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di degustarla
e il gusto di conoscerla
Parte prima
Fisiologia, tecnica,
strumenti e vocabolario
della degustazione
BIRRA: SE LA CONOSCI… NON LA EVITI
Conoscere in modo corretto ed effettivo una produzione alimentare, così come una persona, è
il presupposto essenziale per capirla e apprezzarla, al di là dei possibili „spigoli‟ della sua
indole. In questa sede vogliamo appunto iniziare – o proseguire, nel caso lo si fosse già
intrapreso – un percorso di esplorazione e comprensione della birra: del suo modo di essere,
dei suoi tratti caratteriali più importanti, della filosofia che sta dietro alla sua preparazione; e
soprattutto del giusto approccio che occorre per avvicinarsi ad essa in modo da valutarne fino
in fondo tutte le sue doti e potenzialità.
Come primo passo di questo percorso abbiamo scelto l‟indicazione di alcuni punti fermi, da
tenere presenti da qui in poi come elementi di riferimento costante. E anche se la cosa può
apparire curiosa, si tratta – statisticamente parlando: in generale possiamo dire così, stante il
rapporto con la birra che si ha da parte della maggioranza dei consumatori italiani - non tanto
di prime annotazioni da acquisire, quanto piuttosto di errate nozioni da eliminare. Insomma di
luoghi comuni di cui sbarazzarsi subito, tanto per cominciare a sgombrare il campo dalle
scorie sparse a causa di una cattiva informazione alimentata a lungo e difficile da debellare.
Il nostro punto di partenza sarà il primo parametro da considerare quando si va a scegliere
una birra: in altre parole il fattore identitario più importante per la classificazione del prodotto
sul quale orientarsi. Complice forse un modus operandi mutuato dal mondo del vino, dove
correttamente ci si muove iniziando dal colore (bianco, rosso o rosato), anche per la birra,
molto spesso, si procede per analogia, tanto che la scelta di base che si pone è fra chiara,
ambrata (o come si dice abitualmente, ma impropriamente, „rossa‟) e scura. Ebbene, in campo
birrario, la componente cromatica è sì rilevante (e lo vedremo), ma non la più rilevante: la
distinzione fondamentale è infatti quella tra metodi di fermentazione. La nostra bevanda infatti
può essere descritta come segue: il risultato della lavorazione di semi di cereali che vengono
maltati (ossia fatti germogliare), essiccati e cotti fino ad assumere colorazioni diverse, quindi
disciolti in acqua al fine di preparare un mosto ricco di zuccheri; il quale a sua volta viene
bollito e arricchito di sostanze aromatizzanti, poi fermentato per mezzo di lieviti, fatto maturare
e talvolta filtrato; infine confezionato in fusti o bottiglie e a questo punto molto spesso
pastorizzato. Ecco, in tutto questo cammino, il momento-clou è quello della fermentazione:
che si definisce „alta‟, quando innescata da lieviti attivi tra 15 e 25 gradi centigradi circa (e le
birre prodotte con questo sistema si chiamano Ales); „bassa‟ invece se dovuta a lieviti operanti
tra 5 e 10° C circa (e le birre di questa categoria hanno la denominazione di Lager); infine
„spontanea‟ quando presieduta da lieviti selvatici (e le birre di questa famiglia si chiamano
Lambic: preferibilmente „i Lambic‟, al maschile).
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Secondo luogo comune, la presunta correlazione tra colore e grado alcolico. Frequentemente
capita di ascoltare consumatori che affermano di non amare le birre scure, in quanto troppo
forti. Ora, se per „forti‟ s‟intende „dal gusto intenso e concentrato‟, niente da ridire; se invece ci
si riferisce al contenuto etilico, occorre un‟immediata precisazione. Fra cromatismo e
gradazione non c‟è alcuna proporzionalità, in quanto i due valori dipendono da momenti
diversi della produzione: in particolare la colorazione è determinata dal livello di cottura dei
cereali e non influenza la taglia alcolica. Tanto è vero che ci sono birre scure di bassa
gradazione (le Stout, ad esempio, come la Guinness); e chiare, invece, terribilmente potenti
(come la piuttosto nota in Italia Biere du Demon).
La terza e ultima premessa riguarda la mescita della birra, in particolare la formazione di
schiuma a cui il servizio in bicchiere dà luogo. Purtroppo in Italia si tende a considerarla una
presenza impropria, se non la prova di un tentativo di raggiro da parte di chi sta spillando; di
conseguenza si è inclini a versare la birra (e a pretendere che la si versi, quando sono altri a
farlo) tenendo il bordo del bicchiere vicino alla bottiglia o al beccuccio dell‟impianto alla spina;
e facendola scivolare lentamente lungo le pareti così da limitare al massimo la schiuma
generata. Errore enorme! Come vedremo meglio nel capitolo specificamente dedicato a questi
temi, la schiuma è non un‟ospite fastidiosa, ma al contrario una preziosa amica: che
testimonia, con la sua comparsa, la liberazione del gas in eccesso sempre presente in una
bottiglia o in un impianto; che provvede, con il suo cappello, a proteggere la birra dai veloci
processi d‟ossidazione che avvengono a contatto con l‟aria; e che facilita, attraverso la
graduale liberazione di gas nel suo sciogliersi, una più completa ascesa degli aromi della birra
che stiamo assaggiando, agevolandone la percezione.
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LA TECNICA DI DEGUSTAZIONE
La degustazione di una birra, come di un vino, è un‟esperienza di grande fascino, alla quale
concorrono quattro dei nostri cinque sensi: vista, olfatto, tatto e gusto. Qui di seguito
riportiamo le regole base dell‟assaggio, con la premessa che questa pratica, piuttosto
elaborata, necessita, per poter regalare i frutti migliori, di approfondimenti teorici e soprattutto
di esperienza „sul campo‟.
