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Sommario
2006, Fondazione Ferrata Storti. Il contenuto di questa dispensa è fornito a titolo gratuito dalla Fondazione Ferrata Storti. Si
invitano le persone interessate a considerare la possibilità di una elargizione liberale alla FFS, c/c 33739, BRE, Pavia.
1) Le sindromi anemiche:
- Anemie da carenza di ferro
- Anemie megaloblastiche
- Anemie delle malattie croniche
- Anemie emolitiche
Disordini emolitici ereditari
Disordini emolitici da cause extraglobulari
- Anemia aplastica ed altre emocitopenie selettive
(eritroblastopenia isolata, neutropenie e trombocitopenie)
2) Le sindromi mieloproliferative
3) Le sindromi mielodisplastiche
4) Le leucemie acute
6) I linfomi maligni
- Morbo di Hodgkin
- Linfomi non Hodgkin
7) Le gammopatie monoclinali
- Mieloma multiplo
- Macroglobulinemia di Waldenstrom
Le cellule staminali emopoietiche vennero per la prima volta dimostrate nel topo con il
“colony-forming-units spleen assay”, basato sulla capacità di cellule emopoietiche sortate
di dare origine a colonie spleniche in un topo che dodici giorni prima era stato sottoposto
ad irradiazione letale. Da questa prima dimostrazione sono stati compiuti molti progressi
nello sviluppo di metodiche che consentono di meglio caratterizzare le cellule staminali.
Tali metodiche sono costituite dai tests di clonogenicità e dall’immunofenotipo. Una
migliore definizione di quest’ultimo dovuta all’identificazione dell’antigene CD34 sulla
superficie della cellula staminale ha permesso di sottoporre tali cellule a varie procedure
di manipolazione in vitro.
Tests di clonogenicità
Tutti gli studi riguardanti le cellule staminali sono basati sull’analisi in vitro della clonalità,
cioè sulla possibilità di seguire una singola cellula staminale e la sua progenie. L’impiego
dell’analisi della clonalità ha permesso di definire le caratteristiche salienti delle cellule
staminali emopoietiche:
2006, Fondazione Ferrata Storti. Il contenuto di questa dispensa è fornito a titolo gratuito dalla Fondazione Ferrata Storti. Si
invitano le persone interessate a considerare la possibilità di una elargizione liberale alla FFS, c/c 33739, BRE, Pavia.
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1. sono capaci di creare un equilibrio tra automantenimento e differenziamento;
2. sono multipotenti: una singola cellula staminale produce almeno 8-10 linee distinte
di cellule mature del sangue;
3. ciascuna cellula è capace di generare una progenie di cellule mature sufficiente a
garantire la ripresa dell’emopoiesi dopo un trapianto;
4. sono rare, avendo una frequenza compresa tra 1 su 10.000 e 1 su 100.000 cellule
nel caso del midollo osseo;
5. sono quiescenti, essendo nella fase G0 del ciclo cellulare, o possiedono un basso
indice mitotico nel sistema emopoietico dell’adulto in “steady-state”.
Inoltre l’analisi della clonalità ha dimostrato che il sistema emopoietico è organizzato
secondo un ordine gerarchico e ha anche stabilito quale sia l’azione delle diverse
citochine sulla cellula staminale.
Pertanto l’impiego di questi sistemi di coltura, inizialmente usati per lo studio della cellula
staminale murina e successivamente adattati allo studio di quella umana, ha permesso di
valutare alcuni aspetti funzionali della cellula staminale emopietica e d’individuare e
quantificare diversi tipi di cellule progenitrici orientate verso l’una o verso l’altra linea
differenziativa. Sono oggi disponibili sistemi di coltura a breve, medio, lungo termine che
consentono di esaminare le varie classi di cellule staminali.
Di solito le colture a breve termine consentono di dimostrare variazioni di numero dei
progenitori emopoietici, di valutare la risposta ai diversi fattori di crescita e citochine e di
stabilire quale sia l’azione delle molecole regolatorie su progenitori emopoietici con
diverso livello di differenziazione. Colture a breve termine denominate HPP-CFC (“high
proliferative potential colony-forming cells) consentono di identificare progenitori
emopoietici molto primitivi. In coltura le cellule danno origine a colonie del diametro
superiore a 0.5-1mm composte da almeno 1000 elementi. Le cellule di questi sistemi di
coltura sono resistenti a dosi quasi letali di 5-fluorouracile e nel topo sono contenute nella
stessa frazione delle cellule capaci di ricostituire l’emopoiesi a lungo termine. Tuttavia le
HPP-CFC rappresentano una popolazione cellulare eterogenea formata da un lato da
cellule con potenziale staminalità e dall’altro da cellule situate lungo la scala
diffferenziativa appena prima dei progenitori commissionati.
Tra le colture a lungo termine che consentono di individuare la cellula staminale bisogna
ricordare le seguenti:
LTC-IC: si basano sulla dimostrazione che in colture a lungo termine le cellule
aderenti alla fiasca (stromali) contenute nel midollo osseo non solo supportano la
sopravvivenza delle cellule staminali ma anche la loro capacità di generare “Clony
Forming Cells” (CFC). In questo sistema le cellule staminali vengono piastrate su
un layer preformato, costituito da cellule stromali. Tali colture vengono seguite nel
tempo per dimostrare la presenza di progenitori emopoietici capaci di garantire
un’emopoiesi a lungo termine. Siccome le cellule clonogeniche inizialmente
presenti nella sospensione cellulare non sopravvivono per un periodo di tempo
superiore alle tre settimane, la quantificazione delle LTC-IC primitive presenti al
momento dell’allestimento della coltura viene fatta misurando la produzione di
cellule clonogeniche dopo cinque-otto settimane. Normalmente la quota di LTC-IC
presenti in una coltura di midollo osseo incubata per cinque settimane è pari a
circa una cellula per 5x105 cellule mononucleate. Il 20% delle LTC-IC ottenute da
midollo osseo con fenotipo CD34+ e CD38- è capace di automantenersi. E’ stato
dimostrato che le LTC-IC del topo sono in grado di ripopolare un ospite
precedentemente sottoposto ad irradiazione letale, ma questa caratteristica non è
stata dimostrata per le LTC-IC umane. Recentemente nel sangue periferico e nel
sangue di cordone ombelicale sono state individuate cellule staminali capaci di
generare una progenie di cellule mieloidi dopo un tempo di otto-quattordici
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settimane (“extended LTC-IC”). Si tratta di cellule CD34 positive e CD38 negative
che rispetto alle normali LTC-IC sono più quiescenti e meno responsive alla
stimolazione con fattori di crescita.
CFU di tipo A: in questo sistema le cellule di interesse vengono coltivate su un
layer stromale irradiato contenuto in pozzetti. Le cellule staminali ed i progenitori
emopoietici crescono in un modo particolare, formando, dopo trentacinque giorni
di coltura, strutture che prendono il nome di “cobblestone areas”. Più primitiva è la
cellula piastrata più a lungo essa manterrà la capacità di formare “cobblestone
areas”. Le cellule che dopo trentacinque giorni sono ancora in grado di generare
“cobblestone areas” sono considerate cellule staminali emopoietiche. Sul piano
funzionale le CFU di tipo A di sei-dodici settimane sono resistenti all’azione del 5-
fluorouracile. Quelle di sei settimane sono paragonabili alle “Long-term initiating
cells” (LTC-IC), mentre quelle di dodici settimane sono paragonabili alle
“extended” LTC-IC. Dal punto di vista immunofenotipico le prime sono positive per
l’antigene CD34 e presentano una eterogeneità nell’espressione del CD38, mentre
le seconde sono CD34 positive e CD38 negative. Pertanto la differenza tra LTC-IC
e CFU di tipo A consiste nel fatto che queste ultime analizzano cellule presenti
nelle “cobblestone areas” e non la produzione delle CFC ed individuano
progenitori multipotenti, presenti ad una frequenza circa dieci volte inferiore a
quella osservata nelle LTC-IC.
Altri sistemi hanno studiato le cellule staminali più primitive basandosi sulla loro capacità
di ricostituire l’emopiesi in un ospite precedentemente irradiato o affetto da un carenza di
cellule staminali. La capacità funzionale della cellula staminale può essere dimostrata in
vivo utilizzando tre metodologie: la radioprotezione, il trapianto in modelli geneticamente
compromessi e la ripopolazione competitiva. I marcatori più spesso impiegati sono
aberrazioni cromosomiche e retrovirus. La maggior parte degli studi diretti a definire le
proprietà delle cellule staminali sono stati condotti nel topo, mentre informazioni sulle
cellule staminali umane sono state ottenute impiegando gli xenotrapianti.
Immunofenotipo
Il fenotipo di membrana della cellula staminale è tuttora poco definito. Tuttavia una
popolazione capace di ricostituire l’emopoiesi di un ricevente precedentemente
sottoposto a chemioradioterapia mostra una positività per il CD34 e l’AC133 ed una
negatività per il CD38 e per HLA-DR. Si tratta di cellule che oltre ad essere presenti nel
midollo osseo si trovano nel cordone ombelicale e nel sangue periferico dove possono
essere mobilizzate impiegando la chemioterapia o il fattore di crescita. Uno dei passi più
importanti nella caratterizzazione delle cellule staminali è consistito nell’identificazione
dell’antigene CD34, una sialomucina presente sulla loro superficie. Studi recenti hanno
però dimostrato che tale antigene può essere espresso solo temporaneamente dalle
cellule staminali e che alcune di queste possono non presentare tale antigene. In
condizioni fisiologiche le cellule CD34 positive costituiscono l’1-3% di tutte le cellule
mononucleate del midollo osseo, mentre solo lo 0.1-0.2% delle cellule mononucleate del
sangue periferico e lo 0.8-1.2% delle cellule mononucleate del sangue del cordone
ombelicale. La frazione di cellule CD34 positive è composta da cellule staminali e da
progenitori emopoietici commissionati. I progenitori molto precoci sono contenuti nella
popolazione CD34 positiva, CD38 e HLA-DR negativa e Thy positiva e nella popolazione
CD34 positiva Lin negativa. Un altro antigene che individua i progenitori emopoietici è
l’AC133, caratteristicamente espresso dalle cellule CD34 positive del midollo osseo.
Siccome non è espresso da altre cellule del sangue può essere impiegato in alternativa al
CD34 per individuare la cellula staminale e per la caratterizzazione dei progenitori
necessari per la ricostituzione emopoietica. Recentemente è stato osservato che cellule
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CD34 e Lin negative contengono una sottopopolazione di cellule emopoietiche capaci di
garantire la ricostituzione emopoietica e di differenziarsi in cellule CD34 positive in
riceventi sottoposti a chemioradioterapia mieloablativa.
Manipolazioni in vitro
Si tratta di procedure impiegate in campo trapiantologico e consistono in:
selezione positiva o negativa delle cellule staminali;
espansione in vitro in presenza di appropriate citochine;
inserzione di vettori retrovirali o di geni per terapia genica.
Selezione: è basata sull’assetto immunofenotipico della cellula staminale e in particolare
sulla presenza dell’antigene CD34. Come già riportato si distingue una selezione
negativa ed una positiva. La prima impiega anticorpi monoclonali diretti verso antigeni
presenti sulla superficie della cellula tumorale o comunque verso antigeni non espressi
sulla superficie della cellula staminale. Le cellule a cui sono legati gli anticorpi
monoclonali possono essere eliminate dalla sospensione cellulare tramite lisi indotta
dall’attivazione della cascata complementare, mediante tossine direttamente coniugate
con l’anticorpo o mediante rimozione con sistemi magnetici. La selezione positiva viene
effettuata con anticorpi monoclonali diretti verso l’antigene CD34. La rimozione delle
cellule CD34 positive con adeso l’anticorpo dalla sospensione cellulare utilizza particelle
paramagnetiche che trattengono le cellule marcate quando queste vengono eluite
attraverso un campo magnetico.
Espansione in vitro: utilizza sistemi di coltura in fase liquida contenente diverse
combinazioni di citochine. Tali sistemi permettono di ottenere un buon numero di CFU-
GM e di espandere le LTC-IC.
Inserzione di vettori retrovirali e di geni. Le cellule staminali CD34 positive essendo
prontamente disponibili mediante procedure di aferesi, potendo essere facilmente
sottoposte a procedure di manipolazione ex vivo e possedendo la capacità di
automantenersi possono essere impiegate per un’eventuale terapia genica.
Come già riportato le cellule staminali sono presenti nel midollo osseo con una frequenza
compresa tra 1 su 10.000 e 1 su 100.000 cellule. Quelle più indifferenziate, chiamate
totipotenti, generano tutte le cellule del sangue e danno origine alle cellule staminali
multipotenti che si differenzaziano in senso mielopoietico o linfopoietico. Da questo ultimo
tipo di cellula staminale originano i progenitori emopoietici commissionati verso una sola
linea cellulare. Le cellule staminali totipotenti sono per la maggior parte quiescenti
essendo nella fase G0 del ciclo cellulare. Tuttavia dati recenti ottenuti da modelli
sperimentali murini indicano che la cellula staminale entra ed esce dal ciclo cellulare: ogni
cellula staminale in grado di garantire una ricostituzione emopoietica a lungo termine si
divide almeno una volta al mese.
La cellula staminale è molto sensibile alla irradiazione che non solo causa la morte di
cellule in divisione ma anche quella di cellule in interfase. Invece il trattamento con 5-
fluorouracile o con 4-idroperossiciclofosfamide elimina le cellule in divisione ma non
altera la capacità della cellula staminale midollare di ricostituire l’emopoiesi a lungo
termine.
Le cellule staminale sono contenute nelle nicchie midollari. Nell’ospite sottoposto a
radiochemioterapia la cellula staminale reinfusa raggiunge le nicchie midollari nello
stesso giorno della sua reinfusione. Questa capacità della cellula staminale che va sotto il
nome di “homing” è controllata da molecole della famiglia delle integrine (tra queste
soprattutto da VLA-4) e da recettori di adesione come il CD44. Tra gli altri recettori che
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mediano l’”homing” bisogna ricordare il c-KIT che consente alla cellula di aderire allo
stroma. Viceversa la mobilizzazione della cellula staminale avviene per azione del fattore
di crescita granulocitario (G-CSF) che indurrebbe i neutrofili a liberare delle proteasi che
digeriscono le proteine di adesione liberando la cellula staminale dalla nicchia midollare.
Precursori emopoietici
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uno stadio variabile dello sviluppo, solitamente allo stadio di 8 nuclei, si arrestano sia la
replicazione nucleare che la crescita cellulare: il citoplasma diventa granulare e vengono
prodotte le piastrine, che sono frammenti di citoplasma dei megacariociti.
B-cell
Lymphoid
stem cell
T-cell
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Eritropoietina
L'eritropoietina è il più importante fattore regolatore dell'eritropoiesi. E’ una proteina
glicosilata del peso molecolare di 30.4 kD.
165 aa
30,4 kD
glicosilazione
40%
Si comporta a tutti gli effetti come un ormone: è prodotta da un organo, il rene, diverso dal
midollo osseo emopoietico, raggiunge le cellule bersaglio attraverso il sistema
circolatorio, la sua produzione è inibita con un meccanismo feedback dall'ossigeno
trasportato dagli eritrociti. Le cellule renali che producono eritropoietina sono fibroblasti
peritubulari, mentre i sensori della tensione venosa di ossigeno sono cellule endoteliali
delle vene renali. La concentrazione normale di eritropoietina nel sangue circolante varia
da 5 a 25 mU/mL. L'eritropoietina ha molteplici azioni, tutte dipendenti dalla presenza di
uno specifico recettore sulla superficie delle cellule responsive. Quella più importante
fisiologicamente riguarda i progenitori eritroidi CFU-E e i proeritroblasti: l'eritropoietina
previene la morte programmata o apoptosi di queste cellule. Quando le CFU-E e i
proeritroblasti sono esposti a concentrazioni elevate di eritropoietina, la maggior parte di
loro sopravvive e può progredire nel ciclo cellulare fino alla mitosi: l'eritropoiesi viene
quindi pre-amplificata. L'opposto succede quando la concentrazione di eritropoietina è
inadeguata e quindi la maggior parte dei progenitori eritroidi muore di apoptosi.
Erythropoietin production:
Transcriptional feedback regulation
Oxygen sensor
(heme protein)
Erythroid RBCs Circulating
marrow RBCs HIF-1
Epo
Epo O2 Erythroid
RBC
Kidney marrow
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Plasticità della cellula staminale
La plasticità della cellula staminale fu per la prima volta dimostrata utilizzando modelli
sperimentali murini. Quando cellule staminali provenienti da un topo di sesso maschile
venivano reinfuse in un topo di sesso femminile precedentemente irradiato, il cromosoma
Y non veniva individuato solo nelle cellule del tessuto emopoietico ma anche in alcune
cellule epiteliali situate a livello dei dotti biliari, del polmone,del tratto gastro-enterico e
della cute. Questo modello sperimentale, pur con i limiti della metodica impiegata
(ibridazione in situ), ha per la prima volta dimostrato che la cellula staminale emopoietica
è effettivamente dotata di una certa plasticità. Modelli sperimentali successivi, che hanno
utilizzato cellule staminali purificate e dotate di un marcatore specifico, hanno indicato
che la reinfusione di un piccolo numero di cellule staminali normali in topi affetti da
tirosinemia di tipo 1 è sufficiente a correggere il difetto enzimatico. Gli stessi modelli
sperimentali hanno indicato che le cellule staminali reinfuse sono capaci di differenziarsi
in epatociti (che esprimono il gene dell’albumina umana), in cardiomiociti, in strutture
endoteliali, in cellule muscolari lisce neointimali e che tutte queste cellule sono capaci di
svolgere le loro normali funzioni. Altri studi sperimentali, che hanno impiegato progenitori
emopoietici mobilizzati nel sangue periferico dopo trattamento con G-CSF, hanno
indicato che quei progenitori emopoietici sono effettivamente in grado di produrre una
neovascolarizzazione dell’occhio nel topo e del miocardio infartuato nel ratto.
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Modelli clinici
Nell’uomo le prove a favore della plasticità della cellula staminale sono state fornite
dall’efficacia terapeutica del trapianto allogenico nei pazienti affetti da osteogenesi
imperfetta e dallo studio dei trapianti di midollo osseo condotti nelle coppie
donatore/ricevente di sesso diverso. Varie casistiche hanno riportato che il ricevente
sviluppa uno stato di chimerismo (presenza di cellule del donatore accanto a cellule del
ricevente) a livello del tessuto epatico, del tessuto nervoso (ippocampo, corteccia
cerebrale, cellule di Purkinje), del tratto gasrotroenterico (quest’ultimo successivamente
bersaglio di “Graft versus Host Disease, GvHD) e della cute. In questi tessuti lo stato di
chimerismo compare di solito tredici giorni dopo il trapianto e persiste sino ad almeno 354
giorni. Altri studi condotti nei pazienti sottoposti a trapianto di organo solido da donatore
di sesso diverso hanno dimostrato la plasticità delle cellule staminali presenti nel sangue
periferico. E’ stato infatti osservato un chimerismo maschile (cellule maschili accanto a
cellule femminili) in pazienti di sesso maschile sottoposti a trapianto cardiaco da donatore
di sesso femminile ed è stato suggerito che le cellule staminali maschili del ricevente
possano favorire il rimodellamento ventricolare del cuore trapiantato. Una situazione
analoga è stata osservata anche a livello endoteliale nei pazienti di sesso maschile che
avevano sviluppato un rigetto dopo trapianto di rene da donatore di sesso femminile.
I risultati raggiunti dai modelli sperimentali animali e dagli studi sino ad oggi condotti
nell’uomo devono essere interpretati con cautela perché le metodiche utilizzate
presentano importanti limiti legati alla loro diversa sensibilità e specificità. Inoltre bisogna
considerare che cellule del donatore, identificate dal cromosoma Y, potrebbero essere
linfociti o macrofagi coinvolti in una risposta infiammatoria e non cellule epiteliali derivate
dalla cellula staminale totipotente del donatore. Un altro problema è costituito dal
fenomeno noto come “fusione cellulare”. Studi recenti hanno infatti contraddetto i risultati
sin qui ottenuti riguardo alla plasticità della cellula staminale e hanno suggerito che le
cellule staminali normali del donatore possano formare cellule ibride, contenenti i geni del
donatore e del ricevente, fondendosi con quelle del ricevente. In realtà la poliploidia che
ne deriva è stata dimostrata solo a livello epatico e solo in alcuni casi aneddotici a livello
del tessuto sede della lesione. La fusione cellulare potrebbe spiegare la presenza in un
organo solido di cellule che mostrano solo alcune caratteristiche del donatore e sarebbe
un processo fisiologico di riparo del danno cellulare: la cellula staminale fornirebbe geni
nuovi e sani alla cellule specializzata che così sopravviverebbe o correggerebbe un
deficit enzimatico costituzionale.
La cellula capace di dare origine a cellule di organo solido si ritiene sia un elemento
mononucleato presente nel tessuto emopoietico midollare o in circolo nel sangue
periferico. I meccanismi che consentono a tale cellula di differenziarsi in elementi non
tessuto specifici sono tuttora sconosciuti. Sono state proposte le seguenti quattro possibili
ipotesi:
1. Una prima ipotesi propone che cellule staminali diverse, ciascuna tessuto
specifica, possano circolare nel sangue periferico. Questa ipotesi trova conferma
nel fatto che oltre alla cellula staminale emopoietica il sangue periferico contiene
cellule mesenchimali, progenitori del tessuto endoteliale e muscolare liscio e
cellule staminali scheletriche. Pertanto cellule staminali contenute in un organo
solido e tessuto specifiche potrebbero passare nel sangue periferico e quindi
tornare all’organo solido.
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2. Una seconda ipotesi suggerisce invece che durante tutta la vita adulta il tessuto
emopoietico midollare e/o il sangue periferico possano contenere cellule staminali
con caratteristiche funzionali simili a quelle delle cellula embrionale e pertanto
capaci di dare origine ai vari tipi di cellule staminali circolanti tessuto specifiche.
3. Una terza ipotesi propone un processo di transdifferenzazione della cellula
staminale emopoietica. In pratica tale cellula presenterebbe un difettoso
funzionamento del proprio programma di differenzazione che, in particolari
condizioni, verrebbe abbandonato e sarebbe sostituito da un altro programma di
differenziazione che consentirebbe di generare cellule diverse da quelle presenti
nel tessuto d’origine.
4. Una quarta ipotesi propone che una cellula differenziata di un organo solido e
pertanto tessuto specifica possa perdere le proprie caratteristiche biologiche e
funzionali (de-differenziarsi) e riacquisire i caratteri di cellula staminale adulta allo
scopo di generare cellule con caratteristiche funzionali e differenziative specifiche
di un altro tessuto (ridifferenzazione).
Una futura applicazione delle cellule staminali adulte è costituita da un loro possibile
impiego nella riparazione dei tessuti. Per essere efficacemente utilizzate esse
dovrebbero essere facilmente accessibili, dovrebbero raggiungere la sede della lesione
in concentrazione sufficiente e dovrebbero essere correttamente guidate da segnali
citochinici specifici liberatisi dal tessuto danneggiato. Per raggiungere questi obiettivi è
necessaria una migliore comprensione dei meccanismi che regolano la differenziazione
ed il richiamo di tali progenitori nella sede di danno tissutale. Inoltre in un prossimo
futuro per avere una concentrazione sufficiente di cellule staminali adulte sarà
necessario sottoporle a selezione, a manipolazione e ad espansione in vitro.
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2. Diagnostica ematologica
Esame emocromocitometrico
Lo striscio di sangue periferico viene colorato con una colorazione panottica (ad es., May-
Grünwald/Giemsa). Nel corso dell'esame di uno striscio di sangue periferico, si valutano:
la morfologia dei globuli rossi, dei globuli bianchi e delle piastrine. Si determina quindi la
formula leucocitaria, anche se questa è già stata fornita da un contatore elettronico.
Le percentuali normali delle varie sottopopolazioni di globuli bianchi costituiscono la
formula leucocitaria.
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Formula leucocitaria:
Inclusi eritrocitari
Corpi di Howell-Jolly Residui nucleari Splenectomia
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Principali anomalie morfologiche dei granulociti neutrofili e quadri clinici più
frequenti ad esse associati
Anomalie nucleari
Ipersegmentazione Anemie megaloblastiche
Anomalie citoplasmatiche
Degranulazione Mielodisplasie
Mieloaspirato
Citochimica
Alcune reazioni enzimatiche consentono di caratterizzare le cellule ematiche normali e
patologiche e, benché affiancate da metodiche più moderne e sofisticate, hanno ancora
oggi una funzione rilevante nella diagnostica ematologia.
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Sudan nero B
La reazione al sudan nero B colora i fosfolipidi nelle cellule. I precursori mieloidi
presentano positività ad intensità crescente con la maturazione, mentre i precursori
linfoidi sono negativi.
Mieloperossidasi
La mieloperossidasi è un enzima lisosomiale, presente nei granuli dei granulociti e dei
monociti. Tra i precursori mieloidi, i mieloblasti sono negativi o debolmente positivi,
mentre promielociti, mielociti e granulociti sono positivi alla colorazione. I precursori
linfoidi sono negativi.
Esterasi
Alfa-naftil-acetato-esterasi (ANAE) – I precursori mieloidi granulocitari sono negativi,
mentre i precursori monocitari ed i precursori linfoidi T risultano positivi.
Cloroacetato-esterasi (CAE) – I precursori granulocitari risultano positivi alla colorazione,
mentre i precursori monocitari sono negativi.
Fofatasi acida
La reazione colora fosfati inorganici con anelli aromatici. I precursori mieloidi presentano
una positività di tipo diffuso, mentre i precursori linfoidi T una positività localizzata
all’apparato del Golgi.
La biopsia ossea consiste nel prelevare, mediante apposito ago, un campione di osso e
midollo osseo, che viene poi trattato ed esaminato presso il Servizio di Anatomia
Patologica. La biopsia ossea è di notevole utilità per valutare l'architettura e la cellularità
midollare, ed è il mezzo migliore per evidenziare eventuali infiltrati midollari patologici.
Separazione dell’emoglobina
Elettroforesi dell’emoglobina
L’elettroforesi in tampone acido (gel di agorosio, pH 6.2) è utile per per differenziare
alcune emoglobine patologiche, in particolare HbS da HbD.
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- +
C S A J H
E D
O Lepore
A2
Citogenetica
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Fluorescence in situ hybridization (FISH)
Questa tecnica è basata sulla capacità di singoli filamenti di DNA di appaiarsi a filamenti
con sequenza complementare. Essa prevede l’impiego di sonde nucleotidiche con
sequenza complementare ai geni o ai riarrangiamenti da studiare; le sonde sono
sintetizzate con nucleotidi marcati con biotina o digossigenina; la visualizzazione viene
effettuata con avidina o con anticorpi anti-digossigenina coniugati con fluorocromi. La
FISH può essere effettuata su campioni di sangue midollare o di sangue periferico nei
pazienti con cellule neoplastiche circolanti e consente di studiare il DNA di cellule in
interfase. E’ una tecnica rapida, efficiente, dotata di sensibilità e specificità più elevate
della citogenetica convenzionale.
Southern blotting
Il Southern blotting è una tecnica che consiste nella corsa elettroforetica su gel di
agarosio di DNA e successivo trasferimento da gel ad una membrana di nitrocellulosa. La
visualizzazione viene effettuata mediante ibridazione con una sonda marcata con 32P o
fluorocromi e complementare ad un tratto della sequenza di interesse.
Northern blotting
Il Northern blotting è una tecnica che consente la visualizzazione degli RNA mediante
trasferimento, dopo corsa elettroforesi su gel di agarosio-formaldeide, ad una membrana
di nitrocellulosa e successiva ibridazione con una sonda marcata con 32P o fluorocromi
con sequenza complementare ad un tratto dell’RNA di interesse.
Western blotting
Il Western blotting è una tecnica che consiste nel trasferimento di proteine dopo corsa
elettroforetica su gel di poliacrilamide ad una membrana. Per la visualizzazione vengono
impiegati anticorpi specifici per le proteine di interesse.
Citofluorimetria a flusso
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invitano le persone interessate a considerare la possibilità di una elargizione liberale alla FFS, c/c 33739, BRE, Pavia.
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costituenti cellulari, inducendo l’emissione di luce a diverse lunghezze d’onda
(autofluorescenza) oppure può eccitare vari fluorocromi (come la fluoresceina, FITC, la
ficoeritrina, PE, o lo ioduro di propidio, PI). Coniugando questi fluorocromi con anticorpi
monoclonali specifici per gli antigeni di interesse è possibile studiare l’intensità di
espressione degli antigeni a livello citoplasmatico o di membrana.
Colture cellulari
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3. Definizione e classificazione delle anemie
Definizione
Fisiopatologia
100
Ossiemoglobina
Saturazione
dell’emoglobina
per l’ossigeno (%) P50
Desossiemoglobina
0
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Il quadro clinico del paziente anemico è naturalmente caratterizzato oltre che da sintomi e
segni dell’anemia, da sintomi e segni specifici della patologia di base (carenza di ferro, di
vitamina B12, emorragia, emolisi, etc…).
Anemie ipoproliferative
Il meccanismo patogenetico risiede nella ridotta capacità proliferativa del midollo eritroide.
Il quadro è caratterizzato da un conteggio reticolocitario inadeguato per il grado di anemia
(< 2%) e da una bilirubina totale tendenzialmente bassa.
Le condizioni cliniche responsabili di anemia ipoproliferativa possono essere
sommariamente distinte in alterazioni primitive delle cellule staminali (aplasia midollare ed
eritroblastopenia, emopatie clonali), in anemia mieloftisica (da infiltrazione midollare
neoplastica), in anemie da diminuita produzione di eritropoietina (insufficienza renale
cronica, anemia dell’infiammazione o delle malattie croniche, da malnutrizione), ed in
anemie da ridotto apporto di ferro al midollo eritroide (carenza di ferro) (Tabella 1).
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Anemie emolitiche
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Emolisi extravascolare:
disordini della membrana eritrocitaria,
emoglobinopatie,
difetti enzimatici o metabolici eritrocitari,
anemie emolitiche immuni,
ipersplenismo;
Frammentazione eritrocitaria e altre cause di emolisi intravascolare:
cause meccaniche,
coagulazione intravascolare disseminata,
porpora trombotica trombocitopenica (sindrome emolitico uremica),
malattie vascolari,
reazione trasfusionale;
meccanismi autoimmuni con attivazione del complemento.
Anemia emorragica
E’ una condizione dovuta ad una perdita di eritrociti dal circolo per emorragia. E’
caratterizzata da un conteggio reticolocitario tendenzialmente aumentato e da una
bilirubina totale normale.
Diagnosi di anemia
Emoglobina (Hb), g/dL 13,0-17,0 12,0-16,0
N.B. Il numero di globuli rossi o eritrociti (RBC) è parametro di scarsa utilità diagnostica,
talora fuorviante (numero normale o anche aumentato nelle anemie microcitiche).
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4. Aplasia midollare
Dal punto di vista epidemiologico l’aplasia midollare ha una incidenza di circa 1-2
casi/1.000.000 di persone/anno in Europa e nel Nord America, che equivale a 110-120
nuovi casi all’anno in Italia, mentre ha una incidenza sensibilmente superiore nel sud-est
asiatico.
Patogenesi
Dal punto di vista patogenetico si possono distinguere forme ereditarie, come l’anemia di
Fanconi e la discheratosi congenita, e forme acquisite, idiopatica, a patogenesi
autoimmune, e secondarie a cause fisico/chimiche (radiazioni, farmaci, tossici) e virali
(EBV, virus epatotropi non-A, non-B, non-C, HIV).
Forme congenite:
con interessamento di tutte le serie maturative:
o Anemia di Fanconi;
o Discheratosi congenita;
o Sindrome di Shwachman-Diamond;
con interessamento selettivo della serie eritroide: Anemia di Blackfan-Diamond;
Forme acquisite:
con interessamento di tutte le serie maturative: aplasia midollare:
o secondaria a cause fisico/chimiche (radiazioni, farmaci, agenti chimici);
o secondaria ad infezione virale (epatite non-A, non-B, non-C; EBV, HIV-1);
o immunomediata (idiopatica);
con interessamento selettivo della serie eritroide: eritroblastopenia selettiva acquisita:
o secondaria ad infezione virale (Parvovirus B19);
o immunomediata (timoma).
