Sei sulla pagina 1di 14

Giampiero Nigro

Il saggio è tratto da I conti dei Monti. Teoria e pratica amministrativa nei Monti di Pietà fra
Medioevo ed Età Moderna, a cura di M. CARBONI E M. G. MUZZARELLI, Venezia, Marsilio, 2008,
pp. 15-33.

Usura e banca nei documenti contabili toscani fino alla introduzione dei Monti di Pietà.

Fra il Trecento e il Quattrocento le attività feneratizie mostravano un quadro estremamente


complesso con la concomitante presenza di forme tipiche della tradizione medievale e moderne
operazioni creditizie. La coesistenza di queste diverse funzioni risentiva della continua pressione
che la società e l’economia sviluppavano sugli operatori economici per rispondere al problema di
fondo della scarsa liquidità monetaria. Una questione che pesava da molto tempo a causa della
crescita dell’economia urbana, dell’espansione delle attività commerciali e manifatturiere, dei
processi di divisione del lavoro, di specializzazione professionale e di diversificazione sociale. In
corrispondenza dell’aumento delle attività di produzione e di scambio si assisteva a una continua
riduzione delle forme di pagamento in natura e quindi a un aumento del saggio di monetizzazione
cui, almeno fino all’arrivo dell’argento americano, non corrispose un adeguato accrescimento della
moneta circolante.
Questa situazione non si rifletteva soltanto sulle grandi aziende e sui commerci internazionali; essa
investiva anche le attività economiche più modeste e tutti i ceti sociali più deboli i quali, per le
caratteristiche del mercato del lavoro e la bassa redditività dei compensi, sopportavano diffuse
situazioni di indebitamento. Cottimisti, salariati urbani e piccoli operatori non sempre riuscivano a
far fronte ai bisogni quotidiani e tendevano ad anticipare la spesa di redditi futuri o sperati
ricorrendo all’usuraio.
Oggi abbiamo chiara la differenza tra prestito al consumo e altre forme di credito, sia dal punto di
vista dell’ente erogante che da quello dei soggetti e delle motivazioni per cui viene richiesto. Tra
Medioevo ed Età Moderna tale distinzione era meno netta soprattutto dal punto di vista dei
beneficiari che potevano trovarsi in condizioni di estrema povertà e si vedevano costretti a chiedere
prestiti di sussistenza o, pur essendo in condizioni meno disagiate, soffrivano di temporanea carenza
di liquidità e ricorrevano all’usuraio per prestiti al consumo o per sostenere le loro attività
produttive e commerciali. Quanto ai prestatori è bene precisare che una classificazione rigida
sarebbe inadeguata a rappresentare il fenomeno, non solo per l’evolversi della prassi e del pensiero
sulla applicazione del tasso di interesse, ma anche per le multiformi modalità di concessione.
Vedremo più avanti che, a parte il caso dei banchi di pegno, i prestatori potevano accontentarsi, in
alternativa alle garanzie reali, di un contratto notarile o di una scrittura privata o di una malleveria;
non mancavano inoltre casi di affidamenti fatti sulla fiducia. Questi diversi atteggiamenti non sono
sempre collegabili al mestiere dei soggetti eroganti. In sintesi possiamo dire che, durante il periodo
qui esaminato, si poteva ricorrere al servizio di operatori diversi: dai cambiatori e tavolieri ai banchi
di pegno, ad altre molteplici figure che, attraverso operazioni feneratizie, integravano i guadagni
provenienti dal loro mestiere ufficiale. Così, per fare qualche concreto esempio pratese, era il caso
del venditore di formaggi, Paolo di ser Ambrogio, che prestava sulla fiducia, o del sacerdote Paolo
di Gherardo che dava denaro “a carta e a pannello”1.

Sappiamo bene quanto fossero diffusi i banchi di pegno gestititi in forma specializzata.
Accordavano prestiti agendo secondo regole stabilite dalle autorità cittadine che riguardavano molti
aspetti delle loro attività: dal divieto di operare la domenica e negli altri giorni festivi al periodo di
conservazione dei pegni (generalmente un anno); talvolta la concessione all’esercizio del prestito su
pegno indicava anche l’interesse da applicare; nella Siena del primo Quattrocento esso ammontava
1
Archivio di Stato di Prato (da ora in avanti ASPO), Ospedali, 803, c. 44.

1
al 30% annuo, 2 soldi per fiorino al mese, la stessa percentuale che Lucca impose nel 14822, sei
anni prima della nascita del Monte di Pietà. Spesso gli statuti cittadini indicavano anche la
contabilità che il banco doveva tenere: bastava un registro che facesse fede dei pegni ricevuti e della
loro restituzione o vendita. Si trattava di una tecnica contabile piuttosto semplice che venne poi
acquisita e rielaborata dai Monti di Pietà, attuando un assetto prevalentemente orientato al controllo
della ricchezza investita. L’applicazione di questi criteri si ritrova nel frammento, studiato da
Ludovico Zdekauer3, appartenuto a un anonimo banco dei pegni toscano del 1417. Il celebre
studioso di storia del diritto italiano mostrò che il documento era appartenuto a un prestatore
cristiano. Ciò è normale poiché i cristiani che agivano “con quello modo che presta el giudeo”
erano piuttosto numerosi almeno fino al 1437, l’anno in cui Cosimo il Vecchio, di ritorno
dall’esilio, annullò le licenze concesse per attribuirle esclusivamente a ebrei.

Prestatori occasionali
Molti ritengono che i soggetti più provati dalla povertà si rivolgessero prevalentemente ai banchi di
pegno; in realtà ricorrevano anche ad altre figure che, muovendosi al di fuori di ogni regola,
svolgevano attività feneratizia occasionale. Il fenomeno, con le sue dimensioni e peculiarità, appare
come un eloquente segnale di quanto fossero disattese le norme antiusuraie.
L’esempio più significativo ci viene offerto da un quaderno di Rustichello dei Lazzari tenuto tra il
1328 e il 13324. Si tratta di una sorta di Memoriale nel quale si succedono appunti ordinatamente
scritti, ma privi di forma contabile, che segnalano operazioni di prestito svolte in modo sporadico.
Rustichello, tra il 1311 e il 1347, fu priore della canonica e chiesa di San Pietro a Seano, un antico
centro attualmente inserito nella provincia di Prato. Membro di una potente famiglia pistoiese, visse
e utilizzò intensamente le importanti relazioni che, anche attraverso i suoi fratelli, gli consentirono
di perseguire ambiziosi obiettivi. Nel 1320 ottenne una lettera di raccomandazione da Roberto
d’Angiò, indirizzata a Giovanni XXII, perché gli fosse attribuita la dignità di vescovo; non vi riuscì,
ma ottenne la potente carica di canonico della cattedrale di Pistoia, continuando a beneficiare del
priorato e delle rendite della ricca chiesa di San Pietro e di quella di San Biagio a Casale di Prato 5.
Durante la sua vita non mancò di dedicarsi a qualche intrapresa commerciale e, come mostra il suo
piccolo registro, alla concessione di prestiti a tassi di interesse particolarmente elevati. Nei quattro
anni documentati, il sacerdote ne effettuò 42, per oltre 550 lire; di questi il 97% erano in denaro e il
3% in grano, panico e orzo, ceduti sotto forma di vendita a credito. Le restituzioni furono fatte in
denaro, in natura o in attività lavorative. Il tasso di interesse annuo praticato variò prevalentemente
tra il 40 e il 55%, qualche volta superò il 100%; i prestiti in natura, almeno una volta, sopportarono
un tasso del 150%. Per le garanzie richieste, prevalse il pegno, anche se in qualche caso bastò la
semplice parola.
Colpisce il fatto che un alto prelato come Rustichello fosse così lontano dai dettami di San
Tommaso che, pur con alcune importanti aperture teoriche, sanzionava l’usura come un grave
peccato fatto in disprezzo della povertà di Cristo; colpisce ancora di più che egli agisse proprio
negli anni del Concilio di Vienne (1312) che inasprì la condanna contro le attività usurarie. Più che
un giudizio morale sul comportamento del nostro sacerdote, ci interessa sottolineare l’aspetto
squisitamente economico del problema; non è sufficiente spiegare l’esistenza di simili attività con il

