SVIPDAGSMÁL
IL DISCORSO DI SVIPDAGR
LJÓÐA EDDA
SVIPDAGSMÁL
IL DISCORSO DI SVIPDAGR
- Un poema composito
- Il Grógaldr
- Il Fjǫlsvinnsmál
- Analisi critica
- Genere e metrica
- Edizioni italiane
Un poema composito
Ultimo titolo in un'ideale antologia della poesia eddica, lo Svipdagsmál o «discorso di Svipdagr» è il più
tardo e, in un certo senso, il più problematico dei poemi mitologici islandesi. Esso non è compreso nella
raccolta del Codex Regius, ma a causa della sua relativa modernità e dei vari problemi testuali che presenta,
è difficilmente inquadrabile persino nel corpus dell'«Eddica Minora», e molti editori tendono a escluderlo.
Inoltre, lo Svipdagsmál non è nemmeno un poema unitario, essendo sorto dall'artificiosa giustapposizione,
effettuata da Sophus Bugge, di due tardi poemi di argomento mitologico, il Gró[u]galdr, l'«incantesimo di
Gróa», e il Fjǫsvinnsmál, il «discorso di Fjǫlsviðr».
I due poemi sono presenti in un certo numero di manoscritti islandesi del XVII secolo, in alcuni dei quali si
trovano disposti in senso inverso rispetto alle edizioni moderne, e tra i due è a volte interposto un terzo
poema, l'Hyndluljóð. La loro data di composizione viene fatta risalire tra il XIII e il XIV secolo, un'epoca
decisamente posteriore a quella di ogni altro poema eddico.
A puntare per primo l'attenzione su questo testo, fu il folklorista Svend Grundtvig, celeberrimo curatore
delle Danmarks gamle Folkeviser, le «Antiche ballate popolari di Danimarca» (Grundtvig 1857). Studiando
una ballata popolare intitolata Ungen Sveidal «Il giovane Sveidal» (o Herr Svedendal, o Hertig Silfverda)
(DgF 70), Grundtvig mise in correlazione la prima parte della visa con un tardo poema islandese,
il Grógaldr. In seguito, lo stesso Bugge notò come il finale della ballata corrispondesse a un secondo poema,
il Fjǫlsvinnsmál, e ipotizzò che la ballata dano-svedese avesse conservato la vicenda unitaria che in Islanda
era stata tramandata in due composizioni separate (Bugge 1860). Nonostante Grundtvig avesse già proposto
un titolo per un poema complessivo: Svipdagsfǫr, «viaggio di Svipdagr», quando esso fu pubblicato da
Bugge, nella sua storica edizione della Ljóða Edda (1867), venne intitolato Svipdagsmál, «discorso di
Svipdagr».
Il Grógaldr
Il primo dei due poemi che compongono lo Svipdagsmál, il Grógaldr, o «incantesimo di Gróa», consta di
sole sedici strofe, e può essere diviso in due parti. Nella prima, redatta in forma di dialogo, il
giovane Svipdagr evoca dal tumulo la sua defunta madre Gróa, affinché lo aiuti ad assolvere un compito che
gli è stato importo dalla malvagia matrigna: quello di recarsi presso una donna, Menglǫð [1-5]. La seconda
parte del carme è invece un monologo: Gróa – che è probabilmente la stessa vǫlva che,
nello Skáldskaparmál viene consultata affinché tolga la scheggia conficcata nella fronte di Þórr – canta al
figlio una serie di incantesimi [galdrar] che potranno essergli utili nel corso della sua impresa [6-16].
Se il motivo dell'evocazione di una vǫlva dal tumulo è un motivo appartenente alla più antica poesia eddica,
dalla Vǫluspá al Baldrs Draumar, gli incantesimi mostrano una stretta affinità con quelli recitati
da Óðinn nell'Hávamál e, in almeno un paio di casi [10 | 11], presentano delle strette somiglianze formali.