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In un ridotto numero di casi l’aplasia midollare è secondaria a patologie virali note, come
l’infezione da EBV (mononucleosi infettiva) e quadri di epatite non-A, non-B, non-C.
In corso di infezione acuta da EBV il riscontro di aplasia midollare è raro e generalmente
transitorio, mentre è più frequente e persistente in caso di infezione cronica attiva da EBV
nei soggetti immunocompromessi.
In circa 1-5% dei casi l’insorgenza dell’anemia aplastica è preceduta da un episodio di
epatite acuta non-A, non-B, non-C. L’agente eziologico dell’epatite non è stato
identificato. La pancitopenia insorge generalmente entro due mesi circa dall’epatite;
alcune evidenze di laboratorio suggeruscono che la patogenesi possa essere
immunomediata e questa ipotesi sembra confermata dalla responsività di queste forme
alla terapia immunosoppressiva.
Dal punto di vista clinico l’aplasia midollare si presenta con pancitopenia. Il quadro è
pertanto caratterizzato da sintomi e segni secondari ad anemia, granulocitopenia,
piastrinopenia. L’anemia è generalmente normo- o macrocitica, con reticolocitopenia.
Quanto più gravi sono le alterazioni a carico delle cellule staminali, tanto più grave è la
citopenia e quindi la prognosi, determinata soprattutto dal rischio di complicanze infettive
secondarie alla granulocitopenia e dal rischio di complicanze emorragiche secondarie alla
piastrinopenia.
Si definisce aplasia midollare grave o severa la condizione in cui, accanto ad un midollo
ipoplastico (cellularità inferiore al 25%), siano presenti almeno due delle seguenti tre
condizioni: reticolociti inferiori a 1%, granulociti inferiori a 0.5x109/l, piastrine inferiori a
20x109/l. Quando i granulociti sono inferiori a 0,2 x 109/l, l'aplasia midollare si definisce
molto grave.
Esami di laboratorio
Il corretto inquadramento del paziente con sospetta anemia aplastica prevede l’esame
emocromocitometrico, che dimostrerà anemia normocitica associata a leucopenia con
neutropenia e piastrinopenia (pancitopenia), ed il conteggio reticolocitario, che risulta
inadeguato per il grado di anemia, seguiti da un mieloaspirato con analisi cromosomica
ed immunofenotipo e da una biopsia osteomidollare, che dimostra una ipoplasia midollare
con cellularità inferiore al 25%.
Diagnosi differenziale
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linfoblastiche, alcuni linfomi ad interessamento midollare, ed in pancitopenie con midollo
osseo normocellulare, come la maggior parte delle sindromi mielodisplastiche,
l’Emoglobinuria Parossistica Notturna (EPN), la mielofibrosi idiopatica, alcune leucemie e
linfomi ad interessamento midollare, la mieloftisi, leucemia a cellule capellute (hairy cell
leukemia).
Bisogna infine considerare le pancitopenie secondarie a malattie sistemiche, in
particolare a lupus eritematotus sistemico, ipersplenismo, carenza di vitamina B12 ed
acido folico, alcool, brucellosi, sarcoidosi, tuberculosi, leishmaniosi.
Terapia
La terapia dell’aplasia midollare si avvale oltre che del supporto trasfusionale, della
terapia immunosoppressiva, dell’uso di fattori di crescita emopoietici e del trapianto
allogenico di cellule staminali emopoietiche.
Nei pazienti di età inferiore a 55 anni con donatore compatibile familiare o unrelated, il
trapianto alleogenico rappresenta un’opzione terapeutica potenzialmente guaritiva. Nei
pazienti giovani (di età inferiore a 20 anni) con donatore familiare HLA-identico la
sopravvivenza a lungo termine è superiore all’80%. Il limite della procedura è
rappresentato dalla morbidità e dalla mortalità legata al trapianto (rigetto, infezioni, graft-
versus-host disease, veno-occlusive disease).
Anemia di Fanconi
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Patogenesi
Sono stati identificati 8 distinti gruppi di complementazione (A, B; C; D1, D2, E, F, G), il
più frequente dei quali è costituito dal gruppo A, che comprende circa il 60% dei casi.
Recentemente sono stati identificati diversi geni implicati, che interagiscono formando un
complesso che regola l’ubiquitinazione di diverse proteine cellulari, coinvolte nel
meccanismo di riparazione del DNA.
Esami di laboratorio
Terapia
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consente di curare in modo ottimale l’insufficienza midollare e di prevenire la comparsa di
emopatie maligne, ma è gravato da una elevata incidenza di secondi tumori a carico di
organi ed apparati non emopoietici, con sopravvivenze globali intorno al 50%.
Eritroblastopenia pura o aplasia eritroide selettiva (pure red cell aplasia, PRCA)
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5. Anemia da insufficienza renale cronica
Alla patogenesi possono contribuire alcuni fattori secondari, quali la presenza in circolo di
inibitori dell'eritropoiesi (poliamine e peptidi), l’iperparatiroidismo secondario, una ridotta
sopravvivenza eritrocitaria e cause correlate alla dialisi (perdite di sangue, emolisi
traumatica, intossicazione da Al).
Esami di laboratorio
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Terapia
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6. Anemia da malattia cronica
Patogenesi
Le citochine possono essere distinte in prima analisi sulla base dell’attività (e delle cellule
che le producono) in citochine immunoregolatorie coinvolte nello sviluppo e
nell’attivazione di linfociti e monociti (IL-2, IL-4, IL-10, IFN-, e TGF-),citochine prodotte
dai monociti/macrofagi in risposta ad agenti infettivi ad azione pro-infiammatoria (IL-1,
TNF-, ed IL-6) ed infiammatoria (IL-8), e citochine che fungono da fattori di crescita per i
progenitori ed i precursori dei granulociti e dei monociti (IL-3, IL-5, IL-7, GM-CSF, G-
CSF).
IL-1
TNF IFN
Erytroid
Epo progenitor
cell
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Il mediatore delle alterazioni del metabolismo del ferro è costituito dall’epcidina, una
proteina di fase acuta ad azione antibatterica, sintetizzata principalmente dal fegato in
risposta all’IL-6.
Un’aumento della sintesi di epicidina comporta una ridotta espressione delle proteine di
trasporto intestinali, con conseguente inibizione dell’assorbimento del ferro, una riduzione
dell’espressione della ferroportina (proteina responsabile dell’escrezione del ferro)
associata ad un aumento dell’espressione di ferritina nei macrofagi. Questo determina un
“blocco” o “sequestro” del ferro nel sistema monocito-macrofagico, che si riflette in una
riduzione della sideremia e della saturazione della transferrina, mentre la ferritina sierica,
che è in equilibrio con la ferritina citoplasmatica (vedi cap. 8), è normale o aumentata ad
indicare che che i depositi di ferro dell’organismo non sono depleti.
Tra le cause più frequenti di anemia da malattia cronica, troviamo malattie infettive
(infezioni polmonari, endocardite batterica subacuta, infezioni croniche delle vie urinarie,
processi infettivi della pelvi, osteomieliti), malattie flogistiche non infettive (artrite
reumatoide, lupus eritematoso sistemico, polimialgia reumatica, sarcoidosi, febbre
reumatica, enterite regionale), malattie neoplastiche (carcinomi, anche occulti, morbo di
Hodgkin, linfomi non-Hodgkin)
Nella maggior parte dei casi (circa il 70% dei casi diagnosticati di anemia da malattia
cronica), l’anemia dell’infiammazione è un rilevo clinico o laboratoristico effettuato in
pazienti con una patologia infiammatoria nota. In questi casi il quadro clinico è
generalmente dominato dai sintomi e segni della malattia di base, di cui l’anemia non
modifica significativamente il decorso clinico.
L’anemia da malattia cronica può, tuttavia, rappresentare (in circa il 30% dei casi) anche il
primo segno di malattia in soggetti altrimenti asintomatici e con anamnesi negativa per
malattia cronica. Tra le malattie infiammatorie croniche ad esordio subdolo e
scarsamente sintomatico, troviamo soprattutto neoplasie occulte. È quindi assolutamente
necessario, di fronte ad una diagnosi di anemia dell’infiammazione, giungere quanto
prima alla diagnosi certa della malattia di base.
Esami di laboratorio
Gli esami di laboratorio che consentono di formulare la diagnosi di anemia delle malattie
croniche comprendono l’esame emocromocitometrico con conteggio reticolocitario, la
valutazione dello stato del ferro corporeo, e gli indici di fase acuta.
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La valutazione dello stato del ferro corporeo dimostra una sideremia inferiore a 60 µg/dL
(ambito normale: 60-150 µg/dL), con TIBC compresa tra 100 e 300 µg/dL (ambito
normale: 240-360 µg/dL), e ferritina sierica normale o aumentata (ambito normale: 15-
250 µg/L). Dal punto di vista operativo, in presenza di una sideremia ridotta, si può
considerare indicativo di un blocco reticolo-endoteliale del ferro un valore di ferritina
sierica superiore a 100 µg/L.
Diagnosi differenziale
I casi di associazione fra anemia delle malattie croniche e carenza di ferro sono
caratterizzati da microcitosi eritrocitaria netta (MCV inferiore a 75 fL), con sideremia
ridotta e ferritina sierica pari compresa tra 10-15 e 100 g/L, generalmente 40-50 µg/L. In
questi casi si osserva risposta parziale alla terapia marziale
Terapia
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7. Anemia da carenza di ferro
La quantità totale di ferro presente nell’organismo (ferro corporeo) è pari a 3-5 g. Circa
1800 mg si trovano negli eritrociti circolanti, circa 3 mg nel plasma (transferrina), 300 mg
nel midollo osseo, 600 mg nel sistema reticolo-endoteliale, 300 mg nel muscolo, 1000 mg
nel fegato (Figura 1).
Midollo
osseo
Fegato
Fe
Sistema
reticolo-
endoteliale
La sede di assorbimento del ferro è il duodeno (Figura 2). Il ferro mediamente assorbito
al giorno è circa 1-2 mg.
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Nel citoplasma cellulare il ferro è legato alla ferritina, una proteina di deposito, ubiquitaria.
La proteina contiene fino a 4,000 Fe/mole. La ferritina è costituita da 24 subunità; è un
ibrido citoplasmatico di due tipi di catene: H (cr 11) e L (cr 19). La catena H ha attività
ferro-ossidasica; ci sono circa 20 (pseudo)geni della catena H su vari cromosomi. Alcuni
potrebbero essere funzionali.
Una piccola frazione della ferritina è secreta nel plasma (ferritina plasmatica o sierica). La
ferritina sierica è in equilibrio con la ferritina citoplasmatica, rappresentando un indice
attendibile dei depositi di ferro dell’organismo.
La principale proteina di trasporto del ferro nel plasma è la transferrina, una glicoproteina
a singola catena, con due siti di legame per il ferro, sintetizzata principalmente dal fegato.
Negli epatociti, la sintesi della transferrina, così come quella della ferritina, è regolata con
un meccanismo di tipo feed back negativo trascrizionale dal ferro citoplasmatico (Figura
3).
IRP1 IRP2
translation is inhibited stable mRNA and?
efficient translation
Fe
Fe
5' ORF 3' 5' ORF 3'
IRP1 IRP2
efficient translation of
ferritin mRNA TfR mRNA is degraded
abundant cellular iron
results in low affinity IRP1
and degradation of IRP2
La perdita media di ferro al giorno è pari a 1-2 mg. I principali meccanismi attraverso i
quali avviene la perdita di ferro sono la desquamazione cellulare, le mestruazioni ed altre
perdite ematiche.
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Una valutazione accurata dello stato del ferro corporeo può essere ottenuta
determinando la concentrazione del ferro nel siero (sideremia), la concentrazione
plasmatica della transferrina (transferrinemia) o della capacità totale legante il ferro (Total
Iron Binding Capacity, TIBC), la saturazione della transferrina e la concentrazione della
ferritina sierica. Gli intervalli di normalita di questi parametri sono indicati in tabella 1.
Tabella 1 - Parametri per la valutazione dello stato del ferro corporeo ed intervalli di
normalità.
Fisiopatologia
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N D E A
dep
Hb
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Un quadro clinico particolare è la cosiddetta anemia factitia o sindrome di Lasthénje de
Feriol (dal nome della protagonista del romanzo francese Une histoire sans nome).
Questa sindrome colpisce donne relativamente giovani, svolgenti un'attività paramedica,
soprattutto religiose, con disadattamento socio-affettivo e tendenza masochista, che
praticano ripetuti autosalassi. Le modalità dei salassi - occulti - sono le più varie, spesso
con profonde automutilazioni.
Gli esami di laboratorio utili alla diagnosi di anemia da carenza di ferro sono l’esame
emocromocitometrico, che dimostra anemia microcitica e ipocromica con contegio
reticolocitario inadeguato al grado di anemia (inferiore al 2%), ed i parametri per la
valutazione dello stato del ferro corporeo che dimostrano una sideremia ridotta (inferiore
a 60 µg/dL), TIBC elevata (superiore a 360 µg/dL) e ferritina sierica ridotta (inferiore a 10-
15 µg/L). La bilirubina totale ed indiretta risultano nella norma.
La ricerca di stillicidio cronico di sangue dal tratto gastrointestinale e dal tratto genito
urinario prevede, come primo passagio la ricerca di sangue occulto nelle feci (positivo per
perdite di 10-20mL al dì) ed un esame completo delle urine con valutazione microscopica
o citometrica del sedimento urinario, da approfondire, in caso di positività, con gli
opportuni esami strumentali.
Diagnosi differenziale
Tabella 2 - Parametri per la valutazione del ferro corporeo nelle anemie microcitiche.
Terapia
La terapia della carenza di ferro prevede la correzione della carenza di ferro con terapia
marziale, e, se possibile, l’eliminazione della perdita.
Per quanto riguarda la terapia marziale, nel 90% dei casi è efficace la terapia orale con
solfato ferroso, alla dose di 100-150 mg al giorno. Un incremento della concentrazione di
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emoglobina di circa 2 g/dL dopo 3-4 settimane di terapia può essere utilizzato come
criterio di un’adeguata risposta terapeutica. Dopo la correzione dell’anemia, la terapia
marziale deve essere continuata per repletare i depositi di ferro, fino ad ottenere una
concentrazione di ferritina sierica superiore a 50 g/L, oppure empiricamente per 4-6
mesi. In circa il 10% dei casi, la terapia per via orale non è efficice, e si rende necessaria
la somministrazione endovenosa.
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8. Anemie megaloblastiche
Acido folico
La vitamina B12 è contenuta in carne, latte e latticini. Nello stomaco si lega ad una
proteina, R-binder. Nel duodeno la proteina viene degradata e la vitamina B12 si lega al
fattore intrinseco (FI), sintetizzato dalle cellule parietali dello stomaco. Nell’ileo la vitamina
viene assorbita mentre il fattore intrinseco viene degradato.
La cobalamina assorbita viene legata nel plasma dalla transcobalamina, una proteina
sintetizzata principalmente nel fegato.
Il principale organo di deposito è il fegato. Le riserve corporee sono di 2-4 mg, mentre il
fabbisogno giornaliero minimo è di circa 2,5 µg, ma aumenta in molte condizioni. Pertanto
un deficitario apporto o uno scarso assorbimento comporta carenza dopo 3-6 anni.
Anemie megaloblastiche
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Patogenesi
Alcuni farmaci agiscono interferendo con la via metabolica dei folati. Tra gli agenti più
comunemente utilizzati, ricordiamo il thrimethoprim/sulfametossazolo, il methotrexate
(antifolici), la 6-mercaptopurina, la 6-tioguanina (anaoghi delle purine), il 5-fluorouracile
(analogo delle pirimidine), l’idrossiurea e la citarabina (inibitori della ribonucleotide
reduttasi).
Bisogna infine ricordare l’ossido nitroso (N2O), impiegato in anestesia, che determina la
degradazione della metil-cobalamina, inducendo anemia megaloblastica acuta.
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La mancata produzione di fattore intrinseco si può riscontrare dopo gastrectomia
(soprattutto totale), e nell’anemia perniciosa, una malattia a patogenesi immunologica,
frequente fra gli abitanti del Nord Europa e gli Afro-americani, che comporta progressiva
atrofia della mucosa gastrica ed esordio clinico dopo i 60 anni.
Quadro clinico
Diagnosi
Gli accertamenti diagnostici utili al corretto inquadramento del paziente con anemia
megaloblastica prevedono l’esame emocromocitometrico, il conteggio reticolocitario, il
dosaggio della bilirubina totale ed indiretta e dei livelli sierici di vitamina B12 sierica, folati
sierici, omocisteina sierica.
L’esame emocromocitometrico dimostra anemia macrocitica (nelle forme conclamate
MCV ≥ 110 fL), con presenza di megaovalociti nello striscio di sangue periferico,
tendenza alla, o presenza di leucopenia con ipersegementazione dei neutrofili, tendenza
alla, o presenza di piastrinopenia (quindi pancitopenia nelle forme conclamate), ed il
conteggio reticolocitario risulta inadeguato al grado di anemia.
Gli esami ematochimici rivelano una bilirubina indiretta tendenzialmente aumentata
(riflette il meccanismo patogenetico: eritropoiesi inefficace), così come la lattico
deidrogenasi (LDH) sierica.
I dosaggi sierici della vitamina B12 e dell’acido folico consentono di evidenziare il deficit
del o dei composti (Tabella 1).
Tabella 1 - Indagini di laboratorio utili per la diagnosi di carenza di vitamina B12 e folati
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Test di Schilling.
Questo test valuta l’assorbimento della vitamina B12. Consiste nel somministrare
vitamina B12 marcata per via orale, dosandone l’escrezione urinaria nelle 48 ore
successive. Nel soggetto con ridotto assorbimento (es. anemia perniciosa) l’escrezione
urinaria è significativamente inferiore rispetto al normale.
Diagnosi differenziale
Terapia
L’acido folico viene somministrato alla dose di 5 mg al dì per os. A questo dosaggio è
generalmente in grado di correggere il deficit anche nei soggetti con malassorbimento. La
somministrazione di folati è in grado di correggere l’anemia anche nei pazienti con deficit
di vitamina B12, senza tuttavia agire sulle manifestazioni neurologiche, che possono nel
frattempo progredire drammaticamente. É quindi assolutamente necessario, in fase
diagnostica, valutare sia il dosaggo di acido folico sia quello di vitamina B12.
La vitamina B12 viene somministrata alla dose di 100-500 µg/die i.m. E’ anche disponibile
una preparazione per os, utilizzabile nei soggetti con carenza dietetica.
La risposta reticolocitaria si osserva generalmente in 3-5 giorni, mentre i livelli di
emoglobina si normalizzano entro 1-2 mesi di trattamento.
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9. Sindromi talassemiche
I geni che codificano per le catene globiniche umane (embrionarie, fetali e dell’adulto)
sono mappati sul cromosoma 11 e sul cromosoma 16. E’ da notare che sul cromosoma
16 esistono due geni alfa (Figura 1).
Figura 1 – Mappatura dei geni delle catene globiniche sui cromosomi 11 e 16.
Cromosoma 11
G A
Cromosoma 16
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Nel corso della vita embrionale vengono sintetizzate le emoglobine Gower 1 (),
Portland (), Gower 2 (). Le caterne e sono sostituite rapidamente dalla catena
, che costituisce con la catena l’emoglobina fetale (Hb F) 2 A o G 2). Alla nascita
l’eoglobina è costituita per il 75% da HbF e per il 25% da HbA (2 2). Nei primi sei mesi
dopo la nascita la trascritzione del gene si riduce rapidamente (Figura 3).
Fegato Midollo
50 Sacco Milza
vitellino
40
30
20
10
6 12 18 24 30 6 12 18 24 30 36 42 48
Vita intrauterina Nascita Periodo postanatale
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Le sindromi talassemiche
Le sindromi talassemiche sono disordini ereditari della sintesi della globina caratterizzate
da microcitosi e ipocromia, nelle quali una lesione genica trasmessa come carattere
ereditario comporta riduzione o abolizione completa della sintesi di una o più catene
globiniche. La sintesi di emoglobina è deficitaria e si hanno alterazioni degli eritroblasti e
degli eritrociti provocate dalle catene globiniche in eccesso, con conseguente eritropoiesi
inefficace, da morte intramidollare degli eritroblasti, ed iperemolisi periferica.
Alfa talassemie
1-15%
5-15%
5-80%
60%
5-40%
Thalassemia
+
Thalassemia
o
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Patogenesi
La maggior parte dei casi di alfa talassemie sono dovute a delezione di geni alfa
(ereditata). Il termine + viene usato per definire un tipo di alfa talassemia nella quale un
solo gene alfa è deleto su un singolo cromosoma 16 ( -) (Figura 5).
+ thal
Il termine 0 viene usato per definire un tipo di alfa talassemia nella quale entrambi i geni
alfa di un cromosoma 16 sono deleti (--) (Figura 6).
0 thal
X X
Esistono anche alfa talassemie da meccanismi diversi dalla delezione genica, ma sono
rare.
Vi soggetti che hanno 5 geni alfa, 3 dei quali mappati su un cromosoma, e che derivano
da un crossing over ineguale (Figura 7).
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o talassemia
+ talassemia
Diagnosi
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dimostra la ridotta sintesi di catene ) e dallo studio dei geni attraverso un approccio di
biologia molecolare (Southern blot, PCR).
Beta talassemie
1-25%
15-30%
4-8% 1-3%
4-8%
1-3%
3-7%
Thalassemia
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0,985 0,015
Patogenesi
Il termine o viene usato per definire un tipo di beta talassemia nella quale il gene non
dà luogo a sintesi di catene beta.Il termine + viene usato per definire un tipo di beta
talassemia nella quale il gene produce catene beta, anche se in misura ridotta (10-
20%).
Mutazioni puntiformi che comportano una ridotta trascrizione genica [flanking regions
(promoter, ATA box)], alterano la regolazione dell'espressione genica e sono responsabili
di + talassemie; tipica é la mutazione in posizione - 29 (ATAATG) che comporta una
talassemia clinicamente non grave dell’etnia africana nera.
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talassemie; tipica é la mutazione in posizione 39 CT (CAGTAG) responsabile della
o talassemia sarda, e più in generale mediterranea (la o talassemia più diffusa in Italia).
Tabella 1 – Mutazioni identificate nei pazienti -talassemici nel bacino del Mediterraneo
Si possono distinguere diversi quadri clinici che correlano con il genotipo. I soggetti
eterozigoti sono asintomatici, i soggetti omozigoti presentano un quadro di talassemia
major o intermedia, mentre soggetti doppi eterozigoti o composti genetici presentano un
quadro di talassemia major o intermedia.
La talassemia major è caratterizzato da grave anemia (Hb minore di 6 g/dl), nella quale la
sopravvivenza dipende da regolari trasfusioni di eritrociti.
La talassemia intermedia è una condizione meno grave, con valori di Hb compresi fra 6 e
9 g/dl e occasionale fabbisogno di trasfusioni di eritrociti.
Per talassemia minor si definisce una condizione con lieve anemia, con emoglobina
generalmente compresa fra 9 e 12 g/dl, senza evidenti manifestazioni cliniche.
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La talassemia minima o trait talassemico è una condizione caratterizzata da valori di
emoglobina normali, microcitosi eritrocitaria e alterazione della composizione
emoglobinica.
Con il termine di portatore silente si intende una condizione senza alcuna alterazioni degli
eritrociti e dei parametri eritrocitari, ma con ridotta sintesi globinica in vitro e con lesione
molecolare del gene beta.
Trait talassemico
Ambito di riferimento
Emoglobina (Hb), g/dL 13.0 13.0-17.0
Contenuto emoglobinico
globulare medio (MCH), pg 21.2 27-32
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In epoca pre-trasfusionale (fino alla fine degli anni ’60) i pazienti presentavano
ipostaturalismo e deformazioni scheletriche, e morivano nei primi 10 anni per varie
complicanze (infezioni, complicanze cardiache).
Nei primi 10-15 anni di regolare terapia trasfusionale (fino alla metà degli anni ‘80) i
pazienti sviluppavano ipogonadismo ipogonadotropo e morte per scompenso cardiaco
intorno ai 20 anni (complicanze del sovraccarico di ferro trasfusionale).
Con una regolare terapia trasfusionale (Hb pre-trasfusionale intorno a 9-9.5 g/dL) e
regolare terapia chelante del ferro (anni ‘90) l’aspettativa di vita è attualmente quasi
normale.
Esami di laboratorio
Diagnosi prenatale
Se entrambi i genitori sono portatori (25% di probabilità di avere un figlio con talassemia
major) e si conoscono le alterzioni geniche dei geni beta, si può ricorrere alla diagnosi
prenatale sul feto. Mediante amniocentesi o biopsia trofoblastica si può ottenere DNA da
esaminare con sonde specifiche: se il feto risulta essere omozigote, la legge autorizza
l'interruzione di gravidanza.
Terapia
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200-250 mg di ferro, dopo trasfusione di 50-100 unità si sviluppa sovraccarico di ferro.
Questo può essere prevenuto mediante somministrazioni sottocutanee quotidiane di
desferrioxamina (infusione di 8-10 ore con apposita pompa): in tal modo il ferro viene
escreto come ferrioxamina nelle urine nella bile.
(DFO 40-60 mg/kg/die, infusione sottocutanea mediante, minimo di 5 infusioni alla
settimana, con una compliance dell’86% a Pavia).
Tra le terapie sperimentali in fase di studio , meritano di essere ricordati gli approcci
finalizzati alla riattivazione della sintesi di emoglobina fetale, e la terapia genica.
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10. Anemie emolitiche: classificazione e valutazione di laboratorio
Dal punto di vista fisiopatologico, i reperti di laboratorio tipici dell'anemia emolitica sono
rappresentati dall’iperbilirubinemia indiretta (non coniugata), associata all’aumento della
lattico deidrogenasi (LDH), espressione della distruzione eritrocitaria e dalla reticolocitosi,
espressione dell’aumentata attività eritropoietica midollare compensatoria: il conteggio
reticolocitario è superiore al 3% e a 100 x 109/L nei casi di anemia emolitica conclamata.
I reticolociti si riconoscono con la colorazione sopravitale con blu brillante di cresile o altro
colorante (arancio di acridina), che evidenzia una sostanza reticolo-filamentosa (da cui il
nome) costituita da RNA ribosomiale precipitato e aggregato (figura 1).
Nel soggetto normale oltre il 90% degli eritrociti viene fagocitato dai macrofagi della milza,
del fegato e del midollo osseo stesso (emolisi extravascolare).
Una piccola frazione di eritrociti (< 10%) può fisiologicamente andare incontro a
distruzione in circolo (emolisi intravascolare): l'emoglobina che si libera in circolo viene
rimossa con diversi meccanismi.
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La lisi intravascolare di 10 ml di eritrociti (pari a circa lo 0,5% di tutta la massa
eritrocitaria) è in grado di dare emoglobinemia di tale entità da conferire al plasma un
colore debolmente rosa. Per essere certi che si tratti di emolisi intravascolare, il prelievo
di sangue venoso va fatto con le dovute cautele.
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11. Disordini della membrana eritrocitaria
La membrana eritrocitaria
Funzioni
Struttura
Banda 3
Glicoforina-C
Doppio
strato
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Lesioni molecolari dei geni delle proteine del citoscheletro sono responsabili di disordini
ereditari caratterizzati da alterazioni morfologiche degli eritrociti e da iperemolisi, come
la sferocitosi ereditaria, caratterizzata da difetti molecolari comportanti perdite di
membrana eritrocitaria, sferocitosi, ridotta deformabilità eritrocitaria e iperemolisi;
l'ellissocitosi ereditaria, dovuta a difetti molecolari che inducono ellissocitosi, ridotta
deformabilità eritrocitaria e iperemolisi; la piropoichilocitosi ereditaria e la stomatocitosi
ereditaria.
Sferocitosi ereditaria
Epidemiologia
Patogenesi
Sono state identificate mutazioni a carico dei geni della spectrina, dell’anchirina e della
banda 3: in tutti i casi c’è un deficit quantitativo di spectrina come risultato finale. Nel 50%
dei casi si osserva una anchirina funzionalmente anomala, che non consente un normale
assemblaggio del citoscheletro (forma comune, autosomica dominante). Nel 25% vi è
una spectrina funzionalmente anomala, che non lega la proteina 4.1 (forma comune,
autosomica dominante). Infine, nel 25% si rileva un deficit di banda 3.
Le alterazioni della membrana eritrocitaria causano la perdita di parte di questa, con una
conseguente riduzione del rapporto superficie-volume che determina la forma sferoidale
del globulo rosso.
Quadro clinico
Il decorso clinico può essere complicato da colelitiasi (in più del 50% dei soggetti), e da
crisi aplastiche da parvovirus B19. In questo caso l’infezione può presentarsi in modo
asintomatico o con sintomi influenzali o rash maculopapulare, ed induce eritroblastopenia
e reticolocitopenia acute. Le crisi aplastiche devono essere differenziate da alterazioni
megaloblastiche acute da carenza di folati (dovuta all’aumentata richiesta da parte
dell’eritropoieisi iperplastica).
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Diagnosi
Gli esami di laboratorio utili alla diagnosi di sferocitosi ereditaria comprendono l’esame
emocromocitometrico, che dimostra MCV ~ 80 fL, MCHC 35-38 g/dL e reticolocitosi, lo
striscio di sangue periferico, che evidenzia la presenza di sferociti, gli esami
ematochimici, che dimostrano iperbilirubinemia indiretta edil test della resistenza
osmotica eritrocitaria, che dimostra riduzione della resistenza osmotica eritrocitaria, o, in
altre, parole, aumento della fragilità osmotica (test: resitenza osmotica eritrocitaria, test di
lisi al glicerolo).
Terapia
Nei pazienti con ittero importante, complicato da colelitiasi, anemia con crisi aplastiche, la
terapia consiste nella splenectomia, che consente di aumentare la sopravvivenza
eritrocitaria, di ridurre l’ittero e di correggere l’anemia nei casi in cui è presente.
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Elissocitosi ereditaria
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12. Deficit enzimatici eritrocitari
Il metabolismo eritrocitario
Il deficit di G6PD interessa più di 200.000.000 di pazienti nel mondo. Il gene che codifica
per la G6PD si trova sul cromosoma X. La forma allelica normale viene definita di tipo B.
Circa il 20% dei neri africani hanno una variante A+, funzionalmente normale.
Le due varianti patologiche più note sono G6PD A-, neri africani ed afroamericani, e
G6PD Mediterranea.
Quadro clinico
La variante G6PD A- è responsabile di lieve emolisi cronica con crisi emolitiche acute
(emolisi intravascolare) non gravi.
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Diagnosi
Profilassi e terapia
La morfologia eritrocitaria è normale: la diagnosi viene sospettata sulla base del test
dell'autoemolisi, che dimostra una aumentata emolisi spontanea, non corretta
dall'aggiunta di glucosio. La diagnosi deve essere confermata dalla dimostrazione di una
ridotta attività enzimatica.
Poichè l’enzima viene anche inibito dal piombo, la punteggiatura basofila si osserva
anche nell’intossicazione da piombo.
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13. Emoglobinopatie
Definizione
Le emoglobinopatie sono disordini ereditari dovuti a lesioni molecolari dei geni delle
catene globiniche: le alterazioni molecolari delle proteine consistono in sostituzioni di uno
o due aminoacidi, delezioni di aminoacidi, elongazione delle catene globiniche e variabili
fusioni delle catene globiniche e .
Patogenesi
Quadri clinici
Alcune varianti emoglobiniche vengono definite “instabili”, in quanto mostrano una ridotta
solubilità o una elevata suscettiblità all’ossidanzione. Le emoglobine instabili sono
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trasmesse come caratteri autosomici dominanti, e sono quindi clinicamente espresse allo
stato eterozigote.
Patogenesi
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Eterozigote 6S/ N (sickle cell trait). Asintomatico (raramente crisi dolorose). Es.
emocromocitometrico normale; ~ 40% di Hb S (elettroforesi o HPLC).
Quadro clinico
Le principali cause di mortalità precoce nei primi anni sono il sequestro splenico acuto,
caratterizzato da febbre, ingrandimento rapido della milza, shock ipovolemico, la sepsi da
pneumococco, le crisi aplastiche, prevalentemente da parvovirus B19, la sindrome
toracica acuta, caratterizzata da dispnea, tosse, dolore toracico ed infiltrati polmonari alla
radiografia del torace.
