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Michael Papio on behalf of the Department of Spanish, Italian, and Portuguese at the

University of Virginia

"INFERNO" XXXIII
Author(s): EDOARDO SANGUINETI
Source: Lectura Dantis, No. 5 (FALL 1989), pp. 3-13
Published by: Michael Papio on behalf of the Department of Spanish, Italian, and
Portuguese at the University of Virginia
Stable URL: https://www.jstor.org/stable/44806735
Accessed: 27-05-2020 15:59 UTC

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Lectura

INFERNO XXXin

Distribuito tra l' Antenore e la Tolomea, il canto XXXIII del-


Ylnferno contiene gli ultimi colloqui del poeta con anime di dannati,
prima che Virgilio poi si limiti, nell'ultimo capitolo, ad additare a
Dante, nelle fauci di Lucifero, i tre peccatori supremi. Si tratta del conte
Ugolino (per un episodio che nel canto precedente è stato
compiutamente preparato e introdotto, così che in questo possa
contenersi per intiero, rilevatamente isolato, il nudo racconto del
peccatore) e di frate Alberigo (cui spetterà il compito di rivelare la
presenza silenziosa di Branca Doria). Con struttura estremamente
semplice e nitida, infine, ciascuna delle due sezioni del canto (la voce
tecnica di «canto» è inclusa nel testo, v. 90) è seguita da un'invettiva
municipale, secondo moduli già bene sperimentati, con diversi esiti
tonali, in Malebolge («Ahi Pistoia, Pistoia ...», «Godi, Fiorenza ...»),
e che nella prossima cantica si allargheranno all'Italia («Ahi, serva Italia
...»), prima di tornare a restringersi, in una medesima occasione,
puntualmente, sopra l'orizzonte della città dantesca stessa, «natione non
moribus» («Fiorenza mia ...»), con replicato effetto di sarcasmo
satirico.
Non sarà allora inutile osservare che Ugolino riconosce qui il
poeta, alla voce, come «fiorentino», quasi anche a giustificare preventi-
vamente, fuori narrato e fuori campo, le moralizzate imprecationes
comunali, anche se è ovvio che la fiorentinità del viandante, di cui il
peccatore sottolineatamente intende ignorare l'identità personale («io non
so chi tu se'») e le modalità della inaudita presenza («né per che modo /
venuto se' qua giù»), è tutta in funzione, nel racconto, della selezione dei
materiali informativi, per la distinzione tra ciò che «dir non è mestieri»
e quello che il vivente, che nessuno dei viventi, può mai «avere inteso».
La confessione del proprio nome e di quello del «vicino» possono
bastare, per quanto è occorso in vita, a chiarire quello che Dante già deve
conoscere, per sè, e che tuttavia, in sintesi da terzina, è epitomato
ellitticamente, in accorta preterizione. Qualche cosa si aggiunge, ancora,
nell'economia dei tempi verbali, tra il passato che Ugolino adibisce al
proprio nominarsi («i' fui»), e il presente conservato per l'arcivescovo
(«questi è»), che è mossa rettorica contemplata dal dettato dantesco (per
eccellenza, in identico soggetto, si pensi a Purg. V, 88, e a Par. VI, 10),
e qui esacerbata da un paradossale puntiglio di galateo, ma comunque
inclinata a sposare il presente anagrafico del masticato e corroso a quel

