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La favola del Piacere

Il Mezzogiorno, vv, 250-338

I versi che leggiamo costituiscono la più famosa tra le favole del Giorno.
Cosa sono le favole?
Le favole hanno tecnicamente la stessa natura degli episodi di cui abbiamo parlato
a proposito del poema di Marino. Le favole del Giorno sono digressioni narrative (vi
si racconta in forma compiuta una storia) di carattere eziologico (vi si spiega la causa
di un fenomeno, un costume, un aspetto, un uso della società contemporanea). Parini
le inserisce nella narrazione principale (la descrizione della giornata del Giovin
Signore) così come era richiesto dalla modalità tipica di costruzione dei poemi, in
particolare dei poemi didascalici, che prevedevano l’aggiunta di queste “parentesi” le
quali, pur deviando dalla linea maestra del racconto, erano comunque ad esso
connesse e da esso traevano spunto. Nel caso della favola del Piacere lo spunto è
offerto dalla considerazione, sviluppata nei versi precedenti, che il Giovin Signore,
sedutosi a mensa con la sua dama, assaggerà il cibo solo per soddisfare il proprio
piacere, non già per il bisogno di sfamarsi.
Nell’archetipo del genere didascalico, le Georgiche, abbiamo la celebre favola di
Aristeo, nella quale si racconta la nascita dell’apicoltura. La poesia classica, che è
sempre un modello per Parini, utilizzava in funzione eziologica i miti, facendo
intervenire gli dei per spiegare fenomeni di ogni tipo non comprensibili altrimenti (ad
esempio fenomeni naturali come quello dell’eco, o dei fulmini, oppure fenomeni
storici o tecnici come la fondazione delle città o l’invenzione di oggetti, arti, ecc.).
Anche le favole di Parini hanno una veste mitologica.
Nel Mattino compaiono la favola di Amore e Imene, che spiega l’origine
dell’istituto del cavalier servente (il cicisbeo) e la favola della cipria, che spiega
l’origine dell’uso maschile dell’incipriarsi, voluto dal dio Amore; nel Meriggio, oltre
alla favola del Piacere, troviamo quella del Tric-trac, gioco inventato dal fraudolento
dio Mercurio per favorire i colloqui segreti tra gli amanti; nella Notte la favola del
canapè, invenzione anch’essa propizia agli amanti, e ancora dovuta al dio Amore. A
questa serie, comunemente indicata nei commenti, dobbiamo aggiungere anche la
favola di Amore e il Tempo, che si legge in uno dei frammenti della Notte (il
Frammento II). In questo caso Parini dà forma di mito eziologico all’invenzione delle
carte da gioco, che Amore estrae dalla faretra e consegna a una coppia di invecchiati
amanti sui quali il Tempo sta aleggiando con fare crudele e minaccioso: le carte si
sostituiscono così alle consuete frecce che fanno accendere la passione, e il gioco
delle carte, con le sue schermaglie, subentra a quello amoroso, diventandone una
grottesca parodia.
La favola del Piacere spiega l’origine di un fenomeno ben più rilevante: la
diseguaglianza sociale. Un grande e acuto lettore del Giorno, Giosue Carducci,
scrisse di questa favola: «Ed ecco il passo tanto giustamente ammirato per l’arte e lo
stile, e tanto importante alla ragion del poema, come quello che, mostrando spiegare
le origini della distinzione tra nobili e plebei, è, per così dire, il focolare di tutta
l’ironia». «Il focolare di tutta l’ironia» significa: l’elemento generatore della
rappresentazione satirica dell’aristocrazia. La favola del Piacere svela infatti l’origine
del tutto casuale dei privilegi nobiliari: quei privilegi che invece i nobili rivendicano
in nome di qualche merito atavico (cioè derivato loro dagli avi), che li renderebbe
superiori ai plebei.
La favola racconta che quando Prometeo (indicato al v. 99 come Titano, in quanto
figlio del titano Giapeto) creò i primi uomini modellandoli con la creta,
inconsapevolmente ne plasmò più o meno bene gli organi e le fibre nervose,
rendendoli così più o meno recettivi alla stimolazione del Piacere. Di conseguenza,
quando il Piacere scese sulla terra, solo coloro che erano riusciti meglio al momento
della creazione poterono percepire i suoi benefici effetti, mentre gli altri, i cui organi
e le cui fibre erano incapaci di reagire ai suoi stimoli, rimasero inerti. E mentre i
primi poterono indirizzare la loro vita al perseguimento del Piacere, gli altri dovettero
continuare a soggiacere al bisogno: «e quasi bovi al suol curvati ancora / dinanzi al
pungol del bisogno andaro» (vv. 324-325). Piacere e bisogno inquadrano dunque i
due opposti mondi dell’aristocrazia e della plebe. Sono le loro rispettive e antitetiche
insegne.
