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Un Eden peccaminoso: il giardino di Armida

Gerusalemme liberata, XVI, 1-31

Il regno di Armida è il regno della falsificazione, dell’artificio, che attrae


irresistibilmente anche coloro (i crociati) che non dovrebbero subirne la fascinazione.
Chi resta ammaliato dai suoi inganni appartiene alla categoria dei «compagni erranti»
che Tasso ci ha additato fin dalla protasi come coloro che Goffredo di Buglione deve
ricondurre «sotto a i santi segni» (I, 1, vv.7-8). Tra questi è Rinaldo, prigioniero, nel
suo giardino meraviglioso, dei lacci amorosi di Armida. Il disviamento dalla missione
santa (la riconquista di Gerusalemme) prende dunque la forma del disviamento
amoroso. Il potere dell’eros distrae dall’obiettivo e in tal modo si carica di una
valenza negativa, peccaminosa. Non a caso il potere della maga Armida è
emanazione degli spiriti infernali.
Goffredo ha affidato a Carlo e Ubaldo il compito di riportare Rinaldo nel campo
cristiano. I due crociati incedono nel territorio di Armida, vedono il suo palazzo e
entrano poi nel giardino che si apre al suo interno, dove sono investiti dagli effetti
visivi e sonori dell’arte diabolica della maga, finché scorgono Rinaldo abbandonato
in grembo a lei. I due si stanno scambiando effusioni amorose, e Rinaldo appare del
tutto succube del fascino della maga, che a un certo punto gli pone tra le mani uno
specchio nel quale inizia a rimirarsi. La scena dello specchio fa emergere il
narcisismo di Armida che, innamorata solo di se stessa, continua a contemplare, come
fece appunto Narciso, la propria immagine riflessa, indifferente alle suppliche di lui
che le chiede invano di concedergli i suoi sguardi. Il loro non è dunque uno scambio
reciproco di sentimenti d’amore, ma il rapporto univoco tra un servo e una
dominatrice.
Armida indossa una cintura (simile a quella di Venere descritta da Omero nel
quattordicesimo libro dell’Iliade) forgiata in uno dei suoi riti magici con tutti gli
ingredienti tipici della contraddittoria fenomenologia dell’amore (sdegni e
rappacificazioni, rifiuti e tenerezze, pianti e sorrisi, ecc.), cintura che simboleggia il
potere che l’amore ha sugli uomini.
Quando smette di contemplare se stessa, Armida si allontana per i fatti suoi,
mentre Rinaldo rimane solo nel giardino, dal quale gli è proibito uscire, e dove resta
in attesa del ritorno dell’amata per trascorrere con lei un’altra delle loro notti di
passione.
Ma a questo punto Carlo e Ubaldo, che erano nascosti tra i cespugli, si palesano
nelle loro smaglianti armature. Il loro aspetto di virili guerrieri contrasta vistosamente
con quello molle e femmineamente raffinato che Rinaldo ha assunto nel corso del
traviamento amoroso, che lo aveva sottratto ai suoi doveri di crociato. Specchiandosi
nello scudo lucidissimo che Ubaldo ha rivolto verso di lui, Rinaldo prende immediata
coscienza dello stato in cui si è ridotto, e, uscendo dalla vertigine che lo aveva
catturato, riemergendo dallo stato di sonno e di vaneggiamento nel quale si era
immerso, prova vergogna di se stesso. L’incantesimo di cui era stato vittima si è
spezzato.
