9 28-10-2021
I FORMAGGI A PASTA FILATA
I formaggi a pasta filata sono formaggi diversi da tutti gli altri perché in questo caso la cagliata non viene
messa in forma e avviata alla stufatura, stagionatura ecc. ma viene impastata con acqua bollente, viene
riarrangiata e rimodellata.
La modellazione in acqua bollente è possibile solo se abbiamo operato un’acidificazione spinta, quindi,
l’acidificazione veloce della cagliata rappresenta un passaggio tecnologico decisivo e caratterizzante di
questi formaggi.
Ricordiamo che tutti i formaggi subiscono l’acidificazione, la stufatura per abbassare il pH, perché è il primo
dei parametri che ci consente la conservazione nel tempo, poi con l’aggiunta del sale avremo stabilizzato la
forma che potrà subire la stagionatura senza andare a male.
Dunque, il passaggio dell’acidificazione ce l’hanno tutti i formaggi, però deve avvenire in tempi rapidissimi;
ci sono delle tecniche che consentono l’acidificazione in 20-30 minuti, mentre ce ne sono altre che lo
permettono in 3-5 ore, c’è anche l’acidificazione a 24-48 ore.
I formaggi a pasta filata hanno bisogno di un’acidificazione così veloce perché la lavorazione non è finita,
dopo l’acidificazione bisogna impastare e modellare, solo in quel momento potremo dire che il prodotto
che abbiamo realizzato è finito.
Le cagliate parzialmente acidificate, sono definite parzialmente acidificate perché l’acidificazione totale
avviene a pH 4.6 ovvero al punto isoelettrico, hanno pH 5.1-5.2, quando raggiungiamo questi livelli se
mescoliamo in acqua bollente la cagliata acida comincia ad assorbire acqua e diventa plastico e si lascia
modellare.
Il processo di filatura è proprio questo: cagliata acidificata, si taglia in pezzi poi si aggiunge l’acqua bollente,
si impasta a mano o a macchina e poi quando si è creata la pasta filante e dunque si fa la formatura.
La consistenza della pasta filata viene decisa dal casaro, in tutti i casi però di parla di una pasta acida che
deve filare.
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Tipologie di formaggi a pasta filata
Sulla base di quanta umidità conserviamo nella cagliata avremo dei formaggi più molli o più consistenti, tra
i formaggi a pasta filata troviamo la mozzarella di bufala, mozzarella di vacca, il caciocavallo, la scamorza e
la burrata che negli anni 90 era conosciuta solo in puglia.
La burrata ha un contenuto di umidità di circa il 60% come la mozzarella di vacca.
Cenni storici
Questi formaggi sono antichissimi, sono nati nelle parti calde del mondo, sono formaggi antichissimi e si
pensa che già i romani li conoscessero perché ci sono citazioni storiche che ci fanno pensare che le paste
filate fossero già presenti all’epoca. I romani erano grandi consumatori di formaggi, i legionari ovvero
coloro che partecipavano alle guerre nella loro paga settimanale avevano il formaggio e il sale.
Le prime paste filate erano di pecora perché il latte veniva prodotto da questi animali, l’allevamento delle
vacche da latte è avvenuto molto dopo.
La citazione storica più famosa è quella di Lucio Giunio Columella, il primo agronomo, lui è stato il primo
autore latino che ha lanciato il trattato che si chiama “De Re Rustica” nel 50 d.c. «Conosciutissima è la
maniera di fare il cacio che diciamo pressato a mano. Infatti, il latte leggermente rappreso nel secchio di
mungitura, fin che è tiepido, si separa dal siero e, gettandovi sopra dell’acqua bollente, si foggia a mano
oppure si preme in forme di bosso»
Le origini sono strettamente meridionali (Lazio, Campania, Puglia) e legate all’ambiente per ragioni
climatiche. In tutto il sud del mondo dove c’è un animale da latte c’è il formaggio a pasta filata.
In passato le condizioni igieniche non erano eccezionali, quindi dopo aver munto il latte dopo circa
mezz’ora il latte era diventato acido.