Il Fjǫsvinnsmál
Il secondo poema confluito nel Svipdagsmál, il Fjǫsvinnsmál, o «discorso di Fjǫlsviðr», è assai più lungo e
elaborato del primo (50 strofe). Uno sconosciuto giunge a una fortezza circondata dal fuoco e, presentandosi
sotto il nome di Vindkaldr, chiede al guardiano del luogo, Fjǫlsviðr, chi sia a governare quelle terre. Saputo
il nome della signora della fortezza, Menglǫð, il nuovo venuto rivolge a Fjǫlsviðr una lunga serie di
domande. S'informa dapprima sul bastione che protegge la fortezza: vuole sapere chi abbia edificato le
possenti mura e il terribile cancello [9-12]. Chiede quindi informazioni sul misterioso albero Mímameiðr che
si trova dentro i recinti: vuole sapere quali siano le sue virtù, come si chiami il gallo che vive tra le due
fronde e i cani che lo vigilano [19-24]. Saputo tutto ciò, Vindkaldr comincia a porre delle attente domande
su come penetrare nella fortezza, superare i guardiani ed eluderne i pericoli. La cosa si rivela però
impossibile: per acquietare i cani bisogna dar loro – se la delicata traduzione è corretta – le ali arrostite del
gallo Viðófnir [13-18]. Unico modo per uccidere il gallo, rivela Fjǫlsviðr, è utilizzare una magica verga
chiamata Lævateinn, la quale è custodita dalla gigantessa Sinmara. Ma per indurre Sinmara a consegnare la
verga, bisogna darle in cambio la falce che è in possesso del gallo stesso [25-30]. Si configura dunque un
circolo vizioso irrisolvibile. È evidente che non è possibile per nessuno superare il bastione, tranne per l'eroe
destinato all'impresa.
Svipdagr e Freyja [Menglǫð] (✍ 1911)
John Bauer (1882-1918). Illustrazione (Rydberg → Hiersche 1911)
Di fronte all'erudita ironia di Fjǫlsviðr, Vindkaldr sembra desistere dai suoi progetti e chiede notizie sulla
dimora che si leva al centro della fortezza, su Menglǫð che la governa e sulle fanciulle che sono accanto a
lei [31-40]. Dopo una serie di domande, chiede chi sia l'uomo destinato a giacere tra le braccia della
donna. Fjǫlsviðr rivela che solo una persona è degna dell'amore di Menglǫð e si tratta di Svipdagr [41-42].
A questo punto il nuovo venuto si rivela: è lui Svipdagr! Fjǫlsviðr corre all'interno della fortezza è
avvisa Menglǫð che l'uomo che attendeva è arrivato alla fortezza. La donna rifiuta inizialmente di credergli.
Sospettosa esce e interroga lei stessa il nuovo venuto. Riconosciutolo, accoglie Svipdagr con trepidazione e i
due innamorati finalmente si congiungono [43-50].
Per quanto il Fjǫlsvinnsmál risenta senza alcun dubbio delle convenzioni della poesia sapienziale norrena,
basata su uno scambio di domande e risposte erudite (si veda il Vafþrúðnismál), la trama ha un modello
assai diverso, quello della ricerca della sposa. Come Viktor Rydberg ha mostrato nella sua analisi, il poema
presenta più di un parallelismo con il Skírnismál. In entrambi i casi c'è una fanciulla difficile da raggiungere
(Gerðr; Menglǫð), e un giovane che intraprende il viaggio (Skírnir è pronubo per Freyr; Svipdagr parte per
un non meglio precisato ordine impartitogli dalla matrigna). Per affrontare le difficoltà del viaggio sono
necessarie delle particolari precauzioni (Skírnir porta con sé la spada di Freyr, Svipdagr si premunisce con
gli incantesimi della madre Gróa). La roccaforte della fanciulla è sorvegliata in entrambi i casi da un solerte
guardiano (quella di Gerðr da un pastore; quella di Menglǫð ha Fjǫlsviðr). Entrambe sono infine difese da
cani feroci e circondate da fiamme che solo l'eroe predestinato è in grado di superare. (Rydberg 1886-1889 |
Branston 1955)
Analisi critica
Per quanto venga solitamente associato al genere di composizioni presenti nella Ljóða Edda, il poema se ne
distacca per molte ragioni. Nel suo stile composito, infatti, lo Svipdagsmál dà la viva impressione che il suo
autore si eserciti a imitare i vari generi della poesia eddica, senza però dominarne lo spirito. Inoltre, i temi
mitologici affrontati nel Fjǫlsvinnsmál hanno solo minimi riscontri con le notizie fornite nelle due Edda, tali
da far pensare che l'autore non ne avesse una conoscenza approfondita. Ad esempio, di Svafrþorinn, nonno
di Menglǫð, o di Sinmara, supposta moglie di Surtr, non si sa nulla, e i loro nomi non sono citati in altre
fonti. Anche il gallo Viðófnir fa qui la sua unica apparizione, ma i suoi tratti ricordano quelli
di Gullinkambi, il gallo destinato a chiamare a raccolta gli dèi nell'ultima battaglia.