Di particolare rilievo, in queste ottave, è la descrizione del giardino di Armida, un
giardino che non ha nulla di naturale: tutto il suo fascino, la sua straripante, lussuriosa
bellezza, sono il prodotto dell’arte diabolica della maga, della sua volontà
ingannatrice. La cifra che contraddistingue ogni elemento di questo paesaggio visivo
e sonoro è la falsificazione. Infatti un ruolo da protagonista vi viene assunto dal
pappagallo, l’uccello dal piumaggio multicolore, che è capace di imitare la voce
umana. Al canto di questo uccello ingannatore Tasso affida l’invito a «cogliere la
rosa», cioè a non lasciarsi sfuggire l’occasione dell’amore, l’attimo di godimento
offerto dalla gioventù, che è destinata a sfiorire rapidamente. Il tema del rapido
sfiorire della breve stagione dell’amore è un tema classico, presente nella poesia di
Catullo, e nuovamente celebrato dai poeti (Poliziano, Lorenzo, Ariosto) del Quattro e
Cinquecento. Ma in Tasso il canto celebrativo dell’amore assume una connotazione
negativa, peccaminosa, in quanto suggerisce una deviazione dai principi cristiani:
raffigura la tentazione diabolica che si nasconde, come sempre, in un manto di
seduzione.

1. L’edificio di cui si parla è la cinta di mura che circonda il giardino, che si trova
al suo centro. «Adorno sovra l’uso… fioriro» significa che il giardino è coltivato con
una cura superiore a quella profusa in qualsiasi altro giardino esistente. I demoni che
hanno costruito le mura le hanno dotate di un inestricabile ordine di logge, che
vengono a costituire un ingannevole labirinto. Questa artificiosa architettura rende il
giardino impenetrabile.
2. «Costoro» del v. 2 sono Carlo e Ubaldo, inviati da Goffredo in cerca di
Rinaldo. Entrano passando per la porta più ampia delle mura, che di porte ne avevano
cento. Sono porte d’argento scolpite di figure, e incardinate su cardini d’oro. I due si
soffermano a osservare le figure scolpite perché la preziosità della materia di cui sono
fatte è superata dalla raffinatezza del lavoro artistico con cui sono intagliate. Alle
figure manca soltanto la parola per dirle vive, e non manca loro neppure quella, se ti
affidi a quello che vedono i tuoi occhi. Insomma si tratta di immagini alquanto
eloquenti, che illustrano, come si dice nelle ottave 3-8 che non sono riportate nel
testo, storie antiche di eroi e condottieri che hanno abbandonato per amore le loro
imprese. Sono le storie di Ercole, irretito da Onfale, e di Antonio, innamorato di
Cleopatra. Si tratta dunque di storie di prefigurano quella di Rinaldo e Armida.
9. Dopo che furono usciti dai sentieri intricati del labirinto, si aprì davanti alla
loro vista un bel giardino di gradevole aspetto: laghetti, ruscelletti, fiori e piante di
ogni tipo, erbe di tutte le specie, collinette soleggiate, valli ombrose, selve e grotte,
tutto «in una vista», cioè in un paesaggio che si può cogliere con un solo sguardo, «e
quel che ’l bello…si scopre»: e ciò che accresce il bello e l’ammirevole in questa
opera è che l’arte che produce tutto, non si scopre affatto. Cioè: tutto nel giardino è
effetto di artificio, non c’è niente di naturale, ma tutto sembra naturale.
10. Ti sembra (stimi), tanto è mescolato ciò che è frutto di arte (il culto) con ciò
che è allo stato naturale (il negletto), che gli ornamenti e i luoghi (i siti) siano
esclusivamente naturali. Sembra che la natura si comporti qui come l’arte, e quindi
che, per divertirsi, imiti colei che di norma è la sua imitatrice [l’arte infatti è
imitazione la natura: emerge qui il tema classico, di derivazione ovidiana, della gara
tra arte e natura]. Il vento (l’aura), e tutto il resto (non ch’altro), è effetto della maga
Armida: i fiori sono eterni così come i frutti, e mentre l’uno spunta, l’altro matura
[nessun fiore e nessun frutto periscono mai].
11. Sullo stesso tronco e tra lo stesso fogliame mentre un fico matura ne nasce un
altro; da uno stesso ramo pendono, uno con la buccia dorata, già maturo, l’altro
verde, ancora acerbo, sia il pomo nuovo che quello vecchio; la vite attorta (torta)
serpeggia (serpe) in alto, nel suo pieno sviluppo (lussureggiante) e, nello stesso
tempo, mette nuovi germogli, laddove la campagna (l’orto) è più soleggiata (aprico):
qui la vite ha l’uva ancora acerba (in fiori) e qui l’ha dorata, e già gonfia di succo
rosso (di piropo) e dolce.
