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1)Cos'è il sistema di lavaggio vescicale continuo a circuito chiuso

(responsabilità infermieristiche)
-Poco usato, (dalle ultime evidenze scientifiche si riscontrano alte probabilità di incorrere in infezioni). Utilizzato
per chemioterapici in vescica o per particolari antibiotici. Veniva utilizzato in passato per il tamponamento di
eventuali piccole lesioni in vescica e per evitare ristagno vescicale. Con catetere a tre vie.

2)Defibrillazione automatica DAE


La fibrillazione ventricolare è un’alterazione del battito cardiaco a livello dei ventricoli (aritmia cardiaca), che
si contraggono rapidamente ed in modo disordinato. Il battito e le contrazioni del cuore mutano di conseguenza,
assumendo le seguenti caratteristiche:

● Frequenza e velocità aumentata.


● Irregolarità e mancata coordinazione.
● Intensità variabile.
● Inefficacia meccanica.

L'inefficacia meccanica, tempo di refrattarietà, morte per arresto cardiaco o morte improvvisa cardiaca.

La tachicardia ventricolare (150-200 Bpm) insorge quando il normale impulso di contrazione cardiaca subisce
una modificazione.
Può capitare che insorgano degli impulsi extra (extrasistoli) in punti diversi dal nodo seno atriale.
Durante la tachicardia ventricolare, si verificano 3 o più extrasistoli ventricolari in successione, che
velocizzano la frequenza cardiaca.
Ciò determina una gittata cardiaca insufficiente. Pertanto, il sangue ossigenato non irrora più a dovere i tessuti e
gli organi del corpo, incluso il cuore.

3)Catetere venoso periferico CVP


Il posizionamento di un Catetere Venoso Periferico (CVP) e l’allestimento di una via infusiva sono procedure
strettamente connesse fra loro che permettono la somministrazione della terapia direttamente nel sistema
circolatorio.
La terapia endovenosa viene prescritta per molteplici ragioni, ad esempio:
● mantenere o ripristinare i liquidi del corpo;
● somministrare diversi farmaci;
● infondere elettroliti;
● supplire a carenze nutritive (attraverso nutrizione parenterale)
L’infermiere, come sancito dal Profilo Professionale, è responsabile dell’assistenza generale infermieristica e può
effettuare manovre invasive in autonomia, previa prescrizione medica, tra cui il posizionamento di un CVP e
l’allestimento di una via venosa.
L’infermiere, seguendo le fasi del processo di assistenza, procede all’accertamento infermieristico e valuta:
● la prescrizione medica della terapia endovenosa, compresa la tipologia di soluzione da infondere e la velocità
di flusso;
● l’eventuale presenza di allergie del paziente (è possibile che sia allergico alle sostanze contenute nel
disinfettante e/o nei guanti);
● il livello di comprensione e collaborazione del paziente, l’eventuale presenza di belonefobia (paura degli aghi).

4)Prelievo di sangue venoso


Le tecniche per il prelievo ematico sono profondamente cambiate negli ultimi decenni e gli Infermieri sono
diventati sempre più esperti nel settore. In questo servizio vedremo qual è la giusta procedura da adottare per non
creare disagio al nostro assistito.
Il prelievo ematico consiste nell’acquisizione di un campione di sangue venoso al fine di indagare lo stato di
salute del paziente. Le analisi di laboratorio sul sangue venoso, infatti, permettono di ottenere un quadro molto
ampio su vari aspetti clinici.
L’infermiere responsabile dell’assistenza generale infermieristica, può effettuare indagini diagnostiche in
autonomia, previa prescrizione medica, tra cui il prelievo ematico.

L’infermiere, procede con l’accertamento infermieristico e valuta:


● quali tipi di esami sono stati prescritti dal medico e le relative condizioni particolari associate alla scelta del
momento per l’esecuzione del prelievo (ad es. al mattino, a digiuno, pre o post assunzione farmaci) e al
trattamento del campione (ad es. provette eparinizzate, ghiaccio);
● il sito adatto alla puntura venosa: eviterà vene già danneggiate, la presenza di shunt arterovenoso o zone in
prossimità di infusioni per evitare l’alterazione del campione;
● l’eventuale presenza di allergie del paziente (è possibile che sia allergico alle sostanze contenute nel
disinfettante e/o nei guanti e/o laccio emostatico e/o cerotto adesivo);
● le complicazioni che potrebbero verificarsi in base alla condizione clinica del singolo paziente (ad es. rischio
di emorragia in pazienti con anamnesi di deficit della coagulazione o in regime terapeutico con
anticoagulanti);
● il livello di comprensione e collaborazione del paziente, l’eventuale presenza di belonefobia (paura degli aghi).

5)Calcolo del flusso della terapia ev.


La velocità di infusione di una soluzione si esprime normalmente in:
-ml/ora
-gtc/min

Gocciolatore standard
(foro emissione Ø 3mm)
1 ml ~20 gct

Calcolo della velocità di infusione di una soluzione


VOLUME (ml ) : TEMPO (ore) = Xml/ora
Esempio: 500 ml : 5 ore
= 100 ml/ora
ESEMPIO
1) si devono somministrare 1500 ml di liquidi ad una paziente in 24 ore: a quanti ml orari imposterò la pompa
infusionale?
2) se un gocciolatore standard, a quante gct/min corrisponde?
---------------------
risposte
1500ml : 24 ore = 62,5 ml/ora
62,5x20gct = 1.250gct/ora
1.250 : 60 (minuti) = 20,83 gct/min

6)Emorragia esteriorizzata
iniziale fuoriuscita di sangue in una cavità corporea e successiva emissione all’esterno attraverso un orifizio
naturale, come bocca, ano, naso e orecchie.

PRIMO SOCCORSO EPISTASSI

– Tamponare la narice (o le narici) con del cotone per 10 minuti (questo può essere introdotto all’interno della
narice come tampone interno); se non si dispone di tampone, tenere il naso premuto tra l’indice e il pollice e
respirare con la bocca.

– Tenere il soggetto infortunato con la schiena dritta e la testa piegata in avanti per evitare che il sangue finisca
nella gola

– Tenere sollevato il braccio del soggetto, opposto alla narice colpita

– Mettere del ghiaccio sulla fronte o alla radice del naso

In caso di epistassi, se non si dispone di cotone per tamponare, tenere premuto il naso tra pollice e indice
mantenendo la testa in avanti per evitare che il sangue finisca in gola.
PRIMO SOCCORSO DI ALTRI TIPI DI EMORRAGIA

– Otorragia: Sistemare il soggetto sul lato sanguinante (per evitare che il sangue entri nell’orecchio) e mettere del
ghiaccio sulla fronte.

– Ematemesi: Mettere il soggetto in posizione laterale di sicurezza se incosciente, semiseduta se cosciente.


Conservare il vomito per mostrarlo al medico e reperire quindi le cause.

– Enterorragia: Sdraiare il soggetto con le gambe sollevate.

– Melena: mantenere il soggetto sdraiato supino.

– Ematuria: Mettere una borsa dell’acqua calda sui reni in caso di possibile calcolosi. Conservare le urine per
mostrarle al medico.

– Emottisi e emoftoe: Mettere del ghiaccio in bocca e tenere il soggetto in posizione laterale di sicurezza se
incosciente, semiseduta se cosciente.

– Metrorragia: Mettere un assorbente (esterno, non interno!).

– Rottura di varici all’arto inferiore: Sollevare l’arto mettendo il soggetto disteso. Rimuovere gli indumenti
opprimenti e fasciare la sede dell’emorragia

7)Trasporto del paziente Critico


Definiamo paziente critico, colui che a causa di grave compromissione di uno o più organi e/o apparati,
deve dipendere da strumenti come supporto alle funzioni vitali, e/o da monitoraggio e/o terapia avanzata.

Quando si decide di trasferire un paziente critico, bisogna valutare attentamente i benefici derivanti dal
trasporto in correlazione ai potenziali rischi a cui il paziente è esposto. È anche importante definire gli
standard clinici e tecnologici necessari per minimizzare il rischio di deterioramento dei parametri vitali durante il
trasferimento.Verranno indicati i requisiti minimi dell’equipaggiamento necessario al trasporto sia all’interno che
all’esterno dell’ospedale compreso il monitoraggio, le riserve di gas medicali e le apparecchiature di supporto
vitale.Verranno, in particolare, presentate alcune linee guida e criteri base per il trasporto inter-ospedaliero e
intraospedaliero facendo particolare attenzione a tre categorie di pazienti: il paziente traumatico, il paziente
neurologico e il paziente neonatale.
Le linee guida standard devono essere utilizzate per ridurre al minimo il tasso di incidenza degli eventi avversi.
Buon senso critico e valutazione rischio-beneficio sono gli unici criteri attuali per decidere di un
trasferimento. Preparazione e gestione sono due passi cruciali durante il trasporto del paziente critico visto
l’impatto diretto sulla prognosi a breve e medio termine del paziente.
Superare il rischio del trasporto del paziente critico comporta l’adozione di azioni correttive per tutte le cause,
applicando i metodi che hanno dimostrato essere un beneficio per i pazienti e di conseguenza per la comunità.
Inoltre un uso più diffuso di check – list di controllo e di piani di formazione adeguati per i team sono ritenuti
estremamente necessari per un aumento della sicurezza e per un abbassamento dei rischi sia durante il trasporto
sia nel lungo termine.
Per far si che il team abbia le competenze adeguate per rispondere in modo corretto ai bisogni assistenziali, si
utilizza la tabella dell’Equipaggio di Accompagnamento nel Trasferimento con la quale si definisce, in base
alla tipologia di paziente, un team ritenuto efficace ed appropriato.
Particolare attenzione deve essere posta nel trasferimento di particolari tipi di pazienti, paziente neonatale
(STEN), neurologico (Stroke) e traumatico (Trauma System), nei quali devono essere eseguite procedure
differenti che implicano l’uso di strumentazione e di atteggiamenti diversi rispetto a quelli indicata nelle
“check-list e linee guida di base”.

8)ECG
ECG, la procedura infermieristica
L’Elettrocardiogramma è una delle indagini diagnostiche meno invasive, ma la sua corretta esecuzione è
indispensabile ai fini della diagnosi.
L’elettrocardiogramma (ECG) standard consiste nella registrazione grafica su carta millimetrata dell’attività
elettrica del cuore.
L’infermiere, come sancito dal Profilo Professionale, è responsabile dell’assistenza generale infermieristica e può
effettuare indagini diagnostiche in autonomia, previa prescrizione medica, tra cui l’ECG

L’infermiere, nella fase di esecuzione dell'ECG (nella persona adulta):


1. posiziona le derivazioni precordiali:
V1 nel quarto spazio intercostale parasternale di destra;
V2 nel quarto spazio intercostale parasternale di sinistra;
V4 nel quinto spazio intercostale nell’emiclaveare di sinistra;
V3 nello spazio fra V2 e V4;
V5 nel quinto spazio intercostale nell’ascellare anteriore di sinistra;
V6 nel quinto spazio intercostale nell’ascellare media di sinistra.
(Nel caso di destrocardia le precordiali si posizionano in modo speculare a destra).
2. Posizionamento classico delle derivazioni precordiali)posiziona le derivazioni periferiche:
ROSSO braccio di destra (lineare)
GIALLO braccio di sinistra (lineare)
NERO gamba di destra (lineare)
VERDE gamba di sinistra (lineare)
L’infermiere, nella fase di esecuzione della procedura (nel paziente affetto da infarto miocardico acuto):
1. esegue prima un elettrocardiogramma di base, poi lasciando invariate le posizioni degli elettrodi periferici
scollega V4 V5 e V6. Le posiziona poi a destra:
V1 speculare a V3 (sul tracciato scriverà V3R)
V2 speculare a V4 (sul tracciato scriverà V4R)
V3 speculare a V5 (sul tracciato scriverà V5R)

L’infermiere, nella fase di esecuzione dell’ECG nel bambino fino ad un anno:


1. posiziona le derivazioni precordiali:
V1 nel quarto spazio intercostale parasternale di destra;
V2 nel quarto spazio intercostale parasternale di sinistra;
V3 tra V2 e V4;
V4 nel quinto spazio intercostale nell’emiclaveare di sinistra;
V5 nel quinto spazio intercostale nell’ascellare media di sinistra;
V6 speculare a V3 posizionata a destra (il cuore è ancora in posizione centrale)
● N.B.: Specificare sull’ECG: al posto di V6, V3R.

