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memoria: da Proust a
Carrère
Quello che si propone nel presente elaborato è un
excursus all’interno di tre periodizzazioni della
letteratura moderno-contemporanea:
Modernismo, Post-Modernismo e “Ritorno al
reale”. Il fil rouge tra i caratteri dello scrivere
propri dei tre periodi sarà il tema della memoria e
le sue declinazioni all’interno di tre romanzi
ciascuno indicativo per la sua epoca e temperie,
rispettivamente: Dalla parte di Swann (1946) di
Marcel Proust; Rumore bianco (1985) di Don
DeLillo; L’Avversario (2000) di Emmanuel
Carrère. Attraverso, dunque, l’analisi di queste tre
opere eterogenee si tenterà un’esemplificazione dei
maggiori caratteri della narrativa nella cui
periodizzazione essi si inseriscono, con una
peculiare attenzione sul rapporto autore-
personaggio.
Francesca Puddu
Letterature comparate sp.
a.a. 2020-2021
1. DU CÔTÈ DE CHEZ SWANN: la memoria che crea la realtà
1.1 IL RUOLO DEL RICORDO
Du côtè de chez Swann è il primo romanzo dell’eptalogia À recherche du temps perdu, opera massima
dell’autore francese Marcel Proust. Il romanzo è edito nel 1913 (1946 in Italia, tradotto come Dalla
parte di Swann) ed è a lungo stato misconosciuto e banalizzato dalla critica quale un’autobiografia,
riconoscendo nella voce narrante Marcel un doppio dell’autore. La componente biografica, certamente
presente, viene infatti declinata in una materia molto peculiare, ovvero ricorrendo alla dimensione del
ricordo.
La memoria come dimensione temporale altra è tema cardine di tutti i romanzi della Recherche e
produce nel lettore la distinta sensazione che l’intera vicenda narrata rimanga sospesa in un tempo
interiore, che è appunto quello della riflessione e del ricordo. Il valore che quest’ultimo assume, tuttavia,
non è meramente quello della ricostruzione di un tempo passato, ma molto spesso di annullamento del
tempo presente. Così Marcel, voce narrate del romanzo, descrive l’esperienza di un ricordo evocatogli
da un’impressione del gusto, nel celeberrimo episodio della Petite Madeleine:
“Una deliziosa voluttà mi aveva invaso, isolata, staccata da qualsiasi nozione della sua causa. Di colpo mi
aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo
nello stesso modo dell’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, quell’essenza non era dentro di
me, io ero quell’essenza1”
La sensorialità – in questo caso ad essere sollecitato è il gusto, dal sapore della madeleine inzuppata nel
tè – si fa spesso nel romanzo veicolo di un’epifania che conduce alla realizzazione di un episodio
appartenente alla vita passata del personaggio, in cui si riflette a tratti quella dell’autore. Ciò che va
notato è tuttavia lo statuto specifico di questo ricordo, che risulta avere una temporalità altra. In secondo
luogo, esso è a sua volta capace di riportare alla mente e rivivificare altre sensazioni e ricordi contigui
in un procedimento che è stato definito metonimico2. Nel romanzo, dunque, assistiamo ripetutamente
ad una fenomenologia della memoria che irradia da un oggetto o direttamente da uno stimolo dei sensi
(olfattivo, visivo, tattile od uditivo) e che conduce il personaggio in stanze della propria infanzia e
fanciullezza rimosse e mai più ricordate, spesso capaci di restituirgli una topologia reale o sentimentale
perduta.
La natura del ricordo è dunque salvifica, in quanto capace di restituire al soggetto un frammento di vita
perduto. Ad essere evidenziato dallo stesso Proust è appunto come tale ricordo venuto a galla con questa
fenomenologia possieda un valore di realtà diverso rispetto a quelli evocati da una memoria che egli
definisce dell’intelligenza.
“E così, ogni volta che svegliandomi di notte mi ricordavo di Combray, per molto tempo non ne rividi
che quella sorta di lembo luminoso ritagliato nel mezzo della tenebre indistinte […] il salottino, la sala
da pranzo, l’imbocco del viale non illuminato dal quale sarebbe comparso il signor Swann, l’ignaro
responsabile delle mie tristezze, il vestibolo nel quale mi sarei avviato verso il primo gradino della scala,
che era così crudele salire e che costituiva da sola il tronco fortemente assottigliato di questa piramide
irregolare; e, al vertice, la mia camera da letto con annesso il piccolo corridoio dalla porta a vetri per
l’ingresso della mamma; in breve, visto sempre alla stessa ora, isolato da tutto ciò che poteva esistere
intorno, si stagliava, unica presenza nell’oscurità, lo scenario strettamente indispensabile (come quelli
che figurano in testa ai vecchi copioni teatrali per le rappresentazioni in provincia) al dramma della mia
svestizione; come se Combray non fosse consistita che di due piani collegati fra loro da un’esile scala e
come se non fossero mai state, là, altro che le sette di sera. Per dire la verità, a chi m’avesse interrogato
avrei potuto rispondere che Combray comprendeva altre cose ancora ed esisteva anche in altre ore. Ma
poiché quello che avrei ricordato sarebbe affiorato soltanto dalla memoria volontaria, dalla memoria
1 M. Proust, Dalla parte di Swann, Milano, Mondadori 2016, p. 47; le successive citazioni dal romanzo avranno come
riferimento questa stessa edizione.
