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Alessandro Manzoni, I promessi sposi,

capitolo XXXVIII

L’epilogo del romanzo prende avvio, in realtà, con la scena con cui si apre il
capitolo precedente: Renzo esce dal lazzeretto, dove ha ritrovato Lucia, ed è investito
da una pioggia scrosciante che, anziché disturbarlo, gli mette allegria, perché in quel
temporale rigeneratore egli legge il segnale, mandatogli dalla natura, della svolta che
si è prodotta nel suo destino. Ma la valenza simbolica di quella pioggia va oltre il suo
orizzonte privato, perché «quell’acqua portava via il contagio», ponendo fine alla
pestilenza. Con l’esaurirsi di quest’ultima crisi collettiva anche tutte le tessere del
puzzle storico-sociale secentesco tornavano a posto e, in un certo senso, il romanzo
avrebbe anche potuto concludersi qui, con un più moderno finale in dissolvenza, che
affidasse all’intuito dei lettori il prevedibile happy end matrimoniale. Invece
Manzoni, romanziere ottocentesco, continuò a tessere con cura minuziosa tutti i fili
del suo racconto, riavvolgendoli e svolgendoli: per seguire passo passo Renzo nel
percorso a ritroso da Milano al paese e poi in tutti gli spostamenti con cui prepara il
futuro trasferimento della famiglia nel bergamasco, e per informarci della sorte di
vari personaggi (da padre Cristoforo alla monaca di Monza, a donna Prassede e don
Ferrante) dei quali non potevamo perdere le tracce.
Il colloquio tra Lucia, appena rientrata da Agnese, e Renzo, all’inizio dell’ultimo
capitolo, è contrassegnato dalla consueta reticenza che nella scrittura manzoniana
contraddistingue l’espressione del sentimento d’amore:

Gli atti che fece, le cose che disse, al trovarsela davanti, si rimettono anche quelli
all’immaginazione del lettore. Le dimostrazioni di Lucia in vece furon tali, che non ci vuol molto a
descriverle. «Vi saluto: come state?» disse, a occhi bassi, e senza scomporsi. E non crediate che
Renzo trovasse quel fare troppo asciutto, e se l’avesse per male. Prese benissimo la cosa per il suo
verso; e, come, tra gente educata, si sa far la tara ai complimenti, così lui intendeva bene che quelle
parole non esprimevan tutto ciò che passava nel cuore di Lucia.

Protagonista della prima parte del capitolo è don Abbondio, al quale si rivolgono
prima Renzo da solo e quindi le donne (la mercantessa, Agnese e Lucia), alle quali si
aggiunge poi anche Renzo: tutti incontri che hanno lo scopo di affrettare la
celebrazione del matrimonio. L’atteggiamento di don Abbondio è quello consueto:
nella sua reazione ambigua e tentennante si nasconde il sospetto che don Rodrigo
possa essere sopravvissuto alla peste, così come è capitato a lui, che per questo si
definisce «una conca fessa», cioè ammaccata dalla malattia: immagine che richiama
quella, allusiva alla sua pavidità, del «vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in
compagnia di molti vasi di ferro» che Manzoni aveva usato, parlando di lui, nel
primo capitolo. Infatti il suo modo d’essere non è cambiato. Come dice Renzo,
riferendo l’accaduto alle donne: «In certi momenti, pareva proprio quello dell’altra
volta».
La seconda spedizione alla canonica, quella delle donne, è più energica. Ma don
Abbondio continua ad accampare scuse, suggerendo che il matrimonio si celebri nel
territorio di Bergamo dove i giovani intendono comunque espatriare e dove il
mandato di cattura che grava su Renzo non avrebbe più effetto. La situazione si
sblocca solo quando, con mossa teatrale, entra in scena di nuovo Renzo che porta la
notizia che nel palazzo di don Rodrigo è giunto il suo successore, e a quel punto, ma
non senza l’ulteriore conferma testimoniale del sagrestano Ambrogio, don Abbondio
ha la certezza che don Rodrigo è davvero morto.
Al che il curato, come avesse dinanzi agli occhi l’immagine rassicurante della
bara di don Rodrigo, scioglie non un elogio funebre del defunto (cui farebbe pensare
l’incipit: «È morto dunque! È proprio andato!», che fa venire in mente l’«Ei fu»
dell’ode in morte di Napoleone), ma un elogio della peste, che ha liberato tutti quanti
(e in primo luogo lui stesso) da quella presenza incombente e ossessiva. La foga
oratoria con la quale il personaggio si lascia andare a un impeto di gioia, non ha
eguali nel romanzo: Manzoni non ha mai messo in bocca a don Abbondio un discorso
così lungo, al centro del quale si accampa la metafora della peste-scopa. A questa
idea soggiace una visione greve, vendicativa, quasi blasfema, della Provvidenza, che
«arriva alla fine certa gente»: dove arriva, usato transitivamente, significa «tocca,
ghermisce, abbatte». E poco consono al suo ruolo di prete e al significato che per il
cristiano ha il rito funebre, è il modo in cui parla del «far l’esequie» di «certi
soggetti»: la scopa della peste

ha spazzato via certi soggetti, che, figlioli miei, non ce ne liberavamo più: verdi, freschi,
prosperosi: bisognava dire che chi era destinato a far loro l’esequie, era ancora in seminario, a fare i
latinucci.