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presente di eternità che stringe, insolubile, la coppia delle anime («i son
tal vicino»). Tanto basta, ad ogni modo, a orientare subito il «ti dirò» di
Ugolino verso quello schema del racconto di morte a tutti ignota, per
postuma rivelazione, che è modulo coltivatissimo nella Commedia e, su
chiari fondamenti ideologici, necessariamente privilegiato. Il «subiectum
totius operis», lo sappiamo, è lo «status animarum post mortem», in
quanto «iustitie premiandi et puniendi obnoxius est». Così, comunque
articolato, è il modo della morte l'ultima istanza di ciascuna figura.
Ma insomma, tornando all'impaginazione generale del capitolo,
assistiamo a una sorta di costruzione a quartina, quasi a rime
strutturalmente alterne (abab), tra narrado e imprecado replicate. E al
centro, nel transito dall'una all'altra zona di Cocito, starà l'inchiesta
dantesca sul «vento» che percuote e congela la profonda «cisterna» dei
traditori, a preparare, con il rinvio virgiliano alla «risposta» diretta e
frontale dell'«occhio», il margine terminale della cantica e l'apparizione
dei «vexilla» luciferini.
Ora, volendo insistere sopra il rigore di una preliminare divisiò ,
può aggiungersi che, in entrambe le sezioni principali, e propriamente
narrative, è in causa una coppia di dannati, anche se la loro congiunzione
è assai diversamente motivata, nel concreto della rappresentazione. Per
frate Alberigo può implicitamente indiziarsi, supplemento categoriale,
da traditore a traditore, una volontà di incriminazione, che tocca un
presunto vivente, innestata sopra il meccanismo, normale al poema, del
defunto che si assume spontaneamente il ruolo di guida e illustratore,
per compagni di pena e di premio. Il lettore conosce già la regola per
cui, nella presente «lama» abissale, è inaccoglibile un «lusingar» per
«fama», e domina anzi una radicale «brama» del «contrario». Per
Ugolino, in ogni modo, è tutto esibito il desiderio di spargere, con le
proprio parole, «seme / che frutti infamia» al «vicino». Ma sappiamo
pure che l'emergere nel racconto dei «due ghiacciati in una buca»
appartiene a quel regime di duplice singolarità che ha già segnalato,
sopra la folla dei dannati, «quei due che 'nsieme vanno» tra i lussuriosi,
e, con formulazione rigorosamente parallela, quei «due dentro ad un
foco», nella «fiamma cornuta» di Ulisse e Diomede. Il che ascrive
subito Ugolino, come è noto, alla grande galleria di coppie infernali, che
«a la vendetta vanno come a l'ira», indissolubili, e dei quali tuttavia,
costantemente, una sola voce spiegherà il destino e la colpa.
Ma, per non uscire da Cocito, è antecedente immediato, a questa
tipologia rappresentativa, la coppia dei fratelli Alberti, i «due sì stretti»
della Caina, che «d'un corpo uscirò», ai quali si applica tuttavia,
squisitamente cocitesca appunto, la variante di essere individuati e
discoperti da Camicione, prodigo di denunzia e di infamia. E' quanto

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basta, però, per assicurare, al canto precedente, una costruzione non
meno rigorosa che a questo, proprio in forza del suo aprirsi e chiudersi,
in parallelo, tra i due sprangati e stretti dal gelo, nel forzoso abbraccio
che li lega, e i due bestialmente segnati dalla condizione di mangiarne e
mangiato, per cui «l'un capo a l'altro» fa da «cappello».
Il richiamo mitico a Tideo e Menalippo non avrebbe tanta forza, del
resto, se non si congiungesse, sulla conclusione di quel canto, alla
perifrasi del cominciamento, per cui le Muse sono designate, in
invocado, onde prestino soccorso a un'adeguata rappresentazione, come
«quelle donne» che «aiutaro Anfione a chiuder Tebe». La memoria delle
«Amphionis arces» ( Theb . X, 873), d'altra parte, non meriterebbe
particolare sottolineatura, in un poema come quello dantesco, in cui così
folte e distribuite sono le memorie tebane, e gli echi di Stazio, assai
prima che egli assurga, nel Purgatorio , a quel ruolo privilegiato che tutti
conosciamo, se nei tratti che abbiamo indicato non assurgesse a una
funzione costruttiva tanto marcata, e tanto ricca di conseguenze.
Ma la stessa invocazione alle Muse è poi congiunta, alla fonte, con
quell'episodio di Capaneo, che ha procurato a Dante uno dei suoi
maggiori eroi del male, e che nel testo di Stazio (Theb. X, 829) implica
una trascendenza del sermone poetico consueto e tradizionale («non mihi
iam solito vatum de more canendum») e una richiesta, «ab Aoniis
lucis», di una «maior amentia», per una strepitosa audacia scrittoria:
«mecum omnes audete deae!». Lo scarto dalla «lingua che chiami
mamma o babbo», nella difficile adaequatio del «dir» al «fatto», e sia
pure in direzione di abissale ineffabilità, è tutto iscritto in quella
tematica di Überbietung di cui Dante ha già dato largamente prova con i
suoi «Taccia Lucano» e «Taccia ... Ovidio». Ad aiutarlo, se così
possiamo esprimerci, ci vogliono «quelle donne» che aiutarono Stazio a
chiudere la sua Tebaide. Dante non può sapere, con il Curtius, poiché
ignora le Silvae , che «seit Statius ist der panegyrische topos der
Überbietung wie auch die ce dat- Formel festes Stilelement». Ancora
meno egli può concentrarsi, direttamente, sopra la formula di Claudiano,
che pure applica derivativamente, «taceat superata vetustas». Ma da
Stazio non ha comunque appreso soltanto l'imperativo negativo a non
«temptare» la «divinam Aeneida», che occorre piuttosto «longe sequi»,
adorandone le «vestigia», onde può benissimo appropriarsi dinanzi a
Virgilio, subito, del «per te poeta fui», innalzandolo a «maestro» e
«autore» del «bello stilo». Ha anche imparato, intanto, che il «solitus
vatum mos» può essere egregiamente, si tratti di Ovidio o di Lucano,
meglio emulato che imitato, in innalzamento come in depressione
stilistica, così perchè Cirra divinamente risponda, come perchè «rime
aspre e chiocce» possano rispecchiare il «tristo buco», al «fondo»