12. Uccelli graziosi modulano a gara (a prova) melodie sensuali (lascivette note)
tra le fronde verdi; il vento mormora e fa risuonare (garrir) le foglie e la superficie
dell’acqua (l’onde) che investe in modo vario, con forza variabile (variamente).
Quando gli uccelli tacciono il vento risponde rinforzando il suono (alto), quando
invece cantano gli uccelli spira più lievemente; sia caso o artificio, l’aura musicale
ora accompagna, ed ora si alterna al canto degli uccelli.
13. Fra gli altri uccelli ne vola uno che ha il piumaggio multicolore e il becco
(rostro) rosso, e muove la lingua così ampiamente e articola la voce in modo tale da
imitare il nostro linguaggio. Questo uccello proseguì con tanta arte il suo parlare che
fu un prodigio degno di meraviglia (mirabil mostro). Tutti gli altri uccelli fecero
silenzio, intenti ad ascoltarlo, e i venti sospesero in aria i loro mormorii.
14. «Deh guarda – egli cantò – spuntare la rosa, come una fanciulla modesta e
verginella, sul suo ramoscello verde, che ancora semiaperta e seminascosta, nel suo
mostrarsi poco tanto più è bella. Ecco che poi dispiega già baldanzosa il suo seno
nudo [la corolla]; ecco poi che appassisce (langue) e non sembra più quella di prima,
non sembra più quella che fu precedentemente desiderata da mille fanciulle e mille
innamorati.
15. Così trapassa al trapassare di un giorno il fiore e il verde [la gioventù] della
vita degli uomini; né per quanto ritorni l’anno dopo la primavera [faccia indietro april
ritorno] quel fiore e quel verde ritornano mai. Cogliamo la rosa nel bel mattino di
questo giorno che rapidamente tramonta [perde la sua luce (il seren)]; cogliamo la
rosa dell’amore: amiamo ora, quando, amando, si può essere ricambiati».
16. Il pappagallo tacque, e il coro degli uccelli riprese all’unisono, come
approvando, il proprio canto. Le colombe raddoppiano i loro baci, ogni animale di
nuovo si sente risospinto ad amare [v. 4: questo verso è un prelievo testuale del v. 8
di un sonetto del Canzoniere di Petrarca: RVF CCCX, 8]; sembra che la dura quercia
e il casto alloro [gli attributi dura e casto, riferiti rispettivamente alla quercia e
all’alloro sono tradizionali, e hanno origine nella poesia classica (particolarmente in
Ovidio); il secondo deriva dal mito di Apollo e Dafne, la ninfa che per sfuggire alle
brame del dio, si trasformò in alloro], e tutte quante le piante (la frondosa ampia
famiglia), sembra che la terra, e l’acqua formi ed emani (spiri) dolcissimi sensi
d’amore e sospiri.
17. La coppia dei due cavalieri [Carlo e Ubaldo] procede rigida e ferma in mezzo
a quella melodia così tenera e fra tante bellezze allettatrici e seducenti rende se stessa
impenetrabile alle lusinghe del piacere. Ed ecco che lo sguardo della coppia
penetrando tra le fronde scorge, o sembra scorgere, finché poi vede con certezza
l’innamorato (il vago: Rinaldo) e la sua amata (la diletta: Armida). Lui è adagiato in
grembo a lei, che è seduta sull’erbetta. [La postura dei due amanti è ricalcata su
quella di Adone e Venere nelle Metamorfosi di Ovidio: l. X, 557].