Le cagliate acide spurgano poco e hanno poca sineresi, quindi nei paesi caldi non si riusciva a produrre
formaggi, qualcuno per caso ci ha buttato dell’acqua bollente sopra e si accorse che i formaggi che si
ottenevano si mantenevano nel tempo; la prima pasta filata sicuramente sarà stata una pasta che
assomiglia molto al caciocavallo, i formaggi a pasta dura sono quelli che si potevano conservare e che
potevano essere commercializzati.
La pasta filata più famosa è la mozzarella che risale probabilmente all’epoca medievale, mentre, le paste
dure sono antecedenti. I romani facevano le paste dure mentre i monaci medievali producevano le paste
filate; la mozzarella nasce probabilmente con il latte di bufala nel XI-XII secolo nei monasteri nella piana del
sele in Campania.
La maggior parte dei formaggi che abbiamo sono stati prodotti dai monaci perché sono loro che si misero a
lavorare il latte nei monasteri o meglio nelle aziende di allevamento annesse al monastero.
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Il medioevo è l’epoca che precede l’invasione dei barbari prima della caduta dell’Impero Romano, in Europa
tutta l’agricoltura regredisce, le campagne non sono sicure, ci sono i saccheggi, quindi grazie ai monaci
nasce la lavorazione e diventa pian piano industriale.
Quindi, questi prodotti che hanno origine nel sud e nei paesi del mediterraneo si sono diffusi in tutto il
mondo.
I romani facendo lavorazioni istantanee perché ricordiamo che la caseificazione è una tecnica di
conservazione del latte; quindi, ottenere un prodotto che dopo mezz’ora andava a male non aveva nessun
senso, i monaci rispetto ai romani hanno razionalizzato la cosa. I monaci producono paste filate per
l’autoconsumo o venivano destinati ai viandanti affamati, con i fenomeni migratori le paste filate si sono
diffuse in tutto il mondo.
Le paste filate si sono diffuse e vengono prodotte in tutto il mondo, sicuramente è l’industria che fa più
fatturato nel mondo, negli stati uniti la destinazione della pasta filata è quella di condire la pizza, mentre in
Italia c’è una destinazione diversa.
Bisogna dire che ci sono due line di produzione ovvero formaggi a pasta filata per pizza che va dalla
mozzarella fino al caciocavallo poco stagionato per pizza oppure la linea da tavola, sono proprio due
industrie diverse.
LA TECNOLOGIA DI PRODUZIONE
Il passaggio chiave è l’acidificazione spinta e immediata della cagliata. La pasta filata si lascia modellare
perché con l’acidificazione ovvero a pH basso il calcio si allontana dalla micella (il fosfato tricalcico si
trasforma in calcio solubile e ionico), la demineralizzazione della micella nelle paste filate si spinge fino ad
un certo punto, al punto isoelettrico della caseina ovvero 4.6 a temperatura ambiente tutto il fosfato
tricalcico della micella è diventato calcio solubile e quindi la micella non esiste più.
Durante la produzione della pasta filata non si raggiunge il punto isoelettrico ma si acidifica fino ad un pH
che ci consente l’allontanamento di circa 2/3 del calcio; quindi, la cagliata parzialmente acidificata e
parzialmente decalcificata si presenta a caldo come un corpo intermedio tra un solido e un liquido quindi
filante. Dunque, il nostro obiettivo è quello di allontanare circa i 2/3 del calcio presenti nella caseina che sta
ovviamente nella cagliata. Questa capacità di comportarsi come un corpo semisolido, filante, mobile e
molto coeso, con una sua elasticità è una caratteristica che si vede solo a caldo, a freddo non si vede, per
cui una volta che si riscalda e si impasta in acqua bollente si crea la forma e si mette in acqua dove si perde
la proprietà di elasticità e di formatura e si conserva la forma che gli è stata conferita durante la
lavorazione.
Tutte le paste filate hanno una fase di riscaldamento e impastamento e una di raffreddamento per
conservare la forma, il raffreddamento deve avvenire in acqua perché all’aria la forma si schiaccerebbe
sotto il suo stesso peso.