Punto primo, una corretta degustazione – oltre allo svolgimento in presenza di luce
preferibilmente solare, e non artificiale: ma spesso è una condizione difficile da soddisfare, e
allora si opta per una fonte luminosa se non altro neutra - richiede un ambiente per quanto
possibile privo di odori (fumo, aria viziata, esalazioni sgradevoli, ma anche profumi) che
possano alterare la percezione nasale; e di condizioni fisiologiche personali anch‟esse
sostanzialmente neutre e di buona salute: è opportuno cioè non avere il palato condizionato
da sapori precedenti; e poter usufruire al meglio di gusto e olfatto. Il secondo passaggio per un
proficuo tête a tête con una birra è quello di una sua corretta mescita nel bicchiere. Quella
della spillatura (questo il termine specifico) è una tecnica complessa, con norme diverse da
stile a stile, partendo dal tipo di bicchiere da usare. In questa sede (e rimandando gli
approfondimenti al capitolo sulle metodiche di servizio) ci limitiamo a quattro indicazioni: la
prima è che in genere (ma si tratta di una semplificazione) le birre dalla carica aromatica più
corposa e articolata (come le alte fermentazioni) richiedono recipienti più generosi e di
apertura più ampia, mentre tipologie più semplici (come le Lager) si accontentano di forme più
snelle. La seconda indicazione è in realtà un dogma: la birra dev‟essere versata (applicando
metodi che possono essere anche molto diversi fra loro, in base allo stile brassicolo) sempre
in modo da far „esplodere‟ il gas contenuto (anidride carbonica o, in alcuni casi, una sua
miscela con azoto, chiamata carboazoto) e da formare, per le ragioni che saranno esposte,
anch‟esse, nel capitolo dedicato a questo argomento, un sostanzioso cappello di schiuma. La
terza indicazione riguarda le birre non filtrate, dunque provviste di lievito depositatosi sul fondo
della bottiglia: in questi casi la birra dev‟essere versata fino a tre quarti del volume; poi occorre
far ruotare la bottiglia lungo il proprio asse longitudinale in modo da raccogliere il sedimento
con il liquido rimanente; infine completare la mescita con questa miscela concentrata di lievito
e birra. La quarta regoletta riguarda la temperatura di servizio: maggiore nel caso di birre
aromaticamente più ricche, così da favorire il flusso odoroso; minore per le birre più semplici,
esaltandone il potere dissetante.
Dopo aver servito la nostra bevanda nel bicchiere seguendo queste raccomandazioni,
possiamo dedicarci all‟approccio vero e proprio, partendo dall‟esame visivo. Gli occhi ci
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daranno informazioni su tre parametri: uno, il colore (paglierino, oro, ambra, rame, bronzo,
bruno, nero) e quindi il grado di tostatura del cereale (anticipando già qualcosa su profumi e
gusti che possiamo aspettarci); due, l‟aspetto della birra: limpido in assenza di sedimenti o, in
caso contrario, velato se non proprio torbido (il che spesso non è un difetto, ma una
caratteristica voluta); tre, il profilo della schiuma (abbondante, scarsa, compatta,
grossolana...).
Passo successivo è l’esame olfattivo, da condurre con entrambe le narici, mediante
aspirazioni alternate e ripetute. Due i binari da seguire: quello quantitativo, relativo alla
potenza e all‟ampiezza dei profumi; quello qualitativo, concernente la loro eleganza e la
classificazione in aree varietali: amaro, floreale, fruttato, speziato, toni caldi (cioccolato, caffè,
caramello, mou, affumicato...). Ed eccoci all‟esame gustativo. Le sensazioni tattili all‟interno
della bocca ci segnaleranno il livello di frizzantezza della nostra birra; quindi il suo corpo,
ovvero la struttura (dovuta non solo al grado alcolico ma anche alla quantità di zuccheri rimasti
infermentati), apprezzabile palleggiando un sorso di birra fra una guancia e l‟altra così da
constatarne quella che si dice la sfericità. Le papille gustative parleranno invece delle
caratteristiche del sapore di quel che stiamo assaggiando, anche qui (come per il naso) in
senso sia quantitativo (varietà e intensità delle sensazioni al palato), sia qualitativo, indagando
l‟amaro e le altre note presenti (dolci e, più raramente, acide) ovviamente anche sotto il profilo
delle appartenenza varietali: frutta, spezie, toni caldi e via dicendo. Infine, dopo la
deglutizione, l‟apparato retronasale darà indicazioni sulla ricchezza retrolfattiva della birra e
sulla sua persistenza: sfuggente se di durata sotto il secondo, corto entro i 5, sufficiente sotto i
10, discreta fino a 20, lunga fino a 30 e oltre. Infine, due parole (per il momento: il tema sarà
approfondito più avanti) sul concetto di equilibrio, valutazione che riguarda l‟insieme delle
sensazioni gustative e che possiamo definire, intanto, come il grado di piacevolezza e armonia
che ne deriva globalmente.
IL MECCANISMO DELL‟ESAME GUSTATIVO – Lasciamo però temporaneamente da parte la
questione dell‟equilibrio (materia complessa, come vedremo), per entrare invece un poco più
nel dettaglio della fisiologia dell‟esame gustativo: ovvero di quelli che sono i compiti spettanti
all‟apparato ricettivo della bocca, il „laboratorio‟ preposto a interpretare le sensazioni del gusto.
Qui occorre precisare subito una cosa: che tali sensazioni, così come noi le percepiamo, sono
in realtà frutto di una collaborazione sensoriale fra il gusto propriamente detto e l‟olfatto. Infatti,
durante la deglutizione, le sostanze odorose del cibo, rese volatili e movimentate dal calore
della bocca, raggiungono il naso attraverso i varchi che lo mettono in comunicazione con la
bocca stessa: e questo è un apporto determinante, tanto che, quando si è raffreddati e il
sistema olfattivo lavora a scartamento ridotto, si è soliti dire di non percepire i sapori (in realtà
sono gli aromi del cibo a risultare inafferrabili: eppure ciò basta a farci credere di sperimentare
una menomazione anche delle facoltà del palato). Ma poniamo, come ipotesi di lavoro, quella
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di un degustatore in piena salute e in perfetta efficienza. La sua bocca (insieme al naso, lo
ribadiamo) è la „stanza‟ dove i sapori vengono classificati – anche se la descrizione del
meccanismo è grossolana – in base a un sistema di identificazione che ha come termini di
riferimento i cinque sapori-base: amaro, acido, dolce, salato e umami (o „glutammato‟: il
„saporito‟ per usare un termine più comune, quello tipico del Parmigiano Reggiano,
riconosciuto scientificamente come gusto fondamentale autonomo nel 1985). Semplificando,
possiamo dire che ogni sapore specifico è espressione di gradazioni diverse e di combinazioni
dei cinque fondamentali.
Ma in che modo la bocca svolge il suo compito? Attraverso la funzione delle papille gustative –
dotate dei bottoni gustativi, corredati delle terminazioni nervose preposte alla raccolta e
all‟invio degli stimoli - disseminate non solo sulla lingua, ma anche nella zona oro-faringea
(quella posteriore della cavità orale) e in quella corrispondente al tratto superiore dell'esofago.
Secondo la teoria classica della fisiologia del gusto, la percezione dei sapori sarebbe
localizzata in determinate aree della lingua, ciascuna provvista di papille specializzate nel
captare un singolo sapore dei cinque fondamentali. Così lo schema canonico dell‟apparato
linguale vuole la punta vocata al riconoscimento del dolce, dove si trovano le papille
fungiformi; i lati - con le papille filiformi - invece preposti a cogliere il salato; mentre l‟acido
sarebbe appannaggio di aree provviste di papille foliate che, dai bordi posteriori, si estendono
poi all‟interno; e infine l‟amaro sarebbe captato alla base della lingua, dove si trovano le papille
circonvallate o vallate.
