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L’ATTIVISMO PEDAGOCICO, TRA TEORIA E PRATICA

Nel corso dell’Ottocento, in coincidenza con notevoli mutamenti nelle rappresentazioni sociali e
scientifiche dell’infanzia, vennero progettate e in parte attuate, esperienze scolastiche differenti
quanto a strutturazione di spazi, materiali, arredi, esperienze che rimandavano ad una diversa
concezione del rapporto tra adulto e bambino, del sapere, delle finalità educative e scolastiche.

Si pensi ad esempio alla cura degli spazi e dei materiali posta da pedagogisti in tutta Europa, in
questi anni.

Pestalozzi, nel proporre il suo modello idealistico di scuole rivolte alle classi popolari, si preoccupa
di richiamare l’importanza del rapporto del bambino con la natura, della necessità di collegare i
concetti di numero e di forma agli oggetti e alla realtà concreta a cui essi si ricollegano; sostenendo
con forza come sostanzialmente sia la vita concreta ad educare gli uomini.

Il tedesco, Froebel, nella progettazione e realizzazione dei suoi giardini d’infanzia pensa ad attività
varie rivolte ai bambini in età prescolare, dedicando particolare cura alla predisposizione degli spazi
e di quell’ambiente esterno al bambino che deve entrare in armonia con il suo stesso mondo interno.
Inoltre pensa e concretizza i suoi ormai famosi “doni”, ovvero oggetti appositamente elaborati
(sfere, bastoncini, palloncini, ecc…) per sostenere e accompagnare l’operazione di simbolizzazione
della realtà, a partire appunto dal contatto con oggetti concreti. Sono il gioco e il movimento le
strade maestre attraverso cui il bambino conosce la realtà, vive la sua esperienza sociale e cognitiva,
fino a interiorizzare concetti astratti riferiti alla morale e all’ordine mentale.

Gli spazi erano strutturati non ai fini della raccolta e della custodia dei bambini, ma ai fini di
favorire la libera osservazione e l’esplorazione, nonché alcune attività collettive (come ad esempio
il canto) organizzate dalla maestra giardiniera. Il bambino aveva la possibilità di vivere all’aria
aperta e di immergersi nelle attività di scoperta della natura, oppure di svolgere altre attività in spazi
pensati e progettati appositamente e dotati di oggetti vari. Lo scopo della strutturazione di spazi e
materiali era, per Froebel, il potenziamento delle capacità di gioco, creative ed espressive del
bambino.

La proposta di Froebel ebbe il merito di far riflettere sulla necessità di offrire spazi e materiali
differenti rispetto a quelli concepiti in una didattica tradizionale. Questa idea permise di contrastare
le esperienze che si rifacevano ad una strutturazione della scuola dell’infanzia molto tradizionale e
molto simile a quella della scuola primaria.
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L’inizio del XX sec., in ambito pedagogico, coincide con il moltiplicarsi di riflessioni e
proposte relative all’abitabilità degli spazi per i bambini.

Gli esponenti di quelle che sono state definite “scuole nuove” o dell’attivismo, sia in Europa che
oltreocenano, cominciarono a proporre metodologie didattiche che necessariamente implicavano
materiali diversi dal consueto banco, sedia, cattedra, cartellone: l’aula si apriva ad un uso più
libero ed autonomo da parte del bambino; gli spazi si moltiplicavano e si diversificavano; gli
arredi erano costituiti da tavoli comuni, da pannelli, da scaffali per la raccolta e l’utilizzo dei
materiali più vari. La strutturazione degli spazi e degli arredi diventava, così, subordinata ad una
attenta comprensione dei bisogni o degli interessi del bambino e funzionale ad un ruolo
educativo dell’adulto più simile alla regia e alla guida che non basato sulla spiegazione e
sull’interrogazione.

In Italia, in particolare, dove si diffusero delle esperienze che si rifacevano all’attivismo; le


cosiddette “scuole nuove” affermarono modelli differenti di strutturazione degli spazi e di
materiali, sebbene sovente si trattasse di esperienze piuttosto isolate.