Diagnosi
La diagnosi è basata, oltre che sul quadro clinico-ematologico, sul test di falcizzazione
(esposizione degli eritrociti del paziente ad una agente ossidante) e sull’elettroforesi
dell’emoglobina. E’ possibile effettuare la diagnosi prenatale su DNA ottenuto da
amniocentesi o biopsia dei villi coriali mediante l’uso di sonde specifiche.
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Terapia
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14. Anemie emolitiche immunologiche
Classificazione
Esami di laboratorio
Gli esami di laboratorio utili per il corretto inquadramento del paziente con anemia
emolitica immunomediata comprendono gli indici di emolisi (iperbilirubinemia indiretta,
aumento dell’LDH, conteggio reticolocitario adeguato per il grado di anemia), e gli indici di
emolisi intravasale (riduzione dell’aptoglobina, emosiderinuria, emoglobinuria). L’esame
più utile per evidenziare la patogenesi immunologica di un’anemia emolitica è il test di
Coombs diretto ed indiretto (Figura 1).
Il test di Coombs diretto svela, mediante l’impiego di anticorpi specifici, la presenza di
anticorpi o frazioni del complemento adesi alla superficie del globulo rosso del paziente.
Il test di Coombs indiretto svela, mediante l’impiego di eritrociti normali, la presenza di
anticorpi antieritrocitari incompleti nel siero del paziente.
GR paziente
Siero paziente
GR normali
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La malattia emolitica del neonato è una condizione nella quale l’emivita degli eritrociti
fetali è ridotta per l’ azione di anticorpi specifici della madre diretti contro antigeni fetali.
Patogenesi
Gli anticorpi materni possono essere diretti contro l’antigene D del sistema Rh del feto
oppure contro gli antigeni A e B del sistema ABO o altri antigeni eritrocitari.
L’anemia emolitica del neonato da anticorpi diretti contro l’antigene D del sistema Rh del
feto si può instaurare in caso di madre Rh-negativa e feto Rh-positivo (padre Rh-
positivo). Il contatto tra sangue materno e fetale può avvenire nel corso del I trimestre
(3% dei casi), nel II trimestre (12% dei casi), nel III trimestre (45% dei casi) oppure alla
nascita (65% dei casi). In seguito al contatto con gli eritrociti fetali la madre si immunizza
contro l’antigene D del sistema Rh del feto producendo IgM e, dopo 6 mesi circa, IgG anti
D nel 5-15% dei casi.
Gli anticorpi IgM non superano la barriera feto-placentare e pertanto, anche in caso di
contatto nel I trimestre, difficilmente si osserva l’emolisi degli eritrociti fetali nel corso della
I gravidanza. Alla seconda gravidanza, invece, gli anticorpi IgG anti-D materni, in grado di
superare la barriera feto-placentare, determinano emolisi degli eritrociti del feto Rh-
positivi.
La malattia emolitica può essere osservata più probabilmente nel corso della prima
gravidanza nel caso in cui sia avvenuta una precedente immunizzazione della madre su
base trasfusionale.
L’anemia emolitica del neonato da anticorpi diretti contro l’antigene A e B del sistema
ABO può essere osservata in caso di madre di gruppo 0 e feto A o B, mentre
generalmente non si verifica in caso di madre di gruppo A o B. Questo avviene perché gli
individui di gruppo 0, dopo contatto con antigeni A o B, formano anticorpi alloimmuni
prevalentemente di tipo IgG, mentre i soggetti di gruppo A e B, dopo contatto
rispettivamente con antigeni B e A, formano anticorpi alloimmuni di tipo IgM, anche dopo
ripetuti contatti con l’antigene. Pertanto l’immunizzazione di madri di gruppo A o B rimane
un fenomeno immunologico clinicamente silente, dal momento che gli anticorpi IgM non
sono in grado di superare la barriera feto-placentare. Questo rende ragione del fatto che,
nonostante la notevole frequenza dell’immunizzazione ABO materna, la frequenza di
malattia emolitica sia bassa (0.5-1.5%).
Considerando che le madri di gruppo 0 hanno anticorpi innati di classe IgM diretti contro
gli antigeni A e B (per spiegazioni più dettagliate si rimanda al capitolo sui gruppi
sanguigni), il contatto del sitema immunitario della madre con gli antigeni eritrocitari fetali
induce lo switch di classe delle immunoglobuline, con produzione di IgG e conseguente
comparsa di manifestazioni emolitiche, già nel corso della prima gravidanza.
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Circostanze della diagnosi
Esami di laboratorio
Il sospetto clinico viene confermato mediante test di Coombs indiretto sul sangue
materno, che dimostra la presenza di anticorpi diretti contro eritrociti del feto, e test di
Coombs diretto sul sangue di cordone ombelicale, che evidenzia la presenza di
anticorpi materni sulla superficie degli eritrociti fetali.
Profilassi e terapia
La reazione emolitica trasfusionale si verifica per emolisi acuta degli eritrociti trasfusi o
degli eritrociti del paziente, a causa dell’incompatibilità tra donatore e ricevente
nell’ambito del sistema ABO.
La reazione emolitica trasfusionale può verificarsi per trasfusione di globuli rossi
incompatibili, che vengono emolizzati dagli anticorpi del ricevente, oppure per emolisi dei
globuli rossi del ricevente di gruppo A, B o AB, da parte di anticorpi ad alto titolo presenti
nel siero di donatori di gruppo 0. Entrambe le condizioni determinano agglutinazione e lisi
intravasale delle emazie.Nei soggetti politrasfusi una reazione emolitica trasfusionale si
può verificare anche per incompatibilità di altri antigeni eritrocitari (sistema Rh: D, C, c, E;
e, sistema Kell).
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Quadro clinico
La severità del quadro clinico è variabile in funzione della quantità di sangue trasfusa e
del tipo di autoanticorpo. Il quadro più tipico è caratterizzato dalla comparsa, dopo pochi
minuti dall’inizio della trasfusione, di emolisi acuta associata a brividi, malessere,
nausea, dolore lombare, ipotensione, shock ed insufficienza renale acuta.
Terapia
La terapia consiste nella sospensione immediata della trasfusione e nel trattamento dello
shock.
Patogenesi
Gli autoanticorpi freddi sono immunoglobuline di classe IgM, con una temperatura
ottimale di legame con l’antigene compresa tra 4°-34° C. Sono responsabili del 10-20%
dei casi di anemia emolitica autoimmune, con un quadro clinico particolare, definito
malattia da crioagglutinine. Le IgM circolano generalmente in forma pentamerica, e
pertanto hanno la capacità di stabilire legami intercellulari, che inducono l’agglutinazione
degli eritrociti (per queste caratteristiche sono definite anche crioagglutinine). Sono
anticorpi in grado di attivare il complemento, inducendo prevalentemente un’emolisi di
tipo intravscolare.
Gli autoanticorpi bifasici sono immunoglobuline di classe IgG, che si legano agli eritrociti
ad una temperatura di 0°-20° C, ed hanno la capacità di fissare il complemento. La
cascata del complemento si attiva a 37° C, determinando un’emolisi prevalentemente di
tipo intravascolare.
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1) Adesione del farmaco alla membrana eritrocitaria con legame ad alta affinità
(penicilline, cefalosporine). Il farmaco è in grado di legarsi strettamente alle proteine della
membrana eritrocitaria in quantità dose dipendente e può stimolare la produzione di un
anticorpo IgG contro un aptene del farmaco, che sostengono un’anemia con decorso
subacuto.
2) Adesione del farmaco alla membrana eritrocitaria con legame a bassa affinità
(chinidina, rifampicina, amfotericina B, diclofenac). Il farmaco si lega debolmente alla
membrana eritrocitaria, determinando la formazione di un anticorpo che stabilizza il
legame membrana-farmaco e attiva la cascata complementare determinando una lisi
intravascolare del globulo rosso. L’anemia ha un decorso acuto.
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di alcune proteine plasmatiche con meccanismo non immunologico. L’anemia ha un
decorso subacuto.
L’esordio clinico acuto è caratteristico anche di alcune anemie emolitiche da farmaci (con
legame a bassa affinità alla membrana eritrocitaria: chinidina, rifampicina, amfotericina B,
diclofenac), nelle quali, tuttavia, si osserva un’emolisi di tipo intravasale. Un’attenta
anamnesi farmacologica è in ogni caso indispensabile per un corretto inquadramento del
paziente.
L’esordio clinico subacuto è caratteristico anche della maggior parte dei casi di anemie
emolitiche da farmaci. Occorrerà pertanto valutare con particolare attenzione l’anamnesi
farmacologica.
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Si possono distinguere una forma primitiva ed una forma secondaria, associata a sifilide
terziaria o, più frequentemente, a malattie virali del bambino (mononucleosi infettiva,
parotite, rosolia, varicella). In seguito ad esposizione al freddo, si osserva la comparsa di
emolisi associata a brividi, cefalea, dolori addominali, emoglobinuria. Il decorso è
generalmente acuto, con remissione spontanea, in particolare nelle forme post-infettive
del bambino e dell’adolescente.
Esami di laboratorio
Nelle anemie emolitiche da farmaci, il test di Coombs diretto non risulta sempre positivo,
mentre per osservare la positività del test di Coombs indiretto, nei casi di farmaci che
aderiscono alla membrana eritrocitaria con legami ad alta affinità (penicilline,
cefalosporine) ed a bassa affinità (chinidina, rifampicina, amfotericina B, diclofenac), è
necessaria la presenza del farmaco nella miscela di reazione.
Terapia
Nelle forme secondarie il trattamento è basato sul controllo della malattia di base, quando
possibile, e sulla terapia immunosoppressiva.
Nel caso di anemie emolitiche da farmaci il primo intervento, e spesso il solo necessario,
è la sospensione immediata del farmaco implicato.
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15. Emoglobinuria parossistica notturna
Epidemiologia
Pur essendo descritti casi nella prima e seconda decade di vita, la malattia si manifesta
piú frequentemente nella terza e quarta decade; sono anche descritti casi diagnosticati
oltre i settanta anni. Le femmine sono lievemente piú colpite dei maschi. Vi è una
associazione significativa dell’EPN con l’anemia aplastica, la quale puo` sia precedere la
diagnosi di EPN, sia rappresentarne l’evoluzione. Non sono mai stati descritti casi
famigliari della malattia.
Patogenesi
In tutti i pazienti con EPN è dimostrabile una mutazione somatica del gene PIG-A
(Phosphatidyl Inositol Glycan complementation group A), mappato sul cromosoma X. Si
tratta prevalentemente di mutazioni puntiformi, distribuite lungo tutti i sei esoni da cui è
costituito il gene. Il gene PIG-A codifica per un enzima che catalizza la prima reazione
della biosintesi della molecola di glicosil fosfatidilinositolo (GPI), che funge da ancora per
numerose proteine della superficie cellulare. La mutazione porta ad una inattivazione
completa o parziale del gene e di conseguenza ad una mancata od alterata sintesi
dell’ancora di GPI. A sua volta, l’assenza dell’ancora di GPI determina anche l’assenza di
tutte le proteine GPI-legate sulle cellule derivate dalla cellula staminale emopoietica in cui
la mutazione e’ occorsa ed in tutta la sua progenie (Tabella 1). Va segnalato che in alcuni
pazienti sono state descritte due mutazioni diverse di PIG-A interessanti due diverse
cellule staminali.
Tabella 1 – Proteine di membrana ridotte o assenti sulla superficie delle cellule EPN.
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presenti nel sangue periferico e nel midollo dei pazienti con EPN, e perché nei pazienti
con EPN siano presenti due popolazioni di cellule emopoietiche, una normale,
policlonale, ed una priva di proteine GPI-legate, monoclonale, derivata dalla cellula
staminale mutata. La proporzione delle due popolazioni cellulari (quella normale e quella,
o quelle, mutate) è variabile da paziente a paziente e, nel corso della malattia, puo`
variare anche nello stesso paziente. L’assenza di alcune proteine GPI-legate,
specificamente il DAF (CD55) ed il MIRL (CD59), dalla superficie dei globuli rossi è causa
di una aumentata sensibilità degli stessi all’azione litica del complemento: l’entitá
dell’emolisi dipende dal numero di emazie carenti di CD55 e CD59 e dall’entità di tale
carenza. Infatti, a seconda del tipo di mutazione di PIG-A, è possibile che la sintesi
dell’ancora GPI sia totale oppure parziale: nel primo caso le emazie derivate dalla cellula
staminale mutata sono completamente prive di proteine GPI-legate (cosiddette cellule
EPN tipo III) mentre nel secondo hanno una modesta quota residua di tali proteine
(cellule EPN tipo II; le emazie normali sono di tipo I).
Nel caso in cui il clone EPN sia in grado di ricostituire completamente l’emopoiesi, il
quadro clinico è caratterizzato essenzialmente da un’anemia emolitica intravascolare (la
cosiddetta EPN florida). Nel caso in cui la ricostituzione dell’emopoiesi sia soltanto
parziale il quadro potrà essere caratterizzato da anemia emolitica associata a leucopenia
e piastrinopenia (pancitopenia) lievi (EPN ipoplastica), da pancitopenia moderata (quadro
di aplasia midollare / EPN) o pancitopenia severa (aplasia midollare con clone EPN).
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Nel corso della malattia non è infrequente l’insorgenza di carenza di ferro, che viene
perso nelle urine come emosiderinuria ed emoglobinuria (reperti tipici dell’emolisi
intravascolare), e di carenza di acido folico, il cui consumo è incrementato a causa della
aumentata eritropoiesi compensatoria.
In circa il 20% dei pazienti il decorso clinico è complicato da eventi trombotici (pur in
presenza di piastrinopenia), probabilmente dovuti ad una attivazione piastrinica
complemento-mediata. I distretti più tipicamente interessati sono le vene epatiche
(sindrome di Budd-Chiari), le vene addominali, le vene ed i seni cerebrali, le vene del
derma. Le trombosi arteriose sono rare.
La trombosi può anche essere il primo segno di presentazione della malattia: in caso di
interessamento dei distretti vascolari suddetti, che non sono tra le sedi più
frequentemente interessate da eventi trombotici nella popolazione generale,
l’emoglobinuria parossistica nottura deve essere sospettata ed indagata.
Nel caso di presentazione con anemia isolata, l’EPN deve essere posta in diagnosi
differenziale con le anemie emolitiche, ed in particolare quelle caratterizzate da emolisi
intravascolare. In caso di presentazione con pancitopenia l’EPN dovrà essere
differenziata in particolare dalla ipoplasia/aplasia midollare, e dalle sindromi
mielodisplastiche.
Decorso e prognosi
Diagnosi
La diagnosi di EPN viene sospettata sulla base del quadro clinico, delle alterazioni
dell’esame emocromocitometrico (anemia normocitica, leucopenia, piastrinopenia), della
positività degli indici di emolisi (iperbilirubinemia indiretta, aumento dell’LDH,
reticolocitosi), e degli indici di emolisi intravascolare (riduzione dell’aptoglobina,
emosiderinuria, emoglobinuria). Tradizionalmente la diagnosi veniva confermata
mediante il test di Ham, che consiste nell’induzione della lisi delle emazie per attivazione
del complemento dopo acidificazione del siero (pH 6.2), e che è sostanzialmente
specifico per EPN.Attualmente la diagnosi viene confermata mediante analisi
citofluorimetrica di un campione di sangue periferico incubato con anticorpi marcati e
diretti contro proteine GPI-legate. Gli anticorpi piú usati sono quelli diretti contro il CD59
ed il CD55. L’analisi evidenzia la assenza di queste proteine dalla superficie di una parte
delle cellule del sangue periferico. L’analisi va eseguita sui neutrofili in quanto essi
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rappresentano una misura piú precisa e costante dell’entità del clone EPN rispetto ai
globuli rossi, la cui quantità è influenzata dal grado di emolisi al momento dell’analisi.
Terapia
Il trattamento dell’EPN deve essere strettamente dipendente dal quadro clinico del
paziente. Le linee generali della terapia prevedono la correzione dell’anemia, il
trattamento e la prevenzione delle complicanze trombotiche, e la modificazione
dell’emopoiesi.
Sono oggi disponibili terapie in grado di modificare l’emopoiesi, costituite dai fattori di
crescita emopoietici (nelle forme a forte componente aplastica), da farmaci
immunosoppressivi (globulina antilinfocitaria, ciclosporina, corticosteroidi), che
interferiscono con il processo autoimmunitario che sostiene l’aplasia midollare, ed infine
dal trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche, che consente di ottenere la
guarigione della malattia, ma che è gravato da una elevata mortalità e deve essere
pertanto limitato ai casi di insufficienza midollare grave.
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16. Anemia emorragica
E’ una condizione nella quale l’anemia è dovuta a perdita di eritrociti per emorragia
interna o esterna.
Fisiopatologia
In caso di perdita ematica inferiore al 20% del volume sanguigno (< 1000 mL in un
soggetto di 70 kg), l’anemia è generalmente tollerata e scarsamente sintomatica nei
soggetti giovani, mentre può diventare sintomatica nei soggetti anziani o con patologie
associate.
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Una perdita ematica pari al 30-40% del volume sanguigno (1500-2000 mL in un soggetto
di 70 kg) è associata ad importante sintomatologia da ipovolemia con dispnea,
cardiopalmo e tachicardia a riposo, evidenti segni di ridistribuzione dei flussi sanguigni da
stimolazione adrenergica (in particolare, cute pallida e fredda) e contrazione della diuresi
(da ipersecrezione di ADH), sincope in posizione ortostatica.
In caso di perdita ematica superiore al 40% del volume sanguigno (> 2000 mL in un
soggetto di 70 kg), si instaura una condizione di shock con grave dispnea, acidosi lattica
da inadeguata ossigenazione tissutale, spesso con stato confusionale ed rischio elevato
di morte per shock irreversibile.
Esami di laboratorio
Terapia
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17. Emocromatosi
Emocromatosi genetica
Emocromatosi secondaria
Disordini ereditari (anemie congenite con sovraccarico di ferro)
Talassemia
Deficit di piruvato chinasi
Deficit di G6PDH
Anemie diseritropoietiche congenite
Sferocitosi ereditaria
Anemia sideroblastica congenita
Disordini acquisiti
Sindromi mielodisplastiche
Anemie con fabbisogno trasfusionale cronico
Patogenesi
Il gene mutato nei pazienti con emocromatosi genetica classica è HFE (che mappa sul
braccio corto del cromosoma 6) (Feder JN, Gnirke A, Thomas W, et al. A novel MHC
class I-like gene is mutated in patients with hereditary haemochromatosis. Nature Genet
1996; 13:399).
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Il gene HFE è strettamente legato agli antigeni HLA, ed è spesso associato all’aplotipo
A3, B7 o B14. La frequenza dell’antigene HLA-A3 nella popolazione generale è circa
28%, nei pazienti con emocromatosi è 70%. La frequenza di HLA B7 è del 23% nella
popolazione genrale e del 50% nei pazienti con emocromatosi.
Il gene HFE codifica per una proteina espressa sulle superficie cellulare come
etreodimero con la 2-microglobulina. Essa lega il recettore della transferrina,
riducendone la sua affinità per la transferrina, che regola criticamente la quantità di ferro
internalizzato nel citosol a costituire il pool labile. La perdita di funzione della proetina
HFE determina una riduzione del ferro del pool labile ed una conseguente
iperespressione delle proteine che promuovono l’assorbimento del ferro (DMT1, figura 1).
DMT1 Fe3+ Tf
Ferroportin1
Cp
Fe2+
HFE
Erythroid
activity
(?)
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Quadro clinico
Le manifestazioni cliniche di sovraccarico di ferro compaiono nei maschi, nella vita adulta,
soprattutto nella 5^ decade (nelle donne, protette dal sovraccarico di ferro dalla peridta
fisiologica con il mestruo, le manifestazioni sono generalmente piu’ ritardate):
Diagnosi
Terapia
Gli obiettivi della terapia per il sovraccarico di ferro sono la riduzione ed il mantenimento
del ferro corporeo nei limiti di normalità. Il salasso è il trattamento di scelta
dell’emocromatosi ereditaria. La terapia in pazienti con alterazioni concomitanti dei livelli
di emoglobina si avvale di farmaci ferrochelanti (desferioxamina).
Patogenesi
Esistono due forme di emocromatosi genetica giovanile, distinte dal punto di vista
molecolare.
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della proteina si traducono in una diminuzione dei livelli di epcidina, suggerendo che
HFE2 agisce come modulatore dell’espressione di epcidina.
La seconda forma è caratterizzata dal punto di vista molecolare da mutazioni del gene
HAMP dell’epcidina, che ne determinano una ridotta espressione/perdita di funzione.
JH* HH**
Espressione di epcidina
Assorbimento
intestinale di ferro
Rilascio di ferro dai
macrofagi
Sovraccarico di ferro Sovraccarico di ferro
Fenotipo
corporeo severo corporeo moderato
*= emocromatosi giovanile
**=emocromatosi genetica classica
Hypogonadotropic Cardiac
hypogonadism failure
0 10 20 30 yr
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Emocromatosi secondarie
Anemie congenite con sovraccarico di ferro: anemia sideroblastica congenita [XLSA (X-
Linked congenital Sideroblastic Anemia)]
E’ una condizione patologica determinata dalla presenza di mutazioni puntiformi del gene
della -ALA sintetasi eritrocitaria, localizzato a livello della banda p11.21 del cromosoma
X. Il meccanismo di trasmissione ereditaria è diagnico (legato all’X), e di conseguenza
colpisce in prevalenza il sesso maschile. Esistono tuttavia forme più rare a trasmissione
autosomica, determinati da diversi difetti genetici della sintesi dell’eme.
Il difetto genetico causa anemia da eritropoiesi inefficace. L’anemia è caratteristicamente
microcitica e ipocromica. Inoltre è presente un prominente dimorfismo all’interno della
popolazione di globuli rossi (elevato Red cell Distribution Width, RDW).
Nei pazienti con anemia moderata e ben tollerata nei quali la diagnosi non viene
formulata nell’infanzia, le manifestazioni cliniche da sovraccarico di ferro compaiono in
4°-5° decade e comprendono cirrosi epatica, diabete mellito, cardiomiopatia restrittiva.
Di seguito è illustrato, a titolo esemplificativo, l’esame emocromocitometrico di un
soggetto di sesso maschile di 58 anni, affetto da anemia sideroblastica congenita:
Dal punto di vista terapeutico il 25-50% dei pazienti con anemia sideroblastica congenita
rispondono alla somministrazione di vitamina B6. Nei pazienti con anemia severa non
responsivi alla vitamina B6, il trattamento di scelta consiste in trasfusioni associate a
terapia ferrochelante.
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18. Eritrocitosi e policitemia
Fisiopatologia
MIDOLLO ERITROCITI
ERITROIDE CIRCOLANTI
Eritropoietina
Rene
(sensore
02)
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Eritrocitosi apparente
Eritrocitosi assoluta
Un incremento significativo della massa eritrocitaria si osserva nei soggetti che risiedono
stabilmente a 4500-5000 metri s.l.m.: la saturazione arteriosa di 02 a questa quota è di
circa l’80%. La concentrazione di emoglobina è generalmente compresa tra 18-20 g/dL,
l’ematocrito è del 55-60%.
Alcuni di questi soggetti dimostrano un ridotto adattamento all’alta quota, che è alla base
della cosiddetta malattia da montagna cronica (Chronic Mountain Sickness, CMS) o
Malattia di Monge, caratterizzata da eritrosi, cianosi, cefalea, dispnea da sforzo,
affaticabilità, rallentamento mentale fino alla letargia ed al coma.
Ipoventilazione alveolare
La sindrome di Pickwick (The “wonderfully fat boy” Joe described in The Pickwick Papers
by Charles Dickens) colpisce individui obesi, e si manifesta con eritrocitosi, ipercapnia e
sonnolenza.
Vi troviamo le malattie polmonari croniche, tra le quali le più frequenti sono la bronchite
cronica/enfisema polmonare ed il cor pulmonale (insufficienza ventricolare destra).
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Policitemia vera
Epidemiologia
L’incidenza della malattia è di circa 1 caso ogni 100.000 persone per anno. Considerando
il decorso cronico la prevalenza è nettamente maggiore, circa 20-30 casi ogni 100.000
persone.
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Quadro clinico
Nel corso della storia naturale della policitemia vera si distinguono una fase
asintomatica, una fase eritrocitosica, e una fase di mielofibrosi post-policitemica ed infine
l'evoluzione in leucemia acuta terminale.
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Dopo alcuni anni (10-20) la fase eritrocitosica può evolvere in mielofibrosi post-
policitemica, spesso attraverso una fase di riduzione consensuale di globuli rossi,
piastrine e comparsa di progressiva splenomegalia. La mielofibrosi post policitemia si
caratterizza per un incremento della splenomegalia, progressiva anemizzazione,
trombocitosi/trombocitopenia e sintomi sistemici (febbre, dolori osteoarticolari, calo
ponderale). Nel 5-10% dei pazienti si osserva evoluzione in leucemia acuta mieloide, a
volte dopo una fase di mielofibrosi.
Diagnosi
A1 Elevata massa eritrocitaria o Hb > 18,5 g/dL (M), > 16.5 g/dL (F)
A2 Assenza di cause di eritrocitosi secondaria: non eritrocitosi familiare, non
incremento Epo (ipossia; Hb ad alta affinità per O2; neoplasia)
A3 Splenomegalia
A4 Anomalie genetiche clonali: non Ph’, non Bcr-Abl
A5 Crescita spontanea di colonie eritroidi
La diagnosi di policitemia vera si basa sull'associazione dei seguenti criteri maggiori (A)
o minori (B): A1+A2+A3+A4+A5 oppure A1+A2+ 2 (B1, B2, B3, B4)
Terapia
La terapia della policitemia vera si può avvalere di differenti approcci, che comprendono
salassi, trattamento citoriduttivo con idrossiurea o pipobromano, aspirina a basse dosi
(100 mg/die).
Gli obiettivi del trattamento sono il mantenimento dell’ematocrito a valori inferiori al 45% e
della conta piastrinica a valori inferiori a 400x109/l.
La scelta della strategia terapeutica deve essere valutata in funzione delle caratteristiche
del paziente.
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19. Trombocitemia essenziale
Definizione
Epidemiologia
Quadro clinico
L’esordio
Il decorso clinico
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Diagnosi
Presenza di:
• Piastrine: stabile oltre 600.000/µL
• Biopsia osteomidollare: proliferazione della sola linea megacariocitica
Esclusione di:
• Policitemia vera: emoglobina < 18,5 g/dL (uomo), < 16,5 g/dL (donna); normale
stato del ferro
• Leucemia mieloide cronica: assenza cromosoma Ph e bcr/abl
• Mielofibrosi idiopatica: assenza fibrosi collagena; reticolo minimo o assente
• Mielodisplasia: del(5q-), t (3;3), inv 3
• Trombocitosi reattive: infiammazione, infezione, neoplasia
Le trombocitosi reattive sono per lo più secondarie a emorragia acuta, carenza di ferro, o
d'accompagnamento a neoplasie. Si riscontrano anche in corso di stati infiammatori e
infettivi acuti o cronici, come la colite ulcerosa, il morbo di Crohn, le collagenopatie, la
tubercolosi, la polmonite e l'osteomielite. Può esserci trombocitosi dopo un'intensa attività
fisica o stress emotivo o nelle fasi di ripresa dopo una chemioterapia, o anche in corso di
terapia con vitamina B12, folina e fattori di crescita. Le piastrine possono salire fino ad
oltre 1.000 x 109/L dopo splenectomia e tendono a ridursi e stabilizzarsi in 3-4 mesi circa.
La trombocitemia familiare è una forma rara e trasmessa per lo più come malattia
autosomica dominante: è legata ad una mutazione del gene della trombopoietina che si
traduce in un’ aumentata produzione piastrinica a livello midollare.
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Trombocitemie primitive
policitemia vera
mielofibrosi idiopatica
leucemia mieloide cronica
mielodisplasia con piastrinosi (sindrome del 5q-)
Trombocitosi reattive
Esercizio fisico
Emorragia acuta
Carenza marzialeSplenectomiaNeoplasie Stati infiammatori o infettivi acuti o cronici
(colite ulcerosa, morbo di Crohn, collagenopatie, TBC, polmonite cronica,
osteomielite)
Anemia emoliticaIn corso di terapia con citochine e fattori di crescita
Tabella 2
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L’idrossiurea (antimetabolita) consente di ottenere risposte ematologiche nel 90-95% dei
casi. Il farmaco è ben tollerato e richiede un’assunzione continuativa. E’ efficace nella
prevenzione della trombosi; il controllo della malattia è tuttavia ridotto nel tempo. Il rischio
di leucemia è paragonabile al pipobromano (5-10% dopo 4-10 anni di malattia).
L’interferone è un farmaco antiproliferativo: risposte ematologiche sono state osservate
nel 70% dei casi con riduzione della splenomegalia nel 30% circa e miglioramento dei
sintomi clinici. Circa il 20% dei pazienti tuttavia si dimostra intollerante al trattamento.
Sono in corso di studio nuove formulazioni (Peg-interferone) con lo scopo di migliorare il
profilo di tollerabilità del farmaco.
Prognosi
La prognosi della malattia è buona e l’aspettativa di vita dei pazienti con trombocitemia
essenziale, se trattati secondo le indicazioni attuali basate sul rischio cardiovascolare, è
quasi simile a quella della popolazione generale.
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invitano le persone interessate a considerare la possibilità di una elargizione liberale alla FFS, c/c 33739, BRE, Pavia.
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20. Mielofibrosi idiopatica
Definizione
Epidemiologia
Patogenesi
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Quadro clinico
L’ esordio
Circa un terzo dei pazienti è asintomatico al momento della diagnosi, mentre i restanti
due terzi riferiscono sintomi sistemici come febbre, calo ponderale, astenia, dispnea e
dolori articolari.
All’esame obiettivo, una splenomegalia è presente nell’85-100% dei casi, e spesso
raggiunge dimensioni notevoli. I pazienti possono riferire sensazione di tensione
addominale e dolore a livello dell’ipocondrio sinistro, spesso secondari ad infarti splenici.
Una epatomegalia è riscontrabile nel 50-70% dei pazienti. La splenomegalia che si
evidenzia nei pazienti con mielofibrosi idiopatica è attribuibile all’emopoiesi
extramidollare; l’epatomegalia può essere messa in relazione sia alla presenza di focolai
di emopoiesi extramidollare sia all’ipertensione secondaria alla splenomegalia.
L’esame emocromocitometrico dimostra anemia (50-70% dei casi), piastrinopenia (35-
40%) o piastrinosi (30%), e leucocitosi (50%). Allo striscio di sangue periferico sono
evidenziabili anisopoichilocitosi (variabilità delle dimensioni e della forma dei globuli
rossi), con presenza di dacriociti (eritrociti a lacrima) e screzio granulo-eritroblastico
(presenza in circolo di elementi immaturi della serie eritroide e granuloblastica) .
Diagnosi
Tabella 1
Criteri necessari:
fibrosi midollare diffusa
assenza del cromosoma Ph’ o del riarrangiamento bcr/abl
Criteri opzionali:
splenomegalia
anisopoichilocitosi con dacriociti nel sangue periferico
presenza di cellule mieloidi immature circolanti
presenza di precursori eritroidi circolanti
presenza di cluster e anomalie dei megacariociti alla biopsia ossea
metaplasia mieloide
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Diagnosi differenziale
Il decorso clinico dei pazienti con mielofibrosi idiopatica è molto variabile. Si osservano
pazienti asintomatici per un lungo periodo di tempo (anni) e pazienti invece con decorso
clinico ingravescente che può portare rapidamente all’exitus.
Con la progressione della malattia si osserva soprattutto un incremento della
splenomegalia (e dell’epatomegalia), un peggioramento dell’anemia, della leucopenia (o
della leucocitosi) e della piastrinopenia. A volte il decorso della malattia può essere
complicato da ipertensione portale, da trombosi della vena porta e/o da trombosi
splenica. Una espansione della metaplasia mieloide al di fuori delle sedi epatica e
splenica può comportare la comparsa di tamponamento cardiaco, noduli cutanei,
compressione spinale, versamento pleurico, ipertensione polmonare.
Le cause più frequenti di morte sono individuate nello scompenso cardiaco congestizio,
nelle complicanze emorragiche e nell’evoluzione in leucemia acuta.
