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Marco Gentili

Frammenti di Sardegna
Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia,
nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Versione 14 del settembre 2013


Frammenti di Sardegna
Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Versione 14 del Settembre 2013 senza foto

© Marco Gentili

Via Basilio Bricci 48 - 00152 - Roma

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Cel.! 320 432 95 98

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A Bruno

Tu
impara
l’amara rinuncia
di non farmi promesse,
mai.

Io
conoscerò
l’angoscia di non
chiedertene.

Se
il “termine”
ci troverà ancora uniti insieme,
allora questo
sarà stato amore.

Versione 14 del settembre 2013


Indice
1.Battesimo! 5
Punta S. Stefano, Capo Carbonara! Incontri, Cibo
2.Crabonaxia! 9
Villasimius, Capo Carbonara! Incontri, Miti, Riti e Storia, Libri
3.Sandrino, il cuoco pastore! 13
Monte dei sette fratelli, Sarrabus! Incontri, Miti, Riti e Storia, Cibo
4.Lampo di libertà! 17
Perda Liana, Sarrabus! Viaggio in moto
5.Formaggio del nonno! 19
Piscina Rei, Costa Rei, Sarrabus! Incontri, Cibo
6.Cavallini selvaggi! 23
Giara di Gesturi, marmilla! Luce, vento, roccia e spazio
7.Custode del nuraghe! 25
Su Nuraxi, Marmilla! Incontri, Miti, Riti e Storia
8.Dalle sorelle Pintus! 33
Barumini, Marmilla! Incontri, Cibo
9.Corsa sulle nuvole! 37
Tempio Pausania! Luce, vento, roccia e spazio, Moto, Viaggio
10.Epopea del viaggio! 39
Macomer! Moto, Viaggio, Libri
11.Canto! 43
Caserma Bechi Luserna, Macomer! Incontri, Libri
12.Fuochi d’artificio! 49
Burcei, Campidano! Incontri, Cibo
13.Immondizia! 55
Punta S. Stefano, Capo Carbonara! Mare, Cibo
14.Custode del tempo! 61
Isola dei S’ard! Miti, Riti e Storia, Libri
15.Pesca d’altura! 67
Secca a 30 miglia al largo di Capo Carbonara! Incontri, Mare, Cibo
16.Tesoro della tonnara! 75
Punta Taccarossa, Isola di San pietro! Archeologia Industriale, Libri, Cibo

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17.Indecifrabili ghirigori! 81
Spiaggia La Pelosa, Stintino! Mare
18.Argentiera! 83
Capo dell’Argentiera, Nurra! Incontri, Archeologia Industriale, Libri, Cibo
19.Giocare con le dune! 111
Porto Pino, Costa del Sud! Mare
20.Ho fatto l’amore con ...! 113
Cala Goloritzè, Baunei, Ogliastra! Mare, Libri
21.Becchino! 115
Dorgali, Ogliastra! Incontri, Cibo
22.Funtana Raminosa! 121
Gadoni, Barbagia! Incontri, Archeologia Industriale, Cibo
23.Baldacchino! 137
Cagliari e Tuerredda, Costa del Sud! Mare, Luce, vento, roccia e spazio
24.Casotti! 139
Poetto, Cagliari! Luce, vento, roccia e spazio, Miti, Riti e Storia, Libri
25.Culurgiones de patata! 143
Ilbono, Ogliastra! Incontri, Cibo
26.Suggestioni d’isola perduta! 145
Isola dei Shardana! Miti, Riti e Storia, Libri
27.Essere nel vento! 153
Capo d’Orso, Gallura! Luce, vento, roccia e spazio
28.Matrimonio! 157
Ussassai, Barbagia! Miti, Riti e Storia, Cibo
29.Riflessioni sul viaggio! 161
Capo coda cavallo di fronte l’isola di Tavolara! Moto, Viaggio
30.Paura! 167
Ingurtosu, Sulcis! Incontri, Archeologia Industriale, Cibo
31.Il nipote del dottore! 173
Buggerru, Sulcis! Incontri, Archeologia Industriale, Miti, Riti e Storia, Libri
32.Silicosi! 177
Corongiu, Barbagia di Seui! Archeologia Industriale, Libri
33.Cernitrice! 179
Corongiu, Barbagia di Seui! Incontri , Archeologia Industriale

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34.Onde! 183
Spiaggia di Funtanazza, Montevecchio! Mare, Archeologia Industriale, Libri
35.Parole! 185
Gennargentu! Luce, vento, roccia e spazio
36.Convegno! 187
Orientale sarda, Arbatax-Cagliari! Moto, Viaggio
37.Raggio verde! 191
Fortezza vecchia, Capo Carbonara! Luce, vento, roccia e spazio, Libri
38.Atemporalità! 195
Alghero, Nurra! Mare, Cibo
39.Giostra! 197
Costa del Sud! Mare, Luce, vento, roccia e spazio, Cibo
40.Camino! 199
Bosa, Nurra! Incontri, Miti, Riti e Storia, Cibo,
41.Memoria fotografica! 203
Isola dei Sardi! Miti, Riti e Storia, Libri
42.Delfini! 209
Arcipelago della Maddalena! Mare
43.Gavino e la stella d’oro! 213
Villasimius, Sarrabus! Incontri, Luce, vento, roccia e spazio, Cibo
44.Tramonti allucinati! 219
Punta S. Stefano, Capo Carbonara! Luce, vento, roccia e spazio
45.Goito! 223
Sorgono, Barbagia! Incontri, Moto, Viaggio, Archeologia Industriale
46.Su questa spiaggia ...! 237
Spiaggia Su Giudeo, Torre Chia! Mare
47.Boa! 239
Pescinas, Hotel Le Dune, Costa Verde! Mare
48.Carnaio! 241
Spiaggia Su Giudeo, Torre Chia! Mare
49.Nonluoghi! 245
Monti della Mola, Gallura! Mare, Viaggio in moto, Miti, Riti e Storia, Libri
50.Punti di vista! 255
Valle della Luna, Gallura! Mare

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51.Attitu! 257
Orgosolo, Barbagia! Miti, Riti e Storia
52.Accabbadora! 263
Barbagia e Ogliastra! Miti, Riti e Storia, Libri
53.Ho voglia di Lei e dell’Altra! 271
Santa Maria Navarrese, Ogliastra! Moto, Viaggio
54.Casa sul mare! 273
Punta S. Stefano, Capo Carbonara! Mare
55.Seadas! 277
Aeroporto di Elmas, Cagliari! Incontri, Cibo
56.Postfazione! 281
57.Ringraziamenti! 285
58.Percorsi di lettura! 287
Appendice I
59.Miniere metallifere! 297
Appendice II
60.Piatti tipici sardi! 303
Appendice III
61.Bibliografia ragionata! 311
Appendice IV

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Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

1.Battesimo
Punta S. Stefano, Capo Carbonara! Incontri, Cibo

Con Bruno non ci vedevamo da anni. Tanti anni, profondi e densi quanto possono essere
quelli che separano l’infanzia con i suoi ricordi alterati e distorti, da una gioventù che sta per
perdersi in una presunta, maggiore, illusoria, maturità.
A Bruno associavo immagini sparse, prive di un preciso filo conduttore che segnasse un
rapporto. Nei miei ricordi compariva all’improvviso, per ingozzarsi di finocchi crudi in
pinzimonio, e, subito dopo, trascinarmi in vorticose giornate di divertimento assoluto in cui
mi era concesso l’estremo privilegio di poter scegliere tutto, dove andare, cosa fare, cosa
farmi regalare. E’ a lui che associo ancora adesso l’eccitazione dei giocattoli più belli,
l'emozione del circo, i film più avvincenti, l’evasione e le stravaganze della sfrenata libertà,
come potevano essere concepite dal ragazzino che ero.
Quando ho ricercato Bruno, i giocattoli che mi aveva regalato erano ordinatamente riposti in
cantina da tempo, mentre alla perifrasi “stravaganze della sfrenata libertà” avevo già sostituito
la parola “trasgressione”.
In qualunque rapporto come il nostro, fratturato da salti temporali, inframmezzato da
discontinuità che coinvolgono tutti gli aspetti dell’essere - da come si appare fisicamente, a
cosa si è mentalmente, a quello che concretamente si fa e si è fatto - rimane comunque, ad
ogni incontro, una componente di imbarazzo che è decisivo fugare immediatamente, prima
che possa sciogliere senza rimedio quell’attimo magico di puro piacere, quando ancora una
volta si riesce a riconoscersi, di estasi affettiva del ricordarsi di se e dell’altro, reciprocamente,
nello stesso momento.
Per questo, mentre ancora eravamo fisicamente impegnati ad abbracciarci, Bruno iniziò a
parlare della Sardegna. Era un dicembre, io non ero mai stato in Sardegna.
Arrivati in aeroporto, ci dicono che il volo per Cagliari non è ancora arrivato a causa del
maltempo. Due ore più tardi imbarchiamo assieme ad un grappolo di altri disperati attratti
dalla tariffa scontata di quel volo notturno. Imbarchiamo sotto una pioggia torrenziale senza il
consueto bus, perché l’aereo è vicino, così almeno ci dicono gli steward di terra.
In aria, l’aereo sembra lanciato su una di quelle stradine di campagna piene di toppe
d’asfalto e buche ghiaiose, per quanto si torce, sussulta, scricchiola. Non si vede
assolutamente nulla, al finestrino si alternano i bagliori delle luci stroboscopiche sulla punta
delle ali con quelli dei lampi.
Il volo è brevissimo, questo non impedisce a Bruno di accrescere la sua ansia e impazienza
dovute al fatto di essere su di un aereo in ritardo, per di più in una notte furiosa di vento,
pioggia e lampi.

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Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Quando i fari dell’aereo si accendono per l’atterraggio e girano puntando verso il basso a
cercare la pista, vedo solo gelida acqua metallica, increspata e rotta da schiuma rabbiosa.
Incapace di valutare la nostra altezza e di vedere altro che acqua, quando l’aereo tocca la pista,
sbandato, con la ruota sinistra, sussulto sorpreso come avessi mancato un gradino scendendo
una scala.
In piedi, appena varcato il portellone, sulla sommità della scaletta, a mani alzate, in un
immane sforzo di distensione muscolare, Bruno emette un secco ruggito, seguito da
un’inspirazione frenetica, quasi dovesse iperventilarsi per chissà quale apnea. Vengo invitato
a fare lo stesso, per sentire l’odore di Sardegna.
Bagnato ed infreddolito, inspiro delicatamente per pura cortesia, sento solo il vago odore di
ozono della pioggia. “Dov’è l’odore di Sardegna?”, mi chiedo. Avrò molte occasioni per
ricredermi: l’odore di Sardegna c’è!
Se si arriva in traghetto, le nari si impregnano del salso del mare, l’olfatto è bruciato.
Quando finalmente si avvista la frastagliata costa dell’isola, è assuefatto dall’indolente
avvicinata che prepara al sentore di terra. L’aereo è invece una scatola magica, un nonluogo,
una cabina teletrasporto che ci proietta nel punto d’arrivo, senza lasciarci il tempo di
preparare i sensi e la mente.
Le piste aeroportuali sono tutte simili nella loro standardizzazione, invasate di luci e segnali,
fischi e stridii di atterraggi e decolli, l’unico senso che rimane a disposizione è allora l’olfatto.
Per questo ho imparato anch’io a ruggire, a occhi chiusi, sulla sommità della scaletta di un
aereo, cercando la prima emozione del luogo raggiunto per il solo tramite dell’olfatto.
Diversamente che a Fiumicino nell’aeroporto di Elmas il bus c’è, inutilmente parcheggiato a
50 metri dall’aereo, saliti a bordo ne percorriamo altri 50 che già dobbiamo scendere per
entrare. Ovviamente piove ancora, forte.
Le ansie di Bruno dileguate all’istante dall’odore di Sardegna, si riaccendono
immediatamente nel constatare lo stato della batteria di quel relitto bluastro di Fiat 500 che è
solito abbandonare nel parcheggio ogni volta che parte.
Per di più l’auto è in riserva, ed è ormai mezzanotte. Caricato il bagaglio, si parte a spinta: io
spingo, Bruno guida. Piove sempre. E’ notte fonda, la ricerca di una pompa di benzina aperta
è affannosa. Ci aggiriamo per la deserta periferia cagliaritana.
Trovato finalmente un distributore automatico, la “cosa” che ci trasporta si arresta
spontaneamente, devo nuovamente spingerla nel vasto piazzale del distributore, Bruno per
alleviare la mia fatica continua a borbottare insulti stizziti all’indirizzo dell’innominato
ragazzo che avrebbe dovuto sostituire la batteria e fare il pieno.
Non è finita, si pone il problema della carta moneta nel taglio adatto all’automatismo. Sotto
la pensilina del distributore, ci frughiamo sconfortati le tasche; sul tettuccio telato della 500
infradiciato di pioggia, allineiamo le banconote compatibili. L’inserimento nell’apposita
colonnina è vissuto da Bruno come operazione delicata, che necessità di elevata competenza,
per questo non si sente di delegarla ed è di fronte alla fatidica fessura d’inserimento, nella luce

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Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

fioca che rende le istruzioni illeggibili, ad innervosirsi, a sbagliare, ad accartocciare ancor più
le banconote già inumidite dalla selezione.
Ancora più tardi siamo finalmente in strada. Bruno, come posseduto, parla
incessantemente, indica, spiega. Sono stanco, le toppe in vetroresina fatte alla carrozzeria
non tengono alle vibrazioni, si scollano, piove dentro. I vetri si appannano di continuo e,
quanto a scossoni e sussulti, sembra di essere ancora in aereo. Solo il faro sinistro funziona,
piove sempre, quello che riesco a vedere sono barlumi di guardrail, quando c’è, altrimenti il
buio. Il muggito del mare sovrasta lo scoppiettio dell’auto.
A stargli dietro da Bruno ci sarebbe da apprendere un’infinità di cose. Invece, per il sonno, a
stento comprendo: che stiamo andando in una località chiamata Punta Santo Stefano, oltre il
paese di Villasimius, sul promontorio di Capo Carbonara, all’estremità sudorientale della
Sardegna; che la strada che percorriamo è bellissima, nel suo dipanarsi in tornanti a picco sul
mare; che il mare è ricco di infiniti colori. Comunque, non riesco a vededere nulla.
Quei cinquanta chilometri scarsi, da Cagliari a Capo Carbonara, sono durati un’infinità. Già
la 500 è scomoda, in più non è che Bruno ed io si sia proprio esili, anzi, due omoni da un
quintale e più, per quasi due metri di altezza, incastrati tra il montante dello sportello e la
spalla dell’altro.
Arriviamo alla casa sul mare che ha appena smesso di piovere, non si vede una stella. La via
d’accesso è completamente al buio ma, con mia sorpresa, le finestre sono illuminate.
Sono le tre di notte. Appena entrati, la situazione accelera, è tutto molto rapido, la
sonnolenza svanisce. C’è da salutare chi ha acceso le luci ed il fuoco nel camino, c’è il
caboniscu arrostiu (galletto alla fiamma), che indora sulla fiamma, in attesa di essere salato a
fine cottura, tagliato a pezzi e servito tiepido, dopo aver riposato fra due strati di foglie di
mirto su un vassoio di legno.
Un pasto favoloso, rustico e aromatico, che mi fa capire di essere finalmente arrivato e
permette a Bruno, come forma di riscatto, di perdonare il mancato piano di benzina
precedentemente commissionato, della batteria si è per ora scordato.
Finito il caboniscu il sonno si riaffaccia invadente, ci si corica. E’ in quel momento,
all’approssimarsi repentino del sonno dovuto, che mi sorprendo per la prima volta a
considerare la rete di rapporti che Bruno è riuscito a costruire. I ragazzi sardi che ci hanno
accolto nella notte, scaldato la casa, arrostito il galletto, e che, per inciso, hanno
inopinatamente mancato di sostituire la batteria della 500, disattendendo le istruzioni di
Bruno, gli sono dediti perché catturati, ammaliati, ricompensati affettivamente.
Avendolo io appena ritrovato, dopo anni di assenza, ho un lieve moto di gelosia nell’attimo
prima di arrendermi e precipitare nell’incoscienza di colpo.
Non vengo svegliato dalla luce, né dall’odore del caffè, né dai mille rumori dell’attività
domestica della prima mattina. C’è un energumeno che mi scuote furiosamente: ancora
appannato stento ad accorgermi che si tratta di Bruno. Sta per albeggiare, avrò dormito tre
ore.

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Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Bruno è in pigiama, gesticola entusiasta, mi parla convulso di mare, di vento, di clima forte,
di Sardegna. La sua energia è incontenibile, bisogna andare, bisogna vedere, sentire, odorare.
Non c’è tempo da perdere. Sempre in pigiama usciamo sul praticello antistante la casa,
sospeso tra un mare d’inverno, livido e gonfio, ed un cielo ferrigno incredibilmente basso,
reso dinamico dal turbolento movimento delle nuvole. Tira un vento teso che gonfia e slaccia
le giacca del pigiama. Bruno saltella frenetico sui massi di granito, scendendo verso la
spiaggia.
Gli corro appresso, senza sapere né chiedere cosa stiamo facendo, il torpore del risveglio
completamente annullato, la giacca del pigiama sventola fremente sulle spalle, assurdo
gagliardetto. I piedi nudi sentono con piacere l’asperità vetrosa del granito ed il formicolio
della sabbia granulosa ricoverata negli anfratti della roccia.
Bruno mi aspetta sulla battigia, i piedi nell’acqua gelida e scura, mare e cielo rumoreggiano
e si sfasciano, è impressionante, la sabbia fine sollevata dalla spiaggia staffila le gambe,
s’incolla ai capelli, si fa masticare.
Bruno mi urla in faccia, per sovrastare il clamore di acqua e aria, declama della Sardegna, di
come si deve conoscere la Sardegna, di come la si deve frequentare, di nuovo celebra il clima
forte che assaggiamo sulla pelle.
Arriva la prima ondata, m’inzuppa sino alla vita. La corsa tra i massi sino alla spiaggia, il
vento ed il freddo, m’interdicono il respiro. Sono bloccato, dominato dall’ambiente agitato,
partecipato da quel cielo basso dove corrono nuvole nere, da quell’orizzonte delineato così
nettamente tra il piombo del cielo ed il mare mugghioso segnato di candida schiuma.
La seconda onda ci travolge, incespichiamo nell’acqua bassa, siamo dentro.
Incredibilmente, riprendo a respirare. Raspando con le mani nella sabbia, tra i sassi,
riguadagniamo la riva sulle ginocchia, prostrati dall’impeto degli elementi. Bruno è di nuovo
subito in piedi, le braccia tese, levate in alto, le mani serrate a pugno, di nuovo urla, come
sulla scaletta dell’aereo, il suo verso primordiale non è più il ruggito del leone, è ora un rombo
potente, basso e prolungato come un barrito d’elefante.
Il mio battesimo è consumato, la catarsi non copre più il freddo intenso, con le membra
assiderate ed il respiro a singhiozzo torniamo alla casa, mentre l’alba non riesce ad accendere i
colori di quei luoghi per la coltre di nubi.
In casa bisogna scaldarsi, soprattutto bisogna raccontare, descrivere, spiegare, sì bisogna
proprio parlare di Sardegna, ne sono finalmente convinto, ne inizio ad essere avvinto.

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2.Crabonaxia
Villasimius, Capo Carbonara! Incontri, Miti, Riti e Storia, Libri

La prima volta che sono stato in Sardegna, appena atterrato a Cagliari, sono stato trascinato,
di notte, su una scassata 500, nel piccolo centro di Crabonaxia da un “S’ard” d’adozione,
come poi io stesso sarei diventato nel tempo.
“S’ard”, che, nella inventata lingua degli Antichi, secondo la poetica definizione datane da
Sergio Atzeni, l’autore di “Passavamo sulla terra leggeri”, significa “danzatore delle stelle”.

A Crabonaxia, sopraggiunta l’alba, la Sardegna mi ha ammaliato, sopraffacendomi. Non mi


sono più liberato, nemmeno ho mai desiderato farlo.
Crabonaxia è nome che ben chiarisce il rapporto tra l’abitato e il territorio, un tempo
coperto di estese foreste che fornivano la materia prima necessaria alla produzione del
carbone di legna.
Per la sua posizione strategica, il sito è stato abitato fin da tempi remoti, come testimoniano
resti di nuraghi (XIX - VI secolo a.C.) e rovine, prima fenicie, poi puniche (VII - II sec. a.C.),
infine romane (III sec. a.C. - VI sec. d.C.).
Durante il periodo giudicale, aragonese e spagnolo, l’area, oggetto di continue incursioni
barbaresche, si andò progressivamente spopolando.
Una vecchia fortezza, il cui nucleo originario risale probabilmente al XIV secolo, sorge su
un promontorio, a metà strada tra l’abitato di Crabonaxia, che ancora inutilmente protegge da
invasioni cessate da secoli, e l’omonimo Capo proteso nel mare.
La struttura difensiva è dovuta ai sovrani aragonesi, padroni della regione, successivamente
concessa in feudo a quella famiglia Carroz, che giocò un ruolo di primo piano nella cacciata
dei pisani dall’antico Giudicato di Cagliari.
Alla fine del XVI secolo lo spagnolo Filippo II migliora il progetto difensivo con un
intervento di ristrutturazione della fortezza e la fortificazione dei litorali attigui con un
sistema di torri, fra loro collegate a vista, per contrastare gli sbarchi dei pirati saraceni,
sfuggiti ad ogni controllo.
Il territorio si ripopola ad inizio '800, divenendo comune nel 1838. L’economia del luogo è
dominata dall’agricoltura e dalla pastorizia, non dalla pesca, probabilmente a causa della
malaria che alligna sulla costa.
Tutto cambia nel 1875, quando una coppia di fratelli toscani avvia l’estrazione del granito e la
sua lavorazione, che fu, per quasi un secolo, una delle più importanti fonti di reddito degli
abitanti del luogo.

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Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Nella stessa epoca, sui resti di una preesistente torre spagnola, sull’isola dei Cavoli, proprio
di fronte a Capo Crabonaxia, viene edificato un faro, che è ancora lì, non più abitato dopo la
morte in mare dell’ultimo farista, avvenuta negli anni ’70 dello scorso secolo, qualche anno
prima che io lo visitassi.
Ai primi del ‘900 nella gestione della cava subentrò la ditta dei fratelli Usai, che se ne
occupò sino alla chiusura avvenuta negli anni ’50. Il granito estratto dagli scalpellini e
semilavorato in loco fu utilizzato nella realizzazione di grandi opere pubbliche, tra cui la
lastricatura di Via Roma a Cagliari.
Finché fu aperta la cava, il mare era l’unica via di collegamento tra la cittadina e Cagliari:
nell’insenatura di Torre Vecchia approdavano le imbarcazioni da trasporto provenienti dal
capoluogo con le merci commissionate dalla popolazione del paese.
Ho avuto il piacere di conoscere, assai anziana, una nipote di Guglielmo Marconi che in
queste lande era solita aggirarsi proprio negli anni ’50, arrivando a dorso di mulo e
passeggiando su spiagge bellissime e incontaminate.
Mi ha raccontato di un mondo fatato e perduto, di un luogo isolato difficile da raggiungere,
raro e misterioso, talmente stupendo da poter essere raccontato solo in modo affascinante.
Così remoto da quello che ho trovato io la prima volta. Oggi, perso del tutto, ad esclusione dei
colori del mare, dell’odore del vento sulla macchia e della luce sul granito.
Negli stessi anni, precisamente nel 1954, viaggiando senza meta alla scoperta di luoghi
arcani e selvaggi, Ernst Jünger, esponente tedesco del pensiero contemporaneo, arriva per
caso a Crabonaxia e rimane anche lui sentitamente colpito dalla bellezza del luogo. Non ho
chiesto alla nipote di Marconi se per caso l’avesse incontrato, solo perché Jünger l’ho
scoperto successivamente.
Di questo territorio, delle impressioni e degli stati d’animo vissuti nella magica Crabonaxia,
Jünger racconta in un saggio intitolato “Terra Sarda”. E’ il 7 maggio del 1954, lascio a Ernst
la parola:
“Fra le scoperte che in Europa diventano sempre più rare c’è questa: un luogo privo di
qualsiasi collegamento con il mondo. Eppure io l’ho raggiunto dopo aver viaggiato sino al
capolinea meridionale, con l’aiuto di un autobus. Per tre ore continuarono a cigolare le molle
del veicolo lungo strade accidentate di montagna, che ad ogni curva si aprivano
all’improvvisa veduta sul mare [...]

Qui ciò che attrae è la conformazione rocciosa, gli animali e le piante, la possibilità di un
viaggio sciabordante nel profondo [...]

Terra sarda, rossa, amara, virile, intessuta in un tappeto di stelle, da tempi immemorabili
fiorita d’intatta fioritura ogni primavera, culla primordiale sentii la sua dolce altalena nel
mare [...]

Tutte le bestie mi appaiono d’aspetto insolito; forse appartengono a razza isolane, qui
sviluppate attraverso generazioni o rimaste inalterate dai tempi antichi [...]

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Mentre consumo la prima colazione, faccio il calcolo approssimativo di tutti i luoghi in cui si
può fare il bagno. Ora ne conosco una gran quantità: tutti solitari, tutti belli, le candide e
luminose spiagge per la sabbia dai riflessi abbaglianti [...]

Mare dove luccicarono i pesci d’oro nello splendore meridiano [...] contrafforti montani di
nudo e brillante granito.

Inspiegabilmente, nell’’800 gli abitanti di Crabonaxia fecero richiesta di cambiare il nome


del piccolo centro. Furono accontentati solo dopo l’unità d’Italia, quando il Regio Decreto
del 14 settembre 1862 mutò il nome del loro paesino in Villasimius.
Tuttora Crabonaxia è la denominazione locale del paese ma si può scoprirlo solo quando, a
fine estate, la marea dei turisti si ritira e su quel territorio delizioso lascia, come fossero spersi
detriti di risacca, i veri abitanti del luogo.

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3.Sandrino, il cuoco pastore


Monte dei sette fratelli, Sarrabus! Incontri, Miti, Riti e Storia, Cibo

Sandrino è stato pastore tutta la vita fino a quando la “catastrofe antropologica” si è


abbattuta sulla Sardegna. La catastrofe antropologica è il nome che qualcuno s’è dovuto
inventare per definire sinteticamente lo sconquasso accaduto in Sardegna negli ultimi
cinquant’anni, dall’invenzione del turismo di massa all’inizio degli anni ’60. Un cambiamento
generale che ha sconvolto prima le strutture sociali ed i relativi assetti produttivi che nella loro
staticità sembravano addirittura legati alla geologia dell’isola, poi il territorio ed il paesaggio,
infine le strutture mentali, la psicologia, i sardi.
Catastrofe per la rapidità con cui si è svolta e si sta svolgendo, antropologica per il bersaglio
ultimo, l’oggetto della catastrofe, l’uomo sardo.
Sandrino è un uomo sardo, pastore, che all’arrivo del turismo sotto forma di
cementificazione di quel tratto di costa orientale del sud che va sotto il nome di Costa Rei, ha
immediatamente capito il futuro. Riposti i pantaloni di fustagno e la giacchetta di velluto
liscio, abbigliamento pastorale per eccellenza, salutate le sue pecore, si è intelligentemente
riciclato come custode di un condominio di villette in stile mediterraneo tenacemente
aggrappate sul granito di capo Carbonara, a pochi metri dal frangere delle onde.
Se resiste rintanato nella sua casetta il mese di agosto, quando il condominio si riempie di
continentali destinati a rischiare ustioni ed insolazioni, amputazioni da gommone impazzito,
embolie da apnee improvvisate; se si da fare a settembre quando montagne di rifiuti
maleodoranti ed ingombranti, prodotti nell’unico mese di attività del condominio, attendono
di essere evacuati, distrutti o più semplicemente pateticamente occultati; allora per i restanti
dieci mesi dell’anno può essere ancora un indomito pastore, libero di vagare, un poco per il
condominio deserto, molto di più nell’entroterra ancora aspro ed incontaminato che più gli
appartiene, che meglio padroneggia e conosce.
Ho conosciuto Sandrino che era poco prima di Pasqua, nel momento della Sardegna più
verde ed odorosa che si protrae fino ai primi di maggio. Non è stato un incontro casuale, mi ha
portato da lui un’altro pastore rinnegato, Vincenzo, al quale avevo fatto un favore che mi
voleva ricambiare. Quest’ultimo, cacciatore, aveva appena preso un cinghialetto di quelli
piccoli che talvolta si intravedono sulla giara di Gèsturi.
L’Ape guidata da Vincenzo procede a scossoni sulla strada sterrata. Nella piccola cabina,
senza porte, privo di un concreto appiglio, mi sento costantemente scivolare verso l’esterno.
Peso il doppio di Vincenzo e l’Ape sbilenca accentua la sensazione di caduta.
Dietro, nel cassone che intravedo da un piccolo oblò privo di vetro, è uno sfacelo di sangue,
il cinghiale morto sussulta per i sobbalzi e si porta anch’esso dalla mia parte sbilanciando

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ancor più il mezzo. Stiamo andando nella tanca di Sandrino, l’appezzamento di terreno
recintato con bassi muretti a secco dove egli in passato custodiva e badava al suo gregge.
Vincenzo vuole farmi partecipe ad un evento straordinario, su sirboni a carraxiu, il cinghiale
cotto interrato. Vincenzo dice che è cibo da dei e da sardi veraci, che tutti dovrebbero provare
almeno una volta nella vita. Il suo progetto da quando ci siamo conosciuti è proprio questo:
trasformarmi, il più possibile, in un sardo onorario che, pur non potendo mimetizzarsi
fisicamente, statura e dialetto me lo impediscono, possa omogeneizzarsi psicologicamente.
Tra me e me, per distrarmi dall’incessante pericolo di fuoriuscita dall’Ape, penso che
effettivamente la gentilezza di Vincenzo, che per la cottura a carraxiu non si fida che di
Sandrino, è grande. Certo non è facile avere disponibili, in una sola volta, un weekend, un
cinghialetto, una pala ed un piccone, coltelli e rasoi, fiammiferi, di quelli possibilmente
antivento, una bella macchia mediterranea a portata di mano ed infine cosa forse più
importante di tutte nessun cartello inibitore con la scritta “pericolo d’incendio” o “divieto di
accendere fuochi”.
Arriviamo alla tanca che è metà mattinata, Sandrino non si vede, entriamo puntando verso lo
stazzo vicino al quale, ridossata ad un terrapieno c’è una capanna da pastore. La capanna è
una sorta di monumento alla pastorizia, dimora arcaica di pietra, ginepro, ulivastro e frasche.
Costruita a pianta quasi circolare, con la piccola entrata posta dalla parte opposta al vento
dominante, solida del basso e spesso muro di pietre a secco in cui all’interno sono ricavate
nicchie, regge un intreccio ingegneristico di tronchi e pali che crea il punto di forza,
l’architettura di volta, che sostiene tutto l’impianto del tetto conico coperto di frasche.
Uno sguardo al vuoto interno conferma che Sandrino non è nemmeno lì.
Vincenzo non si preoccupa della sua assenza e non perde tempo, sono inviato a prelevare il
cinghialetto dall’Ape. Lo porto su una spalla, coperto da un sacco, emana un odore di
selvatico, temo di sporcarmi, diciamo pure che mi fa un poco schifo. Per fortuna Vincenzo
non se ne accorge e si appresta a scuoiarlo, pulirlo e squartarlo. Lo spettacolo non mi pare dei
più edificanti così mi allontano risalendo la parete a macchia mediterranea sulla quale si
inerpica la tanca.
All’improvviso, su un sentiero appena tracciato tra i cespugli spinosi, mi appare un
omaccione basso e tarchiato, irsuto, con mani poderose che con una voce profonda mi chiede
se io sono l’amico di Vincenzo. Mi qualifico immediatamente come tale e questo mi basta per
conquistarmi il rispetto di Sandrino. Procediamo insieme in silenzio tornando verso la
capanna. Vincenzo sta lavorando bene, il cinghiale scuoiato pende da un vecchio nodoso
sughero che reca anch’esso tracce di antiche scuoiature. Siamo tutti pronti per il rito
sacrificale.
La ricerca del punto adatto nel terreno mi pare interminabile vincolata com’è dalla direzione
del vento, dai sassi affioranti, dalle imperscrutabili idiosincrasie e superstizioni di Sandrino,
disseminate nella tanca in particolare proprio dove mancano i sassi. A me tocca il piccone e

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l’opera di dissodamento del terreno. Alla quarta picconata inizio a capire l’oculata scelta del
punto volta a minimizzare l’estirpazione dei sassi.
La fossa è poco più grande del cinghiale che dobbiamo arrostire, Sandrino pareggia il fondo
e le pareti della fossa vibrando magistrali colpi di pala. Io rimiro dolorante le mie mani gonfie
di vesciche. E’ ora di andare a raccogliere sterpaglia nell’odorosa e multicolore macchia. Con
una roncola Sandrino stacca sterpi secchi di moddizzi, lentischio, e di tumbu, timo, mi limito
a trasportare più carichi dalla macchia alla buca.
La fossa è riempita per un terzo dell’altezza dagli sterpi raccolti. Il falò prende subito,
gonfiato dal freddo vento di tramontana che tira violento. I miei prudenziali fiammiferi
antivento sono resi inutili dalla perizia dell’ex-pastore. Il calore del fuoco è piacevole
intirizzito come sono, ma effimero. Il fuoco arde completamente in poco tempo. E’ tempo di
ripulire accuratamente la fossa levando la brace e la cenere residue.
Vincenzo ha squartato longitudinalmente, in due parti il cinghiale. Sandrino sistema le due
parti con precisione nella buca a truncu-coma, poggiate con il dorso rivolto verso il basso sulle
frasche. Per fortuna la buca è sufficientemente grande, questa era la cosa che più mi
preoccupava.
Tutti insieme togliamo la maggior parte del fogliame dai rami di timo e lentisco raccolti,
Sandrino inizia a ricoprire il cinghiale con i rami e va avanti sino a quando non ha raggiunto la
sommità della fossa.
La terra rimossa è li accanto, con la pala, sempre sotto la direzione attenta di Sandrino, ne
riprendo per stenderne uno strato sottile sulle frasche. Lui stesso completa l’opera spianando
delicatamente la terra con il dorso della pala a chiudere completamente l’apertura della buca.
A copertura ultimata è l’ora di aggiungere la legna per cuocere. Sempre il “cuoco pastore”
sovrappone con perizia e gesti usuali e misurati sterpi aromatici e secchi. Poco dopo appicca il
fuoco che curerà ininterrottamente per circa quattro ore. Io e Vincenzo ci alterniamo per
rifornirlo di legna senza osare disturbarlo da questo delicato compito di fochista. Il fuoco deve
essere sempre acceso ma mai violento. Solo la combustione della legna regolare ed
ininterrotta permetterà al cinghialetto di cuocersi perfettamente.
L’attesa è interminabile, è dalla mattina che lavoriamo, ora sono le quattro del pomeriggio. Il
vento teso non ci ha mai abbandonato irrigidendoci le membra, arrossandoci il volto, siamo
sempre intorno al fuoco vibrante. La fame attenuata da un pezzo di pecorino ed una fetta di
pane, vino per scaldarci.
Finalmente il segnale, Sandrino si alza dal sasso sul quale è stato pressoché immobile per
ore. Non è ancora finita, si deve spegnere il fuoco, rimuovere le braci, la terra di copertura
fragile e screpolata, divenuta nera di cenere. La legna all’interno della buca si è come
carbonizzata in presenza del calore sovrastante ma priva dell’ossigeno trattenuto dal sottile
diaframma di terra. Rimossa infine anche questa, le mani di Sandrino sembrano poter
afferrare impunemente braci e carbone, appare il cinghialetto ben cotto.

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E’ ora di gustare il cibo. Ma questo è un lavoretto rapido, tutto in discesa. Vincenzo ed il


“cuoco pastore” mi hanno regalato una giornata favolosa.
Nella pace dei sensi sollevati dalla fame e stuzzicati dal sapore di selvatico, dal profumo degli
odori, dalla carne succulenta ancora tiepida, mi scordo perfino che mi aspetta ancora tutto
quello scuotimento del ritorno con l’Ape.

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4.Lampo di libertà
Perda Liana, Sarrabus! Viaggio in moto

Con la moto (in verità tutte le moto che ho avuto, più un vespone, per non parlare delle moto
degli amici) ho percorso tutte le strade minori di Sardegna come se fossi salito su un magico
gigantesco ottovolante.
Le tortuose strade dell’isola si trasformano in giostre e caroselli, infondendomi una calma
antitetica alla velocità della moto ed alla fuga laterale del paesaggio, facendomi desiderare di
non arrivare mai.
Nessuna spiegazione razionale, solo poche parole d’entusiasmo come fossero una poesia.

Sinuosa strada rinchiusa da gallerie di gigantesche, scorticate, querce da sughero.

Rossa moto densa di alta tecnologia.

Foresta d’ombra che fitta avviluppa e ripara dal sole.

Sfrecciante passaggio che agita la gelata frescura del sottobosco.

Asfalto perfetto che inclina la moto plasmando una fluida andatura.

Solido frusciante rumore del motore fuso col sibilo del vento che s’insinua nel casco.

Paesaggio immenso, appagante, incuneato tra cielo e profondità infinita dell’orizzonte.

Tacchi calcarei che si tagliano come torri e castelli.

Nitidi colori della primavera puliti dal vento che esaltano la tridimensionalità del panorama.

Improvvise strade bianche di polvere a segnare la morte dell’asfalto.

Mani serrate sul manubrio, polsi torturati dagli infiniti colpi impartiti da sassi e buche.

Lontano da persone, ricordi e doveri.

Strade dalla segnaletica minimalista per sognare di non arrivare mai,

Lampi di libertà.

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5.Formaggio del nonno


Piscina Rei, Costa Rei, Sarrabus! Incontri, Cibo

Mi tiro su all’improvviso dalla sabbia tiepida su cui sono sdraiato, seduto, puntato sulla
braccia all’indietro, apro gli occhi sul mare di fronte, velati da un eccesso di azzurro.
Compensazione che immagino dovuta all’esposizione al sole a palpebre chiuse dominata dal
rosso arancione.
Il ragazzo è lì sulla spiaggia, non più di trenta metri sulla mia sinistra, seduto sul bordo dove
la macchia cede alla sabbia bianca. Lo guardo, rapidamente, non ricambiato, avrà la mia età, è
abbronzato in volto, biondo.
Mi rivolgo nuovamente al mare, sorpreso di questa violazione alla mia intimità, gli otto
chilometri di spiaggia erano stati promossi a mio esclusivo ed effimero dominio per questa
giornata d’inverno. Sdraiato non l’ho nemmeno sentito arrivare, sedersi. Chissà da quanto
tempo è lì. Razionalizzo pensando che dopotutto il ragazzo non poteva sapere di questo mio
estemporaneo atto di dominazione della spiaggia. In ogni caso l’incanto della beata solitudine
si è rotto. Come solitamente accade ogni volta con gli incanti fugati, riappaiono
immediatamente le concrete esigenze reali, ho fame.
Prima di alzarmi getto un’ultima occhiata distratta al ragazzo. Che sta facendo? Vicino a sé
tiene un bianco fagotto di panno annodato. Lo sta aprendo. Ne trae un pane civraxiu, una
grande pagnotta, tipico della piana del Campidano che taglia con un lungo coltello pattada
dal manico d’osso. Tiene la pagnotta con la sinistra stringendola verticale al petto. Con la
destra il pattada procede dal petto, la lama verso l’esterno a tagliare senza potersi ferire, fino
a quando alla fine con un ultimo fendente il pane s’arrende alla lama. Ripone una metà e
procede a tagliare una fetta, due, tre, quattro. Dal fagotto ora fuoriesce il formaggio.
Mi ridesto, effettivamente lo sto proprio fissando, sarà la fame. Che aspetto ad andarmene?
Il ragazzo è in piedi che cammina lentamente sulla sabbia verso di me. Si avvicina serio e
silente, ora che lo vedo bene, vicino al sasso al quale ho appoggiato il mio zainetto, gli sorrido
non sapendo esattamente cosa voglia. Si accuccia, appollaiato sulle punte dei piedi, senza
guardarmi poggia sul sasso una grossa fetta di pane e sopra di essa un pezzo di formaggio.
Sempre in silenzio subito si rialza, si allontana, si risiede vicino al suo fagotto.
Non sono riuscito a dire niente. Non ho capito niente. Nemmeno l’ho ringraziato. Sono
arrabbiato con me stesso per la mia incapacità comunicativa. Sto per addentare il pezzo di
ricotta infornata che mi ha lasciato, con quella crosta bruna che sa di forno e di bruciato, e fa
da contrasto alla pasta tenera, bianca, gustosa, che mi accorgo dell’assurdo di mangiare
separati da trenta metri di spiaggia, soli in una spiaggia lunga chilometri. Mi alzo con pane e
formaggio e lo raggiungo dov’è, sedendomi a poca distanza. Il silenzio continua, questa volta
al mio avvicinarmi ha sorriso lui.

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Appena sono seduto addenta il suo pezzo di ricotta, subito dopo il pane. Addento anch’io, lo
stomaco divampa mostrando una fame rabbiosa. Mangiamo così, lentamente, nonostante la
fame, in silenzio, guardando il mare. La ricotta è gustosa, gentile, fatta esclusivamente con
latte di pecora. Il mio pezzo presto è finito.

Il ragazzo mi passa il pattada ed una mezza forma di un formaggio curiosamente esagonale.


Ne taglio una fetta con quella lama così grossa che m’impaccia. Prendo anche altro pane.
Questo è caprino, formaggio molle da tavola, prodotto esclusivamente con latte di capra
intero; la pasta è bianchissima, mantecata, di sapore gradevolmente acidulo.
Non è finita qui ecco un’altro tipo ancora, è un formaggio di forma canestrata, una crosta di
colore leggermente paglierino, un sapore piccante ed aromatico. E’ pepato, formaggio a pasta
dura, fatto con latte di pecora, coagulato con caglio di capretto o misto di agnello e capretto.
Alla cagliata sono aggiunti grani interi di pepe nero, viene stagionato per sei mesi.
La fame è scomparsa, vado avanti per gola e curiosità. Ho una sete del diavolo. Sono allegro
e rido internamente per l’assurdità della situazione, ci stiamo ingozzando e scambiando pezzi
di formaggio e pane da più di mezz’ora in silenzio. Nulla è stato detto.
Ancora masticando la mia fantasia trasforma il ragazzo che mi è accanto in un commesso
viaggiatore di formaggi che sta sfoderando il suo repertorio in una sorta di dimostrazione
come quelle porta a porta.
Al posto della consueta valigetta il suo candido fagotto sembra una sorta di gonnellino di eta
beta capace di sfoderare tutti i tipi di formaggi sardi ed enormi forme di pane civraxiu. Questa
idea mi sembra ridicola ed improvvisamente il divertimento interno si esteriorizza in una
risata inarrestabile che non riesco a sopprimere e a trattenere.
Il ragazzo prima mi guarda stupito cosa che aumenta le mie risate, poi comincia a ridere
anch’esso. Ci fermiamo ansimanti, lacrime agli occhi, formaggio in mano, cosparsi di briciole
di pane.

Gli chiedo come si chiama. “Piero” è la laconica risposta. “Piero hai qualcosa da bere?” gli
domando come se ormai tutto mi fosse dovuto. Sempre corto di parole mi allunga un anonimo
fiasco di vino rosso dal quale bevo a garganella lunghe sorsate. Più tardi mi darà il responso di
un sommelier dicendomi che è Mandrolisai rosso, fatto di uve muristellu, cannonau, monica.
Di aspetto brillante, rosso aranciato, ha un aroma intenso, fragrante, vinoso, con un profumo
caratteristico molto gradevole, che prelude ad un gusto asciutto, sapido, persistente, schietto,
con un retrogusto gradevolmente amarognolo. Ottimo ed ovvio accompagnamento, ai
formaggi sardi, ci mancherebbe!
Piero, finalmente parla per domandarmi cosa avessi da ridere, gli racconto la storia del
commesso viaggiatore piazzista di formaggi sardi, ridiamo ancora. Non è un commesso
viaggiatore, i formaggi sono l’omaggio ricorrente del nonno che vive vicino a Sorgono. Un
grosso borgo posto quasi al centro geografico della Sardegna, capoluogo del Mandrolisai,
regione che da il nome al vino, prodotto dal fratello del nonno, che abbiamo bevuto.

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Gli chiedo perché non abbiamo parlato prima. Mi guarda a metà tra il meravigliato ed il
divertito, spiegandomi che a volte non ce n’è bisogno, che a volte si può anche superare la
diffidenza o l’imbarazzo con un pezzo di formaggio ed una fetta di pane.
Ci salutiamo stringendoci fortemente le braccia a vicenda, così avvinghiati ringrazio l’unico
fratello di formaggio che ho al mondo per la lezione di comunicazione ricevuta.

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6.Cavallini selvaggi
Giara di Gesturi, marmilla! Luce, vento, roccia e spazio

Il vento caldo dell’estate imminente muove appena l’intricata macchia di mirti, lentischi e
cisti marini di questa piccola savana alberata, sospesa nel cielo, che è la “giara”.
A vederla da lontano, la Giara di Gèsturi colpisce per la curiosa forma di gigantesca piramide
tronca, che ricorda i paesaggi spagnoli delle “mesas”.
La giara è un vasto altopiano approssimativamente rettangolare, lungo una quindicina di
chilometri e largo circa un terzo, che si eleva di circa seicento metri sulla pianura circostante.
Non è l’unica giara della Sardegna centro-meridionale: ci sono anche le più piccole Giara di
Serri e Giara di Simala o di Siddi.
Il tramonto mi sorprende nel bosco di sughere di Paùli Maiori di Tuili, mentre le luci radenti
dell’ultimo sole incendiano di rosso i tronchi scorticati e si riflettono nel rigagnolo della vicina
sorgente.
Vedo una Sardegna dalla bellezza selvaggia. Sembra che non abbia orizzonte e che il cielo mi
avvolga al di là delle chiome di lecci, roverelle e sughere.
Sensazione primordiale, sottolineata da un possente nitrito. Sono i cavallini della Giara,
forse gli ultimi cavalli selvaggi d’Europa. In fila indiana, l’uno dietro l’altro, mi sfilano
d’innanzi. Saranno una ventina, con il manto baio o morello, bassi di statura. Vengono alla
sorgente per dissetarsi.
Sono quasi dei pony, difficilmente arrivano al metro e mezzo di altezza al garrese, hanno
grandi occhi a mandorla e una fluente criniera.
Nell’intera giara ne vivranno 700: di questi poco più di 300 appartengono a privati dei
comuni di Genoni, Tuili e Setzu; 180 all’Istituto per l’incremento ippico di Ozieri; i restanti
alla locale comunità montana.
Pascolano liberamente, e sono ghiotti dei ranuncoli d’acqua che crescono abbondanti in
primavera nei “paùli”, una sessantina di stagni che si formano sulla giara con le piogge
invernali. In estate la gran parte dei “paùli” si asciuga e ai cavallini non rimangono così che le
sorgenti per abbeverarsi.
Quella dei cavallini della giara è una storia tormentata. Prima degli anni Trenta si
utilizzavano come animali da lavoro per trebbiare il grano della Marmilla. Una volta l’anno
erano raccolti in branchi e portati giù per le “scalas”, i ripidi canaloni che una volta
rappresentano i soli accessi all’altopiano, sino ai paesi. A fine raccolto, gli esemplari
sopravvissuti venivano liberati di nuovo sulla giara.

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Oggi corrono altri pericoli: l’inquinamento della razza, definita Equus caballus giarae,
causato da incroci con cavalli di taglia superiore; la macellazione; la caccia di frodo.

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7.Custode del nuraghe


Su Nuraxi, Marmilla! Incontri, Miti, Riti e Storia

Era quasi estate quando ho visitato l’ultima volta il nuraghe Su Nuraxi di Barumini, civiltà
megalitica protosarda (XVII-XIII sec. a. C.). Ho salito il colle dominante l’enorme distesa
senza alberi della Marmilla. Sono entrato nel villaggio nuragico, conglomerato di basse
capanne a base circolare in pietra, che si stende ai piedi del nuraghe.
Girando in un immoto silenzio per gli stretti interstizi ricavati tra le pareti basaltiche delle
capanne ho intravisto le tracce di una quotidianità remota: un forno da pane, un mulino, un
pozzo; la capanna “del Parlamento”, con il suo sedile circolare e le sue nicchie, testimonianza
di una politica assembleare o di perdute valenze religiose.
Cercando l’entrata dell’imponente nuraghe ho visto incastrato tra i possenti massi basaltici
che lo compongono un tronco di ginepro, forse residuo di una tecnica costruttiva basata
sull’uso della leva. Entrando nel nuraghe, attraversato il cortile dotato di pozzo, sono
rapidamente salito sul mastio centrale sentendo il vento incunearsi per le ripide scale di pietra
a sollevarmi dall’afa.
La vastità del paesaggio mi ha assalito: l’aperta ed ondulata campagna, segnata da campi di
cereali geometricamente perimetrati, si esaurisce improvvisamente nei contrafforti
meridionali della Giara di Gèsturi; in un angolo di questa piana dominata e schiacciata
dell’incombente mole della Giara si eleva un colle perfettamente conico, suggestivamente a
forma di mammella tanto da dare il nome al territorio circostante, la Marmilla, dominato dai
ruderi, pochi davvero, del castello di Las Plàssas, fortificazione militare risalente al 1100 per il
controllo del confine del Giudicato d’Arborea.

L’ETRUSCO SUL NURAGHE


Appollaiato in cima a quei blocchi di pietra di proporzioni colossali, disinteressato a quello
che la giovane erudita ragazza che fa da guida racconta, ricordo la prima volta che, su una 500
scassata, venni a visitare il complesso nuragico. Di quella prima visita paradossalmente non
rammento il nuraghe e nemmeno il villaggio nuragico, ricordo nitidamente il custode del
nuraghe, senza però aver mai conosciuto il suo nome.
Ognuna delle innumerevoli volte che ho portato qualcuno, sardo o continentale che fosse a
visitare Su Nuraxi, il Custode del nuraghe mi ha sempre riconosciuto. Immagino per la mia
mole imponente che vicino a lui s’ingigantiva ancora di più senza per questo provocargli il
minimo disagio, oppure per la voce tonante che ebbe una volta modo di sperimentare quando,
gridando all’aperto, riuscii ad azzittire un vasto e disseminato gruppo di turisti che non gli
permetteva di esporre le sue ardite estrapolazioni sulla storia del nuraghe.

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Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Lui mi ha sempre chiamato l’Etrusco, avendogli io raccontato di una fissazione del mio
nonno paterno che voleva credere che le origini della famiglia si perdessero non solo in terra
etrusca, ma proprio nella razza stessa.
Io di converso l’ho sempre presentato a tutti gli amici che gli affidavo per la visita come il
Custode del tempo, giocando sul suo lavoro e sull’immagine pietrificata dal tempo passato che
il nuraghe evoca.

Ovviamente non potevo immaginare che molti anni dopo il mio incontro con il Custode del
tempo Sergio Atzeni avrebbe scritto un meraviglioso libro, “Passavamo sulla terra leggeri”, in
cui proprio un custode del tempo è il protagonista principale. Non che ci fosse qualche
analogia tra i due personaggi: quello di Atzeni, colto ed eccellente didatta, capace di sintesi e
chiarezza espositiva, un affabulatore come il suo stesso creatore; quello di Su Nuraxi,
intelligente quanto ignorante, di una simpatia travolgente, dalle spiegazioni confuse,
superficiali, palesemente sbagliate, sempre immaginifiche e dotate di grande ironia.

JAM SESSION
Il racconto del Custode del tempo si articolava in un nucleo, ripetuto assolutamente
invariato: che poteva raccontare tutto di seguito, con voce lenta cadenzata, monotona, quando
mancava l’interazione della gente che accompagnava; oppure essere sempre fatto nello stesso
modo ma spezzettato quasi in singole frasi ornate, inframmezzate da varianti estemporanee
che non mutavano la propedeuticità, l’ordine cronologico, in cui le frasi del nucleo originario
dovevano essere dette.
Se chi lo circondava era più proattivo, arrivava con un minimo di conoscenza, non si limitava
a domande a bassa interazione ma magari aveva qualcosa da aggiungere, qualche tesi da
avanzare, allora il Custode del tempo dava il meglio della sua interpretazione.

Non perché fosse realmente in grado di interloquire con conoscenze aggiuntive di riserva
che non appartenevano al nucleo del suo racconto, ma perché ironica sfrontatezza, inventiva e
capacità d’associazione, unite alla voglia d’assecondare il turista, ovviamente per elevare la
probabilità d’ottenere una mancia, lo rendevano brillante, dotato di quello che oggi si
potrebbe chiamare pensiero laterale.
Ci siamo conosciuti così, l’Etrusco e il Custode del tempo, a duellare con le parole, a farci da
spalla, io a lui, sempre, rigorosamente; era giusto, ero sul suo territorio, di fronte ad una
platea di turisti che non riuscivano a capire che non ero, come loro, alla prima visita ma che
con il Custode del tempo avevo un legame particolare.
Dopo qualche visita, quando siamo entrati in confidenza, mi presentava direttamente ai
turisti come l’Etrusco, in questo modo m’estraniava dal gruppo, portandomi dalla sua parte,
quella degli “esperti”. Raccontava che ero uno studioso delle grandi pietre che veniva spesso
a vedere Su Nuraxi, per cercare le prove di come gli etruschi avessero imparato dai sardi
nuragici ad impilare quei sassi basaltici con i quali costruivano le loro mura megalitiche. Solo

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una volta un turista mi chiese come mai uno studioso come me partecipasse ad una visita
turistica.
Tutte stupidaggini! Ancora una volta mi sorprendo di come io e il Custode del tempo
abbiamo anticipato l’accostamento tra cultura etrusca e sarda che mi pare faccia capolino nel
libro di Sergio Frau “Le Colonne d’Ercole”.
Ci davano fastidio le stesse tipologie di turisti, i disinteressati, i non curiosi, gli stupidi che
credono che il mondo sia uguale a casa loro, per questo durante la visita mi alzava la palla per
provocare la mia schiacciata verbale sull’ignaro turista di passaggio che aveva detto una
scemenza o fatto una domanda stupida.
Con il Custode del tempo ed altri turisti capitati per caso abbiamo dato origine a vere e
proprie jam session, dove ai musicisti si sono sostituiti gli estimatori del sito nuragico ed alle
griglie di accordi e temi conosciuti, i cosiddetti standards, schemi di discorsi precostituiti.
In queste estemporanee riunioni venivano fuori performances senza nulla di preordinato
che avrei dovuto registrare per le risate che ci facevamo, per le assurdità surreali che
sapevamo creare. Forse ci dimostravamo irriverenti rispetto a Su Nuraxi e più in generale alla
cultura nuragica ma ci divertivamo e facevamo divertire i malcapitati turisti al costo di
impartirgli qualche nozione sbagliata e soprattutto ragionamenti assurdi.
Come per tutte le jam session non avevamo lo specifico scopo di intrattenere gli altri turisti,
ma semplicemente di ritrovarci socialmente tra noi e con i turisti, contenti di avere
l’opportunità di provare nuove battute, nuove inverosimilità e mettere alla prova le nostre
abilità d’improvvisatori.
Ne rimanevano esclusi gli stranieri perché il Custode del tempo parlava inglese, francese,
tedesco, spagnolo, ma di ogni lingua conosceva solo: le tipiche frasi di saluto;
un’enunciazione sul nuraghe; un motto spiritoso, che cambiava per ogni lingua, che gli
serviva nella fase suadente, mai esplicita, che induceva la gradita ma non pretesa mancia.
Impossibile imbastire jam session se non in sardo-italiano.

MISTERO BAMBINO
Il Custode del tempo era nato a Barumini, nel 1930, quando ancora tra Barumini e Tuili, il
paese da cui parte la salita per la Giara di Gesturi, c’era una sassosa collinetta, a vederla da
lontano di nessuna particolare attrattiva ma resa speciale dai miti e leggende che in paese si
tramandavano da sempre che ne parlavano come di un luogo magico e pericoloso.
Ovvio che il posto esercitasse una grande attrattiva su tutti i bambini del paese abbastanza
grandicelli da percorrere il chilometro e mezzo che la collina distava dal paese. Altrettanto
ovvio che potessero nascere, soprattutto tra i maschietti, sfide e riti di iniziazione in cui il
malcapitato doveva mostrare il coraggio di andare da solo su per la collina misteriosa,
nonostante le storie paurose che si raccontavano proprio per lo scopo opposto, tenere lontani
i bambini da un posto giudicato pericoloso.

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Così capitò anche al futuro Custode del tempo che, quando ebbe l’età ritenuta giusta dai più
grandi, dovette andare da solo in un giorno freddo e cupo d’inverno scelto apposta per
aumentare la paura del ragazzino.
La prova definitiva che egli sarebbe veramente salito sulla collina incantata sarebbe stata il
grande segreto che egli lì in cima alla collina avrebbe carpito e condiviso con i compagni più
grandi che già lo conoscevano per essere a loro volta precedentemente andati.
Fu così che, con finta baldanza, il futuro Custode del tempo si assoggettò a quel gioco
sospeso tra coraggio ed un filo di crudeltà. La strada non presentò nessun problema se non il
fango sulle scarpe che avrebbe inevitabilmente agitato sua madre al ritorno. Sotto la collina
piena di sassi, ora vista da vicino, niente di speciale colpì la sua attenzione.
Cominciò a salire verso la sommità della collina una cinquantina di metri più su. Attento a
rispettare il rituale impostogli che prevedeva non una salita diretta, facile dato il pendio non
esagerato, ma una lunga salita a spirale che girando in senso orario gli avrebbe fatto girare la
collina almeno tre volte.
Salendo l’emozione si fece più forte. Finito però il primo giro, nulla di strano era accaduto,
la collina era un sassoso deserto sotto il cielo basso di nubi. Il futuro Custode del tempo iniziò
a dubitare di tutte le malefiche storie sulla collina. Il secondo giro rafforzò la sensazione ed
egli si iniziò a sentire stupido per aver provato paura ad accettare quella facile prova di
coraggio. Iniziò più veloce e rinfrancato il terzo giro di salita sull’insulsa collinetta, era quasi
arrivato in cima che improvviso comparve, a pochi metri dai suoi piedi affrettati,
s’ingurtidroju, l’inghiottitoio costruito dal diavolo per far cadere i bambini vittime designate
dei suoi pasti infernali.
Una buia, tetra finestrella con i bordi di pietra si apriva sul fianco della collina, alla sua
destra. Non un buco, non una grotta, dai contorni frastagliati ed irregolari, ma una finestrella
all’incirca trapezoidale, più allargata verso il basso.
Il futuro Custode del tempo non arrivò mai in cima alla collina, iniziò a correre urlante,
lasciata la spirale rituale, giù per il pendio, affannato, aveva sentito distintamente la voce
grave, gutturale del diavolo imprigionato nella collina, affamato, che veniva dalla finestrella.
A Barumini i ragazzi più grandi lo aspettavano sulla piazza più alta del paese, antistante la
vecchia casa Zapata, costruita tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo, dall’omonima
famiglia aragonese giunta in Sardegna nel 1541 al seguito dell’Infante Alfonso per ricevere in
concessione la baronia di Las Plassas, Barumini e Villanovafranca.
Guardandolo inzaccherato, trafelato, piegato in due per il dolore della corsa e la mancanza di
fiato chiesero: “Quale è il segreto della collina maledetta?”. “S’ingurtidroju de su dimoniu! “,
sussurrò col poco fiato residuo il futuro Custode del tempo.

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MISTERO ADULTO
Delle tante cose che il Custode del tempo mi raccontava quella che mi piaceva di più
riguardava la storia degli scavi del nuraghe Su Nuraxi. Qui, forse perché allo scavo aveva
partecipato direttamente, il suo discorso si arricchiva ed usciva dal canone ripetitivo della
presentazione turistica.
Il Custode del tempo da ragazzo aveva fatto il pastore ma dopo la guerra, alla fine degli anni
’40, lavorava come bracciante per il proprietario del terreno in cui si trovava la collina sassosa
della sua infanzia, di cui aveva contribuito a svelare il mistero.
Fu nuovamente lui, assieme con gli altri braccianti, che, questa volta adulto, diffuse in paese
la notizia, di fatto risaputa da sempre, della presenza di una struttura di pietra sulla sommità
della collina: s’ingurtidroju de su dimoniu era tornato ad essere quello che era: una finestrella
di pietra.
Questa volta, le voci che già precedentemente, la prima parrebbe risale al 1834,
periodicamente, forse ad ogni generazione, erano arrivate in paese circa la collina ed il suo
contenuto di pietra, furono raccolte da un compaesano del Custode del tempo, il giovane
archeologo Giovanni Lilliu (1914) che si era specializzato alla Scuola Nazionale di Archeologia
a Roma ed era tornato nell’isola a lavorare per la “Soprintendenza alle Antichità della
Sardegna”.
Fortuna volle che Lilliu fosse amico del padrone del terreno che gli consentì di ispezionare
la famosa collina. Lilliu si rese subito conto che c’era da scavare per capire cosa ci fosse sotto
la finestrella e, contattata la Regione, ottenne le autorizzazioni necessarie per l’apertura di un
cantiere che scavasse la collina per svelarne finalmente il mistero.
Il giovane bracciante decise in quel momento del suo futuro di Custode del tempo: chiese ed
ottenne di poter lavorare agli scavi, del resto tutti gli operai che vi parteciparono risiedevano a
Barumini. Il direttore degli scavi era ovviamente Lilliu, coadiuvato da due addetti ai lavori, poi
c’era un capo cantiere e un caposquadra. A questo caposquadra rispondeva il futuro Custode
del tempo che tra il 1949 e il 1956 lavorò all’intero scavo del complesso archeologico costituito
dal nuraghe e dal villaggio nuragico circostante.
Vennero organizzate due squadre che facevano turni di lavoro di circa quattro mesi ognuna,
lavorando dalle sei del mattino alle quattro del pomeriggio, compresa una pausa pranzo di
un’ora in cui mangiava pane e cipolla, cardo selvatico, cicoria, perché solo i più abbienti
potevano permettersi vino e formaggio. Veniva pagato a ore e percorreva la distanza da
Barumini al Nuraghe a dorso di mulo.
Una trentina di metri di terra sommergevano il nuraghe, la cui torre più alta è di una ventina
scarsa di metri, e tutto il villaggio circostante. Lo stesso Lilliu non si aspettava di trovare un
tesoro così incredibile. Dopo un anno di lavoro la cima della collina era stata completamente
sconvolta ed iniziò ad emergere la fortezza nuragica, cosa che permise di percepirne la
grande dimensione. All’interno del Nuraghe fu trovato un cortile con un pozzo profondo

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 29


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venti metri che arriva ad una falda d'acqua ancora attiva ed una stanza pavimentata in sughero,
identificata, presumibilmente, con la camera del Re.
Gli scavi hanno consentito di ripercorrere le diverse fasi della costruzione della reggia e del
villaggio circostante, confermando la continuità di vita dell'intero complesso dal 500 a.C.
sino in età punico-roman, dal V secolo a.C - III secolo d.C. .
Per togliere la terra dalle fessure tra le pietre il Custode del tempo usava strumenti molto
banali, tra cui cucchiai, coltelli e pennelli. Numerosi furono i ritrovamenti nel corso dei lavori:
ossa ed uno scheletro umano, che Lilliu pensava risalissero all’epoca nuragica, all’interno di
una delle piccole capanne circolari con la base in pietra del villaggio; ossa di animali, zanne di
cinghiali, corna di cervi; una lancia; una moneta con raffigurata la Dea Minerva, una statua di
bronzo raffigurante un cinghiale che morde una volpe al collo; numerosi bronzetti nuragici
raffiguranti uomini armati e animali; vasi e lucerne ad olio in terracotta; un forno per il pane
con al suo interno addirittura del pane fossilizzato; un altro forno per fondere i metalli,
probabilmente rame e stagno.

GIGANTE ABBATTUTO
Il primo che parlò del nuraghe Su Nuraxi come del Gigante abbattuto fu proprio Lilliu che
lo portò alla luce.
Come ha fatto una struttura così alta e possente ad essere seppellita da trenta metri di terra
dando origine alla collina misteriosa? E’ l’ultimo più moderno mistero suggerito dalla collina
incantata.
Per Sergio Frau, autore del libro “Le Colonne d’Ercole. Un’inchesta”, Su Nuraxi potrebbe
essere stato travolto da una gigantesca onda, uno tsunami, che, dal golfo di Cagliari, si
sarebbe spinta su per tutta la piana del Campidano, la regione a sud di Barumini, fino ad
inghiottire il nuraghe.
Un evento catastrofico che spiegherebbe il motivo per cui molti nuraghi della zona siano
parzialmente distrutti e tutti proprio nella parte orientata verso il Golfo di Cagliari.
Secondo Frau anche lo stesso Lilliu ha confessato di credere che le sue tesi hanno solide
basi.

VISITE
Quando nel 1956 i lavori di scavo finirono il Custode del tempo divenne finalmente tale,
improvvisandosi guida sulla base di quello che da Lilliu aveva imparato mentre scavava.
“Il popolo delle torri ha invaso tutta la Sardegna! - così cominciava l’immutabile racconto
del Custode del tempo - ma a Barumini ha lasciato il più grande esempio di architettura del
passato”.

Poi improvvisamente tra i turisti che lo seguivano ne sceglieva uno che lo colpisse.

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“Tu sei romano?”, mi chiese in quella mia prima lontana visita.

Alla mia affermativa risposta aggiunse: “Hai presente il Colosseo?”

Alla mia seconda ovvia risposta seguì una pausa lunga in cui i suoi occhi mobili mi
scrutarono approfonditamente.
“Ecco Su Nuraxi è la stessa cosa! E’ come il Colosseo, se conosci ed hai capito il Colosseo
allora capisci Su Nuraxi. E’ la stessa cosa, la stessa architettura imponente, lo stesso simbolo
di potere, lo stesso dominio sul territorio circostante”.

La prima volta che gliel'ho sentito dire non ero ancora l’Etrusco ed ho pensato che fosse
pazzo. Col tempo ho compreso l’orgoglio, il riscatto, che Su Nuraxi ha rappresentato per un
minuscolo sperduto paese alla fine del Campidano e per i suoi abitanti capitanati da un
archeologo compaesano che fa la sua più importante scoperta praticamente nel cortile di casa.
Io come romano avevo il Colosseo, lui aveva Su Nuraxi.

Oggi Su Nuraxi è stato dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO e sono più


propenso a dargli ragione: Su Nuraxi è proprio come il Colosseo!
Poi ho sentito tutte le varianti in funzione del luogo di provenienza dell’interlocutore, allora
Su Nuraxi diveniva uguale alla reggia di Caserta, alla torre di Pisa, al palazzo della Signoria a
Firenze, al duomo di Milano, così proseguendo perfino con le varianti estere. Una volta ad un
indiano che parlava un italiano decente gli disse che Su Nuraxi era uguale al Taj Mahal.

Si è fatto dare da me la mancia solo quella volta che io non ero l’Etrusco e lui non era il
Custode del tempo. Tutte le successive volte che l’ho incontrato si è rifiutato perché mi diceva
“Tu Etrusco la storia già la conosci già, non devi pagare di nuovo”.

Un giorno sono tornato al nuraghe, c’era un ragazzo laureato in Archeologia come guida,
erudito, preparato, competente, non sapeva nulla della guida che l’aveva preceduto per tanti
anni e deve aver pensato che non fossi interessato perché non lo stavo ad ascoltare.
Adesso è sempre così, vengo ad accarezzare i vecchi basalti, a fotografare le pietre e i
dettagli, a riempirmi gli occhi, a liberare la mente, ma non voglio sentire più nulla, non faccio
domande e non perché sappia le risposte.
Il tempo delle jam session è finito ed io taccio in attesa che anche le ormai competenti guide
siano sostituite dal nuovo che avanza inesorabile, magari come un podcast scaricabile
sull’ipod.

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8.Dalle sorelle Pintus


Barumini, Marmilla! Incontri, Cibo

La prima volta sono passato per Barumini per assolvere al mio dovere di turista e rispettare
le indicazioni perentorie di qualsiasi guida sulla Sardegna abbiate deciso di adottare. Andavo a
visitare il nuraghe ed il villaggio nuragico Su Nuraxi, la più insigne ed esemplare espressione
architettonica della civiltà megalitica protosarda, recita la mia guida.
Mi fermo a Barumini per chiedere della strada per Tuìli che in pochi chilometri,
attraversando l’ondulata campagna dominata dall’incombente mole della Giara di Gèsturi,
raggiunge il nuraghe. E’ già passata la mezza e per questo colgo l’occasione per chiedere
anche indicazioni su dove mangiare.
E’ una di quelle terse giornate invernali in cui l’incredibile assenza di vento fa pienamente
percepire il torpido tepore solare. I tre vecchietti sulle sedie impagliate, rugosi ed artritici,
esposti al sole come ramarri, ai quali simultaneamente mi rivolgo sono entusiasti di
consigliarmi ed immediatamente concordi. Non c’è scelta, devo andare a mangiare dalle
sorelle Pintus. Ma devo andarci subito, è tardi, il nuraghe può aspettare, il nuraghe è sempre
stato lì.
La trattoria non ha insegna, si affaccia, con una veranda vetrata esposta a sud, su una
piazzetta acciottolata circondata da basse case dall’intonaco scrostato. Si entra direttamente
dalla veranda stretta e lunga, riempita da un decina di tavoli, due sono occupati. All’estremità
sinistra un camino con il fuoco scoppiettante, alla destra la cucina, sulla parete di fondo tre
porte ed un alternarsi di cassettoni, scansie, dispense in legno scuro. Le finestrature della
veranda sono coperte di tendine a pizzo e merletti che stemperano il brillante del sole. Fa
caldo.
Le sorelle Pintus sono due gemelle ed una terza più giovane, rese ancora più uguali dall’età
e dal duro lavoro che le ha piegate ingobbendole. Parlano un dialetto stretto che stento a
capire e che uno degli avventori presenti si offre spontaneamente di tradurre in un altra lingua
che italiano non è ma che certamente comprendo un po' meglio. Non si ordina per vari
motivi, per le difficoltà linguistiche, per l’ovvia mancanza di un menù, per il taglio familiare
della cucina.
Appena seduto il commensale traduttore si alza, prende un bicchiere da una dispensa a lui
nota e mi serve come aperitivo un vino limpido, rosso rubino con riflessi violacei, intenso e
fragrante, ricorda nel profumo la cannella ed il mallo di noce. Solo più tardi scoprirò che
questo vino che, alcuni abbinerebbero ai dessert, che preferisco definire da conversazione,
servito fuori pasto, fresco, è fatto con uve Cannonau lievemente passite, invecchiato a lungo
per renderlo ancor più aristocratico.

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Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Le sorelle Pintus si muovono lentamente occupate in non so cosa visto che nessuno sembra
ordinare, mangiare. Si beve, si chiacchiera o si tenta di chiacchierare con il “continentale” che
sono. Il calore ed il vino, almeno sui 18°, mi sciolgono, la fame aumenta, ma sembra che nulla
debba accadere.
All’improvviso, senza che l’attività delle sorelle Pintus, sparse tra sala e cucina, nulla
tradisca, arriva il mio primo: “sa suppa falza”, una zuppa di pane raffermo cucinata con
cipolle, salsiccia e lardo a fette.
Mettendomi il piatto davanti una delle sorelle mi dice che in realtà è una specialità delle parti
di Sindìa a metà strada tra Macomer e Bosa, strano che non mi sia imbattuto prima in questo
piatto quando ero militare a Macomer.
Il lardo è tagliato a tocchetti e versato in padella per una prima sgrossatura; si aggiunge la
salsiccia tagliata a pezzettoni e, solo alla fine, una robusta dose di cipolla. Il tutto è immerso in
acqua e latte e portato a ebollizione. In ultimo si aggiunge il pane raffermo di due-tre giorni.
Emozionante sensazione gustativa E’ qui che si consuma l’incanto, che si supera lo standard
assoluto dello spaghetto con la buttariga o bottariga, in italiano bottarga, di tonno,
onnipresente in ogni ristorante che si definisca sardo, ed in assoluta contraddizione con la
cucina sarda che, ad esclusione dell’isola di San Pietro e di Cala Gonone, è povera e
pastorale, chiusa all’interno della fortezza Sardegna e non aperta all’insalubrità, seppur ormai
passata, delle coste, malariche e predate dai pirati saraceni.
Sono tutti lì che mi guardano, le sorelle, il traduttore, l’altro commensale. Io mangio, lento,
in silenzio, assaporo il retrogusto di cipolla, lascio che la purea si sciolga in bocca. Il mio
silenzio forse preoccupa gli astanti attenti alla mimica facciale resa di incerta interpretazione
dalla masticazione. La fine del piatto è una esplosione reciproca di voci, commenti,
soddisfazione. Mi complimento con le sorelle Pintus, tutti si complimentano con me per avere
gradito.
Il traduttore si china verso di me e, versandomi altro tipo di vino, mi ricorda che non
mangerò mai più un’altra “sa suppa falza” come questa. Aveva ragione, non ho mai più
trovato chi mi cucinasse questa povera zuppa, è un piatto sparito.
Il secondo arriva poco dopo, angioni cun matafaluga, ovvero agnello al finocchietto.
L’agnello è rosolato assieme ad una grossa cipolla affettata finemente, quando carne e cipolla
sono indorate l’aggiunta di pomodori freschi pelati ridotti a filetti e rametti di odoroso
finocchio selvatico a piccoli pezzi, permette di ottenere un intingolo scuro, saporito e
piuttosto denso.
Sono satollo, l’atmosfera distesa, le reciproche diffidenze dileguate, per questo sono anche
totalmente indifeso da ulteriori attacchi di portata, rifiutare a questo punto significa
offendere, il patteggiamento è lungo. Infine riesco a ripiegare sul dolce, is pardulas , le
formagelle che tanto mi piacciono, evitando contorni e pecorino. Impossibile rifiutare
l’accompagnamento di un liquore al mirto fatto in casa.

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Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Il nuraghe è li a cinque chilometri che mi aspetta ma la distanza è incommensurabilmente


dilatata dal tepore, dal cibo, dall’alcol. E’ in questo momento di pigra inerzia digestiva che la
magia delle sorelle Pintus mi si rivela completamente.
A gesti più che a voce sono da queste invitato a fare un riposino, a distendermi. Ma dove?
Peraltro mi pare un’offerta imbarazzante nei confronti di uno sconosciuto.
Ma la trattoria è attrezzata e si rivela locanda. Le tre porte sulla parete di fondo conducono
in tre stanzette attrezzate con letti in ferro battuto di quella dimensione intermedia tra il
matrimoniale ed il singolo che alcuni chiamano alla francese. L’uso delle stanze non è mai
offerto per la notte mi spiega il traduttore, al massimo per due, tre ore, fino a metà
pomeriggio, non mi devo preoccupare, alza il già esiguo conto di poco.
Cedo repentinamente, scelgo la stanza di mezzo e mi ritiro avendo pagato, ringraziato,
salutato i miei commensali e le sorelle Pintus che vanno a riposare anch’esse. Quando mi
sveglio se non vedo nessuno posso andare via tranquillamente, devo solo ricordarmi di
accostare la porta.
Il letto è duro, cigola un poco, il cuscino forse troppo basso, non c’entro in lunghezza per
cui mi distendo in diagonale. Le lenzuola odorose, bianchissime, semplici, ruvide e rugose di
pulito. La stanzetta è monacale. Soffitto a travi esposte di legno che fisso stordito già coricato,
un cassettone dal piano in marmo con specchio, vicino quei tre piedi con bacinella smaltata,
brocca ed asciugamano, su una parete una panca bassa, una finestra a nord che fa una
penombra conciliante. Il sonno mi precipita addosso fugando gli ultimi sensi di colpa per il
nuraghe perduto.
Quando mi sveglio il sole è già basso, l’effetto del vino è finito, il ricordo della bella mangiata
mi segue ancora, mi seguirà sempre. La veranda è deserta, la luce del prossimo tramonto
indora i tavoli puliti e spogli, silenzio. Esco in punta di piedi ancora meravigliato dalla civiltà
del trattamento ricevuto, dal quel senso d’altri tempi ed altri ritmi che le sorelle Pintus ancora
si sforzano di proporre nella loro locanda.

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Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

9.Corsa sulle nuvole


Tempio Pausania! Luce, vento, roccia e spazio, Moto, Viaggio

Ho cambiato moto e sono tornato in Sardegna con una Honda CX 650E. Appena sbarcato
vado a cercare le foreste di sugheri. Per questo mi butto all’interno salendo su tornanti
incessanti, puntando verso Tempio Pausania, poi, aggirata la città, mi dirigo verso Oschiri,
per costeggiare il lago del Coghinas.
Al valico di una cresta, un cielo basso, gonfio di nuvole nere in tumultuosa corsa, mi
schiaccia. E’ un attimo e silenziosamente crolla.
Le nuvole che salgono la cresta sospinte dal vento. Appena svettato, scorrono dense sulla
strada ricoprendola di soffice bambagia e ricadono a valle con incredibile velocità. Luce
spettrale, freddo intenso e bagnato. Raffiche di vento scuotono la pesante moto.
All’improvviso non corro più sulla strada che segue la linea della cresta. Scosso, corro su
quella grigia inconsistenza. Incredibile privilegio di correre in moto nel cielo.
Ho paura. Quella che l’uomo cittadino, moderno e civilizzato, ha dimenticato. Paura della
pioggia, del vento, della luce violastra del cielo, delle rocce ruvide che mi scivolano attorno,
della vegetazione aspra che le frantuma e ricopre.
Eppure continuo a camminare veloce sulle nuvole, sino a quando la strada, scendendo, non
mi ci precipita dentro. Il colore si spegne improvviso. Il rosso della moto ingrigito. I mille
verdi della macchia bagnata divenuti sinistri baluginii d’acciaio. Celata del casco abbassata,
difesa da goccioline minute che, prima di bagnare, appannano ed appiccicano.
La paura è sempre lì, presente, attenta. Mi tiene in agguato di odori, rumori, mi fa sentire il
freddo più intenso. Ho fame, risposta ancestrale a bisogno di luce e calore.

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10.Epopea del viaggio


Macomer! Moto, Viaggio, Libri

Un giorno accadde che la mia vita s’incupì, e, fuggendo verso la pace luminosa, partii per
l’isola dove il vento si fa paesaggio. Fu un incanto. La Sardegna fu una visione abbacinante;
in questa terra sconosciuta, il passato trascorse ogni giorno al mio fianco, come se il mondo
non avesse ruotato per quattro o cinque decenni.
L’ho fatto veramente, lo rifarò di sicuro … anche se, purtroppo, queste non sono parole mie,
sono la rielaborazione di quelle di un viaggiatore francese, Gaston Vuillier (1846-1915).
Pittore, disegnatore e saggista francese, diviene famoso in Francia nel 1878 anno in cui come
paesaggista espone i suoi quadri anche a Parigi, alla fine del XVIII secolo è molto conosciuto,
illustra opere di autori francesi e collabora con diverse riviste.

Per una di queste riviste, il "Journal de voyages", dal 1888 al 1896, Vuillier compie un lungo
viaggio attraverso il mediterraneo, dalle Baleari, in Corsica, poi in Sardegna, da qui a Malta, di
rimbalzo sulle coste della Libia per finire in Sicilia ed alle Eolie, scrivendo vari servizi che
successivamente, completato il viaggio, raccoglierà in un libro intitolato "Impressions de
voyage", pubblicato a Parigi nel 1891.

Esiste una seconda versione dell’opera, che supera la limitazione della prima organizzata in
fascicoli, ed ha un assetto più unitario, pubblicata in due parti pochi anni dopo: “Les iles
oubliées - Les Baléares, la Corse, la Sardaigne”, pubblicato nel 1893; “La Sicile: impressions
du présent et du passé”, apparso nel 1896 che parla delle isole Eolie.
Il primo libro che ho letto sulla Sardegna è stato il suo, nella versione del 1891, riproduzione
anastatica dell’originale in francese, con traduzione in italiano a fronte, temo ora introvabile,
prestatami da Bruno, che in Sardegna mi portò per primo.
Più recentemente l’ho ritrovato tradotto in italiano, questa volta a partire dalla versione del
1893, per la sola parte che riguarda la Sardegna, con il titolo “Le isole dimenticate la Sardegna
impressioni di viaggio”, Editore Lisso, 2002.

L’opera di Vuillier sembra descrivere un’epopea alla Salgari ambientata, invece che in terre
lontane, misteriose, vaste e sconosciute, in una terra vicina, altrettanto misteriosa, limitata e
anch’essa sconosciuta, la Sardegna. Forse è proprio questo libro che mi ha fatto mitizzare il
viaggiare in Sardegna.
Le vere parole che Vuillier scrive nell’agosto del 1892:
Quando le combinazioni della terribile annata m’ebbero sballottato in Algeria, m’occorse
frequentemente d’attraversare il Mediterraneo ...

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 39


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

… da allora, queste isole misteriose, lontane, vaghe, intraviste come un fluttuante miraggio,
non lasciaron più il mio fantasticare.

Perduto così in un sogno senza fondo e senza forma, non sapevo di queste isole vagamente
apparse, che ciò che si legge a scuola.

… ignoravo tutto, assolutamente tutto, della povera Sardegna abbandonata, perduta in


un’oscurità profonda.

Un giorno accadde che la mia vita s’incupì, e, fuggendo verso la pace luminosa, partii per le
Isole dimenticate. Fu un incanto.

La Sardegna fu una visione abbacinante: in questa terra sconosciuta agli Italiani medesimi,
dove i costumi d'altri tempi hanno conservato la loro originale bellezza conobbi da vicino,
familiarmente, il farsetto di velluto, ed il medioevo trascorse ogni giorno al mio fianco, come se
il mondo non avesse ruotato per quattro o cinque secoli.

Già queste poche parole evidenziano come la scrittura di Vuillier sia visiva, realistica, come
se il suo essere pittore, oltre che nelle numerose incisioni che corredano l’opera, si trasferisse
invariato nella sua scrittura, per rendere il libro ricco d’immagini letterarie forti, vivide,
colorate, caratterizzate.
Vuillier è certamente un viaggiatore evoluto in grado di non riportare a casa solo banalità ma
piuttosto schizzi, dipinti e scritti su quanto visto e vissuto. Questo non toglie che sia un
personaggio che oggi diremmo fortemente autocentrato, poco incline a farsi permeare
totalmente dall’esperienza a lui estranea offertagli dalla Sardegna, come è chiaramente
evidenziato dai continui rimandi e rimpianti riferiti alla Francia.
Non bisogna scordarsi di leggere Vuillier collocandolo all’interno di un quadro di
riferimento che tenga conto del contesto storico, sociale e culturale della Francia di fine ’800,
rapportato a quello sardo assolutamente estraneo al primo.
In aggiunta la sua opera, come molte altre del medesimo genere del tempo, si rivolge ad un
tipo di lettore ben definito, per competenze e esigenze di lettura, che non desidera un
particolare impegno sociale, né approfondimenti che possano turbarlo o contagiarne i valori
fondamentali.
Vuillier sbarca a Porto Torres in una cupa mattina di ottobre del 1890, dopo una tempesta in
mare. Quando vede per la prima volta le coste sarde, affida le sue sensazioni a un
“acquerello”:

“Il cielo si colorò di rosa pallido e sagome di montagne si dipinsero davanti a noi. Questa è la
Sardegna”.

Poi però annota che Porto Torres, è: “triste e povero, con case basse, dove si vedono errare
bambini smunti, e il suo porto pare uno stagno”.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 40


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Il tema delle “acque morte”, le paludi malariche, è una vera ossessione per Vuillier, che vede
nella malaria la causa della cappa di povertà che opprime l'isola devastando la salute dei suoi
abitanti.
La malaria diviene il simbolo di un oblio antico, perpetrato ai danni della Sardegna dalle
tante dominazioni succedutesi. Oblio che continua anche a valle della costituzione dello Stato
italiano che, nel momento del suo viaggio, esiste da trent’anni.
Questa ossessione, questa visione negativa, anche se probabilmente realistica, delle
condizioni della Sardegna, a tratti oscura la bellezza delle sue pagine, che entusiasmano
specialmente nelle descrizioni della natura; delle foreste ancora folte e numerose; dei costumi
colorati dei paesi.
Come viene ben detto nella prefazione all’edizione italiana del libro di Vuillier, la
“scoperta” della Sardegna dura poco più di un secolo, dagli ultimi decenni del Settecento alla
fine dell’Ottocento, e si conclude proprio con Gaston Vuillier. Sono arrivato tragicamente
tardi per ragioni anagrafiche.
Dopo Vuillier, i viaggi usciranno dallo schema dell’informazione, seppure infarcita da
incursioni sentimentali e colorazioni poetiche, ed ispireranno opere più decisamente
letterarie, come “Sea and Sardinia” di David Herbert Lawrence, 1921; “Sardegna come
un’infanzia” di Elio Vittorini, 1936 e il meno conosciuto “Viaggio in Sardegna” di Virgilio
Lilli, 1933, nato nella medesima occasione di quello di Vittorini, una crociera a cui è abbinato
un premio letterario.
Quello che amo di Vuillier è la dimensione del viaggio che, nel suo tempo, diviene
addirittura epopea e assume delle dimensioni temporali oggi impossibili, sia per gli impegni
di vita che per la celerità dei mezzi di trasporto. La Sardegna di Vuillier è un territorio molto
più grande e misterioso della “mia” Sardegna e questo un poco mi fa invidia.

MACOMER
Quando nel dicembre del 1983 sono partito militare alla volta di Macomer ero impensierito
dalla descrizione che qualche anno primo avevo letto sul libro di Vuillier.
A Macomer ho vissuto per cinque mesi, da dicembre ad aprile, ovviamente la malaria non
c‘era più, ma non avrei mai creduto che, ad una trentina di chilometri dal mare e a soli
cinquecento metri di altezza, potesse fare così freddo e nevicare tanto.
“Clima forte” mi dicevano gli abitanti del luogo, nello stesso modo di come molti anni prima
avevano parlato a Vuillier del clima di Macomer, e generosamente mi offrivano da bere. Non
mi facevo pregare troppo.
Vi propongo la traduzione delle due versioni dell’opera di Vuillier, le differenze non sono
tanto dovute al traduttore ma proprio al rimaneggiamento del testo operato dall’autore.
Personalmente preferisco la più sintetica, l’originale del 1981.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 41


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Traduzione dell’opera del 1981 Traduzione dell’opera del 1982


All’estremità di quest’altopiano che i sardi
coltivano, bene o male, fra i blocchi di roccia,
Macomer guarda dall’alto dei suoi basalti; si
vede il declivio delle colline, la pianura senza
confini e, da lungi, il Gennargentu, cima
bianca di neve nell’immensità della terra e
del cielo.
Antica borgata costruita con frantumi di Macomer, antico borgo fatto di frantumi di
blocchi di lava, sta rannicchiata su un lava, s’è rannicchiata su una terra talmente
terreno così aspro, così rude che gli alberi aspra e rude, che gli alberi non osano
nemmeno osano affrontare. aggrapparvisi.
Intorno non si vede altro che pianori Intorno all’ammasso delle sue basse dimore
deserti, pianure desolate, cinte da alti non si ha sotto gli occhi che nuraghi in
contrafforti e il gigante maestoso rovina, tombe di giganti, altopiani deserti,
Gennargentu solleva la sua fronte calva e piane desolate, dalle quali svettano l’arido
biancheggiante, coronata di nuvole. monte Santo Padre ed il tetro Lussurghi.
Quì, in ogni stagione, i venti soffiano, I venti fischiano in ogni stagione, urlano e
urlano o singhiozzano; Macomer è la loro singhiozzano intorno a Macomer, che il
preda che diventa bersaglio, per settimane maestrale maledetto esaspera per settimane e
intere, del maledetto maestrale. settimane ancora.
Quando queste raffiche infernali si Poi, quando quest’uragano si placa, arriva
placano, il sole dardeggia sui basalti che il sole, che arde i basalti; dopo di che, dal
diventano incandescenti ed una febbre assai surriscaldamento delle paludi, degli stagni,
pericolosa si leva e distilla i suoi veleni. dei fiumi, nasce una pericolosa febbre.
L'autunno sferza questo triste suolo con L’autunno, lo vedo, sferza questo triste
pioggie glaciali e da questo altipiano si suolo con piogge glaciali. Da queste colline
assiste alle corse sfrenate delle brume che il assisto ora a corse scapigliate della bruma.
vento di ponente morde e lacera.
È proprio il cupo paesaggio che conveniva
a lunghe lotte, dopo la disfatta in cui
soccombette la libertà dei Sardi.
Il nostro clima è forte, non è malsano — «Il nostro clima non è malsano», dice la
afferma la gente del posto — purché si evitino gente di qui; «ma a condizione di evitare le
le infreddature. infreddature».
Peraltro la maggior parte di essi muoiono Tuttavia, numerosi fra i Macomeresi
di polmonite o di febbri reumatiche muoiono di polmonite o di febbri reumatiche,
particolarmente gravi. aventi una duplice causa: prima, il passaggio
improvviso dal caldo al freddo, poi
l’avvelenamento miasmatico.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 42


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

11.Canto
Caserma Bechi Luserna, Macomer! Incontri, Libri

Ignoranza ed intelligenza, argomento delicato da trattare per questo lo faccio sulla base di
ricordi reali che risalgono a quando ho fatto il servizio militare.
Servizio che all'epoca era obbligatorio e se facevi l'obiettore ti facevi 18 mesi invece di 12,
altrimenti mai avrei fatto il soldato. In caserma ero già grande, a 24 anni avevo appena
terminato gli studi di fisica, la stragrande maggioranza degli altri soldati erano solo
diciottenni. Grande esperienza di vita il militare, quella che più lucidamente mi ha messo a
contatto con l'ignoranza (la non conoscenza) e l'intelligenza (la non stupidità).
C'era ignoranza perché di circa trecento commilitoni, una ottantina erano analfabeti totali,
più di un centinaio di semianalfabeti con la II elementare, che sapevano fare la firma e leggere
a fatica i titoli dei giornali, solo una manciata erano gli universitari, qualcuno già laureato
come me.
C'era intelligenza, nascosta sotto la difficoltà di capirsi che il dialetto stretto provocava,
nascosta sotto la reciproca diffidenza del sentirsi appartenere a mondi diversi.
Eravamo vestiti con la stessa divisa, avevamo i capelli tagliati nello stesso modo, questo non
ci rendeva omogenei, già stringersi la mano ci separava nel riconoscerci, con la fatica impressa
indelebilmente sopra i palmi o senza quei segni di callosa rudezza.
Vorrei fosse chiaro ancor prima che leggiate il seguito: sono dalla parte dell'ignoranza.
Perché è tra gli ignoranti che ho trovato le più luminose dimostrazioni d'intelligenza.
Viceversa ho generale disistima di coloro che conoscono e ignoranti non sono, quasi che
l'assimilazione di conoscenze porti a volte a usare il cervello solo come mero contenitore,
rinunciando ad elaborare sulla base di queste un pensiero intelligente, per questo avvincente
e degno di essere trasmesso.
La storia di quello che racconto è quella di un soldato sardo, mio commilitone, Delogu, di
cui non ho mai conosciuto il nome, visto che in caserma ci chiamavamo sempre e solo per
cognome. Delogu l'ho in mente da quegli anni lontani, sempre, e, anche se non lo ha mai
saputo, lo considero uno dei miei Maestri, molto di più di alcuni professori di cui nemmeno
ricordo il nome, perché ha saputo insegnarmi qualcosa d'importante.

FORT APACHE
I ragazzi di leva già sapevano tutto di Fort Apache, quale era la compagnia con le camerate
calde, quella con i bagni nuovi, i comandanti rognosi, i servizi peggiori ed i più facili. Come
avessero saputo tutte quelle cose mi era sconosciuto. Ritengo che per paura dell’ignoto
inventassero realtà che potessero confortarli.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 43


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Fort Apache è il nomignolo, affibbiato e tramandato di scaglione in scaglione, alla caserma


Bechi Lucerna, del 45° Battaglione di fanteria Arborea, di Macomer, destinata
all’addestramento al servizio di leva. Motto della caserma: “Sa vida pro sa patria” , la vita per
la patria.
Come ogni caserma di leva anche questa svolge un primario compito per la patria da
difendere: consuma ogni risorsa che vi entri, soldati, ufficiali, materiali, alimenti, per non
produrre assolutamente nulla di materiale o di utile come servizio reso verso il territorio che
la ospita. Tutta l’energia legata a ciò che entra in caserma è impiegata per forgiare le giovani
menti e trasformare giovanotti svogliati e distratti in veri uomini, soldati.
Il paese di Macomer ospita di malavoglia la presenza ingombrante ed un poco odiosa della
caserma che però garantisce un minimo di benessere legato all’indotto della caserma ed alla
libera uscita dei soldati in essa reclusi.
E’ incredibile come in un paesotto ad una trentina di chilometri dal mare e cinquecento
metri d’altezza possa esserci un clima d’inferno: umido, ventoso e freddo. E’ incredibile che
già a partire da dicembre e fino a febbraio possa nevicare una ventina di centimetri in una
notte.
Questa performance climatica è efficacemente descritta dalle parole di Gaston Vuillier,
pittore, disegnatore, bozzettista e paesaggista francese, nel suo libro del 1890 “Ricordi di
viaggi in Sardegna”. La sua descrizione permane pienamente valida anche a distanza del
secolo trascorso.

ALTANA
Il freddo intenso durante il periodo invernale non aiuta i soldati impegnati ad assolvere la
missione della caserma, come già detto votata al non produrre assolutamente nulla. Essi
montano la guardia, su altane appositamente sopraelevate nel pieno del vento gelido ed
impetuoso, ad ormai pericolanti depositi di giganteschi bossoli esplosi ed innoqui, residuo di
attività belliche, così si mormora, risalenti addirittura alla prima guerra mondiale.
L’ufficiale di picchetto, il tenente Cossu, sardo, precede con passo nervoso, armato di una
fioca torcia giallastra, il piccolo manipolo di soldati “continentali” che stanno facendo il giro
per il consueto cambio della guardia alle altane del deposito. E’ notte ed una spessa falce di
luna crea un effetto surreale accendendo il bianco dei campi innevati e dei fiati sospesi
dell’ufficiale e dei soldati, tutto il resto è di un nero opaco impenetrabile, la torcia è
assolutamente inutile.
L’altana alla quale ci si avvicina è l’ultima del giro, i soldati e l’ufficiale sono impazienti di
tornare nelle fetide e gelate brande del corpo di guardia lasciate già da una mezz’ora.
Il silenzio è rotto dallo strascicare stanco e svogliato dei passi ai quali si somma una sorta di
lontano, ritmato, gutturale, lamento.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 44


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

L’ufficiale improvvisamente accelera il passo, ha riconosciuto nel vago lamento quelle forme
metriche musicali sarde, i mutos, tipici dell’area logudorese, o l’altra tanto simile i mutettus,
del campidanese, usate tipicamente nell’improvvisazione delle spontanee gare poetiche.
L’altana ancora non si vede, ma il canto sardo è ora pienamente riconoscibile al di là della
sua interpretazione. L’ufficiale s’infuria parlottando tra sé e sé, non si può cantare facendo la
guardia. D’improvviso si rivolge al caporale che lo segue per chiedergli chi monta di guardia
sull’ultima altana, il soldato Delogu di Bonorva paesino non troppo lontano, a nord di
Macomer.
L’avvicinamento ad un’altana prevede un rituale complesso e rigidamente codificato dalle
procedure militari. La guardia dell’altana all’approssimarsi di chiunque deve intimare di
fermarsi,“altolà”; chiedere chi si avvicina, “chivalà”; imporre a chi si è dichiarato di avanzare
lentamente in un luogo illuminato presso l’altana per verificare l’identificazione fornita. Se
qualcosa non funziona bisogna sparare, un primo colpo in aria a scopo intimidatorio, gli altri a
chi si avvicina con lo scopo di contrastarne l’avanzata.