Anche l'albero Mímameiðr sembra una tarda rielaborazione dell'Yggdrasill, anche se qui si indugia non tanto
sul suo carattere cosmologico, ma soprattutto sulle proprietà curative dei suoi frutti.
Un'analisi formale che tenga conto del lessico, dei temi mitologici, dello stile e della ricchezza di kenningar,
pongono lo Svipdagsmál piuttosto lontano dal resto delle composizioni della Ljóða Edda. Viene così
giustificata la tarda epoca di composizione che viene assegnata ai due poemi, e cioè tra il XIII e il XIV
secolo.
Nel corso del tempo, lo Svipdagsmál è stato soggetto a una quantità di interpretazioni, per quanto non si sia
ancora arrivati a una sostanziale unità di vedute. Il primo interrogativo riguarda i personaggi stessi. Nomi
come Svipdagr «giorno veloce» e Menglǫð «lieta della collana» sembrano essere degli epiteti, e gli studiosi
si sono a lungo tormentati nel tentativo di identificarli con l'una o l'altra divinità della mitologia scandinava.
L'unico personaggio del poema abbastanza trasparente è Fjǫlsviðr «assai sapiente», che è
evidentemente Óðinn (l'epiteto è citato tra gli heiti del dio in Grímnismál [47]). Come Óðinn plasmò la terra
a partire dal corpo smembrato di Ymir, così Fjǫlsviðr si vanta di aver innalzato il bastione di Menglǫð con le
membra del gigante Leirbrimir. I due cani di Fjǫlsviðr, inoltre, Gífr e Geri, ricordano da vicino i due lupi
di Óðinn, Freki e Geri. (Rydberg 1889).
In quanto agli altri personaggi, già Jacob Grimm proponeva di identificare Menglǫð («lieta della collana»)
con Freyja, a cui appartiene la collana Brísingamen (Grimm 1835). Lo stesso Viktor Rydberg proponeva
assimilare Svipdagr a Óðr, sposo di Freyja (Rydberg 1889), ma le indicazioni che egli porta a sostegno sono
piuttosto fragili. Ma poiché Frigg e Freyja sono figure corradicali (così come Óðinn e Óðr), non stupisce di
trovare in Menglǫð dei tratti della regina degli Æsir. L'immagine di Frigg attorniata dalle sue serve è molto
vicina a quella di Menglǫð circondata dalle sue soccorrevoli ancelle. Molti dettagli funzionali, nella
descrizione della fortezza di Menglǫð, sembrano riferirsi a pratiche medicinali. Vi è l'albero Mímameiðr i
cui frutti favoriscono il travaglio delle donne e le cui foglie sono la materia prima per un «antico rimedio»
non ben identificato; il Lyfjaberg, o «monte della guarigione», su cui siede Menglǫð, ha la proprietà di
guarire i feriti e i malati che vi salgono; infine le ancelle di Menglǫð hanno tutti nomi legati ad attività
salutifere, e tra esse vi è anche Eir, dea della medicina, che Snorri assegna al seguito di Frigg.