2 vd. G. Génette, Metonimia in Proust in Figure III. Discorso del racconto, Milano, Einaudi, 1976, pp. 41-66
1
dell’intelligenza, e poiché le informazioni che questa fornisce sul passato non ne trattengono nulla di
reale, io non avrei mai avuto voglia di pensare a quel resto di Combray. Per me, in effetti, era morto.3”
Il passo evidenzia come, prima di sperimentare la reminiscenza evocata dalla madeleine inzuppata nel
tè, Marcel avesse mantenuto nel ricordo della Combray che era stata un luogo delle estati della sua
infanzia, solo “lo scenario strettamente indispensabile […] al dramma della mia svestizione” e cioè gli
ambienti strettamente connessi all’angoscia di fanciullo che lo prendeva al pensiero di andare a dormire.
Ne deriva dunque che tutto l’intorno di tale memoria, mantenuta viva dall’intensità del sentimento
angoscioso, si facesse per lui indistinto e avrebbe sì eventualmente potuto essere evocato e con esso
una Combray dove non fossero le sette di sera, eppure tali ricordi tratti dalla “memoria volontaria”
avrebbero offerto informazioni sul passato che, per amissione dell’uomo Marcel, “non ne trattengono
nulla di reale”. Il ricordo riscattato assume quindi valore in virtù del suo essere riposto in una memoria
involontaria o inconscia (per usare una categoria psicanalitica) il cui accesso è casuale e limitato a
queste brevi epifanie. Se ci si interroga dunque su come questo processo abbia a che fare con l’identità
del personaggio (ed eventualmente dell’autore), si dovrà assumere come tale frammento rievocato dalla
memoria costituisca una tessera potenzialmente capitale per il processo di ricostruzione dell’io e della
propria storia. In esso, come in altri simili, giace infatti depositata un’immagine che spesso non
corrisponde a quella che i personaggi si sono fatti di loro stessi in base alla propria esperienza, e che li
fa ad un punto sorprendentemente divergere dalle aspettative del lettore quanto dalle intenzioni
dell’autore.
Proust, inoltre, si spinge più in là affermando che giaccia proprio nella memoria il processo di
formazione della realtà, e come talvolta gli esseri rievocati dalla nostra memoria ci appaiono gli unici
ad essere veramente reali:
[a proposito di una siepe di biancospini costeggianti la staccionata della tenuta dei Swann] I fiori che
allora scherzavano sull’erba, l’acqua che scorreva al sole, tutto il paesaggio, che contornò la loro
apparizione, continua ad accompagnare il ricordo con il suo volto incosciente o distratto; e, certo,
quando erano lungamente contemplati dall’umile passante, da quel fanciullo sognante – come un re da
un memorialista confuso tra la folla –, mai quell’angolo di natura, quel lembo di giardino avrebbero
pensato che proprio grazie a lui sarebbero stati chiamati a sopravvivere nelle loro particolarità effimere;
eppure, quel profumo di biancospino che imperversava lungo la siepe dove presto lo sostituiranno le
rose di macchia, un rumore di passi senza eco sula ghiaia d’un viale, la bolla che l’acqua del fiume ha
formato contro una pianta acquatica che subito scoppia, la mia esaltazione li ha presi su di sé ed è
riuscita a trasportarli attraverso il succedersi di tanti anni, mentre tutt’intorno le strade sono state
cancellate e sono morti quelle che le percorsero e anche il loro ricordo è morto. A volte quella porzione
di paesaggio trasportata così fino all’oggi è talmente staccata, talmente isolata da tutto, che fluttua
incerta nel mio pensiero, simile ad una Delo, senza ch’io sappia dire da che paese, da che tempo viene
– forse, semplicemente, da quale sogno. Ma è soprattutto come a profondi giacimenti del mio sottosuolo
mentale, come ai terreni che ancora mi sostengono, ch’io devo pensare alla parte di Méséglise e alla
parte di Guermantes. Mentre percorrevo quegli itinerari, credevo alle cose, agli esseri, ed è per questo
che le cose e gli esseri che vi ho conosciuti sono i soli che io prende ancora sul serio e che mi diano
ancora della gioia. O perché la fede che crea si è inaridita in me, o perché la realtà non si forma che
nella memoria, i fiori che qualcuno mi mostra oggi per la prima volta non mi sembrano fiori veri.4
2
del sensibile, il quale trova spazio in sovrabbondanti sequenze descrittive5 che costituiscono il pilastro
della narrazione stessa. Interrogandosi sulla destinazione di tali descrizioni, risulta evidente che esse
non stiano in funzione delle azioni dei personaggi – come accade in altri scrittori dediti pre-moderni
dediti al dettaglio – ma l’impianto descrittivo sia autonomo e per di più sovra-esteso, allargato dalla
dimensione spaziale a quella temporale, venendo ad includere anche il tempo come attributo
dell’immagine degli oggetti6. La descrizione sembra piuttosto accompagnare e garantire al personaggio
la ricostruzione delle proprie memorie in maniera integra, permettendogli di compiere nel ricordo quello
che appare come un viaggio e uno studio gnoseologico7.