CANTO
Il soldato Delogu poeta, cantando a piena voce e questo chissà dove lo porta! Certamente
lontano dall’altana, dall’ufficiale sempre più incazzato, dagli altri soldati divertiti dal canto ed
ignari dei suoi significati.
Il soldato Delogu non è simpatico a molti, gli occupanti della sua camerata sono tutti
concordi nel dire che puzza perché si lava poco. Tipo taciturno, se parla è solo in dialetto
strettissimo. Dichiara una improbabile seconda elementare, il cui unico retaggio è una firma
incerta e vacillante. Prima del militare faceva il pastore.
Le ragioni per essere un emarginato continuamente deriso nella caserma ci sono tutte: poco
simpatico, ignorante, comunicazione inesistente, puzzolente, fortemente individualista.
L’ufficiale ormai corre, urlando come un forsennato, intima a Delogu di smettere di cantare.
La procedura di avvicinamento è saltata ed il caporale rimane astutamente indietro con i
soldati ridacchianti per evitare eventuali pallottole dovute ad un recupero in extremis dei
doveri di guardia di Delogu.
L’ufficiale, pistola sguainata nella destra, torcia nella sinistra, mani sui fianchi, è sotto
l’altana illuminato da una pallida lampadina; ancora urla furioso, concitato, a viso in aria, verso
la silhouette sull’altana, ora perfettamente visibile.
Delogu ancora canta, impossibile che non si sia accorto dell’ufficiale e dei suoi strilli. I
soldati si tengono riparati tra gli alberi, fuori dalla vista del tenente, stravaccati a terra a
crepare dalle risate: per la situazione; per l’immaginabile punizione esemplare che si
prospetta per l’antipatico Delogu; per la prova di totale stupidaggine da costui prodotta e
senza ritegno alcuno esibita.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 45


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Il parossismo del tenente Cossu lo porta indefessamente ad urlare in sardo verso l’altana.
All’improvviso il canto finisce. Il tenente continua ad urlare, forse non si è accorto che Delogu
si è azzittito.
Il soldato Delogu si affaccia dall’altana e dice di star per scendere. Il tenente tace vibrante
all’improvviso. I soldati corrono verso lo spiazzo dell’altana cercando di ricomporsi e di
rimanere seri per godersi il cinico spettacolo della punizione di uno come loro.
Il tenente strappa il fucile ancora carico a Delogu e lo affida al caporale che immediatamente
lo disarma; rinfodera la pistola, getta la torcia a terra, ed afferrato Delogu per il bavero lo
scrolla ancora urlando violento in sardo.
Il soldato Delogu è inerte, un sacco scosso dal tenente, silente. Quando il tenente
finalmente stanco e bisognoso di riprendere fiato, probabilmente per poter continuare ad
urlare, si azzittisce e gli lascia il bavero della mimetica, in quel preciso momento il soldato
Delogu inizia a parlare.

DIGNITÀ
Parla lento Delogu, inarrestabile, ancora, come sempre, in dialetto, ma piano, staccando le
parole, quasi scandendo le sillabe, tanto che diviene facile da capire anche per gli altri soldati
“continentali” oltre che per il tenente sardo:
“Signor Tenente sono sardo come Voi. Tengo moglie e due figli come Voi. Al contrario di Voi
non ho scelto di fare il soldato. A differenza di Voi che siete di Sassari, vivo a Bonorva dove
faccio il pastore, a padrone, perché non ho terra mia, perché sono ignorante.

Se a Voi viene nostalgia della famiglia che fate? Scrivete una lettera, telefonate. Io non so
scrivere e non tengo soldi, nemmeno quelli per telefonare. Così l’unico modo per rincuorarmi,
come fossi con loro, è quello di cantare, cantare per loro, come se fossero qui con me
sull’altana.

Solo in questo modo riesco a sfuggire al freddo ed alla mancanza della giacca a vento per
ufficiali che Voi Signor Tenente portate, al vento che si insinua nelle ossa e spacca le mani, alla
solitudine della guardia ed al servizio militare che mi strappa alla famiglia e così me la rende
ancora più povera di quanto già non sia.

Signor Tenente, avete sentito come canto, come mi appassiono, come posso smettere di
cantare su questa schifezza di altana? Io canterò, ogni volta che sarò solo, perché non si
telefona alla moglie in pubblico! Io canterò, ogni volta che sarò sull’altana, perché la notte
lassù non passa mai! Signor Tenente, io non lo faccio apposta è che mi serve, capitemi!”.

I soldati sono ammutoliti, irrigiditi in un attenti mai ordinato, nessuno ride più. Il Tenente
Cossu rimane in silenzio, raccoglie la lampada da terra, esegue un perfetto dietrofront,
dispone che il manipolo di soldati si raccolga e si allinei con Delogu in coda e sempre a passo
concitato dirige il gruppo verso il corpo di guardia.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 46


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Dopo quella notte Delogu non è stato punito, è rimasto antipatico a molti, certamente ha
continuato a puzzare, ha continuato a cantare sull’altana. Sempre sull’ultima, quella più
lontana dalla palazzina del comando, in modo che solo l’ufficiale di picchetto, e non il
Colonnello comandante della caserma, potesse accorgersi dei suoi improvvisati e sempre
cangianti mutos di Bonorva così caratterizzati dal puntiglio metrico compositivo espresso da
quel povero servo pastore. Nessuno ha più osato ridere alle sue spalle. Tutti nell’incontrarlo
hanno continuato a riconoscere l’estrema ed assoluta dignità umana e morale mostrata
nell’unico discorso, intellegibile anche ai “continentali”, che abbia mai fatto in quel lungo
anno di caserma lontano dalla famiglia.
Aggiungerei anche che quegli incomprensibili ed ipnotici canti sono espressione di una
profondità culturale e di una sensibilità inespressa dal suo povero titolo di studio. Il soldato
Delogu è una persona ignorante molto intelligente, ha saputo pienamente dimostrarlo, a lui
va il mio rispetto e la mia stima ancora dopo tutti questi anni.

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Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

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Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

12.Fuochi d’artificio
Burcei, Campidano! Incontri, Cibo

Come ogni anno, nella notte di luna piena che cade in agosto, sulla spiaggia si sarebbe
tenuta una gran festa per celebrare l’imminente morte del sole consumata dall’incalzante
settembre. Come partecipanti tutte le trecento persone appartenenti alla consueta orda
barbarica calante su quel lembo di terra sarda per i canonici venti giorni di ferie al mare.
Obbligato in Sardegna da un matrimonio, proprio in quell’odioso periodo che solitamente
preferisco evitare, pur poco propenso a partecipare alla bolgia festosa, mi faccio malamente
incastrare. Per di più non sono esclusivamente un invitato ma ho un compito specifico: quello
di preparare e servire bruschette e crostini da accompagnare ad un formaggio pecorino, il
calcagno, stagionato, di sapore piccante ed aromatico.
Per far questo mi è affidato lo “strumento”, un apposito tavolo, pesantissimo che avrò anche
il piacere, che dico, il privilegio, di contribuire a portare in spiaggia il giorno della festa. Il
tavolo è composto di due pezzi: uno leggero, nel senso di facilmente trasportabile in due, il
basamento rotondo costituito da uno di quei tubi prefabbricati di cemento; l’altro pesante, un
disco di cemento del diametro di 180 centimetri, con un largo foro al centro, ricoperto da
spesse tegole in cotto di forma trapezoidale, cinto da una nera fascia metallica che ne rinforza
il bordo e permette al contempo di farlo ruotare in verticale, enorme e pesante ruota, per
muoverlo dove le occasioni di cucina ne richiedono la presenza. Il pregio del tutto è infatti
l’ampio braciere metallico che si inserisce perfettamente al centro del disco, nel buco lasciato
scoperto dai tegoloni di cotto.
La sera della festa avrò l’onore, dal mio punto di vista totalmente discutibile, di suonare lo
“strumento”, abituato ad altissime performances gastronomiche, per l’esecuzione di semplici
bruschette.
Per questa festa, visto che sono ormai incastrato a parteciparvi, vorrei essere ricordato per
qualcosa di diverso dalle bruschette. L’idea mi viene al pensiero di una altra festa che vidi nei
pressi di Oristano: parteciperò portando dei fuochi d’artificio, stupendi fuochi d’artificio
come quelli visti ad Oristano. Mi erano piaciuti talmente tanto che avevo chiesto informazioni
sui realizzatori. Mi era stato detto che erano tutti membri della famiglia Zuncheddu, cognome
che dovrebbe derivare dal diminutivo di zuncu, giunco, forse originato da qualche
caratteristica del capostipite, del piccolo abitato di Burcei, sospeso tra le masse granitiche del
Serpeddì a nord e del Monte dei Sette Fratelli a sud nel pieno del Sarrabus.

RICERCA DEL LABIRINTO


La strada deserta che percorro in vespone, dal quadrato e regolare borgo rurale di S. Priamo
verso il valico dell’ Arcu’e Tidu, l’Arco dell’Angelo, si inerpica nel solco del rio Cannas. Dopo

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 49


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

pochi chilometri acquisisce una spettacolarità inattesa così come è tagliata nella roccia, nel
ritmo delle curve e controcurve, con i dirupati spuntoni rossastri con cui i filoni di porfido
emergono dalle gole granitiche. La strada si fa sempre più stretta ed angusta e superato
l’angelico arco strapiomba tra rupi a picco di granito iniettato di porfido.
Proseguo lento, incantato dal paesaggio di roccia, cullato dall’oscillazione intermittente,
destra, sinistra, destra, del vespone necessaria ad assecondare l’incessante teoria di curve. Al
valico una breve deviazione mi porta a Burcei. E’ ora di chiedere della famiglia Zuncheddu.
La famiglia è presto identificata, non certo per l’unicità del cognome, mezzo paese si chiama
così, ma per il mestiere: praticamente è l’unica che ha lasciato la pastorizia.
Più difficile è l’applicazione pratica delle indicazioni ricevute. Lascio il paese su una
carrareccia sterrata che presto peggiora in una sassosa mulattiera. Il vespone sussulta e soffre,
i colpi dei sassi sulla marmitta si susseguono. Proseguo in salita come zampettando sul
sentiero verso Serpeddì, contando le diramazioni a destra, la mia è la quinta.
Arrivato mi riduco a lasciare il vespone esausto ed ammaccato e proseguo a piedi, sempre in
salita, anche se sono a settecento metri di altezza fa caldo ed il vento, qui onnipresente anche
in piena estate, mi dà solo un parziale sollievo.

FILO D’ARIANNA
La destra del sentiero sul quale procedo è delimitata da un muretto a secco. E’ su questo
muretto che devo individuare il corretto cancello di legno. L’identificazione è facile, prima un
cartello con scritto “perìgulu”, pericolo, poi sul cancello un altro cartello con scritto “non
intrai” in grosso, che facilmente interpreto con un invito a non entrare, e, piccolo
piccolo,”tràiri su bullentinu”, che non capisco che significa. Il suono “tràiri” qualche volta
l’ho sentito, se ricordo bene me lo diceva imperioso un professore di Cagliari che mi ha
portato ad un battuta di pesca d’altura quando voleva che tirassi la corda dell’ancora. Se devo
tirare che cosa devo tirare?
Lì accanto al cancello, uno spago è fermato da un sasso sulla sommità del muretto. La mia
traduzione è ora completa “tirare lo spago” è l’invito perentorio.
Lo tiro una volta, non sento niente. Strattono con più forza altre due volte. Nulla. In realtà
mi aspetto il suono di una campanella appesa all’altra estremità dello spago. Non si sente
nulla. Ma allora a che serve lo spago? Avrò ben capito che dice il cartello?
Attendo perplesso chiedendomi se le mie educate strattonate allo spago hanno sortito un
qualche effetto. Tiro altre due volte più forte. Ancora niente. Urlo qualcosa per segnalare la
mia presenza. Nessuno risponde, il campo su cui si affaccia il cancello è pieno di olivi, usati
come pali di trasmissione del segnale, supporti dello spago ad essi sospeso. Non vedo nulla.
Nel momento in cui decido di varcare il cancello per entrare nonostante il divieto ecco che
sul sentiero, da dietro gli ulivi che lo costeggiano compare una figura zoppicante. Lo spago ha
funzionato.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 50


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

ANTRO DEL MINOTAURO


E’ un giovane che salutatomi mi chiede cosa desidero. Gli spiego della festa e dei fuochi. Mi
apre il cancello porgendomi una mano che mi affretto a stringere; la sua stretta mi sembra
sfuggente, mi accorgo che gli mancano l’anulare ed il mignolo.
Ci avviamo sul sentiero verso il resto della famiglia. La distanza non è lunga ma il ragazzo
procede piano. zoppicando. Una volta superato l'oliveto ci si para di fronte una bassa
collinetta, dietro c’è la famiglia al lavoro.
Mi aspetto una casa, un capanno, qualcosa di costruito. Non c’è nulla. Una quindicina di
persone, che complessivamente rappresentano addirittura quattro generazioni di Zuncheddu,
lavorano all’aperto, all’interno di un’area cintata da un basso steccato in legno su cui si apre
un cancello. Sul cancello un altro cartello di pericolo, vicino al cartello passa lo spago che,
inconsueto filo d’Arianna, mi conduce dal Minotauro.
Il Minotauro è proprio quello che vedo per primo, è di spalle, ricurvo, sono sicuro che è lui
perché lo spago gli si lega alla caviglia. Il giovane che mi accompagna mi spiega che è il
patriarca indiscusso, il bisnonno, non ci sente perché per i botti ha entrambi i timpani forati.
Per questo lo spago è legato alla caviglia e non ad un campanello. Il giovane invece è l’unico
che ci sente benissimo, per questo è adibito alla cura dei visitatori.
Passiamo di lato al Minotauro, avvicinandomi lo saluto con un cenno del capo, il gesto è
totalmente ignorato, non risponde. Non mi stupisce, da quel lato gli manca pure un occhio
come segnala la benda nera messa di traverso: un Minotauro pirata! Si avvicinano gli altri
pirati. La mamma per parlare si mette di fianco, lei un timpano che ancora sente qualcosa
ancora lo possiede ed è quello che porge di traverso. Il padre, cioè il nonno del ragazzo, si
avvicina, come orecchi è già allo stadio del Minotauro, gli occhi però li ha entrambi, in
compenso gli manca la mano destra. Arrivano anche altri sciancati di cui ignoro i rapporti di
parentela con il mio giovane anfitrione. L’unico che m’ignora del tutto è il bisnonno
Minotauro.
Al centro dell’area disboscata in cui siamo, due buche annerite di scoppi testimoniano della
fervida attività familiare. Da un lato due tettoie coprono altrettanti tavolacci da lavoro. Più
avanti un alto traliccio in legno serve a provare speciali fuochi d’artificio. Una botola metallica
nel terreno dà accesso al magazzino della polvere. Basse capanne costruite di solide assi di
legno fanno da magazzino a strumenti di lavoro e materiali non detonanti. Più distante
un’altra buca circondata di trincee e ridotte profonde mezzo uomo, per osservare protetti gli
effetti delle esplosioni.
Una vaga sensazione di pessimo film dell’orrore si inizia ad impadronire di me. Per rompere
il ghiaccio e la sensazione di cottolengo che mi pervade spiego che sono arrivato sin lì perché
ho ammirato il loro lavoro due estati fa sulla spiaggia di Tharros, vicino Oristano. Parlottano
concitati tra loro per riuscire a ricostruire l’accadimento nella loro memoria collettiva.
Sono minuziosamente interrogato sul tipo di fuochi visti, sulla durata dello spettacolo, sui
colori, l’intensità dei botti. Supero l’esame ottenendo il duplice risultato: da un lato di

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 51


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

convincerli di averli veramente visti all’opera; dall’altro di avergli fornito tutte le coordinate
necessarie a ricordare. Alla fine il verdetto è espresso dalla mamma, sì, i fuochi che ho visto
erano loro, proprio quelli marcati, nella loro infinita memoria familiare di botti e luci tra loro
simili, da essere quei fuochi per i quali il cugino Efisio ci ha rimesso una falange. Ci hanno
messo un po' a decidersi perché erano in dubbio che mi riferissi invece ai fuochi in cui la zia
Antonietta, in seguito morta di cause naturali mi rassicurano, ci aveva rimesso un intero
padiglione auricolare.
A quanto mi hanno detto il Minotauro è impossibilitato a sentire la nostra conversazione,
avvertendo però la mia presenza, con qualche sesto senso che evidentemente si sviluppa per
naturale compensazione in chi fabbrica botti da generazioni, si avvicina e fissandomi ricurvo
con l’unico occhio mi inizia a spiegare che la loro famiglia fa botti almeno da quando Marco
Polo ne racconta. Secondo lui gli Zuncheddu sono tra i più bravi di Sardegna, contesi in una
incessante successione di feste popolari, processioni e ricorrenze religiose, più raramente
feste private.
Mi affretto a spiegare che questo mi è noto e che una festa privata è proprio il motivo che mi
ha spinto ad incontrarli. Inizia un nuovo interrogatorio, questa volta molto più tecnico, mirato
ad esplorare esattamente cosa mi serve, come sarà fatto il poligono di tiro, quale è la mia
esperienza di artificiere. Questa volta non passo l’esame. I fuochi che vorrei sono i più belli
ma richiedono la diretta presenza della famiglia per essere manovrati; la spiaggia, piccola,
stretta e lunga, gremita di persone non è un poligono di tiro accettabile. Ho una sola
alternativa: quella di comprare i fuochi assieme al servizio di tre di loro promossi artificieri per
la festa. Non è esattamente quello che pensavo ed il mio budget scarseggia di fronte
all’evenienza di impegnare tre persone oltre all’acquisto dei materiali.
In più una sgradevole sensazione si insinua nella mia mente: questa gente rimembra le
occasioni gioiose dei fuochi d’artificio, segnandosi vivide tacche sul corpo, la falange del
cugino Efisio, l’orecchio della zia Antonietta, il timpano della mamma, la mano del nonno,
l’occhio del Minotauro. Mi dispiacerebbe che la festa a cui devo partecipare si trasformi in
un’ulteriore tragedia per questa mutilata famiglia e magari segni proprio il giovane che mi ha
accompagnato, il più integro, si fa per dire, zoppica e gli mancano due dita, immagino solo a
causa della giovane età.
Non so se per consolare la mia delusione del dover rinunciare ai loro fuochi meravigliosi, o
solo perché nel frattempo si è fatta ora di pranzo, sono invitato ad unirmi a loro per un veloce
spuntino cucinato la sera prima da una parente acquisita di Oliena che ha sposato non so più
quale Zuncheddu.
Liberato un tavolaccio portato sotto l’ulivo più frondoso, ci sistemiamo seduti su casse
mentre sul tavolo è poggiato un “prattu de cassa”, un piatto di selvaggina mista condita con
patate, cipolla ed erbe selvatiche. Mi sembra una pietanza “tosta” per un pranzo di
mezz’estate ma vengo rassicurato che, per merito delle misteriose erbe usate e dei loro
benefici umori, nonché della particolare cottura fatta all’interno di due piatti di rame
sovrapposti a formare una rudimentale camera stagna, la ricetta risulta “leggera”.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 52


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Mangio tutto con gusto, a digerire ci penserò poi aiutato dai sobbalzi del vespone nel
viaggio di ritorno sino alla spiaggia della festa. Grato mi accomiato dalla famiglia
dichiarandomi in grado di ritrovare la strada da solo, del resto basta seguire lo spago per
uscire dal labirinto del Minotauro.
Sotto il braccio, in un voluminoso pacco di forma cilindrica, porto avvoltolati nella carta
marrone da imballo cinquanta grossi ed innocui bengala colorati rosso, bianco e verde. Non
fanno botto, non esplodono, si infiggono nel terreno ed accesi regalano sprazzi di luci e
stelline colorate per più di tre minuti. Non sono i fuochi che ho visto ad Oristano ma
preferisco così, nessuno si farà male.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 53


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 54


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

13.Immondizia
Punta S. Stefano, Capo Carbonara! Mare, Cibo

La grande e rituale festa di fine estate, l’ultima notte di luna piena d’agosto, era finita. Come
ogni anno si erano riversate sulla piccola spiaggia sabbiosa quelle duecento persone, forse
trecento, composte per lo più di illustri sconosciuti.
Come ogni anno Bruno, ideatore di quel rito pagano, acceso promotore, organizzatore, di
fatto unico finanziatore, vagava seminudo per la spiaggia che aveva finalmente recuperato il
lieve rumore dell’acqua sulla battigia.

Borbottava anch’esso al ritmo della poca risacca: “Questa è l’ultima volta! E’ una faticaccia.
Non ti ringrazia nessuno, non gliene frega niente a nessuno! Tocca sempre a me fare tutto,
pensare a tutto!”. Era questa una annunciata forma di depressione, leggera e passeggera,
successiva alla grande catarsi preparatoria che la festa richiedeva.
Camminando a piedi scalzi nella rena inumidita dalla tarda ora, Bruno raccoglieva cartacce,
bicchieri di plastica, pacchetti di sigarette, bottiglie di vino, tovaglioli di carta. Maledicendo la
diseducazione e l’ignoranza che facevano ignorare ai numerosi invitati l’esistenza degli
innumerevoli secchi per la spazzatura. Erano questi recipienti di varie dimensioni e colori,
tutti accuratamente riempiti di più strati di grossi sacchi di plastica scura per facilitare le
operazioni di rimozione dell’immondizia, che Bruno mi aveva obbligato a predisporre con
l’aiuto di un mio amico, Roberto.
Bisogna dire che Bruno aveva una vera e propria fissazione per l’immondizia, o meglio per il
trattamento e l’eliminazione di questa. In questo senso esprimeva un’ottima coscienza civica
che lo portava da anni a teorizzare sulle “brigate di rimozione” per la soluzione della
disoccupazione giovanile, che lui si sarebbe offerto di coordinare gratis. Sulla “delega di
multa” per abuso ambientale, arma che si sarebbe dovuta concedere a qualunque cittadino
semplice in difesa di un’altro potenzialmente armato di lattine, cartacce e rifiuti.
Bisogna aggiungere che in settembre le spiagge sarde, con pochissime eccezioni, sono
disseminate di plastica in mille forme e colori. Il fatto che le mareggiate invernali le riportino
quasi in uno stato di pulizia per la stagione successiva è pura illusione, visto che quella
plastica scompare in mare ma non si distrugge.
La grande e rituale festa di fine estate assurge allora a metafora del concitato ed abusato
utilizzo delle spiagge sarde concentrato nei trenta giorni a cavallo tra luglio ed agosto. Il
pattume che ne deriva è quello onnipresente sulle spiagge, nelle pinete, sulle montagne,
ovunque ci sia turistica frequentazione di massa.
La raccolta dell’immondizia e la civile prevenzione del suo insensato sparpagliamento mi
trovano, oggi come ieri, totalmente d’accordo con Bruno. Mi si perdoneranno per questo le

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 55


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giovanili intemperanze provocate ed esasperate dalla particolare situazione in cui venni a


trovarmi sospeso tra amore e immondizia.

INUTILE PREVENZIONE
La spiaggetta affacciata sul golfo di Carbonara, delimitata a destra da un promontorio fatto
di grandi sassi di granito, a sinistra da una vegetazione arbustiva, misto di macchia
mediterranea e di piante grasse che a maggio si riempiono di fiori inodori di viola intenso,
sembra fatta apposta per la festa.
Più probabile che nel corso degli anni la festa si sia andata conformando alla topologia ed
orografia della spiaggia, codificando i luoghi deputati allo stoccaggio e cottura del cibo,
all’esposizione dello stesso, al servizio e distribuzione, alla consumazione, al mostrarsi con lo
struscio ed alle chiacchiere più raccolte, al fumo, nella rigorosa separazione di lecito ed
illecito, al ballo e all’intimità di coccole e pomicio, ed infine, ma non meno importante,
all’immondizia.
Per questo io e Roberto, novizi della festa, non avevamo avuto la vita facile nella
predisposizione dei luoghi di raccolta di quest’ultima. Alla nostra ingenua e primitiva
distribuzione dei secchi, Bruno rispondeva con osservazioni ironiche e pungenti. Queste
avrebbero dovuto farci capire gli errori commessi ed aiutarci ad ottimizzare la disposizione, a
definire per ognuno di essi il suo esatto bacino d’attrazione dell’immondezza, ad analizzare le
eventuali aree scoperte. In realtà, dato il caldo del primo pomeriggio in cui l’operazione
preparatoria si svolgeva, io e Roberto non avevamo voglia di migliorarci. Con un’indolenza e
superficialità che doveva risultare fastidiosa all’esperto, gli chiedevamo se non fosse meglio
che ci dicesse direttamente i posti in cui ogni anno era solito disporre i secchi.
Pensate quindi al rinnovato sconcerto di Bruno quella sera, come tutti gli anni, alla vista di
tanto pattume al di fuori dei secchi e dei sacchi.

FESTA
La festa è ufficialmente iniziata alle sei del pomeriggio di quel giorno di luna piena. La sua
preparazione ci ha occupato sin dalla prima mattina di quello stesso giorno, per non parlare
dei precedenti.
La festa comincia sempre con poche persone, in un angolo specifico della spiaggia, tutti
impegnati in un’unica operazione, la preparazione del porceddu arrustio (porchetto arrosto).
E’ questa l’unica attività che Bruno delega totalmente, rivolgendosi all’esperienza consolidata
e verificata di un sardo verace, Gavino.
Sull’estremità destra della spiaggia, delimitata dal resto da un grande blocco granitico, si
accede ad una sorta di spiaggetta nella spiaggetta, piccolo spiazzo sabbioso quasi circolare,
con un roccioso accesso al mare, ridossato ad una parete di granito concava, ottimo riparo dal
vento. Alla base di questa cupola incompiuta, appena abbozzata nella roccia, si scava una buca
nella rena. In questa buca, a mo' di camino, si accende un gran fuoco di sarmenti odorosi e di

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 56


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grossi ceppi, ordinatamente accatastati lì vicino, sorta di retrobottega di questa grande cucina
all’aperto.
Mentre preparo il fuoco, Gavino pulisce i quattro porchetti, già divisi a metà, fregandoli con
un panno ruvido e li infilza ognuno, da lombo a lombo, in spiedi di legno che si è
autocostruito con il suo prezioso coltello pattada. Ha asportato le zampe e, con opportuni
tagli, ha fatto due piccole sacche tra i muscoli dell’addome, dove ha infilato i piedini.
La cottura inizia quando i ceppi divengono braci di legno odorose. Gli spiedi posti di lato al
fuoco, opposti alla parete di granito che lo sovrasta e protegge. La cottura è portata avanti
lentamente, a fuoco sempre vivo, girando gli spiedi secondo necessità, in modo che alla fine la
carne risulti quasi cerea e la sua crosta croccante. Si sala due volte, una all’inizio ed una alla
fine.
Gavino rimarrà quattro, cinque ore davanti al fuoco, sempre accosciato, a muovere legna, a
girare gli spiedi, a saggiare le carni. Quando infine, lui e solo lui, decreterà la fine della lunga
cottura, si taglierà la sua porzione di carne, abbandonando il resto a chi come me dovrà
occuparsi della sua distribuzione all’orda di affamati che già da due ore si ingozzano di
bruschette, pecorino, maccaronis cun arrescottu (maccheroni alla ricotta), malloreddus
(gnocchetti) con salsiccia, spaghetti con buttariga di muggine (bottarga di cefalo).
Gavino mangia in disparte, nella piccola parte di spiaggia adibita a cucina, vicino al fuoco.
Finito, saluta i pochi che hanno presenziato all’inizio della festa e della cottura e si ritira: per
lui la festa è già finita.
Quasi ad ostacolare l’ingresso alla cucina di sabbia e granito c’è la mia postazione, un
massiccio tavolo tondo, con un braciere al centro, dove preparo bruschette e servo un fresco
vermentino, fragrante, con profumo delicato e fresco, dal colore paglierino con leggeri riflessi
verdolini, che non capisco cosa c’entri con il porceddu arrustio. E’ da questa posizione che
domino la distribuzione del maialino e, ogni tre piatti che distribuisco, mezzo ne mangio.
Al di là della mia postazione la spiaggia si allarga in un ampio e gremito, caotico, sabbioso
salotto. Persone in piedi, persone sedute su stuoie, l’illuminazione delegata alla luna, piccole
fiaccole di cera a delimitare gli spazi della spiaggia e della festa. Qui c’è anche l’accesso
principale alla festa, in realtà discesa alla spiaggia per il trasporto di barche.
La battigia fa da corridoio di collegamento tra le ideali stanze. Dopo l’ampio salotto la sala
da ballo, dotata ovviamente di musica, stereo gigantesco e portatile al contempo, e pista da
ballo di sabbia bianchissima ed impalpabile come talco. Poi la spiaggia si restringe, la luce
delle fiaccole si attenua, lasciando spazio ad una serie di salottini privati più adatti alle
effusioni amorose che al porceddu arrustio.
In mezzo a questo gigantesco appartamento deserto, dal soffitto stellato, si aggira Bruno,
malinconico, a bofonchiare e raccogliere ciarpame.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 57


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

RECLAME PERUGINA
Io nel frattempo sono di tutt’altro umore. Quando l’appetito degli invitati è finalmente
soddisfatto, recupero il diritto al libero arbitrio totalmente perso dall’inizio di
quell’interminabile giorno. Questo mi consente di dedicarmi all’inseguimento di una gentile
fanciulla ospite abituale di quella festa.
Per questo mi dò un gran da fare a spegnere le torce, rimuovere gli spiedi, a ripulire con
acqua di mare i metallici strumenti di cucina, a ricoprire con sabbia bianca l’unto e le ceneri
attorno al fuoco, ad accatastare la poca legna residua, a tenere attizzato un bel fuocherello,
ormai gradevole presenza nell’umidità della notte. L’angolo che mi sono organizzato attorno
al fuoco è piacevole, tiepido, sufficientemente fuori vista, intimo. E’ lì che sto a chiacchierare
con la ragazza alla luce del fuoco, aspettando e pregustando un illanguidimento che sento
ineluttabile in entrambi.
Il tutto è così perfetto, luna, stelle, pacato rumore di mare, sabbia cangiante, fuoco allegro,
uomo, donna, da sembrare una réclame Perugina. Mancano solo i baci, ma arriveranno, sento
che più tardi arriveranno.
E’ sul “tardi” che compio un piccolo errore di valutazione: serviranno circa dodici mesi e
un’altra estate per baciare quella ragazza. Ora è vero che io posso avere dei momenti di
timidezza che certamente non mi permettono di classificarmi in quella compagine maschile
che rimorchia con una velocità disperante, però dodici mesi sono troppi anche per un timido.

IMPROCASTINABILE RACCOLTA
Bruno piomba ansioso di fronte a quell’angolo di paradiso ricavato da una cucina da campo:
“L’immondizia! C’è da sistemare l’immondizia!”, urla forsennatamente. Sono tranquillo, per
tutta la sera i sacchi nei secchi distribuiti sulla spiaggia sono stati accuratamente raccolti,
sigillati, trasportati in un unico punto di raccolta nelle retrovie della spiaggia. Basterà
aggiungervi quello che lui stesso ha raccolto di rifiuti dispersi e fuori controllo. Domani
mattina si sposteranno i sacchi di poco meno di un chilometro, sino al punto dove arriva il
camion della nettezza urbana, appena fuori del condominio affacciato sulla spiaggia.
Errore: l’immondizia attira le formiche; al primo sole sprigiona cattivi odori; il camion della
spazzatura passa molto presto; l’estetica di pattume e lordura li vuole nell’immondezzaio; la
filosofia naturale insegna che l’immondizia tende al suo luogo naturale, il nous in senso
aristotelico, che nello specifico si colloca a circa ottocento metri da dove si erge attualmente la
catasta di sacchi.

Bruno è inflessibile: “Bisogna spostarla subito, immediatamente, improcastinabilmente!”.


Sono ancora tranquillo, rassicuro Bruno che tutto sarà immediatamente fatto. Mi accomiato
dalla fanciulla in attesa dei baci dicendole di attendere solo un attimo che incaricherò il mio
amico Roberto, capirà certamente la mia posizione, di provvedere all’immondizia e tornerò
immediatamente.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 58


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Mentre cerco Roberto mi accorgo di non averlo visto praticamente da quando è finito il
porchetto. Lo trovo in un antro che ci dividiamo per dormire, incrocio tra dispensa, cantina,
laboratorio, officina, rimessa. E’ completamente sbronzo, riverso sul letto, andato,
soprattutto incapace di capire la mia posizione.
La cosa più drammatica è che ha vomitato sulle preziosissime riviste di pesca di Bruno, in
lingua francese, di non so quanti anni prima. Mi devo sbrigare, le riviste sono rapidamente
divise in: intonse, recuperabili, irrecuperabili. Sistemo le intonse sopra le recuperabili
rimettendole nello scaffale dove erano. Le irrecuperabili si vanno ad aggiungere al cumulo di
immondizia che vedo ingigantire a vista d’occhio.

FISICA, STATISTICA E LEGGE DI MURPHY


Inizio ad essere preoccupato. Torno rapido al fuoco per rassicurare l’ignara ragazza che mi
occuperò personalmente del trasporto dell’immondizia, che mi sbrigherò a tempo di record,
che stia attenta a non far spegnere il fuoco.
L’unico mezzo a disposizione è una vecchia Fiat 500, tre sacchi di immondizia li metto
dietro, due davanti, di fianco al posto guida, in questo modo potrò usare solo la prima. Sul
provvidenziale portapacchi ne sistemo quattro. L’imperativo categorico è farcela al massimo
con due viaggi. Apro il portabagagli anteriore e lasciandolo aperto ad ostacolare la vista ci
sistemo altri due sacchi.
Una volta tanto la batteria è carica, la macchina parte subito. Guido con lo sportello aperto,
sporgendomi in fuori per vedere la strada che il cofano sollevato mi nasconde. Il motore,
freddo, sussulta. La macchina si inerpica per una piccola salita all’interno del condominio sul
mare, verso la barriera che sbarra l'accesso, da lì altri 300 metri e si raggiunge il punto di
scarico. La salita è problematica per i precari equilibri, non ho legato nulla per sbrigarmi. I
finestrini sono tutti abbassati, uno sportello aperto, io a testa in fuori nel fresco della notte, il
tanfo è bestiale. Dal tettuccio sfondato della macchina gocciano strani liquami. Vado a sentire
a tasto con la mano e me la ritrovo appiccicosa come se l’avessi tuffata nella marmellata.
Superata la discesa, è fatta, punto verso la barra di accesso al condominio. Ora per capire la
dinamica dei fatti, la tragedia incombente, è fondamentale immaginare questi vialetti interni al
condominio. Si potrebbero pensare in terra battuta e sassosi, ma non lo sono. Si potrebbero
allora immaginare asfaltati, ma non lo sono. Cemento? No. Cosa allora?
E’ qui che la perversione dell’architetto esperto in stile mediterraneo raggiunge la sua
massima espressione, il vialetto deve esprimere la propria naturalezza senza esserlo, sembrare
selvaggio e ordinato, mimetico ed ecologico. Basta per questo prendere delle grosse e
frastagliate pietre locali e gettarle a casaccio in terra infisse in una colata di cemento. Si dirà
che anche le strade romane erano pavimentate in pietra, tendenzialmente lisci, neri, basalti.
Le pietre del condominio non sono basalti, non sono nere, e, cosa fondamentale, non sono
lisce. Quello che ne esce fuori è un roccioso stradino sussultante ed increspato. Camminarvi
sopra a piedi o con ogni mezzo significa risuonare, incespicare, ondeggiare, beccheggiare,
tintinnare, scarrocciare, palpitare, barcollare, inciampare. Camminarvi sopra su una

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 59


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

macchinetta scassata, stracarica di maleodorante e percolante immondizia, alla folle velocità di


15 chilometri all’ora, è un imperdonabile atto di presunzione nei confronti della fisica
gravitazionale, delle teorie del caos basate sulla statistica e la sua maledetta gaussiana che
disegna cosa sia più probabile che accada.
E’ infatti lì, nel centro di quell’odiosa curva a campana, che si colloca la probabilità massima
che in siffatte condizioni, sotto l’azione di gravità ed inerzia, un sacco non assicurato cada dal
portapacchi e si rompa.
E’ invece la nota legge di Murphy che completa l’opera asserendo che, se un sacco si deve
rompere, deve essere quello più carico di bottiglie di vetro. Sono ancora le infinite poliformi e
cangianti varianti di tale legge che obbligano perentoriamente, in presenza di vetri rotti, a
forare almeno una gomma, lasciando solo la libertà di scegliere quale.
Sono arrivato sin qui, a pochi metri dalla barra biancorossa del cancello, così vicino al luogo
di scarico, e mi ritrovo con un olezzante sfacelo di pattume attorno, una gomma a terra, ed
una mano appiccicosa di putrida melassa.

EPILOGO NON PERUGINA


La cronaca di quello che è successo dopo mi è ancora dolorosa: recuperare casa una prima
volta per rimediare gli strumenti per pulire il maledetto vialetto; ritornarvi una seconda volta
per cercare la ruota di scorta, alla fine rintracciata sotto il letto su cui ancora giaceva ubriaco
Roberto; cambiare la ruota, ricaricare i sacchi tralasciando l’uso del portapacchi; tre viaggi più
tardi, ad immondizia sistemata, precipitarsi nell’angolo agognato della candida spiaggia.
Se avete ancora presente la perfezione della réclame Perugina già richiamata vi dirò che ora:
la luna era tramontata; le stelle offuscate da un velo di nebbia; il rumore di mare assente per il
vento totalmente calato; la sabbia fredda, umida ed appiccicosa sotto i piedi; il fuoco spento
senza nemmeno più traccia di nero, cenere e tizzoni; l’uomo, io, presente; la donna desiderata
assente.
La spiaggia era pulita, intonsa, immacolata, come se non ci fosse stata nessuna festa, nessun
fuoco, nessuna ragazza. Roberto dormiva come un ubriaco, a pancia in su, russando
rumorosamente. Bruno dormiva come un netturbino felice, all’aperto, sull’amaca, nel portico
che domina la spiaggia. Io non dormivo, pensando che il giorno dopo, con Roberto, sarei
partito ed avrei dovuto aspettare un’altra estate per baciare quella ragazza.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 60


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

14.Custode del tempo


Isola dei S’ard! Miti, Riti e Storia, Libri

Mi hanno colpito molto due libri sulla Sardegna che, a parer mio, si collocano fuori dal coro,
distinguendosi per la loro originalità, per il modo diverso di parlare di Sardegna, per le
suggestioni che riescono ad emanare.
Scritti da due sardi, sono libri tra loro diversissimi, per tipologia, impostazione e stile,
eppure entrambi sono riferibili al mito: il primo rappresenta un’esperienza narrativa vissuta
sotto il segno dell’oralità, è una mitologia poetica ed affabulante di Sergio Atzeni, giornalista
e successivamente scrittore, “Passavamo sulla terra leggeri”; il secondo un saggio, sotto
forma di inchiesta giornalistica, intitolato “Le Colonne d’Ercole, un’inchiesta”, di Sergio Frau,
un giornalista che scrive per Repubblica.
Il libro di Atzeni realizza una trasposizione epica dalla storia verso il mito, quello di Frau si
muove dal mito alla storia, interpretando con logica razional deduttiva quello che gli Antichi
più antichi hanno detto.
Di seguito vorrei descrivere il cammino di andata, dalla storia al mito, che rappresenta
un’esperienza di lettura diversa, anomala, a sé stante. “Passavamo sulla terra leggeri”, pur
essendo un libro scritto di recente, nel 1995, ci parla della storia della Sardegna come fosse
uscito dalle pagine di un vecchio narratore mitologico, come Omero, che ci trasporta con il
suo scrivere in una tradizione orale mitica, che narra dell’alba dei tempi e delle genti che li
hanno scanditi.
Per altri versi è un libro sulla felicità, quella felicità di vivere riflessa nella libertà espressiva
che esplode nel ritmo gioioso, scintillante, di una danza.

OMERO
La biografia tradizionale di Omero, tratta dalle fonti antiche, è fantasiosa: nessuna delle
informazioni fornite consente affermazioni, anche solo possibili, per stabilire la reale
esistenza storica di Omero.
Gli studiosi hanno ormai concluso che non sia mai esistito un distinto autore di nome
Omero a cui ricondurre, nella loro integrità, i due poemi maggiori della letteratura greca:
Iliade ed Odissea.
Oggi s’ipotizza che l'opera omerica sia in realtà un'enciclopedia tribale: i racconti,
composti oralmente in un’epoca antecedente alla scrittura e tramandati per tradizione orale,
servirebbero ad insegnare la morale o trasmettere la conoscenza.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 61


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

In questo senso, anche se Iliade ed Odissea vengono trascritte all’incirca nel VIII secolo
a.C., le storie che narrano si riferiscono a periodi storici di gran lunga antecedenti.
Mi sono soffermato su Omero, perché Atzeni riesce, a distanza di quasi tre millenni, ad
usare efficacemente una forma desueta come la narrazione mitica, così coinvolgente per il
lettore, al punto da riuscire a confonderlo e operare l’incredibile metamorfosi di illuderlo di
ascoltare, piuttosto che leggere, un racconto, tramandato oralmente, dalle stesse genti di cui
narra. Suggestiva esperienza di viaggio nel tempo.

ATZENI
Il testo di Atzeni è una perfetta imitazione di un racconto orale, di quelli che in una lontana
epoca in cui nessuno sapeva leggere e scrivere raccontavano: “la storia delle donne e degli
uomini che hanno vissuto prima di noi nell’isola dei danzatori, madri e padri forse a noi simili
per dolcezza e sorrisi o per la follia che non sappiamo dove nasca”.

Il ritmo, modulato sulla scansione di una frase poetica come “Passavamo sulla terra
leggeri” , può alludere alle consuetudini di vita dei S’ard.

Secondo il significato fantastico dell’inventata lingua degli antichi, sono questi i “danzatori
delle stelle” che interrogavano il cielo, facevano sacrifici, conoscevano i numeri, misuravano le
distanze e le orbite celesti.
La forma plurale dell’imperfetto “passavamo” evoca una dimensione del tempo, continuo,
condiviso.
La singolare avventura nel tempo che il libro dipana, di fatto, profeticamente, realizza il
progetto sognato dall’autore:

“Io credo che la Sardegna vada raccontata tutta ... se avrò vita cercherò di raccontare i paesi,
uno per uno, e tutte le persone, una per una. Non credo che avrò vita per fare questo, ma
cercherò di farlo perché tutto merita di essere narrato. Credo che le vite di tutti gli uomini
meritino di essere in qualche modo ricordate, trasmesse”.
L’autore non ha avuto vita, pochi giorni dopo l’invio del libro all’editore è morto in mare,
annegato, nei paraggi dell’Isola di Carloforte. Ciò nonostante questo libro la Sardegna l’ha
davvero raccontata tutta, almeno, come si è detto, sino al tempo dei Giudicati, in cui ancora
per un sardo valeva la pena raccontarla.
Dopo tanti anni in cui queste mie parole si sono limitate ad intasare tutti i computer
succedutisi a fianco della mia scrivania, la profonda condivisione del progetto di Atzeni mi ha
convinto a condividerle. Sento, infatti, che non appartengono solo a me, ma a tutti coloro che
vogliono ricordare, conoscere e raccontare la Sardegna.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 62


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

LIBRO
“Passavamo sulla terra leggeri” è la storia di un’epopea grandiosa della civiltà sarda, sospesa
tra verità e sogno. Essa viene raccontata da un’anziano narratore, un “Custode del tempo”, a
un bambino di otto anni che, a sua volta, diverrà custode e in punto di morte la trasmetterà ad
un suo successore.
La memoria, dunque, di un’epopea mitica che attraversa i millenni e che inizia coi
leggendari abitatori dell’isola, fino alla caduta, con la battaglia di Sanluri, nel 1409, del
giudicato di Arborea, per mano aragonese. Delimitazione cronologica per nulla casuale, che
trova spiegazione al termine del libro:
“Noi custodi del tempo, dal giorno della perdita della libertà sulla nostra terra, abbiamo
preferito finire la storia a questo punto”.
Sono due i protagonisti che attingono alle risorse della memoria collettiva per tessere le
trame di una storia millenaria.
Il primo è un narratore-scrittore, il bambino diventato adulto, che, passati trentaquattro anni
dalla sua investitura come custode del tempo, assolve il compito di trasmettere le memorie
degli antichi, per la prima volta in forma scritta, lanciando una “sfida all’usura del tempo”, al
“velo della memoria”, interrompendo così una lunga tradizione di oralità, senza tradirne le
forme, il fascino, la naturalezza comunicativa.
Il secondo è Antonio Setzu, narratore-orale, ultimo di una lunga catena di custodi delle
antiche memorie, che racconta e, insieme, interpreta, con partecipazione emotiva e con
coscienza critica, la storia passata, esercitando una funzione didascalica, come si conviene a
un maestro e al suo impegno etico.
Non a caso in apertura è dominante la voce del narratore-scrittore che, nel fare il bilancio
della sua singolare esperienza, prospetta le tappe di un percorso iniziatico in questa rapida
sintesi:

“Non sapevo nulla della vita. Antonio Setzu raccontò la storia e quel che seppi era troppo,
era pesante, immaginarlo e pensarlo mi metteva paura dell’uomo, del mondo e della morte.
Dimenticai per trentaquattro anni. Ora ricordo, parola per parola”.
Questo è un libro che sicuramente appartiene ai sardi e alla Sardegna, perché ne scava
l’intimo più profondo.
Al tempo stesso è un romanzo che dovrebbe stare in ogni libreria, in ogni casa, di chi ama i
romanzi semplicemente meravigliosi: perché la sua ricerca è una ricerca a ritroso delle radici
comuni, per mostrare meglio il presente, per immaginare il flusso del domani.

SACCHEGGIO
Ho saccheggiato frasi dal libro di Atzeni, non per tentare un inutile riassunto, solo per dare
una piccola sensazione di un’opera che ho letto tutta d’un fiato rimanendone avvinto.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 63


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Anche oggi, rileggendo per l'ennesima volta alcune delle frasi del libro, ancora ammaliato,
ho sentito l'esigenza di fissarne alcune, per “raccontare” di questo libro.
Non so definire la parola felicità. Ovvero: non so che sia la felicità.

Credo di avere sperimentato momenti di gioia intensa, da battermi i pugni sul petto, al sole,
alla pioggia o al coperto, urlando (a volte vorrei farlo e non si può, sarebbe giudicato segno di
disturbo mentale) o da credere di camminare sulle nuvole o da sentire l’anima farsi leggera e
volare alta fino a Dio (è capitato di rado).

È la felicità? Così breve? Così poca?

Se esiste una parola per dire i sentimenti dei sardi nei millenni di isolamento fra nuraghe e
bronzetti forse è felicità.

Passavamo sulla terra leggeri come acqua [...] che scorre, salta, giù dalla conca piena della
fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o
scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi
lenta verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata dai
venti e pioggia benedetta.

A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici.

Le piane e le paludi erano fertili, i monti ricchi di pascolo e fonti. Il cibo non mancava
neppure negli anni di carestia. Facevamo un vino colore del sangue, dolce al palato e portatore
di sogni allegri.

Nel settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo tutte le genti attorno
alla fonte sacra e per sette giorni e sette notti mangiavamo, bevevamo, cantavamo e
danzavamo in onore di Is.

Cantare, suonare, danzare, coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere,


morire, cantare, suonare, danzare era la nostra vita.

Eravamo felici, a parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti.

I bambini del villaggio crescevano assieme fino al rito che li faceva maiores.

Due o tre vecchie li guidavano sui monti, nei campi, negli ovili, per mostrare la vita mentre
avviene, nei cicli, nei mutamenti, nella morte.

Le vecchie riconoscevano fin da piccoli i nemici giurati che senza motivo da grandi avrebbero
cercato di uccidersi a vicenda.

Cantavamo, morivamo, danzavamo di padre in figlio, crescendo di numero e di esperienza


dell’isola. Eravamo felici.

Chiamavamo noi stessi S’ard, che nell’antica lingua significa danzatori delle stelle.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 64


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Non lasciavamo altre tracce che i nuraghe, le navi di bronzo di Urel di Mu e i piccoli uomini
cornuti, guardiani dell’isola, che molti fecero imitando Mir. Nessuno sapeva leggere e scrivere.

Passavamo sulla terra leggeri come acqua.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 65


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 66


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

15.Pesca d’altura
Secca a 30 miglia al largo di Capo Carbonara! Incontri, Mare, Cibo

Il Professore arrivò la sera di quel giorno di tardo settembre. Veniva da Cagliari, dove
insegnava diritto civile, con il suo Calafuria, una barca goffa e simpatica, incrocio tra un gozzo
ed una pilotina della lunghezza di dieci metri scarsi, completamente in vetroresina, con lo
scafo blu ed il ponte bianco.
Il suo arrivo era stato ripetutamente annunciato da quasi un mese e questo aveva scatenato le
mire di tutti coloro che sul finire di quel settembre ancora si attardavano sulle belle spiagge
che circondano Capo Carbonara, nella vana rincorsa dell’estate appena trascorsa. Tutti
cercavano un imbarco sul Calafuria dove il Professore rigorosamente ammetteva la compagnia
di quattro persone, non di meno, non di più.
Il Professore veniva ogni anno, prima spesso, adesso una sola volta, da un numero
imprecisato di anni, tanto vasto da poter ormai essere assunto come vera e propria eternità. Il
Professore veniva per fare pesca d’altura. Nonostante i suoi incarichi accademici presso
l’università di Cagliari, che avrebbero potuto indurre a considerarlo un pescatore della
domenica, il Professore godeva della piena fiducia di tutti i vecchi pescatori di Villasimius.
Quelli che tenevano i loro eterni gozzi di legno nel piccolo porticciolo di S. Stefano, poco
riparato dal vento, ma rassicurantemente dominato dai suggestivi resti della seicentesca
Fortezza Vecchia. Non è che i nuovi pescatori avessero idee diverse dai vecchi riguardo al
Professore, piuttosto a Villasimius, un tempo non lontano piccolo borgo di pescatori, oggi
non ci sono più pescatori se non i vecchi. I duemila abitanti, numero rimasto costante negli
ultimi quarant'anni, oggi vivono delle centoventimila e più presenze che per un mese, a
cavallo di luglio ed agosto, si riversano negli immediati dintorni.
Per riuscire ad imbarcarmi avevo smosso tutte le mie conoscenze, avevo fatto una mossa a
tenaglia: da un lato un eminente, dignitoso, altezzoso, primario Ospedaliero di Cagliari
innamorato delle mie foto della Sardegna, da sempre amico del Professore; dall’altro Bruno,
mio zio, continentale come me, comunicativo, simpatico ed esagitato, assurto ad autorità de
facto nel microcosmo di Villasimius per l’entusiastica e sfrenata dedizione al territorio,
l’assidua frequentazione, il suo convulso impegno proto-ambientalista nei confronti
dell'immondizia, che lo metteva in una insospettabile posizione di avanguardia ecologica. Era
quest’ultimo che in particolare, imbarcato più volte, aveva convinto il Professore a mutare le
sue abitudini, riducendo il rito della pesca ad un’unica volta l’anno.
Il Calafuria molla la cima d’ormeggio alle 5.30 della mattina, puntualmente rispetto a quanto
preannunciato, fa freddo ed è ancora buio. Sono a bordo, sono il più giovane e per questo mi
viene immediatamente e coralmente comunicato che sono l’addetto all’ancora. Sul molo
cinque sei persone, possibili rimpiazzi per eventuali ritardatari, rigorosamente esclusi; a

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 67


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

bordo il Professore, io, le mie referenze, il Primario ed il Proto-Ambientalista, un amico di


quest'ultimo, lo Chef.
Il Professore è ovviamente ai comandi, si va' a tre quarti della potenza del generoso motore
entrobordo da centotrentacinque cavalli. I miei compagni d’avventura si scatenano in una
ridda di domande tecniche sulla barca: motore, velocità, armamento. Non sono interessato,
me ne sto appartato, disteso a prua, mi godo l’alba sul mare.
Una rapida ispezione mi convince dell’assenza di un verricello elettrico per l’ancora, poco
male, sono abituato a questa mancanza sulle barche a vela che frequento, tirarsi su venti-trenta
metri di catena con ancora, tanto valuto la profondità della secca, non è la fine del mondo.
Così sonnecchiando apprendo che siamo estremamente veloci per questa classe
d’imbarcazioni e che arriveremo verso le undici della mattina. Rifletto sul fatto che il traghetto
tra Civitavecchia ed Olbia ci mette sette ore, ma dove stiamo andando?
Il Professore è tecnologico, ben organizzato, la barca lustra, le domande degli altri, il
Primario in testa, lo incalzano permettendogli di mostrare strumenti e competenza in una
sorta di ruota di pavone. La posizione della secca dove ci dirigiamo, 5 ore a sud di Capo
Carbonara, si dice gli sia stata tramandata come un segreto geloso da un suo antenato. Egli
mantiene questa tradizione di segretezza e non ci permette di scrutare né le carte nautiche in
suo possesso, né la strumentazione Loran che basandosi su triangolazioni mediante radiofari
a terra ci permetterà di raggiungere le coordinate volute con un errore massimo di trenta
metri. Mi sembra una precisione assoluta rispetto alle dimensioni del mare e delle coste, come
si vedrà poi, m’illudo. Il Professore continua a spiegare che quest’anno non ha fatto in tempo
ad installare il sistema satellitare che gli permetterà di raggiungere la secca con un errore di
due, tre metri al massimo. Tra me e me mi chiedo cosa cambi, lo scoprirò più tardi in fase
d'ancoraggio.
La navigazione è monotona, il freddo è passato ed ora il vento a prua è piacevolmente
rinfrescante. Il mare è calmo, appena increspato, c’è onda lunga e la barca si solleva e
discende ritmicamente accentuando la sonnolenza dovuta all’alzataccia. Uno dei miei
compagni, il Proto-Ambientalista, è già bianco, sudorazioni fredde gli imperlano la fronte, tra
poco vomiterà nel provvidenziale secchio che l’organizzato Professore gli ha fornito con
almeno mezz’ora d'anticipo. Mi chiedo se sta male adesso cosa succederà quando saremo
ancorati e l’onda lunga farà allora sentire tutto il suo effetto.
Ci siamo, il rumore del motore cambia, segno che qualcosa infine deve accadere. Il
Professore cala i giri, mette in folle, siamo alla deriva, ci chiama a raccolta, ci spiega. Abbiamo
già perso un uomo per il mal di mare ma si va avanti lo stesso. Siamo su una profondità di mare
di circa 500 metri, da questa profondità si innalza la secca che cerchiamo. Questa sale sino ad
una profondità oscillante tra i 140 ed i 110 metri. Sono sgomento, mi aspettavo una secca di
20, 40 metri di fondo al massimo. Conviene ovviamente cercare di pescare a 110 metri.
Adesso dobbiamo cercare questo punto perché il Loran non è così preciso. Il Professore
accende l’ecoscandaglio e manovra per trovare la scala di riferimento più appropriata, motore

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 68


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

al minimo, si va avanti piano mentre il pennino inchiostrato traccia il profilo del fondo marino
lungo la direzione che stiamo percorrendo.
Sono a prua, ad un grido del professore, che segnala il raggiungimento del punto di pesca
ottimale, devo immediatamente buttare l’ancora e filare la cima che la sostiene. Il fondo è
roccioso ed il professore ha già perso in passato svariate ancore, catene e cime, incagliate a
quella profondità ed irrecuperabili. Per questo il Professore mi ha consegnato un’ancora
speciale, di sua creazione, adatta alla pesca su quella secca.
In un cilindro forato di acciaio del diametro di circa otto centimetri ed alto una quarantina
sono stati posti tre spezzoni di tondino di ferro di quello usato per armare pilastri e travature,
della lunghezza di un metro scarso. Gli spezzoni di tondino sono fissati al cilindro da una
colata di cemento che fa anche da zavorra. Una volta fissati i tondini possono essere incurvati
verso l’esterno a semicerchio a formare tre ganci. Quello che viene fuori è un’ancora
sufficientemente leggera che, una volta incastrata sul fondo, ha la prerogativa, se strattonata
con forza, di disincagliarsi raddrizzando i tondini di ferro. L’ancora è poi riutilizzabile, infatti
una volta fuori dall’acqua è possibile, facendo forza, ricurvare i tondini e ricominciare da
capo. Mi sono consegnati provvidenziali guanti da lavoro.
Ormai quasi fermi, a metà mattinata fa caldo. Sono preoccupato della responsabilità
affidatami: calare velocemente l’ancora, avvertire quando tocca, continuare a filare la cima
sino a quando il Professore vorrà, capire se l’ancora ha preso e se si può spegnere il motore.
Sto ancora rimuginando le mie preoccupazioni che già il Professore urla di calare, siamo a
115 metri di fondo. Lancio l’ancora fuori bordo e mi affanno a passare i 20 metri di catena ai
quali è fissata, sembra che non finiscano mai. Ecco che inizia la cima bianca, ora il peso
dell’ancora e della catena in acqua rende il lavoro più spedito, lascio che la cima scorra tra le
mie mani guantate, tutto va bene, la cima è pulita, nel senso che è stata ben riposta e non si
ingarbuglia. Sento il calore dell’attrito attraverso i guanti, inizio a filare in piedi, chinato, con
bracciate alternate, sinistra, destra, sinistra, pazzesco, mai ancorato a 120 metri di fondo, non
arriva mai. Mi sembra che la tensione della cima sia diminuita, ma sì, “Toccato !”, urlo.

Il professore ingrana la retromarcia, continuo a filare ad ampie bracciate mentre la barca


recede. Siamo in folle, passo la cima attorno ad una bitta pronto a sentirla irrigidire segno
foriero dell’ancora che prende, della prua che si mette al vento. La cima vibra, l’ancora sta
strusciando sul fondo, ora uno scatto, ecco che ha preso. Finalmente soddisfatto dò volta alla
cima e la fisso alla bitta. Sono stanco e sudato, un ancoraggio interminabile.
Gli altri hanno seguito in silenzio le urla tra me ed il Professore. Questi continua a guardare
i diagrammi dell’ecoscandaglio, bofonchia, non sembra soddisfatto. Solo in quel momento mi
accorgo di non aver visto a bordo nemmeno una canna da pesca. Non faccio in tempo a
chiedere che il Professore lascia esplodere la sua irritata insoddisfazione, eravamo sui 115
metri di fondo, poi filando la cima per far prendere l’ancora, con il vento che ci spostava,
abbiamo ruotato a sinistra imperniati sull’ancora, con un raggio di una ventina di metri,
disdetta, ora siamo a 130 metri.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 69


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Forse per la fatica ed il tempo già impiegati non mi pare che 15 metri di differenza su più di
cento siano così essenziali. Nulla da fare, si ricomincia da capo a cercare il punto ottimale. Per
prima cosa bisogna disancorare.
Inizio a capire pienamente la fregatura che ho preso. Ora la cima è bagnata e scivolosa. La
prima parte della fatica consiste nel recuperare corda sino a portare la barca sulla verticale
dell’ancoraggio, La seconda parte è tirare allo spasimo sino a quando i tondini di ferro non si
raddrizzino sfuggendo all’abbraccio delle rocce che li imprigionano. Sto seduto sulla prua, i
piedi puntati sul bordo rialzato del ponte, la cima passa per una carrucola fissa su una sorta di
delfiniera appena accennata, le braccia sono tese nello sforzo agguantate alla cima, i guanti
tendono a scivolare via, me ne libero. La schiena quasi si spezza quando all’improvviso la cima
si affloscia, l’ancora è libera. Inizio con foga il recupero, le braccia pesano come piombi, il
respiro è affannoso. Ho il sudore negli occhi, la cima viene su monotona nella sua lunghezza
infinita, conto le bracciate di cima raccolta.
Dovrei raccogliere ordinatamente la cima dietro di me ma la stanchezza mi impedisce di fare
un lavoro ordinato. Quando mi ritrovo tra le mani l’ultimo tratto di catena me ne accorgo solo
dalla sensazione tattile accecato come sono di luce, sudore e fatica. Lascio l’ancora penzolare
appena fuori bordo, accasciato sul ponte, con la destra tesa a trattenere la catena. La barca si
muove alla ricerca del punto, il refolo di vento che mi arriva è una goduria.
Il secondo ancoraggio è un dramma, la cima si ingarbuglia costantemente così come l’ho
riversata sul ponte. Ormai la divisione tra me sulla prua e gli altri nel pozzetto è massima: io
rotto dalla fatica e silente; gli altri, Professore in testa, che urlano di sbrigarsi ed elargiscono
teorici consigli. Incredibile ma l’ancoraggio alla fine riesce perfettamente, l’ecoscandaglio
segnala 112 metri di fondo, e mi lascia totalmente stremato. Vorrei buttarmi in acqua ma non è
possibile ora inizia la pesca. Sono le undici del mattino.
Il Professore tira fuori da sottocoperta un enorme catino pieno di grossi pezzi di sughero
rettangolari attorno ai quali sono avvolte spesse matasse di verdastro nailon. Si pescherà a
bolentino, facendo penzolare la lenza fuori bordo e tenendola con le mani in modo che si
appoggi appena al fondo. Useremo quattro lenze simultaneamente, due sul lato di babordo,
altri due a tribordo per non ingarbugliarle tra loro. Le lenze, sufficientemente lunghe per quel
fondo, sono fatte con due millimetri di filo di nailon; sono provviste di un terminale di due
metri in filo d’acciaio al quale sono attaccati sei ami, di cui i due più in basso definiti da cernia
per la loro dimensione e robustezza; al terminale di acciaio, a zavorrare tutta la lenza, è appeso
un piombo ovale da mezzo chilo. Si innesca con sardine intere di cui sopportiamo la puzza sin
dalla prima mattina.
Iniziamo a calare lentamente, simultaneamente, svolgendo le matasse, mi è affidata una
lenza, il Professore supervisiona. Di nuovo mi ritrovo impegnato in una sorta di ennesimo
piccolo ancoraggio, sento quando il piombo tocca il fondo, subito ritiro mezzo metro di lenza
come mi è stato detto, per evitare di incagliarla. Sul lato opposto è già scoppiato il casino: il
Primario ha già impigliata la sua lenza con quella dello Chef, il Professore è furioso. Mi viene
da ridere per la confusione che si sta creando quando uno strappo bestiale che mi sega il dito

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 70


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attorno al quale ho ingenuamente avvolto la lenza per trattenerla, mi riporta allo scopo di
quest’ammazzata di fatica.
Non sono passati che pochi secondi da quando la lenza ha toccato fondo. Scatto in piedi.
Comincia la lotta. Il nailon su quella lunghezza sembra un elastico, devo evitare che il pesce
risalendo riesca a liberarsi dall’amo, per questo recupero frenetico, rinunciando ad avvolgere
sul sughero e gettando la lenza alle mie spalle. Tira come una bestia grossa, dopo un primo
tratto facile inizia ad opporre una resistenza smisurata. Mai provata una tensione simile. Non
sento più nulla di quello che sta' succedendo sulla barca, sto schiumando.
Quelle profondità sono interminabili e dilatano i tempi in maniera incredibile. Dopo dieci
minuti buoni che recupero ormai assai lentamente si stabilisce un primo contatto visivo con il
pesce, sarà ancora dieci metri sotto la barca, il nailon saetta sulla superficie dell’acqua
lasciando come la scia di un microscopico motoscafo, bagliori argentei si intravedono
seguendo la linea di nailon. Penso di avercela fatta, di averlo tirato fuori. La lotta prosegue, il
pesce tira impazzito, ci vogliono altri cinque minuti per averlo quasi a pelo d’acqua.
Arriva il Professore, guarda, mi dice che è un gronco, che è grosso. In mano ha una sorta di
raffio. Lo devo tirare sotto bordo. La stanchezza è fugata. All’improvviso il gronco salta
dall’acqua, mi vedo una bocca bestiale spalancata a un metro di distanza. Il Professore è
rapido ed efficace, svelto aggancia col raffio il pesce e con un colpo, facendo leva sul
ginocchio, scaraventa il gronco nel pieno del pozzetto.
E’ il marasma, il gronco si dimena vibrando colpi di coda poderosi, il Professore urla di stare
attenti a gambe e mani ed armato di un randello di legno assesta due colpi in rapida
successione sulla testa del gronco, le codate subito diminuiscono e si trasformano in un
tremito di agonia, un filo di sangue si snoda sul fondo del pozzetto. Una bestia da 25 chili
sentenzia il Professore, si sbaglia solo di tre chili in più, dimostrerà alla sera la bilancia.
Sono esterrefatto, mai amata particolarmente la pesca, né la caccia, il sangue mi fa senso, ma
questa lotta con il pesce mi ha avvinto, devo immediatamente calare nuovamente la lenza.
Intorno a me è accaduto di tutto, degli altri tre compagni il Proto-Ambientalista è sempre
occupato a vomitare, il Primario e lo Chef stanno ancora litigando e districando l’intreccio
delle loro lenze, il Professore, usando la lenza lasciata incustodita a causa del mal di mare, ha
tirato in un sol colpo quattro pesci, due occhialoni e due pesci di profondità rossi come triglie
e brutti come scorfani di cui mi dice il nome in sardo che non afferro.
Innesco nuovamente la lenza, operazione fastidiosa per la puzza ed il senso di viscido delle
sardine quasi putrefatte, ricalo. Ora so di non dover recuperare al primo strattone ma di
doverne aspettare almeno quattro sui sei ami a disposizione. La fatica di ritirare è troppa per
una sola preda sentenzia il Professore. Io mi chiedo, posto che di gronchi ce ne fossero stati
due, se ce l’avrei fatta. Non riesco a darmi una risposta perché sento il primo colpo, mi
impongo a forza di aspettare. Secondo colpo, la lenza tira, ritiro di un metro, di nascosto, per
non essere visto in considerazione del fatto che dovrei aspettare. Terzo colpo, non ce la faccio
più ad attendere il quarto. Di nuovo in piedi, urlante, a recuperare vigorosamente. Sono a
pochi metri dalla superficie, i pesci si vedono, ci deve essere uno di quei pesci di profondità

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 71


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rossastri. Mi devo fermare un attimo per la fatica, l’attimo mi é fatale, il pesce più grosso si
sgancia, la lenza è ora leggera, tiro a bordo da solo e senza raffio un occhialone ed un pesce da
fondo. Tre chili di pesce in tutto, il grosso è andato. Il recupero è stato così veloce nelle prime
fasi che al pesce di profondità è scoppiata la vescica natatoria per la troppo rapida
decompressione.
Si susseguono calate e recuperi. Ora capisco, questa è una mattanza non una pesca, non si fa
in tempo a calare che due o tre pesci abboccano come fossero costretti. A quelle profondità la
lenza è invisibile ed i pesci sono diretti solo dall’olfatto verso le sarde innescate. Mi riposo
guardando lo Chef ed il Primario nel loro parossismo così simile al mio nel momento della
lotta col pesce. La cesta di plastica che conteneva le lenze è già completamente piena di pesce.
Sono passate solo due ore da quando si è iniziato a pescare.
Il pozzetto del Calafuria è uno sfacelo, sangue, squame, sudore, lenze aggrovigliate buttate
per terra, pezzi di sarde ovunque. Un odore denso di mare aleggia ovunque. Ci sono pure le
mosche che evidentemente devono averci seguito dal porto. Il sole è allo Zenith e un
tendalino è un lusso al quale il professore non ha mai pensato. Il Proto-Ambientalista
moribondo di maldimare è sdraiato sottocoperta, in una sorta di sauna, completamente
distrutto nonostante la tardiva xamamina somministratagli, l’onda lunga non molla.
Il Professore si avvicina alla cesta e sentenzia che dobbiamo fermarci, è immorale pescare del
pesce che non si è in grado di consumare. Si decide di calare un’ultima volta, una sola lenza
manovrata dal Professore, per la cernia che sinora ha mancato il suo appuntamento con noi.
Il calore è insopportabile, mi butto in acqua leggermente zavorrato, con maschera e pinne,
voglio vedere la lenza che risale negli ultimi metri d’acqua. Una breve immersione mi porta a
dieci metri, blu cupo ovunque, totale senso di disorientamento, soltanto il risalire delle
bollicine d’aria che lascio sfuggire indica l’alto. L’acqua fresca mi ritempra.
Salgo e mi immergo di continuo per gioco, la lenza ancora tace. D’improvviso in
un’immersione più profonda, sui venti metri, nell’acqua limpida che rende difficile valutare le
distanze, appaiono due piccoli squali di una metrata di lunghezza. Su questa secca dove c’é
tanto pesce di piccola taglia devono aggirarsi anche i predatori più grossi. Appena passati mi
giro verso la lenza, risalendo il più lentamente possibile, sta' vibrando, la cernia è arrivata.
Sto a galla, guardando verso il basso, in attesa di avvistarla, dalla barca a tratti mi arrivano i
rumori e le urla della concitazione. L’ho vista, mi immergo tenendomi a debita distanza. Ora
le sono sotto, guardando verso l’alto mi fa tetto l’ombra scura della chiglia del Calafuria. La
cernia è possente, il muso come incartapecorito. Non riesco a vedere dove ha preso l’amo.
Devo risalire la riserva di ossigeno è finita. All’immersione successiva la riesco appena a
vedere che tirando, con un guizzo improvviso e vigoroso, la cernia riesce a spappolarsi una
parte del labbro, è libera. Intontita, forse confusa dal dolore provato, rimane come sospesa a
tre metri di profondità. La lenza è già stata ritirata, ora le sono vicino, alla stessa profondità, è
un attimo, fisso quell’occhio sgomento nel momento in cui mi vira davanti, poi lentamente,
incredula, pinna leggermente verso il basso, presto scompare nel blu assoluto dal quale la
lenza l’ha estratta.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 72


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Siamo al porto poco prima del tramonto, lo stesso comitato che ha salutato la nostra
partenza ci attende. Sbarchiamo per primo il Proto-Ambientalista moribondo, poi il pesce,
poi noi, ultimo il Professore. La barca è stata pulita durante il ritorno, ma con mio grande
piacere ho scoperto che questa attività non spetta all’uomo dell’ancora.
Lo Chef, durante la giornata di pesca ho appreso che si chiama Jeffrey ed anche la ragione
del suo soprannome, è li che già seleziona, smista e decide. Lo Chef per assurdo non è sardo
è addirittura americano, ma lì a Villasimius è presente sin da bambino. Quello che cucinerà lo
cucinerà per una marea di gente, saltando di casa in casa, cucinerà per i pescatori, per gli
amici dei pescatori, per chi non è riuscito ad imbarcare, per chi nemmeno ci ha pensato, per
chi passa di lì per puro caso ma nel momento giusto.
Comincerà come sempre con la cottura arrustia (arrosto), proseguirà poi con la cottura in
padella con la vernaccia sarda. Infine in base al pescato propinerà qualcosa di gustoso e
rigorosamente cucinato secondo ricette sarde. La selezione e l’operazione di pesatura sta per
concludersi attraendo qualche curioso, sono 110 chili di pesce. Si attende il verdetto del cuoco
in merito ai piatti speciali. Tutti tacciono quando inizia a declamare i piatti che cucinerà.

Scampirru a tianu, (tonnetto in tegame), abbiamo preso un tonno di piccola taglia, poco
meno di 30 chili, che rappresenta la preda più grossa subito seguita dal mio gronco. Sarà fatto
a trance, spellate le fette, lavate, lasciate a riposare su un piatto coperte di limone; poi in
forno, adagiate in un tegame su un fondo di patate condite con olio d’oliva, prezzemolo trito e
pecorino grattugiato, coperte con altre patate analogamente condite, infine zafferano e sale a
completare i sapori.

Triglia imboddiara (triglie incartate) Le triglie pescate saranno cucinate al forno in


cartoccio di carta oleata, riempite nel ventre ciascuna con due arselle e due cozze.
Burrida a sa casteddaia (burrida alla cagliaritana), la burrida sarà mangiata per ultima,
qualche giorno dopo essere stata cucinata, come antipasto. Il gattuccio, che ne rappresenta la
base, deve essere pulito conservandone il fegato da sbollentare a parte, il pesce va
successivamente lessato in acqua salata, spellato e tagliato a piccoli pezzi. A parte un trito di
gherigli delle piccole noci sarde, qualche goccia di aceto che tolga l’untuoso. Ancora un
soffritto d’aglio in olio d’oliva a cui si aggiunge il fegato, spappolandolo, ed infine il trito di
noci, cuocendo a fuoco lento sinché la miscela sarà amalgamata. Si aggiungerà poi aceto di
vino bianco e si continuerà a sobbollire sino a quando la salsa si omogeneizzi del tutto. A quel
punto, in una terrina, che sarà poi coperta, si sistemano a strati i pezzi di gattuccio,
ricoprendo ogni strato con la salsa ben calda, per poi far riposare il tutto almeno un giorno.

Cassola alla gallurese (zuppa di pesce alla gallurese), la zuppa sarà fatta con occhiate,
saraghi, san pietro, scorfani, capponi, gronchi, sbollentati separatamente. Soffritto di cipolla,
aglio, trito di prezzemolo, peperoncino rosso pestato. Poi diluito con l’acqua di cottura dei
pesci, aggiungendo sale e salsa di pomodoro da sciogliere nel brodo di pesce. Al sugo si
aggiungono i pesci scottati per completarne la cottura a fuoco vivo e recipiente scoperto
lasciando il sugo piuttosto liquido, di un bel rosso vivo. La zuppa si serve da sola con fette di
pane strofinato d’aglio e fritte, a parte si serve il pesce.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 73


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Che quantità assurda di pesce, in due ore, a bolentino, in cinque, il professore, tre inesperti
ed un moribondo. I miei supporter, il Primario e Bruno, il proto-Ambientalista che nel
frattempo a terra si è ripreso, parlottano sul molo con il Professore, mi avvicino in tempo per
sentire il Professore affermare che “... in fondo è giusto che sulla secca si vada solo una volta
l’anno - è soddisfatto di essersi convertito alle richieste di Bruno, a questo principio di
autolimitazione - non siamo pescatori professionisti, si va solo per divertirsi" è il commento
finale del Professore.
Divertimento per divertimento mi intrometto per suggerirgli di risparmiare i soldi per il
sistema di localizzazione satellitare, in favore di un arganetto elettrico a prua per l’ancora. Il
Professore non sembra molto convinto, intanto a lui che gli importa, con quella ressa che c’è
per andare in barca con lui, l’ancora gliela tirerà sempre su qualcuno.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 74


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

16.Tesoro della tonnara


Punta Taccarossa, Isola di San pietro! Archeologia Industriale, Libri, Cibo

La giornata è brutta, nonostante sia l’estate di San Martino, peccato. Ieri ero a mollo
nuotavo beato nel Golfo della Mezzaluna dell’isola di S. Pietro, nelle ancora tiepide acque
novembrine. Oggi il sole, intermittente a causa delle nubi a fiocchi, mosse velocemente dal
vento in quota, non ispira bagni. Per questo decido di andare a passeggiare alla punta, di
fronte all’isola piana. L’indolenza della giornata mi fa muovere con un vecchio vespone, una
volta grigio metallizzato, per la manciata di chilometri che separa Carloforte dalla Punta.
Andando per la Punta mi ricordo della tonnara che rimane sulla destra, in località
Taccarossa, difficile riconoscerla, nascosta dal muro di cinta in pietra intonacata che
costeggia la strada asfaltata, denunciata soltanto dall’alta ciminiera, quasi sul bordo del mare.
L’enorme cancello arrugginito, socchiuso, è un’attrattiva troppo forte per quel perdigiorno
svogliato quale mi sento oggi. Spengo il motore lasciando che l’ultima inerzia guidi
lentamente il vespone sin sul limitare del passo carrabile infestato d’erbacce. Parcheggio lì,
quasi a voler inconsciamente ostacolare chiunque volesse seguirmi. In realtà il cancello è
chiuso con una catena rugginosa, talmente lasca che riesco ad infilarmi tra i due battenti
nonostante la mia mole non indifferente.
Un enorme prato mi si para d’innanzi, solcato da un flebile sentiero che si snoda,
inutilmente tortuoso, tra l’erba alta, finalmente puntando verso gli edifici che delimitano lo
spiazzo erboso verso il mare. Mi avvio piano, immerso nello sprazzo di sole che si è appena
prodotto.
Supero calcinate carcasse di tonno, buttate nel prato, sparse dappertutto. Le ossa
biancheggianti rese porose e fragili da acqua, sole e vento. Carcasse intere, teste gigantesche,
code rinsecchite. Perché su quel prato? Recupero una vertebra che sembra di legno, con tutte
le venature e gli anelli concentrici tipici del legno tagliato. E’ enorme, leggerissima, mi
riempie il palmo della mano. Una di quelle vertebre che, in Sardegna, a volte si vedono usate
come saliere: due coni a base ovale, cavi, puntati vertice contro vertice, un cono a fare da base,
l’altro come contenitore per il sale.
Proseguo sul sentiero incerto, verso gli edifici, li aggiro senza entrare passando per una
sorta di stretto corridoio privo di copertura. Sbuco in un ampio cortile pieno di detriti, coppi
spaccati, casse, ferri contorti, mattoni, ceramiche in frantumi, pali della luce abbattuti con i
loro isolanti in ceramica bianca, ancora cangiante, una vecchia scialuppa di legno che sul
dorso, priva del fasciame, mostra le sue lignee costole. Al centro del cortile, imponente e
screpolata, si erge la ciminiera in mattoni rossi attorno alla quale fischia il vento dal mare.
Devo esplorare. Alle spalle gli edifici appena superati mi separano dal prato, sulla destra,
proprio di fronte al mare, bassi edifici rossastri si rivelano magazzini percorsi da file ordinate

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 75


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

di rugginose rotaie sospese al soffitto. Propaggini di rotaie piegate e contorte, attraverso le


divelte porte dei magazzini, indicano tre lignei moli cadenti incuneati nel mare. A sinistra altri
bassi edifici.
Prima il rimessaggio delle reti, ancora accatastate in forme tronco coniche biancastre, una
dopo l’altra, infinite; poi il cordame, cime e cimette, gomene, tutto sparso in una confusione
incredibile, sotto un tetto che sembra una pagina di cruciverba, con i coppi mancanti marcati
dal grigio biancastro del basso cielo nuvoloso, come a segnare gli spazi dove si dovranno
comporre parole.
Sempre a sinistra, staccati, più verso il mare, nel quale precipitano con uno scivolo di
cemento, altri edifici contengono i residui di barche lignee. Tre vecchi argani a mano,
semplici tamburi ruotanti, solidamente infissi nel suolo, dotati di braccia di legno a croce,
segnano la fatica del passaggio quotidiano dall’acqua alla terra. Oltre gli argani, cataste di
fasciame scassato, barche accatastate, gemelle della scialuppa nel cortile e, come questa, ferite
dal tempo e dall’incuria.
Esco su uno spiazzo antistante, verso lil mare, attraverso bloccate porte a scorrimento,
incredibilmente integre nelle loro molteplici piccole lastre di vetro incastonate nel telaio,
dove ormai si reggono per abitudine, senza più lo stucco portato via dal sole e dal vento.
Di fronte a me, ancore coricate, le marre in verticale, una punta al suolo, l’altra su, a tenersi
in equilibrio sulla barra saldata vicino al punto d’attacco. Infinita irregolare e caotica
successione di punte, di tutte le dimensioni, le più alte quasi mi sovrastano. Originariamente
nere, alcune sono talmente rose di ruggine che rossastri merletti ferrosi ne disegnano i
contorni.
Per ultimo ho lasciato il corpo di edifici principali tra prato e cortile. Vecchie scritte slavate
dal sole mi aiutano ad orientarmi: centrale elettrica, infermeria, magazzino, direzione. Entro
dal portone principale della direzione. C’è una confusione pazzesca, le pareti divisorie sono
sventrate, i solai crollati lasciano come sottili ed irregolari ballatoi a camminare attorno alle
mura, il tetto c’è a tratti.
Per terra cammino su una massa rugginosa di scatole ferrose di varie dimensioni,
rettangolari le piccole, cilindriche le medie e le grandi. Ad ogni lento e meditato passo che
faccio, guardando lo stato del soffitto e gli ostacoli per terra, sento il ferro delle scatole
intenerito dalla ruggine accartocciarsi gemendo su tutto il mio peso. Mi sembra di essere nel
regno del tetano tanto il mio procedere è foriero di lievi e rugginose ferite. Non c’è nulla
d’interessante. Trovata una scala, che sembra più solida di altre semicrollate, mi accingo a
salire al secondo piano. Qui c’è meno confusione, uno strato di sabbia bianca finissima
ricopre i pavimenti e la residua mobilia.
Evito le stanze con il pavimento rotto o infossato, se entro in qualche stanza cammino
sempre rasente ai muri nella speranza che le fradice travi di legno dei solai resistano al mio
quintale di peso, nel ricordo di banali leggi di fisica inerenti le leve.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 76


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Una stanza mi colpisce, il soffitto dipinto con scene naif di pesca in mare, i vividi colori
hanno resistito. In un angolo un armadio a due ante ed una sedia traballante. Le ante
dell’armadio gonfiate di umidità si sono incastrate. Quando tento di aprirlo, c’è anche una
serratura con chiave, ma è solo un inamovibile blocco di ruggine, una maniglia di legno mi
rimane in mano. Ritento piano con l’altra anta. Geme per l’attrito, si muove appena, tiro con
forza, anche questa maniglia si stacca. L’anta si è mossa un poco, tanto da poterla afferrare
dall’interno con le dita della mano. Riprovo, ora si muove per forza, lentamente.
Si è aperta e, subito, per le scrollate impartite, uno dei logori faldoni posti sopra lo scaffale
più in alto cade a terra, spargendo sullo strato di sabbia appiccicose veline colorate di pallido
celeste, giallo, rosa. Nell’armadio ora aperto scaffali con faldoni, una specie di verdastro libro
protocollo, una serie di quaderni contabili neri poggiati di piatto, in orizzontale, uno sopra
l’altro. Afferro la sedia zoppa lì vicino e mi accingo a leggere quello che riesco a razzolare.
Le tonnare sono state chiuse in un anno che dovrebbe essere compreso tra il 1958 ed il 1960.
Tutta la contabilità copre circa un decennio e finisce nel 1957. Sono impressionato, le umide
veline colorate rappresentano sorte di ricevute testimonianti qualità e quantità del pescato per
i diversi equipaggi, squadre, pescatori che hanno rapporti con la tonnara. I quaderni contabili
offrono una sorta di consuntivo del pesce pescato e trattato nella tonnara mese per mese. In
realtà non si parla di prezzi ed introiti, ma di quantità. Sono queste che mi turbano. Un
esempio per tutti: 53.275 chilogrammi di aragoste in un dimenticato mese del 1957. Non è una
pescata eccezionale, è così per tutti i mesi che ho consultato. Ma chi mangiava tutta questa
aragosta nel 1957? Ora capisco perché in Sardegna le aragoste sono finite. Non finisce con le
aragoste ovviamente, tonni, ventresche, palamiti, sgombri, sardine, merluzzi, pesce azzurro
vario. Quantità enormi. E questa è una sola tonnara. Ripongo tutto accuratamente
nell’armadio, mi prendo soltanto quel foglietto azzurro, testimonianza di quel remoto pescato
di aragoste.
Continuo ad aggirarmi, un’altra scala mi porta al terzo piano, una gran parte crollata, la
restante una sorta di enorme scura mansarda. Per terra di nuovo quel trito infernale di
scatolame rugginoso, questa volta meno disordinato, più regolare. Queste scatole sono
meglio conservate, ne raccolgo qualcuna. Le piccole sono scatole di sardine all’olio d’oliva, le
medie e le grandi di tonno. Sono scatole che non sono mai state usate, la chiavetta metallica di
apertura saldata al fondo, il fondo ancora da applicare al resto della scatola una volta che
questa sia stata riempita. Ne vorrei portare via alcune, le meglio conservate, per ricordo.
Continuo a cercare.
In un angolo tante casse di legno rettangolare, larghe e basse, accatastate. Una di queste
poggiata di lato scoperchiata mostra il suo contenuto di scatolette di sardine ordinatamente
impilate, da un lato i fondi con le chiavette, dall’altro le scatolette rosse e gialle, macchiate di
ruggine. Capito il contenuto delle casse di legno penso che le meglio conservate saranno
quelle ancora imballate. Facendo attenzione a non ferirmi trasporto una delle casse di legno
più facilmente afferrabili in un tratto di pavimento libero. Con un ferro, a mo’ di piede di
porco, stacco una delle assi inchiodate a copertura della cassa. Dentro come previsto scatole
di sardine, le prime che prendo sono conservate perfettamente.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 77


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

La scritta “Marca Artiglio” troneggia in testa su sfondo giallo oro, circondata a destra e
sinistra dal garrire di due bandiere azzurre, un cui quarto riproduce la bandiera italiana. Al
centro, in un ovale a bordo d’oro, una povera argentea sardina nel blu marino è ghermita da
un artiglio color ocra a cinque dita. Strano disegno, via di mezzo tra una zampa di gallo con
speroni e lo scheletro di una mano umana. Ai lati dell’ovale, simmetrici, due tralci di rosa con
boccioli e due rose già aperte, fiorite, di un rosso caldo ed acceso. Infine sotto l’ovale, su uno
sfondo rosso come le rose, la scritta dorata, bordata di nero, sardine all’olio di oliva. Su un
lato della scatola il riferimento al regio decreto legge del 7 luglio del 1927, n° 1548, per quanto
concerne le modalità di confezionamento, questo aiuta la datazione.
Penso ai 125 grammi di sardina che sono riusciti a sfuggire alla prigione della scatola che ho
in mano. Ho trovato infine il tesoro della tonnara che serve a completare il mio gioco di
esplorazione, mi prendo la cassa intera.
Il trasporto della cassa sino al vespone è faticoso, la pesante cassa mi sbilancia. Assicurare la
cassa al piccolo portapacchi del vespone è un esercizio di precarietà applicata. Parto lento con
uno sferragliare incessante nelle orecchie. Tre giorni dopo sono a Villasimius, con la cassa del
tesoro completamente aperta, ben 480 scatole di sardine, un centinaio da buttare perché
troppo arrugginite, un altro centinaio solo parzialmente rovinate, le restanti perfette.
Domani imbarco il vespone sul traghetto che da Cagliari mi porterà a Roma, nel bagaglio ho
stipato una decina di scatolette che regalerò come souvenir ad amici. Il resto del tesoro è
troppo ingombrante e pesante per portarlo con me.
Il mio amico Jeffrey, americano, manager sprecato a Londra, chef d’eccezione a Villasimius,
rimira le scatole e mi chiede di lasciargli tutte quelle che non mi porterò via. Perfetto, il tesoro
è sistemato, e la fatica del trasporto dalla tonnara di S. Pietro a Villasimius ricompensata.

SARDINE E STERLINE
E’ giugno dell’anno successivo quando incontro nuovamente Jeffrey per caso, da assidui
frequentatori di Sardegna come entrambi siamo, all'aeroporto di Elmas. Non faccio in tempo
a salutarlo che subito insiste, devo essere assolutamente suo ospite, andremo a farci una
stratosferica scorpacciata di pesce in un ristorante di Cagliari di sua conoscenza. Un
ristorante scelto da Jeffrey è una garanzia, come la sua cucina.
Siamo ancora lì al ristorante, quello che abbiamo mangiato è imponente, quello che abbiamo
bevuto prezioso. In questo momento siamo alle prese con un vino brillante, giallo paglierino,
tendente al dorato. Un vino di uve malvasia di Sardegna, all’olfatto, intenso, delicato, fine e
caratteristico; al gusto, secco e alcolico con i suoi 15°, con un retrogusto amarognolo di
mandorle tostate.
Il vino serve ad attaccare la nostra ultima fatica, un canestro rivestito di pizzo bianco ricolmo
di dolci sardi: biancheddus (meringhe o bianchini) di chiara d’uovo, aromatizzati con gocce di
limone e con scaglie di mandorla; candelaus (candele), cedevoli, morbidi, bianchi come cera,
ripieni di pasta di mandorle e ricoperti di glassa decorata, dalle mille forme, dalla più

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 78


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semplice, mozziconi di candele, ad altre via via più complesse, stivaletti, pentoline con manici
e coperchio, gallinelle, anforette; pabassinas o mustazzolus, dolce romboidale con uva passa,
noci, mandorle, rivestito di glassa bianca e microscopici confettini variopinti; suspirus o
guefos (sospiri), odorosi di buccia di limone e cannella, sorta di bottoni glassati, incartati
come caramelle in multicolori involucri di carta velina frangiata sui bordi.
E’ in questo momento, quello in cui la nostra fatica si appresta ad essere completata, che
chiedo a Jeffrey il motivo di quell’invito, di tutta quell’urgenza con la quale mi ha strappato
all'aeroporto e trasportato con tutto il bagaglio a mangiare. Tentenna e si schermisce, alla
fine cede.
“Ti ricordi di quelle antiche scatole di sardine che hai trovato nella tonnara abbandonata di
S. Pietro e che mi hai regalato?”, domanda retoricamente con fare ingenuo. Certo che mi
ricordo, che diamine, una fatica d’inferno ma una grande soddisfazione, è stato solo
novembre scorso.
Continua a spiegarmi che la cassa di scatole di sardine se l’è portata a Londra. Che a Londra
c’è un grande mercato dell’usato e degli oggetti curiosi che si chiama Portobello. Che le
scatole di sardine di S. pietro sono state vendute tutte come portacenere ad un prezzo che
oscillava tra le cinque e le dieci sterline l’una. Un gran successo.
Sono frastornato, tra quelle buttate perché rovinate, quelle che ho regalato in Sardegna,
quelle portate a Roma e regalate più tardi e l’unica che tutt’ora conservo per me, gliene avrò
lasciate trecento. Sono più di duemila sterline, da non credere!
Jeffrey mi offre pure un sigaro cubano, un meraviglioso Montecristo n° 2 dalla forma
rastremata, vorrei ben vedere! Buttato all’indietro sulla sedia del ristorante, le gambe in avanti
incrociate, fumo a braccia conserte buttando anelli di fumo verso l’alto, meditando una
spedizione in grande stile alla tonnara, cercando disperatamente di ricordare quante
potessero essere le casse di legno accatastate in quella diroccata soffitta.
Quella spedizione in realtà non la farò mai, troppo doloroso perdere la dimensione mitica
dell’erratica esplorazione in ricerca di un tesoro perduto, a favore della scientemente
razionale operazione di recupero dello stesso già scoperto tesoro, volta solo ad un fine
economico.
Oggi mi consolo guardando il capitale di dieci sterline che tengo religiosamente in bella
vista sulla libreria, la sardina sul coperchio sembra anche sorridermi, nonostante la stretta
dell’artiglio.

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17.Indecifrabili ghirigori
Spiaggia La Pelosa, Stintino! Mare

Cammino sulle sparpagliate silicee pagine di un libro pieno di indecifrabili ghirigori e


intellegibili, se pur riconoscibili, geroglifici.
È libro scritto a tante mani: dalla luce radente; dagli abitanti della notte che su queste pagine
passano per vivere le loro segrete avventure; dalla luna che muove la marea; dal vento che
spiana il pulviscolo di roccia detto sabbia e arriccia l'acqua pian piano, istigandola a fare onda.
Cammino su queste pagine senza ritegno per quello che vi è scritto, non perché lo ignori,
piuttosto perché così facendo mi promuovo coautore.
Leggo senza capire, guardo, dovrei allora dire, affascinato dalla successione metodica di
alcuni dei glifi più ricorrenti. Linguaggio ripetitivo e per questo ipnotico.
In questa ridondante cacofonia spicca il maiuscolo simbolo trilobato e palmato del gabbiano;
la microscopica scrittura corsiva del paguro; il denso picchiettato tratto della lucertola; il
prevaricante, massivo, iconico, segno, allungato con cinque punte, che ad ogni passo lascio
dietro di me.
Il libro è interamente riscritto ogni notte, come fosse un quotidiano. Quello di domani verrò
a fotografarlo. Con le foto di quei simboli fintamente insignificanti, illustrerò questi pochi
segni intelligibili, allora non serviranno più le parole.

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18.Argentiera
Capo dell’Argentiera, Nurra! Incontri, Archeologia Industriale, Libri, Cibo

Non avevo mai sentito parlare di blenda. Nemmeno sapevo cosa fosse, la blenda. Quando
arrischiai l’inevitabile domanda, Giovanni Salaris, il vecchio sinora rimasto in disparte,
immobile e silenzioso nella penombra del bar, il bicchiere di birra Ichnusa da me offertogli
davanti, nemmeno toccato, sino a quel momento imperturbabile al nostro concitato e
chiassoso vociare, mi parlò con una emozione che contrastava in modo curioso il ritmo lento e
ipnotico con il quale aveva scelto di narrare.

“ La blenda è un minerale di colore grigio metallico, di una lucentezza resinosa, che si


estraeva in quantità dall’Argentiera, facile da confondere con la galena a causa della sua
ampia variabilità nel colore e nella lucentezza, pronto a sfaldarsi, contenente argentite … “.
Già a partire da “galena” e ”argentite”, avrei voluto avere altri chiarimenti, dettagli,
spiegazioni, ma guardando quella faccia scavata, leggendo negli occhi acquosi da vecchio
l’irrevocabile evangelica scelta di raccontare, preferii lasciar perdere per non rischiare di
interrompere il racconto. Alcune cose del resto le capii lo stesso.
Tutto quel che restò fuori allora ha rappresentato un buon motivo, tra i molti, per tornare a
viaggiare in terra sarda, per altri incontri e racconti, per continuare a leggere, cercare, porre
domande su ciò che non conosco.
In altro tempo e luogo, lontano dal vecchio Giovanni e dal suo cadenzato narrare, ho avuto
modo di scoprire che la Nurra (Sardegna nord-occidentale) è caratterizzata da una roccia
grigiastra costituita da scisti, rocce metamorfiche formatesi circa 350 milioni di anni fa, ricchi
di blenda e galena: la blenda, solfuro di zinco, è detta anche “sfalerite”, dal greco “sfaleros”,
“malsicuro”, proprio perché può essere difficile riconoscerla dalla galena a cui è spesso
associata; la galena, anch’essa un solfuro in cristalli cubici, ma di piombo, ricca d’argento, si
chiama così perché la sua superficie grigia e lucente ricorda i riflessi del mare quando è calmo,
“galéne” per i Greci.
Tutto ciò mi è valso a dare aspetto, colore e riflessi a cose reali di cui ho appreso il nome
senza averle mai viste prima. Ma non aggiunge nulla, né alla storia di Giovanni, né alle tante
altre collezionate negli anni a venire.
Racconti di miniera, pervasi dagli echi della rumorosa fatica, intrisi della speranza di riscatto
di antichi giovani in fuga dal lavoro della terra, che ancora denunciano la polverosa origine
mineraria di cittadine ora riconvertite, come Buggerru, Arbus, Guspini, Iglesias, Carbonia,
Seui.
Favole di vita che, a prescindere che si tratti di piombo, zinco, stagno, rame, argento o
carbone, con la loro forza evocativa, ricostruiscono il mito di una remota quotidianità,

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 83


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riuscendo ancora ad animare i villaggi minerari fantasma, quello dell’Argentiera, come tutti
gli altri che ho visitato successivamente: Montevecchio e Gennamari, Ingurtosu e Nacaraculi,
Nebida e Masua, Funtana Raminosa.
Nelle terre antiche della Nurra, come in quelle del Sulcis-Iglesiente, dove i Romani e, prima
ancora a ritroso, i Punici, i Fenici e le civiltà del bronzo prenuragiche, già attaccavano i filoni
affioranti, i Sardi hanno scavato da sempre: con i Pisani, nel tardo medioevo; a partire dal
1300 con gli Aragonesi prima, gli Spagnoli dopo; con manovalanza tedesca e belga nel ‘700;
con minatori inglesi nel ‘800; con lavoratori italiani per la produzione mineraria nazionale del
secolo scorso.
Appresso alle altalenanti sorti dell’industria estrattiva, soprattutto nell’entroterra della costa
occidentale Sarda, sono sorti e morti interi paesi, si sono spostati uomini, tracciati percorsi,
modificati selvaggi ed aspri paesaggi.
Oggi tutto questo è morto. I pozzi sigillati con pesanti colate di cemento armato, le gallerie
murate; i villaggi cadenti ed abbandonati; le palazzine delle direzioni lavori sbarrate e con i
vetri rotti; le strade in degrado e parzialmente franate; le rotaie per i carrelli minerari una volta
trainati a cavallo divelte, sparite, solo rade e riarse traversine ne marcano ancora il percorso.
Le colline di detriti sono sempre lì, immense, scavate dagli acquazzoni, fangose e rosse per la
ruggine dei materiali ferrosi.

