Sei sulla pagina 1di 12

1

Alessandra Di Ricco

Lectura Dantis: Inferno XIX

Siamo nella terza bolgia, nella quale si trovano gli ecclesiastici corrotti. Sono
ficcati a testa in giù in pozzetti circolari. Dante incontra papa Niccolò III, che
preannuncia la morte e la dannazione dei suoi due successori sul soglio pontificio:
Bonifacio VIII (morto nel 1303) e Clemente V (morto nel 1314).

Il peccato punito nella terza bolgia è la simonia, ovvero la vendita o l’acquisto di


beni spirituali (le cose di Dio del v. 2), come sono in primo luogo le cariche
ecclesiastiche. Il nome simonia deriva da Simon Mago, un tale, di cui ci parlano gli
Atti degli Apostoli, che di mestiere esercitava con successo le arti magiche tra la gente
di Samaria. Simone, rimasto a sua volta incantato dai prodigi operati dagli apostoli,
dopo essersi fatto battezzare, chiese a san Pietro di vendergli il potere di comunicare
lo Spirito Santo con l’imposizione delle mani, come aveva appunto visto fare
all’apostolo, e per questa richiesta sacrilega (“Hai creduto di acquistare il dono di Dio
col denaro”) san Pietro lo maledisse. Gli Atti degli Apostoli lasciano aperta la
possibilità di un ravvedimento di Simone, il quale dopo la lavata di capo di san Pietro
sembrerebbe quasi pentito. Ma la tradizione successiva (gli apocrifi Atti di Pietro) ce
lo mostrano invece perseverante nel suo volersi mostrare dotato di superpoteri: a
Roma provocò san Pietro dicendo che era in grado di volare, e all’inizio ci riuscì,
sorretto nel sollevamento dai demoni. Quando però le preghiere del santo scacciarono
i demoni, Simone precipitò rovinosamente a terra. La scena della caduta di Simone
mollato a terra dai diavoli è la più diffusa nell’iconografia del personaggio, e questo
spiega perché Dante abbia scelto per i seguaci del mago la postura a testa in giù:
perché evoca immediatamente la caduta a capofitto di colui che dà nome al peccato.

La caduta a capofitto rinvia però allo stesso tempo e con altrettanta


immediatezza alla caduta per eccellenza che determina la geografia fisica e morale
dell’oltretomba dantesco: la caduta a testa in giù di Lucifero precipitato dall’Empireo,
caduta generatrice della voragine infernale. E quando Dante, dopo essere passato
oltre il centro della terra avvinghiato al collo di Virgilio ed essere stato depositato da
Virgilio nell’altro emisfero, guarda in su e vede l’altra metà del corpo dell’imperatore
del doloroso regno, è colpito dal vederne le gambe per aria: Io levai li occhi e credetti
vedere / Lucifero com’io l’avea lasciato, / e vidili le gambe in su tenere (XXXIV, 88-
90): cosicché il Lucifero che gli sembra capovolto rispetto alla posizione in cui
l’aveva osservato prima di superare il centro della terra gli appare in una postura
“simoniaca”, evocata anche attraverso certi termini che Dante qui usa: chiama zanche
2

(XXXIV, 79) le gambe di Lucifero, come aveva chiamato zanca la gamba agitata di
papa Niccolò (XIX, 45), e impiega l’espressione grosso de l’anche (XXXIV, 77), per
designare l’attaccatura delle cosce, riprendendo un vocabolo, grosso, che aveva
impiegato anche nel canto XIX (vv. 23-24: de le gambe infino al grosso) per
significare le cosce dei dannati.

Ma già dalla prima apparizione di Lucifero, quella del busto conficcato del
ghiaccio di Cocito, era scaturita un’immagine simoniaca: quella di Giuda, che dei tre
peccatori maciullati dalle sue tre bocche (gli altri due sono Bruto e Cassio, i traditori
di Cesare) è il solo che ’l capo ha dentro e fuor le gambe mena (XXXIV, 63): la sua
pena, cioè, richiama quella dei simoniaci in quanto Giuda tradì Cristo per denaro.