Rosa e Carolina Agazzi, ad esempio, pur muovendo da un’immagine di maestra molto


tradizionale e molto legata al ruolo materno, proposero alcune modifiche degli spazi, ma
soprattutto una nuova visione dei materiali da utilizzare nella scuola dell’infanzia: il metodo
Agazzi prevedeva, infatti, l’uso di materiale non preordinato, né strutturato, ma occasionale e di
recupero, funzionale alla libera e creativa esplorazione da parte del bambino. La “scuola delle
cianfrusaglie” (così fu definita la scuola agazziana) era, inoltre, attenta alla documentazione e la
conservazione, poiché i bambini erano chiamati a costruire il “museo” all’interno del quale
raccoglievano esperienze, ricerche, testimonianze di conversazioni. Questo modello aveva il
merito di immettere nella scuola materiali nuovi e al tempo stesso di basso costo, quindi
facilmente reperibili e realizzabili. Sottolineava l’importanza dell’esperienza. Poneva come
finalità educativa e didattica l’ordine: attraverso l’acquisizione dell’abilità nel rispettare
l’ordine, nell’adoperarsi per l’ordine – che non nasce dall’ambiente o dal materiale ma dal
bambino stesso – il bambino acquista coscienza di sé e dell’ordine sociale del mondo.

Contemporaneamente a queste esperienze e assimilata spesso all’attivismo, Maria Montessori


partiva, invece, da una formazione medica e dall’esperienza con bambini portatori di handicap,
per sottolineare l’importanza dello psicomotorio e del senso motorio come modalità di
conoscenza del reale. La sua costituì, probabilmente, la più radicale esperienza relativamente
allo spazio, con la progettazione e l’attuazione di ambienti totalmente a misura di bambino e

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utilizzo di materiali molteplici, multiformi, funzionali all’apprendimento attraverso la
manipolazione. Una proposta così innovativa e marcata metteva in luce anche un’idea di
bambino esploratore, attivo, competente: a lui l’adulto doveva proporre materiali studiati per
stimolare la sensorialità e l’apprendimento attraverso l’esperienza e la manipolazione. Tali
materiali erano costituiti da oggetti raggruppati a seconda delle loro qualità fisiche (forma, peso,
suono, dimensioni, ecc…) e funzionali alla scoperta del concetto di peso, volume, ecc…,
scoperta che, secondo Montessori, avveniva grazie all’autoeducazione e socializzazione.

Queste innovazioni erano strettamente connesse con una teoria molto più ampia relativa allo
sviluppo, ai metodi didattici, alla relazione fra adulto e bambino e rappresentavano un
rinnovamento radicale e profondo. Tali indicazioni non conobbero larga fortuna in Italia, ma
ebbero molto successo all’estero, legandosi anche ad altre teorie pedagogiche contemporanee,
quali ad esempio quelle di Steiner.

Steiner propose una concezione degli spazi e dei materiali sensibile a suggestioni artistiche:
partendo da studi filosofici e pittorici sulle lunghezze d’onda del colore, giunse a sottolineare
l’importanza dello spazio nelle sue variabili di luce e colore e nell’influenza che tali variabili
possono esercitare sulla mente, sulla comprensione, sulla concentrazione. Gli ambienti
steineriani, dunque, erano e sono edificati in base ad indicazioni rigorose di luminosità, di
funzionalità alla libera esplorazione, di colore; i materiali erano spesso proposti in base a
successioni molto dettagliate e connesse con lo sviluppo percettivo ed emotivo del bambino.

Tutte le esperienze fin ora citate rimasero, purtroppo, a lungo isolate nella pratica. La scuola
dell’infanzia però riuscì, soprattutto nella seconda metà del Novecento, ad aprirsi alle
suggestioni e alle indicazioni di una didattica meno rigida e tradizionale nello strutturare spazi e
materiali.

