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Fenomenologia

Enciclopedia del Novecento (1977)

di Herman L. Van Breda

di Herman L. Van Breda


Fenomenologia

sommario: 1. Introduzione. 2. Itinerario fenomenologioo di Husserl. 3. La


fenomenologia pura di Husserl. 4. La fenomenologia filosofica o
trascendentale di Husserl. 5. Diffusione della fenomenologia pura (1905-
1972). 6. Limitata influenza della fenomenologia trascendentale. 7.
Conclusioni. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Il termine fenomenologia, il cui uso nel corso di questo secolo è divenuto


sempre più largo (dapprima in filosofia, poi anche nelle scienze umane), è
entrato a far parte del vocabolario filosofico nel 1764. In quell'anno J. H.
Lambert pubblicò a Lipsia il suo Neues Organon, la parte quarta del quale
ha per titolo Phänomenologie oder Lehre von dem Schein.
Anche se Kant si è servito a volte di questo neologismo, tuttavia il termine
ottenne il diritto di cittadinanza nella terminologia filosofica corrente solo
nel 1807, dopo che in quell'anno Hegel ebbe pubblicato la sua celebre
Phänomenologie des Geistes.
Si dovette però attendere la diffusione ed il crescente successo delle
Logische Untersuchungen (1900-1901) di Edmund Husserl, filosofo tedesco
di origine morava, perché il vocabolo acquisisse, del resto lentamente, i
valori caratteristici che attualmente vi annettono i lessicografi, in particolare
quelli che si occupano della terminologia filosofica. Del resto è innegabile
che tutta la gamma di significati assai diversi che il termine fenomenologia
ricopre nel lessico contemporaneo ha come origine e fonti principali sia
l'insegnamento universitario di Husserl tra il 1901 e il 1929 a Gottinga e a
Friburgo in Brisgovia, sia i suoi scritti posteriori all'edizione, nel 1900-1901,
delle Logische Untersuchungen, sua prima opera fenomenologica.
Già per questa prima constatazione, ma soprattutto perché tutto il pensiero
fenomenologico contemporaneo reca in ogni suo aspetto tracce evidenti
dell'influenza dell'opera di Husserl, ad ogni esposizione, anche sintetica,
della fenomenologia deve esser premessa, a mo' d'introduzione, una sia pur
breve ricostruzione della vita, della produzione e della biografia intellettuale
di questo filosofo. A buon diritto, infatti, Husserl viene comunemente
considerato il ‛padre della fenomenologia'.

2. Itinerario fenomenologico di Husserl

Nato nella città ceca di Prostějov (Moravia) l'8 aprile 1859 da famiglia
ebraica di lingua tedesca, Edmund Husserl ricevette nelle università di
Lipsia e di Berlino, nel periodo 1876-1881, una formazione essenzialmente
matematica. A Berlino seguì, tra l'altro, i corsi di L. Kronecker e di K.
Weierstrass e di quest'ultimo fu assistente per due semestri (v. Osborn,
19492, p. 14). A Vienna, dove ottenne il dottorato nel 1883 con una
dissertazione matematica, prese la decisione di consacrare la sua vita di
ricercatore non già alle matematiche, ma alla filosofia. Lo determinò in
questa scelta l'impressione profonda e decisiva che, tra il 1884 e il 1886,
fecero su di lui la personalità e l'insegnamento di Franz Brentano, di cui
seguì alcuni corsi a Vienna (v. Husserl, 1919). Di questo maestro Husserl
farà proprio, oltre alla dottrina dell'intenzionalità, un insegnamento
fondamentale e cioè che, per essere valida, la spiegazione filosofica di un
dato deve chiarirne la genesi e, da un punto di vista formale, deve essere
costruita come ‛una scienza rigorosa' (v. Husserl, 1911). Inoltre, Brentano
gli instillò una grande stima per i classici inglesi (Locke, Hume), come
anche una certa avversione per le tesi e i metodi filosofici di Kant e dei
grandi idealisti tedeschi (v. de Boer, 1966, pp. 127-148).
Nel 1887, Husserl iniziava la sua carriera accademica come Privatdozent
all'Università di Halle. Qui trovò ad accoglierlo Carl Stumpf, che doveva
anch'egli a Brentano la propria vocazione filosofica (v. Spiegelberg, 19652,
vol. I, pp. 53-72), e fino al 1901 vi insegnò soprattutto logica e filosofia
della matematica. I risultati delle sue ricerche in questi campi trovarono
espressione nel volume Philosophie der Arithmetik, pubblicato nel 1891, e
in una serie di articoli molto apprezzati (v. Van Breda, Bibliographie...,
1959, pp. 290-291).
Verso il 1895, indagando sui fondamenti filosofici della logica, Husserl
scopre l'insufficienza radicale dello ‛psicologismo' e riscopre invece il
valore della ‛logica pura', proposta nel 1837 da Bernhard Bolzano nella sua
Wissenschaftslehre. Nel 1900 Husserl presenterà un'elaborazione di questi
due temi nel primo volume delle Logische Untersuchungen. Continuando in
seguito le sue ricerche sulla fondazione ultima delle strutture di questa
logica pura, egli intravede, per la prima volta verso il 1890, alcuni dei
principî essenziali di ciò che fin da allora chiama ‛il metodo
fenomenologico'. Nel 1901 pubblica una versione molto elaborata di questi
risultati nelle sei ricerche logiche, apparse come secondo volume delle
Logische Untersuchungen.
La risonanza di questo primo gruppo di sue pubblicazioni ebbe come
conseguenza che nel 1901 la Facoltà di filosofia di Gottinga - e in
particolare i matematici e i fisici di fama che la controllavano (F. Klein, D.
Hilbert, H. Minkowski, W. Nernst, ecc.) - si rivolsero a Husserl perché vi
insegnasse filosofia della matematica e vi introducesse la logica matematica,
delle cui basi, in Germania, solamente G. Frege stava occupandosi. Ma,
contrariamente alle attese dei matematici, che, vincendo l'opposizione dei
filosofi ‛patentati' della facoltà, lo avevano chiamato a Gottinga, Husserl
durante i sedici anni di permanenza in questa università dedicherà quasi tutti
i suoi sforzi a sviluppare la propria fenomenologia. Fino al 1907 i suoi corsi
e le sue ricerche vertono principalmente sulle possibilità offerte dal ‛metodo
fenomenologico' come tale per chiarire e spiegare diversi problemi
filosofici, in particolare quelli che scaturiscono dalla logica. Ma a partire dal
1904, certamente anche per l'influenza che ebbe su di lui la lettura di Kant,
portata assiduamente avanti nel corso degli ultimi dieci anni (v. Kern, 1964,
pp. 12-33), egli è preso sempre di più da una nuova preoccupazione, quella
di trovare ‛tramite' e soprattutto ‛nella' fenomenologia una filosofia
generale.
Facendo uso della terminologia dello stesso Husserl, i suoi recenti
commentatori (v. Schuhmann, 1973) sostengono che la trasformazione della
fenomenologia cosiddetta pura (v. sotto, cap. 3) in fenomenologia filosofica
o trascendentale (v. sotto, cap. 4) fu avviata in questo periodo. In
quest'ultima Husserl cerca e crede di trovare una nuova spiegazione
filosofica del mondo nella sua totalità. Ben presto raggiunge la convinzione
che tale spiegazione è la sola realmente valida, e quindi la sola che possa
attuare pienamente le intenzioni fondamentali di tutte le generazioni di
filosofi da Platone in poi. Dal 1905-1906 Husserl afferma che per arrivare ai
problemi e alle soluzioni ultime è strettamente necessario effettuare
preliminarmente la riduzione fenomenologica. Dopo aver elaborato, tra il
1910 e il 1917, tutta una serie di riduzioni differenziate, dopo il 1920 esigerà
che sempre, prima di accingersi ad una spiegazione veramente filosofica di
un qualsiasi dato della coscienza, questo sia anzitutto sottoposto alla
riduzione detta ‛trascendentale'. Solo in questo modo può risultare che il
dato è effettivamente costituito nella sua totalità dall'io trascendentale. Ed è
proprio la sua genesi ‛in' e ‛per' questo Ego che dovrà essere chiarita dal
fenomenologo. Se ad un certo punto la riduzione diventa per Husserl la via
di accesso obbligata alla problematica propriamente filosofica, l'analisi
intenzionale in tutte le sue forme (v. sotto, capp. 3 e 4) è per lui il metodo
essenziale per identificare le diverse fasi di tale genesi, che bisogna
ricostruire. Questa fenomenologia concepita come filosofia universale,
professata in vari corsi di lezioni già dal 1907 (v. Schuhmann, 1973), trovò
la sua prima formulazione scritta nelle Ideen I, pubblicate nel 1913 con il
sottotitolo di ‛introduzione generale'. In effetti in quest'opera Husserl vuole
proporre anzitutto un ‛discorso sul metodo' e poi un programma dettagliato
della nuova filosofia da lui elaborata. Ma, proprio come nelle Logische
Untersuchungen, la sua particolare forma mentis lo porta a inframmezzare
continuamente l'esposizione sistematica con sottili analisi che, pur aprendo
sempre nuovi orizzonti, spesso rendono oscure, ora più ora meno, le
intenzioni dell'autore.
È noto che nel 1913, con Ideen I, Husserl inaugurò il primo volume di uno
‟Jahrbuch für Philosophie und phanomenologische Forschung", nel quale,
sotto la sua direzione, un gruppo di pensatori, che avevano adottato i suoi
metodi e che presero il nome di fenomenologi, si proponevano di pubblicare
periodicamente i risultati delle loro ricerche.
Sotto l'influenza dell'insegnamento e degli scritti di Husserl, tra il 1903 e il
1913 si era infatti formata e sviluppata in Germania (dapprima a Gottinga
tra i suoi uditori) una ‛scuola fenomenologica'. A partire dal 1907, i seguaci
di Husserl cominciarono a incontrarsi regolarmente, costituendo una società
filosofica molto attiva. Tra i suoi membri più celebri possiamo ricordare A.
Reinach, W. Schapp, H. Martius, D. von Hildebrand, J. Hering, A. Koyré, E.
Stein e R. Ingarden. Fu per questa società che nel 1910-1911 - del resto
all'insaputa di Husserl - Max Scheler, allora dimissionario a Monaco, tenne
a Gottinga i famosi ‛discorsi al caffè' (v. Spiegelberg 19652, vol. I, pp. 169-
171 e 218-227).
Dal 1904 un secondo gruppo di proseliti della nuova fenomenologia si era
formato a Monaco tra i discepoli di Theodor Lipps (1859-1914), che si
occupava spesso degli stessi problemi di Husserl. Per molti di loro le
Logische Untersuchungen erano divenute ben presto un livre de chevet. I
principali sostenitori delle idee husserliane furono A. Pfänder, J. Daubert,
M. Geiger e M. Beck.
Con stupore di Husserl, la maggior parte dei suoi discepoli della prima ora
furono visibilmente sorpresi e persino sconcertati da certe tesi sostenute
nelle Ideen I, in particolare dalla svolta radicalmente idealistica e dalla
venatura di solipsismo che essi credevano di scorgervi. Da allora in poi,
anche tra i collaboratori dello ‟Jahrbuch", una netta linea di demarcazione
separa i pochi fenomenologi che condividono la filosofia trascendentale e
genetica di Husserl, o almeno le sue implicazioni essenziali, e il numero ben
più vasto di coloro che consapevolmente si attengono ad una fenomenologia
puramente descrittiva e eidetica. Negli ambienti fenomenologici questa
divisione non doveva più scomparire.
Nel 1916 Husserl accetta l'invito rivoltogli dall'Università di Friburgo in
Brisgovia, dove succede a H. Rickert, allora capo incontrastato della scuola
neokantiana del Baden. Ma se a Gottinga un gruppo rilevantissimo di
giovani e valenti filosofi aveva adottato i principî del metodo da lui allora
professato, a Friburgo solo pochi di coloro che, tra il 1916 e il 1929,
seguirono in gran numero i suoi corsi divennero convinti adepti della
fenomenologia trascendentale che formò quasi costantemente l'oggetto dei
corsi. La diffusione europea che le sue pubblicazioni ebbero in quegli anni,
così come il rispetto sempre crescente che gli ambienti internazionali gli
tributarono, non servirono a cancellare in lui l'impressione che il suo ultimo
messaggio filosofico solo in qualche raro discepolo incontrasse un'adesione
completa. Molte e promettenti ‛speranze' della nuova generazione si
affollarono attorno alla sua cattedra; tra gli altri D. Mahnke, M. Heidegger,
H. Tanabe, O. Becker, Fritz Kaufmann, T. Otaka, Felix Kaufmann, G.
Miyake, H. Pos, J. Gaos, M. Farber e infine E. Lévinas. Ma, oltre ai due suoi
ultimi assistenti, L. Landgrebe e E. Fink, solo pochi - come A. Schutz, A.
Gurwitsch e D. Cairns - s'impegnarono senza esitazioni con Husserl in
ricerche genetiche sulla costituzione, sull'intersoggettività, sulla temporalità
o su altri temi che egli allora studiava. Inoltre, dopo la pubblicazione di Sein
und Zeit (1927), e soprattutto dopo che nel 1928-1929 Heidegger gli fu
subentrato a Friburgo, la problematica e le soluzioni del nuovo titolare
influirono profondamente sul pensiero dei discepoli di Husserl, anche di
quelli a lui più vicini. Da allora Husserl lavorò in una condizione di sempre
maggiore isolamento, e questa situazione non subì cambiamenti né con la
pubblicazione della Formale und transzendentale Logik (1929), né con
quella delle Méditations cartésiennes (1931). E se dopo essere stato
nominato professore emerito nel 1929, egli riprese con sorprendente vigore
le sue ricerche personali su molteplici problemi concernenti la costituzione
trascendentale, nella Germania stessa il suo ascendente diretto sulla filosofia
diminuì sempre più e, dopo l'avvento al potere dei nazisti nel 1933, ogni
traccia della sua influenza scomparve quasi completamente. Benché, durante
tutta la sua carriera accademica, Husserl si fosse tenuto lontano dagli
ambienti e movimenti dichiaratamente ebraici, e benché con l'andar del
tempo il suo senso di appartenenza a una comunità ebraica s'indebolisse
sempre più, le leggi antisemite lo colpirono duramente. Dopo un primo
momento di sbigottimento, egli accettò tutte le conseguenze della sua
ascendenza etnica, sopportandole da vero filosofo. Abbandonato dalla
maggior parte dei suoi amici e conoscenti tedeschi, morì a Friburgo,
nell'indifferenza più totale, il 27 aprile 1938.
Non pochi suoi discepoli ed alcuni intimi sapevano che, oltre le opere
pubblicate, Husserl aveva lasciato morendo un gran numero di inediti
filosofici - più di 45.000 pagine autografe stenografate - che contenevano
ricerche intraprese durante un periodo di oltre 45 anni. Come egli stesso
ripeteva continuamente negli ultimi anni di vita, parti essenziali delle sue
concezioni fenomenologiche si trovavano, in uno stato di più o meno
compiuta elaborazione, in questa sua eredità spirituale, il suo Nachlass.
Poiché nella Germania nazista tutto quanto egli aveva lasciato rischiava una
distruzione immediata, fu deciso nel settembre del 1938 di portare ogni cosa
a Lovanio (Belgio). E in questa città, poco dopo, furono creati gli Husserl-
Archives, con lo scopo di promuovere lo studio degli inediti e di preparare
l'edizione dei testi più importanti (v. Van Breda, Geist..., 1959 e Le
sauvetag..., 1959).