Ricordiamo che l’acidificazione è parziale, non bisogna arrivare al punto isoelettrico a 4.6 come quando
facciamo lo yogurt perché il nostro obiettivo è quello di ottenere una pasta elastica e infatti la coagulazione
è sempre presamica ovvero noi otteniamo il coagulo con il caglio poi opereremo in modo tale da ottenere la
cagliata acidificata.
Nella tecnologia tradizionale che è quella che facciamo per prima, dobbiamo acidificare la cagliata; quindi,
la otteniamo con il caglio ma dobbiamo fare in modo che perda i 2/3 del calcio, se invece arrivassimo a pH
4.6 arriveremmo al punto isoelettrico e avremmo un coagulo isoelettrico in cui non avremmo più calcio e
avremo lo yogurt.
Ricordiamo che le paste filate non sono formaggi a coagulazione acida, i formaggi a coagulazione acida non
esistono tranne la robiola, quindi, tutti i formaggi tranne qualche eccezione sono tutti a coagulazione
presamica però in questo caso il coagulo presamico viene fatto acidificare, si deve sempre aggiungere il
coagulante. Il giusto pH di filatura è 5.0-5.3.
SLIDE
L’acidificazione non deve arrivare al punto isoelettrico della caseina (4.6), in corrispondenza del quale il
contenuto di calcio colloidale nella cagliata si ridurrebbe a zero, lo stato micellare si «disintegrerebbe»
(coagulo isoelettrico).
Il coagulo isoelettrico non è idoneo alla filatura (perdita delle proprietà plastiche) e tende a liquefarsi in
acqua bollente. È necessario dunque raggiungere il giusto “pH di filatura” (5.0-5.3).
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DA RICORDARE: nonostante l’acidificazione della cagliata abbia un ruolo determinante, la coagulazione è
sempre presamica.
La parziale acidificazione è necessaria in quanto determina la trasformazione del paracaseinato tricalcico in
monocalcico quest’ultimo, quando è riscaldato oltre i 54-55°C, diventa morbido, fibroso ed estensibile,
capace di ritenere nella sua rete il grasso inglobato durante la coagulazione.
Paracaseinato tricalcico (senza proprietà plastiche) + acido lattico paracaseinato monocalcico
(estensibile) + lattato di Ca (solubile in acqua)
Quando si acidifica la cagliata e si acidifica per fermentazione si produce acido lattico, l’acido lattico andrà a
legare il calcio trasformandosi in lattato di calcio, la caseina della cagliata sarà impoverita in calcio.
Quando si sviluppa un acido il protone che si dissocia dall’acido, l’H+ va a sostituire il calcio e lo toglie via.
Quindi, alla fine trasformiamo un paracaseinato tricalcico cioè la caseina con il fosfato tricalcico in un
caseinato monocalcico cioè che ha meno calcio colloidale che è estensibile.
L’acidificazione avviene per fermentazione, il pH scende perché i batteri fermentano, il tecnologo deve
gestire le fermentazioni.
La fermentazione può avvenire:
spontaneamente: microflora naturale del latte crudo, così come avveniva per i romani;
aggiunta di innesti: fermenti lattici aggiunti al latte in caldaia come sieroinnesto o lattoinnesto (colture
naturali complesse, autoprodotte in azienda);
aggiunta di innesti selezionati: fermenti lattici selezionati (colture semplici, prodotte e
commercializzate dall’industria biotecnologica)
Vengono utilizzati sempre fermenti lattici, solo che nei primi due casi vengono utilizzati colture autoctone,
nel primo caso quelle presenti naturalmente nel latte mentre nel secondo caso sono i fermenti lattici che si
sviluppano nei lattoinnesti o nei sieroinnesti che essendo prodotti in caseificio presentano la microflora del
caseificio, quindi possiamo dire che nel primo caso è la microflora associata alla stalla mentre nel secondo
caso è la microflora associata al caseificio, mentre il terzo caso la microflora è associata all’industria
tecnologica (la bustina dei fermenti lattici selezionati).