Nel secondo dopoguerra e soprattutto dopo gli anni Sessanta, in Italia, si diffuse una notevole
attenzione nei confronti di questi aspetti della didattica e si realizzarono esperienze di qualità,
come ad esempio quella delle Scuole dell’infanzia di Reggio Emilia, fondate da Loris
Malaguzzi che prevedono una concezione dell’ambiente come funzionale non solo
all’esplorazione e alla ristrutturazione da parte del bambino, ma anche come luogo di
documentazione: la scuola diviene spazio che permette ai bambini di vedere i percorsi attuati,
agli adulti di confrontarsi e di riflettere sulla memoria delle attività.

Quali ricadute hanno avuto nella didattica quotidiana tutte queste teorie?

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Le metodologie didattiche restarono a lungo imperniate sul sistema fondato sulla spiegazione e
sulla ripetizione. Ma l’affermarsi di correnti filosofiche empiriste diede vigore a quelle posizioni
teoriche che tendevano a sottolineare come una didattica fondata solo sulla lezione frontale e
sulla spiegazione fosse obsoleta e poco efficace.

Primo fra tutti Locke ridefiniva il curriculum formativo ricordando la centralità dell’esperienza,
primaria fonte di conoscenza e modalità di insegnamento-apprendimento atta a suscitare
interesse negli allievi. Tale centralità portava l’autore a proporre una rivalutazione sia
dell’attività di gioco per la sua importanza per lo sviluppo cognitivo e morale del bambino, sia
del lavoro, inteso come possibilità di svago e come percorso atto a favorire l’acquisizione di
abilità manuali.

Vale la pena citare anche Rousseau che, nel suo Emilio, eliminava dalle metodologie e dagli
strumenti didattici l’uso del libro e proponeva un metodo fondato sull’importanza del fare. Un
metodo definito dall’autore stesso indiretto poiché fondato non su spiegazioni o dimostrazioni
ma su esperienze concrete che l’educatore predispone e che permettono all’allievo di giungere
in seguito ad acquisizioni teoriche e concettuali.

Man mano la spiegazione tradizionale della lezione è sostituita dalla manipolazione e


dall’apprendimento attraverso laboratori (giardinaggio, cura degli animali, occupazioni agricole,
ecc..) che favoriscono la socializzazione e che attribuiscono un ruolo significativo alla
discussione di gruppo tra bambini.

Le metodologie attive giunsero in Italia solo nel secondo dopoguerra, soprattutto grazie alle
traduzioni che la casa editrice La Nuova Italia propose negli anni Cinquanta.

L’attivismo sancisce definitivamente la concezione funzionale dell’infanzia secondo cui


l’infanzia ha una propria dignità ed autonomia rispetto al mondo mentale dell’adulto, e secondo
cui il bambino va considerato un soggetto che costruisce attivamente il suo apprendimento.

L’attivismo pedagogico richiama il concetto roussoniano di puerocentrismo, l’idea secondo cui


il bambino con i suoi interessi, le sue predisposizioni, la sua natura, è al centro del rapporto
educativo e del processo di insegnamento/apprendimento. Il merito consiste nell’aver per la
prima volta compreso che ogni bambino possiede caratteristiche proprie e nell’aver spostato
l’attenzione del maestro dai contenuti disciplinari, dal sapere astratto e formale agli interessi e ai
bisogni del bambino. L’insegnante proporrà quindi attività ordinate ma non predeterminate
aprioristicamente, orientate dunque alle istanze socio-cognitive del fanciullo.

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Un altro aspetto su cui l’attivismo concentra l’azione didattica, è la centralità dell’esperienza: il
fare diventa il perno intorno a cui ruota la pianificazione dell’insegnante e la partecipazione
dell’allievo. Questo fare viene considerato come presa di coscienza, da parte del soggetto
coinvolto, dei meccanismi di cui egli stesso è promotore e ciò è possibile solo mediante
l’interazione con l’ambiente, elaborando il conflitto cognitivo e socio-cognitivo che questa
interazione comporta. Emerge quindi il profilo di un allievo competente, capace di autoregolare
il suo processo di apprendimento.

Si promuovono così processi quali l’associazione ideativa, la capacità di immaginazione, di


previsione, la logica e la razionalità, la capacità critica, l’analisi e la ristrutturazione di problemi.

