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Adriano Sofri. LO SPECCHIO DI SARAJEVO. Sellerio editore, Palermo 1997. "Fine secolo" - Collana diretta da Adriano Sofri.

INDICE. Non ci sono pi notti normali per chi ha visto Sarajevo: p. 6. Sarajevo, via della luna: p. 15. Le uova di Sarajevo: p. 22. Itinerario per un viaggio nella citt ferita: p. 30. Diario minimo dall'altro mondo: p. 36. Se Sarajevo cadesse: p. 41. Le donne fanno risorgere Sarajevo: p. 46. Mille giorni del Gulag Sarajevo: p. 51. E' finita l'ora d'aria di Sarajevo: p. 59. Sarajevo spera nello scontro in campo aperto: p. 64. Evviva la pioggia: acceca i cecchini: p. 71. Strage nei quartieri musulmani: p. 76. La vita rubata alla guerra: p. 79. Qui l'Onu una slot-machine: p. 84. Il mio giorno da cani: p. 91. In tre anni d'assedio la vita diventata molto pi preziosa: p. 95. Battaglia a Sarajevo sulla Collina grassa: p. 98. L'incubo dell'arma chimica paralizzava la citt. Ora arrivato il terrore: p. 102. Un passo avanti o una foglia di fico?: p. 105. Il luogo comune della nostra neutralit: p. 108. Dai nostri visitatori dell'inferno: p. 113.

Assassini con metodo: p. 121. Per Sarajevo: p. 124. Noi? Guardiamo: p. 128. Jogging sotto le granate serbe: p. 131. Telecamere scomode: p. 135. Davanti al mattatoio Ghali se la squaglia: p. 138. Sotto le bombe col cuore stretto: p. 141. Un funerale sotto le stelle: p. 146. Segnali di fumo dal tunnel: p. 150. L'occhio di Guernica e My Lai: p. 155. A Sarajevo musulmani e ebrei si confondono: p. 159. Quanti alibi sento in giro: p. 163. Complici dei serbi, nove volte maledetti: p. 169. L'incendio contagioso dei Balcani: p. 175. Le tre verit di Sarajevo: p. 180. Sognando ananas, a nove anni: p. 186. Scontro ai vertici di Sarajevo: p. 189. Ci si pu fidare di Tudjman e del suo esercito?: p. 194. L'Europa liberi subito Sarajevo: p. 199. In ex-Jugoslavia la paura muove tutto: p. 202. I disegni di Tudjman: p. 206. Baratto su Gorazde: p. 211. E sulla spiaggia si leggono solo i necrologi: p. 214. Ormai solo fotografi tra le statue cadute dell'antica Dubrovnik: p. 220. L'estate prossima: p. 226. Belve che sbranano le prede: p. 231. Si poteva, si doveva: p. 236. Da Sarajevo nessuna notizia: p. 242.

Un anno fa l'orrore di Srebrenica: p. 249. Appendice. Le grandi paure della gi-sinistra: p. 254. Diciamo no con un digiuno: p. 262. Non vogliamo mangiare pi guerra: p. 265. Lettera aperta ai pacifisti italiani: p. 268. Stanno ammazzando Useppe a Sarajevo: p. 282. La primavera di Sarajevo: p. 291. Sul buon uso della telecamera: p. 302.

Lettrici e lettori decideranno se valesse la pena di raccogliere in libro questi scritti.

Io ero incerto, e aspettavo di dar loro un senso migliore con un paio di aggiunte. Una, per ricostruire la lacerante divergenza col pacifismo ideologico, e provare a trarne la lezione, alla luce dei fatti. La seconda, per raccontare, tornando un 'ultima volta a Sarajevo, come fossero cambiati i visi delle persone e le facciate delle case. Non ho fatto n l'una cosa n l'altra, e adesso non ho pi voglia dell'una, e devo rinunciare all'altra. Pubblico questi articoli cos com'erano. Non cambio neanche i titoli, bench non fossero miei, e spesso non mi piacessero. Non occorre che lo dedichi, questo libro. Basta leggerlo, per capire a chi sia dedicato, e con quanta nostalgia. 1997

NON CI SONO PIU' NOTTI NORMALI PER CHI HA VISTO SARAJEVO (L'Unit, 27 aprile 1994)

Ho trascorso a Sarajevo in tutto due mesi dall'inizio dell'anno, e l'impressione che ne avevo ricevuto, subito netta e sconvolgente, diventata via via pi opaca e tetra, bench ne resti una sostanza ovvia: che non sia possibile vita normale a chi sia passato per Sarajevo o per un'altra delle citt mattatoio della Bosnia.

Dir alcune cose sparse che mi sembrano avvicinarsi alla verit su Sarajevo che non si lascia dire ordinatamente. La prima ha a che fare con la primavera precoce e ingannatrice che ha intiepidito la citt, e fatto smettere i soprabiti pesanti. I ragazzini miei amici, che abbraccio e bacio all'arrivo e alla partenza, e che hanno facce a prima vista rotonde e illese che gli adulti, sbarazzati dei loro giacconi fuori misura si fanno sentire ossuti e fragili come uccelli. Ragazzini uomini e bambine donne, con il sogno d'uno swatch e un paio di scarpe da tennis, con una pistola nella cintola e una gran voglia di carezze. Bambini che stanno in strada e ascoltano le notizie di Gorazde, dove hanno il padre o il fratello. Bambini che vanno a dormire al buio non c' luce nelle loro case - e ascoltano al buio le raffiche di mitragliatrice e gli schianti delle granate. Se li conoscete, quei bambini, e li immaginate, uno per uno, nel buio freddo delle loro stanzette senza protezione, non potete pi avere

notti normali, notti vostre. E soprattutto terribile, di quei bambini che diventano vostri amici, la vera premura protettiva che li anima verso di voi, come se la vostra et adulta e il privilegio che vi portate addosso, di poter andare e venire, fossero una ragione di vulnerabilit e di apprensione: come se sapessero che non potete capire n guardarvi dal pericolo. A volte penso che la telecamera, mezzo per me ancora nuovo ed entusiasmante, riesce ad afferrare la verit di questa vita pi direttamente ed efficacemente: bench la telecamera debba anch'essa

chiudersi di fronte a certi sguardi troppo inermi ed esposti, a certi gesti troppo denudati. Soprattutto non pu, la telecamera, raccogliere l'odore di Sarajevo, un odore misto di milioni di cattive sigarette, di immondizie putrefatte e, peggio, malamente incendiate, di surrogati miserabili di saponi e detersivi e profumi e talchi che chiudono la gola, un miasma che ristagna sulla citt come su un malato a morte. La cosmesi ha un posto primario a Sarajevo, e celebra insieme la propria dignit civile e la propria impotenza di fronte all'assedio della barbarie. Tinture per capelli, shampoo, bistro e belletti e rossetti e lacche troppo cariche truccano i visi delle donne, come per una recita teatrale, con l'effetto di far risaltare il pallore delle fronti, la cavit delle guance, l'infossatura grigia delle orbite, i vuoti plateali nei denti. Cosmesi di guerra, come c' una chirurgia di guerra, altrettanto essenziale. Le persone hanno le fotografie a portata di mano, nei portafogli e nelle borsette, e vi invitano a casa per farvi un caff e mostrarvi i loro album delle foto. Hanno da farvi vedere i loro cari morti ammazzati: i loro padri e madri, i loro mariti e mogli, fratelli e sorelle, figlie e figli. Ma vogliono anche mostrarvi, pi cautamente, pi pudicamente, le proprie stesse fotografie di due anni fa, un anno fa appena, perch vediate come sono davvero, prima di perdere capelli e denti e chili, prima di quel trucco artificiale e greve imposto dall'assedio, prima, insomma. Provano a rimediare cos alla pazzia vergognosa che li ha contraffatti, e all'equivoco per cui voi li conoscete diversi da quelli che sono davvero: vi danno la loro amicizia, e per vorrebbero che sapeste che loro non

sono cos, che ancora poco fa erano altri, che forse un giorno lo saranno ancora e allora potrete riconoscerli. Pi probabilmente, pensano in realt, non lo saranno mai pi. La dimestichezza con la morte di questi due anni ha prodotto in loro anche un altro cambiamento: che non pensano pi soltanto a un mondo di vivi e morti, di gi morti e ancora vivi, e sentono invece di s come creature un po' morte. Quasi morte, mi ha detto una ragazza. Sentono che avvenuto, e che irreparabile. Qualcuno vi si abbandona, come si smette di nuotare contro una corrente. Li vedete per strada, quelli che si sono lasciati andare: e non sono sempre i pi deboli, o i pi anziani. Ma in loro vedete anche una specie di distacco, di trascuratezza e di sollievo. Negli altri invece una fatica terribile e fatale, di cui vi vergognate. A Sarajevo, citt di saliscendi e di scalinate, da due anni e passa persone spossate dalla denutrizione trascinano piccoli e grandi fardelli, pezzi di legno scovati chiss dove, brandelli di lamiera, taniche di acqua riempite alla coda delle fontanelle, batterie smontate dalle carcasse di automobili. Spingono slittini e carriole di fortuna. Si fermano ansimanti ogni po' di metri, con lo sguardo spento e il petto rotto. Salgono, vecchi o invalidi, ai loro piani di abitazione, il decimo piano, o il quindicesimo, col piccolo peso del pacco umanitario conquistato dopo ore di coda, negli edifici squarciati in cui l'ascensore un patetico ricordo. Questa fatica essa stessa una malattia, e i sarajevesi sembrano riconoscervisi come i pazienti di uno stesso reparto d'ospedale.

Sembra che, non tanto una caduta di solidariet e una brutalit, ma una convenzione tacitamente ammessa e una elementare necessit di economia delle forze abbiano cancellato da Sarajevo l'aiuto reciproco e l'impulso a darsi una mano. Nessuno aiuta la vecchietta che tira stremata la sua soma inciampata in una buca della strada, e se l'aiutate la vecchietta sar la prima a meravigliarsene: come se fosse inteso che ognuno debba fare da s. Al tempo stesso, tutti fanno uno sforzo sovrumano per fare come se la vita continuasse, come se nella paura e nella follia si potesse ricavare ogni momento di nuovo una normalit. Normale, parola altrove derisa, il motto eroico iscritto sulla decorosa bandiera dei sarajevesi. Devono sapere, i sarajevesi, che ci che toccato loro ha devastato per sempre la vita normale, e li ha fatti impazzire, li ha feriti nel profondo del cuore e della mente. Lo sanno, ma non rinunciano al proprio buon diritto e alla propria coscienza dignitosa. Hanno visto i loro nemici vicini e lontani, i briganti fanatizzati reclutati nelle campagne della Serbia o del Montenegro e scagliati contro le citt bosniache, o i loro vicini di ieri indemoniati da una voglia di sangue e di ferocia contro i propri stessi membri di famiglia: l'hanno visto, non hanno voluto crederci e insieme si sono detti di averlo sempre saputo possibile. Si sono guardati da quella follia, l'hanno disprezzata, hanno rivendicato la propria civilt socievole e il proprio amore per la citt contro la barbarie primitiva, urbicida, infoiata di passione per la forza e le armi e di smania razzista e sterminatrice. Hanno rivendicato, con pi determinazione e precisione sotto la bufera che li massacrava e li umiliava, la propria appartenenza al mondo della

civilt e dei diritti, della libert e del rispetto per la vita e del piacere delle differenze: al mondo dell'Europa e delle sue capitali, delle Nazioni Unite e delle loro sacre carte. Questo mondo li ha ripagati dichiarando che l'aggressione nazionalcomunista che essi subivano era una guerra civile - quanti ancora pronunciano questa infame menzogna, per ignoranza, o per cinismo, o per la carezzevole nobilt di una posizione apparentemente neutrale. Questo mondo ha attivamente impedito che la Bosnia, Stato sovrano e riconosciuto, potesse procurarsi le armi per la propria difesa contro la schiacciante supremazia militare degli aggressori. Questo mondo ha ipocritamente dichiarato sotto la propria protezione le citt e i paesi lasciati in realt in balia dei massacri sistematici. Negli scorsi dieci giorni, fra i 65 e gli 80 mila bosniaci abitanti o rifugiati a Gorazde, una delle citt dichiarate protette dalle Nazioni Unite, sono stati lasciati alla merc del mattatoio annunciato e perpetrato dai nazionalcomunisti di Mladic e Karadzic, mentre i cialtroni che rappresentano la legalit internazionale proclamavano prima che a Gorazde non c' alcun pericolo, poi, mentre il sangue correva nelle strade, che la situazione fluida, infine che l'Unprofor l a difendere se stessa e non le citt. E a massacro avanzato, dopo un altro ultimatum imbelle, e una sequela di umiliazioni subite per mano dei banditi serbi, l'Unprofor alla fine arrivata tra le macerie di Gorazde a evacuare i superstiti: cio, a soccorrere tardivamente gli scampati, ma anche, nella brutale sostanza, a finir l'opera della pulizia etnica. Negli stessi giorni, a Sarajevo, gli "snajper" ricominciavano a tirare al bersaglio dei passanti, agli incroci di strada e sul tram: e si risentivano le granate.

Cos i cittadini scoprivano - ma anche questo, l'avevano sempre saputo... - che la tregua e la fine delle sparatorie sulla citt sono una capricciosa concessione degli assedianti, e che la protezione dell'Unprofor un bluff destinato a durare quanto il capriccio dei capi serbi. Ai cittadini di Sarajevo accettare questa verit, pur dopo due anni e mezzo di conferme sanguinose, costa moralmente e intellettualmente mille volte di pi che aver dovuto scoprire di che cosa erano capaci i capi e gli scherani serbonazionalisti. I cittadini di Sarajevo non sanno spiegarsi come ci possa avvenire in un mondo vicino, in cui hanno tanti amici personali, di cui conoscono le lingue, di cui vengono a sapere, sia pure attraverso la cortina di silenzio che li avvolge, che un film sul genocidio nazista degli ebrei ha un successo trascinante. I cittadini di Sarajevo ripetono all'Europa che il fascismo tornato nei panni del nazionalcomunismo grande serbo e dei suoi alleati nella Russia di Zhirinovskji, che gli stermini razzisti perpetrati in Bosnia Erzegovina e nella ex-Jugoslavia minacciano l'Europa e il mondo delle democrazie come negli anni Trenta le prove generali della guerra di Spagna e poi le invasioni naziste. I cittadini di Sarajevo, nei loro appelli, pronunciano ancora le parole fascismo internazionale come se fossero autoevidenti: ingenui. I cittadini di Sarajevo si chiedono come sia possibile che i pacifisti e le persone di buona volont, gli stessi di cui hanno pi volte sperimentato la solidariet e la dedizione, non manifestino per approvare e anzi sollecitare e imporre l'intervento armato internazionale, e addirittura facciano l'opposto: o non muovano un dito e non dicano una parola, come tutti gli altri, mentre a Gorazde - o altrove, ieri e domani - si macella lentamente una popolazione di inermi.

Le persone di Sarajevo si chiedono quanti anni, e quanti milioni di altre vittime, ci separano dal giorno in cui nomi come Gorazde saranno celebrati come Guernica o Marzabotto, e si faranno grandi film sul loro martirio. E' soprattutto per questo che i cittadini di Sarajevo sono impazziti. Si pu essere assediati, decimati, torturati, vilipesi: ma bisogna sapere che, di l dai nidi degli sparatori e dai fili spinati, di l dalle barriere della citt assediata e devastata, c' una comunit di persone libere che sentono e pensano come noi, che sentono e pensano a noi. Perci, nei gesti e negli sguardi dei sarajevesi mi sembrato di vedere, negli ultimi quindici giorni, bench non ci siano stati bombardamenti n stragi nella citt, passare un'amarezza disperata e finale. Un po' com'era successo con la primavera precoce, anche per la tregua e la promessa di una normalizzazione arrivata la gelata. A Sarajevo primule e pervinche sono fiorite, dapprima di nascosto, sulla terra fresca dei cimiteri, poi nei giardini. Gli spazi di terra non vengono pi inseguiti, palmo a palmo, dalle nuove tombe, e all'opposto vi si moltiplicano gli orticelli di guerra, meticolosamente recintati con ramoscelli, cordicelle, avanzi di lamiere e di plastiche. Il tram si fermato per mezza giornata, dopo che i cecchini hanno sparato su quattro passeggeri, poi ripartito, e anzi ha ripristinato il percorso intero, fino al cuore della citt vecchia. Il semaforo funziona, e lo si rispetta con grande legalitarismo. Uno stipendio mensile ancora di due marchi o tre. Un chilo di caff costa ancora ottanta o cento marchi. Al semaforo, la gente corre per evitare i tiri degli "snajper", ma si ferma lo stesso al rosso. Gente normale, in una citt normale.

Ecco perch fate bene a non andare a Sarajevo. Potreste star male. Potrebbero venirvi dei pensieri, sul caff e sui semafori, sul fascismo internazionale e sull'Europa, sui cosmetici e sui danni del fumo. E sulla canzone che i passeri di tutto il mondo continuano a cantare, ma a Sarajevo si capisce pi distintamente: E' uno scherzo, uno scherzo, tutto uno scherzo. SARAJEVO, VIA DELLA LUNA (Cuore, 7 maggio 1994)

Vorrei spiegarvi l'impressione della prima sera in cui percorsi al buio le strade di Sarajevo, su un'auto che correva a fari spenti, slittando sul ghiaccio, per eludere il tiro dei cecchini. Il guidatore - poi diventato mio amico, lo chiamano avantreno, perch una volta una granata centr la parte posteriore della sua macchina, e lui prosegu di corsa su due sole ruote, fino a ripararsi dietro un muro accendeva ogni tanto per un momento i fari, e in quella luce breve e spettrale scoprivo una folla di pedoni che marciavano ai bordi della strada, e anzi schizzavano via al passaggio dell'auto in un modo patetico e buffo, come pesci davanti alla prua di una barca a motore, o come ranocchi in un ruscello. Quella moltitudine di figurine rapide e solitarie svelate come in un'impresa clandestina dal bagliore di un faro, che si affrettavano ciascuna a una propria meta, mi fecero sentire davvero come un visitatore all'inferno. La sera dopo, bench avessi ricevuto raccomandazioni di stare in guardia dai cattivi incontri, dai ladri e dai banditi, non vidi l'ora che facesse buio - veniva presto, era ancora inverno pieno - per aggirarmi nelle strade, uno fra tanti, sconosciuto e irriconoscibile, appena illuminato

ogni tanto dal passaggio rischioso di un'auto o da una lama di pila balenata dalla mano di un pedone o di un ciclista. Nessuna citt permette cos presto di appartenerle come la Sarajevo delle notti tenebrose e svelte, subito prima dell'ora del coprifuoco. Mi era bastato un giorno per essere uno fra gli altri, che sapeva dove andare, e come conciliare il passo agli intralci della strada. Il fondo delle strade di Sarajevo disseminato di rosoni di granate, grumi di pozzanghere pi larghe al centro, via via pi piccole ai bordi, e il piede deve imparare ad aderire a quel suolo bucherellato. Che si sia in tanti, ad andare a passo svelto nella notte, quando la notte nera e senza luna, lo si sente pi che vederlo, nel silenzio strano e attraversato continuamente da respiri un po' affannati, ed una misteriosa abilit che fa s che ci si sfiori senza urtarsi. A volte passa un ubriaco, chiss di cosa, e sventola la sua piletta accesa dal basso all'alto, e allora decine di voci basse e imperiose lo avvertono che spenga il suo fanale e vada in malora. C', in questo muoversi fugace e occulto, simile forse a certe visite notturne in angiporti di malavita antica, di figure di puttane e di borseggiatori che scivolano fuori da androni e vicoli, piuttosto che un'apprensione e una minaccia, un senso di comunanza e di sicurezza complice: nessuno nessuno, tutti hanno un nemico comune, e una protettrice comune, la notte. Io infatti vado a piedi, e la notte, oltre a tenermi al suo riparo, mi impedisce di passare per straniero: o tramuta tutti allo stesso modo in stranieri. Di giorno, a Sarajevo, si guardati subito da tutti come stranieri; per quanto si traversi in lungo e in largo la citt trascinando borse e pacchi di cose da consegnare, in ci simili alla gran maggioranza dei

sarajevesi, che trascinano fardelli in ogni direzione, e anche in questo c' un'aria di girone dantesco. Tuttavia basta ai sarajevesi uno sguardo per dichiararvi stranieri: forse, temo, per una floridezza delle vostre guance, o per un dettaglio del vostro abbigliamento, o, chiss, per il vostro stesso sguardo, perch gli manca qualcosa, un'ombra che sta in tutti gli altri. La confidenza che i sarajevesi hanno preso con la morte pu trarre in inganno. E' un fatto che la loro graduatoria dei rischi diversa e spesso incomprensibile per chi viene dall'altro mondo. Questa modificazione avvenuta in loro in modo inavvertito, cosicch quando ve ne meravigliate con loro - per esempio, quando se ne stanno distrattamente e indolentemente in un punto esposto ai tiri ricorrono, pi per cortesia che per effettiva convinzione, all'argomento del banale fatalismo. Quando sar venuto il mio momento, vi dicono, non importer dove mi trover, o come mi comporter. Io credo, vi dicono, che ciascuno di noi abbia il proprio destino. Una donna intelligente, cui avevo obiettato che questo banale fatalismo rischia di tramutare in un imperscrutabile disegno del destino l'infamia e la ferocia dell'aggressione, mi ha risposto quasi risentita. Lo so, lo sappiamo meglio di chiunque, mi ha detto. Lo sappiamo che questa non la nostra morte, che questo macello all'ingrosso non il nostro destino. Al contrario, che ci deruba del nostro destino, della nostra morte personale. Noi abbiamo paura di ammetterlo verso i tanti nostri cari che sono morti, come se ne svalutassimo la morte, ma in verit tiriamo avanti con un

unico obiettivo: scampare a questa falcidie anonima, brutale quanto gratuita. Noi non abbiamo voglia di vivere, di sopravvivere: al contrario, io credo che nei pi fra noi un desiderio triste ed esausto di morire si sia insediato come una malattia. Soltanto, vogliamo tirare avanti fino a tornare a una normalit, a un'esistenza in cui a ciascuno sia restituita, pi che la sua vita, la sua morte personale. In cui ciascuno possa andare incontro alla propria morte, e sfuggire al destino anonimo e di massa di un intero popolo, che altri hanno condannato. Solo a questo noi miriamo davvero, noi adulti: a durare un minuto di pi di questa mostruosit. A guadagnarci una data e una causa di morte tutta per noi: la nostra morte personale, non quella di un popolo, di una cittadinanza, di una guerra o di una pestilenza. Voi non potete capirlo. Alla vigilia dell'ultimatum che prepar una tregua pur precaria arriv a Sarajevo anche un anticipo di primavera. Cos, in una notte di luna, potei uscire nelle strade della citt per una vera passeggiata, in compagnia di un giovane uomo, uno scultore, con cui ho fatto amicizia, bench lui non parli altre lingue, e io sappia poche parole in bosniaco. Lui, in realt, ha uno strano repertorio di parole forestiere, tratto da qualche catalogo di vendita e da qualche didascalia televisiva, con improvvise infiltrazioni di parole difficili - bombastic, per esempio usate chiss a che sproposito, ma con un fervore febbrile: per esempio, a bombastic prolece, una primavera bombastica, come diceva indicando lo splendore della luna sulla Miljacka, e facendomi dubitare che quel

trasognato bombastic fosse nella sua immaginazione legato alle bombe che piovevano dall'altro versante del fiume. Mi ha segnalato, a un certo punto della passeggiata, che avremmo dovuto deviare per andare in qualche posto che sapeva lui. Lo seguii cos, sempre con un'andatura piacevole da passeggiata, verso un quartiere di case asburgiche, palazzi grigi dalle decorazioni ondulate. Lui accendeva ogni tanto una piccola pila, pi per mostrarmi qualche cimelio della strada che per illuminare il cammino: un cumulo di scatole di latta vuote e rosse di corned beef, un'auto bruciata e sforacchiata dentro la quale, da un avanzo di sedile, cresciuto un ramoscello di chiss che albero. In un punto si diretto pi speditamente verso un palazzo, e mi ha indicato il portone sovrastato da due telamoni affaticati sotto il peso di una balconata. Una delle due statue aveva perso il braccio destro, l'altra la gamba sinistra, il buco enorme di una granata si apriva nel bel mezzo del balcone. Pensai che avesse voluto mostrarmi quei due invalidi complementari, ma si infil deciso, e con una certa eccitazione, nel portone. Attraversammo un andito dal quale partiva una scala, e poi sbucammo in un gran cortile. Era uno di quei palazzi di qualche piano, costruiti attorno a un cortile interno, con due portoni, scale e gruppi di appartamenti su ciascun lato. Il cortile doveva essere stato decoroso e quasi monumentale, bench adesso fosse ingombro di carcasse e detriti. Distinsi, aiutato dal cielo chiaro e dalla pila del mio amico, un campetto da pallacanestro col cerchio di ferro sospeso sbilenco, senza pi tabellone; una fontana di pietra asciutta e sbrecciata; dei fili stesi qua e l con su qualche straccio di bucato, e due grossi platani

dai rami alti troncati, e scorticati in basso come se ne avessero raschiato via con le unghie schegge da fare il fuoco. Attorno ai platani c'era qualche avanzo di panchina di pietra bianca spezzata. Il mio amico mi mostr le pareti sul cortile, costellate di fori di granate - come se si fossero tirate centinaia di palle di fango, capaci di bucare e schizzare per metri attorno le loro schegge. Poi mi indic con insistenza i relitti di panchine attorno ai platani, e con un buffo girotondo mimato mi spieg che l giocavano bambini e bambine, e poi che bambini e bambine si sedevano per la merenda sulle panche. Poi mi mostr i rami dei platani nel punto in cui erano troncati, mim la parabola della granata, l'inciampo fra i rami, la caduta rimbalzante lungo il tronco, e l'esplosione poco sopra il suolo. Apr nove dita delle mani - nove bambini. Poi tir fuori un suo portafoglio, e una piccola fotografia, che illumin da vicino con la pila, mentre sedevamo sulla panchina rotta. Era il viso di una bambina, coi capelli lunghi e lisci, e un'aria seria seria. My son disse, mia piccola. Non disse altro, n io. Poco dopo uscimmo dal cortile dal portone opposto, e ricominciammo la nostra passeggiata notturna. La luna era cos chiara da lasciar vedere le ultime strisce di neve sul monte Trebevic. Stille nacht disse il mio amico in quel suo esperanto, bombastic moon.

LE UOVA DI SARAJEVO (Cuore, 23 luglio 1994)

Per una volta, posso raccontare una Sarajevo attraversata da un provvisorio buonumore. Due mesi sono bastati a portare grandi cambiamenti. L'estate, intanto, calda anche qui, e appena mitigata dai temporali che ogni pomeriggio scendono dai monti occupati. I ragazzini sguazzano nella Miljacka, si tuffano con un'aria spavalda, da marana romana. In mutande, lasciano pesare il recupero sulla magrezza da guerra. Ci sono ancora costole che sporgono, ma come per una dimenticanza. Il miglior colpo d'occhio viene dai fruttivendoli, zeppi di banane, pomodori bellissimi, peperoni, perfino angurie. Sulle banane scritto: 2DM. Ne compro per dieci marchi, convinto che costino due marchi l'una (due mesi fa costavano il doppio): me ne danno cinque chili. Ci sono bucce di banana in terra - un nuovo pericolo. Si trovano arance, ciliegie, perfino lamponi e fragole - a cinque marchi. Prezzi ancora minacciosi per la generalit delle famiglie, ma un altro vedere. La frutta viene dall'Erzegovina. Gigio mi dice che c' gente che ingrassa a vista d'occhio.

Persone preoccupate fanno jogging in giro per la citt. Mangiano soprattutto uova, i sarajevesi. Per due anni e mezzo non se n'erano pi viste. L'umor nero di Sarajevo domandava: E' morto prima l'uovo o la gallina?. Ora ci sono uova dovunque, piramidi di uova, cinquanta al prezzo di un uovo di due mesi fa. E la gente, in cambio di quel solo uovo che due mesi fa non poteva permettersi, ora ne mangia cinquanta. Gli faranno male, tutte queste uova. Li si vede incrociarsi per le strade col cartone di uova in bilico sulla mano, come in un numero di equilibrismo. Questa fine repentina del mercato nero - bastato riaprire una strada, e neanche asfaltata - deve aver dato un dispiacere a parecchi. Chiss in che cosa investono ora le fortune di guerra. D'altra parte i pi sono ancora poverissimi, perch i pomodori (nome locale: "paradais" - era quello il frutto proibito) costano solo due marchi e mezzo al chilo, ma due marchi e mezzo sono pi dello stipendio di un mese, per i lavoratori pubblici. Tutti i bar sono aperti: nessuna citt del mondo ha tanti bar. Molti sono vuoti. Da tutti viene fuori una musica, cos innumerevoli canzoni si mescolano nell'aria estiva di Sarajevo, e il vento le porta in giro. Vestita leggera, la gente allegra. Il punto pi debole sono le scarpe. Di notte si spara ancora, raffiche, improvvise e arbitrarie, colpi singoli, mortai, granate. Nessuno ci fa caso. Ogni tanto qualche palla fischia anche di giorno sulla testa dei cittadini indifferenti.

Mediamente si conta un morto e un paio di feriti da cecchini al giorno, ma non fa notizia. La prima notte sono restato al buio - infatti, c'era l'elettricit - ad ascoltare gli spari, e ricordarmi di quelli dei tempi peggiori. Poi venuto un gran temporale, e sono restato al buio a sentire i tuoni. La pioggia benedice gli innumerevoli orti di fortuna (di sfortuna, insomma) che sono comici e rigogliosi, qualche centimetro quadrato di ogni ortaggio, come in un dizionario di verdure. Pomodori e fagiolini decorano i davanzali. Nelle case c' l'acqua, un paio d'ore al giorno, e la luce un giorno su tre, pi o meno. Nel centro artistico di Skenderjia si inaugurata una mostra di ingegneria, o ingegnosit, di guerra: le stufe, stufette, cucine, surrogati di candele, batterie a pedale di biciclo, indumenti ricavati dai teli di plastica dell'Onu, slittini e carriole di pezzi scombinati, con cui la gente si arrangiata per pi di due anni. Speriamo che, fatta la mostra, l'uso sia finito. E' comunque il caso di un rapporto fra uso vivente e museo, fra espediente d'emergenza e folklore che non aspetta neanche dieci minuti di intervallo, ma li rende contemporanei e vicendevoli. Metti il generatore domestico in mostra in galleria. Ecco, cos. E adesso ritiralo fuori, perch hanno ricominciato. Ora scrivo, un'altra notte, la luce accesa, prima un bambino ha strillato a lungo, poi hanno cominciato ad abbaiare i cani - anche loro si sono rincuorati - e adesso sono partite le sparatorie. Raffiche di kalashnikov, e qualche colpo pi forte e rotolante, che si rispondono e si propagano come gli ululati dei cani. C' un cielo stellato e una falce di luna.

Sparano, si direbbe, perch non ne possono pi di sentire la notte disturbata dai bambini che piangono e dai cani che abbaiano. Vorrebbero dormire, chiss. Gigio mi ha presentato sua nonna, ha 89 anni, ha gi visto tre guerre, ha detto Gigio: la Prima Guerra, la Seconda Guerra e Questa. Questa infatti non ha un nome suo - neanche un suo territorio: la guerra nella ex-Jugoslavia, in un posto che non c' pi. Non la Terza Guerra, se non per la nonna di Gigio. Dal modo in cui lo ha detto: Ha gi visto tre guerre, si capisce che stato attento a non escludere che ne possa vedere altre, se Dio le dar salute. Gigio somiglia a un Depardieu asciutto, era direttore del casin, ora aspetta, ed nervoso. Pu capitare che, per dare una mano, stia seduto in macchina quando parcheggiamo, come antifurto. A volte mi viene paura che rubino l'auto con Gigio dentro. Nel cortile del ginnasio domenica scorsa c'era un concorso canino, e anche questo un formidabile segno dei tempi. Pi dei cani qui erano interessanti i padroni, apprensivi e responsabili. Spingevano i loro cani a sorridere alla mia telecamera pi di quanto facesse Anna Magnani con la sua ragazzina. Poi ha ricominciato a piovere. Mi hanno raccontato la storiella di quello che viene a Sarajevo, e piove. Passano dieci anni, torna a Sarajevo, e piove, gli chiedono: Com' Sarajevo?. E lui: Non male, ma piove da dieci anni. Naturalmente viene da sostituire pioggia: Sparano da anni. Trovo Fadil, sempre magrissimo, ha intrapreso pochi minuti fa una carriera di contrabbandiere di sigarette.

Mi spiega tutto: ha preso in prestito cento marchi dal cugino, ha comprato dieci stecche di Drina, le ha pagate dieci, le rivende a undici e mezzo, se riesce a venderne una quindicina di pacchetti al giorno in una settimana ci guadagna quindici marchi. Intanto arrivano due poliziotti. Lui sparisce e mi d un borsone con le sigarette: Di' che tuo dice. Cos sono diventato complice di contrabbando. Fadil non mi sembra tagliato per il business. Rimpiange i giorni del mercato nero, cui del resto non ha preso parte: un infelice pescecane mancato. A scuola stato promosso, ha quattordici anni - l'et giusta, dice. Non dice per che cosa: sottintende che le altre et sono ingiuste e forse vero. Si guardano le partite. Dopo che la Bulgaria ha eliminato la Germania, i cetnici si danno a gran sparatorie di festeggiamento per i fratelli ortodossi bulgari (fratellanza scoperta molto di recente, e del tutto pretestuosamente) e per l'umiliazione degli odiati tedeschi. Ragione in pi, a Sarajevo, per tifare Italia contro la Bulgaria. I ragazzini giocano a pallone in tutti gli angoli della citt, e recitano i nomi dei loro eroi. Anche nelle partitelle di Sarajevo c' un bambino pi piccolo, agile e gracile che viene messo ai bordi, e adibito a raccattare la palla. Lo fa con malinconia e dedizione. Si butta gi dai muriccioli, si tuffa nel fiume per ripescarla. Gli altri sono impazienti, si irritano se, riportandola, la trattiene troppo, o addirittura si attarda a palleggiarla. Il raccattapalle aspetta il giorno in cui finalmente lo faranno giocare, magari in porta, perch gli altri non vogliono stare in porta.

Ha scarpe pi lunghe di due numeri, e slabbrate. Cova in lui una grandezza non solo calcistica. Fa un tifo appassionato, fra s e s. Nel suo tifo gli italiani vanno pi forte di tutti, con quei nomi rimati che si possono canticchiare come una filastrocca:

"Dino Baggio Roberto Baggio Gian Luca Pagliuca"

La finale la vedo con Gigio. Lui adora tutto dell'Italia, dalle magliette al taglio dei capelli di Massaro. Ci rimane pi male di me. I rigori non sono sportivi, dice. Sono come la roulette. La roulette era il suo mestiere. I cetnici sparano una dose normale. Dev'essere venuto sonno anche a loro. Ai tempi dell'umor nero, il fotografo di Sarajevo voleva scrivere sulla sua insegna: Fatevi la foto, subito! Stasera potreste essere morti. Ora fa una quantit di scatti Polaroid da passaporto. Infatti sta ridiventando faticosamente possibile uscire dalla citt, e la gente fa la coda per avere i permessi. Quattro pose, dieci marchi. I rollini mancano ancora, e le foto private sono un lusso. Una signora molto anziana e dolce mi ferma e mi chiede timidamente se potrei fargliene una, e farla avere ai suoi figli e nipotini, che sono in Italia, e non si vedono da quasi tre anni. Se sapesse com'era bella Sarajevo!, dice.

Tutti dicono cos: com'era bella Sarajevo! Com'era dolce la vita di Sarajevo! E' questa, oltre al dolore e all'umiliazione, l'esperienza pi profonda dei sarajevesi: che la vita di prima era dolce e preziosa e che qualcuno, per stupidit e cattiveria, l'ha potuta d'un tratto rovinare e distruggere. Provano a spiegarci la lezione della vita di prima, ma diffidano di riuscirci. Loro stessi non l'avrebbero capito, prima. Cos, si dedicano con ogni cura ai pomodori sulla finestra e ai tumuli dei cimiteri, che ora sono fioriti di malva rosa e scarlatta e di violaciocche. Girano fra le tombe, donne bambini e cani, con la dimestichezza tranquilla con cui si sta in un giardino pubblico.Questa naturalezza consolante non fa che segnalare pi penosamente lo scandalo che si consumato: che fra quelli che poco fa appartenevano allo stesso caseggiato, alla stessa classe di scuola, alla stessa squadra di calcio, alla stessa coda a una fontana, allo stesso gruppo di passeggeri di un tram, o di passanti di un marciapiede, alcuni sono sottoterra, altri, vivi, vanno per le loro strade, a casa, a vedere la partita, al bar, a fare il bagno nel fiume. Doveva essere cos, un tempo, con le pestilenze. Tuttavia questo succede altrove, di l dall'Adriatico, in un altro mondo. Quando ho riattraversato l'Adriatico e sono sceso, l'altro giorno, dall'aereo canadese dell'Onu che porta da Sarajevo a Falconara, ho trovato l'aeroporto pieno di bambini e ragazzi. Avevano facce belle, bionde e accaldate. Erano trattenuti l da qualche ora per delle irregolarit formali nella compilazione del visto d'ingresso, bench fossero ospiti invitati nel nostro paese.

Erano bambini di Chernobyl.

ITINERARIO PER UN VIAGGIO NELLA CITTA' FERITA (L Unit, 18 agosto 1994)

Se fossi papa - diceva Cecco Angiolieri, che era di cattivo umore allora s che sarei contento, e tormenterei tutti i cristiani. Se fossi stato il papa sarei andato a Sarajevo. Anche il papa, se fosse stato in me, ci sarebbe andato. E' stato pi volte evidente, infatti, che ne aveva un gran desiderio. Questo significa, semplicemente, che il papa meno libero di noialtri. Il paradosso del viaggio del papa a Sarajevo proprio questo: che il viaggio importante perch a farlo il papa, e che il fatto che sia il papa gli impedir, pi ancora di altre volte, di fare il viaggio che vorrebbe. Ho letto qualche anno fa un libro del cardinale Ratzinger. Si apriva citando vivacemente alcune scritte sui muri delle strade di Roma. Mi piacque quell'esordio, che dava un piglio vivace e quotidiano a pagine di dottrina. Poi pensai malinconicamente che Ratzinger doveva aver carpito e annotato le futili scritte sui muri - sui laziali bastardi, o su Antonio che ama Elvira - in qualche passaggio veloce, dal finestrino della sua auto nera,

con le tendine magari, come un prigioniero fa tesoro delle figure dei suoni e degli odori del mondo avvertiti durante un trasferimento (anche l, attraverso una grata). Naturalmente, la letteratura conosce da secoli l'immaginazione del papa che passa, dissimulato, nel mondo e ne fa la stupefacente scoperta. Sarebbe facile addebitare alla misconoscenza del mondo - non una conoscenza falsa, ma una mezzo vera, dunque pi rischiosa, com' sempre quella filtrata dalla presenza del papa - ci che meno ci piace delle opinioni di Giovanni Paolo secondo: e in particolare le sue sempre pi perentoriamente ribadite sulla sessualit o sulla maternit. E' un fatto che nessuna autorit mondana ha pronunciato la protesta, il dolore e lo scandalo per quello che si consumava nella exJugoslavia come questo papa. Nessuno ha dato altrettanto vigore e nettezza alla proclamazione cruciale del diritto e del dovere dell'ingerenza umanitaria (consacrato bens in leggi internazionali, ma restato lettera semivuota). Sono in molti a non volere - a non aver voluto finora - Giovanni Paolo secondo a Sarajevo. I primi sono i nazionalisti serbi e, fra i serbi, la loro gerarchia ortodossa, in prima fila nell'ignobilt etnica. Nella chiesa cattolica croata - e dei croati di Bosnia - tentazioni nazionalistiche non sono mancate, ma non si pu dire che il papa le abbia fomentate, e neanche che se ne sia lasciato pregiudicare. Fra gli esponenti religiosi musulmani di Bosnia ci sono, com' comprensibile, di fronte all'eventualit di un pellegrinaggio papale, sentimenti contrastanti di accoglienza e di gelosia: soverchiati dal desiderio unanime dei musulmani comuni di ricevere il papa. Un desiderio di quelle persone infelici e dignitose, dalla lunga disillusione.

Infine, tra le potenze degli stati e dell'Onu, il viaggio del papa sentito per lo pi come un'interferenza, una concorrenza, una gran seccatura. Quanto all'entourage pi stretto del papa, ragionevole che senta delle preoccupazioni. Cos ragioni di stato e di religione e private cospirano a impedire il pellegrinaggio del papa. Nei giorni scorsi, quando sembrava che fosse un fatto compiuto, qualcuno ha pregato che il papa circoscrivesse la visita a una breve discesa all'aeroporto di Sarajevo. Bench non sottovaluti il valore simbolico delle cose, soprattutto trattandosi di papi, mi si stretto il cuore. L'aeroporto di Sarajevo un campo cintato distante dalla citt e dalle persone che non siano militari dell'Unprofor, ufficiali e soldati spaesati o, per mascherare lo spaesamento, bruschi e scostanti. Se il papa scendesse l, i sarajevesi ne sentirebbero tutt'al pi parlare come di un evento remoto e aeronautico. Il papa scenderebbe, un mulinello di polvere rossastra gli sporcherebbe il vestito bianco, dei militari cortesi ma fermi lo tirerebbero via in fretta mentre cerca di chinarsi a baciare la terra, per paura degli "snajper". Sarebbe risospinto su un aereo, senza vedere pi di qualche cocuzzolo di colle tra i cui boschi passato un pettine di ferro - e il titolo dei giornali e t.g.: Il papa a Sarajevo. Nemmeno questo, probabilmente, gli sar permesso fare. Peccato. Ma il papa, forse, perder la pazienza. Successe perfino a Ges. Perder la pazienza e far di testa sua.

Oppure, pi mitemente, pregher molto e diventer, per qualche ora, invisibile, o visibile in altre fattezze. Libero. All'aeroporto, com' per tutti, il suo viaggio comincer, anzich finire. Lungo il tragitto guarder le case sventrate, le lenzuola e i teli di plastica stesi per rendere, pateticamente, le persone invisibili ai cecchini. Scender in centro, star attento a dove mettere i piedi sull'asfalto bucato dalle granate come da schizzi di pozzanghera. Imparer a conoscere la citt lasciandosi portare dal caso, e dagli incontri. Incontrer, forse, la mia amica Iseta - facile riconoscerla, dai cani randagi che l'accompagnano e dalle scatole di cartone che si porta dietro, oltre che dal gesto con cui si aggiusta il fazzoletto quando qualcuno, raramente, si sofferma a guardarla. La prima volta mi aveva detto, Iseta: Tanti saluti al papa, in tedesco. Era ingenua, pensava che io potessi incontrare il papa, e che il papa potesse ricevere i saluti della gente. L'ultima volta che l'ho incontrata Iseta era in forma. Lei musulmana e usa sempre un intercalare che al papa potrebbe piacere: grazie a Dio. Non ho pi nessuno, dice, n la casa, ma grazie a Dio sono viva.Il papa, naturalmente, vorr entrare nella sua cattedrale: l, a pochi metri dal mercato del pi famoso massacro, tutti i sarajevesi ci passano e ci ripassano davanti nella passeggiata della dolce serata estiva. L'abside della cattedrale coperta da una grande vetrata a colori. Al centro c' naturalmente la crocifissione, e i proiettili si vedono bene i buchi dall'esterno - l'hanno colpita in modo tale da spezzare la lastra che formava il torace di Cristo.

Cos, per un caso singolare, il Cristo in croce ha un vuoto bianco al posto del petto il papa forse vorr leggervi qualcos'altro che il caso, e in ogni modo un'immagine suggestiva. Il papa visiter poi invisibilmente i cimiteri: non occorrer che li visiti, ci si passa continuamente attraverso, a Sarajevo, perch i cimiteri erano gi tanti, di tante devozioni, e ora anche i giardini pubblici e privati sono diventati camposanti. Se l'8 settembre sar una bella giornata - perch non dovrebbe, un giorno cos speciale? - il papa potr andare a guardare i tuffi e le nuotate dei ragazzini nella Miljacka, e, con l'aria di giocare con i sassolini del greto, li benedir. Di l, dalla Biblioteca Moresca, potr salire su un tram. I tram di Sarajevo - i pi antichi d'Europa - sono rossi, salvo uno, il prediletto dei bambini, che giallo e azzurro. L'anima di Sarajevo nei suoi tram. Per questo i cecchini si accaniscono tanto sui passeggeri. Il papa far tutto il lungo itinerario del Viale dei Cecchini - l'ultimo tratto libero prima di tornare all'aeroporto. Avr cos l'agio di guardare il viso, gli occhi, i polsi e le scarpe dei suoi compagni di viaggio, e di dedurne le storie di questi due anni e mezzo. A un certo punto il papa si sentir guardato a sua volta con insistenza da una vecchina magra e con gli occhi scuri. La vecchina gli dir, in una lingua strana ma misteriosamente comprensibile a un papa polacco: Lei non un passeggero. E con l'aria di armeggiare con la sua borsa di rete lo benedir.

DIARIO MINIMO DALL'ALTRO MONDO (L'Unit, 20 novembre 1994)

C' sempre un tocco amaro in pi nelle storie terribili di Sarajevo. Si sarebbe tentati di chiamarlo destino; ma non bisogna togliere agli assassini neanche una briciola del loro merito. Parecchie persone di Sarajevo avevano cercato riparo dall'assedio a Zagabria, o a Belgrado, se la lotteria etnica glielo permetteva, e se avevano parenti. La bambina di tredici anni ammazzata da un cecchino mentre era in casa, qualche giorno fa, era rimasta con sua madre a Belgrado fino a poco prima. Poi avevano deciso di rientrare e ricongiungersi col padre.Il cecchino aspettava. Ieri, l vicino, hanno ammazzato un bambino di sette anni. Alla tempia, un tiro magistrale . E' facile equivocare su come vanno le cose a Sarajevo. E' il 19 novembre, e continua una luminosa estate di San Martino, estate dei poveri la chiamano qui.

Un supplemento di grazia: anche una luce ideale per la mira degli "snajper". C' la luna piena, e anche le notti, nonostante il buio delle case, sono chiare. L'umor nero della citt l'unico a rifiorire con l'inverno e l'ambiguit il suo pane. Per esempio: i sarajevesi non vedono l'ora di uscire dalla citt, e quelli che hanno potuto farlo, spesso dopo aver provato l'esilio, non vedono l'ora di tornare. Gira una storiella sul tunnel, il cunicolo scavato nella terra per un chilometro che collega Sarajevo - nel fango, carponi - al resto del mondo. A met del tunnel si incontrano due sarajevesi, uno che va, l'altro che viene, e tutti e due dicono sbalorditi: Ma sei matto ad andare l?. Enis, che si fatto il suo mese all'estero, e vi ha rifocillato il suo umor nero, racconta: Tutti sanno che a Sarajevo non si sopravvive senza fumare, per in tre anni di assedio ho contato tre persone in tutto che mi abbiano fermato per chiedermi da fumare. A Milano un mucchio di persone mi hanno chiesto una sigaretta. Uno per strada mi ha perfino chiesto dei soldi. Quando gli ho spiegato che mi dispiaceva, ma venivo appena da Sarajevo, gli venuto un grande spavento ed scappato. Sul fumo, gira un'altra freddura. Dei ragazzi attraversano il ponte di Vrbania, quando lo "snajper" comincia a sparare. Scappano, ma un colpo porta via un'orecchia a uno. Quello torna indietro e si mette a frugare. Gli altri gli gridano: Ma sei pazzo? Corri! Lascia stare l'orecchio. E lui: Chi se ne frega dell'orecchio. Mi caduta la sigaretta.

Non so se qualcuno raccolga le storielle di guerra. I pacchetti di sigarette scadenti si vendono per strada al grido di: Tre per dieci marchi. Una anziana signora va dal dentista e chiede quanto le coster rifarsi un dente. Quattro marchi, dice il dentista. Facciamo tre per dieci marchi? dice la signora. La barzelletta non granch, ma batte dove il dente duole. I denti scompaiono e compaiono nelle bocche dei sarajevesi, e non solo di quelli anziani, seguendo l'altalena dell'assedio. Nella breve e fervida tregua estiva, quando la strada blu si era aperta, in tanti erano corsi, se potevano permetterselo, a riempire i buchi che i due anni e passa di assedio avevano aperto nei loro sorrisi. Ora, di nuovo il contrario. Tutta la citt sforacchiata, ma i buchi improvvisi nei sorrisi delle persone sono quelli che turbano di pi. Una donna giovane, e del resto molto bella, raccontava l'altra sera della vita sessuale propria, e dei sarajevesi. La donna si chiama Mersiha, che vuole dire - spiega - porto, approdo: ma nessuna nave in vista da tanto, dice. Il fatto , secondo lei, che l'amore ha bisogno di un po' di attesa e a Sarajevo nessuno adesso se la sente di aver cura di un altro per pi di qualche momento. Lei dice che succede con l'amore come con lo scatolame di cui i sarajevesi nauseati si cibano da tre anni. Apri la scatola, e devi mangiarla tutta subito, se no va a male. E chi pu prendere gusto a una cosa del genere? Le conversazioni cos sono usuali a Sarajevo, e hanno un tono insieme affabile ed esasperato.

La giovane Mersiha mi era stata presentata s e no cinque minuti prima. Se dovessi dire qual la cosa pi significativa dei rapporti umani nella citt derelitta, sceglierei questa intimit assoluta ed effimera, questa confidenza senza passato n futuro. L'ha provata forse, da noi, chi ha frequentato i rifugi sotto i bombardamenti. Ma non parlo dei rifugi di qui, posti fortunosi e desolati, bens della penombra dei caff, o delle stanze di case in cui scende la sera, e si resta a parlare al buio, o a lume di candela, e le persone si muovono lentamente e a piedi nudi. Tutto si pu dire per una volta sola. Questo forse somiglia all'amore, e lo sostituisce. L'argomento cui inevitabilmente si torna, da qualunque avvio, la normalit. Siamo ancora esseri normali, noi? - si chiedono le persone - e se s, come possibile? E se noi lo siamo, che cosa sono gli altri? E l'Europa? L'Europa infatti l'altro capo del viavai di domande sulla normalit. I sarajevesi, dice uno, sono tutti pazzi, ma non lo sanno ancora. Un altro racconta la storiella dell'quipe di psicologi dell'Unprofor (le forze di protezione delle Nazioni Unite) che chiede al primo sarajevese quanto fa tre pi tre. Marted, risponde quello. Il secondo: Ventiduemila. Il terzo: Sei. Entusiasti di averne trovato uno normale, gli psicologi chiedono: E come hai fatto?. Semplice. Ho moltiplicato marted per ventiduemila. Enis, che un po' matto, ma lo sa, conclude la discussione cos: A Sarajevo siamo normali, ma di una normalit, per cos dire, al quadrato.

Del resto l'altro ieri sono cadute quattro granate sulla Presidenza della Repubblica, ieri un paio, e mentre scrivo ho perso il conto dei botti: e questo altrove non sarebbe ritenuto normale. L'interlocutore esterno, che legge negli occhi dell'ospite sarajevese la domanda - Vi sembriamo ancora normali? ha voglia di rimandarla a sua volta, come allo specchio. Per fortuna c' subito qualcuno che alleggerisce l'aria con un nuovo quiz: E' enorme, blu, e non serve a niente: che cos'?. La risposta : l'Unprofor. Ieri sera ho invitato a cena un po' di amici, in un ristorante scelto a caso. Abbiamo mangiato bene, per i tempi che corrono, e serviti da un signore premuroso. Durante la cena i miei commensali sarajevesi si davano di gomito. All'uscita me l'hanno spiegato. Al tempo delle Olimpiadi della neve dieci anni fa, Kirk Douglas era andato a cena l, e quel signore gentile gli aveva presentato un conto di 5000 dollari. La polizia lo arrest e gli ritir la licenza per cinque anni. Il mio conto stato ragionevole. C' perfino un televisore acceso, con lo schermo a strisce, ma un audio passabile. Certo, dove sono le nevi di un tempo? Smetto. C' di nuovo bel tempo, e vado in giro. Le storie vi vengono incontro, basta uscire per strada. Se nessuna vi ha fatto ridere, non importa. Non fanno ridere nemmeno qui.