18. Ella ha aperto il velo che le copre il petto, e abbandona la chioma al vento
estivo [lascia che il vento le spettini i capelli: echeggia Petrarca: «erano i capei d’oro
all’aura sparsi», RVF XC, 1]; si mostra languida fingendo (langue per vezzo: per
scherzo) e le gocce di sudore, biancheggiando, fanno risaltare il rossore amoroso del
suo viso: come un raggio di sole che colpisce la superficie dell’acqua, il suo sguardo
si illumina del lampo di un riso tremulo e lascivo. È piegata verso di lui; e lui le posa
il capo nel grembo morbido e solleva il suo volto verso il volto di lei,
19. e nutrendo (pascendo) in lei i suoi sguardi pieni di desiderio, si consuma e si
strugge. Lei si piega verso di lui e assapora (liba) ripetutamente (sovente) i dolci baci,
ora dagli occhi e ora dalle labbra li succhia (sugge), e in quel momento si sente lui
sospirare così profondamente che pensi: «Ora la sua anima [di Rinaldo] fugge da lui e
pellegrina trasmigra in lei». Nascosti i due guerrieri [Carlo e Ubaldo] assistono agli
atti amorosi.
20. Dal fianco di Rinaldo (l’amante) pendeva uno specchio lucido e terso, oggetto
inconsueto per un guerriero (estranio arnese). Armida si alzò in piedi e affidò alle
mani di lui quello specchio, eletto ministro del dio Amore [perché strumento che
serve ad Armida per farsi bella]. Con occhi lei ridenti e lui accesi di passione
contemplano in oggetti diversi un medesimo oggetto: lei vede se stessa riflessa nello
specchio, lui si specchia negli occhi risplendenti (sereni) di lei [lei contempla se
stessa e lui contempla lei: i loro sguardi sono rivolti ad oggetti diversi ma guardano la
stessa immagine. L’atteggiamento di Armida è tipicamente narcisistico: ammira se
stessa, e si esalta nel farlo, mentre Rinaldo ammira lei, e si annulla nel rimirarla].
21. L’uno si gloria della sua servitù, l’altra del suo comando; lei si gloria di se
stessa, lui dell’amata. «Rivolgi, deh rivolgi – diceva il cavaliere – verso di me quegli
occhi con i quali rendi beati coloro a cui rivolgi i tuoi sguardi, perché i miei incendi
d’amore, se tu non lo sai, sono l’autentico ritratto delle tue bellezze [cioè: i miei
ardori riflettono le tue bellezze meglio di quanto possa fare lo specchio]; il mio cuore
(il mio seno) riflette la loro forma, la loro meraviglia più pienamente del tuo
specchio.
22. Deh! Poiché ti rifiuti di guardare me, potessi tu almeno vedere quanto è bello
il tuo volto; perché il tuo sguardo, che non può appagarsi guardando gli altri,
gioirebbe della sua contemplazione. Uno specchio non può restituire una immagine
così dolce, né il paradiso delle tue bellezze può essere interamente contenuto in un
piccolo specchio: l’unico specchio degno di te è il cielo e solo nel cielo stellato puoi
vedere rispecchiate le tue belle forme». [In queste ottave, che hanno al loro centro
l’immagine dello specchio, Tasso sfrutta alcune variazioni concettose di questo tema
tradizionale in poesia, già presente in Petrarca, quindi in Sannazaro e altri poeti del
Cinquecento, e ripreso da Tasso stesso anche nelle Rime. Questo tema avrà poi un
successo particolare nella lirica barocca].
23. Armida ride a queste parole ma non per questo smette di specchiarsi e di farsi
bella. Dopo che ebbe intrecciate le chiome e pettinato i capelli che prima aveva
lasciati liberi al vento, arricciò i capelli sottili e sui riccioli, come desse lo smalto
colorato su un fondo d’oro, li cosparse di fiori, e aggiunse rose rare (peregrine) ai
gigli naturali del petto [al candore naturale]; quindi ricompose il velo [che all’inizio
della scena aveva aperto sul seno].
24. [Doppia similitudine: con il pavone spiega la ruota della sua coda, che viene
detta «occhiuta» perché i disegni che appaiono sulle piume sembrano occhi: Infatti
conservano la traccia dei cento occhi di Argo, il mostro che Giunone trasformò
appunto in pavone. Altra similitudine con l’arcobaleno che indora e imporpora
(inostra) il suo arco dopo la pioggia]. Ma bello sopra ogni altro ornamento mostra la
cintura che indossa sempre, anche quando è nuda. Quando lo fece, rese corporee cose
che corpo non hanno; mischiò elementi (tempre) che non è consentito a nessun altro
mescolare.