La fermentazione spontanea non viene usata tranne in alcune masserie, essendo spontanea i tempi di
fermentazione sono molto lunghi perché la microflora presente è bassissima per legge 100.000 cellule di
microrganismi, di quei 100.000 avremo solamente 10-20.000 batteri lattici per millilitro; quindi, oggi queste
lavorazioni non si possono fare perché abbiamo i latti paucimicrobici ovvero poveri di microrganismi.
La fermentazione con l’aggiunta di innesti naturali, lattoinnesti e sieroinnesti, ci permette di immettere fin
da subito la microflora abbondante mentre nella fermentazione naturale bisogna aspettare che la
microflora si sviluppi e si moltiplichi, in questo caso aggiungendo questi innesti al latte si raggiunge subito la
concentrazione dei batteri lattici che vogliamo per cui abbiamo tempi di lavorazione ridotti da 2 a 5 ore.
Il prodotto che si ottiene mediante questa lavorazione è più standardizzato ed è igienicamente più
controllato.
I prodotti che si ottengono hanno una buona qualità sensoriale perché questi innesti autoctoni che si
utilizzano sono un mix di tante specie batteriche; quindi, ci sono una serie di fermentazioni ovvero quella
lattica, omolattica, propionica, butirrica, alcolica ecc. tutte queste fermentazioni, seppure in piccola
quantità, creano un flavour complesso.
Le modalità di preparazione fanno sì che prevalgano le specie lattiche (mesofile o termofile) attraverso
selezione naturale.
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Gli innesti naturali sono una fonte di biodiversità, nel caso in cui vogliamo fare dei lattoinnesti si prende del
latte crudo di buona qualità microbiologica, al massimo termizzato a 60°C, e lo incubiamo a temperatura
ambiente o a 40-45°C; se incubiamo a temperatura ambiente probabilmente ci vorrà un giorno, se invece
siamo a 40-45°C probabilmente ci vorranno 12-18 ore per acidificare. Ci accorgiamo che l’acidificazione è
avvenuta perché il latte diventa come uno yogurt per cui il giorno dopo per la lavorazione si prende una
parte di questo lattoinnesto e lo si aggiunge al latte in questo modo fortifichiamo il latte con i batteri lattici.
La preparazione del lattoinnesto avviene in maniera giornaliera, dunque, ogni giorno viene presa una parte
di latte e fatta acidificare. Il lattoinnesto deve essere utilizzato in maniera giornaliera, non si può conservare
per due o più giorni perché altrimenti avviene la separazione, il coagulo cremoso sul fondo e il riero in
superficie.
Nei sieroinnesti si raggiunge un pH di 3.2-3.3, il siero della produzione giornaliera viene fatto acidificare e
viene utilizzato il giorno dopo per la coagulazione, la parte di siero che avanza viene eliminata perché
altrimenti invecchierebbe.
Chiaramente questi innesti bisogna gestirli, una delle cose più importanti è valutare la forza fermentativa,
cioè noi non sapremo mai quanti batteri si sono sviluppati. Il nostro obiettivo quando usiamo gli innesti è
quello di fortificare il latte con la microflora lattica, per sapere se quell’innesto si è sviluppato bene
possiamo utilizzare la conta in piastra anche se è una tecnica molto lunga oppure molto più velocemente
possiamo misurare il pH.
Più alta è l’acidità sviluppata se effettuiamo una titolazione oppure più basso è il valore del pH se
utilizziamo un pHmetro più possiamo dire che i microrganismi si sono riprodotti.
Normalmente quando si fa la misura dell’acidità, che è la stessa dell’acidità del latte ovvero con soda o
fenolftaleina, solo che nel caso del latte i valori sono da 6.5 a 8, mentre, nel caso dei sieroinnesti bisogna
arrivare almeno a 25°SH/50 ml, se non raggiungiamo questo livello vuol dire che il nostro sieroinnesto non
è maturo e quindi bisogna aspettare.
Questo è un metodo facile, veloce ed economico per capire se abbiamo sieri che sono pronti per
l’utilizzazione, questo è importante perché non è che semplicemente incubando un giorno in automatico
siamo certi che tutto va bene ma può essere successo di tutto come la presenza di antibiotici,
abbassamento termico di notte, qualcuno l’ha sabotato ecc. quindi misurare l’acidità al mattino prima di
lavorare serve per essere certi che la microflora si sia sviluppata.