Nel formulare, organizzare e proporre un percorso o un’attività didattica l’insegnante dovrà


tenere presente le conoscenze pregresse del bambino, la relazione che esse hanno con le
esperienze e i saperi, quali significati e relazioni si stanno costruendo.

Una volta che il docente si è sintonizzato sul mondo mentale e socio-affettivo del bambino e
l’ha messo in relazione ai contenuti proposti, risulterà centrale il suo ruolo nel determinare un
clima che apra i ragazzi all’ascolto e alla partecipazione, che li incoraggi a mobilitare le loro
energie mentali e sociali nella direzione di apprendimenti significativi e duraturi.

Ovviamente non esiste la metodologia giusta, l’attività ottimale, così come non esiste lo stile di
insegnamento ideale: ogni pratica didattica deve essere costruita a partire da un’analisi della
situazione contestuale, dalla conoscenza del gruppo cui è rivolta, dalla porzione e dalla tipologia
di saperi che vogliamo affrontare e dagli obiettivi che ci poniamo. Così come ogni pratica
didattica dovrà avvenire tenendo conto dell’organizzazione del contesto non solo relazionale ma
anche fisico-spaziale.

Vediamo nel dettaglio alcune delle metodologie così dette attive che traducono in pratica
didattica le teorizzazioni fin ora affrontate.

La discussione

Affinché uno scambio linguistico possa essere considerato discussione, è necessario che sia
centrato su un problema specifico e che contenga uno scambio di opinioni ed interpretazioni.

Discutere insieme permette ai bambini di mettere a disposizione degli altri le proprie


conoscenze pregresse, di giungere insieme a un sapere condiviso, di confrontarsi e di venire
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stimolati alla riflessione, senza il timore di venire giudicati o valutati e di dover affrontare un
problema da soli. In una discussione, inoltre, vengono messe in gioco anche capacità sociali, in
quanto l’alunno deve disporre di controllo di sé, di un atteggiamento empatico e di apertura nei
confronti dei compagni e delle capacità di ascoltare in modo incondizionatamente positivo.

La scelta dello spazio in cui si discute e il modo in cui ci si mette seduti per parlare risulta
fondamentale ai fini del perseguimento degli obiettivi e dell’efficacia comunicativa. Il
contributo dell’insegnante alla buona riuscita di una discussione riguarda innanzitutto la
predisposizione dello spazio in cui essa si realizza.

Spazi quindi caratterizzati da flessibilità, personalizzazione e coerenza. La strutturazione non


rigida consente infatti di adattare l’ambiente alle diverse attività che di volta in volta si
realizzano e di organizzare quindi le pratiche didattiche in modo articolato e multiforme. La
personalizzazione degli spazi contribuisce invece alla costruzione di un senso di appartenenza in
coloro che li abitano e riflette la storia della classe e la progressiva costruzione del pensiero
collettivo.

Per queste ragioni sarebbe bene disporre le sedie in cerchio, compresa quella dell’insegnante, in
modo che nessuno occupi una posizione privilegiata e tutti possano vedersi e cogliere anche le
mimiche facciali e i gesti che accompagnano le parole.

È altresì indispensabile, per la buona riuscita e l’efficacia di una discussione, che il clima
relazionale e lo stile comunicativo dell’insegnante facciano sentire gli allievi pienamente a loro
agio, liberi di esprimersi perché non giudicati per ciò che dicono e per come lo dicono.

Ogni intervento viene accolto e usato per il progredire del ragionamento collettivo.

Brainstorming

Fra le metodologie attive è senz’altro quella più conosciuta e più utilizzata.

Consiste nel mettere in condizione la classe di esprimere quello che pensa intorno ad un
determinato tema/concetto, liberamente e con immediatezza.

Questa metodologia si rileva proficua quando ci si propone di coinvolgere tutti i bambini, e di


far emergere ed attivare preconoscenze o aspettative (nelle fasi iniziali), così come costrutti e
rappresentazioni mentali, associazioni, stereotipi cognitivi o pregiudizi.

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D’altro canto, dal punto di vista socio-emotivo, favorisce il coinvolgimento poiché abbassa
l’ansia da prestazione, valorizza i contributi di tutti, promuove la motivazione e la condivisione
sociale della conoscenza, permette ai ragazzi di non sentirsi meri esecutori, ma attori della
conoscenza.