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La terapia della mielofibrosi idiopatica
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21. Leucemia mieloide cronica
Definizione
La leucemia mieloide cronica (LMC) è una malattia mieloproliferativa clonale della cellula
staminale emopoietica caratterizzata dal punto di vista molecolare dalla presenza del
riarrangiamento genico bcr/abl e dal punto di vista clinico da progressiva leucocitosi (con
accumulo nel sangue periferico di granulociti maturi e precursori mieloidi), da
ipercellularità midollare e da splenomegalia.
Epidemiologia
La leucemia mieloide cronica ha un’incidenza di 2 casi per 100.000 abitanti per anno e
costituisce circa 15% delle leucemie dell’adulto. L’età mediana di insorgenza è compresa
tra i 45 ed i 55 anni, con prevalenza nel sesso maschile.
Sebbene non sia noto il meccanismo responsabile della trasformazione neoplastica della
cellula staminale emopoietica, numerosi studi dimostrano che l’esposizione a radiazioni
ionizzanti induce un aumento dell’incidenza di LMC rispetto alla frequenza attesa nella
popolazione generale.
Patogenesi
La LMC è caratterizzata dal punto di vista citogenetico dalla presenza del cromosoma
Philadelphia o Ph’ (Nowell P, Hungerford D. A minute chromosome in human chronic
granulocytic leukemia. Science 1960;132:1497), ovvero un cromosoma 22 di piccole
dimensioni, che origina dalla traslocazione bilanciata tra il cromosoma 9 ed il cromosoma
22 [t(9;22)(q34;q11)] (Rowley JD. A new consistent chromosomal abnormality in chronic
myelogenous leukaemia identified by quinacrine fluorescence and Giemsa staining.
Nature. 1973;243:290).
A livello di ABL il punto di rottura è situato all’estremità 5’ in una regione di circa 300kb e
può avvenire o a monte dell’esone Ib o a valle dell’esone Ia o, più spesso, tra entrambi.
Anche se uno o entrambi questi esoni vengono traslocati sul cromosoma 22 riarrangiato
essi non vengono trascritti essendo rimossi dal trascritto finale per azione del fenomeno
dello “splicing” operante a livello del mRNA.
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nelle restanti LAL e in alcune LMC con monocitosi in una regione di 54.4kb (minor
breakpoint cluster region, m-BCR) tra gli esoni e2’ ed e2 ® trascritto e1a2 ® proteina
chimerica p190;
nei pazienti con leucemia cronica neutrofilica a valle dell’esone e19 (micro breakpoint
cluster region, m-BCR) ® trascritto e19a2 ® proteina chimerica p230. (figura 2)
1b 1a 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
LMC (5') 1a 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
5' 3'
1 2
LMC (3') 1a 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
5' 3'
1 2 3
Pertanto nei pazienti con LMC sul cromosoma 22 riarrangiato si crea un gene ibrido
BCR/ABL, formato per la porzione 5’ da sequenze BCR e per la porzione 3’ da sequenze
ABL. Il gene ibrido BCR/ABL determina l’attivazione costitutiva dell’attività tirosin-kinasica
del gene ABL.
Le tirosin-chinasi appartengono alla famiglia delle protein-chinasi, enzimi che
trasferiscono gruppi fosfati dall’adenosina trifosfato (ATP) a specifici aminoacidi (in
questo caso la tirosina) a livello del substrato. La fosforilazione di queste proteine porta
all’attivazione di vie di trasduzione del segnale che controllano una serie di importanti
processi biologici come la crescita e la differenziazione cellulare e l’apoptosi.
La proteina p210bcr-abl attraverso questi meccanismi (in particolare attraverso l’inibizione
dell’apoptosi) è in grado di prolungare la sopravvivenza della cellula e di determinare
l’espansione del clone leucemico (figura 1).
Quadro clinico
Circa il 50% dei casi di LMC viene diagnosticato attraverso esami eseguiti per altri motivi
(riscontro occasionale). L’esame emocromocitometrico mostra leucocitosi neutrofila con
presenza di precursori mieloidi nel sangue periferico, basofilia assoluta e piastrinosi.
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Di seguito è illustrato, a titolo esemplificativo, l’esame emocromocitometrico di una
giovane donna asintomatica (in neretto sono evidenziati parametri più significativi):
I pazienti con malattia più avanzata possono avere sintomi che dipendono
dall’ipermetabolismo, che comprendono anoressia, astenia, perdita di peso e sudorazioni
notturne. La splenomegalia è solitamente presente, talora importante e sintomatica
(senso di peso all’ipocondrio sinistro, sensazione di ripienezza post-prandiale, dolore in
caso di infarto splenico).
La storia naturale della LMC è caratterizzata da una fase cronica, di durata variabile (in
genere 3-4 anni) asintomatica o scarsamente sintomatica, responsiva al trattamento
(controllo della leucocitosi).
A questa segue una fase più aggressiva, definita accelerata, caratterizzata dal punto di
vista ematologico dalla comparsa di blasti (elementi immaturi che hanno subito arresto
della maturazione) nel midollo osseo e nel sangue periferico (10-20% delle cellule
nucleate) con leucocitosi scarsamente responsiva al trattamento, da anemia e da
piastrinopenia; dal punto di vista clinico è caratterizzata da febbre e dolori ossei. L’analisi
citogenetica può dimostrare la comparsa di anomalie cromosomiche clonali aggiuntive.
Questa fase dura in genere qualche mese ed evolve nella crisi blastica (mieloide nei 2/3,
linfoide in 1/3 dei casi), caratterizzata dall’incremento della quota blastica ( 20% delle
cellule nucleate nel midollo osseo o nel sangue periferico) con anemia e piastrinopenia
gravi (insufficienza midollare), mentre dal punto di vista clinico si assiste ad un rapido
deterioramento delle condizioni generali (marcata astenia, calo ponderale), associato a
febbre e dolori ossei. La crisi blastica rappresenta la fase terminale della malattia ed è
scarsamente responsiva al trattamento chamioterapico, esitando nella quasi totalità dei
casi nell’exitus del paziente.
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Diagnosi
Gli accertamenti da eseguire per un corretto inquadramento del paziente con LMC:
l'esame emocromocitometrico (che dimostra in fase cronica leucocitosi neutrofila con
presenza di precursori mieloidi nel sangue periferico, basofilia assoluta e piastrinosi), il
mieloaspirato (che dimostra iperplasia della linea granulocitaria), l'analisi cromosomica su
sangue midollare (che dimostra la presenza del cromosoma Ph’) e la RT-PCR (Reverse
Transcriptase Polimerase Chain Reaction, che dimostra la presenza del riarrangiamento
bcr/abl).
Criteri diagnostici per la fase accelerata (Vardiman JW, Harris NL, Brunning RD. The
World Health Organization (WHO) classification of the myeloid neoplasms. Blood
2002;100: 2292).
Per formulare la diagnosi di fase accelerata deve essere presente almeno uno dei
seguenti criteri:
percentuale di blasti pari al 10-19% nel sangue periferico o nel midollo osseo;
percentuale di granulociti basofili nel sangue periferico 20%;
persistente trombocitopenia (<100x109/L), non correlata a terapia, o persistente
trombocitosi (>1.000x109/L) non responsiva alla terapia;
aumento della splenomegalia e della leucocitosi non responsivo alla terapia;
evidenza citogenetica di evoluzione clonale (comparsa di una anomalia genetica
aggiuntiva che non era presente al momento della diagnosi di LMC in fase cronica);
proliferazione di megacariociti in clusters di elevate dimensioni, associata a marcata
fibrosi reticolinica o collagena, e/o severa displasia granulocitica (questi reperti,
tuttavia, non sono stati ancora analizzati in grandi studi clinici; pertanto non è chiaro
se siano criteri indipendenti di fase accelerata. Si presentano spesso associati a uno o
più degli altri criteri elencati).
Criteri diagnostici per la crisi blastica (Vardiman JW, Harris NL, Brunning RD. The World
Health Organization (WHO) classification of the myeloid neoplasms. Blood
2002;100:2292). Per formulare la diagnosi di crisi blastica deve essere presente almeno
uno dei seguenti criteri:
Diagnosi differenziale
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Fattori prognostici alla diagnosi
Sokall e coll. (Sokal JE, Cox EB, Baccarani M, et al. Prognostic discrimination in "good-
risk" chronic granulocytic leukemia. Blood 1984;63:789) hanno proposto uno score
basato sulla valutazione di quattro parametri (età, dimensioni della milza in cm dall’arco
costale, conteggio delle piastrine x109/L e pecentuale di blasti nel sangue periferico) per
calcolare il rischio relativo (RR) di ciascun paziente affetto da LMC.
I pazienti con rischio relativo <0.8 (cioè basso) hanno una sopravvivenza mediana una
volta e mezzo piu’ lunga rispetto a queli con rischio relativo superiore a 1.2 (alto rischio).
Terapia
Nei pazienti con LMC la remissione clinica completa è una condizione definita dalla
normalizzazione del quadro ematologico periferico e midollare.
La risposta citogenetica viene valutata in base alla percentuale di metafasi positive per la
ricerca del cromosoma Ph’ a livello midollare (su numero minimo di metafasi analizzate
pari a 20). La risposta citogenetica si definisce completa (remissione citogenetica) se il
cromosoma Ph’ è assente in tutte le metafasi analizzate, maggiore se è compreso tra l’1
e il 35%, minore se è compreso tra il 36 e il 65%, minima se comprso tra il 66 e il 95%,
assente se maggiore del 95%. La qualità della risposta citogenetica riveste un significato
prognostico ed è correlata con l’aspettativa di vita di questi pazienti.
Sensibilità della metodica: la citogenetica convenzionale, che presenta il limite di
analizzare le sole cellule in divisione, individua una cellula leucemica su 10-100 cellule
esaminate (sensibilità 10-1-10-2).
La risposta molecolare si definisce, nei pazineti con risposta citogenetica completa come
una riduzione > di 3 logaritmi nella quantità di trascritto bcr abl valutato con RT-PCR. La
remissione molecolare si definisce invece come una condizione caratterizzata dalla
scomparsa del trascritto bcr abl all’analisi RT-PCR.
Sensibilità della metodica: la tecnica PCR possiede elevata sensibilità rispetto alle altre
tecnhiche di laboratorio utilizzabili per la valutazione della quantità residua di malattia
dopo terapia, pari a 10-4-10-6.
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grado di determinare una ripresa della malattia. Questa piccola popolazione neoplastica
superstite, quantitativamente costituita da un numero di cellule sempre inferiori a 1010,
viene definita MMR ed è dimostrabile con diverse metodiche di laboratorio a diversa
sensibilità (citofluorimetria, citogenetica, FISH, PCR).
L’esame del trascritto BCR-ABL mediante RT-PCR ha costituito un modello per lo studio
di un’eventuale MMR e ha gettato le basi per l’analisi di quest’ultima anche in altri
disordini onco-ematologici. E’ stato osservato che la maggior parte dei pazienti con LMC
sottoposta a trapianto allogenico presenta una persistenza del trascritto nei primi sei
mesi, ma successivamente almeno due terzi dei pazienti diventano PCR negativi per
progressiva eliminazione delle cellule leucemiche per effetto della reazione che va sotto il
termine di “graft versus leukemia”. Pazienti che a distanza di un anno o più dal trapianto
allogenico presentano due campioni consecutivamente positivi alla PCR qualitativa sono
ad alto rischio di recidiva citogenetica ed ematologica. Pertanto tale metodica è stata
capace di predire a livello individuale la recidiva e conseguentemente di stabilire
precocemente gli opportuni interventi terapeutici.
Il trattamento della crisi blastica era basato sull’impiego di cicli polichemioterapici, con i
quali tuttavia la percentaule di risposta non supera il 20% nelle traformazioni mieloidi e il
50% nelle trasformazioni linfoidi; inoltre i pochi pazienti che ottengono una risposta,
ricadono rapidamente o muoiono per progressione della malattia.
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I risultati degli studi clinici controllati sino ad ora eseguiti dimostrano che la terapia con
imatinib mesilato è molto più efficace rispetto alla terapia con interferone ed il farmaco è
molto ben tollerato. Con l’utilizzo di tale farmaco la percentuale di risposte citogenetiche
complete nei pazienti in fase cronica è superiore all’80% e sono state osservate anche
remissioni molecolari complete (assenza di riarrangiamento bcr-abl rilevabile con RT-
PCR). Inltre, a dosi piu’ elevate si e’ dimostrato efficae anche nelle fasi accelerate e
nelle crisi blastiche.
Per quanto non siano ancora disponibili dati sull'effetto a lungo termine, la terapia con
imatinib mesilato deve essere oggi considerata come terapia di prima scelta nel
trattamento della LMC e il trapianto allogenico di cellule staminali periferiche viene
riservato ai pazienti che falliscono nell’ottenimento di una risposta di buona qualità alla
terapia con imatinib. Sono in corso studi di valutazione dellla MMR durante la terapia con
Imatinib, allo scopo di identificare i pazineti con rischio di recidiva o progressione della
malattia.
Nelle diverse casistiche pubblicate, una percentuale variabile di pazienti (compresa tra il
5 ed il 15%) presenta o sviluppa una resitenza alla terapia con imatinib (definita come
assenza di rispsota ematologica o citigenetica alle dosi terapeutiche del farmaco). Sono
stati identificati alcuni meccanismi alla base della resistenza a imatinib: la presenza di
mutazioni a livello di bcr-abl, l’amplificazione del gene bcr-abl e l’aumeto dell’espresione
del gene della multidrug resistance.
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Sono allo studio nuovi inibitori di bcr-abl (BMS-354825 o dasatinib e AMN107) che hanno
mostrato efficacia nei confronti della maggior parte delle forme mutanti di bcr-abl testate
in vitro.
THERAPEUTIC MILESTONES
SI NO
donor donor
available not available
prosegue
IMATINIB MESILATO
Allo BMT
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22. Sindrome ipereosinofila
Definizione
Si tratta di una malattia clonale dell’emopoiesi caratterizzata dalla presenza nel sangue
periferico di un numero assoluto di eosinofili superiore a 1.5x109/L e da un aumento di
eosinofili nel tessuto emopoietico midollare per un periodo di tempo superiore a sei mesi
e in assenza di condizioni cliniche capaci di determinare un’eosinofilia.
Quest’ultima può essere infatti secondaria a malattia allergica, autoimmune, parassitaria,
dermatologica e neoplastica. Eosinofilie secondarie alla liberazione di citochine sono
state riportate non solo in pazienti con leucemia mieloide cronica Ph1 positiva, con
leucemia acuta linfoblastica e con linfomi non-Hodgkin, ma anche in pazienti che
apparentemente non presentavano una malattia linfoproliferativa. In quest’ultimo gruppo
di pazienti, con frequenti episodi di dermatite pruriginosa ed elevati livelli di IgE, è stata
osservata una popolazione clonale di linfociti T che produceva varie citochine ma
soprattutto interleuchina 5, necessaria per la differenziazione eosinofila della cellula
mieloide.
Patogenesi
Clinica
Al momento dell’esordio il paziente presenta una sintomatologia determinata dal fatto che
i granulociti eosinofili infiltrano i vari tessuti e liberano citochine contenute nei loro granuli.
Si spiegano così l’intenso prurito spesso associato alla presenza di noduli cutanei, la
profonda astenia con frequenti dolori retrosternali di tipo anginoso ed i più rari episodi di
diarrea profusa.
All’esame obiettivo si apprezzano importanti infiltrati cutanei con lesioni di tipo esfoliativo,
pustole ed angioedema localizzato; è spesso presente un’importante epato-
splenomegalia, più rare sono le linfoadenomegalie. Una visita cardiologia spesso
dimostra un’insufficienza cardiaca congestizia, aritmie, angina e all’ecocardiografia si
osserva un marcato deficit dell’attività contrattile del miocardio ed alterazioni a livello delle
valvole cardiache. A livello del sistema nervoso centrale si osserva una sofferenza di tipo
diffuso con frequenti attacchi ischemici transitori e neuropatie periferiche; a livello
polmonare una marcata alterazione della funzionalità respiratoria dovuta all’importante
fibrosi polmonare; a livello del tratto gastroenterico infiltrati mucosi, causa della diarrea
lamentata dal paziente.
Il 16% dei pazienti dopo una fase cronica della durata di 6-9 mesi circa sviluppa una fase
acuta con quadro clinico sovrapponibile a quello di una leucemia acuta mieloide.
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Diagnosi
L’esame emocitometrico mostra di solito una leucocitosi con normali valori di emoglobina
e di piastrine. All’esame microscopico dello striscio di sangue periferico si rileva una
dacriocitosi e un aumento degli eosinofili, che presentano normali dimensioni e vacuoli
citoplasmatici. Il mieloaspirato mostra un tessuto emopoietico normo- o ipercellulato con
iperplasia dello stipite eosinofilo.
L’analisi citogenetica e molecolare rappresenta ormai uno strumento assolutamente
indispensabile non solo per un corretto inquadramento diagnostico della sindrome, ma
anche per un suo corretto trattamento.
E’ stato infatti dimostrato che la sindrome ipereosinofila non è un’entità omogenea ma
comprende varie sub-entità associate a specifiche alterazioni citogenetiche e molecolari.
La traslocazione cromosomica che per prima fu caratteristicamente associata ad una
malattia mieloproliferativa con marcato aumento degli eosinofili fu la t(5;12)(q31-33;p12-
p13). L’anomalia, che ha un’incidenza pari all’1% circa, determina il riarrangiamento tra il
gene che codifica per il recettore Beta del “Platelet Derived Growth Factor” (PDGFRB),
mappato alla banda 5q33, e il gene ETV6, mappato in 12p13. Il gene PDGFRB codifica
per una proteina recettoriale dotata di attività tirosina chinasica, che si sviluppa solo
quando è avvenuto il legame con il ligando, rappresentato dal PDGF. Il gene di fusione
ETV6-PDGF, prodotto dalla traslocazione, determina invece l’attivazione costitutiva della
chinasi in assenza del ligando.
Un’altra traslocazione associata ad un quadro di sindrome eosinofila è quella che
coinvolge il gene FGFR1, che codifica per la proteina “Fibroblast Growth Factor Receptor
1” ad attività tirosina chinasica. Nella traslocazione t(8;13) il gene FGFR1, mappato sul
cromosoma 8 alla banda p11, si riarrangia con il gene ZNF198, mappato alla banda
13q12. Il gene chimerico ZNF198-FGFR1, prodotto dalla traslocazione, causa
l’attivazione costitutiva della chinasi in assenza del ligando.
L’ultima traslocazione più recentemente dimostrata mediante tecniche di citogenetica
molecolare è quella che determina il riarrangiamento tra il gene per il recettore Alfa del
PDGF e il gene FIP1L1, entrambi mappati alla banda q12 del cromosoma 4. Anche in
questo caso la traslocazione genera un gene di fusione che provoca l’attivazione
costitutiva di PDGFRA.
Terapia
Fino ad un recente passato i farmaci più spesso impiegati nei pazienti con sindrome
ipereosinofila erano i cortisonici e gli antiblastici.
La recente dimostrazione che nella maggior parte dei pazienti con sindrome
ipereosinofola si verifica l’attivazione costitutiva di una particolare tirosina chinasi a
seguito di una traslocazione cromosomica specifica ha radicalmente modificato il
trattamento di questi pazienti indirizzandoli verso una terapia molecolare.
Quest’ultima consiste nella somministrazione dell’imatinib mesilato (STI571, Gleevec,
Glivec), molecola già rivelatasi efficace nel trattamento della leucemia mieloide cronica
Ph1 positiva. Studi recenti indicano che il Glivec è in grado d’indurre remissioni durevoli
anche nei pazienti con t(5;12) o con riarrangiamento FIP1L1-PDGFRA.
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23. Sindromi mielodisplastiche
Definizione
Epidemiologia
Patogenesi
Myelodysplastic clone
Stem
cells
BFU-E
CFU-GM
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Una malattia ematologica (come le sindromi mielodisplastiche) si definisce clonale in
quanto la proliferazione cellulare che la caratterizza prende origine da un unico
progenitore malato. La dimostrazione dell’origine clonale delle sindromi mielodiplsatiche
è basata sulla identificazione di anomalie citogenetiche acquisite, e, limitatamente alla
popolazione femminile, sulla dimostrazione dell'inattivazione casuale di un cromosoma
X mediante la diversa espressione di metilazione del DNA, nelle pazienti eterozigoti per
i polimorfismi del gene PGK (fosfoglicerato-chinasi) e HUMARA (recettore degli ormoni
androgeni umani).
I meccanismi genetici e molecolari responsabili della trasformazione neoplastica della
cellula staminale emopoietica nelle sindromi mielodisplastiche rimangono in gran parte
non chiariti. Alcune anomalie cromosomiche ricorrono con maggiore frequenza nelle
sindromi mielodisplastiche. Le più frequenti sono le alterazioni del cromosoma 5, del
cromosoma 20, del cromosoma Y (associate a prognosi favorevole), del cromosoma 7
(associata a prognosi sevara) e la trisomia 8 (prognosi intermedia) che rappresenta
l’anomalia numerica più frequente nei disordini mieloidi (sindromi mielodisplastiche,
leucemie acute mieloidi, malattie mieloproliferative).Circa il 40-60% dei pazienti
presentano un cariotipo normal all’analisi citogenetica con tecnica convenzionel
(bandeggio G). L’ utilizzazione di approcci più sensibili (citogenetica molecolare,
ibridazione in situ fluorescente, FISH) permette di individuare la presenza di lesioni
citogenetiche criptiche in una certa percentuale (10-20%) di pazienti con cariotipo
normale.
Quadro clinico
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disgranulopoiesi: asincronia maturativi nucleo-citoplasmatica, ipogranulazione, blasti
(elementi che hanno subito arresto maturativo)
dismegacariopoiesi: micro-megacariociti, megacariociti mononucleari, ipogranularità
Sideroblasti
I sideroblasti ad anello sono definiti in base alla presenza di un numero di granuli di ferro
>10 (colorazione di Perls) a disposizione perinucleare, che indica una localizzazione a
livello mitocondriale. Gli eritroblasti ferritinici presentano un numero minore di granuli che
si localizzazo a livello citoplasmatico.
Classificazione
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Nell’Ottobre del 2002 è stata formulata la nuova classificazione WHO, che incorpora
molti dei criteri e delle definizioni del sistema FAB, ma definisce con maggior precisione
alcuni sottotipi (Tabella 2). Essa distingue 6 forme principali: anemia refrattaria (AR),
anemia refrattaria con sideroblasti ad anello (ASIA), citopenia refrattaria (senza o con
sideroblasti ad anello) con displasia multilineare (RCMD, RS-RCMD), anemia refrattaria
con eccesso di blasti (AREB1 e AREB2) , sindrome 5q- (5q).
Le principali differenze rispetto alla classificazione precedente riguardano l'esclusione
del sottotipo AREB-t, assimilato alla categoria delle leucemie acute mieloidi;
l'eliminazione del sottotipo LMMC collocato in un gruppo dei disordini mieloidi con
caratteristiche sia delle sindromi mielodisplastiche sia delle malattie mieloproliferative
(MDS/MPD); la definizione di una nuova entità clinica, la sindrome 5q- associata a
prognosi favorevole.
Sindrome 5q-
Questa sindrome è definita come una SMD de novo con una isolata anomalia
citogenetica che consiste nella delezione delle bande q21 e q32 del cromosoma 5.
Interessa con maggiore frequenza il sesso femminile. Dal punto di vista ematologico si
presenta come un’anemia (macrocitica) refrattaria, con un numero di piastrine normale o
aumentato e un aumentato numero di megacariociti, molti dei quali con nuclei ipolobati. Il
numero di blasti nel midollo e nel sangue periferico è inferiore al 5%. E’ associata a
prognosi favorevole.
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Tabella 2 - Classificazione WHO delle sindromi mielodisplastiche
Citopenia refrattaria con displasia multilineare Citopenie (bi- o tri- Displasia in 10% delle cellule
(RCMD) lineare) in 2/+ linee mieloidi
Assenza di blasti Blasti < 5%
Non corpi di Auer Assenza di corpi di Auer
9
Monociti <1x10 /l Sideroblasti anello <15%
Citopenia refrattaria con displasia multilineare Citopenie (bi- o tri- Displasia in 10% delle cellule
e sideroblasti ad anello lineare) in 2/+ linee mieloidi
(RS-RCMD) Assenza di blasti Blasti < 5%
Non corpi di Auer Assenza di corpi di Auer
9
Monociti <1x10 /l Sideroblasti anello 15%
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Prognosi
I pazienti con basso rischio IPSS presentano una sopravvivenza mediana di 5.7 anni,
quelli con rischio intermedio-1 di 3.5 anni, con rischio intermedio-2 di 12 mesi, e con alto
rischio di 4.5 mesi. Il 25% di progressione in leucemia acuta mieloide è raggiunto in 9.4
anni per il basso rischio, in 3.5 anni per il rischio intermedio-1, in 12 mesi per il rischio
intermedio-2 e in 4.5 mesi per l’alto rischio.
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Terapia
I pazienti a basso rischio, oppure in età avanzata o con poor performance status sono
candidati a terapia di supporto: trasfusioni di globuli rossi, prevenzione e terapia delle
infezioni, prevenzione e terapia delle emorragie oppure a terapie sperimentali (Epo + G-
CSF, induttori della differenziazione, farmaci anticitochinici).
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24. Leucemia mieloide acuta
Definizione
La leucemia acuta mieloide (LAM) è una patologia clonale della cellula staminale
emopoietica caratterizzata da proliferazione incontrollata ed arresto della maturazione,
con accumulo di cellule mieloidi immature (blasti) nel midollo osseo e soppressione
dell’emopoiesi normale.
Epidemiologia
L’incidenza della leucemia acuta mieloide aumenta sensibilmente con il crescere dell’età;
complessivamente risulta di 2-3 casi ogni 100.000 persone per anno. Le LAM
rappresentano circa il 15-20% delle leucemie acute del bambino e l’80% delle leucemie
acute dell’adulto.
Patogenesi
Sono stati individuati alcuni fattori di rischio per lo sviluppo di leucemia acuta mieloide,
che comprendono fattori ambientali, malattie acquisite, malattie ereditarie (tabella 1).
Fattori ambientali:
Radiazioni
Benzene
Farmaci chemioterapici
Cloramfenicolo
Malattie acquisite:
Sindromi mieloproliferative croniche
Sindromi mielodisplastiche
Anemia aplastica
Emoglobinuria parossistica notturna
Malattie ereditarie:
Anemia di Fanconi
Immunodeficienze combinateSindrome di Down
Sindrome di Bloom
Atassia-telangectasia
Sindrome d Wiskott-Aldrich
Discheratosi congenita
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Dal punto di vista genetico e molecolare sono state individuate diverse alterazioni che
ricorrono con frequenza e specificità variabile nelle LAM.
Le leucemie acute mieloidi sono state classificate fino all’ottobre 2002 in base ai criteri
morfologici e immunocitochimici FAB (French-American-British Classification Group).
In tutti i casi, per porre diagnosi di leucemia acuta mieloide, ooccorre che il numero di
cellule blastiche presenti a livello midollare sia maggiore o uguale al 20% della cellularità
totale.
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associa alla traslocazione t(8;21) con il coinvolgimento dei geni AML/ETO (prognosi
favorevole).
Leucemia acuta M3 (promielocitica): la quasi totalità delle cellule leucemiche è
costituita da promilociti atipici con citoplasma ricco di granulazioni azzurrofile e corpi di
Auer (variante ipergranulare). La reazione alla mieloperossidasi è intensamente
positiva. Questo sottotipo è associato con altissima frequenza alla t(15;17),
riarrangiamnto PML/RAR (prognosi favorevole).
Esiste una variante ipogranulare della leucemia acuta M3, in cui i granuli non sono
visibili alla microscopia ottica ma sono dimostrabili con la microscopia elettronica.
L’alterazione citogenetica è la medesima della variante ipergranulare
Leucemia acuta M4 (mielomonocitica): per la diagnosi di questa forma deve essere
presente oltre a una quota di blasti superiore al 20%, deve essere presente una
componente granulocitaria midollare in vari stadi differenziativi maggiore del 20% e
una componente monocitaria midollare non inferiore al 20%. Una positività per la
mieloperossidasi e la cloro-acetato-esterasi (esterasi specifiche) viene riscontrata nella
componente granulocitaria, e una netta positività delle esterasi non specifiche (alfa-
naftil-acetato-esterasi) è presente nelle cellule monocitarie. Una inv(16), con prognosi
favorevole, si associa frequentemente a una variante della LAM-M4 detta con
componente eosinofila. Gli eosinofili sono abnormi e nel citoplasma oltre ai granuli
specifici sono presenti granuli basofili particolarmente prominenti.
Leucemia acuta M5a (monocitica scarsamente differenziata): le cellule monocitiche
devono costituire almeno l’80% delle cellule leucemiche; i monoblasti devono costituire
almeno l’80% della componente monolitica; la componente granulocitaria se presente
deve essere inferiore al 20% delle cellule leucemiche. I monoblasti sono negativi alla
mieloperossidasi e positivi alla alfa-naftil-acetato-esterasi (esterasi non specifiche).
Questa forma non è associata a alterazioni citogenetiche specifiche.
Leucemia acuta M5b (monocitica con differenziazione): per la diagnosi è necessario
che i monoblasti siano meno dell’80% della componente monocitaria. I promonociti
sono predominanti.
Leucemia acuta M6 (eritroleucemia): è caratterizzata dalla coesistenza di blasti
mieloidi e eritroblasti abnormi a livello del midollo osseo. I precursori eritroidi sono
almeno il 50% delle cellule; almeno il 30% delle cellule non-eritroidi è costituito da
mieloblasti. I precursori eritroidi sono displastici e PAS positivi. Le alterazioni
citogenetiche sono estremamente variabili.
Leucemia acuta M7 (megacariocitaria): la diagnosi di questa forma è
esclusivamente immunofenotipica: gli elementio blastici devono essere positivi per gli
antigeni CD41, CD42 e CD61 (antigeni piastrinici GpIb, GpIIb/IIIa e GpIIIa). Inoltre la
natura megacariocitaria della leucemia può essere evidenziata con la microscopia
elettronica mediante la dimostrazione della perossidasi piastrinica delle cellule.
Nel 2002 è stata elaborata la classificazione WHO delle neoplasie mieloidi, che si basa
su molti criteri inclusi nella precedente classificazione FAB, assegnando tuttavia rilevanza
diagnostica ad alcune anomalie molecolari (tabella 2)
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Tabella 2 – Classificazione WHO delle leucemie acute mieloidi.
Quadro clinico
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Diagnosi
Tabella 3. Principali antigeni CD di utilità nella diagnostica della leucemia acuta mieloide
Antigene Distribuzione
Prognosi
I fattori che condizionano più significativamente il decorso clinico dei pazienti affetti da
LAM sono l’età, che sia associa a prognosi sfavorevole se superiore a 55-60 anni, e la
citogenetica, che consente di individuare alcune forme a prognosi favorevole (basso
rischio), con t(8;21), inv(16), t(16;16), t(15;17) e varianti, e forme a prognosi sfavorevole
(alto rischio) se presentano anomalie del cromosoma 5, del cromosoma 7 oppure un
cariotipo complesso (3 anomalie).
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Algoritmo per la definizione del rischio delle leucemie acute mieloidi non M3
Rischio Basso
t(8;21), inv(16), t(16;16)
Rischio Standard
restanti anomalie
Rischio Alto
-5, -7, del(5q),an(3q), cariotipo complesso
LAM secondaria
non remissione dopo induzione
Terapia
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generali ed è comunque gravata da una transplant-related mortality del 20-40%, dovuta
principalmente alla tossicità della radio-chemioterapia, alle complicanze infettive ed alla
malattia da trapianto verso l’ospite (graft-versus-host disease, GvHD) acuta e cronica. La
sopravvivenza libera da malattia nei pazienti sottoposti ad allo trapianto è del 50-60%
circa.
Per le peculiarità biologiche e cliniche merita una trattazione a parte la leucemia acuta
promielocitica (LAM-M3 della classificazione FAB), che rappresenta circa il 10% delle
leucemie acute mieloblastiche dell’adulto.