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dell'universo.
Così, nella forma canonica del «non altrimenti» (in cui, presso
Dante, vengono a coagulare unitariamente i non e haud aliter degli
esemplari epici, e i non se cus e non alias), affiora, come termine di
comparazione, non meramente illustrativo, ma proprio di confronto
emulativo, di canonica aemulatio , vera epigrafe espressiva all'episodio di
Ugolino, l'evocazione di quel luogo di Stazio («non altrimenti Tideo si
rose ...»), al cui superamento è protesa tutta questa fascia del narrato
dantesco. Quello che qui si vuole suggerire, in breve, è che la
definizione di «novella Tebe», per Pisa, non è dunque soltanto, e non è
tanto, una caratterizzazione morale da imprecatio (qui raffinata
ulteriormente da ll'anadiplosis sofisticatissima «novella / novella»),
secondo quei modi di pronominatio che meriterebbero un accurato
approfondimento. Si pensi, nella Commedia , alla devoluzione profetica
della figura, dal «novo Iasòn» di Inf. XIX, 85 al «novo Pilato» di Purg.
XX, 91, come, nelle Epistole , alla «proles altera Isai» (VII, 8), sul
versante positivo, e, su quello negativo, agli «alteri Babilonii» (VI, 8),
gemelli ai «novi Farisei» di Inf. XXVII, 85. Ma soprattutto rilevante
appare, per la sua stessa origine documentaria e probativa, il «Totila
secundus» di Vulg. El. II, 6, 4, fabbricato ad arte a esemplificazione del
più illustre «gradus constructionis», che è quello che si definisce come
«sapidus et venustus etiam et excelsus». Tutto questo, insistiamo, è
rilevante, ed è tutto ancora da esplorarsi, alla luce di una
stabilizzatissima tradizione di eloquenza. Ma qui importa poi altro,
massimamente. Perchè la figura della «novella Tebe» è, in primo luogo,
una spia stilistica, il segno di un occulto 'taccia Stazio' (e 'più non si
vanti'), che ci indizia l'approdo a una minima ma vittoriosa 'novella
Thebais', a integrazione del canone dei «regulati poete», affinché, anche
nella Commedia , vi sia, in una gara di pathos e di horror congiunti, «qui
rabidarum more ferarum / mandat atrox hostile caput» ( Theb . VIII, 71).
E sono così decisi i gesti di Ugolino che incorniciano il suo
racconto: il sollevarsi della bocca, che interrompe il «fiero pasto», ma,
atrocemente inappuntabile quanto a manieres de tables , viene forbita
sopra i capelli del guasto capo del dannato (il Pucci delle Noie
proclamerà il proprio disgusto per la «persona melensa» che a tavola
«non si forbe la bocca»), e il suo vigoroso riabbassarsi canino sopra il
teschio (non ignaro del «miseri insatiabilis edit ... caput» di Theb. XI,
87), in stretta congiunzione con l'estremo vocabolo della narrazione, con
il cruciale «digiuno».
Ma le stesse parole inaugurali di Ugolino, nella giustificazione
della sua orazione, suggeriscono un sospetto. Esse sono certamente
cariche di debiti verso l'apertura del II dell'Eneide, e non esclusivamente