SCOPERTA
E’ un settembre inoltrato, abbarbicato al pilota, un amico di nome Roberto, sulla spartana
sella della sua rossa fiammante Moto Guzzi V500, viaggio nella Nurra, da Alghero in
direzione di Stintino.
La deviazione si presenta all’improvviso, nel primo pomeriggio, immediatamente
seducendoci con quelle curve lente e aggrovigliate che, sfiorando gli arrotondati bordi
collinari interamente ricoperti di macchia mediterranea, immaginiamo scemare in direzione
del mare, di una cala nascosta per noi ancora da scoprire.
Segnalazione precisa ma criptica, “Argentiera Km 12”, sarà una spiaggia l’Argentiera?
Paesaggio aspro, infinito, nudo, sotto un cielo in movimento segnato da nuvole bonarie.
Nessun veicolo, rumore di vento, celata del casco alzata, temperatura mite. Orografia dolce,
priva di quei tacchi calcarei sotto i quali abbiamo sfilato nei giorni precedenti, tormentata
successione di modeste colline.
Inizialmente la strada ripaga immediatamente le nostre aspettative motociclistiche, buon
fondo asfaltato, incessante successione di curve facili, moto ipnotico, oscillante, piega a
sinistra, piega a destra, di nuovo sinistra e destra, all’infinito. Poi l’intensificarsi di buche e
graniglia interrompe la “giostra” motociclistica consigliando un andamento più prudente e
meno inclinato. In compenso adesso dietro ad ogni curva si squarciano, incorniciati dalle
colline, panorami incentrati sulla rifrangente congiunzione tra cielo e mare. L’odore di

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macchia mediterranea si mischia con quello salso e appiccicoso della brezza marina, stiamo
arrivando.
Sulla sinistra superiamo i ruderi di un gruppetto di casupole a schiera disposte su alcune
gradonate. Più avanti sulla destra, isolata, aggettata su un ripido pendio affacciato sul mare,
una modesta costruzione a due piani in stile ventennio. La torretta littoria, posizionata al
centro della facciata, prominente e semicircolare, reca i tipici segni lasciati dallo
scalpellamento dei fasci littori.
Questo turrito simbolo di potenza, invero nel caso specifico abbastanza modesta, risponde
all’architettura “virile modernissima” secondo lo stereotipo dell’epoca, che sicuramente
contraddistingue una “Casa del fascio”.
Siamo arrivati, procediamo in seconda, a bassa velocità, senza parlare, per ammirare in
controluce lo scenario d’acqua della cala agognata. Il caratteristico rumore scoppiettante della
Guzzi, al minimo di giri del motore, fa da contrappunto allo sciabordio delle onde sulla riva
sassosa, ai colpi secchi e ritmati dei ciottoli sui ciottoli.
Un ultima curva a sinistra, superata la “Casa del fascio”, lascia il panorama della marina alle
spalle e attenua i suoni d’acqua e pietra. Qui tutto cambia.
Improvvisa, inaspettata, appare una polverosa cittadina di frontiera protagonista di quei
duelli dove l’intensità degli sguardi di Clint Eastwod e Lee van Cliff travalica la potenza delle
pallottole dell’immancabile Colt a tamburo rotante. Inutile precisare che io e Roberto ci
siamo nutriti, ragazzini, delle epopee western di Sergio Leone.
Roberto, rapido, ferma la moto sul bordo della strada, spegne il motore. Siamo lì, attoniti, in
piedi accanto alla moto, sospesi in un surreale silenzio.

Lentamente, inesorabilmente, le immaginifiche, suadenti, note di tromba di “Per un pungo


di dollari”, scritte da Ennio Morricone, salgono d’intensità facendomi accapponare la pelle
nonostante il caldo. Mi metto a fischiettare, ignaro del fatto che questa musica, che emerge
dai recessi della mia mente, è solo un riflesso condizionato a quello che vedo.
Sul lato della valle opposto a dove siamo, si abbarbica, spericolato, un villaggio western
fantasma, a prima vista tutto di legno ingrigito dal sole. Non si vedono persone, né cavali o
carrozze, né un saloon per la verità!
Assi squinternate, finestre cigolanti sui loro telai, sbattute dal vento che solleva la sabbia
polverosa dalla strada. Da una grossa puleggia arrugginita, attaccata ad un trave di legno, che
sporge dalla sommità di un grosso edificio, penzola una fune sfilacciata.
Le nuvole in cielo si addensano, il colore cinereo del legno si tinge di lucidi riflessi bluastri.
Continuando a fissare, attoniti, i barcollanti assiti, la sensazione iniziale di far west si dilegua.
Prevalgono ora le griglie lignee, le gigantesche intelaiature, le enormi carrucole sospese su
impianti incomprensibili ed inanimati, il vuoto spettrale delle finestre aperte a mostrare
informi ferri arruginiti, calcinacci, lamiere corrose, l’intrico di vicoletti angusti e scale di

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legno, gioco di raccordi orizzontali e verticali, che si intersecano nei diversi piani ricordando
le fantastiche e tenebrose prigioni disegnate dal Piranesi.
Dopo una breve discesa la strada finisce in una piazza rotonda. Dalla piazza, una stradina sul
fondo di una piccola valle scende verso la spiaggia sassosa costeggiando sulla sinistra il
complesso ligneo.
Sulla destra, immediatamente al di sotto al nostro punto d’osservazione, una spianata di
detriti scintillanti sulla quale corre un intrico di sconnessi binari a scartamento ridotto,
poggiati su traversine di legno incurvate dall’azione di pioggia e sole. Tutti i binari per un
tratto corrono in parallelo, poi si intersecano di continuo, alla fine della spianata confluiscono
in due rotaie che, verso il mare, si incurvano immergendosi in una galleria scavata nella stessa
grigia roccia, di cui sono fatti gli scintillanti detriti, che sostiene il fianco della collina.
Su uno dei binari, accodati l’uno all’altro, una fila di inconfondibili massicci ferrosi carrelli,
alcuni dei quali deragliati, ci svelano finalmente dove siamo: una miniera abbandonata!
Lasciata la moto, ci muoviamo lentamente, eccitati e curiosi, verso la piazza circolare
marcata da bassi muretti in mattoni rossi, unico contrasto cromatico con il grigio plumbeo del
cielo, il grigio violetto del legno riarso, il grigio argenteo degli onnipresenti detriti pietrosi.
Mentre avanziamo, sulla sinistra, sul bordo della piazza circolare, ricompare un nuovo
esempio di quell’architettura modernista del ventennio fascista che, in tanti luoghi emarginati
del paese, ha segnato un processo di brusca e forzata omogeneizzazione, oltre che
banalmente del linguaggio architettonico, dell’economia, del costume e dei modelli di
comportamento sociale.
Il nuovo edificio appare anch’esso isolato, come già la “Casa del fascio”, non solo
fisicamente ma, soprattutto, per il tipo di architettura, priva di corrispondenza con il contesto
del luogo. Contraddistinto da una facciata curvilinea che segue lo spazio aperto dinnanzi ad
esso, alto un solo piano, presenta al centro un volume emergente che si staglia plasticamente
verso l’alto sostenuto da due disadorne e massicce colonne di cemento. Finestre vetrate,
appannate dalla polvere.
Mi avvicino alla porta socchiusa. Intravedo un bar, sarà stato un dopolavoro? Incredibile, c’è
gente!

BIRRA ICHNUSA
L’ingresso mio e di Roberto zittisce gli sparuti anziani avventori: sono in tre, di fronte al
bancone, a chiacchierare con il barista sicuramente più giovane; appartato, nella penombra
della sala, solo a un tavolino, un vecchio dalla candida capigliatura siede composto, la schiena
eretta, lo sguardo di fronte a se, verso la porta dalla quale siamo entrati, le mani conciate e
callose, deformate dal duro lavoro manuale prima, dall’artrite poi, giacciono, palme all’in giù,
sulle ginocchia.
Sono imbarazzato, per le occhiate scrutatrici non celate. Non so da dove mi esce un tirato
“Salve”, genericamente rivolto a tutti. Desueto saluto di nobili origini romane che augura

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salute, immagino di trovarmi ad usarlo per rimanere sospeso tra un familiare “ciao”,
improponibile di fronte a quelle occhiate sospettose, ed un freddo e, temo, formalmente
scostante “buongiorno”, che giudico troppo impersonale.
Al salve rispondono sbiascicati, incomprensibili, mugugni, e, piccoli, quasi impercettibili,
cenni col capo, o con le mani. Il fatto positivo, mi viene da pensare, è che rispondono quasi
tutti. Il vecchio seduto in disparte è rimasto silente ed immoto.
Mi guardo attorno nervoso, ho viaggiato nel tempo, sono tornato in quegli anni ’50 in cui
sono nato.
Luce bassa, grigia, filtrata da vetrate opache, odore di polvere, vago sentore di legno
marcito. Alle pareti vecchi specchi corrosi e pannelli metallici, butterati di ruggine, con
scritte pubblicitarie di bibite ormai cadute in oblio, la cedrata, la gassosa, il chinotto.
Il bar si presenta con un bancone a forma di “L”, di legno; una volta, probabilmente,
verniciato di verde scuro. Il piano ricoperto di lamiera di zinco, sconfitta dall’azione ossidante
dell’acqua e dagli infiniti colpi ricevuti; nel piano si incassano due lavelli di pietra.
Dietro il lato corto del bancone un’alta e scrostata ghiacciaia di legno con due file di piccoli
sportelli quadrati dotati di grosse chiusure metalliche. Fanno un suono sordo ad usarli, per
accedere a celle di legno, rivestite dello stesso metallo del bancone, con gli scoli per il
deflusso dell’acqua che si scioglie dalla colonna di ghiaccio, posta, periodicamente, in un
recipiente di ferro sul fondo.
Di fronte al bancone, scalcinati tavolini rotondi a tre gambe e sedie, leggere e traballanti
intelaiature metalliche fissate, con rivetti, a pannelli, piani, sedute e schienali, di
sbocconcellata formica, nella tradizionale sfumatura verdolina praticamente integra.
Dimostrazione tardiva della qualità del laminato plastico Formica che, inventato molto
prima, nel 1913, solo negli anni ’50 viene prodotto su grande scala, in un’ampia gamma di
colori pastello, imponendosi quale elemento di modernità: per l’irrompere del colore nelle
cucine, in contrapposizione al legno laccato di bianco anteguerra.
L’intraprendenza del barista, definito tale dall’essere l’unico dall’altra parte del bancone, ci
salva da uno stallo inquietante: “Cosa volete?” , chiede perentoriamente.

Rapido realizzo che in un bar generalmente si beve, guardo che cosa stanno bevendo gli
altri, birra direi. La sete mi esplode improvvisa nel cervello, rimasta sopita, prima dal piacere
della moto e del vento che mi ha impastato la bocca, poi dalla scoperta della polverosa miniera.

Da bravo continentale che sono, sto per chiedere un “peroncino”, quando ricordo che
durante il militare, fatto anche questo in Sardegna, a Macomer, ho imparato che chiedere una
birra Ichnusa, antico nome della Sardegna, è un preciso dovere etico, cui ottemperare almeno
nei centri minori dell’Isola.
La birra Ichnusa c’è solo in bottiglia grande. Io e Roberto siamo in moto, dobbiamo guidare,
ci basta un bicchiere: offrire un bicchiere agli altri astanti di quel che rimane nella bottiglia ci

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 87


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sembra la cosa più logica. Strano come il modo più atavico di socializzare, mangiare o bere
qualcosa assieme, mantenga una costante attualità dopo tanti millenni.

SEI BOTTIGLIE DOPO


Sei bottiglie dopo, ovviamente ognuno si è sentito in dovere di offrire un’altra Ichnusa in
risposta al nostro primo gesto innocente, ci conosciamo per nome: tre birre le hanno offerte
Angelo, Giuseppe e Antonio, gli anziani avventori, una Dario, il barista di mezza età; due io e
Roberto che, quanto a bere, contiamo per uno.
Il vecchio in disparte siede ancora silenzioso, di fronte al primo bicchiere di birra che gli
abbiamo offerto, senza che l’abbia nemmeno toccato.
Roberto, solitamente un tantino introverso, sorprendendomi, ad un certo punto chiede agli
astanti se avessero lavorato nella miniera.
Il primo a rispondergli con una parlata squillante è Angelo, un ragazzino di 75 anni a
Giugno, che, superando in un attimo l’insicurezza dovuta alla necessità di far conti, alla fine
dichiara di essere stato assunto all’Argentiera l‘8 giugno del 1937.
Subito lo contraddice enfatico Giuseppe, un altro giovane di 76 anni, che gli ribadisce di
essere stato assunto dopo di lui, solo nel 1939, quando lui era stato assunto nel 1938, il 15 di
ottobre.
Mi colpisce la nitidezza delle date, non solo l’anno, ma il giorno esatto.
Angelo non si fa convincere, ribatte che nel 1937 si è sposato. Argomentazione che invero
non mi appare in contraddizione con il fatto di aver cominciato a lavorare in miniera.
Giuseppe esprime incredulità pure sul matrimonio, per questo Angelo, un tantino piccato
sente il bisogno di precisare ulteriormente. In dialetto stretto cita l’ennesima precisissima
data: “su cincu de màiu” , il cinque di maggio.

Giuseppe, riflette brevemente sulla data del matrimonio per arrivare alla mia stessa
conclusione di compatibilità tra matrimonio ed inizio lavoro, per questo conclude che allora,
quando Angelo è stato assunto in miniera, “fiasta appena cuiubadu”.
Ancora una volta il dialetto serve a sancire che la discussione è finita. Non ho capito nulla ma
la logica delle argomentazioni e quella sorta di stele di rosetta costituita dall’unica parola
intellegibile “appena”, mi permette di dedurre che Giuseppe ha detto ad Angelo “eri appena
sposato”.
Come una clessidra ripetutamente rovesciata, lo svuotarsi delle sei bottiglie ha scandito il
progressivo, prudente, processo di socializzazione.
La prima, ha rilassato le pieghe rugose che incattiviscono gli occhi.
La seconda, ha ammorbidito i volti, distendendo le mascelle serrate, arrotondando la piega
delle bocca.
La terza, ha sciolto la lingua e ridotto l’uso del dialetto, per la voglia di farsi capire.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 88


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La quarta, ha dilatato la temporalità oggettiva dell’incontro, tramutando la conoscenza


appena avviata in una lunga frequentazione.
La quinta birra, gelata, ingerita a stomaco vuoto, mi rilassa ed obnubila.
La sesta, la sete passata da un pezzo, mi fa realizzare che non è stata certo la cosa più logica
iniziare quel giro di birra, a Stintino, meta iniziale, oggi non arriveremo di certo, ma
sicuramente la più giusta.

PISTOCCU
Per fortuna che a questo punto, Dario, da dietro il bancone del bar, tira fuori un pane
pistoccu, che dice essere il più antico di tutta la Sardegna: “una volta ho letto che le radici del
nome potrebbero addirittura nascere da Pistores, nome delle corporazioni di fornai in epoca
romana”.

“Pane dei pastori - aggiunge Antonio, anche lui all’incirca coetaneo degli altri, 70 anni già
compiuti - perché di lunga durata, adatto per chi, un tempo, s’allontanava di casa, nei pascoli,
anche per un mese. Dalle mie parti, nel Sarrabus, dove il pistoccu è nato, era l’unico pane che
le famiglie dei contadini facevano d’estate perché si conservava meglio”.
Guardo questi pani di forma rettangolare, che non ho mai visto, poggiati sul bancone: sottili
ma meno del più diffuso e noto pane carasau , un lato ruvido di semola, l’altro rasposo di
mollica biscottata.
Antonio s’emoziona a spiegare come veniva preparato a casa di sua madre, prima che se ne
impadronisse la moderna industria alimentare: “Le donne di casa, con l’aiuto delle vicine con
cui avrebbero diviso il pane, impastavano semola di grano duro, lievito, acqua e sale.
Preparavano grossi blocchi che poi dividevano in piccoli pani rettangolari, un po’ più piccoli
di un foglio di carta e spessi qualche centimetro. Questi pani venivano poggiati su lunghe
tavole di legno poggiate su due sedie, spolverate con la semola, poi con una forchetta di legno
venivano punzecchiati per eliminare l’eventuale presenza di aria. Dopo le donne uscivano nel
cortile di casa, dove c’era il forno a legna che era già stato portato ad alta temperatura, per
infornare i pani. A metà cottura, venivano tolti dal forno ancora caldi, gonfi, per dividerli in
due, tagliandoli per il lato più corto. Dopo il taglio veniva tolta tutta la mollica e i due lati si
infornavano nuovamente, diminuendo la temperatura del forno, per biscottarli”.

Pane antropologicamente interessante, rifletto, dato che la sua preparazione tradizionale


domestica, affidata alle donne, implica un processo di socializzazione ed una ripartizione di
ruoli e fasi di lavorazioni praticamente ritualizzata.

Anche Angelo ha da dire la sua sul pistoccu: “Per una donna era indispensabile saper fare
questo pane”.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 89


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Giuseppe, che pare parlare solo per precisare quello che dice Angelo, ricorda che “fino agli
anni ’60 le mogli che lo acquistavano in negozio erano molto criticate, dovevano prepararlo in
casa”.

Rapido Dario apparecchia un angolo del bancone con una tovaglietta e, sopra un largo
piatto, condisce il pistoccu sfregandolo con l’aglio, bagnandolo con pomodoro fresco, per
finire condendolo con un filo d’olio d’oliva, basilico, origano e prezzemolo. Siamo tutti lì in
piedi ridossati al bancone per avere a portata di mano il pistoccu condito.

A me romano e affamato, così condito il pistoccu ricorda la nostra panzanella, anche se


manca l’aceto ed il pistoccu sostituisce le fette di pane raffermo. Il piatto, semplice, si rileva
gustoso ed estremamente efficace per contrastare il vago senso di ebbrezza indotta dalla birra
ghiacciata. Roberto, se possibile, si getta sul pistoccu con un’enfasi che batte la mia.

MINATORI
Per mitigare l’arzillo confronto e la disputa sul primato di assunzione in miniera è sempre
Roberto che riprende l’iniziativa per chiedere, a tutti e a nessuno in particolare, che lavoro
facessero in miniera.
A fargli da contrappunto sempre Angelo che esclama, con convinzione, di aver fatto prima il
vagonista, l’addetto al trasporto del minerale, e poi l’ingabbiatore, colui che si occupava dei
movimenti delle gabbie segnalando all’arganista, che manovrava gli argani per la salita e la
discesa nei pozzi, l’arrivo al livello della galleria, per il carico dei carrelli o dei minatori. Forte
dell’esperienza precedente, quasi temendo che noi, o soprattutto Giuseppe, si possa
chiedergli qualche atto ufficiale a suggellare la sua affermazione, prosegue affermando che la
sua ultima mansione di ingabbiatore è attestata dal documento, ancora in suo possesso, che
gli hanno dato all’atto del licenziamento, nel 1962.
La citazione della fonte da parte di Angelo non serve a Giuseppe che è come in trance, il suo
amico e per lungo tempo compagno di lavoro gli ha schiuso la porta dei ricordi. Quasi
mormorando, lo sguardo perso all’infinito, Giuseppe si rivolge ad Angelo per chiedergli se si
ricorda del caposquadra che seguiva i lavori e prendeva gli ordini direttamente dal direttore.
E’ il mio turno di intervenire, avido di informazioni su tutto quello che circonda le miniere.
Ricordo bene l’inizio del breve documento di Giuseppe Cavallera, contenuto nel libro
intitolato “Il movimento operaio in Sardegna , 1890-1915”, di Girolamo Sotgiu:

“Succede un triste fenomeno in Sardegna. I contadini disertano i fertili campi, abbandonano


il nativo paese, la moglie, il padre, e vanno taciturni all’oscura miniera a guadagnarsi un
pezzo di pan nero, ad accorciarsi la vita nelle umide gallerie, a lasciar brandelli di carne fra un
macigno e l’altro. Perché il contadino lascia il bel cielo azzurro per andare a nascondersi nelle
oscure gallerie? Perché egli lascia il fertile humus per il macigno, l’aratro per il piccone, l’aria
libera per l’atmosfera inquinata da mille gas impuri, fra il fumo della melanconica lanterna?
Una dura necessità deve imporre il triste esodo al libero contadino, al piccolo proprietario, e

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 90


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dure conseguenze devono sortire dal fatto anormale, che sconvolge parecchi punti dell’isola
nostra”.

Per questo comincio dall’inizio chiedendo ai nostri interlocutori che lavoro facessero prima
di essere assunti in miniera.
Angelo era un pastore, racconta che il bisogno e la povertà lo hanno portato in miniera, in
campagna c’era la crisi: “Quando ho visto la mia prima busta paga da minatore, nemmeno mi
sognavo più le pecore, né il mestiere del pastore. Ma quali pecore!”.
Continua ricordando che quando diede i soldi a sua moglie, questi servirono ad acquistare la
casa dove ancora abitano. Quando andò ad abitarci con sua moglie era una “casa di paglia”,
una vera e propria stalla, in cui trovavano rifugio le pecore che lo stesso Angelo
“rinchiudeva”. Angelo l’ha pulita con l'aiuto di suo padre, pian piano l’ha sistemata grazie ai
soldi della paga da minatore, ed oggi, conclude, “vivo in una casa in grazia di Dio” .

Al nostro “vociare” si aggiunge Antonio, racconta che faceva l'armatore, conosceva


perfettamente la roccia e l’andamento del filone e sapeva come puntellare e rafforzare le
gallerie per evitarne il crollo. Con semplicità ammette che, nonostante la sua professata
bravura, è rimasto vittima di un infortunio sul lavoro, per una frana, che lo ha reso non più
idoneo al lavoro in miniera.
Un armatore! Do spazio alla mia curiosità sugli aspetti più tecnici e quotidiani del lavoro in
miniera, chiedendo se le armature fossero di più tipi.
Antonio ha preso la scena e racconta che c’erano due tipi di armatura per la messa in
sicurezza delle gallerie ed il contenimento dei crolli: una, detta a dente, che si usava nella
galleria principale; l’altra, detta a gorza, usata negli avanzamenti.

Incalzo rimanendo sul tema, chiedo che tipo di legno si utilizzasse per l'armatura.
Antonio spiega che si adoperava principalmente il pino e il castagno, quest’ultimo legno
però aveva un difetto: si spaccava. Non era molto affidabile.
Si fa risentire il mio amico Roberto per chiedere se è vero che in galleria la frana veniva
annunciata dal rumore del castagno che si spaccava. A questa domanda si accavallano a
rispondere un po' tutti.
Giuseppe ricorda che “alcune volte sembrava che davvero il legno sentisse la frana e lo
volesse avvertire spaccandosi, altre volte non si sentiva nulla se non il rumore sordo della
frana stessa”.

Per Angelo ogni tanto la montagna “sembrava emettere gemiti, rumori indefinibili, mentre in
altri casi il silenzio era totale, asettico”. La sua conclusione è che la montagna è “traitora“,
traditrice.
Quando Antonio inizia a evocare il giorno dell’incidente per un attimo ho la sensazione che
la domanda di Roberto sul rumore del legno che si spacca sia stata indelicata, poi con il
proseguire del racconto la sensazione si dilegua.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 91


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

“Quel giorno ero intento ad armare la galleria - racconta Antonio - come ogni giorno.
Ricordo solo che, probabilmente anche per un mio errore di valutazione, la frana mi colpì
proprio la parte sinistra. Una frana maledetta che ‘mi concesse’ l'invalidità permanente”.

CALLU DE CRABETTU
Tra un discorso di miniera e l’altro, mi sfugge un’osservazione circa l’ottimo accostamento
del pane pistoccu con il formaggio piccante e le olive. Immediatamente Dario compie
un’ulteriore magia, tanto che mi sento in colpa per aver istigato, involontariamente, questa
splendida inattesa ospitalità.
Da una madia alle sue spalle tira fuori quello che di primo acchitto mi sembra un sacchetto di
tela annodato, di forma vagamente triangolare. Con un secco colpo di coltello Dario incide il
lato del sacchetto dove è annodata la cordicella, rivolta la pergamena del rivestimento
biancastro esterno. La pasta interna di color avorio appare compatta, ma sotto la lama si
sbriciola e mostra la sua granulosità. Taglia una spessa fetta, dalla quale ricava scaglie, che
mette su un tagliere di legno e accosta al pane pistoccu che non è stato precedentemente
condito.
“Eccoti servito il tuo formaggio piccante col pistoccu, quello che stai per mangiare ti farà
sentire il sapore di quello che, molto probabilmente, è stato il primo formaggio assaggiato da
un uomo preistorico“ , mi dice invitandomi all’assaggio.

Ne prendo un pezzo sotto gli occhi attenti di Dario e degli altri incuriositi dalla mia
“iniziazione”. Annuso diffidente l’odore forte, penetrante e persistente. Mastico lentamente,
assieme a un pezzo di pistoccu, questa pasta dal gusto esplosivo, anche per uno come me che
ama formaggi di capra e pecora stagionati. Il formaggio si scioglie in bocca e allappa, il sapore
è intenso e piccante, quando s’attenua lascia una sensazione di pizzicore finale. Infine azzardo
che possa trattarsi di un formaggio di capra.
Dario è compiaciuto, racconta che i rari pastori che ancora preparano questo formaggio
chiamato callu de crabettu, in ogliastra anche caju o caggiu de crabitu, lo considerano una
prelibatezza. Lui lo ha avuto da un suo amico, pastore del nuorese, che lo prepara per il suo
proprio consumo. Si tratta dello stomaco di un capretto, ucciso subito dopo essere stato
allattato, chiuso da una cordicella e lasciato essiccare per almeno un paio di mesi insieme al
latte coagulato al suo interno.
Anche gli altri, a turno, si alzano per prendere un pezzo di formaggio e di pane,
commentando la difficoltà di trovarne. Il callu de crabettu riaccende la sete. Diversamente
Roberto abbastanza schifiltoso, poco propenso alle novità alimentari in generale, declina
l’offerta concentrandosi sul pistoccu condito.

Come per il pistoccu condito e la panzanella, osservo qualche similitudine con la cucina
romana, anch’essa povera di origini e intrisa di pastorizia e frattaglie. Abituato alla pajata che

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 92


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sostituisce allo stomaco, il budello ripieno di latte digerito di un agnello, non ho alcuna
remora ad assaggiare quel formaggio antico.
Non so se il primo formaggio conosciuto dall’uomo abbia avuto questa origine ma certo
sembra plausibile. Una volta di più mi sorprendo di quanto la Sardegna e la cultura che
racchiude sia antica ed oggi così fragilmente esposta alla stagionale invasione turistica ed ai
cambiamenti che questa irruzione richiede e provoca.

BEDEAUX
Non conosco tregua, nemmeno il callu de crabettu mi frena nella mia azione “inquisitrice”
che, mi sembra, continua a venire accettata di buon grado dagli interlocutori. L’incidente
raccontato da Antonio, l’armatore, mi stimola a domandare che tipo di assistenza fosse
prevista per le vittime degli infortuni in miniera.
Per Antonio c’è stato un tempo, molto lungo, in cui i minatori venivano sfruttati sino
all'inverosimile, sino a quando il loro fisico reggeva quel ritmo e quell'ambiente di lavoro.
Nessun riconoscimento normativo della silicosi come malattia professionale. Nessun
“riconoscimento” pensionistico per le vedove dei morti per frana. Ricorda come a queste
ultime o ad un loro figlio o figlia veniva offerta solo la possibilità di avere il posto di lavoro
nella stessa miniera in cui il marito o padre era morto!
Angelo interviene per affermare che l’assistenza è stata la conquista sociale più importante
raggiunta dai minatori con le loro organizzazioni sindacali e grandi lotte. Puntuale informa
che, fino al 1948, le vedove dei minatori morti in miniera per incidenti sul lavoro non avevano
alcuna pensione, la pensione ai superstiti (la reversibilità) si ottenne con la lotta dei lavoratori.
Chiedo, in aggiunta, quali altri problemi, per migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei
minatori, affrontassero le lotte sindacali oltre l’assistenza a vedove ed orfani.
Sono ignorato, Angelo prosegue come se non mi avesse sentito, sembra molto preparato
sulle vicende sindacali delle miniere, parla della trattativa con il padronato, in quel tempo
certamente difficile. Perentorio afferma che il problema al centro di tutta l'organizzazione del
lavoro era il Bedeaux. Inevitabile una mia domanda di chiarimento, questa volta Angelo
risponde immediatamente, sintetico, chiaro, efficace, come se fosse salito in cattedra.
Spiega che il Bedeaux, inventato nel 1909 dall’Ing. Charles Bedeaux (Parigi 1888 - Miami
1944) da cui aveva preso il nome, era il sistema di lavoro a cottimo progressivamente utilizzato
da tutte le Società Minerarie a partire dal 1918.
Il cottimo Bedaux, misurava la “quantità di lavoro”, l’unità Bedaux, che un “uomo
normale” compiva, in “condizioni normali”, in un minuto, tenendo conto del necessario
riposo tra un atto lavorativo e l'altro.

Un minatore per poter lavorare era obbligato a raggiungere il cosiddetto “60 di passo”.
Doveva, cioè, sotto il controllo di un supervisore che lo cronometrava, compiere una
determinata azione, “passo”, nei sessanta secondi a disposizione: come trasportare un

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 93


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prefissato numero di carrelli o scavare un certo numero di centimetri. Se l’operaio non


raggiungeva il “passo” non veniva assunto o veniva licenziato.

Per Angelo è ovvio che l’opportunità di sfruttamento dei lavoratori da parte delle società
minerarie si annidasse nella definizione di “uomo normale”, “condizioni normali” e “passo”:
non ha caso racconta che “quando tutti i minatori erano in grado di raggiungere il passo,
questo veniva aumentato, alla fine rendendo insostenibile i ritmi di lavoro”.

Il cottimo Bedaux serviva anche a retribuire il minatore sulla base della sua produzione
giornaliera: se faceva un metro di avanzamento veniva pagato per un metro; chi ne faceva
mezzo veniva pagato la metà, generando uno squilibrio retributivo tra un lavoratore e l'altro.
Questo veniva fatto con i biglietti di punizione comminati ai minatori che non raggiungevano
il “passo” stabilito.

Angelo conclude ricordando che “ i biglietti di punizione che riducevano la paga erano dati
anche a quelli che protestavano e si rifiutavano di lavorare in posti pericolosi, come nelle
gallerie non armate”.

DODICI BOTTIGLIE DOPO


Dodici bottiglie di birra Ichnusa dopo, si procede inevitabilmente a multipli di sei, quanti
siamo, a parte il vecchio che non beve, perché nel frattempo qualcuno stimolato dal sapore
vigoroso del callu de crabettu ha avuto l’iniziativa di ricominciare il giro, tutta l’enfasi è sulla
parola che spesso si accavalla e ci si ruba a vicenda.
I ricordi del vecchio amico Angelo fanno tirare un sospiro a Giuseppe che si rammarica del
tempo che passa. Gli sembra solo ieri che era in galleria a fare le perforazioni.
Gli chiedo retoricamente conferma del fatto che come perforatore preparasse le volate, cioè
scegliesse la disposizione ed il caricamento delle diverse mine che, esplodendo
simultaneamente o secondo un ordine prestabilito, avrebbero abbattuto la parete rocciosa sul
fondo di una galleria, generando così un avanzamento del fronte di scavo e minerale di risulta
da sgombrare.
Giuseppe faceva proprio tutto, le volate ed anche lo sgombero; talvolta succedeva che
dovesse anche armare con centine di ferro.
Cerco di capire se nei lavori in galleria qualcuno pianificasse l'avanzamento e di quanto al
giorno.
Secondo Giuseppe, a quanto gli risulta, non c’era alcuna pianificazione dell’avanzamento.
Tutto veniva deciso “sul momento”. Giuseppe ricorda i gesti del carichino, l'esperto di
esplosivi, mine e detonatori, che con un bastoncino di legno “misurava” la lunghezza del foro.
Successivamente preparavamo le mine. Mi dice che solitamente le volate erano di poco più di
un metro; dopo la volata era il momento dello sparetamento che consisteva, appunto,
nell’abbattimento della roccia dalle pareti della galleria per la preparazione della coltivazione,
l’individuazione e raccolta del minerale di valore commerciale.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 94


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Roberto incalza chiedendo come si preparavano le mine e quante mine si facevano brillare
per l'avanzamento.
Ancora Giuseppe spiega che nei fori prodotti dalla perforazione, di solito 15 o 16, si
introduceva una sorta di “tappo” seguito dall'innesto della cartuccia dell'esplosivo.
Roberto è perplesso: se per ogni avanzamento si usavano così tante mine come ci si rendeva
conto che tutte le mine erano esplose nell'atto della sparata, si chiede.

La risposta è di una disarmante semplicità: “Dal nostro riparo - gli risponde Giuseppe -
contavamo le esplosioni che venivano udite in modo chiaro”.

Cerco di immaginarmi la tensione nervosa di quella conta e quale ansia dovesse provocare
l’ammanco di uno scoppio.
Giuseppe è una fonte di informazioni dettagliate e precise. Versandogli un altro mezzo
bicchiere di birra cerco di catturare la sua attenzione per potergli chiedere quali strumenti
utilizzasse per la perforazione.
Gli brillano gli occhi mentre ci informa di aver personalmente utilizzato varie perforatrici.
Facendo mente locale cerca di elencarle cronologicamente a partire da dopo la seconda
guerra: ricorda la rotativa detta a “coscia”; poi il fucile ad asciutto; per ultimo il fucile ad
acqua che, nel 1950, cominciò ad attenuare il dramma, mortale, delle polveri in miniera e della
silicosi.
Sono implacabile e continuo a chiedere, questa volta sulla dimensione e composizione della
squadra nella fase dell'avanzamento.
Giuseppe mi guarda e si mette a ridere sdentato: “La squadra di avanzamento? Ma quale
squadra! Due eravamo, appena due: il perforatore e l'aiutante. Un turno di lavoro faceva la
volata. Una volta avvenuta la sparata il turno successivo si incaricava dello sgombero del
materiale e della preparazione della volata successiva”.

“Dopo la volata intervenivo io che facevo il manovale di getto!”, se ne esce imprevisto


Dario, il barista, sino a quel momento ascoltatore attento e silente. Prestigiatore preciso e
puntuale in grado di far comparire al momento giusto una gelata bottiglia di Ichnusa già
stappata.
“Il getto - spiega - è lo scarico del materiale abbattuto nel fornello, un pozzo verticale che
collega la galleria dove si scava, ad un’altra sottostante usata per la rimozione della pietra
abbattuta, dove arrivavano i carrelli su rotaia per il trasporto del minerale agli ascensori”.

“C'era da sudare - ricorda ancora Dario - per la temperatura altissima in galleria. C'era un
caldo tale da inzupparci gli indumenti di lavoro fino ad incollarli al nostro corpo. Diventava
difficile perfino cambiarci. Talvolta accadeva che qualche minatore perdesse i sensi per il caldo
intenso. Dovevano riportarlo in superficie per rianimarlo”.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 95


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STORIE DI BLENDA E DI GALENA


Improvviso uno stridente rumore metallico, sedia strusciata sul pavimento, riporta la mia
attenzione al vecchio sinora rimasto in disparte: smesso di guardare attraverso l’opaco verto
della finestra si è girato verso di me, fissandomi negli occhi.
Non si è nemmeno presentato, imperturbabile al nostro concitato e chiassoso domandare,
ha assaggiato solo un pezzo di pistoccu condito che Dario gli ha portato al tavolino su un
piatto, senza nemmeno finire il primo bicchiere di birra Ichnusa che gli ho poggiato davanti.
Capelli di un bianco luminoso, perfino nell’incerto barlume di luce che arriva al suo angolo
nel bar, espressione di autorevole saggezza. Occhi cerulei ed acquosi, testimoni di memorie
ed emozioni non sopite, così insolitamente vigili ed attivi, in contrasto con il suo immoto
silenzio. La sola cosa che tradisce la sua attenzione al nostro parlare.
Forse stufo delle nostre tumultuose ed affollate domande, il vecchio ne anticipa altre e, con
voce bassa ma ferma, le mani sempre posate sulle ginocchia, senza presentarsi, inizia a
parlare, con un’emozione che contrasta in modo curioso il ritmo lento e ipnotico con il quale
ha scelto di narrare.

“Sono più grande degli altri, ho 82 anni già compiuti. Sono tornato dalla guerra - ovviamente
la prima guerra mondiale - nel 1919, esattamente nel mese di maggio. A ottobre dello stesso
anno sono stato assunto all’Argentiera dove ho lavorato come minatore. Dall’Argentiera ho
estratto in quantità la blenda ...”.
Siamo tutti azzittiti, attenti, cibo e birra dimenticati. Il tremore che percepisco nella voce del
vecchio che mi rende empatico, mi rovescia addosso la trepidazione del suo dire.
“ La blenda è un minerale di colore grigio metallico, di una lucentezza resinosa, che si
estraeva in quantità dall’Argentiera, facile da confondere con la galena a causa della sua
ampia variabilità nel colore e nella lucentezza, pronto a sfaldarsi, contenente argentite …

Questa miniera è veramente antica, risale ai Romani che sfruttavano i filoni emergenti di
minerale. Lo so perché appena entrato, quando ero giovane, gli anziani mi portarono proprio
a “Miniera Vecchia” a vedere un pozzo profondo 80 metri che c’era da sempre, raccontandomi
che a fine ottocento - nel 1865 ho scoperto poi verificando quello che il vecchio mi ha
raccontato - sul fondo si trovò un mucchio di scheletri e resti di spille - penso intendesse fibule
- ed armi di epoca romana”.

GIOVANNI SALARIS
Impossibile ricordare a distanza di anni il succedersi lento delle cose dette e quello
incalzante delle cose chieste; di chi le ha dette, come le ha dette; di chi le ha precisate e,
qualcuna, contraddetta.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 96


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Quando è nata la miniera? Cosa si estraeva? Quando è stata abbandonata? Cosa c’era nel
grande complesso edilizio totalmente in legno al centro del villaggio minerario? Come si
viveva in questo luogo? Dove sono i pozzi e le gallerie? Come venivano scavati ?
Per questo il racconto del vecchio non è quello reale che mi è impossibile ricordare, ma una
sorta di racconto nel racconto, creatosi progressivamente nel tempo col succedersi delle mie
visite all’Argentiera, come a tutte le altre miniere sarde che ho visitato. Ricostruito sulla base
di ciò che mi è stato raccontato, della somma delle parole di tutti gli ex-minatori, delle loro
mogli, dei loro figli, perfino dei loro nipoti, che ho conosciuto e con cui ho parlato nel corso
degli anni.
Il vecchio nel bar anni ’50, ospitato dal vecchio edificio fascista del “dopolavoro”, diviene
un icona della memoria che somma in se tutta l’autorevole saggezza di tante testimonianze
dirette ed indirette sul lavoro in miniera.
Al vecchio, unico avventore rimasto senza nome, voglio dare quello di uno sfortunato
minatore dell’Argentiera realmente esistito, Giovanni Salaris, morto giovane, il 17 luglio 1925.
Il suo nome compare in nella documentazione di un infortunio mortale, negli archivi della
società Correboi, all’epoca proprietaria dell’Argentiera.
Così che il vecchio possa assumere il ruolo di una sorta di milite, non più ignoto, che
rappresenti tutte le morti all’Argentiera: le dieci documentate successive alla sua, l’ultima nel
1961; le tante anteriori al 1925 di cui si è persa o di cui non si è mai avuta traccia e
documentazione.
Quello che segue è il racconto di Giovanni Salaris.

SCAVI MILLENARI
Mi avvicino al vecchio Giovanni Salaris, prendo una sedia e mi siedo in silenzio di fronte a
lui. Il suo sguardo mi trapassa come se non ci fossi, perso nella sbiadita luce.
Il vecchio minatore riprende a parlare, a parlarmi, per me è come se siamo rimasti soli.

“Quando ancora lavoravo in miniera, il figlio di un mio amico, Concas, che da ragazzo ha
vissuto nel villaggio dell’Argentiera e poi studiato ingegneria mineraria in continente, mi ha
raccontato la storia della miniera che, dopo i romani, nel medioevo, è stata sfruttata per
l’argento dai Pisani”.
Giovanni mi fa ricordare che uno dei siti di scavo dell’Argentiera, operante già ai tempi della
dominazione spagnola, si chiama “Plata”, che, guarda caso, nel sardo di Alghero vuol dire
proprio argento. Non lo interrompo.
“Quel ragazzo - l’ingegnere - mi ha detto che il Giudicato di Torres poco dopo l’anno mille -
nel 1131 - donò la concessione della miniera ad una confraternita religiosa pisana. Poi ancora
a scavare sono arrivati gli Aragonesi e dopo gli Spagnoli, durante la loro dominazione durata
quattro secoli”.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 97


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

So bene che nel 1714, in seguito alla resa incondizionata della Spagna, la Sardegna conosce il
breve governo dell’Austria. Successivamente, nel 1718, la Sardegna viene ceduta dagli
austriaci, in cambio della Sicilia, ai Savoia che tentano, inutilmente, di “barattarla” in cambio
altri territori (Toscana) o città (Venezia). Non riuscendoci l’8 agosto del 1720 nasce il Regno
di Sardegna che intensifica lo sfruttamento delle miniere sarde. Nel 1859, venne promulgata la
legge mineraria del Regno di Sardegna che moltiplica i permessi minerari nella Nurra per
l’estrazione di minerali d'argento e piombo.
Giovanni si rischiara la voce, respira profondamente e riprende il suo racconto.

“Lo stesso Concas mi ha insegnato che il principio fondante della legge mineraria risale ai
romani come lo sfruttamento stesso dell’Argentiera, esso afferma che le miniere sono proprietà
dello Stato che le coltiva per suo conto, o le concede ai privati richiedendo un compenso fisso,
una sorta di affitto”.
Trovo interessante che tutta la successiva legislazione mineraria che interessa la Sardegna,
pisana, aragonese, spagnola, sabauda, italiana, si sviluppa, in parallelo agli scavi compiuti
all’Argentiera, proprio per ribadire questo principio: riaffermando la proprietà dello Stato sui
giacimenti metalliferi e sui combustibili fossili, lasciando ai proprietari del suolo solo le cave
di pietra e le torbiere affioranti.

“Il figlio di Concas mi ha detto che è impossibile tracciare una storia precisa delle concessioni
succedutesi per l’Argentiera, ne rimangono solo tracce frammentarie”.
Gli spunti del racconto di Giovanni Salaris mi hanno spinto ad approfondire. Appena fatta
l’Italia, nel 1867 la miniera dell’Argentiera viene accordata in concessione alla marchesa
Caterina Angela Tola di San Saturnino per l’estrazione di minerali di piombo argentifero e
zinco, evidentemente l’argento l’avevano già estratto tutto gli Spagnoli. Dal 1870 al 1872 la
concessione dell’Argentiera passa a società del Belgio, cosa per cui, in questo periodo, il
minerale estratto viene inviato sino ad Anversa. Nel 1873 la concessione viene ceduta alla
Compagnia Generale delle Miniere. Nel 1895 alla Società Correboi di Genova che invia il
minerale principalmente in Italia eFrancia. Nel 1929, la stessa Società Correboi, passata sotto
il controllo della Soc. An. Mineraria e Metallurgica di Pertusola, ottiene in perpetuo la
concessione mineraria sino alla sua chiusura avventa nel 1963.

“La più antica galleria della miniera è la “Galleria Calabronis”, l’ho utilizzata anch’io.
Quell’istruito figlio di questi luoghi mi ha detto che risale al XIII - XIV secolo, il periodo in cui
abbandonate le coltivazioni a cielo aperto la minierà continuò a svilupparsi iniziando a
scavare. E’ stata usata sino alla chiusura della miniera, anche dopo che io avevo smesso di
fare il minatore.

Sempre lui mi ha raccontato che solo molto dopo, verso il 1870, vennero scavate prima le
“gallerie in direzione”, tra loro parallele, a mezza costa lungo gli affioramenti del filone, la
“Galleria Rietto” e la “Galleria Mare”, se ricordo bene rispettivamente a 30 e 50 metri sul livello

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 98


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

del mare. Poi, in senso trasversale alle “gallerie in direzione”, per congiungerle tra loro,
vennero scavate le “gallerie in traverso banco.

Tutte le gallerie che ho percorso non sono alte più di due metri, quasi tutte scavate con una
certa pendenza verso l'apertura per evitare gli allagamenti”.

Giovanni interrompe il suo racconto. Beve finalmente un sorso di birra dal bicchiere che gli
avevo offerto più di un’ora prima.
L’ingegnere mi ha detto che dalla metà dell’ ‘800, le gallerie non sono state più sufficienti a
raggiungere il giacimento, per questo si sono aggiunti molti pozzi verticali, profondi sino a
sessanta metri, che venivano abbandonati quando insorgevano problemi di allagamento o di
ventilazione. Quando ci lavoravo io invece i pozzi erano attrezzati di gabbie, per il trasporto
dei minatori e dei materiali, e di sistemi di pompaggio delle acque.

Una cosa l’ho capita da solo, data la pendenza del filone i pozzi più diffusi nell’Argentiera
sono di un altro tipo: inclinati, chiamati “fornelli”, utilizzati, prima dell’avvento degli
ascensori, per il passaggio dei minatori mediante scale di legno, poi per il getto del materiale
da un livello all’altro.

Dei pozzi il principale è il “Pozzo Podestà”, che ha permesso di scavare la prima galleria, il
“Livello Podestà”, sotto il livello del mare. Arrivando poi fino a una quota di 130 metri sotto il
livello del mare per raggiungere le parti più profonde del giacimento e incrementare l'attività
estrattiva. Il pozzo lo ricordo bene, è circolare, con l’imbocco rivestito di mattoni rossastri,
sormontato da un castelletto di estrazione in muratura e ferro”.
Giovanni tace nuovamente, come per riordinare i ricordi.
Il pozzo di cui Giovanni racconta è intitolato al barone Andrea Podestà, presidente del
consiglio di amministrazione della Società Correboi proprietaria della concessione, all’epoca
della costruzione, iniziata a metà dell'Ottocento e terminata nel 1890. Dopo il pozzo è stato
ulteriormente scavato e, nel 1911, ammodernato dotandolo di gabbie ad un piano manovrate da
macchine a vapore, in luogo dei precedenti argani a mano, oltre che di un sistema di sicurezza
a paracadute in caso di rottura della fune e di un sistema di perforazione ad aria compressa,
per l’epoca all'avanguardia. Quando lo usava Giovanni Salaris gli argani a vapore erano già
stati sostituiti da quelli mossi da motori a scoppio.

VILLAGGIO MINERARIO
Giovanni riprende a parlare, irritato dal rumore che fa Roberto dimenandosi indolenzito
sulle scomode e zoppicanti sedie di formica del bar, ancora alle presa con l’ennesimo pezzo di
pistoccu. Siamo ancora tutti in silenzio a guardarlo fissi, ad ascoltarlo. Dario ha riposto quel
poco che è rimasto del callu de crabettu nella dispensa ed ha iniziato a distribuire caffè.

“I vecchi di quando ero giovane io raccontavano che il villaggio minerario vero e proprio è
nato a metà dell‘800, costituito da poche baracche per i minatori”.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 99


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Dal 1880 sino al 1911, anno in cui venne ultimato il “Pozzo Podestà”, si sono succeduti
ininterrottamente lavori di miglioramento, sia della miniera, che del villaggio minerario, tanto
che l’occupazione ha raggiunto le quattrocento persone tra operai e minatori. In questo
stesso periodo venne assunto un medico ed aperta un’infermeria per i dipendenti; furono
costruite altre case, vicino alla spiaggia, ed eretti gli uffici della direzione e
dell'amministrazione. Solo nel 1906 è stata portata al villaggio l’acqua potabile, proveniente
da una sorgente situata nella valle di Porto Palmas.
“Quando ho iniziato a lavorare in miniera, nel 1919, appena finita la prima guerra mondiale,
il villaggio si era appena finito di sviluppare. Dall’anno dopo, nel 1920, è iniziato un periodo
di stagnazione, in cui si è dimezzato il numero dei minatori. Mi chiedo ancora come ho fatto ad
essere assunto appena prima.

Il villaggio minerario è stato edificato in due tempi, in due vallate digradanti verso il mare, a
nord di Punta Argentiera, costituito da edifici architettonicamente molto semplici.

La parte più antica “Calaonanu”, dove abitavo io, ospitava la maggior parte delle
maestranze, l'alloggio dei minatori scapoli, come me, e la struttura del castello dell’antico
Pozzo Plata.

Il nucleo più recente è quello dove ci troviamo adesso a chiacchierare, comprende la “laveria”
- gli impianti per il trattamento e la raffinazione del minerale - la ferrovia ed i moli per il
trasporto, oltre che il centro abitato vero e proprio. Questa parte del villaggio è stata costruita
nel 1880 - quando la concessione è passata alla Società Correboi - nella seconda valle, più
piccola, sulla strada per Palmadula, quando la miniera contava oltre trecento tra minatori e
operai, più le donne e i bambini.

In posizione dominante - come in tutti i villaggi minerari - ci sono la chiesa, dedicata a San
Nicola, e la residenza del direttore, circondata da un giardino di palme, a una rispettosa
distanza dalla residenza dei dirigenti.

A ridosso del centro produttivo, attorno alla piazzetta Camillo Marchese - che porta il nome
di un amministratore della Correboi - si trovavano gli uffici, l'infermeria e le abitazioni dei
sorveglianti.

Anche questo bar dove siamo, che era quello riservato ai minatori, si affaccia su questa stessa
piazza, mentre ad una cinquantina di metri da qui, c’era il molto più confortevole bar degli
impiegati, ora chiuso. Più in la c’era l'ufficio di controllo dei movimenti portuali della Guardia
di Finanza, ancora avanti, la mensa degli impiegati.

Alle spalle della “laveria”, arrampicate sulla collina ci sono ancora i resti di altre abitazioni
per i minatori, in quello che veniva chiamato “Rione Montevideo”. Vicino si vede quel che
rimane del Pozzo Podestà di cui vi ho detto. Attorno al pozzo sorgevano la falegnameria,
l'officina meccanica e i magazzini delle lampade a carburo e degli attrezzi. Più avanti

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 100


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

s’incontrano i primi lavori della miniera, quelli di “Is Calabronis”, e ancora altre case, con lo
spaccio per i minatori.

Il villaggio è sempre stato piuttosto isolato: alla fine dell' ‘800 lo si raggiungeva da Porto
Torres, percorrendo in quattro ore un'interminabile mulattiera. Ancora negli anni '60 esisteva
un'unica corriera che in due ore percorreva i quaranta chilometri di strada sterrata che
separavano Sassari dall'Argentiera. La strada che avete fatto voi per arrivare è stata asfalta
solo dopo la chiusura della miniera”.

PROCESSI DI LAVORO
Una nuova interruzione di Giovanni che si asciuga il lacrimare degli occhi con un candido
fazzoletto estratto dalla tasca interna della giacca, sembra riprovevolmente enfatizzare la
moderna facilità con la quale io e Roberto siamo arrivati all’Argentiera.
Riposto ordinatamente il fazzoletto, noi tutti, immobili, avvinti dal suo racconto, il vecchio
Giovanni, riprende ancora a parlare, lo stesso ritmo lento con il quale ha iniziato, il bicchiere
di Ichnusa ancora mezzo pieno, briciole di pistoccu nel piatto che ha davanti, accanto a questo
una tazzina di caffè fa ancora un filo di fumo, nonostante si stia freddando.
“Il sistema di coltivazione utilizzato all'Argentiera, anche quando c’ero io, è sempre stato
quello cosiddetto a ripiena: la zona scavata viene subito riempita con materiali sterili - gli
scarti di nessun valore commerciale. Era indispensabile procedere in questo modo, vista
l'estrema franabilità della roccia. Il minerale per la ripiena veniva scaricato da un “fornello”,
quello abbattuto veniva portato, sempre attraverso un “fornello”, a una galleria più bassa, la
galleria di carreggio, munita di binario, e di qui portato fuori.

So che fino alla metà dell’ ‘800, il minerale che usciva dalla miniera è stato "arricchito" a
mano - separato - dalle scorie a cui era frammisto, perlopiù da donne e bambini. In quel
periodo viene edificato a Cumpingieddus il primo impianto di arricchimento: la “laveria”,
chiamata così perché il minerale subisce un primo trattamento venendo lavato con acqua
appesantita - mischiata a calce - di modo che gli scarti vengano a galla e possano essere
separati dal minerale sfruttando la differenza di peso tra questo e le scorie ...”.

“Vuole dire peso specifico”, mi esce di dire, correggendo per la prima ed unica volta il canuto
minatore. Mi pento immediatamente del mio ininfluente puntiglio da fisico, per fortuna lui
nemmeno mi ha sentito, proseguendo imperturbabile il suo dire.

“... Un secondo trattamento prevedeva lo sminuzzamento del minerale in ghiaia grossa per il
trasporto. Non so se per questa frantumazione già usassero i grossi e rumorosi mulini a sfere
che ho visto in funzione quando lavoravo in miniera. Sorta di cilindri di ferro, dotati
all’interno di spunzoni, riempiti di sfere anch’esse di ferro e di minerale. Facendoli ruotare
mediante ingranaggi il minerale si frantumava.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 101


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Anche dopo aver abbandonato la cernita manuale, il personale della laveria è rimasto per
metà costituito da donne. Ricordo bene le giovani cernitrici della mia gioventù e come mi
sembrasse assurdo che fossero pagate in maniera indecorosamente più bassa del personale
maschile”.

Giovanni non sa che alla fine dell’ottocento, la miniera dell’Argentiera produceva circa 18
tonnellate di minerale al giorno. L’introduzione della laveria ha permesso di trattare 45
tonnellate di grezzo al giorno, due giorni e mezzo di attività estrattiva, per produrne circa 18
di minerale raffinato, il 90% di blenda e il 10% di galena.
A quel tempo i residui solidi prodotti dall’arricchimento sono messi in discarica, mentre i
fanghi sono scaricati direttamente in mare. L’impatto inquinante era tale da deviare le
stagionali rotte dei tonni e mettere in crisi le vicine tonnare.
“Il minerale arricchito veniva caricato a braccia, utilizzando grosse robuste ceste - coffe o
cofane - su barche attrezzate con la vela latina, di basso pescaggio per riuscire ad attraccare
sulla spiaggia di S. Nicola.

Le barche trasportavano il minerale sino a Porto Conte, proprio sotto Capo Caccia, qui,
nuovamente a mano, veniva trasferito su battelli che lo trasportavano prima verso i porti del
Nord Europa, poi verso quelli Italiani e Francesi”.
Mentre il vecchio continua a parlare, l’incerto velista che sono cerca di raffigurarsi queste
barche da pesca usate sulle coste della Sardegna e della Spagna, che già conosco con il nome
di “bilancelle” per la consuetudine di pescare appaiate.
Barche armate con quella vela che deve l'origine del suo nome, non al popolo dei Latini,
come si potrebbe supporre, ma alla forma triangolare o trina. Vela sostenuta per tutta la sua
lunghezza da una “pennola”, asse di legno issato diagonalmente sull'albero, che lascia verso il
basso l’angolo a cui legare la “scotta”, la corda, per manovrare.
Mi ridesto dai miei pensieri velici, per tornare ad ascoltare Giovanni.
“Successivamente la laveria viene trasferita vicino alla spiaggia, per facilitare il trasporto del
minerale, è quel grande edificio di legno che avete visto arrivando. Ancora oggi, come ai miei
tempi, è l'edificio più imponente della miniera.

La laveria è costruita in legno pregiato, essenza di pitch-pine, un materiale di eccezionale


resistenza come mi hanno spiegato. Deve essere vero visto che ha permesso che l’edificio sia
ancora oggi in piedi, in sufficiente stato di conservazione come l’avete visto. Penso che il legno
sia stato preferito alla pietra perché più leggero e più facile da montare e sostituire”.
Arrivando ho notato che in questa lignea costruzione non mancano abbellimenti, che ancora
si distinguono nei cornicioni e nella lavorazione delle finestre.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 102


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

“Poco dopo la mia entrata in miniera, negli anni ’20, il sistema di trasporto del minerale è
stato migliorato. Si è prolungato il pontile al centro della rada di San Nicolò, in modo da
consentire il carico su imbarcazioni di maggiore stazza con più di cinque metri di pescaggio.

Dalla laveria il minerale frantumato e setacciato passava sul pontile di roccia e di qui, nei
tempi più recenti, sulle banchine in cemento armato di cui ormai non c'è ormai quasi traccia.
Di fronte la laveria erano stati costruiti i silos per lo stoccaggio del minerale. Il carico veniva
fatto, tramite “tramogge”, su dei carrelli che, passando nella galleria ancora visibile al termine
del piazzale dove si intersecano le rotaie, scorrevano lungo due bracci ricurvi per arrivare sino
al mare a scaricare il materiale direttamente nella stiva delle imbarcazioni. Queste salpavano
e, arrivate al largo, trasferivano il carico sui piroscafi diretti ai maggiori porti della penisola.

In questo modo sono migliorati i tempi di caricamento del materiale sulle barche, cosa che ha
portato ad una sensibile diminuzione del numero degli addetti a questo lavoro riducendo i
costi del trasporto del minerale. I miei capi dell’epoca parlavano di un costo di circa 80 lire a
tonnellata, abbattuto almeno del 50% grazie a questi miglioramenti”.

Nel 1929, dopo che Giovanni Salaris aveva già lasciato la miniera, la laveria è stata
nuovamente attrezzata adottando il moderno sistema a “flottazione”, per la lavorazione della
blenda. Però, a causa della crisi del mercato dello zinco, questo nuovo sistema di
arricchimento è entrato in funzione solo all'inizio degli anni '40, quando riusciva a trattare
una produzione giornaliera di grezzo di circa 175 tonnellate, quasi il quadruplo di quanto
lavorato a fine ‘800, producendo il 10,5% del trattato di blenda e l' 1,6% di galena.
Così il minerale proveniente dal “Pozzo Podestà” posto alle spalle della laveria, in posizione
più alta veniva portato facilmente all’interno della laveria mediante scivoli. Qui passava
attraverso i frantoi che lo sminuzzavano, poi al “crivello”, una sorta di setaccio, per ottenere
polveri fini come il talco, e infine al reparto di flottazione, dove aggiungendo acqua ed
impastando si otteneva fango, la “torbida”.
La “torbida” veniva versata in contenitori squadrati di metallo, le “celle di flottazione”,
mescolata da pale metalliche girevoli. L’aggiunta di reagenti chimici alla torbida faceva si che
si formasse della schiuma costituita da bollicine di gas sviluppate nella reazione chimica tra
reagenti e minerale. Le bollicine attaccate ai grani di minerale lo facevano venire a galla,
mentre lo “sterile” precipitava a fondo. La schiuma sulla superficie della cella veniva asportata
insieme al minerale con spatole meccaniche ruotanti. I grani di minerale così raccolti, filtrati,
essiccati, costituivano il “concentrato”, il prodotto ultimo della miniera, da inviare agli
impianti metallurgici.

EPILOGO MINERARIO
Una nuova pausa brevissima di Giovanni, direi un sospiro di rassegnazione. Il silenzio rotto
dall’acciottolio di tazzine di caffè che Dario sta lavando in un pilozzo di pietra. Il racconto di
Giovanni Salaris riprende, ma il tono di voce del vecchio è cambiato più accelerato, stanco,
meno enfatico, venato di malinconia.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 103


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

“La prima guerra mondiale aggrava le condizioni, già difficili, delle miniere segnando una
prima battuta d'arresto nell'attività estrattiva, sia perché sottrae uomini all'attività facendoli
partire soldati, sia per i rapporti tesi tra Italia e Francia, che limitano le esportazioni.
All’Argentiera gli operai sono ridotti a meno di duecento, di cui solo una sessantina di
minatori. Dopo la guerra, quando inizio a lavorare in miniera, l'attività riprende, a fatica.

Dopo che già me ne ero andato, dal 1931 al 1935 l'attività estrattiva è stata nuovamente
sospesa e restarono occupati solo una trentina di operai fra armatori, fabbri e guardie”.

Nel ‘36 l'attività è stata ripresa in concomitanza con le prime preoccupazioni riguardo alle
risorse ancora sfruttabili. La miniera dell'Argentiera è sempre stata, tranne alcuni periodi,
una delle più produttive dell'isola, ma il giacimento, sfruttato fin dall'antichità, si è ormai
impoverito. La parte più alta e quella centrale sono praticamente esaurite e, nonostante ormai
vengano usati sistemi di perforazione moderni, a percussione, potenti compressori ed
effettuate nuove ricerche di filoni, le preoccupazioni restano, amplificate anche
dall’imminente scoppio della seconda guerra mondiale.
Uno studio del 1945 circa le possibilità di sfruttamento residuo della miniera conclude che
possono essere ancora ricavate circa centomila tonnellate di materiale nei siti “Plata”,
“Podestà”, “Mezzeria”, che equivalgono a circa tre anni di vita della miniera, a meno che
nuove ricerche in atto a Nord del “Pozzo Alda” non portino al rinvenimento di un nuovo
filone.
“Alla fine degli anni '40, tra le agitazioni degli operai e il crollo dei prezzi di zinco e piombo,
le ricerche proseguono con l’approfondimento del “Pozzo Aldavenne” e lo scavo del nuovo
“Pozzo Umberto”, che arriva a 220 metri sotto il livello del mare. Si pensa anche di cominciare
a sfruttare le sabbie minerali dell'arenile vicino alla miniera.

Negli anni '50 i lavori hanno un certo incremento arrivando a scavare il punto più profondo
della miniera, a 325 metri sotto il livello del mare. Le ricerche di nuovi filoni si moltiplicano,
inutilmente perché, anche in presenza di filoni di minerale, la redditività economica della
miniera non c’è più.

Nel 1962 la Società di Correboi da inizio ai lavori di chiusura allagando il “Pozzo Podestà”.

Nel 1963 il sindaco di Sassari riceve un telegramma: "Sopravvenuto esaurimento giacimenti


et comprovata incoltivabilità". Sindacati e amministratori locali protestano a lungo e con
durezza, ma i circa cento lavoratori, e di conseguenza le seicento persone che abitavano la
borgata dell’Argentiera, devono rassegnarsi alla chiusura della miniera.

PAURA
Il racconto di Giovanni Salaris s’interrompe improvviso, nel rinnovato silenzio di tutti gli
astanti, l’unico movimento nel bar è il dondolio di condivisione di quanto ascoltato delle teste
di Angelo e Giuseppe.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 104


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Giovanni Salaris, antico della sua saggezza e pacatezza, si alza strusciando la sedia, finisce
l’ultimo dito di birra dell’unico bicchiere che ha bevuto, facendo un distratto cenno di saluto
con la mano destra si avvia alla porta, senza girarsi, sulla soglia, la mano destra a tenere la
porta aperta, ci getta addosso le sue ultime stanche parole.

“Erano estreme le condizioni dell'antico lavoro in miniera. Ma anche fuori dalle gallerie non
si scherzava con la fatica. Polvere, frastuono, esalazioni rendevano le condizioni di lavoro
nella laveria non meno insalubri che nelle gallerie.

No, decisamente il lavoro in miniera non faceva per me. Vi ho lavorato cinque anni. Di
quegli anni ricordo ogni minuto scandito da una paura cieca. Ricordo  il terrore della miniera,
del suo “chiuso”, della sua aria grave da respirare perché “inquinata” da un umido afoso di
rocce e terra. L'ho lasciata senza alcun rimpianto. Ho preferito emigrare in Germania dove ho
lavorato nel settore delle costruzioni, ma sono tornato per morire qui”.
La sgangherata porta del bar rimane aperta dietro al vecchio già uscito ed una lama di luce
sciabola la sedia sulla quale era seduto.
Ammiro in lui il coraggio adulto nell’ammettere di fronte a degli estranei quali siamo io e
Roberto e agli altri minatori di aver provato paura e terrore di una miniera che ne incuteva
moltissimo, richiedendo rispetto.
L’epilogo imprevisto del suo lungo assolo mi fa comprendere che la miniera non va visitata
come una moderna Disneyland, né rimpianta per il pathos che evoca a chi non l’ha subita sulla
propria pelle, come me, ma studiata come luogo di durissimo lavoro dove si è consumato uno
sfruttamento bestiale di uomini, donne e bambini che anche vi morirono!
Poco dopo, senza altre chiacchiere, io e Roberto paghiamo le birre di nostra competenza,
ringraziamo Dario per il pistoccu e il callu de crabettu, salutiamo compostamente Angelo,
Giuseppe, Antonio, andiamo a visitare la miniera.

VISITA
Sensazione di pietrisco sotto le leggere suole di gomma delle scarpa da ginnastica che
indosso, m’inerpico verso un’alta stilizzata struttura in cemento. Guardando meglio si vedono
ancora le tracce delle guide di scorrimento delle gabbie degli ascensori. E’ il “Pozzo Alda”.
Mi faccio guardingo, guardando bene dove metto i piedi, incredibilmente la pericolosa
voragine è ancora aperta, mi affaccio titubante.
Non si vede nulla. Il lancio del sasso di rito è ripetuto tre volte prima che io riesca a
percepire il rumore dell’impatto sul fondo, rumore che sembra indicare che il pozzo è
allagato. Il conteggio dei secondi sull’orologio e vecchie reminiscenze di fisica mi fanno
stimare la profondità sui venti metri. Nessuna traccia delle cabine dell’ascensore, né dei cavi,
solo quell’apertura quadrata, buia, inquietante, nella quale precipitano travi arrugginite.
Roberto vaga a poca distanza risalendo un sentierino che si inclina a mezza costa di una
collina fatta di detriti, presumibilmente estratti dalle viscere della miniera. La vista della rada

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 105


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

di san Nicolò è completa, dalla mulattiera franosa che stiamo percorrendo alle spalle della
vecchia laveria. Una deviazione che scende verso un arco di pietra ci fornisce un punto di
ingresso ai locali più alti della diroccata laveria.

Tegole divelte fanno entrare una luce ancora accecante, nonostante il pomeriggio inoltrato.
Cerco di camminare rasente i muri, evitando le assi di legno che sembrano mantenere un
precario equilibrio. Una specie di ballatoio con ringhiere di ferro, arrugginito, fornisce una
panoramica della laveria che sprofonda verso il basso, scendendo lungo il fianco della collina
di detriti.
Proprio sotto di noi appare una sorta di enorme cassone fatto di assi di legno rinforzate da
fasce di ferro rugginoso. Il basamento, montato su una struttura di ferro sostenuta da
eccentrici, suggerisce un movimento basculante. Si tratta di un enorme crivello meccanico
azionato, chissà come, da chissà cosa. Ad una estremità una sorta di scivolo si perde nel vuoto
sottostante.
Cerco di immaginare il rumore assordante del minerale frantumato scosso all’interno del
cassone per operare non so quale tipo di selezione. Il silenzio totale contrasta e inficia questo
mio tentativo auditivo. L’edificio all’interno appare ancora più grande così come è, svuotato
dei macchinari imponenti e delle persone. Malandate scale di legno scendono in un dedalo
spesso finendo nel nulla. Troppo pericoloso percorrerle.
Roberto richiama la mia attenzione, più in basso, su un cilindro di ferro bullonato con due
grandi dischi metallici alle estremità, uno dentato, gigantesco ingranaggio. Ogni disco
poggiato su una coppia di piccole massicce pulegge metalliche, ancorate, con spessi assi, ad
un telaio. Il Cilindro doveva ruotare mosso da ingranaggi, solo in parte nella loro sede
originaria, che si incastrano con i denti posti ad una delle sue estremità. Forse quel
meccanismo di frantumazione del minerale, il mulino a sfere, evocato da Giovanni Salaris che
richiama un fragore ancora più violento del crivello meccanico intravisto poco sopra. Poco
altro si riesce a capire nell’intrico di travi di legno della laveria.
Le ombre si allungano facendo presagire il tramonto, dobbiamo andare. Tornando verso la
moto ripassiamo davanti al bar ora deserto, l’uscio serrato.
In sella alla moto, guido io, Roberto è stanco, la celata del casco alzata, il motore già acceso
per affrontare la strada, guardo sulla sinistra lo scheletro della miniera stagliarsi conto il cielo
già arrossato, il contrasto esasperato del controluce rende tutto nero.
Qualche vetro miracolosamente scampato alla rovina e all’abbandono, incastonato in telai di
legno mossi dal vento, lancia sporadici abbagli dalla massa degli edifici accatastati attorno alla
laveria.

DELUSIONE
Sono tornato all’Argentiera con speranza dopo cinque anni, era ancora settembre. Ero solo,
ero ancora su due ruote, non posso dire in moto, su un vespone grigio metallizzato.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 106


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Arrivato alla “Casa del fascio” la speranza mi ha lasciato, tutto è cambiato, tutto è brutto e,
soprattutto, privo di di storie da studiare per cercare di capire la miniera e soprattutto la gente
che l’aveva vissuta.
Ai resti del piccolo villaggio minerario si sovrappongono, invadenti, impossibili da non
notare, quelli di un sedicente villaggio turistico. Il risultato è assolutamente deleterio: i lavori
che avrebbero dovuto comporre il villaggio turistico sono contraddistinti da costruzioni
illegali, abusi architettonici, utilizzo inconsulto di materiali, assurdi sia dal punto di vista del
contesto del luogo che da quello funzionale.
Infissi in alluminio anodizzato color ottone, grigi grandi moderni mattoni forati di cemento
precompresso, rifiniture in travertino romano e mattoni rossi, intonaci giallastri e tetti di
tegole grigie. Gli edifici, costruiti frettolosamente, per metà non appaiono completati.
Cartelloni, inneggianti al tardivo sequestro dei lavori, troneggiano sulle nuove rovine del
villaggio turistico, mai finito di costruire, che assediano la vecchia laveria di legno che, a
prima vista, sembra invariata. Gli stessi cartelloni riferiscono il sequestro al 1981, dopo quattro
anni il cantiere è ancora bloccato, senza per questo avere abbattuto i metri cubi di abitazioni
costruite, le gradinate fatiscenti che avrebbero dovuto facilitare l'accesso alla spiaggia, le
ampie, inutili, strade aperte senza ordine o scopo.
Sono completamente spariti i carriaggi per il carico del minerale a mare. I pozzi principali
sono stati messi in sicurezza, ovvero sigillati con colate di cemento.
Il vecchio bar del dopolavoro è chiuso, da una finestra rotta riesco ad intravedere
l’impolverata sagoma del bancone.
Mi aggiro per i vicoli pieni di moderni detriti per chiedere. Nessuno sa darmi notizie degli
ex minatori Angelo, Giuseppe ed Antonio e il vecchio Giovanni Salaris. Dario, il barista,
nessuno lo ha mai sentito nominare, è sparito con il suo bar, sostituito da uno squallido nuovo
spaccio, ricavato in uno degli edifici “restaurati” in funzione del villaggio turistico.
Ci entro solo per cercare notizie, inutile, una graziosa ragazza, mia coetanea, nata a Sassari,
ma da ottobre a maggio vive a Roma, ci tiene a precisare, non sa nulla della miniera, non sa
nemmeno che nel villaggio minerario c’è un vecchio bar ormai chiuso. Dario non lo conosce,
lei è li da due anni. Può solo confermarmi quello che è evidente.
Nel 1967, quattro anni dopo la chiusura della miniera, la Società Correboi ha venduto i
terreni della miniera, per circa 800 ettari, ed i fabbricati in essi contenuti a due società
immobiliari, romane gli sembra di ricordare, che pretendevano di valorizzare la borgata da un
punto di vista turistico.
Nel 1981 le case, quasi completate, vengono sequestrate, le condizioni precedenti non sono
mai ripristinate, col risultato che chi visita il villaggio minerario s’imbatte in un nucleo di
edifici fantasma, costruiti per metà e per metà fatiscenti che si sovrappongono alle strutture
antiche della miniera.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 107


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

La ragazza è fiduciosa. Il suo squallido baretto ha tutto quello che serve: il frigo della coca
cola, con dentro la pepsi, e quello orizzontale per i gelati; il microonde per scaldare patetici
surrogati di piadine romagnole, per di più surgelati; lo specchio della Guinness di fronte al
quale si specchia l’impianto nuovo fiammante della birra alla spina targato Peroni; i tavoli e le
sedie di plastica, impilabili, bianche, di quelle che se uno come me che pesa un centinaio di
chili ci si siede ti posano a terra in un istante; l’imbotto di legno di abete verniciato di coppale
scuro alle pareti, che fa tanto baita, non ci azzecca nulla; il pavimento di monocottura azzurro
aviazione.
Neanche a pensare che abbia una bottiglia di Ichnusa e poi, se pure gliela chiedessi, con chi
potrei berla?
La ragazza è fiduciosa. Non gli interessa che i maldestri “restauri” abbiano contribuito a
imbruttire il villaggio minerario, visto che nell’ultimo anno ha visto incrementare l’afflusso
turistico. Del resto l’inesistenza di strutture ricettive alternative porta un sacco di bagnanti a
rifocillarsi da lei di finta piadina romagnola.

Non riesco a trattenermi dal provocarla e infine le chiedo una Ichnusa. “Che è?”, mi
risponde. “Birra!”, dico io. La spina non mi funziona, “Se vuoi ho un peroncino?” fa lei di
rimando. Il peroncino me lo vado a bere da solo, appollaiato dentro la scricchiolante laveria.
Tutto cambia è la lezione delle miniere, da vive, come anche da morte. Del resto, nei pochi
anni trascorsi dalla mia precedente visita, anche la mia vita si è completamente trasformata.
Da studente di fisica a programmatore per una società di informatica; dalla casa dei genitori a
una casa mia; da una amata ragazza di Cagliari, che non ho mai portato per miniere, al single
che sono adesso, in attesa del prossimo innamoramento.
Per quale motivo la miniera mi avrebbe dovuto aspettare invariata come la volevo io? Che ci
sarebbero rimasti a fare lì all’Argentiera, Dario, Angelo, Giuseppe, Antonio e Giovanni
Salaris? Ad aspettare me?

SPERANZA
Sono tornato all’Argentiera con speranza tante altre volte, non ho scoperto più nulla sulla
miniera da aggiungere a quello che ho scritto. Tutto questo tempo però mi è servito ad
approfondire quella storia di fatica, dolore e sofferenza che è la storia delle miniere.
Ogni volta che sono tornato la moto era diversa, io ero cambiato, cresciuto credo si dica, e la
miniera era lì, mai come la prima volta.
L’ultima volta che sono tornato ho portato con me mia figlia. Forzando, contro la sua
volontà legalitaria, la porta sconnessa del vecchio dismesso bar siamo entrati. Era ancora così,
esattamente come lo ricordavo, ma ingrigito da uno spesso strato di polvere, il pavimento
cosparso di vetri.
Lì dentro ho raccontato a mia figlia dell’incontro con i vecchi minatori, come fosse una
favola, non aveva l’età giusta per capire. Siamo usciti, stretto dalla paura per lei l’ho fatta

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 108


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

affacciare all’interno della vecchia laveria, il gioco d’esplorazione l’ha intrigata. Poi abbiamo
fatto un bel bagno nell’acqua gelida della spiaggia di San Nicolò, dove si arenavano le
“bilancielle” per caricare il minerale.

Quando ho cominciato a scrivere dell’Argentiera, sono andato a rileggere i miei appunti, poi
ho cercato le moltissime foto scattate per rinverdire la memoria. Solo in quel momento ho
realizzato che, in quella lontana prima visita, la macchina fotografica custodita nel piccolo
bauletto posteriore della moto Guzzi era quella di Roberto. Le foto le avrà allora lui, che da
tempo ormai ho perso per strada. Solo una manciata di diapositive è in mio possesso, senza
nemmeno valutarne la qualità le ho scannerizzate per inserirle nel testo.
Tutte le visite successive alla prima sono stato pigro, o ammaliato, o più semplicemente
sprovvisto della macchina fotografica. Dopo tanti anni che vago per miniere di Sardegna,
divulgando ricordi e sensazioni, ho solo questi pochi antichi scatti della mia prima miniera.
Questo significa che in futuro tornerò ancora all’Argentiera con speranza, per cercare di
fotografarla. Questo mi conforta. Sia che ci riesca, sia che fallisca, continuerò a possederne il
ricordo che non è catturato da una foto o da uno scritto, ma da qualcosa di molto più
complesso.
Ogni volta che passeggerò all’interno della miniera dell’Argentiera penserò soprattutto alla
gente che l’ha vissuta, gente che non invidio affatto, come potrei, ma che, con la grande
lontananza dal mio mondo, mi ha prima incuriosito e poi, superate le reciproche diffidenze,
con il semplice raccontare mi ha insegnato. Gente che per il racconto della loro quotidiana
fatica ho imparato a rispettare profondamente. Penserò a Angelo, Giuseppe, Antonio, Dario
e, soprattutto, a Govanni Salaris che a 82 anni aveva sì paura della miniera, ma non aveva
paura di raccontarlo ad un ragazzo di 22 anni quale io ero.
Non so pregare ma immagino che il pensiero che rivolgerò loro, guardando il mare, possa
valere come una preghiera, per loro e per me.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 109


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 110


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

19.Giocare con le dune


Porto Pino, Costa del Sud! Mare

Stamane ho visto l’alba e sono corso in spiaggia. Nel freddo del fuori stagione.
Gli stagni sono gonfi d’acqua e le dune vergini di vento.
La macchia mediterranea ha bloccato le più grandi, nell’interno, tanti anni fa, mentre quelle
di venti, trenta metri ancora si spostano errabonde nel loro habitat, candide di luce e riflessi
silicei.
Sono ancora una volta nella mia Sardegna, quella che Bruno mi ha regalato tanti anni fa.
Sono solo su una spiaggia deserta, che ho già percorso in tutta la sua smisurata lunghezza,
partendo da Porto Pino sino a sconfinare all’interno del poligono militare di Capo Teulada,
proprio dove s’innalzano le dune.
L’ora mattutina del fuori stagione non arroventa la sabbia, finissima, asciutta e appena
tiepida.
Gioco incessante d’arrampicata sulla sabbia compatta delle dune e di corsa in discesa.
Affondo, incespico, la sabbia a mezzo stinco, il cuore che batte veloce, corro sul crinale sottile
spazzato dal vento, nebbioso per la sabbia che si solleva.
Salto nel vuoto ricadendo sui pendii sabbiosi, ruzzolando, rotolando sino ai piedi delle
dune. Mi rialzo insabbiato, sudato, felice e ricomincio come fossi un bambino.
Quando mi stanco mi siedo sulla sommità della duna a guardare il mare che s’accende di
colore man mano che il sole s’eleva.
E’ quasi la mezza, accaldato dal saliscendi, mi tuffo nell’acqua trasparente e gelata. Poche
bracciate perché per il freddo il diaframma si rifiuta di farmi respirare.
Strana sensazione, l’unico sentore di freddo è la cattiva respirazione. Non ho crampi, né
dolori alle ossa, ma solo un diffuso rigenerante pizzicore sulla pelle.
Mi rituffo, una decina di bracciate, mi alzo per un respiro profondo, non tocco più, e così di
nuovo per trovare il ritmo giusto.
Ho raggiunto un solitario gommone, residuo dell’affollata estate che ho fuggito per
rifugiarmi nel rarefatto controtempo. Non mi fermo per tentare di salirci, se mi asciugo non
so se avrò voglia di bagnarmi di nuovo.
Sono tornato in Sardegna a giocare con le dune. Sono tornato nel controtempo. Sono
tornato da solo. Sono tornato in moto.
Avevo paura, divenuto padre, che non sarei più tornato in tutti questi modi messi assieme.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 111


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Sono papà. Sono in Sardegna a giocare e sono papà. Essere qui mi aiuta ad essere un padre
migliore.
Se la prima volta la Sardegna mi è stata regalata da Bruno, questa seconda volta mi è stata
donata da mia moglie che mi ha concesso la fuga senza gelosie.
Spero un giorno di riuscire a regalare la stessa Sardegna a mia figlia.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 112


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

20.Ho fatto l’amore con ...


Cala Goloritzè, Baunei, Ogliastra! Mare, Libri

Sono capitato a Baunei per la prima volta a cavallo di una Pasqua in cui ebbi la folle idea di
fare l’intero periplo della Sardegna in una settimana. Non perché non avessi già percorso tutte
le coste ma per poterne svelare l’incanto a tre amici che per la prima volta erano in Sardegna.
Il territorio di Baunei si trova nella parte orientale della Sardegna, nel nord della provincia
dell'Ogliastra. Il nome potrebbe derivare dal greco "bainos", una fornace per la fusione dei
metalli o per cuocere le tipiche rocce calcaree per ottenere la calce; oppure più
probabilmente dal fenicio “baun”, che significa “luogo munito”, protetto.
Il paese è situato su un costone calcareo a circa 500 metri d’altezza, attraversato dalla strada
Orientale Sarda, la vista spazia sull’anfiteatro di montagne che lo racchiudono sulle quali
svettano le cime più alte del Gennargentu.
Il territorio è tormentato, ferito da valli anguste e profonde, “codule”, che sfociano a mare
fratturando vertiginose pareti calcaree, in un paesaggio aspro, irruvidito da rupi, falesie,
profonde gole, doline.
Il mare è a una manciata di chilometri ma il territorio è come se fosse staccato da esso,
rinchiuso in sé stesso, con la sua caratterizzazione fortemente pastorale.
Nella “Relazione sull’Isola di Sardegna” di W. H. Smyth, pubblicato nel 1828, l’autore non è
tenero nel descrivere le genti che abitano Baunei:
Tra Monte Santo e Capo Comino, distanti venti miglia, vi è la baia di Orosei,
completamente priva di scogli sommersi e banchi di sabbia; ma da Monte Santo si estende per
undici miglia in una pericolosa sequenza di scogliere perpendicolari di considerevole altezza,
tra i cui dirupi giacciono numerosi tronchi da legname abbattuti e svettano olivastri.

Questa distesa ferrigna è separata alla base da due gole, che formano le baie chiamate Cala
Sizini (Sisine) e Cala di Luna, entrambe con spiagge a ciottoli, dove le barche possono
rimanere durante il bel tempo o al riparo dalle violente burrasche occidentali.

Comunque esse non dovrebbero essere frequentate, eccetto che nei casi di bisogno, perché i
nativi di Dorgali e Baunei sono tra i più crudeli e infidi dell’isola, e la ciurma delle navi
potrebbe essere sterminata semplicemente con dei massi lanciati dalle cime che le circondano.
Non a caso il nome originario del Monte Santo era Monte Insanus, che meglio si adatta
all’angosciata relazione di Smyth, successivamente deformato in “Santo” per il riscatto delle
genti del luogo.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 113


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Nell’ “Itinerario dell’isola di Sardegna” di A. Della Marmora, pubblicato nel 1860, il paese è
riscattato dall’accusa di banditismo ma che il tempo lì si sia fermato è testimoniato da un
passaggio in riferimento ai numerosi bronzetti nuragici rinvenuti nei suoi dintorni:
Il villaggio di Baunei sorge sul versante meridionale del massiccio, nel punto in cui comincia
il deposito calcareo; vi abita una popolazione industriosa e dedita al lavoro, ma per il resto
poverissima, per cui è soprattutto in questo paese e in pochi altri dei dintorni che si mangia il
pane di ghiande.

Un ex vicario di Baunei, il dottor Marcello, è stato il primo a riunire una certa quantità di
idoli sardi in bronzo che ha raccolto nel territorio della parrocchia; la collezione fu in seguito
collocata nel museo privato del viceré, duca del Genevese. È stato il primo nucleo della bella
e numerosa raccolta di bronzetti sardi che ora costituisce uno dei vanti del Museo Archeologico
di Cagliari.

Si vedrà altrove che gli abitanti di queste province furono gli ultimi a persistere
nell’idolatria.

IMPROBABILE AMANTE
Passavo di lì, lasciata l’orientale sarda, per portare i miei amici a fare una lunga e faticosa
camminata di un paio d’ore con la promessa di una fantastica ricompensa finale, Cala
Goloritzé.
Non conoscevo la cala nemmeno io, ma mi fidavo di un amico di Cagliari che me ne aveva
parlato. Del resto da quelle parti, poco più a nord, avevo già scoperto Codula Elune, un'area
selvaggia ed intatta che sfocia nell'omonima cala, che i turisti chiamano “Cala Luna”. Un
incanto.
Cala Goloritzé non deluse nessuno, così dipinta con la luce della primavera come ci si
mostrò. Il richiamo dei colori dell’acqua in cui si specchiava la macchia lussureggiante delle
piogge invernali fu irresistibile.
Questi spettacoli m’inducono un animale desiderio di possesso che riesco a sublimare, più
che soddisfare, solo con un’immersione totale nel luogo.
A Cala Goloritzé l’immersione totale richiedeva inderogabilmente un bagno. E’ stata quella
la prima volta che ho fatto l’amore con Cala Goloritzé.
Si potrebbe credere che abbia erroneamente scritto “ho fatto l’amore con Cala Goloritzé”
per intendere “ho fatto l’amore a Cala Goloritzé con qualcuno”.
Non è così, per assurdo che sembri, credo si possa fare l’amore con una spiaggia, un luogo.
Quello fu il bagno più proibitivo che abbia mai fatto in Sardegna, molto più freddo di quelli
che ero abituato a fare, ovviamente senza muta, a Villasimius a dicembre.
In tutta la mia vita superato solo da un bagno nel mare del nord sull’isola di Iona, nelle ebridi
interne tra Scozia e Irlanda, ma questa è la storia di un altro amore e di un’altra spiaggia.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 114


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21.Becchino
Dorgali, Ogliastra! Incontri, Cibo

Sono a Cala Gonone, all’affacciarsi delle consuete piogge che salutano il primo settembre. I
locali chiamano il paese semplicemente Gonone, mentre i baunesi la chiamano Cala
Gommone, forse perché è il porto di partenza per l’assalto turistico all’incontaminata e
meravigliosa costa che da qui si dipana a sud sino a Santa Mria Navarrese.
La mattina è trascorsa stanca, dominata da gonfi ed immobili nuvoloni. Nessuna barca parte
per raggiungere quella serie di calette che si snodano a sud del porto.
Cala di Luna, la più famosa, lunga spiaggia sabbiosa chiusa a mezzoggiorno da uno stagno
originato dallo sbocco a mare del rio Còdula de Ilune, o Elune, il ruscello della Luna che
separa il territorio di Baunei da quello di Dorgali, nella sua propaggine più a nord ospita i
grandi imbocchi di otto grotte disposte in fila, parallele, alla base di una grande e bianca
parete rocciosa.
Cala Mariolu, la meno nota e forse appariscente tra le tre, e Cala Sisine, la mia preferita, più
lontana, incantevole insenatura sabbiosa formata anch’essa dallo sbocco a mare dell’omonimo
rio Còdula de Sisine.
La noia m’invade, il grigio cielo basso mi toglie ogni voglia di lettura. Di visitare la grotta del
Bue Marino nemmeno a parlarne. Bellissima, l’avrò vista almeno quattro volte riuscendo a
percorrere, oltre il canonico percorso attrezzato di circa un chilometro, anche parte del
secondo ramo, grande galleria nella quale penetra l’acqua del mare caratterizzata da numerosi
laghetti d’acqua dolce separati da suggestivi tratti sabbiosi ricchi di concrezioni.
Mi devo muovere e rompere il torpore indotto dal maltempo. Senza uno scopo preciso
decido di saltare il pranzo e farmi una passeggiata, andare a visitare Dorgali piccola cittadina
nell’immediato entroterra. Mai vista, solo attraversata, tutte le volte che sono stato a Cala
Gonone.
Percorrendo in salita, sotto una leggera ma insistente pioggerella i quasi dieci chilometri di
panoramica strada che mi separano da Dorgali, rifletto su quella condizione d’isolamento
vissuta da Cala Gonone prima che fosse aperta, nell’ultimo dopoguerra, la strada che sto
percorrendo. Soprattutto la galleria a 500 metri d’altezza che ha reso desueto l’unico e ben
più alto valico posto a 900 metri verso il Monte Tului, percorribile esclusivamente a dorso di
mulo.
Cala Gonone è infatti una conca dotata di un microclima eccezionalmente mite, protetta dai
venti dell’entroterra da questo semicerchio di dirupate colline. Località abitata già in epoca
nuragica, poi romana con il porto di Sulcalis ed infine bizantina, sino alla fine del primo
millennio, successivamente si è spopolata pur rimanendo utilizzata come approdo in epoca

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 115


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

medioevale. Solo nel 1878, con la costruzione della Chiesa, nasce un primo villaggio,
precursore dell’attuale paese.
Prima della costruzione della strada che risalgo con passo costante continuando ad
infradiciarmi di pioggia, le comunicazioni con l’interno erano assai scarse.
Dalla fine dell’ottocento alcune delle famiglie benestanti di Nuoro avevano eletto Cala
Gonone a sede di soggiorno estivo ed ogni anno affrontavano un faticoso viaggio su carri
trainati da buoi, poi semplici muli, per potervisi recare.
Il fatto che la popolazione locale sia dedita alla pesca è un’altra anomalia rispetto alle usuali
abitudini del popolo sardo. Si spiega, oltre che con l'orografia del luogo, praticamente fatta
per buttare a mare chi vi abiti per quanto è impervia e difficile la comunicazione con
l’entroterra, anche con l’origine prevalentemente ponzese dei pescatori.
All'inizio del XX secolo i pescatori da Ponza, di fronte alle coste laziali, si spingevano
indisturbati fino alle coste sarde. Una volta scoperta la totale assenza di pescatori sardi, come
anche di altri abitanti lungo queste coste, si insediarono su questa costa un tempo tra le più
pescose della Sardegna. Ora non più in conseguenza all’indiscriminata pesca con l’esplosivo
che ha sterminato l'infinita varietà e quantità di pesci che popolava la zona; foca monaca
compresa che, spaventata dalle bombe, per partorire si rifugiava nei sifoni della Grotta del
Fico, tra Cala Luna e Cala Goloritzè, che ha una spiaggetta interna comunicante col mare.
Riguardo alle foche monache, eccezionale sopravvivenza nel mediterraneo di fauna risalente
ai più freddi climi del quaternario, mi schiero con la maggioranza degli abitanti del luogo che
le giudica da tempo del tutto scomparse.
Il mare e la fertile e pianeggiante conca sono state le risorse sufficienti per la creazione di
un’economia povera ma autosufficiente che, unitamente all’isolamento, ha permesso agli
abitanti di Cala Gonone di passare attraverso due guerre mondiali senza che praticamente
nulla cambiasse.
La pioggerellina è finita. Dorgali non offre molto al turista distratto che sono. Il Museo
Civico Archeologico sarebbe ancora chiuso come orario, ma poiché non è molto uso ai
visitatori, viene immediatamente aperto da un solerte impiegato comunale. E’ un unico
stanzone che illustra il patrimonio archeologico del territorio circostante. Pochi, ma
interessanti, sono i reperti del villaggio nuragico di serra Orrios.
La via principale mi porta fuori del paese tra botteghe artigiane per la lavorazione della
filigrana d’oro e d’argento, del cuoio e delle pelli conciate, della ceramica. Per strada incontro
poca gente.
Il paese finisce all’improvviso, quasi in bocca al cimitero. Non mi resta che proseguire e
visitare anche questo. Il cimitero è piccolo, addossate alle pareti le cappelle, al centro lapidi e
croci separate da stretti vialetti. Sto lì a vagare tra nomi sconosciuti cercando le date di nascita
più vecchie.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 116


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Spuntato dal nulla, avvicinandosi con passo claudicante, mi chiama un vecchio imponente
con baffi bianchi e cappello, vestito con abiti da lavoro. Vuol sapere chi cerco in particolare.
Sono imbarazzato mentre confesso che in realtà non cerco nessuno, lì non conosco nessuno,
e spiego che sto solo passeggiando.
L’imbarazzo è fugato dal sorriso col quale entusiasta si offre di farmi da guida per illustrami
le famiglie più importanti, le dinastie, i rancori e le faide, gli amori segreti, i buoni ed i cattivi.
Per la verità non sarei molto interessato ma il signore, presentatosi come il becchino di
Dorgali, ha già iniziato a parlare e mi sembra scortese rifiutare. Del resto mi stavo annoiando.
Non è che capisca esattamente tutto, parla in dialetto e piuttosto veloce. Sa tutto, quello che
mi piace è che ci si dedica, non racconta come fosse il discorso pre-registrato tipico di un
atavico tipo di custodi di museo, varia, arzigogola, approfondisce, salta le tombe meno
interessanti, seleziona lì per lì quello che deve mostrare.
Prima mi limito a fissare le foto sbiadite su ceramica delle tombe non troppo antiche, non
troppo recenti, volti segnati dal lavoro, in costume le donne, col berretto gli uomini. Poi
riesco ad infilare una serie di domande che, sfruttando quello che mi racconta di famiglie del
luogo, mi aiutino a capire come si viveva lì in passato. Devono sembrargli domande
intelligenti perché il suo entusiasmo raddoppia, gli ho dato segno di interessamento, forse
pensava che mi sarei stancato prima.
La visita guidata al cimitero è stata misurata, una ventina di minuti. Educatamente chiedo se
devo qualcosa o posso fare un offerta. Non devo nulla e mi invita a non sprecare soldi in
elemosina che poi se li frega il curato per il vino, ma non quello della messa.
Ridacchiando mi appresto a salutarlo, sono quasi le quattro, pioviggina di nuovo, non mi
rimane che rifare la strada percorsa. Mi chiede di aspettarlo, chiude e viene via con me.
Dovrebbe rimanere aperto altre due ore ma oggi la vecchietta che viene ogni pomeriggio è
stranamente passata in mattinata.
Ci si avvia lentamente di nuovo per la strada principale del paese. Nel giro dei primi
cinquanta metri mi invita a mangiare i biscotti che la moglie sta preparando a casa per il
matrimonio del figlio che si sposa l’indomani. Faccio notare che mi sembra inopportuno data
l’occasione per cui vengono preparati. Insiste dicendo che avanzano sempre, questo è il
quinto figlio che sposa. La sua allegra bonarietà ed il pranzo saltato mi convincono ad
accettare. La sua casa è poco più avanti a destra.
Appena in casa urla alla moglie che c’è un ospite e mi conduce nella larga cucina per
presentarmela. La reazione della moglie è immediata, prima mi saluta cordiale, poi si scaglia
contro il marito chiamandolo vecchio ubriacone e continuando a urlare in un sardo
incomprensibile.
Mi stramaledico per aver accettato l’invito ed inizio una lenta manovra evasiva per
riconquistare la porta d’ingresso. La vecchietta è svelta d’occhio come di voce, pianta lì il
marito e subito m’avvinghia per la manica arrotolata della camicia apostrofandomi:

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 117


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

“Ma lei dove va? Si sieda che le do i biscotti, sa sono buoni. Io mica ce l’ho con lei, ce l’ho con
quell’ubriacone.

Per lui ogni scusa è buona per invitare qualcuno, parte sempre dai biscotti e subito tira fuori
il fiasco del vino. Sì perché a bere da solo quando in casa ci sono io non si azzarda. Ma se c’è
un ospite! Se c’è un ospite allora certo che si deve bere”.