Tale schema sembra però essere stato smentito dalle ricerche più aggiornate. Secondo le
quali si è arrivati a ritenere che tutte le papille gustative (sulla lingua e nelle altre zone di
percezione: palato molle, faringe, epiglottide e pareti delle guance) siano in realtà capaci di
rispondere a ognuno dei sapori fondamentali: ma a gradi di intensità e di sensibilità diverse,
cosicché la geografia della percezione gustativa tradizionalmente proposta continua a
mantenere una sua validità.
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LA CHIMICA DEGLI ODORI. Come abbiamo detto, è soprattutto l‟indagine olfattiva il fulcro
della pratica di degustazione: per questo abbiamo voluto dedicare a tale aspetto un breve
approfondimento, evidenziando in sintesi le basi chimiche su cui si fonda. Le molecole
aromatiche, che stimolano i recettori olfattivi, si chiamano osmofore, ovvero portatrici di odori.
Ogni odore è determinato da molte decine di tipi di tali molecole: di solito, però, un tipo è
quello che riveste il ruolo principale. Le sostanze aromatiche si suddividono in numerose
famiglie: ecco le principali, con alcuni esempi di molecole osmofore e i correlati odori.
Acidi carbossilici. Fra essi l‟acido isovalerianico, che sa di formaggio e si forma nel luppolo
vecchio o mal conservato.
Alcoli. Quelli con maggiori proprietà aromatiche solo gli alcoli superiori (la cui molecola ha sei
o più atomi di carbonio), prodotti dalla fermentazione degli aminoacidi. Tra gli alcoli aromatici il
feniletilico (alcol, una malvasia), il metionolo (cavoli cotti), il mentolo (menta piperita).
Alcoli terpenici. Presenti nel luppolo, caratterizzano il profumo di molti fiori: fra essi il
geraniolo (geranio), linalolo (lavanda, bergamotto, uva moscato), mircene (luppolo), farnesene
(luppolo).
Aldeidi. Famiglia di aromi molto variegati, comprende citrale (limone), nonenale (cartone
bagnato, presente in birre ossidate), benzaldeide (mandorla amara); le aldeidi vanillica
(vaniglia), cinnamica (cannella), acetica (sherry).
Ammine. In genere poco gradevoli; fra esse l‟amminoacetofenone (odore di grano crudo nella
birra).
Chetoni. Anch‟essi di natura eterogenea; ne fanno parte jasmone (gelsomino), diacetile
(burro), metil-butan-2-one (menta, olii del luppolo).
Composti solforati. Fra essi: acido solfidrico (uova marce), mercaptani (aglio, cipolla), 2-
Furilmentatiolo (caffè), 3-metil-2-buten-1-tiolo („gusto luce‟ nella birra).
Esteri. Contraddistinguono i profumi della frutta, essenziali per la birra, come: acetato di
isoamile (banana), acetato di etile (pera), esanoato di etile (mela).
Fenoli. Sono le sostanze che forniscono le note olfattive principali a diverse spezie e piante
aromatiche; alcuni hanno spunti affumicati. Comprendono: eugenolo (chiodi di garofano),
isoeugenolo (noce moscata), anetolo (anice), timolo (timo), guaiacolo (affumicato).
Lattoni. Derivati dagli esteri, includono γ-nonalattone (noce di cocco) e γ-undecalattone
(pesca).
Idrocarburi terpenici. Derivano dagli alcoli terpenici; ne fanno parte limonene (scorza
d‟arancia), α-pinene (pino), azulene (camomilla).
Pirazine. Responsabili alcune di spunti vegetali-erbacei, alcune caratteristiche di aromi quali
cacao, cioccolato, rum. Fra esse: 2-metossi-5-metilpirazina (peperone verde); 2,3,5-
trimetilpirazina (tostato).
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SCHEMA SINTETICO PER L’ESAME SENSORIALE DELLA BIRRA
ESAME VISIVO
ESAME OLFATTIVO
ESAME GUSTATIVO
PERSISTENZA
FRIZZANTEZZA CORPO AMARO INTENSITA’ RETROLFATTIVA EQUILIBRIO
piatta scarno assente tenue sfuggente sbilanciato
moderata leggero percettibile leggera corta orientato
media rotondo moderato media sufficiente giusto
decisa strutturato accentuato elevata discreta notevole
forte consistente rilevante molto elevata lunga perfetto
ALCOLICITA’
prorompente molto calda calda leggera debole
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GLI AROMI TIPICI DI LAGER, ALES E LAMBIC
Premesso che gli aromi rintracciabili in una birra sono davvero troppi per qualsiasi
generalizzazione (non solo perché i numerosi stili differiscono sensibilmente fra loro, ma
perché ogni produttore dosa in modo sempre personale gli ingredienti nella propria ricetta),
abbiamo comunque ritenuto utile indicare le caratteristiche più spesso ricorrenti nei prodotti di
ciascuna delle tre grandi famiglie birrarie: come dire, i comuni denominatori di Lager, Ales e
Lambic.
Per questa operazione facciamo riferimento, in primo luogo, alle quattro principali classi di
aromi riconoscibili nella birra. I primi sono quelli del malto, improntati al dolce e più netti nei
prodotti preparati con solo orzo maltato, definiti appunto „puro malto‟. Il secondo gruppo di
aromi è costituito da quelli del luppolo, che hanno tonalità di vario genere: fioriti, agrumati,
speziati, pinosi, mentolati. Terza categoria di aromi, quella dei sentori fruttati (dovuti gli esteri,
prodotti dalla combinazione di alcoli superiori e acidi organici), che sono tipici delle alte
fermentazioni, anche se possiamo ritrovarne anche in basse fermentazioni di qualità
particolarmente elevata. Infine, sebbene in posizione di secondo piano rispetto agli altri (per la
frequenza con cui li si incontra), abbiamo i profumi speziati, anch‟essi riconducibili a processi
di esterificazione o ad aggiunta diretta di spezie (coriandolo, cannella, curaçao…) in qualità di
aromatizzanti.
Su questa base, ecco una tabella riassuntiva degli identikit aromatici di fermentazioni
spontanee, alte e basse.