A suggellare il discorso è peraltro una rinnovata conferma di pusillanimità: «Ci ha


dato un gran fastidio a tutti, vedete: ché adesso lo possiamo dire».
Con la sua replica, «Io gli ho perdonato di cuore», Renzo si colloca in una
posizione etica diametralmente opposta a quella di don Abbondio. La frase
pronunciata da Renzo ha il marchio della lezione che padre Cristoforo gli ha
impartito nel lazzeretto, quando lo ha condotto al cospetto del suo persecutore,
convincendolo a perdonarlo. Ma la legge del perdono, che, come Renzo ha imparato,
deve guidare il comportamento del cristiano, ha per don Abbondio un significato
meramente formale: «E fai il tuo dovere,» rispose don Abbondio: «ma si può anche
ringraziare il cielo, che ce ne abbia liberati».

Nella parte centrale del capitolo si sciolgono tutti i nodi che preludono all’happy
end: si dissolve l’ostacolo della cattura; il marchese compra a prezzo doppio la vigna
di Renzo, la sua casupola e quella di Agnese; il matrimonio si celebra e la famiglia si
trasferisce nel paese di Bortolo. Qui Renzo subisce alcuni disgusti a causa delle
chiacchiere dei paesani che trovano Lucia non così bella come se l’erano immaginata,
avendola saputa oggetto di tanto contendere. Ma il nuovo trasferimento in un altro
paese alle porte di Bergamo, dove Renzo e Bortolo hanno acquistato un filatoio il cui
vecchio proprietario era morto a causa della peste, risolve ogni difficoltà. Renzo
diventa così un piccolo imprenditore. Gli affari gli vanno bene, anche perché la
repubblica di Venezia, per risollevare l’industria della seta, applica ai forestieri che si
installano sul suo territorio una politica di esenzioni fiscali: «una nuova cuccagna»
per i due cugini.
Le ultime pagine del romanzo collocano i protagonisti nel quadro roseo degli
effetti benefici della promozione sociale di Renzo, e fotografano, a un anno
all’incirca di distanza dal matrimonio, la serenità della famiglia degli sposi, ai quali è
nata una bambina:

Prima che finisse l’anno del matrimonio, venne alla luce una bella creatura [...]. Ne vennero poi
col tempo non so quant’altri, dell’uno e dell’altro sesso: e Agnese affaccendata a portarli in qua e in
là, l’uno dopo l’altro, chiamandoli cattivacci, e stampando loro in viso de’ bacioni, che ci
lasciavano il bianco per qualche tempo. E furon tutti ben inclinati; e Renzo volle che imparassero
tutti a leggere e scrivere, dicendo che, giacché la c’era questa birberia, dovevano almeno profittarne
anche loro.

La prole sana e numerosa che verrà ad allietare il focolare domestico è il tratto


distintivo di un nascente benessere borghese, all’interno del quale troverà posto anche
quell’indispensabile (come Renzo ha appreso a sue spese) strumento di difesa sociale
che è l’istruzione scolastica.
L’«ho imparato» reiterato di Renzo è invece il consuntivo delle prove che, in
quanto eroe picaresco di romanzo, egli ha superato, e delle quali si compiace con
furbesca supponenza:

Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci
aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire: «Ho imparato,» diceva, «a non mettermi ne’
tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardar con chi parlo: ho imparato a
non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è lì
d’intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima
d’aver pensato quel che ne possa nascere.» E cent’altre cose.

La lezione che Renzo ha appreso dalle sue peripezie traduce, nella sostanza, la
«sentenza prediletta» di don Abbondio: «a un galantuomo, il quale badi a sé, e stia
ne’ suoi panni, non accadon mai brutti incontri» (cap. I).
Le parole con cui Lucia corregge «il suo moralista» introducono però un’altra
dimensione nel discorso sulle prove cui il mondo sottopone:

«e io,» disse un giorno al suo moralista, «cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a
cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me. Quando non voleste dire,» aggiunse,
soavemente sorridendo, «che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a
voi.»

Lucia mostra in questo modo di nutrire naturalmente dentro di sé il senso


profondo dell’incolpevole martirio cristiano: il dolore fa parte della vita e la sua
presenza è inspiegabile. Non lo si può aggirare furbescamente come credeva don
Abbondio e come, dietro a lui, credeva di avere imparato Renzo.
Alla fine, «dopo un lungo dibattere», Renzo e Lucia condividono la stessa
conclusione:

che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più
innocente non basta a tenerli lontani, e che quando vengono, o per colpa, o senza colpa, la fiducia in
Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore.

Il lieto fine è dunque incrinato dall’inquietudine del cristiano, che sa che anche il
comportamento più irreprensibile non può metterlo per sempre al riparo dai «guai»,
perché questi sono inscritti nel disegno imperscrutabile di Dio, al quale occorre solo
affidarsi. La Provvidenza nella quale crede Manzoni non consiste in una trionfalistica
affermazione del bene.

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