3. La fenomenologia pura di Husserl

Abbiamo già detto che il metodo fenomenologico, quale viene esposto nelle
Logische Untersuchungen, fu scoperto ed elaborato da Husserl in occasione
di ricerche intraprese per fondare filosoficamente la logica pura. È ormai
noto come il procedimento essenziale di questo metodo consista nell'analisi
e nella descrizione ‛discorsiva' di fenomeni, cioè di dati coscienti o
‛intenzionali', così come ci si presentano. Del pari è noto come quest'analisi
debba essere compiuta in atteggiamento riflessivo e debba in primo luogo
tendere a identificare le strutture caratteristiche del ‛tipo' dei fenomeni, cioè
della loro ‛essenza' (Eidos, Wesen). Nel linguaggio contemporaneo, con
descrizione fenomenologica non si intende nient'altro che un processo
verbale minuziosamente redatto di ciò che l'analisi di un'esperienza
‛significante' rivela come ‛originano' a uno sguardo riflessivo: quindi,
prioritariamente, la descrizione delle sue caratteristiche ‛eidetiche'. Queste
ultime, così come le essenze stesse, aggiunge Husserl, sono colte da un atto
conoscitivo sui generis che egli chiama ‛intuizione eidetica' (eidetische
Anschauung, Wesensanschauung) o ‛ideazione' (ideation, Wesensschau).
Come è noto, tale intuizione è mediata dal procedimento metodico, divenuto
celebre, che Husserl chiama ‛variazione eidetica' (eidetische Variation).
Poiché nel suo processo verbale dovrà redigere la descrizione esatta delle
cose stesse nella loro originarietà (secondo il motto: zu den Sachen selbst!),
il fenomenologo dovrà, nella redazione, astrarre scrupolosamente da ogni
prenozione teorica. Da ciò deriva l'atteggiamento antiteorico e asistematico
della fenomenologia pura.
Di quest'ultima, così come l'abbiamo delineata, un filosofo francese dà
un'eccellente definizione: è una ‟descrizione che mira a un essenza, essa
stessa definita come significato immanente al fenomeno e data con esso" (v.
Dufrenne, 1953, vol. I, pp. 4-5).
La fenomenologia professata e applicata da Husserl a partire dal 1901
implica, tuttavia, varie tesi e presupposti filosofici, che questa definizione
non menziona e di cui non tiene sufficientemente conto.
In primo luogo, la fenomenologia così definita e concepita passa sotto
silenzio la continua attenzione che a partire dal 1901 Husserl dedica agli atti
intenzionali stessi nelle sue analisi e descrizioni eidetiche e non eidetiche.
Mentre Husserl sottolinea costantemente l'incidenza dell'attività della
coscienza in ogni oggettivazione, coloro che procedono con un metodo
concepito nella prospettiva della definizione sopra citata presuppongono,
evidentemente, che i fenomeni e le essenze siano già presenti alla coscienza
in uno stato di compiutezza. Non resta dunque che considerarli attentamente
secondo un atteggiamento riflessivo, ‛leggerne' per così dire il contenuto ed
esprimerne quindi discorsivamente il significato. D'altra parte i dati
immanenti che costituiscono l'oggetto della loro analisi sono generalmente
considerati dai fenomenologi di questo tipo come riflessi del mondo
inanimato, animato e umano che ci circonda. In altri termini, i fenomeni da
descrivere rivelano, secondo loro, l'universo esistente alla coscienza. Se
quest'ultima, grazie ai dati della sensazione e della percezione, può mettersi
in contatto, sia pure indirettamente, con la fatticità e con ogni esistente
legato alla materia, l'ideazione le assicura dal canto suo un accesso al mondo
delle essenze. Ritornare alle cose stesse significa, per la maggior parte degli
aderenti a questo tipo di fenomenologia, volgersi immediatamente ai
fenomeni intenzionali, pur mirando attraverso questi ultimi sia alla realtà di
ciò che è percepito sensibilmente, sia alla realtà delle essenze oggettive. Se,
in linea generale, essi presuppongono di fatto una gnoseologia che si può
definire come ‛realismo mediato', prima del 1913 e anche più tardi non
pochi di loro - e non dei minori - pongono alla base della loro
interpretazione dell'eidetica husserliana una metafisica d'ispirazione
nettamente neoplatonica.
Nel frattempo è stato storicamente accertato che, contrariamente
all'interpretazione dei fenomenologi ora citati, Husserl, anche nelle prime
formulazioni del suo nuovo metodo, non professò né presuppose mai un
realismo mediato, nè tantomeno fondò la sua eidetica su di una metafisica di
tipo platonico. Per lui nemmeno l'atto di cogliere intellettualmente ha mai
assunto la struttura di un leggere da spettatore il già presente, per poi
oggettivarlo categorizzandolo. Già dal 1899, quando vuole spiegare la
formazione - dopo il 1907 dirà la ‛costituzione' - di una categoria o di
un'essenza, egli studia sempre correlativamente da un lato l'atto della
coscienza, dall'altro il contenuto che esso coglie. In altri termini, sin dal
1899 tutte le analisi da lui elaborate scompongono parimenti sia quelle che,
dopo il 1910, egli chiamerà le noesi, sia i loro noemi. Del resto è su questa
via che, poco dopo il 1905, egli sarà portato a impegnarsi nella dottrina, il
cui carattere trascendentale fu in seguito sempre più accentuato, della
costituzione universale di ogni dato intenzionale ad opera della coscienza e,
in seguito, dell'io trascendentale. L'idealismo tanto discusso soprattutto dai
suoi discepoli - che dopo il 1910 egli professò con vigore sempre crescente
ne è una conseguenza del tutto naturale.
Husserl stesso, inoltre, ha mosso più volte un altro rimprovero a quei
discepoli le cui ricerche erano improntate ai principî della fenomenologia
così come li abbiamo definiti all'inizio di questo capitolo. Mossi dalla
dialettica interna di tali principî, questi filosofi si limitano ad analizzare e a
descrivere il fenomeno intenzionale quale si presenta immediatamente.
Secondo Husserl, fermandosi in tal modo ad un'analisi da lui più tardi
definita ‛statica', questi autori non si preoccupavano di affrontare e di
risolvere il problema centrale ed essenziale di ogni fenomenologia, cioè
quello di giustificare filosoficamente la genesi del fenomeno in questione. Il
metodo di risoluzione di problemi del genere già abbozzato chiaramente
nelle Logische Untersuchungen, ed elaborato compiutamente da Husserl
verso il 1920 con il nome di ‛analisi intenzionale genetica', non fu da essi
preso in alcuna considerazione, né mai applicato nelle loro ricerche.
Ciononostante per Husserl la descrizione del dato statico non fu e non sarà
mai altro che un avvio per aprire la strada alla sua riscoperta e quindi alla
spiegazione ultima della sua genesi, cioè della sua ‛storia intenzionale'. Al
centro delle preoccupazioni di Husserl c'è dunque sempre il nucleo della
problematica che egli ha derivato, pur con sensibili modifiche, da Brentano
e, per suo tramite, da Locke e dai grandi inglesi. Ne consegue che il
fenomenologo, nella misura in cui non riesce a rendere intelligibile proprio
questa genesi, sfiora senza toccarlo il problema centrale da risolvere e non
può in alcun modo pretendere di giungere ad una fondazione filosofica
valida.
Dato che la problematica genetica è toccata solo incidentalmente nelle loro
ricerche, gli esponenti della fenomenologia troppo succinta sopra definita
non hanno capito nemmeno le ragioni cogenti che spingevano Husserl, fin
dal 1901, a elaborare analisi molto approfondite della temporalità. Questa
mancanza di interesse per la tematica del tempo, che fin dal 1903 è sempre
presente nelle ricerche di Husserl, è il terzo motivo che li tiene lontani
dall'autentica dottrina del maestro, di cui pure si credono seguaci. In effetti
le strutture della temporalità costituiscono per Husserl, fin dalle sue prime
ricerche fenomenologiche, il quadro formale imprescindibile di ogni genesi
intenzionale. Dopo il 1910 tali strutture vengono da lui proclamate come
trama di base dell'io trascendentale, e appunto perciò esse presiedono
universalmente ad ogni ‛coscienza-di' come certo anche ad ogni costituzione
intenzionale. Una fenomenologia non genetica, che, oltretutto, faccia in gran
parte astrazione dall'incidenza della temporalità sulla vita cosciente, potrà
certamente portare ad analisi e descrizioni validissime; bisogna però
concludere che non segue se non in modo parzialissimo il cammino aperto
da Husserl nel 1900.