Ma torniamo in Malebolge per inquadrare un po’ meglio la natura del peccato di


cui si sono macchiati i seguaci di Simon Mago. La simonia è anzitutto un peccato di
frode, e per questo i suoi adepti stanno benissimo dove stanno, cioè tra gli ingannatori
di varia specie di Malebolge. I teologi, a cominciare da Tommaso, concordavano nel
definire la simonia studiosa voluntas emendi et vendendi aliquid spirituale vel
spirituali annexum, definizione in cui l’accento cade appunto su studiosa, cioè
deliberata volontà di comprare e vendere beni spirituali o annessi alle cose spirituali,
il che implica la lucida messa in opera di raggiri e maneggi ai danni delle proprie
vittime da parte di ingannatori professionali (com’era appunto Simon Mago). È Dante
stesso però a sottolineare, ai vv. 112-114, come il comportamento dei simoniaci sia
fondato sull’avarizia (intesa nel senso consueto e classico di cupidigia) e di
un’avarizia che sconfina nell’idolatria, e dunque nell’eresia: rivolto ai pastori della
chiesa, responsabili, com’è noto, della prostituzione della sposa di Cristo coi re (il
celebre puttaneggiar coi regi del verso 108), Dante li rampogna così:

Fatto v’avete dio d’oro e d’argento;


e che altro è da voi all’idolatre,
se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?

I papi simoniaci sono equiparati ai biblici adoratori del vitello d’oro, puniti
duramente da Dio per mano di Mosè, ma il paragone è addirittura peggiorativo
poiché non uno ma cento sono gl’idoli dei papi, cioè infiniti come il numero delle
monete: il loro dio è il denaro. Del resto la teologia, il pensiero di molti esponenti del
cristianesimo antico, assimila la simonia a una forma di eresia, e san Tommaso la
ritiene tale dal momento che il simoniaco pretende di essere il dominus, il
proprietario, dei doni spirituali. Dante insinua l’analogia con gli eretici anche
attraverso altri particolari: chiama i simoniaci seguaci (v. 1) di Simon Mago così
come aveva chiamato seguaci dei fondatori di sette, gli eretici (IX, 128 e X, 14), e poi
3

nella pena di entrambe le categorie di peccatori mette gli ingredienti del fuoco e
dell’imprigionamento in contenitori di pietra: gli eretici stanno in sepolcri arroventati
e i simoniaci in pozzetti scavati nel fondo e nei fianchi di pietra della bolgia, coi piedi
sporgenti lambiti da fiamme che bruciano senza tuttavia consumare la carne. Sia del
sesto cerchio che della terza bolgia ci viene fatto poi notare il grande affollamento.
Virgilio segnala a Dante che le tombe sono molto più carche di eretici di quanto lui
non creda (IX, 128-129) e i fianchi e il fondo della bolgia appaiono a Dante pieni di
fori (XIX, 13-14) e il fondo foracchiato e arto (v. 42), pieno di buchi e stretto, cioè
con pochissimo spazio lasciato libero, perché appunto di tutti quei fori c’è bisogno.

Non occorre sottolineare, tanto sono evidenti, i segnali che riportano il peccato
di simonia alla sua matrice principale, l’avarizia. Il lessico che fa riferimento alla
cupiditas è insistente. L’oro e l’argento visti al v. 112 balzano in primo piano fin
dall’esordio, in un giro di frase che è tutto un condensato di avarizia: e voi rapaci
/per oro e per argento avolterate (vv. 3-4): avolterate le cose di Dio. Avolterare
significa adulterare nel senso di fare oggetto di adulterio (su questo significato
tornerò subito), e anche il secondo significato di questo verbo, prevalente nell’italiano
moderno, “alterare, corrompere”, è quanto mai pertinente al campo semantico della
cupiditas, poiché si adulterano le monete e le merci al solo fine di guadagnare di più,
con la frode. Tra i sostantivi, si collegano alla cupidigia: l’aver (v. 55), l’avere e la
borsa (v. 72), la moneta (v. 98), la dote (v. 116); e tra gli aggettivi: rapaci (v. 3),
sazio (v. 55), cupido (v. 71), ricco (v. 117).