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per il calco puntuale, nel «Tu vuo' ch'io rinovelli / disperato dolor», del
memorabile «Infandum . . . iubes renovare dolorem». Dall'esordio di Enea
procede anche l'oppressione del pensiero, prima di ogni parola («animus
meminisse horret luctuque refugit»), e quella necessaria congiunzione di
«parlare e lagrimar» («quis talia fando ... temperet a lacrimis»), che,
rinnovando la stretta di dolore e di pensiero («dolor ... pensando»), sarà
proiettata, nel centro del racconto («Ben se' crudel ...»), dal narratore
sopra il narratario («ti duoli / pensando»), per condurci al culmine
dell'interrogativa: «e se non piangi, di che pianger suoli?» E' lecito
pensare, allora, che questo affoltarsi di virgilianismi, più e meno
puntigliosi, non sia affatto ignaro né immemore dell'echeggiamento
staziano, nell 'incipit del racconto di Isifile a Adrasto (posto per altro
all'insegna di un «dulce loqui miseris veteresque reducere questus», in
Theb. V, 48, che è poi il sentenzioso rovesciamento, specularmente
equipollente, tutto da «dottore», di Inf. V, 121, in bocca a Francesca), e
insomma dell'«Immania vulnera ... integrare iubes», in Theb. V, 29
(Lattanzio Placido può commentare l'«integrare» con «implere vel
renovare»), incrociato probabilmente con le parole di Licurgo (in luogo
a Dante ben familiare per Purg. XXVI, 94), in Theb. V, 686: «tanti
premerent cum pectora luctus», adeguato modulo per il «disperato dolor
che '1 cor mi preme». E' quanto dire che Yaemulatio dantesca, dinanzi
alla Tebcdde , fa forza sopra Virgilio, come deve, precisamente, mirando a
effetti di Überbietung , e a ricalco, a ritroso, di archetipiche «vestigia».
Ma, lasciando per un momento da parte il problema della 'novella
Thebais', poiché abbiamo toccato del nesso di «parlare e lagrimar» (è
noto che «colui che piange e dice» è anticipato in Francesca, per Inf. V,
126, secondo un sintagma regolatissimo che è rispecchiato, in una sorta
di grado zero, nel «piangendo disse» di Cavalcante, per Inf. X, 58), e del
suo scaricarsi sopra l'ascoltatore, incitato a «pianger» come destinatario,
sarà opportuno segnalare la centralità della dialettica di parole e pianto,
in opposizione a silenzio impietrito e volto inaridito, tra Ugolino e i
figli, nella lunga sequenza agonica. Il pianto reclamato al poeta insorge
infatti come riecheggiamento debito al «pianger» degli innocenti «fra '1
sonno» (e al loro «dimandar del pane»), e immediatamente urta nel
contrasto tra l'«io non piangea» (e il «sanza far motto») del padre e il
«piangevan elli» dei quattro innocenti, nonché nel ribadito contegno di
sostenuto silenzio, in un autoimposto e motivato acquietarsi («per non
farli più tristi»), esibito ostentatamente per via di negazione: «non
lacrimai né rispuos'io».
Ma vi è di più, dal momento che il silenzio di Ugolino è come
verificato in re (nella fattispecie, in or adone), da una assoluta carenza di
autocitazioni locutorie, all'interno del suo narrato, dove, in forma di