Imbarazzatissimo abborraccio una risposta: “Senta signora io non sapevo, non potevo
immaginare, non si preoccupi me ne vado subito. Si figuri sono pure astemio, non bevo”,
mento spudoratamente.
Risponde netta ed impetuosa:
“Ma che dice, lei di qui non si muove. Lei è il benvenuto. Lei che c’entra con quell’ubriacone!”.
L’ubriacone intanto, deve essere abituato alle sfuriate della moglie, ha tirato fuori il fiasco e
tre bicchieri, versa. Ma allora, penso, un goccetto se lo fa anche la moglie!
L’incidente è superato. I bicchieri sono colmi di un vino limpido di un intenso rosso rubino.
Brindiamo, un cannonau secco, corposo e di razza dall’odore intenso, gradevole, con un
sentore di sottobosco. Il vino è ottimo anche se sono perplesso nell’accostarlo ai biscotti
finalmente poggiati sulla tavola. Diavolo sono anche a stomaco vuoto e questo vino lo sento
bello alcolico, lasciamo perdere gli accostamenti.
I biscotti sono invitanti, profumati, ancora tiepidi e di tutte le forme. Sono di due tipi:
caschettas, dolcetti composti da uno scuro impasto di miele, mandorle e buccia d’arancia
abbrustolita in forno, rivestiti parzialmente da una sfoglia sottilissima, forgiati in forme a
spirale, a esse, ad otto, a semicerchio, a ferro di cavallo; gallettinas, fatte con impasto di
farina, strutto, uova e buccia grattugiata di limone, fatte a stella, uccellino galletto, fiore,
indorate di zucchero semolato.
La signora è ancora più chiacchierona del marito, spiega la preparazione dei biscotti, i
trucchi tramandatigli dalla nonna, si scusa per non potermene fare assaggiare altri che
saranno pronti solo più tardi. Per rimediare però si inventa di invitarmi l’indomani al
matrimonio del figlio, anche il marito è entusiasta.
Mi tiro indietro dicendo che non ho un vestito adatto all’occasione, che non potrei farli ben
figurare. Si dispiacciono veramente del mio rifiuto.
Allora per mitigare quest’incredibile malinconia inizio a raccontare storie di Sardegna che
quasi tutti i sardi non conoscono. Il trucco è facile: la Sardegna è un insieme di microcosmi
isolati, raccontare a Dorgali cose di Alghero, Carloforte, Aritzo, Maddalena, è raccontare
cose nuove. Le cose di Dorgali le racconterò poi a Alghero, Carloforte, Aritzo, Maddalena.
Il fiasco ormai vuoto ci riporta ai reciproci impegni, i biscotti la signora, il taglio impeccabile
dei baffi per il giorno dopo il marito, la strada sino a Cala Gonone per me.
Sulla porta mentre ci salutiamo affettuosamente ci sorprende il figlio tra poco sposo. I saluti
allora si triplicano e l’invito a partecipare al matrimonio si rinnova da parte dell’ultimo

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 118


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

arrivato. Di nuovo il mio cortese rifiuto è motivo di tristezza per i vecchi. Questa volta
l’iniziativa per attenuare la malinconia è del marito:
“Lei ci deve promettere che ogni tanto ci invierà una cartolina dai posti più strani dove si
troverà a passare. Sa noi non ci siamo mai mossi di qui e parlare con la gente è il nostro modo
di conoscere il mondo perché qui la televisione si vede male e poi non ci piace molto. Allora una
cartolina sarebbe un po’ come parlare. Già me ne scrivono tante persone che come lei si sono
trovate a passare di qui. Mi raccomando come indirizzo ci scriva al BECCHINO DI
DORGALI, nient’altro, arriverà di sicuro”.
Mi accomiato promettendo l’invio di cartoline.
Per anni, io che ho sempre odiato scrivere cartoline, ho soddisfatto il desiderio di
conoscenza del becchino di Dorgali. Gli ho scritto da Parigi, Kvar, L’Habana, Dublino, Porto
Vecchio, New York, Zighinscor, Buenos Aires, Sharm El Sheik, Montecarlo, Edimburgo. Ho
anche pregato degli amici di scrivergli per me da mete ancora più lontane dove io non sono
mai andato.
Una volta sono ripassato per Dorgali e sono andato al cimitero a cercare il becchino. Il
becchino era proprio lì vicino al centro del piccolo cimitero dove si incrociano i vialetti.
La lapide diceva che era morto già da un paio d’anni. A fianco dei fiori freschissimi che
rallegravano la lapide uno spesso mazzo di contorte e scolorite cartoline legate con un fiocco,
sfogliandole ne riconobbi una delle mie spedita qualche anno prima.
Uscendo dal cimitero ringraziai il nuovo giovane becchino per le informazioni fornitemi sul
vecchio becchino. Peccato non aver avuto una cartolina con me, l’avrei lasciata volentieri.
Da quel giorno non ho più spedito cartoline, ma ogni volta che percorro l’orientale sarda
porto una cartolina con me, se riesco a passare a Dorgali nell’ora in cui il cimitero è aperto la
lascio su quella lapide vicino alle altre ed ai fiori sempre freschi.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 119


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 120


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

22.Funtana Raminosa
Gadoni, Barbagia! Incontri, Archeologia Industriale, Cibo

Ho appena scaricato il bagaglio dalle borse laterali della moto BMW K1200 RS nel solito
hotel di Aritzo dove mi fermo sempre nel periodo di bassa stagione ad inizio aprile. Hotel
“Moderno” la cui presupposta modernità è rimasta congelata a quarant’anni prima. Hotel di
cui amo la luminosa stanza d’angolo con due finestre sulla vallata sottostante, finestre da dove
la luce si infila al tramonto a scaldarmi quando mi rifugio lì dopo una faticosa giornata di moto
da 400 chilometri su strade percorse a 60 chilometri all’ora.
Mi ci fermo la prima volta che percorro le Barbagie in moto per la simpatia che emana la
proprietaria. La signora è sempre lì, mi saluta sempre con la stessa energica simpatia della
prima volta. Negli ultimi anni non sono più Marco, ogni volta sono uno sconosciuto, qualche
invalidante malattia senile la tiene sospesa in un limbo all’interno del quale la comunicazione
si fa difficile. La signora è aiutata da un’altra donna, straniera, probabilmente sud americana,
che mi chiede sempre cosa gradirei mangiare e soddisfa alla perfezione le mie richieste
mettendomi a tavola vino, olive e formaggio prima ancora che io apra bocca.
Solitamente comincio con un un miracolo della gastronomia nuorese: una pasta a trama fitta
cucinata nel brodo di pecora e condita con il formaggio fresco acido di un giorno; viene fuori
una sorta di tessuto di fili sottili, “filande”, da immergere nel brodo caldo, ingentiliti dal
formaggio sciolto. Continuo con una pezz’e porcu arrubiada, carne di maiale rosolata in
casseruola con cipolle affettate e mantecate, servito con un taglio spesso; o, in alternativa,
sirboni a succhittu, cinghiale in intingolo, cotto lentamente in tegame per sgrassarlo,
insaporito con aglio e cipolla sminuzzati finemente e soffritti con olio d’oliva, bagnato con
vernaccia ed infine, evaporato il vino con aggiunta di capperi sott’aceto; non trascurando una
grappa che suggella il tutto e prepara per la notte.

CARTELLO NON CONVENZIONALE


Sono le due del pomeriggio ed è una giornata bellissima, il cielo terso di un azzurro saturo
che sa di cartone animato. Era ora dopo tre giornate che mi hanno bloccato sotto un diluvio
d’acqua nei dintorni di Torre Chia. Ho in mente di percorrere una delle più belle strade di
Sardegna e per questo studio la carta pieghevole poggiata sull’ampio serbatoio della moto alla
ricerca del monte Perda Liana.
La prima volta che ho fatto la strada che passa ai piedi di questo tacco calcareo
inconfondibile, taccu o tònneri nel dialetto locale, venivo dalla parte opposta, da lago alto del
Flumendosa. Oggi passerò per Gadoni, scenderò sino a Seui, poi proseguirò per Ussassai e
qualche chilometro prima girerò a sinistra. Subito si passa sotto il monte Arcueri, da qui si

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 121


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

dipana una matassa di una quarantina di tortuosi chilometri di una bellezza paesaggistica
assoluta.
L’aspro e nudo paesaggio dilata le distanze. Il fondo stradale pessimo rallenta la moto e
invita all’immersione nel paesaggio. L’inconfondibile forma conica del Perda Liana, alta più di
mille metri e sormontata da un grosso monolite calcareo alto circa 120 metri domina tutto il
territorio. Una volta un pastore incontrato su questa strada mi disse che il Perda Liana, per
questa sua figura maestosa e dominante, è considerato dai pastori delle Barbagie di Belvi e
Seulo e da quelli dell'Ogliastra una sorta di faro, inconfondibile anche da grandi distanze.
A completare la bellezza della strada a circa metà del percorso, giusto su una curva compare
improvviso il tozzo profilo di un nuraghe in gran parte crollato. Fermandosi per guardarlo da
più vicino si scorgono ancora evidenti le rovine del villaggio nuragico che lo circonda.
Dovrebbe, se ho ben capito, essere il nuraghe di Ardosai.
Non ho deciso il percorso di ritorno ma sono impaziente di mettermi in viaggio, di salire
ancora una volta sulla giostra delle Barbagie. Queste strade sono per me come un carosello,
l’automobilina di latta sostituita dalla moto potente di 130 cavalli, l’ipnotico ruotare della
piattaforma circolare confuso con l’alternanza ritmica delle pieghe con cui affronto le curve,
delle marce che scendono all’entrata della curva e salgono all’uscita, di continuo,
baricentriche attorno alla terza.
Sono sulla strada da Aritzo a Gadoni, proseguo verso Seulo, la guida rilassata e piacevole mi
porta a divagare. Ricordo quando questa strada all’improvviso da asfaltata diveniva bianca.
Quanta fatica andare con una pesante moto da strada carica su un fondo sassoso che il
passaggio delle auto arriccia in una serie di piccole assiepate ondulazioni. Le vibrazioni sui
polsi ti stancano e non sai quale sia la velocità da tenere: quella più alta che allenta meno viti e
bulloni e sollecita rudemente la spina dorsale; la più bassa che, più gentile con il pilota, non
mostra pietà per le sospensioni della moto. Nella polvere di questa strada un anno conobbi un
ingegnere napoletano che era venuto per asfaltarla, ci siamo incontrati per tre primavere di
seguito sempre all’hotel “Moderno”, tanto durarono i lavori.
Perso nei ricordi del luogo in cui viaggio dopo due manciate di chilometri da quando sono
partito e una serie già infinita di tornanti, passato Gadoni, ancora prima di Seulo, sulla sinistra
compare una stradina secondaria. L’ho già vista le altre volte che sono passato di qui, ma non
l’ho mai percorsa.
La differenza questa volta la fa un piccolo segnale a freccia di legno con scritto “Funtana
Raminosa”. Sono lì fermo, il motore accesso che borbotta, la marcia in folle, incuriosito da
quel cartello anomalo e non ufficiale: cos’è Funtana Raminosa? Non un paese di certo, che il
segnale sarebbe stato più canonico alle regole stradali. Il look del cartello suggerisce un
agriturismo, ma questo, a così pochi chilometri dal “Moderno” non mi intriga.
Pigro, indugio a tirare fuori la carta per capire dove vada la strada. Il Perda Liana mi attende,
dovrei tirare dritto, ma in tanti anni di strade sarde ho imparato che devo continuamente
esplorare per uscire dai percorsi già battuti ed accrescere il numero di chilometri belli. La
serie di posti in cui tornare.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 122


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Di solito in questi casi, quando mi si presenta una deviazione dalla rotta che mi sono
tracciato, patteggio con me stesso un tanto di chilometri di deviazione. Questa volta decido
per dieci chilometri, se non arrivo a qualcosa entro questo limite e se il paesaggio non mi
intriga tornerò indietro.
Dopo poche centinaia di metri il fondo stradale peggiora nettamente, il nero asfalto si
sbiadisce in un grigio polveroso; screpolature, buche, bubboni, sassi di tutte le dimensioni,
mi costringono a basse velocità ed a incessanti gimcane. Percorro una vallata deserta ricca di
vegetazione, a tratti sento solo rumori d’uccelli senza riuscire a vederli, dovendo tenere
d’occhio la butterata superficie.
Mi arrivano quelle zaffate di macchia mediterranea, “profumo di Sardegna”, che, assieme
alla luce limpida che satura i colori, esaltano l’orografia del territorio. E’ questo uno dei
motivi per cui concentro i miei vagabondaggi motociclistici all’inizio della primavera.
In Sardegna la macchia mediterranea si fa varia e complessa formazione vegetale per la
grande quantità degli elementi che la costituiscono. L’erica arborea con cui si fabbricavano
scope prima che diventassero di plastica ed ancora, per fortuna, si fanno le pipe più pregiate
che mi piace fumare. Il corbezzolo dagli aspri frutti da cui si ricava il miele amaro che mi piace
sulle seadas. Il lentisco, spesso associato all’olivastro, dal portamento cespuglioso anche
quando svetta come albero svettando a cinque metri. Le ginestre spinose e la legnosa fillirea a
foglie strette; l’onnipresente cisto e il più raro citiso di cui confondo sempre i nomi. La
diffusissima euforbia arborea ed il raro asfodelo celebrato dai greci del tempo di Omero come
ambigua designazione di coloro che in vita non erano stati né buoni né cattivi: i virtuosi, gli
onesti, i giusti erano destinati ai Campi Elisi; gli empi, crudeli, disonesti al Tertaro; tutti gli
altri meno caratterizzati erano destinati ai bianchi prati di asfodeli. Il ginepro che, centenario,
come quelli che bloccano le dune di Pescinas sulla costa sud occidentale, diviene albero.
Nelle aree più calde e ben esposte, la macchia si arricchisce di mirto, dalle bacche che prima
usavano solo i sardi; ora, fattosi liquore, ha fatto la stessa fine del limoncello perché te lo
offrono dappertutto, tanto che all’Università di Sassari si studia come meccanizzare la faticosa
e lenta raccolta delle bacche. Ancora si aggiungono l’inebriante e tossico oleandro, il
profumato rosmarino, la spinosa calicotome e, nelle zone costiere, perfino la palma nana.
Tra tutto questo rigoglio vegetale trova posto una pianta anticamente odiata odiata dagli
scolari prima dell’avvento della scuola di massa, la ferula, da essa si ricavavano le bacchette
usate per le punizioni corporali.
Non a caso lascio per ultimo l’elemento fondamentale di questo superbo cocktail di essenze,
quello che rende inconfondibile l’odore di Sardegna, dal nome che suona elfico di elicrisio,
derivato dal greco a significare “spirale d’oro”, per il suo aspetto tormentoso ed i fiori gialli.
Ne conservo sempre un poco, a Roma, a casa, in un vasetto di vetro sigillato in cucina. Ogni
tanto lo apro, un istante, per sniffare la Sardegna dove non sono.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 123


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

La macchia di Funtana Raminosa attraverso la quale marcio è quella tipica delle zone più
elevate dove le specie dominanti del lentisco e l’oleastro lasciano il posto all’erica arborea ad
al corbezzolo.
Scendo lentamente in una vallata solcata dal Rio Saraxinus, circondato dai modesti rilievi sui
mille metri del Monte Sa Scova e della Punta S’Ardia, mentre più a Nord si intravedono le
cime ancora innevate in questa fredda primavera della catena del Gennargentu.
In un punto dove la strada è divenuta quasi bianca per il disfacimento dell’asfalto e la
ricopertura di pietrisco dovuta alle piogge ed a piccole frane, scorgo fabbricati, impianti e
varie strutture, concentrati proprio sul versante sinistro del Rio Saraxinus dove sto
procedendo.
Mi avvicino sino alle prime costruzioni per capire cosa sia l’insediamento che ho davanti. Un
cartello attaccato ad un moderno cancello fatto di rete recita “Miniera di Funtana Raminosa”.
Una miniera dove meno me lo sarei aspettato, qui nel comune di Gadoni, nella terra di
confine tra la Barbagia di Belvì e quella di Seulo, lontano da quella concentrazione di miniere
che ho tante volte visitato nell’Iglesiente, nel Sulcis e nel Guspinese.
La scoperta improvvisa di ritrovarmi a guardare una miniera mi ricorda quella volta tanti anni
fa quando, sempre in moto, a nord di Alghero scoprii l’Argentiera.
Rimango a cavalcioni della moto, le gambe allargate piantate a terra, il motore spento, il
casco poggiato sul serbatoio, marcia ingranata a reggere il peso della discesa su quel manto
stradale sdrucciolevole di graniglia.
Il cancello di rete è aperto, quasi in contraddizione con l’immancabile cartello giallo che su
di esso troneggia per recitare la dovuta liturgia di divieti e pericoli che caratterizza ogni
miniera. Sono lì a decidere se mi conviene procedere ancora con la pesante moto sulla strada
acciaccata o andare a piedi quando sento il rumore di un’auto arrancare venendomi incontro
dal fondo valle. La piccola fuoristrada bianca con la scritta in verde “IGEA SpA”.
La prima sensazione è quella di essere stato colto in flagrante nell’atto di valicare il cancello.
Poi mi ricordo che la IGEA è una azienda regionale nata attorno agli anni '90 consociata
dell’Ente Minerario Sardo, quest’ultimo in liquidazione da tempo, che, oltre ad essere
detentrice di quasi tutte le concessioni minerarie in Sardegna, ha il compito di mettere in
sicurezza e riabilitare in termini ambientali i siti minerari dismessi.
Ricordo ancora l’ex-minatore, poi dipendente IGEA, che accompagnandomi nella visita di
Porto Flavia mi raccontava come dal 2002 l’IGEA avesse cominciato anche a gestire in termini
turistici alcuni siti di particolare pregio, facendo si che i visitatori fossero accolti ed
accompagnati nelle visite dagli stessi operai-minatori.
Il fuoristrada IGEA mi supera a bassa velocità incurante, solo un’occhiata vaga da parte dei
due occupanti. La macchina, la strada dissestata, il paesaggio rigoglioso, le tute blu che li
vestono, me li presentano come il Pilota ed il Copilota di una sorta di Camel Trophy.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 124


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

E’ in quel momento che alzo improvviso il braccio sinistro ancora guantato in un gesto, a
metà di saluto, a metà di richiamo d’aiuto, la mano destra sulla leva del freno anteriore. La
macchina frena immediatamente con una leggera sbandata, vedendomi impacciato sulla moto
il bacino torto a guardarli, ingrana la retromarcia e arretra sino ad affiancarsi alla moto.

PERFORMANCE ADULATIVA
Appena il finestrino scivola giù mi esce di un fiato il solito saluto romano, “Salve!”, con il
quale mi tengo in equilibrio tra formalità e confidenza, immediatamente seguito
dall’inevitabile perentoria domanda: “La miniera è visitabile? “. Il Pilota, sporgendo il braccio
sinistro dal finestrino mi dice che la miniera è chiusa a causa di lavori di messa in sicurezza che
lui e i suoi colleghi stanno facendo proprio per renderla visitabile. Poi quasi ripensandoci mi
chiede quanti saremmo a fare la visita.
Il numero non è dalla mia parte, sono anni che peregrino da solo in queste brevi vacanze
simultanee dal lavoro e dalla famiglia che, in piena fuori stagione, dedico all’isola
percorrendola in moto alla ricerca dei suoi tesori meno palesi, odori, sapori e miniere. Al
tempo stesso mi dà speranza che il Pilota abbia sollevato la questione del numero di visitatori,
è evidente che non ha nulla a che fare con la sicurezza e la visitabilità della miniera: potrei
farcela a fare la visita. Riemergo infine dalle mie speranze per ammettere di essere solo ma
subito mi lancio a confessare che sono anni che giro le miniere di Sardegna e di questa non
conoscevo nemmeno l’esistenza, per concludere che con tono mielato che ci terrei tanto a
visitare la miniera.
Il Copilota, sporgendosi verso il finestrino dal lato del compagno mi avverte che per la visita
ci vuole molto tempo. Rifletto veloce, sono quasi le 14.30, posso rimandare a domani il Perda
Liana, “Sino al tramonto ho tutto il tempo che volete”, gli grido di rimando. Il Pilota non è
convinto, mi spiega che la persona che di solito si occupa delle visite è proprio lui e che, come
posso vedere, in questo momento deve accompagnare il suo collega …
Percepisco la loro volontà di tirare avanti, la sensazione di trovarsi di fronte a qualcuno
capitato lì per caso che non sa nemmeno di cosa si parla. Se non ho dalla mia l’attrattiva della
quantità, prerogativa dei gruppi e delle comitive chiassose, punterò tutto sulla qualità, gli
dimostrerò il mio genuino interesse e la mia competenza in fatto di miniere.
Attacco con una delle mie performances. Quante volte, alle persone più disparate, ho
energicamente recitato, arrivo a dire interpretato, questi discorsi? Ogni volta improvviso ma
questa occasione è diversa; il Pilota ed il Copilota in una miniera ci lavorano, forse sono
minatori o ex-minatori. Quale potrà essere la loro reazione alla mia entusiastica litania?
Riuscirà la mia orazione a scalfire la loro volontà, a dilatare il loro senso del tempo,
permettendogli di dedicarmi quel pomeriggio? Il mio ennesimo esame comincia.
“Mi affascinano le miniere per l’unione strettissima che viene ad esistere tra quello che è
realizzato dall’uomo, le infrastrutture, l’applicazione delle tecniche e tecnologie più adeguate
tra quelle disponibili al momento, l’organizzazione del processo produttivo, e quello che

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 125


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

preesiste alla miniera, il tipo di minerale da coltivare, la topologia, orografia e geologia del
territorio.

Mi sono reso conto che una miniera, ogni miniera, in ogni tempo e luogo, è un unico
irripetibile, in continua incessante trasformazione. Il variegato e mutevole prodotto di un gioco
di ottimizzazione condotto dal territorio che inevitabilmente condiziona lo sviluppo e la forma
strutturale e organizzativa della miniera ed al tempo stesso ne è profondamente impattato in
termini ambientali e sociali. A fronte di questa eterogeneità che la rende unica, una miniera è
costruita assemblando sempre gli stessi omogenei elementi.

L’Uomo innanzitutto, il minatore, gli operai, gli impiegati, i dirigenti, tutte le loro famiglie,
sino alla “divinità” costituita dal Direttore della miniera, il tramite ultimo verso quell’entità
astratta, posta al di fuori del territorio minerario, che è la Compagnia di estrazione, la Società
proprietaria della concessione.

Quindi i villaggi minerari dove vivere e lavorare, luoghi autarchici per il loro tipico
isolamento, con tutte le loro componenti funzionali, abitazioni, infermerie e ospedali, chiese, e
infine perfino scuole, luoghi di ritrovo e di svago.

Per proseguire con i magazzini, le officine meccaniche e le falegnamerie per le manutenzioni,


le centrali produttrici di energia e forza motrice, gli uffici.

Ed ancora le vie di accesso al minerale e i cantieri di coltivazione in superficie e nel


sottosuolo, questi ultimi con le gallerie, i fornelli, i pozzi, le rampe dalle dimensioni limitate che
incidono sulle caratteristiche di mobilità degli uomini e dei mezzi.

Per arrivare alle tecnologie, agli esplosivi, agli strumenti di scavo ed ai mezzi di trasporto nel
sottosuolo e in superficie.

Finendo con gli impianti di arricchimento del minerale, le laverie, e le vie di trasporto verso
le, spesso lontane, industrie metallurgiche che utilizzeranno il minerale”.

Parlo gesticolando, come mio solito, ancora a cavalcioni della moto; il casco, in precario
equilibrio sul serbatoio, mi costringe ad enfatizzare i movimenti delle mani.
“Vedo tutti questi elementi ripetersi di miniera in miniera e ritrovarsi mutevolmente connessi
in un immane processo produttivo per movimentare enormi quantità di minerale da misurarsi
in tonnellate e metri cubi che, non a caso, se le reminiscenze di fisica non mi ingannano, nel
caso dell’acqua proprio alle tonnellate equivalgono.

Ancora mi affascina e non mi sorprende che nella miniera, come nell’universo, sia sempre la
stessa forza di gravità a giocare un ruolo assoluto, imponendo una ottimizzazione delle scelte
altimetriche e tutti quegli artifizi che tengano conto del fatto che le cose ingombranti e pesanti è
molto più facile farle scendere che farle salire”.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 126


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Il Pilota con il braccio destro sempre poggiato sul finestrino, il suo compagno proteso verso
lo stesso finestrino, incurvato e ingobbito per guardarmi in faccia ostacolato dalla carrozzeria
dell’auto. I loro occhi mi scrutano attenti.

“Col tempo mi sono reso conto che una seconda forza ha lavorato per lungo tempo in miniera
oltre a quella di gravità. Questa forza, non studiata dalla fisica, è sfuggita alla mia prima
affrettata osservazione degli impianti e dei villaggi minerari.

Mi viene da chiamare questa seconda forza “forza sociale” perché agisce non sul minerale da
scavare ma sulle persone che lo scavano a generare quella che interpreto come una vera e
propria istituzione totale secondo la terminologia delle scienze sociali.

Vedo la miniera dunque come luogo in cui un gruppo di persone risiedono e convivono per
un significativo periodo di tempo, allontanandosi ed escludendosi dal resto della società,
dandosi un’organizzazione verticistica e fortemente controllante del luogo e delle sue
dinamiche interne.

Ho notato e l’ho trovato interessante, che nel caso delle miniere le modalità di accesso delle
persone siamo una sorta di ibridazione delle due fondamentali tipiche delle istituzioni totali: la
piena identificazione della persona con le intenzioni e le finalità espresse dalla miniera,
situazione analoga a quello che accade per conventi e caserme in cui la persona per entrare
opera una scelta; la costrizione della persona derivante dalla sua condizione di bisogno e
dalla durezza ed aleatorietà del lavoro agropastorale da cui proviene, come nel caso di carceri
e manicomi in cui l’ingresso alla persona è imposto”.
Finalmente sulle guance del Pilota mi sembra di scorgere l’ombra di un sorriso. In quel
momento spegne il motore dell’auto. Sento che ce la sto facendo devo continuare ad
affabulare.
“Quando ho saputo osservare meglio, come per la forza di gravità che stratifica in quote
l’organizzazione produttiva della miniera, anche questa seconda “forza sociale” ho scoperto
essere percettibilmente espressa da strati altimetrici ben differenziati e verificabili.

Nel caso della “forza sociale” l’analisi stratigrafica della miniera non ordina gli strati rocciosi
che si susseguono in profondità o la collocazione dei diversi impianti a vari livelli, ma
evidenzia la sovrapposizione delle classi sociali: il direttore della miniera, primo strato
assoluto a sovrastare il tutto e tutti; poi si scende lentamente verso i dirigenti della miniera e gli
ingegneri minerari; più sotto con una maggiore pendenza gli impiegati; ancora un salto e si
arriva agli gli operai; un secondo salto e sul fondo si trovano i minatori.

Mi sembra quasi che costoro non riescano a liberarsi dei carichi pesanti che lavorano e
trasportano e da questi siano inevitabilmente spinti in basso, come se forza di gravità e forza
sociale lavorassero nello stesso verso.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 127


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Ho notato che questa stratificazione sociale non si palesa esclusivamente in facilmente


immaginabili termini relazionali e retributivi, ma trova una precisa e tangibile
rappresentazione nella collocazione, decoro e confort delle rispettive abitazioni.

Potrei infine osservare con la facile moderna sensibilità sociale che deriva da una comoda
visione retrospettiva, che, sino all’avvento dei processi di arricchimento e trasporto
automatizzati, fino all’inizio del XX secolo, esistevano altri due strati sociali collocati più in
basso di quello dei minatori: le mogli dei minatori, pagate la metà dei loro mariti,
principalmente per la cernita del materiale; i figli dei minatori, minori di anche dieci anni
chiamati anch’essi a fare la loro durissima parte nei piazzali delle miniere a trasportare
minerale”.

Per un momento mi acquieto, in attesa di riprendere argomenti più che forze, e lanciarmi in
altre storie di blenda e di galena.

Il Copilota sfrutta la pausa per chiedermi, incredulo, se io sia un ingegnere minerario.


Per poco non ci casco! La voglia di rispondere che sono un ingegnere minerario è
fortissima, mi sembra questa menzogna l’unica via per convincerli a farmi visitare la miniera.
Riesco a trattenermi, prima o poi mi tradirei e, soprattutto, li deluderei.
“No, non sono un ingegnere minerario, ho studiato fisica. Ho sempre lavorato sulla cosa che
ritengo la più antitetica al prodotto che si estrae da una miniera. Una cosa: che non pesa e non
ha volume; che si trasporta con facilità; che non si cerca e si estrae ma si crea, si produce, in
silenzio, in ambienti ben illuminati e senza odori; che non si arricchisce ma si migliora. Ho
sempre lavorato a realizzare software all’interno di società di servizi di Information
Technology”.

Mi interrompo nuovamente ma continuo a pensare tra me e me che è forse proprio per


essermi sempre impegnato nelle cose più eteree, l’informatica ed il software da quando
lavoro, la fisica teorica prima quando studiavo, che sono affascinato dalle geometrie
gravitazionali e sociali delle miniere.
La gravità del resto la fisica tenta di trattarla approfonditamente ma ancora gli sfugge
quell’unificazione con il resto del mondo che si insegue ormai da più di sessant’anni.
Ma l’odore rancido e metallico della gravità, il suo colore bluastro ed oscuro, il suo sapore
polveroso, il rombo assordante della sua voce, la sua ruvida pericolosità, queste caratteristiche
della gravità le ho potute percepite solo nelle miniere. Mai le avrei potute immaginare
studiando i libri di fisica.
Se Pilota e Copilota sono delusi dal mio non essere un ingegnere minerario non lo danno a
vedere. Si guardano tra loro in silenzio palesemente indecisi sul da farsi. Il Pilota cerca una
soluzione suggerendomi di tornare l’indomani mattina e dichiarandosi disponibile a darmi un
appuntamento preciso.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 128


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Mi inizio a rassegnare, purtroppo proprio domani riparto e la sera devo imbarcarmi ad


Arbatax ma la giornata è dedicata all’attraversamento dell’Ogliastra ed alle spiagge dalle parti
di Marina di Gairo. Mi piacerebbe prendere un appuntamento per il giorno dopo ma non
posso, l’ultimo giorno dei miei viaggi è quello più vincolato e meno libero.
Mi rivolgo ancora ai miei due interlocutori per dirgli che mi dispiace proprio non riuscire a
visitare la miniera. Gli racconto come sia già stato sfortunato due giorni fa quando, dopo aver
preso un appuntamento con un loro collega IGEA per visitare il pozzo Sant’Antonio della
Miniera di Montevecchio, dopo due ore di inutile attesa, ritelefonando alla persona che
doveva farmi da guida ho scoperto che era ad Ingurtosu e che non poteva più venire.
Appena pronuncio il nome di Montevecchio il copilota alza le spalle in un gesto di
sufficienza, si risolleva dalla postura protesa verso il finestrino e scompare alla mia vista
ritraendosi sul suo sedile.
Non posso immaginare che da quando l’IGEA sta' rendendo visitabili le miniere si sia creata
una sorta di benevola rivalità per il primato del sito più interessante.
Nella penombra dell’abitacolo del fuoristrada mi sembra che il copilota sbiascichi qualcosa
del tipo: “Figurarsi … Montevecchio!”. Poi non si tiene più e tutto di un fiato mi apostrofa:

“Deve proprio vedere la nostra miniera! Perché rispetto a Montevecchio la miniera di


Funtana Raminosa è più piccola ma molto più interessante e bella, anche per tutto il lavoro che
stanno facendo per risistemare le cose … “.

Non so bene che dire, l’atteggiamento di sufficienza verso Montevecchio non mi pare diretto
a me, è cosa che non mi riguarda. Me ne esco per dichiarare che, delle miniere la cui visita è
ora gestita dall’IGEA, l’unica che sono riuscito a vedere nei fuori stagione estremi in cui mi
aggiro in Sardegna è stato l’impianto di carico del minerale a Porto Flavia adiacente alla
miniera di Masua. Ne sono rimasto veramente impressionato. Tutte le altre volte che ho
telefonato per il fatto che ero solo non mi è stato dato un appuntamento o peggio, come nel
recente caso di Montevecchio, l’appuntamento me lo hanno dato solo per farmi perdere
tempo.
Il Pilota non ha visitato i siti di Porto Flavia e di Montevecchio, ma suoi amici gliene hanno
parlato bene. Prosegue per affermare che a suo parere quello che c’è di bello a Funtana
Raminosa è la possibilità di vedere l’evoluzione storica della miniera, degli impianti e delle
tecniche estrattive sino ad oggi.
Ora o mai più, penso, ci stiamo girando in torno da troppo tempo. Lancio l’affondo con tono
ridanciano ma perentorio, le mie mani si sollevano per indicare tutto quello che c’è attorno:

“Ma insomma questa miniera di Gadoni, che è più bella di Montevecchio, che è così
interessante, me la fate vedere, si o no?”.
Il Pilota, si gira verso il Copilota, parlottano brevemente. Il Pilota accende il motore, si gira
verso il finestrino e sorridente mi grida di seguirlo:

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 129


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

“Vada sempre dritto, poi quando sulla sinistra vedo un cancello, entri e prosegua fino ad un
piazzale dove vedrà il nostro fuoristrada”.

Felice armeggio con casco e moto, non ho fatto nemmeno in tempo a ringraziare, il
fuoristrada ha fatto una conversione ad “U” e m’inonda di polvere. Finalmente riesco a partire
ma la macchina mi precede allegramente agevolata sul quel terreno pietroso, poco dopo non
la vedo più.
Sono contento, una nuova miniera mi attende e Pilota e Copilota sembrano simpatici.
Arranco tra prima e seconda con la pesante moto su quel fondo infido. Seguo le istruzioni alla
lettera ed arrivato al piazzale dove c’è il fuoristrada cerco un pezzo d’asfalto o di cemento dove
il cavalletto della moto non rischi di affondare facendola cadere.
Intorno non vedo nessuno, ma all’improvviso mentre armeggio con le borse laterali per
riporre il casco e prendere la macchina fotografica, un vociare mi fa girare.
Una dozzina d’uomini tutti in tuta blu e pesanti scarpe da lavoro nere, qualcuno con un
casco da lavoro bianco in testa, incede allegra nella mia direzione senza che riesca a capire da
dove siano usciti. Uno di loro sulla sinistra è il Copilota.
Mi sono rumorosamente addosso contenti di vedere qualcuno, volano le mani per salutare
mentre mi vengono rovesciate addosso litanie di nomi che per la maggior parte non faccio in
tempo a fissare nella memoria, è questo il momento in cui Il Pilota diviene Mario ed il
Copilota Francesco. Sono stupito dall’imprevista calorosa accoglienza.
In un momento in cui le voci si sedano Francesco continua a raccontare del mio interesse a
vistare miniere. Si accavallano nuovamente le voci e le domande su chi sono, che cerco, dove
vado. A un certo momento qualcuno inizia a scherzare chiedendo di fare un giro in moto, tutti
si accalcano intorno alla moto per prenotarsi per un giro, sembro un papà che porta alla
giostra una dozzina di figlioli eccitati.
Ora l’attenzione è tutta rivolta al rosso mostro BMW: che velocità massima, quanta potenza,
quanti cilindri e quante valvole, quanto pesa, come funziona l’ABS, perché i dischi dei freni
sono flottanti, come si fa la messa a punto dell’iniezione elettronica … non si finisce più.

RACCONTO DELL'INGEGNERE
Poi da un terrapieno che ci sovrasta si affaccia Mario, che mi invita a salire per conoscere
l’Ingegnere. Sono immediatamente sospinto su per una arrugginita scala di ferro a due rampe,
tutto il gruppo mi segue e mi precede. Arrivati sul terrapieno entriamo in una sorta di grande
hangar di lamiera. Vicino a Mario, un uomo più o meno della mia età, l’unico senza tuta blu, in
jeans, camicia e mocassini. E’ l’Ingegnere.
L’Ingegnere è tanto alla mano e cordiale quanto gli altri, mentre mi fa strada verso il suo
ufficio che occupa una parte dell’hangar mi chiede per favore di lasciare un biglietto da visita e
di firmare il registro degli ospiti. Quasi scusandomi mi spiega che deve farmi pagare il
biglietto della visita a scopi assicurativi, data la mia presenza all’interno della miniera.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 130


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Ottempero con piacere a tutte queste piccole burocrazie con l’aiuto di Mario. L’Ingegnere mi
racconta dei lavori che stanno facendo a Funtana Raminosa, della prossima apertura della
vecchia laveria al pubblico; poi mi ragguaglia sulla storia della miniera.

“Gli impianti minerari, ormai dismessi da più di vent’anni, sono stati costruiti sulla sponda
sinistra del Rio Saraxinus, a vicino alla confluenza col Flumendosa. Sulla stessa sponda,
distante qualche centinaio di metri verso valle dai suddetti impianti, sono ubicati i vecchi
cantieri minerari, quelli più antichi, coltivati a livello industriale dalla fine dell’ ‘800 fino a
tutta la prima metà del secolo scorso: le gallerie “Romana”, “Fenicia”, “Yvonne” e il cantiere
“Brebegargiu”. Sulla sponda destra sono invece ubicati i lavori minerari che hanno
caratterizzato l’attività estrattiva dal 1950 fino alla chiusura definitiva del 1983”.
Mentre l'Ingegnere continua a parlare, mi soffermo a pensare che quando ho visitato la mia
prima miniera abbandonata, l’Argentiera, a Funtana Raminosa ancora si scavava. Le storie che
Giovanni Salaris mi ha raccontato, quelle storie che appartenevano alla storia della sua
miniera, qui si continuavano ancora a svolgere solo in parte mitigate dall’evoluzione
tecnologica e dalle conquiste sociali dei movimenti sindacali.

La miniera di Funtana Raminosa è molto più antica delle lavorazioni avviate a fine ‘800.
Nell’area “Vecchi Cantieri”, accertamenti compiuti a fine ‘800 da ingegneri minerari su lavori
superficiali o comunque poco profondi, nel tempo cancellati dai lavori successivi o dalla
presenza delle discariche di minerale prodotte in prossimità degli imbocchi delle gallerie, li
hanno fatti riferire all’epoca fenicia, altri invece al dominio romano come nel cantiere di “Sant
Eugenio”. Gli stessi ingegneri notarono anche i segni di un’antica attività estrattiva dei
minerali di rame databile, sulla base dei reperti ritrovati, all’epoca nuragica nell’età del
bronzo. I giacimenti di rame della miniera sono stati sicuramente interessati da attività
estrattive anche in epoche successive databili all’incirca al 700 d.C.; secondo alcuni studiosi lo
stesso nome del torrente che attraversa la miniera, il Rio Saraxinus, è sicuramente una
testimonianza che che anche i Saraceni siano stati interessati all’estrazione dei metalli in
questo sito.

Probabilmente il primo documento ufficiale di sfruttamento dei minerali della miniera di


Funtana Raminosa è quello concesso nel 1517 a tal Pietro Xinto, col quale poteva “scavar e
colar minerali delle miniere dell’incontrada di Belvì”. In epoca moderna è certo che solo nel
1882 vennero condotti i primi lavori rivoluzionari di esplorazione presso la cosiddetta sorgente
di Funtana Raminosa, ma la scoperta del giacimento si ebbe nel 1886. Nel 1912 l’Avv. Paolo
Guinebertière ottenne la concessione mineraria per lo sfruttamento dei minerali”.
Sto ad ascoltare incantato. Mi sorprende scoprire che sotto la gestione dell’Avv. Paolo
Guinebertière le prime produzioni furono esportate in America grazie all’interessamento del
direttore di un‘importante società mineraria, Hoover, divenuto poi presidente degli Stati
Uniti. L’Ingegnere non si interrompe.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 131


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

“Nel 1915, venne costituita la Sociétés Anonyme des Mines de Cuivre de Sardaigne. Sotto
questa gestione la miniera venne dotata di: moderni impianti di trasporto dei grezzi; una
laveria, la prima in Italia a sperimentare il trattamento differenziato dei concentrati di
piombo, rame e zinco; la palazzina della direzione e numerose abitazioni; una diga lungo il
Rio Saraxinus per l’approvvigionamento delle acque industriali; una centrale per la
produzione in loco di energia elettrica per il funzionamento di un compressore d’aria col quale
fu possibile meccanizzare la perforazione delle rocce.

Nel 1936, grazie all’autarchia, venne costituita la "Società Anonima di Funtana Raminosa"
che subentrò alla gestione della società francese nel frattempo fallita. Nel 1940 la concessione
passò alla Società Anonima Cogne-Raminosa, a seguito della messa in liquidazione della
Società Anonima di Funtana Raminosa. Ciò coincise con un progetto di ammodernamento
degli impianti che non ebbe la possibilità di essere attuato a causa dell’affondamento della
nave che trasportava tutti i macchinari provocato da un siluro nemico.

Nel 1950 le concessioni passarono alla Cuprifera Sarda che riprese l’estrazione dopo il
periodo di inattività post-bellico. Si intensificano i lavori nei cantieri di Funtana Raminosa,
mentre l’esercizio negli altri cantieri diminuì fino a cessare definitivamente nel 1968. La
Cuprifera Sarda riuscì a gestire proficuamente la miniera finché anche i giacimenti migliori
cominciarono ad esaurirsi. Nel 1973 con l’avvento delle Partecipazioni Statali iniziò una
campagna di sondaggi che portò alla ristrutturazione generale della miniera terminata nel
1980”.

“Troppo tardi”, commento a voce alta, mi ha già detto che l’attività mineraria venne fermata
definitivamente nel 1983. Deve essere stata un dramma per il piccolo paese di Gadoni, per le
circa 150 famiglie che di miniera campavano.
L’Ingegnere, invitandomi ad accostarmi a lui di fronte alla mappa appesa ad una parete della
miniera, adesso agita l’indice sulla carta per mostrarmi la dislocazione delle strutture esterne
della miniera ed i fabbricati adibiti alle abitazioni dei minatori disposti in ordine sparso,
collegati tra loro da un intreccio di contorti sentieri obbligatoriamente adattati alla morfologia
del terreno. Il suo parlare ora si limita a commentare la carta ingiallita.
“Le prime abitazioni di modeste dimensioni sono state costruite nella prima metà del secolo
in prossimità degli imbocchi delle gallerie sulla sponda destra del Rio Saraxinus. La scelta di
ubicare le abitazioni in modo così sparpagliato non risponde solo alla funzionale esigenza di
ottimizzare il percorso casa lavoro, ma anche alla volontà di mantenere separati i diversi
gruppi di minatori per ridurre in questo modo l’eventuale conflittualità ed evitare coalizioni
pericolose per la società.
Uomo dell’attuale villaggio globale, sempre connesso, sempre on-line, dichiaro
all’Ingegnere di essere colpito dalla semplicità con cui cento anni fa era facile
compartimentare le persone in assenza di una comunicazione alternativa ai tortuosi e franosi

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 132


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

sentieri, ancor più impraticabili nella stagione fredda, quando resi viscidi dalla pioggia e dal
gelo.
L’Ingegnere mentre raccatta delle carte dalla scrivania ed le infila in una logora borsa di
pelle ricomincia a parlare delle strutture esterne della miniera.

“In mezzo agli impianti minerari emerge il vecchio impianto di arricchimento, attualmente in
fase di restaurazione, a sua volta parzialmente realizzato su strutture di impianti precedenti
dei quali si scorgono ancora alcuni resti”.
Purtroppo l’Ingegnere mi conferma che non potrò vederlo, sarà un occasione per tornare.
La borsa si chiude con un click metallico, l’Ingegnere apre un cassetto per cercare le chiavi
della macchina .
“Di particolare rilievo è la vecchia sala compressori che ne alloggia ancora alcuni e l’attigua
saletta che ospita i resti di un vecchio generatore di energia elettrica”.
Ma di questo non vuole parlare lasciando a Mario che mi ci porterà le spiegazioni del caso.
Ci spostiamo verso la porta della sua stanza.

“Funtana Raminosa, per le caratteristiche geomorfologia del territorio, aspro e con versanti
scoscesi, ha dovuto trovare particolari soluzioni tecnologiche a diverse problematiche che
condizionavano l’attività estrattiva a cominciare dagli impianti di trasporto dei minerali sia
grezzi che arricchiti. Per questo motivo sono state realizzate due teleferiche, una per il
trasporto dei grezzi provenienti dai cantieri in coltivazione e l’altra per il trasporto dei
concentrati all’altopiano di Taccu Zippiri, ed un piano inclinato, prima di passare ai trasporti
più agevoli su mezzi gommati”.

SPORCARSI LE MANI
Mentre stiamo per uscire dalla stanza, per iniziare la visita sotto la scorta di Mario, mi cade lo
sguardo su un mobile basso sovrastato da un caotico insieme di vasi e boccette di vetro di
diverse dimensioni. Intercettato il mio sguardo l’Ingegnere si avvicina a quella collezione di
vetri appannati di polvere e, posata la borsa, prende una delle bottiglie più grandi, me la porge
dicendo questo è un campione di blenda.
Mentre soppeso in mano il contenitore di vetro mezzo pieno di una polvere finissima grigio
scuro, che mi appare pesante in relazione al volume del suo modesto contenuto, l’Ingegnere
si gira nuovamente verso quella vetreria. Rapido nell’altra mano mi poggia un contenitore
uguale al precedente, anch’esso pieno di un impalpabile polvere, un poco più luccicante,
quella polvere gemella della blenda che dovrebbe per il suo nome, galena, ricordare la
superficie del mare calmo in quelle terse giornate di fine settembre quando l’acqua si fa
metallica. Sono lì immobile a fare sollevamento pesi con due chili di polvere, uno per mano.
Non è questo che mi emoziona. Sono lì immobile, in mano quei minerali frantumati, macinati,
flottati, raffinati, e filtrati per la prima volta dopo tanti anni di storie di blenda e di galena.
Storie che ho sentito raccontare, storie che racconto.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 133


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Non riesco a resistere e chiedo all’Ingegnere di poter aprire i vasi di vetro, devo avere la
sensazione tattile della polvere sulle dita, devo sentire quegli odori metallici. Mi concede il
privilegio di sporcarmi le mani di polvere grigia. Sono queste le cose che non puoi sentirti
raccontare, che non puoi leggere sui libri, per questo adempio al mio piccolo improvvisato
rito d’assaggio.

VISITA
L’Ingegnere mi porta in una stanzetta adiacente al suo ufficio dove mi porge un casco di
plastica giallo sulla cui parte anteriore è possibile fissare una luce elettrica collegata con un
cavo flessibile alla scatola di una batteria ricaricabile che mi fa mettere a tracolla.
La giacca da moto in goretex, privata dell’imbottitura interna sarà perfetta per entrare nelle
gallerie dove c’è un forte trasudo e stillicidio d’acqua, lo stivale da moto con la suola di gomma
a carrarmato il degno complemento al mio vestiario.
Ci salutiamo calorosamente, non ci sarà al mio ritorno, deve andare. Lo ringrazio del tempo
che mi ha dedicato, delle spiegazioni e soprattutto dell’avermi fatto assaporare la blenda e la
galena. Un’ultima stretta di mano e mi affida a Mario che è venuto anche lui a prendere una
lampada.
Usciti all’aperto il sole mi acceca. Mario mi dice che l'area mineraria è ubicata in seno alla
valle che sto vedendo, affacciata sul piazzale dove ho lasciatola moto.
Siamo immersi in una folta vegetazione, tra cui spiccano lecci secolari e altissimi eucalipti, e
traversato da alcuni torrenti che formano laghetti e cascatelle. Il paesaggio è selvaggio, i
sentieri occultati dalla vegetazione. Il silenzio impreziosito dal rumore delle fronde e del
vento, difficile immaginare la frenesia dei lavori minerari. Eppure l'attività di scavo ha lasciato
segni profondi di trasformazione del territorio: discariche, scavi, imbocchi di gallerie, bacini
di decantazione.
Con Mario cominciamo la visita dalla stazione di arrivo della teleferica costruita in cemento
che permette lo scarico automatico del minerale in silos di stoccaggio posti sotto di essa.
Scendendo sotto la teleferica arriviamo al fondo dei silos dotati di arrugginite tramogge
manovrabili a mano per l’espulsione ed il travaso del minerale sui carrelli da trasporto che vi
arrivano sotto. Immagino il fragore del minerale che precipita nei carrelli alzando polvere
Questi carrelli, una volta riempiti, venivano spinti sino ad una ripida funicolare che utilizza
l’orografia del territorio che la circonda rafforzando la singolarità e la suggestività della
miniera, per ottimizzare il trasporto del minerale estratto.
Mario mi porta a visitare diverse gallerie in un ordine preciso che mostra la progressiva
evoluzione delle tecniche di coltivazione del minerale: prima a mano, con l’uso di picconi,
scalpelli e mazze, pale, senza esplosivi, affidando il trasporto del minerale a piccoli carrelli
spinti a mano o a più grandi trainati da asini, muli e cavalli; poi con gli esplosivi e martelli
pneumatici trasportabili, con il trasporto di giganteschi vagoni affidato a motrici azionate ad

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 134


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

aria compressa o diesel; infine con vere e proprie macchine perforatrici su gomma o cingoli e
da trasporto su gomma.
E’ ora di accendere la lampada infissa sul casco, la pesante batteria mi batte sul fianco. La
prima galleria che visito risale all’ ‘800, è piccola, stretta e bassa. Alla terza botta in testa dopo
nemmeno dieci passi ringrazio mentalmente l’Ingegnere per aver insistito affinché indossassi
il provvidenziale casco. Sono circondato da armature di legno, ci addentriamo per
permettermi di vedere pozzi e fornelli per la discesa da una galleria all’altra mediante scale di
ferro che una volta erano di legno. Gentilmente Mario mi impedisce di scendere in uno di
questi fornelli, la galleria sottostante non è sicura e minaccia crolli. Scatto foto
parossisticamente, pauroso di perdere qualche particolare, sperando di non infastidire troppo
Mario con il mio continuo fermarmi.
Riusciamo all’aperto per andare a vedere una seconda galleria in modo che possa rendermi
conto di come le stesse gallerie si modifichino nel tempo in funzione delle tecniche estrattive
utilizzate. Passiamo davanti ai depositi degli esplosivi e dei detonatori, avvolti da una "gabbia
di Faraday" che li ricopre con una serie di spesse strisce metalliche, disposte intorno alle
mura e sul tetto, isolate da inserti di legno, che hanno la funzione di proteggere dalla caduta di
fulmini.
La nuova galleria è più larga ed alta, sto comodamente in piedi nonostante la mia altezza,
all’inizio della galleria si vedono ancora un paio di telefoni per le comunicazioni: il più vecchio
mi sembra fatto di bachelite nera, usa una dinamo azionata a manovella per ottenere la
corrente necessaria al funzionamento; il secondo è un telefono elettrico azzurrino che risale
agli anni ’60. L’armatura lignea è sostituita in questa galleria da centine metalliche sopra alle
quali, a trattenere la roccia, si poggiano spesse assi di legno. Un corridoio di comunicazione
ci fa passare in un’altra galleria ancora, costruita con centine prefabbricate di cemento ed assi
di metallo, il legno è completamente sparito.
L’ultima galleria che Mario mi fa visitare, dopo essere riusciti all’esterno, è grande come una
vero e proprio traforo stradale, dotata di rampe di salita che fanno strette curve per l’ingresso
e l’uscita dei mezzi su gomma. E’ armata con una maglia di rete metallica ancorata alla parete
di roccia su cui sono spruzzati con un’apposita macchina getti di cemento a presa rapida a
costituire una sorta di “intonaco” protettivo.
Percorrere le gallerie dei vecchi lavori come di quelli più recenti, mi ha trasmesso emozioni
e suggestioni profonde ma ciò nonostante mi è impossibile riuscire a viaggiare indietro nel
tempo a quando la miniera era ancora in attività. Solo chi vi abbia lavorato può veramente
capire, io al massimo posso farmi raccontare.
Uscendo spegniamo le lampade. All’aperto, di fronte all’ingresso della galleria,
arrugginiscono giganteschi mezzi moderni di perforazione e trasporto, dotati di motori
diesel, con ruote gommate alte due metri, snodati al centro per affrontare le strette curve e
colorati di rosso, arancione, giallo, scarlatto.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 135


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Proseguiamo costeggiando senza poterla visitare perché ancora da ristrutturare e mettere in


sicurezza la grande laveria per la selezione del minerale avente valore commerciale. Mario mi
dice che è dotata di mulini di frantumazione a sfere, setacci basculanti e celle di flottazione.

Siamo diretti alla sala compressori, centro della forza motrice pneumatica del complesso
minerario. Una volta dentro una successione cronologica dei diversi motori e pompe per
l'aerazione delle gallerie ed il funzionamento degli strumenti pneumatici, martelli, seghe e
perfino lampade azionati ad aria compressa, riassume l'evoluzione dell’industria mineraria.
Mario è orgoglioso di mostrarmi l’ultima stanza, la parte più vecchia del locale compressori,
dove ha rimesso in funzione un gigantesco motore a scoppio bicilindrico. Salgo su una
scaletta di ferro, che è un tutt’uno con il motore più alto dei miei quasi 2 metri, per poter
osservare dall’alto, la testata del motore rimossa, i due grossi cilindri.
Mario mi aspetta sotto e quando sono in posizione gira un interruttore che mette in funzione
un motore elettrico che, a scopo dimostrativo, fa muovere i cilindri di quel gigante ancora
meccanicamente funzionante. Spesse e larghe cinghie trasmettono il moto ad un albero
motore che corre in alto su una parete, a quest’albero erano connessi i vecchi compressori.
Guardo quel vecchio, enorme, motore muoversi lento immaginandone l’enorme potenza ed
il frastuono del funzionamento. Mario sorridendo mi confessa che, nonostante la cilindrata di
ben 50.000 centimetri cubici di cilindrata, eroga solo 100 cavalli di potenza, meno dei 130
cavalli che contraddistinguono il motore quattro cilindri e “soli” 1.200 centimetri cubici della
mia moto.
E’ ora di andare, sulla fronte ho il segno profondo dell'imbracatura del casco, la giacca da
moto è striata dallo stillicidio della condensa e marcata dalla polvere, la bocca riarsa dal gran
chiacchierare e dalla polvere, le mani impiastricciate, impossibile non cercare anche una
sensazione tattile di tutto quello che ho visto.
Per Mario non è certo questo un motivo per non stringermi la mano con una stretta salda e
prolungata mentre mi ringrazia - lui a me, assurdo! - dell’attenzione che ho dato alle sue
parole e alla sua miniera.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 136


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

23.Baldacchino
Cagliari e Tuerredda, Costa del Sud! Mare, Luce, vento, roccia e spazio

Non amo i letti a baldacchino. Mi appaiono un retaggio medioevale. Una necessità,


immagino dettata dal freddo e dalla difficoltà di scaldare le grandi stanze di pietra dei manieri
che li custodivano. La gente comune s'arrangiava su pagliericci più o meno improvvisati. Sarà
la borghesia ad appropriarsi dei baldacchini, per scimmiottare la nobiltà, senza avere quegli
stanzoni ma magari condividendo lo stesso freddo. In una casa del 1600, che ho visitato in
Olanda, il baldacchino, sostituendo ai drappeggi solide pareti di legno, si è fatto addirittura
armadio, costringendo il dormiente ad un'esperienza da vampiro sepolto nella sua cassa.
Non mi piacciono i baldacchini nelle moderne case di oggi. Sono la negazione dello spazio,
evocano claustrofobie uterine, sensazioni da casetta delle bambole, fanno implodere
l'ambiente. Una casa moderna dovrebbe dilatare lo spazio, l'unica vera ricchezza. Se potessi
avrei una casa gigantesca arredata con l'essenzialità minimalista di una cella francescana: dove
a una parete di sei metri accosterei un divano da due posti sormontato da un unico quadro. Il
resto nulla, vuoto, spazio, non appariscente, opulenta, ostentazione di ricchezza.

BASTIONI
Sono due anni che cangianti, eterei, multidimensionali baldacchini mi appaiono inaspettati
in Sardegna. Il primo mi è apparso sul Bastione di Saint Remy, nel quartiere castello, a
Cagliari, in una soleggiata ma fresca mattinata di inizio giugno.
Un luogo magico questa terrazza, il baldacchino, gigantesco, spropositato, ne completa
l’incantesimo seduttivo. Una struttura di metallo antracite satinato sorregge un enorme
materasso bianco fatto di un materiale che ricorda i materassini a prua delle barche costose. Ai
quattro angoli volteggiano garze leggere che, fluttuando nell'azzurro intenso del cielo,
disegnano nuvole immaginarie. Il materasso disseminato di cuscini bianchi. Il tutto montato
su ruote gommate, a suggerire un impossibile moto che m'immagino eguale a quello del
piano suonato dal leggendario pianista sull'oceano a cui, nel 1998, con il film “La leggenda
del pianista sull’oceano”, Tornatore ha dato vita, ispirandosi al monologo “Novecento” di
Baricco.
Su quel baldacchino mi sono sdraiato nella solitudine del Bastione. Su quel baldacchino
sono stato preso da un accesso di libidine. Immaginando scene di sesso nella luce piena,
invito alla contemplazione delle forme, alle carezze dei corpi brillanti, inumiditi da
infinitesime stille di sudore. Nonostante la dimensione del baldacchino possa ospitare vaste
orge, mi sono sempre ispirato ad un’unica donna per scrivere la sceneggiatura del mio
immaginario film erotico. Un'unica donna, non sempre la stessa, cambiata al passare del

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 137


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

tempo, ha animato quel baldacchino. Solo una volta, ad una di queste donne, tanto reali
quanto immaginarie, ho fatto leggere le mie fantasie sul baldacchino.
Per quanto disapprovi un baldacchino in una casa, questo  all'aperto, agitato da luce e vento,
m'incanta. La sensazione claustrofobica che mi provoca in casa è completamente ribaltata. Lo
spazio del cielo che sovrasta il baldacchino ne rende infinito lo spazio interno, la vastità dei
deserti bastioni si riflette in esso e di nuovo ne amplifica la già considerevole dimensione.

SPIAGGIA
Sono passati poco più di due anni dall'incontro con il baldacchino cagliaritano, oggi
passeggio su una spiaggia nelle luci dell'alba. Alla fine, dove la sabbia s'infrange sul granito
rosato, un piccolo stabilimento, appoggiato alle dune che separano la spiaggia dallo stagno
che s'allunga nell'entroterra, già agonizzante per l'estate che avanza.
Eleganti ombrelloni color ècru, con lo stelo di legno scurito dal coppale appena dato,
ordinati su quattro righe, sfalsati tra una fila e l'altra, a favorire la contemplazione degli
esplosivi colori del mare. Lettini di legno dello stesso colore. Ordinati, puliti,
simmetricamente disposti. Deserti per l'ora, per il piacere della mia vista, per farmi godere la
rarefazione. Questo vedo mentre lento m'avvicino alla fine del mondo sabbioso che calpesto
faticando. Inizio a passare in rassegna quelle truppe ordinate, allineate sull'attenti.
Improvviso, incuneato tra i candidi ombrelloni, come gli facessero da guardia pretoriana,
una struttura cubica di legno color ciliegio, sorregge bianche tele grezze che possono
scorrere su ogni lato, a chiudere le quattro facce laterali del cubo per rallentare il vento. La
faccia sopra a fare da tetto della stessa tela, inamovibile a riparare dal sole. Sotto, un
materassino bianco ricoperto di cuscini di mille fogge: tubolari, rotondi, quadrati, sia bassi,
che gonfi al centro; bianchi, indaco, verdi, azzurri.
Il baldacchino è più piccolo di quello che ho visto sul Bastione, un normale letto
matrimoniale, ma più bello, fotogenico. Lo fotografo ripetutamente, sdraiato sulla sabbia per
usare la deformazione prospettica che tutto dilata. Baldacchino sublime, nell'immersione in
un ambiente esploso dalla luce radente dell'alba, dall'orizzonte graffiato nettamente nel cielo
da cristalline acque multicolori, dalla sabbia levigata dal vento che inganna le distanze.
Le mie fantasie sul baldacchino riemergono prepotenti e perverse m'affollano la mente. Sarà
l'estate, l'alba solinga, la pelle nuda, il paesaggio sfolgorante, la luce, il vento, il baldacchino.
Rimango lì accasciato sulla sabbia tiepida, a pancia in giù, tra mare e baldacchino, preda
d'immagini suadenti che la mente ripassa e ripropone in tante varianti, muovendole al rallenty
e riavvolgendole istantanee per ripassare momenti, esplorare particolari. Un'unica donna le
anima, quella che vorrei fosse con me sul baldacchino, a cui vorrei poter raccontare le mie
fantasie senza censura.
Devo nuotare! Una nuotata sino alla boa calmerà i bollori evocati dall'ennesimo baldacchino
in cui sono inciampato percorrendo la Sardegna.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 138


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

24.Casotti
Poetto, Cagliari! Luce, vento, roccia e spazio, Miti, Riti e Storia, Libri

Poco distante dal centro abitato di Cagliari la litoranea sud-orientale bordeggia per alcuni
chilometri le bianche dune di sabbia silicica della spiaggia del Poetto. E’ questo l’habitat dei
cosiddetti “casotti”, sorta di “favelas” stagionali, estivi pied-à-terre di una certa classe media
cagliaritana. Colorate costruzioni lignee infisse su palafitte nella sabbia bianchissima.
Strutturalmente molto semplici: quattro pareti ed il tetto a spioventi. Di una fotogenia totale,
così provvisti di una carica estetica dilagante.
Anche oggi che i casotti non ci sono più li conservo nella mia memoria. Immagini a me
notissime di luci e colori che conosco a menadito. Li riconosco tutti, ci ho camminato per
giorni, ore, stagioni intere. Ed ogni emozione, ogni immagine dell’inverno e della primavera
in questo luogo perduto è un filo della mia vita. Per questo scelgo di confondermi tra passato e
presente nel parlare dei casotti.
La tipologia delle centinaia di piccoli capanni che affollano la spiaggia, disegnandola di
vicoli e piazzette improvvisate, non subisce variazioni di rilievo relative a pianta ed alzato, a
mutare infinitamente è solo l’apparato decorativo. E’ questo l’unico essenziale elemento
distintivo nell’omogeneità dell’elementare struttura architettonica. Per questo i casotti non
hanno nomi o numeri a distinguerli.
Ricordo che il casotto di Piero è quello che la luce del tramonto dipinge di un incredibile
cangiante colore sospeso tra acquamarina, ciano, verde pastello; con le sue finestrelle a
persiane dipinte di bianco.
Quello che questo piccolo paesino da spiaggia evoca è un complesso vivacissimo ed
estremamente vario, ricco di bizzarrie decorative, di vistoso kitsch. Insieme morfologico di
“carpenteria popolare” esteticamente avvincente.
Il silenzio, rotto dal vento invernale, fischia tra queste forme colorate. Questo immenso
quadro di forme e colori è fruibile esclusivamente nelle stagioni invernale e primaverile,
assenti le folle dei bagnanti. Periodo unico in cui il silenzio, gli spazi deserti, la luce tersa,
pulita dal vento, conferiscono un’ aura metafisica a questo luogo.
Passeggiare tra i casotti è un esercizio da compiere con i sensi allertati, attenti alle forme ed
ai colori delle costruzioni, ma anche alla sabbia candida, all’azzurro del mare, alla fredda luce
invernale.
La realtà del litorale deserto è promossa in una dimensione magica dalla costellazione di
casotti multicolori. La luce netta, come pungente, esalta la tridimensionalità dei casotti, ne
mette in rilievo l’aspetto legnoso delle superfici. Con la luce radente è possibile scorgere la

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 139


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sofferenza del legno riarso dal sole estivo, della vernice lucida e pastosa posta a coprire la
sofferenza del primo, a sua volta spaccata dal vento incessante.
Tra i casotti sembra di essere circondati di pure forme colorate, isolate, abitacoli deserti ma
densi di misteriose presenze, silenziose tracce di vita trascorsa.
Dune di sabbia si formano tra i casotti, sospinte dall’azione del vento rotto dalle mille
strutture. Nelle estemporanee piazzette, nei quadrivi, i gorghi d’aria e vento disegnano spirali
e coni rovesciati sulla sabbia. Sulla sabbia pettinata i ghirigori prodotti dallo strusciare,
rotolare, muovere, delle alghe secche strappate al mare.
Questi casotti, tra cui incessantemente cammino ogniqualvolta sono a Cagliari, li ho
fotografati una sola volta. Solo quella volta, con Fausto, ho trovato la luce particolare che
tanto cercavo, il mare gonfio di vento, i bassi neri nuvoloni, l’orizzonte netto, la sabbia
allisciata, priva di orme.
Quella volta che, esauriti in un impeto parossistico i numerosi rullini a disposizione,
abbiamo attaccato le pardulas de casu friscu, le formaggelle di formaggio fresco fatte da sua
nonna. Queste sono, tra i dolci sardi, quelli che preferisco, sorta di scatoline rotonde,
pizzicate a distanza, simmetricamente, sul bordo e senza coperchio, piene fino all’orlo di una
pasta di formaggio pecorino fresco, inacidito e poi grattugiato, semolino, buccia di limone,
anch’essa grattugiata, zafferano e zucchero.
Tra i multicolori casotti ogni inverno capita di imbattersi in uno annerito e distrutto dal
fuoco. Puntualmente esso sarà ricostruito dall’orgoglioso proprietario nella stessa forma e
dello stesso colore prima dell’estate ventura.
Queste cicatrici tra i casotti segnano eterne e rissose faide, invidie, lotte, sconfitte, del tutto
estranee alla spiaggia, ma alla spiaggia riportate per colpire un bene caro e simbolico, il
casotto.
I casotti sono stati abbattuti, tutti in un sol colpo, dalle ruspe, in una primavera della metà
degli anni ’80.
Erano già anni che se ne paventava la distruzione. A questa hanno contribuito tutti i
proprietari o gli affittuari dei casotti che d’estate, nel periodo che va da fine giugno ad inizio
settembre, li eleggevano a loro dimora fissa. Dimore senza luce, senza acqua, senza fogne.
Questo accadeva ogni anno, da anni, tanti quanti sono stati sufficienti a rendere il numero di
colibatteri presenti sulla spiaggia uguale a quello di una fogna.
Dopo la rimozione dei casotti ci si è potuto bagnare al Poetto senza paura, i colibatteri
scomparsi. Ero ancora li a passeggiare d’inverno, i colori del mare immutati, nemmeno la luce
era cambiata, ma l’unico contrasto rimasto era ora quello tra la smisurata distesa di sabbia
purificata, le nuvole e le acque trasparenti.
Poi è sparita anche la sabbia: sin dagli anni ’50 rubata per le costruzioni; poi attaccata e
dispersa dalla strada litoranea; ancora sparpagliata dall’incremento del modo ondoso,
conseguenza della scomparsa della Poseidonia per l’inquinamento dell’acqua; infine soffiata

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 140


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

via dal vento non più arginato dai casotti e depauperata dalla costruzione degli stabilimenti e
delle villette.
Allora hanno cambiato la sabbia per tentare un rimpascimento: con le draghe hanno
prelevato la sabbia a qualche centinaio di metri dalla riva. Un disastro!
La sabbia finissima e bianca di una volta è stata sostituita da un miscuglio grigiastro di
diversa granulosità, sabbia polverosa contenente moltissimi microscopici frammenti di
conchiglie.
Allora ho smesso di andare a passeggiare al Poetto. Non c’erano più i casotti. Non c’era più
la sabbia bianchissima. Cambiata anche la luce, solo il vento era lo stesso ma ora alzava la
polvere che appannava i colori.
Quelle emozioni che i casotti suggerivano le ritrovo soltanto in quelle foto sature di ombre,
luce e colore, ancora così tridimensionali, scattate quell’unico giorno. Quello che in esse
manca è l’esplosione dilatata dello spazio, il baluginio del tempo. Quella sorta di astrazione,
sensazione di realtà inventata e virtuale, che aggirarsi tra i casotti faceva venire assieme alla
pelle d’oca.
Ogni volta che rivedo i casotti, la saturazione ed il contrasto dei colori, quella luce
impetuosa, ruvida, grezza, il suo nitore, la sua tonalità, la sua direzione al tramonto, dilatano
gli spazi, rompono l’universo euclideo in una nuova geometria incurvata ed espansa.
I casotti mi appaiono in queste condizioni come deformi, distorti da un’ideale lente
grandangolare che ne amplifica le proporzioni, che li slancia verso il cielo con i piccoli abbaini
barocchi, che ne allarga le doghe di colori contrapposti che costituiscono le pareti, che li
storce, come pendenti, a cadere sulla sabbia dove sono infissi.
Anche la sabbia si anima, le dune crescono smisurate, ed i casotti sembrano posti su un
movimentato, bianco, paesaggio collinare. A sovrastare il tutto, le onde del mare si frangono
immense, enormemente rumorose, roboanti, rotolanti, fin sopra i tetti dei casotti e gli schizzi
d'acqua salsa mi impregnano le nari, mi bruciano gli occhi, mi appiccicano i capelli, mi
bagnano le mani.
Oggi continuo a guardare quelle mie foto dei casotti e quelle molto più belle riprodotte sul
libro “Poetto” , di Attilio Della Maria, che, qualche anno prima dell’abbattimento dei casotti,
mi ha regalato Elisabetta, la ragazza di Cagliari con la quale passeggiavo mano nella mano
sulla spiaggia del Poetto.
Mentre giro lentamente le pagine, mi rivedo a camminare sulla sabbia bianchissima, ritrovo
il casotto di Piero, mi siedo sui gradini di legno, guardo il mare e, come per fermare il tempo,
per farlo rimbalzare tra ieri ed oggi, per ricordare e nuovamente dimenticare, scrivo quella
poesia che su questa bellissima spiaggia mi è stata donata tanti anni fa:

Ricordo una lacrima, una sola,

che scendeva lentamente,

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 141


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

fuori la pioggia a scrosci terribili.

Due ragazzi che contavano la prime stelle.

Una a una, sino a fare tutto il cielo.

Ero uno di quei due ragazzi.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 142


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25.Culurgiones de patata
Ilbono, Ogliastra! Incontri, Cibo

Fotografare i culurgiones de patata ? Pur buoni, non sono i ravioli di patata che mi servono,
che peraltro qui chiamano culingiones, quelli da celebrare. Avrei dovuto fotografare quelli che
mi servì a Ilbono una bellissima vecchietta ultra ottantenne.
Io ero lì, a casa sua, imbarazzatissimo, seduto a mangiare nella sua ampia cucina con il
camino. Da solo, sotto il suo vigile sguardo, in piedi davanti a me, e quello complice della
figlia che mi aveva portato da lei.

I culurgiones che la vecchietta mi porta sono una gioia solo per gli occhi, infatti, non ancora
cotti, mi sono mostrati per farmi ammirare il suo sapiente lavoro perché, ovviamente a mano,
lei stessa ha confezionato questi ravioli dall’aspetto di piccoli fichi. Bianchi fagottini pressati
con la loro caratteristica chiusura a spighitta, che le ha insegnato la mamma e che,
dolorosamente, mi confessa essersi oggi persa: sottile cordonatura praticata con la punta delle
dita e rifinita con un breve picciolo che salda due semidischi di sfoglia sottile di pasta del
diametro di 5-6 centimetri.
All’interno di questi ravioli una quantità di purea grossa come una noce, insaporita di
spicchi di aglio tritati finemente, foglie di menta fresca tagliuzzate, viscidu, formaggio senza
crosta lasciato in salamoia per due, tre giorni.
L’incanto si trasforma in commozione dopo pochi minuti, la cottura in acqua bollente poco
salata è veloce.
Ormai sono in piedi accanto a lei ed ai fuochi per non perdere niente della preparazione, i
culurgiones li estrae a due o tre con un cucchiaio forato dall’acqua di bollitura, ben sgrondati,
li dispone metodicamente su un grande piatto ovale di ceramica sarda da portata, in un solo
strato, a spina di pesce, facendo incontrare ad angolo, a due a due, i piccioli del raviolo, lungo
una retta immaginaria al centro del piatto.
Mi fa cenno di sedere nuovamente al tavolo e dice alla figlia di servirmeli, non fidandosi a
trasportare con le sue mani artritiche il pesante piatto in cui ha disposto i culurgiones.
Mi ritrovo il piatto davanti, la vecchietta appare compiaciuta quando intuisco dichiarandolo
che quello che mi appare è una spiga gigante con i suoi chicchi in proporzione, ogni
culurgiones un chicco di grano.
Li condisce mettendoci sopra un semplice delizioso sugo al pomodoro, tirato, fatto con i
frutti del piccolo orto a cui riesce ancora a badare. Sopra una spolverata di basilico.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 143


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

I succhi gastrici sono completamente in azione, lo stomaco in attesa parossistica, non ancora
ubriaco ma certamente ebbro del vinello che mi è stato servito durante tutta la preparazione.
Incitato condisco con abbondante pecorino dolce che grattugio da me.

Mezzo culurgione a boccone, mangio lentamente, assaporando l'amalgama complessa dei


semplici sapori da lei sapientemente assemblati. Il silenzio totale, infranto solo dal rumore
della forchetta sul piatto. Sembra di partecipare a una funzione della quale sono l'officiante.
Solo dopo aver finito finalmente parlo, entusiasta di quello che ho appena gustato.
La figlia traduce, non sapendo io parlare il suo dialetto, né lei la mia lingua. Non oso
chiedere un bis, pur desiderandolo per pura ingordigia, né mi viene proposto.

Ancora oggi ogni volta che porto un culurgione alla bocca penso a quella gentile vecchina,
vestita tutta di nero da quando, giovane, rimase vedova.
Non ricordare il suo nome è un dolore che mi porto dentro come se per questa dimenticanza
fossi un ingrato.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 144


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26.Suggestioni d’isola perduta


Isola dei Shardana! Miti, Riti e Storia, Libri

Ho già citato la contrapposizione di due libri particolari dedicati alla Sardegna sospesa tra
storia e mito: “Passavamo sulla terra leggeri”, di Sergio Atzeni, e “Le Colonne d’Ercole,
un’inchiesta”, di Sergio Frau. Ho descritto in un precedente frammento il percorso di andata,
dalla storia al mito, incarnato dal libro di Atzeni, ora vorrei esplorare il ritorno, dal mito alla
storia, raccontando del libro di Frau che, da appassionato di Sardegna, più che da interessato
alla scoperta di cosa ci sia oltre le Colonne d’Ercole, mi è piaciuto, colpendomi per l’inusuale
modo in cui è scritto e per le ricche suggestioni che offre.

PAROLE COME FUOCHI D’ARTIFICIO


Ogni tanto capita d’incappare in quelli che chiamo fuochi d’artificio di parole, scritture
trascinanti, coinvolgenti, basate su associazioni impensabili e ardito pensiero laterale,
amalgama ed integrazione di una cospicua varietà d’ingredienti: eventi storici;
interpretazioni, più o meno temerarie, di testi arcaici; utilizzo, a volte spregiudicato, di teorie
e reali dati scientifici; semplici suggestive supposizioni; leggende e miti.
Il tutto integrato, mescolato, mediante l’utilizzo iperbolico di due contrari: interpolazione
ed estrapolazione dei fatti, rispettivamente asserviti all’inserimento di uno o più elementi
estranei all’originale o alla deduzione di un nuovo elemento a partire dagli originali.
Mi pronuncio raramente sulla veridicità di tali fuochi d’artificio, in genere non m’interessa,
preferisco godermi l’abilità del gioco di prestidigitazione e l’illusione meravigliosa ch’esso
genera, finalizzata inevitabilmente ad un risultato di cui piacevolmente sorprendersi.
I fuochi d’artificio di parole di cui parlo sono assimilabili a questi giochi d’illusione, solo che
invece delle mani per stupire visivamente, utilizzano le parole per stupire cerebralmente. Frau
ha avuto questo merito: mi ha stupito prima, intrigato poi.

DOVE SONO LE COLONNE ?


Il libro di Frau propone uno stravolgimento sostanziale della storia antica che passa per la
confutazione della geografia antica del mediterraneo, così come viene oggi accettata da tutti,
lo si capisce già dal sottotitolo: “Come, quando e perché la Frontiera di Herakles/Milqart, Dio
dell’Occidente mediterraneo, slittò per sempre a Gibilterra”.
Sembrerebbe che il tema trattato sia solo uno: la collocazione delle Colonne d’Ercole ma
bisogna ricordare che le colonne sono la metafora per intendere il confine dell’Universo, così
come conosciuto nel mondo antico. Punto focale per orientarsi dentro e fuori dal
Mediterraneo navigato ai tempi di Omero.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 145


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Il punto d’arrivo è quello che si cela dietro le colonne. Per questo bisogna ricordarsi del
famoso filosofo greco Platone (428 a.C. - 348 a. C.), degno allievo di Socrate e a sua volta
maestro di Aristotele, tre “generazioni” che hanno costruito il pensiero occidentale, e di
quello che scrive attorno al 340 a.C. nei "Dialoghi", dando voce ad un suo zio chiamato
Crizia:

“Al di là di quello stretto di mare chiamato Le Colonne d'Ercole, si trovava allora un'isola
più grande della Libia e dell'Asia messe insieme, e da essa si poteva passare ad altre isole, e da
queste isole alla terraferma di fronte ... In quell'isola chiamata Atlantide v' era un regno che
dominava non solo tutta l'isola, ma anche molte altre isole nonché alcune regioni del
continente al di là: il suo potere si spingeva, inoltre, al di qua delle Colonne d'Ercole;
includendo la Libia, l'Egitto e altre regioni dell'Europa fino alla Tirrenia ... Dal mare, verso il
mezzo dell'intera isola, c'era una pianura; la più bella e la più fertile di tutte le pianure, e
rispetto al centro sorgeva una montagna non molto alta ...”.
Le Colonne d'Ercole poste sullo stretto di Gibilterra hanno necessariamente imposto una
collocazione atlantica di Atlantide e dei molti altri miti collocati oltre le colonne. Bisogna però
chiedersi: quando sono state collocate le colonne nello stretto di Gibilterra? Chi le ha
posizionate lì?
La prima sorprendente scoperta è che non vi è corrispondenza tra le descrizioni più antiche
delle Colonne d’Ercole e i dintorni dello Stretto di Gibilterra, dove in tempi moderni si è
immaginato che gli Antichi le ponessero.
Secondo le testimonianze del poeta greco Pindaro, (518 a.C. - 438 a.C.), del più noto
filosofo Aristotele (384 a.C. - 383 a.C.), oltre che quelle di molti sconosciuti marinai che
hanno sfidato il mare tra il V e il III secolo a.C., la zona delle Colonne d’Ercole è una zona di
fondali bassi, fangosi e senza vento. Il che non corrisponde affatto all’orografia dello Stretto di
Gibilterra, profondo quasi quattrocento metri e solcato da forti correnti.
Peraltro il Mediterraneo, tra i 10.000 e i 7.000 anni fa, era ben diverso da oggi, in quei
tempi remoti ci casca a fagiolo pure una bella glaciazione, l’ultima che ha interessato
l’Europa, una di quelle che abbassa il livello del mare di circa duecento metri. Cosa succede a
togliere questi duecento metri d'acqua al Mediterraneo?
Succede che lo stretto di Gibilterra si riduce da una dozzina di chilometri a poco meno di
dieci rimanendo all’incirca invariato. Diversamente succede che la Sicilia si unisce perfino a
Malta verso sud-est, e a Pantelleria, Lampedusa e Lampione, mentre avanza a sud-ovest verso
la Tunisia che a sua volta si protende incontro alla Sicilia meridionale. Tanto da ridurre il
canale di Sicilia, oggi largo circa 150 chilometri, ad un vero e proprio stretto, paragonabile
alle dimensioni di quello di Gibilterra.
Secondo i cronisti dell’epoca presso le colonne c’erano due isole, forse Malta e Gozo, dalle
quali nel 508 a.C. prende le mosse l’impero Cartaginese fondato, secondo una leggenda
romana, nel 814 a. C. da coloni fenici, nei sobborghi di quella che oggi è Tunisi.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 146


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Corrispondono anche le descrizioni che facevano di questa zona, un luogo infido, come
confermato dalle mappe dei fondali del tempo, ricostruite con l’elettronica: tra la Sicilia e la
Tunisia c’era una zona di mare poco profondo, con banchi di sabbia che si spostavano e
conseguente grande pericolo di arenarsi per le navi che passassero di lì senza possedere
informazioni precise e molta prudenza.
In questo luogo ci naufraga, bestemmiando contro il capitano che lo trasporta a Malta,
persino San Paolo, padre spirituale dei Maltesi. Cosa che dimostra che il ristretto canale di
Sicilia è un posto che si adatta alla descrizione degli Antichi più antichi.

DOVE SI NAVIGA ?
In questo Mediterraneo irriconoscibile, deformato dalla glaciazione e claustrofobicamente
rimpicciolito dalla mancanza di tecnologia marinara, Ulisse ci mette una decina d’anni a
compiere la sua famosa “crociera” seguendo le rotte del sole che ne inseguono il movimento
dall’alba al tramonto.
All’incirca la stessa crociera tra Grecia e sud d’Italia che oggi, con una moderna barca a vela
di dodici metri, ho fatto impiegandoci le canoniche tre settimane di ferie. In questo modo
tornando dalla mia compagna che non aveva imbastito nemmeno un fazzoletto, figuriamoci
una tela più ampia come quella di Penelope.
E' credibile che il Mediterraneo orientale, il Mediterraneo pre Miceneo, il Mediterraneo
antico, delimitato ad occidente dal canale di Sicilia, fattosi stretto, possa essere stato il mare
conosciuto, sul quale si affacciavano le antiche culture conosciute, fenicia, egiziana, punica,
greca, romana?
Appena passate le Colonne d’Ercole, ricollocate nel Canale di Sicilia, loro presunta
originaria collocazione attribuibile agli Antichi più antichi, ecco che subito tutta la geografia
arcaica viene squassata e rovesciata.
Oltre lo stretto di Sicilia, le Colonne d'Ercole, l'oceano, l’atlantico, ovvero il mediterraneo
occidentale, si estende inesplorato, periglioso, misterioso, popolato di culture straniere
misteriose: celti, sardi, etruschi.
Ricollocando le Colonne d'Ercole, tutti gli antichi miti rientrano nel bacino del
mediterraneo occidentale: l’illuminata civiltà Iperborea, la ricca città commerciale di
Tartesso, la misteriosa isola di Atlantide.
Tutte le fonti greche che, tra il V e la fine del III secolo a.C., parlano di Colonne d’Ercole,
Platone compreso, vanno lette uscendo da quella tenaglia che c’è tra Capo Bon, fortificato dai
Cartaginesi, sul promontorio vicino Tunisi proteso verso Pantelleria, l’isola di Malta, sempre
sotto il controllo Cartaginese, e Capo Lilibeo, oggi Capo Boeo, vicino Marsala in Sicilia.
Sorta di sbarramento Cartaginese che impedisce ai Greci la via dell’occidente, divisione
netta tra il mondo greco e quello punico, tanto che c’è chi la paragona alla cortina di ferro.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 147


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COSA È UNA CIVILTÀ EVOLUTA ?


I libri di storia delle scuole disegnano la cultura italica come discendente da quella romana, a
sua volta derivata dalla sua ascendenza greca, cultrice della scienza, faro planetario di civiltà.
Si dà per scontato che tutto quello che era prima dei Greci fosse barbarie. Frau traccia una
possibile storia diversa.
I Greci arrivano in Europa verso il 1200 a.C. col nome di Dori. Sono l’ennesima invasione di
allevatori ignoranti e patriarcali. Si comportano da predoni.
A partire dal 4000 a.C. circa, queste orde di allevatori, che fanno della guerra la struttura
base della loro vita, partite dalle steppe dell’Eurasia, si riversano nelle fertili pianure, lungo i
grandi fiumi, per sconvolgere la grande civiltà pacifica che ha colonizzato il Mediterraneo e
vive di pesca, agricoltura e commerci.
Nella maggioranza dei casi divengono dominatori ma sono anche assorbiti intellettualmente
dalla più evoluta cultura dei popoli che soggiogano. Ad esempio: quando i Dori conquistano
Creta trovano tavolette incise con testi scritti, leggi, storie e contabilità dei mercanti. Non
capiscono l’utilità della scrittura e iniziano ad utilizzarla solo quattrocento anni dopo. I Greci
comprendono l’alfabeto solo quando si sono finalmente trasformati da allevatori predoni in
commercianti agricoltori.
Tutte le mirabolanti conoscenze della cultura greca sono il raccogliticcio dell’eredità
matriarcale dei popoli vinti. In particolare la cultura egiziana, che è stata per tutti i popoli
mediterranei una grande fonte di conoscenze scientifiche e tecniche.
Quel che fecero i greci Dori prima, e i Romani poi, è stato nascondere questo debito
culturale consumando il solito rituale dei vincitori di rubare ai vinti anche i loro meriti storici.
Così si arriva al mito di Atlantide: la società perfetta, l’ultimo baluardo dell’Età dell’oro
dell’umanità, quando la pace regnava sul mondo e non era stata ancora inventata l’inferiorità
della donna.
I Greci, dediti alla violenza e alla segregazione delle femmine, che non hanno diritto alcuno
nella loro società, sono affascinati da questa evoluta civiltà che li ha preceduti. Ne resta traccia
nell’Odissea, intessuta di storie di Amazzoni, di streghe e di popolazioni dai costumi
scandalosi come nel caso di Nausicaa. Difficile oggi rendersene conto ma, per i tempi, era un
po’ scandaloso che un re ordinasse alla sua giovane figlia di lavare e ungere uno straniero,
naufrago per giunta.
Sono questi i racconti che facevano eccitare le platee dei benpensanti ateniesi, che tenevano
in grande considerazione la verginità delle loro figlie. Al contrario dei popoli matriarcali che,
come ci conferma anche lo storico greco Erodoto (484 a.C. - 425 a. C.), ancora secoli dopo le
storie di Omero, praticavano l’ospitalità sessuale verso gli stranieri prima del matrimonio, per
ottenere figli più sani mischiando il sangue.
Queste storie di obblighi sessuali presso il tempio della Dea solleticavano grandemente gli
Ateniesi, che applaudivano Erodoto quando bollava Babilonia come città oscena. Non si può

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 148


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però negare che questi popoli matriarcali avessero idee molto chiare sul valore positivo
dell’incrocio il più possibile vario del patrimonio genetico. Evidentemente si erano accorti
che i figli avuti dagli stranieri nascevano spesso molto forti e persino più intelligenti. Anche
perché allora i viaggiatori, per arrivare vivi a destinazione, dovevano essere sani e agili di
cervello, come se i viaggi, nati per il commercio e l’esplorazione, costituissero anche un
grande sistema di selezione e arricchimento della specie.
Sempre Platone colloca il declino della civiltà evoluta di Atlantide circa 9.000 anni prima di
lui. Cos’era a quell'epoca una civiltà evoluta?
Per rispondere serve per forza ipotizzare extraterrestri e diavolerie tecnologiche, o è
sufficiente accontentarsi di una affermata civiltà matriarcale, megalitica, con un livello di
organizzazione amministrativa apprezzabile?

DOV’È ATLANTIDE ?
Tornando alle Colonne d’Ercole, cosa succede se dopo averle spostate seguiamo la rotta che
ci indica ancora Platone per raggiungere l’isola scomparsa di Atlantide?
Prendete una cartina del Mediterraneo e rileggete Platone:di fronte alle Colonne d'Ercole
riposizionate troverete la Sardegna.
Pare proprio, che l’unica isola contro la quale si va a sbattere, in grado di reggere la parte di
Isola Mito, sia proprio la Sardegna. Che in effetti, a ben guardare, ha proprio quella forma un
po’ rettangolare che descrive Platone e, nella parte meridionale, è occupata da una pianura
anch’essa quasi rettangolare, il Campidano.
Isola dotata di una cultura megalitica appropriata ed avanzata per l’epoca, quella nuragica,
con circa 10.000 siti megalitici, di cui 8.000 ancora esistenti.
A ben guardare la Sardegna nasconde da secoli una cultura nella quale, inaspettatamente, ci
sono, ancora oggi, forti tracce matriarcali, tracce talmente importanti che difficilmente si
scorgono altrove in tutto il nostro mare.
Di più, la piana del campidano che da Cagliari si distende in diagonale verso Oristano
risulta, è geologicamente provato, uno sprofondamento sul quale c'è stata una ricopertura di
melma varia. Incredibilmente in questa piana i nuraghi spariscono, possibile siano stati
distrutti dall’ondata di fango generata dal sommovimento della crosta terrestre?

CHI VINCE NEL MEDITERRANEO ?


Resta un quesito: molti segnalano che Atlantide era straordinariamente potente sul mare e
che arrivò addirittura a scontrarsi con la flotta dei Greci uscendone sconfitta. Da nessuna
parte risulta che i Sardi fossero tanto potenti da diventare antagonisti dei Greci sulle rotte del
Mediterraneo, le rotte del sole, che ne seguono il movimento da oriente ad occidente.
Rimane il fatto che prima del 1000 a.C. la situazione del Mediterraneo era contraddistinta da
una Sardegna dotata di un’eccezionale linea difensiva costituita da centinaia di fortificazioni

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 149


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nuragiche. E manufatti sardi sono incredibilmente simili a molti trovati in tutto il


Mediterraneo.
Possibile che ci siano state parentele e alleanze tra i Sardi e gli Etruschi? Altro popolo dalle
origini misteriose e dalle forti tendenze matriarcali.
Viene fuori anche un nome, Shardana, che, in effetti, ricorda molto la parola Sardegna. La
parola SHRDN compare scritta in caratteri fenici su una stele rinvenuta a Nora, indica i
principi di Dan di cui parlano gli Egizi, ovvero gli antichi abitanti della Sardegna.
A questa sconosciuta popolazione si può riconoscere una sorta di progenitore, chiamato
Shardana, Sidi Babai o Babai Sardan dai Cartaginesi, Sardus Pater dai Romani, quello a cui è
dedicato il tempio di Antas.
In questo modo s’intravede una pagina di storia appena percepibile, caratterizzata da una
grande consociazione di popoli matriarcali, che hanno perso la loro caratteristica pacifica,
assediati come sono dalle incursioni degli allevatori guerrieri.
Un’ultima colossale battaglia, forse la prima grande battaglia navale della storia, vinta dagli
allevatori guerrieri, oppone l’alleanza dei Popoli del Mare, capitanata dai Sardi, alla flotta
riunita intorno alle bandiere degli Egizi di Ramses III e dei Greci (Platone si riferisce alle
popolazioni pre Doriche).

COME SPARISCE UNA CIVILTÀ ?


Quando ormai la cultura matriarcale è stata massacrata da millenni di sconfitte, meticciati
culturali e superiorità militare di culture incentrate sulla violenza, l’impero Shardana è colpito
a morte da un maremoto.
Uno “Schiaffo di Poseidone”, scrivono gli Antichi, che fa perdere per sempre ai Shardana
l’energia ed il ruolo propulsore, così compaiono nell’oblio ed i protagonisti della storia
seguente vanno ricercati altrove.
Dopo a nessuno interessa più di tanto andare a scavare nella storia dei Sardi. La Sardegna è
considerata un’isola arretrata, abitata da popoli primitivi e difficili, buona solo per depredarla
delle sue querce e del suo argento.
Che la Sardegna possieda condizioni geologiche necessarie per un bel cataclisma, del tipo
terremoto combinato con tsunami ed eruzione di vulcani sottomarini, lì proprio dove la zolla
africana si scontra con quella europea, è un fatto scientificamente accertato.
Le mitologie sembrerebbero così accordarsi, sia con la realtà geologica, che con le
evanescenti tracce storiche di enormi cataclismi che pare si siano abbattuti: sul Mediterraneo
d’Occidente, dove uno tsunami allaga tutto il Campidano: su quello d’Oriente della Grecia, in
conseguenza dell’esplosione del vulcano dell’isola di Santorini. Per il resto qualche altra
coincidenza segnalata da Frau.
I sardi nuragici, in esilio dopo il disastro, che potrebbero essere sbarcati in Egitto a
costituire la guardia del faraone, dal nome così coincidente, Sardhana;

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 150


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

I fenici, che dopo 300-400 anni colonizzano le coste del sud della Sardegna, che farebbero
ipotizzare un ritorno, piuttosto che una colonizzazione: considerato che sotto ogni città
fenicia, poi punica, poi romana, c'è sempre un sostrato nuragico.
I sardi antichi, che non sarebbero solo i pastori appartenenti ad una civiltà nuragica implosa
all'interno dell'isola, ma anche navigatori, come testimoniato dai bronzetti nuragici di navi e
suggerito dalla disseminazione dei nuraghe costieri, antesignani delle cinquecento torri anti
saracene, che trasformano tutta l'isola in un fortilizio.
La collocazione sufficientemente accurata della città di Atlantide, da cercare a 50-80 metri
di fondo nel golfo di Cagliari a sud, ad una profondità non inaccessibile all’esplorazione
subacquea.
Non approfondisco ulteriormente rimandando al libro di Frau.