2
I dati emergono dalla petizione di rendere libero il prestito “a tenduccia” pubblicata da L. ZDEKAUER, L‟interno di un
banco di pegno nel 1417 con documenti inediti, in «Archivio Storico Italiano», 1896, serie V, tomo XVII, pp. 63 – 105,
pp. 105, 79.
3
L. ZDEKAUER, L‟interno di un banco di pegno, cit.
4
Archivio di Stato di Pistoia (da ora in avanti ASPT), Documenti vari, 41. Il registro è stato trascritto e analizzato nella
tesi di laurea di A. BRACCIALI, Mercanti e prestatori pistoiesi dell‟inizio del Trecento (con trascrizione dei libri di conti
di Giancarlo dei Lazzari, Rustichello dei Lazzari e Nardo dei ***), Tesi di laurea, voll. I e II, Università degli Studi di
Firenze, Facoltà di Economia, Anno accademico 1998-1999.
5
Sulle vicende di Rustichello e del suo priorato si veda, alla voce Seano, E. REPETTI, Dizionario Geografico fisico
storico della Toscana, contenente la descrizione di tutti i luoghi del Granducato, Ducato di Lucca, Garfagnana e
Lunigiana, Firenze, 1843.

2
pragmatismo della Chiesa e neppure con la diffusa mentalità di intraprendenza e cultura del rischio
che assicurava alla Toscana un ruolo di primo piano; Rustichello e gli altri prestatori del suo tempo
approfittavano della forte pressione che proveniva dal contesto. Il trend economico dei secoli XIV e
XV ebbe un andamento sostanzialmente positivo; fu un periodo di espansione economica, solo
temporaneamente interrotto dalla Peste Nera, all’interno del quale la scarsità monetaria e la sua
insufficiente circolazione provocava un continuo e consistente bisogno di liquidità.
Per questi motivi nelle città toscane le attività di prestito occasionale svolte da artigiani e
commercianti erano molto più diffuse di quanto si creda. In ciascuno dei registri contabili di piccoli
operatori che abbiamo consultato negli archivi toscani, troviamo immancabilmente che parte del
loro giro di affari era costituita da attività feneratizie più o meno frequenti. Esisteva una sostanziale
differenza tra questi e gli altri prestatori: nella maggioranza dei casi essi non pretendevano garanzie
reali o fideiussioni, al massimo si accontentavano di una scrittura privata, a volte personalmente
stilata, sul Memoriale o sul Libro Debitori, dalla mano del debitore che spesso era un cliente
abituale o un conoscente. Ci troviamo, dunque, di fronte ad una situazione tipica del mondo urbano,
all’interno della quale i rapporti consuetudinari, la stessa vicinanza fisica introducevano meccanismi
di fiducia e snellezza di contrattazione tra le parti.
Accenneremo a qualche esempio che ci consenta anche di riprendere la riflessione attorno alle
modalità di gestione contabile di questi affari.
I due registri di Domenico di Iacopo Giusti (1365-1408)6, lasciati allo Spedale Misericordia e Dolce
di Prato, rappresentano un ordinamento contabile semplificato. Domenico faceva il sarto, era un
piccolo operatore che non distingueva la ricchezza personale da quella aziendale e, grazie alla
relativa modestia del lavoro che svolgeva, ricorreva alle scritture solo per annotare posizioni
debitorie e creditorie con le relative scadenze. Tra gli operatori come lui erano piuttosto rari i
registri di cassa e ancora più quelli accesi alle merci e alle masserizie.
Poiché svolgeva una intensa attività di prestito le sue scritture preparatorie erano significativamente
distinte in un quaderno che conteneva tutti i fatti aziendali come gli acquisti, le vendite e i prestiti
ricevuti e in un Libro della prestanza che teneva memoria dei prestiti concessi. Le registrazioni
dell’uno e dell’altro venivano rinviate per sintesi alle scritture definitive rappresentate dai due libri
debitori giunti fino a noi.
Domenico integrò i guadagni della bottega con un consistente numero di prestiti concentrati nei
decenni 1365-1376 e 1381–1392; l’interruzione è collegabile ad una fase di riduzione delle sue
attività di sartoria. Non siamo in grado di ricostruire il suo giro di affari poiché mancano i registri di
Entrata e Uscita in cui erano scritti i lavori riscossi in contanti. Possiamo però fare un interessante
raffronto tra le operazioni feneratizie e quelle di sartoria a pagamento dilazionato. Nel primo
periodo Domenico effettuò 145 atti di prestito per un totale di circa 825 lire, mentre i capi
confezionati a credito furono 467 per un valore di 835 lire; nel secondo periodo ne concesse 312 per
oltre 1378 lire e confezionò 600 capi per 854 lire. Dunque l’incidenza delle attività di prestito fu
particolarmente elevata.
La sinteticità di simili fonti consente risposte parziali alle nostre curiosità; solo in pochi casi le
registrazioni indicano il mestiere dei sovvenuti 7, la durata dei prestiti8 e i motivi per cui erano stati
chiesti. Essi comunque evidenziano le più diverse esigenze: dall’acquisto di generi alimentari al
pagamento di affitti o di gabelle o di lavori edili, dalle spese per un funerale o di un viaggio
all’affitto di un ronzino. Per analogia con le poche notazioni riportate si potrebbe pensare che i

6
ASPO, Ospedali, 799 e 803. Le attività di “fornimento e cucitura” del Giusti sono state studiate da una mia allieva,
Rossella La Monica, Le attività di un piccolo artigiano nel XIV secolo: Domenico di Iacopo, sarto a Prato, Tesi di
laurea, voll. I, II, III, Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Economia, Anno accademico 1998-1999.
7
Sappiamo il mestiere di solo 68 persone, tra queste 18 farsettai, 12 frati, 11 dipintori, 10 maestri artigiani.
8
È stato possibile ricostruire la durata di solo 30 prestiti; 10 di essi furono rimborsati prima di un mese, due dopo un
anno.

