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Gerusalemme liberata, XII, 52-69

In queste ottave è narrato l’episodio forse più celebre del poema: il duello tra
Tancredi e Clorinda, la cui fortuna è testimoniata da molte riprese pittoriche e dalla
messa in musica, nel 1624, dei versi di Tasso da parte di Claudio Monteverdi. Questa
fortuna si deve soprattutto alla carica patetica che ha l’episodio, nel quale due fieri
eroi guerreschi si scontrano per darsi la morte, senza che Tancredi abbia riconosciuto
nell’avversario la donna di cui è innamorato. La scena si svolge di notte e assume uno
spiccato rilievo teatrale. È il poeta stesso a dichiarare che gesta tanto eroiche
richiederebbero «un chiaro sol» per essere degnamente mandate a memoria da un
pubblico. Ma invece il duello si svolge in assenza di spettatori, e in questo vuoto si
consuma tutta la sua tragicità. Il senso tragico deriva dal peso del destino che grava
sui due protagonisti: una fatalità crudele, che culminerà con l’uccisione dell’amata da
parte di Tancredi, li schiaccia con la stessa potenza irrefrenabile con la quale i due
cercano di annientarsi a vicenda. Il duello non si svolge seguendo le regole della
cortesia cavalleresca, ma è sempre e solo uno scontro all’ultimo sangue.
Quello che nel desiderio di Tancredi avrebbe dovuto essere un congiungimento
d’amore diventa una ossessiva azione violenta che strazia il corpo di Clorinda, fino a
darle la morte. Tasso utilizza un lessico proprio della sfera amorosa (ad esempio il
termine nodi, consueto nella lirica d’amore: ottava 57) per designare il gesto,
replicato tre volte, con il quale Tancredi stringe a sé Clorinda. Inconsciamente
Tancredi trasforma in violenza sadica il suo desiderio erotico. I due piani, quello
dell’amore e quello della violenza, si sovrappongono, evidenziando un erotismo
sublimato e irrisolto, che è proprio della personalità del Tasso e che riflette i
paradigmi morali della Controriforma.
Paradossalmente, dal duello che lo vede prevalere, Tancredi esce sconfitto, e il
trauma della colpa di avere ucciso l’amata graverà su di lui per sempre. Clorinda
vince perché ricevendo il battesimo, e perdonando il suo uccisore, si riscatta da ogni
colpa. Clorinda muore con la serenità nell’anima. Tancredi rimane prigioniero del
dramma che lo ha visto dare con l’acqua del battesimo la vita eterna a colei cui ha
tolto la vita terrena con la spada.
***
Antefatto: Clorinda, insieme ad Argante, è andata nell’accampamento dei crociati
per incendiare la torre di legno che doveva servire a dare l’assalto alle mura di
Gerusalemme. Non fa in tempo a rientrare nella città e resta chiusa fuori. Sta
cercando un altro varco quando Tancredi la vede.

52. Vuole sfidarla a duello; crede che sia un uomo con cui possa misurarsi
facendosi onore. Lei sta girando la collina dove sorge Gerusalemme per arrivare
all’altra porta. Lui la insegue veloce e prima che l’abbia raggiunta fa un tale rumore
con l’armatura che lei si gira e grida: «Che porti, che corri così veloce?». E lui
risponde: «Porto guerra e morte».
53. Se cerchi guerra e morte io te la darò». Tancredi scende da cavallo perché il
suo avversario è a piedi (pedon). Cominciano a scontrarsi usando una violenza
impetuosa, come quella di due tori che si scontrano nei duelli amorosi (gelosi e
ardenti d’ira).
54. In questa ottava parla il poeta, dicendo che le scene cui assisteremo sarebbero
degne di essere viste in piena luce ed essere mandate a memoria da un pubblico,
perché piene di un eccezionale eroismo. Il poeta dunque le trarrà fuori dal buio che le
avvolge (siamo di notte) e le metterà in luce.
55. Inizia il combattimento, ed è un combattimento nel quale «non ha parte
destrezza», cioè non c’è spazio per l’arte della scherma, ma si cerca soltanto di
sferrare ogni colpo con il massimo della forza.