Quasi sempre sono presenti anche i lieviti e gli enterococchi, anzi i lieviti sono una flora secondaria
caratteristica soprattutto dei sieroinnesti, infatti, le mozzarelle prodotte con i sieroinnesti hanno nel loro
flavour anche l’etanolo in piccole quantità.
La terza possibilità è quella dei fermenti selezionati ovvero le bustine, se vengono utilizzati i fermenti
selezionati si utilizza la pastorizzazione in modo tale da avere una qualità igienica sanitaria molto alta,
inoltre permette di far durare nel tempo il prodotto e garantisce l’assenza dei difetti soprattutto nel caso in
cui vengano prodotti dei formaggi stagionati, dunque, avendo eliminato tutta la microflora di partenza
buona e cattiva, vengono aggiunti gli starters e in questo modo si produce un prodotto sicuro però
standardizzato e omologato.
Per la mozzarella si tratta quasi sempre di colture IDC di Streptococcus termophilus in purezza, perché è un
rapido acidificante ed è poco proteolitico.
Per gli altri formaggi a pasta filata si usano mesofili o miscele mesofile/termofile con diversa capacità
acidificante e proteolitica.
Le colture selezionate commerciali sono esposte a rischio di essere contaminate da virus batteriofagi, sono
virus che possono parassitare la coltura, più la coltura è monospecifica (un solo ceppo) più è esposta
all’attacco dei batteriofagi per cui è importante ogni tanto ruotare gli starters ovvero non usare sempre lo
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stesso in modo tale che nell’ambiente non si sviluppano le popolazioni del singolo batteriofago e che non
superino la soglia. Siccome i batteriofagi sono ceppi specifici quando non trovano più l’ospite scendono e
possono salire gli altri.
Se all’interno della bustina ci sono 3-4 ceppi, si sviluppa più un ceppo rispetto ad un altro ma si sviluppano
tutti alla lunga, la bustina con un monoceppo è la più fragile.
Per la prevenzione dai batteriofagi è importante utilizzare le rotazioni delle fagotipiche cioè lo starter va
cambiato di tanto in tanto, le aziende per non perdere il cliente hanno creato quattro ceppi diversi della
stessa specie ovvero Streptococcus termophilus che cambiano un pochino nella velocità della gelificazione
ma funzionano tutti e quattro per la produzione delle mozzarelle, il prodotto finale non cambia e infatti
sono proprio messi a punto per questi.
I batteriofagi sono dei virus che aderiscono sulla cellula, il virus è costituito da una testa che è detta capside
ed è una capsula proteica, il batteriofago ha un capside al cui interno c’è una molecola di acido nucleico che
è un DNA o un RNA a seconda di quale tipologia è, poi al di sotto del capside presenta una sorta di siringa
con cui si ancora alla cellula e attraverso la siringa inietta il proprio acido nucleico nella cellula, in quel
momento l’acido nucleico si inserisce sul DNA della cellula ospite e diventa il suo schiavo, quindi, comincia a
produrre del materiale che serve alle cellule figlie del virus che si svilupperanno nella cellula, la cellula poi
esploderà e i nuovi virus potranno andare a colonizzare.
La caratteristica è che l’adesione sulla parete cellulare del batterio funziona con un riconoscimento
antigeno/anticorpo; quindi, il virus ha la capacità di riconoscere con grande specificità la proteina di
membrana, quindi ogni ceppo ovvero la varietà della specie, ogni batteriofago riconoscerà solo un ceppo.
Se noi in caseificio utilizziamo sempre lo stesso ceppo, in poco tempo selezioneremo tutti i batteriofagi, le
popolazioni saliranno, infetteranno le colture e le aggiungeremo nel latte ma non funzioneranno, quindi la
lavorazione non si farà e si bloccheranno le fermentazioni. Se invece periodicamente cambiamo la coltura il
batteriofago che ha cominciato a svilupparsi non trova più l’ospite, non lo riconosce e muore.