Nel corso degli anni sono state avanzate molte possibili interpretazioni del poema, spesso in aperta
contraddizione tra loro. Hjalmar Falk ed Einar Ólafur Sveinsson, seppure in tempi piuttosto diversi, hanno
voluto vedervi un'origine celtica: un racconto ispirato alle quêtes medievali del Sangrail (Falk 1893) o alle
vicende del semimitico re irlandese Art mac Cuinn (Sveinsson 1975). Otto Höfler vi ha voluto vedere un
mito naturalistico sul sole che risveglia la terra in primavera (Höfler 1952). Non sono mancate letture
psicologiche o antropologiche. Brian Branston, che basa la sua interpretazione della natura del mito sulla
teoria degli archetipi di Gustav Jung, afferma che tanto lo Skírnismál quanto
lo Svipdagsmál rappresenterebbero il rito di passaggio di un giovane all'età adulta e la sua prima esperienza
sessuale (Branston 1955).
Conclusiva, a nostro parere, la lettura di Jan De Vries, che ha escluso un'origine mitica della vicenda e ha
voluto vedere nello Svipdagsmál l'opera letteraria di un anonimo poeta islandese, il quale si è esercitato a
raccontare una fiaba sul modello della Bella Addormentata utilizzando motivi, immagini e stilemi della
poesia eddica. (De Vries 1941)
Genere e metrica
Preso nel suo complesso, lo Svipdagsmál non sembra appartenere a un genere preciso. È un poema
mitologico, condotto nello stile di una ballata, non diversamente dallo Skírnismál; la vicenda passa tuttavia
in secondo piano di fronte alle lunghe tirate di carattere gnomico-sapienziale. L'una e l'altra composizione
che compongono il poema, sono infatti di carattere dialogico. Nel Grógaldr vi sono solo due
voci: Svipdagr e Gróa, ma a quest'ultima viene assegnato un lungo monologo di carattere magico, che
compone i due terzi del testo complessivo (undici strofe su sedici). Il Fjǫlsvinnsmál è introdotto da un
solo helmingr di carattere narrativo; il resto è un fittissimo dialogo tra due voci, Svipdagr e Fjǫlsviðr, le cui
domande e risposte affrontano temi di sapienza mitologica; solo in chiusura interviene una terza voce, quella
di Menglǫð, a cui è affidata la bellissima dichiarazione d'amore finale.
Il metro di entrambe le composizioni che costituiscono lo Svipdagsmál è il ljóðaháttr o «metro strofico»,
che nella sua forma canonica è formato da quattro versi, in cui due «lunghi», costituiti da due semiversi, si
alternano a due versi «pieni», formati di un solo semiverso. La versificazione del testo è molto regolare e
non presenta varianti metriche.
Nella nostra pagina pagina, per ragioni grafiche, i due semiversi che compongono i «versi lunghi» sono stati
spezzati e disposti su due righe. Così le strofe risultano organizzate su un numero di righe diverso da quelle
originali. Ecco, per confronto, la versificazione di Grógaldr [1]:
Le due composizioni, il Grógaldr e il Fjǫlsvinnsmál, sono state tenute ben distinte nella nostra edizione, e
ciascuna ha una numerazione indipendente dall'altra. Questo potrebbe provocare una variazione
nell'indicazione del numero del verso con altre edizioni dello Svipdagsmál. La sezione Fjǫlsvinnsmál [19-
24] è stata anticipata dopo la strofa [12], ma la numerazione non è stata toccata.
Edizioni italiane
Escludendo le strofe scorporate presenti nelle antologie, l'unica traduzione integrale dello Svipdagsmál è
quella di Alberto Mastrelli, nel libro L'Edda. Carmi norreni, nella collana «Classici della religione», edita da
Sansoni (Firenze 1951, 1982). Intitolata Svipdagsmal. Il carme di Svipdag (e quindi, Il canto magico di
Groa e il Carme di Fiolsvidh), è in versi liberi, con le coppie di semiversi «cucite» in versi interi.
Abbastanza libera, ma rigorosa, fittamente annotata.