Altra peculiare cifra modernista del romanzo è il rapporto che l’autore intesse con i suoi personaggi in
quella che potremmo definire un’interrogazione disinteressata, un processo che si rinnova nel testo
senza una particolare finalità, con l’effetto dell’accumulazione di realtà minute, minime e
apparentemente irrilevanti per lo svolgimento della trama – che pur possiede un filo molto esile. Il
personaggio appare quasi assumere il ruolo del narratore egli stesso, lasciando scomparire l’autore in
una dialettica-lotta tra colui che racconta e colui che è raccontato. Egli si svela autonomamente e sembra
sfuggire a qualsiasi imposizione di parabola da parte dell’autore, quasi fosse in possesso di volontà
autonoma.
Tale tecnica, che consiste nel non anteporsi ai propri personaggi ma anzi porvisi al di dietro, in
quell’avventuroso e frustante inseguimento teorizzato da Virginia Woolf8, seppur sottragga all’autore
un ruolo privilegiato rispetto alla sua opera e ai suoi abitanti, conferisce lui la possibilità di uno studio
umano raffinatissimo ed universale che ritrovi l’uomo al di sotto dell’abito e dell’abitudine mondana.
Proust, dunque, abbandona l’imposizione di un giudizio che permetterebbe di imporre ai personaggi
una direzione chiara e premeditata e facendo così li slega dall’essere creature proprie:
“un romanziere, se veramente insegue nella molteplicità dei casi umani l’idea di una tenuta, un senso
generale, con il giudizio si preclude qualsiasi progresso.9”
Forse proprio tale scioglimento e liberazione può essere considerato uno dei cardini del Modernismo,
che inaugura nella storia della letteratura una stagione profondamente rinnovata rispetto al romanzo
ottocentesco.
5A ragion veduta, quelle descrittive non possono propriamente dirsi sequenze dal momento che manca la consueta alternanza
con altre sequenze dalla funzione differente.
6 vd. descrizione della chiesa di Saint-Hilaire a Combray: “un edificio che occupava, per così dire, uno spazio a quattro
dimensioni e che, dispiegando attraverso i secoli la sua navata, sembrava aver varcato e sconfitto, di campata in campata, di
cappella in cappella, non solo qualche metro, ma epoche successive, dalle quali usciva in trionfo.”
7Si veda infatti che la dimensione ermeneutica di contro a quella ontologia è stata evidenziata quale cifra della letteratura
modernista dal critico Brian McHale.
8 vd. V. Woolf, Mr. & Mrs. Brown, London, The Hogarth Press, 1924
9 C. Bo, Prefazione a Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, volume primo, Milano, Meridiani Mondadori, 1983
3
Rispetto il vasto e vario panorama narrativo postmoderno White Noise, opera di Don DeLillo, edita nel
1985 (edito in Italia nel 1987 col titolo Rumore bianco), ci parla del “linguaggio delle onde e delle
radiazioni” elementi a cui è dedicata la prima parte dell’opera. In particolare, le onde a cui si fa
riferimento sono quelle di televisione, radio ed apparecchi di trasmissione che risultano se non i
protagonisti, i fuochi attorno ai quali si struttura il consorzio degli uomini nel romanzo. Nell’opera è il
personaggio di Murray Jay Siskind – definito da DeLillo stesso come “profeta dell’apocalisse
postmoderna” – collega del protagonista Jack, a farsi analista del mezzo televisivo ed insieme ad esso
delle molteplici manifestazioni dell’epoca dei media, della pubblicità e del consumismo10:
“Sono giunto a capire che il mezzo televisivo è una forza di fondamentale importanza nella casa tipica
americana. Conchiusa in sé, senza tempo, autolimitata, autoreferente. È come un mito nato qui nel nostro
soggiorno, come una cosa che conosciamo in modo preconscio, quasi in sogno.11”
Il mezzo televisivo è inoltre curiosamente veicolo ed alimentatore non solo di bisogni indotti, storie
sensazionalistiche, e rimedi magici per qualsivoglia condizione, ma d’una fame di eventi catastrofici
(terremoti, tsunami, esplosioni etc.) che costituiscono l’intrattenimento prediletto della famiglia di Jack
e che farebbero riflettere su un inconscio ritorno alla “morte calda” di cui parla Baudrillard12.