Discrezionalità dell’infermiere
Insieme alle responsabilità appena esposte, l’infermiere agisce in autonomia anche competenze discrezionali:
1. riconoscere la morfologia fondamentale dell’ECG rappresentata da un’onda elettrocardiografica nella quale si
evidenziano tre diverse deflessioni:
onda P, che rappresenta l’impulso che attraversa gli atrii;
2. complesso QRS, che rappresenta l’impulso che attraversa i ventricoli;

Onda elettrocardiografica normale


onda T, che si origina per il recupero elettrico (ripolarizzazione) dei ventricoli, momento in cui non si ha
alcuna contrazione cardiaca.
La linea isoelettrica del tracciato elettrocardiografico viene identificata come quel segmento posto tra la fine
dell’onda T e l’inizio della successiva onda P.
Le deflessioni poste al di sopra di questa linea vengono considerate positive mentre quelle poste al di sotto di
essa sono considerate negative.

3. prevenire ed identificare problemi che si possono riscontrare durante la registrazione di un ECG:


inversione degli elettrodi: il segno che fa sospettare un’inversione delle derivazioni periferiche (braccio destro
e braccio sinistro) è la negatività della D1 e la positività della AVR.
tremori muscolo-scheletrici: rigidità muscolari dell’assistito dovuta all’agitazione, contrazioni involontarie
legate ad altre patologie.
fonti elettriche vicine che possono creare artefatti nel tracciato;
errori nella taratura dell’elettrocardiografo;
avarie dei cavi e/o degli elettrodi.
9)Paziente pre-intra e post operatorio

10)Toracentesi
La toracentesi è una manovra medico-chirurgica che permette l'evacuazione dalla cavità pleurica del liquido
pleurico che, in seguito a determinate condizioni patologiche, tende ad accumularsi in maniera abbondante.
L'esecuzione della toracentesi è un atto di competenza medica, il ruolo dell'infermiere in corso di procedura è
prevalentemente collaborativo, ma rimangono di sua competenza l'assistenza infermieristica pre, intra e post
intervento, l'educazione sanitaria al paziente e la valutazione delle possibili complicazioni.
La toracentesi rappresenta sicuramente la strategia diagnostico/terapeutica maggiormente applicata in queste
situazioni ed è da considerarsi una delle procedure mediche invasive più utilizzate nella pratica medica moderna,
nonostante il suo primo impiego risalga agli albori della storia della medicina. 

L'utilizzo promiscuo, oltre che dall'elevato grado di efficacia in campo pneumologico, è dato da un basso grado di
morbilità e da un esborso economico medio piuttosto limitato.
1. Spiegare al paziente il tipo di manovra alla quale verrà sottoposto, quali sono i benefici che ne potrà ricevere,
quali sono le complicanze, quali sono i vari momenti della procedura e controllare che abbia firmato
il consenso informato
2. Verificare i parametri vitali e annotarli in cartella
3. Posizionare il paziente seduto con le braccia conserte (posizione di Flower), possibilmente poste su un
tavolino abbastanza alto da poter sostenere un paio di cuscini. Far appoggiare il capo del paziente sui cuscini
in modo da favorire una maggiore espansione polmonare
4. Effettuare lavaggio antisettico delle mani
5. Scoprire il paziente il minimo indispensabile
6. Disporre un telino non sterile affinché gli indumenti del paziente ed il letto non rimangano imbrattati di
disinfettante
7. Individuazione del punto di introduzione dell’ago (la zona di elezione è quella laterale lungo la linea ascellare
posteriore)
8. Indossare dispositivi di protezione individuale non sterili (guanti monouso non sterili, mascherina con
visiera, camice non sterile in TNT).
9. Effettuare disinfezione dell’area da pungere con soluzione a base di iodiopovidone o clorexidina
10. Effettuare la somministrazione dell’anestesia locale e/o topica
11. Raccordare, sterilmente, tubo connettore e rubinetto a 3 vie all’ago da toracentesi
12. Collaborare con il medico durante la puntura del paziente (questi, sterilmente, introduce l’ago sul bordo
superiore delle coste con angolazione di 45° per pochi centimetri mentre attraversa lo spessore della parete
toracica, poi decorrere orizzontalmente nel cavo pleurico)
13. Ancorare l’ago da toracentesi con cerotto adesivo posizionato “a cravatta” per evitarne la rimozione
accidentale
14. Se richiesto dal medico predisporre campione per citologia e\o esame chimico fisico del liquido pleurico
15. Qualora sia necessario effettuare indagini di laboratorio, effettuare lenta aspirazione del liquido pleurico nella
siringa da 60 ml raccordata al rubinetto a tre vie e, una volta esclusa la via del paziente, riempire le provette
senza contaminare il raccordo della siringa. Successivamente, attraverso il rubinetto a 3 vie, connettere il
paziente alla sacca di raccolta e lasciare drenare il liquido pleurico “a caduta”
16. Una volta drenata la quantità di liquido effettuare la rimozione dell’ago smaltendolo all’interno del contenitore
per aghi e taglienti
17. Disinfettare e applicare medicazione sterile al piatto
18. Informare il paziente che dovrà mantenere la posizione supina o semiseduta prona per 1 ora e che la prima
mobilizzazione dovrà essere effettuata in presenza di personale infermieristico
19. Rilevare le caratteristiche del liquido drenato (colore e quantità) ed annottare in cartella clinica e
documentazione infermieristica
20. Riordinare e smaltire il materiale utilizzato
21. Effettuare lavaggio sociale delle mani
22. Effettuare monitoraggio dei parametri vitali del paziente
23. Valutare la comparsa di dolore o di sintomatologia riconducibile a complicazioni della toracentesi
24. Predisporre documentazione e campioni per l'invio in laboratorio analisi.

11)Embolia Polmonare
Per embolia polmonare si intende un’ostruzione acuta, parziale o completa, di uno o più rami dell’arteria
polmonare, provocata generalmente da materiale embolico di origine extra-polmonare.
Nella stragrande maggioranza dei casi l’embolo è di natura trombotica dato da trombosi venosa periferica (95%
dei casi) e solo nel 5% dei casi l’embolo non è trombotico, ma può essere gassoso (aria, bolle di azoto), liquido
(liquido amniotico), grassoso (emboli di tessuto adiposo), solido (corpi estranei).
L’embolia polmonare può essere essenzialmente di 2 tipologie:
● Massiva: caratterizzata da instabilità emodinamica e segni di shock.
● Non Massiva: caratterizzata da un’emodinamica decisamente più stabile.

Iter diagnostico nel caso di embolia polmonare


L’iter diagnostico ha inizio con una serie di accertamenti:
● Elettrocardiogramma: si vanno ad escludere altre patologie cardiache e si pone attenzione su segni di
sovraccarico del ventricolo destro e presenza di tachicardia
● Emogasanalisi arteriosa: si nota se è presente ipossiemia, ipocapnia ed eventuale pH alcalino
● D-dimero: va a valutare se è presente nel circolo ematico prodotto di degradazione della fibrina ad opera della
plasmina
● Rx torace: per escludere altre patologie polmonari
● Ecocardiografia: va a valutare disfunzione e sovraccarico del ventricolo dx
● TC torace con MdC: la diagnosi è molto affidabile
● Scintigrafia polmonare: valuta la capacità di perfusione e ventilazione polmonare
● Angiografia polmonare: si procede solo se il sospetto è molto forte e con altri mezzi non invasivi non è stato
possibile raggiungere una diagnosi certa.

Embolia polmonare e trattamenti terapeutici


Di solito il trattamento terapeutico per l’embolia polmonare è di supporto con lo scopo di correggere le
alterazioni emodinamiche:
● Ossigenoterapia: se è presente l’ipossia
● Analgesici: se è presente il dolore
● Farmaci per aumentare la pressione sistolica: dobutamina, dopamina
● Equilibrio idrico: per non sovraccaricare il cuore
● Eparina a basso peso molecolare/Anticoagulanti orali

12)Paziente Bariatrico (obeso)


Chirurgia Bariatrica (By pass digiuno-ileale) intervento chirurgico che ha lo scopo di ridurre la capacità
dell'intestino di assorbire sostanze nutritizie. L'esclusione di gran parte del piccolo intestino è riservata ai soggetti
che abbiano un peso corporeo superiore all'ideale di oltre il 60% se uomini, dell'80% se donne (grande obesità); di
età compresa tra i 18 e i 55 anni; affetti da obesità non conseguente ad altre malattie, non trattabile con dieta o
terapia medica. Vengono esclusi circa 5 m di tenue, ottenendo in tal modo una riduzione del 90% circa della
superficie assorbente. Il calo di peso, che si ottiene in media entro due anni dall'intervento, è notevole: anche
senza modificare le abitudini alimentari, si ha quasi sempre la regressione del sovrappeso, a prezzo però della
comparsa di una diarrea importante, di notevoli cambiamenti del metabolismo corporeo e, spesso, della
comparsa di disturbi epatici che possono arrivare all'insufficienza. Se nei primi 12 mesi postoperatori vengono
somministrate, attraverso un tubicino lasciato nel tratto digestivo, piccole dosi di antibiotici, vitamine, sali e
soluzioni ipercalorico-proteiche, i rischi epatici si riducono di molto. In pratica si tratta di una tecnica chirurgica
adatta ai casi di obesità grave in persone ancora giovani che rischiano di sviluppare un quadro diabetico o di
insufficienza cardiorespiratoria; di andare incontro a fratture ossee da sovraccarico; che presentino disturbi
sessuali, problemi psicologici e per i quali le complicazioni dell'intervento appaiono un male minore. Le anse
intestinali escluse possono venire ricongiunte in qualunque momento, poiché l'operazione non ne prevede
l'asportazione. Negli Stati Uniti al by-pass digiuno-ileale si preferisce la gastroplastica, intervento chirurgico che
prevede la riduzione del volume dello stomaco. Dopo questo tipo di operazione la ridotta capacità gastrica
costringe il paziente a mangiare poco e spesso, altrimenti compare vomito; i risultati sul calo di peso sono però
meno brillanti del by-pass digiuno-ileale. Un by-pass digiuno-ileale parziale, limitato agli ultimi 2 m di tenue,
viene effettuato in persone con ipercolesterolemia grave, familiare o non riducibile con dieta e farmaci.

13)Biopsia epatica
Prelievo di un frammento di tessuto epatico mediante aspirazione con ago.

● Scopo diagnostico
● Scopo istologico

PRE-PROCEDURA

● Informare il paziente e rassicurarlo


● Preparazione cutanea
● Digiuno da almeno 12 ore, cena leggera la sera precedente
● Preparazione materiale
● Coagulazione
● Consenso informato
● Parametri vitali
● Posizione
● Terapia cronica va assunta

Materiale

● Disinfettante
● Garze sterili
● Telino sterile
● Bisturi
● Ago per biospia
● Lidocaina 2% fl
● Siringa con ago da sottocute
● Cerotto per medicazioni
● Contenitore sterile per prelievo
● Busta

Intra-procedura

● Assistenza al paziente
● Collaborazione con il medico
● Preparazione contenitore (formalina)
● Controllo emodinamico del pz

Post-procedura

● Medicazione compressiva
● Crioterapia
● Postura obbligata: decubito laterale dx per almeno 3 ore
● Digiuno
● Invio campione in anatomia patologica
● Riordino materiale
● Emocromo dopo 3 ore dalla procedura

Potenziali complicanze

● Ematoma sottocaspulare
● Ematoma intraepatico
● Emoperitoneo
● Bilioperitoneo
● Emobilia
● Sindrome vaso vagale
● Ipovolemia acuta fino a schok semorragico
● Aritmie cardiache da ipossemia
● Febbre

14) Valvola per la fonazione (dopo una tracheostomia)


Per tracheostomia si intende il posizionamento di una via aerea tramite uno stoma creato chirurgicamente, ovvero
di un abboccamento della cute ai margini di apertura della trachea, eseguito per situazioni di lunga permanenza. Si
tratta di un procedimento elettivo eseguito in anestesia locale o generale, che si differenzia dalla tracheotomia,
consistente in un’apertura chirurgica della trachea, allo scopo di creare una nuova via aerea, bypassando la
glottide, per poter introdurre dall’esterno una cannula. Quest’ultima, quindi, è una semplice breccia tra cute e
trachea e può essere eseguita d’urgenza, programmata, temporanea, permanente o profilattica. Entrambe le
procedure utilizzano un tubo - posto all’apertura della breccia - per convogliare l’aria in trachea e nei polmoni.