Gabriella Agrati e Maria Letizia Magini riportano una riscrittura in prosa – una rielaborazione –
dello Svipdagsmál, nel loro Miti e saghe vichinghi, intitolata Svipdag e Menglad (Agrati ~ Magini 1990),
apparentemente condotta sulla traduzione inglese di Henry Adams Bellows. Gianna Chiesa Isnardi ne fa un
puntuale riassunto nel suo I miti nordici, citando ventun strofe appositamente tradotte (Isnardi 1991).
LJÓÐA EDDA
SVIPDAGSMÁL
IL DISCORSO DI SVIPDAGR
L'INCANTESIMO DI GRÓA
IL DISCORSO DI FJǪLSVIÐR
GRÓGALDR
er hún gól syni sínum dauð.
L'INCANTESIMO DI GRÓA,
che ella, morta, cantò a suo figlio.
Gróagaldr
1 ― Gróa è forse la vecchia vǫlva citata da Snorri nello Skáldskaparmál, a cui Þórr si rivolge per farsi
estrarre dalla fronte il frammento della cote di Hrungnir che vi si è conficcato. Il nome potrebbe essere
connesso al gallese groach «strega».
4 ― (d-f) Il senso di questa helming non è molto chiaro. Il significato sembra essere che, quali che siano le
possibilità di un uomo, o quale che sia l'aiuto che possa ricevere, si riesce nei propri sforzi solo se si è
destinati al successo.
6 ― (c) «Rindr per Rani»: a seconda dei manoscritti, questi nomi possono trovarsi in relazione
inversa Rindr è probabilmente la madre di Váli, nominata in Baldrs Draumar [11]. In quanto al nome Rani,
non nominato altrove in letteratura, non possiamo aggiungere nulla. Si tratterebbe, forse, dello
stesso Váli (Gering 1892), oppure di Óðinn, che ne fu il padre (Bellows 1936).
8 ― (c) Dei fiumi Horn e Ruðr non vi è traccia nelle lunghe e dettagliate descrizioni che i testi eddici dànno
del sistema fluviale dell'universo [MITO]. Sophus Bugge emenda i due nomi in Hrǫnn «onda»
e Hríð «tempestoso», citati in Grímnismál [28] come due dei fiumi che scorrono nel regno dei morti (Bugge
1867).
10 ― Questa strofa è simile nel senso a una contenuta nel Ljóðatal o «Dissertazione sui canti magici»,
nell'Hávamál:
Anche se le due strofe non sono derivative, esse segnalano un'esigenza evidentemente avvertita dai popoli
germanici, a cui si richiedeva una soluzione magica: quella di potersi liberare da corde e catene e sfuggire
dai nemici. Ha questa funzione anche il primo dei due Merseburger Zaubersprüche, nel quale si invocano
le Idisi pregandole di spezzare i ceppi dei prigionieri e liberarli dai nemici.
11 ― Questo incantesimo è simile nel senso a un altro contenuto nel Ljóðatal, nell'Hávamál:
13 ― «Una donna cristiana morta» [kristin dauð kona]: questo passaggio è stato eliminato da alcuni
curatori, ed emendato con «una strega morta» o simili (Bellows 1923). Questo motivo, probabilmente più
antico del poema in cui è stato incluso, testimonia un periodo in cui il cristianesimo cominciava a diffondersi
nei paesi nordici e i pagani guardavano ai cristiani con sospetto. Si erano evidentemente diffuse strane
superstizioni, come quella che i fantasmi delle donne cristiane fossero estremamente pericolosi.
14 ― Trovarsi a un certamen di sapienza con un gigante era una situazione topica di un certo tipo di
letteratura mitico-sapienziale. Questo è in effetti l'argomento del Vafþrúðnismál.
Fjǫlsvinnsmál
1 ― Sophus Bugge ha proposto una diversa disposizione dei primi quattro helmingar che rendano il dialogo
più naturale. La sua ripartizione, seguita da alcuni editori, è la seguente: [1a-1c | 2a-2c]; [2d-2f | 1d-1f].