56. Si assiste ad un crescendo di offesa/risposta: retoricamente un chiasmo: onta-
vendetta, vendetta-onta (vv. 1-2): all’onta (offesa) risponde la vendetta e alla vendetta
una nuova offesa. Chiasmo è la disposizione a incrocio dei termini. Il combattimento
si fa sempre più ravvicinato. I duellanti sono talmente vicini che non riescono più ad
usare la spada. Si stringono tra di loro come a prefigurare un cruento abbraccio.
57. Ecco il cruento e replicato (per tre volte) abbraccio. L’allusione alla sfera
amorosa è esplicitata attraverso l’uso della parola nodi (nodi di nemico e non
d’amante). La seconda metà dell’ottava mette in luce la ferocità dello scontro (le
molte ferite reciprocamente inferte) e l’ansimare, il venir meno del respiro. I due sono
costretti a svincolarsi e allontanarsi brevemente per riprendere fiato. Anche in questo
passaggio è allusa la situazione erotica.
58. Sono immobili e si guardano a distanza, appoggiati sul pomo della spada per
riprendersi dalla fatica. Notare il verbo langue (v. 3) riferito al lento venir meno della
luce delle stelle al sopravvenire graduale dell’alba. Questo verbo dà il senso di una
sfinitezza che investe anche il paesaggio circostante. Tancredi osserva compiaciuto il
sangue versato dalle ferite della nemica. Il distico finale commenta l’arroganza e la
superbia umane che ad ogni passeggera fortuna si esaltano scioccamente, senza
prevedere ciò che avverrà poi, come verrà spiegato nell’ottava che segue.
59. La prima metà dell’ottava si collega appunto alla conclusione di quella
precedente: Tancredi pagherà a caro prezzo le ferite inflitte a Clorinda e il suo
momentaneo trionfo si trasformerà in perpetua infelicità: pagherà con un mare di
lacrime ogni goccia del sangue di Clorinda. Il silenzio è interrotto da Tancredi che
chiede al suo avversario di rivelargli il proprio nome.
60. Ecco le parole di Tancredi: «È una grande sfortuna che il nostro valore si
impieghi qui dove rimarrà avvolto nel silenzio. Ma poiché la sorte avversa ci nega la
possibilità di avere testimoni delle nostre gesta e lodi adeguate, ti prego, se le
preghiere possono aver luogo in queste circostanze, di rivelarmi il tuo nome e il tuo
titolo (il tuo stato), affinché io sappia chi renderà onore alla mia morte, es sarò vinto,
o chi renderà gloriosa la mia vittoria, se riuscirò vincitore». Il registro stilistico di
questa domanda è retoricamente elevato e in linea con lo stile elocutorio cavalleresco,
mentre la risposta di Clorinda, che occupa l’ottava successiva, è intonata
all’aggressività, il suo atteggiamento è puramente «feroce».
61. Clorinda risponde aggressivamente; dice che è suo costume non rivelare mai il
proprio nome, e provoca Tancredi affermando: ti basti sapere che hai di fronte uno
dei due guerrieri che hanno incendiato la torre. Tancredi reagisce così: «Hai detto
queste cose nel momento sbagliato (in mal punto il dicesti). Il tuo dire (che sei uno di
quei due che hanno incendiato la torre) e il tuo tacere (il tuo nome e il tuo stato),
entrambe queste due cose mi incitano (m’alletta) nella stessa misura a vendicarmi, o
barbaro scortese». «Barbaro scortese» è un’offesa che Tancredi rivolge al suo nemico
(barbaro, non cristiano) accusandolo di non rispettare le regole di cortesia del codice
cavalleresco, al quale egli si era invece attenuto nel rivolgere la domanda.
62. Riprendono a combattersi, in un duello che diventa sempre più feroce e nel
quale non ha posto alcuno l’arte della scherma, ma nel quale anche sta venendo meno
il vigore fisico (la forza). A tenere in piedi i due, è soltanto il furore. Le ferite sono
sempre più profonde, e aprono varchi nella carne dai quali la vita non esala solo
perché lo sdegno, l’odio furioso, la tiene ancora attaccata al petto.