Respirazione, fonazione e deglutizione


La cannula tracheostomica, dunque, è un vero e proprio bypass che convoglia l’aria inspirata nel sistema
respiratorio, evitando il passaggio attraverso le corde vocali. L’esclusione temporanea della laringe dalla funzione
respiratoria ne determina però una sorta di temporaneo disuso, per quanto riguarda le sue tre funzioni
essenziali: respirazione, fonazione (emissione di suoni e parole) e controllo della deglutizione. Quest’ultima, ad
esempio, richiede la coordinazione tra atti respiratori e deglutitori e la corretta apertura e chiusura delle corde
vocali, con movimenti finalizzati a impedire al cibo la penetrazione nelle vie aeree. Non è pertanto difficile
comprendere come la ripresa di queste tre funzioni sia spesso problematica in un paziente tracheostomizzato,
ventilato, con i potenziali postumi di una prolungata intubazione e alimentato artificialmente col sondino naso-
gastrico che - in quanto “corpo estraneo” faringeo - di per sé costituisce un ostacolo alla corretta deglutizione. La
cannula tracheostomica riduce pertanto l’abilità di comunicare con efficacia, mentre si sa che la possibilità di
parlare rappresenta un elemento fondamentale per la qualità della vita del paziente. Gli stessi familiari e
operatori sanitari sono talvolta in difficoltà, in quanto l’impossibilità di esprimersi limita la realizzazione dei
bisogni del paziente, situazione che diventa una delle maggiori cause di frustrazione. Nei bimbi piccoli, inoltre, la
tracheostomia può compromettere l’uso della parola, in modo tale da limitarne le interazioni sociali, fondamentali
per lo sviluppo delle competenze linguistiche. E i caregiver[“assistenti di cura”, N.d.R.] tendono a parlare di
meno ai bimbi che non possono comunicare. Un lavoro tra malato ed équipe Per tali motivi, nei pazienti
tracheostomizzati sono state ideate alcune soluzioni per permettere la fonazione, sia in casi di respiro spontaneo
che di ventilazione meccanica. In questo contesto clinico, l’utilizzo di tecniche che permettono la
fonazione assume una duplice valenza, psicologica da una parte, dal momento che la ripresa della capacità di
comunicazione da parte del paziente costituisce una svolta nel suo processo riabilitativo: il soggetto, infatti, riesce
a comunicare meglio i suoi bisogni e il positivo impatto emozionale del recupero della voce temporaneamente
persa si ripercuote positivamente sulla psiche. Funzionale, dall’altra, con l’apparato laringeo che riprende la sua
attività dopo una fase di quiescenza. Il lavoro integrato tra malato ed équipe (fisioterapista
respiratorio, logopedista, infermiere) può portare inoltre a un’efficace promozione della fonazione in molti
pazienti che necessitano della tracheostomia per un lungo periodo, tramite varie soluzioni, per permettere di
fonare sia in ventilazione che in respiro spontaneo.
Le soluzioni possibili
Nel paziente ventilato, la fonazione è possibile utilizzando una cannula fenestrata, una scuffiata con valvola
fonatoria o una scuffiata (o senza cuffia) senza valvola fonatoria (aggiungendo una piccola quota di pressione
positiva di fine espirazione - PEEP - che produce una perdita aerea continua e permette una fonazione udibile
durante il ciclo respiratorio). Molto spesso i pazienti neuromuscolari che necessitano di ventilazione
presentano cannule senza cuffia, sì da poter parlare mentre ricevono il supporto ventilatorio. Parimenti,
nel paziente in respiro spontaneo, la fonazione può essere facilitata attraverso l’occlusione della cannula
(tappo, dito o valvola fonatoria), in presenza di cannula fenestrata, scuffiata o senza cuffia. L’utilizzo della
cannula fenestrata dev’essere preso in esame con molta cautela: infatti, tale tipo di fessura - la fenestratura,
appunto - potrebbe danneggiare la parete posteriore della trachea e provocare un’infiammazione cronica, con
conseguente formazione di granulomi. L’occlusione del meato prossimale con un dito è una metodica molto
semplice e per molti pazienti si tratta di una tecnica di facile esecuzione, mentre altri non hanno la coordinazione
necessaria per attuarla.
La valvola fonatoria
Sempre nel paziente in respiro spontaneo, poi, la valvola fonatoria è probabilmente il metodo di più comune
utilizzo: quando il paziente inspira, essa si apre permettendo all’aria di entrare nella cannula e nei polmoni. Al
termine dell’inspirazione, poi, la valvola si chiude, e resta tale per tutta l’espirazione senza perdite. Durante questa
fase, l’aria viene ridirezionata verso la cannula e verso l’alto - attraverso la laringe e la faringe - permettendo così
la vocalizzazione. La valvola fonatoria può essere usata nel paziente vigile, responsivo, che accenna a tentativi di
comunicazione. Le condizioni cliniche, inoltre, devono essere stabilizzate e dev’essere mantenuta la cannula
scuffiata. Nonostante poi la valvola fonatoria faciliti l’espettorazione orale delle secrezioni, è necessaria - prima
del posizionamento - la broncoaspirazione, se il paziente presenta abbondanti secrezioni. E sempre prima del
posizionamento bisogna anche valutare i pericoli di inalazione (attenzione alle cosiddette “inalazioni silenti”), in
quanto la valvola è controindicata in pazienti con un rischio elevato. E ancora, non devono essere presenti
ostruzioni a livello delle vie aeree superiori (tumori, stenosi, tessuti di granulazione, secrezioni) ed è necessario
valutare il diametro della cannula, prendendone in considerazione l’eventuale riduzione. Anche la cuffia, infine,
può creare un’ostruzione, nonostante sia sgonfia: in questo caso si deve valutare la sostituzione di una cannula con
una non cuffiata o eventualmente con una fenestrata.
Raccomandazioni e controindicazioni
Riassumendo, quando si usa tale dispositivo si raccomanda di: controllare che la cuffia della cannula da
tracheostomia sia sgonfia prima di applicare la valvola: in caso contrario il paziente non è in grado di
respirare; non utilizzare in caso di stenosi tracheale o laringea, in pazienti laringectomizzati o con secrezioni
dense e abbondanti, e durante le ore del sonno; rimuovere la valvola, se si vuole somministrare un farmaco da
nebulizzare: alcuni farmaci, infatti, possono danneggiarne il diaframma. In generale è necessario testare la
tollerabilità dell’occlusione del tracheostoma con un dito e dopo il posizionamento della valvola, osservare
la funzionalità respiratoria del paziente (c’è chi necessita di un training di adattamento), monitorando la stessa
(fondamentale la saturazione) e quella cardiaca. La valvola va rimossa, se il paziente ha difficoltà respiratorie o
appare in distress respiratorio, se scende il livello di saturazione dell’Hb [emoglobina, N.d.R.] o se il paziente
stesso lo richiede. Va inoltre pulita, secondo le indicazioni del fornitore, e rimessa in un apposito contenitore con
il nome del paziente. Oltre a promuovere la fonazione, la valvola fonatoria può avere altri benefìci. Alcuni studi
evidenziano infatti che essa può promuovere la deglutizione e ridurre il rischio di inalazione. Sono riportati poi
altri studi che sottolineano la promozione dell’olfatto. Sul versante opposto, le controindicazioni all’uso della
valvola fonatoria sono: l’inabilità a tollerare la cannula scuffiata; l’ostruzione delle vie aeree; l’instabilità
clinica/respiratoria; la laringectomia; l’ansia severa/disfunzione cognitiva; l’anartria [incapacità di parlare dovuta
a una lesione organica del cervello, N.d.R.]; la stenosi tracheale e laringea severa; una malattia polmonare
terminale; eccessive secrezioni.
15) Lesioni da decubito
L’obiettivo principale, in presenza di lesioni da pressione, è quello di favorire le condizioni locali che permettono
lo sviluppo dei processi di riparazione tissutale quali la granulazione e la riepitelizzazione ed evitare le condizioni
che la rallentano, come le variazioni di umidità, pH e temperatura. Nel trattamento delle LdP non esistono
metodiche standard di intervento, in quanto la lesione è un processo dinamico e le medicazioni devono adattarsi
ad esso. È necessaria pertanto una flessibilità nella scelta dei prodotti da utilizzare: vanno privilegiati prodotti che
consentono di conservare l’integrità fisiologica della lesione. Nella scelta del trattamento più idoneo devono
essere quindi tenuti in considerazione alcuni principi generali che riguardano tali processi, in particolare:

Ossigeno Umidità Temperatura Equilibrio acido-base

Nei processi
di guarigione
delle lesioni da Tutte le condizioni che
pressione è stata da È preferibile evitare modificano il pH locale
tempo dimostrata l’esposizione della provocano
l’importanza della lesione all’aria per modificazioni del
Sotto una superficie crostosa la
tensione superficiale di lungo tempo per processo riparativo.
rigenerazione dei tessuti epiteliali
ossigeno, poiché la evitare la dispersione
avviene nel giro di circa venti ore, La diminuzione del pH
superficie della lesione di calore
mentre sotto una medicazione a livello della superficie
tende ad essere ipossica. l’esposizione agli
occlusiva ad umidità costante, il della lesione provoca la
agenti infettivi.
I processi riparativi di una tempo si riduce di un terzo. perdita dei movimenti
lesione necessitano di una Pertanto, nell’ambito ritmici che
La disidratazione rallenta quindi il
maggior concentrazione delle operazioni di generalmente si
processo di guarigione, anche se
di ossigeno. medicazione, sono da osservano sulla
l’eccesso di umidità aumenta il
evitare i cambiamenti superficie delle cellule
Sarà pertanto rischio di infezione (Bellingeri A,
di medicazione troppo epiteliali.
indispensabile tenere 2003)
frequenti, poiché
pulita la lesione dalla possono ostacolare la L’aumento del pH
presenza di fibrina, guarigione provoca immobilità e
tessuto necrotico o di contrazione delle cellule
escare che sottraggono
l’ossigeno necessario.

Il processo di guarigione delle LdP è costituito dalle stesse fasi delle lesioni cutanee di diversa eziologia
(vascolare, metabolica e/o infiammatoria). Il trattamento delle LdP necessita quindi di tutte le strategie
terapeutiche e dei presidi di medicazione che sono adottati nella gestione di tutte le lesioni croniche.
Infatti la cura iniziale della LdP comprende lo sbrigliamento, la pulizia della ferita, l’applicazione di
medicazioni e possibili terapie aggiuntive. Il trattamento deve essere eseguito all’interno di percorsi diagnostici,
terapeutici ed assistenziali che prevedano un approccio di tipo multidisciplinare e multi professionale; in alcuni
casi è richiesto il trattamento chirurgico.

La medicazione della lesione da pressione


Nel trattamento delle LdP, non esistono metodiche standard di intervento, in quanto la lesione è un processo
dinamico e le medicazioni devono adattarsi ad esso.
È necessaria pertanto una flessibilità nella scelta dei prodotti da utilizzare. Vanno privilegiati prodotti che
consentono di conservare l’integrità fisiologica della lesione.
La medicazione ideale dovrebbe proteggere la ferita, essere biocompatibile e fornire l’idratazione necessaria.
Qualsiasi trattamento topico, per quanto efficace, non può essere comunque sostitutivo di una corretta
mobilizzazione e della cura della persona sotto l’aspetto igienico e nutrizionale; in mancanza di questo approccio
globale, l’uso delle medicazioni avanzate non dà risultati efficaci.