4. La fenomenologia filosofica o trascendentale di Husserl

Si è generalmente abbastanza concordi nel far risalire al 1913, cioè alla


pubblicazione delle Ideen I, la data in cui Husserl compie il passo decisivo
dalla fenomenologia pura come metodo alla fenomenologia come filosofia
generale. Ben presto si aggiunge, quest'ultima si muterà in filosofia
trascendentale, come Husserl preferirà chiamarla dopo il 1920. Si deve
senz'altro riconoscere che nel 1913 Husserl ha in effetti reso pubblico con
quest'opera sia il manifesto delle sue nuove concezioni, sia il ‛discorso del
metodo' che ne costituirà il fondamento; ma, come ho già sottolineato, tale
diffusissima opinione è contraddetta dalle fonti attualmente a nostra
disposizione. Infatti si è arrivati ad accertare che Husserl ha lentamente
enucleato gli obiettivi di questa fenomenologia profondamente modificata
fra il 1904 e il 1910 e che in quegli stessi anni ha elaborato i procedimenti
metodologici necessari per perseguire e raggiungere tali obiettivi (v.
Husserl, 1973; v. Schuhmann, 1973).
Quali sono, dunque, questi obiettivi e questi metodi? Tenendo presente
quanto abbiamo detto circa l'esigenza husserliana che ogni fondazione
filosofica debba essere genetica, bisogna rilevare subito la presenza di una
costante. Dopo il 1906, come del resto nelle ricerche sia logiche sia di altro
tipo iniziate fin dal 1899, egli continuerà a concentrare i propri sforzi sulla
riscoperta di tutte le fasi della storia intenzionale dei fenomeni presi in
esame. Lo scopo primo della fenomenologia, anche in quanto filosofia
universale, altro non è che quello di rendere intelligibile, per quanto
possibile, la ‛genesi' cioè la ‛costituzione' di ciò che si annuncia alla
coscienza come significato. Si tratta quindi di fondare tramite tale
spiegazione tutti i significati colti intenzionalmente senz'alcuna eccezione,
tanto nella loro individualità che nella loro totalità. La fenomenologia come
filosofia ha quindi il compito di descrivere dettagliatamente la genesi, la
costituzione del mondo intenzionale, assicurandogli in tal modo una
spiegazione ultima, una fondazione veramente filosofica.
Sempre dopo il 1906 Husserl vede con chiarezza che, per affrontare questo
problema in tutta la sua ampiezza, è necessario trovare una via d'accesso alla
totalità dei dati intenzionali e, inoltre, che occorre urgentemente un
procedimento tecnico che permetta di cogliere i fenomeni coscienti nella
loro più assoluta purezza. In questo periodo Husserl ha scoperto, in effetti,
che nell'atteggiamento definito, a buon diritto, naturale (in natürlicher
Einstellung) tutti gli uomini, e persino gli psicologi e i filosofi che
sembrerebbero essere specialisti del fenomeno intenzionale, aggiungono
sempre al suo contenuto originario scorie o interpretazioni che ne falsano in
parte il significato autentico. Questa via d'accesso e questo procedimento
metodico non sono nient'altro che la riduzione fenomenologica (die
phänomenologische Reduktion), di cui Husserl intravede nel 1905 i primi
lineamenti. Questa riduzione, alla quale non smise mai di lavorare negli anni
tra il 1906 e il 1909, verrà da lui elaborata, in un primo tempo, seguendo il
cammino già tracciato da Cartesio il quale, attraverso il dubbio metodico,
scopre l'Ego come apoditticamente certo e come punto d'appoggio ultimo di
ogni certezza possibile. Nell'intraprendere questo procedimento cartesiano,
Husserl crede dapprima di scoprirvi la possibilità di assicurarsi un accesso
diretto e inoppugnabile all'io trascendentale, che dal 1908-1910, rettificando
la dottrina delle Logische Untersuchungen, egli considera e descrive come
un dato immediato della conoscenza intuitiva (v. Husserl, 1973). Ma in,
seguito, ampliando enormemente il residuo che, secondo Cartesio, il dubbio
metodico non può eliminare, Husserl conserva come dati irrefutabili, dopo
la riduzione e oltre all'Ego propriamente detto, tutte le cogitationes. Queste
ultime dovranno tuttavia essere preliminarmente ridotte alla loro forma
assolutamente pura. La riduzione così intesa lascia dunque al fenomenologo,
anzitutto, l'io come luogo e fonte delle cogitationes, ma anche queste ultime
come cogitata qua cogitata.
Allo stato puro questi cogitata o fenomeni intenzionali non sono altro che
contenuti significanti (Sinn) ‛nella' e ‛per' la coscienza (für-mich-Seiendes).
Ma - come abbiamo notato - l'uomo della strada, l'uomo di scienza, come lo
stesso filosofo, nell'‛atteggiamento naturale' inficiano irrimediabilmente
questi significati con un di più inautentico. Oltrepassando indebitamente i
contenuti significanti originari, essi li proiettano per mezzo di
un'ingiustificata estrapolazione nell'esistenza reale; ed ontologicamente
quest'ultima viene poi oggettivata, in modo affatto naturale, in analogia
all'esistenza che, nella nostra vita quotidiana, noi imputiamo alla cosa
materiale percepita dai nostri sensi. Questa constatazione, che Husserl
ritiene universalmente valida, lo induce a imporre ad ogni fenomenologo
che proceda alla riduzione l'imperativo categorico di depurare per il suo
tramite il cogitatum da ogni traccia di esistenza reale, non conservando di
quest'ultima nient'altro che il suo significato puro. È per tutte queste ragioni
che, per procedere alla riduzione così come viene presentata nelle Ideen I,
Husserl prescrive in ogni caso la messa in parentesi dell'esistenza (die
Einklammerung der Existenz). Ogniqualvolta si affronti un fenomeno
intenzionale, esso deve essere sottoposto preliminarmente all'epoché.
Dal 1907 in poi Husserl continuerà a ripetere che, del resto, operando questa
riduzione radicale, il fenomenologo non perde assolutamente nulla della
totalità di questo ‛mondo', che gli viene intenzionalmente appresentato e
dato. Tutti i significati coscienti, compresa ‛l'esistenza tra parentesi', restano
per lui al contrario pienamente disponibili fino nei loro minimi dettagli, solo
però in quanto cogitata, quali si offrono essi stessi nella loro datità
originaria (in Selbstgegebenheit). Fin dal 1907 Husserl deduce
coerentemente da questa dottrina che la sua fenomenologia filosofica,
superando largamente gli obiettivi possibili alla fenomenologia da lui
esposta nel 1901, è in grado di affrontare la problematica non solo di tutte le
regioni (Regionen) dell'universo umano, ma anche del mondo nella sua
totalità. Dopo il 1907 Husserl si dedica con determinazione all'elaborazione
di una serie di ‛ontologie regionali', e, fra l'altro, a una ‛ontologia generale'
di carattere del tutto peculiare (v. Husserl, 1929). In questo quadro egli
inizierà una fenomenologia dello spazio, del ‛proprio corpo' (Leib) e della
cosa materiale (v. Husserl, 1972), dell'anima (v. Husserl, 1952), degli atti
psicologici (v. Husserl, 19622; v. Holenstein, 1972), dell'intersoggettività (v.
Husserl, 1973), della società umana (v. Husserl, 1952), dell'etica (v. Roth,
1960), ecc. In una parola, dopo il 1907, le sue ricerche lo conducono,
lentamente ma sicuramente, verso una fenomenologia trascendentale che, a
suo modo di vedere, non è altro che la filosofia prima (v. Husserl, 1956-
1959). Se prima abbiamo detto che la fenomenologia filosofica mira a
ricostruire la genesi o la costituzione del mondo intenzionale, risulta ora che
l'obiettivo principale della fenomenologia trascendentale non è altro che
quello di riscoprire e di descrivere la storia intenzionale dei fenomeni puri e
del mondo ridotto al cogitatum qua cogitatum.
Ma, come ogni significato cosciente, il cogitatum ridotto o puro si
appresenta all'io, che ne diventa cosciente attraverso una propria attività.
Ampliando notevolmente la dottrina del 1901 sull'incidenza dell'attività
dell'Ego in ogni apprensione intenzionale, Husserl elabora dettagliatamente
tra il 1906 e il 1911 la dottrina, ora utilizzata dalla maggior parte dei
fenomenologi, della correlazione necessaria e universale, delle noesi (atti)
da un lato, e dei noemi (contenuti in quanto colti ‟im wie der Gegebenheit")
dall'altro. Questa dottrina, come tutta una serie di sue implicazioni, fu
inclusa nelle Ideen I (v. Husserl, 1950, pp. 216-312) e rimase determinante
in tutte le analisi successive.
Abbiamo più volte ripetuto che, per individuare le diverse tappe della
costituzione, il fenomenologo deve ricorrere a una ‛analisi intenzionale
genetica'. Quali sono allora i principî che regolano questa analisi, e in che
modo Husseri crede di poter motivare l'uso quasi universale di questo
metodo e garantirne il valore?
Il fulcro della dottrina husserliana al riguardo è la convinzione, acquisita
verso il 1901-1903, che il mondo intenzionale, quale lo scopriamo con la
riflessione nella coscienza, è ingombro di un'infinità di sedimenti significati-
vi, ivi depositati da precedenti atti costitutivi di senso. Ogni ricordo di tale
costituzione nella sua generalità si è perso ‛nella notte dei tempi'. La
maggior parte di questi atti stessi, lungi dall'essere noesi della soggettività
propria di ognuno (der je-meinigen Subjektivität), sono da attribuirsi alla
comunità intersoggettiva, soprattutto a quella delle innumerevoli
generazioni che ci hanno preceduto nella storia umana. Quest'ultimo tipo di
noesi, essendo scomparso nello scorrere del tempo, non può più,
evidentemente, essere percepito. Ma un gran numero di noemi, che a tali
noesi debbono la propria costituzione, permangono egualmente nascosti a
una considerazione riflessiva: si sono infatti completamente integrati in
sintesi significative formatesi nel corso del tempo. Pur essendo ancora
coscienti, questi noemi non sono più colti distintamente (sie sind bewusst
aber nicht mehr gewusst) e cadono quindi in un oblio quasi invincibile.
Tutte queste considerazioni portano Husserl alla conclusione che il mondo e
i fenomeni scoperti immediamente dalla riflessione, lungi dall'essere dei dati
intenzionalmente originari, in realtà non sono altro che i ‛prodotti finiti' di
una lunga storia, i cui attori con i loro atti sono scomparsi nel flusso
temporale, mentre i suoi elementi costitutivi sono sprofondati
nell'anonimato.
Queste noesi e questi noemi - evidentemente ‛non-originari' - che si offrono
direttamente ad una considerazione riflessiva, conservano nel loro stesso
significato, secondo Husserl, tracce facilmente identificabili della loro
costituzione intenzionale. In altre parole, si presentano come depositi di
storia intenzionale sedimentata (sedimentierte Geschichte). Con
un'appropriata analisi statica di questi dati noetici e noematici, il
fenomenologo può mettere a nudo in ciascuno d'essi elementi significanti
che rinviano a noesi e noemi anteriori. Ogni significato analizzato offre cioè
esso stesso i ‛fili conduttori' (Leitfäden) per ritrovare gli elementi
intenzionali dai quali deriva per costituzione sintetica. In tal modo, con i
suoi stessi risultati, un'analisi statica dà luogo ad un'analisi di tutt'altra
natura che, in quanto tende a riscoprire le costituzioni anteriori, può con
pieno diritto chiamarsi ‛genetica', mantenendo al contempo il carattere
‛intenzionale' in virtù dei procedimenti stessi che essa prescrive. Basandosi
sul dettagliato processo verbale fornito da quella statica, l'analisi genetica
segue in effetti metodicamente i fili conduttori che vi rintraccia, fino ad
enucleare in tal modo i significati intenzionali anteriori - sia noetici che
noematici - che dalle attività sintetiche dell'Ego non gli vengono presentati
se non in modo anonimo.
Da questa breve esposizione risulta evidente come tutto il metodo
husserliano dell'analisi genetica trovi la sua giustificazione teorica in una
sua tesi fondamentale, secondo la quale il significato intenzionale
immagazzina, nel suo contenuto cosciente, tracce di tutti i noemi e di tutte le
noesi che vi furono integrate al momento della sua costituzione e che, in
linea di principio, tutti questi elementi ‛anonimi' possono essere di nuovo
esumati, rivelati, rinvigoriti e oggettivati ‛discorsivamente'.
È appena il caso di dire che, secondo Husserl, le analisi sia statiche che
genetiche debbono essere effettuate su cogitata qua cogitata, cioè
sull'intenzionale, preliminarmente depurato per mezzo della già descritta
riduzione fenomenologica. La pratica sistematica dell'analisi genetica porta
però Husserl, già prima del 1910, a prescrivere al fenomenologo una
seconda ‛riduzione', considerevolmente diversa dalla prima che si limita a
rendere accessibili i significati puri. Procedendo nell'analisi genetica il
filosofo deve cioè lasciarsi guidare dall'imperativo metodico di ‛ridurre'
sistematicamente ogni costituito, già spogliato staticamente, alle noesi e ai
noemi che scopre come intenzionalmente integrati in esso, e quindi
‛anteriori'. Poiché di fatto tali noesi e noemi si rivelano come priores natura
e spesso come tempore priores rispetto all'intenzionale analizzato, essi
devono senz'alcun dubbio, secondo Husserl, essere considerati come più
‛originari'. Ed essendo in realtà i ‛costituenti' stessi, essi sono di fatto in
grado di fornire sia la vera spiegazione che il fondamento filosofico del
‛costituito' preso in esame. Obbligato a mettere a nudo le fonti intenzionali
del ‛costituito', il fenomenologo deve allora ‛ridurlo' agli atti e significati
anteriori che ne motivano la genesi. Questi dovranno a loro volta essere
sottoposti all'analisi genetica e essere anch'essi ridotti alle noesi e ai noemi
che li spiegano e li fondano. Questo processo di riduzione dovrà essere
effettuato reiteratamente - compito immane per intere generazioni di
fenomenologi, come afferma Husserl - fino a che i fondamenti estremi e
veramente ultimi siano analiticamente enucleati e messi a nudo. Da quanto