3
prestiti al consumo si collocassero tra le somme di minor valore9. Oltre la metà delle erogazioni
furono di importi inferiori alla lira, più di un quarto superarono il fiorino.
Vediamo i contenuti di un conto acceso a un pittore nel 1384:

1383, dì 17 di feraio
Checo dipintore de‟ dare, detto dì, i quali diedi per lui a ser Piero
Canbioni, per uno mezzo barile di vino vermiglo,
s. 18
E de‟ dare, i quali prestai per suo‟ fatti, s. 11
Ànne dati per huova che mmi paghò s. 2 d. 8
Ànne dati a dì 16 di marzo 1384, s. 20
E de‟ dare, a dì 1 di maggio, che gli prestai al Canto alla Piagna, s. 10
Ànne dati Checho, a dì 20 di maggio 1385, s. 10
E de‟ dare, a dì 27 di maggio, che lli prestai, s. 2

Pagato10.
____________________

Cecco apparteneva a quella categoria di artigiani soggetti a crisi di liquidità; nonostante che si
facesse consegnare dai committenti le materie prime necessarie, era spesso costretto ad attendere la
fine del lavoro prima di riscuotere il compenso dovuto.
Nel conto acceso alla sua persona, il mancato riferimento all’entità della somma versata per saldare
il prestito impedisce ogni valutazione sull’interesse applicato. Probabilmente era una scelta voluta:
non dobbiamo dimenticare che, in caso di controversie, le magistrature dell’arte avrebbero potuto
sottoporre ad esame i registri del sarto con disastrose conseguenze se avessero evidenziato
operazioni illecite.
Domenico Giusti prestava dunque sulla fiducia e non indicava il tasso di interesse, ma non fu così
per alcuni prestiti di valore più alto. L’undici aprile 1385 versò venti fiorini a Nardo e Lore da
Popigliano, con una carta notarile in cui “confesoro avermi a dare f. 3011”. La somma indicata nel
contratto prevedeva anche che Lore avrebbe dovuto versare 7 staia di grano; sul piano formale non
veniva enunciato alcun interesse ma una semplice promessa di pagamento. Il Libro debitori
chiarisce il senso del rogito al momento della chiusura del conto. I sovvenuti dopo cinque mesi “mi
renderono f. 20 d‟oro di capitale” e, per il tempo “che ttenne ditti denari mi diede, per 3 staia di
grano, uno fiorino e mezzo”12; ciò significa che i 30 fiorini non erano il montante da restituire alla
scadenza, ma una ulteriore garanzia in caso di ritardato pagamento mentre l’interesse era espresso
in quantità di grano. Vale la pena sottolineare che il tasso effettivo fu del 12% annuo, relativamente
basso.
Un esempio simile a quello del Giusti è rappresentato da un altro pratese, Paolo di ser Ambrogio13,
un caciaiolo che può essere studiato esaminando il suo Libro Debitori e Creditori relativo al periodo
1403-1411. Anch’egli come Domenico di Iacopo faceva credito sulla fiducia e quindi senza alcuna
garanzia; l’entità dei 316 prestiti effettuati in otto anni (1551.10.0 lire) superò le vendite di
formaggi fatte a credito durante il medesimo periodo (1207.7.8 lire). La contabilità presenta qualche
ulteriore elemento di curiosità: Paolo chiese a sua volta prestiti e ricevette somme a titolo di
deposito, per oltre 1410 lire. Diversamente da quanto potrebbe apparire, il bilanciamento tra somme
prestate e ricevute non dimostra l’esistenza di una qualsiasi forma di attività bancaria; i prestiti
richiesti non rispondevano alla logica della provvista fondi, ma servirono alla bottega dei formaggi
9
Per chiarire quanto possa essere contraddetta questa ipotesi, il 25 dicembre 1389, furono prestati al maestro Tomaso
della Gramatica f. 1 e s. 15 “i qua gli prestai per cagione di pagare suo vino”. ASPO, Ospedali, 799, c. 2.
10
Ivi, c. 64.
11
ASPO, Ospedali, 799, c. 73.
12
Ivi.
13
P. PINELLI, Le attività molteplici di un caciaolo pratese alla fine del Trecento, in «Prato Storia e Arte. I supplementi»,
anno XXXVI, pp. 5-62, pp. 24-26.

4
in momenti di crisi di liquidità, come dimostrano alcune operazioni che sembrano vere e proprie
aperture di credito ottenute da fornitori. In tre casi ottenne prestiti regolari da tre diversi tavolieri.
Anche i depositi ricevuti non appaiono come provviste di fondi: alcuni gli furono consegnati da
conoscenti, altri da terzi che, su disposizione delle autorità comunali, furono costretti ad
accantonare somme di denaro a garanzia di impegni verso la comunità pratese.
Tra i suoi conti appare particolarmente interessante quello acceso a Pasquino di Giovanni, un
pizzicagnolo che intratteneva continue relazioni di affari con il Nostro:

Passchuino di Giovanni, piççichangniuolo, di Porta


Ghualdimari dè dare, per una sua ragione arieto in
questo a charta 4 per resto lire quattro s. cinque d.
sei; levata di là e posta qui, lb. iiii s. v d. vi
E dè dare per uno resto di tonina chome apare in
questo arieto a ch. 9, s. dicienove, lb. 0 s. xviiii
E dè dare lire otto, i quali ebbe dalla Bartolomea in
prestanza per grazia e per amore, lb. viii
E dè dare per una tela fecie la Bartolomea a lui, lb. i s. x
____________________
Ànne dato, a dì 6 di dicienbre 1407, una forma di
cacio, pesò libre due on. otto, per s. tre libra, per
tutto, s. viii
Ànne dato due dozzine di chassini da vaglio di
giunchi; vanseno lire quattro per tutti, lb. iiii
Ànne dato quattro fiasschi da vino, per s. quattro
l‟uno, lb. 0 s. xvi
Ànne dato, a dì 17 di feraio 1409, fiasschi due di
mezzo quarto, s. viii
Ànne dato, per uno paio di forbici chonperò da me e
rèndemele, s. x
Posti innanzi in questo, a ch. 116,
questo resto, che sono lb. otto s. 12 d. 614
____________________

La terza registrazione in dare mostra un prestito dato per grazia e per amore; si trattava di una
espressione tipica e ricorrente anche nei registri di altri operatori che segnalava casi di prestiti senza
interesse. Osservando tutta la serie di registrazioni si nota che, seppure tenuto in forma scalare, il
conto appare quasi come un conto corrente di corrispondenza tra i due bottegai nel quale si
confondono attività di scambio commerciale con veri e propri piccoli prestiti e che presentava
frequenti scoperti. È del tutto evidente che il piccolo caciaiolo aveva qualche dimestichezza con
abitudini consolidate nel mondo dei grandi mercanti; vedremo più avanti che il dinamismo urbano e
la forte circolazione delle conoscenze tecniche stavano provocando consistenti innovazioni anche
nelle attività di prestito. Sembra di poter dire che, in assenza di attività bancarie in grado di
consentire una adeguata circolazione di moneta, i rapporti finanziari tra le aziende e tra esse e i loro
clienti sopperivano a tali necessità provocando nei fatti un gioco di prestiti e finanziamenti
fortemente condizionati dall’alternarsi di fasi di disponibilità e di ristrettezza di denaro liquido.
In questa frammentaria rappresentazione degli usurai occasionali, vale la pena citare anche un caso
cinquecentesco, quello di Francesco di Giovanni di Giusto oste di Sant’Agata, località vicina a
Scarperia, famosa anche allora per la produzione delle sue lame. Tra il 1484 e il 1511 Francesco
concesse 55 prestiti soprattutto ad artigiani e bottegai. Si trattò di una percentuale modesta del suo
giro di affari valutabile attorno al 6%, ma è assai significativo che anche lui ricorse più volte a

14
ASPO, Ospedali, 814, c. 43.

5
usurai che, come vediamo dalla seguente registrazione, esigevano contratti notarili e pegni
inconsueti:

“Bernan di Piero de la Torriciela, dè avere f. 16 larghi d‟oro inn oro, chontratto di mano di ser
Giovanni Milanese, prestogli a dì 14 di maggio, ebie in pegno un champo da l‟Isola e fra dua
ani, no rendendo detti danari, s‟à a fare stimare tantta terra montti detti danari e chosì siano
d‟achordo”15.