SE SARAJEVO CADESSE (L'Unit, 1 dicembre 1994)

La sera di luned anche a Sarajevo erano arrivate le cattive notizie: la stretta su Bihac, e le dichiarazioni delle autorit internazionali secondo cui i cetnici sono vincitori sul campo, ed esse se ne lavano le mani. Se dovessi dire come hanno reagito i sarajevesi, sarei in imbarazzo. Semplicemente, non hanno reagito. Hanno altro da fare. Si sono scaldati la loro cena di fagioli umanitari, senza gas e corrente elettrica, nel focherello di una stufa. Si sono aguzzati la vista studiando una lingua straniera, a lume di candela. I pochi che escono ancora prima del coprifuoco delle dieci, per incontrarsi al caff e parlare d'altro, si sono forse lavati i capelli con l'acqua gelata conservata in una bottiglia di plastica. Una ragazza di vent'anni, che studia pianoforte e si esercita in una stanza di scantinato, ha continuato a esercitarsi. Sono passato e, come ogni volta, l'ho ascoltata dalla strada. Il suo piano un po' scordato, e ha il mogano bucato da una scheggia di granata. In compenso, suonare per tante ore al buio migliora la memoria e la sensibilit della ragazza. Luned sera suonava Chopin. Qualche Chopin, qui o in esilio, prepara forse una musica degna della caduta di Sarajevo. La caduta di Sarajevo infatti diventata possibile, bench resti impensabile. Questo volevano dire le notizie arrivate luned da Parigi o da Bruxelles.

Prima di tutto, la caduta di Sarajevo impensabile. A meno di immaginare una grande citt, una capitale, in cui vivono ancora poco meno di trecentomila persone, messa a ferro e fuoco da branchi di armati sadici e ubriachi. Le persone di Sarajevo verrebbero sgozzate nelle strade col coltello da macellaio. Le autorit internazionali ribadirebbero di essersi dovute rassegnare all'impotenza. Le catene internazionali trasmetterebbero il massacro in mondovisione. Se per giunta l'inverno sar un po' pi inoltrato, lo spettacolo della neve e del sangue sar formidabile. Ci impensabile per una mente che conservi un affetto umano. Ebbene: tutto quello che era impensabile si finora compiuto, nella exJugoslavia e nella Bosnia-Erzegovina. Dunque la caduta di Sarajevo possibile, e bisogna parlarne subito. Qui nessuna epopea accompagna l'orrore, nessun eroismo militare cadrebbe virilmente con Sarajevo. Per altre ragioni questa citt martire e testimone di ci che vi di pi alto nel nostro tempo. I suoi cittadini non hanno compiuto gesta di valore combattente, ma gesti minori, quotidiani, pazienti di resistenza umana. Non il campo di battaglia, ma la resistenza oltre ogni limite nel campo di prigionia la sua gloria. Gli inni, le medaglie, le frasi nobilmente retoriche non le competono: ma la fatica ingegnosa degli espedienti per sopravvivere, l'attenzione riservata alla dignit esteriore anche nella desolazione, i sorrisi di cui restano capaci bocche sdentate. Perfino il valor militare, sui fronti della Sarajevo assediata, ha qualcosa di domestico e di carcerario.

Panni poveri, scarpe di gomma slabbrate, ragazzi che stanno due giorni e due notti in trincee di fango e di gelo, e poi, se andata bene, rientrano per due giorni e due notti a casa, o sui banchi di scuola. I capi bosniaci si erano forse illusi, nel corso della tregua estiva, di avere riorganizzato le proprie file, e messo insieme un armamento meno fortunoso. La stampa internazionale ha anche lei intitolato alla irresistibile controffensiva musulmana. Non era cos, e non poteva essere cos. La tragicommedia di Bihac, dove i raid virtuali della Nato hanno cantato il coretto ai bombardamenti cetnici, in barba al solenne impegno di protezione delle Nazioni Unite, ha riportato i rapporti di forza al punto di prima. Come al tempo di Gorazde, i controllori dell'Unprofor sono finiti controllati a vista dai militari cetnici. Senza cedere a polemiche troppo facili nei confronti dell'Unprofor, un fatto che nei tempi meno disastrosi essa si occupa prevalentemente del proprio (lauto) sostentamento, e nei tempi peggiori della propria particolare sicurezza. Col passare del tempo, le rivalit fra organismi internazionali, governi, ed emissari in loco, sono cresciute a dismisura, fino a provocare la paralisi quando non il sabotaggio reciproco. Tutto questo, lungi dall'impensierire Karadzic, gli ha spianato la strada. Gli ha permesso di giocare col mondo come il gatto col topo, lui, l'expsichiatra affetto da cattiva vena poetica e da enuresi notturna - un tratto umano, finalmente. Fatto compiuto dietro fatto compiuto, Karadzic si assicurato come in un laboratorio senza rischi l'impunit.

Ogni cedimento internazionale diventato un suo nuovo nullaosta. Intanto sono passati tre anni, e contro un tribunale per i crimini di guerra messo su avaramente, stanno i dfil di Karadzic a Ginevra e i pellegrinaggi dei potenti a Pale. Questa fenomenale sedicente "realpolitik" non ha solo ottenuto di deridere la legalit internazionale e di calpestare i diritti umani primari, ma di insediare ai bordi dell'Adriatico i russi, oggi di Eltsin, domani di uno Zhirinovskji qualunque. (Se va bene Karadzic, infatti, perch non Zhirinovskji?). Ci non era mai avvenuto, neanche quando per impedirlo ci voleva davvero del fegato, come nel dopoguerra di Tito. Cos stando le cose, lo scacco matto alla civile Sarajevo non aspetter pi molte mosse. Vedrete che, nell'attesa e per rendere digeribile fra poco ci che ancora impensabile, si moltiplicheranno le dichiarazioni roboanti sulla tutela internazionale di Sarajevo, e i progetti pi strampalati sulla sua ricreazione. Poi verr la fine. Sarajevo sar bombardata fino a farla stramazzare. I grandi del mondo si troveranno in qualche palazzo belga e si confesseranno, con aria triste, impotenti. I cetnici barbuti metteranno in scena il loro programma in bianco e rosso. L'Unprofor sar impegnatissima nell'evacuazione di se stessa. Si parli dunque della possibile caduta di Sarajevo e con essa della catastrofe della nostra civilt in questa fine di secolo. Si smetta di concedere alibi al cinismo e alla vilt. Infiniti sono gli alibi.

Quel malinteso amor di pace che suscita di quando in quando mirabili opere di infermeria ma non disturba i macellatori. L'equidistanza, ipocrita spesso, illusoria sempre: motivata dal pretesto che i bosniaci sarebbero pronti a fare come i loro nemici, se ne avessero la forza. Intanto, non ne hanno la forza, e la differenza non da poco. Poi, per riconoscere l'aggressore, non si richiede un certificato di illibatezza dell'aggredito. Infine, la repubblica di Bosnia-Erzegovina e il suo governo sono legittimamente sovrani e come tali riconosciuti dalle Nazioni Unite. L'Italia, paese beato di chiacchiere e di avvisi di garanzia, avrebbe potuto far tesoro dei pochi giorni terribili passati dalla gente dei paesi alluvionati, delle notti del freddo, della mortificazione, del lume di candela, per figurarsi pi concretamente i quasi mille giorni trascorsi dalla gente di Sarajevo in una condizione simile - salvo che, in Italia, agli scampati non si sparava addosso. Non so come se ne sia parlato. So che qui tanti mi hanno chiesto dell'Italia, della sua terribile alluvione. Non sapevo come fare a raccontar loro dell'insufficienza dei soccorsi.

LE DONNE FANNO RISORGERE SARAJEVO (L'Unit, 12 dicembre 1994)

La Cattedrale di Sarajevo un posto di appuntamenti. Ci vediamo alla cattedrale, si dice, da qualunque religione si venga. Ieri mattina, domenica, l'appuntamento era speciale: la prima messa da cardinale dell'arcivescovo Vinko Pulijc.

Solennit e confidenza insieme, qualit delle chiese dove sono in minoranza, hanno cercato di avere la meglio sul gelo dell'inverno e dei marmi. Di tutte le promozioni, quella cattolica al cardinalato forse la pi sontuosa: e il contrasto fra la prostrazione, il freddo e il buio di Sarajevo e l'elevazione alla porpora che si guadagnata davvero spettacoloso. Un onore - l'unico forse - tributato dal mondo a un uomo degno e per il suo tramite alla sofferenza e al supplizio di una citt. Esso avviene nel momento in cui tutte le potenze temporali del mondo sembrano mettersi in combutta per abbandonare definitivamente la Bosnia e Sarajevo. Di questo contrasto vissuta la cerimonia di domenica, e quelle che l'hanno preceduta. Nella messa di domenica, che commemorava anche i settecentocinquanta anni dalla fondazione della prima cattedrale a Sarajevo, sono risonati soprattutto gli appelli alla pace e al perdono, al ritorno in s. Sabato sera il nuovo cardinale aveva parlato una lingua franca. Oggi, aveva detto, si celebra la giornata internazionale dei diritti dell'uomo: ebbene, a Bihac, a Sarajevo, alla Bosnia, non accordata neanche una piccola parte delle attenzioni e della protezione che il mondo sviluppato riserva ai suoi animali domestici. Prima di quelle parole secche attori avevano recitato, musicisti avevano suonato, contralto musulmane e tenori di Zagabria avevano cantato. Autorit di tutte le confessioni avevano applaudito forte per la commozione, e per scaldarsi. I soliti contrasti forti di Sarajevo, la citt che ha ora un cardinale, titolare della chiesa romana di Santa Clara - ogni cardinale ha infatti

il titolo di una delle chiese cardine di Roma e domiciliato in un appartamentino a tre metri dal quale una granata ha sfondato il muro. Il cardinale ha ringraziato tutti: in particolare, ha detto, i bambini. Non erano tanti, nella cattedrale: solerti per a sventolare bandierine vaticane e cuori rossi di cartone, come certi lecca lecca dei paesi ricchi. Tra i fedeli, di fronte alla moltitudine di concelebranti maschi attorno all'altare, le persone pi commoventi e commosse erano le donne anziane, e le suore di tutte le et. La gioia delle suore davvero speciale, devota com' ai successi altrui. Casalinghe di Dio e dei suoi ministri, sfaccendano nella fredda cattedrale lavando il pavimento con le maniche rimboccate, mettono in riga i bambini, passano il dorso della mano sui paramenti per stirarli. La loro felicitazione riservata e assoluta. Una di loro sorella del nuovo cardinale: due volte. In questi giorni, si sentito dire che il papa ha parlato di una speranza legata alle donne, e di un fallimento di cui gli uomini devono ormai prendere atto. In nessun posto vero come qui. Ora la percentuale di donne di Sarajevo che aspettano bambini due volte pi alta di quanto fosse tre anni fa, prima di questo inferno. Molti temettero che la visita mancata del papa preludesse all'abbandono di Sarajevo. Sta avvenendo, compresi i propositi di diserzione delle Nazioni Unite, che riparerebbero cos alla meschinit della loro presenza. La Bosnia sar preda di una nuova spartizione, una Polonia minore e senza protettori, da cancellare dalla carta geografica. Solo il papa ha fatto di Sarajevo una frontiera decisiva dell'epoca. Qui i cattolici sono una minoranza e non esiste una questione cattolica.

Esiste una questione musulmana, e il cinismo internazionale si spiega anche cos. Ma l'errore qui micidiale: i bosniaci non sono musulmani senza petrolio, il loro non un capitolo della generale questione islamica, se non in misura per ora secondaria. L'eccezione dell'islamismo bosniaco - in una popolazione slava come i suoi vicini, che parla la loro stessa lingua - sta soprattutto nella sua storia di minoranza, da quando l'impero turco si ritirato da queste regioni. Nella cultura islamica bosniaca la mescolanza e l'apertura hanno avuto uno spazio maggiore. Nel loro stile di vita, di Sarajevo soprattutto, un cosmopolitismo di provincia, e un'attenzione verso le grandi capitali europee, hanno avuto una parte determinante. L'odio accanito che i razzisti serbi e croati riservano ai bosniaci (diverso da quello che nutrono gli uni per gli altri, dedito alla mutua sopraffazione) la conferma di una legge dei razzismi profondi: che il loro furore non acceso dalla differenza ma dalla somiglianza. Non da una diversit troppo radicale - un altro colore della pelle, un costume - ma da una somiglianza cos stretta da insinuare una frustrazione e un'invidia impaurita. Al bosniaco dal nome musulmano non si pu neanche inventare il naso adunco, n un suo libro sacro in cui esiliarsi - il Corano non lo . E' spesso laborioso, ha inclinazioni intellettuali e artistiche, alieno dalla burocrazia e dalla carriera militare. E' un musulmano pi diverso dai musulmani dei paesi dell'Islam che dai cristiani e dagli ebrei della sua terra e dell'Europa. E' questa singolarit che si vuole sopprimere.

Essa assimila davvero antisemitismo (e antiarmenismo) e furore antibosniaco; al tempo stesso rende indiretta e condizionata la solidariet di alcuni stati islamici, e fornisce una spiegazione terribile, bench forse non del tutto consapevole a loro stessi, del cinismo dei governi e degli uomini di cultura liberale. Un papa, e la chiesa cattolica bosniaca, hanno fatto eccezione alla regola universale dell'ignoranza, della brutalit e del realismo. Questa la piccola buona notizia dell'arcivescovo di Sarajevo diventato cardinale. Alla fine della messa, i cetnici hanno festeggiato a loro volta con un congruo lancio di granate sul centro. L'Unprofor le avr contate meticolosamente. Si avvicina Natale, l'altra buona notizia. Un presepio qui pronto. La neve arriva, gli alberi sono rosicchiati fino alle radici, candele poche, le donne sono incinte, i falegnami disoccupati, e dappertutto ci sono angeli: al buio non si vedono, ma si sente il battito freddo che fanno le loro ali.

MILLE GIORNI DEL GULAG SARAJEVO (L'Unit, 30 dicembre 1994)

Cominciato il 6 aprile del 1992, il tormento di Sarajevo compie i suoi mille giorni il 31 dicembre.

La coincidenza ha un'amara intelligenza, poich ogni giorno ha la sua notte, e ogni notte di Sarajevo rimbomba di colpi: i nostri fuochi d'artificio coincideranno con le mille e una notte di Sarajevo. La sua Sheherzada (si chiama cos in bosniaco) continuer il racconto infinito per dilazionare la condanna della citt. Mutata, nei nostri titoli di giornale, da luogo reale in evocazione infernale, Sarajevo resta ancora penosamente sconosciuta. Per descriverla, i suoi viaggiatori hanno fatto ricorso a ogni espediente. Hanno mostrato i buchi nei muri delle case, le rose delle granate fiorite ad ogni passo sull'asfalto delle vie, le bocche sdentate. A Sarajevo le madri affiderebbero i propri figli bambini a qualunque visitatore di passaggio, col pensiero di non rivederli mai pi, pur di mandarli lontano da quegli spari e da quella tosse. E' strano che questo non sia diventato un rovello insostenibile per le nostre notti. I viaggiatori a Sarajevo ne sono presi fino al furore, e insieme resi reticenti. Quell'inferno non ha bisogno di chi vi discenda per dargli voce. E' pieno di voci, fioche o alte, capaci di dire di s e ansiose di farlo. Della singolarit della nostra reazione fa parte anche la riluttanza ad ascoltare le voci dei sarajevesi, dei passanti e dei poeti, degli scrittori e dei venditori di tabacco agli angoli di strada. Che da noi Sarajevo sia raccontata solo dal montaggio cruento dei telegiornali o dai pezzi degli inviati speciali, e che tanto poco spazio si sia fatto alla traduzione, fa parte del nostro disagio, e del desiderio di tenere i fatti dell'ex-Jugoslavia alla distanza rassicurante dell'esotismo.

Dopotutto Bihac a poco pi di un'ora d'auto da Trieste, e Sarajevo a neanche un'ora di volo umanitario da Falconara. Troppo vicino per non voltare la faccia da un'altra parte. Dopo un certo tempo, il viaggiatore a Sarajevo trova il proprio posto, grazie allo spaesamento stesso che finora lo metteva a disagio come ogni sano e robusto in visita in un sanatorio. Gli succede di ricordare i propri anziani genitori nella coppia di coniugi in abiti dignitosamente lisi che escono, sostenendosi l'un l'altra, dall'androne di un palazzo bombardato in cui si distribuisce un chilo di farina e mezza bottiglia di olio, di vedere il proprio professore di liceo nel signore avvilito che offre libri vecchi, una penna stilografica, un cappello, a un angolo di mercatino. Di vedere una propria giovane amica nella ragazza bella dai capelli maltinti che serve ai tavoli di un bar a lume di candela. Il viaggiatore smette allora, con un leggero capogiro, di vedere nella citt straniera assediata e umiliata i suoi abitanti segnati da mille giorni e notti, per riconoscere in loro le fisionomie note e care dei propri concittadini e amici e parenti. Poich un volo di neanche un'ora gli basta a tornare, il viaggiatore a Sarajevo non ha avuto il tempo di sgombrare gli occhi e la mente da quello scambio di figure, ed ecco che lo scambio reciproco gli si fa incontro. Le coppie che passeggiano ben vestite e affabilmente sicure di s, il professore ben rasato che sfoglia compiaciuto gli ultimi volumi scambiando frasi superflue coi commessi di libreria, la bella ragazza dai bei capelli, diventano sotto il suo sguardo, distorto come da una malignit radiografica, i loro corrispondenti sarajevesi, dal passo malfermo, dallo sguardo mortificato, dagli occhiali rotti e tenuti

insieme con un pezzo di carta adesiva, dai capelli colorati con qualche intruglio di fortuna. Nelle vetrine natalizie traboccanti il viaggiatore cercher il riflesso della propria faccia, spaventato di scoprirla illividita e sdentata e grigia come in un vetro rotto di Sarajevo. Cos, dopo tanto tempo e tante andate e ritorni, il viaggiatore a Sarajevo ha finalmente una propria malattia a cui badare. Aveva rinunciato, dopo averci provato, a diventare sarajevese: non bastava infatti andare l, rischiare le stesse granate, sentire lo stesso freddo. Per essere sarajevese occorre non poter entrare n uscire nella citt da mille giorni; occorre esservi esposti al tiro a segno, alla fame, al freddo, all'umiliazione senza averlo scelto, n avervi avuto alcuna parte, n averlo potuto neanche immaginare; e occorre comunque essere stati sarajevesi prima, quando la vita era vita. E d'altra parte il viaggiatore a Sarajevo non pi semplicemente la persona di prima, n riesce pi ad appartenere in pieno al proprio mondo - all'acqua calda della propria casa, al proprio negozio di alimentari e al proprio programma televisivo, al linguaggio privato e pubblico della propria nazione e della propria vacanza all'estero. In un certo senso, si perduto. Le cose che cerca di dire da l passano inosservate, o ascoltate distrattamente, solo per una benignit nei confronti suoi e della sua passeggera mania. Si perduto, per cos dire, nello specchio che la Bosnia e l'Italia costituiscono l'una per l'altra. Di questa esperienza del viaggiatore a Sarajevo possiamo tranquillamente fare a meno, o addirittura deplorarne un tono querulo e magari narcisistico, a condizione di non rispondere a qualche domanda.

Per esempio, alla domanda su che cosa sarebbe avvenuto mezzo secolo fa se fosse stato possibile ai viaggiatori andare su e gi al ghetto di Varsavia, o ad Auschwitz, o in Siberia. O a una variante di questa domanda (che, naturalmente, non ha bisogno di stabilire un'eguaglianza stretta, e tanto meno una gerarchia morale, fra gli inferni che ragionevolmente paragona): cio, che cosa avremmo fatto, ciascuno di noi, se avessimo saputo e visto in tempo il ghetto di Varsavia e Auschwitz e la Siberia. O ancora, la domanda sull'eventualit che l'incendio divampato di l dall'Adriatico non sia davvero cos remoto e impensabile ed estraneo ai fuochi su cui si soffia qui da noi, un po' per gioco, un po' per imparare. E poi la domanda sulla disgrazia sulla frattura che pu irrompere nella nostra civilt irreparabile e brutale, come nelle nostre esistenze personali: e travolgerne le fondamenta, quello che ci siamo abituati a considerare guadagnato una volta per tutte. E anche la nostra idea della Storia, e la sistemazione che ci siamo illusi di compierne per il passato della nostra parte di mondo e del nostro secolo. Insomma, per la nostra vita e la nostra morte. Questa canzone canta la Sheherzada sarajevese nella millesima e una notte dell'assedio. Nessuno va a Sarajevo senza pensare un po' pi da vicino alla propria morte. Ma per i sarajevesi la vita e la morte sono diventate un'altra cosa, dopo tre anni cos. Ci abbiamo fatto l'abitudine, dicono. Ma non dev'essere vero.

Si fanno delle abitudini, per effetto della necessit, o della ripetizione, a modi di emergenza di provvedere ai morti, non si fa l'abitudine alla morte. L'anno scorso i cetnici presero a bersaglio una sepoltura, e uccisero fra gli altri due fratelli del sepolto. Bench le cerimonie funebri siano diventate tanto frequenti e sbrigative, e ci sia sempre meno tempo e spazio da riservare ai morti che fanno la fila, e spesso i funerali abbiano dovuto compiersi furtivamente e nella penombra, nonostante tutto ci la presenza dei morti attraversa Sarajevo. Pagati con un soldo troppo povero e svelto, i morti si aggirano nei luoghi degli ancora vivi con l'ansia del creditore imbrogliato. I cimiteri islamici sono sparpagliati un po' dappertutto. Ci sono quelli antichi e monumentali, quelli raccolti attorno alle moschee, quelli ricavati nei parchi pubblici e nei giardini, e infine in tutti i pezzi di terreno sgombro. Le persone non vanno al cimitero, gli passano continuamente accanto. Si fermano brevemente, tengono le mani aperte davanti al petto, recitano una preghiera e riprendono la strada. Le persone di Sarajevo passano pi volte al giorno dal luogo in cui giace il loro figlio, la loro madre, il loro marito, la loro sorella, e si fermano a pregare e ricordarli. Questo molto diverso dai nostri cimiteri suburbani, in cui andiamo di tanto in tanto, e di proposito, cos lontano e a parte. I visi delle persone che si fermano a salutare debitamente i morti a Sarajevo, sembrano provare un disagio, come se non riuscissero a spiegare al morto e a se stessi il loro continuare a muoversi e andare. Il posto in cui il morto si fermato un vero posto, e la strada che i vivi fanno faticosa e ingiustificata.

Questo vale soprattutto per i vecchi, che sono pi lenti e provati, cosicch fare una sosta lungo il cammino per loro naturale: ma del tutto innaturale il paragone fra la loro et e quella dei sepolti che si fermano a commemorare. Sempre pi spesso i morti sono pi giovani di una, due, tre generazioni. I figli e i nipoti e i bisnipoti li hanno preceduti nella morte, e i vecchi non sanno sopportare questo peso. E' che alla morte nelle nostre societ longeve si associa una pazienza, e invece qui l'ha presa una frettolosit capricciosa e sleale. I cristiani del Mediterraneo non possono immaginare funerali senza donne, donne nere, piangenti e chiuse nel dolore: si muore per loro, sono loro ad accompagnare chi muore. Nei funerali musulmani tradizionali le donne sono assenti. Restano a casa, a pregare. Non devono piangere, devono farsi forza. Gli uomini vanno a seppellire i morti nei loro cimiteri di pietre, anche quando i morti sono donne, o figli e figlie bambine. I musulmani tradizionali dicono: stato un funerale davvero distinto, non c'era neanche una donna. E' facile vedervi una conferma del confinamento domestico delle donne. Le donne giovani e indipendenti non si uniformano a quell'uso. Si insiste molto sul destino, e sulla consolazione che deriva ai vivi dal sapere che si compiuta la volont divina. A parte il fanatismo della guerra santa e del martirio per la fede, che qui del tutto assente, questo fatalismo davvero un tratto profondo. Si rimanda alla fatalit perfino di fronte a una brutalit criminale e inconsulta come questa guerra. La morte ha dato a ciascuno il suo appuntamento.

Ma l'attenzione che i sarajevesi mettono al destino anche un modo per riscattare il diritto alla morte singolare, personale contro l'arbitrio anonimo della morte di massa, della mietitura all'ingrosso. Gi nel 1966 il municipio aveva proibito ogni ulteriore impiego dei cimiteri antichi: se avessero immaginato! Ora, quando i cimiteri s'ingrossano delle loro annate d'eccezione, quando le generazioni sono accomunate non dall'anno di nascita ma dall'anno di morte, diventa pi forte il desiderio, se sopravvivere non si potr, di acquistarsi una morte tutta per s. Non vero infatti che la morte sia la grande uguagliatrice: e il livellamento delle persone nella morte altrettanto odioso che quello in vita. Cos sentono forse i sarajevesi. La nozione di morte naturale stata travolta. Tutti i dati sulla mortalit perinatale e infantile, su quella tra gli adulti e tra gli anziani, mostrano una correzione sconvolgente. Chi passato attraverso questi mille giorni ha comunque perduto una parte ingente della propria promessa di vita. Si muore di cecchini e di bombe, e di stenti e di crepacuore. Fra gli scampati comincia a insinuarsi un disagio, l'impressione penosa che siano i peggiori a sopravvivere. Del resto, non un caso che la Shehrezada bosniaca rinnovi all'infinito le sue storie: i sarajevesi girano con il proprio necrologio nel taschino. Buon anno.

E' FINITA L'ORA D'ARIA DI SARAJEVO (L'Unit, 3 maggio 1995)

Che cosa sar di Sarajevo e della sua gente? In apparenza, Si recita il consumato viavai di tutti gli ultimatum: la spola inutile e irrisa di Akashi fra Sarajevo e Pale, le riunioni del Gruppo di contatto in qualche capitale lontana, le facce abbronzate degli alti ufficiali dell'Onu che ripetono frasi di bronzo. Ma a Sarajevo si parla d'altro: del ritorno della guerra in Croazia, della battaglia finale, dell'occupazione dell'aeroporto, del bombardamento della citt. Corrono cifre, non so da chi e come da prima calcolate, ma poi ripetute con la rapidit con cui l'ansia diffonde i suoi cerchi in un luogo chiuso e soffocato: diecimila, dodicimila morti nel conto dei giorni che verranno. Nella citt le sirene suonano prima e dopo la pioggia di granate, senza lasciar capire se annuncino l'allarme, o la sua interruzione. Le persone sbrigano in fretta le loro incombenze, le spese, i saluti scambiati in strada senza fermarsi, e tornano a rinchiudersi nelle case. Il silenzio e l'attesa svuotano la citt. La tregua, violata mille volte, scaduta ufficialmente il 30 aprile, domenica. C'era una gran primavera, e per qualche ora ragazze e ragazzi sono tornati nelle strade. Sono stato a guardare sulle facce i segni di un altro inverno finito. Segni promettenti, a prima vista: capigliature pi curate, trucchi femminili meno forzati, fisionomie rincuorate. La gran differenza sta nel ritorno, da un paio di mesi, di elettricit, sia pure razionata, e acqua e gas, sia pure per qualche ora. Fare il bucato a macchina, cucinare, riscaldarsi, usare perfino degli ascensori: una risalita dal precipizio che non pu intendere chi non l'abbia provata.

Anche la vita povera si riempie cos di lussi: l'acqua calda qualche mattina, un libro letto di notte non pi al lume di candela. Al loro terzo anno di assedio e reclusione, gli abitanti di Sarajevo sono stati restituiti a una specie di prigione dura - e coi carcerieri che giocano al tiro a segno sulla loro ora d'aria - dalla buia e fetida cella di tortura in cui erano stati gettati. Questo solleva i corpi, indebolisce gli spiriti. Sento dire: Appena tre mesi fa avere la luce e l'acqua mi sarebbe sembrato un sogno: ora le ho, e sono avvilita. Si sono riallacciati cavi e condutture (perfino per la corrente elettrica il tunnel a fare da tramite: anche la luce viene da quel cunicolo angusto) ma non si sono riannodati i capi della speranza. Sarajevo ha continuato a vivere alla giornata, e il 30 aprile si rifatta la domanda degli altri giorni: che cosa sar domani. Per un'ironia amara, il primo giorno dopo la fine della tregua stato il Primo maggio. I sarajevesi hanno avuto il cuore stretto dal ricordo dei Primi maggio trascorsi fuori citt, al mare della Dalmazia, o sui monti che sono, stavo per dire, a un tiro di schioppo.Non si entra e non si esce ora nella citt assediata, e i monti sono brulli dei boschi devastati e fitti di tiratori ubriachi assassini. Dei Primi maggio passati viene in mente l'altra faccia, le orrende parate militari, celebrazioni, in teoria, della guerra partigiana e dell'indipendenza jugoslava, annunciazioni, a rivederle ora, della tetra macchina da guerra che si sarebbe di l a poco scatenata. Domenica, appena scoccata la mezzanotte, i cetnici della montagna l'avevano salutata puntualmente con la stura dei loro mortai e cannoni sulla citt: un brindisi fragoroso alla fine ufficiale della tregua.

Nessuno qui sa dire cosa succeder, ma tutti hanno paura di cose orribili. Che la guerra combattuta divampi, che Sarajevo (e le citt minori, a cominciare dalle pi esposte, Gorazde, Srebrenica) ne sia comunque l'ostaggio. Che una nuova trattativa, una nuova dilazione, ammesso che vengano, esigano il prezzo di una strage mai toccata. Ospedali e cimiteri sono preparati da giorni: spazi sgombrati, turni di emergenza, appelli straordinari. Domenica sera la televisione bosniaca ha trasmesso "Radio Days" di Woody Allen. Nessuna allusione alle ore che correvano. Se non, involontaria, in una pista da ballo che si svuotava: Ma "chi" Pearl Harbour?. Luned sera, invece, andato in onda uno special sulle Nazioni Unite. Il dato che ha fatto pi impressione ai sarajevesi stato il costo annuo della carta igienica: un milione di dollari. La carta igienica fra i generi che pi scarseggiano, qui, nonostante l'Unprofor. Oggi, marted, mentre cade la dose regolarmente progressiva di granate, i sarajevesi hanno appreso che sette granate hanno colpito Zagabria. Lo scenario pi probabile quello di una guerra guerreggiata che vada dai due fronti croato-serbi, della Krajina e di Vukovar, a Bihac, alla Bosnia centrale, dove i bosniaci hanno riconquistato alture importanti sopra Banja Luka, ai dintorni di Sarajevo, dove sognano da tempo un controassedio. Ma la sproporzione di armamenti rimane. Per la prima volta, in un passaggio cos cruciale, i giornalisti mancano. Forse le giornate cruciali sono state troppe, e non fanno pi notizia.

Del resto troppo difficile arrivare a Sarajevo. L'aeroporto fuori uso, e i serbo-bosniaci lo pretendono brutalmente per s. Dal monte Igman, unica via d'accesso, si viene con un altissimo rischio, sotto il fuoco costante di mitragliatrici pesanti e addirittura di granate. Pochi si avventurano. Il 30 aprile un giovane autista del governo stato ammazzato, il primo maggio una donna ha avuto le gambe tranciate di netto. Avevo fatto l'Igman in pieno inverno. Quando l'ho rifatto, pochi giorni fa, ai bordi della strada restava solo qualche chiazza di neve, e invece ciuffi dorati di primule e tappeti di crochi violetti. Era un giorno di sole e cielo azzurro, maledettamente limpido: luce da cecchini. Nella mia auto, una giovane, medico sarajevese, ha detto, seria: Ora, chi ha un Dio lo preghi con tutte le sue forze. Domenica poi ho chiesto al cardinale Vinko Pulijc - un altro dei lussi sarajevesi, il cardinale della citt umiliata - di questa ennesima condizione della citt "in extremis". Preghiamo e speriamo mi ha detto: come deve dire un cardinale. Gli di erano di casa a Sarajevo, ma forse se ne sono andati. Anche quell'ultima fra loro, la speranza, che nella lingua di qui si dice: Nada. Come in spagnolo per dire: Niente.

SARAJEVO SPERA NELLO SCONTRO IN CAMPO APERTO (L'Unit, 5 maggio 1995)

Il linguaggio ufficiale bosniaco non ha esitazioni: la chiama Guerra di aggressione. Ha le migliori ragioni, e del resto tutti hanno sempre chiamato aggressioni le guerre altrui, e difeso le proprie. Sono particolarmente interessato piuttosto al modo in cui la chiama la gente. Ebbene, la gente non le ha ancora trovato un nome. La gente dice: Prima della guerra, o: Quando la guerra finir. La nomina pi propriamente solo quando costretta dal contesto. Per esempio, quando parla di una persona vecchia, che ha visto la prima guerra, la seconda guerra, e questa. Questa la terza nella vita delle persone pi anziane, e tuttavia non ha il diritto di essere nominata cos perch non ce l'ha fatta a diventare mondiale. Cos, come in una parabola orientale, il calendario sarajevese le enumera cos: la prima guerra, la seconda guerra, e questa guerra. La guerra nella ex-Jugoslavia sta cambiando natura. Per dirlo, occorre tuttavia mettersi d'accordo su che specie di guerra sia stata finora, e se addirittura sia stata una guerra. Da noi, la formula: guerra civile, ormai fin troppo consolidata rispetto alla storia della nostra Resistenza, ha accontentato rapidamente i pi. Autorizzava l'idea (e l'ignoranza) corrente sui Balcani come groviglio inestricabile di stirpi e trib, e culla instancabile di macelli bellicosi. Ma quella facile etichetta di guerra civile ignorava due realt decisive.

La prima, la responsabilit dell'aggressione e della violenza, raramente cos distinta, come qui nel nazionalismo grande serbo e etnico. All'altro capo, la libert e l'esistenza stessa della Bosnia-Erzegovina sono state la posta accanita del doppio nazionalismo serbo e croato com' evidente, per il secondo, in quel macabro monumento al mondo spaccato in due secondo la legge del pi forte e del pi brutale che Mostar, nonostante la postuma e sforzata ricucitura. La seconda realt ignorata dalla nozione di guerra civile che essa fin dalle sue radici guerra contro i civili, contro le popolazioni civili e inermi, e pi peculiarmente contro donne e bambini, con un'intenzione che mescola la brutalit sessuale col genocidio. La caratteristica che rende tutta la guerra moderna la violenza contro i civili (cos ben espressa in quella formula umanistica: mine antiuomo) qui culminata fino a un'attitudine militare vile ed ebbra e insieme impiegatizia che ama colpire da lontano e impunemente. La metodica, monotonamente puntuale pioggia di granate e di tiri di cecchino (o di proiettili di antiaerea prodigati, in mancanza di aerei, contro i pedoni delle strade urbane) che si rovescia da anni su Sarajevo e su Gorazde o su Bihac, ecco la guerra cui questi strateghi pensano, e che ammette le battaglie e i confronti fra militari solo come incidenti di percorso. Le granate di Zagabria hanno mostrato al mondo questa squisita anima terroristica della guerra contemporanea, con le immagini cos simili sia quando la morte arrivi da un cestino di rifiuti della metropolitana o dalla cantina di un grattacielo, oppure da una rampa di missili oltre qualche proclamato confine sovrano. La morte del terrorismo militare insegue con intelligenza le sue vittime, si pu ben dire: nel centro di Zagabria stata colpita e ammazzata - una crocetta - una donna che era riuscita a fuggire fin l da Sarajevo.

E' questa situazione che probabilmente sta cambiando in modo radicale, per effetto di un migliore armamento dell'esercito bosniaco in primo luogo, e di un'insofferenza verso una tortura delle citt durata troppo a lungo per dare ancora voce alle speranze o agli avvisi moderati. Cos, nell'estinzione di ogni formale cessate il fuoco, e nello svuotamento penoso della presenza militare dell'Onu - le cui guarnigioni vengono "ipso facto" messe sotto sequestro dai cetnici a ogni annuncio di crisi - avanza la prospettiva di una guerra guerreggiata e regolare, con armi e armati che si fronteggino in campo aperto. Questa , almeno, l'apparenza. Perch? Intanto, perch il migliorato armamento dei bosniaci - quelli che con una convenzione indebita la stampa chiama musulmani, trattandosi dell'esercito legale, e ancora in qualche misura multietnico, di una repubblica indipendente e come tale riconosciuta dall'Onu - di dubbia portata, e comunque molto al di sotto della potenza di fuoco pesante dei serbobosniaci. L'esercito bosniaco conta oggi, con una certa sicurezza di s, su un miglior equipaggiamento, sul numero, e soprattutto su una combattivit superiore. A suo svantaggio giocano i calcoli delle potenze, Usa e Russia comprese, per le quali la Bosnia una pedina nelle reciproche trattative, nel migliore dei casi, e nelle faccende elettorali interne, nel caso pi consueto. In suo favore, la moltiplicazione dei fronti. Nel corso degli ultimi mesi la situazione militare si messa in movimento sotto la coperta corta della tregua. La Croazia punta a riprendersi la Krajina a Sud-ovest, e la Slavonia a Est.

L'operazione dei giorni scorsi su Jasenovac, che ha suscitato il bombardamento di Zagabria, stata decisiva per restituire ai croati il controllo dell'autostrada che porta dalla capitale al confine. In Bosnia, il successo pi importante dei governativi, militarmente e simbolicamente, stato la riconquista del monte Vlasic: sull'antenna di un ripetitore, preso sanguinosamente dai cetnici all'inizio del conflitto, hanno messo a sventolare una bandiera bosniaca di venti metri. Dal Vlasic i bosniaci hanno il controllo di Banja Luka. Altri confronti si sono preparati in punti cruciali come il corridoio di Brcko e la seconda cerchia delle alture attorno a Sarajevo, dal lato di Visoko e da quello di Trnovo. L'intera geografia militare si gioca sull'antico rapporto fra l'alto e il basso, fra monte e valle. Conquistare le quote, tagliare i passaggi a valle: questa la posta. Ma il confronto fra l'alto e il basso agisce anche, alla rovescia, nelle situazioni in cui sono i cetnici a occupare cime e pendii, e castigare da l, come nella storia del lupo e dell'agnello, le citt che intorbidano la loro acqua: Sarajevo in primo luogo. Sarajevo in fondo a una vera conca. Il viandante che deve guardarsi dai cecchini non trova mai un punto del suo cammino in cui levando gli occhi non veda un punto della montagna occupato: cio un punto dal quale non sia inquadrato dagli "snajper". Armi di ogni genere sono puntate sulla citt: e quelle messe in teoria sotto il controllo dell'Onu tornano in mano ai cetnici senza che questi debbano colpo ferire, e senza le proteste dei caschi blu. Essere imbelli la loro condanna, anche quando sono loro gli ammazzati o i mortificati. Cos, il progetto, o il sogno, di una guerra via via pi regolare che conduca a una battaglia campale e alla liberazione finale di Sarajevo,

costretto a mettere nel conto una distruzione terribile e vendicativa della capitale. Dopo pi di tre anni di orrore, e centinaia di migliaia di morti e milioni di deportati, e ore e minuti trascorsi ancora ogni giorno nella paura e nell'infelicit, e dopo che stata provata oltre ogni dubbio l'inerzia o la vilt del governo del mondo, nessuna voce politica in Bosnia pu pi permettersi di sostenere che il bombardamento delle citt, l'urbicidio moltiplicato, sia un rischio troppo alto per la scelta di battersi. Nessuna alternativa politica stata formulata. Possono levarsi voci diverse, voci di minoranza religiosa, voci di persone comuni che guardino i propri figli chiusi in casa, ma sono ora senza ascolto. Gravissimo, pesa sui bosniaci un altro pericolo, che ad alcuni fra loro pu sembrare un acquisto: la tentazione di valersi dei punti conquistati per rivolgere a loro volta le armi sulle popolazioni civili nemiche. Questa tentazione poco meno che irresistibile. Ha dalla sua tutto: la giustificazione della storia, l'argomento della rappresaglia come legittima difesa. La ripugnanza per un nemico, come il governo di Belgrado, che ha scatenato, fomentato e sostenuto una guerra di cui nella sua capitale non arrivata neanche l'eco delle esplosioni e dei pianti. Occorrer ai bosniaci uno speciale eroismo per rinunciare a fare come gli altri, per mostrare di non essere stati diversi dagli altri solo quando non ne hanno avuto l'occasione e la forza. Fra tutti i contendenti, la Croazia la pi sensibile alle pressioni internazionali, e la pi tentata dall'opportunit di guadagnare quello che possibile, tirandosi poi fuori e lasciando la Bosnia alla sua deriva.

Sacri egoismi di ogni genere verranno invocati per arginare i conflitti e per sancire la vittoria del pi forte. La Bosnia non in grado di vincere: forse pu tirare fuori da s una forza bastante a impedire la propria liquidazione e la spartizione delle spoglie. Allora, nessuno pu dire fin dove arriver il contagio di questa peste, e gli egoismi si riveleranno un'ennesima volta, oltre che immorali e sacrileghi, miopi e suicidi. L'Europa, che continua a guardare cos dall'alto le bassezze dell'inferno bosniaco, avr allora il pi brutto dei risvegli. Oppure no. Oppure tutto sar destinato ai bosniaci: un piccolo orzaiolo nell'occhio lungimirante della storia.

EVVIVA LA PIOGGIA: ACCECA I CECCHINI (L'Unit, 7 maggio 1995)

Venerd a Sarajevo venuto un temporale. Che notizia questa? si dir. Beh, lo : basta confrontare il rombo amichevole del tuono con quello delle granate. Quando piove i cecchini si bagnano, e non vedono niente. I ragazzi mi cantano qui una filastrocca che dice: Quando c' la pioggia - non c' la guerra. Gioved, uccidendo un ragazzo di 15 anni nel sobborgo di Sredrenik, il cecchino di Spicasta Stijena ha assicurato alla sua postazione il record di cento persone ammazzate dall'inizio della guerra. Immagino che abbia sportivamente brindato, ieri notte. Gioved era anche il quindicesimo anniversario della morte di Tito. Nelle pagine dei necrologi di Oslobodjenje - le pi lette un lungo elenco di firme autorevoli lo ha commemorato. Di fatto la Bosnia l'unica nazione della ex-Jugoslavia in cui la memoria di Tito ancora viva e grata, e i suoi ritratti non sono stati rimossi. I giudizi politici sono i pi diversi, ma tutti pensano che Tito sapesse che questo avrebbe potuto succedere, e si adoperato per impedirlo: per dilazionarlo almeno. Cos la rovina di ora ha definitivamente proiettato Tito nel vecchio mondo perduto, e un'aria di rimpianto, asburgico, che gli sarebbe piaciuta, accompagna il suo nome. D'altra parte anche altrove le cose devono essere pi tortuose di quanto le storie ufficiali rifatte dai nuovi stati lascino intendere. Ero a Zagabria un mese fa, alla ricerca di un passaggio per Sarajevo, e sono entrato in un cinema in cui davano "Gosp" - La signora - una coproduzione croato-americana dedicata alle apparizioni di Medjugorje,

con Martin Sheen nella parte del francescano Joze e Michael York in quella del suo avvocato difensore contro le persecuzioni comuniste. Non so se il filmaccio sia arrivato in Italia, e in particolare a Civitavecchia. Nel cinema di Zagabria c'era un pubblico pomeridiano misto di giovani e di anziani. A un certo punto, il film mostrava una grottesca cerimonia di partito in cui i malvagi burocrati arringavano altri ottusi burocrati, opponendola alla fede sincera e povera dei pellegrini raccolti a Medjugorje. Nella loro idolatria, i burocrati del regime cantavano l'inno a Tito: Dragi Tito, mi ti se kunemo. Caro Tito, noi ti giuriamo... La rappresentazione grottesca di quel passato non ha impedito agli anziani fra gli spettatori di Zagabria timorati, senz'altro, di Dio e della nazione croata - di cedere per un momento al riflesso condizionato di mettersi a canticchiare, come ai vecchi tempi, Dragi Tito.... Storielle. Del resto si raccolgono storielle in questo universo estremo con una premura da filatelici, o da medici legali. Ci sono storielle, parole povere, gesti, che dicono molto pi di venti sedute del parlamento confederato. Ieri sera per esempio ho commesso la leggerezza di dire a una bambina di quattro anni, in mezzo a un gioco allegro ed eccitato: Vuoi che andiamo al mare domani?. E' diventata molto seria e ansiosa, e mi ha chiesto: E' una cosa vera, o uno scherzo?. Bisogna stare attenti agli scherzi distratti coi bambini reclusi. E non solo coi bambini.

Una signora che conosco mi ha raccontato, con una malinconica ironia, che resta sempre a guardare le partite di calcio riprese dalla televisione italiana per poter vedere gli intermezzi pubblicitari, specialmente quelli della biancheria e del caff. Suo marito un famoso pittore, malato e ha bisogno di cure che qui non pu ricevere. Aspettano da molto tempo di partire per la Svezia. Aspettiamo la Svezia dice lei ormai un modo di dire. Io non voglio vivere in Svezia mormora lui voglio morire a Sarajevo. Le loro finestre danno sulla via principale, la Vase Miskina: a sinistra appena caduta una granata, a destra si alza un gran polverone bianco. E' una squadra di muratori che lavora di lena a raschiare i muri d'angolo di un vecchio negozio che sta per riaprire sotto la firma di Benetton. Le ragazze passano e spiano nei locali in allestimento il poster che ne promette di tutti i colori. Benetton e i suoi colori hanno fatto un'ottima scommessa. Un problema caso mai di capire perch tanti altri non facciano lo stesso. Soprattutto, francamente incomprensibile perch l'Italia, unico fra i paesi europei, abbia a Sarajevo, invece che un'ambasciata, una delegazione speciale. Ed sconcertante che non si sia finora sollevato il problema. La delegazione praticamente inabilitata alle funzioni essenziali, a partire dalla concessione dei visti, ed simbolicamente ci che conta ancora di pi - una prova di avarizia. Tanto pi contraddittoria se si conosca la straordinaria simpatia in cui tutto ci che italiano tenuto a Sarajevo, gi prima della guerra, e assai pi oggi, anche per il buon lavoro fatto dalla nostra quasiambasciata.

Il governo italiano spiegherebbe forse l'anomalia come una forma di prudenza: io userei una nozione meno benevola. Queste, dunque, le ultime da Sarajevo, dove ieri piovuto. Oltre a ci mancata l'acqua, il gas e la luce. In compenso, le sirene d'allarme sono suonate solo per una parte della giornata. Manca il latte per i bambini lattanti, mancano i medicinali specifici per le donne incinte. Ci sono, come sempre, mostre d'arte, spettacoli, anche sfilate di moda locale. Sono andato alla sinagoga sperando di vedere la celebre "Haggadah" di Sarajevo, uno dei pi splendidi codici miniati ebraici, opera spagnola sefardita del quattordicesimo secolo, tesoro del Museo nazionale bosniaco. Qualche giorno fa il governo bosniaco aveva prestato il codice alla comunit ebraica, ma non l'ho trovato. Il prestito era durato solo un paio d'ore, il tempo di far sapere al mondo che quella meraviglia non era stata, come si era insinuato, venduta. Ero attratto dalla bellezza delle miniature, ma anche dall'affinit del racconto con la situazione di Sarajevo: le porte segnate per scampare all'Angelo della Distruzione, i bambini tenuti svegli di notte, l'appuntamento: L'anno prossimo a Gerusalemme, e soprattutto l'Esodo. La storia di un mare che si apre ai fuggitivi ha un suono speciale in una citt prigioniera che, nell'Europa dei tunnel sotto la Manica, comunica col mondo solo attraverso un angusto tunnel clandestino. Per il rischio corso in quelle due sole ore di esposizione, il direttore del museo sarajevese si era dimesso per protesta.

Nel 1941, il suo predecessore aveva ricevuto la visita di un ufficiale della Wehrmacht che gli aveva intimato di consegnargli la "Haggadah". Il direttore era stato cos audace e pronto di spirito da rispondere di averla appena data a ufficiali della Gestapo. Poi il codice fu portato in salvo in montagna. Ho trovato i capi della comunit ebraica piuttosto ottimisti. Uno di loro, il vicepresidente, l'avevo visto preparare e guidare i convogli che portavano via vecchi e malati di tutte le fedi dalla citt minacciata. Lui sempre qui. Sulla parete c' una foto dei suoi nonni, i ritratti dei rabbini, e anche una foto di Tito.

STRAGE NEI QUARTIERI MUSULMANI (L'Unit, 8 maggio 1995)

I morti sono almeno nove: fra loro due fratelli. I feriti almeno quindici per l'Onu, pi di quaranta secondo radio Sarajevo. Abbastanza per sperare che sia questa la strage annunciata dalla scadenza della tregua? Nessuno cos ottimista da pensarlo. I quartieri di Butmir, che comprende l'aeroporto, e di Hrasnica, da cui parte la strada del monte Igman, sono bersagliati da un bombardamento metodico da molti giorni. Una settimana fa, una bomba da aereo modificata di 250 chilogrammi stata lanciata su Hrasnica, ha fatto due morti, ha raso al suolo le due case fra le quali caduta.

Questi sobborghi - Butmir a meno di 8 chilometri dal centro di Sarajevo, la zona di sicurezza delle Nazioni Unite ufficialmente di 20 chilometri - sono doppiamente strategici. Per la vita quotidiana, perch sono il punto di arrivo finale delle merci che vengono dalla strada di Spalato e Mostar, il polmone economico, seppure strozzato, della Sarajevo assediata. L le cose vengono comprate, trasportate a spalla nel tunnel clandestino che corre sotto la pista dell'aeroporto, e rivendute a prezzi ovviamente moltiplicati sui banchetti e nei negozi di Sarajevo, che si chiamano, chiss perch, mercato nero, come se ce ne fosse uno bianco. Oggi, nonostante la domenica, la gente si affollava ai mercatini di Butmir. A Butmir sbuca l'uscita verso il mondo libero del tunnel, che rende perci il sobborgo anche militarmente e civilmente decisivo. Il fuoco di artiglieria dei serbo-bosniaci, da una distanza ravvicinatissima, si accanisce su questo stretto spazio. Sabato giorno e notte il bombardamento sulla strada del monte Igman era stato eccezionalmente intenso, costringendo i bosniaci a interrompere il gi rado e spettrale traffico. Domenica i serbo-bosniaci da Gavrica Brdo hanno colpito Butmir con cinque granate poco dopo le 13. Le telecamere della tedesca A.T.P. sono state le prime ad arrivare fra i corpi martoriati: se l'aspettavano. (Per i curiosi delle lottizzazioni etniche, aggiunger che almeno due degli uccisi hanno cognomi ortodossi). Paradosso che aggrava la tragedia, in quei sobborghi non ci sono che ospedali da campo, sicch i feriti devono risalire al contrario il tunnel della libert, trasportati nel cunicolo su barelle di fortuna da uomini curvi.

I feriti pi gravi sono stati ricoverati dopo quel viaggio infernale negli ospedali di Sarajevo. Mentre quella tragedia si consumava, il resto di Sarajevo si svuotava per un ennesimo allarme, e riceveva la dose giornaliera di bombe. Tre granate sono cadute sul vecchio centro alle cinque del pomeriggio. Intanto, il rombo degli aerei Nato stringeva i suoi cerchi sul cielo di Sarajevo: quel megalomane rumore tutta la risposta che il mondo fa sentire ai terroristi etnici. La gente non alza neanche pi la testa. Il portavoce dell'Unprofor, puntualmente, ha detto in un primo tempo (ma in serata si corretto) che le Nazioni Unite non sono in grado di accertare chi abbia sparato le granate su Butmir. E' notevole che una persona adulta riceva uno stipendio per dire cose del genere. Le tragedie non mancano di un loro umorismo. Non so se l'Unprofor si sia lavato le mani anche del sangue del vecchio francescano invalido di Banja Luka. Almeno i francescani e i loro antichi monasteri meriterebbero di commuovere il cuore spaesato dell'Occidente. Quanto a Sarajevo, occorre dire che sul bilancino da farmacia con cui le istituzioni del mondo e i mezzi di comunicazione pesano i vivi e i morti, i morti di Hrasnica e di Butmir, appena di l dalla cerchia degli assedianti serbo-bosniaci, contano molto meno dei morti della Sarajevo assediata; e del resto fra questi i morti della periferia contano molto meno di quelli della Citt Vecchia. Cos i pessimisti hanno probabilmente ragione. Non stata questa, la strage che si aspettava. Ce ne vogliono altre, pi grosse, e pi centrali. Le telecamere sono accese.

Ancora un po' di pazienza, prego. Il primo ministro bosniaco ha detto: o l'Onu e la Nato intervengono, o tocca a noi. Non c' una terza via, se non il genocidio e la complicit con il genocidio. E' seccante da ammettere, ma vero. Ha anche detto, a proposito dei 50 anni da che il fascismo stato sconfitto, che ha i suoi dubbi.