VERITÀ O VEROSIMIGLIANZA
Lo stile di Frau è quello diretto e crudo che più mi piace, che miscela riferimenti colti a
battute ed attualità, m’illudo che il mio possa anche solo lontanamente assomigliargli in
qualche modo.
Quello che mi piace delle ipotesi di Frau è che risultano semplici, dotate di quella semplicità
che già sembra essere indizio di realtà e che ne dovrebbe semplificare la verifica.
L’importanza di un’ipotesi e la sua intrinseca semplicità deriva dalla considerazione del
contesto: per questo è necessario assumere la prospettiva, di Platone, Omero ed innumerevoli
altri. Non certo quella nostra, attuale, di gente che in un nonluogo (aeroporto) prende un
mezzo di teletrasporto (aereo) in grado di spostarci ovunque sulla terra istantaneamente
(almeno per gli antichi che ci mettevano il tempo di un’Odissea a navigare il mediterraneo).
Da appassionato battitore della Sardegna potete immaginare quello che ho provato nel
vedere collocare i miei personali luoghi mitici del sud Sardegna Tharros, Nora, Caralis, la
stessa spiaggia di Tuerredda, S.Antioco, Buggerru, Bosa, Barumini, Cala Pira, perfino la
Giara di Gesturi, nel mito collettivo.
Leggendo il libro di Frau ho avuto per la prima volta un rimpianto rispetto alle mie carenze
culturali sul tema dei miti, dell’epica, della storia, delle lingue arcaiche e della filologia: come
si dice rosmarino in sardo ha anch’esso importanza nel quadro collettivo! Peraltro ho trovato
una origine punica nel termine, non solo campidanese, “tzìpiri” che deriverebbe dal punico
“zibbir”, oltre che la più comune origine latina che dal “rosmarinus” in sardo si fa
“rammasinu” o “arromasinu”.
Che m’importa se non è tutto proprio vero! Mi basta che sia verosimile.
La plausibilità mi appaga immensamente, la semplicità del fatto che il Mediterraneo, che ora
è un laghetto, un tempo potesse essere l’Universo intero, misterioso, luogo immenso ed
inesplorato in cui collocare mostri, misteri, culture misteriose, mi è sufficiente.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 151


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Non ho uno specifico desiderio che la Sardegna sia Atlantide, è necessario distinguere
chiaramente tra mito e realtà, e, se pure lo fosse, non mi cambierebbe nulla, né qualcosa di più
della cultura nuragica si arriverebbe a capire.
La mia scelta del resto l’ho già fatta, nessuna opinione mi serve per confortarla o confutarla,
ho scelto quel livello minimo di ragione che si sposasse con l’irrazionale desiderio di credere
in qualcosa, fosse anche solo la Sardegna.
Le infinite polemiche accese dal libro di Frau - forse un autore di diversa nascita sarebbe
stato ancor più convincente, perché meno direttamente implicato - mi sembra abbiano
riguardato, più una storia di invidie tra professori locali che s’interpretano come possessori
assoluti della cultura e storia sarda, che un confronto internazionale ed oggettivo con il
mondo scientifico.
Spero di essere riuscito ad evidenziare l’economia implicita del pensiero di Frau: è tutto lì, è
sempre stato tutto lì, senza necessità di invocare extraterrestri, rotazioni dell'asse della terra
ed altre stramberie come altri prestidigitatori delle parole hanno fatto in libri come “Impronte
degli Dei” scritto da Graham Hancock nel 1995.
Non so se sia realmente possibile ricostruire pezzi dell’Atlantide perduta scavando nella
storia e nella cultura sarda, però trovo le idee di Frau suggestive e seducenti.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 152


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27.Essere nel vento


Capo d’Orso, Gallura! Luce, vento, roccia e spazio

Che è il vento? Possibile sia solo un fluido in movimento, come l’acqua che precipita a una
cascata?
Amo il vento, in esso sovente mi smarrisco, cercando tracce di perduta libertà. Amo il vento,
sentire il vento, essere nel vento.
Per questo probabilmente mi piacerebbe volare, ma non volo. Al contrario di Icaro, che si
affannava con piume e cera, nemmeno utilizzo tutti quei moderni armamentari che oggi egli
invidierebbe, così ricchi di tecnologie evolute: aerei ultraleggeri, deltaplani, parapendii,
paracadute. I materiali della leggerezza e della resistenza, strutture in fibra di vetro, carbonio,
kevlar, tessuti di spinnaker, dracon, cavi di spectra, nailon, mi limito ad impiegarli per
costruire grossi aquiloni: Parafoil, Stratoscoop, Flexifoil, Ala di Rogallo, Wings, soprattutto i
miei preferiti, acrobatici Deltoidi colorati di anche tre metri di apertura alare.
E’ il vento il comune denominatore dei miei divertimenti sparsi su tre dei quattro elementi
aristotelici, manca solo il fuoco: la moto in terra, la vela sull’acqua, l’aquilone nell’aria.
Lo fendo in moto rompendolo furioso, la velocità gli conferisce una piacevole consistenza
che accarezza le guance, titilla le labbra cercando di aprirle come a forzare un bacio.
Lo cavalco imbizzarrito con guizzanti e coloratissimi aquiloni acrobatici, che in esso
disegnano invisibili ghirigori analfabeti.
Lo sottometto in barca durante le mie piccole odissee nel mediterraneo, in cui non ho mai
incontrato Circe e le sirene e, per fortuna, nemmeno Polifemo. Lo addomestico per
mantenere la falchetta, il bordo del ponte della barca, a rigare la superficie dell’acqua
seguendo la rotta, quando riduco la velatura per diminuirne la potenza e il timone si fa duro a
contrastarne la spinta.
Un giorno sbarco in moto di mattina, che è ancora buio, a Golfo Aranci, per un veloce
giretto di quattro giorni in Sardegna, nel pieno della microscopica estate di San Martino.
Punto direttamente a Capo d’Orso, evitando nel tratto finale la provinciale che da Arzachena
porta a Palau. Preferisco la litoranea che costeggia il golfo di Arzachena, gira intorno al Golfo
delle Saline ed infine sale sino a Capo d’Orso. La fatica dovuta alla strada sterrata, poco adatta
ad una moto pesante più di 220 chili, e soprattutto al vento di traverso, proveniente dal mare,
la sento tutta nei polsi e nelle braccia.
La moto ondeggia capricciosa sotto i colpi del vento. Sono in moto nel vento, sono nel
vento. Sui rettilinei, dove allungo la marcia, serpeggio nel tentativo, che a volte fallisce, di
rimanere sul lato corretto della stretta strada deserta. Ogni curva è un’incognita col vento che

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 153


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

gorgheggia, spinge, ritarda, sbanda. La visiera del casco appannata di salso, ormai sollevata,
fischia sotto le raffiche di vento.
Albeggia che sono ancora per strada, il paesaggio dell’isola di Caprera, che emerge dalle
acque scure della notte, mi ricompensa della fatica che avrei potuto evitare.
Sui pochi tornanti che salgono fino a Capo d’Orso, il piacere della moto è definitivamente
consumato dalla tensione della guida con questo vento esagerato. Dietro una curva stretta,
una raffica inusitata mi sbilancia facendomi sbandare, frenare, costringendomi a fermare la
moto sul bordo di questo tornante panoramico alto a strapiombo sul mare gonfio.
Sono spaventato e attendo, sempre in sella, con le gambe tremanti, che l’adrenalina in
circolo si dilegui. Nonostante fermo, sono ancora nel vento. Traballo e sussulto per tenere la
moto verticale al terreno. Sono stupito dalla sferza del vento, dalla sua violenza che mi scuote.
Gli occhiali sotto il casco aperto impiastrati di acqua nebulizzata e polvere terrosa.
Pochi chilometri dopo, percorsi lentamente a causa del fragile ventoso equilibrio, sono alla
base dello stretto sentiero che porta a quelle immense sculture di vento tra cui c’è l’orso.
Parcheggiata la moto, infreddolito, salgo veloce il sentiero per scaldarmi e sciogliere le
gambe intorpidite dal freddo e dalla tensione della guida straziata dalle folate. Pregusto il
consumato rituale che mi attende sulla schiena dell’orso.
E’ questo un luogo sospeso tra roccia e cielo. Un luogo dove la prima assume fantasiose
forme svolazzanti, ora concave, ora convesse, in un succedersi di pieni e di vuoti. Un luogo
dove la retta ed il piano sono un assurdo inconcepibile, tutto giocato in prolifici amplessi di
cerchi, ellissi, parabole, spirali, iperboli. Caotica fusione di curve geometriche mutanti, a
creare una vasta progenie: cerissi e cerboli, ellabole ed ellirali, parissi e parboli, spirchi e
spirabole, iperchi ed iperali.
Sono questi i simboli dell’alfabeto che il vento utilizza per scrivere le sue storie inintelligibili
sulla roccia. Tra queste rocce levigate all’occhio e ruvide al tatto, lavorate a tutto tondo,
assottigliate, infine forate, incessantemente curvate come frammenti della mazza da pelota di
un gigante spagnolo, alligna una macchia rada e caparbia.
Piccoli rigogliosi cespugli che nascondono gli anfratti, suggellano l’incontro delle rocce,
riempiono le cavità più protette. Lentisco, timo, mirto, erica, che combattono la loro
quotidiana lotta contro il vento, che li sradica e gli ruba la poca terra esistente, contro il mare
che, alleato del vento, li brucia di sale, contro la roccia, che frantumano lentamente per
meglio avvinghiarsi.
In questo preciso punto, sull’orso, il più alto del capo, totalmente esposto in tutte le stagioni
ai venti che rendono fameliche le Bocche di Bonifacio, mi piace perdermi nel vento senza più
bisogno né di moto, né di aquilone, né di vele.
In piedi a braccia allargate, sul dorso dell’orso, sorretto dal vento che consente insolite,
inclinate posture, mi sembra davvero di muovermi libero nell’aria turbinante. Ad occhi chiusi,
l’aberrante inclinazione del corpo, i colpi incessanti delle innumerevoli raffiche, corretti da

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 154


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

piccoli, impercettibili, frenetici, movimenti muscolari di braccia e cosce, provocano una


vertigine infinita ed appagante.
E’ una vertigine che ricorda il primitivo, universale, infantile, piacere dell’altalena.
Quell’altalena così protratta e violenta che prima solletica e poi stordisce i sensi. Che
obnubila ed ipnotizza. Che ubriaca e stordisce.
Ad occhi chiusi, nel vento, la mente si apre e si svuota; il corpo impegnato in un faticoso,
microscopico, gioco di coordinamento muscolare; il pensiero vaga impotente e disinibito; il
cervello occupato a cercare tra i sensi sovreccitati precari indizi d’equilibrio.
Nel vento, fronte al vento, a vedere il vento. Vista lacrimosa, ondulata di pianto, piena di
luce. Vista confusa, turbinante d’acqua e d’aria. Colori marini pasticciati col cielo. Vastità
adimensionale ed atemporale centrata sull’io.
Nel vento, percettivi al vento, l’udito riempito da sibili che divengono rimbombi, cacofonia
ululata che elimina qualunque percezione di spazio, distrugge le categorie consolidate del
lontano e vicino, del sopra e del sotto.
Nel vento, spogliati al vento, solleticati dal massaggio invisibile eppure percettibile della
peluria sulla pelle; pelle sensibilizzata dalle raffiche, accartocciata e rasposa per il freddo.
Sensazione di leggerezza e gravità annullata.
Nel vento, respirare il vento, l’odorato tarpato dalla respirazione affrettata, strattonata, a
volte impossibile. Con il muscolo del diaframma teso, impazzito, pronto a bloccarsi
improvviso. Con quell’abbondanza d’aria che invita a gonfiarsi, succhiando il vento,
mordendolo a bocca aperta, sentendolo seccare la lingua, incapaci di espirare quella
moltitudine turbinante. Sensazione d’affogarsi nel vento, continue apnee prolungate.
Dopo un tempo che si è incapaci di misurare si crolla improvvisi. A cercare, nella solidità
immota e possente del granito, l’equilibrio negato. A cercare, girando la testa, rifugio per la
respirazione. A cercare, nella gravità ritornata che ci spinge dolorosamente sulla roccia,
ristoro per i muscoli incordati, intorpiditi ed affaticati.
Sono finalmente in cima, affannato, alla base della ripida scaletta in pietra diroccata che,
adagiata sul fianco dell’orso, porta sul suo dorso. Il fogliame circostante è sconquassato e
disperso in una nuvola di frammenti svolazzanti.
Salire la scala in piedi, così com’è, priva di qualunque corrimano, si rivela pericoloso. Il
quintale che peso è sballottato impunemente da questa tempesta. Procedo carponi a quattro
zampe, afferrando con le nude mani i bordi degli scalini più in alto.
Una volta sul terrazzino roccioso mi acquatto sulla roccia, a pelle d’orso sull’orso, rude
granito sotto le mani. Ora devo alzarmi per compiere il rito, balzare nel vento impetuoso.
Impossibile! Tento prima in ginocchio. Non riesco e mi accovaccio. Con tutto quel vento è
come se quel terrazzino roccioso fosse ancora più piccolo. Ritento dicendomi che la larghezza
del terrazzino è pari alla mia altezza, se pure cado, ci cado sopra.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 155


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Inutile! Mentre mi alzo, sono nuovamente atterrato. Ancora a gambe larghe, piantato,
piegato, tento di estendermi. Paura! Tempo lungo, dilatato. Inizio a percepire che questa
volta non riuscirò ad alzarmi nel vento.
Riprovo inutilmente ad intermittenza, sfiancato da un esercizio così banale, fino a sapere in
tutto il mio corpo, nelle mani grattate dalla roccia, che non mi alzerò ad annullarmi nel vento
immane su quello spuntone. Paura.
E’ la prima volta che mi accade. Frustrato inizio una lenta, misurata e patetica manovra di
discesa. Alla base della scaletta mi riparo per rincuorarmi.
Poco dopo mi getto sotto l’orso, tra le sue zampe, in questa sorta di caverna aperta scavata
dal vento millenario nella roccia. Sotto l’orso è come essere in un tunnel del vento in cui la
mia scarsa aerodinamicità è messa alla prova. Su questo spazio più ampio, rassicurato perché
circondato da pareti di roccia, procedo rasente al granito.
Finalmente mi lancio al centro del tunnel. La giacca da moto aperta come un’ala che tengo
allargata verso il basso, con le braccia tese. Inclinato in avanti, aprendo e chiudendo la giacca,
regolo la mia assurda pendenza. Oscillo su e giù, sbando a destra e sinistra. Piccoli movimenti
che la mente invasa dal vento amplifica in una sensazione di volo. La volta rocciosa che mi
sovrasta incupisce il suono, annulla la luce, limita il paesaggio, rassicura l’equilibrio.
Non è come sopra l’orso, paradossalmente quella moltitudine di massiccia roccia che mi
circonda, che con i propri anfratti arrotondati aumenta la pressione del vento, al tempo stesso
ne attenua il pathos, l’emozione. Sotto l’orso non riesco ad essere nel vento.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 156


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28.Matrimonio
Ussassai, Barbagia! Miti, Riti e Storia, Cibo

La visiera del casco integrale è completamente sollevata per lasciare che il vento mi
rinfreschi e per godere in pieno dei vividi colori di cielo, roccia e prato. Alla velocità
consentita da questa strada tormentata, dal fondo rattoppato, la moto di grossa cilindrata
emette un basso suono regolare che quasi non sento, lasciandomelo subito indietro. Ho
appena smesso di costeggiare il lago del Flumendosa, quello in basso, a sud, ora risalgo verso
l’altro, il lago dell’alto Flumendosa, più a nord-est.
Il giro che ho progettato mi porterà a traversare due delle Barbagie, quella di Seúlo e quella
di Belvì, fino ad arrivare nell’Ogliastra. Il ritmo che la strada impartisce alla guida è il sogno di
ogni motociclista, come un pendolo oscillo ritmicamente tra destra e sinistra. Ogni
oscillazione accompagnata dai gesti rituali e istintivi del motociclista: il leggero colpo di gas
che preannuncia l’entrata in curva, il gioco di frizione e la marcia che scende elevando il
ronzio del motore, il corpo che si sposta di pochi centimetri verso l’interno della curva per
agevolare la piega della moto ed indurre un’automatica e controllata sterzata.
Il tutto, protratto per chilometri, diviene come un gioco ipnotico che pure impegnando al
massimo i sensi lascia il tempo alla mente di assaporare il paesaggio e divagare. La strada è
deserta, come si conviene al massimo godimento motociclistico. Il paesaggio si snoda lento
favorito dal procedere a bassa velocità. Questa giornata è stupenda e ricca di colori.
Sto salendo tra boschi di lecci, purtroppo dolorosamente segnati da incendi passati, verso
Seùi. L’altitudine alla quale mi trovo ed il vento, che si aggiunge a quello fittizio inventato
dalla moto, mi ristorano del calore che già si inizia a sentire in questo maggio inoltrato. Seui,
pressoché deserta, è presto superata, dopo il rio Cànnas continuo a salire in un ampio
panorama delimitato da montagne rocciose, cercando di recuperare l’ipnotica alternanza di
movenze e giri motore.
La salita si accentua ed il fondo che sembra migliorato invita ad un momento di guida più
impegnativa e tirata. Il motore prende potenza ed il paesaggio diviene il corridoio attraverso il
quale precipito il mezzo, ora più furioso. Alle curve la piega aumenta ed ora necessitano
leggere toccate di freno. Il vento fresco d’altitudine e d’ombra si incunea frusciante nel casco
aperto, asciugando le goccioline di sudore sulla fronte. Entrando su brevi, estemporanei,
rettilinei, l’accelerazione tende le braccia avvinghiate alle morbide manopole del manubrio ed
il motore ulula a segnare i rapidi e successivi cambi di marcia.
Dopo pochi chilometri, alla cantoniera Arcuerì, quasi mille metri, posta alla base
dell’omonimo monte che la sovrasta come un bastione, un bivio mi consiglia di ripassare la
mappa. A sinistra una stretta strada montana attraversa le foreste del Monte Tònneri
terminando al lago dell’alto Flumendosa. A destra la statale che sto percorrendo aggira in

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 157


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

discesa il monte Arcueri puntando verso lo stesso lago a chiudere l’anello. E’ deciso, per ora
proseguo per la statale fino a Lanusei, poi a Baunei, sino a Dorgali; al ritorno invece taglierò
per il supramonte, passando per Oliena, Orgosolo, Fonni, fino a tornare al lago alto del
Flumendosa, per prendere l’altra stradina che mi sembra dipanarsi quasi sempre in cresta e
che la carta riporta come panoramica.
Inizio a scendere ancora in un bosco di lecci mentre il panorama si apre sempre più ampio.
Di nuovo con un’andatura pigra, sulla destra rimiro l’accidentato altopiano dei “tacchi” di
Jerzu. I “tacchi”, formazioni paesaggistiche tipiche della Sardegna, sono come torrioni
calcarei isolati. A sinistra una serie di alti cocuzzoli calcareo-dolomitici dai fianchi dirupati,
posti quasi a semicerchio, a delimitare il vallone sottostante. Continuo a scendere verso un
paese posto all’inizio di una valletta costellata di radi lecci. Vedo la strada serpeggiare ripida
in discesa anticipandosi come per farsi meglio affrontare. Il paesino mi è di fronte, Ussassái.
Procedo lento all’ingresso del paese perché una folla rumoreggiante e festosa riempie la
strada. Proseguo in prima, i piedi che danno ritmici colpetti a destra e sinistra per aiutare
l’equilibrio ridotto alle basse velocità. Il calore del motore da 1000 cc sale rapido, lo sento
sulle gambe. Cerco un varco di lato alla folla proseguendo passo passo, sono più io a spingere
che la moto a tirare.
Il casco completa il lavoro del motore surriscaldato, che ora ricorre persino alla ventola
elettrica per meglio abbrustolirmi. Il paesino farà un migliaio di abitanti e sembra che stiano
tutti sulla strada. Continuo a procedere tra la curiosità della folla vociante che mi fissa e non si
muove, non oso suonare le trombe furiose della moto, più che altro previste per le alte
velocità in autostrada.
La situazione si complica, all’attenzione alla gente che richiede un infinita serie di piccole
frenate, ora si aggiunge la necessità di fare slalom tra cocci di tutte le dimensioni che sono in
terra. Sento un caldo terribile, vorrei togliermi il casco, la ventola del motore gira al massimo,
gigantesco asciugacapelli sulle mie gambe, l’alta fascia elastica in vita, essenziale indumento
del motociclista, mi incolla la camicia sudata alla pelle. Ma quanto è lungo questo paesino?
D'improvviso mi si getta davanti alla ruota un giovane con una pila di piatti tutti diversi sotto
un braccio. La frenata è brusca, inchiodo, e la moto affonda sulle forcelle anteriori. Il giovane
festante, per nulla spaventato prende un piatto e me lo tira davanti. Mille punte di ceramica
circondano la ruota anteriore ed i miei piedi puntati a reggere la moto.
Mi arrendo. Spengo il motore, lì dove sono, circondato di gente e cocci. Giù il cavalletto
laterale, moto coricata a sinistra, scendo e subito mi libero del casco.
Chiedo al giovane, che continua a tirare piatti rimirando la moto rosso metallizzata, perché
lo stia facendo.

“Il matrimonio”, risponde.


Mai saputo che per un matrimonio si debbano rompere piatti.

“Vieni, prendi un poco di piatti anche tu, andiamo dietro agli sposi” mi invita il giovane.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 158


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Ma sì, mi lascio coinvolgere, sudato e polveroso afferro una pila di piatti che un altro
compagno, sopraggiunto, mi porge. Abbandonata la moto mi getto all’inseguimento dei miei
anfitrioni incuneandomi nella folla. Intravedo gli sposi da dietro e subito eccomi lì, assieme a
tanti altri sconosciuti, a lanciare piatti nello spazio libero che la folla concede agli sposi
circondati.
Ogni piatto che lancio una ragazza minuta dagli occhi vispi e simpatici si avvicina e,
sorridendo, da un largo canestro di vimini che tiene sotto un braccio, prende una manciata di
cangianti multicolori petali che lancia in aria. I petali eseguono in aria il loro colorato balletto
impazzito, poi scendono come piccole gondole a ricoprire i cocci sull’asfalto nero, a formare
caleidoscopici disegni. Carino! Continuo ad inseguire gli sposi con la ragazza in un
parossismo di rumore di piatti infranti, di silenzio di petali volteggianti, di folla rumorosa ed
augurante.
Di fronte alla casa degli sposi, poco prima del loro tradizionale ingresso, la bianca sposa in
braccio, si esaurisce l’intera riserva di piatti del paese. In un rumore di mitraglia ceramica
esaurisco la mia scorta. Un amico degli sposi traccia con una scopa, tra i cocci, un
provvidenziale sentiero di accesso alla casa.
L’ultima parola spetta alla ragazza. Con i fiori, in silenzio, al tacere magico della folla,
esaurito il crepitio dei piatti, con un rapido gesto si avvicina agli sposi, e, con un colpo al
fondo del canestro sollevato sopra la testa, esaurisce anche lei la sua scorta: una pioggia
colorata di petali ricopre gli sposi sorridenti.
E’ finito! La gente rapida si dilegua e nella strada presto deserta rimango solo, con la moto
in lontananza, il tappeto di frantumi ed il giovane che mi ha coinvolto che mi chiede se mi
sono divertito. Mi sono divertito molto.

La ragazza con i petali ricompare ad offrirci un piatto di culingionis de bentu (ravioli di


vento), gonfi ravioli di oro pallido, ripieni di nulla e forse per questo ripieni di vento,
aromatizzati alla vernaccia ed al fil’e ferru .
La ragazza mi rimedia anche una scopa con la quale disegno il mio sentiero per liberare la
moto. Penso al mio inutile tentativo di fendere la folla, di non fermarmi per continuare ad
andare.
La solitudine del viaggio ed il misticismo della moto sono belli, ma come sottrarsi alla
comunicazione, sia pure fatta di piatti infranti e petali colorati. Riparto ancora accaldato
continuando a pensare agli occhi scuri e furbetti della ragazza con i petali. Ho fatto bene a
fermarmi, il lago dell’alto Flumendosa mi attende.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 159


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Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 160


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29.Riflessioni sul viaggio


Capo coda cavallo di fronte l’isola di Tavolara! Moto, Viaggio

Lo scelto ruolo di volontario Ulisse, mai perso su quel fazzoletto di sassosa ed odorosa terra
che è la Sardegna, mi consente di raggiungere, nel viaggio, e nella solitudine del viaggio, un
pathos profondo che mi provoca lacrime ma anche una pace ed una soddisfazione del fisico e
della mente indescrivibili.

“Come ti va di viaggiare da solo? Non ti annoi? Perché torni sempre in Sardegna? Quei posti
non li hai già visti molte volte?”, sono queste le domande che sovente mi sono poste.
Un giorno di un anno qualsiasi ho conosciuto Giovanni Murro, 96 anni, ha fatto la prima
guerra mondiale. E’ nato a Gadoni e lì l’ho incontrato. Se fossi stato con qualche amico io e
Giovanni al massimo ci saremmo salutati e lui non avrebbe potuto raccontarmi e raccontarsi.
Faceva il minatore, ma non gli piaceva, così per tanti anni ha vissuto in Australia, dove adesso
stanno i suoi tre figli. Lui non ce l’ha fatta a rimanere lontano dalla Sardegna così una
quindicina di anni fa è tornato. Non mi permette di offrirgli nemmeno un caffè per tutti i
preziosi ricordi della sua gioventù. Quando alla fine ci salutiamo alzandoci dal tavolino del bar
dove l’ho incrociato mi guarda sdegnato quando cerco di prendere la tanica d’acqua da dieci
litri per aiutarlo e si allontana barcollando gravato dal peso, bofonchiando di essere in grado
di farcela da solo. Da solo ce la fa!
Non ho alcuna pretesa di astrarmi dalle atrocità commesse in nome del turismo. Rientro
nella dimensione anomala ed avvilente del turista moderno. Ciò nondimeno, soltanto da solo,
per le deserte lande scolpite di macchia, sughero, granito, riesco a raggiungere una pallida
idea del viaggio.
Viaggio concepito come successione di giornate lunghissime, consumate nella fatica, nella
bellezza dei paesaggi, nella ricerca accurata e costante dei marchi antropici imposti dall'uomo
ai luoghi, negli incontri inaspettati, a volte ridicoli, o noiosi, spesso curiosi ed attraenti.
Viaggiare da soli significa mettersi alla prova, rispettare i propri tempi, le proprie esigenze, i
propri interessi. La capacità di riempire totalmente il tempo sta tutta all’individuo, alla sua
curiosità, inventiva, iniziativa, al proprio senso del bello e dell’interessante, alla propria
comunicativa.
Sono questi gli strani esercizi che compio in ogni viaggio in Sardegna. Esercizi di scoperta,
di scambio. Esercizi accompagnati esclusivamente dalle infinite fantasie che la suggestione
del paesaggio evoca, che i sensi solleticati da sole, mare, roccia e vento, urlano. Immaginare
mille altre vite, consumate con altre regole, con altri ritmi, con altre culture, sono queste in
fondo le suggestioni profonde del viaggio.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 161


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

ALL’INIZIO
Dalla fine degli anni ’70, ogni ottobre, organizzo, sfruttando se possibile il ponte dei morti,
un breve viaggetto tra amici, 4-5 persone in tutto. Siamo andati ai Sassi di Matera, sul
Gargano, a Capri, sulla Costiera Amalfitana, a Pienza, a Bagni Vignone, sul lago Trasimeno,
al Parco dell’Uccellina, all’isola d’Elba.
Ogni ottobre propongo agli amici di andare in Sardegna. Non convinco mai nessuno.
Accampano futili scuse per rifiutare: troppo faticoso farsi due traversate in pochi giorni;
d’autunno non si può fare il bagno; senza mare non c’è nulla da vedere; privilegiamo viaggi
più culturali.
Tutte stupidaggini, nessuno degli amici si è mai convinto e io, che sono un essere sociale,
mi adeguo alle esigenze della maggioranza.

UN LONTANO OTTOBRE
Sono due anni che sono in possesso della mia prima vera moto, una Guzzi V35 III. Prima
giravo in vespone, incrociando Nanni Moretti, anche lui in vespone, nello stesso quartiere di
Roma dove viviamo.
Interpellato il solito gruppo di amici, ne trovo solo uno disponibile all’usueto
vagabondaggio, Mauro, per tanti diversi motivi gli altri non accettano la mia proposta di
viaggio. Mauro è un motociclista da sempre come me, lo conosco sin dal mio primo motorino,
quando ci siamo addirittura scontrati che l’avevo appena ritirato, per la foga di ritrovarci
assieme su due ruote. Si decide di partire per la Sicilia, imbarcando da Napoli e scendendo a
Palermo, per percorrere l’intero perimetro delle sue coste.
All’ultimo momento, Mauro si tira indietro, per un accidente che nemmeno ricordo. Ci
rimango male e sto per rinunciare al viaggio.
Ho da pochi mesi fatto 27 anni, è forse quello il momento in cui finalmente capisco che, se
qualcosa la si desidera veramente, bisogna farla, anche a costo di farla da soli. Decido di
partire lo stesso, non per la Sicilia, preferisco tornare in Sardegna, perché nell’avanzata
stagione autunnale ci sono stato poche volte.
Questo è stato il mio primo viaggio in solitaria, in Sardegna. Da quell’anno, per tutti gli
anni, sono tornato in moto da solo nel fuori stagione. Mauro l’ho invitato ogni anno, deve
ancora venire, so che alla fine mi seguirà.
Alla fine del breve ed intenso viaggio sono su una spiaggia di chicchi di riso, piccoli
frammenti quarzosi che accendono il colore dell’acqua, di fronte l’isola di Tavolara, è il 31
ottobre, la sera stessa imbarco da Arzachena per tornare a Roma.
Sono ancora in costume, l’aria inizia a raffreddarsi. Ho il tempo di scrivere una lettera a
Mauro. Scrivo di getto, senza nemmeno rileggere, gli consegnerò la lettera a mano al rientro
in continente. Scrivo del cercare, del fare e del senso di tutto quello che viviamo.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 162


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

LETTERA AD UN AMICO
Quest’anno Mauro mi ha ridato il manoscritto, affinché potessi farne una copia. Sono così
rientrato in possesso di un mio pensiero a più di vent’anni di distanza, come se quel lontano
ottobre, senza saperlo, abbia scritto una lettera per veicolare pensieri nel tempo, invece che
nello spazio.

CERCARE

Caro Mauro, il problema non è da cosa si fugge, è cosa si cerca.

Ci sono due tipi di viaggi: i viaggi per scoprire, come, ad esempio, quelli che abbiamo fatto
assieme in Africa; i viaggi per ritrovare, come questo mio viaggio in Sardegna.

Penso che un viaggio si scelga per quello che si cerca. Ho un amore viscerale ed istintivo per
la Sardegna. Sono venuto ad appagarlo.

Un tempo quest’amore si confondeva e si compenetrava con quello che avevo e che ho, nei
confronti di alcune persone: Bruno, Ugo, Elisabetta, Rita, Rosaria, Giuseppina, Piero, Mario,
Sandrino,Vincenzo, Gavino. Di fatto li ho persi tutti. Tutti loro mi hanno lasciato un regalo
immenso: la Sardegna.

Non sono venuto in Sardegna per rimembrare. Non sono venuto a ricercare persone. Sono
venuto per ritrovare: i fenicotteri rosa che a fine ottobre iniziano a popolare gli stagni, tappa
intermedia del loro lungo viaggio in Africa (oggi i fenicotteri sono diventati stanziali); i
profumi di mirto, lentisco, ginepro, rododendro, finocchio selvatico; la luce, che scolpisce le
mille forme del granito, che lo colora di rosa; il vento, costante, energetico e vitalizzante; le
acque chiare nelle quali consumare bagni rituali d’immedesimazione con l’ambiente.

Sono venuto a commuovermi dell’unione di tutto ciò, a vibrare camminando sulle spiagge
disabitate, a faticare sui chilometri di strade deserte, percorsi, ora lento, ora veloce,
assecondando il mio umore, il paesaggio, la temperatura, il groviglio d’asfalto imposto
dall’orografia violenta.

Sono venuto, solo, in Sardegna, perché non c’era nessuno che cercava le stesse cose. Solo,
perché sono convinto che non basta sentire di saper fare una cosa, bisogna farla. A qualunque
costo, per se stessi, per essere e non vegetare limitandosi a desiderare.

FARE

Non sto fuggendo. Sto riaffermando le mie passioni di sempre, il mio desiderio di partenze
improvvisate, la mia capacità di stare da solo.

Il mio non è delirio di autosufficienza, è la consapevolezza che esaudire certi nostri desideri
significhi realisticamente affrontarli da soli. Troppo rarefatta è la possibilità di condividerli.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 163


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Troppo spesso in compagnia ci si aggrega sul “fare”, piuttosto che sul “dire”; viceversa, da
soli, la ricerca di se stessi, dei propri ritmi, passa solitamente attraverso riflessioni che
prendono la forma del “dire a se stessi”.

Devo ritrovarmi sul “fare con me stesso”, è quello per cui sono venuto in Sardegna: qui ho il
piacere di avere la padronanza completa dell’ambiente, di saperlo girare e, soprattutto, vivere.

E’ come una casa di cui uno conosce la disposizione di mobili ed oggetti. In cui ogni spazio è
dedicato ad un’attività specifica. Così è per me la Sardegna, il piacere di ripercorrerla
continuamente.

Fare il bagno su quella data spiaggia, appisolarsi su quell’altra roccia, leggere un libro di
fronte a quello scenario di archeologia industriale, a quel nuraghe, a quei dolmen, a quelle
domus de Janas, a quelle infinite chiesette rurali e, infine, a quei panorami dove l’uomo ed i
suoi artefatti scompaiono.

ESSERE

Questo lasso di tempo che mi prendo per comprendermi meglio è un momento particolare, è
un momento di benessere, di pace con se stessi. Credimi, la via per il raggiungimento di questo
benessere non deve necessariamente passare attraverso calvari di destrutturazione ed analisi
esistenziale, anni d’introspezione nell’affannosa “ricerca del senso” della propria esistenza.

Questa ricerca è un abbaglio!

Siamo cresciuti nell’onda lunga dell’ideale neopositivistico che assume come suo principale
assioma la coincidenza tra razionalità umana e razionalità scientifica, per cui l'unica forma di
razionalità autentica ha i caratteri fortemente deterministi propri della scienza.

In realtà nessuna nozione meglio di quella di “senso della nostra esistenza” rivela
l’impotenza ed i limiti della ricerca scientifica e, più in generale, del razionalismo, con la loro
ambizione ideologica di fornire una spiegazione a tutto mediante una, più o magari tutte le
discipline e metodologie.

La mia personale “ricerca” di che senso abbia vivere, ha avuto la sua naturale conclusione
nel momento in cui mi sono reso conto che era solo il frutto di quest’assurda pretesa, per cui
tutto vuole una spiegazione.

Non è così! A volte l’ambiziosa “ricerca”, fattasi spasmodica, impedisce di vivere


rilassatamente e godere pienamente quell’esperienza, magari banale, che è l’unica cosa che
può contribuire a costruire il “senso”.

Per questo ho abbandonato l’impenetrabile ed ambiziosa domanda del “perché sono?”,


rifugiandomi nella più umile ed accessibile riflessione di “come sono?”.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 164


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Riferendomi a quello che sono, a come sono, ti assicuro che sono soddisfatto della mia
esistenza, nell’ipotesi semplicistica che uno si meriti di essere quello che fa: il nostro essere è il
nostro fare.

Il mio fare, quindi il mio essere, mi ha portato ancora una volta in Sardegna. Per questo ora
ti saluto, vado a fare l’ultimo bagno. Mi dispiace che tu non sia venuto, Mauro, ti avrei fatto
vedere una Sardegna che non conosci.

Ho appena finito di rileggere la lettera per poterla acquisire sul computer. Ci ritrovo
immutata la passione per la Sardegna e l’enfasi posta sul viaggio per ritrovare e ritrovarsi.
Vent’anni dopo sento ancora di sottoscrivere quello che ho detto. Molte cose ho fatto, non
tanto per cercare il senso, ma per costruirlo con le mie mani. Continuerò a farlo.

UN ALTRO OTTOBRE
Un altro ottobre, di un anno per me particolarmente triste e difficile, qualcuno ha infine
risposto al mio invito ad andare: Giacomo, Pietro e Dario. Anche a questi tre amici, compagni
di viaggio, tra cui, ancora una volta, non c’era Mauro, ho dedicato una lettera che gli ho
consegnato prima di salire sul traghetto.

LETTERA AI MIEI COMPAGNI DI VIAGGIO


Ho sempre collocato la "morte del sole" in qualche giorno disperso sull'equinozio d'autunno.
Quando ancora la fine dell'ora legale marcava inesorabilmente un sabato di fine settembre,
questo non poteva che coincidere con l'evento luttuoso.

Ora che l'espansione di quell'astuta convenzione, chiamata ora legale, ci regala ancora
qualche speranza di luce la morte del sole si dilata, agonia prolungata, malinconia diluita, in
un confine incerto come quello di una costa fratta. Solo ora mi accorgo di avere elevato la
morte del sole ad evento assoluto del tutto estraneo a qualsiasi collocazione geografica.

Nell'incerto umore che contraddistingue il cambio di stagione ho sempre desiderato di


ripartire all'interno di paesaggi disperati in cui disperarsi, che è la stessa cosa di esaltarsi.

Paesaggi all'interno dei quali consumare i propri miti, officiare i propri riti. Paesaggi in cui
librarsi come sciamani in preda agli effetti del fungo pejote. Paesaggi con cui “scopare” per
superare la dicotomia tra osservatore ed osservato, trasposizione concettuale degli ingenui riti
africani di fertilizzazione della terra, che si fonde con la necessità animale di marcare il
territorio.

Strade ritorte ed impolverate, sorta di successione infinita di sipari da attraversare in


silenzio. Grande ottovolante che antropomorfizza il paesaggio, altrimenti intonso ed
inaccessibile.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 165


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Pelle raggrumata, torturata dal contrasto tra il calore della luce ed il freddo del vento. Pelle
recettiva, unico baluardo per differenziarsi e staccarsi cognitivamente dal paesaggio
immanente.

Indispensabile granito: per la bellezza della luce radente sulla sua aspra, scabrosa,
superficie; per le sensazioni tattili così profonde che se ne può trarre raspando alla ricerca del
calore annidato nella roccia dopo una giornata di sole.

Luce limpida, pulita da uno qualsiasi dei venti; luce che dilata la vista, esalta il dettaglio,
rallenta i movimenti e ti preme a terra facendoti pesare addosso tutto il cielo. Sublime
sensazione di agorafobia che affanna il respiro e nell'ossigenata iperventilazione placa i
bisogni e stordisce.

Difficile trovare compagnia per un viaggio del genere, così circondati dalla moltitudine di
menti disgraziate, perché rese sgraziate dall'assenza di curiosità e dalle onnipresenti risposte
stolte. Difficile tornare da un viaggio del genere per immergersi nella claustrofobica realtà,
l'apnea più lunga e più difficile.

Forse è così che si dovrebbe morire, senza lasciare rimasugli organici e segni cabalistici, siano
essi croci, stelle, mezzelune, semplicemente annichilendosi con il paesaggio, avvinghiandosi
con la roccia, perdendosi tra mare e cielo, come se non fossimo mai esistiti.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 166


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

30.Paura
Ingurtosu, Sulcis! Incontri, Archeologia Industriale, Cibo

Mestiere difficile quello del minatore, imparagonabile per fatica e durezza a qualsiasi altro.
Le testimonianze che ho raccolto da vecchi minatori della miniera di Montevecchio, in
incontri sparsi sul territorio della miniera, tra Genna Serapis, Ingurtosu, Naracauli,
Gennamari, Pescinas, sono concordi su diversi aspetti: la repulsione verso l’agricoltura, la
durezza del lavoro, i maltrattamenti dei capi. Tutti i minatori, alla fine, finiscono la loro storia
allo stesso modo: questo lavoro piaceva, per quanto duro e difficile, piaceva.
Nel rimettere insieme le loro parole ho davanti agli occhi un vecchio incurvato e calvo che ho
incontrato ad Ingurtosu, la prima volta che ho visitato questa piccola cittadella mineraria
ridotta a città fantasma. Nella mia memoria ho fatto sue le parole dei molti di cui non ricordo
le facce.

CIBO FENICIO
Il vecchio è seduto sul più alto dei due gradini che danno accesso alla sua povera piccola casa
circondata dai ruderi fatiscenti di altre simili. Vestito di nero su una camicia bianca, mi
colpisce per il suo copricapo, la curva schiena appoggiata alla metà della porta scrostata del
verde che un tempo la colorava, l'altra metà aperta verso l’interno, pozzo di oscurità. Tiene le
mani sovrapposte, poggiate su un bastone piantato in mezzo alle gambe, sopra, a tratti, ci
poggia il mento.

E’ la prima volta che incontro un sardo con in testa “sa berritta”, la berretta, copricapo
diffuso nella zona centrale dell'isola, confezionato in stoffa di orbace o panno di colore nero,
tipico del costume tipico maschile della Sardegna e considerato uno dei suoi simboli iconici.
Vedendomi arrivare in quella tarda ora di pranzo sorride sdentato, più che a me, invisibile
sotto il casco integrale e l’armatura motociclistica, immagino all’evento costituito dall’arrivo
della grossa moto BMW K1000 RT rosso metallizzata che cavalco.
Lo vedo che mi guardo in giro per scegliere dove parcheggiare la moto, non mi fido a
metterla sul cavalletto centrale su quell’acciottolato sconnesso. Alla fine decido di usare il
cavalletto laterale lasciandola sulla fettuccia d’asfalto della strada per Naracauli che taglia la
piazza e subito dopo s’imbianca, quella strada sconnessa che mi porterà sino a Pescinas.
In realtà non è una strada ma quello che resta della massicciata segnata delle lignee
traversine del vecchio binario per il traino del minerale, raffinato nella laveria di Naracauli,
sino ai magazzini sulla spiaggia, in moto sarà una tortura.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 167


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Dalla spiaggia di Pescinas un tempo, prima della costruzione del molo ora insabbiato, le
bilancelle caricate a mano con le cofane portavano il minerale sino all’isola di San Pietro dove
era trasbordato su capienti piroscafi a vapore per il trasporto sino in continente.
Il vecchio segue interessato il rituale dello spogliarello motociclistico conseguente ad ogni
fermata: via casco, guanti, giacca, cintura elastica in vita.
Vorrei cercare un bar per bere qualcosa prima di visitare velocemente il paese abbandonato
e ripartire per i ruderi.
Sulla piazza solo io e il vecchio. Mi avvicino per chiedergli di indicarmi un bar. Sorride
ancora al mio movimento diretto verso di lui; quando gli sono sotto, in piedi, alto come sono,
mi sembra piccolo piccolo. Vicino a lui sull’acciottolato due sedie impagliate. Una vuota,
sull’altra un piatto con avanzi di cibo.
Nemmeno risponde alla mia domanda, sempre sorridendo scuote la testa per segnalare
l’assenza di un bar. Poi girata la testa verso la mezza porta aperta della sua casa con una voce
inaspettatamente forte dice qualcosa veloce in dialetto. Non capisco. Poi giratosi nuovamente
a guardarmi in faccia mi dice in italiano di sedermi.
Mi accomodo sull’unica sedia libera. Il lamento scricchioloso del vecchio legno di cui è fatta,
provato dal mio peso non indifferente, non mi rilassa del tutto. Tante volte in vita mia mi è
capitato di distruggere sedie e cadere rovinosamente a terra.
Poco dopo sull’uscio compare una donna, come il vecchio vestita di nero, di età indefinibile,
sono propenso a immaginarla sua moglie quando l’apostrofa come figlia, gli chiede di
portarmi dell’acqua e qualcosa da mangiare. La donna obbedisce compunta, libera la seconda
sedia dal piatto sporco e scompare dentro casa.
Ricompare poco dopo, con una grosso vaso di terracotta, dall’imboccatura stretta e due
manici, di quelli che una volta le donne portavano sulla testa. Una brocca che se la lasci al sole,
trasuda acqua che evaporando raffredda quella contenuta all’interno. La poggia in terra vicino
a me e scompare di nuovo in casa.
Ritorna con un bicchiere e un piatto che mi porge entrambi, poi si siede sull’altra sedia. Il
vecchio è rimasto in silenzio.

Prendendo il piatto che contiene, mi sembra, una pietanza a base di pesce, ringrazio confuso
dell'ospitalità. Poggiato il bicchiere a terra vicino al vaso, seduto su quella precaria sedia,
all’aperto, di fronte alla casa sulla piazzetta, mangio in silenzio sotto lo sguardo indagatore dei
miei generosi ospiti. E’ pesce, sicuramente, non saprei dire quale, è un piatto salato e ricorro
all’acqua fresca contenuta nel vaso .
La figlia mi spiega che lei vive ad Oristano in cui i vicini stagni di Cabras sono usati da
sempre per l’allevamento del muggine, quel pesce grigio plumbeo, dalla nuotata scattante,
grasso e saporoso che a Roma chiamiamo cefalo per la grossa testa.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 168


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Il piatto che mangio, cucinato da lei, è una antichissima ricetta di Oristano che a suo dire ha
origini addirittura fenicie e di cui suo padre è molto ghiotto, “sa mrecca”. Il nome stesso
significherebbe “cibo conservato sotto sale” o “cibo salato”.
Mi spiega che il muggine appena pescato è fatto bollire per circa mezz’ora, aggiungendo una
quantità di sale calcolata in base al giorno della consumazione: più aumentano i giorni e più
aumenta la dose del sale. Quello che mangio l’ha cucinato quattro giorni fa. Dopo aver
ripulito il muggine, il pesce si mette su un piatto rivestito di “zibba”, un’erba palustre a foglia
piccola e carnosa che cresce vicino agli stagni, che permette di mantenere il giusto grado di
umidità. La parte più delicata della preparazione è l’asciugatura del pesce: sua nonna materna
sosteneva che il pesce deve asciugare nelle notti di luna piena, quando l’aria è più asciutta,
perché si rassoda meglio, proprio così lei ha fatto.

Sono scettico sulla luna e stupito. Un’amica di Baunei mi ha raccontato di “su seleniu”, delle
notti di luna piena, per cui in Sardegna si crede da sempre che l’esposizione alla luce della
luna di carni o altre sostanze organiche ne acceleri la decomposizione. Qui a Ingurtosu la luna
sembrerebbe funzionare al contrario.
In ogni caso è la prima volta che mangio pesce di quattro giorni ma sento integra la sua
saporosa freschezza. In poco tempo spazzolo tutto con gusto.
Non so come ricambiare, offrire del denaro sicuramente li offenderebbe, mi viene in mente
che ho degli eccellenti sigari toscani particolari, fatti a mano, appena usciti in commercio.
Chiedo al vecchio se gradirebbe provare un nuovo tipo di sigaro toscano, il baluginio eccitato
degli occhi anticipa la sua affermativa risposta.
Vado alla moto a prendere il mio portasigari e offertone uno al vecchio colgo l’interesse
anche della figlia, ne offro uno anche a lei che accetta volentieri senza farsi pregare.
Ce ne stiamo lì, il piatto vuoto a terra con la brocca ed il bicchiere, tutti e tre a fumare
lentamente, paciosamente, toscani originali, nessuno di noi li ha ammezzati, dall’aroma ricco
e intenso, di sapore eccellente e buona forza. Lo stomaco pieno e un sigaro maturo donano
sensazioni capaci di creare la situazione ideale per conversare piacevolmente.
  Il vecchio non s’accontenta della mia offerta, ha un’altra insolita richiesta, mi chiede di
raccontargli una storia, una qualsiasi a mio piacere.
Ispirato dal pesce appena mangiato gli racconto di quando ho scoperto il “tesoro” della
tonnara abbandonata dell’isola di San Pietro. Si divertono entrambi, padre e figlia.
Quando finalmente taccio il vecchio mi dice che ora tocca a lui raccontare.

APPRENDISTATO
“Anche se uscivo da casa prima dell’alba, anche se trascorrevo più tempo in miniera che con
la famiglia, mi piaceva lavorare in miniera. Mi piaceva perché mi faceva sentire come una
piccola parte importante di un meccanismo nuovo, che nessuno dei lavori del passato riusciva

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 169


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

ad avvicinare. Mi piaceva perché mi dava la sicurezza di una paga che, per quanto povera,
era sicura diversamente dall’incertezza dei raccolti e del clima legata al lavoro della terra.

Mi ci è voluto coraggio per andare nel cuore della terra a lavorare. Lontano dalla luce del
sole, avvolto dalla polvere. Con poca aria a disposizione, esposto al caldo ed ai rischi di
questa vita. Il primo impatto è stato duro, con la voglia che immediatamente m’ha assalito
d’uscire da un luogo d’inferno.

Piano piano è nato con la miniera un legame molto forte, indissolubile che mi ha reso difficile
lasciarla. Un po’ mi sono rassegnato a lavorarci, un po’ mi sono adattato al punto di
abbandonare l’idea di avere un lavoro diverso.

Avevo paura, ora penso che fosse normale, sembrava che ad ogni rumore la miniera stesse
crollando. Qualcuno giovane come me non ce la faceva a sopportare la paura, più fragile di
fisico o di spirito, abbandonava la miniera per non rovinarsi la salute o la stessa vita.

C'erano i presuntuosi che ritenevano di saper tutto, non si preoccupavano di prendere


precauzioni , sempre venivano puniti dalla “montagna assassina”, come qualcuno definiva la
montagna in cui la miniera è scavata.

Per me è stato necessario imparare a convivere con questa naturale paura, altrimenti non
avrei potuto stare lì dentro. Il tempo mi ha insegnato ad ascoltare la montagna, a
comprenderne i sussulti, a capire da dove proviene il pericolo, ad evitarlo.

Mi sarebbe stata utile qualche forma di apprendistato che m’insegnasse le rudimentali


tecniche del lavoro nel sottosuolo ma non esistevano corsi d’insegnamento o libretti
d’istruzione per lavorare in miniera. C’era soltanto il mio spirito d’osservazione, l’intuito nella
percezione dei pericoli e l’esperienza che cresceva col tempo.

Quando sono divenuto un minatore esperto, sapevo esattamente come muovermi nelle
gallerie, preparare l’esplosivo, evitare di essere colpito dai detriti. Ero attento, giudizioso,
riflessivo. Lo sono diventato non per aver frequentato una scuola ma perché ho osservato come
lavoravano i minatori più anziani di me.

Chiedevo ai più esperti di aiutarmi ad apprendere il lavoro, offrendomi di fare il lavoro sotto
la loro supervisione. Gli anziani della miniera si preoccupavano di rassicurarmi sulla tenuta
delle gallerie che loro stessi avevano scavato ed armato. Mi spiegavano che se cadeva polvere
dal tetto era segno che questo si stava incrinando e che, dopo qualche giorno, la coltivazione
sarebbe potuta crollare.

Quando a mia volta sono diventato esperto, negli ultimi anni di attività della miniera, i
giovani minatori erano diversi da come ero stato io: erano incompetenti, poco propensi ad
imparare ed orientati invece ad accattivarsi le simpatie dei padroni; anche i direttori e i
capisquadra mi sembravano più superficiali. Una miscela esplosiva d’incompetenza che
aumentava il pericolo ed il rischio d’incidenti.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 170


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Negli ultimi anni d’attività le cose non funzionavano alla perfezione, vi erano molti aspetti su
cui si poteva fare di più. Se si fosse raggiunta una più elevata organizzazione interna,
limitando gli sprechi e le perdite di tempo, la produzione sarebbe stata migliore.

Purtroppo quasi tutti i tentativi fatti, all’epoca in cui la miniera era ancora attiva, per
migliorare gli aspetti tecnici non hanno condotto ai risultati sperati. L’opportunità di
introdurre migliorie è arrivata troppo tardi per la miniera che ha chiuso”.

Il mio sigaro è finito, come quello della figlia, il suo si è spento poco curato dalle parole. Mi
alzo dalla sedia che pure non ha ceduto come temevo. Ho un ultimo regalo per il vecchio,
nella borsa laterale sinistra della moto ho la stampa dell’abbozzo di un racconto sulla prima
miniera che ho visitato, l’Argentiera. Vado a prenderlo per darglielo, questa sera glielo
leggerà la figlia come se gli regalassi un nuovo racconto di cose, io devo andare a massacrarmi
i polsi sulla pesante moto non adatta alla sassosa strada che mi aspetta sino alle dune di
Pescinas.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 171


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 172


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

31.Il nipote del dottore


Buggerru, Sulcis!Incontri, Archeologia Industriale, Miti, Riti e Storia, Libri

Lavoro già da diversi anni in quel settore di mercato che oggi tutti chiamano Information
Technology. Ho appena cambiato azienda, facile per un giovane sufficientemente bravo e
volenteroso che voglia fare carriera in questi anni fortunati di boom dell’informatica.
Nella nuova azienda il primo giorno mi accoglie un signore canuto dai capelli folti e
bianchissimi e dal cognome inequivocabilmente sardo, Diana. Lo saluto con l’appellativo di
“default”, di prammatica, di Ingegnere che non disdegna, facendomi così credere d’averci
azzeccato, interpretandolo come il dirigente dal quale dipenderò.
Mi conduce alla mia scrivania e mi fornisce le spiegazioni minime relative alle prassi
aziendali: uso del badge, orari di lavoro, modulistica varie, organizzazione e dislocazione delle
funzioni aziendali. Lo tratto rispettoso dandogli del Lei come la mia gioventù e il suo capello
bianco, la presunta dirigenza, il suo e mio ruolo aziendale, richiedono.
Il giorno dopo, conosciuti gli altri colleghi, tutti si fanno matte risate del mio ossequio nei
suoi confronti, è solo l’uomo factotum dell’azienda, senza una specifica mansione, un poco a
disposizione di tutti ma soprattutto del Presidente dell’azienda. Non è ingegnere e nemmeno
laureato, non sa un tubo di informatica, perché sino a pochi anni fa ha fatto il sottufficiale di
marina imbarcato su navi commerciali porta container con le quai ha girato il mondo. Ho
azzeccato solo sull’origine del cognome, è sardo, di Buggerru per l’esattezza sulla costa
occidentale sarda, nel Sulcis.
E’ da poco che ho visitato Buggerru, intrufolandomi nella vecchia diroccata laveria posta sul
fianco della collina che scende a mare all’ingresso del paese minerario. Da lì sono sceso verso
la miniera di Masua, all’epoca ancora aperta ma con l’attività estrattiva già cessata. La visibilità
dei siti di archeologia industriale come la “Galleria Henry” e “Porto Flavia” di là da venire.
Così rincontrando Diana, per rompere il ghiaccio, gli parlo dell’entusiasmo, della
suggestione, che queste recenti visite mi hanno provocato. Gli spiego come stia cercando di
capire, studiare, la storia delle miniere, incluse le condizioni di lavoro dei minatori.
Scopertomi appassionato di Sardegna e di miniere, il suo fare distaccato, che tanto mi aveva
messo in soggezione, muta radicalmente. Si passa a darci del tu, ovviamente su sua iniziativa,
il solo confermato capello bianco lo richiede.
Per prima cosa mi chiede se conosco la spiaggia di Cala Domestica. Debbo confessare la mia
ignoranza, nell’andare da Buggerru verso Masua ho visto il bivio ma l’ho ignorato non
immaginando ci fosse nulla d’interessate.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 173


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Mi rimprovera bonariamente raccontandomi di questa spiaggia meravigliosa che era la sua


preferita nei dintorni. Situata tra bianche falesie calcaree, circondata da piccole dune
punteggiate da una ricca vegetazione, sormontata a sud da una solitaria torre spagnola.
La spiaggia reca i segni della zona mineraria in cui si colloca: rovine di magazzini e depositi
di minerale che aspettava di essere caricato sulle bilancelle, piccole barche a vela latina;
gallerie scavate nella roccia, sempre per il trasporto del minerale su carrelli trainati da asini e
muli, come quella che conduce alla cosiddetta Caletta, spiaggetta appartata in cui a primavera
sfocia un un torrente che l’estate secca.
Prosegue raccontandomi della sua infanzia a Buggerru. Mi racconta che suo padre e, prima
ancora, suo nonno, sono stati i medici condotti del paese e m’introduce all’epoca d’oro di
Buggerru che, nata come città mineraria nella seconda metà dell‘ ‘800, coincide con il
periodo a cavallo del successivo passaggio di secolo quando, in concomitanza del periodo più
florido delle miniere, la popolazione supera le 5.000 persone, già ridotte alla metà durante la
sua infanzia ed oggi limitate a poco più di un migliaio.

Ricorda che suo nonno gli diceva che, all’inizio del secolo, il paese veniva chiamato “petite
Paris” perché ospitava la sede operativa in Sardegna della Societé des mines de Malfidano di
Parigi, cosa che creò nel villaggio minerario un certo improbabile ambiente culturale, dovuto
all’immigrazione dei dirigenti minerari e delle loro famiglie, e addirittura l’apertura di un
cinema, un teatro ed un circolo, quest’ultimo strettamente riservato alla élite dei dirigenti
della società francese.
Sempre il nonno, osservatore privilegiato nel suo ruolo di medico condotto, gli ha parlato
delle condizioni disumane in cui vivevano i minatori e della loro vita: logorante, per gli orari
dei massacranti turni di lavoro nelle gallerie e dentro i pozzi; precaria, per l’assoluta mancanza
di contratti di lavoro; povera, per l’avidità dei gestori delle cantine e degli spacci che
assorbono interamente la misera paga dei minatori; pericolosa, per i numerosi incidenti
mortali sul lavoro.

ECCIDIO
Il nonno è stato anche un diretto testimone dell’eccidio consumato a Buggerru nel 1904 di
cui, quando Diana me ne parla, ancora non sapevo nulla. Gli raccontò che, a seguito
dell’inasprimento delle condizioni di lavoro, imposto unilateralmente dal direttore delle
miniere, i minatori si rifiutarono di lavorare proclamando lo sciopero, il quarto in Sardegna,
dopo quelli di Lula nel 1899, di Buggerru nel 1900 e di Montevecchio nel 1903, per
presentare le loro rivendicazioni.
Per tutta risposta, ignorando del tutto le legittime richieste, il direttore delle miniere
richiese ed ottenne l’intervento dell’esercito del giovane Regno d’Italia. Esercito che, al
montare dei tafferugli, fece fuoco sugli operai uccidendone tre e ferendone molti altri.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 174


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Ho trovato una descrizione del tragico quadro tracciato dal nonno del mio collega Diana in
stralci tratti dalle lettere e memoriali che si trovano raccolti negli atti della Commissione
d’Inchiesta Parlamentare successivamente voluta dall’on. Turati.

“Ci troviamo alloggiati in misere capanne coperte di terra che, quando piove, c’è pù acqua
dentro che fuori, e siamo sempre in pericolo di pigliarci un malanno, facendoci pagare
mensilmente l’affitto; e in questo punto chiediamo di essere esclusi da questo pagamento; ché
eccetto poche eccezioni gli alloggi sono tutti di proprietà amministrativa.

I prezzi dei viveri alimentari di cantina sono pessimi ... e poi sono molto raffinati sul peso ...
che ne rubano anche l’anima del mondo. Il pane certi giorniè buonissimo; ma quando toccano
a farlo fare cattivo non ne mangiano nemmeno i porci, oltre i cristiani della terra ... I signori
commessi di cantina non mancano, potendo, di esercitare le loro piccole angherie e ruberie.
Difatti non è raro il caso di un operaio che non sa leggere e scrivere, che quando ricorre ad un
individuo che possa leggergli il libretto e dirgli quanta spesa ha fatta, senta dirsi che abbia
preso il doppio di quanto effettivamente ha preso.

Da processi fatti a Cagliari risultò che un sigaro invece di essere notato per lire 0,10 era
notato per lire 0,12 ma l’autorità giudiziaria ritenne non esservi gli estremi di reato. Tutti
tendono a sfruttare nel modo più vergognoso i lavoratori. S’infliggono continuamente delle
multe, una volta si faceva pagare il sigaro 15 centesimi, mentre costava 10 ... Tutti gli operai
sono indebitati verso la cantina, sui prestiti in denaro pare si faccia pagare l’interesse del 120
per cento ...

Anche le bestie, in genere, hanno il privilegio che nelle ore di mangiare godono di un minuto
di riposo, mentre noi altri che apparteniamo alla classe degli esseri ragionevoli non possiamo
godere di questo privilegio, poichè ne siamo dai superiori severamente proibiti. Nella laveria di
Seddas Moddizzis si lavora undici ore consecutive e cioè dalle sei della mattina alla cinque
della sera (mentre in tutti gli altri posti si lavora 10 ore soltanto) e l’operaio è costretto a man-
giare quel tozzo di pane mentre lavora, avendo per companatico polvere di calamina o di
minerale ...”.
Sono state queste le cause che portarono gli operai alla indignazione e alla ribellione.
L’eccidio di Buggerru, tragico epilogo di una legittima azione di protesta, sollevò
l’indignazione della classe operaia italiana generando, qualche giorno dopo, la proclamazione
del primo sciopero nazionale. Un articolo intitolato "Una domenica di sangue" del giornale
"La Primavera umana" del 18 settembre 1904, riferisce la cronaca dei fatti.

Era fatale. Era inevitabile. Il Direttore di Buggerru … aveva sete di sangue, e sangue ebbe
finalmente, il disgraziato, il quale nei suoi operai vede la massa brutta che il capitalista può
sfruttare impunemente ed impunemente frustare, senza concederle neanche il piccolo e
meschino diritto della protesta.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 175


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

… oh! si, Signor Georgiades (Direttore della miniera di Buggerru), turco di nascita e turco
d’anima … i sei figli del povero Montixi, il figlio non ancora nato del povero Littera, il dolce
bimbo, che, a giorni, vedrà la luce e non avrà il conforto delle carezze e dei baci paterni,
saranno sempre – spettro terribile – tra voi ed i vostri piccini, i quali – belle ed innocenti
creature come quelle degli assassinati – non sappiano mai – l’auguriamo proprio di cuore alla
pura santità della loro infanzia – non sappiano mai che voi, loro padre, siete un assassino.

Come si svolsero i fatti: ecco, brevemente. Gli operai erano oramai stanchi delle prepotenze e
delle vessazioni ... Non contento di tutte le prepotenze da lui fatte, non curante del malumore
che il personale nutriva contro di lui, ultimamente il signor Georgiades intendeva imporre agli
operai, che lavoravano all’esterno, un nuovo orario, che violava antichissime abitudini,
sempre seguite nella miniera.

Orbene, il Direttore pretendeva imporre l’orario invernale col primo di settembre. Gli operai
si ribellarono a questa pretesa. Essi osservarono che, per i grandi calori estivi, erano
indispensabili tre ore di riposo, durante quella parte della giornata, in cui il caldo è eccessivo,
indispensabili specialmente ad operai, che devono lavorare all’aperto, sotto la sferza del sole.
Inoltre essi osservarono che col nuovo orario avrebbero lavorato un’ora in più.

Fu formata subito una Commissione operaia, la quale, accompagnata dal Cavallera, dal
Battelli e dalle autorità, doveva conferire con il Direttore, che – freddo, impassibile,
provocante – resisteva a tutte le preghiere ed a tutti i consigli delle stesse autorità su dette. La
Commissione si recò dal Direttore. Una grande folla, l’immensa maggioranza della
popolazione, seguì la Commissione, fino alla Direzione. Battelli rimase con la folla, per
mantenerla calma. Salivano alla Direzione – posta presso alla riva marittima – le cupe voci
del mare, a quando dominate, soffocate dai lenti, profondi, terribili ululati della folla
impaziente.

Ad un tratto si ode, distinto, il tonfo di pietre, scagliate con forza. Era la sassaiola. Poi, acute,
fischianti, ininterrotte, una ventina di fucilate. Era l’eccidio! Il sangue proletario innaffiava
anche questa arsa ed infelice terra sarda; il sangue di poveri bagnava Buggerru. Tre furono i
minatori rimasti uccisi.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 176


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

32.Silicosi
Corongiu, Barbagia di Seui! Archeologia Industriale, Libri

Nell'isolata Barbagia, precisamente nel territorio di Seui, il Della Marmora scoprì una
miniera di antracite, la miniera di Corongiu, che nel 1877 fu data in concessione ad un gruppo
di imprenditori, ai quali subentrò la Società di Correboi, col barone e parlamentare Andrea
Podestà.
Costui si fece promotore, in Parlamento, della realizzazione della ferrovia ogliastrina che,
con la costruzione di una stazione nei pressi della miniera, riduceva il problema del trasporto
del carbone estratto.
La Società di Monteponi che prese il controllo della miniera, si trovò di fronte ai gravi costi
di trasporto del carbone che doveva essere utilizzato nelle caldaie dei suoi impianti. Per la
Monteponi era più conveniente acquistare il carbone dall'estero utilizzando per il trasporto i
mezzi marittimi.
Nella prima guerra mondiale s’incrementò la produzione e venne costruita un'imponente
laveria.
Nel 1936 la miniera di Corongiu fu acquistata dalla Compagnia Mineraria Veneto-Sarda, che
riuscì a incrementare le produzioni, grazie al favorevole momento dettato dall’autarchia
proclamata dal governo fascista.
Si fecero numerose ricerche e si approfondirono le discenderie. Si estraeva l’antracite non
solo nella zona di Corongiu, anche a Ingurtipani, nel comune di Seulo, inviando il materiale a
Cagliari per essere impiegato sulle navi da guerra.
Terminata l'emergenza della guerra, che aveva reso conveniente la coltivazione di un
giacimento così disagiato, la miniera evidenziò i suoi limiti di anti-economicità. Gli alti costi
dovuti all’isolamento e l’esaurimento dei cantieri più ricchi, costrinsero alla chiusura della
miniera: la revoca della concessione avvenne nel luglio del 1964.
Ho visitato la miniera di Corogiu molti anni dopo la sua chiusura. I pozzi già chiusi per
sicurezza, poche le infrastrutture di superficie, meglio conservata la vicina laveria di San
Sebastiano, diroccata e sommersa dalla vegetazione rigogliosa che ha avuto il sopravvento.
Costruita in stile liberty nel 1916, adiacente alla ferrovia a scartamento ridotto per il
trasporto del minerale raffinato che arrivava ad Arbatax. Costruzione imponente di quattro
piani in cemento armato, con grandi finestrature, da un lato un edificio a due piani, dall’altro
una sorta di torretta. All’interno, al piano terra, si possono ancora vedere le vasche di raccolta
dell’acqua, al primo, le celle di flottazione, sono ormai persi i mulini di frantumazione ed i
crivelli. Conservo tutt’ora un pezzo di antracite che vi ho trovato.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 177


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Interessato alla miniera, dopo averla visitata, sono entrato in contatto con una ragazza di
Seui che si è laureata in Ingegneria con una tesi sulla miniera.
Grazie a questa tesi ho scoperto che dal 1922 al 1962 il medico condotto che ha assistito i
minatori della miniera di Corongiu è stato il Dott. Demetrio Balliccu.
Una testimonianza diretta la sua, che immagino interessantissima ma di cui non sono
riuscito ad entrare in possesso, riportata nel libro che ha scritto: “Miscellanea: alcune
cianfrusaglie di indole letteraria e scientifica approssimativa abborracciate dal medico
condotto di un piccolo centro di montagna”, Fossataro, 1975.

Il medico fu testimone di casi di infortuni e di morte lungo tutta la vita della miniera. A lui
l’ingrato dovere di rispondere alle chiamate dalla miniera a qualsiasi ora del giorno o della
notte. A lui il doloroso compito di fare i conti con la silicosi, la malattia dei minatori. Una
sorta di testamento.
Oggi che la silicosi è pressoché sconosciuta, anche se l’INAIL riferisce di circa 600 casi
l’anno nel periodo 1999-2002, propongo un breve ma vivido testo tratto dal libro del medico
condotto e riprodotto nella tesi:
“Parecchi di loro che formano non un gruppo sparuto ma una nutrita falange si trascinano,
miseri ruderi umani, tristi con passo malsicuro e titubante sotto il peso non degli anni ma degli
acciacchi e delle sofferenze causate dalla funesta silicosi, mentre il mio cuore pulsa con
regolarità fisiologica e i miei polmoni respirano a pieno regime.

Non voglio, non posso dimenticare queste vittime del lavoro. Li terrò sempre presenti nella
memoria insieme con altri minatori i quali in condizioni di completa efficienza fisica perirono
sfracellati, schiacciati dalle frane nelle miniere di Corongiu.

In un periodo gli infortuni nelle gallerie di quella miniera si susseguirono con ritmo pauroso,
tanto impressionante che i familiari di una delle vittime, nel parossismo della costernazione,
fecero scolpire sulla lapide del loro congiunto una scritta che incute orrore e induce a meditare:
“L’ha ucciso la miniera assassina” .

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 178


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

33.Cernitrice
Corongiu, Barbagia di Seui! Incontri , Archeologia Industriale

Nel corso del mio trentennale peregrinare per miniere ho incontrato tanti ex minatori,
alcuni già ottantenni all’inizio degli anni ’80. Non ho mai pensato a fare delle interviste vere e
proprie ma l’interesse per quello che mi veniva detto era tale che mi sono sempre trovato a
travolgere questi preziosi interlocutori con l’entusiasmo delle mie domande. Non ho
incontrato reticenze ma anzi grande piacere del parlare del loro vecchio lavoro. Lasciati questi
interlocutori buttavo giù appunti delle cose dette, perché temevo le avrei scordate.
Molto più difficile accedere alle donne che pure hanno lavorato in miniera. Solo con una ho
avuto il privilegio di parlare, Rita.
L’ho incontrata in una luminosa mattina d’inizio aprile quando aveva 64 anni. Piccola,
vestita di scuro, mani gentili nonostante la loro ruvida durezza plasmata dal lavoro. Il freddo
pungente le faceva tenere la testa avvolta in un fazzoletto, chissà, magari l’avrebbe tenuto
anche in agosto. Disponibile, per nulla intimorita dal gigante di quasi due metri che sono,
parlava degli anni duri della sua vita in miniera che le hanno fruttato innumerevoli ricordi e
sofferenze. All’epoca viveva con la sua pensione perché diceva “quella me la sono lavorata” e
metà di quella del marito, che già non c’era più, minatore morto di silicosi insieme a tanti altri.
Quando molto più tardi ho avuto il primo cellulare, l’unica foto che vi ho inserito non è stata
quella di mia figlia, piuttosto quella di una sconosciuta cernitrice della miniera di
Montevecchio dell’inizio del secolo scorso.
Mia figlia ancora non si è mai capacitata di questa mia inusuale scelta. Quello che di seguito
scrivo cerca di ricostruire il racconto di Rita, l’unica donna che ho conosciuto che abbia
lavorato in una miniera, di carbone per l’esattezza.
Mi servirà anche per cercare di far capire alla mia stupita figliola cosa significava lavorare
come donna in epoche meno fortunate dell’attuale. Spero possa capire prima di avere l’età in
cui ha iniziato a lavorare Rita, la cernitrice che mi ha raccontato.
“Ho iniziato a lavorare nella miniera nel 1949, avevo 19 anni che all’epoca non voleva dire la
maggiore età, ci ho lavorato per otto anni. All’inizio il lavoro è stato duro, molto faticoso
perché non c’erano i “mezzi”. Il carbone si trasportava dalla miniera alla laveria con i carri,
dopo hanno costruito le strade e introdotto le macchine, solo alla fine, poco prima che me ne
andassi, hanno fatto la teleferica.

Prima di iniziare a lavorare mi hanno fatto delle visite mediche. Dovevo essere in salute per
lavorare in miniera, se non si era a posto fisicamente, non si era assunti. Dopo le visite me le
hanno rifatte ogni uno o due anni.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 179


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Stavo in laveria, come tipicamente accadeva a tutte le donne; come dice il nome la struttura
della miniera per il lavaggio del minerale, cioè la separazione del minerale sterile - privo di
valore commerciale - da quello vendibile.

Lavoravo nella parte più bassa della laveria, per occuparmi della cernita del carbone.
Dall’alto, da una bocchetta - immagino intenda dire da una tramoggia - scendevano dalla mia
parte pietre e rocce frammiste a carbone grosso frammisto.

Io e le mie compagne separavamo pietra e carbone che andavano messi in due vagoni
diversi. Alla pietra davo dei colpetti con un mazzuolo per separare il carbone, dopo la buttavo
in un vagone che gli uomini portavano in discarica.

Il carbone fine invece seguiva un altro percorso, come se fosse colato, lo lavavo con l’acqua in
una vasca grande per separarlo dai frammenti rocciosi, lì vicino passavano con i vagoni che
spinti sino al treno permettevano di caricarlo.

Lavoravo con una ventina di altre donne in tutto. Otto delle mie compagne stavano ai
“telas”, i nastri trasportatori, quello che non riuscivamo a fare io e le altre cernitrici prima dei
nastri lo finivano loro.

A volte mi mandavano anche a caricare i vagoncini, lavoro che solitamente facevano gli
uomini. In quei momenti riuscivo a scherzare con i minatori per rompere il ghiaccio e passare
la giornata, ovviamente sempre nel massimo rispetto dei ruoli tra uomo e donna come era
richiesto anche al di fuori della miniera.

Dalla miniera partivano due treni di carbone al giorno, uno di mattina e uno alla sera,
ognuno con dieci vagoni di carico. Ci volevano due ore per caricarlo, per cui a volte finivo
anche fuori l’orario di lavoro per terminare il carico.

La mia giornata di lavoro cominciava alle cinque del mattino, perché ci voleva tempo ad
andare a piedi sino alla miniera. Anche se lavoravo alla laveria, i capi mi facevano andare
sino a alla palazzina della direzione per darmi gli ordini per la giornata; ci volevano più di
dieci minuti a piedi per tornare in laveria. Alle sei dovevo iniziare a lavorare. Certe volte
partivo di casa anche alle quattro, perché se arrivavo in miniera un’ora prima potevo
guadagnare qualcosa di più. Gli uomini lavoravano all’interno della miniera in condizioni
peggiori delle mie: io almeno avevo l’aria, loro no.

Era una vita dura però mi piaceva, perché era sempre meglio che lavorare la terra, un lavoro
condizionato dal tempo. Io invece lavoravo sempre e alla fine del mese lo stipendio mi era
assicurato”.

Rita si ferma un attimo, sembra commossa, prende un fazzoletto bianco dalla tasca della
gonna nera, se lo tiene tra le mani senza utilizzarlo. Poi riprende a parlare della miniera.
“La miniera era mal fatta e mal organizzata. Sembrava una miniera abbandonata, tutta
fatta di legno: di ferro c’erano solo i cancelli, le rotaie e i vagoni. C’era un unico ingresso per i

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 180


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

vagoni e per il personale, quando ci passavo mi dovevo appiattire e rischiavo di essere


schiacciata.

Non avevo nessun tipo di assicurazione perché erano assicurati solo gli uomini che facevano
il lavoro più pesante e rischioso. Per quando c’erano le ispezioni venivo allontanata, andavo
nel bosco per non essere scoperta, ha sempre funzionato”.

Un’altra pausa per un bicchiere d’acqua. Non ho bisogno di fare domande, Rita è come un
torrente in piena, un effluvio di parole interessanti. Ora non parla di se, racconta di sua
cognata che aveva il marito in carrozzella da un decennio ed un bambino piccolo. Lavorava in
miniera e doveva occuparsi della casa. Rimase al lavoro sino al giorno del parto del secondo
figlio, pochi giorni a casa e poi di nuovo in miniera per non perdere il posto. Aveva solo
mezz’ora di tempo per allattare la bambina, faceva appena in tempo a tornare a casa che subito
doveva riandarsene, perché certo non poteva portare in miniera la bambina.
Sono allibito, le cose che Rita mi dice riescono a tacitare il logorroico che sono. Infine
ritorna alla sua storia.

“I miei capi ma anche tutta la proprietà - intenderà il direttore della miniera ? - erano proprio
cattivi con me, come anche con le altre cernitrici: mi sgridavano sempre. Non capivano quando
stavo bene o male, non mi risparmiavano nulla. Se ne fregavano e mi trattavano male. Non
ero la loro preferita, che c’era sempre, il trattamento verso di me era diverso: c’erano quelle a
cui volevano bene e poi le altre tra cui io.
Il ricordo dei capi ha fugato al precedente commozione facendola arrabbiare, il tono di voce
è salito, più acuto, più veloce. Di nuovo deraglia dalla sua storia personale raccontandomi che
ogni volta che dovevano licenziare qualcuno dicevano - non capisco bene chi - che era
necessaria una diminuzione di personale oppure tiravano fuori la scusa dello scarso
rendimento. Volevano l’operaio o il minatore che rendeva, se uno rendeva poco rischiava di
essere licenziato. L’assurdo era che di solito era solo per qualche mese, poi lo riprendevano.
Questo mi fa pensare che la pratica altalenante assunzione/licenziamento servisse solo ad
evitare rilassamenti e a garantire un sufficiente livello di paura di perdere il posto che tenesse
alta la produzione.
Quando i lavoratori della miniera erano minacciati di licenziamento, protestavano; non più
di uno o due giorni di sciopero, non potevano permettersi altro. Chi scioperava era preso di
mira e diventava un probabile licenziato. Così il malcapitato doveva trovare un altro modo per
guadagnare, finché non tornava in miniera. Non era facile, perché non tutti avevano della terra
da coltivare.
Solo nel 1958, negli ultimi anni di vita della miniera, Rita già non ci lavorava più, i minatori
fecero un’occupazione della miniera lunga, che durò due mesi. Riuscirono a far riprendere
per poco tempo l’attività, ma ormai stava chiudendo tutto.
A lei non è mai capitato di essere licenziata, ricomincia così a parlare di sé.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 181


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

“Il mio stipendio era di 150 lire al mese. Se non avevo un comportamento rispettoso,
prendevano dei provvedimenti disciplinari nei miei confronti: venivo multata e dovevo pagare.
Il sindacato c’era, ma non serviva a niente, secondo me era d’accordo con la proprietà. Io e le
mie compagne, come anche i minatori, protestavamo, ma il sindacato non faceva molto, non ci
ascoltava per niente.

In miniera si moriva. Quando gli armatori piazzavano l’esplosivo bastava poco perché
crollasse giù tutto. E così la gente moriva. La compagnia mineraria dava una liquidazione alla
moglie e una piccola assistenza ai bambini nel caso di minatori che morivano in incidenti. A
volte esplodeva il grisou e allora saltava tutto e cadeva addosso ai minatori. Quelli fortunati
potevano cavarsela con qualche bruciatura. Altre volte si ribaltavano i vagoni che
schiacciavano chi li spingeva.

Anche mio marito ha rischiato la vita: lui e un suo compagno sono rimasti sepolti sotto il
materiale, l’amico purtroppo non ce l’ha fatta, mio marito sono riusciti a toglierlo da sotto le
rocce in tempo”.

Il racconto di Rita sulla sua vita in miniera, si conclude con la chiusura della miniera stessa,
poco dopo che lei aveva già smesso di lavorarci, alla fine degli anni cinquanta, quando la
produzione è entrata in crisi per la crisi del carbone, che veniva dagli altri paesi dove costava
di meno.
Secondo Rita anche perché gli ultimi minatori non sapevano lavorare bene come prima:
invece di sistemare i macchinari li “guastavano”, non avevano esperienza e voglia.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 182


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34.Onde
Spiaggia di Funtanazza, Montevecchio! Mare, Archeologia Industriale, Libri

Sono tornato alla “Casa al mare Francesco Sartori” a Funtanazza, colonia marina che porta il
nome di un ingegnere minerario di Montevecchio, miniera di cui ospitava i figli dei minatori.
Opera della dirigenza illuminata della società, dalle strutture all’epoca modernissime ed
efficienti, ha ospitato 600 bambini a stagione dal 1957 al 1979. Ne ho guardato i volti nelle
rituali foto di gruppo di fine soggiorno, ne ho letto le memorie in cui il ricordo della colonia si
fonde malinconicamente con lo struggimento delle memorie infantili, nel libro “Funtanazza -
La storia della colonia al mare per i figli dei minatori di Montevecchio 1956-1983”, di F. Lampis,
I.Peis e C. Pilia, Zonza Editori 2006.
Quando i giacimenti sono divenuti sterili, la miniera ha chiuso, la colonia è stata
abbandonata e, progressivamente, devastata. Oggi è ancora lì, un luogo triste di abbandono e
degrado che però affascina ed incanta. Il mare di fronte è bellissimo.
Sono convinto che non durerà e che un grande albergo di lusso prima o poi ne riutilizzerà le
volumetrie per portare il turismo in quest’angolo sconosciuto della Sardegna. Finirà il
degrado e si perderà il fascino; è inevitabile che finisca così, probabilmente è giusto, il
cemento devastante è stato gettato negli anni ’50, tanto vale utilizzarlo e creare lavoro in
un’area dove la chiusura delle miniere lo ha tolto.
Dopo la rituale deprimente perlustrazione della colonia, resa ancor più angosciata dall’eco
delle belle memorie evocate dal libro, scendo in spiaggia e seduto sui ruderi delle cabine della
colonia guardo il mare.
Sono di fronte a loro, le guardo, su questa piccola spiaggia ignorata dalle rotte turistiche.
Non so da dove vengano ... da lontano dove il mio sguardo non arriva.
Oggi le solletica il vento del sud, levante, che presto virerà a scirocco portando
l'appiccicoso.
Arrivano a frotte, ordinate, compunte, tutte in fila indiana, precise, sempre alla stessa
distanza l'una dall'altra.
Regali, austere, sfilano silenziose davanti a me, unico spettatore, come fossero modelle su
una passerella di moda.
Alte, dinamiche, flessuose, esprimono determinazione e potenza.
Trasparenti, diafane, eteree, traslucide, sembrano fatte di nulla, eppure sono pura energia.
Solo quando mi sono quasi addosso, all'improvviso abbandonano la loro ieratica
compostezza, rompono le righe, rumoreggiano tra loro, allegre, schiumanti, frizzanti,
scintillanti.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 183


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

È il momento in cui s'intersecano e si confondono, caoticamente si mischiano; senza


preavviso, inaspettatamente, si dileguano.
Sono sulla spiaggia con i piedi nell'acqua a guardare il mare gonfio di vento.
Le onde corrono veloci ... non so da dove vengano.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 184


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

35.Parole
Gennargentu! Luce, vento, roccia e spazio

Parole mie, parole di altri, parole lette, parole rubate, parole ricordate, parole storpiate,
parole amate, parole per vivere o, forse, solo per sopravvivere.

Isola fuori dal tempo e dalla storia.

Questa terra non assomiglia ad alcun altro luogo, è un'altra cosa:

più ampia nella sua isolata limitatezza,

a me molto più consueta,

così irregolare che svanisce in lontananza.

Creste di colline,

come fosse brughiera scozzese,

irrilevanti,

che si vanno perdendo, forse,

in un tentativo d’assedio del Gennargentu.

Incantevole spazio intorno,

distanza da viaggiare,

nulla di finito,

nulla di definitivo.

Si sente la necessità assoluta di muoversi.

Soprattutto di muoversi in una direzione particolare.

Una doppia necessità:

muoversi e sapere in che direzione.

E' come la libertà stessa.

Per questo in essa cerco la mia libertà.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 185


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Paesaggio con

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 186


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

36.Convegno
Orientale sarda, Arbatax-Cagliari! Moto, Viaggio

Un convegno a cui dovevo partecipare come relatore per parlare dello stato di attuazione del
piano di e-Government, parolaccia per indicare il processo di informatizzazione delle
amministrazioni pubbliche, mi costringe a Cagliari il 2 aprile, alle 9.00 di mattina, per i saluti
di prassi agli amministratori locali, propedeutici all’avvio dei lavori veri e propri. La mia
relazione l’avrei tenuta più tardi, all’ora di pranzo.
La segretaria è lì, di fronte alla mia scrivania, a chiedermi se preferisco partire in aereo, la
sera prima del convegno, per evitare l’alzataccia. Sto per rispondere di sì, già pregustando la
cena a base di pesce a cui i miei amici cagliaritani inevitabilmente e piacevolmente mi
costringeranno, quando mi rendo conto che luogo e stagione coincidono con quelli delle mie
scorribande motociclistiche preferite. Un anno fa la “smotorata” è saltata per impicci di
lavoro.
Guardando di traverso il piccolo calendario sulla scrivania chiedo alla segretaria di
informarsi sull’ora di arrivo a Cagliari del traghetto in partenza, la sera prima, da
Civitavecchia. Mi guarda incuriosita ma, professionalmente, non aggiunge nulla. Dopo pochi
minuti mi porta la risposta. Il traghetto Civitavecchia - Cagliari del mercoledì fa scalo ad
Arbatax alle 5.00 di mattina e per questo arriva a Cagliari solo alle 11.30. Prenoto l’aereo?
Aggiunge.
La mia scelta è immediatamente compiuta, scenderò ad Arbatax in quell’ora dell’alba, in
modo che, percorrendo i circa centocinquanta chilometri di orientale sarda verso sud, possa
essere all’albergo sul mare della periferia cagliaritana, dove si tiene il convegno, verso le 8.00.
Mi rimane un’ora per scaricare la moto, fare una doccia e, smessi gli abiti da motociclista,
indossare la canonica ”uniforme lavorativa”: mocassino nero con calza antracite, pantalone
covercot anch’esso grigio scuro, blazer blu su camicia azzurro chiaro, unica concessione alla
vivacità, l’allegra fantasia tutta tra toni di argento, azzurro, ruggine e nero di una cangiante
cravatta Missoni. La cosa più complicata sarà stipare nello spartano bagaglio alloggiato nelle
borse laterali della mia moto BMW K1200 RS, giacca e pantaloni, camicia e cravatta e poi
ancora mocassini e calze.
Puntuale, il traghetto, battezzato con il nome di una strada consolare romana, mi sputa sul
molo di Arbatax illuminato di arancione dalle lampade ai vapori di mercurio.
Ho sbagliato le previsioni, da due giorni c’è l’ora legale, il sole sorge solo verso le 6.20. Me
ne sto nel buio, contrariato, sotto un’acqua battente. Sono solo, le poche macchine scese con
me si sono allontanate in fretta.
Mi “scafandro” per il viaggio che mi aspetta. Giacca nera, di traspirante goretex, nella quale,
ancora a bordo del traghetto, ho rimontato l’imbottitura di alluminio termoriflettente, una

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 187


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sorta di termos che mi avvolge il torace e le braccia ed isola dal freddo pungente della notte.
Casco integrale calzato. Infilo i pantaloni, anch’essi di goretex ma privi di imbottitura, sopra i
jeans; poi ne sigillo l’apertura sopra i robusti caldi ed impermeabili stivali da moto. I guanti
invernali stentano ad entrare, mi si appiccicano alle mani, ancora umidi dopo il trasferimento
a Civitavecchia compiuto la sera, quando l’autostrada allagata mi ha fatto sollevare più acqua
di quella che, violenta, cadeva dal cielo.
La celata del casco aperta di uno spiraglio, per diminuire l'appannamento di occhiali e
visiera stessa, mi lascio alle spalle la macchia arancione del porto segnata dallo scintillio della
pioggia.
Poche decine di metri e sono al buio, che buio! Non si vede una luce. Non si vede una stella,
la luna che pure dovrebbe essere in fase ascendente se ne sta nascosta. L’umido, prima del
freddo, mi fa stringere le gambe attorno al serbatoio e serrare la mascella. Il naso e la bocca
sono investiti dal getto d’aria fredda e bagnata che passa dall’interstizio della celata lasciato
aperto.
Dopo meno di un chilometro, facendo una curva, dalla notte, sulla mia destra, emerge un
mostro immenso fatto di tubi arancioni, illuminato da una luce cruda e violenta.
Procedo piano per la strada viscida, sgomento per quella struttura pazzesca, groviglio di
acciaio dalle proporzioni disumane che non rivela il suo scopo, sorvegliato da gru gigantesche
superiori, in altezza e articolazioni, a quelle che ho compulsivamente disegnato nel delirio
immaginifico della mia infanzia d’adoratore di macchine. Quell’intrico di tubi spropositati dai
colori sgargianti immersi nella luce vivida rigata dalla pioggia violenta è l’ultimo avvistamento.
Il buio m’assale facendo scomparire il mondo.
Al ritorno, quando imbarcherò nuovamente ad Arbatax, un portuale mi spiegherà che quella
struttura tubolare che ho intravisto nel buio è una torre petrolifera marina, alta più di ottanta
metri, per quaranta di larghezza, adagiata sul fianco. Una volta che nel cantiere navale
adiacente al porto ne sarà completata la costruzione, sarà trainata in mare sino al lontano sito
in cui dovrà essere installata e qui, parzialmente allagata per raddrizzarla, sarà posta in
verticale, lasciata affondare per almeno i due terzi della sua altezza, infine ancorata al fondo
per la perforazione.
La pioggia da scrosciante si fa fine. La celata del casco poco a poco sembra appannarsi,
quando la alzo per recuperare nitidezza mi rendo conto che sono immerso in una nebbia
densa, fitta, sulla quale la luce del mio potente faro anteriore rimbalza inutilmente non
riuscendo a penetrarla. Sono costretto a spegnere gli abbaglianti.
Cercando la linea bianca che mi indica il bordo della strada stimo di riuscire a vederne una
decina di metri al massimo. Mi ci tengo vicino, lasciandola sulla destra.
Strano modo unidimensionale nel quale sono precipitato: nero assoluto che esplode nel
bianco catarifrangente di un’unica linea, virtualmente infinita, di cui divengo parte integrante.
Divago, mi sento precipitato in un Carosello della mia infanzia, da un momento all’altro
incontrerò quel piccolo uomo, vivace, col nasone espressivo, figlio di una matita e di una

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 188


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mano, come me sulla linea: mani dietro la schiena, affranto da mille preoccupazioni, passeggia
borbottando, parla una sorta di grammelot incomprensibile rivolgendosi alla mano che lo
disegna, affinché trovi la soluzione agli ostacoli che incontra.
In quel lucore scintillante di pioggia il tempo si dilata, indifferente all’orologio digitale ed al
contachilometri della strumentazione di bordo.
Quando arrivano le curve ho difficoltà ad immaginarle. Per questo la moto rimane dritta e
non piega. Fortunatamente su quel tratto di orientale sarda da Arbatax a Muravera le curve
sono ampie e distese. Procedo, il motore in terza, a bassa velocità, racchiuso in un guscio
opaco e biancastro di nebbia. La pioggia cade incessante ma non ne sento il rumore, me ne
accorgo solo dagli schizzi in faccia che mi impediscono di tenere la celata alzata nel vano
tentavo di dissipare l’opacità.
Anche se l’alluminio termoriflettente fa bene il suo lavoro e mantiene la temperatura
corporea del torso, ed il goretex tiene, facendo scendere rivoli d’acqua lungo il petto e le
braccia, allagando la sella tra le gambe, l’umido ha superato ogni difesa: lo sento nelle gambe
che si rattrappiscono e nelle mani serrate sulle manopole, un po’ per il freddo, un po’ per
l’inquietudine di quel procedere cieco e bagnato su una linea bianca sospesa sull’asfalto
invisibile. In realtà corro in una nuvola nera che il faro potente della moto sciabola striandola
di grigio sporco.
Il cervello vigile, reso adrenalinico dal vuoto percettivo in cui corre la moto, persa ogni
cognizione temporale, ripassa incessantemente il ciclo delle operazioni di controllo:
specchietto sinistro; muro di nebbia davanti, lampeggio con gli abbaglianti per cercare
inutilmente di forarlo; strumentazione illuminata sotto al muro di nebbia, livello benzina e
temperatura acqua radiatore; guanto di taglio sulla celata del casco, mosso in un unico
passaggio, ad improvvisare un tentativo di tergicristallo; regolazione dello spiffero gelido che
entra dalla celata accostata per l’illusione di disappannare.
Sotto al cervello vigile, evidentemente non così tanto impegnato, intanto continua a
divagare non so quale altro ammasso neuronale.
Ricordo, tanti anni fa, un mio amico, studente di medicina, che mi parla di un momento
particolare del nostro ciclo circadiano quotidiano, quando, un’ora circa prima dell’alba, la
chimica del cervello produce un cocktail di agenti chimici che induce un normale e fisiologico
stato depressivo. A conferma di tutto ciò l’amico citava statistiche mediche che mostrano la
distribuzione delle morti negli ospedali nell’arco della giornata. Il risultato incredibile è che,
se sicuramente non c’è un’ora migliore per morire, proprio questa è l’ora in cui si muore con
una frequenza nettamente maggiore delle altre.
Sono lì, a cavallo della moto, nel buio, bagnato, da un tempo incalcolabile, a quell’ora sfigata
alla fine della notte, mi interrogo su come mi sento, cerco le tracce dello stato depressivo
indagato dalla cronobiologia.
Non è depressione quella che provo, sono in viaggio ancora una volta da solo nella “mia”
Sardegna e questo mi piace. Quello che mi anima è paura, quella paura eccitata, così

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 189


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elementare che l’uomo adulto, moderno, fa finta di non conoscere più; paura di essere solo;
paura del buio; paura della strada infida che si infila nel nulla; paura della pioggia e dei rombi
di tuono.
Finalmente, conscio del mio stato, mi chiedo che cosa ci sto a fare alle cinque di mattina a
fradiciarmi su una moto, impaurito, nel nulla dell’orientale sarda. Questa volta ho esagerato,
sarei potuto venire in aereo al convegno.
Altro indefinibile tempo dopo, ma sulla carta sono solo una novantina di chilometri, quando
la nebbia all’improvviso si squarcia, il chiarore del giorno si affaccia sul mare, dal buio emerge
finalmente la strada, mi accorgo di correre sopra l’enorme acquitrino paludoso in cui si è
trasformata la foce del fiume Flumendosa rigonfio d’acqua.
In quel preciso momento realizzo che la sofferenza e la paura a cui mi sono sottoposto mi
permetteranno domani, appena smessi gli abiti da congressista, di fuggire in moto, ancora
una volta, verso le miniere del Sulcis.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 190


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37.Raggio verde
Fortezza vecchia, Capo Carbonara! Luce, vento, roccia e spazio, Libri

Si può scrivere di se stessi e delle proprie memorie e al contempo di cinema, letteratura,


storia, leggende scozzesi, fisica e perfino Sardegna? Si! Si può, basta parlare del raggio verde.
Il raggio verde costituisce uno dei fenomeni atmosferici (tecnicamente è una foto meteora)
che più colpisce l’immaginario umano. Esso consiste nella visione di una debole striatura
verde, che si forma sulla sommità del disco solare al tramontare o al sorgere. In particolari
condizioni, si può trasformare in un vero e proprio lampo verde.
Molti credono che il raggio verde sia una leggenda, non è così, è un fenomeno reale,
neanche tanto difficile da osservare.
Se sistematicamente si sostasse un attimo in contemplazione, mentre il Sole tramonta o
sorge, nei pochi minuti in cui si può mirare la nostra stella senza proteggerci dalla luce
eccessiva, forse lo noteremmo di più.

MEMORIA
Curiosamente ho scoperto cosa sia il raggio verde al cinema invece che studiando fisica. Da
quel giorno sono sempre stato attento ai tramonti.
Pochi mesi dopo il film ho visto il mio primo raggio verde, perché sapevo cosa fosse e lo
stavo cercando. L’ho visto appollaiato sulle mura della vecchia fortezza di fronte all’isolotto di
S. Stefano sul Capo Carbonara ad una decina di chilometri dal vecchio paese di Crabonaxia,
che il dire moderno ha ridenominato Villasimius.
Dopo quella volta l’ho visto poche altre occasioni, sempre in autunno e in Sardegna, sulla
costa del Sulcis o la costa del Sud, ad eccezione di quando mi capitò ad Ischia in aprile.
Non per questo sono diventato più abile nell’interpretazione dei miei sentimenti e di quelli
degli altri, diversamente da quello che narra una vecchia leggenda scozzese ripresa dalla
letteratura e pure dal cinema.

CINEMA
“Il raggio verde” è il titolo di un film di Eric Rohmer del 1986 in cui d’estate Delphine,
impiegata parigina trentenne, non sa dove andare in vacanza e con chi. Il film descrive il suo
inquieto andirivieni da Parigi alla Normandia, poi in montagna e infine a Biarritz dove
finalmente, incontrato un ragazzo giusto, vede, guardando il sole che tramonta nell'Atlantico,
il raggio verde dovuto ad un fenomeno di rifrazione della luce accentuato al tramonto.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 191


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LETTERATURA
“Le Rayon Vert”, in francese per l’appunto il raggio verde, è anche il titolo di un romanzo di
Jules Verne del 1882 che racconta delle vicende amorose della giovane Helena Campbell. Così
Verne descrive il raggio verde nel suo libro:
“… Se c’è del verde in Paradiso, sicuramente è quel verde, il vero colore della Speranza … un
raggio verde, ma di un verde meraviglioso, di un verde che nessun pittore può ottenere sulla
sua tavolozza, un verde di cui la natura, né nella varietà dei vegetali, né nel colore del mare
più limpido, hai mai riportato la sfumatura!”
A sua volta il romanzo si fonda su una leggenda scozzese secondo la quale il raggio verde ha
la virtù di far sì che chi l’abbia visto non possa ingannarsi nelle vicende sentimentali; chi
avesse avuto il privilegio di osservarlo diverrebbe abile nel vedere chiaramente nel suo cuore
ed in quello degli altri.
Chi lo vede, dice Verne, riesce a leggere meglio nei propri sentimenti e in quelli degli altri,
ecco perché Rohmer ha ripreso il titolo di Verne per il suo film in cui la protagonista è
affettivamente premiata dopo averlo visto.

Anche Emilio Salgari parla del raggio verde nel suo racconto “Il Re del mare” del 1906.

“Prima del tramonto l'incrociatore navigava già nelle acque che bagnano la costa del
Sedang ...

- Ah! ... che superbo tramonto! ... - esclamò in quel momento Darma.

- Quelli che si ammirano in questi mari sono, infatti, i più splendidi. - disse Yanez. - Hanno
delle tinte che non si vedono in altri luoghi. Se state attenti vedrete il famoso raggio verde.

- Un raggio verde! - esclamarono l'americano e Darna.

- E' splendido, mia piccola Darma: è un fenomeno meraviglioso che si può ammirare
solamente nei mari della Malesia e nell'oceano Indiano.

Il cielo è purissimo, quindi anche tu lo vedrai. Aspetta solamente che l'orlo superiore del sole
stia per scomparire.

- Possibile che da tutto quel fulgore infuocato possa sprigionarsi un raggio d'un tal colore! -
esclamò.

- Sono certo di non ingannarmi: state attenti.-

Il sole tramontava in un oceano di luce, le cui tinte a poco a poco variavano certo a causa
dello stato più o meno igrometrico dell'atmosfera e della distanza dell'astro dallo zenit.

Mentre stava, per modo di dire, per affondare nell'oceano, pel cielo si diffondeva una luce
rosso-giallognola la quale prendeva rapidamente una tinta quasi violacea che si perdeva
insensibilmente in un fondo azzurro-grigiastro.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 192


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

II margine superiore del disco stava per sparire quando apparve improvvisamente un raggio
assolutamente verde, d'una bellezza tale da strappare all'americano ed a Darma un grido
d'ammirazione.

- Splendido! - aveva esclamato Horward.

- Superbo! - aveva detto Darma. - Non avevo mai veduto un raggio d'un tal colore!

- Perché non ha percorso che di rado questi mari, - rispose Yanez.

- E non si può vederlo in altri luoghi? -chiese Kammamuri che si era unito a loro.

- E' difficilissimo, perché occorrono eccezionali condizioni di limpidezza ed una grande


purezza d'orizzonte e solamente in queste regioni si possono avere con maggior frequenza tali
condizioni”.

Yanez si sbaglia ovviamente, e con lui Salgari che forse non conosceva la Sardegna, non
poteva immaginare che le condizioni di nitidezza all’orizzonte, favorite dal vento, ne
consentono la facile osservazione, nei mesi invernali, anche in quest’isola.