Ancora in rapporto all’avarizia, possiamo osservare che i simoniaci, ficcati a


faccia in giù nei loro buchi, sono irriconoscibili alla vista. Gli avari del quarto cerchio
– anch’essi, sia detto per inciso, gente più che oltrove troppa (VII, 25) – sono tutti,
come spiega Virgilio, chierici, papi e cardinali, cioè, come ancora spiega Virgilio, le
categorie in cui usa avarizia il suo soperchio, cioè si esplica al massimo grado (VII,
46-48), ma la sconoscente vita che i fé sozzi, / ad ogne conoscenza or li fa bruni (VII,
53-54): immondi moralmente in vita, la sporcizia li rende ora materialmente
irriconoscibili. Per vedere in faccia un avaro (naturalmente un papa: Adriano V),
Dante dovrà aspettare di trovarne uno pentito, nella quinta cornice del Purgatorio
(XIX, 76-126).

Torniamo a avolterare. L’idea dell’adulterio nasce dalla metafora che Dante usa
dicendo che le cose di Dio devono essere spose di bontate, per cui di conseguenza
non si possono vendere e comprare come si vendono e comprano le prostitute:
4

O Simon mago, o miseri seguaci


che le cose di Dio, che di bontate
deon essere spose, e voi rapaci

per oro e argento avolterate (XIX, 1-4)

Nella tradizione cristiana la chiesa è la sposa di Cristo, e Pietro Alighieri nel suo
commento alla Commedia attribuisce a san Tommaso l’idea che qui Dante fa propria,
che la simonia consista nel concedere la chiesa ad altri che non sono il suo legittimo
sposo: Simoniacus procurat quod ecclesia, quae est sponsa Christi, de alio gravida
sit quam de sponso. I papi, in quanto rappresentanti di Cristo in terra, sono chiamati
da Dante mariti della chiesa, ma la chiesa nelle mani di questi mariti simoniaci
diventa prostituta, venduta com’è da loro ai regi, e perciò si identifica colla magna
meretrix descritta nell’Apocalisse:

Di voi pastor s’accorse il Vangelista,


quando colei che siede sopra l’acque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;

quella che con le sette teste nacque,


e da dieci corna ebbe argomento,
fin che virtute al suo marito piacque (XIX, 106-111)

(le sette teste e le dieci corna della chiesa non ancora degenerata sono i sette doni
dello spirito santo – sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, timore di
dio – e i dieci comandamenti).

Dunque, ricapitolando, la simonia è generata dall’avarizia, si esercita in forma di


frode, si avvicina all’eresia ed è assimilata all’adulterio. Ad esercitarla sono gli
ecclesiastici, e gli ecclesiastici che la esercitano sono, come ci dice il gran numero di
buchi, moltissimi. Le fiamme che lambiscono a tutti i piedi fanno pensare a una
grottesca parodia delle fiamme dello spirito santo che si posarono sugli apostoli,
parodia coerente con l’uso, diciamo così, “pedestre” (nel senso di rivolto a terra
anziché al cielo) che i simoniaci hanno fatto dei doni dello spirito santo. E in questo
si può vedere un possibile contrappasso.

È probabile che nei pozzi gli ecclesiastici siano distribuiti a seconda del grado
gerarchico, così come tra gli eretici sussiste una distinzione in categorie. Ma Dante
non ce lo precisa, e il suo resoconto si concentra sul solo pozzetto destinato ai papi, i
maggiori responsabili della degenerazione della chiesa. Guardando giù, dall’alto del
ponticello che sovrasta la bolgia, è attratto da un paio di gambe che guizzano più
5

frenetiche delle altre, e dalla fiamma che avvolge quei piedi, che è più rossa delle
altre (vv. 32-33). La fiamma che il cristiano dovrebbe accogliere nella propria anima
è quella dell’ardore di carità, che dunque non sta sui piedi, mentre sui piedi stanno
invece le calze rosse che i papi indossavano già allora. Ma Dante ancora non sa che
quello è il pozzetto dei papi. Sceso, nel modo che diremo, sul fondo della bolgia e
accostatosi al pozzetto, si rivolge al dannato in maniera che questi, pur senza vederlo,
capisca che sta parlando a lui:

«O qual che se’ che ’l di su tien di sotto,


anima trista come pal commessa»,
comincia’ io a dir, «se puoi, fai motto» (vv. 46-48)

Dante è qui davvero rude nei confronti del dannato: gli rinfaccia in modo
alquanto perfido e brusco la ridicola, inelegante e certo non comoda postura: «O tu
che tieni la testa al posto dei piedi, anima peccatrice piantata come un palo, se ce le
fai a parlare, parla!». Questa aggressività verbale, tuttavia, non turba minimamente
l’apostrofato, che anzi la scambia per una normale loquela da papa, se in quel genere
di eloquio papa Niccolò crede di riconoscere il suo successore. Viene da pensare che i
papi adoperassero allora un linguaggio assai poco diplomatico e paludato. Dante poi
descrive se stesso mentre si rivolge al dannato:

Io stava come ’l frate che confessa


lo perfido assessin, che, poi ch’è fitto,
richiama lui per che la morte cessa (vv. 49-51)

La similitudine prosegue la cattiveria di Dante, il quale paragona la posizione in


cui si trova il dannato a quella dell’assassino condannato alla propagginazione, cioè
alla morte per seppellimento o annegamento a testa in giù in una buca dove veniva
versata l’acqua. Dante si mette nella posizione del frate che è richiamato
dall’assassino già fitto nella buca, il quale assassino, pur non credendo (perfido
significa “senza fede”), lo attira vicino a sé col pretesto della confessione, perché in
tal modo la morte cessa, cioè scansa la morte, rinvia il momento della morte, sia pure
di poco.

E a questo punto abbiamo la celeberrima evocazione di Bonifacio VIII:

Ed el gridò: «Se’ tu già costì ritto,


se’ tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto (52-54)
6

Dante, come sappiamo, colloca il suo viaggio oltremondano nel 1300, l’anno del
giubileo indetto appunto da Bonifacio, che morirà però tre anni dopo. Per risolvere il
problema cronologico che gli impedirebbe di condannare l’odiatissimo Bonifacio,
Dante mette in scena questa commedia degli errori. Il personaggio che parla crede
che il libro del futuro, nel quale i dannati leggono, gli abbia mentito, posticipando di
tre anni la venuta del suo successore. Il riconoscimento è sbagliato, ma non così
l’accusa che definisce il peccato infame di cui papa Bonifacio si è macchiato:

Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio


per lo qual non temesti tòrre a ’nganno
la bella donna, e poi di farne strazio?» (55-57)

La terzina è tutta all’insegna del disprezzo per l’incontenibile cupidigia del papa,
per quella brama di ricchezza per la quale ha sposato la chiesa (cioè è diventato papa:
tòrre la donna vuol dire prendere in moglie, mulierem ducere) con l’inganno, e poi
ha fatto strazio, nel modo che sappiamo, della sposa. L’inganno di cui parla Dante è
allusione ai maneggi che il cardinale Benedetto Caetani, il futuro Bonifacio VIII,
mise in atto per aprirsi la strada al soglio pontificio, e in particolare alle pressioni nei
confronti di papa Celestino al fine di indurlo ad abdicare (come fece nel 1294, dopo
solo pochi mesi di pontificato).

Per coinvolgere nell’accusa di simonia anche Clemente V, anche lui ancora in


vita alla data del viaggio, Dante mette in bocca al dannato una profezia. Dopo
Bonifacio verrà a piantarsi in questo buco un papa ancor peggiore:

… verrà di più laida opra,


di ver’ ponente, un pastor sanza legge
tal che convien che lui e me ricuopra.