BASSE FERMENTAZIONI
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ALTE FERMENTAZIONI
FERMENTAZIONI ACIDE
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SCHEDA SINTETICA PER LA DEGUSTAZIONE DELLA BIRRA
ESAME VISIVO
ESAME OLFATTIVO
ESAME GUSTATIVO
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Birra: il piacere
di degustarla
e il gusto di conoscerla
Parte seconda
Bionde, scure o ambrate; a fermentazione bassa, alta o spontanea; tedesche, inglesi, belghe, ma
anche italiane, scandinave o americane; quasi 10mila etichette al mondo, ripartite in oltre trenta
tipologie: Lager, Weizen, Ale, Blanche, Lambic e via dicendo. La birra è tutto questo e anche di
più: una varietà praticamente illimitata di prodotti, ciascuno con specifiche caratteristiche di gusto
e aroma. Le ragioni di tale straordinaria differenziazione stanno nella storia di questa bevanda,
che fin dalle origini si è caratterizzata per una preparazione che ammetteva grandi varietà di
ricette, legata alla possibilità di intervenire diversificando uno o più ingredienti o passaggi del
metodo base. In sostanza, la birra non dev‟essere considerata un prodotto, ma più correttamente
un ampio ventaglio di specialità differenti. Data tale premessa, il primo passo da compiere per
acquisire un rapporto davvero consapevole e soddisfacente con la birra è dunque quello di
imparare a conoscerne le varie tipologie, così da essere nelle condizioni di saper scegliere
sempre il prodotto più adatto al gusto soggettivo o alle esigenze del momento specifico in cui la
si consuma: la stagione dell‟anno (ci sono birre rinfrescanti per l‟estate ma anche corroboranti
per l‟inverno), la circostanza (esistono birre semplicemente dissetanti o birre complesse, da
meditazione), il tipo di menu in base al quale dev‟essere stabilito il corretto abbinamento (si può
scegliere fra birre adatte al pesce, alle carni bianche o rosse, agli antipasti e ai dessert). Ora, per
arrivare veramente a conoscere la birra nelle sue molteplici interpretazioni non c‟è che un modo:
bere, analizzare e ricordare; l‟unica strada da seguire per imparare a muoversi con cognizione
tra le decine di specialità brassicole differenti è quello dell‟esperienza diretta.
COME SI FA LA BIRRA: DALL‟ACQUA AL MOSTO – Detto in termini estremamente sintetici, la
nostra bevanda è il risultato della fermentazione di un mosto derivante da acqua e cerale
germogliato, cui vengono aggiunte sostante aromatizzanti. Il cereale più diffusamente utilizzato è
l‟orzo, ma accanto ad esso ne sono stati e ne sono tutt‟oggi impiegati altri, come il frumento,
l‟avena, il mais, il riso. Sempre in estrema sintesi, il processo di preparazione segue questo
svolgimento. Il cereale viene fatto germogliare dando luogo a ciò che viene chiamato malto. Il
malto dunque non è un cereale in sé, ma il prodotto di una fase della lavorazione dei vari cereali;
possiamo dunque avere tanti tipi di malto quanti ve ne sono di cereali adatti a subire questo
genere di trattamento: malto d‟orzo, malto di grano e via dicendo. Nel loro passaggio allo stato di
malto, all‟interno dei chicchi di cereale hanno avvio processi chimici che saranno poi completati
con la produzione del mosto: amidi e proteine contenute in ogni seme iniziano a trasformarsi
rispettivamente in zuccheri e aminoacidi. Una volta ottenuto il malto, lo si fa essiccare in forni e,
proporzionalmente alla temperatura raggiunta, esso viene portato ad assumere colori che
variano da chiare tonalità paglia fino al bruno intenso e al nero, nel caso delle tostature più
energiche. E‟ dal colore del malto che dipenderà quello della birra. Terminata la tostatura, il malto
è macinato e ridotto in una grossolana farina, la quale, disciolta in acqua calda, subisce appositi
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procedimenti di riscaldamento (infusione o decozione) per dare luogo al mosto. In esso sono
contenuti zuccheri (che sono stati ereditati dagli amidi dei chicchi di cereale da cui siamo partiti)
e aminoacidi (derivanti dalle proteine racchiuse anch‟esse nei chicchi iniziali).
Amidi zuccheri
Proteine aminoacidi
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L‟IMPORTANZA DELLA FERMENTAZIONE – A questo punto spendiamo qualche parola di
approfondimento sulla fermentazione. Essa infatti non avviene sempre secondo le stesse
modalità, ma in base a procedimenti diversi (legati alla natura dei ceppi di lievito utilizzati), con
risultati ben distinti fra loro: la fermentazione spontanea, la alta e la bassa.
Fermentazione spontanea – E‟ la più antica, quella che l‟uomo ha osservato per prima,
imbattendosi in essa quasi certamente in modo involontario, per poi imparare a conoscerla e
replicarla. Avviene in modo appunto spontaneo, sotto l‟azione di lieviti selvatici naturalmente
presenti nell‟aria delle cantine (due specie sono il Brettanomyces Bruxellensis e il Brettanomyces
Lambicus) e non di ceppi selezionati e coltivati dai produttori. Limitata sostanzialmente al Belgio
(e in particolare a una piccola zona a ovest di Bruxelles, il Payottenland, nella valle del fiume
Zenne), prevede tempi lunghi per la fermentazione primaria e ancora più per quella secondaria e
per la maturazione, in botti a loro volta abitate da microrganismi utili per fermentazioni lattiche e
acetiche. La particolarità del procedimento dà alla birra un‟impronta acida inconfondibile.
Fermentazione alta – In realtà la stessa fermentazione spontanea è una particolare modalità di
alta fermentazione. Si definisce infatti alta la fermentazione innescata da lieviti attivi a
temperature tra 15 e 25 gradi (differentemente dalla bassa, che richiede un intervallo termico
compreso tra 5 e 10 gradi): e la fermentazione spontanea avviene effettivamente in questo
modo. Oggi però si distinguono metodo spontaneo e metodo di fermentazione alta, intendendo
con quest‟ultimo non un processo affidato ai microorganismi presenti nell‟aria, ma un sistema
controllato, con immissione da parte del mastro birraio di lieviti scelti, della famiglia
Saccaromyces Cerevisiae. Caratteristiche di lavorazione che conferiscono al prodotto un tenore
molto più morbido e generalmente lontano dall‟acidità delle birre a fermentazione spontanea.
Fermentazione bassa – Avviene, come abbiamo detto, grazie a lieviti appartenenti al gruppo
Saccaromyces Carlsbergensis, attivi fra 5 e 10 gradi. Tali temperature, non disponibili in cantina
lungo tutto l‟arco dell‟anno, più spesso richiedono l‟intervento di tecnologie di refrigerazione: per
questo la bassa fermentazione si è sviluppata a partire dal diciannovesimo secolo, insieme
all‟evoluzione di strumentazioni e tecniche moderne. La bassa fermentazione, se da un lato,
proprio in virtù della temperatura richiesta, protegge maggiormente il prodotto da rischi di
alterazione, dall‟altro appiattisce molto il ventaglio di aromi, sentori e sfumature di gusto che
invece troviamo nei prodotti a fermentazione alta.