esposto appare chiaro come proprio in virtù di un'applicazione conseguente
e universale dell'analisi genetica, tutta la fenomenologia trascendentale sia
concepita da Husserl come una ‛filosofia riduttiva', il cui stile di pensiero e
la cui elaborazione sono in effetti completamente incentrati non solo sulla
riduzione al cogitatum puro, ma più ancora sulla riduzione intesa nei
secondo senso ora accennato. Secondo questa ‛filosofia riduttiva', dare una
spiegazione ultima del ‛mondo intenzionale' equivale a ridurre quest'ultimo
alle noesi e ai noemi autenticamente originari, in quanto geneticamente
primi.
Dal 1919 in poi, Husserl preferisce indicare i dati intenzionali, che considera
come assolutamente ‛primi', con il termine ‛trascendentale'. Benché sia
innegabile che egli abbia mutuato questo termine da Kant e dai neokantiani
di Marburgo, Husserl dà tuttavia a tale termine un significato totalmente
diverso (v. Kern, 1964). Utilizzandolo sempre più frequentemente negli anni
venti, egli si lascia guidare - e la cosa è particolarmente vera per questo
termine, carico di significati storici - da un'abitudine, contratta già prima del
1900, che caratterizza la sua terminologia personale. Poiché durante gli studi
universitari la sua formazione specificamente filosofica è stata abbastanza
povera, per non dire rudimentale, Husserl, nell'introdurre un termine nel suo
vocabolario personale, non si sente granché condizionato dai suoi significati
tradizionali. Per definirlo, più che ai testi classici dei suoi predecessori, egli
si rifà in genere ai significati che i migliori linguisti vi annettono in base
all'etimologia. È così che egli procede con il termine ‛trascendentale': pur
conservandogli varie caratteristiche kantiane, tutti i sensi che Husserl gli
attribuisce derivano dal significato etimologico della radice, cioè
‛trascendente'. Ora, questo aggettivo evoca in modo diretto ‛ciò che
oltrepassa ogni categoria'. Confrontando attentamente i significati, del resto
molto differenti, che Husserl attribuisce all'aggettivo ‛trascendentale' - da lui
quasi mai utilizzato come sostantivo -, e ben coscienti di andare leggermente
al di là di tutte le descrizioni esplicite che ne ha lasciato, possiamo
comprendere come, anche per questo termine, egli si lasci guidare innanzi
tutto dal suo senso etimologico. È chiaro, infatti, che Husserl accorda la
qualifica ‛trascendentale', nel suo significato primordiale, alle noesi e ai
noemi che ‛trascendono' tutte le categorie di ‛coscienza-di', esorbitandone a
tal punto che la riflessione le scopre in ogni atto intenzionale, di qualsiasi
natura esso sia. D'altra parte, per Husserl come per Kant, ciò che è
trascendentale opera come un a priori e anzi come l'a priori universale; di
conseguenza esso presiede senza eccezioni, essendo una delle condizioni
necessarie della loro possibilità, a ogni conoscenza e ‛coscienza-di'.
Tuttavia, contrariamente a quanto insegna la Critica della ragion pura,
questo trascendentale e questo a priori husserliani, lungi dal precedere
ontologicamente l'esperienza, operano all'interno stesso di ogni attività e di
ogni contenuto coscienti, e sono necessariamente presenti e appresentati in
essi. È proprio nell'esperienza - in un'esperienza però sui generis, da lui per
questo chiamata ‛trascendentale' - che quanto va chiamato ‛trascendentale',
come d'altronde tutto l'a priori, si rivela all'Ego riflessivo.
È noto che per Husserl l'Ego trascendentale, principio attivo di ogni
costituzione intenzionale, occupa il primo posto nella serie di quei termini ai
quali egli riferisce l'aggettivo ‛trascendentale'. Se la riduzione
fenomenologica elaborata nel 1907 nella prospettiva cartesiana, così come
l'abbiamo illustrata all'inizio di questo capitolo, stabilisce già la presenza
universale e necessaria dell'io in ogni coscienza noetica e noematica, dal
1910 in poi Husserl presenterà sotto la locuzione ‛riduzione
fenomenologica' una serie di procedimenti metodici (attraverso la via
ontologica, psicologica, ecc.; v. Kern, 1962) molto differenti dalla ‛via
cartesiana'. Benché essi approdino tutti all'io costituente, la ‛via maestra' che
porta all'Ego trascendentale nel suo significato più pieno e ricco resta
tuttavia la riduzione cosiddetta ‛trascendentale'. Quest'ultima, come Husserl
continuerà ad affermare negli ultimi quindici anni di ricerche, agisce come
motivazione ultima all'interno di tutte le altre ‛riduzioni' che abbiamo
ricordato.
Sempre negli stessi anni gli diviene sempre più evidente come questa
riduzione trascendentale, esercitata in tutta la sua ampiezza, non si limiti a
rendere accessibile al fenomenologo la sua propria soggettività (die je-
meinige Subjektivität), ciò che, nell'intento di fondare la costituzione
intenzionale, lo condannerebbe al solipsismo. Al contrario, la riduzione
trascendentale lo conduce inevitabilmente alla scopertà di una pluralità di
Ego costituenti, cioè ad un'intersoggettività di soggetti trascendentali; ed è
proprio questa comunità intersoggettiva (die transzendentale
Monadengemeinschaft) che costituisce in ultima analisi il principio
necessario e sufficiente della genesi intenzionale del mondo.
Questo ‛mondo', questa totalità strutturata, in cui tutti i dati coscienti, sia
possibili che vissuti, sono integrati, è un'altra realtà che Husserl qualifica
assai spesso come ‛trascendentale'. Così facendo non si riferisce però,
evidentemente, all'universo ‛esistente', quello che appare costantemente agli
occhi dell'uomo prigioniero dell'atteggiamento naturale. Il ‛mondo
trascendentale' non è altro che il mondo ridotto al suo significato puro, al
cogitatum qua cogitatum. È noto che, già nelle opere edite, Husserl ha
presentato una serie di concetti debitamente elaborati e differenziati,
riunendoli tutti sotto il termine generico di ‛mondo' (Welt). Egli distingue e
descrive per esempio il mondo storico, il mondo culturale, il mondo
scientifico e molte altre totalità dello stesso genere. La loro caratteristica
comune è che, per la regione da ciascuno di essi totalizzata, ognuno di questi
concetti assume il ruolo e la funzione - in quanto ‟inglobante, ma non
inglobato" (M. Merleau-Ponty) - di ‛orizzonte onnicomprensivo ultimo'
(letzter allumfassender Horizont). Naturalmente, sotto varie etichette,
Husserl si riferisce comunque a mondi preliminarmente ridotti al loro
‛essere-per-l'intersoggettività-cosciente' e cioè al loro ‛essere-per-me'. Se,
insieme alle caratteristiche regionali di questi differenti orizzonti mondani,
l'analisi ‛statica' ne mette in evidenza anche l'alquanto intricata
stratificazione, l'analisi genetica, dal canto suo, ne mette a nudo le
reciproche interdipendenze, le quali rivelano l'ordine che presiede alla loro
genesi intenzionale. I vari mondi coscienti, che Husserl distingue,
conservano tutti tracce indelebili che rinviano chiaramente alla terra feconda
da cui tutti sono intenzionalmente sbocciati. Nelle Ideen I, Husserl intravede
già chiaramente come la sua intenzione di fornire una spiegazione genetica
postuli un siffatto strato fondamentale. In quest'opera, ispirandosi in modo
trasparente alla terminologia proposta nel 1891 da R. Avenarius (v., 1891),
suggerisce che ‛il mondo naturale' (die natürliche Welt) potrebbe
eventualmente adempiere a questa funzione. Tuttavia, poiché in questo
contesto utilizza lo stesso termine per indicare l'integrazione di tutto ciò che
nell'atteggiamento naturale l'io pone come esistente, il suo suggerimento
piuttosto ambiguo del 1913 non poteva resistere alla critica. Ritornando
continuamente su questa problematica, la ricerca spinge Husserl ad
elaborare, tra il 1925 e il 1930, la dottrina, divenuta in seguito celebre, del
‛mondo della vita' o del ‛mondo quotidiano' (Lebenswelt). Quest'ultimo,
contrariamente ad un'interpretazione abbastanza diffusa in Francia e negli
Stati Uniti, non è affatto concepito da Husserl come l'universo concreto dei
dati empirici della nostra vita di ogni giorno. Questo ‛mondo quotidiano',
pur essendo intrinsecamente presente in ogni altro orizzonte mondano e in
ogni dato intenzionale, non è mai presente alla nostra coscienza come un
insieme separato o chiuso in se stesso. I rinvii presenti in ogni coscienza
significante lo rivelano come lo strato intenzionale assolutamente ultimo
che, geneticamente, costituisce la fonte di tutti i significati che gli altri
mondi comportano.
Dopo quanto abbiamo già detto circa i fini dell'analisi genetica, dovrebbe
essere chiaro perché, per risolvere i problemi suscitati dai diversi mondi
summenzionati, Husserl prescriverà al fenomenologo di spiegarne la genesi
partendo dal mondo quotidiano; unicamente in questo modo egli potrà
realmente ‛mostrare' (aufzeigen) i fondamenti della loro costituzione
intenzionale. In altre parole, Husserl riteneva necessaria la ‛riduzione'
(intesa nel secondo dei sensi illustrati in precedenza) di ogni altro universo
mondano al ‛mondo quotidiano'. Di conseguenza, dopo il 1930, nelle ultime
ricerche vertenti sulla sua filosofia del mondo, l'aggettivo ‛trascendentale'
nel suo senso più autentico sarà sempre più riservato al solo mondo
quotidiano. Quest'ultimo, egli afferma, è universalmente presente a priori in
ogni attività costituente, sia in quella dell'Ego che in quella della comunità
intersoggettiva.
La ‛temporalità' (die Zeitlichkeit) così come il tempo stesso che, secondo
Husserl, regolano totalmente sia gli atti dei soggetti trascendentali che il
mondo appresentato alla coscienza, occupano anch'essi un posto di rilievo
nell'elenco dei concetti da lui qualificati con l'aggettivo ‛trascendentale'.
Riprendendo già prima del 1898 le ricerche relative al tempo, in voga presso
quasi tutti i discepoli di Brentano, Husserl vi integra, verso il 1905, i primi
risultati della fenomenologia recentemente scoperta (v. Husserl, 1966, pp. 3-
98). Ben presto queste analisi lo portano ad isolare la struttura di base di
ogni coscienza interiore del tempo (das innere Zeitbewusstsein), che tratterà
dopo il 1910 servendosi dei neologismi ‛ritenzione' (Retention) e
‛protensione' (Protention). Inoltre, già nel 1905 Husserl rileva e sottolinea
che questa struttura, come del resto anche il ricordo (Erinnerung) e la
rimemorazione (Wiedererinnerung; Reproduktion), svolgono un ruolo
capitale non solo nella costituzione della durata (Dauer), ma anche in ogni
oggettivazione operata dalla coscienza (ibid., pp. 40-73). Ma è solo verso il
1910 che Husserl colloca la temporalità e la temporalizzazione nel cuore
stesso dell'io, rendendosi conto che il tempo ne costituisce la struttura di
base. Il tempo, in effetti, regola il flusso della coscienza stessa, ed è
parimenti la condizione di possibilità del ritorno riflessivo dell'io sulle sue
attività (v. Husserl, 1950, pp. 80-82).
Poco dopo il 1920 queste prime tesi portano Husserl a scoprire che la
temporalità, condizionando completamente l'evoluzione interna dell'io
trascendentale, non è altro che il quadro formale che regola a priori sia lo
svolgersi della genesi intenzionale sia la dialettica intrinseca a ogni
costituzione operata dal soggetto. Ma in questi stessi anni, e cioè tra il 1918
e il 1923, riprendendo le analisi di tutti i fenomeni relativi al tempo e alla
costituzione dell'identità individuale che l'esperienza (die Erfahrung) ci
appresenta, e partendo dai risultati riguardanti il tempo interno, Husserì
individua meglio le tappe successive della formazione del ‛tempo oggettivo'
(objektive Zeit), che nella comunità costituente delle monadi
(Monadengemeinschaft) è anche il ‛tempo intersoggettivo'. Per questa via
Husserl scopre che il tempo oggettivo determina dall'interno ogni
oggettivazione intenzionale - tramite l'intersoggettività dei soggetti
trascendentali - di unità ‛trascendenti' e individuali che, grazie agli habitus
(Habitualitäten) dell'io, restano disponibili e possono essere percepite, nel
variare del flusso temporale, come rigorosamente ‛identiche' (identisch).
Dalla fine degli anni venti in poi, senza dubbio per l'influenza, anche se
indiretta, della problematica heideggeriana di allora, Husserl preferisce
indicare il ‛tempo interno' con la locuzione ‛flusso temporale' (Zeitfluss),
che già utilizzava in questo contesto da circa vent'anni, senza però attribuirle
un senso strettamente tecnico. Per descrivere il tempo interno, negli ultimi
anni di ricerche si serve inoltre continuamente del verbo ‛scorrere' (strömen)
e dei suoi derivati (Strom, verströmen, ausströmen), sebbene la locuzione
Erlebnisstrom usata in Ideen I quasi scompaia dai testi. Dopo il 1930 - in
parte per arginare l'influenza delle dottrine del suo successore a Friburgo,
almeno come vengono da lui comprese - preferisce definire l'io
trascendentale con l'espressione lebendig strömende Gegenwart. Da quanto
abbiamo detto circa il tempo, appare chiaro che negli ultimi vent'anni di
ricercheHusserl è convinto che la ‛temporalità', la ‛temporalizzazione'
(Verzeitlichung) e il tempo stesso siano necessariamente presenti in ogni
atto intenzionale. È logico quindi che egli li qualifichi d'ora in poi con
l'aggettivo ‛trascendentale'.
Questo quadro sintetico delle tesi essenziali della fenomenologia
trascendentale ci permette di constatare che, secondo Husserl, fondare
filosoficamente la genesi del mondo intenzionale comporta per il
fenomenologo i procedimenti seguenti: a) la riduzione del mondo nella sua
totalità all'intenzionale puro; b) la successiva riduzione di questo mondo
depurato ai suoi ultimi fondamenti intenzionali per mezzo dell'analisi
genetica; c) la descrizione - in toto ac in partibus - delle tappe della
costituzione di tale mondo operata dalla comunità dei soggetti trascendentali
e, in ultima analisi, dell'io trascendentale.

