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Alessandra Di Ricco
Siamo nella terza bolgia, nella quale si trovano gli ecclesiastici corrotti. Sono
ficcati a testa in giù in pozzetti circolari. Dante incontra papa Niccolò III, che
preannuncia la morte e la dannazione dei suoi due successori sul soglio pontificio:
Bonifacio VIII (morto nel 1303) e Clemente V (morto nel 1314).
(XXXIV, 79) le gambe di Lucifero, come aveva chiamato zanca la gamba agitata di
papa Niccolò (XIX, 45), e impiega l’espressione grosso de l’anche (XXXIV, 77), per
designare l’attaccatura delle cosce, riprendendo un vocabolo, grosso, che aveva
impiegato anche nel canto XIX (vv. 23-24: de le gambe infino al grosso) per
significare le cosce dei dannati.
Ma già dalla prima apparizione di Lucifero, quella del busto conficcato del
ghiaccio di Cocito, era scaturita un’immagine simoniaca: quella di Giuda, che dei tre
peccatori maciullati dalle sue tre bocche (gli altri due sono Bruto e Cassio, i traditori
di Cesare) è il solo che ’l capo ha dentro e fuor le gambe mena (XXXIV, 63): la sua
pena, cioè, richiama quella dei simoniaci in quanto Giuda tradì Cristo per denaro.
I papi simoniaci sono equiparati ai biblici adoratori del vitello d’oro, puniti
duramente da Dio per mano di Mosè, ma il paragone è addirittura peggiorativo
poiché non uno ma cento sono gl’idoli dei papi, cioè infiniti come il numero delle
monete: il loro dio è il denaro. Del resto la teologia, il pensiero di molti esponenti del
cristianesimo antico, assimila la simonia a una forma di eresia, e san Tommaso la
ritiene tale dal momento che il simoniaco pretende di essere il dominus, il
proprietario, dei doni spirituali. Dante insinua l’analogia con gli eretici anche
attraverso altri particolari: chiama i simoniaci seguaci (v. 1) di Simon Mago così
come aveva chiamato seguaci dei fondatori di sette, gli eretici (IX, 128 e X, 14), e poi
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nella pena di entrambe le categorie di peccatori mette gli ingredienti del fuoco e
dell’imprigionamento in contenitori di pietra: gli eretici stanno in sepolcri arroventati
e i simoniaci in pozzetti scavati nel fondo e nei fianchi di pietra della bolgia, coi piedi
sporgenti lambiti da fiamme che bruciano senza tuttavia consumare la carne. Sia del
sesto cerchio che della terza bolgia ci viene fatto poi notare il grande affollamento.
Virgilio segnala a Dante che le tombe sono molto più carche di eretici di quanto lui
non creda (IX, 128-129) e i fianchi e il fondo della bolgia appaiono a Dante pieni di
fori (XIX, 13-14) e il fondo foracchiato e arto (v. 42), pieno di buchi e stretto, cioè
con pochissimo spazio lasciato libero, perché appunto di tutti quei fori c’è bisogno.
Non occorre sottolineare, tanto sono evidenti, i segnali che riportano il peccato
di simonia alla sua matrice principale, l’avarizia. Il lessico che fa riferimento alla
cupiditas è insistente. L’oro e l’argento visti al v. 112 balzano in primo piano fin
dall’esordio, in un giro di frase che è tutto un condensato di avarizia: e voi rapaci
/per oro e per argento avolterate (vv. 3-4): avolterate le cose di Dio. Avolterare
significa adulterare nel senso di fare oggetto di adulterio (su questo significato
tornerò subito), e anche il secondo significato di questo verbo, prevalente nell’italiano
moderno, “alterare, corrompere”, è quanto mai pertinente al campo semantico della
cupiditas, poiché si adulterano le monete e le merci al solo fine di guadagnare di più,
con la frode. Tra i sostantivi, si collegano alla cupidigia: l’aver (v. 55), l’avere e la
borsa (v. 72), la moneta (v. 98), la dote (v. 116); e tra gli aggettivi: rapaci (v. 3),
sazio (v. 55), cupido (v. 71), ricco (v. 117).