Tale fame di un particolare tipo di catastrofi lascia un interrogativo presto risolto e sviscerato nel
romanzo: come si relaziona la società contemporanea alla morte? Il rapporto è propriamente quello di
espunzione ed eliminazione, da cui tuttavia essa riaffiora quasi per contrappasso negli stessi luoghi
focali della vita contemporanea, come quello fondamentale del supermercato. Emblematico risulta un
passo in cui il luogo degli acquisti evoca in Jack un afflato di luogo mistico ed insieme mortuario:
“I tibetani cercano di vedere la morte per ciò che essa è. Ovvero la fine dell’attaccamento alle cose. Una
verità semplice ma difficile da capire. Tuttavia, una volta che si sia smesso di negare la morte, si può
procedere tranquillamente a morire e poi ad affrontare l’esperienza della rinascita uterina, o l’aldilà
giudaico-cristiano, o l’esperienza extracorporea, o un viaggio su un ufo, o come che lo si voglia
chiamare. E possiamo farlo con chiarezza di visione senza timore riverenziale o terrore. Non dobbiamo
aggrapparci artificialmente alla vita, e neanche alla morte. Non si fa altro che procedere verso le porte
scorrevoli. Onde e radiazioni. Guarda come tutto è ben illuminato. Questo posto è sigillato conchiuso in
sé. È senza tempo. Un altro motivo per cui penso al Tibet. Morire in Tibet è un’arte. Arriva un sacerdote,
si siede, dice ai parenti in lacrime di andarsene e fa sigillare la stanza. Porte e finestre, tutte sigillate.
Ha cose serie da fare. Salmodie, numerologia, oroscopi, recitazioni. Qui non moriamo, facciamo
acquisti. Ma la differenza è meno marcata di quanto si creda.13”
Il luogo del supermercato appare al protagonista a-temporale e come sospeso, e le porte automatiche di
ingresso ed uscita verso cui il consumatore si affetta assumono l’inquietante sembiante di portali verso
un non-luogo14. Questa sovrapposizione dell’acquisto al perire conferma una visione di de-
materializzazione e de-personalizzazione realizzatasi all’interno del sistema consumistico, in cui
l’acquisto compulsivo sembra accompagnarsi ad una perdita del sé reale. Tale reificazione si consuma
10 La figura di Murray risulta inoltre di particolare interesse nel suo ruolo di visiting professor del dipartimento di Cultura
Popolare. Studioso curioso ed estremamente ricettivo, egli si fa esaminatore ed esegeta del più minuto linguaggio, fino al punto
di interrogarsi con passione sulle etichette delle confezioni di cereali; assume dunque su di sé il ruolo di interprete e d’una
società in cui la comunicazione si è drammaticamente complicata, specie a causa di quella mediante onde e radiazioni,
rendendo impraticabile la traducibilità.
11D. DeLillo, Rumore Bianco, Milano, Feltrinelli, 2005, cap. 11, parte prima; le successive citazioni dal romanzo avranno
come riferimento questa stessa edizione.
12 J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo, 2001
13 Rumore Bianco, cap. 9, parte prima
14 Si potrebbe a ragione parlare di un’eterotopia frutto delle spinte sociali ed economiche della società dell’oggi.
4
parallelamente nella fruizione dei media e della televisione i quali contribuiscono anch’essi
all’assimilazione dell’uomo a quel rumore bianco che emana proprio dagli apparecchi trasmittenti.
“E se la morte non fosse altro che un suono?
- Rumore elettrico
- Lo si sente per sempre. Suono ovunque. Che cosa tremenda!
- Uniforme, bianco.15”
La riflessione sulla veridicità dei sintomi manifestati dalle figlie conduce Jack ad una profonda
interrogazione intorno all’inganno dei sensi nell’esperire la realtà. Soffermandosi in particolar modo
sul sintomo collaterale del déjà vu, affermato e poi smentito dalla stampa, il dubbio intorno
all’attendibilità nella percezione della realtà si sposta a questionare, in un’inquietante myse en abime,
anche l’attendibilità nell’esperienza della suggestione, arrivando perfino a sfiorare l’idea che questa
possa agire retroattivamente producendo un aborto in una bambina mai stata gravida.
5
Giunti al campo sfollati, Jack si confronta poi con le autorità del campo preposte alla gestione
dell’evento tossico e all’evacuazione, scoprendo con sgomento che la reale contingenza viene sfruttata
per testare una prova d’evacuazione, in una simulazione di cui si potrebbe domandare l’opportunità.
“Accidenti, che bracciale! Che significa SIMUVAC? Una cosa importante, si direbbe”,
“Un’abbreviazione di simulated evacuation. Un nuovo programma governativo per il quale stanno
ancora battendosi per avere i fondi”.
“Ma questa evacuazione non è simulata. È reale”.
“Lo sappiamo. Ma abbiamo pensato che poteva servirci come modello”.
“Una forma di addestramento? Vuol dire che avete visto l’opportunità di servirvi dell’evento reale per
provare la simulazione?”
“Siamo andati a studiarlo per le strade”
“E come va?” chiesi.
“La curva di inserzione non fila liscia come avremmo voluto. C’è un eccesso di probabilità. In più non
abbiamo le nostre belle vittime lì dove vorremmo se questa fosse una vera simulazione.
In altre parole siamo costretti a prendere le vittime dove le troviamo. Non ci troviamo di fronte a una
cosa preparata dal computer. Di punto in bianco ci salta fuori dal vero, tridimensionale, dappertutto. Si
deve tener conto del fatto che tutto questo che vediamo stasera è reale. Dobbiamo dargli ancora una
gran ripassata. Ma l’esercizio serve proprio a questo.”