Questo problema per gli innesti naturali è molto meno sensibile perché i lattoinnesti e i sieroinnesti hanno
centinaia di ceppi, quindi, è chiaro che dovrebbero svilupparsi tante tipologie di batteriofagi, prima o poi
succede anche a loro però in tempi molto più lunghi.
La fase di filatura
Abbiamo aggiunto gli starter al latte, lo lasciamo fermentare e in 2-4 ore otterremo il pH di 5.2-5.3, poi
dipende dal prodotto, solitamente se abbiamo prodotti più nervosi ed elastici lavoreremo sul pH più alto, se
vogliamo formaggi molto morbidi il pH scenderà di molto, più basso è il pH più è morbido il prodotto ed è
meno elastico.
Quando l’operatore ha deciso che è stato raggiunto il pH giusto si avvia la filatura, si aggiunge acqua
bollente in rapporto variabile solitamente 1 (cagliata) :1,5 (acqua); successivamente si comincia ad
impastare formando una pasta filante liscia e omogenea, in parte assorbe l’acqua calda che viene aggiunta
e in parte caccia via il siero, c’è uno scambio, c’è una sostituzione parziale del siero contenuto all’interno
con l’acqua di filatura. In questa fase siamo intorno ai 60°C, questo è il livello termico della pasta, a questa
temperatura il grasso non è solido ma è presente in forma fluida, avviene un riarrangiamento strutturale e
si formano lunghe fibre di caseina intervallate con dei canalicoli vuoti che si riempiono subito di acqua calda
e grasso fuso.
Nell’immagine vediamo la cagliata prima della filatura e dopo la filatura, possiamo vedere come si sono
formati i canalicoli lunghi che si riempiono di acqua e grasso fuso.
Sono loro che quando il prodotto fresco viene tagliato danno origine a quel rilascio di umidità che
erroneamente viene chiamato latte ma in realtà e acqua di filatura che si è sporcata di grasso e di caseina
che quindi è diventata bianca. Se il formaggio lo portiamo in frigorifero, il caso più evidente è quello delle
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mozzarelle, se lo portiamo a 8-10°C non c’è più quel rilascio di acqua perché il grasso si è rappreso ha
occluso i canalicoli e quindi l’acqua non esce più.
Ecco perché viene sconsigliato di mettere in frigorifero le mozzarelle per far sentire la succosità e non
vogliono far rapprendere il grasso, nel tempo l’acqua verrà riassorbita dalla caseina, il grasso nel breve
termine tende a solidificare la fase liquida.
Tempo e temperatura di filatura sono due parametri correlati tra di loro, più alta è la temperatura di
filatura più basso sarà il tempo perché se alziamo di molto la temperatura dell’impasto diventerà fluido
molto prima; quindi, se qualcuno vuole velocizzare utilizza acqua caldissima e fluidifica tutto in fretta.
La filabilità ha bisogno di raggiungere un certo livello termico, se l’impasto è molto umido l’acqua
trasferisce il calore molto velocemente, se l’acqua è poca e quindi le paste sono molto consistenti è chiaro
che con la trasmissione del calore sarà più lenta e quindi il coefficiente termico della proteina e del grasso è
diversa, le proteine hanno bisogno di tempo per riscaldarsi.
La temperatura di filatura che si raggiunge dipende dalla temperatura dell’acqua, dal rapporto
acqua/cagliata e del tempo di filatura, se noi utilizziamo acqua a 90°C in rapporto 1 a 1 riscalderemo ad una
certa velocità, se il rapporto è 1 a 2 riscalderemo molto più velocemente, sono tutte variabili che si
gestiscono in produzione.
Ogni caseificio può dar luogo ad un prodotto diverso a seconda di come applica tutti questi parametri
La temperatura, indipendentemente dal tempo, può essere un vincolo ovvero raggiungere all’interno della
pasta 70°C, per esempio, l’industria che deve produrre formaggi e paste filate fresche di lunga shelf life
tende a massimizzare le temperature, quindi, diventa una pastorizzazione.