2 ― (c) Le «fiamme pericolose» [hættan loga] sembrano essere un elemento ricorrente al motivo della
conquista di una sposa. In Skírnismál [8], l'eroe attraversa una «guizzante fiamma famosa» [vísan vafrloga]
prima di giungere alla dimora di Gerðr. Nell'introduzione al Sigrdrífumál, si dice che Sigurdr dovette
attraversare un muro di fiamme per raggiungere il luogo ove riposava la valchiria Sigrdrífa.
6 ― (d-f) Pur nascondendo la sua identità, l'eroe fornisce una falsa genealogia che sembra dissimulare la sua
autentica natura. Vindkaldr è «vento freddo», Várkaldr è «primavera fredda», e Fjǫrkaldr è «molto freddo».
Hugo Gering suggerisce che, fornendo questi nomi, Svipdagr voglia convincere Fjǫlsviðr che egli abbia
natura di un gigante di brina.
8 ― (c) Svafrþorinn è un nome oscuro, interpretato come «audace nell'addormentare» (nel senso di
«uccidere»), dove la prima parte della parola è un derivato di svapnir > svafnir «[colui che] addormenta»
(cfr. latino sopitor) e la seconda è connesso con il verbo þora «osare». Gianna Chiesa Isnardi propone di
emendare þorinn in þorn «spina» e interpreta il nome come «spina che addormenta». Per quanto
linguisticamente un po' forzata, questa lettura potrebbe però accordarsi al contesto del mito: Menglǫð, che
attende l'amato in una dimora circondata da un muro di fiamme, ricorda la figura di Brynhildr, che, in un
luogo assai simile, attende l'arrivo di Sigurðr, sprofondata in un sonno magico provocato da Óðinn con una
spina. (Isnardi 1991)
10 ― (a) Þrymgjǫll è «che risuona con fragore», nome evidentemente adatto a un cancello lento e pesante
che cigola nell'aprirsi. ― (c) Sólblindi «accecato dal sole»; a giudicare dal nome, il padre dei tre operai che
hanno innalzato il cancello della fortezza, sembrerebbe essere un nano, che la luce del sole può uccidere e
trasformare in pietra, o un gigante come Vafþrúðnir.
12 ― (a) Gastrópnir, forse «che soffoca gli intrusi». ― (a) Leirbrimir «Brimir d'argilla». L'aver costruito un
bastione con le membra di un gigante fa ovviamente pensare al sacrificio di Ymir. In questo caso il bastione
potrebbe anche avere un significato cosmologico: forse è quello che divide Miðgarðr da Jǫtunheimr?
24 ― (a) Questo gallo Víðófnir «dal vasto canto», che compare soltanto in questo testo e nelle þulur,
appartiene allo stesso mitologema di altri galli della mitologia scandinava, come Gullinkambi, che dimora
presso gli Æsir e con il quale va forse identificato. Le sue strane caratteristiche sono descritte nelle strofe
successive. ― (b) L'aggettivo veðrglasir è di incerto significato. Henry Adams Bellows traduce «Víðófnir si
chiama | e ora brilla» [Vithofnir his name | and now he shines] (Bellows 1923), e su questa linea Gianna
Chiesa Isnardi rende il verso con «Víðófnir si chiama | e sta luminoso nell'aria» (Isnardi 1991). Eysteinn
Björnsson emenda il secondo semiverso in «en hann stendur Veðurglasi á» e traduce come toponimo:
«Víðófnir si chiama | e sta sopra Veðrglasir» [Vithofnir his name | and he stands upon
Vedurglasir] (Eysteinn 2005). ― (f) Riguardo a Sinmara «incubo [che opprime con] crampi», sembra essere
una gigantessa [gýgr]. Può darsi sia la sposa di Surtr.
13 ― (d) Nel testo norreno i due «cani affamati» sono definiti garmar, plurale del nome di Garmr, il
ferocissimo cane legato sulla via per Hel. ― (e-f) Gli ultimi due semiversi, che in originale suonano «er
gífrari hefik | ǫnga fyrr í lǫndum litit» sembrano non avere un senso. Henry Bellows traduce ipoteticamente
con «che davanti alla casa | sono così aggressivi e affamati» [that before the house | so fierce and angry
are]. In genere però i due semiversi vengono emendati in: «er gífrir rata | ok varða fyr lundi lim» «che
vanno avanti e indietro | e fanno la guardia al fogliame dell'albero». L'albero in questione, se la correzione al
testo è giustificata, è forse il Mímameiðr di cui si parla alla strofa [20].