Patogenesi
Nel 98% dei pazienti con LAM-M3 si osserva la traslocazione bilanciata, senza perdita di
materiale, formalmente definita come t(15;17)(q22;q21); l’1% dei pazienti non mostra il
riarrangiamento all’esame citogenetico convenzionale (riarrangiamento criptico). Nel
1991 metodiche di biologia molecolare dimostrano che la traslocazione determina la
giustapposizione del gene PML (promyelocitic leukemia), mappato alla banda 15q22, e
RARα (subunità del recettore dell’acido retinico), mappato alla banda 17q21, con la
creazione della proteina di chimerica PML-RARA.
Il punto di rottura nel gene RARα è costante essendo sempre localizzato a livello del
primo introne del gene. Il gene RARα è un fattore trascrizionale che svolge un ruolo
fondamentale nella normale emopoiesi determinando una normale differenzazione
cellulare e bloccando la proliferazione cellulare.. Nella LAP la proteina chimerica PML/
RARα è in grado di reclutare un complesso di repressione della trascrizione che agisce
attraverso una deacetilazione degli istoni. In questo modo la cromatina assume una
conformazione meno accessibile ai fattori necessari a promuovere la trascrizione. L’acido
retinoico in forma trans (ATRA) a concentrazioni fisiologiche è in grado almeno in parte di
rimuovere il blocco differenziativo in modo quasi fisiologico, in quanto il gene RARα
codifica per il recettore dell’ATRA.
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Quadro clinico
L’esordio clinico è caratterizzato in più del 90% dei pazienti da una severa sindrome
emorragica dovuta a coagulazione intravascolare disseminata innescata dall’attività
procoagulante dei granuli dei promielociti, e che peraltro è frequentemente aggravata
dalla iniziale citolisi indotta dalla chemioterapia.
Diagnosi
Terapia
La terapia del paziente con leucemia acuta promielocitica prevede il trattamento della
CID con concentrati piastrinici, plasma fresco congelato, fibrinogeno. Dopo aver
documentato la diagnosi la terapia è basata sull’acido retinoico (all-trans-retinoic acid,
ATRA), che induce la differenziazione delle cellule leucemiche, in associazione a
chemioterapia con antracicline.
Uno studio pilota del Gruppo Italiano per lo studio delle Malattie Ematologiche Maligne
dell’Adulto (GIMEMA) ha utilizzato un protocollo basato sull’associazione di ATRA ed
idarubicina (protocollo “AIDA”) che comprende una fase di induzione della remissione
completa (ATRA e idarubicina), una fase di consolidamento con vari cicli chemioterapici
(idarubicina e Ara-C; Mitoxantrone ed etoposide; idarubicina, Ara-C e tioguanina).
I risultati dello studio hanno evidenziato il conseguimento della remissione completa nel
90% dei casi con risoluzione della coagulopatia in 7-10 gg ed una sopravvivenza globale
dell’85%.
La terapia con ATRA può presentare alcuni effetti collaterali. Tra i più gravi, ricordiamo
l’iperleucocitosi, conseguenza della maturazione dei promielociti e la sindrome da ATRA
(evidenziabile nel 15-23% dei casi) caratterizzata da febbre, infiltrati polmonari,
versamento pleuropericardico, insufficienza renale e cardiaca. Il trattamento della
sindrome da ATRA prevede la sospensione dell’ATRA e l’impiego di desametasone ad
alte dosi.
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Traslocazioni cromosomiche sono presenti nel 40% circa dei pazienti affetti da leucemia
mieloide acuta (LAM). Sono stati riportati due tipi di traslocazioni: quelle che attivano una
particolare tirosina chinasi e quelle che modificano la struttura cromatinica, attivando un
complesso che reprime la trascrizione. Il restante 30-50% dei pazienti può invece
presentare una mutazione puntiforme di un gene che codifica per un recettore ad attività
tirosina chinasica o di un gene che codifica per una proteina coinvolta nei processi di
trasduzione del segnale. Una terapia molecolare corretta dovrebbe quindi indirizzarsi
verso tali bersagli.
Tirosine chinasi
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Alterazioni della struttura cromatinica
Terapia molecolare. Dati sperimentali ottenuti da modelli murini e dati aneddotici ottenuti
in pochi pazienti con LAM resistente all’ATRA indicano che la resistenza all’ATRA può
essere superata somministrando ATRA ed inbitori delle deacetilazione degli istoni. Questi
ultimi agiscono sulla deacetilasi istonica che partecipa al già citato complesso
repressorio. Gli istoni sono proteine che insieme al DNA formano il nucleosoma, subunità
fondamentale della cromatina. La trascrizione del nucleosoma dipende dal grado di
acetilazione degli istoni. In caso di deacetilazione il nucleosoma è contratto e si ha un
blocco della trascrizione mentre nel caso di un’acetilazione degli istoni il nucleosoma è
rilasciato ed è favorita la trascrizione. Gli inibitori della deacetilasi degli istoni bloccando
tale enzima dovrebbero ripristinare la trascrizione di geni bersaglio e reindurre la
differenziazione cellulare. Basandosi su questo razionale e considerando che il
complesso repressorio sopra riportato è attivato non solo nei pazienti con LAM-M3 ma
anche in quelli con altri citotipi, pazienti con malattia resistente alla chemioterapia sono
stati avviati a protocolli di terapia investigativa basati sull’impiego di inibitori delle
deacetilasi degli istoni.
Mutazioni. Quelle più frequenti hanno come bersaglio il gene RAS. Questo gene codifica
per una proteina legata alla membrana citoplasmatica e dotata di attività GTPasica. La
proteina RAS, che è in grado di formare un legame con GDP e GTP, cicla tra uno stato
attivo (legata a GTP) e uno stato inattivo (legata a GTP). Inoltre per essere attivata la
proteina deve essere legata alla membrana cellulare. Questo legame è indotto da una
modificazione della proteina a livello della sua porzione lipidica, processo che va sotto il
nome di prenilazione. Quest’ultima avviene per azione di due enzimi la farnesil- e la
geranilgeranil-transferasi. Le mutazioni puntiformi di RAS, che hanno un’incidenza del
20%, colpiscono i codoni 12, 13 e 61 e mantengono RAS nella sua forma attiva legata a
GTP.
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Terapia molecolare. La prenilazione di RAS può essere bloccata utilizzando inibitori della
farnesilazione (Zarnestra). Si ritiene così di bloccare il legame di RAS alla membrana
cellulare e la sua conseguente attivazione. Gli inibitori della farnesilazione potrebbero
avere un ampio impiego nelle LAM, inducendo un arresto della crescita cellulare e
l’apoptosi. Nonostante i numerosi studi sperimentali il meccanismo d’azione di queste
molecole è tuttora da definire. Siccome la risposta agli inibitori della farnesilazione non
correla con lo stato di RAS, si ritiene che essi agiscano impedendo la farnesilazione di
altre proteine che a loro volta svolgono un ruolo cruciale in vari processi cellulari.
Comunque sia, studi in vitro hanno dimostrato che gli inibitori della farnesilazione
potrebbero essere efficacemente impiegati nella LMC Ph1 positiva resistente alla terapia
con STI e nelle leucemia acuta linfoblastica Ph1 positiva. Inoltre i pochi studi investigativi
sino ad ora condotti nei pazienti con LAM resistente a vari protocolli di chemioterapia
hanno dimostrato una risposta clinica, che consisteva in una remissione parziale nel 32%
dei casi.
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25. Leucemia linfatica (o linfoblastica) acuta
Definizione
La leucemia acuta linfoblastica è una malattia clonale dei progenitori linfoidi caratterizzata
da proliferazione incontrollata ed arresto della maturazione, con accumulo di cellule
immature (blasti) nel midollo osseo e soppressione dell’emopoiesi normale.
Epidemiologia
L’incidenza globale è di circa 2 casi ogni 100.000 persone per anno. Rappresenta la
neoplasia più comune dell’infanzia (76% delle leucemie del bambino). E’ meno frequente
nell’età adulta, costituendo il 24% dei casi complessivi di leucemie.
Patogenesi
Sono stati individuati fattori di rischio per lo sviluppo della leucemia acuta linfoblastica.
Tra i fattori ambientali riveste un ruolo importante l’esposizione a radiazioni ionizzanti,
benzene, farmaci chemioterapici e pesticidi. Inoltre si ritiene che possano avere un ruolo
patogenetico alcune infezioni virali, in particolare HTLV-1 e EBV. Infine, è noto che
nell’ambito di alcune malattie congenite (sindrome di Down, immunodeficenza congenita
o acquisita, anemia di Fanconi, sindrome di Bloom, atassia teleangectasia) esista una
maggiore incidenza di leucemie acute linfoblastiche.
Alterazioni cromosomiche sono riscontrabili nel 68-85% dei casi. Alcune ricorrono con
maggiore frequenza: si tratta in primo luogo di aberrazioni numeriche (ipodiploidia, che
occorre nel 4-8% dei casi; e iperdiploidida che è presente nel 15-30% dei soggetti) e
aberrazioni strutturali, in particolare traslocazioni cromosomiche [t(9;22) con la presenaza
del cromosoma Ph’ nell’11-29% dei casi; t(4;11) nel 3-4% dei casi; t(8;14) nel 5% dei
casi; t(1;19) nel 2-3% dei casi]. Fatta eccezione per il cariotipo iperdiploide, tutte le altre
alterazioni cariotipiche descritte (in particolare la presenza del cromosoma Philadelphia)
sono associate a malattia biologicamente aggressiva e a prognosi sfavorevole.
Classificazione
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Quadro clinico
La maggior parte dei pazienti ricorre al medico per manifestazioni che sono
l’espressione dell’insufficienza midollare: pallore, astenia, affaticabilità, palpitazione
(anemia), petecchie, ecchimosi, emorragie cutaneo-mucose (piastrinopenia) e infezioni
(leucocitosi con granulocitopenia).
Fra i segni clinici più frequentemente apprezzabili (50% circa dei pazienti) sono da
annoverare le linfoadenomegalie splenomegalia e l’epatomegalia, legate all’infiltrazione
leucemica. Nel 15% circa dei casi è presente un impegno mediastinico con sintmi ad
esso correlati (tosse stizzosa, dispnea, versamento pleurico).
Un quadro clinico particolare è relativo alla localizzazione testicolare negli individui di
sesso maschile e ovarica nelle pazienti di sesso femminile, che sono relativamente rare
in fase di esordio della malattia, ma che assume una particolare rilevanza nelle recidive.
Infine, nell’ambito delle leucemie linfoblastiche si osserva il coinvolgimento del sistema
nervoso centrale (meningosi leucemica con segni di ipertensione endocranica quali
vomito, cefalea, rigidità nucale; disturbi oculari quali fotofobia e diplopia; disturbi
coinvolgenti i nervi cranici e disturbi psichici) in circa il 5% degli individui alla diagnosi.
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Senza una adeguata profilassi tuttavia, ben il 50-75% dei pazienti sviluppa una recidiva di
malattia meningea.
Diagnosi
Prognosi
Terapia
La leucemia linfoblastica acuta è una delle emopatie maligne per le quali è stto raggiunto
un significativo migliortamento terapeutico negli ultimi anni.
La terapia della leucemia acuta linfoblastica prevede una fase di supporto con
idratazione, alcalinizzazione delle urine, antiuricemici (allopurinolo) e uricosurici, terapia
trasfusionale e profilassi/trattamento delle infezioni.
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La terapia di induzione ha lo scopo di ridurre le cellule leucemiche al di sotto del 5% delle
cellule midollari: l’ottenimento di tale risultato configura la situazione definita remissione
completa ematologica. Classicamente è condotta con una combinazione di fgarmaci che
include vincristina, prednisone e antracicline (daunoblastina, adriblastina, idarubicina); è
comune associare questa triade di farmaci all’uso di L-asparaginasi.
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Leucemia-linfoma di Burkitt
Ha un fenotipo B maturo (CD34-, TdT-, CD10-, CD19+, CD79+), con espressione delle
immunoglobuline di superficie (restrizione monotipica per k o ) e assenza delle
immunoglobuline citoplasmatiche.
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Presentazione clinica
Nelle forme endemiche coinvolge caratteristicamente le ossa facciali, mentre nelle aree
non endemiche colpisce linfonodi, midollo osseo, ovaio, mammella rene. Il
coinvolgimento midollare (leucemico) rappresenta un afttore prognostico negativo. La
tabella seguente illustra le principali sedi di localizzazione della malattia.
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26. Linfoma di Hodgkin
Sotto il termine di linfoma di Hodgkin (LH) sono comprese due entità nosologiche: il
linfoma di Hodgkin a predominanza linfocitaria nodulare, ed il linfoma di Hodgkin
classico.
Epidemiologia
L’incidenza del linfoma di Hodgkin è pari a 2-3 casi ogni 100.000 abitanti per anno ed il
rapporto maschi/femmine è pari a 1,5:1. Costituisce meno dell’1% di nuovi casi di tumore
negli USA. La curva dell’età di incidenza è bimodale, con un picco tra 15 e 30 anni ed
uno dopo i 60 anni. Il linfoma di Hodgkin rappresenta circa il 30% di tutti i linfomi.
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Aspetti istopatologici del linfoma di Hodgkin
La struttura dei linfonodi è nodulare. Sono tipiche le cellule “Reed Sternberg variants”
(nuclei vescicolosi, plurilobati, piccoli nucleoli) con aspetto “pop-corn”, che sono positive
per i marcatori B (CD20, CD79a) e producono immunoglobuline (Ig), mentre sono
negative per i marcatori tipici delle cellule Reed Sternberg classiche (CD30, CD15). Tali
cellule appaiono disperse entro un contesto di piccoli linfociti, istiociti e cellule epitelioidi.
Nella maggior parte dei casi le cellule Reed-Sternberg presentano riarragiamento per i
geni delle immunoglobuline, con mutazioni somatiche delle regioni variabili delle catene
pesanti, caratteristica delle cellule B dei centri germinativi. Si ipotizza quindi una
derivazione da tali cellule. Non vengono prodotte immunoglobuline, come nel linfoma di
Hodgkin a predominanza linfocitaria nodulare; ciò è dovuto ad un’inattivazione della
trascrizione, causata dal deficit di un fattore di trascrizione (ottamero dipendente, indicato
come Oct2). Normalmente le cellule B che hanno perso la capacità di produrre
immunoglobuline vanno incontro ad apoptosi. Questo non succede per cellule Reed-
Sternberg, poichè la via apoptotica è bloccata.
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Linfoma di Hodgkin a cellularità mista
Il 60-80% dei casi di linfoma di Hodgkin si presenta con adenopatie cervicali. Nel 90% dei
casi la malattia è sopradiaframmatica con interessamento dei linfonodi cervicali,
sopraclaveari, mediastinici, degli ili polmonari ed ascellari. Nel 10% circa dei casi vi è una
presentazione mediastinica isolata. Raro è l’interessamento delle sedi extranodali, del
midollo osseo, del tratto gastroenterico e del sistema nervoso centrale
Il 25-30% dei pazienti presenta all'esordio sintomi che sono definiti “sistemici”, che
comprendono febbre persistente o ricorrente con temperatura superiore a 38°C nel
mese precedente senza altre cause apparenti, un calo ponderale superiore al 10% del
peso corporeo negli ultimi sei mesi, sudorazioni notturne profuse nel mese precedente.
Tali sintomi sono anche definiti come sintomi “B”. La presenza di uno o più di questi
sintomi è rilevante dal punto di vista prognostico, e viene specificata, nella stadiazione
della malattia (vedi oltre), dalla presenza della lettera “B”, accanto all’indicazione dello
stadio clinico. Per contro, nel caso in cui questi sintomi non siano presenti, lo stadio
clinico sarà affiancato dalla lettera “A” (vedi oltre).
Un altro sintomo talvolta riferito dai pazienti con linfoma di Hodgkin è il prurito, che
tuttavia non è formalmente incluso tra i sintomi B.
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Diagnosi
In caso di malattia localizzata gli esami di laboratorio possono essere tutti nella norma o
alterati solo in modo modesto.
Negli stadi più avanzati (specie se vi sono sintomi B) possono comparire alterazioni di
laboratorio caratteristiche di uno stato infiammatorio: anemia da malattia cronica,
modesta leucocitosi neutrofila, eosinofilia, linfopenia, VES elevata, frazione 2 delle
sieroproteine aumentata, fibrinogeno elevato, fosfatasi alcalina aumentata, possibile
alterazione degli enzimi epatici, cupremia (livello sierico del rame) elevata, anergia alla
intradermoreazione alla tubercolinica (deficit dell’immunità cellulo-mediata).
L’ecografia addominale è utile per l'esplorazione di fegato, milza, ilo epatico e splenico,
delle regioni peripancreatiche e delle altre stazioni linfonodali.
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cicatriziale ed un’adenopatia, sede di malattia attiva persistente dopo la
radio/chemioterapia.
Tra le tecniche di stadiazione ora non più usate, vale la pena di ricordare la linfografia
addominale per via bipedale che opacizza i linfonodi inguino-crurali, pelvici, iliaci comuni,
iliaci esterni, lombo-aortici, rivelando dimensioni e difetti di riempimento di tipo patologico.
Tale tecnica aveva il limite di non evidenziare i linfonodi dell'ilo epatico e splenico,
dell'asse celiaco e mesenterici. Era una tecnica di seconda linea, ora in disuso, superata
da nuove indagini strumentali di imaging. In passato era utilizzata anche la laparotomia
esplorativa con splenectomia (per l'esame istologico) e prelievi bioptici epatici e di
eventuali adenopatie addominali. Attualmente è abbandonata in favore di indagini meno
invasive (TAC, RM, Ecografia) e per il rischio derivante dalla splenectomia (sepsi da
batteri capsulati nei più giovani; rischio correlato alla piastrinosi post-splenectomia)
Diagnosi differenziale
Per quanto riguarda le caratteristiche cliniche, il linfoma di Hodgkin differisce dai linfomi
non-Hodgkin B per alcuni fattori. Il linfoma di Hodgkin ha maggiore incidenza nel
giovane/adulto, con origine preferenziale dai linfonodi latero-cervicali e progressione
prevedibile da una stazione linfonodale alla stazione contigua. I linfomi di Hodgkin hanno
scarsissima tendenza alla leucemizzazione ed eccellente risposta alla terapia nella
maggior parte dei casi.
Stadiazione
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Come già accennato, lo stadio definito secondo la classificazione di Ann Arbor viene
affiancato dalla lettera “A” se non sono presenti i sintomi sistemici definiti in
precedenza, o dalla lettera “B” nel caso in cui siano presenti uno o più sintomi sistemici
(sintomi B, per l’appunto). Per esempio, un paziente che abbia un linfoma di Hodgkin in
stadio II e presenti calo ponderale (superiore al 10% del peso corporeo negli ultimi sei
mesi), avrà una malattia classificata in stadio II B, mentre un paziente che non presenti
alcun sintomo sistemico sarà in stadio II A.
Fattori prognostici
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I pazienti che non hanno nessuno dei fattori di rischio considerati, hanno una probabilità
che la malattia non progredisca dopo la terapia pari all’80% circa, mentre i pazienti con 5 o
più fattori hanno una probabilità del 40% circa.
Terapia
La terapia del linfoma di Hodgkin viene scelta sostanzialmente in base allo stadio clinico
ed alla presenza di sinotmi sistemici e fattori prognostici negativi.
Malattia localizzata (stadi I e II) senza fattori di rischio quali mediastino bulky, grosse
adenopatie, sintomi B
La terapia di scelta è la combinazione di chemioterapia e radioterapia sulle stazioni
linfonodali interessate (involved fields). Gli stadi iniziali laterocervicali alti potrebbero
essere trattati con la sola radioterapia. I campi di irradiazione per la radioterapia sono
principalmente il cosiddetto campo “a mantellina” che prevede l’irradiazione sulle regioni
linfonodali sopradiaframmatiche (laterocervicali-sopraclaveari, mediastiniche, ascellari
bilaterali) con schermatura di tiroide, polmone cuore, ed il cosiddetto campo “a Y
rovesciata”, che prevede radioterapia sui linfonodi paraortici, sulla milza, sui linfonodi iliaci
ed inguinali.
La tendenza attuale per tutti gli stadi iniziali è una chemioterapia limitata, seguita da una
nuova stadiazione della malattia (restaging) e da una radioterapia di consolidamento
sulle sedi iniziali di malattia. Lo schema di chemioterapia oggi utilizzato è il cosiddetto
ABVD (Doxorubicina, Bleomicina, Vinblastina, Dacarbazina), che è stato preferito allo
schema precedentemente utilizzato, il cosidetto MOPP (Mostarda azotata, Vincristina,
Procarbazina, Prednisone) in quanto più efficace, non gonadotossico e non mutageno
(non leucemie secondarie), mentre la MOPP è gonadotossica e mutagena, a causa della
presenza di farmaci alchilanti.
Ad esempio un trattamento può essere cosituito da 4 cicli ABVD seguiti da radioterapia
28-32 Gy sulle sedi iniziali di malattia.
La sopravvivenza libera da recidiva negli stadi I A e II A è pari al 90 % a 5 anni.
Stadi I e II con fattori di rischio, stadi II B con fattori di rischio, stadi III, IV:
La terapia è costituita dalla chemioterapia, che generalmente consiste in 6-8 cicli ABVD,
oppure 6-8 cicli alternati MOPP/ABVD (ad oggi è dimostrato che l'ABVD è pari al
MOPP/ABVD e superiore alla sola MOPP in termini di efficacia clinica). La radioterapia
può essere eventualmente impiegata sulla malattia residua e sulle sedi bulky iniziali (ad
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esempio mediastino). Le remissioni sono tra il 75 ed il 90 %; la sopravvivenza libera da
recidiva è pari al 60-80 % a 5 anni.
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27. Linfomi non Hodgkin
Introduzione
Il modo più comune con cui può presentarsi un paziente con linfoma è l’ingrandimento
progressivo e persistente di uno o più linfonodi superficiali (linfoadenomegalie superficiali)
(cervicali, ascellari, inguinali). I linfonodi dei linfomi di solito non sono dolenti alla
palpazione. Oltre che in una sede linfonodale superficiale il linfoma può esordire in sede
mediastinica o addominale, senza che i linfonodi superficiali siano ingranditi. In tal caso i
sintomi possono essere vaghi e la diagnosi può essere più tardiva. Oppure può insorgere
in sedi extra-linfonodali (tonsille, stomaco, intestino, cute, polmone, tiroide, testicolo)
sicché i sintomi saranno legati alla sede anatomica interessata. Naturalmente, non tutte
le linfoadenomegalie sono sospette per un linfoma. Fortunatamente, nella maggior parte
dei casi i linfonodi sono ingranditi per altri motivi.
L’adenopatia può essere accompagnata dai cosiddetti sintomi sistemici (febbricola o
anche punte di febbre alta, sudorazioni notturne profuse, calo di peso inspiegabile). In
alcuni casi di linfoma di Hodgkin vi può essere un prurito molto fastidioso e intrattabile
che deve far sospettare la malattia.
Nel caso più comune di una adenopatia superficiale, il medico curante o lo specialista
ematologo che visiterà il paziente, oltre a registrare i sintomi riferiti, ispezionerà tutte le
stazioni linfonodali superficiali e ricercherà un eventuale ingrandimento della milza
(splenomegalia) e del fegato (epatomegalia). Verranno quindi eseguiti esami del sangue
di routine ed una radiografia del torace.
Il passo successivo sarà la biopsia chirurgica del linfonodo (o di qualunque tessuto
sospetto), cioè l’asportazione del linfonodo da parte di un chirurgo per l’esame istologico
da parte del patologo. Questo è il primo e più importante accertamento diagnostico e
richiede particolare cura. Se il linfonodo (o la massa sospetta) è profondo si può anche
eseguire una agobiopsia. Questa darà origine a un piccolo frammento di tessuto, che può
orientare la diagnosi, ma spesso non consente una diagnosi precisa cosicchè sarà poi
necessario procedere alla biopsia chirurgica. Nel caso di linfonodi superficiali l’agobiopsia
è superflua e conviene sempre procedere all’asportazione dell’intero linfonodo. Il
linfonodo verrà inviato al patologo per l’esame istologico che verrà completato con lo
studio immunoistochimico e studi molecolari. Si otterrà quindi una diagnosi esatta sulla
natura della adenopatia e nel caso di linfoma verrà definito l’esatto tipo istologico, che è il
determinante principale della prognosi e che è indispensabile per fissare il tipo di terapia.
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Epidemiologia
L’incidenza dei linfomi non-Hodgkin è pari a 5-10 nuovi casi ogni 100.000 abitanti per
anno. Sono malattie in incremento negli ultimi 10 anni. Il 90% è di linea B, il 10% della
linea T.
Vi è una prevalenza di soggetti di sesso maschile. I LNH a basso grado presentano picco
di incidenza attorno ai 60 anni. Nei bambini prevalgono le forme ad alto grado, per il 50%
di linea T. Alcune forme sono endemiche: ad esempio il linfoma di Burkitt in Africa e
l’adult T-cell leukemia/linfoma (ATCLL) in Giappone e Carabi.
Patogenesi
Vari fattori sono stati associati alla patogenesi dei linfomi non-Hodgkin (Tabella 1). Questi
comprendono fattori ambientali, agenti patogeni (virus, batteri), condizioni di
immunodeficienza congenita ed acquisita.
Agenti virali
Virus di Epstein-Barr (EBV) (linfoma di Burkitt)
Human T-Lymphotropic Virus-1 (HTLV-1) (ATCLL)
Virus dell’epatite C (HCV)
Agenti batterici
Helicobacter pylori
Campylobacter jejuni
Chlamydia psittaci
Immunodeficienze congenite
Atassia-teleangectasia
Malattia di Wiskott-Aldrich
Agammaglobulinemia tipo Bruton
Immunodeficienza severa combinata (SCID)
Immunodeficienze acquisite e disordini immunologici
Infezione da HIV
Malattie autoimmuni
Lupus eritematoso sistemico (LES)
Artrite reumatoide
Sindrome di Sjögren (linfomi delle ghiandole salivari)
Tiroidite di Hashimoto (linfomi della tiroide)
Terapia immunosoppressiva cronica post-trapianto d'organo
Familiarità
Fattori ambientali
Erbicidi, pesticidi, solventi organici (benzene), tinture per capelli
Radiazioni ionizzanti
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Classificazioni
Il tipo istologico è il fattore prognostico principale dei linfomi non-Hodgkin. Quindi l'esatta
diagnosi istologica è un pre-requisito essenziale per decidere il programma terapeutico
più adatto per il paziente.
Le classificazioni istopatologiche più usate, sono la Kiel classification, la Working
Formulation (WF), la Revised European-American Lymphoma classification (REAL) e la
WHO classification.
Classificazione di Kiel
Working Formulation
Si tratta di una classificazione operativa per uso clinico elaborata dal National Cancer
Institute ed è basata su criteri puramente morfologici (dimensioni cellulari piccole o
grandi, tipo di crescita difuso o follicolare). Distingue tre categorie principali di linfomi non-
Hodgkin (a basso, intermedio, ed alto grado di malignità), con diversa storia naturale,
prognosi, ed aspettativa di vita. La sopravvivenza mediana è di 7 anni per i linfomi non-
Hodgkin a basso grado (45% a 10 anni), 3 anni per quelli a grado intermedio (26% a 10
anni) ed 1 anno per quelli ad grado (23% a 10 anni).
Classificazione REAL
La classificazione REAL distingue i linfomi non-Hodgkin sulla base della linea cellulare (B
e T), e delle cellule di origine (precursori e cellule periferiche) (Tabella 2).
Linfomi di linea B
neoplasie dei precursori B
neoplasie delle cellule B periferiche
Linfomi di linea T
neoplasie dei precursori T
neoplasie delle cellule T periferiche
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Classificazione WHO
Nel 1997 la WHO ha proposto una nuova classificazione lievemente modificata rispetto
alla classificazione REAL (Tabella 3).
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A scopo clinico e terapeutico, i linfomi non Hodgkin vengono usualmente distinti in linfomi
indolenti, aggressivi ed altamente aggressivi.
Nei disordini linfoproliferativi è spesso presente un’alterazione dei geni che controllano i
processi del ciclo e della crescita cellulare. In pratica si verifica un blocco del processo
apoptotico, cioè del processo di morte cellulare programmata, che avviene per tutti i cloni
linfoidi sviluppatisi nel nostro organismo non utili alle esigenze del nostro sistema
immunitario. La crescita incontrollata delle cellule linfoidi si verifica per abrogazione dei
meccanismi che normalmente regolano l’espressione di proto-oncogeni o per mancata
espressione di geni oncosoppressori. I meccanismi responsabili di un’alterata funzione
genica nei linfomi sono:
traslocazioni cromosomiche;
amplificazioni geniche;
mutazioni somatiche;
delezioni geniche.
Traslocazioni cromosomiche
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dal fatto che l’espansione clonale si verificherebbe solo dopo che la cellula ha raggiunto
un certo grado di differenzazione. In contrasto con tale supposizione è l’osservazione che
nella maggioranza delle traslocazioni il punto di rottura cade nella regione di switch delle
catene pesanti. Tale dato fa ritenere che la traslocazione si svilupperebbe a livello del
centro germinativo.
Indipendentemente dallo stadio di differenzazione del B o T linfocita i riarrangiamenti
indicati tendono ad essere specificamente correlati con una particolare varietà istologica
di linfoma. E’ questo il caso delle traslocazioni che colpiscono i geni bcl-1, bcl-2 e bcl-6
coinvolti rispettivamente nei linfomi mantellari, follicolari e diffusi.
Oltre a tali traslocazioni bisogna però ricordare anche quelle che non coinvolgono i geni
codificanti le catene pesanti delle immunoglobuline o il recettore della cellula T. Tra
queste la più frequente è sicuramente la t(2;5)(p23;q35) associata a linfoma anaplastico.
Bcl-1. E’ riarrangiato nella traslocazione t(11;14)(q13;q32) che si osserva nel 70% dei
pazienti con linfoma mantellare. Sul piano molecolare si verifica la giustapposizione tra il
gene Bcl-1 e locus IgH. Nel 50% dei casi il punto di rottura all’interno di Bcl-1 cade in una
regione di 80-100kb definita come “Major breakpoint cluster region”, M-bcr. Nel 10-20%
dei casi cade nel locus della ciclica D1 (120kb 5’ rispetto a Bcl1). La traslocazione fa sì
che l’espressione del gene Bcl-1 venga aumentata perché quest’ultimo è posto sotto il
controllo della sequenza che promuove la trascrizione dei geni per le catene pesanti delle
immunoglobuline (“enhancer”). Il gene Bcl-1 appartiene alla famiglie delle cicline D1 e la
sua deregolazione impedisce la progressione del ciclo cellulare dalla fase G1 alla fase S,
contribuendo in tal modo allo sviluppo del linfoma.
Bcl-2. E’ riarrangiato nella traslocazione t(14;18)(q32;q21), presente nel 90% dei casi di
linfoma follicolare. Il punto di rottura sul cromosoma 14 cade all’interno della regione JH.
Il punto di rottura all’interno di Bcl-2, gene formato da tre esoni, può cadere in due distinte
regioni:
• nel 40-60% dei casi si trova localizzato nella porzione 3’ non trascritta di Bcl2 (M-bcr)
• nel 10-20% dei casi 20kb si trova a valle rispetto al precedente (m-bcr)
La traslocazione pone il gene Bcl-2 sotto l’azione di un “enhancer” delle catene pesanti
delle immunoglobuline. In tal modo la proteina Bcl-2 vede aumentare la sua espressione
e determina un blocco apoptotico in grado di garantire un vantaggio alle cellule affette.
Queste ultime sono in grado di differenziare in cellule B esprimenti IgM e IgD di
membrana. L’aumentata espressione di Bcl-2 è comunque da sola insufficiente a
determinare la trasformazione neoplastica.
Bcl-6. E’ un gene mappato a livello della banda q27 del cromosoma 3. Si ritiene che il
gene Bcl-6 sia un fattore trascrizionale necessario per la regolazione e differenzazione
della cellula B. Si tratta di un gene “promiscuo” trovandosi riarrangiato con numerosi
partners cromosomici. La traslocazione di Bcl-6 si osserva in circa il 40% dei casi di
linfoma diffuso a grandi cellule e nel 5-10% dei casi di linfoma follicolare. E’ stato
dimostrato che linfomi a grandi cellule apparentemente Bcl-6 negativi mostrano in realtà
una mutazione del gene in questione.
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della traslocazione il gene ALK (che codifica per una proteina dotata di attività
fosfochinasica, normalmente non è espressa nel tessuto linfoide sano) viene
sovraespresso.