Perché questa pratica risulti efficace è necessario che:

- si instauri un clima non valutativo ed empatico, da parte del docente che dovrà dimostrare
un interesse sincero ed intervenire il meno possibile;
- idee, concetti possano essere espressi sotto forma di parole, immagini, ecc.. e anche in
maniera non del tutto corretta formalmente;
- ogni idea, anche quella più stravagante, sia accolta, anche perché potrebbe suscitare nuove
idee;
- nessun partecipante posso esternare opinioni e critiche sugli interventi fatti, se non alla fine
del processo.

Solo dopo che tutti avranno esposto liberamente le loro idee, l’insegnante potrà invitare gli
allievi a osservare le posizioni espresse per riflettere sui diversi mondi, concezioni,
rappresentazioni soggiacenti al concetto/tema considerato.

Role playing e simulazioni

Assumere una pluralità di ruoli nel gioco e per gioco, uscirne, riguardarsi insieme e discuterne
in gruppo sono i fattori costitutivi dell’apprendimento attraverso i giochi di ruolo; un
apprendimento significativo, complesso, profondo perché radicato nell’esperienza, coinvolgente
tutte le dimensioni della personalità (compresi il corpo e i sensi), creatore di relazioni sociali.

Il ruolo, assegnato dall’insegnante o liberamente assunto, dà contenimento; il gioco avviene in


un contesto di relazioni con un adulto di riferimento e con un gruppo di pari e implica un
utilizzo sensato di ciò che si sa e si sa fare per produrre altra conoscenza, condivisa e personale
insieme. Offre l’occasione di radicare l’esperienza, di integrarla nella propria storia personale.

Il role playing persegue una molteplicità di obiettivi, tra cui “far praticare abilità e
comportamenti non familiari, esplorare da prospettive non conosciute, far provare esperienze

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emotive e cognitive fino a quel momento sconosciute, promuovendo così
l’autoconsapevolezza.”1

I role playing games sono invece giochi in cui i giocatori assumono il ruolo di personaggi di un
mondo immaginario o simulato, che è stato creato con precise regole interne. Offrono una serie
di risorse per la didattica, a patto che vengano rispettati alcuni requisiti: libertà di espressione
per tutti i partecipanti, offerta di una molteplicità di ruoli e posizioni, presenza di una struttura
metaforica che permetta ai giocatori di raccontarsi come altro da sé e di una trama aperta e non
predefinita.

Il ruolo dell’insegnante potrebbe apparire ridotto, marginale; ma in realtà il docente è altrettanto


coinvolto nella dinamica del gioco di ruolo nella veste di progettista e regista, nonché di
facilitatore dei passaggi fra le diverse fasi di svolgimento dell’attività e di conduttore di
momenti di discussione e di debriefing.

Cooperative Learning

Il Cooperative Learning si propone come metodo in grado non solo di sollecitare abilità sociali
ed obiettivi educativi, ma anche di promuovere efficaci risultati scolastici attraverso forme di
cooperazione tra gli allievi che lavorano in piccoli gruppi e vengono valutati secondo i risultati
ottenuti. Infatti il senso di responsabilità individuale e di gruppo, l’uso di competenze
interpersonali, l’approccio alla ricerca motivano gli allievi, stimolano la partecipazione e
favoriscono il raggiungimento di risultati scolastici migliori.

È necessario scegliere i compiti e organizzare il lavoro in modo che davvero tutti i componenti
possano partecipare e dare il loro contributo. Inoltre i compiti assegnati dovranno interessare
genuinamente i componenti del gruppo in modo da motivarli a cercare una soluzione attraverso
il confronto e il conflitto sociocognitivo.

È importante creare una mescolanza di responsabilità individuale e di gruppo, in modo che


ognuno possa esprimere le sue caratteristiche personali e allo stesso tempo contribuire alla
realizzazione del prodotto di gruppo.

