non si curi: non si sidera virtù, dal punto di vi-
ne qualità, né le si possono 21 da quegli... guardarsi: preoccupi. sta politico potrebbe rive-
osservare alla perfezione, a astenersi da quelli che non 24 se si considera... suo: larsi dannoso e quindi bia-

Guida all’analisi
Un capitoletto rivoluzionario: il linguaggio Qui Machiavelli in poche righe ribalta drasticamente e anche
drammaticamente una trattatistica millenaria e getta le fondamenta per la moderna consi-
derazione della politica come scienza che deve fondarsi su principi propri, in autonomia ri-
spetto alla religione o alla morale. Machiavelli lo fa però con parole semplici e in tono qua-
si colloquiale, nel pieno rispetto di quanto dichiarato già nella dedica, cioè della volontà di
evitare espressioni «ampullose e magnifiche». Si veda ad esempio come si sviluppi piana-
mente la frase che introduce uno dei concetti cardine: «Ma sendo l’intenzione mia stata
scrivere cosa che sia utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare dreto alla ve-
rità effettuale...»; tutto è detto con parole semplici, dell’uso quotidiano (si pensi a quell’an-
dare dreto), ma attentamente soppesate, e anche il neologismo finale ha una sua evidenza
quasi corposa che si imprime nella mente (tant’è che verità effettuale è diventato un termine
chiave del pensiero di Machiavelli).
Lo sviluppo del discorso è conciso ed essenziale: non una parola di troppo, non un orna-
mento superfluo, non una precisazione inessenziale o una divagazione. Il linguaggio, pur
trattando di concetti eminentemente astratti, privilegia le espressioni concrete: si veda ad
esempio l’espressione «E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono
mai visti né conosciuti in vero essere», che risolve il concetto di ‘idealizzazione’ nell’imma-
gine concreta e vivida di uomini chiusi nel loro scriptorium a immaginarsi corti, principi e
mondi fantastici, mentre di Machiavelli ancora conserviamo l’immagine che ci è stata for-
nita nella dedica, di un uomo che riduce «in uno piccolo volume» una sapienza empirica
costruita sul campo «in tanti anni e con tanti mia disagi e periculi», oltre che nello studio.
Ma si consideri anche il precetto «è necessario, volendosi uno principe mantenere, impara-
re a potere essere non buono e usarlo e non usarlo secondo la necessità»: con una straordina-
ria sintesi la concreta metafora dell’usare, applicata al concetto eufemistico ma chiarissimo di
«potere essere non buono», ci dice moltissimo sulla concezione strumentale dei comporta-
menti propria di Machiavelli (un atto crudele, ad esempio, non deve essere il frutto di un
impulso irrazionale e irriflesso, ma deve essere attentamente pianificato e compiuto a men-
te fredda, solo quando necessario: il principe modello di Machiavelli deve insomma usare la
crudeltà, non essere crudele).
Verità effettuale, utilità, necessità Sulla trama concettuale di questo capitolo non occorrerà insistere molto,
poiché tratta di quei cardini del pensiero di Machiavelli su cui ci siamo a lungo soffermati

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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento T 21.4

nel profilo. Ci limitiamo qui a ricapitolarli brevemente. Il paragrafo 1 introduce il primo


concetto rivoluzionario: ovviamente quello della scelta di «andare dreto alla verità effettuale
della cosa» piuttosto che alla «immaginazione di essa». Esso, cancellando di netto tutta la tra-
dizione in vario modo idealistica, semplicemente bollata come immaginaria (si noti la re-
plica del concetto a brevissima distanza, per sottolinearlo), pone chiaramente anche uno
scopo altrettanto innovativo, quello dell’utilità («scrivere cosa utile a chi la intende»).
Il concetto di utilità si chiarisce nel corso del capitolo come «perservazione sua», come
«sicurtà e... benessere suo» (contrapposti alla «ruina sua»), cioè come salvaguardia del potere
e dell’integrità fisica del principe, ma anche come «salvare lo stato», con una serie di conse-
guenze anche sull’ordine della vita civile e sul benessere dei cittadini che qui rimangono
sottintese e verranno chiarite in seguito.
Se l’utilità è lo scopo, la necessità è un fattore condizionante che, con l’utilità, regola i
comportamenti del principe inducendolo a usare o non usare certi strumenti (ad esempio
tutti i comportamenti e le «qualità» ritenute «non buone»). La necessità trova a sua volta
fondamento nella verità effettuale dei comportamenti umani e delle condizioni storiche:
sono infatti «le condizioni umane che non... consentono» di essere al tutto virtuoso (nel
senso comune), né di usare sempre i comportamenti ritenuti virtuosi. Chi «voglia fare in
tutte le parte professione di buono, conviene che ruini in fra tanti che non sono buoni».
Realtà/apparenza Con questo Machiavelli separa la politica dalla morale e conferisce autonomia all’analisi
politica. Tutto il discorso sulla necessità di usare i comportamenti ritenuti viziosi allo scopo
di realizzare l’utile personale e dello stato sgombera decisamente il campo dalla morale
convenzionale. Ma non elimina del tutto il problema morale. Nel finale del capitolo si af-
fronta, per ora sinteticamente, la questione dell’apparente negatività di un’azione ritenuta
comunemente un vizio, che si scopre col tempo essere invece positiva (per il principe e per
lo stato). Bisogna insomma saper fondare il giudizio e il progetto politico su un esame ra-
zionale della realtà in modo da ottenere i massimi risultati con il minimo dei comporta-
menti giudicati viziosi (solo quelli necessari): in questo modo, secondo Machiavelli, si agisce
secondo la ‘moralità’ relativa della politica.
Simulazione/dissimulazione Il tema del rapporto tra apparenza e realtà però assume qui anche un altro aspetto,
pure questo noto: la necessità del principe di simulare e dissimulare, secondo la consueta lo-
gica della necessità e dell’utile. Il principe deve costruirsi un’immagine che sia efficace nei
confronti dei sudditi: essa, se possibile, deve adeguarsi alla serie delle «qualità... tenute buo-
ne», sia perché forse sono dei valori condivisibili («sarebbe laudabilissima cosa» dichiara
Machiavelli), ma certo perché proprio in quanto «tenute buone» rappresentano le aspettative
dei sudditi, e avendole o anche solo simulandole si raggiunge un elevato indice di gradi-
mento. Insomma, al di sotto della maschera, è solo la sostanza politica dei fatti l’unico valido
parametro di giudizio del principe: egli deve assolutamente rifuggire da comportamenti che
gli creerebbero una fama talmente negativa da mettere a repentaglio il suo stesso potere; da-
gli altri comportamenti negativi deve quando possibile astenersi, ma se non è possibile deve
assumerli senza troppi scrupoli morali; e in ogni caso deve adottare quelli quei che siano
strettamente necessari a conservare lo stato, perché in questo caso anche la cattiva fama è un
male minore.

Laboratorio 1 In questo capitolo ci sono alcuni termini tutte le espressioni riferibili al rapporto
COMPRENSIONE concettualmente importanti ripetuti due apparenza/realtà. Spiegane il significato
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE o più volte (considera anche sostantivi, contestuale.
aggettivi, verbi con la medesima radice): 3 Nella guida all’analisi abbiamo formulato
ricercali e spiegane il significato conte- alcune osservazioni relative alla colloquia-
stuale. lità, alla concisione e alla concretezza del-
2 Ricerca e sottolinea nel testo le espres- lo stile di Machiavelli: per ciascuna di esse
sioni che indicano necessità (come ad es. prova a cercare nel testo altri esempi che
i verbi dovere, convenire, essere necessario, ma le avvalorino o, viceversa, che le mettano
anche non potere, non consentire ecc.) e, poi, in discussione.

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Quattrocento e Cinquecento

T 21.5 Niccolò Machiavelli, Il Principe 1513


Della crudeltà e pietà; e s’elli è meglio esser
amato che temuto, o più tosto temuto che amato
N. Machiavelli Tenendosi stretto alla «verità effettuale» Machiavelli esprime in questo capitolo tutto il
Opere, vol. I suo pessimismo nei confronti degli uomini, nei quali individua come movente fonda-
a c. di C.Vivanti, Einaudi- mentale un bieco egoismo. A tali condizioni la questione se il principe debba governa-
Gallimard, Torino 1997 re con mitezza o crudeltà, se gli convenga più essere amato o temuto dai suoi sudditi,
non può che risolversi in un solo modo, senza compromessi: con l’invito a lasciar da
parte ogni illusione e a scegliere coraggiosamente la via impopolare ma realistica della
durezza e della paura. Machiavelli tuttavia distingue il principe dal tiranno: il primo è
feroce per il bene comune, il secondo per il proprio interesse personale.

1 scendendo... qualità: XVII. DE CRUDELITATE ET PIETATE; ET AN SIT MELIUS AMARI QUAM TIMERI,
passando a considerare le al- VEL E CONTRA
tre qualità proprie del prin-
cipe già enumerate (prealle-
gate; si riferisce al cap. XV). Scendendo appresso alle altre qualità1 preallegate, dico che ciascuno principe
2 essere tenuto: essere debbe desiderare di essere tenuto2 piatoso e non crudele: nondimanco3 debbe av-
reputato. vertire4 di non usare male questa pietà. Era tenuto Cesare Borgia crudele: nondi-
3 nondimanco: nondi-
meno. manco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagna, unitola, ridottola in pace
4 debbe avvertire: deve
e in fede5. Il che se si considera bene, si vedrà quello6 essere stato molto più pia- 5
fare attenzione.
5 quella... in fede: quella toso che il populo fiorentino, il quale, per fuggire il nome di crudele, lasciò di-
sua durezza aveva rimesso in struggere Pistoia7. Debbe pertanto uno principe non si curare della infamia del
ordine la Romagna, l’aveva
unificata, l’aveva resa pacifi- crudele per tenere e’ sudditi sua uniti e in fede8: perché con pochissimi esempli
ca e fedele (s’intende fedele sarà più pietoso che quelli e’ quali per troppa pietà lasciono seguire e’ disordini, di
alValentino stesso).
6 quello: ilValentino. che ne nasca uccisioni o rapine9; perché queste10 sogliono offendere una univer- 10
7 il quale... Pistoia: il salità intera11, e quelle esecuzioni che vengono dal principe offendono uno parti-
governo fiorentino inter- culare12. E in fra tutti e’ principi al principe nuovo è impossibile fuggire il nome
venne con una politica de-
bole e temporeggiatrice in di crudele, per essere gli stati nuovi pieni di pericoli13. E Virgilio nella bocca di
occasione dei disordini di Didone dice:
Pistoia tra il 1501 e il 1502,
con l’effetto di esacerbare 15
ulteriormente il conflitto Res dura et regni novitas me talia cogunt
tra le fazioni dei Panciatichi moliri et late fines custode tueri.14
e dei Cancellieri. Machia-
velli aveva descritto gli av- Nondimanco debbe essere grave al credere e al muoversi, né si fare paura da sé
venimenti nel Ragguaglio
delle cose fatte dalla repubblica stesso15: e procedere in modo, temperato con prudenza e umanità, che la troppa
fiorentina per sedare le parti di confidenzia16 non lo facci incauto e la troppa diffidenzia non lo renda intollerabile. 20
Pistoia. Nasce da questo una disputa, s’e’ gli è meglio essere amato che temuto o e
8 uniti e in fede: ripren-
de con valore generale l’e- converso17. Rispondesi che si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma perché e’ gli è
spressione usata sopra per difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si
l’operare delValentino.
9 perché... rapine: per- abbi a mancare dell’uno de’ dua18. Perché degli uomini si può dire questo, gene-
ché con pochissime puni- ralmente, che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ peri- 25
zioni esemplari (esempli)
sarà più pietoso di coloro coli, cupidi del guadagno; e mentre fai loro bene e’ sono tutti tua, offeronti el san-
che per troppa pietà per- gue, la roba, la vita, e’ figliuoli, come di sopra dissi, quando el bisogno è discosto:
mettono che i disordini
continuino e crescano, por- ma quando ti si appressa, e si rivoltono19, e quello principe che si è tutto fondato
tando omicidi e rapine.
10 queste: si riferisce alle principato nuovo consisto- stesso: nondimeno deve es- 17 e converso: al contra- sacrificare una delle due co-
occisioni e rapine che nascono no le difficultà». sere cauto nel considerare rio. se. Di nuovo abbiamo
dai tumulti. 14 Res dura... tueri: “La la situazione e nell’agire, né 18 Rispondesi... de’ dua: un’applicazione del princi-
11 universalità intera: la dura necessità e la novità deve farsi sopraffare da pe- si risponde che sarebbe pio per cui all’immagine
generalità dei cittadini. del regno mi costringono a ricoli inesistenti creati dalla meglio essere tutte e due le astratta e ideale si contrap-
12 uno particulare: un tenere tali modi e a vigilare sua stessa immaginazione. cose assieme; ma siccome pone la verità effettuale.
singolo cittadino. i confini per ampio spazio”; 16 confidenzia: sicurezza sono cose difficili da conci- 19 ma quando... e si ri-
13 per essere... periculi: sono parole pronunciate da spavalda, in opposizione a liare, è molto più sicuro es- voltano: ma quando sei nel
come nel cap. III Machia- Didone (Eneide I 563-564). diffidenzia, sospettosità e sere temuto che amato, bisogno ti si rivoltano con-
velli aveva avvertito, «nel 15 Nondimanco... sé circospezione. quando si deve scegliere di tro.

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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento T 21.5

20 in su le parole loro:sul- in su le parole loro20, trovandosi nudo di altre preparazioni21, ruina. Perché le
le loro promesse di amicizia.
21 nudo... preparazioni: amicizie che si acquistono col prezzo22, e non con grandezza e nobilità di animo, 30
sprovvisto di altre difese. si meritano, ma elle non si hanno, e alli tempi non si possono spendere23; e li uo-
22 col prezzo: con dena-
ro.
mini hanno meno rispetto24 a offendere uno che si facci amare, che uno che si
23 le amicizie... spende- facci temere: perché lo amore è tenuto da uno vinculo di obligo, il quale, per es-
re: le amicizie che si acqui- sere gl’uomini tristi25, da ogni occasione di propria utilità è rotto, ma il timore è
stano col denaro (col prezzo)
si guadagnano (meritano,lati- tenuto da una paura di pena che non ti abbandona mai. 35
nismo), ma non sono un Debbe nondimanco el principe farsi temere in modo che, se non acquista lo
possesso sicuro (non si han-
no), e nel momento in cui amore, che fugga l’odio: perché e’ può molto bene stare insieme essere temuto e
servono (a’ tempi) non si può non odiato. Il che farà sempre, quando si astenga da la roba de’ sua cittadini e de’
fare affidamento su di esse sua sudditi e da le donne loro26. E quando pure gli bisognassi procedere contro al
(non si possono spendere).
24 rispetto: scrupolo. sangue27 di alcuno, farlo quando vi sia iustificazione conveniente e causa manife- 40
25 per essere... tristi: poi-
sta. Ma soprattutto astenersi da la roba di altri, perché li uomini sdimenticano più
ché gli uomini sono malva-
gi. presto la morte del padre che la perdita del patrimonio; di poi, le cagione del tòr-
26 quando... donne loro: re la roba non mancano mai, e sempre, colui che comincia a vivere per rapina,
quando non toccherà le
proprietà (la roba) e le donne truova cagione di occupare quello di altri: e per avverso contro al sangue sono più
dei suoi cittadini e dei suoi rare e mancono più presto28. 45
sudditi. Machiavelli qui in-
dica quale sia il limite tra il Ma quando el principe è con li eserciti e ha in governo moltitudine di soldati,
comportamento legittimo e allora al tutto è necessario non si curare del nome del crudele29: perché sanza
razionale, seppur crudele, di questo nome non si tenne mai esercito unito né disposto ad alcuna fazione30. In
un principe, e quello illegit-
timo e bestiale di un tiranno. tra le mirabili azioni di Annibale si connumera31 questa, che, avendo uno esercito
27 gli bisognassi... san-
grossissimo, misto di infinite generazioni di uomini, condotto a militare in terra 50
gue: fosse costretto ad agire
contro la famiglia. aliena32, non vi surgessi mai alcuna dissensione33, né in fra loro, né contro al prin-
28 e sempre... più presto: cipe, così nella cattiva come nella sua buona fortuna. Il che non possé nascere da
e il principe che incomincia
a vivere di rapina trova sem- altro che da quella sua inumana crudeltà: la quale, insieme con infinite sua virtù,
pre una valida ragione per lo fece sempre nel cospetto de’ sua soldati venerando e terribile34. E sanza quella,
impossessarsi (occupare) delle a fare quello effetto, l’altre sua virtù non bastavano: e li scrittori, in questo, poco 55
proprietà altrui; mentre, al
contrario (per adverso), le ra- considerati35, da l’una parte ammirano questa sua azione, da l’altra dannono36 la
gioni per eliminare qualcu- principale cagione di essa.
no sono più rare e si estin-
guono del tutto non appena E che sia vero che le altre sua virtù non sarebbono bastate, si può considerare in
il potere è consolidato. Scipione, rarissimo non solamente ne’ tempi sua ma in tutta la memoria delle co-
29 allora... crudele: allora
non bisogna in alcun modo se che si sanno, dal quale li eserciti sua in Ispagna si ribellorno37: il che non nac- 60
(al tutto è necessario) preoccu- que da altro che da la sua troppa pietà, la quale aveva data alli suoi soldati più li-
parsi della fama di crudele.
30 fazione: impresa d’ar-
cenza38 che alla disciplina militare non si conveniva. La qual cosa gli fu da Fabio
mi. Massimo in senato rimproverata e chiamato da lui corruttore della romana mili-
31 si connumera: si anno-
vera.
zia. E’ locrensi, essendo suti da uno legato di Scipione destrutti, non furono ven-
32 aliena: straniera. dicati né fu da lui la insolenzia di quello legato corretta, tutto nascendo da quella 65
33 dissensione: dissenso. sua natura facile39; talmente che, volendolo alcuno escusare in senato, disse come
34 venerando e terribile:
degno di assoluto rispetto e egli erano molti uomini40 che sapevano meglio non errare che correggere gli er-
capace di incutere soggezio- rori. La qual natura arebbe col tempo violato41 la fama e la gloria di Scipione, se
ne.
35 in questo, poco consi- egli avessi con essa perseverato nello imperio: ma, vivendo sotto il governo del se-
derati: poco accorti a questo nato, questa sua qualità dannosa non solum si nascose, ma gli fu a gloria. 70
proposito. Concludo adunque, tornando allo essere temuto e amato, che, amando li uo-
36 dannono: condanna-
no. mini a posta loro e temendo a posta del principe42, debbe uno principe savio fon-
37 dal quale... si rebellor-
darsi in su quello che è suo, non in su quello ch’è di altri; debbe solamente inge-
no: nel 206 a.C. gli eserciti di
Scipione l’Africano si ribel- gnarsi di fuggire l’odio, come è detto.
larono al suo comando; ma
la ragione non fu, come vor-
rebbe Machiavelli, che qui 38 licenza: libertà. era stato mandato per difen- ciò a causa di quella sua na- 42 amando... principe:
altera i fatti storici per avva- 39 E’ locrensi... facile: gli dere la città dai Cartaginesi), tura indulgente. siccome gli uomini amano a
lorare le proprie tesi, l’ecces- abitanti di Locri, essendo non furono da lui vendicati, 40 come... uomini: che loro piacimento, ma il loro
siva clemenza di Scipione, stati depredati da un luogo- né fu punita (corretta) l’inso- c’erano molti uomini. timore dipende dalla vo-
bensì la sua malattia. tenente di Scipione (il quale lenza di quel luogotenente;e 41 violato: macchiato. lontà del principe.

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Quattrocento e Cinquecento

Guida all’analisi
Utilità della crudeltà Il discorso in questo XVII riprende in pratica da dove lo avevamo lasciato due capitoli
prima (si vedano le ultime frasi del testo): qui Machiavelli infatti approfondisce subito il te-
ma dell’apparente negatività di un atto (ritenuto vizioso) che viceversa si converte nel tem-
po in una positività: nel cap. XV però aveva soprattutto fatto riferimento alla «perservazio-
ne» del principe, cioè alla sua personale salvezza, mentre qui allarga la considerazione all’in-
teresse generale dello stato e al benessere dei sudditi (almeno nel senso di un vivere pacifico
e ordinato). È ciò che, nell’ottica di Machiavelli, distingue il principe dal tiranno: il primo è
feroce per il bene comune, il secondo per il proprio interesse personale.
Ora Machiavelli ci spiega come un’azione crudele nell’immediato possa dimostrarsi pie-
tosa nel tempo proprio in rapporto all’interesse della collettività. Le uccisioni di un princi-
pe infatti «offendono uno particulare» e, magari con la paura, portano l’ordine; mentre i tu-
multi popolari e i disordini che nascono da una lotta senza quartiere fra diverse fazioni in-
controllate «sogliono offendere una universalità intera». Se dunque per garantire l’assetto
stabile e pacifico di uno stato è necessario commettere anche degli atti crudeli, questo vie-
ne accettato e giustificato da Machiavelli come politicamente utile. E a sostegno della tesi
egli adduce il noto esempio della pacificazione della Romagna da parte di Rimirro da Or-
co per ordine di Cesare Borgia, conclusosi nel modo terribile che conosciamo (cfr. cap. X).
La Romagna infatti – scriveva nel cap. VII, par. 7 – era «suta comandata da signori impo-
tenti, – e’ quali più presto avevano spogliati e’ loro sudditi che corretti, e dato loro materia
di disunione, non d’unione – tanto che quella provincia era tutta piena di latrocini, di bri-
ghe e d’ogni altra ragione di insolenzia»; l’intervento del Valentino era dunque stato fatto,
secondo Machiavelli, per «volerla ridurre pacifica e ubbidiente» e per «dargli buon gover-
no». E Rimirro da Orco «in poco tempo la ridusse pacifica e unita».
Paura, non odio Anche in questo capitolo poi, come nel XV, Machiavelli dimostra la preoccupazione rela-
tiva all’immagine pubblica del principe e ai suoi rapporti con i sudditi (ovvero con quella
che oggi chiamiamo opinione pubblica), in vista dell’acquisizione del consenso. Dopo aver
affermato che «ciascuno principe debbe desiderare di essere tenuto piatoso e non crudele» (e
si noti il solito verbo tenuto, che non esclude la simulazione della pietà) e dopo aver discus-
so la questione, un poco diversa, se sia meglio essere amati o temuti e aver concluso che
qualora non si possa essere e l’uno e l’altro (il che nell’ottica del consenso sarebbe l’ottimo),
«è molto più sicuro essere temuto che amato», Machiavelli infatti afferma che «debbe non-
dimanco el principe farsi temere in modo che, se non acquista lo amore, che fugga l’odio».
Anche in questo caso ciò che conta è essenzialmente l’utilità politica: la crudeltà, come altre
azioni ritenute non buone, deve essere usata con moderazione, in caso di necessità, per un
fine politicamente costruttivo e può spingersi sino al punto da non far degenerare la paura
(effetto positivo) in odio (effetto negativo), perché se la paura trattiene e genera un forzato
consenso, l’odio produce ribellione e può mettere in pericolo la sicurezza del principe e
dello stato. Su questo tema tornerà più diffusamente nel capitolo XIX.
La natura umana Ma ciò che soprattutto colpisce in questo capitolo – poiché date le premesse poste nei ca-
pitoli precedenti non c’è più da stupirsi degli spregiudicati precetti di comportamento pro-
posti da Machiavelli – è il radicale pessimismo che egli dimostra nei confronti della natura
umana. Infatti là dove fa riferimento ad essa nel solito modo (affermazioni apodittiche che
costituiscono argomenti a sostegno della tesi sovente esposta in forma di precetto) egli non
si limita a considerazioni generiche come alcune di quelle incontrate nei capitoli preceden-
ti, ma scende nello specifico affondando il bisturi in una materia cancrenosa: «perché degli
uomini si può dire questo, generalmente, che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimula-
tori, fuggitori de’ pericoli, cupidi del guadagno» e ancora sleali e irriconoscenti (nella buo-
na sorte «e’ sono tutti tua», nella cattiva «si rivoltono»), «tristi» (per cui non rispettano gli ob-
blighi nei confronti di un principe che si faccia amare, ma sono trattenuti dalla paura di uno
che si faccia temere), vilmente cupidi e biecamente egoisti, in quanto «sdimenticano più
presto la morte del padre che la perdita del patrimonio» (donde deriva che è per il principe
è più prudente ammazzare che «tòrre la roba»).
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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento T 21.5

Doc 21.4 La crudeltà dei principi secondo Bracciolini

Nel finale del dialogo Sull’infelicità dei principi, Poggio Bracciolini affronta la questione del-
la malvagità degli uomini e dei principi e in particolare si sofferma sulla crudeltà di questi
ultimi. La diversa impostazione dell’opera non esclude alcune consonanze con le pagine di
Machiavelli. In questo passo gli interlocutori sono Niccolò Niccoli, sostenitore della tesi
dell’infelicità dei principi, e Cosimo de’ Medici, che nella battuta precedente aveva enume-
rato alcuni principi «ottimi e giusti» e aveva sostenuto la felicità almeno di Augusto.
P. Bracciolini,
De infelicitate principum Al che Niccolò: «Tu parli dell’araba fenice, di cui non si ha notizia e che sparisce per in-
tere generazioni! Le storie antiche raccontano di pochi principi di questo tipo [cioè otti-
mi e giusti e quindi felici], e invece di numerosi i cui delitti e le cui scelleratezze scon-
quassarono la vita di moltissimi uomini e regni. Non ha alcun peso il fatto che non li si
possa dire tutti egualmente infelici, perché la virtù, se mai c’è stata, è stata comunque un
dono di pochi. E una sola rondine, come suol dirsi, non fa primavera. In ogni caso, se al-
cuni principi sono stati a stento sopportabili o anche, come voi vorreste, buoni, questo ac-
cade talmente di rado, che lo si può considerare un prodigio. Più spesso la terra ha gene-
rato uomini mostruosi che buoni principi. Non molto tempo fa nacque un bambino con
la testa di bue, un altro con la testa di gatto, un altro senza una mano, un altro ancora con
tantissime dita.Tutto ciò aborre dalla natura. Allo stesso modo, benché il potere sia per na-
tura malvagio, tuttavia di tanto in tanto si sono trovati alcuni principi che si sono un poco
discostati dalle norme della natura, e però più rari dei mostri e dei prodigi» [...]
Intervenne allora Cosimo: «È già da un po’ che volevo interromperti, poiché mi hai fat-
to ridere quando hai creduto di dire una cosa grandiosa e straordinaria affermando che i
principi buoni sono un prodigio. Bisogna ritenere un prodigio la bontà non più nei prin-
cipi che negli altri uomini! Il tuo amato Cicerone, nei libri Sulla divinazione, dice che, se
deve considerarsi contro natura tutto ciò che è rarissimo, allora un uomo per bene sarà più
prodigioso del parto di una mula. A tal punto, dunque, è raro trovare un uomo onesto. E se
Cicerone dice che un uomo per bene è un prodigio, cosa pensi tu che accada nel caso dei
principi, i quali sono allettati e sedotti da un maggior numero di occasioni di vizio rispet-
to ai cittadini privati e sono circondati da più piaceri del corpo, che sono i nemici delle
virtù? La virtù è rara in ogni condizione umana, se è vero che sono rare tutte le cose mi-
gliori. Perciò vediamo che la bontà non manca ai principi più che agli altri uomini».
Al che Niccolò: «Io non vado cercando il saggio stoico, che finora non è stato mai tro-
vato. Considero onesti quelli che vivono alla maniera di tutti gli uomini: in loro mi basta
che ci sia qualche virtù, anche imperfetta, o almeno l’apparenza e l’effigie adombrata di
quelle virtù che la convivenza civile impone. Questo, però, nei principi si ritrova talmente
di rado, che sembra di essere davanti a un prodigio quando se ne incontra uno buono. [...]
Uno dei primi istinti che la guida della natura ci infonde con la nascita e ci insegna – non
solo a noi, ma anche agli altri animali – è che nulla possiamo amare più dei figli. [...] Tut-
tavia la crudeltà sanguinaria e terribile dei re e dei principi, che sopravanza di gran lunga
anche la ferocia delle belve, ha spezzato, per bramosia di potere, i diritti più santi della na-
tura, i vincoli dell’amicizia e tutte le leggi della società. Perciò non è rimasto più nulla di
sicuro per i figli da parte dei padri, per il marito da parte della moglie e viceversa, per il
fratello da parte del fratello, per gli alleati, per gli amici, per i congiunti. Ne sono nate re-
ciproche stragi. [...]»

Laboratorio 1 Esamina ed esponi con parole tue il co- Principe con il passo del De infelicitate prin-
COMPRENSIONE rollario relativo alla crudeltà «con gli cipum di Poggio Bracciolini riportato qui
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE eserciti» e gli opposti esempi di Annibale Doc 21.4 . Per analizzarlo fai riferimento alle

e di Scipione. osservazioni su quest’opera fornite nel


2 Metti a confronto questo capitolo del profilo [R 21.1].

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Quattrocento e Cinquecento

T 21.6 Niccolò Machiavelli, Il Principe 1513


In che modo e’ principi abbino a mantenere la fede
N. Machiavelli Prosegue la disamina dei comportamenti che si addicono al principe: l’argomento è la
Opere, vol. I fede alla parola data. Il pessimismo di fondo circa la condizione umana viene ribadito
a c. di C.Vivanti, Einaudi- in termini se possibile ancora più amari, persino urtanti. Ma lo scandalo più insoppor-
Gallimard, Torino 1997
tabile discende ancora una volta dal rigore con cui Machiavelli giudica ogni comporta-
mento politico in base alla sua reale efficacia per il potere, predicando, in modo del tut-
to anticristiano, il relativismo della morale politica.

XVIII. QUOMODO FIDES A PRINCIPIBUS SIT SERVANDA

1 la fede: la parola data. Quanto sia laudabile in uno principe il mantenere la fede1 e vivere con inte-
2 integrità: lealtà. grità2 e non con astuzia, ciascuno lo intende: nondimanco si vede per esperienza,
3 aggirare e’ cervelli: in-
gannare le menti. ne’ nostri tempi quelli principi avere fatto gran cose, che della fede hanno tenuto
4 realtà: sincerità. Altre
poco conto e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli3 delli uomini: e
edizioni portano lealtà.
5 generazioni: modi. alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in su la realtà4. 5
6 suta: stata. Dovete adunque sapere come e’ sono dua generazioni5 di combattere: l’uno
7 copertamente: attra-
verso favole allegoriche. con le leggi, l’altro con la forza. Quel primo è proprio dello uomo; quel secondo,
8 Chirone centauro: es- delle bestie. Ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al se-
sere mitologico per metà condo: pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo.
uomo e per metà cavallo,
dotato dell’intelletto dell’u- Questa parte è suta6 insegnata alli principi copertamente7 da li antichi scrittori; e’ 10
no e della forza dell’altro, il quali scrivono come Achille e molti altri di quelli principi antichi furno dati a
centauro Chirone fu pre-
cettore di Achille,Teseo, Er- nutrire a Chirone centauro8, che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non
cole e Giasone. vuole dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che
9 non è durabile: non
produce effetti duraturi. bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura: e l’una sanza l’altra non
10 Sendo... lione: avendo è durabile9. 15
un principe, dunque, la ne-
cessità di sapere usare bene Sendo dunque necessitato uno principe sapere bene usare la bestia, debbe di
le qualità della bestia, tra le quelle pigliare la golpe e il lione10: perché el lione non si defende da’ lacci11, la
bestie da imitare deve sce- golpe non si defende da’ lupi; bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e
gliere la volpe e il leone.
11 lacci: trappole. lione a sbigottire12 e’ lupi: coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se
12 sbigottire: spaventare.
13 coloro... intendono: i
ne intendono13. Non può pertanto uno signore prudente, né debbe, osservare la 20

principi che reggono lo sta- fede quando tale osservanzia gli torni contro e che sono spente le cagioni che la
to con la sola forza non co- feciono promettere14. E se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sa-
noscono l’arte della politica.
14 quando... promettere: rebbe buono: ma perché e’ sono tristi15 e non la osserverebbono a te, tu etiam16
quando mantenere fede (ta- non l’hai a osservare a loro; né mai a uno principe mancorno cagioni legittime di
le osservanzia) a una promes-
sa gli sia dannoso (gli torni colorire la inosservanzia17. Di questo se ne potrebbe dare infiniti esempli moder- 25
contro) e quando siano estin- ni e mostrare quante pace, quante promisse sono state fatte irrite e vane18 per la19
te le condizioni che lo in- infidelità de’ principi: e quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capi-
dussero a promettere.
15 tristi: cattivi. tato20. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire ed essere gran simula-
16 tu etiam: anche tu.
17 mancorno... inosser-
tore e dissimulatore: e sono tanto semplici21 gli uomini, e tanto ubbediscono alle
vanzia: mancarono ragioni necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare. 30
apparentemente legittime Io non voglio delli esempli freschi22 tacerne uno. Alessandro sesto non fece mai
per dissimulare la violazione
della parola data. altro, non pensò mai ad altro che a ingannare uomini, e sempre trovò subietto23 da
18 irrite e vane: coppia si- poterlo fare: e non fu mai uomo che avessi maggiore efficacia in asseverare24, e
nonimica di origine giuridi-
ca per “senza valore” (il lat. ir- con maggiori iuramenti affermassi una cosa, che la osservassi meno; nondimeno
ritus vale“non ratificato”). sempre gli succederno gl’inganni ad votum25, perché conosceva bene questa par- 35
19 per la: dalla.
20 è meglio capitato: ha
te del mondo26.
avuto la meglio.
21 semplici: ingenui.
22 freschi: recenti. e non c’è mai stato alcuno una cosa. scirono secondo il suo desi- do: ovvero questo aspetto
23 subietto: occasione. che fosse più convincente di 25 gli succederono... ad derio. della natura umana.
24 e non fu... asseverare: lui nell’affermare con forza votum: gli inganni gli riu- 26 questa parte del mon-

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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento T 21.6

27 in fatto: in realtà. A uno principe adunque non è necessario avere in fatto27 tutte le soprascritte
28 piatoso: pietoso.
29 intero: integro, leale. qualità, ma è bene necessario parere di averle; anzi ardirò di dire questo: che,
30 ed essere: ed esserlo avendole e osservandole sempre, sono dannose, e, parendo di averle, sono utili; co-
veramente. me parere piatoso28, fedele, umano, intero29, religioso, ed essere30: ma stare in mo- 40
31 ma stare... il contra-
rio: ma è necessario essere do edificato con lo animo che, bisognando non essere, tu possa e sappia diventare
preparato in modo che, nel- il contrario31. E hassi a intendere32 questo, che uno principe e massime uno prin-
la necessità di non essere
pietoso, ecc., tu sappia com- cipe nuovo non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono chia-
portarti nel modo contra- mati buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla
rio.
32 hassi a intendere: bi- fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però33 bisogna 45
sogna capire. che egli abbia uno animo disposto a volgersi secondo che e’ venti della fortuna e
33 però: perciò.
34 non... necessitato:non la variazione delle cose gli comandano; e, come di sopra dissi, non partirsi dal be-
allontanarsi dal bene, quan- ne, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato34.
do è possibile, ma entrare Debbe adunque uno principe avere gran cura che non gli esca mai di bocca
nel male,in caso di necessità.
35 cinque qualità: cioè cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità35; e paia, a udirlo e veder- 50
pietà, fedeltà, umanità, inte- lo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione: e non è
grità, religione.
36 in universali: in gene- cosa più necessaria a parere di avere, che questa ultima qualità. E li uomini in uni-
re. versali36 iudicano più alli occhi che alle mani37; perché tocca a vedere a ognuno, a
37 più alli occhi... mani:
più dall’apparenza che dai sentire a pochi38: ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono39 quello che tu
fatti. se’; e quelli pochi non ardiscono opporsi alla opinione di molti che abbino la 55
38 tocca a vedere... a po-
chi: a tutti son dati occhi per maestà dello stato che gli difenda40; e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’
vedere, ma pochi toccano, principi, dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda al fine41.
verificano con mano. Facci42 dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi sempre
39 sentono: verificano.
40 e quelli pochi... gli di- fieno iudicati onorevoli e da ciascuno saranno laudati; perché el vulgo ne va pre-
fenda: e quei pochi che non so con quello che pare e con lo evento della cosa43: e nel mondo non è se non 60
sono ingannati non osano
opporsi all’opinione dei vulgo, e’ pochi non ci hanno luogo quando gli assai hanno dove appoggiarsi44. Al-
molti ingannati, i quali ab- cuno principe45 de’ presenti tempi, il quale non è bene nominare, non predica
biano a sostenerli la potenza
(maestà) dello stato. mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo: e l’una e l’altra,
41 dove non è... al fine: quando e’ l’avessi osservata, gli arebbe più volte tolto e la riputazione e lo stato.
dove non c’è tribunale (iudi-
zio) al quale appellarsi, si
giudicano gli uomini dall’e-
sito delle loro azioni. (ne va sempre preso) con le ap- si: e i pochi (coloro che non titudine del volgo (gli assai) 45 Alcuno principe: il so-
42 facci: faccia in modo. parenze e con il successo (lo giudicano dalle apparenze) ha un’autorità cui affidarsi. vrano spagnolo Ferdinando
43 il vulgo... della cosa: il evento) dell’azione. non possono nulla (non ci Si ribadisce il concetto il Cattolico.
volgo si conquista sempre 44 e’ pochi... appoggiar- hanno luogo) quando la mol- espresso poco sopra.

Guida all’analisi
La lealtà e l’umanità e le leggi come valori assoluti All’inizio del capitolo si replica una movenza logica del XV:
«quanto sia laudabile in uno principe il mantenere la fede... ciascuno lo intende; nondimanco si
vede per esperienza...». Machiavelli, insomma, mostra di accettare come un valore, ragionando
in astratto, la lealtà, l’osservanza dei patti (è laudabile), ma con sconcertante semplicità intro-
duce la constatazione che l’esperienza insegna che hanno avuto successo quei principi che
meno l’hanno rispettata. Anche l’introduzione al secondo paragrafo ci dice qualcosa di analo-
go: il modo di governare (ma la metafora del «combattere» illumina la crudezza dei rapporti
politici) più consono all’uomo è quello fondato sulle leggi. E anche questa è una netta dichia-
razione di valore, sempre considerando le cose in astratto. Tuttavia questo «molte volte non
basta» e dunque è necessario ricorrere anche al modo di combattere delle bestie (e questa è
una dichiarazione di disvalore). Più esattamente: «a uno principe è necessario sapere usare la
bestia e lo uomo». Si noti: non solo la bestia, ma «la bestia e lo uomo», «l’una e l’altra natura»
perché «l’una sanza l’altra non è durabile», come viene poi ribadito quando si adduce come
esempio l’antica allegoria del precettore di principi Chirone, centauro «mezzo bestia e mezzo
uomo». Dunque, quando è possibile, il principe dovrà preferire l’uomo e le leggi.
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Quattrocento e Cinquecento

Machiavelli non tratta del governare secondo la natura dell’uomo Il modo di governare secondo la natura
dell’uomo a Machiavelli qui non interessa, perché gli appare evidente e forse scontato, an-
che se molte cose ci sarebbero da precisare e insegnare, come del resto farà nei Discorsi. Al-
le sue spalle tutta la tradizione della riflessione politica, e in particolare quella umanistica,
aveva esaltato il modo di governare «proprio dello uomo». Machiavelli, che ha intrapreso
la strada impervia della «verità effettuale», sa che deve spiegare e giustificare ciò che di
scandaloso c’è nella sua dottrina. E dunque si volge a illustrare solo la parte della sua tesi
che richiede di essere argomentata, perché di questa, non dell’altra, debbono essere per-
suasi i benpensanti.
La necessità di usare la bestia e in particolare la volpe Il principe che non vuole ‘ruinare’ è dunque «neces-
sitato» usare anche «la bestia», e in particolare « debbe pigliare la golpe e il lione», l’una per
difendersi «da’ lacci», l’altro per «sbigottire e’ lupi». Con metafore di straordinaria efficacia
e potenza Machiavelli enuncia il precetto fondamentale di questo capitolo: accanto alle
leggi, il principe deve usare la forza e l’astuzia. Il solo «lione» non basta. Di nuovo Ma-
chiavelli di fronte a una biforcazione del ragionamento (prima tra uomo e bestia, ora tra
golpe e lione), mostra di voler trascurare la più scontata: circa l’uso della forza, in definiti-
va, ci poteva essere anche un più generale accordo, visto che le guerre (quasi sempre mo-
tivate dalla semplice volontà di potere e sopraffazione) erano all’ordine del giorno e am-
piamente accettate. Ma questo della volpe – astuzia, frode, tradimento – è per certi versi il
precetto più scandaloso e insieme decisivo del Principe. Così tutto il seguito del capitolo si
sviluppa nell’argomentazione della necessità dell’astuzia e della slealtà, dell’essere «gran si-
mulatore e dissimulatore». Il concetto è ribadito con enfasi nel finale: il principe «non de-
ve partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male necessitato» (si noti l’insistenza sul
concetto di necessità) e invece deve saper simulare il più possibile tutte le qualità ‘tenute
buone’, cioè quell’immagine di principe moralmente irreprensibile che tutta la trattatistica
precedente aveva posto come obiettivo realizzabile.
Il vulgo credulo: una lezione sui mezzi di comunicazione di massa Drammatica e al tempo stesso realistica
in modo stupefacente è infine la chiarificazione delle ragioni concrete, pragmatiche, per
cui la simulazione e la dissimulazione hanno grandi probabilità di avere successo: in un’e-
poca in cui il popolo non vede e non sa nulla di quello che accade nel palazzo, pochi so-
no al corrente della realtà dei fatti e dei misfatti dei principi; e quelli che sanno «non ar-
discono opporsi alla opinione» di quanti sostengono le verità ufficiali, protetti dalla ter-
ribile maestà del principe. Così la pubblica opinione ammaestrata dalla propaganda del
principe ha la meglio sui pochi che veramente possono toccare con mano. Se dunque il
principe si manterrà saldo al potere, i mezzi saranno da tutti giudicati onorevoli. Ma-
chiavelli ci dà insomma una cinica, se vogliamo, ma efficace e modernissima lezione sull’
uso dei mezzi di comunicazione di massa.

Laboratorio 1 Spiega, se necessario, e commenta nel pere entrare nel male, necessitato» (par. 5);
COMPRENSIONE modo più esauriente possibile i seguenti – «Facci dunque uno principe di vincere
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE enunciati nei quali sono comprese alcune e mantenere lo stato: e’ mezzi sempre fie-
parole o concetti-chiave (soffermati in no iudicati onorevoli e da ciascuno saran-
particolare su quelle evidenziate) per la no lodati» (par. 7)
comprensione delle teorie di Machiavelli: 2 Individua nel testo e commenta le me-
– «si vede per esperienza» (par. 1); tafore che ti paiano significative per ra-
– «a uno principe è necessario sapere bene gioni concettuali o stilistiche.
usare la bestia e lo uomo» (par. 2); 3 Individua nel testo gli enunciati che co-
– «E se li uomini fussino tutti buoni, questo stituiscono le tesi principali dell’argo-
precetto non sarebbe buono; ma perché mentazione di Machiavelli e in particola-
e’ sono tristi e non la osserverebbono a re quelli in forma di esplicito precetto di
te, tu etiam non l’hai a osservare a loro» comportamento.
(par. 3); 4 Rendi in un italiano attuale almeno uno
– «non partirsi dal bene, potendo, ma sa dei seguenti paragrafi: 2, 3, 5, 6.

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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento T 21.7

T 21.7 Niccolò Machiavelli, Il Principe 1513


Quanto possa la fortuna nelle cose umane
e in che modo se li abbia a resistere [XXV]
N. Machiavelli Il penultimo capitolo del Principe è dedicato al rapporto tra virtù e fortuna, e più in par-
Opere, vol. I ticolare a definire quale delle due risulti decisiva nel determinare l’esito delle azioni
a c. di C.Vivanti, Einaudi-
Gallimard, Torino 1997 umane. Alla fine di uno lungo dibattito che ha visto ora propendere per la fortuna ora
per la virtù quale arbitra delle azioni umane, Machiavelli sembra indeciso: ora formula
un verdetto di parità tra le due contendenti, ora sembra quasi dare la palma alla fortuna,
ma da ultimo, non sapendosi rassegnare al fatalismo, con un improvviso scarto logico (e
con una vivida metafora) inverte quasi il giudizio e invita il principe ad essere audace e
impetuoso per «battere» la fortuna e far prevalere la propria volontà sugli eventi.

XXV. QUANTUM FORTUNA IN REBUS HUMANIS POSSIT


ET QUOMODO ILLI SIT OCCURRENDUM

E’ non mi è incognito come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose
del mondo sieno in modo governate, da la fortuna e da Dio, che li uomini con la
prudenza loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno1; e
per questo potrebbono iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose, ma la-
sciarsi governare alla sorte2. Questa opinione è suta3 più creduta ne’ nostri tempi 5
per le variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì, fuora di
ogni umana coniettura4. A che pensando io qualche volta, mi sono in qualche
parte inclinato nella opinione loro5. Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio
non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà del-
le azioni nostre, ma che etiam lei ne6 lasci governare l’altra metà, o presso7, a noi. 10
E assimiglio quella8 a uno di questi fiumi rovinosi che, quando si adirano, allagano
e’ piani, rovinano li albori e li edifizi, lievano da questa parte terreno, pongono da
quella altra9: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede all’impeto loro sanza po-
tervi in alcuna parte ostare10. E, benché sieno così fatti, non resta però che gli uo-
mini, quando sono tempi queti, non vi potessino fare provedimento e con ripari 15
e con argini11: in modo che, crescendo poi, o eglino andrebbono per uno canale o
l’impeto loro non sarebbe né sì dannoso né sì licenzioso12. Similmente intervie-
ne13 della fortuna, la quale dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a re-
sisterle: e quivi volta e’ sua impeti, dove la sa che non sono fatti gli argini né e’ ri-
pari a tenerla14. E se voi considerrete la Italia, che è la sedia15 di queste variazioni 20
e quella che ha dato loro il moto16, vedrete essere una campagna sanza argini e
sanza alcuno riparo: che, s’ella fussi riparata da conveniente17 virtù, come è la
Magna18, la Spagna e la Francia, o questa piena non arebbe fatto le variazioni

1 molti... rimedio alcu- del mondo, ma che conven- di cedere all’opinione dei fa- nosi) siano fatti così, ciò non 15 sedia: sede.
no: molti hanno creduto e ga piuttosto rimettersi nelle talisti. significa che gli uomini, in 16 quella che... moto: i
ancora credono che le cose mani del destino. 6 ne: si riferisce alle azio- tempo di quiete, non possa- principi italiani hanno dato
del mondo siano governate 3 suta: stata. ni nostre. no premunirsi con ripari e l’avvio (il moto) agli sconvol-
dalla sorte e da Dio, e che 4 fuora... coniettura: al 7 o presso: o quasi. con argini. gimenti che hanno portato
pertanto gli uomini col loro di là di ogni umana immagi- 8 quella: la fortuna. 12 licenzioso: sfrenato. alla rovina d’Italia chiaman-
senno non possano cam- nazione. Machiavelli si rife- 9 lievano... altra: tolgo- 13 interviene: accade. do CarloVIII.
biarle, anzi non possano in- risce alla ininterrotta catena no terreno da una parte e lo 14 la quale... a tenerla: la 17 conveniente: propor-
tervenire in alcun modo nel di guerre e rivolgimenti po- mettono da un’altra;modifi- quale manifesta la sua poten- zionata alla piena che deve
loro corso. litici che seguirono alla di- cano insomma l’ambiente. za dove non ci sia umana fronteggiare.
2 e per questo... sorte: e scesa di Carlo VIII in Italia 10 senza... ostare: senza virtù predisposta (ordinata) 18 la Magna: la Germania.
per questa ragione gli uomi- nel 1494. poter contrastare in alcun ad opporvisi; e dirige i suoi
ni potrebbero giudicare non 5 Al che... opinione lo- modo il loro impeto. assalti là dove sa che non so-
essere necessario affaticarsi ro: Machiavelli confessa di 11 E, benché... argini: e no stati predisposti gli argini
(insudare) troppo nelle cose essere stato lui pure tentato benché (questi fiumi rovi- e i ripari per contenerla.

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Quattrocento e Cinquecento

grande19 che la ha, o la non ci sarebbe venuta. E questo voglio basti aver detto,
quanto allo opporsi alla fortuna, in universali20. 25
Ma restringendomi più a’ particulari, dico come si vede oggi questo principe
felicitare21 e domani ruinare, sanza avergli veduto mutare natura o qualità alcuna;
il che credo che nasca, prima, da le cagioni che si sono lungamente per lo addre-
to22 discorse23: cioè che quel principe, che si appoggia tutto in su la fortuna, rovi-
na come quella varia24. Credo ancora che sia felice quello che riscontra il modo 30
del procedere suo con la qualità de’ tempi: e similmente sia infelice quello che
con il procedere suo si discordano e’ tempi25. Perché si vede gli uomini, nelle co-
se che gli conducono al fine quale ciascuno ha innanzi, cioè gloria e ricchezze,
procedervi variamente26: l’uno con rispetto27, l’altro con impeto; l’uno per vio-
lenzia, l’altro con arte28; l’uno per pazienza, l’altro col suo contrario; e ciascuno 35
con questi diversi modi vi può pervenire. E vedesi ancora dua respettivi, l’uno
pervenire al suo disegno, l’altro no; e similmente dua equalmente felicitare con
dua diversi studi29, sendo30 l’uno rispettivo e l’altro impetuoso: il che non nasce da
altro, se non da la qualità de’ tempi che si conformano, o no, col procedere loro.
Di qui nasce quello ho detto: che dua, diversamente operando, sortiscono el me- 40
desimo effetto, e dua equalmente operando, l’uno si conduce al suo fine e l’altro
no. Da questo ancora depende31 la variazione del bene32; perché se uno, che si go-
verna con rispetti e pazienza, e’ tempi e le cose girano in modo che il governo
suo sia buono, e’ viene felicitando33, ma se e’ tempi e le cose si mutano, rovina,
perché e’ non muta modo di procedere. Né si truova uomo sì prudente che si 45
sappia accomodare a questo: sì perché non si può deviare da quello a che la natu-
ra lo inclina, sì etiam perché, avendo sempre uno prosperato camminando per una
via, non si può persuadere che sia bene partirsi da quella34. E però35 l’uomo re-
spettivo, quando e’ gli è tempo di venire allo impeto, non lo sa fare: donde e’ rovi-
na; che se si mutassi natura con e’ tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna36. 50
Papa Iulio II procedé in ogni sua azione impetuosamente, e trovò tanto e’ tem-
pi e le cose conforme a quello suo modo di procedere che sempre sortì felice fi-
ne37. Considerate la prima impresa ch’e’ fe’ di Bologna, vivendo ancora messer
Giovanni Bentivogli38. Viniziani non se ne contentavano; el re di Spagna, quel
medesimo39; con Francia aveva ragionamenti40 di tale impresa. E lui nondimanco 55
con la sua ferocità41 e impeto si mosse personalmente a quella espedizione. La
qual mossa fece stare sospesi e fermi Spagna e viniziani, quegli per paura e quel-
l’altro42 per il desiderio aveva di recuperare tutto el regno di Napoli; e da l’altro
canto si tirò dietro il re di Francia perché, vedutolo quel re mosso e desiderando

19 le variazioni grande: i presenti (la qualità de’ tempi) astuzia. uno... e’ tempi e le cose gira- so vale “esito”.
grandi sconvolgimenti poli- e che viceversa non abbia 29 equalmente... studi: no..., e’ viene felicitando». 37 sortì felice fine: ebbe
tici e militari. successo colui il cui modo avere egual successo pur 334 Né si truova... da successo.
20 in universali: in gene- procedere è inadatto ai avendo diverse inclinazio- quella: e non esiste alcuno 38 la prima impresa...
rale. tempi. Si noti l’anacoluto: ni. che sia tanto savio da saper- Bentivogli: nel 1506 Giulio
21 felicitare: prosperare. «sia infelice quello che con il 30 sendo: essendo. si comportare in questo II conquistò Bologna, di
22 per lo addreto: prece- procedere suo si discordano 31 ancora depende: di- modo (accomodare a questo): cui era signore il Bentivo-
dentemente. e’ tempi». pende anche. in parte perché l’uomo non gli.
23 discorse: discusse, esa- 26 Perché... variamente: 32 del bene: della prospe- può deviare dalla propria 39 Viniziani... quel me-
minate. perché vediamo che gli uo- rità del principe. inclinazione naturale; in desimo: i Veneziani non
24 come quella varia:non mini procedono in modi 33 perché se uno... felici- parte anche (si etiam) per- l’approvavano, e così nem-
appena la fortuna cambia. diversi (variamente) nelle tando: perché uno che si ché, avendo sempre pro- meno il re di Spagna.
25 Credo... e’ tempi: Cre- azioni che li conducono ai comporta in modo cauto e sperato seguendo una certa 40 ragionamenti: accor-
do inoltre che abbia succes- fini che essi si prefiggono paziente ha successo se in- strada, non sa convincersi a di.
so (sia felice) colui che ade- (che ciascuno ha innanzi), corre in tempi e situazioni lasciarla in favore di un’al- 41 ferocità: audacia.
gua (riscontra) il proprio mo- cioè la gloria e la ricchezza. adatti al suo modo di com- tra. 42 quell’altro: il re di
do di agire alle condizioni 27 rispetto: cautela. portarsi. Si noti di nuovo 35 però: perciò. Spagna.
storiche di volta in volta 28 arte: intelligenza, l’anacoluto: «perché se 36 fortuna: in questo ca-

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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento T 21.7

farselo amico per abbassare e’ viniziani, iudicò non poterli negare gli eserciti sua 60
sanza iniuriarlo manifestamente43. Condusse adunque Iulio con la sua mossa im-
petuosa quello che mai altro pontefice, con tutta la umana prudenza, arebbe con-
dotto. Perché, se egli aspettava di partirsi da Roma con le conclusioni ferme44 e
tutte le cose ordinate, come qualunque altro pontefice arebbe fatto, mai gli riusci-
va: perché il re di Francia arebbe avuto mille scuse e li altri li arebbono messo 65
mille paure. Io voglio lasciare stare le altre sua azioni, che tutte sono state simili e
tutte gli sono successe bene45: e la brevità della vita46 non li ha lasciato sentire47 il
contrario; perché, se fussino sopravvenuti tempi che fussi bisognato procedere
con respetti, ne seguiva la sua rovina: né mai arebbe deviato da quegli modi alli
quali la natura lo inclinava. 70
Concludo adunque che, variando la fortuna e’ tempi e stando li uomini ne’ lo-
ro modi ostinati48, sono felici mentre concordano insieme49 e, come e’ discordano,
infelici. Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo:
perché la fortuna è donna ed è necessario, volendola tenere sotto50, batterla e ur-
tarla51. E si vede che la si lascia più vincere da questi52, che da quegli che fredda- 75
mente procedono: e però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono
meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano.

43 perché... manifesta- potergli negare le sue trup- ne: hanno avuto successo. 49 mentre... insieme: energicamente.
mente: perché, avendo vi- pe senza con ciò offenderlo 46 la brevità della vita: si mentre le circostanze (for- 52 questi: gli impetuosi
sto che Giulio II aveva in- (iniurarlo) e inimicarselo. intende, la brevità del suo tuna) e i temperamenti (mo- che la battono e la urtano.
cominciato l’impresa e de- 44 con le conclusioni pontificato (1503-1513). di) concordano fra loro.
siderando farselo alleato ferme: con gli accordi con- 47 sentire: sperimentare. 50 tenere sotto: domi-
per ridurre la potenza dei clusi e stabiliti. 48 ostinati: va riferito a narla.
Veneziani, giudicò di non 45 gli sono successe be- uomini. 51 urtarla: contrastarla

Guida all’analisi
La fortuna può essere contrastata L’uomo di Machiavelli può ancora considerarsi faber fortunae suae? Il quesito
non ha una risposta semplice. Da principio Machiavelli sembra addirittura aver dimenticato
la recente stagione umanistica che più di ogni altra aveva affermato la possibilità dell’uomo
di realizzare in piena libertà i suoi scopi e di orientare il corso della storia con la propria in-
telligenza, industria e volontà. Egli sembra guardare all’idea cristiana di una fortuna ministra
imponderabile e inconstrastabile della volontà di Dio e anche alla stretta attualità quando la
devastazione prodotta dalle guerre d’Italia ha indotto molti al pessimismo e al fatalismo. Egli
stesso dichiara di esser stato talora incline a condividere tale fatalismo.
Ma ecco un primo scarto, segnalato da una congiunzione avversativa a lui cara: «Nondi-
manco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento...». L’agonismo tipico della personalità
di Machiavelli e forse il lascito della cultura umanistica lo inducono a riformulare il giudi-
zio: alla fortuna viene assegnato l’arbitrio sulla «metà delle azioni nostre», mentre l’altra metà
è assegnata all’uomo. La fortuna viene comparata attraverso la similitudine del fiume rovi-
noso che porta distruzione e morte, alla «fatalità cieca delle grandi forze della natura» (Cha-
bod); ma l’immagine è introdotta per affermare la possibilità dell’uomo di attenuarne gli ef-
fetti, con la previdenza e l’industria: per evitare che i fiumi nei momenti di piena portino la
rovina, si possono predisporre argini e canali di deflusso; così per evitare i disastri delle in-
vasioni straniere, l’Italia avrebbe potuto predisporre alleanze, strategie, eserciti, riforme poli-
tiche e altro ancora. Pare insomma che Machiavelli sia pur di poco inclini ora a favore del-
la virtù dell’uomo.

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Quattrocento e Cinquecento

L’uomo non sa adattarsi ai tempi Ma quando riesamina il problema mettendo a fuoco il destino di un singolo
principe, Machiavelli pare di nuovo inclinare al pessimismo. L’articolato ragionamento sul
variare dei tempi e sugli effetti che questi hanno sull’agire dell’uomo, date le sue inclinazio-
ni naturali, approda infatti alla mesta conclusione che l’uomo, per avere successo, dovrebbe
mutare non solo le sue strategie ma anche il suo temperamento per assecondare la mutevo-
lezza dei tempi (cioè ancora della fortuna), ma che questo è pressoché impossibile. Qui agi-
sce soprattutto il profondo pessimismo di Machiavelli sulla natura umana: e se talora questo
si traduce nell’affermazione della malvagità umana, qui si traduce nella constatazione della
mancanza della duttilità necessaria ad assecondare i tempi. Chi nasce impetuoso rimane ta-
le anche quando sarebbe più opportuno essere respettivo e viceversa. Ci aspetteremmo ora
una formale dichiarazione della superiorità della fortuna. E invece, per il momento, niente.
Giulio II, un impetuoso che ebbe favorevoli i tempi Ciò che segue è l’esempio di papa Giulio II, che sembra
avvalorare il precedente ragionamento: egli fu sempre impetuoso ed ebbe sempre successo;
ciò è dipeso dalla qualità dei tempi che richiedevano l’impeto e dalla brevità della sua vita,
che non gli ha consentito di andare incontro a tempi differenti che avrebbero determinato
la sua rovina. La conclusione è perentoria e sembra non lasciare scampo: di nuovo ci atten-
deremmo una correzione del principio generale in favore del potere della fortuna.
Lo scarto metaforico: la fortuna è donna... Quando invece Machiavelli tira le somme eccolo di nuovo sor-
prenderci con una conclusione inattesa. È il secondo e più cospicuo scarto logico, qui un
vero e proprio scatto volontaristico di chi non sa rassegnarsi al fatalismo cui il ragionamen-
to pareva averlo condotto; ed è la seconda similitudine, che sposta il discorso dal piano ra-
zionale a quello irrazionale, puramente metaforico: «la fortuna è donna ed è necessario, vo-
lendola tenere sotto, batterla e urtarla»; quindi, stando così le cose, è meglio essere impetuo-
si, perché la fortuna, «come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più fe-
roci e con più audacia la comandano». A parte ogni considerazione sul merito della metafo-
ra, che può anche urtare la nostra sensibilità, ciò che conta è che Machiavelli con questo
cortocircuito logico, fa balenare una soluzione ottimistica, una via per restituire all’uomo la
sua chance di poter governare il proprio destino e il corso della storia. Ma quella della fortu-
na-donna, pur essendo un’immagine di potente plasticità, rimane un’immagine (Chabod),
che ci dice dove la volontà spingeva Machiavelli, non dove lo conduceva la ragione.

Laboratorio 1 Ripercorri per grandi linee e sulla base (Inferno VII), Boccaccio (ad es. Nastagio
COMPRENSIONE degli autori e dei testi che ti sono noti lo degli Onesti), l’Umanesimo (ad es. L. B.
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE sviluppo del concetto di fortuna (in rap- Alberti o Pico della Mirandola), Machia-
porto alla virtù dell’uomo) dal Medioevo velli. Puoi estendere l’analisi anche a
a Machiavelli: per individuare alcuni sno- Guicciardini [R T 21.11 ] e Ariosto (ad
di salienti puoi fare riferimento a Dante esempio R T 24.3-4 ).
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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento T 21.7

Doc 21.5 Il concetto di virtù in Machiavelli e Guicciardini

In un suo importante saggio, in cui situa il pensiero di Machiavelli e Guicciardini nel


contesto storico-politico della Firenze del tempo, lo storico americano Felix Gilbert de-
dica alcune osservazioni sul concetto di virtù in Machiavelli, che possono aiutarci a me-
glio intendere questo capitolo del Principe e la sua scelta di concedere una possibilità in
più di sconfiggere la fortuna all’uomo «impetuoso», ovvero «ispirato da una volontà ri-
soluta e tenace».
F. Gilbert, Nell’ambito della situazione politica in cui viveva e scriveva, Machiavelli era un
Machiavelli e Guicciardini,
Einaudi, Torino 1994 fautore del Consiglio maggiore. Come Soderini, che per controbattere gli aristocrati-
ci aveva operato per mantenere il Consiglio nella forma originaria e nelle funzioni
stabilite, Machiavelli insisteva sull’utilità e sulla necessità di questa istituzione. Anche
dopo il 1512 egli continuò a esser convinto che gli ordinamenti istituzionali del 1494
fossero essenzialmente buoni; e si trovò quindi a dover spiegare perché un regime, che
era l’incarnazione di principî giusti, avesse fatto fallimento e fosse caduto. Nel tenta-
tivo di risolvere questo problema, giunse alla conclusione che la prosperità di una so-
cietà politica dipende meno dalle istituzioni che dallo spirito che sta dietro ad esse.
Per esprimere questa idea egli usa la parola «virtù». Nei suoi scritti la parola ha un si-
gnificato molteplice; sostanzialmente essa era l’italianizzazione del latino «virtus» e
denotava la qualità fondamentale che permette a un uomo di compiere azioni e ope-
re grandi. Nel mondo antico la «virtus» di un uomo era messa in relazione con la
«fortuna»; la «virtus» era una qualità innata, opposta alle circostanze esterne o casuali.
La «virtù», così intesa, non era fra quelle che il cristianesimo richiedeva agli uomini
buoni, né il termine compendiava tutte le virtù cristiane; esso designava piuttosto la
forza e il vigore da cui scaturivano tutte le azioni umane. Machiavelli nei suoi scritti
usa questo concetto per rispecchiare l’idea, che egli ha in comune con i contempo-
ranei, che il successo politico non dipende dalla giustezza d’una causa o dall’uso del-
l’intelligenza, e che la vittoria può arridere «contro ogni ragione» a chi è ispirato da
una volontà risoluta e tenace o da una qualche indefinibile forza interiore.
La «virtù» è requisito essenziale per il comando. Ogni capo, sia di un esercito, sia di
uno stato, ha bisogno della virtù. Ma secondo Machiavelli la virtù può essere possedu-
ta da un corpo collettivo oltre che da un individuo: un esercito, per esempio, deve ave-
re virtù. Ad applicare il concetto di virtù ai corpi collettivi in generale Machiavelli fu
spinto senza dubbio dalla convinzione che il valore militare è condizione del successo
militare. Ma il valore di un esercito non è secondo Machiavelli un dono naturale; è
piuttosto il risultato dell’addestramento e della disciplina, a cui debbono contribuire
l’educazione, la religione e l’amministrazione della giustizia. La virtù militare pertanto
riflette uno spirito permeante tutte le istituzioni di una società politica, ed è un aspet-
to di quella più generale virtù che si ritrova nelle società bene organizzate.
Il concetto machiavelliano di virtù postula l’esistenza di uno stretto nesso fra le isti-
tuzioni di una società politica. Esso inoltre, nel suo significato più ampio, implica che
certi elementi fondamentali di forza e di vitalità debbono essere presenti in ogni so-
cietà bene organizzata, quale che sia la sua particolare forma di governo. Talune for-
me di governo – nel giudizio di Machiavelli, il governo popolare – possono essere su-
periori ad altre: ma nessuna può funzionare senza virtù. Certi particolari del concet-
to machiavelliano di virtù possono sembrare bizzarri o contraddittori, ma esso fu
grandemente fecondo in quanto conteneva il suggerimento che un elemento spiri-
tuale pervade tutti i membri e le istituzioni di ogni società bene organizzata, colle-
gandoli in una unità dinamica che è qualcosa più della somma delle parti compo-
nenti. Distinguendo la politica dagli altri interessi umani, Machiavelli diede un con-
tributo alla genesi dell’idea moderna dello stato; il suo concetto di virtù ne costitui-
sce un altro.

717 © Casa Editrice Principato


Quattrocento e Cinquecento

T 21.8 Niccolò Machiavelli, Il Principe 1513


Esortazione a pigliare la Italia e liberarla
dalle mani de’ barbari [XXVI]
N. Machiavelli Il Principe si conclude con l’appassionata esortazione a Lorenzo de’ Medici a compiere
Opere, vol. I l’impresa in cui Cesare Borgia aveva fallito: ossia diventare il «principe nuovo» in grado
a c. di C.Vivanti, Einaudi- di costituire un forte stato territoriale italiano e di ricacciare gli stranieri al di là delle
Gallimard, Torino 1997
Alpi. Ciò che da sempre ha sorpreso i lettori è l’intenso pathos oratorio di queste pagi-
ne in cui Machiavelli pare quasi improvvisamente dimenticare il crudo realismo e il cu-
po pessimismo delle sue precedenti analisi. Tuttavia, come vedremo, ci sono anche ele-
menti di sostanziale coerenza con l’impianto argomentativo del Principe.

XXVI. EXHORTATIO AD CAPESSENDAM ITALIAM IN LIBERTATEMQUE


A BARBARIS VINDICANDAM

Considerato adunque tutte le cose di sopra discorse, e pensando meco medesi-


mo se al presente in Italia correvano tempi da onorare uno nuovo principe1, e se 5
ci era materia che dessi occasione a uno prudente e virtuoso d’introdurvi forma
che facessi onore a lui e bene alla università delli uomini di quella2, mi pare con-
corrino tante cose in benefizio di uno principe nuovo, che io non so qual mai
tempo fussi più atto a questo3. E se, come io dissi4, era necessario, volendo vedere5
la virtù di Moisè, che il populo d’Isdrael fussi stiavo6 in Egitto: e a conoscere7 la 10
grandezza dello animo di Ciro, ch’e’ persi fussino oppressati da’ medi; e la eccel-
lenzia di Teseo, che li ateniesi fussino dispersi; così al presente, volendo conoscere
la virtù di uno spirito italiano8, era necessario che la Italia si riducessi ne’ termini
presenti9, e che la fussi più stiava che li ebrei, più serva ch’e’ persi, più dispersa10
1 se... principe: pensan- che gli ateniesi: sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa11, e avessi 15
do tra me e me se oggi in sopportato d’ogni sorte ruina.
Italia i tempi fossero propizi
per far prosperare (onorare) E benché insino a qui si sia mostro12 qualche spiraculo13 in qualcuno, da pote-
un principe nuovo. re iudicare ch’e’ fussi ordinato da Dio per sua redenzione14, tamen15 si è visto co-
2 e se ci era... di quella:
e se ci fossero le condizioni me di poi, nel più alto corso16 delle azioni sua, è stato da la fortuna reprobato17. In
idonee ad essere plasmate modo che, rimasa come sanza vita, aspetta quale possa essere quello che sani le sua 20
da un principe accorto ed ferite e ponga fine a’ sacchi di Lombardia, alle taglie del Reame e di Toscana18, e
energico in modo tale che
costui ne ricevesse onore e la guarisca da quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite19.Vedesi20 come la
il popolo d’Italia (di quella) priega Iddio che li mandi qualcuno che la redima21 da queste crudeltà e insolen-
ne ricevesse beneficio.
3 mi pare... questo: mi zie22 barbare.Vedesi ancora tutta pronta e disposta a seguire una bandiera, pur che
sembra che vi siano tanti ci sia uno che la pigli23. Né ci si vede al presente in quale lei possa più sperare che 25
presupposti che insieme
concorrano in favore di un nella illustre Casa vostra24, la quale con la sua fortuna e virtù, favorita da Dio e da
principe nuovo, che non so la Chiesa, della quale è ora principe25, possa farsi capo di questa redenzione. Il che
se mai ci sia stato momento
storico a ciò più propizio. non fia molto difficile, se vi recherete innanzi le azioni e vita de’ sopra nominati26;
4 come io dissi: nel ca-
pitoloVI.
5 volendo vedere: affin- mente da chi la depreda; in 16 nel più alto corso: nel capitolo Machiavelli innal- vede in questo momento in
ché si potesse rivelare. questo caso si tratta dei de- momento culminante. za il tono generale del suo quale famiglia principesca
6 stiavo: schiavo. vastanti eserciti francesi, 17 reprobato: respinto. dettato, ricorrendo con (casa) l’Italia (lei) possa spe-
7 a conoscere: affinché svizzeri e spagnoli. 18 a’ sacchi...Toscana: ai particolare intensità a co- rare più che nella vostra.
si potesse conoscere. 12 mostro: mostrato. saccheggi (sacchi) compiuti struzioni retoriche elabo- 25 principe: Giovanni
8 spirito italiano: è pro- 13 spiraculo: indizio, nell’Italia settentrionale e rate e patetiche. de’ Medici era stato eletto
babile che Machiavelli allu- barlume. ai tributi (taglie) imposti nel 21 la redima: la riscatti. papa (principe della Chiesa,
da alValentino. 14 da potere... redenzio- Regno di Napoli e in To- 22 insolenzie: prepoten- appunto) col nome di Leo-
9 si riducessi... presen- ne: dal quale si potesse giu- scana. ze. ne X nel 1513.
ti: si riducesse nella condi- dicare che costui fosse 19 piaghe... infistolite: 23 pur... pigli: soltanto 26 se vi recherete... so-
zione in cui versa al presen- mandato da Dio per la sal- ferite ormai da tanto tem- che vi sia qualcuno che im- pra nominati: se prendere-
te. vezza dell’Italia. Continua po degenerate in fistole in- pugni questa bandiera e te a modello (recherete in-
10 dispersa: frazionata. l’allusione a Cesare Borgia. fette. prenda il comando. nanzi) le azioni e la vita dei
11 corsa: percorsa libera- 15 tamen: tuttavia. 20 Vedesi... : in questo 24 Né... Casa vostra: né si personaggi di cui si è detto.

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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento T 21.8

e benché quelli uomini sieno rari e maravigliosi, nondimeno furno uomini, ed


ebbe ciascuno di loro minore occasione che la presente perché la impresa loro 30
non fu più iusta di questa, né più facile, né fu Dio più amico loro che a voi. Qui è
iustizia grande: iustum enim est bellum quibus necessarium et pia arma ubi nulla
nisi in armis spes est27. Qui è disposizione grandissima28: né può essere, dove è
grande disposizione, grande difficultà, pure che quella pigli delli ordini di coloro
che io ho proposti per mira29. Oltre a di questo, qui si veggono estraordinari san- 35
za esemplo, condotti da Dio30: el mare si è aperto; una nube vi ha scorto il cam-
mino; la pietra ha versato acque; qui è piovuto la manna31. Ogni cosa è concorsa
nella vostra grandezza. El rimanente dovete fare voi: Dio non vuole fare ogni co-
sa, per non ci tòrre32 el libero arbitrio e parte di quella gloria che tocca a noi.
E non è maraviglia33 se alcuno de’ prenominati italiani34 non ha possuto fare 40
quello che si può sperare facci la illustre Casa vostra, e se, in tante revoluzioni35 di
Italia e in tanti maneggi di guerra, e’ pare sempre che in Italia la virtù militare sia
spenta; perché questo nasce che gli ordini antichi di quella non erono buoni36, e
non ci è suto37 alcuno che abbia saputo trovare de’ nuovi. E veruna38 cosa fa tan-
to onore a uno uomo che di nuovo surga, quanto fa le nuove legge ed e’ nuovi 45
ordini trovati da lui: queste cose, quando sono bene fondate e abbino in loro
grandezza, lo fanno reverendo e mirabile39. E in Italia non manca materia da in-
trodurvi ogni forma: qui è virtù grande nelle membra, quando la non mancassi
ne’ capi40. Specchiatevi ne’ duelli e ne’ congressi de’ pochi41, quanto gli italiani
sieno superiori con le forze, con la destrezza, con lo ingegno; ma come e’ si viene 50
alli eserciti, non compariscono42. E tutto procede da la debolezza de’ capi: perché
quegli che sanno non sono ubbiditi e a ciascuno pare sapere, non ci essendo insi-
no a qui suto alcuno che si sia rilevare tanto, e per virtù e per fortuna, che li altri
cedino43. Di qui nasce che in tanto tempo, in tante guerre fatte ne’ passati venti
anni, quando gli è stato uno esercito tutto italiano, sempre ha fatto mala pruova: di 55
che è testimone prima el Taro, di poi Alessandria, Capua, Genova, Vailà, Bologna,
Mestri44.
27 iustum... est: “giusta
Volendo dunque la illustre Casa vostra seguitare quelli eccellenti uomini che
infatti è la guerra per coloro redimerno45 le provincie loro, è necessario innanzi a tutte le altre cose, come vero
ai quali è necessaria, e pie le fondamento d’ogni impresa, provedersi d’arme proprie46, perché non si può avere 60
armi ove non sia altra spe-
ranza che in esse”. Machia- né più fidi, né più veri, né migliori soldati: e benché ciascuno di essi sia buono,
velli cita a memoria da Tito tutti insieme diventeranno migliori quando si vedessino comandare dal loro prin-
Livio, XI,1.
28 disposizione grandis- cipe, e da quello onorare e intratenere47. È necessario pertanto prepararsi a queste
sima: i presupposti storico- arme, per potersi con la virtù italica defendersi da li esterni. E benché la fanteria
politici sono ottimi.
29 pure che... mira: a
svizzera e spagnuola sia esistimata terribile, nondimanco in ambedua è difetto per
patto che la vostra famiglia il quale uno ordine terzo48 potrebbe non solamente opporsi loro ma confidare49 65
(quella) si ispiri agli ordina-
menti (pigli degli ordini) di
coloro che ho proposto co-
me modelli. 34 prenominati italiani : 40 qui è virtù... ne’ capi: pioni italiani sconfissero al- VIII, principio della “rui-
30 estraordinari... Dio: Cesare Borgia e Francesco gli Italiani presi singolar- trettanti francesi. na” d’Italia.
fatti straordinari senza pre- Sforza. mente (le membra) sono 42 non compariscono: 45 redimerno: riscatta-
cedenti voluti da Dio. 35 revoluzioni: rivolgi- buoni soldati (hanno virtù gli eserciti italiani non fan- rono.
31 el mare... manna: so- menti politici. grande), ma coloro che do- no buona prova. 46 arme proprie: milizie
no i segni divini che ac- 36 questo nasce... buoni: vrebbero ordinarli in un 43 non ci essendo... ce- non mercenarie.
compagnarono la libera- ciò deriva dal fatto che nel- esercito e guidarli (i capi) dino: non essendoci stato 47 intratenere: trattare
zione degli Ebrei dall’Egit- la nazione italiana (in quella) non sono all’altezza del fino ad ora alcun capitano bene.
to. Naturalmente Machia- i vecchi ordinamenti mili- compito. Era opinione cor- che abbia saputo distin- 48 uno ordine terzo: un
velli sta usando un linguag- tari non erano buoni. rente del tempo. guersi, e per virtù e per for- ordinamento militare di-
gio metaforico, adeguato al 37 non ci è suto: non c’è 41 congressi de’ pochi: tuna, in modo da farsi ob- verso da quello delle fante-
tono appassionato e profe- stato sfide tra pochi combattenti. bedire. rie spagnola e svizzera.
tico di tutto il capitolo. 38 veruna: nessuna. C’è qui verosimilmente un 44 Taro... Mestri: sono 49 confidare: avere spe-
32 tòrre: togliere 39 reverendo e mirabile: ricordo della cosiddetta passate in rassegna alcune ranza.
33 E non è maraviglia: degno di rispetto e ammi- “disfida di Barletta” del sconfitte degli eserciti ita-
non c’è da meravigliarsi. razione 1503, quando tredici cam- liani dalla discesa di Carlo

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Quattrocento e Cinquecento

di superargli. Perché li spagnuoli non possono sostenere e’ cavagli50, e’ svizzeri


hanno ad avere paura de’ fanti quando gli riscontrino nel combattere ostinati co-
me loro: donde51 si è veduto e vedrassi, per esperienza, li spagnuoli non potere so-
stenere una cavalleria franzese, e’ svizzeri essere rovinati da una fanteria spagnuo-
la. E benché di questo ultimo non se ne sia visto intera esperienzia, tamen se ne è 70
veduto uno saggio nella giornata di Ravenna, quando le fanterie spagnuole si af-
frontorno con le battaglie todesche, le quali servano el medesimo ordine che’
svizzeri52: dove li spagnuoli, con la agilità del corpo e aiuto de’ loro brocchieri53,
erano entrati, tra le picche loro, sotto e stavano sicuri a offendergli sanza che’ te-
deschi vi avessino remedio54; e se non fussi la cavalleria, che gli urtò, gli arebbono 75
consumati55 tutti. Puossi adunque, conosciuto il difetto dell’una e dell’altra di
queste fanterie, ordinarne una di nuovo, la quale resista a’ cavalli e non abbia pau-
ra de’ fanti: il che lo farà la generazione delle arme e la variazione delli ordini56; e
queste sono di quelle cose che, di nuovo ordinate, danno reputazione e grandezza
50 sostenere e’ cavagli: a uno principe nuovo. 80
resistere alla cavalleria. Non si debba adunque lasciare passare questa occasione, acciò che la Italia veg-
51 donde: per cui.
52 E benché... che’ sviz- ga dopo tanto tempo apparire uno suo redentore. Né posso esprimere con quale
zeri: e benché di questo, amore e’ fussi ricevuto57 in tutte quelle provincie che hanno patito per queste il-
cioè dell’inferiorità degli luvioni58 esterne; con che sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà,
Svizzeri contro gli Spagnoli,
non si abbia avuto ancora con che lacrime. Quali porte se li serrerebbono? Quali populi gli negherebbono 85
esperienza diretta, tuttavia la obbedienza? Quale invidia se li opporrebbe? Quale italiano gli negherebbe lo
se ne è avuta una prova indi-
retta (uno saggio) nella batta- ossequio? A ognuno puzza questo barbaro dominio. Pigli adunque la illustre Casa
glia di Ravenna (1513), vostra questo assunto59, con quello animo e con quella speranza che si pigliono le
quando le fanterie spagnole
si scontrarono con i batta- imprese iuste, acciò che, sotto la sua insegna, e questa patria ne sia nobilitata e, sot-
glioni tedeschi, i quali adot- to e’ sua auspizi, si verifichi quel detto del Petrarca, quando disse: 90
tano il medesimo schiera-
mento degli Svizzeri.
53 brocchieri: scudi mu- Virtù contro a furore
niti di una grossa punta al prenderà l’armi, e fia el combatter corto,
centro capace di offendere.
54 erano entrati... reme- che l’antico valore
dio: si erano infiltrati sotto le nelli italici cor non è ancor morto.60 95
lunghissime lance tedesche
(picche) e di lì potevano age-
volmente ferire e uccidere i
nemici senza che questi tipo di milizie non merce- 57 e’ fussi ricevuto: sareb- 60 Virtù... morto:“Il valore (quello degli avi romani)
avessero scampo. narie (la generazione delle ar- be ricevuto (si intende il italico (virtù) si armerà con- non è ancora morto nei
55 consumati: uccisi. mi) e la riforma degli schie- “redentore”). tro il furore dei barbari stra- cuori degli Italiani” (Italia
56 il che lo farà... ordini: ramenti (la variazione degli 58 illuvioni: invasioni. nieri; e la battaglia sarà (fia) mia, Canz., CXXVIII, 93-
il che si otterrà con il nuovo ordini). 59 assunto: compito. breve, perché l’antico valore 96).

Guida all’analisi
Un’appassionata perorazione Questo capitolo sorprende innanzi tutto per l’intenso pathos oratorio che lo ca-
ratterizza. Insomma, Machiavelli conclude il suo trattato con una grandiosa perorazione che
non rinuncia alla mozione degli affetti e a tutti gli artifici che la retorica classica aveva esco-
gitato per persuadere l’ascoltatore o il lettore. Il tono, a partire dalla fine del par. 1, si innal-
za bruscamente, e quello che sin qui era stato un linguaggio scarno, asciutto, essenziale, ta-
lora colloquiale si fa elaborato, sostenuto, enfatico, patetico, magnifico.
Dapprima sono la personificazione dell’Italia e l’enumerazione di ben nove termini con-
nessi per asindeto a conferire un forte pathos al discorso: «più stiava che li ebrei, più serva ch’e’
persi, più dispersa che gli ateniesi: senza capo, senza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa». Ma la
personificazione dell’Italia prosegue (essa, tramortita, priega Iddio perché le mandi qualcuno
che sani le sue ferite e le sue piaghe infistolite) e le serie a scopo enfatico ricorrono anche al-
trove: si notino varie serie asindetiche (ad es. «quanto gli italiani sieno superiori con le for-

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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento T 21.8

ze, con la destrezza, con lo ingegno», par. 3; «con che sete di vendetta, con che ostinata fede,
con che pietà, con che lacrime», par. 5) e una serie di interrogative retoriche (par. 5).
Machiavelli sembra fare appello ai sentimenti e agli ideali, come non mai prima: parla di
amore (dell’Italia verso il principe nuovo), ostinata fede, pietà, lacrime, speranza, patria (tutti nel
par. 5), giustizia (più volte nel par. 2 e nel 5); usa espressioni come «crudeltà e insolenzie bar-
bare» (par. 2), «virtù italica» (par. 4), «A ognuno puzza questo barbaro dominio» (par. 5). Ci-
ta un passo di Livio sulla giusta guerra e addirittura di Petrarca (un poeta!) per affermare
che «l’antico valore / nelli italici cor non è ancor morto». Il linguaggio si fa immaginoso e
metaforico e a tratti diventa addirittura quasi ispirato: Machiavelli fa ricorso a numerosi ri-
ferimenti a Dio (sei volte nel par. 2), a vigorose reminiscenze bibliche («el mare si è aperto;
una nube vi ha scorto il cammino; la pietra ha versato acque; qui è piovuto la manna»), pre-
senta il compito che attende il principe nuovo quasi come una missione (è addirittura Dio
che vuole l’impresa, par. 2), per descriverne lo scopo utilizza più volte il concetto di reden-
zione (al par. 2 e al par 5). Machiavelli insomma sembra qui accogliere i modi fin qui inu-
suali dell’oratoria classica e umanistica, e a tratti addirittura quelli della predicazione di un
personaggio come Savonarola.
La perorazione conclusiva di un’opera militante Ciò non significa però che questo capitolo sia semplicemente,
come è stato detto, «un’incongrua appendice» al resto del libro. Caso mai questo finale ri-
badisce il fatto che il trattato è stato concepito fin dalla sua genesi non come un’opera
astrattamente teorica, ma come un’opera militante, una risposta alla crisi dell’Italia contem-
poranea. Accettata questa impostazione, apparirà plausibile che, dopo la parte teorica e ra-
zionale, ci sia posto per un’esortazione alla prassi e che questa adotti le forme atte a co-
muovere e smuovere, cioè indurre all’azione.
Coerenza sostanziale con il resto del libro: il concetto di occasione Se poi consideriamo, oltre allo stile, anche
la sostanza concettuale su cui egli fonda la sua esortazione, troveremo ulteriori ragioni di
coerenza con il resto della trattazione. Machiavelli riutilizza temi e concetti fondamentali di
tutta l’opera: ad esempio il concetto e la precettistica relativa al principe nuovo, esortandolo a
introdurre ordini radicalmente nuovi (par. 3) e a dotarsi di arme proprie (par. 4), ad accogliere
spregiudicatamente la lezione di politica sin qui tenuta (par. 2). Nel far ciò Machiavelli si ri-
collega poi esplicitamente al fondamentale concetto di occasione e ai temi e agli esempi pro-
posti nel capitolo VI, dove erano citati i casi di Mosè, Ciro e Teseo, che dalla fortuna appun-
to avevano avuto solo l’occasione [R T 21.2 ].
Proprio questo concetto e questi esempi sono decisivi nella logica del capitolo. L’estrema
desolazione della situazione dell’Italia contemporanea è da Machiavelli assimilata a quella in
cui si erano trovati ad operare i grandi riformatori citati. Sono quegli esempi a fargli ritene-
re che l’occasione attuale sia propizia all’azione. Il fatto poi che un Medici sia attualmente a
capo della Chiesa (un’altra occasione) fa ritenere a Machiavelli che proprio un altro Medi-
ci nel contesto attuale potrebbe portare a compimento l’impresa di creare un forte stato ter-
ritoriale in Italia. Certo, se effettivamente la pensava così, si sbagliava (il contesto non era
così propizio, il suo principe non era all’altezza del compito) ma di per sé l’ipotesi non era
del tutto peregrina e del resto non c’erano molte altre strade percorribili per togliere l’Italia
dalle secche in cui si era venuta a trovare. Comunque l’utopia finale, se di utopia si tratta,
non rinuncia del tutto dunque alla sostanza concettuale del resto del libro.

Laboratorio 1 Riesamina il capitolo VI e spiega il con- 3 Analizza attentamente il concetto di


COMPRENSIONE cetto di occasione e il suo rapporto con «giusta guerra» qui esposto attraverso la
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE quello di fortuna. citazione latina di Livio e mettilo a con-
2 Nel capitolo ci sono, oltre a quelli retori- fronto con altri passi relativi alla opportu-
camente assai elaborati, anche alcuni passi nità e alla legittimità dell’uso della forza
in cui il discorso risulta più riflessivo e pa- da parte del principe. C’è una totale di-
cato, più compatibile con lo stile dei capi- vergenza di giudizio?
toli precedenti: individuali e analizzali.
721 © Casa Editrice Principato
Quattrocento e Cinquecento

T 21.9 Niccolò Machiavelli, Discorsi 1513


Disordini civili e buone leggi [I, 4]
N. Machiavelli Nei primi capitoli dei Discorsi Machiavelli si preoccupa soprattutto di individuare le ca-
Opere, vol. I ratteristiche specifiche che hanno reso potente lo stato romano. Accogliendo la dottrina
a c. di C.Vivanti, Einaudi- dello storico greco Polibio, egli afferma che i governi migliori e più stabili sono quelli
Gallimard, Torino 1997 che hanno una costituzione mista, come quello spartano che durò ottocento anni, e come
appunto quello romano la cui specificità consistette nell’equilibrio fra il principio monar-
chico (rappresentato dal potere dei consoli), quello aristocratico (rappresentato dal pote-
re del senato) e quello democratico (rappresentato dal potere dei tribuni della plebe).
Secondo Machiavelli, poi, la soluzione migliore si ha quando uno stato alla nascita
trova un fondatore che gli dia subito ordinamenti misti che ne garantiscano la durata
nel tempo (è il caso dello spartano Licurgo). Non fu però così in Roma, in cui «quello
che non aveva fatto un ordinatore lo fece il caso». Nella genesi dunque del governo mi-
sto, che caratterizzò per diversi secoli la repubblica romana, Machiavelli individua il
ruolo che ebbero le lotte fra patrizi e plebei.

CHE LA DISUNIONE DELLA PLEBE E DEL SENATO ROMANO


FECE LIBERA E POTENTE QUELLA REPUBBLICA

1 questi tumulti... tri- Io non voglio mancare di discorrere sopra questi tumulti che furono in Roma
buni: morto Tarquinio il dalla morte de’ Tarquinii alla creazione de’ tribuni1; e di poi alcune cose contro la 5
Superbo (494 a.C.) la no-
biltà diede libero sfogo alle opinione di molti che dicono Roma essere stata una republica tumultuaria e pie-
proprie ambizioni represse na di tanta confusione che, se la buona fortuna e la virtù militare non avesse sop-
e gravi tumulti scoppiaro-
no tra patrizi e plebei; fin- perito a’ loro2 difetti, sarebbe stata inferiore a ogni altra republica. Io non posso
ché un nuovo equilibrio si negare che la fortuna e la milizia non fossero cagioni dell’imperio3 romano; ma e’
poté ricomporre per via
istituzionale, con la crea- mi pare bene che costoro non si avegghino che, dove è buona milizia, conviene 10
zione dei tribuni della ple- che sia buono ordine e rade volte anca occorre che non vi sia buona fortuna4. Ma
be. vegnamo agli altri particulari di quella città. lo dico che coloro che dannano5 i tu-
2 loro: si riferisce, a sen-
so, ai Romani. multi intra i nobili e la plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima
3 imperio: potenza.
4 e’ mi pare... fortuna:
causa del tenere libera6 Roma; e che considerino piu a’ romori ed alle grida che
mi sembra che costoro non di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano; e che e’ non 15
si rendano conto (non si considerino come e’ sono in ogni republica due umori diversi7, quello del popo-
avegghino) che dove c’è un
buon esercito ci debbono lo, e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà,
per forza essere (conviene che nascano dalla disunione8 loro, come facilmente si può vedere essere seguito9 in
sia) anche dei buoni ordi-
namenti, e a queste condi- Roma; perché da’ Tarquinii ai Gracchi10 che furano più di trecento anni, i tumul-
zioni è raro che non ci sia ti di Roma rade volte partorivano esilio e radissime sangue. Né si possano per 20
anche prosperità (fortuna). tanto giudicare questi tomulti nocivi, né una republica divisa, che in tanto tempo
5 dannano: condanna-
no. per le sue differenzie11 non mandò in esilio più che otto o dieci cittadini, e ne
6 libera: non sottomessa
ammazzò12 pochissimi, e non molti ancora ne condannò in danari. Né si può
ad alcuna tirannide.
7 umori diversi: ambi- chiamare in alcun modo, con ragione, una republica inordinata13, dove siano tan-
zioni, passioni politiche ti esempli di virtù: perché li buoni esempli nascano dalla buona educazione14, la 25
contrastanti (gli umori nel
linguaggio medico erano i buona educazione dalle buone leggi, e le buone leggi da quelli tumulti che molti
fluidi corporei). inconsideratamente dannano; perché, chi esaminerà bene il fine d’essi, non tro-
8 disunione: contrasto.
9 essere seguito: essere verrà ch’egli abbiano partorito alcuno esilio o violenza in disfavore del commune
avvenuto. bene, ma leggi e ordini in beneficio della publica libertà. E se alcuno dicessi: i
10 da’Tarquinii ai Grac-
chi: all’incirca dall’inizio
modi erano straordinarii e quasi efferati15, vedere il popolo insieme gridare contro 30
del IV alla fine del II secolo al senato, il senato contro al popolo, correre tumultuariamente per le strade, serra-
a.C. re le botteghe, partirsi tutta la plebe di Roma16, le quali cose tutte spaventano,
11 per le sue differenzie:
a causa delle sue guerre in-
testine. 13 inordinata: disordina- ciò che noi chiameremmo 16 partirsi... di Roma: no in massa della città (la
12 ne ammazzò: me- ta. “senso civico”. tra le forme di protesta della prima secessione sul Monte
diante la pena capitale. 14 buona educazione: 15 efferati: feroci. plebe si ricorda l’abbando- Sacro data 494 a.C.).

722 © Casa Editrice Principato


21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento T 21.9

17 le quali... chi le legge: non che altro, chi le legge17; dico come ogni città debbe avere i suoi modi con i
con sottile sarcasmo Ma-
chiavelli ci ricorda la diffe- quali il popolo possa sfogare l’ambizione sua18, e massime quelle città che nelle
renza tra leggere la storia in cose importanti si vogliono valere del popolo19: intra le quali, la città di Roma 35
modo “sentimentale” e di- aveva questo modo, che, quando il popolo voleva ottenere una legge, o e’ faceva
lettantesco e affrontarla in
modo razionale e critico per alcuna delle predette cose20, o e’ non voleva dare il nome21 per andare alla guerra,
trarne lezioni politiche effi- tanto che a placarlo bisognava in qualche parte sodisfarli22. E i desiderii dei popo-
caci.
18 l’ambizione sua: il suo li liberi rade volte sono perniziosi23 alla libertà, perché e’ nascono o da essere op-
desiderio di partecipare al pressi, o da suspizione di avere ad essere oppressi24. E quando queste opinioni fos- 40
potere.
19 e massime... popolo: e sero false, e’ vi è il rimedio delle concioni25, che surga qualche uomo da bene, che,
soprattutto (massime, latini- orando26, dimostri loro come ei s’ingannano: e li popoli, come dice Tullio27, ben-
smo) quelle città che nelle
questioni importanti vo- ché siano ignoranti, sono capaci della verità, e facilmente cedano28, quando da
gliono avere l’appoggio an- uomo degno di fede è detto loro il vero.
che del popolo. Debbesi, adunque, piu parcamente biasimare il governo romano, e considerare 45
20 predette cose: i tumul-
ti sopraccitati. che tanti buoni effetti, quanti uscivano di quella republica, non erano causati se
21 dare il nome: arruolar-
non da ottime cagioni. E se i tumulti furano cagione della creazione de’ tribuni,
si.
22 sodisfarli: il pronome meritano somma laude, perché, oltre al dare la parte sua all’amministrazione po-
plurale si riferisce, a senso, polare, furano constituiti per guardia della libertà romana29, come nel seguente ca-
alla moltitudine del popolo.
23 perniziosi: dannosi. pitolo si mosterrà. 50
24 suspizione... oppressi:
timore di poter essere op- 26 orando: pronunciando al De amicitia di Cicerone mente depongono le loro partecipe del governo, i tri-
pressi. un’orazione. (XXV e XXVI). opinioni erronee. buni furono costituiti per
25 concioni: adunanze 27 come dice Tullio: il ri- 28 sono capaci... cedano: 29 oltre... libertà roma- preservare Roma dal peri-
pubbliche. ferimento è probabilmente sanno capire la verità e facil- na: oltre a rendere il popolo colo della tirannide.

Guida all’analisi
I tumulti popolari e le buone leggi Sorprendentemente Machiavelli definisce «i tumulti intra i nobili e la plebe»
come la «prima causa del tenere libera Roma», più ancora che la fortuna e la milizia. Le lot-
te fra patrizi e plebei in primo luogo non furono quasi mai cruente («rade volte partoriva-
no esilio e radissime sangue»), ma soprattutto sortirono «buoni effetti», che consistettero in
«leggi e ordini in beneficio della publica libertà» e in particolare nella creazione dei tribuni
della plebe, che – secondo lo schema di Polibio – intervennero ad equilibrare le compo-
nenti monarchica (i consoli) e aristocratica (il senato), che sino a quel momento avevano
avuto il predominio, introducendo nella costituzione romana anche l’elemento democrati-
co («dare la parte sua all’amministrazione popolare»). Non sempre dunque un evento in ap-
parenza negativo, come in questo caso le discordie civili, sortisce effetti negativi.
A ben vedere Machiavelli applica qui un medesimo principio che abbiamo incontrato nel
Principe, là dove si dice che la violenza esercitata ragionevolmente da un principe spesso evi-
ta in seguito danni peggiori, che poi si riconduce al concetto “il fine giustifica i mezzi”. An-
che a proposito dei tumulti popolari bisogna insomma valutare il fine soggettivo e l’effetto
oggettivo. Dell’effetto oggettivo, la creazione dei tribuni, si è detto. Quanto al fine soggetti-
vo, lo si evince facilmente: «i desiderii dei popoli liberi rade volte sono perniziosi alla li-
bertà, perché e’ nascono o da essere oppressi, o da suspizione di avere ad essere oppressi», e
mirano dunque ad instaurare «leggi e ordini in beneficio della pubblica libertà». Così, coe-
rentemente, Machiavelli alla fine del capitolo può concludere: «E se i tumulti furono cagio-
ne della creazione de’ tribuni meritano somma laude, perché, oltre al dare la parte sua all’ammi-
nistrazione popolare, furono constituiti per guardia della libertà romana».
Una constatazione di valore generale Machiavelli dunque in questo capitolo mostra di giudicare come un va-
lore politico la «libertà», un concetto che andrà inteso sia come duratura indipendenza del-
lo stato sia soprattutto come vivere civile secondo «buone leggi» che garantiscano un’equi-
librata distribuzione del potere in modo che nessuna delle tre forme pure (monarchia, ari-
stocrazia, democrazia) prenda il sopravvento e degeneri nel suo corrispettivo negativo (ti-
rannide, oligarchia, oclocrazia). Egli poi non si limita nella sua analisi al caso specifico della
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Quattrocento e Cinquecento

storia romana, come fa ad esempio quando dice che coloro che condannano le lotte fra pa-
trizi e plebei in Roma «non considerino come e’ sono in ogni republica due umori diversi,
quello del popolo, e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà,
nascano dalla disunione loro». Machiavelli dunque esamina la vicenda storica romana sem-
pre con un occhio anche alla realtà contemporanea e alla possibilità di trarne delle leggi ge-
nerali di comportamento o di evoluzione politica.

Doc 21.6 Quando è possibile ordinare una repubblica

Discorsi I, 18 e I,55 Il problema che affermazioni simili formulate nei Discorsi pongono al lettore del Principe so-
no noti. C’è un’apparente difformità di giudizi a favore ora del principato ora della repub-
blica: questa difformità ha però un suo fondamento logico, che come si è detto più volte
risiede essenzialmente nel fatto che Il Principe mira a dare una risposta specifica alla situa-
zione storica dell’Italia di primo Cinquecento. È probabile che Machiavelli, giudicando as-
sai negativamente la condizione della vita civile nelle città italiane di primo Cinquecento,
le assimilasse alle «città corrotte» (di cui discute nei Discorsi I,18) che, non potendo essere
corrette dalle leggi, hanno bisogno di una potestà regia che le freni. Se dunque in assoluto
Machiavelli ci presenta la repubblica romana come un modello positivo, in quanto stato
equilibrato e libero, questo modello non gli pare applicabile al presente in Italia. Ne tro-
viamo una più esplicita conferma, ad esempio, in un altro passo del capitolo I, 55, là dove
Machiavelli sostiene che «dove è equalità [cioè eguaglianza] non si può fare principato; e
dove la non è non si può fare republica». Esaminando dunque l’effetto che determina la
presenza di una forte componente aristocratica in uno stato Machiavelli afferma:
1 fatica: lavoro. E per chiarire questo nome di gentiluomini quale e’ sia, dico che gentiluomini sono
2 perniziosi: nocivi.
3 vivere politico: go- chiamati quelli che oziosi vivono delle rendite delle loro possessioni abbondantemente,
verno regolato da leggi. sanza avere cura alcuna o di coltivazione o di altra necessaria fatica1 a vivere. Questi tali so-
4 civiltà: vivere civile.
5 se... arbitro: se
no perniziosi2 in ogni republica e in ogni provincia, ma più perniziosi sono quelli che, ol-
qualcuno avesse la possi- tre alle predette fortune, comandano a castella ed hanno sudditi che ubbidiscono a loro. Di
bilità di farlo. queste due spezie di uomini ne sono pieni il regno di Napoli,Terra di Roma, la Romagna
6 non arebbe... che:
non avrebbe altra possi-
e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non è mai surta alcuna republica né
bilità che. alcuno vivere politico,3 perché tali generazioni di uomini sono al tutto inimici d’ogni ci-
7 mano regia: potere viltà.4 Ed a volere in provincie fatte in simil modo introdurre una republica, non sarebbe
regio (la mano comapri- possibile: ma a volerla riordinare, se alcuno ne fusse arbitro,5 non arebbe altra via che6 far-
va fra i simboli del potere
regio). vi uno regno. La ragione è questa, che dove è tanto la materia corrotta che le leggi non
8 eccessiva: «straordi- bastano a frenarla, vi bisogna ordinare insieme con quelle maggior forza; la quale è una
naria. È, in ultima analisi, mano regia7 che con la potenza assoluta ed eccessiva8 ponga freno alla eccessiva ambizio-
la giustificazione del
Principe: l’Italia, giunta al- ne e corruttela de’ potenti.
l’estremo della corruzio-
ne, “la prega Dio che le Come si vede, dal problema generale Machiavelli volge qui lo sguardo alla situazione
mandi qualcuno che la particolare dell’Italia contemporanea: nei territori del regno di Napoli, del Lazio, della
redima”» (Vivanti).
Romagna e della Lombardia ci sono nobili feudali potenti e riottosi, che vivono in castel-
li da cui dominano personalmente e arbitrariamente i propri sudditi, non obbedendoo ad
alcuna legge e non essendo in alcun modo usi al vivere civile. In questi casi non è possi-
bile fondare una repubblica, ma ci vuole la forza di un sovrano potente che li tenga sot-
to. Ma questo è proprio lo scenario che egli configura al principe nuovo che dovrebbe
costituire un forte stato territoriale italiano, espandendosi proprio in questi territori (come
aveva cominciato a fare Cesare Borgia usando il pugno di ferro in Romagna).

Laboratorio 1 Esamina le affermazioni in cui Machia- Ti paiono compatibili fra loro?


COMPRENSIONE velli istituisce dei rapporti di causa effetto 2 Nel finale del par. 1 Machiavelli fa un’af-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE fra tumulti, fortuna, milizia e buoni ordini e fermazione relativa al rapporto tra igno-
tra tumulti, buone leggi, buona educazione e ranza e capacità di cogliere la verità che
buoni esempi. Spiega i vari concetti e il c’è nei popoli. Analizzala e commentala.
senso complessivo di queste affermazioni.
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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento T 21.10

T 21.10 Niccolò Machiavelli, Discorsi 1513


La moltitudine è più savia di uno principe [I, 58]
N. Machiavelli La riflessione di Machiavelli sulle differenze tra repubbliche e principati nei Discorsi ha
Opere, vol. I un momento fondamentale verso la fine del libro I, quando, ponendosi il problema se
a c. di C.Vivanti, Einaudi-
Gallimard, Torino 1997
sia più duraturo un governo monarchico o uno repubblicano, mostra di inclinare a fa-
vore di quest’ultimo. La ragione che viene addotta sin dal titolo è che – contrariamen-
te all’opinione di molti, Livio compreso, il cui giudizio viene discusso nella prima par-
te del capitolo (da noi omessa) – il popolo a lungo termine si dimostra più saggio del
sovrano, la moltitudine più saggia del singolo.

LA MOLTITUDINE È PIÙ SAVIA E PIÙ COSTANTE


CHE UNO PRINCIPE

[...]
Conchiudo adunque contro alla commune opinione, la quale dice come i po-
poli, quando sono principi1, sono varii2, mutabili ed ingrati, affermando che in lo-
ro non sono altrimenti questi peccati che siano ne’ principi particulari3. Ed accu-
sando alcuno i popoli ed i principi insieme, potrebbe dire il vero; ma traendone4 i
principi, s’inganna: perché un popolo che comandi e sia bene ordinato, sarà stabi- 5
le, prudente e grato non altrimenti che un principe, o meglio che un principe,
eziandio5 stimato savio; e dall’altra parte un principe sciolto dalle leggi sarà ingra-
to, vario ed imprudente più che un popolo. E che6 la variazione del procedere7 lo-
ro nasce non dalla natura diversa, perché in tutti è a un modo e, se vi è vantaggio8
di bene, è nel popolo, ma dallo avere più o meno rispetto alle leggi dentro alle 10
quali l’uno e l’altro vive. E chi considererà il popolo romano, lo vedrà essere stato
per quattrocento anni9 inimico del nome regio ed amatore della gloria e del bene
commune della sua patria; vedrà tanti esempli usati da lui, che testimoniano l’una
cosa e l’altra. E se alcuno mi allegasse10 la ingratitudine ch’egli11 usò contra a Sci-
pione, rispondo quello che di sopra lungamente si discorse in questa materia, dove 15
si mostrò i popoli essere meno ingrati de’ principi12. Ma quanto alla prudenzia13
ed alla stabilità, dico come un popolo è più prudente, più stabile e di migliore giu-
dizio che un principe. E non sanza cagione si assomiglia la voce d’un popolo a
quella di Dio: perché si vede una opinione universale14 fare effetti maravigliosi ne’
pronostichi suoi, talché pare che per occulta virtù ei prevegga il suo male ed il suo 20
bene. Quanto al giudicare le cose, si vede radissime volte, quando egli15 ode duo
concionanti che tendino in diverse parti16, quando ei17 sono di equale virtù, che
non pigli la opinione migliore e che non sia capace18 di quella verità che egli ode.
E se nelle cose gagliarde o che paiano utili, come di sopra si dice, egli erra19, molte
volte erra ancora20 un principe nelle sue proprie passioni, le quali sono molte più 25
che quelle de’ popoli.Vedesi ancora nelle sue elezioni ai magistrati21 fare di lunga22

1 quando... principi: il ruolo superiore degli “or- dotta, di comportamento. lenza del popolo romano contrastanti.
quando sono al potere. dini” a correzione della co- 8 vantaggio: superio- dopo aver annientato la po- 17 ei: essi.
2 varii: incostanti (è mune fragilità umana. rità. tenza cartaginese e avere 18 sia capace: sia in grado
quasi sinonimo di mutabili). 4 traendone: escluden- 9 quattrocento anni: così acquistato grandissima di capire.
3 particulari: indivi- do dall’accusa. dall’abolizione della mo- autorità in Roma. 19 se nelle cose gagliar-
dualmente considerati. Si 5 eziandio: anche, sia narchia (509 a.C.) alla dit- 13 prudenzia: assenna- de... erra: se nelle decisioni
noti come Machiavelli non pure. tatura di Cesare (45 a.C.). tezza. prese appassionatamente e
neghi affatto al popolo i vi- 6 E che...: le proposi- 10 allegasse: portasse a 14 opinione universale: che all’apparenza sono utili
zi elencati, ma piuttosto, zioni che seguono sono esempio. opinione espressa dalla il popolo si inganna.
con lucido pessimismo, af- rette dal verbo all’inizio del 11 egli: il popolo roma- moltitudine del popolo. 20 ancora: anche.
fermi che tali vizi sono di paragrafo: “Conchiudo… no. 15 egli: il popolo. 21 nelle sue... magistrati:
tutti gli uomini in generale, affermando che…”, ecc. 12 rispondo... de’ prin- 16 due concionanti... nelle elezioni dei suoi (del
principi compresi. Date 7 la variazione del pro- cipi: Scipione l’Africano si parti: due pubblici oratori popolo) magistrati.
queste condizioni si palesa cedere: la diversità di con- era guadagnata la malevo- che sostengano opinioni 22 di lunga: di gran lunga.

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Quattrocento e Cinquecento

migliore elezione che un principe, né mai si persuaderà a un popolo che sia bene
tirare alle degnità23 uno uomo infame e di corrotti costumi: il che facilmente e per
mille vie si persuade a un principe.Vedesi uno popolo cominciare ad avere in or-
rore una cosa, e molti secoli stare in quella opinione: il che non si vede in un prin- 30
cipe. E dell’una e dell’altra di queste due cose voglio mi basti per testimone il po-
polo romano: il quale in tante centinaia d’anni, in tante elezioni di consoli e di tri-
buni, non fece quattro elezioni di che quello24 si avesse a pentire. Ed ebbe, come
ho detto, tanto in odio il nome regio che nessuno obligo di alcuno suo cittadino
che tentasse quel nome poté fargli fuggire le debite pene25.Vedesi, oltra di questo, 35
le città dove i popoli sono principi fare in brevissimo tempo augumenti eccessi-
vi26, e molto maggiori che quelle che sempre sono state sotto uno principe: come
fece Roma dopo la cacciata de’ re ed Atene da poi che la si liberò da Pisistrato27. Il
che non può nascere da altro, se non che sono migliori governi quegli de’ popoli
che quegli de’ principi. Né voglio che si opponga a questa mia opinione tutto 40
quello che lo istorico nostro ne dice nel preallegato testo28 ed in qualunque altro;
perché, se si discorreranno29 tutti i disordini de’ popoli, tutti i disordini de’ princi-
pi, tutte le glorie de’ popoli e tutte quelle de’ principi, si vedrà il popolo di bontà e
di gloria essere di lunga superiore. E se i principi sono superiori a’ popoli nello or-
dinare leggi, formare vite civili, ordinare statuti ed ordini nuovi, i popoli sono tan- 45
to superiori nel mantenere le cose ordinate, ch’egli aggiungono sanza dubbio alla
gloria di coloro che l’ordinano30.
Ed insomma, per conchiudere questa materia, dico come hanno durato assai gli
stati de’ principi, hanno durato assai gli stati delle republiche, e l’uno e l’altro ha
avuto bisogno d’essere regolato dalle leggi: perché un principe che può fare ciò 50
ch’ei vuole, è pazzo; un popolo che può fare ciò che vuole, non è savio. Se adun-
que si ragionerà d’un principe obligato alle leggi e d’un popolo incatenato da
quelle, si vedrà più virtù nel popolo che nel principe; se si ragionerà dell’uno e
dell’altro sciolto, si vedrà meno errori nel popolo che nel principe, e quelli31 mi-
nori, ed aranno32 maggiori rimedi. Però che a un popolo licenzioso e tumultua- 55
rio, gli può da un uomo buono essere parlato e facilmente può essere ridotto nel-
la via buona33; a un principe cattivo non è alcuno che possa parlare, né vi è altro
rimedio che il ferro34. Da che si può fare coniettura della importanza della malat-
tia35 dell’uno e dell’altro: ché se a curare la malattia del popolo bastan le parole ed
a quella del principe bisogna il ferro, non sarà mai alcuno che non giudichi che, 60
dove bisogna maggior cura, siano maggiori errori. Quando un popolo è bene
sciolto, non si temano36 le pazzie che quello fa, né si ha paura del male presente,
ma di quel che ne può nascere, potendo nascere in fra tanta confusione uno ti-
ranno. Ma ne’ principi cattivi interviene37 il contrario: che si teme il male presen-
te e nel futuro si spera, persuadendosi gli uomini che la sua cattiva vita possa fare 65
surgere una libertà38. Sì che vedete la differenza dell’uno e dell’altro, la quale è

23 né mai... degnità: né appunto) sfuggì alla debita po della sua vita culturale servare in vita per lungo lo sulla retta via.
mai sarà possibile convince- punizione, per quanti me- sia per la conquistata ege- tempo quello stato così or- 34 il ferro: la morte vio-
re (persuadere a) un popolo riti (obligo) egli avesse. monia politica e militare dinato, da eguagliare (ch’egli lenta, ossia il tirannicidio.
che sia buona cosa eleggere 26 augumenti eccessivi: sull’intera Grecia. aggiungono) senza dubbio la 35 si può... malattia: ci si
a una carica pubblica (tirare espansioni territoriali stra - 28 nel preallegato testo: gloria dei primi ordinatori. può fare un’idea (fare coniet-
alle degnità). ordinarie. nel brano citato (Livio). 31 quelli: gli errori del tura) della gravità (importan-
24 di che quello: delle 27 Pisistrato: abbattuto 29 discorreranno: passe- popolo. za) della malattia.
quali esso (il popolo). nel 510 a.C. il tiranno Ippia ranno in rassegna. 32 aranno: avranno. 36 temano: temono (in-
25 nessuno... pene: nes- – succeduto al potere al pa- 30 E se i principi... l’or- 33 Però che... via buona: dicativo).
sun cittadino romano che dre Pisistrato –, per la de- dinano: e se i principi sono perché un uomo buono 37 interviene: avviene.
abbia tentato di conquista- mocrazia ateniese inco- più atti dei popoli a fondare può parlare a un popolo 38 libertà: una condizio-
re il potere assoluto (tentasse minciò un’età di grande uno stato, i popoli sono fuori controllo e in rivolta, ne antitetica alla tirannide,
quel nome, il “nome regio” splendore, sia per lo svilup- tanto più in grado di con- e facilmente può ricondur- una repubblica.