“E i computer? Sono dati reali, quelli che inserite nel sistema, o roba d’addestramento?17”
Ulteriore elemento di rovesciamento dei piani, seppur più sottile, è quello che si consuma
nell’indignazione degli sfollati per la mancata rappresentazione nei media dell’evento tossico e del
proprio dramma:
[a parlare è uno dei cittadini sfollati presenti nel campo d’evacuazione] “Alla televisione non dicono
niente, - dichiarò -. Non una parola, non un'immagine. Sul canale di Glassboro allo stato attuale valiamo
cinquantadue parole. Niente riprese, niente cronaca dal vivo. Sono cose che capitano talmente spesso
che a nessuno interessa più niente? Lo sanno che cosa abbiamo passato? Abbiamo avuto una paura da
restare secchi. E l'abbiamo ancora. Abbiamo lasciato le nostre case, abbiamo attraversato in auto
tormente di neve, abbiamo visto la nube. Uno spettro mortale, lì sopra di noi. È possibile che nessuno
dedichi una copertura informativa decente a un fatto del genere? Mezzo minuto, venti secondi? Vogliono
farci capire che è stata una cosa insignificante, trascurabile? Sono così insensibili? Sono così stufi di
inquinamenti, contaminazioni e scorie? Credono che sia soltanto televisione? «Ce n'è già troppa, perché
farne vedere ancora?» Non lo sanno che è un fatto vero? Le strade non dovrebbero essere piene di
cameramen, di tecnici del suono, di giornalisti? Non dovremmo essere qui a gridargli dalle finestre:
«Lasciateci in pace, ne abbiamo passate abbastanza, fuori dai piedi con i vostri stupidi strumenti di
intrusione». Hanno bisogno di duecento morti, di rare scene di calamità da riprendere, per arrivare in
massa in un dato posto con i loro elicotteri e le macchinone delle reti televisive? Che cosa deve succedere
esattamente prima che ci sbattano in faccia il microfono, dandoci la caccia fin sulla soglia di casa,
accampandosi nel nostro giardino, creando il solito circo televisivo? Non ci siamo guadagnati il diritto
di sdegnare le loro domande imbecilli? Guardateci qua. Siamo in quarantena. Siamo come i lebbrosi del
medioevo. Non ci fanno uscire. Ci lasciano il cibo ai piedi delle scale e scappano in punta di piedi verso
la sicurezza. E il periodo più terrificante della nostra vita. Tutto ciò che amiamo e per cui abbiamo
lavorato è soggetto a una seria minaccia. Ma se ci guardiamo attorno non vediamo alcuna reazione da
parte degli organi ufficiali dell'informazione televisiva. L'evento tossico aereo è una cosa orrenda. La
nostra paura è enorme. Anche se non ci sono state molte perdite in termini di vite umane, non meritiamo
qualche attenzione per la nostra sofferenza, per la nostra preoccupazione umana, per il nostro terrore?
La paura non fa notizia?18”
Il testo appare chiaro: una richiesta di legittimazione del danno e della sofferenza degli evacuati da parte
dei media; il sottotesto emerge ancora più netto ed inquietante: la rappresentazione televisiva è l’unica
6
che può dare realtà all’accaduto. Il bisogno di rappresentazione conferma dunque il maggior peso che
la realtà proposta dai media possiede su quella realmente esperita in prima persona dagli uomini.
Sul tema della finzione si innesta poi quello della morte, in un rapporto che potremmo definire di
continuità, declinato tuttavia in quella che viene definita una “morte costruita in laboratorio, definita e
misurabile”; ed è proprio da tale morte chirurgica e scientifica che Jack si scopre contaminato a causa
dell’esposizione alla nube tossica. Gli effetti nocivi dell’esposizione sull’organismo sono certi e tuttavia
non accertati in modi e tempi, la sua condizione è dunque quella di un inevitabile epilogo: una “morte
a tempo”. Significativamente il profeta di tale morte è un computer, a riconferma del legame tra onde e
radiazioni, malattia e morte.
[a parlare è Jack al collega Murray] “Quell’alito di Nyodene D. mi ha seminato la morte in corpo. Ormai
stando al computer, è ufficiale. Ho la morte dentro. È solo una questione se riuscirò o meno a sopravvivere.
Gli effetti hanno una loro durata. Trent’anni. Anche se non sarà direttamente il Nyodene D. ad ammazzarmi,
probabilmente mi sopravviverà dentro il mio corpo.
[…]
È la natura della morte moderna, - considerò Murray. – Ha una vita indipendente da noi. Sta crescendo in
prestigio e dimensione. Dispone di uno slancio mai conosciuto prima. Noi la studiamo obiettivamente.
Possiamo predirne l’aspetto, seguire il corso nel corpo. Possiamo ritirarla in sezione, registrarne su un
nastro onde e tremori. Non le siamo mai stati tanto vicini, mai abbiamo avuto tanta familiarità con le sue
abitudini e i suoi atteggiamenti. La conosciamo nell’intimo. Ma lei continua a crescere, ad aumentare in
dimensione e portata, ad acquisire nuovi sbocchi, nuovi passaggi e mezzi. Più ne apprendiamo, più cresce.