L’esordio delle favole è in genere contrassegnato dalla segnalazione di uno scarto
temporale (una sorta di C’era una volta...), che ci trasporta in un lontano passato: ad
esempio la favola di Amore e Imene comincia con «Tempo già fu...». Nella favola
del Piacere allo scarto temporale (un giorno) si aggiunge una formula dubitativa:
«Forse vero non è; ma un giorno è fama / che fur gli uomini eguali» (vv. 250-251). In
tal modo Parini mette ironicamente in dubbio [Forse non è vero, ma si dice che....]
l’idea dell’eguaglianza primitiva, preesistente al contratto sociale, sulla quale aveva
particolarmente insistito J.J. Rousseau (il Discorso sull’origine e i fondamenti della
diseguaglianza tra gli uomini è del 1754, mentre il Contratto sociale è del 1762).
Nella formulazione pariniana l’idea dell’eguaglianza primitiva è presentata come una
ipotesi filosofica allora di successo (in gran fama: è fama che...), più che come una
verità acquisita.
A questa affermazione dubitativa segue una descrizione dello stato di primitiva
eguaglianza degli uomini: quello “stato di natura” che secondo Rousseau la civiltà
avrebbe guastato. Ma lo stato di natura descritto da Parini non è uno stato di assoluta
libertà e privo di ogni sorta di sopraffazione, poiché è dominato dalla necessità di
provvedere ai bisogni primari. Gli uomini ricercano soltanto ciò che è loro necessario
alla sopravvivenza: il cibo, il bere, l’accoppiamento sessuale, i ripari dalle intemperie,
le difese dal freddo. E sono quindi tutti accumunati da un’unica preoccupazione:
sfuggire il dolore.
«Sol’una cura a tutti era comune / di sfuggire il dolore, e ignota cosa / era il desire
agli uman petti ancora» (vv. 265-267).
Questi versi, che concludono la descrizione dell’originario stato di eguaglianza
primitiva, non solo contengono l’affermazione che unica preoccupazione (cura) degli
uomini era allora quella di evitare il dolore, ma introducono anche, in opposizione a
dolore, il concetto di piacere. Il desire (desiderio) non è infatti altro che ricerca del
piacere. Ma fintantoché gli uomini sono completamente assorbiti dalla necessità di
sopperire ai bisogni primari, non conoscono questo bisogno più raffinato.
L’opposizione dolore/piacere richiama dunque quella tra selvaggi e civilizzati, nel
senso che il passaggio dallo stato di natura alla civiltà viene fatto consistere nel
superamento della pura esigenza di autoconservazione della specie umana.
La spiegazione di questo passaggio è da Parini offerta in forma di mito: gli dei,
stanchi dell’uniforme sembianza della specie umana, stanchi, cioè, di vedere gli
uomini comportarsi tutti alla stessa maniera, decidono di spedire sulla terra il Piacere,
che viene raffigurato come un alato Genio protettore che scende planando dolcemente
sulla terra, accompagnato da un corteggio di Vezzi (atti aggraziati, moine) e Giochi
(atti scherzevoli, leggiadri), personificazioni (così come il Piacere stesso) di entità
astratte.
«Quale già i numi /d’Ilio sui campi, tal l’amico Genio, / lieve lieve per l’aere
labendo / s’avvicina a la Terra» (vv. 270-273): il Piacere scende sulla terra così come
erano usi fare gli dei durante la guerra di Troia, quando scendevano sui campi di
battaglia schierandosi in favore dell’uno o dell’altro esercito (come ci racconta
Omero nell’Iliade).
«e questa ride / di riso ancor non conosciuto»: la Terra, personificata, ride,
percorsa da una gioia prima mai provata.
«Ei move... gentile» (vv. 274-278): il Piacere procede nella sua discesa, e la
brezza estiva, che giunge dal ruscello che scorre e dai pendii profumati, gli accarezza
le membra, e scivola lentamente sui suoi muscoli delicatamente arrotondati.