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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento T 21.10

quanto dalle cose che sono a quelle che hanno a essere. Le crudeltà della moltitu-
dine sono contro a chi ei temano che occupi il bene commune; quelle d’un
principe sono contro a chi ei tema che occupi il bene proprio39. Ma la opinione
contro ai popoli nasce perché de’ popoli ciascuno dice male sanza paura e libera- 70

mente ancora40 mentre che regnano: de’ principi si parla sempre con mille paure
e mille rispetti. Né mi pare fuor di proposito, poiché questa materia mi vi tira, di-
sputare nel seguente capitolo di quali confederazioni41 altri42 si possa più fidare: o
di quelle fatte con una republica o di quelle fatte con uno principe.
75

39 Le crudeltà... proprio: essa teme (ei temano è con- possessarsi del bene pubbli- tro chi egli teme che voglia 41 confederazioni: al-
le violenze della moltitudi- cordato a senso col nome co; le violenze di un princi- usurpare il suo potere. leanze.
ne sono rivolte contro chi collettivo) che voglia im- pe sono rivolte invece con- 40 ancora: anche. 42 altri: impers.,“uno”.

Guida all’analisi
La natura umana e le buone leggi All’inizio del capitolo Machiavelli ancora una volta dichiara di voler seguire,
per amore di verità, una via non battuta da alcuno, sostenendo appunto un’opinione con-
traria a quella di Livio e di tutti gli storici antichi, i quali ritengono «nessuna cosa essere più
vana e più incostante che la moltitudine». Non sa se ciò gli susciterà biasimo o lode, ma cer-
to non è una colpa quella di tentare di «difendere alcuna opinione con le ragioni», cioè soste-
nere una tesi argomentando razionalmente.
Ecco dunque come egli argomenta. La vanità e l’incostanza non è specifica della moltitu-
dine, ma propria di ogni uomo, e quindi anche del principe, anzi soprattutto di questi.
Chiunque si comporterebbe così, qualora non fosse regolato dalle leggi. Machiavelli ricon-
ferma dunque la sua opinione sostanzialmente negativa nei confronti della natura umana.
Senza dichiararlo in modo esplicito, a questo punto, citando gli esempi dell’antico Egitto, di
Sparta, di Roma e al giorno d’oggi della Francia, Machiavelli tesse nei fatti un elogio delle
buone leggi, in quanto freno delle ambizioni, delle intemperanze, degli arbitrii sia dei so-
vrani che dei popoli e moderatrici della natura umana.
A parità di condizioni il popolo è più savio del principe Per confrontare correttamente un principe e un popo-
lo si devono prendere situazioni comparabili. Dunque, considerando un principe e un po-
polo entrambi sottoposti al freno delle leggi, risulta che «un popolo che comandi e sia bene
ordinato, sarà stabile, prudente e grato non altrimenti che un principe, o meglio che un
principe, eziandio stimato savio; e dall’altra parte un principe sciolto dalle leggi sarà ingrato,
vario ed imprudente più che un popolo» (rr. 5-8). L’affermazione è importante. Abbiamo
imparato che Machiavelli non giudica quasi mai in astratto, né facilmente esprime posizio-
ni ideali, ma sempre rapporta i suoi giudizi di valore alle situazioni particolari e concrete.
Così negli stessi Discorsi lo troviamo affermare che «mai o rado occorre che alcuna republi-
ca o regno sia da principio ordinato bene, o al tutto di nuovo, fuora degli ordini vecchi,
riformato, se non è ordinato da uno; anzi è necessario che uno solo sia quello che dia il mo-
do e dalla cui mente dipenda qualunque simile ordinazione» (I, 9 par. 2).
Insomma, Machiavelli chiaramente mostra di credere che un governo monarchico e l’a-
zione di un singolo individuo sia più efficace al momento della formazione o del riordina-
mento di uno stato, ma che poi sul lungo periodo, a garantirne cioè la durata, sia assai più
efficace un governo popolare, purché limitato da buone leggi. Lo dice a chiare lettere nel fi-
nale del par. 2: «E se i principi sono superiori a’ popoli nello ordinare leggi, formare vite ci-
vili, ordinare statuti ed ordini nuovi, i popoli sono tanto superiori nel mantenere le cose or-
dinate, ch’egli aggiungono sanza dubbio alla gloria di coloro che l’ordinano» (rr. 44-47).
Il diverso rispetto delle leggi Il diverso modo di agire non dipende da una diversità di natura «perché in tutti è a
un modo e, se vi è vantaggio di bene, è nel popolo», ma dal diverso rispetto che l’uno e l’al-

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Quattrocento e Cinquecento

tro hanno delle leggi. Il popolo risulta nel complesso più rispettoso delle leggi (come dimo-
stra la storia romana) e più ragionevole nei giudizi: raramente di fronte a due pareri espressi
egualmente bene, sceglie il peggiore; raramente si lascia indurre a eleggere «uno uomo infa-
me e di corrotti costumi» (come spesso invece fa il principe). Gli stati con governi popolari
si sono storicamente dimostrati capaci di «augumenti eccessivi», cioè di straordinarie espan-
sioni territoriali, più delle monarchie (par. 2). Anche nelle situazioni di licenza (quando cioè
non ci sono buone leggi a frenarli) il popolo è meno peggio del principe: anche in questo
caso in virtù della sua ragionevolezza («a curare la malattia del popolo bastan le parole ed a
quella del principe bisogna el ferro», par. 3). Il popolo infine commette crudeltà «contro a
chi ei temano che occupi il bene commune; quelle d’un principe sono contro a chi ei tema
che occupi il bene proprio»: il popolo quindi è più del principe amante della libertà e costi-
tuisce nel tempo una maggiore garanzia di tutela dell’ordine costituito.

Doc 21.7 Il popolo, una arca di ignoranza e di confusione

F. Guicciardini, Di parere nettamente diverso è Francesco Guicciardini, che nel suo commento ai Discor-
Considerazioni sui si non manca di annotare questo importante capitolo, sostenendo, coerentemente con il
Discorsi di Machiavelli
suo conservatorismo, che il governo di una moltitudine è nettamente peggiore di quello
di un re o di un’aristocrazia moderati dalle leggi.

Difficile impresa e molto aliena dalla1 opinione degli uomini piglia,2 senza dubio, chi
attribuisce al popolo la constanza e la prudenza, e chi in queste due qualità lo antepone a’
principi; e’ quali3 quando sono regolati dalla legge, nessuno che ha scritto delle cose poli-
tiche dubitò mai che el governo di uno non fussi migliore che quello di una moltitudine
eziandio4 regolata dalla legge, alla quale è preposto non solo el governo di uno principe,
ma ancora quello degli ottimati.5 Perché dove è minore numero è la virtù più unita e più
abile a produrre gli effetti suoi; vi è più ordine nelle cose, più pensiero e esamine ne’ ne-
gocii,6 più resoluzione;7 ma dove è moltitudine quivi è confusione, e in tanta dissonanza
di cervelli, dove sono vari giudìci, vari pensieri, vari fini, non può essere né discorso ra-
gionevole, né resoluzione fondata,8 né azione ferma. Muovonsi gli uomini leggermente
per ogni vano sospetto, per ogni vano romore;9 non discernono, non distinguono, e con la
medesima leggerezza tornano alle deliberazione che avevano prima dannate,10 a odiare
quello che amavano, a amare quello che odiavano; però non sanza cagione è assomigliata
la moltitudine alle onde del mare, la quale secondo e’ venti che tirano vanno ora in qua
ora in là sanza alcuna regola, sanza alcuna fermezza. In somma e’ non si può negare che un
popolo per sé medesimo non sia una arca di ignoranza e di confusione; però e’ governi
meramente populari sono stati in ogni luogo poco durabili, e oltre a infiniti tumulti e di-
sordini, di che mentre hanno durato sono stati pieni,11 hanno partorito o tirannide o ulti-
ma ruina della loro città.

1 aliena dalla: contraria riodo. cata negli affari di stato. nine vana.
alla. 4 eziandio: quand’an- 7 più resoluzione: più 10 dannate: condannate,
2 piglia: assume. che. risolutezza, decisione. respinte.
3 e’ quali: è un anacolu- 5 ottimati: aristocratici. 8 né... fondata: né deci- 11 di che... pieni: di cui
to; il soggetto non trova ri- 6 più... negocii: una ri- sioni meditate. sono stati pieni finché sono
scontro nel seguito del pe- flessione più razionale e pa- 9 romore: diceria, opi- stati in carica.

Laboratorio 1 Confronta i giudizi di Machiavelli con no della moltitudine [R Doc 21.7 ]. Come si
COMPRENSIONE quelli di Guicciardini in merito al gover- può spiegare il giudizio di Guicciardini?
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE

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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento T 21.11

T 21.11 Francesco Guicciardini, Ricordi


Questioni di metodo: discrezione e fortuna
F. Guicciardini Questa prima scelta di Ricordi affronta questioni di metodo e temi fondamentali della
Opere, vol. I
a c. di E. Lugnani Scarano,
riflessione di Guicciardini, che risultano particolarmente utili per un confronto con il
Utet, Torino 1970 pensiero di Machiavelli. Il pessimismo di Guicciardini si fonda su un’acuta percezione
dell’estrema complessità del reale e sulla convinzione che l’uomo sia incapace di ana-
lizzare le infinite variabili che possono determinare il successo o l’insuccesso di un’a-
zione. A differenza di Machiavelli, egli non crede nella possibilità di far tesoro degli
esempi antichi e di individuare leggi e regole di comportamento sicuramente efficaci; e
di fronte allo strapotere della fortuna non ha il suo agonismo volontaristico né i suoi
scatti d’orgoglio in omaggio all’umana virtù. Solo parziale rimedio è la discrezione, la
paziente investigazione, caso per caso, giorno per giorno, situazione per situazione, del
contesto in cui ci si trova ad agire e a dover compiere delle scelte.

Discrezione

6. È grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente, e per
dire così, per regola1; perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione2 per la varietà
delle circunstanze, le quali non si possono fermare con una medesima misura3: e que-
ste distinzione e eccezione non si truovano scritte in su’ libri, ma bisogna le insegni la
discrezione4.

35. Quanto è diversa la pratica dalla teorica5! quanti sono che intendono le cose be-
ne6, che o non si ricordono o non sanno metterle in atto! E a chi fa così, questa intel-
ligenza è inutile, perché è come avere uno tesoro in una arca7 con obligo di non po-
tere mai trarlo fuora.

76. Tutto quello che è stato per el passato e è al presente, sarà ancora in futuro; ma si
mutano e’8 nomi e le superficie delle cose9 in modo, che chi non ha buono occhio
non le riconosce, né sa pigliare regola10 o fare giudicio per mezzo di quella osserva-
zione.

110. Quanto si ingannono coloro che a ogni parola allegano e’ romani11! Bisognereb-
be avere una città condizionata come era loro12, e poi governarsi13 secondo quello
esemplo: el quale a chi ha le qualità disproporzionate è tanto disproporzionato14,
quanto sarebbe volere che uno asino facessi el corso di15 uno cavallo.

Discrezione ne cardine del pensiero di politico guicciardiniano. Questo monito non è in 12 una città... loro: uno
Guicciardini, indica il di- 5 teorica: teoria. contraddizione con la sfidu- stato (città) costituito e ordi-
1 indistintamente... per scernimento, l’arte di co- 6 intendono... bene: è cia nelle regole espressa in al- nato (condizionata) come era
regola: senza fare distinzioni gliere e razionalizzare le pe- sottinteso che costoro sanno tri ricordi (cfr.6):ancora,qui quello romano.
tra caso e caso, in modo as- culiarità di un fatto storico, bene le cose in teoria. l’invito è alla rigorosa analisi 13 governarsi: compor-
soluto e in base a regole ge- di un comportamento, di 7 arca: scrigno. delle cose attraverso la di- tarsi.
nerali. una qualunque situazione e 8 e’: i. screzione, il buono occhio del- 14 el quale... dispropor-
2 distinzione e eccezio- di esprimere una valutazio- 9 Tutto... delle cose: co- la mente, che come sa co- zionato: il quale esempio
ne: qualcosa che le distingue ne critica in merito, a pre- me Machiavelli, anche gliere i caratteri distintivi di (dei Romani) è tanto spro-
le une dalle altre e le rende scindere da alcuna regola Guicciardini ha una visione ogni fatto sa anche ricono- porzionato rispetto a una
eccezionali rispetto alla re- generale; benché faccia ap- naturalistica della realtà, per scere ciò che è sostanziale da realtà odierna con tutt’altre
gola generale. pello alla ragione e si affini cui al di là dei progressi este- ciò che è superficiale e tran- caratteristiche (le qualità di-
3 le quali... misura: le sull’esperienza, la discrezio- riori l’uomo è guidato im- sitorio. sproporzionate).
quali non si possono valuta- ne ha anche un’importante mutabilmente sempre dalle 11 allegano e’ romani: 15 facessi el corso di: cor-
re precisamente (fermare) componente intuitiva, è stesse passioni. portano come esempio i resse come.
usando un unico criterio di perspicacia innata (cfr. più 10 né sa... regola: né sa Romani. È chiara la pole-
misura. avanti il Ricordo 186). È la trarre dalla osservazione mica con l’amico Machia-
4 la discrezione: termi- virtù principale dell’uomo delle cose esperienza utile. velli.

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Quattrocento e Cinquecento

114. Sono alcuni che sopra le cose che occorrono fanno in scriptis discorsi del futuro16,
e’ quali17 quando sono fatti da chi sa18, paiono a chi gli legge molto belli; nondimeno
sono fallacissimi, perché, dependendo di mano in mano l’una conclusione dall’altra,
una che ne manchi19, riescono vane tutte quelle che se ne deducono; e ogni minimo
particulare che varii, è atto20 a fare variare una conclusione. Però21 non si possono giu-
dicare le cose del mondo sì da discosto22, ma bisogna giudicarle e resolverle giornata
per giornata.

117. È fallacissimo el giudicare per gli esempli23, perché se non sono simili in tutto e
per tutto, non servono, conciosia che24 ogni minima varietà25 nel caso può essere cau-
sa di grandissima variazione nello effetto26: e el discernere queste varietà, quando sono
piccole, vuole27 buono e perspicace occhio28.

186. Non si può in effetto29 procedere sempre con una regola indistinta e ferma. Se è
molte volte inutile lo allargarsi30 nel parlare, etiam31 cogli amici – dico di cose che me-
ritino essere tenute segrete – da altro canto el fare che gli amici si accorghino che tu
stai riservato con loro, è la via a fare che anche loro faccino el medesimo teco33: per-
ché nessuna cosa fa altrui confidarsi di te, che el presupporsi che tu ti confidi di lui33;
e così, non dicendo a altri, ti togli la facultà34 di sapere da altri. Però35 e in questo e in
molte altre cose bisogna procedere36 distinguendo la qualità delle persone, de’ casi e
de’ tempi, e a questo è necessaria la discrezione: la quale se la natura non t’ha data, ra-
de volte si impara tanto che basti37 con la esperienza; co’ libri non mai38.

Complessità del reale e fallacia dei giudizi

82. Piccoli princìpi e a pena considerabili1 sono spesso cagione di grandi ruine o di fe-
licità2: però è grandissima prudenza avvertire3 e pesare bene ogni cosa benché minima.

141. Non vi maravigliate che non si sappino le cose delle età passate, non quelle4 che
si fanno nelle provincie5 o luoghi lontani: perché, se considerate bene, non s’ha vera
notizia6 delle presenti7, non di quelle8 che giornalmente si fanno in una medesima
città; e spesso tra ’l palazzo e la piazza9 è una nebbia sì folta o uno muro sì grosso che,
non vi penetrando10 l’occhio degli uomini, tanto sa el popolo di quello che fa chi go-
verna o della ragione perché lo fa, quanto delle cose che fanno in India. E però si em-
pie facilmente el mondo di opinione erronee e vane.

16 sopra le cose... futu- lontano. levanza pubblica, ma altresì Complessità del reale e 7 presenti: si intende
ro: in base ai fatti che avven- 23 È... esempli: è causa di nei comportamenti privati. fallacia dei giudizi “presenti cose”.
gono (occorrono) al presente grandissimi errori giudicare 29 lo allargarsi: l’aprirsi. 8 non di quelle: (come
fanno per iscritto (in scriptis) i casi presenti in base agli 30 etiam: anche. 1 Piccoli... considerabi- sopra) né delle cose.
pronostici per il futuro. esempi storici. 31 teco: con te, nei tuoi ri- li: inizi minimi e quasi insi- 9 tra ’l palazzo e la piaz-
17 e’ quali: i quali. 24 conciosia che: sicco- guardi. gnificanti. za: tra governo e cittadini.
18 da chi sa: da uno che me. 32 nessuna cosa... di lui: 2 di grandi... felicità: La metonimia palazzo nel
sia esperto della materia (si 25 varietà: differenza. non c’è niente che convinca cioè di grandi e inaspettati senso di “potere”, “gover-
intende esperto delle cose 50 nello effetto: nelle una persona (altrui, impers.) effetti. nanti”, è diventata di uso
umane, non di pronostici). conseguenze. a fidarsi di te, più del sup- 3 avvertire: considerare, corrente nel linguaggio
19 dependendo... ne 26 vuole: richiede. porre che tu ti fidi di lei. valutare (vedi più avanti il giornalistico (e anche nel
manchi: essendo le previ- 27 buono... occhio: la 33 facultà: possibilità. Ricordo 187). parlato) da quando, agli inizi
sioni dipendenti in succes- “discrezione” (cfr. il Ricor- 34 Però: perciò. 4 non quelle: né le cose. degli anni Settanta,è stata ri-
sione l’una dall’altra, nel ca- do 6). 35 procedere: compor- 5 provincie: regioni, presa da Pier Paolo Pasolini.
so che una non si avveri (ne 28 in effetto: all’atto pra- tarsi. paesi (in accezione, dunque, 10 vi penetrando: pene-
manchi). tico. In questo Ricordo Guic- 36 tanto che basti: a suffi- “romana”). trandovi.
20 è atto: è sufficiente. ciardini mostra come la di- cienza. 6 vera notizia: cono-
21 Però: perciò. screzione non sia arte da ap- 37 co’ libri non mai: cfr. il scenza completa e oggetti-
22 sì da discosto: così da plicare solo nelle cose di ri- Ricordo 6. va.

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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento T 21.11

187. Sappiate che chi governa a caso11 si ritruova alla fine a caso. La diritta12 è pensare,
esaminare, considerare bene ogni cosa etiam minima13; e vivendo ancora così14, si con-
ducono con fatica bene le cose15: pensate come vanno a chi si lascia portare dal corso
della acqua.

Fallacia delle previsioni

23. Le cose future sono tanto fallace e sottoposte a tanti accidenti1, che el più delle
volte coloro ancora2 che sono bene savi se ne ingannano; e chi notassi e’ giudìci loro3,
massime ne’ particulari delle cose – perché ne’ generali più spesso s’appongono4 – fa-
rebbe in questo poca differenza da loro agli altri che sono tenuti manco savi5. Però6 la-
sciare uno bene presente per paura di uno male futuro è el più delle volte pazzia,
quando el male non sia molto certo o propinquo7 o molto grande a comparazione del
bene: altrimenti bene spesso8 per paura di una cosa che poi riesce vana9, ti perdi el be-
ne che tu potevi avere.

58. Quanto disse bene el filosofo10: de futuris contingentibus non est determinata veritas!11
Aggirati quanto tu vuoi, che quanto più ti aggiri, tanto più truovi questo detto ve-
rissimo.

81. Non abbiate mai una cosa futura tanto per certa, ancora che la paia certissima, che
potendo, sanza guastare el vostro traino, riservarvi in mano qualche cosa a proposito
del contrario se pure venissi, non lo facciate12: perché le cose riescono bene spesso
tanto fuora delle opinione commune13 che la esperienza mostra essere stata prudenza
a fare così.

Fortuna e virtù

30. Chi considera bene, non può negare che nelle cose umane la fortuna1 ha grandis-
sima potestà, perché si vede che a ognora ricevono grandissimi moti da accidenti for-
tuiti2, e che non è in potestà degli uomini né a prevedergli né a schifargli3: e benché lo
accorgimento e sollecitudine4 degli uomini possa5 moderare molte cose, nondimeno
sola6 non basta, ma gli bisogna7 ancora la buona fortuna.

11 governa a caso: gesti- imprevedibili. 8 bene spesso: molto (riservarvi in mano qualche co- 2 ricevono... fortuiti:
sce la propria vita (governa, 2 coloro ancora: anche spesso. sa) nel caso che le cose an- [le cose umane] subiscono
in senso lato, non solo poli- coloro. 9 riesce vana: si rivela dassero diversamente (a pro- grandissime variazioni (mo-
tico) in modo sconsiderato 3 chi notassi... loro: chi infondata. posito del contrario, se pure ve- ti) a causa di eventi (acciden-
(a caso). prendesse nota dei loro pro- 10 el filosofo:per antono- nissi), se potete farlo senza ti) imprevedibili.
12 La diritta: il compor- nostici. masia Aristotele (ma, come nuocere alla vostra condot- 3 schifargli: evitarli.
tamento giusto. 4 massime... s’appon- ha notato la critica, la sen- ta (traino). 4 accorgimento e sol-
13 etiam minima: per gono: soprattutto (massime) tenza sarà di qualche com- 13 riescono... commu- lecitudine: l’ingegno e lo
quanto piccolissima (cfr. a circa i fatti particolari, per- mentatore medievale dell’a- ne: hanno un esito (riescono) zelo.
questo proposito il Ricordo ché nelle previsioni generali ristotelico De divinatione). molto spesso così diverso 5 possa: possano.
82). indovinano (s’appongono) 11 de futuris... veritas: in- (tanto fuora) da quello che 6 sola: con questo sin-
14 e vivendo... così: e an- più spesso. torno agli avvenimenti fu- comunemente ci si aspetta. golare femminile (che a ri-
che vivendo così. 5 da loro... savi: tra loro turi non esiste una verità gor di logica si riferisce al
15 si conducono... le co- e quelli che sono considera- prestabilita. binomio accorgimento e solle-
se: si fa fatica a condurre a ti (tenuti) meno (manco) sa- 12 Non abbiate... faccia- Fortuna e virtù citudine) Guicciardini pare
buon fine le cose. pienti. te: non considerate mai una quasi sottintendere la tradi-
6 Però: perciò. cosa futura tanto sicura – 1 fortuna: come in Ma- zionale antagonista della
Fallacia delle previsioni 7 propinquo: molto vi- sebbene essa sembri sicuris- chiavelli e in genere nel- “fortuna”, ossia la “virtù”.
cino (latinismo), e quindi in sima – al punto da non pren- l’accezione antica, vale 7 gli bisogna ancora: al-
1 accidenti: condizioni certa misura più prevedibile. dere qualche precauzione “sorte”. l’uomo è necessaria anche.

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Quattrocento e Cinquecento

31. Coloro ancora che, attribuendo el tutto alla prudenza e virtù8, escludono quanto
possono9 la potestà della fortuna, bisogna almanco confessino che importa assai10 abat-
tersi11 o nascere in tempo che le virtù o qualità per le quali tu ti stimi siano in prez-
zo12: come si può porre lo esemplo di Fabio Massimo, al quale lo essere di natura
cunctabundo13 dette tanta riputazione, perché si riscontrò in una spezie di guerra, nel-
la quale la caldezza era perniziosa, la tardità utile14; in uno altro tempo sarebbe potuto
essere el contrario. Però15 la fortuna sua consisté in questo, che e’ tempi suoi avessino
bisogno di quella qualità che era in lui; ma chi potessi16 variare la natura sua17 secondo
le condizione de’ tempi, il che è difficillimo e forse impossibile, sarebbe tanto manco18
dominato dalla fortuna.

85. La sorte degli uomini non solo è diversa tra uomo e uomo, ma etiam19 in se mede-
simo, perché sarà uno fortunato in una cosa e infortunato in un’altra. Sono stato feli-
ce io in quelli guadagni che si fanno sanza capitale20 con la industria21 sola della per-
sona, negli altri infelice22: con difficultà ho avuto le cose quando l’ho cercate; le me-
desime, non le cercando, mi sono corse drieto.

92. Non dire: «Dio ha aiutato el tale perché era buono, el tale è capitato male perché
era cattivo»; perché spesso si vede el contrario. Né per questo dobbiamo dire che
manchi la giustizia di Dio, essendo e’ consigli23 suoi sì profondi che meritamente sono
detti abyssus multa24.
8 prudenza e virtù: ac- 136. Accade che qualche volta e’ pazzi fanno maggiore cose che e’ savi. Procede25 per-
cortezza, ponderazione e
capacità di agire. ché el savio, dove non è necessitato26, si rimette27 assai alla ragione e poco alla fortuna,
9 quanto possono: el pazzo assai alla fortuna e poco alla ragione: e le cose portate dalla fortuna hanno tal-
quanto più possibile.
10 importa assai: è de- volta fini incredibili. E’ savi di Firenze arebbono ceduto28 alla tempesta presente29; e’
terminante. pazzi, avendo contro ogni ragione30 voluto opporsi, hanno fatto insino a ora quello
11 abattersi: capitare.
12 siano in prezzo: ab-
che non si sarebbe creduto che la città nostra potessi in modo alcuno fare: e questo è
biano valore, ovvero si con- che dice el proverbio: Audaces fortuna iuvat31.
facciano ai tempi, alla situa-
zione storica contempora-
nea. 138. Né e’ pazzi né e’ savi non possono finalmente resistere a quello che ha a essere32:
13 cunctabundo: tempo- però33 io non lessi mai cosa che mi paressi meglio detta che quella che disse colui: Du-
reggiante (latinismo); rical-
ca l’appellativo cunctator cunt volentes fata, nolentes trahunt34.
(“temporeggiatore”) che il
console Quinto Fabio
Massimo si guadagnò du-
rante la seconda guerra pu-
nica, quando sconfisse l’e-
sercito di Annibale grazie a
una strategia di paziente lo- no a questo dì 3 di frebraio 26 necessitato: spinto della città, lasciata nel più to che avessino sostenuto
goramento. 1523 in molte cose bonis- dalla necessità, costretto. completo isolamento, fu sette dì…».
14 si riscontrò... utile: si sima fortuna, ma non l’ho 27 si rimette: su affida. sostenuta dalla parte popo- 30 contro ogni ragione:
trovò ad affrontare un ge- avuto simile nelle merca- 28 arebbono ceduto: si lare (qui i “pazzi”) e osteg- contro ogni ragionevole
nere di guerra, in cui l’au- tantie”; dopo la morte del sarebbero arresi. giata dalla più sfiduciata aspettativa.
dacia (caldezza) era dannosa padre Guicciardini si era 29 tempesta presente: parte nobiliare (i “savi”). 31 Audaces fortuna iuvat:
(perniziosa), la cautela utile. associato coi fratelli impe- questo Ricordo deve esse- Lo stupore ammirato di la fortuna aiuta gli audaci.
15 Però: perciò. gnando nel corso degli an- re stato scritto durante l’as- Guicciardini per l’ostina- 32 non possono... a es-
16 potessi: potesse. ni parecchio denaro nel sedio (la tempesta) di Firen- zione dei fiorentini si legge sere: non possono opporsi,
17 la natura sua: la pro- commercio della seta. ze da parte degli eserciti nel Ricordo 1: «… essen- devono cedere alla fine (fi-
pria indole. 23 e’ consigli: i giudizi, i congiunti dell’imperatore dosi contro a ogni ragione nalmente) al volere del de-
18 tanto manco: comun- pensieri. Carlo V e del papa Cle- del mondo messi [i Fioren- stino (quello che ha a essere).
que. 24 abyssus multa: profon- menyeVII, i quali volevano tini] ad aspettare la guerra 33 però: perciò.
19 etiam: anche. di come l’abisso; citazione la capitolazione del gover- del papa e imperadore san- 34 Ducunt... trahunt: “il
20 sanza capitale: senza da un versetto dei Salmi no repubblicano e la re- za speranza di alcuno soc- fato guida chi è incline a
investimenti di denaro. (37, 7): «iudicia tua [sicut] staurazione dei Medici, corso di altri, disuniti e con seguirlo, trascina chi non lo
21 industria: impegno. abyssus multa», i tuoi giu- prottrattosi dall’ottobre mille difficultà, hanno so- è”; si tratta di una massima
22 infelice: in una reda- dizi [sono] profondi come del 1529 al maggio del stenuto in sulle mura già dello stoicismo greco cita-
zione precedente dei Ricor- l’abisso. 1530. La sorprendente- sette mesi gli esserciti, e ta da Seneca nelle sue Let-
di si leggeva:“ho avuto insi- 25 Procede: ciò avviene. mente lunga resistenza quali non si sarebbe credu- tere a Lucilio (107, 11).

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21. Storiografia e politica a Firenze nel primo Cinquecento T 21.11

161. Quando io considero a quanti accidenti e pericoli di infirmità, di caso, di violen-


za e in modi infiniti, è sottoposta la vita dell’uomo, quante cose bisogna concorrino
nello anno a volere che la ricolta sia buona35, non è cosa di che io mi maravigli più
che vedere uno uomo vecchio, uno anno fertile36.

176. Pregate Dio sempre di trovarvi dove si vince, perché vi è data laude di quelle co-
se ancora di che37 non avete parte38 alcuna: come per el contrario chi si truova dove si
perde è imputato di infinite cose delle quali è inculpabilissimo.

35 bisogna... buona: de- te («È certo gran cosa che che noi viviamo secondo prietà di non pensare alla disincantato moralismo
vono concorrere durante tutti sappiamo avere a mori- che ricerca el corso overo morte alla quale, se pensassi- guicciardiniano su Leopar-
l’anno per far sì che il rac- re, tutti viviamo come se ordine di questa machina mo, sarebbe il mondo pieno di.
colto sia buono. fussimo certi avere sempre a mondana: la quale non vo- di ignavia e di torpore», 37 ancora di che: persino
36 un anno fertile: si veda vivere […]. Credo proceda lendo resti come morta e 160). Si potrà intuire quale delle quali.
anche il Ricordo preceden- perché la natura ha voluto senza senso, ci ha dato pro- influsso dovette esercitare il 38 parte: merito.

Guida all’analisi
Il metodo di Guicciardini: la discrezione Con ogni probabilità i ricordi rubricati sotto la dicitura «Discrezione»
sono in gran parte scritti con il pensiero rivolto a Machiavelli, con cui in qualche caso
Guicciardini sembra voler esplicitamente polemizzare. Machiavelli, come sappiamo, era
mosso dalla convinzione di poter trarre dall’esperienza diretta della politica e dalla cono-
scenza della storia regole e modelli di comportamento di validità generale, utili per fondare
razionalmente l’azione nel presente. Guicciardini, no. Anch’egli si fonda sull’esperienza, ma
non crede che questa dia indicazioni certe ed efficaci; meno ancora crede nell’apprendi-
mento sui libri, siano essi quelli degli storici antichi o, men che meno, trattati teorici («rade
volte si impara tanto che basti con la esperienza; co’ libri non mai», 186). La natura umana
presenta certo delle costanti, ma non tali da consentire generalizzazioni sicure; e la storia, la
cronaca e ogni particolare contesto mutano di continuo le condizioni dell’agire politico co-
sì profondamente che nessuna regola può essere data. Così in queste sue riflessioni via via
Guicciardini dichiara l’infinita «distinzione e eccezione» delle «cose del mondo» e l’ineffica-
cia delle generalizzazioni (6, 186), l’abisso che separa la teoria dalla prassi (35), l’incapacità
del giudizio umano di scorgere le costanti che stanno sotto la superficie mutevole delle co-
se (76), la debolezza della ragione che procede per deduzioni belle ma fallaci (114), l’ineffi-
cacia degli esempi e di quelli storici in particolare (117, 110).
Machiavelli sembra qui preso di mira ovunque, ma soprattutto là dove si parla più in ge-
nerale di regole (6), astrazioni teoriche (35), esempi (117), modelli storici («Quanto si in-
gannono coloro che a ogni parola allegano e romani», 110); e si ricorderà che Guicciardini
aveva dedicato un’opera intera alla discussione e in gran parte alla confutazione dei Discorsi
di Machiavelli. Alla fiducia nella ragione, alla historia magistra vitae, alla vocazione teorica di
Machiavelli, Guicciardini contrappone la «discrezione», cioè la capacità di discernere, distin-
guere (discrezione deriva da discerno) caso per caso e giorno per giorno («bisogna giudicarle e
resolverle giornata per giornata», 114), con metodo (l’analisi di tutte le minime circostanze
concrete), pazienza e talora intuito.
Complessità del reale e fallacia della ragione Nelle tre successive rubriche questa visione del mondo e questa
metodologia di confronto con il reale viene sviluppata, approfondita, variata, còlta in situa-
zioni diverse. Fulmineo ed esemplare è il ricordo 82: «Piccoli princìpi e a pena considerabi-
li sono spesso cagione di grandi ruine o di felicità: però è grandissima prudenza avvertire e
pesare bene ogni cosa benché minima». Il destino di un uomo cambia per dettagli da prin-
cipio inapprezzabili: sul piano conoscitivo, dunque, si deve prestare attenzione a tutto, e su
quello pratico si deve essere circospetti e prudenti. Ma la realtà è complessa e opaca come ci
ricorda il bellissimo e famosissimo ricordo 141 (l’immagine della «nebbia sì folta» che na-
sconde il palazzo alla piazza ha un valore socio-politico preciso, indicando l’imperscrutabi-

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Quattrocento e Cinquecento

lità delle decisioni che si prendono nei palazzi del potere, ma ha nche un più ampio valore
simbolico riferibile alla realtà tutta), la superficie delle cose è ingannevole – dirà altrove –,
nessun evento si sviluppa in modo ordinato, lineare, prevedibile.
E dunque il soppesare ogni minima cosa, ancora una volta, non basta per l’insufficienza
della nostra mente o del nostro animo. Si deve comunque ponderare, esaminare, valutare
ogni minima circostanza non per avere la certezza del buon esito di un’impresa, ma per di-
minuire le probabilità dell’insuccesso, come splendidamente sintetizza il ricordo 187: «vi-
vendo ancora così, si conducono con fatica bene le cose: pensate come vanno a chi si lascia
portare dal corso dell’acqua». Attenzione tuttavia, per voler ponderare tutto, a non rimanda-
re ogni decisione: in ogni caso si deve sapere che è impossibile «pigliare partito che sia net-
to e perfetto da ogni parte» (213).
A maggior ragione il discorso vale, naturalmente, quando si tratta di prevedere le cose fu-
ture, «tanto fallace e sottoposte a tanti accidenti» che «lasciare uno bene presente per paura
di un male futuro è el più delle volte pazzia» (23). Analogamente, folle è chi confida troppo
in un esito che gli pare scontato, senza predisporre delle contromisure qualora le cose an-
dassero diversamente (81).
Fortuna e virtù A questo punto appare scontato che, rivolgendosi a considerare più direttamente il rap-
porto tra virtù e fortuna, Guicciardini non possa riesumare l’idea umanistica dell’homo faber
fortunae suae a cui Machiavelli, pur tra molti dubbi, non aveva del tutto voluto rinunciare.
Nell’ultima sezione troviamo riecheggiati molti dei motivi già analizzati per i ricordi pre-
cedenti e in più una precisa focalizzazione del ruolo decisivo della fortuna. L’uomo può
moderarne gli effetti, ma non determinarli (30 e cfr. 187); talora si cerca una cosa e si trova
l’opposto, si mancano gli obiettivi a cui si è mirato e si centrano quelli a cui non si era nem-
meno pensato (85). Nel ricordo 31 Guicciardini sembra una volta tanto dar ragione a Ma-
chiavelli, parafrasando alcuni suoi concetti sulla necessità di adeguare le proprie inclinazioni
allo spirito dei tempi, «il che è difficillimo e forse impossibile»; lascia però tutta l’amarezza e
tutto il veleno in coda: chi pure riuscisse a comportarsi così, «sarebbe tanto manco domina-
to dalla fortuna» (Machiavelli viceversa aveva concluso optando per gli impetuosi, capaci di
piegare la fortuna-donna).
La metafora della pazzia, già usata per definire le previsioni e quanti in esse credono, tor-
na qui a ruolo invertito in due ricordi vicini: talora, visto che gli eventi spesso si sviluppano
fuor di ogni ragione e contro ogni previsione, sono i pazzi ad avere successo (136). In ogni
caso non c’è senso e non c’è giustizia negli eventi umani: «Non dire: “Dio ha aiutato el ta-
le perché era buono, el tale è capitato male perché era cattivo”; perché spesso si vede el con-
trario» (92). E se si ammette, per consuetudine, l’esistenza della giustizia divina è solo per
decretarne l’imperscrutabilità da parte dell’uomo, come dire l’inutilità in quanto criterio
pragmatico per stabilire come agire e per prevedere l’esito degli eventi, il solo piano che in-
teressi Guicciardini. Così, infine in uno dei suoi ricordi più belli e intensi, Guicciardini,
considerati gli infiniti accidenti che si devono inanellare nel verso giusto perché un’esisten-
za o anche solo un raccolto resistano ai colpi della fortuna e vadano a buon fine, magnifica-
mente, ma con profonda amarezza, dipinge il suo stupore nel «vedere uno uomo vecchio,
uno anno fertile» (161).

Laboratorio 1 Esercitati ad analizzare e a commentare Machiavelli e Guicciardini, partendo da


COMPRENSIONE alcuni singoli Ricordi di Guicciardini, fra quei Ricordi che meglio si prestano allo
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE quelli che ti paiono più significativi: spie- scopo. Ritrova nel testo e cita i passi di
ga perché li giudichi tali, analizzali sia dal Machiavelli che ti paiono più significativi
punto di vista tematico-ideologico, sia da a tale proposito.
quello stilistico, e riconducili al pensiero 3 Confronta la forma e le tesi dei Ricordi di
complessivo dell’autore e al contesto sto- Guicciardini con i testi umanistici d’ar-
rico in cui hanno visto la luce. gomento affine che hai studiato.
2 Sviluppa e approfondisci il confronto tra

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21. Storiografia e politica nel primo Cinquecento T 21.12

T 21.12 Francesco Guicciardini, Ricordi 1512-1530


Natura umana e particulare
F. Guicciardini In questa seconda selezione di ricordi troviamo Guicciardini impegnato a investigare la
Opere, vol. I natura umana e ad affrontare il grande tema dell’interesse e dei valori che spingono
a c. di E. Lugnani Scarano, l’uomo ad agire nel mondo. Anche in questo caso Guicciardini prende almeno in parte
UTET, Torino 1970
le distanze da Machiavelli: non può ammettere che l’uomo sia naturalmente inclinato al
male e, se è costretto a constatare che l’esperienza ce lo presenta per lo più avido e mal-
vagio, come lo aveva dipinto Machiavelli, ne attribuisce la ragione sostanziale alla fragi-
lità della sua natura. Analogamente, se è costretto ad ammettere che il movente dell’agi-
re umano e anche suo personale è essenzialmente il «particulare», cioè l’interesse, non
rinuncia a definirlo in termini non meramente venali e ad affermare la necessità di alcu-
ni sostanziali principi morali, aprendo uno spiraglio sul grande tema morale dell’interio-
rità e della coscienza individuale.

La natura umana
25. Guardatevi1 da fare quelli piaceri agli uomini che non si possono fare sanza fare
equale dispiacere a altri:2 perché chi è ingiuriato non dimentica, anzi reputa la ingiu-
ria maggiore;3 chi è beneficato non se ne ricorda o gli pare essere beneficato manco4
che non è. Però,5 presupposte le altre cose pari, se ne disavanza più di gran lunga che
non si avanza.6

27. La vera e fondata sicurtà di chi tu dubiti7 è che le cose stiano in modo che, benché
voglia, non ti possa nuocere: perché quelle sicurtà che sono fondate in sulla voluntà e di-
screzione8 di altri sono fallace, atteso9 quanto poca bontà e fede10 si truova negli uomini.

60. Lo ingegno più che mediocre11 è dato agli uomini per la loro infelicità e tormen-
to, perché non serve loro a altro che a tenergli con molte più fatiche e ansietà che non
hanno quegli che sono più positivi.12

134. Gli uomini tutti per natura sono inclinati più al bene che al male, né è alcuno el
quale, dove altro rispetto non lo tiri in contrario,13 non facessi più volentieri bene che
male; ma è tanto fragile la natura degli uomini, e sì spesse14 nel mondo le occasione
che invitano al male, che gli uomini si lasciano facilmente deviare dal bene. E però15 e’
savi legislatori trovorono16 e’ premi e le pene: che17 non fu altro che con la speranza e
col timore volere tenere fermi gli uomini nella inclinazione loro naturale.
La natura umana

1 Guardatevi: astenete- 157. Non è bene vendicarsi nome18 di essere sospettoso, di essere sfiducciato;19 nondi-
vi. meno20 l’uomo è tanto fallace, tanto insidioso, procede con tante arte sì indirette,21 sì
2 senza... altri: senza profonde, è tanto cupido dello interesse suo, tanto poco respettivo a quello di altri22
danneggiare in egual misu-
ra qualcun altro. che non si può errare a credere poco, a fidarsi poco.
3 maggiore: si sottin-
tende “di quel che non sia
in realtà”.
4 manco: meno. 8 discrezione: qui, in 13 dove... in contrario: a inclinazione naturale al be- “correzione” gli elementi
5 Però: perciò. accezione generale, vale meno che qualche altra ra- ne mediante la speranza centrifughi indici dell’uma-
6 presupposte... avan- “arbitrio”. gione non lo spinga a fare il [del premio] e la paura [del- na fragilità, che lo tira al ma-
za: a parità delle altre con- 9 atteso: in considera- contrario. la pena], e non per altro. le.
dizioni (quelle che induco- zione di. 14 spesse: numerose. 18 vendicarsi nome: 21 procede... indirette:
no a fare la scelta se benefi- 10 ede: fedeltà. 15 però: perciò. guadagnarsi la fama. ricorre nella sua vita a tanti
care o no), si perde assai più 11 più che mediocre: al 16 trovorono: inventaro- 19 sfiducciato: diffidente. espedienti (tante arte).
che non si guadagna. di sopra dell’ordinario. no. 20 nondimeno: dopo la 22 tanto... altri: così gelo-
7 La vera... dubiti: il so- 12 più positivi: più legati 17 che: il che (cioè l’isti- massima generale, alla base so del proprio interesse, così
lo sistema vero e valido per alle cose materiali e di esse tuzione di premi e pene) fu della quale è il presupposto noncurante (poco respettivo)
proteggerti da qualcuno di più soddisfatti; meno pro- voluto per far seguire (tene- della naturale positività del- degli interessi degli altri.
cui tu non ti fidi. blematici. re fermi) agli uomini la loro l’uomo, si introducono a

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Quattrocento e Cinquecento

192. Pigliate nelle faccende questa massima: che non basti dare loro23 el principio, lo
indirizzo, el moto, ma bisogna seguitarle e non le staccare24 mai insino al fine; e chi le
accompagna così non fa anche poco a conducerle a perfezione.25 Ma chi negocia al-
trimenti26 le presuppone talvolta finite che a pena sono cominciate o difficultate:27
tanta è la negligenza, la dapocaggine, la tristizia28 degli uomini, tanti gli impedimenti e
le difficultà che di sua29 natura hanno le cose. Usate questo ricordo: m’ha fatto talvol-
ta grande onore, come fa vergogna grande a chi usa el contrario.

23 loro: alle faccende. pagna) così non senza diffi- agisce diversamente. 29 sua: loro (riferito alle
24 staccare: trascurare. coltà (non fa... poco) le porta 27 difficultate: entrate in cose).
25 e chi... perfezione: e a compimento. difficoltà.
anche chi le gestisce (accom- 26 negocia altrimenti: 28 tristizia: meschinità.

Il particulare e la riputazione

15. Io ho desiderato, come fanno tutti gli uomini, onore e utile: e n’ho conseguito
molte volte sopra1 quello che ho desiderato o sperato; e nondimeno non v’ho mai
trovato drento quella satisfazione che io mi ero immaginato; ragione, chi bene la con-
siderassi, potentissima a tagliare assai delle vane cupidità degli uomini.2

16. Le grandezze e gli onori sono communemente desiderati, perché tutto quello che
vi è di bello e di buono apparisce di fuora e è scolpito nella superficie: ma le molestie,
le fatiche, e’ fastidi e e’ pericoli sono nascosti e non si veggono; e’ quali3 se apparissino4
come apparisce el bene, non ci sarebbe ragione nessuna da dovergli desiderare,5 eccet-
to una sola: che quanto più gli uomini sono onorati, reveriti e adorati, tanto più pare
che si accostino e diventino quasi simili a Dio, al quale chi è quello che non volessi as-
somigliarsi?6

17. Non crediate a coloro che fanno professione7 d’avere lasciato le faccende8 e le
grandezze9 volontariamente e per amore della quiete, perché quasi sempre ne è stata
cagione o leggerezza10 o necessità: però si vede per esperienza che quasi tutti, come se
gli offerisce11 uno spiraglio12 di potere tornare alla vita di prima, lasciata la tanto loda-
ta quiete, vi si gettano con quella furia che fa13 el fuoco alle cose bene unte e secche.

28. Io non so a chi dispiaccia14 più che a me la ambizione, la avarizia e la mollizie15 de’
preti: sì perché ognuno di questi vizi in sé è odioso, sì perché16 ciascuno e tutti insie-
me si convengono17 poco a chi fa professione di vita dependente da Dio, e ancora
perché sono vizi sì contrari18 che non possono stare insieme se non in uno subietto19
Il particulare e la riputa-
zione molto strano. Nondimeno el grado che ho avuto con più pontefici,20 m’ha necessita-
1 sopra: più di.
2 a tagliare... uomini: a
ridimensionare molto i va- 4 apparissino: apparis- cordo 15) Guicciardini non 10 leggerezza: sconside- tezza morale.
ni desideri (cupidità) degli sero. smette di credere al sogno, ratezza, volubilità (in un’al- 16 sì perché... sì perché:
uomini. Una delle consta- 5 da dovergli desidera- ardito e ingenuo allo stesso tra versione Guicciardini sia perché... sia perché.
tazioni più sconsolate in- re: per doverli desiderare tempo, della sua età: asso- scrive “pazzia”). 17 si convengono: si ad-
torno alla condizione uma- (compl. ogg. sono le gran- migliare a Dio per mezzo 11 come se gli offerisce: dicono.
na, tanto più “vera” in dezze e gli onori). della grandezza terrena. non appena si offre loro. 18 sì contrari: così con-
6 assomigliarsi: pur in 7 fanno professione: di- 12 spiraglio: minima op- trastanti fra loro.
quanto dettata da un uomo
che aveva raggiunto nella mezzo a un generale senti- chiarano pubblicamente. portunità. 19 subietto: soggetto, in-
vita pubblica onore e utile in mento della vanità delle 8 le faccende: gli affari 13 che fa: con la quale si dividuo.
sommo grado (cfr. anche il cose umane e accanto a mondani. getta. 20 el grado... pontefici:
Ricordo 16). un’attestazione di intima 9 le grandezze: gli inca- 14 dispiaccia: ripugni. gli incarichi che ho avuto
3 e’ quali: i quali. sconfitta (cfr. anche il Ri- richi importanti. 15 la mollizie: la dissolu- presso diversi pontefici.

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21. Storiografia e politica nel primo Cinquecento T 21.12

to21 a amare per el particulare mio22 la grandezza loro; e se non fussi questo rispetto,23
arei amato Martino Luther24 quanto me medesimo: non per liberarmi dalle legge in-
dotte dalla religione cristiana nel modo che è interpretata e intesa communemente,25
ma per vedere ridurre questa caterva di scelerati26 a’ termini debiti, cioè a restare o
sanza vizi o sanza autorità.

42. Non fare più conto d’avere grazia che d’avere riputazione,27 perché, perduta la ri-
putazione, si perde la benivolenza, e in luogo di quella28 succede lo essere disprezzato;
ma a chi mantiene la riputazione non mancano amici, grazia e benivolenza.

44. Fate ogni cosa per parere buoni, ché serve a infinite cose: ma perché le opinione
false non durano, difficilmente vi riuscirà el parere lungamente buoni, se in verità non
sarete. Così mi ricordò29 già mio padre.

118. A chi stima l’onore assai, succede30 ogni cosa, perché non cura31 fatiche, non pe-
ricoli, non danari.32 Io l’ho provato in me medesimo, però33 lo posso dire e scrivere:
sono morte e vane le azione degli uomini che non hanno questo stimulo ardente.

158.Veggonsi a ogn’ora e’ benefici che ti fa34 l’avere buono nome, l’avere buona fama;
ma sono pochi35 a comparazione36 di quelli che non si veggono, che vengono da per
sé e sanza che tu ne sappia la causa, condotti da quella buona opinione che è di te.
21 necessitato: costretto. Però disse prudentissimamente37 colui: che più valeva el buono nome che molte ric-
22 el particulare mio: chezze.38
qui l’espressione ha il nudo
significato di “interesse,
utile privato”, ma nell’in- 159. Non biasimo e’ digiuni, le orazione e simile opere pie che ci sono ordinate dalla
sieme del pensiero guic-
ciardiniano si carica di più Chiesa o ricordate39 da’ frati. Ma el bene de’ beni è – e a comparazione di questo tut-
ampie valenze, per cui ti gli altri sono leggieri40 – non nuocere a alcuno, giovare in quanto tu puoi a ciascu-
dev’essere inteso non solo
come utilità immediata, no.41
tornaconto, ma come rea-
lizzazione personale, rag-
giungimento di dignitose 218. Quegli uomini conducono bene42 le cose loro in questo mondo, che hanno
aspirazioni (cfr. il Ricordo sempre innanzi agli occhi lo interesse propio, e tutte le azione sue43 misurano con
218); inoltre, è da sottoli- questo fine. Ma la fallacia44 è in quegli che non conoscono bene quale sia lo interesse
neare che Guicciardini ve-
de nella morale del particu- suo,45 cioè che reputano che sempre consista in qualche commodo pecuniario46 più
lare, con i suoi rischi di che nell’onore, nel sapere mantenersi la riputazione e el buono nome.47
egoismo e limitatezza, un
antidoto certamente mo-
desto e tuttavia efficace,
quando usato con animo
retto, contro l’ipocrisia dei meno. 29 ricordò: ammonì. lius est nomen bonum uomini di Chiesa).
grandi ideali in realtà im- 25 dalle legge... com- 30 succede: riesce con quam divitiae multae», è 42 conducono bene:
praticabili. munemente: dalle dottrine successo. meglio un buon nome che portano a buon fine.
23 e se... rispetto: e se e dai precetti imposti dalla 31 non cura: non teme, una grande ricchezza (Prov. 43 sue: loro
non fosse per questa ragio- religione cristiana così co- non si preoccupa eccessiva- 22, 1). In questo caso, quin- 44 fallacia: errore.
ne. me essa è comunemente mente di. di, colui sarà il Re Salomo- 45 suo: loro.
24 Martino Luther: Mar- interpretata.. 32 danari: spese ne. 46 commodo pecunia-
tin Lutero, iniziatore della 26 scelerati: gli uomini 33 però: perciò. 39 ricordate: raccoman- rio: vantaggio economico.
Riforma protestante, che della Chiesa; in altra reda- 34 Veggonsi... ti fa: si ve- date. 47 nell’onore... nome:
nel 1517 aveva pubblicato zione aveva scritto “questa dono quotidianamente i 40 leggieri: di poco con- senza abbandonare il suo
Wittenberg le celebri 95 scelerata tirannide de’ pre- benefici che ti procura. to. generale scetticismo sulla
tesi contro il commercio ti”. 35 sono pochi: si intende 41 non nuocere... ciascu- condizione umana in questo
delle indulgenze. L’affer- 27 Non fare... riputazio- “i benefici visibili”. no: una morale laica che mondo, Guicciardini precisa
mazione di Guicciardini ha ne: non considerare più im- 36 a comparazione: in mette sopra tutto il rispetto che cosa intenda per “inte-
carattere esclusivamente portante essere benvoluto confronto. per l’uomo (questo scettici- resse particulare”, e col rife-
politico ed è del tutto alie- (aver grazia, cioè avere il fa- 37 prudentissimamen- smo circa sia le aspirazioni rimento ad aspirazioni ma-
na da preoccupazioni dot- vore di qualcuno) che avere te: assai saggiamente. trascendenti sia gli aspetti gnanime (l’onore, la riputa-
trinarie; comunque, solo 30 buon nome (riputazione). 38 che più... ricchezze: più formali della religione è zione, il buono nome) nobili-
o 40 anni più tardi, in piena 28 in luogo di quella: al Pasquini indica l’origine lo stesso che detta il Ricor- ta un principio morale al-
Controriforma, si sarebbe posto della benevolenza biblica di questa massima do 28, dove però spicca il li- trimenti assai poco attraen-
rischiata la vita per molto (quella). passata in proverbio: «Me- vore contro l’ipocrisia degli te e lungimirante.

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Quattrocento e Cinquecento

Guida all’analisi
L’uomo: incline al bene, ma fragile Anche quando affronta il tema della natura umana Guicciardini si dimostra
poco incline alle astrazioni: Machiavelli poteva dire semplicemente che gli uomini «sono
tristi» per natura; Guicciardini invece distingue: per natura sono inclini al bene, ma loro na-
tura è tanto fragile che per lo più si comportano in senso opposto (134). Così l’esperienza ce
li presenta ingrati e vendicativi (25), malvagi e sleali (27), fallaci, insidiosi e cupidi (157), negli-
genti, sciocchi, tristi (192). Sul piano pratico, in questo caso i precetti di Guicciardini non si
discostano molto da quelli di Machiavelli: bisogna essere diffidenti, e se talora gli uomini pos-
sono stupirci in positivo, è tuttavia prudente e saggio, per evitare sgradevoli sorprese, presup-
porli sempre malvagi (157).
Il successo e le sue amarezze «Le grandezze e gli onori sono communemente desiderati, perché tutto quello che
vi è di bello e di buono apparisce di fuora e è scolpito nella superficie», ma se si potesse vede-
re il fardello di «molestie... fatiche... fastidi... pericoli» che il raggiungimento del successo
comporta, forse non ci apparirebbe altrettanto desiderabile (16). Egli personalmente ha avuto
«onore e utile» più di quanto ne avesse sperato, ma non vi ha trovato quella soddisfazione che
aveva immaginato (15). Sotto la superficie lucente del successo Guicciardini rivela le amarez-
ze e le insoddisfazioni che esso comporta, apre uno spiraglio insomma sul grande tema mora-
le dell’interiorità e della coscienza. La felicità vera sta altrove, ma è comunque un bene raro, se
è vero che anche «lo ingegno più che mediocre è dato agli uomini per loro infelicità e tor-
mento» (60) e la natura ci ha fatti incontentabili. E tuttavia gli uomini, anche dopo averne fat-
ta esperienza, si ostinano a cercare il denaro, il successo, la fama, il potere: non si creda dunque
a chi dice di essersi ritirato per amore della quiete! (17); questo perché, nonostante i pericoli e
le amarezze, tutto ciò li rende «onorati, reveriti e adorati» e li fa «quasi simili a Dio», il che co-
stituisce, per l’umana fragilità, una tentazione troppo forte perché le si possa resistere (16).
Ma, nonostante la fama di cinico e amorale che si è a lungo portato appresso per un fa-
moso giudizio di De Sanctis, Guicciardini ci sorprende per il peso che egli sembra ancora
attribuire ad alcuni fondamentali valori morali. Il teorico del «particulare», cioè dell’interes-
se personale, che ad esempio lo spinge ad «amare la grandezza» dei preti, che pure dipinge
come un’odiosa «caterva di scelerati», dediti ai peggiori vizi (28), mostra tuttavia di dare un
peso insospettabile alla dirittura morale, alla coerenza personale, alla buona reputazione, al-
l’onore. Innanzitutto il «particulare», «lo interesse proprio», non consiste in qualche «com-
modo pecuniario», ma «nell’onore, nel sapere mantenersi la riputazione e el buono nome»
(218, forse non a caso uno dei ricordi conclusivi). A chi si regola in questo modo e sente «lo
stimulo ardente» dell’onore personale e della buona reputazione, capita di scoprire che an-
che questa può essere una via per il successo: «a chi stima l’onore assai, succede ogni cosa,
perché non cura fatiche, non pericoli, non danari» (118). Certo è utile anche solo «parere
buoni», ma, «perché le opinioni false non durano», è meglio esserlo davvero, gli insegnava
suo padre (44). La buona reputazione, che deve dunque avere un fondamento nei compor-
tamenti reali, produce infatti «amici, grazia e benivolenza» (42) e molti altri benefici, alcuni
esteriori, molti di più intimi, come egli attesta anche per esperienza personale in altri ricor-
di. Così Guicciardini, che ha sperimentato anche le amarezze del successo, può lasciarci in-
tuire anche la soddisfazione per aver in fondo obbedito a un elementare codice etico, che
sintetizza nella massima «non nuocere a alcuno, giovare in quanto tu puoi a ciascuno» (159).

Laboratorio 1 Esercitati ad analizzare e a commentare 2 Sviluppa e approfondisci il confronto tra


COMPRENSIONE esaustivamente alcuni singoli Ricordi di Machiavelli e Guicciardini, partendo da
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE Guicciardini, fra quelli che ti paiono più quei ricordi che meglio si prestano allo
significativi: spiega perché li giudichi tali, scopo. Ritrova nel testo e cita i passi di
analizzali sia dal punto di vista tematico- Machiavelli che ti paiono più significativi
ideologico, sia da quello stilistico, e ricon- a tale proposito.
ducili al pensiero complessivo dell’autore 3 Confronta la forma e le tesi dei Ricordi di
e al contesto storico in cui hanno visto la Guicciardini con i testi umanistici d’ar-
luce. gomento affine che hai studiato.
738 © Casa Editrice Principato
21. Storiografia e politica nel primo Cinquecento T 21.13

T 21.13 Francesco Guicciardini, Ricordi 1512-1530


Arte della politica e della negoziazione
F. Guicciardini Guicciardini appare assai meno crudo e spregiudicato di Machiavelli quando affronta le
Opere, vol. I questioni strettamente politiche, l’arte del governo e della negoziazione e i rapporti con
a c. di E. Lugnani Scarano,
UTET, Torino 1970
i principi. Tuttavia, nonostante la moderazione e la prudenza di Guicciardini, anche in
questo caso emerge con nettezza la realtà effettuale dei rapporti di forza, della simula-
zione e della dissimulazione, delle astuzie e delle cautele necessarie a un politico e a un
cortigiano per agire in un mondo che si intuisce violento.

La golpe e il lione

37. Nega pure sempre quello che tu non vuoi che si sappia, o afferma quello tu vuoi
che si creda, perché, ancora che1 in contrario siano molti riscontri2 e quasi certezza, lo
affermare o negare gagliardamente3 mette spesso a partito el cervello4 di chi ti ode.

La golpe e il lione 46. Non mi piacque mai ne’ miei governi5 la crudeltà e le pene eccessive, e anche6
non sono necessarie, perché da certi casi esemplari in fuora,7 basta, a mantenere el ter-
1 ancora che: nonostan-
te. rore, el punire e’ delitti a 15 soldi per lira: pure che si pigli regola di punirgli tutti.8
2 in contrario... riscon-
tri: ci siano molte prove in
contrario. 48. Non si può tenere stati secondo coscienza,9 perché – chi considera la origine loro
3 gagliardamente: in – tutti sono violenti,10 da quelli delle repubbliche nella patria propria in fuora, e non
modo efficace.
4 mette... el cervello: altrove:11 e da questa regola non eccettuo lo imperadore e manco e’ preti,12 la violen-
mette spesso in dubbio l’o- za de’ quali è doppia, perché ci sforzano13 con le arme temporale e con le spirituale.14
pinione.
5 governi: si veda la nota
al Ricordo 28. 72. Non è15 cosa che gli uomini nel vivere del mondo16 debbino più desiderare e che
6 anche: inoltre.
7 da certi... fuora: ad ec-
sia più gloriosa che vedersi el suo17 inimico prostrato in terra e a tua discrezione;18 e
cezione di alcuni casi esem- questa gloria la raddoppia chi la usa bene, cioè con lo adoperare la clemenza e col ba-
plari. stargli d’avere vinto.
8 basta... tutti: per man-
tenere vivo il timore della
giustizia (el terrore) è suffi- 74. Non procede19 sempre el vendicarsi da odio o da mala natura,20 ma è talvolta ne-
ciente punire i delitti con
una pena moderata, inferio- cessario perché con questo esempio gli altri imparino a non ti offendere: e sta molto
re a quella effettivamente bene questo che uno si vendichi e tamen21 non abbia rancore di animo contro a colui
dovuta (15 soldi per lira: 15 di chi fa vendetta.22
soldi equivalevano a tre
quarti di lira): a patto che
(pure che) si sia rigorosi (si 104. È lodato assai negli uomini, e è grato23 a ognuno, lo essere di natura liberi e rea-
pigli regola) e li si punisca
tutti. li24 e, come si dice in Firenze, schietti. È biasimata da altro canto ed è odiosa la simu-
9 tenere... conscienza: lazione, ma è molto più utile a sé medesimo; e quella realità25 giova più presto26 a al-
essere a capo di uno stato in
piena legittimità (“con la tri che a sé. Ma perché non si può negare che la non sia bella,27 io loderei chi ordina-
coscienza pulita”). riamente avessi el traino suo del vivere libero e schietto,28 usando la simulazione sola-
10 sono violenti: sono
nati da un atto di violenza. mente in qualche cosa molto importante, le quali accaggiono29 rare volte. Così acqui-
11 da quelli... altrove: ad
eccezione degli stati repub-
blicani, ma solo per quanto motivo dell’anticlericali- 17 el suo: il loro. 20 mala natura: indole 26 più presto: piuttosto.
riguarda il loro territorio smo guicciardiniano: dopo 18 a tua discrezione: nel- malvagia. 27 la non sia bella: sog-
originario (nella patria pro- la corruzione morale e l’i- le tue mani (concordanza a 21 tamen: tuttavia. getto è quella realità.
pria) e non le terre conqui- pocrisia degli ecclesiastici senso). Una morale antie- 22 contro... vendetta: 28 chi... schietto: chi
state successivamente (al- (Ricordo 28), la duplice vangelica, la cui vicinanza contro colui ai danni del quotidianamente, per l’or-
trove). violenza che la Chiesa eser- con quella degli antichi è quale egli si vendica. dinario, avesse come regola
12 e’ preti: lo Stato della cita sui suoi sudditi aggiun- confermata dal successivo 23 grato: gradito. di vita (el traino suo del vivere)
Chiesa. gendo alla comune violen- invito, di sapore quanto mai 24 iberi e reali: aperti e la sincerità e la schiettezza.
13 ci sforzano: ci fanno za politica il ricatto spiri- “romano”, alla clemenza e sinceri, leali. 29 accaggiono: accado-
violenza, ci tengono sotto- tuale. alla magnanimità verso i 25 realità: la qualità di chi no (concordato a senso con
posti. 15 Non è: non c’è. vinti. è libero e reale, cioè la fran- il plurale delle “cose molto
14 con le arme... spiri- 16 nel vivere del mondo: 19 Non procede: non de- chezza, la mancanza di si- importanti”).
tuale: ecco un ulteriore nella vita terrena. riva. mulazione.

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Quattrocento e Cinquecento

steresti nome30 di essere libero e reale, e ti tireresti drieto quella grazia31 che ha chi è
tenuto32 di tale natura: e nondimeno, nelle cose che importassino più, caveresti utilità
della simulazione, e tanto maggiore quanto, avendo fama di non essere simulatore, sa-
rebbe più facilmente creduto alle arti tue.33

105. Ancora che34 uno abbia nome35 di simulatore o di ingannatore, si vede che pure
qualche volta gli inganni suoi truovano fede.36 Pare strano a dirlo, ma è verissimo; e io
mi ricordo el re Catolico37 più che tutti gli altri uomini essere in questo concetto,38 e
nondimeno ne’ suoi maneggi non gli mancava mai chi gli credessi più che el debito.39
E questo bisogna che proceda40 o dalla semplicità41 o dalla cupidità42 degli uomini:
questi per credere facilmente quello desiderano, quelli per non conoscere.43
30 nome: fama. 35 nome: fama. lo personalmente quando del dovuto. ingannare] perché facil-
31 quella grazia: quel fa- 36 truovano fede: sono risiedette alla sua corte in 40 bisogna che proceda: mente credono vero ciò
vore, quella benevolenza. creduti veri. veste di ambasciatore di Fi- deve essere una conseguen- che desiderano, gli ingenui
32 è tenuto:è considerato. 37 el re Catolico: Ferdi- renze, tra il 1512 e il 1513. za. (quelli) [si lasciano inganna-
33 alle arti tue: ai tuoi in- nando II d’Aragona (1452- 38 essere in questo con- 41 semplicità: ingenuità. re] perché non conoscono
ganni. 1516) detto “il Re Cattoli- cetto: avere la nomea di si- 42 cupidità: avidità. chi li inganna].
34 Ancora che: per quan- co”. Guicciardini ebbe mo- mulatore e ingannatore. 43 questi... conoscere:
to. do di conoscerlo e giudicar- 39 più che el debito: più gli avidi (questi) [si lasciano

Le virtù del negoziatore

43. Ho osservato io ne’ miei governi1 che molte cose che ho voluto condurre,2 come
pace, accordi civili e cose simili, innanzi che io mi vi introduca,3 lasciarle bene dibattere
e andare a lungo, perché alla fine, per stracchezza, le parte ti pregano che tu le acconci.4
Così, pregato, con riputazione e sanza nota alcuna di cupidità,5 conduci quello a che
da principio invano saresti corso drieto.6

49. Non dire a alcuno le cose che tu non vuoi che si sappino, perché sono varie le co-
se che muovono gli uomini a cicalare:7 chi per stultizia, chi per profitto, chi vanamen-
te per parere di sapere;8 e se tu sanza bisogno9 hai detto uno tuo segreto a un altro,
non ti debbi punto10 maravigliare se colui, a chi importa el sapersi manco che a te,11 fa
el medesimo.12

Le virtù del negoziatore 132. Io sono stato di natura molto libero13 e inimico assai degli stiracchiamenti;14
1 ne’ miei governi: vedi
però15 ha avuto facilità grande chi ha avuto a convenire meco.16 Nondimeno ho co-
la nota al Ricordo 28. gnosciuto17 che in tutte le cose è di somma utilità el negociare con vantaggio,18 la
2 condurre: portare a somma19 del quale consiste in questo: non venire subito agli ultimi partiti,20 ma, po-
compimento.
3 innanzi... introduca: nendosi da discosto, lasciarsi tirare di passo in passo e con difficultà. Chi fa così ha be-
prima di metterci mano ne spesso più di quello di che si sarebbe contentato;21 chi negocia come ho fatto io,
personalmente.
4 asciarle... le acconci: non ha mai se non quello sanza che non arebbe concluso.
[conviene] lasciare che sia-
no ben dibattute e che sia-
no tirate in lungo, perché so (conduci) ciò che all’ini- al quale interessa meno che cordi (convenire) con me tentato: Chi fa così [chi usa
alla fine, per stanchezza, i zio avresti cercato invano di a te che il tuo segreto si sap- (meco). gli stiracchiamenti] ottiene
contendenti (le parte) si ri- fare (saresti corso drieto).Vedi pia. 17 ho cognosciuto: ho molto spesso un risultato
volgono a te pregandoti af- sullo stesso argomento il 12 fa el medesimo: cioè imparato con l’esperienza. maggiore (più) di quello di
finché tu trovi un accordo Ricordo 78. confida ad altri il tuo segre- 18 el negociare con van- cui (di che) si sarebbe reputa-
(le acconci). 7 cicalare: chiacchierare. to. taggio: il negoziare da una to soddisfatto (contentato);
5 con riputazione... 8 chi vanamente... sa- 13 libero: schietto, franco. posizione di vantaggio. chi negozia come ho fatto
cupidità: con onore (riputa- pere: chi per la vanità di mo- 14 stiracchiamenti: le 19 la somma: sott. “uti- io [con facilità grande], non
zione) e senza alcuna taccia strarsi al corrente delle cose. cautele eccessive e calcolate, lità”. ottiene mai se non il risulta-
(nota) di interesse personale 9 sanza bisogno: senza le lungaggini intenzionali. 20 non venire... partiti: to minimo (quello) senza il
(cupidità). necessità. 15 però: perciò. non porre immediatamente quale non avrebbe concluso
6 conduci... drieto: 10 punto: affatto. 16 chi... meco: chi ha do- le proprie condizioni. la negoziazione.
porti a termine con succes- 11 a chi... manco che a te: vuto trattare, prendere ac- 21 ha bene spesso... con-

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21. Storiografia e politica nel primo Cinquecento T 21.13

Arte della cortigiania

90. Chi depende dal favore de’ prìncipi sta appiccato1 a ogni gesto, a ogni minimo
cenno loro, in modo che facilmente salta a ogni piacere loro:2 il che è stato spesso ca-
gione agli uomini di danni grandi. Bisogna tenere bene el capo fermo3 a non si lascia-
re levare leggiermente da loro a cavallo,4 né si muovere se non per le sustanzialità.5

103. Fa el tiranno ogni possibile diligenza6 per scoprire el segreto del cuore tuo,7 con
farti carezze,8 con ragionare9 teco lungamente, col farti osservare da altri che per or-
dine suo si intrinsecano teco,10 dalle quali rete11 tutte è difficile guardarsi:12 e però,13 se
tu vuoi che non ti intenda,14 pènsavi diligentemente e guardati con somma industria15
da tutte le cose che ti possono scoprire, usando tanta diligenza a non ti lasciare inten-
dere quanta usa lui a intenderti.

179. Io mi feci beffe da giovane del sapere sonare, ballare, cantare e simile leggiadrie:16
dello scrivere ancora17 bene, del sapere cavalcare, del sapere vestire accomodato,18 e di
tutte quelle cose che pare che diano agli uomini più presto19 ornamento che sustanza.
Ma arei20 poi desiderato el contrario, perché se bene è inconveniente21 perdervi trop-
po tempo e però forse nutrirvi e’ giovani, perché non vi si deviino,22 nondimeno ho
visto esperienza che questi ornamenti e el sapere fare bene ogni cosa,23 danno degnità
e riputazione24 agli uomini etiam bene qualificati,25 e in modo che si può dire che, a
chi ne manca, manchi qualche cosa. Sanza che,26 lo abondare di tutti gli intratteni-
menti27 apre la via a’ favori de’ prìncipi, e in chi ne abonda è talvolta principio o ca-
gione di grande profitto e esaltazione,28 non essendo più el mondo e e’ prìncipi fatti
come doverebbono,29 ma come sono.30

Arte della cortigiania quale si dice ancora levare a diventano tuoi amici e con- 22 e però... deviino: e le leggiadrie di cui sopra, le
cavallo, è dire cose ridicole e fidenti. perciò, forse, [è sconvenien- buone maniere.
1 sta appiccato: sta so- impossibili, e voler darglie- 11 rete: reti. te] educare con tali cose 28 esaltazione: promo-
speso, è legato; si noti come ne a credere, per trarre pia- 12 guardarsi: difendersi (nutrirvi) i giovani, perché in zione sociale.
in questo Ricordo Guic- cere, e talvolta utile, come (come più avanti guardati mezzo ad esse non si cor- 29 doverebbono: do-
ciardini faccia uso di espres- fecero Bruno e Buffalmac- vale “proteggiti”, “ripara- rompano (non vi si deviino). vrebbero.
sioni idiomatiche molto co a maestro Simone diVal- ti”). 23 el sapere... ogni cosa: 30 come sono: il motivo
concrete e evidenti. lecchi» (Benedetto Varchi, 13 però: perciò. è la caratteristica del Corte- della “realtà effettuale” che
2 facilmente... loro: ac- Ercolano). 14 non ti intenda: non giano come idealizzato dal prevale sull’illusione del
consente (salta, nel senso di 5 le sustanzialità: i van- penetri nel segreto del cuore Castiglione: essere un indi- “dover essere”, così proprio
“scatta sull’attenti”, “è taggi concreti (in opposi- tuo. viduo a proprio agio in ogni di Guicciardini e di Ma-
pronto”) facilmente a ogni zione alle facili promesse di 15 industria: zelo, impe- cosa del mondo, senza avere chiavelli, si coniuga col to-
loro desiderio. favori che levano a cavallo). gno. alcuna specializzazione. pos della lode del tempo
3 tenere... fermo: essere 6 Fa... diligenza: il ti- 16 leggiadrie: occupa- 24 degnità e riputazione: passato («non essendo più el
risoluti, determinati. ranno usa ogni possibile zioni gentili. distinzione e buona fama. mondo…»); ma quella che
4 a non... cavallo: a non studio. 17 ancora: anche. 25 uomini... qualificati: pare un’ombra di rimpian-
credere imprudentemente 7 el segreto... tuo: i tuoi 18 accomodato: elegan- anche (etiam) agli uomini to è verosimilmente solo
a tutto ciò che [i prìncipi] di- pensieri più intimi. te. dotati di buone qualità ironia, di uno che sa che mai
cono. Giorgio Masi cita una 8 farti carezze: lusin- 19 più presto: piuttosto. (cioè dotati di sustanza e ci furono tempi in cui i
glossa contemporanea del- garti, favorirti. 20 arei: avrei. non solo di ornamento). principi fossero diversi da
l’espressione levare a cavallo: 9 ragionare: conversare. 21 inconveniente: scon- 26 Senza che: inoltre. quelli contemporanei.
«Tor su, o tirar su alcuno, il 10 si intrinsecano teco: veniente. 27 intrattenimenti: sono

Guida all’analisi
La golpe e il lione Sotto la rubrica «La golpe e il lione» abbiamo riunito alcuni ricordi sul tema della violenza
e dell’astuzia nella vita politica. Guicciardini appare più moderato e prudente di Machiavelli nel
legittimare gli atti che contrastino la morale corrente; e talora anzi ne prende le distanze. Ma
anche lui si attiene alla verità effettuale, e qualcosa della crudezza dei rapporti politici e delle
necessità del governo trapela anche in questi ricordi.

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Quattrocento e Cinquecento

Ispirato a moderazione e a buon senso appare il precetto 46, che sostiene che i delitti pos-
sono essere puniti con pene miti purché si puniscano tutti, ma l’inciso «da certi casi esemplari
in fuora», che ammette in casi eccezionali l’esemplarità e anche la crudeltà delle pene, lascia un
discreto margine di arbitrio. Subito dopo si affermano, impersonalmente, l’impossibilità di te-
nere gli stati secondo coscienza e la gestione violenta del potere (anche da parte delle repubbli-
che, se si considera il governo del contado, 48): il che non differisce molto, se non per linguag-
gio, dalle analoghe constatazioni di Machiavelli. Analogamente si predica l’opportunità della
clemenza, ma si afferma anche la soddisfazione nel vedere un nemico prostrato (72) e la neces-
sità strategica della vendetta (74).
Quanto all’uso dell’astuzia, Guicciardini si diffonde nell’analisi della necessità, pur moral-
mente deprecabile, della simulazione e della dissimiluazione: ciò che colpisce di più è forse la
tranquillità con cui ne parla, dandola per scontata e mostrando tutto sommato di non conside-
rarla più di tanto deprecabile (verbalmente più crudo, Machiavelli mostrava forse una maggio-
re consapevolezza dello scandalo delle proprie affermazioni). In qualche caso si tratta di pure e
semplici forme di prudenza verbale, che possono rientrare nella schiera dei precetti di una nor-
male arte della negoziazione e dei rapporti sociali. Ma altrove la simulazione si presenta come
un’arte più sottile e talora più brutale che fa leva sulla credulità e stupidità degli uomini, un
tratto questo che si potrebbe aggiungere all’elenco delle ‘fragilità’ della natura umana (37). In
particolare notevole è quello che ha per protagonista Ferdinando il Cattolico, che nonostante la
sua fama di ingannatore trovava sempre qualcuno così sciocco da credergli (105). Ma anche l’a-
bituale sincerità può diventare uno strumento politico, dato che la fama di persona schietta può
far sì che al momento del bisogno si presti più facilmente fede alla simulazione (104). Come
sosteneva anche Machiavelli bisogna usar la golpe solo quando è necessario, con metodo e ra-
ziocinio in modo da trarne il massimo vantaggio.
Le virtù del negoziatore I precetti e le riflessioni seguenti completano il capitolo dell’arte della negoziazione, ma ci
riportano a una condotta più ‘normale’ e qualche volta più tecnica: prudenza, discrezione (nel
senso di segretezza), pazienza, capacità di attendere il momento opportuno sono le virtù qui
descritte ed elogiate. Così invece di cercare di forzare la mano, è bene aspettare che le parti si
estenuino nella discussione finché «per stracchezza» ti chiedano di esporre il tuo punto di vista,
accogliendo di buon grado quanto altrimenti avresti faticato a imporre (43). Analoga è la tatti-
ca degli «stirachiamenti», cioè delle trattative lunghe, condotte passo dopo passo, che consento-
no di uscirne con quanto si è messo in conto di ottenere (132).
Il cortigiano Quanto ai rapporti con i principi, Guicciardini mostra di aver elaborato una sommaria ma
illuminante arte della cortigiania. Si era dovuto abituare a muoversi a corte e a trattare con
principi e papi, conoscendone e sfruttandone capricci e debolezze. Quanto emerge da questi
brevi passi è uno sfumato compromesso fra dignità e opportunismo: per un verso non biso-
gna mostrarsi troppo cedevoli e servili (90) e bisogna invece tenere accuratamente celato il
proprio animo (103), ma al tempo stesso è necessario frequentare i principi e farsi notare, in-
graziarseli, saper cogliere il momento opportuno per avanzare le richieste. Il più interessante
di questi ricordi è forse il 179, che per qualche verso anticipa il modello del cortigiano che
ne darà qualche anno più tardi Castiglione: anche «sapere sonare, ballare, cantare e simili leg-
giadrie» – dice con un certo dispregio Guicciardini – nelle corti moderne possono diventa-
re strumenti per acquisire grazia e favore presso i principi, il che anche per «uomini etiam
bene qualificati» (provvisti di doti politiche più sostanziali) può costituire, se ben usato, un
mezzo per realizzare i propri fini.

Laboratorio 1 Sviluppa e approfondisci il confronto tra Machiavelli e Guicciardini, partendo dai Ricordi
COMPRENSIONE che meglio si prestano allo scopo.
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE

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21. Storiografia e politica nel primo Cinquecento VERIFICA

VERIFICA

21.1 La riflessione politica prima di Machiavelli

1 Esponi gli aspetti salienti della riflessione politica prima di Machiavelli, soffermandoti in
particolare sul trattato de regimine principum (sulla condotta dei principi) umanistico. Che
ruolo hanno in questa tradizione la morale cristiana e quella classica?
2 In che senso ed entro quali limiti si può considerare il trattato Sulla infelicità dei principi di
Bracciolini un antecedente del Principe di Machiavelli?

21.2 Firenze nell’età di Machiavelli


3 Regimi repubblicani e regimi signorili si alternarono nella Firenze tra la morte del Ma-
gnifico e la restaurazione dei Medici: fissa le date e illustra i momenti salienti.

21.3 Niccolò Machiavelli


4 Che parte ebbe Machiavelli nel primo governo repubblicano? Quale giudizio diede del
Savonarola? Chi era Pier Soderini e che rapporto ebbe con Machiavelli?
5 Che cosa accadde a Machiavelli dopo la caduta del primo governo repubblicano?
6 Illustra ciò che sai della genesi del Principe e dei Discorsi.
7 In che cosa consiste il carattere storicamente rivoluzionario del Principe?
8 Machiavelli componendo Il Principe si proponeva solo scopi astrattamente teorici?
9 Che ruolo ha l’esperienza nella riflessione politica di Machiavelli? Che cosa significa il
termine «empirismo» e a che proposito lo si usa per Machaivelli? Ha qualche connessione
con il concetto di «verità effettuale»?
10 Che cosa si intende per «naturalismo» a proposito di Machiavelli?
11 Che cosa dice Machiavelli a proposito del rapporto fra politica e morale? Ti pare che la for-
mula «autonomia della politica rispetto alla morale» sintetizzi bene le sue idee?
12 La frase «il fine giustifica i mezzi» è di Machiavelli? Ti pare che sintetizzi bene il suo pensiero?
13 Che ruolo ha il concettodi «necessità» nel pensiero di Machiavelli?
14 Ti pare corretto dire che Machiavelli ha un acuto interesse per l’immagine pubblica del
principe? Egli fornisce dei precetti in proposito? Quali?
15 Illustra il rapporto tra fortuna e virtù in Machiavelli.
16 Quali sono gli aspetti salienti del linguaggio e dello stile di Machiavelli nel Principe? Ti pa-
re che le espressioni «nobile eleganza», «elaborazione magnifica», «classica compostezza»
sintetizzino bene il suo stile?
17 Che cosa sono i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio?
18 Illustra i punti di contatto e le fondamentali divergenze fra Principe e Discorsi.
19 Imposta il problema del rapport tra repubblica e principato in Machiavelli.
20 Che ruolo Machiavelli assegna alle «buone leggi»?
21 Che cosa afferma Machiavelli a proposito della religione e dei suoi rapporti con la politica?
22 Imposta nei suoi punti essenziali il confronto tra Machiavelli e Guicciardini, incomincian-
do dalle fondamentali esperienze biografiche.
23 La ricezione di Machiavelli è stata complessa e conflittuale sin dai primi decenni dopo la
pubblicazione delle sue opere: illustrane i momenti e gli aspetti fondamentali, basandoti sul-
le informazioni presenti nella scheda on line INTERPRETAZIONI DI MACHIAVELLI.

21.4 Francesco Guicciardini


24 Quali sono le opere principali di Guicciardini?
25 Nei Ricordi Guicciardini introduce i concetti di «discrezione» e di «particulare». Che cosa
significano e che cosa sostiene in proposito l’autore?
26 Che giudizio dà Guicciardini della storia e della possibilità di prenderla come fondamento
per l’azione nel mondo politico contemporaneo? In che cosa si distingue da Machiavelli?

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Quattrocento e Cinquecento

Bembo e il dibattito sulla lingua


22 e sulla letteratura

comune o italiana, e dei modelli da proporre per ren-


derla più uniforme. È la nascita della cosiddetta
“questione della lingua”. Si possono individuare tre
principali schieramenti: i sostenitori della lingua cor-
tigiana e della natura italiana del volgare letterario
(tra questi Castiglione e Trissino), i sostenitori del fio-
rentino o del toscano vivo, dell’uso contemporaneo
(Machiavelli e Tolomei), e i sostenitori del fiorentino
letterario dei modelli trecenteschi (Bembo). Quest’ul-
tima è la tesi che più influirà sugli sviluppi linguistici
cinquecenteschi.

Pietro Bembo è una figura fondamentale del clas-


sicismo rinascimentale, che eccelle sul piano critico
e teorico. Il suo radicamento nel contesto storico è
così profondo, la sua capacità di influenza così inten-
sa, capillare e duratura, in campi determinanti quali
la lingua, lo stile, la concezione della letteratura, la li-
rica, che a buon diritto si può parlare di lui come di
uno dei padri del classicismo.
Il secolo XV era stato caratterizzato dapprima da L’importanza storica di Bembo, oltre che dal suo
un nettissimo predominio del latino come lingua del- determinante contributo alla questione della lingua, è
la letteratura e della cultura. Ma nella seconda metà data dal suo apporto al dibattito sull’imitazione, che
del secolo il volgare aveva rivendicato la propria di- vede (dopo la polemica fra Poliziano e Cortese di fine
gnità e aveva cominciato a sostituirsi al latino. E an- secolo) di nuovo contrapposti i fautori dell’imitazio-
che nell’uso letterario dominavano le parlate locali, ne-emulazione dei soli ottimi scrittori (Cicerone e Vir-
appena depurate dai più evidenti tratti dialettali. gilio per il latino, e Petrarca e Boccaccio per il volga-
Nel Cinquecento viceversa, specie per l’influsso re) ai sostenitori dell’imitazione di una pluralità di
delle teorie di Pietro Bembo, il fiorentino letterario, modelli. Ad accomunare i due schieramenti comun-
modellato in particolare su Petrarca e Boccaccio, si que rimane sempre il senso della necessità di fonda-
impone come lingua letteraria con forza normativa. re la propria originalità sulla tradizione latina e vol-
n Lorenzo Costa, Allegoria
della corte di Isabella d’Este. Ciò accade quasi ovunque, ma solo per uno strato gare più accreditata. Bembo è l’efficace sostenitore
n Ritratto di Pietro Bembo. sociale limitato. Questa evoluzione segna una frattu- della teoria dell’ottimo modello: le sue formulazioni
ra linguistica e culturale – destinata a durare a lungo teoriche sullo stile, esposte insieme a quelle lingui-
– che contrappone un ceto ristretto di intellettuali (in stiche nelle Prose della volgar lingua, risulteranno
grado di comprendere e utilizzare in tutta Italia la lin- decisive. Ma al di là delle questioni più tecniche, fra
gua letteraria) alle grandi masse della nazione (che le ragioni fondamentali del successo delle tesi di
continuano a utilizzare esclusivamente i dialetti loca- Bembo ci sono la sua concretezza e la sua capacità
li). Per secoli l’unica lingua nazionale sarà insomma di rispondere alle attese dell’età sua. Pur muovendo
quella letteraria. da un concetto di perfezione ideale, egli infatti lo ca-
Sul piano della riflessione critica, dopo i dibattiti la nella storia e costituisce un canone di scrittori ec-
quattrocenteschi sul primato del latino o del volgare, cellenti che tutti avevano sott’occhio e potevano fa-
nel Cinquecento l’affermarsi di quest’ultimo scatena cilmente imitare. In particolare Petrarca viene posto
nuove polemiche, che ora ruotano attorno alla defini- all’attenzione degli scrittori cinquecenteschi come
zione della natura e della genesi storica della lingua supremo maestro di armonia.

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22. Bembo e il dibattito sulla lingua e sulla letteratura STORIA

22.1 La “questione della lingua”


Il dibattito sulla norma linguistica Con la rinascita della letteratura in volgare si chiude la disputa
quattrocentesca sulla superiorità del latino o dell’italiano. All’inizio del secolo succes-
sivo, invece, il problema all’ordine del giorno è quale dei volgari in uso sia il miglio-
re, quale norma linguistica adottare per quella lingua italiana unitaria che tutti auspi-
cano possa sorgere dalla ancora grande varietà delle parlate locali. Si apre così un al-
tro complesso dibattito, che prende il nome di «questione della lingua» e che durerà
fin quasi ai nostri giorni, quando l’unificazione politica dell’Italia e altri fattori stori-
co-culturali offriranno di fatto la soluzione definitiva a questa disputa plurisecolare. Il
dibattito è assai acceso e forti sono i contrasti, tuttavia la società intellettuale italiana
ha piena coscienza della necessità di creare una lingua nazionale unitaria, almeno per
i ceti più colti. Le tesi di quanti partecipano alla discussione sono complesse e sfuma-
te, ma per il nostro scopo è sufficiente delineare gli schieramenti più significativi.
La tesi della lingua cortigiana e italiana Un primo gruppo è costituito da quanti come Baldassar-
re Castiglione (1478-1529), Gian Giorgio Trissino (1478-1550), Girolamo Muzio
(1496-1576) e altri aspirano a superare «la tradizione toscana in senso stretto» e idea-
lizzano «una realtà linguistica [...] a vasto respiro, elegante e comune, eletta e univer-
sale che si sarebbe trovata come a suo luogo naturale nelle corti italiane e particolar-
mente nella corte romana» (Vitale). La corte in effetti era il luogo dove confluivano
dotti e ambasciatori da tutta Italia e dove venivano a contatto i diversi volgari regio-
nali, nelle forme più elette proprie della parlata di intellettuali e aristocratici.
La lingua da prendere a modello sarebbe dunque quella cortigiana, prodotto della
commistione di diversi dialetti, sotto l’influsso nobilitante della lingua letteraria to-
scana e di quella latina. Non si rifiuta dunque né il magistero dei classici né la tradi-
zione toscana letteraria: ma li si vogliono integrare con quanto di meglio proveniva
dalle tradizioni regionali. La lingua cortigiana può pertanto definirsi italiana (come
esplicitamente dichiara Trissino). La lingua cortigiana, poi, è una lingua fondata sull’u-
so, ma un uso che sia legittimato dal buon gusto di un preciso ceto sociale. In questi
trattati la contrapposizione tra fiorentino o toscano vivo e lingua cortigiana italiana si
presenta spesso come contrapposizione tra una parlata plebea (quella toscana, perché
diffusa, in ambito regionale, a tutti i ceti) e una parlata eletta (quella cortigiana che
accoppia il vantaggio della diffusione nazionale a quello della ristrettezza e raffinatez-
za della base sociale). La tesi cortigiana però di fatto sostiene anche il primato della
«discrezione raffinata della conversazione di palazzo» sul «rigore senza libertà della
grammatica scritta» (Coletti), che invece imporrà Bembo fondandosi esclusivamente
sulla lingua della tradizione letteraria.
La tesi del fiorentino vivo Si oppongono alla tesi della lingua cortigiana alcuni scrittori fiorentini o
toscani, che rivendicano alla città o alla regione la paternità del volgare in cui ormai
si scrive in ogni parte d’Italia. Fiorentina – o toscana – è la lingua nazionale, e il fat-
to che in essa compaiano parole non toscane è un fenomeno naturale, in quanto la
struttura morfologica e sintattica è in grado di assorbire, senza snaturarsi, termini di
diversa provenienza. Anche la lingua di Dante ad esempio – afferma Machiavelli nel
suo Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua del 1514 – è ricca di forestierismi, ep-
pure non c’è dubbio che essa sia fiorentina. Se al principio del Cinquecento esiste,
poi, una lingua comune a molti italiani, ciò è stato possibile proprio perché essi han-
no adottato il fiorentino degli scrittori trecenteschi che ha saputo imporsi per la sua
bellezza. Così Machiavelli, Claudio Tolomei (1492-1556), fra i più importanti espo-
nenti di questo gruppo, e altri ancora. Sul piano normativo, dunque, la tesi è che par-
lanti e scriventi debbano attenersi all’uso fiorentino (o toscano) vivo, contemporaneo.
Si insiste sul carattere naturale della lingua: la lingua nazionale è fiorentina, perché è

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Quattrocento e Cinquecento

Doc 22.1 Il Castiglione e la lingua dell’uso cortigiano

La forza e vera regula del parlar bene consiste più nell’uso che in altro, e sempre è vizio1
usar parole che non siano in consuetudine. Perciò non era conveniente ch’io usassi mol-
te di quelle del Boccaccio, le quali a’ suoi tempi s’usavano ed or sono disusate dalli me-
desimi Toscani. Non ho ancor voluto obligarmi alla consuetudine del parlar toscano
d’oggidì, perché il commerzio2 tra diverse nazioni ha sempre avuto forza di trasportare
dall’una all’altra, quasi come le mercanzie, così ancor novi vocabuli, i quali poi durano o
mancano,3 secondo che sono dalla consuetudine ammessi o reprobati;4 e questo, oltre [il]
testimonio degli antichi,5 vedesi chiaramente nel Boccaccio, nel qual son tante parole
franzesi, spagnole e provenzali ed alcune forse non ben intese dai Toscani moderni, che
chi tutte quelle levasse farebbe il libro molto minore.6 E perché al parer mio la consue-
tudine del parlare dell’altre città nobili d’Italia, dove concorrono omini savi, ingeniosi ed
eloquenti, e che trattano cose grandi di governo de’ Stati, di lettere, d’arme e negoci7 di-
versi, non deve essere del tutto sprezzata, dei vocabuli che in questi lochi parlando s’usa-
no, estimo aver potuto ragionevolmente usar scrivendo quelli, che hanno in sé grazia ed
eleganzia nella pronunzia e son tenuti communemente per boni e significativi, benché
non siano toscani ed ancor abbiano origine di fuor d’Italia.8 Oltre a questo usansi in To-
scana molti vocabuli chiaramente corrotti9 dal latino, li quali nella Lombardia e nelle al-
tre parti d’Italia son rimasti integri e senza mutazione alcuna, e tanto universalmente s’u-
sano per ognuno,10 che dalli nobili sono ammessi per boni e dal vulgo intesi senza dif-
ficultà. Perciò non penso aver commesso errore, se io scrivendo ho usato alcuni di que-
sti e più tosto pigliato l’integro e sincero della patria mia che ’l corrotto e guasto della
aliena.11 [...] Perciò, se io non ho voluto scrivendo usare le parole del Boccaccio che più
non s’usano in Toscana, né sottopormi alla legge di coloro, che stimano che non sia lici-
to usar quelle che non usano li Toscani d’oggidì, parmi meritare escusazione.12

1 è vizio: è cosa ripro- gli antichi scrittori. possiedono armonia ed 10 per ognuno: da parte rotti e storpiati che si pos-
vevole. 6 chi... minore: chi eli- eleganza per quanto ri- di tutti. sono trovare in altre regio-
2 il commerzio: i con- minasse tutte queste paro- guarda la pronuncia e che 11 e più tosto ... aliena: ni (’l corrotto e guasto della
tatti, i rapporti. le straniere ridurrebbe la sono comunemente inte- e se ho preferito voci di- aliena).
3 mancano: cadono in mole del libro. si, benché non siano tosca- rettamente riprese dal lati- 12 parmi... escusazio-
disuso. 7 negoci: affari. ni o abbiano addirittura no e quindi intatte (l’inte- ne: mi sembra di poter
4 reprobati: ripudiati. 8 estimo... d’Italia: ri- un’origine straniera. gro e sincero) in uso in Lom- avere una giustificazione.
5 oltre... antichi: oltre tengo di aver usato con ra- 9 corrotti: derivati (ma bardia piuttosto che voca-
ad essere testimoniato ne- gione quei vocaboli che anche guastati). boli foneticamente cor-

a Firenze che la si parla naturalmente. E si insiste sull’assoluta priorità dell’uso: «ogni


lingua nasce dall’uso di chi la parla», afferma Ludovico Martelli. Il richiamo all’uso
vivo e “naturale” di una determinata città o regione significa anche limitare peso e
funzione dei modelli letterari, componente importante sì ma non essenziale di una
lingua. Afferma Tolomei: «prima certo sono le parole, poscia li scrittori». Il richiamo
all’uso avvicina questi teorici ai sostenitori della lingua cortigiana; ma a separarli, fra
l’altro, è l’ambito sociale in cui l’uso si realizza: per gli uni era la corte, ambito socia-
le “artificiale”, per gli altri è la città o la regione, ambito sociale “naturale”. Il mede-
simo richiamo all’uso, invece, decisamente li oppone ai sostenitori del fiorentino let-
terario arcaizzante, sul modello dei grandi autori trecenteschi.
La tesi arcaizzante di Bembo La tesi che risultò vincente fu proprio quella arcaizzante, che vide nel
veneziano Pietro Bembo il suo ideatore e propugnatore. Fu la tesi che si dimostrò
più idonea a rispondere alle esigenze dei ceti intellettuali che alla polemica parteci-
pavano o assistevano con interesse. In realtà, Bembo non nega le qualità intrinseche
del fiorentino e non prende neppure posizione nel dibattito sui problemi relativi al-
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22. Bembo e il dibattito sulla lingua e sulla letteratura STORIA

l’uso, alla modernità e alla popolarità della lingua. Egli non si pone, insomma, il pro-
blema della comunicazione quotidiana. «L’interesse preminente del Bembo, nella
considerazione dei fatti linguistici, è letterario, artistico e retorico» (Vitale).
In quest’ottica, allora, si comprendono bene in Bembo sia la scelta, netta ma non
rigoristica, del fiorentino dei modelli letterari trecenteschi (Petrarca e Boccaccio, ma
soprattutto il primo), sia osservazioni particolari come quella che nega che «sia ve-
ramente lingua alcuna favella che non ha scrittori» o quella che reputa inutile, se
non addirittura svantaggioso, tener presente il fiorentino vivo, contemporaneo, che
rischia di corrompere con dialettismi e neologismi la più pura lingua degli autori.
Se il problema è quello d’una lingua d’arte e d’uno stile, l’assunzione di modelli let-
terari arcaici può apparire la soluzione più ovvia ed efficace. L’epoca in cui scrive
Bembo infatti fa dell’imitazione un criterio d’arte essenziale e si è formata su una
tradizione latina che ha esercitato un alto magistero, ma che ormai sul piano lin-
guistico non può più porsi come modello diretto. Gli auctores volgari trecenteschi
assolvono allora il triplice compito di fornire modelli linguistici e letterari diretti, di

Doc 22.2 Secondo Machiavelli la lingua comune è fiorentina

Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati
da altri nell’uso suo,1 ed è sì potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella di-
sordina loro;2 perché quello ch’ella reca da altri, lo tira a sé in modo che par suo. [...] E tu3
che hai messo ne’ tuoi scritti venti legioni di vocaboli fiorentini, e usi i casi, i tempi e i
modi e le desinenze fiorentine, vuoi che li vocaboli avventizii4 faccino mutar la lingua? E
se tu la chiamassi o comune d’Italia o cortigiana, perché in quella si usassino tutti li verbi
che s’usano in Firenze, ti rispondo che, se si sono usati li medesimi verbi, non s’usano i
medesimi termini,5 perché si variono tanto con la pronunzia che diventono un’altra cosa.
Perché tu sai che i forestieri o e’ pervertano il c in z, come di sopra si disse di cianciare e
zanzare, o eglino aggiungono le lettere, come verrà, vegnirà, o e’ ne lievano, come poltrone e
poltron; talmente che quelli vocaboli che son simili a’ nostri, gli storpiano in modo che gli
fanno diventare un’altra cosa. [...] Ma quello che inganna molti circa i vocaboli comuni,6
è che tu e gli altri che hanno scritto, essendo stati celebrati e letti in varii luoghi, molti vo-
caboli nostri sono stati imparati da molti forestieri e osservati7 da loro, tal che di proprii
nostri son diventati comuni.8 E se tu vuoi conoscer questo, arrecati innanzi un libro com-
posto da quelli forestieri che hanno scritto dopo voi, e vedrai quanti vocaboli egli usano
de’ vostri, e come e’ cercano d’imitarvi. E per aver riprova di questo fa lor leggere libri
composti dagli uomini loro avanti che nasceste voi, e si vedrà che in quelli non fia9 né vo-
cabolo né termine; e così apparirà che la lingua in che10 essi oggi scrivano, è la vostra, e,
per conseguenza, vostra;11 e la vostra non è comune con la loro. La qual lingua ancora
che12 con mille sudori cerchino d’imitare, nondimeno se leggerai attentamente i loro
scritti, vedrai in mille luoghi essere da loro male e perversamente usata, perché gli è im-
possibile che l’arte possa più che la natura.13

1 Ma ... suo: ma si deve e li adatta alla propria strut- che o grafiche, come spie- perché gli altri hanno cui si parli naturalmente
dire che una lingua appar- tura. gherà). adottato i nostri. una lingua (cioè nella città
tiene a una patria (qui si in- 2 non la disordinano ... 6 i vocaboli comuni: si 9 non fia: non si trova, d’origine e quindi Firen-
tende a Firenze), quando loro: non modificano la riferisce ancora alla tesi non c’è. ze), in contrasto sia con i
essa converte i vocaboli struttura della lingua, ma si della lingua cortigiana o 10 in che: nella quale. sostenitori della lingua
che deriva da altre lingue adattano ad essa. italiana, che accetta solo 11 è la vostra ... vostra: è cortigiana (a corte la lingua
nelle sue forme morfolo- 3 E tu: Machiavelli fin- vocaboli comuni a tutte le la vostra e dunque vi ap- non ha un radicamento
gico-sintattiche secondo il ge di rivolgersi a Dante. diverse lingue parlate d’I- partiene. naturale) e sia con i sosteni-
suo uso. È, insomma, e ri- 4 avventizii: derivati da talia. 12 ancora che: benché. tori della lingua letteraria
mane fiorentina la lingua altre lingue. 7 osservati: adottati. 13 perché ... natura: trecentesca (che si appren-
anche quando accoglie da 5 i medesimi termini: 8 di proprii ... comuni: Machiavelli afferma qui la de solo sui libri, per arte).
altre lingue alcuni vocaboli le medesime forme (foni- sono diventati comuni solo necessità di un contesto in

747 © Casa Editrice Principato


Quattrocento e Cinquecento

farsi garanti della mediazione con la cultura latina classica e, con il loro prestigio, di
legittimare definitivamente la scelta del volgare.
Si tenga inoltre presente che a decretare il successo della tesi di Bembo non sono
tutti gli italiani, ma quanti di fatto si pongono un problema di scrittura, e cioè un’é-
lite intellettuale con precise esigenze letterarie e artistiche: è «la compiuta teorizza-
zione della separatezza degli intellettuali» (Gensini). La soluzione meno pratica e po-
polare potrà imporsi fra i ceti intellettuali perché questi si sono progressivamente spe-
cializzati e si vanno isolando dal contesto più vivo e attivo della nazione.

Doc 22.3 Una lingua che miri all’eternità

La lingua delle scritture, Giuliano,1 non dee a quella del popolo accostarsi, se non in
1 È uno degli interlo- quanto, accostandovisi, non perde gravità, non perde grandezza; che altramente2 ella disco-
cutori del dialogo Prose
della volgar lingua. stare se ne dee e dilungare, quanto le basta a mantenersi in vago e in gentile stato. Il che
2 che altramente: vi- aviene per ciò, che appunto non debbono gli scrittori por cura di piacere alle genti sola-
ceversa negli altri casi. mente, che sono in vita quando essi scrivono, come voi dite, ma a quelle ancora, e per
3 con ciò sia cosa che:
poiché. aventura molto più, che sono a vivere dopo loro: con ciò sia cosa che3 ciascuno la eternità
4 ciascuno... tempo: alle sue fatiche più ama, che un brieve tempo.4 [...] Credete voi che se il Petrarca avesse le
ciascuno desidera che le sue canzoni con la favella composte de’ suoi popolani, che elle così vaghe, così belle fosse-
proprie opere durino in
eterno, piuttosto che solo ro come sono, così care, così gentili? [...] Né il Boccaccio altresì con la bocca del popolo ra-
per un breve periodo. gionò; quantunque alle prose ella molto meno si disconvenga, che al verso.

Tre schieramenti per la questione della lingua

uso diffusione geografica... ... e sociale modelli

sostenitori della è lingua viva, dell’uso si parla ovunque ambito sociale ristretto raffinata conversazio-
lingua cortigiana (orale e scritto) (società di corte) ne di palazzo

sostenitori del fiorenti- è lingua viva, dell’uso si parla a Firenze / tutti i ceti sociali l’uso vivo e popolare
no vivo / toscano vivo (prev. orale) in Toscana

sostenitori del è una lingua arcaizzan- si scrive ovunque ambito sociale ristretto scrittori del Trecento
fiorentino letterario te (uso lett. scritto) (letterati) Petrarca, Boccaccio

22.2 Bembo e la codificazione del classicismo


Pietro Bembo un maître à penser del Rinascimento Per ciò che concerne la codificazione lingui-
stica e letteraria Pietro Bembo fu la figura cardine del Rinascimento italiano. Sul pia-
no teorico ebbe il merito di dare risposte chiare e pertinenti a esigenze e inquietudi-
ni latenti ma assai diffuse; su quello poetico seppe offrire in prima persona modelli,
magari non eccelsi, ma coerenti con le indicazioni teoriche. A lui si deve la defini-
zione e la messa a punto teorica del classicismo rinascimentale. La tesi che egli riuscì
a imporre in campo linguistico non è infatti che un aspetto particolare della conce-
zione letteraria classicistica, che si fonda sul principio di imitazione, già oggetto di
una disputa alla fine del Quattrocento tra Poliziano e Cortese.
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22. Bembo e il dibattito sulla lingua e sulla letteratura STORIA

Il principio di imitazione Il principio di imitazione può essere definito come la ricerca dell’origi-
nalità attraverso l’imitazione-emulazione degli antichi. Si tratta naturalmente di
un’originalità relativa, rispetto all’idea che ne abbiamo noi contemporanei. Questa
idea di imitazione-emulazione non implica, però, nelle intenzioni, una meccanica
ripresa retorica del passato, bensì una sua vitale rielaborazione derivata da un’amo-
rosa consuetudine con i classici.
Bembo e la teoria dell’ottimo modello Nel dibattito fra Poliziano e Cortese si configurava un’op-
posizione sostanziale tra chi, come il primo, riteneva si dovessero assimilare e imita-
re-emulare tutti i buoni scrittori operando una sintesi personale e chi, come il se-
condo, preferiva fondarsi esclusivamente sul modello considerato in assoluto il mi-
gliore. A partire da questa contrapposizione si costituiscono due schieramenti, meno
distanti di quanto i toni polemici lascerebbero sospettare: i fautori dell’ottimo mo-
dello (o “ciceroniani”) e i fautori dell’«ideale eclettico dell’imitazione di tutti i buo-
ni scrittori» (Santangelo). Il dibattito sull’argomento prosegue e la polemica si rin-
nova agli inizi del Cinquecento tra Giovan Francesco Pico (1469-1533), nipote del
celebre umanista, e Bembo. Il primo, derivando i propri argomenti da Petrarca e Po-
liziano, sostiene l’imitazione di tutti i buoni scrittori, mentre il secondo ripropone,
aggiornata, la teoria dell’ottimo modello nel quale si trovano fusi armonicamente
tutti i pregi e tutte le eleganze presenti nei singoli scrittori: Cicerone e Virgilio (e
Petrarca e Boccaccio per la tradizione italiana) costituiscono i vertici e la suprema
sintesi della civiltà elaborata con il concorso di tutti gli scrittori. Ora, se uno scritto-
re deve proporsi dei modelli, è verso quelli sommi che deve guardare. «Cicerone e
Virgilio non sono un modello d’immutabile, elisia perfezione, sebbene l’humus in cui
soltanto era possibile che fermentasse la nuova cultura e nella cui direzione soltanto
era dato di progredire e di avvicinarsi meglio alla perfetta ragione dello stile», com-
menta Santangelo.
Efficacia storica della soluzione di Bembo Entrambi i contendenti in realtà risentono dell’influs-
so della cultura neoplatonica, per cui esiste un modello di ideale perfezione, nella fat-
tispecie letteraria. Ma Bembo è anche in questo caso più concreto e storicamente più
pronto a rispondere alle attese dell’età sua. Pur muovendo da un concetto di perfe-
zione ideale, egli non esita a trovarne un equivalente storico da proporre come con-
creto modello da imitare. La vera novità di Bembo – secondo Baldacci – sta più che
nella riproposizione dell’ottimo modello, proprio nell’aver identificato in Cicerone e
Virgilio (e per estensione in Petrarca e Boccaccio) il punto di unione tra mondo
ideale e mondo storico, e cioè nell’«aver calato il problema della retorica nella di-
mensione della storia». Bembo insomma, costituendo un canone di scrittori imitabi-
li, forniva dei modelli precisi, che tutti avevano sott’occhio.
L’originalità attraverso l’imitazione Bisogna ribadire che il rapporto tra imitante e modello anche
per Bembo deve essere un rapporto di emulazione (come tra figlio e padre, aveva
scritto Cortese). «Se ci siamo accinti a imitare al massimo grado qualcuno – scrive
Bembo –, raggiungiamolo anche; quindi bisogna tendere a superarlo. Ogni nostro ar-
dore, ogni fatica, ogni nostro pensiero e il primo tra essi che ci deve stimolare è quel-
lo di raggiungere coloro che imitiamo. Eppoi non sarà tanto arduo vincerli e supe-
rarli. Per cui, o Pico, questa può esser la legge in ogni genere di imitazione: in primo
luogo proporci come modello da imitare colui che sia ottimo fra tutti; in secondo
luogo il nostro sforzo miri al superamento di colui che abbiamo imitato». Come si
vede, le due posizioni opponevano solo due modalità di rapporto con i classici. Che
poi la teoria dell’imitazione abbia prodotto anche «scimmie» e «pappagalli» (Polizia-
no), e cioè imitatori pedanti, è un’altra questione, che riguarda più l’arte che la teo-
ria. Viceversa, il dibattito teorico su questi principi è un momento fondamentale
della civiltà letteraria umanistico-rinascimentale, a prescindere dal quale non è possi-
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Quattrocento e Cinquecento

bile correttamente valutare né l’originalità, né, forse, il senso stesso del classicismo di
questa età.
Le Prose della volgar lingua, il capolavoro del Bembo Bembo consegna le sue riflessioni teoriche
sia sulla lingua sia sullo stile alle Prose della volgar lingua. Le Prose sono un dialogo am-
bientato a Venezia nel 1502 che vede come interlocutori Giuliano de’ Medici, Fede-
rico Fregoso, Ercole Strozzi e Carlo Bembo: a quest’ultimo è delegato il compito di
farsi portavoce delle tesi del fratello Pietro.