Sulla base dei diversi metodi di fermentazione possiamo a questo punto compiere una prima
classificazione. Le birre si suddividono infatti in tre principali famiglie, ciascuna corrispondente a
uno dei sistemi sopra descritti: le basse fermentazioni (denominate Lager), le alte (Ales), le
spontanee (Lambic). Ognuno di questi grandi rami birrari presenta poi ripartizioni interne, gli „stili‟
o „tipologie‟.
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I „NOMI D‟ARTE‟ DELLE TRE FERMENTAZIONI – Abbiamo detto che tutte le birre di tutte e
tre le tipologie di fermentazione hanno dei „nomi d‟arte‟: le basse fermentazioni Lager, le alte
Ales, le spontanee Lambic. L‟origine di questi appellativi è a metà fra storia e leggenda. Nel
caso delle Ales l‟etimologia rimanda probabilmente al termine latino alere, ovvero alimentare,
nutrire (ma un‟ipotesi alternativa preferisce puntare sul celtico alausa, forse definizione per
birra chiara).
Il vocabolo tedesco lager - che significa magazzino e che ha attinenza con la fase di
maturazione che le birre di questa famiglia devono sostenere, a basse temperature e con
una durata maggiore rispetto a quanto avviene per le alte fermentazioni - venne ufficialmente
adottato dal birraio Anton Dreher, emigrato in Austria dal Württemberg. Questi, alla fine
dell‟Ottocento, approfittando delle agevolazioni concesse dal governo asburgico, aprì tre
stabilimenti in altrettante sedi dell‟impero: una a Budapest, una a Trieste e una a Vienna.
Qui, in particolare, insediò il suo impianto nel sobborgo di Schwechat, utilizzando capienti
magazzini validamente refrigerati e battezzando la fabbrica con il nome di „Schwechater
Lager‟, qualcosa come „Cantina di Schwechat‟.
Quanto ai Lambic, la questione è aperta, fin dal genere del nome: è maschile o femminile? E‟
corretto dire „il Lambic‟, come avviene correntemente, o „la Lambic'? Gli esegeti dei testi
birrari propendono per la prima versione; ma alcuni accreditano anche la seconda, facendo
notare come la Lambic sia definita “de moeder van allen bieren”, ovvero, in fiammingo, la
madre (appunto) di tutte le birre. Passando all‟origine del termine, Lambic (o Lambiek, se al
vocabolo vallone preferite il fiammingo), potrebbe derivare dal latino lambere,„sorseggiare‟,
anche se in realtà riferito soprattutto ad animali.
Una seconda ipotesi rimanda ad alambic e si fonda sulla voce, circolante nell‟Ottocento, che
voleva le birre a fermentazione spontanea così aspre perché preparate per distillazione, con
alambicchi. La discendenza più verosimile sembra però quella dal nome della cittadina di
Lembeek (nel Payottenland), nota fin dal medioevo per la copiosa ed eccellente produzione
di birre a fermentazione spontanea.
DIFETTI IN UNA BIRRA - Prima di entrare nel dettaglio, un‟opportuna premessa: nessuno
dei composti chimici collegati con alterazioni del gusto o dell‟aroma di una birra può
comunque comprometterne la genuinità o la digeribilità. Ciò detto, i difetti in una birra
possono essere talvolta (anche se oggi abbastanza raramente) originati da incidenti o
procedure discutibili che intervengono nella fase di produzione; più spesso causati da
disattenzioni nella conservazione.
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SCHEMA RIASSUNTIVO DI ALCUNI TRA I PRINCIPALI POSSIBILI DIFETTI
eccessiva degradazione
di proteine in ammostamento; incompleta pulizia del bicchiere
insufficienze di carbonazione SCHIUMA FIACCA
da maturazione troppo corta
insufficienze di filtrazione
(proteine, tannini) TORBIDITA’ E COAGULI esposizione a brusco raffreddamento
infestazioni fungine del malto ODORE DI MUFFA infestazioni fungine di tappi in sughero
ODORE DI LUCE
sovra-esposizione alla luce
(SUDORE, PUZZOLA)
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PARAMETRI PER L’ESAME SENSORIALE DELLA BIRRA
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FERMENTAZIONI FERMENTAZIONI ALTE
SPONTANEE MISTE FERMENTAZIONI
“DIVERSE” (ALES)
* Dinkelbier ed Emmerbier sono birre a base di spelta, di cui esistono versioni sia a bassa, sia
ad alta fermentazione.
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LENTE D’INGRANDIMENTO: LE BIRRE TRAPPISTE
Una panoramica, pur a grandi linee, sugli stili birrari non può mancare di un breve approfondi-
mento sul rapporto della pratica brassicola con la tradizione monastica: un rapporto millenario. La
storia della birra parte infatti da lontano, con origini insospettabili per chi la pensasse patrimonio
del Nord Europa: si parla di 3.500 anni prima di Cristo, se non ancor più indietro; e di „atti di
nascita‟ da ricercarsi in Mesopotamia o in Asia (Cina, India). Nei secoli, poi, la sua diffusione si è
sviluppata attraverso successive ramificazioni geografiche: dando luogo a legami di profondo
radicamento in diverse regioni, anzitutto europee; alimentando esperienze leggendarie; determi-
nando la codificazione di gamme di prodotti molto diversi tra loro. Fra le terre d‟elezione della
nostra bevanda figura senz‟altro il Belgio: ed è da qui che vengono, per la maggior parte (con al
momento due sole eccezioni oltreconfine: una in Olanda, l‟atra in Austria), le specialità brassicole
„firmate‟ delle abbazie trappiste, le cui comunità religiose, all‟interno delle proprie mura, da sempre
preparano birra, testimoniandone splendidamente il legame con la vita monastica.
Nato nel medioevo per ragioni eminentemente pratiche (il potere nutrizionale legato all‟alcol era di
grande aiuto nei periodi di digiuno; inoltre le scorte servivano a soddisfare la sete di viandanti e
pellegrini, ma anche ad assicurare ai monaci indipendenza economica con i proventi della
vendita), questo connubio tra birra ed esperienza conventuale non si è infatti mai sciolto; anzi, nel
corso del tempo ci sono stati ordini religiosi che hanno fatto della vocazione brassicola una vera e
propria specializzazione. In particolare i francescani, i benedettini e le derivazioni di questi ultimi: i
cistercensi, nati nel 1098 a Citeaux (l‟antica Cistercium, vicino a Digione, in Borgogna) da una
corrente rigorista dei cluniacensi (a loro volta ramo riformato dei benedettini originatosi nel 910 a
Cluny, sempre in Borgogna); e poi i trappisti, costituitisi nel 1664 a Soligny La Trappe, in
Normandia, come gemmazione degli stessi cistercensi.