14 ― (a-b) Gífr e Geri sono i nomi dei due cani che fanno la guardia al bastione di Fjǫlsviðr e
all'albero Mímameiðr. Sono probabilmente una variante di Freki e Geri, i due lupi di Óðinn. ― (d) Questo
semiverso, che in originale è varðir ellifu, sembra non avere un senso. La parola ellifu, che vuol dire
«undici», viene in genere emendata in elli lyf «antica cura», con evidente riferimento alle strofe successive.
Così ad esempio Eysteinn Björnsson traduce l'intera helming: «l'antica cura del guardiano | sempre terranno
al sicuro | finché gli dèi non moriranno» [the guardians' old-age remedy | they will ever keep safe | until the
gods perish] (Eysteinn 2005), lasciandoci tuttavia perplessi sia riguardo l'identità del «guardiano» [varða],
sia la natura della sua «cura», che comunque sembra riferirsi alle proprietà curative evidentemente attribuite
al fogliame dell'albero Mímameiðr, oltre che ai suoi frutti. Altri traduttori rendono il semiverso in maniera
diametralmente opposta. Ad esempio. così Henry Bellows traduce la stessa helming: «essi sono grossi | e la
loro potenza crescerà | finché gli dèi non saranno destinati alla morte» [great they are | and their might will
grow | till the gods to death are doomed] (Bellows 1923). Gianna Chiesa Isnardi la rende invece: «essi qui
sempre | faranno la guardia | fino a che crollino gli dèi» (Isnardi 1991).
18 ― (a) La parola vegnbráðir è un hápax legómenon, comparendo soltanto in questo testo. Di difficile
interpretazione, il termine viene generalmente interpretato come «ali arrostite».
26 ― (a-b) Lævateinn «ramo di male», unica arma in grado di uccidere il gallo Víðófnir, è probabilmente
una verga magica, come risulta anche dalle strofe [27-28], dove l'arma è chiamata teinn «ramo, verga,
bacchetta» (cfr. gotico tains, anglosassone tān, inglese tiny, danese teen). Non stupisce che questo malefico
strumento sia stato creato da Loptr (cioè Loki) utilizzando rune e incantesimi, e si può senz'altro pensare al
ramoscello di vischio col quale fu ucciso Baldr. ― (d) Questo verso è stato variamente interpretato, anche a
causa delle difficoltà legate alla lettura dei manoscritti. La parola ker può indicare, a seconda dei contesti,
uno scrigno, un calice, un secchio, un recipiente di qualsiasi tipo, o addirittura il petto di una persona. L'altra
parola, seigjárn, è invece piuttosto enigmatica e viene in genere interpretata come un composto
di járn «ferro». Le traduzioni in questo senso variano dunque da uno «scrigno di ferro» (Isnardi 1991) a un
«petto di ferro» (Eysteinn 2005), in questo caso attribuito a Sinmara. Altri hanno inteso la parola come nome
proprio: Hjalmar Falk ritiene che il brano parli dello scrigno di Sægjarn, nome interpretabile come «amante
del mare», ma privo di riscontri nella letteratura (Falk 1893). Henry Bellows emenda il termine
in Lægjarn «amante dei mali» (Bellows 1923), epiteto applicato a Loki in Vǫluspá [35].
29 ― (f) Sinmara è detta fǫlva gýgr «pallida gigantessa» perché probabilmente vive in caverne o tumuli, al
riparo della luce del sole, che potrebbe esserle fatale. Þórr, in Alvíssmál [2], investe il nano dicendogli:
«perché sei così pallido sul naso? | sei stato di notte tra i cadaveri?» [hví ertu svá fǫlr um nasar? | vartu í
nótt með ná?]. La parola fǫlr < fǫlvir «pallido» appartiene al registro indoeuropeo, essendo corradicale col
latino flavus.