▍ Prose della volgar lingua

In ragione del profondo influsso che esercitarono nel Cinquecento e nei secoli seguenti, le
Prose della volgar lingua sono l’opera più importante e il capolavoro di Bembo. Sono un trat-
tato in forma di dialogo composto abbastanza precocemente (1512), poi rielaborato e edito
nel 1525 e, ulteriormente ritoccato, nel 1538. Il dialogo si finge avvenuto a Venezia, in un
periodo non precisato (ma prima del 1503), tra Giuliano de’ Medici (uno dei figli del Ma-
gnifico), Federico Fregoso (un religioso amico del Bembo), Ercole Strozzi (poeta latino, fer-
rarese) e Carlo Bembo.
Le Prose sono divise in tre libri. Nel primo si tratta specialmente delle origini del volga-
re nei suoi rapporti col latino e con il provenzale; quindi della natura e delle caratteristiche
del volgare italiano: Bembo espone la propria tesi dell’eccellenza del fiorentino letterario e
della necessità dell’imitazione dei migliori scrittori. Nel secondo libro ci sono le considera-
zioni di carattere più propriamente retorico e stilistico, e in particolare quelle relative al con-
cetto di gravità e piacevolezza e di variatio: Bembo propone una sua teoria estetica che pri-
vilegia i modelli petrarchesco e boccacciano. Infine c’è un confronto fra Dante e Petrarca
che si risolve tutto a vantaggio di quest’ultimo. Nel terzo libro, il più ampio, è contenuta una
vera e propria grammatica della lingua italiana con grande abbondanza di esempi.

Petrarca maestro d’armonia Dopo aver esposto le sue tesi linguistiche, nel II libro Bembo sviluppa
una serie di considerazioni retorico-stilistiche tese a dimostrare l’eccellenza di Pe-
trarca e Boccaccio nell’ambito della tradizione linguistica e letteraria toscana. In par-
ticolare Petrarca appare a Bembo un perfetto esempio di armonia stilistica: poiché il
raggiungimento nella letteratura e nell’arte di una forma espressiva equilibrata e ar-
monica è uno dei supremi ideali estetici del Rinascimento, è evidente che la lettura
bembiana di Petrarca è influenzata da questo ideale estetico.
Petrarca e la sintesi «gravità» e «piacevolezza» Petrarca, dunque, appare a Bembo supremo mae-
stro di armonia stilistica soprattutto in quanto capace a tutti i livelli (sintattico, metri-
co, ritmico e persino fonico e timbrico) di conciliare e fondere in perfetto equilibrio
«gravità» e «piacevolezza». I due princìpi (noi diremmo “registri stilistici”) investono
indubbiamente il campo degli argomenti: grave sarà una riflessione sulla morte o sul
proprio lacerante conflitto interiore, piacevole sarà la memoria d’un tenero colloquio
d’amore. Ma, in quanto princìpi retorico-stilistici, investono anche gli aspetti forma-
li del testo: «grave» – sono esempi di Bembo – è un componimento in cui le rime
sono distanziate, i versi sono tutti endecasillabi, le strofe sono lunghe, le sillabe pre-
sentano più di una consonante, ecc.; «piacevole» è un componimento in cui le rime
sono ravvicinate (magari con rime al mezzo), i versi sono di frequente settenari (ver-
si più brevi avvicinano le rime), le strofe sono brevi, non sono frequenti i gruppi
consonantici ecc. In questo senso gravissima appariva a Bembo la canzone petrarche-
sca Nel dolce tempo de la prima etade, mentre piacevolissima Chiare, fresche et dolci acque.
L’equilibrio fra gravità e piacevolezza (nel quale Petrarca fu maestro) non deve av-
venire necessariamente all’interno di un medesimo componimento. La presenza nel
Canzoniere di componimenti gravissimi e di altri piacevolissimi, e cioè sbilanciati nei
due opposti sensi, non costituisce problema per Bembo, che anzi sembra giudicare
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22. Bembo e il dibattito sulla lingua e sulla letteratura STORIA

Petrarca come supremo modello anche nei due versanti presi singolarmente. Infatti è
nel complesso dell’opera che la conciliazione e il temperamento avvengono al supre-
mo livello: nel complesso del Canzoniere i componimenti gravi e gravissimi e quelli
piacevoli e piacevolissimi (come i due citati) si equilibrano e si compensano.
Il principio della variatio A questo proposito, anzi, Bembo introduce un ulteriore importante prin-
cipio, pure d’ascendenza classica: quello della variatio. La variazione di artifici e di re-
gistro stilistico, compiuta sistematicamente e ai vari livelli, contribuisce alla creazione
della concinnitas, cioè della temperata armonia, che presiede allo stile petrarchesco. «È
la variazione» scrive Bembo «non per altro ritrovata, se non per fuggire la sazietà», la
quale sazietà «ci fa non solamente le non ree cose, o pure le buone, ma ancora le
buonissime verso di sé e le dilettevolissime spesse volte essere a fastidio...».
Un’interpretazione storicamente efficace e complessivamente attendibile La critica contem-
poranea ha indicato le non poche zone d’ombra di questa minuta analisi retorico-sti-
listica in funzione precettistica. E tuttavia andranno riconosciute a Bembo l’indiscu-
tibile funzione storica delle sue teorie e la capacità di cogliere nel segno, nello spiri-
to se non nella lettera. Bembo fornisce un’interpretazione nel complesso ampiamen-
te attendibile di Petrarca come maestro di armonia, concinnitas, equilibrio formale, co-
me maestro di quel gusto ispirato ai modelli classici che sarà la cifra caratteristica del-
la letteratura del Rinascimento maturo.

▍ L’autore Pietro Bembo

Pietro Bembo nacque a Venezia nel 1470 da una famiglia nobile. Compì un apprendistato umani-
stico serio e scrupoloso (fra l’altro tra il 1492 e il 1494 soggiornò a Messina, per studiare il greco
presso Costantino Lascaris). Poi imboccò con grande impegno la strada del volgare, ad esempio
collaborando con il grande stampatore Aldo Manuzio, per cui progettò e in parte avviò la collana
dei classici italiani, curando personalmente un’edizione di Petrarca e una di Dante. A cavallo del
secolo stende (1497-1502 ca) e pubblica (1505) gli Asolani, trattato d’amore che si sarebbe rivela-
to un momento fondamentale della storia linguistica italiana.
Pubblicati gli Asolani, Bembo abbandonò Venezia, alla ricerca di una sistemazione professiona-
le che gli consentisse di dedicarsi interamente ai propri studi: fu una scelta dapprima cortigiana
(Urbino, 1506-1512), ben presto però convertita in quella ecclesiastica (nel 1513, trasferitosi a Ro-
ma, divenne segretario pontificio sotto Leone X). Solo assai tardi (1539), dopo alterne vicende,
avrebbe ottenuto la nomina a cardinale. Con la pubblicazione delle Prose (1525) e di lì a poco
(1530), sull’onda del successo, di una seconda edizione degli Asolani e della raccolta delle Rime, la
sua avventura intellettuale può dirsi compiuta e coronata dal capolavoro. Ottenuto il successo let-
terario e una fama nazionale, a Bembo viene offerta la nomina a storiografo della Repubblica ve-
neta e bibliotecario della Libreria Nicena di Venezia, che egli accetta. È la riscossione di un presti-
gio e di un credito in Venezia, che il giovanile abbandono della patria sembravano avergli preclu-
so. Muore a Roma nel 1547.

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Quattrocento e Cinquecento

T 22.1 Pietro Bembo, Prose della volgar lingua 1525


P. Bembo Petrarca e Boccaccio ottimi modelli [II, II-IX]
Prose e rime
a c. di C. Dionisotti,
Il secondo libro delle Prose è interamente dedicato a questioni di ordine retorico e sti-
UTET, Torino 1966 listico. Qui Bembo enuncia con chiarezza e per la prima volta in forma tecnica e siste-
matica i principi di estetica e di poetica che costituiranno le linee guida del classicismo
cinquecentesco. Noi ci soffermiamo però su due passi in cui soprattutto emerge l’idea
dell’eccellenza, nell’ambito della tradizione letteraria volgare, di Petrarca per la poesia e
di Boccaccio per la prosa. Come per il greco Omero e Demostene, e per il latino Virgi-
lio e Cicerone, così per il volgare Petrarca e Boccaccio vengono additati da Bembo co-
me gli ottimi modelli che tutti gli scrittori devono imitare e sperare di emulare. Nel
primo passo, dopo una rapida rassegna dei poeti delle origini, Bembo menziona Dante.

[II] [...] Venne appresso a questi e in parte con questi, Dante, grande e magnifico
poeta, il quale di grandissimo spazio tutti adietro gli si lasciò.1 Vennero appresso a
Dante, anzi pure con esso lui, ma allui sopravissero, messer Cino, vago e gentil poe-
ta e sopra tutto amoroso e dolce, ma nel vero di molto minore spirito, e Dino Fre-
scobaldi,2 poeta a quel tempo assai famoso ancora egli, e Iacopo Alaghieri, figliuol 5
di Dante, molto, non solamente del padre, ma ancora di costui minore e men chia-
ro.3 Seguì a costoro il Petrarca, nel quale uno tutte le grazie della volgar poesia rac-
colte si veggono. Furono altresí molti prosatori tra quelli tempi, de’ quali tutti Gio-
vanVillani,4 che al tempo di Dante fu e la istoria fiorentina scrisse, non è da sprezza-
re;5 e molto meno Pietro Crescenzo6 bolognese, di costui piú antico, a nome del 10
quale dodici libri delle bisogne del contado, in volgare fiorentino scritti, per mano
si tengono. E alcuni di quelli ancora che in verso scrissero, medesimamente scrisse-
ro in prosa, sì come fu Guido Giudice di Messina,7 e Dante istesso e degli altri. Ma
1 il quale... si lasciò: il
quale superò, lasciandoli a ciascun di loro vinto e superato fu dal Boccaccio, e questi mede-simo da sé stesso;
grande distanza, tutti i pre- con ciò sia cosa che tra molte composizioni sue tanto ciascuna fu migliore, quanto 15
cedenti scrittori. ella nacque dalla fanciullezza di lui più lontana. 8 Il qual Boccaccio, come che in
2 Cino... Frescobaldi:
Cino da Pistoia e Dino Fre- verso altresí molte cose componesse, nondimeno assai apertamente si conosce che
scobaldi, due poeti stilnovisti egli solamente nacque alle prose. Sono dopo questi stati, nell’una facultà e nell’al-
che sopravvissero a Dante.
3 di costui... men chia- tra,9 molti scrittori.Vedesi tuttavolta che il grande crescere della lingua a questi due,
ro:meno famoso (chiaro,lati- al Petrarca e al Boccaccio, solamente pervenne; da indi innanzi, non che passar piú 20
nismo) di Dino Frescobaldi.
4 Giovan Villani: Gio- oltre, ma pure a questi termini giugnere ancora niuno s’è veduto.10 Il che senza
vanni Villani, autore della dubbio a vergogna del nostro secolo si trarrà; nel quale, essendosi la latina lingua in
Nuova cronica, è il prosatore
più frequentemente utiliz- tanto purgata dalla ruggine degl’indotti secoli per adietro stati, che ella oggimai
zato da Bembo nel seguito l’antico suo splendore e vaghezza ha ripresa, non pare che ragionevolmente questa
del libro, dopo il Boccaccio lingua, la quale a comparazione di quella di poco nata dire si può, così tosto si debba 25
del Decameron, come osserva
Dionisotti. essere fermata, per non ir più innanzi.11 Per la qual cosa io per me conforto i nostri
5 sprezzare: disprezzare.
6 e... Crescenzo: e ancor
uomini, che si diano allo scrivere volgarmente, poscia che ella nostra lingua è, 12 sí
meno spregevole è Pier Cre- come nelle raccontate cose, nel primo libro raccolte, si disse. Perciò che con quale
scenzio, cui Bembo erro- lingua scrivere piú convenevolmente si può e più agevolmente, che con quella con
neamente attribuisce un
volgarizzamento toscano di la quale ragioniamo? 30
un’opera latina sulle attività
rurali (bisogne del contado).
7 Guido Giudice di 8 e questi... lontana: e in poesia e in prosa. nel nostro secolo, che ha vi- cadenza del volgare (sovra-
Messina: Guido delle Co- costui fu vinto da se stesso, 10 Vedesi... veduto: tut- sto il progresso della lingua stato dal ritorno al latino),
lonne, autore di una Historia in quanto tra le sue molte tavia si vede che il rapido latina ritornata ormai al- ma anche la convinzione
destructionisTroiae [Storia della opere in prosa, le migliori progresso della lingua con- l’antico splendore, non è ra- che la giovane lingua possa
distruzione di Troia] che «fu sono quelle che egli scrisse dusse a Petrarca e a Boccac- gionevole pensare che la riprendere presto il suo
una delle opere più lette in nella maturità (le più lonta- cio e poi si arrestò, in quan- lingua volgare, tanto più cammino di crescita.
tutta Europa» (Dionisotti) e ne dalla giovinezza). Boc- to dopo di loro non si è vi- giovane di quella, debba es- 12 ella nostra lingua è: il
di cui esiste un più tardo vol- caccio insomma col tempo sto nessuno che li abbia su- sersi fermata, così da non volgare (toscano) è ormai la
garizzamento toscano che perfezionò il suo linguag- perati e neppur raggiunti (a poter più progredire. Molto nostra lingua, più di quanto
Bembo erroneamente attri- gio e il suo stile. questi termini, ai loro livelli). sinteticamente Bembo non sia ormai il latino.
buiva allo stesso autore. 9 nell’una... nell’altra: 11 nel quale... innanzi: enuncia le ragioni della de-

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22. Bembo e il dibattito sulla lingua e sulla letteratura T 22.1

[IX] [...] Le cose, che dire si convengono, sono di qualità, che malagevolmente
per la loro disusanza cadono sotto regola,13 in modo che pago e sodisfatto se ne
tenga chi l’ascolta. Ma come che sia, venendo al fatto, dico che egli si potrebbe
considerare, quanto alcuna composizione meriti loda o non meriti, ancora per
questa via:14 che perciò che due parti sono quelle che fanno bella ogni scrittura, la 35
gravità e la piacevolezza;15 e le cose poi, che empiono e compiono queste due
parti, son tre, il suono, il numero, la variazione,16 dico che di queste tre cose aver si
dee risguardo partitamente,17 ciascuna delle quali all’una e all’altra giova delle
13 che malagevolmen- due primiere che io dissi. E affine che voi meglio queste due medesime parti co-
te... regola: che difficilmen-
te, per la loro novità, si pre- nosciate, come e quanto sono differenti tra loro, sotto la gravità ripongo l’onestà, 40
stano ad essere definite at- la dignità, la maestà, la magnificenza, la grandezza, e le loro somiglianti; sotto la
traverso regole.
14 dico che... questa via: piacevolezza ristringo la grazia, la soavità, la vaghezza, la dolcezza, gli scherzi, i
affermo che si potrebbe giuochi, e se altro è di questa maniera. Perciò che18 egli può molto bene alcuna
giudicare del valore, della composizione essere piacevole e non grave, e allo ’ncontro alcuna altra potrà gra-
qualità di un componimen-
to anche in questo modo. Si ve essere, senza piacevolezza; sì come aviene delle composizioni di messer Cino19 45
preannuncia, cioè, un crite- e di Dante, ché tra quelle di Dante molte son gravi, senza piacevolezza, e tra
rio estetico.
15 la gravità e la piacevo- quelle di messer Cino molte sono piacevoli, senza gravità. Non dico già tuttavol-
lezza: sono categorie, come ta,20 che in quelle medesime che io gravi chiamo, non vi sia qualche voce ancora
il suono e il numero che se-
guono, desunte dal De orato- piacevole, e in quelle che dico essere piacevoli, alcun’altra non se ne legga scritta
re ciceroniano: gravitas e sua- gravemente, ma dico per la gran parte. Sì come se io dicessi eziandio che in alcu- 50
vitas.
16 e le cose... variazione: ne parti delle composizioni loro né gravità né piacevolezza vi si vede alcuna, direi
si tratta, per così dire, di ciò avenire per lo più, e non perché in quelle medesime parti niuna voce o grave
campi nei quali gravità e o piacevole non si leggesse. Dove il Petrarca l’una e l’altra di queste parti empié
piacevolezza si manifesta-
no, di aspetti del discorso maravigliosamente,21 in maniera che scegliere non si può, in quale delle due egli
che variamente regolati fosse maggior maestro. 55
producono gravità o piace-
volezza: il suono considera i
fenomeni fonici, il numero i 17 aver... partitamente:si per la qual cosa. 20tuttavolta: tuttavia. realizzò entrambi gli stili in
fenomeni ritmici e la quan- deve trattare separatamente. 19 messer Cino: Cino da 21Dove... maravigliosa- modo perfetto.
tità delle sillabe. 18 Perciò che: cosicché, Pistoia, poeta stilnovista. mente: mentre il Petrarca

Guida all’analisi
Un abbozzo di storia letteraria che culmina con Petrarca e Boccaccio Il rapido abbozzo di storia letteraria del-
le origini che Bembo traccia, culmina con Petrarca e Boccaccio. Egli non nega naturalmen-
te meriti e valore agli altri poeti e prosatori – e specialmente a Dante che definisce «grande
e magnifico poeta» – ma la sua prospettiva è quella linguistico-stilistica, e di uno scrittore
educato sui classici latini: inevitabile dunque che i due grandi precursori dell’umanesimo,
coloro che pur scrivendo anche in volgare ebbero per primi la coscienza di dover emulare
gli antichi secondo gli stessi principi che ispiravano Bembo, gli appaiano come il vertice
qualitativo raggiunto dalla giovane letteratura volgare, che faticosamente si era emancipata
dalle rudezze e dai pregiudizi estetici del Medioevo. In questo senso il giudizio di Bembo è
nitido ed equo sul piano critico, in quanto riconosce nei due grandi trecentisti i fondatori
del gusto vigente al suo tempo; ma è inevitabilmente anche un giudizio storicamente de-
terminato (e quindi da storicizzare) sul piano del gusto e del giudizio di valore.
Il recente passato e il futuro Semmai stupisce il silenzio di Bembo riguardo alle esperienze letterarie del tardo
Quattrocento e del primo Cinquecento (Boiardo, Lorenzo, Poliziano, lo stesso Ariosto, che nel
1516 aveva pubblicato il primo Furioso): per un verso esse gli paiono forse di troppo stretta at-
tualità per essere giudicate in questa prospettiva storica; ma per altro esse in molti casi erano
state condotte secondo linee linguistico-stilistiche che egli non condivideva completamente.
Ma ciò che importa soprattutto notare è l’apertura di credito che nel finale del capitolo II
Bembo compie nei confronti degli scrittori del proprio tempo, che – dice – potranno ri-
prendere il cammino di perfezionamento che dalle origini aveva condotto all’eccellenza di
Petrarca e Boccaccio. È questa una netta opzione a favore del volgare, che ha un notevole
753 © Casa Editrice Principato
Quattrocento e Cinquecento

significato storico e anche personale (Bembo si era affermato come umanista). Ma lascia an-
che spazio alla possibilità di emulare, raggiungere e in futuro magari sopravanzare gli stessi
Petrarca e Boccaccio, a cui dunque in linea di principio potrebbero essere associati in futu-
ro altri modelli.
Gli aspetti formali del testo e la codificazione del petrarchismo Il secondo passo delle Prose (cap. IX) è un esem-
pio significativo dell’attenzione che la critica cinquecentesca, e Bembo in particolare, riserva-
va agli aspetti formali del testo letterario. Petrarca, che si andava affermando come esperto d’a-
more e maestro di vita è qui proposto anche e soprattutto come maestro di lingua e di stile.
Il temperamento di gravità e di piacevolezza come armonica proporzione Ricapitoliamo ora brevemente alcuni
degli aspetti essenziali dell’argomentazione di questo testo:
1. gravità e piacevolezza sono due registri stilistici che al tempo stesso forniscono un criterio
di valutazione estetica del testo letterario («si potrebbe considerare, quanto alcuna composi-
zione meriti loda o non meriti, ancora per questa via» ecc.);
2. la gravità o la piacevolezza di un testo sono determinate da un certo numero di carat-
teristiche formali relative al suono, al numero (aspetti fonici, ritmici e quantitativi di un te-
sto, all’incirca) e sottoposte al principio della variazione (variare le forme per evitare la mo-
notonia);
3. Cino fu maestro nelle composizioni piacevoli, Dante in quelle gravi; Petrarca raggiunse
l’eccellenza in entrambe;
4. la gravità e la piacevolezza di un testo sono determinate dalla composizione nel testo di
elementi sia gravi che piacevoli; è la diversa proporzione degli uni e degli altri che determina
la caratteristica globale del testo;
5. la compresenza armonica di elementi gravi e di piacevoli è indispensabile per fuggire gli
eccessi che risulterebbero controproducenti.
Un’armonia senza affettazione È dunque nel segno dell’armonica proporzione fra le parti che si ottengono risul-
tati esteticamente validi anche nei singoli e opposti versanti della gravità e della piacevolezza
dello stile. E che l’armonia degli opposti sia criterio fondamentale per Bembo nel giudizio
estetico globale di un’opera meglio lo si vede considerando, in un passo successivo, il principio
della variazione: l’alternanza nelle scelte lessicali, sintattiche, retoriche, stilistiche è necessaria per
«fuggire la sazietà», per evitare la monotonia che annoia il lettore, ma anche per raggiungere
l’equilibrio che è per l’uomo rinascimentale il segreto dell’opera d’arte. In questo senso è im-
portante sottolineare la necessità di fuggire «non solamente la troppa piacevolezza o la troppa
gravità, ma ancora la troppa diligenza del fuggirle»; che poi vuol dire che la ricerca dell’armo-
nia non deve e non può essere un esercizio meccanico, che la perfezione deve essere raggiun-
ta con naturalezza, senza affettazione (senza che risulti evidente lo sforzo di evitare l’eccesso di
gravità o di piacevolezza, nell’esempio). Desunti dalla retorica e dalla stilistica antica, anche se
espressi in modo originale, questi criteri risultano schiettamente classico-rinascimentali pro-
prio in quanto riferiti a valori estetici quali l’equilibrio, la proporzione delle parti, l’armonia (o
concinnitas), il temperamento degli opposti, la grazia e la naturalezza espressiva raggiunta attra-
verso un intenso lavoro di limatura stilistica del testo ma senza affettazione, senza artificiosità: è
la difficilis facilitas (difficile facilità) degli antichi, la sprezzatura di cui parlerà Castiglione.

Laboratorio 1 Nel passo («E affine che voi meglio que- nendo di un buon dizionario, puoi tenta-
COMPRENSIONE ste due medesime parti conosciate…») in re di precisarne il senso, individuando fra
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE cui descrive gli opposti concetti di gravità le accezioni proposte dal dizionario quel-
e piacevolezza, Bembo formula un elenco la che paia più pertinente in materia re-
di termini che dice di riporre sotto l’uno o torico-stilistica.
l’altro dei due concetti opposti, e cioè di 2 Prova ad esporre con parole tue le osser-
classificare come aspetti dell’uno o del- vazioni da noi compiute nel paragrafo
l’altro registro stilistico. Sotto tutti termi- «Un’armonia senza affettazione» della
ni che hanno una lunga storia nell’ambi- Guida all’analisi. Quindi leggi il T 23.6 di
to della retorica antica e moderna. Senza Castiglione e commentalo.
la pretesa di ricostruirne la storia, dispo-

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22. Bembo e il dibattito sulla lingua e sulla letteratura VERIFICA

VERIFICA

22.1 La “questione della lingua”

1 Che cosa si intende con “questione della lingua”?


2 Esponi sinteticamente le tesi delle tre principali correnti che, a inizio Cinquecento, si con-
frontano sulla cosiddetta questione della lingua.
3 Che cosa accomuna e che cosa distingue i sostenitori della lingua cortigiana e quelli del
fiorentino vivo?
4 Che cosa accomuna e che cosa distingue i sostenitori del fiorentino vivo e i seguaci di
Bembo?
5 Che cosa accomuna e che cosa distingue i sostenitori della lingua cortigiana e i seguaci di
Bembo?

22.2 Bembo e la codificazione del classicismo

6 Quali autori propose Bembo come modelli di lingua per il latino e per l’italiano?
7 Quali ragioni determinarono il successo nel Cinquecento della tesi di Bembo?
8 Che cosa si intende per «principio di imitazione»? Quali schieramenti si formarono nel
primo Cinquecento e su che cosa si divisero?
9 Quali sono gli antecedenti a te noti della polemica fra Bembo e Pico sull’imitazione?
10 Quali argomenti tratta Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua?
11 In che senso si può definire Bembo il codificatore del classicismo rinascimentale?
12 Quali sono i princìpi fondamentali a cui si ispira la poetica di Bembo?
13 Che cosa si intende per “petrarchismo”?
14 Che cosa sono la gravità e la piacevolezza? A proposito di esse in che cosa si segnala Petrarca
rispetto ad altri poeti?
15 Che cos’è la variatio e che ruolo le assegna Bembo nella sua poetica?

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Quattrocento e Cinquecento

La trattatistica morale:
23 Erasmo, Bembo e Castiglione

n Erasmo (a destra) con il


suo segretario.

La trattatistica morale ha un posto di rilievo nella e lo attrae nel vortice di un’irriducibile irrazionalità?
storia letteraria cinquecentesca. La forma dialogo, ti- O, al contrario, opera solo in apparenza faceta, che
pica della filosofia umanistica (non dogmatica e non cela un messaggio serissimo e un’aspra critica alla
sistematica), rappresenta il pensiero in divenire, con società del tempo, trasformandosi nel finale in un
tutti i dubbi e i chiarimenti, le affermazioni e le confu- «appello religioso» ad aderire alla santa follia del sol-
tazioni, le opinioni che, nel confronto, si sfumano e si dato di Cristo? Erasmo nell’Elogio sembra quantome-
precisano. È anche la forma simbolica di un sapere no sostenere un pacato, non più medievale distacco
acquisito e diffuso attraverso la conversazione colta e dalle cose del mondo, intriso di pietà e di ironia. Ma,
pacata dei cenacoli, delle accademie, delle corti. dovendo vivere nel mondo (cosa a cui – a differenza
Una costante fortuna ha arriso a un’enigmatica di molti anacoreti medievali – Erasmo non rinuncia),
operetta di Erasmo da Rotterdam, l’Elogio della Follia ammette che bisogna pagare un tributo alla follia do-
(1509-1511). In questo lungo monologo è la Follia minante, accettando consapevolmente l’umana debo-
stessa che si impegna a tessere il proprio elogio, mo- lezza. L’ambiguità del testo, d’altronde, se per la sto-
strando la sua pervasiva presenza nel mondo degli ria delle idee costituisce un problema, da un punto di
uomini. Opera di straordinaria complessità e ambi- vista letterario è una delle fonti del suo fascino.
guità, intelligente e arguta, l’Elogio della Follia ha af- Il neoplatonismo fiorentino diede vita nel Cinque-
fascinato e ha messo alla prova l’acume dei lettori: cento a una cospicua trattatistica dedicata all’amor
semplice scherzo letterario, bizzarro e paradossale platonico. L’opera di maggiore impegno speculativo
che dice tutto e il contrario di tutto, irretisce il lettore sono i Dialoghi d’Amore (1535) di Leone Ebreo.

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23. La trattatistica morale: Erasmo, Bembo e Castiglione STORIA

n Baldassarre Castiglione Opere meno profonde ma più influenti sono però


(ritratto di Raffaello).
gli Asolani (1505, 1530) di Bembo e il Libro del corte-
giano (1528) di Castiglione, che hanno il merito di di-
vulgare la concezione dell’amor platonico, riportan-
dola alla concreta esperienza sociale e morale dei
lettori, così da risultare di più facile assimilazione an-
che per la cultura letteraria. L’ideale di un amore che
non si esaurisce nel possesso materiale (fonte di in-
quietudini e delusioni) ma, guidato dalla ragione, si
innalza alla contemplazione della bellezza ideale del-
l’oggetto amato (un possesso sicuro e sereno) è in-
nanzitutto una conquista morale che porta equilibrio
e armonia all’individuo, secondo l’ideale rinascimen-
tale del dominio delle passioni. Ma poi è possibile in-
nalzarsi alla bellezza universale, che informa di sé
tutte le creature, e a quella spirituale dell’anima, de-
gli angeli e – meta ultima – di Dio, di cui ogni bellez-
za terrena non è che la debole ombra. La tensione
mistica rimane perlopiù sullo sfondo, sovrastata da
un messaggio di ordine morale: il sentimento d’amo-
re deve essere liberato da quella «sensuale concupi-
scenza» che fa da sempre soffrire gli amanti e deve
tradursi almeno nel desiderio di attingere la Bellezza
ideale ed eterna.
Il Libro del cortegiano di Baldassarre Castiglione,
un grande classico della letteratura europea, si pro-
pone di investigare che cosa sia un perfetto cortigia-
no e di offrirne al lettore un modello ideale cui tende-
re. Data la centralità della corte nella vita sociale e
nell’immaginario del Cinquecento, il Cortegiano costi-
tuisce il supremo modello umano che la cultura del
tempo elabora. Come tale si proporrà alle società di
antico regime per tutta l’età moderna. Quello del cor-
tigiano, oltre che un sofisticato ma concreto prontua-
rio per aspiranti cortigiani, è il modello o forse il mito
di un uomo versatile, completo e perfetto, che spazia
n La corte di Caterina Cor- con apparente naturalezza e perfetta padronanza di
naro ad Asolo.
n Pietro Bembo giovane (ri- sé dall’esercizio delle armi al ballo, dalla letteratura
tratto di Raffaello). alla piacevole conversazione, dalla politica alla filoso-
fia e a tutte le arti. Il cortigiano di Castiglione ha una
personalità armoniosa senza ostentazione, è educato,
colto, sobriamente elegante, capace a seconda delle
circostanze di mostrarsi serio e grave, riflessivo e
contemplativo, arguto e spiritoso, aggraziato e raffi-
nato, ma anche coraggioso e determinato, forte e
pragmatico. Castiglione non si ferma peraltro alla pu-
ra forma del comportamento, ma si impegna a indi-
care un fine etico-politico della formazione del corti-
giano: il fine del perfetto cortigiano è consigliare il
principe e indurlo ad un cammino di virtù; il suo fa-
scino e la sua grazia sono invece i mezzi per guada-
gnarsi la stima e la benevolenza del principe che ser-
ve. Il cortigiano ideale di Castiglione insomma tiene
conto dell’acre riflessione di Machiavelli, ma si pro-
pone come un opposto modello pedagogico.

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Quattrocento e Cinquecento

23.1 Il punto su un (macro)genere


I trattati moraliLa trattatistica costituisce una parte assai consistente del sistema letterario umanisti-
co-rinascimentale. Come in altri settori verso la fine del Quattrocento il volgare
prende il posto del latino, ma alcuni campi specifici rimangono in buona parte e per
lungo tempo ancora appannaggio del latino. Un posto di rilievo nella storia lettera-
ria, poi, ha la trattatistica che possiamo definire morale e in ispecie quella che ri-
guarda il comportamento (nella prospettiva del costume sociale) e quella dedicata al-
l’amore.
Nell’età che stiamo studiando, proprio in ragione di un riconosciuto primato del-
le lettere anche la trattazione di argomenti tecnici assume prevalentemente una for-
ma letteraria. In qualche caso, ad esempio, assume la forma dell’epistola, in altri quel-
la del dialogo. Anche Galileo, come più avanti vedremo, sceglierà in qualche caso la
forma dialogo per esporre argomenti prettamente scientifici.
La forma dialogo Consideriamo in particolare il dialogo, la forma-principe che assume la trattatisti-
ca umanistico-rinascimentale: la forma specifica è derivata, come spesso in quest’e-
poca, da modelli antichi (Platone e Cicerone sono autori di dialoghi, Seneca adotta
la forma epistolare). La forma dialogo comporta di norma l’invenzione e talora la de-
scrizione almeno sommaria di una situazione, di un ambiente, la caratterizzazione
psicologica, talora contrastiva, dei personaggi; si caratterizza perlopiù anche per la
non sistematicità dell’esposizione e per il confronto fra opinioni diverse, che si può
concludere con l’affermazione palese di uno dei dialoganti (portavoce dell’autore) o
viceversa senza palesi vincitori, lasciando nell’ambiguità da che parte esattamente
propenda l’autore.
Forma tipica della filosofia e della riflessione morale umanistica, non dogmatica e
non sistematica (in aperta polemica con il Medioevo), il dialogo spesso rappresenta il
pensiero nel suo farsi, con gli snodi dei dubbi e dei chiarimenti, delle affermazioni e
delle confutazioni, delle opinioni che via via, nel confronto, si sfumano, si precisano,
si consolidano. È anche la forma simbolica dell’acquisizione e della diffusione del sa-
pere attraverso la conversazione colta e pacata, che si poteva avere nel cenacolo uma-
nistico, nell’accademia, nella corte (idealmente si contrappone allo studio sistematico
e più rigido delle scholae e delle università medievali). Anche l’umorismo, il parados-
so, le forme di garbato intrattenimento (la cornice mondana, l’inserimento di face-
zie, novelle) che spesso trovano spazio nei dialoghi di quest’età contribuiscono a da-
re l’impressione di leggerezza, di non sistematicità, di ideale conversazione.

23.2 Erasmo da Rotterdam e la follia


L’Elogio della Follia Una secolare, costante fortuna ha arriso a una singolare ed enigmatica operetta di
Erasmo da Rotterdam, l’Elogio della Follia, ideato nel 1509, dopo un lungo soggiorno
in Italia, nel viaggio che lo riconduceva in Inghilterra dall’amico Thomas More, a cui
l’opera, edita poi a Parigi nel 1511, è dedicata.
Interpretazioni discordanti Opera di straordinaria complessità e ambiguità, intelligente e arguta, capa-
ce di utilizzare, filtrare e fondere disparate tradizioni letterarie, l’Elogio della Follia ha af-
fascinato i lettori e ha messo alla prova l’acribia degli studiosi, che ancora discutono sul
suo esatto significato. Si oscilla tra due interpretazioni diametralmente opposte. Secon-
do alcuni si tratterebbe di un puro e semplice scherzo letterario, bizzarro e paradossale
che dice tutto e il contrario di tutto, irretisce il lettore e lo confonde prendendosi gio-
co di lui e coinvolgendolo proprio nella dimensione di un’irriducibile irrazionalità,
che è propria di colei che parla, la Follia. Secondo altri, al contrario, si tratterebbe di
un’opera solo apparentemente faceta e paradossale, che viceversa cela un contenuto in-

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23. La trattatistica morale: Erasmo, Bembo e Castiglione STORIA

tellettuale e morale serissimo e un’aspra critica al mondo degli uomini e in particolare


alla cultura universitaria ed ecclesiastica, trasformandosi esplicitamente nel finale in un
«appello religioso» ad aderire alla follia in Cristo, alla santa follia del miles Christi, del
soldato di Cristo; cioè il comportamento contrario alla logica del mondo che viene
giudicato folle da quei veri folli che sono gli uomini increduli e in preda alle passioni
terrene. E questa non è che una delle tante questioni interpretative aperte.

▍ Elogio della Follia

Il Morìas Encòmion seu Laus Stultitiae (doppio titolo, prima in greco poi in latino, tradotto in
italiano come Elogio della Follia oppure Elogio della Pazzia) è un lungo monologo tradizional-
mente suddiviso in 68 capitoli, ma tale suddivisione non risale all’autore. Dapprima la Follia
esordisce dicendo che essa sola «rallegra con la sua divina potenza dei e uomini» e che tes-
serà il proprio elogio, poiché nessuno al mondo si prende la briga di lodarla. Le ragioni di
questa lode sono che essa, la Follia, è l’origine e il sale della vita. «Essa rende attraenti le
donne, anima i banchetti, fomenta l’amicizia, concilia i matrimoni e quindi la sopravviven-
za del genere umano; fonde mediante la dissimulazione e l’adulazione la società, appaga an-
che i miseri, muove con la vanità a grandi imprese, distingue il goffo grigiore dei filosofi dal
fascino dei poeti, rende possibile con simboli e belle favole la democrazia (10-28)» (Carena).
Tutto nel mondo è finzione, la vita altro non è che una commedia, dove ognuno rappresen-
ta una parte. Chi meglio del folle è in grado di capire ciò? Dunque il folle è anche savio
perché meglio dei savi comprende la realtà. La Follia è però anche savia perché, con la sua
irrazionalità, rende tollerabili le angustie della vita. Al contrario, le scienze sono del tutto
inutili alla felicità. Fra i viventi più felici sono gli animali che vivono d’istinto; e fra gli uo-
mini i dementi che «giocano, cantano e ridono» senza motivo e sono sacri agli dèi per la lo-
ro innocenza.Viceversa i dotti che si macerano negli studi (qui forse è ritratto Erasmo stes-
so) sono gli esseri più infelici di tutti (29-37). Segue una lunga sezione satirica (38-60) in
cui vengono derisi in pratica tutti gli uomini elencati per stato, professioni, ruoli sociali,
propensioni: particolarmente pungente è la satira dei teologi, degli alti prelati e dei papi.
Nel finale (61-67, cui segue un breve congedo) invece la Follia sembra mutare identità: se
fin qui si presentava nei panni bizzarri della follia mondana, essa infatti si presenta ora come
la follia in Cristo («Noi, folli a motivo di Cristo» aveva scritto san Paolo nella Lettera ai Co-
rinzi, qui citata), la santa follia cioè di chi abbandona tutti i beni, i piaceri e i valori del mon-
do per seguire l’autentico e originario insegnamento cristiano; la santa follia di chi in preda
al raptus mistico si libera dal carcere del corpo per congiungersi a Dio. «Il capitolo finale, 67,
ricorda [...] il finale della parte drammatica della Confessioni di sant’Agostino (libro 9, capi-
tolo 10) con l’ascesa mistica e l’ebbrezza celeste completamente fuori dal dominio dei sensi
e della ragione» (Carena).

L’ambiguità strutturale del testo In effetti l’opera si presenta ambigua innanzitutto per il fatto che
non è presentato un savio a parlare della follia, ma è la follia stessa che tesse il proprio
elogio: ciò che dice va dunque preso seriamente o ironicamente? Ma i folli, si sa, talo-
ra dicono le verità indicibili dai sani; talora semplicemente delirano. Allora anche le af-
fermazioni della Follia vanno talora prese sul serio, come scomode verità, talora capo-
volte nel loro contrario? Ma qual è di volta in volta il criterio giusto per decidere?
La forma stessa dell’invenzione erasmiana appare dunque ambigua. Talora la Follia
satireggia apertamente i vizi umani, come avevano fatto anche tanti moralisti antichi
e medievali, pagani e cristiani, e si è indotti a pensare che Erasmo faccia sul serio; ma
in altri casi la satira sembra colpire lo stesso Erasmo, la sua passione umanistica per lo
studio, per le letture, per la ricerca [R Doc 23.1 ]: fa sul serio, dunque, quando pare criti-
care i pedanti, ma scherza quando critica gli studiosi che dedicano la vita alla ricerca
della verità? O critica gli uni e gli altri, perché in ogni caso sprecano – come alla let-

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Quattrocento e Cinquecento

Doc 23.1 L’infelice vita dei sapienti secondo Erasmo

Per tornare dunque alla felicità degli idioti, passata una vita molto allegra, senza alcun
timore o percezione della morte, essi migrano direttamente ai Campi Elisi, per dilettare
anche lì coi loro scherzi le anime oziose dei pii.
Ed ora confrontiamo qualsiasi persona, anche un sapiente, con la sorte dell’idiota. Im-
magina sùbito un modello di sapienza da porgli a confronto, un uomo che abbia macera-
to l’intera sua fanciullezza e l’adolescenza nell’apprendimento approfondito delle scienze e
perduto gli anni più belli della vita in veglie, cure, sudori ininterrotti; ed anche in tutto il
resto della sua esistenza non abbia assaporato nemmeno un sorso di piacere vivendo sem-
pre parco, povero, triste, lugubre, spietato e duro con se stesso, greve e odioso agli altri, pal-
lido, macilento, malsano, cisposo, stremato, vecchio e canuto molto prima del tempo, e an-
zitempo in fuga dalla vita: anche se, cosa importa quando muoia un individuo simile, che
non ha mai vissuto? Questo è un ritratto eccellente del saggio.

tera afferma la Follia – il proprio tempo all’inseguimento di cose vane e si perdono


i folli, irrazionali piaceri materiali della vita? Ma allora come conciliare questa pro-
spettiva con l’almeno apparente dimostrazione della vanità dei beni terreni?
La critica al mondo degli uomini Se quest’opera va intesa seriamente – come crediamo –, è in-
dubbio che Erasmo non abbia voluto e potuto sostenere tesi del tutto difformi da
quelle di altre sue opere. È ad esse perciò che molte pagine dell’Elogio andranno ri-
condotte. Ad esempio, vi si potrà leggere una critica della degenerazione intellettua-
le (le astruserie dei teologi) e morale della Chiesa, come dei re e dei papi impegnati
in guerre distruttive e vane. Erasmo sostiene tesi analoghe, infatti, nel Lamento della
pace e in alcuni dialoghi dei Colloqui. Tuttavia, a molti è parso che Erasmo abbia an-
che voluto – fra il serio e il faceto – coinvolgere tutto il mondo degli uomini nella
sua critica, attingendo a fonti sia classiche sia bibliche. Erasmo nell’Elogio sembra in-
somma sostenere un pacato distacco dalle cose del mondo, di cui anche in altre sue
opere dichiara se non l’inconsistenza, quanto meno l’inessenzialità. Salvo però rico-
noscere anche che è inevitabile pagare un tributo alla follia. Se tutti sono folli, se la
vita terrena stessa è follia, si dovrà dunque accettare anche questa dimensione di irra-
zionalità e di follia, volendo vivere, perché – a differenza di molti anacoreti medieva-
li – Erasmo non rinuncia a vivere nel mondo, né auspica l’annichilimento del mondo
intero. La Follia in effetti nel suo elogio si presenta talora come il sale della vita: se
non è un elogio del vitalismo, quantomeno è una consapevole, pacata accettazione di
una condizione inevitabile, un’ammissione comprensiva (umanistica, non più medie-
vale) dell’umana debolezza.
Un ironico, non più medievale contemptus mundi Di fronte agli attacchi che dovette subire, Erasmo
stesso sostenne di aver solo esposto in forma giocosa e paradossale quanto altrove
aveva esposto seriamente: alle cose del mondo «si deve partecipare, ma solo con di-
stacco, pronti a lasciare tutto per la sola cosa che importa» (la fede, la salvezza); «frui-
re quindi del mondo, ma non riporre la propria gioia in esso» (dice nell’Enchiridion
militis christiani [Manuale del milite cristiano] [R Doc 23.2 ]). E Ronald Bainton sostiene che
l’operetta «può essere descritta come una versione ironica del contemptus mundi, di-
sprezzo del mondo. D’altra parte dire “versione ironica”, è già dire che non si tratta
del disprezzo medievale del mondo», come invece per molti versi era ancora l’opera a
suo tempo celebre di Sebastian Brant, La nave dei folli. Attraverso l’ironia, egli «giunge,
così, a intravedere che qualunque uomo è folle, incluso se stesso. [...] Questa intui-
zione lo porta a sorridere di se stesso, come fa in più di un’occasione. Il sorriso non
significa scherno: dice piuttosto pietà e speranza. Perché l’uomo, che è imprigionato
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23. La trattatistica morale: Erasmo, Bembo e Castiglione STORIA

dai sensi e si disperde in cerca di fini effimeri, può essere emancipato da una Follia
d’altro genere, il divino rapimento platonico che trascende la ragione, e il divino au-
to-svuotamento del Cristiano» (Bainton). Il messaggio di Erasmo quale, con certezza,
emerge dalle sue opere serie è in definitiva assai semplice e può essere sintetizzato
nell’invito «a tornare alla Bibbia e, in particolare, al nuovo Testamento, per riscoprir-
vi lo spirito primitivo del cristianesimo, quello spirito che aveva regnato prima che
un clero geloso dei propri privilegi lo disseccasse in un dogma formale» (Trevor-Ro-
per).

Doc 23.2 Vivere nel mondo, ma con distacco


Erasmo da Rotterdam,
Enchiridion militis Da dove proviene un tal senso di vanità nella vita dei cristiani che godono della verità
christiani, a c. di R. Di evangelica? Di quali tumulti si riempie la nostra vita, in ogni occasione! Pratichiamo il
Nardo, Japadre, L’Aquila commercio, solchiamo i mari, ci buttiamo nella guerra, stipuliamo trattati e li infrangia-
1973
mo, generiamo figli, nominiamo eredi, compriamo campi e li vendiamo, cementiamo
amicizie, erigiamo edifici e li abbattiamo. Siamo tonsurati, uniti, vestiti di saio. Ci eserci-
tiamo in molteplici arti: studiamo e diventiamo dottori in legge o in teologia. Qualcu-
no punta alla mitria e al pastorale. Fra queste tensioni ci torturiamo, ci facciamo vecchi
e lasciamo scivolare via gli anni e perdiamo il tesoro prezioso che solo ha valore. Poi si
arriverà all’ultimo tribunale, dove conta solo la verità. Ci accorgeremo in ritardo che tut-
te queste verità non erano che ombre e che abbiamo buttato le nostre vite nell’illusione
di un sogno. Qualcuno dirà a questo punto: «Sicché, un cristiano non deve avere nulla a
che fare con queste vanità?» Non si tratta di questo. Si deve partecipare, ma solo con di-
stacco, pronti a lasciare tutto per la sola cosa che importa, come dice Paolo, «avendo mo-
glie come se non la si avesse», piangendo come se non si piangesse, rallegrandosi come
se non ci si rallegrasse, vendendo come se non si fosse proprietari di nulla, usando il
mondo come se non lo si usasse, perché la figura di questo mondo si dissolve. Fruire
quindi del mondo, ma non riporre la propria gioia in esso.

Erasmo e More: la Follia come Utopia? Tuttavia è possibile che l’Elogio della Follia sia anche una ce-
lebrazione utopica e paradossale di un mondo migliore. Dedicato proprio a quel Tho-
mas More autore dell’Utopia, l’Elogio della Follia nel suo titolo greco (con cui fu pub-
blicato) di Encòmion Morìas è anche allusivamente un elogio di More, che si fa palese
nell’introduzione dove Erasmo scrive: «Vale disertissime More et Moriam tuam gravi-
ter defende» (“Stai sano eloquentissimo Moro e difendi alacremente la tua Follia”),
che è come dire che l’utopia di More è una follia da difendere, e forse che tra l’Utopia
dell’amico e la Follia sua la distanza non era infinita. Come ha scritto Carlo Carena
«L’Elogio della Follia risulterebbe l’Utopia di Erasmo [...]. Se non è questa l’ipotesi più
accreditabile, certo è la più bella».
Il fascino letterario dell’ambiguità Fatto sta che il lettore di questa straordinaria operetta si trova in-
vischiato in un discorso mutevole e ambiguo, di cui di volta in volta crede di aver tro-
vato la giusta chiave di interpretazione, per poi essere costretto a dubitare e talora a ri-
credersi. Tutto appare savio e pazzo al tempo stesso, tutto rischia di capovolgersi nel
suo contrario. C’è la finezza intellettuale, l’ironia dell’umanista disincantato, la dottrina
dello studioso, il gusto per la forma burlesca, per il discorso giocoso ma elaborato e
scintillante. Ma si intuisce anche un sottofondo di autentica passione intellettuale, mo-
rale e civile, che induce a ricercare un messaggio serio, pur se non certamente inter-
pretabile in modo univoco. L’ambiguità ed enigmaticità del testo, d’altronde, se per la
storia delle idee costituisce un problema, da un punto di vista letterario viceversa è
una delle fonti del fascino costante che quest’operetta ha esercitato sui lettori.
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Quattrocento e Cinquecento

23.3 Bembo e l’amor platonico


Il neoplatonismo fiorentino e la trattatistica sull’amore La grande fortuna che a partire dagli ultimi
decenni del Quattrocento ebbe il neoplatonismo fiorentino, per merito di Marsilio Fici-
no e dell’Accademia platonica da lui fondata (R 16.6), ebbe importanti riflessi per la sto-
ria letteraria soprattutto nella concezione e nella rappresentazione dell’amore nella lirica
petrarchistica. Ma se ciò fu possibile lo si deve anche alla diffusione nel corso di tutto il
Cinquecento di una cospicua trattatistica dedicata appunto all’amore, e in particolare al-
l’amor platonico; e ancora una volta a Pietro Bembo che con il dialogo degli Asolani
(1505) offerse alla cultura del proprio tempo un efficace e suggestivo modello teorico.
L’impegno speculativo di Leone Ebreo L’opera che da un punto di vista speculativo costituisce sen-
za dubbio il vertice di questa produzione sono però i Dialoghi d’Amore (ed. postuma,
1535) del letterato e medico portoghese Leone Ebreo (Giuda Abravanel o Abarbanel),
giunto nel 1492 in Italia, dove visse fino alla morte avvenuta in data incerta (dopo il
1521). Leone Ebreo concepisce il mondo come armonia vivente e come un insieme
armonioso di esseri spirituali e corporei che sono uniti e permeati dall’amore di Dio,
nel duplice senso che Dio è amore e governa il mondo con amore e che le creature si
legano fra loro e tendono a Dio per amore. «L’amore – scrive – è uno spirito vivifi-
cante, che penetra tutto il mondo, ed è uno legame che unisce tutto l’universo»; è l’a-
more la fonte di ogni beatitudine, il principio e la condizione stessa dell’esistenza del-
l’universo; e più in particolare è l’amore, non già l’intelletto, che spinge l’uomo a ten-
dere a Dio e a ricongiungersi con lui nell’unione mistica. L’amore che unisce le crea-
ture fra loro non è dunque che un’occorrenza minima dell’amore che governa l’uni-
verso, ma al tempo stesso è lo specchio di quell’amore infinito, così come l’uomo è un
microcosmo, specchio e immagine dell’armonia cosmica.
Bembo e Castiglione: la divulgazione dell’amor platonico Le altre trattazioni sul tema dell’amor
platonico hanno assai minor vigore speculativo, ma hanno il merito storico di divul-
gare questa concezione, riportandola alla concreta esperienza sociale e morale dell’a-
more e fornendo uno schema interpretativo di più immediata assimilazione anche per
la cultura letteraria. Le opere più importanti che affrontano questo argomento sono
gli Asolani (1505, 1530) di Pietro Bembo e, in subordine, il Libro del cortegiano di Bal-
dassarre Castiglione (1528; R 23.4), che nella finzione del dialogo chiama proprio
Bembo a trattare questo tema e ne sintetizza le tesi espresse negli Asolani.

▍ Asolani

Gli Asolani sono la prima importante opera di Bembo. Sono stati composti, come pare proba-
bile, tra il 1497 e il 1502.Vennero pubblicati in prima edizione nel 1505 da Aldo Manuzio e
in seconda edizione (riveduta e rimaneggiata) nel 1530, dopo la prima edizione delle Prose.
Si tratta di un dialogo sull’amore, che si finge avvenuto ad Asolo presso la corte di Caterina
Cornaro (regina di Cipro, dal 1489 esule in terra veneziana fino al 1510, anno della sua mor-
te).Vari sono i personaggi che intervengono nel dialogo, ma protagonisti dei diversi libri sono:
Perottino, il tipo dell’amante infelice, che, mediante un’ampia analisi psico-fisiologica e a suo
modo filosofica, espone la teoria della negatività d’amore (libro I); Gismondo, l’amante felice e
il teorico della positività d’amore, che confuta punto per punto le tesi del suo predecessore-
antagonista inneggiando alle gioie dell’amore (libro II); Lavinello, a cui si deve, dopo la con-
sueta confutazione delle tesi precedenti, una compiuta esposizione della teoria dell’amor pla-
tonico, come contemplazione della bellezza ideale presente nelle cose terrene (gran parte del
libro III). Infine, non come interlocutore del dialogo ma attraverso un resoconto di Lavinello,
compare un savio romito, che espone una dottrina dell’amore ispirata all’ascetismo cristiano,
cioè dell’amore come tensione a un Dio trascendente, che comporta il totale disinteresse per
la bellezza terrena e l’esclusivo desiderio di contemplazione di quella divina (fine del libro III).

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23. La trattatistica morale: Erasmo, Bembo e Castiglione STORIA

Gli appetiti sensibili e la contemplazione idealizzata dell’oggetto d’amore Lo sfondo teorico


rimane comunque il neoplatonismo ficiniano: l’amore è definito «disiderio di bellez-
za» (Bembo) ovvero «un certo desiderio di fruire la bellezza» (Castiglione), che poi
non è altro che il concetto espresso da Platone nel Simposio: «Amore è desiderio delle
cose belle». L’unica bellezza che l’uomo può percepire con i sensi è la bellezza corpo-
rea, materiale, che, specialmente nel viso, si manifesta come proporzione, armonia,
simmetria; ma questa non è null’altro che un riflesso imperfetto della bellezza e bontà
divina. Chi dunque crede, possedendo l’oggetto materiale del proprio amore, di poter
appagare questo desiderio di bellezza si sbaglia, dice ad esempio Castiglione: il piacere
che ne segue è imperfetto, limitato, ingannevole e genera o «sazietà e fastidio» o rin-
nova «desiderio ed avidità» senza portare mai a un vero appagamento. Nel mezzo del-
l’amor sensuale «altro non si sente già mai che affanni, tormenti, dolori, stenti, fatiche;
di modo che l’esser pallido, afflitto, in continue lacrime e sospiri, il star mesto, il tacer
sempre o lamentarsi, il desiderio di morire, insomma l’essere infelicissimo, son le con-
dicioni che si dicono convenir agli inamorati» (è la tipica casistica degli affanni d’a-
more tante volte presa a soggetto dalla lirica romanza [LII]). Ingannato così dagli ap-
petiti sensibili, l’amante si allontana dal vero fine del suo desiderio e si nega l’appaga-
mento. Se invece si lascia guidare non dai sensi ma dalla ragione, egli comprende che
solo la contemplazione pura e quanto più possibile astratta della bellezza può dare un
appagamento duraturo, anche in assenza della persona amata.
La bellezza terrena, «debil umbra» della bellezza ideale ed eterna Il processo dell’amor platoni-
co, quale ce lo descrive Castiglione, non si arresta però a questa contemplazione idea-
lizzata del singolo oggetto d’amore. Comprendendo che la bellezza della donna ama-
ta, e in genere quella femminile non è che una «debil umbra» della bellezza ideale ed
eterna, l’uomo si potrà innalzare a forme di contemplazione più pure e perfette, che si
realizzano solo «con gli occhi della mente», fino alla contemplazione di Dio. Il fine su-
premo dell’amore è, dunque, la contemplazione di Dio; ad esso si giunge però per gra-
di, muovendo dal reale all’ideale e da questo allo spirituale; e dalla contemplazione
della bellezza femminile, a quella della bellezza universale che informa di sé tutte le
creature, a quella dell’anima, e su su a quella angelica fino a quella divina.
Come si vede, la prospettiva è in primo luogo morale: il sentimento che è tanta
parte dell’esperienza di ogni uomo deve essere liberato da quella «sensuale concupi-
scenza» che fa da sempre soffrire gli amanti e deve invece essere concepito come un
profondo desiderio di attingere la Bellezza ideale ed eterna. Le inquietudini e le soffe-
renze degli amanti tante volte prese come oggetto della poesia amorosa e delle discus-
sioni cortigiane sono additate come l’effetto di un fraintendimento della vera natura
d’amore, di un abbandonarsi alla pura e semplice dimensione sensuale, da cui ci si può
riscattare in un cammino di perfezionamento, al termine del quale è promessa addirit-
tura la felicità della mistica unione con Dio. Questa tensione mistica, comunque, nel-
l’opera di Castiglione rimane un corollario relativamente marginale rispetto all’obiet-
tivo del raggiungimento di un equilibrio e di un’armonia morali cui soprattutto deve
mirare il perfetto cortigiano.
Gli Asolani di Pietro Bembo Gli Asolani sono un dialogo interamente dedicato al tema dell’amore. Il
loro «valore speculativo» – rileva Dionisotti – «è nullo»: l’opera è importante soprat-
tutto sul piano della storia linguistica, in quanto è «la prima prosa toscana prodotta in
Italia da uno che toscano non fosse né per nascita né per educazione» e in quanto,
presentando una prosa modellata su quella di Boccaccio, anticipa di fatto quelle pro-
poste teoriche che Bembo avrebbe divulgato di lì a vent’anni con le Prose (la scelta del
fiorentino arcaizzante). Ma gli Asolani interessano anche la storia del petrarchismo e di
quello bembiano in particolare, in quanto propongono temi e problemi a cui i lirici
del secolo attingeranno generosamente.
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Quattrocento e Cinquecento

Uno degli scopi principali che Bembo si pose, scrivendo gli Asolani e ricorrendo ai
concetti del platonismo fiorentino, pare infatti che sia stato quello di dare nuova e più
sofisticata legittimazione al tema letterario dell’amore nell’àmbito di una cultura raffi-
nata qual era quella rinascimentale.
Diverse concezioni dell’amore a confronto Negli Asolani, come spesso accade nella forma dialogo,
non è detto esplicitamente a quale delle diverse tesi esposte dai protagonisti aderisca
Bembo. Ogni personaggio ha il suo spazio e la sua autonomia e ciascuna delle tesi in
qualche modo rispecchia momenti e aspetti della vicenda umana e letteraria dell’auto-
re. Una conclusione univoca non c’è, annota Dionisotti. «Evidentemente c’è un gra-
duale processo ascendente dall’amore disperato a quello sensualmente felice per la don-
na, e da questo, così caldo ma così fragile, a quello intellettuale e contemplativo per la
donna stessa, finalmente al perfetto e inesauribile amore di Dio, e, in Dio, della natura
e dell’arte. Ma sono gradi di una realtà che li comprende e mostra tutti insieme. [...]
Gli Asolani sono opera di un poeta e di un retore, non di un filosofo» (Dionisotti).
È però probabile che Bembo, ordinando la successione degli interventi, intendesse
quanto meno sottolineare la concezione dell’amor platonico esposta da Lavinello e
forse anche suggerirne la piena conciliabilità con l’etica cristiana (di cui si fanno seve-
re interpreti le parole del romito, citate da Lavinello nel finale): insomma «l’amore, che
è principio nefasto quando si riduce a turpe appetito carnale, diventa invece causa di
bene quando è contemplazione, nelle cose terrene, della bellezza ideale ed eterna, e
quindi primo gradino dell’ascesa alla somma bellezza, che è Dio» (Sapegno). Questa,
del resto, è anche l’intepretazione che del libro sembra dare Castiglione attribuendo a
Bembo il compito di esporre nel Cortegiano la dottrina dell’amor platonico.
Il platonismo cristiano degli Asolani e il Canzoniere petrarchesco La conclusione degli Asolani,
con il monito ad abbandonare i simulacri terreni dell’amore e ad intendere in termi-
ni propriamente cristiani la vera bellezza e il vero bene [R T 23.3 ], risulta in gran parte
assimilabile all’interpretazione del Canzoniere petrarchesco che Bembo proponeva. Gli
Asolani cooperano dunque con le altre opere di Bembo ad orientare i letterati cin-
quecenteschi verso il modello petrarchesco. Se l’influsso degli Asolani sulla lirica del
Cinquecento è nettamente superiore a quello dell’altra trattatistica d’amore, il motivo
potrebbe essere proprio questa consonanza con la struttura ideale del Canzoniere.

23.4 Castiglione e il perfetto cortigiano


Un grande libro europeo, in equilibrio tra ideale e reale Il Libro del cortegiano di Baldassarre Ca-
stiglione è «un grande libro “europeo”, uno dei pochi della tradizione letteraria ita-
liana a conquistare una presenza forte e stabile – profonda soprattutto – nella cultu-
ra della società di ancien régime: un classico della letteratura europea» (Quondam). Il
Cortegiano è un libro composito, unificato dall’intento di investigare che cosa sia un
perfetto cortigiano e quindi di offrirne al lettore un modello ideale cui tendere. In
ragione della centralità della corte nella vita sociale e nell’immaginario degli uomi-
ni del Cinquecento, il cortegiano è anche il supremo modello e mito umano che la
cultura del tempo elabora e prende il posto che avevano occupato, ad esempio, il
santo o il cavaliere nel Medievo cristiano-feudale, il mercante nel Trecento comuna-
le e il dotto sapiente nel Quattrocento umanistico. Come tale il Cortegiano costituirà
l’archetipo di perfezione umana e sociale che le società di antico regime assumeran-
no per tutta l’età moderna. Ma il Cortegiano si fonda su una diretta conoscenza del
mondo della corte e sulle reali esigenze di chi vi operava, e perciò lo si può consi-
derare anche una sorta di manuale che offre precetti e consigli utili per formare chi
aspirasse a intraprendere la carriera a corte. È un’opera insomma in equilibrio fra
ideale e reale, fra astrazione e pragmatismo.
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23. La trattatistica morale: Erasmo, Bembo e Castiglione STORIA

Anche per questa sua natura composita e certo in virtù del suo impegno pedago-
gico, il Cortegiano si pone alla sommità di tutta la trattatistica umanistico-rinascimen-
tale sulla formazione e sul comportamento, sulla natura e sulla dignità umana, di cui
naturalmente accoglie l’eredità e porta i segni. Ma per altri aspetti tematici e metodo-
logici, ad esempio quando esamina i rapporti del cortigiano col principe, si collega an-
che alla trattatistica politica, che in quegli stessi anni esprimeva le opere fondamentali
di Machiavelli e Guicciardini, o a quella sulla lingua, la letteratura e l’amore, collegan-
dosi soprattutto con le opere di Bembo.
Un uomo armonioso e completo Quello che emerge dal Cortegiano è dunque il modello o forse il
mito di un uomo versatile, completo e perfetto, che spazia con apparente naturalezza e
perfetta padronanza di sé dall’esercizio delle armi al ballo, dalla letteratura alla piace-
vole conversazione, dalla politica alla filosofia e a tutte le arti. Il cortegiano di Casti-
glione ha una personalità armoniosa senza ostentazione, è educato, colto, sobriamente
elegante, capace a seconda delle circostanze di mostrarsi serio e grave, riflessivo e con-
templativo, arguto e spiritoso, aggraziato e raffinato, ma anche coraggioso e determi-
nato, forte e pragmatico. È insomma un modello di perfezione, derivato dalla tradizio-
ne umanistica, ma ammodernato, adattato e collocato sullo sfondo della corte, che as-

▍ Il Libro del cortegiano

Il Libro del cortegiano, composto tra il 1513 e il 1318, venne pubblicato nel 1528. La scena è
posta nella corte di Urbino nel 1507. L’opera ha la forma del dialogo (inserito in una corni-
ce narrativa) e consta di quattro libri, uno per ciascuna delle serate, in cui Castiglione im-
magina siano avvenute le conversazioni che riferisce. Gli interlocutori sono illustri perso-
naggi dell’epoca: la duchessa Elisabetta Gonzaga, Giuliano de’ Medici (ultimo figlio di Lo-
renzo), l’arcivescovo Federico Fregoso e suo fratello Ottaviano, il conte Ludovico di Canos-
sa, il marchese Gasparo Pallavicino, il nobile Cesare Gonzaga, e letterati come Bernardo Bib-
biena e Pietro Bembo, e altri ancora in posizione più defilata.
Nel primo libro, dopo aver descritto la corte di Urbino e le circostanze del dialogo, Casti-
glione affida a Ludovico di Canossa il compito di illustrare le qualità fisiche e morali che de-
ve possedere il perfetto cortegiano: la regola essenziale che enuncia è quella della grazia, ma
il discorso è analitico e si diffonde su qualità come il coraggio, il valore, la discrezione, la
consapevolezza di sé, ma anche la modestia, la cultura, la bellezza del corpo, la prestanza fisi-
ca e così via e tratta questioni come l’esercizio delle armi, l’esercizio fisico, la caccia, la lingua
(una lunga sezione è dedicata a questo tema cruciale, per cui cfr. 22.1), la formazione cultu-
rale e l’importanza delle lettere, della musica, delle arti (pittura e scultura). Nel secondo libro
Federico Fregoso parla del modo in cui il cortegiano deve far uso di quelle qualità a secon-
da delle circostanze e degli interlocutori, tratta dei rapporti col principe, si sofferma su varie
questioni particolari come la danza, l’abbigliamento, le amicizie, l’uso delle lingue straniere
ecc. e nella lunga sezione conclusiva dedica un articolato discorso, ricco di esempi (una sor-
ta di trattato nel trattato), alle facezie che il cortegiano deve saper utilizzare con arte e mode-
razione. Nel terzo libro Giuliano de’ Medici delinea la figura della perfetta dama di palazzo,
riformulando al femminile molti dei precetti dedicati al cortegiano, ma trattando anche una
serie di questioni particolari di natura sociale e morale (ad esempio, la maternità e il gover-
no della casa) e in particolare quella del comportamento in amore (prudenza, cautela, co-
stanza, pudicizia, modestia, discrezione, segretezza ecc.). Ma c’è spazio anche per una con-
troversia filosofica sulla natura della donna (rispetto all’uomo) che comprende anche una se-
rie di esempi di donne celebri. Nel quarto libro Ottaviano Fregoso illustra il fine ultimo cui
deve tendere il cortegiano: quello di essere consigliere sincero e coraggioso del principe, di
saperlo contraddire quando sbaglia e, in generale, di spingerlo verso azioni virtuose, liberali e
magnanime, di indurlo ad amare la verità e a rifuggire dall’adulazione. Almeno indiretta-
mente emerge così anche la figura del principe ideale, che subordina l’esercizio del potere a
una norma etica. Nella parte finale del libro Pietro Bembo illustra la filosofia dell’amor pla-
tonico, di cui ci siamo occupati nel precedente paragrafo.

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Quattrocento e Cinquecento

Doc 23.3 Lettera dedicatoria del Libro del cortegiano

Altri dicono che, essendo tanto difficile e quasi impossibile trovar un omo così perfetto
come io voglio che sia il cortegiano, è stato superfluo il scriverlo1 perché vana cosa è inse-
gnare quello che imparare non si po. A questi rispondo che mi contentarò aver errato co-
me Platone, Senofonte e Marco Tullio,2 lassando il disputare del mondo intelligibile e del-
le idee;3 tra le quali, sì come, secondo quella opinione, è l’idea della perfetta republica e del
perfetto re e del perfetto oratore, così è ancora quella del perfetto cortegiano; alla imma-
gine della quale4 s’io non ho potuto approssimarmi col stile, tanto minor fatica averanno i
cortegiani d’approssimarsi con l’opere al termine e mèta, ch’io col scrivere ho loro propo-
sto; e se con tutto questo non potran conseguir quella perfezion, qual che ella si sia, ch’io
mi son sforzato d’esprimere, colui che più se le5 avvicinarà sarà il più perfetto, come di
molti arcieri che tirano ad un bersaglio, quando niuno è che dia nella brocca,6 quello che
più se le accosta senza dubbio è miglior degli altri.

1 il scriverlo: scrivere delineano rispettivamen- nel merito degli aspetti fi- nella filosofia platonica, (per la metafora dell’ar-
questo libro. te i modelli ideali dello losofici del discorso (il con il mondo delle idee). ciere di Machiavelli cfr.
2 Platone... Tullio: stato, del sovrano e dell’o- mondo intelligibile è quello 4 alla... quale: all’idea Principe, VI [R T 21.2 ]).
Platone nella Repubblica, ratore. non sensibile che può es- del perfetto cortigiano.
Senofonte nella Ciropedia, 3 lassando... idee: tra- sere compreso solo con 5 se le: le si.
Cicerone nel De oratore, lasciando qui di entrare l’intelletto e coincide, 6 brocca: bersaglio

sume anch’essa la funzione di un contesto ideale [R20.4 Doc 20.2 ]. Tuttavia, come si di-
ceva, Castiglione si mostra consapevole del processo di idealizzazione che ha messo in
atto e, nelle pieghe del discorso, anche della distanza che separa gli individui reali dal
modello ideale, ma nutre tuttavia la fiducia che l’arte della cortegiania possa essere inse-
gnata e appresa [R T 23.6 ].
La grazia, «regola universalissima» del perfetto cortigiano Il principio essenziale che emerge con
chiarezza fin dalle prime pagine del libro e che governa i comportamenti del corti-
giano è la grazia. La grazia, suprema virtù del cortigiano, significa capacità di rendersi
gradito per la propria versatilità e il savoir faire nel complesso contesto della corte, do-
ve si deve confrontare con principi, politici, diplomatici, religiosi, letterati, artisti, filo-
sofi, nobili e gentildonne. La grazia è un pregio in sé e per sé, ma è anche lo strumen-
to necessario per sapersi comportare con ciascuno dei propri interlocutori e conqui-
stare il gradimento di tutti, indispensabile per realizzare i fini specifici del cortigiano
[R T 23.5 ]. La grazia consiste in un comportamento ispirato a compostezza, misura, ar-
monia e naturalezza, che sono poi i grandi ideali estetici del rinascimento: essa può es-
sere la dote innata di alcuni fortunati individui, ma perlopiù è il frutto di un’educa-
zione rigorosa e di un addestramento appropriato, volti a rifuggire l’affettazione (cioè
l’ostentazione della propria perfezione) e a dimostrare viceversa quella che Castiglione
definisce sprezzatura. La sprezzatura è una sorta di noncuranza della perfezione e di di-
sprezzo per l’affettazione, e si concreta nell’evitare, ad esempio, la rigida uniformità del
comportamento, l’esattezza meccanica dei gesti, la troppo diligente forbitezza nel par-
lare: una noncuranza della perfezione che è essa stessa la suprema perfezione. L’arte di
saper conversare, trattare, danzare, atteggiarsi e così via, acquisita con lungo tirocinio,
deve riuscire a nascondere la fatica dell’addestramento e apparire il più possibile frut-
to di una naturale inclinazione, di una genuina spontaneità. Che è poi, trasferito dal-
l’estetica e dalla stilistica al comportamento, il noto principio classico dell’ars est celare
artem, “arte è nascondere l’arte” [R T 23.6 ].
Teatralità e simulazione/dissimulazione La grazia insomma implica nel cortigiano, come ha notato
Quondam, anche una capacità di simulazione e dissimulazione (ma il tema, potenzial-
mente dirompente – si ricordi Machiavelli –, è trattato con leggerezza e senza alcuna
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23. La trattatistica morale: Erasmo, Bembo e Castiglione STORIA

scandalosa ostentazione) e fa della corte una sorta di scena teatrale. «Tra “nascondere”
e “apparire” si costituisce lo spazio della grazia: insieme simulazione e rappresentazio-
ne. [...] La scena della Corte, dei rapporti sociali detti e agiti, è essenzialmente sotto il
segno di una teatralità globale» (Quondam).
Il fine etico-politico del cortegiano Se dunque la grazia così intesa è la radice dell’arte della cortegiania,
Castiglione non si ferma a quella che potrebbe apparire un’estetica della cortegiania, ma si
impegna a indicare, nel quarto libro, un fine etico-politico a cui devono tendere il pre-
stigio e il credito che il cortegiano si è conquistato con la sua grazia. Afferma infatti che
se il cortigiano non avesse altro scopo che quello di «esser nobile, aggraziato e piacevole»
per se stesso, non sarebbe ragionevole dedicare «tanto studio e fatica» per diventarlo e,
anzi, molti dei comportamenti indicati risulterebbero «più tosto degni di biasimo che di
laude» (IV, IV [R T 23.6 ]). Ma tutto questo, anche le apparenti frivolezze, acquistano una
superiore dignità e un senso profondo in ragione di uno scopo etico-politico: il fine del
perfetto cortegiano, dunque, è il guadagnarsi «talmente la benivolenzia e l’animo di quel
principe a cui serve, che possa dirgli e sempre gli dica la verità d’ogni cosa che ad esso
convenga sapere, senza timor o periculo di despiacergli», osando anzi contraddirlo «per
rimuoverlo da ogni intenzion viciosa ed indurlo al camin della virtù» (IV, V [R T 23.6 ]).
Se ci si fermasse al terzo libro si potrebbe insomma essere indotti a pensare che
l’intento di Castiglione fosse quello di delineare un ideale di comportamento nobile e
bello, ma fine a se stesso; o addirittura si potrebbe sospettare che lo scopo di un così
complesso e faticoso tirocinio fosse solo quello di acquisire prestigio personale, in-
somma far carriera a corte. Invece con il quarto libro Castiglione propone al suo cor-
tegiano compiti ben più alti e impegnativi: nientemeno che ricondurre il principe
sulla via della virtù. Stante il fatto che i prìncipi moderni sono corrotti e che, a diffe-
renza degli antichi che chiamavano a sé i filosofi per farsi consigliare e guidare, abor-
rirebbero quel filosofo che «apertamente e senza arte alcuna» volesse mostrar loro la
nuda verità, il compito è affidato al cortegiano, e i mezzi sono quelle virtù che lo ren-
dono amabile, piacevole, persuasivo: insomma, la grazia, e anche le frivolezze, come in-
strumentum regni (IV, IX-X [R T 23.6 ]).
Castiglione, Machiavelli e Guicciardini Castiglione, pochi anni dopo che Machiavelli aveva enunciato
spregiudicatamente il rivoluzionario principio che nel trattare di repubbliche e principa-
ti ci si debba attenere alla verità effettuale, torna a proporre una visione ideale, un model-
lo etico cui attenersi o quantomeno tendere. Il sospetto che vi sia una correlazione sem-
bra accreditato da alcune espressioni, che paiono ricalcare, ma per rimarcarne anche le
differenze, proprio Machiavelli: «E perché la laude del ben far consiste precipuamente in
due cose, delle quai l’una è lo eleggersi un fine dove tenda la intenzion nostra, che sia vera-
mente bono, l’altra il saper ritrovar mezzi opportuni ed atti per condursi a questo bon fine de-
segnato, certo è che l’animo di colui, che pensa di far che ’l suo principe non sia d’alcu-
no ingannato, né ascolti gli adulatori, né i malèdici e bugiardi, e conosca il bene e ’l male ed
all’uno porti amore, all’altro odio, tende ad ottimo fine» (IV, V [R T 23.6 ]). Indubbiamente, il fi-
nale del Cortegiano reintroduce un ideale di virtù di sapore umanistico, incompatibile con
la riflessione assai più acre di Machiavelli e Guicciardini. Il passo citato sembra anzi una
risposta polemica a Machiavelli, ma è anche indubbio che Castiglione in questo suo ten-
dere alla virtù del principe e all’idealizzazione del cortegiano e della sua funzione etico-
politica riproduce schemi logici e metodologici di Machiavelli (il fine giustifica i mezzi,
il criterio di utilità secondo cui sono giudicate le frivolezze, la fiducia nell’efficacia e nel-
la riproducibilità dei modelli, l’attitudine pedagogica...). Non ha torto Mazzacurati ad af-
fermare che «il cortegiano platonico ed irreale di cui tanta parte della nostra tradizione cri-
tica parla come prodotto di un’illusione mitizzante, di un mondo d’evasione cortese, for-
se non sarebbe nato, se a modellarne la figura non avesse contribuito la naturale dialettica
con un opposto idolo pedagogico, il principe machiavelliano».
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Quattrocento e Cinquecento

T 23.1 Erasmo da Rotterdam, Elogio della Follia 1511


Il senno della Follia [29]
Erasmo da Rotterdam Dopo la lunga enumerazione dei benefici che la Follia concede agli uomini, in un capi-
Elogio della Follia tolo di straordinario interesse e modernità la Follia paradossalmente rivendica di essere
a c. di C. Carena, Einaudi, non solo il sale della vita ma, contrariamente all’opinione comune, la vera detentrice
Torino 2002 del senno. Sono pagine argute e acute che in qualche passaggio sembrano preludere ad-
dirittura alla concezione novecentesca della realtà come apparenza e inganno e dei rap-
porti sociali come «gioco delle parti» (secondo l’espressione di Pirandello).

1 il vanto... capacità: la [29.] Ed ora se, dopo aver rivendicato a me stessa il vanto dell’energia e della
Follia allude alla trattazione
precedente in cui ha dimo- capacità,1 rivendicassi anche quello del senno? Dirà qualcuno: sarebbe come me-
strato che solo grazie alle sue scolare il fuoco con l’acqua.2 Eppure credo di riuscire anche in questo, se appena
doti (energia e capacità) gli
uomini apprezzano i vari mi presterete orecchio e attenzione come avete fatto finora.
aspetti della vita. Per cominciare, se il senno è un frutto dell’esperienza, a chi compete meglio il 5
2 sarebbe... acqua: sa-
rebbe come mescolare gli
vanto del suo nome:3 al sapiente, che un po’ per pudore, un po’ per timidezza di
opposti, cioè impossibile. carattere non mette mano a nulla; oppure al folle, che non si astiene da niente, sia
3 a chi... suo nome: chi
per mancanza di pudore sia per nessun calcolo del rischio? Il saggio si rifugia nei
può vantarsi di essere assen-
nato? libri degli antichi, e non ne apprende che arguti discorsi; il folle, affrontando di-
4 Omero... agendo: rettamente i rischi, ottiene, se non erro, il senno autentico. Ben lo vide, e lo si ve- 10
Iliade, XVII, 32.
5 affranca: libera. de chiaramente, Omero quantunque cieco, quando disse: «Lo stolto s’istruisce
6 giusta... realtà: la ca- agendo».4 Due infatti sono gli ostacoli principali all’acquisto della conoscenza
pacità di analizzare e inter-
pretare correttamente la della realtà: il pudore, che offusca lo spirito, e il timore, che additando i rischi dis-
realtà per quel che essa ef- suade dall’azione. Da tutto ciò affranca5 mirabilmente la follia. Pochi mortali in-
fettivamente è (al di là, co- tendono quanti altri vantaggi procurino la mancanza di pudore e un’audacia 15
me vedremo, delle false ap-
parenze). pronta a tutto.
7 quanto... titolo: i sag-
Ma se si preferisce intendere per senno quello consistente nella giusta valuta-
gi, i sapienti, o coloro che
sono considerati tali. zione della realtà,6 ascoltate, di grazia, quanto ne siano lontani coloro che esibi-
8 Sileni di Alcibiade: si scono questo titolo.7 Anzitutto è assodato che ogni cosa umana ha come i Sileni
tratta di antiche statuette di
legno che all’esterno raffi- di Alcibiade8 due facce diametralmente diverse l’una dall’altra. Quella che a prima 20
guravano il satiro Sileno, un vista sembra essere, come dicono, la morte, se guardata all’interno è la vita; e vice-
deforme essere ferino, in-
tento a suonare il flauto, ma versa, quella che è la vita, è la morte, il bello è brutto, la ricchezza è povertà, l’in-
che potevano aprirsi e al lo- famia è gloria, l’istruzione è ignoranza, la forza è debolezza, l’aristocrazia è plebe,
ro interno raffiguravano la gioia è tristezza, la prosperità è sciagura, l’amicizia è inimicizia, il benefico è
l’immagine di una divinità.
Erasmo ne parla anche ne- dannoso;9 in breve, si troverà tutto repentinamente capovolto all’apertura del Sile- 25
gli Adagia ricordando che no. Forse trovate il discorso troppo filosofico, ed io lo appianerò con l’aiuto, come
in un celebre dialogo di
Platone, il Simposio, Alci- si usa dire, di una Minerva più crassa.10
biade paragonava Socrate Un re, chi non riconoscerà che è un ricco signore? Eppure, se manca dei beni
alle statuette dei Sileni, in
quanto Socrate all’appa- interiori e se è insoddisfatto di tutto, chiaramente è poverissimo; se il suo animo è
renza era una persona men soggetto a un gran numero di vizi, è un volgarissimo schiavo. Nello stesso modo 30
che comune, ma aveva in-
vece un animo nobile e si potrebbe filosofare anche per tutto il resto, ma basti aver dato questo esempio.
profondo. Anche Cristo, Beh, ma a cosa miri? chiederà qualcuno. Ascoltate la conclusione. Se qualcuno
nel seguito del discorso, cercasse di togliere la maschera agli attori che interpretano una commedia sul pal-
viene paragonato a un me-
raviglioso Sileno, in quanto
per redimere l’umanità si è
incarnato, assumendo l’a- ze e del senso comune è eterna da poter essere para- fronto di quelli ultraterreni. 10 una... crassa: Minerva
spetto di un uomo comune quasi per intero intepreta- gonata alla morte, che la L’infamia che è gloria allude è la dea della sapienza: l’e-
che tuttavia celava la sua bile anche in chiave di etica domina minacciosa ed è in- in generale allo scandalo spressione proverbiale (de-
natura divina. L’apparenza cristiana: ad es., la morte del scritta nel suo stesso nome. del cristianesimo che di- sunta da Cicerone) va dun-
insomma nasconde spesso corpo schiude all’anima la Il principio sotteso a questa sprezza il mondo e da que- que intesa “con una sapien-
una ben diversa sostanza. vera vita, che è quella ultra- riflessione è che i beni e i sto è disprezzato, dalla deri- za, con un ragionamento
9 Quella... dannoso: terrena; per converso la vita valori mondani (ricchezza, sione fino al martirio (que- più semplice e banale” (cras-
questa serie di paradossali mortale appare talmente forza, potere, nobiltà, istru- sta infamia terrena è gloria in sa).
ribaltamenti delle apparen- transitoria rispetto a quella zione ecc.) sono vani a con- cielo).

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23. La trattatistica morale: Erasmo, Bembo e Castiglione T 23.1

11 Dama: «nome di un coscenico, per mostrare agli spettatori i loro volti veri e genuini, non sconvolge-
vile schiavo in Orazio» (Ca-
rena). rebbe l’intera rappresentazione e non apparirebbe meritevole di essere cacciato a 35
12 chi... omiciattolo: si furor di popolo dal teatro con i sassi come mentecatto? All’improvviso spuntereb-
noti che qui si capovolge il be un aspetto nuovo delle cose: chi prima era donna ora è uomo, chi prima gio-
rapporto che esisteva nei Si-
leni, immagini di satiri vane ora è vecchio; chi poc’anzi era un re, a un tratto è Dama;11 chi prima era un
deformi che nascondevano dio, a un tratto appare un omiciattolo.12 Davvero, se si toglie l’illusione, tutta la
un dio, mentre qui la ma-
schera del dio nasconde l’o- commedia è sconvolta. Proprio quella finzione, quel trucco attirano gli occhi de- 40
miciattolo.Ma tutta la serie ha gli spettatori. Ebbene, l’intera vita mortale che altro è se non una commedia in
carattere delusorio:la donna
si svela uomo, il giovane cui si entra mascherati e si interpreta ognuno la propria parte, finché il capocomi-
vecchio, il re un servo. co fa uscir di scena? E questi impone di presentarsi anche con ruoli diversi, per
13 commedia della vita:
«La metafora della vita co- cui chi poc’anzi faceva il re avvolto nella porpora, ora interpreta un servitorello in
me teatro e degli uomini mal arnese. Tutto è una finzione, ma non esiste nessun’altra interpretazione della 45
come attori fittizi o mario- commedia della vita.13
nette azionate da dio risale a
Platone» (Carena). Che non Qui, se improvvisamente mi si levasse innanzi un sapiente cascato dal cielo14 e
esista nessun’altra interpre- gridasse: «Costui, a cui tutti guardano come a un dio e a un signore, non è nem-
tazione della commedia
della vita, significa, amara- meno un uomo, poiché si lascia guidare come una bestia dalle passioni; è uno
mente, che nella vita non è schiavo della più bassa specie, poiché serve spontaneamente a tanti e sporchi pa- 50
possibile impunemente
uscire dal proprio ruolo e droni»; e ad un altro, intento a piangere la morte del genitore, ordinasse di ridere,
dalla finzione. poiché suo padre finalmente ha cominciato a vivere non essendo questa vita che
14 un sapiente... cielo: un
sapiente che non ragionasse viviamo nient’altro che una forma di morte; e un altro ancora, fiero dei propri
secondo la logica della com- antenati, chiamasse ignobile e bastardo poiché molto lontano dalla virtù, unica
media umana (per questo è fonte di nobiltà, e così parlasse di tutti quanti: cos’altro otterrebbe, se non di ap- 55
detto cascato dal cielo) e voles-
se brutalmente (gridasse) parire a chiunque demente e forsennato? Come nulla è più folle di una sapienza
svelarla. Qui, a dimostrazio- intempestiva, così nulla è più imprudente15 della prudenza usata a sproposito. Agi-
ne della tesi della Follia che
tutto è il contrario di quel sce certamente a sproposito chi non si adegua alle circostanze, non cerca di segui-
che appare, Erasmo richia- re la piazza,16 non si ricorda almeno di quella regola del banchetto per cui «bevi o
ma, come prima, afferma-
zioni del tutto plausibili in vai»,17 e pretende che la commedia non sia una commedia.18 È invece vera pru- 60
un filosofo o in un religioso denza la tua se, mortale quale sei, non vuoi saperla più lunga della tua condizio-
cristiano.
15 intempestiva... im- ne;19 se come tutta la massa umana o chiudi di buon grado un occhio o sbagli an-
prudente: intempestive, in che tu urbanamente.
qualche caso socialmente Ma questa è proprio follia, obiettano. Non lo nego, purché dall’altra parte si
imprudenti e scandalose so-
no le verità che contraddi- ammetta che questa è la commedia della vita, che recitiamo. 65
cono il senso comune: per
questo, nel mondo, merita-
no il nome di folli. pio rifiutandosi di bere ad uomini la verità, cioè che ritarsi (secondo il senso co- venzioni, alla condizione
16 non... piazza: non se- un banchetto, dove il bere è tutta la loro vita è una com- mune) il nome di folle. umana: credendo vere le
gue la massa. legge (l’espressione è de- media, una finzione, che 19 È... condizione: è cose che gli altri credono
17 non... vai: non si adatta sunta da Cicerone). poi è quanto ha fatto fin qui prudente e assennato (sem- vere, sbagliando sì però ur-
alle regole vigenti nel con- 18 e pretende... comme- la Follia, che dunque impli- pre secondo il senso comu- banamente in un modo ac-
testo in cui agisce, ad esem- dia: pretende di svelare agli citamente asserisce di me- ne) chi si adatta alle con- cettato dalla comunità.

Guida all’analisi
Uno snodo cruciale La Follia è giunta ad un momento cruciale della sua arringa. Facile era stato fin qui di-
mostrare che un pizzico di follia allietasse la vita. Assai più arduo appare sostenere che lei, la
Follia, detenga addirittura il senno, cioè il proprio contrario. L’argomentazione, è chiaro, de-
ve necessariamente passare attraverso la confutazione della comune nozione di assennatezza
(in latino sapientia e prudentia) e dimostrare che il senno della follia, per paradossale che pos-
sa apparire, è il vero senno. La Follia, dunque, distingue tra senno come «esperienza» e senno
come «giusta valutazione della realtà». La prima parte dell’argomentazione è più semplice e
ricalca schemi noti: se per senno si intende «esperienza» è chiaro che la Follia, togliendogli i
freni inibitori (pudore, timore), spinge l’uomo ad immergersi senza remore nell’azione e
nella vita e quindi fa sì che si arricchisca di esperienza molto più dell’uomo savio, umbrati-
le e prudente che tutto apprende soltanto dai libri.
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La doppiezza del reale: realtà e apparenza Più difficile e più articolata è l’argomentazione in merito al secondo
punto: dimostrare che la Follia porta l’uomo a giudicare la realtà meglio del savio è infatti il
vero scoglio. Ma la Follia non si sottrae al compito: citando addirittura Platone, come po-
trebbe fare un sapiente qualsiasi, parte da una verità che, per l’autorevolezza della fonte, non
potrà essere negata. Come i Sileni di Alcibiade ogni cosa umana ha due facce, una apparen-
te, l’altra sostanziale: Socrate aveva un aspetto modesto, ma un animo nobile e profondo,
Cristo nascondeva la sua natura divina in un corpo umano. Ricorrendo a temi della rifles-
sione morale cristiana (cfr. nota 8), la Follia amplia il catalogo delle apparenze ingannevoli: il
bello è brutto, la ricchezza è povertà, l’infamia è gloria, l’istruzione è ignoranza, il nobile è
ignobile, il sovrano è schiavo, la vita è morte, la morte è vita... A questo punto gli interlocu-
tori accolgono come ammissibili queste considerazioni, ma non comprendono dove la Fol-
lia voglia andare a parare («Beh, ma a cosa miri? Chiederà qualcuno»).
Lo scandalo della verità È ora per la Follia di trarre le prime sostanziali conseguenze di tali premesse: il senno
della Follia – quella sapienza che la Follia dice di possedere più dei savi – consiste proprio
nello svelare la duplicità della realtà, la sostanza che si cela sotto l’apparenza, il gioco delle
parti o la commedia della vita che tutti recitiamo, fingendo che i nobili siano davero nobili, i
dotti davvero dotti, la gloria (terrena) vera gloria e via dicendo. Ma questo svelamento scon-
volge l’intera rappresentazione e risulta socialmente inaccettabile. È come se durante una
commedia gli attori si togliessero le maschere mostrando i loro veri volti, rivelando ad esem-
pio che una donna era impersonata da un uomo, che l’immagine di un dio nascondeva un
omiciattolo, che uno stesso attore recitava due parti: cadrebbe l’illusione e lo spettacolo perde-
rebbe il suo senso. Fuor di metafora, lo svelamento della realtà sottostante alle finzioni che re-
golano i rapporti umani non è accettato dalla comunità che si accontenta e si appaga della
finzione, dei ruoli sociali che consentono al mondo di sussistere tale qual è, recitando ciascu-
no la propria parte. La verità insomma è scandalosa per tutti e viene negata: chi la pronuncia
viene detto folle, viene messo al bando dalla società che da quella verità si sente minacciata.
La Follia è rimasta la sola a dire le verità scomode Con tutta evidenza la verità della Follia, per Erasmo, è la ve-
rità del cristianesimo che sconvolge e anzi sovverte radicalmente i valori e i giudizi del
mondo profano. Ma molti filosofi cristiani e molti religiosi per quieto vivere, per prudenza o,
peggio, per viltà e interesse hanno rinunciato al proprio compito di dire al mondo le verità
scomode della fede (non lo dice apertamente, ma lo si può desumere da qualche sfumatura
del testo; e si ricordi che Erasmo, già prima della riforma protestante, aveva aspramente criti-
cato la degenerazione morale e intellettuale delle gerarchie della Chiesa). Stando così le cose,
a pronunciare quelle verità indicibili non resta ormai che la Follia, la sola che, non legata da
alcun interesse, non frenata da alcuna ragione di prudenza, libera e spregiudicata quale si è
presentata fin dall’inizio, può dire e fare quel che vuole, protetta dal suo essere considerata
folle e quindi innocua. Ironicamente, nel finale, la Follia dice che gli uomini hanno ragione a
giudicarla folle (secondo l’assennatezza del senso comune), perché la sua è una sapienza in-
tempestiva, che cade cioè in un contesto che ha definitivamente rinunciato alla ricerca delle
verità scomode; e, sempre ironicamente, dice che bene fanno gli uomini a non volerla sape-
re più lunga della propria condizione e a sbagliare sì, però urbanamente in modo da non urta-
re il senso comune. Per il mondo è dunque savio chi è ignorante o chi acconsente di non
svelare le verità indicibili e si accontenta di vivere tranquillamente seguendo gli idoli della
tribù, le convinzioni comunemente accettate, pur sapendo che son false.
«Ma questa è proprio follia», obiettano gli interlocutori immaginari, forse alludendo al
fatto che la Follia, che era partita sostenendo di avere il senno, finisce coll’ammettere la pro-
pria follia. La Follia acconsente, com’è ovvio, sapendo che tra senno e follia – nel senso in
cui lei li ha presentati – non c’è contraddizione, e che il suo ruolo nella commedia della vi-
ta che tutti quanti recitano è appunto quello paradossale e bifronte di una savia Follia.

Laboratorio 1 Imposta il problema dell’ambiguità del- l’interpretazione fornita nella Guida all’ana-
COMPRENSIONE l’Elogio della Follia, facendo riferimento a lisi.
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE questo testo specifico e verifica o discuti

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23. La trattatistica morale: Erasmo, Bembo e Castiglione T 23.1

Doc 23.4 Erasmo e la guerra: intervista a Eugenio Garin

Intervista edita in rete Erasmo, in un’Europa sconvolta dalle guerre, un’Europa che si andava sempre più profon-
http://www.cultura-
nuova.net/filosofia/te- damente dividendo sul piano religioso, ha difeso, ha combattuto per la pace fra i popoli, pa-
sti/erasmo_emsf.html ce politica e ancor prima pace religiosa. Questo tema è costante in Erasmo sin dai primi
scritti. In fondo, nonostante lo sviluppo del suo pensiero, c’è un punto che quasi l’ossessiona:
l’eliminazione della guerra, allontanare i conflitti, «non vedere più la gente ammazzata, non
vedere più le città bruciate, non vedere più i saccheggi, non vedere più dominate le pacifi-
che convivenze dai mercenari, dai soldati, non vedere più le armi».
C’è, nel suo pensiero, una sorta di crescendo: su questo crescendo, io sono convinto, ha
pesato moltissimo la diffusione delle armi da fuoco. [...] C’è una pagina, nel Lamento della pa-
ce, in cui Erasmo dice: «Pensare che oggi i morti nei campi di battaglia si contano a migliaia
e a decine di migliaia, mentre prima c’era il duello, c’era l’osservanza delle norme, c’erano
persino delle regole per ammazzarsi. Di fronte a queste stragi, cambia tutto».
[...] Tra il 1506 e il 1507 Erasmo scende in Italia. A Bologna vede uno spettacolo, che ha
descritto e che non ha dimenticato più, che per lui è stato proprio un’esperienza cruciale: il
papa armato che entra nella città da trionfatore. Il papa. L’esperienza italiana gli fa toccare
con mano come sia proprio il papa stesso ad esortare alla guerra, il papa stesso a voler cac-
ciare i barbari, a voler ammazzare quelli o quegli altri ecc. Potrei citare passi di lettere e altri
brani: ad esempio quando descrive le campagne della Romagna con la gente che muore di
fame, a causa dei danni della guerra. Quello che lo disgusta profondamente sono anche i
mezzi, i pretesti per dichiarare la guerra. La falsificazione dei documenti, l’invocazione di di-
ritti che sono degli assurdi. Alla fine di questo soggiorno Erasmo parte dall’Italia. Non credo
sia un caso che, proprio mentre se ne andava dall’Italia a cavallo, gli sia venuto in mente di
scrivere L’elogio della Follia.
Non mi soffermo sull’Elogio della Follia. [...] Penso invece a un testo, lo Iulius exclusus (Giu-
lio escluso dal cielo), probabilmente scritto subito dopo la morte di Giulio II, che circolò in
Europa immediatamente e venne stampato soltanto nel 1518, anonimo. Si tratta di un testo
di cui, nei secoli, si è discussa la paternità: è o non è di Erasmo? È stato attribuito a Erasmo
e io credo che sia fondamentalmente di Erasmo; ed è un testo secondo me singolare. [...]
Siamo davanti alla porta del Paradiso, anzi alle porte, perché vi sono molte porte di dia-
mante, e a una finestrella con l’inferriata, a una “fenestrella cancellata”. Dietro c’è S. Pietro.
Davanti alle porte chiuse arriva Giulio II, armato, insieme al suo Genio, che commenta an-
che le sue parole. Ha luogo un dialogo tra l’ombra del papa e S. Pietro. Fin qui tutto va be-
ne. Il guaio è nel contenuto, che è veramente atroce, perché mentre il papa sbeffeggia in tut-
ti i modi S. Pietro, S. Pietro dice al papa: «Ma come, tu vai dietro ai soldi, vai dietro alle don-
ne, fai tutte quante cose, non sei un papa, sei un bandito». E l’altro gli risponde: «Povero di-
sgraziato, tu sei fuori del tempo! Ma ti credi sempre di vivere ai tempi di Gesù, e subito do-
po, quando la chiesa era povera, piccola, cercava di imporsi con le virtù e via discorrendo.
Ma dovevi venire a qualcuno dei miei trionfi!». C’è la descrizione dei trionfi, con gli stuoli
di ragazzi, di ragazze, la traccia dei bottini di guerra, le armi. E il confronto, che è molto abi-
le, rispecchia le vicende delle guerre di Giulio II, con i commenti di ingenuo di S. Pietro.
Naturalmente, ripeto, il dialogo è molto vivo, perché non c’è solo il papa e S. Pietro, ma c’è
un coro silenzioso di cui parla il papa e di cui parla S. Pietro, che è quello dei soldati morti,
che costituiscono l’esercito, di cui il papa intende valersi, nel caso che sia necessario, per en-
trare in Paradiso assaltandolo. C’è la descrizione di alcuni di questi poveri disperati, fatti a
pezzi. Quindi, non ci sono neanche i cadaveri interi alle volte, ma dentro le armature si ve-
dono questi soldati colpiti, piagati.
Il finale è veramente degno di tutto il resto, perché è appunto una minaccia. Quando S.
Pietro dice: «Qui dentro tu non metterai mai piede, né tu né i tuoi. È chiuso e voi non en-
trerete», dopo avergli ripetuto tutto quello che pensa della guerra, dei papi che fanno le
guerre, eccetera, la risposta di Giulio II, su cui poi finisce il dialogo è: «Sto aspettando, in ter-
ra stanno combattendo, sto aspettando circa un centinaio di migliaia di soldati che moriran-
no di certo nelle guerre che stanno facendo; quando saremo tanti, allora cominceremo a
sparare sopra il Paradiso e entreremo con la forza anche nel Paradiso».

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Quattrocento e Cinquecento

T 23.2 Erasmo da Rotterdam, Elogio della Follia 1511


La follia dei papi [59]
Erasmo da Rotterdam
Elogio della Follia Questo è uno dei capitoli che al tempo di Erasmo destarono maggiore scalpore, perché
a c. di C. Carena, Einaudi, svolge in forma del tutto trasparente un’aspra critica al comportamento dei pontefici.
Torino 2002 Erasmo era stato a Roma ed era rimasto scandalizzato dall’immoralità della vita in cu-
ria e questa è stata certo una delle ragioni che lo indussero a scrivere l’Elogio della Fol-
lia. Ma più in generale egli era disgustato dalla corruzione della Chiesa nel suo com-
plesso. La Follia qui si vanta di aver indotto il papa ad amare tanto la vita e i piaceri
1 Chi... violenza?: il terreni da occuparsi solo di questo, trascurando completamente gli insegnamenti di Cri-
senso è che nessuno vor- sto: che tormento se i pontefici esercitassero sul serio il compito assegnato loro da Dio!
rebbe più essere papa, ma Ma nel progredire del discorso a poco a poco il tono muta...
Erasmo vuole sottolineare
il fatto che oggi per godere
dei vantaggi di quella carica [59.] E ora i sommi pontefici, i vicari di Cristo in terra. Se essi si sforzassero
si corrompe e si uccide.
2 la saggezza: qui la sag- di emularne la vita, ossia la povertà, le fatiche, la scienza, la croce, lo spregio del-
gezza va intesa nel senso di la vita stessa; se pensassero al nome di papa, che significa padre, e all’attributo di
fedeltà ai valori del cristia- Santissimo, vi sarebbe in terra un maggior tormento? Chi comprerebbe quel po-
nesimo.
3 cui... Cristo: cfr. Mat- sto ad ogni prezzo, chi dopo averlo comprato lo difenderebbe con la spada, col 5
teo, 5, 13. veleno, con ogni violenza?1 Di quali vantaggi non li priverebbe la saggezza,2 se
4 qualcos’altro... effe-
minato: pederasti. appena gli entrasse in corpo! Ho detto la saggezza? Un granello di quel sale a cui
5 l’onere... l’onore: di- accennò Cristo3 basterebbe. Quante ricchezze, quanti onori, quanto potere,
cendo onere sembra dare un
giudizio negativo (qual è quanti trionfi, quanti attributi, quanti titoli, quante tasse, quante indulgenze,
quello di Erasmo) dell’e- quanti cavalli, quante mule, quante guardie, quanti piaceri! Vedete quali mercati, 10
norme massa di dipendenti
della curia, quindi si cor- quanta messe, quale oceano di beni ho racchiuso in poche parole. E quel poco
regge dicendo onore. di sale sostituirebbe tutte queste cose con veglie e digiuni, lacrime, preghiere, ser-
6 ridotta alla fame: tra i
danni (per Erasmo i van-
moni, studi, sofferenze e mille altre pene e fatiche. Né va trascurato che tanti
taggi) di un ritorno alla scrivani, copisti, notai, avvocati, promotori, segretari, mulattieri, cavallanti, teso-
semplicità evangelica ci sa- rieri, ruffiani (per poco non aggiungevo qualcos’altro di più effeminato,4 però 15
rebbe – dice la Follia – an-
che la disoccupazione di temo che abbia un suono troppo duro all’orecchio), insomma la folla sterminata
tanti nobili dipendenti (per di cui la Sede romana ha l’onere (scusate il lapsus, intendevo l’onore)5 sarebbe ri-
Erasmo inutili parassiti).
7 ridurre... bastone: dotta alla fame.6 E certamente disumano, abominevole e più detestabile sarebbe
Carena nota che bisaccia e ridurre anche gli stessi sommi prìncipi della Chiesa, veri luminari dell’universo,
bastone sono «insegne dei fi-
losofi miserabili, in partico- alla bisaccia e al bastone.7 20
lare dei Cinici», mentre l’e- Ma per ora se vi è qualcosa da fare lo lasciano quasi sempre a Pietro e a Paolo,8
spressione luminari dell’uni- che hanno tempo quanto basta e avanza. Gli splendori e i piaceri li prendono in-
verso «si trova attribuita agli
apostoli Pietro e Paolo», e vece per sé. Così avviene ad opera mia che non vi è quasi nessun’altra specie uma-
va intesa ironicamente. na la quale viva più dolcemente e tranquillamente. Credono di aver fatto larga-
8 lo lasciano... Paolo: lo
lasciano agli apostoli, come mente la loro parte per Cristo se esercitano l’episcopato9 con un apparato sugge- 25
dire alla divina provviden- stivo e quasi teatrale, con cerimonie, con i titoli di Beatitudine, Reverenza, Santità,
za, senza cioè preoccupar-
sene personalmente. con benedizioni e maledizioni. Produrre miracoli è roba vecchia, stantìa, d’altri
9 l’episcopato: ufficio, tempi; istruire il popolo è faticoso, interpretare le Sacre Scritture una faccenda
funzione ecclesiastica.
10 strumenti... Paolo: cfr. scolastica; pregare è noioso; versare lacrime, penoso e femmineo; esser poveri, in-
Romani, 16,18. Le benedizio- decente; cedere, vergognoso e poco degno di colui che ammette appena appena i 30
ni però si convertono subito re anche più grandi al bacio dei beati piedi; morire, infine, è sgradevole, ed esser
in interdizioni, gogne e sco-
muniche. messi in croce un’ignominia.
11 fulmine... tartaro: la
scomunica che spedisce i
Non rimangono che gli strumenti delle dolci benedizioni di cui parla Paolo,10
colpiti dritti all’inferno. e di queste sono veramente generosi: interdizioni, sospensioni, aggravamenti, riag-
12 patrimonio di Pietro: gravamenti, anatemi, gogne, e quel fulmine tremendo che con un solo cenno spe- 35
Erasmo sottolinea l’amara
ironia del concetto stesso di disce le anime dei mortali nel più profondo tartaro.11 Però i padri santissimi in
patrimonio di Pietro, di colui Cristo e i vicari di Cristo non scagliano quel fulmine su nessuno con maggior
cioè che aveva dichiarato di
lasciare tutti i beni terreni violenza che su chi, istigato dal diavolo, cerca di ridurre e rosicchiare il patrimonio
per seguire Cristo. di Pietro.12 È Pietro che nel Vangelo afferma: «Abbiamo lasciato tutto, per seguire
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23. La trattatistica morale: Erasmo, Bembo e Castiglione T 23.2

te»; eppure chiamano patrimonio di Pietro campagne e borghi, tasse, dazi e domi- 40
ni. Per questi, accesi da zelo per Cristo, combattono col ferro e col fuoco non sen-
za grande spargimento di sangue cristiano, convinti di difendere apostolicamente la
Chiesa sposa di Cristo sconfiggendo vigorosamente quelli che chiamano suoi ne-
13 quasi... empi: qui so- mici: quasi avesse qualche nemico più deleterio dei pontefici empi,13 i quali lascia-
prattutto cade ogni residuo no scomparire Cristo col loro silenzio, lo incatenano con le loro leggi lucrose, lo 45
velo di finzione ironica: la
Follia, che qui è tutt’uno snaturano con interpretazioni forzate e lo sgozzano con una vita pestifera.
con Erasmo, dichiara aper- Inoltre, poiché la Chiesa fu fondata col sangue, rafforzata col sangue, accresciu-
tamente l’empietà vergo-
gnosa dei pontefici. ta col sangue, essi ora usano il ferro come se non ci fosse più Cristo a difendere i
14 Qui... bene umano: suoi a modo suo. E come se la guerra non fosse cosa tanto mostruosa da conveni-
«Sembra indicare Giulio II,
il quale suscitò tanti conflitti re a belve feroci, non ad esseri umani; così insana che anche i poeti l’immaginano 50
sulla terra, che nessuna per- inviata dalle Furie; così pestifera da infettare tutti i comportamenti; così ingiusta
sona davvero devota e cri- che i suoi migliori conduttori sono di solito i peggiori delinquenti; così empia da
stiana può ricordarsene sen-
za gemere»; così nota il Li- non aver nulla a che fare con Cristo: tuttavia essi trascurano tutto, per non far che
strio, un commentatore an- questo. Qui si vedono anche vecchi decrepiti dar prova di vigore e d’animo gio-
tico.
15 forbiti adulatori: pre- vanili, non badare a spese, non cedere a sforzi, non lasciarsi distogliere da nulla pur 55
dicatori e teologi sostenito- di sconvolgere le leggi, la religione, la pace, ogni bene umano.14 Né mancano for-
ri della guerra.
16 follia: caduro il velo biti adulatori15 per chiamare questa lampante follia16 zelo, religiosità, fortezza; per
ironico, Erasmo può chia- trovare un modo onde sia possibile brandire un ferro mortale e affondarlo nelle
mare, senza più ambiguità
follia quello che per lui è viscere del proprio fratello senza mancare per questo alla carità, ch’è la cosa dovu-
davvero una follia. ta più di tutto dal cristiano al suo prossimo, secondo il precetto di Cristo. 60

Guida all’analisi
I due volti della Follia Rispetto al capitolo precedente, in questo la Follia sembra mutare strategia: si vanta infatti
di aver indotto, per amore della vita e dei piaceri terreni, il papa a occuparsi solo di cose
concrete trascurando completamente gli insegnamenti di Cristo: che tormento sarebbe se i
pontefici davvero esercitassero il compito che Dio ha assegnato loro! Se l’impegno che ora
mettono nel difendere il patrimonio di Pietro lo mettessero a far rispettare la morale cri-
stiana, sai quante «veglie e digiuni, lacrime, preghiere, sermoni, studi, sofferenze e mille altre
pene e fatiche» infliggerebbero a se stessi e agli altri! E poi sarebbero ridotti sul lastrico tan-
ti nobili e onorevoli cortigiani, poveretti! Ma la Follia, si sa, è bizzarra e mutevole d’umore,
così a poco a poco sembra irritarsi e cambia tono, addirittura cambia idea: quei pontefici
che aveva dipinto come beati, fortunati e addirittura saggi, ora le appaiono empi, sono assi-
milati a bestie feroci o ai peggiori delinquenti, nello scatenare la guerra, che definisce mostruosa,
insana (cioè pazza), pestifera, ingiusta, empia, una vera follia. Il vecchio decrepito che ne scate-
na una via l’altra (papa Giulio II) nel farlo sconvolge «le leggi, la religione, la pace, ogni be-
ne umano». Difficile ridurre a coerenza le affermazioni della Follia, cui d’altronde non è le-
cito chiedere coerenza.
Erasmo e la Follia Naturalmente dietro la Follia c’è Erasmo, che certo si diverte a rimescolare le carte, ma
pure vuole mandare dei messaggi. Dapprima egli con tutta evidenza ironizza immedesi-
mandosi nella Follia che tesse l’elogio dei pontefici e di una schiera di ignobili o quanto
meno inutili parassiti. Il discorso della Follia in questo caso va dunque capovolto: l’elogio da
parte della Follia va inteso come biasimo da parte di Erasmo. Ma Erasmo non riesce (e non
vuole) trattenere la sua indignazione troppo a lungo, non riesce a mascherarla sotto il velo
dell’ironia e a poco a poco la rende sempre più palpabile fino a sbottare, dicendo chiaro e
tondo quel che lui, Erasmo, pensa dei papi, dell’ipocrisia del loro sontuoso e teatrale (cioè
finto, falso) cerimoniale, dell’uso indiscriminato di anatemi, interdetti e scomuniche, della
loro avidità, e soprattutto delle guerre, il vero abominio, la vera follia.

Laboratorio 1 Spiega facendo riferimento a passi speci- 2 Ripensa alle invettive contro la curia pa-
COMPRENSIONE fici del testo se c’è e in che cosa consiste pale di Dante e Petrarca e confrontale per
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE l’ironia. toni e temi con questa di Erasmo.