Amplificazione genica
Si tratta di un processo che determina un’aumento dell’espressione dei geni che regolano
la proliferazione cellulare e che eventualmente provocano una chemioresistenza. Le
prove citogenetiche di un tale fenomeno consistono nel fatto che l’esame cromosomico
convenzionale dimostra talvolta la presenza di “double minutes” (doppi minuti) e di
“homogeneously staining regions (HSR)” (regioni colorate in modo omgeneo). FISH e
metodiche molecolari dimostrano che tali frammenti o regioni cromosomiche sono
espedienti che la cellula mette in atto per amplificare i geni Myc, Rel, Bcl-2
Mutazione somatica
La mutazione si sviluppa a livello dell’estremità 5’ della regione regolatoria dei geni Myc o
Bcl-2 o Bcl-6. Quest’ultimo è quello più frequentemente colpito da mutazione somatica a
livello di uno o di entrambi i suoi alleli e pertanto non necessita di essere coinvolto in una
traslocazione cromosomica con i geni delle catene pesanti delle immunoglobuline.
Siccome poi una mutazione di Bcl-6 può verificarsi durante la maturazione del B linfocito
a livello del centro germinativo, la mutazione stessa del gene indica l’origine del linfoma
dal centro germinativo.
Delezioni geniche
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Diagnosi e stadiazione
La diagnosi di linfoma non-Hodgkin viene formulata in ultima analisi sulla base dell’esame
istologico, eseguito sulla biopsia di un linfonodo e/o di altri tessuti interessati. In alcuni
casi si può ricorrere all’agobiopsia, che consente di eseguire un esame citologico, che
può orientare la diagnosi ma spesso non consente una diagnosi di precisione come
l’esame bioptico.
Il corretto inquadramento del paziente con linfoma non-Hodgkin deve includere oltre alla
biopsia linfonodale, anche una serie di accertamenti che consentano di definire
l’estensione della malattia (stadiazione) e di definire precisamente la prognosi.
La definizione di tutte le localizzazioni iniziali di malattia consente di poter ripetere gli
stessi esami al termine del trattamento (ristadiazione) e di definire con precisione la
risposta alla terapia (remissione completa, remissione parziale, non risposta,
progressione).
La valutazione dell’estensione della malattia non può prescindere dall’esame fisico delle
stazioni linfonodali superficiali, della milza e del fegato. Gli esami utili alla valutazione
delle stazioni linfonodali profonde comprendono radiografia standard del torace, TAC del
torace, TAC (o ecografia) di addome e pelvi, scintigrafia con Gallio67, RNM (in casi
selezionati).
Si deve valutare un eventuale interessamento del midollo osseo mediante un
mieloaspirato, con studio immunofenotipo delle popolazioni linfocitarie e ricerca di
alterazioni cromosomiche o eventuali alterazioni geniche mediante tecniche di biologia
molecolare, e la biopsia osteomidollare.
Nel caso della leucemia linfatica cronica o di linfomi che interessino anche il sangue
periferico (leucemizzazione), lo studio immunofenotipico può essere anche eseguito su
sangue periferico.
Lo studio di eventuali localizzazioni extralinfonodali può richiedere gastroscopia con
biopsie multiple (linfoma gastrico), una valutazione otorinolaringoiatrica con esame
bioptico nelle localizzazioni all’ anello di Waldeyer, una rachicentesi con esame del liquor
(linfoma linfoblastico e linfoma di Burkitt).
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NEOPLASIE DEI LINFOCITI B
Sono linfomi tipici dell'adulto con un’età mediana all’esordio di 50-60 anni. Vi è una
prevalenza del sesso maschile. I linfomi non Hodgkin indolenti a cellule B costituiscono
circa il 50% dei linfomi non Hodgkin (Tabella 4).
Caratteristiche generali
Sono linfomi per lo più in stadio avanzato già alla diagnosi. Vi è interessamento
osteomidollare nel 50-60% circa dei casi (70% nel linfoma linfocitico); una
leucemizzazione è rilevabile all'esame morfologico nel 15-20% dei casi ed in percentuale
superiore se si studiano i linfociti del sangue periferico con metodi immunologici e
molecolari.
Sono linfomi a bassa aggressività e relativamente lunga sopravvivenza: l’aspettativa di
vita mediana è di 7-8 anni per i linfomi follicolari, ma solo 3,5 anni per i linfomi mantellari.
Nonostante la bassa malignità, la probabilità di guarigione è bassa. La curva di
sopravvivenza ha infatti una pendenza costante senza plateau, che indica un rischio di
ricaduta costante, a differenza dei linfomi ad alto grado che, pur essendo clinicamente più
aggressivi, hanno un indice proliferativo elevato che li rende più sensibili alla
chemioterapia e nei quali è possibile osservare la guarigione.
Fattori prognostici
L'International Prognostic Index (IPI) basato su età, stadio, LDH, numero di sedi
extranodali, ideato ed utilizzato per i linfomi non Hodgkin ad alto grado, può essere un
valido sistema predittivo di risposta e sopravvivenza anche nei linfomi non-Hodgkin
indolenti.
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Terapia
Trai i linfomi indolenti, si presenta negli stadi iniziali meno del 20% dei casi. La terapia
consiste in una chemioterapia limitata seguita da radioterapia sulle stazioni linfonodali
interessate a dosi superiori a 30 Gy. La guarigione è raggiunta nel 50% dei casi.
Negli stadi III e IV, la terapia è basata sulla chemioterapia, che può consistere in una
monochemioterapia con agenti alchilanti (clorambucile, ciclofosfamide) o con analoghi
purinici (fludarabina, cladribina), o in una polichemioterapia includente antracicline (uno
dei cicli chemioterapici più utilizzati è il ciclo CHOP, contenente Ciclofosfamide,
Adriblastina, Vincristina e Prednisone). I migliori risultati sono ottenuti con il ciclo CHOP,
che consente di ottenere remissioni complete o parziali nell’80% dei casi, con
sopravvivenza libera da malattia a 5 anni del 60%. Risposte analoghe sono ottenute con
gli analoghi purinici (Tabella 5).
Recentemente è stata introdotta nella pratica clinica l’immunochemioterapia con
anticorpi monoclonali anti-CD20 (antigene della linea B-linfocitaria), come agente
singolo o combinato alla chemioterapia.
Nei linfomi follicolari, in soggetti anziani asintomatici o con una patologia associata che
limita l’impiego della chemioterapia, può essere indicata la strategia "watch and wait", che
consiste nel seguire clinicamente il paziente senza sottoporlo a trattamento fino al
momento della progressione della malattia. I pazienti trattati solo alla progressione hanno
percentuali di risposta significativamente inferiori rispetto pazienti ai trattati alla diagnosi.
Tuttavia, la sopravvivenza globale nei due gruppi (pazienti trattati alla diagnosi e trattati
alla progressione) non è significativamente differente. Questo perchè anche i pazienti che
hanno una risposta completa alla chemioterapia vanno invariabilmente incontro alla
recidiva della malattia. Le remissioni complete sono generalmente solo cliniche
(scomparsa delle linfoadenomegalie), ma non “biologiche”: questo è ben documentato
dalle tecniche di biologia molecolare (PCR) per la ricerca della t(14;18) o del
riarrangiamento della catena pesante delle immunoglobuline, che mostrano la
persistenza ne sangue periferico e nel midollo di cellule B neoplastiche clonali, anche
durante la remissione clinica completa.
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invitano le persone interessate a considerare la possibilità di una elargizione liberale alla FFS, c/c 33739, BRE, Pavia.
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Costituisce circa il 2-3% dei linfomi non Hodgkin. È composto da piccoli linfociti con
nucleo rotondo regolare e struttura cromatinica compatta. Il citoplasma può mostrare
aspetti di differenziazione plasmocitaria.
L’analisi immunofenotipica mostra l’espressione delle immunoglobuline di superficie a
debole intensità, antigeni B (CD19, CD20, CD79a), CD5+, CD23+, CD43+, CD10-. La
positività per il CD23 lo distingue dal linfoma mantellare.
Ha una sopravvivenza mediana di 5-6 anni.
Linfoma linfoplasmacitoide
Linfoma mantellare
L’età mediana di presentazione è di 50-60 anni, con prevalenza del sesso maschile. La
presentazione e la storia clinica sono quelle tipiche dei linfomi indolenti ma la
sopravvivenza è inferiore. La presentazione avviene in stadio avanzato (III-IV stadio)
nella maggioranza dei casi con adenopatia generalizzata, splenomegalia e,
frequentemente, interessamento midollare. Tipica è la localizzazione gastrointestinale
multipla ("multiple lymphomatous polyposis" ). Vi è leucemizzazione nel 25-45% dei casi.
La sopravvivenza mediana è di circa 3 anni.
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Linfoma follicolare
Il linfoma follicolare costituisce il 20-25% dei LNH ed è il più frequente linfoma a cellule B
nei paesi occidentali.
Nella Kiel classification è distinto in base alla percentuale di grandi cellule: follicular small
cleaved cell (meno del 20% di centroblasti, follicular mixed cells (centroblasti 20-50%),
follicular large cells (più del 50% di centroblasti).
La REAL classification distingue tre gradi citologici: grado I (predominantly small cell),
grado II (mixed small and large cell), grado III (predominantly large cells). Il pattern di
crescita può essere follicolare, oppure follicolare e diffuso.
Dal punto di vista biologico, l’iper-espressione della proteina bcl-2 comporta inibizione
dell’apoptosi (cioè della morte cellulare programmata), con conseguente accumulo di
cellule B clonali. Inoltre protegge la cellula neoplastica dall’effetto apoptotico dei citostatici
e della radioterapia e favorisce la riparazione dei danni del DNA, determinando la
sostanziale incurabilità dei linfomi follicolari
Dal punto di vista clinico si presenta in età medio-avanzata (età mediana 52 anni); solo il
7% dei pazienti ha un’età inferiore a 30 anni. In genere le condizioni generali del paziente
sono buone, sono rari i sintomi sistemici e la malattia bulky. Vi è di solito un’adenopatia
generalizzata e splenomegalia in oltre il 30%. L’interessamento osteomidollare è molto
frequente (nel 60-80% dei casi). All’esordio i parametri di laboratorio, latticodeidrogenasi
e 2-microglobulina, sono nei limiti. Meno del 25 % dei casi si presentano con una
malattia in stadio è iniziale (I - II stadio).
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Il decorso clinico è indolente, senza rischio di morte nel breve termine. Tuttavia le curve
di sopravvivenza non presentano una fase di plateau: le recidive della malattia sono
continue, anche dopo molti anni. Il linfoma follicolare è all’inizio generalmente
chemiosensibile; poi diviene chemioresistente. La storia clinica non è significativamente
alterata dalla chemioterapia: infatti il linfoma è considerato non guaribile nella
maggioranza dei casi. La sopravvivenza mediana è di 8 anni.
Sono state recentemente introdotte nella pratica clinica nuove strategie terapeutiche,
che comprendono farmaci attivi sull’apoptosi (analoghi delle purine come fludarabina e
cladribina), chemioterapia ad alte dosi ed autotrapianto di cellule staminali autologhe
periferiche, anticorpi monoclonali anti-CD20 chimerici (murini-umani) (Rituximab,
disponibile per il trattamento dei linfomi follicolari ricaduti o resistenti, anticorpo
monoclonale anti-CD20 radioimmunoconiugato con Y90, anticorpo monoclonale anti-
CD20 radioimmunoconiugato I131.
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può essere da follicolare a diffuso mist,o od a linfoma diffuso a grandi cellule. La clinica
della trasformazione istologica è caratterizzata dal rapido deterioramento delle condizioni
generali, dalla rapida crescita della neoplasia e dalla ridotta sensibilità alla chemioterapia.
Il linfoma della zona marginale extranodale è denominato linfoma a basso grado a cellule
B del MALT (Mucosa Associated Lymphoid Tissue) o Maltoma e può interessare
stomaco, ghiandole lacrimali, salivari, bronchi. I linfomi del MALT costituiscono circa il 7%
dei linfomi non-Hodgkin.
Molti pazienti hanno una storia di malattia autoimmune come la sindrome di Sjögren o di
una gastrite cronica da Helicobacter pylori. Lo stimolo antigenico cronico della infezione
da Helicobacter Pylori è considerata la causa principale del maltoma gastrico a basso
grado. L’eradicazione dell’ Helicobacter Pylori può far regredire il linfoma.
L’infezione da Helicobacter Pylori induce nello stomaco la formazione di tessuto linfoide
MALT. La stimolazione antigenica cronica del MALT sarebbe responsabile
dell’espansione clonale alla base del linfoma MALT a basso grado: infatti l’Helicobacter
pylori è presente nel 90 % dei preparati istologici di maltoma gastrico. Lo stimolo
proliferativo per le cellule neoplastiche B è verosimilmente fornito dalle cellule T infiltranti
il tumore La possibile regressione della neoplasia dopo eradicazione dell’ Helicobacter
pylori con terapia antibiotica è dovuta all’annullamento dello stimolo antigenico
I sintomi clinici di esordio sono simili a quelli di un carcinoma gastrico: dolori epigastrici,
dispepsia, emorragia. Hanno la tendenza a rimanere a lungo localizzati specie se a
basso grado. Per quanto riguarda la stadiazione, si considerano in stadio IE in caso di
interessamento solamente gastrico, in stadio IIE in caso di interessamento gastrico
associato a coinvolgimento dei linfonodi perigastrici
Nei linfomi gastrici a basso grado, nelle forme superficiali localizzate alla mucosa
Helicobacter pylori-positive è impiegata l’eradicazione antibiotica; se non vi è risposta
viene impiegato il clorambucile. Se la malattia è più estesa si sceglie la resezione gastrica
seguita da chemioterapia. In caso di linfomi gastrici ad alto grado, la terapia di scelta è la
chemioterapia con o senza resezione gastrica.
Il linfoma della zona marginale extranodale ha una sopravvivenza mediana di circa 6
anni.
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Linfomi non Hodgkin B aggressivi ed altamente aggressivi
Questi linfomi includono il linfoma diffuso B a grandi cellule, il linfoma a grandi cellule
anaplastiche Ki-1 (CD30)-positivo (a cellule T e Null), il linfoma primitivo del mediastino
(timico) a cellule B ed i linfomi a cellule T periferiche. I linfomi altamente aggressivi sono il
linfoma di Burkitt ed il linfoma linfoblastico.
Sono più frequenti nel maschio; l’età mediana è nella sesta decade. Si presentano
localizzati nel 30-50% mentre sono extranodali primitivi nel 25-30%. A differenza dei
linfomi non Hodgkin B l’interessamento osteomidollare è infrequente (10-15% dei casi). I
sintomi sistemici sono presenti nel 15-20%. Il linfoma primitivo del mediastino a B-cellule
è un raro linfoma che deriva dalla trasformazione neoplastica di un piccolo subset di
cellule B timiche. È caratterizzato da massa mediastinica bulky, sindrome della vena
cava superiore, frequente infiltrazione degli organi contigui: prevale nel sesso femminile
di giovane età.
Per lo stadio clinico I e IE, in genere viene impiegata una terapia combinata (breve
chemioterapia, per es. 4 cicli CHOP, seguita da radioterapia sulla sede iniziale di
malattia).
Le risposte complete sono in alta percentuale e la sopravvivenza a 10 anni è del 50%
circa. Il fattore prognostico principale è costituito dall’età. Negli stadi clinici II, III, IV in
genere viene imipegata una chemioterapia di combinazione. Possono impiegata diversi
schemi: schema CHOP (protocollo di I generazione), ProMACE-CytaBOM (protocollo di II
generazione), MACOP-B, VACOP-B (protocolli di III generazione). I protocolli di II e III
generazione sono caratterizzati da un alto numero di farmaci (6 o più), da
somministrazioni alternate in rapida sequenza (settimanale) di più farmaci non cross-
resistenti, e dall'alternanza di agenti mielosoppressivi e non mielosoppressivi. Sono
caratterizzato dal concetto di "dose intensity" (quantità di farmaco somministrata per unità
di tempo). Le risposte complete sono del 70 - 80% e la sopravvivenza libera da malattia a
5 anni è del 50-60%.
Sono protocolli complessi, intensivi (durata 3 mesi), con tossicità ematologica ed
extraematologica; la mortalità per terapia è del 3-5 %.
L'impiego dei fattori di crescita (G-CSF e GM-CSF) consente di ridurre la durata della
neutropenia post-.chemioterapia e quindi di rispettare i tempi di somministrazione e le
dosi dei farmaci.
Linfoma di Burkitt
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È più frequente nell'infanzia. Si presenta con masse "bulky" addominali e
mediastiniche. È possibile l’interessamento midollare e del sistema nervoso centrale.
Se ne distingue una forma cosidetta endemica, africana, ed una forma cosiddetta
sporadica, nei paesi occidentali.
È documentata l’associazione con il virus di Epstein-Barr (EBV) nei linfomi di Burkitt
endemici (africani), o nelle forme Burkitt-like (sporadiche o associate a AIDS). L'infezione
da EBV porta la comparsa dell'antigene EBNA (Epstein-Barr Nuclear Antigen), proteina
virale con proprietà oncogeniche.
Il sistema di stadiazione più utilizzato è quello secondo Murphy (Tabella 6).
È in genere una malattia massiva con alta sensibilità ai farmaci: ciò determina il rischio di
"tumor lysis syndrome" (ipercalcemia per liberazione di potassio intracellulare fino
all'arresto cardiaco e nefropatia uratica).
Le precauzioni da adottare sono l’iperidratazione, l’alcalinizzazione, l’allopurinolo
(farmaco uricosurico). È importante il monitoraggio degli elettroliti e lo staging abbreviato
(le dimensioni della neoplasia possono raddoppiare nel giro di pochi giorni)
La prognosi è migliorata con l'impiego di poli-chemioterapia includente il metotrexate ad
alte dosi per via sistemica o il metotrexate per via intratecale.
Nel bambino le risposte complete sono dell’80-90% e la sopravvivenza libera da
malattia a 5 anni del 60-70%. Nell'adulto l’approccio terapeutico è complicato dal fatto
che il 25-30% dei linfomi di Burkitt insorgono in soggetti HIV-positivi.
Linfoma linfoblastico
Nel 90% dei casi ha fenotipo T di tipo (in circa 2/3 dei casi con origine dalla corticale
timico; in 1/3 dei casi dalla midollare timico), mentre le leucemie acute linfoblastiche T
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sono per lo più a fenotipo pre-timico. Il 10% possiede un fenotipo B (tipo leucemia acuta
linfoblastica common o pre-B)
Dal punto di vista clinico è caratterizzato in genere da una massa mediastinica (timica)
(65% dei casi). Si può presentare con una sindrome della vena cava superiore con
versamento pleurico e pericardico. Sono possibili masse addominali e l’interessamento
del SNC.
I pazienti vengono trattati con protocolli tipo LAL (comprendenti la profilassi meningea) e
non con i protocolli dei linfomi.
La prognosi è differente a seconda se basso o alto rischio. L’alto rischio è dato dallo
stadio IV con interessamento midollare o del SNC, dall’LDH elevato e dalla malattia
bulky. Le risposte complete sono dell’80% con sopravvivenza libera da malattia a 5 anni
del 50% (solo 20% nell'alto rischio).
Sono linfomi cutanei dell'adulto ad andamento cronico strettamente correlati tra loro.
Entrambe le forme risultano dalla proliferazione clonale di elementi post-timici con
fenotipo T CD4+, CD8-.
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ALK+ e si presentano più spesso nel bambino e nel giovane adulto come un linfoma non-
Hodgkin aggressivo, frequentemente associato con localizzazioni extranodali specie
cutanee. La risposta alla chemioterapia intensiva è buona.
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28. Leucemia linfatica cronica (LLC) ed altre malattie linfoproliferative croniche
È una malattia linfoproliferativa cronica di natura clonale. Interessa nel 95 % dei casi la
linea linfoide B (LLC-B) e nel 5 % la linea linfoide T (LLC-T).
Epidemiologia
L’incidenza della leucemia linfatica cronica è diversa nelle varie razze: è la più
frequente leucemia dell'adulto nel mondo occidentale (Europa e USA), costituendo da
sola circa il 30% del totale dei casi, mentre rappresenta solo il 3% delle leucemie
dell’adulto in Giappone (e in generale nelle razze orientali) e in Africa.
Questa patologia ha un picco di frequenza tra i 60 e i 70 anni, mentre è estremamente
rara prima dei 4o anni di età. Infine vi è una prevalenza nei soggetti di sesso maschile
(rapporto maschi/femmine 2:1).
Patogenesi
Recenti dati immunologici hanno contribuito a chiarire la natura della popolazione linfoide
responsabile della leucemia linfatica cronica.
Particolare importanza rivestono gli studi con tecnica di biologia molecolare
dell’ipermutazione somatica dei geni VH (regioni variabili dellecatene pesanti) delle
immunoglobuline, che è un evento che avviene tipicamente nel percorso maturativo del
linfocito B durante il passaggio attraverso il centro germinativo del follicolo linfatico. Essi
hanno dimostrato l’esistenza di due possibili forme di leucemia lionfatica cronica (figura
1): una prima forma deriverbbe da cellule “naive” pre-centro germinativo, che non
presentano quindi ipermutazione somatica dei geni VH delle immunoglobuline; l’altra
originerebbe da cellule B-memoria post-centro germinativo, in cui l’ipermutazione
somatica dei geni VH è presente.
Circa il 50-70% dei pazienti con leucemia linfatica cronica presentano iopermutazione
somatica nei geni delle regioni variabili delle catene pesanti delle immunoglobuline:
sono caratterizzati da una malattia che frequentemente esordisce negli stadi iniziali con
scarsa tendenza all’evoltuività e buona prognosi generale. Al contrario i soggetti con
geni IgVH non mutati spesso presentano uno stadio avanzato della amlattia, richiedono
un trattamento specifco e hanno una sopravvivenza ridotta.
Per queste ragioni la conoscenza dello stato mutazionale IgVH riveste un ruolo
importante nella determinazione delle caratteristiche biologiche della malattia: tuttavia,
questa tecnica molecolare, anche se disponibile è molto costosa e ha tempi di
realizzazione non compatibili con l’applicazione estensiva nella pratica clinica. Tali
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considerazioni hanno suggerito la ricerca di marcatori surrogato delo stato mutazionale
IgVH. L’espressione della molecola CD38, una proteina di membrana marcatore dello
stato di attivazione cellulare e con funzioni di trasduzione del segnale correla in alcuni
studi clinici in maniera abbastanza efficiente alla presenza di mutazioni IgVH. Più
recentemente l’analisi dell’espressione genica (DNA microarrays) ha mostrato che le
cellule di leucemia linfatica cronica presentano un profilo caratteristico in cui
l’espressione di un piccolo gruppo di proteine correla con lo stato mutazionale IgVH. Tra
esse desta particolare interesse la proteina ZAP-70, membro della famiglia delle Syk–
ZAP tirosin chinasi, che è normalmente espressa nelle cellule T e natural killer e svolge
un ruolo nell’iniziazione del segnale T cellulare: i pazienti che hanno almeno il 20%
delle cellule patologiche positive per ZAP-70 presentano una progressione di malattia
più rapida e una sopravvivenza ridotta rispetto ai pazineti con positività minore del 20%.
Anomalie cromosomiche clonali sono dimostrabili in circa il 40-50% dei pazienti con
leucemia linfatica cronica. Tale percentuale risulta significativamente aumentata qualora
si utilizzino le moderne tecniche di citogenetica molecolare (ibridazione in situ
fluorescente o FISH)
Una trisomia del comosoma 12 è rilevabile nel 20-25% dei casi. Si ignora a quale difetto
genetico possa associarsi, ma questa anomalia del cariotipo si associa a cattiva
prognosi. Delezioni del braccio lungo del cromosoma 13 risultano evidenzialbili nel 10-
15% dei pazienti e si associano per contro a prognosi favorevole. Altre anomalie di
rielevo, ciascuna descritta nel 5-10% dei casi riguardano le delezioni del braccio lungo
del cromosoma 6 e 11 (gene ATM dell’atassia telangectasia) e la delezione del braccio
corto del cromosoma 17 (proteina p53).
In circa un terzo dei casi la diagnosi è posta in soggetti asintomatici in seguito ad esami di
routine che evidenzano una linfocitosi nel sangue periferico. In caso contrario la diagnosi
viene fatta a seguito di comparsa di linfonodi ingranditi, splenomegalia, anemia e/o
piastrinopenia. Più raramente la malattia si presenta con infezioni o sintomi sistemici
(febbre, calo ponderale, sudorazioni notturne).
I reperti fisici variano a seconda dello stadio della LLC: le organomegalie, assenti negli
stadi iniziali, sono presenti negli stadi intermedi ed avanzati; le linfoadenomegalie
pluristazionali, interessanti tutte le stazioni linfonodali superficiali, la splenomegalia di
vario grado e l'epatomegalia sono presenti negli stadi più avanzati.
I sintomi di insufficienza midollare per progressiva infiltrazione del midollo da parte di
linfociti clonali sono presenti negli stadi avanzati: pallore anemico, porpora da
piastrinopenia. Sono possibili anche sintomi correlati allo stato di immunodepressione
presente in questi pazienti (infezioni).
Diagnosi
La diagnosi di leucemia linfatica cronica si basa in prima istanza sul rilievo nel sangue
periferico di leucocitosi con linfocitosi assoluta (>10 x 109/L). Allo striscio di sangue
periferico l’80-95 % degli elementi nucleati sono costituiti da piccoli linfociti di aspetto
maturo con cromatina nucleare densa e sottile alone citoplasmatico. È tipica la presenza
di ombre nucleari (ombre di Gumprecht) derivanti dalla rottura dei linfociti della LLC per il
trauma dello striscio.
I valori di emoglobina e piastrine sono nella norma negli stadi iniziali mentre vi è anemia
normocromica-normocitica e piastrinopenia nelle fasi avanzate per insufficienza
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midollare; è possibile tuttavia che anemia e piastrinopenia si instaurino per la presenza di
autoanticorpi diretti contro antigeni eritrocitari e/o piastrinici.
È frequente (50-70% dei casi) una ipogammaglobulinemia di entità progressiva nel corso
della malattia. Nel 5-15% dei soggetti è presente una componente monoclonale
usualmente modesta.
L’aspirato midollare (citologia) mostra infiltrato linfoide costituito da piccoli linfociti:
l'infiltrato linfoide costituisce oltre il 30 % degli elementi midollari e spesso vi è completa
metaplasia linfatica midollare.
Particolare rilievo asumono i reperti della biopsia osteomidollare. L’infiltrato linfoide può
essere di tipo nodulare, interstiziale, o diffuso. La malattia esordisce con quadri infiltrativi
non diffusi e solo in fasi successive del decorso clinico si osservano quadri di tipo diffuso.
La forma diffusa è associata agli stadi clinici avanzati e rappresenta un fattore
prognostico negativo.
La biopsia linfonodale non è necessaria se il sangue periferico, il midollo e
l'immunofenotipo sono conclusivi. Se viene biopsiato, il linfonodo mostra un quadro
istologico monotono di piccoli linfociti.
I parametri necessari per la diagnosi di leucemia linfatica cronica sono riassunti nella
Tabella 1
Diagnosi differenziale:
La diagnosi differenziale deve essere posta essenzialmente con altre forme di patologie
linfoproliferative croniche e linfomi in fase leucemica.
La leucemia prolinfocitica è distinguibile per l’intensa espressione delle immunoglobuline
di superficie e per la positività per l’antigene di superficie FMC7. I linfomi non-Hodgkin in
fase leucemica, (in particolare linfoma mantellare leucemizzato, anch’esso CD5-positivo
ma CD23-negativo) presentano allo stesso modo una intensa espressione delle
immunoglobuline di superficie e spesso sono CD10-positivi. La Hairy-cell leukemia,
(soprattutto nella variante rara con leucocitosi) è distinguibile per la partcolare
morfologica degli elementi patologici che presentano fini proiezioni filamentose del
citoplasma e per la positività per alcuni marcatori immunologici quali CD11c, CD25 e
CD103. Infine, il linfoma splenico con linfociti villosi, che è caratterizzato da
splenomegalia, leucocitosi moderata, linfociti con villi citoplasmatici, piccola componente
monoclonale, presenta un immunofenotipo caratteristico, simile alla leucemia
prolinfocitica.
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Score
Marcatore
1 0
Smlg Bassa intensità Elevata intensità
CD5 Positivo Negativo
CD23 Positivo Negativo
FMC7 Negativo Positivo
CD22 or CD79b Bassa intensità Elevata intensità
Lo score nelle LLC deve essere >3, mentre nelle altre patologie linfoproliferative è <3.
Decorso clinico
Il decorso clinico e la sopravvivenza dei pazienti con leucemia linfatica cronica sono assai
variabili. Alcuni soggetti rimangono asintomatici per diversi anni e non richiedono alcun
trattamento specifico; altri pesentano un andamento clinico aggressivo a volte
scarsamente controllabile con la terapia.
Le principali complicanze nella storia anturale della malattia sono dovute all’insorgenza di
infezioni, manifestazioni autoimmunitarie e seconde neoplasie o all’evoluzione della
malattia in un quadro di leucemia prolifocitica o di sindrome di Richter.
Le infezioni sono soprattutto batteriche e più raramente virali (herpes simplex e zoster) e
sono dovute principalmente all’ipogammaglobulinemia ed in parte alla neutropenia ed alla
riduzione dell'immunità cellulo-mediata: rappresentano la maggior causa di morbidità e
mortalità nella leucemia linfatica cronica e costituiscono il 60% delle cause di morte.
I fenomeni autoimmuni insorgono per deficit dei meccanismi di controllo contro
l'emergenza di cloni diretti contro antigeni self. È possibile la positività del test di Coombs
diretto (autoimmunizzazione antieritrocitaria da autoanticorpi caldi) specialmente
frequente durante l'evoluzione: di conseguenza può presentarsi un’anemia emolitica
autoimmune. L'autoanticorpo è più spesso prodotto dalla cellule B normali residue più
che dai linfociti patologici. Sono segnalati casi di piastrinopenia autoimmune e di
eritroblastopenia pura su base autoimmune; l’associazione di anemia e piastrinopenia su
base autoimmune in corso di leucemia linfatica cronica configura la cosiddetta sindrome
di Evans.
La sindrome di Richter (la cui incidenza è pari al 3-10% dei soggetti con leucemia linfatica
cronica), si configura come una evoluzione verso un linfoma non-Hodgkin diffuso a grandi
cellule (immunoblastico) con rapida comparsa di sintomi sistemici, masse linfomatose
asimmetriche, latticodeidrogensi elevata. Il decadimento è rapido anche per la scarsa
sensibilità a terapie aggressive tipo linfoma. La sopravvivenza è di circa 6-8 mesi. Può
insorgere a livello linfonodale ma anche a livello midollare sotto forma di infiltrazione di
grandi cellule.
La trasformazione prolinfocitica avviene nel 5 % circa dei casi ed è caratterizzata da
masse linfomatose, splenomegalia progressiva, citopenia, comparsa di elementi di tipo
prolinfoicitico nel periferico e nel midollo e resistenza alla chemioterapia.
Infine, nei pazienti affetti da leucemia linfatica cronica risulta particolarmente elevata
l’incidenza di seconde neoplasie: non si tratta di neoplasie ematologiche ma di epiteliomi,
neoplasie polmonari e melanomi. L’aumentato rischio è connesso al deficit immunologico
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(ridotta immunosorveglianza antineoplastica) e forse favorito dalla chemioterapia con
alchilanti. La prognosi di questo tipo di complicanza è estremamente negativa.
Stadiazione e Prognosi
I fattori prognostici della leucemia linfatica cronica riassumono la storia naturale della
malattia (progressivo accumulo di linfociti neoplastici con aumento della massa tumorale,
progressiva invasione midollare, deterioramento della mielopoiesi). Essi dipendono dalla
massa tumorale (numero delle sedi linfoidi interessate, grado di infiltrazione midollare,
istologia osteomidollare diffusa, livelli serici di 2-microglobulina); dalle caratteristiche
biologiche dlla malattia (tempo di raddoppiamento dei linfociti, stato mutazionale geni VH
delle immunoglobuline, CD38, ZAP-70); dal grado di compromissione dell’emopoiesi
normale residua (livelli di emoglobina, piastrine, neutrofili, immunoglobuline) e infine dalle
caratteristiche del paziente (età avanzata, sesso maschile, cattivo performance status,
presenza di patologie associate).