STORIA
Gli astronomi Caldei, Babilonesi ed Egiziani annotarono per primi il fenomeno del raggio
verde su alcune steli, senza darne spiegazione.
Successivamente Newton non capì la sua origine fisica, dandone una interpretazione
puramente fisiologica e soggettiva.
Nella letteratura scientifica la prima osservazione descritta fu pubblicata nel 1852 da P.G.
Maggi in un saggio intitolato “Sopra alcune apparenze del Sole presso l’orizzonte”.
Dopo l’eruzione del vulcano Krakatoa nel 1833 furono osservati numerosi lampi verdi.
In seguito, i fisici Joule, nel 1869, e Lord Kelvin, nel 1893, descrissero il fenomeno nei loro
appunti, entusiasmando la comunità scientifica ed alimentando dibattiti e studi
sull’interpretazione.
Lo stesso Kelvin, impressionato dalla novella di Verne, osservò uno straordinario lampo
verde dal Monte Bianco nel 1899.
Una serie di ottanta foto scientifiche ad alta risoluzione, ottenute con strumenti Zeiss
dell’Osservatorio del Vaticano, furono effettuate da Castel Gandolfo sede dell’osservatorio
vaticano, vicino a Roma, e dai Monti della Tolfa, nell’entroterra di Civitavecchia, nel 1958.
Queste sono state le prime foto a colori del fenomeno esistenti, altre, fatte precedentemente,
erano andate perse durante le guerre mondiali, prima ancora erano state fatte solo in bianco e
nero.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 193


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FISICA
La fisica ci spiega perché si verifica il fenomeno. I raggi luminosi variano la loro direzione di
propagazione quando attraversano l’atmosfera terrestre obliquamente, è lo stesso effetto per
cui un bastone immerso nell’acqua appare spezzato, piegato. Questo effetto si chiama
rifrazione atmosferica, rifrazione dell’acqua nel caso del bastone.
La rifrazione è proporzionale alla densità dell’aria (la massima densità c’è alla superficie del
mare perché l’atmosfera è più spessa, in montagna l’aria è più rarefatta), quindi, quando il
Sole si avvicina all’orizzonte, la deformazione del suo disco aumenta progressivamente.
La velocità di propagazione della luce varia in funzione del suo colore, i fisici dicono della
sua frequenza, cioè di quanto rapidamente vibra la luce, questo determina la separazione dei
diversi colori che tutti insieme compongono il bianco, i fisici lo chiamano lo spettro visibile,
composto di tutti i colori dell’arcobaleno. Questo effetto si chiama dispersione della luce.
La dispersione causa un’apparente scomposizione del disco solare in tre differenti dischi
quasi del tutto sovrapposti: in basso, uno rosso deformato ed allargato; al centro uno giallo; in
alto uno verde.
In aggiunta alcuni elementi, come l’ossigeno ed il vapore acqueo riescono ad assorbire
determinati colori (rosso, giallo), favorendo il passaggio degli altri colori (azzurro, verde).
Questo effetto si chiama assorbimento selettivo della luce.
Tutti questi fenomeni diminuiscono la definizione del disco solare e rendono meno
affidabile la percezione dei colori. Se a questi fattori si aggiunge un’ottima trasparenza
dell’aria, come in Sardegna al mare d’inverno, si ottengono le condizioni ideali per la
formazione del raggio verde.
Auguro a tutti fortuna nella ricerca del raggio verde per il realizzarsi della vecchia leggenda
scozzese.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 194


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38.Atemporalità
Alghero, Nurra! Mare, Cibo

Riemergo da una sorta di animazione sospesa. La Sardegna mi distrae e m'appaga.


La veloce parossistica lettura m'avvince, inducendomi a passare da un autore all'altro.
Le lunghe passeggiate sulla sabbia sotto il sole implacabile mi stancano, dimostrazione che
sono vivo.
Le lente cadenzate bracciate nell'acqua fredda mi sfiancano, accendendo il desiderio d’ozio
e cibo.

L’agliata all’Algherese mi sfama, solleticando il mio gusto.

L’agliata è una salsa preparata con un trito di pomodori secchi, aglio, prezzemolo,
peperoncino da soffriggere alcuni minuti in olio d’oliva già caldo, prima di aggiungere
pomodori pelati e rimestare la salsa di quando in quando, fino a che si sarà addensata. A quel
punto basterà aggiungere l’aceto, il sale e continuate la cottura per una decina di minuti.
La salsa dà il nome ad un piatto di pesce a base di Gattuccio che ad Alghero viene spesso
servito come antipasto.
Pesce povero il Gattuccio, di colore grigio giallastro o rossastro, con macchioline nere e
seppia, sparse su dorso, fianchi e pinne, dalla forma squaliforme: corpo slanciato ed affusolato
di poco meno di un metro; occhio ovale, infossato; bocca arcuata con numerosi dentini
disposti in una o due serie.

L’agliata esalta il Gattuccio che, tagliato a tranci spessi un paio di centimetri, passati nella
semola e fritti in olio d’oliva bollente, fino ad indorarli, è disposto nel piatto di portata che va
servito tiepido o freddo, versandogli sopra l’agliata ancora calda.
Mi piace così tanto che trasformo l’antipasto nella principale pietanza bevendoci un vino
rosso dal gusto deciso, come il Cagnulari di una Cantina Sociale di Alghero.
Dopo cena gli strani sigari Culebras, attorcigliati a tre a tre, ma fumati uno alla volta,
assieme al Mojto, che un’altra lontana isola a me cara entrambi celebrano, mi preparano al
breve intenso sonno che precede le mie industriose albe.
Il tempo non esiste, anche se il sole compie il solito percorso, riprende a ticchettare solo
mentre scrivo. In questo stato scrivere mi rende meno eterno.
Forse per questo scrivo, per fuggire un'eternità che sono certo alla fine m'annoierebbe
perfino qui, nell’isola dove vorrei perdermi.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 195


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Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 196


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39.Giostra
Costa del Sud! Mare, Luce, vento, roccia e spazio, Cibo
La sveglia che non uso mai suona alle 5:30. Poco dopo sono in macchina, abbassata la
cappotte e tutti i vetri. Il vento freddo precipita nell'abitacolo scoperto. Lo stridio di rondini
fa da colonna sonora.
Sto andando su una delle giostre più belle di Sardegna: trenta chilometri in tutto, strada
contorta che si dipana lungo la costa del sud. Strada pericolosa: ad ogni curva si rischia di
uscire di strada per i paesaggi che inebetiscono e paralizzano. Sono allenato, la percorro da
varie decine d’anni. Conosco ogni curva, ogni scorcio, ma l'incanto non è cessato, anzi. A 50
anni, dopo aver girato l'Europa e un poco di mondo, è più facile dare valore a quello che i
sensi riflettono di questa costa avvincente.
Solitamente la percorro d'un fiato, in moto, come fossi in apnea, in un alternanza ipnotica di
pieghe che mi sballano. Oggi mi fermo ad ogni piazzola: per scattare foto e godere dei colori
dell'alba che dipingono il paesaggio. Sono solo, sulla strada non c'è nessuno. Il granito si
tinge lentamente di rosa; la macchia mediterranea, ancora incredibilmente odorosa a fine
giugno, s'accende di verdi brillanti; il mare di grigio acciaio esplode nei cangianti colori che
circondano il ciano; le nuvole che sporcano l'azzurro denso si strisciano di rosa virando al
bianco. Potenza della luce che tutto rimodella secondo le leggi fisiche di assorbimento e
riflessione.
So già dove mi fermerò a fare il primo bagno: Tuerredda. Una spiaggia in cui le foto di
sabbia e acqua che continuo a fare le ho spacciate per Maldive a quei cretini che visitano le
rotte del turismo di massa senza nemmeno sapere cosa hanno a poche ore di viaggio da casa.
Mi riempio gli occhi di questo sfolgorante paesaggio, fotografarlo mi aiuta a discernerne i
particolari.
So già che non durerà. Il cemento avanza impetuoso, soprattutto negli ultimi dieci anni, con
un ritmo crescente. Entro i prossimi vent’anni sarà tutto finito.
I colori saranno gli stessi ma aria, terra ed acqua saranno omologati ad una visione
antropomorfizzata del paesaggio.
Le torri elevate contro i Saraceni si susseguono, ognuna a vista di quelle che precedono e
seguono.
L'acqua a Tuerredda è sempre fredda, stamane gelata, non importa. Esausto della nuotata
frenetica, necessaria a fugare il freddo, m'accascio sulla sabbia bianchissima venata del rosa
del pulviscolo di corallo.
Mia figlia dorme, poco sensibile a tutto questo come ogni altro adolescente, non ha voluto
accompagnarmi nell’alba.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 197


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Giusto, ma dovrò insegnargli ad usare il controtempo, per fuggire la folla, inseguire la luce e
scoprire lo straordinario che disegna.
Gli auguro che, da donna, possa salire anche lei su questa giostra meravigliosa nella costa
del sud, per farsi accapponare la pelle, non per il freddo.
È ora di tornare a svegliarla.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 198


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

40.Camino
Bosa, Nurra! Incontri, Miti, Riti e Storia, Cibo,

Bosa è una piccola città situata in una fertile vallata circondata da rilievi di origine vulcanica
e attraversata da un fiume navigabile, l’unico della Sardegna, il Temo, che si getta nel mare
sulla costa nord occidentale, poco dopo aver lambito la città.
Una quarantina di chilometri di costa selvaggia, con alte scogliere intervallate da calette
sabbiose, la separano a nord da Alghero.
Città antica con un fascino particolare, densa di storia, fondata dai Fenici su un antico sito
nuragico, divenuta Romana e successivamente Spagnola. In epoca medievale, per sfuggire alle
incursioni piratesche, il borgo si spostò alle pendici del colle di Serravalle sotto la protezione
del castello dei Malaspina, dove oggi è situato il quartiere di Sa Costa, che, come dichiara il
nome, è fatto tutto di stradine in salita e scalinate di pietra.
Quando ho visitato Bosa la prima volta, ospite di Loi, mio commilitone quando ero militare a
Macomer, sull’uscio delle vecchie case del quartiere sedevano le vecchie a lavorare un tipo di
ricamo noto in passato col nome di sa randa osinca, che si realizza su una base costituita da
una rete.
La nonna, che ricamava anch’essa, mi spiegò che per realizzare la rete si usano s'agu,
s'ispola e su ferrittu, ovvero l'ago, un piccolo ferro da calza o l’uncinetto e la forma. Ago e
modano sono usati indifferentemente per guidare il filo durante l'intreccio; la forma è una
bacchetta cilindrica oggi di ferro, in passato di osso o legno, appuntita alle estremità, lunga
una ventina di centimetri - un ferro da maglia mi verrebbe da dire - il cui spessore serve a
determinare l'esatta dimensione delle maglie della rete. Una volta realizzata la rete si procede
per il suo ricamo, su lauru, sul telaio, su telalzu.

Del castello dei Malaspina, costruito in più fasi dal 1112 al 1468, rimane poco, le torri e il
muro di cinta, all’interno la chiesa trecentesca di Nostra Signora di Regnos Altos. Negli
affreschi di scuola catalana della chiesetta, risalenti alla metà del secolo XIV, questo tipo di
ricamo è iconograficamente riprodotto a testimoniarne la vetustà. La parte più fotogenica
della città è il lungofiume con i fabbricati di Sas Conzas costruiti dalla parte opposta del fiume
rispetto alla città, semplici magazzini, un tempo adibiti alla concia e alla lavorazione delle
pelli, che si specchiano con colori di muschio nelle acque calme del Temo.
Alla morte della nonna, Mario, il cui nome ho conosciuto solo dopo che il servizio militare è
terminato, entrò nella disponibilità della casa arrampicata verso la sommità del paese antico
poco sotto il castello dei Malaspina. Lì sono stato diverse volte ospitato per pantagrueliche
mangiate di carne alla brace: angioni arrustiu, agnello arrosto; caboniscu a sa braxi, pollo alla
brace; tratalia, coratella arrosto d’agnello, pezzetti di polmone, fegato, cuore, infilzati sullo

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 199


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

spiedo e ricoperti da un intreccio di budellino da latte ben pulito, diversamente dalla romana
pajata, che nella cottura diventa deliziosamente croccante.
Le tante cene consumate hanno sempre visto una costante ripartizione di ruoli: fuochista,
Mario; divoratore me stesso; mentre agli altri commensali rimangono i ruoli di
apparecchiatore, affettatore, stappatore, assaggiatore e per ultimo mescitore della Malvasia di
Bosa.
Vino da meditazione che a me piace nella variante liquorosa e secca dal colore dorato, sui
17-18 gradi e un paio d’anni d’invecchiamento, con un odore intenso e delicato e retrogusto
amarognolo.

PROTOCOLLO PER LA COTTURA DELLA CARNE ALLA BRACE


A Mario, pastore della mia età, per la cottura alla brace serve semplicemente: della buona
carne; l’antico grande e comodo camino all’interno della casa di Bosa, lo strumento;
soprattutto la competenza, che ha distillato elaborando un rigido ma efficace protocollo.
Raggiunta una quantità sufficiente di brace, contenuta, al centro del camino, all’interno di
una staffa di ferro a forma di “U”, sterilizza la griglia, che poi pulisce con una veemente
spazzolatura fatta con una spazzola metallica. Pulisce anche il camino dei residui di cenere,
legna e incrostazioni della griglia con una piccola scopa di saggina.
Poi sposta la brace nella parte più a sinistra del camino. Operazione semplice ma intensa,
accompagnata da abbondante sudorazione, qualche maledizione e la spontanea depilazione
degli arti superiori impegnati nell’operazione per autocombustione della sua abbondante
peluria.
Ripresosi procede al caricamento della griglia, accoppiando sapientemente carni con tempi di
cottura analoghi ed ottimizzando alla perfezione l’utilizzo della superficie di cottura.
Con una paletta metallica preleva la brace dalla sinistra del camino per distenderla in uno
strato sottile al centro, per una dimensione che ecceda leggermente quella della griglia.
Quindi passa alla cottura ponendo la griglia sopra il piccolo strato di brace. Allo stesso tempo
getta qualche altro ciocco sulla brace rimasta a sinistra per assicurarsi una adeguata riserva nel
caso di più passate di griglia.
Dopo un tempo adeguato a formare una croccante crosticina sulla superficie della carne,
provvede, per il tempo che sarà necessario, alla rotazione periodica della griglia, non troppo
frequente, eventualmente rinforzando la brace.
Completata la cottura ripone la griglia sulla parte destra del camino per travasare la carne sul
piatto di portata e salaròa, mentre la brace è nuovamente rimessa all’interno della staffa ad
“U” al centro del camino. Conclude sempre con una nuova spazzolatura del camino atta ad
assorbire le tracce di unto derivanti dalla scolatura dei grassi attraverso la griglia per il tramite
della cenere impalpabile che si è formata.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 200


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

In merito a questo protocollo Mario assicura che i risultati sono eccellenti, io come
testimone posso confermarlo.
La descrizione del protocollo di cottura alla brace di Mario mi ha permesso di presentare il
teatro della scena, ovvero il camino, in cui, anni dopo aver io stesso acquisito padronanza del
protocollo, si consumò, oltre alla legna, la mia avventura.

ZAMPIRONE AL SENTORE DI PANCETTA


Capita che un inizio ottobre Mario mi presti la casa della nonna. Una sera che fa più freddo
decido di accendere il camino per fare una bella braciata, memore delle imprese consumate da
Mario in quella casa, su quel camino.
La donna che mi accompagna esprime palesemente tutto il suo scetticismo circa le mie
capacità di badare ad un fuoco. La sconfesso, la legna prende subito. Trovo una griglia
enorme che, dopo aver pulito, memore del protocollo, riempio con costolette d’agnello e
salsiccia fresca sarda, quella lunga, senza le strozzature del budello, tipiche delle catene di
salsicce romane. Salsiccia che, in Sardegna, s’arrotola a spirale a formare una sorta di disco di
carne tenuto insieme da spiedini di legno che si diramano a raggiera. L’odorino è delizioso, il
camino tira perfettamente aiutato dal grosso maestrale che batte incessante da due giorni.
La mia compagna, incredula, si abboffa soprattutto di costolette, ricredendosi delle mie
capacità di fochista. Onestamente anch’io rimango sorpreso di non aver combinato disastri,
sono un cittadino, un preparato teorico mancante di pratica operativa, poco avvezzo ai fuochi
ed alla cottura alla brace. La carne è tenera e saporita, le costolette croccanti. Un successo!
Due giorni dopo, il freddo persiste, decido di ritentare una cottura al camino, la mia
compagna questa volta non solleva nessuna obiezione. Continua a tirare un leggero maestrale,
appena accennato. Accendo la legna e ricomincio a decantare il tiraggio del camino,
soprattutto in considerazione della corta canna fumaria.
La brace è presto fatta quando, appena sistemata la griglia, il vento si gira. Non mi accorgo
di nulla, inginocchiato come sono di fronte al camino, verso il soffitto già s’intravede una
nebbiolina odorosa d’arrosto.
La mia compagna lancia l’allarme: “Fa fumo! fai qualcosa!” Le rispondo che è cosa da
niente, le finestre, piccole, sono già aperte, basta aprire anche la porta, la corrente favorirà il
tiraggio.
La porta d’ingresso è completamente spalancata. Quel vento invertito si precipita all’interno
per deviare totalmente il fumo dall’asse della cappa. Inizio ad agitarmi prendendo al contempo
una serie di provvedimenti di nessun successo: richiudere la porta; arretrare la brace; riaprire
la porta; sventolare sulla brace.
La mia compagna inizia a dire: “L’avevo detto io!”. La guardo come per mandarcela, ma mi
ritrovo stranamente commosso: ho gli occhi lucidi di pianto. Finalmente realizzo di non

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 201


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

essere commosso, è solo il fumo che mi fa lacrimare, posso mandare la mia compagna a quel
paese.
La carne è finalmente cotta. La brace ammassata in fondo al camino si arrende, tra la nebbia
che lentamente svanisce io e la mia compagna finalmente ci rincontriamo a vista, senza più
dover muggire per segnalare, come sirene nella nebbia, la nostra posizione.
Quando una settimana dopo partiamo come già pianificato lascio un biglietto di
ringraziamento a Mario per avermi fatto usare la sua antica casa.
Caro Mario, può essere che nel rientrare in casa tu avverta un “leggero” sentore di
affumicato. Ti prego di non prendertela troppo: tutti i giorni arieggio la stanza del camino ed
ogni volta che ci entro m’incazzo e dico: “Accidenti Mario se ne accorgerà!”. Per colmo di
sfortuna nelle concitate manovre volte al contenimento del fumo una fetta di pancetta è caduta
nella brace.

Questo secondo me, che me ne sono accorto solo il giorno dopo la drammatica cottura,
pulendo il camino, rafforza l’odore di arrosto che persiste. Devo dirti che dopo qualche giorno
quest’odore non dispiace, non potendolo eliminare è meglio convincersi della sua positività,
magari tiene anche lontano le zanzare, sorta di zampirone al sentore di pancetta.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 202


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

41.Memoria fotografica
Isola dei Sardi! Miti, Riti e Storia, Libri

IL MIO VIAGGIO
Un dicembre parto per la Sardegna, è la prima volta. Inizio un viaggio che non ho mai finito,
che è tutt’ora in corso. E’ così che da poco più di trent’anni continuo a scoprire la Sardegna e
le persone che l’abitano, cercando di muovermi nel controtempo che abbatte la presenza dei
turisti e rende climaticamente più accessibili le zone interne dove, superato l’incanto del
mare, la Sardegna s’esprime in una modalità unica.
Eppure solo oggi scopro il viaggio di scoperta della Sardegna più vasto e sistematico che sia
mai stato compiuto, molto di più del peregrinare di fine ottocento del paesaggista francese
Gaston Vuillier, raccontato in “Les îles oubliées”; o dell'itinerario ai limiti della prospezione
mineraria, proposto dal Conte Della Marmora in “Viaggio in Sardegna”; o del viaggio
romantico di H.D. Lowrence fatto nel 1921, narrato in “Sea and Sardinia; o delle
rimembranze degli scrittori Elio Vittorini, con “Sardegna come un’infanzia” del 1936, e
Virgilio Lilli, con “Viaggio in Sardegna” del 1933.

IL VIAGGIO A CUI AVREI VOLUTO PARTECIPARE


Quarantacinque anni prima della mia partenza, nel dicembre del 1932, Ugo Pellis
(Fiumicello d’Aquileia, Friuli, 1882 – Gorizia, 1943) inizia anche lui un intenso viaggio di
ricerca attraverso la Sardegna che durerà, in maniera quasi ininterrotta, tre anni.
Il suo scopo è indagare sistematicamente la struttura e le peculiarità della lingua sarda, per la
stesura del celebre Atlante Linguistico Italiano.
Visita 124 località diverse dell’Isola, scatta 2.177 fotografie, percorre a piedi, sul dorso di
muli e su una traballante Balilla donata dal Duce, migliaia e migliaia di chilometri, col suo
carico d’album d'illustrazioni, questionari filologici, taccuini da campo e carte geografiche,
lastre fotografiche, prima, e pellicole, poi.
Tutto questo lavoro, questo peregrinare sistematico appuntando e fotografando, per ritrarre
la realtà che circondava l’universo di parole della sua ricerca filologica: uomini e cose.
Nell'immaginario dello studioso, educato secondo i canoni dell’impero Austroungarico,
quello che raccoglie rappresenta il campionario degli archetipi della “mediterraneità”.
Il suo lavoro sul campo è minuziosamente pianificato, Pellis cerca gli epicentri linguistici e
culturali, distanti fra loro lo spazio di una mezza giornata di viaggio, disegnando così sulla
carta della Sardegna una mappa dei tratti culturali.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 203


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Pellis guarda alle parole-cose, intendendole come entità catturabili, da inseguire come
insetti rari, per poi inserirli nelle sue gabbie scientifiche.
Le sue fotografie si accoppiano ai meticolosi questionari linguistici che impartisce alle
centinaia d’interlocutori, generando un’immagine estremamente dettagliata della cultura
sarda valida ancor oggi, ed oggi resa più preziosa dalla rapida evaporazione culturale del dopo
guerra provocata prima dall’omogenizzazione culturale imposta dalle esigenze turistiche e poi
dal più generale fenomeno della globalizzazione.

ATLANTE LINGUISTICO ITALIANO


L’Atlante Linguistico Italiano è un ambizioso progetto di raccolta ordinata e sistematica di
carte sulle quali sono riprodotte, per ogni località italiana esplorata, le corrispondenti
traduzioni dialettali di un concetto o nozione o frase raccolte dalla viva voce delle persone
intervistate.
Il progetto dell’Atlante Linguistico Italiano (ALI), è avviato nel 1924, sotto la direzione di
M.G. Bartoli (Albona, Istria, 1873 – Torino, 1946), su iniziativa della Società Filologia
Friulana “G.I. Ascoli”, presso l’Istituto omonimo, annesso alla cattedra di Linguistica, poi
Glottologia, dell’Università degli Studi di Torino.
Pellis è inizialmente l’entusiasta sostenitore del progetto avviato nel 1925, filologo friulano
divenuto, per necessità del progetto, anche fotografo.
A partire dal 1925 sino allo scoppio della guerra, 1943, ed alla sua morte, effettua ben 727
inchieste, delle mille da realizzare nel territorio nazionale, accompagnate ciascuna da una
grande quantità di materiale fotografico che realizza con la collaborazione con l'Istituto
fotografico triestino. L'archivio fotografico che crea è un importante documento fotografico
dell’Italia uscita dalla prima guerra mondiale.
La ripresa dei lavori avviene nel 1952, dopo la scomparsa di Pellis nel 1943 e Bartoli nel 1946
ed il trasferimento dei materiali da Torino a Udine, sotto la nuova direzione di B. Terracini
(Torino, 1886 – 1968), succeduto a Bartoli.
Le restanti 282 inchieste, affidate da Terracini a nuovi raccoglitori, sono realizzate tra il
1952 ed il 1965. Parallelamente sono avviati contemporaneamente i lavori preparatori per
l’edizione dell’Atlante.
Il progetto subisce una nuova battuta d’arresto nel 1968 in conseguenza della scomparsa di
Terracini.
Sul finire degli anni ’80, con la soluzione di alcuni gravi problemi di carattere istituzionale e
organizzativo, i lavori passano dalla fase preparatoria a quella vera e propria di redazione e
pubblicazione.
Sotto la direzione di A. Genre e poi di L.  Massobrio, in collaborazione con l’Istituto
Poligrafico e Zecca dello Stato, vengono studiate nuove procedure, sperimentate le
tecnologie informatiche disponibili per la creazione e gestione di una banca-dati

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 204


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

informatizzata e di un sistema informativo geografico in grado di trattare anche i dati


cartografici.
Nel 1995 inizia la pubblicazione dell’Opera. Il piano dell’opera prevede nove volumi dedicati
a: corpo umano, indumenti e abbigliamento, casa e arredamento alimentazione, famiglia, età
dell’uomo, società.
Di questi 9 volumi ad oggi risultano pubblicati i primi sette, essendo gli ultimi due ancora in
corso di redazione. In questo modo, dopo quasi un secolo dal suo avvio, il progetto non è
ancora del tutto concluso.

UOMINI E COSE
La fotografia di Pellis non ha finalità artistica, piuttosto è scientifica e documentaria. E’
quindi paradossale che la sua attenzione analitica alla cultura che indaga generi un modo di
fotografare che, caratterizzato dalla scabra assenza di simboli, produce uno stile che lo rende
arte.
Le immagini sono di un nitore essenziale, nude, come a rimarcare la semplicità austera delle
vite e dei luoghi raccontati. Apparentemente prive d’intenti decorativi, riproducono
l'articolazione interna della cultura sarda dell’epoca, ricalcandola idealmente sul sistema di
lingua che emerge dal lavoro di ricerca per comporre l’Atlante.
Questo stile fotografico si adatta perfettamente alla semplicità e all'incantevole naturalezza
dei paesaggi e della cultura sarda.
Nel suo fotografare di uomini e cose, c'è qualcosa di più di un ritratto. C’è la capacità di
svelare con le inquadrature piccole cose, in un gioco di citazioni e rimandi alle grandi, quelle
caratterizzanti la cultura in cui gli scatti sono eseguiti; ecco allora i bambini vestiti da adulti, la
contrapposizione tra giovani ed anziani.
C’è ancora la compassione per il mondo degli umili, un sentimento che non assume mai, né i
toni del paternalismo borghese di fine ‘800, né quelli della denuncia sociale; la sua
compassione è compresenza, si traduce nel tentativo di restituire in modo oggettivo le cose
come stanno, assumendo una posizione da osservatore neutro, non denuncia, ma testimonia a
prescindere dal giudizio sulle cose. Le magre condizioni della popolazione agricola, la vita
primitiva contraddistinta dal baratto, la miseria, le architetture malsane, la malaria, sono dati
di fatto con i quali lottare senza aspettare l'aiuto di nessuno, la sua è una visione sofferta, ma
ottimista, che ha poco di politico.
Si percepisce la volontà di restituire le sensazioni indotte dai paesaggi, come nelle
bellissime fotografie scattate durante il raccolto, o in quelle in cui suggerisce luoghi aperti,
con le strade inondate di una luce che trapassa gli individui, appena trattenuta dalle case.
Si assiste alla ricerca di un rapporto tra volumi e forme, con l'individuazione di un elemento
centrale attorno al quale far "implodere" la composizione; ciò è evidente nelle foto che
ritraggono oggetti, quasi fossero nature morte, ma si ritrova, con una struttura poco più
elaborata, sia nei ritratti di persone che troneggiano, come re umili, al centro di scene

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 205


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

domestiche e agresti, sia nelle figure poste a ridosso di quinte geometriche che sembrano
fatte quasi apposta per rivelare gli elementi della personalità, nascosta nelle posture e nelle
movenze appena accennate.
Si evidenzia il tentativo di ritrarre l'antico arroccato nelle sopravvivenze e l’inesorabilmente
moderno che avanza; il gusto di ritrarre il bello di un mondo popolare prossimo al tramonto.
Emerge l'assonanza tra l'immagine fotografica, la poesia e l'arte; la capacità della foto di
trascendere il documento, facendosi in questo modo arte.
Le foto di Pellis non contengono manipolazioni visive, non cercano di restituire realtà
artate. Rappresentano fatica, povertà e sofferenza, così come il gioco, l'abbondanza e il
richiamo a un orgoglioso passato.
Nelle sue inquadrature, il "moderno" non è occultato, né magnificato, in questo modo
dando valore aggiunto ad un ritratto fotografico che mostra i segni di una realtà sociale e
culturale in profonda trasformazione.
Ciò non significa però che il suo obiettivo si astenga dal mettere a fuoco, quando può,
l'antico che rimane asserragliato nelle sopravvivenze e il moderno che inesorabilmente
avanza.
Le foto di Pellis sembrano giudicare il "progresso": negativamente se stravolge le regole
della vita comunitaria e la solidarietà sociale; positivamente se introduce cambiamenti che
migliorano le condizioni di vita della gente.
Sappiamo bene com’è andata e non parlo specificatamente della Sardegna: le condizioni di
vita della gente sono indubbiamente migliorate, soprattutto a vedere indicatori
macroeconomici su salute, istruzione, lavoro, povertà, ma la vita comunitaria è stata distrutta,
mentre la solidarietà sociale, ad esser ottimisti, vacilla.

UNIVERSO ESOTICO
Pellis mi ha folgorato perché per lui e per tutti i veri viaggiatori, soprattutto stranieri, che
visitano l'isola dall’inizio dell’ottocento alla seconda guerra mondiale, come molti anni dopo
per me, quest’isola è un universo esotico.
In questo mondo avventuroso non dimorano “primitivi”, ma inconsapevoli discendenti della
romanità e di epoche più remote che hanno continuato per secoli a vivere in modi che covano
come la brace, sotto uno strato di cenere che si assottiglia man mano che dalle coste della
frequentazione moderna e turistica ci si muove verso l'interno delle Barbàgie, dell’Ogliastra,
del Sulcis, così care a Pellis come a me .
La Sardegna è il luogo, dove si conservano ancora vive le tradizioni di una vita altrove già
inevitabilmente compromessa dall'avanzare del mondo moderno.
Ancora dopo 45 anni dal suo passaggio, ho avuto prova diretta di questo. Negli anni ’70 ed
’80 ho sempre detto che viaggiare in Sardegna era viaggiare nel tempo.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 206


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Erano gli anni in cui incontravo cernitrici ed ex minatori, scalpellini, pastori, pescatori,
muratori, braccianti, secondini, becchini, cacciatori, nati all’inizio del secolo scorso. I
sopravvissuti degli stessi incontrati da Pellis.
I più bei vecchi della mia vita: austeri e cupi, silenziosi e osservatori, sospettosi e generosi.
Non è stato facile ottenerne la fiducia ma la fatica del farlo è stata sempre ben compensata dal
loro dire.
Tutte persone in grado di raccontarmi cose per me inimmaginabili, di come si viveva un
tempo. Non solo in Sardegna, qualche decennio prima della mia nascita, ma nell’intero bacino
mediterraneo, dal collasso di quell’impero romano che ha rappresentato il primo grande
esempio occidentale di globalizzazione. Oggi che tutti questi vecchi sono morti ed i loro
ricordi dispersi, mi sento più solo e meno ricco.
Continuando a percorrere la Sardegna, non ho più la sensazione di viaggiare nel tempo, al
massimo di visitare una sorta di Disneyland, di enorme parco giochi delle miniere, delle
tonnare, delle cave, delle saline, degli stazzi, dei forti militari, dei carceri, dei nuraghe, dei
dolmen.
Continuando a percorrere la Sardegna, sempre più spesso mi capita di dover io,
continentale, raccontare a dei sardi i modi di vita dei loro nonni, e dei nonni dei nonni, in un
gioco di ricorsione infinita. Come se il meccanismo trasmissivo delle generazioni si sia, in
Sardegna (solo lì?), inceppato. Se questo è vero ancor più Ugo Pellis e le sue foto divengono
preziose e non solo per i Sardi.

FOTO
Vorrei che tutti guardassero le foto di Ugo Pellis, quelle di Baunei, della Sardegna, di tutta
l’Italia. Vorrei che tutti vedessero quello da dove veniamo, che tutti serbassimo memoria di
luoghi, costumi, modalità di vivere. Cercate le foto di Pellis sul sito della Società Filologia
Friulana (www.filologicafriulana.it), andate alle mostre che si faranno, leggete di Pellis e del
suo faraonico progetto. Delle 7.156 foto in archivio, cercando quelle riferibili alla Sardegna ne
vengono fuori ben 2.169. Meditiamo queste foto, commentiamole, raccontiamole.
Dopo aver guardato le immagini della Sardegna di Pellis, collezionate a partire dal 1932, sarà
interessante confrontarle con le scene riprese, una ventina d’anni dopo, da Federico Patellani,
raccolte nel bel libro “Federico Patellani, Un fotoreporter in Sardegna 1950-1956”, ed ancora
con le foto scattate sino a cinquant’anni dopo, tra il 1950 ed il 1984, da grandi fotografi italiani
e stranieri, raccolte insieme nel volume “Sguardi forestieri, i grandi fotografi in Sardegna” a
cura di Marco Delogu e Salvatore Mannuzzo.
Vedere queste foto, tutte in bianco e nero, cosa che ne facilita certamente il confronto con
quelle di Pellis, nella sequenza cronologicamente corretta, rende bene l’idea di come il tempo
in Sardegna sia scorso con un ritmo tutto suo, ben diverso, più lento, da quello che si è
imposto tutt’intorno. C’è una grande continuità in queste foto, nonostante le prime siano

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 207


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

separate di mezzo secolo dalle ultime, ci sono le stesse facce segnate dal lavoro, gli stessi abiti,
le stesse occupazioni.
Da quando la Sardegna è fotografata a colori, io l’ho sempre fotografata a colori, il tempo
interno dell’isola è ritornato sincrono a quello esterno, queste foto in bianco e nero sono
divenute memoria.
I vecchi che possono raccontare ai nostri figli da dove veniamo non ci sono più, questo
rende queste foto ancora più importanti, essenziali per cercare anche solo di immaginare,
senza la presunzione di sapere o di capire cosa significasse vivere così.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 208


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

42.Delfini
Arcipelago della Maddalena! Mare

La barca a vela procede lenta con il vento in poppa, le vele spiegate in quella precaria
andatura a farfalla, la randa a sinistra, il grosso fiocco a destra, come ali immense ad oscurare il
paesaggio verso il quale dirigiamo. Tengo la barra del timone, procedo con piccoli colpi ora a
destra ora a sinistra, attento a non far sgonfiare le vele che cercano di catturare tutto il pigro
vento. La navigazione è monotona, così come sono privo di visuale, rimiro la scia che traccia il
timone, il gorgoglio d’acqua che si crea sotto i colpi alla barra.
Stiamo scendendo lungo la costa orientale corsa, verso l’Arcipelago della Maddalena,
abbiamo già lasciato alle nostre spalle le isole di Cavalli e Lavezzi, propaggini a nord
dell’arcipelago. E’ incredibile che le bocche di Bonifacio ci riservino un trattamento così
clemente e che ci permettano quest’andatura languida, col vento in poppa.
Improvvisamente sento le urla di avvistamento a prua, non vedo niente, dai miei compagni di
barca apprendo che sono delfini che giocano in gruppo buttandosi sotto la prua che fende
l’acqua blu. Poco dopo un delfino spunta a poppa a rompere il mio isolamento dal paesaggio e
dal resto dell’equipaggio tutto “appruato” per guardare i suoi fratelli giocare.
Il dorso grigio appare e scompare nella scia, ecco gli altri apparire, uno ad uno e
sincronizzarsi nel loro mostrarsi e scomparire. Sono arrivati anche i miei amici, lascio la barra
del timone ad uno di loro, mi è venuta un’idea pazzesca.
Svelto mi spoglio per indossare l’imbracatura che usiamo per salire sull’albero e una
maschera. Assicuro all’imbracatura venti metri di cima che blocco su una bitta di poppa. In
precario equilibrio, in piedi sul mancorrente, mi tengo allo strallo di poppa per raccomandare
ai miei amici di darmi un’occhiata. Rapido mi giro e mi butto a bomba in acqua.
L’acqua di giugno è ancora fredda, nuoto furiosamente verso la barca per anticipare e, in
questo modo, attenuare lo strappo che segnala il completo distendersi della cima. Inutile,
nonostante le mie bracciate, lo strattone è violento da togliere quel residuo di fiato che l’acqua
gelata mi ha lasciato.
Sono a traino, attaccato alla cima, nella scia gorgogliante della barca. Col fiatone, i polmoni
costretti dall’imbracatura sotto tensione, comincio a cercare i miei amici delfini, l’acqua si
rompe scorrendomi attorno, s’intorbida di bolle d’aria e schiumeggia impedendomi la visuale.
Riesco infine a girarmi sul dorso planando, la testa fuori dell’acqua. Ecco ricomparire i
delfini a cinque, sei metri dietro di me. La barca mi sembra infinitamente lontana, non la vedo
e non la sento per il rumore assordante dell’acqua che si rompe, la cima è tesa e strattona
l’imbracatura che mi trattiene.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 209


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Un delfino si avvicina fiancheggiandomi, ora vedo chiaramente il suo dorso, il suo occhio
grande e dilatato, la sua bocca atteggiata come in un sorrisetto. Pinna veloce e costante,
inarcando il dorso dà l’idea di una velocità incredibile, in quell’elemento vitreo che assume
mille riflessi, dorati di sole, argentei di delfino.
Sono accerchiato, sono ovunque, indistinguibili ai miei occhi, festosi e concitati nel
rincorrermi. Improvvisamente uno spunta da sotto, una spallata incredibile che mi butta di
lato. Vado sott’acqua, sorpreso ed un tantino spaventato dalla solidità dell’urto.
E’ iniziato il gioco, sono trattato come una palla, vengo ripetutamente colpito con tutta la
delicatezza consentita dalla loro velocità e dimensione di poco inferiore ai due metri. Non
riesco a mantenere l’andatura planante sul dorso, mi rigiro di continuo annaspando per
riconquistare un assetto che mi consenta di respirare comodamente. Impossibile.
Le apnee si succedono alle apnee, schizzi d'acqua ovunque. La maschera è già bella piena
d’acqua, me la sento nel naso, non riesco a svuotarla perché uso le mani per tirarmi alla cima e
riconquistare un qualche impossibile equilibrio. I delfini continuano scherzosamente a
colpirmi, la loro pelle tirata e lucente sembra alla vista così liscia e vellutata. Debbo
ricredermi, ogni colpo che ricevo è come una passata di carta vetrata. I delfini devono
addirittura avere attaccata qualche patella che li ha scambiati per uno scoglio. Le braccia mi
pizzicano terribilmente a contatto con il salso dell’acqua.
La stanchezza si fa sentire improvvisa e violenta, non ho idea del tempo trascorso. L’acqua
che sentivo così fredda non è più un problema, non la sento, così inebetito di colpi, stordito
dalla respirazione a bocconi, affogato dall’acqua che bevo ogni volta che tiro una boccata
d’aria. I delfini saltellano incessanti, inesauribili nella loro rincorsa. Tento di rigirarmi sulla
pancia per guardare la barca, i miei compagni sono tutti là sulla poppa armati del repertorio
completo di strumenti di ripresa, macchine fotografiche, teleobiettivi, binocoli, telecamere.
Gesticolo per attirare la loro attenzione ed invitarli a recuperarmi. I miei sforzi sono
ricompensati dal loro frenetico attivarsi a registrare tutto, era ora che mi agitassi un pochino,
pensano, le fotografie saranno più espressive. Mi salutano pure a loro volta, i deficienti!
Rafforzo i miei sforzi, tento di urlare, ho il vento a favore, ma l’acqua che bevo mi invita a
desistere. A bordo tutti allegri continuano a salutarmi forsennatamente.
Ormai lotto solo per respirare, sono stremato, totalmente incurante dei delfini che ripetono
il loro gioco. Non posso aspettare che l'entusiasmo festoso dei miei amici si spenga ed essi
inizino a pensare a come me la passo realmente. Mi devo liberare, smettere di farmi trainare. Il
nodo della cima sull’imbracatura si è serrato per i ripetuti strattoni, l’acqua rende viscida la
cima. Per fortuna quando mi sono buttato in acqua avevo al collo un serio coltello di quelli
tutti d’acciaio. Al secondo tentativo la cima è tagliata.
I delfini mi guardano sorpreso mentre rimango indietro, un attimo indecisi proseguono poi
la loro corsa. Vengo a galla, disteso, ormai libero della maschera, dagli spruzzi d’acqua, dalla
concitazione, recupero lentamente una respirazione normale mentre il freddo torna ad
affacciarsi prepotentemente. La barca prosegue lenta, poi, già lontana, inizia a sgonfiare le
vele ed a virare sulla destra.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 210


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Lo scenario che mi si presenta è maestoso, il cielo è di un azzurro intenso che vira all’indaco
sull’orizzonte, percorso di dense e striate nuvole bianche che accentuano la sensazione di
profondità. Un’onda lunga di mezzo metro mi solleva ritmicamente conciliando la mia fatica e
mostrandomi a tratti la successione più esterna delle isole, Razzoli che vedo come unita a
Santa Maria ed allo scoglio la Presa, dietro, mezzo nascosta, Budelli.
Le braccia mi dolgono per lo sforzo d’abbarbicarmi alla cima, le escoriazioni leggere
bruciano a contatto dell’acqua. Sto tremando, mi allungo sull’acqua per cercare di afferrare
tutto il tepore del sole.
Aspettando che la barca mi recuperi mi godo questa condizione di naufrago che mi sono
scelta: lì, solo in mezzo ad un mare bellissimo, guardando le propaggini di Sardegna che si
delineano all’orizzonte, pregustando la sorsata di fil’e ferru che mi concederò una volta a
bordo per riscaldarmi e rinfrancarmi.
Fil di ferro è il nome dell’acquavite sarda, pare risalente al metodo utilizzato da chi distillava
clandestinamente (tutti, ancora oggi) che, per poter ritrovare il luogo esatto in cui venivano
seppelliti sotto terra, sia le bottiglie di acquavite prodotte, che gli alambicchi per la
distillazione, prevedeva l’utilizzo di un fil di ferro conficcato nel terreno. Si ottiene distillando
vinacce, le migliori quelle di vernaccia, ottenendo facilmente gradazioni che superano i 40°.
Nelle distillazioni casalinghe è normale che rimangano tracce di alcol metilico, che conferisce
all’acquavite il caratteristico aroma, ma non è molto metabolizzabile e, in maggiore quantità,
può essere tossico. Facile accorgersene se, più che un’ubriacatura, l’assunzione del distillato
provoca mal di testa.
Che pazzia! I delfini sono completamente spariti. So già che non lo farò più, che non
correrò più con loro sul pelo dell’acqua.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 211


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 212


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

43.Gavino e la stella d’oro


Villasimius, Sarrabus! Incontri, Luce, vento, roccia e spazio, Cibo

Accelero la moto sul rettilineo godendomi il rumore solido del motore, incurante della pelle
d’oca sulle braccia nude. Più avanti il tornante a destra, in discesa, calo marcia, quarta, entro
in curva, terza. Inclino la moto per assecondare la curvatura costante della strada, dalla mia
visuale questa oscilla un attimo per la piega, poi si ferma, assurdamente inclinata, per tutta la
durata della curva. Il tempo rallenta per la concentrazione.
Sto lì sospeso all’infinito in quell’equilibrio di forze e velocità che è la moto. Il casco dritto a
guardare l’uscita dalla curva. Con la coda dell’occhio, a destra solo nero rugoso asfalto, a
sinistra uno spicchio di cielo azzurro su cui si affaccia già la luna ed in basso, sfuggente sul
ciglio erboso della strada, l’isola di Serpentara, rossa del sole che sta tramontando, si muove
rimanendo indietro mentre il tornante si dipana. Ho appena passato Punta Moléntis, pochi
chilometri e sono in albergo a Villasimius; leggermente infreddolito, camiciola al vento in
questa imminente sera di inizio maggio, pregusto l’acqua calda della doccia.
La macchina con una targa straniera è poco più avanti, ferma su una piazzola, due persone
guardano il panorama virare al tramonto segnalato dalle luci rosate che si accendono sul
granito. Mi sentono arrivare e si girano, saluto con la mano sinistra mentre la moto, ora libera
dal tornante, si precipita frusciando su una lunga discesa in ombra.
Due ore più tardi scendo affamato per la cena nella piccola sala dell’albergo. Sono ansioso di
mangiarmi la fà a oglia, una minestra di favette con tutto il baccello, mi ci sono voluti due
giorni per convincere la moglie dell’albergatore a farmi fare questa antichissima ed originale
pietanza che denuncia la sua origine gallurese. Per realizzarla la povera donna ha dovuto
battere tutto il circondario per trovare l’ingrediente principale, le favette primaticce che ha
poi dovuto liberare dal peduncolo, lasciandole nel loro baccello.

Per gli altri ingredienti è più semplice, il lardo con cotenna conciato, lo spinu di polciu, la
costata di maiale tenuta dall’altro ieri sotto pepe e sale, qualche cjobbu di salticcia, rocchio,
pezzo, di salsiccia, rametti di finocchio selvatico. Quello che si ottiene con una cottura lenta e
lunga in una capace pentola piena d’acqua, il lardo dissalato e tagliato grosso, la carne di
maiale divisa in bistecchine, la salsiccia divisa a pezzi, è una vivanda gagliarda, nutrientissima
e ricca di sapore che ancora si può perfezionare con tocchetti di formaggio fresco aggiunti in
pentola al momento di servire.
Mi siedo al mio solito tavolo con la salivazione già solleticata dall’immaginazione aspettando
il rumore delle rustiche scodelle di coccio in cui pretendo scodellata la fà a oglia e
guardandomi attorno famelico.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 213


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Accenno un saluto ad una coppia nuova seduta alla mia sinistra, mi sembrano stranieri così
come sono, biondi, di mezz’età, lei sorride; ora li riconosco come i due che ho salutato dalla
moto a Punta Molentis. Sorrido. Le favette non arrivano, al loro posto arriva il trafelato
trattore, Antonio, che mi implora di aiutarlo a parlare proprio con la coppia straniera, che lui
non capisce che problema abbiano. Parliamo. Sono olandesi, si avvia una contrattazione su
come parlarsi che ricorda la licita del bridge. L’olandese propone l’olandese, nemmeno a
parlarne, rilancio in inglese, risponde la moglie con il tedesco, inizio a disperare, gioco la
carta del francese. “Oui, nous pouvons parler française!” è la risposta.
Il loro problema è un guasto meccanico all’auto che risolveranno l’indomani una volta
indirizzati ad un‘officina, previa telefonata mirata a spiegare anticipatamente quello che i due
tenteranno di far capire in loco. Il pretesto per chiacchierare ci è stato fornito, sono appena
arrivati in Sardegna, è la loro prima volta. Il resto della serata passa parlando del viaggio che
vogliono fare nell’isola. Le favette sono state deliziose.
Il vento tira teso sulla spiaggia del Timiama sollevando la candida sabbia e sferzandomi i
polpacci. Sto lì con l’aquilone a compiere infinite ipnotiche acrobazie, i piedi puntati nella
sabbia ed il corpo inclinato all’indietro per contrastare la spinta del vento.
La multicolore vela triangolare saetta nel cielo veloce, sulla curva al limite estremo dello
specchio di vento utilizzabile rallenta e da tregua alle braccia stremate dall’azione di
contrasto, manovro i cavi e viro lento verso terra a picchiare. Quando l’esile struttura in fibra
di carbonio sembra sfracellarsi al suolo, una nuova violenta virata a novanta gradi porta
l’aquilone parallelo al suolo. I cavi ricominciano a tirare e vibrare man mano che l’aquilone
procede verso il centro dell’improvvisato campo di volo. Il volo è così radente che una delle
punte alla base del triangolo pizzica la sabbia sollevandone nuvolette subito disperse dal
vento.
E’ in questo volo raso suolo che l’aquilone, improvvisamente, riacquista la sua dimensione
reale, con un’apertura alare di più di due metri, che aveva perso in alto, nell'azzurro privo di
riferimenti. La manovra si fa attenta, un minimo errore ed il grande aquilone s’impunterebbe
con quel lato che struscia la sabbia, cadendo. Appena sento il vento calare punto di nuovo
verso il cielo a recuperare forza propulsiva e velocità, pronto per l’acrobazia successiva.
La spiaggia è bellissima, levigata, deserta, arco immacolato che si immerge per contrasto in
acque azzurrissime aggrinzite di vento. Mi piace quest’effetto del vento che mentre spiana la
spiaggia disegna mille pieghe sul mare.
L’aquilone è come un richiamo, colorato percorre il cielo disegnando una sorta di
arcobaleno. Analogo al mito della pentola d’oro ai piedi dell’arcobaleno, l’aquilone impone ai
curiosi la passeggiata per andare a vedere da dove parta, a capire come si muova saettante nel
cielo.
Anche oggi arrivano guardando all’in sù le prime persone. In questa stagione, su questa
spiaggia deserta, non potevano che essere loro gli olandesi della sera prima. La moglie è più
interessata, è a lei che impartisco la prima lezione di volo, ma il vento è troppo forte e

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 214


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

l’aquilone la scuote a tenta di trascinarla via. Faccio atterrare l’aquilone e ci mettiamo a


parlare.
Ho la curiosità di capire come facciano due stranieri, per la prima volta in Sardegna a
dirigersi a Capo Carbonara, mi sembra una scelta straordinariamente azzeccata quanto
improbabile. La spiegazione a questa mia perplessità è affannosamente ricercata dalla signora
all’interno di una smisurata quanto vuota borsa da mare. Mi viene mostrato un libro in tedesco
che sfoglio non riuscendo a decifrare nemmeno una riga, l’autore è un tale Ernst Jünger che
non ho mai sentito.
Ernst, che è nato a Heidelberg nel 1895, è un filosofo tedesco estremamente noto nei paesi
che leggono tale lingua, i due olandesi me lo presentano come una sorta di “paleontologo del
viaggio”.
Il libro che ho tra le mani narra di un suo viaggio in Sardegna compiuto nel 1955 in cui si
trovò a passare per il piccolo villaggio di pescatori di Villasimius. Qui l’incanto dei luoghi e la
semplice ospitalità dei pescatori lo convinsero a soggiornarvi a lungo ed a ritornarvi più volte
negli anni successivi. Gli olandesi sono entusiasti di raccontarmi questa storia, io mi
preoccupo pensando alle orde germaniche in attesa di muovere a Villasimius sulle tracce di
Ernst. Il loro entusiasmo arriva a mostrarmi una pagina in cui Ernst fa riferimento a Carlino, il
padrone della locanda in cui egli soggiornava, ed al giardino di aranci in cui consumava il
riposo pomeridiano.
A questo punto il desiderio degli olandesi è espresso tutto di un fiato: posso aiutarli a
rintracciare Carlino ed il giardino d’aranci? Sono perplesso, Ernst è del 1895, mi dicono che
nel libro Ernst parla di Carlino come di un suo coetaneo, mi chiedo se Carlino sia ancora vivo.
Quello che mi attrae della richiesta è la possibilità di parlare con Carlino di come erano questi
luoghi nel 1955. Nel suo libro Ernst parla di un viaggio infernale da Cagliari a Villasimius, dice
che non c’è la luce, parla della durezza della vita dei pochi abitanti, parla di quella natura di cui
oggi rimane una bellezza incastonata di cemento e pattume. Mi convinco, nei prossimi giorni
cercherò Carlino, non dovrebbe essere difficile trovarne traccia in un paesino così piccolo
come Villasimius.
Dopo tre giorni sono scoraggiato, di Carlino non c’è traccia. Ho parlato con tutte le mie
conoscenze, sembra che a Villasimius non esista un Carlino da almeno tre generazioni.
Il quarto giorno un giovane barista mi fa osservare che Carlino non gli sembra un nome
sardo, figurarsi per una persona che potrebbe essere nata poco dopo il 1895. Come non ho
potuto pensarci prima! Dei nomi sardi che conosco che potrebbero assomigliare in qualche
modo a Carlino mi balza alla mente Gavino. Ma si, quello che devo cercare è Gavino, il
pescatore che affittava una camera ad Ernst il filosofo. Molto più semplice.
Tanto semplice che una vecchietta il giorno dopo, il quinto, mi dice che l’albergo più
vecchio di Villasimius e l’albergo “Stella d’Oro”. Trasecolo è il mio albergo dove vengo già da
anni e non lo sapevo. Corro in albergo a cercare di Antonio il trattore. Appena gli nomino
Ernst assume un’aria di sufficienza, certo che conosce la storia del tedesco, anzi conosce
proprio il tedesco, da sotto il bancone del bar tira fuori un quadretto in cui incorniciata c’è

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 215


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

una foto in bianco e nero di un canuto vecchio con due imponenti baffi da tricheco. Una breve
dedica in una elegante calligrafia in inchiostro violetto recita “A Gavino, il suo riconoscente
Ernst”, la data è molto più recente del 1955. Ma chi è Gavino? Ovviamente, banalmente, il
padre di Antonio.
Mi pare indiscreto chiedere se Gavino sia ancora vivo, Antonio mi toglie questo imbarazzo
dicendomi che comunque lui della storia del tedesco sa poco e che per nessun motivo vuole
parlare col padre, ci ha litigato, me lo devo cercare da solo ma mi da le indicazioni necessarie.
Il sesto giorno mi apposto per le strade di Villasimius a cercare Gavino, quale elemento di
identificazione anche per lui come Ernst, due baffi, lunghi ed arricciolati. Peccato per gli
olandesi che sono ripartiti per il loro viaggio in Sardegna già da due giorni.
Gavino è piegato in due dall’età, ma cammina spedito usando un bastone. Giacchetta e
pantaloni scuri, camicia bianca immacolata, basco, una faccia incartapecorita dal sole e due
occhi scuri vigili e mobili sopra quei baffi troneggianti. Mi presento facendo finta di
riconoscerlo per caso, raccontandogli tutta una storia in cui io adolescente sono stato portato
alla Stella d’Oro da uno zio per diversi anni. Mi pento subito per la storia inventata per
attaccare bottone a causa della commozione vivissima che questa gli provoca. Gavino tira fuori
un interminabile fazzolettone bianco come la camicia per asciugarsi le lacrime che la mia
melensa ed insulsa storia gli ha provocato. Mi abbranca un braccio e così procedendo a
passettini mi invita a casa sua a parlare e a bere un mirto.
La casa di Gavino è piena di cimeli i più incredibili: in un angolo troneggia una testa elmata
in bronzo di Mussolini, che sarà alta più di mezzo metro. Una intera parete è il sacrario
dedicato ad Ernst, incredibile successione di foto sbiadite in cui sono alternativamente ritratti
uno strano viaggiatore tedesco sulla spiaggia, un Gavino ancora dritto sul suo gozzo, la porta
della Stella d’Oro dell’epoca con entrambi, e così via; trofei africani, scacciamosche, lance,
statuette in ebano; medaglie annerite dal tempo che non riesco a leggere, qualche articolo di
giornale che parla del libro di Ernst. Guardo le foto di Gavino ed Ernst, non ho bisogno di
chiedere nulla, Gavino racconta.
Ernst è ancora vivo gli ha scritto l’inverno scorso, mi mostra la lettera, vorrebbe tornare
ancora una volta a Villasimius da dove manca da più di vent'anni, ma il figlio anziano e malato
- il figlio! - gli impedisce di muoversi.
Anche Gavino gli scrive un paio di volte l’anno, gli scrive di non tornare a vedere lo scempio,
gli scrive di ricordare quello che era, di continuare ad interrogare le foto ingiallite. L’albergo
Stella d’Oro lo costruì il padre di Gavino nel 1926. In realtà era la casa della famiglia con
l’aggiunta di una stanza per i rari ospiti di passaggio che andavano dal Cagliaritano a qualche
fiera di bestiame a Castiadas. In casa non c’era bagno, né luce, né acqua corrente. Il padre di
Gavino era pastore e l’idea dell’albergo serviva a guadagnare qualcosa di più.
Quando arrivò Ernst la prima volta le stanze erano diventate tre, bagno e luce continuavano
a non esserci. Ernst, già anziano, era accompagnato da un segretario che lo seguiva

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 216


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

prendendo appunti su quello che andava raccontando mentre passeggiava, da questi appunti
sarebbe nato il libro.
Il segretario non doveva essere un granché visto che nel libro riesce a trasformare Gavino in
Carlino. Gavino il libro non lo ha mai letto, Ernst gli ha raccontato infinite volte il pezzo in cui
parla di lui e della Stella d’Oro. Gavino ha pensato tante volte di far tradurre il libro in italiano
e ristamparlo a sue spese, ma non ne ha mai fatto nulla. Mi mostra ingiallite pagine battute a
macchina che traducono un pezzo del libro, le leggo avidamente.
Quando Ernst arrivò non si sapeva nemmeno cosa far pagare per quello che chiedeva, visto
che chiedeva cose assurde: che qualcuno lo accompagnasse nelle sue infinite passeggiate; che
qualcuno lo aiutasse con la macchina fotografica, che qualcuno gli tenesse compagnia
raccontandogli vecchie storie.
Gavino e gli altri pescatori pensavano che Ernst era strano. Si alzava di buon’ora e
passeggiava senza motivo sulla spiaggia oltre lo stagno, si toglieva la camicia, si bagnava, si
arrampicava sulle rocce di Capo Carbonara per vedere il paesaggio, diceva lui. Gavino non
capiva, il paesaggio, che è il paesaggio? Alla spiaggia Gavino andava raramente, il gozzo lo
teneva al piccolo porticciolo, alla spiaggia si andava per fare certi lavori alle reti, per riparare la
barca se il vento entrava d’infilata nel porto. La spiaggia di sabbia fine, le rocce granitiche, la
macchia di mirto e lentisco, che entusiasmavano Ernst, erano per Gavino lo sfondo costante e
naturale alla propria dura attività lavorativa, qualcosa che era inutile fermarsi a guardare
perché era sempre là, sempre uguale.
Gavino piange lento senza singulti, lacrima al ricordo di quella volta che Ernst lo prese e lo
portò a passeggiare con sé, gli fece perdere la giornata appresso a sole, mare e vento. Quella
volta Gavino non capì ancora cosa era il paesaggio, ma sentì la pulsione che quei luoghi
esercitavano su Ernst, sentì che ad Ernst quei luoghi piacevano. Di questo fu molto
orgoglioso, che un professore tedesco venisse da un lontano che non riusciva nemmeno ad
immaginare per dirgli che i luoghi in cui Gavino era nato e cresciuto erano quelli che più gli
piacevano e dove voleva tornare.
Gavino non ha mai imparato a godere come Ernst dei luoghi in cui ha vissuto, ma finalmente
se ne è impadronito con orgoglio. Ora le spiagge, gli stagni con i fenicotteri rosa, gli alberi
contorti, le rocce screziate, quel cielo azzurro e quel mare rabbioso, non sono più lo sfondo
immoto sul quale scorre la sua vita, sono il luogo in cui vive, quel luogo che ora sente bello
perché Ernst lo ha sentito bello, quel luogo che ora percepisce perché Ernst gli ha insegnato a
percepirlo, quel luogo è ora la sua vita.
Strana amicizia quella che ha legato per tanti anni questo tedesco, viaggiatore incallito, al
pescatore sardo che non si è mai mosso dal suo piccolo angolo di paradiso così intriso di
miseria e fatica da renderlo assolutamente impercettibile.
Gavino ricorda come dopo Ernst iniziarono ad arrivare altri visitatori a Villasimius. Ricorda
di come spesso dormisse con la moglie sotto il tavolo della cucina, per poter affittare una
stanza in più. Ricorda di quando i visitatori si iniziarono a chiamare turisti, di quando alla
gente del posto non sembrò più strano andare alla spiaggia e bagnarsi.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 217


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

La visita è finita, Gavino mi abbraccia ancora commosso dicendomi che io, turista, e quelli
come me siamo stati la sua vita ed il suo pane, che per questo ci deve sempre ringraziare, che
siamo noi che l’abbiamo strappato alla miseria della pesca e di una vita stentata, che l’abbiamo
trasformato in albergatore.
Allontanandomi confuso e quasi pentito per questa intrusione nei sentimenti di Gavino,
dentro di me penso a quanto è costato il benessere di Gavino a quei luoghi che proprio nel
momento in cui egli se ne è appropriato hanno iniziato a cambiare ad un ritmo vertiginoso.
Penso a me che sono arrivato con trent’anni di ritardo in Sardegna, che sono arrivato quando
già Ernst se ne era andato, che sono arrivato quando già l’albergo Stella d’Oro aveva
diciannove stanze, con bagno e doccia in ogni camera.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 218


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

44.Tramonti allucinati
Punta S. Stefano, Capo Carbonara! Luce, vento, roccia e spazio

Il minuscolo e curato praticello è umido, appena innaffiato, piacevolmente elastico sotto i


piedi nudi. Sorta di coffa, sospesa su un arco di mare che compie quasi un giro. Mare di
Sardegna che ha già perso i suoi cristallini colori a causa del tramonto imminente.
L’irrisoria dimensione della superficie erbosa, evidenziata dal contrasto con la smisurata,
immota, massa d’acqua, ne nasconde l’intrinseca valenza di “gate”, di porta verso altre
dimensioni, percettive, spaziali, temporali. Nè questo nascosto significato si paleserebbe
spontaneamente, se non fosse per il concitato operare del proprietario dell’inaspettato prato.
Bruno percorre incessante e rapido quell’esiguo spazio che lo ha reso creatore,
contribuendo, con la sua mole, a diminuirne ulteriormente la dimensione percepita. La sua
voce rompe il soffocato sciabordio dell’acqua sui sassi granitici che arginano l’accanimento
del mare sulla terra.
Narra dell’antropomorfizzazione del luogo.
Racconta di quando, al posto dell’erba, c’era una distesa di basse piante grasse, quelle che
verso fine aprile producono una distesa di fiori, inodori, di un colore violetto, così intenso da
esaltarne la tridimensionalità persino in fotografia.
Illustra lo “stile mediterraneo”, messo a punto sul litorale di Sabaudia, a sud di Roma, da
Busiri Vici, uno dei tre architetti scelti dall’Aga Khan per progettare la Costa Smeralda, che,
sul finire degli anni ’60, iniziò a tracimare anche su capo Carbonara rompendo la macchia con
morbide murature in calce bianca, senza alcun intento mimetico.
Evoca tempi che sembrano lontani, quelli in cui si arrivava solo per il tramite di piccole
“andalas”: insensati, striminziti, sentieri tracciati dal passaggio di capre e pecore,
incessantemente alla ricerca di qualcosa da brucare. Tempi in cui, dietro alle piante
tenacemente abbarbicate al granito, non c’era la piccola casa ma solo macchia abitata da
conigli selvatici.
Dopo tanti anni passati a girare tutta la Sardegna Bruno ha deciso di creare lì quel rettangolo
erboso. Il “gate”si è progressivamente manifestato nel decennio successivo, prodotto
inconscio dalla sua socializzante vitalità.

Il “gate” è invisibile, eppure delimitato con un tratteggio alternato di lastre di granito e agavi
pungenti. Quest’ultime estranee alla flora locale, sradicate da un piccolo terreno dove il padre
di Bruno, mio nonno, ha giocosamente consumato la sua vecchiaia, impegnato ad evocare le
terre d’Etruria già perdute dal padre.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 219


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Attraversare il “gate” è un’avventura individuale, che si affina e si modifica ogni volta che si
prova. Esperienza privata, difficilmente trasferibile, forse per il pudore che spesso
accompagna il parlare delle emozioni che ci sono più care.
Solo ora che scrivo queste righe, mi rendo conto che, nonostante il tanto conversare, non ho
mai saputo cosa ci sia oltre il “gate” di Bruno: dove egli vada quando lo attraversa, cosa visiti,
chi incontri, di cosa confabuli dall’altra parte.

Bruno non ha mai parlato esplicitamente dell’esistenza del “gate”, la sua immanente realtà,
il fatto che egli ne abbia esperito l’effetto, si percepisce nei reiterati, accorati, appelli alla
contemplazione del tramonto dal praticello, quasi che il “gate” si attivi solo durante questo
rapido passaggio di luce.
Sul prato, il ritardato imbrunire dell’estate disegna un maestoso paesaggio di mare, rotto da
scogli aguzzi e bagnati, brillanti alla luce rasente. L’increspata superficie si frantuma e
schiumeggia a destra sul rosato isolotto di Santo Stefano, davanti alla costa che, prima bassa e
candida di sabbia, si alza rocciosa sino a Capo Boi, per proseguire scolorita dalle brume sino
all’ormai invisibile Golfo di Quartu ed alla Sella del Diavolo del monte Sant’Elia.
A sinistra, la vista procede rasente alla mole di Capo Carbonara, accesa dalla luce radente
che fa risaltare lo scuro colore dell’acqua, punteggiato dalle propaggini del piccolo arcipelago
scoglioso dell’Isola dei Cavoli che sopravanza l’estremità della punta.
Da entrambi i lati, dietro la costa, l’orografia tormentata del Sárrabus inganna l’osservatore
sulla sua modesta altimetria e occlude alla vista l’intera Sardegna.
Le prime volte che mi sono affacciato al “gate” non ho visto null’altro che questo pacato
paesaggio. Bello ma certamente privo di quelle caratteristiche di eccezionalità, di quelle
vibrazioni emotive, che tanti paesaggi sardi, assai più sensorialmente appaganti, mi hanno
trasmesso.
Per i tramonti estivi, quando ha degli ospiti, Bruno ha elaborato un rituale d’accesso al
“gate”. Un cerimoniale, che, non so se lo percepisca a livello cosciente, aiuta, mi ha aiutato, a
riconoscere ed attraversare il “gate”.

In quell’ora, in cui la sopravvenuta stanchezza per la tumultuosa giornata interamente


trascorsa tra mare e sole, su spiagge e barche, tra nuotate e pesca, attenua i rumori, rende il
mare deserto, rarefà drasticamente i presenti, Bruno attua la sua complessa strategia.
Veloce dispone qualche sedia a sdraio sulla punta del prato e, senza che i suoi ospiti se ne
avvedano, inizia a circuirli. Essi siedono docili e muti, a cogliere i raggi tiepidi ed inclinati del
sole calante. Bruno è ovunque, tra loro, sempre in piedi, come per iniziarli.
Senza alcun preavviso, si materializzano nelle sue mani bicchieri resi appannati dal freddo
contenuto, vermentino o vernaccia sardi, a seconda dei casi. L’arsura accumulata, istigata da
salso e sole, gli fa gioco e gli ospiti si ristorano con sorsate che, dapprima timide, si fanno
subito avide, poi goduriose. Il suo meraviglioso gioco di prestigio consiste nel riuscire a

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 220


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

riempire i bicchieri, creando l’illusione di un’inesauribile bottiglia che spontaneamente


mesce.
Quando la prima sete è soddisfatta ed i bicchieri, immanentemente pieni, stentano a
svuotarsi, dal nulla compare il cibo. Tartine di pane tostato alla crema d’olive nere; buttariga
di muggine, condita con olio e pepe nero, stesa su frammenti di pane carasau; seppiette in
umido, piccanti di peperoncino, circondate di pane pistoccu per tirarne su il sugo; tonno
all’olio d’oliva, personalmente preparato da Bruno; burrida di gattuccio di mare con aceto e
pinoli; pollo freddo aromatizzato al mirto. La sete si riaccende, nuovamente viene
magicamente soddisfatta.
Il sole è ormai basso, qualche brivido di freddo arriccia la pelle delle braccia di chi è
accoccolato nelle sdraio. Effetto del cibo e del sole copioso del giorno che si spegne, ora si
beve anche per scaldarsi. L’incantesimo del cibo e del vino appaga i sensi, placa le coscienze,
rilassa la muscolatura, predispone all'attraversamento del “gate”.
Per agevolare quello che, si è detto, rimane un passaggio spontaneo, strettamente
individuale, quando i bicchieri sono solo punti di luce paglierina, disseminati come piccoli
fanali sul verde bagnato del prato, il rituale messo a punto da Bruno prevede un ultimo
essenziale elemento alchemico: grossi occhiali da saldatore, con l’imponente montatura in
alluminio che circonda interamente gli occhi ed una larga fascia elastica, da passare dietro la
nuca, per trattenerli sul viso.
Indefesso, si aggira tra gli ospiti, con una capiente cesta intessuta d’asfodelo, con un ordito
a spirale, in cui il rosso disegna stilizzate geometriche stelle.
La cesta è colma di occhiali dagli spessi vetri di densi e scuri colori: blu, violetto, verde,
marrone, rosso, arancio. Non so se Bruno selezioni, in funzione dell’ospite che gli capita di
fronte, un particolare colore, o se, piuttosto, si limiti a pescare a casaccio.
Tutti rimangono perplessi, nessuno osa sottrarsi all’imprevista “profferta”. Calzati con
titubanza gli occhiali, il prato si popola di ebbri alieni, dai grandi e bui incantati occhi
metallici, che esprimono la loro sorpresa con risolini ubriachi. A quel punto ognuno è isolato
nel suo mondo colorato.
Sono mondi in due colori, blu e nero, verde e nero, arancio e nero, privi di tinte intermedie,
per il violento contrasto indotto dagli occhiali e dal sole basso. Mondi spopolati in cui si può
fissare impunemente il sole ma è difficile distinguere qualcuno sul prato, impossibile
percepirne le dinamiche facciali.
Mondi luttuosi che condividono il prato oscurato, delimitato dalle strisce di granito di
lucente stranito colore e dagli aculei delle agavi, resi invisibili ma sempre pungenti; il mare
immalinconito, mitraglia lampi intermittenti ed ipnotici dell’unico colore visibile; il cielo
alieno, illuminato da assurdi, sbagliati, colori, si staglia sul corvino della piatta linea
dell’orizzonte e del frastagliato profilo della costa, riempito da una palla di luce violenta,
maestosa nel suo misurato, costante, inevitabile, sprofondare nel mare.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 221


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

La magia di Bruno è consumata, egli nulla può più, ognuno affronta il suo mondo: se
distingue il suo “gate”, può attraversarlo.

Quando ho provato la prima volta, mi è capitato un mondo arancio. Con i sensi appagati
d’odori e sapori, il cervello fluido di vino, ho visto aprirsi il mio “gate” e, come in precario
equilibrio sulla sua soglia, a piedi nudi sul prato, ho subito quell’immensa dilatazione
temporale che ferma il movimento del sole. Spaventato, non ho osato attraversare il “gate”,
riemergendo nel tempo normale, perdendo la mia chance, appena l’ultima scheggia di sole
splendidamente arancione si è spenta nell’acqua.
Un’altra volta ho scelto di proposito gli occhiali rossi, di nuovo sul precipizio del “gate”, ho
finalmente spiccato il balzo mentale, ho trovato il mio “oltre”. Un mondo grandangolare, dalle
prospettive dilatate. C’era la Sardegna, tutta intera, che potevo osservare simultaneamente, da
ogni punto di vista, come in una rappresentazione cubista che ne scomponesse le forme, ne
accentuasse la geometria, ad ogni livello di dettaglio cercato.
Vedevo la Sardegna dall’alto e da terra, dal pelo dell’acqua e sotto l’acqua, distorta nei suoi
intricati confini, come fosse stesa su un globo, sospeso in una luce rossastra. Una sfera
enorme di mare e terra, eppure vista completamente, da ogni lato, da ogni angolatura. In
preda ad una vertigine ho iniziato ad esplorare i dettagli che già conoscevo, era come
ingrandire su di un particolare, volare sopra una zona, attraversare acqua e roccia in un
movimento inesorabile, fluido e continuo.
Ad un certo momento, come fossi su di un satellite, ho intravisto le Barbagie assaltare i
Monti del Gennargentu. Il Flumendosa nascere dallo scontro tra il massiccio montuoso e
l’Ogliastra, per precipitare, per laghi, sotto il tacco calcareo del Monte Perda Liana, superare
il salto di Quirra, per gettarsi infine sulla costa orientale.
Come il folle gabbiano di Jonathan Livingston, ho iniziato a picchiare dall’alto verso questa
linea di costa. Mentre scendevo ad una velocità folle i particolari del paesaggio si
intensificavano, rallentando e mi ritrovavo a puntare verso la propaggine sud-est dell’Isola,
passando sulle rovine abbandonate del carcere di Castiadas.
Arrivavo planando verso il Golfo di Carbonara, dove mi fermavo librandomi sospeso ad una
decina di metri su di un piccolo prato d’erba rosso scuro, dove mi vedevo, come già me lo
aspettassi sin dall’inizio, solo, con gli occhiali da saldatore inforcati, a guardare tutta la
Sardegna.
Assurda autoreferenziale vertigine cognitiva.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 222


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

45.Goito
Sorgono, Barbagia! Incontri, Moto, Viaggio, Archeologia Industriale

Anche questa volta in Sardegna ho fatto una piccola scoperta da aggiungere alla mia
collezione di incontri e siti di archeologia industriale.
Di ritorno dalla visita alla miniera di Funtana Raminosa, arrivo in moto, stremato, a
Sorgono. Mentre a bassa velocità cerco un bar dove consumare una birra, prima di
attraversare velocemente il paese per giungere alla mia meta desideroso di doccia, con la coda
dell’occhio, sulla mia destra, scorgo una nuvola di fumo bianchissimo. Mi fermo incuriosito,
scrutando tra gli alberi che costeggiano la strada.
Non riesco a credere a quello che vedo. Brividi d’impazienza mi corrono lungo la schiena.
Fermo la moto inclinandola sul cavalletto laterale per sbrigarmi, senza nemmeno togliere le
chiavi dal quadro, poggiato al volo il casco sopra il manubrio, corro incontro ai due signori
che ho intravisto giocare con un trenino.

PLASTICO FERROVIARIO IN SCALA 1:1


Superato un cancello solo accostato, d’improvviso mi trovo di fronte ad un plastico
ferroviario come quelli che sognavo da bambino. Quelli con le piccole stazioni di campagna
con le banchine di pietra grigia, le pareti giallo ocra, i tetti di coppi rossastri, le persiane di
legno lucido e le stecconate di legno verniciato a delimitare il perimetro.
Quei plastici con le gallerie a ferro di cavallo anch’esse bordate di pietra e i passaggi a livello
incustoditi che Giuliano, un grande amico di mio padre, costruiva pieni di dettagli incredibili
negli anni della mia infanzia e con i quali ho avuto il privilegio di giocare bambino senza
riuscirmene a staccare sino all’adolescenza. In realtà il materiale rotabile sopravvissuto a quei
giochi ancora lo conservo in cantina senza riuscire, né a dimenticarlo, né a regalarlo, pur non
usandolo.
Quei plastici dove correvano minuscole locomotive a vapore, tutte nere, a parte le rifiniture
in ottone delle grosse lanterne anteriori, la targa con il nome sul fianco della caldaia, le
manovre e i corrimano sui quali non scottarsi che proprio l’ottone è un pessimo conduttore di
calore; meno il rosso vivo delle traverse anteriore e posteriore, dove sono attaccati i
respingenti (uno solo per le ferrovie a scartamento ridotto, 2 per le altre) usati per attutire gli
impatti e mantenere le distanze con i vagoni ed ancora lo stesso rosso delle fiancate su cui
spiccano i leveraggi che accoppiano le ruote color dell’acciaio.
E’ un plastico bellissimo quello che mi si para davanti agli occhi, un plastico in scala 1:1, la
stessa dimensione della realtà. Quello che sto contemplando è il terminale di una vecchia
ferrovia a scartamento ridotto che collega Sorgono sino a Cagliari.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 223


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

E’ la prima locomotiva a vapore che vedo funzionare da adulto. L’ultima che avevo visto
sbuffare è quella che passava sotto la mia scuola elementare, al tempo in cui giocavo con i
trenini di Giuliano, quella a cui dovevo stare attento quando inevitabilmente il pallone finiva
nella vallata sul cui fondo erano poggiati i binari.
Ingombrante, pesante, ferroso segno della memoria. Longevo antenato meccanico che, man
mano che ha arrancato lento, umile, inarrestabile per la stretta ferrovia sarda che si dipana da
Cagliari a Sorgono, si è inconsapevolmente trasformato da macchina per viaggiare nello
spazio, in macchina per viaggiare nel tempo, colmando, per ogni chilometro percorso, una
distanza temporale che ha superato abbondantemente il secolo.
Davanti a questa piccola imponente locomotiva mi chiedo quanti chilometri saranno stati
necessari per viaggiare nel tempo un secolo. Quasi cercassi una nuova impossibile definizione
di velocità temporale, tempo diviso spazio, da affiancare a quella consueta di velocità spaziale
spazio diviso tempo.
Inerpicati sulla locomotiva, due uomini, i macchinisti, stanno beatamente “giocando” con
questa macchina fossile.
Il primo uomo stipa carbone, prelevato da un vagoncino dalle sponde di legno attaccato alla
locomotiva, in un piccolo contenitore di ferro nell’abitacolo di comando; il secondo getta
palate di carbone nella fornace di ghisa, lo sportello aperto a far vedere l’inferno di braci, per
portare in pressione la caldaia cosa che richiede qualche ora dalla prima accensione.

LOCOTENDER WINTERTHUR
Rimango lì in piedi come inebetito, sugli stretti binari di fronte a me è posata una locomotiva
di rodiggio 1-3-0. Rodiggio è parola che non trovo nemmeno sul Devoto-Oli, il dizionario
della lingua italiana che venero. Appartiene al gergo ferroviario che da bambino ho imparato
sempre da Giuliano che, oltre che ai plastici ferroviari, costruiva, in un piccolo sgabuzzino
denominato l’Officina, anche modellini di locomotive a vapore dotate di tutti i più complicati
rodiggi.

Il rodiggio è l'insieme degli organi compresi fra le rotaie e la sospensione elastica di una
locomotiva, carrozza o vagone: ruote, cerchioni, assi, boccole, cuscinetti. La convenzione più
semplice che Giuliano mi ha insegnato è quella di indicare gli assi partendo dalla parte
anteriore della locomotiva: la prima cifra, indica il numero di assi portanti non motorizzati,
cosiddetti “folli”, anteriori; la seconda, il numero di assi motori che trasmettono il
movimento; la terza, il numero di assi “folli” posteriori.
La locomotiva che guardo ammirato del trovarla ancora perfettamente funzionante ha allora :
un primo asse anteriore (1), che collega due ruote libere, non motrici; tre successivi assi (3),
che invece collegano coppie di ruote accoppiate tra loro con fotogenici leveraggi, per essere
tutte motrici, mosse da stantuffi azionati dal vapore che con ingegno meccanico riescono a
trasformare un movimento rotatorio in uno lineare oscillante, avanti e indietro; mentre manca

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 224


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

del tutto (0) di ruote folli posteriori. Cosa che spiega la scrittura sincopata del rodiggio che
come detto è 1-3-0.
La osservo con attenzione così com’è, ferma e sbuffante, con nuvole di vapore che gli si
alzano di lato, oltre che dal camino posto sopra la nera caldaia cilindrica che nelle locomotive,
come nei piroscafi diviene il fumaiolo.
La targa in ottone su un fianco della cabina della locomotiva mi informa che è stata costruita
a Napoli nel 1883, dall’”Impresa Industriale Italiana di Costruzioni Metalliche” di Napoli in
partecipazione con la “Società Svizzera di Costruzione di Locomotive e Macchine”, la SLM di
Winterthur ed è l’esemplare n° 43.
Più avanti sulla fiancata, all’inizio della caldaia sempre in ottone compare a grandi lettere il
nome attribuito alla locomotiva: “Goito”. Probabilmente in memoria della omonima battaglia,
della prima guerra d’indipendenza svoltasi nel 1848, quando l'esercito austriaco del
feldmaresciallo Radetzky tentò, invano, di superare la resistenza del 1° Corpo d’armata
dell'esercito sardo-piemontese disposto a protezione dei ponti sul Mincio, una ventina di
chilometri a nord di Mantova.
Qualche tempo dopo aver giocato con la locomotiva Goito ho scoperto che è un esemplare,
l’ultimo ancora funzionante di un tipo di locomotiva a vapore conosciuta come la Winterthur
n° 858.

Più esattamente è un locotender denominazione che deriva dalla fusione dei due termini
"locomotiva" e "tender", il rimorchio per il carbone e l’acqua. In un locotender in genere la
scorta d'acqua è posta a fianco alla caldaia, mentre il carico di carbone trova posto nella parte
posteriore della cabina di guida in un cassone metallico, aperto in alto per un agevole carico
del carbone, con un'apertura calibrata in basso all'interno della cabina di guida per
l'asportazione.

I vantaggi del locotender sono molteplici in considerazione del saliscendi a cui la tormentata
orografia sarda costringe questa sinuosa ed attorcigliata ferrovia: si evita di trainare il peso di
un carro in più, cosa conveniente vista la potenza limitata di questo tipo di locomotive; il
carico a bordo dell'acqua e del carbone aumenta il peso della locomotiva e quindi l’aderenza
ai binari ai fini della trazione; la lunghezza è ridotta cosa che permette. oltre che curve più
strette, il ricovero della motrice anche nelle piccole stazioni munite di binari cortissimi.

Di questo tipo di locomotiva sono stati costruiti solo 46 esemplari su progetto della “Società
Svizzera di Costruzione di Locomotive e Macchine”, la SLM di Winterthur che realizzò anche
la fornitura delle prime 19 unità, che, come consuetudine dell’epoca, ricevettero un nome
proprio riferito a località della Sardegna.
Per i tre lotti di fornitura successivi, le locomotive vennero costruite dall’”Impresa
Industriale Italiana di Costruzioni Metalliche” nelle Officine Meccaniche di Napoli. Le
locomotive vennero messe in servizio sino al 1894, ricevendo come nome quello di: una città
italiana, dalla 20esima alla 30esima; un fiume italiano, dalla 31esima alla 40esima; una località

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 225


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

famosa per una battaglia risorgimentale, dalla 41esima alla 47esima. Goito, la n° 43 costruita
nel 1883, appartiene evidentemente a quest’ultimo quarto lotto.
Tutte queste locomotive hanno prestato servizi per trainare treni viaggiatori e merci sulle
linee a scartamento ridotto delle Strade Ferrate Secondarie della Sardegna (SFSS). Più
precisamente tra Cagliari, Mandas e Arbatax e la diramazione Mandas-Sorgono, la Bosa-
Macomer-Nuoro e la Sassari-Alghero, per cui vennero distribuite tra i depositi di Cagliari,
Sassari e Macomer.
Nonostante le prestazioni e l’inscrivibilità sulle strette curve della rete a scartamento ridotto
sarda fossero riconosciute come più che buone, i locotender Winterthur vennero accantonati
a partire dalla fine degli anni ’50 del secolo scorso dopo una sessantina d’anni di servizio.
Il restauro dell’unica sopravvissuta, la locomotiva Goito, è iniziato molto tempo dopo che le
locomotive si erano definitivamente fermate, verso la fine del 1987 e ultimato dopo qualche
anno.
Poco dopo, dall’inizio degli anni ’90 la rinata locomotiva Goito viene utilizzata per i turisti,
allestendo un “trenino verde” che traina una carrozza viaggiatori, costruita dalla ditta
piemontese Bauchiero nel 1913, anch’essa restaurata. Curiosamente questa carrozza all’epoca
poteva essere allestita solo per la III classe con 72 sedili in legno, oppure mista di Ie III classe,
in questo caso i sedili della Ia classe erano imbottiti e rivestiti in velluto. Mi chiedo che fine
abbia fatto la II classe.

GIRATURA
Sbuffi di denso e candido vapore, stridii e fischi, si levano dai meccanismi a stantuffo
responsabili della trasmissione del moto, come da altre parti della locomotiva. Questo mi
ridesta dalla trance contemplativa che quell’inaspettato giocattolo mi ha provocato.
Sogno ad occhi aperti di fronte a questa piccola locomotiva nella stazione di Sorgono che
poco dopo sbuffando e recitando metalliche litanie si porta verso la fine del binario. La seguo
lento, al suo fianco, a due metri di distanza, affascinato dal complicato movimento dei suoi
rotismi che tento vanamente d’interpretare.
Dopo qualche decina di metri la Goito si ferma stridendo e i due macchinisti scendono a
terra. Sorridono simpaticamente nelle loro tute blu, con i loro berretti di pelle nera con
visiera, mentre si puliscono le mani sporche di carbone e di unto.

Il più basso, che appare il più deciso, viene verso di me.”Bella?”, mi chiede.

“Bellissima!”, rispondo senza riuscire a guardarlo negli occhi, lo sguardo fisso a cercare di
scolpirmi tutti i particolari della Goito nella memoria. “Come può ancora funzionare una
macchina costruita quasi 120 anni fa?” Aggiungo sommessamente.
Il capo macchinista orgoglioso mi spiega che tutte le piccole manutenzioni le fanno
direttamente lui e il suo collega. Quando invece si rompe qualche pezzo, viene interamente

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 226


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ricostruito al tornio da un’officina delle ferrovie di stanza a Cagliari, più esattamente presso il
museo delle ferrovie di Monserrato, all’altro capo di questa incredibile linea ferroviaria.
Mi racconta che la locomotiva è lunga sette metri e mezzo, pesa poco meno di venti
tonnellate ed è dotata di casse d'acqua da 3.300 litri e di un metro cubo di scorta di carbone.
Mi accorgo che raccontarmi della Goito gli fa veramente piacere, almeno quanto a me starne
a sentire la storia. Si addentra in tecnicismi ferroviari, così vengo a sapere che il progetto della
locomotiva si rifà a quelli classici della scuola inglese che prevedono un telaio esterno alle
ruote che le nasconde in gran parte. I tre assi delle ruote motrici, interni al telaio, sono
accoppiati con biellismo al motore a vapore esterno costituito da due cilindri, uno per lato
della motrice.
All’improvviso il Capo macchinista mi chiede se mi va di aiutare, lui e il suo collega che ci
gironzola attorno, a fare la giratura. Non capisco cosa mi abbia chiesto e con trasparenza gli
chiedo cosa sia la giratura.

Si mette a ridere togliendosi il cappello che lascia a mezza fronte una riga nera di carbone.
Lento, gesticolando con le mani per assecondare la spiegazione, incredibilmente didattico, mi
inizia a spiegare, preciso, circostanziale.
Quella di Sorgono è una stazione terminale, il binario unico che arriva da Cagliari, passando
per la diramazione di Mandas che arriva sino a Arbatax, finisce proprio dove stiamo parlando.
Continua spiegando che le locomotive a vapore con il camino disposto anteriormente
sviluppano una velocità maggiore nel senso della marcia avanti. Pertanto è necessario, al
termine di ogni corsa, ruotarle di 180° per affrontare nel verso giusto il viaggio di ritorno. La
giratura è questa operazione di rotazione della locomotiva
Girare la locomotiva? Rimango interdetto, girare 20 tonnellate di nero metallo? In tre che
siamo? Come? Mi prende sottobraccio e fatti pochi metri davanti alla locomotiva mi porta
sull’orlo di una specie di largo e basso pozzo, mostrandomi la piattaforma girevole che ci
aiuterà.
Il Capo macchinista aggiunge che nelle antiche ferrovie le piattaforme girevoli erano un
elemento infrastrutturale comune destinato a orientare nel senso di marcia le locomotive,
come anche a instradarle nelle rimesse, nei depositi di manutenzione, oltre che permettere il
passaggio di locomotive e vagoni da un binario all’altro offrendo un’alternativa agli scambi.
Mentre parla mi viene alla mente ancora Giuliano nell’officina, chino a dare gli ultimi
ritocchi di pennello ad un deposito per tre locomotive in mattoni rossi e tetto grigio d’ardesia
accessibile mediante piattaforma girevole, una delle sue realizzazioni più belle, talmente
grande da avere difficoltà a trovare collocazione in un plastico che potesse stare in una stanza.
Ideate agli albori della ferrovia, le piattaforme girevoli sono composte da una vasca in
cemento detta tina incassata nel terreno, quella che ho precedentemente assimilato ad un
pozzo. Sui bordi della tina si affacciano i vari binari orientati in senso radiale. All'interno della
tina insiste il piatto o ponte girevole, imperniato al centro e dotato alle estremità di ruote

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 227


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appoggiate a una circolare che corre parallela al bordo esterno della tina. Appositi fermi,
catenacci, bloccano la rotazione affinché il piatto o il ponte sia perfettamente allineato con il
binario desiderato e non si muova durante il passaggio della locomotiva.
Il passaggio dal vapore alla trazione elettrica e diesel e la concomitante introduzione di
locomotive aventi la stessa velocità di marcia nei due sensi, fece venir meno una delle funzioni
delle piattaforme. Restò tuttavia quella di permettere l'accesso alle rimesse o di girare
locomotive per la presenza della cabina di guida su una sola testata.
La piattaforma girevole di Sorgono ha un solo binario che s’interrompe sul bordo della tina,
è piccola ed adatta ai corti locotender, può essere ruotata a mano, diversamente dalle più
grandi che sono mosse da motori a vapore o elettrici.

“Non ti preoccupare - esordisce il capo macchinista - sarà facile fare la giratura della Goito
con questa piattaforma”. Detto questo per prima cosa verifica che i catenacci blocchino il
ponte, poi agile risale sulla Goito per farla avanzare sul ponte aiutato dal suo secondo che
segue la manovra a terra e gli intima l’alt una volta che la Goito è centrata all’interno del ponte
girevole.
A quel punto, frenata la locomotiva, sono invitato a scendere nella tina per il tramite di una
scaletta di ferro. Il capo macchinista si dirige ad una estremità del ponte, mi dice di collocarmi
all’estremità opposta e dal lato opposto al suo così che spingendo entrambi faremo fare una
rotazione antioraria alla locomotiva. Il secondo nel frattempo ha preso una scopa per spazzare
i detriti che sono sulla rotaia circolare sul fondo della tina.

Al via del capo macchinista, egli rimuove il catenaccio che blocca la piattaforma e iniziamo a
spingere. Peso quasi il doppio di quel simpatico piccolo uomo e lo sovrasto di una quarantina
di centimetri ma sotto la sua informe tuta blu intuisco una muscolatura che non mi appartiene.
Ho paura di fare cattiva figura nell’aiutarlo a ruotare la Goito e m’impegno allo spasimo,
spingendo con tutta la forza ed il corpo molto inclinato davanti per sfruttare il mio quintale
abbondante. All’inizio sembra di spingere contro un muro, inamovibile. Lo dicevo che venti
tonnellate in due erano impossibili! Poi nel momento in cui già fradicio di sudore sto per
cedere, ansimando senza aver mosso un passo avverto un piccolo cedimento, il mio corpo
s’inclina in avanti.
Tra me e me, memore dei miei studi di fisica, mentre spingo, a denti stretti, concitato nello
sforzo, recito la magica litania che rende possibile la giratura della Goito: invoco l’attrito
volvente tra ruota che gira e rotaia, di gran lunga minore di quello radente legato al
trascinamento di una slitta su un piano; benedico l’invenzione della ruota e, molti millenni più
tardi, della tecnologia dei cuscinetti a sfera che riducono ulteriormente l’attrito; infine plaudo
alla forza d’inerzia che, se rende difficile mettere in moto un corpo, poi aiuta a tenerlo in
movimento.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 228


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

UOMINI VERI
La Goito gira, incredibile gira, lenta, enorme, visto che dal punto in cui spingo mi sovrasta la
sua parte posteriore, pesante.
Non so per quanto tempo spingo, sono stremato, inaspettato, contro ogni logica, il sordo
scatto metallico del catenaccio anticipa l’improvviso arresto della lenta rotazione, anche se il
mio spostamento era come quello di un bradipo mi sembra di sbattere contro un muro.
Barcollo rimettendomi in verticale, il sudore cola negli occhi, dall’altra parte della
locomotiva, senza riuscire a vederlo sento la voce del capo macchinista che mi elogia. Il
secondo ha appena posato la scopa con la quale ha incessantemente spazzato la rotaia della
tina proprio davanti alla ruota della piattaforma che la calpesta. Riemergo dalla tina usando la
stessa scaletta, mi tremano le gambe indurite dall’acido lattico, la Goito è girata.
Mi raggiunge il capo macchinista, lo dicevo che è robusto, non è nemmeno sudato e si
muove normalmente quando io sono irrigidito e tremante. Mi si mette di fronte le sue mani a
braccio teso sulle mie spalle, forse teme che cada. Sorride, poi ride e mi ringrazia.
“Perché ridi? “, lo apostrofo passando per la prima volta al tu come fosse un vecchio amico, è
la fatica che ho fatto per lui ha conquistarmi questo diritto. Risponde sincero.

“Rido della situazione, perché ogni volta che devo fare la giratura mi guardo sempre attorno
alla ricerca di un robusto turista, un giovane viaggiatore, chiunque che non sia del posto, per
coinvolgerlo nella girata.

Vi comportate tutti nello stesso modo, vi sentite investiti di una responsabilità così grande che
ci date dentro con tutta l’anima. Accade allora sempre la stessa cosa che oggi è accaduta anche
a te, la Goito ve la girate da soli, senza che io debba sforzarmi, mi limito a seguire il movimento
con una mano sul ponte per verificare l’andamento della rotazione e lo scatto del catenaccio
alla fine. Del resto stando dall’altra parte della locomotiva nemmeno si vede che non faccio
nulla.

La Goito te la sei girata da solo, bravo è stato un gesto d’amore verso una vecchia signora di
ferro. Ti dispiace?”.
Continuando a ridere mi precisa:

“Bada non rido di te, rido di quello che sempre inevitabilmente accade, che so bene essere
solo la stupita meraviglia di trovarsi di fronte ad una macchina così vecchia che ancora
funziona.

Mi piace il mio lavoro e sono affezionato a questa locomotiva sulla quale ho trafficato tutta
la vita, per questo mi fa piacere vedere quanta dedizione provochi anche in chi come te l’ha
appena conosciuta”.
Non riesco ancora a parlare per il fiatone e per la risata che le sue parole mi provocano
presto virata in colpi di tosse.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 229


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Il secondo macchinista si avvicina per dirmi che mi sono meritato un caffè, con le gambe
ancora rigide ci dirigiamo verso il piccolo ufficio del capostazione posto alla fine della
banchina della stazione.
Mentre sorseggiamo un caffè forte, scuro e amaro, mi viene in mente che il quadretto si
sarebbe ben adattato ad un amaro Montenegro: la giratura della Goito mi appare paragonabile
al salvataggio del cavallo da parte del veterinario in moto col sidecar degli anni ’90; o al
successivo salvataggio del camion nel deserto da parte di un pilota d’aereo di inizio terzo
millennio; per finire con l’attuale ritrovamento dell’anfora da parte dell’archeologo in
idrovolante.

Dovrei allora scrivere: “Sembrava impossibile, ma ce l’avevamo fatta ... - per poi
soggiungere - ... la mia vita è fatta di queste soddisfazioni, di questi profumi, di questa gente,
cose uniche ... - ovviamente - ... come l’amaro Montenegro!”. Con l’aggiunta rimata del
“sapore vero” che solletica l’inconscio suggerendo che solo un “uomo vero” beve “sapore
vero”.
Che dire, né io, né i miei compagni di locomotiva. sprizziamo quella virile mascolinità della
réclame, non siamo sufficientemente uomini veri.

LINEA FERROVIARIA
Sono ancora perso in queste divagazioni pubblicitarie che il capo macchinista si mette a
raccontare della linea ferroviaria sulla quale la Goito è poggiata da sempre.

“La linea collegava in origine Cagliari, in seguito Monserrato, a Isili, poi fino a Sorgono.

Devi sapere che questa linea ferroviaria è stata la prima ferrovia pubblica ad essere entrata
in servizio in Sardegna (in realtà assieme alla Monti - Tempio Pausania) ed è la più antica tra
quelle ancora in attività.

La ferrovia venne costruita dalle Strade Ferrate Secondarie della Sardegna (SFSS) e aperta
al traffico nel 1888 per quanto riguarda il primo tronco ferroviario lungo 82 km che, dalla
stazione di viale Bonaria a Cagliari, portava sino a Isili, attraverso le regioni storiche del
Partelolla, della Trexenta, dal Sarcidano e del Mandrolisai.

Venne realizzata a binario unico, ovviamente non elettrificato, a scartamento da 950 mm, il
cosiddetto scartamento ridotto rispetto a quello normale che è di 1.435 mm, intendendo per
scartamento la distanza tra la parte interna delle due rotaie di un binario.

L’anno successivo, nel 1889, iniziarono i lavori per l’estensione sino a Sorgono e per un
secondo tronco che da Mandas avrebbe attraversato l’Ogliastra per arrivare sino al porto di
Arbatax. I due tronconi si congiunsero nel 1894.

Nel 1921 la gestione della linea passò alle Ferrovie Complementari della Sardegna (FCS).

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 230


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Negli anni della seconda guerra mondiale, in conseguenza dei bombardamenti alleati del
1943, i cagliaritani usarono la ferrovia per salvarsi, prendendo d’assalto i treni in partenza da
Cagliari per rifugiarsi nell’interno dell’isola.