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Quattrocento e Cinquecento

T 23.3 Pietro Bembo, Asolani I ed. 1505, II ed. 1530


Amor platonico e amore spirituale [III, VI e XVII]
P. Bembo Gli Asolani sono uno dei molti dialoghi rinascimentali sul tema dell’amore. Nel terzo e
Prose e rime conclusivo libro compaiono e si confrontano due personaggi, Lavinello e un romito: al
a c. di C. Dionisotti,
UTET, Torino 1960 primo Bembo affida il compito di esporre e sostenere la tesi platonica dell’amore come
desiderio di bellezza; al secondo quello di correggere le affermazioni di Lavinello alla
luce di una più severa ed anzi ascetica concezione dell’amore, che – dice – deve ripor-
re il proprio fine e il proprio appagamento nella bellezza divina. I due passi che ripor-
tiamo ne riferiscono le argomentazioni essenziali.

Amor platonico
[VI.] Ma non credere tuttavia, Gismondo, perciò che io così parlo, che io per
aventura stimi buono essere, lo amare nella guisa che tu ci hai ragionato.1 Io tan-
to sono da te, quanto tu dalla verità lontano, dalla quale ti discosti ogni volta, che
fuori de’ termini de’ duo primi sentimenti2 e del pensiero ti lasci dal tuo disiderio 5
1 Ma... ragionato: Lavi-
nello aveva consentito con traportare, e di loro amando non stai contento.3 Perciò che è verissima openione,
alcune argomentazioni di a noi dalle più approvate scuole degli antichi diffinitori 4 lasciata, nulla altro esse-
Gismondo che in prece-
denza aveva sostenuto la na- re il buono amore che di bellezza disio. La qual bellezza, che cosa è, se tu con tan-
tura positiva d’amore (cfr. ta diligenza per lo adietro avessi d’intendere procacciato, con quanta ci hai le par-
scheda sull’opera R 23.3);
ma ora prende le distanze ti della tua bella donna voluto ieri dipignere sottilmente, né come fai, ameresti tu 10
dalla concezione sensuale già, né quello, che ti cerchi amando, aresti agli altri lodato, come hai.5 Perciò che
di Gismondo. ella6 non è altro che una grazia che di proporzione e di convenenza nasce e d’ar-
2 de’ duo... sentimenti:
sensi, la vista e l’udito i soli monia nelle cose, la quale quanto è più perfetta ne’ suoi suggetti,7 tanto più ama-
tramiti sensuali ammessi da bili essere ce gli fa e più vaghi, et è accidente negli uomini non meno dell’animo
Lavinello.
3 non stai contento: che del corpo.8 Perciò che sì come è bello quel corpo, le cui membra tengono 15
non ti accontenti. proporzione tra loro, così è bello quello animo, le cui virtù fanno tra sé armonia;
4 antichi diffinitori: gli
antichi filosofi che hanno e tanto più sono di bellezza partecipi e l’uno e l’altro, quanto in loro è quella gra-
definito l’amore. zia, che io dico, delle loro parti e della loro convenenza, più compiuta e più pie-
5 La qual... hai: si inten-
da: se tu, con la stessa dili- na.9 È adunque il buono amore disiderio di bellezza tale, quale tu vedi, e d’animo
genza con cui hai voluto parimente e di corpo, e allei, sì come a suo vero obbietto, batte e stende le sue ali 20
minutamente descrivere il per andare.10 Al qual volo egli due finestre11 ha: l’una, che a quella dell’animo lo
corpo della tua donna, aves-
si precedentemente cercato manda, e questa è l’udire; l’altra, che a quella del corpo lo porta, e questa è il ve-
di comprendere che cosa sia dere.12 Perciò che sì come per le forme, che agli occhi si manifestano, quanta è la
veramente la bellezza,ora tu
non ameresti nel modo bellezza del corpo conosciamo, così con le voci, che gli orecchi ricevono, quanta
(sensuale) in cui ami, né quella dell’animo sia comprendiamo. Né ad altro fine ci fu il parlare della natura 25
avresti pubblicamente lo-
dato, quello che tu ricerchi dato, che perché esso fosse tra noi de’ nostri animi segno e dimostramento. Ma
nell’amore. perciò che il passare a’ loro obbietti per queste vie la fortuna e il caso sovente a’
6 ella: la vera bellezza.
7 ne’ suoi suggetti: nelle
nostri disiderii tôr possono, dalloro, sì come spesso aviene, lontanandoci, ché, co-
persone che ne sono dotate. me tu dicesti, a cosa, che presente non ci sia, l’occhio né l’orecchio non si stende,
8 et è accidente... cor-
po: ed è una caratteristica
quella medesima natura, che i due sentimenti dati n’avea, ci diede parimente il 30

che riguarda sia l’animo sia pensiero, col quale potessimo al godimento delle une bellezze e delle altre, quan-
il corpo. dunque a noi piacesse, pervenire.13
9 e tanto più... piena: e
quanto in loro quella grazia Con ciò sia cosa che,14 sì come i ragionasti tu ieri lungamente, e le bellezze
propria delle singole parti e del corpo e quelle dell’animo ci si rappresentano col pensarvi, e pigliasene, ogni
della loro equilibrata con-
cordia (convenenza) è più volta che a noi medesimi piace, senza alcuno ostacolo godimento. Ora, sì come 35
perfetta (compiuta) e piena,
tanto più sia il corpo che
l’animo partecipano della 11 finestre: le vie, i tramiti 13 Ma perciò... perveni- obbietti),allontanandoci dal- natura che ci aveva dotato
bellezza, possono dirsi belli. che suscitano il desiderio. re: ma dal momento che le le persone che amiamo (dal- di quei due sensi (sentimenti)
10 e allei... per andare: e 12 l’una... vedere: l’udito circostanze spesso possono loro, riferito a obbietti), giac- ci diede anche il pensiero,
verso di lei (cioè la bellezza) consente l’accesso alla bel- impedire al desiderio di ap- ché infatti l’occhio e l’orec- col quale poterci appagare
il desiderio si dirige come a lezza dell’animo, la vista a pagarsi (ordina: possono tôr a’ chio non percepiscono ciò in ogni momento.
suo vero oggetto. quella del corpo. nostri disiderii il passare a’ loro che è assente, quella stessa 14 Con ciò... che: poiché.

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23. La trattatistica morale: Erasmo, Bembo e Castiglione T 23.3

15 perciò... altri: per il alle bellezze dell’animo aggiugnere né fiutando né toccando né gustando non si
fatto che questi sensi (olfat-
to, tatto, gusto) sono limitati può, così non si può né più né meno eziandio a quelle del corpo, perciò che que-
a oggetti più materiali, di- sti sentimenti tra le siepi di più materiali obbietti si rinchiudono, che non fanno
versamente dalla vista e dal- quegli altri.15 Che perché tu fiutassi di questi fiori o la mano stendessi tra que-
l’udito. I tre sensi in que-
stione non consentono, st’erbe o gustassine, bene potresti tu sentire quale di loro è odorante, quale fiato- 40
cioè, di pervenire alla per- so,16 quale amaro, quale dolce, quale aspero, quale morbido, ma che bellezza sia la
cezione della vera bellezza.
16 fiatoso: maleodorante. loro, se tu non gli mirassi altresì, mica non potresti tu conoscere, più di quello che
17 fuori... procaccia: al potesse conoscere un cieco la bellezza d’una dipinta imagine, che davanti recata
di fuori di quanto si fa ai fini
del mantenimento della vi- gli fosse. Perché se il buono amore, come io dissi, è di bellezza disio, e se alla bel-
ta (e cioè della procreazio- lezza altro di noi e delle nostre sentimenta non ci scorge che l’occhio e l’orecchio 45
ne).
18 che in straniera... del-
e il pensiero, tutto quello che è dagli amanti con gli altri sentimenti cercato, fuori
l’altrui: per cui deve sotto- di ciò che per sostegno della vita si procaccia,17 non è buono amore, ma è malva-
stare al volere altrui e inva- gio; e tu in questa parte amatore di bellezza non sarai, o Gismondo, ma di sozze
dere il dominio altrui e cioè
che l’uomo non ritrova in cose. Perciò che sozzo e laido è l’andare di que’ diletti cercando, che in straniera
se stesso (come l’idea della balìa dimorano e avere non si possono senza occupazione dell’altrui18 e sono in se 50
vera bellezza).
stessi e disagevoli e nocenti e terrestri e limacciosi, potendo tu di quelli avere, il
godere de’ quali nella nostra potestà giace e godendone nulla s’occupa, che alcuno
tenga proprio suo, e ciascuno è in sé agevole, innocente, spiritale, puro.

Amore spirituale
[XVII.] E per venire, Lavinello,19 eziandio a’ tuoi amori, io di certo gli loderei e
passerei nella tua openione in parte, se essi a disiderio di più giovevole obbietto
t’invitassero, che quello non è, che essi ti mettono innanzi,20 e non tanto per sé
soli ti piacessero, quanto perciò che essi ci possono a miglior segno fare e meno 55
fallibile intesi.21 Perciò che non è il buono amore disio solamente di bellezza, co-
me tu stimi, ma è della vera bellezza disio; e la vera bellezza non è umana e mor-
tale, che mancar22 possa, ma è divina e immortale, alla qual per aventura ci posso-
no queste bellezze inalzare, che tu lodi, dove23 elle da noi sieno in quella maniera,
che esser debbono, riguardate. Ora che si può dire in loro loda per ciò, che pure 60
sopra il convenevole non sia? con ciò sia cosa che, del loro allettamento presi, si
lascia il vivere in questa umana vita come idii.24 Perciò che idii sono quegli uo-
mini, figliuolo, che le cose mortali sprezzano come divini e alle divine aspirano
come mortali, che consigliano, che discorrono, che prevedono, che hanno alla
sempiternità pensamento, che muovono e reggono e temprano il corpo, che è lo- 65
ro in governo dato, come degli dati nel loro fanno e dispongono gli altri idii.25 O
pure che bellezza può tra noi questa tua essere, così piacevole e così piena, che
19 E per venire, Lavinel-
proporzion di parti che in umano ricevimento si truovino, che convenenza, che
lo: è il romito che parla: La- armonia, che ella empiere giamai possa e compiere alla nostra vera sodisfazione e
vinello, che dice d’averlo in- appagamento?26 O Lavinello, Lavinello, non sei tu quello, che cotesta forma ti di- 70
contrato quella stessa matti-
na, ne riferisce i discorsi alla mostra, né sono gli altri uomini ciò che di fuori appare di loro altresì. Ma è l’ani-
Regina e alla brigata dei mo di ciascuno quello che egli è,27 e non la figura, che col dito si può mostrare.
suoi interlocutori.
20 che quello... innanzi:
Né sono i nostri animi di qualità, che essi con alcuna bellezza, che qua giù sia,
di ciò che ti propongono. conformare si possano e di lei appagarsi giamai. [...] Essi,28 perciò che sono im-
21 ci possono... intesi: ci
possono far tendere a un
mortali, di cosa che mortal sia non si possono contentare. Ma perciò che sì come 75

centro, a un obiettivo mi-


gliore e più certo.
22 mancar: venirci meno, siano eccessive? dal mo- be significare “dei corpi dati e perfetta come tu la inten- le armonia, che ci possa in-
estinguersi. mento che, da esse allettati, loro”. di, quale proporzione di teramente appagare?
23 dove: qualora. noi cessiamo di vivere come 26 O pure... appaga- parti che si trovino in un 27 Ma è... egli è: la vera
24 Ora... idii: quali lodi iddii. mento?: o anche quale bel- corpo umano (umano ricevi- essenza dell’uomo è il suo
possiamo tessere di quelle 25 come degli... idii: pas- lezza mai può trovarsi fra mento, ricettacolo), quale animo.
bellezze (mortali) che non so oscuro: degli dati dovreb- noi mortali, così piacevole equilibrata concordia, qua- 28 Essi: i nostri animi.

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Quattrocento e Cinquecento

29 Ma perciò... vaghi: ma dal sole prendono tutte le stelle luce, così quanto è di bello oltra lei dalla divina
poiché, come tutte le stelle
prendono luce dal sole, così eterna bellezza prende qualità e stato, quando di queste alcuna ne vien loro in-
quanto c’è di bello oltre alla nanzi, bene piacciono esse loro e volentieri le mirano, in quanto di quella sono
divina bellezza da essa imagini e lumicini, ma non se ne contentano né se ne sodisfanno tuttavia, pure
prende qualità e stato,
quando alcuna bellezza della eterna e divina, di cui esse sovengono loro e che a cercar di se medesima 80
terrena (di queste alcuna) si sempre con occulto pungimento gli stimola, disiderosi e vaghi.29
propone ai nostri animi, es-
sa piace a loro; i nostri ani-
mi volentieri ammirano la immagini e riflessi di quella accontentarsi né appagarsi eterna e divina che in quel- sono stimolati a ricercarla
bellezza terrena, in quanto eterna, ma non possono né di quel tanto di bellezza le terrene è presente, anzi direttamente.

Guida all’analisi
La concezione ideale e immanente di Lavinello Sinteticamente e con qualche approssimazione, possiamo afferma-
re che l’amore per Lavinello è un fatto ideale e immanente, mentre per il romito è un fatto spi-
rituale e trascendente. Per Lavinello l’amore è desiderio di una bellezza che è nella natura del-
l’oggetto, della persona amata e che consiste in un astratto (non materiale) rapporto tra le parti
componenti l’oggetto: proporzione, armonia, equilibrata concordia (convenenza). È un desiderio
che nasce nel soggetto e nel soggetto trova il suo appagamento, senza bisogno di reciprocità
(cioè d’essere ricambiato): è sufficiente l’apporto della vista e dell’udito che consentono di per-
cepire rispettivamente la bellezza corporea e quella spirituale; nel caso della lontananza dell’og-
getto amato (nell’impossibilità cioè della diretta percezione) è sufficiente il pensiero, facoltà che
è in grado di rappresentare, di far immaginare la bellezza desiderata. La bellezza che tale amore
desidera è puramente ideale, in senso platonico, in quanto sostanzialmente coincide con quel-
l’idea di bellezza di cui i singoli corpi e i singoli animi in diversa misura partecipano.
La concezione spirituale e trascendente del romito Per il romito invece l’amore è sostanzialmente desiderio
della vera bellezza, cioè della bellezza divina, eterna. Tale bellezza non è perciò immanente
all’oggetto, non è proporzione, armonia, convenenza delle parti dell’oggetto amato, che sono
comunque imperfette in quanto mondane e mortali. È bensì trascendente in quanto impli-
ca una tensione dal naturale al sovrannaturale, senza la quale non può darsi alcun appaga-
mento dell’animo che per sua natura solo nel divino può appagarsi. In questa insistenza sul-
la natura trascendente del disio di bellezza, che sfiora il disprezzo per le imperfette bellezze
terrene, sta la componente ascetica medievale del discorso del romito. Se Lavinello censura
la materialità dell’amore com’è inteso da Gismondo, il romito censura il carattere puramen-
te immanente della concezione ideale di Lavinello.
Il platonismo di Lavinello e quello del romito Non c’è una totale contrapposizione, dunque, fra le due tesi; ma
c’è una differenza di toni e d’accenti che ruota attorno all’opposizione immanente/trascen-
dente. D’altronde al Bembo degli Asolani non si può chiedere un rigore filosofico, bensì la
capacità di immettere, riecheggiandoli con qualche approssimazione, temi e argomenti del-
la discussione filosofica del tempo, in un discorso complessivo che ha obiettivi e meriti che
vanno valutati più sul piano della letteratura e della storia della sua poetica che su quello del
pensiero filosofico. In questo senso la commistione di platonismo e di ascetismo medievale,
che in queste pagine è evidente, risulta funzionale e significativa nella contemporanea e
successiva assunzione di Petrarca a modello della sua produzione lirica (R 25.1).

Laboratorio 1 Sintetizza in forma schematica l’argo- cative di ciascuna sequenza individuata.


COMPRENSIONE mentazione di Lavinello, suddividendo il 3 Confronta questi due capitoli con qual-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE testo in sequenze e sottolineando le af- che passo del libro IV (dal cap. L) del
fermazioni concettualmente più signifi- Cortegiano o almeno con la sintesi delle
cative di ciascuna sequenza individuata. argomentazioni che forniamo nel profilo
2 Sintetizza in forma schematica l’argo- (R 23.4). In che cosa consiste la specifi-
mentazione del romito, suddividendo il cità del discorso di Bembo qual è for-
testo in sequenze e sottolineando le af- mulato nei due capitoli che riportiamo?
fermazioni concettualmente più signifi-

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23. La trattatistica morale: Erasmo, Bembo e Castiglione T 23.4

T 23.4 Baldassarre Castiglione, Libro del cortegiano 1528


Nobiltà e grazia del cortegiano [I, XIV]
B. Castiglione Siamo alle prime battute della vera e propria trattazione del Libro del cortegiano. In uno
Il libro del cortegiano degli incontri nel palazzo ducale diUrbino, che si finge avvenuto nel marzo del 1506, la
a cura di B. Maier, signora Emilia Pia, cognata del Duca, propone ai presenti di indicare un argomento di
UTET, Torino 1981
conversazione per la serata: alla fine la scelta cade sul tema proposto da Federico Fre-
goso, che è quello di «formar con parole un perfetto cortegiano, esplicando tutte le
condicioni e particular qualità, che si richieggon a chi merita questo nome». L’incarico
di condurre la conversazione viene affidato al conte Ludovico di Canossa che, dopo un
breve esordio, in questo capitolo delinea un primo sommario ritratto del cortegiano.
Quasi inevitabilmente il punto di partenza è la nobiltà dei natali del cortegiano...

1 generosa: «è sinonimo XIV. Voglio adunque che questo nostro cortegiano sia nato nobile e di generosa1
di nobile, ma implica in più famiglia; perché molto men si disdice ad un ignobile mancar di far operazioni vir-
un significato di perfezione
spirituale e morale» (Ma- tuose, che ad uno nobile,2 il qual se desvia dal camino dei sui antecessori, macula il
ier). nome della famiglia3 e non solamente non acquista, ma perde il già acquistato;
2 molto men... nobile:
un comportamento non perché la nobiltà è quasi una chiara lampa,4 che manifesta e fa veder l’opere bone 5
ispirato alla virtù è più facil- e le male ed accende e sprona alla virtù così col timor d’infamia, come ancor con
mente tollerato in una per-
sona di basso stato che non la speranza di laude; e non scoprendo questo splendor di nobiltà l’opere degli
in un nobile. La nobiltà di ignobili,5 essi mancano dello stimulo e del timore di quella infamia, né par loro
sangue, come vedremo, è d’esser obligati passar più avanti di quello che fatto abbiano i sui antecessori; ed ai
qui considerato come un
fattore di distinzione sociale nobili par biasimo non giunger almeno al termine da’ sui primi mostratogli.6 Però 10
che induce al bene operare. intervien quasi sempre che e nelle arme e nelle altre virtuose operazioni gli omi-
3 se desvia... famiglia:
se si allontana dal cammino ni più segnalati sono nobili, perché la natura in ogni cosa ha insito quello occulto
dei suoi antenati, macchia il seme, che porge una certa forza e proprietà del suo principio a tutto quello che da
nome della famiglia.
4 la nobiltà... lampa: la esso deriva ed a sé lo fa simile;7 come non solamente vedemo nelle razze de’ ca-
nobiltà è come una lampa- valli e d’altri animali, ma ancor negli alberi, i rampolli dei quali quasi sempre s’as- 15
da molto luminosa: mette
cioè in evidenza pregi e di- simigliano al tronco; e se qualche volta degenerano, procede dal mal agricultore.8
fetti. E così intervien degli omini, i quali, se di bona crianza sono cultivati,9 quasi sem-
5 e non scoprendo...
ignobili: viceversa i com-
pre son simili a quelli d’onde procedono e spesso migliorano; ma se manca loro
portamenti delle persone chi gli curi bene, divengono come selvatichi, né mai si maturano.Vero è che, o sia
comuni non sono messi in per favor delle stelle, o di natura, nascono alcuni accompagnati da tante grazie,10 20
luce allo stesso modo di
quelli dei nobili, rimango- che par che non siano nati, ma che un qualche dio con le proprie mani formati gli
no nell’oscurità. Su di loro – abbia ed ornati de tutti i beni dell’animo e del corpo; sì come ancor molti si veg-
chiarisce poi – non agireb-
be insomma lo stimolo del- gono tanto inetti11 e sgarbati, che non si po credere se non che la natura per di-
l’emulazione familiare. spetto o per ludibrio12 produtti gli abbia al mondo.13 Questi sì, come per assidua
6 ai nobili... mostrato-
gli: a nobili pare biasimevo-
diligenzia e bona crianza poco frutto14 per lo più delle volte posson fare, così que- 25
le, vergognoso non rag- gli altri con poca fatica vengon in colmo di summa eccellenzia. E per darvi un
giungere almeno il livello esempio, vedete il signor don Ippolito da Este,15 cardinal di Ferrara, il quale tanto
(di fama, onore e virtù) rag-
giunto dai propri antenati. di felicità ha portato dal nascere suo,16 che la persona, lo aspetto, le parole e tutti i
7 la natura... simile: la
sui movimenti sono talmente di questa grazia17 composti ed accommodati, che tra
natura cioè trasmette di ge-
nitore in figlio alcuni tratti i più antichi prelati, avvenga che18 sia giovane, rappresenta una tanto grave auto- 30
del carattere e inclinazioni. rità, che più presto pare atto ad insegnare, che bisognoso d’imparare; medesima-
8 procede... agriculto-
re: dipende dal cattivo agri- mente, nel conversare con omini e con donne d’ogni qualità, nel giocare, nel ride-
coltore. re e nel motteggiare tiene una certa dolcezza e così graziosi costumi, che forza è
9 se... cultivati: se sono
bene educati. che ciascun che gli parla o pur lo vede gli resti perpetuamente affezionato. Ma,
10 grazie: doti. tornando al proposito nostro, dico che tra questa eccellente grazia e quella insen- 35
11 inetti: incapaci.
12 ludibrio: scherno.
sata sciocchezza si trova ancora il mezzo;19 e posson quei che non son da natura
13 produtti... mondo: li
abbia generati. 15 Ippolito da Este: è il 16 il quale... suo: che tan- 17 grazia: eleganza, de- 19 si trova... il mezzo:esi-
14 poco frutto: pochi cardinale reso celebre dal- ta fortuna ha avuto in sorte coro, gentilezza. ste anche una via di mezzo.
progressi. l’Ariosto. dalla natura. 18 avvenga che: sebbene.

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Quattrocento e Cinquecento

così perfettamente dotati, con studio e fatica limare e correggere in gran parte i
difetti naturali. Il cortegiano, adunque, oltre alla nobilità, voglio che sia in questa
parte20 fortunato, ed abbia da natura non solamente lo ingegno e bella forma di
persona e di volto, ma una certa grazia e, come si dice, un sangue,21 che lo faccia al 40
primo aspetto a chiunque lo vede grato ed amabile; e sia questo un ornamento
che componga e compagni tutte le operazioni sue e prometta nella fronte quel ta-
le esser degno del commerzio e grazia d’ogni gran signore.22
20 in questa parte: quan- di “espressione piacevole”, 22 e sia... signore: e (vo- tutte le sue azioni e fin dal- degno della compagnia e
to cioè a doti naturali. “bella cera”,“umore affabi- glio che) questo sia un or- l’aspetto esteriore garanti- dei favori del suo signore.
21 un sangue: «Nel senso le”» (Maier). namento che accompagni sca che quel cortegiano è

Guida all’analisi
La nobiltà di sangue e di costumi: il punto di vista aristocratico Della nobiltà di sangue e dei suoi meriti si par-
la e si disputa fin dal sorgere della letteratura volgare. Nella letteratura cortese poi, alla no-
biltà di sangue si era voluto associare come indispensabile completamento un cammino di
perfezionamento morale, intellettuale, spirituale. Era stata però la cultura espressa dalla so-
cietà comunale che aveva più decisamente puntato sulla nobiltà d’animo come caratteristi-
ca essenziale dell’individuo.
Nel contesto signorile e cortigiano del Quattrocento e del primo Cinquecento la no-
biltà di sangue torna a costituire un valore, ma non tanto da non poter essere messa in di-
scussione negli ambienti intellettualmente più raffinati e aperti. Nello specifico, qui, nel Cor-
tegiano, tocca a Gaspare Pallavicino affermare, poco più avanti, che la nobiltà di sangue nel
perfetto cortegiano non è una condizione essenziale; il Canossa in parte è d’accordo, ma
sottolinea il credito di cui essa gode a corte, che garantisce al cortegiano quantomeno una
prima favorevole impressione (cfr. I, XV-XVI). In ogni caso, essa è associata e subordinata a un
insieme di doti intellettuali e morali che costituiscono una forma di più perfetta nobiltà an-
che per Castiglione, quasi la legittimazione morale di quel privilegio sociale.
La grazia La parola grazia si insinua nel discorso prima di soppiatto, come grazie, cioè anche solo
genericamente le “doti”, i “talenti” (poco più avanti dice «i beni dell’animo e del corpo») gra-
tuitamente dati dalla natura agli individui più fortunati. Una prima più esatta delimitazione del
concetto viene fornita, per contrasto, da sgarbati (mancanza di garbo, di grazia), che caratte-
rizza gli individui viceversa maltrattati e quasi scherniti da natura. Ma la parola grazia fa la sua
comparsa in primo piano a proposito del cardinale Ippolito, esempio di uomo gratificato, fa-
vorito dalla natura in sommo grado: «la persona, lo aspetto, le parole e tutti i suoi movimen-
ti sono talmente di questa grazia composti ed accomodati, che...», «tiene una certa dolcezza e
così graziosi costumi, che...». Qui la grazia è eleganza, decoro, misura, gentilezza di aspetto, di
modi, di linguaggio, è la spia di una personalità completa, versatile, armoniosa, affabile e affi-
dabile. Si noti anche l’esito descritto nelle due consecutive: la grazia comunica autorevolezza e
determina affezione. Dopo un importante inciso (la grazia, se non la si ha gratis dalla natura, la
si può «con studio e fatica» apprendere), è proprio in questo senso che il termine ritorna nel
finale del passo: la grazia che Ludovico di Canossa ritiene dote essenziale del suo perfetto
cortegiano è un quid per certi aspetti indefinibile che rende il cortegiano «al primo aspetto a
chiunque lo vede grato ed amabile»: la grazia è quella dote che rende grati, graditi, che con-
quista la simpatia, l’animo di chi si incontra (determina affezione). È anche, quando ancora
non si sia potuto sondare più a fondo per esperienza diretta l’animo del cortegiano, una pro-
messa di valore («prometta nella fronte quel tale esser degno...»), una garanzia che la persona
che quella grazia dimostra sia degna di fede e fiducia (comunica autorevolezza).

Laboratorio 1 Citando gli opportuni passi del testo, concetto di grazia per Castiglione.
COMPRENSIONE spiega in che senso la nobiltà di sangue 3 Confronta il ritratto idealizzato del cardi-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE costituisca per il cortegiano un positivo nale Ippolito d’Este presente in questo
fattore di condizionamento sociale. testo con la rappresentazione che ne dà
2 Esponi con parole tue il significato del Ariosto nella Satira I [R T 24.1 ].

778 © Casa Editrice Principato


23. La trattatistica morale: Erasmo, Bembo e Castiglione T 23.5

T 23.5 Baldassarre Castiglione, Libro del cortegiano 1528


Grazia e sprezzatura [I, XXVI-XXVII]
B. Castiglione A un certo punto del dialogo interviene Cesare Gonzaga: egli dice di aver ben com-
Il libro del cortegiano preso che per Ludovico di Canossa la grazia è nel cortegiano «un condimento d’ogni
a cura di B. Maier,
UTET, Torino 1981 cosa, senza il quale tutte l’altre proprietà e bone condicioni son di poco valore»; tuttavia
ritiene necessario che egli spieghi meglio come, «con qual arte, con qual disciplina»,
possa acquisirla chi non ne è dotato per «don della natura e de’ cieli». Tra la grazia di-
vina d’un Ippolito d’Este e l’«insensata sciocchezza» degli «inetti e sgarbati», di cui s’e-
ra discorso nel capitolo XIV, si colloca quel «mezzo», quella condizione mediana pro-
pria della maggioranza degli uomini che per raggiungere la perfezione hanno bisogno
di arte, studio e fatica. Il tema è cruciale, anche perché sposta il discorso dalla teoria al-
la prassi, da un’astrazione ideale (un’idea platonica, da contemplare come un modello)
a una pedagogia (una virtù aristotelica, che si può apprendere ed esercitare nel mondo).
Riportiamo la parte essenziale della risposta di Ludovico di Canossa.

XXVI. [...] «Chi adunque vorrà esser bon discipulo, oltre al far le cose bene,
sempre ha da metter ogni diligenzia per assimigliarsi1 al maestro e, se possibil fos-
se, transformarsi in lui. E quando già si sente aver fatto profitto, giova molto veder
diversi omini di tal professione e, governandosi con quel bon giudicio che sempre
gli ha da esser guida, andar scegliendo or da un or da un altro varie cose. E come 5
la pecchia2 ne’ verdi prati sempre tra l’erbe va carpendo i fiori,3 così il nostro cor-
tegiano averà da rubare questa grazia da que’ che a lui parerà che la tenghino4 e
da ciascun quella parte che più sarà laudevole; e non far come un amico nostro,
che voi tutti conoscete, che si pensava esser molto simile al re Ferrando minore
d’Aragona,5 né in altro avea posto cura d’imitarlo, che nel spesso alzare il capo, 10
1 assimigliarsi: rendersi torzendo6 una parte della bocca, il qual costume il re avea contratto così da infir-
simile.
2 la pecchia: l’ape. La mità.7 E di questi molti si ritrovano, che pensan far assai, pur che sian simili a un
metafora dell’ape che va grand’omo in qualche cosa; e spesso si appigliano a quella che in colui è sola vi-
cogliendo fior da fiore risa-
le a Orazio, ed è stata più ciosa.8 Ma avendo io già più volte pensato meco onde nasca questa grazia, la-
volte ripresa a proposito sciando quelli che dalle stelle l’hanno, trovo una regula universalissima, la qual mi 15
della teoria dell’imitazione
in arte e in letteratura. par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano più che al-
3 va carpendo i fiori: cuna altra, e ciò è fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso
prende il nettare dai diversi
fiori. scoglio, la affettazione;9 e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una cer-
4 la tenghino: la possie- ta sprezzatura,10 che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto sen-
dano. za fatica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia; per- 20
5 Ferrando... d’Arago-
na: Ferdinando II d’Arago- ché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità genera
na, re di Napoli. grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare11 e, come si dice, tirar per i ca-
6 torzendo: torcendo.
7 da infirmità: a causa pegli dà somma disgrazia12 e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch’ella si sia.
d’una malattia. Però si po dir quella esser vera arte che non pare esser arte;13 né più in altro si ha
8 sola viciosa: la sola ad
essere viziosa. da poner studio, che nel nasconderla: perché se è scoperta, leva in tutto il credito14 25
9 affettazione: «artifi- e fa l’omo poco estimato. E ricordomi io già aver letto esser stati alcuni antichi
ciosità, ostentazione, voluta
e compiaciuta mancanza di oratori eccellentissimi, i quali tra le altre loro industrie15 sforzavansi di far credere
naturalezza» (Maier). ad ognuno sé non aver notizia alcuna di lettere; e dissimulando il sapere mostra-
10 sprezzatura: «ossia van le loro orazioni esser fatte simplicissimamente, e più tosto secondo che loro
una sorta di intelligente
noncuranza, di abile e sim- porgea la natura e la verità, che ’l studio e l’arte; la qual16 se fosse stata conosciu- 30
patica disinvoltura, che dia ta, arìa dato dubbio negli animi del populo di non dover esser da quella inganna-
l’impressione della sponta-
neità e della naturalezza e
che sia tuttavia sorretta ed
accompagnata [...] dallo 12 dà somma disgrazia: animi ma li allontana. del classicismo rinascimen- 15 industrie: artifici re-
studio e dall’arte» (Maier). produce un effetto opposto 13 vera arte... arte: è il tale. torici.
11 il sforzare: fare le cose a quello della grazia, non principio classico dell’ars 14 il credito: il gradi- 16 la qual: cioè l’arte, che
con evidente sforzo, ma an- suscita ammirazione, ma est celare artem, che costitui- mento, il prestigio che in- agli animi del popolo è so-
che l’esagerare. fastidio, non conquista gli sce uno dei canoni estetici vece la grazia garantisce. spetta; arìa: avrebbe.

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Quattrocento e Cinquecento

ti.Vedete adunque come il mostrar l’arte ed un così intento17 studio levi la grazia
d’ogni cosa. Qual di voi è che non rida quando il nostro messer Pierpaulo18 dan-
za alla foggia sua, con que’ saltetti e gambe stirate19 in punta di piede, senza mover
la testa, come se tutto fosse un legno, con tanta attenzione, che di certo pare che 35
vada numerando i passi? Qual occhio è così cieco, che non vegga in questo la di-
sgrazia della affettazione? e la grazia in molti omini e donne che sono qui presen-
ti, di quella sprezzata desinvoltura20 (ché nei movimenti del corpo molti così la
chiamano), con un parlar o ridere o adattarsi, mostrando non estimar e pensar più
ad ogni altra cosa che a quello,21 per far credere a chi vede quasi di non saper né 40
poter errare?»

XXVII. Quivi non aspettando, messer Bernardo Bibiena disse: «Eccovi che mes-
ser Roberto nostro22 ha pur trovato chi laudarà la foggia del suo danzare, poiché
tutti voi altri pare che non ne facciate caso; ché se questa eccellenzia consiste nel- 45
la sprezzatura e mostrar di non estimare e pensar più ad ogni altra cosa che a
quello che si fa, messer Roberto nel danzare non ha pari al mondo; ché per mo-
strar ben di non pensarvi si lascia cader la robba23 spesso dalle spalle e le pantoffo-
le24 de’ piedi, e senza raccôrre25 né l’uno né l’altro, tuttavia danza». Rispose allor il
Conte: «Poiché voi volete pur ch’io dica, dirò ancor dei vicii26 nostri. Non v’ac- 50
corgete che questo, che voi in messer Roberto chiamate sprezzatura, è vera affet-
tazione? perché chiaramente si conosce che esso si sforza con ogni studio mostrar
di non pensarvi,27 e questo è il pensarvi troppo; e perché passa certi termini di
mediocrità28 quella sprezzatura è affettata e sta male; ed è una cosa che a punto
riesce al contrario del suo presuposito,29 cioè di nasconder l’arte. Però non estimo 55
io che minor vicio della affettazion sia nella sprezzatura, la quale in sé è laudevo-
le, lasciarsi cadere i panni da dosso, che nella attillatura, che pur medesimamente
da sé è laudevole, il portar il capo così fermo per paura di non guastarsi la zazze-
ra, o tener nel fondo della berretta il specchio e ’l pettine nella manica, ed aver
sempre drieto il paggio per le strade con la sponga e la scopetta;30 perché questa 60
così fatta attillatura e sprezzatura tendono troppo allo estremo;31 il che sempre è
17 intento: intenso. vicioso, e contrario a quella pura ed amabile simplicità, che tanto è grata agli ani-
18 messer Pierpaulo: «un mi umani.Vedete come un cavalier sia di mala grazia,32 quando si sforza d’andare
cortigiano urbinate, di
ignoto casato, ricordato per così stirato33 in su la sella e, come noi sogliam dire, alla veneziana,34 a compara-
la sua ridicola affettazione zion d’un altro, che paia che non vi pensi e stia a cavallo così disciolto e sicuro 65
nel danzare» (Maier).
19 con que’... stirate: con come se fosse a piedi. Quanto piace più e quanto più è laudato un gentilom che
quei saltelli e quelle gambe porti arme, modesto, che parli poco e poco si vanti, che un altro, il quale sempre
rigide. stia in sul laudar se stesso, e biastemando35 con braveria36 mostri minacciar al
20 desinvoltura: disinvol-
tura; il termine qui è usato mondo! e niente altro è questo, che affettazione di voler parer gagliardo. Il mede-
nel senso di disinvoltura nei simo accade in ogni esercizio, anzi in ogni cosa che al mondo fare o dir si possa». 70
movimenti.
21 mostrando... a quello:
mostrando cioè di pensare a
tutt’altro che a contare i pas-
si, che ad essere perfetti nella 27 si sforza... pensarvi: è 29 riesce... presuposito: pelli (zazzera) o continua- 33 stirato: impettito, irri-
danza. un’affettazione opposta a ottiene l’effetto contrario di mente specchiarsi e petti- gidito.
22 messer Roberto no- quella di chi si sforza di esse- quello pensato e desiderato. narsi e farsi sempre accom- 34 alla veneziana: in mo-
stro: un altro cortigiano, re perfetto; è un’affettazione 30 Però... scopetta: per- pagnare da un paggio con do goffo e ridicolo, qual era
Roberto da Bari. di disinvoltura, ma pur sem- ciò credo che ci sia tanto af- spugna e spazzola (per ras- tipico dei veneziani (poco
23 la robba: la veste. pre un’affettazione, perché fettazione nella disinvoltura, settarsi le vesti). abituati a cavalcare, ovvia-
24 pantoffole: «o pianelle, supera quei limiti di cui si di per sé lodevole, quando 31 tendono allo estremo: mente).
calzature comode e basse, dice subito dopo. essa consiste nel lasciarsi ca- tendono all’estremo, sono 35 biastemando: bestem-
che molti veramente si to- 28 termini di medio - dere i vestiti di dosso,quanto esagerate: la sprezzatura de- miando.
glievano durante il ballo» crità: limiti del giusto mez- c’è nell’eleganza (attillatura), genera in trascuratezza, l’e- 36 con braveria: con
(Maier). zo, propri della moderazio- essa pure di per sé lodevole, leganza in fastidiosa ricerca- ostentazione di spavalderia,
25 senza raccôrre: senza ne. Allusione all’aurea me- quando essa significa tenere tezza. da gradasso.
raccogliere. diocritas oraziana (Carmina, il capo rigido per non gua- 32 di mala grazia: sgra-
26 vicii: vizi, difetti. II, 10). stare l’acconciatura dei ca- ziato, affettato.

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23. La trattatistica morale: Erasmo, Bembo e Castiglione T 23.5

Guida all’analisi
Una pedagogia della grazia Il passo è importante perché Cesare Gonzaga rileva esplicitamente la centralità del-
la grazia nell’idea del perfetto cortegiano quale la va esponendo Ludovico di Canossa. Esso,
però, è di importanza cruciale per un altro motivo. Una considerazione della grazia come
dote naturale o dono del cielo sarebbe potuta bastare per delineare il perfetto cortegiano
quale modello teorico astratto. Ma ora si passa a discutere di come, con quali strumenti con-
creti e con quanto studio, un comune cortegiano, dotato di normale talento possa acquisirla
in tutto o in parte. Come si accennava nella premessa, ciò significa spostare in qualche modo
il discorso dall’ideale al reale, dalla teoria alla prassi. La pedagogia della grazia dunque si fon-
da su princìpi precisi e assimilabili, sia pure con studio e fatica. Il criterio e la strategia sono
quelli della moderazione, del giusto mezzo (l’aurea mediocritas oraziana). La grazia come do-
no del cielo è una naturale perfezione; la grazia acquisita con studio e fatica dovrà tendere
alla perfezione simulando la naturalezza. Questa simulazione di naturalezza è la sprezzatura.
Per otterla dovranno essere evitati i due opposti eccessi, quello dell’eccessiva cura della per-
fezione (illuminante l’esempio del ballerino che sembra contare i passi per non sbagliarne
uno o del giovanotto troppo preoccupato del proprio aspetto esteriore tanto da continuare a
specchiarsi e pettinarsi perché non un capello sia fuori posto) e quello dell’eccessiva sprezza-
tura (illuminante l’esempio del ballerino che per mostrarsi disinvolto non si cura di racco-
gliere gli abiti e le scarpe che ha intenzionalmente perso danzando).
Un’estetica del comportamento Ma fondamentale è riconoscere dietro a questa precettistica del comporta-
mento un ideale estetico di più vasta portata: quello dell’armonia, della misura, della natura-
lezza, della compostezza, dell’euritmia che sono propri di tutta l’estetica rinascimentale e se-
gnatamente, per quel che ci riguarda più da vicino, di tutta la poetica del classicismo rina-
scimentale. Già nel precedente capitolo, quando Canossa aveva introdotto l’esempio di Ip-
polito d’Este, per natura dotato di una grazia quasi divina, Castiglione aveva forse intenzio-
nalmente articolato l’esempio sui due opposti versanti della grave autorità che conquista la fi-
ducia dei più anziani prelati e della sovrana dolcezza con cui sa intrattenersi con donne e
uomini laici. I due opposti atteggiamenti rispecchiano i due opposti stilistici della gravità e
della piacevolezza che, secondo Bembo, Petrarca sa fondere nella sua poesia, facendosi mae-
stro dell’una e dell’altra, e soprattutto maestro del temperarle fuggendo nel complesso del-
l’opera tanto l’eccesso di gravità quanto l’eccesso della piacevolezza.
Ora i due capitoli che abbiamo letto sono tutti intrisi di riferimenti letterari leggibili pro-
prio in chiave di estetica e di poetica del classicismo rinascimentale: la similitudine dell’ape
che va cogliendo fior da fiore – fuor di metafora, il poeta che va imitando il meglio che
sappia offrire ciascun modello – rimanda al dibattito dell’imitazione e al principio della plu-
ralità dei modelli: compito del poeta è quello di fondere in un tutto armonico e originale i
diversi elementi presi dai suoi modelli [R T 19.1 ]. La stessa aurea mediocritas oraziana, in ori-
gine un ideale etico (il giusto mezzo fra ricchezza e povertà, fra austerità e piaceri smodati
ecc.), era stato assunto dalla poetica quale modello di misura, compostezza, armonia. Ma fra
le righe spunta anche il concetto ovidiano, sintetizzato nella frase ars est celare artem [l’arte
consiste nel nascondere l’artificio], la necessità cioè di celare gli artifici retorici simulando
una naturalezza espressiva. Anzi questo, che è il concetto regolatore di tutta la costruzione
castiglioniana della grazia come sprezzatura, è il più importante aggancio tra l’estetica com-
portamentale del cortegiano e l’estica letteraria del classicismo di Petrarca, Bembo e della
gran parte degli scrittori rinascimentali.

Laboratorio 1 Spiega con parole tue il concetto di sprez- mente nella Guida all’analisi tra il passo di
COMPRENSIONE zatura e i suoi rapporti con quello di gra- Castiglione e i testi di poetica citati (Pe-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE zia. trarca-Poliziano/Cortese-Bembo).
2 Estendi il confronto proposto sintetica-
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Quattrocento e Cinquecento

T 23.6 Baldassarre Castiglione, Libro del cortegiano 1528


Il fine etico del cortegiano [IV, IV-V; IX-X]
B. Castiglione Nel quarto libro del Cortegiano Ottaviano Fregoso affronta il tema delle finalità politiche
Il libro del cortegiano del cortegiano: egli subito esordisce ponendosi la domanda: a che scopo il cortegiano
a cura di B. Maier, deve impegnarsi così strenuamente per raggiungere la perfezione e la grazia? Vedremo
UTET, Torino 1981
che la risposta riconduce tutto il ragionamento da un’estetica a un’etica della perfezione.

1 Estimo io: è messer IV. [...] Estimo io1 adunque che ’l cortegiano perfetto, di quel modo che de-
Ottaviano Fregoso che par- scritto l’hanno il conte Ludovico e messer Federico, possa esser veramente bona
la.
2 non... indrizzato: tut- cosa e degna di laude; non però simplicemente né per sé, ma per rispetto del fine
tavia non in sé e per sé, ma in al quale po essere indrizzato;2 ché in vero se con l’esser nobile, aggraziato e pia-
relazione al fine al quale può
essere indirizzato. cevole ed esperto in tanti esercizi il cortegiano non producesse altro frutto che 5
3 dovesse l’omo: si do- l’esser tale per se stesso, non estimarei che per conseguir questa perfezion di cor-
vesse (francesismo).
4 condicioni: attitudini, tegiania dovesse l’omo3 ragionevolmente mettervi tanto studio e fatica, quanto è
abilità. necessario a chi la vole acquistare; anzi direi che molte di quelle condicioni4 che
5 omo di grado: di con-
dizione sociale elevata. se gli sono attribuite, come il danzar, festeggiar, cantar e giocare, fossero leggerez-
6 attillature: ricercatez- ze e vanità, ed in un omo di grado5 più tosto degne di biasimo che di laude; per- 10
ze. ché queste attillature,6 imprese, motti7 ed altre tai cose che appartengono ad in-
7 imprese, motti: rispet-
tivamente, le attività frivole tertenimenti8 di donne e d’amori, ancora che9 forse a molti altri paia il contrario,
sopra nominate (danzar, fe- spesso non fanno altro che effeminar gli animi, corrumper la gioventù e ridurla a
steggiar ecc.), ma il termine
veniva usato nel Cinque- vita lascivissima; onde nascono poi questi effetti che ’l nome italiano è ridutto in
cento anche nell’accezione obbrobrio,10 né si ritrovano se non pochi che osino non dirò morire, ma pur en- 15
di “ornamenti”; e “risposte
brillanti, motti di spirito”. trare in uno pericolo.11 E certo infinite altre cose sono le quali,12 mettendovisi in-
8 intertenimenti: intrat- dustria e studio, partuririano13 molto maggior utilità e nella pace e nella guerra,
tenimenti.
9 ancora che: ancorché, che questa tal cortegiania per sé sola; ma se le operazioni del cortegiano sono in-
benché. drizzate a quel bon fine che debbono e ch’io intendo, parmi ben che non sola-
10 ’l nome... obbrobrio:
il nome di italiano è oggetto
mente non siano dannose o vane, ma utilissime e degne d’infinita laude. 20

di disprezzo, l’essere italiano


è considerato una vergogna. V. Il fin adunque del perfetto cortegiano, del quale insino a qui non s’è parlato,
11 entrare in uno pericu-
lo: affrontare un pericolo. estimo io che sia il guadagnarsi per mezzo delle condicioni attribuitegli da questi
12 sono le quali: sono signori talmente la benivolenzia e l’animo di quel principe a cui serve, che possa
quelle che. dirgli e sempre gli dica la verità d’ogni cosa che ad esso convenga sapere, senza ti- 25
13 partuririano: produr-
rebbero. mor o periculo di despiacergli; e conoscendo la mente di quello inclinata a far
14 rimoverlo... viciosa:
cosa non conveniente, ardisca di contradirgli, e con gentil modo valersi della gra-
distoglierlo da ogni cattivo,
disonesto proposito. zia acquistata con le sue bone qualità per rimoverlo da ogni intenzion viciosa14 ed
15 prudenzia: saggezza, indurlo al camin della virtù; e così avendo il cortegiano in sé la bontà, come gli
accortezza.
16 notizia di lettere: cul- hanno attribuita questi signori, accompagnata con la prontezza d’ingegno e pia- 30
tura letteraria. cevolezza e con la prudenzia15 e notizia di lettere16 e di tante altre cose, saprà in
17 in ogni proposito: in
ogni circostanza. ogni proposito17 destramente18 far vedere al suo principe quanto onore ed utile
18 destramente: con de- nasca a lui ed alli suoi dalla giustizia, dalla liberalità, dalla magnanimità, dalla man-
strezza, efficacemente. suetudine e dall’altre virtù19 che si convengono a bon principe; e, per contrario,
19 virtù: qui il termine
mantiene il suo significato quanta infamia e danno proceda dai vicii oppositi20 a queste. Però io estimo che 35
morale positivo. come la musica, le feste, i giochi e l’altre condicioni piacevoli son quasi il fiore,
20 vicii oppositi: gli op-
posti vizi. così lo indurre o aiutare il suo principe al bene e spaventarlo dal male,21 sia il ve-
21 spaventarlo dal male: ro frutto22 della cortegiania. E perché la laude del ben far consiste precipuamen-
distoglierlo dal male.
22 frutto: «il risultato e in- te23 in due cose, delle quai l’una è lo eleggersi un fine dove tenda la intenzion no-
sieme lo scopo» (Maier). stra,24 che sia veramente bono, l’altra il saper ritrovar mezzi opportuni ed atti per 40
23 precipuamente: es-
senzialmente. condursi a questo bon fine desegnato, certo è che l’animo di colui, che pensa di
24 lo eleggersi... nostra: far che ’l suo principe non sia d’alcuno ingannato, né ascolti gli adulatori, né i
l’individuare e assumere un malèdici e bugiardi, e conosca il bene e ’l male ed all’uno porti amore, all’altro
fine a cui indirizzare i nostri
propositi, la nostra azione. odio, tende ad ottimo fine.
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23. La trattatistica morale: Erasmo, Bembo e Castiglione T 23.6

25 falsa... di se stessi: Nei tre capitoli omessi Ottaviano Fregoso analizza i risultati dell’azione del cortegiano,
infondata presunzione. spostando l’attenzione dal cortegiano al principe, e in particolare al cattivo principe, che
26 e che: e poiché (propo-
sizione causale; così pure la spesso è il risultato dell’azione dei cattivi cortegiani. Le bugie degli adulatori e dei cattivi
successiva e che gli omini; consiglieri infatti producono nel principe ignoranza, l’ignoranza a sua volta produce pre-
l’oggettiva dipendente da sunzione, superbia ed ebbrezza di potere, queste ultime il dispotismo, che mette al bando
Dico adunque che riprende ragione e giustizia. L’attenzione si sposta quindi sui principi del tempo, che Fregoso giu-
con il cortegiano ... po facil-
mente e deve...). dica negativamente: i principi antichi sapevano circondarsi di uomini eccezionali, severi
27 adescar... l’animo: in- filosofi che moderavano il loro comportamento e che essi stimavano. Ma oggi ai nostri
graziarsi l’animo. principi si presentasse uno di quei severi filosofi antichi, essi lo aborrirebbero come un
28 gli verrà fatto: ci riu-
scirà. serpente velenoso...
29 infundergli: potrà in-
fondergli. IX. Dico adunque che, poiché oggidì i prìncipi son tanto corrotti dalle male 45
30 continenzia: modera-
zione. consuetudini e dalla ignoranzia e falsa persuasione di se stessi,25 e che26 tanto è
31 facendogli... vicii: fa-
difficile il dar loro notizia della verità ed indurgli alla virtù, e che gli omini con le
cendogli gustare la grande
dolcezza, la soddisfazione bugie ed adulazioni e con così viciosi modi cercano d’entrar loro in grazia, il cor-
che deriva dall’agire virtuo- tegiano, per mezzo di quelle gentil qualità che date gli hanno il conte Ludovico e
so, ben più grande delle dif-
ficoltà che si incontrano nel messer Federico, po facilmente e deve procurar d’acquistarsi la benivolenzia ed 50
contrastare i vizi. adescar tanto l’animo27 del suo principe, che si faccia adito libero e sicuro di par-
32 giocunde: gioconde,
capaci di allietare l’animo. largli d’ogni cosa senza esser molesto; e se egli sarà tale come s’è detto, con poca
33 ed a queste eccitarlo: e fatica gli verrà fatto,28 e così potrà aprirgli sempre la verità di tutte le cose con de-
potrà spingerlo verso queste strezza; oltra di questo, a poco a poco infundergli29 nell’animo la bontà ed inse-
virtù (l’infinito dipende dal
potrà di r. 53 ed è coordinato gnarli la continenzia,30 la fortezza, la giustizia, la temperanzia, facendogli gustar 55
a aprirgli, a infundergli e a inse- quanta dolcezza sia coperta da quella poca amaritudine, che al primo aspetto s’of-
gnargli).
34 capitani: condottieri. ferisce a chi contrasta ai vicii;31 li quali sempre sono dannosi, dispiacevoli ed ac-
35 e collocarle... gloria: e compagnati dalla infamia e biasimo, così come le virtù sono utili, giocunde32 e
(gli antichi usavano) collo-
carle in luoghi pubblici, sia piene di laude; ed a queste eccitarlo33 con l’esempio dei celebrati capitani34 e d’al-
per onorare i personaggi ef- tri omini eccellenti, ai quali gli antichi usavano di far statue di bronzo e di marmo 60
figiati, sia per stimolare gli
altri ad emularne la gloria. e talor d’oro; e collocarle ne’ lochi publici, così per onor di quegli, come per lo
36 quasi... debile: me- stimulo degli altri, che per una onesta invidia avessero da sforzarsi di giungere es-
tafora agreste per dire che la si ancor a quella gloria.35
piacevolezza del cortegiano
renderà meno fastidiosa
(noia) l’acquisizione delle X. In questo modo per la austera strada della virtù potrà condurlo, quasi ador- 65
virtù da parte del principe,
che sia debole d’animo. nandola di frondi ombrose e spargendola di vaghi fiori, per temperar la noia del
37 illecebre: lusinghe, al- faticoso camino a chi è di forze debile;36 ed or con musica, or con arme e cavalli,
lettamenti (latinismo).
38 costume: comporta- or con versi, or con ragionamenti d’amore e con tutti que’ modi che hanno detti
mento. questi signori, tener continuamente quell’animo occupato in piacere onesto, im-
39 ingannandolo... salu-
tifero: ingannandolo sì, ma a primendogli però ancora sempre, come ho detto, in compagnia di queste illece- 70
scopo di bene (salutifero, bre,37 qualche costume38 virtuoso ed ingannandolo con inganno salutifero;39 co-
portatore di salute). me i cauti medici, li quali spesso, volendo dar a’ fanciulli infermi e troppo delica-
40 come... liquore: come
i medici per far ingerire una ti medicina di sapore amaro, circondano l’orificio del vaso di qualche dolce li-
medicina di sapore amaro quore.40 Adoperando adunque a tal effetto il cortegiano questo velo di piacere, in
cospargono l’orlo del bic-
chiere (l’orificio del vaso) con ogni tempo, in ogni loco ed in ogni esercizio conseguirà il suo fine, e meriterà 75
del miele o altro liquido molto maggior laude e premio che per qualsivoglia altra bona opera che far po-
dolce. La metafora antichis-
sima e tradizionale (è già in tesse al mondo; perché non è bene alcuno che così universalmente giovi come il
Platone e in Lucrezio) sarà bon principe, né male che così universalmente noccia41 come il mal principe;
ripresa da Tasso all’inizio
della Gerusalmeme liberata. però non è ancora pena tanto atroce e crudele, che fosse bastante castigo a quei
41 noccia: nuoccia. scelerati cortegiani, che dei modi gentili e piacevoli e delle bone condicioni si va- 80
42 ché... veneno: perché
dei cattivi cortegiani si può
gliono a mal fine, e per mezzo di quelle cercan la grazia dei loro prìncipi per cor-
dire che non recano danno a rumpergli e disviarli dalla via della virtù ed indurgli al vicio; ché questi tali dir si
un singolo individuo, ma a po che non un vaso dove un solo abbia da bere, ma il fonte publico del quale usi
tutta la collettività (avvele-
nano la fonte a cui tutto il tutto ’l populo, infettano di mortal veneno».42
popolo attinge).

783 © Casa Editrice Principato


Quattrocento e Cinquecento

Guida all’analisi
Un’estetica della grazia e della perfezione Con uno scarto che ha fatto discutere i critici, il quarto libro si apre
con una revisione o una messa a punto del ritratto del cortegiano tracciato dai precedenti
interlocutori. Fin qui la grazia pareva rappresentata come un valore di per sé, nella logica di
un’estetica della cortegiania: la grazia, la sprezzatura del cortegiano sono di per sé un valore
proprio in quanto sono la sintesi degli ideali estetici del Rinascimento.Vero è che l’equili-
brio, l’armonia, la misura dello stile sono apprezzati in quanto espressione di un animo ca-
pace di dominare razionalmente le passioni, e quindi rimandano a un ideale di saggezza e a
un’intima moralità; e tuttavia quella saggezza, quell’autocontrollo nei primi tre libri del
Cortegiano perlopiù rimanevano fini a se stessi e forse erano un po’ troppo sbilanciati verso
la leggerezza e la vanità. Così almeno pare al personaggio di Ottaviano Fregoso e così forse
parve allo stesso Castiglione, che – si può supporre – con il quarto libro volle riequilibrare il
discorso complessivo per evitare l’accusa di legittimare un’immagine troppo frivola, lasciva
ed effeminata della cortegiania.
Il fine etico (e civile) Dunque, l’estetica, che pure non viene rinnegata, viene ora convertita in un’etica della
grazia e della perfezione. A che scopo spendere tanta fatica, tanto studio per raggiungere la
perfezione della cortegiania? Per Ottaviano Fregoso quella grazia e quella perfezione sareb-
bero addirittura censurabili se non fossero rivolte a un più nobile fine. Questo fine è con
tutta chiarezza individuato nell’indirizzare i principi del giorno d’oggi sul cammino della
virtù (inizio cap.V), e la virtù è intesa, conformemente a tutta la tradizione dell’umanesimo,
come sintesi di giustizia, liberalità, magnanimità, mansuetudine e di tutte le altre «virtù che
si convengono a bon principe». Il richiamo alla trattatistica umanistica sul perfetto principe
è palese. Ed è probabile una presa di posizione almeno in parte polemica nei confronti del
Principe di Machiavelli: anche Castiglione parla di mezzi (in parte moralmente discutibili,
perché implicano frivole lusinghe, inganni salutiferi, simulazione e dissimulazione) adatti al
raggiungimento di un bon fine (cap.V, r. 41), ma questo fine sarà davvero buono, anzi ottimo
solo se il risultato sarà quello di far sì che il principe «conosca il bene e ’l male ed all’uno
porti amore, all’altro odio» (rr. 43-44). Castiglione adotta certamente categorie proprie an-
che di Machiavelli: oltre a quanto appena visto a proposito di mezzi e fini, parla di utilità
(onore ed utile, cap.V, r. 32), concepisce il fine in termini di pubblico interesse (il cattivo prin-
cipe nuoce a tutta la collettività, dice nel finale del cap. X), si sforza di ragionare in termini
di realismo politico (ad esempio denunciando la corruzione dei principi del giorno d’oggi).
Ma è inequivocabile che l’esito rimane divergente: è caso mai al cortegiano che è attribui-
ta la necessità di ricorrere a mezzi in qualche misura discutibili (ma nulla a che vedere co-
munque con quelli ipotizzati da Machiavelli nel Principe), non al principe. Il modello di
principe che emerge dal trattato – ribadiamo – rimane un modello di principe ideale, se-
condo la tradizione umanistica. La virtù del principe è la virtù classica e in parte anche cri-
stiana, una virtù cioè intesa secondo l’etica convenzionale, non già la virtù intesa da Ma-
chiavelli come capacità di selezionare e adottare dei mezzi, quali che siano, adatti alla realiz-
zazione di un progetto politico.

Laboratorio 1 Riassumi schematicamente per punti principe virtuoso: distingui tra quelle che
COMPRENSIONE l’argomentazione di Ottaviano, indivi- individuano precisi comportamenti (ad
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE duando le tesi fondamentali. esempio liberalità) e quelle generiche (via
2 Sottolinea nel testo le espressioni che in- della virtù, bon principe).
dicano le qualità che caratterizzano il
784 © Casa Editrice Principato
23. La trattatistica morale: Erasmo, Bembo e Castiglione VERIFICA

VERIFICA

23.1 Il punto su un (macro)genere

1 Che ruolo assolve la trattatistica nel sistema letterario rinascimentale? Quali sono i princi-
pali temi che affronta?
2 Quali sono le principali caratteristiche e le principali varietà della forma dialogo? Quale
significato simbolico essa assume nel contesto rinascimentale?

23.2 Erasmo da Rotterdam e la follia

3 Illustra sinteticamente l’argomento dell’Elogio della Follia di Erasmo da Rotterdam.


4 In che senso si può parlare, per l’Elogio della Follia di un’opera complessa e ambigua? Quali
problemi di interpretazione pone? Che cosa si intende per «ambiguità strutturale»?
5 Illustra brevemente alcune interpretazioni contrastanti dell’Elogio della Follia.
6 Illustra la tesi di Bainton secondo cui l’Elogio della Follia è un contemptus mundi ironico,
cioè non più medievale.
7 Illustra brevemente la tesi secondo cui l’Elogio della Follia è l’Utopia di Erasmo.
8 Che cosa significa che Erasmo «sembra insomma propugnare un pacato distacco dalle cose
del mondo [...] salvo però riconoscere anche l’inevitabilità del tributo da pagare alla Follia»?
9 Quali elementi di satira dei costumi sono riconoscibili nell’Elogio?

23.3 Bembo e l’amor platonico

10 Che cosa si intende con «amor platonico»?


11 Quali sono le fonti filosofiche della teoria rinascimentale dell’amor platonico?
12 Quali autori (e in quali opere) la sostengono o la illustrano?
13 In che cosa si distinguono i Dialoghi d’Amore di Leone Ebreo dalle altre opere sul medesi-
mo tema?
14 Illustra le tesi essenziali dei Dialoghi d’Amore di Leone Ebreo.
15 Spiega il concetto che «amore è desiderio di bellezza».
16 Quali sono le diverse forme di bellezza che l’uomo può desiderare di contemplare?
17 Attraverso quali stadi si giunge al perfetto amore?
18 Che cosa significa che la bellezza terrena è una debil umbra di quella ideale ed eterna?
19 A chi Castiglione nel Libro del cortegiano attribuisce il compito di illustrare la dottrina del-
l’amor platonico?
20 Quali concezioni dell’amore espone Bembo negli Asolani?
21 Quale delle diverse tesi pare soprattutto avvalorare Bembo negli Asolani?

23.4 Castiglione e il perfetto cortigiano

22 In che senso si può sostenere che Il libro del cortegiano è un grande libro europeo?
23 Quali argomenti vengono trattati nel Cortegiano?
24 Quale ideale di uomo propone Castiglione nel Cortegiano? Che rapporti ha questo ideale
con la cultura umanistico-rinascimentale?
25 Illustra i concetti di grazia, sprezzatura e affettazione, presenti nel Cortegiano.
26 Quale problema di interpretazione pone il quarto libro del Cortegiano?
27 Qual è, secondo Castiglione, il fine del perfetto cortegiano?
28 Illustra brevemente i rapporti tra Castiglione, Machiavelli e Guicciardini.
29 Che cosa sostiene Guicciardini a proposito delle leggiadrie del cortegiano?

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Quattrocento e Cinquecento

Ludovico Ariosto
24

no questa interpretazione (dal 1503 al 1517 fu al ser-


vizio del cardinale Ippolito d’Este e poi del Duca
Alfonso; dal 1522 al 1525 assolse un difficile e con-
trastato incarico di commissario ducale in Garfagna-
na). Gli anni successivi alla rottura col cardinale Ip-
polito e soprattutto quelli dell’esperienza garfagnina
costituiscono nella vita di Ariosto un momento di cri-
si, che si riflette nella sua opera letteraria: ad esem-
pio nelle Satire, luogo di una riflessione sulla società
e sul potere, ispirata talora a un intenso moralismo e
a un’aspra polemica. Solo negli ultimi anni, rientrato
a Ferrara e impegnato in attività a lui più congeniali
come quella di organizzatore degli spettacoli teatrali
di corte, Ariosto riuscì a conquistarsi una maggiore
n Ritratto di Ludovico Ariosto Un tempo Ludovico Ariosto (1474-1533) veniva tranquillità di spirito.
(1525) di Jacopo Palma il descritto come un personaggio appartato, contem- Le opere minori – Rime, Satire, Commedie – non
Vecchio.
plativo, interessato solo all’evasione negli universi sono solo testi che documentano gli interessi pratici
n Dosso Dossi, Alcina come
maga Circe (Galleria Borghe- fantastici della cavalleria. La critica recente ha del poeta cortigiano o i suoi sfoghi personali, né sono
se, Roma). profondamente modificato questa immagine del poe- utili solo per contestualizzare e meglio comprendere
ta, riconoscendogli doti di concretezza, di pragmati- l’Orlando furioso, il suo capolavoro. Esse certo in
smo, di acuta analisi del reale e della sfera socio-po- gran parte costituiscono un esercizio che si ispira ai
litica contemporanea in particolare, nonché un animo modelli e ai valori della tradizione, ma presentano
virile, partecipe degli eventi in cui si trova coinvolto. anche tratti originali, soprattutto nel senso di un at-
La saggezza, l’armonia etica, l’equilibrio che le sue tento e acuto interesse per i fenomeni sociali e politi-
opere trasmettono appaiono insomma, sul piano bio- ci della realtà circostante. Letterarietà e attenzione
grafico, una faticosa conquista. I suoi non sempre fa- alla realtà, insomma, sono aspetti essenziali di que-
cili rapporti col mondo della corte estense conferma- ste opere, così come del Furioso. Sia le Satire che le

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24. Ludovico Ariosto STORIA

n Gerolamo da Carpi, Rug-


gero sull’ippogrifo scorge An-
gelica incatenata.

(i molti riferimenti alla realtà socio-culturale del Cin-


quecento o a problemi morali più generali, il tema del
caso che domina le vicende umane e spesso delude
le attese e vanifica gli sforzi e la ‘virtù’ stessa dei
personaggi, l’assenza di una qualsiasi prospettiva
provvidenzialistica, ecc.) trasmettono una concezione
del mondo pessimistica e scettica, laica e consape-
vole della crisi storica, politica e sociale attraversata
dall’Italia e della stessa crisi dei valori della cultura
umanistica (che pure Ariosto persegue e in cui non
cessa di credere). L’antica e fascinosa materia caval-
leresca, molto apprezzata alla corte estense, appare
così capace di trasmettere, in filigrana, una riflessio-
ne sull’uomo contemporaneo, sui suoi problemi mo-
rali e sociali, che fa del Furioso il romanzo delle pas-
sioni e delle aspirazioni di Ariosto medesimo e in ge-
nere degli uomini del suo tempo.
Molti aspetti formali del poema (il controllo strut-
Commedie, per diversi motivi, risultano inoltre impor- turale dell’opera, solo apparentemente “aperta” e
tanti nella storia letteraria cinquecentesca, perché certo non disorganica, gli interventi ironici del narra-
inaugurano o rinnovano due generi fino allora poco o tore, la sua funzione di regia, la variazione continua
punto praticati nella letteratura volgare. dei registri, l’elaborazione stilistica e retorica, ecc.)
Il Furioso è il capolavoro indiscusso di Ariosto, e rivelano gli strumenti retorici che Ariosto seppe uti-
forse l’opera che meglio sintetizza lo spirito rinasci- lizzare per dominare e armonizzare una materia in-
mentale. Ma conformemente alla nuova e più com- tricata e tutt’altro che evasiva e pacifica. È attraverso
plessa immagine che del Rinascimento si è accredi- il dominio dell’arte che, anche nel Furioso, Ariosto
tata in questi ultimi anni, il Furioso non appare più riesce ad esorcizzare il negativo che percepisce nella
come il poema di un’armonia al di fuori dello spazio realtà conquistando un difficile equilibrio e una com-
e del tempo. Numerosi elementi tematici del Furioso plessa armonia.

n Niccolò dell’Abate, Parti-


colare da un ciclo di affreschi
dedicato all’Orlando furioso
(Pinacoteca Nazionale di Bo-
logna).

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Quattrocento e Cinquecento

24.1 «Una saggezza dolorosamente sperimentata»


La formazione alla corte degli Estensi Ludovico Ariosto nacque a Reggio Emilia nel 1474. Fu il
padre, un funzionario degli Estensi, a introdurlo fin da giovane a corte. Tra il 1489 e il
1494 egli studiò svogliatamente diritto presso lo Studio ferrarese, mentre negli anni
successivi ebbe ben più proficui contatti con i vari e prestigiosi letterati e umanisti
gravitanti attorno alla corte (sopra tutti Pietro Bembo, a Ferrara tra il 1498 e il 1499 e
poi tra il 1502 e il 1503). La corte fu dunque anche per Ariosto luogo di formazione,
centro di gravitazione, obiettivo della carriera cui il padre intendeva avviarlo. Appar-
tengono a questi anni la maggior parte delle liriche latine e alcune di quelle volgari.
La morte del padre e le difficoltà economiche Nel 1500 muore il padre, lasciando a lui, primoge-
nito di dieci tra fratelli e sorelle, l’intera famiglia a carico e una situazione economica
non florida. Questo grave trauma determina la prima svolta nella vita di Ariosto. I
problemi concreti del bilancio familiare si fanno pressanti e la carriera a corte una ne-
cessità ineluttabile: svariati anni più tardi nella Satira III dirà che se avesse potuto di-
sporre per sé solo del patrimonio paterno, invece di dividerlo fra tutti i fratelli, non si
sarebbe mai piegato agli obblighi cortigiani.
Al servizio del cardinale Ippolito d’Este (1503-1517) Nel 1503 entra al diretto servizio del cardi-
nale Ippolito d’Este, presso cui rimarrà fino a quando, nel 1517, si rifiuterà di seguirlo
in Ungheria, sede del suo vescovado, troncando ogni rapporto con lui. Di questa espe-
rienza, durata poco meno che un quindicennio, abbiamo i recisi e aspri giudizi for-
mulati da Ariosto stesso nelle Satire. Nella Satira I rappresenta il cardinale come insen-
sibile a ogni valore e merito artistico, gretto e avaro, preda dei cortigiani adulatori;
qualifica il proprio incarico come quello di un cameriere, dicendo di non sapersi
adattare a mettere e togliere stivali e sproni [R T 24.1 ]; nella Satira VI sostiene di sentir-
si un cavallaro per i continui, faticosi e pericolosi incarichi e spostamenti che gli erano
imposti («non mi lasciò fermar molto in un luogo, / e di poeta cavallar mi feo...») e
definisce il servizio nel suo complesso un giogo.
Bisogna tuttavia dire che questi giudizi sono formulati, dopo la rottura con il car-
dinale, in anni difficili e amari per il poeta, e forse non rappresentano fedelmente né lo
stato d’animo con cui Ariosto durante quegli anni assolse il suo servizio, né la natura
di questo. Vero è infatti che egli dovette spesso farsi cavallaro per recarsi ad esempio a
Urbino,Venezia, Firenze e Roma, e in qualche caso corse pure seri rischi: come quan-
do fra il 1509 e il 1510, recatosi a Roma per ottenere la revoca della scomunica inflit-
ta da Giulio II al cardinale, venne minacciato d’esser gettato ai pesci, o quando nel
1512, col duca, dovette fuggire a precipizio per le ire del medesimo Giulio II, deciso a
non riconciliarsi con gli Estensi. Ma le missioni erano d’una certa importanza e, pro-
prio perché delicate e rischiose, richiedevano persone di fiducia: l’espressione farsi ca-
vallaro insomma degrada e tinge di servile un compito che non sempre era tale.
La composizione dell’Orlando furioso Proprio negli anni di servizio presso il cardinale Ariosto ebbe il
tempo di concepire, comporre e pubblicare l’Orlando furioso (1516). Sono dunque questi
anni solo relativamente difficili, e certo, sul piano dell’arte, assai produttivi. Il cardinale,
poi, fece ottenere ad Ariosto un beneficio ecclesiastico, connesso alle rendite della Can-
celleria Arcivescovile di Milano.
Al servizio del duca Alfonso (dal 1518) Pubblicato il Furioso, nel 1517 interrompe il servizio presso
Ippolito d’Este. È un’altra svolta nella vita di Ariosto, con la quale si apre un periodo
davvero tormentato e difficile, che non investe solo Ariosto ma anche il ducato Esten-
se e l’Italia tutta. Si aggrava infatti la crisi politica italiana, con gli Stati della penisola
impotenti di fronte alla lotta fra Carlo V e Francesco I, che mette in gioco la loro stes-
sa esistenza. Per Ferrara sono anni di difficili rapporti e persino di guerra con il papa-
to; per Ariosto sono anni di difficoltà economiche, problemi familiari, liti giudiziarie

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24. Ludovico Ariosto STORIA

con i suoi signori. Nel 1518 accetta per necessità di entrare al servizio del duca, ma,
negli anni di guerra, lo stipendio arriva in modo saltuario, poi si interrompe, e anche
le spettanze del beneficio ecclesiastico milanese si fanno attendere.
Un arduo e sgradito incarico in Garfagnana (1522-1525) Cessata l’emergenza, la situazione non
migliora: il duca tarda a ripristinargli lo stipendio e alle lamentele del poeta nel 1522
risponde affidandogli un incarico arduo, il commissariato della Garfagnana (un terri-
torio di confine, da poco ritornato sotto il dominio estense, turbolento e infestato di
banditi), che per di più lo priva dell’opportunità di risiedere a Ferrara, dove fra l’altro
viveva l’amata Alessandra Benucci. L’incarico che gli viene affidato è il commissariato
della Garfagnana, un territorio di confine, da poco ritornato sotto il dominio estense,
turbolento e infestato di banditi. Nuovamente Ariosto è costretto dalle circostanze, sia
pure assai malvolentieri, ad accettare un incarico quel che nella Satira IV definisce un
«dono... grande, / ma non molto conforme al mio desio».
In Garfagnana Ariosto starà per tre anni, fino al 1525, mettendo in luce «rare virtù
di amministratore preciso e avveduto, di abile diplomatico, capace di alternare al mo-
mento giusto la forza all’astuzia». Da questa esperienza emerge un Ariosto «fieramen-
te virile, consapevole delle proprie responsabilità verso la popolazione garfagnina,
pronto ad applicare con intransigente fermezza la legge ducale benché i mezzi d’in-
tervento fossero insufficienti» (Caretti). Le lettere di questo periodo documentano
senza veli letterari (si tratta di lettere non destinate alla pubblicazione) che anche que-
ste virtù e questi comportamenti furono una conquista faticosa. Solo col tempo emer-
gono quelle doti di pietas umana, di sagacia amministrativa, di spregiudicatezza politi-
ca, di franca fermezza nei confronti del duca, di cui ha parlato Caretti.
La composizione delle Satire e dei Cinque canti Negli anni critici successivi alla rottura con il cardi-
nale, tra il 1517 e il 1525 appunto, Ariosto scrisse le Satire che ben documentano il
fondo di amarezza, di disilluso pessimismo, e, a tratti, di più cupi livori e asprezza po-
lemica, con cui egli affronta le esperienze e le prove che gli riserva la sorte. Ma le Sa-
tire documentano anche lo sforzo di controllare i propri stati d’animo dando a essi for-
ma letteraria e mitigando la vis polemica e il sarcasmo con l’ironia. Probabilmente so-
no di questo periodo anche i cosiddetti Cinque canti, dissonante «giunta» al Furioso, più
tardi interrotta e mai immessa nel corpo del poema, perché Ariosto stesso dovette ac-
corgersi che i toni cupi, grevi e tragici del frammento mal si conciliavano con il clima
della prima stesura del Furioso. Tra il 1519 e il 1520 infine compone due commedie, Il
Negromante e I studenti (incompiuta), e parte delle rime in volgare.
Gli ultimi più sereni anni: il ritorno a Ferrara e le nozze segrete Con il ritorno a Ferrara si apre
un periodo più sereno per Ariosto, che coincide, dopo il 1527-1528, con un migliora-
mento della situazione politica: il duca gli affida incarichi più congeniali, fra cui quel-
lo di organizzare gli spettacoli teatrali di corte. Ariosto a questo proposito riscrive in
versi due commedie giovanili, la Cassaria e i Suppositi, rielabora il Negromante e scrive
ex novo, nel 1528, la Lena. Riprende anche a lavorare al Furioso: dopo l’edizione del
1521, scartata l’ipotesi della «giunta» dei Cinque canti (a cui però ancora lavora nel
1527-1528), prepara l’edizione definitiva, aggiungendo nuovi episodi e rivedendo ul-
teriormente la lingua alla luce della norma bembiana. L’edizione che vede la luce nel
1532 si mostra, anche negli episodi aggiuntivi e nel lavoro correttorio, in linea con lo
spirito del primo Furioso, segno che, sia pur faticosamente, l’equilibrio e la saggezza
che i lettori del poema da sempre riconoscono al suo autore potevano ormai dirsi una
conquista realizzata. Gli ultimi anni gli concedono anche un relativo equilibrio affetti-
vo e familiare: il poeta sposa, segretamente e senza convivere con lei, Alessandra Be-
nucci, con cui aveva una relazione dal 1513, si stabilisce nella casetta di Mirasole, ha fi-
nalmente più tempo per dedicarsi alle sue occupazioni predilette. La morte lo coglie a
Ferrara il 6 luglio del 1533.
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Quattrocento e Cinquecento

24.2 Le liriche latine e le Rime


L’apprendistato umanistico e le liriche latine Alla giovinezza di Ariosto, fino agli anni 1502-1503,
appartengono quasi per intero le liriche latine, che sono in buona misura prove scola-
stiche, e dipendono piuttosto rigidamente da modelli antichi e umanistici. Eppure, in
questi componimenti di apprendistato letterario, si possono individuare aspetti temati-
ci che rivelano nel giovane Ariosto una conoscenza del mondo della corte ferrarese,
un interesse per i gravi avvenimenti storici che, sul finire del Quattrocento, stavano
mutando e mettendo a repentaglio l’assetto politico-istituzionale della penisola italia-
na, e infine una visione non del tutto convenzionale dell’amore nei suoi aspetti di pas-
sione irrazionale. Insomma, anche nell’apprendistato umanistico e poetico di Ariosto si
insinua il senso della realtà, e di una realtà non pacifica.
Le Rime volgari e i rapporti col petrarchismo Qualcosa di analogo si potrebbe forse sostenere an-
che per le liriche volgari, sia pur con più esclusivo riferimento alla tematica amorosa,
qui dominante: anche in questo la critica ha individuato un rapporto tra realtà e let-
teratura più intenso e articolato che in molti altri autori contemporanei. Nel com-
plesso Ariosto segue il codice petrarchistico nella sua evoluzione quattro-cinquecen-
tesca, dai modelli della lirica «cortigiana» a quello riformato e regolarizzato dal Bem-
bo. Le Rime di Ariosto rivelano però «un contenuto umano assai più ricco e comples-
so» di quello dei petrarchisti del tempo, incentrato sul «senso dell’irrazionale potenza
della passione amorosa, dell’attrazione fisica della donna, del tormento della gelosia»
(Bigi). In particolare, la presenza di un senso tormentoso dell’esperienza amorosa e di
un sensualismo allusivo ma schietto sembra talora orientare questa poesia in direzione
di un maggiore realismo. Inoltre, l’irrompere di una maliziosa ironia sembra a tratti
voler smascherare la finzione letteraria, e comunque evidenzia la «coscienza dell’irri-
ducibilità della propria esperienza» entro gli schemi petrarchistici» (Bigi).

Doc 24.1 O sicuro, secreto e fidel porto

L. Ariosto, Troviamo in questo sonetto un esempio canonico di questa disposizione del poeta e dei
Rime suoi rapporti col petrarchismo.
2 fuor... pelago: in sal-
vo da un vasto mare. – stel- O sicuro, secreto e fidel porto,
le: gli occhi dell’amata per dove, fuor di gran pelago, due stelle,
metafora. le più chiare del cielo e le più belle,
4 cieca: oscura, tene-
brosa. – m’han scorto: mi 4 dopo una lunga e cieca via m’han scorto;
hanno guidato. ora io perdono al vento e al mar il torto
6 procelle: tempeste.
7-8 poi... conforto: poi-
che m’hanno con gravissime procelle
ché se non fosse stato per fatto sin qui, poi che se non per quelle
quelle tempeste io non 8 io non potea fruir tanto conforto.
avrei potuto godere della O caro albergo, o cameretta cara,
gioia del raggiungimento
del porto. ch’in queste dolci tenebre mi servi
11 d’ogni... chiara: una 11 a goder d’ogni sol notte più chiara,
notte più chiara di ogni so- scorda ora i torti e i sdegni acri e protervi:
le; a rischiarar la notte è,
come si vedrà, l’amata che ché tal mercé, cor mio, ti si prepara,
già in Petrarca «pò far chia- 14 che appagarà quantunque servi e servi.
ra la notte, oscuro il gior-
no» (Canz., CCXV, 13).
13 mercé: ricompensa. Il sonetto muove da un’evidente reminiscenza petrarchesca: «O cameretta che già fosti
14 che... servi: che ti ri- un porto / a le gravi tempeste mie dïurne, / fonte se’ or di lagrime nocturne, / che ’l dì
pagherà di tutto quanto
hai sofferto col tuo servi- celate per vergogna porto...» (Canz., CCXXXIV). La metafora prolungata della nave nel
zio amoroso. mare in tempesta è condotta poi riprendendo motivi svolti da Petrarca anche altrove. Tut-
tavia qui Ariosto capovolge il senso di questi componimenti petrarcheschi mettendo in lu-
ce, fin dall’inizio, il momento di pacificazione che l’entrare in porto guidato dalle due lu-

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24. Ludovico Ariosto STORIA

minosissime stelle comporta. Fuor di metafora, le stelle sono gli occhi dell’amata, il mare
in tempesta è l’affanno della passione amorosa, l’ingresso in porto l’essere ricambiato dal-
l’amata dopo l’indifferenza o peggio (torti e sdegni, v. 12). Fin qui tutto secondo un copio-
ne abbastanza prevedibile: ma con gli ultimi due versi si insinua una nota di maliziosa sen-
sualità. Si intuisce che la mercé che si prepara all’innamorato è qualcosa di più d’una ge-
nerica e platonica corresponsione: la cameretta ariostesca così si colora, a posteriori, di ri-
flessi assai diversi da quelli petrarcheschi – non senza una lievissima ironia – divenendo, da
«fonte... di lagrime nocturne», sede forse di un notturno convito.

24.3 Le Satire
Le Satire: autobiografia, società e letteratura Le Satire, composte tra il 1517 e il 1525, vanno ricon-
dotte alla situazione spirituale dell’Ariosto negli anni critici successivi all’abbandono
del servizio presso il cardinale Ippolito per meglio comprenderne i toni talora esaspe-
rati e il moralismo a tratti acre. Ma non è possibile ridurle a mero documento biogra-
fico, perché anzi determinanti per interpretarle correttamente sono proprio la loro na-
tura schiettamente letteraria e il consistente influsso dei modelli classici del genere.
Le Satire sono sette componimenti di tono colloquiale, in terzine, indirizzati ad ami-
ci e conoscenti, che muovono sempre da un dato o da un evento autobiografico: «i suoi
fatti privati, i suoi pensieri, le sue decisioni e scelte, che inseguono un ideale di moralità
misurato e cordiale» (Longhi). Il discorso si allarga poi ad analisi di una più ampia realtà
sociale, culturale e politica, e a considerazioni, per lo più moralistiche, sugli uomini in
quella realtà coinvolti. Partendo dal privato, Ariosto tocca insomma anche temi di por-
tata più generale, come la corruzione della curia pontificia, l’adulazione dei cortigiani, la
durezza e insensibilità dei signori, i vizi degli umanisti, i difetti delle donne o la smoda-
ta caccia agli onori e ai benefici ecclesiastici.
I temi delle Satire Nella Satira I, del 1517, prendendo spunto dal suo rifiuto di seguire il cardinale Ip-
polito in Ungheria, Ariosto polemizza contro il cardinale e i suoi cortigiani: signore
gretto e poco sensibile l’uno, avidi adulatori gli altri. Nella Satira II, pure del 1517, in
occasione di un viaggio a Roma, egli descrive la vita corrotta del mondo ecclesiastico
e della curia papale in particolare. Nella Satira III, del 1518, in occasione della sua as-
sunzione al servizio del duca Alfonso, descrive questo incarico come il male minore e
prende spunto per colpire duramente i cortigiani a caccia di benefici e onori. Nella
Satira IV, del 1523, racconta le esperienze del suo commissariato in Garfagnana, la-
mentando la lontananza dalla patria. Nella Satira V, di incerta datazione (ante 1519?),
tratta dei vantaggi e degli svantaggi del prender moglie. Nella Satira VI, del 1524-1525,
indirizzata a Pietro Bembo, che doveva procurargli un precettore per il figlio Virginio,
discorre dell’educazione e dei vizi degli umanisti. Nella Satira VII, del 1524, motivan-
do il rifiuto a recarsi come ambasciatore presso il papa, ritorna sul tema della nostalgia
della vita tranquilla che conduceva a Ferrara (è ancora in Garfagnana) e sulla caccia
agli onori da parte dei cortigiani.
Modelli letterari delle Satire I modelli letterari delle Satire sono soprattutto le Epistole e le Satire ora-
ziane, ma anche i capitoli in terzine quattrocenteschi e persino la Commedia dantesca.
Particolarmente influente appare però il modello latino oraziano, «per la mescolanza
di ricordi autobiografici e di riferimenti alla società contemporanea, per il tono collo-
quiale ma non privo di scatti irosi, per il linguaggio misto di espressioni realistiche e
auliche, per il ritmo volutamente prosastico, per l’inserimento delle favole» (Bigi), ma
anche per l’ideale supremo di una vita tranquilla e serena e per più precisi topoi, quale
ad esempio quello del prandere olus “mangiar ortaggi a colazione”, della rinuncia cioè
ai sontuosi banchetti dei prìncipi pur di garantirsi libertà di spirito e indipendenza
(Satira I e III).
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Quattrocento e Cinquecento

Doc 24.2 A me piace abitar la mia contrada

40 Chi brama onor di sprone o di capello, Chi brama dignità cavalleresche o ecclesiastiche, serva
serva re, duca, cardinale o papa; pure re, duca, cardinale o papa; io no, che poco sono in-
io no, che poco curo questo e quello. teressato alle une e alle altre. Preferisco mangiare in casa
In casa mia mi sa meglio una rapa mia una rapa, che cuocio da me e una volta cotta infilzo
ch’io cuoca, e cotta s’un stecco me inforco, su uno stecco, pulisco e cospargo poi di aceto e salsa,
45 e mondo, e spargo poi di acetto e sapa, piuttosto che tordo, starna o cinghiale in casa d’altri; e
che all’altrui mensa tordo, starna o porco così sotto una povera coperta mi corico volentieri, come
selvaggio; e così sotto una vil coltre, se fosse di seta intessuta d’oro.
come di seta o d’oro, ben mi corco.
E più mi piace di posar le poltre E preferisco riposare le mie pigre membra, che di po-
50 membra, che di vantarle che alli Sciti termi vantare che esse siano state presso gli Sciti, o gli In-
sien state, agli Indi, alli Etiopi, et oltre. di, o gli Etiopi o ancor più lontano. I desideri degli uo-
Degli uomini son varii li appetiti: mini sono vari: a chi piace la condizione ecclesiastica, a
a chi piace la chierca, a chi la spada, chi quella militare, a chi la patria, a chi i paesi stranieri.
a chi la patria, a chi li strani liti. Chi vuol viaggiare, viaggi: veda Inghilterra, Ungheria,
55 Chi vuole andare a torno, a torno vada: Francia e Spagna; a me piace abitare nella mia contrada.
vegga Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna;
a me piace abitar la mia contrada.

40 capello: è il cappello cardinalizio. L. Ariosto, Satira III, vv. 40-57(vers. in prosa di Turolla)
45 sapa: salsa di mosto cotto.

Un genere nuovo per la letteratura italiana Anche se nascono sotto il segno della poetica dell’imi-
tazione, si deve tuttavia riconoscere che le Satire ariostesche costituiscono un genere
sostanzialmente nuovo per la tradizione letteraria italiana. Le Satire di Ariosto appaio-
no innovative soprattutto per ragioni di ordine strutturale: «nuova è la funzione epi-
stolare-colloquiale che determina a volte l’inserzione di veri e propri dialoghi, nuovo
è quel partire sempre da un fatto autobiografico per allargare il discorso a considera-
zioni moralistiche su determinati vizi o atteggiamenti umani, esemplificati a volte an-
che con apologhi o rassegne di personaggi contemporanei realisticamente descritti»
(Tissoni Benvenuti). La ripresa stessa del modello oraziano è poi tutt’altro che ovvia a
inizio Cinquecento. Senza contare che quello oraziano è contaminato con altri e più
recenti modelli, e rafforzato e colorito in senso più aspro.
Una chiave interpretativa: il freno dell’arte e l’urgenza delle passioni A noi pare che sia da rile-
vare e valorizzare il dinamico contrasto tra una materia talora incandescente e urgen-
te e la volontà di controllarla nella forma e di dominarla artisticamente. Da un lato
Ariosto adotta la concezione classicistica e rinascimentale dell’arte, che impone di
porre un freno all’urgenza delle passioni e che insegna le tecniche di controllo forma-
le. Ma dall’altro lato c’è l’esperienza concreta di una realtà a tratti dolorosa e ingiusta
che determina i non pochi scatti d’ira, un atteggiamento spesso acremente moralistico
e un tono, infine, che sovente tocca un sarcasmo non immemore di Dante. E c’è an-
che, nel passaggio dal privato al pubblico che abbiamo già notato, un’analisi cruda-
mente realistica di una precisa realtà storico-politica che soprattutto riguarda i mecca-
nismi di potere e i comportamenti cortigiani. Insomma, non bisogna confondere il
controllo formale con la bonomia, lo smorzamento degli eccessi polemici con la sere-
nità e la pacatezza, né del resto il dominio morale di sé con la serenità o l’ottimismo.
Gli intellettuali e la corte Più in particolare, parlando di sé, Ariosto fornisce anche un quadro effica-
ce dei più generali rapporti tra signori e cortigiani: e lo fa con lucidità e concretezza,
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24. Ludovico Ariosto STORIA

Doc 24.3 Un signore che usa la volpe e il leone

L. Ariosto, Satira IV, Notevole è, ad esempio, questo ritratto (dalla Satira IV) di un signore che conquista il po-
vv. 94-106 tere prima con l’astuzia, blandendo il popolo ed esiliando, o sopprimendo, gli avversari po-
litici, poi con l’aperta violenza, misconoscendo ogni valore e macchiandosi di ogni delitto,
senza per giunta neppure saper riconoscere i buoni dai cattivi poeti, cioè «stima il corbo ci-
gno e il cigno corbo». Un episodio, come ha scritto Cesare Segre, che, oltre a precise remi-
niscenze, ha nel suo complesso «toni machiavellici».

Laurin si fa de la sua patria capo, Laurino diventa signore della sua patria, e converte
95 et in privato il publico converte; l’erario pubblico in beni privati; tre manda al confino, a
tre ne confina, a sei ne taglia il capo; sei fa tagliare il capo; comincia volpe, quindi facendo
comincia volpe, indi con forze aperte apertamente uso della forza si converte in leone, dopo
esce leon, poi c’ha ’l popul sedutto aver sedotto il popolo tollerando comportamenti licen-
con licenze, con doni e con offerte: ziosi, e facendo pubbliche offerte e donazioni: elevando
100 l’iniqui alzando, e deprimendo in lutto ad alte cariche i malvagi e umiliando e offendendo i
li buoni, acquista titolo di saggio, buoni, acquista la nomea di saggio, pur essendosi mac-
di furti, stupri e d’omicidi brutto. chiato di furti, stupri e omicidi. Così onora chi dovreb-
Così dà onore a chi dovrebbe oltraggio, be oltraggiare, e il suo miope giudizio, mai illuminato
né sa da colpa a colpa scerner l’orbo da un raggio di sole, non sa distinguere fra colpa e col-
105 giudizio, a cui non mostra il sol mai raggio; pa; e stima cigno il corvo e il corvo cigno.
e stima il corbo cigno e il cigno corbo;
[…]

94 Laurin: probabilmente Lorenzo de’ Medici, duca d’Urbino.


97-8 comincia… leon: probabile allusione a un passo del Principe di Machiavelli.

nei toni ora della pacata ironia, ora del feroce sarcasmo, ora di un sobrio realismo, ora
di un esasperato moralismo. Ai signori, oltre alla scarsa lungimiranza nel riconoscere i
buoni dai cattivi poeti, come si è visto, rimprovera con asprezza anche la scarsa gene-
rosità con cui trattano i poeti, gli unici in grado attraverso la loro opera di sottrarli al-
l’oblio del tempo (Sat. III). Li rimprovera di avere vista e memoria corte, dimentican-
do, una volta saliti al potere, gli amici di un tempo, perché l’assunzione del potere por-
ta con sé oneri e debiti di riconoscenza verso le tante persone in vario modo influen-
ti che li hanno favoriti e non lascia spazio alla generosità gratuita. Il poeta amico si
trova pertanto nella condizione della gazza dell’apologo che per quanto cara al suo pa-
drone, non essendo di alcuna utilità pratica, vien messa in fondo alla lista di quelli che
si devono abbeverare alla fonte e rischia di morir di sete (Sat. I [R T 24.1 ]). Ariosto però
stigmatizza, più ancora dei potenti, i cortigiani poco dignitosi e gli adulatori che fan-
no a gara per spartirsi le briciole di quel potere, per mostrarsi a cena coi signori, per
ottenere qualche gratificazione; e i cattivi poeti che in definitiva snaturano la poesia,
privandola delle sue più nobili funzioni e assoggettandola al vile interesse. In questo
senso va letta anche la celebre allegoria del tempo e dei poeti nel canto XXXV del-
l’Orlando furioso, in cui biasima i poeti cortigiani che si fanno adulatori dei potenti an-
che quando questi sono del tutto indegni delle lodi che vengono loro attribuite. Giu-
stamente Christian Bec osserva che il senso complessivo dell’analisi e della protesta di
Ariosto ha come punto di riferimento un diverso statuto dell’intellettuale, cui venga-
no riconosciuti i meriti effettivi, misurati sul piano dei valori poetici più autentici; ma
ad Ariosto non dovette sfuggire che si trattava di un’utopia, che non si poteva realisti-
camente chiedere, se non in casi eccezionali, ai potenti di saper discernere tra poesia
grande e poesia di circostanza, tra cigni e corbi. Così sul piano pratico egli accettò il
proprio ruolo, consapevole che solo il tempo può render ragione a chi ha veramente
bevuto alla fonte di Parnaso.
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Quattrocento e Cinquecento

Le Satire, al di là degli schermi letterari che adottano proprio per meglio tenere a
freno le passioni, ci trasmettono insomma anche un’impietosa, consapevole visione del
mondo morale, sociale e politico in cui Ariosto si trovò a vivere, che non va né disco-
nosciuta né attenuata. Nel diagramma della produzione ariostesca le Satire segnano, as-
sieme ai Cinque canti, il momento di massima inquietudine.

24.4 Le Commedie
Le Commedie fra tradizione e innovazione Anche alle Commedie ariostesche si deve riconoscere una
notevole importanza storico-letteraria e una funzione innovativa nel panorama lette-
rario coevo.
Le Commedie fra modelli classici e realtà contemporanea La Cassaria e I Suppositi, nella redazione
in prosa, composte e rappresentate la prima volta tra il 1508 e il 1509, sono i primi
esempi di commedia regolare in lingua volgare, successivi solo alle rappresentazioni di
testi classici e a sporadici esempi di commedie originali in latino. L’influsso della com-
media classica, soprattutto su queste prime prove, è indubbiamente assai forte, anzi de-
terminante. Ariosto utilizza meccanismi drammatici (scambi di persona, equivoci situa-
zionali e verbali, agnizioni ecc.) e personaggi (il servo scaltro, il vecchio avaro, il paras-
sita ecc.) della commedia di Plauto e di Terenzio, e ne riecheggia situazioni particolari.
Pur nella sostanziale dipendenza dai modelli è però possibile rintracciare una certa ori-
ginalità nella rappresentazione del mondo plebeo (Cassaria) e studentesco e borghese
(Suppositi) che rispecchia la realtà cittadina direttamente conosciuta e osservata con cu-
riosità da Ariosto. Se nella Cassaria la scena è posta in Grecia, nelle successive comme-
die si sposta a Cremona o a Ferrara, nei luoghi della diretta esperienza dell’autore.
Il realismo psicologico e sociale delle ultime commedie Nel Negromante e nella Lena si notano
novità di un certo rilievo. Nel corso degli anni «l’Ariosto venne acquistando non solo
una sempre maggior padronanza dello stile comico e dell’azione scenica, ma una sicu-
rezza sempre più grande nella delineazione dei personaggi che, specialmente nelle due
ultime commedie, si muovono in ambienti ben definiti e caratterizzati con una viva
attenzione alla realtà contemporanea» (Bonora). Si nota anche «una maggior frequen-
za di allusioni satirico-moralistiche alla decadenza dei costumi, e in particolare alla ec-
cessiva libertà delle donne, alla disonestà e rapacità dei magistrati, alla corruzione del-
la Curia romana, alla pederastia degli umanisti». Sul piano stilistico, infine, si riscontra
«il passaggio dalla distesa e colorita prosa di tipo novellistico, al verso, e più esattamen-

▍ Le Commedie

Cinque sono le commedie scritte da Ariosto: La Cassaria (in prosa 1508; in versi 1531), I Suppo-
siti (in prosa 1509; in versi 1532), Il Negromante (1519-1520), I Studenti (1519-1520, incompiuta)
e La Lena (1528). Lungo tutto l’arco della sua vita, dunque, l’Ariosto, che svolse per gli Estensi
attività di organizzatore di spettacoli, di allestitore e perfino di attore, mostrò interesse per il tea-
tro. Gli intrecci, assai complicati, si fondano sulle situazioni, gli espedienti e i meccanismi della
commedia classica latina, che le Commedie ariostesche intendono restaurare in tutta la sua dignità.
Tutte destinate alle scene, vennero rappresentate nel Teatro ducale di Ferrara più volte.
Lena È in particolare nella Lena che la rappresentazione della realtà contemporanea si fa
spregiudicata e incisiva. Questa commedia, che è il capolavoro del teatro ariostesco, racconta la
storia di Flavio, innamorato corrisposto di Licinia, che per potersi segretamente incontrare con
la giovane fa ricorso a Lena, una mezzana, moglie di Pacifico e amante di Fazio, che è il padre di
Licinia. Per organizzare un incontro la mezzana richiede a Flavio un’ingente somma di denaro.
Per procurarsela Flavio manda il servo Corbolo a impegnare la veste e la berretta da un usuraio;
ma Corbolo non si limita a questo: fa credere al padre di Flavio che il figlio sia stato derubato

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24. Ludovico Ariosto STORIA

delle vesti cercando così di procurarsi altro denaro. L’inganno viene però scoperto. Frattanto,
per una serie di circostanze, Flavio, che attendeva notizie del servo in casa di Lena, si vede co-
stretto a nascondersi in una botte e in questa viene casualmente trasportato a casa di Fazio e di
Licinia dove, in assenza di Fazio, l’incontro ha luogo. Il servo Corbolo però rischia di complica-
re la situazione: nel tentativo di spillar nuovamente denaro al padre del suo giovane padrone gli
fa credere che questi sia stato scoperto in adulterio con la mezzana. Il padre si rivolge all’amico
Fazio che essendo l’amante di Lena ne è irritatissimo. Alla fine però anche questo inganno è
scoperto e Flavio e Licinia possono sposarsi mentre Fazio e Lena si riconciliano.

te ad un verso, come l’endecasillabo sdrucciolo, ostentatamente letterario [...] e su-


scettibile di effetti aspri e dissonanti» (Bigi).
Le caratteristiche che abbiamo descritto nel loro complesso riportano queste pro-
ve da un lato alla maturità artistica del poeta e dall’altro a quegli anni critici di spre-
giudicata analisi della realtà e di moralistica riflessione sui comportamenti umani di
cui si è detto.
Letterarietà e pessimismo nelle Commedie Non siamo certo con questi testi, neppure con la Lena, ai
livelli di spregiudicatezza e incisività nello smascheramento della realtà sociale con-
temporanea raggiunti da Machiavelli con la Mandragola, che del resto è un unicum nel
teatro cinquecentesco. Si deve infatti riconoscere la convenzionalità di molti dei temi
e degli spunti moralistici e polemici; e così il rapporto privilegiato (per non dire
esclusivo) che l’autore istituisce con il pubblico cortigiano, che vuole essenzialmente
interessare e divertire, più che muovere a un improbabile sdegno. E tuttavia il fatto che
Ariosto insista su temi come quello della corruzione, che la rappresentazione si faccia
più realistica e più incisivo sia il moralismo rivela nel poeta un più acuto e sperimen-
tato pessimismo e un approfondimento della sua capacità di visione e di rappresenta-
zione del mondo contemporaneo.

24.5 L’Orlando furioso e lo «spirito rinascimentale»


24.5.1 La genesi e la materia del Furioso
La genesi e le tre redazioni del Furioso Concepito come giunta all’Orlando innamorato di Boiardo nei
primi anni del secolo (all’incirca tra il 1504 e il 1506), l’Orlando furioso fu portato a ter-
mine in una prima redazione in 40 canti e pubblicato nel 1516. Allora Ariosto era al
servizio di Ippolito d’Este, cui l’opera fu dedicata (la dedica fu mantenuta nelle succes-
sive edizioni, anche dopo la rottura col cardinale). Presto però Ariosto si accinse a un
lavoro di correzione e di ampliamento; ma la seconda edizione, del 1521, si caratteriz-
za essenzialmente per la revisione linguistica, mentre non risulta modificata la struttu-
ra dell’opera. È probabile che il lavoro di ampliamento meditato e compiuto in questi
anni sfociasse nei cosiddetti Cinque canti (R 24.6), troppo difformi – anche a giudizio di
Ariosto – per tono e stile dal primo Furioso per esservi aggiunti. Nella terza edizione
dell’opera, che è del 1532, compare una giunta effettiva, sostanzialmente omogenea al
primo e al secondo Furioso, o comunque non così dissonante come i Cinque canti: con-
siste in alcuni episodi inseriti in diverse zone del testo e nel finale. Ma il terzo Furioso si
segnala, oltre che per le aggiunte, anche per l’intenso lavoro di revisione linguistica so-
stanzialmente ispirato alle direttive indicate da Bembo nelle Prose della volgar lingua
(adeguamento della lingua ai modelli letterari fiorentini del Trecento).
L’opera, fin dalla sua seconda edizione, e molto più con la definitiva, ebbe imme-
diatamente un grande successo e una vastissima circolazione, testimoniata dall’alto
numero di ristampe, di riedizioni e di traduzioni che si ebbero nel Cinquecento e fi-
no ai nostri giorni.
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Quattrocento e Cinquecento

▍ L’Orlando furioso

Nell’intricatissimo intreccio del Furioso si segnalano tre vicende che, più delle altre, hanno la
funzione di struttura portante dell’opera: la guerra tra cristiani e saraceni; l’inchiesta, la ricer-
ca, di Angelica da parte di svariati cavalieri cristiani e saraceni, ma soprattutto da parte di Or-
lando la cui pazzia, generata dalla delusione amorosa, dà titolo all’opera; e l’amore contrasta-
to fra Bradamante, guerriera cristiana, e Ruggiero, cavaliere saraceno, destinato però a con-
vertirsi e con Bradamante a generare la stirpe degli Estensi (motivo encomiastico). Tutte
queste vicende, e altre, prendono le mosse dalla situazione narrativa nella quale si conclude-
va l’Orlando innamorato (R18.5).
La vicenda della guerra tra cristiani e saraceni, iniziata dall’invasione della Francia da par-
te di Agramante, sostenuto da Marsilio (re di Spagna), Rodomonte (re africano) e Mandri-
cardo (re tartaro), prende l’avvio dall’assedio di Parigi che esalta le doti guerriere di Rodo-
monte; segue poi la riscossa dei cristiani soccorsi da Rinaldo; i saraceni devono così dappri-
ma ripiegare e poi ripassare il mare, ma vengono sbaragliati in uno scontro navale, assaliti
nelle loro stesse terre e definitivamente sconfitti quando, nell’isola di Lipadusa (Lampedusa),
si affrontano in singolar tenzone i campioni delle parti avverse. Più tardi nei pressi di Parigi
anche Rodomonte verrà sconfitto e ucciso da Ruggiero, ormai passato alla fede cristiana.
Il secondo nucleo tematico, incentrato sull’amore di Orlando per Angelica e sulla ricerca
di lei da parte di tanti altri innamorati, prende le mosse [R T 24.2 ] dalla fuga di Angelica dal
campo cristiano, dove re Carlo la faceva custodire per darla a chi, tra Orlando e Rinaldo, si
fosse distinto in battaglia. Fuggendo, Angelica si tira dietro svariati inseguitori, che però in
un modo o nell’altro vengono sviati o comunque impediti per vari accidenti dal portare a
termine l’«amoroso assalto». In virtù di un anello che può renderla invisibile, Angelica, dopo
aver cercato di farsi guidare in patria da Sacripante, decide di proseguire da sola; ma si im-
batte casualmente in Medoro ferito, lo cura, se ne innamora e lo sposa (poi rapidamente
scompare di scena [R T 24.7 ]). Frattanto Orlando è partito all’inseguimento dell’amata, da cui
viene solo temporaneamente distolto per compiere altre imprese; a un certo punto crede di
vederla e viene attirato nel palazzo di Atlante [R T 24.5 ]; quando poi proprio Angelica vanifi-
ca l’incantesimo, egli riprende l’inchiesta, finché, dopo altre avventure e altri sviamenti,
giunge sul luogo dove Medoro e Angelica avevano celebrato il proprio amore incidendo i
propri nomi e altre iscrizioni sui tronchi degli alberi e perfino sui sassi. La scoperta, nono-
stante i tentativi di nascondersi la verità, porta rapidamente Orlando alla pazzia [R T 24.9 ].
Impazzito, il paladino distrugge tutto quel che incontra sul suo cammino, ed è protagonista
di molte iperboliche imprese, finché Astolfo, che è andato sulla Luna a recuperare il senno di
Orlando [R T 24.10 ], gli fa inspirare il contenuto dell’ampolla che ha riportato in terra: Or-
lando rinsavisce e da questo momento combatte contro i saraceni. Anche Rinaldo, che tra le
tante imprese non cessa di cercare Angelica, è scosso dalla notizia del matrimonio dell’ama-
ta, ma di lì a poco capita nuovamente nella selva Ardenna, dove beve alla fontana del disa-
more che gli fa dimenticare Angelica.
Il terzo nucleo, quello dell’amore tra Ruggiero e Bradamante, ha un andamento analogo:
Ruggiero è a varie riprese separato da Bradamante per opera del mago Atlante, che vorreb-
be impedire l’unione tra i due perché ha letto nelle stelle che Ruggiero dovrà morire sette
anni dopo essersi convertito al cristianesimo e aver sposato la bella guerriera. Così Ruggie-
ro è rinchiuso nel castello incantato da cui Bradamante lo libera [R T 24.4 ], ma subito è por-
tato dall’ippogrifo, manovrato da Atlante, nell’isola della maga Alcina, da cui però, grazie al-
l’intervento della maga Melissa, riesce a fuggire; dopo alcune avventure è nuovamente atti-
rato da Atlante in un altro magico palazzo, da cui è liberato per intervento di Angelica
[R T 24.5 ]; seguono numerosissime avventure, fra cui quello della gelosia di Bradamante in se-
guito alla falsa notizia di una relazione fra Ruggiero e Marfisa che sfocia in un duello fra le
due donne, finché decide di passare dalla parte dei cristiani; può così sposare l’amata e venir
nominato re di Bulgaria; infine duella con Rodomonte e lo uccide.

La materia del Furioso: le passioni e le aspirazioni dell’uomo contemporaneo Lanfranco Ca-


retti, in un saggio del 1954, osservava che la «vera materia del Furioso non è costituita
dalle antiche istituzioni cavalleresche ormai scadute nella coscienza cinquecentesca,
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24. Ludovico Ariosto STORIA

ma propriamente da quella moderna concezione della vita e dell’uomo che in ogni


pagina del poema è presente liberamente celebrata». Con il Furioso Ariosto trasforma
insomma «il poema cavalleresco in romanzo contemporaneo, nel romanzo cioè delle
passioni e delle aspirazioni degli uomini del suo tempo».Veniva così a cadere il diffuso
pregiudizio di un Ariosto svagato e perso in fantastiche contemplazioni, o nostalgica-
mente proiettato nel «buon tempo antico»; e la materia cavalleresca poteva apparire un
efficace strumento letterario per veicolare una visione del mondo tutt’altro che disim-
pegnata. E allora è su questo interesse per il proprio tempo e per il proprio mondo
che il lettore d’oggi deve appuntare la propria attenzione, ricercandone i segni al di là
della finzione letteraria e al di sotto delle splendide fantasie dell’universo cavalleresco.