Nuovo Iasòn sarà, di cui si legge


ne’ Maccabei; e come a quel fu molle
suo re, così fia lui chi Francia regge (vv. 82-87)

Bertrand de Got, originario della Guascogna (per questo proveniente da


ponente), divenne papa nel 1305 col nome di Clemente V grazie all’aiuto del re di
Francia, Filippo il Bello. Dante lo paragona a Giasone perché, come si narra nel libro
dei Maccabei, Giasone acquistò la carica di sommo sacerdote dal re Antioco.
Giovanni Villani racconta che Bertrand de Got avrebbe pagato l’appoggio ricevuto da
Filippo il Bello con il provento quinquennale delle decime, che la chiesa dovrebbe
destinare ai poveri, e che fu sempre accondiscendente nei confronti dei voleri politici
del re di Francia (la cattività avignonese comincia sotto di lui. nel 1309). Si entra qui
7

nel campo di quella commistione tra potere spirituale e potere temporale, causa della
degenerazione della chiesa, di cui Dante vede l’origine nella Donazione di
Costantino, condannata nella terzina nella quale culmina una invettiva contro il
governo corrotto della chiesa insolitamente lunga, che occupa, a partire dal v. 90, ben
27 versi:

Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,


non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre! (115-117)

Dante si riferisce come è noto al documento con il quale l’imperatore faceva


dono a papa Silvestro I dell’autorità sovrana su Roma per ringraziarlo di averlo
guarito dalla lebbra. Nel trattato della Monarchia, dove la questione è affrontata dal
punto di vista dell’impero, Dante sostiene che quell’atto, pur da lui ritenuto autentico,
non ha valore giuridico perché l’autorità imperiale non si può alienare neppure in
parte. Nella Commedia Dante giudica invece solo gli effetti nefasti di quella “dote”
caricata sul matrimonio tra la chiesa e il papa. E evidenzia i risvolti simoniaci di
quell’atto: la guarigione dalla lebbra avrebbe dovuto essere un dono gratuito da parte
del papa. La facoltà di operare guarigioni miracolose è un carisma concesso da Dio:
lo si esercita senza averne niente in cambio. E infatti San Pietro, il primo dei
pontefici, aveva rifiutato il denaro di Simon Mago che voleva acquistare da lui il
carisma della comunicazione dello spirito santo.

Bonifacio è l’unico tre papi chiamati in causa da Dante di cui viene pronunciato
il nome. Niccolò designa se stesso attraverso una perifrasi: dice che fu papa (sappi
ch’i’ fu vestito del gran manto, v. 69) e per farsi riconoscere aggiunge di essere stato
figliuol de l’orsa, cioè della famiglia degli Orsini, una metafora onomastica che si
presta bene allo scopo di Dante, poiché dell’orsa erano proverbiali l’attaccamento alla
prole e la golosità, che nel comportamento del papa Orsini si traducono in nepotismo
e in cupidigia:

e veramente fui figliuol de l’orsa,


cupido sì per avanzar gli orsatti,
che sù l’avere e qui me misi in borsa (vv. 70-72)

Avanzar gli orsatti significa favorire la carriera dei parenti, mentre l’ultimo
verso è un calembour intorno alla parola borsa, che ne primo caso è il borsellino e nel
secondo la bolgia (tasca, borsa): sulla terra ho messo nella borsa i soldi, qui ho
rinchiuso me stesso nella borsa: il tutto per effetto dichiarato della cupiditas ingenita
nella sua stirpe.
8

Dopo aver detto chi è, l’Orsini spiega che tra i simoniaci c’è una specie di
staffetta: chi arriva si infila nel buco spingendo più giù chi stava colle gambe fuori.
Sotto la testa di Niccolò ci sono dunque i simoniaci che lo hanno preceduto, appiattiti
nelle fessure della pietra:

Di sotto il capo mio son li altri tratti


che precedetter me simoneggiando,
per le fessure de la pietra piatti (vv. 73-75)