Che sia una legge della fisica? Ogni progresso in conoscenza e tecnica viene pareggiato da un nuovo tipo di
morte, da una nuova specie. La morte si adatta, come un agente virale. Forse è una legge di natura. O forse
una mia superstizione personale.19”
Ciò che dunque appare accadere è un progressivo innestarsi del tema della morte e della morte stessa
nelle vite di uomini che sembravano averla espunta per mezzo delle onde e radiazioni sopradette,
eppure, come afferma Murray, la morte sembra guadagnare terreno proprio da questo scarso interesse
e mancanza di consapevolezza. L’evento tossico aereo assume dunque il valore di Evento nel senso più
profondo di spartiacque tra una vita celata alla morte e una vita in cui essa è compagna e familiare agli
uomini.
7
“La sua [della morte] scomparsa nell’immaginario non è il segno della sua interiorizzazione psicologica,
quando la morte cessa di essere la grande mietitrice per diventare l’angoscia delle morte.20”
Risulta infatti che uno degli effetti collaterali siano proprio l’amnesia della memoria breve e lungo
termine. In particolare, Babette confessa di essersi proposta volontaria come tester del farmaco presso
l’istituto di ricerca Gray Research, a seguito dell’inizio di una fase della sua vita dominata dalla costante
paura della mortalità che le impediva il quotidiano svolgimento della vita personale e familiare.
[Jack a sua moglie Babette] “- Che cosa facevano esattamente alla Gray Research?
- Isolavano la parte de cervello preposta alla paura della morte. Il Dylar accelera il sollievo a quella
zona.
- Incredibile.
- Non è soltanto un potente tranquillante. Il medicamento interagisce specificamente con i
neurotrasmettitori del cervello connessi con la paura della morte. Gray ha scoperto la paura della morte
e poi si è messo al lavoro per trovare le sostanze chimiche capaci di indurre il cervello a produrre i
propri inibitori.
[…]
“Denise e io ritenevamo che la tua smemoratezza fosse un effetto collaterale della medicina che prendevi,
qualunque essa potesse essere. […]
- Assolutamente sbagliato, - ribatte. – Non era un effetto collaterale della medicina ma del mio stato.
Gray ha detto che la mia perdita di memoria è il tentativo disperato di controbattere la paura della
morte. È come una guerra tra neuroni. Riesco a dimenticare molte cose, ma per quanto riguarda la
morte non ce la faccio.21” [cap. 26, parte terza]
Moglie e marito si trovano dunque nella medesima situazione, unico scarto la certezza della morte di
Jack, il cui pensiero incombe su di lui non meno che sulla coniuge (la quale aveva sempre desiderato di
essere la prima tra i due a decedere per evitare la solitudine d’essere vedova). Unico antidoto
all’angoscia lo ritrovano entrambi nel figlioletto Wilder, nel suo dormire e vivere con la leggerezza
tipica dei bambini, data appunto da un’ingenuità e inconsapevolezza delle cose della vita, ovvero che
tocca a tutti morire.
La riflessione a cui Jack giunge più tardi, tuttavia, è che il sentimento di paura di morte e la memoria a
cui esso è intimamente legato siano reciprocamente necessari all’esistenza, e ad un’esistenza che non
rischi di dissimilarsi nel rumore bianco e nei numeri dispari delle macchine: per eliminare la morte
fredda da contaminazione e onde è necessario riaffermare e sperimentare la paura di quella morte calda,
quella davanti al pericolo reale e atavico della natura. Tale realizzazione giunge al protagonista a seguito
di una conversazione con una collega ricercatrice nell’ambito chimico (a cui Jack commissiona l’analisi
microscopica di una pastiglia di Dylar):
“Non so che rapporto personale tu abbia con quella sostanza, - disse, - ma credo che sia un errore
perdere il senso della morte, persino la paura. La morte non costituisce proprio il limite di cui abbiamo
bisogno? Non ti sembra che dia una consistenza preziosa alla vita, un senso di chiarezza? Bisogna
chiedere a se stessi se tutto ciò che si fa in questa vita avrebbe le stesse caratteristiche di bellezza e
significanza senza la consapevolezza che si tende a una linea finale, a un confine, a un limite. […]
Immagina te stesso, Jack, uomo tutto casa e famiglia, persona sedentaria, che si trova improvvisamente
a camminare nel folto di una foresta. Con la coda dell’occhio cogli qualcosa. Prima di avere ulteriori
informazioni, sai che si tratta di qualcosa di molto grosso, che non trova nel tuo normale schema di
riferimento. Un difetto nel quadro del mondo. Uno di voi due non dovrebbe essere lì. Poi la suddetta
cosa diventa pienamente visibile. È un grizzly, enorme, di un bruno lucente, barcolla, cola bava dalle
zanne scoperte. Tu, Jack, non hai mai visto un animale così grosso nella foresta. La visione di un grizzly
ti risulta così elettrizzantemente strana da darti un senso rinnovato di te stesso, una nuova
8
consapevolezza dell’io nei termini di una situazione unica e orripilante. Vedi te stesso in un modo nuovo
e intenso. Ti riscopri. Ti vedi in piena luce nell’imminenza di venire smembrato. La belva, retta sulle
zampe posteriori, ti ha reso capace di vedere come sei veramente per la prima volta, fuori dall’ambiente
famigliare, solo, separato, integro. La definizione che diamo di questo complesso procedimento è: paura.