LA VITA RUBATA ALLA GUERRA (L'Unit, 11 maggio 1995)

Ricorre quest'anno il 10 maggio, per durare quattro giorni, la pi importante delle feste del calendario islamico bosniaco: il Kurban Bajran, la festa del sacrificio. Essa commemora il sacrificio ordinato a Abramo-Ibrahim del figlio (Isacco nella tradizione biblica, Ismaele in quella coranica) e la sostituzione in extremis di un montone al ragazzo quando gi il coltello del padre pronto ad affondarsi. Kurban il nome dell'animale sacrificale. Prima della guerra tutti quelli che potevano si procuravano un montone e lo dividevano poi coi vicini e coi poveri. Marted, bellissimi e pazienti capri espiatori aspettavano legati davanti a qualche luogo pubblico: rari, e guardati con invidia. Costati ciascuno fra i 500 e i 1000 e fino a 2000 marchi, privilegio di pochi ricchi o acquisto di collette: arrivati in citt per la via infernale e omerica del tunnel. Bisogna figurarsi la colonna mista di montoni e di umani che sfila nel cunicolo sotterraneo, urtandosi, belando e imprecando.

La mattina di mercoled corna e pelli penzolavano qua e l, nella citt a sua volta mutata da anni in capro espiatorio di tradizioni deliranti. Alle dieci e mezza di mattina una granata caduta nella piazza di Carsja, il cuore della vecchia citt: come sarebbe a Roma in piazza Navona il giorno dell'Epifania. La granata rimbalzata su una tettoia, e ha fatto solo quattro feriti. Cos la citt ha vissuto l'inizio della sua grande festa fra le sirene d'allarme, le granate, le raffiche di proiettili antiaerei adattati e i tiri dei cecchini agli incroci. La visita tradizionale ai cimiteri, che portava una fiumana di persone di ogni fede a Bare, su un pendio a poche centinaia di metri dalla linea di fuoco, stata tentata solo da pochissimi avventurosi, vecchi i pi. Marted c'erano stati invece i funerali delle vittime della strage di Butmir, diventate intanto undici. Sono andato al vecchio camposanto del colle di Kovac: c'erano tre funerali contemporanei, ciascuno con una folla dolente. Allo stadio stato sepolto il giovane ortodosso Zdravko: i suoi correligionari hanno guardato dalle colline le centinaia di persone che nonostante il rischio si sono radunate per salutarlo. In questa vicenda c' un aspetto strettamente sarajevese: il padre del giovane era morto a sua volta nel massacro al mercato di Sarajevo, nel febbraio dell'anno scorso. In queste cerimonie funebri c' un dettaglio decisivo: le persone accovacciate e strette fra loro a pregare e lamentare il morto, sanno di essere, pi che in ogni altro luogo, in posa davanti all'obiettivo del cecchino e dell'artigliere. La distanza fra i vivi e i morti viene cos deformata e accorciata: la morte compiuta e quella incombente si mescolano nel dolore e nell'abbandono.

Nessun gesto si mostra per questo pi forzato, nessun lamento accelerato. Avevo spiegato, giorni fa, il peso relativo delle stragi: via via pi basso man mano che dal centro di Sarajevo si vada verso la periferia, e poi i sobborghi oltre la linea dell'assedio. Non meravigli, dunque, che il massacro compiuto da una granata serbobosniaca nella cittadina di Zepa, bench dichiarata anch'essa zona protetta dall'Onu, pur avendo totalizzato undici morti in un solo botto non abbia neanche fatto battere ciglio all'Unprofor e ai mezzi di comunicazione. In magazzino: un altro piccolo mucchio che si aggiunge alla grande discarica. Tutt'al pi, il generale Rupert Smith dichiara che l'Unprofor in questi giorni avrebbe chiesto alla Nato di intervenire, ma il responsabile Onu Akashi ha rifiutato per paura delle conseguenze che l'intervento avrebbe avuto sul personale dell'Unprofor. Non potrebbe esservi logica pi circolare. In compenso, per un giorno e una notte gli aerei Nato hanno fatto un gran rumore su Sarajevo: non piovve, ma tuon formidabilmente. A Sarajevo la vita riaffiora e sprofonda con una rapidit ormai consumata, seguendo gli accidenti bellici come si scappa in vacanza dagli acquazzoni estivi, e si torna al primo raggio di sole. Marted si inaugurava una nuova mostra del pittore Afan Ramic: bastava evitare il ponte di Skenderija, e rasentare i muri del lungofiume, per arrivarci felicemente. C'era una gran folla quasi allegra; i quadri sembravano molto belli, ma andata via la luce. Sono sfollati con calma, al lume di qualche fiammifero, ministri e guardie del corpo, studenti e signore eleganti, ambasciatori di grandi potenze e colonnelli della legione straniera.

Ho ricordato a Ramic, che era del resto imperturbabile, la fiaccola di Guernica: noi accenderemo i nostri accendini. Bench provi a dire le cose di qui come meglio posso, continuo a capire che resto lontanissimo dal renderne l'idea. Manca l'odore, il rumore, l'aria. Sono solo istantanee: quella di un giovane senza una gamba, per esempio, che risale lentamente e con calma la strada del cimitero urbano mentre tirano i cecchini. Manca il silenzio della notte. Bench l'indecente fragore delle bombe e delle raffiche lo rompa continuamente, il silenzio della notte di Sarajevo torna ogni volta a richiudersi, come un mare calmo infastidito da qualche sassata. Solo i cani si fanno sentire, dopo le esplosioni, e anzi a volte si ha l'impressione che si mettano ad abbaiare prima, come se le presentissero. O forse l'artiglieria pesante spara sui cani che abbaiano, capricciosa com'. In una comune di queste notti di Sarajevo si contano almeno venti-trenta esplosioni di granate e di bombe, di quelle che fanno tremare i vetri, se ce ne sono ancora, e centinaia di raffiche di mitraglia: poi ci si addormenta. Noi forestieri abituati come siamo al rumore di fondo, e a figurarci il silenzio solo come un vuoto e un'attesa, aspettiamo il frastuono: ma a poco a poco il silenzio cos pieno la vince sul fragoroso e miserabile alfabeto Morse degli scoppi, delle raffiche e dei tiri. Il cielo di Sarajevo poi, libero dallo smog da pi di tre anni, sempre pi splendido e vicino. La notte dell'otto maggio c'era una perfetta mezza luna crescente. Il telegiornale cetnico aveva dato, come ennesima notizia, un comunicato sulla strage di Butmir: i musulmani bosniaci, aveva detto lo speaker,

hanno ammassato i corpi di soldati, morti o feriti sul fronte, nella strada, e l avevano fatto riprendere la messinscena. Non ha aggiunto altro. D'altra parte gli spettatori del suo lato avevano potuto vedere al telegiornale bosniaco la macelleria dei corpi sanguinanti e denudati, compresi quelli di donne anziane. Anche per la strage di Markale i serbo-bosniaci di Karadzic avevano sostenuto che i morti fossero comparse pagate, o salme riesumate. Per la ragazza diciassettenne Maja Djokic, una delle pi belle e amate di Sarajevo, ammazzata da una granata un mese fa, hanno detto che l'avevano uccisa i bosniaci dopo averla violentata, perch voleva passare dal lato serbo. Questo gbbelsismo primitivo e ripugnante uno dei rumori quotidiani sui quali ogni notte scende il silenzio, e brilla specialmente la luna di Sarajevo.

QUI L'ONU E' UNA SLOT-MACHINE (L'Unit, 14 maggio 1995)

Mentre scrivo, nel primo pomeriggio, un bombardamento pi forte sta colpendo la parte nuova della citt e il vecchio centro: granate sparate a ripetizione, con un fragore rotolante, come nel finale dei fuochi d'artificio. Non so quale sar il conto di questa pirotecnia. Anche il lavoro degli "snajper" sulle strade della citt si fa pi intenso e sbrigativo: all'incrocio del Parco della Presidenza ai tiri di fucile si sono aggiunte le raffiche di mitraglia, contro la corsa affannata dei passanti.

Si noti che il semaforo continua severamente a funzionare, con i suoi divieti rossi e i suoi omini verdi che sembrano bersagli del tiro a segno. Il soldato francese ridotto in fin di vita gioved era in un gruppo di anticecchinaggio al solito punto mortale di Marindvor: in un mese, i militari francesi morti a Sarajevo erano stati gi cinque. L'Holiday Inn, il grande albergo dei giornalisti che ha goduto per tre anni di una triste pubblicit, e ne ha fatto un impiego tetro ed esoso 250 marchi a stanza, senza bagno e con bombe - ormai vuoto. La tensione pi alta attorno al monte Igman e all'aeroporto chiuso da pi di un mese. La strada dell'Igman e la zona dell'uscita dal tunnel sotterraneo sono fittamente battute dal fuoco dei serbobosniaci, i quali hanno spinto all'estremo le loro pretese sull'aeroporto e le vie d'accesso alla citt. Da gioved, gli stessi mezzi dell'Onu non possono compiere alcun tragitto senza chiederne l'autorizzazione con 24 ore di anticipo ai cetnici, senza di che vengono colpiti. Da una parte, una prepotente e provocatoria intenzione di rinegoziare tutti i termini (anche economici: c' da tutte le parti una certa avidit nei confronti dell'Onu, che, non servendo ad altro, pu fare almeno da slot-machine per gli opposti giocatori d'azzardo) degli accordi sulla presenza dell'Unprofor e sullo status della capitale. Dall'altra, una stretta preventiva contro la possibile intenzione della Bosnia, e soprattutto dei suoi responsabili militari, di forzare una via di apertura per Sarajevo. Qualcuno si aspetta una precipitazione nel giro di pochi giorni, altri in tempi pi lunghi.

Ma non si intravede nessuna nuova mediazione, come quella efficace per met e non priva di un lato ameno che, nello scorso dicembre, port l'expresidente Carter in una ex-Jugoslavia di cui aveva un'idea pallidissima. Pressoch tutti pensano che ogni conclusione, pi o meno provvisoria, esiga ormai un costo di sangue capace di spostare l'equilibrio attuale fra gli interessi di potenza e la commozione dell'opinione pubblica. Si aggiunga che quasi nessuno a Sarajevo incline a prendere sul serio l'offensiva croata della scorsa settimana: la facilit con cui si compiuta e la sequenza dei fatti inducono tutti a vedervi una combinazione teatrale fra Tudjman e Milosevic, che desse soddisfazione al primo senza far perdere la faccia al secondo, e contentasse i partner internazionali comuni. Nemmeno le bombe spedite su Zagabria dal cetnico della Krajina Martic intaccano la convinzione su questo scenario: e del resto a Sarajevo (o a Gradacac dove le granate stanno facendo ogni giorno morti e feriti; o a Zepa, a Tuzla, a Gorazde) qualche granata caduta su Zagabria non riesce a sembrare granch. La capitale pi chiusa che mai: n aerei n convogli la raggiungono; la via dell'Igman bombardata; il tunnel preso di mira; gli scarsissimi avventori minacciati all'aeroporto. Un gruppo di sei italiani, volontari dei Beati i costruttori di pace, compresi veterani di Sarajevo come don Albino Bizzotto e Liza Clark, arrivati fortunosamente gioved per la strada dell'Igman, sono stati bloccati all'aeroporto per due giorni e due notti, con la minaccia di essere presi di mira dalle postazioni serbo-bosniache, sia che avessero tentato di procedere verso la citt, sia che avessero provato a tornare indietro. Il pretesto per questo sequestro un presunto rifiuto di consentire a un'ispezione, di fatto non richiesta e non prevista.

Gli italiani stanno comunque bene e non hanno preoccupazioni per la propria incolumit. L'episodio un altro segno della stretta soffocante su Sarajevo e i suoi movimenti, che ha reso impraticabile, se non con il pi alto azzardo, qualunque scambio tra la citt e il resto della Bosnia. Esso coincide con notizie non ufficiali, ma certe, su battaglie importanti nella seconda cerchia di alture attorno a Sarajevo, come a Treskavica, con un costo alto di vite, e un esito sfavorevole ai bosniaci. Questi scontri hanno un andamento da prima guerra mondiale: i bosniaci attaccano e riconquistano alcune quote, dopo di che i serbo-bosniaci contrattaccano con una forte prevalenza di artiglieria, e i governativi sono costretti a ritirarsi dopo aver lasciato sul terreno un gran numero di caduti - ragazzi, per lo pi, neanche ventenni. Ferma ogni trattativa e derisa ogni allusione all'intervento internazionale, la strada di un'azione di forza, pi o meno lucida, pi o meno illusoria e disperata, sempre meno una scelta per il governo bosniaco, sempre pi una conseguenza obbligata. Questo significa, nel resto del mondo, una cosa sola, bench angosciosa, per chi non voglia essere attivamente complice della sopraffazione armata serba: revocare l'embargo sulle armi, permettere alla Bosnia di armarsi adeguatamente. Questa la conseguenza inevitabile del fallimento, se non peggio, della legalit internazionale sulla BosniaErzegovina, e della trasformazione, dopo addirittura tre anni, di una molteplice e sostanziale aggressione in una guerra pi o meno regolare, ridotta per a una parodia dalla enorme sproporzione di potenza materiale fra gli eserciti opposti. Se non ci si commuove per lo stillicidio sarajevese, si ripristini almeno una parvenza di libero mercato: qui la gente ha visto il grande

spettacolo dei Patriot e delle "Tempeste sul deserto", e fa molta fatica a spiegarsi che le manchino i fiammiferi, e una qualche transenna che oscuri almeno la vista di mamme e bambini che attraversano una strada. Bisogna che dovunque (cio, intanto, in Italia) si parli di questo, e si costringa con ogni cortesia chi ha voce in capitolo a dichiarare la propria posizione, e le ragioni che la sostengono. Il redattore che riceve questo articolo pu, se vuole, finirlo qui; oppure continuarlo ancora un po' con una storia che c'entra solo alla lontana. Me l'ha raccontata ieri a un tavolo di bar un anziano intellettuale, un uomo di formato, di madre ortodossa e padre cattolico, di cui sono diventato amico. Io ho abbandonato mi ha detto il mio duro materialismo, in questa guerra, per effetto di una sola notte. Gli ho offerto una birra sarajevese e un caff. Ecco la sua storia. Ero amico di Vedran Smajlovic, il grande violoncellista, ora suona nella Philarmonica di Londra. E' ritratto in un poster famoso mentre suona in mezzo alla rovina della Biblioteca distrutta. Stavamo seduti a questo tavolo, ogni giorno, a fumare e a parlare, al buio. Vedran andava a suonare nelle strade, sotto le bombe. Qualche giorno ero il solo a sentirlo. Dopo la strage della Vase Miskina and l, e suon l'"Adagio" di Albinoni. Era il tempo pi duro. La gente stava nei rifugi. Mi buttavo nelle strade, come un randagio, in cerca di una sigaretta.

Una sera usciamo di qui, e andiamo fino a casa sua. Eravamo fermi a salutarci, quando arriva una soldataglia decisa a far saltare la saracinesca di un negozio per svuotarlo. Ci spingono con le brutte nell'androne. Mentre eravamo l, esce un vicino, saluta Vedran con entusiasmo, e ci invita nella cantina-rifugio della casa. Gli era nata una bambina, lui aveva messo da parte per festeggiarla ogni ben di Dio, cos stemmo con gli altri nel rifugio a mangiare, bere, cantare. Si fece tardi, non potei tornare a casa. Fu l'unica notte in cui non andai a dormire a casa mia in tutti i tre anni. Quella notte una granata ha distrutto due stanze del mio appartamento. Ma non questo. La mattina dopo incontro un mio amico, un pittore, mi saluta con animazione particolare, e mi dice: "Stanotte ho sognato tua madre, e mi chiedeva ansiosamente: Dov' Nikola? Dov' stanotte Nikola?". Capisci, l'aveva sognata proprio quell'unica notte che avevo trascorso fuori casa. Lui non conosceva neanche mia madre, l'aveva vista una volta in tutto, in una circostanza speciale. Lui era seriamente malato, in un semicoma; mia madre era ricoverata nello stesso ospedale, e poi l sarebbe morta. Gli feci con lei una breve visita. Lui si risvegli brevemente, e in quella pausa vide me e mia madre, per l'unica volta. Questa la storia. Intanto sono stato zitto, se non per fargli portare una seconda birra sarajevese.

Mi fa un'impressione mista, quest'uomo aitante e austero. Gli dico: E ora, sei credente?. Ci pensa per un po'. Dice: Ora io non sento pi secondo quel duro materialismo. Non direi di essere un credente, non ho una fede: semplicemente, ho perso il suo contrario, per cos dire.

IL MIO GIORNO DA CANI (L'Unit, 17 maggio 1995)

Mille proiettili di artiglieria pesante nella sola mattinata, decine di migliaia di colpi di mitraglia e di fucile. Il finimondo cominciato alle otto, con un fuoco di artiglieria esasperato e raffiche ininterrotte dalle alture a nord-est, tenute dai serbobosniaci, a poche centinaia di metri dai quartieri di Kovaci e di Logavina, e dal vecchio centro del bazar. Nel giro di tre quarti d'ora il fuoco si era contagiato a tutta la cerchia di colli e monti attorno alla citt, concentrandosi sul pendio del cimitero ebraico e sul quartiere di Grbavica. Qui la prima vittima stata una bambina. Suo fratello moribondo all'ospedale di Kosevo.

L'ospedale stesso stato colpito. Nella mattina di sole, la pirotecnia stata impressionante. Per un paio d'ore sembrato che tutti coloro che dispongono di qualche bocca di fuoco, dai cannoni alle pistole, e sono tanti, abbiano deciso di scaricarle all'ingrosso. Le nuvole chiare delle granate e il fumo nero delle case incendiate si sono levati verso un cielo fitto di voli di uccelli spaventati. Cos il marted sarajevese tornato ai vecchi tempi peggiori. Le persone si sono affannate al telefono per dare e ricevere notizie dei propri familiari da un capo all'altro della citt, poi si sono chiuse nelle cantine o, in mancanza, nei gabinetti o nei ripostigli domestici lontani dalle pareti esterne. Radio e televisione hanno ordinato di scendere nei rifugi con coperte e vivande e di non uscire nelle strade. In questi pazienti e penosi capannelli di reclusi si discusso di che cosa stesse succedendo: un'ordinaria mattinata da cani gi: e dove si rifugiano i cani sotto un simile temporale? o l'esordio dell'annunciata battaglia per Sarajevo? Difficile rispondere, per ora. I lettori degli scorsi giorni sanno che la tempesta era nell'aria, e che gli assedianti cetnici hanno tentato di forzare in ogni modo uno scontro che anche dalla parte della citt asfissiata viene dato per inevitabile, bench forse in tempi meno stretti. E' certo che l'attacco di oggi venuto dall'artiglieria serbo-bosniaca. E' possibile che mirasse a sfondare le trincee a nord-est, difese solo da soldati regolari armati di armi leggere, per l'impossibilit di piazzare altre armi su un pendio brullo ed esposto alle postazioni cetniche sovrastanti. Qui - sulla collina di Grdonj e sull'abitato di Sredrenik - il fuoco stato intensissimo.

All'altro capo del mirabile anfiteatro naturale sarajevese, a Grbavica, il bombardamento venuto soprattutto dal promontorio di Debelo Brdo, sulle falde occidentali del monte Trebevic; e l si anche concentrata la sparatoria di risposta bosniaca. Su quel picco sventola la bandiera di una piazzaforte che si dice tenuta da un gruppo speciale di russi; secondo voci di cui non so controllare il fondamento, i russi negli ultimi giorni hanno sostituito in gran parte il cecchinaggio serbo dal punto pi sanguinoso, l'antico cimitero ebraico. Quest'ultimo - visto innumerevoli volte in televisione - fornisce da anni con le sue meravigliose lapidi il riparo pi sicuro dai cecchini, appena a ridosso dello spiazzo di Marindvor. Di fronte al meritorio ma incredibilmente tardivo sforzo di drizzare un muro di container per difendere il traffico dei passanti e delle vetture sul grande viale che va alla Citt Nuova, progettato e in minima parte compiuto dai militari dell'Onu, i cecchini si spostano qualche decina di metri pi su, in un boschetto risparmiato finora dalla distruzione. Di l tornano a dominare la strada e a seminare morte a piacere. Le notizie sulla brigata di volontari russi vengono da pi fonti, compreso il racconto di sarajevesi serbo-bosniaci catturati, e la testimonianza di volontari russi arresisi a soldati bosniaci regolari in una sortita notturna. A Grbavica, dove il cecchinaggio cetnico e la partecipazione venatoria internazionale non vengono nascosti, ma anzi ostentati dalla televisione di Karadzic anche quando i bersagli sono bambini (bersaglio pi piccolo, vanto pi grande del tiratore), fra i cecchini c' anche una squadra di greci, decorati perci pubblicamente da Karadzic, e il notevole caso di un volontario giapponese.

Costui ha spiegato alla T.V. serbo-bosniaca di essere venuto per guarire da un amore infelice; cos la formula: si spara per una delusione amorosa va appena corretta nel pi altruistico: spara per una delusione amorosa. Il nazista serbo Seselj venuto a sua volta da Belgrado a fare il tiro a segno a Sarajevo, e anche lui stato mostrato in T.V. mentre d prova della sua mira: sotto il suo fucile caduto nella via Dinarska un passante. Unico difetto dell'impresa: il morto ammazzato si chiamava Milo Vasilievic, ed era un fornaio di origine serboortodossa, come lo sportivo sparatore. La presenza indubbia, a parte il numero, di specialisti russi fratelli di fede ortodossa e panslava, e insieme mercenari in valuta cos inosservata fuori della Bosnia, un'ulteriore ragione per riflettere alla presunta sapienza geopolitica dell'Occidente che ha accettato di sacrificare l'umanit e il diritto in Bosnia in nome del realismo. Quel realismo ha, per ora, portato sulle sponde dell'Adriatico la Russia pi inaffidabile della storia, impresa mancata all'impero degli zar e a quello di Stalin. In futuro, quel realismo potr fare di pi: regalarsi un conflitto assai pi vasto. Intanto, stata ancora Sarajevo a sperimentare un giorno di bombardamento all'ingrosso, di paura - sacrosanta paura, di cui non vergognarsi, da non nascondere - e di nausea. Gli Awacs della Nato non hanno mai smesso di far sentire il loro monotono rombo dall'alto dei cieli. I loro celestiali congegni hanno visto tutto, registrato tutto, filmato tutto. Archiviato tutto.

IN TRE ANNI D'ASSEDIO LA VITA E' DIVENTATA MOLTO PIU' PREZIOSA (L'Unit, 18 maggio 1995)

Dopo il putiferio di marted, Sarajevo aveva preso la mattina di ieri quasi con sollievo: solo qualche decina di granate, oltre alla immodica dose quotidiana di cecchini. I venditori di sigarette erano tornati in strada, benedetti dai sarajevesi, per i quali il fumo davvero l'aria che respirano. Meticolosi sismografi, i venditori di sigarette hanno alzato il prezzo delle Drina da un marco al pacchetto a uno e mezzo: effetto del bombardamento del giorno prima, che la inappuntabile contabilit dell'Unprofor ha certificato a pi di mille ordigni di artiglieria pesante. Dalle 13 di ieri, c' stata la replica. Occorre spiegare che le alture attorno a Sarajevo da cui si spara e in cui, come a Grbavica, si combatte, stanno al centro cittadino come il Gianicolo a Roma o piazzale Michelangelo a Firenze. Sul pendio del cimitero ebraico, dove si ripetuta per ore la battaglia di ieri, i cetnici hanno martellato con tiri di tank le posizioni bosniache. Dalla casa in cui scrivo alle postazioni di artiglieria cetnica ci sono appena 400 metri in linea d'aria: gli obici ci passano sopra avvitandosi nell'aria con un sibilo di frusta, che improvvisamente tace prima del rimbombo finale, riecheggiato a lungo dalla conca in cui si sdraia la citt. Sono bombe teleguidate Maljnka, fabbricate in Russia, o V.B.R., jugoslave.

Del tutto ignaro di cose militari, resto convinto da quello che vedo e sento che l'iniziativa di questa stretta degli assedianti: che vogliono anticipare lo scontro, chiamando allo scoperto l'esercito bosniaco dov' pi debole e meno armato. Non pu che apparire miracolosa la sproporzione fra la violenza del bombardamento e il numero limitato di vittime. Resta sbalorditiva anche per me. Penso ad almeno due spiegazioni. La prima, che la gente si fatta esperta e questo conta. Ma c' qualcosa che conta di pi, in questo enorme e perverso laboratorio di psicologia umana cui forzata Sarajevo. I pochi mesi trascorsi con l'elettricit, con le ore di acqua e di gas, con il ritorno della buona stagione, hanno fatto risalire il prezzo della vita. I sarajevesi si sono riattaccati alle proprie esistenze, non azzardano ora quello che facevano con un'alzata di spalle un anno fa, sono sopravvissuti a tre anni troppo orribili per non rendere preziosa la vita che ne uscita. Lentamente, sono venuti fuori da quella specie di abbandono che aveva confuso davanti a loro la frontiera fra la vita e la morte, fra la sopravvivenza e la vita. Sono tornati a curarsi i denti, a riparare le finestre. Risprofondare in quell'abbandono, ora un incubo intollerabile. Sono ridiventati pazienti, ragionevoli, seduti nelle case e nei rifugi. Ma tutti sanno anche, che quando il bombardamento si riabbattesse sulla citt con tutta la potenza di fuoco di cui gli assedianti dispongono Sarajevo diventerebbe un mattatoio. Ora non si vede che cosa possa scongiurare il peggio.

Nuove mediazioni, Carter, iraniani e greci sono per ora fuori dall'orizzonte visibile. L'inerzia e la vilt delle Nazioni Unite non sono mai state cos plateali. Esse ignorano risoluzioni, impegni solenni, ultimatum, promesse.

BATTAGLIA A SARAJEVO SULLA COLLINA GRASSA (L'Unit, 19 maggio 1995)

Bench non abbia fatto niente per cercarlo, uno "scoop" mi venuto ieri incontro attraverso un duplice caso. Il primo, che un giovane studente di cui ero amico sia ora soldato, e abbia combattuto nei due giorni scorsi nella battaglia sarajevese di Debelo Brdo. La seconda, che una sparatoria mi abbia fatto riparare nello stesso caff in cui lui e suoi compagni stavano godendosi il giorno di riposo. Cos ho avuto il racconto vivace e quasi allegro della prima battaglia regolare condotta a Sarajevo. Eccolo. Erano convinti di prenderci di sorpresa.

Pensavano di sfondare le nostre linee, di prendere Debelo Brdo [la Collina grassa] che una chiave decisiva per il controllo della citt, e di arrivare fino a ridosso della base francese, a Skenderija cio, in pratica, fino all'altra riva del fiume, di fronte alla nostra Presidenza. Hanno cominciato con un cannoneggiamento furioso, marted mattina. Tiri di carri armati, di mortaio da 62, da 82. Ci hanno martellati per ore. Noi siamo attestati su una serie successiva di linee. Siamo rimasti in trincea, al coperto, rispondendo al fuoco con le armi leggere e con i mortai mobili. C'era solo da resistere, e aspettare. Questa guerra cos, loro hanno tutta l'artiglieria che vogliono, ma per guadagnare anche un metro di terreno, bisogna che vengano fuori gli uomini, bisogna arrivare alle trincee. I cannoni, da soli, non espugnano le trincee. Una loro granata caduta, chiss per quale combinazione sventurata, proprio dentro una nostra trincea, e ha ucciso quattro dei nostri soldati. Ma stato un caso, un colpo di fortuna per loro. A un certo punto sono venuti all'attacco, urlavano, erano come ubriachi. Credevano che avessimo abbandonato la nostra prima linea. Li abbiamo falciati mentre venivano gi, poi siamo arrivati al vero corpo a corpo. Dei loro russi, abbiamo ammazzato il capo, che si faceva chiamare Bjelj Vuk, Lupo Bianco. Si sono trascinati il suo corpo dietro le loro linee, ma i cadaveri di almeno altri tre russi sono rimasti in mano nostra, coi documenti e tutto.

Alla fine noi abbiamo avuto dieci morti, i quattro della granata, due uccisi dai cecchini, altri quattro nel combattimento. Dei loro sono morti certo pi di venti, forse una trentina e i feriti sono centinaia. Lui il soldato mi indica uno degli astanti, un giovanotto dall'aria tranquilla ha ammazzato un cetnico spaccandogli la testa. Un vero cetnico, di quelli belgradesi di Seselj, con la barba e tutto. Una granata aveva spostato violentemente i sacchi di sabbia, lui era rimasto quasi incastrato, con una spalla slogata; stava cercando di tirarsene fuori. Il cetnico gli si buttato addosso, lui ha preso il fucile e gli ha rotto la testa col calcio. Ci sono stati scontri al coltello. Alcuni si sono arresi, hanno alzato le mani, bestemmiavano contro quelli che gli avevano detto che noi eravamo scappati e le trincee erano vuote. Altri sono scappati. I loro morti sono rimasti sul terreno. I feriti erano moltissimi. Hanno fatto un fuoco enorme per coprire il tentativo di avanzare a recuperarli, ma non ci sono riusciti, n il primo giorno n il secondo. [Ieri, gioved, da parte bosniaca si era ordinato un cessate il fuoco totale, salvi nuovi attacchi nemici, n.d.r.]. Il secondo giorno stato pi duro del primo continua. Eravamo l da due giorni e due notti, non avevamo pi mangiato n bevuto, il cannoneggiamento era fortissimo. Ma il loro morale era crollato. Il nostro era cresciuto. A Grbavica i nostri erano riusciti a distruggere una "Praga", un blindato col cannone che batteva micidialmente le nostre posizioni a Debelo Brdo.

Le posizioni sul terreno alla fine sono rimaste quelle che erano, ma sono loro ad aver fallito. Ieri sera, alle 10, siamo venuti via. Per il cambio gli uomini non mancano dalla nostra parte, anzi ce n' d'avanzo. Di norma facciamo turni di dodici ore al fronte, poi veniamo a casa; o di due giorni per chi va pi lontano e resta poi a casa altri due o quattro giorni. Ieri e l'altro ieri non c' stato bisogno di nessuna mobilitazione straordinaria. Come va? chiedo all'altro giovanotto dall'aria tranquilla. Sono diventato blu per quei maledetti sacchi di sabbia, scherza. Poi aggiunge che anche il mio primo interlocutore ha ammazzato almeno uno dei nemici, e che la cosa pi fantastica stata l'affare del francese. I militari francesi dell'Onu hanno un posto d'osservazione vicinissimo al terreno battuto dall'artiglieria serba, ed erano rimasti per ore in mezzo al fuoco forsennato, in panico pieno e comprensibile: Cos quando i cetnici sono tornati indietro e siamo arrivati fino alla loro postazione, un soldato francese mi si buttato addosso e mi ha dato un bacio, jebentj majka. E' un'imprecazione, per altro usatissima anche nel resto della conversazione; a volte ha anche un tono perplesso e benigno. Ieri a Sarajevo la sarabanda dell'artiglieria non si ripetuta. E' stata sparata qualche decina di granate. Una ha ammazzato un uomo - un eufemismo: l'ha spappolato - e ferito quattro persone in un mercato della Citt Nuova. Le granate vanno pazze per i mercati nelle ore di punta. Accanto alla Presidenza, un signore sulla cinquantina stava guardando i militari dell'Unprofor che sistemavano una parete protettiva di

container: lui guardava loro, il cecchino ha inquadrato lui e l'ha buttato gi come un birillo. Un altro uomo stato ucciso da un cecchino. Scaramucce sono scoppiate qua e l, anche fragorose, ma non sono arrivate all'incendio.

L'INCUBO DELL'ARMA CHIMICA PARALIZZAVA LA CITTA'. ORA E' ARRIVATO IL TERRORE (L'Unit, 25 maggio 1995)

Il bombardamento di ieri a Sarajevo ha replicato la tremenda giornata dell'altro marted. La sola ripetizione di una tale quantit di fuoco un incubo. Per di pi ieri la parte di bombe e proiettili che sono state indirizzate sui luoghi di abitazione della citt rispetto a quelli riservati alle zone occupate dai combattenti stata decisamente superiore. Sono state impiegate dai serbo-bosniaci bombe di aereo adattate, di dimensioni e potenza micidiali, proiettili chimici ai gas tossici e bombe al fosforo: se i gas hanno un potere irritante paragonabile, fatte le proporzioni, a quello dei lacrimogeni, il fosforo ha una drammatica potenza e durata ustionante incendiaria. Un'ulteriore scalata, dunque; del resto la voce minacciosa di un ricorso ad armi chimiche girava da tempo, rendendo ancora pi spaventosa l'attesa della citt. Appena tornato da Sarajevo, ho provato l'effetto anestetizzante e disperante che la breve distanza assicura alla notizia: Un'altra giornata pesante per Sarajevo, dove si contano tre morti e sei feriti.... Il bilancio di un circoscritto accidente stradale.

A questo si riduce - inevitabilmente? forse - una giornata di cannoneggiamenti ed esplosioni, di una granata ogni pochi secondi, di una grande citt colpita nelle sue case, nei negozi - il supermercato Robna Kuca, in pieno centro - negli uffici pubblici, le scuole, l'ospedale, la Presidenza... Una grande citt costretta a rintanarsi nei rifugi, negli scantinati e negli sgabuzzini; costretta a odiare e temere le proprie stesse case, balconi, finestre come luoghi fragili e fatali. Strade deserte, se non di poveri poliziotti, di barboni spaventati o noncuranti, di cani e di uccelli sbandati. Tre granate sono cadute anche a poca distanza dall'ambasciata italiana, sul cimitero monumentale bellissimo che incappuccia la collina di Alfakovac. Cos i cetnici di Karadzic hanno festeggiato la marcia indietro di Milosevic sulla questione del riconoscimento della Bosnia, strizzandosi l'occhio: il vecchio Slobodan li ha fregati tutti un'altra volta. Io non so come stiano le cose, e inclino piuttosto a pensare che il vecchio Slobodan, in coda per il tribunale contro i crimini di guerra, tenga il piede in due scarpe: la situazione permettendo, sarebbe pronto a liquidare (magari a mano armata, la mano svelta, per esempio, di specialisti come Arkan) Karadzic e gli altri dell'allegra brigata: intanto, se l'opposizione belgradese alla Seselj, o quella del clero ortodosso, gli sembrano troppo imbarazzanti, ancora pi pronto a far ballare sulla sua corda i pellegrini diplomatici degli Usa e del resto del mondo libero. In particolare, attaccatissimo al guinzaglio russo e i russi a loro volta sono al momento pi interessati a usare la Bosnia, la sua libert e le sue vite umane come una carta del gioco al rincaro con l'Occidente.

Mentre le autorit del mondo garantivano con enfasi per Milosevic, e passava a Sarajevo qualche ora di tregua di fatto - cio di qualche decina di granate tutt'al pi, qualche centinaio di tiri di "snajper", e cos via - le bande di Karadzic andavano scrupolosamente a riprendersi i mortai pesanti, i cannoni e i tank posti sotto controllo delle Nazioni Unite, i cui soldati si limitavano a scansarsi: li hanno custoditi per qualche mese, ch nessuno li rubasse, e li hanno riconsegnati ben oliati ai titolari. Nei giorni scorsi, quando riferivo dello scetticismo sarajevese sulle promesse americane a proposito della disponibilit di Milosevic, mi si obiettava che, da l, non avevo un quadro adeguato del contesto internazionale. Era vero. Da l, ero troppo assordato dal rumore dei botti. Ora che sono tornato al calduccio, li sento gi meno. Ancora un paio di giorni e di notti senza bombe, senza facce di bambine, e con la Mamm, e mi sar riappropriato perfettamente del contesto internazionale.

UN PASSO AVANTI O UNA FOGLIA DI FICO? (L'Unit, 26 maggio 1995)

Dunque l'Onu e per suo mandato la Nato, hanno formalmente attuato l'impegno contenuto nell'ultimatum di ieri. C'erano molti precedenti impegni solenni volgarmente elusi, dunque un passo avanti. C'erano per anche precedenti di raid assai rumorosi, ma ridicoli per gli effetti: un tank sgangherato colpito una volta, un paio di pozzanghere aperte in una pista, e riparabili in mezza giornata, un'altra volta.

Il fatto che l'Onu abbia ribadito che si trattato di un avvertimento e che il governo bosniaco abbia auspicato che dalle azioni simboliche si passi all'efficacia pratica, fanno dubitare che anche stavolta il fumo abbia sostituito l'arrosto. Un altro precedente c', che dopo il fumo degli aviogetti Nato era venuto l'arrosto delle ritorsioni serbo-bosniache: assalti pi spietati sulle zone protette - fu cos a Gorazde - e sequestri di militari Unprofor trattati come ostaggi. Nei giorni scorsi Karadzic, che non bada a spese quando annuncia le sue intenzioni criminali, ha ripetuto che il personale delle Nazioni Unite verr trattato da nemico. Il ministro degli Esteri spagnolo gli ha replicato, con linguaggio e argomenti abbastanza inconsueti, che la Spagna (che ha in Bosnia un forte contingente di militari Onu) avrebbe reagito con i suoi bombardamenti: un fatto che in Spagna agli sgoccioli la campagna elettorale, ed certa la disfatta del governo. In Francia, dove la campagna elettorale finita, e il nuovo premier Jupp ha titoli meno negativi dei suoi colleghi rispetto alla Bosnia, la voglia di ritiro cresciuta irresistibilmente, e ha spinto a una formazione degli ultimatum decisamente stramba: O vi comportate bene, o ce ne andiamo. Grazie, prego, si accomodi. Negli ultimi giorni, continuando in un'altalena ormai triennale che spesso vale un gioco delle parti, gli Stati Uniti sono tornati ad alzare la voce. Cos, dopo un lungo periodo di umiliante vilt dell'Unprofor, e soprattutto del vice di Boutros Ghali per la exJugoslavia, Yasushi Akashi, che si preso la briga di mettere il veto a ogni richiesta di

far intervenire l'aviazione, in ottemperanza alle delibere dell'Onu, ora i raid ci sono stati. Le prossime ore mostreranno se si sar trattato di una mezza misura peggiore di ci cui vuole porre riparo; e, che il vero punto nevralgico di questo momento, se sar servita da premessa a quel ritiro della presenza Unprofor che in tanti non vedono l'ora di decretare. Se il ritiro non ancora avvenuto, solo perch il costo finanziario (e umano) dell'operazione eccede quelli del tran tran corrente. E' vero del resto che l'inerzia del tran tran vicina alla fine. Il rifiuto di abrogare l'embargo alle armi per i bosniaci, iniquo (e peggio) dal momento che coinciso con l'inadempienza dell'Onu alle sue solenni garanzie, verr forse abbandonato nel momento in cui qualunque pretesto sembrer buono alla comunit degli Stati pur di squagliarsela. Questa tragica situazione il frutto della finzione ipocrita che assegna all'Onu una pretesa neutralit, e la confusione fra amor di pace e complicit con l'aggressione. Poich non di guerra e pace si tratta, ma della polizia chiamata a intervenire in un assalto di strada. Sarebbe bene convincersene, alla buon'ora. Tanto pi in Italia, dove la storia della Prima Repubblica del quieto vivere non affatto finita, bench la geografia comprenda gli hangar di Aviano e di Gioia del Colle.

IL LUOGO COMUNE DELLA NOSTRA NEUTRALITA' (L'Unit, 27 maggio 1995)

Pi di tre anni non sono bastati, non dico a fare ci che si doveva per la Bosnia, ma a dire le cose come stanno e a costringere chiunque abbia voce in capitolo a dichiararsi. Vilt - seccante usare questa categoria, ma non ce n' altre - e ignoranza continuano a trincerarsi dietro gretti luoghi comuni (i Balcani delle botte da orbi) o dietro sentimenti pieni di verande, gerani e doppi servizi (l'Amore per la Pace) o dietro ricostruzioni pigre del passato che, in nome della lotta di liberazione nazionale di mezzo secolo fa, restano attaccate al suo rovescio cetnico, grande serbo e nazionalcomunista di oggi. Altre ovviet - tutti hanno la loro parte di colpe, tutti hanno commesso qualche atrocit - vengono evocate con grave tentennar di capi. A sinistra questa confusione particolarmente maledetta. Una sinistra che stia dalla parte del pronto soccorso, del diritto e della libert dovrebbe incatenarsi nelle piazze, non per accettare, ma per rivendicare l'impiego della forza Onu - e Nato - contro le bande serbo-bosniache, a difesa dei cittadini bosniaci e della Repubblica di Bosnia-Erzegovina. Dovrebbe manifestare contro il governo russo e il suo cinico sostegno ai criminali di guerra. Dovrebbe imporre al proprio governo, e alle istituzioni internazionali, la scelta netta fra tener fede agli impegni delle Nazioni Unite attuandoli, o revocare un embargo sulle armi che serve solo a tener fermi

e inermi i bosniaci mentre i cetnici dilapidano sulle loro teste una potenza di fuoco spropositata. Ora la Nato ha compiuto dei raid su Pale. Bisogna immaginare che sapesse quello che faceva. Che sapesse che cosa sono i bar di Sarajevo o di Tuzla, appena la pioggia di granate si fa pi rada: la folla di ragazze e ragazzi stretti in crocchi, che si scambiano sguardi, appuntamenti, ultimi motivi di canzoni e complimenti per gli occhialini neri da sole di buona imitazione. Il mucchio che attira irresistibilmente le bombe serbe, come quello dei mercati, o dei cortili in cui giocano i bambini. La ritorsione delle bande di Karadzic e Mladic stata orrenda, e infame la rappresaglia contro i militari dell'Unprofor: ma era nel conto, questa e molto pi che questa. L'Onu, e per suo mandato la Nato, pronta a seguire le conseguenze della sua scelta, e a soffocare, come pu, il gioco al rincaro dei cetnici? O si prepara a dichiarare di aver esaurito, per ora, i suoi propositi, e a tornare negli hangar, lasciando ai cetnici una mano ancora pi libera e pi pesante? C' una finzione di fondo, nell'atteggiamento delle Nazioni Unite verso la Bosnia, che ha consentito l'ipocrisia dell'Unprofor, il dileggio della legalit internazionale, e il martirio distillato del popolo bosniaco e delle sue legittime istituzioni. Questa finzione la neutralit, e il suo corredo di dichiarazioni secondo cui l'Unprofor non l per fare la guerra. Cos un compito di polizia internazionale e di interposizione efficace viene travestito da fini impropri, e perci facili da rinnegare. Com' lontano il Kuwait! A ricordarglielo i conversatori del realismo geopolitico ripiegano presto dietro argomenti naturalissimi: eh, purtroppo la Bosnia montuosa. L c'era il deserto (e sotto il deserto, poi, il petrolio).

Pur in una situazione del tutto arbitraria e imprevedibile com' stata resa quella della exJugoslavia, dove una guerra internazionale non affatto l'ultima delle eventualit, io credo che esistano oggi solo due possibilit opposte. La prima che, con la mera prosecuzione del cedimento internazionale, magari in forma variata - compreso il ritiro del contingente Unprofor la Bosnia venga abbandonata al suo destino di genocidio politico e fisico: ridotta in recinti da zoo, sfollata in concentramenti di displaced persons, spedita in qualche drappello a cercarsi una sua Israele fuori dai piedi dell'Europa. La seconda che l'Onu sia appena coerente con le proprie risoluzioni, e con i progetti formulati dai gruppi internazionali delegati e riconosca nella Bosnia, oltre che la vittima di un'aggressione, la titolare della lotta per ripristinare una legalit e una normalit, e appoggi con la sua forza questa lotta. (Agli sceicchi del Kuwait questo fantasmatico riconoscimento venne concesso). Non sarebbe, questa, una cobelligeranza: al contrario. La Bosnia, in una situazione di forte isolamento e inferiorit materiale, si batte per applicare in qualche misura, con il proprio diritto all'esistenza, ci che deliberato e ordinato dalla comunit internazionale, e che la tracotanza serbo-bosniaca ignora e deride. Alle Nazioni Unite dovrebbe spettare di vigilare e garantire praticamente che, fino a che l'azione bosniaca risponda ai criteri della legalit internazionale e alle richieste dei suoi organi, la forza maggiore serbobosniaca (e serba) non imponga la sua soperchieria. Tutto il resto, neutralit, equidistanza, sono parole per ingannare. Che una guerra pi ampia sia impedita qui (e altrove, nei cento focolari che covano nel mondo), pu essere, credo, solo l'effetto di un impiego giusto e netto della forza.

Barattare la sorte delle persone e la vita di un piccolo paese con il presunto interesse generale, il sacro egoismo eccetera, non solo un calcolo cinico, anche un calcolo sbagliato. Probabilmente: dovrebbe bastare, comunque, il cinismo. Giorni fa qualcuno stato cos gentile da interpellarmi fino a Sarajevo, per chiedermi fra l'altro se stessi l per una fuga dalla politica italiana. Ci sono rimasto male, a parte il lapsus della fuga: infatti da tre anni, e ogni giorno di pi, io penso che la questione centrale della politica italiana sia la Bosnia. Penso che Sarajevo sia in Italia; che tutti dovrebbero fare come se Sarajevo fosse in Italia: e non solo per altruismo. Spero che non si attribuisca questa scrupolosa convinzione a un gusto per i paradossi. Pochi giorni fa sono uscito di casa, a Sarajevo, e sono sceso canticchiando - sempre pi spesso, quando sono solo, canticchio verso il centro. Le strade erano vuote. A un certo punto ho superato una donna anziana che portava dei suoi pacchi. Mentre proseguivo, ho sentito i passi dietro di me farsi pi rapidi e vicini. Poi sono tornato a distanziarla: a Sarajevo si va infatti di buon passo, e magari a zigzag. Ma ecco di nuovo quei passi di corsa alle mie spalle. Alla terza volta, mi sono voltato e l'ho aspettata, e le ho chiesto se volesse qualcosa. Era affannata, povera, e mi ha detto, scusandosi: Ho sentito che canticchiava, e mi sono spaventata, perch uno canticchia quando c'

molto pericolo, per darsi coraggio: cos cercavo di sbrigarmi a venirle dietro. Mi sono scusato a mia volta della mia distratta abitudine. Abbiamo continuato con un passo deliberatamente calmo, e chiacchierando del pi e del meno. Ma ora continuo a ricordarmi di quella gentile signora, e dell'allarmata fiducia che aveva messo nel mio canticchiare. Chiss perch, mi pare che abbia a che fare con la questione dei raid della Nato, e dei bar di Tuzla e di Sarajevo.

DAI NOSTRI VISITATORI DELL'INFERNO (Vita, 17 giugno 1995)

Ho condiviso con Luigi Baldelli un avventuroso viaggio di andata e ritorno a Sarajevo, e un soggiorno di un mese in una bella casa all'antica sulla collina di Logavina, una casa piena di stanze, divani, tappeti e cortili, coi buchi di proiettili sui muri e il lill fiorito. Baldelli un giovane fotoreporter romano. La differenza di et e di strumenti usati - la macchina fotografica lui, che ferma le cose; io la penna e una telecamera portatile, che si muovono dietro alle cose - ha reso la nostra coabitazione estremamente discreta. Lui usciva di mattina presto, a cercarsi la luce migliore, credo. Io stavo su di notte, ad ascoltare il silenzio assoluto che si stende come un lago fra le raffiche e i tonfi delle granate. Ora, al ritorno, ho fra le mani alcune delle sue fotografie, e cos posso ricostruire dove andava, alla ricerca di che cosa. Ce n' una con lo scaffale delle scarpe all'ingresso della moschea grande. Un'immagine usuale, in apparenza.

Ma a Sarajevo, dove si mette la pi gran cura a simulare una esistenza normale nonostante tutto, niente usuale. Cos, se guardate in quegli scaffali, trovate un certo numero - un numero spaventoso - di scarpe spaiate. Del resto anche gli alberi superstiti, gli alti e svettanti pioppi cipressini che affiancano la moschea ed emulano in slancio il minareto, hanno una quantit di rami mutilati dalle granate: la primavera rigogliosa copre ora col suo verde i moncherini che l'inverno esponeva. In quegli scaffali, inoltre, l'usura media delle scarpe depositate per la preghiera altissima: i tre anni e passa di assedio e tormento di Sarajevo si lasciano misurare a prima vista dall'imbarazzo delle bocche sdentate e delle scarpe slabbrate. Non sono le ciabatte infime che avevo visto nell'Iran dei mustazafin - i senza scarpe, appunto versione moderna dei sansculottes esaltata dalla demagogia khomeinista: quelle di Sarajevo sono spesso scarpe che furono comode ed eleganti e che il tempo ha consumato e stremato come tutto nella bella citt derelitta. Un dirimpettaio, mio e di Baldelli, ci aveva appena avvertiti: che non lasciassimo in vista le nostre scarpe italiane al nostro rientro a casa, perch sarebbero state una tentazione troppo forte per i ragazzi dei dintorni. A Sarajevo oggi ci sono dunque alcuni improvvisati ladri di scarpe, dell'unico paio di scarpe forse, come i ladri di biciclette della nostra storia antica. Ho chiesto: nessuno ha comunque mai rubato una scarpa all'ingresso delle moschee. Se uno l'avesse fatto, forse, come con certi disperati ladri di elemosine, l'unico Dio avrebbe chiuso un occhio. C' un'altra fotografia che amo.

E' una finestra, ha cinque ante, quattro sono coperte, come tutte le finestre di Sarajevo, dalla plastica opaca dell'U.N.H.C.R., che rimpiazza i vetri infranti. La quinta aperta, e ci si affaccia una vecchia donna. Dir ora perch amo questa immagine. Le finestre a Sarajevo sono come occhi feriti e bendati. Quando si spara, quando si bombarda, occorre tenersi lontano dalle finestre. Voragini spalancate sui muri fanno loro concorrenza. Sui loro davanzali scatole di latta con il grottesco timbro dell'Onu ospitano ortaggi e fiori, alla rinfusa: altrettanto necessari a sopravvivere. Dietro la plastica opaca si vedono muoversi figure spettrali. Appena possono, le persone stanno alla finestra, e aspettano. Aspettare la vera vita di Sarajevo. Si aspetta che qualcosa finisca, un'ora, un giorno, si aspetta la fine della guerra. Sono passati cos tre anni e due mesi. Stanno alla finestra, immobili, bambini e cani, persone adulte, ma soprattutto i vecchi. I vecchi aspettano anche altrove: a Sarajevo aspettano con la disperazione di chi ha visto rovesciarsi la legge del tempo, di chi ha visto morire o andar via figli e nipoti. Di questa foto mi piace molto l'ombra scura, in basso, su un muro scarabocchiato di scritte, della testa del fotografo: mi piace che, sia pure in questo modo umbratile e discreto, Luigi Baldelli abbia desiderato entrare anche lui a far parte della figura che ritraeva, dell'attesa della signora alla finestra e della Sarajevo assediata.

Infine, amo questa foto perch c'ero anch'io quando stata scattata, quando Luigi ha chiesto a cenni alla signora se le sarebbe dispiaciuto che lui la fotografasse, quando lei ha assentito, e quando alla fine lo ha ringraziato raccomandandolo a Dio e dicendogli: Fa' attenzione, abbi cura di te. A Sarajevo vi dicono: Abbi cura di te, e non un modo di dire cortese. Sono premurosi e apprensivi: come se, a loro modo, pensassero che la vostra vita di estranei sia pi preziosa e degna di riguardo della loro. Anche voi, in fondo, pensate qualcosa del genere, sebbene ve ne vergogniate, e cerchiate di essere come loro. Siete visitatori dell'inferno, con tanto di accredito: agli altri l'inferno appartiene, ed essi gli appartengono. Anche quella signora cos anziana e premurosa. E' un ostaggio con altri trecento, quattrocentomila di un'aggressione spietata e criminale. Ma il mondo non preparato a pensare cos. Il mondo chiama ostaggi solo i caschi blu, e non si scandalizza pi tanto neanche per loro. C' una fotografia in cui si vede una strada, un telone che penzola da un filo, una figura di uomo che cammina. Ho un attaccamento particolare per questa immagine. Quei teli sbrindellati, patchwork d'emergenza cuciti assieme e appesi chiss da chi per il bene comune, sono lo scudo che una popolazione alla fine del ventesimo secolo oppone al tiro a segno degli assassini. Sono, a loro modo, bandiere di una resistenza, spar dietro cui la vita cerca riparo, finch un colpo di vento la metta allo scoperto. L'uomo nella foto cammina calmo, bench passi da un punto fatale: forse ha addirittura le mani nelle tasche.

Forse, perch la sua figura mossa nella foto in una maniera misteriosa, che lo rende quasi mutilato, e lo sorprende come a met fra l'affiorare e il venire cancellato. Un passante, alla lettera: un transeunte, come dicono gli spagnoli. Uno che passa di l - uno che deve morire? A Sarajevo la vita stata ricondotta ai suoi luoghi cruciali, alle stazioni di una passione: le chiese, gli ospedali, i punti di distribuzione del pane, le fontane, i cimiteri. Ci si imbatte ogni giorno in funerali non dovuti, di morti bambini e bambine, di morti soldati, di adulti e vecchi morti di morte innaturale. A volte si aspetta che l'ora del giorno finisca, perch il funerale, e la preghiera del commiato, si svolgono sotto il mirino dei cecchini e delle artiglierie, pronte forse a completare l'opera. Morituri seppelliscono i loro morti, a volte tesi come prede inseguite dalla muta di caccia, pi spesso incuranti o sfidanti, come chi nella morte dei propri cari riconosca la fragilit della vita propria e rigetti con disprezzo la minaccia vigliacca degli assassini. La dimestichezza con la morte che la gente di Sarajevo ha imparato in questi tre anni come una malattia, forse: si ha l'impressione che nei cimiteri i radunati non sentano la solidariet forte e turbante che c' nei nostri funerali, la solidariet di chi si scopre irresistibilmente vivo, e invece si sentano sopravvissuti e quasi morti. L'ultima foto. Ho scelto una fotografia bella, ma insomma banale. Il luogo stato visto mille volte nei telegiornali. E' il piazzale nel viale degli Snajper, quello falciato dalle raffiche e dai tiri dei cecchini serbi annidati nel vecchio cimitero monumentale ebraico.