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oratio recta di grado secondo, si registrano soltanto, con i due interventi
degli appellati, Anselmuccio e Gaddo, la centrale proposta collettiva di
tecnofagia («di subito levorsi / e disser ...»), quella «agudeza di gusto
proprio senechiano», per dirla con Contini, che condivide regolarmente,
con le altre due battute singole, l'apostrofe «padre». E, se non
pecchiamo di eccessiva acutezza, noi adesso, il possessivo patetico di
«padre mio», presso Gaddo morente (che spezza d'improvviso un
acquisito e generale «tutti muti»), interviene puntualmente a
riequilibrare, in un bilancio emozionale complessivo, l'«Anselmuccio
mio», preventivamente deposto in didascalia.
Ma per Y«agudeza » in sé, lasciando impregiudicato il locus di cui,
grazie a Contini appunto, abbiamo ipotesi di indizio nell'Ami.? et
Amiles , converrà piuttosto spostare l'accento sopra la più che topica
opposizione metaforica del 'vestire' e 'spogliare' le «carni»,
genericamente, come «vesta» (per dirla per eccellenza con Purg. I, 75,
presso Catone, non dimenticando tuttavia le tante modulazioni
dell'agevole traslato, pacifico gettone linguistico tra il «rivesta» che
sporge in rima da Inf. XIII, 104, per le «spoglie» dei suicidi, e quello
«incarco / de la carne d'Adamo», poniamo, di cui «si veste» il poeta
stesso, in Purg. XI, 43, e finalmente la «carne» che, «gloriosa e santa»,
sarà «rivestita», come da Par. XIV, 44, compiendo il «disio» per cui
risorgeranno alleluiando la «revestita carne» tutti i beati, se non la
«revestita voce», nel critico verso di Purg. XXX, 15, onde fruiranno
infine di «doppia vesta» e di «due stole», Par. XXV, 92 e 127). Ebbene,
è proprio Seneca, ma il Seneca morale, prima che il Seneca tragico, con
il famoso passo di Epist. XIV, 92, 13, a fornirci una sorta di glossa
automatica, avendo fornito quel tropo stesso a tutta la latinità, con il
suo «quod de veste dixi, idem me dicere de corpore existima»,
opportunamente cristianizzabile, da un fondo essenzialmente platonico,
per incrocio di autorità scritturale, grazie alle «tunicae pelliceae» di Gen.
III, 24. Agostino, appoggiandosi a Matth. VI, 25, per il nesso di
«corpus» e «vestimentum», può confermarci ( Enarr . in Ps. CI, 11, 14)
così: «vestem audis, coopertorium audis, et aliud quam corpus
intelligis?». E Gregorio garantirci, ancora interrogativamente {Mor. IX,
36, 58): «quid enim vestimenti nomine nisi hoc terrenum corpus
exprimitur, quo indu ta anima tegitur?». Sarà forse più maniacale che
scrupoloso, a questo punto, rammentare che, per Capaneo morente, in
Theb. X, 937, si legge che «membra virum terrena relincunt, /
exuiturque animus». Ci giustifica il Lattanzio commentatore, ancora,
annotando che «mire 'exuitur' dixit, quia anima exuitur corpore, ideo
metaphoram a vestibus posuit».
Ma ritorniamo al denunciato pathos , per evidenziare subito come vi

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sia strettamente intrecciato quel Y horror che potrebbe bene meritare, per
così dire, all'episodio di Ugolino, debitamente iscritto sotto il «bestiai
segno» di un «odio» vorace, come alla sua scena risolutiva, il «titol de
la fame». E' agevole percorrere questi versi, nel loro complesso, come
un supremo esercizio di arte sinonimica sopra l'azione del 'mangiare' e
'rodere', 'manicare' e 'manducare', 'cibo' e 'pasto', e le equivalenti
circonlocuzioni, dal 'porre i denti' al 'riprendere con i denti'. Se ci
limitiamo al racconto di Ugolino, che è di nostra propria pertinenza,
osserveremo soltanto che sopra uno sfondo vagamente determinato di
tempo (le «più lune già», misurate dal «pertugio», dal «forame»), la
misura cronologica per giorni e per notti scatta a partire dalla rivelazione
emblematica del «mal sonno» (debitamente scandita sopra gli onirici
«pareva» e «parìeno»), per quel decorso settimanale in cui Pietro
Alighieri voleva riconoscre il «quantum ad plus homo completus vivere
potest sine alimentacione» sul modello di Davide digiunante per il figlio
(«de quo legitur in 2° Regum, capitulo xij0»). Certo, il bestiario
ipnotico delle «cagne» e del «lupo e ' lupicini» (forse non estraneo a una
comparazione di Achill. I, 704, relativa a Ulisse e Diomede, assai
presente anche al Dante di Inf. XXVI, 62, per cui «Deidamia ancor si
duol d'Achille», nella quale muovono «hiberna sub nocte lupi»,
raffigurati cauti e dissimulanti «rabiemque minasque», spinti dalla «sua»
e dalla «natorum fames», e timorosi che la «cura canum» possa scoprirli
come «hostes» presso i «trépidos maģistros»), in tanto importa
effettualmente, in quanto approda a quel «fender li fianchi» per opera di
«agute scane». Evocare un «malum ... soporem» staziano, da Theb.
VIII, 574, e supporre una piena trasposizione dantesca in tale «mal
sonno», significa convalidare che l'archetipo da emularsi è insinuato
anche nelle minime pieghe del discorso. E se Ugolino scorge «per
quattro visi» il proprio aspetto, è difficile pensare che il poeta sia qui
immemore del «seseque agnovit in ilio» che concerne esattamente, in
Theb. VIII, 753, Tideo che contempla la testa mozza di Menalippo, e
che subisce, a questo modo, una pungente torsione premonitrice.
Per Vaemulatio tecnofagica sono comunque sufficienti, all'occor-
renza, i rinvìi interni, che riconducono, poniamo, il «dimandar del pane»
dei carcerati incolpevoli, più indietro, al «come '1 pan per fame si
manduca», rivelando quello che è poi il tratto essenziale del contegno
tematico e stilistico di Dante, in questa zona, e che è il rimescolarsi e il
livellarsi, in regime omogeneo, del modo della morte «cruda» e del
«fiero» pasto penale, a partire appunto dall'iscrizione onirica
dell'immagine centrale della violenza fagica. Per inciso, non pare troppo
dissimile il livellamento, all'altezza di un immaginario catastrofico, che
prolunga la comparazione ipotetica del canto precedente, per cui