Accanto a quelle di artigiani e bottegai, troviamo attività di prestito anche all’interno delle aziende
produttive di qualche dimensione.
Un noto lanaiolo pratese, Piero di Giunta del Rosso aveva affidato al suo contabile, Matteo
Bellandi, il Quadernuccio di prestanze di denari e cose di bothega16 tenuto tra il gennaio 1389 e il
febbraio 1393; esso evidenzia 688 prestiti e anticipazioni di compensi. A usufruirne non furono solo
dipendenti e artigiani che lavoravano per il fondaco di Piero: tra gli oltre 180 beneficiari troviamo
52 lavoranti in bottega, 19 filatrici e filatori, 15 tessitori ma anche persone totalmente estranee come
un cartaio, un prete, un fornaciaio o tre tavolieri. Come in tutte le altre contabilità esaminate, il
mestiere dei debitori veniva raramente indicato ma possiamo ritenere che fossero in maggioranza
salariati e artigiani i quali ricevettero denaro contante o si fecero pagare prodotti di consumo e
materiali necessari alle loro attività; si trattava di piccole somme, raramente superiori alle sei lire. I
conti, a sezioni sovrapposte, erano intestati ad ogni singolo creditore e si aprivano in dare con
l’espressione per denari prestati o ebe in presto; nell’avere si registrava il saldo del debito in
contanti con un laconico ànne dato oppure conteggiando il lavorio fatto. Nel triennio documentato
ben 107 persone chiesero prestito una sola volta, poche decine di essi ricorsero all’aiuto della
bottega in modo frequente. In nessun caso fu chiesta alcuna garanzia, ciò significa che la reciproca
conoscenza e una certa abitudine a collaborare creava un clima di fiducia che rendeva tutto più
facile.
Anche il corposo sistema contabile dell’opificio laniero pratese di Francesco di Marco Datini e
Agnolo di Niccolò di Piero (1396-1400), aveva un Libro di prestanze della cassa17. Era distinto in
tre settori: Prestanze di filatori, Prestanze a orditori, tessitori, licciatori e Prestanze straordinarie
che conteneva anticipazioni o prestiti accordati ai salariati, ai fattori e ad altri soggetti. Questo
registro era del tutto autonomo dalla Cassa principale, dalle Entrate e Uscite e dagli altri libri della
gestione industriale; in tal modo si evitavano automatiche compensazioni contabili con gli anticipi
elargiti che erano considerati veri e propri prestiti.
Il ruolo sociale del Datini e una accorta politica volta a rafforzare la vicinanza e la fedeltà di
conoscenti, amici e collaboratori suggerivano al mercante comportamenti attenti alle loro necessità.
A seconda dei casi i prestiti potevano essere gratuiti o onerosi, comunque erano sempre destinati a
sovvenire le esigenze più disparate: dal pagamento di gabelle o pigioni di casa, all’acquisto di
prodotti alimentari o al pagamento di debiti di gioco. Tutto questo emerge anche dalla contabilità
personale del mercante che evidenzia ancora di più l’intento di dimostrare qualche impegno solidale
come nel caso del famoso pittore fiorentino Agnolo di Taddeo Gaddi al quale furono date
suppellettili “gli prestamo per certo tempo per amore e per cortesia18” o nel caso di piccole somme
a fornai, carrettieri, legnaioli, fornaciai, manovali e muratori. Frequenti erano infine i prestiti dati a
familiari dei suoi collaboratori o ad amici come Lorenzo di Agnolo, un medico che doveva far
sposare la figlia,19 o il noto e agiato Pietro di Paolo Gherardeschi che ricorse più volte agli uffici del

15
ASPO, Patrimonio ecclesiastico, 2661, c. 55
16
Questa l’apertura del registro: “Al nome di Dio e di ghudangno e prò sanza danno./ Quest‟è il quadernucio di tutti e‟
denari che à Matteo d‟Andrea prestati a più persone in prima, e anco e iscriverò ongni chosso che io presterà di chose
di bottegha. ASPO, Ceppi, 1211, c. 1.
17
ASPO, Datini, 300.
18
ASPO, Datini, 202, c.10.
19
ASPO, Datini, 235, c. 163.

6
mercante per ottenere somme consistenti che superarono i 100 fiorini d’oro gravi a tassi modesti
che si aggiravano attorno all’8%20.

Tavolieri e cambiatori
Nonostante la formale distinzione tra usurai e bancherii o campsores, questi ultimi non si
limitavano alle attività di deposito e cambio di moneta; erano anche prestatori abituali.
Il frammento di un quaderno21 (19 giugno 1285-22 aprile 1286) appartenuto a Sinibaldo Angiolini,
per quanto breve ed essenziale, apre uno squarcio sulle attività feneratizie del personaggio pratese.
Si tratta di un quaderno di prima nota, poiché contiene registrazioni analitiche che venivano
periodicamente rinviate, per sintesi, al Libro della Prestanza e Serbanza. Le registrazioni contenute
fanno emergere una contabilità estremamente semplice che si limitava alla memoria dei fatti ma
ricca di notizie che normalmente si perdono tanto nella contabilità di sintesi che nei contratti
notarili.
Il registro conteneva conti intestati ai singoli mutuatari, tenuti in forma scalare, di cui proponiamo
un esempio:

Bono et Berlinghieri da Setimo, caser di Martinucio Ranieri a


Paparini ci dè dare, ce lli prestai malevadore Martinucio detto et ch‟è
charta per ser Marmolaio se Ranieri in termine d‟uno anno et sono al
termine, per d. iiii livra, lb. vi, mcclxxxvi dì viii d‟abrile; et ebeli in
loro mano, lb. 5
Diedeci di sua mano, dì xi di magio „lxxxvii, s. 16
Rimane a dare lb. v fata con lui, dì i otobre „lxxxviii,
Anche ci diede di sua mano, dì i otobre „lxxxviii, s. 37
Rimane a dare lb. v fata con lui, dì i ottobre „lxxxviii,
Anche ci diede per lui ser Lenzo, filius Mergugli, dì xx otobre ne
„lxxxviii, lb. 5
Anche ci diede di mano dì i dicenbre „lxxxviiii, s. 1
Lb. vii s. xiiii22
_____________________

Non troveremmo queste informazioni nel corrispondente contratto notarile che, per ovvi motivi di
legittimità, nascondeva l’usura. La carta fu sottoscritta per sei lire, mentre la registrazione chiarisce
che la somma versata fu di 5 lire e l’interesse (riferito al mese) di 4 denari per lira (20% annuo).
Alla scadenza, Bono da Settimo chiese e ottenne una proroga, versò gli interessi maturati e rinnovò
il contratto per il medesimo importo tramite una semplice scrittura privata.
In undici mesi Sinibaldo effettuò 248 prestiti a 186 persone per un totale di oltre 5220 lire23, non
chiese alcun pegno ma sempre un promessa di pagamento davanti al notaio e, nel 56% dei casi,
l’intervento di un mallevadore. Variegata la clientela come diverse furono le somme concesse e i
tassi di interesse applicati. Anche in questo caso le registrazioni indicano raramente le motivazioni,
il mestiere e la zona in cui abitava il cliente, ma si ha l’impressione che la maggioranza di essi
fossero piccoli operatori della città e del contado. La dimensione relativamente alta di alcuni
versamenti indica la presenza di mutuatari più agiati: 53 prestiti (21,8%) furono superiori a 30 lire
(10 di essi superarono le 100 lire); in 66 casi (27%) le somme stettero al di sotto di 3 lire24. L’analisi

20
ASPO, Datini, 202, c. 41.
21
ASPO, Ospedale, 2466. Il frammento, composto da 29 fogli con inizio a c. 195, è ciò che rimane di una vacchetta
mezzana che, visti i rimandi delle ultime registrazioni contenute, doveva essere di circa 400 fogli.
22
ASPO, Ospedale, 2466, c. 223.
23
Le somme venivano registrate in fiorini e in moneta di conto (lire di piccoli); in 22 casi furono versati fiorini ma, per
gli altri prestiti, non abbiamo trovato indicazioni sulle monete effettive consegnate. Le nostre indicazioni fanno
riferimento alla lira tenendo conto di un cambio stimato per il periodo di 1 fiorino pari a s. 36.3.
24
Se teniamo conto del fatto che in 42 casi si trattò di interventi fatti su posizioni già aperte, i piccoli prestiti effettuati
in un solo versamento non raggiunsero l’1% del totale.