Sulla destra della foto c' il blocco tozzo dell'Holiday Inn, a sinistra lo scorcio di un blindato con un soldato delle Nazioni Unite in piedi. Al centro, la prospettiva dello stradone, l'arteria che porta dalla vecchia alla nuova Sarajevo, segnata dai binari vuoti del tram. A rendere struggente questa veduta dagli ingredienti scontati proprio quell'esercizio di prospettiva lineare a perdita d'occhio tracciato dai binari inutilizzati, sottolineata dalla posa di spalle del soldato, che guarda anche lui verso un orizzonte che sembra sconfinato, e che si conosce chiuso: il punto in cui la citt finisce amputata dall'assedio, il punto oltre il quale la citt prigioniera non pu andare. Il punto oltre il quale c' il resto del mondo, il mondo in cui si pu muoversi, andare avanti e indietro, attraversare le strade senza essere fucilati, entrare in un negozio a comprare una lampadina. Quel punto fa un contrasto terribile col primo piano che il luogo degli appuntamenti quotidiani con la morte. Di quel luogo, avete visto infinite fotografie e riprese con la gente che corre, con la gente che arranca con le gambe spezzate, con la gente ammazzata in una pozza di sangue. Da anni fotografi e telecamere, perfino con postazioni fisse e automatiche, per riprendere tutto sempre, come si lascia una rete da pesca nel punto in cui ci sar un passaggio, sono in agguato in quell'angolo, come avvoltoi, forse, o forse solo per fare il loro mestiere. Lo spazio della morte e della tortura in questa fotografia di Baldelli lasciato vuoto: senza corpi di vittime o di scampati, senza il colore del sangue. Quel vuoto richiama l'orrore pi delle altre foto, mi pare. E le rotaie del tram, stilizzate come in uno studio di fuga prospettica, sono la memoria pi lancinante di una grande citt umiliata, che era

fiera del suo tram elettrico, il primo che mai abbia attraversato le citt europee, pi di cent'anni fa, il suo tram colorato e sforacchiato, il suo tram restaurato fra le lacrime di gioia e di nuovo abbandonato dopo troppi passeggeri e guidatori morti e feriti. Per questo la fotografia di Baldelli mi piace tanto, col suo soldatino di piombo e col suo triste Holiday Inn. E' Sarajevo. Tanti saluti da Sarajevo.

ASSASSINI CON METODO (L'Unit, 19 giugno 1995)

Un bel libro del montenegrino-sarajevese Marko Vesovic si intitola "La morte la maestra dei serbi". Pi esattamente, in quel maestra c' anche il senso dell'abilit da capomastro, del mestiere. A questa maestria va ascritta la meticolosit idraulica degli assassini cetnici che assediano Sarajevo. Ieri una ennesima coda per l'acqua stata centrata, trasformandosi in un'ordinata fila di morti e di feriti. Cecchini e artiglieri serbo-bosniaci possono infatti colpire una fontanella, segnando una crocetta su una carta millimetrata. Ma non qui la bravura. La bravura nel metodo, nell'integralit del ciclo. Si toglie l'acqua alla citt, per qualche giorno: poi si tira fuori la carta millimetrata, e si preme l'apposito pulsante. Da tanti giorni Sarajevo senza acqua e senza pane. Si pu tirare fuori, a piacere, la carta della fila per l'acqua, o quella della fila per il pane. In questi giorni non c' pane, e non c' fila. Gli assassini devono contentarsi delle fontane. Negli ultimi giorni, nell'ospedale maggiore di Sarajevo sono stati uccisi alcuni ricoverati: ecco una conferma del metodo. Ma anche qui la maestria e la professionalit vanno molto oltre. Di quegli ammazzati infatti uno stato finito da un cecchino dopo che un altro cecchino lo aveva colpito per strada un paio di giorni prima; un altro stato finito da una granata sabato, dopo che un'altra granata gli aveva spappolato una gamba il giorno prima. E' questo il ciclo integrale, la rifinitura; la morte come capomastro.

Chiusa come una bara, affamata e assetata, Sarajevo se ne sta nelle cantine e negli sgabuzzini, mandando fuori ogni tanto i suoi incursori a cercare un po' d'acqua. Ha ancora i telefoni. Ho fatto il mio giro quotidiano di telefonate. Ho saputo che sabato pomeriggio venuto un acquazzone, e domenica ha fatto piuttosto freddo, se si tiene conto della stagione. Che la pioggia la manda Dio per lavare il sangue. Che la gente aspetta oscuramente la rappresaglia sulla citt. Che Karadzic ha proclamato che dopo i suoi bombardamenti la sola cosa che rester al suo posto della Sarajevo di prima sar il fiume, la Miljacka, e che non una persona, non una casa rimarr in piedi. Che ogni palmo di terra, sull'Igman, sul Trebevic, costa battaglie estenuanti e sanguinose. Ma non sono queste le notizie. La vera notizia, che tutti confermano, che le persone di Sarajevo, rintanate, affamate e assetate, sono attraversate da una specie di allegria e di liberazione, da una specie di speranza, addirittura, se si pu chiamare cos il sentimento di chi si getta incontro al pericolo quando tutto altrimenti perduto. Forse la controffensiva tentata dai bosniaci non ce la far; forse la citt sar massacrata; ma non c'era altro, da tre anni e passa non c' stato altro che la coda alle fontane e la fila dei morti. La controffensiva dei bosniaci non ce la far, forse. Forse dovr interrompersi, perch troppo pesante il divario nelle armi e nelle munizioni. I Sette e Otto Grandi l'hanno addirittura ammonita.

I pacifisti hanno ribadito che altra la strada, e che se tutte le opposizioni democratiche si dessero la mano, da Zagabria a Belgrado, l'acqua tornerebbe limpida, e il lupo giacerebbe con l'agnello. Intanto, le persone di Sarajevo stanno rannicchiate e benedicono quel proprio esercito senza capomastri, erede povero e appiedato della cavalleria polacca che galoppava contro i carri armati.

PER SARAJEVO (Il manifesto, 20 giugno 1995)

Cari amici, ho sulla Bosnia un'idea opposta alla vostra su due questioni essenziali: il vostro rifiuto di riconoscere nei nazionalisti serbi gli aggressori, e nei bosniaci gli aggrediti; il vostro rifiuto di ogni ricorso delle Nazioni Unite alla forza appropriata all'attuazione degli impegni assunti a difesa dell'umanit e della legalit. Poich su questo, che il pi grave dei fatti in cui la generazione europea cui appartengo sia stata coinvolta, non c' stata alcuna seria discussione, ancora peggio sarebbe sostituirla con una polemica: perci

non trovo da dire niente, anche quando vengo personalmente evocato sul Manifesto con un tono sprezzante. Ma ora c' forse un nuovo scenario attorno a Sarajevo, e con esso la necessit di pronunciarsi daccapo. Se infatti vero che il legittimo governo bosniaco abbia deciso di gettare in campo la propria intera forza militare per tentare di spezzare l'assedio di Sarajevo, dopo aver subito per oltre tre anni la soverchiante violenza cetnica, e aver atteso invano il soccorso internazionale, allora bisogner che ciascuno decida da che parte stare o non stare. Enormemente inferiori in armi, bench pi numerosi e animosi per la propria disperata buona ragione, i bosniaci si battono per la libert dopo aver misurato per eccesso di non poter fare affidamento sulle Nazioni Unite o sull'Europa, cui avevano creduto di appartenere. Si pu essere angosciati per il costo di questa partecipazione - io lo sono, fino al pianto: per i ragazzi che vanno a morire in un fango da prima guerra mondiale, per le persone di Sarajevo tramutate ancor pi in ostaggi della rappresaglia serbobosniaca, e per le vittime dell'altra parte. Non si pu far a meno di ritenerla inevitabile, giusta, mille volte annunciata. E, a me pare, non si pu evitare di auspicarla vittoriosa. Ci che costringe a un punto ulteriore: se l'Onu, mentre garantiva impegni di pace e di protezione che avrebbe regolarmente tradito nei fatti, non avesse anche impedito l'armamento dei bosniaci aggrediti e pressoch del tutto privi, all'inizio, di un esercito, la disparit di forze non si sarebbe conservata cos a lungo, e non renderebbe oggi tanto disperato e sanguinoso il tentativo estremo degli assediati.

E non renderebbe vergognoso il monito dei Sette da Halifax perch tacciano tutte le armi... Io non mi illudo che i bosniaci vincano, e continuo a pregare che qualche imprevedibile sviluppo fermi una carneficina: ma ammiro la loro controffensiva quanto ho disprezzato la vilt comoda e assassina degli aggressori. Infatti finora non c' stata guerra, n civile n regolare. Dunque, ho letto con costante attenzione il vostro giornale. Ed ecco che sabato, sotto un titolo quasi incoraggiante - "Il cerchio spezzato" - leggo le seguenti parole: ...dopo un assedio voluto da tutte le parti in conflitto. Qui ho sobbalzato. Era infatti una notizia bomba: anche gli assediati avevano voluto il proprio assedio! Sono corso a cercare nelle pagine interne la motivazione di quella notizia sconvolgente e non l'ho trovata. Allora mi sono interrogato. Il governo bosniaco (qualunque secondo fine si possa imputargli) ha accettato le proposte internazionali rifiutate da Karadzic, anche quando erano palesemente inique e ispirate al realismo che spalleggia il pi forte. Mi sono spinto fino a dirmi che forse alludeste a una questione reale, cio ai limiti che il governo bosniaco ha frapposto alla libert di movimento dei cittadini di Sarajevo in questi anni orribili: ostacolando l'uscita di giovani e adulti in et militare, o quella di persone che svolgessero attivit ritenute indispensabili. Io ho odiato quelle limitazioni, sebbene sappia che nessun altro paese in una simile condizione di guerra banditesca e di assedio abbia mai conservato un tale grado di libert relativa.

Ma di qui a dire che i bosniaci assediati hanno voluto il proprio assedio, c' un abisso, e sulla sua sponda si affaccia l'infamia. Volevate forse dire che la Bosnia-Erzegovina, come gi prima di lei la Slovenia e la Croazia, aveva fatto male a volere l'indipendenza, e la comunit europea a riconoscerla frettolosamente? Pu darsi: ma ripetersi questo argomento a tre anni e passa di distanza non pu sostituire la risposta al che fare per metter fine al martirio di un paese e con esso dell'umanit e del diritto; e tanto meno pu rovesciarsi nell'accusa di aver voluto il proprio assedio. Vi prego di essere pazienti, cosicch proviamo a dire e capire reciprocamente che cosa pensiamo, e perch. Leggendo quello che autorit, esperti e parti dicono di Sarajevo, io non posso fare a meno di immaginare i loro nomi in calce ad articoli, meditazioni e prese di posizione di pi di cinquant'anni fa, a proposito del ghetto di Varsavia, di immaginare saggi ammonimenti a non demonizzare i tedeschi, a vedere l'inestricabile groviglio di responsabilit che aveva portato fino a questo, a deplorare l'insinuarsi di un pericoloso fondamentalismo ebraico fra i recintati, a denunciare una pericolosa escalation delle armi nella loro rivolta cos assurdamente condannata alla sconfitta e allo sterminio. E' un paragone forte, lo so. Spero solo che sia abbastanza forte.

NOI? GUARDIAMO (L'Unit, 26 giugno 1995)

La notizia arriva tardi, e incerta: cinque morti, sette morti, nove morti, forse pi. Nelle redazioni bisogna decidere che fare. I morti sono parecchi, anche per Sarajevo, e poi i bambini: quattro bambini, forse sei bambini, forse pi. Un titolo di testa, una foto, un commento indignato, o piuttosto un commento commosso? D'altra parte le bambine le avevano ammazzate anche ieri, e una dozzina di morti li avevano fatti anche l'altro ieri. Santo Dio, si pu aprire tutti i giorni con una strage da Sarajevo: per tre anni e mezzo? Proprio ora che gli scudi umani dell'Unprofor sono stati rilasciati, e la scelta del negoziato a ogni costo si rivelata vittoriosa? Infatti, le autorit dell'Onu e francesi hanno negoziato sottobanco il rilascio degli ostaggi, rilasciando a propria volta quattro aggressori assassini cetnici. Tutto bene quel che finisce bene: applausi. Che Sarajevo conti trecentottantamila scudi umani - e poi quelli di Tuzla, di Bihac di Gorazde, di Zepa... - un dettaglio da guastafeste. Che la cattura e l'esposizione in prima linea di scudi umani - il muro vivente si chiama, in serbo - sia un'abitudine dei cetnici fin dall'inizio di questa infame guerra, cosa che non sta bene dire. Un mesetto fa, le cose erano cos gravi che l'Onu ha deciso di impiegare i bombardieri. Karadzic aveva avvertito che avrebbe preso i soldati dell'Onu in ostaggio, e li avrebbe sgozzati: ha mancato alla parola solo per la seconda parte, e c' da rallegrarsene davvero. Cos, ora, la situazione molto pi grave: le stragi sono quotidiane, a Sarajevo non c' acqua n luce n gas, c' un pezzo di pane ogni due giorni o tre.

I convogli sono bloccati e saccheggiati dai cetnici. In compenso, l'Onu ha garantito in segreto ai razzisti cetnici che non ricorrer pi ai raid aerei, e alcuni media internazionali e autorit varie hanno regalato a Milosevic e al suo capo dei servizi segreti, organizzatore fervido di pulizie etniche, la patente di mediatori di buona volont. Da noi si discute gravemente. Non si pu paragonare Sarajevo al ghetto di Varsavia, si ammonisce. E' un paragone che aveva fatto, con una certa competenza, Marek Edelmann, il quale poco pi che ragazzo fu il vicecomandante dell'insurrezione del ghetto, un eroe se mai ve ne furono, che a sentir parlare di eroismo va in bestia. Un rapporto ufficiale e ponderoso dell'Onu - opera di delegati olandese, canadese, norvegese e senegalese con un presidente egiziano - ha documentato la responsabilit primaria dei serbi di Milosevic e di Karadzic nelle atrocit, e nella premeditazione e attuazione metodica della pulizia etnica, ha affermato che i bosniaci sono restati estranei a ogni proposito di pulizia etnica, ha dichiarato che non c' alcuna base concreta per sostenere che vi sia una equivalenza morale fra i belligeranti. Commissionato nell'ottobre 1992, secondo la Risoluzione 780 dell'Onu, il rapporto stato consegnato al Consiglio di Sicurezza, e dunque alle diplomazie, nel maggio 1994: un anno e un mese fa! E' stato pubblicato in sunto da Le Monde solo quattro giorni fa. Adesso sono alla fine del commento, per questa volta. Intanto i morti della strage saranno diventati nove, undici, quattordici? E di loro, prego, quanti bambini? Bene: anche ieri, domenica, a Sarajevo, dopo un mezzo sole la mattina, nel pomeriggio tornata la pioggia, e ha sciacquato il sangue.

La vita continua. Ed ora, una breve interruzione pubblicitaria. Non lasciateci. A fra poco, per le altre notizie.

JOGGING SOTTO LE GRANATE SERBE (L'Unit, 27 giugno 1995)

E' stata una bella giornata d'estate, piena di bombardamenti e sparatorie. A mezzogiorno stato bombardato il pieno centro, attorno al mercato, alla Presidenza e al viale intitolato a Tito. Fra i morti, sulla salita di Mejtas, accanto alla Banca Nazionale, c' un ragazzetto che aveva fatto la coda per tre giorni prima di attraversare il tunnel e rientrare a Sarajevo. Era arrivato oggi, in tempo per l'appuntamento con la propria granata. Si chiamava Marko Lukic, aveva 13 anni. Si noti, se si vuole, che il suo un cognome serbo. Sono arrivati a Sarajevo i primi 145 profughi da Zepa. Sono anziani, feriti e bambini, persone scheletrite, che vivono una tristezza terribile.

Sono stati tutti raccolti all'ospedale di Kosevo. Hanno raccontato che i soldati sono attestati nei boschi a nord del paese, e che il resto dei civili si sparpagliato sulla montagna. Nel loro gruppo, dicono, non hanno subito nessuna violenza dai serbi di Mladic. Invece l'Unprofor non li ha accompagnati, mancando ancora al proprio impegno. Nel pomeriggio, dalle 2 alle 3, una quantit di tiri di artiglieria e di fucileria si dilapidata sulla periferia a nord-est, ed continuata poi, un po' diradata, per il resto del pomeriggio. La giornata di marted, al contrario, era stata insolitamente tranquilla: s'intenda secondo le misure locali. La sera, al calare del coprifuoco, si commentava quella strana tranquillit quando un boato colossale esploso a ridosso di Sredrenik, seguito da un'eco interminabile e gorgogliante lungo tutto l'anfiteatro opposto del monte Trebevic. Dopo alcuni minuti, l'esplosione spaventosa si ripetuta nello stesso punto. Abbiamo pensato alle bombe di aereo adattate e spinte da razzi, che sempre pi spesso devastano la citt. Si saputo poi che erano bidoni riempiti di tritolo che i cetnici lasciano andare gi per il pendio, dall'altura micidiale di Spicasta Stjena. Anche questo succede, nella Sarajevo di fine secolo: botti esplosive rotolanti, da due quintali l'una, con dentro un comando a tempo. Era gi successo sul versante del Trebevic. Nella citt i passanti sono stati ancora pi radi del solito: pressoch solo quelli che stanno in strada per professione, poliziotti - uno

stato ferito gravemente nel giardino davanti al mercato -, poveri venditori di cattive sigarette, rovistatori di immondizia, matti. Ne ho incontrato uno geniale - non l'ho incontrato: mi aspetta al varco che conosco bene, e solo oggi ha deciso di comunicarmi in confidenza di essere Jehova e di essere di professione designer industriale; del resto il suo figlio prediletto, appunto, stato carpentiere. E' emaciato, ha capelli e barba nera e incolti, e nella sua faccia spiritata e vilipesa c' in effetti qualcosa di grandioso. Lui non corre agli incroci, e si convinto di essere invulnerabile. Le poche persone comuni d'un tratto si mettono a correre all'impazzata, e non si riesce a capire per quale paura - se non dopo, quando si fa il conto dei caduti. A queste estenuanti corse sarajevesi, si mescola, surreale e imperterrito, il jogging dei funzionari dell'ambasciata americana, in canottiera e calzoncini e cronometro al polso. Corrono in gruppi di due, benignamente sudati e coi capelli a spazzola, e ogni tanto si incontrano in certi angoli di strada, e senza smettere di saltellare concordano il prossimo itinerario, e poi ripartono. Cos, un po' pi in l, li si vede apparire e scomparire, meccanismi di un moto perpetuo, misteriosi e superflui come i bianchi blindati dell'Unprofor che solcano le vie della citt. Fellini, dice scuotendo la testa il mio amico Gigio. I sarajevesi corrono, invece, in un modo ben pi spiegabile e scomposto, per giunta con vestiario disadatto, e some di taniche e pacchi pesanti come il mondo. Quando arrivano da qualche parte, e si lasciano andare seduti, riprendono fiato e ridono di s, e si raccontano i loro pensieri pi grotteschi. Da quando qualcuno ha avuto il coraggio di parlarne, tutta Sarajevo scherza sulla preoccupazione universale di uscire di casa con la

biancheria in ordine e l'igiene personale passabile, per l'eventualit di essere beccati da un cecchino e spogliati dai soccorritori - e, colmo dei rischi, ripresi dalle telecamere coi vestiti a brandelli, e anche il resto. Umore sempre pi nero, e sincero. Sapeste, per esempio, quale altissima percentuale di automobili a Sarajevo, delle poche che girano, ha un foro rotondo sul parabrezza esattamente all'altezza della testa del guidatore: compresi i taxi su cui salite, guardando il buco nel vetro e poi, d'istinto, la fronte del tassista . Ho incontrato anche un autorevole geologo. Insegnava all'universit. Ora non ho niente da fare, dice, e anche se la guerra finisse non potrei fare niente, perch le montagne sono cos piene di mine che chiss per quanti anni ancora non si potr metterci piede. Nelle telefonate-intervista dall'Italia, mi sento ancora fare la domanda: ma a Sarajevo, la speranza ancora viva? Si sa, non facile il mestiere dell'intervistatore. Posso dire, tuttavia, che un gran numero di passeri ha fatto il nido nei buchi dei proiettili sui muri delle case.

TELECAMERE SCOMODE (L'Unit, 29 giugno 1995)

Il dfil di Cannes fra i governanti europei deve aver fatto una grande impressione ai delinquenti serbo-bosniaci, se questi hanno deciso di replicare, oltre che con la routine della strage quotidiana (cinque

ammazzati, quaranta feriti, nelle case della Citt Nuova a Sarajevo) sventrando con i missili l'edificio della televisione. L hanno fatto un morto e decine di feriti. A Sarajevo, le telecamere sanno dove appostarsi per garantirsi il torrente di sangue quotidiano da far scorrere sui nostri schermi, nella dose e alle ore previste. Questa volta hanno fatto da materia prima a se stesse: facce insanguinate, monitor e banchi di montaggio infranti. Il benemerito pool televisivo che manda in onda ogni giorno, con la naturalezza di una rubrica meteorologica, il mattatoio di Sarajevo, ora ha ripreso se stesso: episodio a suo modo culminante di una partecipazione del mondo che si ridotta allo sguardo distante. Dall'altra parte, il culmine di un gioco al rialzo dei gradassi cetnici che passato dalla gogna degli uomini delle Nazioni Unite, alla strage nelle file per l'acqua, al massacro dei bambini sul sagrato della cattedrale, al bombardamento sulle televisioni. Tattica rozza, si direbbe: se non fosse che ha sempre fruttato loro il punteggio pieno. A volte con un'invadente golosit di "scoop" e di autopsie, pi spesso con un gran coraggio e il cuore stretto dalla pena, giornalisti e operatori stanno a Sarajevo rischiando la pelle al minuto, registrando e riferendo la verit, e sapendo che la verit, una volta spedita in giro per il mondo, non cambier neanche di un millimetro il destino dei bambini di Sarajevo che giocano dietro la cattedrale, o dei vecchi che attraversano un incrocio da cecchini. Nel corso di tre anni e mezzo la distanza fra ci che i testimoni hanno visto e sanno di Sarajevo, e ci che le autorit competenti ritengono di saperne e pensarne a casa loro, non ha fatto che accrescersi.

Cos, quelli che sono andati a Sarajevo sono diventati, con poche eccezioni, molto tristi e un po' pazzi. Dei sarajevesi non hanno la pazzia intera, lucida e disperata, e neanche possono pi essere come le autorit di casa, la cui tranquilla normalit appare loro incomprensibile e davvero pazzesca. Per questo, molti che vanno a Sarajevo sono tentati di rimanerci, e usano la difficolt a venirne via come un pretesto per dilazionare, e aspettare l, come tutti gli altri: che passi questo bombardamento, questa nottata senza luce, questa guerra orrenda. Ne ho conosciuti cos anche rintanati nel palazzo delle televisioni, l'unico posto al mondo in cui le grandi reti si sono messe insieme in pool, invece di farsi concorrenza: per ridurre i costi, compresi quelli delle vite umane. Una sera in albergo mi accorsi di aver finito le cassette della mia handycam, e la mattina dopo ci sarebbe stato il convoglio organizzato dagli ebrei per l'esodo dei vecchi e dei malati. Dissi a Miran Hrovatin quanto fossi dispiaciuto di non poterlo riprendere, lui mi diede appuntamento dopo mezzanotte, e and, come ogni sera, al palazzo delle televisioni: quando torn, aveva con s le cassette, le aveva prese in regalo dai giovani della C.N.N. Di questo mi sono ricordato ieri guardando i filmati della devastazione. E a un'altra cosa ho pensato, poich ieri era il giorno di San Vito, e le stragi cetniche erano anche un modo devoto di commemorare il loro patrono, e l'anniversario della sconfitta di Kossovo Polie (infatti i nazionalisti serbi continuano a scavare nelle fosse di quella battaglia perduta coi turchi seicentosei anni fa). Toni Capuozzo mi ha descritto la cerimonia cui Karadzic, Mladic e gli altri caporioni sono intervenuti a Bjelina, cittadina in cui la pulizia

etnica serba si era compiuta per intero, e senza neanche grandi effusioni di sangue. Nella piazza di Bjelina, dove sorgeva una moschea, meticolosamente spianata, sorge ora un monumento ai caduti di Kossovo: piazza pulita, sacro risarcimento. L erano i capi cetnici mentre a Sarajevo e a Tuzla i loro cannoni facevano strage. Bench mi guardi dagli effetti troppo facili, sono stato tentato di sovrapporre l'immagine del rito celebrato nella Bjelina della moschea cancellata con la cronaca recente su un rosario di espiazione romano. DAVANTI AL MATTATOIO GHALI SE LA SQUAGLIA (L'Unit, 12 luglio 1995)

Dopo la caduta di Srebrenica la soluzione finale ha fatto un gran passo avanti. Finora le Nazioni Unite si erano limitate a lasciar bombardare e affamare le citt dichiarate solennemente sotto la loro protezione. Ora le abbandonano alla rinfusa, insieme alle decine di migliaia di profughi, non senza compiere, a cosa fatta, un paio di cialtroneschi raid aerei. Siamo allo spappolamento. Karadzic e Mladic, sul cui capo pende - questione di giorni - un mandato di cattura internazionale per crimini di guerra, danno il loro ultimatum all'Unprofor, e, loro s, lo fanno rispettare. L'altro giorno ha parlato, in apertura del congresso del P.D.S., il sindaco di Tuzla, Bezlagic, socialdemocratico, alla testa di una giunta esemplare per il rifiuto delle anagrafi etniche. Bel gesto. Nell'occasione, coloro che fanno del Non Intervento in Bosnia una fervida bandiera - mentre l'Onu se la squaglia davanti al mattatoio e alla

pulizia etnica, noi abbiamo fior di militanti del Non Intervento - hanno presentato Bezlagic come un campione del pacifismo e dell'equidistanza fra i nazionalismi contendenti. Quel Bezlagic aveva mandato all'Europa e all'Onu, all'indomani della strage di ragazzi a Tuzla, messaggi estremi in cui diceva: Voi avete dichiarato Tuzla e altre citt assediate aree protette. Bambini e persone innocenti vengono uccisi senza sosta. In nome di Dio e dell'umanit usate finalmente la forza. E ancora: C' una sola cosa che potete fare. Dovete bombardare le postazioni di artiglieria sulle colline attorno a Tuzla. Voi dovete bombardare tutte le postazioni di armi pesanti dei fascisti serbo-bosniaci in Bosnia. Altrimenti, fra voi e gli assassini dei nostri bambini qui non ci sar alcuna differenza. Me l'aveva detto, disperato, Alex Langer. Oggi Bezlagic a Strasburgo per ricordare quel suo grande amico. Tutto andato troppo oltre. I caschi blu, per gran parte dei loro impieghi, non sono che ostaggi a portata di fischio dei cetnici: senza toglierli da l, nessuna azione internazionale sar possibile che non sia la mera autodifesa dell'Onu, e neanche. N pensabile, ora, un'interposizione efficace grazie allo spiegamento molto maggiore e determinato di forze. D'altra parte, si sta cercando solo il pretesto per squagliarsela. A Sarajevo, un'operazione nemmeno di polizia, ma da vigili urbani, come l'apertura di un effettivo accesso alla citt non il viottolo sterrato dell'Igman: una strada - ha bisogno di prevedere il rincaro banditesco di

Karadzic, e dunque di prevedere di prevenirlo, reprimerlo e castigarlo al suo livello. C' qualcuno che voglia farlo? Chirac, certo, pu ordinare qualche gioco d'artificio per bilanciare un po' le sue smanie nucleari. Poi, tutti a casa. Mi auguro di sbagliare. Mi auguro che la dannata mania di grandezza nucleare di Chirac lo costringa, per salvare la faccia, a qualcosa di buono in Bosnia. Posto della caduta di Srebrenica nella media dei telegiornali: undicesimo. C' uno Chopin che prepara il suo concerto? Del resto gli esperimenti sull'atollo di Sarajevo sono durati troppo e troppo al dettaglio, mortai, fucili, cannoni. Se Karadzic, lo psichiatra, avesse l'atomica: perch no? Eutanasia, amici, eutanasia.

SOTTO LE BOMBE COL CUORE STRETTO (L'Unit, 20 luglio 1995)

Dir quello che ho visto e sentito in un solo giorno. Ho visto cadere la granata che ha ucciso un bambino di dodici anni nel bagno della sua casa. Ho visto un uomo grande e grosso caricare i corpi dei morti e dei feriti su un'auto, sul lungofiume e poi entrare in un bar, pieno di sangue, e mettersi a piangere. Ho sentito le bombe cadere dappertutto sulla citt, al Ponte Latino, intorno alla Presidenza, sulla Citt Nuova. Ho ascoltato le istruzioni per il nuovo soggiorno. Tenere un rubinetto spalancato, per svegliarsi di colpo se arrivasse l'acqua - non arrivata da pi di un mese. Dormire nel corridoio interno. Raccogliere l'acqua piovana con un tubo derivato dalla grondaia (per fortuna, ci sono dei temporali pomeridiani). Risparmiare le candele: ora costano il doppio. Non uscire di casa, se non necessario: nessun punto della citt pi risparmiato dai bombardamenti. Di fatto, il bombardamento indiscriminato di Sarajevo cominciato. Soprattutto, stare alla larga dai luoghi frequentati dai bambini, gli asili, i cortili dei giochi, l'ansa del fiume a Bentbasa: l che bombardano di pi. Usare l'acqua piovana per lavare i vestiti. Con l'acqua risciacquata, lavare quel che si pu del gabinetto e della casa. Pregare Dio quando si va, di notte, alle fontane, a caricare l'acqua.

Ricordarsi che non potabile bench tutti la bevano. Pensare col cuore stretto a quelle povere persone di Srebrenica. Raccogliere cartoni, schegge di legno, stoffa vecchia per fare un po' di fuoco in casa: per il caff, almeno, o per il latte ai bambini piccoli. Imparare a distinguere, anche se sempre pi difficile, il fragore dei tuoni da quello delle bombe e da quello degli aerei della Nato. Ricordarsi della vita di prima, per provare a resistere alla pazzia. Continuare a dirsi, senza rallentare il passo: Come sta?, Bene, grazie, e lei come sta?; e senza scrutare in ogni passante che si incrocia il proprio imminente compagno di morte. Procurarsi della verdura, per le vitamine, e perch si pu mangiare cruda. Non mangiare verdura cruda senza lavarla bene, perch le malattie intestinali dilagano. Del resto, dove procurarsi l'acqua, e dove la verdura? Inoltre, anche gli infarti dilagano. Non si potr dire pi, a Sarajevo: di morte naturale. Sebbene stiano al chiuso pi che possono e per strada corrano, e si siano fatte esperte di guerra ai civili, le persone di Sarajevo sono braccate dalla morte. Alle nove c' il coprifuoco. Quando sceso il buio completo, la conversazione nella casa si fatta rada. Uno mi ha detto: Dovevi aspettare ancora un po' a venire, dovevi aspettare venerd. Venerd a Londra si riuniscono. Poi nessuno ha pi parlato. Si sentiva solo il frastuono delle granate, e un pianto di bambino.

Le persone stanno zitte, e immaginano una sera d'estate in cui sia venuta la pace, e si ritrovino vive, piene di allegria, calma e affetto. Dura da tanto tempo che questo pensiero diventato raro e doloroso.Rende deboli. I bambini dai quattro anni in gi, a Sarajevo non sanno che possa esistere una sera senza bombe, e forse meglio che non lo sappiano. Stamattina ho visto anche Mirza. La prima volta era un bambino, ora quindicenne ed alto un metro e 97. Gli avevo detto di imparare a giocare a basket, che gli avrebbe potuto servire per trovare un posto all'estero. Ha montato un tabellone in un piccolo scantinato, passa ore ad allenarsi da solo; ma ormai alto quasi fino al soffitto. Avr dei problemi, con un campo regolamentare. Avranno tutti dei problemi. Venerd a Londra si discuter se passare al ricorso internazionale alla forza o permettere ai bosniaci di armarsi. Fino a qualche tempo fa era un'alternativa: ora non lo pi. Ora indispensabile decidere ambedue le cose. Non si decider n l'una n l'altra, vero? Il governo italiano stato il pi svelto a farlo intendere. Forse si decider di aprire la strada blu per Sarajevo? O troppo, anche questa misura di polizia stradale? Ecco come sono arrivato io, marted. L'unica via, il sentiero sterrato del monte Igman, era chiusa. I militari bosniaci hanno lasciato passare la nostra auto, perch avevamo caricato delle borse frigorifere con l'occorrente per operazioni urgenti all'ospedale di Sarajevo. Abbiamo risalito l'Igman, io, Zlatko Dizdarevic, e Edo Smajc, in una solitudine irreale.

L'Igman era un bellissimo monte fiorito, se non per le troppe cime di abete mutilate dai proiettili. Quando ci siamo avventurati nella discesa, negli ultimi chilometri da fare allo scoperto sotto il tiro dei carri armati e dell'artiglieria serba, l'auto, troppo pesante, ha sbattuto sul fondo sconnesso e ha rotto la leva del cambio. Avevamo un'utilitaria: chi viene a Sarajevo a sue spese, e anzi a portare denaro, non pu permettersi le auto blindate. Ci hanno tirato addosso con la mitragliatrice, centinaia di colpi, a raffiche cos fitte che la strada davanti a noi ribolliva come di una grandinata. Edo ha buttato l'auto a precipizio, senza marce, saltando sulle pietre e sui tornanti, fino al riparo in fondo dove siamo arrivati con un rottame, e i soldati bosniaci non sapevano se ridere o piangere. Edo ne ha tratto una conferma al fatalismo locale: come Dio vuole. Un'ora pi tardi, dopo il tunnel, siamo arrivati al check-point di Dobrinja mentre portavano via un morto e i feriti di una granata appena caduta. Questo ho visto e sentito. Mentre scrivo, non sono passate 24 ore dal mio arrivo. Magari questo racconto servisse a inquadrare meglio la questione della strada blu. Comunque, di qui a venerd c' ancora tanto tempo. Un po' mi vergogno di una penna che descriva questo senza che, un minuto dopo, gli aerei del mondo libero si alzino in volo. Ma in realt l'hanno fatto, sono qui sulla nostra testa, ne sento il rombo o il tuono? o il mortaio? No, il loro, il rumore del sorvolo d'ordinanza, in cerchi sempre pi stretti, come quelli degli uccelli da carogna sulla citt che muore.

UN FUNERALE SOTTO LE STELLE (L'Unit, 22 luglio 1995)

Il funerale del tredicenne Adnan Hadzic si era svolto gioved sera, al buio, nel cimitero di Logavina, sotto l'edificio bellissimo che si chiama la Casa dei Dervisci. Si aspettata la notte, ben oltre il coprifuoco, e non solo l'imbrunire, per paura di altre bombe. Ormai ho visto tanti di questi funerali notturni, l'abbandono stremato dei famigliari, la calca spaventata ma dignitosa dei vicini e degli amici, la salmodia funebre cantata a bassa voce. La notte di gioved era senza luna, il buio pieno, e il rumore delle zolle sulla cassa di legno, opprimente.

C'erano gli amici di Adnan, ragazzetti dall'aria svelta ma imbarazzati dei loro mazzi di fiori. Venerd mattina hanno bussato a casa mia: erano tre di loro. Potevo dare loro delle vitamine? -, hanno chiesto. Sono per il cane di Adnan, mi hanno spiegato. Li ho fatti entrare, si chiamano Amer, Huko e Kenan. Parlano un po' per uno, ecco che cosa mi hanno raccontato. Eravamo amici da sempre, prima della guerra, andavamo alla stessa scuola, giocavamo a pallone insieme. Quando tutto cominci, nel '92, Adnan e sua sorella, che ora ha 19 anni, furono mandati dai genitori in Germania, da certi cugini. Pi tardi ebbero degli screzi, e andarono in un posto per profughi. Stettero in Germania tre anni, ma erano sempre pi tristi, Adnan piangeva, scriveva che voleva tornare a Sarajevo, a casa sua. Alla fine sono tornati, nel maggio scorso. Adnan non sapeva niente, lo portammo a vedere come era diventata la citt, gli mostrammo dove cadono le bombe, come bisogna regolarsi. E' durato meno di tre mesi. Un giorno ha trovato un cagnetto per strada, e l'ha tenuto. E' stato ferito anche lui dalla granata, l'abbiamo portato dal dottore, ha perduto una zampa, non si sa se sopravviver. Ha bisogno di molte vitamine: per questo siamo venuti. Vuol sapere come successo? Adnan era quello che aveva pi paura delle granate, perch non era abituato. Eravamo nel rifugio, due granate sono cadute sulla fabbrica di vestiti accanto alla casa. Poi per un po' niente, cos abbiamo pensato di andare a prendere l'acqua. Ma hanno ricominciato a cadere molte granate, sulla Citt Vecchia, e cos siamo tornati al rifugio.

Ma la sorella di Adnan non stava bene, e lui voleva andare in casa a farle bere un t. Gli abbiamo detto di no, ma salito. Era in bagno, una scheggia ha attraversato il muro e due porte e gli ha trapassato il collo. Cos stato. Sua madre gli diceva sempre di stare in casa. Ora come una pazza. Noi stiamo in strada, e grazie a Dio non ci successo niente. Adnan era buono, non diceva bugie, non rubava, non aveva nessuna colpa. Proprio cos mi hanno detto i ragazzini: non aveva colpa.Chiss a quali colpe pensano. Sono andati via, seri seri con alcune bustine di sali minerali e un pacchetto di aspirine per il loro cane in eredit. Le granate hanno continuato a piovere, tanti ragazzini a morire o a restare squartati. Era il giorno di Londra. Non ho saputo niente fino a sera, n mi aspettavo molto. Ho passato la giornata a portare lettere in giro, lettere di figli a madri e padri, di mogli a mariti, di sorelle a fratelli. E' un lavoro delicato. Le persone ti accolgono, insistono perch ti sieda e accetti qualcosa, vorrebbero trattenerti a Sarajevo: tutti vogliono trattenere per un poco lo straniero che passa. Ma intanto non vedono l'ora di aprire le lettere, guardare le fotografie, contare i soldi, quando ci sono, e finalmente piangere, da soli. Cos si chiede scusa, si spiega che ci sono tante altre lettere da dare, si promette di tornare e si va via in fretta. E' anche un lavoro un po' faticoso.

Alcune persone abitano al dodicesimo piano, al quindicesimo. Non c' ascensore, non c' luce, n vetri e ringhiere sui pianerottoli: non c' niente. Loro lo fanno, su e gi, trascinando taniche di acqua. Vecchi, malati, zoppicanti. In questi piani pi alti ci si attarda un po' di pi, per approfittare della vista. E' strano come guardare le persone dall'alto in basso, nel loro impicciolito daffare, riporta la superbia alla distanza e accresce solidariet e compassione. Si vede, in basso, una donna che tira su piano da un pozzo di fontana dell'acqua, e la versa in un bidone, asciugandosi la fronte col dorso della mano. Si vede un uomo che lavora gi per ricoprire con un telo rosso lo squarcio fatto sul suo tetto da una granata del giorno prima. Si vedono le persone piegate sugli orticelli di guerra. Si vedono un ragazzo e una ragazza, in un cortile, che giocano a pingpong, e tornano dentro quando arrivano di nuovo le granate. Tra le persone che non ho trovato pi, uno ce n' che voglio ricordare, perch era un famoso e bravissimo pittore, e un grandissimo uomo. Si chiamava Ibrahim Ljubovic. Aveva perduto il suo studio a Grbavica, e tutti i quadri di una vita. Aveva saputo poi che alcuni dei suoi quadri pi amati giravano a Belgrado. Abitava ora nel centro, sulla via Titova, dipingeva, daccapo, e stava male. Era un uomo bello e trasparente, come le candele alla cui luce continuava i suoi disegni meticolosi.

Da poco il governo svedese lo aveva premiato, e l'aveva invitato ad andare a curarsi l. Sua moglie si affannava a fare tutte le pratiche. Lui mi aveva detto: Io non voglio vivere in Svezia, voglio morire a Sarajevo. C' riuscito.

SEGNALI DI FUMO DAL TUNNEL (L'Unit, 23 luglio 1995)

Poich non si erano fatti illusioni, i sarajevesi non sono stati molto delusi dal vertice londinese sulla Bosnia. Per la verit dato che non c' corrente elettrica, e le batterie della radio sono scariche, la maggior parte dei sarajevesi non ha neanche saputo della riunione di Londra, e si occupata d'altro. C' una comunicazione orale che, nonostante il recinto dell'assedio, sostituisce l'altra e porta notizie fresche di tunnel - come le uova, che per garantirne la freschezza qualcuno tornato a vendere col cartellino: Uova di tunnel. Notizie rotolate gi da Srebrenica, che parlano di migliaia di persone caricate sui camion e disfatte in fosse chimiche in una vecchia fabbrica di alluminio a Milice, vicino a Zvornik. Notizie su Zepa pericolante, e sulla nuova colonna di profughi che anche da l arriverebbe a Zenica e, passando per il fuoco, a Sarajevo. Si commenta la frase del presidente Izetbegovic, che aveva parlato della necessit di evacuare Zepa dai civili, e all'obiezione di un

intervistatore - ma cos non finiamo noi stessi per collaborare alla pulizia etnica? aveva risposto: Meglio vivi a Sarajevo che morti a Zepa. Una frase che deve essere costata al presidente, uno che sente su s la responsabilit della sopravvivenza di una repubblica, e che in altri momenti si rassegnato a pensare che le dovesse essere sacrificata l'esistenza di una generazione. In verit, quale alternativa stata concessa ai bosniaci? Neanche quella fra arrendersi o morire: morire, piuttosto che disperdersi in una diaspora senza una terra promessa. Non incredibile che in questa condizione qualcuno si aspetti o auspichi l'emergere di una opposizione in Bosnia? Una opposizione che proponga che cosa, se arrendersi o morire l'unica offerta dei nemici e del cinismo universale? Si riparla, come da mesi, del riconoscimento dei confini della Bosnia da parte di Milosevic: allora? Milosevic trarrebbe una ulteriore taglia dalla cos comprensiva comunit internazionale, nel momento in cui intensifica, come tutto il mondo sa, l'invio di armi e armati agli aggressori serbo-bosniaci. E la Bosnia-Erzegovina, che cosa ha da guadagnarne? Una quantit di diversivi e di falsi obiettivi viene evocata, per girare alla larga dal dilemma reale. Che uno solo: una radicale inversione dei rapporti di forza militare, o la cancellazione sanguinosa della Bosnia. La grancassa battuta un mese fa dalla stampa internazionale sulla controffensiva musulmana eludeva una verit ovvia per chiunque volesse vederla: che non esiste n esister la possibilit per i bosniaci di avere ragione dell'aggressione serba, negli attuali rapporti di forza militare e politica. Io penso che, a questo punto, la stessa revoca del vergognoso embargo sulle armi non cambierebbe questa verit.

Troppo lunga e troppo grave stata la complicit e l'inerzia dell'Europa e degli Stati Uniti di fronte alla legge del pi forte e violento. D'altro canto, il sostegno che al delirio della Grande Serbia assicurato dalla Russia vale cento volte pi dei programmi di solidariet islamica alla Bosnia, tradotti in pochissimi fatti. La Bosnia davvero sola. Che Srebrenica sia stata presa col gesso, per dirla con Machiavelli, cio con quattro carri armati, per dirla con gli imbelli protettori dell'Onu che ne portavano la responsabilit, non un segno univoco della situazione militare. Solennemente garantita dall'Onu, priva di un retroterra, la difesa di Srebrenica non era questione dell'esercito bosniaco. (Non avrebbe dovuto esserlo, in teoria, neanche quella di Zepa). Secondo qualcuno, la forzatura ulteriore dell'invasione delle aree protette da parte dei cetnici mirava anche ad attirarvi una parte delle truppe bosniache, alleggerendone la pressione sul tentato controassedio di Sarajevo. Di quest'ultimo si sa che ha ottenuto qualche successo di rilievo lungo la linea che dovrebbe chiudersi a sud-est e soprattutto sull'enclave di Treskavica, mentre si arrestato a sud-ovest, e negli immediati dintorni della citt. Qui la quantit di fortificazioni e di mine rende impossibili avanzate ingenti, e viceversa costringe a spostamenti combattuti metro per metro, con un costo tremendo di vite. L'andamento delle cose fa pensare che il governo bosniaco abbia rifiutato di scambiare la propria enorme inferiorit di mezzi pesanti con la propria superiorit numerica, mandando allo sbaraglio la fanteria. Speriamo che sia cos.

D'altra parte si infittiscono le voci su una ripresa imminente della guerra guerreggiata attorno a Sarajevo. Per ora, ogni giorno divampano improvvise e clamorose battaglie di pochi minuti, altrettanto improvvisamente spente: scaramucce, imprese di ubriachi, magari. In questi giorni, la proporzione delle bombe impiegate fra le linee assai inferiore al bombardamento sulla citt, e il calibro medio si alzato spaventosamente. Ieri piovuta una decina di V.B.R. di 205 millimetri, di fabbricazione jugoslava, incomparabilmente pi micidiali delle granate di mortaio. La vita cittadina annichilita. Dei morti e feriti perch parlare? Aspettiamo il giorno in cui non ce ne saranno, per dare la notizia. E' importante ricordare che il tempo lavora per gli aggressori. Essi hanno un armamento colossale (la Serbia, mentre si piange vittima dell'embargo, ha continuato addirittura ad esportare armi ad altri paesi in tutto questo tempo). Possono decidere, impuniti, le proprie mosse: prendere Srebrenica, e, presto, Gorazde, aspettare che sia sbollita l'emozione internazionale e svaporate le parole grosse dei convitati di Londra. Possono martellare e fucilare Sarajevo con la cieca regolarit delle estrazioni del lotto. Belgrado al sicuro e perfino il teatrino di Pale lo . All'opposto, la gente della Bosnia non ce la fa pi. Pensare a un altro inverno nelle condizioni attuali di Sarajevo fa impazzire. Voglio dirvi, perch ormai non pi un segreto per nessuno, che il leggendario tunnel, il cunicolo disperato che lega Sarajevo al mondo, l'intestino infernale da cui entrano i portatori di cibo per la citt ed

escono i fuggiaschi, quotidianamente bombardato, corre il pericolo di essere inondato e distrutto da un controtunnel scavato dai cetnici, anzi fatto scavare dai prigionieri. Quanto al resto del mondo, il mondo del tunnel sotto la Manica, dei carri armati bianchi e dei caschi blu, non si preso la briga, in tre anni e mezzo, di costruire neanche una normale galleria per una capitale mutata in lager. Mentre un popolo di topi fa la fila davanti a un cunicolo scavato a mano, la diplomazia svedese strappa a Milosevic chiss, forse - il riconoscimento dei confini della Bosnia: quanto alla propriet terriera, ci penseranno i suoi cannoni.

L'OCCHIO DI GUERNICA E MY LAI (L'Unit, 24 luglio 1995)

Se potete, guardate una cartina della Bosnia. Avevo accennato, ieri, all'infittirsi di voci su una ripresa imminente della battaglia attorno a Sarajevo. In realt ero in ritardo di alcune ore. Sebbene nessuna informazione ufficiale sia finora venuta, ho saputo che un vasto e accanito combattimento si riacceso su pi fronti fin dalla sera di venerd, alla conclusione dell'incontro di Londra. L'iniziativa stata probabilmente bosniaca; e la virulenza dei bombardamenti cetnici su Sarajevo, specialmente nella notte fra sabato e domenica, e gli attacchi contro le basi francesi e danesi dell'Unprofor e il convoglio scortato dai francesi, appaiono come un rincaro della ritorsione serbo-bosniaca.

Nel conto di ogni iniziativa della resistenza bosniaca sta la scalata della distruzione terrorista di Sarajevo. Lo sanno i sarajevesi bombardati: e sanno anche che non c' alternativa. Secondo le notizie che ho raccolto, le forze bosniache hanno completato la conquista di Trnovo, una ventina di chilometri esattamente a sud di Sarajevo. Trnovo strategicamente importante, perch d accesso da sud a Lukavica e alle postazioni di Gavrice Brdo, da cui si bombarda l'Igman, e perch situato sulla strada principale che da Foca (una cittadina di 35 mila abitanti, al 70% musulmani, teatro nell'aprile del '92 di una orrenda pulizia etnica serba) porta a Gorazde. A sud-ovest di Trnovo c' la montagna di Treskavica, sulla quale i soldati bosniaci hanno riportato nel giugno scorso, dopo pi di sei mesi di battaglie, la pi importante e costosa vittoria. A est e a nord di Trnovo ci sono le alture di Jahorina e, subito a ridosso della capitale, del Trebevic. Un altro scontro cruciale divampa sulle pendici del monte Igman, dove i bosniaci mirano a tagliare la strada secondaria che mette in comunicazione la grande caserma serba di Lukavica, un sobborgo di Sarajevo, con la sedicente capitale di Pale. Ancora, si combatte per il controllo di Vogosca, a 6-7 chilometri dal centro di Sarajevo, a nord-ovest: centro decisivo per la produzione di granate e altri armamenti, e per i depositi militari. Subito oltre, i bosniaci mirano a tagliare fuori e chiudere in una sacca il quartiere di Ilidza, piazzaforte dei serbi che da l controllano l'aeroporto e, dalla exscuola forestale austriaca, bombardano ininterrottamente la strada sterrata del monte Igman e l'entrata del tunnel: cio l'unico, avventato e penoso accesso a Sarajevo.

Un'altra battaglia si combatte a nord, oltre Doboj, sulla strada principale che portava da Sarajevo a Zagabria. Da Sarajevo a Doboj, passando per Zenica, ci sono circa 150 chilometri sotto controllo bosniaco. Da Doboj a Bozanski Brod, passando per Derventa, c' una settantina di chilometri in mano cetnica: la liberazione di questa strada ricongiungerebbe Sarajevo con Slavonski Brod, cio con la Croazia. Dunque un quadro in forte movimento, oltre ai luoghi ufficialmente citati in cui la guerra guerreggiata pi aspra, soprattutto Bihac, dove l'intenzione di un intervento massiccio croato verr messa al pi presto alla prova. Queste le notizie, che non posso n verificare n valutare con esattezza, profano come sono di affari militari. E' un fatto del resto che la ostinata renitenza di noi spettatori esteri a chinarci anche solo per qualche minuto su una carta geografica jugoslava stata un ulteriore sintomo dell'indurimento delle nostre arterie e dei nostri cuori. Di quella generazione, soprattutto, che si era fatta le ossa tanto tempo fa ispezionando nelle sue stanze di scolara mappe della sierra cubana, cartine del fiume Ussuri, carte del Delta del Mekong, e imparando a memoria i nomi di citt e villaggi martoriati. Se oggi, dopo quattro anni di orrore, non sappiamo ancora dov' Vukovar, e dove Tuzla, e Mostar est, non per aver chiuso l'occhio della geografia, bens quello della piet e della ribellione, l'occhio di Guernica e di My Lai. La posta delle battaglie in corso molto minore della liberazione di Sarajevo: appena il tentativo di allargare le maglie dell'assedio che soffoca la capitale.