5. Diffusione della fenomenologia pura (1905-1972)


La maggior parte dei pensatori contemporanei che si presentano come
fenomenologi, o le cui pubblicazioni, in misura più o meno larga, rientrano
nella corrente detta fenomenologica, si limitano a riprendere dal complesso
dell'eredità dottrinale di Husserl un gruppo particolare di tesi, e cioè quelle
da noi trattate (v. sopra, cap. 3) sotto la denominazione di ‛fenomenologia
pura'. Molto significativamente, essi affermano spesso di riprendere da
Husserl solo un metodo; ciò facendo essi sono ben convinti non solo di
potersi a buon diritto considerare come veri e propri fenomenologi, ma
anche di accogliere realmente, se non tutto l'essenziale, almeno la parte
veramente valida delle dottrine husserliane. Ma, se è certo erroneo sostenere
che essi ricorrano esclusivamente ai procedimenti metodici precedentemente
descritti (v. sopra, cap. 3) sotto l'etichetta di fenomenologia ‛abbreviata', è
però innegabile che nella stragrande maggioranza si limitano a elaborare
analisi e descrizioni fenomenologiche che, in tutto o in parte, Husserl
avrebbe definite ‛statiche'.
Questa considerazione di carattere generale è già valida per la maggior parte
dei lavori pubblicati prima del 1917 dai discepoli diretti di Husserl a
Gottinga, come del resto per parecchi degli studi che furono pubblicati
sull'organo della sua scuola, lo ‟Jahrbuch", tra il 1913 e il 1929. Abbiamo
già passato in rassegna (v. sopra, cap. 2) i principali studiosi di questi
gruppi, segnalando anche alcuni filosofi di Monaco, discepoli di Theodor
Lipps, che dal 1904 adottarono l'essenziale del metodo utilizzato da Husserl
nelle Logische Untersuchungen. Se alcuni di essi, come A. Pfänder e R.
Ingarden, s'impegnarono risolutamente in ricerche genetiche, in quasi tutti i
loro lavori questo motivo è percebile solo limitatamente ed è comunque
largamente eclissato dall'interesse originario e più diretto per le analisi e
descrizioni ‛statiche' dei fenomeni presi in esame, e in particolare per le loro
essenze.
Se questa constatazione abbastanza sorprendente si può spiegare almeno in
parte con l'assenza - rilevata e spesso deplorata da vari alunni di Husserl -
della possibilità di un dialogo aperto ed effettivo con lui, i notevolissimi
adattamenti subiti dal messaggio husserliano sono meglio chiariti tenendo
conto anche degli interessi reali prevalenti in quegli anni fra i suoi discepoli.
Abbiamo già notato (v. sopra, cap. 2) che non pochi si erano messi al
seguito di Husserl con la speranza di trovare nella fenomenologia nascente
non solo un metodo critico per fondare una conoscenza valida del reale
esistente, ma anche un antidoto contro il predominante idealismo
neokantiano. Fu proprio questa speranza a determinare in gran parte la loro
interpretazione della sua dottrina. Inoltre, fin dal 1905 il gruppo di Monaco
dei ‛discepoli infedeli di Lipps' (die ‛abtrünnigen' oder ‛rebellierenden'
Lipps-Schüler!) era molto incline ad accordare agli eide husserliani
un'esistenza ‛ideale' in un ‛mondo delle essenze' di tipo neoplatonico. Infine,
soprattutto a Gottinga, la profondissima influenza esercitata dal 1905 e
ancor più dopo il 1909 da A. Reinach sulla maggior parte dei discepoli
diretti di Husserl portava questi ultimi a limitarsi rigorosamente ad una
fenomenologia descrittiva di tipo statico (v. Spiegelberg, 19652, vol. I, pp.
197-201). E lo stesso Reinach - che, dopo aver conseguito il dottorato con
Lipps nel 1904 a Monaco, seguì a Gottinga vari corsi di Husserl, prima di
sostenervi nel 1909 la sua Habilitation alla docenza - si oppose,
rispettosamente ma fermamente, ad ogni formulazione di una dottrina della
costituzione intenzionale che tradisse il benché minimo sentore d'idealismo.
Ora, gli allievi più dotati di Husserl a Gottinga, nel periodo tra il 1909 e il
1914, affermano quasi concordemente che Reinach era considerato come
l'iniziatore ‟per eccellenza" di chi volesse essere introdotto negli arcani della
nuova dottrina (ibid., p. 195). In realtà, certo senza esserne pienamente
cosciente, questo giovane maestro, insegnante eccezionalmente dotato,
faceva spesso da schermo tra i discepoli e quel maestro piuttosto isolato che
era Husserl. Comunque sia, è innegabile che, almeno temporaneamente, la
sua influenza abbia reso in parte inoperante la filosofia genetica e costitutiva
cui Husserl stava dando corpo tra il 1907 e il 1916, ed abbia invece
contribuito tanto più fortemente al costituirsi di una fenomenologia
incentrata sulla descrizione delle essenze.
Delle Logische Untersuchungen e dei corsi tenuti da Husserl a Gottinga
Reinach conserva, in realtà, solo un metodo analitico di ricerca. Questo
metodo, se richiede in chi lo pratica un atteggiamento particolare,
storicamente del tutto originale, tuttavia non conduce affatto ad un vero
sistema filosofico. Pur affermando la sua particolare validità per il filosofo,
Reinach considera la fenomenologia esclusivamente come un procedimento
metodico. Se il metodo implica una riduzione, quest'ultima, mentre impone
al ricercatore di fare astrazione da ogni fatticità e dall'esistenza, lo obbliga
solamente a considerare con la riflessione l'essenza stessa dei fenomeni da
descrivere. Tuttavia, consentendoci uno sguardo intuitivo sulla quiddità e
quindi sulla natura stessa delle essenze, l'analisi ci permette anche di
individuare le loro connessioni (die Wesenszusammenhänge) e le leggi
interne (die Wesensgesetze) che le regolano. Queste ultime da un lato
delimitano le ‛necessità essenziali' che discendono dalle strutture intrinseche
degli eide e, dall'altro, ci rivelano le loro ‛possibilità essenziali' (v. Reinach,
1951; v. Spiegelberg, 19652, vol. I, pp. 197-199). È evidente che, in tale
contesto, non vi era posto per una spiegazione genetica dei fenomeni
intenzionali presi in esame e, fatto più gravido di conseguenze, si giungeva
così all'eliminazione quasi totale della stessa problematica della genesi e
della costituzione.
Possiamo fondatamente affermare che prima del 1916, e anche molto dopo,
non pochi fenomenologi della prima generazione si ispirarono - per la
determinazione sia della loro problematica che del metodo e delle soluzioni
- molto più alle concezioni di Reinach che non a quelle del capo ufficiale
della scuola. Già a Gottinga questo fu senza dubbio il caso, almeno per
quanto riguarda i primi lavori e le prime pubblicazioni, di P. F. Linke, Th.
Conrad, W. Schapp, H. Martius, D. von Hildebrand, H. Lipps, J. Hering e
anche di E. Stein (v. Spiegelberg, 19652, vol. I, pp. 218-225). La stessa
constatazione vale, grosso modo, per quel piccolo gruppo di psicologi di
Gottinga, discepoli di G. E. Müller che, influenzati da Husserl e dai suoi
primi seguaci, impiantarono ricerche - sperimentali e non sperimentali - che,
in buona fede ma non sempre con cognizione di causa, presentarono come
fenomenologiche. Tra gli psicologi dai cui scritti (in particolare quelli
precedenti il 1920) è possibile rilevare un attento studio di Husserl e/o dei
suoi primi seguaci, possiamo menzionare G. Révész, E. Jaensch, D. Katz e
anche E. Rubin (v. Spiegelberg, 1972, pp. 40-57).
È stato già più volte ricordato che un buon numero di questi fenomenologi
di Gottinga - specie fra i transfughi da Monaco - tendeva a interpretare
l'eidetica husserliana in funzione di un'ontologia platonica o neoplatonica,
per fornire in tal modo un fondamento metafisico alle proprie descrizioni di
essenze. Tale tendenza è già chiaramente rilevabile negli studi
fenomenologici di Martius, di von Hildebrand e di Stein; quelli di Hering
sono volti esclusivamente a mostrare e a esplicitare i legami intrinseci tra
una siffatta ontologia e l'eidetica husserliana (v. Spiegelberg, 19652, vol. I,
pp. 220-224).
Se prima del 1920 e nell'ambiente vicino ad A. Pfänder i principî metodici -
che abbiamo ora descritto attribuendoli, con lieve semplificazione della
realtà storica, al solo Reinach - dominarono quasi tutti i lavori della ‛scuola
fenomenologica di Monaco', è vero anche che in tutte queste ricerche si
avverte la preoccupazione - fondamentale per lo stesso Pfänder - di scoprire
parimenti la genesi, anche se puramente psicologica, dei fenomeni presi in
esame.
Prima del 1914 Pfänder concepisce la fenomenologia come parte integrante
della psicologia, che intendeva a quel tempo come psicologia
‛comprendente' (verstehende Psychologie). Studiando i dati psichici e
utilizzando un metodo ‛soggettivo' - che stabilisce esplicitamente come
retrospettivo piuttosto che introspettivo - egli respinge ogni spiegazione di
questi dati che ricorra ai fenomeni fisici o fisiologici che li accompagnano.
Dopo aver accuratamente inventariato e descritto ciò che l'intuizione (die
Erschauung) ci rivela circa gli atti e contenuti intenzionali, il fenomenologo
deve enuclearne le strutture essenziali. Quindi, con analisi e successive
sintesi, dovrà chiarire come questi diversi atti e contenuti si rapportino gli
uni agli altri. In tal modo la loro interdipendenza sarà chiarita e, grazie ad
essa, il fenomenologo potrà individuare il processo genetico che essi hanno
dovuto necessariamente percorrere. Pfänder era pienamente cosciente del
fatto che i metodi da lui praticati prima del 1914 erano del tutto insufficienti
per le esigenze di un filosofo che fosse alla ricerca dei fondamenti ultimi.
Per forza di cose, una siffatta fenomenologia non può in realtà aspirare,
secondo lui, che a una funzione strettamente propedeutica. Proprio questa
convinzione spinge Pfänder dopo il 1914, anche per l'influenza delle Ideen I,
ad abbozzare come Husserl una fenomenologia che possa pretendere di
fornire spiegazioni veramente ultime. Divergendo tuttavia da Husserl
quando si tratta di definire la ‛riduzione fenomenologica' come via di
accesso al campo specifico della riflessione filosofica, Pfänder rifiuta di
impegnarsi in studi genetici di tipo husserliano. In seguito, sia la
fenomenologia trascendentale e la costituzione per opera dell'io, sia,
soprattutto, l'idealismo husserliano resteranno per lui lettera morta. La
filosofia fenomenologica di cui Pfänder, dal canto suo, diede dopo il 1920
un abbozzo piuttosto che un'elaborazione trae ispirazione dalla sua dottrina
sulla natura e sul ruolo fondamentale della percezione. Queste dottrine lo
portano in modo affatto naturale a elaborare un'antropologia ontologica che
ha per nucleo centrale la sua concezione dell'uomo (v. Spiegelberg, 19652,
vol. I, pp. 173-193 e 1972, pp. 13-15). Che i suoi allievi più dotati e più
fedeli, come ad esempio G. Walther e soprattutto H. Spiegelberg, continuino
a concepire restrittivamente la fenomenologia come un ‛metodo' (v.
Spiegelberg, 19652, vol. II, pp. 655-701) può senza dubbio essere
interpretato come una prova a posteriori della loro insoddisfazione riguardo
alla ‛fenomenologia filosofica' di Pfänder.
Il geniale ma turbolento Max Scheler occupa un posto a sé nella lista dei
primi seguaci tedeschi della fenomenologia. Formatosi a Jena con Rudolf
Eucken, fa il suo esordio nelle file neokantiane. Ma in seguito, spinto dalla
sua passione per la comprensione dell'uomo e per il fondamento dei valori
umani, si distacca da questa corrente, che nella scuola di Marburgo da lui
frequentata s'interessa troppo esclusivamente, a suo avviso, dei fondamenti
filosofici del mondo materiale quale ci viene presentato dalle scienze nel
razionalismo matematico. Verso il 1901 decide di porsi alla ricerca di una
spiegazione in profondità delle scienze umane (Geisteswissenschaften),
intese nel senso più lato. Poco dopo, a Monaco, studia a fondo le Logische
Untersuchungen e subito si convince che il metodo fenomenologico, e in
particolare l'eidetica husserliana, sono perfettamente idonei alla soluzione
dei problemi antropologici e soprattutto etici che lo inquietano. Tra il 1907 e
il 1913, grazie alla sua eccezionale capacità d'analisi, elabora una serie di
descrizioni - eidetiche e non eidetiche - sia di fenomeni affettivi sia di
fenomeni più direttamente in relazione ai valori morali. Al momento della
loro pubblicazione, nel 1913, queste analisi estremamente ricche furono
considerate a buon diritto come veri e propri modelli di ricerca
fenomenologica. Anche se spesso Scheler nei suoi studi si lascia volentieri
andare a considerazioni sulla genesi dei fenomeni analizzati, il suo interesse
primario va alle descrizioni statiche. Cosa che, del resto, i suoi svariati
lettori e discepoli - P.L. Landberg fra gli altri - e anche i suoi interpreti
hanno compreso perfettamente. Apparso nei due primi volumi (1913 e 1916)
dello ‟Jahrbuch" curato da Husserl, Der Formalismus in der Ethik und die
materiale Wertethik è senza alcun dubbio, assieme al brillante studio Wesen
und Formen der Sympathie, il lavoro fenomenologico di Scheler che ha
lasciato tracce più profonde. Contrario, per temperamento e per la sua
passione per tutti i problemi umani e culturali, ad ogni fondazione formale
di stile kantiano dell'etica, in questo lavoro egli parte dall'esperienza
fenomenologica (die phänomenologische Erfahrung) per descrivere
concretamente sia le cose che consideriamo buone (die Güter) sia i valori
(die Werte). ‛Riempite' (erfüllt) così le strutture formali dell'a priori
kantiano, Scheler corona questo monumentale lavoro sull'etica materiale dei
valori con la dottrina, giustamente celebre, della persona (die Person),
dando così vita nella fenomenologia contemporanea ad una vera e propria
corrente, il ‛personalismo', che ebbe una risonanza tutta particolare presso i
pensatori neoscolastici e i teologi delle varie confessioni. Dopo la morte
improvvisa di Scheler nel 1928, le sue cospicue analisi e descrizioni
fenomenologiche nulla persero della loro attualità, e tuttavia il fatto che i
lavori metafisici cui lavorava al momento della morte fossero rimasti
incompiuti frenò per più di trent'anni la penetrazione del suo retaggio
spirituale. Quando, nel 1954, si intraprese la pubblicazione di tutte le sue
opere (v. Scheler, 1954 ss.), la sua influenza sul pensiero contemporaneo
ricominciò a farsi sentire. Ma, come conseguenza della pubblicazione
postuma di diversi lavori fino ad allora inediti, gli ultimi interpreti, pur
sottolineando il valore delle analisi statiche che Scheler ci ha lasciato,
sembrano essere più direttamente interessati alla sua dottrina personalistica e
ai suoi ultimi saggi metafisici (v. Dupuy, 1959; v. Frings, 1969; v. Hammer,
1972).
Abbiamo già parlato della tendenza, avvertibilissima a Gottinga, ad
attribuire alle essenze husserliane uno statuto ontologico analogo a quello
delle idee platoniche. Tra i fenomenologi tedeschi della prima generazione,
è senza dubbio N. Hartmann quello che di fatto ha appoggiato in modo più
chiaro le sue numerose analisi fenomenologiche su di un'ontologia di tipo
platonico. Formatosi con H. Cohen e P. Natorp, i capi della scuola
neokantiana di Marburgo, in seguito alle ricerche su alcuni problemi della
conoscenza intraprese intorno al 1912 egli si convinse che solamente
l'ontologia e la metafisica possono fornire alla filosofia un fondamento
ultimo. Apprezzando grandemente il valore delle descrizioni eidetiche di
Husserl e più ancora di quelle di Scheler - che in modo estremamente
significativo egli interpreta come un ‛volgersi all'oggetto' (Wende zum
Objekt) - verso il 1920 Hartmann decide di adottare anch'egli questo
metodo. Ma, rifiutando di impegnarsi sia nella filosofia riduttiva di Husserl
sia nella metafisica personalistica di Scheler, incorpora le proprie
descrizioni di essenze in un'ontologia dell'essere ideale o spirituale (ideales
oder geistiges Sein). Alle idee di questo tipo, soprattutto a quelle che sono a
fondamento delle matematiche e dei vari valori umani, Hartmann attribuisce
un'esistenza reale e oggettiva. Dopo il 1921, egli precisa e concreta lo
statuto ontologico di queste essenze in una serie impressionante di lavori
sulla conoscenza stessa (1921), sull'etica (1925), sulla natura (1940) e
sull'estetica (1945). Infine, in un libro pubblicato già nel 1933 con il titolo
Das Problem des geistigen Seins, esamina nella loro totalità i problemi posti
dalla specifica esistenza che egli attribuisce ai dati spirituali (v. Spiegelberg,
19652, vol. I, pp. 358-391; v. Ziegenfuss, 1949-1950, vol. I, pp. 454-471).
Nei paesi di lingua tedesca l'opera di Hartmann, cospicua anche per lo stile,
ha lasciato pochissime tracce evidenti, tranne che negli ambienti teologici,
ma le sue dottrine ebbero una risonanza notevole in America Latina, in
Belgio e in Olanda. In quest'ultimo paese fu E. De Bruyne, professore a