7
per classi di importo25 mostra un certo equilibrio distributivo, ciò significa che l’azione di Sinibaldo
fece fronte alle necessità finanziarie dei soggetti più disparati.
La somma minore, che ammontò a 20 soldi, fu attribuita a Tendi di Fazio Lapi da Figline26, con un
tasso del 20%. Il criterio dei 4 danari al mese per lira prevalse, seppure con qualche piccola
variante, per cui possiamo dire che nell’80% dei prestiti l’interesse applicato si collocò tra il 15 e il
20% annuo; negli altri casi si registrò un minimo del 10% (applicato a Lotto di Cambio del Brucia
sulla somma di 100 lire27) e un massimo del 40% su 3 lire date a Lando di Montanino il 24 giugno
128528. Lando aveva sottoscritto una carta notarile che prevedeva il pagamento di 4 lire e 4 soldi;
dopo 38 giorni saldò il suo debito con 3 lire, 2 soldi e 8 denari; il conteggio fu puntigliosamente
riferito al periodo di 3 mesi e 1/3. Non conosciamo il mestiere di Lando e neppure quello di un certo
Civenni di Ranaldi da Paperino al quale furono prestati 30 soldi al 30% annuo29, ma sembra
significativo che altre somme di piccola entità, date a un mugnaio 30 per 3 lire o a un “lavoratore di
Talduccio”31 per 40 soldi, subirono il tasso del 25%.
Sinibaldo non tenne il medesimo rigore nei confronti di altri clienti che ebbero somme più
consistenti. Duccio di Vicini e Iacopo di Benentendi32 dovevano essere ben conosciuti se ottennero
un prestito di 80 fiorini (145 lire) senza alcuna malleveria; quando, 72 giorni dopo, estinsero
anticipatamente il loro debito, beneficiarono di una piccola riduzione sul tasso previsto del 15%. In
generale gli interessi più bassi (tra il 10 e il 17%) furono concessi a persone che chiesero prestiti di
qualche consistenza. Tutto questo fa pensare che l’Angiolini tenesse conto dei rischi a cui si
esponeva e che comunque, fatti salvi alcuni casi, manteneva su livelli moderati gli interessi
richiesti; il fatto che queste scelte investissero le somme più alte fa pensare a una clientela più
affidabile, meglio inserita nel mondo degli affari, capace di valutare e contrattare il tasso.
Simili attività erano diffuse anche in tempi successivi. Seppure con modalità diverse da quelle
praticate dall’Angiolini anche Giancarlo dei Lazzari, cambiatore di Pistoia, svolse consistenti
attività feneratizie. Il suo Quaderno di “tutti coloro che debbono dare” copre tre mesi di attività
(dicembre 1348-marzo 1349)33. Si tratta di un registro tenuto in forma scalare nel quale si
annotavano giorno per giorno le operazioni svolte. Da esso emerge che il Lazzari, come altri
campsores, svolgeva compravendita di oggetti preziosi, ma le sue prevalenti attività erano il cambio
manuale con provvigioni (rari i cambi traiettizi), la provvista di fondi e prestiti a breve termine. In
appena tre mesi attuò 308 transazioni monetarie fatte di cambi tra conii appartenenti a città e zecche
diverse e, in misura maggiore, di cambi tra moneta aurea locale e pezzi di piccolo taglio. Non è un
caso che le sue attività aumentavano proprio durante i giorni di mercato, quando l’accelerazione
degli scambi innalzava la domanda di denaro. Proprio in quei giorni era frequente constatare che
molti suoi clienti si presentavano al banco con una moneta d’oro; essa raramente era cambiata per
l’intero, ma veniva restituita gradualmente in contanti o pagando terze persone per conto del cliente.
Insomma, oltre che offrire un servizio di cambio, Giancarlo svolgeva attività di raccolta e piccoli
servizi bancari che affiancavano le operazioni di prestito. Confusi o meno con i cambi, nei quattro
mesi documentati furono concessi 574 prestiti per un totale di 2790 lire e 8 soldi; di questi, 421
risultano inferiori o uguali a un fiorino e 256 vennero restituiti in unica soluzione. In 48 operazioni
le somme furono rimborsate il giorno stesso, nella grande maggioranza degli altri casi il prestito

25
Questa la distribuzione per classi relativa a 243 somme mutuate: 66 casi (27%) ≤3 lire; 28 casi (11,5%) 3< ≥5; 44 casi
(18,1%) 5< ≥10; 52 casi (21,4%) 10< ≥30; 53 casi >30 lire.
26
ASPO, Ospedale, 2466, c. 213. Si tratta della più piccola somma data in una unica soluzione; non abbiamo preso in
considerazione interventi di entità più modesta, che integravano prestiti ancora aperti.
27
Ivi, c. 201.
28
Ivi, c. 195.
29
Ivi, c. 224.
30
Grifo del Bene, mugnaio di Aconcio Latini al Ferro; Ivi, c. 213.
31
Si chiamava Giovanello di Ponzi, stava in Porta Tiezi ed era lavoratore di Calduccio di Consoli che fece il
mallevadore; Ivi, c. 222.
32
Ivi, c. 204.
33
A. BRACCIALI, Mercanti e prestatori pistoiesi, cit.

8
durò da uno a sette giorni34; solo in dieci occasioni superò il mese. Il nostro cambiatore rispondeva
a esigenze raramente classificabili come prestiti di sussistenza; i suoi clienti erano largamente
solvibili e solo in temporanea carenza di liquidità. Proprio per questi motivi incontriamo operazioni
di prestito su pegno di moneta:

1349, dì 26 giennaio35
Nicolao Fillianchi de‟ aver fiorini i per soldi v
Pagò e riebe il fiorino
____________________

La registrazione non abbisogna di particolari interpretazioni, la locuzione “pagò e riebe il fiorino”


esclude ogni dubbio. Se invece, come accade spesso, il conto fosse stato chiuso con un sintetico
“pagato” non potremmo capire chi avesse fatto il pagamento, se il cliente o il cambiatore; non
sapremmo se ci troviamo di fronte ad un prestito su pegno di moneta o ad un cambio con provvista
di fondi come nel caso che segue:

11 febraio 134936
Simone rigattieri dè dare s. 25, diede f. 1 d‟oro
Ànne avuti Puccino, dì xiii di febraio s. 39 d. 6
____________________

Simone versò al cambiatore 1 fiorino e ottenne subito 25 soldi; due giorni più tardi Puccino (parente
o collaboratore del rigattiere) ricevette a saldo 39.6 soldi. Il cambio ufficiale del fiorino sulla piazza
era 64 soldi; nella pratica quotidiana si registravano quotazioni leggermente diverse dalla parità
cambiaria, dovute a momenti di larghezza o ristrettezza di moneta aurea; dunque non possiamo dire
con certezza che i 6 denari pagati in più siano stati interessi maturati sul deposito di due giorni.
Nonostante che gli esempi sopra riportati abbiano un valore meramente esemplificativo, si
comprende che i tassi di interesse applicati dai tavolieri variassero attorno a livelli meno elevati di
quelli di altri usurai occasionali o dei banchi di pegno. Sembra inutile sottolineare che, pur nella
sostanziale confusione tra prestiti di sussistenza, prestiti al consumo e finanziamento di attività
economiche, la prassi, essenzialmente condizionata dal rischio che si assumeva il prestatore e dalla
presumibile solvibilità dei suoi clienti, sembrava evolversi lungo percorsi dettati dalla economia
cittadina che, almeno nei fatti, esigeva un sostegno più agile e tempestivo delle attività produttive e
commerciali.