Per fare questo, i bosniaci devono mettere la stradaccia dell'Igman al riparo del cannoneggiamento e della mitraglia cetnica. Un'ambizione maggiore, come quella di aprire e proteggere la strada di fondovalle che fa da uscita naturale da Sarajevo verso l'occidente, l'Erzegovina e il mare - compito che spettava da sempre all'Unprofor - oggi fuori portata, data l'ampiezza del territorio tenuto dai cetnici ai due lati della strada. Ma il rischio dell'impresa, anche solo di una assicurazione meno precaria dell'Igman, mortale: la distruzione spietata di Sarajevo, una strage inaudita dei suoi cittadini. Su questo filo di lama si svolge una partita che, lo diciamo ancora, non ha alternative. Il calcolo tragico che le forze bosniache possono fare uno solo: arrivare a esercitare a loro volta una pressione militare su centri importanti occupati dai cetnici, cos da bilanciare la violenza terroristica su Sarajevo con una minaccia, se non equivalente, almeno temibile. A meno che dalle mani dei governanti del mondo ricco e potente (e ottuso e spaventato) non vengano azioni forti come le parole pronunciate da un vecchio papa. Ieri, domenica, alla messa nella cattedrale non c'era il cardinale di Sarajevo: era a Tesanj, in zona di guerra, e ha parlato ancora della Bosnia, di tutti i popoli e di tutte le fedi e della vergogna del mondo. Comunque sia, tutti devono sapere quello che ogni sarajevese sa: che la devastazione della citt e il massacro dei suoi abitanti l'evenienza meno improbabile del prossimo futuro. A SARAJEVO MUSULMANI E EBREI SI CONFONDONO (L'Unit, 25 luglio 1995)

La sera di domenica, la radio di Sarajevo aveva fatto un'indigestione di notizie. Per scusarsene aveva annunciato che il giorno trascorso era stato zeppo di eventi. Gli ascoltatori erano rimasti a loro volta un po' travolti, fra un'intervista a Hussein di Giordania che vuole venire a combattere per la Bosnia, e un'altra al generale Corcione, cos ampiamente riportata e cos severamente ammonitrice da farmi pensare a un errore di traduzione. Ma un'emozione vera passata sul viso degli ascoltatori quando la radio ha detto della solidariet israeliana, e di una sottoscrizione congiunta per la Bosnia di israeliani e palestinesi. Il fatto che i sarajevesi soffrono soprattutto, nel loro inferno materiale, la pena dell'abbandono. Per tre anni e mezzo, come una scialuppa di naufraghi alla deriva, la Bosnia ha avvistato navi luccicanti e ha agitato braccia e stracci al loro incontro: ma restata loro invisibile e sola. Forse, se l'inclinazione religiosa cresciuta nel cuore di Sarajevo - e non nella sua piccola caricatura, la mobilitazione islamista - questa sensazione di abbandono ne la sostanza pi intima. Abbandonati da tutto il mondo - di pi: traditi, tante volte i sarajevesi di nome islamico non sono stati abbandonati dal loro Dio: piuttosto, si sono persuasi che il mondo abbia misteriosamente abbandonato alla deriva, come loro, anche il loro Dio. A Sarajevo il paragone fra la propria condizione e quella degli ebrei diventata, in questi anni, un luogo comune. Singolarit ulteriore, questa: un'isola di popolazione musulmana che si dice affine agli ebrei nella persecuzione. Cos, la notizia degli israeliani e dei palestinesi era di quelle destinate a scaldare i cuori.

Il giorno prima, il papa aveva pronunciato le pi esplicite fra tutte le sue parole. Cos, Sarajevo si concessa per un momento di sentirsi meno sola: per un momento, perch tante proclamazioni di amicizia rendono ancora pi inspiegabile ed esasperante l'abbandono materiale. Questo avveniva in una notte limpida, senza elettricit, striata da voli di lucciole e da stelle cadenti - il loro tempo - sopraffatti subito, di nuovo, come ogni notte, dalla pirotecnia dei traccianti e dei razzi e delle bombe. Luned mattina sono andato alla Sinagoga, all'ora in cui si prepara la mensa e i bisognosi della Citt Vecchia cominciano gi a raggrupparsi. La comunit ebraica di Sarajevo conta oggi 560 persone: ne annoverava 1200 quando tutto cominciato, nella primavera del '92. Ben pi della met sono andati via, se si tiene conto dei nuovi ebrei, quelli che sotto il regime comunista evitavano di dichiararsi come membri della comunit. Andati via in una diaspora disordinata, negli Stati Uniti, in Canada, in Australia, in Israele, altrove ancora, guidati soprattutto dai legami di parentela. Ma la cifra dei rimasti che fa pi impressione, poich gli ebrei di Sarajevo come tiene a sottolineare il presidente della comunit, avrebbero potuto tutti andar via. Hanno scelto di restare, perch sono ebrei e sarajevesi, membri di una comunit e cittadini da cinque secoli. Fino al febbraio 1994, la Benevolencija, l'associazione umanitaria ebraica, ha organizzato convogli che hanno portato via da Sarajevo vecchi, malati e altri esuli: solo in parte minore ebrei dato che in tutto hanno potuto lasciare cos Sarajevo circa 3000 persone. L'ultimo convoglio part nel febbraio del 1994.

Lo ricordo bene, una fila di corriere mal ridotte, le famiglie separate, l'attesa nella strada in una mattinata tetra che sarebbe finita, di l a un paio d'ore, nel massacro nella piazza del mercato. Fino ad allora non c'era altro modo di lasciare il carcere di Sarajevo. Ora la comunit fatta soprattutto di anziani e adulti. C' una trentina di giovani sotto i vent'anni, nella comunit funziona anche una scuola, ma da due mesi chiusa. E' diventata troppo pericolosa, come ogni altra attivit e movimento. La Sinagoga, sul lungofiume, non mai stata colpita, ma poco tempo fa una granata caduta sul tetto dell'edificio adiacente in cui si trova la comunit: successo, si noti il riguardo, di sabato. La segretaria si chiama Dragica Levi, e mi illustra l'attivit svolta da un gruppo volontario di una sessantina di persone. Il presidente si chiama Ivica Ceresnjes, spiega che la solidariet israeliana non ha aspettato ieri per manifestarsi: e aggiunge anche che non sempre stata la benvenuta per le autorit bosniache. Cibo e medicinali inviati da Israele scomparsi in Croazia nel '92; un ospedale da campo offerto e rifiutato. In Israele, nel kibbutz di Deth Orem, vive da tempo un gruppo di 100 profughi bosniaci. Unita nell'impegno umanitario, la comunit non ha n vuole avere una unit politica: c' chi sente pi forte un impegno patriottico bosniaco, e chi preferisce il compito di tenere in vita la comunit, e di conservarne l'indipendenza e relazioni aperte. Abbiamo duemila anni di esperienza, dice amaro il presidente, ma vogliamo anche mostrare di non essere solo vittime o bersagli, che possiamo anche star saldi e aiutare gli altri. La Benevolencija ha sostegni non solo ebraici e gruppi di amici di Benevolencija in molti paesi europei e in Canada.

Non in Italia, dove gli aiuti sono individuali. Il presidente vuole citare il nome di un padovano, Gideon Czaczkez, che per tutto questo tempo venuto ogni due settimane a Spalato a portare aiuti. Gli chiedo se ha l'impressione che nelle comunit in Italia e altrove si sia capito davvero che cosa succede qui. Non sono solo gli ebrei, ma tutti gli stranieri a non avere ancora avuto una sensazione adeguata di che cosa succede da noi, dice. Gli ebrei, piuttosto, sono pi in grado di capirlo, e devono essere pi pronti a sapere di che cosa c' bisogno davvero.

QUANTI ALIBI SENTO IN GIRO (L'Unit, 28 luglio 1995)

Penso che nella discussione italiana ci siano ancora una quantit di confusioni e di falsi problemi. Eccone alcuni. 1) Quello che sarebbe necessario. Sarebbe necessario, ribadiva in una discussione radiofonica uno studioso di ex-Jugoslavia, che le Nazioni Unite mettessero in campo ottocentomilaun milione di uomini, autorizzati a una capillare operazione di polizia, che sequestrassero tutte le armi - fino ai coltelli di cucina ricorrendo, se costretti, alla forza. Ora, poich n io, n lo studioso suddetto, n alcun altro al mondo, pensiamo che una cosa del genere possa avvenire, dopo aver dichiarato il nostro comune dispiacere, sarebbe bene che tornassimo ad altro, e cio a ci che pu, forse, avvenire, anche per i nostri sforzi. 2) Gli interventi militari, dice lo stesso studioso, e altri con lui, non fanno che rinfocolare lo spirito vittimista e cospiratorio dei serbi, e la loro ossessione grande-serba.

Trovo in questo una preoccupazione, caratteristica di molti, che hanno frequentato e studiato la Jugoslavia prima degli ultimi anni, che non si tenga conto di quella antica e profonda cultura, mista di esaltazione guerresca e lugubre e di paura paranoica della congiura universale, che d alla ferocia serba una sua sincerit. Ma questo stato vero, a suo modo, anche per l'hitlerismo. (Vorrei qui, fra parentesi, menzionare il "boom" attuale dei cosiddetti Protocolli di Sion a Belgrado). Il delirio serbista e la ferocia vigliacca con cui si esercita impunemente non consentono ora terapie diverse dalla camicia di forza. Quanto al rischio di incattivirli, vi prego, non c': non ne hanno bisogno. Sono pronti a tutto il male possibile. Quello che hanno gi fatto, immane, solo un prodromo di quello che si accingono a fare se nessuno li fermer, con le cattive. 3) C' in molti, che hanno un rimpianto jugoslavista (ancora fra parentesi, l'unica terra che non abbia rinnegato Tito oggi la Bosnia) e una biografia di sinistra, una riluttanza nonostante l'orrore del nazionalcomunismo di Milosevic, ad abbandonare del tutto l'idea di una Serbia antifascista. Pensano, chiss perch, che la richiesta di fermare l'aggressione serba celi una inclinazione ad altri nazionalismi rivali, quello attuale croato, o quello potenziale islamico-bosniaco. Nella discussione costoro evocano polemicamente Tuzla contro altre citt bosniache, perch Tuzla ha un sindaco socialdemocratico, Bezlagic, e una municipalit fieramente ostile agli integralismi etnici. Ma per fortuna anche altrove, e in primo luogo a Sarajevo, l'etnicismo ben lontano dal prevalere. E soprattutto costoro omettono di dire che Bezlagic chiede, anzi scongiura l'Europa e l'Occidente e gli amici della Bosnia pacifica e

conviviale di "bombardare le postazioni, i depositi, le retrovie dei comandi degli aggressori cetnici e serbi". Questa omissione imperdonabile, e serve solo a confondere il pubblico. In Bosnia non si sta combattendo una guerra parallela fra opposizione e governo, e le tendenze islamiste e intolleranti, che ci sono, sono rafforzate solo dall'inerzia militare dell'Europa e delle Nazioni Unite. Inoltre, fra gli studiosi della Jugoslavia, ci si aspetterebbe che spiegassero che, dei nazionalismi che hanno abbrutito questa terra, quello ustascia e quello cetnico soprattutto, un nazionalismo bosniacomusulmano stato storicamente irrilevante. Che la Bosnia ha avuto una parte decisiva nella resistenza antinazista. Che il genocidio antimusulmano stato una tentazione ricorrente dei nazionalismi maggiori, ed tentato per la terza volta in questo secolo. Per riconoscere e divulgare queste verit non occorre avere alcuna simpatia islamista, anzi. Io personalmente non ne ho, e penso all'integralismo islamista come all'ideologia pi minacciosamente aggressiva di questa fine secolo. Questa semmai una ragione supplementare di simpatia e solidariet con la societ sarajevese e bosniaca, che si vuole cancellare dalla terra e condannare a un esilio di disperazione e di rancore. 4) Qualunque intervento internazionale, si dice, deve essere legittimato da una chiara scelta antinazionalista. Sono perfettamente d'accordo. A condizione che non sia una bella frase per eludere l'imperativo pi urgente ed essenziale: il soccorso alle vittime di un metodico mattatoio. Non intendo la preziosa opera degli infermieri e degli impartitori di benedizioni estreme ai bordi del campo. Intendo la cessazione del massacro, il suo arginamento. Subito, ora.

Tutti quelli che criticano, in nome di qualunque scelta - il realismo, o gli ideali politici, o le idiosincrasie personali - la richiesta impellente di un'azione internazionale anche e soprattutto armata, devono dire che cosa a loro volta propongono per rispondere a chi sta morendo, soffrendo, scappando, a chi sta perdendosi d'animo. Se no, non hanno che da tacere. Non si pu non vedere come un efficace soccorso, un vero sforzo di restaurazione del diritto e dell'umanit violata, l'unico antidoto al trionfo dei nazionalismi e dei razzismi. Questo vale anche per quanti paventano la trasformazione dei perseguitati di oggi in persecutori di domani. Stare dalla parte del diritto e delle vittime la condizione per chieder loro, per pregarle - quanto a esigere, chi potr pi credersi autorizzato a esigere qualcosa dopo tutto ci? - di non cedere allo spirito della vendetta. Quanto a questo, e senza abbellire il quadro, voi conoscete molti popoli che, dopo quattro anni di una simile persecuzione, traditi nella loro fiducia e tenuti con le mani legate, non avrebbero fatto ricorso al terrorismo internazionale? 5) Vorrei menzionare un altro luogo comune, quello delle responsabilit storiche del nazismo tedesco e del fascismo italiano, che impedirebbero ai due paesi di metter piede con la forza internazionale nella ex-Jugoslavia. Anch'esso diventato un alibi per le coscienze pigre. Le ragioni migliori della memoria storica dei nostri paesi spingono all'impegno pi pieno ed efficace. E solo l'ipocrisia pu far distinguere, a questo punto, fra prestare una pista d'aviazione o calcare una strada sul monte Igman. L'Italia la vicina della Bosnia martoriata: e, evangelicamente, alla lettera il suo prossimo.

La Germania il paese pi importante dell'Europa che non c', di quella che potrebbe esserci. Nella Jugoslavia titoista circolava una eccellente barzelletta su due fraterni compagni di lotta partigiana, Mirko e Branko. I due fanno una sortita temeraria a una postazione nazista, strisciando nella notte. Quando sono vicini al nemico, Mirko sta per essere sopraffatto da uno sternuto. Branko gli stringe la bocca con la mano sibilando: Zitto, che svegli i tedeschi!. Passa qualche decina d'anni, Mirko un affermato professionista e va per un convegno nella citt di Branko, che non ha mai pi visto, e che diventato un ricco albergatore turistico. Mirko cos ansioso che arriva di mattina presto nell'albergo di Branko, lo vede alla reception, e sta per gridargli: Branko!, quando l'altro gli copre la bocca con la mano sussurrando: Zitto, che risvegli i tedeschi!. Ecco. Era lo stesso humour ex-jugoslavo ad aver risolto la questione. Ora hanno svegliato tutti, anche i tedeschi. 6) Resto sorpreso che ogni volta di nuovo si tiri fuori la questione dell'affrettato riconoscimento di Slovenia, Croazia e poi BosniaErzegovina. Il dubbio forse infondato? Nient'affatto. Ma sono passati anni, e la recriminazione polemica e la ricostruzione storica non aiutano di un millimetro ad affrontare la realt attuale, e a volte sono un modo per non affrontarla. Sul punto io ho un'opinione, ma sono davvero pronto a cambiarla con un'altra che si dimostri pi persuasiva. La mia opinione che l'Europa avrebbe dovuto affrontare non alla rinfusa, e tantomeno con rivalit bottegaie, il riconoscimento delle

nuove nazioni, e richiedere le migliori condizioni di democrazia, di libert di opinione e di organizzazione, di tutela delle minoranze. Ci non toglie che l'indipendenza nazionale di quei nuovi Stati fosse inevitabile. Io penso anzi che anche la politica pi lungimirante e comune non avrebbe potuto prevenire la guerra: arginarla e limitarne orrori e durata, questo s. Ripeto che non tengo moltissimo a questa opinione. Posso cambiarla. Ma non riesco ad ammettere che quando si discute del macello che avviene sotto i nostri occhi, la scolastica ripetizione della lezioncina sulla Germania e il Vaticano ingordi di riconoscere Slovenia e Croazia sia presa sul serio. Interessante, signori: ma non c'entra niente.

COMPLICI DEI SERBI, NOVE VOLTE MALEDETTI (L'Espresso, 28 luglio 1995)

Vorrei formulare un ultimatum anch'io. Con quale autorit? Nessuna, purtroppo. Ma gli ultimatum delle massime autorit del mondo si sono fatti deridere da un manipolo di criminali. Io non espongo allo scacco e al ludibrio altri che me. Inoltre, il mio ultimatum gi scaduto. Tre anni fa, un anno fa, ieri. 1. Intimerei alle autorit che in Europa hanno sostenuto l'illiceit o l'impossibilit dell'impiego di una forza internazionale a tutela delle vite e del diritto nella Bosnia-Erzegovina di astenersi d'ora in poi da

ogni visita ai santuari degli stermini del secolo, alle citt armene, ai lager, ai gulag, alle foibe. 2 . Chiederei a coloro che si sono messi in coda per imbarcarsi sulla nave di Greenpeace - chi di noi non si arruolerebbe? Io, certo, di corsa - di fare domanda per azioni altrettanto esemplari e spettacolari in un punto qualunque della Bosnia. In subordine, inviterei ciascuno di loro a chiedersi in coscienza se ricorda il nome di Gabriele Moreno Locatelli. Mai sentito, vero? Era un ragazzo cattolico e pacifista che, con altri due, ebbe l'idea (malaugurata idea, si fosse potuto sventarla!) di camminare a piedi, con uno straccio bianco in mano, sul ponte di Sarajevo che separa gli assediati. Compiuti i prevedibili pochi passi, i cetnici lo fucilarono. Ripeto il nome: Gabriele Moreno Locatelli. Le iscrizioni sono aperte. I servizi segreti della ragion di Stato francese (non parliamo dell'italiana) sono infatti pronti ad assassinare un innocente in Polinesia. Perfino i camerieri dell'ambasciata di Palazzo Farnese possono rivelarsi un po' maneschi. Ma in Bosnia essere trucidati all'ingrosso il minimo garantito, ed spesso il male minore. Dunque, prego: doppia tessera. O, in cambio, un po' di imbarazzo. 3. Intimerei agli scopritori tardivi della geopolitica, trasformata da criterio di valutazione delle forze reali in valore normativo, da intenzione realistica in cinismo compiaciuto, di mettere in epigrafe

sulla loro abbondante produzione scritta e orale la rivalutazione dello spazio vitale nazionalsocialista e del realistico atteggiamento francoinglese di Monaco 1938. Intimerei loro, in nome della stabilit dei Balcani, vitale per il sacro egoismo di noi italiani, di smettere con le mezze frasi e le mezze misure, e di esigere il bombardamento internazionale delle citt bosniache che ancora resistono all'assedio, e la traduzione rapida degli scampati fuori dall'Europa. Non c' un'Israele per loro? Ci sar un futuro da lavavetri, o da mendicanti col cartello: Ero di Sarajevo. 4. Chiederei a quanti hanno aspettato la grande scena estiva dei deportati da Srebrenica e da Zepa girata e trasmessa dagli stessi deportatori, per inclinare a un qualche uso internazionale della forza - ma, mi raccomando, circoscritto! ma, mi raccomando, non troppo rumoroso! - di non essere ora stupidi quanto sono stati finora ipocriti. Qualunque impiego della forza, anche solo lo sgombero di un tratto di strada verso Sarajevo, costretto a prevedere - anzi, a ritenere pi che probabile - una ritorsione cetnica spropositata; del resto, l'hanno detto. L'hanno sempre detto: non si vergognano, loro, n mancano di parola. E allora, di fronte alla strage dei civili deportati, o al bombardamento a tappeto delle citt, o allo sgozzamento in diretta dei soldatini dell'Onu, che cosa dovrebbero fare gli sgomberatori del tratto di strada (mi raccomando: un piccolo tratto!)? O ancora, i cento o duecento o trecentomila militari dell'Onu in servizio di interposizione pacifica, che i pacifisti riveduti in extremis continuano ad auspicare (e di cui tutti sappiamo che non arriveranno mai: ma all'ipocrisia non c' fine), che cosa farebbero

quando, mezz'ora prima del loro arrivo, venissero fatti segno alla cattura, alla gogna, alla violenza e alla brutalit dei cetnici? Intimerei ai sostenitori di queste posizioni di estenderle al tema della criminalit comune e organizzata: si dicano contrari, nel caso di una vile aggressione stradale contro un inerme, non solo a intervenire in sua difesa ma anche a telefonare al 113. Si dicano contrari, nel caso di Capaci e di via D'Amelio, a ogni impiego della forza. Si dicano favorevoli al negoziato. Al pi alto livello, con Tot Riina. 5. Esigerei dai ragazzi - anche coi ragazzi bisogna per una volta essere esigenti - i quali, per amore della ribellione e della sinistra, si trovano a seguire e perfino ad ammirare leader che proclamano con fatua tranquillit la propria equidistanza fra il nazionalcomunismo serbo e la legittima e martoriata Repubblica bosniaca, di studiare, viaggiare, pensare molto, e infine scegliere con indipendenza intellettuale e morale a che causa devolvere la propria voglia di ribellione. 6. Chiederei ai cattedratici d'opinione e di morale che sono riusciti a tenere per tre anni e tre mesi un mirabile silenzio sul genocidio metodicamente perseguito della Bosnia, di restare ancora in silenzio. Grazie. 7. Pretenderei dalla generalit dei direttori di giornale - ci sono eccezioni? S, pochissime - che licenzino la generalit dei loro inviati in Bosnia, o almeno rinuncino ai loro servizi. Infatti, qualunque fosse la testata per cui scrivevano, qualunque fosse l'opinione politica d'origine, qualunque la differenza d'et, di stile e

di temperamento, nel corso del tempo la stragrande maggioranza di chi ha visto le cose coi propri occhi e le ha raccontate con la propria voce ha saputo e detto senza esitazione chi erano gli aggressori e chi gli aggrediti, e quale atteggiamento internazionale fosse giusto e necessario. I direttori, e la generalit dei loro opinionisti, hanno taciuto, o detto cose opposte, con tono tanto pi solenne e autorevole quanto meno competente e autorizzato. Bella lezione, anche questa. Intimerei di licenziare i loro corrispondenti troppo appassionati soprattutto a quei numerosi direttori che, non fregandogliene niente di Sarajevo, hanno proclamato per tre anni e passa nelle riunioni di redazione: Di Sarajevo non gliene frega niente a nessuno. 8. Esigerei da tutti coloro che si pronunciano con la gratuit pi demagogica e irresponsabile sulla Bosnia, ripetendo aneddoti del '44, alludendo con aria grave al groviglio balcanico e alla ferocia atavica di quelle esotiche trib (come con la mafia fino a poco fa: che si ammazzino fra loro, quanto a noi, quieto vivere), omettendo con cura di andare mai a guardare una cartina geografica, cos, per avere un'idea su dov' Tuzla, e quanto sia vicina Sarajevo, esigerei dunque da tutti costoro che ammettano che le loro saccenti e ignobili esternazioni non sono affatto gratuite, ma sono degli atti di guerra. La cosiddetta guerra di Bosnia non pu essere infatti combattuta, e tanto meno vinta, dai bosniaci, smisuratamente pi deboli di fronte alla potenza militarista serba, e per giunta tenuti disarmati dalla comunit internazionale, in cambio delle promesse di protezione di cui abbiamo visto l'effetto.

La guerra di Bosnia si combatte, si perde o si vince qua, un po' come la guerra del Vietnam fu davvero perduta dagli Stati Uniti negli Stati Uniti. Ammettere che Sarajevo in Italia e in Francia, in Olanda, in Norvegia non solo moralmente consigliabile: praticamente decisivo. 9. Non avrei niente da chiedere al papa, unica grande autorit ad aver cercato e a volte trovato parole e accenti che si commisurassero con l'orrore bosniaco e i suoi responsabili. Il papa del resto si rassegnato a vivere a Roma, e non a morire a Sarajevo. Dunque: a vivere per Roma, e a non morire per Sarajevo. Ma quest'ultima cosa non si pu chiedere a nessuno, e nemmeno a un papa. Mi fermo qui. Ogni megalomania deve arrestarsi prima del numero Dieci. Ako Bogda, dicono a Sarajevo, se Dio lo concede. In effetti, forse non resta altro.

L'INCENDIO CONTAGIOSO DEI BALCANI (L Unit, 1 agosto 1995)

Con l'avanzata croata che negli ultimi giorni ha praticamente tagliato fuori la Krajina di Knin, e reso possibile un ricongiungimento con gli assediati di Bihac, lo scenario della guerra cambiato. La prima domanda se, nonostante l'espansione di fronti, uomini e mezzi coinvolti, gli scontri resteranno circoscritti o se i fronti diversi si salderanno in un unico e contagioso incendio, coinvolgendo ufficialmente, e non solo di fatto, come gi robustamente avviene, gli Stati croato e serbo-montenegrino.

La prima ipotesi la pi conveniente per Tudjman e per lo stesso Milosevic, ma non detto che essi possano e sappiano controllare le pressioni di un processo che pu prendere loro la mano. Comunque sia, la situazione gi esplosiva. Attorno a Bihac sono impegnate una serie di forze regolari serbi in quantit elevata, forse 25-30 mila uomini, serbi della Krajina, musulmani di Abdic da una parte, dall'altra bosniaci musulmani e croati che si aggirano sui 100 mila combattenti, evocando le battaglie campali di altri tempi. Ai confini con la Slavonia, forze croate e regolari serbe si ammassano. Nella Bosnia orientale, le milizie di Karadzic sono mescolate ad almeno 6-7 mila regolari serbi. Scontri sono in corso nell'intera cerchia di montagne a largo di Sarajevo, e poi nella Bosnia centrale. La conquista di Donji Vakuf e Jajce da parte dei croato-bosniaci, che sembra imminente, stringe ulteriormente il cerchio di Knin, e apre la strada verso Banja Luka. Tutto questo movimento offre gi un quadro assai pi vicino a una guerra regolare fra Stati ed eserciti, di per s allarmante, e destinato oltretutto a ingoiare e zittire nel tuono dei suoi cannoni il bombardamento e la sparatoria sui civili. Le istituzioni internazionali, che hanno camuffato la propria rinuncia a un'azione di polizia come una lungimirante avversione alla guerra, si troveranno sempre pi di fronte a una vera guerra, arginabile con un costo umano e materiale via via pi alto. A essere ottimisti a oltranza, e a divertirsi a scherzare col fuoco, si pu sperare che il surriscaldamento delle azioni militari ridimensioni la protervia serbo-bosniaca e prepari una qualche forma di compromesso fra Tudjman e Milosevic.

Del capo di Belgrado si pu pensare che sia disposto a buttare a mare Karadzic quando ritenga di poterlo fare rinsaldando il proprio potere, e senza essere insidiato dai suoi rivali interni, che sono soprattutto nella nomenklatura militare e nella gerarchia ortodossa. Inoltre, difficile pensare che la comune popolazione serba (e, reciprocamente, quella croata) sia particolarmente incline a un fervore di solidariet bellicista al fianco degli scalmanati serbobosniaci. E' anche vero per che le furbizie dei capi hanno il fiato corto, che finora le ribalderie di Karadzic sono sempre riuscite a forzare la mano, oltre che ad obbedirle, di Milosevic, e che i russi, i quali minacciano di riarmare i serbi se cadesse l'embargo sulle armi ai bosniaci, hanno gi generosamente seminato di missili la Serbia e la sua dipendenza serbo-bosniaca. La situazione non mai stata cos grave. D'altra parte, nessun negoziato immaginabile senza una modificazione dei rapporti di forza sul campo, e questa avrebbe potuto venire o per volont e iniziativa internazionale, o attraverso un'espansione guerresca fra i contendenti locali. Chi spera in un negoziato - cos come si spera in una pioggia, guardando in alto in un cielo senza promesse, al colmo di una siccit - teme anche che il mandato di cattura internazionale contro Karadzic e Mladic ne esasperi l'isolamento, togliendo loro ogni via di ritirata. Ma la furia era gi scatenata, e d'altra parte le autorit del mondo civile hanno dato sufficiente prova di essere disposte a mettersi a un tavolo, e a tavola, con qualunque caporione criminale. Piuttosto, il mandato internazionale pu far pensare che qualunque negoziato resti del tutto improbabile senza una liquidazione dei capi cetnici.

Tutto molto complicato e terribile dunque, sul campo di battaglia come sui divani della diplomazia. Militarmente, il blitz croato non sufficiente a chiarire la prospettiva. Costretto a rinnovarsi e riorganizzarsi, l'esercito croato sembra diventato pi efficiente, e capace di far perno sulla specializzazione e sulla mobilit. Sull'altro fronte, i serbi restano fedeli allo stile militare incentrato su una gran massa di manovra umana, sostenuta da un'altrettanto massiccia potenza di artiglieria. Quanto ai bosniaci, come mi stato detto spiritosamente, loro avrebbero la stessa tattica, solo che non hanno l'artiglieria. La sostituiscono con una variante turca: l'esercito massiccio e anonimo, pi l'arditismo individuale dei suoi eroi. Se le Nazioni Unite continueranno, come prevedibile, a stare a guardare, la revoca americana dell'embargo (se e quando verr) non cambier ancora le cose, se non si tradurr in un effettivo impegno americano per fornire praticamente le armi. Senza di ci, revoca dell'embargo e prosecuzione della presenza francoinglese potranno durare ancora. Ma gli errori di calcolo e gli incidenti di strada, su una scacchiera diventata cos gremita, sono infinitamente possibili. Fino a poco fa, la difesa effettiva delle aree protette (Srebrenica e Bihac comprese) e l'apertura di Sarajevo erano stati gli obblighi minimi delle Nazioni Unite, e insieme la condizione per una reimposizione di negoziati. Ora siamo molto oltre, Srebrenica stata un campo memorabile di massacri e deportazioni, Zepa stata rasa al suolo, Gorazde e Sarajevo sono la

posta di ritorsioni devastanti, e nessuna citt della Bosnia e della stessa Dalmazia pu sentirsi al riparo. Ecco perch, dagli stessi bosniaci, gli episodi militari ultimi sono guardati con un sentimento misto di speranza e di angoscia. Un desiderio ormai sopraff ogni altro pensiero: andare via di qua, il pi lontano possibile, mandare via almeno i pi inermi, i bambini, le donne. Questa la vera questione lacerante della democrazia e dei diritti umani nella Bosnia: molto di pi dell'avanzata pretesa del fondamentalismo, o delle tentazioni alle prepotenze tecniche reciproche negli impieghi pubblici e negli usi privati. E' la questione cruciale della libert e dell'umanit in una condizione estrema: di questo parleremo la prossima volta.

LE TRE VERITA' DI SARAJEVO (L'Unit, 2 agosto 1995)

La verit esterna di Sarajevo questa: uomini sparano sui bambini, ogni giorno, da pi di tre anni.

Oggi voglio parlare di tre verit essenziali interne a Sarajevo. La prima il dolore per la separazione delle famiglie. In un numero grande di case entrata la morte. In un numero molto pi grande arrivata la separazione degli affetti familiari, la sofferenza e l'offesa che Natalia Ginzburg sentiva come la pi terribile, parlando del destino di una sola bambina. Uomini separati dalle donne, genitori separati dai figli, fratelli e sorelle dai fratelli e dalle sorelle, nonne dai nipoti. Nel colmo dell'orrore, come a Srebrenica, la divisione delle famiglie avviene come nelle selezioni naziste: vecchi, donne e bambine da una parte, uomini e ragazzi dall'altra, da uccidere o da deportare. Da Sarajevo sono partiti mogli figli e fratelli, spesso ciascuno per un paese diverso, per una citt diversa. Per anni, per mesi, non si vedono. Si sentono con difficolt, non c' la posta se non grazie ai volontari, al telefono stentano a parlare perch sono sopraffatti dai singhiozzi. Il posto telefonico, che non ha cabine chiuse, esibisce questo tormento: la domanda ansiosa sul costo degli scatti, il tentativo di tenere una voce normale mentre si dice: Qui va tutto bene. Una signora mi ha mostrato la lettera del suo figlio undicenne che vive a Innsbruck, da pi di due anni, e le racconta di essere stato il primo della classe, anche in tedesco, ma gli dicono lo stesso: straniero, e anzi: Bosniaco. In una condizione simile, le dico per confortarla, pu diventare un uomo molto bravo. S, dice lei, ma intanto ha undici anni, e non ha la spalla di sua madre su cui piangere: non dice niente del bisogno che prova la sua spalla. Una signora molto anziana - tanti vecchi sono rimasti soli nelle case dopo avermi mostrato i vecchi album di fotografie di figli e nipoti

profughi in diversi paesi del mondo, mi ha detto: E' durato troppo, non li vedo da pi di due anni, e vorrei almeno avere delle fotografie nuove per quando ho bisogno di piangere. La seconda verit di Sarajevo dal di dentro in gran parte il risvolto della prima, poich le case di famiglia sono il luogo degli affetti ma anche delle insofferenze e delle violenze. La seconda verit che la gran maggioranza delle persone combatte una seconda o una terza guerra privata. Le violenze domestiche non cessano di fronte a quella colossale esterna. Mogli continuano a essere picchiate o insultate dai mariti, e a sognare una liberazione diventata cento volte pi impossibile. Malati, disabili, devono essere curati in una condizione eroica: immaginate una persona in carrozzella che abiti a un piano alto in una citt senza corrente elettrica. Tutte le abitudini rozze e i modi brutali del tempo di pace sono potenziate smisuratamente nella citt assediata: pregiudizi virilisti, impazienza verso i deboli e i lenti, si deve fare economia delle premure e delle attenzioni agli altri. Genitori tengono a bada bambini reclusi. Ci si sfoga. La terza verit interna di Sarajevo che i suoi cittadini non sono liberi di muoversi, e non hanno mai desiderato tanto di fuggire, e almeno di mettere in salvo i propri cari pi inermi. Penso che questo sia il problema cruciale per la democrazia della repubblica bosniaca, sottoposta ad una prova cos tremenda. Naturalmente la libert negata ai cittadini di Sarajevo (e di altre citt bosniache) da un assedio brutale e sanguinoso, che ha fatto di una capitale europea una grande galera.

E' negata anche dalle Nazioni Unite e dai grandi del mondo, che non hanno saputo e voluto realizzare il proprio impegno di aprire l'accesso alla citt. Materialmente la sortita da Sarajevo l'affare di un cunicolo sotterraneo e clandestino, proprio come un tunnel da evasi, e poi un percorso tra le bombe e le fucilate. Tutto questo spiega a quale punto feroce sia violentata dall'esterno la libert dei sarajevesi. Ma essa anche limitata dall'interno. Agli uomini in et militare - cio i ragazzi di 15 anni fino agli adulti di 55 - impossibile lasciare il paese, cos come alle persone che svolgono un'attivit ritenuta necessaria socialmente: e questo penoso, ma comprensibile. Ma difficolt pi o meno severe, spesso insuperabili, sono opposte anche alle altre categorie di persone: a volte semplicemente il muro dell'inerzia burocratica. Le carte sono un sogno tormentoso dei sarajevesi. Le autorit bosniache non mancano di ragioni serie, da quelle militari una citt assediata non in grado di resistere senza la mobilitazione della sua anima civile - a quella pi netta e forte: che se si consentisse un esodo senza vincoli Sarajevo ne sarebbe svuotata, e il proposito infame degli assedianti, la pulizia etnica, la piazza pulita, sarebbe realizzato nella rassegnazione delle stesse vittime. Queste ragioni, ripeto, sono forti.Ma non abbastanza, sono convinto, da prevalere sull'altra ragione: che i diritti personali fondamentali non possono essere negati n sospesi, nemmeno e vorrei direi tantomeno in una condizione di emergenza la pi strenua. Sarajevo ha gi perduto in questi anni un numero incalcolato, e comunque altissimo, oltre ai morti, di suoi antichi cittadini, pi di centomila, e

spesso il fiore della sua intelligenza, della sua giovent, della sua socievolezza. In gran parte, l'esodo stato rimpiazzato dal nuovo arrivo di profughi dalle provincie della Bosnia, persone di origine pi umile e meno urbana, accolte con preoccupazione, come una minaccia alla fisionomia liberamente cittadina, ma spesso diventate accaniti difensori della loro nuova dimora, come coloni spediti alla frontiera. Sarajevo gi un'altra citt, cambiata dai nemici di fuori e dal viavai di dentro. La stretta nelle condizioni dell'assedio e nello sforzo di una risposta militare ha ora irrigidito gli ostacoli alla libert di movimento. Ma questo avviene mentre i sarajevesi sono pi estenuati, mentre temono di pi la distruzione della citt, mentre paventano un inverno pi terribile dei tre terribili che l'hanno preceduto. A camminare per le strade di Sarajevo oggi, non ci si sente chiedere magari silenziosamente, discretamente - un soccorso qualunque, ci si sente implorare un aiuto a fare uscire donne e bambini. Questo il fondo di tutto. Padri e madri chiedono di portar via comunque i loro figli, pur di allontanarli da questa minaccia. Gli spettatori di "Schindler's List", i sottili commentatori delle affinit e differenze con altri ghetti e altri assedi, sappiano che siamo a questo punto. Ci sono ancora molti che non vorrebbero a nessun costo lasciare Sarajevo: ma pochissimi che non stiano pensando alla necessit di mandare in salvo i loro figli. Un vero, enorme pericolo incombe sulla citt. Le autorit hanno una scelta terribile da compiere.

Non ci si aspetta da loro n che organizzino l'evacuazione della propria capitale, tuttora viva e piena di dignit; n che, all'opposto, vedano anch'esse nei propri concittadini gli ostaggi di una intenzione sia pure nobile e coraggiosa. Ma che, nei limiti imposti da una condizione forsennata, riconoscano ai propri cittadini la libert di movimento, anche una condizione per ridurre la discriminazione fra ricchi e poveri, fra raccomandati e abbandonati. Considero questo punto come il pi importante ben pi di quel fondamentalismo cos rincorso dagli osservatori a un tanto al metro, pi di questioni come la corruzione indotta dall'economia di guerra, o le piccole e medie epurazioni reciproche indotte dalla lottizzazione etnica. Io credo che la difesa armata dei bosniaci sia sacrosanta e mi auguro che sia forte. Questo non mi rende meno solidale con un obiettore, un disertore, un fuggiasco da quello come da qualunque altro esercito. Ma chiunque deve concordare su ci: che la popolazione civile deve poter fuggire se non ne pu pi, se ha paura. Quando sar in salvo, comincer per lei un altro dolore, un altro calvario. Ci sar una Sarajevo nei loro cuori: forse altrettanto necessaria, quando verr il giorno della ricostruzione.

SOGNANDO ANANAS, A NOVE ANNI (L'Espresso, 4 agosto 1995)

Sono andato a portare alcune cose a una signora, cardiologa. Un po' di soldi, batterie per la radio, sali minerali, un numero di una rivista femminile italiana, cibi in scatola, un pacco di candele, assorbenti igienici, un po' di Lego a pezzetti, qualche indumento. Ci sono andato alle sei di mattina, appena finito il coprifuoco, perch mi aveva detto che era l'ora meno pericolosa, e in altre ore sarebbero state in cantina, o non avrebbero aperto la porta. La mia amica ha una bambina che ha nove anni, bellissima e magrissima, non vuole mangiare: dice di aver voglia solo di ananas. Ho portato anche alcune scatole di ananas, comprate per sette marchi l'una al mercato coperto della Citt Vecchia. Il mercato all'aperto di Markale, quello della strage del febbraio del '94, non lavora pi. La mia amica e la sua bambina abitano al 14 piano. Si deve fare una corsa nel tratto di strada davanti all'ingresso, perch l gli "snajper" sparano molto. Poi si sale. Naturalmente non c' corrente, e bisogna salire e scendere a piedi. Fino al 3 terzo piano arriva un po' della luce della strada, poi buio pesto. Si tiene una mano sulla ringhiera, sperando che non ne manchi un pezzo. Quando due persone si incontrano lungo le scale se ne accorgono dal rumore dei passi e si avvisano. Chi sale tiene la parte interna.

La poetessa Ferida Durakovic, che abita a un 12 piano, ha raccontato di sua madre che aveva legato uno spago alla ringhiera per riconoscere il suo piano. Per una signora anziana fare per sbaglio un piano in pi oltre il 12 duro. Al mio 14 piano mi hanno aperto madre e figlia, cos contente che anch'io sono stato straordinariamente contento. Di fronte alle loro finestre c' un grande cimitero, un viadotto, e delle palazzine a schiera. Il posto bombardato quasi tutti i giorni e tutte le notti. Quando non scendono in cantina, di notte loro fanno una barricata con divani, poltrone e altri mobili contro le stanze dei due lati esposti della casa. Di mattina, poich sono molto ordinate, rimettono tutto a posto. Hanno uno sgabuzzino, a sinistra dell'ingresso, che era un ripostiglio delle scarpe. Adesso la bambina dorme l, un po' rannicchiata perch, pur essendo magra, gi alta. La madre dorme su un tappeto, sul pavimento davanti alla porta. Quando non dormono e i bombardamenti sono pi paurosi, madre e figlia stanno accovacciate a fianco nello sgabuzzino. La bambina molto docile e aggraziata, solo ogni tanto ha un improvviso gesto di insofferenza. Le piace soprattutto leggere, e da un po' di tempo si messa a imparare a memoria poesie, che ripete a mezza voce quando resta al buio. La madre va all'ospedale un giorno s e un giorno no. Nell'ultimo pezzo di strada deve aspettare il blindato dell'Unprofor che si muove a passo d'uomo, con i pedoni che gli camminano chini accanto.

Per tutto il tempo lei in pena per la bambina e per se stessa: infatti la bambina resterebbe sola. Una sorella di lei veniva ogni tanto a fare compagnia alla bambina. Ma la famiglia di sua sorella abitava al 5 piano di un edificio in cui le granate cetniche hanno distrutto un piano alla volta partendo dall'alto. Nell'ultimo mese, quando stato sventrato il 6 piano, la famiglia, pur angosciata di lasciare la casa, ha deciso di trasferirsi dalla nonna, all'altro capo della citt. Cos ora la bambina resta sola, aspetta e forse dice poesie.

SCONTRO AI VERTICI DI SARAJEVO (L'Unit, 5 agosto 1995)

Il primo ministro di un paese, nel punto pi critico di una guerra, che si dimette, in aperta rottura col partito di maggioranza cui appartiene: la notizia di quelle sorprendenti. La mia sorpresa, almeno, stata forte. Ha un'attenuante: nel modo improvviso e impulsivo in cui Silajdzic ha preso la sua decisione.

L'uomo noto per il suo nervosismo cui ha ceduto questa volta pi clamorosamente. Ma la divisione interna all'S.D.A., il partito a base etnica musulmano, di lunga data, e oppone Silajdzic alla parte pi rigida e neofita e all'entourage di Izetbegovic. L'occasione immediata della crisi stata duplice, ed dipesa da una forzatura dell'ala pi integralista dell'S.D.A. Il punto chiave un affare stretto di denaro e di potere: il controllo delle donazioni estere alla Bosnia, diventate determinanti per le finanze della repubblica. Silajdzic vuole mettere questo flusso di denaro sotto il controllo del governo, i suoi rivali vogliono assicurarlo al partito. Il secondo punto la questione della presidenza, che Izetbegovic e i suoi, forzando la norma costituzionale sul carattere elettivo e collegiale, vogliono assegnare in esclusiva a un membro del partito musulmano. Le posizioni pi oltranziste sono state imposte all'interno del partito alla vigilia della riunione del parlamento bosniaco, aperta gioved a Zenica. Silajdzic ha protestato che il governo non era stato neanche interpellato sui due temi cruciali, n messo al corrente dell'ordine del giorno. Di qui la sua protesta fragorosa. Nel parlamento, la reazione dei suoi oppositori stata da principio imbarazzata e grossolana. La questione sar discussa in un'altra sessione, ha dichiarato il presidente dei deputati. E il segretario ha liquidato la richiesta di rendere nota a tutti i deputati la lettera di Silajdzic, secondo l'intenzione espressa del premier, dicendo che simili servizi non erano affar suo.

Tuttavia il parlamento molto pi indocile delle sezioni di partito, e venerd un numero notevole di voci di tutti i gruppi si sono levate in appoggio a Silajdzic. Fuori dal parlamento poi, Silajdzic gode di una grande popolarit e stima, anche nell'opposizione. Fra molte persone comuni, un conflitto fra Izetbegovic e Silajdzic sentito con un vero dolore, essendosi tenacemente coltivata l'idea di un legame da padre a figlio, fra il patriarca della Bosnia musulmana e il giovane, brillante e pragmatico capo del governo. Con la drastica differenza di contesto, viene in mente una minacciosa similitudine con l'Iran di Khomeini e del suo figlio prediletto, il realista Ghobzadeh, che fin giustiziato al cospetto impassibile del vecchio ayatollah. Silajdzic ha anche lui una genealogia islamica rigorosa, figlio di un religioso, e per anni segretario del "reis" di allora: ci che fece a lungo sospettare in lui, insieme al suo carattere brusco, una inclinazione integralista. In realt, fin dallo scoppio della tragedia bosniaca, quando si trovava all'estero, Silajdzic stato l'artefice della diplomazia bosniaca, il pi efficace assertore della causa bosniaca presso le istituzioni e l'opinione pubblica internazionali. E' stato ministro degli Esteri e primo ministro per volont dello stesso Izetbegovic. La distanza fra i due stata fisicamente visibile a Zenica nelle cinque sedie vuote che li hanno separati. Fra i punti di contrasto di cui si parlato ci sarebbe stata anche l'intenzione del premier di assegnare il ministero degli Esteri, dopo la morte di Lubjiankic, un uomo abbastanza grigio, ammazzato su un elicottero abbattuto dai cetnici, a un quarantenne esponente del partito

socialdemocratico - gli ex-comunisti, pi o meno - un professore di informatica ferito seriamente da una granata all'inizio della guerra. Insomma, se all'origine delle dimissioni di Silajdzic c' un'offensiva dei suoi avversari nell'S.D.A., la partita tutt'altro che giocata. A quanto pare, lo stesso comandante del Quinto Corpo bosniaco, generale Dudakovic, ha fortunosamente cercato un contatto telefonico con Silajdzic la mattina di venerd; oggetto ufficiale della conversazione stata la situazione di Bihac, di cui Dudakovic responsabile, e alla quale Silajdzic ha dedicato negli ultimi giorni il suo principale impegno internazionale. Una delle operazioni pi importanti di venerd stata proprio la convergenza fra esercito croato e Quinto Corpo nell'area di Bihac. Ma il generale gli ha anche espresso il suo appoggio: si tratta dell'appoggio pi autorevole, e tutt'altro che isolato negli ambienti militari. Quanto a Izetbegovic, il suo discorso al parlamento gioved stato giudicato da tutti sconcertantemente mediocre e affannato. Il vecchio presidente, che non ha speso una parola sulle dimissioni minacciate dal premier, ha sostenuto la sua tesi sul successore alla presidenza con un racconto sulle centinaia di granate che hanno messo a repentaglio la sua vita, al palazzo a Sarajevo, o sul monte Igman: ci che vero, ma che parso un modo meschino di giustificare la pretesa del monopolio musulmano sulla carica, che esponenti autorevoli di tutti i gruppi hanno definito anticostituzionale. E' certo che una liquidazione di Silajdzic sarebbe vista con la pi grave preoccupazione da tutti i gruppi laici e ostili a un irrigidimento delle basi etniciste dello Stato: soprattutto a Tuzla, dove l'S.D.A. riuscito a imporre un proprio esponente alla presidenza cantonale, ma la municipalit resta attaccata al proprio carattere misto e antietnico.

Gli avvenimenti di queste ore, dalle notizie sulla guerra nei vari fronti impegnati dai croati a quelle sulle divergenze interne in Bosnia, hanno rinfocolato l'attenzione e la discussione della gente. A Sarajevo, per una volta, gli assediati hanno affollato il posto telefonico per chiamare Dubrovnik o Zadar, e sincerarsi che i parenti fuorusciti stessero bene. Un malcontento si esprime pi diffusamente, su argomenti vecchi - i profittatori, il nepotismo, il sospetto di calcoli oscuri in tragedie come la caduta di Srebrenica, indifendibile, ma secondo molti troppo indifesa, a danno dei profughi - le ingiustizie delle autorizzazioni all'espatrio. Tutto questo salutare e minaccioso insieme, promette una discussione e un'informazione pi aperte e minaccia una demoralizzazione. Alle cose che non piacciono la gente oppone la vita dannata dei soldati sul Treskavica. E non solo dei soldati. Proprio da due soldati di rientro da quel monte leggendario di battaglie e sofferenze ho ascoltato gioved una notizia folgorante e incommentabile: Adesso anche i cavalli si suicidano. Quattro cavalli hanno spiegato poi testualmente stanchi di guerra si sono buttati in un burrone sul Treskavica. Loro giuravano di averli visti coi propri occhi.

CI SI PUO' FIDARE DI TUDJMAN E DEL SUO ESERCITO? (L'Unit, 6 agosto 1995)

Le cose cambiano, a suon di carri armati, e di messinscene politiche.

Il suono dei cannoni croati fa la musica, per ora: accolto, a Sarajevo, con sentimenti diversi. Il sentimento comune la congratulazione. Per la prima volta, i cetnici - compresa la parte militarmente pi fornita e agguerrita, la Krajina di Martic - si trovano di fronte un esercito, e non delle citt da bombardare e fucilare, e si dissolvono miseramente. Dunque, dicono i sarajevesi, non era cos terribile, il lupo. Non sarebbe stato cos difficile per le Nazioni Unite o l'Europa fare da tanto tempo quello che sta facendo dopo quattro anni a modo suo l'armata croata. Molti si compiacciono delle vittorie croate, si illudono che anticipino un'azione comune anche in Bosnia, che alla fine la rottura dell'assedio la "deblokada", parola fatata dei sarajevesi che guardano le stelle cadenti nelle notti di agosto - arrivi davvero. In nome di questo desiderio sono anche disposti a dimenticare la guerra croatomusulmana, la violenza di Mostar di ieri e l'arroganza di oggi, la vocazione croata alla spartizione della Bosnia con Belgrado. Per un momento, nell'esasperazione di Sarajevo, i croati diventano fratelli. Le persone pi scettiche e ragionanti hanno sentimenti opposti. Sanno che l'offensiva croata l'effetto inevitabile dell'inerzia delle Nazioni Unite, e dell'impunit concessa cos a lungo e a oltranza alle aggressioni serbe. Vedono che i trionfi militari croati e il trionfalismo con cui sono esaltati, rafforzano la leadership nazionalista nello Stato e nelle forze armate croate. Diffidano della tenuta di un'alleanza croato-musulmana all'indomani del ripristino del controllo croato sul proprio territorio.

Temono che, con l'eccezione di Bihac, dove il beneficio ricevuto dagli assediati stato gi enorme, la conseguenza delle vittorie croate sar l'afflusso nella Bosnia di una nuova massa di profughi serbi, duecento, duecentocinquantamila, che muteranno ulteriormente la bilancia della popolazione bosniaca a svantaggio dei musulmani; e anche l'afflusso delle forze armate serbo-croate, che, dopo aver difeso poco o niente la Krajina, potranno rivolgersi contro l'esercito bosniaco.Qualcuno suggerisce che gli accordi di Spalato fra Tudjman e Izetbegovic sottintendano una azione in due tempi, per cui parte degli armamenti impiegati nei blitz croati passerebbero poi alle truppe bosniache. A compensare la fragilit degli accordi fra croati e musulmani, si dice, c' la colla forte dei finanziamenti e delle forniture di petrolio iraniane, di cui i bosniaci sarebbero diventati appaltatori verso la Croazia. Ma la domanda pi insidiosa riguarda i rapporti fra Tudjman e Milosevic: c' fra i due una specie di accordo, o le cose possono sfuggire loro di mano, e coinvolgerli direttamente in una guerra dalle dimensioni spaventose? Il viavai di notizie sui movimenti alle frontiere della Slavonia orientale tiene in sospeso la risposta. Dall'altra parte, gli attacchi di Milosevic e dei suoi a Karadzic e Martic (il capo dei serbi della Krajina, anche lui ricercato come criminale di guerra) non sono mai stati cos violenti e sprezzanti. Karadzic accusato di aver trascinato i suoi in un'avventura micidiale, e di aver rifiutato di accontentarsi dei risultati raggiunti, e ratificati dal Gruppo di contatto; di costringere la Serbia al malanno delle sanzioni; di essere un piccolo megalomane. Se non fosse il burattinaio primo di tutta questa tregenda a pronunciare l'arringa, ci sarebbe da sottoscriverla.