Torniamo a avolterare. L’idea dell’adulterio nasce dalla metafora che Dante usa
dicendo che le cose di Dio devono essere spose di bontate, per cui di conseguenza
non si possono vendere e comprare come si vendono e comprano le prostitute:
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Nella tradizione cristiana la chiesa è la sposa di Cristo, e Pietro Alighieri nel suo
commento alla Commedia attribuisce a san Tommaso l’idea che qui Dante fa propria,
che la simonia consista nel concedere la chiesa ad altri che non sono il suo legittimo
sposo: Simoniacus procurat quod ecclesia, quae est sponsa Christi, de alio gravida
sit quam de sponso. I papi, in quanto rappresentanti di Cristo in terra, sono chiamati
da Dante mariti della chiesa, ma la chiesa nelle mani di questi mariti simoniaci
diventa prostituta, venduta com’è da loro ai regi, e perciò si identifica colla magna
meretrix descritta nell’Apocalisse:
(le sette teste e le dieci corna della chiesa non ancora degenerata sono i sette doni
dello spirito santo – sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, timore di
dio – e i dieci comandamenti).
È probabile che nei pozzi gli ecclesiastici siano distribuiti a seconda del grado
gerarchico, così come tra gli eretici sussiste una distinzione in categorie. Ma Dante
non ce lo precisa, e il suo resoconto si concentra sul solo pozzetto destinato ai papi, i
maggiori responsabili della degenerazione della chiesa. Guardando giù, dall’alto del
ponticello che sovrasta la bolgia, è attratto da un paio di gambe che guizzano più
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frenetiche delle altre, e dalla fiamma che avvolge quei piedi, che è più rossa delle
altre (vv. 32-33). La fiamma che il cristiano dovrebbe accogliere nella propria anima
è quella dell’ardore di carità, che dunque non sta sui piedi, mentre sui piedi stanno
invece le calze rosse che i papi indossavano già allora. Ma Dante ancora non sa che
quello è il pozzetto dei papi. Sceso, nel modo che diremo, sul fondo della bolgia e
accostatosi al pozzetto, si rivolge al dannato in maniera che questi, pur senza vederlo,
capisca che sta parlando a lui:
Dante è qui davvero rude nei confronti del dannato: gli rinfaccia in modo
alquanto perfido e brusco la ridicola, inelegante e certo non comoda postura: «O tu
che tieni la testa al posto dei piedi, anima peccatrice piantata come un palo, se ce le
fai a parlare, parla!». Questa aggressività verbale, tuttavia, non turba minimamente
l’apostrofato, che anzi la scambia per una normale loquela da papa, se in quel genere
di eloquio papa Niccolò crede di riconoscere il suo successore. Viene da pensare che i
papi adoperassero allora un linguaggio assai poco diplomatico e paludato. Dante poi
descrive se stesso mentre si rivolge al dannato:
Dante, come sappiamo, colloca il suo viaggio oltremondano nel 1300, l’anno del
giubileo indetto appunto da Bonifacio, che morirà però tre anni dopo. Per risolvere il
problema cronologico che gli impedirebbe di condannare l’odiatissimo Bonifacio,
Dante mette in scena questa commedia degli errori. Il personaggio che parla crede
che il libro del futuro, nel quale i dannati leggono, gli abbia mentito, posticipando di
tre anni la venuta del suo successore. Il riconoscimento è sbagliato, ma non così
l’accusa che definisce il peccato infame di cui papa Bonifacio si è macchiato:
La terzina è tutta all’insegna del disprezzo per l’incontenibile cupidigia del papa,
per quella brama di ricchezza per la quale ha sposato la chiesa (cioè è diventato papa:
tòrre la donna vuol dire prendere in moglie, mulierem ducere) con l’inganno, e poi
ha fatto strazio, nel modo che sappiamo, della sposa. L’inganno di cui parla Dante è
allusione ai maneggi che il cardinale Benedetto Caetani, il futuro Bonifacio VIII,
mise in atto per aprirsi la strada al soglio pontificio, e in particolare alle pressioni nei
confronti di papa Celestino al fine di indurlo ad abdicare (come fece nel 1294, dopo
solo pochi mesi di pontificato).