- La paura è autocoscienza portata a un livello superiore.
- Esatto, Jack.
- E la morte? - chiesi
- L’io, l’io, l’io. Se la morte potesse essere vista come un fatto meno strano e privo di riferimenti, il tuo
senso dell’io in rapporto con essa diminuirebbe, e con esso la paura.22”
A dover dunque essere stimolata è in primo luogo la consapevolezza della vita, annullata da una
“malfida morte” provocata nell’uomo contemporaneo – che trova il suo doppio in quello del romanzo
– dalla tecnologia, dai media, dal consumismo dei bisogni indotti, riaffermando così la possibilità d’una
morte vera e non virtuale, che è condizione intrinseca e fondamentale all’esperienza umana. Tale
condizione di morte virtuale e quotidiana da cui ci si dovrebbe scuotere è precisamente quella teorizzata
da Baudrillard:
“non solo il fatto di vivere non è veramente accertato, ma il paradosso di questa società è che non vi si
possa neanche più morire, dato che si è già morti.23”
9
azione che gli appare quantomai illecita ed artificiale, vista la difficoltà ammessa dallo stesso Romand
di dire “io”:
“Il fatto che lei non riesca a parlare della mia storia in prima persona mi sembra in parte legato alla
difficoltà che ho io a parlare di me stesso in prima persona. Quand’anche riuscissi a ottenere questo
risultato, sarà comunque troppo tardi, ed è orribile pensare che se a suo tempo avessi avuto accesso a
quell’“io” e di conseguenza al “tu” e al “noi”, avrei potuto dire loro tutto quello che avevo da dire
senza che la violenza rendesse impossibile ogni dialogo”
La misura della narrazione diviene perciò la sensibilità dello scrittore che ripercorre la vita libera di
Romand soggiacendo in più punti ad un’implicita immedesimazione nel senso della non esistenza
sperimentato dall’uomo nel suo cronico mentire. Per Romand invece il valore che Carrère può apporre
alla vicenda è a sua volta di comprensione, come è l’autore stesso a spiegarci:
“Avevo l’impressione che non s’interessasse alla realtà, ma solo al significato che essa nasconde, e che
interpretasse come un segno tutto ciò che capitava, in particolare il mio intervento nella sua vita. Si
diceva convinto «che lo sguardo di uno scrittore» su questa tragedia potesse «completare e trascendere
largamente altri approcci, più riduttivi, come quello della psichiatra o di altre scienze umane». Ci teneva
a persuadere me a e persuadere se stesso che «un qualsiasi “recupero narcisistico”» era «lontano da
[suoi] pensieri (perlomeno consci)». Ne ho dedotto che contava più su di me che sugli psichiatri per
aiutarlo a capire la propria storia, e più su di me che sugli avvocati per farla capire alla gente. Una
simile responsabilità mi spaventava, ma non era stato lui a venire a cercarmi. Avevo fatto io il primo
passo e ora ritenevo di dover accettare le conseguenze.”
Quello che si osserva è precisamene la messa a nudo dell’uomo Romand dai lunghi anni di menzogne
e dalla vita fittizia; disvelamento che si consuma qui agli occhi dell’amico Luc non meno che per Jean-
Claude stesso. Ciò riconferma la massima per cui senza memoria non c’è individuo ma solamente un
involucro vuoto in cui ha risuonato per anni la completa solitudine di un segreto mai svelato a nessuno:
“Di norma una bugia serve a nascondere una verità, magari qualcosa di vergognoso, ma reale. La sua
non nascondeva nulla. Sotto il falso dottor Romand non c’era un vero Jean-Claude Romand.”
Tale vuoto d’identità è precisamente quello sperimentato da Carrère autore, nel momento in cui si
interroga sull’opportunità di assumere il punto di vista di Romand. Lo scrittore assume infatti
consapevolezza che anche se ne avesse l’intenzione, gli sarebbe precluso farlo perché non rimarrebbe
che identificarsi con una non-identità.
Riguardo l’atteggiamento dell’autore, esso è in prima istanza quello dell’empatia nei confronti d’un
uomo chiuso e vincolato al suo segreto, vittima di una solitudine abissale e costretto ad una metaforica
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e quotidiana fuga dalla propria vita fittizia, fuga al riparo da un consorzio sociale rispetto al quale non
è semplicemente escluso ma assente. Non pervenuto: così il riscontro delle ricerche nei database
dell’OMS – società dove il dottor Romand ha costruito e conduce la sua brillante carriera – e in cui
tuttavia Jean-Claude non è mai esistito. Quello, dunque, che Carrère scorge nell’involucro Romand non
è l’Avversario, il diavolo, depositario di un male senza segni, ma piuttosto di un dannato, reietto al di
fuori della vita e della storia, anche e soprattutto della propria.
“Ricalcando i suoi passi provavo pietà, una straziante simpatia per quell’uomo che aveva errato senza
meta, un anno dopo l’altro, chiuso nel suo assurdo segreto, un segreto che non poteva confidare a
nessuno e che nessuno poteva conoscere, pena la morte.”