Lo psichiatra cetnico ha risposto perfezionando il suo delirio bonapartista: si proclamato comandante in capo, e ha di fatto destituito Mladic, nominandolo proprio consigliere militare. Mladic, naturalmente, lo ha subito mandato a quel paese. Che cosa possa fare un simile stratega, una volta che si senta braccato e venduto: ecco una buona questione per le persone di Sarajevo. Di vita o di morte. A questo scenario cos mosso, il regime bosniaco arriva zavorrato dalla sua stessa crisi interna. Silajdzic forse tiene ferme le dimissioni, forse viene mandato in qualche localit abbastanza di prestigio e abbastanza lontana: un'ambasciata alle Nazioni Unite, o chiss che altro. Pu forse pensare a un proprio partito che metta insieme la costellazione di gruppi minori che non hanno una base etnica. Ma, bench Izetbegovic bilanci certi eccessi di paternalismo con uno spirito paziente e moderato, la spinta etnicista , nelle condizioni create alla Bosnia, la pi forte, e lo stesso protagonismo croato destinato a rafforzarla. Una delle questioni pi delicate proprio la gestione della federazione croato-musulmana. La prevalenza di una mezzadria fra i due maggiori partiti etnici, rispetto a un meccanismo di regole pi istituzionali, crescer probabilmente ancora. Tuttavia la gran maggioranza delle persone sa che non torner nessuna pace senza che torni il vicinato e la mescolanza fra tutti quelli che c'erano prima. Di pi: i bosniaci sanno che la fiammata improvvisa che ha fatto divampare la ferocia nelle loro strade pu spegnersi e altrettanto

improvvisamente, e gratuitamente, restaurare non l'amicizia, ma qualcosa che la simula e superficialmente le si rassegna. Certi sarajevesi amari pensano che potr tornare di colpo un mondo, dei cortili, dei caff, in cui ci si inviti ai tavoli come se niente fosse stato, e lo temono tanto quanto lo spirito della vendetta. Questi sarajevesi hanno voglia di pace, di liberazione, di fine delle bombe e dell'assedio e della mortificazione; e hanno anche voglia di una pi forte democrazia. Non come di un lusso di domani, ma come una necessit di oggi. La Sarajevo dai modi liberi cui pensano, e che rimpiangono, non pu essere rappresentata nella sua maggioranza da partiti etnici o confessionali. Che questa consapevolezza prevalga oggi, e riesca a ispirare la parte migliore dei partiti di maggioranza etnici, sarebbe miracoloso. Ma, ancora una volta, non una responsabilit soprattutto bosniaca. Prima finir l'assedio di Sarajevo, pi forte sar lo spirito di democrazia e di libert cittadina. Non si voluto prendersi questo compito, e si peccato cos insieme di omissione di soccorso e di un madornale errore politico. Non si voluto un intervento delle Nazioni Unite. Non si voluto che i bosniaci si armassero per difendersi. Ora i carristi croati fanno piazza pulita, e quando smontano cantano inni ustascia. Qualcuno l'ha voluto, se non sbaglio. Se l'offensiva croata scatenasse un conflitto pi vasto, sanguinoso e incontrollato, di chi sarebbe stata la responsabilit? Zagabria doveva essere colpita di tanto in tanto a piacere, dai missili di Knin? E se l'offensiva croata dovesse portare alla liberazione di Sarajevo, e

riportare il conflitto a una misura negoziale e politica, di chi sarebbe stato il merito?

L'EUROPA LIBERI SUBITO SARAJEVO (L'Unit, 8 agosto 1995)

La mia domanda oggi molto semplice. Perch l'Europa non rompe l'assedio di Sarajevo, ora? L'attenzione spostata sui fronti croati e su Bihac, e la riduzione del fuoco dei cetnici sulla capitale non devono far dimenticare la sostanza. La sostanza che Sarajevo resta soffocata, che se ne esce venendo sparati - con qualche tiro di punizione della Forza rapida che vi si rientra curvandosi nel tunnel. Ieri stato il presidente Izetbegovic a tornare cos nella sua citt, come ogni volta: il presidente legittimo di una repubblica membro dell'Onu, un uomo anziano e dignitoso, che al tempo della Lega dei comunisti andava in carcere per la sua fede religiosa, e oggi rientra nella propria capitale scendendo fra le granate per una strada di montagna, e poi immergendosi in un pozzo sotterraneo. Un presidente di terza classe, una capitale e una repubblica di terza classe. Gente di terza classe. C' da meravigliarsi che, nel tentativo di spiegare questo sprezzante declassamento, le persone di qui lo attribuiscano alla propria anagrafe musulmana? Questa la situazione che la commozione del mondo, i proclami dei capi di Stato, e gli insediamenti delle forze rapide hanno saputo garantire a Sarajevo.

Inoltre, la sostanza che Sarajevo resta esposta a una violenza devastante, dovesse anche essere la ritorsione impazzita e disperata dei suoi assedianti. In ogni caso, l'inerzia di oggi promette il disastro di domani. Eppure lo scenario cambiato non pu non riaprire subito la questione di Sarajevo. I serbo-bosniaci sono per la prima volta alle strette, per la sola ragione che per la prima volta hanno dovuto fare i conti con un nemico non inerme. La sorte di Martic, il boss della Kraijna serba, un segno di ci che aspetta inevitabilmente impostori come Karadzic, una volta che l'autorizzazione a delinquere venga loro revocata. Il presidente Scalfaro ebbe ragione quando evoc il destino che aspetta i torturatori di popoli, e voglia il cielo che quel destino si compia qui meno lentamente. Ma sar stato sempre troppo lentamente. Di fronte a quel che avviene nella ex-Jugoslavia, gli Stati europei, una volta di pi, rinfocolano rivalit e gelosie, in ci davvero riproducendo la catastrofe dell'Europa attorno alla Sarajevo del 1914. C' un punto sul quale dovrebbe esserci un consenso pieno, immediato ed efficiente: la riapertura di Sarajevo. L'argomento, gi spesso cinico e pretestuoso, del rischio troppo alto di un intervento in soccorso della citt agonizzante, diventato ancora pi debole. Uno scontro per Sarajevo non sarebbe n la scintilla di un incendio che sta gi divampando altrove, n una sfida ai mandanti serbi di Belgrado, oggi a loro volta spinti alla liquidazione di Karadzic, e sia pure per la mano non meno sanguinaria di Mladic.

A Sarajevo, l'Europa (e le Nazioni Unite, se ha ancora senso evocarle) potrebbe ritrovare una sua dignit e una sua leale voce in capitolo, al di l delle manovre o dei calcoli particolari. C' una questione sulla quale tutti dovremmo, subito, parlare con la stessa voce: che Sarajevo torni citt aperta, e davvero tutelata dalla forza internazionale.

IN EX-JUGOSLAVIA LA PAURA MUOVE TUTTO (L'Unit, g agosto 1995)

Ai tavoli dei bar, sul lungomare di Split, fra le ragazze che allungano pigramente le celebri gambe chiudendo gli occhi al sole, irrompe una banda allarmante di giovani uomini in assetto militare.

Bombe a mano che pendono dalle bretelle, cartucciere, trofei di treccine colorate, bende attorno alla testa, uniformi mimetiche, inzaccherate e impolverate come le facce. Ma le facce sono allegre, e le voci appena troppo alte, come quelle di una scolaresca che stia celebrando la fine del corso con una bevuta cameratesca. Dagli zaini ammucchiati esce una quantit di targhe automobilistiche bianche con la sigla: Knn, e loro le espongono quando una famigliola da un altro tavolo viene a festeggiarli e fotografarli. Mi siedo in mezzo a loro, e mi faccio raccontare la storia da uno con occhialetti alla John Lennon e un'aria timida, che si chiama Nenad, detto Reinick, ha 31 anni, e nell'altra vita chimico tessile. Siamo della Brigata Split, il numero cambiato molte volte, ora si chiama Quarta. Saremo 1500 in tutto, alcuni professionali, la stragrande maggioranza mobilitati. Quando siamo partiti non sapevamo per dove, avevamo solo capito che questa volta, dopo quattro anni, si trattava di farla finita con la guerra. O lasciarci la pelle, o ritornare alla pace. Questa sensazione ha reso tutti combattivi, ma anche molto spaventati. La paura la spiegazione di tutto nella ex-Jugoslavia. Qualcuno attacca per la paura, qualcun altro scappa per la paura. Noi siamo andati ad attaccare la linea serba vicino a Drnis, a una ventina di chilometri da Knin. Eravamo solo noi della fanteria, fuori dalle strade, abbiamo camminato per un giorno sulle rocce. Ci siamo attestati di sera, la mattina saremmo andati all'attacco.

Non avevamo idea di chi sarebbe stato pi forte, non abbiamo dormito, scherzavamo e avevamo paura. Ci conosciamo bene, molti di noi hanno combattuto insieme pi volte in questi anni, siamo tutti di Split. All'alba ci siamo buttati all'assalto, e niente: il fronte non c'era pi, loro avevano avuto pi paura ed erano scappati. Non si pu dire che uno sia pi vigliacco o pi coraggioso. Per esempio, in posti come quello, senza unit e mezzi mobili, quando si spezza la linea in un punto cede tutto il fronte. Siamo andati avanti ripulendo, senza trovare resistenza, il problema maggiore sono le mine; tra noi saranno morti due o tre, ma per incidente. Nel primo paese che abbiamo occupato erano rimaste s e no una settantina di persone. L ho corso il pericolo pi grave, perch in una casa vuota a un tratto spuntata una donna vecchia, ed ero cos teso che mancato pochissimo che le sparassi. Mio nonno era un militare, mio padre stato un alto ufficiale - non un partigiano, un militare di carriera, nella nostra marina - e io non ho mai avuto nessuna voglia di vita militare. La mia famiglia era composta di croati, serbi, ungheresi. Quando cominciata qui, e sono andato ad arruolarmi come volontario, mio padre stato sbalordito; e mia madre, anche se sarebbe bastata una sua parola per farmi rinunciare, quella parola non l'ha detta. Avevo sempre quel problema: partecipare alla difesa, ma senza uccidere nessuno. Quando avevo fatto il soldato, nell'esercito federale, avevo trovato amici che non potevo rinnegare. Il mio migliore amico era del Montenegro, non lo vedo dal 1984, potevo trovarmelo di fronte: nessuno dei due avrebbe sparato all'altro.

Cos questa guerra. Ora ho un bambino di un anno e mezzo, stasera potr tenerlo in braccio e poi andare a dormire senza troppi pensieri, perch non ho ammazzato nessuno. E' stata una pura fortuna, per, perch quando ero l ho sparato interi caricatori. E' una questione difficile. Entravamo nelle case, trovavamo una quantit pazzesca di armi di ogni genere, "full equipment" della vecchia Jna, bombe a mano, mitra, anche mortai. Nelle stesse case trovavamo i segni della vita normale della gente, le fotografie, due bicchieri di plastica colorata da bambini, ho visto un orsacchiotto posato sullo schienale di un divano esattamente come ce n' uno a casa mia. Io non vorrei mai che la mia casa, i miei oggetti, le mie memorie, fossero violate e perdute: e non posso volerlo per gli altri. Questa la cosa pi dolorosa. Poi ho finito anch'io col prendermi una targa di auto, come hanno fatto tutti: forse perch il trofeo pi innocuo e pi eloquente, una specie di certificato. Gli chiedo che cos' la benda da pirati che hanno annodato sulla testa. E' quella del pronto soccorso, dice. Serve per il sudore, e a me per coprire la calvizie che comincia. E poi a darci un'aria da conquistatori: fashion. Un suo amico, dall'aspetto meno figlio dei fiori, ha scritto con un pennarello sulla benda: Silvja. Ha una cordialit invadente, mi offre da bere, fa il segno della vittoria col pollice levato, vorrebbe addirittura regalarmi una graziosa bomba a mano serba.

Mi schermisco, accetto delle banconote della Repubblica serba di Kraijna: sono datate Knin 1992, e dicono che i falsificatori sono puniti dalla legge. Devono aver avuto davvero una fretta dannata, i fuggiaschi, per lasciarsi dietro anche i soldi. O forse sapevano che ormai era carta straccia? Spero che la spiegazione non sia altra. I soldati distribuiscono le banconote in giro fra i tavoli. Intanto arrivato un vero fotografo, e si mettono in posa. Il mite Nenad e quello di Silvja mi sommergono in un abbraccio mimetico, e io sorrido imbarazzato fra quei brigatisti della Split nel momento della smobilitazione. C' il mare, il gelato, le ragazze dalle gambe leggendariamente lunghe: Sarajevo gi lontanissima.

I DISEGNI DI TUDJMAN (L'Unit, 10 agosto 1995)

Non so se Tudjman alzi il gomito, e se lo faccia magari nelle trasferte straniere, e se questo spieghi l'affare della cartina. Tudjman avrebbe usato un biglietto d'invito a una festicciola in Inghilterra per illustrare a un interlocutore locale il paesaggio di una Jugoslavia spartita fra la sua Croazia e la Serbia di Milosevic, dal quale paesaggio sarebbe cancellato il piccolo incidente dell'esistenza della Bosnia. Nello schizzo infantilmente ingordo di Tudjman, la Croazia si mangerebbe Banja Luka mentre Tuzla, espressamente citata - Tuzla, cio il cuore pulsante della Bosnia andrebbe alla Serbia.

Qualche quotidiano croato ha pubblicato mercoled il disegno, per sostenerne l'inautenticit. In attesa della perizia grafica, dobbiamo registrarne alcuni effetti benefici. Marted Tudjman ha ricevuto in gran pompa la leadership bosniaca a Zagabria, e i giornali hanno messo in prima pagina la foto di Izetbegovic decorato dal capo croato. Mercoled, mentre si diffondeva la notizia-bomba di un vertice a Mosca tra Tudjman e Milosevic, patrocinato da Eltsin, e si immaginavano gi altri gomiti alzati e torte in forma di Bosnia fatte a fettine e divorate, Tudjman ha fatto sapere che non sarebbe andato se l'invito non fosse stato esteso al suo alleato Izetbegovic. Le prossime puntate di questo vorticoso giro di ballo aperto dall'offensiva croata degli scorsi giorni sono affare di ore, e forse segneranno davvero una svolta nella tragedia jugoslava. Intanto, un'istantanea della situazione permette queste osservazioni. 1. Bihac, per cominciare. Dopo 1201 giorni, la citt, i suoi quasi 200 mila abitanti, hanno visto interrompersi la morsa dell'assedio. Meno nota e amata di Sarajevo o di Mostar, e offuscata nel sentimento comune dalla torbida storia dei musulmani secessionisti al seguito di Fikret Abdic, Bihac ha vissuto un calvario terribile. La rottura dell'assedio la conseguenza pi forte e finora l'unica davvero grande per i bosniaci, dell'offensiva croata. D'altra parte l'afflusso di ingenti forze di artiglieria dalla Serbia, mentre fa apparire per adesso pure fanfaronate i proclami di Martic sulla riconquista della Krajina, minaccia invece la possibilit che la

popolazione di Bihac ridiventi il bersaglio di un cannoneggiamento sistematico e vendicativo. 2. Milosevic, il presidente serbo, ha fronteggiato finora un'opposizione di piazza irrilevante, e caricaturale: gli ultranazionalisti se la sono presa con lui definendolo ustascia, e ci dimostra che gli scherzi della cronaca non hanno limiti. Contemporaneamente, il Sinodo ortodosso e il patriarca Pavle lo hanno insultato chiamandolo traditore e, per simmetria con l'epiteto di ustascia, neocomunista. La gerarchia ortodossa, di cui era noto l'oltranzismo fanatico, gi un intralcio pi serio degli squadristi di Seselj. Se i dirigenti croati spingessero ora alla frontiera della Slavonia e della Barania, dove il rumore di ferraglia dai due lati gi altissimo, Milosevic non potrebbe continuare a fare l'indiano. Ammesso anche che sia disposto a cedere Vukovar, la principale citt simbolo per i croati, o meglio le sue rovine, per tenersi il petrolio e le altre ricchezze del circondario, non potrebbe certo farlo ora, a ridosso delle passeggiate trionfali dell'esercito di Zagabria. Ancora, la frontiera calata sulla massa dei profughi serbi dalla Krajina non fatta per aiutare l'immagine del duce di Belgrado. Sul fronte cetnico, il suo proposito di liquidare Karadzic e di puntare su Mladic andato molto avanti. Non so se si sia notato che la nomina di un avvocato difensore da parte di Mladic per il Tribunale sui crimini di guerra dell'Aja una forte conferma del progetto di riciclare lo spappolatore di cervelli sarajevesi - sono le parole con cui Mladic ordinava di bombardare i cittadini - e di farne l'esponente militare rilegittimato della stabilizzazione di Milosevic.

Basta pensare all'improbabilit che una notizia del genere, la nomina di un avvocato, venisse da Karadzic. Detto questo, la partita serbo-bosniaca resta tutta aperta, e resta troppo probabile che sia giocata sulla pelle dei civili bosniaci. 3. Un altro punto pi chiaro dopo gli ultimi giorni dato dall'iniziativa americana. D'improvviso, la questione del voto congressuale sull'embargo delle armi ai bosniaci diventata marginale, di fronte alla decisione con cui gli Stati Uniti hanno condotto per mano l'offensiva militare croata. Ora nessuno pu imputare agli Usa l'indecisione, n di agire in modo clandestino e insinuante, con generali pensionati e consiglieri travestiti. Gli aerei americani sono volati pubblicamente, e hanno lasciato una gran scia di razzi di segnalazione delle loro intenzioni. Gli Usa, e dietro loro la Germania, hanno dato l'imprimatur all'azione croata, l'hanno trasformata in un'azione Unprofor per interposto esercito, e le hanno ordinato di non farla troppo sporca. E' pensabile che questo appoggio si arresti al ripristino del territorio croato, e non preveda una seconda fase dedicata alla Bosnia? Con tutto il pessimismo, mi sembra difficile. Le cartine psicoanalitiche disegnate da Tudjman al bar di Londra hanno un solo ostacolo reale, finora: il veto degli Stati Uniti e della Germania. Fosse per lui, riaprirebbe al traffico Sarajevo con le targhe di Zagabria. In Bosnia si potrebbe formare, non so quanto esplicitamente, una singolare combinazione di interessi che metta insieme i paesi arabi amici degli Usa, quanto ai soldi (Arabia Saudita, Kuwait), l'islamismo non arabo degli iraniani, e una promessa di protezione americana, mediata dal

nuovo, giovane ed efficiente ministro degli Esteri, Sacir Begovic, che parla americano pi scioltamente che bosniaco, ed ricco di famiglia. Non un caso che la rivalit con lui sia la principale spina nel cuore di Silajdzic, che finora era stato il protagonista nel legame con gli Stati Uniti, e di cui nel potere bosniaco si dice sempre pi spesso, laconicamente, che molto stanco. 4. Ultimo punto, per ora: rientrati cos bruscamente in campo gli americani, rientranti, d'accordo o in concorrenza subalterna, i russi di Eltsin (Kozyrev si incontra con Mladic e ignora a sua volta Karadzic), sono stati messi fuori campo inglesi e francesi, cio quelli che un mese fa facevano la voce grossa, e gridavano: Tenetemi, senn.... Con loro, ancora, andata fuori gioco l'Europa, o almeno l'Europa che non c' e dovrebbe esserci. Sono cos lividi che rischiano di ridiventare scopertamente filo-serbi, secondo le vecchie abitudini, o tornarsene a casa dicendo che non ci giocano pi. L'unico teatro possibile di un loro ruolo ritrovato la difesa effettiva di Gorazde - che nei disegnini non segnata, tanto scontato che verr venduta - e l'apertura pubblica e leale di Sarajevo. Ho visto la Forza rapida al lavoro. Stava allargando il viottolo sulla cima dell'Igman. E' gi qualcosa.

BARATTO SU GORAZDE (L'Unit, 12 agosto 1995)

Niente di nuovo sotto il sole di questo agosto.

L'idea attribuita agli Stati Uniti di cedere Gorazde ai serbi in cambio di un negoziato, era gi stata prevista. E' facile qui essere buoni profeti: basta prevedere il peggio. Per chi non ha patriottismi da difendere, qualsiasi compromesso benedetto che restituisca un po' di sicurezza della vita e di libert alle persone. Ma la Bosnia non un feticcio, e Gorazde non una cittadina come un'altra, da sacrificare in questo immane trasloco reciproco. Pi volte Gorazde stata il simbolo di una resistenza estrema, e il pegno ancora non del tutto violato della legalit internazionale. Fra le sei aree protette, Bihac oggi ancora bombardata ma liberata dall'assedio, solo grazie alla guerra di riconquista croata; Srebrenica caduta, e le forze dell'Onu hanno fatto da palo a una selezione da sterminio; Zepa stata distrutta. Restano Tuzla, alla portata dei cannoni assassini ma non delle truppe, Sarajevo, e appunto Gorazde, che di Sarajevo , fisicamente e moralmente, la porta di accesso. L'idea degli americani di cedere Gorazde la quintessenza del realismo. Essa offre a Milosevic il regalo di cui ha bisogno per far passare l'eventuale chiusura provvisoria dell'operazione, assieme alla promozione di Mladic a capo militare di una Serbia, se non Grande, comunque allargata. Ma mette i dirigenti di Sarajevo in una trappola maledetta. A Sarajevo, la gente ora non vuole che tornare a respirare e credere che i propri bambini possano sopravvivere. Ma la gente dir anche - lo dice gi: Se arriviamo a cedere anche Gorazde, se accettiamo una mutilazione della Bosnia fino a questo punto, allora perch i quattro anni di lutto e di follia? Per che cosa saranno morti allora tanti innocenti e tanti combattenti?.

Se Izetbegovic sar forzato ad accettare, si trover contro i bosniaci; se non lo far, si prender il peso di un rifiuto che finora stato solo responsabilit dei suoi nemici. Questo vuol dire il baratto su Gorazde. E ancora: perch dichiarare internazionalmente protette citt e regioni che si pronti a lasciare in balia degli aggressori, o a cedere a una nuova carta geografica disegnata a Washington? E' certo che una pace qualunque, se arriver, non sar il frutto di una giustizia, ma di un'anestesia imposta con le buone o le cattive. Ma un'anestesia troppo violenta pu uccidere a sua volta il paziente. Il Mladic che, reimbiancato dalla qualifica di militare e di imputato all'Aja - non criminale, ma solo e ligio imputato - dovrebbe essere il secondo negoziatore al lato di Milosevic, colui che a Srebrenica ha trattato di persona la selezione degli uomini maschi, la loro liquidazione e le carezze televisive sulla testa dei bambini. Brutto affare. Ci sono molte cose evidenti che la diplomazia internazionale e anche tanti volenterosi privati decidono di non vedere. Che gli aerei Usa abbiano fotografato le probabili fosse comuni di Srebrenica, dopo che per giorni le migliaia di desaparecidos di quella ripulitura avevano cessato di far notizia, ovviamente una replica alle porcherie commesse nel corso dell'offensiva croata.Altrettanto ovvio che fra le malefatte croate e quelle serbe resta finora, ammesso che lo si voglia valutare, una differenza di quantit e di qualit: se non altro, confermata dal fatto che non un chilometro di territorio serbo stato toccato dalla guerra. I profughi delle Krajine malmenati nel loro esodo croato e cacciati nelle periferie di Belgrado, o inoltrati a far numero etnico nel Kossovo, sono la miccia di nuove esplosioni.

Quanto ai bosniaci, su loro incombe ancora la morte e la cancellazione. Quando non fosse pi cos, resterebbe loro una specie di spaventoso diritto al rancore e alla vendetta, a un terrorismo dei pensieri e dei sentimenti. Ci pensino ancora, quelli che hanno la potenza, e sia pure a tempo largamente scaduto.

E SULLA SPIAGGIA SI LEGGONO SOLO I NECROLOGI (L'Unit, 24 agosto 1995)

Ho attraversato, in un viaggio anfibio, un po' per terra un po' per mare, la costa croata dall'Istria fino alle Bocche di Cattaro, appena intraviste in una fortunosa escursione da Dubrovnik vuota e offesa. Questo Adriatico bellissimo induce a un doppio confronto, con la sponda sabbiosa italiana, e il suo pieno di vacanza, e con l'interno montagnoso che gli sta a ridosso, come una minaccia brutale e chiusa. Perch questa maledetta storia jugoslava ha rinfocolato l'ostilit fra la montagna e il mare, cos come fra i villaggi e la citt: e lo sbocco al mare che i grandi-serbi e panslavisti cercano da tanto tempo un desiderio ostile e pesante, svelato e ridicolizzato del resto dalla folla dei nuovi russi sulle spiagge riminesi, di cui parlano le cronache dell'altra sponda. A Pola, davanti all'Arena, ho incontrato i giovani soldati tornati da Plitvice, forse il pi bello dei parchi naturali ex-jugoslavi. I famosi laghi stanno bene. La riserva non stata minata, come invece si temeva, se non nella fascia pi esterna.

E' un caso fra molti in cui la sicurezza delle proprie posizioni e la rapidit dell'attacco croato hanno impedito ai serbi di minare una zona. Il dettaglio pi inedito che in realt i primi ad arrivare a Plitvice erano stati i bosniaci del famoso Quinto Corpo, che, dopo la rottura dell'assedio di Bihac, marciavano per congiungersi con le forze croate. Il comandante bosniaco, il generale Dudakovic, apparso anzi tentato dall'idea di tenere la posizione bench fosse oltre il confine croato. C' stato qualche momento di tensione, poi la cosa si sciolta col rientro dei bosniaci nella loro frontiera. Un sintomo piccolo della rivalit fra i due eserciti, e del desiderio bosniaco di ritagliarsi una parte nell'offensiva croata: alla quale Dudakovic ha poi riconosciuto apertamente il merito della liberazione di Bihac. In questa zona le truppe mobilitate sono state impiegate di rincalzo, o nei punti meno cruciali, mentre l'attacco stato riservato agli specialisti della Prima Brigata, le Tigri. Un ufficiale di quelli consumati per anni in una guerra di posizione micidiale, estenuante e povera, mi ha raccontato di essersi messo in disparte con i suoi uomini e di aver assistito alla avanzata delle Tigri come a un film americano a colori. Da Fiume sono passato in fretta, il tempo di perdere un traghetto, e di ripensare con imperturbata antipatia al dannunzianesimo, cos a sproposito rievocato ora contro chi vorrebbe che ai criminali di guerra ex-jugoslavi qualche autorit preposta fischiasse dietro una contravvenzione. Dopo l'Istria e il Quarnaro, il traffico di auto lungo la strada litoranea si dirada all'estremo.

Le auto straniere si contano sulle dita, e solo i convogli umanitari o militari, anch'essi non frequenti, provocano code pi o meno lunghe, in quella strada formidabilmente panoramica, stretta e tortuosa. Man mano che si scende verso sud, i segni di distruzione e di guerra si moltiplicano, veri e finti, come i manici di legno infilati fra i sassi sulle sommit dei monti a simulare batterie antiaeree, qualche volta anche con i loro pupazzi. Guerra da spaventapasseri, se non arrivassero poi d'improvviso batterie vere e uomini veri. In un paesaggio che, per le isole brulle e montagnose, i mari interni e la quantit di attraversamenti in traghetto sembra norvegese, sono sceso all'isola di Pag a Ferragosto, nel giorno dedicato alla Madonna. La bella chiesa quattrocentesca era ancora piena, a sera tarda, di fedeli di tutta l'isola che aspettavano pazientemente il proprio turno per toccare una statua lignea della Madonna e del Bambino in trono, accomodata per quel solo giorno sul pavimento della navata. Donne anziane e corpulente, con il vestito della festa nero, arrivavano davanti alla statua, toccavano la veste azzurra della Madonna per cercare protezione e carezzavano con pi confidenza il braccio del Bambino per assicurargliela. Era evidente che quest'anno alla Madonna si chiedesse qualcosa di speciale. All'indomani ho visto quelle donne anziane col vestito nero di tutti i giorni e le maniche rimboccate su avambracci poderosi, lavorare al tombolo i ricami per i quali Pag famosa. Nella periferia di Zara le case distrutte e le rose delle granate sono pi frequenti, bench non abbiano una forma sistematica, e facciano pensare, come in altri punti della costa, a una sparatoria a casaccio, fatta per spaventare e dissuadere dall'intenzione di una vita normale.

Il centro di Zara, con molti monumenti ancora coperti dai sacchi di sabbia, aveva un'animazione particolare, come quello di una citt che da poche ore sapeva di essere stata liberata dall'incubo dei bombardamenti e degli allarmi. Nelle vetrine dei negozi era esposta l'immagine della Madonna: Regina della Pace, prega per noi. Intanto, la processione dei serbi di Krajina e quella dei croati dalla Banja, portava ciascuno, fra pugni e sputi, verso la propria esclusiva Madonna. Solo in Bosnia ho imparato - perch ero molto ignorante delle cose di qui - il nome di un poeta di Mostar, di famiglia serba, Aleksa Santic, vissuto e morto giovane all'inizio di questo secolo. Anzi ho imparato a memoria la pi popolare delle sue canzoni dedicata a una bellissima Emina figlia dell'imam, che non si accorge nemmeno dell'amore di lui. Santic scrisse una poesia altrettanto celebre, "Ostajte ovdje", Restate qui - per scongiurare le persone a non abbandonare il luogo che era loro, la terra scaldata da un sole di cui non avrebbero pi ritrovato l'eguale. Mi sono chiesto nei giorni scorsi se, non nella lingua anestetica delle dichiarazioni ufficiali, ma con la lingua sincera del cuore, con quella di un'autorit politica o di una fede, o ancora della poesia, qualcuno avesse provato a dire davvero ai fuggiaschi della Krajina: Restate qui, o almeno: Tornate qui un giorno. Ma qui tutti, o quasi, sembrano essersi rassegnati a un paese per una nazione sola, e anche per questo la Bosnia di Sarajevo resta un fastidioso intralcio. A Sebenico, Sibenik, mentre giravo sulle tracce di Niccol Tommaseo, ho trovato un gruppo di militari di mezza et, con le divise trasandate e i

kalashnikov che sembravano adattati secondo intenzioni personali; due o tre di loro con i cani, cosicch parevano, e forse erano cacciatori. Alla domanda se finalmente fosse finita, hanno risposto che era appena cominciata, e che la ripulitura dei piccoli gruppi di serbi sbandati sulle montagne sarebbe stata molto lenta e sanguinosa. Se ho capito bene, prendevano con s i propri cani per questo. A Spalato, stazione di sosta per tutti i viaggiatori per Sarajevo, da quando non ci sono pi aerei, sicch riconosco ormai le pietre del palazzo di Diocleziano e le ragazze del lungomare con la stessa soggezione, niente avrebbe fatto pensare a una guerra se non la premura accanita con la quale tutti leggono sui quotidiani le pagine dei necrologi. Questo avviene dovunque, e i tanti profughi e sfollati si passano di mano in mano i giornali delle loro regioni. Tutti sanno che le cifre ufficiali dei morti, dall'una e dall'altra parte, sono politiche. Da Spalato a sud il paesaggio si fa ancora pi bello, e il traffico ancora pi rarefatto. Chiusi gli alberghi sul mare, o aperti solo per ospitare famiglie di profughi, riconoscibili dai bucati infiniti messi a sventolare sui balconi, unica bandiera rimasta. Fra la riviera di Makarska e la foce della Neretva fermi dietro un convoglio di camion, abbiamo visto una baia turchese, e siamo scesi a fare un bagno. L, sotto il bosco di pini e di lecci, era gi sdraiata una rumorosa comitiva di giovani uomini, alcune decine, tutti con i capelli rasati, come dei collegiali, e coi corpi tatuati, come dei carcerati. Camion mimetici e jeep parcheggiate li rivelavano come soldati inglesi della Forza rapida.

Decisamente muscolosi, non sembravano avere una gran dimestichezza col mare, o almeno con le piacevolezze del Mediterraneo. Due di loro avevano gonfiato due camere d'aria nere di camion, e appiattati in quei salvagenti anni '40 sono venuti pigramente alla deriva fino al punto del nostro bagno. Cos abbiamo chiacchierato. Non erano stati a Sarajevo n sull'Igman, hanno detto, non ancora. Non erano stati ancora da nessuna parte, se non nel loro quartiere di Ploce. Volevano forse prendere in prestito maschere e pinne? S, grazie. Cos il primo part sbatacchiando i piedi e poi tir fuori la testa, si lev maschera e boccaglio e grid entusiasta: Vedo i pesci. L'altro che armeggiava ancora con delle pinne da donna, si scus: E' la prima volta. Pass ancora un minuto, e il suo commilitone riemerse gridando costernato: What is that black shit?. Fu cos che la Forza rapida fece la scoperta delle oloturie dette anche, da noi, minchie di mare.

ORMAI SOLO FOTOGRAFI TRA LE STATUE CADUTE DELL'ANTICA DUBROVNIK (L'Unit, 26 agosto 1995)

Poco prima della foce della Neretva, dove si inoltra la strada per Mostar e Sarajevo, c' il porto di Ploce, base dell'Unprofor, e dello smistamento dei trasporti umanitari per la Bosnia. Subito prima, troviamo un incidente stradale. Un camion dell'Onu ha portato via il paraurti e raschiato il fianco di una corriera locale.

La strada bloccata, e in mezzo discutono bruscamente i militari Onu e l'autista e qualche passeggero del pullman. A un certo punto uno di questi, in divisa, va a prendere il suo kalashnikov e lo agita davanti al viso dei soldatini inglesi, i quali si sbrigano a prendersi la colpa. Appena un mese fa, non sarebbe successo. A Ploce ho preso il traghetto per la lunga penisola di Peliesac, e da l quello per l'isola di Korcula. D'improvviso la scena si popolata di donne, bambini, e ragazzi. Il fatto che le famiglie di Dubrovnik che se lo potevano permettere sono andate nelle loro magnifiche isole, a met fra la fuga e la vacanza. La stagione si era aperta col bombardamento della nuova pista dell'aeroporto di Dubrovnik, poi delle sue periferie e delle spiagge. Un bombardamento contro l'estate, per cos dire, come quello della citt quattro anni prima lo era stato contro la dolcezza della vita. Lo Stradn di Dubrovnik indurrebbe qualunque marcia militare a trasformarsi nella passeggiata e nel gioco degli sguardi. Adesso lo Stradn semivuoto come tutta la Citt Vecchia e le poche persone rimaste sembrano essere state scelte a ricordare la citt com'era, e come torner ad essere: barbieri, suore, uomini che si raccontano le novit al bar, belle ragazze, donne anziane che somigliano alle loro cagnette, giovani che per il fatto di aver indosso un'uniforme non hanno un'andatura meno scanzonata. I giornalisti, sciamati a Dubrovnik per chiss quale segnale gregario, sono quasi pi numerosi, e certo pi rumorosi e impazienti. Le bombe non arrivano pi sulla citt monumentale, fuori non ci si pu muovere, sull'andamento delle operazioni a Trebinje c' il segreto militare.

La citt sembra bens aspettare anche lei una decisione, e intanto piccole squadre di operai tornano a rizzare protezioni attorno alla miriade di statue del patrono, San Biagio. Ci si chiede se sia per scaramanzia, o per dare qualcosa da fare alle telecamere. D'altra parte, il "ferry" che ho preso da Korcula per Mljet e Dubrovnik, tre ore e mezza di viaggio azzurrissimo, era vuoto di civili e carico di militari specializzati nella difesa dalle armi chimiche, segno che non si esclude davvero niente. I monti a nord e a sud di Dubrovnik sono completamente devastati dall'incendio provocato dalle granate al fosforo - per la seconda volta in cinque anni. Nella Citt Vecchia, il tuono delle cannonate arriva attutito, e si confonde con quello benedetto dei temporali pomeridiani che aiutano a spegnere le fiamme. I giornalisti visitano la citt deserta e spalancata con un imbarazzato privilegio, come svaligiatori estivi di bellezze. Nelle segrete del camminamento lungo le mura i frantumi dei bombardamenti del '91-92, gi raccolti e numerati per il restauro, giacciono esposti senza custodia: serpenti dalla lingua mozzata che sbucano da un fogliame di marmo, angeli senza ali e col viso mutilato che protestano a braccia conserte la loro offesa. Dalla sommit di un muro a picco sul mare si alza in volo infastidita dal mio passaggio, un'aquila, indolente e maestosa, spinta fin l in mezzo ai gabbiani petulanti da chiss quale montagna incendiata. Al bar dell'Hotel Argentina, dove i giornalisti sono alloggiati, riconosco una faccia di ragazzo americano perch l'ho vista appena pochi giorni fa, a Sarajevo.

Anche l in un bar: qualcuno aveva dato a Zlatko Dizdarevic una copia di Time Magazine con un suo articolo; il ragazzo, che aveva un cappello da baseball con la visiera lunga ed era solo a un tavolo davanti a una birra, si era alzato e con un'aria strampalata si era accostato al nostro gruppo. Aveva chiesto di vedere un momento la pagina, poi aveva scosso la testa ed era tornato via. L'ho richiamato, e gli ho chiesto chi fosse. Mi chiamo Robert King, ha detto, e sono io che ho fatto quella foto. La fotografia al centro dell'articolo di Time era quella della bambina Leyla in braccio a sua madre. Cos ho fatto amicizia con questo venticinquenne di Memphis, Tennessee, carino e suonato come un Forrest Gump, "freelance", anzi arrivato fin qui solo grazie a uno zio che gli ha prestato i soldi. Ora, a Dubrovnik, il ragazzo racconta che continua a telefonare a Memphis, Tennessee, ma lo zio non ancora riuscito a vedere la foto: e non sono molti l, in famiglia e fuori, a sapere che cosa sia e dove sia Sarajevo. Mi racconta la sua storia, non facile da capire, dice. Mio padre mi dava da fumare marjuana, mia madre mi trovava e me le suonava. Ha cominciato con la fotografia da un paio d'anni, vive a New York, ha una ragazza che lavora in una scuola di fotografia di moda, l'ha trovata con Internet, dice. E' stato in Ruanda, poi in Bosnia. Non ne sapeva niente. Oltre a quella di Leyla, ha piazzato una foto su News Week. Ma ha dato le sue foto all'Ap, non sa bene quanto ne abbiano ricavato, n che cosa tocchi a lui.

Gli hanno detto che in Italia Panorama ne ha fatto la copertina, vorrebbe vederla. Chiede con grande insistenza quanti soldi hanno dato a Leyla e alla sua famiglia. E' chiaro che legato in un modo scosso alla ragazzina. Gli racconto della campagna dell'Unit in Italia, dei giornali che usano la sua foto come un manifesto. Devi andare a Siena, gli dico, fare la pi bella foto di Leyla dopo l'operazione. Dov' Siena?, chiede. Sostiene di avere una nonna di origine fiorentina, addirittura, ma che non ha mai parlato una parola d'italiano. A Dubrovnik non ha fotografato niente di interessante, solo statue, e una famiglia che vive nell'acquario, al posto dei pesci. Dice, testualmente: Prima sono andato a fotografare le statue, poi ci sono tornato per vederle. Programmi non ne ha, se non di tornare a New York, e poi da ottobre, per quattro mesi, fare le foto di scena per la stagione operistica di Memphis, Tennessee (citt, per altro, di Elvis Presley e di Michael Jackson). Del cartellone sa solo che si aprir col "Rigoletto", lui non ha mai visto un'opera, intanto per prepararsi comprer dei C.D. Toni Capuozzo, appena arrivato a Dubrovnik dall'Italia, gli dice che Leyla sta bene, e che andata a vedere il Palio dell'Assunta. Che cos' il Palio?, chiede. Una vecchia corsa di cavalli, dico, ma il mio inglese equivoco. Una corsa di vecchi cavalli, capisce lui, senza sorprendersi granch. Il ragazzo Robert riparte per Split, Spalato, con una Panda a noleggio, noi per Korcula con il traghetto che va a Fiume.

Chiedo a Gervasio Sanchez, un fotografo spagnolo che lavora per il Pas e ha pubblicato un bel libro di foto di Sarajevo se conosce King. Mi dice che una volta l'ha visto a Sarajevo fotografare, assorto come in una lezione di anatomia, i resti umani di un'esplosione. E' un tipo un po' strano, dice. A Dubrovnik, anzi un po' pi a sud, finisce l'Adriatico croato, e comincia il mare del Montenegro. Lo sbocco al mare, dunque, la Federazione jugoslava ce l'ha, e con un porto efficiente come Bar. In realt l'alleanza serbo-montenegrina non affatto cos irresistibile, e i conflitti esplosivi che covano nella regione, come nel Kosovo e in Albania, potrebbero rimescolare le carte. A Belgrado devono aver pensato davvero di prendersi, se non Dubrovnik, il tratto di costa a sud, da Cavtat alle Bocche di Cattaro. Resta il fatto che il bombardamento accanito di Dubrovnik non ebbe mai alcuna giustificazione, nemmeno nella pi pretestuosa trama geopolitica o etnica, e che nonostante questo, in nome della forza maggiore, la buona societ europea si mostr incline, allora, a salvare Dubrovnik facendone una citt-museo galleggiante. A parte questo caso madornale, non interessante che i real-filosofi del fatto compiuto, i ratificatori indefessi della vittoria ormai acquisita sul campo dai serbi di Milosevic e dai serbo-bosniaci di Karadzic, continuino a pontificare come se niente fosse, se non addirittura a scandalizzarsi contro il fatto compiuto dell'operazione Tempesta, e il rovesciamento dei rapporti di forza sul campo nel volgere di pochi giorni? Quante sono le realpolitik di questo mondo? Devo ricordarmi di chiederlo, al prossimo incontro, al giovane Robert King, di Memphis, Tennessee.

L'ESTATE PROSSIMA (28 agosto 1995)

Mi sono mancati i libri-guida, in questo improvvisato periplo adriatico. Difficile comprarne di adatti, neanche quelli turistici: si sono rarefatti in quattro anni di guerra, e soprattutto sono stati ritirati dalla circolazione, in attesa che sia riscritta la storia e la geografia del paese. Avrei voluto avere nella borsa il "Breviario mediterraneo" di Matvejevic, tanto pi dopo che la compagnia di giro dei dibattiti sulla ex-Jugoslavia mi ha fatto conoscere la lealt dell'autore di quel repertorio affascinante. Su un giornale di Spalato ho letto il riassunto di un editoriale di Veronese sulla Repubblica che metteva a contrasto l'estate delle due sponde dell'Adriatico. E' ora davvero "un altro mare", come nel titolo di uno svelto libro di Magris di cui mi sono ricordato perch a Rovigno, in Istria, sono stato ospite di una casa in cui Magris aveva soggiornato anni fa, mi hanno raccontato i padroni, e il mare di Enrico Mreule, il suo protagonista, era l vicino. Adesso gli equipaggi dei pescherecci sono richiamati alle armi, e il mare impoverito e infestato di piccoli ricci e di ostriche. Un'epidemia aveva decimato da anni i dentici, e i branzini del fiordo di Lemme sono diventati rarissimi: tuttavia il mare ha preso fiato nei quattro anni di guerra. A sud, nelle isole della regione di Dubrovnik, tornato vivace come un nostro mare degli anni '50, grazie a questo riposo ecologico forzato. In Istria, dove il coinvolgimento nella guerra stato pi basso - gli istriani, si dice, sono stati impiegati nelle retroguardie anche

nell'ultima operazione, per ragioni politiche - pi forte il malumore economico per gli stranieri che non vengono, e se vengono spendono poco. Ai mercati di frutta i bancarellari, contadine dell'interno e kossovari trasferiti, vi assaltano per un acquisto da un chilo. Altrove, man mano che si scende, lo scampato pericolo delle bombe e della guerra a ridosso della costa vale di pi della nuova stagione turistica perduta. Fa pena, lungo la strada costiera, la miriade di rassegnati che offrono bei frutti, e soprattutto angurie. Migliaia e migliaia di angurie di una stagione particolarmente zuccherina, che nessuno manger. Dovunque, dalla Slovenia fino alle soglie di Dubrovnik che aspetta di ora in ora la sua liberazione, corre una parola magica, pronunciata a volte con disprezzo, pi spesso con una trasognatezza clandestina: la parola privat. La Croazia che si incontra sulla costa ha smaltito la dissepoltura retorica del passato nazionale, e ha accolto con sollievo, ma senza eccessi di zelo, la riconquista della Krajina. Il ritorno della vita normale qui significa soprattutto l'estate prossima, la possibilit di investimenti privati, di iniziative private, di padroni privati di fuori o locali. La liberazione dalla guerra e la libert del mercato appaiono, con molte ragioni e una foga di riscatto del tempo perduto, strettamente legate la libert politica seguir... Questo d alla fine dell'estate una spaesatezza: il sole ancora caldo, il mare invitante, ma superfluamente. Albergoni orribili con piscina e incantevoli case dai giardini fitti di oleandri, agrumi e pergolati, per una smania d'ombra, lasciano in vista i cartelli: ZIMMER, CAMERE, SOBE e aspettano.

La gente non venuta, le locandiere hanno l'aria di non sapere perch, tutto era apparecchiato, e adesso si aspetta gi la prossima estate. Per i pochi che lo fanno, turisti controcorrente o profughi dall'inferno, la vacanza un po' abusiva. A Korcula - la Curzola che pretende di aver dato i natali a Marco Polo si fa il birdwatching, invece che coi gabbiani e le sterne, con gli elicotteri della Forza rapida, che vanno su e gi giorno e notte come insetti impazziti, in un frastuono assurdo. Costruiscono qualcosa in cima alle montagne a picco sul mare, ogni tanto una nuvola li inghiotte e resta solo il rumore di trapano. Che cosa facciano un segreto militare. I pescatori scuotono la testa. L'altra mattina, due Lynx Z4 rientravano insieme verso Peljesac, uno ha risalito il monte, l'altro sceso dondolando come un ubriaco, e poi precipitato in mare. I pescatori sono andati a dare una mano, in pochi minuti arrivato un finimondo di mezzi dal cielo e dal mare, i pescatori hanno scosso ancora di pi la testa. Quattro militari inglesi sono morti, uno ha nuotato fino alla riva, e quando approdato era fuori di senno. Era bel tempo, non si sentita nessuna esplosione. La versione tecnicamente pi accreditata parla senza volere un linguaggio di mitologia antica: il pilota stato abbagliato dal mare che rispecchiava il sole, e si avvicinato troppo all'acqua. E' stato un incidente sul lavoro. Poco prima, c'era stato quell'incidente stradale degli americani sull'Igman.

A Sarajevo sono addolorati per quei poveri morti, ma non possono fare a meno di qualche battuta sarcastica sulla teoria dell'incidente stradale, le mine, la fatalit. A Sarajevo, chi non diplomatico o qualche eccentricit del genere, se passa l'Igman indenne deve poi calarsi nell'apnea del tunnel. Finalmente, dopo giorni trascorsi nei paesi che erano fino a quattro estati fa della loro villeggiatura, sono riuscito a prendere la linea dei miei amici di Sarajevo. Stanno tutti bene. Dell'avvenire della citt, non sanno niente. Gli "snajper" sparano molto, e granate ne cadono parecchie, e cos a casaccio che nessun angolo al riparo. Due ne sono cadute vicino alla solita fila dell'acqua alla Pivara, la Birreria, e un autista di un camion dell'Unprofor si cos spaventato che ha sterzato contro il parapetto del ponte della Biblioteca Moresca, ed restato a penzolare a mezz'aria, e ci sono voluti due carri armati per toglierlo da quell'imbarazzo. La media dei morti alterna, i bambini sono sempre i pi colpiti. Ne muoiono anche altri, per esempio il padre di Etela Pardo. Lei era la pi famosa attrice di Sarajevo, ora vive a Londra. Aveva un figlio quindicenne che era la pupilla dei suoi occhi, e fece di tutto per riuscire a portarlo fuori da Sarajevo. Ci riusc, e il ragazzo mor in un incidente stradale in Sudafrica. Il nonno rimasto a Sarajevo, e si dedicato a un suo lavoro linguistico, un lavoro preparatorio a un dizionario ebraico-bosniaco, credo. L'ha finito, e si ammazzato. Aveva 69 anni, era uno degli ultimi ebrei di antico ceppo sarajevese. Non c' luce, non c' acqua, non c' gas: come al solito.

Piove tutti i giorni, e l'autunno arrivato. Il prezzo della legna gi salito. Qualcuno la compra, qualcun altro no, perch non ha i soldi, o perch pensa che non valga la pena di buttarli via per un affare cos incredibile come la sopravvivenza in un altro inverno. Tanto lontano da Sarajevo questo bellissimo mare.

BELVE CHE SBRANANO LE PREDE (L'Unit, 29 agosto 1995)

Si fa cos. Si diradano le granate per qualche giorno, fino a farle mancare del tutto, nella Citt Vecchia, per due o tre giorni. A questo punto i sarajevesi, bench sappiano che cosa li aspetta, sperano di contare almeno su un altro giorno, forse due, e vengono fuori. E' luned, ieri il mercato ha chiuso pi presto, oggi comincia una nuova settimana, vanno a fare la spesa: magari solo a comprare un cartoccio di caff da tostare, magari solo a vedere quanto costano oggi le patate, o lo zucchero. Quanto all'ora, si scelgano le undici di mattina, pi o meno: non troppo presto, n troppo tardi. E' l'ora di punta. Ci sono tutti: i venditori del mercato coperto - si chiama cos una serie di stanzoni coperti da una tettoia di mattoni, o di tegole, ripiego al mercato aperto e interdetto dalla strage del febbraio 1994; le donne che vendono sigarette - Drina, o Bosna, o Marlboro cattive da tre marchi e mezzo, e Marlboro buone da cinque marchi; gli uomini che scambiano buoni-moneta bosniaci con marchi - kuponi, kuponi -, ragazze che vendono cioccolata scadente, signori dignitosi che vendono pezzi di casa, fioraie e fiorai - incredibile quanti fiorai; le contadine con le

zucche e le bacche, e, in certi giorni straordinari, una scatola di pulcini; i banchetti di ferramenta, un rubinetto, due rocchetti di filo; i barboni che aspettano che torni lo straniero benigno; le squadre di bambini che vanno a guardare e commentare le scarpe da tennis; e la folla degli spettatori e degli acquirenti, nessuno dei quali comprer neanche un pezzetto di burro domestico senza aver fatto il giro di tutti i banchi e confrontato i prezzi: ci sono tutti. Questo il momento di tirare la prima cannonata: da 120 millimetri, calibro grosso, inutile tenere le mezze misure a questo punto. Con la prima cannonata si centra in pieno lo spazio fra le rotaie del tram, ormai superflue, sul quale la gente si attarda, o si sventra il tetto e la parete del mercatino coperto in fondo alla piazzetta di Markale. Un bel po' di morti e feriti si sparpagliano gi in giro come stracci al vento. Subito dopo, si spara la seconda cannonata, all'angolo della piazza. La gente ha avuto appena il tempo di riparare ai bordi della strada, o di precipitarsi al soccorso delle vittime: l'esplosione e le schegge infieriscono tutto intorno. Per la terza si pu prenderla un po' pi comoda: cadr giusto dietro la cattedrale, addosso all'edificio che una volta era un elegante bagno pubblico, e adesso ospita un'appendice di mercatino. Anche l, si era gi colpito tempo fa, non c' neanche da aggiustare la mira. Poi si continua, a piacere: un'altra, altre due o tre bombe. Agendo cos, si sicuri di fare almeno una trentina, forse una quarantina di morti, e un centinaio di feriti, mutilati, spappolati. Sarajevo la citt in cui perfino i medici non ce la fanno pi a tenere gli occhi aperti dentro lo scempio della carne umana.

Occorre metodo nelle cose. I cetnici di Karadzic ce l'hanno. Sanno assetare la preda e aspettarla poi al varco alla fontana. Sanno stanarla alle undici di un luned mattina. Fanno cos, prima di tutto, per il piacere di farlo. Solo in subordine per un calcolo politico: per esempio di boicottare un negoziato. Pu perfino darsi che la loro impresa sanguinaria sia controproducente, e si tramuti in una carta per i negoziatori. Ma volete mettere il piacere dell'impresa? Nel febbraio del 1994 in quella piazza vennero ammazzate 68 persone, e un gran numero di altre squartate: ero l quel giorno, e non dimenticher quella scena, n i soldati francesi dell'Unprofor che vennero poi, nella citt cupamente vuotata, a sciacquare la piazza con gli idranti e raccattare brandelli umani in sacchi di plastica. A fare piazza pulita. Di quella granata rest solo una buchetta nel cemento, prima circondata di fiori, poi pian piano inosservata: una pozzangheretta nei giorni di pioggia, nient'altro. Era stato un solo colpo: un colpo magistrale. Qualcuno - dei francesi dell'Unprofor, anonimi, se non sbaglio, le cui voci furono anonimamente raccolte e rilanciate dalla France Press insinu poi che fossero stati i bosniaci stessi a massacrare con quella granata la propria gente nel mercato, a mezzogiorno, per un calcolo cinico. I cetnici di Karadzic erano stati i primi a sostenere questa versione, con il dileggio impudente che loro proprio.