nel campo di quella commistione tra potere spirituale e potere temporale, causa della
degenerazione della chiesa, di cui Dante vede l’origine nella Donazione di
Costantino, condannata nella terzina nella quale culmina una invettiva contro il
governo corrotto della chiesa insolitamente lunga, che occupa, a partire dal v. 90, ben
27 versi:
Bonifacio è l’unico tre papi chiamati in causa da Dante di cui viene pronunciato
il nome. Niccolò designa se stesso attraverso una perifrasi: dice che fu papa (sappi
ch’i’ fu vestito del gran manto, v. 69) e per farsi riconoscere aggiunge di essere stato
figliuol de l’orsa, cioè della famiglia degli Orsini, una metafora onomastica che si
presta bene allo scopo di Dante, poiché dell’orsa erano proverbiali l’attaccamento alla
prole e la golosità, che nel comportamento del papa Orsini si traducono in nepotismo
e in cupidigia:
Avanzar gli orsatti significa favorire la carriera dei parenti, mentre l’ultimo
verso è un calembour intorno alla parola borsa, che ne primo caso è il borsellino e nel
secondo la bolgia (tasca, borsa): sulla terra ho messo nella borsa i soldi, qui ho
rinchiuso me stesso nella borsa: il tutto per effetto dichiarato della cupiditas ingenita
nella sua stirpe.
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Dopo aver detto chi è, l’Orsini spiega che tra i simoniaci c’è una specie di
staffetta: chi arriva si infila nel buco spingendo più giù chi stava colle gambe fuori.
Sotto la testa di Niccolò ci sono dunque i simoniaci che lo hanno preceduto, appiattiti
nelle fessure della pietra:
Niccolò non solo sa che questo sarà anche il suo destino e sa quali papi gli
subentreranno nella pena, ma conosce anche la data dei loro arrivi, per cui profetizza
che Bonifacio starà sottosopra coi piedi infuocati per un tempo inferiore a quello che
lui ha già passato in quella posizione. Bonifacio sarà infatti a sua volta spinto in basso
da un altro papa, ancor peggiore, venuto da ponente:
Papa Orsini era morto nel 1280. Dante pone il loro colloquio nel 1300. Sono
dunque venti anni che è lì capovolto, e profetizza che Bonifacio starà in quella stessa
posizione per un periodo inferiore a quanto c’è stato lui. Poiché Bonifacio muore nel
1303, la profezia dice che Clemente VII morirà prima nel 1323.
Ci sono alcuni passaggi di questo canto che hanno fatto discutere gli interpreti e
che vanno, nei limiti del possibile, chiariti. Il primo è relativo alla notizia
autobiografica che Dante inserisce ai vv. 16-21, quando per spiegare come sono fatti i
fori dei simoniaci dice che hanno la stessa dimensione di quelli che nel battistero di
San Giovanni a Firenze sono fatti per loco de’ battezzatori (v. 18), uno dei quali fu da
lui rotto per salvare qualcuno che vi stava affogando. Dante inserisce il riferimento
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Cioè: Virgilio non mi depose dalla sua anca finché non mi posò al foro di quello che
piangeva con la gamba.