Caratteristiche della medicazione ideale


● mantenere un microambiente umido e la cute circostante asciutta
● consentire lo scambio gassoso
● proteggere dalla contaminazione batterica e dai danni meccanici
● evitare traumatismi alla rimozione
● garantire le condizioni ottimali di temperatura
● permettere e favorire la rimozione di essudati e tessuti necrotici
● essere biocompatibile e maneggevole
● avere un costo di gestione contenuto.

Effettuare la medicazione, indicazioni operative


● Utilizzare guanti monouso per limitare la contaminazione batterica
● evitare di lasciare esposta a lungo la lesione all'aria per diminuire la dispersione di calore e l'esposizione ad
agenti infettivi
● mantenere la temperatura ottimale di 37° C
● mantenere l'ambiente umido ad eccezione delle lesioni infette
● scegliere la medicazione più idonea sulla base delle caratteristiche della lesione: granuleggiante, necrotica,
secernente, secca, contaminata, infetta
● non utilizzare la stessa medicazione durante tutta la durata del trattamento della lesione; la medicazione va
modulata in base all’evoluzione della ferita
● definire la frequenza della medicazione.

16) Aspetti legislativi della somministrazione dei farmaci

La posizione dell’infermiere nel processo di terapia è da sempre centrale, ma recentemente ha assunto


un’evoluzione importante proporzionata all’accrescimento del bagaglio culturale della professione: dal mero
compito di somministrazione del farmaco dietro prescrizione medica (concezione propria della logica
mansionistica) attualmente l’infermiere è divenuto il garante della corretta applicazione delle prescrizioni
diagnostico-terapeutiche.

Responsabilità infermieristica nel processo di terapia


All’interno del processo di terapia viene richiesto all’infermiere un ruolo di vero e proprio feed-back, in una
collocazione collaborativa col medico, ma al contempo antitetica qualora subentri la necessità di tutela nei
confronti dell’assistito.
Il problema dei decessi da errori di terapia (che giuridicamente è qualificato come prevedibile ed evitabile dalla
giurisprudenza) richiede da tempo strategie di riduzione del rischio che coinvolgono il processo di terapia nella
globalità delle sue fasi:
● approvvigionamento;
● stoccaggio;
● prescrizione;
● preparazione;
● distribuzione;
● somministrazione;
● controllo.
In tale percorso la responsabilità infermieristica trova una prima sorgente nelle linee guida professionali: i
postulati di correttezza dell’agire sono scolpiti nella regola delle 7G (correttezza di farmaco, dose, paziente, via e
ora di somministrazione, registrazione, controllo) e pongono ad esclusivo carico della figura infermieristica la
responsabilità in caso di errori durante la conservazione dei farmaci, l’allestimento, la preparazione, la
distribuzione, la somministrazione, l’assunzione della terapia e il monitoraggio successivo.
L'infermiere si rende garante di tutte le procedure, dettate dalla migliore letteratura e manualistica internazionale
che ha sintetizzato nella Regola delle 7 G (o 8 G), la corretta procedura per la somministrazione dei farmaci:
● Giusto farmaco;
● Giusta dose;
● Giusta via di somministrazione;
● Giusto orario;
● Giusto paziente;
● Giusta registrazione;
● Giusto controllo.

In caso di danno procurato al paziente, dalla responsabilità professionale possono derivare anche
quella civile (risarcitoria) e penale. Alle linee guida concorrono i principi del codice deontologico (e nella
fattispecie gli articoli 9, 13, 22, 29). Precisi controlli sulla prescrizione devono essere prestati in merito alla
completezza e alla condizione (se cioè subordinata al realizzarsi di un evento futuro).
La giurisprudenza (Cass. Sez. IV sent. 1878/200 e 2192/2015) ha sottolineato, in conseguenza ai limiti
del principio dell’affidamento (corrispondenti a situazioni di fatto evidenti che ragionevolmente mettono in
dubbio l’avvenuto rispetto dei doveri di diligenza, perizia e prudenza, da parte dei propri collaboratori),
che l’infermiere deve rilevare evidenti inappropriatezze di prescrizione terapeutica, in particolare per
macroscopici errori di indicazione del dosaggio, della posologia o prescrizione di molecole cui il paziente è
allergico e quindi segnalarle al medico per le adeguate revisioni.
Il panorama di responsabilità dettato dalla Suprema Corte espone l’infermiere ad un delicato ruolo di
verifica (ulteriore rispetto al noto panorama delle controindicazioni e degli eventi post assunzione) che risulta
contiguo al compito di traduzione di quanto il medico prescrive (non transigendo dai canoni del risk-
management).
Ciò consegue dal fatto che l’équipe è orizzontale in questo caso (scrive la Suprema Corte: “esigibile, da parte
dell’infermiere...che l’attività…sia prestata non in modo meccanicistico, ma in modo collaborativo col medico”).
Esiste invece un vero e proprio obbligo di controllo, immune dal principio di affidamento temperato, nel caso di
delega dell’atto di somministrazione della terapia orale a figure di supporto (OSS) che impone all’infermiere
(in virtù della verticalità della prestazione di équipe considerata) di appurare la correttezza dell’operato altrui (in
tal caso l’esattezza della via di somministrazione, della modalità di somministrazione e l’avvenuta assunzione).
Ponendo l’attenzione sui vari modi di esternazione/ricezione delle prescrizioni iniziamo l’analisi da quelle così
dette “off label” (cioè farmaci prescritti per patologie o in dosaggi o per vie di somministrazione differenti da
quelli indicati dalla casa produttrice) e possiamo affermare che la posizione dell’infermiere è affine a quella del
medico.
Pur essendo costituzionalmente garantita la libertà della scienza e quindi quella terapeutica, la possibilità di
prescrivere “fuori scheda” soggiace ad una pregnante norma cautelare (ex art.3 l. 94/1998) che obbliga il
medico ad effettuare tale pratica in conformità a pubblicazioni scientifiche accreditate a livello internazionale: la
ratio è quella di prevenire/evitare eventi avversi (mancando la fase di sperimentazione).
Va da sé che l’infermiere sia esposto a responsabilità penale in caso di lesioni conseguenti all’effetto del
farmaco assunto “off label” tanto quanto il medico in caso di mancato rispetto di tale regola cautelare (il cui
principio è stato enucleato dalla giurisprudenza costituzionale: “...la regola di fondo in questa materia è costituita
dalla autonomia e dalla responsabilità del medico che, sempre con il consenso del paziente, opera le scelte
professionali basandosi sullo stato delle conoscenze a disposizione…” in sent. 282/2002).
Inoltre l’infermiere ha l’obbligo deontologico di appurare il corretto recepimento delle informazioni fornite dal
medico al paziente, così da assicurare un consenso consapevolmente prestato (locuzione elaborata da Cass. Civ.
Sez. III in sent. 2847/2010) e non semplicemente informato (come previsto dalla legge 145/2001 di ratifica della
Conv. di Oviedo), al fine di garantire alla persona curata una reale autodeterminazione. Da sottolineare che
anche riguardo al consenso informato si possono sviluppare profili di responsabilità penale (e civile).
Concludiamo la parentesi “off label” precisando che laddove vi sia la possibilità di prescrizioni “in
label”(secondo scheda tecnica, bugiardino), l’infermiere può partecipare ad un percorso “off label” nonostante la
l. 94/1998 ne precluda la possibilità (obbligando il medico a percorrere la via secondo scheda, ma su tale
previsione normativa sono stati avanzati in dottrina dubbi di costituzionalità in quanto preclusiva della libertà
terapeutica, definita per l’appunto non negoziabile), sempre rispettando la sopradescritta norma cautelare.
Considerando ora le disposizioni terapeutiche effettuate in forma verbale possiamo affermare che la loro
liceità risulta ammissibile esclusivamente in situazioni di urgenza ed emergenza, dove risulta doveroso
anteporre il bene vita al rispetto della legge (ex art. 54 c.p. lo stato di necessità costituisce un fattore esimente) che
ovviamente avverrà, non appena possibile, ratificando la prescrizione (in tal caso post-scrizione) e la
somministrazione attraverso redazione formale.
Merita di essere menzionato il rischio intrinseco appartenente alle realtà di Pronto Soccorso,
Rianimazione, Terapia Intensiva, Sala Operatoria: unità operative dove per natura l’iter prescrizione-
somministrazione è spesso invertito nella prassi, essendo deputate alla gestione di situazioni di emergenza-
urgenza (sarebbe buon uso coinvolgere almeno un terzo operatore nel momento di disposizione-
somministrazione).
Riguardo alle prescrizioni telefoniche, pur non esistendo previsione normativa alcuna in merito, è
concettualmente erroneo concepirla, venendo meno il momento irrinunciabile della visita medica prodromico alla
prescrizione stessa. È quindi dovuto dall’infermiere il rifiuto a darvi seguito.
L’utilizzo di protocolli di terapia è ammesso qualora questi siano allegati alla cartella clinica o in essa
menzionati in riferimento a documenti adottati a livello della singola realtà operativa: il protocollo di terapia deve
contenere ogni informazione necessaria ed utile alla corretta somministrazione (posologia, situazioni fattuali di
necessità, livello di autonomia gestionale).
Il salto è breve nel passare a considerare le prescrizioni condizionate: in esse l’attualizzazione della disposizione
terapeutica è subordinata all’avverarsi di situazioni oggettive rilevabili dall’infermiere, che ovviamente non fa
diagnosi, bensì riconosce un segno e/o un sintomo precedentemente specificato e correlato dal medico, a livello
diagnostico-terapeutico, a situazioni prognosticabili in ragione della situazione clinica.
Tali prescrizioni devono contenere il segno/sintomo, l’eventuale indicatore di misurazione/intensità, il farmaco
utile, il dosaggio, la via di somministrazione, l’intervallo di tempo per la rilevazione del beneficio e quello di
eventuali nuove somministrazioni.
In tale dimensione collaborativa è maggiormente oneroso per l’infermiere l’obbligo di segnalazione al medico di
situazioni non perfettamente sovrapponibili con il quadro prescrittivo e ogni ragionevole dubbio dettato da fatti
non preventivati o considerazioni professionali riconducibili al rispetto della prudenza.

17) Valutazione del quinto parametro vitale (dolore, interventi e


responsabilità infermieristiche)
La normativa nazionale
La normativa pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana – Serie Generale – n. 149 del 29-06-
2000, accordo tra il Ministero della Sanità, le Regioni e le province autonome, emana le linee guida per la
realizzazione dell’Ospedale senza Dolore.
È responsabilità degli infermieri controllare almeno due volte al giorno il livello di dolore di ogni utente, a
partire dal momento del ricovero fino a quello della dimissione.
La costituzione di strutture specialistiche di Terapia del dolore e per le Cure palliative, in aggiunta a quelle
già esistenti, è un'altra delle priorità espresse nel documento elaborato dalla Commissione.
Nell’ambito dell’applicazione delle linee guida del progetto “Ospedale senza dolore”, da anni si è diffuso
l’utilizzo di scale unidimensionali validate (European Society for Medical Oncology, 2008; Expert Working
Group, 2001; National Comprehensive Cancer Network, 2008; Scottish Intercollegiate Guidelines Network, 2008;
WHO, 1996).
Per “unidimensionali” si intende che valutano una sola dimensione del dolore, ovvero la sua intensità misurata
dal paziente:
● scala numerica, NRS (numerical rating scale)
● scala analogica visiva, VAS (visual analogic scale)
● scala quantitativa verbale, VRS (verbal rating scale)
Trattamento farmaceutico più utilizzato.
1. FANS (Paracetamolo)
2. FANS + OPPIACEI (PARACETAMOLO+CODEINA, CODAMOL) solo se il dolore continua dopo la
somministrazione di FANS
3. OPPIACEI (MORFINA) solo se il dolore continua nonostante FANS+OPPIACEI

18)Emotrasfusione (responsabilità infermieristiche)