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Tambernicchi o Pietrapana sono fantasiosamente supposte in caduta
sopra il ghiaccio di Cocito, a comprovarvi, in non sensata esperienza,
un rigore più forte che nel Danubio o nella Tana, nello sradicarsi della
Capraia e della Gorgona, affinché, assiepandosi alla foce dell'Arno, siano
strumenti della distruzione dei pisani. In entrambi i casi, due tipiche
modulazioni da impossibilia vengono, diciamo così, possibilizzate in
suprema ornamentazione stilistica e emotiva, per sofisticata Überbietung
paesaggistica come per apocalittico moto di improperium.
Questo sarà, ad ogni modo, il percorso che occorre seguire, perchè
possa squarciarsi, anche dinanzi ai nostri occhi, il «velame» della
narrazione, e sciogliere la crux interpretativa del verso estremo del
necrofago, il primato, sopra il «dolor» del «digiuno», e insomma il
suggellante trionfo della fame. Non conviene sacrificare in alcun modo
gli indizi, più sicuramente topici che referenziali, suggeriti dal Contini
con il Thyestes alla mano. Si deve tuttavia notare che la forrqulazione
della ex clamatio di Ugolino («ahi dura terra, perchè non t'apristi?»)
presuppone, nella memoria di Dante e del suo lettore, proprio il
«ruinare» di Anfiarao, «a cui / s'aperse ... la terra», e insomma
un'ulteriore garanzia tebana, anche considerando che quando Eteocle
incita i propri guerrieri a vendicare il «profanatum Menalippi funus»,
evoca, in Theb. IX, 22, muovendo ossequiente dai «vestigia» virgiliani
di Aen. X, 675 («quae iam satis ima dehiscat / terra mihi?»), un «hiscere
campos», una «terrae fugam» (non remoto da Theb. VII, 816, «ecce alte
praeceps humus ore profundo dissilit», quando «illum ingens haurit
specus», né da quell'«abrupta terrarum moles», che sarà in Theb. XI, 72,
e anche 175, con i «rupti telluris hiatus»), per approdare al grido: «an
istos / vel sua portet humus?». E così si potrà avvertire, in parallelo,
che il «quid liberi meruere?» di Seneca può essere perfettamente
scambiato alla pari, con economia evidente nel disputato registro delle
fonti dirette, con l'ancora staziano «quid insontes nati meruere furores?»
di Theb. II, 305, da cui, come da locus cristallizzato, ci si può spostare
ancora, con il consueto soccorso di Lattanzio Placido (anche trascurando
il suggerimento del Giovenale niobesco di «nil pueri faciunt», da Sat.
VI, 173, da cui per altro gli Scholia rinviano già al Bellum civile), al
Lucano del «crimine quo parvi caedem potuere mereri?», di Phars. II,
108 (al quale è notabilmente congiunto, non è vano annotarlo, il ritratto
di un «cruentus / victor» che reca in mano «ab ignota voltus cervice
recisos»).
Ma è poi l'argomentazione interna, sempre, per una risoluzione
tebanamente antropofagica della sorte di Ugolino, che rimane
determinante. Più potente della prefigurazione onirica, allora, è
l'anticipazione raccolta nel gesto equivoco intorno a cui ruota poi