Oggi le eredi più dirette della tradizione monastica sono appunto le birre dette „trappiste‟. Un titolo,
questo, spettante in esclusiva a quelle prodotte ancora all‟interno di abbazie; le quali, per difendere
la loro unicità, sono riunite in un consorzio di tutela con tanto di marchio: Orval, Westvleteren,
Westmalle, Chimay, Rochefort, Achel (in Belgio), La Trappe (a Koningshoeven, presso Tilburg) e
De Kievit (a Zundert) in Olanda, Engelszell (a Engelhartszell, in Austria), Spencer (Massachussets,
Usa), Tre Fontane (Roma, Italia). Questi nomi occupano, sulla scena brassicola odierna, un
segmento speciale; che si distingue, pur con gradazioni diverse al suo interno, per stoffa e
complessità di risultati. Quanto ai connotati organolettici, quella delle birre trappiste (appartenenti
alle alte fermentazioni, preparate cioè con lieviti attivi tra 15 e 25 °C) costituisce una tipologia
ricchissima di sfumature: una tipologia di cui fanno parte espressioni talmente variegate, che
risulta difficile ridurle entro un identikit sensoriale schematizzabile. D‟altra parte i comuni denomi-
natori produttivi effettivamente condivisi da tutte le Trappiste sono non più di tre: rifermentazione in
bottiglia; impiego di aromatizzanti vari, fra i quali un posto di rilievo hanno le erbe; uso di zucchero
caramellato (chiaro o scuro) aggiunto all‟impasto in fase di cottura. Questo ha in particolare la
prerogativa di fermentare dando luogo a sfumature olfattive di “etilico asciutto ma morbido” (a
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differenza dei toni meno eleganti dati dallo zucchero ordinario), smussando dunque l‟aggressività
della “cuspide alcolica”. I profili sensoriali delle Trappiste risultano insomma assai variopinti: la
gradazione sta fra il 6 e l‟11%; il colore va dal dorato carico al bruno scuro; l‟aspetto è di solito
velato (si tratta, come detto, di prodotti rifermentati in bottiglia), ma può tendere anche al limpido se
i lieviti restano incollati sul fondo del vetro Al naso si ha un florilegio di aromi delle più varie specie
e intensità: fruttati, speziati, caramellati, erbacei e luppolati. In bocca, altra esplosione di gusti in
sequenza, più orientati al dolce o all‟amaro in rapporto alle essenze erbacee, ai luppoli e alle
tostature del malto che intervengono di volta in volta. Siamo, ecco, di fronte non a “una birra”, ma a
una vera “famiglia di birre”. Bipartizione che abbraccia un buon numero di prodotti è quella tra
Double e Triple (o Dubbel e Tripel, alla fiamminga): le prime scure e di minor gradazione, le secon-
de chiare e più alcoliche. Ma le versioni intermedie abbondano, regalando esiti diversissimi in virtù
di ingredienti e procedure utilizzabili. Sotto, la “geografia” trappista, tra Belgio, Olanda e Austria.
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Birra: il piacere
di degustarla
e il gusto di conoscerla
Parte terza
LA SPILLATURA – Si definisce in questo modo la tecnica della mescita della birra in bicchiere,
tanto dal fusto quanto dalla bottiglia; in entrambi i casi il fine è il medesimo: far „esplodere‟ il
gas contenuto nella bevanda servita, sia esso anidride carbonica o, in alcuni casi, la sua
miscela con azoto, chiamata carboazoto e caratterizzata da una molto maggiore morbidezza,
nonché dalla capacità di rendere la schiuma decisamente più durevole.
Quello della „esplosione‟ del gas è un obiettivo funzionale a due ragioni: la prima è liberare la
birra dall‟effervescenza in eccesso. Una parte significativa del gas contenuto in una birra al
momento in cui la si versa nel bicchiere è infatti „abusiva‟; non corrisponde al livello di
frizzantezza pensato dal produttore, ma è aggiunta successivamente per ragioni strumentali:
nel caso delle bottiglie funge da conservante, nel caso del servizio da impianto serve da
propellente, indispensabile a spingere la birra dal fusto al beccuccio della spina. Se non
facessimo in modo di liberarci di questo gas in eccesso, avremmo a che fare con esso durante
la deglutizione: ciò renderebbe una sola bevuta sufficiente a dare un senso di saturazione nel
nostro stomaco o scatenerebbe, se il numero di bicchieri ingeriti aumentasse, un più che
probabile mal di testa.
La seconda ragione per cui far esplodere il gas nella caduta della birra all‟interno del bicchiere,
è quella di formare, proprio con questa tecnica, il sostanzioso cappello di schiuma - la misura
canonica è di 2,5 centimetri - richiesto per una degustazione corretta e pienamente
appagante. Il cappello è infatti non solo un elemento scenografico e iconografico, ma anche il
presidio preposto a proteggere la birra dai rapidi fenomeni d‟ossidazione che si attivano a
contatto con l‟aria e che nel volgere di pochi minuti ne incupiscono colore e gusto. Inoltre la
graduale liberazione del gas alla quale la schiuma dà luogo consente una regolare e
„razionata‟ convezione verso l‟alto (verso il nostro naso, insomma) degli aromi. I quali al
contrario tendono: o a sprigionarsi massicciamente e in minor tempo nell‟aria, in assenza di
„filtro‟ (se la temperatura esterna è alta); oppure a restare appiattiti e inespressi, mancando
loro il naturale „ascensore‟ (se l‟ambiente è freddo). In sostanza un conveniente strato di
schiuma garantisce una migliore conservazione della capacità aromatica della birra nel tempo
che impieghiamo per berla.
Per ottenere la formazione di un cappello adeguatamente proporzionato, il bicchiere
dev‟essere tenuto a una distanza adeguata (10-15 centimetri) dal punto di origine del flusso di
birra (sia esso il collo della bottiglia o l‟ugello della spina). Detto questo, i vari gruppi di
tipologie birrarie prevedono, anche sulla scorta delle tradizione affermatesi nelle diverse aree
di più antica produzione, metodi di spillatura differenti fra loro. Qui, tralasciando la spillatura da
impianto, proponiamo una sintetica carrellata delle tecniche di servizio da bottiglia, più utili
all‟appassionato che decida di dedicarsi ad assaggi „in proprio‟.