Emotrasfusione, assistenza infermieristica al paziente
Responsabilità dell’infermiere prima, durante e dopo l’infusione di emocomponenti
L’emotrasfusione è una procedura terapeutica complessa e delicata che richiede un percorso preciso di
collaborazione tra la figura medica e quella infermieristica. Per definizione la trasfusione di sangue è un atto
medico, ma l’infermiere svolge un ruolo di primaria importanza nella gestione del paziente sottoposto ad
emotrasfusione.
Con emotrasfusione si indica l’infusione di sangue (intero o di alcuni suoi componenti) da un soggetto donatore
ad un soggetto ricevente, come risposta a specifiche esigenze cliniche; si tratta di un vero e proprio trapianto di
tessuto, per questo la si statuisce come atto medico.
L’emotrasfusione si definisce eterologa quando donatore e ricevente sono due soggetti diversi, autologa se il
donatore e il ricevente sono lo stesso soggetto (utilizzata soprattutto nei casi di autotrasfusione post-operatoria).
Il sangue ad uso trasfusionale è esclusivamente di origine umana ed è una risorsa terapeutica importantissima,
ma dalla disponibilità limitata e altamente deperibile.
Per queste motivazioni e per ridurre la possibilità di complicanze, l’emotrasfusione deve essere utilizzata a fronte
di una precisa indicazione e con l’impiego dell’emocomponente specifico per il deficit che si vuole ripristinare.
Con emocomponenti si intendono i costituenti terapeutici del sangue che, attraverso mezzi fisici che ne ottengono
la reciproca separazione, possono essere predisposti anche singolarmente.
Oltre al sangue intero, utilizzato principalmente nei casi di trasfusione massiva ed exsanguinotrasfusione, fra
gli emocomponenti distribuiti per uso clinico troviamo:
o emazie concentrate: indicate per aumentare rapidamente l’apporto di ossigeno ai tessuti;
o plasma fresco congelato: indicato nel trattamento dell’emorragia o nel pre-intervento chirurgico, in stati
deficitari di vitamina K e fattori della coagulazione, porpora trombotica trombocitopenica e sindrome uermico-
emolitica;
o concentrati piastrinici: indicati in caso di piastrinopenia o di deficit qualitativo delle piastrine.
Il medico prescriverà l’impiego dell’emotrasfusione, dunque, nei casi in cui vi sia necessità di:
o intervenire negli stati di anemia grave, per mantenere un corretto trasporto dei gas respiratori;
o correggere stati emorragici e/o di disturbi della coagulazione;
o sopperire ad una deficienza del sistema immunitario;
o ripristinare/mantenere la volemia.
In quanto prodotto biologico, il sangue non sarà mai completamente privo di rischi; per prevenire il maggior
numero di complicanze si seguono procedure specifiche di tipizzazione e screening anticorpaleche prevedono:
o determinazione del gruppo sanguigno (A, B, 0) e del tipo Rh (positivo o negativo) del donatore;
o determinazione del gruppo sanguigno (A, B, 0) e del tipo Rh (positivo o negativo) del ricevente;
o test per rilevare eventuale presenza di malattie infettive;
o ricerca degli anticorpi irregolari;
o prove di compatibilità maggiore (cross-match).
Il processo trasfusionale, che deve necessariamente partire con un consenso informato da parte del paziente,
prevede fasi ben precise durante le quali medico e infermiere operano in concertazione:
o firma del paziente sul consenso informato;
o prelievo del campione di sangue per l’esecuzione dei test pre-trasfusionali (l’infermiere responsabile del
prelievo deve apporre, accanto a tutti i dati del paziente e all’orario di avvenuto prelievo, la propria firma);
o richiesta degli emocomponenti;
o accettazione, registrazione, esecuzione dei test ed erogazione emocomponenti da parte della struttura
trasfusionale;
o ricezione e doppio controllo (infermiere responsabile e medico) di corrispondenza dati
o identificativi, compatibilità e integrità di ogni singola sacca di emocomponenti;
trasfusione al paziente.
Protocolli e procedure aziendali regolamentano nel dettaglio tutte le fasi del processo trasfusionale, ma per quanto
concerne l’assistenza al paziente sottoposto ad emotrasfusione, l’infermiere ha responsabilità trasversali, fra le
quali:
o accertare la presenza della prescrizione medica per la trasfusione;
o accertare la presenza della firma del paziente sul consenso informato;
o consultare la documentazione clinica e quella infermieristica per controllare i valori di laboratorio pertinenti e
per verificare eventuali precedenti trasfusioni subite dal paziente (in relazione all’eventualità di pregresse
reazioni trasfusionali);
o procedere all’identificazione del paziente (controllare il braccialetto identificativo e, se possibile, porre
simultaneamente la domanda diretta al paziente stesso) e accertare la
corrispondenza fra i dati reali del paziente, quelli indicati sull’etichetta della sacca da trasfondere e quelli sul
modulo di trasfusione;
o accertare l’integrità della sacca da trasfondere, la data di scadenza e le caratteristiche apprezzabili degli
emocomponenti (per individuare eventuali coaguli, colori e/o torbidezza anomali);
o accertare che il materiale sia a temperatura ambiente al momento dell’effettiva infusione;
o spiegare all’assistito quali sono gli effetti collaterali possibili della manovra (brividi, prurito, lombalgia,
cefalea, nausea, vomito, tachicardia, tachipnea) e spiegare l’importanza di riferirli in maniera tempestiva
qualora si presentino;
o controllare nuovamente, al letto del paziente e insieme al medico, la corrispondenza fra i dati del paziente e
quelli indicati sulla sacca da trasfondere, documentando la verifica sul modulo di registrazione della
trasfusione tramite firma di entrambi i professionisti;
o misurare e tenere monitorati prima, durante e dopo la trasfusione, registrandoli sulla documentazione
infermieristica, i parametri vitali (pressione arteriosa, frequenza cardiaca, frequenza respiratoria e
caratteristiche del respiro, temperatura corporea);
o allestire la via venosa e attendere la presenza del medico per avviare la trasfusione;
conoscere la velocità di somministrazione standard (15-20 gtt al minuto per i primi 10-15 minuti, poi fino a
40-60 gtt al minuto);
o assicurare la presenza del medico per il monitoraggio del paziente almeno nei primi dieci minuti dall’inizio
dell’infusione;
o in caso d’insorgenza di complicanze (reazioni trasfusionali acute), interrompere l’infusione di
emocomponenti, avviare quella di soluzione fisiologica e contattare tempestivamente il medico; Una volta
gestita l’urgenza, inviare al centro trasfusionale la sacca connessa al set d’infusione, un campione di sangue
prelevato da vena diversa da quella usata per la trasfusione e il modulo di denuncia di reazione trasfusionale;
Ad infusione terminata: infondere, se previsto dal protocollo aziendale, soluzione fisiologica (50 ml), rilevare
e registrare i parametri vitali post-trasfusione, allegare alla documentazione infermieristica l’etichetta di
assegnazione della sacca trasfusa e inviare al centro trasfusionale copia del modulo di avvenuta
trasfusione; smaltire sacca e deflussore nei rifiuti speciali.

19)Posizione di Sims (tecniche e responsabilità infermieristiche)


Semi prona o Sims, è una posizione con una via di mezzo tra la laterale di sicurezza e la
prona.
Utilizzata per clistere evacuativo.

20)NIV Ventilazione non invasiva (responsabilità infermieristiche)

La NIV è un sistema ventilatorio di natura meccanica a pressione positiva che si sostiutisce all'utente nelle varie
fasi degli atti respiratori; può essere nasale, facciale, total-face o a scafandro, a seconda delle esigenze e della
tollerabilità. Il ruolo dell’Infermiere nella gestione della Non Invasive Ventilation è fondamentale, soprattutto
nella fase del riconoscimento precoce di eventuali compromissioni degli scambi gassosi (per acuzie della
patologia o per malfunzionamento della macchina).

Monitoraggio e indicazioni pratiche


La Ventilazione Meccanica Non Invasiva (NIMV), altrimenti indicata come NIV (Non Invasive Ventilation)
o NPPV (Non Invasive Positive Pressure Ventilation) garantisce un supporto ventilatorio meccanico a
pressione positiva che si avvale di diverse strategie ventilatorie.
Richiede un’interfaccia ventilatore-paziente costituita da diversi tipi di device, che comprendono:
● maschera nasale;
● maschera facciale;
● maschera total-face;
● casco o scafandro.
Viene per lo più praticata a pazienti con IRA o BPCO e, se correttamente applicata, riduce l'intubazione oro
tracheale e la necessità della tracheostomia. Facilita inoltre lo svezzamento (weaning) dalla ventilazione
meccanica invasiva.
La ventilazione meccanica non invasiva, se correttamente impiegata, assicura un grado di efficacia simile a
quello della ventilazione invasiva, ma è stata messa a punto allo scopo di evitare le complicazioni legate
all’impiego di quest'ultima.
L’efficacia della NIV dipende in gran parte dalle competenze del personale infermieristico ben addestrato
all’impiego di queste tecniche ventilatorie e con una salda esperienza in relazione a questo genere di pazienti.
La definizione di NIV risulta essere univoca e si riferisce ad ogni forma di supporto ventilatorio a pressione
positiva agente per via esterna attraverso le vie aeree superiori tramite un’interfaccia costituita da
maschere o device che non prevedono il tubo endotracheale (linee guida BTS-British Toracic Society, ATS-
American Thoracic Society, ERS-European Respitratory Society).
Un’importante considerazione circa l'approccio non invasivo è legata alla possibilità di evitare al paziente il
discomfort del tubo endotracheale e i rischi ad esso connessi, come l'aumentata incidenza di polmonite
ventilatore associata (VAP), il prolungamento della permanenza in Terapia Intensiva e in ospedale o l'incremento
della mortalità intraospedaliera.
Tra i potenziali svantaggi della NIV, invece, troviamo il disagio causato dall'interfaccia (alcune maschere mal
posizionate o lasciate in sede troppo a lungo possono creare lesioni) o la possibilità che il supporto ventilatorio
non sia sufficiente a raggiungere un risultato adeguato.
Da qui nasce la necessità di considerare l'efficacia della NIV in dipendenza del contesto operativo in cui è
applicata. Un setting adeguato deve possedere dei requisiti di carattere organizzativo atti a garantire un buon
risultato oltre che la qualità dell'assistenza.
Sono considerati requisiti essenziali per l’impiego della NIV:
● possibilità di effettuare un monitoraggio adeguato;
● la presenza di personale addestrato e motivato;
● disponibilità del personale h24;
● possibilità di un rapido ricorso all'intubazione e alla ventilazione invasiva.
L'infermiere responsabile deve sapere riconoscere i segni fondamentali di peggioramento di un’Insufficienza
Respiratoria Acuta (IRA), conoscere il funzionamento, l'utilizzo e i possibili inconvenienti dei dispositivi per la
NIV e avere la capacità di interpretare i dati rilevati dal monitoraggio oltre che essere in grado di agire in modo
adeguato in caso di fallimento.
La stretta collaborazione medico-infermiere, l’identificazione precoce di segni e sintomi e il riconoscimento
dell'evoluzione dello stato clinico del paziente contribuiscono a migliorare la qualità dell'assistenza erogata.
Le indicazioni alla NIV riportate in letteratura comprendono patologie come:
● IRA secondaria a riacutizzazione di BPCO: nelle linee guida delle maggiori società di settore (ATS, ERS,
BTS, GOLD) la NIV è indicata come il gold-standard per il trattamento dell'IRA secondaria a riacutizzazione
di BPCO;
● IRA secondaria ad edema polmonare acuto cardiogeno (EPAc): alcuni studi hanno dimostrato come
l'utilizzo della pressione positiva continua (C-pap) sia in grado di ridurre la necessità di intubazione e, quindi,
la permanenza dell’assistito in Terapia Intensiva;
● IRA di tipo ipossiemico, non cardiogena: in questo caso la raccomandazione delle maggiori società di
settore è quella di utilizzare la NIV con approccio strettamente individualizzato e in contesto che consenta un
rapido passaggio alla ventilazione invasiva in caso di mancato miglioramento;
● altre indicazioni possono comprendere il paziente politraumatizzato, la sindrome da ipoventilazione
dell'obeso, l'insufficienza respiratoria in pazienti con patologie neuromuscolari.
Casi in cui la NIV è controindicata
● coma o stato neurologico gravemente compromesso;
● paziente non collaborante, agitato e confuso;
● necessità di proteggere le vie aeree, ostruzioni delle vie aeree superiori, secrezioni bronchiali importanti,
impossibilità di eliminare le secrezioni;
● PNX, se non drenato;
● instabilità emodinamica e severe aritmie;
● anormalità anatomiche facciali congenite o seguite a traumi, recente trauma cranio-facciale;
● recente intervento chirurgico delle vie aeree superiori o del tratto gastrointestinale;
● vomito;
● epistassi;
● comorbilità severe.
Negli anni la NIV è diventata un presidio terapeutico ampiamente accessibile ai reparti di degenza ordinaria per
assicurare sviluppi dal punto di vista della risposta ai bisogni della persona, ma diventa cruciale avere la
possibilità di identificare a priori gli individui nei quali la NIV ha elevate probabilità di fallire, in maniera tale da
decidere di gestire questi pazienti in reparti attrezzati (come le ICU), dove sia rapidamente e facilmente
disponibile la ventilazione meccanica invasiva.