Niccolò non solo sa che questo sarà anche il suo destino e sa quali papi gli
subentreranno nella pena, ma conosce anche la data dei loro arrivi, per cui profetizza
che Bonifacio starà sottosopra coi piedi infuocati per un tempo inferiore a quello che
lui ha già passato in quella posizione. Bonifacio sarà infatti a sua volta spinto in basso
da un altro papa, ancor peggiore, venuto da ponente:

Ma più è ’l tempo già che i piè mi cossi


e ch’i’ son stato così sottosopra,
ch’el non starà piantato coi piè rossi:

ché dopo lui verrà di più laida opra,


di ver’ ponente, un pastor senza legge,
tal che convien che lui e me ricuopra (vv. 79-84)

Papa Orsini era morto nel 1280. Dante pone il loro colloquio nel 1300. Sono
dunque venti anni che è lì capovolto, e profetizza che Bonifacio starà in quella stessa
posizione per un periodo inferiore a quanto c’è stato lui. Poiché Bonifacio muore nel
1303, la profezia dice che Clemente VII morirà prima nel 1323.

Poiché è improbabile che Dante azzardasse un giudizio inappellabile su un papa


ancora in vita, per il quale non poteva escludere tassativamente qualsiasi possibilità di
redenzione, occorre pensare che questo episodio sia stato scritto dopo l’aprile del
1314, quando Clemente VII morì. Il che significa che l’Inferno, steso probabilmente
tra il 1307 e il 1309, rimase fino al 1314 disponibile agli interventi e alle correzioni
dell’autore.

Ci sono alcuni passaggi di questo canto che hanno fatto discutere gli interpreti e
che vanno, nei limiti del possibile, chiariti. Il primo è relativo alla notizia
autobiografica che Dante inserisce ai vv. 16-21, quando per spiegare come sono fatti i
fori dei simoniaci dice che hanno la stessa dimensione di quelli che nel battistero di
San Giovanni a Firenze sono fatti per loco de’ battezzatori (v. 18), uno dei quali fu da
lui rotto per salvare qualcuno che vi stava affogando. Dante inserisce il riferimento
9

autobiografico per allontanare da sé l’accusa, evidentemente avanzata contro di lui


dai suoi avversari politici, di aver compiuto un gesto sacrilego. Si è discusso a lungo
se si debba leggere battezzatóri o battezzatòri, cioè se si parli di fonti battesimali o di
preti battezzatori. La questione è stata risolta da Mirko Tavoni che in un saggio del
1992 ha dimostrato che non si tratta di preti ma di anfore di terracotta contenenti
l’acqua per il battesimo che venivano inserite in fori praticati nel pavimento, come
mostrato da alcune fonti iconografiche. Dante dunque non dice di aver rotto un foro,
che sarebbe un’espressione stravagante, ma uno dei battezzatòri, cioè delle anfore,
posto in uno dei fori.

Un altro luogo appare strano: quando Virgilio, ai vv. 34-35, si offre di


trasportare Dante sul fondo della bolgia che al momento stanno osservando dall’alto;
e infatti lo trasporta come se fosse un bambino, tenendolo stretto all’anca, come si
legge ai vv. 43-45:

Lo buon maestro ancor de la sua anca


non mi dispuose, sì mi giunse al rotto
di quel che si piangeva con la zanca.

Cioè: Virgilio non mi depose dalla sua anca finché non mi posò al foro di quello che
piangeva con la gamba.

Anche nella risalita al ponte successivo Dante viene trasportato, stavolta stretto
al petto di Virgilio, come fosse un bambino e depositato con cura solo quando sono
arrivati:

Però con ambo le braccia mi prese;


e poi che tutto su mi s’ebbe al petto,
rimontò per la via onde discese.