24.5.2 Interpretazione del Furioso: ideologia e temi principali


L’armonia faticosamente conquistata del Furioso Nell’Orlando furioso si deve riconoscere l’opera che
forse meglio di ogni altra sintetizza lo spirito rinascimentale. Ma il mito di un «Rina-
scimento tutto solare» è ormai tramontato, facendo tramontare anche il «mito dell’A-
riosto scrittore per eccellenza apollineo», cioè perfettamente sereno, incline a un otti-
mismo privo di qualsiasi turbamento (Branca). Ad Ariosto, quale emerge dalle pagine
del suo poema, si deve riconoscere una precisa consapevolezza dei limiti esistenziali e
morali dell’uomo e della crisi politica e culturale che investiva la civiltà italiana a ini-
zio Cinquecento. Ma vi ritroviamo anche i segni del raggiungimento di una matura e
consapevole armonia etica, che è dominio di sé e dei propri moti, e di una complessa
armonia stilistica ed espressiva, che è dominio di una materia problematica e di una
forma letteraria difficile.
Come per la personalità ariostesca si è osservato che la saggezza è una conquista
dolorosamente sperimentata, come per le più inquiete Satire si è accennato al dinami-
co contrasto fra l’urgenza della materia e il tentativo di controllo formale, così per il
Furioso si osserva che quell’armonia che indubbiamente lo percorre, quell’equilibrio e
quella saggezza che dal testo promanano non nascono da una visione ingenuamente
ottimistica del reale ma da un’analisi spregiudicata e pessimistica di esso.
Ripresa e distacco dall’Orlando innamorato Ariosto trovava la materia cavalleresca del Furioso già
preordinata, nelle sue caratteristiche d’insieme e in molti dei suoi temi particolari
nella precedente tradizione letteraria. Egli la assumeva, dunque, come un efficace stru-
mento narrativo, in grado per di più di corrispondere alle attese proprie di un pubbli-
co qual era quello cortigiano ferrarese, ancora per molti versi legato ai valori dell’u-
manesimo cortese e cavalleresco che avevano trovato la propria sintesi nell’Innamorato
boiardesco. Boiardo infatti aveva narrato gli amori di Orlando e di altri cavalieri cri-
stiani e saraceni per la bella Angelica e insieme le innumerevoli peripezie a cui costo-
ro erano andati incontro, nei più vari luoghi del pianeta. Ariosto sceglie volutamente
di proseguire questa storia là dove Boiardo l’aveva lasciata interrotta, ma pure si distac-
ca in vario modo dai metodi narrativi e dagli ideali boiardeschi.
Una scelta difficile La scelta di proseguire l’Innamorato in quegli anni non era né scontata né facile. Il
poema di Boiardo, benché sempre letto e apprezzato dal pubblico popolare, negli am-
bienti letterari viveva un momento di sfortuna critica. La materia cavalleresca è ripe-
tutamente oggetto di giudizi sprezzanti che denunciano la vanità e la falsità delle nar-
razioni romanzesche, fitte di insulse fantasie che piacciono esclusivamente al popolo.
Si faceva strada dunque un gusto più aristocratico, che mostrava di indirizzarsi alla ma-
teria classica, piuttosto che a quella carolingia e bretone. I poemi composti in quegli
anni secondo questo nuovo indirizzo di gusto sono ora completamente dimenticati,
«ma importa rendersi conto del fatto che a seppellirli nell’oblio contribuì il successo del
Furioso» e che «nel momento in cui l’Ariosto fece la sua scelta, la partita era ancora aperta,
la scelta rischiosa» (Dionisotti).
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Quattrocento e Cinquecento

Il tema dell’amore: da strumento di nobilitazione a fonte di follia Il distacco ideologico dal


poema di Boiardo si evidenzia fin dall’esordio, anzi fin dal titolo, che doveva suonare al
tempo stesso allusivo e polemico: l’Orlando innamorato diventa Orlando furioso a causa
dell’amore. L’amore infatti era ancora, in Boiardo, strumento di elevazione spirituale, di
nobilitazione interiore di personaggi perfettamente integrati nella loro funzione di
eroi positivi, di interpreti dei valori cavallereschi, letti nella chiave moderna dell’uma-
nesimo cortese [R 18.5 e R T 18.4 ]. Se dunque l’innamoramento di Orlando ben si con-
ciliava con quei valori e quegli ideali, la pazzia di Orlando, conclamata come novità nel
proemio («Dirò d’Orlando in un medesmo tratto / cosa non detta in prosa mai né in
rima: / che per amor venne in furore e matto, / d’uom che sì saggio era stimato pri-
ma», I, 2, vv. 1-4), doveva connotare l’esordio nel senso dell’ironia e del turbamento:
l’amore, da valore cortese si mutava di colpo in fonte d’insania per l’uomo. La confer-
ma cade subito dopo quando, invocando l’amata (invece che le Muse, Apollo o Dio), le
chiede «non l’ispirazione al canto, bensì una remissione del furore amoroso, che gli
consenta di compiere la sua opera» (Bigi). Fin dal proemio, insomma, Ariosto ci propo-
ne quell’impasto originalissimo di serietà e di riflessione, di analisi pessimistica del rea-
le e di ironico distanziamento che vedremo dominante in tutta l’opera.
La ventura e l’inchiesta Quando Ariosto sceglie la materia romanzesca, lo fa dunque anche con l’in-
tento di snaturarla. Uno dei modi, che ha implicazioni sia strutturali sia ideologiche,
con cui attua questo progetto è quello dell’abbandono della concezione tradizionale
della «ventura» per quello più moderno e attuale dell’«inchiesta», come ha dimostrato
Riccardo Bruscagli. Il cavaliere dei romanzi arturiani era alla ricerca di un’affermazio-
ne personale e di una realizzazione di sé commisurata a un modello ideale e assoluto
di perfezione: per questo si metteva alla prova, abbandonando la casa, la corte, la patria
per avventurarsi in luoghi inospitali e misteriosi, affrontando mostri, maghi e altri pe-
ricoli eccezionali e meravigliosi alla ricerca di imprese quali che fossero purché mira-
bili e tali da dimostrare il suo valore. I romanzi arturiani si presentavano dunque come
un proliferare disordinato di imprese, duelli, magie, inseguimenti, liberazioni, che si ac-
cumulavano uno sull’altro senza un evidente principio organizzatore.
Le inchieste mancate Ariosto viceversa abbandona e anzi costantemente ironizza questo ideale e que-
sto modello narrativo, ancora in gran parte presente nell’Innamorato, per uno fondato sul
predominio assoluto dell’inchiesta, che diventa il principale elemento organizzatore
della materia del poema, un «meccanismo unificante» (Bruscagli).
I due nuclei principali del racconto – l’inchiesta (quête, ricerca) di Angelica da parte
di Orlando e di altri cavalieri e l’inchiesta di Ruggiero da parte di Bradamante – sono lì
a dimostrare questa innovazione. Ma non si tratta solo di un’innovazione strutturale: es-
sa ha anche notevoli implicazioni ideologiche. L’accezione ariostesca di «inchiesta» è in-
fatti sostanzialmente quella moderna di «ricerca di un oggetto perduto di desiderio»
(Zatti). Ma Ariosto fa di più: intreccia programmaticamente le inchieste dei diversi per-
sonaggi ponendole in conflitto reciproco. «Nel Furioso tutti o quasi i personaggi sono ti-
tolari di un’inchiesta, impegnati in una ricerca, portatori quindi di un desiderio. E per-
tanto ognuno è ostacolato da tutti gli altri, che gli sono concorrenti e rivali, anche per-
ché gli oggetti di desiderio sono in larga misura comuni. [...] Ne consegue che il poema
ariostesco è, significativamente, una rappresentazione di quêtes mancate: di azioni e di
imprese, cioè, dove la regola è il fallimento e solo un’eccezione il successo» (Zatti). Que-
sta innovazione tematica e strutturale, tutta volta a produrre delusioni e frustrazioni nei
protagonisti, determina uno snaturamento dell’originaria concezione dell’avventura ca-
valleresca, che mirava dritta alla realizzazione individuale e alla consacrazione del cava-
liere, e al contempo rivela importanti aspetti della concezione ariostesca del mondo.
Un’ultima considerazione in proposito: il romanzo cavalleresco faceva susseguire
per accumulo caotico gli avvenimenti, ma li commisurava e li valutava sull’orizzonte di
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24. Ludovico Ariosto STORIA

un destino: il cavaliere si sentiva chiamato alla ventura, e il successo era la certificazio-


ne del proprio destino. Invece Ariosto agisce in termini esattamente opposti: organiz-
za le varie fila della narrazione in modo unitario e interdipendente e tuttavia elimina
quasi completamente la dimensione ideologicamente forte del ‘destino’, sostituendola
viceversa con quella moderna e laica di ‘caso’.
I temi del caso e della magia: una visione del mondo laica Infatti, anche se il racconto scorre
fluido e ordinato per la sapiente funzione di regia assolta dal narratore (R 24.5.3), a li-
vello tematico e ideologico il principio ordinatore delle vicende del Furioso è proprio
il caso. È evidente che Ariosto non abbia una concezione provvidenzialistica della vi-
ta e della storia: è il caso, nel senso tutto laico di un imponderabile intersecarsi di per-
corsi, di azioni e reazioni, di intenzioni, di atti di volontà e di passioni, che domina
l’universo esistenziale dei personaggi. Se infatti l’intervento soprannaturale è formal-
mente contemplato (ad esempio per il recupero del senno di Orlando), in sostanza si
tratta solo di un espediente narrativo, assimilabile alla magia, e oltre tutto sottoposto
all’ironia del narratore.
Quanto alla magia varrà un discorso analogo. Tutto il patrimonio tradizionale, rin-
novato con sapiente variazione, di maghi, fate, incantesimi, oggetti fatati e via discor-
rendo è chiamato in causa. Ancor più che in Boiardo, però, manca il senso del sopran-
naturale, dell’occulto, dell’esoterico: la magia si riduce a tema narrativamente efficace
e strutturalmente indispensabile, a elemento fantastico di grande presa sul pubblico,
ma nulla di più. Magie e incantesimi contrapposti si fronteggiano e devono scontrarsi
con abilità iperboliche ed esseri straordinari ma naturali (come, con ironia, ci assicura
Ariosto a proposito dell’ippogrifo): l’uomo in definitiva si trova a dover far ricorso al-
le proprie tradizionali doti di razionalità, forza, coraggio e astuzia per trionfare, nei li-
miti concessigli dal caso, cui in molte circostanze anche la magia deve sottostare.
La “virtù” cede alla “fortuna” E qui il discorso ci riconduce alla concezione del mondo ariostesca,
laica e pessimistica. Il motivo del caso rispecchia abbastanza fedelmente, infatti, il pes-
simismo di Ariosto, in quanto contribuisce a vanificare gli sforzi, le intenzioni e le
azioni degli uomini smarriti nei percorsi labirintici della vita. Il dominio del caso (o
della “fortuna”) in concreto significa che la volontà, la razionalità e la “virtù” (nel sen-
so machiavelliano) sono meno determinanti per l’esito delle azioni umane: «O conte
Orlando, o re di Circassia, / vostra inclita virtù, dite che giova?», commenta il narrato-
re quando Angelica, incontrato per caso Medoro, se ne innamora repentinamente e lo
sposa. Il «giudicio umano spesso erra»: l’uomo insegue i fantasmi del proprio desiderio,
si agita e si affanna vanamente, è preda delle passioni irrazionali che mettono in forse
i progetti più razionali e condizionano il suo agire. Tra intenzione e raggiungimento
dello scopo vi sono continue imprevedibili e incontrollabili interferenze.
In alcuni celebri episodi Ariosto sembra sintetizzare questa visione negativa del rea-
le in forme che assumono un particolare rilievo simbolico. È il caso della fuga di Ange-
lica, nel canto I, che apre l’inchiesta da parte di Orlando, Rinaldo e altri personaggi e li
coinvolge in un tortuoso e vano inseguimento in una selva che diventa metafora del-
l’esistenza e del mondo [R T 24.3 ]. È il caso dell’episodio del palazzo di Atlante, dove per
incantesimo tutti i cavalieri qui attirati inseguono i fantasmi delle persone desiderate
senza mai poterle raggiungere, suprema sintesi fantastica della vanità degli sforzi del-
l’uomo per conseguire gli scopi che si prefigge [R T 24.5 ]. «Ma l’episodio» scrive Emilio
Bigi «in cui il poeta nel modo più esplicito manifesta il suo profondo scetticismo in-
torno all’effettivo potere della ragione e la sua altrettanto profonda convinzione del-
l’impero esercitato, per contro, dalla Fortuna cieca e dalle passioni irrazionali, è la de-
scrizione del vallone lunare, dove vengono minutamente elencate tutte le azioni che
gli uomini compiono nella vita privata, pubblica e religiosa: azioni tutte vane, poiché,
quando non sono stravolte o distrutte dal tempo o dalla fortuna [...], sono effettiva-
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Quattrocento e Cinquecento

mente sotto l’impulso di desideri e miraggi inconsistenti» [R T 24.10 ]. Ma la concezione


del mondo ariostesca si rivela con evidenza anche negli esordi ai canti, luogo deputato
nel poema per la riflessione in senso morale ampio sui problemi suscitati dalle vicende
narrate, o negli interventi a commento che costellano l’intera opera.
La crisi dei valori umanistici: il tema della poesia menzognera Certo la ragione, l’amore «co-
me positiva forza naturale, che intensifica l’ingegno, il coraggio, stimola la liberalità e
la lealtà e promuove il civile consorzio», e appunto il senso dell’onore, la lealtà, il co-
raggio e via dicendo sono valori apprezzati e coltivati da Ariosto, sono ideali che egli
deriva dalla cultura umanistica di cui si è nutrito. Ma a essi anche nel Furioso si con-
trappongono costantemente il potere irrazionale del caso e delle passioni, l’amore
come insania, volubilità, prepotenza, l’individualismo esasperato, la volontà di denaro
e di potere, l’istinto di sopraffazione, il desiderio di vendetta e così via. Persino «uno
dei più tipici miti della cultura classica e umanistica, quello che assegna alla poesia il
compito di formare ed educare gli uomini alla civiltà, ad una sana e giusta convi-
venza» (Bigi), e quello complementare della poesia eternatrice sono messi in discus-
sione nell’allegoria del tempo e dei poeti del canto XXXV: i poeti, soggetti alle cir-
costanze della vita e alle passioni e invischiati nel mondo corrotto delle corti, scen-
dono a patti con la propria coscienza diventando servili adulatori e cantando signo-
ri mediocri e indegni della loro celebrazione; questi del resto non sono in grado di
distinguere tra buoni e cattivi poeti, anzi finiscono con il prediligere questi a quelli.
La poesia stessa dunque si fa o rischia di farsi menzognera, tanto che con una certa
acrimonia Ariosto a un certo punto asserisce che a voler conoscere la verità storica
dalle pagine dei poeti, bisogna capovolgerne i giudizi.

24.5.3 La struttura e lo stile


Il distacco ironico e il dominio della forma Ariosto riesce a riscattare, per così dire, questo pessi-
mismo profondamente radicato proprio in virtù dell’armonia etica, dell’equilibrio in-
teriore che faticosamente conquista e che si esprime nel Furioso come complesso e va-
rio dominio della forma e continuo distanziamento ironico. Se l’«energia dinamica» –
per usare una formula di Caretti – che percorre tutta l’opera e coinvolge tutti i perso-
naggi può significare la volontà dell’uomo, nonostante tutto, di vivere, agire, persegui-
re i propri scopi con tenacia, affrontando gli scacchi e le delusioni che necessariamen-
te gli sono riservati, e si traduce in un atto di forza morale da parte di Ariosto, a mag-
gior ragione la volontà e la capacità di dominare, secondo i canoni del classicismo, la
propria materia dandole una forma equilibrata e composta, devono valere come segni
tangibili della conquista dell’equilibrio interiore e della matura saggezza di cui si è di-
scorso.
Una struttura solo in apparenza «aperta» Quella del Furioso può apparire una «struttura estrema-
mente aperta» (Caretti). Sui tre filoni portanti del’intreccio, variamente complicati e
narrati attraverso innumerevoli sospensioni e riprese, si innestano moltissime vicende
secondarie, talora vere e proprie novelle autonome: la materia del Furioso appare infi-
nitamente varia e difficilmente dominabile e riassumibile. Inoltre manca nel poema un
centro fisso di attrazione: i percorsi dei personaggi si intrecciano, si ingarbugliano per
districarsi e ringarbugliarsi continuamente e in modo mirabilmente variato. Infine, a
interpretare e regolare il fluire della vita nel Furioso non intervengono strutture ideo-
logiche trascendenti e gerarchizzanti: manca la fiducia in qualsivoglia disegno provvi-
denziale, e domina invece una casualità tutta umana e terrena.
I fattori di coesione strutturale e la «funzione di regia» Ma questi fattori appaiono più significa-
tivi sul piano ideologico che su quello strutturale. In merito alla struttura, infatti, se
manca la catastrofe finale che chiuda definitivamente le vicende, e il lettore può im-
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24. Ludovico Ariosto STORIA

maginare altre avventure dei protagonisti, è anche vero tuttavia che l’intreccio nelle tre
diramazioni principali a cui abbiamo accennato porta a conclusioni più che plausibili:
Ruggiero e Bradamante si sposano, Orlando impazzito rinsavisce, i cristiani sbaraglia-
no i saraceni invasori.
Ma l’unità, la coesione, l’organicità della struttura del Furioso si giustificano soprat-
tutto sul piano tecnico e stilistico. Già abbiamo indicato come fattori unificanti l’ab-
bandono di una struttura fondata sulla pura accumulazione degli episodi e, viceversa, il
predominio del meccanismo dell’inchiesta e del programmatico intersecarsi delle in-
chieste dei diversi personaggi. A questi si aggiungano gli interventi continui del narra-
tore, sia quelli in funzione di semplice connettivo fra gli episodi, sia soprattutto quelli
di riflessione sui comportamenti dei personaggi, che suggeriscono al lettore l’idea di
una presenza governatrice e ordinatrice del racconto, che domini il complesso della
materia imbrogliandola e sbrogliandola, interrompendola e riprendendola a piacimen-
to, ma con sapiente tempismo e secondo un disegno razionale. È la funzione di regia
del narratore che esplicandosi costantemente assolve una funzione di armonizzazione
e coesione, impedendo al lettore di sentirsi in balìa di una serie incontrollata di acca-
dimenti.
Entrelacement e simmetrie tematiche La tecnica stessa dell’entrelacement, tipica dei romanzi cavallere-
schi (l’intrecciare varie vicende interrompendole e riprendendole in momenti diversi,
così da farle ora convergere ora divergere in modo variato), com’è concepita e attuata
da Ariosto, costituisce una forma raffinata e complessa di coesione dell’opera, che non
esclude, anzi favorisce ripetizioni significative e simmetrie (ad esempio [R T 24.5 ]). Il
narratore insomma domina e ordina la propria materia in forme non meccaniche, ma
profonde e complesse. Uno dei significati che oggi noi possiamo attribuire all’«armo-
nia» del Furioso risiede proprio in questo controllo per nulla rigido e meccanico, e ca-
pace anzi di dare l’impressione della multiforme varietà della vita, ma non meno coe-
sivo e unificante.
La medietà tonale: alternanza dei registri comico e grave Ariosto esercita il suo controllo for-
male sulla materia del Furioso anche in altri modi: uno di questi è quella medietà to-
nale che è stata riconosciuta come una delle caratteristiche salienti della poesia ario-
stesca e che si fonda sulla continua alternanza di episodi tematicamente opposti o di-
vergenti e sul contemperarsi costante di registri stilistici diversi. La regia ariostesca pre-
vede insomma una sapiente alternanza di episodi ora comici, ora patetici, ora idillici
ecc.; e altrettanto spesso all’interno di un singolo episodio, dominato – poniamo – dal
patetico, l’intervento a commento del narratore, introducendo una nota ironica o co-
mica o facendo balenare un diverso punto di vista, assolve la funzione di variare il re-
gistro, equilibrando e attenuando il tono complessivo del passo [R T 24.9 ]. Non c’è dun-
que mai un’insistenza prolungata o eccessiva su un medesimo registro, meno che mai
su quelli gravi e patetici, sempre smorzati da una nota comica o da un commento iro-
nico. L’alternare i registri espressivi rappresenta un mezzo per evitare che il lettore ri-
manga troppo coinvolto emotivamente nella vicenda e un monito continuo a riporta-
re a una misura razionale, all’aurea mediocritas degli antichi, le oscillazioni sentimentali;
ma anche una forma sobria per ricordare sempre al lettore che quello che legge e im-
magina non è che una finzione letteraria.
La struttura dell’ottava ariostesca e il gusto rinascimentale Anche a livello stilistico Ariosto per-
segue un medesimo obiettivo ordinatore: così, ad esempio nelle forme metriche e sti-
listiche; così per la lingua, per cui Ariosto mette a frutto le norme apprese da Bembo,
secondo un gusto che interpreta i princìpi cardine dell’ordine classicistico e del gusto
rinascimentale. È un segno anche questo, inequivocabile, della fiducia residua che
Ariosto mantenne, pur nella crisi acutamente percepita dei valori umanistici, nell’arte
e nella poesia.
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Quattrocento e Cinquecento

24.6 I Cinque canti


Una «giunta» non armonizzabile con il Furioso I Cinque canti vennero composti probabilmente tra
il 1518 e il 1519, un periodo difficile per Ariosto, per far da «giunta» al primo Furioso
(1516). Esclusi però dall’edizione del 1521 del poema, rimangono opera incompiuta a
sé stante, in quanto Ariosto negli anni successivi procede ad ampliamenti di diversa
natura che confluiranno nell’edizione del 1532.
Il progetto di Ariosto probabilmente in origine prevedeva che questa giunta con-
sentisse di meglio celebrare la figura encomiastica di Ruggiero, solo in ultimo conver-
titosi al cristianesimo, facendogli compiere eroiche imprese guerresche, ma nella parte
effettivamente composta e poi interrotta, nulla di questo accade: Ruggiero è nuova-
mente prigioniero di Alcina, l’esercito cristiano è vittima dell’Invidia e in preda al So-
spetto, fomentato dalle subdole trame di Gano, tanto che Orlando e Rinaldo e vari al-
tri paladini si trovano in conflitto tra loro, nello scontro finale la battaglia vede i cri-
stiani soccombere...
Il motivo della scelta definitiva di interromperne la stesura e non inserire i Cinque
canti nelle successive edizioni del Furioso, risiede probabilmente – come si è già notato
– nelle caratteristiche stilistiche e tematiche del frammento che, per i toni aspri e cupi,
è difficilmente integrabile nel corpo del poema, più pacato, armonioso e ironico.
Destinato a connettersi al Furioso nel momento della celebrazione della vittoria
cristiana sui saraceni, «il frammento dei Cinque canti si inaugura, a subitaneo e crudele
contrasto con quella luminosa atmosfera di pace e di letizia, nel cupo segno dell’odio
e del tradimento» (Caretti). Fin dalle prime ottave che descrivono il regno di Demo-
gorgone, il sovrano delle Fate, e il concilio di queste, la narrazione si colora di toni cu-
pi nella descrizione dell’arrivo delle Fate al luogo del convegno, sospinte e scortate da
demoni infernali e da altri esseri mostruosi.

Doc 24.4 Il regno di Demogorgone e le Fate

Portate alcune in gran navi di vetro, I, 7. Alcune fate trasportate su grandi navi di vetro si
dai fier demoni cento volte e cento facevano sospingere da fieri demoni che continua-
con mantici soffiar si facean dietro, mente soffiavano nei loro mantici, tanto che non ci fu
che mai non fu per l’aria il maggior vento. mai vento maggiore nell’aria. Altre, come fece Simon
Altre, come al contrasto di san Pietro Mago per contrastare san Pietro (ma vanamente e con
tentò in suo danno il Mago, onde fu spento, suo danno, tanto che rimase ucciso), giungevano tra-
veniano in collo alli angeli infernali: sportate sul collo di demoni infernali; alcune avevano
alcune, come Dedalo, avean l’ali. come Dedalo esse stesse le ali.

Chi d’oro e chi d’argento, e chi si fece I, 8. Chi si era fatta fare una lettiga d’oro, chi una
di varie gemme una lettica adorna; d’argento e chi una adornata di gemme; una traspor-
portàvane alcuna otto, alcuna diece tava otto, un’altra dieci di quei mostruosi esseri not-
de lo stuol che sparir suol quando aggiorna, turni che sogliono scomparire al far del giorno, tutti
ch’erano tutti più neri che pece, neri più della pece, con piedi di strana foggia, code
con piedi strani, e lunghe code, e corna; lunghe e corna: molte erano trainate sui loro carri vo-
pegasi, griffi et altri uccei bizzarri lanti da pegasi, grifi e da altri uccelli bizzarri.
molte traean sopra volanti carri.

Poco dopo (I, 36-37), quando Alcina individua nell’Invidia lo strumento della sua
vendetta e in Gano il tramite, Ariosto tratteggia del Maganzese – con Alcina l’altro
eroe negativo protagonista del frammento – un eloquente ritratto tutto nequizia, in
cui sembra sintetizzare la trama delle riflessioni negative sulla vita di corte che andava
elaborando nelle Satire.
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24. Ludovico Ariosto STORIA

Doc 24.5 Gano superbo, livido e maligno

Gano superbo, livido e maligno I, 36. Gano superbo, malvagio e pieno di livore
tutti i grandi appo Carlo odiava a morte; odiava a morte tutti i grandi che godevano dei favori
non potea alcun veder, che senza ordigno, di Carlo; non sopportava che qualcuno si fosse collo-
senza opra sua si fosse acconcio in corte: cato a corte senza un suo maneggio, senza il suo aiu-
sì ben con umil voce e falso ghigno to; così bene con voce umile e falsi sorrisi sapeva fin-
sapea finger bontade, et ogni sorte gere la bontà e usare ogni forma di ipocrisia, che chi
usar d’ippocrisia, che chi i costumi non conosceva la sua natura lo avrebbe venerato co-
suoi non sapea, gli porria a’ piedi i lumi. me un santo.

Poi, quando si trovava appresso a Carlo I, 37. Poi quando si trovava vicino a Carlo (ci fu un
(ché tempo fu ch’era ogni giorno seco), tempo in cui ciò accadeva ogni giorno), rodeva, cioè
rodea nascostamente come tarlo, tramava nascostamente come un tarlo, dava colpi a
dava mazzate a questo e a quel da cieco: questo e a quello come un cieco: così raramente di-
sì rado dicea il vero, e sì offuscarlo ceva la verità e così efficacemente sapeva occultarla,
sapea, che da lui vinto era ogni Greco. che vinceva in astuzia ogni greco. Come io dissi, Alci-
Giudicò Alcina, com’io dissi, degno na giudicò quel cuore pieno di vizi degno di diventa-
cibo all’Invidia il cor di vizi pregno. re pasto dell’Invidia.

In tutto il lungo frammento il tono risulta conforme a questi brevi esempi: dovun-
que dominano l’odio, l’invidia, il sospetto, il tradimento e la violenza, i conflitti perso-
nali, gli eventi guerreschi rappresentati a tratti con crudeltà analitica e senza la con-
sueta ironia ariostesca, senza la consueta capacità di variare i registri per smorzare gli
effetti più aspri e placare in un sorriso il rovello di un’amara riflessione. Qui, ancor più
che il patetico, è forse il registro tragico ad avere quasi costantemente (forse ossessiva-
mente) il sopravvento. Quello dei Cinque canti «è un universo privo di luce razionale e
di virtù cortesi, disamorato e squallido, dilacerato da torbide e smodate passioni, mi-
nacciato ad ogni passo dall’arbitraria confusione del caos. Tramontata dunque ogni
forma di cavalleria, vigoreggia incontrastata l’intelligenza mostruosa del male, a cui
tentano di fare argine, e solo episodicamente, le preghiere private e collettive, i solen-
ni esorcismi, in un’aria di acuto scetticismo negli atti degli uomini onesti, nella loro
intraprendenza e nel loro senso di giustizia e di magnanimità» (Caretti). Che questa
così aspra via, intrapresa subito dopo la stesura del primo Furioso, sia stata in seguito
abbandonata da Ariosto fa capire quali forze eversive, quali tentazioni negative dovet-
te combattere e vincere l’autore per trovare prima e consolidare poi la misura, l’equi-
librio, la pacata ironia del capolavoro, che sono una faticosa conquista personale e una
non pacifica vittoria dello spirito rinascimentale.

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Quattrocento e Cinquecento

T 24.1 Satira I 1517


Le umiliazioni di un poeta cortigiano
L. Ariosto Le Satire mescolano racconto autobiografico, analisi della realtà sociale e precise remi-
Satire niscenze letterarie. In questa Satira I Ariosto rievoca il suo abbandono del servizio pres-
a c. di C. Segre, so il cardinale Ippolito d’Este. Nell’agosto 1517 il cardinale dovette infatti lasciare Fer-
Mondadori, Milano 1984
rara per trasferirsi ad Agria, in Ungheria, dove era la sede del suo vescovado. Ariosto si
rifiutò di seguirlo adducendo motivi di salute e motivi familiari. Il cardinale, licenziato-
lo, minacciò il poeta di privarlo anche di quei benefici e di quelle rendite che gli aveva
in precedenza procacciato.
Ma Ariosto, oltre a tracciare un quadro aspramente polemico della sua esperienza al
servizio di Ippolito d’Este, delinea i compromessi e le umiliazioni cui deve sottostare un
cortigiano. Inoltre, nel tratteggiare un ideale di vita sobrio, tranquillo, modesto ma libe-
ro dalla schiavitù nei confronti degli onori e della ricchezza, riecheggia Orazio.

Nota metrica A MESSER ALESSANDRO ARIOSTO ET A MESSER LUDOVICO DA BAGNO*


Terzine di endecasillabi
Io desidero intendere da voi,
* A Messer ... Bagno:Ales- Alessandro fratel, compar mio Bagno, 16-17 e chi ... aprir: e chi
sandro Ariosto, il più giova- s’in corte è ricordanza più di noi; per timidezza (umiltà) non
ne dei fratelli di Ludovico, e osa aprire la bocca. Ma si
Ludovico da Bagno, nobile se più il signor me accusa; se compagno noti come il termine umiltà
mantovano, segretario del 5 per me si lieva e dice la cagione che indica una virtù cristia-
Cardinale Ippolito; quando na sia ironicamente collo-
questi si trasferì nella sede per che, partendo gli altri, io qui rimagno;
cato in questo contesto che
del suo vescovado, ad Agria o, tutti dotti ne la adulazione dipinge l’ipocrisia del cor-
(Eger) in Ungheria, lo se-
guirono, a differenza di (l’arte che più tra noi si studia e cole), tigiano che acconsente e
approva con lo sguardo.
Ariosto. l’aiutate a biasmarme oltra ragione. 19 in altro: per altro, rela-
2 compar: a Ludovico
da Bagno viene dato l’ap-
10 Pazzo chi al suo signor contradir vole, tivamente ad altre faccende.
19-20 dar ... che: dovete
pellativo di compare, poiché se ben dicesse c’ha veduto il giorno concedermi, dovete ap-
aveva tenuto a battesimo pieno di stelle e a mezzanotte il sole. prezzare nel mio compor-
Virginio, il figlio secondo- tamento il fatto che.
genito di Ariosto. O ch’egli lodi, o voglia altrui far scorno, 21 con fraude: con l’in-
3 in corte: alla corte di di varie voci subito un concento ganno, con frode.
Ippolito, ad Agria; il signor 22 Dissi: addussi.
del v. 4 è naturalmente lo 15 s’ode accordar di quanti n’ha dintorno; 24 esser ... tenere: doveva
stesso Ippolito. – è ... di noi: e chi non ha per umiltà ardimento bastare a giustificare la mia
se ci si ricorda ancora (più;
così anche al verso succes- la bocca aprir, con tutto il viso applaude decisione di restar in patria.
25-27 Prima ... Fortuna: in
sivo) di me. e par che voglia dir: – anch’io consento. – primo luogo il fatto che
4-6 se ... rimagno: se
qualche amico prende le
Ma se in altro biasmarme, almen dar laude non voglio abbreviare la vi-
ta, a cui poche cose o nessu-
mie difese, si alza in nome 20 dovete che, volendo io rimanere, na sono da preferire, più di
mio e dice le ragioni per le lo dissi a viso aperto e non con fraude. quanto non vogliano il cie-
quali io rimango qui a Fer- lo o la Fortuna.
rara. Dissi molte ragioni, e tutte vere, 28 alterazione: peggiora-
7-9 o ... ragione: o, invece, de le quali per sé sola ciascuna mento.
tutti esperti nell’adulazione 29 il mal: si trattava di di-
(l’arte che qui da noi più si esser mi dovea degna di tenere.
sturbi di stomaco.
studia e coltiva), lo aiutate a 25 Prima la vita, a cui poche o nessuna 30 o ilValentino ... deve:
biasimarmi più di quanto
non meriti (oltra ragione). cosa ho da preferir, che far più breve o si sbagliano i medici che
mi hanno diagnosticato la
11 se ben dicesse: anche non voglio che ’l ciel voglia o la Fortuna. malattia e curato. Andrea
se questi (il signore) dices- Ogni alterazione, ancor che leve, Valentino da Modena e
se. Guido Silvestri detto il Po-
13 altrui far scorno: of- ch’avesse il mal ch’io sento, o ne morei, stumo, erano entrambi me-
fendere qualcuno. 30 o il Valentino e il Postumo errar deve. dici della corte di Ippolito.
14-15 di varie ... dintorno: 32 compensi: rimedi, cu-
subito si ode intonare un Oltra che ’l dicano essi, io meglio i miei re.
concerto delle varie voci di casi de ogni altro intendo; e quai compensi 34-35 So ... verni: so che la
tutti coloro che gli stanno mia complessione mal si ac-
intorno. Si noti il termine mi siano utili so, so quai son rei.
corda con, mal si adatta ai
concento, concerto, armonia, So mia natura come mal conviensi freddi inverni.
che connota il tono melli-
fluo, adulatorio delle voci 35 co’ freddi verni; e costà sotto il polo 35 sotto il polo: generi-
camente per terre a setten-
dei cortigiani. gli avete voi più che in Italia intensi. trione dell’Italia.

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24. Ludovico Ariosto T 24.1

38 stuffe: «stufe, ma col E non mi nocerebbe il freddo solo; 68 mastro Pasino: «cuoco
valore di “camere riscalda- del cardinale Ippolito ricor-
te”» (Segre). ma il caldo de le stuffe, c’ho sì infesto, dato più volte nei registri di
38-39 c’ho … involo: che che più che da la peste me gli involo. spese» (Segre).
mi è così insopportabile (in- 40 Né il verno altrove s’abita in cotesto 69 il viso da l’arme: il viso
festo) che me ne tengo lonta- oscuro, ostile.
no (me gli involo, mi sottrag- paese: vi mangia, giuoca e bee, 70-72 S’io vorò ... molte:
go a lui) più che dalla peste. e vi si dorme e vi si fa anco il resto. cioè ne avrò in abbondanza
40 altrove: altrove che in se mi accontenterò dei cibi
camere riscaldate. Che quindi vien, come sorbir si dee acquistati per la servitù (fa-
43-45 Che ... Rifee: chi l’aria che tien sempre in travaglio il fiato miglia); «Francesco di Sivie-
proviene di qui (dalle came- ro era lo “spenditore” inca-
re riscaldate, oppure: dall’I- 45 de le montagne prossime Rifee? ricato di fare gli acquisti per
talia) come può tollerare l’a- Dal vapor che, dal stomaco elevato, la famiglia cardinalizia» (Se-
ria fredda che il vento (fiato) gre).
proveniente dai vicini mon- fa catarro alla testa e cala al petto, 73 questo mi piglia: pi-
ti Rifei rende sempre pun- mi rimarei una notte soffocato. gliami, acquistami questa
gente (tiene in travaglio, tiene E il vin fumoso, a me vie più interdetto particolare vivanda.
in movimento). «I Latini 74 che ... notrisce: che
chiamavano “Riphaei” dei 50 che ’l tòsco, costì a inviti si tracanna, non danneggia (poco notrisce)
monti non ben determinati e sacrilegio è non ber molto e schietto. il mio cervello invaso dal ca-
in Scizia» (Segre). Nei mon- tarro; «secondo la vecchia
ti Rifei è posta la sede natu- Tutti li cibi son con pepe e canna teoria umorale, le affezioni
rale degli ippogrifi, secondo di amomo e d’altri aròmati, che tutti bronchiali erano conse-
l’Orlando furioso. guenza di eccesso di flemma
46-47 Dal vapor ... petto: come nocivi il medico mi danna. nel cervello; occorreva evi-
dal vapore che, proveniente 55 Qui mi potreste dir ch’io avrei ridutti, tare, ché lo favorivano, i cibi
dallo stomaco, produce il piccanti e i vini» (Segre e cfr.
catarro in testa e poi cala nel dove sotto il camin sedria al foco, vv. 46-47 e nota).
petto: questa sorta di dia- né piei, né ascelle odorerei, né rutti; 77 mi si scorda: si scorda
gnosi rispecchia l’antica e le vivande condiriemi il cuoco di me.
teoria medica (cfr. anche v. 78 che ... accettato: che
74 e nota). come io volessi, et inacquarmi il vino non venga approvato dal
49 fumoso: forte. cardinale.
49-50 a me ... tòsco: a me
60 potre’ a mia posta, e nulla berne o poco. 79 Io ... pane: io sono ri-
proibito assai più che il vele- Dunque voi altri insieme, io dal matino dotto a mangiare solo pane.
no. alla sera starei solo alla cella, 80 la colera: la collera. –
50 a inviti: nei brindisi. alli dui motti: a ogni istante,
51 schietto: vino puro, solo alla mensa come un certosino? ogni due parole.
non mescolato con acqua Bisognerieno pentole e vasella 81 siamo ... insieme: liti-
(cfr. v. 59). ghiamo.
52-53 canna di amomo: 65 da cucina e da camera, e dotarme 82 De li tuoi scotti: a tue
«zenzero» (Segre). di masserizie qual sposa novella. spese.
53 aròmati: aromi, spezie. 83 ’l tuo fante: il tuo ser-
54 mi danna: mi proibi-
Se separatamente cucinarme vitore personale.
sce. vorà mastro Pasino una o due volte, 84 alli ... cotti: cotti sul
55 ridutti: ridotti, «luoghi tuo camino (gli alari sono gli
quattro e sei mi farà il viso da l’arme.
appartati» (Segre). arnesi,di metallo,pietra o al-
57 né ... rutti: cioè potrei 70 S’io vorò de le cose ch’avrà tolte tri materiali resistenti al fuo-
evitare la folla, designata con Francesco di Siver per la famiglia, co, che nei camini sostengo-
aspro realismo. no la legna).
58 condiriemi: mi condi- potrò matina e sera averne molte. 85 la mala servitude mia:
rebbe. S’io dirò: – Spenditor, questo mi piglia, a causa del mio servizio di
60 a mia posta: a mio pia- cortigiano (mal pagato).
cere. che l’umido cervel poco notrisce; 87 fare ... l’osteria: nu-
64-66 Bisognierieno... no- 75 questo no, che ’l catar troppo assottiglia – trirmi separatamente.
vella: ci vorrebbero pentole per una volta o due che me ubidisce,
da cucina e stoviglie da
pranzo (a uso personale), bi- quattro e sei mi si scorda, o, perché teme
sognerebbe dotarmi di mas- che non gli sia accettato, non ardisce.
serizie come una novella
sposa. Io mi riduco al pane; e quindi freme
80 la colera; cagion che alli dui motti
gli amici et io siamo a contesa insieme.
Mi potreste anco dir: – De li tuoi scotti
fa che ’l tuo fante comprator ti sia;
mangia i tuoi polli alli tua alari cotti. –
85 Io, per la mala servitude mia,
non ho dal Cardinale ancora tanto
ch’io possa fare in corte l’osteria.
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Quattrocento e Cinquecento

88 tua mercé: grazie a te, Apollo, tua mercé, tua mercé, santo collera di papa Giulio II che
cioè in virtù dei meriti let- lo voleva far gettare in mare,
terari (riferito prima ad collegio de le Muse, io non possiedo come ricorda più avanti lo
Apollo e poi alle Muse). 90 tanto per voi, ch’io possa farmi un manto. stesso Ariosto.
90 per voi: grazie a voi. 115 Maron:Andrea Maro-
91 t’ha dato: l’ellissi sot-
– Oh! il signor t’ha dato... – e io ve ’l conciedo, ne, «vecchio familiare d’Ip-
tintende un elenco di doni tanto che fatto m’ho più d’un mantello; polito, che aveva invano
ricevuti. ma che m’abbia per voi dato non credo. sollecitato, in competizione
93 per voi: grazie ad con Celio Calcagnini, l’o-
Apollo e alle Muse, cioè per Egli l’ha detto: io dirlo a questo e a quello nore di accompagnarlo in
i suoi meriti poetici. 95 voglio anco, e i versi miei posso a mia posta Ungheria» (Segre).
94 Egli l’ha detto: la frase 118 Ma ... che n’hai: ma
volgare che segue è stata te- mandare al Culiseo per lo sugello. non appena ne avrai rice-
stualmente pronunciata Non vuol che laude sua da me composta vuti (di benefici).
anche dal cardinale. 120 a zara: gioco d’azzar-
96 al Culiseo per lo su- per opra degna di mercé si pona; do coi dadi.
gello: al Colosseo per farsi di mercé degno è l’ir correndo in posta. 122 Nestorre: personag-
apporre il suggello, qui gio omerico vissuto, secon-
però con doppio senso vol-
100 A chi nel Barco e in villa il segue, dona, do tradizione, tre secoli:
gare, a significare che pote- a chi lo veste e spoglia, o pona i fiaschi tutta l’espressione vale “per
va mandarli alla malora, i nel pozzo per la sera in fresco a nona; quanto tempo trascorra”.
suoi versi, tanto gli frutta- 123 questa ... muta: non
vano. vegghi la notte, in sin che i Bergamaschi muterai la tua condizione
97-98 Non vuol ... si pona: se levino a far chiodi, sì che spesso servile.
non vuole che le lodi da me 124 sciorre: sciogliere.
composte in suo onore (al- 105 col torchio in mano addormentato caschi. 125 buon patto avrai: farai
lude alla dedica del Furioso) S’io l’ho con laude ne’ miei versi messo, un buon affare, potrai repu-
siano considerate un’opera tarti fortunato.
degna di ricompensa. dice ch’io l’ho fatto a piacere e in ocio; 126 ritorre: riprendere
99 di mercé ... posta: de- più grato fòra essergli stato appresso. (così anche al v. 129).
gno di una ricompensa e di 127-128 per ... Buda: per
uno stipendio è il correre
E se in cancelleria m’ha fatto socio essermi mostrato ribelle al-
cambiando cavalli (senza 110 a Melan del Constabil, sì c’ho il terzo la sua volontà, non avendo
sostare) a ogni stazione di di quel ch’al notaio vien d’ogni negocio, accettato di seguirlo in Un-
posta, cioè un lavoro servi- gheria (di cui Agria e Buda
le. gli è perché alcuna volta io sprono e sferzo sono città).
129-135 che ... nome: non
100 Barco: parco, allude a mutando bestie e guide, e corro in fretta
un parco da caccia degli tanto mi dispiace che si ri-
Estensi a nord di Ferrara. per monti e balze, e con la morte scherzo. prenda il suo, quanto piut-
101-102 o pona ... a nona: o 115 Fa a mio senno, Maron: tuoi versi getta tosto che mi escluda dal suo
ponga in fresco nel pozzo a affetto e dalle sue grazie,
mezzogiorno (a nona) i fia- con la lira in un cesso, e una arte impara, che mi dichiari (mi nome)
schi di vino da bere la sera. se beneficii vuoi, che sia più accetta. persona sleale e priva di ri-
103-104 vegghi ... chiodi : conoscenza, e abbia in odio
«vegli sino al far del giorno,
Ma tosto che n’hai, pensa che la cara e in dispetto persino il mio
quando i fabbri ferrai, per tua libertà non meno abbi perduta nome.
antonomasia Bergamaschi si 130-131 se ben ... tarpasse:
120 che se giocata te l’avessi a zara; se pure mi ha privato (op-
mettono all’opera» (Segre).
105 torchio: torcia. e che mai più, se ben alla canuta pure “quand’anche... mi
107 in ocio: in ozio, a tem- età vivi e viva egli di Nestorre, privasse”) delle migliori
po perso, oziando. penne che avevo messo nel
108 più ... appresso: gli sa- questa condizïon non ti si muta. periodo della muda: «gli
rebbe stato più gradito se gli E se disegni mai tal nodo sciorre, uccelli da rapina, che si usa-
fossi stato vicino. vano nelle cacce, venivano
109-110 se ... Constabil: al- 125 buon patto avrai, se con amore e pace tenuti in un luogo chiuso
lude a un beneficio procu- quel che t’ha dato si vorà ritorre. all’epoca della muda, cioè
ratogli dal cardinale: il poeta del cambiamento delle
riceveva una parte (un ter-
A me, per esser stato contumace penne. Qui le penne sono, fi-
zo) degli introiti della Can- di non voler Agria veder né Buda, guratamente, i benefici e i
celleria arcivescovile di Mi- che si ritoglia il suo sì non mi spiace beni secolari donati dal
lano. Cardinale all’Ariosto» (Se-
111 negocio: affare. 130 (se ben le miglior penne che avea in muda gre) e il tempo della muda il
112-113 sprono ... guide: rimesse, e tutte, mi tarpasse), come periodo dei loro buoni rap-
sprono e sferzo i cavalli, porti.
cambiando spesso sia loro che da l’amor e grazia sua mi escluda, 136-137 me ritenn ... mai:
sia il guidatore. che senza fede e senza amor mi nome, mi trattenni, evitai sempre
114 con la morte scherzo: di comparirgli innanzi.
allude ai pericoli corsi du- e che dimostri con parole e cenni 138 ad escusar mi vienni:
rante diverse missioni assol- 135 che in odio e che in dispetto abbia il mio nome. – venni a scusarmi (di non
te per il cardinale: nel 1510, poterlo seguire in Unghe-
ad es., dovette affrontare la
E questo fu cagion ch’io me ritenni ria).
di non gli comparire inanzi mai,
dal dì che indarno ad escusar mi vienni.
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24. Ludovico Ariosto T 24.1

139 Ruggier: capostipite, Ruggier, se alla progenie tua mi fai 155 col mal ... forse: con la
secondo l’Innamorato e il malattia contratta forse pro-
Furioso, della dinastia esten- 140 sì poco grato, e nulla mi prevaglio prio durante quel viaggio.
se. che li alti gesti e tuo valor cantai, 157-159 Se ... dell’Orse: se
140-141 e nulla ... cantai: e deve (de’) compiere tali ser-
non mi serve a nulla aver
che debbio far io qui, poi ch’io non vaglio vizi e raramente sottrarsi
cantato ecc. smembrar su la forcina in aria starne, (tòrse) alla sua presenza colui
142-143 poi ch’io ... starne: che ha brama di denaro e
né so a sparvier, né a can metter guinzaglio?
non sono un buon dome- stargli vicino come vicine
stico; allusione alla funzio- 145 Non feci mai tai cose e non so farne: sono le due costellazioni
ne, assai celebrata al tempo alli usatti, alli spron, perch’io son grande, nominate.
nella società aristocratica, di 161 cura: ufficio.
“scalco”: gli scalchi, talora non mi posso adattar per porne o trarne. 162 sì che ... Lete: tanto da
gli stessi nobili, erano inca- Io non ho molto gusto di vivande, trascurare, dimenticare le
ricati di tagliare con perizia, mie occupazioni letterarie
talora tenendola sollevata in che scalco io sia; fui degno essere al mondo (Lete è il fiume dell’oblio).
aria con una forchetta (forci- 150 quando viveano gli uomini di giande. 163-165 Il qual ... cultura: il
na), la cacciagione (starne). Non vo’ il conto di man tòrre a Gismondo; quale studio, se non può
Le funzioni a cui si allude procurare quanto necessa-
nel verso seguente sono andar più a Roma in posta non accade rio a sostentare (pastura) il
quelle di falconiere e canat- a placar la grande ira di Secondo; corpo (cioè beni materiali,
tiere (addestratori di falconi denaro), dà però alla mente
e di cani da caccia). e quando accadesse anco, in questa etade, un nutrimento (ésca) così
146-147 perch’io ... trarne: 155 col mal ch’ebbe principio allora forse, nobile che ben merita d’es-
non so adattarmi, a chinar- sere coltivato.
mi per mettere (porne) o to- non si convien più correr per le strade. 166 m’incresca: mi di-
gliere (trarne) stivali (usatti) e Se far cotai servigi e raro tòrse spiaccia.
sproni, perché sono “gran- 171 perché ... chiami: per
de” (con ambiguità di senso di sua presenza de’ chi d’oro ha sete, il fatto che il cardinale chia-
– come rileva il Segre – tra e stargli come Artofilace all’Orse; mi a sé,al posto mio,Marone
“adulto” e “alto”; ma anche 160 più tosto che arricchir, voglio quïete: o Celio (due cortigiani; cfr.
“d’animo non servile”). v. 115).
150 giande: ghiande (nel- più tosto che occuparmi in altra cura, 172-173 ch’io ... a cena: che
l’età dell’oro). sì che inondar lasci il mio studio a Lete. io non bramo cioè di essere
151 Gismondo: Sigismon- veduto a cena,nelle sere d’e-
do Cestarelli, amministra- Il qual, se al corpo non può dar pastura, state, con il cardinale.
tore di corte di Ippolito. lo dà alla mente con sì nobil ésca, 174 fumi: «gli onori e la va-
152 non accade: non oc- nagloria» che derivano dal
corre. 165 che merta di non star senza cultura. privilegio di cenare alla ta-
153 a placar ... Secondo: Fa che la povertà meno m’incresca, vola del cardinale (Segre).
«nell’agosto del 1510 l’A- 175-177 ch’io vado ...
riosto si recò a Roma per e fa che la ricchezza sì non ami schiena: viaggio da solo e a
scusare presso Giulio II il che di mia libertà per suo amor esca; piedi, cioè senza seguito
cardinale Ippolito di non quel ch’io non spero aver, fa ch’io non brami, (cosa inconcepibile per un
aver obbedito all’ingiun- nobile o anche un cortigia-
zione di recarsi a Roma 170 che né sdegno né invidia me consumi no o un benestante) e sem-
senza salvacondotto (il 9 perché Marone o Celio il signor chiami; plicemente, poveramente; e
agosto il Cardinale era stato carico il mio bagaglio (così
scomunicato dal papa). ch’io non aspetto a mezza estade i lumi poco voluminoso da stare)
Giulio II, adirato, ordinò di per esser col signor veduto a cena, nelle bisaccie sulla groppa del
dare l’Ariosto in pasto ai pe- cavallo.
sci» (Segre). ch’io non lascio accecarmi in questi fumi;
154 e quando ... anco: e 175 ch’io vado solo e a piedi ove mi mena
quand’anche accadesse di
nuovo. – in questa etade: al- il mio bisogno, e quando io vo a cavallo,
la mia età. le bisaccie gli attacco su la schiena.

Guida all’analisi
Una testimonianza risentita, ma attendibile sul mondo di corte Questi versi vennero composti in un momen-
to difficile dell’esperienza umana e sociale di Ariosto e, almeno in parte, sotto l’influsso di
un personale risentimento. Sono tuttavia, per molti aspetti, anche una rappresentazione rea-
listica dei compromessi e delle umiliazioni che doveva accettare o subire un cortigiano. Co-
me abbiamo avuto modo di osservare, Ariosto probabilmente formula la sua critica avendo
in mente un diverso statuto della professione intellettuale e un modello ideale di corte, nel
quale i poeti autentici dovrebbero essere accolti e onorati non per i servigi pratici (dome-
stici, amministrativi, politici...) prestati, ma per il loro effettivo valore intellettuale e artistico.
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Quattrocento e Cinquecento

La struttura argomentativa Questa satira è un testo a struttura argomentativa, retoricamente assai elaborato: esa-
miniamone gli aspetti e le componenti principali.
1. La tesi può essere così espressa: il suo rifiuto di seguire il cardinale era ragionevolmen-
te motivato; a torto quindi il cardinale se la prende con lui e a torto i cortigiani approvano
l’operato del cardinale (il fatto è posto in forma dubitativa, ma tutto lascia credere che
Ariosto ne sia convinto).
2. Ariosto adduce a sostegno della sua tesi due ordini di argomenti, entrambi articolati: i
motivi di salute (nella parte riportata), i motivi di famiglia (nella parte omessa della satira).
Ci soffermiamo sui primi: egli deve pensare a salvare la propria vita (vv. 25-27); è malato (vv.
28-30); non sopporta il freddo (vv. 34-36), né il caldo delle stanze riscaldate (vv. 38-39), né
tanto meno lo sbalzo caldo/freddo (vv. 43-45), in Ungheria dovrebbe sopportare tutto ciò e
ne rimarrebbe soffocato (vv. 46-48); non sopporta il vino schietto e forte, né i cibi speziati
cui non potrebbe per varie ragioni sottrarsi (vv. 49-54 e segg.).
3. Ariosto procede quindi alla confutazione degli argomenti della controparte, che sono di va-
ri ordini: dapprima si tratta, per voce presunta del cardinale e dei cortigiani, genericamente
di un biasimo nei suoi confronti (vv. 4, 9, 19), cui egli replica pure genericamente afferman-
do di avere almeno detto le cose chiaramente (vv. 19-21). Poi gli argomenti della contropar-
te, in quanto obiezioni alle sue “ragioni”, si fanno più precisi e vengono attribuiti ai corti-
giani fedeli al cardinale: a. ha torto l’Ariosto a temere per la sua salute, potrebbe disporre di
luoghi appartati e confortevoli, godrebbe della solitudine e della quiete, potrebbe avere vitto
“personalizzato” e annacquare il vino o non berne (vv. 55-60); al che Ariosto ribatte con
una confutazione articolata: quella ipotizzata sarebbe vita da certosino (vv. 61-63), non po-
trebbe ottenere trattamenti di favore, il cuoco e lo «spenditore», per timore, glieli neghereb-
bero (vv. 64-78), vivrebbe di solo pane, si irriterebbe, litigherebbe con tutti (vv. 79-81); b. ha
torto Ariosto perché potrebbe procurarsi un vitto adeguato a proprie spese (vv. 82-84); e al-
lora Ariosto replica che la condizione di cortigiano non gli consente tanto (vv. 85-90); c. ha
torto Ariosto perché il cardinale lo ha beneficato (v. 91); è vero, replica Ariosto, ma non per
meriti poetici (il che sarebbe un atto di lungimirante benevolenza), bensì per gli uffici servi-
li e talora rischiosi da lui prestati (il che si configura come un contratto preciso, ma per lui
umiliante) ecc. (v. 92 e sgg.): qui il discorso sfuma sulla natura del cardinale, su quella di
Ariosto e dei servizi da lui resi, e più in generale sui rapporti poeta-signore.
4. Nel confutare gli argomenti della controparte, secondo una collaudata struttura retori-
ca, Ariosto provvede a mettere in cattiva luce la controparte: a. il cardinale è rappresentato co-
me avaro, ma soprattutto come gretto e insensibile ai valori della poesia (è questa incom-
prensione che pare più d’ogni altra cosa pesare ad Ariosto: cfr. i vv. 94-126 e 139-177), non-
ché ingrato; b. i cortigiani – su cui Ariosto insiste con altrettanta forza – sono servili e adu-
latori (specie vv. 7-18), avidi di denaro e di onori, e vanagloriosi (specie vv. 157-159 e 166-
177, per contrasto col poeta) ecc.
5. Insieme Ariosto procede, sia pure talora in modo sfumato, a mettere in buona luce se stes-
so: si attribuisce sincerità e schiettezza (vv. 19-21), è stato assiduo e scrupoloso nel suo ufficio
(vari luoghi), fedele e riconoscente (v. 133), ha sinceramente cantato le lodi del cardinale e
degli Estensi (v. 97, v. 106, vv. 139-141), ama la quiete degli studi che sono nobil ésca per la
mente (vv. 160-165), ama la libertà (v. 168), non è invidioso (v. 170), non è vanaglorioso (vv.
172-177), entro certi limiti preferisce libertà e povertà a ricchezza e compromesso.

Laboratorio 1 Individua i passi in cui Ariosto fa osserva- zione di vita di un cortigiano.


COMPRENSIONE zioni di carattere generale sulla vita di 3 Esamina il linguaggio e lo stile adottati da
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE corte, a prescindere dalla propria espe- Ariosto in questa satira: parlane in un
rienza personale. Quali aspetti della vita di breve testo, partendo ad esempio da cin-
corte riguardano? que aggettivi appropriati per delinearli.
2 Individua i principali passi in cui il poeta 4 Sulla scorta degli esercizi 1 e 2, scrivi una
fa osservazioni sulla propria vicenda per- breve descrizione della corte e della vita
sonale che si possono considerare (che del cortigiano quale emerge da questa sa-
Ariosto considera) esemplari della condi- tira.
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24. Ludovico Ariosto T 24.2

T 24.2 Orlando furioso I ed. 1516, III ed. 1532


Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori [I, 1-4]
L. Ariosto L’Orlando furioso, il capolavoro di Ariosto e probabilmente dell’intera letteratura rinasci-
Orlando furioso mentale italiana, si apre, come di consueto, con alcune ottave di proemio. Ma già in que-
a cura di E. Bigi, sti primi versi si possono notare alcune interessanti innovazioni, rispetto alla tradizione
Rusconi, Milano 1982
epico-cavalleresca medievale e allo stesso Orlando innamorato, che consentono di mettere
a fuoco alcuni fondamentali aspetti dell’ideologia e del tono dell’opera ariostesca.

1. Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, 3. Piacciavi, generosa Erculea prole,


le cortesie, l’audaci imprese io canto, ornamento e splendor del secol nostro,
che furo al tempo che passaro i Mori Ippolito, aggradir questo che vuole
d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto, e darvi sol può l’umil servo vostro.
seguendo l’ire e i giovenil furori Quel ch’io vi debbo, posso di parole
d’Agramante lor re, che si diè vanto pagare in parte, e d’opera d’inchiostro;
di vendicar la morte di Troiano né che poco io vi dia da imputar sono;
sopra re Carlo imperator romano. che quanto io posso dar, tutto vi dono.

2. Dirò d’Orlando in un medesmo tratto 4. Voi sentirete fra i più degni eroi,
cosa non detta in prosa mai né in rima: che nominar con laude m’apparecchio,
che per amor venne in furore e matto, ricordar quel Ruggier, che fu di voi
d’uom che sì saggio era stimato prima; e de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio.
se da colei che tal quasi m’ha fatto, L’alto valore e’ chiari gesti suoi
che ’l poco ingegno ad or ad or mi lima, vi farò udir, se voi mi date orecchio,
me ne sarà però tanto concesso, e vostri alti pensier cedino un poco,
che mi basti a finir quanto ho promesso. sì che tra lor miei versi abbiano loco.

Nota metrica 3-4 che furo ... tanto: che de sul motivo della giovi- compimento la mia opera. 4
Ottave di endecasillabi. avvennero nel tempo in cui nezza, età di passioni che 3 2 m’apparecchio: mi
i Saraceni attraversarono lo producono turbamento. 1 generosa ... prole: il preparo.
1 stretto di Gibilterra e causa- 7 Troiano: padre di cardinale Ippolito d’Este, 4 il ceppo vecchio: il
1-2 Le donne ... canto: per rono tanti danni (nocquer Agramante; era stato ucciso nobile figlio (generosa prole) progenitore; Ruggiero,
questo incipit cfr. Pg XIV tanto) in Francia. Ariosto da Orlando. di Ercole I. convertendosi al cristianesi-
109-110: «Le donne e i ca- «riassume rapidamente le 2 3-4 aggradir … vostro: mo e sposando Bradamante,
valier, li affanni e li agi, / che vicende della guerra di 1 in un medesmo tratto: (vogliate, Piacciavi) gradire darà origine alla stirpe degli
ne ’nvogliava amore e cor- Agramante contro Carlo allo stesso tempo. questo omaggio che vuole Estensi (così già in Boiardo).
tesia». Si noti la presenza in Magno, narrate dal Boiar- 3-4 che per amor ... pri- tributarvi e che è tutto ciò 5 chiari gesti: gesta, im-
Ariosto anche di armi (eco do» (Bigi). Agramante, re ma: che per amore divenne che può darvi il vostro umi- prese illustri.
del proemio dell’Eneide: Ar- pagano, aveva promosso il pazzo e furioso, mentre pri- le servitore. 7-8 e vostri ... loco: se tra-
ma virumque cano...,“Le armi passaggio dei Mori in Fran- ma era considerato molto 5-6 Quel ch’io ... inchio- lascerete per un po’ le cose
e l’uomo canto...”) e di au- cia. assennato e saggio. stro: di ciò di cui vi sono de- importanti a cui dovete
daci imprese e il passaggio 5 l’ire ... furori: l’ira, co- 5-8 se da colei ... promes- bitore posso ripagarvi in pensare così da poter ascol-
dall’astratto amore e cortesia di me causa di guerra, è un so:se colei che per amore mi parte dedicandovi questo tare i miei versi.Lett.:se i vo-
Dante al concreto gli amori, motivo classico (l’ira di ha reso quasi altrettanto paz- poema (di parole... e d’opera stri profondi pensieri si ri-
le cortesie, che rivela un’at- Achille); nell’espressione i zo, consumando a poco a d’inchiostro) in cui è celebra- traggano (cedino), così che i
tenzione alla realtà fenome- giovenil furori di Agramente poco il mio già scarso inge- ta la vostra casata (cfr.4,1-4). miei versi trovino spazio
nica più che alla dimensione (che secondo Boiardo aveva gno, me ne lascerà tanto 7 da imputar sono: è co- (abbiano loco) fra loro.
concettuale. ventidue anni) l’accento ca- quanto basti per portare a sa da imputarmi a colpa.

Guida all’analisi
Ripresa della formula classica del proemio Il proemio del Furioso occupa le ottave 1-4 ed è suddiviso, secondo
la tradizione classica ripresa già da Poliziano nelle Stanze, in proposizione (sintetica enun-
ciazione dell’argomento, nelle ottave 1 e 2, 1-4), invocazione (non però alle Muse, ad Apol-
lo o a Dio, ma alla donna amata, ott. 2, 5-8) e dedica (al cardinale Ippolito d’Este di cui
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Quattrocento e Cinquecento

Ariosto fu a lungo segretario, ott. 3-4). Tale ripresa di un modulo classico e poi umanistico
costituisce una sostanziale innovazione per il poema cavalleresco: i poemi d’origine canteri-
na e il Morgante si aprivano infatti con un’invocazione-preghiera a Dio o alla Vergine o a
entrambi (Morgante, I, 1-2). L’Innamorato si apriva, omettendo ogni forma di invocazione,
con un’allocuzione al pubblico virtuale dell’opera, fingendone prioritaria la fruizione orale
(Orl. inn., I,1-4) [R T 18.4 Doc 18.6 ].
Da notare anche la presenza di esplicite reminiscenze da Dante e Virgilio, coerentemente
con la poetica rinascimentale dell’imitazione (cfr. nota 1, 1-2). Ma la novità del Furioso non
sta soltanto nella formula, peraltro significativamente connessa all’uso umanistico.
La proposizione (la drammatica irrazionalità delle armi e dell’amore) Per quanto concerne la proposizione e in
particolare la ripresa di temi quali le arme e gli amori, che di per sé, anche accostati, non co-
stituiscono un’innovazione (la commistione di armi e amori risale alla tradizione canterina
trecentesca, come sappiamo) «occorre subito notare» – scrive Bigi nel suo commento al Fu-
rioso – «che l’Ariosto insiste non tanto sul carattere energicamente vitale e nobilmente
umano dei due temi [come faceva Boiardo], quanto invece sulla loro irrazionalità e dram-
maticità. Per quel che riguarda le armi, si osservi l’accenno al movente egoistico e passiona-
le e alle tragiche conseguenze dell’impresa di Agramante (i Mori / ... in Francia nocquer tanto,
/ seguendo l’ire e i giovenil furori / d’Agramante lor re, vv. 3-6). Ma è soprattutto dell’amore che
l’Ariosto, staccandosi nettamente non solo dal Boiardo ma anche dal Poliziano (che, sempre
nel proemio delle Stanze, I, 6, 7-8, aveva affermato che Amore “ad alto volo impenna ogni
vil core”), sottolinea l’insania e la pazzia, rivendicando anzi, di fronte alla tradizione, la no-
vità, proprio in questo senso, del suo Orlando: “Dirò d’Orlando in un medesmo tratto / co-
sa non detta in prosa mai né in rima: / che per amor venne in furore e matto, / d’uom che
sì saggio era stimato prima” [2, 1-4]».
L’invocazione (alla donna amata perché non gli “limi” troppo l’ingegno) Ma anche l’invocazione presenta ele-
menti di novità rispetto alla precedente tradizione. Scrive ancora Bigi che essa è «rivolta
non alle Muse o ad Apollo (come per lo più nei poemi classici e umanistici, e nella stessa
Commedia dantesca) né a Dio o alla Vergine o a qualche santo (come nella tradizione can-
terina), e neppure ad Amore (come nelle Stanze polizianesche), ma proprio alla donna
amata, certamente da identificare con Alessandra Benucci». Inoltre, qui il poeta chiede alla
donna amata «non l’ispirazione al canto, bensì una remissione del furore amoroso, che gli
consenta di compiere la sua opera. In tal modo l’Ariosto, con una ironia che non incrina
la serietà della constatazione, non solo estende al proprio caso personale la legge irraziona-
le dell’amore già verificata nel caso di Orlando, ma più particolarmente sottomette a que-
sta legge il suo ingegno, la sua stessa operazione poetica, intesa come espressione di una
“saggezza”, che trova il suo limite nella realtà irriducibile delle passioni e della vita».
Ideologia e stile Fin dal proemio Ariosto propone due elementi che vedremo costitutivi dell’intera opera:
una visione del mondo fondamentalmente pessimistica, a tratti anche amara, o quanto me-
no consapevole di quanto ci sia di negativo nel reale; e d’altro canto una “saggezza” conqui-
stata nel tempo che si esprime attraverso il ricorso a una misurata ironia (nel presentare,
contro la tradizione, Orlando in furore e matto e nell’alludere alla propria donna) e attraverso
un sapiente, armonico controllo formale della materia narrativa.

Laboratorio 1 Per quale motivo il poema s’intitola Or- osservazioni formulate nella Guida all’a-
COMPRENSIONE lando furioso? A chi Ariosto rivolge l’invo- nalisi.
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE cazione e che cosa chiede? A chi Ariosto 3 Confronta il diverso atteggiamento che
dedica il proprio poema? Perché viene Ariosto mostra nei confronti del cardina-
citato Ruggiero? le Ippolito in questo proemio e nella Sa-
2 Confronta questo proemio con quello di tira I: in che cosa consiste la differenza?
Boiardo, individuando analogie e diffe- Come la si può spiegare e giustificare?
renze e verificando, su tale argomento, le
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24. Ludovico Ariosto T 24.3

T 24.3 Orlando furioso I ed. 1516, III ed. 1532


Angelica nella selva [I, 5-71]
L. Ariosto Il canto I del Furioso è un microcosmo affascinante e perfetto capace di rivelare le ca-
Orlando furioso ratteristiche salienti dell’intero poema: il dinamismo e la fluidità del racconto, le strut-
a cura di E. Bigi, ture e le tecniche narrative che ne regolano lo sviluppo, il ruolo centrale di temi come
Rusconi, Milano 1982
la delusione delle attese o come lo scacco continuo di fronte ai capricci del caso, l’a-
mara concezione del mondo che è possibile scorgere nella filigrana simbolica del rac-
conto, e insieme la leggerezza che il tono lieve e ironico della narrazione e delle espli-
cite riflessioni morali del narratore dà a una materia in fondo problematica e pessimi-
stica. Tutto questo è il canto della fuga di Angelica nella selva e tutto questo è il Furio-
so. Dovremo quindi accostarci a questo testo con particolare attenzione critica, ma an-
che con disponibilità a lasciarci trascinare da una narrazione serrata e ironica, perché
l’incontro con il Furioso può diventare un incontro memorabile, come lo è stato per un
infinito numero di lettori dalla sua prima uscita ai giorni nostri.
Qui Ariosto, riprendendo la materia dell’Innamorato al punto in cui Boiardo l’aveva
lasciata interrotta, narra la fuga di Angelica dal campo cristiano, dove veniva tenuta pri-
gioniera da re Carlo in attesa che Orlando o Rinaldo si guadagnassero il diritto d’aver-
la in premio in virtù delle loro imprese contro i saraceni. Con la sua fuga si mette in
moto il meccanismo dell’“inchiesta” (e cioè della ricerca) di Angelica da parte di sva-
riati personaggi innamorati di lei. È fin dal primo canto un incrociarsi di percorsi e di
destini nella selva circostante il campo cristiano, un picciol mondo che può alludere sim-
bolicamente al mondo più vasto dove l’uomo affronta gli affanni dell’esistenza.

5. Orlando, che gran tempo inamorato 7. che vi fu tolta la sua donna poi:
fu de la bella Angelica, e per lei ecco il giudicio uman come spesso erra!
in India, in Media, in Tartaria lasciato Quella che dagli esperii ai liti eoi
avea infiniti et immortal trofei, avea difesa con sì lunga guerra,
in Ponente con essa era tornato, or tolta gli è fra tanti amici suoi
dove sotto i gran monti Pirenei senza spada adoprar, ne la sua terra.
con la gente di Francia e de Lamagna Il savio imperator, ch’estinguer volse
re Carlo era attendato alla campagna. un grave incendio, fu che gli la tolse.

6. per far al re Marsilio e al re Agramante 8. Nata pochi dì inanzi era una gara
battersi ancor del folle ardir la guancia, tra il conte Orlando e il suo cugin Rinaldo;
d’aver condotto, l’un, d’Africa quante che ambi avean per la bellezza rara
genti erano atte a portar spada e lancia; d’amoroso disio l’animo caldo.
l’altro, d’aver spinta la Spagna inante Carlo, che non avea tal lite cara,
a destruzion del bel regno di Francia. che gli rendea l’aiuto lor men saldo,
E così Orlando arrivò quivi a punto: questa donzella, che la causa n’era,
ma tosto si pentì d’esservi giunto; tolse, e diè in mano al duca di Bavera;

5 3 in India...Tartaria: va- re saraceno di Spagna) e della sera) a oriente (i lidi eoi, bellezza.
1 Orlando... inamora- rie regioni che indicano in Agramante (re africano di- dove sorge Eos, l’aurora). 5-8 Carlo... Bavera: re
to: «Nella espressione Or- generale il lontano Oriente. scendente da Alessandro 6 senza... adoprar: senza Carlo, non gradendo questa
lando... inamorato qualcuno 3-4 lasciato... trofei: aveva Magno) si battano la guan- combattimento; si contrap- lite che diminuiva il loro
ha visto, forse a ragione, compiuto innumerevoli cia in segno di pentimento pone a con sì lunga guerra. apporto alla battaglia (ren-
un’allusione discreta al poe- imprese vittoriose (trofei). per la loro folle impresa (de- 7-8 Il savio imperator... la dea... men saldo), prese An-
ma del Boiardo, che l’A. non 7 con... Lamagna: con scritta subito dopo). tolse: a sottrargli Angelica fu gelica, che era la causa della
nomina mai esplicitamente gli eserciti di Francia e di 5 inante: avanti. Carlo Magno, saggio impe- contesa, e la affidò al duca di
nel Furioso.In ogni caso,nel- Germania (Lamagna, Ale- 7 a punto: al momento ratore, che volle placare Baviera: «Namo, duca di
la presente st. e nelle quattro magna). opportuno. (estinguer volse) la contesa Baviera, che rappresenta,
che seguono, l’A. riassume 8 attendato... campa- 7 (incendio) sorta fra questi e nella tradizione carolingia,
rapidamente alcuni fatti già gna: aveva posto l’accampa- 1 che... tolta: poiché qui Rinaldo per il possesso di e anche nell’Innamorato, un
narrati dal Boiardo [...], che mento in aperta campagna. (vi) gli venne sottratta. Angelica. personaggio di vecchio e
servono ad introdurre l’epi- 6 3 dagli esperii... eoi: da 8 saggio guerriero, non dissi-
sodio della fuga di Angelica» 1-2 per far... la guancia: occidente (i lidi esperii, dove 3 per la bellezza rara: mile dal Nestore omerico»
(Bigi). per far sì che i re Marsilio (il compare Espero la stella per Angelica, donna di rara (Bigi).

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Quattrocento e Cinquecento

9. in premio promettendola a quel d’essi 12. Era costui quel paladin gagliardo,
ch’in quel conflitto, in quella gran giornata, figliuol d’Amon, signor di Montalbano,
degli infideli più copia uccidessi, a cui pur dianzi il suo destrier Baiardo
e di sua man prestassi opra più grata. per strano caso uscito era di mano.
Contrari ai voti poi furo i successi; Come alla donna egli drizzò lo sguardo,
ch’in fuga andò la gente battezzata, riconobbe, quantunque di lontano,
e con molti altri fu ’l duca prigione, l’angelico sembiante e quel bel volto
e restò abbandonato il padiglione. ch’all’amorose reti il tenea involto.

10. Dove, poi che rimase la donzella 13. La donna il palafreno a dietro volta,
ch’esser dovea del vincitor mercede, e per la selva a tutta briglia il caccia;
inanzi al caso era salita in sella, né per la rara più che per la folta,
e quando bisognò le spalle diede, la più sicura e miglior via procaccia:
presaga che quel giorno esser rubella ma pallida, tremando, e di sé tolta,
dovea Fortuna alla cristiana fede: lascia cura al destrier che la via faccia.
entrò in un bosco, e ne la stretta via Di su di giù, ne l’alta selva fiera
rincontrò un cavallier ch’a piè venia. tanto girò, che venne a una riviera.

11. Indosso la corazza, l’elmo in testa, 14. Su la riviera Ferraù trovosse


la spada al fianco, e in braccio avea lo scudo; di sudor pieno e tutto polveroso.
e più leggier correa per la foresta, Da la battaglia dianzi lo rimosse
ch’al pallio rosso il villan mezzo ignudo. un gran disio di bere e di riposo;
Timida pastorella mai sì presta e poi, mal grado suo, quivi fermosse,
non volse piede inanzi a serpe crudo, perché, de l’acqua ingordo e frettoloso,
come Angelica tosto il freno torse, l’elmo nel fiume si lasciò cadere,
che del guerrier, ch’a piè venia, s’accorse. ne l’avea potuto anco riavere.

9 lica (designata con la peri- corse campestri reali rap- 7 l’angelico sembiante: 5 di sé tolta: fuori di sé.
2 giornata: battaglia frasi“colei che doveva essere presentate un tempo anche è modulo tradizionale (cor- 6 lascia cura... faccia: si
campale. data in premio al vincitore”) negli affreschi di Palazzo tese e stilnovistico), ma qui lascia guidare dal cavallo (gli
3-4 degli... grata: uccides- prima della disfatta dei cri- Schifanoia a Ferrara. allude anche al nome di An- lascia il compito di trovare
se il maggior numero (più stiani (inanzi al caso) era salita 5-6 Timida... crudo: mai gelica. da sé la strada).
copia) di infedeli e compisse a cavallo e al momento op- un’impaurita pastorella 8 all’amorose... involto: 7 ne l’alta selva fiera:
personalmente (di sua man) portuno (quando bisognò) fuggì (volse il piede) così rapi- lo teneva avvinto nelle reti «nella selva profonda e intri-
le imprese più gradite (grate) volse le spalle al campo, cioè damente di fronte a un cru- d’Amore (è metafora pe- cata» (Bigi).
al re, cioè più utili alla causa. scappò via. dele serpente. trarchesca). 8 riviera: fiume.
5 Contrari... successi: 5 rubella: avversa. 7 il freno torse: tirò le 13 14
l’esito della battaglia, gli 11 briglie (freno) facendo cam- 1 il palafreno... volta: 1 Ferraù: personaggio
eventi (successi) furono poi 1-2 Indosso... lo scudo:era biare direzione al cavallo. volta indietro il cavallo. Il già presente nei cantari e
contrari alle speranze (voti). cioè armato di tutto punto; 12 palafreno era un «cavallo da nell’Innamorato boiardesco
6 ch’in fuga.. battezza- si noti il doppio chiasmo a 2 figliuol... Montalba- parata. L’Ariosto lo scambia (col nome di Ferraguto): sa-
ta: i cristiani vennero scon- ruoli invertiti (abba, baab). no: Rinaldo. spesso con “destriero”, che raceno, nipote di Marsilio, è
fitti e messi in fuga. 4 ch’al pallio... ignudo: 3-4 a cui... mano: a cui po- era il cavallo da battaglia» innamorato anche lui di
7 fu... prigione: il duca più leggero del contadino co prima (pur dianzi) per (Caretti). Angelica.
di Baviera fu fatto prigio- seminudo (cioè non appe- uno strano caso era scappato 2 il caccia: lo dirige (con 6 de l’acqua... frettolo-
niero. santito dalle armi) nelle cor- il cavallo Baiardo: in un epi- impeto). so: abbeverandosi con in-
8 il padiglione: la tenda se campestri (il pallio è il sodio dell’Orlando innamo- 3-4 né... procaccia: e non gordigia e con fretta.
del medesimo duca, dov’era drappo che veniva dato in rato si narra come Rinaldo, lo guida per la strada miglio-
custodita Angelica. premio al vincitore). È una sceso di cavallo per combat- re e più sicura, né dove la ve-
10 reminiscenza dantesca (If tere paritariamente con un getazione è più rada, né do-
1-4 Dove... diede: qui, do- XV 121-123) ma probabil- cavaliere appiedato,non fos- ve è più folta.
po essere rimasta sola,Ange- mente anche il ricordo di se poi riuscito a riprenderlo.

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24. Ludovico Ariosto T 24.3

15. Quanto potea più forte, ne veniva 19. Disse al pagan: – Me sol creduto avrai,
gridando la donzella ispaventata. e pur avrai te meco ancora offeso:
A quella voce salta in su la riva se questo avvien perché i fulgenti rai
il Saracino, e nel viso la guata; del nuovo sol t’abbino il petto acceso,
e la conosce subito ch’arriva, di farmi qui tardar che guadagno hai?
ben che di timor pallida e turbata, che quando ancor tu m’abbi morto o preso,
e sien più dì che non n’udì novella, non però tua la bella donna fia;
che senza dubbio ell’è Angelica bella. che, mentre noi tardian, se ne va via.

16. E perché era cortese, e n’avea forse 20. Quanto fia meglio, amandola tu ancora,
non men dei dui cugini il petto caldo, che tu le venga a traversar la strada,
l’aiuto che potea, tutto le porse, a ritenerla e farle far dimora,
pur come avesse l’elmo, ardito e baldo: prima che più lontana se ne vada!
trasse la spada, e minacciando corse Come l’avremo in potestate, allora
dove poco di lui temea Rinaldo. di ch’esser de’ si provi con la spada:
Più volte s’eran già non pur veduti, non so altrimenti, dopo un lungo affanno,
m’al paragon de l’arme conosciuti. che possa riuscirci altro che danno. –

17. Cominciar quivi una crudel battaglia, 21. Al pagan la proposta non dispiacque:
come a piè si trovar, coi brandi ignudi: così fu differita la tenzone;
non che le piastre e la minuta maglia, e tal tregua tra lor subito nacque,
ma ai colpi lor non reggerian gl’incudi. sì l’odio e l’ira va in oblivione,
Or, mentre l’un con l’altro si travaglia, che ’l pagano al partir da le fresche acque
bisogna al palafren che ’l passo studi; non lasciò a piedi il buon figliol d’Amone:
che quanto può menar de le calcagna, con preghi invita, et al fin toglie in groppa,
colei lo caccia al bosco e alla campagna. e per l’orme d’Angelica galoppa.

18. Poi che s’affaticar gran pezzo invano 22. Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!
i duo guerrier, per por l’un l’altro sotto, Eran rivali, eran di fé diversi,
quando non meno era con l’arme in mano e si sentian degli aspri colpi iniqui
questo di quel, né quel di questo dotto; per tutta la persona anco dolersi;
fu primiero il signor di Montalbano, e pur per selve oscure e calli obliqui
ch’al cavallier di Spagna fece motto, insieme van senza sospetto aversi.
sì come quel c’ha nel cor tanto fuoco, Da quattro sproni il destrier punto arriva
che tutto n’arde e non ritrova loco. ove una strada in due si dipartiva.

15 17 spinge verso il bosco (al bosco se questo duello ha luogo danno.


1-2 Quanto... ispaventata: 2 brandi ignudi: spade e alla campagna, cioè lontano perché sei innamorato di 21
la giovane spaventata so- snudate. dal fiume) incitandolo Angelica (lett.: i raggi ful- 4 va in oblivione: vanno
praggiungeva in quel luogo 3-4 non che... gl’incudi: ai quanto più può con gli genti del nuovo sole ti han- in oblio, vengono dimenti-
gridando quanto più forte loro colpi non avrebbero sproni (quanto può menar de le no incendiato il petto), che cati.
poteva. retto non solo le piastre del- calcagna). vantaggio ne ricavi tu a te- 6-7 con preghi... groppa:
4 guata: guarda, osserva. l’armatura e la fitta maglia di 18 nermi occupato qui? lo invita e lo prega e alla fine
5 la conosce... arriva: la ferro (che indossavano), ma 1-4 Poi... dotto:dopo che i 6 quando... preso: (dopo vari dinieghi di Ri-
riconosce non appena si av- neppure delle incudini. Pia- due guerrieri ebbero com- quand’anche tu mi avessi naldo) lo fa salire in groppa.
vicina. stre e maglia indicano «le la- battuto a lungo, invano sfor- ucciso o catturato. Ironica scenetta di convene-
7 e sien... novella: e mine di metallo di cui era zandosi di avere il soprav- 7 fia: sarebbe. voli.
(benché) siano più giorni formata l’armatura (brac- vento l’uno sull’altro (per por 8 tardian: tardiamo (da 22
che non aveva sue notizie. ciali, spallacci, corazza) e la l’un l’altro sotto), dal mo- pronunciarsi tardiàn). 3-4 si sentian … dolersi: si
16 sottile maglia di ferro che mento che l’uno non era 20 sentivano ancora dolenti in
1-2 e n’avea... caldo: e ne veniva indossata sotto l’ar- meno esperto dell’altro nel- 2 traversar la strada: im- tutto il corpo per i tremendi
era innamorato forse non matura stessa» (Caretti). L’i- l’uso delle armi. pedirle la fuga. colpi subiti. Iniqui, latinismo,
meno dei due cugini, di Or- perbole sottolinea la violen- 6 fece motto: rivolse la 3 farle far dimora: fer- vale qui «eccessivi; quindi
lando e Rinaldo. za dei colpi. parola. marla. difficili da sopportare» (Bi-
6 dove... Rinaldo: in- 5 l’un … si travaglia: si 8 non ritrova loco: non 6 di ch’esser de’: a chi gi).
contro a Rinaldo che poco scontrano in duello (lett. si trova pace. dei due debba appartenere. 5 calli obliqui: sentieri
temeva di lui. affaticano l’un contro l’al- 19 7-8 non so... danno: altri- tortuosi, intricati.
8 al paragon de l’arme: tro). 1-5 Me sol creduto... hai: menti (se ci comportiamo 6 senza... aversi: senza
alla prova delle armi (parago- 6-8 bisogna... campagna: avrai creduto di danneggia- diversamente), non potre- alcun sospetto, senza provare
ne è termine tecnico del bisogna che il cavallo affretti re solo me e invece avrai mo ricavare, dopo la lunga (aversi) sospetto l’uno del-
duello). il passo, poiché Angelica lo danneggiato anche te stesso; fatica del duello,altro che un l’altro.

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Quattrocento e Cinquecento

23. E come quei che non sapean se l’una 27. Ricordati, pagan, quando uccidesti
o l’altra via facesse la donzella d’Angelica il fratel (che son quell’io),
(però che senza differenzia alcuna dietro all’altr’arme tu mi promettesti
apparia in amendue l’orma novella), gittar fra pochi dì l’elmo nel rio.
si messero ad arbitrio di fortuna, Or se Fortuna (quel che non volesti
Rinaldo a questa, il Saracino a quella. far tu) pone ad effetto il voler mio,
Pel bosco Ferraù molto s’avvolse, non ti turbare; e se turbar ti dei,
e ritrovossi al fine onde si tolse. turbati che di fé mancato sei.

24. Pur si ritrova ancor su la riviera, 28. Ma se desir pur hai d’un elmo fino,
là dove l’elmo gli cascò ne l’onde. trovane un altro, et abbil con più onore;
Poi che la donna ritrovar non spera, un tal ne porta Orlando paladino,
per aver l’elmo che ’l fiume gli asconde, un tal Rinaldo, e forse anco migliore:
in quella parte onde caduto gli era l’un fu d’Almonte, e l’altro di Mambrino:
discende ne l’estreme umide sponde: acquista un di quei duo col tuo valore;
ma quello era sì fitto ne la sabbia, e questo, c’hai già di lasciarmi detto,
che molto avrà da far prima che l’abbia. farai bene a lasciarmi con effetto. –

25. Con un gran ramo d’albero rimondo, 29. All’apparir che fece all’improvviso
di ch’avea fatto una pertica lunga, de l’acqua l’ombra, ogni pelo arricciossi,
tenta il fiume e ricerca sino al fondo, e scolorossi al Saracino il viso:
né loco lascia ove non batta e punga. la voce, ch’era per uscir, fermossi.
Mentre con la maggior stizza del mondo Udendo poi da l’Argalia, ch’ucciso
tanto l’indugio suo quivi prolunga, quivi avea già (che l’Argalia nomossi),
vede di mezzo il fiume un cavalliero la rotta fede così improverarse,
insino al petto uscir, d’aspetto fiero. di scorno e d’ira dentro e di fuor arse.

26. Era, fuor che la testa, tutto armato, 30. Né tempo avendo a pensar altra scusa,
et avea un elmo ne la destra mano: e conoscendo ben che ’l ver gli disse,
avea il medesimo elmo che cercato restò senza risposta a bocca chiusa;
da Ferraù fu lungamente invano. ma la vergogna il cor sì gli traffisse,
A Ferraù parlò come adirato, che giurò per la vita di Lanfusa
e disse: – Ah mancator di fé, marano! non voler mai ch’altro elmo lo coprisse,
perché di lasciar l’elmo anche t’aggrevi, se non quel buono che già in Aspramonte
che render già gran tempo mi dovevi? trasse del capo Orlando al fiero Almonte.

23 (Bigi). raù nell’Orlando innamora- per il fatto che sei venuto 7 la rotta... improve-
1 E come quei che: e 6 discende... sponde: to. meno alla promessa fatta. rarse: rimproverargli così
dato che. scende sino all’estremo li- 26 28 aspramente l’infrazione del
4 apparia... novella: le mite della sponda, bagnato 6 marano: marrano, tra- 2 abbil: conquistalo patto.
impronte apparivano fre- dalle acque del fiume. ditore (in origine designava (meglio che ‘portalo’). 8 scorno: dispetto, rab-
sche, recenti in entrambe le 7 sì fitto: così profonda- i mussulmani o gli ebrei 5 Almonte... Mambri- bia.
direzioni. mente confitto. convertiti a forza al cristia- no: guerrieri uccisi rispetti- 30
5 si messero... fortuna: 25 nesimo). vamente da Orlando e da 5 Lanfusa: sua madre.
si affidarono al caso. 1 rimondo: mondato, 7 t’aggrevi: ti crucci. Rinaldo (in diversi episodi
7 s’avvolse: «Si aggirò, ripulito dalle foglie. 27 della tradizione dei cantari).
perdendo l’orientamento» 3 tenta: scandaglia. 3 dietro all’altr’arme: 8 con effetto: effettiva-
(Bigi). 4 né loco... punga: e insieme alle altre parti del- mente, di fatto.
8 onde si tolse: al punto non trascura di battere o di l’armatura. 29
di partenza, là donde era sondare con la pertica nes- 4 fra pochi dì: entro po- 1-2 All’apparir... l’om-
partito. sun luogo. chi giorni. bra: quando improvvisa-
24 7 un cavalliero: è il fan- 6 pone ad effetto: rea- mente il fantasma (l’ombra)
1 Pur: «nonostante tut- tasma di Argalia, il fratello lizza, compie. apparve sorgendo dalle ac-
to, malgrado i suoi sforzi» di Angelica ucciso da Fer- 8 turbati... sei: tùrbati que.
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31. E servò meglio questo giuramento, 35. Quel dì e la notte e mezzo l’altro giorno
che non avea quell’altro fatto prima. s’andò aggirando, e non sapeva dove.
Quindi si parte tanto malcontento, Trovossi al fine in un boschetto adorno,
che molti giorni poi si rode e lima. che lievemente la fresca aura muove.
Sol di cercare è il paladino intento Duo chiari rivi, mormorando intorno,
di qua di là, dove trovarlo stima. sempre l’erbe vi fan tenere e nuove;
Altra ventura al buon Rinaldo accade, e rendea ad ascoltar dolce concento,
che da costui tenea diverse strade. rotto tra picciol sassi, il correr lento.

32. Non molto va Rinaldo, che si vede 36. Quivi parendo a lei d’esser sicura
saltare innanzi il suo destrier feroce: e lontana a Rinaldo mille miglia,
– Ferma, Baiardo mio, deh, ferma il piede! da la via stanca e da l’estiva arsura,
che l’esser senza te troppo mi nuoce. – di riposar alquanto si consiglia;
Per questo il destrier sordo a lui non riede, tra’ fiori smonta, e lascia alla pastura
anzi più se ne va sempre veloce. andare il palafren senza la briglia;
Segue Rinaldo, e d’ira si distrugge: e quel va errando intorno alle chiare onde,
ma seguitiamo Angelica che fugge. che di fresca erba avean piene le sponde.

33. Fugge tra selve spaventose e scure, 37. Ecco non lungi un bel cespuglio vede
per lochi inabitati, ermi e selvaggi. di prun fioriti e di vermiglie rose,
Il mover de le frondi e di verzure, che de le liquide onde al specchio siede,
che di cerri sentia, d’olmi e di faggi, chiuso dal sol fra l’alte quercie ombrose;
fatto le avea con subite paure così voto nel mezzo, che concede
trovar di qua di là strani viaggi; fresca stanza fra l’ombre più nascose:
ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle, e la foglia coi rami in modo è mista,
temea Rinaldo aver sempre alle spalle. che ’l sol non v’entra, non che minor vista.

34. Qual pargoletta o damma o capriuola, 38. Dentro letto vi fan tenere erbette,
che tra le fronde del natio boschetto ch’invitano a posar chi s’appresenta.
alla madre veduta abbia la gola La bella donna in mezzo a quel si mette;
stringer dal pardo, o aprirle ’l fianco o ’l petto, ivi si corca, et ivi s’addormenta.
di selva in selva dal crudel s’invola, Ma non per lungo spazio così stette,
e di paura triema e di sospetto; che un calpestio le par che venir senta:
ad ogni sterpo che passando tocca, cheta si leva, e appresso alla riviera
esser si crede all’empia fera in bocca. vede ch’armato un cavallier giunt’era.

31 5 Per questo... riede: ciò delle foglie di cerri, d’olmi, 35 que del ruscello.
1 servò: mantenne. nonostante Baiardo, quasi di faggi che Angelica senti- 5-8 Duo... lento: due lim- 4 chiuso dal sol: al riparo
2 che... prima:di quanto fosse sordo, non ritorna (non va, impaurendola all’im- pidi ruscelli, che mormora- dal sole.
non avesse fatto con il pre- riede) da Rinaldo. provviso, le aveva fatto per- no lì intorno, fanno crescere 6 fresca stanza: una fre-
cedente. 6 anzi... veloce: anzi se correre, ora di qua ora di là, l’erba sempre tenera e nuo- sca dimora.
3 Quindi si parte: si al- ne va sempre più (più... sem- strane vie. va; il loro lento scorrere, 7 in modo è mista: è a tal
lontana di qui. pre) velocemente. 34 ostacolato da piccoli sassi, punto intrecciata.
4 si rode e lima: si con- 7 Segue Rinaldo: Rinal- 1 Qual.. capriuola: co- produceva una dolce armo- 8 minor vista: «uno
suma, si angustia. do lo insegue. me una giovane daina o ca- nia (concento) per chi l’ascol- sguardo meno penetrante di
5 Sol... intento: si preoc- 8 ma... fugge: rapida priola. tava. quello del sole, come può
cupa solo di cercare il pala- formula che segnala il pas- 4 pardo: «gattopardo, 36 essere quello di un occhio
dino Orlando. saggio da un filo all’altro che era animale addestrato 3 da la via stanca: stanca umano» (Bigi).
8 che da costui... strade: della storia, secondo la tec- per la caccia» (Caretti). per la strada percorsa. 38
che seguiva strade diverse da nica dell’entrelacement. 5 dal crudel s’invola: si 4 si consiglia: decide. 4 si corca: si corica, si
quella di Ferraù. 33 allontana fuggendo dal cru- 5 alla pastura: al pascolo. stende.
32 2 ermi: solitari. dele predatore. 37 6 le par... senta: le sem-
2 feroce: fiero, ardito. 3-6 Il mover... viaggi: il 6 triema: trema. 3 de le liquide... siede: si bra di sentir venire.
movimento delle fronde e 8 empia: spietata. specchia nelle limpide ac- 7 cheta: cauta, silenziosa.

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Quattrocento e Cinquecento

39. Se gli è amico o nemico non comprende: 43. Ma non sì tosto dal materno stelo
tema e speranza il dubbio cuor le scuote; rimossa viene e dal suo ceppo verde,
e di quella avventura il fine attende, che quanto avea dagli uomini e dal cielo
né pur d’un sol sospir l’aria percuote. favor, grazia e bellezza, tutto perde.
Il cavalliero in riva al fiume scende, La vergine che ’l fior, di che più zelo
sopra l’un braccio a riposar le gote; che de’ begli occhi e de la vita aver de’,
e in un suo gran pensier tanto penetra, lascia altrui corre, il pregio ch’avea inanti
che par cangiato in insensibil pietra. perde nel cor di tutti gli altri amanti.

40. Pensoso più d’un’ora a capo basso 44. Sia vile agli altri, e da quel solo amata
stette, Signore, il cavallier dolente; a cui di sé fece sì larga copia.
poi cominciò con suono afflitto e lasso Ah, Fortuna crudel, Fortuna ingrata!
a lamentarsi sì soavemente, trionfan gli altri, e ne moro io d’inopia.
ch’avrebbe di pietà spezzato un sasso, Dunque esser può che non mi sia più grata?
una tigre crudel fatta clemente. dunque io posso lasciar mia vita propia?
Sospirando piangea, tal ch’un ruscello Ah, più tosto oggi manchino i dì miei,
parean le guancie, e ’l petto un Mongibello. ch’io viva più, s’amar non debbo lei! –

41. – Pensier – dicea – che ’l cor m’aggiacci et ardi, 45. Se mi domanda alcun chi costui sia,
e causi il duol che sempre il rode e lima, che versa sopra il rio lacrime tante,
che debbo far, poi ch’io son giunto tardi, io dirò ch’egli è il re di Circassia,
e ch’altri a corre il frutto è andato prima? quel d’amor travagliato Sacripante;
a pena avuto io n’ho parole e sguardi, io dirò ancor, che di sua pena ria
et altri n’ha tutta la spoglia opima. sia prima e sola causa essere amante,
Se non ne tocca a me frutto né fiore, e pur un degli amanti di costei:
perché affligger per lei mi vuo’ più il core? e ben riconosciuto fu da lei.

42. La verginella è simile alla rosa, 46. Appresso ove il sol cade, per suo amore
che’in bel giardin su la nativa spina venuto era dal capo d’Oriente;
mentre sola e sicura si riposa, che seppe in India con suo gran dolore,
né gregge né pastor se le avicina; come ella Orlando sequitò in Ponente:
l’aura soave e l’alba rugiadosa, poi seppe in Francia che l’imperatore
l’acqua, la terra al suo favor s’inchina: sequestrata l’avea de l’altra gente,
gioveni vaghi e donne inamorate per darla all’un de’ duo che contra il Moro
amano averne e seni e tempie ornate. più quel giorno aiutasse i Gigli d’oro.

39 poema. il mio cuore dovrebbe af- cuore di tutti quelli che la difensore della sua verginità
1 Se gli è amico: se egli è 3 lasso: debole, stanco. fliggersi ancora per lei? amavano. nell’assedio di Albraca» (Ca-
un amico, oppure: se le è 8 Mongibello:Etna,cioè 42 44 retti).
amico. un vulcano (per l’ardore dei 2 su la nativa spina: sullo 1 vile: priva di valore, 7 pur: anzi.
2 il dubbio cuor: il cuore sospiri che emette). stelo spinoso da cui nata. spregevole. 46
dubbioso, incerto. 41 4 se le: le si. 2 larga copia: dono ge- 1 Appresso... cade: in
4 né... percuote: e non 1 m’aggiacci: mi ag- 6 al suo favor: di fronte neroso. Occidente, là dove tramon-
emette neppure un sospiro, ghiacci (l’antitesi con ardi è alla sua grazia; oppure: a fa- 4 ne moro d’inopia: ta il sole.
per non fare rumore. tipicamente petrarchesca). vorirla. muoio per esserne privo,per 2 dal capo d’Oriente:
6 sopra l’un braccio... 4 corre il frutto: cogliere 43 la privazione. dall’estremo Oriente.
gote: a riposarsi appoggian- il frutto, tradizionale me- 1-3 Ma non sì tosto... che: 5 Dunque... grata?: è 8 Gigli d’oro: «stemma
do il capo su un braccio. tafora erotica che allude qui ma non appena. dunque possibile che non di Francia, per dire la Fran-
7 e in suo … penetra: e si alla conquista proprio di 5-8 La vergine... amanti: mi sia più cara la vita? cia stessa» (Caretti). È una
concentra a tal punto nei Angelica. la fanciulla che permette ad 7 manchino: abbiano metonimia.
suoi pensieri. 6 spoglia opima: ricca altri di cogliere quel fiore (la termine.
8 cangiato: tramutato. preda; è un latinismo, ancora verginità), di cui deve avere 45
40 con valore erotico (l’intero più cura che degli occhi e 4 Sacripante: «Già, nel-
2 Signore: è il cardinale suo corpo). della vita, perde il fascino l’Innamorato, amante fedele
Ippolito, il destinatario del 8 perché... core?: perché che possedeva prima nel ma sfortunato di Angelica e

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47. Stato era in campo, e inteso avea di quella 51. Ma non però disegna de l’affanno
rotta crudel che dianzi ebbe re Carlo: che lo distrugge alleggierir chi l’ama,
cercò vestigio d’Angelica bella, e ristorar d’ogni passato danno
né potuto avea ancora ritrovarlo. con quel piacer ch’ogni amator più brama:
Questa è dunque la trista e ria novella ma alcuna finzione, alcuno inganno
che d’amorosa doglia fa penarlo, di tenerlo in speranza ordisce e trama;
affligger, lamentare e dir parole tanto ch’a quel bisogno se ne serva,
che di pietà potrian fermare il sole. poi torni all’uso suo dura e proterva.

48. Mentre costui così s’affligge e duole, 52. E fuor di quel cespuglio oscuro e cieco
e fa degli occhi suoi tiepida fonte, fa di sé bella et improvisa mostra,
e dice queste e molte altre parole, come di selva o fuor d’ombroso speco,
che non mi par bisogno esser racconte; Diana in scena o Citerea si mostra;
l’aventurosa sua fortuna vuole e dice all’apparir: – Pace sia teco;
ch’alle orecchie d’Angelica sian conte: teco difenda Dio la fama nostra,
e così quel ne viene a un’ora, a un punto, e non comporti, contra ogni ragione,
ch’in mille anni o mai più non è raggiunto. ch’abbi di me sì falsa opinione. –

49. Con molta attenzion la bella donna 53. Non mai con tanto gaudio o stupor tanto
al pianto, alle parole, al modo attende levò gli occhi al figliuolo alcuna madre,
di colui ch’in amarla non assonna; ch’avea per morto sospirato e pianto,
né questo è il primo dì ch’ella l’intende: poi che senza esso udì tornar le squadre;
ma dura e fredda più d’una colonna, con quanto gaudio il Saracin, con quanto
ad averne pietà non però scende; stupor l’alta presenza e le leggiadre
come colei c’ha tutto il mondo a sdegno, maniere e il vero angelico sembiante,
e non le par ch’alcun sia di lei degno. improviso apparir si vide inante.

50. Pur tra quei boschi il ritrovarsi sola 54. Pieno di dolce e d’amoroso affetto,
le fa pensar di tor costui per guida; alla sua donna, alla sua diva corse,
che chi ne l’acqua sta fin alla gola, che con le braccia al collo il tenne stretto,
ben è ostinato se mercé non grida. quel ch’al Catai non avria fatto forse.
Se questa occasione or se l’invola, Al patrio regno, al suo natio ricetto,
non troverà mai più scorta sì fida; seco avendo costui, l’animo torse:
ch’a lunga prova conosciuto inante, subito in lei s’avviva la speranza
s’avea quel re fedel sopra ogni amante. di tosto riveder sua ricca stanza.

47 un solo istante ottiene 8 quel re fedel: cfr. nota scena di dei mitologici» non avrebbe forse fatto.
1 in campo: sul campo quello che in mille anni o 45,4. (Bigi), rappresentate nelle 5-6 Al patrio... torse: ri-
di battaglia. mai altri hanno potuto ave- 51 favole mitologiche e pasto- volse i pensieri al regno pa-
2 rotta: sconfitta. re. 6 di tenerlo: tale da te- rali. terno, al suo paese natale,
3 vestigio: traccia. 49 nerlo. 5 teco: con te. che avrebbe potuto rag-
5 ria novella: cattiva no- 3 in amarla non asson- 7-8 tanto... proterva: tan- 7 non comporti: (la fa- giungere scortata da lui
tizia. na: non si stanca, non smet- to da servirsene per le sue ma nostra) non permetta. (Angelica dunque abbrac-
6 che... penarlo: che lo te mai d’amarla. momentanee necessità, per 53 cia Sacripante non per af-
fa soffrire per amore. 4 né questo... l’intende: ritornare poi a essere dura e 4 squadre: eserciti. fetto ma pensando alla pro-
8 che... sole: iperbole né questa è la prima volta sdegnosa (porterva), come è 6 alta presenza: nobile pria salvezza).
analoga a quella del v. 40,5. che Angelica lo sente dire suo costume. aspetto. 8 stanza: dimora.
48 simili cose. 52 8 improviso: improvvi-
4 racconte: raccontate. 5 più d’una colonna: 1 cieco: protetto. Ma samente.
5 l’aventurosa... vuole: più che pietra o marmo. propriamente «cieco è qui 54
la sua buona sorte fa sì che... 50 sinonimo di oscuro» (Bigi). 4 quel ch’al Catai...
6 sian conte: (le sue pa- 2 di tor: di prendere. 3 speco: grotta. forse: cosa che nella sua pa-
role) siano udite. 4 se... grida: se non 4 Diana... mostra: «La tria (Catai o Cataia desi-
7-8 e così... raggiunto: chiede aiuto. similitudine allude alle ap- gnava la Cina e in genere
così in una sola ora, anzi in 5 se l’invola: le sfugge. parizioni improvvise sulla l’Oriente), cioè al sicuro,

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Quattrocento e Cinquecento

55. Ella gli rende conto pienamente 59. Così dice egli; e mentre s’apparecchia
dal giorno che mandato fu da lei al dolce assalto, un gran rumor che suona
a domandar soccorso in Oriente dal vicin bosco gl’intruona l’orecchia,
al re de’ Sericani e Nabatei; sì che mal grado l’impresa abbandona:
e come Orlando la guardò sovente e si pon l’elmo (ch’avea usanza vecchia
da morte, da disnor, da casi rei; di portar sempre armata la persona),
e che ’l fior virginal così avea salvo, viene al destriero e gli ripon la briglia,
come se lo portò del materno alvo. rimonta in sella e la sua lancia piglia.

56. Forse era ver, ma non però credibile 60. Ecco pel bosco un cavallier venire,
a chi del senso suo fosse signore, il cui sembiante è d’uom gagliardo e fiero:
ma parve facilmente a lui possibile, candido come nieve è il suo vestire,
ch’era perduto in via più grave errore. un bianco pennoncello ha per cimiero.
Quel che l’uom vede, Amor gli fa invisibile, Re Sacripante, che non può patire
e l’invisibil fa vedere Amore. che quel con l’importuno suo sentiero
Questo creduto fu; che ’l miser suole gli abbia interrotto il gran piacer ch’avea,
dar facile credenza a quel che vuole. con vista il guarda disdegnosa e rea.

57. – Se mal si seppe il cavallier d’Anglante 61. Come è più presso, lo sfida a battaglia;
pigliar per sua sciochezza il tempo buono, che crede ben fargli votar l’arcione.
il danno se ne avrà; che da qui inante Quel che di lui non stimo già che vaglia
nol chiamerà Fortuna a sì gran dono: – un grano meno, e ne fa paragone,
tra sé tacito parla Sacripante l’orgogliose minaccie a mezzo taglia,
– ma io per imitarlo già non sono, sprona a un tempo, e la lancia in resta pone.
che lasci tanto ben che m’è concesso, Sacripante ritorna con tempesta,
e ch’a doler poi m’abbia di me stesso. e corronsi a ferir testa per testa.

58. Corrò la fresca e matutina rosa, 62. Non si vanno i leoni o i tori in salto
che, tardando, stagion perder potria. a dar di petto, ad accozzar sì crudi,
So ben ch’a donna non si può far cosa sì come i duo guerrieri al fiero assalto,
che più soave e più piacevol sia, che parimente si passar gli scudi.
ancor che se ne mostri disdegnosa, Fe’ lo scontro tremar dal basso all’alto
e talor mesta e flebil se ne stia: l’erbose valli insino ai poggi ignudi;
non starò per repulsa o finto sdegno, e ben giovò che fur buoni e perfetti
ch’io non adombri e incarni il mio disegno. – gli osberghi sì, che lor salvaro i petti.

55 era perduto in un errore 58 59 ciose di Sacripante.


1-4 Ella... Nabatei: gli rac- ben più grave, che era cioè 1 Corrò: coglierò, anco- 3 gl’intruona l’orec- 7 ritorna con tempesta:
conta tutta la propria storia perdutamente innamorato ra in accezione erotica. chia: gli fa rintronare le dopo aver preso la rincorsa,
dall’ultimo incontro; si ri- (condizione che per Ario- 2 che...potria: che, se orecchie. rivolge con impeto il cavallo
ferisce a eventi narrati nel- sto toglie del tutto il senno). tardassi, potrebbe perdere la 60 contro l’avversario.
l’Orlando innamorato. Il re 8 a quel che vuole: a ciò sua freschezza. 4 pennoncello: una pic- 62
citato è Gradasso. che vuole, che desidera cre- 7-8 non starò... disegno: cola bandiera, secondo Bigi 1 in salto: «in caldo, in
5 la guardò: la salva- dere. non mi asterrò, per un rifiu- meglio che un pennacchio. amore» (Caretti).
guardò, la protesse. 57 to o un falso sdegno di An- 6 sentiero: percorso, pas- 2 accozzar sì crudi: coz-
7-8 e che... alvo: e che era 1-2 Se mal... buono: se gelica, dal realizzare com- saggio. zare, scontrarsi con tal vio-
ancora vergine, come Orlando, per la sua stupi- pletamente il mio progetto. 8 rea: irata. lenza.
quando era uscita dal ventre dità, non (mal) seppe co- La metafora dell’adombrare 61 4 si passar: si trapassaro-
materno. gliere l’occasione favore- e incarnare (portare a com- 3-5 Quel... taglia: quel ca- no.
56 vole. pimento ombreggiando e valiere che io non credo che 8 osberghi: armature.
2 a chi... signore: a chi 6-7 ma io... concesso: ma colorando il disegno inizia- valga neanche un poco (un
fosse padrone del proprio io non intendo imitarlo le) deriva dal linguaggio pit- grano) meno di lui, e ne dà la
senno. tanto da sprecare una simile torico. prova coi fatti, tronca a metà
4 ch’era... errore: che occasione. le parole superbe e minac-

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63. Già non fero i cavalli un correr torto, Né perciò quel guerrier sua gloria accresca;
anzi cozzaro a guisa di montoni: che d’esser stato il perditor dimostra:
quel del guerrier pagan morì di corto, così, per quel ch’io me ne sappia, stimo,
ch’era vivendo in numero de’ buoni; quando a lasciare il campo è stato primo. –
quell’altro cadde ancor, ma fu risorto
tosto ch’al fianco si sentì gli sproni. 68. Mentre costei conforta il Saracino,
Quel del re saracin restò disteso ecco col corno e con la tasca al fianco,
adosso al suo signor con tutto il peso. galoppando venir sopra un ronzino
un messagger che parea afflitto e stanco:
64. L’incognito campion che restò ritto, che come a Sacripante fu vicino,
e vide l’altro col cavallo in terra, gli domandò se con un scudo bianco
stimando avere assai di quel conflitto, e con un bianco pennoncello in testa
non si curò di rinovar la guerra; vide un guerrier passar per la foresta.
ma dove per la selva è il camin dritto,
correndo a tutta briglia si disserra; 69. Rispose Sacripante: – Come vedi,
e prima che di briga esca il pagano, m’ha qui abbattuto, e se ne parte or ora;
un miglio o poco meno è già lontano. e perch’io sappia chi m’ha messo a piedi,
fa che per nome io lo conosca ancora. –
65. Qual istordito e stupido aratore, Et egli a lui: – Di quel che tu mi chiedi
poi ch’è passato il fulmine, si leva io ti satisfarò senza dimora:
di là dove l’altissimo fragore tu dei saper che ti levò di sella
appresso ai morti buoi steso l’aveva; l’alto valor d’una gentil donzella.
che mira senza fronde e senza onore
il pin che di lontan veder soleva: 70. Ella è gagliarda, et è più bella molto;
tal si levò il pagano a piè rimaso, né il suo famoso nome anco t’ascondo:
Angelica presente al duro caso. fu Bradamante quella che t’ha tolto
quanto onor mai tu guadagnasti al mondo. –
66. Sospira e geme, non perché l’annoi Poi ch’ebbe così detto, a freno sciolto
che piede o braccia s’abbi rotto o mosso, il Saracin lasciò poco giocondo,
ma per vergogna sola, onde a’ dì suoi che non sa che si dica o che si faccia,
né pria né dopo il viso ebbe sì rosso: tutto avvampato di vergogna in faccia.
e più, ch’oltre al cader, sua donna poi
fu che gli tolse il gran peso d’adosso. 71. Poi che gran pezzo al caso intervenuto
Muto restava, mi cred’io, se quella ebbe pensato invano, e finalmente
non gli rendea la voce e la favella. si trovò da una femina abbattuto,
che pensandovi più, più dolor sente;
67. – Deh! – diss’ella – signor, non vi rincresca! montò l’altro destrier, tacito e muto:
che del cader non è la colpa vostra, e senza far parola, chetamente
ma del cavallo, a cui riposo et esca tolse Angelica in groppa, e differilla
meglio si convenia che nuova giostra. a più lieto uso, a stanza più tranquilla.
63 65 2 s’abbi … mosso: si 68 Ruggiero.
1 Già... torto: i cavalli 1 Qual... aratore: come sia… slogato. 2 la tasca: «la borsa per 8 avvampato: arrossito.
non si affrontarono corren- un contadino intontito e 3-4 ma per... rosso: ma tenere i dispacci» (Bigi). 71
do di sbieco. istupidito (la similitudine è solo per la vergogna, che né 3 ronzino: cavallo di mi- 5 montò... destrier: salì
3 di corto: in pochi i - d’origine omerica). prima né dopo in tutta la nor pregio del destriero usato sul cavallo di Angelica.
stanti, subito. 5 senza... onore: senza sua vita lo fece altrettanto dai cavalieri per viaggiare. 5-6 tacito … chetamente:
5 fu risorto: si rialzò. l’abbellimento delle sue arrossire. 4 afflitto e stanco: stan- si noti l’insistenza sul moti-
64 fronde (endiadi). 5 e più: e più ancora per co ed esausto (coppia sino- vo del vergognoso silenzio
3 stimando... conflitto: 8 Angelica... caso: alla il fatto che... nimica). di Sacripante, replicato per
pensando di aver ricavato presenza di Angelica che 6 il gran peso: del caval- 69 ben quattro volte (anche
abbastanza vantaggio da aveva assistito all’infausto lo morto. 3 chi... piedi: chi mi ha chetamente qui vale “in silen-
quello scontro. avvenimento (costruzione 67 sbalzato dal cavallo. zio”).
4 di rinovar la guerra: modellata sull’ablativo as- 3 esca: cibo, pastura. 4 ancora: anche. 7 tolse: prese.
di replicare l’assalto, di ri- soluto latino: essendo An- 4 nuova giostra: un’al- 6 io... dimora: io ti sod- 7-8 differilla... tranquilla:
prendere il duello. gelica presente...). tra battaglia. disferò senza indugio. «rimandò la conquista di
6 a tutta... si disserra: si 66 8 quando: dal momento 70 Angelica ad un momento
lancia al galoppo, a briglie 1 l’annoi: gli procuri che, per il fatto che. 3 Bradamante: la sorella più lieto, e ad un luogo più
sciolte. dolore. di Rinaldo, innamorata di tranquillo» (Bigi).