Fattori prognostici positivi all'utilizzo della NIV


● PaCO2 elevata in presenza di ipossiemia moderata;
● pH 7,25-7,35;
● miglioramento di pH, PaO2/FiO2, PaCO2 e frequenza respiratoria in un’ora e sensorio conservato.

Fattori prognostici negativi all’utilizzo della NIV


● elevato score fisiologico (APACHE II, SAPS II);
● presenza di polmonite;
● secrezioni abbondanti;
● edentulia (respirazione nasale);
● stato nutrizionale scadente;
● sensorio compromesso.
Tra le modalità ventilatorie quelle che più di tutte si sono affermate per l'utilizzo non invasivo sono la Pressione
positiva Continua delle vie Aeree (C-PAP) e la Ventilazione a Supporto di Pressione (PSV) eventualmente
associata ad applicazione di una Pressione Positiva di fine Espirazione Esterna (PEEP).
La C-PAP consiste nell'erogazione di una pressione positiva costante durante il ciclo respiratorio, mentre
la PSV consiste nell'erogazione di una pressione superiore a quella di fine espirazione, che viene selezionata
dall'operatore al fine di supportare i muscoli del paziente durante l'inspirazione.

La gestione infermieristica dei pazienti sottoposti a NIV


La gestione infermieristica della NIV in taluni casi risulta molto complessa in quanto si assiste frequentemente ad
una marcata riduzione del grado di collaborazione del paziente conseguente proprio allo squilibrio dei gas
nel sangue (ad es. aumento della pCO2) per cui l'infermiere deve stare a stretto contatto con il paziente al fine di
garantire l'efficacia del trattamento.
L'infermiere dedicato alla gestione della NIV deve:
● controllare lo stato di coscienza e di agitazione del paziente, avvalendosi anche di scale di valutazione;
● informare il paziente, spiegando la procedura;
● assicurarsi la collaborazione del paziente contribuendo a far accettare al meglio il presidio con la spiegazione
dei vantaggi e sulle alternative più invasive;
● valutare la necessità di inserire un SNG per evitare la distensione gastrica ed eventuali episodi di vomito.
Dopo aver preparato il materiale occorrente, assemblato il circuito, acceso il ventilatore e impostato i parametri (in
collaborazione con il medico), l’infermiere poggia inizialmente la maschera al viso del paziente (giusta maschera
e di giusta misura) per permettere al paziente stesso di adattarsi. È responsabilità infermieristica ricordarsi di
utilizzare protezioni (ad esempio, idrocolloidi) sui punti di maggior pressione (come naso e mento) per prevenire
lesioni causate dalla camera pneumatica e, ove possbilie, variare i tipi di maschera alternando i presidi.
La corretta adesione della maschera al viso è condizione indispensabile per evitare dispersioni di ossiegeno e,
di conseguenza, per il buon risultato del trattamento. Per fare questo, l’infermiere fissa la maschera con apposite
cinghie adattando il tutto alla morfologia del viso di ogni singolo assistito, con l'aiuto di spessori morbidi nei punti
di maggior attrito. In questo frangente l’infermiere, in collaborazione con il medico, valuta la somministrazione di
una blanda sedazione che contribuirà all'adattamento del paziente al sistema.
Il monitoraggio deve essere continuo. L’EGA dovrebbe essere eseguita dopo 1-2 ore di NIV e dopo 4-6 ore se la
prima mostra solo lievi miglioramenti. Qualora non si verificassero dei miglioramenti significativi entro questo
range temporale, si procederebbe a valutare la possibilità di una ventilazione invasiva.

21)Posizionamento PICC
Le indicazioni all’inserimento di un PICC sono quindi:
• necessità di infusione di soluzioni acide (pH < 5)o basiche (pH >9) o ipertoniche (osmolarità > 800 mOsm/l), o
con effetto vescicante o irritante sull’endotelio
• necessità di misurazione della Pressione Venosa Centrale
• presenza di alto rischio di complicanze meccaniche qualora si procedesse alla inserzione di un CVC in vena
giugulare interna o succlavia (pazienti obesi; pazienti con alterazioni anatomiche e/o patologiche del collo; pazienti
con grave coagulopatia);
• presenza di alto rischio di complicanze infettive qualora si posizionasse un CVC tradizionale (pazienti con
tracheotomia, pazienti immunodepressi o soggetti ad alto rischio di batteriemie)
• situazioni in cui è logisticamente difficoltoso o costoso procedere al posizionamento di un CVC tradizionale
(domicilio, mancanza di un team dedicato; etc.);
• necessità di accesso venoso centrale per tempo particolarmente prolungato (‘a medio termine’: < 3 mesi);
• necessità di accesso venoso centrale a medio termine (< 3 mesi) in paziente da trattare anche o esclusivamente in
ambito extraospedaliero;
• necessità di accesso venoso centrale a medio termine (< 3 mesi) da utilizzare anche o esclusivamente in modo
discontinuo.

Il posizionamento del PICC è controindicato nelle seguenti situazioni:


• Nota o sospetta batteriemia o setticemia
• Pregressa irradiazione del sito di inserimento previsto
• Pregressi episodi di trombosi venosa o interventi di chirurgia vascolare nel sito di posizionamento previsto
• Fattori locali in grado di prevenire l’adeguata stabilizzazione o accesso del dispositivo (eritemi, edemi, eczemi…)
• Insufficienza delle dimensioni corporee del paziente rispetto alle dimensioni del dispositivo impiantato.
La presenza di cateteri intravenosi può essere associata a importanti complicanze catetere correlate (TVP,
infezione, rottura) e a discomfort per il paziente. Tuttavia, nei pazienti sottoposti a terapie infusionali superiori
ai cinque giorni, dovrebbe essere presa in considerazione l’opportunità di fare ricorso ad un catetere
intravascolare di media lunga durata, come il PICC, sulla base di criteri di valutazione relativi alle caratteristiche
dei farmaci infusi oltre alla disponibilità del letto vascolare periferico, necessario per garantire la continuità
terapeutica e l’efficienza del sistema infusivo.

PROCEDURA INSERIMENTO PICC


Risorse Umane
● Un infermiere impiantatore che deve aver ricevuto specifica formazione nell’inserzione del PICC;
● Un infermiere/oss.
● 1. Verificare che il sistema scelto sia effettivamente il dispositivo adatto alla terapia endovenosa prevista
per quel paziente;
● 2. Spiegare dettagliatamente al paziente la procedura;
● 3. Raccogliere il consenso verbale e scritto del paziente alla procedura e verificare eventuale presenza di
pace-maker o defibrillatori impiantabili (il PICC in tal caso verrà posizionato nell’arto contro laterale) e
che non siano presenti allergie conosciute;
● 4. Valutazione ecografica delle vene delle braccia prima senza e poi con l'applicazione del laccio
emostatico;
● 5. Valutare le vene teoricamente agibili,identificare il punto di inserzione con penna dermografica e
rimuovere il laccio emostatico;
● 6. Rilevare la lunghezza del catetere da introdurre (distanza da punto di inserzione a emiclaveare + distanza
da emiclaverare a 3° spazio intercostale dx);
● 7. Effettuare il lavaggio sociale delle mani;
● 8. Posizionare il paziente in posizione supina, con braccio a 90 gradi, palmo della mano in alto;
● 9. Eseguire tricotomia, se necessaria;
● 10. Posizionare il telino salvaletto monouso sotto il braccio del paziente;
● 11. Indossare mascherina e copricapo;
● 12. Eseguire lavaggio antisettico delle mani;
● 13. Indossare il camice e i guanti sterili;
● 14. Preparare il campo sterile aprendo il telino non adesivo sul piano di lavoro;
● 15. Disporre sul campo sterile il materiale necessario16. Aspirare le 2 fiale di sol fisiologica nelle siringhe
da 10 ml
● 17. Inumidire almeno 4 garze con disinfettante;
● 18. Il secondo operatore applica il laccio emostatico;
● 19. Disinfettare la zona eligibile con disinfettante appropriato almeno 10 cm sopra e 10 cm sotto il punto
di inserzione;
● 20. Ripetere la manovra almeno 2 volte;
● 21. Rispettare il tempo d’azione del disinfettante;
● 22. Posizionare 1 telino sterile senza adesivo sotto il braccio destinato all’impianto ed applicare 2 teli
adesivi sul braccio lasciando in evidenza il sito di inserzione;
● 23. Controllare dilatatore e peel-away e lavarli con fisiologica, estrarre guida metallica;
● 24. Con la mano dominante, impugnare l’agocannula o l’ago introduttore presenti nel kit;
● 25. Con la mano non dominante impugnare la sonda ecografica, protetta dal copri sonda sterile, mantenendo
la visualizzazione della vena prescelta al centro dello schermo per facilitare la venipuntura;
● 26. Pungere e avanzare con l’ago o l’agocannula con un angolo di 45 - 60 gradi rispetto alla superficie della
cute;
● 27. Far avanzare il più possibile la cannula estraendo contestualmente il mandrino solo se vi è reflusso di
sangue nel dispositivo. Se si usa l’ago introduttore, al refluire di sangue fermarsi immediatamente;
● 28. Introdurre delicatamente la guida metallica fino a lasciarne fuori cute circa 10 CM;
● 29. In caso di mancata progressione della guida cercare di estrarla lentamente senza forzare, qualora non
sia possibile, estrarre prima l’ago o la cannula e poi la guida;
● 30. Sfilare la cannula o l’ago dalla cute facendo attenzione a non rimuovere la guida;
● 31. Eseguire pomfo di carbocaina al 2% in sede di puntura all’emergenza della guida;
● 32. Eseguire, se necessario una piccola incisione della cute (2 mm) con il bisturi in posizione orizzontale
all’emergenza della guida;
● 33. Introdurre, con movimento di avvitamento, il dilatatore preassemblato al peelaway;
● 34. Togliere il laccio emostatico;
● 35. In caso di PICC a punta aperta tagliare l’estremità distale alla lunghezza definita precedentemente.
Rimuovere quindi contemporaneamente, con delicatezza, la guida metallica e il dilatatore (svitandolo);
● 36. Introdurre il catetere nella cannula peel-away (fino alla misura precedentemente rilevata se il PICC è a
punta chiusa)
● 37. Controllare il reflusso di sangue nel catetere con siringa in aspirazione;
● 38. Iniettare SF con la siringa preconnessa con tecnica pulsante;
● 39. Rimuovere l’introduttore con tecnica peel-away
● 40. Posizionare garza sterile sul punto di introduzione;
● 41. Togliere delicatamente il mandrino dal catetere e tagliare il tratto di catetere in esubero in modo tale da
permettere di assemblare e connettere il raccordo luerlock al catetere (se PICC a punta chiusa)
● 42. Assemblare la seconda aletta a 0,5 cm dall’emergenza cutanea ancorandola al catetere col filo di sutura
presente nel kit PICC a punta chiusa
● 43. Controllare regolare funzionamento in aspirazione e infusione;
● 44. Eseguire ulteriore lavaggio con SF con tecnica “stop&go” e connettere il needleless;
● 45. Eparinare secondo diluizione i cateteri a punta aperta;
● 46. Se necessario, detergere la cute circostante il sito di inserzione con SF e garza sterile;
● 47. Asciugare con garza sterile;
● 48. Rimuovere con attenzione i teli sterili adesivi;
● 49. Fissare il catetere con sistema sutureless;
● 50. Applicare se necessario un tampone emostatico sul sito di inserzione e coprire con medicazione garza
a cerotto;
● 51. Rimuovere i rimanenti telini;
● 52. Eseguire fasciatura leggermente compressiva con benda autoadesiva;
● 53. Smaltire i rifiuti;
● 54. Rimuovere i guanti ed eseguire lavaggio sociale delle mani;
● 55. Richiedere RX torace per confermare l’esatto posizionamento del cvc;
● 56. Consegnare brochure informativa;
● 57. Registrare in cartella clinica:
● Asepsi impiegata ;
● Marca, calibro e lotto del catetere(etichetta adesiva);
● Sede di inserzione (indicare braccio e vena);
● Lunghezza del catetere introdotta;
● Tecnica di introduzione;
● Guida ecografica;
● Eventuali difficoltà all’introduzione;
● Eventuale ematoma o gemizio nel punto di introduzione;
● Nome e Cognome del posizionatore.