Anche nella risalita al ponte successivo Dante viene trasportato, stavolta stretto
al petto di Virgilio, come fosse un bambino e depositato con cura solo quando sono
arrivati:
Non a caso in questo canto Dante rimarca a più riprese il suo esprimersi da
poeta: lo fa ricordandoci che parla col linguaggio proprio della poesia, un linguaggio
misurato ritmicamente come quello della musica: i’ pur rispuosi lui a questo metro
(v. 89); e mentr’io li cantava cotai note (v. 118); lo suon delle parole vere espresse
(v. 123). Ma soprattutto il suo ruolo di poeta Dante lo afferma con prepotenza già
subito all’interno dell’esecrazione iniziale, esecrazione che presenta alcune
caratteristiche proprie del genere epico, cioè del genere di poesia di cui è maestro
Virgilio: è una protasi, cioè una enunciazione del tema, tema per il quale, dice Dante,
si conviene la tromba, cioè il classico attributo della poesia più alta e solenne:
Questa tromba (sia che il suoni del v. 5 sia la terza oppure la prima persona del
verbo) evoca anche altri significati che torneranno nel canto: allude in primo luogo
alla vox magna tamquam tuba, la voce potente come una tromba che parla a san
Giovanni nell’Apocalisse. E infatti il canto XIX è un canto profetico.
Il canto dei simoniaci ha avuto una parte rilevante, lungo i secoli, nella varia
fortuna di Dante (per riprendere il titolo del bel saggio di Carlo Dionisotti, Varia
fortuna di Dante, in Id., Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi,
1967). E non poteva essere altrimenti, dato che il tema di questo canto è la corruzione
della chiesa e la responsabilità che in essa hanno avuto i papi. A determinare la varia
fortuna della Commedia furono, lungo i secoli, ragioni di gusto letterario e ragioni
politiche, di solito intrecciate tra di loro. Da ricordare è in primo luogo il rimprovero
fatto a Dante, rimprovero che parte dal Bembo e che si perpetua fino al Settecento, di
avere usato uno stile duro e difficile, parole «rozze, durissime, immonde», alle quali i
poeti dovevano preferire la dolcezza senza tempo del linguaggio lirico di Petrarca. E
quanto alle ragioni politiche e morali, i motivi di consenso e di dissenso nascevano
dalla imprescindibile motivazione politica e morale della scrittura dantesca.
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perciocché in essi il poeta con una forte maniera, e piena, dirò così, di fiele con aloè
mescolato, va a quell’anima dannata gli atroci falli di lei rampognando; e or qua, or
là adopra parole fiere ed aspre, e proprie de’ sentimenti; e dove la bisogna lo vuole,
lega i versi con una commettitura massiccia, gagliarda, e degna del satirico; ed alle
volte ancor egli sceglie alcune rime, come veramente di quando in quando deesi fare,
che ben dimostrano il torvo spirito del poeta riprenditore.
Come si sente, giocando sul fatto che la veemenza poetica è giustificata dallo
stile satirico prescelto, Bianchini accetta in pieno le rampogne dantesche contro gli
atroci falli dei papi, senza lasciarsi sfiorare da alcuna remora confessionale.
Ben diversamente questo canto (e l’intera Commedia) venivano letti dal padre
Pompeo Venturi, anche lui toscano (senese), ma gesuita. Al padre Venturi i seguaci
di Sant’Ignazio, preoccupati dal revival editoriale dantesco di quegli anni,
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Maliziosa invenzione di dir male di chi ancora secondo lui viveva, e però non poteva
trovar nell’Inferno. Bonifazio VIII detto prima Benedetto d’Anagni uomo di
grand’animo, e di gran mente, ma pure tacciato come ambizioso di signoreggiare, e
d’aver usato per questo fine arti non del tutto buone e lodevoli; benché non
manchino Scrittori che ciò negano, e lo giustifichino.
Niccolò III della famiglia Orsini di Roma, di cui benché Dante conforme il suo stile
ne parla con poca riputazione, gli Scrittori più autorevoli lodano la capacità,
l’integrità, e la religione.
Qui Dante imbroglia il Sacro Testo [segue la dimostrazione e prosegue:] Questa pare
essere stata la mente di Dante, il quale non può scusarsi dalla taccia di temerario, di
scandaloso, e di peggio, mentre a bella posta variò il Sacro Testo, affinché
s’intendesse più facilmente di Roma Cattolica, conforme l’intendono gli Eretici, che
stoltamente si abusano di tal Testo contro di lei.