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Quattrocento e Cinquecento

Guida all’analisi

1. Interpretazione del canto: temi e moduli narrativi


Il dinamismo, l’entrelacement Tutto l’episodio è caratterizzato da un grande dinamismo determinato dal rapi-
do alternarsi e intrecciarsi dei movimenti dei diversi personaggi nella selva. Tale dinamismo,
che del resto è tipico di tutto il poema, rappresenta sia in positivo sia in negativo il vario, in-
tricato, inesausto ma anche affannoso agire dell’uomo nel mondo (la selva, come vedremo, è
metafora del mondo). In piccolo questo canto costituisce anche un esempio della tecnica
narrativa dell’entrelacement di cui Ariosto fa uso, su più larga scala, in tutto il poema: prima il
narratore segue Angelica (ott. 10-22); poi l’abbandona per seguire prima Ferraù (23-31) e
poi Rinaldo (31-32); quindi ritorna ad Angelica (33-71). Caratteristica dell’entrelacement,
specie nella moderna versione ariostesca, è che le varie fila della narrazione e così i percor-
si dei personaggi periodicamente convergono, si incontrano per poi nuovamente divergere,
come si può intuire anche da questo primo assaggio.
L’inchiesta: circolarità Il motivo dominante e il principio strutturante l’episodio è certamente l’inchiesta (“ri-
cerca”): tutti cercano qualcosa o qualcuno, Angelica la libertà, Rinaldo prima il cavallo, poi
Angelica, poi ancora il cavallo, Ferraù prima l’elmo, poi Angelica, poi ancora l’elmo, quindi
Orlando e così via. In questo episodio possiamo anche notare alcune caratteristiche pecu-
liari dell’inchiesta quale si presenta nel Furioso. Innanzi tutto il suo carattere tendenzialmen-
te circolare, su cui ha insistito il critico anglo-americano D. S. Carne-Ross in una raffinata
analisi del primo canto del Furioso (1976). Molto spesso i personaggi nel loro vagabondare
alla ricerca dell’oggetto del desiderio che li muove fanno ritorno al punto di partenza in
senso sia fisico, geografico, sia morale: qui ad esempio Ferraù parte dal fiume e fa ritorno al
fiume, è tutto compreso nella ricerca dell’elmo, ne viene distolto per inseguire Angelica, ma
viene dal caso riportato proprio al problema della ricerca dell’elmo. Le inchieste del Furioso
– si potrebbe dire – disegnano spesso dei circoli viziosi, si presentano, insomma, come ri-
cerche sostanzialmente fallimentari, che sul piano simbolico denunciano il fallimento dei
propositi e dei progetti umani.
L’inchiesta: pluralità di cercatori per un solo oggetto del desiderio Un’altra caratteristica saliente dell’inchiesta,
che differenzia il Furioso ad esempio dai racconti arturiani, è questa: «l’azione del Furioso è
programmaticamente mirata al conseguimento di un oggetto individuale di desiderio da
parte di una pluralità di personaggi spesso in concorrenza tra loro» (Zatti). Angelica è il
principale “oggetto di desiderio” e quindi il principale obiettivo dell’inchiesta: innamorati
di lei e talora al suo inseguimento sono Rinaldo, Ferraù, Sacripante, cioè tutti i protagonisti
del canto, che talora entrano in conflitto tra loro (è il caso di Rinaldo e Ferraù, ma nel fina-
le del canto si incontreranno anche Rinaldo e Sacripante). Come tale, Angelica è anche il
principale motore dell’azione, ma la sua funzione è per lo più passiva e consiste nel fuggire,
nel sottrarsi agli inseguitori e alle loro mire determinando l’inchiesta: fugge dal campo cri-
stiano, poi da Rinaldo, quindi da Rinaldo e Ferraù, nel canto successivo fuggirà nuovamen-
te da Rinaldo e Sacripante impegnati a duello. È attiva solo nel tentativo di servirsi di Sa-
cripante e poi nel consolarlo. Angelica è però un personaggio solo in parte diverso dagli al-
tri: cerca la libertà e incontra sempre personaggi che desiderano possederla, finché, come
vedremo, improvvisamente troverà l’amore.
L’attesa delusa, gli incontri indesiderati Strettamente collegato al tema dell’inchiesta è quello dell’“attesa delu-
sa”, che costituisce anche uno dei meccanismi narrativi principali dell’intero poema: le sva-
riate inchieste dei personaggi, le loro speranze o i loro propositi sono costantemente vanifi-
cati dall’intervento di altri personaggi o da altri accidenti. Carlo Magno, sottraendo Angeli-
ca a Orlando e Rinaldo li vuole incitare a battaglia contro i saraceni, ma è sconfitto (cfr. ott.
8-9), Angelica fugge da Rinaldo ma lo rincontra per ben tre volte; Rinaldo cerca Baiardo e
trova Angelica, cerca Angelica e trova Baiardo ecc.
Affine e complementare al tema dell’attesa delusa è il meccanismo della sostituzione del-
l’oggetto del desiderio (ad es. Rinaldo ora cerca Baiardo ora Angelica; Ferraù ora cerca l’elmo
di Argalia, ora Angelica, ora infine l’elmo di Orlando). Ma non basta: spesso i personaggi
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24. Ludovico Ariosto T 24.3

cercando qualcuno o qualcosa incontrano proprio chi vorrebbero invece evitare. Così «Fer-
raù, che ha perduto l’elmo nel fiume e lo ricerca puntigliosamente, non solo non lo trova,
ma trova chi in quel momento meno si augurerebbe di vedere, e cioè il proprietario a cui lo
ha slealmente sottratto» (Zatti).
Il ruolo del caso Nell’intrecciarsi dei percorsi e nell’incrociarsi dei destini individuali una parte prepon-
derante è in effetti svolta dal caso: ogni snodo della vicenda di questo primo episodio si in-
scrive nella capricciosa logica della casualità, come talora Ariosto stesso si premura di sotto-
lineare (Angelica «di sé tolta, / lascia cura al destrier che la via faccia», 13, 5-6; Rinaldo e
Ferraù non sapendo «se l’una / o l’altra via facesse la donzella /... / si messero ad arbitrio di
fortuna», 23, 1-2 e 5). Il caso, come principio irrazionale che confligge con i progetti razio-
nali dell’uomo o come semplice intrico delle diverse volontà e passioni degli uomini, è
dunque anche il principale responsabile del costante fallimento delle inchieste. Non c’è nel-
la vicenda del Furioso un disegno superiore che regoli e giustifichi gli eventi umani e dia lo-
ro un senso forte (se si esclude il narratore-demiurgo che tira le fila di tutta la narrazione).
La visione del mondo nel Furioso è quella di uno scrittore interamente laico. Ma una pre-
senza così costante e imponente del caso un poco diminuisce, rispetto ad altri autori rina-
scimentali, anche il ruolo della responsabilità individuale dell’uomo, che sembra esserci de-
scritto in balia di eventi incontrollabili, in gran parte non più faber fortunae suae, non più ar-
tefice del proprio destino, con riflessi potenzialmente inquietanti.
La selva, metafora del mondo Tutti gli eventi di questo primo canto si situano, infine, in un ambiente forte-
mente connotato in senso letterario (e simbolico) ma privo di precisi riferimenti geografici:
la selva, tradizionale metafora del mondo, luogo-simbolo cioè dell’agire e dell’errare del-
l’uomo nella sua vicenda terrena, qui è uno spazio labirintico e il luogo necessario di un in-
tricato incrociarsi dei desideri, dei percorsi, dei destini dei personaggi. In connessione con
gli stati d’animo dei personaggi, essa appare però in due tipiche varianti; «la selva orrida e
tenebrosa di ascendenza dantesca e il locus amoenus della tradizione classica, il paesaggio
edenico che ricorre qui con i suoi tratti tipici: natura stilizzata, stagione primaverile, atmo-
sfera di felicità erotica» (Zatti). Ma è certo che la funzione di spazio labirintico sul piano
simbolico risulta preponderante.
Valore simbolico del canto Tutti questi aspetti, e in particolare la circolarità dell’inchiesta e il meccanismo del-
l’attesa delusa, hanno, come in parte si è visto, un ruolo determinante nell’interpretazione
complessiva del canto e dell’intero poema. Si tratta infatti di temi e moduli straordinaria-
mente efficaci sul piano narrativo, ma soprattutto capaci di esprimere, metaforicamente e
simbolicamente, una concezione della vita fondata sulla consapevolezza dei limiti dell’agire
umano e del ruolo preponderante che hanno la fortuna o il caso. Una visione della vita di-
sillusa anche se non rinunciataria, pessimistica anche se non incline all’accettazione passiva
della sorte: il canto e tutto il Furioso per il loro straordinario dinamismo sono anche, po-
tremmo dire, una celebrazione dell’agire umano “nonostante tutto”.

2. Gli interventi del narratore


Gli interventi di raccordo e la funzione di regia Possiamo distinguere in questo primo canto due tipi di inter-
venti, in base alla funzione che essi assolvono. In primo luogo ci sono interventi di raccordo
o informativi, quali «ma seguitiamo Angelica che fugge» (32, 8), «Se mi domanda alcun chi
costui sia /... / io dirò ch’egli è il re di Circassia ecc.» (45, 1-3). Si tratta di interventi sobri
ma importanti nell’economia dell’opera in quanto suggeriscono al lettore l’idea di una pre-
senza governatrice e ordinatrice del racconto, che interrompe o riprende i fili narrativi a ra-
gion veduta e secondo un progetto complessivo e preciso. Sono, insomma, la spia concreta
della funzione di regia assolta dal narratore, che in parte sopperisce all’assenza di un ordine
provvidenziale o razionale sul piano della storia.
Gli interventi a commento: pessimismo, saggezza e ironia Fondamentali però sono soprattutto gli interventi a
commento di svariati aspetti della vicenda (carattere, comportamento dei personaggi, situa-
zioni, eventi ecc.), spesso nella prospettiva di una generalizzazione dell’esperienza (osservazio-
ni di ordine, morale principalmente). Qui ne segnaliamo tre, in diverso modo significativi.
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Quattrocento e Cinquecento

«Ecco il giudicio uman come spesso erra!» Questo (al verso 7, 2) è quanto il narratore osserva a proposito di
Orlando che, dopo aver ricondotto Angelica in Francia al campo cristiano dove credeva più
facile mantenerne saldo possesso, proprio da Carlo Magno se la vede sottrarre. In apparenza
marginale, questa osservazione ironica svela lo scetticismo circa le possibilità da parte della
ragione di governare ordinatamente la vita umana, sottraendola agli influssi negativi delle
passioni, dell’irrazionalità o del caso.
«Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!» Questo, con quel che segue (22, 1-5), è detto ironicamente di Ferraù e
Rinaldo, che interrompono un aspro combattimento e montano su un medesimo cavallo,
reciprocamente fidandosi, allo scopo di ritrovare Angelica. L’ironia sta innanzi tutto nell’e-
saltare come esempio di “bontà” e “lealtà” questo accordo fra i due personaggi, fingendo di
dimenticare che lo scopo, più irrazionale che esemplare, è quello di impossessarsi di Angeli-
ca (nei modi non proprio ‘cortesi’ che anche Sacripante mediterà: cfr. ott. 57-58). Ma più in
generale si osserverà che in espressioni consimili, solo in apparenza il riferimento, nostalgi-
co o ironico che sia, è a un tempo passato, al tempo della cavalleria: in verità il confronto è
istituito tra la sfera del reale e quella della letteratura, «in cui soltanto quel buon tempo an-
tico esiste», e si colora di una lieve autoironia significando essenzialmente la consapevolezza
che l’autore ha di muoversi col suo racconto in una sfera “separata”, ben diversa dalla tu-
multuosa realtà della vita vissuta.
«Forse era ver, ma non però credibile» Così Ariosto commenta (56, 1) la dichiarazione di Angelica che sostiene
di aver passato tutte le avventure che si danno per avvenute rifacendosi all’Innamorato (il
viaggio in Oriente e il ritorno in Francia, inseguita, accompagnata, insidiata dai più svariati
cavalieri) salvando la propria verginità. Nel resto dell’ottava Ariosto svolge altre considera-
zioni sull’insania di Sacripante, ma più generalmente sull’insania di ogni uomo in balia d’a-
more: «Quel che l’uom vede, Amor gli fa invisibile, / e l’invisibil fa vedere Amore» (56, 5-6).

Laboratorio 1 Illustra con parole tue i moduli narrativi 6 In entrambi i casi analizzati ai due eserci-
COMPRENSIONE fondamentali del canto: l’inchiesta e l’at- zi precedenti (in presenza cioè di ele-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE tesa delusa. menti del linguaggio lirico e di quello
2 Nel corso del canto ci sono numerose si- epico) Ariosto mostra tuttavia di volerli
militudini: individuale, sottolineandole fare rapidamente seguire da un abbassa-
nel testo o schedandole: quale funzione mento ironico del tono e dello stile, qua-
assolvono? si a compensare il serio e il patetico con
3 In due punti del canto Ariosto fa esplicito il comico e il prosaico: esamina i contesti
riferimento al tema della rosa e del carpe in cui si collocano i passi individuati negli
diem, che noi abbiamo già incontrato in esercizi precedenti e individua le forme e
numerosi altri testi: individua i passi in i modi di questa compensazione ironica
questione e analizza le caratteristiche pe- (il cui senso abbiamo descritto nel profilo
culiari che tale tema assume in questo R 24.5).
episodio. 7 L’ottava 22, quella del commento del
4 In alcuni punti del testo Ariosto, analiz- narratore che abbiamo analizzato («Oh
zando i sentimenti dei personaggi, fa gran bontà de’ cavallieri antiqui!») può
esplicito riferimento a temi e modi del essere considerata una sorta di ironica pa-
linguaggio lirico: individua i passi in que- rodia di un episodio dell’Innamorato. Do-
stione e commentali. po averlo individuato, confrontalo nei
5 In alcuni punti del testo Ariosto sembra suoi passi salienti con l’ottava ariostesca.
innalzare lo stile sino ad assumere mo- 8 Svolgi in forma sintetica il seguente tema:
venze epiche. Cfr. ad es. le ottave 16-17 e “La selva come metafora del mondo”.
61-63: analizzale, spiegando in che cosa
consiste tale innalzamento dello stile.
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24. Ludovico Ariosto T 24.4

T 24.4 Orlando furioso I ed. 1516, III ed. 1532


Bradamante sfida il mago Atlante [IV, 15-39; 44-50]
L. Ariosto Bradamante è protagonista, con Orlando, delle due principali inchieste del Furioso: la sua
Orlando furioso ha per oggetto Ruggiero, il cavaliere pagano destinato a generare la dinastia estense e a
a cura di E. Bigi, morire sette anni dopo la conversione. Come Orlando, Bradamante nel poema appare
Rusconi, Milano 1982
tutta votata, senza quasi distrazioni, alla sua faticosa e fatale ricerca: dopo aver abbattuto
Sacripante (nel canto I), è venuta a sapere da un cavaliere, Pinabello, che l’amato Ruggie-
ro è stato rapito dal mago Atlante che vuol sottrarlo al suo destino. Incomincia così in
queste ottave del poema un’inchiesta, che la porta dopo varie vicissitudini al castello di
Atlante. Sarà uno scontro di incantesimi e astuzie.

15. […] che la lancia talor correr parea,


e fatto avea a più d’un batter le ciglia;
talor parea ferir con mazza o stocco,
e lontano era, e non avea alcun tocco.
E perché alla battaglia s’appresenti
il negromante, al corno suo ricorre: 18. Non è finto il destrier, ma naturale,
e dopo il suon, con minacciose grida ch’una giumenta generò d’un grifo:
lo chiama al campo, et alla pugna ’l sfida. simile al padre avea la piuma e l’ale,
li piedi anteriori, il capo e il grifo,
16. Non stette molto a uscir fuor de la porta in tutte l’altre membra parea quale
l’incantator, ch’udì ’l suono e la voce. era la madre, e chiamasi ippogrifo;
L’alato corridor per l’aria il porta che nei monti Rifei vengon, ma rari,
contra costei, che sembra uomo feroce. molto di là dagli aghiacciati mari.
La donna da principio si conforta,
che vede che colui poco le nuoce: 19. Quivi per forza lo tirò d’incanto;
non porta lancia, né spada né mazza, e poi che l’ebbe, ad altro non attese,
ch’a forar l’abbia o romper la corazza. e con studio e fatica operò tanto,
ch’a sella e briglia il cavalcò in un mese:
17. Da la sinistra sol lo scudo avea, così ch’in terra e in aria e in ogni canto
tutto coperto di seta vermiglia; lo facea volteggiar senza contese.
ne la man destra un libro, onde facea Non finzion d’incanto, come il resto,
nascer, leggendo, l’alta maraviglia: ma vero e natural si vedea questo.

15 3 L’alato corridor: l’ip- tesimi. prodotto di un incantesimo. fei (genericamente monti


6 il negromante:il mago pogrifo, un cavallo alato che 5-8 che la lancia... tocco: 2 ch’una... grifo: venne dell’Europa settentrionale).
Atlante, rinchiuso nel suo verrà descritto più avanti. talora sembrava che egli generato da una giumenta e 19
magico castello dove tiene 4 uomo feroce: un fiero corresse con la lancia in resta da un grifone, creatura fan- 1 Quivi per forza...
prigioniero Ruggiero e sva- guerriero. e in questo modo aveva tastica per metà aquila e per d’incanto: Atlante riuscì a
riati altri cavalieri. 6 che vede... nuoce: messo in apprensione (batter metà leone (lo spunto per trascinarlo qui (nel suo ca-
8 lo chiama al campo: lo perché vede che Atlante, di- le ciglia) più di un cavaliere; l’ippogrifo deriva ad Ario- stello) con la magia.
invita a scendere in campo sarmato, non può farle del talora sembrava che attac- sto da vari luoghi della tradi- 2-4 ad altro... mese: non si
aperto. male. casse con la mazza o con la zione classica). dedicò ad altro (che a do-
16 8 ch’a forar... corazza: spada (stocco, una spada cor- 4 grifo: rostro. marlo), e con grande impe-
1 Non... molto: non im- che le possa trapassare o in- ta), mentre invece era anco- 6 ippogrifo: cioè caval- gno e fatica riuscì nel giro di
piegò molto tempo, non frangere la corazza. ra lontano e non aveva col- lo-grifone, secondo la sua un mese a cavalcarlo con
esitò. 17 pito nessuno (né poteva ef- presunta origine. sella e briglie.
2 ch’udì... la voce: dac- 3-4 onde facea... meravi- fettivamente colpirlo). 7 che nei monti... rari: 6 senza contese: docil-
ché,non appena udì il suono glia: leggendo il quale, pro- 18 tali creature nascono, anche mente.
del corno e il grido di sfida. duceva meravigliosi incan- 1 Non è finto: non è il se raramente, sui monti Ri-

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Quattrocento e Cinquecento

20. Del mago ogn’altra cosa era figmento; Attenta e fissa stava a quel ch’era uopo,
che comparir facea pel rosso il giallo: acciò che nulla seco il mago avanzi;
ma con la donna non fu di momento; e come vide che lo scudo aperse,
che per l’annel non può veder in fallo. chiuse gli occhi, e lasciò quivi caderse.
Più colpi tuttavia diserra al vento,
e quinci e quindi spinge il suo cavallo; 24. Non che il fulgor del lucido metallo,
e si dibatte e si travaglia tutta, come soleva agli altri, a lei nocesse;
come era, inanzi che venisse, instrutta. ma così fece acciò che dal cavallo
contra sé il vano incantator scendesse:
21. E poi che esercitata si fu alquanto né parte andò del suo disegno in fallo;
sopra il destrier, smontar volse anco a piede, che tosto ch’ella il capo in terra messe,
per poter meglio al fin venir di quanto accelerando il volator le penne,
la cauta maga instruzion le diede. con larghe ruote in terra a por si venne.
Il mago vien per far l’estremo incanto;
che del fatto ripar né sa né crede: 25. Lascia all’arcion lo scudo, che già posto
scuopre lo scudo, e certo si prosume avea ne la coperta, e a piè discende
farla cadere con l’incantato lume. verso la donna che, come reposto
lupo alla macchia il capriolo, attende.
22. Potea così scoprirlo al primo tratto, Senza più indugio ella si leva tosto
senza tenere i cavallieri a bada; che l’ha vicino, e ben stretto lo prende.
ma gli piacea veder qualche bel tratto Avea lasciato quel misero in terra
di correr l’asta o di girar la spada: il libro che facea tutta la guerra;
come si vede ch’all’astuto gatto
scherzar col topo alcuna volta aggrada; 26. e con una catena ne correa,
e poi che quel piacer gli viene a noia, che solea portar cinta a simil uso,
dargli di morso, e al fin voler che muoia. perché non men legar colei credea,
che per adietro altri legare era uso.
23. Dico che ’l mago al gatto, e gli altri al topo La donna in terra posto già l’avea:
s’assimigliar ne le battaglie dianzi; se quel non si difese, io ben l’escuso;
ma non s’assimigliar già così, dopo che troppo era la cosa differente
che con l’annel si fe’ la donna inanzi. tra un debol vecchio e lei tanto possente.

20 8 come era... instrutta: possibile proteggersi (ripar) mante si fece avanti con l’a- 3-4 reposto lupo: come
1-2 Del mago... giallo: come le era stato insegnato contro i suoi incantesimi. nello. lupo nascosto.
ogni altra cosa era una fin- prima che giungesse al ca- 7-8 certo... lume: presu- 5-6 Attenta... avanzi: Bra- 5-6 tosto che l’ha vicino:
zione (figmento) creata da stello. Sempre dalla maga me, è convinto (si prosume) damante si concentra e si non appena Atlante le si è
Atlante, che faceva apparire Melissa, che le aveva dato le di abbatterla con la luce ab- impegna nelle mosse neces- avvicinato.
una cosa per un’altra (facea istruzioni per sconfiggere bagliante dello scudo magi- sarie in modo che il mago 8 il libro... guerra: il li-
pel rosso il giallo, faceva appa- Atlante. co. non si avvantaggi su di lei. bro degli incantesimi, con i
rire gialla una cosa rossa). 21 22 7 aperse: scoprì, svelò. quali Atlante combatteva.
3-4 ma... in fallo: ma la sua 1 esercitata: il verbo ri- 1 al primo tratto: subi- 8 lasciò... caderse: fece 26
magia a nulla servì con Bra- vela la finzione messa in atto to. finta di cadere abbagliata sul 1 e con... correa: veniva
damante,che grazie alle pro- da Bradamante. 3-4 gli piacea... spada: gli posto (quivi). incontro a Bradamante ar-
prietà dell’anello fatato non 2 smontar... piede: volle piaceva vedere i cavalieri 24 mato solo di una catena.
poteva essere ingannata da- smontare da cavallo e simu- compiere qualche bel gesto, 4 contra sé: andandole 3-4 perché... uso: perché
gli incantesimi (non può veder lare un combattimento a tirare qualche bel colpo incontro, avvicinandosi a era convinto di poter legare
in fallo, non può vedere una piedi. (tratto), assalendo con la lan- lei. – vano: perché privo dei Bradamante non diversa-
cosa per un’altra).Per sugge- 3-4 per poter... diede: per cia o roteando la spada. suoi abituali poteri. mente da come aveva fatto
rimento della maga Melissa, meglio portare a compi- 8 dargli di morso: mor- 5 né parte... fallo: e il in precedenza con tutti gli
Bradamante aveva sottratto mento l’impresa, secondo le derlo, finirlo a morsi (di- suo disegno non fallì in nes- altri guerrieri.
tale anello capace di vanifi- istruzioni dell’astuta maga. pende sempre da si vede che suna parte. 7-8 era la cosa... possente:
care ogni incantesimo al la- 5 per far l’estremo in- al gatto aggrada). 6 messe: mise, posò. troppo impari era la sfida fra
dro Brunello in un prece- canto: per attuare l’incante- 23 7 il volator: l’ippogrifo. l’energica Bradamante e
dente episodio. simo conclusivo, che avreb- 2 dianzi: precedenti, av- 8 larghe ruote: ampi gi- Atlante, che privo delle arti
5 diserra al vento: «vibra be dovuto soggiogare Bra- venute in precedenza. ri. magiche era semplicemen-
a vuoto» (Bigi). damante. 3-4 non s’assimigliar... 25 te un vecchio debole.
6 e quinci e quindi: di 6 che... crede: che non inanzi: il paragone non fu 1 Lascia all’arcion: il
qui e di là,in atto di battaglia. sa e non sospetta che sia più valido dopo che Brada- mago lascia sull’arcione.

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24. Ludovico Ariosto T 24.4

27. Disegnando levargli ella la testa, Disio d’onore e suo fiero destino
alza la man vittoriosa in fretta; l’han tratto in Francia dietro al re Agramante;
ma poi che ’l viso mira, il colpo arresta, et io, che l’amai sempre più che figlio,
quasi sdegnando sì bassa vendetta; lo cerco trar di Francia e di periglio.
un venerabil vecchio in faccia mesta
vede esser quel ch’ella ha giunto alla stretta, 31. La bella rocca solo edificai
che mostra al viso crespo e al pelo bianco per tenervi Ruggier sicuramente,
età di settanta anni o poco manco. che preso fu da me, come sperai
che fossi oggi tu preso similmente;
28. – Tommi la vita, giovene, per Dio, – e donne e cavallier, che tu vedrai,
dicea il vecchio pien d’ira e di dispetto; poi ci ho ridotti, et altra nobil gente,
ma quella a torla avea sì il cor restio, acciò che quando a voglia sua non esca,
come quel di lasciarla avria diletto. avendo compagnia, men gli rincresca.
La donna di sapere ebbe disio
chi fosse il negromante, et a che effetto 32. Pur ch’uscir di là su non si domande,
edificasse in quel luogo selvaggio d’ogn’altro gaudio lor cura mi tocca;
la rocca, e faccia a tutto il mondo oltraggio. che quanto averne da tutte le bande
si può del mondo, è tutto in quella rocca:
29. – Né per maligna intenzione, ahi lasso! – suoni, canti, vestir, giuochi, vivande,
disse piangendo il vecchio incantatore quanto può cor pensar, può chieder bocca.
– feci la bella rocca in cima al sasso, Ben seminato avea, ben cogliea il frutto;
né per avidità son rubatore; ma tu sei giunto a disturbarmi il tutto.
ma per ritrar sol dall’estremo passo
un cavallier gentil, mi mosse amore, 33. Deh, se non hai del viso il cor men bello,
che, come il ciel mi mostra, in tempo breve non impedir il mio consiglio onesto!
morir cristiano a tradimento deve. Piglia lo scudo (ch’io tel dono) e quello
destrier che va per l’aria così presto;
30. Non vede il sol tra questo e il polo austrino e non t’impacciar oltra nel castello,
un giovene sì bello e sì prestante: o tranne uno o duo amici, e lascia il resto;
Ruggiero ha nome, il qual da piccolino o tranne tutti gli altri, e più non chero,
da me nutrito fu, ch’io sono Atlante. se non che tu mi lasci il mio Ruggiero.

27 gio e perché recasse danno bello e valoroso. derio, purché non mi chie- porta via con te uno o due
1 Disegnando... testa: (facesse oltraggio) a tutto il 4 da me...Atlante: fu al- dano di uscire dalla rocca. amici, e lascia gli altri.
volendo ella troncargli il mondo. levato da me, che sono 3-4 che... rocca: perché in 7 non chero: non chie-
capo. 29 Atlante. quella rocca c’è tutto ciò do.
5-6 un venerabil... stretta: 3 in cima al sasso: su 5 fiero destino: crudele che (di meglio) si può tro-
vede che colui che ha mes- quel «picco roccioso» (Bi- destino. vare in ogni parte del mon-
so alle strette (cioè ha fatto gi). 8 lo cerco... periglio: do.
suo prigioniero) appare ora 4 né... rubatore: né ru- cerco di allontanarlo dalla 6 quanto... bocca: in-
un vecchio venerabile dal- bo per avidità personale. Francia e dal pericolo. somma tutto quanto un
l’espressione triste. 5-8 ma... deve: ma feci 31 cuore può desiderare e una
7 crespo: increspato tutto ciò per amore (mi 2 sicuramente: al sicu- bocca può chiedere.
dalle rughe. mosse amore), solo per salva- ro. 7-8 Ben seminato... tutto:
28 re dalla morte (ritrar solo dal- 3-4 che... similmente: che avevo, cioè, creato tutte le
1 Tommi... Dio: ucci- l’estremo passo) un nobile venne catturato da me co- condizioni per realizzare
dimi (tommi la vita, prendi- cavaliere che, come mi pre- me oggi sperai di fare con quello che volevo, se non
mi la vita), o giovane, in no- dice il cielo, in breve tempo te. fossi giunto tu a rovinare il
me di Dio. dopo essersi convertito (cri- 6 ridotti: condotti a for- mio piano.
3-4 quella... diletto: Bra- stiano, compl. predicativo za, rinchiusi. 33
damante era tanto restìa a del soggetto) dovrà morire 7-8 acciò che... rincresca: 1-2 non... onesto: non
togliergli la vita, quanto a tradimento. perché, pur non potendo impedirmi di realizzare il
Atlante era invece deside- 30 uscire a suo piacimento, mio onorevole proposito
roso di perderla. 1-2 Non vede il sol... pre- meno se ne dolga avendo (consiglio onesto, latinismo).
6-8 a che effetto... oltrag- stante: tra il nostro polo e compagnia. 5 non... castello: non ti
gio: per quale scopo Atlan- quello australe il sole non 32 impicciare più a lungo del
te avesse costruito il suo ca- illumina (su tutta la terra 1-2 Pur... mi tocca: esau- castello
stello in quel luogo selvag- non c’è) un cavaliere così disco ogni altro loro desi- 6 o tranne... resto: o

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Quattrocento e Cinquecento

34. E se disposto sei volermel torre, 37. Legato de la sua propria catena
deh, prima almen che tu ’l rimeni in Francia, andava Atlante, e la donzella appresso,
piacciati questa afflitta anima sciorre che così ancor se ne fidava a pena,
de la sua scorza, ormai putrida e rancia! – ben che in vista parea tutto rimesso.
Rispose la donzella: – Lui vo’ porre Non molti passi dietro se la mena,
in libertà: tu, se sai, gracchia e ciancia; ch’à piè del monte han ritrovato il fesso,
né mi offerir di dar lo scudo in dono, e li scaglioni onde si monta in giro,
o quel destrier, che miei, non più tuoi sono: fin ch’alla porta del castel saliro.

35. né s’anco stesse a te di torre e darli, 38. Di su la soglia Atlante un sasso tolle,
mi parrebbe che ’l cambio convenisse. di caratteri e strani segni insculto.
Tu di’ che Ruggier tieni per vietarli Sotto, vasi vi son, che chiamano olle,
il male influsso di sue stelle fisse. che fuman sempre, e dentro han foco occulto.
O che non puoi saperlo, o non schivarli, L’incantator le spezza; e a un tratto il colle
sappiendol, ciò che ’l ciel di lui prescrisse: riman deserto, inospite et inculto;
ma se ’l mal tuo, ch’hai sì vicin, non vedi, né muro appar né torre in alcun lato,
peggio l’altrui c’ha da venir prevedi. come se mai castel non vi sia stato.

36. Non pregar ch’io t’uccida, ch’i tuoi preghi 39. Sbrigossi dalla donna il mago alora,
sariano indarno; e se pur vuoi la morte, come fa spesso il tordo da la ragna;
ancor che tutto il mondo dar la nieghi, e con lui sparve il suo castello a un’ora,
da sé la può aver sempre animo forte. e lasciò in libertà quella compagna.
Ma pria che l’alma da la carne sleghi, Le donne e i cavallier si trovar fuora
a tutti i tuoi prigioni apri le porte. – de le superbe stanze alla campagna:
Così dice la donna, e tuttavia e furon di lor molte a chi ne dolse;
il mago preso incontra al sasso invia. che tal franchezza un gran piacer lor tolse.

Scomparso Atlante e svanito il castello incantato i prigionieri si ritrovano improvvisamente all’a-


perto. Ruggiero ritrova Bradamante e i due si fanno «buona e gratissima accoglienza».Tutti scen-
dono a valle e raggiungono l’ippogrifo che se ne sta lì tranquillo. Quando però Bradamante gli si
avvicina, l’animale vola via scostandosi da lei; lo stesso fa con gli altri cavalieri.

34 tieni prigioniero Ruggiero pre darsela da sé, anche se 5-7 Non molti... giro: non simo e con esso di ogni for-
1 E se disposto... torre: per impedire che si realizzi- tutti gli altri non sono di- la conduce dietro a sé per un ma di vita (vegetazione, ani-
se invece sei intenzionato a no i cattivi influssi determi- sposti a farlo. È, come rileva lungo tragitto (molti passi), mali, segni della presenza
portarmi via Ruggiero. nati dalle sue stelle. Bigi, sviluppo di una sen- che subito ai piedi del mon- umana...). Inculto probabil-
3-4 piacciati... scorza: li- 5-8 O... prevedi: o non tenza dalla Phaedra [Fedra], te trovano la fenditura (fesso, mente significa “disabita-
berami da questo corpo puoi conoscere il destino di tragedia di Seneca («La nella roccia) e gli scalini che to”.
(scorza), uccidimi. Ruggiero o, conoscendolo, morte non può mai manca- salivano girando attorno alla 39
4 putrida e rancia: im- non puoi evitare che si com- re a chi davvero la deside- montagna. 1-2 Sbrigossi... ragna: il
putridita e incartapecorita pia; ma se non sei in grado di ra»). 38 mago in quel frangente si li-
(per la vecchiaia). prevedere la tua cattiva sorte, 5 Ma... sleghi: ma prima 1-2 un sasso... insculto: berò dalla donna, come
5-6 Lui vo’... ciancia: pro- che pure ti è vicina,ben peg- di ucciderti (lett. sciogliere sulla soglia Atlante solleva spesso fa il tordo dalla rete
prio lui voglio liberare: tu gio puoi prevedere l’altrui l’anima dal corpo). (tolle) una pietra su cui sono (ragna) tesa per catturarlo.
strepita (gracchia) e parla pure destino ben più lontano nel 6 prigioni: prigionieri. incise strane figure e parole 3 a un’ora: nello stesso
quanto vuoi (se sai). tempo (c’ha da venir). 7-8 tuttavia... invia: intan- magiche. tempo.
35 36 to conduce alla rocca il ma- 3 olle: pentole (vocabolo 4 compagna: compa-
1-2 né s’anco... convenis- 2 sariano indarno: sa- go prigioniero. d’area settentrionale). gnia.
se: ma, neanche se spettasse a rebbero vani, inutili. 37 6 deserto... inculto: i tre 7 furon di lor... dolse: ce
te di prenderli o di donarli, il 2-4 e se pur... forte: se tut- 3-4 che così... rimesso: termini, pressoché sinoni- ne furono molte a cui (a chi)
cambio non mi sembrereb- tavia veramente cerchi la che non si fidava ancora del mici, sottolineano la repen- dispiacque.
be conveniente. morte, sappi che un uomo tutto diAtlante,benché que- tina desolazione del paesag- 8 franchezza: libertà.
3-4 Tu... fisse: tu dici che dall’animo forte può sem sti all’apparenza fosse docile. gio allo svanire dell’incante-

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24. Ludovico Ariosto T 24.4

44. Ruggier, Gradasso, Sacripante, e tutti 48. Con gli occhi fissi al ciel lo segue quanto
quei cavallier che scesi erano insieme, basta il veder; ma poi che si dilegua
chi di su, chi di giù, si son ridutti sì, che la vista non può correr tanto,
dove che torni il volatore han speme. lascia che sempre l’animo lo segua.
Quel, poi che gli altri invano ebbe condutti Tuttavia con sospir, gemito e pianto
più volte e sopra le cime supreme non ha, né vuol aver pace né triegua.
e negli umidi fondi tra quei sassi, Poi che Ruggier di vista se le tolse,
presso a Ruggiero al fin ritenne i passi. al buon destrier Frontin gli occhi rivolse:

45. E questa opera fu del vecchio Atlante, 49. e si deliberò di non lasciarlo,
di cui non cessa la pietosa voglia che fosse in preda a chi venisse prima;
di trar Ruggier del gran periglio instante: ma di condurlo seco, e di poi darlo
di ciò sol pensa e di ciò solo ha doglia. al suo signor, ch’anco veder pur stima.
Però gli manda or l’ippogrifo avante, Poggia l’augel, né può Ruggier frenarlo:
perché d’Europa con questa arte il toglia. di sotto rimaner vede ogni cima
Ruggier lo piglia, e seco pensa trarlo; et abbassarsi in guisa, che non scorge
ma quel s’arretra, e non vuol seguitarlo. dove è piano il terren né dove sorge.

46. Or di Frontin quel animoso smonta 50. Poi che sì ad alto vien, ch’un picciol punto
(Frontino era nomato il suo destriero), lo può stimar chi da la terra il mira,
e sopra quel che va per l’aria monta, prende la via verso ove cade a punto
e con li spron gli adizza il core altiero. il sol, quando col Granchio si raggira;
Quel corre alquanto, et indi i piedi ponta, e per l’aria ne va come legno unto
e sale inverso il ciel, via più leggiero a cui nel mar propizio vento spira.
che ’l girifalco, a cui lieva il capello Lascianlo andar, che farà buon camino,
il mastro a tempo, e fa veder l’augello. e torniamo a Rinaldo paladino.

47. La bella donna, che sì in alto vede


e con tanto periglio il suo Ruggiero,
resta attonita in modo, che non riede
per lungo spazio al sentimento vero.
Ciò che già inteso avea di Ganimede
ch’al ciel fu assunto dal paterno impero,
dubita assai che non accada a quello,
non men gentil di Ganimede e bello.

44 7-8 ’l girifalco... l’augel- 6 pace né triegua: né tiva non gli consente di di- 6 propizio: favorevole,
5 Quel: l’ippogrifo. – lo: il falcone reale, a cui il pace né tregua; è espressio- stinguere più le cime delle da collegare con vento.
invano: senza lasciarsi cat- falconiere toglie il cappuc- ne di origine petrarchesca, montagne dalle pianure. 7 Lascianlo...: lascia-
turare. cio e indica l’uccello che come quasi sempre accade 50 molo andare... È un’altra
6-7 sopra... fondi: ora sul- deve catturare. quando Ariosto affronta in 3-4 prende... raggira: si delle formule tipiche della
le vette più alte ora nel fon- 47 termini anche vagamente dirige a occidente (lett. tecnica dell’entrelacement
dovalle. 3-4 che non... vero: che lirici il tema d’amore. prende la direzione del luo- che segnano il passaggio da
8 ritenne i passi: si per lungo tempo non ritor- 7 di vista... tolse: le si (se go dove cala il sole, quando un filo all’altro della vicen-
fermò. na al senso della realtà, resta le, inversione abituale dei si muove nella costellazio- da.
45 cioè incredula. pronomi personali) levò ne del Cancro).
3 instante: che incombe 5-6 Ganimede... impero: dalla vista, scomparve. 5 come legno unto: co-
su di lui. secondo il mito greco il bel 49 me una nave (legno, per si-
5 Però: perciò. Ganimede, il coppiere degli 1-2 di non lasciarlo, che: neddoche, la materia per
6 il toglia: lo allontani. dei, era stato rapito e assun- di non permettere che l’oggetto) ben spalmata di
7 seco pensa trarlo: to in cielo da un’aquila in- questo. pece. La pece consentiva
pensa di condurlo con sé, viata da Giove (dal paterno 4 ch’anco... stima: che impermeabilità e minore
dove vuole. impero, per comando di pensa di rivedere. attrito, ma «l’aggettivo ha
46 Giove padre). 5 Poggia: sale. qui valore soprattutto esor-
4 gli adizza: gli aizza, gli 48 6-8 di sotto... sorge: Rug- nativo, come già nella poe-
sollecita. 1-2 quanto... veder: fin giero insomma sale tanto in sia classica e nel Petrarca»
5 ponta: punta. che la vista glielo consente. alto che la mutata prospet- (Bigi).

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Quattrocento e Cinquecento

Guida all’analisi
L’attesa delusa e il motivo encomiastico Anche questo passo potrebbe venir letto utilizzando come chiave in-
terpretativa il meccanismo e il concetto dell’attesa delusa. Ma la vicenda di Bradamante e
Ruggiero almeno in parte si sottrae allo schema secondo cui tutte le inchieste, tutti i desi-
deri vengono frustrati. Il lettore fin dal principio è messo al corrente dell’esito della vicen-
da: nel canto III infatti una maga predice a Bradamante il matrimonio con Ruggiero e la
discendenza estense. La vicenda è insomma finalizzata a un esito positivo, anche se, legata
com’è al motivo encomiastico, la scelta ariostesca appariva in qualche modo obbligata.
L’inchiesta di Bradamante e il destino infausto di Ruggiero Tuttavia nella complessiva vicenda di Bradamante e
Ruggiero ci sono anche implicazioni negative: soprattutto la morte di Ruggiero, preannun-
ciata come imminente da Boiardo, ma sempre differita da Ariosto. L’ombra del tradimento e
della morte comunque aleggia sinistra su Ruggiero (ott. 29-31, ma anche [R T 24.5 ]) a offu-
scare il matrimonio e la discendenza illustre. Insomma, se sfugge al più rigido schema nar-
rativo dell’attesa delusa, l’inchiesta di Bradamante non sfugge del tutto, per le sue connota-
zioni, al senso ideologico complessivo del poema.
Atlante e Bradamante di fronte al destino Nella logica del poema dominato dal caso risultano dunque vani
tanto il pietoso progetto di Atlante, che vuole con le sue arti contrastare un destino da cui
pure in fondo sa di dover essere sconfitto (cfr. 29, 5-8), quanto il razionale, ma cieco, di-
sprezzo di Bradamante per la scienza occulta di Atlante (cfr. 35, 5-8). Entrambe le strategie
debbono apparire all’autore una sorta di insania: la follia dell’affetto e la follia della ragione.
Ma, se entrambi alla fine falliscono, forse è più scusabile Atlante che almeno cerca di con-
trastare l’esito ineluttabile, piuttosto che Bradamante che contribuisce a realizzare quel de-
stino che le darà per poco, ma subito le toglierà per sempre l’amato.
Il meraviglioso Importa in questo episodio anche rilevare l’incidenza del tema del “meraviglioso”. In-
nanzitutto compare l’ippogrifo, animale favoloso metà cavallo e metà grifone. Tuttavia il
narratore interviene a dichiarare che non è prodotto di un incantesimo, con evidente in-
tenzione ironica, soprattutto quando certifica che tal sorta di animali «nei monti Rifei ven-
gon, ma rari». L’ironia consiste nel definire raro ma reale, ciò che è evidentemente fantastico,
allo scopo «di far sentire la consapevolezza precisa che egli ha, del carattere appunto tutto
fantastico e sovrareale della sua invenzione» (Bigi).
La magia e l’astuzia La magia è l’altro aspetto del meraviglioso in questo passo. Il conflitto fra incantesimi o po-
teri magici che dapprima volge a favore di Bradamante è però affiancato, e quasi sostituito sul
piano dell’efficacia, dal conflitto tutto umano fra astuzia e ingenuità: è con l’astuzia che Bra-
damante, fingendosi abbagliata, si fa avvicinare da Atlante e lo cattura; è con l’astuzia che
Atlante, grazie al ben addestrato ippogrifo (ott. 19, vv. 2-5) sottrae Ruggiero alla guerriera.
Viceversa Atlante è ingenuo, perché ignaro, quando confida d’aver messo fuori combatti-
mento l’ennesimo cavaliere (come mai lui mago preveggente non aveva previsto anche que-
sto? aveva forse omesso di consultare l’oracolo? ott. 35, 7-8); ed è ingenua Bradamante quan-
do vedendolo rugoso e canuto s’impietosisce salvandogli la vita. Ariosto sottolinea questa
componente nell’ottava 23 con una chiosa alla precedente similitudine del gatto e del topo,
ribadendo ancora una volta la fallacia delle apparenze e la debolezza del giudizio umano che
spesso erra (credeva Atlante d’esser gatto ed era topo!). Ma nel dialogo finale in cui il vecchio
chiede la morte e la donna gliela rifiuta è forse Atlante il gatto che gioca la carta della pietà e
Bradamante è il topo che cade nel tranello. E intanto in questo alternarsi di successi e scacchi
la storia continua...
Laboratorio 1 Nel corso del canto ci sono numerose si- rettamente o indirettamente forniscono
COMPRENSIONE militudini: individuale, sottolineandole nel informazioni in merito. Delinea un breve
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE testo o schedandole: da quali campi seman- profilo dei due protagonisti.
tici sono tratte? Quale funzione assolvono? 3 Che rilievo ha nell’episodio la rappresen-
2 Quale spazio Ariosto dà alla rappresenta- tazione dell’ambiente e del paesaggio?
zione dei sentimenti e degli stati d’animo Individua nel testo i passi in merito.
dei personaggi? Che mezzi narrativi usa? 4 Confronta il trattamento del tema del
Sottolinea nel testo le espressioni che di- meraviglioso in Boiardo e in Ariosto.
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24. Ludovico Ariosto T 24.5

T 24.5 Orlando furioso I ed. 1516, III ed. 1532


Il palazzo di Atlante [XII, 3-34]
L. Ariosto Nell’episodio che stiamo per leggere il tema della ‘circolarità viziosa’ dell’inchiesta, che
Orlando furioso abbiamo esaminato a proposito del canto I, trova la sua più tipica e radicale espressione
a cura di E. Bigi, e «la sua piena assunzione ad emblema della ricerca vana e illusoria» (Zatti): lì lo sce-
Rusconi, Milano 1982
nario era una selva labirintica, qui è un palazzo incantato dalle caratteristiche molto
particolari. È questo un nuovo prodigio messo in atto da Atlante per sottrarre Ruggie-
ro al suo destino. Chi vi entra è condotto in una sorta di regno del desiderio e dell’in-
ganno, «dove la realtà è sconfitta dalle apparenze», tanto che non riesce più a uscirne.
Ci entreremo anche noi, seguendo Orlando che nella sua fin qui infruttuosa inchiesta
di Angelica ha già vissuto svariate altre avventure, ma ora, mentre tanto per cambiare
percorre una selva, è attirato dalle grida di una fanciulla portata via a forza da un mi-
sterioso cavaliere: gli pare Angelica e, senza pensarci un momento, sprona il cavallo e
parte all’inseguimento...

3. S’in poter fosse stato Orlando pare il valoroso principe d’Anglante;


all’Eleusina dea, come in disio, che come mira alla giovane bella,
non avria, per Angelica cercare, gli par colei, per cui la notte e il giorno
lasciato o selva o campo o stagno o rio cercato Francia avea dentro e d’intorno.
o valle o monte o piano o terra o mare,
il cielo, e ’l fondo de l’eterno oblio; 6. Non dico ch’ella fosse, ma parea
ma poi che ’l carro e i draghi non avea, Angelica gentil ch’egli tant’ama.
la gia cercando al meglio che potea. Egli, che la sua donna e la sua dea
vede portar sì addolorata e grama,
4. L’ha cercata per Francia: or s’apparecchia spinto da l’ira e da la furia rea,
per Italia cercarla e per Lamagna, con voce orrenda il cavallier richiama;
per la nuova Castiglia e per la vecchia, richiama il cavalliero e gli minaccia,
e poi passare in Libia il mar di Spagna. e Brigliadoro a tutta briglia caccia.
Mentre pensa così, sente all’orecchia
una voce venir, che par che piagna: 7. Non resta quel fellon, né gli risponde,
si spinge inanzi; e sopra un gran destriero all’alta preda, al gran guadagno intento;
trottar si vede inanzi un cavalliero, e sì ratto ne va per quelle fronde,
che saria tardo a seguitarlo il vento.
5. che porta in braccio e su l’arcion davante L’un fugge, e l’altro caccia; e le profonde
per forza una mestissima donzella. selve s’odon sonar d’alto lamento.
Piange ella, e si dibatte, e fa sembiante Correndo, usciro in un gran prato; e quello
di gran dolore; et in soccorso appella avea nel mezzo un grande e ricco ostello.

3 pina (da parte di Plutone), magna). l’espressione fa sembiante, 8 e... caccia: e sprona, fa
1-6 S’in poter... oblio: se, dopo aver cercato in ogni 3 nuova... vecchia: «La “fa mostra”, comincia già correre il suo cavallo a bri-
quanto a potere (in poter), luogo della terra era scesa nuova e la vecchia Castiglia cautamente a introdurci del glia sciolta.
Orlando fosse stato pari a agli Inferi, di cui la figlia era sono due regioni della Spa- dominio della finzione). 7
Cerere (Eleusina dea), come divenuta regina. gna centrale; qui stanno ad 5 principe d’Anglante: 1 Non resta quel fellon:
lo era quanto ad ardore, per 7 ’l carro e i draghi: Ce- indicare in genere la peni- Orlando, che era signore non si ferma quel vigliacco.
cercare Angelica non rere era scesa agli Inferi su sola iberica» (Bigi). del castello di Anglante. 2 all’alta... intento: tut-
avrebbe tralasciato di per- un carro trainato da ser- 4 mar di Spagna: lo 6 che come mira: non to intento a ghermire la sua
correre selve, campi ecc. e le penti (draghi). stretto di Gibilterra. appena osserva. nobile preda, il suo prezio-
profondità (’l fondo) dell’in- 8 la gia cercando: l’an- 5 6 so bottino.
ferno (de l’eterno oblio). L’in- dava cercando. 2 per forza: costringen- 4 portar: portare via, 3-4 sì ratto... vento: se ne
cipit del canto aveva ricor- 4 dola con la forza. trasportare con la forza.– va così rapidamente che
dato il mito di Cerere che, 2 Lamagna: Germania 3-4 fa... dolore: mostra di grama: mesta, triste. neppure il vento riuscireb-
saputo del ratto di Proser- (aferesi di Alamagna, Alle- provare un gran dolore (ma 5 rea: violenta. be a seguirlo.

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Quattrocento e Cinquecento

8. Di vari marmi con suttil lavoro 12. Tutti cercando il van, tutti gli dànno
edificato era il palazzo altiero. colpa di furto alcun che lor fatt’abbia:
Corse dentro alla porta messa d’oro del destrier che gli ha tolto, altri è in affanno;
con la donzella in braccio il cavalliero. ch’abbia perduta altri la donna, arrabbia;
Dopo non molto giunse Brigliadoro, altri d’altro l’accusa: e così stanno,
che porta Orlando disdegnoso e fiero. che non si san partir di quella gabbia;
Orlando, come è dentro, gli occhi gira; e vi son molti, a questo inganno presi,
né più il guerrier, né la donzella mira. stati le settimane intiere e i mesi.

9. Subito smonta, e fulminando passa 13. Orlando, poi che quattro volte e sei
dove più dentro il bel tetto s’alloggia: tutto cercato ebbe il palazzo strano,
corre di qua, corre di là, né lassa disse fra sé: – Qui dimorar potrei,
che non vegga ogni camera, ogni loggia. gittare il tempo e la fatica invano:
Poi che i segreti d’ogni stanza bassa e potria il ladro aver tratta costei
ha cerco invan, su per le scale poggia; da un’altra uscita, e molto esser lontano. –
e non men perde anco a cercar di sopra, Con tal pensiero uscì nel verde prato
che perdessi di sotto il tempo e l’opra. dal qual tutto il palazzo era aggirato.

10. D’oro e di seta i letti ornati vede: 14. Mentre circonda la casa silvestra,
nulla de muri appar né de pareti; tenendo pur a terra il viso chino
che quelle, e il suolo ove si mette il piede, per veder s’orma appare, o da man destra
son da cortine ascose e da tapeti. o da sinistra, di nuovo camino;
Di su di giù va il conte Orlando e riede; si sente richiamar da una finestra:
né per questo può far gli occhi mai lieti e leva gli occhi; e quel parlar divino
che riveggiano Angelica, o quel ladro gli pare udire, e par che miri il viso,
che n’ha portato il bel viso leggiadro. che l’ha, da quel che fu, tanto diviso.

11. E mentre or quinci or quindi invano il passo 15. Pargli Angelica udir, che supplicando
movea, pien di travaglio e di pensieri, e piangendo gli dica: – Aita, aita!
Ferraù, Brandimarte e il re Gradasso, la mia virginità ti raccomando
re Sacripante et altri cavallieri più che l’anima mia, più che la vita.
vi ritrovò, ch’andavano alto e basso, Dunque in presenzia del mio caro Orlando
né men facean di lui vani sentieri; da questo ladro mi sarà rapita?
e si ramaricavan del malvagio Più tosto di tua man dammi la morte,
invisibil signor di quel palagio. che venir lasci a sì infelice sorte. –

8 facciavano nella corte in- la sua ispezione (lett., ritor- loro sottratto qualcosa. gira attorno al palazzo sil-
1 suttil: fine. terna, il luogo più protetto. na). 4 ch’abbia... arrabbia: vestre (cioè posto in mezzo
2 altiero: magnifico, 3-4 né... vegga: né trala- 8 n’ha potrato: si è por- un altro è infuriato per aver alla selva).
stupendo. scia di ispezionare. tato via. perduto la propria donna. 4 di nuovo camino: di
3 messa d’oro: «dorata. 6 cerco: cercato. – pog- 11 7 a questo inganno un recente passaggio.
Più comunemente “messa gia: sale. 1 or quinci or quindi: presi: intrappolati in questo 7-8 e par... diviso: e gli
ad oro”» (Bigi). 7-8 e non men... l’opra: e ora di qui, ora di là. palazzo incantato, inganna- sembra di vedere quel viso
9 ricerca altrettanto minu- 2 pien... pensieri: pieno ti da questo incantesimo. che lo ha fatto innamorare
1-2 fulminando... s’al- ziosamente ma vanamente di, afflitto da pensieri ango- 13 (lett., lo ha reso così diverso
loggia: veloce come il ful- di sopra come aveva fatto di sciosi (endiadi). 2 cercato ebbe: ebbe da quello che fu un tempo).
mine entra nella parte più sotto (lett. non perde meno 6 vani sentieri: percorsi ispezionato. 15
interna del palazzo, dove tempo ed energie nella ri- inutili, ricerche infruttuo- 4 gittare: buttare via, 2 Aita: aiuto!
sono poste le abitazioni cerca di sopra di quanto ne se. sprecare. 8 che venir... sorte:
(s’alloggia, è abitato). I ca- perdesse di sotto). 12 8 era aggirato: era cir- (piuttosto) che tu mi ab-
stelli medievali talora pre- 10 1-2 Tutti cercando... ab- condato. bandoni a una sorte così in-
vedevano una doppia cinta 4 cortine: tende. bia: tutti lo vanno cercando 14 fausta.
di mura e le abitazioni si af- 5 riede: ripete più volte e tutti lo accusano di aver 1 circonda... silvestra:

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24. Ludovico Ariosto T 24.5

16. Queste parole una et un’altra volta 20. Una voce medesma, una persona
fanno Orlando tornar per ogni stanza, che paruta era Angelica ad Orlando,
con passïone e con fatica molta, parve a Ruggier la donna di Dordona,
ma temperata pur d’alta speranza. che lo tenea di se medesmo in bando.
Talor si ferma, et una voce ascolta, Se con Gradasso o con alcuna ragiona
che di quella d’Angelica ha sembianza di quei ch’andavan nel palazzo errando,
(e s’egli è da una parte, suona altronde), a tutti par che quella cosa sia,
che chieggia aiuto; e non sa trovar donde. che più ciascun per sé brama e desia.

17. Ma tornando a Ruggier, ch’io lasciai quando 21. Questo era un nuovo e disusato incanto
dissi che per sentiero ombroso e fosco ch’avea composto Atlante di Carena,
il gigante e la donna seguitando, perché Ruggier fosse occupato tanto
in un gran prato uscito era del bosco; in quel travaglio, in quella dolce pena,
io dico ch’arrivò qui dove Orlando che ’l mal’influsso n’andasse da canto,
dianzi arrivò, se ’l loco riconosco. l’influsso ch’a morir giovene il mena.
Dentro la porta il gran gigante passa: Dopo castel d’acciar, che nulla giova,
Ruggier gli è appresso, e di seguir non lassa. e dopo Alcina, Atlante ancor fa pruova.

18. Tosto che pon dentro alla soglia il piede, 22. Non pur costui, ma tutti gli altri ancora,
per la gran corte e per le loggie mira; che di valore in Francia han maggior fama,
né più il gigante né la donna vede, acciò che di lor man Ruggier non mora,
e gli occhi indarno or quinci or quindi aggira. condurre Atlante in questo incanto trama.
Di su di giù va molte volte e riede; E mentre fa lor far quivi dimora,
né gli succede mai quel che desira: perché di cibo non patischin brama,
né si sa immaginar dove sì tosto sì ben fornito avea tutto il palagio,
con la donna il fellon si sia nascosto. che donne a cavallier vi stanno ad agio.

19. Poi che revisto ha quattro volte e cinque 23. Ma torniamo ad Angelica, che seco
di su di giù camere e loggie e sale, avendo quell’annel mirabil tanto,
pur di nuovo ritorna, e non relinque, ch’in bocca a veder lei fa l’occhio cieco,
che non ne cerchi fin sotto le scale. nel dito, l’assicura da l’incanto;
Con speme al fin che sian ne le propinque e ritrovato nel montano speco
selve, si parte: ma una voce, quale cibo avendo e cavalla e veste e quanto
richiamò Orlando, lui chiamò non manco; le fu bisogno, avea fatto disegno
e nel palazzo il fe’ ritornar anco. di ritornare in India al suo bel regno.

16 3-4 non... cerchi: non tra- sottratto al governo della il castello d’acciaio, che non ché Ruggiero non muoia
3 passïone: patimento, lascia (relinque, latinismo) di sua parte razionale» (Bigi). era servito a nulla, e dopo il per mano loro.
angoscia. ispezionarle. È un modulo della poesia tentativo di Alcina,Atlante 4 condurre... trama: si
7 altronde: altrove. 5 propinque: vicine (al- lirica. prova di nuovo (a sottrarre propone di condurre in
8 donde: da dove pro- tro latinismo). 21 Ruggiero al proprio desti- questo luogo incantato.
venga. 20 2 Atlante di Carena: no). Il castel d’acciar è quello 6 non patischin brama:
17 1-3 Una voce... Dordona: Atlante aveva un castello del canto IV [R T 24.4 ]; la non abbiano desiderio.
1-4 ch’io lasciai... bosco: la stessa voce, la stessa per- sul monte Carena. maga Alcina aveva cercato 23
nel canto XI Ruggiero sona che a Orlando era par- 4 dolce pena: tipico os- di trattenere con la sedu- 3-4 ch’in bocca... incan-
aveva visto un gigante por- sa Angelica, a Ruggiero simoro petrarchesco. zione Astolfo nell’isola do- to: che tenuto in bocca la
tar via Bradamante e lo ave- parve Bradamante (figlia 5-6 che ’l mal influsso... ve l’ippogrifo lo aveva con- rende invisibile (rende
va inseguito. del duca di Dordona). mena: per vanificare (che... dotto, ma anche lei invano: l’occhio altrui incapace di
18 4 che lo tenea... bando: n’andasse da canto) il cattivo Ruggiero infatti con l’aiu- vederla), e al dito la proteg-
4 aggira: volge intorno. che lo aveva messo in ban- influsso degli astri, che to della maga Melissa era ge da ogni incantesimo.
19 do di se stesso, cioè che, fa- conduce Ruggiero a una fuggito via anche da lì. 5 nel montano speco:
1 revisto... cinque: ha cendolo innamorare, «lo morte precoce. 22 nell’antro montano.
ispezionato più e più volte. teneva fuori di sé, lo aveva 7-8 Dopo... pruova: dopo 3 acciò... mora: affin-

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Quattrocento e Cinquecento

24. Orlando volentieri o Sacripante 28. Ma il Circasso depor, quando le piaccia,


voluto avrebbe in compagnia: non ch’ella potrà, se ben l’avesse posto in cielo.
più caro avesse l’un che l’altro amante; Questa sola cagion vuol ch’ella il faccia
anzi di par fu a’ lor disii ribella: sua scorta, e mostri avergli fede e zelo.
ma dovendo, per girsene in Levante, L’annel trasse di bocca, e di sua faccia
passar tante città, tante castella, levò dagli occhi a Sacripante il velo.
di compagnia bisogno avea e di guida, Credette a lui sol dimostrarsi, e avenne
né potea aver con altri la più fida. ch’Orlando e Ferraù le sopravenne.

25. Or l’uno or l’altro andò molto cercando, 29. Le sopravenne Ferraù et Orlando;
prima ch’indizio ne trovasse o spia, che l’uno e l’altro parimente giva
quando in cittade, e quando in ville, e quando di su di giù, dentro e di fuor cercando
in alti boschi, e quando in altra via. del gran palazzo lei, ch’era lor diva.
Fortuna al fin là dove il conte Orlando, Corser di par tutti alla donna, quando
Ferraù e Sacripante era, la invia, nessuno incantamento gli impediva:
con Ruggier, con Gradasso et altri molti perché l’annel ch’ella si pose in mano,
che v’avea Atlante in strano intrico avolti. fece d’Atlante ogni disegno vano.

26. Quivi entra, che veder non la può il mago, 30. L’usbergo indosso aveano e l’elmo in testa
e cerca il tutto, ascosa dal suo annello; dui di questi guerrier, dei quali io canto;
e truova Orlando e Sacripante vago né notte o dì, dopo ch’entraro in questa
di lei cercare invan per quello ostello. stanza, l’aveano mai messo da canto;
Vede come, fingendo la sua imago, che facile a portar, come la vesta,
Atlante usa gran fraude a questo e a quello. era lor, perché in uso l’avean tanto.
Chi tor debba di lor, molto rivolve Ferraù il terzo era anco armato, eccetto
nel suo pensier, né ben se ne risolve. che non avea, né volea avere elmetto.

27. Non sa stimar chi sia per lei migliore, 31. fin che quel non avea, che ’l paladino
il conte Orlando o il re dei fier Circassi. tolse Orlando al fratel del re Troiano;
Orlando la potrà con più valore ch’allora lo giurò, che l’elmo fino
meglio salvar nei perigliosi passi: cercò de l’Argalia nel fiume invano:
ma se sua guida il fa, sel fa signore; e se ben quivi Orlando ebbe vicino,
ch’ella non vede come poi l’abbassi, né però Ferraù pose in lui mano;
qualcunque volta, di lui sazia, farlo avenne che conoscersi tra loro
voglia minore, o in Francia rimandarlo. non si poter, mentre là dentro foro.
24 to dell’anello fatato di cui 27 che se prima l’avesse posto 7-8 perché... vano: oltre a
4 anzi... ribella: anzi fu all’ott. 23. 2 il re... Circassi: Sacri- (non su un trono ma addi- rendersi visibile (toglien-
egualmente (di par, al pari) 2 cerca... ascosa: esplo- pante. rittura) in cielo. dosi l’anello) Angelica va-
contraria, restia (ribella) ai ra tutto quel luogo, resa in- 4 perigliosi passi: situa- 3-4 Questa... zelo: questa nificava (mettendoselo)
loro desideri. visibile... zioni o luoghi pericolosi o è la sola ragione per cui ella l’incantesimo di Atlante.
5 girsene in Levante: 3-4 vago... cercare: «Si ri- anche, genericamente, pe- decide di prenderlo come 30
raggiungere l’Oriente (gir- ferisce sia ad Orlando che a ricoli. scorta e finga di avere per 1 usbergo: corazza, par-
sene, andarsene). Sacripante: intenti a cer- 5 sel fa signore: lo rende lui fiducia e affetto (zelo). te dell’armatura che pro-
25 carla» (Bigi). Si noti anche suo signore, è costretta a 5-6 di sua... il velo: rese il tegge il tronco.
2 spia: notizia, informa- il nesso vago... cercare invan, sottomettersi a lui. proprio volto visibile agli 2 dui: due.
zione. che introduce una sottile 6-8 ch’ella non vede... ri- occhi di Sacripante; il velo 4 stanza: dimora.
3-4 quando... quando: notazione psicologica (an- mandarlo: perché ella non che Angelica toglie è natu- 5-6 che... lor: che per loro
ora... ora. cora desiderosi di prose- vede come possa poi to- ralmente solo metaforico. (l’armatura) era facile da
5 Fortuna: ancora un guire la ricerca nonostante gliergli quel potere (l’abas- 8 le sopravenne: so- portare, come la veste.
intervento del caso. la vanità dei risultati). si), quando, stanca di lui, vo- praggiunsero, vedendola e 31
8 in strano intrico: nel- 5 imago: immagine (la- glia ridimensionarlo o ri- riconoscendola essi pure. 1-2 fin che... Troiano:
lo strano intrico del palazzo tinismo). mandarlo in Francia. 29 Ferraù non voleva rimet-
incantato dove il narratore 7-8 Chi tor... risolve: me 28 2 giva:andava (dal lat.ire). tersi l’elmo finché non
ha da poco lasciato Orlan- dita a lungo chi di loro 1-2 Ma... cielo: Sacripan- 5 di par tutti: tutti insie- avesse ottenuto quello che
do e gli altri cavalieri. debba prendere (come te viceversa potrà ricon- me,tutti allo stesso tempo. Orlando aveva tolto ad Al-
26 guida), senza sapersi deci- durlo in suo potere, in qual- 5 quando: dal momento monte (il fratello del re
1 che... mago: per effet- dere. siasi momento le garbi, an- che. Troiano); aveva così giurato

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24. Ludovico Ariosto T 24.5

32. Era così incantato quello albergo de la donzella, ch’in fuga percuote
ch’insieme riconoscer non poteansi. la sua iumenta, perché volentieri
Né notte mai né dì, spada né usbergo non vede li tre amanti in compagnia,
né scudo pur dal braccio rimoveansi. che forse tolti un dopo l’altro avria.
I lor cavalli con la sella al tergo,
pendendo i morsi da l’arcion, pasceansi 34. E poi che dilungati dal palagio
in una stanza, che presso l’uscita, gli ebbe sì, che temer più non dovea
d’orzo e di paglia sempre era fornita. che contra lor l’incantator malvagio
potesse oprar la sua fallacia rea;
33. Atlante riparar non sa né puote, l’annel, che le schivò più d’un disagio,
ch’in sella non rimontino i guerrieri tra le rosate labbra si chiudea:
per correr dietro alle vermiglie gote, donde lor sparve subito dagli occhi
all’auree chiome et a’ begli occhi neri e gli lasciò come insensati e sciocchi.

dopo aver invano cercato di 32 sto sottolinea, le vicende più scelto come guida uno per cantesimi.
recuperare l’elmo di Argalia 1 quello albergo: quel fantastiche e inverosimili» volta, singolarmente. 5 le schivò: le permise di
dalle acque del fiume. palazzo. (Bigi). 34 evitare.
5-6 e se ben... mano: seb- 5-8 I lor cavalli... fornita: 33 1-2 E poi che... ebbe:e do- 7 donde: dopodiché.
bene qui avesse Orlando vi- «Si osservi la precisazione 1 riparar: impedire. po che li (gli) ebbe allonta- 8 come insensati e
cino, tuttavia Ferraù non realistica, che, come sempre, 8 che forse... l’altro nati dal palazzo... sciocchi: come inebetiti,
combatté con lui. accompagna, e per contra- avria: che forse avrebbe 4 fallacia rea:maligni in- istupiditi (dalla sorpresa).

Guida all’analisi
L’intrico, il vano errare, l’apparenza e la vanità Le caratteristiche essenziali del palazzo d’Atlante sono due: cia-
scun personaggio vi è attirato e vi si aggira inseguendo vane apparenze e precisamente un si-
mulacro dell’oggetto dei propri desideri («a tutti par che quella cosa sia, / che più ciascun
per sé brama e desia» [20, 7-8]); tutti i personaggi percorrono in lungo e in largo il palazzo
senza potersi mai riconoscere («Era così incantato quello albergo / ch’insieme riconoscer
non poteansi» [32, 1-2]).
Particolarmente interessante è notare la frequenza di certi stilemi, termini o espressioni
che costituiscono una spia linguistica dei motivi sopra accennati. Il verbo “parere” innanzi-
tutto che percorre tutto il passo (4,6; 5, 7-8; 6, 1-2; 14, 6-7; 15, 1; 16, 5-6; 20, 1-3; 20, 7-8).
Ma ripetuti sono anche i termini “vano” e “invano”: cfr. 9, 6; 11, 1; 11, 6 (vani sentieri); 13, 4;
18, 4 (indarno); 26, 4; 29, 8. Notevole, a questo proposito, è l’espressione «Tutti cercando il
van», che significa “tutti lo vanno cercando” (l’«invisibil signor di quel palagio»), ma che non
può non riecheggiare il motivo della vanità, quasi dicesse «tutti vanno esplorando la vanità».
Ripetuti sono i verbi di moto (andare, venire, tornare, errare ecc.) insieme naturalmente al
verbo tipico dell’inchiesta (cercare) e ad espressioni che indicano il caotico aggirarsi dei per-
sonaggi: dentro e d’intorno (5, 8), corre di qua, corre di là (9, 3), Di su di giù (10, 5), or quinci or
quindi (11, 1), di su di giù, dentro e di fuor (29, 3) ecc.
I fantasmi del desiderio e il laicismo di Ariosto L’episodio può esser letto come una metafora dell’esistenza del-
l’uomo perduto a inseguire i fantasmi del proprio desiderio, beni che sempre sfuggono al
suo saldo possesso, e incapace di dare una direzione unitaria e costante al proprio itinerario
nella vita e nel mondo. Notiamo di sfuggita che la voluta assenza di un’ipotesi di soluzione
di questo “intrico” che è il vivere umano e, particolarmente, l’assenza di una soluzione reli-
giosa, trascendente, qui come in tutto il Furioso, è indizio della sostanziale laicità della visio-
ne del mondo ariostesca.
La funzione di regia: Ariosto «geometrico» D’altro canto per questo episodio è necessario ancora una volta in-
sistere sul limpido controllo formale operato da Ariosto su una materia in grado di espri-
mere gli affanni e il travaglio dell’uomo, le sue incertezze nei labirintici itinerari della vita.
Se sul piano della storia sono il caso (come nel I canto) o un incantesimo (come in questo
canto) i principi organizzatori della materia, sul piano della narrazione è la precisa funzione
di regia del narratore che compone e scompone le fila del racconto, fa convergere o diver-
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Quattrocento e Cinquecento

gere i destini e gli itinerari dei personaggi. L’intrico della selva o del palazzo d’Atlante, si ri-
solve sul piano della narrazione, e cioè dell’arte, nell’ordine complesso, ma talora persino
«geometrico» – per usare un termine di Calvino – che Ariosto ha saputo dare alla sua ma-
teria. Questo controllo formale, come già altrove si è notato, risponde a un’esigenza di «do-
minio etico e intellettuale su quella irrazionale e imperfetta realtà» di cui veniva facendo
esperienza e di cui mostrava chiara consapevolezza» (Bigi).
L’ironia investe il mondo cavalleresco Anche in questo episodio, al tema generale del disinganno nei confronti
dell’agire umano, si associa quello della demistificazione del mondo cavalleresco e degli
ideali che a esso aveva associato Boiardo pochi anni prima. Rispetto alle nobili, eroiche im-
prese dei cavalieri antiqui, rispetto alla pienezza di senso etico ed esistenziale dei loro destini,
la vana e quasi meccanica ricerca che affatica i poveri eroi smarriti di questo episodio, l’in-
sensata ripetitività dei loro gesti, lo spazio angusto in cui si consuma il loro dramma e l’in-
capacità di risvegliarsi da quel sonno della ragione che li paralizza («e così stanno, / che non
si san partir di quella gabbia», 12, 5-6) non possono che gettare un’ombra profonda su tutto
quel mondo. Ariosto lo fa con la consueta leggerezza, certo senza nostalgia ma anche senza
livore polemico nei confronti di un mondo ormai lontano, e con la sobria ironia di chi è
consapevole della natura tutta letteraria dei suoi personaggi.

Doc 24.6 Un palazzo incantato nel Morgante di Luigi Pulci

Nel canto II del Morgante Orlando e Morgante, all’inizio delle loro peregrinazioni intrapre-
se allo scopo di andare ‘alla ventura’ per cimentarsi in qualche battaglia o in qualche altra
meravigliosa impresa («Qualche battaglia, qualche torniamento / trovar vorremo, se piaces-
si a Dio», II, 12,1-2), si trovano per caso a passare la notte in un misterioso palazzo: quando
entrano non trovano nessuno e quando poi cercano di uscirne non trovano più né porte né
finestre e per un po’ si aggirano anche loro vanamente. Si tratta anche in questo caso di un
incantesimo: per uscirne dovranno azzuffarsi con un demone finché, sconfittolo, verranno a
sapere che per uscire dal palazzo Orlando dovrà battezzare il gigante suo compagno.
Nell’episodio ci sono alcuni punti in comune con il palazzo di Atlante (legati soprattut-
to al motivo dell’impossibilità di ritrovare la libertà e all’inutile esplorazione del luogo, e
più marginalmente a quello dell’apparenza vana, ovvero del sogno), ma anche, e più nu-
merosi, elementi di divergenza (legati soprattutto al tema carnevalesco e tipicamente pul-
ciano del mangiare e della concretezza del cibo, al linguaggio, al registro stilistico e all’as-
senza qui di un evidente sovrasenso simbolico).
Si noti anche che l’andare alla ventura nel Morgante è diverso dall’inchiesta nel Furioso.
Come nei romanzi arturiani, anche se degradato in chiave comica e privato delle sue im-
plicazioni etiche, l’andare alla ventura del Morgante è un mettersi alla prova che ha un
obiettivo vago e mutevole (battaglie, tornei, avventure...) e in definitiva ha successo (le mi-
rabili imprese si accumulano una dopo l’altra, i protagonisti trovano ciò che cercano). L’in-
chiesta del Furioso ha invece caratteristiche profondamente diverse che abbiamo già analiz-
zato (ha un obiettivo preciso, anche se passibile di sostituzione, questo è un oggetto del de-
siderio spesso legato al tema d’amore, l’inchiesta non ha successo e così via). Il confronto
potrà essere istruttivo della diversa strada intrapresa da Ariosto anche rispetto a questo an-
tecedente. Riportiamo alcune tra le ottave più significative per il confronto.

20. Le camere eran tutte ornate e belle, 21. Dicea Morgante: – Non è qui persona
istorïate con sottil lavoro, a guardar questo sì ricco palagio?
e letti molto ricchi erano in quelle, Orlando, questa stanza mi par buona:
coperti tutti quanti a drappi d’oro, noi ci staremo un giorno con grande agio. –
e’ palchi erano azurri, pien di stelle, Orlando nella mente sua ragiona:
ornati sì che valieno un tesoro; – O qualche saracin molto malvagio
le porte eran di bronzo, e qual d’argento, vorrà che qualche trappola ci scocchi,
e molto vario e lieto è il pavimento. per pigliarci al boccon come i ranocchi;

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24. Ludovico Ariosto T 24.5

22. o veramente c’è sotto altro inganno: che, come noi, aranno fatto gala;
questo non par che sia convenïente. – le cose ch’avanzorno ove sono ite? –
Disse Morgante: – Questo è poco danno – ; E in questo errore un gran pezzo soggiornano:
e cominciava a ragionar col dente, dovunque e’ vanno, in sulla sala tornano.
dicendo: – All’oste rimarrà il malanno;
mangiàn pur molto ben per al presente; 27. Non riconoscono uscio né finestra.
quel che ci resta, faren poi fardello, Dicea Morgante: – Ove siàn noi entrati?
ch’io porterei, quand’io rubo, un castello. – Noi smaltiremo, Orlando, la minestra,
ché noi ci siam rinchiusi e inviluppati
23. Rispose Orlando: – Questa medicina come fa il bruco su per la ginestra. –
forse potrebbe il palagio purgare. – Rispose Orlando: – Anzi ci siam murati. –
Hanno cercato insino alla cucina: Disse Morgante: – A volere il ver dirti,
né cuoco, né vassallo usan trovare. questa mi pare una stanza da spirti:
Adunque ognuno alla mensa camina:
comincian le mascella adoperare, 28. questo palagio, Orlando, fia incantato,
ch’un giorno avevon mangiato già in sogno, come far si soleva anticamente. –
tal che di vettovaglia avean bisogno. Orlando mille volte s’è segnato,
e non poteva a sé ritrar la mente,
24. Quivi vivande è di molte ragioni: fra sé dicendo: «Aremol noi sognato?»
pavoni e starne e leprette e fagiani, Morgante dello scotto non si pente,
cervi e conigli e di grassi capponi, e disse: – Io so ch’al mangiare ero desto;
e vino ed acqua, per bere e per mani. or non mi curo s’egli è sogno il resto.
Morgante sbadigliava a gran bocconi,
e furno al bere infermi, al mangiar sani; 29. Basta che le vivande non sognai;
e poi che sono stati a lor diletto, e s’elle fussin ben di Satanasso,
si riposorno intro ’n un ricco letto. arrechimene pure innanzi assai. –
Tre giorni in questo error s’andorno a spasso
25. Come e’ fu l’alba, ciascun si levava sanza trovare ond’egli uscissin mai;
e credonsene andar come ermellini, e ’l terzo giorno, scesi giù da basso,
né per far conto l’oste si chiamava, in una loggia arrivon per ventura,
ché lo volean pagar di bagattini; donde un suono esce d’una sepultura,
Morgante in qua ed in là per casa andava,
e non ritruova dell’uscio i confini. 30. e dice: – Cavalieri, errati siete:
Diceva Orlando: – Saremo noi mézzi voi non potresti di qui mai partire,
di vin, che l’uscio non si raccapezzi? se meco prima non v’azzufferete;
venite questa lapida a scoprire,
26. Questa è, s’io non m’inganno, pur la sala, se non che qui in eterno vi starete. –
ma le vivande e le mense sparite [...]
veggo che son; quivi era pur la scala:
qui son gente stanotte comparite,

Laboratorio 1 Sottolinea o evidenzia le espressioni si- narrativa vengono attribuiti ad Atlante?


COMPRENSIONE gnificative per lo sviluppo del tema del 4 Analizza la rappresentazione dell’ambiente
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE «vano errare». in questo episodio e confrontala con quella
2 Confronta questo episodio con l’inchiesta dei due episodi precedenti (la selva del can-
di Angelica nella selva al canto I [R T 24.3 ] to I e la natura e il castello nel canto IV).
e individuane analogie e differenze. 5 Confronta l’episodio del palazzo di
3 Confronta questo episodio con quello del Atlante con il testo di Pulci [ R T 24.5
castello di Atlante [R T 24.4 ]: in entrambi i Doc 24.6 ]. Sviluppa le osservazioni della

casi il progetto di Atlante è vanificato, ma premessa a quest’ultimo e poi delinea le


in modi in parte diversi. Che ruolo hanno caratteristiche delle diverse strade seguite
il conflitto di volontà, il caso e la magia dai due autori nella loro rielaborazione
nei due episodi? Che spazio e funzione del materiale carolingio e arturiano.
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Quattrocento e Cinquecento

T 24.6 Orlando furioso I ed. 1516, III ed. 1532


Rodomonte all’assalto di Parigi [XIV, 116-134; XVI,21-27;85-87]
L. Ariosto Rodomonte, il re di Algiere, è l’incarnazione dell’audacia guerriera e della violenza san-
Orlando furioso guinaria: instintivo e selvaggio, è una vera e propria forza della natura. Qui lo troviamo
a cura di E. Bigi, impegnato durante l’assedio di Parigi prima a guidare con disumana severità i suoi
Rusconi, Milano 1982
guerrieri all’assalto, poi a lanciarsi da solo, compiendo un salto prodigioso da uno spal-
to all’altro delle mura, come un animale inferocito nella città, dove fa orribili stragi di
guerrieri, di donne e bambini, seminando sgomento e orrore. Solo l’intervento in forze
di Carlo e di molti prodi paladini alla fine lo costringerà e ritirarsi dalla città non sen-
za aver seminato una sequela di cadaveri.

116. Sono appoggiate a un tempo mille scale, 119. Rodomonte non già men di Nembrotte
che non han men di dua per ogni grado. indomito, superbo e furibondo,
Spinge il secondo quel ch’inanzi sale; che d’ire al ciel non tarderebbe a notte,
che ’l terzo lui montar fa suo mal grado. quando la strada si trovasse al mondo,
Chi per virtù, chi per paura vale: quivi non sta a mirar s’intere o rotte
convien ch’ognun per forza entri nel guado; sieno le mura, o s’abbia l’acqua fondo:
che qualunche s’adagia, il re d’Algiere, passa la fossa, anzi la corre e vola,
Rodomonte crudele, uccide o fere. ne l’acqua e nel pantan fin alla gola.

117. Ognun dunque si sforza di salire 120. Di fango brutto, e molle d’acqua vanne
tra il fuoco e le ruine in su le mura. tra il foco e i sassi e gli archi e le balestre,
Ma tutti gli altri guardano, se aprire come andar suol tra le palustri canne
veggiano passo ove sia poca cura: de la nostra Mallea porco silvestre,
sol Rodomonte sprezza di venire, che col petto, col grifo e con le zanne
se non dove la via meno è sicura. fa, dovunque si volge, ample finestre.
Dove nel caso disperato e rio Con lo scudo alto il Saracin sicuro
gli altri fan voti, egli bestemmia Dio. ne vien sprezzando il ciel, non che quel muro.

118. Armato era d’un forte duro usbergo, 121. Non sì tosto all’asciutto è Rodomonte,
che fu di drago una scagliosa pelle. che giunto si sentì su le bertresche
Di questo già si cinse il petto e ’l tergo che dentro alla muraglia facean ponte
quello avol suo ch’edificò Babelle, capace e largo alle squadre francesche.
e si pensò cacciar de l’aureo albergo, Or si vede spezzar più d’una fronte,
e torre a Dio il governo de le stelle: far chieriche maggior de le fratesche,
l’elmo e lo scudo fece far perfetto, braccia e capi volare; e ne la fossa
e il brando insieme; e solo a questo effetto. cader da’ muri una fiumana rossa.

116 ne del guado è metafora che 4 quello avol... Babelle: rebbe senza pensarci un 121
1-2 Sono... grado: si tratta assimila la scalata alle mura quel suo antenato che co- istante. 2 bertresche: bertesche,
delle lunghe scale che veni- all’attraversamento di un struì la torre di Babele, il re 6 o s’abbia... fondo: se protezioni mobili che si
vano appoggiate alle mura fiume impetuoso). Nembrot (personaggio bi- l’acqua del fossato sia tale ponevano fra merlo e mer-
per far salire gli assalitori. 7 qualunque s’adagia: blico, menzionato anche da da potersi guadare (abbia... lo delle mura, o anche im-
Queste sono particolar- chiunque si attarda (è Dante e da Boiardo). fondo, sia poco profonda). palcature che consentivano
mente larghe, tanto che espressione dantesca cfr. If 5-6 e si... stelle: e pensò di 7-8 la corre... gola: la attra- ai soldati di camminare die-
consentono di portare due III 111). scacciare Dio dal cielo (au- versa di corsa quasi volasse, tro ai ripari.
guerrieri per ogni gradino 8 fere: ferisce. reo albergo, dimora dorata, benché sia immerso nell’ac- 3-4 facean... largo: con-
(non han men di dua per ogni 117 metafora già petrarchesca) qua e nel fango sino alla gola. sentivano un ampio e age-
grado). 3-4 se... cura: se vedano e sottrargli (torre) il governo 120 vole passaggio.
4 che... mal grado: il aprirsi un varco (passo) do- dell’universo (stelle). 1 brutto... vanne: spor- 4 francesche: francesi.
terzo sospinge il secondo ve ci sia poca difesa. 8 brando: spada. – a co, imbrattato... se ne va. 6 far chieriche... frate-
costringendolo suo mal- 7 Dove: mentre. questo effetto: a questo 4 de la... silvestre: un sche: mozza d’un colpo
grado a salire, e così via. 118 scopo. cinghiale della nostra Mal- parti del capo più ampie
5 vale: mostra valore 1 usbergo: la parte del- 119 lea (una zona paludosa del delle chieriche dei frati.
guerriero. l’armatura che proteggeva 3 che... notte: che non Ferrarese, nei pressi del Po). 8 fiumana rossa: un fiu-
6 entri nel guado: af- il tronco. indugerebbe sino alla notte 6 ample finestre: vasti me di sangue nemico.
fronti l’impresa (l’immagi- 3 tergo: schiena. di salire al cielo, cioè lo fa- squarci.

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24. Ludovico Ariosto T 24.6

122. Getta il pagan lo scudo, e a duo man prende 126. La turba dietro a Rodomonte presta
la crudel spada, e giunge il duca Arnolfo. le scale appoggia, e monta in più d’un loco.
Costui venia di là dove discende Quivi non fanno i Parigin più testa;
l’acqua del Reno nel salato golfo. che la prima difesa lor val poco.
Quel miser contra lui non si difende San ben ch’agli nemici assai più resta
meglio che faccia contra il fuoco il zolfo; dentro da fare, e non l’avran da gioco;
e cade in terra, e dà l’ultimo crollo, perché tra il muro e l’argine secondo
dal capo fesso un palmo sotto il collo. discende il fosso orribile e profondo.

123. Uccise di rovescio in una volta 127. Oltra che i nostri facciano difesa
Anselmo, Oldrado, Spineloccio e Prando: dal basso all’alto, e mostrino valore;
il luogo stretto e la gran turba folta nuova gente succede alla contesa
fece girar sì pienamente il brando. sopra l’erta pendice interiore,
Fu la prima metade a Fiandra tolta, che fa con lancie e con saette offesa
l’altra scemata al populo normando. alla gran moltitudine di fuore,
Divise appresso da la fronte al petto, che credo ben, che saria stata meno,
et indi al ventre, il maganzese Orghetto. se non v’era il figliuol del re Ulieno.

124. Getta da’ merli Andropono e Moschino 128. Egli questi conforta, e quei riprende,
giù ne la fossa: il primo è sacerdote; e lor mal grado inanzi se gli caccia:
non adora il secondo altro che ’l vino, ad altri il petto, ad altri il capo fende,
e le bigonce a un sorso n’ha già vuote. che per fuggir veggia voltar la faccia.
Come veneno e sangue viperino Molti ne spinge et urta; alcuni prende
l’acque fuggia quanto fuggir si puote; pei capelli, pel collo e per le braccia:
or quivi muore; e quel che più l’annoia, e sozzopra là giù tanti ne getta,
è ’l sentir che ne l’acqua se ne muoia. che quella fossa a capir tutti è stretta.

125. Tagliò in due parti il provenzal Luigi,


e passò il petto al tolosano Arnaldo.
Di Torse Oberto, Claudio, Ugo e Dionigi
mandar lo spirto fuor col sangue caldo;
e presso a questi, quattro da Parigi,
Gualtiero, Satallone, Odo et Ambaldo,
et altri molti: et io non saprei come
di tutti nominar la patria e il nome.

122 che uccide in una sola volta 4 bigonce: capaci reci- ne che ai nemici all’interno, nuove truppe subentrano
2 Arnolfo: un difensore quattro nemici è possibile pienti. superata cioè la prima cinta nella battaglia collocandosi
cristiano proveniente dal- vista la densità degli avversa- 5 viperino: di vipera. di mura,rimane un compito sopra l’elevato argine secondo.
l’Olanda (là dove il Reno ri in un luogo ristretto). 7 l’annoia: lo turba. ancora più arduo, e non ci 6 di fuore: all’esterno,
sfocia in mare). 5-6 Fu... normando: i pri- 125 sarà da scherzare (non l’a- sulla prima cinta di mura o
6 contra... zolfo: come mi due (prima metade) furo- 3 Di Torse: diTours, in vrian da gioco). nel fossato.
lo zolfo a contatto col fuoco no sottratti (fu... scemata) alle Francia. 7 l’argine secondo: una 7-8 che saria... Ulieno:
si incendia istantaneamente, Fiandre, gli altri due alla 4 mandar... caldo: insie- seconda cinta di mura, pre- che sarebbe stata meno nu-
così muore Arnolfo. Normandia. Modo un po’ me al sangue uscì dal loro ceduta da un fossato profondo merosa o anche: che sarebbe
8 dal capo... collo: con il involuto per dichiarare la corpo anche l’anima (l’im- e orribile (perché pieno di venuta meno all’impresa se
capo tagliato (fesso, da fen- provenienza dei soldati. magine è virgiliana). materie infiammabili). non ci fosse stato Rodo-
dere) fino a un palmo sotto il 124 126 127 monte a sospingerla e ad
collo. 1 Moschino: un perso- 1 presta: rapida. 2 dal basso all’alto: nella aprire il varco.
123 naggio reale vissuto alla cor- 3 non fanno... testa: non ritirata i soldati posti sulle 128
1 di rovescio... volta: te di Ferrara e noto per la sua oppongono più resistenza. mura sono scesi nel fossato 7 sozzopra: sottosopra, a
con un solo colpo di rove- smodata passione per il vi- 4 la prima... poco: la dove continuano a difen- capofitto.
scio. no. prima cinta di mura ormai dersi dai nemici che ora so- 8 a capir... stretta: è
4 sì pienamente: così ef- 2 fossa: il fossato posto non li protegge più. no posti più in alto di loro. troppo piccola per conte-
ficacemente (cioè il colpo davanti alle mura. 5-6 San... gioco: sanno be- 3-4 nuova... interiore: nerli tutti.

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Quattrocento e Cinquecento

129. Mentre lo stuol de’ barbari si cala, 132. qual con salnitro, qual con oglio, quale
anzi trabocca al periglioso fondo, con zolfo, qual con altra simil esca;
et indi cerca per diversa scala i nostri in questo tempo, perché male
di salir sopra l’argine secondo; ai Saracini il folle ardir riesca,
il re di Sarza (come avesse un’ala ch’eran nel fosso, e per diverse scale
per ciascun de’ suoi membri) levò il pondo credean montar su l’ultima bertresca;
di sì gran corpo e con tant’arme indosso, udito il segno da oportuni lochi,
e netto si lanciò di là dal fosso. di qua e di là fenno avampare i fochi.

130. Poco era men di trenta piedi, o tanto, 133. Tornò la fiamma sparsa, tutta in una,
et egli il passò destro come un veltro, che tra una ripa e l’altra ha ’l tutto pieno;
e fece nel cader strepito, quanto e tanto ascende in alto, ch’alla luna
avesse avuto sotto i piedi il feltro: può d’appresso asciugar l’umido seno.
et a questo et a quello affrappa il manto, Sopra si volve oscura nebbia e bruna,
come sien l’arme di tenero peltro, che ’l sole adombra, e spegne ogni sereno.
e non di ferro, anzi pur sien di scorza: Sentesi un scoppio in un perpetuo suono,
tal la sua spada, e tanta è la sua forza! simile a un grande e spaventoso tuono.

131. In questo tempo i nostri, da chi tese 134. Aspro concento, orribile armonia
l’insidie son ne la cava profonda, d’alte querele, d’ululi e di strida
che v’han scope e fascine in copia stese, de la misera gente che peria
intorno a quai di molta pece abonda nel fondo per cagion de la sua guida,
(né però alcuna si vede palese, istranamente concordar s’udia
ben che n’è piena l’una e l’altra sponda col fiero suon de la fiamma omicida.
dal fondo cupo insino all’orlo quasi), Non più, Signor, non più di questo canto;
e senza fin v’hanno appiattati vasi, ch’io son già rauco, e vo’ posarmi alquanto.

129 mensione (o tanto). cui sono tese le insidie nel 132 mo oscuro e denso «si in-
2 trabocca... fondo: 2 destro... veltro: agile profondo fossato e che vi 6 su l’ultima bertresca: nalza a volute» (Bigi).
precipita nel pericoloso come un cane da caccia. hanno disteso in abbon- sulla cima del secondo spal- 134
fossato. 3 strepito, quanto: così danza (in copia) rami secchi to. 1 concento: accordo.
3 per diversa scala: per poco rumore, quanto ne (scope) e fascine, intorno a 8 fenno avampare: fe- 2 alte querele: alti la-
mezzo di diverse, numerose avrebbe fatto se... cui c’è pece in abbondan- cero avvampare, accesero i menti.
scale. 5-7 affrappa... scorza: ta- za... fuochi. 4 per... guida: a causa di
5 il re di Sarza: sempre glia l’armatura come se fos- 5-7 (né... quasi): ma nes- 133 Rodomonte, che li aveva
Rodomonte. se di morbido stagno o di suna di queste insidie si ma- 1 Tornò... in una: tutti sospinti e anche gettati nel
6-7 levò... corpo: sollevò corteccia e non di ferro. nifesta in modo palese ben- gli sparsi focolai si riunifi- fossato.
il peso (pondo) del suo gran- 131 ché ne sia pieno fino all’or- carono in un solo grande 5 istranamente: insoli-
de corpo. 1 In questo... nostri: nel lo tutto il fossato, da una incendio. tamente, ma anche in mo-
8 netto: d’un balzo, con frattempo i nostri...: qui in- sponda al’altra. 2 ha ’l tutto pieno: ha do sinistro.
un salto. comincia un lungo perio- 8 e senza... vasi: e (in- invaso completamente il 8 posarmi: riposarmi.
130 do che rimane in sospeso torno a cui) hanno nasco- fossato.
1 Poco... tanto: era am- sino al v. 132, 3 dove questa sto innumerevoli vasi che 4 l’umido seno: «il seno
pio poco meno di trenta stessa espressione viene ri- contengono le materie in- rugiadoso, il seno da cui
piedi (circa nove metri) o presa. fiammabili enumerate nei piove la rugiada» (Caretti).
esattamente di questa di- 1-4 da chi... abonda: da due versi seguenti. 5 Sopra... bruna: un fu-

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24. Ludovico Ariosto T 24.6

21. Quando fu noto il Saracino atroce corre il fiero e terribil Rodomonte,


all’arme istrane, alla scagliosa pelle, e la sanguigna spada a cerco mena:
là dove i vecchi e ’l popul men feroce non riguarda né al servo né al signore,
tendean l’orecchie a tutte le novelle, né al giusto ha più pietà ch’al peccatore.
levossi un pianto, un grido, un’alta voce,
con un batter di man ch’andò alle stelle; 25. Religion non giova al sacerdote,
e chi poté fuggir non vi rimase, né la innocenzia al pargoletto giova:
per serrarsi ne’ templi e ne le case. per sereni occhi o per vermiglie gote
mercé né donna né donzella truova:
22. Ma questo a pochi il brando rio conciede, la vecchiezza si caccia e si percuote;
ch’intorno ruota il Saracin robusto. né quivi il Saracin fa maggior pruova
Qui fa restar con mezza gamba un piede, di gran valor, che di gran crudeltade;
là fa un capo sbalzar lungi dal busto; che non discerne sesso, ordine, etade.
l’un tagliare a traverso se gli vede,
dal capo all’anche un altro fender giusto: 26. Non pur nel sangue uman l’ira si stende
e di tanti ch’uccide, fere e caccia, de l’empio re, capo e signor degli empi,
non se gli vede alcun segnare in faccia. ma contra i tetti ancor, sì che n’incende
le belle case e i profanati tempi.
23. Quel che la tigre de l’armento imbelle Le case eran, per quel che se n’intende,
ne’ campi ircani o là vicino al Gange, quasi tutte di legno in quelli tempi:
o ’l lupo de le capre e de l’agnelle e ben creder si può; ch’in Parigi ora
nel monte che Tifeo sotto si frange; de le diece le sei son così ancora.
quivi il crudel pagan facea di quelle
non dirò squadre, non dirò falange, 27. Non par, quantunque il fuoco ogni cosa arda,
ma vulgo e populazzo voglio dire, che sì grande odio ancor saziar si possa.
degno, prima che nasca, di morire. Dove s’aggrappi con le mani, guarda,
sì che ruini un tetto ad ogni scossa.
24. Non ne trova un che veder possa in fronte, Signor, avete a creder che bombarda
fra tanti che ne taglia, fora e svena. mai non vedeste a Padova sì grossa,
Per quella strada che vien dritto al ponte che tanto muro possa far cadere,
di San Michel, sì popolata e piena, quanto fa in una scossa il re d’Algiere.

XVI combattente. 1-4 Quel... frange: quel morte con dignità, è il moti- 8 ordine: stato, condi-
21 6 batter... stelle: un bat- che fa la tigre alla mandria vo principale del disprezzo zione sociale (non distin-
1-2 Quando... pelle: quan- tere di mani (in segno di an- inoffensiva in Persia (campi cavalleresco di cui alla nota guendo fra militari, sacer-
do Rodomonte (il Saracino goscia e disperazione) tanto ircani) o in India (vicino al precedente. doti, civili).
dalla strana corazza fatta con forte da essere udito sino alle Gange) , o quel che fa il lupo 4 San Michel: nel centro 26
le scaglie di pelle di drago, stelle. alle capre o alle agnelle sul di Parigi. 1 Non pur... stende: l’ira
come è detto sopra 118, 1-2) 22 monte Epomeo ad Ischia 6 e la sanguigna... me- (dell’infedele, empio Rodo-
venne riconosciuto. Dopo 1 Ma questo... concie- (che secondo la mitologia na: e fa roteare la spada in- monte) non si rivolge sol-
una lunga interruzione, che de: ma la spada crudele (rio) teneva schiacciato sotto di sanguinata (o anche: assetata tanto verso gli uomini.
prende l’intero canto XV, di Rodomonte concede a sé il giganteTifeo). di sangue). 3 tetti: edifici (sineddo-
dedicata a seguire le vicende pochi questa possibilità di 7-8 ma vulgo... morire: «la 25 che: la parte per il tutto).
di Astolfo,Ariosto riprende rifugiarsi in luoghi sicuri. parola dispregiativa (fr.popu- 1 non giova: non serve 5 se n’intende: se ne sa,
la narrazione dell’assalto di 5 l’un... vede: gli si vede lace) non va riferita in senso per essere risparmiato. se ne sente dire.
Rodomonte, volutamente tagliare uno di traverso (cioè ristretto ai Parigini, né attri- 3-4 per... truova: né le 8 de le... le sei: sei su die-
interrotta a metà per pro- perpendicolarmente all’al- buita semplicemente al su- donne e le ragazze trovano ci.
durre suspense e attese nel tezza, da un fianco all’altro perbo disprezzo di Rodo- pietà (vengono risparmia- 27
lettore. La fa precedere da ad esempio). monte.Va invece riportata te), benché abbiano gli oc- 3 Dove...guarda: osser-
un’ottava di raccordo – che 6 giusto: con precisione. alla tradizione cavalleresca, chi splendenti o le guance va dove mettere le mani.
noi omettiamo – in cui si ri- 7-8 di tanti... faccia: delle in cui tale contrapposizione rosate (o anche: in virtù dei 5 Signor: l’autore si ri-
volge al cardinale Ippolito tante persone che uccide, del popolo imbelle alle gesta loro occhi...). volge qui direttamente al
domandandogli se si ricorda ferisce e insegue non gliene iperboliche degli eroi era 5 la vecchiezza: anche i cardinale Ippolito, dedicata-
ancora di Rodomonte la- si vede colpire alcuno che convenzionale» (Ceserani). vecchi (metonimia: l’astrat- rio del poema. – bombarda:
sciato tra la prima e la secon- gli si presenti di fronte (tutti 24 to per il concreto). cannone; allude all’assedio
da cinta di mura di Parigi. sono colpiti alle spalle per- 1-2 Non ne... svena: que- 6-7 né... crudeltate: cioè di Padova a cui partecipò,
3 popul men feroce: la ché fuggono terrorizzati). sto,la codardia del volgo im- dimostra pari valore e cru- con l’imperatore Massimi-
popolazione civile, non 23 belle che non sa affrontare la deltà. liano, anche il cardinale.

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Quattrocento e Cinquecento

85. Mentre di fuor con sì crudel battaglia, 87. Satanasso (perch’altri esser non puote)
odio, rabbia, furor l’un l’altro offende, strugge e ruina la città infelice.
Rodomonte in Parigi il popul taglia, Volgiti e mira le fumose ruote
le belle case e i sacri templi accende. de la rovente fiamma predatrice;
Carlo, ch’in altra parte si travaglia, ascolta il pianto che nel ciel percuote;
questo non vede, e nulla ancor ne ’ntende: e faccian fede a quel che ’l servo dice.
Odoardo raccoglie et Arimanno Un solo è quel ch’a ferro e a fuoco strugge
ne la città, col lor popul britanno. la bella terra, e inanzi ognun gli fugge. –

86. A-llui venne un scudier pallido in volto,


che potea a pena trar del petto il fiato.
– Ahimè! signor, ahimè! – replica molto,
prima ch’abbia a dir altro incominciato:
– Oggi il romano Imperio, oggi è sepolto;
oggi ha il suo popul Cristo abandonato:
il demonio dal cielo è piovuto oggi,
perché in questa città più non s’alloggi.

85 Parigi. Dopo queste due ot- troverà la sua conclusione 7-8 Odoardo... britanno: 8 più non s’alloggi: non
1-2 Mentre... offende: tave e poche altre, che de- quando il re d’Algeri lascerà Carlo accoglie l’avanguar- si abiti più (ipotizza la di-
mentre all’esterno della città scrivono pateticamente la città a nuoto nella Senna. dia dell’esercito inglese, gui- struzione totale della città).
infuria la battaglia. Nella l’annuncio a Carlo della di- 3-4 Rodomonte... accen- data dai due personaggi 87
nuova, lunga interruzione struzione operata da Rodo- de: due versi di raccordo, per menzionati, entrati in città 3 le fumose ruote:le spi-
della vicenda di Rodomon- monte e poi i vani tentativi noi ripetitivi, ma necessari per soccorrere il sovrano. re di fumo, il fumo che sale
te Ariosto ha narrato l’arri- di fermare Rodomonte, ci per riportare il lettore del- 86 con ampie volute.
vo di Rinaldo con l’esercito sarà una nuova interruzione l’intero poema, dopo la lun- 1 un scudier: uno scu- 5 nel ciel percuote: sale
inglese in soccorso di Carlo (per tutto il canto XVII, che ga digressione,al punto della diero dell’esercito franco fino al cielo, colpisce il cielo.
e dei parigini assediati: i descrive imprese di altri storia là dove era stata ab- che porta a Carlo (A-llui) le
nuovi arrivati hanno attac- personaggi lontani da Pari- bandonata. notizie relative a Rodo-
cato l’esercito di Rodo- gi) e solo nel canto XVIII 6 nulla... n’intende: non
monte.
monte nella piana di fronte a l’episodio di Rodomonte ne ha ancora alcuna notizia. 3 molto: molte volte.

Guida all’analisi
Rodomonte, una figura titanica È questo un episodio in cui Ariosto mostra la capacità di affrontare i temi epi-
ci della guerra e della morte con arte e vigore insoliti nel poema. La narrazione, nella scel-
ta di ottave che abbiamo proposto, si apre con una concitata scena d’assedio e una focaliz-
zazione ristretta sui soldati alle prese con il momento più critico dell’assalto, la scalata alle
mura. Subito però svetta la figura di Rodomonte crudele che sprona e sferza i soldati. Il narra-
tore sposta subito su di lui la focalizzazione del racconto e dedica almeno due ottave alla
sua dettagliata e statica presentazione, prima di mostrarcelo nuovamente impegnato nell’a-
zione principale. L’armatura di scaglie di drago e la discendenza da Nembrot, il re biblico
che edificò la torre di Babele in atto di sfida a Dio, ne fanno immediatamente un perso-
naggio di natura e statura titanica (i Titani sono personaggi mitologici il cui nome divenne
emblema di sfide impossibili, perché si ribellarono ai supremi signori dell’universo: prima,
con successo, al padre Urano e poi, venendo sconfitti, a Zeus). Egli infatti non arretra di
fronte a nessuna impresa, disprezza la morte e il ciel (120, 8), bestemmia Dio (117, 8), anch’e-
gli nell’atto di una sfida impossibile. Ariosto subito, proprio paragonandolo all’avo, lo quali-
fica come indomito, superbo e furibondo (119, 2) e ce lo mostra mentre, sprezzante di varchi
più facili e sicuri (117, 6-7), corre e vola attraverso i fossati colmi d’acqua (119, 7), d’un solo
balzo, a dispetto dell’enorme peso del suo corpo e dell’armatura, attraversa il secondo fos-
sato volando quasi da uno spalto all’altro delle mura. Incita i suoi soldati, ma caccia giù nel
fossato senza pietà alcuna quelli che si dimostrano titubanti e, insofferente di ogni esitazio-
ne o compromesso, li abbandona per proseguire da solo la guerra contro un intero esercito
e un’intera città.
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24. Ludovico Ariosto T 24.6

Una narrazione dal respiro e dal registro epico La descrizione delle uccisioni e delle devastazioni di Rodo-
monte ha un respiro epico. Consideriamo alcuni stilemi: la lunga sequenza di duelli, il gusto
per l’iperbole («Or si vede... braccia e capi volare; e ne la fossa / cader da’ muri una fiumana
rossa», 121, 5-8), la ripetizione di formule analoghe (come il roteare la spada), l’uniformità
del lessico (quasi interamente bellico), la scelta di forme fonicamente aspre (non numerosis-
sime, ma comunque significative, sul tipo di sprezzare, bertresche, sozzopra, ecc. o serie di rime
come usbergo : tergo : albergo), infine l’enumerazione stessa dei nomi dei guerrieri uccisi, che
prende interi versi. Tutti questi stilemi appartengono ai modelli epici e sono un segnale
esplicito di adesione a quello spirito. A questo elenco si potrebbero aggiungere le remini-
scenze dal Virgilio epico (ad es. la similitudine all’ott. XVI, 23), dal Dante infernale (l’affol-
larsi dei guerrieri e la metafora dell’entrar nel guado evoca un verso del canto dantesco di
Caronte là dove i dannati s’affollano per essere imbarcati e condotti all’inferno: «batte col
remo qualunque s’adagia» (If III 111), che diventa «che qualunque s’adagia... / Rodomonte
crudele uccide o fere», 116, 7-8) e quella biblica di Nembrot.
Un moderato ricorso al registro comico La scelta del registro epico è dunque netta in questo episodio assai più
che in altri (ad esempio quello successivo di Cloridano e Medoro che analizzeremo detta-
gliatamente sotto questo aspetto).Tuttavia Ariosto neanche in questo caso rinuncia a qualche
forma di abbassamento del registro dominante, in chiave di un più cordiale realismo o in
chiave comica o tragicomica. Numerose sono le similitudini animali, tutte riferibili a conte-
sti di caccia o di predazione, in modo consono alla natura dell’episodio: il porco silvestre (cioè
il cinghiale, ott. 120), il veltro (un cane da caccia menzionato per l’agilità, ott. 130), la tigre e il
lupo (menzionati come predatori, ott. 23). Il veltro rimanda ancora a Dante (il veltro, allego-
rico vendicatore, che «farà morir con doglia» la lupa di If I 101) e la tigre e il lupo a Virgilio,
mentre il porco silvestre, per quanto animale terribile che incuteva certamente soggezione e
anche paura nei contadini, evoca la nostra Mallea, luoghi noti ad autore e lettori, probabil-
mente frequentati per la caccia dai nobili estensi e non del tutto spaventosi. L’immagine poi,
pure truce per il senso, del «far chieriche maggior de le fratesche», nel suo riferimento alla
tonsura dei frati, ha un che di scherzoso o di comico, tanto che può ricordare – come nota
Bigi – consimili immagini di Pulci e, ad es., «Or pensa a quanti le zucche abbi rase».
Un ammicco alla realtà della corte ferrarese Infine, la menzione della morte di Moschino, un noto beone del-
la corte ferrarese, che «non adora... altro che ’l vino» (immagine che rimanda al Margutte di
Pulci e alla sua professione di fede), che svuota bigonce di vino, che fugge l’acqua come il
veleno di una vipera e che mentre sta per affogare è soprattutto turbato, più che dalla mor-
te in sé, dal morire nell’acqua, sposta decisamente il registro dall’epico al comico sia per la
qualità delle immagini (dalle imprese e uccisioni iperboliche di Rodomonte alle bevute
iperboliche di Moschino), sia per la natura del personaggio.
La menzione di Moschino infatti ammicca al pubblico di corte che, ben conoscendo il
personaggio, non poteva non cogliere come umoristica questa presenza. Si tratta certo di
inserimenti episodici e isolati, che non modificano radicalmente il quadro complessivo, ma
contribuiscono a farci comprendere che la stessa enormità delle imprese di Rodomonte,
pur con le sue ascendenze e connotazioni epiche, è tutta di natura letteraria e ha un che di
incredibile e di favoloso che impedisce di prenderla completamente sul serio, e forse più
che un brivido è intesa a suscitare nel lettore (come forse nello stesso Ariosto) un sorriso.