22)Rilevazione della pressione intracranica


Valore della pressione intracranica normale e patologica

Al pari della pressione sanguigna, l’ICP viene misurata in millimetri di mercurio (mmHg) e, a riposo, oscilla
normalmente tra i 7 e 15 mmHg in un adulto in posizione supina e diventa negativa (in media –10 mmHg)
quando il paziente si trova in posizione verticale.
In un giovane la pressione intracranica invece oscilla tra 3 e 7 mmHg.
Nei neonati si attesta tra 1,5 e 6 mmHg.

L’ipertensione endocranica, è una patologia in cui si riscontra un aumento della pressione nel cranio oltre i 15
mmHg. Generalmente l’ipertensione supera di gran lunga tale valore, attestandosi anche a 25 mmHg, che
rappresenta il valore soglia per cui vi è la necessità di ricorrere ad un trattamento per ottenere la sua riduzione
immediata, salvo il possibile verificarsi di danni cerebrali anche permanenti e potenzialmente letali. Secondo
alcuni autori tale soglia andrebbe abbassata a 20 mmHg.
Come si misura la pressione intracranica?

La misurazione indiretta della pressione intracranica avviene tramite stime basate sulla clinica oppure grazie a
doppler transcranico, determinazione del diametro III ventricolo, con puntura lombare o con
oftalmodinamometria. La pressione endocranica si può misurare con precisione solo con metodi più invasivi,
inserendo delle sonde che definiscono la pressione presente nei ventricoli cerebrali o nel parenchima cerebrale.
Questo è un metodo molto invasivo e può essere effettuato sia per una singola misurazione, sia per una
misurazione in modo continuo, specie in pazienti ad alto rischio. La misurazione della pressione intracranica in
modo continuo è una procedura costosa e minimamente invasiva che viene eseguita in regime di anestesia locale
ed associata a neuroleptoanalgesia, ciò permette al paziente di rimanere sveglio senza provare dolore. Una volta
eseguite le manovre anestesiologiche, si esegue una piccola incisione di poco anteriore alla sutura coronale,
successivamente viene praticato sul tavolato osseo un piccolo foro di trapano. Ottenuta la breccia ossea si
introduce il trasduttore ventricolare sino al raggiungimento del corno frontale del ventricolo laterale. Il trasduttore
viene successivamente collegato ad un sistema per la visualizzazione e stampa dei dati. La misurazione della PIC
viene condotta in continua per almeno 48 ore. Il paziente rimane allettato con il capo sollevato di circa 30°.

23)Tipologie di febbre
(responsabilità infermieristiche ed assistenza)
l decorso dell’episodio febbrile è caratterizzato solitamente da tre fasi:
● fase prodromica (fase di ascesa): è caratterizzata dalla produzione di citochine che determinano la sensazione
soggettiva di freddo, l’eventuale comparsa di brivido (aumento della termogenesi) e del pallore cutaneo,
conseguenza della vasocostrizione (riduzione della termodispersione);
● fase del fastigio (acme febbrile): corrisponde al periodo in cui l’ipotalamo si regola su un livello più elevato di
quello fisiologico (modifica del set point) con conseguente aumento della temperatura. Scompare la
sensazione di freddo che è sostituita da quella di caldo, la cute si arrossa e diventa più calda, il paziente prova
agitazione e sono comuni cefalea e dolori muscolari;
● fase di defervescenza: inizia con l’inattivazione della produzione di citochine pirogene e può essere graduale
(per lisi) o rapida (per crisi). Se avviene per lisi non vi sono sintomi particolari, salvo un lieve senso di calore
seguito da benessere dovuto alla ritrovata normalità; se avviene per crisi si verifica una notevole
vasodilatazione accompagnata da sudorazione profusa (diaforesi) che può rendere il paziente disidratato e
spossato.

I diversi tipi di Febbre


● Febbre continua: (frequente nelle polmoniti) durante la fase dell’acme febbrile la TC raggiunge i 40 °C e si
mantiene costante, le oscillazioni giornaliere sono sempre inferiori a 1°C senza mai raggiungere la
defervescenza per circa 7gg dopo i quali, solitamente, si ha risoluzione per crisi con sudorazione profusa;
● febbre remittente o discontinua: è frequente nelle setticemie, nelle malattie virali e nella tubercolosi; il rialzo
termico, durante il periodo del fastigio, subisce oscillazioni giornaliere di 2-3°C, senza che mai si raggiunga la
defervescenza per 5-6gg;
● febbre intermittente: è frequente in sepsi, malattie da farmaci, neoplasie; vede l’alternarsi di periodi di
ipertermia e periodi di apiressia.
● febbre ondulante: la TC aumenta nel giro di vari giorni, raggiunge un picco e poi decresce lentamente in più
giorni successivi (per lisi) della durata di 1-2 settimane e dopo uguale periodo di apiressia riprende con le
stesse modalità;
● febbre ricorrente e familiare: il periodo febbrile oscilla dai 3 ai 5 giorni, alternandosi a periodi di apiressia;
● febbre settica: frequente in infezioni delle vie biliari e urinarie; l’andamento intermittente, con puntate di 1 o
2 volte al giorno, con un incremento rapido con brivido, acme breve e rapida defervescenza per crisi;
● febbricola: non sono mai raggiunti i 38°C, profilassi anticoncezionali, tubercolosi, una neoplasia oppure
un’infezione cronica.

24)Paziente epatopatico
Il ruolo dell’infermiere nell’assistenza al paziente con Cirrosi Epatica
L’infermiere è responsabile dell’assistenza generale infermieristica e di fronte ad un paziente con cirrosi
epatica che viene ricoverato nell’Unità Operativa di Medicina Interna, ha la responsabilità di prendere in carico
l’utente.
Dopo aver acquisito i dati anagrafici necessari al ricovero del paziente, l’infermiere procede ad effettuare
l’accertamento infermieristico per delineare le condizioni dello stesso al momento dell’ingresso in reparto.
L’infermiere, in particolare, rileva i parametri vitali, quali:
1. pressione arteriosa
2. saturazione
3. frequenza cardiaca
4. frequenza respiratoria e qualità del respiro
5. temperatura corporea.
Monitorerà, inoltre:
● il colorito e il livello di idratazione della cute;
● le condizioni del sensorio;
● l’eventuale presenza di ascite e/o edemi agli arti, misurandone la circonferenza;
● i rumori polmonari (per rilevare eventuale edema polmonare);
● i valori di globuli bianchi, globuli rossi, piastrine, emoglobina, bilirubina e delle transaminasi.
Con l’utilizzo di scale validate e contestualizzate e, ove possibile, con la collaborazione del paziente, valuta la
presenza di dolore, con relative caratteristiche, localizzazione e intensità, così come accerterà il livello di ansia che
affligge la persona.
L’infermiere consulterà il dietista per concordare, insieme all’assistito, una dieta opportuna al caso e le relative
restrizioni, dietetiche e di liquidi.
Quella dell’accertamento è solo la prima fase del processo di assistenza infermieristica che, come passaggio
successivo, prevede un’attenta analisi incrociata dei dati raccolti attraverso l’accertamento, con la collaborazione
del paziente e, se presente, con quella di un caregiver; analisi dei dati che porta alla formulazione di un piano
assistenziale tarato sulla singola persona.

Piano assistenziale standard


Un piano assistenziale secondo il modello bifocale Carpenito prevede la formulazione, in completa autonomia
da parte del professionista infermiere, di Diagnosi Infermieristiche con relativi obiettivi, la pianificazione e
attuazione degli interventi volti al raggiungimento degli stessi ed un sistema di valutazione in itinere per
monitorare la risposta del paziente all’erogazione dell’assistenza.
L’altra parte del piano assistenziale è costituita dai Problemi Collaborativi, ovvero complicanze potenziali che si
stanno verificando o potrebbero verificarsi rispetto ad una determinata patologia. In questo caso l’infermiere ha un
ruolo “collaborativo” nei confronti del medico e di altri professionisti della salute coinvolti nel pieno rispetto delle
reciproche competenze, ovvero contribuisce a monitorare il paziente, ad individuare eventuali segni e sintomi di
complicanze e ad attuare gli interventi per riportare le condizioni cliniche dell’assistito alla stabilità.

25)Paracentesi
Per paracentesi (o peritoneocentesi) si intende la rimozione di liquido ascitico dalla cavità peritoneale per mezzo
di una piccola incisione chirurgica o di una puntura praticata attraverso la parete addominale in condizioni di
sterilità.
Cos'è e come si esegue la paracentesi per rimozione di liquido in addome
La paracentesi è una metodica diagnostico-terapeutica che consente il trattamento dei pazienti con grandi volumi
di liquido ascitico (5-6 l) endoaddominale. Mentre sin dalle sue origini questa metodica era considerata il
trattamento abituale per l’ascite, al giorno d’oggi la paracentesi è utilizzata soprattutto per il trattamento di
paziente con asciti di importante entità resistenti alla terapia diuretica o in terapia con diuretici che causano gravi
problemi alla persona e prima di altre procedure come studi di diagnostica per immagini, dialisi peritoneale o un
intervento chirurgico.
La paracentesi è considerata anche una procedura diagnostica in quanto un campione di liquido ascitico può essere
inviato al laboratorio di analisi per la conta delle cellule, la misura del contenuto di albumina e di proteine totali,
gli esami colturali e altri test diagnostici.
Questa tecnica, associata all’infusione endovenosa di preparazioni di albumina povere di sali o di altri colloidi, è
diventata un trattamento standard che determina effetti immediati per il paziente.
La somministrazione di albumina permette di correggere la riduzione del volume di sangue arterioso, diminuendo
in questo modo l’incidenza di iponatriemia e delle disfunzioni renali ad essa associate.
È bene sottolineare come la paracentesi a scopo terapeutico determina una rimozione del liquido che è solo
temporanea: l’ascite si riforma rapidamente e sono necessari ripetuti interventi.
La paracentesi, infine, può essere praticata sotto guida ecografica: tale metodica è particolarmente indicata per le
persone ad alto rischio di sanguinamento (a causa di alterazioni della coagulazione) o per quei soggetti che in
precedenza hanno subito interventi di chirurgia addominale che potrebbero aver dato luogo alla formazione di
aderenze.