Gand, che si ispirò in larga misura alle analisi eidetiche di Scheler prima e di
Hartmann poi per i suoi lavori fenomenologici sull'etica e l'estetica.
Roman Ingarden, benché avesse fatto parte, tra il 1912 e il 1918, del nucleo
dei discepoli di Husserl a Gottinga e a Friburgo, e in seguito fosse stato
considerato da questi come un intimo amico (v. Husserl, 1968), a causa delle
vicende politiche del suo paese (la Polonia) rimase isolato, spesso per anni,
dagli altri centri di studi fenomenologici. In seguito il suo isolamento fu
ancora maggiore, dal momento che in Polonia l'interesse dei suoi colleghi,
negli anni successivi al 1920, era incentrato piuttosto su problemi di logica e
di filosofia della scienza. Pur riprendendo dal suo maestro tutta una serie di
procedimenti metodici, soprattutto nelle molteplici analisi dei fenomeni
estetici, Ingarden rifiutò categoricamente di ammettere la necessità della
riduzione fenomenologica e si oppose quindi costantemente alla dottrina
della costituzione intenzionale, all'idealismo husserliano ed alla
fenomenologia trascendentale. Quel rifiuto e quell'opposizione furono in
parte all'origine di un'opera in 3 volumi, pubblicata dapprima in polacco e
poi, nel 1964-1965, in tedesco con il titolo Der Streit um die Existenz der
Welt. Sia nei numerosi lavori sull'estetica, meritatamente apprezzati, che in
quest'ultima opera, Ingarden presenta un'ontologia molto dettagliata e del
tutto originale, che rivela come le sue soluzioni particolari, anche se
permeate di pensiero classico, siano imperniate su una filosofia della
monade umana (v. Tymieniecka, 1957; v. Połtawski, 1972).
È opportuno segnalare, sia pure brevemente, l'influenza che la
‛fenomenologia pura' di Husserl, come anche i numerosi lavori degli autori
or ora ricordati, hanno esercitato sia su diversi psicologi della scuola che
Oswald Külpe dirigeva a Würzburg (tra il 1894 e il 1909) sia sui fondatori
della cosiddetta ‛psicologia della forma' (Gestaltpsychologie). Fin dal 1906,
alcuni collaboratori di Külpe studiano attentamente le Logische
Untersuchungen, e già nel 1908 uno degli esponenti più in vista, A. Messer,
pur rifiutando - al pari di Husserl - lo psicologismo, utilizza ampiamente la
dottrina dell'intenzionalità e il metodo analitico di quest'ultimo nell'esame
psicologico della percezione, dell'astrazione e del giudizio. Già a Würzburg,
K. Bühler si servì della succitata opera di Husserl come testo-guida per i
suoi studi sperimentali sul pensiero e, in seguito, definì ‛ricerche
fenomenologiche' i suoi lavori originali sul colore e sul linguaggio. Nei suoi
ulteriori scritti sulla forma (Gestalt) e sui fondamenti filosofici della
psicologia, infine, egli sottolinea sempre ciò che lo accomuna a Husserl ed
alla fenomenologia (v. Spiegelberg, 1972, pp. 57-67). Nei loro primi lavori
sull'importanza della struttura o della forma (die Gestalt) nella psicologia
della percezione, sia M. Wertheimer che K. Koffka e W. Köhler mostrano,
con i continui rinvii ai fenomenologi, di tenere in grande considerazione le
descrizioni analitiche di Husserl e dei suoi discepoli. Non v'è certo bisogno
di sottolineare che nessuno di questi psicologi si impegnò in analisi
propriamente ‛genetiche' in senso husserliano, come del resto nessuno fece
propria la filosofia riduttiva e, ancor meno, la fenomenologia trascendentale
del maestro (ibid., pp. 57-83). Lo stesso valga per l'opera monumentale,
piena di analisi eccellenti, con cui il brillante fenomenologo olandese F.J.J.
Buytendijk ha arricchito il pensiero contemporaneo (ibid., pp. 281-300) e
anche per i lavori d'ispirazione fenomenologica di K. Goldstein e di E.
Strauss (v. Goldstein, 1971).
Per completare il quadro della diffusione, prima del 1935, della
fenomenologia pura fra gli studiosi di psicologia dei paesi di lingua tedesca,
è opportuno in questo contesto menzionare l'utilizzazione, da parte di alcuni
specialisti di psicopatologia, ditemi - specialmente metodologici -
husserliani e, più ancora, scheleriani. Se già nel 1914 W. Specht sosteneva
la necessità che questa scienza ai primi passi presupponesse una filosofia
fenomenologica intesa in senso scheleriano, è noto che fu Karl Jaspers,
proprio all'inizio della sua celebre Allgemeine Psychopathologie (1913), a
porre la fenomenologia al centro delle sue concezioni metodiche. La
fenomenologia, egli notava, ci pone di fronte ad una massa di frammenti del
reale vissuto psichico (Bruchstücke des wirklich erlebten Seelischen) e,
tramite un'analisi descrittiva di questi elementi, ci porta ad una
comprensione statica (statisches Verstehen). Perché siano veramente fondate
da un punto di vista scientifico, queste descrizioni dovranno tuttavia essere
completate da una psicopatologia comprendente (verstehende
Psychopathologie); solo quest'ultima, dando accesso alla comprensione
genetica (genetisches Verstehen), permetterà di raggiungere in tali campi le
fonti veramente ultime della nostra conoscenza (die letzten
Erkenntnisquellen). Benché per questa dichiarazione di principio Jaspers sia
stato in seguito considerato e salutato come uno dei maestri della
fenomenologia tedesca, in realtà i suoi interessi personali e le ricerche
intraprese lo allontanarono progressivamente, a partire dall'inizio degli anni
venti, dagli altri fenomenologi (v. Spiegelberg, 1972, pp. 92-97 e 171-192).
Sempre in Germania, solo K. Schneider, W. Mayer-Gross e pochi altri
psichiatri di questa generazione si ispirarono, nei loro studi apparsi prima
del 1935, a tesi e suggestioni propriamente fenomenologiche, il più delle
volte derivate da Scheler. Dal 1930 però, anche nelle dottrine presentate
come fenomenologiche, è chiaramente percepibile un'impronta di origine
heideggeriana (ibid., pp. 97-101). Questo rilievo, valido in qualche misura
anche per il già ricordato E. Strauss, si attaglia in pieno all'opera di L.
Binswanger e a quella degli psichiatri che ne ripresero le dottrine. Ma su
questo punto torneremo più avanti. Infine, tra il 1920 e il 1950 gli psichiatri
olandesi - come I. van der Hoop, H. Rümke, L. van der Horst e altri - che,
influenzati da Buytendijk e soprattutto da Jaspers, hanno adottato metodi
fenomenologici, vi ricorrono tutt'al più per analisi e descrizioni statiche
(ibid., pp. 111-114). Lo stesso si può dire di alcuni psicologi e psichiatri
nordamericani che, prima del 1950, ricorrono al cosiddetto
phenomenological approach nell'affrontare vari problemi, sperimentali e
non sperimentali. Tra essi ricordiamo D. Snygg e C. Rogers (ibid., pp. 142-
157).
La Russia fu il solo paese (ad eccezione della Germania) in cui, già prima
del 1914, la fenomenologia delle Logische Untersuchungen avesse una
cospicua risonanza. Fin dal 1904, diversi giovani filosofi russi seguirono per
uno o piu semestri le lezioni di Husserl a Gottinga. Già nel 1906 N. Losskij,
uno degli esponenti più in vista della corrente dell'‛intuizionismo' in Russia,
riconosce il contributo che la fenomenologia husserliana può dare alla
fondazione di una filosofia basata sull'intuizione. E nel 1909 un tal E.A.
Bernstejn pubblicò a Pietroburgo, con prefazione di Simon Frank, il celebre
pensatore ortodosso di Mosca, una traduzione russa dei Prolegomena, il
volume introduttivo alle Logische Untersuchungen. Sempre in Russia, G.
Špet, già membro del circolo dei fenomenologi a Gottinga, faceva parte del
gruppo che prese l'iniziativa di pubblicare in russo tutti i numeri
dell'importante periodico tedesco ‟Logos", apparso a Tubinga quello stesso
anno a cura di G. Mehlis. In tal modo l'articolo Die Philosophie als strenge
Wissenschaft, che Husserl pubblicò nel 1911 in quel periodico, era
disponibile nella versione russa fin dal 1912. Lo stesso Špet, tra il 1908 e il
1916, fu molto probabilmente il principale propagatore e promotore delle
concezioni, sia metodologiche che non metodologiche, della nuova
fenomenologia. Personalmente egli s'interessava soprattutto alle soluzioni
gnoseologiche esposte nella sesta ricerca delle Logische Untersuchungen.
Ma è in parte grazie al suo proselitismo che i logici russi della scuola
cosiddetta ‛trascendentale' studiarono a fondo quest'opera e in particolare la
ricerca sulla ‛teoria degli interi e delle parti' (3a ricerca) e quella sulla
‛grammatica pura' (4a ricerca). Tramite questi logici e lo psicologo G.
Čelpanov le suddette due ricerche logiche esercitarono verso il 1915
un'influenza ben individuabile sui fondatori del Circolo linguistico di
Mosca, che per primi applicarono l'interpretazione ‛formalista' sia alla teoria
dei generi letterari che a quella delle strutture della lingua. Tra costoro R.
Jakobson è senza dubbio colui che risente più chiaramente dell'influenza
husserliana.
Nel frattempo, alcuni specialisti di letteratura avevano fondato a
Pietrogrado, per impulso di O. Brik, una società per lo studio formalista del
linguaggio poetico, che divenne presto celebre con il nome di Opojaz. Verso
il 1916 i membri di questa società organizzarono scambi regolari con il
gruppo dei formalisti di Mosca, e quindi la loro attenzione fu presto attratta
dall'opera husserliana. Nel 1920, con l'emigrazione di Jakobson a Praga, il
formalismo russo trova anche qui seguito tra i giovani. In questa città,
infatti, l'insegnamento di A. Marty, il filosofo del linguaggio alunno di F.
Brentano, aveva lasciato non poche tracce. Inoltre, un gruppo nutrito di
teorici ben dotati, vicini al linguista V. Mathesius, elaborava ricerche
avanzate sia sulla lingua che sui generi letterari. Fu proprio in tale ambiente
che, tra il 1920 e il 1938, Jakobson incluse parecchie tesi caratteristiche
della ‛fenomenologia pura' (v. sopra, cap. 3) nel corpo dottrinale dello
strutturalismo linguistico e letterario, da lui elaborato sviluppando il
‛formalismo' di origine russa. Ciò facendo egli utilizza anche i risultati delle
ricerche sulla lingua (die Sprache) che lo psicologo K. Bühler, da noi già
ricordato, andava progressivamente elaborando tra il 1920 e il 1933, mentre
era professore a Vienna. Anche il filosofo russo D. Čizenskij, allievo di
Husserl a Friburgo, diede il suo contributo fenomenologico ai lavori di
questo gruppo, che in seguito, con il nome di Circolo di Praga, acquisì una
solida fama negli ambienti linguistici. Con l'invasione della Cecoslovacchia,
nel 1939, Jakobson fu costretto a lasciare Praga e, dopo un soggiorno di tre
anni nei paesi scandinavi, si recò nel 1942 negli Stati Uniti. Qui egli, oltre
allo strutturalismo di proprio conio, divulgò, fra i teorici della letteratura
come tra i linguisti, alcune descrizioni di netta impronta fenomenologica (v.
Erlich, 19693; v. Broekman, 1971).
Per completare il quadro delle diverse reazioni provocate dalla
fenomenologia pura di Husserl nel mondo filosofico russo - sia nella stessa
Russia sia, dopo il 1917, fra gli emigrati - ricordiamo i nomi di L. Šestov e
di A. Losev. Il primo, dopo essere emigrato nel 1922, segue le orme del
celebre filosofo della religione Nikolaj Berdjaev, occupandosi
principalmente dei problemi della religione. Sotto questo profilo, la
fenomenologia husserliana gli si presentò come la reincarnazione
contemporanea dell'‛autocrazia della ragione', ed egli ne elaborò una critica
molto dettagliata. Dal canto suo, Losev formulò prima del 1926
un'interpretazione della riduzione husserliana sulla linea della dialettica
hegeliana, e continuò ad utilizzare Husserl nei suoi lavori successivi di
filosofia del linguaggio e di estetica anche dopo il 1927, quando la
fenomenologia era già stata posta all'indice dalle autorità sovietiche.
Negli ambienti francesi L. Noël, professore a Lovanio, fu il primo filosofo a
mettere in evidenza, in un articolo del 1910 nella ‟Revue néoscolastique de
philosophie" di Lovanio (v. Noël, 1910), l'opposizione di Husserl allo
‛psicologismo', come anche la sua concezione della ‛logica pura' derivata da
B. Bolzano. Lo stesso fece V. Delbos in uno studio pubblicato nel 1911 a
Parigi nella ‟Revue de métaphysique et de morale" (v. Delbos, 1911). Ma si
dovette giungere al 1925 perché in Francia alcuni pensatori, che tra il 1910 e
il 1928 si erano formati filosoficamente sia con Husserl sia a Monaco, a
Berlino e a Heidelberg, richiamassero l'attenzione sull'importanza delle
tecniche descrittive della fenomenologia. Tra costoro sono da menzionare B.
Groethuysen, allievo a Berlino di W. Dilthey e di G. Simmel; E. Minkowski,
che aveva seguito le lezioni di Pfänder e Geiger a Monaco; A. Kojève, che a
Heidelberg aveva seguito alcuni corsi di Jaspers; e, infine, due allievi di
Husserl a Gottinga già menzionati, e cioè J. Hering e A. Koyré. Ma tutti
costoro ebbero scarso seguito in Francia prima del 1935; neanche le quattro
lezioni pubbliche, divenute in seguito celebri, che nel febbraio del 1929
Husserl tenne alla Sorbona, e l'edizione francese del 1931, rielaborata con il
titolo di Méditations cartésiennes stimolarono in Francia alcuna ricerca
fenomenologica di rilievo. Nel settembre del 1932 la Société Thomiste
organizzò una giornata di studi dedicata alla fenomenologia, ma le relazioni
presentate non oltrepassarono il livello di semplici introduzioni, e nelle
discussioni l'interesse dei partecipanti si limitò a problemi propri di quella
che abbiamo definito come ‛fenomenologia abbreviata' (v. sopra, cap. 3).
Solo con l'immigrazione in Francia, spesso forzata, dopo il 1933 di alcuni
brillanti pensatori ebrei prende corpo tra i giovani un autentico interesse, che
si fa ben presto appassionato, per la fenomenologia tedesca. Alcuni di questi
giovani francesi provenivano dal circolo parigino che si riuniva
regolarmente attorno a Gabriel Marcel. La curiosità filosofica
particolarmente viva che in quegli anni Jean Wahl sapeva suscitare nei suoi
uditori risvegliava in molti il desiderio di informarsi in modo più
approfondito, da questi immigrati, sulla fenomenologia tedesca. A quei
giovani filosofi costoro offrirono l'insperata possibilità di attingere alle fonti
stesse della fenomenologia husserliana, e di familiarizzarsi direttamente con
le sue più recenti versioni tedesche.
Tra questi emissari della fenomenologia, alcuni dei quali rimasero solo
qualche mese in Francia prima di continuare l'esodo al di là dell'Atlantico,
ricordiamo per la loro importanza, oltre a G. Gurvitch, emigrato russo
stabilitosi in Francia dopo il 1924, e a E. Lévinas, nato in Lituania ma
formatosi a Strasburgo e poi a Friburgo con Husserl e Heidegger, anche A.
Schutz e A. Gurwitsch. Anche se tutti questi immigrati conoscevano molto
bene la fenomenologia in generale, come anche la filosofia trascendentale di
Husserl, le loro concezioni erano tuttavia in molti casi influenzate anche
dall'insegnamento di Heidegger e in particolare dallo studio di Sein und Zeit,
apparso nel 1927. Fu così che, fin dall'inizio, la generazione di
fenomenologi francesi che si andava formando a partire dal 1935, si ispirò
certo a Husserl e, talvolta, anche a Scheler, ma soprattutto al Heidegger
anteriore al 1940.
Tra questi emigrati colui che offrì, nei pochi mesi del suo insegnamento a
Parigi, il maggior numero di elementi autenticamente husserliani -
soprattutto per ciò che concerne una fenomenologia della percezione - fu
senza dubbio A. Gurwitsch. I suoi corsi furono seguiti, tra gli altri, da M.
Merleau-Ponty, che ne tenne il dovuto conto nell'elaborazione de La
structure du comportement (1942) e della Phénoménologie de la perception
(1945). Ancora, sempre del gruppo di coloro che parteciparono più o meno
assiduamente agli incontri con i fenomenologi tedeschi, ricordiamo i nomi
di R. Aron, R. Polin, M. Dufrenne e Tran-Duc-Thao. Se i lavori (anteriori al
1945) di G. Berger, J. Cavaillès, J.-P. Sartre e S. de Beauvoir, nei quali è
avvertibile l'influsso fenomenologico, recano ancora tracce degli incontri o
delle conversazioni con gli immigrati, in parecchi casi una parte notevole
delle loro informazioni sulla fenomenologia tedesca questi ricercatori la
raccolsero in occasione di viaggi e soggiorni in Germania tra il 1930 e il
1938. In veste di fenomenologi, la maggior parte dei filosofi francesi
menzionati non si limitò affatto ad elaborare analisi intenzionali statiche o a
descrivere le raccolte di tali analisi. Molti, al contrario, si ispirarono anche
alle dottrine trascendentali di Husserl, pur mescolandole a tematiche
heideggeriane e inserendole a volte - more cartesiano! - nel quadro di una
metafisica di derivazione prettamente francese. Per tutti questi motivi,
parleremo di loro più oltre (v. sotto cap. 6).