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l'intiera orazione del dannato, queH'«ambo le man per lo dolor mi
morsi», e insomma, se vogliamo, quel volversi «in sé medesmo»,
appunto «co' denti», per dirla alla Filippo Argenti, che i figli leggono
come «voglia / di manicar». La vittoria terminale del «digiuno» sopra il
«dolor», infatti, è già tutta segnata e decisa, in ombra, come in
spaventevole qui pro quo , proprio dalla interpretazione distorta, ma
orribilmente anticipatrice, che gli innocenti, concordi, elaborano per
l'atteggiamento «bizzarro» di questa «furiosa» anima di Cocito,
atrocemente optanti, dunque, deliberati, per il «se tu mangi di noi»,
come radice di «men doglia». E non pare allora dubitabile che, sotto il
«velame» delle rime «aspre e chiocce», gli intelletti sani possano
scorgere, con un 'taceat Statius', quanto si ribadisce infine, in figura, nel
contegno caninamente feroce e ferocemente allusivo, da
metacontrapasso, di Ugolino che ritorna al proprio pasto. E non
dimenticheremo, in proposito, quegli «occhi torti», che se internamente
possono esplicarsi come una variante orrifica del «li diritti occhi torse
allora in biechi» del goloso Ciacco, non saranno tanto da riportarsi,
come per inerzia si afferma, ai «torva lumina» di Theb. VIII, 756, ma,
se non ci si vuole accontentare, a ragione, dei formulari moduli «obliqua
tueri» e «obliquo lumine», tanto per rimanere a Stazio (1, 447; III, 377;
IV, 606), possono correttamente riportarsi al «trahi oculos» di
Menalippo, allorché Tideo (e si completa appena, qui, forse non per
avventura, una citazione precedente) «singultantia vidit / ora trahique
oculos seseque agno vit in ilio».
Un'ultima annotazione risulta indispensabile, anche nella sobrietà
necessaria di questa lettura, ed è la rilevazione di quelle pregustazioni
luciferine che l'episodio di Ugolino manifestamente procura, ove si
pensi ai «dolenti» masticati in «ogne bocca» di Dite, quasi «maciulla»,
in quel «mordere» e «dirompere» con i denti, ancorché degradato a
«nulla» dal più spietato «graffiar». Lo schema penale dei «due ghiacciati
in una buca», con tutto il suo clamoroso horror , non è che la
preparazione, in minore, e proprio nei termini profani di una «novella
Tebe» da 'novella Thebais', di quello che, nel canto seguente, si espande
in maggiore, teologalmente triplicato e ingigantito, presso Lucifero.
La demonicità latente nell'episodio di Ugolino, per altro, così nella
spettacolare raffigurazione antropofagica, come nel «velame» della
narrazione tecnofagica, è poi la demonicità stessa di Cocito, in generale,
quale si addice a quel «fondo che divora / Lucifero con Giuda». E' quella
demonicità che, eticamente legalizzata, appare in superficie nel Dante
personaggio, traditore di traditori, operante con sacra crudeltà e giusta
frode dinanzi ai «fratei miseri lassi», protetto da un'ambiguamente
calcolata mistura di «voler», di «destino», di «fortuna», ma garantita