26)Drenaggio toracico(responsabilità infermieristiche)

Con drenaggio pleurico si intende l'incisione della parete toracica e la successiva introduzione percutanea di un
tubo di drenaggio nello spazio pleurico. Si tratta di una procedura che richiede l'utilizzo di un presidio atto ad
eliminare liquidi generalmente patologici o patogeni
Nel campo della chirurgia toracica, il drenaggio pleurico è utile alla rimozione di qualsiasi accumulo di
materiale biologico che di fatto impedisce meccanicamente l'espansione polmonare ed il corretto funzionamento
fisiologico dei polmoni.
Il grado pressorio negativo all'interno della cavità pleurica, infatti, permette l'espansione polmonare impedendone
il collasso. Le condizioni cliniche per le quali si rende necessario il posizionamento del drenaggio
toracico sono:
● pneumotorace dovuto alla presenza di fluidi nello spazio pleurico;
● accumulo di sangue nello spazio pleurico (emotorace);
● versamento pleurico;
● empiema pleurico a raccolta purulenta causata da flora batterica;
● controllo della cavità dopo intervento in chirurgia toracica;
● necessità di ripristino della pressione negativa intrapleurica.

Caratteristiche del presidio utilizzato


Il sistema di drenaggio è fondamentalmente composto da 4 diverse parti: il catetere di drenaggio, il raccordo, il
tubo collettore e il presidio di raccolta. Il catetere, in pvc o silicone, ha un calibro che può variare dagli 8 ai 40 F,
in base all'entità del fluido da drenare, dall'età e dal peso del paziente.
Si inserisce con un sistema dotato di mandrino tra il 2° e 3° spazio intercostale emiclaveare o tra il 5° e il 6°
spazio medio ascellare, in base all'entità del fluido da drenare. Gassoso nel primo caso, liquido nel secondo.
Sistema di drenaggio con valvola ad acqua
Il sistema di drenaggio toracico con valvola ad acqua si avvale di un sistema a tre camere:
● camera di raccolta dei fluidi drenati: posta a valle del tubo di drenaggio, consiste in una camera graduata
avente il fine di misurare i volumi;
● camera di controllo della pressione di aspirazione: questa camera viene riempita con acqua sterile fino al
livello standard di 20 cm di acqua (la stessa camera, però, può essere calibrata anche su altre quantità, seppur
in occasioni più rare). Dal momento dell'avvio dell'aspirazione l'acqua della camera viene coinvolta in un un
leggero gorgogliamento, indice della buona attività aspiratoria;
● camera con valvola ad acqua: ha funzione di sicurezza impedendo all'aria di ritornare nel torace quando il
paziente inspira grazie all'unidirezionalità della valvola. È importante valutare il gorgogliamento dell'acqua
della camera: la presenza di gorgogliamento persistente e non intermittente, può essere manifestazione di una
possibile fuoriuscita d'aria dallo spazio pleurico.

Valvole unidirezionali: la Heimlich


Questa valvola unidirezionale permette all'aria di fuoriuscire dalla cavità toracica durante la fase espiratoria e le
impedisce di rientrarvi in fase inspiratoria. Pensata e creata dal dr. Heimlich, padre della famosa manovra di
disostruzione delle vie aeree da corpo estraneo, questa valvola è particolarmente indicata nei casi di:
● pneumotorace;
● gestione domiciliare del paziente;
● livelli pressori instabili dei fluidi;
● trasporto del paziente.

Le principali complicanze
Le complicanze principali nell'assistenza infermieristica a persona con drenaggio pleurico sono di differente
natura. Tra esse troviamo, ad esempio:
● malposizionamento del drenaggio;
● malfunzionamento per occlusione meccanica da coaguli, fibrina, etc.;
● dolore durante le fasi di espansione toracica;
● enfisema sottocutaneo;
● emorragia;
● infezione;
● lesione del parenchima polmonare;
● lesione del diaframma;
● lesione vascolare o cardiaca;
● edema polmonare.

Obiettivi dell'assistenza infermieristica


I principali obiettivi del nursing dedicato al paziente con drenaggio pleurico mirano alla minima riduzione della
possibilità delle varie complicanze. In particolare occorre:
● mantenere il funzionamento corretto del sistema di drenaggio;
● monitorare ed intervenire in caso di complicanze dovute al confezionamento del drenaggio;
● monitorare ed intervenire riguardo l'insorgenza di possibili infezioni;
● monitorare quantità e qualità dei fluidi raccolti secondo cadenze orarie programmate;
● programmare cambi posturali orari al fine di garantire il comfort e il corretto funzionamento del drenaggio.

La gestione del drenaggio pleurico


Al fine di garantire il corretto funzionamento del sistema di drenaggio, occorre attuare alcune semplici, ma
fondamentali manovre:
● controllare che tutte le connessioni siano efficienti e mantengano il circuito chiuso;
● fissare il tubo collettore lasciando margine di manovra, affinché non si verifichino dislocamenti o strozzature
da posizionamento;
● in caso di coaguli o parziali ostruzioni, effettuare le operazioni di mungitura verso il presidio di raccolta;
● il dispositivo di drenaggio deve essere posizionato "a valle" rispetto al torace del paziente al fine di impedire
un ritorno di liquido verso la pleura, cosa che vale anche durante le fasi di spostamento del paziente;
● impostare rivalutazione e confezionamento della nuova medicazione ogni qualvolta essa sia sporca o al
massimo ogni 48h. Il punto di inserzione del drenaggio presenta punti di fissaggio che per loro natura
richiedono la massima attenzione in quanto fattori predisponenti ad un'eventuale infezione.

L'educazione al paziente con drenaggio pleurico


Il drenaggio pleurico può rappresentare un ostacolo fisico e psicologico importante per un paziente. Una buona
educazione dell'assistito, dunque, risulta fondamentale, in particolare ponendo come obiettivi:
● il mantenimento del sistema "a valle" rispetto al torace del paziente;
● una accorta movimentazione degli arti e del busto al fine di ridurre al minimo il rischio di sposizionamento o
rimozione accidentale del presidio;
● la corretta esecuzione di ginnastica respiratoria e incoraggiamento ad una tosse efficace;
● una corretta comprensione della temporaneità e dell'importanza dell'aderenza al presidio e al suo ricorso.

27)Edema polmonare acuto (EPA)


L’edema polmonare acuto (EPA) è una grave condizione determinata dall’accumulo di liquido nel tessuto
interstiziale e negli alveoli polmonari che riduce drasticamente la capacità di scambio dei gas respiratori e rende
estremamente difficoltosa la respirazione. Può avere origini cardiogene o non cardiogene e il paziente con
EPA diventa rapidamente dispnoico, ortopnoico, cianotico e tossisce espettorato schiumoso con tracce di sangue
(emottisi).

Edema Polmonare Acuto nello specifico: Eziologia, segni e sintomi


L’Edema Polmonare Acuto può avere origine in seguito a disfunzioni cardiache oppure in seguito a problemi
non cardiaci, come possono essere un sovraccarico di liquidi, una sepsi, un’overdose da oppiacei, l’inalazione di
gas nocivi ed altri.
L’edema polmonare vede la fuoriuscita dei fluidi dal sistema capillare dei polmoni verso gli spazi interstiziali,
prima, e verso le cavità di bronchioli ed alveoli, poi.
Gli alveoli, in stretto contatto con i capillari polmonari, sono i protagonisti dello scambio gassoso ossigeno-
anidride carbonica e nel momento in cui si trovano invasi da liquidi non riescono più a svolgere la loro
fondamentale funzione.
Il passaggio di liquido dai capillari verso lo spazio interstiziale e gli alveoli può avvenire attraverso due processi:
● trasudazione: l’aumento della pressione all’interno dei vasi sanguigni provoca la fuoriuscita di liquido
(trasudato) senza che la parete vasale subisca danni strutturali;
● essudazione: un processo infiammatorio compromette la parete vasale al punto da provocare una lesione
attraverso la quale fuoriesce un liquido più composito rispetto al trasudato: l’essudato, infatti, contiene cellule
ematiche e proteine plasmatiche.
Caratteristica dell’edema polmonare è il suo aggravarsi in maniera rapida attraverso 4 fasi:
1. il liquido, essudato o trasudato che sia, si accumula negli spazi interstiziali, distanziando lo spazio alveolare e
l’endotelio capillare fino al punto da rendere sempre più difficoltosi gli scambi gassosi e sempre meno efficaci
le capacità linfatiche di drenaggio;
2. il liquido fuoriuscito si spinge fino a ridosso di bronchi, bronchioli e vasi circostanti;
3. il liquido circonda gli alveoli e si accumula tra le giunzioni del loro epitelio;
4. il liquido abbatte le giunzioni serrate e inonda in prima istanza gli alveoli (edema alveolare), per poi spingersi
lungo le vie respiratorie.
Quando si parla di edema polmonare in base all’eziologia si distingue fra:
● edema polmonare cardiogeno: trae origine da un’anomalia cardiaca;
● edema polmonare non cardiogeno: dipendente da motivi extra-cardiaci.
Tra le cause cardiache si possono ascrivere, ad esempio:
● infarto miocardico acuto;
● cardiopatia ischemica;
● cardiopatie congenite;
● tachiaritmie (ad es. fibrillazione atriale parossistica, tachicardia parossistica sopra-ventricolare, ecc.);
● cardiopatia ipertensiva;
● endocardite;
● miocardite;
● valvulopatie ecc.
Tra le cause extra-cardiache di edema polmonare troviamo:
● sindrome da distress respiratorio dell’adulto;
● infezioni/sepsi;
● politraumi;
● shock;
● overdose di stupefacenti;
● embolia polmonare;
● ab ingestis;
● pancreatite acuta;
● inalazione di sostanze tossiche;
● intossicazione da ossigeno ecc.
Per quanto riguarda le manifestazioni cliniche l’edema polmonare si contraddistingue per segni e sintomi quali,
ad esempio:
● dispnea acuta ad insorgenza improvvisa e che persiste anche in posizione sdraiata (ortopnea);
● tosse con probabile espettorazione di escreato schiumoso e rosato;
● astenia;
● pallore o cianosi cutanea;
● diaforesi algida;
● cardiopalmo e ipertensione;
● aumento di frequenza cardiaca e frequenza respiratoria;
● stato di ansia;
● rantoli crepitanti all’auscultazione toracica ecc.
La presenza di questi dati clinici deve essere supportata da specifiche indagini diagnostiche al fine di giungere
alla diagnosi di edema polmonare, in particolare:
● RX-torace: permette di distinguere tra un edema polmonare interstiziale ed uno polmonare, di valutare
l’aumento delle dimensioni dell’ombra cardiaca e di individuare il versamento pleurico;
● ECG: è utile per capire se all’origine dell’edema polmonare ci sono disfunzioni cardiache;
● Emogasanalisi arteriosa: necessaria per stabilire un’insufficienza respiratoria o una condizione di acidosi
respiratoria ecc.
Quella di edema polmonare è una condizione clinica molto seria che annovera un’elevata mortalità; la
sua prognosi dipende rigorosamente da:
● rapidità d’intervento nella risoluzione della causa scatenante;
● gravità della patologia scatenante;
● età e condizioni generali del paziente;
● presenza di comorbilità.

28)Compressione pneumatica
(prevenzione della trombosi venosa profonda)
La compressione pneumatica intermittente (CPI) è un metodo sicuro ed efficace per la prevenzione del
tromboembolismo venoso (TEV).
Può essere usata da sola o in combinazione con altri metodi di profilassi. Inoltre, per il 19% dei pazienti
ospedalizzati ad alto rischio di emorragia e per i quali la terapia anticoagulante può essere controindicata (1), la
CPI rappresenta una soluzione ideale.
La compressione pneumatica intermittente (CPI) viene applicata mediante tuttori ad altezza polpaccio, ad altezza
coscia o che coprono il piede. Questi tutori avvolgenti monopaziente vengono gonfiati periodicamente da una
pompa pneumatica, che applica all'arto una delicata pressione intermittente.
A differenza dei metodi farmacologici, la compressione pneumatica intermittente (CPI) mitiga due dei fattori di
rischio associati all'insorgenza del tromboembolismo venoso (TEV): stasi venosa e ipercoagulabilità.
La CPI non solo aumenta la circolazione nell'arto, ma provoca anche un effetto antitrombotico e fibrinolitico
misurabile (2). Queste risposte fisiche e biochimiche sono simili a quelle osservate durante la compressione dei
vasi sanguigni all'interno dei muscoli del polpaccio e del plesso plantare (piede) durante attività come camminare;
è particolarmente utile nel trattamento di pazienti per i quali la mobilizzazione precoce non è possibile.

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