«e come ambrosia, le lusinghe... ei varca» (vv. 280-284): e le lusinghe, dolci
come il cibo degli dei, gli scorrono dalle labbra, rosse come fragole (fraghe); e dagli
occhi socchiusi, languidi, escono fuori scintille intrise (umide) di una luminosità
tremolante, dalle quali (onde) è accesa l’aria che egli attraversa scendendo.
«Alfin sul dorso tuo... abbella» (vv. 285-297): Infine, o Terra, sentisti il suo piede
(orma) per la prima volta posarsi sul tuo suolo (dorso), e subito (tosto) un lento,
soavissimo fremito si sparse di cosa in cosa, e, crescendo sempre di più, agitò tutte le
viscere della natura: come quando nell’arida estate si sente il tuono in lontananza che
si avvicina, e s’innalza risuonando (sorge) di monte in monte, e la valle e la foresta
intorno muggiscono, echeggiando il fragoroso alto rimbombo, finché poi cade la
pioggia feconda, che ravviva, riconforta, rallegra e abbellisce gli uomini, gli animali,
e i fiori, e l’erbe.
I versi che seguono (298-303) plaudono, riferendosi all’opera di Prometeo, alla
fortuna di coloro che hanno da lui ricevuto organi straordinari, migliori di quelli degli
altri uomini. «E meglio tese»: il soggetto è il Titano: meglio dispose (gli organi), e li
inondò di un fluido vitale estremamente mobile.
«In voi ben tosto... impingua» (vv. 303-318): vengono ora descritti gli effetti
prodotti dal Piacere (il celeste motor) su coloro che hanno potuto sentirne la
sollecitazione prima mai percepita (l’ignoto solletico). In costoro le voglie crebbero
fino a dar vita al desiderio vero e proprio. Il desiderio porta con sé la volontà di
scegliere, tra varie alternative, ciò che è buono e ciò che è migliore, e ciò vale anche
riguardo alle donne cui accoppiarsi. Ora si scelgono le più amabili e le più belle, non
considerandole più soltanto necessarie alle necessità riproduttive («quel de’ due sessi
che necessario in prima era soltanto»). Voi (che sentiste gli effetti del Piacere) deste il
primo esempio di quell’uso che portò al giudizio di Paride (chiamato a indicare quale
tra Venere, Giunone e Minerva fosse la più avvenente): tra i volti femminili s’imparò
a distinguere i più belli, e voi per primi cominciaste ad apprezzare le grazie
femminili. Anche il gusto si raffinò, e il vino fu preferito all’acqua (all’onda), e
anche tra i vini si preferirono quelli fatti con le uve migliori, frutto delle vigne meglio
esposte al sole e collocate nei terreni più fertili.
«Così l’uom si divise... ebber nome di Plebe» (vv. 319-328). In questo modo si
produsse la divisione del genere umano, e il nobile fu distinto dai plebei (Volgari), le
cui ottuse fibre nervose rimasero troppo inerti e insensibili, incapaci di reagire ai
delicati stimoli del Piacere (la nova cagione onde fur tocche: la nuova forza dalla
quale erano state toccate), e come buoi, curvati a terra dal peso della fatica, i plebei
continuarono a trascinarsi avanti spinti dal solo stimolo del bisogno; e, destinati (nati)
a vivere in condizione servile, nell’avvilimento (viltade), nella fatica (travaglio) e
nella indigenza (inopia), ebbero il nome di plebe.
«Or tu... a gioirne» (vv. 328-338): Ora tu, nobile Signore, che racchiudi nelle tue
vene un sangue filtrato da mille reni mai sottomessi (invitte reni), poiché in epoche
passate (altra etade) l’astuzia, la violenza o il caso (arte, forza, o fortuna) rese grandi
i tuoi antenati; poiché col tempo le ricchezze divise tra diverse generazioni sono state
da te infine ereditate (lor divisi tesori in te raccolse), godi (gioisci) della tua
sensibilità (del tuo senso gioisci), che questo è il ruolo (parte) che ti hanno concesso i
numi: e intanto l’umile volgo, che ha ricevuto in dono il lavoro (dell’industria
donato), ora somministri a te i piaceri che ti sono dovuti (tuoi), poiché è nato per
portarli sulla mensa reale, non per goderne.

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