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finalmente, alle spalle, dalla implacabilità della vendetta divina, in
queir«etterno rezzo». Il contrasto della «promessa» e delT«attender»,
nell'episodio di frate Alberigo, e il risolversi dell'«esser villano» in
religiosa «cortesia», suggella così, infernalmente proprio, l'infinita
varietà di atteggiamenti emotivi che ha esibito l'esplorazione dantesca
nel regno del male, e la suggella nella sua forma più spietata, che è la
denegazione del gesto pietoso, e nella sua formulazione più equamente
perversa, che è il jeu de mots sibillino sul deprecativo «al fondo de la
ghiaccia ir mi convegna».
Inutile indugiare sopra il «pianto» che impedisce il «piangere», con
l'interiore rivolgersi interno del «duol» a farsi accresciuta «ambascia»,
dopo un così largo insistere, nel canto, sul tema delle «lagrime». In
figura, è un invito aperto al lettore, che è condotto a situarsi in una
regione morale che è, in qualche modo, al di là del pianto e al di là
dell'espressione del dolore. E' sufficiente ricordare che, nel «vantaggio»
della Tolomea, per cui i corpi dei dannati sopravvivono «suso», grazie al
possesso demoniaco, onde il peccatore non serba che una sopravvivenza
apparente, laddove un diavolo lo toglie e lo regge rivestendosi della sua
carne, l'ingegnosa variante della anticipazione cronologica di una
sentenza che la temporalità determinata del viaggio dantesco imporrebbe
ancora come sospesa, e che così si aggira, perfidamente praticandosi lo
scritturale «descendant in Infernum viventes», è accortamente applicata,
con letterale vigore, e con immediata disperazione già dei primi
commentatori ortodossi, secondo l'autorizzazione evangelicamente
offerta da Lue. XXII, 3 («intravit autem Satanas in Judam») e da Joh.
XIII, 27 («introivit in eum Satanas»). E' un'astuzia, ancora, che guida
direttamente, per via figurale, all'anima «c'ha maggior pena». E qui, se
ha perfettamente ragione chi adduce, a illustrare la soluzione dantesca,
l'autocommento, in Conv. IV, 7, 10, a «tal ch'è morto e va per terra»,
con il relativo principio dell'uomo «rimaso bestia», fondamento
accertabilissimo e costante dell'antropologia dantesca, e, per un tale
codice, teologicamente inappuntabile, non deve tuttavia perdersi lo
scarto specificamente qui determinato dal «demonio» che irrompe e
«governa» la carne nuda. Se la pagina in prosa, nel trattato illustra
esaustivamente, infatti, la sequenza dell'«e mangia e bee e dorme e veste
panni», non spiega ovviamente quella esplicazione diabolica che, non
accidentalmente, impregna di sé anche la precisione del rinvio temporale,
riportandosi dinanzi, in evocazione, con la vittima ultima del
tradimento, la schiera dei Malebranche.
Il vero punto, ovviamente, non è, per sé, la mera sopravvivenza
sensibile, prima che la Parca intervenga con il suo gesto, ma il
reggimento demoniaco. Con una lieve coloritura conclusiva, potremmo

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affermare che, se la prima sezione del canto è un appena dissimulato
esercizio alla 'cedat Statìus', questa parte estrema è una diversa, ma non
meno impressionante, prova di Überbietung nei confronti di tutto il
caldo e colorito repertorio di narrazioni medievali che insistono sopra la
tematica della possessione. Ma, al riguardo, un'adeguata inchiesta è
ancora tutta da compiersi, e il «vantaggio» di Dante non può che
postularsi. Si può almeno affermare con tranquillità che, da una simile
posizione soltanto, il racconto può ormai sicuramente rivolgersi,
scavalcata l'ultima imprecatio, alla figura suprema del male: «vexilla
regis prodeunt inferni».

EDOARDO SANGUINETI
Università di Genova

Nota. Per il Commentarium di Pietro Alighieri, si cita dalla edizione di R.


Della Vedova e M. T. Silvotti (Olschki, Firenze 1978, p. 431). Per la
formula e la storia della Überbietung , si veda E. R. Curtius, Europäische
Literatur und latenisches Mittelalter (Francké, Bern 1948, pp. 171 ss.). Per
le fondamentali proposte di G. Contini, in Filologia ed esegesi dantesca f si
rinvia a Varianti e altra linguistica (Einaudi, Torino 1970, pp. 418 ss.). Per
la discussione sul passo citato del Convivio, si muove qui dalla postilla di F.
Mazzoni, nella sua riedizione dell'Inferno con i commenti di T. Casini e S.
A. Barbi, e di A. Momigliano (Sansoni, Firenze 1979, p. 704). Stazio è
citato secondo il testo di Thebais et Achilleis a cura di H. W. Garland

(Bibliotheca Oxoniensis), controllato con quello delle Opere, a cura di A


Traglia e G. Aricò (Utet, Torino 1980). Per i Commentarii di Lattanzio
Placido, editi da R. Jahnke, e gli Scholia in Iuvenalem vetustiora, editi da
Wessner, si ricorre ovviamente alle stampe della Bibliotheca Teubneriana.

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