Trovai l'accusa cos enorme che per molto tempo mi sforzai con ogni mezzo di accertare se e quale fosse il fondamento di quel sospetto: non ne trovai nessuno. Gli stessi alti ufficiali francesi con cui mi capit di parlare in confidenza lo esclusero. Ci non impediva a persone e giornali di riecheggiare periodicamente quella versione, perfino su Le Monde, perfino sull'ultimo numero della rivista Limes. Bene: questa volta i tiratori sul mercato all'ora di punta si sono premurati di non lasciare margine al dubbio: hanno moltiplicato i colpi, hanno ostentato la parabola dai loro covi. Naturalmente questa specie di commemorazione "in corpore vivi" della strage del febbraio 1994 anche una retroattiva rivendicazione, all'insegna dello stesso dileggio. Un anno e mezzo dopo. Noi forestieri, quando siamo a Sarajevo, la mattina passiamo dal mercato. Naturalmente, non possiamo immaginare che qui le persone provino la nostra stessa ansia. Il fatto che, sebbene sia una citt grande, la Sarajevo assediata rimpicciolita e addomesticata come una galera, e dopo un po' si riconoscono le facce delle persone che escono per strada, che vanno al mercato, come in una prigione nell'ora d'aria. Tante delle facce che ieri si vedevano in televisione mi erano note. Ho guardato cinque telegiornali. Non uno ha detto il nome giusto della piazza: Mrkale. Non cos difficile. Una conduttrice, senz'altro benintenzionata, mentre correva tutto quel povero sangue, ha detto: Ormai questa diventata una guerra di tutti contro tutti. Di tutti, anche quelli che vanno a fare la spesa, o, se non

possono permetterselo, a guardare come vanno i prezzi oggi? Uno ha detto: Il mercatale di market, voleva dire il mercato di Markale. E' comprensibile che sia cos: ma fa dispiacere. Sono passati quasi quattro anni di orrore. Qualcuno in Italia, certo con le migliori intenzioni, ha protestato per le immagini crude messe in onda dai telegiornali in un'ora in cui i bambini guardano la televisione. Capisco la preoccupazione: ma i bambini si sono persuasi gi da tempo che i grandi si armano per ammazzarli e mutilarli. Se non lo dicono, e fanno finta di niente, solo per paura, o per prudenza: ma portano dentro quel grande segreto, e sentono oscuramente che non riguarda solo una citt sconosciuta che si chiama Sarajevo.

SI POTEVA, SI DOVEVA (L'Unit, 31 agosto 1995)

Reduci da un lutto terribile, immersi nell'allarme, gli abitanti di Sarajevo sono risaliti dalle cantine e dai sottoscala hanno spalancato le finestre nella notte gi autunnale, e hanno battuto le mani al rumore degli aerei. In qualche punto della citt, mi hanno detto, sono perfino scesi in strada, nonostante il lutto, l'allarme e il coprifuoco. Per la prima volta, quel rumore non era a salve.

Per la prima volta, il mondo mostrava di tenere in qualche conto le loro vite, e la propria solenne parola: per la prima volta dopo tre anni e mezzo. Il mio giudizio sull'azione delle Nazioni Unite contenuto per intero in questa fanciullesca notte brava sarajevese. Chi ritenga di poter dare un giudizio diverso, che lo metta a distanza dalla gioia cos tardiva, rischiosa eppure piena, di un'intera citt decimata e offesa, peggio per lui. I sarajevesi che gioiscono perch, per una volta, il mondo viene meno alla decisione di abbandonarli, sanno bene come ognuno di noi come stanno le cose. Sanno che il mondo, i potenti del mondo, non sono improvvisamente diventati buoni, non si sono commossi davanti alle povere vittime di una strage dopo averne guardate senza batter ciglio altre mille. Oltretutto, sono diventati grandi esperti di politica internazionale, alla scuola pratica di questi anni. Conoscono bene Boutros Ghali e Yasushi Akashi, sanno che problemi ha Clinton col Congresso e con le elezioni, che cosa dicono i sondaggi della popolarit di Chirac, quale dialogo si vada ritessendo fra Occidente e Iran, che scambi si trattino sulla scacchiera dei rapporti con Mosca e Belgrado. Sanno che i potenti sono pi facili degli altri a dimenticare e rinnegare la parola data, a tornare sui propri passi, a lasciare le cose a mezzo e tornarsene al sicuro. Sanno che se ora le cose succedono perch i rapporti di forza fra Croazia e Serbia rendono possibile quella liquidazione di fatto della BosniaErzegovina, e la trasformazione della Bosnia in una riserva protetta per specie rare che inscritta dall'inizio nella loro guerra.

Sentono gi l'altro, abituale rumore delle granate che piovono, incattivite sulle loro teste. Sanno che niente promesso, e che altre sofferenze penose sono assicurate. Tuttavia, per una volta, gli americani sono stati come i sarajevesi immaginano che siano gli americani, e la Forza rapida come dovrebbe essere una truppa dell'Europa, e l'Onu come sarebbe l'Onu, se ci fosse. Sanno anche che le poche e risolute cose che sono state fatte nel giro di qualche ora - accecare i radar degli assedianti, bombardare le postazioni di artiglieria pi micidiali, far saltare la fabbrica di munizioni di Vogosca, mettere a tacere dall'Igman buona parte dell'antiaerea cetnica e dell'artiglieria puntata sulla citt - potevano e dovevano essere fatte ieri, e l'altroieri, e cos via, da tre anni e passa: e che non sono state fatte, e anzi si sostenuto che non fossero possibili, e che sarebbero costate una terza guerra mondiale, o almeno un nuovo Vietnam. Sappiamo tutti tutto. Ma questo che abbiamo sperato e chiesto fino alla disperazione, per tanto tempo. Non abbiamo chiesto che i potenti diventassero pi buoni e pi sensibili ai bambini mutilati e meno alla ragion di Stato - bench anche questo possa succedere, un po'. Abbiamo voluto che nel calcolo delle convenienze dei potenti, cinico o soltanto realistico, l'orrore e lo scandalo delle persone di buona volont contro la sopraffazione e il calvario della Bosnia pesassero a loro volta. Se nei calcoli elettorali o negli indici di gradimento dei potenti la liberazione di Sarajevo dall'assedio si guadagna finalmente un posto, ebbene questa una vittoria della giustizia, dell'umanit, e del buon diritto.

Che questo sia avvenuto cos mostruosamente tardi, e a un tal costo, e con una tale incertezza ulteriore, ecco la sconfitta di tutti noi, di cui tutti noi abbiamo una responsabilit. Che cosa succeder ora, non so, sebbene sia chiaro che una svolta avvenuta - con l'accordo croato-bosniaco, con l'offensiva croata patrocinata dagli americani, e ora con l'azione Nato che non una ritorsione contro la strage del mercato, ma un'operazione militare preliminare all'apertura di Sarajevo e al negoziato vero e proprio. La Bosnia conviviale, cordiale, mite e socievole gi, temo, spacciata. E non soltanto per la secessione cetnica e il brigantaggio dei suoi capi: di fatto, la liberazione degli assediati di Sarajevo, quando verr, liberer anche i poveri rifugiati nelle cantine di Pale. L'Erzegovina, in cui si annida il nazionalismo croato pi virulento e violento, e che ha nel suo record la distruzione della Mostar musulmana di ieri e la discriminazione banditesca contro la Mostar musulmana oggi, tanto pi dopo il trionfo della riconquista croata, pu conservare la finzione formale dello stato bosniaco-erzegovese, ma di fatto una provincia della Croazia. Dunque, nonostante l'eroismo della sua resistenza, la Bosnia sar un'enclave ritagliata e sottoposta a protettorati pi o meno prepotenti. Ma questo non riduce l'importanza delle poste ancora aperte. La prima la sorte della sua popolazione umana: quanto sangue e mortificazione dovr ancora costarle l'arrivo della fine. La seconda la misura della sua mutilazione territoriale e civile: Gorazde, Banja Luka. La terza il vincolo col resto del mondo che questo processo finale le assicurer, e che sar una caparra sulla qualit laica e mite, o risentita e aggressiva della sua maggioranza islamica.

L'azione di ieri ha riequilibrato appena una bilancia precipitata: ma ancora un inizio, esposto a mille pericoli di percorso. Cos guardo, dalle mie finestre tranquille, ai voli attorno a Sarajevo, dopo averne tanto ascoltato l'inutile rumore. Me ne sento corresponsabile, naturalmente. Una polizia internazionale, se ci sar, verr per questa via, e non per quelle di idilliche rifondazioni radicali dell'Onu e dell'Europa e di ogni altro ente, in attesa delle quali i cecchini ubriachi continuino ad ammazzare i bambini. Penso che verr un giorno, e non sar troppo lontano, in cui le nostre opposizioni e riluttanze all'intervento ci sembreranno un inspiegabile oscuramento della ragione, e lo stesso lessico delle nostre liti, l'interventismo e l'anti-interventismo, ci sembrer grottesco - come dichiarare interventista il passante che, di fronte a un assalto stradale, chiami la polizia. Se cos non sar, vorr dire che il mondo intero, e non solo la piccola Bosnia, sar stato spacciato. Vorrei permettermi, per fatto personale, alcune altre poche righe. Ho letto cronache strampalate di un dibattito sulla Bosnia alla Festa nazionale dell'Unit. Per esempio, che ho comprato una casa a Sarajevo: la fonte sono io, per aver detto che a Sarajevo fa pi bene abitare in una casa comune che non nell'orrendo albergo per giornalisti. L'equivoco futile, e mi fa rientrare eccentricamente nella strategica, come vedo, discussione indigena su Affittopoli. Non ho comprato case, naturalmente; ho fatto di tutto per essere di casa a Sarajevo, e me ne congratulo come di un vero buon affare.

Quanto ai pacifisti coi quali avrei risse furibonde, nel caso di Reggio Emilia erano pochi, abbastanza simpatici, e tutt'altro che pacifisti: vecchi arnesi dell'estrema sinistra, quanto e pi di me. La stragrande maggioranza delle persone che erano l, come altrove, erano attente, intenzionate a capire qualcosa di pi, esplicitamente persuase che sostenere che non ci sia niente da fare davanti al massacro sia immorale, e che addirittura mobilitarsi perch niente si faccia sia una follia. Degli affezionati sinceri alla pace, soprattutto quelli che ho incontrato pellegrini a Sarajevo, pochi pi sono disposti a venerare formule astratte. C' anche, nel caso italiano, una specie di disastroso buon senso pacifista, abbondantemente diffuso fra alti militari e governanti, che somiglia a una filosofia da camerieri: cui i padroni lasciano cortesemente, a volte, dire qualche loro frase buffa, per rimandarli poi in cucina, a riordinarsi crestina e grembiule, e servire in tavola.

DA SARAJEVO NESSUNA NOTIZIA (L'Espresso, 10 dicembre 1995)

La C.N.N. ha trasmesso la scena, all'annuncio della firma: la bottiglia di champagne stappata, i bicchieri dei sarajevesi levati in un brindisi di festa.

Naturalmente, era una messinscena da albergo per giornalisti. Figuratevi lo champagne nelle case dei sarajevesi, dove finalmente tornata l'acqua, addirittura potabile, per qualche ora la mattina. Per colmo di ironia, anche la diretta della firma dell'accordo a Dayton si interrotta bruscamente nelle case di Sarajevo, perch andata via la luce, sicch i sarajevesi la loro pace se la sono vista in replay con un giorno di ritardo. Non c'era n champagne n voglia di brindare. I sarajevesi sono tristi, mi ha detto uno, col tono obiettivo con cui altrove vi sentireste dire che i napoletani sono allegri. Ora sono forse persino pi tristi, perch la tristezza stessa un lusso da tempi di armistizio, quando l'angoscia e la paura cedono il posto, e si misurano i vuoti. Sarajevo non aveva avuto una guerra, ma una sua truce parodia, fatta di sopraffazione, di ferocia, di follia: e non ha avuto una pace, col suo Giorno della Liberazione e le fanfare e le ragazze che gettano fiori al rientro dei difensori. Infame la guerra, sporca e incerta anche la pace. Ma era l'unica possibile, dopo che per anni si erano lasciati infierire i piccoli mostri del razzismo serbo. Nei giorni e nelle ore in cui il negoziato di Dayton si dilazionava, e circolavano voci sui dissensi irreparabili e le rotture probabili, ho visto nelle case le persone dissezionare le notizie e discuterle accanitamente. A Dayton, Ohio - posto lunare visto da qui: di film e canzoni - si giocava con la carta geografica come in un congresso di potenze ottocentesco.

La Posavina bosniaca attorno a Brcko sar serba; Gorazde avr un corridoio fra gli otto e i quindici chilometri; su Sarajevo ancora tutto incerto... E gli occhi delle persone si gonfiavano di lacrime. Perch i bosniaci hanno pensato mille volte che tutto fosse per loro perduto, il loro passato e il paese e la vita; ma altrettante volte, in modo misterioso, hanno ritrovato in s la sensazione che l'aggressione sarebbe stata un giorno riconosciuta in piena luce e castigata, che la BosniaErzegovina sarebbe tornata quella di prima, resa anche pi onorata da una resistenza senza pari. Le persone guardavano ora sullo schermo il presidente Alija Izetbegovic seduto al tavolo americano con Slobodan Milosevic, e si vergognavano per la sua vergogna. Il telegiornale bosniaco tagliava maldestramente la stretta di mano fra i due come se non volesse nascondere la censura, e solo risparmiare agli spettatori una pena in pi. Le persone si torcevano le mani, fumavano, e scongiuravano Alija di non firmare, in nome di tanti morti, di tanto dolore. Poi si annunciava il rischio della rottura del negoziato, e le stesse persone erano prese dalla paura del peggio. Era comparso su qualche muro il ritornello: Potpise Alija, neka je ko avlija - firma Alija, anche se la Bosnia ridotta alle dimensioni di un cortile domestico. Ho sentito una sera una donna, di solito sobria e silenziosa maledire rabbiosamente l'accordo che avrebbe messo il visto del mondo intero sulla prepotenza razzista. La mattina dopo, quella stessa donna mi ha confessato di non aver trovato sonno al ricordo delle notti passate nel buio gelido della cantina, con i bambini piccoli affamati, sotto la pioggia di granate: e di aver pregato

perch Alija firmasse. (Poi di nuovo, dopo la firma, quando a nessuna rete stato possibile omettere la stretta di mano fra i tre presidenti sotto il sequestro americano, di nuovo, lei ha pianto quando ha sentito il nome Srebrenica sulla bocca di Milosevic). Cos questa pace. Ingiusta, come era stata oscenamente ingiusta la guerra. Non una pace, forse, se non perch la fine della guerra. Ma la fine. L'hanno preparata per anni la sofferenza dei civili e il coraggio di combattenti dalle scarpe rotte. L'ha resa possibile un impegno internazionale che, dopo anni di errori, complicit e cinismi, ha deciso di farla finita con la tracotanza impunita dei farabutti di Pale. Pi esattamente, questa pace - l'unica possibile - figlia dei raid della Nato. La guerra ha cominciato a finire quel giorno, com'era chiaro a chiunque non fosse oscurato dal pregiudizio. Cos stando le cose, la domanda senza scampo che si rivolge non solo al fanatismo pacifista e all'ipocrisia di sinistra, ma in primo luogo alle autorit del nostro mondo, una sola: perch cos tardi? La risposta non una spiegazione, una condanna. Per tutti questi anni avevo sperato con tutto il cuore che finisse questo macello di vite e di dignit umana. L'avevo immaginata, la fine. Avevo sognato qualcosa che somigliasse alla scena dei soldati della prima guerra mondiale che balzavano fuori dalle trincee gettando via i fucili e correvano ad abbracciarsi.

Sarebbero stati qui, forse, i civili, le popolazioni cacciate e deportate, i parenti e i vicini separati a forza, a corrersi incontro d'un tratto attraverso la terra di nessuno. Sarebbero stati, nel cuore stesso di Sarajevo, gli abitanti di Grbavica manomessa dai cetnici e quelli della citt assediata a corrersi incontro, come una doppia fiumana gonfia e inarrestabile, attraverso il ponte intitolato amaramente alla Fratellanza e all'Unit. Sarebbe stata la gente di Sarajevo a radunarsi per un accordo segreto in un'alba, e rompendo blocchi e appostamenti avrebbe portato i suoi bambini, per una strada davvero blu, a vedere per la prima volta il mare. Cos avrebbe potuto venire la pace. Non stato cos. Le macchine da presa della mondovisione hanno girato la scena alla rovescia. Popolazioni derelitte hanno preso strade opposte di fuga e di migrazione. Fra i bambini di Sarajevo e il mare c' un altro inverno, il quarto, che le nevicate precoci e le bacche scarlatte dei sorbi scampati annunciano rigido. Tuttavia l'accordo di Dayton , sulla carta, pi favorevole alla Bosnia di quanto chiunque osasse sperare appena due mesi fa. Nei quartieri che l'accordo restituisce finalmente alla Sarajevo bosniaca, ragazzi serbi fieri e aizzati marciano gridando che non cederanno mai - cederanno presto. Ero arrivato a Sarajevo con una corriera di linea, scortata da tre carri armati francesi dell'Onu attraverso i quartieri occupati dai cetnici di Hadzici e Ilidja. Nervosismo fra i passeggeri e gli scortatori, cattivi ricordi - come quello del vicepresidente bosniaco assassinato dai cetnici dentro un blindato dell'Onu scortato da militari francesi...

Lungo il percorso, ragazzini salutano l'autobus, e rispondo agitando la mano; finch non mi accorgo che hanno le tre dita alzate nel segno ortodosso che ora suona scherno e minaccia, e resto con la mia mano mortificata a mezz'aria. Cos viene questa pace. Una volta fu un drappello di pacifisti italiani a decidere di attraversare il ponte che spacca in due Sarajevo con le mani alzate e i colori della pace: idea generosa e malauguratissima. Uno fu ammazzato a mezza strada, si chiamava Gabriele Moreno Locatelli. Alle colombe qui si spara; e ai bambini e agli inermi. Ora non si spara. Ieri sera, sulla collina di Kovaci, il cielo si riempito di detonazioni e di traccianti colorati. Erano fuochi artificiali, veri fuochi d'artificio sparati da un disgraziato che festeggiava il matrimonio del figlio. Forse, in quel terribile separarsi di popolazioni respinte ai quattro angoli di questa terra martoriata, c', sotto l'infamia della violenza e la propaganda della paura, una chimica saggia e rassegnata. Una pazienza immemorabile, una consapevolezza di come si strappi alla svelta la maglia, e come sia lento e difficile riprodurne la trama. Cos, piano piano, torner la vita normale. Arrivano gli americani, anche donne incinte. Nelle vetrine di Bascarsa i mazzetti di fiori da sposa sono una meraviglia. I tram hanno appena compiuto cento anni, e sono pieni e frequentissimi, come per recuperare le corse perdute. Le strade sono singolarmente vuote di belle ragazze: le belle ragazze non torneranno pi.

Prima della neve, la citt era coperta di foglie secche. Solo nel parco della Presidenza le spazzano e le raccolgono in mucchi, che il vento scompiglia. Gli spazzini sono uomini in tuta blu, troppo leggera, e donne con i capelli radi e tinti di un henn rugginoso. I venditori di libri vecchi vendono sempre gli stessi volumi. Tutti i libri sono finiti nel fuoco? Dai fruttivendoli ci sono meloni gialli e ananas freschi; e bacche di sambuco, con cui si fanno bevande buone per tutto, specialmente per i reni. Il traffico appena pi fitto, ma resta il coprifuoco, e il cielo stellato ancora splendido, e il silenzio della notte assoluto, con quella strana assenza di spari. Domenica sera, il conduttore ha introdotto il notiziario cos: Voi non ci crederete, ma praticamente non ci sono notizie. Questo un telegiornale del pianeta Marte. E ha concluso: Dormite bene.

UN ANNO FA L'ORRORE DI SREBRENICA (L'Unit, 11 luglio 1996)

Dal moncherino del ponte i ragazzi di Mostar sono tornati a tuffarsi nella Neretva verde ramarro, vedova del suo arco in cielo. Nel centro di Sarajevo ogni giorno si aprono nuovi bar, e i ragazzi rientrati dall'Italia ostentano le loro magliette firmate ai coetanei rimasti dentro, con le camicie militari indosso, nonostante la smobilitazione, per povert: ma allegri e chiassosi, gli uni e gli altri. E' la pace, questo? Il traffico stradale, la gente indaffarata, gli stranieri in cerca di business e il chiasso un po' becero: la pace? Nessuno ci scommetterebbe, e molti sono pronti a deplorare la frettolosa grossolanit dei tempi nuovi. Dov' la Bosnia delle granate e dei cecchini, dei giorni epici e delle notti bucate dalle raffiche? E' dura, mi ha detto una venditrice di sigarette e cioccolata all'angolo del mercato coperto. Ma va meglio, ho osservato cautamente, e almeno non sparano. Solo non sparano, ha detto lei. Solo questo? Fosse anche cos, che enorme differenza. Non riesco a passare sopra questa differenza, quando vedo come il tentativo di pace sia vulnerabile e insidiato. Srebrenica stata un anno fa. Un anno fa, la citt dell'argento e delle fosse comuni, la citt protetta solennemente dalle Nazioni Unite e violata spavaldamente dalle truppe serbe, la citt dei 60 mila fra abitanti e rifugiati lasciata alla merc del generale Mladic e delle sue bande di sgozzatori. Tremila uccisi, cinquemila scomparsi, cio uccisi. Uccisi gli uomini, dopo essere stati separati dalle loro donne e bambini; ma uccise anche donne e bambini, braccati in una fuga angosciosa nei boschi e sui monti.

Teste mozzate e impalate, un uomo forzato a ingoiare il fegato del nipote, persone costrette a scavarsi la fossa e, per non essere riuscite a restare immobili sul bordo, fucilate; gli altri, quelli rimasti immobili, spinti dentro e sepolti vivi. Era appena un anno fa. I dettagli, adesso, ci sono tutti: sono trascritti negli atti del Tribunale dell'Aja, che sta dando prova di una dirittura e di una tenacia mirabili. Un anno dopo, ruspe e badili scavano alla ricerca delle grandi fosse comuni, archeologia contemporanea che ha ormai i suoi metodi e i suoi esperti, da Buenos Aires all'Africa. Per la prima volta, l'Ifor protegge con le sue truppe la fatica meticolosa degli esumatori. Un anno fa, i satelliti riprendevano le immagini degli uomini ritti sul ciglio delle fosse, e poi quelle delle cataste di corpi: e le mettevano da parte. Un anno fa, i militari olandesi dell'Unprofor, ufficiali e soldati, assistevano imbelli al massacro, quando non arrivarono a rassicurare e consegnare di propria mano le vittime al mattatoio. Com' lungo, un anno, quando smettono i bombardamenti. O piuttosto, incredibile come corra veloce il tempo quando ogni giorno porta la sua pioggia di granate e di spari. A Srebrenica, tre anni erano volati sotto le bombe e nella fame e nel freddo. Poi vennero i tre o quattro giorni di Mladic. Alcuni carnefici cetnici avevano indossato le divise dell'Onu, per ingannare meglio le vittime: o piuttosto per perfezionare il proprio divertimento.

I coltelli per sgozzare furono usati infaticabilmente, intanto che convogli di camion scaricavano senza sosta i prigionieri: combinazione formidabile di modernit e tradizione. Stupri a volont, naturalmente. Il generale Mladic non si content di selezionare gli uomini da assassinare e di spedirli al macello: li arring pubblicamente. Karadzic non c'era: se ci fosse stato, avrebbe letto ai morituri una propria ode. Nel nostro mondo, l'orrore e il pianto attraversarono gli animi. Si veniva da discussioni che sarebbero suonate tragiche se non fossero state scolastiche sulla comparabilit degli sterminii nei rotocalchi. Qualcuno ritenne di dover dubitare che le notizie di Srebrenica fossero vere, di non dover credere alla voce rotta e agli sguardi allucinati dei fuggiaschi. Di quelli, una donna ha vagato ancora fra rupi e foreste fino a qualche giorno fa. Del resto, lasciate che passi una ventina d'anni, e si trover chi sostenga che Srebrenica non mai esistita, e ne riceva una cattedra in premio. Oggi, nell'anniversario, un aereo speciale parte da Vienna e porta a Srebrenica la regina di Giordania, l'ambasciatrice americana in Austria, la commissaria europea Emma Bonino, altre signore e inviati di televisioni e giornali. Incontreranno a Tuzia tremila profughe da Srebrenica e dagli altri gironi infernali, le ascolteranno, parleranno loro. Lasceranno doni. Nel pomeriggio saranno gi di ritorno.

Strana spedizione, come un corteo di re magi femminile, che segue, con un po' pi di ritardo che nell'Epifania, il luogo della strage degli innocenti indicato dalla cometa dei satelliti spia e dalle foto aeree. Nella strage di un anno fa, e nella fuga spaventosa fra boschi e pietraie minate, molti dei perseguitati decisero di togliersi la vita. Nelle testimonianze del Tribunale si ricordano decine di questi, che si esita a chiamare suicidi. Di una fra loro arriv l'immagine fin sulle nostre pagine. Era una giovane donna, qualcuno la fotograf impiccata a un albero. Veniva da Srebrenica, era quasi in salvo, nei pressi di Tuzla. Ma in salvo un modo di dire. Per lei la strada era finita l. Non sono riuscito a sapere come si chiamasse, e neanche chi fosse il suo fotografo. Un inviato del Messaggero, Valerio Pellizzari, era risoluto a rintracciarli: non so se sia riuscito. Non mi tolgo di mente quell'immagine. Pochi giorni prima, a Firenze, si era appeso a un albero Alex Langer, uno che si era messo in cammino per Tuzla tante volte, dalla parte opposta. Storie diverse, s'intende. Per si erano impiccati a piedi scalzi, Langer, e la ragazza di Srebrenica della foto, e questo era commovente come una misteriosa parentela. E gi passato pi di un anno, ed di nuovo estate.

APPENDICE.

LE GRANDI PAURE DELLA GIA'-SINISTRA (L'Unit, 6 febbraio 1993)

Ho letto l'irritante articolo di Enzo Bettiza sulla Stampa ("Una risata seppellir la sinistra"). Cose analogamente irritanti ha scritto spesso, sullo stesso giornale, Barbara Spinelli. Mi sono chiesto se non avesse ragione. Non nel tono, che mi sembra soddisfatto, n nella descrizione del regime italiano come di un leninismo lottizzato, che una battuta: piuttosto nell'accusa al pensiero di sinistra - o: gi di sinistra - di restare paurosamente al di sotto dei problemi del tempo. Questo mi sembra vero.

E non perch, come deplora Bettiza, a Gramsci sia succeduto Michele Serra, o Serena Dandini. (Un giorno prima un fitto editoriale di Massimo D'Alema sull'Unit si imperniava su una citazione gramsciana). Forse sbaglio per ignoranza di buona parte della pubblicistica corrente, che ho mancato di seguire, ma ho l'impressione che ci sia fra le persone gi di sinistra una reticenza, quando non una rinuncia intera, a misurarsi con la novit e la portata di alcune questioni. Non rimpiango forme globali di pensiero - pensieri forti, questi forse s: insomma pensieri proporzionati alle cose. Inclinando a ritenere che la sinistra si sia impercettibilmente trasformata in uno stato d'animo, e in ci stia la sua dannazione e la sua salvezza, oltre che una spiegazione del suo riparare in forme di espressione lunatiche come la satira e il moralismo, credo che la manifestazione pi notevole della debolezza su cui Bettiza infierisce non sia la pavidit o il silenzio degli intellettuali, bens lo smarrimento delle persone, pubbliche e comuni. E' la stessa conversazione di sinistra - lasciatemi dire cos - che si interrotta e spezzata. Cadono iscrizioni e vite. Il segretario organizzativo del P.D.S. emiliano, uomo illibato di 49 anni, che decide di tornare al suo mestiere di conducente di autobus: ecco una figura chiave della sinistra. Immagino con quanta invidia guardino a lui gli indagati per tangenti. Il silenzio degli intellettuali sarebbe il male minore. O un bene. Se c' una parola dalla quale bisognerebbe dimettersi, per ragioni teoriche e soprattutto di stile, cio supreme, l'aggettivo organico.

(Il principale difetto del linguaggio politico di Leoluca Orlando e del suo contagio nella predilezione per due parole: "organico" e "garante"). La questione non riguarda le sistemazioni intellettuali e i loro autori di professione - e mi pare che Bettiza abbia gioco facile anche nel deridere il ricorso feticistico a degni professori tedeschi, da Dahrendorf a Nolte (quanto Nolte!) chiamati alla rinfusa a far da supplenti ai loro colleghi italiani. La questione riguarda argomenti essenziali e concreti che tuttavia non entrano nell'ordine del giorno dell'attenzione e della riflessione comune. La guerra nella ex-Jugoslavia il pi grave di questi argomenti. In nessuna sede, o quasi, si parla ad alta voce di ci su cui a bassa voce o dentro di s ci si tormenta (non vero infatti che ci sia disinteresse o fatalismo di fronte alla Jugoslavia). I giornali danno per significative le opinioni divergenti del ministro And e del ministro Colombo. Non risulta che altri, sopra o sotto di loro, se ne occupi. La sinistra solidale, preoccupata, ansiosa, ma resta impigliata dentro una trama vischiosa di principii e slogan ereditati - la sovranit statale, la non ingerenza, nei casi migliori il pacifismo. La guerra del Golfo, invece di ravvicinare i termini dei problemi, ha rinfocolato l'illusione di schieramenti dati una volta per tutte pacifisti e interventisti, quando non imperialisti e terzomondisti. Il papa parla di diritto di ingerenza, e sembra tradire il pacifismo assoluto della guerra del Golfo. I pacifisti, beninteso, sono gli unici o quasi ad adoperarsi francamente, a manifestare, a peregrinare temerariamente a Sarajevo, ad allestire camion di provviste (anche in questo, con una differenza di efficacia fra

l'Italia e la Francia, per esempio, pari, e non per caso, alla differenza del reciproco retaggio coloniale): e fanno male Bettiza, Panebianco e gli altri che risollevano la denuncia contro un pacifismo suddito di Mosca e, ora che Mosca morta, suddito del suo fantasma. Ma chi, di fronte agli stupri, all'assedio e all'agonia di una citt (di tante citt), ai mutui massacri, ai campi di concentramento e ai disegni di genocidio per volont di espansione territoriale, di virilit guerriera, di nazionalismo - chi non riesca a persuadersi che bisogna sempre e comunque rinunciare all'impiego della forza, e desideri sapere se e a quali condizioni l'uso della forza sia possibile: in quale nome, con quali fini e bersagli, con quali costi chi sente cos, cio una gran parte delle persone, che non siano militanti di qualche movimento specializzato, non ha trovato alcuna sede per provare a rispondersi. In un mondo provvisoriamente monopolare e multipolare, in cui definitivamente (e provvidenzialmente) caduto un sistema di azioni e reazioni automatiche come quello delle due superpotenze, fatalmente minacciato per mano umana cos dai conflitti locali come dalla consumazione planetaria, fin dove valgono ancora le nozioni tradizionali di sovranit statale, o i diritti di veto nelle organizzazioni mondiali? Il diritto all'ingerenza - "dovere" dell'ingerenza, cos lo chiamavano a proposito della fame i premi Nobel raccolti da Pannella gi anni fa non estende sul piano internazionale la necessit di una funzione di polizia e di giustizia oggi incardinate su una base statale e presunta nazionale? E quanto al rischio di un rinnovato colonialismo, esso non gi in larga misura una realt? E non vero viceversa che l'intervento contro fame, carestie e decimazioni politiche ha dovuto da tanto tempo, e sempre pi, coprirsi dietro il titolo nobile e derisorio di umanitario, e garantirsi finzioni capaci di eludere le legittime quanto losche sovranit locali? La stessa storia del colonialismo vecchio e nuovo, cos continuando le

cose, verr contesa ai difensori dei diritti, della tolleranza e delle diversit da una destra sempre uguale, sempre persuasa della superiorit di razza e di civilt, i cui ritorni di fiamma non hanno una virt propria, ma la trovano fin troppo nell'insipienza della sinistra e dei suoi esanimi diseredi. Ecco che ogni situazione, ogni concreto problema costringe a fare una scelta, a dare una concreta risposta: ci che molto pi difficile e arrischiato che non la divisione fra neutralisti e interventisti. Bombardare o no le basi di artiglieria pesante che tengono sotto tiro Sarajevo? Ecco una buona domanda per gli intellettuali e per le altre persone, e non solo per gli ufficiali di stato maggiore, o per i ministri Colombo e And. Ho cercato con i mezzi che avevo di sapere e capire qualcosa di pi su quello che succede nella ex-Jugoslavia, e mi sono da tempo persuaso che occorra intervenire in soccorso di Sarajevo; che la schiacciante superiorit armata internazionale debba essere impiegata per aprire le vie di accesso e di uscita da Sarajevo, per bombardare aeroporti e installazioni di armi pesanti, e vie di comunicazione e di rifornimento delle bande armate serbe; che ci debba avvenire per iniziativa delle Nazioni Unite e per mano, se possibile, della Nato, che comprende un protagonista decisivo della trama balcanica come la Turchia. Penso questo. Forse sbaglio. Purch si risponda al grido di soccorso che viene da popolazioni civili minacciate di genocidio. A questo punto sono le cose, e da tempo. Prevenire una tragedia come questa sarebbe stato necessario. Non avvenuto.

Impedirne o ostacolarne e punirne seriamente la prosecuzione - da parte, oggi, in Bosnia-Erzegovina, soprattutto delle bande serbe; bench riemerga una mira croata alla spartizione del paese sulla pelle dei musulmani e di ogni sacca residua di convivenza interetnica - necessario per s; necessario, ormai, per una dissuasione delle sopraffazioni e delle guerre civili che covano nel Kosovo o nella Vojvodina o nella Macedonia. Nessun intervento militare potr restituire pace e dignit civile alla ex-Jugoslavia. Potr salvare vite, sventare stupri, ostacolare nuovi crimini irreparabili. La sinistra comunista (e non solo) di un tempo era intrisa di una venerazione della forza armata: il sovietismo internazionale ne fu guastato nell'anima. Quando il P.C.I. volle completare il proprio distacco da quelle radici e da uno statalismo illiberale che era stato il corollario del culto della forza - prima, in verit, del crollo dei comunismi al potere, non pochi dei suoi sentirono che la conversione necessaria investiva un'intera formazione culturale. Venne allora un'attenzione inedita, di cui l'Unit stessa fu buona ospite, alla non violenza, a volte dilettantesca, altre volte profondamente coinvolta. Gli avversari del P.C.I., e poi del P.D.S., ebbero il torto di ignorarlo e di attribuire a un perenne pacifismo a senso unico, strumentale e antioccidentale, l'inerzia e il disagio di persone che si misuravano con una difficile conversione filosofica e perfino religiosa, e che si attestavano, a scanso di errori (quando non di impopolarit, che altro affare) su un pacifismo astratto e di maniera.

Astratto, dico, e non di principio, perch un pacifismo di principio fermamente professato e praticato, che non questione di movimenti e di organizzazioni, ha dalla propria una forza indiscutibile, e si nutre di gesti audaci e sacrifici senza riserve che ne compensano la rinuncia a un'efficacia diretta. A sua volta il movimento ecologista - che del resto ha offerto un ricambio cruciale al disarmo della sinistra comunista - ha dalle origini fissato una coincidenza "a priori" fra ripristino di un rapporto non distruttivo con le risorse naturali e il pacifismo nelle relazioni internazionali. Giustamente, perch nella comprensione della sventatezza brutale con cui la nostra cultura si abituata a manipolare la natura sta la radice di una trasformazione non violenta. Frettolosamente e superficialmente, quando l'ecopacifismo diventato una formula propagandistica, ha ereditato - ecco un altro paradosso - un terzomondismo politico, distratto e a volte cieco di fronte alle violenze e alle tirannidi indigene. L'ecologismo, il pensiero che muove dalla consapevolezza della distruzione del pianeta per l'opera "pacifica" dell'uomo, il primo ad avvertire la necessit fatale di un governo del mondo. Le piogge acide portate in giro dal vento oltre le frontiere di Stati e di sistemi, o la nave giapponese Akatsuki Maru che porta per acque non territoriali la sua tonnellata e mezzo di plutonio, mettendo lei sola a repentaglio la terra intera, sono esempi eloquenti dell'anacronismo impotente o arrogante delle vecchie sovranit. Ma l'arcipelago ecologista non pu pensare che il pacifismo sia una condizione statutaria capace di esentare dal ricorso alla forza, di fronte a Varsavia e ad Auschwitz, e a ci che prepara Varsavia e Auschwitz e Sarajevo.

Senza di ci, ad onta della dedizione e delle fatiche intelligenti di tanti, ecologismo e pacifismo continueranno ad apparire alle vittime lussi di chi pu permetterseli. E si potrebbe aggiungere che dal modo di misurarsi con il governo del mondo dipende anche la prevenzione di quella sfrontata paura del mondialismo che rianima il nazionalismo di destra e l'antisemitismo manesco dei suoi giovani squadristi. DICIAMO NO CON UN DIGIUNO (Cuore, 22 marzo 1993)

Non so pi di quello che si legge sui giornali di questo generale Morillon, comandante delle forze delle Nazioni Unite, che da qualche giorno trattenuto, o si trattenuto, a Srebrenica, per sventare o dilazionare un altro enorme massacro, e cercare di ottenere che passi qualche camion di viveri e medicine, oltre che concordare il maledetto flusso etnico fra Tuzla e Srebrenica. Mi illudo che sia vero che Morillon abbia deciso di propria volont di restare l. Oppure che l'abbiano preso in ostaggio, e che questa violenza di vittime disperate sia stata per lui (ne deve avere viste di cose, da quando l con quel compito) la spinta, l'occasione di cui sentiva il bisogno per forzare a sua volta l'impotenza della sua missione, per mettersi in carne e ossa fra aggressori e aggrediti: interposizione, si chiama tecnicamente. Insomma, l'ho invidiato. Niente nella storia europea dei nostri anni paragonabile all'orrore della guerra nella ex-Jugoslavia, nessuna vergogna e frustrazione paragonabile a quella che si prova ad assistervi di qua: senza neanche la decenza di uno sforzo, di una discussione seria: abbiamo ben altri problemi, noi...

Si vorrebbe essere papa, si vorrebbe essere generali francesi. Ora la vostra decisione di dedicare un numero del giornale alla exJugoslavia ben venga. Ma non una di quelle occasioni in cui si pu cercare di mettere a frutto un seguito, una domanda, una disponibilit? Fate bene voi di Cuore a ripetere che non siete un partito n una bandiera n il surrogato di un partito e di una bandiera. Gli stessi partiti, vecchi o aspiranti nuovi, farebbero bene anche sulle questioni interne e ordinarie a non continuare a ritenersi titolari di risposte uniche e disciplinari a problemi complicati che possono lasciare le persone dubbiose o divise. Sulla stessa ex-Jugoslavia una volta che si discutesse davvero verrebbero fuori divergenze accanite, vere o gratuite. Ma almeno su una cosa tutti quelli di buona volont e che si torcono le mani dovrebbero essere d'accordo: che c' da tempo una situazione fatale di legittima difesa, di grida di soccorso inascoltate, e che almeno occorra testimoniare che quel grido stato ascoltato e che viene ripreso e ripetuto. Molte persone lavorano, raccolgono denaro, viaggiano, si adoperano per curare e salvare vite, accolgono profughi, esigono dalle autorit che almeno tengano fede ai loro impegni proclamati. Mi chiedo se non si pu fare qualche altra cosa, la pi inerme e la pi responsabile, e se voi non volete prendervi la briga di immaginarla. Ho l'esperienza di un digiuno collettivo, ho visto quanta forza d a chi ne partecipa e quanta ne comunica agli altri. Non si potrebbe farlo per la causa pi grave e terribile che abbiamo di fronte, per dire che siamo con tutte le vittime della guerra e delle guerre statali e civili nella ex-Jugoslavia? Penso che molte, moltissime persone potrebbero volerlo fare: che ne verrebbe una dimostrazione mai

vista finora di solidariet, e un modo di far sentire a chi ne ha l'autorit e i mezzi che questo strazio contagioso - contagioso nel Kosovo, nella Macedonia, nei Balcani, "e da noi" deve essere fermato. Che cosa ne pensate?

NON VOGLIAMO MANGIARE PIU' GUERRA (Cuore, 10 aprile 1993)

Un digiuno ha una forza enorme: esso migliora chi lo compie, parla un linguaggio efficace e pulito agli altri, dispone alla condizione pi favorevole per perseguire scelte giuste, a cominciare dal sostegno alle iniziative volontarie di solidariet gi attive, con qualunque ispirazione ideale o religiosa. Fra i promotori ci sono probabilmente opinioni e sentimenti diversi, n si sono consultati su questo: alcuni vorrebbero che la legittima presenza internazionale nelle regioni in guerra venisse dotata di una forza armata

adeguata a imporre la pace e punire gli aggressori; altri sono contrari o diffidano di ogni impiego della forza armata. Altri pensano che le cose siano andate troppo oltre per giustificare queste divisioni, e che siano i fatti compiuti a imporre scelte che in passato avrebbero potuto e dovuto essere prevenute. Ancora, alcuni ritengono che vadano denunciate le diverse responsabilit nelle aggressioni, nei massacri e nelle violenze; altri temono che la denuncia delle responsabilit sia oziosa e rischi di essere strumentale. Ma tutti sono d'accordo sulla necessit di una solidariet che provi almeno ad avvicinarsi all'eccezionalit della sofferenza umana e della devastazione civile che ci avvengono accanto. Ci piace l'idea che il digiuno possa essere offerto - come si sottoscrive del denaro, o si inviano medicinali - alle persone e ai gruppi che nella Bosnia martoriata e in tutti gli stati della exJugoslavia si adoperano per far finire la guerra, per punire i criminali di guerra, per riannodare i fili di una convivenza civile. Sosteniamo chi lavora a una conferenza civica di quei rappresentanti autorevoli o di base della ex-Jugoslavia che si oppongono alle aggressioni, mirano a sventare nuove guerre, preparano la pace. I loro obiettivi possono diventare i nostri, essi possono farsi forti del nostro appoggio. La scorsa settimana a Verona si tenuto con questa intenzione un incontro significativo fra ex-jugoslavi di tutte le provenienze, fra i quali il presidente del parlamento bosniaco. Intendiamo condurre il digiuno a termine, escludendo ogni oltranzismo, e lasciando a ogni aderente di stabilire e comunicare la durata della propria partecipazione (ci aspettiamo che ciascuno sia rigoroso con se stesso: prendere sul serio il proprio digiuno serve a prendere sul serio il problema che si affronta); e chiedere a tutte le persone di buona

volont di unirsi al digiuno a turno, in modo da assicurargli una lunga durata - che ne faccia un fuoco acceso, fino a che il martirio di quei paesi non sia arrestato - e una partecipazione collettiva tale da colpire e contagiare le coscienze. Pu sembrare che questa iniziativa sia intempestiva o debole di fronte al rumoroso prevalere di problemi drammatici nel nostro paese, come in altri dell'Europa occidentale: a noi sembra il contrario, che senza sottovalutare la gravit dei nostri guai e l'impegno ad affrontarli, sia tanto pi necessario conservare il senso della misura delle ferite inflitte all'umanit e anche il senso dello spirito migliore che da una pi pronta e forte solidariet pu venire alle nostre proprie cose.

LETTERA APERTA AI PACIFISTI ITALIANI (Mandata al Manifesto e non pubblicata, gennaio 1993)

Care amiche e amici, da quando un intervento internazionale in Bosnia sembrato meno improbabile, avete moltiplicato le denunce e gli appelli contro ogni forma di intervento armato. Sono ansioso di sottoporvi alcune considerazioni. Temo infatti che da un momento all'altro la solidariet che cerchiamo insieme di muovere con le vittime della guerra e della violenza nella exJugoslavia, pianticella ancora fragile, vada amaramente in pezzi. Nei giorni scorsi, a proposito del digiuno collettivo, ho avuto pi occasioni di discutere con voi, e di mettere alla prova le cose che per mio conto avevo pensato. Avevo pensato questo. Che le obiezioni, quando non gli attacchi pi malevoli, al pacifismo, ricorrenti sulla stampa italiana, sono per lo pi pigre e stupide e pretestuose. Cos, per esempio, l'obiezione di non essersi mobilitati contro la guerra nella ex-Jugoslavia. Il vero scandalo la disattenzione e il silenzio sotto i quali passata la preziosa moltitudine di azioni compiute volontariamente da cittadini amanti della pace, rispettosi degli altri e pietosi delle loro sofferenze e mortificazioni, capaci di mettersi concretamente al soccorso di chi ne ha bisogno. Seimila italiani, si calcola, sono stati nella ex-Jugoslavia a questo fine. Un numero enorme e diffuso di persone, gruppi e movimenti di ogni ispirazione si dedicato alla raccolta e all'invio di aiuti materiali, all'organizzazione di campi e ospitalit, all'accoglienza di feriti e offesi, all'adozione a distanza di profughi, alla costruzione di ponti ponti radio, corrispondenze, fogli di informazione - fra persone separate

a forza e isolate, all'appoggio alle minoranze schiacciate perch potessero riprendere la parola. Questo enorme e quotidiano lavoro, di giovani e adulti, uomini e donne donne soprattutto, credo - reso possibile dalla vicinanza della exJugoslavia, ma non solo da quella, segna la vera differenza dal pi teatrale ma anche pi parassitario scontro di schieramenti al tempo della guerra del Golfo. Allora tutti furono impotenti, e quasi tutti si persuasero, o vollero persuadersi, che l'alternativa fra interventismo e pacifismo sia data una volta per tutte, ed esaurisca una volta per tutte il problema. Quell'equivoco, e la spettacolarit delle rotture che allora si consumarono, si sono trascinati ancora a proposito della ex-Jugoslavia nella sorpresa scandalizzata per il presunto voltafaccia di Giovanni Paolo secondo, dopo il suo presunto pacifismo al tempo del Golfo. Questa volta la vera divisione passata fra chi ha avvertito la gravit di quello che succedeva nella ex-Jugoslavia, ne ha sentito l'angoscia e la minaccia, e ha provato a fare qualcosa, e chi ha preferito voltare la testa dall'altra parte, compresi alcuni antipacifisti di professione. La confusione e la reticenza nei confronti della catastrofe della exJugoslavia sono state infatti impressionanti. Partiti che continuano a ritenere, vecchi o nuovi che si professino, di dover imporre disciplinarmente ai propri seguaci una fede in tema di meccanismi elettorali o di ministeri dell'agricoltura si sono guardati, non dico dal prendere una posizione, ma dal discutere francamente della guerra dirimpetto. Giornali che cavano sanguigni dibattiti dalle zucchette televisive della sera prima si sono guardati, con rare e personalissime eccezioni, dal mostrare che cosa fosse in ballo nella ex-Jugoslavia, e quali fossero le scelte possibili: i pi ardimentosi hanno scelto di tradurre dal francese

o dall'inglese, sicch abbiamo saputo prima o poi che cosa pensano che si debba fare per Sarajevo Glucksmann e Popper, Brzezinski e Lvy - e ci chiediamo ancora che cosa ne pensiamo noi. Sopraffatta dalla recita angosciosa dei tempi del Golfo, e compiaciuta dei propri guai cos propri, cos intestini tangentopoli, la rivoluzione italiana - l'Italia ha ignorato la exJugoslavia, o l'ha trattata con una scarsa combattivit orribile. Allo stesso tempo, "business as always", il meccanismo dell'informazione andava avanti, e rovesciava nelle case la sua dose minima giornaliera di passanti trafitti dai cecchini, di bambini scannati, di vecchie dalla testa coperta e dal mento dignitosamente tremante. Gran lezione. E' penoso e deformante il ricorso ai paragoni senza il quale si direbbe che non siamo capaci di designare l'orrore - Sarajevo come Varsavia, la ex-Jugoslavia come la guerra di Spagna. Ma quando a fare il confronto un uomo come Marek Edelman, lo scontroso vicecomandante dell'insurrezione del ghetto di Varsavia, superstite di un'epopea che non ebbe speranza, il quale, senza molte speranze, credo, dice, guastando la celebrazione ufficiale del cinquantenario del ghetto, che Varsavia si sta ripetendo a Sarajevo ancora una volta nell'indifferenza del mondo, allora non si pu fare a meno di interrogarsi. Perch dello sterminio degli ebrei l'Occidente e le sue autorit e la sua gente comune protestarono a lungo di non aver saputo, di non aver visto n potuto immaginare: ed era falso, e fuorviante. Ecco che noi assistiamo quotidianamente allo spettacolo della brutalit e della "pulizia etnica": non potremo dire - il papa l'ha appena ripetuto di non aver visto. Dunque "non questo, non mai stato questo".

Il difetto d'informazione pu ottenere lo stesso effetto che l'eccesso di informazione. C' un modo di giustificare la rimozione, di volta in volta cinico le ragioni della geopolitica, il sacro egoismo - o accorato - ah, la belva umana che sempre torna a sollevare il capo! Questo modo si alimenta di formule e pregiudizi allarmanti e consolanti: la feroce bellicosit serba, e l'intrico balcanico e tutto ci che serva ad allontanare e confinare ci che insidiosamente vicino. Sarajevo, i musulmani di Bosnia, diventano essi stessi figurine estranee e antiche schiacciate su macerie d'altro mondo. A leggere le lettere da Sarajevo, curate da Anna Cataldi, si resta sgomenti: cos infatti, Sarajevo, cos oltraggiosamente poliglotta, e raffinata, e "occidentale" - e cos stupefatta: "A noi sembra impossibile che nessuno possa aiutarci, e non riusciamo a crederci". Sarajevo, la citt di Kusturica, prima che andasse a Hollywood, e dei suoi film in cui il ragazzo della Lega dei comunisti cercava la propria strada cantando "Con ventiquattromila baci". E' vicina davvero la Jugoslavia, in questo senso: che una leggera pellicola quella che chiamiamo civilt, e che siamo abituati a dare per scontata, per una seconda natura: leggera, e premuta in tanti punti, e pronta a lacerarsi, e allora niente di ci che sappiamo sar pi in grado di ripararla. Che cosa di tutto il lavoro oscuro e formicolante del pacifismo fattivo e delle associazioni umanitarie in grado di fare i conti con la questione di "metter fine alla guerra"? Questa domanda non pu essere elusa. Essa non offende l'efficacia del soccorso, o della premura silenziosa con cui persone diffidenti dell'autorit costituita, degli stati maggiori, della diplomazia degli Stati, si aggirano ai bordi del campo di battaglia per dare sepoltura ai caduti.

Essa non ignora che la fatica di riannodare i fili spezzati, di rimettere in comunicazione le persone della stessa famiglia e le persone delle etnie diverse e nemiche, la fatica della diplomazia della gente, indispensabile alla prospettiva di una riconciliazione e una pacificazione effettive. Ma la questione resta, nuda e secca: "come metter fine alla guerra, ai bombardamenti, ai cecchinaggi, agli stupri e alle deportazioni?" Il pacifismo non pu sottrarsi a questa domanda, perch nessuno pu sottrarvisi. Questa domanda significa oggi una sola cosa: che cosa pu e deve fare la comunit internazionale, le sue istituzioni comuni, i suoi governi. Mi sono trovato in questi giorni in una strana contraddizione. Da una parte amici radicali sospettosi che l'iniziativa del digiuno sacrificasse a un'unit senza principii la chiarezza nella denuncia della responsabilit e l'affermazione di una pace secondo il diritto. Dall'altra amici pacifisti preoccupati di prestarsi a una solidariet comune con persone inclini all'impiego di una forza armata per imporre la pace e la legalit internazionale. Mi sembrato di riconoscere eredit passive di ostilit cadute. E' caduta una motivazione dell'accusa di strumentalit mossa storicamente al pacifismo, di essere al soldo del comunismo e dell'Unione Sovietica. Il pacifismo a senso unico, la demonizzazione dell'Occidente eccetera: tutte cose serie. Ma l'Unione Sovietica non c' pi, e quel che ne resta non ha un soldo. Certo l'Occidente c' ancora, e la sua demonizzazione pu resistere. Ma si ammetta almeno che sia diventata pi ardua. D'altra parte sento da mesi sollevare l'allarme contro le mene delle potenze e i disegni di intervento militare nella ex-Jugoslavia: mentre da mesi, da anni presto, le potenze occidentali nel loro insieme e ciascuna

per s, e perfino i loro stati maggiori si guardano con ogni mezzo dall'impegnare un dito nel macello jugoslavo. E' un fatto che i muri di pietra cadono pi in fretta di quanto cadano i muri interiori, dei pregiudizi e delle ideologie. Una serie di mezze verit sono diventate il pretesto consolidato per eludere la questione di una forza internazionale che mettesse fine alla guerra: cos, per esempio, la tesi che all'origine dell'esplosione di violenza stia il precoce e maligno riconoscimento della Slovenia e della Croazia da parte della Germania. (La Germania sta prendendo il posto degli Stati Uniti nella paranoia superstiziosa di certi bravi cattolici e di certa brava gente di sinistra). E' possibile, e probabile, che quell'affrettato riconoscimento sia stato un errore di miopia, di sottovalutazione - e magari, in qualcuno, un calcolo malintenzionato. E' assurdo che venga usato come l'alibi di una impotenza e di una vilt. Oltretutto, nel caleidoscopio balcanico, si ritrovano gli stessi Stati e gli stessi potentati degli armamenti e della droga dietro le parti pi insospettabilmente opposte. I radicali, se ho capito, hanno ritenuto di distinguere alla radice fra non violenza e pacifismo, tenendosi la prima e rigettando il secondo. Di questa distinzione non riesco a persuadermi, se non sul piano ristretto del giudizio sul pacifismo storico. Su quello delle idee, trovo che non violenza e pacifismo siano, se non sinonimi, termini contigui, e che per lo stesso Gandhi (contraddittorio con se stesso, si sa, e noncurante di esserlo) il pacifismo fu nei rapporti fra gli Stati quello che la non violenza era nei rapporti fra gli individui.