Né si stancò d’avermi a sé distretto,


sì men portò sovra ’l colmo de l’arco
che dal quarto al quinto argine è tragetto (vv. 124-129)

Di contatti fisici tra Dante e Virgilio se ne incontrano molti, e l’atteggiamento


materno di Virgilio nei confronti di Dante è sottolineato esplicitamente ad esempio
nel trasbordo che serve alla fuga dai Malebranche (XXIII, 37-51), nel quale Virgilio
si lascia cadere supino scivolando nella sesta bolgia con Dante avvinghiato al petto.
Quando, come in questi casi, Virgilio si comporta fisicamente da madre che trasporta
il bambino, occorre immaginare un Dante rimpicciolito, altrimenti quei trasbordi
sarebbero poco credibili. Dante, cioè, applica alla sua rappresentazione la norma
10

iconografica che nel medioevo faceva dipingere più piccoli i personaggi


gerarchicamente inferiori. In questo modo rende omaggio al maestro e insieme se ne
mostra il “figlio prediletto”, che Virgilio conduce con amore materno.

Non a caso in questo canto Dante rimarca a più riprese il suo esprimersi da
poeta: lo fa ricordandoci che parla col linguaggio proprio della poesia, un linguaggio
misurato ritmicamente come quello della musica: i’ pur rispuosi lui a questo metro
(v. 89); e mentr’io li cantava cotai note (v. 118); lo suon delle parole vere espresse
(v. 123). Ma soprattutto il suo ruolo di poeta Dante lo afferma con prepotenza già
subito all’interno dell’esecrazione iniziale, esecrazione che presenta alcune
caratteristiche proprie del genere epico, cioè del genere di poesia di cui è maestro
Virgilio: è una protasi, cioè una enunciazione del tema, tema per il quale, dice Dante,
si conviene la tromba, cioè il classico attributo della poesia più alta e solenne:

O Simon mago, o miseri seguaci


che le cose di Dio, che di bontate
deon esser spose, e voi rapaci

per oro e per argento avolterate,


or convien che per voi suoni la tromba,
però che nella terza bolgia state (vv. 1-6)

Questa tromba (sia che il suoni del v. 5 sia la terza oppure la prima persona del
verbo) evoca anche altri significati che torneranno nel canto: allude in primo luogo
alla vox magna tamquam tuba, la voce potente come una tromba che parla a san
Giovanni nell’Apocalisse. E infatti il canto XIX è un canto profetico.

Il canto dei simoniaci ha avuto una parte rilevante, lungo i secoli, nella varia
fortuna di Dante (per riprendere il titolo del bel saggio di Carlo Dionisotti, Varia
fortuna di Dante, in Id., Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi,
1967). E non poteva essere altrimenti, dato che il tema di questo canto è la corruzione
della chiesa e la responsabilità che in essa hanno avuto i papi. A determinare la varia
fortuna della Commedia furono, lungo i secoli, ragioni di gusto letterario e ragioni
politiche, di solito intrecciate tra di loro. Da ricordare è in primo luogo il rimprovero
fatto a Dante, rimprovero che parte dal Bembo e che si perpetua fino al Settecento, di
avere usato uno stile duro e difficile, parole «rozze, durissime, immonde», alle quali i
poeti dovevano preferire la dolcezza senza tempo del linguaggio lirico di Petrarca. E
quanto alle ragioni politiche e morali, i motivi di consenso e di dissenso nascevano
dalla imprescindibile motivazione politica e morale della scrittura dantesca.
11

Possiamo richiamare, per concludere, due esempi relativi alla fortuna


settecentesca del canto XIX della Commedia. Il primo, come si vedrà, verte sulla
forma letteraria, l’altro sul contenuto. Sono esempi settecenteschi perché è a partire
dal Settecento che si assiste, grazie in particolare a una ripresa delle edizioni, a un
sensibile ritorno di interesse per la Commedia, interesse che varca i confini della
Toscana, dove l’amore per Dante si era più o meno sempre conservato. La citazione
che segue appartiene al Trattato della satira italiana di un letterato pratese, Giuseppe
Bianchini, che lo pubblica nel 1714. Per questo autore, erede e portavoce del radicato
culto dantesco toscano, Dante è il principe della satira italiana, e ne sono
dimostrazione certi canti della Commedia, primo fra tutti il XIX:

Si consideri pure il Canto 19 dell’Inferno, e si vedrà con quale spirito e veemenza


poetica egli si scagli sul principio contra i simoniaci, e poi con che giudiciosa
esclamazione alla Divina Sapienza si volga, la giustizia di lei ornando: si vedrà
altresì come egli, con naturalezza e con forza insieme di poetica satirica eloquenza,
quelle pene da esso immaginate descriva le quali nel suo Inferno tormentano i
simoniaci: si potrà altresì considerare come maestrevolmente egli faccia dire ad uno
di quei dannati chi egli sia, e per qual cagione fosse nell’eterna prigione racchiuso;
e ammirabili finalmente saranno mai sempre giudicati tutti quei versi che sono nel
terzetto che comincia

Io non so, se i’ mi fui qui troppo folle,

fino all’altro, che comincia

I’ credo ben, che al mio duca piacesse

perciocché in essi il poeta con una forte maniera, e piena, dirò così, di fiele con aloè
mescolato, va a quell’anima dannata gli atroci falli di lei rampognando; e or qua, or
là adopra parole fiere ed aspre, e proprie de’ sentimenti; e dove la bisogna lo vuole,
lega i versi con una commettitura massiccia, gagliarda, e degna del satirico; ed alle
volte ancor egli sceglie alcune rime, come veramente di quando in quando deesi fare,
che ben dimostrano il torvo spirito del poeta riprenditore.

Come si sente, giocando sul fatto che la veemenza poetica è giustificata dallo
stile satirico prescelto, Bianchini accetta in pieno le rampogne dantesche contro gli
atroci falli dei papi, senza lasciarsi sfiorare da alcuna remora confessionale.

Ben diversamente questo canto (e l’intera Commedia) venivano letti dal padre
Pompeo Venturi, anche lui toscano (senese), ma gesuita. Al padre Venturi i seguaci
di Sant’Ignazio, preoccupati dal revival editoriale dantesco di quegli anni,
12

commissionano il commento alla Commedia che si pubblica a Lucca nel 1732,


commento nel quale tutti i luoghi confessionalmente problematici sono oggetto di
miratissima cura. Così, al nome di Bonifazio, padre Venturi annota:

Maliziosa invenzione di dir male di chi ancora secondo lui viveva, e però non poteva
trovar nell’Inferno. Bonifazio VIII detto prima Benedetto d’Anagni uomo di
grand’animo, e di gran mente, ma pure tacciato come ambizioso di signoreggiare, e
d’aver usato per questo fine arti non del tutto buone e lodevoli; benché non
manchino Scrittori che ciò negano, e lo giustifichino.

Le testimonianze degli Scrittori qui citate, Venturi non le allega.

E poi, al nome di Niccolò III:

Niccolò III della famiglia Orsini di Roma, di cui benché Dante conforme il suo stile
ne parla con poca riputazione, gli Scrittori più autorevoli lodano la capacità,
l’integrità, e la religione.

Anche qui di quali Scrittori si parli non è dato sapere.

E riguardo alla magna meretrix, allusa ai vv. 106-108:

Dante empiamente intende qui nell’infame donna la Dignità Pontificia, come


residente in Roma, e per meglio dire gli stessi Pontefici simoniaci, come residenti in
Roma loro sede, e non già la Santa Chiesa Cattolica, come facendolo più sacrilego,
spiegano i poco cauti Commentatori.

E infine, chiosando il v. 109: quella che con le sette teste nacque:

Qui Dante imbroglia il Sacro Testo [segue la dimostrazione e prosegue:] Questa pare
essere stata la mente di Dante, il quale non può scusarsi dalla taccia di temerario, di
scandaloso, e di peggio, mentre a bella posta variò il Sacro Testo, affinché
s’intendesse più facilmente di Roma Cattolica, conforme l’intendono gli Eretici, che
stoltamente si abusano di tal Testo contro di lei.

E con questa immagine, di un Dante che padre Venturi manderebbe volentieri a


far compagnia ai seguaci di Epicuro, concludiamo la nostra lettura.

Potrebbero piacerti anche