63. Questa ottava sviluppa una similitudine con il mare Egeo che continua ad
agitarsi anche quando Aquilone e Noto, il vento del nord e il vento del sud (che
scontrandosi hanno provocato la tempesta) sono cessati; il rumore e il movimento
delle onde ancora non sono placati, ma proseguono come per inerzia. Allo stesso
modo Tancredi e Clorinda continuano a infliggersi i colpi con l’impeto iniziale,
sebbene le loro braccia non abbiano più la forza di prima perché hanno perso molto
sangue. Quell’impeto li sospinge e le nuove ferite si aggiungono a quelle già inferte.
64. Questa ottava descrive il momento nel quale Tancredi infligge a Clorinda il
colpo mortale. È giunta l’ora in cui Clorinda deve pervenire (deve) alla sua fine (vv.
1-2). Questi due versi possono essere interpretati anche così: è giunta l’ora che è
debitrice (deve) della vita di Clorinda alla morte. Tancredi spinge la spada di punta
nel bel seno; la spada vi s’immerge e beve avidamente il sangue; e in quel momento
la sopraveste trapunta d’oro che stringeva, morbida e leggera, le mammelle si empie
di un caldo fiume di sangue. Ella già si sente morire, non riesce più asorreggersi in
piedi per la debolezza che la sopraffà. Da notare qui la trasformazione di Clorinda da
feroce guerriera in fragile donna, della quale emerge (l’immagine dei seni avvolti
nella sopraveste ricamata) tutta la femminilità.
65. Tancredi persegue fino in fondo la sua vittoria e continua minaccioso a
incalzare e colpire la vergine trafitta (prosegue l’emergere dei tratti femminili di
Clorinda). Clorinda cade a terra e mentre cade con voce fievole pronuncia le sue
ultime parole, parole che le sono dettate da uno spirito nuovo (cristiano), uno spirito
di fede, carità e speranza (le tre virtù teologali): virtù che ora Dio le infonde, e se (in
quanto musulmana) in vita fu a Lui ribelle (rubella), alla legge di Dio, ora Dio la
vuole sua ancella (sua serva nella vera fede).
66. Ecco le parole di Clorinda, che occupano la prima metà dell’ottava: «Amico,
hai vinto» (l’appellativo è proprio della letteratura cortese: «amico» si chiama
l’amante). Io ti perdono, anche tu perdona me; non al mio corpo, che non può temere
nulla (pave: teme), ma alla mia anima (che ha bisogno del perdono perché vissuta
senza fede cristiana); prega per lei (la mia anima) e donami il battesimo che cancelli
(tali parole fanno su Tancredi: in queste parole (voci), pronunciate con voce flebile
(languide), risuona un non so che di commovente (flebile) e dolce (soave) che gli
scende nel cuore e smorza ogni furore, e gli provoca il desiderio di piangere.
67. Poco lontano da lì scaturiva dalla roccia un piccolo ruscello. Egli vi accorse e
riempì d’acqua il proprio elmo e tornò mesto a compiere il grande e sacro ufficio del
battesimo. Si sentì tremare la mano nel momento in cui liberò dall’elmo e scoprì il
volto non ancora conosciuto, e restò muto e paralizzato. Ahi, quale vista! Quale
riconoscimento!
68. Se Tancredi non morì a quella vista fu perché raccolse tutte le sue forze vitali
in quell’istante e le pose a sostegno del suo cuore perché non cedesse. E reprimendo
il suo sgomento (affanno) si accinse a dare (a dar si volse) vita (spirituale) con
l’acqua (del battesimo) a chi aveva ucciso con la spada (il ferro). Mentre pronunciava
le parole di rito (le sacre formule del battesimo), lei si trasfigurò, e sorrise; e nell’atto
del morire sereno e pacificato, sembrava dire: «Si aprono per me le porte del
Paradiso, io vado con l’anima in pace». Si noti l’ossimoro «morir vivace»: la morte
corrisponde alla nascita spirituale.
69. Descrizione del volto di Clorinda, che muore con gli occhi rivolti al cielo che
l’accoglie e che sembra rivolto verso di lei (il cielo e il sole sembrano piegarsi su di
lei come per abbracciarla), mentre lei alza la mano verso Tancredi in segno di pace e
di perdono. In questo modo trapassa la bella donna, e sembra che il suo morire sia un
dolce addormentarsi.

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