30 ― (a-c) Versi di difficile interpretazione. Cos'è la «falce lucente [...] che sta nella coda di Viðofnir»?
Non convince l'ipotesi di Gianna Chiesa Isnardi, secondo la quale la falce corrisponderebbe alla coda stessa
del gallo (Isnardi 1991). D'altra parte nulla vieta di ipotizzare che lo stesso Viðofnir possa effettivamente
portare una vera e propria falce nella coda (nelle fiabe e nelle leggende si trovano animali che portano
oggetti o strumenti nel loro corpo). Si tratta in ogni caso di un oggetto particolare, visto che deve essere
portato in una speciale bisaccia. Ma perché questa falce fa gola a Sinmara, la quale è disposta a dare in
cambio la verga Lævateinn? Non conosciamo il mito che sta alla base di questi versi, e qualsiasi
interpretazione rimane altamente ipotetica.
32 ― (a) È il verso stesso ad avvertirci che di questa sala escatologica ne sappiamo poco, a partire dal suo
stesso nome. Lýr è infatti il pesce merlano [Gadus pollachius], ragione per cui il nome della sala viene a
volte emendato in Hýr(r) «luminosa», inteso a causa del fuoco che la circonda (Eysteinn 2005).
34 ― I nomi dei costruttori della sala sembrano appartenere a dei nani. Óri e Dóri sono citati nella versione
di Snorri (Gylfaginning [14e {19}]) del catalogo dei nani in Vǫluspá. Degli altri non c'è notizia nelle fonti,
anche se Íri e Úri sembrano posti nel novero semplicemente per allitterare con Óri. Dellingr è invece un
personaggio delle cosmogonie primordiali, citato in Vafþrúðnismál [25] come padre di Dagr (e ripreso da
Snorri in Gylfaginning [10]), e fa stupore trovarlo qui. Un collegamento di questo personaggio col mondo
dei nani è però attestato in Hávamál [150], dove si dice che il nano Þjóðrǿrir avrebbe cantato dinanzi «alle
porte di Dellingr» [Dellings durum]. Anche Loki compare curiosamente in questo catalogo di nani.
36 ― Lyfjaberg «montagna della salute» (da lyfja «curare»). Molte immagini e metafore legate alla fortezza
di Menglǫð sembrano legati a motivi salutiferi, compreso il rimedio che sarebbe possibile ricavare dai frutti
dell'albero Mímameiðr.
38 ― Assai poco si può dire sui nomi delle nove fanciulle che sono accanto a Menglǫð. I nomi sono qui dati
secondo l'edizione di Adams Bellows, che emenda le forme Blíð e Blíðr, presenti nell'edizione di Sophus
Bugge (Bugge 1867 | Jónnson 1926), in Bleik e Blíð, seguìto in questo da altri interpreti (Bellows 1923 |
Neckel 1962 | Isnardi 1991). Hlíf vuol dire «protettrice» e Hlífþrasa «[colei che] aspira alla protezione» (si
confrontino con Líf e Lífþrasir, i due giovani che ripopoleranno il mondo dopo il ragnarǫk); Þjóðvarta è un
nome oscuro, forse «[colei che] custodisce il popolo»; Bjǫrt è «splendente»; Bleik è «pallida»; Blíð è
«amichevole»; Fríð è «graziosa», Eir è «[colei che dà] aiuto» (ed è la dea guaritrice degli Æsir, citata da
Snorri in Gylfaginning [35d]); Aurboða è «[colei che] offre l'oro» (nome della gigantessa madre di Gerðr),
ma, se letto Ǫrboða, è «[colei che] offre la freccia» (Bellows 1923 | Isnardi 1991). Per gli altri nomi non
rimangono che le possibili etimologie, indicanti attività salutifere.
47 ― Chi è questo Sólbjart? Il suo nome vuol dire «splendore del sole» e potrebbe assimilarsi allo stesso
nome di Svipdagr «giorno veloce». Ma si tratta del nome proprio di un personaggio che non conosciamo, o
di un epiteto?
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