Sulla base dei dati ematologici e di alcuni parametri clinici nel 1975, Rai e collaboratori
hanno proposto una classificazione della leucemia linfatica cronica in 5 stadi ognuno dei
quali corrisponde ad una prognosi differente, progressivamente peggiore all’aumentare
dello stadio. Successivamente nel 1980, Binet e collaboratori hanno elaborato un sistema
classificativo semplificato in 3 stadi clinici.
La classificazione della leucemia linfaica cronica secondo Rai e Binet è riportata nelle
tabelle 2 e 3.
Stadiazione di Rai
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Stadiazione di Binet
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Terapia
Il trattamento della leucemia linfatica cronica deve terenre conto dei fattori di rischio
presenti alla diagnosi.
I pazienti a basso rischio (Stadi iniziali: 0-1 di Rai, A di Binet) non devono essere trattati
con farmaci citostatici e sono candidati esclusivamente all’osservazione clinica. Un
eventuale trattamento specifico andrà intarpreso in caso di segni di progressione della
malattia ematologica.
I pazienti a rischio intermedio-alto (Stadi II -IV di Rai, B e C di Binet) sono candidati
all’impostazione di un trattamento specifico. Al di sopra dei 55 anni di età vengono
utilizzati farnaci come il Clorambucile (alchilante) in combinazione con corticosteroidi. Lo
scopo di questo tipo di terapia non è quello di eradicare la malattia bensì di ottenere il
controllo della leucocitosi, delle organomegalie, dell’anemia e della piastrinopenia.
Per i pazineti di età inferiore ai 55 anni il farmaco di scelta per il trattamento è la
fludarabina. È un analogo fluorinato dell'adenosina monofosfato, che agisce sull’apoptosi.
La risposta è dipendente dallo stadio e dalle terapie precedenti. Può dare remissioni
complete nel 30% nei pazienti non pretrattati (risposte complete + risposte parziali 70
%) e nel 10 % se pretrattati (risposte complete + risposte parziali 50 %). L’effetto
collaterale maggiore è la immunosoppressione con linfocitopenia CD4 prolungata
(sindrome da deplezione di CD4) con rischio di infezioni opportunistiche da agenti
inusuali come la Listeria monocytogenes e la Pneumocystis Carinii).
Il trapianto autologo di cellule staminali periferiche può essere eseguito come
consolidamento dopo una remissione ottenuta con fludarabina. Il trapianto di midollo
osseo allogenico è proponibile nei soggetti di giovane età con malattia avanzata che
dispongano di un donatore HLA identico.
Recentemente sono state utlizzate con promettente successo altre modalità di
trattamento con anticorpi monoclonali di derivazione murina o umanizzati. Rientra in
questa ultima categoria il Campath-1H, un anticorpo umanizzato anti CD52. l’epitopo
CD52 è espresso in oltre il 95% dei linfociti umani ed è il bersaglio della lisi mediata dal
complemento ad opera dell’anticorpo. I risultati preliminario sembrano mostrare una
notvole capacità di riduzione delle linfoadenopatie da parte di questo farmaco.
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Costituisce il 5% delle LLC (CD2+, CD3+, CD5+, antigeni dei linfociti T periferici). Sono
tipici gli infiltrati cutanei mentre la splenomegalia è presente nel 50% dei casi. È
riscontrabile un’ipergammaglobulinemia policlonale.
Ne esistono tre sottotipi:
a nuclei irregolari (T-helper, CD4+), con marcata leucocitosi, voluminose adenopatie,
interessamento del SNC
a grandi linfociti granulati (T-suppressor, CD8+), a prognosi migliore
tipo pleomorfo CD8+, a cattiva prognosi
Leucemia prolinfocitica
Diagnosi
Prognosi e terapia
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Quadro clinico
Diagnosi
A livello del sangue periferico nei pazienti con hairy cell leucemia è presente
leucopenia (di solito meno di 3000 leucociti) con neutropenia (valore assoluto inferiore a
1000/mL) e monocitopenia spiccata. Sono presenti inoltre una anemia normocromica
normocitica e piasrtinopenia dovute a ridotta produzione, sequestro splenico e/o
emodiluizione
I tricoleucociti sono l'elemento patognomonico della malattia. All'esame microscopico
dello striscio di sangue periferico costituiscono dal 10% al 30% dei leucociti, hanno
citoplasma pallido, debolmente basofilo, con margini sfrangiati e lunghe e sottili
protrusioni citoplasmatiche (cellule capellute), nucleo rotondeggiante a cromatina fine.
Sono positivi alla reazione citochimica della fosfatasi acida, resistente alla inibizione
dell'acido tartarico (fosfatasi acida tartrato-resistente, isoenzima 5)
Dal punto di vista immunologico i tricoleucociti presentano un profilo caratteristico: sono
positivi per gli antigeni CD19, CD20 e CD22 (markers di linea B) e negativi per l’antigene
CD5. Esprimono inoltre il CD25 (recettore per l'interleukina 2), il CD11c (marker
monocitario) e l’ FMC7.
Il midollo spesso è difficilmente aspirabile per l’esame citologico in ragione della fibrosi
midollare (punctio sicca). La biopsia osteomidollare è essenziale per lo studio midollare
e la diagnosi. Vi è un infiltrato lasso da parte di elementi linfoidi (i tricoleucociti) che
appaiono meno fittamente stipati rispetto all'infiltrato di altre leucemie e linfomi, per
l'ampiezza del citoplasma. L’Infiltrato linfoide costituisce il 60-70% delle cellule midollari.
Vi è ipoplasia delle normali serie maturative e fibrosi reticolinica dimostrabile con
l'impregnazione argentica (causa della punctio sicca).A livello splenico, l’esame
istologico mostra una infiltrazione massiva della polpa rossa e dei seni da parte di
tricoleucociti.
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Terapia
Si tratta di un particolare linfoma splenico leucemizzato che può simulare la hairy cell
leukemia e che va posta in diagnosi differenziale
L’esame obiettivo splenomegalia. È presente leucocitosi >10 x 109/L: gli elementi linfoidi
presentano citoplasma a contorno irregolare con villi sottili e brevi, concentrati ai poli
cellulari. Nel 60% dei casi si rileva una componente monoclonale serica IgM.
Il midollo, a diffrenza della Hairy cell leucemia è aspirabile e mostra un infiltrato linfoide
polimorfo. Dal punto di vista immunofenotipico, le cellule patologiche sono positive per
CD19, CD20, CD22, FMC7 ed esprimono immunoglobuline di superficie ad elevata
intensità. A differenza della leucemia linfatica cronica non presentano positività per CD5
e CD23; diversamente dalla Hairy cell leukemia, sono negative per CD25 e CD11c.
I casi di linfoma splenico a linfociti villosi non rispondono alla terapia con interferone.
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29. Gammapatie monoclonali
Le immunoglobuline
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Gammopatie maligne
Neoplasie plasmacellulari:
- mieloma multiplo classico
- mieloma multiplo "smoldering"
- mieloma non secernente
- mieloma osteosclerotico
- leucemia plasmacellulare
- plasmocitoma solitario dell'osso
- plasmocitoma extramidollare
Malattie linfoproliferative:
- macroglobulinemia di waldenström
- linfomi non-Hodgkin (linfoplasmacitoide)
- leucemia linfatica cronica
- malattie delle catene pesanti (, , , )
Amiloidosi
- primitiva
- secondaria a mieloma o altre malattie linfoproliferative
- localizzata
- familiare
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Mieloma Multiplo
Il mieloma multiplo è una malattia neoplastica a elettiva localizzazione nel midollo osseo,
caratterizzata da una proliferazione incontrollata di cellule linfoidi B (plasmacellule), con
infiltrazione plasmocitaria midollare, produzione di immunoglobuline strutturalmente
omogenee e spesso lesioni osteolitiche e/o insufficienza renale.
Epidemiologia
L’incidenza del mieloma multiplo è di 3-4 casi ogni 100.000 persone per anno. L’età
mediana alla diagnosi è di 60-70 anni, raramente insorge in soggetti di età inferore a 40
anni. Rappresenta circa il 15% di tutte le emopatie maligne.
Patogenesi
L’eziologia del mieloma multiplo è in gran parte sconosciuta. Alcuni fattori sembrerebbero
avere un ruolo nella patogenesi del mieloma multiplo. Infatti l’incidenza di queste forme
aumenta in maniera significativa nei soggetti esposti a radiazioni ionizzanti o a tossici
chimici. Si ammette inoltre che fattori genetici familiari (tuttora non identificati),
stimolazioni antigeniche croniche e infezioni virali (HHV-8), possano rappresentare
concause nell’insorgenza del mieloma multiplo.
Gli elementi mutati sono cellule staminali pre-B midollari che presentano riarrangiamento
dei geni delle Ig. Numerose citochine appaiono coinvolte nello sviluppo della malattia
mielomatosa. L’interleuchina 6 (IL-6) prodotta da cellule stromali (paracrina) e da cellule
mielomatose stesse (autocrina) è il principale fattore di crescita della popolazione
neoplastica. Il clone mielomatoso produce anche IL-1 e TNF-, citochine che attivano gli
osteoclasti (OAF, osteoclast activating factors), responsabili dei fenomeni di osteolisi
caratteristici della malattia.
La neoplasia presenta un accrescimento esponenziale (con un tempo di raddoppiamento
della massa inizialmente di 3-6 mesi), fino a raggiungere un plateau. Il clone deve
9
raggiungere una massa di 5 x 10 cellule prima di produrre una quantità di Ig tale da
essere evidente come picco monoclonale all’elettroforesi delle sieroproteine. La fase
preclinica della malattia varia in genere da 1 a 3 anni. Più raramente il mieloma multiplo si
presenta come evoluzione di un quadro di gammopatia monoclonale presente anche da
molti anni.
Alterazioni del cariotipo sono documentabili nel 30-50% delle cellule mielomatose
mediante citogenetica convenzionale (basso indice mitotico), mentre l’uso di tecniche di
ibridazione in situ (FISH) consente di rivelare aberrazioni cromosomiche sino al 90% dei
casi. Le principali alterazioni citogenetiche ricorrenti nel mieloma multiplo sono: la
monosomia del cromosoma 13 [o la delezione delle braccia lunghe, del(13)(q14)]
presente nel 20-80% dei casi e associata a sopravvivenza ridotta; le traslocazioni
t(11;14)(q13;q23) e t(4;14)(p16;q32) rilevabili nel 15-35% dei soggetti e ugulamente
associate a prognosi sfavorevole; infine la presenza di un cromosoma addizionale
add(14)(q32) rilevabile nel 45-00% dei casi, considerato un evento iniziale nella
trasformazione neoplastica delle cellule mielomatose.
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Esistono diverse varianti del mieloma multiplo, definite in base alla tipologia delle Ig
secrete dalle cellule appartenenti al clone neoplastico (classi immunochimiche). Esse
sono riassunte nella tabella seguente:
Quadro clinico
I sintomi e segni del mieloma multiplo possono essere riferiti alla sostituzione midollare
da parte delle cellule del clone neoplastico, all’aumentato riassorbimento osseo, alla
componente monoclonale e alla ridotta produzione delle normali Ig.
La sostituzione midollare può esprimersi con i sintomi clinici dell’anemia (pallore, astenia,
affaticabilità, palpitazione), della neutropenia (infezioni) e della piastrinopenia (petecchie,
ecchimosi, emorragie cutaneo-mucose). La genesi dell’anemia nel mieloma multiplo
risulta da un insieme di fattori oltre l’infiltrazione plasmacellulare del midollo (anemia delle
malattie croniche, insufficienza renale).
L’aumentato riassorbimento osseo è conseguenza dell’attivazione degli osteoclasti da
parte di osteoclast activating factors (OAF) prodotti dalle cellule mielomatose e da cellule
stromali in risposta all’invasione tumorale (IL-1, TNF-, IL-6): clinicamente si può
esprimere con dolori ossei, osteoporosi, osteolisi, fratture patologiche, compressioni
nervose e ipercalcemia (Ca++>12 mg/dl) da lisi ossea.
La presenza della componente monoclonale (in particolare se Ig M o Ig A) a livello del
siero può configurare la cosiddeta sindrome da iperviscosità, comprendente sintomi
neurologici (vertigini, cefalea), alterazione dell’emostasi per interferenza con fattori della
coagulazione (I, II, V, VII, VIII) e con la membrana piastrinica, emodiluizione (falsa
anemia) e possibile deposito nei tessuti (amiloidosi secondaria); viceversa, la presenza di
catene leggere a livello urinaria può provocare danno renale. Infine la ridotta sintesi di Ig
normali contribuisce all’aumento del rischio infettivo.
Nel 30% dei casi la diagnosi di mieloma viene formulata in seguito al riscontro casuale, in
paziente asintomatico di un picco monoclonale all’elettroforesi delle sieroproteine. Nel
35% circa dei casi i primi sintomi della malattia sono costituiti da dolori ossei
ingravescenti e/o fratture patologiche, mentre nel 20% dei casi i primi sintomi sono dovuti
ad anemia. Nel 10-15% dei casi la malattia si manifesta con insufficienza renale,
ipercalcemia, infezioni recidivanti.
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Complicanze
Le principali complicanze che possono insorgere nel paziente affetto da mieloma mutiplo
sono di natura neurologica (sindrome ipercalcemica e neuropatia periferica) e renale.
Inoltre il possibile deposito di catene leggere a livello dei parenchimi configura quadri di
danno funzionale a livello degli organi interessati.
La sindrome ipercalcemica (Ca++ >15 mg/dl) si presenta con nausea, vomito, astenia
marcata, obnubilamento, coma, ipercalciuria con danno tubulare renale da aumentato
riassorbimanto del Ca++, precipitazione interstiziale (nefrocalcinosi), poliuria osmotica (da
eliminazione del Ca++ non riassorbito), grave disidratazione secondaria, insufficienza
renale acuta. In corso di crolli vertebrali può verificarsi la compressione di radici nervose
o del midollo spinale, con dolore radicolare e deficit sensitivo/motorio sino a quadri di
para/tetraplegia flaccida.
La causa principale di danno renale è costituita dalla proteinuria di Bence-Jones
(precipitazione intratubulare di catene leggere, e deposizione nella membrana basale di
tubuli e glomeruli renali).
In corso di mieloma multiplo si può osservare amiloidosi secondaria a deposito di catene
leggere nei parenchimi (amiloidosi AL), con organomegalie e danno funzionale:
epatosplenomegalia, macroglossia, nefropatia glomerulare con albuminuria e
insufficienza renale cronica, cardiomiopatia, turbe di conduzione e del ritmo, scompenso
congestizio, sindrome del tunnel carpale, lesione nervi periferici con neuropatia, sindrome
da malassorbimento per deposito intestinale. La diagnosi in questi casi viene formulata
su biopsia del grasso periombelicale o su biopsia rettale, con dimostrazione del deposito
di fibrille amiloidi (birifrangenza verde al microscopio a luce polarizzata dopo colorazione
al rosso congo)..
Diagnosi
Criteri diagnostici:
I criteri diagnostici per il mieloma multiplo sono divisi in maggiori e minori. Per formulare
la diagnosi è neccesario che siano presenti contemporaneamente 1 criterio maggiore e 1
criterio minore, oppure 3 criteri minori (due dei quali siano A e B).
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Criteri diagnostici per il mieloma multiplo
Criteri maggiori:
Stadiazione
La stadiazione del mieloma multiplo viene effettuata mediante il sistema di Durie e
Salmon, basato sulla detreminazione del tasso di emoglobina, calcemia, componente
monoclonale, quadro radiologico osseo e presenza o meno di insufficienza renale.
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3. Mieloma smouldering
4. Mieloma osteosclerotico
5. Leucemia plasmacellulare
Mieloma extramidollare
Interessa più frequentemente le prime vie aeree (cavità nasali, rinofaringe, laringe) in
assenza di interessamento midollare. Circa il 20% dei casi evolve in mieloma.
Sono varianti cliniche che possono restare stabili per anni e non necessitano di terapia
fino alla progressione. I criteri diagnostici (e distintivi da MGUS) sono rappresentati da
una bassa massa neoplastica, da un basso labeling index, dall’assenza di lesioni ossee,
da una componente monoclonale < 7g/dl se Ig G e < 5g/dl se Ig A, da livelli di
emoglobina > 10g/dl, da normale funzione renale, infine da una plasmocitosi midollare
inferiore a 30%. Tipicamente i parametri clinici e biologici sono stabili nel tempo, con
lenta tendenza alla progressione.
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Mieloma osteosclerotico
Leucemia plasmacellulare
Terapia
L’approccio terapeutico varia a seconda dello stadio clincio della malattia e dell’età. Per i
pazienti con mieloma smoldering (o in stadio I con bassa attività proliferativa) è indicata la
sola osservazione; l’inizio del trattamento è indicato nel momento in cui si evidenziano
segni di progressione.
Nei pazienti di età superiore a 65 anni il trattamento consiste nella combinazione di
melphalan (alchilante), somministrato alla dose di 8 mg/m2/die per 4 gg, e prednisone alla
dose di 1-2 mg/kg/die negli stessi giorni, a cicli ripetuti a cadenza mensile per un minimo
di 6 mesi. La percentuale di risposta (che consiste nell’ottenimento di una fase di plateau
stabile) è di circa il 50-60%. La sopravvivenza mediana dei soggetti trattati in questo
modo è di circa 42 mesi.Nei soggetti di età inferiore a 65 anni, si ricorre a trattamenti più
intensivi che comprendono cicli di chemioterapia (vincristina, adriblastina, desametasone:
ciclo VAD; desametasone, ciclofosfamide, etoposide, cisplatino: ciclo DCEP) con
mobilizzazione di cellule staminali emopoietiche e trapianto autologo di cellule staminali
emopoietiche. Con questi regimi si otteniene una sopravvivenza libera da progressione
del 30% circa a 5 anni. Nei pazienti più giovani (<45 anni) con donatore compatibile è
indicato il trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche.Sono attualmente in corso
di sperimentazione clinica approcci terapeutici basati sul doppio trapianto autologo di
cellule staminali emopoietiche, sul trapiaianto allogenico con regime di condizionamento
non-mieloablativo e sulla talidomide, un farmaco anti-angiogenetico che si è dimostrato
efficace in circa la metà dei pazienti chemioresistenti. La talidomide è attualmente la
migliore terapia per i ricaduti dopo autologo e sono in corso studi con talidomide come
terapia di mantenimento post-autotrapianto. Problemi speciali sono rappresentati dal
trattamento delle lesioni scheletriche (che si basa sulla radioterapia locale, sull’uso di
busto ortopedico e sulla somministrazione di bifosfonati, farmaci che riducono l'attività
osteoclastica e inibiscono il riassorbimento osseo), delle complicanze neurologiche da
compressione del midollo spinale (decompressione chirurgica, radioterapia),
dell’Insufficienza renale (idratazione, compenso elettrolitico, dialisi), dell’ipercalcemia
(idratazione, corticosteroidi, bifosfonati) della sindrome da iperviscosità
(plasmaexchange) e dell’anemia (trasfusioni, eritropoietina).
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Epidemiologia
Questa condizione si riscontra in circa l’1% degli adulti sani. L’incidenza aumenta
significativamente con l’età: è pari al 3-6% nei soggetti di età superiore a 70 anni e al 5-
6% dopo gli 80 anni.
Patogenesi
Diagnosi
I criteri distintivi tra MGUS e mieloma multiplo dal punto di vista diagnostico e del decorso
clinico sono riassunti nella tabella seguente.
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Prognosi
Terapia
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Malattia di Waldenström
La malattia esordisce in età adulta (l’età mediana alla diagnosi è di 60-65 anni) e colpisce
prevalentemente il sesso maschile.
Quadro clinico
Complicanze
Macro-crioglobulinemia
E’ una condizione caratterizzata dall’associazione di malattia di Waldenström e
crioglobulinemia. Le manifestazioni classiche della malattia di Waldenström si associano
ad acrocianosi con sindrome di Raynaud, manifestazioni purpuriche ricorrenti agli arti
inferiori, fino alla formazione di ulcere trofiche malleolari.
Gli esami di laboratorio mostrano un criocrito aumentato (è generalmente superiore al
10%). In questi casi la IgM si comporta da crioglobulina (crioglobulinemia di tipo I).
In alcuni casi la IgM da sola è incapace di precipitare a freddo ma, essendo dotata di
spiccata attività reumatoide antigammaglobulinica, reagisce con le IgG circolanti
formando immunocomplessi IgM/IgG che crioprecipitano (macrocrioglobulinemia con
attività di fattore reumatoide: crioglobulinemia mista di tipo II).
Macro-crioagglutininemia
E’ una condizione in cui la componente monoclonale sierica si comporta da
crioagglutinina (attività autoanticorpale antieritrocitaria contro l'antigene eritrocitario I o i).
E’ caratterizzata da crisi emolitiche dopo esposizione al freddo e da crisi di acrocianosi
sino alla necrosi.
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Il decorso della malattia di Waldenström può essre complicato dall’insorgenza di
neuropatia periferica demielinizzante dovuta ad attività anticorpale della componente
monoclonale contro la Myelin Associated Glycoprotein (MAG) o contro le proteine
filamentose delle cellule di Schwann. Dal punto di vista clinico è caratterizzata da
parestesie agli arti, difficoltà alla deambulazione, polineuropatia motoria e sensoriale. La
diagnosi viene formulata con una biopsia del nervo surale.
Diagnosi
Diagnosi differenziale
Prognosi
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Amiloidosi
Patogenesi
Classificazione
Amiloidosi sistemiche
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Amiloidosi eredo-familiare
È carattrizzata da deposizione, lungo i nervi periferici, di transtiretina (vettore di ormoni
tiroidei e di retinolo) mutante (ATTR)
Amiloidosi senile
È caratterizzta da deposizione sistemica, con particolare interessamento cardiaco di
transtiretina non mutante.
Amiloidosi localizzate
Amiloidosi endocrine
Le proteine amilodogenetiche sono costituite da ormoni polipeptidici o da precursori (es.
pro-calcitonina nel carcinoma midollare della tiroide; polipeptide dell’amiloidosi insulare in
corso di diabete mellito tipo II; fattore natriuretico atriale nell’amiloidosi atriale)
Amiloidosi AL
Epidemiologia
Esordio clinico
Il paziente affetto da amilodosi AL si rivolge al medico per sintomi correlati agli organi
coinvolti. Va sottolineato che il sospetto diagnostico di amilodosi va posto per ogni
paziente affetto da gammopatia monoclonale non asintomatico.
Infatti il quadro clinico dell’amiloidosi puo’ essere caratterizzato anche da una
sintomatologia aspecifica quali l’astenia e l’affaticabilità. In altri casi i sintomi ed i segni
di presentazione sono riferibili a danno d’organo: cuore (insufficienza congestizia,
aritmie, cardiomiopatia restrittiva), rene (sindrome nefrosica, insufficienza renale),
apparato gastro-intestinale (macroglossia, epatomegalia, malassorbimento), sistema
nervoso (neuropatia autonomica con alterazioni della motilità intestinale, ipotensione
ortostatica; neuropatia sensoriale), cute (porpora, noduli, papule), apparato muscolo-
scheletrico (sindrome del tunnel carpale, miopatia).
Diagnosi
La diagnosi è basata sulla biopsia (grasso periombelicale, gengiva, retto, rene; midollo
osseo nella AL), con dimostrazione della birifrangenza e identificazione del tipo di
amiloide mediante immuniostochimica.
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Prognosi
Terapia
L’obiettivo della terapia consiste nella riduzione del “pool” dei precursori, nell’inibizione
della formazione del nucleo iniziale di amiloidosi, nell’inibizione della interazione con la
membrana basale e nell’accelerata rimozione di amiloide.
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30. Disordini non neoplastici dei granulociti e dei monociti
Definizione
Granulocitopenie
Definizione
Il termine si applica a condizioni cliniche caratterizzate da un valore di neutrofili nel
sangue periferico pari o inferiore a 2x109/l. Il termine di agranulocitosi si riserva invece a
condizioni più severe caratterizzate da un numero di neutrofili uguale o inferiore a
0.5x109/l.
Patogenesi
Si distinguono forme congenite e forme acquisite. Le granulocitopenie congenite sono
condizioni rare e vengono distinte, in base al decorso clinico, in costanti o cicliche. Le
forme acquisite, più frequenti, possono essere dovute a:
mancata o ridotta produzione di granulociti ad opera di disordini oncoematologici,
agenti citotossici, altri farmaci (cloramfenicolo), reazioni immunitarie, virus;
distruzione dei granulociti circolanti con meccanismi immunitari specifici o non
specifici innescati da virus, farmaci, ecc;
marginazione e sequestro di granulociti per splenomegalia o in corso di epatopatia
cronica
Diagnosi
L’esame emocromocitometrico mostra una riduzione del valore dei neutrofili, isolata
oppure associata ad una riduzione consensuale degli eritrociti e delle piastrine.
L’esecuzione di un mieloaspirato è essenziale per un corretto inquadramento della
granulocitopenia: è essenziale escludere che essa sia espressione di una leucemia. E’
necessario eseguire indagini volte a stabilire l’esistenza di un’infezione o di una
epatopatia cronica o di un processo autoimmune.
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invitano le persone interessate a considerare la possibilità di una elargizione liberale alla FFS, c/c 33739, BRE, Pavia.
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Terapia
La correzione della neutropenia dipende dalla sua patogenesi. Le forme immuni possono
essere corrette con corticosteroidi. Altre sono corrette con la somministrazione di fattori di
crescita come il G-CSF e il GM-CSF. La terapia delle infezioni richiede la
somministrazione di antibiotici e/o antimicotici.
Granulocitopatie
Malattia di Chediak-Higashi
Patogenesi
E’ una malattia congenita a trasmissione autosomica recessiva a penetranza variabile
con ridotta risposta allo stimolo chemotattico e mancata attivazione degli enzimi
lisosomiali.
Quadro clinico
Il quadro clinico è principalmente caratterizzato da aumentata suscettibilità alle infezioni,
e da diatesi emorragica dovuta a difetto dell’aggregazione piastrinica In un alta
percentuale di casi nel corso della malattia si osserva comparsa di epatosplenomegalia.
Diagnosi
La diagnosi si basa sull’evidenza di granulociti neutrofili con granulazioni giganti
perossidasi e Sudan positive e PAS negative. Il lisozima è elevato.
Terapia
Non esiste una terapia specifica, ma solo un trattamento di controllo delle infezioni. Nei
casi più gravi può essere indicato un trapianto allogenico di cellule staminali
emopoietiche.
Patogenesi
Una forma ad eredità diaginica (maschi affetti, femmine portatrici) è dovuta alla
mancanza di citocromo b 558, responsabile della produzione di superossido a partire da
NADPH.
Una forma a eredità autosomica è causata dalla mancanza di un’altra proteina citosolica,
responsabile della produzione di superossido.
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Quadro clinico
Il quadro clinico è dominato da infezioni ricorrenti, di gravità variabile, localizzate
soprattutto a livello di cute e polmoni e sostenute da microorganismi catalasi positivi, in
particolare Stafilococco Aureo (50% dei casi), ma anche da funghi e da agenti
opportunistici.
Diagnosi
La diagnosi viene formulata mediante dimostrazione della mancanza dei processi di
esplosione ossidativa mediante test al Nitroblu di Tetrazolio (NBT): nei casi patologici non
si osserva il cambiamento cromatico (da giallo a porpora) del NBT per assenza
dell’anione superossido che determina normalmente la riduzione del NBT stesso.
Terapia
La terapia è principalmente basata sull’impiego di fattori di crescita (G-CSF e GM-CSF)
per ridurre il rischio infettivo. Recentemente è stato applicato il trapianto allogenico di
cellule staminali emopoietiche.
Tesaurismosi
Sono condizioni ereditarie dovute ad un deficit quantitativo o quantitativo degli enzimi che
consentono un rapido catabolismo di sfingolipidi e sfingomieline (costituiti da ceramide e
da zuccheri) con conseguente accumulo di tali composti a livello di vari tessuti. Il danno si
sviluppa in alcuni casi a carico del sistema nervoso centrale, in altri gli effetti patologici
riguardano i monociti-macrofagi che accumulano glicolipidi, infiltrando e danneggiando il
midollo osseo, il fegato, la milza e i linfonodi (malattie di Gaucher e di Nieman-Pick).
Leucocitosi
Un incremento dei neutrofili circolanti maggiore di 7.5 x109/l è una delle più frequenti
anomalie riscontrate al conteggio dei globuli bianchi e all'osservazione dello striscio di
sangue periferico. Si può osservare in condizioni fisiologiche come esercizio fisico, stress,
in seguito all’uso di alcuni farmaci (adrenalina, corticosteroidi), oppure associata a
malattie infettive (batteri, miceti), infiammatorie (malattie autoimmuni, neoplasie,
ipersensibilità, ischemia acuta).
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Il procedimento diagnostico deve primariamente differenziare la neutrofilia reattiva dalla
neutrofilia da malattie mieloproliferative croniche (leucemia mieloide cronica,
trombocitemia essenziale, policitemia vera, mielofibrosi idiopatica).
Reazione leucemoide
Leucocitosi eosinofila
Si definisce eosinofilia un numero degli eosinofili circolanti superiore a 0.45 x109/L. si può
riscontrare in corso di ipersensibilità (rinite allergica, asma, dermatite atopica, farmaci),
malattie autoimmuni (connettiviti sistemiche), infezioni (soprattutto parassitarie, ma anche
scarlattina, tubercolosi, aspergillosi), linfomi (linfoma di Hodgkin, linfomi a cellule T).
Queste forme reattive devono essere differenziate dalla eosinofilia che si osserva in
corso di malattie mieloproliferative croniche (principalmente la leucemia mieloide cronica).
Leucocitosi basofila
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Monocitosi
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31. Fisiopatologia dell’emostasi
Nel processo emostatico si distinuguono due fasi distinte, ma strettamente collegate fra
loro: l’emostasi primaria, (cronologicamente più precoce) che consiste nella
vasocostrizione e nella formazione del tappo piastrinico; e l’emostasi secondaria (più
tardiva), che consiste nell’attivazione della coagulazione e nella formazione del reticolo di
fibrina.
Emostasi primaria
Adesione piastrinica
L’adesione piastrinica è mediata dall’interazione tra il collagene ed il recettore Gp Ia-IIa
sulla membrana piastrinica. La stabilizzazione di questa interazione è operata dal Fattore
von Willebrand (vWF), che si lega al recettore piastrinico Gp Ib-IX (CD42a,b) e da altre
adesine (fibronectina, trombospondina).
L’attivazione e la secrezione delle piastrine sono finemente regolate (Figura 1). Il legame
di sostanze agoniste (collagene, trombina) ai recettori di superficie delle piastrine attiva
enzimi di membrana (fosfolipasi C e A2) che catalizzano la liberazione di acido
arachidonico dai fosfolipidi di membrana. Un enzima differente (ciclossigenasi, inibito
dall’acido acetilsalicilico e da altri farmaci infiammatori non steroidei) media la formazione
di trombossano A2 dall’acido arachidonico. L’inibizione della sintesi del tromossano A2
rappresenta la base dell’azione di alcuni farmci antiaggreganti.
Un meccanismo omeostatico molto efficiente controlla la velocità e l’entità dell’attivazione
piastrinica. Il trombossano A2 , prodotto dall’acido arachidonico delle piastrine, aumenta
l’attività della fosfolipasi C che a sua volta stimola l’attivazione e la secrezione piastrinica.
Al contrario, la prostaciclina (PGI2), prodotto dell’acido arachidonico delle cellule
endoteliali, inibisce l’attivazione piastrinica.
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Aggregazione piastrinica
L’interazione piastrinica (aggregazione) è mediata principalmente dal fibrinogeno, che si
lega al recettore piastrinico Gp IIb-IIIa (CD41). Nelle fasi iniziali l’aggregazione piastrinica
è reversibile; in seguito alla reazione di rilascio il processo diventa irreversibile.
sub e nd o t e lio
F VIII
FvW FvW
FvW
GpIB
TERAPIA ANTIAGGREGANTE
PIASTRINICA CON ASPIRINA
(ACIDO ACELTILSALICILICO)
AGENTE AGENTE
AGGREGANTE Anti-AGGREGANTE
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Emostasi secondaria
Coagulazione
I fattori della coagulazione sono pro-enzimi inattivi in condizioni basali. Vengono attivati in
modo sequenziale in un complesso di reazioni enzimatiche finalizzate a generare
trombina ed a trasformare il fibrinogeno plasmatico in fibrina (cascata coagulativa).