La risonanza straordinariamente vasta che la fenomenologia tedesca
conobbe fin dagli anni venti nei paesi di lingua spagnola, è in gran parte
dovuta all'insegnamento e agli scritti del più importante pensatore spagnolo
di questo secolo, J. Ortega y Gasset. Già prima del 1914 egli si interessava
alla produzione di alcuni fenomenologi della scuola husserliana di Gottinga,
e già allora conosceva, almeno in parte, i primi lavori di Husserl. Poco dopo
studiò a fondo l'apporto scheleriano alla fenomenologia, arrivando alla
conclusione che, grazie alla sua genialità, Scheler - che egli dipinge ‛ebbro
di essenze' (embriagado de esencias) - può essere considerato come
l'incarnazione nel mondo contemporaneo della ‛ragione vitale'. Questo
concetto di ‛ragione vitale', come è noto, è la chiave di volta dell'ultima
sistematizzazione di Ortega, elaborata dopo il 1924. Fin verso il 1930 egli
attribuisce alla fenomenologia una funzione importante, ancorché
introduttiva, nel suo ‛razio-vitalismo'. Definisce infatti la fenomenologia
come un conoscere intuitivo e sintetico del dato, che fornisce alla filosofia
descrizioni dettagliate soprattutto quando si ha a che fare con le strutture
essenziali del mondo reale e culturale. Tuttavia, perché assumano valore
filosofico, queste descrizioni devono essere inserite in una dimensione
sistematica di natura del tutto diversa, e cioè nel ‛razio-vitalismo', che per
Ortega è imperniato sulla comprensione razionale della vita umana in
quanto tale. Da quanto detto risulta chiaro come, nella filosofia di Ortega,
anche nel periodo tra il 1924 e il 1933, la fenomenologia non possa
rivendicare che una funzione strettamente propedeutica. Alla fine della sua
carriera accademica Ortega sottoporrà sia la fenomenologia pura sia
l'esistenzialismo di Heidegger a una critica severa, ma costruttiva.
Se i fenomenologi di lingua spagnola hanno spesso mostrato, come lo stesso
Ortega, una spiccata predilezione per le analisi fenomenologiche di Scheler
ed in seguito anche per quelle di Hartmann, quasi tutti, al pari di Ortega,
riducono la fenomenologia ad una tecnica da usare per descrizioni -
‛statiche' che debbono poi servire da introduzione a quella che è ritenuta la
vera sistematizzazione filosofica. Poco dopo il 1920 un discepolo di Ortega,
X. Zubiri, avvia ricerche sulla dottrina husserliana; ma, verso il 1930, la sua
problematica metafisica lo porta a preferire la via di recente aperta da
Heidegger. Nel 1929 altri due membri del gruppo di Ortega, M. García
Morente e J. Gaos, pubblicano a Madrid un'eccellente traduzione delle
Logische Untersuchungen. Tra il 1927 e il 1954 lo stesso Gaos, prima in
Spagna e poi in Messico (dove emigrò e si stabili dopo il 1939), tradusse in
spagnolo tutta una serie di opere tedesche di ispirazione fenomenologica (tra
l'altro opere di Brentano, di Husserl, di Scheler e di Heidegger).
Tuttavia la presa quasi immediata della fenomenologia sugli ambienti
filosofici dell'America Latina durante gli anni quaranta e cinquanta si spiega
principalmente con l'immigrazione, in vari paesi latinoamericani, di molti
filosofi spagnoli, appassionati di ricerche fenomenologiche e quasi tutti
discepoli di Ortega, che nel 1939 (dopo la guerra civile) lasciarono il proprio
paese. Tra costoro Gaos più degli altri assicurò una vasta diffusione della
fenomenologia nell'America Latina. Naturalmente, già prima dell'arrivo di
questi immigrati, filosofi avveduti avevano seguito in questo continente gli
sviluppi della fenomenologia tedesca; nel Messico, A. Caso, S. Ramos ed E.
García Máynez; in Argentina, F. Romero; nel Perù, M. Quesada; in
Colombia, J. Enrique Blanco. Il terreno era quindi già preparato perché il
seme portato dai nuovi arrivati potesse dare frutti. E in verità, se il loro
esodo interruppe per anni ogni produzione fenomenologica in Spagna, fu
innanzitutto in seguito al loro influsso che la fenomenologia pura fu
insegnata e praticata sin dagli anni quaranta in molte università dell'America
portoghese e spagnola. Oltre a Gaos, possiamo ricordare tra i transterrados
spagnoli, per il Messico, J. Xirau e E. Nicole, per il Venezuela, J. García
Bacca. Per quanto riguarda la fenomenologia, la maggior parte di essi adottò
senza esitazioni l'interpretazione datane da Ortega. Mentre all'inizio si
studiavano nell'America Latina soprattutto i lavori di Husserl e ancor più
quelli di Scheler e di Hartmann, dopo il 1950 si fa sentire l'influenza di
Heidegger, le cui concezioni occupano ben presto un posto di primo piano
nel panorama filosofico. Tra gli autori che dopo il 1945 si sono distinti in
ricerche fenomenologiche, intese nel senso più lato del termine, ricordiamo:
R. Frondizi, A. Wagner de Reyna ed E. Mayz Vallenilla, il quale ultimo,
almeno per ciò che concerne la fenomenologia husserliana, sembra fra tutti
il più informato (v. Spiegelberg, 19652, vol. II, pp. 611-622). Infine, in
Portogallo, dopo il 1955 si sono messi in luce quattro storici della
fenomenologia: G. de Fraga, A. Fradique Morujão, J. Fragata e M. M.
Saraiva.
Ad eccezione della Spagna, prima del 1945 la fenomenologia tedesca non
sembrò trovare seguaci tra i filosofi dell'Europa meridionale. Nel 1902 il
logico M. Palágyi aveva fatto propria la critica husserliana dello
psicologismo in logica, ma sembra ignorare completamente la soluzione
fenomenologica proposta in seguito da Husserl. Dal canto loro, i numerosi
discepoli di Brentano che, tra il 1890 e il 1930 occuparono numerose
cattedre di filosofia nei paesi danubiani - come A. Höfler a Vienna, A.
Marty, T. Masaryk, O. Kraus e E. Utitz a Praga, A. Meinong a Graz - misero
soprattutto in rilievo il progressivo allontanamento di Husserl dal messaggio
di Brentano. E comunque certo che, dopo le Ideen I (1913), si distaccarono
quasi tutti da Husserl. E se Meinong, prima del 1907, era chiaramente
cosciente di una reale affinità tra le proprie soluzioni e quelle di Husserl,
ben presto una spiacevole polemica sulla priorità relativa delle scoperte di
ciascuno rendeva sempre più profondo il loro distacco. Certo, a Friburgo,
alcuni austriaci si iscrissero ai corsi di Husserl anche dopo il 1918, ad
esempio Felix Kaufmann, L. Landgrebe; e, tra il 1932 e il 1936, un giovane
ceco, J. Patočka, frequentava assiduamente la casa di Husserl assieme ai
suoi amici Landgrebe e Fink. Ma solo quest'ultimo intraprese in seguito la
carriera accademica nel paese di origine dove, pur in circostanze
particolarmente difficili, diffuse la filosofia husserliana, ivi inclusa la
fenomenologia trascendentale. Più avanti (v. sotto, cap. 6) parleremo ancora
di lui.
Prima del 1930 il solo filosofo della Svizzera tedesca la cui opera contenga
tracce evidenti di uno studio approfondito della produzione fenomenologica
è H. Schmalenbach, originario della Vestfalia e formatosi prima a Jena e poi
a Gottinga; ma di questi studi egli conservò solo ciò che poté servirgli per
costruire la propria ontologia. Poco dopo il 1930 lo psicologo svizzero H.
Kunz fece largo uso di descrizioni fenomenologiche nel suo studio
sull'espressione e in quello del 1946 dedicato alla ‛Phantasie'. Nella
Svizzera romanda la fenomenologia, non esclusa quella trascendentale, si
diffuse solo dopo gli anni quaranta, soprattutto per l'insegnamento e gli
scritti di P. Thévenaz.
Il primo pensatore italiano che, studiando attentamente l'opera di Husserl, ne
subì l'ascendente fu Antonio Banfi, come testimoniano i suoi numerosi
scritti posteriori al 1924. Ma le sue concezioni etiche e politiche di stampo
marxista lo portarono sempre più verso ricerche estranee alle preoccupazioni
filosofiche di Husserl. Egli restò comunque uno dei pochi amici personali
del maestro e, grazie al suo brillante insegnamento all'Università di Milano
(dal 1931), forni alla fenomenologia in Italia un'autorevole tribuna pubblica.
È principalmente per influenza di Banfi che la fenomenologia, nel 1945,
fece il suo ingresso nei più vari ambienti universitari. Inoltre, un'intelligente
monografia sulla filosofia di Husserl, pubblicata nel 1939 da S. Vanni
Rovighi dell'Università Cattolica di Milano, aprì alle dottrine idealistiche del
maestro l'accesso alle università pontificie italiane.
Prima del 1955, e anche in seguito, le principali pubblicazioni italiane sulla
fenomenologia sono di carattere storico, come ad esempio quelle di padre C.
Giacon, di N. Abbagnano, di E. Garin e di P. Valori. Nello stesso tempo
vengono pubblicate ottime traduzioni delle più importanti opere di Husserl,
cui fanno presto seguito studi fenomenologici di carattere sistematico,
concernenti soprattutto la temporalità e la problematica husserliana della
costituzione, quale viene presentata in forma notevolmente rinnovata nella
sua ultima opera, Krisis (1936). Geograficamente, il centro della
fenomenologia sistematica italiana è Milano, e il suo principale animatore è
E. Paci, un pensatore molto aperto anche al marxismo e discepolo di Banfi.
Poco dopo il 1950 il pensiero di Heidegger suscitò a sua volta l'interesse di
pensatori italiani come E. Castelli, L. Pareyson e altri ancora, ma fu spesso
amalgamato con dottrine husserliane che gli erano del tutto estranee: ne
derivò una forma di ‛esistenzialismo' di cui non si hanno quasi tracce
altrove.
Fra i filosofi d'origine inglese la risonanza della fenomenologia prima del
1945 è limitata a qualche rara ma penetrante critica di scritti di Meinong,
Husserl, Pfänder e Heidegger, dovuta a Bertrand Russell e a Gilbert Ryle.
Nel giugno del 1922 Husserl stesso, primo professore tedesco invitato
all'Università di Londra dopo il 1918, tenne quattro lezioni sul ‛metodo e la
filosofia fenomenologici'; ma pur trovando ascoltatori cortesi ed attenti, le
concezioni molto sintetiche da lui sviluppate furono poco comprese e presto
dimenticate. In seguito l'Encyclopaedia Britannica inserì in una nuova
edizione (1929) un importante testo di Husserl sotto la voce
Phenomenology. La traduzione inglese di questo testo fu eseguita, invero
molto liberamente, da C. V. Salmon che del resto era il solo inglese ad aver
seguito i corsi di Husserl. Non si può non rilevare che la maggior parte dei
lettori anglosassoni di questo scritto husserliano dovettero trovano piuttosto
sibillino. In ogni caso, questo articolo ebbe assai scarsa risonanza in Gran
Bretagna. Al contrario, se si esamina la produzione filosofica dei paesi
anglosassoni d'oltre Atlantico tra il 1900 e il 1945, ci si avvede che la messe
fenomenologica è ben più ricca. Fin dal 1902 W.E. Hocking, in seguito
professore ad Harvard, si iscrisse ai corsi di Husserl a Gottinga; mantenne
con il maestro eccellenti relazioni personali e, pur sviluppando la sua
metafisica personalistica ai margini della corrente fenomenologica, ne seguì
da vicino l'evoluzione sino alla fine della sua lunga carriera. L'anglo-
canadese Winthrop Bell, che nel 1914 a Gottinga sosteneva con Husserl la
sua dissertazione di dottorato, assicurò in seguito una certa diffusione ad
alcuni temi fenomenologici grazie al suo insegnamento universitario nella
Nuova Scozia. Fu in parte per risolvere determinati problemi sollevati
dall'opera di Charles Sanders Peirce e di William James che, tra il 1924 e il
1932, alcuni filosofi anglosassoni andarono ad ascoltare Husserl a Friburgo.
Essi intendevano soprattutto perfezionarsi nel metodo analitico e descrittivo
che avevano desunto dalla lettura delle sue opere; con grande sorpresa
trovarono invece un filosofo tutto intento a portare a termine l'elaborazione
della propria fenomenologia trascendentale.
Tra costoro citeremo il filosofo australiano W. Boyce Gibson che, dopo un
soggiorno di sei mesi a Friburgo, pubblicò nel 1931 una traduzione inglese
delle Ideen I; C. Hartshorne, che più tardi prese negli Stati Uniti l'iniziativa
di fondare una Metaphysical Society; Marvin Farber che, divenuto
professore a Buffalo (N.Y.), promosse nel 1939 la fondazione
dell'International Phenomenological Society e dette vita nel 1940 al
periodico ‟Philosophy and phenomenological research", che ha poi ospitato
di preferenza studi fenomenologici; A. Osborn, che nel 1934 pubblicò uno
studio su Husserl, contenente fra l'altro un'eccellente ricostruzione
biografica degli anni di formazione del filosofo; infine D. Cairns che, negli
Stati Uniti, oltre ad eseguire ottime traduzioni inglesi di Husserl, insegnò
dopo il 1950 la fenomenologia con estrema competenza. Ma anche qui,
come in Francia, furono i numerosi emigrati - soprattutto ebrei - espulsi
dall'Europa centrale tra il 1933 e il 1939, a dar vita negli anni quaranta,
insieme a Farber e altri americani, a tutto un nuovo fiorire di ricerche
fenomenologiche negli Stati Uniti. Da allora il pensiero di Husserl, come
anche le sue varie versioni europee, occuparono qui un posto sempre più
importante sia nell'insegnamento universitario che nella produzione
filosofica. Tra i più influenti emissari europei della fenomenologia che si
stabilirono allora negli Stati Uniti ricordiamo K. Goldstein, Fritz Kaufmann,
G. Husserl, Felix Kaufmann, A. Schutz, H. Kuhn, A. Gurwitsch ed H.
Spiegelberg. Inoltre, a cura di Farber e con la collaborazione di Hartshorne,
Cairns, V.J. McGill e J. Wild, un gruppo di questi immigrati pubblicò nel
1940 un imponente volume, Philosophical essays in memory of Edmund
Husserl.
Molti di loro continuarono poi ad assicurare una vasta diffusione della
fenomenologia con i loro corsi in diverse facoltà universitarie. Per Farber,
come per numerosi altri filosofi americani, la fenomenologia, pur fornendo
al filosofo una serie di procedimenti metodici validi e anzi necessari, non
può tuttavia oltrepassare l'anticamera della filosofia in quanto, essendo
esclusivamente descrittiva, non può essere che propedeutica. Invece, per i
membri del circolo della New School for Social Research (New York),
formatosi attorno a Schutz, Cairns, Gurwitsch, W. Marx e altri, la filosofia
‛riduttiva' e quella trascendentale di Husserl, ed in particolare la sua dottrina
della Lebenswelt, sono entrambe al centro dell'interesse (v. Spiegelberg,
19652, vol. II, pp. 623-640). Dopo il 1960 anche molti giovani, formatisi in
parte in Europa, intrapresero ricerche trascendentali; tra costoro ricordiamo:
J. Kockelmans, R. Sokolowski, G. Küng e D. Carr.
Al di fuori degli ambienti strettamente filosofici, dopo il 1950 elementi più o
meno rilevanti del metodo fenomenologico sono ampiamente utilizzati in
diversi centri americani di ricerca psicologica o psichiatrica. In linea
generale, questi elementi vengono fusi con temi esistenzialisti tratti da
Heidegger, Binswanger, Sartre, Merleau-Ponty ed altri ancora; si spiega così
la denominazione di phenomenological existentialism, che alcuni di loro
adottarono per le proprie sintesi. Questi filosofi, se rimangono in genere
chiusi ad ogni problematica genetica o costitutiva in senso husserliano,
ricorrono però spesso alle analisi e descrizioni statiche (v. Spiegelberg,
1972, pp. 143-168).
Dobbiamo inoltre segnalare in questi ultimi anni, negli Stati Uniti, l'attività
di varie associazioni per lo studio della fenomenologia. Tra i loro più attivi
promotori citiamo, oltre a Carr e Spiegelberg, A.T. Tymieniecka, Manfred
Frings e James Edie. Infine, nel 1969 W. Mays, professore dell'Università di
Manchester, ha fondato in Gran Bretagna una società di fenomenologia
molto attiva, che dal 1970 pubblica un ottimo periodico (v. ‟Journal of
phenomenological psychology", 1970 ss.).
Su richiesta dei suoi primi allievi di nazionalità giapponese, Husserl scrisse
nel 1923-1924 tre brevi articoli pubblicati a Tōkyō. Dal 1930 in poi
numerosi filosofi giapponesi che l'ascoltarono a Friburgo, come del resto
quelli che dopo il 1928 frequentarono i corsi di Heidegger, introdussero nel
loro paese numerosi temi fenomenologici. Infine, già prima del 1955 gli
ambienti filosofici giapponesi poterono disporre di numerose traduzioni sia
di Heidegger che di Husserl. A quel che sembra, pur studiando
accuratamente la produzione fenomenologica degli altri paesi, i filosofi
giapponesi conservarono pochissimi elementi della fenomenologia (in ciò
seguendo la propria secolare tradizione eclettica), e precisamente quelli che
sembravano loro utilizzabili nelle proprie elaborazioni. Comunque, le
dottrine husserliane rintracciabili nelle loro opere sono riconducibili
prevalentemente a quella che abbiamo denominato fenomenologia pura.
Oltre a quelli già citati tra i suoi allievi, fra i filosofi giapponesi che subirono
l'influenza di Husserl possiamo menzionare Kuki Shūzō, Yamauchi
Tokuryū, Manjiro Yamamoto, Yoshihori Nitta e Eiichi Shimomisse.