Nell’immediato dopoguerra vennero sostituiti tutti i binari e le traversine e fu rifatta la


massicciata. Poco dopo, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, in sostituzione dei
locotender Winterthur, vennero introdotti automotrici e locomotori a trazione diesel (tuttora in
uso). Da quel momento la tratta da Cagliari a Isili è diventata una linea per il traffico
pendolare.

Nel 1968 lo storico capolinea cagliaritano di viale Bonaria fu sostituito dalla nuova stazione
di Piazza della Repubblica, mentre le rimesse e le officine vennero spostate a Monserrato.

Nel 1989 le Ferrovie Complementari della Sardegna si fusero con le Strade Ferrate Sarde
(SFS) costituendo le Ferrovie della Sardegna, dal 2008 passate sotto la gestione delle Ferrovie
dello Stato (FdS).

Quest’ultime nel 1997 destinarono le diramazione Mandas - Arbatax e la linea Isili - Sorgono
esclusivamente al traffico turistico, confinando il trasporto pubblico alla tratta Cagliari - Isili”.

CHI ONZI NOTTE T’ISPLENDA SA LUNA


Nel frattempo siamo riusciti al sole, mentre il capo macchinista beve ad una fontanella colgo
l’occasione per chiedergli come mai ha messo la locomotiva in pressione.
Asciugandosi la bocca con il dorso della mano mi spiega che il giorno dopo una troupe
tedesca ha noleggiato il trenino per le riprese legate ad un documentario sulla Barbagia. Per
questo stanno portando in temperatura la caldaia per evitare di perdere troppo tempo il
giorno dopo che devono partire presto.
So bene cosa mi frulla per la testa, con una leggera titubanza chiedo se la pressione è già
sufficiente a far viaggiare la locomotiva, al di là delle poche decine di metri già percorsi per la
giratura.
Si arrampica veloce nella cabina di guida per controllare manometri, leve ed altri strumenti.
Sporgendosi dalla cabina enuncia a me e al secondo macchinista: “E’ pronta”, aggiunge:
“Possiamo portarla nella rimessa”.
Il mio cuore salta un battito, la rimessa è a cento metri, dopo uno scambio, io vorrei
“giocare” con quello splendido trenino. E’ allora che mi azzardo per la prima volta a chiedere
guardandolo dal basso, lì dov’è al posto di comando: “Non potresti farmi fare un giretto anche
piccolo prima di metterla nel deposito?”. Stavo per aggiungere che avrei potuto pagare il
dovuto ma fortunatamente mi trattengo, ho l’impressione che non sia il denaro il problema.
Sulla sua fronte si staglia una ruga dubbiosa. Tace e lentamente scende a terra, uno sguardo
al compagno, si rigira verso di me guardandomi negli occhi. Silenzio, finalmente parla:

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 231


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

“Sai, non è che non vorrei, ma serve un’assicurazione, non posso prendermi questa
responsabilità ... “

Ha gli occhi tristi, tace imbarazzato. Taccio anch’io, finalmente riesco a dire “Capisco, è
giusto ...”, mentre invece m’incazzo con questo mondo moderno dove tutto è un permesso,
una burocrazia.
Mi ha dedicato un paio d’ore, assieme al suo secondo, tra chiacchiere, giratura e manovre.
Gli stringo la mano e lo ringrazio ripetendo un augurio in sardo che mi ha insegnato
un’amica:

“Pro te e famiglia bona fortuna,

chi onzi notte t’isplenda’ sa luna,

chi no appas mai dolore,

chi onzi die t’illumine’ su sole,

custu è s’auguriu meu

dae oe finzas a cantu cheret Deus!” - che significa da oggi, “oe”, fino a quando vuole Dio.
Rimane sorpreso della mia uscita in sardo, mentre mi giro per salutare il suo collega, questo
gli dice “L’ha girata lui ...” e prosegue in un dialetto stretto per me incomprensibile.

Il capo macchinista mi afferra una spalla con la mano segnata dal carbone e mi chiede: “Non
insisti mai tu?”, ci sorridiamo mentre si fa da parte invitandomi a salire nella cabina di guida, il
suo collega corre veloce a manovrare lo scambio già diretto verso il deposito, il rimessaggio lo
faremo più tardi.

PASSEGGIATA CON UNA VECCHIA SIGNORA


Oggi potrei scrivere è stato così che ...
“Nel mezzo del cammin di mia vita,

mi ritrovai all’interno di una locomotiva oscura,

che la dritta via era tracciata dalla lucida dipanata rotaia”.


Non sarebbero parole mie, meglio ricominciare. E’ stato così che quel giorno della mia vita
sono riuscito a viaggiare su una locomotiva come quelle della mia infanzia che amorosamente
montava Giuliano.
Sono salito con una concezione idilliaca della locomotiva: vapore bianco, suoni eterei,
attenuati e fruscianti, venticello rinfrescante sulla faccia. Mi sono sbagliato e di molto.
La cabina è stretta, claustrofobica, sbatto dappertutto, sballottato dallo sferragliare,
impiccio il lavoro dei due macchinisti, rimediando qualche gomitata nel costato e un colpo di
pala sullo stinco destro.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 232


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

La fornace ora chiusa, ora aperta, mi arrostisce con la sua vampa, devo stare attento a dove
poggio le mani per non scottarmi. Sono bagnato, i vestiti incollati, intrisi dal sudore, dal
vapore e dalla sua condensa, gli occhi accecati dal sudore che cola dalla fronte.
Il capo macchinista mi parla urlando, afferro poco, assordato come sono dagli indescrivibili
rumori: stridii, fischi, graffi, sbuffi, sibili, struscii. Rimaniamo in silenzio.
I macchinisti mi guardano sorridendo, godendosi la mia felice confusione, l’assalto
emozionale e sensoriale che Goito m’impartisce, il mio stordimento sorpreso.
Il carbone è ovunque, nel cassone di stoccaggio, per terra di fronte allo sportello in ghisa
della fornace, volteggia nell’aria come polvere, si appiccica untuoso alle superfici di ferro
dove il vapore condensa.
Impossibile non sporcarsi, dove tocchi ti annerisci. Mi viene chiesto di buttare qualche
palata di carbone nella fornace, lo faccio con entusiasmo ma lentamente, con la pala piena a
metà, non basta a salvarmi dalle vesciche, dallo spezzarmi la schiena. Per asciugarmi la fronte
m’imbratto tutta la faccia, la giacca da moto bordeaux si annerisce e vira al viola scuro, i jeans
si striano di nero inesorabilmente.
La polvere m’impasta la gola, i denti scricchiolano digrignati per l’emozione, complice la
polvere di carbone che allappa la lingua. Mi assale un’arsura incontenibile.
La cosa che mi colpisce maggiormente è l’odore della Goito, metallo surriscaldato, olio
irrancidito, non piacevole ma m’abituo. Anche oggi che scrivo, passati tanti anni, l’odore di
quella macchina è impresso indelebile nella mia memoria.
Raggiungiamo la massima velocità, 35 chilometri all’ora, ci si arriva in bicicletta. Mi sporgo
dalla porta di sinistra, chiusa semplicemente da una barra. Il vento ferma la sudorazione.
Acqua che cola. Sbuffi di vapore, ora lievi e sommessi, ora, densi e soffici come nuvole.
Il panorama, fantastico, è quello che ben conosco, in cui solitamente mi perdo nelle curve
d’asfalto affrontate inclinato in sella alla moto. Ora si dipana reso più maestoso e profondo,
per la lentezza dell’incedere che permette di cogliere i dettagli, per il punto di vista
privilegiato che il binario segna sul fianco delle montagne.
Dura poco la massima velocità, un gregge di pecore traversa i binari in prossimità di una
vecchia costruzione messa a guardia di un passaggio a livello, tocca frenare e siamo pure in
salita. Ci fermiamo che le pecore stanno ancora passando, senza fretta né timore.
Ripartire è operazione lenta e poco dopo un’altra curva prepara ad una salita che, a detta del
capo macchinista, avremmo dovuto affrontare con più velocità. Dietro di noi abbiamo
agganciato tre vecchi vagoni, due passeggeri e uno merci, carico di carbone, tutti di legno
sverniciato che fa intuire un colore grigio topo.
Siamo pesanti e all’inizio della salita le ruote slittano sulla rotaia. Il secondo scende al volo
con un secchiello di sabbia e ne lancia qualche manciata sotto le ruote che girano a vuoto. La
sabbia morde l’acciaio della rotaia e le ruote recuperano aderenza, il treno si scuote e si
muove più regolarmente, accelerando leggermente, mentre il secondo risale sempre al volo.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 233


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Se al posto delle pecore ci fosse stato un passaggio di vacche avrei pensato a quei film
western che così bene hanno narrato l’epopea delle ferrovie nel Far West.
Una piccola stazioncina in disuso, ancora non diroccata, segna la fine del nostro viaggio, una
decina di chilometri appena, un tempo dilatato di sensazioni ed emozioni.
Ci fermiamo e scendiamo a bere ad una provvidenziale fontanella addossata al muro, sopra
una vasca di cemento. Metto tutta la testa sotto il getto d’acqua per togliermi fuliggine e
sudore dalla faccia.
Il ritorno lo faremo ancor più lentamente, a marcia indietro, non c’è una piattaforma rotante
in questa stazione dimenticata.
Sono grato ai due macchinisti per il bel regalo che mi hanno fatto, mentre torniamo mi
informo sui prezzi per il noleggio del treno, non così proibitivi come avrei creduto.
Soprappensiero sogno di organizzare una festa per i miei cinquant’anni concentrando i miei
amici a Cagliari, per imbarcarli poi sul trenino alla volta di Sorgono. Per viaggiare lentamente,
per un giorno intero verso le Barbagie, fumare il sigaro toscano sporti dal finestrino a
contemplare quello splendido paesaggio. Sogno di portare fiaschi di vino e vettovaglie, pane
pistoccu e carasau, salsiccia sarda e pecorino, porceddu al mirto, per fermarsi a mangiare in
una stazione come quella che abbiamo appena lasciato, che vedo allontanarsi appannata dal
vapore sbuffato dal fumaiolo. Per consumare viaggiando il cibo ed il paesaggio, parlando poco
ma con grande empatia affettiva, una sorta di comunione in un luogo che amo con la mia
famiglia allargata. Non lo so ancora ma la vita mi travolgerà con i suoi imprevisti negli anni
successivi e questa festa sul trenino non l’ho ancora fatta.
Siamo di nuovo a Sorgono, scendo dalla locomotiva fermandomi a guardare mentre i
macchinisti fanno le manovre per sganciare i vagoni e riparare la locomotiva nel suo deposito.
Poco dopo iniziamo i saluti, per la prima volta ci diciamo i nostri reciproci nomi con la
promessa che mai dirò o scriverò i loro che, in sprezzo delle regole assicurative, mi hanno
permesso di godere questa passeggiata con una vecchia signora. E’ ormai l’imbrunire, sono
stanchissimo, impossibile continuare il mio viaggio, mi cercherò da dormire qui e domani
proseguirò.

PASSEGGIATA NEL TEMPO


Raggiunta la moto, abbandonata da ore, guardo attento questo piccolo treno, i vagoni
davanti la banchina della stazione, la Goito, più lontana, dentro la sua rimessa con le porte
lasciate spalancate.
Magico treno che incessante corre nello spazio, passando in rassegna Cagliari, Monserrato,
Selargius, Settimo San Pietro, Soleminis, Dolianova, Donori, Barrali, Senorbi, Mandas, Serri,
Isili, Sorgono e viceversa al ritorno. Magico treno che parallelamente passeggia nel tempo,
tanto da essere già stato descritto nel gradevole libro “Mare e Sardegna” pubblicato nel 1921
da H. D. Lawrence (1885 -1930) a valle di un anno, il 1919, passato in Italia con la moglie in

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 234


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

diverse località. Durante questo soggiorno fa un viaggio partendo da Palermo in piroscafo alla
volta di Cagliari e da qui, in treno, per il centro Sardegna.
Quando H. D. Lawrence sale sul trenino con la moglie è il 1919, ha 34 anni, quasi un
coetaneo della locomotiva Goito che ne ha 31; oggi che sullo stesso treno sono salito io, che
ho la stessa età di H. D. Lawrence all’epoca del suo viaggio, sono passati 72 anni, la
locomotiva Goito è ormai una vecchietta ultra centenaria.
Non posso che concludere con le parole di H. D Lawrence, certamente di gran lunga
superiori alle mie, con la piccola soddisfazione di aver potuto io, privilegiato, viaggiare
direttamente sulla Goito, per coglierne l’intima essenza ed assaporarne umori ed odori:

“... Prendiamo la ferrovia secondaria ovunque vada ... La carrozza era piuttosto affollata di
gente che tornava dal mercato. Su queste ferrovie le carrozze di terza non sono divise in
scompartimenti, ma aperte in modo che ci si vede tutti, come in una stanza. Sistemate un po’
dappertutto le “bercole” - le belle bisacce da sella - i passeggeri si misero a conversare
animatamente ... Il treno correva sulla malarica piana del mare, oltre i palmizi scalcagnati,
oltre edifici simili a moschee ... Ma presto iniziammo ad arrampicarci sulle colline ... incredibile
come sono desolate e deserte le vaste distese della Sardegna. Selvagge, sono, a macchie d’erica
e corbezzoli e di una specie di mirto, alte fino al petto. E’ un paesaggio molto diverso da quello
italiano. la Sardegna è un’altra cosa. molto più ampia, più dimessa ... Ciò dà una sensazione
di spazio che tanto manca in Italia. Piacere di spazio intorno, e distanze aperte: nulla di finito,
nulla di definitivo.”

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 235


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 236


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

46.Su questa spiaggia ...


Spiaggia Su Giudeo, Torre Chia! Mare

Su questa spiaggia ... mi perdo da più di trent’anni. Qualcuno la chiama “Su Giudeo”, molti
la confondono con le altre spiagge bellissime che la circondano, nella Costa del Sud, a 60 km
a sinistra da Cagliari, andando verso Sant’Antioco bordeggiando il mare.
Su questa spiaggia … ho passeggiato tante volte, sempre solitario, nelle fresche albe di
giugno, assaporando il privilegio del silenzio, dei colori cangianti, delle acque tonificanti ad
acuire il risveglio mattutino.
Su questa spiaggia … ho volato molte primavere con gli aquiloni acrobatici, indefesso,
instancabile, tanto da riuscire a scottarmi le ascelle, appagato di vento, di macchia odorosa, di
luce e mare.
Su questa spiaggia … ho conosciuto persone, incontri strani, eccentrici, curiosi: surfisti,
cercatori d’oro armati di metal detector, pastori, sub, pescatori, professori universitari,
minatori, bambini.
Su questa spiaggia … ho scritto lettere d’amore, incapace, al passare del tempo,
d’indirizzarle sempre alla stessa donna. Seduto su un asciugamano a gambe incrociate,
scomodamente; su un taccuino poggiato su un ginocchio; con musiche suadenti a segnare il
tempo, perché su musicassetta e quindi costretto alla ritmata liturgia del girare e cambiare.
Su questa spiaggia … mi sono sfamato godendomi al sole semplicemente pecorino fresco,
olive e pane pistoccu.

Su questa spiaggia … mi sono denudato per correre col vento sulla pelle, i polpacci staffilati
dalla sabbia sollevata, per accoccolarmi nel calore delle sue materne dune; per danzare
facendo finta di saperlo fare, per urlare a nessuno, per sfinirmi fisicamente intriso di luce e
salso.
Su questa spiaggia … ho goduto, d’inverno, con la donna sarda di cui ero innamorato. E’ lei
che mi ci ha portato per prima. Sole, sabbia, freddo, vento, macchia, risacca, tutto ciò assieme
al suo corpo ed alla sua mente sono stati il mio godimento. Quando ci siamo lasciati, come
una sorta di anatema, disse: “Lasciando me perderai anche Su Giudeo, perderai tutta la
Sardegna”. Si è sbagliata, non ho perso la Sardegna e la spiaggia, ma aver perso lei ancora mi
dispiace.
Su questa spiaggia … ho consumato pellicola, prima, e ho continuato poi a consumare
memoria, quando le foto sono divenute digitali. Non foto per ricordarla, non mi serve,
piuttosto foto per capirla come luogo d‘incanto, come laico tempio dello spirito.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 237


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Su questa spiaggia … ho deciso di avere un figlio e mi sono messo a scrivere, per riaffermare
il mio desiderio, per capire le mie motivazioni profonde.
Su questa spiaggia … ho cercato di portare tutti quelli cui ho voluto bene, uomini, donne;
molti sono venuti, altri verranno, qualcuno non capirà e non verrà, peccato.
Su questa spiaggia … ho trascinato mia figlia ancora troppo piccola, stancandola per la
lunghezza eccessiva delle camminate sulla sabbia che affrontava con le sue gambotte paffute.
Su questa spiaggia … ho pianto per quello che non è stato, per le persone importanti
perdute.
Su questa spiaggia … ho officiato miei personali riti, o evocato i miei miti, ho assaggiato
qualche raro lampo di libertà, se avessi saputo pregare avrei pregato.
Su questa spiaggia … sempre, mi sono emozionato.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 238


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

47.Boa
Pescinas, Hotel Le Dune, Costa Verde! Mare

La boa dista duecento metri dalla riva. Andata e ritorno sono circa sedici vasche di un’usuale
piscina. Nulla però ricorda una piscina. Questa distanza percorro incantato quattro o cinque
volte al giorno. Mai annoiato dal colore dell'acqua che segue quello del cielo e si fa più dorato
all'alba e al tramonto.
La sabbia ipnoticamente ondulata del fondo si riempie di fossette, scavate dai pesci, man
mano che la profondità aumenta.
Il rumore della respirazione, il ribollire dell'aria che espello ogni quattro bracciate, il
gorgoglio delle bolle dal naso e dalla bocca, sono qualcosa che si colloca tra il rantolo che
sembra fugare il dolore e l'urlo che precede l'orgasmo.
L'acqua è fredda, perfetta per nuotare, sveglia, tonifica, rincuora lo spirito. Probabilmente
le bracciate cadenzate, non frenetiche, dilatate al massimo del mio allungamento, tonificano i
muscoli, certamente fanno bene alla mente.
La boa la guardo prima di tuffarmi, poi mai più fino a quando non intravedo il suo
ancoraggio a circa 6 metri di profondità. Mi oriento rispetto all'inclinazione delle onde di
sabbia sul fondo. Poi considero la corrente che mi sposta dolcemente sulla destra, in parte
compensata dalla maggiore potenza della bracciata destra.
Il gioco è centrare la boa, ormai mi riesce quasi sempre.
Arrivato alla boa, mi ancoro ad essa e ripresa una respirazione normale mi metto a guardare
la lunghissima spiaggia candida, le alte dune dove ancora pascola il cervo sardo, ancorate dal
ginepro secolare che da arbusto si è fatto albero, le dune più giovani, davanti, a ridosso della
spiaggia, ancora libere e mosse dal vento, la Sardegna tutta che si dipana nell'interno in un
saliscendi di verdi colline spezzate da qualche tacco calcareo. Verde delle abbondanti piogge
di quest'anno. Misteriosa per l'assenza d'intervento dell'uomo.
Attaccato a questa boa è come se possedessi la Sardegna, così immerso nella sua acquosa
vulva.
Ritorno più veloce che all'andata, appagato da questo rito con il quale celebro il mito che la
Sardegna rappresenta.
Tra qualche ora tornerò a quella boa per continuare a fare l’amore con quest'amante
riservata e misteriosa quanto affascinante e bellissima.
Sono qui, sdraiato sulla bianca sabbia sottile, a scrivere e ho già nuovamente voglia di lei.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 239


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 240


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

48.Carnaio
Spiaggia Su Giudeo, Torre Chia! Mare

OGGI
È domenica, sono sulla lunga spiaggia di Su Giudeo dove solitamente consumo le mie albe.
Sulla sabbia si susseguono, senza soluzione di continuità, un’alternanza irregolare di fasi
cristalline a bassa entropia, ordinate, esteticamente ossessive, rigidamente monocromatiche e
fasi amorfe ad alta entropia, disordinate, esteticamente anarcoidi, esageratamente policrome.
Si passa da una fase all'altra improvvisamente, senza contaminazioni intermedie, come
accade nelle transizioni di fase descritte dalla “Teoria delle catastrofi”: cambiamenti drastici,
repentini, istantanei, catastrofici dunque.
È domenica, ricordo a me stesso che sono un assertore dei diritti democratici che ci
vogliono tutti uguali. Non provo nemmeno a tentare una definizione di democrazia, ora e qui
si riduce semplicemente al diritto d'accesso a questa spiaggia per chiunque: ricco o povero,
intelligente o stupido, gentile o cafone, bello o brutto, giovane o vecchio, democratico o
autoritario.

IERI
È domenica, ricordo altre antiche giornate su questa spiaggia, in cui mi teletrasportavo in
Sardegna da Roma, per una giornata di mare con gli amici di Cagliari.  La sera stessa la
macchina teletrasportatrice mi riportava a casa mia a Roma. Il fatto che questa macchina altri
la chiamino aereo, che il trasferimento sia solo quasi immediato invece che istantaneo, non
toglie nulla al fatto che l'estraniamento improvviso, dall'uggiosa giornata romana a favore di
un'avventura di mare in Sardegna, potesse essere da me vissuto come vero e proprio
teletrasporto.
Appena pochi metri dopo la fine dello stagno, l'aereo faceva il suo touch down; cinque
minuti dopo ero in auto con i miei amici verso il mare. Che fatica convincerli ad allontanarsi
da Cagliari e dalla spiaggia del Poetto, all'epoca adornata da bellissimi casotti, dipinti a tinte
vivaci, impreziositi dalle verniciature adornanti, dalle architetture estrose, differenziati da uno
stile antico che rimandava ai costumi da bagno dell'inizio del '900.
Arrivava il continentale esagitato, che invece che trascinarsi alla spiaggia cagliaritana per
antonomasia, che pure molto mi piaceva, rilanciava per deserte mete “esotiche”: Chia,
Crabonaxia, Tharros, Capo Pecora, Pescinas, Bosa, Capo Caccia, perfino la Pelosa di fronte
all'Asinara. Ero giudicato un folle a volermi allontanare tanto.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 241


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Presto ho scoperto che l'isola era come se facesse implodere chi la abitava, così che i
cinquecento chilometri che ero disposto a fare in un giorno per una gita in
continente ,divenivano distanze ritenute abissali da chi partiva dall'isola.
Posso dire, ancora meravigliandomi, di aver insegnato la Sardegna del nord ovest ai miei
amici sardi del sud. Non sempre riuscivo a smuoverli così tanto, allora, come compromesso
che riduceva le distanze, ottenevo di farli convergere sulla spiaggia di Su Giudeo a Torre Chia.

E’ domenica, ricordo che dall'aeroporto arrivavamo in un’ora a Su Giudeo, nel deserto delle
sue dune, solo noi in una natura che si direbbe incantata; erroneamente, perché è solo fulgida
di bellezza ed armonia, l'incanto è in chi se la gode, no nell’inesistente magia.
La stretta strada verso Su Giudeo passava a fianco di quell'astronave appena atterrata,
strutture lucenti d'acciaio, luci da tutte le parti, bianche, rosse, lampeggianti, dense fumate
bianche, perfino fiamme arancioni levate verso il cielo, un odore alieno che attaccava la gola:
la raffineria sul mare di Sarroch.
Verso le dieci della mattina eravamo a lasciare i primi segni sulla sabbia levigata dal vento.
Arrivavamo carichi di tutto, ombrelloni, cibo, acqua, pinne e maschere, macchine
fotografiche, creme, libri, i pigri perfino un lettino. Io con i miei aquiloni acrobatici che
nell'isola ancora non si erano mai visti, nemmeno al Poetto, dove, anni dopo, avrebbero
organizzato bellissimi raduni, per farli volare dalla candida sabbia nel cielo ricco di vento.
Passavamo lì tutto il giorno, soli, in quella vastità ancor più dilatata dalla rarefazione,
privilegiati: dall'avere il tempo, le auto per andare, io addirittura i soldi per il teletrasporto,
soprattutto la voglia di stare insieme ed essere lì.

OGGI
È domenica, sono ancora una volta su questa spiaggia, i miei amici cagliaritani ormai persi
da tempo, ma non sono solo, è arrivata la democrazia, fin qui.
Sulla sabbia si susseguono, senza soluzione di continuità, un’alternanza irregolare di di fasi
cristalline a bassa entropia, piccoli stabilimenti, e fasi amorfe ad alta entropia, spiagge libere.
Negli stabilimenti gli ombrelloni sono tutti uguali, disposti a scacchiera o a file alternate,
disegnano reticoli cristallini bidimensionali quadrati o rombici. Grandi e solidamente infissi
nella sabbia ad inizio stagione, dotati di tavolinetto portaoggetti e portacenere. Sotto ogni
ombrellone lettini ordinati, sempre lo stesso numero, perfettamente allineati, paralleli,
inevitabilmente puliti dalla sabbia, i colori omogenei e coordinati, anche gli asciugamani, in
molti casi forniti dagli alberghi, si conformano a canoni precisi. Ordine e disciplina si
accompagnano inesorabilmente alla geometria: divieti di palla, racchettoni, e similari; si parla
sottovoce, come in un luogo sacro; i “vu cumprà” nemmeno ci provano ad infilarsi tra gli
ombrelloni, costeggiano la battigia.
Nelle spiagge libere gli ombrelloni esplodono come fiori in un prato, tutte le fogge, le
dimensioni, i colori; si raggruppano a grappoli, si distanziano inutilmente. La loro fragilità

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 242


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

porta ad inclinarli contro vento, ad ancorarli con metodi più o meno professionali. Il loro
insieme disegna quadri come quelli dipinti a punti, “pointillisme” in francese, che, sorvolati in
elicottero, potrebbero pure raffigurare qualcosa ma a terra, azzerata la prospettiva,
rimangono puro caos spaziale e mero pasticcio di colori. I lettini sono banditi, troppo pesanti
da trasportare, sostituiti da fragili seggioline di plastica con la seduta raso sabbia e la durata di
una stagione. La poca ombra dei piccoli ombrelloni destinata, più che alle persone, a pacchi,
zaini, frigoriferi portatili, bottiglie, cocomeri. Profusione di asciugamani stesi da tutte le parti,
all'incirca orientati come girasoli verso il sole, ulteriore esplosione di colori, di disegni, di
simboli, di improbabili scritte, che chiamarle frasi pare eccessivo. Geometria del caos alla
quale sopravvive l’unica disciplina delle madri che richiamano i bambini, tutti diversi i
richiami, inesorabilmente uguali i principi.
Si passa da uno stabilimento ad una spiaggia libera e viceversa improvvisamente, senza
possibili contaminazioni intermedie.
Un momento si passeggia all'interno di un castro romano con il razionale intersecarsi a
croce delle vie principali, tutto ordinato dall'intersezione di verticale e orizzontale.
Subito dopo si è precipitati nel guazzabuglio di una città medioevale, addensata intorno ad
un epicentro di potere, il gabbiotto dei bagnini o il chiosco dei gelati, con dedali stretti e
intricati da percorrere per accedere faticosamente al mare, evitando di calpestare
asciugamani, sbattere agli ombrelloni, montati bassi per resistere di più al vento.
È domenica, c'è il carnaio.
È giusto che tutti possano accedere a questa bellissima spiaggia, ma vorrei essere un
dittatore per circondarla di fossati e buttafuori e ripulirla della calca pigiata che l'abita e la
deturpa.
Il carnaio sciama nelle spiagge libere, tracima negli stabilimenti, si muove di continuo,
uomini, donne, pipinara di bambini, tutti agitati da un impazzito moto browniano.
Il carnaio schiamazza, urla, ride, piange, russa, rutta e perfino scoreggia; non parla ma
produce un mormorio di fondo che nemmeno il vento riesce a disperdere.
Il carnaio volteggia sulla sabbia, come gli stormi di storni, rarefacendosi ed addensandosi,
espandendosi e contraendosi, muovendosi, pulsando, sudando.
Il carnaio intorbida l'acqua cristallina ma non sa nuotare, dove l'acqua è alta si rarefà sino a
scomparire del tutto pochi metri più a largo.
Il carnaio sopraffà i luoghi, elimina il misticismo, fuga il suono della natura, opacizza perfino
la luce, sporca, deturpa, rompe, divelle, ruba l'anima dei luoghi, trasforma tutto in un
incrocio tra Mac Donald e Disney World.
Siccome non sono e non vorrei essere un dittatore, me ne sto sotto l'ombrellone di un
castro romano messo a disposizione su questa spiaggia dall'albergo, autoreferenzialmente a
scrivere del carnaio di cui la musica in cuffia almeno elimina l'inconsulto vociare.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 243


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Adesso che ho finito di scrivere, veloce mi tufferò, per fuggire la moltitudine e raggiungere
la boa che come ogni giorno promette solitudine e pesci in moltitudine.
Da quella distanza, attutito il rumore, rimane solo un'allegra orgia di animato colore che
copre la sabbia, dietro, le dune rimangono impassibili a guardare.
Attaccato alla boa non ho il coraggio di tornare.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 244


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

49.Nonluoghi
Monti della Mola, Gallura! Mare, Viaggio in moto, Miti, Riti e Storia, Libri

Cerco nella Sardegna vera, la bellezza straziante dei luoghi, speziata dal flebile rapporto che
li lega agli uomini che ci hanno vissuto.
Luoghi aspri, che il passaggio degli uomini ha plasmato proiettandoli in una dimensione
storica, conferendogli quel senso di immanenza ancora oggi percepibile.
Uomini infaticabili che, lavorando, li hanno usati per la propria sopravvivenza, attenti a
preservarne la vitalità, regola un tempo conosciuta e osservata, per garantirne la vivibilità
anche alla propria progenie.
Luoghi simbiotici agli Uomini, il cui potere di incurvare la schiena e incantare gli occhi di
chi li ha abitati, non è stato mai vendicato.
Ho scritto flebile rapporto, perché il vincolo plurimillenario instauratosi tra i luoghi e le
genti, violento, immoto, è stato frantumato dal vivere moderno.
In pochi anni troppo è cambiato: dal teletrasporto alla comunicazione che, (quasi)
istantaneamente, in 24 ore d’aereo il primo; in pochi secondi, rimbalzando su di un satellite,
la seconda, portano, mostrano, fanno parlare e vedere, ogni parte del globo.
Noi uomini del globalizzato terzo millennio non possiamo più rincorrere il romanticismo
esplorativo di evaporati luoghi naturali, non ancora antropizzati, esclusivamente forgiati
dall’azione combinata di fisica, chimica e biologia.
Obbedienti, siamo cresciuti e ci siamo moltiplicati. Il demone della conoscenza ci ha spinto
nei più celati luoghi della terra. L’imperativo categorico della vita ci ha fatto trasformare le
terre e paesaggi delle sterminate regioni in cui ci siamo prima trascinati, poi insediati, grazie
al lavoro di tutte le moltitudini che vi ci sono succedute per (soprav)vivere.
Praticamente esauriti, o quantomeno addomesticati, i luoghi naturali, all’uomo moderno, se
sensibile e fortunato, rimane, forse ancora per poco, l’osservazione colta di quei luoghi detti
antropologici, dove all’azione naturale delle citate scienze “dure”, si è sovrapposta quella
umana legata alle scienze “molli”, discipline umanistiche, psicologia, sociologia, psichiatria,
medicina.
Luoghi antropologici, come riserve, sempre più rare, che conservano tracce di identità,
relazioni, tradizioni, storia, consolidate come nel vissuto di una sola vita, durata millenni, di
un unico ancestrale matusalemme.
Il convulso “nuovo” che avanza, aggredisce, inesorabile, i luoghi antropologici operando
nuove trasformazioni. I bisogni primari, legati alla sopravvivenza, si ampliano vincolandosi ad
obiettivi di lucro, generando un prodotto finale: i nonluoghi.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 245


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Nonluoghi come prodotto dell’eccesso di benessere, o meglio di tre eccessi ben


esemplificati dall’antropologo francese, un profondo filosofo aggiungerei, che ha coniato il
termine stesso: l’eccesso di tempo (libero), con la sovrabbondanza di eventi e possibilità che il
mondo ci riversa addosso; l’eccesso di spazio, che ha ristretto la Terra, proprio per lo sviluppo
del teletrasporto e della comunicazione; l’eccesso di individualismo, che soffoca i riti collettivi
di gioia creando una società della solitudine.

MONTI DI MOLA
Ho vissuto la bellezza straziante dei Monti di Mola, che in gallurese significa pietra da
macina, percorrendoli una prima volta d’inverno, su un vecchio vespone, come in apnea, tutti
di un fiato, per i novanta chilometri di lunghezza in cui si snoda la strada lungo la costa.
La commistione di terra e acqua, che si combattono per un’insensato predominio, genera
anfratti suggestivi, di una bellezza primordiale, aspri ma pacificanti. Luoghi sospesi tra i rilievi
aggettati ed imponenti, seppure altimetricamente modesti, che difendono l’interno, e una
costa ritorta di insenature, piccoli fiordi, cale, anticipata da isole e isolette, scogli, secche e
iridescenti bassi fondali, dove la dominate cromatica è data da tutte le sottili varianti del ciano.
Suggestivi nomi, antichi e moderni, che elenco, dal più scuro al più chiaro, come se stessi
dipingendo la bellezza lancinante di questa costa, impossibilitato ad evocarla con le sole
parole: verde veronese, dall’omonimo pittore del 1500, foglia di tè, usato nello sfondo di
Windows 95; ceruleo, con cui si indica il colore del cielo; blu bondi, inventato dalla Apple per
il primo iMac, in omaggio all’omonima spiaggia australiana; uovo di pettirosso, in uso dal
1873; turchese, derivato dalla gemma nel 1573 per indicare il colore, che discende a sua volta
dalla parola francese che indica la Turchia; acquamarina, sempre indicante una pietra; carta da
zucchero, iniziato ad usare dal 1892; blu alice, creato dalla figlia di Roosevelt e utilizzato dalla
marina militare americana.
Vista dalle pendici dei Monti di Mola, l’amalgama di colori di mare, candida sabbia finissima,
granito dalle forme improbabili e imprevedibili, macchia selvaggia ed orgogliosa, fa trattenere
il respiro, infine rilasciato da un sospiro profondo e prolungato che da pace all’animo.

STORIA
Terra antica quella dei Monti di Mola, ne parla perfino la mitologia Greca, che attribuisce al
figlio di Ercole la nascita del primo insediamento umano, in questa costa di Gallura ad una
trentina di chilometri dai luoghi di cui parlo.
Terra abitata sin dal Neolitico (6000-2700 a.C.), quando la Sardegna è stata uno dei
principali centri di estrazione dell'ossidiana del bacino mediterraneo. Dai giacimenti a cielo
aperto del Monte Arci, vicino Oristano, la vetrosa e tagliente roccia vulcanica veniva dirottata
verso le industrie di ossidiana, che si trovavano nell’area tra Arzachena e Olbia, oltre che in
diverse altre zone, tra le quali il Golfo di Cagliari e quello dell'Asinara. Per questo qui si
svilupparono intensi scambi commerciali con le isole greche e molte altre località.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 246


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

La Civiltà Nuragica (1800-238 a.C.) si insediò in questo tratto di costa, caratterizzato da


vaste piane, porti naturali ed impervi promontori granitici, sui quali costruì i propri edifici di
avvistamento e di culto: il poderoso bastione di Cabu Abbas; il pozzo sacro di Sa Testa nei
pressi di Olbia; le imponenti tombe dei giganti Li Lolghi e Coddu Ecciu, vicino Arzachena.
I Fenici, che avevano pacificamente occupato le coste durante l’epoca nuragica,
probabilmente fondarono, tra il IV ed il III secolo a.C., il primo nucleo urbano del grande
golfo nord-occidentale, proprio dove oggi è ubicata la città di Olbia.
Quando i Romani spazzarono via l’impero Cartaginese, nel 238 a.C., succedendogli nel
dominio dell’isola, l’antico centro venne fagocitato dalle nuove strutture imperiali ed Olbia,
ribattezzata Terranova, conobbe una grande espansione, grazie alla vicinanza a Roma,
capitale dell’Impero, divenendo il crocevia per i commerci tra isola e penisola, incentrati sul
grano, prodotto nel campidano e trasportato sino a Terranova per l’imbarco.
Quando i Vandali attaccarono e saccheggiarono l’impero romano, verso la metà del 400
d.C., Terranova fu occupata e la popolazione costretta a rfugiarsi all’interno, dove venne
fondato il limitrofo centro di Pausania (o Phausania).
Dopo nemmeno un secolo di dominazione i Vandali vennero piegati dall’Impero Bizantino,
residuo orientale dell’immenso Impero Romano, che per quasi cinquecento anni dominò
l’isola. Dalla disgregazione e decentramento del potere bizantino, nel X secolo, nacquero i
Regni Giudicali, tra cui quello di Gallura, che dominava anche sui Monti di Mola.
Dopo il 1200 il Regno di Gallura passò sotto il controllo pisano. Solo l’arrivo degli
Aragonesi, alleati del Giudicato di Arborea, liberò l’isola dall’influenza Pisana, fu la fine per la
città di Terranova Pausania: i suoi abitanti si dispersero nelle sassose campagne spopolandola.
Questa rovinosa situazione economica e sociale si protrasse fino all’avvento dei Savoia che,
molto lentamente, posero le basi per la fine del sistema feudale e la nascita dell’Italia unita.
Terranova Pausania riprese il suo sviluppo, grazie alla riapertura dei trasporti marittimi, alla
costruzione della ferrovia e della carrozzabile collegata alla Carlo Felice, tutt’ora la strada più
importante dell’isola. Si avviò l’industria del sughero, la pastorizia, la produzione di
formaggio; si riattivò anche la pesca e la coltivazione delle cozze. Finalmente, solo nel 1939, la
città riacquistò definitivamente l’antico nome di Olbia

LUOGO SCONOSCIUTO
Chi conosce, oggi, i Monti della Mola? Praticamente nessuno dei sardi nati negli anni ’60,
nessuno dei continentali.
Chi va in vacanza in questo lembo di terra, rimasta disabitata sino a tutta la prima metà del
XX secolo? Una folla, una massa, una schiera, una calca, una ressa di persone.
Trovare spazio su una delle piccole spiagge è impossibile perfino nei weekend di novembre.
Passeggiare solitari sulla candida rena per godere della rarefazione è ormai impossibile tutto
l’anno.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 247


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Nessuno di coloro che si bagna nelle cangianti acque di ciano, sa di essere nel territorio dei
Monti della Mola!
Mi sono arreso a quest’invasione, non provo più a passeggiare su queste spiagge, mi limito,
di rado, a ripetere quel primo rito di attraversamento su due ruote di questo paradiso, sublime
e maestoso, come incantato.
Non mi fermo, non scendo dalla moto per passeggiare a piedi, potrei commettere l’errore
fatale di rendermi conto di essere in un nonluogo.
L’ho detto: cerco la Sardegna vera. Evito i nonluoghi, come fossero giganteschi mostri, da
non alimentare per paura che possano fagocitare tutto il resto del territorio.

So bene che il mio sacrificio è vano, che i nonluoghi finiranno per debordare, ne ho tracce
ed evidenze in molti luoghi della Sardegna, da Capo Carbonara a Stintino, da Torre Chia
all’Arcipelago della Maddalena.

NONLUOGO
Nonluogo è un neologismo introdotto dal filosofo francese Marc Augé, nel suo libro
“Nonluoghi. Introduzione a un'antropologia della surmodernità”. Il termine nonluogo mi
piace moltissimo ed esprime bene la contrapposizione degli spazi artificiali costruiti per un
fine ben specifico (trasporto, transito, commercio, tempo libero e svago) con i luoghi
antropologici, naturali o artificiali.

Sono nonluoghi, sia le autostrade, le stazioni, i porti e gli aeroporti, sia i mezzi di trasporto
automobili, treni, navi ed aerei, che in essi transitano.

Sono nonluoghi i centri commerciali, gli ospedali, i carceri, i campi profughi, come pure i
parchi divertimento, gli stadi, i villaggi vacanze, tutti gli spazi in cui, pur essendoci
numerosissime persone, non si entra in relazione.
E’ un generatore di nonluoghi la pratica del “franchising”, ovvero la ripetizione infinita di
strutture commerciali simili tra loro, siano pub Guinness, o Macdonald’s, indipendentemente
dalla loro collocazione nel luogo antropologico.

I nonluoghi sono al di fuori dello spazio, esprimono l’incapacità di integrare in sé i luoghi, al


massimo li possono citare, elencare, mostrare, senza però introdurre le modificazioni e gli
adattamenti tipici dei luoghi reali. Per questo in un nonluogo possiamo trovare cibo: italiano,
cinese, indiano, giapponese, francese, messicano e magrebino. Ognuno con un proprio stile e
caratteristiche proprie, confinato nello spazio assegnato. Il mondo, con tutte le sue diversità,
messo in vetrina, tutto racchiuso in un nonluogo. Senza che ci sia un percorso guidato dal
senso. Senza informazione, interferenza, contaminazione, evoluzione.
I nonluoghi sono al di fuori del tempo, incentrati solamente sul presente, caratterizzati dalla
precarietà assoluta, dalla provvisorietà, dal passaggio. Molte persone transitano nei
nonluoghi, usano i nonluoghi, ma nessuno vi vive realmente.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 248


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Un’eccezione rappresentata dal caso, ripreso dal film del 2004 “The Terminal”, diretto da
Steven Spielberg, in cui il protagonista, interpretato da Tom Hanks, si adatta a vivere in un
nonluogo, mostra come questo sia possibile solo a patto di riuscire in parte a trasformare
l’aeroporto in un luogo.
Nei nonluoghi la memoria è cancellata, il presente non trova continuità col passato, il
progetto del futuro è interrotto. L’individuo perde tutte le sue caratteristiche, non è più
persona ma solo inconsapevole cliente e consumatore, catalogabile secondo infinite
classifiche: cliente normale, medio, generico, senza distinzioni, per questo più probabile e
numeroso; conseguentemente più interessante (più facile?) da soddisfare per fare profitto.
Nei nonluoghi non vi è una conoscenza individuale, spontanea ed umana. Non vi è
riconoscimento di gruppi sociali di nessun tipo, ad eccezione dei bagni che ne prevedono tre
tipologie: uomini, donne e portatori di handicap.

Il rapporto fra nonluoghi ed i suoi visitatori avviene solitamente tramite simboli, cartelli
iconici, linee a terra a delimitare spazi o indicare percorsi predefiniti.

CONSORZIO
In Sardegna i non luoghi hanno iniziato ad attaccare i luoghi naturali e antropici ai piedi dei
Monti di Mola negli anni’60. Nel far questo hanno realizzato un progetto coerente e
paradossalmente illuminato, almeno nei principi.
Chi non è d’accordo con la realizzazione di un Consorzio di proprietari di terreni, per circa
5.000 ettari, che si costituisca per programmare un equilibrato sviluppo urbanistico e
residenziale del territorio, acquistato a poco prezzo da poveri pastori sardi, oltre che dotarlo
di opere di qualità, necessarie per una migliore valorizzazione turistica?
Anche se la finalità fosse, com’è stata, quella di tutelare ed accrescere il valore del futuro
patrimonio immobiliare.
Che poi il Consorzio si dotasse di un Comitato d’Architettura, costituito da esimi architetti
di fama internazionale, quale struttura operativa per le imprescindibili operazioni di controllo
dell’ambiente, per quel che riguarda gli aspetti paesaggistici; dei piani urbanistici e relativo
sviluppo immobiliare; delle opere infrastrutturali; non può che meritare approvazione.
Per la tutela del paesaggio il Comitato creò regole ben precise, da rispettare affinché
l’ambiente rimanesse integro, libero dai capricci delle esigenze mondane. Ad esempio furono
proibiti cartelloni pubblicitari di qualsiasi tipo; così come i campeggi e soprattutto la
sistemazione estemporanea di tende e roulottes. Tutte le condotte, elettriche e telefoniche,
furono interrate. Si vietò perfino di piantare piante che non fossero in linea con l'ambiente
originario dei Monti di Mola, come: l'eucalipto, le palme, il pino, il pioppo ed il salice
piangente.
Chi non conviene sulla bontà di regole come queste?

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 249


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

ARCHITETTURA
L’architettura che doveva invadere il territorio è stata creata a tavolino dagli illustri architetti
prescelti dal Consorzio, così come il nome del luogo e la toponomastica, oggi universalmente
noti, tanto che dei Monti della Mola, come si è detto, non sa più nessuno.
Per l’Architettura si è detto di prendere a riferimento quella tipica, dall’aspetto povero e
rudimentale, del territorio circostante, per mantenere il più possibile la continuità.
Tre sono stati gli architetti di chiara fama a cui sono stati affidati gli interventi: uno svizzero,
francese d’adozione, amico di Picasso e Dalì; due italiani, il primo appartenete ad una nota
famiglia, dedita all’architettura sin dal XVII secolo; l’altro, a cui si devono i primi
insediamenti, ha pure partecipato anche alla creazione delle ceramiche decorate Cerasarda,
che hanno poi caratterizzato gli arredi di molte abitazioni e alberghi del Consorzio.
Quest’ultimo, visto che era un velista, è stato anche il fondatore dell’immancabile Yacht
Club, che una costa così straordinaria, ed un Consorzio così ricco, richiedeva a gran voce.
Non ho capito bene che relazione ci sia effettivamente stata tra quest’architettura, oggi
tutt’ora esistente e imitata, e quella presunta originaria gallurese, invero di fatto
impercettibile, a meno di considerare tale gli aggregati di stazzi, anche adibiti ad abitazioni
rurali, disseminati nelle aride campagne.
Anche perché questa architettura, teoricamente in continuità con il luogo, era già stata
parzialmente sperimentata, in un luogo totalmente diverso dai Monti di Mola, a mio avviso
paesaggisticamente molto più banale, anche se naturalisticamente interessante, sul litorale
pontino, a sud di Roma: ricco di laghi salmastri litoranei; piatte pianure, strappate dalla
bonifica fascista alle paludi nell’entroterra; lunghi arenili sabbiosi con piccole dune fissate
dalla macchia; ruderi di ville romane disseminati nei posti di maggior pregio paesaggistico;
costa praticamente senza rocce, ne granito, sino alla montagna di quella maga che flirtava con
Ulisse, dopo aver rinunciato a trasformarlo in un maiale.
L’architettura così improvvisamente definita, sia pur totalmente inventata, anche se
formalmente riferita alla geografia del bacino mediterraneo che, banalmente, ne ispira il
nome, non è sgradevole: abbandona la rigidezza delle linee, abolisce l’uso dell’angolo retto,
per far spazio a forme semplici, dalle linee morbide e arrotondate, a volumi plastici e
fantasiosi, che stravolgono la tradizionale morfologia a base parallelepipeda delle forme
architettoniche, come se queste fossero plasmate da quello stesso vento che ha modellato
rocce e ginepri circostanti.
Architettura che, nei casi più virtuosi, produce edifici come sculture, raccordati all’orografia
del terreno da edificare, alle rocce, alle grotte, alla vegetazione. Utilizza archi e finestrature a
sesto acuto; intonaci chiari di colori pastello, o semplici candidi rivestimenti a calce; infissi
verdi; elementi di decoro marcanti, come comignoli che sembrano candidi fantasmi, feritoie
triangolari, coppi e ceramiche.
Nel 1962 fu realizzato il primo insediamento, la “capitale”, immaginando un borgo
medioevale, dove il medioevo non era mai arrivato. Peraltro con la “minima variante”, di porvi

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 250


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al centro, non il potere ecclesiale, la chiesa, o quello secolare, il castello, piuttosto quello
commerciale, le boutiques e i ritrovi.
Nulla è stato lasciato al caso, nemmeno la denominazione degli spazi interni al “borgo” a cui
è stata affidata la funzione evocativa dell’uso per cui gli spazi sono realizzati, come la
“Passeggiata” e la “Piazzetta delle Chiacchiere”.
L’anno dopo, lo stesso architetto si è prodotto nella realizzazione di un costosissimo
albergo, immaginato come un agglomerato di ville avvolte dalla fitta vegetazione,
contraddistinte da un’estrema cura nella scelta dei materiali da costruzione e nelle formule
architettoniche, tanto semplici quanto elitarie.
Riconosco il valore architettonico, seppure straniante, di queste prime realizzazioni dovute
ad un bravo architetto, come delle molte altre ville da lui realizzate.
Poco dopo la realizzazione di questi primi interventi, le successive operazioni speculative
hanno progressivamente tralasciato l’obiettivo dell’integrazione “naturale” col territorio. Mi
chiedo il Comitato d’Architettura a cosa si dedicasse!

CHI ?
Chi può darsi regole come queste?
Sicuramente persone lungimiranti, capaci di capire l’unicità dei luoghi.
Indubbiamente ricchi imprenditori, dotati di capitali da investire, in grado di comprare
migliaia di ettari di terre brulle, aride e incolte, usate solo per le greggi, e edificare costruzioni
lussuose, vedendo in questo un business certo, oltre che la costruzione di un eremo per le
loro appartate vacanze.
Certamente persone potenti: in grado di tenere rapporti con le autorità locali per la
creazione delle infrastrutture necessarie, incluse quelle per il teletrasporto; capaci di attrarre
investimenti ulteriori; in grado di fare un adeguato marketing del territorio ricondizionato.
Innegabilmente persone colte, interessate alla bellezza dei luoghi, non alla Sardegna, e delle
architetture da realizzarvi, in grado di relazionarsi con architetti ed artisti di fama mondiale.
Probabilmente visionari egocentrici, volti alla costruzione della loro personale Utopia.
Indubbiamente personaggi elitari, desiderosi di circondarsi di loro simili e pseudosimili.
Riassumendo: persone lungimiranti, ricche, potenti, colte, visionarie, egocentriche, elitarie.
Può stupire che il loro Consorzio abbia generato un dorato ghetto autoreferenziale? Che il
campeggio non fosse concepito, né organizzato, né libero?
Peccato che la regione Sardegna non sia riuscita ad arginare la potenza del Consorzio, a cui
i sardi non hanno partecipato, né come investitori privati, ne come cittadini rappresentati
dalle loro amministrazioni, permettendo che l’area costiera dei Monti di Mola, incontaminata
e disabitata, sia stata oggetto di un intenso fenomeno di antropizzazione.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 251


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Ma non è stato questo il peggio! Persone del tipo identificato, sono poche, ci tengono a
vivere al meglio, così come alla qualità del luogo in cui hanno scelto di vivere, pure
estraniandosi da tutto il contesto che lo circonda.
La concentrazione di nobili, nababbi e vertici della società internazionale nel neonato
nonluogo ha alimentato le cronache mondane degli anni ’60, diffondendo immagini di un
mare incredibile, oltre a quelle della dolcevita estiva dei VIP, da contrapporre a quella
invernale consumata lungo Via Veneto a Roma.
Impensabile che la concorrenza a questo progetto non si sviluppasse: nel 1964, dopo due
soli anni e a soli 27 chilometri di strada di distanza, sorse una seconda “capitale” del turismo
elitario, per opera di due fratelli veneziani, tanto che la piazza principale è stata chiamata
Piazzetta San Marco. Nel 1985 venne creato il secondo yacht club, inevitabilmente in
competizione con il primo.
Inutile proseguire con l’infinita storia del cemento, dei porti turistici, dei centri
commerciali, degli alberghi, delle ville, dei campi da golf sottratti alla macchia mediterranea,
dei condomini a schiera, delle multiproprietà, dei residence, si sarà pure utilizzato il granito
di Gallura per le rifiniture e gli ornamenti ma la Sardegna è sparita, i nonluoghi hanno
attecchito e proliferato.
Poi sono spariti i lungimiranti, i colti, i visionari, gli elitari.
Del resto se costruisci la tua utopia non ci vuoi dentro i guardoni, gli invidiosi, gli emulatori,
i vorrei ma non posso, i finti famosi creati artificialmente dalla Tv dei reality. Se sei in grado di
immaginare un paradiso, quando arriva la calca dei mediocri che te lo trasforma in un
purgatorio, te ne sei già andato da qualche altra parte a ricominciare.
Sono rimasti i ricchi, i potenti, gli egocentrici.
Circondati dagli esibizionisti, da quella corte dei miracoli che s’illude di ricchezza e
potenza, dai poveretti che cercano di emergere mostrandosi e facendosi usare, illudendosi
che ricchezza e potenza gli si appiccichino addosso a forza di strusciarsi.
Assistiti, loro malgrado, dagli eredi di quei professionisti, presunti esperti di felicità altrui,
chiamati G.O., come il gioco da scacchiera cinese, quei Gentil Organizateur inventati dai
Club Méditerranée all’inizio degli anni ’50.

Stucchevolmente gentili e perseveranti, insistenti ed evangelizzanti come un testimone di


Geova, i G.O. vi scandiscono la giornata tra attività sportive, riti sociali e giochini più o meno
demenziali. Se avete resistito a tutto, la sera vi stroncano radunandovi nell’immancabile cavea,
di cui il nonluogo è dotato, per svelarvi il segreto dei segreti: “il coccodrillo come fa?”.

SENZA NOME
La bellezza straziante dei Monti di Mola, l’illusione di essere ancora in Sardegna, può solo
cogliersi percorrendoli in moto, fuori stagione, per non rimanere ingorgati in un traffico

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 252


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

bestiale, o navigandoci di fronte su una barca a vela, nelle giornate più fredde, che rintanano
nei porti l’invasione nautica.
Lo scenario è così bello che, muovendosi a piedi, distrattamente, potrebbe commettersi
l’errore fatale di girare dietro le quinte dell’immenso fondale teatrale che si è costruito, per
scoprire la ragnatela metallica degli infiniti tubi Innocenti necessari a reggere gli artefatti
scenari architettonici che disegnano questa costa incantata.
Così mi piace fantasticare su una delle cose più false che ci siano in Sardegna, così falsa che
per indicare lo stile in cui alberghi e ville vi sono state costruite si è coniato il tragico termine
di stile neo-nuragico.
Pericoloso soffermarsi a discernere i particolari, quello che inevitabilmente si rischia è la
conferma deludente di ritrovarsi in un nonluogo.

Non ho scritto i nomi degli artefici del nonluogo, ne quelli degli insulsi toponimi inventati
per contraddistinguerlo, non ce n’è bisogno, non c’è nulla che valga la pena ricordare volendo
dire di Sardegna.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 253


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Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 254


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50.Punti di vista
Valle della Luna, Gallura! Mare

Sono tornato su una delle spiagge che mi emozionano. La percorro con le prime luci
dell'alba godendo della pelle arricciata dal freddo. Cammino veloce a piedi nudi sulla sabbia
per scaldarmi, attento sugli inserti di granito che prevaricano la sabbia per non ferirmi.
L'acqua lambisce pigra la battigia, bagna il granito pazientemente, certa della sua capacità di
sgretolarlo per fare sabbia.
Finita la lunga camminata inizio a passeggiare nell'acqua bassa, immota, dai mille riflessi.
Improvvisamente mi tuffo, con lente e potenti bracciate m'allontano dalla riva.
Perché la Sardegna è circondata da coste meravigliose, da cale incantate?
Per invogliare a gettarsi in acqua. È solo dall'acqua che lo sguardo si rivolge naturalmente
all'interno. È solo da questa prospettiva che si svela il segreto che molti ignorano: la Sardegna
è all'interno.
Dall'acqua corroborante di questo bagno a cavallo tra luce e tenebra, lo sguardo svela
colline boscose, morbidi rilievi che si succedono sfumando nell'azzurrino.
Un universo rarefatto da esplorare circondato da un alta muraglia protettiva: l'incanto delle
coste.
Sono in uno stato di animazione sospesa, la Sardegna dove sono mi distrae e m'appaga, a
pochi il privilegio dell'esplorazione e della comprensione.
Sono sempre felice di bagnarmi nelle acque trasparenti ma ancora di più di aver saputo
guardare all'interno, per questo mi sento un eletto.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 255


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 256


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51.Attitu
Orgosolo, Barbagia! Miti, Riti e Storia

La morte era fino ad un paio di generazioni fa, non solo in Sardegna, occasione comune per
rivelare riti arcaici sopravvissuti alle trasformazioni culturali ed antropologiche indotte dalla
modernità.

Uno di questi è l’attitu, il lamento funebre, una volta diffuso in diverse regioni italiane, che
discende direttamente dalle lamentazioni delle prefiche dell’antica Roma, donne pagate per
piangere ai funerali, sopravvissuto nonostante sia stato generalmente condannato ed
avversato dalle gerarchie ecclesiastiche.
Con mio grande imbarazzo mi ritrovai coinvolto, una delle prime volte che sono stato in
Sardegna, in una cerimonia funebre che si svolgeva ad Orgosolo. Non conoscevo il morto che
era il nonno dell’amico di Efisio, un mio amico di Cagliari.
Il motivo che mi conduceva ad Orgosolo erano i murales, mi era già capitato più volte di
andare in paese per vederli. Questa volta, tramite Efisio, la cui famiglia era originaria di Nuoro
e dintorni, avrei avuto modo di conoscere qualcuno dei ragazzi che li dipingeva e, se possibile,
assistere alla realizzazione di uno di essi.
Nonostante il primo murales di Orgosolo sia stato realizzato nel 1969, il fenomeno è esploso
nella seconda metà degli anni ’70 grazie ad un professore della scuola media del paese, un
continentale come me, sposato con una donna del paese. L’amico di Efisio è stato un suo
allievo e con lui ha imparato e realizzato diversi murales.
Efisio organizza un weekend concitato in cui io, appena arrivato a Cagliari in nave, l’avrei
portato in moto sino ad Orgosolo, perché l’amico, insieme ad altri, avrebbe iniziato a
realizzare un nuovo murales. Domenica pomeriggio sarei dovuto rientrare a Cagliari per
tornare a Roma.
Il motivo per cui io e Efisio arriviamo ad Orgosolo, nel pieno della tragedia che ha funestato
la famiglia del suo amico, è quella mancanza di comunicazione continua ed istantanea che,
con l’avvento del cellulare e di internet, abbiamo istantaneamente rimosso.
Arriviamo nel pomeriggio di sabato a casa dell’amico di Efisio. Il nonno è morto la sera
prima. Cercando l’amico lo troviamo in casa e, saputo quello che è accaduto, ci è impossibile
non fare visita al morto.
Ovviamente quella volta il murales non si fece ed io non ho mai avuto altre occasioni per
assistere alla loro creazione.
Io, che di morti non ne avevo ancora mai visti, che non ho avuto interesse a vedere né nonni,
né genitori, preferendo conservarne memoria da vivi, mi sono ritrovato ammesso in una
sontuosa camera da letto dove, nella penombra della sera ormai incipiente, in un letto in ferro

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 257


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

battuto, col materasso gonfio che pareva morbidissimo, giaceva incastonato, affossato,
sprofondato nel soffice, un minuscolo vecchietto seriosamente vestito; addirittura
rimpicciolito dalla morte avrei detto, anche se in vita non l’avevo mai visto.
Il nonno non mi fa nessun effetto, né cattura più di tanto la mia impressione, quanto sono
completamente assorbito dalle lugubri attitadoras, le lamentatrici, molto più impressionanti
del cadavere sul letto.
Dopo tanti anni sono ancora turbato dall’arcaico rito barbaricino al quale cercai di sfuggire
presto con la scusa di lasciare il posto a parenti stretti. Non ricordo, né penso di aver capito lì
per lì, le parole ritmate e ossessivamente ripetute delle lamentazioni.
Non riesco a trovare le parole adatte per descriverlo, per questo le rubo all’interessante libro
di Franco Cagnetta intitolato “Banditi a Orgosolo”. Incredibile che il libro, che oggi
definiremo un testo di antropologia culturale, che tratta di una ricerca svolta negli anni ’50,
sia stato pubblicato in Italia solo nel 1975, dopo circa un quarto di secolo dalla sua scrittura. In
esso ho trovato una descrizione del lamento funebre sardo che è conforme ai miei ricordi,
anche se devo precisare che le attitadoras che ho visto all’opera non si sono prodotte negli
eccessi autolesionistici descritti in questo libro, limitandosi a urli e pianti.

ATTITADORAS
In sul primo entrare al defunto tengono il capo chino, le mani composte, il viso ristretto e
procedono in silenzio quasi di conserva, come se per avventura non si fossero accorte che bara
e morto ivi fossero.

Indi alzati come a caso gli occhi e visto il defunto a giacere, danno repente in un acutissimo
strido, battono palma a palma e escono in lai dolorosi e strani. Imperocché levato un
crudelissimo compianto altre si strappano i capelli, squarcian co’ i denti le bianche pezzuole
ch’ha in mano ciascuna, si sgraffiano e sterminano le guance, si provocano a urli, a omei, a
singhiozzi gemebondi e soffocati, si dissipano in larghissimo compianto.

Altre si abbandonano sulla bara, altre si gittano ginocchioni, altre si stramazzan per terra, si
rotolan sul pavimento, si spargon di polvere; altre per sommo dolor disperate, serran le pugna,
strabuzzan gli occhi, stridon i denti, e con faccia oltracotata sembran minacciare il cielo stesso.

Poscia di tanto inordinato corrotto, le dolenti donne così sconfitte, livide e arruffate, qua e là
per la stanza sedute in terra e sulle calcagna si riducon a un tratto in un profondo silenzio.

Tacite, sospirose, chiuse dai raccolti mantelli, con le mani congiunte e con le dita conserte
mettono il viso in seno e contemplano con gli occhi fissi nel cataletto.

In quello stante, una infra loro quasi tocca ed accesa da un improvviso spirito prepotente,
balza in piè, si riscuote tutta nella persona, s’anima, si ravvisa, le s’imporpora il viso, le
scintilla lo sguardo, e, voltasi ratta al defunto, un presentaneo cantico intuona.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 258


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

E in prima tesse onorato encomio di sua prosapia e canta i parenti più prossimi, ascendendo
di padre in padre in sino a che montano le memorie fedeli di tutti i santi di suo lignaggio:
appresso riesce alle virtù del defunto, e ne magnifica di somme laudi il senno, il valore e la
pietà.

Questi carmi funerali sono dalla prefica declamati quasi a guisa di canto con appoggiatura
di ritmo, e intrecci di rima e calore d’affetti e robustezza di immagini sceltezza di frasi e voli di
fantasia rapidissimi: termina ogni strofa in un guaio doloroso, gridando ahi, ahi, ahi, e tutto il
coro delle altre donne, rinnovellando il pianto ripetono a guisa d’eco: ahi, ahi, ahi’.

RITO
Il lamento funebre è un rito arcaico, storicamente accertato, caratteristico delle civiltà
primitive, che successivamente si travasa in civiltà superiori (Greca, Romana). Solo con
l’avvento della civiltà cristiana è stato oggetto di una lotta decisiva, protrattasi per venti secoli.
Appena alcuni secoli fa il lamento funebre era diffuso in tutta l’Europa. L’ordine con cui le
nazioni hanno perduto il lamento è lo stesso con le quali queste hanno fatto il loro ingresso
nella moderna civiltà industriale: Inghilterra e Germania occidentale, dal ‘600; Irlanda, inizio
‘800; Francia e Italia centro-settentrionale durante il ‘900.
Negli anni ’50 il lamento persiste ancora nelle aree depresse, che non sono pienamente
entrate nel processo di industrializzazione, come l’Europa balcanica, la Spagna, per l’Italia:
Puglia, Basilicata, Calabria e Sardegna.
Nella sua forma generale il lamento funebre è un sistema organico tradizionale e rituale di
espressioni foniche verbali e musicali, oltre che mimiche, sistema che s’inserisce nel
cerimoniale funerario in momenti critici particolari, e che per il suo interno meccanismo deve
essere interpretato come un modo di difesa dall’eccesso parossistico, o addirittura
autolesionistico, che l’evento luttuoso scatena nei sopravvissuti, soprattutto le donne.
Il lamento funebre è reso dalle parenti femminili del defunto, o dalle lamentatrici
professionali in un successivo sviluppo dell’istituto, e si appoggia su moduli fissi verbali,
mimici e melodici che tendono a spersonalizzare il dolore e che inducono, attraverso la
ripetizione stereotipa, una sorta di leggera trance nella lamentatrice in azione.

In genere le donne si dispongono in circolo intorno alla bara per “faghere sa roda”,
letteralmente fare la ruota. La lamentatrice è spesso una donna che sa piangere bene, che ha la
funzione di essere la guida del lamento, anche le parenti che sappiano eseguire il lamento
partecipano col canto al cordoglio.
È interessante il fatto che alcune donne trascrivano in un taccuino i lamenti che hanno
occasione di ascoltare. Questi appunti, gelosamente conservati, sono utilizzati alla prima
occasione per trovare il lamento da recitare in analoghe situazioni, figlia al padre, moglie al
marito, e così via, adattandolo con opportune modificazioni.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 259


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Nelle forme più arcaiche, che risalgono alla raccolta e alla caccia, il cordoglio comporta
sempre un impulso alla vendetta, a uno spargimento di sangue che compensi e riequilibri lo
choc che il gruppo umano ha subito in virtù della morte. Anche nel caso di morte naturale si
cerca il responsabile magico della morte, chi ha ucciso per incantesimo o per fattura.
In una società in cui la morte violenta è frequente e nella quale vige l’istituto della vendetta,
il lamento acquista anche la funzione di attizzare la vendetta; l’etimologia di “attitu” sarebbe
questa.
Per inciso attitare è anche una parola italiana che deriva dal latino “actum”, atto, col
significato di introdurre e proseguire gli atti giudiziari, quindi in senso giudiziario significa
leggere l’elenco delle accuse.

Nel già citato libro di Cagnetta ho trovato un esempio di “attitu” di vendetta.

Attitu di vendetta Traduzione

Ohi fizos meos caros O figli miei cari

pranghidelu ’e tottus piangetelo tutti

leades s’iscupeta prendete il fucile

chi b’ana a babbu mortu che vi hanno ucciso babbo

Sas lacrimas a nois lassade Lasciate le lacrime a noi donne

a bois su piantu non cumbenit. a voi non si addice il pianto.

Sa maccia chi at’ fattu a s’eridade La macchia che l’uccisore ha fatto alla famiglia

solu su sambene sou la trattenit solo il suo stesso sangue la cancelli.

Gli uomini non partecipano al lamento, anzi esistono forme parodistiche maschili del
lamento femminile. In sostanza il cordoglio comporta una sorta di divisione dei compiti: le
donne eseguono il cordoglio attraverso l’”attitu” che esorta alla vendetta; gli uomini eseguono
la vendetta, che fa parte integrante del cordoglio ed è il modo maschile di esprimerlo.
Il non veder il morto, per quanto possa sembrare un comportamento strano, trova la sua
spiegazione nel quadro della ideologia funeraria arcaica. Il morto è una potenza dal quale
occorre difendersi, un’energia malefica che bisogna placare: la più elementare difesa è
appunto il non veder il morto, il non accorgersi di lui, almeno fin quando non si entra nel rito,
che ha appunto fra le sue molteplici valenze anche quella di placare il morto.
Un’altra tecnica è di non farsi vedere dal morto, di celarsi al suo sguardo, il che si fa sia
chiudendogli gli occhi, sia mascherandosi e dissimulandosi: che è una delle valenze più
arcaiche dell’abbigliamento di lutto.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 260


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

La chiesa ha combattuto decisamente il lamento, in Sardegna come altrove. Ricordo ancora


a questo proposito che l’amico di Efisio mi raccontò una storia. Mentre ad Orgosolo si
svolgeva un corteo funebre, accompagnato dal lamento tradizionale, il parroco volle impedire
alle lamentatrici di fare il loro compito, per questo motivo una di esse concluse il suo lamento
con i seguenti quattro versi.

Sardo Italiano

Si ischiada su dolore Se provasse dolore

pranghiada su Rettore piangerebbe il parroco

si su dolore ischiada se il dolore provasse

su Rettore pranghiada il parroco piangerebbe.

Da notare che il testo impiega il verbo sardo “pranghere” (piangere) per “attitare” (effettuare
il lamento funebre), evidenza che nella coscienza comune non si faceva nessuna differenza fra
il cordoglio in generale e quella forma rituale di cordoglio che è il lamento.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 261


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 262


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

52.Accabbadora
Barbagia e Ogliastra! Miti, Riti e Storia, Libri

La Sardegna nasconde da secoli una cultura nella quale inaspettatamente ci sono ancora
oggi forti tracce matriarcali, così evidenti che difficilmente si scorgono altrove.
Come hanno potuto resistere questi segni di potere femminile attraverso i millenni in una
società apparentemente dominata dai maschi?
Forse ciò è accaduto proprio perché nelle parti interne della Sardegna, in quelle Barbagie,
come anche nell’Ogliastra, mai conquistate del tutto dalle civiltà invasori che si sono
succedute, le radici matriarcali erano particolarmente forti e profonde, mentre conservazione,
o forse meglio affidamento alla memoria, ed immobilità, come tentativo di trovare saldezza
nella propria terra, usi e costumi, sono stati i tratti salienti della società che le ha trasmesse.
Può essere stata conseguenza delle attività affidate necessariamente alle donne per motivi
organizzativi, in una società in cui i maschi, cacciatori prima e pastori poi, vivevano lontani da
casa per interi mesi negli stazzi insieme al bestiame e, fino ai primi anni ’70, tornavano in
paese solo una domenica al mese. Su chi poteva gravare se non sulle donne la gestione
ordinaria e straordinaria della famiglia e della società?

BUONAMORTE
Un film “Deu ci sia" interpretato dalla cantante sarda Clara Murtas e un libro di Michela
Murgia “Accabbadora”, mi mettono sulle tracce di s’accabbadora o sa femina agabbadora
una donna che pratica una forma ante litteram di eutanasia, che in greco significa “buona
morte”, in uso in alcuni paesi nell’interno della Sardegna sino a cinquant’anni fa.
Vorrei subito precisare che il termine eutanasia non è corretto e per questo non lo userò più
di seguito. Quello che una società tradizionale e chiusa, come è stata quella sarda nei secoli
passati, intende per “buona morte”, è cosa profondamente diversa da quello che intende il
dibattito etico, esploso negli ultimi anni, per alleviare le sofferenze dei malati terminali, o
rispettare l’integrità della vita umana.
Una prima differenza è che, se pure il termine della sofferenza è lo scopo perseguito da
s’accabbadora, non è detto che questo scopo sia raggiunto senza sofferenza. Diversamente,
oggi, quello che s’insegue, pur non senza resistenze, nelle prassi per i malati terminali, sono
le terapie antidolore.
La seconda grande differenza sta nel fatto che l’eutanasia moderna si incentra sulla scelta
diretta del malato, magari fatta anticipatamente in caso d’impedimento ad esercitare la propria
volontà, che può confliggere con la coscienza del medico che pone in essere l’intenzione del
malato. Diversamente, “accabadora”, termine di origine castigliana, ha il significato letterale

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 263


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

di porre fine, far terminare, ma in questo caso la scelta è lasciata alla famiglia che chiamava
s’accabbadora, che, per scelta e quindi senza potenziale conflitto etico, svolge questa
funzione sociale di porre fine alla vita di un ammalato agonizzante, magari anche sofferente,
per il quale la famiglia pensava non ci sarebbe stata guarigione.
Qualcuno potrà inorridire per l’uso del termine “funzione sociale” ma ne rivendico la
correttezza, soprattutto se si considera la terza essenziale differenza tra il dibattito sul diritto
alla morte odierno e la concezione di morte in una società che, seppure distante solo una
manciata di decenni, si fonda su valori profondamente differenti.
All’Università mi colpì, quando, in parallelo ai miei studi di fisica, un amico, che seguiva
quelli di medicina, mi fece leggere un libro di un filosofo austriaco, Ivan Illich, intitolato
“Nemesi medica: l'espropriazione della salute”, Londra 1974, di cui ho letto la traduzione
italiana edita da Mondadori nel 1977. Nel libro Ivan Illich parla della “morte naturale”. Non ho
mai posseduto quel libro, che mi fu prestato, ma ho il saggio in cui, in una precedente
conferenza tenutasi all’università di Edimburgo nel 1947, Ivan Illich anticipa sinteticamente il
suo pensiero di giustizia in campo medico: Nèmesis è il nome della dea greca della giustizia.
Ho estratto singole frasi perché ognuna è densa di significato ed è da ponderare
adeguatamente.

La conseguenza estrema della nemesi medica è l'espropriazione della morte.

In ogni società l'immagine della morte è l'anticipazione, condizionata dalla cultura, di un


evento certo di data incerta.

Ovunque la civiltà medica moderna sia penetrata in una cultura tradizionale, è sorta una
concezione nuova della morte.

Nelle società primitive la morte è sempre concepita come l'intervento di un attore: un nemico,
uno stregone, un antenato o un dio.

La concezione occidentale della morte, che tocca egualmente a tutti per cause naturali, è di
origine piuttosto recente [...] solo col Cinquecento gli europei cominciano a elaborare “l'arte di
morir bene”.

La sporca morte, la dura morte diventa non più il fine ma la fine della vita.

L'idea che la morte naturale debba sopraggiungere soltanto al termine di una vecchiaia
trascorsa in buona salute non compare prima del Settecento, ed è fenomeno specificatamente
borghese.

La richiesta che i medici lottino contro la morte e mantengano in salute i vecchi cadenti non
ha nulla a che fare con la loro capacità di fornire simili servizi [...] i costosi tentativi di
prolungare la vita si registrano dapprima solo nell'ambiente dei banchieri, cioè di coloro che
più anni passavano al banco più diventavano potenti.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 264


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Non si può comprendere appieno l'organizzazione sociale contemporanea se in essa non si


vede un molteplice esorcismo di tutte le forme di mala morte.

Lo scopo di assicurare a tutti una “morte naturale” è sul punto di diventare una
giustificazione suprema del controllo sociale.

Sotto l'influenza dei riti medici, la morte contemporanea torna ad essere argomento per una
caccia alle streghe.

La “morte naturale”, la “buonamorte”, è quindi concezione tipica delle società occidentali


che hanno risolto i problemi di mortalità e povertà endemica. C’è da chiedersi che opinione
può avere una società agricolo-pastorale, arcaica e tradizionale, come quella sarda, del mito
della vecchiaia in buona salute, ovvero del patriarca sempiterno.
Ivan Illich ci spiega come la società moderna crea un nuovo mito, quello del valore sociale
della vecchiaia che confligge con i valori delle popolazioni nomadi e primitive che vivevano di
caccia e raccolta ed usavano uccidere i vecchi.
Geronticidio e infanticidio, così come l’uccisione di infermi ed inabili, ha radici antiche che
non si legano solo ad un concetto di pietà, ma rispondono alla durezza della vita nella maniera
più diretta e primitiva. Divengono costumi di vita dominanti, non più oggetto di biasimo
perché osservati da tutti, perché ragioni pratiche inducono a ritenerli positivi per il benessere
della collettività.

TESTIMONIANZE
L'esistenza dell’accabbadora si inizia a conoscere, fuori della Sardegna, con l’inizio dei
viaggi di scoperta, tra fine ‘700 e fine ‘800, generando un misto di incredulità e curiosità
soprattutto da parte degli stranieri. Ne parla, anche se con reticenza, pure il Della Marmora
nel suo libro “Voyage en Sardigne de 1819 a 1825”, del 1826: “ ... Tuttavia io non posso
nascondere che in alcune parti dell’isola venivano incaricate specialmente delle donne, alle
quali si è dato il nome di Accabadure, per abbreviare la fine dei moribondi. Questo resto di
barbarie si è per fortuna perduto da un centinaio di anni a questa parte”.
Dalle testimonianze più o meno dirette di questi viaggiatori nasce un’immagine della
Sardegna di estrema rozzezza ed arcaicità, a cui corrispondono infastidite risposte degli
intellettuali sardi a difesa della moralità della loro tradizione.
Alla citata testimonianza del Della Marmora bisogna aggiungere quella quasi
contemporanea del capitano inglese William Henry Smyth, che mandato in Sardegna nel 1823
al comando della nave Adventure, per mettere a punto la carta del perimetro costiero
dell’isola, nel suo diario di viaggio annota:
“Nella Barbagia vi era l’usanza singolare di strangolare i moribondi nei casi senza speranza.
Quest’intervento era eseguito da una donna pagata appositamente, chiamata accabadora,
cioè ‘terminatrice’; ma questa abitudine fu abolita 60 o 70 anni fa dal Padre Vassallo, che
visitò queste zone come missionario”.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 265


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Padre Vassallo era un gesuita nato in Piemonte nel 1691 da una nobile e ricca famiglia,
mandato in Sardegna nel 1725, poco dopo l’ammissione delle Sardegna al regno sabaudo
avvenuta nel 1720, con l’incarico di insegnarvi la lingua italiana. Fallito l’esperimento
didattico, rimase nell’isola fino alla sua morte nel 1775 assegnato alle missioni popolari
itineranti, cercando di ridestare i sentimenti religiosi dei fedeli e ricucendo situazioni
conflittuali come le faide.
Questo significherebbe, seguendo il filo di quello che scrive Smyth, che la pratica di
s’accabbadora è caduta in disuso intorno alla metà del XVIII secolo. Non sembra essere così

Una delle ultime testimonianze ufficiali risale al 1929 quando, nel paese di Luras, l’ultima
femina agabbadora, variante gallurese del termine, aiutò a morire un uomo di settant’anni.
La donna era l’ostetrica del paese, simmetria della funzione sociale eleggibile a metafora: la
donna che aiutava a venire al mondo era anche quella che chiudeva una vita divenuta
insopportabile. I carabinieri e il procuratore del Regno di Tempio Pausania furono concordi
nel riferire l’atto ad un contesto umanitario, la donna non fu condannata ed il caso archiviato.
Testimonianze orali e non ufficiali riferiscono episodi ancora databili agli anni ’60.
Sicuramente una pratica tanto antica quanto importante in una società agro-pastorale nella
quale chi, come un malato terminale, oltre che patire la propria sofferenza, procurava ai
familiari che lo assistevano profondi disagi, impedendo loro di dedicare tempo all’attività
lavorativa, quindi alla sopravvivenza della famiglia stessa.
Rito crudo e violento, sospeso tra religiosità e superstizione, che sembrerebbe essere stato
praticato capillarmente in tutta la Sardegna: Barbagie, Logudoro, Campidano, Gallura,
Baronie, Ogliastra, Trexenta.

STREGHE
S’accabbadora è una donna pratica, esperta di cose “magiche”, è s’istria, sa coga, sa bruxa,
la strega, nei dialetti delle diverse località sarde, territori dove la stregoneria ha avuto un
carattere sociale ampiamente riconosciuto e le pratiche inquisitorie non sono state oppressive
e violente come nel resto d’Europa.

Questo ha reso le pratiche magiche, per secoli, parte della vita quotidiana dei sardi. S’istria,
sa coga, sa bruxa, non sono solo coloro che sanno distinguere le erbe medicinali, curare i
malanni di uomini ed animali, dare o togliere il malocchio, benedire e maledire ma,
soprattutto, le donne che sanno far nascere e morire.
Intorno a s’accabbadora si accavallano e scontrano atteggiamenti antitetici di rispetto e
disprezzo, per una donna alla quale si attribuiscono anche poteri magici.
S’accabadora è parte integrante della collettività, anche se tollerata ma mai effettivamente
approvata, e col tempo, nonostante sia ritenuta necessaria, progressivamente emarginata:
tipicamente vive fuori del paese o in un paese limitrofo a quello dove esercita le sue pratiche, è
povera.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 266


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Come se avvenisse un processo di deresponsabilizzazione della comunità nei confronti delle


pratiche magiche, utilizzate e sopportate, ma da cui ci si distacca, in qualche modo
vergognandosene.

MALAMORTE
La funzione sociale espletata da s’accabbadora non ha nulla a che vedere con il concetto di
pietà. S’accabbadora, può porre fine ad un’agonia perché è l’unica che ha la capacità di
riconoscere il sacrilegio commesso e di porvi rimedio.
Il suo intervento è strumentale al riconoscimento, da parte dei parenti, di un peccato grave,
mortale, un sacrilegio, commesso dal moribondo. L’agonia diviene così la pena da scontare
per il sacrilegio commesso.
Di fronte al riconoscimento di un grave peccato la famiglia ha un ventaglio di possibili
soluzioni diverse: di tipo medico, religioso, magico. Per questo motivo, con grande senso
pratico, dalla decisione di chiamare s’accabbadora, sono esclusi tutti coloro che non sono in
grado d’accettarla.
Anche perché è del tutto palese ed evidente che la morte impartita da s’accabbadora è una
“malamorte” che secondo le leggi ecclesiastiche avrebbe provocato conseguenze, a partire
dal divieto di sepoltura dei corpi degli scomunicati. Si coglie una caratteristica della religiosità
dei sardi, estesa agli stessi preti che agendo diversamente avrebbero perso molti fedeli,
caratterizzata da un elevato sincretismo, per questo capace di far convivere retaggi di antichi
culti pagani, cristianesimo antico, spinte innovatrici più recenti. L’agonia del moribondo è
quindi accompagnata dalla ricerca da parte dei familiari del sacrilegio da lui commesso.
Tipicamente questi sacrilegi sono violazioni alle norme morali e religiose di una comunità
contadina, altri più specificatamente connessi alla tradizione sarda: ci sono i sacrilegi legati al
furto di attrezzi agricoli, una zappa o un giogo; quelli legati alla religiosità popolare come il
furto dell’olio destinato ai santuari; ancora quelli correlati alle superstizioni, ad esempio
l’uccisione di un gatto, infine quelli connessi ai termini di un contratto o ai confini delle
campagne.
E’ interessante il tabù del furto del giogo per il tiro dell’aratro o del carro con una coppia di
bovini, su juale, che, come si vedrà, diviene anche strumento per s’accabbadora. Il giogo
testimonia la persistenza di culti antichi legati alla simbologia bovina a cui s’impone e quindi
al culto antichissimo della Grande Madre legato al periodo in cui la diffusione dell’agricoltura
e della pastorizia erano all’apice. Le religioni greche e poi romane hanno acquisito e mitizzato
questi culti ancestrali attribuendo a Filomeno, figlio di Giasone e Demetra, rappresentazione
della Dea madre, l'invenzione del giogo.
Non a caso in Sardegna, come in tutto il sud d’Italia, sino ad una trentina di anni fa, si faceva
due volte all’anno la processione dei buoi. Ne ho avuto diretta esperienza all’inizio degli anni
’80 a Crabonaxia.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 267


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

ESCALATION
La chiamata dell’accabbadora è l’ultima opzione che ha la famiglia del moribondo,
all’interno di un processo di escalation che identifica una successione di riti di morte, per
tentare di sottrarre il moribondo all’agonia, più che per salvargli la vita.
L’escalation precisa una sequenza di tentativi su una scala di valori che, procedendo,
sprofonda sempre di più verso motivazioni arcaiche ed ancestrali.
Come immaginabile la prima cosa con cui si comincia è l’intervento del prete per la
preghiera e l’estrema unzione che, ovviamente, non muta minimamente lo stato delle cose per
quanto riguarda il moribondo.
Successivamente si inizia s’ammentu, il ricordo, sorta di processo con cui si ricorda al
moribondo come sia giunta la sua ora e gli sia necessario il pentimento. In questo caso la forza
e la violenza inquisitoria fungono da terapia, tanto che il moribondo poteva frequentemente
soccombere, o, molto più raramente, migliorare.
Il successivo tentativo, il terzo, è sempre legato alla sfera della religione riconoscendone i
simboli, estremamente potenti e protettivi, come impedimento alla morte, perché in grado di
precludere all’anima l’uscita dal corpo. Per questo si levano dalla stanza del moribondo croci,
simulacri, immagini, contenitori di reliquie sacre, si arriva perfino a denudare il malato
quando sia legato a qualche ordine religioso. Ovviamente anche in questo caso senza che nulla
accada al moribondo. Questo è il primo passo in cui si riconosce che qualcosa di sacrilego sia
stato commesso dal moribondo.
Oltrepassato il confine della religione ufficiale, si cercano per distruggerli, in analogia ai
simboli sacri rimossi, altri impedimenti alla morte del poveretto: sas pungas, amuleti
impersonati da oggetti, pietre, ossa, conchiglie, che nel corso della vita ogni sardo
accumulava per protezione. Sono queste le stesse protezioni che sa coga, s’istria, sa bruxa
sono in grado di fornire, così come prepara sa rezetta o su scapulariu, a seconda del territorio,
piccolo sacchetto, custodito nascosto come potente protezione, che contiene al proprio
interno: una piccola moneta, delle erbe, i berbos, scongiuri. Inutile dire che anche questo
quarto tentativo non modifica la situazione del moribondo.
In una ricerca spasmodica di un impedimento che ostacoli la morte dell’agonizzante, lo si
denuda credendo che non riesca a morire a causa degli indumenti che porta addosso che
nascondono su puntu, qualche cucitura fatta la domenica delle palme, e sa duminiha, una
strisciolina di palma benedetta cucita all’interno dell’orlo. Così, nudo, si lascia il morituro
agonizzante, in Gallura, in particolare, in un lenzuolo zuppo di acqua fredda, nella speranza
che un’infreddatura, una broncopolmonite fulminante, sortisca l’effetto ricercato.
A meno che non sia lo stesso cuscino o pagliericcio a contenere una qualche “protezione”,
cosa che segna un ulteriore passo, il sesto, nella procedura di escalation e fa rientrare in gioco
come principale protagonista su juale, il giogo. Elemento di rara potenza magica tanto che, se
è vecchio e inservibile, si sistema in un angolo dietro la porta e si lascia lì, senza mai metterlo
nel camino come legna da ardere. A volte, spostando su juale, per metterlo sotto il cuscino del

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 268


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

moribondo, può capitare che bastino movimenti, spesso volontariamente maldestri, per dare
il colpo, nel senso più letterale del termine, di grazia al malato.
Un ultimo estremo tentativo, il settimo, prima di chiamare s’accabbadora, è
l’allontanamento della famiglia dalla stanza del moribondo, perché lo stesso affetto dei parenti
potrebbe impedire il distacco dalla vita, costituendo in sé un amuleto, protezione. Usanza
funzionale, utile a occultare la necessità di lasciare libero accesso all’accabbadora, che certo
non adempirebbe la sua funzione di fronte a familiari e testimoni.

EPILOGO
S’accabbadora interviene alla fine, dopo questi sette passaggi, esclusivamente su richiesta di
uno dei familiari del moribondo, solitamente quello meno animato da sentimenti religiosi,
quando questi patisce lunghe, gravi sofferenze, incurabili malattie.
Il rito, freddo ed articolato, si svolge solo dopo il tramonto del sole o in piena notte,
s’accabbadora porta indosso una veste nera, il viso semicoperto, con lei l’attrezzo del
mestiere su mazzolu o su mazzoccu, un martello ligneo a forma di “T” intagliato nel legno di
ulivastro che, avvolto in un panno di orbace, è utilizzato per colpire la vittima sulla nuca, ma
anche in fronte o sul torace. Come tutti gli oggetti legati ai riti anche su mazzoccu è tenuto
nascosto.
La stanza del moribondo è già vuota di immagini sacre, amuleti e familiari, ogni tentativo è
stato già fatto. Usciti tutti, rimane sola con il morituro. La donna, per prima cosa, raccomanda
a Dio l’anima - la sua o quella del moribondo? - recita preghiere, ninne nanne o formule, allo
scopo di separare l’anima del moribondo dal suo corpo e quindi liberarla. È da supporre che
un piccolo colpo alla nuca, dato da una persona esperta provochi la morte istantanea, sia
adoperando direttamente su mazzoccu, sia facendo battere la testa contro su juale,
precedentemente messo sotto al cuscino dai parenti. Anche il soffocamento con la mano o con
il cuscino può porre fine all’agonia. La pratica, qualunque sia, spesso dura qualche momento
di troppo e non risulta essere completamente indolore. Rimane, infatti, il detto “su ohi de
s’accabbadora”, come ultimo lamento del moribondo.

Dopo pochi minuti S’accabbadora, terminato il proprio compito esce e il moribondo è


morto; la donna rapidamente s’allontana. Non riceve denaro per la sua funzione ma viene
ricompensata in natura con farina, sale, lardo.

OGGI
Oggi il marketing s’impadronisce di tutto, di qualunque brand pur di vendere. Nel tempo in
cui su juale fa bella mostra nei piccoli musei etnografici spuntati come funghi dappertutto, è
venduto camuffato da souvenir per i turisti. Strano che però a volte lo si trovi anche nelle case
dei sardi. Perché i sardi dovrebbero comprare souvenir sardi?

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 269


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Più atroce è sapere che le repliche del mazzoccu esposto nel Museo Etnografico “Galluras”
di Luras siano vendute come originali ciondoli d’argento. Sono richiestissimi dalle visitatrici
del museo e apprezzati anche dalle donne sarde, che lo appendono sul seno quale scherzoso
ammonimento contro i tradimenti dei loro uomini. Simbologia moderna che tradisce
completamente il significato originario.

Tutte le volte che ho chiesto di S’accabbadora nessuno mi ha detto nulla. Le risposte sono
state tutte straordinariamente uguali:
“Si certo che so cos’è s’accabbadora! Anche se l'argomento a casa mia  è sempre
stato decisamente tabù, mia madre ha detto che c'erano in tutta la Sardegna, ma non nel suo
paese. Ricordo però che quando ero piccola ed assistevo curiosa alle chiacchiere delle donne
vecchie del paese su lingua e medicina popolare, sull'argomento s’accabbadora non riuscivo
ad estorcere nessun tipo di informazione. C'era una segretezza quasi assoluta, una specie di
paura, probabilmente motivata dal rischio di far di finire in galera qualcuna di queste donne”.

Una mia amica sarda ha recentemente intervistato donne tra gli 80 ed i 100 anni del suo
paese d’origine, di cui non citerò il nome per riservatezza. E’ emerso che in paese si usavano e
si usano tutt’ora, tanti riti riti propiziatori per accelerare la morte, senza però procedere al
colpo di grazia finale.
In questa testimonianza vedo quel segno di conservazione della cultura agro-pastorale che si
può osservare di molti luoghi della Sardegna.
Non si cerchi per questo nella parola “conservazione” un’accezione per forza negativa: può
essere interpretata come senso della memoria.
Quella che il nuovo che avanza impetuosamente danneggia e questo sicuramente è negativo.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 270


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

53.Ho voglia di Lei e dell’Altra


Santa Maria Navarrese, Ogliastra! Moto, Viaggio

Ho avuto un incidente di moto, è andata bene. Ultima giornata d'ospedale, cielo plumbeo
che attenua la morsa del caldo d'estate. Domani torno a casa, con le costole fratturate, il piede
sinistro ingessato e lo spirito anestetizzato.
In attesa che vengano a prendermi per l'ennesimo esame medico, guardo alla finestra il
panorama romano, avvilito dal basso cielo livido, m'immagino a cavallo della mia moto
straziata, perso sulle arricciate strade di Sardegna.
La celata abbassata, come rigata di pianto, per la pioggia che intride la terra ed attenta
all'umore, solo così posso oggi immaginarmi.
Davanti a questa finestra, con lo sguardo pigro allungato sul vasto panorama che mostra la
città di Roma perdersi nella campagna, scopro che ho voglia di Lei ... e dell’Altra ...

Io, impaziente,
Il solo modo che conosco per celebrare il disastro che si è consumato nell'incidente di
moto, di cui sono l'unico responsabile e fortunatamente l'unico infortunato, è urlare questa
mia voglia, tante altre volte soddisfatta, che vorrò prepotentemente tornare a soddisfare.
ho voglia ...
Ho voglia di accenderLa e preparare la vestizione con cura, mettere per ultimo il guanto
destro, mentre Lei si scalda borbottando suadente, appena sceso dal traghetto ad Arbatax
impaziente di discendere l’orientale sarda verso Castiadas per visitare il vecchio carcere
abbandonato.
di Lei, la moto, e ...

Ho voglia di stupirmi ancora una volta mentre con gli occhi ripercorro ogni curva della Sua
sinuosa carena, ogni fredda parte metallica, ogni Suo componente meccanico, per sentire il
Suo odore mischiato a quello di elicrisio e salso, che inspiro come per prepararmi ad un’apnea
prolungata.

dell'Altra, la Sardegna;
Ho voglia di girarLe una gamba intorno e calarmi in quella che sembra la mia armatura, e
guardare la costa del sud che si dipana da Torre Chia sino a Porto Pino da una visiera che si
sporca sempre più, senza togliere nulla ai colori della spiaggia di Tuerredda.

delle strade come giostre;

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 271


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Ho voglia di girarLe la manopola gentilmente, come se spostassi i capelli di una donna prima
di baciarla sul collo, per sentirLa che mi prende e mi spinge in avanti per quelle strade che si
fanno giostre di fronte al nostro incedere, portandomi ad incrociare, a Sorgono, dimenticati
treni a vapore.

del pathos delle miniere.


Ho voglia, sì, ne ho voglia, di sentire il Suo urlo che continua nel silenzio dei boschi di
sugherete che circondano la miniera di Funtana Raminosa, mentre le mani si stringono
sempre di più a trattenerLa e i pensieri rimangono indietro.
Attento alla piega perfetta,
Ho voglia di avere in testa solo la prossima curva sulle arricciate strade di Barbagia e del
salto di Quirra, per cercare solo la piega perfetta che dà vertigine, sì, ne ho maledettamente
voglia.
immerso nel paesaggio,

Ho voglia di sentire quell'attimo sospeso, come nell’immanenza di un primo bacio, ogni


volta che scendo in piega, per affrontare un tornante che dipana un paesaggio
improvvisamente fatto di tacchi calcarei e granito, foreste e macchia, dune e mare, nuraghi e
villaggi minerari abbandonati, stazzi e tanche, fidandomi dell’effetto giroscopico delle Sue
ruote nere e del mio istinto.
per urlare nel silenzio,

Ho voglia di sentirmi un po’ animale, di arricciare l'asfalto e di farLa urlare nel silenzio
grave della Giara di Gesturi per, solitario, capire che anche oggi sono nel vento!
in un'illusione di libertà.
Quel che sono quando sono con Lei e con l'Altra non lo so, né lo voglio sapere. Assieme
non disegniamo un triangolo d'infedeltà ma una trinità di pura emozione. E' felicità pura, è
adrenalina, è la spontaneità di un sorriso bambino che improvvisamente appare, è illusione di
libertà.
Per tutto questo tornerò.

Su di Lei risalirò, con Lei tornerò dall’Altra per fotografare un’amata casa a Capo
Carbonara, vicino alla vecchia Fortezza Aragonese, appollaiata sugli scogli in riva al mare, con
uno spettacolare panorama.

Avrei potuto essere più sintetico:


In attesa, io, impaziente, ho voglia ... di Lei, la moto, e ... dell'altra, la Sardegna; delle strade
come giostre, del pathos delle miniere. Attento alla piega perfetta, immerso nel paesaggio, per
urlare nel silenzio, in un'illusione di libertà. Per tutto questo tornerò.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 272


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

54.Casa sul mare


Punta S. Stefano, Capo Carbonara! Mare

Un settembre ho fatto la mia ultima vacanza nella casa sul mare che ho molto amato, sulla
costa di capo Carbonara, di fronte all’isolotto, solo un grosso scoglio, di Santo Stefano.
Quella casa in Sardegna oggi non mi è più accessibile. Ancora mi pento di non averla
acquistata, non avevo la possibilità di comprarla, né quella di goderla. La casa sul mare, le
persone che l’hanno abitata, le cose che vi sono accadute, mi riempiono ancora la testa.
Immagino di trovarmi a scrivere su quel tavolo rotondo poggiato sulla veranda di fronte al
mare, così pesante da essere ritualmente mosso solo per la festa della luna piena d’agosto, il
piano costruito con una sorta di tegole piatte, su una delle quali sono impressi dei simboli.
Ho poggiato il computer sul quale scrivo queste pagine accanto a quello stemma di cui mi è
stata spiegata la simbologia. L’unica cosa che non so spiegare è la scritta “TU IMP” segnata
nel cotto alla sinistra dello stemma.
Molti anni dopo che la casa sul mare sarà persa assieme a questo tavolo, che ad essa è rimasto
abbarbicato, ora immoto, saprò che sono le prime parole di una poesia che Bruno, il
costruttore del tavolo, dedica alla sua donna quando la casa è ancora in costruzione.

Tu

impara

l’amara rinuncia

di non farmi promesse,

mai.

Io

conoscerò

l’angoscia di non

chiedertene.

Se

il “termine”

ci troverà ancora uniti insieme,

allora questo

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 273


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

sarà stato amore.