25. [Elenca gli elementi che compongono la cintura] Dolci durezze [ossimoro], e
rifiuti (repulse) placide e tranquille [altro ossimoro], e vezzeggiamenti affettuosi e
liete rappacificazioni, parole dette sorridendo (sorrise parolette) e dolci lacrime, e
sospiri interrotti, e molli baci: fuse insieme tutte queste cose, poi le unì e le temprò a
fuoco lento (lente faci), e ne formò una così stupefacente cintura della quale il suo bel
fianco andava fasciato.
26. Posto fine alla contemplazione di se stessa, si congeda da lui, e lo bacia, e si
allontana. Com’è suo uso, durante il giorno esce dal giardino e si occupa dei suoi
affari, delle sue carte magiche. Egli invece rimane, perché a lui non è consentito
muovere passo (por orma) o trascorrere anche un solo momento da un’altra parte, e si
aggira tra gli animali e le piante come un amante solitario, tranne che quando è con
lei.
27. Ma quando l’oscurità, coi silenzi complici (amici) richiama ai loro amori
furtivi (i furti lor), gli accorti amanti trascorrono le felici ore notturne sotto uno stesso
tetto dentro quei giardini. Ma dopo che, rivolta ad affari più severi, Armida ebbe
lasciato il giardino e i suoi divertimenti, i due [Carlo e Ubaldo], che erano nascosti tra
i cespugli si scoprirono alla sua vista armati di tutto punto.
28. Come un cavallo bellicoso (feroce) che sia sottratto al faticoso onore dei
combattimenti, e ridotto alla funzione di stallone (lascivo marito) erri libero in vile
riposo fra le mandrie e nei pascoli, se lo risveglia dal suo torpore o uno squillo di
tromba o il balenare di un’armatura (luminoso acciar), si volta verso quel punto
nitrendo, e già brama il campo di battaglia (l’arringo) e brama, urtato dall’avversario,
riurtarlo, mentre corre portando in sella il suo cavaliere,
29. tale si fece il giovane (garzon: Rinaldo) quando all’improvviso il balenare
delle armi [dei due compagni] percosse i suoi occhi. Così quel suo spirito guerriero,
quel così fiero spirito ardente, a quel balenare si riscosse tutto, benché languendo tra
le mollezze degli agi e tra i piaceri fosse come inebriato e assopito. Intanto Ubaldo si
fa avanti, e rivolge verso di lui lo scudo d’acciaio, lucido come diamante.
30. Rinaldo rivolge lo sguardo verso il lucido scudo e in questo modo si specchia
vedendo il suo aspetto autentico (qual siasi) e vedendo come sia vestito con eleganza
estrema; i suoi capelli e il suo manto emanano profumi voluttuosi (odori e lascivie), e
vede di portare la spada (ferro) accanto a un lusso troppo effeminato: è vestito in
modo talmente raffinato (guernito) che la spada sembra un inutile ornamento, non un
militare strumento di guerra.
31. Come un uomo che, oppresso da un cupo e pesante sonno, torna in sé dopo un
lungo vaneggiare, tale egli ritornò nel rivedere se stesso, ma non sopporta di vedersi
[ridotto così]; gli cade lo sguardo in basso, e timido e umiliato, guardando a terra, è
sopraffatto dalla vergogna. Vorrebbe sprofondare (si chiuderebbe) sotto il mare e
dentro il fuoco per nascondersi, e fin giù nel centro della terra.
[Notare come lo specchio sia, nelle scene precedenti (ottave 20-22), uno
strumento di voluttà e vanità, di lussuria peccaminosa, mentre lo scudo che compare,
in funzione di specchio, nelle ottave 29-31, è strumento di verità e di pentimento:
presiede alla conoscenza di se stessi. Tasso esplora, cioè, la duplice valenza di questo
oggetto dalle forti, e contraddittorie, valenze simboliche.]

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