Se cos fosse, ai radicali direi che quel pacifismo storico ha perduto gran parte delle sue radici, e dunque bisogna lavorare a superare una divergenza accanita e dannosa. D'altra parte il pacifismo corrente, pi o meno alla buona, fa proprio un ripudio morale del ricorso alla forza che lo trasforma ai propri occhi, anche quando laico e di sinistra e reduce recente da ideologie opposte, in un movimento religioso. Ora il pacifismo religioso, assoluto, quello disposto al sacrificio, oltre che di s, del proprio prossimo, per rifiuto e orrore di ogni compromissione con la violenza, rispettabile e venerabile a due condizioni: che ci si senta davvero capaci e disposti a farlo proprio; e che si ammetta che esso pu essere una conversione personale, non una connotazione collettiva, di un partito o di un movimento. (Se non fosse cos del resto non si spiegherebbe la comparsa, nei movimenti pacifisti, degli stessi spiriti di gruppo, rivalit, gelosie, faziosit, che affliggono le altre forme di politica organizzata). Io non so fare questa scelta, non ne sono capace e non le sono disposto: ammirerei bens chi la incarnasse - cos come ammiro Gandhi, compreso il Gandhi che chiamava a rispondere al nazismo con la non violenza, ma mi sarei opposto con ogni forza, spero, a quell'appello. Del pacifismo vero, quello della vita e della storia ordinaria e non dei quadretti edificanti, deve far parte la consapevolezza che in una condizione in cui l'esplosione della violenza non stata prevenuta, n arginata, e ha avuto tempo e modo di dilagare, e di abbattersi sugli inermi e gli innocenti, la vita e l'umanit degli inermi e innocenti che occorre prima di tutto salvare con ogni mezzo legittimo. Ci sono altre abitudini che ostacolano questa ammissione. La non ingerenza, per esempio, la non interferenza, il rispetto per la sovranit nazionale...

Del diritto - e dovere - di ingerenza, la generalit del pubblico ha ritenuto che si trattasse di una escogitazione del papa, che ne parl a proposito della Bosnia dalla sua finestra di piazza San Pietro. Si trattava, al contrario, di un principio sancito da tempo nel diritto internazionale. Da tempo ci siamo accorti di vivere in un mondo diventato troppo piccolo e troppo minacciato per arrestare il suo diritto alle frontiere delle sovranit statali: si tratta di scegliere fra mondialismo di mera potenza combinato con l'anarchia delle armi nucleari vendute al dettaglio alle bancarelle di Samarcanda da una parte, e governo legittimo del mondo assicurato dalle Nazioni Unite dall'altra. Quest'ultimo deve essere dotato e autorizzato a una forza, esattamente come, all'interno di uno Stato, una polizia. Si dice: ma le Nazioni Unite cos come sono non possono svolgere questa funzione, occorre riformarle. Certo. Nel frattempo, mentre Srebrenica e Tuzla e Zepa cadono, si ricorra a queste Nazioni Unite. Si dice: accetteremmo un intervento delle Nazioni Unite, non uno degli Usa, o della Cee, o della Nato. Ma se gli Usa, o la Cee, o la Nato, intervenissero su mandato delle Nazioni Unite, dov' la differenza? Si protesta di meno quando le Nazioni Unite si lasciano togliere dalle mani il vicepresidente musulmano della Bosnia e assistono imbelli al suo sgozzamento, vergogna indicibile. Si detto lo stesso, e ancora lo si ripete pigramente, a proposito della Somalia. Passano inosservati i titoli come quello dell'altro giorno sull'Unit: I marines se ne vanno, carestia e violenze sono pressoch finite...

Perch il punto, se non avessimo invertito pensieri e responsabilit, non dovrebbe essere quale intervento, e con quale firma, noi bravi desiderosi di pace siamo disposti a sopportare, ma quale intervento ci battiamo per rivendicare. Stiamo da tempo manifestando contro la minaccia di un intervento militare che le vittime invocano e i militari non hanno nessuna voglia di compiere! Perch "in Bosnia non c' il petrolio"? Forse: ma anche questa una spiegazione troppo facile. Perch in Bosnia le vittime sono musulmane? Questo gi pi vero, probabilmente, e sicuramente pi importante. I musulmani di Bosnia sono le vittime ideali, per l'Europa. Islamici, e insieme slavi europei e simili agli altri slavi. Cittadini come noi, solo dimezzati, come bene che siano gli islamici. Pregiudizio cos disumano, cos umano! E cos accecante, anche, per un'Europa confinante con la polveriera balcanica e con la polveriera caucasica, sulle quali si allungano le ombre espansionistiche di Turchia e Iran. La Turchia fa parte della Nato, per giunta. Noi alziamo le spalle, e tutt'al pi bruciamo qualche famigliola turca alla periferia di Amburgo. I musulmani di Bosnia non sono meno feroci dei loro assalitori, quando capita loro di tener il coltello dalla parte del manico, si dice. Gi, ma intanto non capitato loro di avere il coltello dalla parte del manico, e anzi il nostro accurato embargo ha seriamente funzionato nell'escluderli dalla fornitura di armi, mentre gli altri ne erano pieni. Inoltre, abbiamo smesso da tempo - per questo, col Vietnam davvero finita un'epoca - di immaginare che si debba stare dalla parte delle vittime di oggi perch saranno gli uomini nuovi e giusti di domani.

I musulmani di Sarajevo non salveranno il mondo: semplicemente, il mondo deve salvare i musulmani di Sarajevo. Quanti pretesti tortuosi, quanti rigiri... Attaccate i serbi, dice qualcuno, e forse i croati non hanno responsabilit? Altro che se ne hanno: e allora? Hanno responsabilit i dirigenti croati, nazionalisti e insofferenti a loro volta della democrazia e dei diritti delle minoranze, e concorrenti con la Serbia a liquidare la multietnica Bosnia-Erzegovina. Ne hanno gli stessi dirigenti musulmani, che dispongono a volte della loro gente come di ostaggi, tenendola sotto un sequestro non meno inaccettabile per il fatto di ostacolare la pulizia etnica. E allora? A che cosa serve questa universale chiamata di correit se non a cancellare le differenze, le urgenze, e a giustificare un'inerzia vigliacca? I mass media, si dice, agiscono unilateralmente in modo da demonizzare una parte: possibile. Li si contrasti, con una informazione pi imparziale e accurata: ma si cominci col riferire quale spaventosa campagna di imbonimento stata condotta in Serbia dai mezzi di comunicazione assoggettati al potere nazionalcomunista. I bombardamenti delle postazioni serbo-bosniache, si dice, rischierebbero di mietere vittime fra i civili. Inoltre, rinfocolerebbero quella adesione popolare alla guerra che gi fortissima, e fa tenere alla maggioranza della popolazione un conto assai basso della propria stessa vita. Ecco un argomento molto serio e concreto. Non so se i bombardamenti aerei possano essere efficaci per interrompere le linee di rifornimento degli assedianti, e per colpire i posti di artiglieria pesante senza coinvolgere la gente.

Si propongano altre misure, credibili e pi giuste oltre che efficaci: cos per l'eventualit che si stanzino in Bosnia (e anche, prima che sia troppo tardi, in Kosovo, Vojvodina e Macedonia) forze cos numerose ed efficacemente armate da mettere di fatto fine alle sopraffazioni, da garantire accessi ed esodi, da rendere effettiva la protezione e pronta la dissuasione e la repressione. Se questo il punto, uniamoci per rivendicare con tutta la forza di cui disponiamo che ci avvenga. Se il punto un altro, cio la denuncia di qualunque intervento, senza alternative, non riesco a vedervi che una ipocrita o miope vocazione a dire domani, di fronte ai costi o agli errori o ai cinismi di un intervento (possibili, prevedibili): L'avevamo detto. Mi pare all'opposto che per avere titolo a protestare e denunciare contro ogni abuso e disprezzo delle vite umane occorra assumersi, in qualunque forma, la responsabilit di ci che voglia e possa mettere fine alla guerra e all'aggressione. Abbiamo detto, col nostro digiuno, di voler appoggiare la Conferenza civica di pace che, dopo alcune riunioni negli scorsi mesi, dovr tenersi in forma pi solenne e autorevole a Vienna i prossimi 11 e 12 giugno. Questa scadenza, che non abbiamo intenzione di mitizzare e sopravvalutare - la diplomazia della gente infatti altrettanto faticosa e ardua che quella dei diplomatici - un tentativo di rianimare una collaborazione civile senza la quale non pensabile alcuna pace effettiva. Per noi, con le nostre divisioni vere e capricciose, con le nostre suscettibilit e luoghi comuni, essa costituisce un'occasione di umilt, di ancorare l'unit cui teniamo a un riferimento anch'esso precario, ma pi significativo che non la nostra semplice discussione, e cio l'accordo che strada facendo persone o gruppi reciprocamente rispettosi e da noi rispettabili della ex-Jugoslavia saranno in grado di raggiungere.

Per loro pi che per noi quell'accordo sottoposto, ben pi che agli schieramenti dati, al confronto con una condizione tragicamente concreta. Insomma, senza che nessuno di noi abdichi all'autonomia della propria coscienza, perch non provare a misurarsi con quello che pensa e sente un pacifista di Sarajevo, di tutto, compreso il pacifismo?

STANNO AMMAZZANDO USEPPE A SARAJEVO (Intervento al convegno pisano su Elsa Morante, Vent'anni dopo 'La Storia', L'Unit, 24 gennaio 1994)

"Con la scrittura di un libro, gli aveva dichiarato, si pu trasformare la vita di tutta quanta l'umanit. (Poi subito dopo s'era quasi vergognato di avergli fatto simile confidenza...)". ELSA MORANTE, "La Storia", Torino, Einaudi, 1974, p. 410. Al principio c' uno stupro di guerra, uno dei tanti. Nel 1941, un soldatino tedesco gira per una Roma che non gli vuol bene, nostalgico della casa materna e del paese natio - una localit qualunque, Dachau, si chiama. E' un ragazzo appena divezzato in divisa di adulto nazista; la storia, per lui, una maledizione - e anche la geografia. Eppure egli appare alla donnetta che rincasa, Ida Ramundo vedova Mancuso, come l'incarnazione da sempre paventata dell'orrore.

Ida una maestra elementare, ebrea di madre, madre lei stessa di un ragazzo, ma rimasta bambina in fondo al cuore, e capace, come nell'idiozia misteriosa degli animali, di una "precognizione". Dalla violenza impacciata e infantile dell'anonimo soldato di passaggio, Ida riceve la sua seconda maternit: il bastardello incantato di nome Useppe, minuscolo come un piccolissimo principe, capace di intendere la lingua di cani e gatti e canarini. Troppo piccolo e vivace per questo mondo, che fa strage di creature. A Ida sembrer che tutti gli adulti siano degli assassini. E gi il maldestro stupratore tedesco che invoca "meine mutter", e sar fra poco travolto nel mucchio informe e dimenticato degli uccisi, ha compitato la sua rivelazione: La disgrazia crescere. Cacciati dal paradiso in cui tutti sono bambini o animali in un inferno adulto che si chiama Storia, nei vagoni bestiame in cui oggi gli animali segnati, domani gli umani segnati, andranno incontro al loro macello, per colpa di esser nati. Prima di finire la sua minuscola vita, il bambinello Useppe avr visto tutto questo. Naturalmente, le domande ragionevoli e permalose non mancarono nel 1974, quando il romanzo usc, e si rinnovano ogni giorno, ancora pi permalose. Si pu ridurre la Storia alla infima e flebile misura del bambino Useppe? E i Grandi, i Supergrandi - e le loro responsabilit? A Sarajevo, dove ogni bambino centrato vale dieci punti di pi di un adulto nella classifica dei cecchini, gli adulti affamati hanno organizzato la caccia ai piccioni. Alcuni bambini, pare, non ne hanno voluto sapere degli uccelli nei piatti. Bande di bambini si sono formate per difendere i piccioni.

E l'Onu, l'Unprofor, la Nato, Ginevra, e noi tutti? Si pu scambiare la gravit delle responsabilit di tutto ci con la favola triste dei piccioni e dei bambini? E, dopo aver tanto lavorato per ricostituire, contro gli stupri etnici e i crimini di guerra, un Tribunale della Storia, finire con l'incriminare per intero la Storia - "uno scandalo che dura da diecimila anni?" Nel mondo di creature umane e di altri animali che la Storia sovrasta e schiaccia, terza specie fra i ricchi che si nutrono a spese dei poveri, e i poveri che tendono a pigliare il posto dei ricchi, si stringono vincoli e affinit misteriose. Il senso del sacro in loro comune, e confuso negli altri sensi corporei - intendendosi da loro, per sacro, il potere universale che pu mangiarli e annientarli, per la loro colpa di essere nati. Il viavai fra umani e altri animali si svolge ininterrotto nelle pagine del libro, spesso - decine di volte - legato dal pi forte e semplice dei tramiti di comparazione, l'avverbio "come". "Brava come una leonessa e provvida come una formica. Come una piccola volpe sanguinante. Come un cucciolo orfano e randagio. Come un gatto nottambulo. Come gli animali del deserto. Come un'ape verso un girasole. Come certe anatre migratrici. Come i cuccioli nel loro pelo. Come cavallucci in una prateria. Come una gatta di strada a orecchi bassi. Come una lucertola alla ricerca del solleone. Come un passero che riapre le ali. Come certi cuccioli bastardi. Come i cani e i gatti.

Come gli occhi dei cervi. Come un cavalluccio impunito. Come un'aquiletta fantastica. Come uno sciame di tafani. Come un cane di nessuno. Come una passera malandata. Come un fringuello. Come una bestiola scacciata. Come i cuccioli dopo una percossa. Come certi animali senza padrone. Come un povero cane altrui. Come trattenesse un cavalluccio per la briglia. Come una rondine migrante sorpresa dall'inverno. Come la bocca dei gattini di un mese. Come un cucciolo ingabbiato in una fiera. Come una rondine fulminata in aria. Come certi uccellini migranti. Come certi animali quando preavvertono un sisma. Come due pulcini. Come i maschi cicala. Come una povera bestiola d'aria o di terra..."

Oppure sono gli animali a somigliare fantasticamente agli umani:

"Blitz... s'intratteneva con cani di passaggio e randagi; e una volta, in una di quelle sue corse nostalgiche alla casa di San Lorenzo, vi giunse in compagnia d'un altro cane, bastardo come lui ma molto pi secco e d'aspetto ascetico, il quale somigliava al Mahatma Gandhi...".

"Useppe invent la seguente poesia: Il sole come un albero grande che dentro tiene i nidi E suona come una cicala maschio e come il mare e con l'ombra ci scherza come una gatta piccola". Le tue poesie - gli aveva detto Davide Segre - parlano tutte di Dio! E gli aveva spiegato:

"Tutte le poesie sono centrate su un come... E questi come, uniti in un coro, vogliono dire: Dio! L'unico Dio reale si riconosce attraverso la somiglianza di tutte le cose... E cos, di somiglianza in somiglianza, lungo la scalinata si risale a uno solo". ...e la Storia continua... Sono le ultime parole della "Storia", il pi sconsolato epitaffio. (Appena addolcito dalla citazione della Matricola n. 7047 della Casa Penale di Turi: Tutti i semi sono falliti eccettuato uno, che non so cosa sia, ma che probabilmente un fiore e non un'erbaccia). Era il 1974: vent'anni fa, appunto. Intanto, la storia ha preso un andamento mirabolante, ha dato per un momento l'impressione di voler buttar via la sua ferocia e fare la pace, stata perfino dichiarata finita - e poi si ributtata a capofitto nella vecchia mischia. Allora, in Italia, la parola progressiva si credeva ancora illesa, e anzi si annunciavano sorti quasi magnifiche, invano insanguinate da stragi vili, sorti certificate da referendum vinti, e poi amministrazioni rosse, e, per i pi esigenti, da orizzonti rivoluzionari. Perci il libro, che Elsa Morante aveva scritto particolarmente per farsi amare dai giovani rivoluzionari, e salvarli dall'et adulta, li indispett almeno quanto li turb, con la sua drastica svalutazione e

anzi incriminazione della Storia, e tuttavia con la sua forza insopportabile di commozione. Nelle premesse cronologiche ai capitoli, promemoria sugli eventi storici del secolo, accurato quanto castigato, fin nel corpo tipografico ridotto e servile, Elsa Morante aderiva sostanzialmente alla ricostruzione che della storia dava la sinistra e specialmente la parte pi libertaria e adolescente della nuova sinistra: mettendoci certo il suo stile, e le sue chiavi di volta, i ceti medi e la loro dolorosa incapacit di veri ideali, lo hitlerismo invaso dalla morte, le moltitudini terrestri degli oppressi condannate alla speranza nel comunismo reale. Ma il romanzo, di quella storia faceva nient'altro che uno scandalo che dura da diecimila anni, la congiura universale e misteriosa per offendere e uccidere il bambinello Useppe. C'era, a rendere pi turbata l'irritazione dei militanti di allora, un tono della scrittura e del pensiero di Elsa Morante che impediva di sbarazzarsi alla leggera, dopo aver versato molte lacrime clandestine e notturne di lettori, della commozione eccessiva del libro... Questo freno al cinismo militante - cinismo largamente simulato, del resto, e obbligato a superiori speranze - era, in una parola, l'"autorit" di Elsa. Questa autorit, senza riserve e inaudita, se non per il signore Iddio, e insieme indiscussa e preliminare, data e non usurpata o pretesa o finta, con la pi piena naturalezza e senza bisogno di spiegazione, quella di una maternit senza figli. Per ridetto che sia (un parto in pubblico, cos Garboli ha chiamato la storia di Ida e Useppe) questo mi sembra ancora pi vero ed evidente quando rileggo il romanzo vent'anni dopo. Si sa che Elsa era insofferente delle dispute sulla scrittura maschile e femminile, e delle stesse distinzioni terminologiche di genere: scrittore

e scrittrice, unica essendo la scrittura e la poesia e la sua eventuale grandezza. So troppo poco del gran lavoro svolto in questi anni da donne attorno alla scrittura delle donne, e devo accontentarmi di vedere che una differenza di genere ovvia nella scrittura come in ogni altra manifestazione, e che d'altro canto la qualit pi profonda e inimitabile di questa differenza difficile da cogliere e ancora pi da illustrare. Elsa Morante, che non se ne faceva un problema, tanto meno si curava di dissimularlo. Nessuno scrittore uomo potrebbe permettersi i diminutivi e i vezzeggiativi di Elsa, n la premura per la piccolezza, n l'adesione misteriosa alla scala che unisce le madri bambine ai loro piccoli agli animali e ai loro cuccioli, n la confidenza coi corpi e i loro bisogni, n l'indulgenza materna e pietosa per gli assalti sessuali. Nessuno scrittore uomo potrebbe, alla fine, permettersi di raccogliere nel proprio grembo e fondere insieme le lingue di tutte le nenie delle mamme ai loro pupetti, di tutti i dialetti delle filastrocche e delle favole, di tutte le sfide dei pischelletti, di tutte le canzonette della radio e le canzoni dei passeri e dei canarini e degli storni. Quest'autorit assoluta appartiene a una madre che ha rinunciato a essere singolarmente madre - o ne stata impedita - che ha sottratto il proprio corpo e che scrive come altri cura ferite, o seppellisce, o giudica senza stimare la vendetta, o rende testimonianza, o canta una ninna nanna. Non conosco romanzo che abbia un'ambizione paragonabile a questa se non "Guerra e pace" - simmetrica, pi che simile: e la stessa parola ambizione mal adatta, perch fa immaginare la possibilit di un risultato raggiunto o mancato, mentre qui il proposito coincide con la fine, l'arditezza dell'impresa con l'esito.

Ora, a distanza di vent'anni, due schermi filtrano soprattutto, mi pare, la rilettura della "Storia". Uno la morte di Elsa, e, prima, lo sfregio irriparato di "Aracoeli". Il mondo non sar salvato dai ragazzini, non sapr salvare i ragazzini, non trover sollievo n in Mozart, n nella canzone degli uccelletti: E' uno scherzo, tutto uno scherzo.... (Un giorno, nella sua clinica, mentre i passeri venivano rumorosamente al balcone richiamati dalle briciole di Lucia, dissi a Elsa che era quella la canzone, "E' tutto uno scherzo", e lei fece uno sforzo penoso, come per ricordare qualcosa che aveva certo gi sentito, ma chiss quando e da chi...). Un altro Sarajevo, e a Sarajevo il ritorno del secolo atomico su se stesso e sulla propria disinteressata ferocia. L'assedio pi lungo della storia era stato quello di Leningrado. 17 mesi, fino al gennaio 1943; il record oggi di Sarajevo. A Sarajevo, dopo aver suonato le fanfare della caduta dei muri e dell'assimilazione universale e del benessere immateriale, il nostro secolo - e la nostra civilt, la Storia - tornato a riflettersi nell'occhio del vitello rinchiuso nel carro bestiame, nel natale di una donnetta stuprata e del suo bambinetto segnato, nella piccolezza del cucciolo che svela a lui la verit del mondo ed eccita l'abilit dei cecchini. A Sarajevo, alla lettera, la Storia - e il suo corredo d'epoca di diplomazie e ammaestramenti geopolitici e cronisti istantanei - una congiura universale per spaventare, scandalizzare, mutilare e uccidere il bambino Useppe.

LA PRIMAVERA DI SARAJEVO (Testo del reportage per Mixer, maggio 1994)

C' una vecchia donna nell'ufficio postale. Parla al telefono: ..."Nada, per amor di Dio, dammi un segnale... non posso... Dove lei? Dammi il segnale... Tu sai... Figlia mia, vieni da me... ho solo te... oh, Nada mia, mi chiedo... che cosa successo, figlia mia?... Non ti sento... Nada, figlia mia, vieni una volta a vedermi".... Il telefono non collegato. All'altro capo, non c' nessuno. La primavera arriva anche durante gli assedi. Anzi, a Sarajevo gi la terza. Tutto cominci infatti nell'aprile del 1992: era primavera anche allora. Nessun assedio di grande citt nell'epoca moderna era durato cos a lungo. Questo il racconto della primavera di Sarajevo. Come tante cartoline illustrate: stiamo tutti bene, tanti saluti da Sarajevo. Infatti, la posta non funziona ancora. La novit sono i fiori, il tram che va, e i cannoni e i cecchini che hanno smesso di sparare - pi o meno. Cos la gente raccoglie verdure selvatiche, e fiori. Si conquista e si recinta alla buona ogni metro di terra: prima per seppellire i cadaveri, ora per gli orti di fortuna.

Tutto cominci dopo la strage nel mercato. Il sangue schizz pi lontano del solito, il mondo fece la voce grossa, si annunci un ultimatum agli assedianti serbi: ritirare le postazioni, o subire il bombardamento della Nato. Era febbraio, c'era ancora neve. Anzi, dopo qualche giorno tiepido, venne una gran gelata. I sarajevesi si confermarono in ci che gi sapevano: che occorre diffidare delle primavere precoci, e delle promesse di pace. In Norvegia si aprirono le Olimpiadi invernali, dieci anni dopo quelle di Sarajevo. Bambini e grandi usarono la tregua per i loro giochi della neve. L'ultimatum scadeva alla mezzanotte del 20 febbraio. Una folla di giornalisti e troupes aveva preso posto, aspettandosi una notte pirotecnica come quella di Bagdad. Fu una giornata lunga e luminosa. Le persone di Sarajevo si comportarono come sempre. Da due anni, dicevano, viviamo alla giornata. Non fosse stato per il rombo degli aviogetti, dell'ultimatum non ci si sarebbe accorti. A mezzogiorno molti andarono a teatro, a malincuore, perch era bello restarsene al sole. Al tramonto le strade diventarono di colpo vuote e silenziose, salvo quel rombo di aviogetti. C' una mezza luna limpida e fredda. Chiss che davvero una sera cos, limpida e fredda, diventi la sera della fine di una guerra. La notte pass senza bombe. L'Onu disse che i serbi avevano adempiuto alle condizioni dell'ultimatum: non era vero, ma anche l'Onu a Sarajevo recita una parte.

Si recita la guerra e la pace: solo i morti sono veri. Peter Arnett, il famoso reporter di guerra della C.N.N., ci rest male. Si accontent di qualche intervista per strada, mezzo fallita. Nel resto del mondo, la voce che si diffonde : la guerra finita. A Sarajevo dura l'assedio, che fa della citt e dei suoi trecentomila rimasti un enorme carcere in cui non si entra e non si esce. Resta la fame, il freddo, l'umiliazione. Ieri, la vigilia, la paura delle bombe, la speranza in una fine, stato un sabato del villaggio. Oggi c' una tetraggine da luned. E l'idea che i cecchini sono ancora l, coi fucili, coi cannocchiali, e solo hanno ricevuto l'ordine di non sparare. Come un battaglione di cacciatori accaniti cui sia stato detto nel pieno di una battuta che stata sospesa la caccia, e sono rimasti l, con le doppiette in mano. Magari l'Unprofor distribuir delle macchine fotografiche e inviter a un safari fotografico, foto di schiena dei cittadini di Sarajevo, per un concorso a premi a Belgrado. La signora Kanita: Come vede, sono viva. Non ho ancora trovato il mio cecchino - lui non ha trovato me. Sono stata un po' delusa, dopo questa notte. Aspettiamo tutti la pace, ma io non riesco a credere che questa sia davvero la fine. Continuo a sentirmi in prigione, dall'inizio di questa guerra mi sento come un agnello che aspetta di essere sacrificato, e non sa per chi. Zlatko Dizdarevic racconta un episodio della mattina. Un blindato delle Nazioni Unite va a passo d'uomo nel centro, lasciando cadere patate dal portello. Qualcuno raccoglie le patate.

Una signora dice: Ecco, adesso siamo liberi. Kanita: Lei non mi ha visto prima. L'anno scorso, quando mio marito fu ucciso - ahim, non l'anno scorso, sono quasi due anni - io ho perduto i miei chili, ma adesso, anche se li ho ripresi, non ho pi niente negli occhi, nel viso. Mi sento come una donna molto vecchia, anche se ho quarant'anni. Non sono pi bella, n carina - ammesso che lo fossi. Quando guardo le fotografie, le nostre fotografie di famiglia, quelle scattate da mio marito non tanto tempo fa, avevo un aspetto del tutto differente. Io non so che cosa cambiato.Ho gli stessi vestiti, gli stessi orecchini, gli stessi capelli - ma non pi lo stesso, non so come. Posso metterci su del trucco, ma non migliora. Incontro i miei amici ragazzini, andiamo al bar del Teatro da Camera. Non li avevo pi visti, dopo l'incontro mancato il pomeriggio della strage nella piazza. Mirza: I nostri genitori sono usciti da casa e hanno cominciato a cercarci... ci hanno fatto tornare a casa. Ramo: L'ho sentita la bomba, eravamo sulla strada, sulla strada.... Amira: Stavo nel cortile del mercato. Giocavo. Giocavo e quando ho sentito il fischio della granata ho pensato: Non cadr qui. E poi quando caduta mi sono buttata per terra e poi sono scappata in un portone. Naim: Dopo mezzo minuto si sono sentite le implorazioni della gente. Amira: Dopo mezzo minuto abbiamo sentito le urla della gente e allora abbiamo capito subito che era caduta sul mercato.

Mi regalano il loro tesoro di residuati bellici, bossoli, eliche di razzi, schegge di granate. All'aeroporto di Sarajevo me li hanno poi sequestrati. Quanti marchi ha pagato per questi souvenir?, mi ha chiesto uno della polizia militare dell'Onu, uno che la sa lunga. La primavera arrivata pi impetuosa all'inizio di marzo. Promessa di pace e vittoria del sole sulla neve si sono succedute cos da vicino da eccitare la citt come una febbre leggera. Come quando non si sa ancora se cambiare guardaroba. Far ancora freddo? Torneranno le granate e le raffiche dalla collina? Il punto cruciale di questa voglia di ritorno alla vita di prima il semaforo dell'incrocio del centro, l'incrocio pi battuto dai cecchini. Per due giorni, il 7 e l'8 marzo, squadre di operai lavorano accanitamente a rimuovere i container protettivi, a rimontare pali e semafori. Mercoled ci sono sei nuovi semafori, e dove fino a qualche giorno fa si attraversava correndo piegati e zigzagando, ora i passanti si preparano a fermarsi al rosso. Per strano che possa sembrare, dopo che ci si chiesti come fosse possibile fare l'abitudine alla guerra, ora ci si interroga sulla facilit con cui in apparenza ci si riabitua alla pace. L'8 marzo una manifestazione celebra la festa della donna, come ai vecchi tempi. La convocano associazioni cittadine, aiutano a organizzarla i Beati costruttori di pace. Non ci sono mimose, ma i bambini hanno i vestiti pi colorati, i volontari italiani hanno distribuito palloncini colorati. C' una voglia di gioia che quasi gioia. La sera al ristorante.

C' Afan Ramic, Kemal Monteno, Ferida Durakovic, c' Gigio Huric, Edo Smajc, Federico Bugno, Gigi Riva. Zlatko Dizdarevic racconta: Una sera a New York, c'era anche Susan Sontag, Don De Lillo mi disse: "Susan vi ha rubato Sarajevo". Gi, gli ho detto, ma per rubare Sarajevo, bisogna venirci, a Sarajevo. Ecco. Si pu dire che stava all'Holiday Inn, con le auto, le guardie del corpo, ma lei ha fatto delle cose concrete. "En attendant Godot" di Susan Sontag un giorno sar storia. E lo stesso successo sai con chi? Con Joan Baez. Kemal Monteno canta "Sarajevo ljubavi moja", e tutti si commuovono per la millesima volta. Dice poi Zlatko: Sono le parole che abbiamo sempre desiderato dire alle ragazze, senza trovarle. Afan Ramic un pittore famoso. Per tutta la vita ha dipinto il ponte di Mostar. Ora dipinge il ponte di Mostar abbattuto. Dentro di me avevo sempre temuto che lo distruggessero, dice. Il ponte, l'arcobaleno, l'arco in cielo, l'amico di tutti. Oggi c' una bella luce di nord, dice. La luce del nord sempre la migliore. Una luce da pittori, e da cecchini. L'hanno cacciato da casa, gli hanno rubato i quadri, gli hanno ammazzato il figlio. Ramic sta preparando una mostra personale. Ora che i cecchini riposano, si pu passeggiare verso la collina, e guardare il panorama della citt dall'alto, come se fosse illesa.

E' il punto da cui la guardano, con l'occhio in un mirino, i suoi nemici: gli odiatori della citt, della sua mitezza, della sua confusione e mescolanza, del suo piacere di vivere. Anche al mercato la vita ha ripreso i suoi diritti. Dapprincipio, gli scheletri metallici dei banchetti, coperti di neve, sono restati recintati, met sacrario, met luogo del delitto. Della bomba micidiale rimaneva, sull'asfalto, una minima pozzangheretta. Poi la neve si sciolse, il mercato si riaffoll di cose e di persone, i banchi in fondo restarono vuoti se non di fiori. Giorno dopo giorno, le merci guadagnavano spazio alle reliquie, com' naturale. Sarajevo una citt molto bella. Lo anche adesso, come nei visi delle sue persone, nelle facciate bucate delle sue case, nelle statue mutilate, nelle decorazioni sfregiate. Alcune di queste ferite sono fatali, altre guariranno. Gli urbanisti pensano gi alla sfida della ricostruzione. Nelle persone c' anche il desiderio di lasciare le cose cos, la rovina in vista. La ricostruzione si far, per, come dice Kanita del proprio viso, la citt si rifar il trucco, ma la sua anima non sar pi la stessa, non sar pi quella delle cartoline illustrate di prima. Ci vogliono cinquantacinque minuti, per andare e tornare dall'altro mondo - da Sarajevo a Falconara. I militari dell'Unprofor stanno qui fra impotenza, se non complicit, e soprassalti di dignit. Dietro di loro, il cinismo, la stupidit, le rivalit, le avarizie delle potenze mondiali.

Dovrebbero essere molto pi numerosi, ed esercitare una vera dissuasione, una vera interposizione; dovrebbero essere autorizzati a esercitare la forza necessaria alla legittima difesa delle persone e della legalit. Il loro comandante inglese, si chiama Rose, un generale, si illustr per capacit e durezza nella guerra delle Falkland. Al momento della tregua simul di interporre i suoi uomini fra linee serbe e difese bosniache, e sostenne di aver messo sotto controllo le batterie degli assedianti. Era un bluff. Il generale Rose trionf, la regina lo fece baronetto. Un mese dopo, il bluff crollato. I serbo-bosniaci hanno spostato su Gorazde le batterie, e hanno bombardato settantamila persone ammassate senza riparo. Gorazde era fra i cinque centri dichiarati solennemente protetti dalle Nazioni Unite. Quando i morti erano gi centinaia, la Nato finse un paio di scaramucce. Gli assedianti presero in ostaggio uomini dell'Unprofor a Gorazde e attorno a Sarajevo. Panico e vilt dilagarono. Tutto sembr precipitare: a Parigi, a Londra, c'era una gran tentazione di riportarsi a casa armi e bagagli. Poi arriv un nuovo ultimatum della Nato. I morti di Gorazde erano gi pi di 700. La tragedia di Gorazde significava qui solo una cosa: oggi a Gorazde, domani a Sarajevo. Le assicurazioni dell'Onu non valgono niente, la promessa di pace appesa al capriccio dei cetnici, Sarajevo orfana. Una manifestazione di solidariet con Gorazde fu convocata, venne molta gente, niente gioia stavolta, al contrario che l'8 marzo, e niente speranza: uno spirito luttuoso ed estremo.

Un paio di file di giovani militanti dell'islamismo che noi chiamiamo fondamentalista cercarono di introdurre nella manifestazione, e poi alla sua conclusione, slogan come Vogliamo la guerra santa e Viva Saddam Hussein; e bandiere verdi dell'Islam. Restarono isolati. Ma fino a quando? Fino a quando l'anima mite e metropolitana e laica ed europea di Sarajevo, della stessa Sarajevo musulmana, resister a un'Europa e a un mondo civile che la respinge e la abbandona? Gli oratori: Voi, emissari delle Nazioni Unite, sappiate che se non li fermate qui in Bosnia, li dovrete fermare da qualche parte in Europa, sul Reno, sulla Senna, sul Tamigi. L'Unprofor non difende pi nessuno qui, nemmeno se stessa, perch i loro soldati vengono catturati dai fascisti serbi come conigli, li chiudono quando vogliono.... Alla fine parla Izetbegovic: Il mondo rispetta tutto, ma sembra che rispetti sopra tutto la forza.... Bench il Museo Nazionale di Sarajevo sia molto importante, mai nessun responsabile dei musei confratelli in Europa si sforzato di venirgli in aiuto, o anche solo di riceverne notizie. Sono stato davvero imbarazzato quando il direttore mi ha chiesto con apprensione se fosse vero che tempo fa una bomba aveva danneggiato gli Uffizi a Firenze. Da noi, disse poi senza ironia, sono cadute 400 granate il primo anno, e dopo abbiamo smesso di contarle. Il Museo ha una sezione naturalistica, una archeologica, e un orto botanico. C'era un giardino zoologico, ma gli animali morirono tutti presto, di bombe o di fame.

L'ultimo fu il beniamino dei bambini, l'orso bruno soprannominato il Taciturno. Alla fine di aprile, un pomeriggio, i cecchini hanno avuto voglia di sgranchirsi le mani. Sparano dall'antico cimitero ebraico, in cui si sono da tempo appostati per le loro imprese. Le telecamere ricominciano, di malavoglia, a girare. Le persone ricominciano, di malavoglia, a correre. Che la tregua duri o no, affare di un capriccio. I cecchini hanno sparato sul tram, e hanno fatto quattro feriti, i tram si sono fermati per qualche ora. Poi hanno ripreso ad andare. Tutto ricomincia ogni volta. Solo, ogni volta pi faticosamente. Vedete, i semafori funzionano. Le persone arrivano, aspettano ordinatamente il verde. A volte il rosso le ferma a met della traversata: allora restano l guardando un po' verso la collina dei cecchini, un po' verso il semaforo. Quando verde, riprendono la corsa. Tanti saluti da Sarajevo.

SUL BUON USO DELLA TELECAMERA (Immagine, dicembre 1995)

Per la prima volta nella mia vita, ho usato una telecamera - una Sony Hi8 - per filmare le cose che vedevo a Sarajevo. L'inesperienza e la novit mi hanno spinto a uno zelo sorprendente per me stesso, che sono poco incline agli strumenti tecnici, e per esempio sono inetto anche nella fotografia. Ma se ripenso ora a questa strana foga, ora che si da tempo esaurita, lasciando di nuovo il posto alla penna, capisco che la piccola telecamera stata per me un modo di tenere a bada l'emozione per la discesa all'inferno sarajevese, cos attesa, desiderata e temuta: un riparo allo sguardo troppo diritto dentro quella desolazione. Mi ha sempre ripugnato indossare il giubbotto antiproiettile o l'elmetto, che i regolamenti delle Nazioni Unite volevano imporre ai giornalisti accreditati: ma ho messo fin dal mio primo atterraggio a Sarajevo l'occhio dietro la telecamera, come se fossi l per un lavoro, e piuttosto come se differissi la vista delle cose al ritorno, e le mettessi intanto al sicuro dentro quei nastri cos neutrali. Cos il mio resoconto, tanto pi per una rivista specialistica, pu interessare solo e "contrario", per la mia inesperienza e inettitudine. Da allora, il programma di Rai 2, Mixer, ha ospitato cinque documentari di lunghezza diversa, dai venti ai cinquanta minuti, da me girati a Sarajevo. E' nota l'attenzione che Mixer ha dedicato al reportage svelto e sporco, realizzato con mezzi non professionali, e soprattutto con la combinazione in una sola persona di autore-reporter e operatore (e fonico, e troupe). Il recente programma di Milena Gabanelli ha consacrato questa attenzione; negli Stati Uniti, come si sa, esistono reti interamente affidate a questa tecnica; in Italia piccole produzioni, come la Palomar, hanno

realizzato con le Hi8 programmi originali, affrancati sia dal grottesco della candid camera che dalla fiction teatrale, come la serie di Davvero. Grazie alla mia collaborazione e amicizia con la Palomar ho imparato anche a servirmi del montaggio elettronico con il sistema Avid, fantastica esperienza, per me ancora pi inaspettata, che d la possibilit di fare tutto da s, o quasi: dal girare, al redigere e dire il testo, al montare le immagini secondo una caleidoscopica potenza combinatoria. Una specie di autosufficienza congiunta con la piccola dimensione, anche se non con la piccola ambizione. Ma prima di tornare su alcune caratteristiche tecniche di questo modo di lavorare, voglio riassumerne una serie di presupposti di sostanza. La prima cosa da decidere, in un posto come Sarajevo, dove andare. O piuttosto, dove non andare. Allora, uno che un amatore, e pi esattamente un volontario, perfino nel suo modo di giornalismo, smette presto di andare nei luoghi deputati delle riprese televisive. Intanto, perch quei luoghi sono fittamente coperti dalle televisioni professionali, che per il fatto di essere professionali non sono meno brave e, nel loro genere, imbattibili. C' un incrocio, sul viale dei Cecchini, di fronte all'orrendo hotel Holiday Inn, dove pool di telecamere hanno stazionato in permanenza, per anni. Facevano bene. Era, per cos dire, la loro postazione venatoria: in alto, sulla collina, appostati dietro le belle pietre antiche del cimitero monumentale ebraico, i cecchini serbo-bosniaci (e ucraini, russi, e altri dilettanti di passaggio); in basso, a ridosso di un muro, gli operatori della C.N.N., o della A.B.C., o della Reuters.

In mezzo, fra i due fuochi, per cos dire, i passanti. Mediamente quel passo ha garantito alle televisioni internazionali un morto e qualche ferito al giorno. Si poteva lasciare le telecamere fisse accese e andarsene. Cinismo e preziosa testimonianza dell'orrore si sono mescolati inestricabilmente in quel passo, in quella sovrapposizione fra l'occhio del cecchino assassino nel mirino del cannocchiale e l'occhio dell'operatore nel mirino della Betacam. Non occorre riparlarne. I passanti dovevano guardarsi dal primo, ma a volte dedicavano un'attenzione anche al secondo, un saluto o un gesto improvviso durante la corsa, un'alzata di spalle o di cappello. (Ci sono stati eccellenti operatori che non hanno esitato a buttar via la telecamera per andare al soccorso dei colpiti). Bene, in quel punto, e altri analoghi, ho smesso presto di andare, dopo le prime ispezioni, e se ci sono andato stato per riprendere con la mia macchinetta i bravi operatori che riprendevano i candidati alla caduta con le loro macchinone. Ho nelle mie cassette la figura allampanata e temeraria di un fotografo americano esposto a catturare una sparatoria fra cecchini e caschi blu francesi, riflesso in una pozzanghera in mezzo alla strada micidiale. Non c' stato "scoop", l'acqua non si arrossata, il fotografo americano tornato a ripararsi. Grazie a Dio, come dicono soprattutto a Sarajevo. Dicono: "Ako Bog da" - se Dio vuole e: "Bice bolje" - andr meglio. Con la Hi8, si va altrove. Si va, soprattutto, senza meta. Dunque non agli altri posti deputati: il pronto soccorso dell'ospedale in primo luogo, l'obitorio.

E si va a piedi. Non si va dove ci si aspetta di trovare qualcosa di interessante: si trovano cose interessanti andando. A questo modo di mettersi in cammino corrisponde forse un modo di impiegare la telecamera, senza agitarsi troppo e senza troppo rincorrere le immagini, neanche quelle in moto: si tiene la camera aperta, cos come si terrebbero gli occhi, e si lascia che le cose le succedano dentro, le passino attraverso, la impressionino mentre resta ferma a guardare. Dal punto di vista del risultato, la cosa somiglia meno a quello che vedrebbe un inviato a Sarajevo, e pi a quello che vedrebbe un sarajevese, se nel suo sguardo allarmato e disperato fosse incamerata una macchina da presa. Non una cosa demagogica quella che dico; non il facile proclama: Siamo tutti sarajevesi (bench sia tuttavia un degno programma). Oltretutto, non c' ragione di rinunciare, in nome dell'identificazione con la sofferenza altrui, al proprio occhio forestiero, e alle cose nuove e straniate che esso pu perci registrare. Ma dentro gli occhi dei sarajevesi, specialmente in certi periodi e in certi giorni, trascorreva un sentimento sconvolgente che era altrettanto importante da rendere del colore delle cose che si svolgevano fuori. E non solo degli uomini sarajevesi. Quando intitolai il mio primo reportage lungo ai "Cani di Sarajevo", non usai solo un espediente consacrato nella storia della letteratura o del cinema, dalla cavallina di Tolstoj in qua. I cani di Sarajevo avevano davvero uno sguardo stravolto e stravolgente sul mondo, su un mondo improvvisamente rovesciato e tradito. I cani di Sarajevo erano stati abbandonati dai loro padroni, fuggiti, o incapaci di nutrirli pi, ed erano diventati inspiegabilmente ripudiati;

in pi, qualcuno, compresi alcuni imbecilli delle Nazioni Unite, aveva creduto di doverne fare strage per sventare chiss quali epidemie. Cosicch ora i cani di Sarajevo si erano rassegnati a pensare di dover vivere senza gli umani, pur dovendo aggirarsi fra gli umani per cercare cibo e qualche po' di calore. Rinnegati, li avevano rinnegati. Di notte si riunivano in bande, e aggiungevano i loro latrati agli spari e alle esplosioni; di giorno, si disperdevano nelle strade, passavano fra le gambe delle persone senza mai alzare il muso verso le loro facce, le loro voci o i loro odori, inosservati e a volte in concorrenza con gli umani, nei rifiuti da rovistare. A puntargli contro la telecamera, mettevano la coda tra le gambe, tremavano e fuggivano, memori dei loro sparatori. A volte, i pi cuccioli, o i pi sentimentali, si affiancavano per un po' a qualche passante umano, simulando ancora di appartenergli, per nostalgia della Sarajevo di prima, quando i padroni avevano i cani, e i cani avevano un padrone: ma subito dopo tornavano alla loro sospettosa e macilenta solitudine. Per questo provai a camminare per la citt martoriata tenendo la telecamera accesa all'altezza presumibile di un muso di cane - alla cieca, in verit, e su un ghiaccio insidioso - senza sapere che cosa ne sarebbe venuto fuori: ne venne, come vidi poi, un pasticcio, una ridda di immagini scomposte, ma anche una scena toccante di gambe povere e spesso mutilate, di scarpe scalcagnate, di passi frettolosi e reciprocamente estranei. So che altri, fotografi, poeti, furono indotti come me a vedere quell'abisso di dolore umano con occhi di cane: che non una contraddizione, n un paradosso.

La piccola telecamera maneggevole e materialmente e psicologicamente leggera. Non mette in soggezione. Non ha bisogno di luci da teatro, e anzi predilige la penombra e, a Sarajevo, le scene a lume di candela. Inoltre, la mitezza straordinaria dei sarajevesi si espressa anche, per anni, in una docilit e quasi rassegnazione a lasciarsi riprendere, come se nella disgrazia che si abbattuta su loro fosse contenuto quel mostrarsi ad altri: come se fosse una disgrazia da cavie, vivisezionate in pro di grandi e misteriose farmacologie straniere. Questa docilit amara, pi che la collaborazione partecipe, che pure frequentissima, turba pi del rifiuto. Essa alza il prezzo del rispetto per la discrezione. Immaginate di andare a riprendere i volti e i corpi ricoverati in un reparto di malati a morte. Ebbene, a Sarajevo le facce e i corpi delle persone nelle strade erano malati a morte. Soccombevano sotto i pesi trascinati, ansimavano per una fatica estrema, tremavano di freddo: tuttavia solo alcuni fra loro avevano deciso di lasciarsi andare, di non curarsi degli sguardi altrui, e almeno di non vedervi pi come in uno specchio la propria consumazione. I pi si tenevano su. Le donne si truccavano: anche quando non c'era - non dico l'acqua, l'acqua non c' stata quasi mai ma niente, non un fiammifero, non una medicina; anche allora si colorivano labbra e guance, si tingevano i capelli. Quei colori disperati, quei belletti trovatelli su occhiaie grigie e guance smunte, facevano s soggezione: mai ho tanto venerato la bellezza, e la cosmesi di corpi e anime.

A Sarajevo, le persone perdevano i denti: provate a immaginare voi stessi in un assedio di quattro anni, che abolisca le cure dentistiche. Ragazze belle e giovani sorridevano alla vostra telecamera coprendosi la bocca con la mano. Di tutto ci, quello che la telecamera ha accettato di vedere, e di far vedere, solo una piccolissima parte. Infine, dir del problema pi ambiguo e insidioso. A Sarajevo, successo qualcosa di cos mostruoso e impensabile - una rivelazione assoluta e sismica, tremenda e miserabile insieme, del male che la storia personale di ciascuno, giovane o vecchio, intelligente o sciocco, ricco o povero che fosse prima, diventata una storia straordinaria, un destino, una vicenda romanzesca che nessun romanzo riuscirebbe a immaginare. I sarajevesi lo sanno, e ne sono sbigottiti: hanno perduto la normalit, la vita di prima, sono stati detronizzati dalla felicit (bench prima non la riconoscessero), sono stati spogliati di tutto: resta loro soltanto lo sgomentante possesso della loro storia personale. A ciascuno di loro capitato quello che era impensabile, impossibile. Cos, ogni sarajevese si porta addosso la propria storia fenomenale, e insieme la consapevolezza che essa toccata, in varia forma, a tutti gli altri sarajevesi. Questo produce una strana impressione nello straniero che passa in quell'inferno, con un biglietto di ritorno in tasca: i sarajevesi hanno un desiderio straziante di raccontare la propria storia, perch non sperano in altra consolazione, e perch la sanno incredibile e formidabile. Al tempo stesso, come se sapessero di non poter disputare a tutti gli altri compagni di sventura un'attenzione che duri pi di qualche minuto.

Cos, davanti alla telecamera accesa, o al taccuino del forestiero, i sarajevesi raccontano in poche frasi una vita gi compiuta come un cerchio essenziale, l'inizio, la promessa, la disgrazia, e la fine. E' come se i sarajevesi girassero con la propria storia personale nel taschino: piuttosto, col proprio necrologio. Perch dietro questa ansia di raccontare a qualcuno c' l'imminenza della morte propria, l'esperienza da tutti vissuta della morte dei propri cari, dei propri vicini. Il forestiero stipa di storie la propria valigia, romanzi ridotti a un foglietto di appunti, e ne , alla fine, esausto e vergognoso, come ogni visitatore dantesco di inferni e di galere. Ho filmato il racconto, e la vita quotidiana, di alcune persone, bambini soprattutto, a Sarajevo: e poi l'ho via via aggiornato. Mi sembrato cos di sfuggire in parte a quella tragica confezione di destini raccontati una volta per tutte, e a futura memoria. Di filmare la vita che comunque continuava. Dalla mia parte, questo significava che anche la mia vita continuava a svolgersi in parte larga a Sarajevo. Nelle mie cassette, quei bambini sono cresciuti fino a diventare spilungoni, quelle signore desolate sono tornate a sorridere, hanno imparato a parlare nella lingua dell'intervistatore, in scuole aperte sotto le granate. Ho filmato morti, malattie, riprese effimere, ricadute penose. L'ultima volta, per la prima volta, ho filmato una promessa di convalescenza. Quanto alla guarigione, troppo pensarci. Non si sar mai pi quelli di prima. Un anno fa, erano arrivate a Sarajevo quattro o cinque angurie: avevo comprato la pi grossa, e l'avevo portata a casa dei miei vicini e amici.

Avevo filmato la cerimonia del taglio dell'anguria, la bambina Berina non l'aveva mai vista: quando l'anguria si apr in due, e mostr il suo cuore rosso, Berina proruppe in un Oooooh memorabile. A Sarajevo stato orribilmente possibile vedere e mostrare tante ultime volte delle cose, e alcune prime volte. Ho un accordo con la famiglia di Berina: che appena si potr uscire dalla citt, andr con loro - genitori e tre bambine, dai quattro anni ai pochi mesi - al mare della Dalmazia, a vedere le tre bambine che vedranno per la prima volta il mare. Filmer il mare, e le loro facce: o forse no. Che cos' la discrezione, in una grande e civile citt dalle ferite spalancate? In cui si tengono funerali all'imbrunire, per evitare che gli accompagnatori dei morti vengano colpiti e uccisi a loro volta com' successo? In cui le persone scherzano sulla biancheria intima logora dopo quattro anni di assedio, e la necessit di tenerla in ordine dato che in ogni momento si corre il rischio di essere colpiti, soccorsi e spogliati?... Chi ha una telecamera, dovrebbe non fare agli altri quello che non vorrebbe fosse fatto a lui - ammesso che lo sappia. Pu fare anche delle buone azioni. Una anziana e dolce signora mi ha chiesto di fotografarla - aveva scambiato la mia Sony per una macchina fotografica - e di mandare la foto a sua figlia e ai nipotini, rifugiati in Italia, che non vedeva da tre anni. Le ho detto che l'avrei filmata, e che parlasse pure ai suoi cari. L'ha fatto. Mi si raccomandata: che la riprendessi solo fino alla vita; aveva indosso un paio di pantaloni di velluto sdruciti, da ragazzo, aveva

perduto tutti i suoi vestiti nella casa di Grbavica da cui era stata cacciata. Consigli tecnici, l'ho detto, non ne ho. Quando sono tornato indietro la prima volta, e ho guardato le cassette girate, mi sono sorpreso che davvero si vedessero le cose. Bisogna avere la mano ferma: io ce l'ho abbastanza, e lo "steady shot" una vera provvidenza. Personalmente, non amo i movimenti, le panoramiche, le zoomate, se non quando il soggetto lo richiede strettamente, quando c' davvero qualcosa da inseguire. Se no, camera ferma e montaggio spezzato. Aborro gli effetti, dissolvenze soprattutto. Se non si ricorre quasi mai agli effetti, lo si potr fare una volta ogni tanto efficacemente. So che una vergogna, ma uso il fuoco automatico, salvo casi estremi la luna, per esempio, sono un innamorato della luna (sapeste com' scintillante il cielo notturno sopra Sarajevo!). Delle regole del montaggio, penso come di tutte le regole: che bene conoscerle, per decidere di ignorarle. Infine, chi profano della telecamera, e viaggia guardando le cose attraverso di lei, al ritorno si guarder le sue cassette, e ne ricever forti rivelazioni su se stesso. Io, per esempio, sono attirato irresistibilmente dalle finestre, dalle pozzanghere, dalle cose riflesse, e dal vento.

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