Oggi che il “termine” è giunto posso affermare che è stato amore.


Mi piace la sensazione tattile di ruvido mattone che questo tavolo emana.
Il maestrale ha aumentato la sua forza e guardando la meda che segnala la secca con il
binocolo, ho visto il mare rompersi e schiumare.
Lo stemma sul coppo, non a caso, è messo in posizione che io possa guardare il mare. Mare
che ha già perso i colori d’estate per assumere quelli plumbei argentati. Mare scintillante
d’acciaio bluastro e violetto. Orizzonte seghettato, interrotto solo da un abitudinario
traghetto.
Cielo denso e pastoso, drammatico, come fosse fotografato in bianco e nero con il filtro
rosso. Cavalloni di nuvole che s’inseguono e s’infrangono. Cielo basso da toccare con un
balzo.
Una vena di malinconia mi attraversa. Tutto continuamente cambia, si trasforma.
Cambiamento come successione continua di “inizio” e di “fine”. Ricordo quando una piovosa
sera di dicembre, sono arrivato per la prima volta in questa casa, per la prima volta in
Sardegna.
Settembre è bellissimo, non c’è quasi nessuno, le case vicine sono vuote. Ogni giorno dalla
casa si raggiunge una spiaggia diversa, ce ne sono ben sei per fare la settimana e rimanere sul
praticello il settimo giorno, a godersi l’ampio panorama marino, senza soffrire il caldo.
La casa vuole un dinamismo accentuato: alzarsi poco dopo l’alba per fare la spesa; cucinare
prima di andare in spiaggia; armeggiare con gli aquiloni acrobatici alternandone le evoluzioni
a lunghe nuotate con maschera e pinne; passeggiare; appennicarsi dopo pranzo; innaffiare il
prato al tramonto; la sera accendere il camino per cuocere la carne alla griglia usando le pigne
raccolte nella pineta che degrada a mare.
Manca qualche giorno alla fine della vacanza che, so già, non si ripeterà. Una di quelle “fini”
che si diceva. Questa casa allora come testimone dell’eterna staffetta che tutti ci coinvolge e ci
stritola.
Questa vacanza, la “fine” della casa, la sto usando come nuovo “inizio” per lasciare tante
cose e persone che ho amato. Un nuovo ciclo mi si apre, certamente diverso ma non
necessariamente più bello o più brutto, solo diverso: tempo due mesi e sarò padre.
La prima sera che sono arrivato ho fumato la piccola pipa di coccio col bocchino di canna
che risale agli anni ’60, quella che ho sempre usato solo quando sono stato qui. Penso che
negli ultimi anni sia sempre stata sopra al camino. Può essere che non sia vero, ma tutte le
volte che sono stato qui, atteso, la pipa mi aspettava sulla mensola del camino.
Quando la malinconia mi è passata ho preso la pipa e l’ho messa in valigia pensando di
fumarla appena tornato a Roma.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 274


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Oggi che quella casa è perduta da molti anni e che già un altro ennesimo ciclo è iniziato, sto
qui a scrivere con la lunga canna tra i denti ed ogni tanto accarezzo il fornello caldo della
vecchia pipa per scaldarmi le mani.
Scrivendo vedo quella casa perduta, così viva e presente nel mio ricordare.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 275


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 276


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55.Seadas
Aeroporto di Elmas, Cagliari! Incontri, Cibo

Sono appena imbarcato sull’aereo in partenza dall'aeroporto di Elmas per Roma. La breve
visita d’inizio anno in Sardegna è appena finita. Penso ad Ugo e Rita, i miei amici di Cagliari,
che come sempre mi hanno accompagnato all'aeroporto. Rita mi ha salutato con i consueti
occhioni lucidi; dopo anni di rarefatti, intensi, incontri continua a temere che non ci sia
un’altra occasione per ritrovarsi assieme.
Divago, annoiato dai triti annunci dello steward che precedono le procedure di partenza.
Peccato che Piero non si sia visto, dopo tanto tempo ci siamo incontrati per caso a Cagliari
due giorni fa e siamo riusciti a passare una sera assieme, aveva promesso di venire a salutarmi
all'aeroporto, non ce l’avrà fatta per il traffico convulso della prima mattina.
Come sempre sono seduto vicino al finestrino, sull’uscita di sicurezza per poter allungare le
gambe sfruttando la maggiore distanza tra le file di sedili; sul lato sinistro dell’aereo, come si
conviene al ritorno da Cagliari, pregustando di dare un’ultima occhiata ai colori del mare e
giocare ad identificare i più minuti particolari sulla costa, utilizzando la memoria delle strade
mille volte percorse a terra.
La lunga bianca spiaggia di Quartu disseminata di inclinate casamatte, con lo stagno alle
spalle; l’assurda conigliera di Torre delle Stelle, che rovina quell’insenatura deliziosa; Capo
Boi, con lo scoglio di fronte, buono per le immersioni; l’isola dei Cavoli, con il faro
abbandonato ed un vecchio relitto sporgente; lo stagno Notteri, che qualche giorno fa ho visto
ancora pieno di ritardatari fenicotteri rosa; l’allungata e deserta isola di Serpentara; la
selvaggia costa sino a Capo Ferrato.
Poco dopo l’aereo compirà un’ampia virata a destra riempiendo definitivamente di cielo e
mare l’opaco finestrino e la Sardegna sarà perduta per l’ennesima volta.
Finalmente l’hostess chiude il portello. Con un leggero sobbalzo l’aereo si muove ruotando
su sé stesso per puntare sulla linea bianca che segna il corretto modo d’accesso alla pista.
Appena sulla pista la percorrerà sino in fondo, in direzione opposta al mare e giunto alla fine,
sorpassate delle sorte di strisce di attraversamento pedonale per giganti che segnalano al
pilota sprovveduto l’inizio del prato, nuovamente girerà su sé stesso per raggiungere la
corretta posizione di decollo verso il mare, in faccia ai venti dominanti.
L’aereo che rulla mi scuote ritmicamente la testa, così com’è poggiata sul bordo morbido del
finestrino a guardare la sterpaglia che lotta con l’asfalto per riprendersi la pista. Con la coda
dell’occhio mi accorgo di un balenio giallastro che l’ottica deformata dell’angolo del
finestrino non mi permette di comprendere. L’aereo rallenta all’approssimarsi della fine della
pista, la luce gialla guadagna terreno, una panda bianca e verde con una sirena gialla sul tetto
gareggia nella corsa con il velivolo.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 277


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

L’hostess che, come previsto dal regolamento, siede vicino alla porta di sicurezza dove sono
io, è richiamata in cabina e deve slacciarsi la cintura. L’aereo è ora fermo, guadagnata la
posizione di decollo. All’improvviso sento spegnersi i motori. C’è concitazione tra il
personale di bordo che intravedo vicino al portello anteriore. L’hostess comincia a manovrare
per riaprirlo. Che noia, penso, un ritardatario.
Non c’è una volta che si riesca a partire in orario: una volta un onorevole in ritardo, un’altra
un pilota cui dare un passaggio, poi borse dimenticate, squadre di pallanuoto in trasferta che
si perdono un elemento, militari al rientro della licenza, pacchi consegnati in extremis. E’
possibile che ogni decollo riservi delle eccezioni, che chiunque per proprie personali
esigenze debba fermare gli aerei, mobilitare un aeroporto, permettersi incurante qualunque
ritardo in spregio degli altri passeggeri? Mi pare assurdo, incivile, irrispettoso, m’irrita che
succeda quasi sempre.
Dal finestrino non vedo più la panda che si è portata vicino alla prua del velivolo, vicino al
portellone ormai aperto. Improvviso il “plin-plon” elettronico che annuncia una
comunicazione aumenta la mia irritazione. “Il passeggero Marco Gentili è pregato di farsi
riconoscere dall’hostess più vicina”.
L’irritazione si trasforma repentina in preoccupazione, chiamano me, ma cosa sarà
successo? Agitato, chiedo al mio vicino di farmi passare, costui mi guarda con deferenza ed
obbedisce prontamente come fossi il padrone dell’aereo: ha immediatamente capito che sono
quello che cercano. Cammino lungo il corridoio verso un’hostess a prua. Si girano tutti a
guardarmi, sento un mormorio di disapprovazione alzarsi alle mie spalle.
Chiedo all’hostess cosa sia successo, non ne sa niente, ma la devo seguire in cabina dal
comandante. Il comandante è al suo posto di guida che chiacchiera. Qualificatomi, chiedo
cosa sia successo. La risposta è secca ma non irritata, “Via Signor Gentili, se non lo sa lei!”.
Che devo sapere? Sto sudando. Il comandante mi chiede di favorire un documento. La
preoccupazione è al culmine, devono pure accertare la mia identità.
Invero l’esame del documento mi pare assai approssimativo. Provo a richiedere spiegazioni.
Per tutta risposta mi porgono una cornetta telefonica. Ma con chi devo parlare? Mi sto
sforzando di non urlare. La cornetta mi consente di parlare via radio con uno dei due uomini
della panda che vedo dal portello aperto sempre lì sotto all’aereo.
“Pronto?”, voce tremula.

“Buongiorno, è il Signor Gentili?”, voce sicura, di routine.

“Sono io”, ma sì che sono io, ora mi chiedono i documenti anche questi, penso.

“Abbiamo qui un pacco per Lei”

“Ma io non ho dimenticato nessun pacco!”, voce meravigliata.

“Si lo sappiamo, non si preoccupi, c’è un biglietto che le spiegherà tutto”, ma questi sono
come la CIA, sanno tutto, conoscono tutto.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 278


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

“Come scendo?”, mi sembro cretino ma manca la scaletta e la panda è sotto di almeno tre
metri.
“Chieda ad un’hostess una fune per caricare il pacco”, se ero Indiana Jones non avrei avuto la
voce impacciata ed avrei potuto usare la frusta.
“D’accordo, ora chiedo, arrivederci”, imbarazzata massima gentilezza.

“Arrivederci e buon viaggio”, professionale massima gentilezza.


E’ lo steward che cala una cimetta e tira su un bianco involucro rettangolare, cinquanta
centimetri di larghezza per trenta. Mi ritrovo in piedi a braccia tese in avanti con questo
“coso”, fondo rigido ed una sorta di lenzuolo annodato che lo avvolge terminando in un
fiocco dal quale lo steward slega la cimetta. Il comandante si affaccia per chiedermi se
possiamo andare. Recupero tutta la mia sicurezza e ben meditando la risposta affermo che, sì,
mi pare, dopotutto, potremmo partire.
Mi rimane il percorso sino al mio posto con il trofeo tra le braccia, scortato da due hostess,
gli occhi di un aereo intero incollati su di me, alcuni, i più lontani, si alzano per vedere
meglio.
“Che roba è?” chiede spontaneamente un bambino che incontro. “Non lo so davvero”
rispondo sincero, mi allontano sentendolo urlare “Un pacco segreto! Un pacco segreto!”.

Il mio vicino è costretto ad alzarsi di nuovo, affido il pacco ad una delle hostess, mi calo, mi
viene riconsegnato il pacco. Il vicino si risiede. Le hostess premurosissime mi chiedono se
desidero qualcosa, non desidero nulla. Sorrido al vicino, non mi guarda, guarda il pacco.
Esploro rapidamente il lenzuolo per trovare traccia di spiegazione. Niente. L’aereo sta
finalmente vibrando pronto al suo balzo. Decido di aspettare di essere in aria per aprire.
Il nodo fatto col lenzuolo candido è stretto a morte, fatico per allentarlo. I bulbi oculari del
vicino di posto potrebbero cadere in terra per come mi segue. Fatto, sollevo i lembi ed apro.
Su una tavola di legno chiaro, ordinatamente riposte in simmetriche file. “Seadas!”, esclama
felice ed infine appagato il mio vicino.

Le seadas sono focaccine dolci di formaggio, dolce tipico che conclude felicemente un
pranzo sardo. Le focaccine ovali sono riempite di formaggio fresco, non salato, lasciato
inacidire per qualche giorno in modo che scaldato sia filante. Devono essere fritte
appena ad indorare e quindi cosparse di miele di corbezzolo. La pasta esterna è fatta di
semola, uova, strutto ed un poco di sale. L’impasto interno è composto con formaggio in
scaglie, semola fine, buccia grattuggiata di limone, zafferano, prezzemolo, sciolto in un
tegamino e amalgamato agli altri ingredienti con una spatola di legno. Una volta pronte
le seadas devono aspettare ancora un giorno per andare in padella. Qui, appena l’olio arriva
sulla parte ripiena di formaggio, la seadas si gonfia e la pasta si riempie di bolle assumendo un
bel colore dorato. Estratta ed asciugata su carta paglia, posta nel piatto da portata si ricopre di
quel miele amaro ricavato dal corbezzolo.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 279


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

In un angolo del vassoio la spiegazione. Un laconico biglietto mi spiega che le seadas sono
opera amorosa della mamma di Piero, che il formaggio utilizzato è quello buono del nonno,
che purtroppo Piero è arrivato in ritardo per salutarmi, che le seadas non mancheranno
comunque il loro appuntamento. Guardo fuori del finestrino pensando al gesto gentile di
Piero, faccio in tempo a veder sfilare la spiaggia del Timiama con l’omonimo stagno alle
spalle.
Quando l’aereo ritarda ad Elmas io ora non mi irrito più, non importa il motivo. Ho avuto
anch’io il mio breve dirottamento e di questo nel tempo sono sempre felice. Mi piace
immaginare che ad Elmas ogni tanto qualcuno porti seadas anche a quei poveretti della torre
di controllo autori di tanti arrembaggi dell’ultimo momento come il mio.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 280


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56.Postfazione

PERCHÉ LA SARDEGNA ?
In qualche modo si potrebbe sostenere che io mi droghi di Sardegna. Così come elusivo è il
descrivere gli stati allucinati raggiunti con le droghe in termini di reali emozioni e sensazioni,
altrettanto mi è difficile rappresentare pienamente l’intensità di sentimento, la liricità,
l’emozione, l’affetto, l’emotività, la commozione, il patimento, delle mie solitarie
peregrinazioni sarde.
Quelli che avete letto sono frammenti di Sardegna che cercano umilmente di raccontare una
“mia Sardegna” specchio assoluto delle mie emozioni.
Dico “mia Sardegna”, non perché la Sardegna non sia di tutti e come tale pubblicamente
accessibile, piuttosto perché l’ho elevata, per un complesso di sedimentate cause e
circostanze, ad una dimensione mistica che nuovamente la sospende tra mito e rito come ha
fatto la sua storia.
Dico ancora “mia Sardegna” perché non ho l’ardire di pensare di averla rappresentata tutta,
il mio viaggio ancora continua, le scoperte si succedono. Anche se ora mi sembra che il tempo
scorra più veloce e le tracce di usi, costumi e tradizioni si dileguino più in fretta, sostituite
dall’omologazione del vivere moderno tipico dei paesi occidentali.

PERCHÉ FRAMMENTI ?
E’ un frammento ciascuno dei piccoli pezzi di un oggetto che ha subito rottura. E’ ancora un
frammento la parte superstite di un’opera letteraria in gran parte andata perduta.
I testi che qui si succedono sono frammenti per entrambi questi motivi.
Sono pezzetti, detriti, schegge, perché la Sardegna è un oggetto sgretolato dalla sua storia,
dalle incessanti invasioni; scheggiato dalle contrapposte pulsioni tra interno e costa;
fratturato dall’attacco del turismo, dal modo di usufruirne a singhiozzo, di abusarne.
Sono vaghi brandelli di opera letteraria perché sedimentati come appunti di viaggio, sciolti,
autonomi, indipendenti; senza una pretesa progettualità di costituire riferimento, né per il
viaggio stesso che li ha generati, né per la descrizione dei protagonisti, tantomeno per una
qualsiasi definizione della Sardegna dai punti di vista della vicenda storica od artistica, del
mondo popolare tradizionale, dell’ambiente naturale, dei modi e dei tempi di una visita
turistica.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 281


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Se di luoghi, tempi, persone, libri, capiterà di parlare sarà fatto solo per rendere omaggio
alla memoria della Sardegna che di fatto assieme all’ideale di viaggio rappresenta l’unico
flebile legame che unisce i frammenti tra loro. Per estrarre suggestioni e sensazioni, condite
da un pizzico d’ironia, che possano aiutare ciascuno nell’opera di personale ricomposizione
dei frammenti, di ricostruzione della propria visione della Sardegna.
Per questo i frammenti non danno indicazioni su cose da vedere, da fare, da comprare, o lo
spunto per un itinerario di viaggio; non sono contraddistinti dall’inappuntabile analitica
veridicità tipica del cronista o dello storico; non forniscono la profonda conoscenza di usi e
costumi propria dell’antropologo culturale.
I testi, oltre che frammenti, sono anche sparsi. Perché accumulati nel corso di più di un
trentennio di vagabondaggi sull’intero territorio sardo, incluse le isole minori. Perché
proposti a casaccio, senza un filo conduttore, privi di una sequenza logica o cronologica,
riferiti a luoghi qualsiasi nella loro realtà.
Perché artefatti, anche se mai del tutto inventati; spesso modifica, distorsione, fusione, di
diversi momenti direttamente vissuti o, più raramente, di fatti solo sentiti, carpiti alle persone
incontrate.
Le persone descritte nei racconti non corrispondono necessariamente a persone reali pur
ispirandosi sempre a personaggi incontrati e conosciuti; in alcuni casi sono composizioni,
collage, dei tratti e del dire di più persone distinte.
C’è qualche eccezione, ne esplicito solo una: Bruno, uno dei pochi protagonisti non sardi,
che si affaccia in diversi frammenti, è mio zio. E’ a lui che devo la mia passione per la
Sardegna, è lui che me l’ha saputa raccontare, è lui che è stato il mio primo lettore delle cose
di Sardegna che andavo scrivendo. A lui dedico questo libro.
Poiché sparsi i frammenti si possono leggere in un ordine qualsiasi che è tradito dalla carta
stampata che ci incanala ed obbliga verso la rigida sequenza lineare del pagina dopo pagina,
frammento dopo frammento.
Piuttosto che in un libro i frammenti dovrebbero essere organizzati in un mazzo di tarocchi
da poter incessantemente mescolare, per comporre storie estraendo una carta alla volta. In
questo modo lasciando al lettore il compito di costruirsi la sua immagine unitaria di una
poliedrica e sfaccettata Sardegna, scegliendo come ordinare il mazzo di tarocchi, a suo gusto,
così da sfuggire all’assurda concatenazione lineare utile solo a chi deve dimostrare una tesi.
Poiché l’impercettibile legame che traversa i frammenti è il viaggio in Sardegna, ho scelto di
cominciare con il racconto del mio primo incontro con l’isola e di finire con la descrizione di
una delle mie più curiose partenze da questa terra.
Per facilitare questa opera di ricomposizione, i frammenti sono sempre riferiti: ai luoghi di
Sardegna in cui si svolge l’azione e ai temi rispetto ai quali il raccontare sovente ritorna
dipanandosi nel tempo e nello spazio:
• gli incontri con le persone che mi hanno insegnato di Sardegna e non solo;

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 282


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

• il mare, tema a volte sovrapposto a quello del turismo;


• l’intersecarsi di luce, vento, roccia e spazio, le componenti emozionali del paesaggio
sardo;
• il viaggio, come modalità di approccio ai luoghi ed alla gente, con l’entusiasmo che
provoca la moto come strumento di libertà ed immersione nel paesaggio;
• l’archeologia industriale, con una specifica attenzione alle miniere;
• l’insieme di mito, rito e storia che s’intersecano con la vita quotidiana;
• i libri in cui specchio le mie sensazioni e riflessioni di Sardegna;
• il cibo, come ingrediente dell’incontro, che pervade buona parte dei racconti.
Al di fuori di questa sorta di classificazione tematica rimangono solo: questa postfazione che
state leggendo, legata alle motivazioni sottostanti a questo libro, interessanti non tanto per
conoscere l’autore ma ancora per comprendere quello che la Sardegna provoca in termini di
suggestioni ed emozioni; i ringraziamenti e le appendici.
Per il lettore che possa essere infastidito dalla voluta sparpagliata miscela dei temi affrontati,
conseguente alla successione sparsa dei frammenti, l’appendice “Percorsi di lettura” potrà
essere d'aiuto nell'individuare alcuni possibili itinerari tematici di navigazione.

PERCHÉ QUESTO LIBRO ?


Non ho conclusioni da trarre, non ho tesi da dimostrare. I frammenti nella loro
composizione filosofica, storica, sociale, culturale, emotiva e visiva, cercano di incuriosire ed
emozionare, per travalicare il confine della “riserva del turista” e arrivare a sguazzare in quella
“area rimasta riservata ai sardi”, cercando di raccontare, anche con poco, tutto quello (molto),
che ai sardi è rimasto incastrato e indurito in petto, tra pancia, gola e cervello.
La successione di frammenti a cui sono costretto dal vincolo della carta stampata
s'interrompe così, senza un motivo profondo. Non perché i frammenti siano finiti, altri ne
vado scrivendo mentre cerco di completare questo libro, idealmente interminabile perché
destinato ad esaurirsi in concomitanza dell’evaporazione delle mie capacità motorie e
cognitive.
Lasciato il mondo delle idee, nella realtà il libro finisce, non perché tutto quello che si
poteva dire di Sardegna sia stato detto, non ho mai avuto quest’ambizione; non perché mi sia
stancato ma solo per non rischiare di sommergere il lettore e stancarlo o, peggio, di iniziarmi
a ripetere, nelle mille possibili varianti di luoghi, persone, tempi.
Cerco di trasferire una visione intima e personale della Sardegna, la mia, come se avessi
incontrato il lettore, magari proprio viaggiando nell’isola, improvvisamente ed
inaspettatamente, "a mod'e sciaffu" come si dice in sardo, per affabularlo col mio dire, per
travolgerlo con il mio gesticolare, per emozionarlo mostrandomi emozionato e - perché no? -
ogni tanto anche per ironicamente divertirlo con le mie peripezie.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 283


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Posso solo sperare che quest’incontro inatteso sia stato apprezzato dal lettore: da quello
sardo, in grado di riconoscersi in una visione che, pure personale, si oggettiva nel dare voce al
suo sentire; come da quello “continentale”, che potrà rimanere meravigliato da una ricchezza
che la bellezza del mare di Sardegna, pure celebrata nei frammenti, rischia di occultare.
Quello che mi farebbe veramente piacere sarebbe riuscire a far percepire, pur senza saperla
raccontare più coerentemente e compiutamente, un’intuizione di quella ”anima sarda”
distillatasi nella successione di millenni e civiltà.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 284


Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

57.Ringraziamenti
Per due anni ho gestito un Blog dove ho parlato di tutto quello che m’avvince, Sardegna
inclusa; in questo modo molti Sardi, sorprendentemente soprattutto donne, hanno avuto
modo di confrontarsi con tracce, estratti, di quello che qui si è fatto libro.
Riuscire ad interessare ed emozionare fa sempre piacere e nutre l’ego ma non m’interessa
indulgere nell’autocompiacimento, quanto ringraziare tutti i sardi con i quali ho interagito
virtualmente che con i loro commenti, anche critici, mi hanno prima chiesto e poi convinto a
pubblicare quello che andavo raccontando di Sardegna.
Prima di loro devo però ringraziare gli altri tanti sardi che ho incontrato nell’isola, con i
quali ho condiviso il cibo, foss’anche un semplice pezzo di formaggio, che mi hanno
raccontato le loro vite, il loro lavoro, la loro Sardegna, aiutandomi a conoscere quello che
ignoravo e a capire il tanto che non capivo.
Risalendo ancora nel tempo il mio ringraziamento va a Bruno che la Sardegna mi ha svelato,
vivendola convulsamente sin dagli anni ’50 con un entusiasmo che è riuscito a trasmettermi.
Io mi vedo ancora con lui annaspare tra i marosi, in una fredda alba invernale, ad assaporare il
clima forte di Sardegna.

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Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

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Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

58.Percorsi di lettura
Appendice I

Perché ho ordinato i frammenti nell’ordine in cui sono stampati? Non lo so bene nemmeno
io. Alcune propedeuticità andavano rispettate, un’inizio ed una fine andava marcato, poi ho
inseguito una successione di temi all’incirca fatta di: incontri; mare; luce, vento, roccia e
spazio; viaggio; archeologia industriale, mito, rito e storia.
Ho già detto all’inizio che i frammenti si possono leggere in un ordine qualsiasi, come
fossero un mazzo di tarocchi che il lettore può organizzare per comporre la sua immagine
emozionale della Sardegna, carta dopo carta.
Di seguito, per ognuno dei temi già elencati, propongo un possibile percorso di navigazione
dei frammenti che aiuta l’approfondimento della medesima o limitrofa tematica, può essere
questo un altro modo di leggere il libro.
Un frammento può appartenere a più percorsi perché si colloca all’incrocio tra più temi,
come nel caso di molti frammenti che parlando di miniere sono anche legati ad incontri con i
minatori.
Il cibo e i libri, sono invece temi talmente disseminati da non poter essere in alcun modo
elemento ordinante se non per le appendici rispettivamente dedicate ai piatti tipici sardi ed
alla bibliografia ragionata.

INCONTRI
Non è un caso che i frammenti legati all’incontro con i sardi siano i più numerosi. La
dimensione vera del viaggio non si può esaurire nel paesaggio e nella cultura, deve
necessariamente contemplare gli abitanti del luogo.
Non sono stati, nessuno, incontri facili. Si comincia sempre con un sospetto, probabilmente
reciproco, che però ho sempre percepito sbilanciato dall’altra parte. Per un logorroico come
me il silenzio iniziale, le parole rarefatte e soppesate, sono difficili da gestire.
Se però si insiste, senza fretta, senza pretesa, ho visto gli animi schiudersi in una
disponibilità che non ha eguali. Ho trovato calore ed accoglienza quando ero solo uno
sconosciuto. Ho sempre trovato memoria dei pochi rarefatti precedenti incontri già avuti. Ho
trovato scambio delle cose che ci siamo detti. In alcuni casi ho trovato amicizia.
Ho incontrato pochi coetanei, molti vecchi, alcuni ultra ottuagenari. Ho incontrato più
uomini che donne. Anche se con le donne ho interagito molto di più per via telematica (e-mail
e blog) quando negli ultimi anni i miei incontri, oltre che nella realtà del territorio sardo, si
sono estesi al “virtuale”, alla nuvola di internet, per condividere scritti, ottenere informazioni,
tenere contatti spazialmente complessi da superare.

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Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

I racconti che propongo sono legati tutti ad incontri con persone reali avvenuti in Sardegna.
I nomi non sono quasi mai quelli veri e anche le descrizioni sono artefatte, non si cerchi
d’individuare nessuna persona specifica, anche se di persone reali si parla, mi è sembrato
giusto così.

N° Titolo Località

1 Battesimo Punta S. Stefano, Capo Carbonara

2 Argentiera Capo dell’Argentiera, Nurra, a nord di Alghero

3 Becchino Dorgali

4 Canto Caserma Bechi Luserna, Macomer

5 Funtana Raminosa Aritzo

6 Formaggio del nonno Stagno di Colostrai

7 Dalle sorelle Pintus Barumini

8 Paura Ingurtosu

9 Camino Bosa

10 Cernitrice Corongiu, Barbagia di Seui

11 Crabonaxia Villasimius

12 Diana, il figlio del dottore Buggerru

13 Fuochi d’artificio Burcei

14 Goito Sorgono

15 Sandrino il cuoco pastore Costa Rei

16 Custode del nuraghe Barumini

17 Gavino e la stella d’oro Villasimius

18 Culurgiones de patata Ilbono

19 Pesca d’altura Secca 30 miglia al largo da Capo Carbonara

20 Seadas Areoporto di Elmas, Cagliari

Praticamente l’unico incontro con un non sardo che propongo è il primo, non a caso
intitolato Battesimo (1); Bruno, unica eccezione è descritto per quello che è ed il suo nome è
quello vero, a lui è dedicato questo libro. Parlo poi di incontri commoventi con vecchi ex-
minatori, minatori ancora impegnati nella messa in sicurezza delle miniere per la
realizzazione di quella chimera che è il parco geominerario, una cernitrice ed il nipote del
medico condotto di Buggerru ai tempi dell’eccidio del 1904 (2, 5, 8, 10, 12). Proseguo con

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affezionati becchini un poco ubriaconi (3), dignitosi ed intelligenti analfabeti (4), un coetaneo
di una gentilezza unica (6), tre simpatiche sorelle dall’ospitalità d’altri tempi (7). Trovano
posto perfino una nipote di Guglielmo Marconi scopritrice della Sardegna del sud (11), una
malconcia famiglia di fabbricanti di fuochi d’artificio (13), i macchinisti di una vecchia
locomotiva a vapore (14), un pastore divenuto custode di un comprensorio turistico che mi ha
cucinato il cinghiale sotto terra (15), il primo, unico, custode del nuraghe su Nuraxi (16).
Infine un altro personaggio reale, Gavino, sulle cui tracce mi hanno messo i racconti di due
olandesi che mi parlano di un vecchio viaggiatore tedesco e del suo diario di viaggio (17), una
vecchia artefice del primo piatto sardo che mi piace di più (18) ed un professore,
organizzatore una battuta di pesca, una vera mattanza (19). Concludo il percorso con una
dolce partenza dalla Sardegna (20).

MARE
Penso che il mare in Sardegna sia così bello non per caso. Questo mare incredibile serve ad
ammaliare il turista appena arrivato, a catturarne l’attenzione, ad appagarlo con paesaggi resi
ancor più tridimensionali dai colori nettati dal vento, dalle acque cristalline illimpidite da
gelate correnti, dalle spiagge imbiancate dal quarzo fattosi prima “chicco di riso” e poi sabbia,
dall’aspro granito arrossato da albe e tramonti e dalla odorosa macchia mediterranea che con
il possesso di tutte le tonalità di verde ne esalta il colore.
Questo turista ammaliato mi offre due vantaggi: si concentra in Sardegna da metà luglio a
fine agosto per far sparire la soffice sabbia sotto i suoi dilaganti asciugamani; evita di
penetrare l’interno trattenuto da quel mare che mentre lo bagna gli offre panorami di mistero,
nelle successioni di alture che si fanno azzurrine e violette allontanandosi dal mare.
Questo mi lascia più spazio di libertà, anche se forse non farà piacere agli albergatori ed ai
possessori del dilagante cemento che uccide il paesaggio.
Celebro il mare raccontando la mia prima ed unica esperienza di pesca, una mattanza alla
quale non ho più voluto dare il mio contributo (1). Poi proprio esponendo il punto di vista in
precedenza espresso sul mare baluardo che inchioda il turista sulla battigia (2). Il mare è
ancora raccontato con le suggestioni che induce (3, 4, 5, 6, 7, 8), sospese tra acqua e sabbia,
soprattutto nell’ora che va dall’alba a quando arrivano i primi bagnanti o la sera al tramonto
quando il sole intiepidisce. Ho girato spesso in barca a vela in Sardegna ed il posto più
incantato che ho trovato per veleggiare è stato l’arcipelago della Maddalena che omaggio
scegliendo i delfini tra i tanti avvistamenti fatti, tartarughe, cernie, squali, tonni e perfino una
volta una balena (9). L’eros si lega alla spiaggia e viceversa, fare l’amore su una spiaggia,
magari su un baldacchino come quelli che ora si usano può essere un sogno ricorrente (10),
ma fare l’amore con la spiaggia stessa è più audace (11). Ancora il mare è il protagonista di una
storia di scoperta che si svolge su vari piani temporali, scoperta del mare per un tedesco che
veniva dal freddo e per un sardo che era pastore e si fece albergatore; scoperta della storia di
questo tedesco e di questo sardo da parte mia, mentre mi aggiravo sulle stesse spiagge (12).
C’è una spiaggia poi, che ho percorso sovente, dove ho riflettuto, scritto, fatto l’amore,

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nuotato, corso, pianto, volato con gli aquiloni, mondo idilliaco (13) che è facile trasformare in
un carnaio fugando qualsiasi suggestione (14). Il carnaio sulla spiaggia evoca anche un tema
che, pur condividendone la matrice proto-ecologista, non riuscii pienamente ad apprezzare in
relazione ai tempi, tragicamente sbagliati, in cui mi fu posto (15). La conclusione di questa
carrellata di frammenti marini non può essere fatta se non con un addio, quello ad una casa sul
mare dove la Sardegna mi è stata svelata (16).

N° Titolo Località

1 Pesca d’altura Secca 30 miglia al largo di Capo Carbonara

2 Punti di vista Valle della Luna, Stanta Teresa di Gallura

3 Onde Colonia marina di Funtanazza, Montevecchio

4 Giostra Costa del Sud, da Nora a Porto

5 Indecifrabili ghirigori Spiaggia La Pelosa, Stintino

6 Giocare con le dune Porto Pino

7 Boa Pescinas, Hotel Le Dune, Costa Verde

8 Atemporalità Alghero

9 Delfini Arcipelago della Maddalena

10 Baldacchino Cagliari e Tuerredda, Costa del Sud

11 Ho fatto l’amore con ... Cala Goloritzè, Baunei

12 Gavino e la stella d’oro Villasimius

13 Su questa spiaggia ... Spiaggia Su Giudeo, Torre Chia

14 Carnaio Spiaggia Su Giudeo, Torre Chia

15 Spazzatura Golfo di Carbonara

16 Casa sul mare Punta S. Stefano, Capo Carbonara

LUCE E VENTO, ROCCIA E SPAZIO


Luce e vento, assieme a roccia e mare, disegnano il paesaggio sardo. In questi frammenti
non vogliono raccontare paesaggi, piuttosto immersioni nel paesaggio raggiunte per il
tramite di uno o più di questi separati elementi: la crudezza del nitore della luce che disegna e
modella; il vento che plasma e sostiene, scuote, contrasta; la roccia che delimita e sostiene; lo
spazio che si dilata e induce turbamenti d’agorafobia che ci rendono piccoli e insignificanti.

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N° Titolo Località

1 Essere nel vento Capo d’Orso

2 Raggio verde Fortezza vecchia, Capo Carbonara

3 Corsa sulle nuvole Tempio Pausania

4 Tramonti allucinati Punta S. Stefano, Capo Carbonara

5 Giostra Costa del Sud, da Nora a Porto

6 Baldacchino Cagliari e Tuerredda, Costa del Sud

7 Casotti Spiaggia del Poetto, Cagliari

8 Cavallini selvaggi Giara di Gesturi

9 Parole Gennargentu

Comincio con il celebrare il vento, a guardar bene anche la roccia, in cima al famoso orso di
granito (1), per passare subito ad un elusivo lampo di luce verde (2) e tornare al vento che,
complice l’assenza di luce, in questo caso annulla perfino lo spazio (3). Mai assaggiato il fungo
pejote, né consumato allucinogeni, anche se gli alieni tramonti che racconto evocano proprio
stati d’allucinazione (4), contrapposti alle più normali sensazioni d’immersione nel paesaggio
che una corsa in moto sulla costa del sud produce (5). Baldacchini, che quasi ossessivamente
mi compaiono d’innanzi, evocano storie di luce da consumare nel vento tra garze fluttuanti
(6); sono questi baldacchini pallidi, estetici, moderni, simulacri dei perduti casotti che la luce
contribuisce a disegnare, esaltandone i lignei impreziosimenti architettonici, le decorazioni
sature di colore (7). Improvvisamente strappati dal bordo dove roccia e mare si congiungono,
dove sinora sono collocate queste storie di luce e vento, racconto dei dilatati e inviolati spazi
dell’interno, della Giara di Gesturi (8) e della Sardegna tutta come arroccata ai piedi del
Gigante Gennargentu (9).

VIAGGIO E MOTO
Del viaggio e della moto ho già detto nello spiegare i perché di questo libro. Sono riflessioni
che vado facendo da tanto tempo viaggiando, non solo in Sardegna.

Nel proporre frammenti comincio da quello in cui, proprio in Sardegna, scrivo ad un amico
che avrebbe dovuto essere in viaggio con me (1). Conscio del fatto che l’epopea del viaggio in
Sardegna l’ho mancata per motivi anagrafici, a volte provo invidia verso questi antichi
viaggiatori che avevano ancora la possibilità di stupirsi e la facilità di scoprire (2). Viaggiare in
moto significa essere nel paesaggio, significa anche avere paura, soprattutto quando il
paesaggio si fa minaccioso (3, 4). Ho usato diversi mezzi di trasporto in vita mia, dall’asino
all’elicottero, quello che mi è piaciuto di più è stata una locomotiva a vapore, perché è stato un
viaggio anche nel tempo oltre che nello spazio (5). Concludo la carrellata di frammenti sul

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viaggio con un auspicio, un esortazione a me stesso: un incidente di moto mi ha dato il tempo


per rivedere i frammenti accumulati nel tempo, sono qui a scrivere per ora impossibilitato a
viaggiare sulla mia moto distrutta per ritornare in Sardegna, per questo ho voglia di Lei e
dell’Altra (6).

N° Titolo Località

1 Riflessioni sul viaggio Capo coda cavallo di fronte l’isola di Tavolara

2 Epopea del viaggio Macomer

3 Convegno Arbatax, Orientale sarda

4 Corsa sulle nuvole Tempio Pausania

5 Goito Sorgono

6 Ho voglia di Lei e dell’Altra Santa Maria Navarrese, Ogliastra

ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE
Tutta la mia vita, di studente prima e lavoratore dopo, è stata consumata nell’immateriale,
nell’etereo: la fisica teorica prima che ti fa parlare perfino dell’intero universo come se lo
potessi tenere in palmo di mano; l’informatica che genera un prodotto, il software,
immateriale ed intangibile; i servizi che, differentemente dai prodotti, non si toccano, non si
collaudano ma si rappresentano per processi e misurano per livello di qualità.
Sarà per questo che l’industria e le sue macchine immense, la realizzazione di manufatti
tangibili, la ricerca e trasformazione di materie prime, ha sempre esercitato su di me il fascino
di chi è ignorante e curioso.
Nelle miniere poi, che, astrattamente, vedo come l’ottimizzazione dello spostamento di
grandi masse e grandi volumi, gioco di ottimizzazione rispetto all’orografia complessa del
territorio, colgo l’antitesi dell’immaterialità di studi e lavoro, cosa che contribuisce ad
aumentarne il fascino.
Per questo sono da sempre stato affascinato dalle grandi strutture civili, industriali, militari,
in abbandono, antiche città, fabbriche, forti, macelli, cave, tonnare, saline, bunker, impianti
sportivi, carceri, fari, mulini, castelli.
Molto tempo dopo ho scoperto che il vagare tra edifici in rovina, cercare di penetrarne lo
scopo, le funzioni, immaginare quello che vi si svolgeva, le persone come vi vivevano e
lavoravano, altri più dotti di me lo chiamano archeologia industriale.
Poi un giorno, in Sardegna, sono arrivato per sbaglio all’interno di quello che di primo
acchito mi è sembrato uno di quei villaggi western tutti di legno che avevano popolato il mio
immaginario adolescenziale, cresciuto con Sergio Leone ed i suoi film. Era l’Argentiera, la
mia prima miniera.

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Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

Da quel giorno le miniere mi affascinano ed è iniziata una appassionata ricerca, sulla storia
delle tecniche estrattive. Solo successivamente parlando con ex minatori ho colto l’aspetto
organizzativo e sociale della miniera; da lì sono arrivato ad interessarmi delle condizioni di
vita dei minatori, del perché abbandonassero le campagne per scavare sotto terra, fino a
scoprire una sorta di regime di caste, sancito anche dalla disposizione delle abitazioni che
culminava nella palazzina del direttore, posta più in alto di tutte.
Non so cosa siano questi miei scritti in tema di archeologia industriale e, soprattutto,
miniere, sospesi come sono tra saggio, raccolta di testimonianze e racconto.
Parlo di miniere da più di trent’anni e spero che tutto questo dire possa servire ad
interessare e a conservare memoria, anche dei vecchi minatori che hanno dedicato il loro
tempo ad un giovane (allora) privilegiato, attento alla loro fatica.
Spero al tempo stesso che il mio visitare le miniere da turista privilegiato, che non vi ha mai
lavorato, ed anzi, come detto, ha passato tutta la sua vita lavorativa nell’immateriale tipico del
terziario avanzato, non offenda i sentimenti di chi vi ha duramente lavorato e di coloro che vi
sono addirittura morti.

N° Titolo Località

1 Argentiera Capo dell’Argentiera, Nurra, a nord di Alghero

2 Funtana Raminosa Aritzo

3 Paura Ingurtosu

4 Silicosi Corongiu, Barbagia di Seui

5 Cernitrice Corongiu, Barbagia di Seui

6 Il nipote del dottore Buggerru

7 Goito Sorgono

8 Onde Colonia marina di Funtanazza, Montevecchio

9 Tesoro della tonnara Punta Taccarossa, Isola di San pietro

Il primo racconto, pur essendo dedicato ad una miniera specifica l'Argentiera, la prima che
ho visitato nella Nurra, in realtà parla di tutte le miniere metallifere che ho conosciuto in
Sardegna (Montevecchio, Ingurtosu, Gennamari, Masua, Plano Sartu, Funtana Raminosa),
fornendo un poco la descrizione dei metodi di lavoro e della loro evoluzione (1). Si passa poi
ad altre specifiche miniere, sia metallifere come Funtana Raminosa (2, 3) che di carbone
(Serbariu, San Giovanni, Monteponi, Correboi) in cui sono messi in maggiore evidenza
incontri con ex minatori e loro testimonianze (4, 5). Con l’eccidio di Buggerru del 1904 si
evidenziano le condizioni miserevoli del lavoro in miniera (6). Poi saltando su un trenino (7),
nato anche per esigenze minerarie, ci si sposta al mare, prima ad osservare le onde davanti ad

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Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

una vecchia colonia estiva edificata per i figli dei minatori (8) ed infine alla ricerca
dell’inatteso tesoro in una tonnara (9).

MITI, RITI E STORIA


Non ho alcuna pretesa di voler tracciare con pochi frammenti una trattazione, né
semplicemente una prima mappa, della complessità di miti e riti in Sardegna, tantomeno di
delinearne compiutamente le principali vicende storiche.
Mi limito alla cronaca di quello in cui mi sono estemporaneamente imbattuto, anche
attraverso libri che mi hanno particolarmente intrigato per la suggestione delle idee proposte.

N° Titolo Località

1 Suggestioni d’isola perduta Isola dei Shardana

2 Sergio, custode del tempo Isola dei S’ard

3 Memoria fotografica Isola dei Sardi

4 Supermarket della cultura Isola delle Farfalle

5 Casotti Spiaggia del Poetto, Cagliari

6 Crabonaxia Villasimius

7 Camino Bosa

8 Matrimonio Ussassai, Barbagie di Seulo e Belvì

9 Sandrino il cuoco pastore Costa Rei

10 Custode del nuraghe Barumini

11 Il nipote del dottore Buggerru

12 Attitu Orgosolo

13 Accabbadora Barbagie, Logudoro, Campidano, Gallura,


Baronie, Ogliasra, Trexenta

Comincio, più che da mie esperienze dirette, con un commento ad un trittico di libri: un
saggio di Sergio Frau, un’inchiesta come lui la definisce, che partendo dal mito cerca fonti
storiche e scientifiche per collocarlo in Sardegna (1); a cui accosto subito dopo il lirico libro di
Sergio Atzeni che compie il percorso inverso, partendo dalla storia della Sardegna sino
all’epoca dei giudicati, per tracciarne un racconto mitico (2); per proseguire con la citazione
di un’immane progetto che ha riguardato tutta l'Italia ma che ha prodotto una quantità di
interessantissimo materiale fotografico sulla Sardegna negli anni compresi tra il 1930 ed il
1950 (3). L’isola che questi libri disegnano è contrapposta ad una visione della Sardegna
organizzata come un supermarket della cultura (4) per la facile fruizione turistica.

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Successivamente ritorno a mie memorie dirette nel parlare dei perduti casotti del Poetto (5);
di Crabonaxia che, inspiegabilmente, ha rinunciato al suo nome evocativo (6); di Bosa, che si
distingue per il suo impianto medioevale (7); di uno strano matrimonio, arricchito da un rito
laico divertente (8); del rito della cottura sotto terra, proprio dei pastori (9); dei fatti che
portarono alla scoperta del nuraghe più grande di Sardegna (10). Infine i fatti storici legati
all’eccidio di Buggerru, che portò al primo sciopero generale (11), introducono il tema della
morte, ancora celebrata con i lamenti delle prefiche (12), e del rapporto tra morte e vita in una
cultura arcaica, isolata ed agro-pastorale come quella che c’è stata in Sardegna fino a mezzo
secolo fa (13).

LIBRI
Non è certo mia intenzione scrivere un libro sui libri che parlano di Sardegna. Parlare di
Sardegna come però piace a me significa inevitabilmente confrontarsi con altri che ne parlano
in maniera che m’incanta, che nemmeno provo ad emulare.
Da entusiasta di Sardegna, divengo necessariamente entusiasta di questi libri e,
conseguentemente, un loro evangelizzatore. Vorrei che li leggessero tutti, sardi e non sardi.
Per questo il mio raccontare s’interseca con alcuni dei molti libri che ho letto sulla Sardegna,
le sue vicende, le sue genti.
In questo caso non c’è da tracciare un percorso tra i frammenti sparsi, più utile fornire una
piccola bibliografia ragionata per la quale si rimanda all’omonima appendice.
Aggiungo che la Regione Sardegna ha realizzato un bellissimo progetto creando un sito
“Sardegna Digital Library” (www.sardegnadigitallibrary.it) dedicato alla memoria digitale in
cui sono stati riversati, accessibili a tutti, tantissimi contenuti sotto forma di testi, foto,
registrazioni audio e video, inerenti molteplici argomenti: ambiente e territorio; archeologia;
architettura; arte; artigianato; cartografia; economia e società; enogastronomia; eventi; flora e
fauna; letteratura; lingua sarda; luoghi della cultura;musica; spettacolo; sport; storia e
tradizioni.
Una ricchezza incredibile, un sacco di libri, scaricabili gratuitamente in formato pdf, molti
dei libri da me citati sono qui reperibili.

CIBO
L’estetica del cibo mi piace e mi interessa, ma non la trovo sostituibile ad odori e sapori. Al
tempo stesso odio quei locali in cui il diametro del piatto è inversamente proporzionale alla
quantità di cibo in essi servito.
Sono sempre stato goloso, per il mio quinto compleanno ho chiesto al mio nonno paterno
una stanza piena di salami. Lui mi portò una corallina più alta di me, ancora deluso per non
aver avuto il resto della stanza, ne venni espropriato da mio padre, medico, “per motivi di
salute”, fu la scusa ufficiale.

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Viaggio tra mito e rito, tra mare e roccia, nell’isola dove il vento si fa paesaggio

A dieci anni, una volta che avevo la febbre e mi annoiavo allettato, ho cominciato a scrivere
l’elenco delle cose buone da mangiare, quando la febbre passò non avevo ancora finito.
Continuo ancora a cercare e ad assaggiare per cercare vanamente di completare quest’elenco
senza fine.
Era questa l’età in cui avrei tanto voluto giocare con il “piccolo chimico” per il gusto di
mischiare, miscelare, rigirare, amalgamare, fare pozioni. Siccome i miei genitori ritenevano
che fosse un gioco pericoloso non me l’hanno mai regalato. Sotto le mie reiterate insistenze
ripiegarono su un altro gioco di esperimenti chiamato il “piccolo fisico”. Era un gioco noioso
rispetto al piccolo chimico, ricordo che al massimo si poteva fare l’acqua distillata che di
odore e sapore ne ha veramente poco. Quando molti anni dopo mi sono laureato in fisica però
ricordavo ancora dove era riposto quel gioco poco avvincente.
Quanto al gusto di miscelare, appena più grande la cucina, i cocktails, la pipa ed i tabacchi,
mi hanno abbondantemente appagato.
Inutile proporre un percorso di lettura dei frammenti, molti parlano di cibo, offrono
intermezzi per buttare giù una ricetta, descrivere una preparazione.
Forse è più utile offrire un compendio di tutte i piatti citati e della loro descrizione, per
questo rimando all’appendice dedicata ai piatti tipici sardi.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 296


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59.Miniere metallifere
Appendice II

CICLO PRODUTTIVO
Ho caoticamente studiato, lontano dalle miniere, ogni volta che tornavo da uno dei miei
vagabondaggi minerari. Ho studiato per capire fino in fondo quello che i minatori raccontano
delle miniere. Ho studiato per poter porre meglio le domande ai minatori. Ho studiato la
“lingua” delle miniere per poter comunicare, capire, raccontare a mia volta.
La miniera e le attività che la caratterizzano, sono a monte di una qualsiasi attività industriale
e, molto spesso, lontane da essa. La miniera si sviluppa dove si trova la materia prima, per
distruggere il suo prodotto, non rinnovabile, motivo stesso della sua esistenza. Comunque sia
organizzata, a cielo aperto o nel sottosuolo, la miniera coinvolge interamente il territorio,
impatta con l’ambiente diremmo oggi.
II ciclo produttivo di una miniera si articola in quattro fasi successive di cui vorrei cercare,
introducendo al contempo un minimo di vocabolario, di segmentare la sovrapposizione delle
evoluzioni tecnologiche succedutesi dall’antichità sino ai giorni nostri.

I FASE - PREPARAZIONE DEI CANTIERI DI COLTIVAZIONE


La prima fase consiste nella preparazione dei cantieri di coltivazione, cosa che significa
realizzare gli scavi. Gli accessi sono costituiti da: gallerie a mezza costa, ingressi che si
sviluppano in orizzontale sul fianco delle colline; pozzi, accessi in verticale sormontati dai
tralicci che manovrano le gabbie che salgono e scendono nel pozzo; da rampe, piani inclinati
sotterranei che procedono a zig zag come le scale di un moderno condominio, contraddistinti
da stretti tornanti, nate in tempi moderni principalmente per facilitare il passaggio di mezzi da
scavo e da trasporto gommati.
Connesse agli accessi all’interno della miniera gallerie di livello collegano in orizzontale i
blocchi di coltivazione mentre i diversi livelli sono collegati da discenderie o fornelli che
scendono appunto dal piano superiore a quello inferiore in modo ripido e rettilineo. Prima
dell’uso degli ascensori e delle gabbie nei pozzi i minatori si muovevano da un livello all’altro
per il tramite di scale, in altri casi queste aperture verticali servivano per concentrare il
minerale su un livello che veniva attrezzato con rotaie, vagoni, tramoggie, per facilitare il
carico.

All’interno degli scavi si deve successivamente procedere agli armamenti, per evitare le
frane. L’armamento di una galleria consiste nel costruire puntelli e telai in legno che
contrastino la tendenza a franare delle pareti. Le diverse tipologie di armamento con cui si

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sorreggono le volte di terra si sono evolute a partire dalla classica armatura trapezoidale in
legno di pino dove i due montanti laterali inclinati a restringersi verso l’alto si collegano con
l’architrave superiore per il tramite di un incastro detto a “dente di lupo”. Questa struttura è
in grado di sopportare spinte longitudinali e trasversali offrendo, anche grazie alla flessibilità
del legno, una buona sicurezza. A diretto contatto dell’armatura lignea si allineano palanche
incastrate a trattenere materiale di risulta contro la parete rocciosa. Le armature lignee sono
poi sostituite da quelle in cemento armato di pari forma trapezoidale, da quelle in ferro a
forma di “U” rovesciata, da rete metallica ancorata con bulloni d'acciaio, da rivestimenti in
muratura con tavole di legno fra conci di calcestruzzo utilizzato in terreni particolarmente
friabili.

Successivamente all’armamento degli scavi si procedeva alla sistemazione dei carriaggi, per
il trasporto del minerale, ed al posizionamento di cavi elettrici o tubi per aria compressa,
preliminari alla successiva fase di coltivazione del minerale nel giacimento.

La presenza di giacimenti minerari all'interno della roccia è spesso preceduta da alcuni


"indizi", costituiti dalla presenza di minerali di vario genere e non necessariamente quello
per il quale si sta facendo la ricerca. La presenza di questi "indizi" permette di prevedere con
buona probabilità la presenza o meno di un giacimento minerario, così da poter decidere di
iniziare la ricerca con una certa speranza di risultati positivi. Il compito dei periti minerari è
quello di indagare sull'eventuale presenza di minerale e grazie alle prove fornite dai carotaggi,
decidere di continuare la ricerca o di abbandonare il settore, poiché ritenuto uno strato
sterile, privo di minerale avente valore commerciale.

Il carotaggio non è altro che l'estrazione di carote, cilindri di roccia con le quali si può
osservare preventivamente la composizione della roccia senza la necessità di scavare. Oggi
con i macchinari moderni si arriva a carotaggi della lunghezza di anche 300 metri.
Usualmente le gallerie di una miniera non seguono una linea retta fino al giacimento, ma
sono un susseguirsi di curve più o meno ampie e a volte a gomito. Inoltre, ai lati della galleria,
si notano di tanto in tanto dei "vicoli ciechi". L'avanzamento a curve è dovuto al fatto che i
minatori scavano seguendo i famosi "indizi", mentre i "vicoli ciechi" rappresentano vani
tentativi di ricerca, in quanto sbarrati da strati di roccia sterile. Scoperto il giacimento di
minerale si può finalmente procedere alla coltivazione della miniera, cioè all'estrazione
sistematica del minerale.

II FASE - COLTIVAZIONE
La coltivazione vera e propria costituisce la seconda fase consistente nella produzione di
minerale grezzo, non direttamente utilizzabile dalla metallurgia, quindi non direttamente
commerciabile, abbattuto nel sottosuolo con idonee tecniche di scavo.
Due principalmente le tecniche di coltivazione: per ripiena, abbattendo il minerale ma
contemporaneamente provvedendo a riempire lo spazio appena svuotato; per franamento del

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 298


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tetto, disarmando, togliendo puntelli e armature, e quindi facendo crollare parte della galleria
una volta esaurita la fase di estrazione.
Per tutta l'antichità, fino alla metà del '600, la roccia è abbattuta accendendo un grande falò
vicino alla roccia da frantumare ed aspettando che la roccia si surriscaldi. Solo a quel punto
sulla roccia viene gettata dell'acqua che, abbassando repentinamente la temperatura, provoca
lo sgretolamento. In alternativa con il piccone si fissura la roccia dove successivamente si
inseriscono a forza grossi cunei di legno. Bagnati con abbondanza d’acqua i cunei si gonfiano
spaccando la roccia che li contiene. Poi si procede a estrarre il minerale per mezzo di scalpelli,
cunei, picconi e leve. Se la roccia è più morbida, si lavora direttamente col piccone.
L'industria mineraria estrattiva ha vissuto due importanti rivoluzioni: la prima nella prima
metà del '600 quando comincia l’utilizzo in miniera degli esplosivi sotto forma di polvere
nera, inventata molto prima, nel 1250 circa; la seconda nella prima metà del '900 con
l'avvento dei perforatori ad aria compressa ed altri macchinari.
L'impiego dell’esplosivo, polvere nera o da mina, segnò una svolta e un cambiamento
drastico nei metodi d'estrazione, nel rendimento del lavoro e quindi nella quantità di minerale
estratto. In tempi più recenti, dal 1880, come esplosivo si usa la dinamite: vengono praticati
dei fori nella roccia, che sono poi riempiti di esplosivo. Viene accesa la miccia collegata
all'esplosivo e la roccia viene fatta esplodere, in gergo volata, facendo brillare le mine.
Dopo la polvere nera, l'evoluzione degli esplosivi prosegue con il fulminato di mercurio
(1799, Howard) e il fulminato d'argento (1902, Brugnatelli). Nel 1831 si inventa la miccia a
combustione lenta per mine (Bickford), che sostituisce le cannucce di paglia riempite di
polvere nera usate fino ad allora, assieme a corde imbevute di salnitro ed incatramate.
Nel 1846 si scoprono simultaneamente gli esplosivi moderni: la nitroglicerina (Sobrero) da
cui deriva la dinamite a seguito della scoperta che essa può essere stabilizzata e resa
maneggiabile con un certa sicurezza mescolandola con sostanze inerti quali la farina fossile
(1867, Nobel); il cotone fulminante (Schoenbein) da cui derivano le polveri senza fumo. Nel
1880 inizia l’utilizzo in miniera della dinamite. Successivamente vengono scoperti il tritolo
(1863) e il T4 (anni ’90 del XIX secolo).
Parallelamente all’utilizzo di moderni esplosivi in miniera si iniziano ad utilizzare dal ‘900
sistemi di perforazione con compressori ad aria compressa, i cosiddetti martelli pneumatici a
mano. Ai martelli ad aria compressa succedono solo verso il 1945-50, anche per i difficili
problemi idraulici, i martelli perforatori del tipo a umido, con iniezione ad acqua proveniente
dal locale delle pompe che genera la pressione necessaria.
Sono i martelli del tipo a umido che cominciano a cambiare qualcosa nel dramma, mortale,
delle polveri in miniera. Questo sistema infatti cambiò la vita e la produzione in miniera
riducendo drasticamente le polveri nelle gallerie e, quindi, l'incidenza della silicosi tra i
minatori.
Sul finire degli anni ‘60 inizia l’uso di martelli perforatori elettroidraulici montati su slitte e
carri gommati diesel. Infine a partire dal decennio 1970-80 sino ai nostri giorni si diffonde

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l’uso di sistemi di perforazione computerizzati che non necessitano della presenza costante
del minatore.
Nel cantiere d'avanzamento sono presenti solitamente un minatore ed un manovale o aiuto
minatore. Il compito del minatore è quello di perforare e posizionare le cariche esplosive;
mentre il manovale deve, successivamente al brillamento delle mine, caricare sui vagoni ed
evacuare il materiale di scarto, lo sterile. Tale materiale viene trasportato all'esterno oppure
gettato negli spazi lasciati vuoti dai giacimenti esauriti. Oltre a minare e trasportare il
materiale di scarto, la squadra di avanzamento deve, a mano a mano che si procede con lo
scavo, posizionare le rotaie necessarie per lo scorrimento dei vagoni. In funzione delle
dimensioni del giacimento nel cantiere d'estrazione i minatori possono essere anche più di
due. I manovali devono riconoscere e raccogliere il minerale che viene poi caricato sui vagoni,
trasportato e rovesciato in appositi silos di stoccaggio da cui passa alla laveria per
l’arricchimento, ovvero la concentrazione del minerale avente valore commerciale e lo
scartamento dello sterile privo di valore.
I sistemi usati per minare sono due e si differenziano per il diverso posizionamento delle
cariche e per il tipo di miccia. Il primo consiste nel disporre 15 cariche esplosive, suddivise su
5 piani orizzontali dall'alto in basso sul fronte da minare; le cariche vengono fatte brillare in
successione partendo da quella in alto a sinistra.
Con l'utilizzo della miccia detonante in grado di trasferire nel medesimo istante l'impulso
detonante a varie cariche, si cambia sistema. Sul fronte da minare vengono disposte 14-16
cariche. Particolare importanza hanno le 4 mine al centro del fronte, le quali convergono tutte
nello stesso punto e vengono fatte esplodere contemporaneamente con la miccia detonante,
un istante prima di tutte le altre. Con questo metodo, molto più efficace, si riesce ad avanzare
di un metro, al massimo di un metro e mezzo, ad ogni esplosione.

III FASE - TRASPORTO ED ESTRAZIONE


La terza fase è quella di trasporto ed estrazione per il carico ed il trasporto nel sottosuolo del
minerale abbattuto dai vari cantieri ai centri di raccolta. Inizialmente il trasporto è effettuato
dal minatore utilizzando contenitori a spalla. Fino all’inizio del ‘900 a lavorare in miniera ci
sono anche i bambini che portano il minerale all'esterno con coffe, cofane di legno, gerle di
canapa. La loro piccola statura ed agilità non rende necessario fare gallerie di avanzamento
eccessivamente grandi.
Successivamente il trasporto è realizzato mediante carreggiamento del minerale su rotaia,
tramite vagoncini ribaltabili spinti a mano dai minatori o trainati da asini e cavalli,
successivamente da mezzi ad aria compressa, locomotori diesel o elettrici. Ancora più
recentemente da trattori su gomma, gabbie e ascensori, nastri trasportatori, azionati da forza
motrice a aria compressa, elettrica, diesel.
Il passaggio dalla forza motrice umana o animale a quelle a aria compressa, elettrica o diesel
ha modificato le dimensioni dei carrelli in considerazione della loro manovrabilità. Negli

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 300


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impianti più moderni il minerale arriva all’esterno anche su treni di più di 20 vagoni da 12-15
quintali ciascuno, mentre prima venivano spinti a mano ed erano perciò più piccoli e
maneggevoli. Di conseguenza in funzione dei mezzi di carico e scavo si modificano le
dimensioni delle gallerie in altezza e larghezza.
L’estrazione all’esterno ed il trasporto in superficie avviene con gli stessi mezzi ed in più,
piani inclinati, funivie, e teleferiche, che funzionano generalmente per caduta col sistema del
lancio a valle. Usualmente il riempimento dei cestelli avviene tramite tramogge azionate
manualmente dall'operaio addetto. Per le teleferiche si pratica anche un sistema alternativo,
detto a rotazione, simile a quello delle seggiovie in cui i cestelli sono ancorati ad un cavo di
traino che però non viene azionato da un motore elettrico, bensì dal peso dei cestelli carichi di
minerale che scendono a valle "trainando" quelli vuoti che salgono a monte. La teleferica ha
un sistema di sganciamento dei cestelli simile a quello delle seggiovie moderne, quindi
l'addetto ha il tempo necessario per riempire e rinviare a valle i cestelli.

IV FASE - ARRICCHIMENTO
La quarta ed ultima fase è quella dell’arricchimento, che consiste nella preparazione del
prodotto mercantile, minerale di elevato tenore, contenente un’elevata percentuale di metallo
utile, da avviare alla metallurgia volto alla valorizzazione del materiale grezzo mediante
eliminazione del prodotto non commercialmente utilizzabile, la parte sterile. L’arricchimento
del materiale si ottiene in successione per suddivisione, classificazione, arricchimento vero e
proprio che ha lo scopo di ripartire in classi il minerale in funzione del tenore ottenendo un
prodotto concentrato ed uno sterile. Anche i processi d’arricchimento, confinati in appositi
stabilimenti chiamati laverie, si succedono nel tempo seguendo l’evoluzione tecnologica.

Sino al 1850 la prima operazione di arricchimento è incentrata sulla cernita manuale del
minerale. Il minerale è fatto fuoriuscire da tramogge alla base di depositi di stoccaggio o silos,
e fatto passare su scivoli in legno o nastri trasportatori. Questo permette, principalmente a
donne e bambini, di selezionare i pezzi di minerale più ricco semplicemente sulla base di un
esame visivo e di scartare quelli sterili.
Successivamente, sino al 1920, si passa ai metodi gravimetrici che sfruttano i diversi pesi
specifici del minerale rispetto allo sterile. Si diffonde per questo l’utilizzo di crivelli meccanici,
setacci, e tavole oscillanti disposti in serie, azionati da enormi cinghie, prima di cuoio, poi di
gomma, che impartiscono mediante ingranaggi la forza motrice a partire da un albero di
trasmissione solitamente posto in posizione rialzata ed attraversante tutto lo spazio di
lavorazione ed azionato, con motori, prima a vapore, successivamente a combustione. Nello
stesso tempo si inseriscono nelle laverie impianti di frantumazione meccanica del minerale .

Dopo il 1920 si utilizza soprattutto il metodo di arricchimento più complesso, detto della
flottazione. La flottazione è un processo chimico-fisico che sfrutta la proprietà che hanno
certe schiume di trattenere selettivamente diverse sostanze e non altre. L’operazione si svolge
dopo che il materiale è stato frantumato e macinato in recipienti metallici, i frantoi. In questo

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 301


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modo il minerale è ridotto in polveri costituite da granelli della dimensione del micron,
polveri fini come il talco per intendersi. Aggiungendo acqua alle polveri di minerale ed
impastando si ottengono fanghi, la cosiddetta torbida, che vengono travasati in celle di
flottazione, contenitori squadrati di metallo, dove sono tenuti in agitazione mescolandoli da
pale metalliche immerse nel liquido. L’ulteriore apporto di appositi reagenti chimici che si
aggiungono alla torbida nella cella di flottazione fa si che si formi della schiuma. La schiuma è
costituita da piccole bollicine di gas che si sviluppano nella reazione tra i reagenti chimici ed il
minerale da selezionare. Queste bollicine si attaccano ai grani di minerale da selezionare e lo
fanno venire a galla, mentre lo sterile precipita a fondo. La schiuma che si raccoglie in
superficie viene asportata insieme ai grani di minerale con spatole meccaniche che ruotano
sulla sommità della cella di flottazione. I grani di minerale che costituiscono il concentrato
vengono raccolti, filtrati, essiccati, per essere inviati agli impianti metallurgici mediante
strada, ferrovia, nave. Quello che rimane, la torbida esausta, costituita da particelle molto fini
e acqua, passa ad altre celle per stadi di raffinazione successiva o va a rifiuto venendo stoccata
in bacini di decantazione che occupano vaste aree dando potenzialmente luogo a notevoli
problemi di inquinamento.
La descrizione dei diversi processi di arricchimento fa comprendere quanto complessa sia
l’organizzazione della laveria che richiede disponibilità di: acqua e cisterne per il suo
stoccaggio; forza motrice, prima motori a vapore e diesel, poi cabine elettriche; aree di
stoccaggio, sia del minerale, tipicamente costituite da silos con aperture sul fondo, tramogge,
che dei reagenti chimici; officine e laboratori di manutenzione, oltre che magazzini per i pezzi
di ricambio.
Per semplificare la movimentazione degli elevati tonnellaggi di materiale e acqua gli impianti
sono concepiti a “cascata” per sfruttare al meglio la forza di gravità e minimizzare lo sforzo di
trasferimento dei semilavorati.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 302


Frammenti sparsi di Sardegna

60.Piatti tipici sardi


Appendice III

Si potrebbe cogliere nei frammenti una particolare dedizione al cibo. Questa attenzione
indubbiamente esiste. Il primo modo di comunicare che siamo riusciti ad inventare in qualche
millennio di anni di civiltà è quello di mangiare e bere assieme. Non mi pare che di recente si
siano affermate altre forme di comunicazione ed incontro in grado di produrre analoghi
effetti. Il cibo corona gli incontri, li facilita, li riscalda, li accende, ma non si limita a fargli da
sfondo. Il cibo diviene parte integrante dell’incontro e della comunicazione, mangiare
assieme con uno sconosciuto è anche parlare di quello che si sta mangiando.
Parlare del cibo, al contrario degli anglosassoni e codificati discorsi sul tempo, non significa
vacuamente temporeggiare in attesa di liberarsi l’uno dell’altro. Parlare del cibo significa
raccontare di luoghi, usanze, costumi, parlare degli uomini e donne che lo preparano, parlare
di se stessi. Viaggiare diviene allora anche cercare i sapori, assaggiare le pietanze del luogo,
capirle, ricordarle, forse tentare di riprodurle.
Oggi tutto è e fa cultura. Addirittura impossibile bere vino senza un supporto storico-
filosofico, o masticare il tragico cibo moderno, che tutto affoga nello sbrodolio della panna,
nel vago sapore di salmone affumicato, nel debordare della rucola, senza un dissertare
socratico. Non è questo dissertare che si vuole suggerire, più semplicemente raccontare il
cibo come sono raccontati i luoghi, le persone, gli usi, per raccontare ancora una volta la
Sardegna.
Di seguito, più che ricette vere e proprie, sono riproposte in ordine alfabetico le
descrizioni ,o la semplice traduzione, dei piatti tipici sardi disseminati nei diversi frammenti.
Tra parentesi (x.y) il riferimento al capitolo (x), seguito da un numero progressivo (y) nel caso
di più pietanze citate nello stesso capitolo.

A
Agliata all’Algherese (27.1) - Piatto di pesce a base di un pesce povero, il gattuccio, che ad
Alghero viene spesso servito come antipasto tiepido o freddo. Si prepara una salsa con un
trito di pomodori secchi, aglio, prezzemolo, peperoncino da soffriggere alcuni minuti in olio
d’oliva già caldo, prima di aggiungere pomodori pelati e rimestare la salsa di quando in
quando, fino a che si sarà addensata. A quel punto basterà aggiungere l’aceto, il sale e
continuate la cottura per una decina di minuti. La salsa esalta il gattuccio che, tagliato a tranci
spessi un paio di centimetri, passati nella semola e fritti in olio d’oliva bollente, fino ad
indorarli, è disposto nel piatto di portata versandogli sopra la salsa ancora calda.
Angioni arrustiu (10.1) - Agnello arrosto.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 303


Frammenti sparsi di Sardegna

Angioni cun matafaluga (8.2) - Agnello al finocchietto, rosolato assieme ad una grossa
cipolla affettata finemente, quando carne e cipolla sono indorate l’aggiunta di pomodori
freschi pelati ridotti a filetti e rametti di odoroso finocchio selvatico a piccoli pezzi, permette
di ottenere un intingolo scuro, saporito e piuttosto denso.

B
Buttariga o bottariga, in italiano bottarga (37.1) Sacca delle uova del muggine (cefalo) o del
tonno; quella di cefalo essiccata diviene di colore arancione, condita alla sarda, con olio e
pepe nero stesa a sottili listelli su frammenti di pane carasau; quella di tonno, molto più
salata, grattugiata, serve a condire gli spaghetti.

Biancheddus (47.1) - Dolcetti sardi di chiara d’uovo, aromatizzati con gocce di limone e con
scaglie di mandorla.
Burrida (37.2) - Piatto di origine genovese costituito da trance di gattuccio di mare condite
con una salsa a base di aceto e pinoli, da servire fredda come antipasto.
Burrida a sa casteddaia (20.3) - Burrida alla cagliaritana, usualmente servita come
antipasto. Il gattuccio, che ne rappresenta la base, deve essere pulito conservandone il fegato
da sbollentare a parte, successivamente lessato in acqua salata, spellato e tagliato a piccoli
pezzi. A parte un trito di gherigli delle piccole noci sarde, qualche goccia di aceto che tolga
l’untuoso. Ancora un soffritto d’aglio in olio d’oliva a cui si unisce il fegato spappolando il
tutto ed infine aggiungendo il trito di noci cuocendo a fuoco lento sinché la miscela sarà
amalgamata. Si aggiungerà poi aceto di vino bianco e si continuerà a sobbollire sino a quando
la salsa si omogeneizzi del tutto. A quel punto in una terrina che sarà poi coperta si sistemano
a strati i pezzi di gattuccio ricoprendo ogni strato con la salsa ben calda, per poi far riposare il
tutto almeno un giorno.

C
Caboniscu arrostiu (2.1) - Galletto alla fiamma cotto sulla legna, salato a fine cottura,
tagliato a pezzi e servito tiepido facendolo riposare su un vassoio di legno fra due strati di
foglie di mirto.
Caboniscu a sa braxi (10.2) - Pollo alla brace.

Callu o Caju de crabettu (3.3) - Ormai raro formaggio dall’odore forte, dal sapore intenso e
piccante, dal gusto esplosivo, prodotto nel nuorese. La pergamena del rivestimento
biancastro esterno è costituita, non dalla crosta del formaggio, ma dallo stomaco essiccato. La
pasta interna di color avorio appare compatta, ma sotto la lama si sbriciola e mostra la sua
granulosità. Si prepara con lo stomaco di un capretto lattante chiuso con una cordicella e
lasciato essiccare per almeno un paio di mesi insieme al latte coagulato che si trova al suo
interno, al termine dei quali se ne estrae un composto piccante ed estremamente saporito da
consumarsi col pane. In alternativa una antica tradizione sarda lo vuole preparato fritto nello

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 304


Frammenti sparsi di Sardegna

strutto. Non so se il primo formaggio conosciuto dall’uomo abbia avuto questa origine ma
certo sembra plausibile.
Candelaus (47.2) - Dolcetti sardi, cedevoli, morbidi, bianchi come cera, ripieni di pasta di
mandorle e ricoperti di glassa decorata, dalle mille forme, dalla più semplice, mozziconi di
candele, alle via via più complesse: stivaletti, pentoline con manici e coperchio, gallinelle,
anforette.
Caschettas (4.1) - Dolcetti composti da uno scuro impasto di miele, mandorle e buccia
d’arancia abbrustolita in forno, rivestiti parzialmente da una sfoglia sottilissima, forgiati in
forme a spirale, a esse, ad otto, a semicerchio, a ferro di cavallo.
Cassola alla gallurese (20.4) - Zuppa di pesce alla gallurese fatta con occhiate, saraghi, san
pietro, scorfani, capponi, gronchi, sbollentati separatamente. Soffritto di cipolla, aglio , trito
di prezzemolo, peperoncino rosso pestato. Poi diluito con l’acqua di cottura dei pesci,
aggiungendo sale e salsa di pomodoro da sciogliere nel brodo di pesce. Al sugo si aggiungono
i pesci scottati per completarne la cottura a fuoco vivo e recipiente scoperto lasciando il sugo
piuttosto liquido, di un bel rosso vivo. La zuppa si serve da sola con fette di pane strofinato
d’aglio e fritte, a parte si serve il pesce.
Culingionis de bentu (51.1) - Ravioli di vento, gonfi, color oro pallido, ripieni di nulla e
forse per questo ripieni di vento, aromatizzati alla vernaccia ed al fil’e ferru .

Culurgiones de patata (19.1) - Ravioli di patata, specialità di Ilbono e dell’Ogliastra, bianchi


fagottini pressati con la loro caratteristica chiusura a spighitta, sottile cordonatura praticata
con la punta delle dita e rifinita con un breve picciolo che salda due semidischi di sfoglia
sottile di pasta del diametro di 5-6 centimetri. All’interno di questi ravioli una quantità di
purea grossa come una noce insaporita di spicchi di aglio tritati finemente, foglie di menta
fresca tagliuzzate, viscidu, formaggio senza crosta lasciato in salamoia per due, tre giorni. La
cottura in acqua bollente poco salata è veloce, i culurgiones sono estratti a due o tre con un
cucchiaio forato dall’acqua di bollitura, ben sgrondati, sono disposti metodicamente su un
grande piatto ovale di ceramica sarda da portata, in un solo strato, a spina di pesce, facendo
incontrare ad angolo, a due a due, i piccioli del raviolo, lungo una retta immaginaria al centro
del piatto: quello che appare è una spiga gigante con i suoi chicchi in proporzione, ogni
culurgiones un chicco di grano. Si condiscono con un semplice sugo al pomodoro, tirato,
sopra una spolverata di basilico.

F
Fà a oglia (18.1) - Minestra di favette con tutto il baccello, antica ed originale pietanza di
origine gallurese. L’ingrediente principale sono le favette primaticce che devono essere
liberare dal peduncolo, lasciandole nel loro baccello. Gli altri ingredienti: lardo con cotenna
conciato; spinu di polciu (costata di maiale) tenuta un giorno prima sotto pepe e sale; qualche
cjobbu di salticcia (rocchio, pezzo di salsiccia); rametti di finocchio selvatico. Quello che si
ottiene, con una cottura lenta e lunga in una capace pentola piena d’acqua, il lardo dissalato e
tagliato grosso, la carne di maiale divisa in bistecchine, la salsiccia divisa a pezzi, è una vivanda

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 305


Frammenti sparsi di Sardegna

gagliarda, nutrientissima e ricca di sapore che si può perfezionare con tocchetti di formaggio
fresco aggiunti in pentola al momento di servire.
Filande (6.1) - Pasta a trama fitta cucinata nel brodo di pecora e condita con il formaggio
fresco acido di un giorno; viene fuori una sorta di tessuto di fili sottili, da cui il nome
“filande”, da immergere nel brodo caldo ingentiliti dal formaggio sciolto.
Formaggio caprino (7.2) - Formaggio curiosamente esagonale, prodotto esclusivamente
con latte di capra intero; la pasta è molle, bianchissima, mantecata, di sapore gradevolmente
acidulo.
Formaggio pecorino (7.4) - Formaggio di forma canestrata, con la crosta di colore
leggermente paglierino, un sapore piccante ed aromatico. E’ pepato, a pasta dura, fatto con
latte di pecora, coagulato con caglio di capretto o misto di agnello e capretto. Alla cagliata
sono aggiunti grani interi di pepe nero, viene stagionato per sei mesi.

G
Gallettinas (4.2) - Biscotti a forma di stella, uccellino galletto, fiore, fatti con un impasto di
farina, strutto, uova e scorza grattugiata di limone, indorati di zucchero semolato.

M
Maccaronis cun arrescottu (33.2) - Maccheroni alla ricotta.
Malloreddus alla campidanese (33.3) - Gnocchetti sardi, un tipo di pasta, conditi con un
sugo a base di salsiccia e pecorino freschi.
Mrecca (9.1) - Piatto di pesce di origine fenicia il cui nome significherebbe “cibo conservato
sotto sale” o “cibo salato”, preparato con il muggine appena pescato, pesce grigio plumbeo,
dalla nuotata scattante, grasso e saporoso anche chiamato cefalo per la grossa testa . Il pesce è
fatto bollire per circa mezz’ora, aggiungendo una quantità di sale calcolata in base al giorno
della consumazione: più aumentano i giorni e più aumenta la dose del sale. Dopo aver ripulito
il muggine, il pesce si mette su un piatto rivestito di “zibba”, un’erba palustre a foglia piccola
e carnosa che cresce vicino agli stagni di Oristano che permette di mantenere il giusto grado
di umidità. La parte più delicata della preparazione è l’asciugatura del pesce, più l’aria è più
asciutta, meglio il pesce si rassoda.

P
Pabassinas a mustazzolus (47.3) - Dolcetti di forma romboidale, con uva passa, noci,
mandorle, rivestite di microscopici confettini variopinti.
Pane civraxius (7.1) - Grande pagnotta tipica della piana del Campidano, solitamente
tagliata con la destra, tenendo la pagnotta con la sinistra, stringendola verticale al petto. Il
coltello pattada procede dal petto, la lama verso l’esterno a tagliare senza potersi ferire
quando alla fine il pane s’arrende alla lama.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 306


Frammenti sparsi di Sardegna

Pardulas de casu friscu (38.1) - Formagelle di formaggio fresco, sorta di scatoline rotonde,
pizzicate a distanza, simmetricamente, sul bordo e senza coperchio, piene fino all’orlo di una
pasta di formaggio fresco grattugiato, semolino, buccia di limone anch’essa grattugiata,
zafferano e zucchero.
Pezz’e porcu arrubiada (6.2) -Maiale rosolato in casseruola con cipolle affettate e
mantecate, servito con un taglio spesso.
Pistoccu (3.1) - Pane di lunga conservazione originario del Sarrabu, di forma rettangolare,
un lato ruvido di semola, l’altro rasposo di mollica biscottata. Un tempo costituiva la riserva di
cibo dei pastori che si allontanavano di casa nei pascoli, anche per un mese. Durante l’estate,
nelle famiglie contadine, era il solo pane che veniva fatto perché meglio conservabile. Si
confeziona impastando semola di grano duro, lievito, acqua e sale. Si preparano grossi pani
che vengono poi sezionati in piccoli pani rettangolari un po’ più piccoli di un foglio di carta e
spessi qualche centimetro. Questi si dispongono su tavole di legno, spolverate con semola,
poi con una forchetta di legno vengono punzecchiati per eliminare l’eventuale presenza di
aria. Si infornano e, a metà cottura, si tolgono dal forno ancora caldi per dividerli in due,
tagliandoli per il lato più corto, quello che ne determina lo spessore. Dopo il taglio viene tolta
tutta la mollica e s’infornano nuovamente mantenendo il forno a bassa temperatura per
biscottarli.
Pistoccu condito (3.2)- Pistoccu sfregato con l’aglio, bagnato con pomodoro fresco, per
finire condito con un filo d’olio d’oliva, basilico, origano e prezzemolo.
Porceddu arrustio (33.1) - Porchetto arrosto che si cuoce allo spiedo, diviso a metà, su un
fuoco di sarmenti odorosi e di grossi ceppi. Il porchetto è pulito fregandolo con un panno
ruvido poi, già diviso a metà, infilzato da lombo a lombo in spiedi. Si asportano le zampe e,
con opportuni tagli, si creano due piccole sacche tra i muscoli dell’addome dove si infilato i
piedini. La cottura inizia quando i ceppi divengono brace di legni odorosi. Lo spiedo viene
posto orizzontale di lato al fuoco. La cottura va portata avanti lentamente, per quattro, cinque
ore, a fuoco sempre vivo, girando lo spiedo secondo necessità, in modo che alla fine la carne
risulti quasi cerea e la sua crosta croccante. Si sala due volte, una all’inizio ed una alla fine.
Prattu de cassa (14.1) - Piatto di selvaggina mista condita con patate, cipolla ed erbe
selvatiche, dalla particolare cottura fatta all’interno di due piatti di rame sovrapposti a formare
una rudimentale camera stagna.

R
Ricotta infornata (7.3) - Formaggio con una crosta bruna che sa di forno e di bruciato e fa
da contrasto alla pasta tenera, bianca, gustosa.

S
Salsiccia fresca sarda (10.5) - Salsiccia lunga, senza le strozzature del budello tipiche delle
catene di salsicce romane, che, in Sardegna, s’arrotola a spirale a formare una sorta di disco di
carne tenuto insieme da spiedini di legno che si diramano a raggiera.

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 307


Frammenti sparsi di Sardegna

Scampirru a tianu (20.1) - Tonnetto in tegame, fatto a trance, spellate le fette, lavate,
lasciate a riposare su un piatto coperte di limone; poi in forno, adagiate in un tegame su un
fondo di patate condite con olio d’oliva, prezzemolo trito e pecorino grattugiato, coperte con
altre patate analogamente condite, infine zafferano e sale a completare i sapori.
Seadas (55.1) - Focaccine dolci di formaggio, dolce tipico che conclude felicemente un
pranzo sardo. Le focaccine di forma ovale sono riempite di formaggio che abbia solo due o tre
giorni di stagionatura. Devono essere fritte appena ad indorare e quindi cosparse di miele di
corbezzolo. La pasta esterna è fatta di semola, uova, strutto ed un poco di sale. L’impasto
interno è composto con formaggio in scaglie, semola fine, buccia grattugiata di limone,
zafferano, prezzemolo, cotto in un tegamino rimestando di continuo con una spatola per
amalgamare. Una volta pronte le seadas devono aspettare ancora un giorno per andare in
padella. Qui, appena l’olio arriva sulla parte ripiena di formaggio, la seadas si gonfia e la pasta
si riempie di bolle assumendo un bel colore dorato. Estratta ed asciugata su carta paglia si
ricopre di quel miele amaro che si ricava dal corbezzolo.

Seppiette in umido (37.3) - Piccanti di peperoncino servite su una base di pane pistoccu per
tirarne su il sugo.
Sirboni a carraxiu (16.1) - Cinghiale interrato, cibo da dei e da sardi veraci. Si scava la fossa
di poco più grande del cinghiale da arrostire, si pareggia il fondo e le pareti della fossa con
colpi di pala. Si raccoglie sterpaglia nell’odorosa e multicolore macchia: sterpi secchi di
moddizzi (lentischio) e di tumbu (timo). Si riempie la fossa per un terzo dell’altezza con gli
sterpi raccolti. Squartato longitudinalmente, in due parti il cinghiale, si sistemano le due parti
nella buca a truncu-coma (testa-coda), poggiandole con il dorso rivolto verso il basso. Si toglie
la maggior parte del fogliame dai rami di timo e lentisco raccolti, si ricopre il cinghiale con i
rami sino a quando non si raggiunge la sommità della fossa. Si prende la terra rimossa per
stenderne uno strato sottile sulle frasche, spianando delicatamente la terra con il dorso della
pala a chiudere completamente l’apertura della buca. La legna per cuocere, sterpi aromatici e
secchi, si sovrappone alla buca Si appicca il fuoco che andrà alimentato ininterrottamente per
circa quattro ore, in funzione della dimensione del cinghiale. Si spegne il fuoco, si rimuovono
le braci, la terra di copertura fragile e screpolata, divenuta nera di cenere. La legna all’interno
della buca si è come carbonizzata in presenza del calore sovrastante ma priva dell’ossigeno
trattenuto dal sottile diaframma di terra. Rimossa infine anche questa, appare il cinghialetto
ben cotto.
Sirboni a succhittu (6.3) - Cinghiale in intingolo, cotto lentamente in tegame per
sgrassarlo, insaporito con aglio e cipolla sminuzzati finemente e soffritti con olio d’oliva,
bagnato con vernaccia ed infine, evaporato il vino con aggiunta di capperi sott’aceto; non
trascurando una grappa che suggella il tutto e prepara per la notte.
Sa suppa falza (8.1) - Zuppa di pane raffermo cucinata con cipolle, salsiccia e lardo a fette,
specialità delle parti di Sindìa a metà strada tra Macomer e Bosa. Il lardo è tagliato a tocchetti e
versato in padella per una prima sgrossatura; si aggiunge la salsiccia tagliata a pezzettoni e,
solo alla fine, una robusta dose di cipolla. Il tutto è immerso in acqua e latte e portato a
ebollizione. In ultimo si aggiunge il pane raffermo di due-tre giorni.
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Suspirus (47.4) - Dolcetti sardi, sospiri, odorosi di buccia di limone e cannella, sorta di
bottoni glassati, incartati in multicolori involucri di carta velina rettangolare frastagliata e
frangiata sui lati più corti.

T
Tratalia (10.3) - Coratella arrosto d’agnello, pezzetti di polmone, fegato, cuore, infilzati
sullo spiedo e ricoperti da un intreccio di budellino da latte, ben pulito, diversamente dalla
romana pajata, che nella cottura diventa deliziosamente croccante.
Triglia imboddiara (20.2) - Triglie incartate, cucinate al forno in cartoccio di carta oleata,
riempite nel ventre ciascuna con due arselle e due cozze.

VINO E DISTILLATI
Fil’e ferru (28.1) - Acquavite sarda il cui nome tradotto letteralmente significa fil di ferro. In
alcune zone, in particolare nel Logudoro e nelle Barbagie è chiamata anche abbardente che
significa acqua che arde, che prende fuoco, ad indicare la forza del distillato. C’è chi dice che
il nome risale al metodo utilizzato da chi distillava clandestinamente (tutti, ancora oggi) per
poter ritrovare il luogo esatto in cui venivano seppelliti sotto terra sia le bottiglie di acquavite
prodotte che gli alambicchi per la distillazione, per l’appunto conficcando un fil di ferro nel
terreno. Si ottiene distillando vinacce, le migliori quelle di vernaccia, ottenendo facilmente
gradazioni che superano i 40°. Nelle distillazioni casalinghe è normale che rimangano tracce
di alcol metilico, che gli conferisce il caratteristico aroma, ma non è metabolizzabile e in
maggiore quantità può essere tossico. Ce se ne accorge se più che un’ubriacatura
l’assunzione di acquavite provoca solo mal di testa.
Cannonau (4.3) - Vino secco, corposo e di razza dall’odore intenso, gradevole, con un
sentore di sottobosco.
Mandrolisai (7.5) - Vino rosso, fatto di uve muristellu, cannonau, monica. Di aspetto
brillante, rosso aranciato, ha un’aroma intenso, fragrante, vinoso, con un profumo
caratteristico molto gradevole, che prelude ad un gusto asciutto, sapido, persistente, schietto,
con un retrogusto gradevolmente amarognolo. Ottimo accompagnamento ai formaggi sardi.
Malvasia di Bosa (10.4). -Vino da meditazione, nella variante liquorosa e secca dal colore
dorato, sui 17-18 gradi e 2 anni d’invecchiamento, con un odore intenso e delicato e
retrogusto amarognolo.
Vino di uve malvasia (47.5) - Vino brillante, giallo paglierino tendente al dorato, all’olfatto
intenso, delicato, fine e caratteristico; al gusto secco, alcolico con i suoi 15°, con un
retrogusto amarognolo di mandorle tostate. eccellente con i dolcetti sardi.
Vermentino (33.4) - Vino fragrante, con profumo delicato e fresco, dal colore paglierino
con leggeri riflessi verdolini.

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61.Bibliografia ragionata
Appendice IV

Nessuna pretesa di completezza nella bibliografia che segue organizzata in tre sezioni: miti,
riti e storia; viaggi e luoghi; archeologia industriale e miniere.

MITI, RITI E STORIA


1. Atzeni, S. (1996) Passavamo sulla terra leggeri, Milano, Mondadori

2. Boullier, A. (1976) L’Ile de Sardaigne, Dialecte et chants populaires, Bologna Arnaldo


Forni Editore (ristampa anastatica Milano, 1865)
3. Cagnetta, F. (1975) Banditi ad Orgosolo, Firenze, Guaraldi Editore

4. Casula, F.C. (1994) Breve storia di Sardegna, Sassari, Carlo Delfino Editore

5. Frau, S. (2002) Le colonne d’Ercole, un’inchiesta, Roma , Nur Neon

6. Lilliu, G. (2001) Su Nuraxi di Barumini, Sassari, Carlo delfino Editore

7. Lortat-jacob, B. (1999) Voci di Sardegna, Torino, Edizioni di Torino (tit. orig. Croniques
sardes, Paris, 1990)

8. Mastino, A. (a cura di ) (2005) Storia della Sardegna Antica, Nuoro, Edizioni il Maestrale

9. Smyth, W.H. (1998) Relazione sull’Isola di Sardegna, Nuoro, Ilisso Edizioni (tit. orig.
Sketch of the present state of the Island of Sardinia, London 1828)

VIAGGI E LUOGHI
1. Augé, M. (2005) Nonluoghi. Introduzione a un'antropologia della surmodernità,
Milano , Elèuthera

2. Autori Vari (2008) Sguardi forestieri, i grandi fotografi in Sardegna, Nuoro, Imago

3. Corbetta, C. (1981) Sardegna e Corsica, Bologna, Arnaldo Forni Editore (ristampa


anastatica Milano, 1877)

4. Della Maria, A. (1983) Poetto, Sassari, Edizioni Chiarella

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 311


Frammenti sparsi di Sardegna

5. Della Marmora, A. (1997) Itinerario dell’isola di Sardegna, Nuoro, Ilisso Edizioni, 3 vv.
(tit. orig. Itinéraire de l’Ile de Sardaigne, pour faire suite au Voyage en cette contrée, tome
I-II, Turin, 1860)
6. Fanzecco, A. (2002) Quattro per quattro, Quartu S. Elena (CA), Tipografia Press Color

7. Jünger, E. (1999) Terra sarda, Nuoro, Edizioni Il Maestrale (tit. orig. Am Sarazenturm,
1956)

8. Lawrence, D.H. (1989) Mare e Sardegna, Siena, Nuova Immagine Editrice (tit. orig. Sea
and Sardinia, London, 1923)

9. Lilli, V. (1999) Viaggio in Sardegna, Sassari, Carlo Delfino editore

10. Patellani, F. (2007) Federico Patellani, Un fotoreporter in Sardegna 1950-1956, Nuoro,


Imago

11. Vuillier, G. (2002) Le isole dimenticate, La Sardegna impressioni di viaggio, Nuoro,


Ilisso Edizioni (tit. orig. Les îles oubliées: les Baléares, la Corse et la Sardaigne,
impressions de voyage, Paris, 1893)

ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE E MINIERE


1. Agus, T. (1995) Guspini Montevecchio, Oristano, Editrice S’Alvure

2. Alberti, A. & Carta, M. (1980) Industria mineraria e movimento operaio in Sardegna


1850-1950, Cagliari, Edizioni Della Torre

3. Autori Vari (2008) Sardegna: minatori e memorie, Iglesias ,Associazione Minatori e


Memoria (A.MI.ME)
4. Ballicu, D. (1975) Miscellanea: alcune cianfrusaglie di indole letteraria e scientifica
approssimativa abborracciate dal medico condotto di un piccolo centro di montagna,
Fossataro
5. Callia, R. & Contu, M. (a cura di) (2008) Storia dell’industria mineraria nel guspinese
villacidrense tra XVIII e XX secolo, Villacidro, Centro Studi SEA, 3 vv.

6. Carboni, F. (1993) L’uomo e le miniere in Sardegna, La miniera di carbone antracite di


Seui: un’esperienza industriale nella Barbagia pastorale, Cagliari, Edizioni Della Torre

7. Concas, E. & Caroli, S. (a cura di) (1994) Le miniere di Gennamari ed


Ingurtosu,Viareggio, Pezzini Editore

8. Conte, G. (1985) Addio amico tonno, Cagliari, Edizioni Della Torre

Marco Gentili • Versione 14 del settembre 2013 312


Frammenti sparsi di Sardegna

9. Fugus, S. (coordinamento scientifico) (2007) Miniere e Minatori il metallifero nel Sulcis


Iglesiente e Guspinese, Catalogo tratto dalla mostra fotografica e documentaria Miniere:
luci, ombre, identità, territorio, Carbonia, Edizioni Envisual

10. Garau, S.R. (2006) Incontri, Il lavoro e le sue rappresentazioni tra i minatori di
Montevecchio, Villacidro, MediaTre Editrice

11. Kirova, t.K. (1993) L’uomo e le miniere in Sardegna, Cagliari, Edizioni della Torre

12. Lampis, F., et. al. (2006), Funtanazza, la storia delle colonie al mare per i figli dei
minatori di montevecchio 1956-1983, Macomer, Zonza Editori

13. Leo, S. (2004) La mia vita in miniera a Montevecchio, San Gavino Monreale (CA),
Edizioni Fiore
14. Loi, F.E. ( 1994) Granito di Sardegna, Cagliari, Istituto editoriale dell’artigianato

15. Ottelli, L. (1997) L'Argentiera - il giacimento, la miniera, gli uomini, Sassari, Gallizzi

16. Ottelli, L. (2005) Serbariu storia di una miniera,Cagliari, Tema Editrice

17. Ottelli. L. (2010) Monteponi , Sassari, Carlo Delfino editori

18. Pehin, G. & sanna, A. (2009) Carbonia Città del novecento, Milano, Skira Editore

19. Pehin, G. & sanna, A. (a cura di) (2011) Il patrimonio urbano moderno, Torino, Umberto
Allemandi & C.

20. Pinna, D. (2007) Buggerru, Storia di un paese minerario, Cagliari, Arti Grafiche Pisano

21. Sabattini, G. & Moro, B. (1975) La crisi delle attività minerarie regionali ed il ruolo del
settore pubblico, Cagliari, Editrice Sarda Press

22. Sella, Q. (1999) Sulle condizioni dell’industria mineraria in Sardegna, Nuoro, Ilisso
Edizioni (riedizione dell’opera Sulle condizioni dell’industria mineraria nell’isola di
Sardegna, Relazione alla Commissione parlamentare d’inchiesta, Firenze, 1871)

23. Sanna, G. A. (2012) Le ferrovie del Sulcis nella Sardegna sud occidentale fra documenti
immagini e racconti, Cortona, Grafiche Calosci

24. Sotgiu, G. (1974 ) Il movimento operaio in Sardegna, 1890-1915, Cagliari, Fossataro


25. Vacca, A. (1985) Carbonia e i problemi dell’industria carbonifera sarda 1936-1976,
Cagliari, Edizioni Della Torre

Durante il mio razzolare intorno alle miniere sarde mi sono imbattuto in un due siti ad esse
interamente dedicati, ne consiglio assolutamente la visita:
• “Miniere di Sardegna” curato da Sandro Arcais, http://www.minieredisardegna.it;
• “Sardegna Miniere” curato da Martino Attori, http://www.sardegnaminiere.it.

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Frammenti sparsi di Sardegna

SARDEGNA DIGITAL LIBRARY


Molti dei libri citati sono scaricabili gratuitamente in formato pdf dal sito “Sardegna Digital
Library” (www.sardegnadigitallibrary.it), realizzato dalla Regione Sardegna in cui sono stati
riversati, accessibili a tutti, tantissimi contenuti sotto forma di testi, foto, registrazioni audio e
video, inerenti molteplici argomenti: ambiente e territorio; archeologia; architettura; arte;
artigianato; cartografia; economia e società; enogastronomia; eventi; flora e fauna; letteratura;
lingua sarda; luoghi della cultura;musica; spettacolo; sport; storia e tradizioni.

ARCHIVIO PELLIS - SOCIETA’ FILOLOGICA FRIULANA


Per le foto di Ugo Pellis, riferite a 124 località diverse dell’Isola, per un totale di 2.177
fotografie, il riferimento è il sito della Società Filologia Friulana (www.filologicafriulana.it).

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