Laboratorio 1 Nella guida all’analisi abbiamo menzio- 3 Delinea con parole tue i tratti salienti
COMPRENSIONE nato vari stilemi che rimandano al regi- della figura di Rodomonte quale emerge
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE stro epico: rintraccia nel testo i passi rela- da questo episodio indicando quali ele-
tivi e valutane l’effetto. menti (psicologici, descrittivi o narrativi)
2 In particolare ricerca e analizza il lessico ti paiono più incisivi e suggestivi.
bellico e valutane la consistenza. Altret-
tanto fa’ per le forme e le rime fonica-
mente aspre.
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Quattrocento e Cinquecento

T 24.7 Orlando furioso I ed. 1516, III ed. 1532


Cloridano e Medoro [XVIII, 164-192; XIX, 1-16]
L. Ariosto Siamo nei dintorni di Parigi dopo una cruenta battaglia che ha visto una dura sconfitta
Orlando furioso dell’esercito pagano. Quando scende la notte Cloridano e Medoro, due giovani guer-
a cura di E. Bigi, rieri saraceni, sfidano la morte per recuperare il corpo di Dardinello, il loro signore
Rusconi, Milano 1982
morto in battaglia. Nell’affrontare i temi dell’amicizia, della devozione, della brama di
gloria spinte fino al disprezzo della morte, Ariosto rivela il suo interesse per l’epos clas-
sico che qui e altrove egli immette nel corpo del romanzo cavalleresco. Egli trae spun-
to infatti da una celebre pagina dell’Eneide di Virgilio, contaminata con una, un po’ me-
no famosa, della Tebaide di Stazio, un altro grande poeta epico latino. Ma – come ve-
dremo – per smorzare e temperare un effetto troppo prolungato di pathos introduce
qualche nota comica o umoristica che stemperi la tensione.
164. Tutta la notte per gli alloggiamenti 167. Erano questi duo sopra i ripari
dei mal sicuri Saracini oppressi con molti altri a guardar gli alloggiamenti,
si versan pianti, gemiti e lamenti, quando la Notte fra distanzie pari
ma quanto più si può, cheti e soppressi. mirava il ciel con gli occhi sonnolenti.
Altri, perché gli amici hanno e i parenti Medoro quivi in tutti i suoi parlari
lasciati morti, et altri per se stessi, non può far che ’l signor suo non rammenti,
che son feriti, e con disagio stanno: Dardinello d’Almonte, e che non piagna
ma più è la tema del futuro danno. che resti senza onor ne la campagna.
165. Duo Mori ivi fra gli altri si trovaro, 168. Volto al compagno, disse: – O Cloridano,
d’oscura stirpe nati in Tolomitta; io non ti posso dir quanto m’incresca
de’ quai l’istoria, per esempio raro del mio signor, che sia rimaso al piano,
di vero amore, è degna esser descritta. per lupi e corbi, ohimè! troppo degna esca.
Cloridano e Medor si nominaro, Pensando come sempre mi fu umano,
ch’alla fortuna prospera e alla afflitta mi par che quando ancor questa anima esca
aveano sempre amato Dardinello, in onor di sua fama, io non compensi
et or passato in Francia il mar con quello. né sciolga verso lui gli oblighi immensi.
166. Cloridan, cacciator tutta sua vita, 169. Io voglio andar, perché non stia insepulto
di robusta persona era et isnella: in mezzo alla campagna, a ritrovarlo:
Medoro avea la guancia colorita e forse Dio vorrà ch’io vada occulto
e bianca e grata ne la età novella; là dove tace il campo del re Carlo.
e fra la gente a quella impresa uscita Tu rimarrai; che quando in ciel sia sculto
non era faccia più gioconda e bella: ch’io vi debba morir, potrai narrarlo;
occhi avea neri, e chioma crespa d’oro: che se Fortuna vieta sì bell’opra,
angel parea di quei del sommo coro. per fama almeno il mio buon cor si scuopra. –
164 scritta: merita di essere nar- più alto coro della gerarchia piangere per lui, che giace di lui, neanche se morissi
2 oppressi: sconfitti. rata come raro esempio di celeste, cioè dei Serafini. insepolto (senza onor, senza per onorare la sua fama.
4 cheti e soppressi: som- sincero affetto. 167 onori funebri) sul campo di 169
messi e soffocati. 5 si nominaro: si chia- 2 a guardar: a sorveglia- battaglia . 3-4 ch’io... Carlo: che io
5 Altri: alcuni (piangono mavano. re, a guardia degli alloggia- 168 arrivi senza essere scoperto
e si lamentano: concorda a 6 alla fortuna... afflitta: menti. 2-4 io... esca: io non so dir- (occulto) all’accampamento
senso con si versan pianti …). nella buona e nella cattiva 3 la Notte: la maiuscola ti quanto mi dispiaccia che il di re Carlo, là dove ora tutti
7 con disagio stanno: sorte. segnala la personificazione mio signore sia rimasto sul dormono.
soffrono. 7 Dardinello: il loro so- che si chiarisce con l’imma- campo di battaglia (al piano), 5-8 che quando in ciel... si
8 tema... danno: paura vrano, ucciso in battaglia da gine degli occhi sonnolenti. – come pasto troppo nobile scuopra: così che, se in cielo
delle future sciagure (deri- Rinaldo (XVIII, 146-153). fra distanzie pari:a metà del per lupi e corvi. fosse scritto (sia sculto, scol-
vanti dall’odierna sconfitta). 8 et or passato... quello: suo viaggio da oriente a oc- 5 mi fu umano:fu bene- pito) che io debba morire
165 e ora con lui avevano attra- cidente (indica la mezza- volo, generoso nei miei ri- laggiù (vi), tu possa (potrai)
2 d’oscura...Tolomitta: versato il mare ed erano notte). guardi. raccontarlo, e se la Fortuna
nati a Tolomitta (è l’antica giunti in Francia. 5-8 Medoro... campagna: 6-8 mi par... immensi: mi negasse il successo (vieta) a
Tolemaide, in Cirenaica) da 166 Medoro in ogni suo discor- sembra che io non potrei questa nobile impresa, al-
umili genitori. 4 grata: gradevole. so non può fare a meno di saldare l’immenso debito di meno si conosca per fama il
3-4 per esempio... de- 8 del sommo coro: del ricordare Dardinello e di gratitudine che io ho verso mio cuore generoso.

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24. Ludovico Ariosto T 24.7

170. Stupisce Cloridan, che tanto core, 174. Così disse egli, e tosto il parlar tenne,
tanto amor, tanta fede abbia un fanciullo: et entrò dove il dotto Alfeo dormia,
e cerca assai, perché gli porta amore, che l’anno inanzi in corte a Carlo venne,
di fargli quel pensiero irrito e nullo; medico e mago e pien d’astrologia:
ma non gli val, perch’un sì gran dolore ma poco a questa volta gli sovenne;
non riceve conforto né trastullo. anzi gli disse in tutto la bugia.
Medoro era disposto o di morire, Predetto egli s’avea, che d’anni pieno
o ne la tomba il suo signor coprire. dovea morire alla sua moglie in seno:

171. Veduto che nol piega e che nol muove, 175. et or gli ha messo il cauto Saracino
Cloridan gli risponde: – E verrò anch’io, la punta de la spada ne la gola.
anch’io vuo’ pormi a sì lodevol pruove, Quattro altri uccide appresso all’indovino,
anch’io famosa morte amo e disio. che non han tempo a dire una parola:
Qual cosa sarà mai che più mi giove, menzion dei nomi lor non fa Turpino,
s’io resto senza te, Medoro mio? e ’l lungo andar le lor notizie invola:
Morir teco con l’arme è meglio molto, dopo essi Palidon da Moncalieri,
che poi di duol, s’avvien che mi sii tolto. – che sicuro dormia fra duo destrieri.

172. Così disposti, messero in quel loco 176. Poi se ne vien dove col capo giace
le successive guardie, e se ne vanno. appoggiato al barile il miser Grillo:
Lascian fosse e steccati, e dopo poco avealo voto, e avea creduto in pace
tra’ nostri son, che senza cura stanno. godersi un sonno placido e tranquillo.
Il campo dorme, e tutto è spento il fuoco, Troncogli il capo il Saracino audace:
perché dei Saracin poca tema hanno. esce col sangue il vin per uno spillo,
Tra l’arme e’ carriaggi stan roversi, di che n’ha in corpo più d’una bigoncia;
nel vin, nel sonno insino agli occhi immersi. e di ber sogna, e Cloridan lo sconcia.

173. Fermossi alquanto Cloridano, e disse:


– Non son mai da lasciar l’occasioni.
Di questo stuol che ’l mio signor trafisse,
non debbo far, Medoro, occisioni?
Tu, perché sopra alcun non ci venisse,
gli occhi e l’orecchi in ogni parte poni;
ch’io m’offerisco farti con la spada
tra gli nimici spaziosa strada. –

170 4 famosa: gloriosa, tale per facilitare alle guardie 5-6 ma poco... bugia: ma 5 Troncogli: gli troncò.
2 fanciullo: Medoro è da meritarmi giusta fama. l’avvistamento dei nemici. in questa circostanza l’a- 6 spillo: da un medesi-
assai giovane, molto più di 5 mi giove: mi dia pia- 6 tema: timore. strologia gli servì a poco, mo foro escono e sangue e
Cloridano. cere. 7 Tra l’arme... roversi: anzi lo ingannò del tutto. vino (tanto ne aveva bevu-
3-4 e cerca assai... nullo: 7-8 Morir teco... sii tolto: sono riversi tra le armi e i 7 Predetto... s’avea: to); lo spillo propriamente è
tenta con ogni mezzo di dis- è meglio morir con te con carri. aveva previsto per sé. – il foro delle botti da cui si
suadere Medoro (fargli... ir- le armi in pugno, che mori- 173 d’anni pieno: molto vec- spilla il vino, per cui, umo-
rito e nullo,rendere vano quel re poi di dolore se accadesse 3-4 Di questo stuol... oc- chio. risticamente, il personag-
pensiero), perché lo ama che ti dovessi perdere. cisioni: non devo far strage 175 gio è assimilato alla botte.
5 non gli val: non ci rie- 172 di questa gente che ha ucci- 1 cauto: astuto. 7 di che... bigoncia: del
sce. 1-2 messero... guardie: so il mio signore? 5 Turpino: leggendario quale (vino) ne ha più di
6 trastullo: distrazione, ricevettero il cambio (lett. 5 perché sopra alcun... arcivescovo di Reims, fonte una bigoncia in corpo. La
sollievo. misero al loro posto le venisse: perché nessuno ci presunta del Furioso e di al- bigoncia è il recipiente usato
8 coprire: seppellire. guardie del turno successi- sorprenda (sopra... ci venis- tri poemi cavallereschi. nella vendemmia per tra-
171 vo). se). 6 e ’l lungo andar... in- sportare l’uva e qui ovvia-
1 Veduto... muove: vi- 4 che... stanno: che se 7-8 m’offerisco... strada: vola: il molto tempo tra- mente indica gran quan-
sto che non riesce a disto- ne stanno, giacciono senza mi offro di aprirti la strada scorso ha cancellato ogni tità.
glierlo dal suo proposito. preoccupazioni (cura), cioè fra i nemici con la spada. traccia della loro identità. 8 sconcia: lo concia ma-
3 vuo’... pruove: voglio riposano beati. 174 176 le, lo deturpa (infatti lo de-
cimentarmi in un’impresa 5 tutto... fuoco: anche i 1 e tosto... tenne: e su- 3 avealo voto: lo aveva capita).
così lodevole. fuochi solitamente accesi bito tacque. vuotato, se l’era bevuto.

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Quattrocento e Cinquecento

177. E presso a Grillo, un Greco et un Tedesco 181. Gl’insidiosi ferri eran vicini
spenge in dui colpi, Andropono e Conrado, ai padiglioni che tiraro in volta
che de la notte avean goduto al fresco al padiglion di Carlo i paladini,
gran parte, or con la tazza, ora col dado: facendo ognun la guardia la sua volta;
felici, se vegghiar sapeano a desco quando de l’empia strage i Saracini
fin che de l’Indo il sol passassi al guado. trasson le spade, e diero a tempo volta;
Ma non potria negli uomini il destino, ch’impossibil lor par, tra sì gran torma,
se del futuro ognun fosse indovino. che non s’abbia a trovar un che non dorma.

178. Come impasto leone in stalla piena, 182. E ben che possan gir di preda carchi,
che lunga fame abbia smacrato e asciutto, salvin pur sé, che fanno assai guadagno.
uccide, scanna, mangia, a strazio mena Ove più creda aver sicuri i varchi
l’infermo gregge in sua balia condutto; va Cloridano, e dietro ha il suo compagno.
così il crudel pagan nel sonno svena Vengon nel campo, ove fra spade et archi
la nostra gente, e fa macel per tutto. e scudi e lance in un vermiglio stagno
La spada di Medoro anco non ebe; giaccion poveri e ricchi, e re e vassalli,
ma si sdegna ferir l’ignobil plebe. e sozzopra con gli uomini i cavalli.

179. Venuto era ove il duca di Labretto 183. Quivi dei corpi l’orrida mistura,
con una dama sua dormia abbracciato; che piena avea la gran campagna intorno,
e l’uno con l’altro si tenea sì stretto, potea far vaneggiar la fedel cura
che non saria tra lor l’aere entrato. dei duo compagni insino al far del giorno,
Medoro ad ambi taglia il capo netto. se non traea fuor d’una nube oscura,
Oh felice morire! oh dolce fato! a’ prieghi di Medor, la Luna il corno.
che come erano i corpi, ho così fede Medoro in ciel divotamente fisse
ch’andar l’alme abbracciate alla lor sede. verso la Luna gli occhi, e così disse:

180. Malindo uccise e Ardalico il fratello, 184. – O santa dea, che dagli antiqui nostri
che del conte di Fiandra erano figli; debitamente sei detta triforme;
e l’uno e l’altro cavallier novello ch’in cielo, in terra e ne l’inferno mostri
fatto avea Carlo, e aggiunto all’arme i gigli, l’alta bellezza tua sotto più forme,
perché il giorno amendui d’ostil macello e ne le selve, di fere e di mostri
con gli stocchi tornar vide vermigli; vai cacciatrice seguitando l’orme;
e terre in Frisia avea promesso loro, mostrami ove ’l mio re giaccia fra tanti,
e date avria; ma lo vietò Medoro. che vivendo imitò tuoi studi santi. –
177 suo potere. 5-6 perché... vermigli: diero... volta: ritornarono 183
2 spenge in dui colpi: 7 non ebe: non è spunta- perché li aveva visti ritornare indietro (diero... volta) al mo- 1-6 Quivi dei corpi... la
spegne, uccide con due col- ta (voce dotta, dal latino ebere quel giorno tutti e due mento opportuno (a tempo). Luna il corno: qui l’orribile
pi. “essere ottusa”), cioè fa stra- (amendui) con le spade (stoc- 7 torma: massa. mescolanza di corpi, che
4 tazza... dado: bevendo ge. chi) insanguinate per la stra- 182 riempivano tutta la campa-
e giocando. 179 ge compiuta fra i nemici 1-2 E ben che... guadagno: gna circostante, avrebbe po-
5-6 se... guado: se avessero 4 che... entrato: che non (ostil macello). e benché possano andarsene tuto rendere vano (far vaneg-
vegliato al tavolo tutta la sarebbe passata neppure l’a- 7 Frisa: Frisia, regione (gir) carichi di preda,pensino giar) fino all’alba il generoso
notte fino al sorgere del sole ria fra i loro corpi. dell’Olanda. a salvarsi la vita, che sarebbe proposito (fedel cura) dei due
(lett. finché il sole avesse 8 ch’andar... sede: che le 181 già un guadagno (è un com- compagni, se la luna, per le
guadato il fiume Indo, che anime giunsero abbracciate 1-4 Gl’insidiosi... volta: le mento del poeta). preghiere di Medoro, non
indica l’oriente da cui il sole in cielo. insidiose spade (ferri) di Clo- 3-4 Ove più creda... Clo- avesse mostrato da un’oscu-
appunto sorge). 180 ridano e Medoro erano or- ridano: Cloridano avanza ra nube il suo corno (una sua
7 Ma... destino: ma il de- 4 aggiunto... i gigli: mai vicine ai padiglioni che i dove crede di poter passare punta).
stino non avrebbe potere su- Carlo aveva concesso di ag- paladini avevano innalzato sicuro, senza essere scoperto. 7 fisse: rivolse.
gli uomini. giungere alle insegne (arme) intorno (tiraro in volta) al pa- 5 nel campo: in campo 184
178 del loro casato i gigli d’oro, diglione di Carlo, dove cia- aperto. 1-4 O santa... forme: o
1 impasto: digiuno (lati- l’emblema cioè della casa scuno di loro a turno (la sua 6 in un vermiglio sta- santa dea che dai nostri an-
nismo). reale di Francia. La conces- volta) faceva la guardia. gno: in un lago di sangue. tenati sei stata giustamente
2 smacrato: smagrito. sione avveniva «per partico- 5 empia: perché fatta a 8 sozzopra: sottosopra, detta triforme, poiché mo-
4 l’infermo... condutto: lari prove di coraggio» (Ca- danno di cavalieri cristiani. ammucchiati disordinata- stri la tua grande bellezza in
il debole gregge caduto in retti). 6 trasson: ritrassero. – e mente. diverse forme nel cielo, in

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24. Ludovico Ariosto T 24.7

185. La Luna a quel pregar la nube aperse 189. E seco alquanti cavallieri avea,
(o fosse caso o pur la tanta fede), che videro da lunge i dui compagni.
bella come fu allor ch’ella s’offerse, Ciascuno a quella parte si traea,
e nuda in braccio a Endimion si diede. sperandovi trovar prede e guadagni.
Con Parigi a quel lume si scoperse – Frate, bisogna – Cloridan dicea
l’un campo e l’altro; e ’l monte e ’l pian si vede: – gittar la soma, e dare opra ai calcagni;
si videro i duo colli di lontano, che sarebbe pensier non troppo accorto,
Martire a destra, e Lerì all’altra mano. perder duo vivi per salvar un morto. –
186. Rifulse lo splendor molto più chiaro 190. E gittò il carco, perché si pensava
ove d’Almonte giacea morto il figlio. che ’l suo Medoro il simil far dovesse:
Medoro andò, piangendo, al signor caro; ma quel meschin, che ’l suo signor più amava,
che conobbe il quartier bianco e vermiglio: sopra le spalle sue tutto lo resse.
e tutto ’l viso gli bagnò d’amaro L’altro con molta fretta se n’andava,
pianto, che n’avea un rio sotto ogni ciglio, come l’amico a paro o dietro avesse:
in sì dolci atti, in sì dolci lamenti, se sapea di lasciarlo a quella sorte,
che potea ad ascoltar fermare i venti. mille aspettate avria, non ch’una morte.
187. Ma con sommessa voce e a pena udita; 191. Quei cavallier, con animo disposto
non che riguardi a non si far sentire, che questi a render s’abbino o a morire,
perch’abbia alcun pensier de la sua vita, chi qua chi là si spargono, et han tosto
più tosto l’odia, e ne vorrebbe uscire: preso ogni passo onde si possa uscire.
ma per timor che non gli sia impedita Da loro il capitan poco discosto,
l’opera pia che quivi il fe’ venire. più degli altri è sollicito a seguire;
Fu il morto re sugli omeri sospeso ch’in tal guisa vedendoli temere,
di tramendui, tra lor partendo il peso. certo è che sian de le nimiche schiere.

188. Vanno affrettando i passi quanto ponno, 192. Era a quel tempo ivi una selva antica,
sotto l’amata soma che gl’ingombra. d’ombrose piante spessa e di virgulti,
E già venia chi de la luce è donno che, come labirinto, entro s’intrica
le stelle a tor del ciel, di terra l’ombra; di stretti calli e sol da bestie culti.
quando Zerbino, a cui del petto il sonno Speran d’averla i duo pagan sì amica,
l’alta virtude, ove è bisogno, sgombra, ch’abbi a tenerli entro a’ suoi rami occulti.
cacciato avendo tutta notte i Mori, Ma chi del canto mio piglia diletto,
al campo si traea nei primi albori. un’altra volta ad ascoltarlo aspetto.

terra, agli inferi. Nella mito- l’uno e l’altro accampamen- 7-8 Fu... peso: si posero il 189 ridano e Medoro si arrenda-
logia greca un’unica dea era to e si videro la montagna e corpo di Dardinello sulle 2 che... compagni: che i no o muoiano.
venerata come Luna o Cin- la pianura. spalle di entrambi (tramen- due amici (soggetto) videro 3-4 han... uscire: presidia-
zia in cielo, Diana in terra, 8 Martire... Lerì: i colli di dui), spartendo equamente da lontano. no ogni passaggio, ogni var-
Ecate o Trivia agli Inferi. Montmartre e di Montlhéry. (tra lor partendo) il peso. 6 dare opra ai calcagni: co da cui i due possano fug-
«L’Ariosto, seguendo del re- 186 188 fuggire di corsa. gire.
sto la tradizione della poesia 2 ove d’Almonte... fi- 1 ponno: possono. 190 5-6 Da loro... seguire:Zer-
cavalleresca, non si fa scru- glio: dove giaceva Dardinel- 2 soma: carico. 1 gittò il carco: lasciò ca- bino, il loro capitano, poco
polo di attribuire ai Saraceni lo, figlio di Almonte. 3 chi... donno: il sole, si- dere il carico,cioè il corpo di lontano da loro,è più solleci-
il culto di una dea pagana» 4 che... vermiglio: che gnore (donno, dal lat. domi- Dardinello. to a inseguire i due fuggia-
(Bigi). riconobbe lo stemma bian- nus) della luce. 2 il simil: la stessa cosa. schi.
8 che... santi: che in vita co e rosso sullo scudo. 4 le stelle... l’ombra: a 6 come... avesse: come 7-8 in tal guisa... schiere:
si dedicò alle tue sacre occu- 6 n’avea un rio... ciglio: togliere le stelle dal cielo e se avesse l’amico al fianco (a che vedendoli timorosi e in
pazioni, cioè fu cacciatore. versava un fiume di pianto da l’ombra dalla terra. paro) o appena dietro di sé. fuga (vedendoli temere) è certo
185 ogni occhio (sotto ogni ciglio). 5 Zerbino: un cavaliere 7-8 se... una morte: se che si tratti di nemici.
4 Endimion:pastore mi- 187 cristiano. avesse saputo di abbando- 192
tologico di cui la Luna si era 2 non che... sentire: non 5-6 a cui... sgombra: il cui narlo a quella sorte avrebbe 4 stretti... culti: sentieri
innamorata e a cui si era of- che si preoccupi di non farsi gran valore, in caso di neces- atteso con lui non una ma angusti frequentati (culti) so-
ferta e concessa. sentire. sità, lo rende insensibile al mille morti. lo da animali.
5-6 Con Parigi... si vede: 4 più tosto... uscire: che sonno. 191 6 ch’abbi... occulti: che
all’apparire della luna insie- anzi Medoro ha in odio la 8 si traea: si dirigeva, fa- 1-2 con animo... morire: possa nasconderli (tenerli...
me a Parigi si illuminarono sua vita e vorrebbe morire. ceva ritorno. intenzionati a far sì che Clo- occulti) fra i suoi rami.

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Quattrocento e Cinquecento

1. Alcun non può saper da chi sia amato, 5. Così dicendo, ne la torta via
quando felice in su la ruota siede; de l’intricata selva si ricaccia;
però c’ha i veri e i finti amici a lato, et onde era venuto si ravvia,
che mostran tutti una medesma fede. e torna di sua morte in su la traccia.
Se poi si cangia in tristo il lieto stato, Ode i cavalli e i gridi tuttavia,
volta la turba adulatrice il piede; e la nimica voce che minaccia:
e quel che di cor ama riman forte, all’ultimo ode il suo Medoro, e vede
et ama il suo signor dopo la morte. che tra molti a cavallo è solo a piede.
2. Se, come il viso, si mostrasse il core, 6. Cento a cavallo, e gli son tutti intorno:
tal ne la corte è grande e gli altri preme, Zerbin commanda e grida che sia preso.
e tal è in poca grazia al suo signore, L’infelice s’aggira com’un torno,
che la lor sorte muteriano insieme. e quanto può si tien da lor difeso,
Questo umil diverria tosto il maggiore: or dietro quercia, or olmo, or faggio, or orno,
staria quel grande infra le turbe estreme. né si discosta mai dal caro peso.
Ma torniamo a Medor fedele e grato, L’ha riposato al fin su l’erba, quando
che ’n vita e in morte ha il suo signore amato. regger nol puote, e gli va intorno errando:
3. Cercando gia nel più intricato calle 7. come orsa, che l’alpestre cacciatore
il giovine infelice di salvarsi; ne la pietrosa tana assalita abbia,
ma il grave peso ch’avea su le spalle, sta sopra i figli con incerto core,
gli facea uscir tutti i partiti scarsi. e freme in suono di pietà e di rabbia:
Non conosce il paese, e la via falle, ira la ’nvita e natural furore
e torna fra le spine a invilupparsi. a spiegar l’ugne e a insanguinar le labbia;
Lungi da lui tratto al sicuro s’era amor la ’ntenerisce, e la ritira
l’altro, ch’avea la spalla più leggiera. a riguardare ai figli in mezzo l’ira.
4. Cloridan s’è ridutto ove non sente 8. Cloridan, che non sa come l’aiuti,
di chi segue lo strepito e il rumore: e ch’esser vuole a morir seco ancora,
ma quando da Medor si vede absente, ma non ch’in morte prima il viver muti,
gli pare aver lasciato a dietro il core. che via non truovi ove più d’un ne mora;
– Deh, come fui – dicea – sì negligente, mette su l’arco un de’ suoi strali acuti,
deh, come fui sì di me stesso fuore, e nascoso con quel sì ben lavora,
che senza te, Medor, qui mi ritrassi, che fora ad uno Scotto le cervella,
né sappia quando o dove io ti lasciassi! – e senza vita il fa cader di sella.

1 come il viso, accadrebbe che dove si menzionano gli tracce della propria morte,là figli» (Caretti), incerto cioè
1-2 Alcun... siede: nessu- colui che nella corte è po- «stretti calli». dove troverà la morte. Im- fra opposti sentimenti: il
no può sapere da chi sia ve- tente e opprime, umilia (pre- 4 gli facea... scarsi: ren- magine suggestiva, che è an- concetto è poi sviluppato
ramente amato, quando si me) gli altri e colui che non deva vani tutti i suoi tentati- che un’anticipazione del nel resto dell’ottava.
trova al colmo della fortuna gode dei favori del suo si- vi. narratore (prolessi). 5 ira... furore: l’ira e l’i-
(lett.si trova felice sulla som- gnore si scambierebbero le 5 falle: fallisce, sbaglia. 5 tuttavia: ancora, sem- stintiva ferocia la spingono.
mità della ruota della Fortu- sorti. L’implicazione pole- 4 pre. 6 a insanguinar le lab-
na). mica è che abitualmente a 3 si vede absente: si vede 6 bia: cioè ad azzannare.
3-4 però... fede: perché ac- corte, dove regna la falsità, separato (absente) da Medo- 3 torno: tornio. 8
canto a lui stanno sia i veri nelle grazie del signore sia- ro, si accorge che Medoro 4 si tien... difeso: si di- 2 a morir... ancora:«con
che i falsi amici che gli si no gli adulatori e i falsi ami- non è più con lui. fende, si protegge. lui anche ella morte» (Bigi).
mostrano tutti egualmente ci, mentre i veri amici sono 8 né sappia: si può ren- 7 L’ha... quando: alla fi- 3-4 ma non... ne mora:ma
fedeli. misconosciuti dal signore. dere con ‘senza sapere’ (ma ne lo adagia di nuovo (ri-po- non tanto da morire (lett.
6 volta... piede: la massa 6 estreme: ultime, infi- propriamente è coordinato sato) sull’erba, poiché... scambiare la vita con la
degli adulatori muta dire- me. a mi ritrassi e quindi la co- 8 gli va... errando: gli gi- morte) prima di aver trovato
zione, si allontana da lui. 3 struzione è sì fuori di me... ra attorno, a scopo protetti- il modo di uccidere più di
7 e quel... forte: mentre 1-2 Cercando... salvarsi: il che... non sappia, tanto fuori vo come chiarirà la similitu- un nemico.
colui che lo ama di vero giovane infelice (Medoro) di me da non sapere ecc.). dine che segue. 5 strali: frecce.
cuore, gli rimane fedele. andava nel folto della foresta 5 7 7 Scotto: scozzese.
2 (nel più intricato calle) cercan- 3 si ravvia: si riavvia, si 3 con incerto core: «con
1-4 Se... insieme: se il cuo- do di salvarsi.Il raccordo è in dirige di nuovo. il cuore irato contro il cac-
re si mostrasse apertamente particolare con il v. 192, 4 4 di sua... traccia: sulle ciatore e intenerito verso i

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24. Ludovico Ariosto T 24.7

9. Volgonsi tutti gli altri a quella banda 13. In questo mezzo un cavallier villano,
ond’era uscito il calamo omicida. avendo al suo signor poco rispetto,
Intanto un altro il Saracin ne manda, ferì con una lancia sopra mano
perché ’l secondo a lato al primo uccida; al supplicante il delicato petto.
che mentre in fretta a questo e a quel domanda Spiacque a Zerbin l’atto crudele e strano;
chi tirato abbia l’arco, e forte grida, tanto più, che del colpo il giovinetto
lo strale arriva e gli passa la gola, vide cader sì sbigottito e smorto,
e gli taglia pel mezzo la parola. che ’n tutto giudicò che fosse morto.
10. Or Zerbin, ch’era il capitano loro, 14. E se ne sdegnò in guisa e se ne dolse,
non poté a questo aver più pazienza. che disse: – Invendicato già non fia! –
Con ira e con furor venne a Medoro, e pien di mal talento si rivolse
dicendo: – Ne farai tu penitenza. – al cavallier che fe’ l’impresa ria:
Stese la mano in quella chioma d’oro, ma quel prese vantaggio, e se gli tolse
e strascinollo a sé con violenza: dinanzi in un momento, e fuggì via.
ma come gli occhi a quel bel volto mise, Cloridan, che Medor vede per terra,
gli ne venne pietade, e non l’uccise. salta del bosco a discoperta guerra.
11. Il giovinetto si rivolse a’ prieghi, 15. E getta l’arco, e tutto pien di rabbia
e disse: – Cavallier, per lo tuo Dio, tra gli nimici il ferro intorno gira,
non esser sì crudel, che tu mi nieghi più per morir, che per pensier ch’egli abbia
ch’io sepelisca il corpo del re mio. di far vendetta che pareggi l’ira.
Non vo’ ch’altra pietà per me ti pieghi, Del proprio sangue rosseggiar la sabbia
né pensi che di vita abbi disio: fra tante spade, e al fin venir si mira;
ho tanta di mia vita, e non più, cura, e tolto che si sente ogni potere,
quanta ch’al mio signor dia sepoltura. si lascia a canto al suo Medor cadere.
12. E se pur pascer voi fiere et augelli, 16. Seguon gli Scotti ove la guida loro
che ’n te il furor sia del teban Creonte, per l’alta selva alto disdegno mena,
fa lor convito di miei membri, e quelli poi che lasciato ha l’uno e l’altro Moro,
sepelir lascia del figliuol d’Almonte. – l’un morto in tutto, e l’altro vivo a pena.
Così dicea Medor con modi belli, Giacue gran pezzo il giovine Medoro,
e con parole atte a voltare un monte; spicciando il sangue da sì larga vena,
e sì commosso già Zerbino avea, che di sua vita al fin saria venuto,
che d’amor tutto e di pietade ardea. se non sopravenia chi gli diè aiuto.

9 1 si rivolse a’ prieghi: tutti i Greci, compreso il dei pronomi personali). il profondo sdegno del loro
1-2 a quella... omicida: fece ricorso alle preghiere. nipote Polinice, morti sotto 8 a discoperta guerra: capo (la guida loro, cioè Zer-
verso quella parte da cui era 5 Non vo’... pietà: non le mura della sua città. per combattere aperta- bino ancora adirato contro
provenuta la freccia (cala- voglio cioè nessun altro at- 3 fa lor... membri: dai mente. il feritore di Medoro) li
mo) omicida. to di pietà da parte tua. loro in pasto le mie mem- 15 conduce.
4 perché... uccida: per 6 né... disio: né (voglio) bra. 2 il ferro: la spada. 6 spicciando... vena:
uccidere un altro che si tro- che tu creda ch’io abbia de- 6 voltare: impietosire. 3-4 più per morir... ira: sprizzando sangue da una
va di fianco al primo. siderio di vivere. 13 intenzionato a morire piut- ferita (vena) così vasta, cioè
5 che mentre: e mentre 7-8 ho tanta... sepoltura: 3 sopra mano: «impu- tosto che a trovare una ven- in modo così copioso.
costui (cioè il secondo ca- mi preoccupo per la mia vi- gnandola più alta della spal- detta adeguata alla sua ira.
valiere preso di mira da ta solo quel tanto che è ne- la» (Bigi). 5-6 Del proprio... mira:
Cloridano). cessario per seppellire il 5 strano: estraneo, con- vede (mira) la sabbia diven-
6 l’arco: la freccia (indi- mio signore. trario alle leggi della caval- tare rossa per il proprio san-
cata dall’arco per metoni- 12 leria, «barbaro» (Bigi). gue e se stesso (si) giungere
mia). 1 pascer voi: vuoi nutri- 6 del colpo: per il colpo. in fin di vita (al fin venire).
10 re 14 7 potere: «forza» (Caret-
2 a questo: a questo 2 che ’n te... Creonte: 2 non fia: non sia, non ti) o «capacità di lottare»
punto, dopo di ciò. «supposto che in te sia una rimanga. (Bigi).
4 Ne farai... penitenza: furibonda crudeltà simile a 3 pien di mal talento: 16
ne pagherai tu le conse- quella del tebano Creonte» con ira. 1 Seguon... mena: gli
guenze. (Bigi); Creonte, il tiranno 5 se gli tolse: gli si levò scozzesi si dirigono allora
11 di Tebe, vietò la sepoltura di (con la consueta inversione nel folto della selva là dove

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Quattrocento e Cinquecento

Guida all’analisi
I temi epici: amicizia e fedeltà Questo celeberrimo episodio svolge alcuni temi epici e patetici strettamente in-
trecciati fra loro. Innanzitutto quello della leale e generosa amicizia fra due giovani guerrie-
ri saraceni («esempio raro / di vero amore» 165, 3-4), direttamente derivato dalla fonte vir-
giliana, e quello della strenua fedeltà e devozione nei confronti del proprio signore, che in-
vece Ariosto deriva da Stazio, con qualche palese implicazione però alla realtà della corte
moderna (come si evince dal commento introduttivo al canto XIX). In verità i due temi ri-
guardano i personaggi in modo leggermente asimmetrico. La devozione nei confronti del
signore caratterizza soprattutto la figura di Medoro: è lui che nella veglia notturna non può
fare a meno di ricordarlo e compiangerlo, è lui che soprattutto soffre per la sua mancata se-
poltura e dichiara l’inestinguibilità del debito contratto con Dardinello, è lui infine che
prende l’iniziativa della sortita, comunicandola all’amico. Cloridano viceversa, stupito del
coraggio, dell’amore e della fedeltà del giovanissimo amico, cerca dapprima di distoglierlo
dall’impresa che probabilmente sin d’ora giudica folle, oltre che rischiosa, come esplicita-
mente dichiarerà nel momento cruciale dell’impresa («sarebbe pensier non troppo accorto,
/ perder duo vivi per salvar un morto», 189, 7-8). A muovere Cloridano sono soprattutto
l’amicizia e l’amore (parola che torna più volte nel contesto dell’episodio) per Medoro, a
cui non pensa di poter sopravvivere («Qual cosa sarà mai che più mi giove, / s’io resto sen-
za te, Medoro mio?», 171, 5-6), mentre Medoro, se non mette in discussione la sua amicizia
per Cloridano, non spende però una parola per sottolinearla (anche nell’episodio della se-
poltura il suo primo pensiero va a Dardinello, cfr. XIX, 25, 3-6).
I temi epici: la ‘bella morte’ Entrambi i personaggi, invece, per i motivi leggermente diversi che abbiamo visto,
sono accomunati dal desiderio della ‘bella morte’ (l’espressione è in Virgilio: «pulchram pro-
peret per volnera mortem», “affrettare la bella morte nel sangue”, Aen. IX, 401), di una mor-
te cioè gloriosa che ne consacri eternamente il valore e il coraggio. Il concetto è dapprima
formulato esplicitamente da Medoro («che se Fortuna vieta sì bell’opra, / per fama almeno
il mio buon cor si scuopra», 169, 7-8), ma è poi altrettanto esplicitamente ribadito da Clo-
ridano («anch’io vuo’ pormi a sì lodevol pruove, / anch’io famosa morte amo e desio», 171,
3-4). Amicizia, fedeltà, devozione e brama di gloria perseguite tutte con esemplare costanza
e fermezza a dispetto della morte stessa, che aleggia funesta sull’intero racconto, sono tutti
temi che appartengono allo spirito epico e, dunque, in questo senso connotano l’episodio.
Il “tono medio” del Furioso Ma Ariosto – sappiamo – non è uno scrittore integralmente ‘epico’. Non ama por-
tare la tensione e il pathos all’estremo limite, perseverando lungamente su un medesimo re-
gistro. Gli importa viceversa introdurre elementi di distanziamento ironico o di smorza-
mento stilistico, che ricordino al lettore che in definitiva si tratta di letteratura e di belle fa-
vole che, per quanto abbiano un’attinenza con la realtà, egli stesso non prende totalmente
sul serio. Lo scrittore epico parla al cuore del lettore, ne vuole sollecitare il coinvolgimento
emotivo con tutti i mezzi a sua disposizione; Ariosto non disdegna a tratti di farlo, ma pre-
ferisce sollecitarne l’intelligenza e lo spirito critico. Egli, oltre tutto, conformemente a un
ideale di saggezza come equilibrio e dominio delle passioni, non si vuole dimostrare emoti-
vamente coinvolto oltre un certo segno. Questo il senso globale della scelta del “tono me-
dio”, delle continue variazioni di registro e delle proverbiali ottave di commento disincan-
tato e ironico nei confronti dei personaggi e della storia, notate e celebrate da una lunga
tradizione critica.
Pathos e umorismo Così accade anche in questo caso: la dominante è certo patetica, perché per sua natura pa-
tetico è morire o mettere a repentaglio la vita per i motivi che spingono Cloridano e Me-
doro a farlo e perché – per trascurare altri aspetti – con serietà e partecipazione il narratore
racconta la vicenda e riferisce i dialoghi fra i personaggi (ott. 168-171). Tuttavia si deve su-
bito notare come l’episodio sia, per dir così, interrotto dalla lunga scena della strage nel
campo cristiano dove con variazione di registro si insinuano e talora predominano toni
umoristici e comici: a proposito del miser Grillo, Ariosto introduce, ad esempio, un’arguta
metafora, dicendo che «esce col sangue il vin per uno spillo» (assimila cioè il beone Grillo a
una botte) e che morendo «di ber sogna» (ott. 176). Ben più grave era la rappresentazione
848 © Casa Editrice Principato
24. Ludovico Ariosto T 24.7

del personaggio equivalente in Virgilio, che, dopo averlo pateticamente descritto nascosto
dietro un grande cratere (grosso vaso a bocca larga e con due anse orizzontali, per mescola-
re acqua e vino), con immagine cruda e violenta dice che «purpurea lui vomita l’anima e
misto col sangue, morendo, / vomita il vino» (Aen. IX, 349-350).
Un’analoga funzione assolvono gli interventi del narratore: a proposito dell’indovino Al-
feo, ad esempio, Ariosto non può trattenersi dal notare come l’astrologia «poco a questa vol-
ta gli sovenne; / anzi gli disse in tutto la bugia» (174, 5-6), mentre più sobrio è Virgilio («ma
non poté con l’augurio stornare da sé la rovina», Aen., IX, 328). E sostanzialmente lieve e
ironico è anche il dettaglio, a proposito della morte degli amanti abbracciati, che li descrive
così uniti «che non saria tra lor l’aere entrato» (179, 4), come pure il successivo commento
(«Oh felice morire! oh dolce fato! / che come erano i corpi, ho così fede / ch’andar l’alme
abbracciate alla lor sede», 179, 6-8).
Decisamente seria, tra orrore e pathos, è invece la ripresa del filo principale dell’episodio,
con la descrizione del campo di battaglia cosparso di cadaveri (ott. 182-183) e con l’invoca-
zione di Medoro alla luna (ott. 184); ma subito, nell’ottava successiva, a smorzare il tono in-
terviene un inciso ironico e malizioso del narratore, «(o fosse caso o pur la tanta fede)» (185,
2), che pone in dubbio che fosse la fede di questi a intenerire la dea Luna, come invece
pensa Medoro e richiederebbe il registro serio e patetico (nessuna incertezza circa la pietà
della Luna in Stazio, che è fonte diretta del passo). Infine, dopo la morte di Cloridano e il
ferimento di Medoro narrati in un registro prevalentemente grave non senza però qualche
tratto realistico più umile (ad es. la similitudine del tornio canto XIX, 6, 3), l’episodio si
chiuderà con la serena e idillica scena della convalescenza di Medoro e degli amori di que-
sto con la bella Angelica, che decisamente riscatta e volge in altro senso (al lieto fine) tutta la
vicenda.

n Pagina autografa con cor-


rezioni dell’Orlando furioso
(Biblioteca comunale ariostea
di Ferrara).

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Quattrocento e Cinquecento

Doc 24.7 Virgilio e Stazio, fonti di Ariosto

Ariosto utilizza per questo episodio due fonti principali l’Eneide di Virgilio e la Tebaide di
Stazio.
Nel poema virgiliano (Aen. IX, 176-472) Eurialo e Niso sono due guerrieri troiani che
decidono per puro amore di gloria («O una battaglia, o qualcosa tentar di grande, da un
pezzo / medita il cuore» IX, 186-187), di uscire dalla città assediata e di insinuarsi nel
campo dei Rutuli, datisi alle gozzoviglie dopo aver assalito le navi nemiche, e che poi vi-
vono un’avventura molto simile a quella dei personaggi di Cloridano e Medoro (salvo il
finale assai più tragico): fanno strage di nemici, vengono scoperti, fuggono, Niso perde di
vista Eurialo, torna a cercarlo, assiste alla sua morte, la vendica e muore lui pure; infine i
Rutuli avanzano portando le teste dei due giovani eroi infisse alle loro picche («e sulle
picche le teste dei due giovani avanzano, / note anche troppo ai miseri, nero sangue
fluenti», 471-472).
Leggiamo il momento in cui i due giovani tentano la fuga nel bosco, ma mentre Euria-
lo è impacciato dal pesante bottino, Niso riesce a sfuggire ai nemici, finché si accorge che
Eurialo non è più con lui.

Virgilio, Eneide,
trad. di R. Calzecchi [Niso] come ristette, e invano a cercar l’amico si volse, e non c’era:
Onesti, Einaudi, 390 «Eurialo infelice, dove mai t’ho lasciato? dove ti cerco,
Torino 1967, tutto facendo di nuovo il confuso cammino
vv. 389-409;
vv. 424-437 dell’ingannevole selva?» E scruta all’indietro
le impronte recenti e le segue, s’aggira fra mute boscaglie.
Ecco, ode cavalli, strepito ode, e gli inseguitori, e i richiami:
395 e molto non passa, che un urlo agli orecchi
gli arriva, e vede Eurialo; già tutta la schiera
(colpa della notte e del luogo) con subito confuso tumulto
lo raggiunge, lo tiene, che tutto invano pur tenta.
Che fare? con quale forza, con quiali armi oserà
400 strappar loro il fanciullo? o è meglio gettarsi a morire,
su quelle spade, affrettare la bella morte nel sangue?
Rapidamente flettendo il braccio palleggia l’astile,
e in alto, alla Luna rivolto, la prega così:
«Tu dea, tu valido aiuto, soccorri il nostro pericolo,
405 o bellezza degli astri, o dei boschi Latonia custode.
Se mai per me sui tuoi altari il padre mio Irtaco
portò doni, se anch’io con le mie cacce ne aggiunsi,
e ne appesi alla cupola, e ai sacri fastigi ne affissi,
fammi sconvolgere tu quella folla, reggi l’arma per l’aria».

Niso, nascosto nel folto della vegetazione, scaglia la lancia, ma provoca l’ira di Volcente, il
capo dei Rutuli, che, ignorando l’assalitore, si vendica ferendo mortalmente Eurialo.

[...] Allora folle, sconvolto,


425 Niso scoppia a gridare, non può più nel buio nascondersi,
non può sopportare così orrendo dolore.
«Me, me! qui son io che ho colpito, su me il ferro volgete
o Rutuli! Mio è tutto l’inganno, nulla osò questo,
né avrebbe potuto: il cielo lo attesti e, consce, le stelle.
430 Soltanto, amò troppo il suo misero amico».
Queste parole gridava, ma spinta a forza la spada
tagliò le costole, il candido petto sfondò.

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S’accasciò Eurialo morto, per il bel corpo


scorreva il sangue, cadde la testa sulla spalla, pesante:
435 così purpureo fiore, che l’aratro ha tagliato,
languisce morendo, o chinano il capo i papaveri
sul collo stanco, quando la pioggia li grava.

Stazio, poeta epico del I secolo, nella Tebaide (X, vv. 347-448) narra un episodio molto
simile di schietta imitazione virgiliana: è la vicenda di Opleo e Dimante, due guerrieri che
dopo la morte dei loro re, avendo in odio la vita, tentano di recuperarne i corpi sul campo
di battaglia infestato di nemici, invocano la Luna che impietosita ne illumina i cadaveri,
vengono anche loro scoperti mentre fanno ritorno al campo, l’uno muore subito colpito
dai nemici, l’altro dopo aver difeso le spoglie del suo re, si uccide per non tradire i compa-
gni. Anche in questo caso, il registro è esclusivamente grave e patetico. Ne riproduciamo
due brevi passi: il primo riguarda il rinvenimento del cadavere illuminato dalla luna; il se-
condo è la similitudine da cui deriva quella ariostesca dell’orsa (in XIX, 7).

Theb. X, 370-383; 405-


422 in Stazio, Opere, a La dea, piegando i suoi corni, ravvivò l’alma luce del suo astro e, avvicinando il carro,
c. di A. Traglia e G. illuminò i cadaveri. Si svela la pianura e Tebe e l’alto Citerone: così, quando Giove adi-
Aricò, UTET, Torino rato squrcia il cielo col tuono, di notte, fuggono le nubi e al chiaro del lampo si vedono
1980
gli astri, e il mondo d’un tratto si svela allo sguardo. Dimante approfitta dei raggi; pure
Opleo, fuori di sé, riconosce Tideo alla stessa luce. Si fan segno da lontano, nel buio,
contenti ciascuno per l’altro, e si caricano sul dorso, piegando il collo, il dolce peso, co-
me se fossero tornati alla vita, dalla morte che non perdona. Non fanno parola, non osa-
no piangere a lungo: il giorno crudele è vicino, e minacciosa s’avanza la luce che li tra-
dità.Vanno muti fra tetri silenzi, a gran passi, inquieti al vedere, caduta la notte, schiarir-
si le tenebre. [...]
Dimante, voltandosi indietro, aveva visto l’accaduto. Ormai sente le schiere su di sé, e
non sa se fare ricorso alle suppliche o accogliere colle armi i nemici. L’ira suggerisce le
armi, la circostanza gli impone di pregare, di evitare il rischio: ma nessuna decisione dà
garanzia. Infine l’ira bandì le preghiere: depone ai suoi piedi il povero corpo, fa roteare
attorno al braccio sinistro una pesante pelle di tigre, che aveva addosso, e, impugnando
nuda la spada, si pianta in faccia ai nemici, facendo fronte a tutte le armi, pronto a un
tempo a uccidere e a morire. Così una leonessa che da poco ha partorito, bloccata nel
suo covo selvaggio da cacciatori numidici, sta dritta sopra i suoi piccoli e ringhia, dub-
biosa nel cuore, e fa paura e pena: potrebbe irrompere fra le schiere e spezzare a morsi le
armi, ma l’amore materno vince il suo istinto sanguinario, e rabbiosa gira attorno lo
sguardo, verso i suoi cuccioli. Già la mano sinistra (benché Anfione raccomandi ai suoi
di non infierire) è mozzata all’eroe, già il capo del giovane è trascinato per i capelli, col
viso rovesciato.

Laboratorio 1 Analizza l’episodio della strage notturna 3 Individua i passi dell’episodio che hanno
COMPRENSIONE nel campo cristiano: evidenzia e com- maggiore attinenza con quelli di Virgilio
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE menta gli aspetti patetici e tragici e quelli e di Stazio e confrontali, individuando le
comici e umoristici. analogie e le differenze sul piano temati-
2 Individua e commenta tutti gli interventi co e su quello stilistico. Prova a spiegare
del narratore: che funzione assolve cia- le ragioni che hanno indotto Ariosto a
scuno di essi nel corso del racconto? imitare queste due fonti classiche.

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Quattrocento e Cinquecento

T 24.8 Orlando furioso I ed. 1516, III ed. 1532


Le nozze di Angelica [XIX, 17-36]
L. Ariosto L’episodio tragico e patetico di Cloridano e Medoro ha un lieto fine che si consuma in
Orlando furioso un contesto idillico. Questo sviluppo costituisce uno dei nodi fondamentali dell’intrec-
a cura di E. Bigi, cio dell’Orlando furioso, quello che crea le premesse per l’evento decisivo e caratteriz-
Rusconi, Milano 1982
zante l’intera opera, la pazzia di Orlando.
Casualmente imbattutasi in Medoro che giace in fin di vita, Angelica infatti, sfruttan-
do le sue conoscenze mediche, lo risana, se ne innamora e celebra con lui le nozze nel-
la cornice di un ambiente pastorale. Questo evento rende così vano ogni proposito di
conquista da parte di tutti gli altri suoi cercatori, che però in un modo o nell’altro si
daranno pace, mentre invece Orlando, quando lo scoprirà, uscirà di senno. Coerente-
mente con lo statuto complessivo del poema, quello che per un personaggio costituisce
un lieto fine si converte insomma nel dramma di un altro. Quindi, subito dopo le noz-
ze, esaurito il suo compito strutturale, Angelica scompare definitivamente di scena.

17. Gli sopravenne a caso una donzella, 20. Quando Angelica vide il giovinetto
avolta in pastorale et umil veste, languir ferito, assai vicino a morte,
ma di real presenzia e in viso bella, che del suo re che giacea senza tetto,
d’alte maniere e accortamente oneste. più che del proprio mal si dolea forte;
Tanto è ch’io non ne dissi più novella, insolita pietade in mezzo al petto
ch’a pena riconoscer la dovreste: si sentì entrar per disusate porte,
questa, se non sapete, Angelica era, che le fe’ il duro cor tenero e molle,
del gran Can del Catai la figlia altiera. e più, quando il suo caso egli narrolle.
18. Poi che ’l suo annello Angelica riebbe, 21. E rivocando alla memoria l’arte
di che Brunel l’avea tenuta priva, ch’in India imparò già di chirugia
in tanto fasto, in tanto orgoglio crebbe, (che par che questo studio in quella parte
ch’esser parea di tutto ’l mondo schiva. nobile e degno e di gran laude sia;
Se ne va sola, e non si degnerebbe e senza molto rivoltar di carte,
compagno aver qual più famoso viva: che ’l patre ai figli ereditario il dia),
si sdegna a rimembrar che già suo amante si dispose operar con succo d’erbe,
abbia Orlando nomato, o Sacripante. ch’a più matura vita lo riserbe.
19. E sopra ogn’altro error via più pentita 22. E ricordossi che passando avea
era del ben che già a Rinaldo volse, veduta un’erba in una piaggia amena;
troppo parendole essersi avilita, fosse dittamo, o fosse panacea,
ch’a riguardar sì basso gli occhi volse. o non so qual, di tal effetto piena,
Tant’arroganzia avendo Amor sentita, che stagna il sangue, e de la piaga rea
più lungamente comportar non volse: leva ogni spasmo e perigliosa pena.
dove giacea Medor, si pose al varco, La trovò non lontana, e quella colta,
e l’aspettò, posto lo strale all’arco. dove lasciato avea Medor, diè volta.

17 magico che rende invisibili più bisogno di nessuno. 6 per disusate porte: at- padre in figlio.
1 Gli ... donzella: gli è ri- se tenuto in bocca e che va- 8 nomato: nominato, traverso canali mai usati pri- 8 ch’a più ... riserbe: che
ferito a Medoro. L’ottava è il nifica gli incantesimi se te- considerato. ma, cioè come non le era serbi Medoro a una vita più
seguito dell’episodio narra- nuto al dito:nel poema passa 19 mai accaduto prima, perché lunga.
to nel testo precedente. di mano in mano più volte. 2 volse: volle (passato re- Angelica si era sempre mo- 22
3 real presenzia: aspetto A restituirlo ad Angelica è moto di volere qui e al v.6;in strata insensibile all’amore. 3 dittamo ... panacea:
e portamento regale. stato Ruggiero nel canto X. rima equivoca invece con il 21 entrambe erbe usate nella
4 d’alte ... oneste: «di 2 di che ... priva: di cui volse del v. 4, pass. remoto di 2 chirugia: chirurgia, ar- medicina tradizionale.
maniere nobili e conve- l’aveva derubata Brunello. volgere). te medica. 5 stagna il sangue: fa
nientemente decorose» 3 fasto: superbia (latini- 6 comportar non volse: 5-6 e senza molto ... il dia: coagulare il sangue.
(Caretti). smo). non volle sopportare. e senza bisogno di molto 6 pena: dolore.
8 altiera: superba. 4 ch’esser ... schiva: sde- 8 strale: freccia. studio (rivoltar di carte) in 7-8 e quella ... volta: e do-
18 gnosa; con l’anello magico 20 quanto (par che, v. 3) la medi- po averla raccolta si diresse là
1 Poi ... riebbe: è l’anello Angelica sente di non aver 3 tetto: sepoltura. cina in India si tramandi di dove aveva lasciato Medoro.

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24. Ludovico Ariosto T 24.8

23. Nel ritornar s’incontra in un pastore 27. Stava il pastore in assai buona e bella
ch’a cavallo pel bosco ne veniva, stanza, nel bosco infra duo monti piatta,
cercando una iuvenca, che già fuore con la moglie e coi figli; et avea quella
duo dì di mandra e senza guardia giva. tutta di nuovo e poco inanzi fatta.
Seco lo trasse ove perdea il vigore Quivi a Medoro fu per la donzella
Medor col sangue che del petto usciva; la piaga in breve a sanità ritratta:
e già n’avea di tanto il terren tinto, ma in minor tempo si sentì maggiore
ch’era omai presso a rimanere estinto. piaga di questa avere ella nel core.
24. Del palafreno Angelica giù scese, 28. Assai più larga piaga e più profonda
e scendere il pastor seco fece anche. nel cor sentì da non veduto strale,
Pestò con sassi l’erba, indi la prese, che da’ begli occhi e da la testa bionda
e succo ne cavò fra le man bianche; di Medoro aventò l’Arcier c’ha l’ale.
ne la piaga n’infuse, e ne distese Arder si sente, e sempre il fuoco abonda;
e pel petto e pel ventre e fin a l’anche: e più cura l’altrui che ’l proprio male:
e fu di tal virtù questo liquore, di sé non cura, e non è ad altro intenta,
che stagnò il sangue, e gli tornò il vigore; ch’a risanar chi lei fere e tormenta.
25. e gli diè forza, che poté salire 29. La sua piaga più s’apre e più incrudisce,
sopra il cavallo che ’l pastor condusse. quanto più l’altra si ristringe e salda.
Non però volse indi Medor partire Il giovine si sana: ella languisce
prima ch’in terra il suo signor non fusse. di nuova febbre, or agghiacciata, or calda.
E Cloridan col re fe’ sepelire; Di giorno in giorno in lui beltà fiorisce:
e poi dove a lei piacque si ridusse. la misera si strugge, come falda
Et ella per pietà ne l’umil case strugger di nieve intempestiva suole,
del cortese pastor seco rimase. ch’in loco aprico abbia scoperta il sole.
26. Né fin che nol tornasse in sanitade, 30. Se di disio non vuol morir, bisogna
volea partir: così di lui fe’ stima, che senza indugio ella se stessa aiti:
tanto se intenerì de la pietade e ben le par che di quel ch’essa agogna,
che n’ebbe, come in terra il vide prima. non sia tempo aspettar ch’altri la ’nviti.
Poi vistone i costumi e la beltade, Dunque, rotto ogni freno di vergogna,
roder si sentì il cor d’ascosa lima; la lingua ebbe non men che gli occhi arditi:
roder si sentì il core, e a poco a poco e di quel colpo domandò mercede,
tutto infiammato d’amoroso fuoco. che, forse non sapendo, esso le diede.

23 cordando che cortese deriva 3-4 et avea ... fatta: aveva 8 fere: ferisce (metafori- sviluppo della metafora del-
3 iuvenca: giovenca. da corte). rimesso a nuovo la dimora camente). la ferita e del medicamento
4 senza ... giva: vagava 26 poco tempo prima. 29 d’amore.
incustodita. 1 nol ... sanitade: non lo 5-8 Quivi ... core: qui la 1 incrudisce: «diventa 3-4 e ben le par ... ’nviti: e
24 (nol) riportasse alla salute, giovane donna in breve cruda, fresca. È il contrario le pare inopportuno aspet-
8 gli tornò: gli restituì non lo guarisse. tempo guarì la piaga a Me- di si salda del v. seguente» tare (ben le par... non sia tempo
(tornò, fece ritornare). 2 così ... stima: «tanto doro, ma in un tempo ancor (Bigi). aspettar) che sia un altro a in-
25 interesse provò per lui» (Bi- più breve scoprì nel suo 4 agghiacciata ... calda: vitarla a soddisfare il suo de-
3 volse: volle. gi). cuore una piaga più grave di consueta antitesi del lin- siderio (di quel ch’essa agogna,
4 in terra: sotto terra, se- 6 come ... prima: non questa. Si noti la ricca serie guaggio lirico petrarchesco. lett. quanto a quello che lei
polto. appena, sin dal momento in di immagini e antitesi che 6-8 come falda ... sole: co- desidera); decide cioè di
6 dove ... ridusse: si recò, cui lo vide steso a terra. germina da questa tradizio- me suole sciogliersi un sot- prender personalmente l’i-
si fece condurre dove Ange- 6 roder ... lima: il cuore nale metafora (la piaga d’a- tile strato (falda) di neve ca- niziativa.
lica desiderava. roso da una lima invisibile more) e antitesi (piaga reale duta fuori stagione (intempe- 7-8 e di quel ... diede:
7-8 Et ella ... rimase: ed el- (ascosa, nascosta) è metafora / piaga metaforica) qui e stiva) in un luogo soleggiato chiese grazia di quella ferita
la impietosita per la sua sorte tradizionale per descrivere nelle successive ottave. (lett. che sia stata scoperta che egli, forse senza saperlo,
rimase con lui (seco) nella la passione e la sofferenza 28 dal sole in un luogo aperto). le aveva inferto;chiese cioè a
povera dimora del cortese, amorosa. 4 aventò ... c’ha l’ale: 30 Medoro di contraccambia-
gentile pastore (si noti la re- 27 scagliò Amore, l’arciere ala- 2 se stessa aiti: aiuti se re il suo amore.
lazione, quasi di antitesi, tra 2 stanza: dimora. – piat- to. stessa (come ha aiutato Me-
umil case e cortese pastor, ri- ta: nascosta. 5 abonda: cresce. doro a guarire). Continua lo
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Quattrocento e Cinquecento

31. O conte Orlando, o re di Circassia, 34. Fersi le nozze sotto all’umil tetto
vostra inclita virtù, dite, che giova? le più solenni che vi potean farsi;
Vostro alto onor dite in che prezzo sia, e più d’un mese poi stero a diletto
o che mercé vostro servir ritruova. i duo tranquilli amanti a ricrearsi.
Mostratemi una sola cortesia Più lunge non vedea del giovinetto
che mai costei v’usasse, o vecchia o nuova, la donna, né di lui potea saziarsi;
per ricompensa e guidardone e merto né per mai sempre pendergli dal collo,
di quanto avete già per lei sofferto. il suo disir sentia di lui satollo.
32. Oh se potessi ritornar mai vivo, 35. Se stava all’ombra o se del tetto usciva,
quanto ti parria duro, o re Agricane! avea dì e notte il bel giovine a lato:
che già mostrò costei sì averti a schivo matino e sera or questa or quella riva
con repulse crudeli et inumane. cercando andava, o qualche verde prato:
O Ferraù, o mille altri ch’io non scrivo, nel mezzo giorno un antro li copriva,
ch’avete fatto mille pruove vane forse non men di quel commodo e grato,
per questa ingrata, quanto aspro vi fora, ch’ebber, fuggendo l’acque, Enea e Dido,
s’a costu’ in braccio voi la vedesse ora! de’ lor secreti testimonio fido.
33. Angelica a Medor la prima rosa 36. Fra piacer tanti, ovunque un arbor dritto
coglier lasciò, non ancor tocca inante: vedesse ombrare o fonte o rivo puro,
né persona fu mai sì aventurosa, v’avea spillo o coltel subito fitto;
ch’in quel giardin potesse por le piante. così, se v’era alcun sasso men duro:
Per adombrar, per onestar la cosa, et era fuori in mille luoghi scritto,
si celebrò con cerimonie sante e così in casa in altritanti il muro,
il matrimonio, ch’auspice ebbe Amore, Angelica e Medoro, in varii modi
e pronuba la moglie del pastore. legati insieme di diversi nodi.

31 Angelica (qui Ariosto si rife- più generica (per giovinez- 7-8 auspice ... pronuba: porale (fuggendo l’acque)
1 re di Circassia: è Sacri- risce a un episodio del poe- za, felicità e simili) assai dif- «Nei matrimoni latini au- Enea e Didone; si riferisce
pante, un altro innamorato ma di Boiardo [R T 18.5 ]. fusa nella tradizione lirica spice era il testimonio dello all’episodio del IV libro del-
di Angelica. 3 averti a schivo: prova- (ad es. Poliziano R T 19.2 ). sposo; pronuba la donna te- l’Eneide diVirgilio, in cui si
2 vostra ... giova?: dite, a re noia, disgusto per te. 2 non ... inante: che non stimone per la sposa» (Bigi). narra l’origine dell’amore
che vi è servito il vostro insi- 4 repulse ... inumane: era ancora stata colta.Ario- 34 fra l’eroe troiano e la regina
gne valore. crudeli, addirittura disuma- sto qui dà per certo quel che 1 Fersi: si fecero. cartaginese.
3-4 Vostro ... ritruova: dite ni rifiuti. La ripulsa è l’atto di aveva messo ironicamente 3 stero a diletto: rimase- 36
quanto (poco) venga ap- chi respinge una persona, in dubbio nel canto I («forse ro a lor piacimento. 2 ombrare: ombreggia-
prezzata la vostra grande in- rifiuta una proposta o un era ver, ma non però credi- 5-6 Più lunge ... donna: re.
tegrità (oppure la vostra fa- dono. bile!», I, 56, 1). Angelica non vedeva più in 3 v’avea spillo ... fitto: lo
ma), e che premio (mercé) 6 pruove: imprese, prove 3-4 né persona ... le pian- là (più lunge) di Medoro, incideva (v’avea ... fitto) su-
ottiene la vostra devozione di valore e d’amore. te: né mai alcuna persona fu null’altro che lui. bito con una punta acumi-
(servir, servizio amoroso, in 7-8 quanto ... vedesse: così fortunata (aventurosa) 7-8 né ... satollo: e non si nata o un coltello.
accezione cortese). quanto sarebbe (fora) per voi da potersi avventurare in sentiva mai sazia di lui, seb- 4 men duro: tanto da
7-8 ricompensa ... soffer- doloroso (aspro) se ora la ve- quel giardino (por le piante, bene rimanesse sempre (mai poter essere inciso.
to: ricompensa e premio deste (vedesse) fra le braccia porre piede). Continua la sempre) stretta a Medoro. 5-8 et era ... nodi:e il muro
concesso e meritato per di costui (detto forse con metafora della verginità co- 35 della casa, in mille luoghi
quanto avete sofferto per una punta di disprezzo, ade- me fiore. 1 Se ... usciva: sia che diversi all’esterno e in al-
causa sua. «Ricompensa è rendo al punto di vista dei 5 Per ... cosa: «i due ver- stesse in casa (all’ombra del trettanti all’interno, recava
corrispettivo di spese e fati- grandi paladini, guerrieri e bi valgono come una specie tetto) sia che uscisse all’a- incisi i nomi di Angelica e
che; guidardone è premio di sovrani appena apostrofati: di endiadi: per coprire, giu- perto. Medoro, congiunti in vario
buone azioni in quanto è di questo semplice, umile stificandolo in modo ono- 4 cercando andava: pas- modo e con diversi nodi.
dato; merto è premio di buo- giovinetto). revole, il fatto» (Bigi). seggiava su o presso. Angelica e Medoro indica
ne azioni in quanto è meri- 33 Adombrar è termine del lin- 5 antro: grotta. l’oggetto della scritta (et era
tato» (Papini). 1 la prima rosa: la rosa guaggio pittorico che si- 6-7 forse ... Dido: forse ... scritto ... Angelica e Me-
32 appena sbocciata, cioè la gnifica “ombreggiare il di- non meno comodo e gradi- doro).
2 Agricane: era morto verginità, metafora che è la segno”, quindi “ricoprire” e to di quello in cui si rifugia-
combattendo per amore di variante erotica di quella “completare”. rono per fuggire a un tem-

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24. Ludovico Ariosto T 24.8

Guida all’analisi
Due creature angeliche Medoro nella parte precedente dell’episodio è presentato come una figura angelica
(«occhi avea neri, e chioma crespa d’oro: / angel parea di quei del sommo coro» XVIII, 166,
7-8): l’espressione indica la genuina e giovanile bellezza del personaggio e serve forse a insi-
nuare la natura efebica dell’amore che per lui prova Cloridano. Ma è anche un tenue indizio
del progetto narrativo che lo destina all’amore di un’altra angelica creatura, qual è Angelica, ap-
punto, almeno nel nome e nel ruolo di giovinetta in preda per la prima volta alle ansie, ai tor-
menti, alle gioie dell’amore che assume in questo episodio, pur essendo capace in altri momen-
ti anche di repulse crudeli et inumane (32, 4).
Il topos della vendetta d’amore Quella di Angelica è in effetti una metamorfosi piuttosto repentina che palese-
mente sviluppa un diffuso topos della lirica e della poesia erotica: la vendetta di Amore nei
confronti delle persone ‘crudeli’, cioè insensibili all’amore. Ariosto risente direttamente anche
delle Stanze di Poliziano. Ricordano l’episodio delle Stanze i versi in cui Amore, indispettito
dell’arroganza di Angelica si pone al varco, come là in una selva, per sorprenderla e ferirla con
i suoi strali (ott. 19, 5-8) e quelli che descrivono lo scoccare della freccia (28, 1-4).
La metamorfosi di Angelica e il linguaggio lirico Ma è da notare anche il processo di metamorfosi interiore della
donna, che prima, a più riprese, è designata con espressioni inequivocabili: altiera (17, 8), in tanto
orgoglio crebbe (18, 3), di tutto ’l mondo schiva (18, 4), non si degnerebbe ... si sdegna (18, 5-7), parendo-
le essersi avilita (19, 3), tant’arroganzia (19, 5). Poi, quando Amore decide e attua la sua vendetta, il
quadro sentimentale e psicologico di Angelica cambia repentinamente: si comincia dall’insolita
pietade che rende il duro cor tenero e molle e che poi (25, 7 e 26, 3) la fa rimanere nell’umile dimo-
ra del pastore per sorvegliare la guarigione di Medoro e nuovamente le intenerisce il cuore. Se-
gue quindi una fitta serie di immagini, tutte attinte alla tradizione lirica, che rappresentano i
progressi e gli effetti del nuovo sentimento: l’ascosa lima che rode il cuore (26, 6), l’amoroso fuoco
(26, 8), tutto il complesso gioco di metafore e di antitesi sul tema della piaga reale che Angelica
guarisce in Medoro e di quella metaforica che ella sente “aprirsi” e “incrudirsi” nel proprio pet-
to, del risanare e del languire, del rifiorire e dello struggersi e così via (ottave 27-30).
L’idillio Infine quando Angelica decide di non attendere più che sia il giovane a prendere l’iniziati-
va, ma che è tempo ch’ella se stessa aiti (30, 2) passando dalla vergogna all’ardire (ott. 30), pren-
de il largo la rappresentazione delle gioie delle nozze in un contesto idillico e umile (umil ca-
se prima e umil tetto poi: 25, 7 e 34, 1) quel tanto che basta ad armonizzare il paesaggio con la
ritrovata umiltà della donna un tempo altiera e superba: ecco dunque la prima rosa colta da Me-
doro, le cerimonie sante che legittimano l’istintiva sensualità dell’atto, ecc.
La rappresentazione potrebbe apparire persino un poco oziosa e stucchevole se non fosse ri-
scattata da qualche nota ironica e se non fosse funzionale al contrasto con le dure apostrofi che
la precedono (ott. 31-32) e col dramma di Orlando, a cui nel seguito dell’intreccio questo fine
smaccatamente lieto verrà narrato.
Fortuna e virtù L’incontro cruciale di Angelica e Medoro, che segna una svolta nel poema sapientemente
progettata e orchestrata, è frutto però del caso, come Ariosto sottolinea: «Gli sopravvenne a ca-
so una donzella...» (17, 1). E ancora frutto del caso saranno più avanti la scoperta da parte di
Orlando delle incisioni dei due amanti e l’incontro col pastore, che lo porteranno alla pazzia
[R T 24.9 ]. Soprattutto significativo in questo senso è l’ampio intervento a commento del nar-
ratore alle ottave 31-32, che con quasi crudele insistenza apostrofa i principali amanti non
corrisposti di Angelica, i suoi vani cercatori: «O conte Orlando, o re di Circassia, / vostra in-
clita virtù, dite, che giova?» (31, 1-2). Il valore, il merito, la fedeltà, la devozione, le imprese
eroiche, il paziente servizio, la grandezza d’animo, nulla serve realmente per realizzare gli sco-
pi che l’uomo si propone: nel mondo di Ariosto la virtù è inesorabilmente sconfitta dalla fortu-
na, come il prode Orlando, sul terreno dell’amore, è sconfitto dal giovinetto Medoro.

Laboratorio 1 Il passo della guarigione di Medoro e che attenuano il tono idillico dell’episo-
COMPRENSIONE dell’innamoramento di Angelica è ricco dio delle nozze.
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE di metafore. Individuale e commentale. 3 Confronta questo episodio con quello di
2 Individua e commenta le note ironiche Iulio nelle Stanze del Poliziano [R T 19.5 ].
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Quattrocento e Cinquecento

T 24.9 Orlando furioso I ed. 1516, III ed. 1532


La pazzia di Orlando [XXIII, 100-136; XXIV, 1-3]
L. Ariosto Liberato per merito di Angelica dall’incantesimo che lo teneva prigioniero nel palazzo
Orlando furioso di Atlante, Orlando parte alla ricerca della donna ed è coinvolto in diverse imprese e
a cura di E. Bigi, duelli, finché per caso giunge sul luogo che vide l’idillio fra Angelica e Medoro e che
Rusconi, Milano 1982
ancora ne porta i segni (le iscrizioni d’amore): è un duro colpo per il valoroso paladino,
che prima cerca di nascondersi la verità e poi, quando questa gli appare in tutta la sua
evidenza, esce di senno.
Quello della pazzia di Orlando è l’episodio chiave del poema, che proprio da questo
deriva il suo titolo; ed è l’episodio che segna il punto di massimo allontanamento del
Furioso dalla precedente tradizione epico-cavalleresca.

100. Lo strano corso che tenne il cavallo 103. Angelica e Medor con cento nodi
del Saracin pel bosco senza via, legati insieme, e in cento lochi vede.
fece ch’Orlando andò duo giorni in fallo, Quante lettere son, tanti son chiodi
né lo trovò, né poté averne spia. coi quali Amore il cor gli punge e fiede.
Giunse ad un rivo che parea cristallo, Va col pensier cercando in mille modi
ne le cui sponde un bel pratel fioria, non creder quel ch’al suo dispetto crede:
di nativo color vago e dipinto, ch’altra Angelica sia, creder si sforza,
e di molti e belli arbori distinto. ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza.
101. Il merigge facea grato l’orezzo 104. Poi dice: – Conosco io pur queste note:
al duro armento et al pastore ignudo, di tal’ io n’ho tante vedute e lette.
sì che né Orlando sentia alcun ribrezzo, Finger questo Medoro ella si puote:
che la corazza avea, l’elmo e lo scudo. forse ch’a me questo cognome mette. –
Quivi egli entrò per riposarvi in mezzo; Con tali opinion dal ver remote
e v’ebbe travaglioso albergo e crudo, usando fraude a se medesmo, stette
e più che dir si possa empio soggiorno, ne la speranza il mal contento Orlando,
quell’infelice e sfortunato giorno. che si seppe a se stesso ir procacciando.
102. Volgendosi ivi intorno, vide scritti 105. Ma sempre più raccende e più rinuova,
molti arbuscelli in su l’ombrosa riva. quanto spenger più cerca, il rio sospetto:
Tosto che fermi v’ebbe posto gli occhi e fitti, come l’incauto augel che si ritrova
fu certo esser di man de la sua diva. in ragna o in visco aver dato di petto,
Questo era un di quei lochi già descritti, quanto più batte l’ale e più si prova
ove sovente con Medor veniva di disbrigar, più vi si lega stretto.
da casa del pastore indi vicina Orlando viene ove s’incurva il monte
la bella donna del Catai regina. a guisa d’arco in su la chiara fonte.

100 101 dimora dolorosa e crudele. 7 indi vicina: che era lì grappò a questa speranza
2 Saracin: è Mandricar- 1 Il merigge... orezzo: 7 e più... soggiorno: e vicina. che era riuscito a procurarsi,
do, che Orlando sta inse- l’ora meridiana rendeva un soggiorno più funesto di 103 fingersi.
guendo. – senza via: non se- gradevole la frescura (orezzo quanto si possa esprimere a 2 lochi: luoghi. 105
gnato da alcun sentiero. o rezzo, la frescura prodotta parole. 4 fiede: ferisce. 2 quanto... cerca: quan-
3 andò... in fallo: ca- dall’ombra e da una lieve 102 6 non... crede: di non to più cerca di sopirlo.
valcò per due giorni invano brezza). 1 scritti:incisi,coperti di credere a ciò cui pure, con 4 ragna: rete.
(in fallo). 2 duro... ignudo: ben- iscrizioni. suo dispetto, crede. 6 disbrigar: svincolarsi,
4 averne spia: averne ché indurito dalle intempe- 3 Tosto... fitti: non appe- 104 liberarsi.
notizia, trovarne traccia. rie... benché seminudo. na li ebbe osservati con at- 1 queste note: questi ca- 7-8 ove... d’arco: dove la
7 di nativo color: «di fio- 3 né... ribrezzo: neppu- tenzione (vi ebbe prima sof- ratteri, questa grafia. montagna crea una grotta
ri nati spontaneamente e di re (né) Orlando provava al- fermato poi fissato con 4 cognome: sopranno- naturale.
vari colori» (Bigi). cun brivido di freddo (ri- grande attenzione gli oc- me.
8 distinto: ornato (lati- brezzo). chi). 6-8 stette... procaccian-
nismo). 6 travaglioso... crudo: 4 diva: dea,Angelica. do: l’infelice Orlando si ag-

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24. Ludovico Ariosto T 24.9

106. Aveano in su l’entrata il luogo adorno 110. Era scritto in arabico, che ’l conte
coi piedi storti edere e viti erranti. intendea così ben come latino:
Quivi soleano al più cocente giorno fra molte lingue e molte ch’avea pronte,
stare abbracciati i duo felici amanti. prontissima avea quella il paladino;
V’aveano i nomi lor dentro e d’intorno, e gli schivò più volte e danni et onte,
più che in altro dei luoghi circonstanti, che si trovò tra il popul saracino:
scritti, qual con carbone e qual con gesso, ma non si vanti, se già n’ebbe frutto;
e qual con punte di coltelli impresso. ch’un danno or n’ha, che può scontargli il tutto.
107. Il mesto conte a piè quivi discese; 111. Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto
e vide in su l’entrata de la grotta quello infelice, e pur cercando invano
parole assai, che di sua man distese che non vi fosse quel che v’era scritto;
Medoro avea, che parean scritte allotta. e sempre lo vedea più chiaro e piano:
Del gran piacer che ne la grotta prese, et ogni volta in mezzo il petto afflitto
questa sentenzia in versi avea ridotta. stringersi il cor sentia con fredda mano.
Che fosse culta in suo linguaggio io penso; Rimase al fin con gli occhi e con la mente
et era ne la nostra tale il senso: fissi nel sasso, al sasso indifferente.
108. – Liete piante, verdi erbe, limpide acque, 112. Fu allora per uscir del sentimento,
spelunca opaca e di fredde ombre grata, sì tutto in preda del dolor si lassa.
dove la bella Angelica che nacque Credete a chi n’ha fatto esperimento,
di Galafron, da molti invano amata, che questo è ’l duol che tutti gli altri passa.
spesso ne le mie braccia nuda giacque; Caduto gli era sopra il petto il mento,
de la commodità che qui m’è data, la fronte priva di baldanza e bassa;
io povero Medor ricompensarvi né poté aver (che ’l duol l’occupò tanto)
d’altro non posso, che d’ognior lodarvi: alle querele voce, o umore al pianto.
109. e di pregare ogni signore amante, 113. L’impetuosa doglia entro rimase,
e cavallieri e damigelle, e ognuna che volea tutta uscir con troppa fretta.
persona, o paesana o viandante, Così veggian restar l’acqua nel vase,
che qui sua volontà meni o Fortuna; che largo il ventre e la bocca abbia stretta;
ch’all’erbe, all’ombre, all’antro, al rio, alle piante che nel voltar che si fa in su la base,
dica: benigno abbiate e sole e luna, l’umor che vorria uscir, tanto s’affretta,
e de le ninfe il coro, che proveggia e ne l’angusta via tanto s’intrica,
che non conduca a voi pastor mai greggia. – ch’a goccia a goccia fuore esce a fatica.

106 composta con dignità lette- nativa del luogo o giunta qui benefici. poté avere voce per lamen-
1 Aveano... adorno: raria) nella sua lingua. durante un viaggio. 111 tarsi, lacrime per piangere.
adornavano. 8 ne la nostra: nella no- 4 meni: conduca. 2 e pur: e sempre. 113
2 coi piedi storti: con i stra lingua. 7-8 che proveggia... greg- 4 piano: comprensibile. 1 L’impetuosa doglia: il
loro contorti avvolgimenti. 108 gia: che faccia sì (proveggia, 8 al sasso indifferente: dolore impetuoso.
3 al più cocente giorno: 2 spelunca opaca: om- provveda) che nessun pasto- non differente dal sasso, cioè 3 veggian: vediamo.
nelle ore più calde della brosa grotta. re porti tra voi il suo gregge impietrito. 5-8 che... fatica: quando si
giornata. 6 de la commodità: del- per farlo pascolare. 112 rivolta la brocca l’acqua, che
107 la «possibilità di godere co- 110 1 per... sentimento: in vorrebbe uscire, tanto pre-
4 allotta: allora. modamente questo piacere» 3 ch’avea pronte: che procinto di uscire di senno. me e si accumula nella stret-
6 questa... ridotta: aveva (Bigi). conosceva bene. 2 si lassa: si abbandona. ta apertura che esce goccio-
svolto in versi questi con- 8 che... lodarvi: se non 6 che si trovò: allorché si 4 questo... passa: questo lando a fatica.
cetti. lodandovi sempre. trovò. è il dolore che supera per in-
7 Che... penso: penso 109 8 scontargli il tutto: far- tensità tutti gli altri.
che fosse composta (culta, 3 paesana o viandante: gli scontare tutti i passati 7-8 né... pianto: e non

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Quattrocento e Cinquecento

114. Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come 118. Poco gli giova usar fraude a se stesso;
possa esser che non sia la cosa vera: che senza domandarne, è chi ne parla.
che voglia alcun così infamare il nome Il pastor che lo vede così oppresso
de la sua donna e crede e brama e spera, da sua tristizia, e che voria levarla,
o gravar lui d’insoportabil some l’istoria nota a sé, che dicea spesso
tanto di gelosia, che se ne pera; di quei duo amanti a chi volea ascoltarla,
et abbia quel, sia chi si voglia stato, ch’a molti dilettevole fu a udire,
molto la man di lei bene imitato. gl’incominciò senza rispetto a dire:
115. In così poca, in così debol speme 119. com’esso a’ prieghi d’Angelica bella
sveglia gli spirti e gli rinfranca un poco, portato avea Medoro alla sua villa,
indi al suo Brigliadoro il dosso preme, ch’era ferito gravemente; e ch’ella
dando già il sole alla sorella loco. curò la piaga, e in pochi dì guarilla:
Non molto va, che da le vie supreme ma che nel cor d’una maggior di quella
dei tetti uscir vede il vapor del fuoco, lei ferì Amor; e di poca scintilla
sente cani abbaiar, muggiare armento: l’accese tanto e sì cocente fuoco,
viene alla villa, e piglia alloggiamento. che n’ardea tutta, e non trovava loco:
116. Languido smonta, e lascia Brigliadoro 120. e sanza aver rispetto ch’ella fusse
a un discreto garzon che n’abbia cura; figlia del maggior re ch’abbia il Levante,
altri il disarma, altri gli spron d’oro da troppo amor constretta si condusse
gli leva, altri a forbir va l’armatura. a farsi moglie d’un povero fante.
Era questa la casa ove Medoro All’ultimo l’istoria si ridusse,
giacque ferito, e v’ebbe alta avventura. che ’l pastor fe’ portar la gemma inante,
Corcarsi Orlando e non cenar domanda, ch’alla sua dipartenza, per mercede
di dolor sazio e non d’altra vivanda. del buono albergo, Angelica gli diede.
117. Quanto più cerca ritrovar quiete, 121. Questa conclusion fu la secure
tanto ritrova più travaglio e pena; che ’l capo a un colpo gli levò dal collo,
che de l’odiato scritto ogni parete, poi che d’innumerabil battiture
ogni uscio, ogni finestra vede piena. si vide il manigoldo Amor satollo.
Chieder ne vuol: poi tien le labra chete; Celar si studia Orlando il duolo; e pure
che teme non si far troppo serena, quel gli fa forza, e male asconder pollo:
troppo chiara la cosa che di nebbia per lacrime e suspir da bocca e d’occhi
cerca offuscar, perché men nuocer debbia. convien, voglia o non voglia, al fin che scocchi.

114 6 il vapor del fuoco: il che invece egli cerca di la- ce. 6 male... pollo: e non lo
5-6 o gravar... pera: o che fumo. sciare incerto, di nasconder- 5-6 si ridusse, che: si con- può tenere del tutto nasco-
qualcuno voglia gravarlo di 116 si (di nebbia... offuscar, rico- cluse così, che... sto.
un peso di gelosia tanto in- 1 Languido: «stanco e prire di nebbia) per soffrire 6 la gemma: un braccia- 7-8 per... scocchi: è inevi-
tollerabile che egli ne svogliato» (Bigi). di meno. le donato ad Angelica pro- tabile, lo voglia o no, che alla
muoia. 2 discreto: «assennato, 118 prio da Orlando. fine il dolore trovi una via
7 sia... stato: chiunque esperto» (Caretti). 2 è chi: c’è chi. 8 albergo: ospitalità. d’uscita (scocchi) dagli occhi
sia stato. 4 forbir: pulire. 4 levarla: alleviarla. 121 e dalla bocca per mezzo di
115 6 alta avventura: la 8 senza rispetto: senza 1 secure: scure. lacrime e di sospiri (si noti,
1 speme: speranza. grande fortuna di amare considerare l’effetto del suo 2 a un colpo: in un sol nel testo, il chiasmo lacrime...
2 sveglia... un poco: ri- Angelica. racconto su Orlando. colpo. suspir... bocca... occhi).
sveglia gli spiriti vitali e li 7-8 Corcarsi... vivanda: 119 3-4 poi che... satollo:dopo
rinvigorisce un poco; in- chiede di coricarsi non di 6 di poca scintilla: co- che il manigoldo Amore fu
somma si rinfranca, ripren- cenare, sazio com’è di dolo- minciando da una piccola sazio d’averlo battuto innu-
de un po’ di vitalità. re e non desideroso di altra scintilla. merevoli volte; manigoldo
3 il dosso preme: monta vivanda. 8 non trovava loco: non vale “carnefice” (coerente-
in groppa. 117 trovava pace. mente alla metafora dei vv.
4 dando già... loco: 5 chete: quiete, chiuse. 120 1-2).
mentre il sole al tramonto 6-8 che... debbia: poiché 1 sanza... fusse: senza 5 Celar... duolo: Orlan-
cede il posto alla luna (alla ha paura che si faccia troppo curarsi di essere. do si sforza di tenere nasco-
sorella). palese, troppo chiaro quel 4 fante: soldato sempli- sto il proprio dolore.

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24. Ludovico Ariosto T 24.9

122. Poi ch’allargare il freno al dolor puote 126. – Queste non son più lacrime, che fuore
(che resta solo e senza altrui rispetto), stillo dagli occhi con sì larga vena.
giù dagli occhi rigando per le gote Non suppliron le lacrime al dolore:
sparge un fiume di lacrime sul petto: finir, ch’a mezzo era il dolore a pena.
sospira e geme, e va con spesse ruote Dal fuoco spinto ora il vitale umore
di qua di là tutto cercando il letto; fugge per quella via ch’agli occhi mena;
e più duro ch’un sasso, e più pungente et è quel che si versa, e trarrà insieme
che se fosse d’urtica, se lo sente. e ’l dolore e la vita all’ore estreme.
123. In tanto aspro travaglio gli soccorre 127. Questi ch’indizio fan del mio tormento,
che nel medesmo letto in che giaceva, sospir non sono, né i sospir son tali.
l’ingrata donna venutasi a porre Quelli han triegua talora; io mai non sento
col suo drudo più volte esser doveva. che ’l petto mio men la sua pena esali.
Non altrimenti or quella piuma abborre, Amor che m’arde il cor, fa questo vento,
né con minor prestezza se ne leva, mentre dibatte intorno al fuoco l’ali.
che de l’erba il villan che s’era messo Amor, con che miracolo lo fai,
per chiuder gli occhi, e vegga il serpe appresso. che ’n fuoco il tenghi, e nol consumi mai?
124. Quel letto, quella casa, quel pastore 128. Non son, non sono io quel che paio in viso:
immantinente in tant’odio gli casca, quel ch’era Orlando è morto et è sotterra;
che senza aspettar luna, o che l’albore la sua donna ingratissima l’ha ucciso:
che va dinanzi al nuovo giorno nasca, sì, mancando di fe’, gli ha fatto guerra.
piglia l’arme e il destriero, et esce fuore Io son lo spirto suo da lui diviso,
per mezzo il bosco alla più oscura frasca; ch’in questo inferno tormentandosi erra,
e quando poi gli è aviso d’esser solo, acciò con l’ombra sia, che sola avanza,
con gridi et urli apre le porte al duolo. esempio a chi in Amor pone speranza. –
125. Di pianger mai, mai di gridar non resta; 129. Pel bosco errò tutta la notte il conte;
né la notte né ’l dì si dà mai pace. e allo spuntar de la diurna fiamma
Fugge cittadi e borghi, e alla foresta lo tornò il suo destin sopra la fronte
sul terren duro al discoperto giace. dove Medoro insculse l’epigramma.
Di sé si maraviglia ch’abbia in testa Veder l’ingiuria sua scritta nel monte
una fontana d’acqua sì vivace, l’accese sì, ch’in lui non restò dramma
e come sospirar possa mai tanto; che non fosse odio, rabbia, ira e furore;
e spesso dice a sé così nel pianto: né più indugiò, che trasse il brando fuore.

122 coricare (venutasi a porre... 6 una fontana... vivace: me il mio dolore e la mia vi- ciò che è rimasto di Orlan-
1 allargare il freno: dare esser doveva) più volte con il una fonte di lacrime così ta» (Bigi). do, sia d’esempio.
sfogo. suo amante (drudo). copiosa, abbondante. 127 129
2 senza altrui rispetto: 5 abborre: aborrisce, 126 2 né... son tali: e i sospiri 2 de la diurna fiamma:
«senza doversi preoccupare considera con orrore. 1-2 Queste... vena: queste non sono simili, non hanno del sole.
della presenza degli estra- 6 se ne leva: se ne allon- che io verso dagli occhi con le caratteristiche di quelli 3 lo tornò: lo fece ritor-
nei» (Caretti). tana, si alza. così ampio flusso (con sì larga che io emetto. nare, lo ricondusse.
5-6 va... letto: va esploran- 124 vena) non sono più lacrime. 4 esali: riversi fuori, sfo- 4 insculse l’epigramma:
do (va... cercando) il letto di 2 gli casca: gli viene. 3-4 Non... a pena: le lacri- ghi. scolpì, incise i versi (riporta-
qua e di là, rigirandosi fre- 4 che va dinanzi al: che me non furono sufficienti al 5-6 Amor... l’ali: è l’Amo- ti alle ott. 108-109).
quentemente (con spesse ruo- precede il. dolore: finirono quando il re, che mi brucia il cuore, a 5 l’ingiuria sua: la storia
te) nella speranza di trovare 6 alla più oscura frasca: dolore era appena a metà del fare questo vento mentre cioè degli amori di Angelica
una posizione che gli con- dirigendosi verso la parte suo sfogo. batte le ali attorno al fuoco e Medoro che Orlando sente
senta di riposare. più oscura del bosco. 5-8 Dal fuoco... estreme: (della mia passione per attiz- come un’offesa (ingiuria)
123 7 gli è aviso: è sicuro. ora è l’umore vitale che, zarla). personale nei suoi confronti.
1 gli soccorre: gli viene 8 apre le porte: dà sfogo spinto dal fuoco della pas- 8 che... mai: che tieni il 6 non... dramma: non
in mente. (cfr. 121, 7-8) sione, fugge per quella via mio cuore in mezzo al fuo- restò nulla (non … dramma,
2-4 che... doveva: che in 125 che conduce agli occhi, e da co senza mai consumarlo. neppure una minima quan-
quel medesimo letto dove 1 non resta: non cessa. questi viene versato (al po- 128 tità).
ora lui giaceva, la donna in- 4 al discoperto: all’aper- sto delle lacrime), «e che, 7-8 acciò... esempio: af- 8 il brando: la spada.
grata doveva essersi venuta a to. esaurendosi, esaurirà insie- finché l’ombra, che è tutto

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Quattrocento e Cinquecento

130. Tagliò lo scritto e ’l sasso, e sin al cielo 134. In tanta rabbia, in tanto furor venne,
a volo alzar fe’ le minute schegge. che rimase offuscato in ogni senso.
Infelice quell’antro, et ogni stelo Di tor la spada in man non gli sovenne;
in cui Medoro e Angelica si legge! che fatte avria mirabil cose, penso.
Così restar quel dì, ch’ombra né gielo Ma né quella, né scure, né bipenne
a pastor mai non daran più, né a gregge: era bisogno al suo vigore immenso.
e quella fonte, già sì chiara e pura, Quivi fe’ ben de le sue prove eccelse,
da cotanta ira fu poco sicura; ch’un alto pino al primo crollo svelse:
131. che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle 135. e svelse dopo il primo altri parecchi,
non cessò di gittar ne le bell’onde, come fosser finocchi, ebuli o aneti;
fin che da sommo ad imo sì turbolle, e fe’ il simil di querce e d’olmi vecchi,
che non furo mai più chiare né monde. di faggi e d’orni e d’illici e d’abeti.
E stanco al fin, e al fin di sudor molle, Quel ch’un ucellator che s’apparecchi
poi che la lena vinta non risponde il campo mondo, fa, per por le reti,
allo sdegno, al grave odio, all’ardente ira, dei giunchi e de le stoppie e de l’urtiche,
cade sul prato, e verso il ciel sospira. facea de cerri e d’altre piante antiche.
132. Afflitto e stanco al fin cade ne l’erba 136. I pastor che sentito hanno il fracasso,
e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto. lasciando il gregge sparso alla foresta,
Senza cibo e dormir così si serba, chi di qua, chi di là, tutti a gran passo
che ’l sole esce tre volte e torna sotto. vi vengon a veder che cosa è questa.
Di crescer non cessò la pena acerba, Ma son giunto a quel segno il qual s’io passo
che fuor del senno al fin l’ebbe condotto. vi potria la mia istoria esser molesta;
Il quarto dì, da gran furor commosso, et io la vo’ più tosto diferire,
e maglie e piastre si stracciò di dosso. che v’abbia per lunghezza a fastidire.
133. Qui riman l’elmo, e là riman lo scudo,
lontan gli arnesi, e più lontan l’usbergo:
l’arme sue tutte, in somma vi concludo,
avean pel bosco differente albergo.
E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo
l’ispido ventre e tutto ’l petto e ’l tergo;
e cominciò la gran follia, sì orrenda,
che de la più non sarà mai ch’intenda.

130 il vigore, ormai esaurito arnesi indica varie altre parti sua facoltà razionale ne ri- 5-8 Quel... antiche: quel-
4 Medoro e Angelica: la (vinta), non è pari (non ri- dell’armatura, mentre mase offuscata. lo che un cacciatore d’uc-
scritta “Medoro e Angeli- sponde) allo sdegno. usbergo o corazza indica la 3 tor: prendere. celli fa dei giunchi, delle
ca”. 132 parte dell’armatura atta a 5 bipenne: scure a dop- stoppie e delle ortiche,
5 Così restar: così rima- 2 non fa motto: rimane proteggere il tronco. pio taglio. quando ripulisce il terreno
sero, così cioè li devastò silenzioso. 4 avean... albergo: ave- 6 era bisogno: occorre- per disporre le reti, Orlan-
Orlando. – gielo: fresco. 3 si serba: rimane. vano diversa sede (albergo), vano. do lo faceva con i cerri e al-
7-8 e quella... sicura: nep- 8 e maglie e piastre: la si trovavano sparse qua e là 7 de le sue prove eccel- tre piante secolari.
pure la fonte, un tempo così maglia di ferro e la corazza per il bosco. se: alcune delle sue imprese 136
limpida e pura, fu indenne (quest’ultima veniva indos- 6 ’l tergo: la schiena. più grandi. 5 a quel... passo: a quel
da tanto grande ira. sata sopra alla prima) di cui 8 che... intenda: che 8 al primo... svelse: sra- punto oltrepassato il quale.
131 maglie e piastre sono le ri- nessuno udirà mai narrare dicò al primo scrollone.
3 da sommo... turbolle: spettive componenti mi- di una follia più orrenda di 135
le intorbidò dalla superficie nute. questa. 2 ebuli o aneti: sambu-
fino al fondo. 133 134 chi o finocchi selvatici.
6-7 poi... sdegno: poiché 2 gli arnesi... l’usbergo: 2 che... senso: che ogni 4 illici: elci.

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24. Ludovico Ariosto T 24.9

1. Chi mette il piè su l’amorosa pania, 3. Ben mi si potria dir: – Frate, tu vai
cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ale; l’altrui mostrando, e non vedi il tuo fallo. –
che non è in somma amor, se non insania, Io vi rispondo che comprendo assai,
a giudizio de’ savi universale: or che di mente ho lucido intervallo;
e se ben come Orlando ognun non smania, et ho gran cura (e spero farlo ormai)
suo furor mostra a qualch’altro segnale. di riposarmi e d’uscir fuori di ballo:
E quale è di pazzia segno più espresso ma tosto far, come vorrei, non posso;
che, per altri voler, perder se stesso? che ’l male è penetrato infin all’osso.
2. Varii gli effetti son, ma la pazzia
è tutt’una però, che li fa uscire.
Gli è come una gran selva, ove la via
convien a forza, a chi vi va, fallire:
chi su, chi giù, chi qua, chi là travia.
Per concludere in somma, io vi vo’ dire:
a chi in amor s’invecchia, oltr’ogni pena,
si convengono i ceppi e la catena.

XXIV so, da cui deriva il verbo inve- mera sensualità (i piedi). fetti sono diversi, ma unica è da legare”).
1 schi (invischi). Il consiglio di 3 insania: follia. la pazzia che li produce. 3
1-2 Chi... l’ale: chi si è la- ritrarre le ali, appena si è po- 6 a qualch’altro segna- 4 fallire: perdere, sbaglia- 2 fallo: errore.
sciato prendere dall’amore, sto il piede nella pania, può le: da qualche altro indizio, re. 4 or che... intervallo: ora
cerchi di ritrarsi a tempo e di genericamente valere “pri- in qualche altro modo. 5 travia: smarrisce la che ho un barlume di luci-
non lasciarsi completamente ma che sia troppo tardi, pri- 7-8 E quale... se stesso?: e strada, esce dalla retta via. dità, una momentanea re-
invischiare. Il concetto è ma di essere totalmente qual è segno più evidente di 7-8 a chi... catena: a colui missione del male.
espresso attraverso una me- coinvolto”, ma vi si può an- pazzia che perdere se stessi che persevera ad amare, ol- 6 uscir fuori di ballo: li-
tafora attinta dalla caccia: la che scorgere un’allusione, per volere (l’amore di) un tre a tutte le altre sofferenze, berarmi dalle pene d’amore.
paniaè una materia vischiosa, come ipotizza Bigi, «alle altro? è bene che venga inflitta la 7 tosto far: farlo subito,
usata per catturare gli uccelli, qualità più elevate dell’ani- 2 detenzione in ceppi e cate- immediatamente.
come appunto il vischio stes- mo» (le ali) contrapposte alla 1-2 Varii... uscire: gli ef- ne (come dire che è “matto

Guida all’analisi
La natura idillica Sospinto dal caso Orlando giunge nel luogo dove Angelica e Medoro avevano coronato la
loro vicenda d’amore. Questo, che abbiamo visto sommariamente descritto nell’episodio
precedente, è un tipico locus amoenus collocato in un contesto arcadico, pastorale, ma nobi-
litato anche da reminiscenze letterarie di natura epica: è una radura nel bosco, dove vivono
alcuni umili ma gentili pastori («Stava il pastore in assai buona e bella / stanza, nel bosco in-
fra duo monti piatta, / con la moglie e coi figli; et avea quella / tutta di nuovo e poco inan-
zi fatta» XIX, 27, 1-4 [R T 24.8 ]); Angelica e Medoro durante il loro idillio giacciono nella
dimora del pastore o percorrono le rive e i prati circostanti (XIX, 35, 3-4), in un contesto
fitto d’alberi ombrosi di rivi e di fonti che danno refrigerio alla calura (XIX, 36, 1-3) e ta-
lora trovano riparo in una grotta che ricorda al poeta quella che vide gli amori di Enea e
Didone (XIX, 35, 5-8; questa è appunto la reminiscenza letteraria, dall’Eneide, a cui faceva-
mo riferimento).
In questo nuovo episodio troviamo immediatamente descritto nella sua forma più tipica il
locus amoenus: «Giunse ad un rivo che parea cristallo, / ne le cui sponde un bel pratel fioria,
/ di nativo color vago e dipinto, / e di molti e belli arbori distinto. // Il merigge facea gra-
to l’orezzo / al duro armento et al pastore ignudo» (100, 5-8; 101, 1-2). Gli elementi fon-
damentali del locus amoenus sono tutti presenti: il prato fiorito, gli alberi, il rivo, la frescura in
un caldo meriggio. Il luogo mantiene ancora queste caratteristiche nelle ottave seguenti,
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Quattrocento e Cinquecento

quando Orlando giunge nei pressi della grotta (chiara fonte, luogo adorno ecc., ott. 105-106), e
nella gioiosa descrizione che Medoro ha impresso all’entrata della grotta («Liete piante,
verdi erbe, limpide acque, / spelunca opaca e di fredde ombre grata…», 108, 1-2).
La natura sconvolta e violata. Orlando inselvatichito Ma sin dall’inizio di questo episodio siamo avvertiti che il
luogo ameno sarà teatro di un evento drammatico («Quivi egli entrò per riposarsi in mezzo;
/ e v’ebbe travaglioso albergo e crudo», ott. 101, 5-6). Lo strumento che determina la meta-
morfosi nell’animo di Orlando sono le scritte, incise negli alberi o tracciate sulle rocce, che
lasciano testimonianza dei felici amori dei due giovani amanti. È questa una lieve alterazio-
ne del contesto naturale, una lieve violazione dell’ambiente idillico: non più che una traccia
di una presenza umana, che però il caso vuole che diventi drammatica per il sopraggiunge-
re dell’infelice rivale di Medoro.
Orlando, pazzo d’amore e di gelosia, con la mente completamente offuscata (ott. 134, 1-
2), abbandona la dimora del pastore e si immerge «per mezzo il bosco alla più oscura frasca»,
ott. 124, 6). È un ingresso nella selva che ha qualche implicazione simbolica: Orlando ne
uscirà folle e inselvatichito: «E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo / l’ispido ventre e
tutto ’l petto e ’l tergo; / e cominciò la gran follia, sì orrenda...» (133, 5-7). Così quando al-
la fine ritorna casualmente nei luoghi del felice amore del suo rivale, in un accesso di furo-
re distrugge tutti i segni di quella presenza violando e sconvolgendo la natura idillica (ott.
130-131; 134-136). Puntuale il commento di Ariosto, che lamenta la terribile devastazione:
«Infelice quell’antro, et ogni stelo / in cui Medoro e Angelica si legge! / Così restar quel dì,
ch’ombra né gielo / a pastor mai non daran più, né a gregge: / e quella fonte, già sì chiara e
pura, / da cotanta ira fu poco sicura; // che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle / non ces-
sò di gittar ne le bell’onde, / fin che da sommo ad imo sì turbolle, / che non furo mai più
chiare né monde» (130, 3-8; 131, 1-4).

Laboratorio 1 Il caso mette Orlando di fronte ai segni la figura retorica dell’iperbole, dell’esage-
COMPRENSIONE dell’amore di Angelica e Medoro, alle razione. Individua nel testo le principali
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE iscrizioni cioè che i due amanti incisero iperboli.
dovunque fosse possibile nei luoghi del 3 Complessivamente si può dire che questo
loro idillio. Orlando, che ben conosce l’a- episodio confermi, in modo esemplare, le
rabo (ott. 110), le decifra e ne comprende osservazioni svolte per T 24.6 sul tono
la portata, ma non sa darsi ragione. La medio del Furioso, sulla variazione di re-
prima parte dell’episodio (ott. 100-124) è gistri stilistici. Fondandoti su quell’analisi,
dedicata all’analisi, non priva di accenti prova a rilevare in questo testo dove e co-
ironici, di quelli che potremmo definire me si attua il principale mutamento di
gli “inganni della coscienza” messi in atto registro.
dal paladino per cercare di nascondersi la 4 Analizza l’esordio del canto XXIV (ott.
verità, e del processo che porta Orlando 1-3), occupato da un commento del nar-
alla soglia della pazzia. Individua gli aspet- ratore.Vi si ritrovano alcuni elementi che
ti e i momenti salienti. Scheda in partico- già abbiamo avuto modo di incontrare:
lare: gli eventi, gli stati d’animo del prota- quali sono? E come va interpretato nel
gonista, gli “inganni della coscienza”; i suo complesso questo esordio? Prova an-
commenti del narratore. che a interpretare l’episodio nel suo
2 Nella seconda parte dell’episodio (XXIII, complesso: il suo significato è tutto rac-
125-136) il motivo dominante è quello chiuso nel commento del narratore
delle manifestazioni della follia di Orlan- (XXIV, 1-3)?
do. Esse sono tutte descritte privilegiando
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24. Ludovico Ariosto T 24.10

T 24.10 Orlando furioso I ed. 1516, III ed. 1532


Astolfo sulla luna [XXXIV, 70-87]
L. Ariosto Orlando in preda alla pazzia prima infuria contro uomini, animali e piante, poi comin-
Orlando furioso cia a vagare immemore di tutto; incontra Angelica senza riconoscerla, ne prende la ca-
a cura di E. Bigi, valla che prima trasporta in spalla, poi trascina a forza fino a farla morire, ruba quindi
Rusconi, Milano 1982
un cavallo e giunge a Gibilterra, da dove passa in Africa.
Ma la vicenda di Orlando non poteva finire con la pazzia: il piano del racconto pre-
vedeva che Orlando fosse ricondotto ai suoi compiti istituzionali di paladino di Francia
nella guerra contro i Saraceni. Per restituire a Orlando il senno smarrito per amore,
Ariosto ricorre dunque a un episodio fantastico, solo vagamente colorito in un senso
religioso: immagina che Astolfo dopo una discesa all’Inferno salga con l’ippogrifo fino
al paradiso terrestre dove incontra san Giovanni evangelista, che prima gli rivela il dise-
gno provvidenziale sotteso alla pazzia di Orlando (una punizione per aver inseguito
Angelica, dimentico dei suoi doveri di difensore della fede) e al viaggio di Astolfo
(chiamato a recuperare il senno di Orlando); e poi lo conduce con sé nel cielo della lu-
na. In un vallone lunare trova raccolto tutto ciò che l’uomo per colpa propria o del
tempo o della fortuna ha perduto sulla terra: fra le tante cose Astolfo trova delle am-
polle che contengono il senno degli uomini.

70. Tutta la sfera varcano del fuoco, 72. Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
et indi vanno al regno de la luna. sono là su, che non son qui tra noi;
Veggon per la più parte esser quel loco altri piani, altre valli, altre montagne,
come un acciar che non ha macchia alcuna; c’han le cittadi, hanno i castelli suoi,
e lo trovano uguale, o minor poco con case de le quai mai le più magne
di ciò ch’in questo globo si raguna, non vide il paladin prima né poi:
in questo ultimo globo de la terra, e vi sono ample e solitarie selve,
mettendo il mar che la circonda e serra. ove le ninfe ognor cacciano belve.
71. Quivi ebbe Astolfo doppia maraviglia: 73. Non stette il duca a ricercare il tutto;
che quel paese appresso era sì grande, che là non era asceso a quello effetto.
il quale a un picciol tondo rassimiglia Da l’apostolo santo fu condutto
a noi che lo miriam da queste bande; in un vallon fra due montagne istretto,
e ch’aguzzar conviengli ambe le ciglia, ove mirabilmente era ridutto
s’indi la terra e ’l mar ch’intorno spande ciò che si perde o per nostro difetto,
discerner vuol, che non avendo luce, o per colpa di tempo o di Fortuna:
l’immagin lor poco alta si conduce. ciò che si perde qui, là si raguna.

70 assillato i filosofi medievali 71 ce propria, l’immagine del percorrere.


1 Tutta... fuoco: san che concepivano le sfere 2-4 che quel... bande: la mare e dei continenti arriva 2 a quello effetto: a
Giovanni evangelista e celesti come sfere perfette. luna, osservata da vicino, poco lontano. quello scopo.
Astolfo attraversano la sfera Sulla questione si sofferma appariva così grande, men- 72 5 mirabilmente: mira-
del fuoco che separava, se- Dante in Pd II. tre a noi che la guardiamo 1 Altri: diversi, e più colosamente, per volontà
condo gli antichi, la terra 5-8 e lo trovano... serra: e dalla terra (da queste bande) grandi (ma Ariosto ne sot- divina. – era ridutto: era
dalla luna. trovano che sia di superficie sembra solo una piccola tolinea qui soprattutto le di- raccolto.
4 un acciar... alcuna: non dissimile da quella del- sfera. verse dimensioni). 8 si raguna: si raduna, si
una sfera d’acciaio, priva di la terra – che è la sfera più 5-8 e ch’aguzzar... con- 5-6 con case... né poi: con raccoglie.
ogni macchia, cioè unifor- lontana (ultimo) da Dio – duce: e viceversa deve aguz- case tali che Astolfo non ne
me e liscia (contrariamente compresa anche la superfi- zare gli occhi se vuol vedere vide mai, né prima né dopo
a quanto appare alla vista cie del mare che circonda e da lassù la terra e il mare che quel viaggio, di più grandi.
dalla terra). Il problema racchiude. la circonda, dal momento 73
delle macchie lunari aveva che, non avendo la terra lu- 1 ricercare: esplorare,

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Quattrocento e Cinquecento

74. Non pur di regni o di ricchezze parlo, Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede,
in che la ruota instabile lavora; et ode che son tutte adulazioni.
ma di quel ch’in poter di tor, di darlo Di cicale scoppiate imagine hanno
non ha Fortuna, intender voglio ancora. versi ch’in laude dei signor si fanno.
Molta fama è là su, che, come tarlo,
il tempo al lungo andar qua giù divora: 78. Di nodi d’oro e di gemmati ceppi
là su infiniti prieghi e voti stanno, vede c’han forma i mal seguiti amori.
che da noi peccatori a Dio si fanno. V’eran d’aquile artigli; e che fur, seppi,
l’autorità ch’ai suoi danno i signori.
75. Le lacrime e i sospiri degli amanti, I mantici ch’intorno han pieni i greppi,
l’inutil tempo che si perde a giuoco, sono i fumi dei principi e i favori
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti, che danno un tempo ai ganimedi suoi,
vani disegni che non han mai loco, che se ne van col fior degli anni poi.
i vani desideri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco: 79. Ruine di cittadi e di castella
ciò che in somma qua giù perdesti mai, stavan con gran tesor quivi sozzopra.
là su salendo ritrovar potrai. Domanda, e sa che son trattati, e quella
congiura che sì mal par che si cuopra.
76. Passando il paladin per quelle biche, Vide serpi con faccia di donzella,
or di questo or di quel chiede alla guida. di monetieri e di ladroni l’opra:
Vide un monte di tumide vesiche, poi vide boccie rotte di più sorti,
che dentro parea aver tumulti e grida; ch’era il servir de le misere corti.
e seppe ch’eran le corone antiche
e degli Assirii e de la terra lida, 80. Di versate minestre una gran massa
e de’ Persi e de’ Greci, che già furo vede, e domanda al suo dottor ch’importe.
incliti, et or n’è quasi il nome oscuro. – L’elemosina è – dice – che si lassa
alcun, che fatta sia dopo la morte. –
77. Ami d’oro e d’argento appresso vede Di varii fiori ad un gran monte passa,
in una massa, ch’erano quei doni ch’ebbe già buono odore, or putia forte.
che si fan con speranza di mercede Questo era il dono (se però dir lece)
ai re, agli avari principi, ai patroni. che Costantino al buon Silvestro fece.

