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Articolo2 Ipnosi
Articolo2 Ipnosi
De Marchi
W. Trasarti Sponti
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LA METAFORA
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In tutte queste “forme” linguistiche, mentre la coscienza identifica i personaggi e
le situazioni concrete esposte, l’inconscio compie la traduzione cogliendo le analogie,
identificando la struttura del racconto e comprendendone il significato nascosto.
In altri termini vede la forma della foresta, a discapito dell’osservazione dei
singoli alberi che la compongono. Questa nuova “visione”, integrandosi con quelle
preesistenti, le modifica. Si produce così un cambiamento nella visione del mondo del
paziente.
Un vantaggio pratico dell’uso della metafora è costituito dal suscitare maggiore
interesse nel paziente rispetto all’esposizione diretta della sua situazione; inoltre
rispetta i tempi del cliente che può prestare attenzione al contenuto letterale, se non è
pronto al cambiamento, piuttosto che al contenuto simbolico.
Il contenuto simbolico è interpretato dal cliente in funzione dei suoi schemi di
riferimento, e quindi è adatto, peculiare, specifico per lui.
La metafora, mantenendo nascosto il significato simbolico, appare meno
minacciosa per il cliente (si ricordi il vantaggio secondario del sintomo).
In effetti il sintomo “portato” dal paziente è esso stesso una metafora della
comunicazione sul suo disagio; soprattutto in famiglie dove non è abituale
verbalizzare il disaccordo si utilizza il sintomo come forma di comunicazione.
Essendo riferita ad altre persone e/o ad altre situazioni, non sottopone il
terapeuta al rischio di critica da parte del cliente che non dovesse riconoscersi nella
diagnosi dello stesso. E’ evidente in questa affermazione una segnalazione da parte di
chi scrive della difficoltà nell’accettare il proprio limite
E’ un importante strumento per ristrutturare la spiegazione del mondo relativa al
problema del cliente (si cambia la cornice al quadro e lo si rende adatto all’ambiente).
Pur essendo una forma di comunicazione indiretta (non impartisce istruzioni)
può permetterne però l’inserimento al suo interno, “agganciandolo” a cambiamenti di
tono della voce o di velocità della stessa. Questo modo di procedere rende
l’ingiunzione diretta non identificabile dal paziente come diretta a lui, ma viene colta
dall’inconscio che può cosi utilizzarla.
Non dando istruzioni dirette si evita che il cliente possa rifiutarle (resistenza
degli psicanalisti).
Quindi l’uso della metafora è particolarmente indicato in pazienti resistenti alle
prescrizioni dirette, ma anche a coloro che dubitano della propria capacità di riuscire:
il dirgli direttamente che può farcela, cozzando con la propria visione di sé, potrebbe
essere rifiutato.
Per i pazienti che non vogliono fare autocritica, permette di suggerire l’utilità
della stessa, senza però riferirlo al paziente stesso.
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Può essere inoltre utile, dato il suo maggiore fascino rispetto a prescrizioni
dirette, in pazienti che perdono concentrazione.
DIAGNOSI
La prima fase della costruzione della metafora specifica per il nostro cliente
consiste nel diagnosticare il suo modo di vedere il mondo, cogliendo, interpretando il
suo modo di comportarsi nel mondo.
Per diagnosi del cliente intendiamo dire, parafrasando J. Zeig: “... rendersi conto
che le persone percepiscono il mondo attraverso le proprie lenti. D’altra parte ogni
lente distorce in qualche modo la realtà”.
Queste “lenti” vengono messe da piccoli e si passa poi il resto della vita a
confermarsi che il mondo è esattamente come lo si “vede”.
Ricordo una cliente che venne da noi convinta che nella sua famiglia “le donne
non riescono nel lavoro”. Faceva e fa la psicoterapeuta, solo che al tempo in
questione una agorafobia con attacchi di panico le impediva di fare pubbliche
relazioni per farsi conoscere e quindi l’attività non decollava.
Passava il suo tempo a chiedersi se non fosse stato il caso di cambiare lavoro,
magari facendo la segretaria di qualche professionista, confermando così il “mito di
famiglia”.
Zeig definisce queste lenti come il “piano frontale” del paziente. Questo piano
frontale precede l’azione e ne conferma l’esistenza.
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SCHEMA DI RIFERIMENTO
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si dice “fino a quando”, il personaggio non cambia completamente, cambia categoria
della Satir cambia predicati e questo lo porta alla soluzione.
Per capire qual è la categoria associata all’esperienza del cliente bisogna
chiedere: “Qual è il sentimento che lei è consapevole di provare quando dice
questo?”(NOTA: quale sentimento è consapevole di provare quando ci sta
esponendo il problema)
La risposta può essere:
- inerme ⇒allora è un propiziatore
- arrabbiato ⇒allora è un accusatore
- nulla ⇒ allora è un calcolatore
- cose di cui sta parlando ⇒allora è uno svagato
Inoltre notare le comunicazioni incongrue tra comunicazione analogica e
digitale, comunicazione analogica e analogica. Per esempio se usa un canale
manifestando una categoria della Satir e con un altro canale ne manifesta un’altra (ha
una voce pacata, ma i pugni chiusi o l’indice puntato: voce pacata⇒calcolatore -
indice puntato, pugni chiusi⇒accusatore). La comunicazione incongrua indica che
sono espresse simultaneamente più parti, più stili in una stessa situazione
esperienziale il che, evidentemente è causa dei blocchi.