Quando avremo chiuso il prodotto, sia quando abbiamo creato la forma sia quando l’abbiamo
confezionato, la carica batterica che ci portiamo dietro deciderà la sua shelf life, con la grande distribuzione
organizzata che comanda il mercato dei prodotti freschi le shelf life devono essere lunghe, se si vogliono
vendere i prodotti bisogna fare dei contratti con le GDO, le mozzarelle hanno circa 15-20 giorni di shelf life,
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in questo modo si fa di tutto per garantire la conservabilità; il livello di temperatura garantisce un certo tipo
di risanamento microbiologico del prodotto.
Si possono fare paste filate con acqua ad una temperatura da 80-100°C, la temperatura del prodotto può
andare da 55 a 70°C; il tempo può variare da 5 a 10 minuti.
Se applichiamo 55°C per 5 minuti non stiamo pastorizzando, il che è importante soprattutto se partiamo da
latte crudo, se stiamo lavorando a 70°C per 10 minuti sicuramente abbiamo una iper-pastorizzazione, per
cui le scelte dipendono dagli obiettivi.
Chi estremizza i parametri di filatura per temperatura e tempo si porta dietro un inconveniente ovvero
l’impoverimento in grasso perché il grasso non si scioglie in acqua fredda ma si scioglie in acqua calda, chi
opera filature energiche e parametri estremizzati deve accettare una perdita di resa per il grasso che passa
nell’acqua di filatura, i prodotti che si ottengono tendono ad essere nervosi perché il grasso è un fattore di
morbidità ed è una proteina di elasticità.
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avvenire a mano o a macchina, nell’immagine vediamo che la formatura avviene a macchina, possiamo
vedere un rullo formatore che forma le palline del formato desiderato.
Raffreddamento e salatura
Una volta uscita dalla filatrice, o se abbiamo operato manualmente una volta avere formato i pezzi, i pezzi
ottenuti devono essere raffreddati, i pezzi vengono messi in acqua fredda in modo tale avvenga il
raffreddamento senza che venga persa la forma. Dopo il raffreddamento avviene la salatura, quindi, si torna
alla regola generale ovvero salatura in salamoia, la salatura a secco non può essere effettuata, le forme
sono tutto tonde o ovoidali, solo in alcuni casi come il ragusano ovvero un caciocavallo a forma di
mattonella; ma sostanzialmente la pasta è sempre liscia e il sale fatica a rimanere aderente quindi nelle
paste filate si opera sempre con la salatura in salamoia diluita oppure più concentrata per le paste più dure.
Più è grande la forma e più la vogliamo salare quindi più tempo ci vorrà.
La mozzarella vaccina, unica eccezione, prevede che la salatura avvenga in filatrice; dopo la trinciatrice della
cagliata, quando passa nella zona di impastamento l’operatore aggiunge il sale e quindi condisce la cagliata
in modo tale che la cagliata esce già salata.
Il tenore in sale è più alto nei prodotti stagionati e più basso nei prodotti freschi perché nei prodotti
stagionati il sale ha una funzione conservativa mentre nei formaggi freschi è un insaporitore e non ha uno
scopo conservativo.
Il tenore in sale nel prodotto finito varia da 0,5 a 4%.
Il problema della velocità di raffreddamento è un problema che riguarda solo i prodotti freschi, se parliamo
di prodotti che devono stagionare più o meno, si mette in acqua corrente e quando si vuole raffreddare si
raffredda mentre nel caso dei freschi c’è una tecnologia di raffreddamento.
Al termine del processo otterremo una certa quantità di prodotto che varierà a seconda di tante variabili, il
concetto di resa di caseificazione in questa industria è fondamentale.
Il rendimento in formaggio in generale dipende dal contenuto in grasso e proteina, dalla condizione dello
stato micellare ovvero se la micella è danneggiata o meno, se il latte è fresco e la micella è intatta siamo
nelle condizioni ottimali, dal livello di cellule somatiche più basse sono e meglio è, l’umidità del prodotto
finito. Molto importante è il livello di umidità, si possono fare mozzarelle al 70% di umidità oppure al 50% e
questo cambia il rendimento.