Dal punto di vista bichimico i fattori della coagulazione nella forma inattiva sono proenzini
asingola catena. La loro attivazione avviene mediante un taglio proteolitico parziale, e la
forma attiva è composta da due catene peptidiche, una catena pesante e una catena
leggera, unite tra loro da ponti disolfuro (S-S). Nel sito catalitico (sito attivo) di ciascun
enzima è contenuto l’aminoacido serina, da cui il nome di proteasi seriniche.
Alcuni fattori della coagulazione sono caratterizzati da un dominio ricco in acido -
carbossiglutammico, che ha la funzione di legare ioni calcio (Ca++). L’ acido -
carbossiglutammico è ottenuto mediante una reazione di carbossilazione dell’acido
glutammico vitamina K-dipendente. Tali fattori sono definiti vitamina-K dipendenti e sono
il fattore II (protrombina), il fattore VII, il fattore IX, e il fattore X. Anche le proteine C e S
(inibitori della coagulazione) sono vitamina K-dipendenti.
Nella via intrinseca, tre proteine plasmatiche (il fattore XII o Hageman, il chininogeno ad
elevato peso molecolare (HMWK) e la precallicreina), formano un complesso con il
collagene vascolare subendoteliale; dopo il legame con HMWK il fattore XII viene
trasformato in proteasi attiva che catalizza l’attivazione della precallicreina e del fattore
XI. La callicreina (forma attivata) accelera a sua volta la conversione del fattore IX e del
fattore VIII in forma attivata.
La via estrinseca (fattore VII, fattore tissutale e calcio) rappresenta un secondo sistema
per avviare la coagulazione. Si forma un complesso tra fattore VII, calcio e fattore
tissutae, una lipoproteina ubiquitaria presente nella membrana cellulare ed esposta
dopo una lesione cellulare.
Nella via comune e finale della coagulazione (che comprende il fattore X, fattore V, la
trombina, il fibrinogeno e il fattore XIII), il fattore X è attivato dalle proteasi gnerate nelle
reazioni precedenti (via inrinseca ed estrinseca). Il fattore X attivato nella tappa finale
converte la protrombina in trombina in presenza di fattore V, calcio e fosfolipidi. La
trombina, prodotto finale di tale reazione svolge diverse funzioni nell’emostasi: converte
innanzitutto il fibronogeno in fibrina, e inoltre attiva i fattori V, VIII e XIII e stimola
l’aggregazione e l’attivazione piastrinica.
Il fibrinogeno è una glicoproteina ricca di acido sialico, di peso molecolare di circa 340kD
e sintetizzata prevalentemente nel fegato, composta da tre coppie distinte di catene (A,
B e ) unite da legami disolfuro. Il fibronogeno è attivato dalla trombina mediante una
azione proteolitica che induce il distacco dei fibrinopeptidi A e B rispetivamente dalle
catene A e B, generando monomeri di fibrina che si autoassemblano formando
protofibrille solubili di fibrina. Le catene non sono attaccate dalla trombina ma
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intervengono nel processo di cross-linking (mediato dal fattore XIII) che genera strutture
di fibrina insolubili.
Fibrinolisi
Valutazione dell’emostasi
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32. Trombosi venosa profonda ed embolia polmonare
Fattori genetici
Sono stati individuati alcuni fattori genetici che predispongono all’insorgenza di trombosi
venosa profonda. Essi sono costituiti dal Deficit di antitrobina III, dal fattore V Leiden,
dalla mutazione G20210A della protrobina, dal deficit di proteina C e S, e
dall’iperomocisteinemia.
Il deficit di antitrombina III è un difetto piuttosto comune: la forma lieve (condizione
eterozigote) ha una prevalenza di 1:2000 individui. I livelli di normalità dell’antitrombina
III plasmatica sono compresi da da 5 a 15 mg/L (50 - 150 %). Il quadro clinico è
caratterizzato da aumenatto rischio di trombosi venose. La diagnosi è basata sul
dosaggio dell’attività dell’ATIII. Nei soggetti con deficit è necessario evitare altri fattori di
rischio trombotici (fumo, estro-progestinici etc).
Il fattore V Leiden è caratterizzato da una mutazione missense G1691? A che causa la
sostituzione di una arginina in glutamina alla posizione 506. La posizione 506 è nel sito di
clivaggio del fattore V e la sostituzione dell’acido glutammico con l’arginina rende il fattore
V meno attaccabile e meno inattivabile da parte della proteina C attivata.
Dal punto di vista clinico è caratterizzato da un aumentato rischio di trombosi venosa
profonda, che negli eterozigoti è di 7-8 volte superiore al normale, mentre negli omozigoti
di 40-80 volte il normale. Alcuni fattori di rischio possono aumentare il rischio di trombosi:
pillola estro-progestinica, fumo, lunghi viaggi aerei, allettamento, piccola chirurgia.
La diagnosi viene formulata mediante il test della proteina C attivata, che consiste
nell’aggiunta di proteina C attivata ad un campione di plasma per un test APTT: la
risposta normale è un allungamento dell’APTT.
La variante G20210A della protrombina è un esempio di patologia della traduzione
dell’mRNA. La mutazione G20210? A interessa la regione 3’ non tradotta del gene, che
determina verosimilmente maggior stabilità e traduzione dell’mRNA. Questo comporta
una protrombinemia ai limiti superiori della norma (superiore alla media) con rischio
aumentato di complicanze trombotiche venose ed arteriose.
Infine tra le condizioni ereditarie rare di predisposizione alla trombosi vanno menzionate il
deficit di proteina C e di proteina S della coagulazione e l’iperomocisteinemia.
Quest’ultima è sostenuta più frequentemente da un deficit di 5,10-metilen-tetraidrofolato
reduttasi, enzima coinvolto nella sintesi del 5-metilen-tetraidrofolato, cofattore della
trasformazione dell’omocisteina in metionina. E’ un fattore di rischio allo sviluppo di
trombosi venose e arteriose.
Fattori acquisiti
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necessari per l’attivazione dei fattori V, X, II, da cui la definizione di “anticoagulante”
assegnata all’anticorpo tipo lupus). La diagnosi si basa sulla ricerca degli anticorpi
antifosfolipidi. Nei soggetti asintomatici è necessaria la prevenzione di eventuali fattori di
rischio trombotico aggiuntivi, oltre che il trattamento della malattia di base.
Definizione
La trombosi venosa profonda è una trombosi che interessa una delle seguenti vene del
distretto circolatorio profondo: iliaca, femorale, poplitea.
Patogenesi
Sono stati individuati diversi fattori predisponenti allo sviluppo di trombosi venosa
profonda, che possiamo così schematizzare:
difetti genetici (deficit di antitrombina III, fattore V Leiden, variante G20210A della
protrombina, deficit di proteina C, deficit di proteina S, iperomocisteinemia);
carenza di folati e/o di vit B12 ed iperomocisteinemia secondaria;
farmaci (estrogeni)
agenti chimici (fumo);
interventi chirurgico che comporta prolungata immobilizzazione a letto (ortopedico,
ginecologico, urologico, etc);
traumi (frattura di bacino, femore, tibia);
immobilizzazione per malattia (infarto, etc);
neoplasia (carcinomi);
malattie autoimmunitarie (anticorpi antifosfolipidi), malattie mieloproliferative, EPN
Quadro clinico
Diagnosi
La diagnosi è basata oltre che sul quadro clinico, sull’eco-doppler dei vasi venosi profondi
e sul dosaggio del D-dimero plasmatico, prodotto di degradazione della fibrina dovuto
all’azione della plasmina.
Terapia
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Complicanze
Una complicanza temibile della trombosi venosa profonda è l’embolia polmonare. Dal
punto di vista clinico l’emoblia polmonare massiva si manifesta con dolore toracico,
tachipnea, tachicardia, cianosi. La diagnosi è basata sulla scintigrafia polmonare con
doppio mezzo di contrasto o TAC spirale. La terapia prevede l’impiego di anticoagulanti o
in caso di embolia polmonare massiva agenti trombolitici (streptochinasi, urochinasi, t-
PA).
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33. Piastrine, piastrinosi e piastrinopenia
Circa 2/3 delle piastrine si trova in circolo, dove hanno una vita media di 7-10 giorni; i
valori normali sono compresi tra 100 e 400 x 109/L. Il restante 1/3 delle piastrine si trova
nella milza (pool splenico).
La produzione di piastrine è regolata principalmente dalla trombopoietina (TPO), una
proteina del peso molecolare di 31-35 kD, il gene che codifica per la quale è mappato alla
regione 3q26-28. Il recettore per la trombopoietina è codificato dal gene c-mpl
(myeloproliferative leukemia), espresso sulle cellule cellule staminali emopoietiche CD34
positive.
La trombopoietina è prodotta principalmente dal fegato e in misura minore dal rene. La
produzione di TPO è costante; il livello di ormone in circolo sembra essere regolato dal
legame della proteina alle piastrine. In caso di piastrinopenia, si riduce la quota legata alle
piastrine ed aumenta la concentrazione di TPO libera; in caso di piastrinosi aumenta la
massa piastrinica (e conseguentemente la quota di ormone ad essa legata), e si riduce la
concentrazione plasmatica di TPO. La trombopoietina stimola in vitro la crescita di CFU-
MK e megacariociti.
TPO
k
TPO
producing
cell
Piastrinosi o trombocitosi
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Piastrinopenia o trombocitopenia
Definizione
Epidemiologia
Patogenesi
Da punto di vista patogenetico possiamo distinguere una forma acuta post-infettiva, tipica
dei bambini, ed una forma cronica più frequente negli adulti, sostenuta da autoanticorpi
diretti contro i recettori piastrinici GpIIb/IIIa o GpIb.
Quadro clinico
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Nel bambino l’insorgenza di porpora trombocitopenica idiopatica è secondaria infezioni
virali; il decorso è acuto e nella maggior parte dei casi è autolimitante: il 60% dei casi
guarisce in 6 settimane, il 90% entro 6 mesi.
Nell’adulto la forma acuta è meno frequente; più tipicamente il decorso è cronico, con
netta prevalenza del sesso femminile.
Diagnosi:
Terapia
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34. Porpora trombotica trombocitopenica (sindrome di Moschowitz)
Patogenesi
cellula endoteliale
multimeri di Fattore von Willebrand ad elevato peso molecolare ( > 106 kD)
(depolimerasi ADAMTS13)
fattore von Willebrand di peso molecolare normale (centinaia di migliaia)
Fisiopatologia
Recentemente sono state evidenziate in famiglie con PTT congenita mutazioni a carico
del gene ADAMTS13 mappato sul cromosoma 9q34. Questo suggerisce che la proteolisi
fisiologica del vWF e/o di altri substrati di ADAMTS13 è necessaria per la normale
omeostasi vascolare e dimostra che un deficit di ADAMTS13 è il meccanismo molecolare
responsabile della PTT (Nature 2001 Oct 4;413(6855):488-94).
L’inattivazione di ADAMTS 13 può avvenire per mutazioni del gene nelle rare forme
familiari o per inibitori nelle forme sporadiche più comuni.
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Quadro clinico
Il paziente "tipico" è un giovane adulto che va dal medico per comparsa di:
febbre (98% dei casi)
anemia emolitica intravascolare (96% dei casi)
manifestazioni emorragiche con piastrinopenia (96% dei casi)
manifestazioni neurologiche (obnubilamento del sensorio o delirio, cefalea, paralisi di
nervi cranici, emiparesi, afasia, disturbi visivi, convulsioni, coma) (92% dei casi)
segni di insufficienza renale (88 % dei casi)
ittero (42%)
Diagnosi
Terapia
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35. Malattia di von Willebrand
Patogenesi
La malattia è stata descritta per la prima volta da Erik von Willebrand, un medico
finlandese, nel 1926. (von Willebrand EA. Hereditar pseudohemofili. Fin Laekaresaellsk
Hand 1926; 68:87-112).
Oggi sono noti diversi sottotipi di malattia di von Willebrand, causati da varie mutazioni
del gene del fattore von Willebrand (FvW). Tali mutazioni sono state registrate in un
database consultabile online (http://mmg2.im.med.umich.edu/vWF/).
Epidemiologia
Il tipo 1 rappresenta circa il 70% dei casi di malattia di von Willebrand. La malattia
presenta un ampio spettro di severità clinica; conseguentemente una corretta stima della
prevalenza nella popolazione non è agevole, e varia in funzione dei parametri diagnostici
utilizzati. Una stima plausibile della prevalenza nella popolazione può essere considerata
da 1:800 a 1:1.000.
Patogenesi
Quadro clinico
Diagnosi
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ristocetina, che si evidenzia con una riduzione dell’agglutinazione e dell’aggregazione
piastrinica dopo aggiunta di risotcetina. Queste alterazioni si associano ad una normale
distribuzione dei multimeri del fattore di von Willebrand all'elettroforesi in SDS-agarosio.
Terapia
Patogenesi
Tipo IIA.
Varie mutazioni del gene riducono la capacità del fattore di von Willebrand di formare
multimeri o accelerano la degradazione dei multimeri ad alto peso molecolare. Ne
consegue una ridotta adesione delle piastrine al subendotelio con manifestazioni
emorragiche. La trasmissione è autosomica dominante.
La concentrazione di FvWAg e di FVIII sono normali o ridotte, mentre l’attività del FvW
come cofattore della ristocetina è marcatamente ridotta; l'elettroforesi in SDS-agarosio
dimostra alterata distribuzione dei multimeri del FvW.
Tipo IIB
Mutazioni del gene aumentano l'affinità dei multimeri ad elevato peso molecolare del
FvW per il recettore piastrinico GpIb: i complessi piastrine-FvW vengono rapidamente
rimossi dai macrofagi. La trasmissione è autosomica dominante. Dal punto di vista clinico
si osserva una ridotta concentrazione di FvWAg, una alterata distribuzione dei multimeri
all'elettroforesi in SDS-agarosio e piastrinopenia.
Tipo IIM
Tipo IIN
Questa variante è caratterizzata da mutazioni del gene che riducono l’affinità del FvW per
il fattore VIII. La trasmissione è autosomica recessiva. I soggetti omozigoti presentano
lieve riduzione del fattore VIII plasmatico. Questa forma è da porsi in diagnosi
differenziale con l’emofilia.
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Sono note forme di malattia di von Willebrand acquisite. Sono riconosciuti due differenti
meccanismi patogenetici: la presenza di autoanticorpi anti-FvW che può essere
riscontrata nel corso di patologie autoimmuni (LES) e il consumo di multimeri di FvW da
parte di cellule neoplastiche (macroglobulinemia di Waldenstrom ed altri linfomi, tumore
di Wilms).
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36. Emofilia A
Definizione
L’emofilia è una malattia ereditaria dovuta ad una produzione deficitaria o nulla di fattore
VIII della coagulazione, ed avente quale base molecolare una lesione (mutazioni
puntiformi, delezioni, etc.) del gene corrispondente.
Epidemiologia
XY XX
¶
XY XX XY XX XY XX XY
¶ ¶ ¶
XY XX XY XX
¶ ¶
Patogenesi
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208
La frequenza dell’emofilia A invece non tende a ridursi, e questo si verifica se
intervengono di mutazioni geniche “de novo”. In effetti, il 20% dei casi di emofilia A (40%
dei casi gravi) non ha un’anamnesi familiare positiva per emofilia.
La mutazione de novo consiste nell’inversione dell’introne 22 del gene del fattore VIII, che
determina ricombinazione genetica intracromosomica fra sequenze dell’introne 22 e
sequenze omologhe situate al di fuori del gene, all’estremità telomerica del cromosoma X
(Figura 2). Il gene riarrangiato codifica per un fattore VIII troncato (22/26 esoni), instabile
e rapidamente degradato.
Te 1 22
22
Te 22 1
XY XX
XY XY XX XY
¶
XX XY XY
¶ ¶
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Quadro clinico
La gravità delle manifestazioni emorragiche dell’emofilia A può essere prevista con una
certa accuratezza determinando l’attività residua di Fattore VIII.
Nel caso in cui l’attività sia inferiore al 2% l’emofilia si definisce grave. In questa categoria
rientra circa il 50% dei casi. Se l’attività residua di Fattore VIII è pari al 2-5% si osserva
un quadro di emofilia moderata, che interessa circa il 15% degli emofilici. In presenza di
un’attività di Fattore VIII del 6-30% il quadro clinico si definisce lieve (circa il 35% degli
pazienti rientra in questa categoria).
Il decorso clinico del paziente emofilico può essere complicato dalla formazione di
raccolte di sangue parzialmente coagulato (pseudotumori), da un danno articolare
progressivo fino all’anchilosi, come conseguenza di emartri ripetuti, da necrosi
muscolare, e da danni ischemici a carico di nervi periferici (nervo femorale)
Diagnosi
Gli esami di laboratorio sono caratterizzati da un allungamento del PTT. Il dosaggio del
fattore VIII dimostra una riduzione variabile dell’attività (% dell’attività di un plasma
normale di controllo - valori normali: 50-150%).
Mediante amplificazione con polymerase chain reaction e sequenza del DNA è possibile
ottenere la definizione del difetto genico.
Terapia
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Una delle maggiori problematiche nel trattamento dell’emofilia è lo sviluppo di inibitori del
Fattore VIII (tipicamente anticorpi IgG), che neutralizzano l’effetto della terapia sostitutiva.
In presenza di un basso titolo di anticorpi inibenti, la terapia del paziente che ha
sviluppato inibitori consiste nell’aumentare la dose di FVIII fino alla saturazione dei siti di
legame degli anticorpi inibitori. In presenza di un alto titolo anticorpale, si può ricorrere
alla somministrazione di concentrati di complesso di fattore IX oppure all’uso di
concentrati di FVIII porcino.
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37. Coagulopatie acquisite
Nella pratica clinica le coagulopatie acquisite sono condizioni più frequenti di quelle
congenite. Da queste ultime si differenziano anche per il fatto che in genere sono
implicati deficit multipli di fattori della coagulazione.
I disordini di più frequente osservazione sono le manifestazioni emorragiche in corso di
epatopatia, le emorragie da carenza di vitamina K o da sovradosaggio di farmaci
anticoagulanti e la coagulazione intravascolare disseminata.
Epatopatia
Gene: DNA
RNA
Proteina
(modificazioni post-traduzionali)
formazione dei ponti SS e glicosilazione
-glutamil carbossilazione (Ca++ binding sites)
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Patogenesi
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Nei casi più gravi, con diffuso interessamento del microcircolo, si osserva emolisi
meccanica, con formazione di schistociti (globuli rossi frammentati) e comparsa di segni
di laboratorio di anemia emolitica intravascolare.
Esami di laboratorio
Terapia
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38. I gruppi sanguingi
I gruppi sanguigni sono sistemi di antigeni presenti sulla superficie dei globuli rossi e di
altre cellule ma anche nelle secrezioni esterne come saliva e latte. Si conoscono 19
gruppi sanguigni; fra questi prenderemo in considerazione maggiore i due principali, vale
a dire il sistema ABO e il sistema Rh e faremo un accenno ad alcuni dei gruppi minori :
sistema P, sistema I, sistema MNSsU, sistema di Lewis.
Sistema ABO
I geni che codificano per il sistema ABO sono mappati sul cromosoma 9 e codificano per
una glicosil-transferasi che inserisce uno zucchero su una struttura preformata, definita
sostanza H, che si trova sulla superficie degli eritrociti. I geni in questione sono tre: il
gene A, il gene B e il gene 0. S possono, pertanto, verificare le seguenti combinazioni:
A/A, A/0, B/B, B/0,0/0, A/B. I geni A e B sono codominanti mentre sono dominanti sul
gene 0. I geni A e B differiscono in poche paia di basi che risultano in differenti
aminoacidi, mentre una singola delezione di un paio di basi è presente nel gene 0, che
non codifica per alcuna transferasi.
Gli appartenenti al gruppo 0 sono considerati donatori universali perché possono donare
i globuli rossi a soggetti di qualsiasi gruppo, ma possono riceverli solo da individui di
gruppo 0; gli appartenenti al gruppo A possono donare il sangue solo a soggetti di gruppo
A e a quelli di gruppo AB, e ricevere sangue da soggetti di gruppo A o 0; gli appartenenti
al gruppo B possono donare il sangue a soggetti di gruppo B ed a quelli di gruppo A, e
ricevere sangue dal gruppo B o 0; gli appartenenti al gruppo AB sono detti riceventi
universali perché possono ricevere sangue da qualsiasi gruppo ma donarlo solo a
soggetti di gruppo AB.
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Sistema Rh
Sistema di Lewis
I geni di questo sistema codificano per una fucosil-transferasi che catalizza la formazione
di due antigeni oligosaccaridici: Lea e Leb . Questi antigeni non sono parte integrante
della membrana degli eritrociti, ma sono antigeni solubili che possono essere presenti nei
fluidi e nelle secrezioni corporee. Gli anticorpi rivolti verso gli antigeni Le sono IgM, quindi
non possono causare reazioni emolitiche nel neonato e raramente sostengono reazioni
emolitiche da trasfusione.
Sistema Kell
Il sistema Kell è costituito da 3 sets di antigeni (K/k, Kpa/Kpb, Jsa/Jsb) codificati da geni
mappati sul cromosoma 7. E’ molto importante in medicina trasfusionale, dal momento
che anticorpi diretti contro questi antigeni, generalmente IgG, sono frequentemente
responsabili di allo-immunizzazione.
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Sistema I
Esistono due genotipi differenti che realizzano due fenotipi: gli individui “I” possiedono un
enzima che ramifica le strutture glucidiche del sistema ABO sui globuli rossi; gli individui
“i” non possiedono l’enzima.
La maggior parte degli adulti ha il fenotipo I e possiede anticorpi IgM anti-i. Queste IgM
non danno né reazione emolitica nel neonato né nelle trasfusioni.
Sistema P
Sistema MNSs
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39. Terapia trasfusionale
Per il prelievo di sangue intero devono essere prelevati 450 ml per singola donazione ed
il numero di donazioni annuo non deve essere superiore a quattro con un intervallo
minimo, fra due donazioni, non inferiore a novanta giorni. L’età del donatore deve essere
compresa tra 18 e 65 anni e il peso non inferiore ai 50 kg.
Il prelievo di plasma (plasmaferesi produttiva) non può superare i 650 ml per singola
donazione, 1,5 litri al mese e 10 litri l’anno. I requisiti richiesti per il donatore sono gli
stessi per le trasfusioni di sangue intero.
La donazione di piastrine (piastrinoaferesi) richiede gli stessi requisiti per l’idoneità alla
donazione di sangue intero, con un numero di piastrine non inferiore a 150.000/μl.
La leucoaferesi (donazioni di leucociti) richiede gli stessi requisiti di sopra ma i leucociti
non devono essere inferiori a 6000/μl.
Sangue intero
Viene utilizzato per ripristinare la volemia e per aumentare il trasporto di O2 nei soggetti
che hanno avuto un’emorragia acuta con perdite di sangue superiori al 25%.
Vengono impiegati per aumentare il trasporto di O2 nei soggetti anemici. I limiti per
l’indicazione alla trasfusione sono valori Hb uguali o inferiori a 7 g/dl se il paziente è
normovolemico ed è in grado di aumentare la gittata cardiaca. Soggetti con quadro clinico
più severo,soprattutto se anziani, possono richiedere trasfusioni anche a livelli più elevati
di Hb. Normalmente una concentrazione di Hb superiore a 10 g/dl non richiede
trasfusione.
Un’unità di emazia concentrate aumenta la concentrazione emoglobinica di 1 g/dl e
l’ematocrito del 3%.
I rischi della trasfusione di emazie concentrate sono quelli legati alla trasmissione di
malattie infettive e alla formazione di alloanticorpi, clinicamente significativi contro
antigeni eritrocitari assenti nel ricevente.
GRC lavati con soluzione fisiologica per la rimozione di piastrine, di parte dei leucociti
e di quasi tutto il plasma.Questo preparato fornisce una minore massa eritrocitaria
rispetto alle sole emazie concentrate; è il prodotto di elezione per i pazienti con
un’immunodeficienza da IgA, con gravi e ricorrenti reazioni trasfusionali da proteine
plasmatiche o con emoglobinuria parossistica notturna.
GRC filtrati - Sono indicati nei soggetti che hanno avuto un’alloimmunizzazione da
trasfusione, da gravidanza o da trapianto. La filtrazione riduce il numero di leucociti a
meno di 5x106 e previene l’alloimunizzazione da trasfusione.
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GRC irradiati sono utilizzate per prevenire la malattia del trapianto verso l’ospite (vedi
oltre). Le emazie vengono irradiate con una dose >20 Gray. A causa dell’insulto da
radiazione, le unità di GRC raddoppiano il loro contenuto di potassio; questo deve
essere tenuto presente nella terapia trasfusionale in neonatologia.
Piastrine
Sono indicate per i pazienti con deplezione di questi elementi figurati. L’indicazione alla
somministrazione di questo preparato è una concentrazione piastrinica tra 10.000 e
20.000 unità/μl. Se si deve praticare un intervento invasivo, il limite accettabile di
concentrazione piastrinica deve essere almeno di 50.000/μl.
Si ritiene accettabile la trasfusione se il CCI è > 7,5 x 109/l dopo un’ora e > 4,5 x 109/l
dopo 18-24 ore.
In caso non si raggiungano questi parametri il paziente viene considerato refrattario alla
trasfusione.
Se il paziente refrattario presenta anticorpi anti-HLA dovrà essere trasfuso con piastrine
HLA compatibili.
Qualora la causa di refrattarietà sia l’alloimunizzazione il CCI sarà basso già a partire
dalla prima ora; le altre cause di refrattarietà (splenomegalia, febbre, CID, infezioni) fanno
scendere il CCI solo nelle 24 ore.
I concentrati piastrinici possono essere leucodepleti mediante filtrazione per prevenire
l’alloimmunizzazione
Viene utilizzato per fornire proteine, fattori della coagulazione ed albumina. E’ indicato per
la correzione di coagulopatie (ad es. inversione rapida dell’effetto dei dicumarolici,
coagulazione intravascolare disseminata.)
Crioprecipitato
Fornisce alcuni fattori della coagulazione come il fattore VIII, il fibrinogeno ed il fattore di
von Willebrand. Trova indicazione nei pazienti sensibili al sovraccarico di circolo.
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Reazioni trasfusionali
Si possono manifestare:
durante la terapia infusionale
shock settico da contaminazione batterica massiva (ormai raro dato l’utilizzo di
materiale monouso)
scompenso cardiaco congestizio
Comprendono:
Nel caso di errore di tipizzazione del gruppo o scambio di sacche, l’emolisi può essere
provocata da anticorpi naturali verso il sistema ABO. Questi anticorpi sono IgM, possono
fissare il complemento e danno emolisi intravascolare. Immediatamente dopo l’inizio della
trasfuzione il paziente riferisce: cefalea, dolori lombari, nausea, vomito, palpitazioni,
tachipnea, brividi, ipotensione, febbre.
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Il rischio più grave è quello di shock irreversibile con insufficienza renale acuta da necrosi
tubulare.
Nel caso di paziente politrasfusi, l’emolisi può essere provocata da anticorpi dovuti a
precedenti immunizzazioni e diretti soprattutto contro il sistema Rh, Kell, Duffy e Kids.
Questi anticorpi sono IgG e danno emolisi extravascolare.
Il paziente manifesta nausea, brividi, febbre. Il rischio di shock e insufficienza renale è
raro.
In entrambi i casi la gravità della reazione dipende dalla quantità di GR trasfusi e dal titolo
anticorpale.
Terapia
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40. Trapianto di cellule staminali
Trapianto autologo
Espianto di midollo osseo in anestesia generale: aspirazioni multiple a livello delle spine
iliache postero-superiori. Dose di cellule da prelevare per garantire il ripristino
dell’emopoiesi: 2.0X108 per kilogrammo di peso del paziente.
Raccolta di cellule staminali periferiche: procedura introdotta in anni recenti e basata sulla
dimostrazione che il numero di cellule staminali CD34+ presenti nel sangue periferico è
irrilevante in condizioni di basali, ma aumenta significativamente nelle fase di ripresa
midollare dopo chemioterapia o dopo somministrazione di G-CSF alla dose di 10
μg/kg/die per 5 giorni circa. Usualmente per la raccolta il paziente riceve una
chemioterapia intensiva utile per il controllo della sua neoplasia e a distanza di
quarantotto ore dal termine della chemioterapia il G-CSF. Il valore delle cellule CD34+
viene determinato giornalmente con l’impiego di un citofluorimetro e quando il valore
assoluto di cellule CD34+ è superiore a 20/μl viene eseguita la prima leucaferesi,
utilizzando per la raccolta un adatto separatore cellulare. Il numero di leucaferesi cui
viene sottoposto il paziente per ottenere la dose necessaria di cellule staminali varia da 1
a 3. La dose di cellule staminali adeguata per garantire il ripristino dell’emopoiesi è di
4.0X106 cellule CD34+ per kilogrammo di peso del paziente
“Purging” in vitro
Conservazione
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tempo, mentre il trapianto con cellule criopreservate consente l’esecuzione di un regime
di condizionamento di più lunga durata.
Indicazioni
Trapianto allogenico
Il donatore viene scelto in base all’identità assoluta con il ricevente per gli antigeni del
sistema HLA, il principale sistema di istocompatibilità. La probabilità di ritrovare un
donatore HLA identico all’interno della fratria è pari al 25% (donatore familiare). Pertanto
solo la minor parte dei pazienti potrà usufruire di un donatore familiare compatibile
mentre la maggior parte non avrà donatori familiari. Per superare questo ostacolo si
possono ricercare donatori non consanguinei nelle banche di midollo osseo. Per la
tipizzazione HLA di un donatore non consanguineo oggi non viene più impiegato il
metodo sierologico (mediante anticorpi), ma la tipizzazione è genomica. Grazie a questa
metodica, che consente di ottenere una maggior identità immunologica tra ricevente e
donatore, attualmente i risultati ottenibili con il trapianto da donatore non consanguineo
sono decisamente migliorati.
Eliminazione delle cellule staminali del ricevente (con ottenimento di una chimera
completa). Questo obiettivo non sempre viene raggiunto; infatti si ha talora la persistenza
delle cellule staminali dell’ospite accanto a quelle del donatore (chimera incompleta o
mista). In alcuni condizioni (Talassemia e Leucemia Mieloide Cronica) la presenza di una
chimera mista non comporta una sicura ripresa della malattia, in altre (Leucemie Acute)
precorre costantemente una recidiva di malattia.
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immunosoppressione del ricevente ad opera di un regime di condizionamento non
sufficientemente immunosoppressivo (Host-versus-graft reaction), si può verificare una
ben più temibile complicanza che va sotto il termine di malattia da trapianto verso l’ospite
(Graft versus Host Disease, GvHD). La GvHD è causata dalla capacità dei linfociti T del
donatore di riconoscere gli antigeni minori di istocompatibilità non correlati al sistema
HLA, presenti sulle cellule del ricevente. Si ha pertanto la proliferazione dei T linfociti
dell’ospite che svolgono un’azione citotossica nei confronti dei tessuti del ricevente. Se
tale reazione immunologia si sviluppa nei primi cento giorni dal trapianto si parla di GvHD
acuta. Quest’ultima, di grado variabile sino a severo, ha come bersagli la cute, l’intestino
e il fegato. La GvHD acuta può con il tempo trasformarsi in una forma cronica, anche se
quest’ultima può svilupparsi non preceduta da una graft acuta. La GvHD cronica ha una
genesi più complessa.
Lo sviluppo di una GvHD sia acuta che cronica comporta per il paziente una maggiore
immunosoppressione, esponendolo a gravi rischi infettivi. Può anche portare a morte il
paziente. Tuttavia la presenza di GvHD, specie se di grado modesto, può avere un effetto
positivo sul controllo della malattia onco-ematologica, associandosi ad una minore
incidenza di recidive. Ciò è causato dalla reazione alloimmune che sta alla base della
GvHD e che si esplica anche nei confronti delle cellule leucemiche eventualmente
residue nel ricevente (Graft-versus-leukemia, GvL).
Indicazioni
Il trapianto allogenico è indicato per alcuni gravi malattie ematologiche non neoplastiche
(ad es.: talassemia major, immunodeficienze congenite, ecc.) e per tutti i disordini onco-
ematologici.
Trapianto singenico
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