74 6 lida: di Lidia. disgrazia» (Bigi). 79 «Le elemosine che alcuni


1 Non pur: non solo. 8 incliti: famosi. 4 ai suoi: ai propri rap- 2 sozzopra: sottosopra. incaricano gli eredi di fare
2 in che... lavora: sui 77 presentanti (l’immagine 3-4 trattati... cuopra: dopo la loro morte, e che
quali agisce la ruota della 3 con speranza di mer- degli artigli d’aquila indica «trattati violati, che produ- questi non fanno. Altri in-
fortuna, col suo moto vario cede: con la speranza di la rapacità degli ammini- cono Ruine di cittadi (v. 1), e tendono: le elemosine ordi-
e imprevedibile (instabile). trarne benefici stratori dei principi e di congiure scoperte, che pro- nate solo in punto di morte,
3-4 ma di quel... ancora: 4 avari: avidi. quanti essi delegano ad ducono rovine di castelli e e quindi vane per la salvezza
ma intendo riferirmi anche 4 patroni: «protettori esercitare il potere). di coloro che le tramano» dell’anima» (Bigi).
a tutto ciò che la Fortuna potenti» (Bigi). 5 han... greppi: riem- (Caretti); l’espressione che sì 5 Di varii fiori... passa:
non ha potere di togliere 5 ascosi lacci: lacci na- piono i balzi del vallone lu- mal par che si cuopra vale passa presso un cumulo,
(tor) o di dare agli uomini. scosti (qui, come poi più nare. “malcelata”. grande come un monte, di
Segue l’elenco dettagliato. avanti, il concetto astratto 6 i fumi... e i favori: 6 di monetieri... l’opra: fiori diversi.
75 di adulazione – cfr. v. 6 – as- «onori vani» e favori (se- che costituiscono l’opera di 6 putia: puzzava.
4 che... loco: che non si sume l’aspetto di un ogget- condo Caretti); «i favori la- falsari e ladri. 7 il dono: la supposta do-
realizzano mai. to che ne indica la qualità di bili come il fumo» (cioè 7 boccie... sorti: bocce nazione di Costantino a pa-
7 ciò che... mai: insom- insidia occulta). un’endiadi, secondo Bigi). rotte di vario genere, che – pa Silvestro, su cui la Chiesa
ma tutto ciò che tu possa 7 cicale scoppiate: «per 7 ganimedi: favoriti. come coloro che prestano aveva fondato il proprio di-
mai aver perduto qui in terra essersi gonfiate, cantando, Ganimede era il coppiere servizio a corte – si gettano ritto al potere temporale. –
76 oltre misura» (Caretti). favorito di Giove. via quando non servono più. (se però dir lece): «Se è leci-
1 biche: mucchi. 78 8 che... poi: «favori che 80 to chiamarlo tale, cioè dono.
3 tumide vesiche: vesci- 1 ceppi: dove gli amanti se ne vanno, quando i favo- 2 domanda... ch’im- Altri intendono: se è lecito
che gonfie. sono incatenati. riti perdono [...] le qualità porte: chiede al suo maestro dir così,cioè esprimere que-
4 che dentro... grida: 2 mal seguiti: «Sfortu- che li rendono cari ai prin- di che si tratti, che cosa si- sto giudizio di condanna»
che parevano contenere tu- nati. Altri intendono: per- cipi» (Bigi). gnifichi. (Bigi).
multi e grida. seguiti a torto, per nostra 3-4 L’elemosina... morte:

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24. Ludovico Ariosto T 24.10

81. Vide gran copia di panie con visco, ma molto più maravigliar lo fenno
ch’erano, o donne, le bellezze vostre. molti ch’egli credea che dramma manco
Lungo sarà, se tutte in verso ordisco non dovessero averne, e quivi denno
le cose che gli fur quivi dimostre; chiara notizia che ne tenean poco;
che dopo mille e mille io non finisco, che molta quantità n’era in quel loco.
e vi son tutte l’occurenzie nostre:
sol la pazzia non v’è poca né assai; 85. Altri in amar lo perde, altri in onori,
che sta qua giù, né se ne parte mai. altri in cercar, scorrendo il mar, richezze;
altri ne le speranze de’ signori,
82. Quivi ad alcuni giorni e fatti sui, altri dietro alle magiche sciocchezze;
ch’egli già avea perduti, si converse; altri in gemme, altri in opre di pittori,
che se non era interprete con lui, et altri in altro che più d’altro aprezze.
non discernea le forme lor diverse. Di sofisti e d’astrologhi raccolto,
Poi giunse a quel che par sì averlo a nui, e di poeti ancor ve n’era molto.
che mai per esso a Dio voti non ferse;
io dico il senno: e n’era quivi un monte, 86. Astolfo tolse il suo; che gliel concesse
solo assai più che l’altre cose conte. lo scrittor de l’oscura Apocalisse.
L’ampolla in ch’era al naso sol si messe,
83. Era come un liquor suttile e molle, e par che quello al luogo suo ne gisse:
atto a esalar, se non si tien ben chiuso; e che Turpin da indi in qua confesse
e si vedea raccolto in varie ampolle, ch’Astolfo lungo tempo saggio visse;
qual più, qual men capace, atte a quell’uso. ma ch’uno error che fece poi, fu quello
Quella è maggior di tutte, in che del folle ch’un’altra volta gli levò il cervello.
signor d’Anglante era il gran senno infuso;
e fu da l’altre conosciuta, quando 87. La più capace e piena ampolla, ov’era
avea scritto di fuor: «Senno d’Orlando». il senno che solea far savio il conte,
Astolfo tolle; e non è sì leggiera,
84. E così tutte l’altre avean scritto anco come stimò, con l’altre essendo a monte.
il nome di color di chi fu il senno. [...]
Del suo gran parte vide il duca franco;

81 duto: con questo forse si in- 84 (irrazionalmente) apprezza inghiottito da una balena
1 panie con visco: trap- tende rimarcare ancor più la 2 di chi fu: di coloro ai più di tutto il resto. inviata da Alcina. L’accenno
pole per uccelli ricoperte di vanità e l’inconsapevolezza quali appartenne. 7 sofisti: filosofi. getta ovviamente una luce
vischio. degli uomini. 3 il duca franco: il duca 86 ironica sulla validità dello
4 dimostre: mostrate. 5-7 Poi... senno: poi giun- valoroso, oppure: franco 1 tolse: prese. stesso espediente sopranna-
6 l’occurenzie: le cose se a quella cosa che a noi (Astolfo era inglese, ma an- 2 lo scrittor... Apocalis- turale qui escogitato per far
«di cui abbiamo bisogno» (nui) pare di avere tanto che che paladino del re di Fran- se: san Giovanni, autore del- ricuperare la ragione ad Or-
(Caretti), oppure «le cose non si fecero mai voti a Dio cia e come tale potrebbe es- l’Apocalisse. lando» (Bigi).
che ci possono capitare» per riottenerlo, io intendo il sere denominato “franco”). 3 L’ampolla... messe: si 87
(Bigi). senno. 4 fenno: fecero. pose semplicemente sotto il 3 tolle: prende.
8 né se ne parte mai: e 8 solo assai... conte: che 5-7 ch’egli credea... poco: naso l’ampolla nel quale era 4 con l’altre... monte:
non se ne va mai via; perché da solo era molto più grande che egli credeva non doves- (in ch’era) contenuto il suo mentre si trovava sul monte
la pazzia, una volta contratta, di tutte le altre cose enume- sero averne neppure una senno. ammucchiata con le altre
non si perde più. rate sin qui. minima quantità (dramma) 5 Turpin: Turpino, la ampolle.
82 83 in meno, e che invece qui fonte immaginaria del Fu-
2 si converse: si rivolse. 1-2 suttile... esalar: legge- chiaramente dimostravano rioso.
3-4 che... diverse: e se non ro, molto fluido e volatile (denno... notizia) di posse- 7-8 ma... cervello: «L’A. ha
ci fosse stata con lui la sua (facile a evaporare). derne ben poco. probabilmente in mente un
guida (interprete) non avreb- 5-6 Quella... infuso: la più 85 episodio che egli stesso nar-
be riconosciuto le forme grande di tutte è quella in 1-2 Altri... altri: uno... un rerà nei Cinque Canti, IV, 54
che avevano preso qui sulla cui è racchiuso (infuso) il altro. sgg.:Astolfo, innamorato di
luna. Un individuo insom- tanto senno perduto dal fol- 3 ne le... signori: nelle una nobile dama, la fa rapire,
ma spesso non sa neppure le Orlando (signor d’Anglan- speranze riposte nei signori. ma il tentativo viene sventa-
che cosa siano le cose che te) 6 et altri... aprezze: e un to dal marito della dama; e
egli personalmente ha per- 7 quando: poiché. altro in altre cose che egli Astolfo, gettato in mare, è

865 © Casa Editrice Principato


Quattrocento e Cinquecento

Guida all’analisi
Il mondo lunare, specchio del mondo terreno e delle sue vanità Il mondo della luna ariostesco è il regno delle
cose vane, una «vanitas vanitatum d’ispirazione laica», come ha scritto Segre: dai beni mate-
riali alla fama che per quanto grande sia non resiste al tempo, dalle preghiere e dai voti fat-
ti a Dio (e non mantenuti) alle lacrime e ai sospiri degli amanti, dall’ozio degli uomini
ignoranti, dai vani disegni e dai vani desideri ai doni interessati, alle adulazioni, ai versi en-
comiastici, dai favori labili dei principi ai segreti altrettanto labili dei congiurati, dalla rapa-
cità dei falsari e dei ladri al servilismo dei cortigiani, dalle elemosine fatte in punto di mor-
te alla donazione di Costantino, chiamata ironicamente in causa accanto alle elemosine (la
donazione era in realtà un falso della Chiesa, come ben sapeva Ariosto). Questo coacervo di
cose vane, connesse fra loro allo scopo principale di mostrare di che cosa sia fatto il nostro
mondo, si trova, poi, su una luna che è concepita – forse non senza ulteriore malizia – sul
modello della terra, con fiumi, laghi, città e castelli e addirittura con ninfe cacciatrici che
abitano le selve (riferimento mitologico pagano: cfr. ott. 72, 1-8).
Assenza di una prospettiva trascendente L’espediente di far recuperare il senno a Orlando in modo così mira-
coloso e la menzione da parte di san Giovanni di un disegno provvidenziale per riportarlo
sulla retta via a svolgere la sua funzione di paladino della fede cristiana non vanno dunque
sopravvalutati. Non bisogna attribuire al poeta l’intenzione di avvalorare effettivamente la
presenza di un disegno provvidenziale nel destino umano, e al poema una finalità in qualche
misura edificante. Ciò appare chiaro nel complesso dell’invenzione, che manca completa-
mente di qualsiasi afflato religioso, di qualsiasi tensione al trascendente ed è condotta in un
registro prevalentemente comico-sarcastico. L’interesse di Ariosto si appunta inoltre, con spi-
rito polemico, soprattutto sul mondo terreno, sulla vanità dei desideri, delle speranze, delle
occupazioni, dei progetti degli uomini, e se un messaggio positivo c’è è quello, tutto laico, di
un invito alla moderazione, alla razionalità, alla consapevolezza di sé e dei propri limiti.
La dimensione iperbolica e fantastica del viaggio di Astolfo Tutta l’ascesa al mondo della luna, la stessa pro-
spettiva di recuperare il senno perduto è ricondotta nei limiti dei sogni e della fantasie dei
letterati. Ariosto ci fa capire che sta giocando e che a una pazzia iperbolica ha voluto con-
trapporre una soluzione altrettanto iperbolica. L’iperbole e la fantasia, più che la trascen-
denza, sono le chiavi giuste per leggere l’episodio. La salita al cielo della luna manca delle
implicazioni religiose e morali che aveva il viaggio di Dante: anche sul piano simbolico, no-
nostante le dichiarazioni di san Giovanni, pare una delle tante mete del disordinato vagare
degli uomini qua e là nel mondo terreno. Se ne esce occasionalmente per poi farvi ritorno
e tornare a essere soggetti a tutti i rischi e a tutte le incoerenze della vita terrena, che è sem-
pre e la sola reale prospettiva nell’orizzonte di Ariosto. Non c’è infatti davvero garanzia che
la riacquisizione miracolosa del senno sia una conquista duratura: si veda l’ammissione che
Astolfo stesso, dopo aver recuperato il proprio senno, tornò a perderlo (86, 7-8).

Laboratorio 1 Seguendo le indicazioni fornite nella assai negativo, ma – come sempre – il to-
COMPRENSIONE Guida all’analisi fai un elenco di ciò che no è lieve, distaccato e ironico: individua i
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE Astolfo trova sulla luna (le umane vanità) procedimenti che Ariosto adotta per
indicando i rispettivi passi del testo. smorzare, temperare le implicazioni ideo-
2 Il giudizio complessivo che in questo logiche negative presenti in questo epi-
passo Ariosto formula sull’agire umano è sodio.
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24. Ludovico Ariosto VERIFICA

VERIFICA

24.1 «Una saggezza dolorosamente sperimentata»


1 Illustra i dati salienti della biografia ariostesca e della sua carriera.
2 Quali difficoltà economiche Ariosto dovette affrontare? (R Doc 24.1 ).
3 Che giudizio dà Ariosto della sua esperienza di poeta cortigiano?
4 Con che animo accettò l’incarico di governatore in Garfagnana? (R Doc 24.2 ).

24.2 Le liriche latine e le Rime


5 Quali sono le caratteristiche essenziali della produzione lirica di Ariosto?
6 Che rapporti ha la sua poesia lirica con il petrarchismo: illustrali citando il R Doc 24.1 .

24.3 Le Satire
7 Che cosa sono le Satire? Quando vennero composte? Che argomenti trattano?
8 A quali modelli letterari attinge Ariosto per la composizione delle Satire?
9 In che senso si può dire che le Satire costituiscono un genere nuovo?
10 Uno dei temi privilegiati delle Satire è la rappresentazione del mondo cortigiano: che giu-
dizio ne dà Ariosto?
11 Christian Bec sostiene che Ariosto vagheggia nelle Satire «un diverso statuto dell’intellet-
tuale» a corte. Che cosa intende dire?

24.4 Le Commedie
12 Descrivi sinteticamente la produzione teatrale di Ariosto.
13 A quali modelli attinge Ariosto nel comporre le sue commedie?
14 In che senso ed entro quali limiti si può parlare di pessimismo per le commedie?

24.5 L’Orlando furioso e lo «spirito rinascimentale»


15 Illustra la genesi dell’Orlando furioso. Di quale opera vuol essere la continuazione?
16 Quante redazioni Ariosto lascia del Furioso e che caratteristiche hanno?
17 Riassumi l’intreccio del Furioso individuandone i principali nuclei tematici.
18 Benché il Furioso rievochi il mondo cavalleresco si è detto che il vero soggetto dell’opera è
l’uomo contemporaneo. In che senso?
19 Un concetto critico che si applica al Furioso è quello dell’«armonia faticosamente conqui-
stata». Illustrane il significato.
20 Illustra i rapporti (affinità e differenze) che il Furioso intesse con l’Innamorato.
21 In che senso l’idea di continuare l’Innamorato fu una scelta non scontata e difficile?
22 Come viene trattato il tema d’amore nel Furioso? Quale significato storico ha tale concezione?
23 Che cosa sono e come vengono trattati i temi della ventura e dell’inchiesta?
24 Che ruolo e che senso hanno i temi della magia e del caso?
25 In che modo Ariosto affronta il tema umanistico dei rapporti tra virtù e fortuna?
26 Che significato storico ha il tema della poesia menzognera?
27 Che cosa si intende con «funzione di regia»? Come la esercita Ariosto?
28 Quali sono i tratti salienti del linguaggio e dello stile del Furioso?
29 Che ruolo ha l’ironia nel Furioso?
30 Che cos’è l’entrelacement e in che modo viene adottato nel Furioso?
31 Che cosa si intende con «medietà tonale», a proposito dello stile del Furioso?

24.6 I Cinque canti


32 Quando vennero composti i Cinque canti e in che relazione stanno con il Furioso?
33 Quali argomenti trattano i Cinque canti e che visione del mondo trasmettono?
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Quattrocento e Cinquecento

VERSO
L’ESAME

L. Ariosto
Orlando furioso
Ariosto, Orlando furioso
a cura di E. Bigi, L’ultimo incontro di Orlando e Angelica [XXIX, 58-69]
Rusconi, Milano 1982

58. ... 62. Il giovine che ’l pazzo seguir ved


... la donna sua, gli urta il cavallo addosso,
Stando così, gli venne a caso sopra e tutto a un tempo lo percuote e fiede,
Angelica la bella e il suo marito, come lo trova che gli volta il dosso.
ch’eran (sì come io vi narrai di sopra) Spiccar dal busto il capo se gli crede:
scesi dai monti in su l’ispano lito. ma la pelle trovò dura come osso,
A men d’un braccio ella gli giunse appresso, anzi via più ch’acciar; ch’Orlando nato
perché non s’era accorta ancora d’esso. impenetrabile era et affatato.

59. Che fosse Orlando, nulla le soviene: 63. Come Orlando sentì battersi dietro,
troppo è diverso da quel ch’esser suole. girossi, e nel girare il pugno strinse,
Da indi in qua che quel furor lo tiene, e con la forza che passa ogni metro,
è sempre andato nudo all’ombra e al sole: ferì il destrier che ’l Saracino spinse.
se fosse nato nell’aprica Sïene, Feril sul capo, e come fosse vetro,
o dove AMmone il Garamante cole, lo spezzo sì, che quel cavallo estinse:
o presso ai monti onde il gran Nilo spiccia, e rivoltosse in un medesmo instante
non dovrebbe la carne aver più arsiccia. dietro a colei che gli fuggiva inante.

60. Quasi ascosi avea gli occhi ne la testa, 64. Caccia Angelica in fretta la giumenta,
la faccia macra, e come un osso asciutta, e con sferza e con spron tocca e ritocca;
la chioma rabbuffata, orrida e mesta, che le parrebbe a quel bisogno lenta,
a barba folta, spaventosa e brutta. se ben volasse più che stral da cocca.
Non più a vederlo Angelica fu presta, De l’annel c’ha nel dito si ramenta,
che fosse a ritornar, tremando tutta: che può salvarla, e se lo getta in bocca:
tutta tremando, e empiendo il ciel di grida, e l’annel, che non perde il suo costume,
si volse per aiuto alla sua guida. la fa sparir come ad un soffio il lume.

61. Come di lei s’accorse Orlando stolto, 65. O fosse la paura, o che pigliasse
per ritenerla si levò di botto: tanto disconcio nel mutar l’annello,
così gli piacque il delicato volto, o pur, che la giumenta traboccasse,
così ne venne immantinente giotto. che non posso affermar questo né quello;
D’averla amata e riverita molto nel medesmo momento che si trasse
pgni ricordo era in lui guasto e rotto. l’annello in bocca e celò il viso bello,
Gli corre dietro, e tien quella maniera levò le gambe e uscì de l’arcione,
che terria il cane a seguitar la fera. e si trovò riversa in sul sabbione.

58 (spiccia) il gran Nilo. Tutte 61 63 7 costume: proprietà.


3 gli venne... sopra: si località dell’Africa. 4 giotto: ghiotto. 3 che passa... metro: 65
imbatterono in lui (gli è ri- 60 62 che supera ogni misura, 1-2 o che... disconcio: o
ferito a Orlando). 5-6 non più... tutta: im- 3 lo percuote e fiede: lo smisurata. che perdesse l’equilibrio
59 mediatamente, non appena colpisce con violenza. 5 Feril: lo ferì (riferito al (lett. prendesse una posi-
5-7 se fosse... spiccia: se lo vide, Angelica si ritrasse 4 il dosso: la schiena cavallo). zione non ben acconcia).
fosse nato nella solatia As- da lui, tutta tremante. Lett. 5 Spiccar... crede: crede 64 3 traboccasse: ruzzolas-
suan, o dove i Garamanti non fu più rapida a vederlo di potergli staccare la tesa 4 se ben ... cocca: anche se, inciampasse.
venerano il dio Ammone, o che a ritrarsi da lui. dal corpo. se corresse veloce più che la
presso i monti da cui sgorga freccia scoccata da un arco.

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VERSO
24. Ludovico Ariosto L’ESAME

66. Più corto che quel salto era dua dita, 68. Con quella festa il paladin la piglia,
aviluppata rimanea col matto, ch’un altro avrebbe fatto una donzella:
che con l’urto le avria tolta la vita; le rassetta le redine e la briglia,
ma gran ventura l’aiutò a quel tratto. e spicca un salto et entra ne la sella;
Cerchi pur, ch’altro furto le dia aita e correndo la caccia molte miglia,
d’un’altra bestia, come prima ha fatto; senza riposo, in questa parte e in quella:
che più non è per rïaver mai questa mai non le leva né sella né freno,
ch’inanzi al paladin l’arena pesta. né le lascia gustare erba né fieno.

67. Non dubitate già ch’ella non s’abbia 69. Volendosi cacciare oltre una fossa,
a provedere; e seguitiamo Orlando, sozzopra se ne va con la cavalla.
in cui non cessa l’impeto e la rabbia Non nocque a lui, né sentì la percossa;
perché si vada Angelica celando. ma nel fondo la misera si spalla.
Segue la bestia per la nuda sabbia, Non vede Orlando come trar la possa;
e se le vien più sempre approssimando: e finalmente se l’arreca in spalla,
già già la tocca, et ecco l’ha nel crine, e su ritorna, e va con tutto il carco,
indi nel freno, e la ritien al fine. quanto in tre volte non trarrebbe un arco.

66 pure di procurasi col furto il fatto che Angelica è im- 69 come possa tirarla su (cioè
1-2 Più corto... dita: se la un’altra bestia, come già provvisamente scomparsa, 2 sozzopra: sottosopra, rimetterla in piedi e farla
caduta fosse stata anche so- aveva fatto in precedenza, gli si cela. a gambe all’aria. uscire dalla fossa).
lo di due dita più corta, si che questa che ora scappa 7 l’ha: l’ha afferrata. 4 nel fondo... si spalla: 8 quanto... un arco: per
sarebbe trovata avviluppata inseguita dal paladino non 68 nel fondo della fossa la po- una distanza superiore a tre
al folle Orlando, gli sarebbe la ritroverà mai più. 2 ch’un altro... donzel- vera cavalla si sloga una tiri d’arco (cioè per qual-
cioè andata addosso. 67 la: con cui un altro avrebbe spalla. che centinaio di metri).
5-8 Cerchi... pesta: cerchi 4 perché... celando: per preso una fanciulla. 5 come trar la possa:

Rispondi ai seguenti quesiti (o a quelli indicati dall’insegnante).

Analisi testuale COMPRENSIONE senso. Confrontalo con altri di cui ti ri-


COMPRENSIONE
01 Riassumi con parole tue la vicenda di cordi.
ANALISI
06 Anche in questo passo si nota la presenza
CONTESTUALIZZAZIONE
questo episodio, individuandone il moti-
della magia: dove e a che scopo viene in-
vo o i motivi fondamentali. trodotta?
02 Spiega chi è il marito di Angelica e co- 07 Che ruolo esercita il caso in questo epi-
me si sono incontrati. sodio?
03 Spiega le ragioni dell’aspetto e del com-
portamento di Orlando. CONTESTUALIZZAZIONE

08 Contestualizza questo episodio nel com-


ANALISI
plesso del poema e prova a definirne il
04 Analizza il comportamento di Orlando senso.
in tutto l’episodio. Ad esempio, perché si 09 Prova a definire il tono di questo episo-
disinteressa del cavaliere che lo insegue dio e confrontalo con altri che ti paiano
all’ott. 63? Quali ragioni spingono ora pertinenti per il paragone.
Orlando ad inseguire Angelica? Spiega il 10 In un quindicina di righe prova a spiega-
senso del paragone tra Orlando e il cane re, partendo da questo passo, il tratta-
(61, 7-8). mento della materia cavalleresca da parte
05 L’intervento del narratore all’ott. 65, 4 ha dell’Ariosto nel suo poema.
un valore, al solito, ironico: spiega in che

869 © Casa Editrice Principato


Quattrocento e Cinquecento

La lirica del Cinquecento


25
memorabile il suo canzoniere divenne a sua volta un
modello per moltissimi poeti cinquecenteschi. A parti-
re da Bembo tutti i canzonieri ambiranno ad essere
storia di un’anima secondo lo schema e l’evoluzione
petrarcheschi.
Seguendo la lezione del Bembo, il petrarchismo
cinquecentesco, permeato di neoplatonismo, si pro-
pone insomma come un’esemplare vicenda d’anime,
che attraverso l’esperienza d’amore mirano a cogliere
il senso di una bellezza trascendente: così facendo il
petrarchismo esprime un’autentica aspirazione a
comportamenti e forme di vita ideali tipicamente ri-
nascimentali.
Il petrarchismo diventa, per la sua diffusione e per
il carattere di moda che va assumendo presso i ceti
intellettuali, un fatto di costume: si scrive alla manie-
ra del Petrarca in ogni circostanza mondana e cultu-
rale, ci si atteggia secondo moduli del Canzoniere, si
porta sempre con sé il “petrarchino”. Non solo: esso
diventa anche il codice di base del sistema letterario,
costituisce per moltissimi il viatico all’apprendimento
della lingua colta e di quella letteraria in particolare.
Moltissimi e diffusi in ogni regione italiana sono i
lirici petrarchisti: tra questi anche molte donne (Ga-
spara Stampa, Vittoria Colonna, Isabella di Morra,
n Lorenzo Lotto, Ritratto di Con l’inizio del Cinquecento, specie per l’influsso ecc.), che non di rado sono fra le voci più originali
gentildonna. delle teorie e della pratica poetica di Bembo, il petrar- della poesia di quest’epoca, anche perché, pur ade-
chismo diventa il modello egemone della poesia liri- rendo di necessità al modello petrarchesco, ne ribal-
ca. Il Quattrocento si era caratterizzato per l’ibridismo tano alcuni stereotipi propri della cultura maschile,
linguistico, stilistico e tematico, e l’imitazione di Pe- immettendovi la propria femminile sensibilità e un
trarca era stata occasionale, spesso superficiale e ta- punto di vista divergente, con accenti talora più ge-
lora legata a motivi e stilemi di grande effetto ma tut- nuinamente realistici. Di rilievo, perché particolar-
to sommato marginali nel complesso del Canzoniere. mente intense ed eccentriche, sono anche le espe-
Bembo sostiene invece che l’imitazione di Petrarca rienze di Galeazzo di Tàrsia e di Michelangelo Buo-
debba essere integrale, debba scendere al fondo del- narroti.
la struttura del Canzoniere, della personalità, del Il petrarchismo travalica i confini nazionali e si
mondo morale e ideale, del linguaggio e dello stile di diffonde anche all’estero, in Spagna, in Inghilterra, in
Petrarca. Sul piano formale Petrarca gli appare un su- Francia, per il complessivo influsso della cultura rina-
premo maestro di armonia stilistica; su quello temati- scimentale italiana. Assai suggestiva in particolare è
co un maestro delle cose d’amore e il protagonista di l’esperienza poetica dei lirici francesi della Pléiade e
una profonda e tormentata ricerca morale e spiritua- di Ronsard in particolare, che fonde nella sua poesia
le, che egli legge e interpreta secondo il modello del- innumerevoli suggestioni classiche, di Petrarca e dei
l’amor platonico. Anche se Bembo non fu un poeta poeti rinascimentali italiani.

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25. La lirica del Cinquecento STORIA

25.1 Bembo e la rifondazione del petrarchismo


Dal petrarchismo “eretico” al petrarchismo “ortodosso” Il fatto saliente nella storia della poesia
lirica dei primi decenni del Cinquecento è l’affermarsi del Canzoniere petrarchesco
come modello pressoché esclusivo per la gran parte dei poeti attivi in questo periodo.
A tal proposito si è parlato del passaggio da un «petrarchismo eretico» a un «petrarchi-
smo ortodosso»; da una poesia cioè, com’era quella quattrocentesca, eclettica e ibrida,
a una poesia che viceversa fa di Petrarca l’auctor, l’autore per eccellenza e senza rivali.
Per comprendere meglio il senso di questa vicenda bisogna far capo nuovamente a
Pietro Bembo, figura veramente cardine del Rinascimento letterario – come abbiamo
visto – in quanto influente sostenitore della tesi del fiorentino letterario in campo lingui-
stico (R22.1), della teoria dell’ottimo modello in campo estetico (R22.2) e brillante di-
vulgatore della dottrina dell’amor platonico in ambito etico (R23.3).
L’imitazione esclusiva e integrale di Petrarca Il decisivo influsso di Bembo sulla poesia lirica si fon-
da su queste premesse. Il petrarchismo quattrocentesco era stato caratterizzato infatti
da un ibridismo linguistico, stilistico e tematico di fondo, e si era attenuto a un’imita-
zione occasionale, spesso superficiale e talora legata a motivi e stilemi di grande effet-
to ma relativamente marginali in Petrarca (la dialettica dei contrari, i virtuosismi stili-
stici da questa derivati ecc. R17.1). Bembo si oppone a questo orientamento. L’imita-
zione del Petrarca lirico, secondo Bembo, non deve essere occasionale e superficiale,
non deve riguardare singoli anche se vistosi stilemi, ma deve scendere, attraverso una
più diretta e perspicace lettura, al fondo della struttura del Canzoniere, della personalità,
del mondo morale e ideale, del linguaggio e dello stile di Petrarca.
Sul piano formale Petrarca appare a Bembo, oltre che perfetto esempio del fioren-
tino letterario, anche supremo maestro di armonia stilistica soprattutto in quanto ca-
pace a tutti i livelli (sintattico, metrico, ritmico e persino fonico e timbrico) di conci-
liare e fondere in perfetto equilibrio «gravità» e «piacevolezza», adottando costante-
mente il principio della variatio (variazione), in modo che la studiata regolarità del suo
stile non venga mai a noia, ma appaia invece naturale. Inutile dire che il raggiungi-
mento nella letteratura e nell’arte di una forma espressiva equilibrata e armonica è
uno dei supremi ideali estetici del Rinascimento.
L’imitazione di Petrarca, secondo Bembo, non si deve limitare agli aspetti formali.
Su questo piano egli interviene accreditando Petrarca, appunto, come maestro delle
cose d’amore, e anche come protagonista di una tormentata ricerca morale e spiritua-
le. Il Canzoniere gli appare insomma autorevole soprattutto come «libro di meditazio-
ne, come indicazione esemplare della virtù nell’errore» (Baldacci). Ovviamente a con-
tribuire alla definizione di questo modello interpretativo è in special modo il platoni-
smo cristiano esposto negli Asolani, basato su una concezione dell’amore che progres-
sivamente si stacca dalla bellezza materiale e terrena per attingere a quella ideale ed
eterna. Tutto ciò, nella prassi poetica si manifesta come adesione alla struttura di fondo
del Canzoniere, in quanto storia di un’anima, storia cioè delle illusioni, degli errori gio-
vanili, dell’assoggettamento alle passioni in vista di un progressivo, sofferto e definitivo
abbandono in Dio. A partire da Bembo questo elemento strutturale diviene una delle
norme del petrarchismo cinquecentesco: tutti i canzonieri ambiranno ad essere storia
di un’anima secondo lo schema e l’evoluzione petrarcheschi.
Le Rime di Bembo: dalla teoria alla prassi del classicismo rinascimentale A giudizio della cri-
tica novecentesca, la lirica del Bembo di rado raggiunge risultati davvero memorabili.
È però certamente un alto e consapevole esercizio di umanità e di stile, una prova de-
cisiva nell’elaborazione culturale rinascimentale per le sue implicazioni e per la sua
fortuna nel corso del secolo. Pure Bembo, in verità, con le liriche incluse negli Asola-
ni del 1505 esordisce nelle forme ancora convenzionali, lievi e talora superficiali e vir-
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Quattrocento e Cinquecento

tuosistiche del petrarchismo quattrocentesco. Tuttavia già nel 1507, con la canzone Al-
ma cortese in morte del fratello, in cui adotta un registro grave e sublime, comincia ad
approfondire e a rendere più sincera e intensa la rappresentazione dei sentimenti e
delle situazioni, come farà poi nelle liriche della maturità. Infine, raccogliendo i suoi
testi in un canzoniere organico (Rime, 1530 e 1535), giunge effettivamente a realizza-
re in modo esemplare il suo ideale di «imitazione integrale» dell’esperienza umana e
stilistica di Petrarca. Sin dalla struttura le Rime si presentano come la «storia di un’ani-
ma», nel cui svolgimento trovano posto i momenti topici mutuati dal modello (senti-
mento della natura, gioie e sofferenze d’amore, illusioni e delusioni, pentimento, ri-
flessione sul proprio stato, sul fluire del tempo, sulla morte e così via). In questo ambi-
to si possono cercare e trovare i momenti alti dell’arte e quelli profondi dell’ispirazio-
ne: frammenti di testi e testi come Arsi Bernardo, in foco chiaro e lento o Quando, forse per
dar loco alle stelle o altri ancora. Ma è certo che l’importanza storica di Bembo, la sua
centralità nella cultura rinascimentale si fonda più sul piano della critica e della poeti-
ca che su quello della poesia, e per quest’ultima più sul modello complessivo che sui
singoli momenti che noi oggi possiamo reputare felici [R T 25.1-2 ].

25.2 Il petrarchismo cinquecentesco


Il petrarchismo come fatto di costume Con il diffondersi capillare delle accademie, l’allargarsi del-
la società letteraria, l’estendersi della produzione a stampa, il petrarchismo diventa an-
che un fatto di costume. Tutti i letterati fanno esperienza di questo codice poetico
nelle circostanze più disparate. Per nascite, morti, matrimoni di personaggi in vista; nei
rapporti amorosi, negli scambi epistolari, in margine a discussioni accademiche; per
accompagnare un dono o salutare la stampa di un libro, per richiedere donativi e fa-
vori o per ringraziare; nella conversazione salottiera, talora improvvisando, o per la
carta stampata si compongono sonetti, ballate, canzoni alla maniera petrarchesca. Por-
tar con sé il “petrarchino” (un Canzoniere di piccolo formato), ispirarsi a Petrarca negli
atteggiamenti e nel linguaggio diviene così una pratica corrente.
Naturalmente solo una parte di questa produzione può aspirare a superare l’occa-
sionalità delle circostanze. Comunque sia, il fenomeno nel suo complesso è di notevo-
le portata storica e quantitativamente imponente. Si moltiplicano le stampe del Can-
zoniere di Petrarca, accompagnate da glossari, rimari e commenti; si cominciano a
pubblicare anche nuovi canzonieri e miscellanee di componimenti scritti per le più
svariate occorrenze e ricorrenze.
Il petrarchismo come codice di base del sistema letterario Garantito dalla capillare diffusione
che abbiamo appena descritto, il linguaggio del petrarchismo diventa anche «un preli-
minare strumento istituzionale di poesia» (Ponchiroli), diventa cioè il codice letterario
principe, base di ogni altra esperienza letteraria o addirittura «il sistema linguistico di
tutti gli alfabeti» (Quondam), dato che società alfabetizzata e società letteraria coinci-
dono.
Il petrarchismo, veicolo ideale della concezione dell’amor platonico In un’ottica più specifi-
camente letteraria la fortuna del petrarchismo si spiega sulla base di alcune sue ca-
ratteristiche intrinseche. Sul piano tematico la vicenda di un amore che si nutre di
sospiri, di ricordi, di immagini mentali, di languide contemplazioni, di idoleggia-
menti della persona amata, degli oggetti e dei luoghi delle sue “epifanie”, doveva fa-
cilmente farsi veicolo di una concezione platonizzante dell’amore che in quegli an-
ni furoreggiava. D’altro canto la vicenda di un amore terreno nutrito di ansie, sospi-
ri, ardori, errori, che col trascorrere del tempo vien giudicato come traviamento e
lascia il posto a un progressivo riaccostamento penitente a Dio doveva apparire
esemplare anche per le componenti cristiane di quella cultura e di quella sensibilità.
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25. La lirica del Cinquecento STORIA

Si aggiunga che le due interpretazioni – platonizzante e cristiana – convivevano, ora


fondendosi ora legandosi, in un rapporto dialettico, com’era proprio della civiltà
umanistico-rinascimentale.
Il petrarchismo cinquecentesco, permeato di neoplatonismo, si propone dunque
anche come un’esemplare vicenda d’anime, che attraverso l’esperienza d’amore mira-
no ad elevarsi, a cogliere il senso della bellezza e della bontà divina: il petrarchismo in-
somma, attraverso una vicenda di ingentilimento e di perfezionamento spirituale,
esprime un’autentica aspirazione a comportamenti e forme di vita ideali tipicamente
rinascimentali.
Petrarca e l’ideale rinascimentale di armonia ed equilibrio Sul piano poi dello stile il petrar-
chismo bembiano doveva fornire ai poeti del tempo un’immagine di Petrarca come
di colui che era riuscito a realizzare per mezzo di una forma equilibrata e armonica
il dominio razionale delle passioni, che era una delle più grandi aspirazioni estetiche
dell’intero Rinascimento. Petrarchismo, in conclusione, non significa solo rigida imi-
tazione di temi, stilemi, tòpoi del Canzoniere, ma anche e soprattutto espressione del-
la cultura e degli ideali rinascimentali attraverso situazioni spirituali e atteggiamenti
stilistici affini a quelli petrarcheschi.
Una difficile originalità I poeti rinascimentali si dimostrano ora più ora meno capaci di far proprie le
ragioni più intime e profonde dell’esperienza petrarchesca, di riviverne autenticamen-
te sensibilità e linguaggio, di trasferire la propria esperienza e la propria umanità in
quelle strutture e in quel linguaggio. E visto che era questa essenzialmente la via per
conquistarsi un’originalità nell’imitazione, si danno vari gradi di originalità, di capacità
di non far scomparire totalmente la propria voce nella voce del maestro e di crearsi
uno spazio di autenticità e autonomia. Non si creda però, per un abito mentale e cul-
turale contemporaneo, che questa via fosse comunque preclusa. In una cultura e in
un’età così diversa dalla nostra, abituata a edificare la propria immagine sulle fonda-
menta di un culto dell’antico, la possibilità di essere autentici e in qualche misura ori-
ginali attraverso l’imitazione esisteva spesso anche nei momenti di più intima adesione
al modello. Se non si accetta come un fatto questa attitudine e abitudine mentale, ci si
preclude la via alla comprensione di tutta, o quasi, la letteratura rinascimentale.
I principali centri di produzione lirica e i singoli poeti Si compone ovunque, nel Cinquecento,
ma è tuttavia possibile individuare alcuni centri più vitali come Venezia, patria di
Bembo, Firenze, dove si concentrano alcuni dei petrarchisti più eclettici, forse per il
particolare senso della tradizione linguistica e letteraria locale, e Napoli, dove fruttifica
la lezione sannazariana, vicina a quella bembesca.
Quanto ai singoli, ricorderemo almeno Bernardo Cappello (1498-1565), Gaspara
Stampa (1523-1554), autrice di un canzoniere fra i più acclamati e appassionati del se-
colo e più inclini «a soluzioni di tipo classico» (Baldacci), e Bernardo Tasso (1493-
1569), d’area veneziana; Matteo Bandello (1485-1561) e Veronica Gambara (1485-
1550) d’area padana; Luigi Alamanni (1495-1551), Lodovico Martelli (1503-1531),
Tullia d’Aragona (1510-1556) e su posizioni più originali Benedetto Varchi (1503-
1561) e Michelangelo Buonarroti (1475-1564) d’area fiorentina, a cui si aggiungono il
senese Claudio Tolomei (1492-1557), il lucchese Giovanni Guidiccioni (1500-1541) e
il perugino Francesco Beccuti detto il Coppetta (1509-1553); infine Francesco Maria
Molza (1489-1544) e Vittoria Colonna (1490-1547) d’area romana; d’area napoletana
Isabella di Morra (m. 1546), Luigi Tansillo (1510-1568) e Galeazzo di Tàrsia (1520-
1553), accreditato fra i maggiori poeti dell’età sua.
Le poetesse Un fatto notevole è che nel corso del Cinquecento possiamo annoverare anche un
numero consistente di poetesse. Molte sono le circostanze che favoriscono in quest’età
una più attiva presenza delle donne in ambito letterario. Il rinnovamento culturale, ta-
lora anche abbastanza spregiudicato, di una società che si accentra sulla corte dove si
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Quattrocento e Cinquecento

vive in modo raffinato e dove la donna sovente assume un ruolo determinante, dive-
nendo cerimoniera e protagonista delle conversazioni che vi si tengono; la diffusione
dell’alfabetizzazione, che nell’ambiente di corte è sentita sempre più come una necessità,
coinvolge per la prima volta in modo abbastanza massiccio anche le donne (nobili o
cortigiane); la diffusione della stampa moltiplica le occasioni di lettura; la fortuna di temi
come l’amor platonico e più in generale le discussioni sull’amore che attribuiscono alla
donna il ruolo di tramite dell’esperienza intellettuale: sono questi solo alcuni dei fattori
che favoriscono un protagonismo delle donne in ambito letterario.
Il genere lirico su tema amoroso è l’ambito in cui le scrittrici si cimentano con mi-
gliori risultati. E anzi, proprio nell’ambito di un’esperienza poetica per molti versi
omogenea, le donne apportano un contributo di sensibilità particolare e un punto di
vista che sovente dà alla lirica una nota di originalità apprezzabile anche oggi. Si tenga
inoltre presente che il codice petrarchesco era rigidamente impostato, com’è ovvio, su
una sensibilità maschile e su numerosi stereotipi della cultura maschile anche d’ascen-
denza cristiana-medievale (ad esempio la visione della donna e dell’amore come una
tentazione, per quanto non più repressa, che drammaticamente allontana da Dio): la
donna rinascimentale, per sensibilità, educazione e cultura non può condividere questa
visione negativa, o quanto meno problematica dell’amore, che viceversa è l’esperienza
fondamentale della sua vita. Pertanto i canzonieri delle poetesse, che pure di necessità
accedono alla poesia attraverso il codice petrarchesco egemone, introducono sovente
elementi di dissonanza e conflittualità con il codice stesso, che accentuano, talora an-
che in modo drammatico, i caratteri originali di questa esperienza [R T 25.3-4 ].
La maggior poetessa di quest’epoca è probabilmente la padovana Gaspara Stampa
(1523-1554), ma risultati notevoli raggiungono anche le altre scrittrici sopra citate
(Veronica Gambara, Vittoria Colonna, Isabella di Morra).

Doc 25.1 Gaspara Stampa, Piangete, donne, e con voi pianga Amore

2 lui, che: l’uomo ama- Piangete, donne, e con voi pianga Amore
to dalla Stampa (il conte poi che non piange lui, che m’ha ferita
Collaltino di Collalto). sì, che l’alma farà tosto partita
3-4 sì… fuore: così che
l’anima mia presto abban- 4 da questo corpo tormentato fuore.
donerà il mio corpo (se ne E, se mai da pietoso e gentil core
uscirà fuori dal corpo). l’estrema voce altrui fu essaudita,
5-6 se… essaudita: se mai
l’estrema volontà di una dapoi ch’io sarò morta e seppellita,
persona venne esaudita da 8 scrivete la cagion del mio dolore:
un cuore pietoso e nobile. «Per amar molto ed esser poco amata
8 scrivete: sulla tomba
(quel che segue è l’imma- visse e morì infelice, ed or qui giace
ginario epitaffio). 11 la più fedel amante che sia stata.
12 Pregale, viator: prega
per lei, o viandante (che
Pregale, viator, riposo e pace,
leggi questo epitaffio). ed impara da lei, sì mal trattata,
14 crudo: crudele. 14 a non seguir un cor crudo e fugace».

▍ L’autore Gaspara Stampa

Gaspara Stampa, di nobile famiglia milanese, nacque a Padova nel 1523 circa. Trasferitasi a
Venezia con la famiglia, là «partecipò alla vita colta e mondana» (Baldacci). Poco di preciso si
sa della sua vita, che ha come fatto anche letterariamente saliente la relazione con il conte
Collaltino di Collalto, che le ispirò il Canzoniere. Morì assai giovane nel 1554, anno dell’edi-
zione postuma delle Rime.

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25. La lirica del Cinquecento STORIA

Alcuni eccentrici del medio Cinquecento: Galeazzo di Tàrsia Fra le tante personalità che si de-
dicarono alla lirica spiccano per la lor originalità due poeti medio-cinquecenteschi:
Galeazzo di Tarsia e Michelangelo Buonarroti.
Dell’opera di Galeazzo di Tàrsia (1520-1553), barone di Belmonte in Calabria, at-
tivo come poeta nell’età del concilio di Trento, ma edito solo nel Seicento, si sono da-
te nel tempo interpretazioni assai divergenti. La difficoltà di una precisa e unanime
collocazione dell’opera del Tàrsia è forse l’indizio più significativo della sua originalità,
che la più recente critica ha sottolineato con vigore. Certo, come tutti all’età sua, pre-
se le mosse dall’esperienza del petrarchismo bembiano, di cui riecheggia motivi e to-
ni, ma si segnala più per la «forza quasi istintiva» del suo ingegno (Bonora) che per la
raffinata elaborazione formale. Si è potuto così insistere sulla «personale immaginazio-
ne» che ispira la sua poesia, sulla predilezione per «simboli di forte consistenza plastica»
e su un’intonazione che è tutta tesa «verso una grandiosità drammatica» (Bonora), spe-
cie nei celebrati sonetti in morte della moglie [R T 25.5 ].

Doc 25.2 Galeazzo di Tàrsia, Donna, che di beltà vivo oriente

Donna, che di beltà vivo oriente


fosti ed al fianco mio fidato schermo,
e quasi incontra il mondo saldo e fermo
4 scoglio che forza d’aquilon non sente,
dopo il ratto inchinarti in occidente,
risguarda in questo colle oscuro ed ermo,
ove piangendo vo, stanco ed infermo,
8 i capei biondi e l’alme luci spente.
E se del tuo sparir quinci m’increbbe,
vedrai nel mezzo del mio cor diviso
11 come il dolor viè più con gli anni crebbe.
Tempo ben di scovrir nel tuo bel viso
altr’aurora, altro sole, omai sarebbe,
14 e riposarmi nel tuo grembo assiso.
1 di beltà vivo oriente: 2 schermo: riparo, pro- na (il tuo tramontare ad oc- 9 se… m’increbbe: se rituale (allusione al ricon-
viva, solare fonte di bellezza tezione. cidente). soffersi per la tua morte giungimento ultraterreno
(la metafora dell’oriente al- 4 aquilon: vento setten- 6 ermo: solitario. (sparir quinci, scomparire da con la moglie).
lude al sorgere del sole in trionale. 8 l’alme luci: i tuoi oc- qui).
contrapposizione a quella 5 dopo… occidente: chi fecondi (alme, latinismo, 13 altr’aurora, altro sole:
dell’occidente al v. 5). dopo la tua morte repenti- “che danno vita”). una rinascita, una luce spi-

▍ L’autore Galeazzo di Tàrsia

Poco di certo si sa di Galeazzo di Tàrsia, barone di Belmonte in Calabria. Nacque nel suo
feudo verso il 1520; venne processato e mandato al confino per angherie nei confronti dei
suoi sudditi, come pare; perse la moglie Camilla nel 1549; nel 1553 venne assassinato. Quasi
tutte le sue rime vennero pubblicate postume solo nel 1617.

Michelangelo Buonarroti Michelangelo Buonarroti (1475-1564) ancor più di Galeazzo di Tarsia ap-
pare isolato ed eccentrico rispetto ai più tipici esiti del petrarchismo coevo. Come si
sa, fu scultore e pittore prima e più che letterato e le sue liriche, nonostante il fascino
misterioso che hanno esercitato su varie generazioni di lettori, sono sicuramente la
minore fra le sue attività d’arte. Certo egli ebbe cultura umanistica e frequentò am-
bienti letteratissimi come la corte laurenziana in giovinezza e quella romana nella
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Quattrocento e Cinquecento

maturità, ma la sua poesia pare conservare, come già vide Foscolo, un carattere essen-
zialmente privato: sono «appunti per la memoria» (Baldacci), frammenti di un intimo
dialogo con se stesso. «Buonarroti fu un petrarchista difficile, che portava la lingua
poetica lontano dalle leggi d’armonia e d’equilibrio dominanti al suo tempo, a un co-
lorismo cupo, a una musica di suoni aspri e rotti, non di rado a un’oscurità, che solo in
parte forse era voluta» (Bonora).
Sta di fatto che in alcuni momenti la sua lirica raggiunge un’intensità e un’imme-
diatezza di sentimento, insolita nella produzione del tempo. Su questa forza espressiva
non comune e, anzi, proprio sulla consapevolezza della sua ricerca stilistica hanno in-
sistito quanti hanno approfondito e rinnovato la critica michelangiolesca. Walter Bin-
ni, ad esempio, individua in una continua tensione a un inattingibile assoluto la «fon-
damentale situazione drammatica» che è fonte della sua poesia e che lo porta a ricer-
care con piena consapevolezza la concentrazione dei significati. Michelangelo, anzi,
mostrerebbe quasi «disprezzo» per le esigenze di rigorosa articolazione interna del di-
scorso, di scorrevolezza e di chiarezza, sentite da quasi tutti i lirici del suo tempo. Se in
alcuni momenti, poi, la sua poesia eccede nel «virtuosismo concettistico e metaforico»,
nelle ultime e forse massime liriche essa approda a un linguaggio che riesce a com-
pendiare asprezza e chiarezza, proprio affrontando temi come la crudeltà dell’amore, il
sentimento angoscioso della vecchiaia e del declino fisico, il senso della morte, l’ansia
di assoluto.

▍ L’autore Michelangelo Buonarroti

Michelangelo Buonarroti nacque nel 1475 a Caprese (Arezzo). A 13 anni entrò nella botte-
ga fiorentina di Domenico Ghirlandaio e poco dopo nella Scuola del Giardino di San Mar-
co, dove apprese l’arte rispettivamente della pittura e della scultura. In questi anni frequenta
l’ambiente mediceo. Con la caduta dei Medici nel 1494, si reca a Venezia, Bologna e quindi,
nel 1496, a Roma dove si ferma fino al 1501 e scolpisce la Pietà. Rientra quindi a Firenze
dove scolpisce il David e dipinge fra l’altro la Madonna col bambino. Nel suo secondo sog-
giorno romano, a partire dal 1505, lavora all’affresco della Cappella Sistina e alla tomba di
Giulio II, di cui appronta il Mosè e gli Schiavi. A Firenze, dove risiede periodicamente in al-
ternanza con Roma, dal 1513 al 1534 lavora alle Tombe medicee e alla Biblioteca laurenzia-
na. Stabilitosi definitivamente a Roma, tra il 1536 e il 1541 porta a termine il Giudizio uni-
versale della Cappella Sistina, che suscita numerose polemiche. Nonostante ciò gli è affidata la
direzione dei lavori per la costruzione della basilica di San Pietro, per cui progetta la cupola.
Negli ultimi anni lavora a diverse opere architettoniche e urbanistiche e scolpisce tre altre
Pietà (di Palestrina, del duomo di Firenze, e la Rondanini, oggi a Milano) che testimoniano,
assieme alle liriche di questi ultimi anni, una fase di più assorta meditazione religiosa. Muo-
re a Roma nel 1564. La sua produzione letteraria consta, oltre alle Lettere, di circa trecento
liriche che non raccolse mai personalmente, ma che vennero edite dal nipote Michelangelo
il Giovane nel 1623.

25.3 L’esportazione del petrarchismo in Francia


I letterati francesi discutono sulla «lingua poetica» Il petrarchismo italiano esercita una grande
suggestione in ambito europeo, assumendo ovviamente specifiche connotazioni nelle
varie aree nazionali: si possono annoverare un petrarchismo spagnolo, uno inglese e
uno francese, su cui ci soffermiamo a titolo d’esempio. Nei primi decenni del Cin-
quecento tra i letterati francesi è assai vivo il dibattito sulla “lingua poetica”, ossia su
come realizzare (quali le norme, quali i modelli) una lingua poetica nazionale che ac-
colga la sapienza tecnica dei modelli classici, si differenzi per dignità dalla prosa, sia
frutto di paziente e scaltrita applicazione. In questo contesto, Joachim du Bellay pub-
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25. La lirica del Cinquecento STORIA

blica nel 1549, in collaborazione con Pierre de Ronsard, la famosa Difesa e illustrazio-
ne della lingua francese, un testo la cui importanza in Francia è paragonabile a quella
delle teorizzazioni di Bembo in Italia. Fra i tanti suggerimenti che la Difesa offre –
leggere e rileggere gli antichi, i latini e i greci, considerati come insuperabili modelli
di bellezza; abbandonare i vecchi generi poetici francesi; tendere ad uno stile poetico
che per la scelta del lessico e delle figure retoriche si differenzi il più possibile dalla
prosa; badare molto all’armonia del verso, data la stretta parentela fra musica e poesia –
uno ci sembra, ai fini del nostro discorso, di particolare interesse: la raccomandazione,
e per così dire la consacrazione dell’uso del sonetto (che già era stato introdotto nella
poesia francese da un contemporaneo, Clément Marot), definito «invenzione italiana
non meno dotta che suggestiva».
Il petrarchismo francese e Ronsard Nasce in questo contesto il petrarchismo francese.Va ricordato
anzitutto un gruppo di poeti che operano a Lione (città che per la sua stessa posizio-
ne geografica poteva fungere da legame tra cultura francese e italiana, «porta d’Italia»
come veniva definita), fra i quali spicca soprattutto una donna, Louise Labé (1525?-
1565). Qualche tempo dopo, nel 1556, si costituisce a Parigi il gruppo della Pléiade, i
cui esponenti più importanti sono Joachim du Bellay (1522-1560) e soprattutto Pier-
re de Ronsard (1524-1585). La produzione di quest’ultimo è molto varia, ma qui in-
teressano le sue liriche d’amore dove del resto egli realizza i suoi risultati più suggesti-
vi e più duraturi, gli Amori (1552) pubblicati nel 1552 e dedicati a Cassandra Salviati,
figlia di un banchiere fiorentino fuggevolmente vista a una festa (una situazione pe-
trarchesca...); una Continuazione degli Amori, pubblicata nel 1555 e una Nuova continua-
zione del 1556. Poeta della bellezza femminile, vagheggiata e nel contempo sentita co-
me inaccessibile, con una oscura coscienza della non corrispondenza e dell’esclusione,
Ronsard è, secondo una felice definizione di Macchia, il «poeta della rosa», ossia il
poeta che in celebri sonetti, attraverso l’immagine della rosa destinata a sfiorire, rap-
presenta la bellezza e la felicità minacciate dall’insidia del tempo e destinate, come la
rosa, malinconicamente, a trascorrere, a sfiorire [R T 25.8 ]. Nella lirica amorosa di
Ronsard non c’è mai l’urgenza della passione, ma c’è quasi la contemplazione della
passione: la riflessione sul tempo, sulla precarietà del contingente è un sottofondo
continuo. Era questo, assieme all’equilibrio formale, l’apporto più notevole della lezio-
ne di Petrarca, del quale però egli riprendeva anche certe modalità artificiose.

n Toussaint Dubreuil, Scena


per il terzo libro della Francia-
de di Ronsard.

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Quattrocento e Cinquecento

T 25.1 Pietro Bembo, Rime ed. 1530, 1535


La fera che scolpita nel cor tengo [XCIV]
P. Bembo Bembo contribuì in modo decisivo all’affermarsi del classicismo e in particolare del pe-
Prose e rime trarchismo rinascimentale non solo con la sua attività di critico e di teorico, ma anche
a c. di C. Dionisotti, con il suo concreto esempio in campo poetico. Questo che ora proponiamo è un so-
UTET, Torino 1960
netto della maturità. Secondo l’ipotesi di Dionisotti venne composto dopo il 1530. Il
tema è quello, tutto petrarchesco, della donna che, quasi fiera, si sottrae all’amante che
a sua volta deve constatare che anche il tempo è fuggito e la morte ormai s’appressa.

La fera che scolpita nel cor tengo,


così l’avess’io viva entro le braccia:
fuggì sì leve, ch’io perdei la traccia,
4 né freno il corso, né la sete spengo.

Anzi così tra due vivo e sostengo


l’anima forsennata, che procaccia
far d’una tigre sciolta preda in caccia,
8 traendo me, che seguir lei convengo.

E so ch’io movo indarno, o penser casso,


e perdo inutilmente il dolce tempo
11 de la mia vita, che giamai non torna.

Ben devrei ricovrarmi, or ch’i’ m’attempo


et ho forse vicin l’ultimo passo:
14 ma piè mosso dal ciel nulla distorna.

Nota metrica plastica: l’immagine della 5-8 Anzi... convengo: an- che caccia il poeta e il poeta gere un luogo riparato. –
Sonetto, secondo lo sche- donna è nitidamente im- zi io vivo tra due contra- – poveretto! – che a sua vol- m’attempo: sto invec-
ma ABBA,ABBA, CDE, pressa nell’amante ma, stanti sentimenti (l’amore e ta vorrebbe catturarla; lei chiando.
DCE. ahimè, è solo un’immagine, il desiderio di pace) e trat- del v. 8 potrebbe riferirsi 13 l’ultimo passo: natu-
ché la donna reale si è sot- tengo l’anima forsennata, tanto a tigre quanto ad ani- ralmente, la morte.
tratta a lui. che cerca di catturare (far... ma; convengo può voler dire 14 piè... distorna: niente
1 La fera... tengo: quella 4 né freno il corso: e preda), cacciandola, una ti- “acconsento” o “sono co- può distogliere dal cammi-
fiera (è metafora petrarche- tuttavia io non desisto dal- gre in libertà (sciolta), trasci- stretto”. no un piede che sia mosso
sca per indicare la donna) l’inseguimento; «diciamo nando me, che acconsento 9 E so... casso: e so bene dal cielo, e cioè niente può
che è scolpita nel mio cuo- l’inseguimento; ma l’im- a seguirla.Versi di non facile che io mi incammino inva- impedire il suo fatale inse-
re. Scolpita connota al tem- magine è più vaga ed è pre- interpretazione: in caccia no (per quest’impresa), o guimento.
po stesso freddezza, assenza sente anche nel Petrarca» potrebbe anche connetter- pensiero «del tutto annulla-
di vita (in antitesi con il viva (Baldacci). – sete: metafora si con sciolta, il che farebbe to, oscurato» (Baldacci).
del v. 2) ma anche evidenza per “desiderio”. risaltare l’antitesi fra la tigre 12 ricovrarmi: raggiun-

Guida all’analisi
Un esempio di imitazione non superficiale del modello Questo sonetto è un esempio della concezione profon-
da e complessa di imitazione-emulazione a cui approda il Bembo maturo. Il testo petrar-
chesco di riferimento è Questa humil fera (Canzoniere, CLII).
Negli anni giovanili Bembo, come molti suoi contemporanei, nel prendere a modello
un sonetto come questo di Petrarca avrebbe certamente sviluppato le potenzialità retoriche
del motivo delle «varietà» contrastanti degli stati d’animo, dell’incostanza dei sentimenti (in
particolare le numerose antitesi: «vista humana … forma d’angel», «in riso e ’n pianto, fra pau-
ra et spene», «non m’accoglie o non mi smorsa», ma soprattutto «’n un punto arde, agghiaccia, ar-
rossa e ’nbianca»). Ora, viceversa, Bembo non si lascia attrarre dal facile e superficiale gioco
retorico che infinite volte riecheggia nella lirica petrarchistica quattro-cinquecentesca (è
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25. La lirica del Cinquecento T 25.1

appena accennato, molto sobriamente al v. 4 «né freno il corso, né la sete spengo»), ma mira
a cogliere in modo più profondo e meno appariscente lo spirito del modello, sviluppando,
in modo riflessivo, il tema della fuga del tempo (vv. 10-11) e della vanità di una passione a
cui però non si può resistere (vv. 12-14).
Siamo di fronte con questo sonetto – come ha sostenuto Baldacci – a una delle prove
più elaborate di Bembo e anzi della lirica cinquecentesca, in cui il petrarchismo non si-
gnifica solo riecheggiamento di qualche superficiale modulo retorico-stilistico ma volontà
di confrontare e compenetrare la propria vicenda umana con quella dello scrittore preso a
modello.

Doc 25.3 Petrarca, Questa humil fera

Questa humil fera, un cor di tigre o d’orsa,


che ’n vista humana e ’n forma d’angel vène,
in riso e ’n pianto, fra paura et spene
4 mi rota sì ch’ogni mio stato inforsa.

Se ’n breve non m’accoglie o non mi smorsa,


ma pur come suol far tra due mi tene,
per quel ch’io sento al cor gir fra le vene
8 dolce veneno, Amor, mia vita è corsa.

Non pò più la vertù fragile et stanca


tante varietati omai soffrire;
11 che ’n un punto arde, agghiaccia, arrossa e ’nbianca.

Fuggendo, spera i suoi dolor’ finire,


come colei che d’ora in hora manca;
14 ché ben pò nulla chi non pò morire.

1 Questa humil… (mette in forse ogni condi- 7-8 per… corsa: la mia vi- (virtù, v. 9) fuggendo, spera
d’orsa: questa fiera man- zione stabile). ta è giunta al fine (è corsa) a di porre termine a suoi do-
sueta (all’apparenza, ma in 5 non… smorsa: non causa di quel dolce veleno lori, dato che sta smorzan-
realtà dotata di) un cuore mi accoglie nel suo amore o che io sento scorrere nelle dosi di ora in ora,perché chi
di tigre o di orsa. non mi libera da esso (smor- vene e andare al cuore. non può morire è davvero
3-4 in riso… inforsa: fra sa, mi toglie il morso, oppu- 10 varietati: stati con- impotente (ben pò nulla; nel
riso e pianto, fra paura e re: smette di mordermi). traddittori. senso che chi può morire
speranza, mi travolge (rota) 6 tra due: nell’incertez- 12-14 Fuggendo… mori- almeno può sfuggire al do-
così che mi rende instabile za. re: il mio principio vitale lore).

Laboratorio 1 Rispondi oralmente: chi è la fera e che «rima petrosa»? Quali caratteristiche del
COMPRENSIONE azioni compie nel sonetto? La fera e la ti- testo possono motivare una simile defini-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE gre sono epiteti riferiti ad una stessa per- zione?
sona? Come giudica il poeta la sua “cac- 4 Approfondisci il confronto tra il sonetto
cia”? A che cosa aspira il poeta? petrarchesco Questa humil fera e questo di
2 Analizza il rapporto fra struttura sintattica Bembo: in particolare, quali temi e con-
e struttura strofica e metrica del sonetto: cetti Bembo accoglie (pur mutando le
rispetta il Bembo i principali aspetti del parole) nel suo sonetto senza sostanzali
canone petrarchesco? modifiche? Quali invece accoglie con
3 Si è detto che, nelle due quartine, questo qualche significativa modifica?
componimento pare intonato come una

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Quattrocento e Cinquecento

T 25.2 Pietro Bembo, Rime ed. 1530, 1535


Arsi, Bernardo, in foco chiaro e lento [CXIV]
P. Bembo D’argomento simile al precedente, almeno nelle linee generali, è questo sonetto del
Prose e rime 1528 dedicato all’amico e discepolo Bernardo Cappello: l’amore (un amore visto in re-
a c. di C. Dionisotti, trospettiva e dichiaratamente felice), persiste anche dopo la rinuncia e nell’imminenza
UTET, Torino 1960
della morte.

Nota metrica Arsi, Bernardo, in foco chiaro e lento 7-8 scintomi... fiamma:
Sonetto, secondo lo sche- molt’anni assai felice, e, se ’l turbato liberatomi della bella im-
ma ABBA,ABBA, CDC, magine che portavo dentro
CDC. regno d’Amor non ha felice stato, di me, spensi o cercai di spe-
4 tennimi almen di lui pago e contento. gnere la passione (che essa
1 Arsi... foco: tradizio- alimentava).
nale metafora, a designar la 11 Lete: fiume dell’oltre-
passione d’amore. Poi, per dar le mie vele a miglior vento, mondo, la cui vicinanza si-
3 non ha... stato: non gnifica vicinanza alla morte.
contempla la condizione di quando lume del ciel mi s’è mostrato, 13 sasso: pietra tombale
vera e propria felicità. scintomi del bel viso in sen portato, (metonimia; la materia per
4 tennimi: mi ritenni, l’oggetto specifico).
mi considerai. 8 sparsi col piè la fiamma, e non men’ pento. 14 togliendomi: sottraen-
5 per... vento: metafora domi a, liberandomi da.
pure tradizionale, a designa- Ma l’imagine sua dolente e schiva
re un avvicinamento a Dio.
m’è sempre inanzi, e preme il cor sì forte
11 ch’io son di Lete omai presso a la riva.

S’io ’l varcherò, farai tu che si scriva


sovra ’l mio sasso, com’io venni a morte,
14 togliendomi ad Amor, mentr’io fuggiva.

Guida all’analisi
Un sonetto per concludere alla maniera di Petrarca Ha notato Carlo Dionisotti che questo e alcuni altri sonetti
contigui sono stati probabilmente composti da Bembo «per concludere in forma di canzo-
niere le sue rime e darle poi per la prima volta alle stampe» (è l’edizione 1530 delle Rime),
cioè per uniformare la struttura narrativa della sua raccolta di rime a quella del canzoniere
di Petrarca. Il tema qui trattato, in effetti, si presta ad assolvere una funzione in qualche mo-
do conclusiva, in accordo con la storia d’amore petrarchesca, intrecciando vari motivi: la
passione amorosa, la conversione a Dio e la propria morte imminente. Non potendo, a que-
sta data, addurre la morte dell’amata, Bembo allude vagamente a una rinuncia all’amore ter-
reno («sparsi col piè la fiamma») determinata da un’illuminazione celeste («quando lume del
ciel mi s’è mostrato») e da lui accettata di buon animo («e non men’ pento»). Ma nonostan-
te la rinuncia alla relazione con la donna amata, fatta per dovere e scelta morale, la passione
– come in Petrarca accade anche dopo la morte di Laura – non si estingue, anzi occupa e
tormenta l’animo del poeta, tanto che il dolore lo spinge verso la morte (la riva di Lete).
Quel che importa notare è che Bembo, pur riferendosi a sentimenti davvero provati e relazioni
reali, con ogni probabilità altera intenzionalmente i dati biografici per ricondurre la propria vi-
cenda entro lo schema petrarchesco del pentimento in età matura per le intemperanze giovanili.

Laboratorio 1 La passione d’amore è stata per il poeta foco chiaro e lento da un punto di vista te-
COMPRENSIONE fonte di turbamento, di felicità o di che matico (individuando i motivi comuni e
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE altro? Che cosa significa la metafora del le sostanziali diversità) e retorico-stilistico.
viaggio? Perché il poeta dice di fuggire e Quindi verifica se e in che misura si pos-
da chi fugge? sono contrapporre i due testi definendo
2 Confronta i due componimenti La fera “aspro e intricato” il primo e “dolce e
che scolpita nel cor tengo e Arsi, Bernardo, in piano” il secondo.

880 © Casa Editrice Principato


25. La lirica del Cinquecento T 25.3

T 25.3 Gaspara Stampa, Rime ed. postuma 1554


Rimandatemi il cor, empio tiranno [CLI]
Lirici Insoliti tratti di ingenuità e di sincerità percorrono in larga parte il canzoniere di Ga-
del Cinquecento spara Stampa e si mostrano con particolare evidenza in alcuni componimenti che han
a c. di L. Baldacci, fatto parlare la critica di predominio dell’istinto sull’elaborazione letteraria e di ispira-
Longanesi, Milano 1975
zione “melodrammatica”. Sono componimenti questi – e così quello che ora proponia-
mo – in cui la voce della poetessa emerge con originalità dall’imitazione petrarchesca.

Nota metrica Rimandatemi il cor, empio tiranno, 5 a me un anno: ma a


Sonetto secondo lo sche-
ch’a sì gran torto avete ed istraziate, me pare un anno.
ma ABBA,ABBA, CDC, 7 le fé: le assicurazioni, la
DCD. e di lui e di me quel proprio fate, parola.
9 Ercol o Sansone: per-
1 Rimandatemi il cor: è
4 che le tigri e i leon di cerva fanno.
sonaggi mitologico l’uno e
motivo tradizionale quello biblico l’altro, portati ad
della separazione del cuore Son passati otto giorni, a me un anno, esempio per la loro forza, il
dell’amante per seguire l’a- loro coraggio, la capacità di
mata o l’amato. ch’io non ho vostre lettre od imbasciate, sopportare “fatiche” e dolo-
2 avete: tenete in vostro contra le fé che voi m’avete date, ri.
possesso. 12 massime: massima-
3 quel proprio: proprio 8 o fonte di valor, conte, e d’inganno. mente, soprattutto.
quello che... 14 onde: da cui.

Credete ch’io sia Ercol o Sansone


a poter sostener tanto dolore,
11 giovane e donna e fuor d’ogni ragione,

massime essendo qui senza ’l mio core


e senza voi a mia difensione,
14 onde mi suol venir forza e vigore?

Guida all’analisi
I modelli letterari e le ragioni del cuore Gaspara Stampa parte come quasi tutti i suoi contemporanei da Petrar-
ca e non di rado lo imita in modo meccanico. Tuttavia, nel corso del suo canzoniere la poe-
tessa padovana si accosta talora a Petrarca con “ingenuità”, con una disposizione più spontanea
e autonoma, che si manifesta anche come capacità di obbedire più alle ragioni della propria
personale biografia e indole che a quelle del più rigido codice petrarchistico. Nel sonetto che
abbiamo letto, i dati sentimentali più immediati prendono o sembrano prendere il sopravven-
to sulle cautele della ragione letteraria. Gaspara Stampa può così delineare una situazione con-
cretamente vivace della relazione amorosa, che esula dai canoni petrarcheschi: il silenzio del-
l’amato che, contrariamente alle promesse, non le scrive suscita l’ansia e forse la gelosia nella
donna, che non esita a qualificarlo come empio tiranno e se stessa come donna debole e indife-
sa («Credete ch’io sia Ercol o Sansone…?»), bisognosa del conforto e della protezione dell’a-
mato («senza a voi a mia difensione»). Si intravede insomma una situazione, oltre che modula-
ta al femminile, anche assai più realistica e melodrammatica di quella che il petrarchismo or-
todosso legittimava: basti pensare al dettaglio patetico, di stampo diaristico e colloquiale, del-
l’assenza di notizie: «Son passati otto giorni, a me un anno, / ch’io non ho vostre lettre od im-
basciate, / contra le fé che voi m’avete date, / o fonte di valor, conte, e d’inganno».

Laboratorio 1 Commenta l’espressione empio tiranno questo testo si possono interpretare in


COMPRENSIONE con cui la poetessa designa l’uomo amato questo modo? In che cosa si distanziano
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE e definisci il tono usato dalla Stampa nel dal modello petrarchesco?
rivolgersi al suo interlocutore. 3 Analizza da un punto di vista retorico-stili-
2 Il tratto forse più tipico del Canzoniere stico il testo: quali figure, a tuo giudizio, ap-
della Stampa è la presenza di dati che paiono più interessanti e caratterizzanti e
paiono un’immediata trascrizione della perché?
sua vicenda personale: quali elementi di
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Quattrocento e Cinquecento

T 25.4 Isabella di Morra, Rime prima del 1546


Torbido Siri del mio mal superbo
Lirici Fra le numerose voci femminili che si distinsero nel panorama della lirica cinquecente-
del Cinquecento sca un posto di qualche rilievo merita certamente Isabella di Morra, la cui vita infelice
a c. di L. Baldacci, e la cui fine tragica si riflettono sul suo canzoniere, che si contraddistingue per i toni
Longanesi, Milano 1975
frequentemente cupi e desolati, come accade nel sonetto che segue.

Torbido Siri del mio mal superbo,


or ch’io sento da presso il fine amaro,
fa’ tu noto il mio duolo al padre caro,
4 se mai qui ’l torna il suo destino acerbo.

Dilli com’io, morendo, disacerbo


l’aspra fortuna e lo mio fato avaro,
e, con esempio miserando e raro,
8 nome infelice a le tue onde serbo.

Tosto ch’ei giunga a la sassosa riva


(a che pensar m’adduci, o fiera stella,
11 come d’ogni mio ben son cassa e priva!),

inqueta l’onda con crudel procella,


e di’: – M’accrebber sì, mentre fu viva,
14 non gli occhi no, ma i fiumi d’Isabella.

Nota metrica 2 il fine amaro: la morte, 7 miserando: degno di memorie al fiume). 12-13 inqueta… di’: agita
Sonetto secondo lo sche- fine delle crudeli sofferenze commiserazione. 9 Tosto ch’ei giunga: l’onda con una tremenda
ma ABBA,ABBA, CDC, di cui al v. 1. 8 nome… serbo: serbo non appena egli giungerà. tempesta e digli.
DCD. 3 al padre caro: il padre memoria della sua triste sor- 10-11 a che pensar… pri- 13 M’accrebber: accreb-
era esule in Francia. te (nome) confidandola, ri- va!: quali tristi pensieri, o bero il mio corso (è il fiume
4 se mai… acerbo: se cordandola alle tue onde (se destino crudele, mi sugge- che parla).
1 Siri: o Sinni, è il fiume mai il suo infelice destino lo ne può dedurre che, nella risci, come son del tutto 14 non… i fiumi: non
che scorre presso il castello riporterà (’l torna) qui. solitudine spirituale in cui si priva (cassa e priva, dittolo- tanto gli occhi, quanto i fiu-
di Favale, dimora di Isabel- 5 disacerbo: placo. trovava, la poetessa confi- gia sinonimica) d’ogni spe- mi di pianto.
la. 6 avaro: avaro di gioie. dasse le sue angosce e le sue ranza!

Guida all’analisi
Una rappresentazione ossessivamente fosca Un dato soprattutto colpisce in questo dolente sonetto: la presen-
za di un’aggettivazione monocorde che, con perizia sinonimica, ossessivamente dipinge a
tinte fosche la condizione spirituale e il destino stesso di Isabella: «mal superbo», «fine amaro»,
«destino acerbo» (del padre), «aspra fortuna», «fato avaro» (di Isabella), «esempio miserando e ra-
ro», «nome infelice», «fiera stella» (metafora del destino), «son cassa e priva». La natura stessa, nel-
la sua desolata asprezza, è qualcosa di più che un puro dato paesaggistico: rispecchia fedel-
mente l’universo sentimentale della poetessa: «Torbido Siri», «sassosa riva», «crudel procella».
L’unica fantasia che all’infelice poetessa è concessa dal suo destino acerbo, non può essere altro
– com’ella stessa lamenta – che una fantasia di pianto e di morte (il padre, il cui ritorno è
atteso come una liberazione, tornerà forse un giorno, ma solo per sentire ricordare i fiumi
di pianto sparsi dalla figlia ormai morta!).
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25. La lirica del Cinquecento T 25.4

Doc 25.4 Vita e arte in Isabella di Morra

Per meglio comprendere le implicazioni autobiografiche, che caratterizzano questo so-


netto, che pure mantiene un suo spessore e una sua dignità letteraria, è illuminante leg-
gere quanto della vita e della poesia di Isabella di Morra scrive Luigi Baldacci.
L. Baldacci,
Lirici del Cinquecento, cit. Era figlia di Giovan Michele, signore di Favale, terra all’estremo lembo della Basili-
p. 483 cata, al confine con la Calabria, percorsa dal fiume Sinni o Siri. Il padre era stato sotto-
posto a un processo politico perché, durante l’assedio di Napoli, sarebbe passato al ne-
mico, tradendo gli imperiali. Esule in Francia, invano è invocato dalla figlia nelle Rime,
come l’unico che potesse portarle soccorso nella sua disperata situazione. Infatti, se pu-
re non lo furono in origine, i rapporti con i fratelli dovettero inasprirsi gradualmente
fino alla tragedia che scoppiò quand’essi sorpresero il pedagogo di Isabella a portare un
messaggio della poetessa allo spagnolo Diego Sandoval De Castro che risiedeva con la
moglie, una Caracciolo, nel vicino castello di Bollita. Il Sandoval, che era anch’egli
poeta e le cui Rime furono ripubblicate dal Croce con quelle della Morra, si valse, sem-
bra, durante i suoi rari soggiorni nella terra di Bollita, del nome della moglie per invia-
re lettere e versi a Isabella, la quale appunto con la Caracciolo doveva essere in contat-
to. Scoperta dunque la relazione, i fratelli uccisero, nel corso del 1546, prima il maestro
di lettere, quindi Isabella e infine il Sandoval.
È una poesia, quella della Morra, che facilmente conquista in grazia forse, prima di
tutto, della romantica vicenda alla quale non possiamo fare a meno di rinviare i suoi ver-
si. Ma non vorremmo già dire con questo di trovarci di fronte a una voce più apparente
per i suoi echi dichiarati e illuminati dalla vita privata, che realmente ricca. Anzi, chi ri-
legga la poesia della Morra, non la troverà, come in casi consimili accade, cedevole o in-
sussistente a una riprova critica. L’espressione del suo dolore non ha semplicemente un
riscontro biografico, ma è consegnata a una misura di stile che, oltre a dimostrare una
cultura preesistente in qualche modo penetrata nel selvaggio castello ove ella abitò, pare
di suo offrire un’intonazione altamente accorata, un accento di meditazione eloquente
che sarà poi, o almeno pare, una conquista del Tasso, nella canzone al Metauro. Per questo
se la sua poesia, come osservò il Croce, ha un carattere privato, essa si iscrive tuttavia nel-
la storia del petrarchismo, o, se anche in quella storia non operò, sarebbe degna tuttavia di
figurarne come anello modesto ma necessario.

Laboratorio 1 Riassumi con parole tue le vicende per- Chiare, fresche et dolci acque [R T 12.10 ].
COMPRENSIONE sonali, realmente autobiografiche, a cui Confronta questo sonetto con la canzone
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE allude la poetessa in questo sonetto. petrarchesca ed eventualmente con altri
2 Il componimento presenta ancora una testi a te noti in cui sia presente il tema
volta un’allocuzione alla natura e svolge dell’allocuzione alla natura. A tuo giudi-
un tema (il pensiero del passaggio di una zio sono prevalenti gli aspetti che acco-
persona amata presso la propria tomba) munano i testi citati o quelli che li distin-
già trattato da Petrarca nella canzone guono?

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Quattrocento e Cinquecento

T 25.5 Galeazzo di Tàrsia, Rime 1544-45


Camilla, che ne’ lucidi e sereni
Lirici Di questa controversa figura di rimatore, ma certo tra le maggiori del suo secolo, pro-
del Cinquecento poniamo il sonetto Camilla, che ne’ lucidi e sereni, tra i suoi celeberrimi, che appartiene
a c. di D. Ponchiroli, alla trilogia in morte della moglie (1544-1545). Ricordiamo che le Rime di Galeazzo di
UTET, Torino 1968
Tarsia, composte entro il 1553, anno della sua morte, vennero pubblicate solo nel 1617.
L’opera di questo poeta si inscrive ancora nell’ambito dell’esperienza petrarchistica, ma
di un petrarchismo rivissuto in modo assai personale.

Camilla, che ne’ lucidi e sereni


campi del cielo nuova stella nasci,
e me mal vivo, te membrando, lasci
4 ove più le mie notti rassereni;

a me quando che sia pietosa vieni,


ma di sommo splendor t’involvi e fasci,
sì che a pena ti scorgo e poi rilasci
8 il cor di foco e gli occhi d’umor pieni.

Era, s’ambi feriva, assai men fella


morte, io felice in questa nostra avvezza
11 etade a non serbar cosa più bella.

Ma tu il Signor, s’ella mi sdegna e sprezza,


prega, o santa, che omai se di bellezza
14 ti colsi fior, ch’io ti vagheggi stella.

Nota metrica 1 Camilla: è la moglie 4 ove: quando. 8 umor: lacrime. 12 ella: la morte.
Sonetto, secondo lo sche- del poeta, da poco morta. – 5 quando che sia: tal- 9 fella: malvagia. 13-14 che omai... stella: se
ma ABBA,ABBA, CDC, lucidi: limpidi, tersi. volta. 10 io felice: ed io sarei sta- ti colsi fiore di bellezza, co-
DDC. 2 nuova... nasci: sorgi 6 t’involvi: ti avvolgi. to felice (morendo insieme me cioè in vita potei godere
come nuova stella. 7 a pena: a malapena. – a te). della tua bellezza, così possa
3 mal vivo: quasi senza rilasci: mi riabbandoni in 10-11 avvezza... bella: età, continuare a contemplarti
vita per il dolore. – te mem- preda alla nostalgia (il cor di epoca abituata a non ap- raggiungendoti in cielo.
brando: ricordando te. foco). prezzare le cose belle.

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25. La lirica del Cinquecento T 25.5

Guida all’analisi
Un petrarchismo originalmente e drammaticamente rivissuto Questo sonetto, come in genere la poesia del Tar-
sia, si inscrive ancora nell’ambito del petrarchismo, ma di un petrarchismo rivissuto in mo-
do molto personale e originale, ricco di pathos, di pause drammatiche, musicalmente incline
all’asprezza. Questo testo risulta poi esemplare dell’attitudine del Tarsia a risolvere l’espres-
sione dei sentimenti in immagini concrete, con un’originale intensità, e a svolgere la sua
poesia di preferenza nello spazio, mentre Petrarca, modello in parte disatteso, lo svolgeva
prevalentemente nel tempo. Analizziamolo.
Le quartine: il motivo del ‘ritorno’, precario ma radioso, della moglie morta Il sonetto presenta una cesura ab-
bastanza netta, anche sotto il profilo tematico, fra quartine e terzine. Nelle due quartine, sin-
tatticamente unite in un sol periodo ricco però di pause e di inversioni, domina il motivo
del “ritorno”, precario ma radioso, della donna al poeta sotto forma di affettuosa fantasia,
luminosa visione. La ricomparsa della donna è metaforicamente raffigurata come una rina-
scita ad un livello più alto, duraturo e puro nella scala degli esseri: Camilla, da poco morta,
ricompare al poeta in forma di stella (nuova stella nasci, v. 2, dove la metafora connota purez-
za e imperitura serenità, con il conforto dell’immagine contestuale «ne’ lucidi e sereni /
campi del cielo» [vv. 1-2], dilatata dall’enjambement).
Contrapposta alla luminosa ed eterea figura della moglie, sta quella mesta e dolente del
poeta (mal vivo, te membrando, a pena, gli occhi d’umor pieni). In proposito si noterà come al
personaggio della moglie e alla sua ricomparsa sia dato un forte rilievo strutturale (in parti-
colare notevoli il vocativo in incipit e sei delle parole in rima dedicate a descrivere l’azione
della donna), mentre la figura del poeta, portatore di pena, è parzialmente dissimulata nel
corpo del testo.
Le terzine: la speranza che la morte ricongiunga gli amanti in cielo Nelle terzine compare, accanto a quelli del
poeta e della moglie, il personaggio-chiave della morte (nelle quartine era un elemento im-
plicito, desumibile dalla dichiarata assenza della moglie, dalla sua rinascita come stella e dal
dolore del poeta). La morte ha sottratto Camilla al marito e avrebbe fatto meglio a cogliere
anche lui nel medesimo istante («Era, s’ambi feriva,... io felice», vv. 9-10); e viceversa tutto-
ra lo respinge («s’ella mi sdegna e sprezza», v. 12). Solo la preghiera della donna – questa è la
conclusione del sonetto – potrà forse dare al poeta l’unica felicità ormai possibile, quella di
un celeste ricongiungimento con lei. Notevole, nella classica misura dell’espressione, e pur
struggente di tenerezza, è la continua allusione alla moglie in termini di pura bellezza («co-
sa più bella» [v. 11], «di bellezza / ti colsi fior... ti vagheggi stella» [vv. 13-14]).
Classica compostezza, simmetria e «ritmo scontroso» Il componimento, caratterizzato da una sostanziale,
classica compostezza delle immagini, può dirsi simmetricamente circoscritto dalle imma-
gini celesti e stellari [vv. 1-2 e 14], luogo e metafora dell’esistere di Camilla. In parziale
contrasto con questi elementi, stanno tuttavia la struttura sintattica e il ritmo che ne deri-
va, caratterizzati sia nelle terzine che nelle quartine da forti pause, inversioni, incisi e da al-
cuni notevoli enjambements che accentuano la drammaticità del testo. A questo proposito il
critico Daniele Ponchiroli parla di «componimenti vocalmente acerbi» e di «ritmo scon-
troso», di una «crudezza espressiva» che «coscientemente e deliberatamente si pone come
antimelodicità».

Laboratorio 1 Analizza la struttura sintattica e ritmica sviluppo lineare della proposizione prin-
COMPRENSIONE del componimento: in particolare indivi- cipale (ad es. «Ma tu il Signor, s’ella mi
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE dua gli enjambements, le inversioni (ana- sdegna e sprezza, prega, o santa, che omai se
strofi, iperbati), la presenza di incisi o pro- di bellezza ti colsi fior, ch’io ti vagheggi
posizioni subordinate che spezzano lo stella»).

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Quattrocento e Cinquecento

T 25.6 Michelangelo Buonarroti, Rime 1538-1544


Non ha l’ottimo artista alcun concetto
M. Buonarroti Assai originale, nel contesto petrarchistico in cui si trovò ad operare, è l’esperienza poe-
Rime tica di Michelangelo; e assai discussa. A lungo la sua poesia è stata considerata sempli-
a c. di E.N. Girardi, cemente come lo svago di un artista impegnato in altro, da non prendere troppo seria-
Laterza, Bari 1967
mente sul piano del valore letterario. Le durezze e le oscurità del suo stile apparivano
qualcosa di irrisolto, frutto di imperizia o tratti grezzi di un lavoro non finito. Ma col
tempo il giudizio si è profondamente modificato, in parallelo con la rivalutazione delle
esperienze letterarie eccentriche rispetto al classicismo imperante, e Michelangelo ha
trovato una più adeguata collocazione anche nel campo delle lettere.
Questo sonetto, indirizzato alla poetessa Vittoria Colonna e databile tra il 1538 e il
1544 (o al più tardi entro il 1547), ha la caratteristica di svolgere un elaborato parago-
ne, tutto michelangiolesco, tra l’amore e l’arte della scultura.

Non ha l’ottimo artista alcun concetto


c’un marmo solo in sé non circonscriva
col suo superchio, e solo a quello arriva
4 la man che ubbidisce all’intelletto.

Il mal ch’io fuggo, e ’l ben ch’io mi prometto,


in te, donna leggiadra, altera e diva,
tal si nasconde; e perch’io più non viva,
8 contraria ho l’arte al disïato effetto.

Amor dunque non ha, né tua beltate


o durezza o fortuna o gran disdegno,
11 del mio mal colpa, o mio destino o sorte;

se dentro del tuo cor morte e pietate


porti in un tempo, e che ’l mio basso ingegno
14 non sappia, ardendo, trarne altro che morte.

Nota metrica 1-4 Non ha… all’intellet- di troppo, e solo a quella for- quell’amore, v. 5) è racchiu- mio male e del mio destino
Sonetto, secondo lo sche- to: il senso della frase è che ma giunge la mano che ob- so tutto nel corpo e nell’ani- e sorte; non hanno colpa se
ma ABBA,ABBA, CDE, un eccellente scultore non bedisce alla mente, cioè la mo della donna. dentro al cuore tu racchiudi
CDE. può concepire alcuna forma mano esperta, saggia). 7-8 e perch’io… effetto: al tempo stesso la felicità e il
6 donna… diva: donna ma con voi, in amore, io con dolore,il bene e il male (lett.,
che il marmo non presenti
già potenzialmente al pro- bella, superba e divina: è la la mia arte riesco solo a otte- la pietà e la morte); e non
prio interno, e quindi suo poetessa Vittoria Colonna, nere effetti contrari al mio hanno colpa per il fatto che
compito è quello di farla ap- con cui Michelangelo ebbe desiderio, così che io ne il mio basso ingegno non
parire togliendo il soverchio una relazione. muoia. sappia ricavare da te, pur ar-
7 tal si nasconde: come 9-14 Amor… morte: né dendo d’amore, altro che
di marmo che la ricopre
(lett.: l’artista non concepi- ogni idea dello scultore è Amore né altro (la tua bel- morte.
sce alcuna idea che il mar- racchiusa nel marmo, così il lezza o la tua durezza o la
mo non circoscriva e rico- destino del poeta (il bene e il fortuna o il disdegno) non
pra con quello che in lui c’è male che può attendersi da hanno dunque colpa del

Laboratorio 1 Confronta questo sonetto, per quanto ri- tengo di Bembo, in cui pure si affronta il
COMPRENSIONE guarda i temi e lo stile, con qualcuno dei tema della sofferenza amorosa) e illustra
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE precedenti (ad es. La fera che scolpita nel cor le più significative differenze.

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25. La lirica del Cinquecento T 25.6

Guida all’analisi
L’ottimo artista e l’inesperto amante Il componimento si apre con l’immagine dell’ottimo artista e si conclude
con quella opposta del basso ingegno dell’amante che non sa ricavare dall’amata altro che in-
felicità. Racchiuso in questa antitesi, tutto il componimento svolge la similitudine tra l’a-
mante e lo scultore: come uno scultore non può concepire alcuna forma che il blocco di
marmo non racchiuda potenzialmente già in sé, e l’abilità della sua mano sta tutta nel far
emergere, levando il soverchio che la nasconde, quella forma potenziale e ideale (vv. 1-4);
così anche l’uomo nel rapporto d’amore non può concepire di ottenere dall’amata nulla
che ella non racchiuda potenzialmente già in sé (bene o male, amore od odio, felicità o do-
lore, pietate o morte), e sta tutto nella sua abilità di far emergere ciò che di positivo essa rac-
chiude (vv. 5-7). Ma se Michelangelo sa facilmente immedesimarsi nell’ottimo scultore (o
quantomeno qui trascura le difficoltà e le ansie della creazione artistica per presentarci sem-
plicemente la felicità del risultato, la perizia della mano che dischiude la forma ideale), non
esita viceversa a presentarcisi come amante inesperto e maldestro («contraria ho l’arte al di-
sïato effetto», v. 8; «’l mio basso ingegno», v. 13) che dalla donna amata non sa trarre «altro
che morte» (vv. 7-14).
Un finale sintatticamente involuto Nel finale la struttura sintattica del discorso si fa particolarmente intricata e
oscura: difficile dire se si tratti di un esito involontario dell’autore (frutto di imperizia poe-
tica, secondo alcuni) o di una scelta intenzionale. Se così fosse, manifesterebbe un disinte-
resse nei confronti delle forme armoniosamente levigate del linguaggio classicistico, che al-
cuni critici gli hanno ascritto a titolo di merito in quanto dimostrazione di indipendenza e
n Michelangelo: San Matteo
originalità. In ogni caso appare degno di nota che il linguaggio del poeta si faccia difficile e
(Firenze, Galleria dell’Accade- involuto proprio nel momento in cui più drammaticamente tocca il tema della propria im-
mia); Pietà (Firenze, Museo perizia in amore, quando denuncia il suo basso ingegno, e grida la sua colpa: l’incapacità cioè
dell’Opera del Duomo), Pietà
Rondanini (Milano, Musei del di portare alla luce quella pietà che la donna certamente ha dentro di sé e che potrebbe nu-
Castello Sforzesco). trire per lui rendendolo felice.

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Quattrocento e Cinquecento

T 25.7 Michelangelo Buonarroti, Rime 1542-1546


Costei pur si delibra
M. Buonarroti Poesia tendenzialmente descrittiva, quella di Michelangelo, simbolica, incline all’intro-
Rime spezione, alla confessione e alla preghiera, si distingue sia per lo stile spesso severo,
a c. di E.N. Girardi, aspro e dissonante, sia per alcuni temi caratteristici (ad esempio, il cupo senso della vec-
Laterza, Bari 1967
chiaia e della morte, il paragone fra la bellezza altrui e la propria decadenza fisica, il pa-
ragone con la creazione artistica, la fitta presenza di oggetti e di strumenti di lavoro).
In questo madrigale Michelangelo affronta il tema delle sofferenze arrecate dall’a-
more e dalla vecchiaia. Il distacco dal petrarchismo si configura qui come accoglimen-
to di suggestioni del Dante “petroso”, che ben si inseriscono nella poetica michelan-
giolesca dell’asprezza.

Nota metrica Costei pur si delibra, 6 e ’l corpo... sconcia:


Madrigale di settenari ed sfibra il corpo, rendendolo
endecasillabi, secondo lo indomit’ e selvaggia, indegno dell’anima.
schema ch’i arda, mora e caggia 7 La... racconcia: ella si
abbCaCcdEcdEeFf. a qual c’a peso non sie pure un’oncia; mira e si abbellisce.
12 in quel... viso: nello
1 si delibra: decide. 5 e ’l sangue a libra a libra specchio (in quel) il suo volto
3 mora e caggia: muoia mi svena, e sfibra e ’l corpo all’alma sconcia. accanto al mio, per contra-
e cada. sto, sembra ancora più bello.
4 a... oncia: «per una La si gode e racconcia 14-15 e pur... natura: sono
grazia che a peso non var- nel suo fidato specchio, fortunato se con la mia arte
rebbe neppure un’oncia» supero la natura nel farla
(Guasti). ove sé vede equale al paradiso; bella.
5 libra: libbra (un’unità 10 po’, volta a me, mi concia
di peso).
sì, c’oltr’all’esser vecchio,
in quel col mie fo più bello il suo viso,
ond’io vie più deriso
son d’esser brutto; e pur m’è gran ventura,
15 s’i’ vinco, a farla bella, la natura.

Guida all’analisi
I temi Il tema affrontato in questo madrigale è quello «della vecchiaia che dovrebbe terminare le
pene amorose e in cui viceversa queste divengono più amare e cocenti» (Binni). La bellez-
za della donna, che viene presentata come indomit’ e selvaggia, “sfibra” il poeta ormai vecchio
e mette in pericolo la salute della sua anima (’l corpo all’alma sconcia). Il crudele contrasto, ac-
centuato dalla vicinanza delle immagini allo specchio, fra la bellezza equale al paradiso di lei e
la bruttezza e vecchiezza del poeta, aggrava e rende più drammatica la situazione. L’unico
parziale riscatto il poeta-artista lo trova nella consapevolezza di poter vincere con l’arte la
natura, ritraendo lei più bella che nella realtà. Altrove Michelangelo sottolinea la durevolez-
za nel tempo della bellezza artistica rispetto alla caducità di quella naturale.
Lo stile Quanto allo stile di questo madrigale ci limiteremo a sottolineare la corposità e l’asprezza
delle scelte lessicali talora d’ascendenza dantesca (svena, sfibra, sconcia, gode, racconcia, concia, vec-
chio, brutto, delibra, libra), la presenza di verbi-chiave posti in serie («arda, mora e caggia», «svena,
e sfibra e ... sconcia», «si gode e racconcia ... mi concia»), le antitesi, la condensazione e quasi il
groviglio semantico di alcuni passaggi (ad es. v. 6), la sintassi a tratti involuta, ricca di inversioni e
incisi, il ritmo spesso pausato e spezzato che alterna brusche impennate a momenti più piani e
distesi e contribuisce a determinare la musicalità aspra e irregolare del testo.

Laboratorio 1 Sintetizza l’argomento del sonetto: che che formulate nella Guida all’analisi, indi-
COMPRENSIONE azioni (in senso proprio e metaforico) viduando in particolare le antitesi, le in-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE compie la donna? Che sentimenti prova versioni, gli incisi.
il poeta? 3 Confronta questo madrigale con il pre-
2 Verifica nel testo le osservazioni stilisti- cedente sonetto di Michelangelo.
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25. La lirica del Cinquecento T 25.8

T 25.8 Pierre de Ronsard, Amori 1552


O mia cara, vediamo se la rosa
P. de Ronsard La poesia di Pierre de Ronsard, il padre del classicismo francese (1524-1585), si fonda,
Oeuvres complètes come gran parte della letteratura umanistico-rinascimentale, su una poetica dell’imita-
La Pléiade, Gallimard, Paris zione-emulazione dei classici. Fra i modelli di Ronsard ci sono naturalmente i classici
1965 [trad. H.Grosser]
greci e latini, ma anche – e in posizione di primo piano – quelli che possiamo ormai
considerare i moderni classici italiani, a partire da Petrarca, il cui influsso si fece sentire
in tutta la letteratura europea.
Mignonne, allons voir si la rose è uno dei più celebri componimenti di Ronsard. Tratto
da una raccolta del 1552 dedicata a Cassandra Salviati, sviluppa un tema che al tempo
stesso è classico e rinascimentale: quello del trascorrere del tempo e, con esso, dello
sfiorire della bellezza.

O mia cara, vediamo se la rosa,


che aveva dischiuso stamattina
al sole il suo abito di porpora,
ha del tutto perduto questa sera
5 i drappi… porporina: 5 i drappi della veste porporina
prosegue la metafora dell’a-
bito di porpora della rosa e e la sua tinta simile alla vostra.
sarà da intendere “i petali
rossi”. Ahi! Guardate ora come in breve tempo
mia cara, sul terreno tutto intorno
ha lasciato, ahi!, cader le sue bellezze!
10 Sei tu, o Natura, in verità, matrigna,
se un così bel fiore mai non dura
dal mattino al calare della sera.

Orsù, datemi ascolto, o cara,


finché siete nel fiore dell’età,
15 cogliete, orsù, la gaia giovinezza:
come a questo fiore, la vecchiaia
a voi farà appassire la bellezza.

Guida all’analisi
Ausonio, Orazio e Poliziano I modelli a cui attinge Ronsard in questo componimento sono probabilmente un’ele-
gia della tarda latinità, il De rosis nascentibus [Le rose nascenti] di Ausonio e i componimenti di
Orazio dedicati al tema del carpe diem. Nell’elegia di Ausonio era svolto il tema dello sfiorire
della rosa, paragonato al trascorrere del tempo e al trapassare della giovinezza. Nei componi-
menti oraziani e in particolare nel carme Tu ne quaesieris [Non domandare], constatato l’inelutta-
bile trascorrere del tempo e l’impossibilità di prevedere che cosa ci riserverà il domani, il poeta
invita Leuconoe (la donna a cui si rivolge) a “cogliere l’oggi” (carpe diem), a vivere cioè piena-
mente il proprio presente. È da notare il fatto che il verbo carpere, cogliere (come si coglie un
fiore) già di per sé implicava la metafora del fiore da recidere prima della sua sfioritura. Ma que-
sti temi, che sono riconoscibili rispettivamente nella prima parte e nel finale di questa lirica,
erano stati già ampiamente trattati dai poeti italiani e in questo caso in particolare dal Poliziano,
nella ballata I’ mi trovai fanciulle [R T 19.2 ]. Ronsard ritorna più volte su questi temi, come dimo-
stra anche il testo che sotto proponiamo. Si tratta come si vede di un motivo diffuso che percor-
re tutta la letteratura classicistica europea.
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Quattrocento e Cinquecento

Doc 25.5 Quando sarai ben vecchia, la sera, accanto al fuoco

Ronsard fra gli astri In questo, che è uno dei più famosi sonetti della letteratura francese, il poeta immagina
della Pléiade,
a c. di M. L. Spaziani, Hélène, ormai vecchia, che ripensa con nostalgia alla giovinezza, quando Ronsard ne
ERI, Torino 1972 aveva immortalato la bellezza nei suoi versi, e rimpiange di aver rifiutato il suo amore.
Anche in questo caso numerose sono le reminiscenze classiche riconoscibili in questo so-
netto (da Tibullo ad Ausonio), ma uno spunto dovette venire certamente anche da Petrarca
che in Canz. XII aveva fantasticato di poter in vecchiaia rivelare a una Laura ormai sfiorita i
propri giovanili ardori per lei e di averne in cambio almeno un «soccorso di tardi sospiri», e
che in Canz. CXXVI (la celebre Chiare, fresche et dolci acque) aveva immaginato che un giorno
Laura sarebbe passata nei pressi della sua tomba e avrebbe sospirato e pianto al pensiero del
poeta innamorato. Petrarca al tema della predizione del velato rimpianto d’un amore non
colto non associava un esplicito invito a “cogliere l’oggi” e a ricambiare l’amore finché si è in
tempo. Questo motivo, come già abbiamo visto, era quasi proverbialmente tipico della poe-
sia di Orazio.
Qui comunque Ronsard mostra di saper rifondere tutte queste e altre reminiscenze
antiche e moderne in una composizione che presenta anche molti tratti originali: ad
esempio ciò che suggerisce alla donna il ricordo e il rimpianto è la lettura dei versi del
poeta (che in questo modo indirettamente celebra anche la capacità della poesia di so-
pravvivere al suo autore e di dargli gloria, un altro tema classico). Ma sono notevoli an-
che alcune immagini ed espressioni realistiche e crude: l’interno domestico rapidamente,
ma incisivamente tratteggiato, la vecchia fantesca mezzo addormentata che improvvisa-
mente si scuote, l’accostamento sarcasticamente minaccioso del «fantasma disossato» e
della «vegliarda rattrappita», come climax di un’immaginazione al tempo stesso ango-
sciante e beffarda, che prelude al conclusivo, liberatorio invito a goder la giovinezza.

Pierre de Ronsard,
Sonnets pour Hélène Quando sarai ben vecchia, la sera, accanto al fuoco,
dipanando e filando seduta a un lume fioco,
ripetendo i miei versi dirai, meravigliata:
4 «Nel tempo che ero bella Ronsard mi ha celebrata».

Sentendo le parole tu non avrai fantesca,


già mezzo sonnacchiosa dopo la sua fatica,
che al nome di Ronsard non si scuota, ormai desta,
8 e con eterna lode il tuo nome benedica.

Io sarò sottoterra, fantasma disossato,


e tra le ombre e i mirti troverò la mia quiete.
11 Tu presso il focolare, vegliarda rattrappita,

5 fantesca: domestica,
rimpiangerai l’amore che fiera hai disdegnato.
servitrice (il francese ha ser- Non credere al domani e vivi ore liete;
vante). 14 e fin d’ora raccogli le rose della vita.

Laboratorio 1 Confronta questo testo con la ballata I’ mi Magnifico [R T 17.5 ]. Quali tratti accomu-
COMPRENSIONE trovai fanciulle di Angelo Poliziano [R T 19.2 ] nano i tre componimenti e quali li distin-
ANALISI
CONTESTUALIZZAZIONE e con la Canzona di Bacco di Lorenzo il guono?

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25. La lirica del Cinquecento VERIFICA

VERIFICA

25.1 Bembo e la rifondazione del petrarchismo

1 Che cosa si intende per «petrarchismo eretico» e per «petrarchismo ortodosso»?


2 Come si deve realizzare, secondo Bembo, l’imitazione del Petrarca lirico?
3 Per quali aspetti formali, secondo Bembo, il Canzoniere di Petrarca è meritevole d’imita-
zione?
4 Sul piano dei contenuti, per quali ragioni, oltre a essere un «serbatoio delle riprove d’amo-
re», il Canzoniere di Petrarca appare esemplare a Bembo?
5 Delinea rapidamente lo sviluppo della poesia di Bembo dalla giovinezza alla maturità.
6 Per quale motivo la canzone Alma cortese apparve già ai contemporanei una «cosa nuova
nella storia del gusto»?

25.2 Il petrarchismo cinquecentesco

7 In che senso e in qual modo il petrarchismo costituì anche un fenomeno di costume nel
Cinquecento?
8 Che cosa si intende quando si dice che il petrarchismo fu il «codice di base del sistema let-
terario» cinquecentesco?
9 In che modo il platonismo influenzò l’esperienza lirica petrarchistica?
10 A quali ideali estetici si ispirò complessivamente la lirica petrarchistica nella prima metà
del Cinquecento?
11 In quali aree geografiche si sviluppò il petrarchismo? Cita alcuni nomi di poeti petrarchi-
sti.
12 Che ruolo ebbero le poetesse nello sviluppo del petrarchismo cinquecentesco?
13 Quali elementi originali introdussero nel petrarchismo le poetesse?
14 Tra le figure di poeti eccentrici, a metà Cinquecento spiccano quelle di Galeazzo di Tàrsia
e di Michelangelo. Delinea rapidamente le ragioni della loro eccentricità.

25.3 L’esportazione del petrarchismo in Francia

15 Il petrarchismo non ebbe solo una diffusione italiana, ma europea: illustra il caso francese.
16 Quali sono i temi prediletti da Ronsard?

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Quattrocento e Cinquecento

La narrativa del Cinquecento


26

n Partita a tarocchi, di Nicolò


dell’Abate.

n Filippino Lippi, La porta di Assai cospicua anche nel primo Cinquecento è la


San Frediano (particolare del- produzione di novelle, sia spicciolate sia ordinate in
la Pala de’ Nelli, in Santo Spi-
rito a Firenze). raccolte organiche. Fra le spicciolate si annoverano
alcune delle novelle più belle e famose del secolo co-
me Belfagor arcidiavolo di Niccolò Machiavelli e Giu-
lietta e Romeo di Luigi Da Porto (la fonte del celebre
dramma shakespeariano). Ma notevoli e ancora oggi
piacevoli alla lettura sono anche le raccolte di autori
come Grazzini, Firenzuola e Bandello.
Il quadro della novellistica rimane variato e com-
plesso, e non è riducibile ad un’imitazione-emulazio-
ne rigorosa e integrale del Decameron: benché il mo-
dello boccacciano risulti predominante, non si può
parlare insomma di un «boccaccismo ortodosso», a
differenza di quanto accade per il petrarchismo lirico.
Le caratteristiche salienti della novellistica di quest’e-
poca, che la distanziano dal Decameron, sono dunque
l’eliminazione o talora l’amplificazione della cornice
(per influsso del trattato o del dialogo), la molteplicità
delle fonti, la grande varietà di temi e di registri, la
diffusione di un gusto per il macabro in alcuni dei
maggiori novellatori del tempo (Grazzini, Firenzuola),
il realismo cronachistico del Bandello, per cui si è
parlato di uno «stile giornalistico», il gusto per un lin-
guaggio medio colloquiale (nei novellatori cortigiani)
o viceversa l’elaborazione retorica e lo sperimentali-
smo linguistico (nei toscani).
Quanto al poema cavalleresco, nel Cinquecento ol-
tre all’Orlando furioso va segnalata la tendenza alla
“regolarizzazione” del genere sulla spinta delle rifles-
sioni, formulate in ambito di poetica, che invitano a
una più stretta aderenza ai modelli classici.

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26. La narrativa del Cinquecento STORIA

26.1 La novella cinquecentesca


Il rapporto con il Decameron, modello non esclusivo A differenza di quanto accadde nella lirica, in
ambito novellistico non ci fu un «boccaccismo ortodosso». Di certo non si contano le
affermazioni dell’eccellenza del Decameron, in conformità con il canone del Bembo, e
una delle caratteristiche salienti del periodo è proprio l’imitazione-emulazione del
Decameron, che si propone ai novellatori cinquecenteschi come modello di lingua, sti-
le, temi e strutture. Tuttavia, il Decameron non si impone in modo generalizzato e uni-
voco e invece si registrano, rispetto ad esso, scarti di varia entità e di vario genere: la
“cornice” viene o eliminata o ampliata o modificata, singole componenti tematiche e
di gusto – come il meraviglioso, il macabro, il grottesco – o diverse finalità della nar-
razione assumono una predominanza, e così via. Insomma, la novellistica mira più
esclusivamente che in passato al Decameron, ma nel complesso il boccaccismo cinque-
centesco risulta fenomeno più sfumato e articolato del coevo petrarchismo lirico e ri-
guarda ora la lingua, ora lo stile, ora lo spirito e i materiali narrativi, ora la struttura (ad
esempio la cornice), ma difficilmente tutte queste cose insieme.
Le ragioni della minore omologazione sono molteplici e complesse, ma in questo
caso la nuova realtà delle corti imponeva un gusto almeno in parte nuovo e favoriva
contaminazioni con altri generi letterari (dialoghi e trattati morali).
Un repertorio da variare e rielaborare Nel corso del Cinquecento le forme e i materiali narrativi
derivati dalla tradizione sono assunti, mescolati, rielaborati in tutti i modi possibili: es-
si costituiscono insomma un insieme di elementi combinatori piuttosto stabile, se si
eccettua l’ingresso cospicuo di una nuova aneddotica contemporanea.
Per quanto concerne la tipologia dei temi, dominano sempre le beffe in tutte le lo-
ro possibili variazioni e combinazioni (tra i componenti del classico triangolo amoro-
so, chierici e laici, borghesi e contadini, furbi e sciocchi…), i motti arguti, i casi pate-
tici e drammatici, gli esempi di nobiltà d’animo, le peripezie avventurose e così via.
Non viene insomma dall’esperienza cinquecentesca nulla di profondamente nuovo al-
la novellistica. Ci muoviamo per lo più in un ambito di godibili e raffinate variazioni
sul tema, tipico della cultura classicistica del secolo.
Alcune tendenze innovative È possibile tuttavia segnalare qualche novità: Straparola riattinge alla tra-
dizione folklorica il meraviglioso fiabesco, preludendo alla fortuna che la fiaba avrà in
tutta Europa a partire dal Seicento; Firenzuola, Grazzini, Bandello mostrano una cer-
ta predilezione per il macabro e il grottesco che si accentuerà ulteriormente nella se-
conda metà del secolo. Sul piano della poetica e dello stile notevole è il «realismo cro-
nachistico» di Bandello, che opta per una scrittura sobria, retoricamente poco elabo-
rata, aderente alla cronaca dei fatti, che ha fatto parlare Sapegno di una scrittura «gior-
nalistica». Si assiste infine, con la dilatazione sia della cornice sia delle stesse novelle
(Grazzini ad es. ordina le novelle delle Cene proprio in base alla loro lunghezza, di-
stinguendo fra brevi, mezzane e lunghe), a una progressiva inclinazione a superare la mi-
sura della novella per quella del romanzo, che poi si affermerà nel Seicento.
Novellieri comunali e novellieri cortigiani Nella prima metà del Cinquecento la produzione no-
vellistica si mostra assai più ricca che nel secolo precedente: novelle “spicciolate” e rac-
colte, opere di professionisti del narrare e di narratori occasionali. Pur nella difficoltà
di classificare tale materia, è possibile di

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