Allo stesso modo sarà necessario utilizzare criteri di valutazione che valorizzino sia l’impegno
individuale che il prodotto del gruppo, sia l’apprendimento dei singoli rispetto all’attività

1
E. Nigris, Didattica Generale, Guerini, Milano 2005
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condotta, sia la capacità del gruppo di assicurarsi l’acquisizione di concetti e conoscenze da
parte dei singoli membri.

Problem solving

Il problem solving è un’attività scolastica che prevede la presentazione di un problema,


solitamente poco strutturato, in modo che gli alunni debbano agire per individuare le
informazioni utili e trovare diverse tipologie di soluzioni. I problemi si differenziano secondo il
grado di strutturazione, complessità, dinamicità e il livello di specificità/astrazione.

Il problem solving può essere definito come un approccio educativo-didattico volto allo
sviluppo di strategie e abilità di soluzione di problemi su tre piani diversi: psicologico,
comportamentale e operativo.

Nel problem solving la persona si trova di fronte a una situazione che, in molti aspetti e per
varie caratteristiche, gli risulta nuova e non gestibile secondo le consuete modalità da lei
apprese e conosciute. Ciò che viene quindi richiesto in queste situazioni è di mettere in atto un
vero e proprio «sforzo creativo» volto a individuare nuove strategie in grado di indirizzarci al
meglio. Questo processo avviene solitamente attraverso un paziente lavoro di «prove ed errori»
oppure, in alcuni casi, con un’intuizione illuminante, una sorta di insight che, riorganizzando
tutti gli elementi in gioco, fa vedere all’improvviso in maniera intuitiva la soluzione corretta.

Trovare modalità di soluzione di problemi corrette e adeguate alle diverse situazioni è forse uno
degli elementi di maggiore difficoltà nel processo di apprendimento. Per facilitare questo
compito complesso sono utili le cosiddette strategie facilitanti come, ad esempio, riorganizzare e
ristrutturare in maniera diversa il materiale o i dati in possesso, per non fissarsi su vecchi schemi
di azione e non perseverare inefficacemente in vecchie modalità operative, ma favorire invece
l’emergere di nuove idee e soluzioni. A questo proposito si può attuare un vero e proprio
esercizio di «divieto» all’utilizzo di soluzioni già attivate in precedenza, benché queste siano
state applicate con successo.

Da un punto di vista operativo, una modalità «tipo» di soluzione di un problema si snoda in


varie fasi che seguono una precisa sequenzialità «passo dopo passo»:

- Problem finding: ci si accorge che c’è un problema da risolvere che richiede un’immediata
soluzione.

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- Problem setting: si definiscono il problema e l’obiettivo da raggiungere, ci si chiede: «Dove
sta l’ostacolo al mio modo di agire consueto e abituale?».
- Brainstorming: si definisce un’ampia gamma di possibili ipotesi di soluzione, anche quelle
mai tentate in precedenza, cercando di attivare al massimo la creatività e il pensiero
divergente.
- Decision making: dopo un’attenta valutazione dei punti di forza e di debolezza, della
realizzabilità e delle possibilità di successo di ciascuna idea, si sceglie l’ipotesi di soluzione
che si ritiene più efficace.
- Decision taking: si applica concretamente e in maniera precisa l’ipotesi di soluzione
prescelta, verificando poi con attenzione e in maniera obiettiva gli esiti. In caso positivo si
continuerà ad applicare questa strategia di soluzione, altrimenti si ricomincerà da capo tutto
il processo di problem solving.

Come si può vedere, il problem solving comporta un’attività cognitiva che implica sia processi
di pensiero divergente e creativo (come nella fase di brainstorming), sia processi di pensiero
convergente (quando viene richiesto di valutare in maniera razionale le varie ipotesi e di
scegliere la soluzione più adatta e attuabile).

Solitamente il problem solving viene associato a compiti che implicano abilità logico-
matematiche di risoluzione di problemi, anche se questa non è certamente l’unica area in cui
esso trova applicazione

Il processo di problem solving è inscindibilmente legato alle abilità metacognitive messe in


gioco in un compito, quali l’automonitoraggio e l’autoregolazione, e tende a svilupparle.

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