La vita di reclusione dona tuttavia la possibilità a Romand di appropriarsi della propria verità ed
abbracciando il proprio ruolo d’assassino e la realtà che non può più essere negata, egli acquista
attraverso questo atto di responsabilità, una nuova memoria e dunque una nuova identità. Tale seconda
nascita alla coscienza si consuma grazie alla conversione in Cristo, di cui Jean-Claude abbraccia un
fondamentale principio: “la verità vi fa liberi” votando sé stesso alla meditazione e alla preghiera.
L’atteggiamento di Carrère si fa da qui in poi incerto, e alla compassione si sostituisce piuttosto
un’amara ironia:
“Prima tutti credevano a tutto ciò che diceva, adesso nessuno crede più a niente, e lui stesso non sa cosa
credere, perché non ha accesso alla propria verità, ma la ricostruisce con l’aiuto delle interpretazioni
che gli offrono gli psichiatri, il giudice, i media.”
L’autore non formula un giudizio netto, e nemmeno mette in discussione la bontà della conversione o
della preghiera di Romand, eppure, indugia sul pensiero dell’opportunità di tale nuova fede,
domandandosi se essa non sia l’unico modo superstite per sopravvivere al proprio dramma non
facendosene carico, insomma un’ulteriore fuga dal proprio vissuto. Carrère consegna dunque la storia
di Romand al lettore con fiducia di una confessione o d’una preghiera, ma senza certezze.
Potremmo in ultimo concludere facendo un raffronto: se in Proust, per Marcel il ritorno del rimosso
costruisce il veicolo della ricostruzione di attimi di vita perduta, che possiedono talvolta virtù di realtà
e ricchezza maggiori delle memorie evocate razionalmente, in Carrère, la vita fittizia di Romand si
genera a partire da un atto mancato – il mancato sostenimento d’un esame che lui ritiene il casus
dell’inizio delle menzogne – e solo la rimozione della finzione (e dunque l’abbandono di una memoria
non propria, appartenuta al dott. Romand) può portare al ritorno e al ritrovamento d’una vita vera,
seppur questa rimozione avvenga troppo tardi per una riconciliazione con gli unici elementi autentici
della sua vita fasulla, ovvero i suoi affetti.
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Da Rumore bianco (a parlare è Jack all’amico Murray):
“È in programma che io muoia. Non succederà né domani né dopodomani. Ma il processo è in moto.
Quindi le dissi dell’esposizione al Nyodene D., parlando in modo realistico, senza riflessioni, in brevi
frasi assertive. Le dissi del tecnico del computer, del modo in cui vi aveva inserito il mio curriculum,
ricevendo un grosso riscontro di natura pessimistica. Noi siamo la somma totale dei nostri dati, le dissi,
così come siamo la somma totale dei nostri impulsi chimici.”
In entrambi regna la consapevolezza dell’ineluttabile, un’ineluttabile che è per tutte le vite umane, ma
che qui viene reso più crudele da un’equazione dall’esito certo: quella prodotta dalla sommatoria delle
menzogne di Romand, e quella esito dell’interazione del curriculum di Jack, la tossicità del Nyodene
D. e il tempo della sua esposizione alla nube. Entrambi desiderano intimamente la proroga del proprio
epilogo ma sanno la speranza effimera.
Eppure, in che rapporto stanno il desiderio di morte di Romand e l’angoscia di morte di Jack?
Significativo nella comprensione può essere ricorrere ad un passo de L’Avversario in cui Jean-Claude,
incapace di essere sincero sulla propria condizione, inscena quella fittizia di essere malato di cancro
(mezzo anche questo di morte prematura se non programmata) sostituendo ad essa l’imbroglio che
perpetra:
“Sostituendo un imbroglio [sulla carriera universitaria] con un cancro è riuscito a trasporre i termini
comprensibili agli altri una realtà troppo particolare e privata. Avrebbe preferito davvero essere malato di
cancro piuttosto che di menzogna – perché anche la menzogna era una malattia, con una sua etiologia, i suoi
rischi di metastasi, la sua prognosi riservata –, ma il destino aveva voluto che si ammalasse di menzogna, e
non era colpa sua.”
Tale sostituzione, come evidenziato da Carrère, non è di maniera ma anzi è un’accurata trasposizione
della consapevolezza di morte dal piano psicologico-coscienziale a quello fisico-materiale, piano dove
forse la morte si rende più intellegibile, motivata ed improrogabile. E forse proprio per questa differenza
di piani passa il discrimine tra la morte a tempo di Jack e quella di Romand. Tuttavia, è un altro
l’elemento su cui è utile soffermarsi: la paura.
Nell’osservare lo scarto tra l’angoscia di morte magistralmente rappresentata in Rumore bianco e la
proroga di morte raccontata ne L’Avversario (se non si considera già la vita di Romand come morta a
sé stessa), notiamo come si consumi parallelo lo scarto tra due epoche storiche e letterarie rispetto la
riappropriazione del senso di morte. Non a caso se Jack riceve dall’esterno la conferma della sua
malattia mortale, quella di Romand è la storia anch’essa di una malattia mortale, seppur di tutt’altra
sorta, su cui poi tuttavia si consuma una riappropriazione, ma questo solo se decidiamo di concedere a
Romand il beneficio del dubbio.
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