Nella struttura della metafora si passerà a quello che viene chiamato
livellamento. Poniamo il caso di trovarci di fronte ad una moglie e ad un marito in
conflitto, dei quali uno è un propiziatore e l’altro un accusatore e queste sono le
posizioni che tengono in piedi il problema. Passando ad invertire i ruoli, chi accusava
diventa propiziatore, chi propiziava diventa accusatore: questo li porta a livellarsi.
Si usano evidentemente verbi associati. Il propiziatore, che fino ad allora
“supplicava”, finalmente puntando l’indice “urla”, e l’accusatore, che con ogni
probabilità era abituata a rimproverarlo, si siede e , “spaventata”, ascolta.
Una cosa importante da notare è se c’è una corrispondenza tra categorie della
Satir e comunicazione verbale: ad esempio il propiziatore usa dei qualificatori del
tipo “se, solo, proprio, perfino”, verbi al congiuntivo “volessi, potessi” frasi del tipo
“se solo potessi essere felice lo sarei”, ”ti piacerebbe che facessi questo per te?”. Il
propiziatore è colui il quale dice tendenzialmente “sono come tu mi vuoi”, “io sono
sbagliato”, “ho bisogno di te”, “senza di te non posso vivere”.
L’accusatore usa quantificatori universali del tipo “tutto, ogni, qualunque, ogni
volta”, domande del tipo “come mai non puoi?”, “perché tu non?”, imperativi “devi,
dovresti”, “dovrei essere felice”, cioè l’esser felice non è più una scelta ma un
imperativo. “Quando fai così sei ridicolo, perché non la smetti?”, il caratteristico è
“perché non?”, “chi è stato?”.
Il calcolatore esclude il proprio sé, usa pronomi impersonali del tipo “come si
può capire” anziché “mi sconcerta”, “è sconcertante”; nomi privi di indice
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referenziale “ciò, lui, lei, uno”; nominalizzazioni delle esperienze: piuttosto che
“sono teso” dice “la tensione”, “la rapidità”, “l’avere speranze”.
Lo svagato, invece, è un misto fra i due.
In genere nella persona che non fa’ problemi c’è una correlazione tra un
atteggiamento propiziatore e l’uso di canali cenestesici, così come tra l’accusatore e
l’uso di canali visivi, tra il calcolatore e l’uso di canali uditivi. Lo svagato, essendo
incoerente, mischia un po’ tutto.
In questo senso in fase di “diagnosi” è importante notare se c’è una correlazione
fra queste due categorie.
Una volta chiara la diagnosi è importante avere con precisione un’idea di qual è
l’area problematica del cliente così come lui la vive all’interno della sua spiegazione
del mondo e a questo punto è importante avere anche un’idea chiara di quello che per
lui rappresenta l’evoluzione positiva, cioè qual è lo stato finale desiderato. E’ la
differenza fra come le cose funzionano attualmente e come funzioneranno quando
avrà risolto il problema, che ci fa capire come strutturare la metafora e come
impostare la psicoterapia in genere.
Dobbiamo portare la persona a superare, ad aggirare l’ostacolo che non gli
consente di ottenere l’obbiettivo che egli si prefigge. Obbiettivo che non può
raggiungere perché utilizza dei predicati non adatti, usa delle categorie della Satir non
adatte, o perché delle sinestesie automaticamente impongono delle somatizzazioni,
delle reazioni emotive in una situazione nella quale queste non sarebbero adatte.
Una volta che sappiamo qual è lo stato desiderato, cominciamo a strutturare la
metafora, che prevede, inizialmente, personaggi e situazioni di partenza che sono
quelle problematiche così come descritte dal cliente e alla fine una situazione con
personaggi che hanno raggiunto l’obbiettivo desiderato.
A questo punto bisogna istituire una strategia di collegamento fra le due.
Praticamente c’è una descrizione a mo’ di ricalco del periodo che precede
l’insorgenza del problema, fatto ovviamente narrando, descrivendo i personaggi della
metafora stessa che sono in relazione con i personaggi della storia reale. Poi si passa
al ricalco, sempre metaforico, della nascita del problema e dei meccanismi attraverso
i quali questa veniva tenuta in piedi riprendendo le categorie della Satir e ricalcando
le modalità di rappresentazione del cliente. In questa fase bisogna cercare di
rispecchiare fedelmente tutti i personaggi coinvolti e tutte le relazioni significative
per il paziente. Dopo aver ricalcato queste parti “ancorando” ogni tanto il paziente, si
passa alla soluzione introducendola con un “fino a quando”. Il personaggio
importante, con il quale si dovrebbe identificare il cliente, fa qualcosa di diverso e
questo rappresenta la nuova soluzione che porta allo stato desiderato, concludendo
con un “...e vissero felici e contenti”, come nelle migliori favole
Questo per quanto riguarda la struttura della metafora. Il problema è ora come
passarla al cliente utilizzando una serie di strategie.