Tenere il banco e restituire le usure


La fonte contabile, così ricca di informazioni sulle tecniche e sulle pratiche quotidiane, non offre
alcuno spazio al dibattito sull’usura che pure era vivace e intenso, né alle condizioni psicologiche e
culturali che influivano sui comportamenti di questi operatori. Ciò non toglie che, scavando tra i
tanti materiali presenti negli archivi toscani, si possano trovare informazioni degne di attenzione.
Prendiamo il caso di Guelfo d’Orlando Taviani, cambiatore e usuraio a Pistoia nel ventennio a
cavallo del Quattrocento. Non abbiamo ancora trovato un registro che gli sia appartenuto ma le
notizie che lo riguardano sono contenute nella contabilità di suo cognato, Rinforzato Mannelli 37,
altro banchiere pistoiese.

34
A. BRACCIALI, Mercanti e prestatori pistoiesi, cit.,vol. I, p. 56.
35
ASPT, Documenti vari, 41, c. 25, in A. BRACCIALI, Mercanti e prestatori pistoiesi, cit., vol. II, p. 124.
36
Ivi, c. 40, in A. BRACCIALI, Mercanti e prestatori pistoiesi, cit., vol. II, p. 189.
37
ASPT, Spedali riuniti, 43. Il registro è stato trascritto e studiato, in occasione della sua tesi di laurea, da V.
MANGANIELLO, Un registro contabile di Rinforzato Mannelli, operatore finanziario a Pistoia nei primi del
Quattrocento, Tesi di laurea, voll. I e II, Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Economia, Anno accademico
1998-1999.

9
Guelfo morì alla fine del 1409. Esecutore testamentario fu nominato Rinforzato che annotò nel suo
Libro del Banco tutte le questioni riguardanti l’eredità. Guelfo teneva, oltre al Mastro, un Libro
delle usure (sorta di Memoriale simile ai quaderni di Sinibaldo e del Lazzari) e un Libro Cassa; ad
essi si aggiungeva un piccolo quaderno di sei fogli in cui registrava le riscossioni relative alla
gabella sul macello che aveva appaltato. Tutti questi registri furono chiusi, per conto degli eredi, da
Lanfranco di Michele Astesi che stilò una sorta di bilancio finale da consegnare al Mannelli.
Il Taviani aveva lasciato una parte dei suoi averi alla moglie “monna Caterina, … donna
usufruttuaria lassata per lo ditto Guelfo”38 e il resto all’Opera di San Iacopo e all’Ospedale di Santa
Maria de’ Poveri del Ceppo di Pistoia in parti uguali.
Questa decisione era tipica degli operatori economici, soprattutto toscani; i fondi archivistici di
molti ospedali e istituzioni benefiche sono ricchi di registri appartenuti a donatori testamentari che
vennero raccolti per verificare la effettiva consistenza dei lasciti.
Secondo quanto appare dalla gestione del Mannelli, gli eredi recuperarono prestiti ancora attivi per
un valore superiore alle 3165 lire, mentre nei forzieri del defunto furono rinvenute più di 2405 lire
in monete di conio diverso. Dunque il giro di affari di Guelfo era piuttosto ampio e molte le attività
usurarie che vi sottostavano. Nel sistemare i conti monna Caterina provvide a restituire i pegni
lasciati da venti persone per oltre 325 lire e, secondo gli usi, più di 357 lire di usure che il marito
aveva riscosse.
Ciò che dal nostro punto di vista appare più importante è come gli eredi vi abbiano provveduto:

mcccx39
Monna Caterina, per adrieto donna di Guelfo Taviani,
de‟dare…
E de‟ dare, dì xii d‟aprile, pagai di volumtà de
l‟operari e loro presenza a Piero Corsellini comtanti
lire dodici e sono per usure avea dato a Guelfo lb. 31
s. 12, liberò de ressto, carta per mano di ser Amdrea
de‟ Rossi, f.- lb. 12 s. - d.
E de‟ dare, dì soprascritto, pagai di volumtà de ditti
operari e lloro presenza a Piero Bomcietti, sarto, lire
quattro soldi cinque e sono per lb. x die‟ a Guelfo,
libero de resto, carta per mano di ser Amdrea Rossi, f. - lb. 4 s. 5 d.
____________________

Le somme restituite furono solo una parte di quelle effettivamente percepite. Dal documento
emergono 48 restituzioni; purtroppo, dopo i primi tre casi, le annotazioni del Mannelli divennero
meno analitiche e non vennero indicate le somme originariamente versate dai mutuatari40, forse
Rinforzato riteneva superfluo tanto approfondimento oppure, ma sembra improbabile, furono
restituzioni totali.
Gli eredi erano mossi dalla pia volontà di ridare somme che la Chiesa riteneva illegittimamente
guadagnate; lo fecero, ma non per l’intero ammontare. Probabilmente ci fu una vera e propria
transazione, fatta davanti al notaio, con conclusivo atto liberatorio da parte degli ex mutuatari che,
nei casi documentati ricevettero il 45% (Paparo di Giusto), il 38% (Piero Borsellini) e il 42,5%
(Piero Concetti). Ci sembra il segnale più eloquente di come, nella prassi quotidiana, piuttosto che
condannare l’applicazione dell’interesse, si considerasse deplorevole e illegittimo un suo alto
livello.

38
ASPT, Spedali riuniti, 43, c. 220.
39
Ivi, c. 204.
40
Oltre che al Borsellini e al Boncinetti furono restituiti a Paparo di Giusto 13 fiorini e 3 lire a fronte di 30 fiorini e lire
3 di interessi pagati; Ivi, c. 194.