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LA SPILLATURA DI TIPO BELGA – Se si tratta di un prodotto filtrato, si procede in un solo
momento, o come si dice nel gergo birrario, in un solo colpo. Queste le istruzioni: iniziare la
mescita lentamente e tenendo il bicchiere a 45°, per poi raddrizzarlo gradatamente, ma
sempre all‟altezza degli occhi per controllare la quantità di schiuma che si va formando. Nel
caso di un prodotto non filtrato si utilizzerà un sistema in due colpi: il movimento iniziale
(descritto per le birre limpide) s‟interromperà una volta raggiunti grossomodo i tre quarti della
birra da versare, per poi effettuare, con il quarto rimasto nel vetro, il cosiddetto „risciacquo‟ dei
lieviti depositatisi sul fondo (secondo colpo): come già accennato nel capitolo sull‟assaggio,
occorre far ruotare la bottiglia lungo il proprio asse longitudinale in modo da raccogliere il
sedimento sfruttando il movimento del liquido all‟interno; e la densa miscela che ne risulterà
sarà quindi versata da una posizione la più vicina possibile alla parete del bicchiere, per
agevolarne lo scivolamento e l‟amalgama con la birra già mesciuta.
LA SPILLATURA DI TIPO IRLANDESE – Prevede un sistema in due colpi: si parte con il
bicchiere inclinato a 45° e si procede fino a tre quarti del liquido totale (primo colpo); quindi si
fa una pausa per attendere il compattamento della schiuma e successivamente (secondo
colpo) si procede con la birra restante.
LA SPILLATURA ANGLO-SCOZZESE – E‟ la tecnica più semplice, in un solo colpo: il
bicchiere dev‟essere tenuto costantemente a 45° raddrizzandolo più o meno velocemente in
base alla schiuma che si sta formando all‟interno del bicchiere.
LA SPILLATURA ALLA TEDESCA – E‟ la più articolata e pittoresca, in tre colpi (e circa 7
minuti di durata), tanto che si abbia a che fare con una birra filtrata quanto con una che invece
non lo sia. Cominciamo dal primo caso: partenza con il bicchiere a 45° e graduale
raddrizzamento a 90° rispetto alla bottiglia (che resta in posizione orizzontale) in modo da
andare a formare una quantità di schiuma pari più o meno a tre quarti del bicchiere
raggiungendone la cima (primo colpo); pausa di due, tre minuti per consentire alla schiuma di
addensarsi in quattro o cinque dita, e poi giù con la bottiglia fino a portare il cappello di spuma
nuovamente all‟orlo del bicchiere (secondo colpo); altra pausa di un minuto circa, quindi
travaso finale della birra rimasta (terzo colpo), così da costruire una bella corona di schiuma.
Secondo caso, le birre non filtrate: le weizen, ad esempio. Partenza come sempre a 45° e
mescita tesa a erigere la canonica colonna di schiuma pari in altezza ai tre quarti del
bicchiere, fino al bordo (primo colpo): pausa di rito, due o tre minuti, poi via al secondo colpo
volto a fare raggiungere alla schiuma nuovamente la cima del bicchiere, ma mantenendo la
bottiglia orizzontale, evitando cioè di versare i lieviti in essa presenti; questi ultimi entrano in
scena solo al terzo colpo, quando si raddrizza la bottiglia, la si fa ruotare proprio per
raccogliere il sedimento e infine si versa la crema di birra e lievito, con l‟accorgimento (come
nella spillatura belga-olandese) di farla scorrere lungo la parete del bicchiere.
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LA TEMPERATURA DI SERVIZIO – La regola generale è che la temperatura sale in misura
proporzionale alla complessità del prodotto da degustare (al fine di goderne al meglio gli
aromi), in un intervallo diciamo dai 5° di alcune Lager da bere preferibilmente fresche in virtù
dello scarno patrimonio olfattivo ai 15,5° consigliati per le abbaziali e soprattutto per le
trappiste, i „baroli‟ delle birre. Uno schema di riferimento ragionevolmente esauriente può
essere questo. Lager dai 5° ai 7°; alte fermentazioni in generale dai 7° ai 12°; Weizen
tedesche e Blanche belghe dai 7° ai 9°; Lambic, Oud Bruin e Belgian Red dai 7° ai 10°; Ales
britanniche e Stout dagli 8° ai 12°; Abbazie e Trappiste dai 12° ai 15,5°.
LE BOTTIGLIE – Le più usate per le birre sono i calibri da 75 cl (bottiglie propriamente dette),
da 25 cl (quarto di litro) e da 33 cl (terzo di litro). Altre capienze circolanti: mezza bottiglia (37,5
cl), magnum (1,5 litro = 2 bottiglie) e Jéoroboam (3 l = 4 bottiglie). La scala sale poi verso le
meno usuali Réhoboam (4,5 l = 6 bottiglie), Mathusalem (6 l = 8 bottiglie), Salmanazar (9 l =
12 bottiglie), Balthazar (12 l = 16 bottiglie) e Nabuchodonosor (15 l = 20 bottiglie).
I BICCHIERI – Facciamo un paio di premesse. Prima: ogni stile birrario ha il suo bicchiere;
anzi, ogni produttore ha propri modelli per le varie tipologie presenti nella gamma, modelli che
spesso si differenziano da quelli usati da altri produttori per le medesime tipologie. Seconda: le
scelte in base alle quali si assegna un determinato bicchiere a una certa categoria birraria
sono dettate in parte da criteri di valorizzazione delle caratteristiche della bevanda, ma in parte
anche a consuetudini e tradizioni delle regioni di produzione. Ciò detto, possiamo comunque
applicare la norma generale per cui le Ales, dalla carica aromatica più complessa, richiedono
recipienti a corpo e apertura più ampi (coppe, calici, tulipani e tulipani svasati), al fine di
consentire una maggiore diffusione dell‟articolato bouquet; mentre le Lager prediligono forme
più alte e snelle (cilindriche, troncoconiche, flute), tali da agevolare l‟ascesa veloce dei loro
profumi, fini e delicati, che tendono a disperdersi rapidamente. Per i Lambic si usano modelli
di varia foggia: flute, ma anche piccoli tulipani e bicchieri a colonna poligonali o troncoconici.
Casi particolari sono quelli delle Ales inglesi, delle Blanche belghe e delle Weissbier tedesche.
Queste ultime sono servite nei Weizenbecker (è il loro nome specifico), insieme alti e capienti,
adatti a contenere birre schiumose e confezionate in bottiglie da 50 cl: una sorta di vasi
slanciati dal piede snello e dal fusto rastremato in basso, per farsi invece via via più panciuto,
man mano che si sale, fino a restringersi di nuovo leggermente all‟imboccatura. Le blanche del
Belgio si sposano invece o con versioni ridotte dei Weizenbecker o con semplici bicchieri a
colonna tronco-piramidali, che nel caso dell‟Hoegaarden sono esagonali. Quanto alle Ales
inglesi, si bevono inderogabilmente nelle classiche pinte troncoconiche (ma la circonferenza
della bocca è solo poco più ampia rispetto a quella della base), talvolta provviste di una
sporgenza bombata ai tre quarti dell‟altezza per facilitarne la presa. Per una visione di sintesi,
che certo non esaurisce la varietà dei disegni esistenti, nelle pagine successive ecco una
carrellata di alcuni tra i bicchieri più usati, ripartiti in base alle tipologie birrarie corrispondenti.