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Racconto persone definizione della strutturazione soluzione
del coinvolte situazione prima della situazione desiderata
cliente del problema problematica
strategia di collegamento
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A questo punto si pone il problema di come porre la metafora e qui va fatta una
considerazione a premessa sulla ricerca transderivazionale. La ricerca
transderivazionale è quel meccanismo attraverso il quale, dall’udire una struttura
superficiale di una frase, attraverso meccanismi inconsci, arriviamo a mettere in
relazione questa struttura superficiale, che è l’evento così come è raccontato, con la
struttura profonda di una nostra esperienza simile, isomorfa a quella del cliente. Nel
momento in cui, mettendola in relazione, troviamo nelle nostre esperienze precedenti
una situazione che gli assomigli, possiamo dare un significato alla storia che la
persona ci sta raccontando.
Nel parlare delle proprie strutture profonde, delle proprie esperienze, ognuno di
noi opera delle cancellazioni, delle deformazioni e delle generalizzazioni. Ma quando
sentiamo parlare delle persone nella nostra stessa lingua, noi colmiamo le lacune e
diamo un significato proprio attingendo degli elementi in funzione della nostra
esperienza. Questo ci dà l’impressione di comprendere, ma non è esattamente così
perché in effetti la nostra esperienza può essere diversa per molti aspetti da quella
della persona che ci sta parlando, ma il fatto che noi gli attribuiamo un significato ci
dà la sensazione di capire.
In genere i meccanismi messi in atto per tradurre l’esperienza in frase, se usati in
modo eccessivo, possono essere fonte di problemi. Per esempio la generalizzazione
porta ad alienarsi la possibilità di sperimentare positivamente esperienze nel mondo;
per assurdo chi si è appoggiato ad una sedia a dondolo con troppa forza ed è caduto
può arrivare alla conclusione generalizzata che le sedie sono pericolose e quindi non
riposarsi più.
Ma la generalizzazione è un meccanismo importante nella comunicazione per
economizzare; se non la usassimo dovremmo essere attenti a descrivere nei minimi
dettagli le nostre esperienze e questo ci impedirebbe di avere una vita di relazione
fluida, soddisfacente. Quindi la cancellazione, la distorsione e la generalizzazione
sono importanti, purché contenute.
Mentre nella vita usare questi tre meccanismi in eccesso è deleterio, in ipnosi e
nell’esposizione della metafora dobbiamo, invece, usarle in eccesso. Questo fa’ sì che
il paziente, attraverso la sua ricerca transderivazionale e attraverso l’assegnazione di
significati ad un qualcosa che è volutamente generalizzato, distorto e cancellato,
attribuisca significato alla cosa, la metta in relazione con le sue esperienze più
importanti e, una volta in sintonia con queste, possa poi produrre i cambiamenti che
sono contenuti all’interno della metafora.
Quello che dovremmo cercare di fare è di non mettere indici referenziali, vale a
dire formulare la frase della metafora senza specificare il soggetto (che cosa, chi), né
il complemento oggetto e né il luogo (dove avviene e cosa fa); utilizzare verbi non
specificati, in modo che il cliente si ponga la domanda “come, in che modo ha fatto
questa cosa?” e si dia una sua risposta. Dovremo utilizzare il più possibile
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nominalizzazioni, cioè passare da processo a cosa: anziché dire “era consapevole di”,
dire “aveva consapevolezza”.
“Mario ebbe la consapevolezza della sua situazione”. Questo permette al cliente
di dare senso ad “avere consapevolezza” secondo i suoi canali e le sue strutture di
riferimento.
Un altro passaggio importante nel porgere la metafora consiste nell’usare
contrassegni incorporati. Sono praticamente degli espedienti attraverso i quali si fissa
l’attenzione su un suggerimento, traducendolo in qualche modo in un comando.
Questo si fa’ introducendo una pausa tra una frase e quella che deve rappresentare il
comando e inserendo il nome del cliente: “... e Re Artù disse: «(pausa)Mario(pausa),
adesso stammi bene a sentire»”. Questo diventa un ordine per Mario di stare bene a
sentire, anche se stiamo parlando di Re Artù. Il contrassegno è, invece, una sorta di
ancora, che può essere utilizzato per richiamare lo stato emotivo caratteristico,
specifico di un dato passaggio della metafora. Questo contrassegno può essere fatto o
cambiando il tono della voce o tamburellando con la mano o tossicchiando.
L’importante è che questo contrassegno, legato all’emozione che il cliente sta
provando in quel passaggio della metafora, possa esser richiamato in una fase in cui
questo possa servirci. Perché funzioni, quest’ultima operazione, deve essere fatta
almeno tre volte nel racconto.
CONCLUSIONI
« So che non ci riuscirai tentando, ma non puoi fare altro che tentare ».
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BIBLIOGRAFIA
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