10
Verso la banca moderna
Figure come quelle di Sinibaldo Angiolini, Giancarlo dei Lazzari e Guelfo Taviani erano presenti in
ogni città con una attività ufficiale e relativamente specializzata che si svolgeva nella bottega o sulla
piazza del mercato, dietro quella che chiamavano tavola o banco.
Si è visto fin qui che non è facile comprendere quanta parte dei loro prestiti fosse destinata al
consumo e quanta a sovvenire attività economiche; ancora più difficile è riconoscere i prestiti di
sussistenza. Tuttavia, confrontando i reperti contabili dei banchieri locali che conosciamo, si ha la
sensazione che nel tempo tesero a diminuire le registrazioni più semplici, quelle che si aprivano e
chiudevano con un prestito e la sua restituzione; crescevano invece i conti accesi a clienti per
periodi più lunghi e con numerosi movimenti che riguardavano anche la gestione di depostiti e
attività di cambio. Detto in altri termini, con il passare del tempo l’incidenza del piccolo prestito al
consumo e di sussistenza sembrava ridursi a vantaggio di altre forme feneratizie. Ciò non accadeva
in modo uniforme poiché gli affari dei banchieri locali erano essenzialmente legati al giro di
relazioni che riuscivano ad attivare e alla loro capacità di innovare e di adeguarsi al contesto
economico e sociale.
Si stava comunque concretizzando una evoluzione dei servizi bancari, frutto dei meccanismi di
contaminazione delle conoscenze tecniche e finanziarie, che, seppure iniziati all’interno e tra le
grandi compagnie mercantili bancarie, si stavano trasferendo nel sistema economico locale.
Le grandi compagnie, presenti sul mercato internazionale tramite agenzie o filiali, erano anzitutto
aziende commerciali che concedevano prestiti di importo rilevante ai sovrani e alla aristocrazia
laica ed ecclesiastica; esse svolgevano anche servizi per conto di terzi, come la riscossione di tributi
o rendite. Un vecchio studio del Chiaudano41 che risale al 1963, dedicato al Libro Vermiglio della
compagnia di Iacopo Girolami, Filippo e Tommaso Corbizzi (1333–1335), offre una perfetta
visione dell’azione di queste grandi società mercantili e bancarie che applicavano tassi elevati,
compresi tra un minimo del 27-35%, piuttosto raro, e un massimo, molto più frequente, del 45-50%.
La loro era un’attività ad alto rischio per le frequenti insolvenze delle gerarchie feudali, ma
indispensabile a ottenere vantaggi fiscali e commerciali. Non è un caso che quando queste aziende
praticavano prestiti a società connazionali i tassi scendessero attorno al 10-12%. Anche le attività di
tesoreria davano un grosso vantaggio che andava ben oltre il prezzo del servizio offerto;
raccogliendo rendite ed entrate fiscali per conto dei principi, e in attesa di trasferire quelle somme ai
legittimi destinatari, si beneficiava di liquidità a sostegno delle attività commerciali. I prestiti che
facevano o ricevevano da altre aziende si realizzavano in modo tradizionale e non erano
particolarmente frequenti salvo che nel caso della costituzione di un sovraccorpo, mutuo effettuato
dai soci della compagnia, destinato a integrare la liquidità iniziale offerta dal capitale sociale (corpo
di compagnia). Una ulteriore e fondamentale forma di finanziamento dei traffici mercantili stava nel
meccanismo dei pagamenti dilazionati e delle anticipazioni per l’acquisto su commissione di merci
in paesi lontani. Poiché queste aziende erano collocate in piazze diverse, le vicendevoli posizioni
debitorie e creditorie venivano compensate contabilmente e saldate tramite rimesse con lettere di
cambio.
Sul piano della prassi contabile queste pratiche provocarono il continuo aggiornamento del conto
acceso ai clienti che si trasformò assai rapidamente in un conto corrente di corrispondenza fatto di
una continua alternanza di saldi attivi e passivi. Essi equivalevano a vere e proprie forme di
finanziamento degli affari. Fu questione di poco tempo perché, dopo i fallimenti della prima metà
del Trecento, le nuove compagnie bancarie adottassero questo criterio aprendo la stagione del
credito di esercizio.
Raimond de Roover, con il suo studio sul banco Medici 42 e soprattutto Federigo Melis, con le
indagini su una moltitudine di libri contabili simili a quelli della compagnia di Parazone Grasso a

41
M. CHIAUDANO, Il libro vermiglio di Corte di Roma e di Avignone del segnale del C della Compagnia fiorentina di
Jacopo Girolami, Filippo Corbizzi e Tommaso Corbizzi, 1332-1337, Torino, V. Bona tipografo, 1963.
42
R. DE ROOVER, Il banco Medici dalle origini al declino (1397-1494), Firenze, «La Nuova Italia» editrice, 1963.

11
Pisa e di Francesco Datini a Prato43, hanno mostrato le caratteristiche della nuova banca, che
possiamo definire moderna, nata verso la fine del XIV secolo con caratteristiche di azienda
specializzata. Essa aveva mutuato dalla tradizione mercantile tecniche finanziarie e prassi contabili.
Dominando vecchie e nuove forme di attività creditizia, la banca cominciava ad assecondare le
necessità delle aziende commerciali e manifatturiere. I principali testimoni di questa novità furono
l’introduzione del credito di esercizio, dell’affidamento e dello scoperto bancario, dello chèque e
della girata su titolo.
L’alto livello di preparazione degli operatori economici, dotati di conoscenze contabili e
propensione della innovazione, produsse una rapida applicazione dei nuovi metodi anche nelle
aziende di minore dimensione. Mentre queste tecniche creditizie si stavano diffondendo, in molte
città italiane i campsores tesero a formare delle vere e proprie corporazioni di banchieri spesso
abbandonando quasi totalmente le attività commerciali.
Un caso emblematico, seppure ancora lontano dalle compagnie che operavano a livello
internazionale, può essere rappresentato proprio da Rinforzato Mannelli che nella sua contabilità si
definiva tavoliere, ma si firmava banchiere in Pistoia. In effetti le sue attività comprendevano l’una
e l’altra specializzazione e la sua azienda, ancorché avesse le caratteristiche di una banca moderna,
si dedicò principalmente all’ambito locale.
Rinforzato teneva bottega nella piazza del Duomo, stava vicino all’“edificio di due banchi e due
casette e madiello e tetti, comtenli di braccia viii o quaxi,…, i quali bamchi som posti a piè del
muro del vescovado, cioè l‟uno e l‟altro à dentro da sschrivere e sstare demtro”44. Per un certo
periodo quei due fondaci erano stati locati rispettivamente al cognato di Rinforzato e a Niccolò di
Bartolomeo Lapi. Alla morte del Lapi, Guelfo e Rinforzato, dividendosi equamente il prezzo,
decisero di affittare il banco reso libero, “perché non v‟emtrasse persona”45. Non ci si deve
meravigliare di questa decisione: Pistoia era un punto di sosta per i carriaggi e le carovane di muli
che, provenendo da Firenze, si muovevano verso ovest per Lucca e la Versilia e, verso nord, lungo
il tortuoso percorso che passando da Porretta giungeva a Bologna. Era dunque una piazza
commerciale e finanziaria di qualche importanza e, nonostante la sua piccola dimensione (circa
3.900 persone)46, doveva ospitare molti tavolieri e cambiatori.
Le attività di Rinforzato sono documentate nel Libro del banco segnato D47 che riguardava il quarto
esercizio di attività (gennaio 1408-febbraio 1412). Si tratta del classico registro di sintesi con conti
accesi ai clienti e tenuti in sezioni contrapposte; il registro era alimentato da un Memoriale e
affiancato dal libro delle Entrate e Uscite, ambedue perduti. Rinforzato, che tenne anche una
bottega di arte della lana e svolse attività commerciali, manteneva ben distinte le relative contabilità
e, seppure non siamo sicuri che avesse adottato il metodo della partita doppia, aveva buona
dimestichezza con le regole contabili diffuse nella Toscana del tempo.
Il Libro del Banco, fatto di conti accesi ai clienti, mostra una contemporanea presenza di attività
tradizionali e moderne. Come ogni tavoliere il Mannelli si dedicava ai cambi manuali e, mancando
una zecca a Pistoia, provvedeva ai rifatti di moneta inviando a Firenze coni di altre città o pezzi
usurati, facendosi accreditare il loro controvalore; fu spesso traente e trattario di lettere di cambio
ma soprattutto fece attività e servizi bancari. I conti intestati a molti suoi clienti rappresentano bene
le caratteristiche di modernità: funzionavano anche su ordine scritto e contenevano tutti i movimenti
tipici, compresi quelli relativi ad emissioni di assegni e ordini di prelievo:

43
F. MELIS, Documenti per la storia economica dei secoli XIII-XVI, con una nota di Paleografia Commerciale a cura
di Elena Cecchi, Istituto Internazionale di Storia Economica «F. Datini» – Prato, Firenze, Leo Olschki, 1972; IDEM, La
banca pisana e le origini della banca moderna, a cura di M. Spallanzani, Istituto Internazionale di Storia Economica
«F. Datini» – Prato, Firenze, Le Monnier, 1987.
44
ASPT, Spedali riuniti, 43, c. 12.
45
Ivi, c. 220.
46
D. HERLIHY, Pistoia nel Medioevo e nel Rinascimento 1200 – 1430, Firenze, Leo Olschki 1972, p. 94.
47
ASPT, Spedali riuniti, 43.

12
mcccx48
Piero di Framciesschino di messer Piero Pamciatichi
de‟ dare

E de‟ dare, dì xvi di settembre, e per lui a Giovani di
Mone da Vimgnuole, suo lavoratore, comtanti fiorini
otto: 7 niuovi e 1 novastro. I quali die‟ al ditto
Giovanni per 1 lettera mi schrisse il ditto Piero a
Carmimgnano, i quali fiorini viii pagai al ditto
Giovanni im presemza di Sinibaldo Lazari e di Piero
di Filippo Ricciardi a Poggio di Valle f. 8 lb. 1 s. 3 d.

E de‟ dare, dì xxviii di gienaio, ebe comtanti fiorini
uno d‟oro portò Pasquino di Piero, lavoratore,
cappella San Bartromeo, mamdomi 1 poliza f. -1 lb. 0 s. - d.
____________________

In questo quadro assunsero un peso decisamente minore i prestiti rivolti alla clientela più povera;
erano somme di modesta entità e durata variabile, non superiore a qualche mese. A differenza di suo
cognato, Rinforzato non concesse prestiti su pegno salvo che a un soldato, raccomandato da un
amico, che ottenne cinque lire e mezzo su garanzia di una balestra e un crocco49; non faceva prestiti
su garanzie reali ma collaborava con chi li chiedeva intervenendo su altri prestatori ai quali
consegnava i pegni e, ricevuta la somma richiesta, provvedeva ad accreditarla sul conto del cliente.

I casi esaminati, per quanto sporadici e puntiformi, ci aiutano ad immaginare alcuni cambiamenti in
corso sul mercato monetario tra la metà del XIV secolo e la fine del Quattrocento, cambiamenti che
seppure in misura diversa incisero sui meccanismi di finanziamento delle attività economiche e
sulle possibilità di accesso al prestito dei ceti più deboli.
La graduale diffusione di strumenti bancari moderni, stava provocando un certo aumento della
velocità di circolazione della moneta; il fenomeno, che caratterizzò in modo incisivo le città
toscane, trova inequivocabili riscontri nelle documentazioni dei banchieri locali che mostrano
all’interno della loro attività creditizia una inaspettata diffusione di forme più o meno esplicite di
affidamento bancario e soprattutto di ordini scritti e titoli di credito come l’assegno; a questi
strumenti ricorrevano commercianti e artigiani anche per far fronte alle loro necessità di beni di
consumo. Ciò nonostante l’incomprimibile bisogno di liquidità non ridusse l’importanza dell’azione
di quei soggetti che, senza fare banca, mettevano a disposizione le loro temporanee disponibilità
ottenute dall’esercizio del proprio mestiere. Anche i più ricchi, spinti dalla ricerca di ulteriori
guadagni, tendevano ad allargare le proprie capacità feneratizie accogliendo depositi; basti pensare
a Francesco di Marco Datini che raccoglieva somme in deposito50 per fare prestiti utilizzando i
fiorini “che abiamo a discrezione51” e guadagnando una provvigione.
In questo quadro i banchieri locali del Quattrocento tendevano a ridurre le attività di piccolo prestito
basato su garanzie reali cui ricorrevano tradizionalmente i più poveri ed emarginati: le dinamiche
economiche, soprattutto in ambiente urbano, creavano nuove opportunità di guadagno ed esigevano
meccanismi snelli mentre la gestione dei pegni era complicata e suscettibile di controversie.
Ciò non significa che i ceti più deboli si trovassero in condizione di sostanziale allontanamento da
forme di prestito meno esose di quelle praticate da banchi di pegno e da piccoli usurai come il
nostro priore di Seano. Vi era una larga compagine di datori di lavoro, piccoli commercianti e

48 ASPT, Spedali riuniti, 43, c. 152.


49 Ivi, 43, c. 54.
50
ASPO, Datini, 235, Ricordanze in fogli sciolti, c. 549. Nella miscellanea troviamo una scritta di “danari che noi
tengnamo in deposito per molti amici” con un elenco di 17 soggetti, molti dei quali erano soci e collaboratori del
mercante.
51 ASPO, Datini, c. 213.

13
artigiani ai quali si poteva ricorrere senza dover pagare interessi eccessivamente alti. Naturalmente
queste possibilità erano subordinate all’esistenza di condizioni personali che non erano comuni a
tutti: essere un lavoratore capace, beneficiare di buone relazioni di vicinato, vivere in condizioni di
povertà ma non di totale emarginazione. È facile concludere che il peso degli usurai “a carta e a
pannello”, per quanto ridotto, non perse mai importanza.
Si è detto che le anticipazioni di salario e i piccoli prestiti a dipendenti e collaboratori delle imprese
produttive potevano servire a rafforzare il loro legame con l’azienda; ciò era ancora più importante
per le manifatture tessili che negli anni a cavallo del Quattrocento risentivano di una relativa
scarsità di manodopera salariata e di artigiani di fase. Si è visto anche che le diffuse attività di
prestito da parte dei piccoli operatori del secondario e del terziario risentivano dell’andamento dei
loro affari. Dovremmo chiederci se queste opportunità di accesso al credito rimasero tali anche nei
decenni successivi. Per esempio l’economia della città di Prato, dove abbiamo trovato le maggiori
testimonianze di un simile fenomeno, cominciò a dare segnali di difficoltà a partire dalla metà del
Quattrocento. Una analisi comparativa nei registri contabili di quel periodo potrebbe aiutarci a
comprendere meglio le reali condizioni del mercato e se, come appare probabile, in concomitanza
con il trend economico negativo abbiano cominciato a ridursi le capacità feneratizie e il dinamismo
che avevano contraddistinto le aziende di arte della lana e gli altri operatori economici.
L’eventuale riduzione di quei tipi di prestito potrebbe aver restituito novo peso alle attività usurarie
dei prestatori a “pannello”. Ciò sarebbe accaduto negli anni a ridosso della nascita del Monte di
Pietà dei poveri di Prato che, nel solo semestre gennaio-luglio 1477, attraverso il vorticoso giro
delle somme disponibili, erogò più di 14600 lire52.

52
Si veda la tabella 1 nel saggio contenuto in questo volume: P. PINELLI, “Ragguagliare ai tempi debiti le partite
dell‟entrate et uscite”: la contabilità dei Monti Pii toscani fra XV e XVI secolo.

14

Potrebbero piacerti anche