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I BICCHIERI DA BIRRA
BICCHIERI DA LAMBICC
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BICCHIERI DA PILSENERC
25
NOTE, APPUNTI, CONSIDERAZIONI
26
Birra: il piacere
di degustarla
e il gusto di conoscerla
Parte quarta
27
IL ‘FENOMENO’ DEI MICROBIRRIFICI
IN ITALIA E NEL MONDO
28
Birra: il piacere
di degustarla
e il gusto di conoscerla
Parte quinta
L’esercizio dell’assaggio
finalizzato all’abbinamento
birrario-gastronomico
La degustazione delle birre
trappiste e abbaziali
BIRRA E CUCINA: LE AFFINITA’ ELETTIVE
PROPOSTE PER UNA ‘TEORIA DEGLI ABBINAMENTI’
Il connubio fra birra e pratica culinaria può riservare sorprese molto piacevoli, specialmente in
un Paese come il nostro, dove per tradizione (tra l‟altro legittima e autorevole), l‟idea
dell‟accostamento alla cucina è in modo automatico legata al vino. Come vedremo, la birra
(potendo mettere in campo un‟ampia molteplicità di interpretazioni, con identikit aromatici e
gustativi estremamente vari), presenta, alla prova dell‟abbinamento, una grande versatilità.
Prima di passare a scorrere il sintetico ventaglio di accoppiamenti-tipo che vi proponiamo a
chiusura di questo excursus birrario, cerchiamo però di stabilire, almeno in linee generali, un
metodo da applicare nel momento in cui si debba scegliere la birra migliore da bere insieme a
un determinato piatto.
In questo campo non esiste una teoria precisamente definita. Di certo, un punto di partenza
plausibile è lo stesso utilizzato per il vino. Ovvero: identificare un cibo in rapporto ad alcune
sue caratteristiche-base e provare a codificare quali connotati debba presentare una birra per
„sposarsi‟ con quelle caratteristiche. Tenendo presente – lo diciamo a beneficio di chi abbia già
dimestichezza con la teoria enologica delle coppie complementari: dolce con dolce, unto con
sgrassante, sapido con morbido – che la birra ha „un dna diverso‟ rispetto al vino: una diversa
piattaforma di elementi costitutivi (relativi al profumo e sapore). Vediamo le principali
differenze. Tutti i vini hanno un certo grado di acidità; tutti i vini rossi ne hanno uno di tannicità
(il contenuto in tannini); non tutti hanno un grado di effervescenza (solo i mossi e gli
spumanti); nessuno può dirsi propriamente amaro (al massimo si riscontrano venature e finali
amarognoli). Al contrario, non tutte le birre hanno un grado di vera e propria acidità (carattere
proprio solo di un gruppo circoscritto, definito lapalissianamente „delle birre acide‟, mentre
nella restante maggioranza dei casi troviamo, al massimo, una vena di acidulità); quasi
nessuna birra ha un grado significativo di tannicità; infine, praticamente tutte le birre hanno il
loro livello di effervescenza (ad esclusione di alcune poche specialità, ad esempio inglesi); e la
grande maggioranza riporta un certo grado di amaro.
Tutto ciò implica che, se il principio metodologico della „complementarità‟ si addice anche a
una possibile teoria degli abbinamenti birrario-gastronomici, per gettare le fondamenta di una
simile „dottrina‟ occorrerà individuare (rispetto a quanto già esiste nella manualistica
gastronomica) nuove e peculiari coppie di caratteristiche complementari tra cibi e birre. Quello
che riportiamo nella pagina seguente è appunto uno schema sintetico di tali copie; lo abbiamo
definito il „decalogo‟ degli abbinamenti.
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BIRRA E CUCINA: IL DECALOGO DELL’ABBINAMENTO
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BIRRA E CUCINA: TABELLA DI ABBINAMENTI POSSIBILI
Lager chiara
TUTTO Lager ambrata
PASTO Scottish Ale
Kölsch
Pils
secchi Gueuze
APERITIVI Kölsch
Lambic alla frutta
dolci Blanche
salumi Dunkel
Schwarzbier
ANTIPASTI
DI TERRA crostini, tartine, vol-au-vent Biere de Garde
caponata di verdure, Bock
verdure alla griglia, crocchette
insalate di mare Blanche
ANTIPASTI (fagioli e gamberi, pisellini e seppie) Kölsch
DI MARE crudità (carpaccio di branzino, Gueuze
crostacei, molluschi) Belgian Red Ale
Rauchbier
PIETANZE speck, provola, mozzarella Steinbier
AFFUMICATE Altbier
pescespada, trota, salmone
Scottish Ale
passato di verdure Doppelbock
MINESTRE minestrone, crema di piselli Abbazia
minestra di fagioli Strong Ale
Bock
ZUPPA Biere de Garde
Abbazia
RISOTTI Hefeweizen
Pils
PRIMI DI PESCE Blanche
Hefeweizen
Bock
PRIMI DI CARNE Weizendunkel
Abbazia
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pesce Pils
FRITTI carne Hefeweizen
verdure Pils
catalana, aragosta, astice Irish Ale
SECONDI DI PESCE pesce alla griglia Kölsch
pesce cotto al forno Blanche
Blanche
carni bianche
Märzen, Vienna
Pale Ale
SECONDI carni rosse
Scottish Ale
DI CARNE Schwarzbier
maiale
Hefeweizen
agnello Biere de Garde
Bock
pasta molle e media stagionatura
Doppelbock
Abbazia
FORMAGGI lunga stagionatura Trappiste
Barley Wine
erborinati Malt Liquor
Old Ale
al cucchiaio Milk Stout
crostate di frutta Lambic alla frutta
semifreddi Faro
DESSERT
Stout
al cioccolato e al caffè
Strong Dark Ale
costate di frutta secca, croccanti Brown Ale
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Birra: il piacere
di degustarla
e il gusto di conoscerla
Schede di degustazione
NOME PRODUTTORE LOCALIZZAZIONE STILE ALCOL
ESAME VISIVO
ESAME OLFATTIVO
ESAME GUSTATIVO
ESAME VISIVO
ESAME OLFATTIVO
ESAME GUSTATIVO
ESAME VISIVO
ESAME OLFATTIVO
ESAME GUSTATIVO
ESAME VISIVO
ESAME OLFATTIVO
ESAME GUSTATIVO
ESAME VISIVO
ESAME OLFATTIVO
ESAME GUSTATIVO
ESAME VISIVO
ESAME OLFATTIVO
ESAME GUSTATIVO