6. Limitata influenza della fenomenologia trascendentale

La risonanza sorprendentemente scarsa della fenomenologia trascendentale


di Husserl è generalmente attribuita al fatto che parti fondamentali delle sue
annotazioni filosofiche degli anni tra il 1915 e il 1936 rimasero inaccessibili
negli schedari fino alla loro edizione critica, negli Husserliana, a cura degli
Archives-Husserl. Se in effetti tale circostanza rende in parte comprensibile
questa mancata risonanza, la spiegazione va cercata anche nella natura delle
aspettative nutrite dagli allievi e visitatori di Husserl a Friburgo. Un terzo
fattore, che rese più rilevanti le conseguenze di tale situazione, fu
l'impressione immediata e profonda che nel 1927 Sein und Zeit di Heidegger
produsse su tutti coloro che praticavano allora la fenomenologia, come del
resto lo straordinario ascendente che egli, succedendo nel 1928 a Husserl a
Friburgo, esercitò su tutto l'ambiente husserliano.
Abbiamo già rilevato come, nei suoi corsi a Friburgo, Husserl mettesse
continuamente l'uditorio a parte delle sue scoperte nel campo della
fenomenologia trascendentale. Egli la chiamava spesso, allora, ‛la filosofia
prima' (v. Husserl, 1956-1959). Ma la maggior parte di coloro che, dopo il
1920, gravitavano numerosi attorno alla sua cattedra, tendeva in primo
luogo a perfezionarsi nel metodo dell'analisi intenzionale - di preferenza
‛statica' - di cui Husserl stesso, come del resto Scheler e vari altri, avevano
fornito dei prototipi. In realtà, essi erano assai scarsamente disposti ad
aderire alle sue dottrine genetiche e costitutive, e comunque si rifiutarono in
maggioranza di avallare l'idealismo, sia intersoggettivo sia egologico, che
Husserl insegnava in quegli anni. Coerentemente, essi arrivarono spesso alla
conclusione che la fenomenologia trascendentale del maestro si dovesse
considerare come una estrapolazione mal fondata ed indebita del suo
messaggio autentico. Essi credevano, inoltre, che essa ostacolasse
notevolmente l'accesso alle analisi intenzionali e ne falsasse profondamente
i risultati. D'altra parte queste analisi, per valide che fossero, avevano per
loro esclusivamente il compito di arredare il vestibolo di quella filosofia
ultima che essi intendevano elaborare. Di conseguenza, essi rifiutavano
pressoché tutti anche solo di esaminare se l'Io o l'intersoggettività fossero in
grado di fornire una spiegazione ultima della ‛costituzione' del mondo, e ciò
anche se il mondo fosse stato preventivamente ridotto al suo significato
intenzionale.
Nel corso di quegli stessi anni Heidegger, da parte sua, pur accettando
esplicitamente la fenomenologia, comincia a delineare la propria filosofia.
Recentemente Heidegger ha affermato pubblicamente che i due filosofi ai
quali la sua opera ed il suo messaggio personale debbono di più sono da una
parte Aristotele e dall'altra Husserl (v. Heidegger, 1969, pp. 81-90). Basterà
qui ricordare prima le sue relazioni con Husserl, e delineare quindi
brevemente la sua concezione della fenomenologia.
Dal 1916 al 1923 Heidegger, a Friburgo, vive nell'ambiente più vicino a
Husserl. Dopo cinque anni di insegnamento a Marburgo, nel 1928 egli
succede al maestro a Friburgo, con il suo consenso e appoggio
incondizionato. La rottura definitiva, intervenuta dopo il 1930, non
impedisce tuttavia che Heidegger continui a considerarsi un fenomenologo.
Ma, dal suo punto di vista, questa qualifica non implica affatto l'accettazione
delle tesi husserliane sull'Ego trascendentale, sulla costituzione intenzionale
e sulla temporalità. In breve, Heidegger ricusa pressoché totalmente la
fenomenologia trascendentale di Husserl, come anche, senza dubbio, il suo
idealismo.
Quella che, da parte sua, egli chiama fenomenologia è concepita ed
elaborata in funzione della sua filosofia dell'essere, alla quale nel frattempo
ha cominciato a dar forma. È nell'ambito di quest'ultima che la
fenomenologia deve rientrare e operare. Infatti, procedendo nel 1917-1919
alle prime analisi e descrizioni fenomenologiche, Heidegger indica come
loro fonte gnoseologica un ‛comprendere' (Verstehen) nel senso di Wilhelm
Dilthey. Al contrario di Husgerl, egli rifiuta dunque di radicare le sue analisi
nell'esperienza intuitiva (anschauende Erfahrung). Heidegger ritiene che
quest'ultima per Husserl sia essenzialmente un ‛vedere' (Sehen) o un
‛percepire' (Wahrnehmen) l'oggettività, la quale, pur preventivamente ridotta
al suo significato puro, è affermata come ‛presente in persona'.
Per Heidegger, al contrario, questa oggettività, essendo sempre già
disponibile come presente (vorhanden), non è ad alcun titolo ‛originaria'. In
realtà essa copre e maschera l'essere autentico. Per costruire la sua
fenomenologia, Heidegger presuppone quindi che la filosofia debba partire
dalla vita concreta ed ‛effettiva' nella quale l'uomo si trova gettato
(geworfen). L'uomo è in effetti un ‛essere-nel-mondo' (inder-Welt-sein).
Husserl ha dunque torto a ridurlo in ultima analisi all'Ego trascendentale
come sua quintessenza. Nella sua essenza, l'uomo è al contrario da definire,
secondo Heidegger, come un ‛Esserci' (Dasein); un Esserci, però, aperto al
mondo. Poiché il mondo che determina l'uomo comporta necessariamente
rilevanti dimensioni storiche, quell'essere-nel-mondo che è l'uomo stesso è
essenzialmente storico. Il compito del fenomenologo consisterà allora, per
Heidegger, nel ‛comprendere' nella sua concrezione, e quindi nella sua
‛effettività', l'‛essere-nel-mondo' dell'‛Esserci' (Dasein). Per far ciò il
filosofo dovrà necessariamente interpretare questa ‛effettività';
conseguentemente, in quanto essa ‛reca il messaggio' (Kunde bringend)
delle strutture dell'‛Esserci', la fenomenologia heideggeriana si chiama a
giusto titolo ‛ermeneutica'. Essa sarà nel pieno senso della parola ‛la scienza
dell'origine' (Ursprungswissenschaft) e, proprio perché riporta alla luce le
origini, merita anche il nome di ‛archeologia'. D'altra parte, la concrezione
storica dell'‛essere-nel-mondo' è accessibile alla ‛comprensione' del
fenomenologo; in quanto essere (Sein), essa è infatti ‛ciò che si mostra' (das
Sich-zeigende); l'essere in quanto tale è in effetti ‛manifesto' (offenbar). Per
avviare allora la comprensione del Dasein, Heidegger parte da una analisi
ermeneutica - notevole sotto ogni aspetto della ‛cura' (Sorge) che lega
l'‛Esserci' al mondo. Sempre come fenomenologo, egli enuclea in seguito i
suoi celebri ‛esistenziali' (Existenzialien), che definisce come dei ‛caratteri
d'essere' (Seinscharaktere) propri al solo ‛Esserci'. È sulla base delle
penetranti descrizioni di questi ‛esistenziali' che, a partire dal 1929, l'autore
di Sein und Zeit fu classificato come ‛esistenzialista', in prima fila fra i
‛filosofi dell'esistenza'.
Da ciò che abbiamo esposto risulta chiaro che, per valutare l'influenza della
fenomenologia trascendentale di Husserl sul pensiero contemporaneo degli
ultimi decenni, bisogna soprattutto tener conto di due fatti. Anzitutto,
occorre considerare le nuove possibilità di consultare e studiare l'opera
postuma di Husserl, grazie ai lavori degli Archives e soprattutto grazie alla
pubblicazione, da questi promossa, delle numerose opere inedite; in secondo
luogo, non bisogna mai perdere di vista l'influenza che le varie opere di
Heidegger, e soprattutto Sein und Zeit, hanno esercitato su tutti i filosofi che
si ispirano alle dottrine genetiche o costitutive di Husserl. Non sarà certo
necessario richiamare qui l'edizione, a cura degli Archives di Lovanio e di
Colonia, delle opere complete (Gesammelte Werke) di Husserl nella
collezione Husserliana; il primo volume della serie è apparso nel 1950 e dal
1965 il ritmo di pubblicazione è stato molto sostenuto. È tuttavia meno noto
che, per iniziativa del Centro degli Archives di Lovanio, la trascrizione
dattilografica di circa tre quarti delle 45.000 pagine di inediti husserliani è
stata messa a disposizione dei ricercatori in cinque differenti università,
negli Stati Uniti, in Germania e in Francia. Infine, bisogna segnalare ancora
che, dal 1958, i Centri degli Archives curano la collana Phaenomenologica,
che accoglie nei suoi volumi studi storici e sistematici sulla fenomenologia
della più svariata provenienza. Essa vuole essere il ‛luogo naturale' delle
pubblicazioni stimolate dalla nuova possibilità di accesso all'opera postuma
di Husserl (v. Phaenomenologica, 1958 ss.).
Passando ora in rassegna i pensatori contemporanei la cui opera dimostra
una reale conoscenza di tale opera postuma, dobbiamo citare in primo luogo
L. Landgrebe e E. Fink, che dal 1924 fino alla morte di Husserl furono
particolarmente vicini a tutte le sue ricerche personali e, in particolare, ai
suoi ‛manoscritti di ricerca'. Grazie alla loro assistenza ed alla loro generosa
collaborazione fu possibile fondare gli Archives solo poco tempo dopo la
morte del maestro, e si poté avviare, a Lovanio, lo sfruttamento degli inediti.
Se, in parte sotto l'influenza di Heidegger, entrambi si sono poi impegnati su
una strada decisamente più metafisica di quella di Husserl, tutte le loro
ricerche ulteriori testimoniano tuttavia la presenza costante sia dell'ultima
problematica che delle ultime soluzioni del maestro. La stessa
considerazione vale per l'opera filosofica del pensatore ceco Jan Patočka,
che dal 1929 fece parte della cerchia più vicina a Husserl.
Passando poi in rivista i collaboratori degli Archives che dal 1944 hanno
preparato testi per gli Husserliana, o che hanno pubblicato i risultati delle
loro ricerche sugli inediti in Phaenomenologica o altrove, possiamo
ricordare S. Strasser, che si è segnalato inoltre come specialista
dell'antropologia fenomenologica; W. Marx; H.L; Van Breda; W. Biemel,
conosciuto anche per i suoi studi su Heidegger e sull'estetica filosofica; M.
Biemel; R. Boehm; J. Taminiaux; M. Fleischer; L. Eley; P. Janssen; E.
Holenstein; I. Kern; U. Claesges; G. de Almeida e K. Schuhmann. Fra gli
altri ricercatori che, dopo il salvataggio degli inediti husserliani nel 1938-
1939, hanno fatto ricerche in uno dei Centri degli Archives, e hanno messo a
profitto parti più o meno importanti degli inediti, non si può certo passare
sotto silenzio coloro che per primi sono venuti a Lovanio dalla Francia e
dagli Stati Uniti: nell'aprile 1939 e nel 1949, M. Merleau-Ponty (v. Van
Breda, 1962); nell'aprile-maggio 1943, Tran Duc Thao; all'inizio del 1947,
P. Ricoeur (v. Spiegeiberg, 19652, vol. II, pp. 563-579); e, a più riprese dopo
il 1946, A. Schutz, M. Farber, A. Gurwitsch e D. Cairns. Non è il caso di
formre in questa sede una lista, sia pur incompleta, dei numerosi filosofi, per
lo più giovani, che nel corso degli ultimi venti anni hanno studiato l'opera
postuma nei diversi Centri degli Archives.
Qui indicheremo soltanto alcuni filosofi che si sono distinti per le loro
pubblicazioni fenomenologiche: R. Ingarden ed E. Paci, che dopo il 1956
trascorsero entrambi parecchie settimane a Lovanio; W. Marx; A. De
Waelhens; B. Delfgaauw; R. C. Kwant; C. A. van Peursen; G. Brand; W.
Luijpen; J. Kockelmans; A.T. Tymieniecka; J.N. Mohanty; H. Dussort;
Debabrata Sinha; A. Peperzak; J. Derrida; A. Pažanin; L. Kelkel e R.
Schérer, autori, tra l'altro, di diverse traduzioni francesi di opere husserliane;
T. de Boer; B. Waldenfels; G. Scrimieri; N. Uygur e K. Held. Oltre a coloro
che nei loro studi si sono ispirati sia agli inediti conservati negli Archives
che ai testi pubblicati da Husserl, c'è stata nel corso degli ultimi quarant'anni
tutta una pleiade di pensatori che hanno tratto nutrimento sostanziale da vari
aspetti della sua dottrina trascendentale. Innanzitutto si devono segnalare
alcuni filosofi che, dopo il 1920, frequentarono a Friburgo i corsi di Husserl
o le riunioni dei fenomenologi. Accanto a Landgrebe, Fink e Patočka, in
questo gruppo possiamo ricordare: W. Szilasi; F. Kaufmann; H. Plessner; G.
Berger, che con i suoi studi sulla teoria husserliana della conoscenza e
dell'Io risvegliò in Francia (1941) l'interesse per la fenomenologia
trascendentale; A. Schutz, che fino alla morte nel 1959 dedicherà tutte le sue
ricerche alla fenomenologia del mondo sociale e approfondirà singolarmente
la nozione husserliana di Lebenswelt; H. Kuhn; H.G. Gadamer, il maestro
riconosciuto dell'ermeneutica contemporanea (v. ermeneutica); A.
Gurwitsch, che si impegnerà soprattutto nello studio della fenomenologia
della coscienza e della percezione; M. Farber, uno dei principali promotori
del movimento fenomenologico negli Stati Uniti; E. Lévinas; e infine D.
Cairns, le cui eccellenti traduzioni inglesi mostrano una perfetta
dimestichezza con la fenomenologia genetica del maestro.
Segnaliamo ancora, per completezza, altri filosofi che nel corso degli ultimi
due decenni hanno dato prova di una maggiore o minore dimestichezza con
la fenomenologia trascendentale di Husserl. Ecco alcuni nomi: M. Müller;
J.-P. Sartre; K.H. Volkmann-Schluck; G. Funke; S. Bachelard che, oltre ad
approntare un'eccellente traduzione di Formale und Transzendentale Logik
(1929), approfondì soprattutto la tematica husserliana sulla logica; R.
Bakker; H. Duméry, autore di vari lavori sulla fenomenologia della
religione; Q. Lauer M. Natanson; G. Granel; E. Ströker; A. de Muralt e R.
Zaner.
Dopo questa enumerazione di filosofi, la cui opera testimonia una
utilizzazione più o meno ampia di suggestioni e di tesi husserliane degli anni
venti e trenta, conviene rifarci all'osservazione espressa all'inizio di questo
capitolo a proposito dell'influenza - talvolta profonda - che l'insegnamento e
gli scritti di Heidegger, e in particolare Sein und Zeit, hanno esercitato su
molti di questi pensatori. Già quando adottano la fenomenologia, sia come
metodo analitico sia come spiegazione genetica, molti di loro partono
piuttosto dal ‛comprendere' di Heidegger che non dall'intuizione husserliana.
Se parecchi di questi fenomenologi si servono del termine ‛riduzione' - del
resto in accezioni molto differenti - essi non accettano quasi mai che questa
riduzione debba essere applicata preliminarmente ad ogni dato intenzionale
prima di intraprenderne l'analisi. Se, in generale, l'imperativo categorico del
ritorno all'originario è ammesso, questo originario è ricercato di preferenza
nelle regioni dell'‛autentico' heideggeriano e non nella sfera, d'altronde
piuttosto evanescente, dei dati trascendentali che Husserl offre come ‛datità
originarie' (Ur-Gegebenheiten). Inoltre questi autori, pur elaborando analisi
genetiche di tipo husserliano, hanno la tendenza ad inserirle in categorie
tratte da Sein und Zeit. Infine, quando vogliono dare alla loro fenomenologia
una filosofia ultima, questa non presenta quasi mai affinità con l'idealismo
trascendentale di Husserl ma, al contrario, tradisce ben più nettamente
l'impronta degli ‛esistenziali' heideggeriani. In ogni caso, nessuno di questi
fenomenologi, quando vuole fornire una spiegazione ultima di un fenomeno
analizzato, si impegna a rintracciarne la costituzione intenzionale.
Questo rilievo significativo si applica già senza dubbio alla fenomenologia
tedesca, francese, olandese e italiana degli ultimi venticinque anni.
Bisognerà quindi tenerne sempre conto leggendo, ad esempio, le opere
fenomenologiche di Gadamer, Landgrebe, Fink, Lévinas, Sartre, Müller,
Merleau-Ponty, Marx, Paci, De Waelhens, Biemel, Brand, van Peursen,
Boehm, Peperzak, Derrida, Held e altri. E ciò vale anche quando si tratti di
un lavoro mirante a chiarire un problema storico sollevato dall'opera di
Husserl. Nel caso dei filosofi d'oltre Atlantico la situazione è sensibilmente
differente. Alcuni di essi - per esempio Farber e Schutz - si sono sempre
opposti ad ogni infiltrazione cosciente delle concezioni heideggeriane nelle
loro esplorazioni fenomenologiche. In altri, al contrario, sia negli Stati Uniti
che nell'America Latina, traspare quasi dappertutto la presenza di tesi ed
interpretazioni ispirate a Heidegger, la cui influenza, nel corso degli ultimi
anni, si è fatta spesso preponderante presso questi autori.
Infine, quando si prendono in esame le opere cosiddette fenomenologiche di
psicologi e di psichiatri sia europei sia americani, vi si rilevano tracce ben
più evidenti delle concezioni - metafisiche e non metafisiche - di Heidegger
che delle analisi genetiche di tipo husserliano. Questo fenomeno trova in
gran parte la sua spiegazione nel ruolo di mediatore - tra i fenomenologi di
diverse tendenze e gli ambienti psichiatrici internazionali - sostenuto, d'altro
canto magistralmente, da L. Binswanger. Ora, per questo pensatore svizzero,
che pure era stato dal 1922 sempre attento a ogni descrizione intenzionale
proveniente da Husserl stesso o dai suoi compagni di ricerca, l'analisi
heideggeriana dell'‛Esserci' (Dasein) e degli ‛esistenziali' che ne emergono,
assumeva il valore di un complemento e approfondimento che le stesse
scoperte di Husserl esigevano e postulavano. Dal 1928 Binswanger include
dunque questi esistenziali nell'antropologia filosofica che proprio allora
intraprende a elaborare. Se, dopo il 1960, egli adotta risolutamente alcuni
principî essenziali della fenomenologia genetica e costitutiva di Husserl,
l'architettura complessiva della sua ultima sintesi filosofica resta tuttavia
dominata dai temi heideggeriani che continuamente vi traspaiono (v.
Spiegelberg, 1972, pp. 200-232).
Sarebbe certo inesatto sostenere che tutte le ricerche fenomenologiche
condotte da psicologi o psichiatri contemporanei siano state suscitate dalle
svariate pubblicazioni di Binswanger. Tuttavia è innegabile che esse portano
quasi tutte tracce evidentissime del suo pensiero soprattutto tramite le
sistematizzazioni fenomenologiche da lui successivamente elaborate. Del
resto anche fra gli psichiatri che - come H. Ey, V. Frankl e R. May -
derivarono inizialmente i loro materiali da altri fenomenologi - per es. da
Pfänder, Scheler, Goldstein, Gurwitsch - è riscontrabile l'influenza indiretta
delle varie sintesi di Binswanger (ibid., pp. 114-120; 158-165; 343-353).

7. Conclusioni

La fenomenologia contemporanea di cui Edmund Husserl fu l'iniziatore è,


sia per le intrinseche qualità che per la diffusione, una delle correnti
filosofiche più importanti di questo secolo.
Sebbene le numerose ricerche ad essa riconducibili siano per la maggior
parte condotte con intenti identici o comunque analoghi, ed i loro risultati
presentino tutti caratteristiche facilmente riconoscibili, tuttavia e gli intenti e
i risultati si rivelano al contempo di una varietà sorprendente, talvolta
perfino sconcertante. Questa differenziazione progressivamente crescente
della produzione fenomenologica è spiegata in primo luogo dall'innegabile
ambiguità delle intenzioni che, nel corso di una vita di ricercatore
particolarmente lunga e piuttosto solitaria, guidarono le scoperte
fenomenologiche di Husserl. Questa ambiguità influisce spesso sulla
terminologia adottata, rendendola talvolta oscillante, soprattutto quando
viene adoperata in periodi diversi. La penuria di riferimenti ai filosofi
classici, la sua avversione congenita per ogni sistematizzazione rigorosa e
soprattutto, infine, la sua costante docilità nell'analisi verso ‛tutto ciò che si
dà così come effettivamente si dà' non favoriscono affatto l'univocità delle
espressioni di cui fa via via uso. Tutti questi fattori hanno dato luogo quasi
ineluttabilmente, e in seno al movimento stesso che da lui prese origine, a
interpretazioni molto varie e anzi disparate dei suoi testi teorici. Se si tiene
poi presente la varietà di problemi che Husserl affrontò e la ricca messe di
analisi - che egli svolgeva soprattutto nei suoi corsi - ci si rende conto come
anche i discepoli che volevano continuare sulla sua scia fossero costretti a
compiere preliminarmente una scelta. Con l'andar del tempo questa scelta è
stata progressivamente orientata secondo le esigenze di ciascuno. Come è
avvenuto per l'eredità spirituale di altri filosofi che aprirono vie veramente
nuove, molte delle concezioni lasciate da Husserl alla posterità hanno
esercitato un influsso effettivo sui suoi contemporanei anche quando sono
state avulse dal loro contesto originario. Precedentemente si è già rilevato
come la comprensione e la concatenazione delle differenti tappe
dell'evoluzione teorica di Husserl fosse resa ardua anche ai suoi stessi
discepoli dall'accumularsi di inediti, di cui essi conoscevano l'esistenza ma
non il contenuto preciso. Era evidentemente fatale che, data questa
situazione, anche coloro che volevano intraprendere ricerche autenticamente
husserliane si impegnassero loro malgrado in direzioni alquanto diverse.
Ma la molteplicità delle elaborazioni fenomenologiche derivate dall'opera di
Husserl si deve ascrivere, in misura notevole, anche all'eccezionale valore di
molti dei discepoli e seguaci attirati dalle sue opere edite. In verità, era
inevitabile che pensatori della statura di uno Scheler, di un Heidegger, di un
Binswanger, per menzionare solo qualche caso esemplare, pur riconoscendo
il valore eccezionale dei metodi e delle scoperte husserliane e facendone
tesoro, seguissero poi il loro genio e la loro strada. Se le loro ricerche li
condussero talvolta nelle immediate vicinanze o persino all'interno
dell'hortus conclusus della fenomenologia rigorosamente husserliana, ciò
non poteva evidentemente accadere sempre. Anche se è errato sostenere che
ci siano tante fenomenologie quanti eccellenti fenomenologi, il numero
stesso e soprattutto la qualità dei seguaci che la fenomenologia husserliana
ha attratto nella sua orbita dovevano avere inevitabilmente come
conseguenza che una pluralità di concezioni molto differenti si
raccogliessero sotto quell'unica insegna che il maestro si era scelto.
Se nel corso degli anni venti l'insegnamento di Husserl a Friburgo incontrò
ancora un reale successo e se le sue pubblicazioni posteriori al 1920
conobbero una larga fama internazionale, egli dovette però constatare con
vero disappunto che né la sua filosofia genetica né il suo idealismo
costitutivo avevano la risonanza sperata. Egli ammise però solo a
malincuore che uno dei motivi determinanti di questa situazione di fatto
fosse semplicemente l'inaccessibilità della ricca messe delle sue
innumerevoli ricerche. In linea generale, la massima parte delle sottili
analisi genetiche cui aveva lavorato con pazienza instancabile a partire dal
1907 restò così nei suoi schedari senza quindi esercitare alcuna influenza.
È lecito sperare che l'edizione critica degli inediti di Husserl susciti
finalmente interesse per queste analisi; esse infatti contengono le suggestioni
più feconde di tutta la sua opera. Se ciò avvenisse, gli specialisti di filosofia
contemporanea potrebbero finalmente mettere da canto l'interminabile e
sempre più sterile discussione circa l'esatto significato e circa le
conseguenze - funeste o no - dell'idealismo husserliano. Dallo studio delle
analisi genetiche di Husserl essi potranno trarre spunti stimolanti, oltre che
realmente originali, per le ricerche filosofiche in corso.

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